“Avete fatto una bella prodezza!” Pellegrino Artusi & la vita violenta del Passator Cortese

Pangea - Tuesday, September 16, 2025

Nella Romagna di metà Ottocento che faceva parte dello Stato Pontificio ed era amministrata da una fitta rete di legazioni presidiate dagli austriaci, l’ordine di disarmo fu così capillare che si racconta si dovettero far spuntare persino i coltelli da tavola. Era una terra di confine, attraversata da commerci, contrabbandi e malcontento politico, dove le vie maestre collegavano città e campagne ma offrivano anche rifugio a bande di fuorilegge. Il brigantaggio non era solo criminalità comune, spesso si intrecciava con fermenti rivoluzionari e con un radicato sentimento di avversione verso l’autorità pontificia. 

In questo scenario, la sera del 25 gennaio 1851 si verificò quello che Francesco Serantini definì l’avvenimento più clamoroso, passato alla storia come I fatti di Forlimpopoli. È stata proprio la voce di uno dei più grandi scrittori romagnoli, colui «che ha unito Virgilio e Stecchetti» e autore, con Addio alle Valli, di uno dei più bei libri di letteratura venatoria mai scritti, a ritrovare il polveroso fascicolo istruttorio del fatto e riportarcelo con assoluta aderenza alla realtà. 

La città ospitava al proprio teatro una rappresentazione lirica che aveva richiamato gran parte della borghesia e delle autorità locali. In un’Italia ancora frammentata in Stati e Ducati, in una Romagna percorsa da tensioni politiche e sociali, quella cornice di svago divenne improvvisamente teatro di un evento destinato a entrare nella cronaca e nella leggenda: l’irruzione di Stefano Pelloni, detto il Passatore, e della sua banda armata. L’agguato non fu soltanto un atto di brigantaggio, ma un episodio che rivelò, con crudezza, la fragilità dell’ordine pubblico in una terra di confine.

Pelloni, nato a Boncellino nel 1824, crebbe in questo clima, e in pochi anni divenne il più noto e controverso tra i briganti romagnoli. Soprannominato Passator Cortese perché il padre era traghettatore del Lamone e per una fama, non sempre veritiera, di gentilezza verso i poveri e durezza verso i ricchi. Garibaldi ne era un estimatore: si diceva volesse essere suo compagno nella lotta contro gli austriaci.

Quella sera dal cielo grigio di nebbia, il teatro di Forlimpopoli era gremito. In palchi e platea sedevano famiglie benestanti, professionisti, ufficiali e funzionari, riuniti per assistere alla rappresentazione dell’episodio biblico de La morte di Sisara. 

«Giaele uscì incontro a Sisara e gli disse: “Fermati, mio signore, fermati da me: non temere”. 
Egli entrò da lei nella sua tenda ed essa lo nascose con una coperta.
Egli le disse: “Dammi un po’ d’acqua da bere perché ho sete”. Essa aprì l’otre del latte, gli diede da bere e poi lo ricoprì.
Egli le disse: “Sta’ all’ingresso della tenda; se viene qualcuno a interrogarti dicendo: C’è qui un uomo? dirai: Nessuno”».

Poco dopo l’inizio dello spettacolo, il Passatore e una quindicina di uomini (non molti in verità, ma i più audaci, dai soprannomi che ricordano i diavoli di Malebolge) circondarono l’edificio, bloccando le uscite e disarmando le sentinelle. Entrati in sala, intimarono agli spettatori di rimanere ai loro posti, mentre i complici perlustravano il teatro per raccogliere ogni cosa preziosa che trovavano. L’operazione fu rapida e organizzata: un bottino ingente e un’umiliazione pubblica per le autorità pontificie, incapaci di prevenire l’assalto in un luogo simbolo della vita cittadina. 

«La sera del 25 gennaio 1851 Stefano Pelloni detto Il Passatore, guidando una masnada di ladri invase la città e in questa sala decretò impunito taglie e ricatti consacrando al riso ed alla vergogna la viltà dei governi non consentiti dal popolo libero e cosciente», recita una lapide apposta all’interno del teatro dettata da Olindo Guerrini, lo Stecchetti che non ha mai perso l’occasione di scagliare i suoi strali blasfemi e divertiti contro la Chiesa.

La notizia dell’assalto al teatro si diffuse rapidamente in tutta la Romagna e oltre, alimentando la fama del Passatore. Per alcuni, fu la prova della sua audacia e della sua capacità di colpire il potere nei suoi luoghi più sicuri; per altri, soltanto un atto criminale che sfruttava la debolezza dell’ordine pubblico. Mentre al teatro di Forlimpopoli si consumava l’assalto, un altro episodio di quella notte segnò profondamente la memoria cittadina: l’aggressione in casa di Pellegrino Artusi, allora giovane commerciante nella bottega-guazzabuglio di famiglia. Proprio a seguito dell’agguato, l’allora trentenne decise di spostarsi da Forlimpopoli a Firenze, dove poi scrisse La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. 

La dimora della famiglia Artusi si trovava non lontano dal teatro, affacciata sulla Rocca della piazza principale: il bottino del palcoscenico non fu sufficiente a placare l’avidità della banda. Alcuni uomini del Passatore si recarono nelle abitazioni dei presenti, costringendo gli occupanti a consegnare denaro e beni. Nella sua autobiografia, l’Artusi racconta con precisione e amarezza l’episodio che colpì la sua famiglia quella notte. I briganti del Passatore riuscirono a entrare in casa grazie a un inganno: a bussare alla porta fu l’avvocato Ruggero Ricci, amico di famiglia, appena derubato a casa propria dopo esser stato prelevato dal teatro. Ricci si presentò annunciando l’arrivo in città di amici venditori di zucchero e spezie, desiderosi di fare affari. Il tradimento si consumò in questo modo: la porta si aprì, i banditi irruppero. Il vecchio padre riuscì a fuggire, Pellegrino si comportò con coraggio ma senza impedire che i malviventi facessero bottino, una delle sorelle scappò sui tetti. La stessa, Gertrude Artusi, dallo spavento (e forse da una violenza subita, anche se non si hanno conferme in merito) impazzì e morì reclusa nel manicomio di Pesaro. 

«Ma Giaele, moglie di Eber, prese un picchetto della tenda, prese in mano il martello, venne pian piano a lui e gli conficcò il picchetto nella tempia, fino a farlo penetrare in terra. Egli era profondamente addormentato e sfinito; così morì».

Artusi stesso precisa che Ricci agì sotto costrizione della banda e che, come conferma anche Serantini, anche lui sarebbe stato derubato; tuttavia, ciò che il futuro scrittore non gli perdonò fu la mancanza di un gesto di umanità. Nei giorni seguenti l’avvocato non si presentò nemmeno per chiedere scusa alla famiglia: 

«A questa trepidante scena era presente il Ricci a cui rivoltomi dissi: “Avete fatto una bella prodezza!” ed egli: “Son stato costretto”. Nessuno lo costringeva però di non venire o di non mandare i giorni appresso a fare un atto di scusa per la involontaria ma brutta azione commessa».

Il destino finale, che sembrava avviarsi su un sentiero karamazoviano, ha invece preso un’altra direzione. «Come segue in un pranzo che gli amaretti si servono in ultimo» diceva Artusi, così anche questa vicenda trova nel finale il suo momento più significativo, quello della riconciliazione. A distanza di oltre un secolo, quel silenzio è stato simbolicamente colmato. Solo recentemente, grazie a una testimonianza ritrovata nell’archivio della famiglia Foschini di Forlimpopoli, si è venuti a conoscenza che il pronipote dell’avvocato Ricci, l’architetto Ruggero Foschini, si mise in contatto con il pronipote di Pellegrino, lo storico Luciano Artusi. I due si incontrarono nel 2008, a distanza di 157 anni dalla terribile notte, e l’architetto chiese formalmente perdono a nome del bisnonno. La stretta di mano tra i due, fissata in una fotografia, restituì finalmente un atto di riparazione morale a una ferita rimasta aperta nella memoria familiare e cittadina.

Cesare Dal Pane

*In copertina: Silvestro Lega, Giuseppe Mazzini morente, 1873

L'articolo “Avete fatto una bella prodezza!” Pellegrino Artusi & la vita violenta del Passator Cortese  proviene da Pangea.