La poesia di Alessandro Ceni è poesia disinteressata alla poesia, intesa
come opera poetica (ricordo incidentalmente che Orfeo solo volgendosi e mancando
l’opera trova ispirazione e voce), lontanissima dagli altari o altarini, dal
dibattito spesso insulso tra acquarellisti e prefiche. Sono, i suoi, Mattoni per
l’altare del fuoco (titolo del libro del 2002), dove la poesia si tiene ed erge
– sta potremmo dire – in una dimensione d’innocenza, infantile e ferina, in
attesa di avvertire l’usta, di stanare e a un tempo liberare quella miracolosa
preda che l’alimenta.
Fin da qui, potremo scorgere nell’atto scrittorio di Ceni una sorta di
celebrazione, un mysterion, un’azione liturgica compiuta per la salvezza del
creato – per dargli riparo e dimora:
> “le pietre arrotondate indicano un focolare,
> presumono persone accerchiantesi in un rito
> per scrutare il volo circoscritto degli uccelli…”
Misericordia francescana, perdono dell’adultera… Come uno sciamano, chiurlo,
passera, falco o merla (penne e artigli ne sono spesso i paramenti esoterici),
s’aggira tra paduli, spiagge, dune, pinete – la memoria di un’antica Toscana, la
Versilia, l’Appennino – tra stiance e talasse, ad ascoltare il suono di voci
lontane e pacificate, ed accostarsi, accedere infine a quel posto segreto, che
sta nel cuore stesso del cosmo – e ne concede la più intima e autentica
dizione.
Potremo fin d’ora immaginarne la tessitura elementare, una materia segnica
(traccia ragniforme, arborescente), per lo più invisibile, ma carica
di un’energia vibratoria che si scarica visibilmente in ogni pronuncia, perché
ogni parola detta la trattiene tutta intorno a sé. Perché, la parola non può che
essere detta – anche se scritta –, svuotarsi e ricaricarsi ritmicamente ogni
volta che il poeta la proferisce.
Parlare, prendere parola? Proprio in quel posto? Come se da questo potesse
definirsene l’atto?
Cosa allora distingue questa pratica da quella della comunicazione ordinaria,
dalle performance quotidiane che ci consentono di abitare il mondo, avere
relazioni sociali ecc.? (Brevemente: scambi, transazioni, negoziati, chiedere
e/o ricevere informazioni, raccogliere e trasmettere pensieri, emozioni stati
d’animo…)
Per arrischiare una risposta, sicuramente maldestra, tenteremo di dire qualcosa
in merito alla posizione del poeta, al luogo da dove parla …
In diverse occasioni mi sono trovato con Alessandro a discutere di questa
faccenda. Oggi tanto più insistente, soprattutto riguardo alla responsabilità,
al ruolo dello scrittore – intellettuale (se sapessimo cosa significa questo
temine) o poeta che sia – nella società. Bigongiari (ci accomuna un affetto
inestinguibile per Piero e, per entrambi, una riconoscenza durevole),
interrogato sulla questione al Quirinale dal Presidente della Repubblica, disse,
col candore di un bimbo, che prima veniva la poesia, poi eventualmente la
politica, la società civile e tutto il resto. Alludeva forse alla solitudine,
alla disappartenenza del poeta alla città? O forse al particolare legame che la
poesia instaura, alla sua dimensione propriamente etica, a quel patto
inscindibile che, nella pronuncia, la stringe agli altri, ai lettori –
essenzialmente alla lettura, alla dizione che, rendendola operativa, ne
definisce appieno l’stanza politica.
Ceni, per parte sua, richiamava invece un barcollante Dylan Thomas (è noto
quanto il gallese indulgesse con l’alcool) che di fronte alla Società Americana
dei Poeti asseriva che del poeta la posizione propria è ovunque quella eretta…
Effetto di un passaggio evolutivo e al contempo di una misteriosa mutazione
antropologica che salda storia, parola e vita in un nesso inaggirabile, il poeta
è – potremmo azzardare – una sorta di arrivante (alla parola)che è già là e la
dice (la poesia “corre” raminga sul destriero del respiro, e sopraggiunge là
dove “si rompe il fiato”, dove trova il giusto passo della pronuncia), senza
davvero saperlo né poterne dire qualcosa. Sprovvedutamente.
Pertanto, non bisogna chiedergli niente in merito a come sia giunto alla poesia
o se possa sostarvi: né alla poesia stessa, nessun dettaglio interpretativo,
messaggi o comunicazioni, neppure spiegazioni o giustificazioni… Leggete,
leggete, diceva Celan, la comprensione arriverà (se ha da farlo). Il solo
atto che in questa posizione si compie e si richiede, la sua sola destinazione è
quella della voce, del dar voce – non il senso, la trasmissione di un messaggio:
il suo affidarsi sostanzialmente a una voce – la sua Vocazione, per così dire.
Enunciare, prendere parola, affinché ne sia giustificata la presenza facendo
lavorare il dispositivo della lingua. Che per tale affidamento si produca
qualcosa, un enunciato significativamente pragmatico resta meramente
contingente, per lo più ignoto e impronosticabile.
Voce non solo, ma anche, in questa, l’eco di antichissime movenze, canto o
danza, cadenza e ritmo, tanto intimi quanto naturali. Un discorrere senza parole
– o prima di loro –, che le parole stesse registrano come una scossa, segreta
motivazione del dato testuale: vibrazione o fremito – non la commozione né la
tristezza o la gioia – che attiva e disattiva, arresta e riparte sul filo di
un ductus che non conduce in nessun luogo. Il passo della poesia, potremo dire,
è quello mortale della vita che vi si trascrive, il battito del cuore, la
pulsazione del sangue, la sua pressione: poesia, dice Rilke, [è] invisibile
respiro, in cui ritmicamente avvengo.
Postura instabile, per lo più incerta, definita nondimeno dal dettato – gli
Stilnovisti la chiamavano dettanza, un misto di fiducia e disperazione –
dal sovvenire, dal capitare della voce – l’elemento sonoro del linguaggio,
quello slancio – quasi un Trieb vocalico – che una lunga tradizione accosta
all’immagine della corsa del cavallo. Potremo chiamarla Erfahrung,
quell’esperienza dell’andare, del viaggiare che si dà quando il vivere non è
ancora vissuto e il senso non ancora è là a racchiuderla in un viaggio, in un
racconto. Quando non c’è niente da dire, fatto o storia da riferire. Una sorta
di vertigine, di capogiro che, nel suo “non è niente”, scampa il pericolo
sommesso del Nulla e nomina l’evento inatteso – talvolta sconcertante – dello
straordinario (in cui siamo permanentemente immersi).
Pensiamo al devoto di Kafka, e a quel suo nominare… a casaccio le cose che gli
si porgono – “prima di mostrarsi a me, dice, devono essere belle e tranquille
perché la gente ne parla in questo modo”… Mal di mare sulla terra ferma.
L’oscillare del corpo, il suo ritmico accadere nella lingua, l’accostarsi al
silenzio (risonante) dell’infanzia.
L’atto allora. Il prendere parola dei poeti. Tentativo di familiarizzarsi con
quel “discorrere”, assumendolo in un dispositivo storicamente consolidato in
regole e vocaboli. Riuscendovi solo in infima parte, non possono che sospenderne
il funzionamento, disattivarne le funzioni – significazione e informazione –
generando sovente oscurità, un’insondabile cifratura che lascia nondimeno
risuonare ritmi remoti che ancora scandiscono le nostre esistenze (l’acqua del
fiume, il frusciare del vento, lo scroscio della pioggia, il susseguirsi delle
stagioni)…
La lingua, infatti, è trasmessa, la apprendiamo dalla madre (forse appartiene
solo a lei, e per questo è materna): riempiamo la bocca vuota di capezzoli con
parole che supplementano un silenzio intessuto di voci corporee, bisogni più o
meno rumorosi (ne avvertiamo spesso il riverbero nell’amore, nel pianto o nel
riso). Come il corpo, la lingua, la nostra lingua ci resta per lo più
inappropriabile, permanentemente straniera. E come di quello, se esposto,
proviamo vergogna, di questa restiamo soggetti sempre lavorati da un’infanzia
tanto sonora quanto silenziosa. Lo dimostrano i lapsus, i balbettii
dell’emozione, i rantoli della malattia, talvolta meglio i neologismi, giochi
verbali, l’indulgenza nei vernacoli.
Il poeta – e qui, dopo l’affanno di questo giro, torno ad Alessandro (che mi
perdonerà) – è così un parlante speciale, appena distinguibile da altri
lazzeroni; testimonia di questa ambigua familiarità, la rivela abbandonandone la
pratica e l’uso interrompendo i circuiti del significato e della comunicazione.
Al punto di non avere niente da dire – neppure della poesia, s’è detto – solo da
sostenere questa Unheimlichkeit della lingua, che come un’intima estraneità si
rende praticabile nel brivido di un cambio di tono, nella sospensione del fiato,
nelle pause del suono e soprattutto del senso. In quel moto segreto che ci agita
nell’ascolto, che ci lascia dolcemente oscillare, perché, come in un inno,
possiamo giubilare all’avvento di un mondo ogni volta come la prima volta.
Potremmo dire, concludendo, che per questo arcano legame musaico, la poesia è
sempre felice, celebrativa; concede sempre l’ascolto di un’altra voce, troppo
spesso silenziata da differenti esigenze… la possibilità di ricevere una
benedizione d’animale o di bimbo, per lasciarsi saggiamente assorbire dal
creato, e muoversi, creature tra creature, acconsentendo acquiescenti alla sua
irresistibile cadenza.
Mario Ajazzi Mancini
*In copertina: l’animale, il cavallo, secondo Albrecht Dürer
L'articolo Benedizione d’animale e di bimbo. Un incontro con Alessandro Ceni
proviene da Pangea.
Source - Pangea
Rivista avventuriera di cultura&idee
Quando scrive Lapislazzuli – siamo nel 1936 – William B. Yeats avverte forse già
l’approssimarsi della fine. La poesia, tra le più alte mai composte dal bardo
irlandese, è un mirabile esempio di ecfrasi in versi. È dedicata all’amico Harry
Clifton, che gli aveva donato un cammeo di lapislazzuli di ispirazione
orientale. Nelle ultime due lasse, tre pellegrini cinesi attraversano terre
remote e valichi innevati. Sono in cammino verso una meta misteriosa, che
concederà loro una tregua dagli affanni del viaggio. Sospesi tra montagne e
fiumi – come nelle pitture classiche di Wu Daozi – le tre enigmatiche figure
giungono infine alla lora provvisoria destinazione, dove rami di susino e di
ciliegio conferiscono all’atmosfera un tono di calda, soffusa intimità. Nel
“piccolo rifugio”, i tre contemplano il maestoso paesaggio che si apre dinanzi a
loro. Avvolti da una coltre di acuta malinconia, chiedono che siano eseguite
struggenti melodie. I volti sono solcati da profonde rughe; e tuttavia, dai loro
occhi rimasti invulnerabili alle apocalissi della vita, balugina una luce di
splendente letizia.
*
Il gusto della ricerca biografica ci autorizza a evocare le coincidenze. W.B.
Yeats muore nel 1939 in Francia. In quello stesso anno, Auden finisce di
scrivere Another Time, una delle raccolte poetiche più belle e significative del
Novecento. La notizia della scomparsa di Yeats raggiunge Auden durante il suo
soggiorno a New York. Di getto, il poeta inglese scrive quella dolente elegia
che è In memoria di W.B. Yeats. Intanto, dall’altra parte dell’Atlantico, in un
piovoso giorno di primavera irlandese, nasce nello stesso fatidico anno Seamus
Heaney. Yeats si spegne alla vigilia della guerra: la sua morte, secondo Auden,
è un cupo presagio della strage che incombe. Il poeta inglese si rivela presto,
suo malgrado, buon profeta.
*
Nella notte del pensiero e degli allarmi aerei, vale come unico argine possibile
il poeta-palombaro: colui che sprofonda per raggiungere il cuore del male, fino
a neutralizzarlo e a redimerci dalla condanna della pena. Ci salva il verso, non
la bellezza: il verso che è coscienza ed espressione del dolore. Il dettato
poetico trasfigura la miseria in canto, apre vie d’uscita all’uomo prigioniero
dei suoi giorni, trasforma la terra devastata in vigna. Ecco la poesia che
sopravvive attraverso
> “un modo di accadere, una bocca”
*
Quanto equivale a dire che scrivere versi è assoggettarsi a una forma d’amore.
Lo spiega in modo folgorante Brodskij nella sua indimenticabile elegia in
prosa Per compiacere un’ombra, altissimo omaggio al suo amato poeta inglese.
L’incontro decisivo con Auden avviene mentre Brodskij sconta una condanna in uno
sperduto villaggio ai confini del Circolo Polare Artico. In quel luogo così
refrattario all’umano, dominato da paludi e cupe foreste, Brodskij riesce
fortunosamente a farsi spedire un’antologia in inglese. Per puro caso, il libro
si apre con una poesia di Auden – In memoria di W.B. Yeats. La lettura di
quell’elegia è, per il giovane russo, decisiva. Nel dettato lirico del poeta
inglese, si compie il miracolo del tempo piegato e asservito al linguaggio. Come
a dire: i versi sono come raffiche di vento che soffiano sui bastoncini dello
Shanghai – “il tempo:
> “Time worships language”
Nella poesia di Auden, si passa senza soluzione di continuità da versi che, da
orizzontali, diventano incredibilmente verticali, viaggiando dalla metafisica al
motto di spirito, dalla filastrocca alla scintilla lirica. Al di sopra di tutto,
al di là della voce inconfondibile di Auden, affiora l’immagine riflessa del suo
viso: le indimenticabili rughe della vecchiaia, le proporzioni un po’ sgraziate
del naso e delle orecchie – che ne avrebbero fatto un perfetto candidato per un
film di David Lynch –, l’amorevole saggezza ironica degli occhi che sembrano
perdonare le storture del mondo.
*
Un uomo – dice Brodskij – è la somma di ciò che legge. In parole più semplici:
si è trasformati da quello che si ama. In quel villaggio artico assente anche
dalle mappe geografiche, ciò che colpisce Brodskij, ciò che s’impone alla sua
immaginazione, è
> “amore dilatato e accelerato dal linguaggio, dalla necessità di esprimerlo”.
Il che conduce a un’altra rivelazione: i sentimenti di uno scrittore o di un
poeta si subordinano inevitabilmente alla lineare e incontenibile progressione
dell’arte. Certo, Auden aveva conosciuto la sofferenza sotto varie forme:
delusioni amorose, la coscienza di una sessualità tormentata, l’autoesilio
imposto per sfuggire all’opprimente establishment letterario britannico, la
disillusione politica. Eppure, i suoi versi sprigionano sempre amore, un amore
immemore, come la lingua inglese, del genere maschile e femminile. Forse, più
che di amore, sarebbe più giusto dire che la poesia di Auden è un acceleratore
formidabile di tenerezza, di umana morbida dolcezza.
*
Con un balzo nel tempo e nello spazio, passiamo il testimone a un altro grande
poeta irlandese: Seamus Heaney. Audenesque, una delle sue ultime poesie, è
dedicata all’amico russo da poco scomparso, Iosif Brodskij. Esiste un omaggio
più commovente, per un poeta, che accostare l’amico scomparso agli autori più
amati in vita? Perché, come i bambini che uniscono i puntini nei giochi
enigmistici, se tracciamo una linea immaginaria tra i versi che abbiamo più
amato, alla fine l’immagine che ne affiora è la nostra: riflessa, come
nell’ovale di uno specchio. Non è difficile, allora, confondere i ricordi di una
conversazione su un treno lanciato nella tundra finlandese con i versi di Auden,
e prima ancora con quelli di Yeats. Non è difficile ritrovarsi, nel freddo di un
aeroporto di Dublino, a pensare a tutti i versi scritti – e a quelli soltanto
sognati, che qualcun altro, forse, ha scritto al posto nostro. Anche nella
regione della morte, tuttavia, la poesia può accendere scintille di futuro.
*
Yeats. Auden. Brodskij. Heaney. Cosa unisce questi quattro grandi poeti? Quanto,
nel loro dettato, è riflesso e ombra dell’amore che li legava ad altri
maestri? La poesia è anche cavalleresca espressione di amicizia, segno di
profonda dedizione verso una “famiglia mentale”, per citare ancora una volta la
magnifica intuizione di Brodskij. Viene in mente il sonetto forse più bello mai
scritto sull’amicizia poetica: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, di Dante
Alighieri. Quale filo li lega? Forse il senso di una vocazione maturata tra i
rovesci della storia; la costante, sofferta oscillazione tra isolamento e
rielaborazione degli eventi sullo sfondo? Soprattutto, il tentativo di superare
l’autoreferenzialità attraverso l’incontro con altre vite – di spezzare il
cerchio della solitudine aprendo la porta al vento della generosità e
dell’altruismo. Ecco perché i viaggiatori cinesi della poesia di Yeats sembrano
sostare, come i nostri poeti alla fine di un lungo viaggio, presso la fonte
stessa della loro ispirazione.
*
In una poesia di Auden, una delle più belle, si dice che da qualche parte viva
un bambino atterrito e pieno d’immaginazione. Lui sa, contro tutto e tutti, di
essere il futuro; e comprende che solo i docili avranno in eredità la
terra. Quel bambino non attira l’attenzione, né è particolarmente fortunato. Nel
tumulto del mondo, tra leggi disumane e regole ingiuste, il suo pianto sale
verso la vita del poeta – e la nostra – come una vocazione.
Lorenzo Giacinto
L'articolo “Solo i docili avranno la terra in eredità”. Riflessioni su Yeats,
Auden, Brodskij e Heaney proviene da Pangea.
Per qualche tempo abbiamo duellato a colpi di WhatsApp. La discussione,
impennata verso gli impossibili, deragliò quasi subito: gli domandai dell’anima,
dell’eternità, del senso dell’arte, di Dio e dell’addio. Cristiano Godano ha
pubblicato undici album con i Marlene Kuntz e quattro libri: il primo, I
vivi (Rizzoli, 2008) è una raccolta di racconti; l’ultimo, Il suono della
rabbia (il Saggiatore, 2024) è una raccolta di “Pensieri sulla musica e il
mondo”. Nel suo terzo libro, Nuotando nell’aria (La nave di Teseo, 2019), che
sviscera “35 canzoni dei Marlene Kuntz”, Godano racconta di aver scoperto
Vladimir Nabokov, il suo scrittore-idolo, “all’epoca di Catartica”, quell’album
memorabile – “generazionale” come dicono gli studiosi – uscito nel 1994. Godano
compiva ventotto anni, il disco era prodotto dal Consorzio Produttori
Indipendenti di Gianni Maroccolo, Zamboni+Ferretti etc. e io imparavo a giocare
a calcio guardando Roberto Baggio, il Bodhisattva del pallone, evangelizzare i
mondiali americani.
Da lì nasce il nostro incontro. Da Vladimir Nabokov – per me, il conte Vlad
della letteratura occidentale, il sommo vampiro: lo leggi e ti dissangua. Così,
con Godano ci inoltriamo nei meandri di Fuoco pallido, il libro più estremo,
estenuato di Nabokov; entrambi eleggiamo Intransigenze – la raccolta di
corrosive e corroboranti interviste nabokoviane – a libro-totem. Insomma, diamo
dimostrazione che anche WhatsApp, altrimenti umana camera degli orrori, di
sbandierate banalità, può essere qualcosa di non troppo dissimile dal Fedone o
da Macbeth. Entrambi – credo – crediamo che ogni verità vada temprata
distruggendola; che occorra il coraggio di spogliarsi di ogni convinzione. Fare
di sé il vento e il lupo, la pula e il pullulare di ululati.
Credo, piuttosto, che Cristiano Godano sia uno dei rari cantautori italiani –
per un sano senso della sprezzatura e dello snobismo – non inquadrabile in
schemi, non liquidabile in teoremi. Rifugge dai cliché della rockstar; ha in
odio le grige manie degli ‘alternativi’ che – ormai altro da sé – fanno reddito
con la malinconia, con l’epopea della giovinezza trascorsa. Gli album ‘in
solitaria’ – Mi ero perso il cuore, 2020; Stammi accanto, 2025 – dicono di un
artista che non si placa, inappagato, implacabile soprattutto verso se stesso,
che ha imparato la voluttà di non piacere ai più. Chi è cresciuto ascoltando i
Marlene Kuntz nella fetida periferia torinese, nei lividi Novanta – “Mi
piacerebbe sai, sentirti piangere/ anche una lacrima, per pochi attimi” – sa che
la sola speranza è spezzarsi, che la sola vita è precipitare.
Nel libro Nuotando nell’aria, Godano cita Borges e Rimbaud, Keats e Dostoevskij,
scrive per trenta volte la parola “poesia” (molte più volte della parola
“sesso”) e per ventisette volte la parola “poeta”; in venti circostanze appare
Nick Cave, il suo prediletto. A chi gli dà del poeta, però, Godano risponde,
perentorio, che “l’autore di testi per canzoni non è un poeta”, semmai “è
potenzialmente un poeta mancato”. Fine della discussione.
A volte, Godano sembra decorarsi con le pose da doge del nulla: gli piace
ripetere che deriviamo dai vermi e dai pesci, che l’uomo è un incidente di
percorso nell’esistenza terrena, che la vita è spietata, che l’intelligenza è un
sovrappiù di sfiga perché ci obbliga a indugiare sul dolore, che infine l’arte è
niente. Che tutto, in fondo, finirà e nessun dio ci attende a bocca aperta negli
altri mondi. Tutte cose che si sanno, che insaporiscono il discutere di
zuccherine oscurità. In fondo, si ascolta una canzone per liquefarsi in un regno
ulteriore della mente; in fondo, chi scrive una canzone è già al di là di questo
mondo – che si dica salvezza, che si dica disperazione, che importa.
Se ti dico la parola “poesia” cosa ti viene in mente?
La famosa definizione di Paul Valéry sulla poesia (“La poesia è una lunga
esitazione fra il suono e il significato”) mi è sempre piaciuta al punto da
lasciarmene condizionare irrimediabilmente. Ed è ciò che mi sovviene ora a
seguito della tua domanda. So che questo inizio di risposta è connesso alle
specifiche necessità del creatore di versi più che al lettore, e immagino che
solo un lettore molto allenato e consapevole possa avere una tale consapevolezza
raffinata comprendendo la complessità del fare poesia. Dunque il lettore attento
sa che la poesia ha un ritmo e ha un suono, e anche di questo gode leggendo,
mentre il lettore meno strutturato ed esperto basa il suo gradimento
principalmente sulle emozioni di natura sentimentale. Senza voler qua
demonizzare questo tipo di emozioni, penso che si collochino a un livello
inferiore nella scala del giudizio. Io, come lettore, dichiaro la mia non
robusta frequentazione del genere: le leggo principalmente quando sono nel
processo creativo per fare un disco nuovo, poiché in quel caso la contiguità del
mio far versi per canzone con le esigenze del poeta nel suo verseggiare mi aiuta
a connettermi con la specificità di ciò che sto per affrontare.
Penso che si è ottimi lettori di poesia quando si è dotati di immaginazione: a
volte a me sembra di non averne a sufficienza. Detto da un sedicente artista è
grave, lo so.
Nel tuo discutere e nei tuoi pezzi citi, tra i tanti, Borges (adoratissimo da
Mick Jagger, per altro…), Baudelaire, Rimbaud, Gozzano, Montale… Viene fuori una
specie di “Contro-Canone Godano” della letteratura. Proviamo a redigerlo una
volta per tutte? Citami dieci libri che in qualche modo hanno orientato la tua
vita – e perché.
Se la domanda è “i libri che hanno orientato la tua vita” sono spinto a nominare
anche le opere non di finzione che sono state per me importanti. Premettendo che
la più parte delle cose che ho letto è stata da me un po’ dimenticata, sto
guardando in questo momento i miei libri (una parte, per lo meno) per cercare la
risposta adatta; noto che molti di essi mi dicono “sì, mi leggesti tempo
addietro”, e posso nominare: Lolita di Nabokov (letto due
volte), Intransigenze di Nabokov (l’ho letto e riletto più volte), Fuoco
pallido di Nabokov (letto due volte), La cognizione del dolore di Carlo Emilio
Gadda (libro straziante), Fratello cicala di John Updike (una raccolta di
racconti: mi approcciai a lui con questo libro, non certo il suo più famoso:
rimasi incantato dalle qualità estetiche della sua scrittura), due o tre opere
di Shakespeare contenute nello stesso libro dei ‘Meridiani’ (non importa quali:
è la lettura di Shakespeare in sé che mi estasiò), Odile di Raymond Queneau (ero
catturato dalle stranezze dell’Oulipo e dai tentativi di commistione
matematica-letteratura), Scritti sull’artedi Paul Valéry (raccolta di
micro-saggi che influenzarono molto il mio pensiero in costruzione), Sulla
poesia di Eugenio Montale (raccolta di micro-saggi, idem come per Valéry),
alcuni racconti e le poesie di Borges (raccolti anch’essi nei ‘Meridiani’: mi
affascinavano i labirinti di Borges, ma anche le qualità riflessivo-filosofiche
della sua poesia), Nera schiena del tempo di Javier Marías (ricordo che mi
catturò molto: ero immerso in qualche processo creativo per un disco dei
Marlene).
C’è poi – lo abbiamo capito mentre compulsavi il tuo “canone” privato – la
conclamata passione per Nabokov. Da dove nasce e perché è per te fonte di
ispirazione?
La mia passione per lui nasce con la lettura di Lolita e, subito dopo, con
quella di Intransigenze, spassosa e serissima al contempo raccolta di interviste
che rilasciò soprattutto dopo il successo di Lolita. Intransigenze fu un
magnifico regalo che mi fece colei che sarebbe diventata la mamma di mio figlio:
se già Lolita mi aveva appassionato per via di uno stile che recepii
immediatamente e del tutto istintivamente come magnifico, con Intransigenze mi
addentrai nell’abbagliante personalità di Nabokov, innamorandomene. Penso che
Nabokov sia il classico caso di “o lo ami o lo odi”: non tutti amerebbero
sentire uno scrittore sbeffeggiare Dostoevskij o Faulkner o Thomas Mann o
Balzac, per dire… Ammetto di essere affascinato dalla forza tonitruante di certe
opinioni: ci vuole coraggio ad averle, e lui aveva coraggio da vendere. I libri
fondamentali per me, sottolineando che non ho letto Ada (lo temo!) e altri tre o
quattro, sono Lolita, Fuoco pallido, Invito a una decapitazione, Il dono, Parla
ricordo, La vera vita di Sebastian Knight. E Pnin, per ridere tanto.
Il mondo rigurgita di orrori. Un manipolo di vecchi si sta bombardando con una
violenza equiparata alla vile scaltrezza. Che senso ha fare arte, allora? Che
senso ha la ‘bellezza’?
Siamo in un momento esacerbato, e cieco, e sordo: polarizzati e sempre più
incazzati vediamo il bianco o il nero e non siamo più disposti a comprendere le
sfumature, quelle che la tanto vituperata democrazia ci aveva insegnato con la
sua inevitabile pazienza, che non c’è più. L’arte temo possa fare poco. O
perlomeno: a livello individuale può fare tantissimo (io ad esempio spero che
non manchi molto al mio rifugiarmi in essa per fuggire dallo schifo intorno), ma
a livello di possibilità di ergersi a barriera del deragliamento temo di no, che
non possa farcela. Rileggo meglio la tua domanda: “che senso ha fare arte?” Beh,
come minimo può aiutare chi la fa a sganciarsi da questo pessimo mondo: è una
condizione a cui, come ho detto qua sopra, idealmente ambisco. Non so se ci
riuscirò: è un auspicio.
Nel tuo ultimo album, Stammi accanto, intuisco, consapevole o meno, una qualche
ricerca del sacro, un andare verso l’altro, l’oltre. È così? Siamo solo pappa
per vermi? Cosa resta di ciò che abbiamo fatto, vissuto, scritto?
Ci dev’essere qualche contraddizione in me, perché spesso mi si fa notare che
nonostante tutte le mie tiritere pessimiste i miei testi palesano una
spiritualità di qualche tipo, o ricerca del sacro, come dici tu… Forse quando
solletico il mio afflato scateno qualcosa dentro di me che lotta in sottotraccia
per non farsi vessare dal raziocinio: una latenza pronta a farsi viva quando
ritiene utile… O è semplicemente la mia parte più vera, che non sa arrendersi
nonostante tutto alla dialettica stringente della ragione. Non so che dire:
in Stammi accantoc’è una canzone, peraltro la mia preferita, che si chiama Cerco
il nulla, dove mi pare di esprimere un non so che piuttosto lontano dal sacro.
Ho solo 59 anni, tempo per vederci meglio e capirmi meglio ne ho ancora…
*In copertina: Cristiano Godano nel ritratto fotografico di Antonio Viscido
L'articolo “Detto da un sedicente artista è grave…” Il Canone Godano della
letteratura universale proviene da Pangea.
> “e piuttosto eccedi nell’amore: sono le due ali dello spirito per sollevarti
> al di sopra di tutte le cose terrene e di te stessa” (Maria d’Agreda, Mistica
> Città di Dio. Vita della Vergine Madre di Dio)
> “o nel corpo, o fuori del corpo non so, Dio lo sa” (Seconda Lettera ai
> Corinzi, 12, 2)
> “mentre la terra era vacua e vuota, la tenebra era al di sopra dell’abisso e
> l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque” (Genesi, 1, 2)
a te, che tutto è cuore.
ne L’anima del mondo e il pensiero del cuore, James Hillman parla dei tre cuori
del mondo: il Cuor di leone, il Cuore di Harvey e il Cuore di Agostino. il Cuor
di leone rimanda al Re, all’oro e al rosso. è il cuore che ha fede nella
battaglia, nell’azione eroica, il cuore dell’agone. il Cuore di Harvey è quello
meccanico, misurabile. il Re di Cuor di leone qui diventa macchina, pezzo di
ricambio, “cuore-orologio”. è il cuore diviso della modernità. per arrivare alla
sua altra metà deve uscire da sé e circumnavigare se stesso. non ha più l’unità
solare del leone, è ambiguo, combattuto. il Cuore di Agostino è l’abisso, il
cuore di un “Io” che si confessa, parla in prima persona. cuore scrigno, cuore
anima “delle tempeste e delle lacrime”, passione della vita personale espressa
nel sentimento. “nell’intimo del mio cuore” (Conf., VII, 10). Confiteor:
ostendere, portare alla luce nello splendore. la preghiera, scrive Hillman,
offre una terapia della confessione quando opera una traslazione a qualcosa di
esterno, a una divinità, a delle figure immaginali di essa, una “capacità
teofanica di portare a visibilità il volto del divino”. Henri Corbin chiama
questa traslazione récit, “racconto”, quell’immaginazione attraverso la quale lo
spirito dal cuore muove verso le origini di tutte le cose. così, l’azione
caratteristica del cuore non è il sentire ma il vedere. il cuore è la sede
della vera imaginatio, e l’immaginazione è la sua voce più autentica. nel suo
studio su Ibn ‘Arabī, Corbin riconosce in questa potenza immaginifica del cuore
l’“himma”, l’enthymesisgreca: l’atto di immaginare, progettare, desiderare
ardentemente. l’himma crea come reali le figure dell’immaginazione in un afflato
panico, rendendole creature autentiche (Hillman 2002). nella Considerazione XXIX
sulla differenza tra teologia mistica e teologia speculativa Jean Gerson scrive
che quando l’intelletto è pervaso dall’amore per le realtà contemplate esso si
protende e si effonde tutto nella cosa desiderata, cercando di trasferirsi e di
unirsi ad essa: “Guardiamo gli occhi di certe persone: come scintillano, come
brillano, come vorrebbero riuscire ad abbracciare avidamente tutto” (Gerson
1992, 155). ciò è vicino alla volontà gioiosa dell’himma. i mistici Hanafi
Al-Khālidi e Ibn Mustāfā al-Kumush riconoscono diversi stadi dell’himma. il
primo è l’himma del risveglio (himmat al-ifāqa), l’attaccamento del cuore a Dio.
questa himma, che apre il cammino che porta all’essenza di Dio, fa in modo che
il “servitore” percepisca veramente quello che desidera attraverso l’“intuizione
chiara”. volgere la propria attenzione a Dio significa astenersi da ogni altra
riflessione o obiettivo:
con parole tue, “essere con, essere verso”
nel cono dell’unità. l’amore tende all’unità, “è la forza divina che supera le
distinzioni e compie ogni unità” (Barsotti 2002). per Ibn Mustāfā al-Kumush dai
primi stadi in cui l’himma è legata all’obbedienza di Dio si distoglierà
l’attenzione da ciò che effimero fino a portare tutte le himma ad una sola,
“l’attaccamento del proprio cuore alla felicità che sempre rimane”, ad
abbracciare l’amore divino,
in quell’“amore selvatico, che avvampava senza pensiero e senza margine”
per Ibn ‘Arabī progressivamente si arriva allo stadio in cui gli gnostici,
entrando in connessione con l’unità divina, scorgono l’unicità dietro la
molteplicità dei fenomeni; vanno oltre la realtà delle cose e vedono se stessi
come una manifestazione della realtà ultima, che è Dio. lasciando andare tutte
le cose nell’ascensione attraverso le tappe dell’himma alla fine resta solo Dio
(Lala 2023). allo stesso modo nel Salmo dell’estasi di Davide Agostino dice che
“nell’uscire da sé della mente si scorgono due cose, il timore o l’anelito alle
cose celesti sino al punto che, in un certo modo, vengono meno dalla memoria le
cose terrene” (Comm. ai Salmi, “Sullo stesso Salmo 30, Esposizione II”, Discorso
I, 2). questo impeto di accoglienza del divino è la capacità di dilatazione del
cuore data dal desiderio risoluto di ricevere Dio.
> SIGNORE, davanti a te è tutto il mio desiderio (Sal 38)
lo spazio interiore dell’essere umano è incommensurabilmente più angusto
dell’“amplissimo a largo” di Dio, eppure egli desidera ardentemente riceverlo, e
questa ricezione è possibile grazie alla capacità di dilatazione gioiosa del
cuore. rispetto ad essa, Agostino pensa che non si possa separare l’interno
dall’esterno poiché la dilatatio cordis, segno e attestazione della grazia, è
“ospitalità”, in cui host e guest
sono indistinguibili. la gioia è l’arrivo in noi di un “invitato improvvisato”
(Chrétien 2007, 62), lo Spirito Santo, che non siamo capaci di ricevere ma che
riceviamo dilatandoci, provando un desiderio acuto e intensificato. il mistico
domenicano Louis Chardon parla della dilatazione come di qualcosa di vertiginoso
che coglie quanti sono sul bordo dell’abisso dell’infinità divina, davanti alla
quale anche l’amore smisurato è insufficiente. per il mistico eremita Richard
Rolle nella dilatazione l’anima si riempie di una dolcezza di miele e il cuore,
cercando di stringere a sé questa dolcezza, compie uno sforzo continuo per
abbracciare l’incommensurabile e si dilata sempre di più (Chrétien 2007). il
desiderio di accogliere Dio non può non accompagnarsi a una purificazione del
cuore:
> “Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque;
> è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua
> vista, lo ammetto e ne sono consapevole: ma chi potrà purificarla, a chi
> griderò se non a te” (Conf., 1, 5; 6).
per Agostino è Dio che ci dilata. rimanere ‘rincuorati’ nel desiderio di Dio
secondo fede, speranza e carità, quest’ultima potenza dilatante per eccellenza,
è la condizione affinché la dilatazione avvenga; in questo modo l’essere umano
diventa capiente per accogliere Dio.
nel tuo arazzo celeste i tre cuori trovano il loro compimento, i loro cammini
diversi e complementari si intersecano, rondini inebriate. volta all’altissimo,
ma ti abbeveri all’anima mundi con il cuore netto del leone, non dimentichi cosa
fa della Terra la casa di una splendida finitudine:
> “Se solo ricordassimo l’argento che guizza nei pesci, la matematica del
> planare, come libero è il gettarsi in volo: rannicchiati fino al cielo i rami
> con la loro quiete, adorano nel sole l’umile eternità che, nelle radici, gli
> fa da madre senza sapere l’abbandono. Perché non sia dimenticato che pieno
> d’oro è il salire. Pieno di spettacolo”.
lo spettacolo del cuore immaginifico che si nutre della propria fantasmagoria di
bellezza. e allo stesso tempo segui “un’aorta incerta”, accogli il cuore diviso
esposto alla beatitudine e alla disperazione, fai luce della sua confessione.
“Guarda là”
torni giù al guardare, strumento degli esseri umani, a “queste macchine
produttive del dolore”, a “questi margini allibiti, che portano l’incisione ad
armarsi d’ombra”. ritagli i bordi pesanti. eppure in compassione.
“e ulcere di legna verde, solo braciere la preghiera”
quella preghiera che sboccia acerba, a tentoni, “l’inizio sempre randagio”
per Gerson, come la legna verde fatica a ricevere il calore del fuoco per
accendersi a sua somiglianza, così colui che è destinato a ricevere il calore
dello Spirito santo e ad attingere all’amore puro dovrà sottoporsi alla
disciplina della penitenza. nel fuoco dell’amore la meditazione non cerca la
verità speculativa ma la compunzione che fa seguito alla scoperta della verità,
una penitenza necessaria per intraprendere il cammino verso la teologia mistica,
il cammino verso “l’abbraccio dell’amore unitivo” (Gerson 1992, 151),
del “crollare di candore”, “petto scalzo”,
> “il dolore rabdomante trova il corpo per dargli il suo cerchio di pace,
> disfandogli la boria di ogni saldezza dorsale: quello che placa è lo stare in
> ginocchio: nella nuda resa s’incontra l’eterno”
> “santuari di rotta carità nel preciso istante della resa, che è qui che si
> frana, su sé stessi di spalle”
Ti basta la mia grazia, poiché la forza si manifesta pienamente nella
debolezza (Seconda Lettera ai Corinzi, 12, 9).
si crolla di candore nello spavento della bellezza del divino,
> “Nel rosso cuore mio battente si posa il tuo nome, accanto alla paura,”
nello sguardo che sostiene a fatica la sua visione, poiché ogni sguardo non
trova avvenire che nello stesso luogo della sua estenuazione (Chrétien 1987),
ché nessun essere umano può guardare a Dio senza accecarsi. solo l’amore può
sostenere lo sguardo di eccesso dell’Amore, accomodarsi nell’abbaglio alla sua
evidenza, cioè alla sua prova (Marion 2018). questo principio di ostensione
insito nella confessione, nel crollo, che si esplicita nell’offerta dello
scrigno del terzo cuore, è, con le parole di Michel Henry, l’auto-rivelazione
della vita (Henry 2000). la vita parla nel cuore, nella sua “auto-rivelazione
patica immediata”, dove lo spazio tra la senzienza e la sua esplicitazione,
sotto forma di pensiero o linguaggio corrente, è annullato. dalla matrice prima
all’individuo, la tua fermagenesi è l’evento vitale di auto-donazione, e quindi
di auto-rivelazione, che non si guarda, fuori dal mondo, curvo sulla propria
pulsazione. cos’è che si dona a se stesso senza mondo, senza che la donazione
consista in un mondo? la vita. “la vita è qualcosa che prova se stessa”, scrive
Henry, prima cosa originaria, senza intenzionalità, “proprio perché l’assenza di
finalità, l’assenza di intenzione è l’essenza della bellezza del mondo” (Weil
2008, 135). e allo stesso tempo ha una soggettività assoluta, non risponde a un
“Io”, ai ruoli dell’identità. è oltre la messa in atto della rappresentazione,
sottratta ad ogni orizzonte di visibilità (Henry 2001). così tu, nel rovescio,
nel concavo, nell’inverso, sottrai in pudore quello che ami, per soverchiamento.
un privativo da cui sussurrare quell’infinito che arriva all’Uno, parafrasando
Meister Eckhart, gravida del nulla:
> “l’indimostrabile del cosmo che vibra”
vivere nell’immanenza della vita che prova se stessa nel mistero della simbiosi
tra gioia e sofferenza. in questo senso per Henry la nascita non è ‘venire al
mondo’, poiché siamo già nell’ostensione vitale della Vita assoluta. venire al
mondo implica un’intenzionalità, una coscienza, mentre la vita ci viene di per
sé, viene a sé e ci genera in quanto incessante auto-affezione.
fermagenesi nel suo mentre.
> “Rossi erano i cuori, battenti, un attimo prima del mondo”
si è dati a se stessi senza che questa donazione rilevi da se stessi. non siamo
affetti da null’altro, generati come un Sé nell’auto-affezione della Vita
assoluta. e se chiamiamo la vita Dio, allora il Sé è la condizione della
possibilità trascendentale di ogni individualità concepibile: “Dio mi genera
come se stesso” (Meister Eckhart in Henry 2004, 132). Una Vita inesprimibile con
il linguaggio, puro avvenimento,
> “ortogonale al parlato,
> è l’ago di luce che pronuncia l’essere di ognuno tacendo”
per questo la scienza non può fondare l’individuo, il cui anelito a liberarsi
dal confine, dalla misura che vige nel mondo terreno, all’alterità circoscritta
ed empirica attraverso gli oggetti, è nel rovesciamento di Novalis: “Quando non
saranno più i numeri e le figure/ Che gireranno le chiavi di tutte le creature,/
Quando coloro che cantano e abbracciano/Ne sapranno più dei profondi dottori
[…]/ Quando il mondo si sarà arreso/ Alla vita libera e sarà restituito al
mondo, […]/ Allora basterà una sola parola segreta/ Perché si involi tutto il
modo di essere rovesciato delle cose” (Novalis in Marion 2014, 242). ossia la
‘realtà’ empirica del senso comune.
> “il denaro come un’ara di plastica, che canta i numeri per fare più marcate le
> ombre”
> “mentre tutto tramonta e spiffera il segreto”
mi vengono in mente “Hilda Welcomed” e “Communication”, due opere di Stanley
Spencer in cui le persone si abbracciano in modo quasi ossessivo in un intreccio
che disegna linee energetiche. Spencer dipinge esseri difformi, tremolanti,
presi nella vibrazione che sottende quello che è visibile, solo apparentemente
‘dritto’. gesti apocalittici, torti, visti attraverso la lente aberrante
dell’amore, portatori di cuore selvatico e scosso. i personaggi di Spencer sono
colti nelle loro azioni quotidiane ma sembra che tutto sia immobile, rapito in
una vertigine sotterranea che scuffia lo spazio, i corpi, senza spostarli. in
una delle sue Crocifissioni (1958), la scena sovrasta i tetti delle case di
mattoni di una cittadina dei primi del ’900. il Cristo guarda verso l’alto
mentre due sgherri con un ventaglio di chiodi tra le labbra glieli piantano
nelle mani. ai piedi della croce, una figura femminile è prostata a terra con le
braccia divaricate. nei quadri di Spencer le braccia sono elemento vivo. nella
Crocifissione si confondono con le assi della croce. braccia protese, levate,
continua invocazione verso un abbraccio superiore di Amore verso cui si tende
vibrando, “essere verso”. anche Spencer anela all’altissimo guardando con
compassione le creature del suo sottomondo, l’infinitamente piccolo, mortale,
orfano, dell’incommensurabile evento di fermagenesi.
più che rovesciamento essa è arrovesciamento, terremoto da fermi che vivifica
non i cuori materia ma il loro rosso.
> “un plotone di cuori rossi battenti nelle fiamme mai prese al laccio”
lo scintillio del fuoco fa presagire un mondo in cui non ci sarà più che il
fuoco del baleno, dove ogni cosa sarà come un fulmine (Chrétien 1992). “Rimani,
se puoi, proprio in quel primo istante in cui sei attraversato da un lampo,
quando viene detto: ‘verità’” (Agostino in Meister Eckhart, 2013, 85). rosso non
è un colore, è perenne gioco di specchi tra l’arsura del credente nella sua
protensione e la fiamma del Sacro Cuore, che chiama colui che crede,
incarnazione del sacrificio cristico,
> “sangue acceso di fiume aperto”
creatura di saturazione, il cuore cinto di spine apparso a Margherita Maria
Alacoque, conchiuso nel corpo straziato di Cristo. rosso dono totale, dono senza
intelletto che aderisce come la cieca fedeltà animale al suo versamento.
Margherita Maria lo accoglie nel suo stesso seno. Giovanni della Croce parla del
“volo” “alto e leggero di contemplazione” della colomba, arsa nell’amore,
“rapimento ed estasi dello spirito a Dio” (Canto spirituale B, 13, 7-8). cuore
nella sua transverberazione, “ferita d’amore”, un tocco d’amore che come saetta
di fuoco ferisce e trapassa l’anima, “fiamma d’amor viva”, Spirito Santo. “Nel
frattempo – dice Beatrice di Nazareth – l’Amore si fa talmente smisurato e
soverchiante nell’anima, come fuoco la marchia nel cuore, che è come se il cuore
fosse trafitto da ogni dove” (I sette modi del santo Amore). e così Teresa
d’Avila: “Mi colpì con una freccia/ Avvelenata d’amore,/ E la mia anima divenne/
Una cosa sola con il suo Creatore” (“Sulle parole ‘Dilectus meus mihi’”).
> “bocciolo di punta”
rosso come risposta alla chiamata di Dio. una chiamata che fende gli epifenomeni
del senso comune e solleva la pura vita alla pura vita, la chiamata cui non deve
seguire la parola perché ogni nostra reazione risponde ad “un’eco immemoriale,
nella caduta di un doppio eccesso” (Chrétien 1992, 30), chiamata nella totalità
del mondo in cui non si è che nel coro di una perpetua incoazione, nel mentre
dell’auto-donazione. questa chiamata all’essere non è temporale, ma eterna e
istantanea. per risuonare nella verità non può che risuonare nel vuoto,
radicalmente altra dalle chiamate terrene che sollecitano il possibile, il
contingente. “Per costituire, destituisce. Per dare, priva. Per creare, disgrega
tutto quello che si considerasse forte di per sé prima della chiamata o
indipendentemente da essa” (Idem, 33).
penso a quanto tu ripeta di questo travaglio cangiante alla chiamata, un pigolìo
di preghiera che ti ruscella nel torace, e incessantemente riannodi braccia e
gambe con una pazienza insopportabile. ti smonti e poi riprendi ogni pezzo in un
tuo brusio ardente caro alla nullità. così testarda nell’amore, rannicchiata in
una cavità in cui rinbomba un avvento che ti lascia sola. mi assale, questo tuo
bianco che sbocca, si apre in corolle di ghiaccio e sconfina verticale, Candida
Rosa. ma scrivi dell’estrema cima perché hai guardato in attenzione coloro che
sopra non scorgono. aneli da basso, cucendo i tuoi angeli di organza. saperti lì
assorta, ogni nuova infanzia.
Cristiana Panella
*
Riferimenti bibliografici
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Trad. di Carlo Carena. Torino: Einaudi, 2000.
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Bibbia. Progetto e direzione di Enzo Bianchi. A cura di Mario Cucca et al. Trad.
di Enzo Bianchi et al. Torino: Einaudi, 2023.
Bignozzi, Isabella, Fermagenesi. Quarta di copertina di Mara Cini. Verona:
Anterem Edizioni, 2025.
Cirlot, Veronica et al. (a cura di) La mistica cristiana (vol. 2). Progetto
editoriale di Francesco Zambon. I Meridiani. Milano: Mondadori, 2021.
Chrétien, Jean-Louis, L’effroi du beau. Parigi: Les Éditions du Cerf, 1987.
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Éditions de Minuit, 1990.
Chrétien, Jean-Louis, L’appel et la réponse. Parigi : Les Éditions de Minuit,
1992.
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Cinisello Balsamo: Edizioni Paoline, 1992.
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González. Introd. di Federico Ruiz. Roma: OCD, 2020.
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Hillman, James, L’anima del mondo e il pensiero del cuore. Milano: Adelphi,
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Lala, Ismail, “Turning Religious Experience into Reality: The Spiritual Power of
Himma”, Religions, 14 (3), 385, 2023.
Marion, Jean-Luc, Certezze negative, Firenze: Le Lettere, 2014.
Marion, Jean-Luc, Prolégomène à la charité. Parigi: Grasset, 2018.
Meister Eckhart, Commenti all’Antico Testamento. Testo latino a fronte. A cura
di Marco Vannini. Milano: Bompiani, 2013.
Teresa d’Avila, Tutte le opere. Testo spagnolo a fronte. A cura di Massimo
Bettetini. Milano: Bompiani per Giunti Editore, 2018.
Weil, Simon, Attesa di Dio. Milano: Adelphi, 2008.
L'articolo Fantasmagoria del rosso. A Isabella Bignozzi su “Fermagenesi”
proviene da Pangea.
Mi ero imbattuto nell’ultimo disco in studio di Lou Reed (“The Raven”), quasi
scettico per l’operazione proposta ma fortemente incuriosito. Essendo sia amante
di Poe e dei suoi racconti plumbei e angosciosi, sia di Lou Reed, fin dagli
albori della sua carriera nei Velvet Underground, l’ho ascoltato con sincera
attenzione e voluto approfondire comperando in edizione Minimum Fax i testi
integrali del lavoro poetico di riscrittura di Poe, che prendono il medesimo
nome e dell’album e della celeberrima lirica del maestro del gotico, per la
traduzione di Riccardo Duranti.
Scriveva nell’introduzione lo stesso Lou Reed:
> “Nella mia mente Poe è il padre di William Burroughs e di Hubert Selby
> (ricordiamo quest’ultimo, per chi non lo conoscesse, come una specie di Joyce
> maledetto e metropolitano). Cerco sempre di adattare il loro sangue alle mie
> melodie. Perché facciamo quello che non dovremmo fare? (con un occhio
> al Demone della perversità). Perché amiamo quello che non possiamo avere?
> Perché abbiamo sempre una gran passione per la cosa sbagliata? E che cosa
> intendiamo per ‘sbagliato’?… Mi sono innamorato ancora una volta di Poe e
> quando mi si è presentata l’opportunità di riportarlo in vita attraverso
> parole e musica – testo e danza – be’ (suggestione diabolica di vanità
> autoriale?, ci chiediamo), l’ho afferrata al volo: come farebbe un rottweiler
> con un osso sanguinolento. L’ho riletto e poi recitato ad alta voce e per la
> prima volta ho capito Il cuore rivelatore…”
Omettendo di dare uno sguardo ravvicinato all’album e alle prestigiose
collaborazioni, soprattutto nei recitati, di artisti di grande calibro tra i
quali William Dafoe, Steve Buscemi, Fisher Stevens, Amanda Plummer, possiamo
senz’altro approcciare uno dei passaggi più significativi, a nostro modo di
vedere, della preziosa versione integrale cartacea delle riscritture di Lou Reed
presso i gangli più significativi dell’opera di Poe.
Prenderemo infatti in esame, principalmente, la riscrittura magnifica del
racconto dal titolo Hop-Frog (il nano buffone di corte). Va detto, a giusta
premessa, che Lou Reed raggiunge qui, ma anche di più altrove, vette inedite di
estro poetico e cura filologica nell’uso di una parola aulica e tale da vibrare
di musica assecondando l’estetica stessa dell’autore di origine.
L’inizio pare una litania quasi insignificante dal lato della consistenza
contenutistica, offrendo una versione scanzonata del personaggio a cavallo tra
la vita di corte e la sua natura “salterina” (esiste niente di più buffo e
caricaturale del salto di una rana). Prosegue alzando l’asticella, con lo
scritto dal titolo “Ogni ranocchio ha la sua giornata di riscossa”. Qui il re
esorta Hop-Frog a procurargli gaiezza e riso chiamandolo “mellifluo principe dei
buffoni” ed egli risponde con tono serio che la giornata presente “non è adatta
a farsi una risata”, perché quel momento “sacro è per i tramonti reali”
piuttosto che “per lo sbraco comico o il suicidio dei giullari”.
Il re incalza, dicendo imperativamente che a decidere è lui e il suo “cagnolino”
deve suscitare la sua ilarità, tracannando vino e assecondandolo durante la
festa. Hop-Frog sa bene che il vino gli dà alla testa e cerca di aggirare
l’ostacolo, ma il re insiste con nerbo e comando. Ed ecco comparire Tripitena
(auratica creatura, dal nome sonoramente fittizio che evoca quasi una
onomatopea, e ingegnosa rappresentazione di Musa meta-parnassiana che intuisce
il valore dinamitardo dell’arte di Hop-Frog, al quale si rivolgerà più tardi
amorevolmente, con disprezzo profondo per il re e la sua corte)… Attenzione che
nella versione palesemente denigratoria di Lou Reed la corte intera compare come
accolita di squallidi affaristi e faccendieri, quindi in chiave più moderna e
maturamente capitalistica. Esattamente come, in simmetria, “Il verme
conquistatore” appare come il protagonista di un “escrementizio” numero di
Broadway in cui luci, paillettes e ballerine, nascondono il marcio di un ricco
intrattenimento che ottunde la ragione e tradisce la sincerità, facendo di Poe
stesso una caricatura da show.
E dice Tripitena, attraverso un espediente che fa leva sulla vanità della
corona: “Riservate, mio possente Sire/ a nemici più degni le vostre ire”. Il re
non desiste e apostrofa malamente Hop-Frog ingiungendogli nuovamente di farlo
ridere. Ma il re, dichiara Tripitena nel magnifico monologo che costruisce il
musicista newyorchese, dovrebbe chiamarsi in realtà “orinale”, in bisticcio con
la propria indiscussa autorità e senza mezzi termini di condanna. Hop-Frog,
invece, nella sua visione troneggia su tutti, e la regale compagine appare come
una accolita di scimmioni festanti. Tripitena dice di aver osservato il nano
destinato a giganteggiare e che il suo valore supera ampiamente la sua natura di
nano, ed è superiore alla sua pur vertiginosa ampiezza d’animo e alla profondità
di pena interiore che la suggella. Le sue parole sono vibranti d’amore:
> “O reietto ostinato, non vedi la luce del nostro amore – le nostri sorti
> incatenate – i nostri cuori fusi insieme in un fine merletto di fili d’oro
> intrecciati?”
Il re e la sua accolita di ruffiani ascoltano “la musica degli idioti” e i loro
affari e faccende sono sordidi. Non sono né cose angeliche né appartenenti ad
alcun superiore avamposto a cui sia degno aspirare. Il re-affarista è creatura
misera e indegna, e i suoi consiglieri sono “decrepite caricature di erudizione
guidata dall’avidità”. Come negare che allo stato attuale faccendieri e cultura
ruffiana, adulatrice del potere, sono all’ordine delle cose? E allora serve
“disordine”… Arriva quindi il suggerimento di Tripitena che raccoglie lo snodo
centrale del racconto di origine: far travestire tutti da scimmioni, con la
scusa di una burlesca messa in scena per il triviale divertimento di costoro, e
poi dar fuoco alle loro pellicce. Perché se a questo mondo la giustizia e
fuggevole, per una volta sia lecito ascoltare il “raglio e il pianto” del
sovrano-affarista”.
Devono, tutti costoro, solo impersonare gli scimmioni che già sono, con catene e
ridicole sottane, e poi perire nel rogo che appiccherà il buffone di corte.
Perché chi lo sottovaluta “prima o poi è destinato a trovare la verità sublime e
a sdraiarsi vuoto sulla griglia di un disordine sistematico”.
È una grande dichiarazione di anarchia e sovvertimento, di disordine che
deflagra come una forza annientatrice dello status quo, della sordida vita che
perpetra se stessa grufolando nel fango del potere e nei suoi abusi, nella
bassezza di un ordine babelico di vizio e sopruso, guadagno ed esercizio
vessatorio di potere. Il finale del monologo è assai crudo e Tripitena dichiara
a chiare lettere che gli “affaristi” non sono degni neanche di farsi defecare
addosso.
Prosegue il testo con una domanda di carattere quasi esistenzialista: “Chi
sono?” Ed è ancora Tripitena a parlare: ella vede nello specchio il tempo che ha
arato la sua pelle durante il corso della rievocazione bruciante dei ricordi
d’amore legati a Hop-Frog, preda di una passione che vince la ragione e le sue
leggi. E in aggiunta, dice, si pensa a ciò che avremmo voluto diventare, ma la
realtà che si affronta dedica a questi slanci uno spazio così esiguo da
svuotarli. Si chiede chi sia, Tripitena, e chi ha fatto le foreste, il cielo, la
tempesta e persino il crepacuore, e quanta vita possa ancora ella sopportare.
Perché sogna e insiste nel sognare e immaginare mondi inesistenti e vorrebbe non
dover neanche respirare, librandosi in volo come un “magico putto”, baciando un
serafino in fronte, risolvendo l’enigma della vita col tagliare a qualcuno la
gola o strappandogli il cuore. Rivolgendosi al nano, dichiarato già di una
statura che non fa il paio con quella del suo sembiante ma solo per essere
infinitamente maggiore, sembra dichiarare di essere trapassata ma ancora viva
nella fiamma ardente di un amore che memorie ormai opache non sono tali da
celebrare per la sua possanza e urgenza. E se il suo amato si aggrapperà alle
sue ginocchia, udendo ancora il battito del cuore (immagine di sanguigno
vitalismo e non tarlo della coscienza), allora non sarà un errore il pensiero di
stringere in pugno il passato ormai morto… Altrimenti perché ci sarebbe dato
ricordare? Ella si domanda chi sia, mentre il mondo corre e pare seminarla e il
ragazzo di un tempo è ormai in età senile; si chiede cosa il futuro ha da
riservarle e chi sia stato a dare la scintilla di creazione a questo immenso
teatro di vita… Forse un Dio innamorato che ha lambito in bacio qualcuno che gli
ha invece riservato amaro tradimento… Cosicché “l’amore senza Dio” ci ha
scacciato tutti.
Il seguito è serrato e brachilogico, una successione breve che disegna il rogo
macchinato dal nano. Egli propone alla Maestà e ai suoi ministri un ballo in
costume. Il suo suggerimento fa leva sullo spirito goliardico e volgare del re,
insinuando l’idea che la messa in scena spaventerebbe e genererebbe scompiglio,
assecondando così l’eccentricità che si conviene a un sovrano che tutto può solo
per comando. Il giullare vendicherà così molti torti e torturerà i potenti
vedendoli bruciare a
morte.
È il rovesciamento della statura apparente, è il far leva sull’inconsistente
idiozia e pecoreccia volgarità di una corte di viziosi arrampicatori senza nerbo
né morale, per consegnar loro la tortura e il marchio di fuoco di una vendetta
che ristabilisce un ordine che appare perduto dacché si ha memoria. Il più
piccolo e deriso, il più insignificante e angariato, usa l’ingegno e l’astuzia
per far cadere in trappola il re e i suoi ministri con la compiacenza della loro
smania di gaudio e sollazzo.
Le parole che Tripitena aveva dedicato a Hop-Frog erano delicate e disegnavano
una filigrana aurea e splendente di amore votivo, avevano invece tuonato feroci
e lapidarie contro gli affaristi di corte e il re che incarnava un potere
volgare fatto solo di guadagno e
pochezza.
La parte finale dei testi di Lou Reed merita anch’essa una menzione, quasi che
fosse il naturale continuo di questo episodio di vendetta e sovvertimento di
regole simili a pesanti catene, e un epifanico avvento di giustizia vera e
ragione incoronata di virtù; anzi, la virtù è la vera assente nella compagine
regale, dedita al sudicio esercizio di mercimoni e speculazioni, così come
moralmente decrepita e legata al vizio e alla dismisura dell’ego.
La parte conclusiva cui accennavamo è la canzone L’angelo custode, dove recita
un Poe giovane assieme a ogni altro personaggio che punteggia l’opera e nella
quale è evocato l’angelo convocato al proprio capezzale da chi teme paura e
solitudine, un angelo che dispensa e protegge dal male, un angelo che suggerisce
che l’unico modo per rovinarsi è smettere di confidare in sé. Che ha sempre
mostrato dove fosse il bene, tra tempeste perfide e tambureggiare di cristalli,
alla destra di chi soffre e spera; e se l’istinto era in errore, questi
suggeriva e correggeva.
Un angelo che mostra il sogno laddove è ben desto l’incubo. Per chi “vicino ai
libri sotto le tazze da tè/ tiene una specie di inferno”, e per il quale panico
e angoscia sono ospiti consuetudinari; per colui, infine, per il quale tutto è
rifuso nelle immagini (di un simbolismo puntuale a icastico) che seguono: “il
tappo di champagne – il gufo alla luce della luna/ un corvo e un’anatra/ la
semenza di genitori in pena/ e del tuo amore che perde la speranza…”
Tutti sembrano avere un angelo che li protegge e veglia sui loro affanni e le
loro speranze, così compenetrati da cambiare di volto gli uni con le altre,
perché “Amore e fortuna hanno vite incantate/ e tutte le cose possono essere
rivoltate” (e noi pensiamo a colpa/rovina e sollievo/trionfo, caduta e ascesa,
al dominare e al soccombere, alla ragione più arrogante e al cuore più umile e
grato, al sogno e all’incubo, alla statura apparente e a quella che cala
l’ideale nel concreto, e tutte assieme che cozzano senza elidersi e danno
fermento e vita al prodigioso spettacolo di una compagnia umana sospesa tra il
sublime e la burla, tra il magnifico e l’infimo, tra le luci più fulgenti e le
tenebre più mortifere, tra una virtù da “baraccone” ed una virtù
inoppugnabilmente splendida).
Ed è forse lecito ricordare, a questo punto, che ogni colpevole ha un testimone,
se non altro in se stesso, e che una colpa orba a sé è la più esiziale delle
menzogne. Ogni disegno ha una strada ma non tutto è giusto, non tutto risarcisce
e sana, quasi niente è dato avere in amore, se non un sogno desto che si
giustifica senza tregua, estenuanti sensi di colpa e perdizione che
tambureggiano come un tell-tale heart sotto l’assito dell’anima. Perché l’ordito
di Lou Reed ricalca le opere di origine simile a una cuspide di luce capace di
brillare oggi di un’aura ancora veritiera; e ferisce a fondo “l’arroganza della
mente” – al di là di ogni colpa riconosciuta o non riconosciuta. Ed è proprio la
colpa nelle sue proteiformi sembianze ad attraversare queste notevoli
riscritture, assieme a un’esistenza di ombra o una vita come una macchia
tumescente che insiste in ciò che “non si deve” recando danno precipuamente a
sé.
Il resto è un canto ora sommesso ora corrusco e vitale di ombre, visoni e
parvenze larvate che si agitano nel teatro di una vita sognante almeno quanto
ferita. Come appare ne La caduta della casa degli Usher, per Roderick (come per
ogni creatura sensibile fino al morbo di sé) che ha sensi così acuiti da
mangiare solo cibi insipidi, indossare abiti impalpabili, essere abbacinato da
una luce appena meno fioca di un cero, e trovare opprimente perfino il profumo
dei fiori, il confine tra sanità e malattia, tra tara e superstizione è assai
labile e la visione non è il prodotto di “fenomeni elettrici” niente affatto
rari, ma la rima funerea e veridica col proprio rimosso, una voce che ascoltare
può condurre alla follia ma alla quale non si può rinunciare senza rendere le
proprie armi vinte persino al cospetto di sé; il nemico siamo noi, in
definitiva, e
> “la mente capricciosa si confonde con il futuro che essa stessa prevede e si
> ripiega su di sé con ribrezzo e terrore. Con la premeditazione e con il
> semplice pensiero, siamo condannati a conoscere la nostra fine”.
E nella “valle inquieta” di Roderick “non sono forse tutte le cose belle
lontane?” Una valle dal fiume malato e i monti raggelati in un “rigor mortis”
atavico e inappellabile, lontana essa stessa come il sole “allettato
nell’orizzonte luminoso”, e dove egli, come l’occhio umano, “si è chiuso per
sempre” colpevole di non udire il pulsare del cuore ma “solo lacrime di perfetto
pianto”.
Là un tempo regnava “Re Pensiero”, la cui arguta saggezza era cantata da voci di
impareggiabile dolcezza, in un reame dove il vento portava fragranza di rari
fiori e tutto era armonia e virtù sotto l’egida di un fiero emblema baciato dal
sole – pressappoco così scriveva Poe –, e là regnano ora discordanti melodie,
disordine e risa, ma mai pi un sorriso. Mai più.
E “mai più” è la parola chiave che compare con ripetute anafore anche ne Il
corvo, l’originale.
Da sottolineare che la vetta, forse, di questa raffinata opera di Lou Reed,
rimane proprio la riscrittura della lirica Il corvo, sublimemente fastosa, di
un linguaggio poetico prezioso e decadente, in carattere con l’originale e tale
da evocare con potenza un canto funebre e plutonico che echeggia di assenza fino
quasi allo smarrimento del confine tra ragione e distorsione onirica, e in cui
il lutto è compenetrato all’amore… L’amore un grido di impossibilità (non solo
fisica) di adempienza alle leggi sovrane di un cuore stregato.
Massimo Triolo
L'articolo “Le nostre sorti incatenate”. Lou Reed riscrive Edgar Allan Poe
proviene da Pangea.
Molte cose può la poesia: consolare, cullare ma – più delle altre – anche
comandare. Chi entra in un museo – in questo caso il Louvre, dove i capolavori
vanno in carcere e gli dèi all’obitorio – per cercare il sollievo borghese
dell’estetica in una placida contemplazione del “bello”, ha già tradito tutto.
Si muove orizzontalmente, come un turista dell’assoluto, e non verrà mai toccato
dalla lama. Perché l’arte che ispira davvero è padrona e non ancella, lo sa bene
chi in una statua o in un testo ieratico non ci ha visto un parere o
un’interpretazione ma un giudizio. Un giudizio divino che fissando dal suo
abisso marmoreo spoglia chi lo osserva.
Ecco Rainer Maria Rilke davanti il Torso arcaico di Apollo. Un pezzo di pietra a
cui la barbarie del tempo ha amputato la testa, le braccia e le gambe; è rimasto
il nucleo del torso, un blocco tellurico che ne contiene il cuore. Eppure, c’è
chi in questo più che una mancanza, ci ha visto una potenza accresciuta, una
folgore contenuta in quel petto mozzo di ogni arto. La critica si è arrovellata
per decenni, producendo biblioteche di esegesi flaccide, tentando di
addomesticare quella violenza finale traducendola in inoffensivo gergo
psicologico, in un invito a essere “più buoni”, “più consapevoli”. Non volevano
vedere nulla. Gli dèi dettano ordini, non suggerimenti, lo sa Rilke e
certamente, lo sa anche Apollo. L’imperativo che chiude il sonetto – “Devi
cambiare la tua vita” – è un decreto divino, non derubricabile ad un mite
consiglio amichevole.
La prima fondamentale operazione che questo torso compie è un atto di
iconoclastia sublime annientando il suo stesso volto. La testa, con la sua
mimica delle labbra e con i suoi occhi che si dice siano ponte per l’anima, è
stata decapitata. Ma non si tratta di una perdita, chiaramente è una
purificazione che emenda Apollo della maschera dell’Io e di ogni teatro emotivo
umano. Si tratta di emendare il corpo dal logos cerebrale, che tutto vuole
spiegare e ridurre a concetto. L’assenza della testa permette al corpo di
diventare esso stesso sguardo totale. Rilke osserva come il torso, anche
sprovvisto di occhi, ha uno sguardo simile a una stella che osserva da ogni
punto della sua superficie. Altrimenti, sarebbe una pietra deforme e monca, ma
non lo è; è intera metafisicamente, prima che anatomicamente.
Lo sguardo di Apollo non emana più da un centro, ma si irradia dall’intera
massa. È uno sguardo panottico-somatico di una divinità che non si esprime più
attraverso un volto umano, ma per mezzo della tensione pura della forma. Il
marmo trasuda luce e brilla come un candelabro sacro, la cui energia interna
preme contro i confini della pietra fino a farla esplodere di incandescenza.
Questo è un dio apocrifo, che non ha nulla della ragione apollinea e che invece
ha assorbito la potenza dionisiaca. Rilke legge il torso di Apollo in maniera
verticale. L’uomo orizzontale consuma arte come consuma cibo, la giudica
passivamente e la recensisce con aggettivi esausti senza lasciarsi ferire o
accettarne i comandi. Il torso che descrive Rilke, invece, irrompe su questo
piano e impone l’incontro con il sacro e con una bellezza che non ammette
neutralità. Si è costretti a prendere una posizione per elevarsi o annichilirsi,
ma il torso apollineo diviene in ogni caso un maestro di una ginnastica
spirituale. Il museo trae in inganno l’osservatore: il torso non è lì per essere
ammirato ma per essere imitato nel campo di battaglia della propria esistenza.
L’imperativo “Du mußt dein Leben ändern”, l’enfasi è sulla parola finale che –
in tedesco si lega ad andere, altro – chiede l’alterità, rendere la propria vita
altro. Cambiare la propria vita è il fondamento di ogni ascesi e disciplina, di
ogni aristocrazia dello spirito. È il comando che sente il monaco nella sua
cella e che l’atleta percepisce nello spasmo dei muscoli, un richiamo
all’ordine, alla forma e al rifiuto del caso informe della vita biologica.
Vivere orizzontalmente significa subire la propria esistenza, fluttuare secondo
le correnti delle passioni e delle mode. Vivere verticalmente significa imporre
una forma alla propria vita e farne un’opera, significa – in altre parole –
praticare.
Fu Sloterdijk a cogliere questo nucleo nella poesia. Rilke stava promulgando la
legge fondamentale dell’antropotecnica: l’uomo è l’animale che si auto-impone
discipline sovrumane per non restare semplicemente umano. La storia della
civiltà non è la storia del progresso sociale, ma la storia degli esercizi che
gli uomini hanno inventato per costringersi a diventare qualcosa di più. Dallo
yoga alla filosofia stoica, dalla maratona alla meditazione, la posta in gioco è
sempre la stessa: creare una tensione verticale, che distanzi ciò che si è da
ciò che si deve essere.
Il torso apollineo è latore di questa etica feroce, accusa con la sua bellezza,
ci guarda e ci vede flaccidi, informi e indulgenti con noi stessi. Ci vede
annegare e nella sua perfezione muta, ordina di smetterla di lamentarsi e di
opinare per iniziare, finalmente, a praticare. Scolpire la propria giornata come
uno scultore scolpisce la pietra. Imporsi un rigore affinché la morale non sia
volgarmente intesa come un catalogo di divieti, ma come un’estetica della
condotta. Il bene non è ciò che è giusto, ma ciò che ha forma. Rilke mette in
pratica una controrivoluzione spirituale riconoscendo nell’opera d’arte una
forma autocratica che esige obbedienza. Il suo messaggio è un imperativo
estetico: la propria vita, così com’è, è inaccettabile. È un’opera mancata,
insufficiente ed amorfa. Ora che si è stati visti, trafitti dalla luce del dio,
non ci sono più alibi.
Ciò a cui il poema chiama, in ultima istanza, è il superamento della sterile
dialettica tra Apollo e Dioniso, ordine e caos, una dicotomia che ha nutrito la
filosofia occidentale da Nietzsche in poi. Il Torsonon è semplicemente apollineo
nella sua perfezione formale. Al suo interno, come nota Rilke, la pietra
“flimmert… wie Raubtierfelle”, scintilla come pelle di belva, e il suo potere è
pronto a straripare da ogni suo contorno. Questa non è chiaramente la fredda
geometria del dio del rigore. È una forma che a stento contiene un’energia
selvaggia e primordiale. L’Apollo che osserva Rilke è un punto di fusione tra la
disciplina più rigorosa, la perfezione di quel torace sospeso, ed una vitalità
sfrenata contenuta al suo interno, un dio che non ha mai essenzialmente
abbandonato la statua che abitava. Questa è la tirannia benefica dell’Oggetto,
Rilke mette in atto una sovversione gerarchica: non è lo spettatore a guardare
l’opera, ma è l’opera che lo plasma. L’unica risposta degna a tale Epifania è la
scelta di un’ascesi. Il torso non ha più il volto perché ora il suo volto è il
nostro, e ci chiede cosa ne stiamo facendo. Tutto il resto è intellettualismo, e
l’intelletto oggi più che mai, non serve a nulla.
“Non conoscevamo il suo capo inaudito
in cui maturarono i pomi oculari. Ma
il suo torso ancora arde come un candelabro,
dove il suo sguardo, ormai scorciato,
si conserva e risplende. Non potrebbe sennò la curva
del suo petto abbagliarti, e scorrendo la torsione delicata
dei lombi non riuscirebbe un sorriso a posarsi
su quel luogo centrale cui spettava la procreazione.
Sarebbe sennò deforme questa pietra e corta
sotto lo spiovere invisibile delle spalle,
e non tremolerebbe come pelo di belva feroce;
e non irradierebbe da ogni suo contorno
come una stella: perché non v’è punto qui
che non ti veda. Devi cambiare la tua vita.”
Andrea Falco Profili
L'articolo “Devi cambiare la tua vita”. Rilke di fronte al torso arcaico di
Apollo proviene da Pangea.
Probabilmente, è bene cominciare dalla fine.
Il ragazzo decide di partecipare allo sbarco in Normandia. Mobilitato in Nord
Africa, chiede ai superiori di essere impiegato durante il “D-Day”. Il ragazzo
ha i grandi di capitano, l’ostinato desiderio di essere al ‘centro della
Storia’. Tre giorni dopo lo sbarco, è il 9 giugno del 1944, il suo reggimento si
impantana a Tilly-sur-Seulles, piccolo borgo del Calvados – ad oggi, supera di
poco i mille e cinquecento abitanti. Il ragazzo – abile nel disobbedire, desto
nel prendere l’iniziativa – sbarca dal suo tank, avanza in ricognizione
solitaria. Un colpo di mortaio lo ammazza. Il cappellano del reggimento, il
capitano Leslie Skinner, lo seppellisce alla buona, presso una siepe. Più tardi,
sedata la guerra, i resti del ragazzo vengono sepolti nel cimitero militare di
Tilly-sur-Seulles: lotto 1, fila E, tomba 2. Il ragazzo si chiamava Keith
Douglas. Poeta.
Destino infero quello dei poeti della Seconda guerra. Ce ne sono stati tanti,
eccellenti – pensiamo, alle nostre quote, al Diario d’Algeria di Vittorio
Sereni, oppure a Fogli d’Ipnos, la raccolta del poeta ‘resistente’ René Char,
tradotta guarda caso da Sereni – eppure è stato il reportage, il documentario
‘in diretta’; è stato il cinema a dire, con sicurezza definitiva, la Seconda
guerra. Al contrario, la Prima guerra è stata una sorta di ‘laboratorio’ per la
poetica del nuovo mondo, dei tempi nuovi: lo dimostra – in Italia – la quantità
eccezionale di repertori antologici (Vallecchi editava una straziante Antologia
degli scrittori morti in guerra; va visto, in particolare, l’“Antologia dei
poeti italiani nella Prima guerra mondiale”, Le notti chiare erano tutte
un’alba, ideata da Andrea Cortellessa per Bompiani nel 2018). La nostra poesia
‘moderna’ nasce in trincea, con Giuseppe Ungaretti.
È come se la Seconda guerra, per sovrabbondanza d’orrore, non possa essere
narrata: dev’essere subita, a operare nei recessi dell’anima, quando
non vista (tradotta in film, anatomizzata nei reperti documentari). Nel mondo
inglese, così, per “War Poets” s’intendono, in particolare, i Poets of the First
World War, quelli gloriosamente onorati nel “Poet’s Corner” a Westminster, tra
Shakespeare e Lord Byron, tra Chaucer e Dickens (tra gli altri, Rupert Brooke e
Isaac Rosenberg, Wilfred Owen e Robert Graves; per un approfondimento, si
veda l’antologia War Poets. Nelle trincee della Prima guerra mondiale, costruita
da Paola Tonussi per le Edizioni Ares nel 2022). Dei poeti della Seconda guerra
si fa memoria occasionale – spesso ci si dimentica di loro, sepolti da un
disastro incomparabile, tacito accordo sull’ineluttabile irresolutezza
dell’arte, della poesia di fronte alla morte.
Nato nel gennaio del 1920, Keith Douglas morì che aveva da poco compiuto
ventiquattro anni. Dalla sua poesia esala la facondia immaginativa, la
complessità della ‘scena’ e delle scelte lessicali, un certosino distacco nel
vegliare sui fatti di guerra, che al posto di idealizzarsi in muta indifferenza
esalta una tenuta, una postura poetica in grado di estrarre il dettaglio al
diamante dal nulla bellico. Nato nel Kent, Douglas studiò al Christ’s Hospital
mettendosi in luce sia per il talento, esagitato, che per l’animo, poco disposto
a subire i rigori dell’educazione britannica. Pubblicò le prime poesie
sedicenne; decise di arruolarsi perché pensava che la guerra fosse il ‘grande
argomento’ della letteratura del suo tempo. Fu disciplinato nel Derbyshire
Yeomanry, praticò al Cairo e in Palestina, partecipò – anche lì, per ardimento:
non voleva più servire per lavori d’ufficio – alla Seconda battaglia di El
Alamein: guidava un carro armato. Il suo superiore era il colonnello Edward O.
Kellett, che sarebbe stato ucciso l’anno dopo, in azione, in Tunisia. Di
quell’esperienza, Douglas ha lasciato un memoir, Alamein to Zem Zem, pubblicato
da Faber, introdotto da Lawrence Durrell.
Nella scelta di arruolarsi di Douglas agì anche la situazione familiare. Figlio
di un militare in congedo, con cui aveva pessimi rapporti, Douglas crebbe, in
sostanza, solo, in collegio. La madre collassò in un’encefalite letargica grave;
il padre mollò la famiglia, risposandosi, che Keith aveva dieci anni.
In molti riconoscono in Keith Douglas i prodromi del grande poeta, il cupo
carisma dell’inattuato, dell’inespresso. Fu Edmund Blunden, il poeta veterano di
guerra – per altro, ricordato nel “Corner” –, più volte nominato al Nobel per la
letteratura, a riconoscere in Keith Douglas la stazza del talento puro. Nel 1938
inviò una scelta di sue poesie a Thomas S. Eliot, che le apprezzò. Il ragazzo
era giovane, i fatti precipitarono. I Collected Poems di Keith Douglas vengono
stampati da Faber nel ’46, con un’introduzione di Blunden. A quella seguiranno
diverse altre edizioni: la più nota – Selected Poems, 1964 – è introdotta da Ted
Hughes, che ha sradicato Keith Douglas dalle malie del ‘poeta di guerra’, utile
a fini non soltanto estetici, “è la sua poesia, in generale, a serbare un valore
unico, che rende il poeta più vivo che mai”. Tese tra le stelle e il cadavere,
le poesie di Keith Douglas irrompono in noi con corvina tenerezza – come
incisioni sulle ossa.
***
La Bestia Meraviglia
Barone dei mari, il grande pesce
spada dei tropici, straziato sul famelico
ponte dove i marinai lo hanno ucciso
nel paradisiaco Pacifico: lama che indaga
occhio che fugge e stana la preda
nei regni oscuri dov’era re; arma
forgiata nella semi-tenebra, eppure,
strappata dal cadavere di questo estroso
viaggiatore, è una lente d’ingrandimento
che riflette l’inusuale zampillo del sole.
Con quella lama un marinaio incide sul legno
il nome di una prostituta abbordata
nell’ultimo porto. È uno degli strumenti
più strani custoditi dalle onde –
suppongo che la querula voce
dei marinai marciti in spettri
digeriti dalle ingorde maree
potrebbe descriverne molti.
Che siano i vostri ospiti, che vi conducano
negli abissi dove brucano i loro vascelli
dimenticati – che tutto risorga nell’occhio
che arde. Per incidere quel verbo, il sole
perfora la potenza del mare e urla
il suo nome, omaggia quella meraviglia.
Linney Head, Galles, 1941
*
Come si uccide
Sotto la parabola di una palla
un bambino diventato uomo
fissa l’aria troppo a lungo.
La palla mi è caduta in mano, canta
nel pugno chiuso: Usami Usami
sono un dono ideato per uccidere.
Ora nel mirino vedo
il soldato che sta per morire.
Sorride, si muove nei modi
che solo sua madre conosce.
Fili sul suo viso: è l’ora
in cui piango. La morte è il mio
più intimo familiare e muta
in polvere un uomo di carne.
Ma questa è la mia stregoneria.
Sono un dannato, amo ammirare
il centro dell’amore spalancarsi
e un’onda di amore vagare nel vuoto.
È così facile creare un fantasma.
La zanzara, leggerissima, tocca
la misera ombra sulla pietra:
con quanta, infinta tenerezza
l’uomo e la sua ombra si incontrano.
Si fondono. L’uomo è un’ombra
e le zanzare obbediscono alla morte.
*
Fioriture nel deserto
Soltanto i fiori proliferano nei paesaggi selvaggi –
ripeto soltanto ciò che stavi dicendo, Rosenberg –
la conchiglia e il falco ad ogni ora
uccidono uomini e gerboa, uccidono
la mente: ma i corpi possono soddisfare
gli affamati fiori e i cani che gridano come
uomini, di notte, la cosa più dura di tutte.
Ma questa non è una novità. Ogni volta che
la notte lancia stracci sugli occhi, lascia la mente
desta, guardo ai lati della porta del sonno
cerco la piccola moneta necessaria
per comprare il segreto che non saprò mantenere.
Vedo uomini che soffrono come alberi
confondono i dettagli e l’orizzonte.
Metti la moneta sulla mia lingua
canterò cose che nessuno ha mai visto.
*
Vergissmeinnicht
Tre settimane dopo i guerrieri
erano spariti: tornammo su quel
campo da incubo – il soldato era
ancora lì, disteso, incubato dal sole.
All’ombra della canna del suo fucile.
Avanzavamo quel giorno
e lui colpì il mio carro come
se fosse la mascella di un demone.
Guarda. Qui, nella trincea dirupo
la fotografia disfatta della sua donna:
ha scritto Steffi. Vergissmeinnicht
con una calligrafia gotica perfetta.
Ci sembra felice, ormai degradato,
deriso dalla sua stessa divisa
così dura e superba quando
il corpo è in decomposizione.
Ma lei piangerebbe, oggi, nel vedere
le mosche che si muovono oscure
sulla sua pelle, la polvere sull’iride
di carta, lo stomaco squarciato come una grotta.
Perché qui amante e assassino sono
lo stesso, hanno un solo corpo e un solo
cuore. La morte che ha eletto quel soldato
ha avvelenato con un male mortale l’amante.
*
Stelle
(Per Antoniette)
Le stelle marciano ancora, in ordine sparso
da nulla a nulla. Guardatele, sono immobili
sul campo notturno, autentica terra di nessuno.
Lì, lontana, con spada e cintura, dev’essere
Orione. Per i commissari di questa guerra
da esaltati è il Carro. Nessuno favoloso confine
può annientare il loro coraggio, nessuna banda
le sfiderà: soltanto la disciplina le ha
mobilitate e le mantiene vive. Così
le hanno viste il Tempo e i suoi avi. Così
combattere il disordine è il loro compito
e la vittoria persiste nelle loro mani.
Dal limite delle vecchie colline fino
a quelle pianure, laggiù, si estende
il loro accampamento. Gli eterei ufficiali
salutano, da tenda a tenda, i messaggeri
cometa. Guardiamo in alto, con dolore
a quei compagni lontani, quelle plaghe
che non possiamo calpestare.
1939
*
Canoa
Questa potrebbe essere la mia ultima
estate e non voglio perdermi nulla
del piacere che dona l’antica arte
dell’ozio. Non mi lascio terrorizzare
dal destino che aleggia sullo sfondo
mentre l’erba e le case e il fiume insonne
credono di poter durare per sempre
e si scambiano sussurri sommessi –
impera l’afa. Quale terribile fato potrà
impedire alla mia ombra di vagabondare
da queste parti il prossimo anno?
Fischia: ti sentirò e verrò, a sera, sulla
stessa barca con cui vai verso Iffley
mentre fissi il cielo in attesa del tuono
che come una campana preannuncia
pioggia – il mio spettro ti sfiorerà le labbra.
Keith Douglas
L'articolo “Canterò cose che nessuno ha mai visto”. Keith Douglas, un poeta in
guerra proviene da Pangea.
Sono giorni pieni di pensieri, questi ‒ e di riflessioni. Sono giorni di
decisioni, che comportano rinunce. Non ho ancora toccato il fondo, e spero non
accada mai. Ma se dovesse succedere, che tutto sia sincero, violento: che tutto
esploda nel tremendo terribile istante.
Ecco, di me, un’altra forma di nostalgia che ancora non conoscevo, la mestizia
del non poter più fare molte cose, e di non poter vedere lei quanto vorrei: il
mio amore…
Motivi seri, importanti, sgretolano i sogni, e mi vincolano nella città di
periferia…
Seduto alla scrivania della stanza-studio, seduco le parole, ne rovino gli
anfratti, rimango ferito. È il mio spazio di resistenza, questo. Qui, sono
intoccabile.
Allora, solo alla poesia m’appiglio; ai versi di Octavio Paz. Ed essi sono lo
specchio di chi come me ‒ oggi, ora ‒ vorrebbe ma non può.
Verranno tempi migliori, forse ‒ che frase banale!
Leggo. Ecco accontentato il mio tormento. Non sono che urlo.
(Giorgio Anelli)
TEMPORALE
Nella montagna nera
il torrente delira a voce alta
A quella stessa ora
avanzi tra precipizi
nel tuo corpo sopito
Il vento lotta al buio col tuo sogno
boscaglia verde e bianca
quercia fanciulla quercia millenaria
il vento ti sradica e trascina e rade al suolo
apre il tuo pensiero e lo disperde
Turbine i tuoi occhi
turbine il tuo ombelico
turbine e vuoto
Il vento ti spreme come un grappolo
temporale sulla tua fronte
temporale sulla tua nuca e sul tuo ventre
Come un ramo secco
il vento ti sbalza
Nel tuo sogno entra il torrente
mani verdi e piedi neri
rotola per la gola
di pietra della notte
annodata al tuo corpo
di montagna sopita
Il torrente delira
fra le tue cosce
soliloquio di pietre e d’acqua
Sulle scogliere
della tua fronte passa
come un fiume d’uccelli
Il bosco reclina il capo
come un toro ferito
il bosco s’inginocchia
sotto l’ala del vento
ogni volta più alto
il torrente delira
ogni volta più fondo
nel tuo corpo sopito
ogni volta più notte
Octavio Paz
L'articolo “Il bosco reclina il capo come un toro ferito”. Una poesia di Octavio
Paz proviene da Pangea.
Qualcun altro per lui ha seminato bene crepuscoli. Sotto lo sguardo vigile di
Cerbero, vendemmia grappoli di tenebra nei suoi occhi prima ancora che nel
cielo. Al ritmo di un precipitare, dà coordinate esatte alla disperazione.
Grodek, 1914, novanta commilitoni squarciati nella carne e nell’anima che
chiedono sollievo e l’inutile perché di una guerra: troppo esili le sue spalle
per farsi carico di quel dolore, solo e senza farmaci – non resta che spingere
la prosodia fino alle porte dell’Orco per strapparla un’ultima volta alla sua
morsa. C’è Grete, “oscuro amore/ d’una selvaggia stirpe” e solo per questo casa
vuol dire ancora qualcosa. Compagna di sangue e di abisso; sorella di
un’innocenza che hanno perduto insieme, mano nella mano. Distilla bagliori
autunnali in punta di dita, come “oro di stelle cadute” (Al fanciullo Elis).
Si cammina in giorni bui come nei boschi fitti – che riparo c’è, dove –, nella
stagione signora del freddo e delle foglie ingiallite, non si capisce, nel tempo
che impiegano a cadere dondolando, se la musica muta che le muove è giuramento
di una prossima, lontana rifioritura o memoria volatile di un verde
irripetibile. L’eterno, ciclico incedere pare spezzarsi e le pupille inchiodano
un tramonto dove anche Dio, per un istante tutto umano, si raccoglie in
solitudine al termine della battaglia quotidiana col poeta. L’orlo di un
bicchiere di vino promette naufragi di porpora per domande troppo oscure, mentre
il sambuco tace e “presto s’annideranno stelle nelle ciglia dell’estenuato”
(L’autunno del solitario).
Georg Trakl, nato dipartito. Con perizia di aruspice indaga le viscere del
mondo, in un allucinato andare e tornare tra sogno e veglia ma sempre verso sé
stesso, come scrive in una lettera ad Irene Amtmann. L’amico fraterno Karl
Kraus, il bianco pontefice della Verità in una poesia a lui dedicata, non
comprende del tutto come Georg possa vivere. E infatti, come si vive quaggiù non
essendo di quaggiù? Sempre straniero in questa distesa sublunare che lacrima
sangue nel clamore delle armi, dentro il quale tutti gli orizzonti cortissimi
dell’eclissi del sacro cadono uno dopo l’altro, anche loro come soldati.
L’indigenza dell’arrischiato, scritta con la calma dei passi inesorabili, è la
frantumazione del centro. Schegge di uno specchio rotto, le immagini familiari
(la casa, un vecchio album di famiglia, il padre, la madre, etc…) sono ombre e
volti di pietra; tutte le cose, dice Trakl, tacciono mentre gli enigmi
dell’anima si sottraggono ad una chiarezza.
Nella poesia di Trakl – secondo Angelo Lumelli giocata tutta contro le
aspettative del discorso – il poeta raccoglie e accoglie come compagnia, lungo
la strada della parola, fantasmi, cioè silenzi che non redimono le domande più
ostinate, rinunciando a scioglierle in risposte comode ma fragili. Sacrifica la
tentazione di dire l’indicibile e per questo apre varchi ad azzurri diversi da
quelli del pensiero.
[…] Sotto cupi abeti
due lupi mescolavano il loro sangue
in abbraccio pietroso; d’oro
si perdeva la nuvola sul varco,
pazienza e silenzio dell’infanzia.
Di nuovo s’incontra il tenero cadavere
Sullo stagno del Tritone
Assopito nella sua chioma di giacinto.
Oh finalmente s’infrangesse il fresco capo!
Ché sempre segue, azzurra fiera,
un occhieggiare tra ombre crepuscolari d’alberi,
questi varchi più bui
vegliando e mossa da notturna armonia,
dolce delirio;
o suonava di oscura estasi
piena la musica
ai freschi piedi dell’espiatrice
nella città di pietra.
Cosa va distruggendo in poesia, mentre tocca ad una “fiera azzurra” la custodia
dell’”armonia degli anni spirituali” (Declino dell’estate)? Qui disperazione non
è semplicemente sprofondare; è il tentativo di recuperare la durata, di
strappare la vita alla marcescenza dell’epoca.
Ogni grande poeta va capito nel paradosso. Proprio perché si sottrae alle
allodole del discorso, Trakl non canta la morte, ma dice, sanguinando, dunque
proprio morendo, la vita. Al piano di sopra, noi che non siamo poeti e crediamo
di essere al riparo dei paradossi, dei loro agguati, chiamiamo vita
quest’andatura più o meno ordinata, regolare, ignari che c’è un poeta, proprio
dove non osiamo scendere, pronto ad ingaggiare per il troppo amore quel duello
decisivo contro il sole falso che abbiamo posto a misura dei nostri destini
traditi. Sui passi di quella fiera azzurra, torna il poeta verso la sua
infanzia, verso sé stesso con sfrontatezza da angelo caduto.
III
Voi grandi città
innalzate di pietra
Sulla pianura!
Così muto segue
chi non ha patria
con oscura fronte il vento,
alberi spogli sul colle.
Voi correnti che lontane albeggiate!
Potente affanna
orrore d’un tramonto
nei nembi della tempesta
Voi popoli morenti!
Pallida onda
che si rompe alla spiaggia della notte,
cadenti stelle.
(Occidente)
(I versi citati sono nella traduzione di Leone Traverso)
Livia Di Vona
L'articolo “Azzurra fiera”. Inseguire Georg Trakl nel suo allucinato andare tra
sogno e veglia proviene da Pangea.
Ho sempre trascurato se non, meglio, snobbato il nome di Giacomo Casanova,
ritenendo la pur celebre Histoire de ma vie, l’unica opera sua conosciuta anche
dai non specialisti, soltanto una delle tante memorie del Settecento, che poco o
più tosto nulla avrebbero potuto nutrire chi come me si occupava con pretese e
ambizioni di cultura europea.
Non andai nemmeno a curiosare, né pigliai alcun appunto, quando, molti anni fa,
lessi, non ricordo più dove, una pur curiosa allusione per cui
nell’Histoire l’autore avrebbe riferito di una sua esperienza mistica
coincidente con le classiche del genere. Era la forza del pregiudizio coartata
da, mi sarei accorto, leggende e vaniloqui anche e sopra tutto di intellettuali,
come sempre informatissimi e autorevoli.
Ebbi poi quello che sarebbe stato, senza ch’io lo potessi presagire, l’ultimo e
sereno colloquio con l’amico d’oltre diciassett’anni, alquanto noto a chi
bazzichi librerie, il quale mi avrebbe di lì a pochissimo giocata un’infilata di
delusioni a freddo tale da imporre una drastica e irricomponibile rottura. Mi
parlò delle memorie, e proprio mentre stavo sondando il secolo di Casanova. In
quelle pagine, mi disse, oltre a molto spasso, troverai biblioteche di notizie
sul Settecento in ogni suo aspetto.
Se dell’uomo, come avrei scoperto, non c’è da fidarsi, dello studioso in massima
parte sì; sicché mi procurai in breve la traduzione – Storia della mia vita – di
Piero Chiara e Roberto Fertonani, stampata nei ‘Meridiani’, che trovai nuova a
un prezzo vantaggiosissimo, e sùbito la attaccai.
Sarebbe assai presto venuto il giorno di un biasimo contro Chiara e il suo
allora famiglio, che ancor dura; all’epoca l’introduzione dello scrittore
italiano fu però un ottimo abbrivio, che m’ingolosì più di quanto non avesse
fatto la chiacchierata col mio primo informatore. Restavano tuttavia sprazzi di
diffidenza, che sperai di veder dileguare: e fu quanto accadde dopo le
primissime pagine.
Fui sùbito risucchiato in una vertigine di stupefazione, che si dilatava e
accelerava. A ogni pagina ogni singola voce giuntami su Casanova dai soliti
autorevoli commentatori e intellettuali, veniva sbugiardata, inchiodata alla sua
mendacità, al suo pressappochismo, depistaggi e fraintendimenti erano
svergognati. Che cosa avevano letto? Come lo avevano letto? Nulla del
gabbamondo, del lestofante, del vago predone d’alcove, dell’avventuriere
propalato resta all’inpiedi se solo si legga quell’autobiografia.
La figura emergente dalla Storia è di un essere umano che ha vissuto nella
sequela, afferma egli stesso, della Divina Provvidenza e che presenta sé stesso,
sin dai primi rintocchi, quale cristiano e filosofo. E se si può discutere del
suo cristianesimo (un cristianesimo a ogni buon conto certo assai più cristiano
di quello di tanto sedicenti praticanti cristiani d’oggidì), bisogna in vece
senz’altro concedere a Casanova lo statuto di philosophe, senza tuttavia le
imposture le ossessioni e i pregiudizii della più parte di quelli.
Egli bensì annette all’Histoire le avventure – così come, si badi,
le disavventure, e molte – muliebri, ma il racconto non è mai fine a sé stesso.
Casanova non scrive per vantarsi delle sue conquiste (peraltro non moltissime:
altro dato da scoprire) o per amore di riferire storie pruriginose con cui
accalappiare il lettore e perché altro non ha da dire, altro non pensa, come un
qualsiasi Alberto Moravia. Le intenzioni saranno anche per l’amore
dell’avventura e di una certa libertà che s’andava reinventando in quel secolo,
ma sono funzionali a una visione del mondo, appresa vivendo, anche a traverso i
rapporti con le donne.
Casanova si dimostra un filosofo raffinato e costante, osservatore acutissimo e
disinteressato di città e uomini, e tra i maggiori cronisti dell’epoca sua e non
soltanto. Un uomo e uno scrittore paradossalmente inediti dunque riescono
dalla Storia, benché questa sia stampata a chiare lettere e secondo le
intenzione dell’autore sin dagli anni Sessanta del XX secolo.
Ìndico questa data giacché per circa un secolo e mezzo le memorie circolarono in
versioni appositamente corrotte e mùtile, come ne rende conto Chiara in più
contributi. Non possiamo soffermarci sui dettagli. Questo rapido intervento
serve soltanto a lanciare una «grida», per dirla con Manzoni, che suoni la
sveglia ai molti, troppi pseudolettori di Casanova e a chi ancòra lo trascuri.
Le relazioni con le donne sono state ridotte a manifestazioni priapesche e
ossessive ma che sono in vece istruttivissime, tra il molto altro, per una più
completa e veridica intelligenza sia delle femmine tout court, sia dei rapporti
tra i due sessi nel XVIII secolo, anche a pieno Antico Regime. Le femministe e i
femministi spregiatori dell’epoca prerivoluzionaria si vadano a leggere, a
esempio, quanto sottomesse al “patriarcato” fossero le donne! Fa di poi
sorridere che proprio taluni studiosi casanoviani – categoria assai numerosa e,
va detto, nonostante tutto spesso giovevole – mentre bestemmiano a ragione sulle
contraffazioni cui accennai, altro non seguitino a fare che a rimasticare le
solite stracche e stucchevoli mezze verità e fandonie sul Veneziano e su quel
secolo. Ed è credo proprio a cagione d’una completa distorta percezione
propalata come verità storica e biografica, che da mesi l’anniversario dei
trecento anni della nascita è stato ignorato.
Nemmeno la massoneria, che non perde mai occasione di farsi vanto d’aver avuti
nelle sue fila personaggi illustri, a quanto mi consta s’è spesa per il suo ex
confratello. Ma oltre al disprezzo per il presunto trattamento riservato da
Casanova al genere femminile, ci sono due altre radici della menzogna e
dell’oblio.
Ho accennato alla prima, o sia la professione di cristianesimo, per di più
cattolico, colpa non perdonabile dagli stinti eredi di Robespierre o di
Voltaire. A ciò si aggiunga l’irrefrenabile schifo e orrore nutriti da Casanova
per la rivoluzione francese.
Fu complice nella rimozione e nella distorsione esser la Storia escita proprio
negli anni, già detti, in cui in Italia e in Europa si stavano caricando i
cannoni a letame del Sessantotto, del quale ancor godiamo, rimmarciti, i frutti:
abitudini, protervie, ottusità, professori, giornalisti, continuatori,
imitatori. Giacomo Casanova non è territorio da annessione, per nessuno, se non
a traverso la corruzione. Egli si staglia solitario in tutto il Settecento e
nell’intiera storia europea, con la sua nudità di figura unica, forse davvero la
sola sciolta autonoma libera.
Suggerisco al lettore volenteroso e curioso di farsi da sé il suo Casanova
sguazzando nella Storia e nelle altre splendide opere. Dopo, se vorrà, quando
sarà immunizzato, potrà approfondire con la critica e le biografie, che per il
momento è meglio lasciare sugli scaffali.
Arriverà prima o poi, mi àuguro, chi voglia mettere la casa in ordine, fare a
Casanova – una casa nuova. A cominciare magari dalla stanza da letto.
Luca Bistolfi
L'articolo Solitario, filosofo, cristiano. Note su Giacomo Casanova proviene da
Pangea.