Ho avuto il piacere, qualche giorno fa, di avere una lunga conversazione
con Valentina Duca. Era da tempo che desideravo incontrarla, ma raramente fa
ritorno in Italia da Gerusalemme, dove ora si trova. Sono stati i suoi studi
nell’ambito della mistica cristiana, e in particolare lo studio sul mistico
siro-orientale Isacco di Ninive e dei suoi autori di riferimento, a condurla lì,
a lavorare come ricercatrice presso l’Università Ebraica.
Su Isacco ha recentemente pubblicato, per Peeters di Lovanio, uno studio, frutto
del suo lavoro di dottorato all’Università di Oxford: “Exploring Finitude”:
Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (per ora accessibile solo in
inglese). Degli scritti inediti di Isacco sta attualmente curando l’edizione
critica (testo siriaco e traduzione inglese). Oltre ad articoli prevalentemente
in inglese, si segnala, in italiano, il contributo “La grazia della debolezza e
il limite della morte”, all’interno degli atti del convegno
internazionale Isacco di Ninive e il suo insegnamento spirituale tenutosi al
monastero di Bose nel 2022, recentemente pubblicati da Qiqajon.
Un giorno, durante un incontro sul mondo siriaco a cui partecipavamo entrambe
presso il monastero di Bose, sono rimasta a lungo a osservarla: ho avuto la
sensazione che fosse una di quelle rare persone che si aggirano come “in punta
di piedi” nel mondo, i cui gesti sono segnati da una sorta di nobile discrezione
e di cura. Mi è parso che in lei la “dimensione spirituale” non fosse una
porzione dell’esistenza, bensì il fondamento. Nel leggere i suoi lavori, così
come nel sentirla parlare, insieme all’attenzione scientifica non si può non
notare questa sensibilità, che mi pare le abbia dato strumenti essenziali per
occuparsi di un autore come Isacco di Ninive.
Chi era Isacco di Ninive?
Isacco di Ninive era un solitario (termine usato qui per coloro che scelgono una
vita semi-eremitica) del VII secolo e dell’area siriaca. Quest’area non fa
riferimento solo a parte dell’attuale Siria, ma a un territorio più vasto:
Isacco, in particolare, era nato nella regione del Qatar, dove nella sua epoca
c’era una fiorente comunità cristiana, e visse in terra mesopotamica. Per breve
tempo divenne vescovo di Ninive: rinunciò a questo incarico per andare a vivere
sulle montagne, vicino a insediamenti monastici. Apparteneva a una chiesa,
quella siro-orientale che, guardata a partire dal mondo latino e greco, poteva
considerarsi marginale poiché “nestoriana” e quindi ritenuta eretica. E tuttavia
era una cultura nient’affatto marginale, che ebbe una grande espansione in
oriente, come in Asia Centrale e in Cina. Isacco è erede di una tradizione
monastica composita, dove ci sono sia autori siriaci, come Giovanni il
Solitario, sia della tradizione greca, con la quale intendiamo soprattutto
autori monastici e mistici di lingua greca, con una forte presenza del mondo dei
padri del deserto e di Evagrio Pontico.
Isacco poi non scrive trattati teologici, ma testi che intendono guidare i
discepoli nell’esperienza. Quando parliamo di lui come “solitario” non ci
riferiamo a una persona isolata, in tutto e per tutto solitaria: veniva da un
contesto di relazioni e letture comuni, apparteneva a una corrente, quella della
mistica siro-orientale, che include vari autori: alcuni a lui contemporanei,
come Simone di Ṭaybuteh e Dadišo‘ Qaṭraya, e altri del secolo successivo, come
Giuseppe Ḥazzaya e Giovanni di Dalyatha. Era un universo quindi, che impedisce
di pensare il solitario come una persona completamente slegata da un contesto di
riferimento.
Caravaggio, San Girolamo in meditazione, 1605 ca.
Nei suoi scritti, parla dell’analisi che Isacco dà della condizione umana: in
cosa consiste?
Isacco colpisce per come è in grado di tracciare una fenomenologia delle
dinamiche interiori: all’interno di queste – come l’incontro con le passioni,
con situazioni di tentazione, o di malattia – l’uomo incontra una condizione di
limitatezza, che Isacco chiama “debolezza” (mḥilutā). Isacco la interpreta come
una condizione ontologica: nei suoi scritti si riferisce ad essa come una
caratteristica della “debole schiera degli uomini” (III 7,6), condivisa con
Adamo, di cui, dice, “portiamo l’odore” (I 5). Questa condizione non è legata
solamente al peccato, quindi a una debolezza di tipo morale, ma è una condizione
di fragilità originaria, non trascendibile. Questa condizione di debolezza
ontologica include anche la soggezione alla morte, che è il problema principale
per le creature assieme alla sofferenza. C’è quindi una precedenza, in Isacco,
del problema ontologico su quello morale. Nella lettera ai Romani Paolo dice, in
riferimento ad Adamo, che il peccato entrò con lui nel mondo e con esso, di
conseguenza, la morte (Rom 5:12). Quindi in qualche modo per Paolo, e per la
maggior parte della tradizione cristiana, è dal peccato che deriva la morte. In
Isacco invece è il contrario: è dalla morte che deriva il problema del peccato
(questa concezione proviene da un autore importante per i siro-orientali,
Teodoro di Mopsuestia). E non si tratta per Isacco di un rapporto così diretto:
non è dalla morte che deriva, quasi necessariamente, l’essere peccatori, ma è
per paura di questa mortalità, di questo limite costitutivo, che avviene la
caduta, che porta a una condizione di limitazione anche morale.
Quindi, è come se il peccato sorgesse da un tentativo di fuga. Le stesse
passioni, in questa prospettiva, possono essere lette come meccanismi difensivi
ed elusivi dell’incontro con questa dimensione di limitatezza creaturale. Isacco
invece delinea un percorso in cui è possibile cercare di relazionarsi con questa
condizione mortale, senza cercare di superarla, perché è insuperabile così come
insuperabile è la nostra condizione creaturale. Nella stessa creazione per lui è
inscritto che l’uomo sia mortale. Se mai ci potrà essere un trascendimento di
questa condizione questo avverrà solo per grazia. Non si tratta di qualcosa di
originario a cui tornare, come se dovessimo ritrovare una condizione edenica, ma
di qualcosa che sta davanti a sé, come dono possibile.
Perché, secondo Isacco, l’uomo è stato creato con questa strutturale mancanza?
Isacco non parla tanto del perché, riflette più che altro su una condizione che
c’è. La sua scrittura è sempre innanzitutto esperienziale e parte dalla
necessità dell’altro, dalla domanda che pone il discepolo. Sul perché di questa
condizione, però, si possono chiamare in causa due elementi. In 2Cor 12 7-10
Paolo dice che “gli è stata data una spina nella carne”, e chiede che questa gli
sia tolta, ma “il Signore” gli risponde: no, “ti basta la mia grazia, la mia
forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Isacco riprende questo
passo paolino per esprimere l’idea che in qualche forma, e grazie a una certa
relazione con la debolezza, si può scoprire l’alterità della grazia.
Oltre a questo, però, c’è l’idea che tramite questa relazione con la debolezza,
non solo si scopre Dio, ma la propria condizione di uomini. Questo secondo
elemento è centrale: l’assunzione di sé come uomo. Il percorso non è: ho la
debolezza e quindi mi merito la grazia, che mi libera da questo problema; ma: ho
la debolezza e me ne faccio carico. Mi relaziono dunque con me stesso, con il
mondo delle passioni, con il mondo del dolore fisico. Ed è solo grazie a questo
scoprirsi uomini, e prendere in carico la propria condizione, che si può anche
entrare in relazione con l’alterità di Dio. Isacco ha un forte senso di questa
alterità, del mistero verticale di Dio. Io credo provenga proprio dalla
percezione di sé come creatura. Anche per questo Isacco può stupirsi della
venuta del Cristo, che discende fin qui. Se non si avesse il senso di questa
trascendenza di Dio non si potrebbe neppure percepire la meraviglia
dell’avvenimento della venuta del Cristo.
Hieronymus Bosch, San Girolamo in preghiera, 1482 ca.
È a questo relazionarsi che Isacco si riferisce quando dice che si deve
“portare” la propria debolezza?
“Portare” (sbal, ṭ‘en, saibar) è un termine che in Isacco indica il “permanere
dentro” a una situazione che può mettere alla prova, il “dimorarvi”. Può essere
una situazione di dubbio, di tensione, di negatività. E questo avviene
mettendosi “sotto” questo elemento negativo, portandolo appunto, nel senso del
sostenerne il peso. In questo sostenere “dimorando a contatto” si sviluppa una
relazione con l’elemento negativo, lo si abita, ed è in questo “abitare” che poi
è possibile una trasformazione. Anche se è vero che per Isacco questa
trasformazione avviene sempre per grazia. Quello che noi come uomini possiamo
fare è appunto abitare, permanere, anche nella contraddizione, nel dubbio. A
fronte di molte narrazioni che bonificano la realtà, credo che Isacco ci aiuti a
mettere al centro la questione del negativo. Come qualcosa che però stimola una
posizione attiva, e non succube, dell’umano. È da questa postazione e da questa
azione, che poi può scaturire una trasformazione.
Isacco dice che il fatto “che una persona possa rimanere nella calunnia senza
tristezza [è] perché il [suo] cuore inizia a vedere la verità” (I 5). In questo
“rimanere in”, “abitare” e “permanere sotto” qualcosa avviene, ed è qualcosa che
non ha a che fare con la nostra volontà: esso accade, si manifesta, “sorge”
(dnaḥ), come Isacco spesso scrive, e noi allora lo riconosciamo come verità, e
lo accogliamo. Per riferirsi a questo Isacco usa, in un passaggio, il termine
“germinare” (II 34,2), che non parla di un atto di volontà, o di possesso, ma di
un misterioso accadere. Quello che noi possiamo fare è portare, sostenere il
negativo, rimanendo aperti. Tanto è vero che Isacco nelle sue Centurie di
conoscenza (II 29) parla di un dolore che viene da Dio ed è per Dio, e un dolore
che invece non viene da lui, come quando ci si sente solo colpevoli del proprio
peccato, e chiusi al suo interno. Questo non è per lui un portare, ma un
soccombere. Il portare, già in sé, mantiene l’apertura alla possibilità di ciò
che con esso può venire.
Quindi attraverso questo “portare” il proprio limite si entra in relazione con
ciò che è altro da sé?
Non solo, anche con quella parte altra di sé, limitata e sofferente, con cui
normalmente non si vorrebbe avere nessuna relazione. Solo dopo che si è fatto
questo si entra in relazione con l’Altro di Dio, che si manifesta come grazia; e
anche con l’altro nel senso dell’altra creatura, anch’essa limitata e
sofferente. In Isacco è nota questa dimensione di amore radicale. In un
passaggio molto conosciuto, alla domanda “che cos’è un cuore misericordioso”,
risponde:
> “È l’ardere del cuore per l’intera creazione: per gli uomini, gli uccelli, gli
> animali selvatici, i demoni e per tutto ciò che esiste. […] Il cuore […] non
> può sopportare di sentire o vedere un danno o una piccola sofferenza di una
> qualche creatura. Per questo, [l’uomo] prega in ogni tempo con lacrime anche
> per gli animali irrazionali, per i nemici della verità, e pure per coloro che
> gli fanno del male, affinché siano protetti e rafforzati – [prega] addirittura
> per i rettili, a causa della grande compassione che si riversa nel suo cuore
> senza misura, a somiglianza di Dio” (I 74).
E come si può, nel concreto, relazionarsi con il limite senza fuggirlo?
In Isacco c’è un’intensa descrizione dell’incontro col negativo. Si può fare un
esempio, che si riferisce alla sua forma più estrema, che Isacco chiama
“tenebra” o “oscurità” (ḥeškā; ḥešōkā;‘amṭānā). Indica uno stato in cui ci si
sente completamente persi, e si perde anche la possibilità della fiducia in Dio.
È “un’ora”, scrive, “piena di disperazione e paura”, in cui “la speranza in Dio”
e “la consolazione della fede”, completamente nascoste all’uomo, vengono meno, e
si è avvolti dal dubbio (pligutā)” (I 48), una parola siriaca che significa
anche “divisione”. Davanti a questo venir meno della fede Isacco ha indicazioni
varie. La prima è gettarsi in ginocchio e pregare, per cercare relazione,
nell’umiltà dell’inginocchiarsi. Ma poi, se la preghiera non basta e viene meno,
scrive: “Se non hai la forza di controllare te stesso e di cadere sul tuo volto
in preghiera, avvolgi il tuo capo nel mantello e dormi, fino a quando l’ora
dell’oscurità non sia passata da te, ma non uscire dalla tua cella” (I 48).
Questo semplice gettarsi a terra ed attendere, questa “azione muta”, in cui non
è tematizzato ciò che si cerca e neppure più si è in grado di cercare, ma si
sceglie tuttavia di “stare”, può veicolare, misteriosamente, un’attesa, e la
speranza che qualcosa in esso possa manifestarsi. Ma in primo luogo è un
“permanere dentro”, un “abitare”, appunto uno “stare”. Si tratta di parole che
trovo interessanti per un contesto contemporaneo, che non necessariamente
include la fede, o la preghiera. L’analisi che dà Isacco è interessante per due
aspetti. Da un lato egli tenta di tenere aperto, nel lettore, un canale, dicendo
che lui stesso più volte ha sperimentato questi stati, e che quel momento
passerà. Ed è importante che il lettore ricordi questa cosa: che passerà.
D’altro canto però dice che, passargli in mezzo, è una “Gehenna noetica” (I 65).
Dunque non bonifica, riconosce il negativo come negativo: dire che passerà non
toglie nulla all’intensità e alla problematicità del passaggio, poiché per colui
che lo attraversa quella è l’unica realtà. In questo modo Isacco onora il
vissuto del sofferente.
Però la tradizione cristiana è stata spesso accusata di aver esaltato questa
dimensione della croce e del patimento. Che differenza c’è invece tra il portare
di cui parla Isacco e un servile sottomettersi al potere?
È vero che un certo tipo di discorso sul dolore può portare a una dimensione che
schiaccia e avvilisce. La differenza però la fa il soggetto che si confronta con
esso, e qui torniamo al tema della relazione, presente in Isacco, e che lo rende
così moderno. C’è una relazione che l’uomo può sviluppare con il proprio dolore.
Il portare in Isacco non è un essere schiacciato dal dolore e neppure solo un
“sopportare”, ma un cercare costantemente di sostenere la relazione con la
prova, e così questo portare forgia la forza del soggetto e veicola in lui
un’apertura e una trasformazione. C’è sicuramente una linea della tradizione
cristiana giustamente criticabile, ma c’è anche una linea che io credo essere
valida e vitale e che ha cercato una relazione con la sofferenza. Quella
posizione attiva e di ricerca di vita chiama l’elemento trasformativo. Molte
persone, non solo i mistici, hanno raccontato di questo: penso a quanto alcuni
hanno scritto di fronte ai drammi del Novecento. Non credo quindi che il
cristianesimo sia il problema, penso che il problema sia la rimozione del
soffrire. La croce, come il Getsemani, sono momenti fondamentali nella nostra
vita di tutti i giorni, centrali nella tradizione cristiana: non possono essere
rimossi. La resurrezione stessa, e la grazia, non sono comprensibili senza
quell’altro aspetto. La sofferenza ci interroga, e facendo ciò è qualcosa che ci
evoca come soggetti, perché se siamo messi alla prova ci chiediamo chi siamo,
cosa desideriamo, dove vogliamo andare.
Isacco, in proposito, riprendendo un passaggio di Macario sui mutamenti, dice
che è come il tempo atmosferico: c’è la pioggia e poi il sole, la grandine e poi
il sereno, così è la vita di noi umani (I 72). È impensabile che ci sia solo il
sole. Isacco è coerente con questo quando dice: “non pensare che io ti possa
nutrire solo di miele” (II 28). Il che non vuol dire che non si deve godere
della bellezza e del sereno, non è un’esaltazione del dolore. Isacco in
proposito ha delle pagine bellissime sull’amore di Dio, sull’amore radicale per
la creazione e per gli altri uomini. C’è in lui, come in molti altri mistici,
tutto un lato di positività e di luce. Ma insieme c’è il tenere conto che la
vita umana è complessa e contraddittoria: accanto alla luce ha il dubbio, ha
l’assenza di fede, ha la sofferenza, e noi non possiamo pensare che la vita
umana non abbia anche questo. O comunque se si tenta di pensare così si perde
tanto.
È in questo che consiste l’ascesi?
Sì, anche. Per Isacco in essa il percepire questa sofferenza e questa mancanza è
un elemento centrale. E questo percepire il dolore si deve sostenere, perché si
può essere feriti, ma poi ritrovarsi distrutti. Invece, si deve sostenere la
ferita. Quindi sì, percezione del dolore, ma anche forza. Il discorso di Isacco
sul portare la debolezza non elude mai il fatto che il soggetto debba esercitare
una forza per portare questa condizione ontologica, uno sforzo di tenuta. In
questo senso l’ascesi è una via, per Isacco, di formazione di sé. Si tratta
anche di tecniche, di modalità, che hanno lo scopo di insegnare a sostenere la
difficoltà, o di relazionarti con i pensieri. L’elemento della pratica, della
disciplina, dell’esercizio è importante, anche se non va sopravvalutato, perché
poi l’incontro con l’inatteso non può essere disciplinato.
Isacco traccia questa distinzione anche nella preghiera. Da un lato parla di
tecniche della preghiera, sia corporee, come le prostrazioni in ginocchio,
simili alle metanie ancora oggi praticate nella tradizione ortodossa, sia
mentali. C’è poi, però, un momento in cui tutto questo, queste tecniche, anche
quelle mentali, cessano, e si entra nella “non-preghiera”: è quando la grazia si
dà, e la tua tecnica finisce. Viene anzi interrotta, e Isacco dice più volte che
se in quel momento tu cerchi di applicarla fai un errore. La tecnica può quindi
sì, diventare una gabbia. Nel momento in cui accade il mistero, e vieni toccato
dal mistero, devi lasciarti andare ad esso.
Cosmè Tura, San Girolamo penitente, 1470 ca.
E in cosa consiste questa dimensione di “non-preghiera”?
Sul tema della “non-preghiera” hanno scritto molti studiosi di Isacco. Si tratta
di quell’oltre in cui l’agire umano si fa da parte, e subentra quello di Dio. In
quel momento si è, per citare il titolo di un articolo di Paolo Bettiolo,
“prigionieri dello Spirito”, cioè si è in un luogo dove l’azione umana, anche la
più nobile, il portare stesso di cui si diceva, cessa, e Dio si dà. Sono luoghi
misteriosi, che proviamo a nominare, ma di cui possiamo capire poco
cognitivamente, però sappiamo che è un oltre l’azione, un oltre il cognitivo, un
oltre il discorsivo, e sappiamo che lì si dà un bene. È interessante che il
pensiero e il comprendere abbiano un limite, oltre il quale si dà qualcosa che è
al di là del soggetto, e che però il soggetto ha preparato, ha cercato in modo
molto attivo. È un po’ la comunione contraddittoria di grazia e libero arbitrio.
L’interazione tra queste due dimensioni esiste ed è indagata da Isacco, nella
consapevolezza però che non c’è tra la grazia e l’esercizio di sé un rapporto
causa effetto: c’è sempre un aspetto di mistero e di non sapere nel venire
di Dio, non programmabile attraverso l’uso di tecniche. L’uomo rimane sempre su
un crinale, dove non sa, e con questo non sapere deve fare i conti. Questo è
anche parte della vita quotidiana: il capire che la vita ha dei ritmi, ha dei
misteri, ha degli arenarsi, delle cose che non si possono controllare.
Ma quando, e perché, questo rapporto col limite e con la morte è venuto meno?
Come studiosa delle fonti spirituali posso dire quello che vedo in questi testi.
C’è stata la perdita di un duplice rapporto: con sé come creatura, e poi con una
dimensione trascendente, altra da sé. Di sicuro nella modernità abbiamo perso il
rapporto col materico, col fisico, che di certo questi autori avevano.
Però, più che capire il come e il perché questa nozione di limite sia andata
perduta, mi pare interessante notare il fatto che, eludendola, essa torni
indietro di rimando nell’esperienza. Dovremmo interrogarla, e interrogare il
limite e noi stessi, ciascuno nel suo intimo. Io non mi sento attratta dai
discorsi ampi sulla società, mi viene invece da chiedere: nel momento in cui
incontro il limite, come individuo, nella mia vita, che ne faccio? Sarò pronto
ad ascoltarlo? A sostenerlo e farne qualcosa, e usare questa prova come
apertura? A usarla come via per vedere me stesso e l’altro? Credo che i percorsi
individuali che cominciano a ragionare così potranno trovare vie nuove di
attraversamento per le difficoltà di oggi. Oltre la pressione del collettivo e
le sue dinamiche di oblio.
Secondo me non è tramite il tentativo di ristabilire la centralità del
trascendente che si ritroverà il rapporto con esso e con il limite, sebbene
comprenda questo tentativo, ma è tramite l’attraversamento dell’esperienza del
limite che ci scontreremo con la necessità di interrogazione sul trascendente.
Lì ognuno di noi sarà solo di fronte al mistero, al cercare una via di fronte al
mistero. Credo, e grazie a Isacco, che solo portando il negativo si entra in
relazione con il proprio limite, con la propria condizione creaturale, e di
conseguenza anche con ciò che è altro da sé. Isacco usa spesso un
termine, argeš, che significa “percepire”. E lo usa in riferimento alla
debolezza, dicendo:
> “beato l’uomo che ha conosciuto la sua debolezza! Questa conoscenza sarà per
> lui fondamento e inizio di ogni cosa buona e bella. Quando un uomo ha
> conosciuto e percepito (argeš) che esattamente e in verità è debole, allora
> trattiene la sua anima dal divagare” (I 8).
C’è quindi un percepire e un conoscere, ed è solo percependo la propria
debolezza, stando dunque in contatto con sé, che è possibile una conoscenza, e
con essa una trasformazione. Credo che questo sia molto moderno, e trascende il
fatto che qualcuno sia un solitario, un monaco o altro; ciascuno nella sua
individualità è chiamato, credo, a fare questo, se gli interessa tentare di
vivere con verità, cercando la verità.
Bianca Cesari
*
Fonti
Prima Collezione
P. BETTIOLO, M. GALLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi ascetici 1, Roma:
Città Nuova, 1984.
S. CHIALÀ (trad.), Discorsi ascetici. Prima collezione, Magnano: Qiqajon, 2021.
Seconda Collezione
S. BROCK (ed.), Isaac of Nineveh (Isaac the Syrian).“The Second Part”, Chapters
IV-XLI (CSCO, 554-555; Scr. Syri, 224-225), Louvain: Peeters, 1995.
P. BETTIOLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi spirituali: Capitoli sulla
conoscenza, Preghiere, Contemplazione sull’argomento della gehenna, altri
opuscoli, Magnano: Qiqajon, 1985 (ristampa 1990).
Terza Collezione
S. CHIALÀ (ed.), Isacco di Ninive. Terza Collezione (CSCO, 637-638; Scr. Syri,
246-247), Leuven: Peeters, 2011.
Studio principale:
V. DUCA, “Exploring Finitude”: Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (OLA,
309; Bibliothèque de Byzantion, 28), Leuven: Peeters, 2022.
*In copertina: Maestro dell’Emmaus di Pau, San Girolamo, XVII sec.
L'articolo “È l’ardere del cuore per l’intera creazione”. Dialoghi intorno a
Isacco di Ninive proviene da Pangea.
Source - Pangea
Rivista avventuriera di cultura&idee
Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di
quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di
Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille,
forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori
e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a
esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le
frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere
se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di
cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la
sua verità liberata dall’artificio della parola.
Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato
(come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia.
Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei
letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali
per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata:
l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la
mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare
conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a
salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo
che meriti di essere salvato.
È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi
tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo
una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come
tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne
un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa –
Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna
sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura,
affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi,
Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio,
Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt,
Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San
Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il
rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di
Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra
storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece
più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco
funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.
A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale
(siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona,
monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico,
giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono
Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una
professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della
manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da
Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto
di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della
raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si
legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo
apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che
quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto
giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare
il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del
tutto ostile.
I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche
Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma
che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione
metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo
come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro.
«Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel
racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e
tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero
entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un
quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i
personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente
con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel
quadro».
Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo,
l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o
almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa
ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente,
inadeguato:
> «Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti
> architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per
> scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma
> di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che
> arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si
> offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi
> riconsegnarla sotto altra forma».
Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e
arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque,
all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice
a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo
scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.
> «Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco
> –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E
> adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi».
Fabrizio Coscia
*In copertina: Camille Claudel (1864-1943)
L'articolo Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un
libro di Giovanna Di Marco proviene da Pangea.
Ne nacque un affare diplomatico. Nel 1968, per L’Herne di Dominque de Roux,
l’editore dei reprobi, Witold Gombrowicz aveva pubblicato un saggio Sur
Dante (uscito, in Italia, da Sugar nel 1969 e da Dante & Descartes nel 2017). In
direzione contraria ai pur formidabili libri del genere – chessò, i saggi
danteschi di Thomas S. Eliot e Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam –,
Gombrowicz scrive che Dante non gli pare granché; la Commedia, poi, è una boiata
pazzesca. Davanti a Piero Sanavio, indimenticato giornalista hemingwayano,
Gombrowicz rincarò la dose:
> “Se Dante mi annoia e se mi considero superiore a lui, lo affermo senza paura:
> è un mio diritto”.
(A proposito: vale la pena ristampare lo studio di Sanavio edito cinquant’anni
fa da Marsilio, Gombrowicz: la forma e il rito, è più brillante di troppi,
mortificanti saggi odierni, è fitto di frasi bellissime, come questa:
“Gombrowicz vivo l’ho sempre incontrato in giornate di pioggia”; il polacco,
d’altronde, scriveva con furia d’acquazzone).
Giuseppe Ungaretti s’incazzò e scrisse a De Roux una lettera piena di spine (“Il
libretto su Dante di quel polacco è vergognoso. È un fatto senza senso, idiota,
che questa calunnia sia stata stampata”); nel Diario, Gombrowicz annota:
“l’addetto dell’ambasciata italiana a Parigi ha annunciato una sua visita”.
Siamo nel 1969; Witold morirà poco dopo; per L’Herne era da poco apparso
un Cahier dedicato a Ungaretti, a cura di Sanavio.
La disfida – diciamo così – tra Gombrowicz e Dante durava da qualche anno. Già
nel 1966 Gombrowicz squartava il Poeta con caustica acribia:
> “La Divina Commedia non mi basta. Vi cerco Dante senza trovarlo… A scuola e a
> casa ci hanno insegnato solo a rispettarli e venerarli, mentre in realtà il
> nostro rapporto verso i Grandi è di due tipi: da un lato ci prosterniamo e li
> adoriamo, dall’altro li trattiamo con condiscendenza e disinvoltura”.
Comprendiamo l’euforica ira di Gombrowicz: l’anno prima, a Firenze, si era
celebrato il trionfo di Dante; scoccavano i settecento anni dalla sua nascita.
Saint-John Perse, il poeta e diplomatico francese, diplomato Nobel nel ’60,
tenne un discorso inaugurale, Pour Dante, prontamente stampato da Gallimard;
c’era anche Ungaretti, a rimarcare l’abissale grandezza dell’Alighieri. A
Gombrowicz irritava l’atteggiamento ossequioso – e ipocrita – dei poeti verso il
Poeta. Della Commedia, non salvava neanche l’Inferno:
> “I tormenti dei suoi dannati sono talmente rozzi, poveri, logorroici! E tutti
> quei predicozzi enunciati tra un tormento e l’altro…”.
Questo andazzo da Lucignolo – o, per restare in tema dantesco, da Cecco
Angiolieri – celebra, sotto la superficie, un’idea guerresca della letteratura,
mai assisa sugli allori – sui quali, invece, in perpetua acquiescenza, ronfano i
critici sornioni e i poeti in carriera. La stessa idea, in fondo, è professata
da Leopardi nelle Operette morali, dove si dice (siamo all’altezza del Parini o
della Gloria) che le opinioni dei critici e degli storici sono corrotte da
“consuetudine ciecamente abbracciata”. I lettori non mettono mai in discussione
ciò che le accademie e il pregiudizio impongono; eppure, i grandi scrittori,
proprio perché tali, devono essere interrogati e sfidati di continuo, fino a
sfrattarli dal trono. Così – è ancora Leopardi – “a me interviene non di rado di
ripigliare nelle mani Omero o Cicerone e il Petrarca e non sentirmi muovere da
quella lettura in alcun modo”.
Per continuare sulla scia del Gombrowicz “leopardiano”, bisogna
leggere il Diario (ora in unico tomo per il Saggiatore, nella traduzione di
allora, di Vera Verdiani, quando lo stampava Feltrinelli, in due tomi, usciti
nel 2004 e nel 2008; medesima anche l’introduzione di Francesco M. Cataluccio, a
parte lievi modifiche nel primo paragrafo) dal fondo, dalla formidabile
allocuzione Contro i poeti. Gombrowicz ridicoleggia lo statuto dei poeti che
“ormai non cantano più per la gente, ma per se stessi”, stigmatizza “il poeta
come un essere che non può esprimere se stesso perché è costretto a esprimere la
Poesia”. In sostanza, il Witold scatenato sbugiarda l’idolo della Letteratura,
la menzogna della Cultura. Scrivere, dice Gombrowicz, vuol dire azzerare tutto,
soprattutto se stessi, fare della penna il proprio plotone di esecuzione,
rifuggire dai riti dei letterati e dai premi, rifulgere nella rinuncia.
Contro i poeti era stato preparato per un discorso pubblico accaduto a Buenos
Aires nel 1947; trasferitosi nella capitale argentina dal 1939, Gombrowicz ha
scritto lì, da reietto, da “eremita sepolto vivo in Argentina”, le pagine più
violente del Diario. Malsopportava Victoria Ocampo, “un’anziana aristocratica
piena di milioni”, e i galoppini d’intelletto fino che ronzavano intorno a “Sur”
– Paul Valéry, Bernard Shaw, Keyserling – galvanizzati da “quell’insistente
sentore di soldi aleggiante attorno alla signora”. Impossibile per uno scrittore
“affascinato dagli strati inferiori del paese” entrare in contatto con Borges,
> “un artista che il caso aveva fatto nascere in Argentina, ma che avrebbe
> potuto altrettanto bene, e forse meglio, essere nato a Montparnasse”.
Il Diario di Gombrowicz è tutt’altro dai pur mirabili Journal che i francesi
hanno prodotto a frotte – quelli, ad esempio, di André Gide, di Marcel
Jouhandeau, di Julien Green. Lì la suprema raffinatezza rispecchia l’impero
dell’egotismo, l’energia di una schifiltosa interiorità; qui, invece, è
l’audacia dell’individuo che dilania se stesso, sono le dighe disintegrate, i
tombini bombardati, il dio del caos in casa. Gombrowicz disprezzava la
letteratura dello show, la letteratura “sfrattata dallo spirito individuale”,
che
> “diventa preda di fattori extra-spirituali e puramente sociali. Premi,
> concorsi. Celebrazioni. Associazioni professionali. Editori. Stampa. Politica.
> Cultura. Ambasciate. Convegni”.
Il Diario è un antidoto a quest’epoca esangue, retta dall’autocensura e dal
perbenismo della correttezza. In spiaggia, per dire, a Piriápolis, Uruguay, è il
1962, Gombrowicz inveisce contro le grasse, contro lo “svaccato stravaccamento
di quello schifo sfacciatamente sfrontato”, quel “donnesco baobab di donna dal
debordante didietro… e chi lo trova un macellaio capace di venirne a capo?”.
Terrorizzato dai grandi numeri – che annientano l’io allo sbadiglio, a uno
sbaglio, allo zero – Gombrowicz disorienta il mito della fedeltà coniugale: come
faccio ad amare un’unica donna se “non so chi sono io” e lei è
> “una delle tante femmine che abitano il globo terrestre, una delle tante
> vacche… un miliardo di vacche, un miliardo di femmine?”.
Ha scritto che “l’arte è aristocratica fino al midollo, come un principe di
sangue reale. È negazione dell’uguaglianza e culto della superiorità”. Resta il
fondatore di un’eresia letteraria senza seguaci – per chiunque scriva, Witold
Gombrowicz è un San Paolo: ci ha messo la croce addosso, aprendoci la via del
tormento e della gloria.
L'articolo “L’arte è aristocratica fino al midollo”. Witold Gombrowicz contro
tutti proviene da Pangea.
In coda al suo primo romanzo Alessandro Piperno ringraziava il proprio maestro,
Enrico Guaraldo, per avergli insegnato “a leggere e a scrivere”. Allora ero
molto giovane e ricordo che in un primo momento pensai che Guaraldo fosse il suo
maestro delle elementari; devo dire che oggi quel mio errore mi diverte.
Soltanto in seguito capii che leggere e scrivere sono due attività in continua
evoluzione e che non si finisce mai di impratichirvisi, nemmeno da adulti.
Piperno infatti ringraziava il suo professore universitario, e chissà se oggi –
a vent’anni dall’esordio – ritiene di avere del tutto imparato a leggere e a
scrivere. Di certo sa tenere interessanti discorsi al riguardo.
Con le peggiori intenzioni, il suo primo romanzo, usciva nel 2005. Allora avevo
sedici anni ed era il libro di cui parlavano tutti; volli leggerlo anch’io e mi
divertii, mi piacque. Ancora adesso, riprendendolo in mano, alcuni episodi mi
paiono molto riusciti e talvolta riesce perfino a farmi ridere. Tuttavia non è
all’opera romanzesca di Piperno – ai suoi alti e ai suoi bassi – che penso ora
bensì ad alcune tracce per così dire “divulgative” che nel corso degli anni
hanno accompagnato la sua scrittura e dunque la vita dei suoi lettori più
attenti. Le coglievo su YouTube, sporadicamente: ogni tanto spuntava il filmato
di una sua conferenza o di una sua lezione universitaria o anche soltanto di una
sua intervista, e Piperno se la cavava sempre in modo egregio, da ottimo oratore
qual è. Parlava di molti autori che amo – fra gli altri Proust, Flaubert,
Nabokov, Bellow, Philip Roth, Capote, Baudelaire, Dickens, Kafka – e non era mai
banale o noioso. Il fatto è che Piperno è uno di quegli scrittori che sono
innanzitutto dei lettori forti e che perciò hanno stipulato una sorta di patto
implicito con il proprio pubblico, ubbidendo sempre o quasi ai dettami della
passione e della sincerità. Certe volte ha un occhio un po’ troppo benevolo per
gli autori cresciuti (come lui) du côté de chez Siciliano, tuttavia i suoi
consigli letterari non mi hanno quasi mai deluso: come suggeritore di libri
Piperno inciampa di rado, specie se non parla dei suoi contemporanei italiani.
Il titolo del suo ultimo lavoro è Ogni maledetta mattina, il sottotitolo cinque
lezioni sul vizio di scrivere. Se ho voluto accennare alle sue conferenze e
lezioni che girano online è perché in questo libro esse vengono spesso riprese e
arricchite. Piperno comincia raccontando della sua passione per la scrittura e
poi elenca cinque ragioni (che saranno i cinque capitoli del libro) per mettersi
a scrivere: ambizione, odio, senso di responsabilità, piacere, conoscenza. È un
saggio a tratti divagante ma sempre ben strutturato. A un certo punto Piperno
riprende una frase di John Cheever:
> “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre
> all’eccellenza.”
Qualche anno fa l’aveva posta in epigrafe a Il manifesto del libero lettore, un
suo libro che potrebbe essere appaiato a Ogni maledetta mattina; ora ce la
ripropone come “una delle definizioni dell’arte di scrivere più persuasive” in
cui ci si possa imbattere. Difficile dargli torto, specie in tempi in cui alla
letteratura si collegano ogni sorta di doveri politici e sociali o addirittura
didattici.
Piperno, ripeto, è un ottimo lettore e le pagine illuminanti o comunque
dilettevoli del saggio sono parecchie. Mi sono rimasti impressi, per esempio, i
brani sulla stupidità contemporanea (partendo da Bouvard e Pécuchet), o un
originale e credo inedito accostamento fra Céline e Salinger, o la seguente
frase: “È bene ribadirlo: non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a
costo di tanti sacrifici”, o questa: “Attribuire un significato simbolico ai
racconti di Kafka non è solo un esercizio infruttuoso, ma anche un oltraggio
alla sua divina arte narrativa” (una chiosa che Kundera avrebbe apprezzato),
oppure: “Ah, se ne ho conosciuti di scrittori talentuosi che, stritolati dalla
fame di riconoscimenti, hanno finito per perdersi!”, o ancora un difficile ma
riuscito trait d’union fra Proust e Kafka che suggella il finale del saggio e
dunque il bel ricordo che ne conserviamo.
Insomma, Ogni maledetta domenica è un libro onesto e riuscito, che potrebbe
avere come antenati o fratelli maggiori la prefazione di Musica per
camaleonti di Truman Capote o L’arte del romanzo di Milan Kundera. Scrivere,
come leggere, è divertente, può esserlo: Piperno in fondo non vuole dirci altro
che questo, senza ergersi a gran maestro della sua arte. D’altro canto il suo
amato Proust fa dire a Elstir, in All’ombra delle fanciulle in fiore:
> “La saggezza non la si riceve, bisogna scoprirla da soli al termine di un
> itinerario che nessuno può compiere per noi, nessuno può risparmiarci, perché
> è un modo di vedere le cose. Le vite che ammirate, gli atteggiamenti che vi
> sembrano nobili non sono stati stabiliti dal padre o dal precettore, sono
> stati preceduti da esordi ben diversi, influenzati dal male o dalla banalità
> che regnavano tutt’intorno. Rappresentano una lotta e una vittoria.”
Chissà se Piperno, allievo di Guaraldo, concorderebbe. Di certo in Ogni
maledetta domenica non ci sono pompose lezioni “tecniche” sull’arte del narrare,
come ormai è d’uso negli sciagurati manuali di scrittura creativa che infestano
le librerie. No, Piperno non fa questo, non lucra sugli aspiranti scrittori come
sogliono fare in tanti, e di ciò gli siamo grati. Aspettiamo quindi con
interesse il suo prossimo romanzo, perché – dopotutto – è lì che si e ci diverte
davvero.
Edoardo Pisani
*In copertina: un’opera di Honoré Daumier
L'articolo “Non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti
sacrifici”. A lezione da Piperno proviene da Pangea.
Come accostarsi a un paese, a una cultura, a una visione del mondo e della vita
radicalmente diversi dai nostri? Cosa si smuove, dentro di noi, quando il
confronto con l’alterità si fa profondo, inevitabile, trasformativo?
«Que devient-il un paysage lorsqu’il n’est plus contemplé?» – si chiedeva
Béatrice Commengé, rievocando l’infanzia mitica di Lawrence Durrell nelle valli
luminose dell’Himalaya.
Un paesaggio, una cultura, esistono anche senza il nostro sguardo? E cosa
diventano, quando vi posiamo sopra i nostri occhi inquieti?
Si può scegliere la via di Pierre Loti: proiettare sull’altrove il volto
inaccessibile e seducente di una donna, dare carne e sangue all’esotico,
trasfigurandolo in desiderio.
Oppure seguire le orme di un poeta come Odysseas Elytis: prendere la Grecia
millenaria e custodirla come in un sogno, sottrarla agli urti della storia,
popolarla di luce implacabile e di dèi che nuotano tra le onde dell’Egeo e i
dolori intimi dell’uomo. Si può anche fare come Roland Barthes: accogliere il
Giappone nella propria fantasia privata, lasciarsi attraversare da una
costellazione di segni e immagini fino alla lacerazione del senso.
E poi c’è chi si innamora perdutamente dell’Asia e, come in una favola zen, si
immagina abitante della luna in viaggio di studio sulla Terra. È il caso di
Fosco Maraini, che con Segreto Tibet ci consegna uno dei libri più belli e
inclassificabili del Novecento italiano: non solo una superba testimonianza di
viaggio, ma una meditazione profonda sulla bellezza, sul tempo, sulla
meraviglia.
*
Nel Tibet degli anni Trenta – chiuso al mondo, accessibile solo a pochi –
Maraini accompagna l’orientalista Giuseppe Tucci in due spedizioni memorabili,
nel 1937 e nel 1948. Ne nasce un’opera che è insieme diario, trattato
antropologico, poema in prosa e archivio della memoria. È allo stesso tempo
documento storico e fiaba senza tempo: ha la nitidezza di una cronaca e la
sospensione dell’archetipo. Racconta un mondo reale eppure mitico, in cui ogni
gesto, ogni volto, ogni oggetto sembra affiorare da un tempo remoto e arcano.
Segreto Tibet ci trasmette il senso della vertigine del nuovo – quella a cui non
siamo più abituati. Noi, generazioni satellitari, cresciute con Google Maps e
Street View, abbiamo addomesticato il mondo, anestetizzato l’ignoto. Maraini,
invece, ci restituisce lo stupore intatto del primo sguardo, la sensazione di
camminare davvero fuori mappa, come esploratori del proprio stesso sguardo. In
questo, egli è l’epigono di Marco Polo: colui che non solo narra ciò che ha
visto, ma lo ricrea. Un Ibn Battuta della parola, un Matteo Ricci
dell’immaginazione.
Seguiamo l’inizio della spedizione, quando Maraini descrive la partenza dal
porto di Napoli. È ancora l’epoca dei lunghi e avventurosi viaggi in piroscafo,
contenitori mobili di un’umanità cosmopolita e palpitante. Qualcuno dovrà pur
scrivere, prima o poi, l’epopea di questi pachidermi acquatici. Nella nave
avviene il primo incontro ufficiale del lettore con Tucci, al quale Maraini è
legato da una profonda riconoscenza.
Si levano le ancore, si salpa, i cari e i curiosi gesticolano dalle banchine:
l’anima vive già le promesse scintillanti del futuro. Maraini fa tappa in
Egitto, visita le Piramidi, poi Gibuti, lo Yemen, infine l’approdo in India. Qui
avviene il primo grande confronto con la monumentale civiltà asiatica. Con una
certa dose di temperata ironia, Maraini già esercita la sua fulminante capacità
di osservazione: quell’inseguire la divinità del dettaglio, senza però esaurirne
il mistero. Infine, la lenta ascesa verso il Tibet, attraverso l’Himalaya
Orientale: un lento e itinerante apprendistato all’incanto, una compiuta
pedagogia del vedere. Il nuovo scenario si svela in immagini da creazione del
mondo: coltri di nebbia, torrenti impetuosi, ghiacciai celesti, colossi di
pietra. Tutto – le forme, i suoni, i colori – parla un linguaggio aurorale, da
giorno-uno della Terra. E gli uomini che lo abitano – come i Lepcha, timidi e
silenziosi, piccoli Hobbit asiatici in simbiosi con la natura – sembrano venuti
da un altro ciclo cosmico. Anche il dettato di Maraini, allora, deve dar conto
di questa aria di prodigio. La sua lingua diventa a tratti espressionistica,
capace di evocare il brulicante e inesausto alternarsi e proliferare di vita e
di morte delle foreste. Poi, come osservando gli altopiani a volo d’uccello, la
prosa si apre ai monologhi del sole e del vento, “alle grandi cose di fronte a
cui è inutile mentire”. Talvolta, con brevi pennellate da artista cinese,
nascono quasi degli Haiku in prosa:
> “Gli ultimi alberi, le prime nevi in distanza. Stamattina ci siamo incamminati
> all’alba: dalle piante della foresta pendevano strani licheni che la rugiada
> imperlava di luce”.
Maraini è un narratore puro che dissemina qua e là schegge di poesia. La sua
scrittura svezza il lettore dall’ovvio, fruga nella materia viva, apre sentieri
nel bosco delle parole con la sicurezza di chi ha imparato a camminare nella
giungla, a colpi di machete. La sua lingua sa essere precisa e limpida, ma anche
lirica e visionaria: un equilibrio raro tra precisione e incanto.
Segreto Tibet è anche un libro di ritratti. Come quello di Giuseppe Tucci:
geniale, ombroso, carismatico, capace di passare con naturalezza dalla lettura
delle scritture tibetane al ricordo commosso delle colline marchigiane e dei
versi leopardiani. Attorno a lui, figure che sembrano uscite da un affresco:
maharaja postumi, europei convertiti al buddismo che si aggirano fra i templi
come pellegrini smarriti e devoti, nobili americani in cerca del proprio Gran
Tour interiore. E infine lei: Pemà Chöki, la principessa del Sikkim. Figura
femminile intensa, dolce e carismatica, colta e velata da un mistero
lieve. Simbolo di un paese che si rivela nei suoi contrasti, è quasi
l’incarnazione dell’anima tibetana: silenziosa, tenace, enigmatica. Io credo
che, a dispetto di una produzione che è per la maggior parte prosa, Maraini
abbia testa e cuore di poeta. E sono convinto che raggiunga l’apice del suo
lirismo proprio nell’evocazione di Pemà.
La incontriamo per la prima volta in un pranzo formale, a Gangtok, in un
contesto dove “tutto è favola, convegno di gnomi e di fate”. Pemà ha da poco
superato i venti anni, il suo nome significa Loto della Fede Gioiosa e vi è in
lei una bellezza altera, un po’ nervosa, brillante. I suoi occhi sono intensi e
penetranti, l’ovale del volto sottile, la bocca piccola e inquieta passa dal
sorriso al disappunto in maniera del tutto naturale. I capelli, di un nero pece,
sono molto lunghi e confluiscono in una treccia alla tibetana. È vestita secondo
gli usi locali che prediligono i colori accesi e fanno apparire gli europei,
stretti nei loro rigidi e scuri indumenti, come dei mesti pinguini. Pemà è
avvolta da una seta viola, con una sciarpa che le cinge la vita. Le unghie delle
mani sono smaltate in rosso: piccola, adorabile concessione alla moda
occidentale. Ai piedi calza dei sandali francesi in pelle nera. Una catena
tempestata di diamanti le adorna regalmente il collo. Pemà è un’abilissima e
profonda conversatrice. Ha ricevuto un’ottima educazione: conosce assai bene
l’inglese e i grandi autori della letteratura.
La principessa Pemá Chöki Namgyal. India. Sikkim. Passo Nāthū Lā. 27 febbraio-18
maggio 1948 Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024
Archivi Alinari.
C’è un passaggio del libro che mi è particolarmente caro. Maraini, di ritorno
alla corte di Gangtok dopo svariati mesi, rivede Pemà e trascorre con lei un
pomeriggio intero. La principessa, che nutre una profonda venerazione per
Milarepa, decide di leggere in lingua originale alcuni passi del grande poeta
tibetano. Maraini assiste, incredulo e incantato, alla scena che si svolge in
quel momento. Il canto di Pemà racconta le immagini di Milarepa e le sue
sensazioni di eremita durante le notti, nei deserti di ghiaccio. C’è forse un
modo più bello per avvicinarsi, pieni di ritegno e di un ammirato stupore, al
cuore stesso di una persona e di una civiltà a mille miglia lontana dalla
nostra?
Quando si trova a Chubitang, Maraini ricorda che proprio da là, un anno prima, è
passata Pemà, di ritorno da Lhasa. Immagina allora di avvistarla da lontano,
come per incanto:
> “Da lontanissimo avrei visto la carovana come dei puntini; poi camminando i
> puntini si sarebbero fatti uomini, cavalli e yak. Avrei sentito allora i
> campani degli animali e le voci dei servi. Infine ti avrei vista, Loto della
> Fede Gioiosa, per la prima volta, sul tuo cavallo, gli occhi fissi alle
> distanze, il capo nel sole; rara, forte, fragile come la giada. Poi saresti
> svanita nell’immenso della pianura. Da ultimo avrei soltanto inteso le voci
> degli uomini per cui tu eri la cosa delicata e preziosa da proteggere, da
> difendere, da condurre di là dall’Imàlaia”
*
Segreto Tibet ci scaraventa – senza indulgenze – in un mondo fatto di colori e
costumi che sembrano usciti da un sogno miniato. Un universo che ignora la
fretta, ma conosce l’attesa, il rito, la verticalità della preghiera e
l’orizzontalità delle stagioni. Un mondo che si rivela a poco a poco, per
squarci di meraviglia, sospensione dell’incredulità. Altopiani di orizzonti
vasti, di cieli limpidi, di terre ocra che risplendono alla luce solare,
dominate da vette leggendarie. Nei passi di montagna, al confine tra regioni e
nei luoghi di transito, svettano i chörten, la versione tibetana degli stupa
indiani, e i variopinti tarchö. Sono rettangoli di stoffa colorata, sui quali
sono stampate preghiere e formule sacre. Si pensa che le benedizioni vengano
portate dal vento, diffondendo buona volontà e compassione.
Tutto, in Segreto Tibet, parla di un tempo che non tornerà più. Non solo per i
mutamenti storici, politici, culturali che hanno trasformato – spesso
violentemente – il Tibet, ma perché è trascolorato anche, forse, un certo
atteggiamento di fronte alla vita. Un capitolo del libro si chiama L’ebbrezza di
scoprire. È il resoconto di una mente di fronte all’avventura spirituale della
scoperta. Guidato e illuminato dal genio di Tucci, Maraini arriva alla sorgente
pura della conoscenza, nel momento in cui essa non ha ancora vissuto lo
svilimento dell’analisi, dell’antologia e della classificazione.
Il libro si può anche leggere, in fin dei conti, come la testimonianza bruciante
di un evento irripetibile nella vita dello scrittore. Quel Tibet è forse, anche,
un Tibet interiore, una segreta geografia dell’anima. Un luogo dove forze
opposte convivono, come in uno yin e yang cosmico: luce e oscurità, violenza e
dolcezza, umorismo e compassione.
*
Fosco Maraini è sepolto nel piccolo cimitero dell’Alpe di Sant’Antonio, nella
regione della Garfagnana, uno dei suoi luoghi del cuore. Sulla lapide, alle due
estremità, sono incisi una croce di Cristo e un Buddha. Escursionisti,
pellegrini e amanti delle sue opere vi portano fiori e piccole bandiere di
stoffa tibetane.
Rifletto sulla biografia di Maraini. Certo, vi si può leggere una sintesi
perfetta di un uomo che ha dialogato sempre dal cuore dell’Occidente a quello
dell’Oriente. Maraini era innamorato dell’Asia, ma senza per questo dimenticare
da dove proveniva. Il suo sforzo di sintesi tra civiltà, in un periodo storico
drammatico, ha significato anche sacrificio, una dura prigionia, un dito
mozzato. Segreto Tibetresta, nella vita e nelle lettere, come un misterioso ed
irripetibile miracolo. Dalle porte del futuro, però, si intravedeva già quella
manciata di isole poste ancora più ad Est: il Giappone.
Lorenzo Giacinto
*In copertina: La lotta contro il nulla. Giappone. Tokyo. Parco di Ueno, 1963.
Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi
Alinari
L'articolo Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla
generazione che ha anestetizzato l’ignoto proviene da Pangea.
Ho amici cattolici. Domenica delle Palme ero in piazza, per i saluti, e in
piazza si diceva messa. Una piazza mesta come lo sono i luoghi inutilmente
pubblici il più delle volte, quando non ci sono i leader delle ragioni superiori
a organizzare i torpedoni. Quando ci sono gli stand della Coldiretti è un’altra
storia, è quasi festa, per quanto anche lì a tener banco è l’illusione di poter
comprare al miglior prezzo qualcosa di meno industrialmente nocivo.
Si chiacchierava tutti ma quando è stata la volta della lettura del vangelo
liturgico del giorno, recitato dal pulpito allestito al vento, cala un silenzio
di attenzione dovuta, di ossequiosa osservanza delle circostanze cui s’adegua
pure chi in piazza c’era per tutt’altra ragione, e taccio anch’io per colmo di
stupore di fronte a tante persone, comunemente refrattarie a ogni letterarietà,
che azzittiscono e mimano concentrazione per qualcuno che legge.
I Vangeli, così come le Bibbia al completo, li ho letti nell’edizione concordata
della Mondadori, perciò per me è sempre una novità ri-leggerli ascoltandoli
nella versione approvata dalla CEI: troppi interessi di troppe parti
difficilmente possono conciliarsi con quello principale della lealtà verso il
testo, perché giunga a chi lo legge nella sua forma più aggiornata e il meno
faziosa possibile.
«Ogni civiltà nasce da una traduzione», così Gianfranco Folena, citazione letta
in un libro di Aldo Busi, per cui: dimmi a che traduzione t’affidi e ci capirò
immediatamente qualcosa in più della civiltà che aspetta entrambi, se quella a
cui t’affidi tu è la stessa a cui s’affidano in maggioranza.
Ascolto. I vangeli nei secoli hanno avuto lettori sagaci, mica tanti, e sequele
sterminate di pigri recettori di artate interpretazioni altrui, ma questo non
dispensa nessuno dal farsene una lettura e un parere propri, se gli va, così
come niente vieta che li si ignori come viene ignorata tanta parte della
letteratura mondiale, al netto di quella che viene propinata nei programmi
ministeriali, tante volte perché possa essere disprezzata subito e in blocco.
Dal Vangelo di Luca:
> “…ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola… Io sto in
> mezzo a voi come colui che serve… il suo sudore diventò come gocce di sangue
> che cadono a terra… con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?… E molte
> altre cose dicevano contro di lui, insultandolo… Togli di mezzo costui!
> Rimettici in libertà Barabba!… Detto questo, spirò.”
Ascolto e mentre ascolto non sono più in piazza, non è più la Domenica delle
Palme. È la notte di qualche mese fa, in gruppo rientriamo in albergo, siamo a
Ischia per il matrimonio di una coppia di amici, è stato ufficializzato al
comune di Forio la mattina stessa. Gli altri vanno ciascuno nella stanza
assegnata, io resto a zonzo nella hall sottosopra dell’albergo. Siamo fuori
stagione, nell’albergo sono in corso opere grosse di manutenzione: le porte
delle camere non hanno gli stipiti, lungo i corridoi ammassano le biancherie da
sostituire, le scaffalature stanno accatastate negli angoli. Ci si sente come in
una delle narrazioni di Antonio Moresco, alla fine di un tempo e di uno spazio
che ha perso memoria del suo prima e del suo dopo.
Nella hall ci sono libri disposti in pile senza ordine bibliografico alcuno, le
scruto a una a una, come resti di colonne di una cattedrale ipotetica, mentale.
Scelgo quale pietra svellere: Barabba, di Lagerkvist, nell’edizione 1965
della Gherardo Casini Edizioni Periodiche, traduzione di Alois Baumgarthner,
collana “I libri del sabato”. Lo scelgo perché è sottile, ideale per me che
stanco come sono non mi aspetto di riuscire a leggere a lungo, in camera. Perché
di Lagerkvist ho letto Il nano, e mi piacque. Lo scelgo perché di Saramago ho
letto Il vangelo secondo Gesù Cristo, scrivendolo da scrittore quindi né
noiosamente da apologista né facilmente da polemista.
Come ha scritto Lagerkvist di Barabba?, mi chiedo, scegliendolo per questo, non
sapendo io se Lagerkvist sia stato di qualche fede dichiarata o se no e se sì
quale fosse e se no se si fosse sentito poi in dovere di dichiarare perché aveva
preferito di no. Se a lettura del romanzo ultimato avessi continuato a non
saperlo, a non poterlo sapere, Barabba sarebbe potuta dirsi l’opera di uno
scrittore.
La letteratura non può essere confessionale perché le religioni sono il
contrario della letteratura. La religione si fonda sull’assunto che c’è una
verità e che le narrazioni non possono che provare ad avvicinarsi a quella
verità che le precede e che tutt’al più le ispira. Per la religione la
narrazione viene dopo la verità. La letteratura sa che scoprirà una verità solo
dopo averla raccontata e che quando racconta due volte una storia non avrà
raccontato in due modi diversi la stessa verità ma avrà raccontato due verità,
perché la verità e il racconto vanno assieme, si scoprono assieme, è impossibile
stabilire chi venga prima, chi fondi chi, chi inventi chi, se la letteratura la
verità o se la verità la letteratura. Certo, se non ci fossero verità da dire
non ci sarebbe niente da raccontare. Ma se non ci fossero i racconti non ci
sarebbe mai stata nessuna verità da dire.
La letteratura sa che per esserlo non può e non deve essere suddita della
verità. Le religioni, quali che siano gli espedienti retorici perché non lo si
noti, scelgono una verità rispetto alla quale rendere suddita la letteratura, e
dunque l’umanità che quella letteratura informa.
Per le religioni la verità è stata detta e non resta che dirla meglio,
comprenderla meglio, purché non-la-si-travisi, quindi decidendolo comunque loro
qual è la lettura-corretta, la lettura-consentita. La letteratura sa che la
verità sta nell’avventura del linguaggio, di quello che tramite la scrittura è
possibile scoprire inventandolo, inventare scoprendolo. La letteratura non la si
sa né la si può mai definire ben bene ma una cosa è certa: se chiede di essere
autorizzata, se si preoccupa di non-travisare le narrazioni che l’hanno
preceduta e che le succederanno, non è letteratura. Sarà pubblicistica e morta
lì.
Lagerkvist sceglie di raccontare di Barabba. Aggiungere un pezzo di racconto al
racconto-ufficiale, al racconto-raccontato-già-tutto, è di per sé atto inventivo
audace, necessario, ma non basta scegliere un soggetto non autorizzato per fare
letteratura ovvero qualcosa di non autorizzabile per eccellenza. Leggo Barabba
di notte in un albergo dalle pastosità moreschiane per scoprire se l’opera di
Lagerkvist è letteratura o un lavoretto di mano religiosa.
Il romanzo si apre sulla cloaca del Golgotha,
> “teschi e ossa giacevano sparsi ovunque insieme a croci stese a terra, mezze
> marcite, che non servivano più ma che nessuno portava via, perché nessuno
> avrebbe toccato le cose di quel luogo.”
A osservare il rabbino crocifisso agonizzante c’è Barabba il liberato, che lo
osserva dubbioso, inquietato. Corrisponde il corpo “magro e gracile” di
quell’uomo dal “petto senza peli, come quello di un adolescente” a colui che nel
pretorio “aveva visto circondato di uno splendore abbagliante”? Come si può
avere rispetto di un uomo le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai
lavorato”?
Nel romanzo di Lagerkvist l’interlocutore – mentale – di Barabba il liberato non
è il maestro dei cristiani che da lui prenderanno il nome. Non ha nemmeno un
nome suo. L’interlocutore di Barabba maledetto nel seno di sua madre è il
crocifisso benedetto nel seno della sua di madre, con la differenza che il
crocifisso una madre che l’ha amato fino alla croce e prima e dopo la croce l’ha
avuta, mentre Barabba no, una madre non l’ha avuta, non ha saputo chi fosse. E
il padre? Anche in questo son diversi, il maledetto e il benedetto alla nascita:
uno ha dovuto uccidere suo padre, per sopravvivere, sopravvivere per modo di
dire, l’altro perché fosse fatta la volontà del suo di padre ha dovuto morire e
morire in croce: per la vita eterna sua e di tutti, così dice il padre del
benedetto nel seno di sua madre. Il padre di Barabba, di nessuna parola e a
prima impressione assai più brutale, non è stato così terribile. O semplicemente
non altrettanto potente, onnipotente addirittura.
Il romanzo è appena iniziato, è iniziato da poco, e già siamo da tutt’altra
parte rispetto al racconto e all’atmosfera dai Vangeli. Intanto il protagonista
è un altro e lo è per davvero, è altro rispetto al Gesù dei Vangeli, è altro
rispetto ai fatti e ai luoghi della narrazione perché ha tutt’altra origine chi
ne è al centro. Non un uomo che comunque sia si è messo al centro di una scena,
non è la storia di un predicatore che va incontro alle folle e dunque alla loro
volubilità. È la storia di un marginale, un solitario, un omicida. Sono due
fuorilegge, certo, ma rappresentano due modi ben distinti di fuoriuscirne. Il
crocifisso non intende infrangerla quanto rifondarla, vuol istituire una nuova
legge alla quale inchinarsi con gioia, sollievo, consolazione. Barabba desidera
restare al di fuori dalla legge quale che sia. Per Barabba o sei tu a
crocifiggere la legge o sarà lei a crocifiggere te se non vorrai vivere da
inchinato ai suoi piedi.
Stando al presunto messaggio canonizzato dei Vangeli, Gesù è venuto per Barabba,
per i Barabba. Il benedetto è venuto per i maledetti: ma un maledetto fin dal
seno di sua madre cosa può voler spartire da un benedetto fin dal seno di sua
madre?
Barabba e Gesù sono coetanei, per Lagerkvist. Barabba era
> “un uomo di una trentina d’anni, di corporatura robusta, dal colorito terreo,
> aveva la barba rossa e i capelli neri. Anche le sopracciglia erano nere e i
> suoi occhi infossati nelle orbite, come se lo sguardo avesse voluto
> nascondersi. Sotto un occhio cominciava una profonda cicatrice che spariva tra
> la barba. Ma l’aspetto fisico di una persona non dice molto.”
Ah, com’è bravo qui Lagerkvist a negare l’evidenza che lui stesso pone: cosa può
avere in comune un uomo già scavato e scalfito e lapidato dalla vita come
Barabba con quel crocifisso gracile, magrolino, adolescenziale, con quel Cristo
che a me pare dostoevskiano, le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai
lavorato”?
Ma il crocifisso prima di essere crocifisso, prima di iniziare a predicare tra
le genti eleggendo i suoi apostoli, non era stato a bottega di falegname?
Possibile che un giovane falegname sulla trentina potesse essere magrolino,
esile, con le braccia sottili, il petto glabro, il corpo adolescenziale? Io, se
devo immaginarmi il crocifisso stando ai Vangeli e non alla sterminatezza delle
raffigurazioni che ne sono state fatte poi, costringendo l’immaginario,
viziandolo, snaturandolo, certo non me lo raffiguro nelle sembianze del Raz
Degan ai suoi bei tempi né nelle sembianze di Ernesto Che Guevara bello anche da
morto come un Cristo-da-canone-vivo, e meno ancora come un uomo smilzo,
sottopeso, insomma debole nel corpo perché meglio risultasse forte nello
spirito. Nonostante le torture e le vessazioni io sulla cloaca del Golgotha, in
mezzo agli altri crocifissi torturati, m’immagino un pezzo d’uomo crocifisso, un
ex-falegname che avrà saputo conquistarsi la fiducia e poi la venerazione dei
suoi simili perché appunto simili a lui come lui deve essere stato simile a sua
madre, che secondo Lagerkvist “aveva l’aria di una contadina semplice e rozza”.
Una contadina semplice e rozza avrebbe mai potuto generare un uomo sottile come
il crocifisso? Stando a come la descrive Lagerkvist la madre del crocifisso
sarebbe stata invece perfetta come madre di Barabba il liberato, solo che
“Barabba non aveva una madre”. Perché il Barabba di Lagerkvist fosse
proprio quel Barabba è stato necessario che il crocifisso fosse
proprio quel crocifisso. Gli antipodi.
La tensione, l’invenzione, l’occasione del racconto di diventare letteratura in
Lagerkvist sta tutto in questa separazione iniziale: come può la vita e il sogno
di un’altra vita oltre la morte di un benedetto fin dal seno di sua madre poter
coincidere con la vita e l’incubo di un’altra vita oltre la morte di un
maledetto fin dal seno di sua madre?
Il crocefisso di Lagerkvist viene per liberare un Barabba che vivrebbe come
un’offesa insanabile essere salvato da lui, lui salvato all’origine perché amato
da sua madre, a differenza sua, di Barabba, non amato da sua madre e non amato
da suo padre e quindi mai amato e quindi inamabile.
Che beffa per il Barabba di Lagerkvist essere salvato da qualcuno a cui per
salvarsi basta essere sé stesso, il figlio di suo padre, il figlio di Dio che è
Dio lui per primo, insomma essere salvato da colui al quale per salvarsi da solo
e per salvare tutti basta essere nato così com’è nato: da un padre terribile,
sia, un padre la cui benedizione verso il proprio figlio non è meno terribile
della maledizione che il padre di Barabba ha avuto verso di lui, ma pure da una
madre che l’ha amato e che amandolo l’ha seguito fino alla croce, disapprovando
chissà quanto le scelte mano a mano più suicida di quel figlio predicatore,
andato verso le folle invece di starsene nel proprio particolare, lo stesso
seguendolo fino ai piedi della croce, conservandolo della benedizione del suo
seno di madre che ama suo figlio nonostante suo figlio, poiché secondo
Lagerkvist
> “Essa non soffriva come gli altri, non lo guardava come lo guardavano loro,
> era ben sua madre. Certamente provava una pietà più grande di chiunque altro;
> eppure sembrava rimproverargli di aver fatto tutto per farsi crocifiggere.
> Aveva proprio dovuto cercarselo, lui, così puro e innocente, ed essa non
> poteva approvare una cosa simile. Essendo sua madre essa aveva la certezza
> della sua innocenza. Qualunque cosa avesse fatto, l’avrebbe considerato
> innocente”.
Che ingiustizia per uno ingiustamente nato maledetto essere salvato da un giusto
benedetto fin dalla nascita.
Il trauma insanabile del Barabba di Lagerkvist, che si autodiagnostica a sua
insaputa, è di non aver avuto una madre come a lui, a Barabba, sarebbe piaciuto
che fosse: una madre che te le perdona tutte, una madre che avrebbe fatto di te
il criminale che poi sarebbe diventato lo stesso se cresciuto da una madre
disposta a reputarti innocente a prescindere.
Il miracolo del crocifisso, nella scrittura che ne fa Lagerkvist, a questo
punto sta invece proprio nell’essersi saputo condurre innocentemente nonostante
la madre che ha avuto, rabbiosamente determinata a perdonargli tutto, incapace
come deve essere stata di saper amare di un amore che non avesse bisogno di
trovarti qualcosa da poterti perdonare prima di amarti.
Barabba non ha avuto una una madre e chi non ha madre non può mai avere certezza
di essere innocente, per cui qualunque cosa farà non potrà considerarsi
innocente, così Barabba in Lagerkvist.
Per meglio dire, Barabba spiega così a sé stesso il corso della sua vita: un
maledetto dagli altri non potrà che maledire sé stesso, non ci sarà salvatore
che tenga in questi casi, e d’altronde come vuoi salvarti se la madre del figlio
che ti avrebbe salvato non ha nessuna intenzione di salvarti a sua volta, di
perdonarti, se anzi anche lei ti maledice, raddoppiando il carico?
> “Essa si fermò e lo fissò con uno sguardo così disperato e accusatore, che
> Barabba non potrà mai sperare di dimenticare”.
Stando ai fatti, nei Vangeli e nel romanzo di Lagerkvist, il crocifisso non ha
salvato nessuno dalla sua condizione terrena, al più dalla morte ma giusto per
rinfilarlo nella vita dalla quale continua a cercare scampo – vedi Lazzaro o la
donna col labbro leporino o il compagno di miniera di Barabba – e comunque non
certamente lui, non Barabba.
È stato il popolaccio di leopardiana memoria a venire a condannare il
crocifisso, che pur di condannarlo ha fatto liberare Barabba, continuando a
ignorare Barabba, è stato il popolaccio a condannare il più debole di lui per
fare la volontà dei più prepotenti di lui, illudendosi così che i prepotenti
possano diventarlo di meno verso di lui, rendendolo un po’ meno debole, o
comunque prendendosi la soddisfazione di essere lui per una volta, lui
popolaccio, il più prepotente e non il più debole come al solito.
Condannando il debole di turno per ottenere il favore del prepotente di turno il
popolaccio condanna sé stesso, quando alla elezioni ci va con questo spirito il
popolaccio condanna sempre sé stesso, il prepotente lo sa, anche per questo ogni
tanto lascia per un po’ a piede libero un debole che cerca di raccontare agli
altri deboli quanto non siano deboli, quale sia la loro forza: per crocifiggerlo
poi meglio e con più gusto, per la gioia dei prepotenti e ancor di più per
quella di chi non saprebbe rinunciare allo stato di schiavitù che almeno ci
pensa lei a spiegargli tutto del perché la sua vita gli faccia orrore.
La differenza tra il Barabba di Lagerkvist e gli altri personaggi del romanzo
che scelgono di convertirsi, di voler credere, è che quegli altri sono disposti
a farsi a salvare e questa condizione di per sé basta a salvarli, al di là di
chi sia poi il presunto Salvatore, meritevole soltanto di avergli dato
l’occasione di credere che un Salvatore esista, occasione non da poco e non da
tutti.
Barabba no. Barabba non vuole essere salvato, non vuole la vita eterna o stare
all’interno di una comunità che creda che una vita eterna sia possibile, che lo
sia essere salvati, che sia possibile essere amati per sé stessi e amarsi gli
uni gli altri. Barabba ormai può fare anche a meno della madre che non ha mai
avuto. Barabba vuole delle scuse. A scuse ricevute magari potrà prendere
seriamente in considerazione l’idea di accettare un dio, ma niente scuse niente
dio, no, non se ne parla. Su un dio, sulla possibilità di un amore, ci mette la
croce sopra chi sulla croce è stato messo da ben prima che ce lo inchiodassero
di fatto. Specie se ai piedi di quella croce non c’è nessuno, non c’è mai stato
nessuno, nessuno s’è mai fatto ri-conoscere per dirti: Non sei solo, ai piedi di
questa croce ci sono io. Almeno questo.
Barabba è troppo offeso – e ogni volta che ha offeso gli altri, nell’implicita
speranza di riparare così all’offesa subita, si è offeso ulteriormente, al punto
che l’offesa ha ricoperto tutto, non lasciando spazio per nient’altro, per
nessun altro.
Ero all’inizio del romanzo e senza accorgermene sono quasi alla fine, sono alla
fine, o sono ancora all’inizio? Sono a Barabba che ha fatto il giro largo per
tornare al punto di partenza, alla crocifissione soltanto rimandata.
Ma: secondo Lagerkvist chi è il crocifisso? Il crocifisso di prima o il
crocifisso di dopo? Chi crede di poter salvare tutti compreso sé stesso o chi
crede che non si salva nessuno? Chi è più crocifisso, il benedetto o il
maledetto? Quando c’è la religione c’è la risposta, la risposta diventa talmente
invadente che non c’è più spazio per la domanda, neppure per il ricordo di quale
fosse la domanda. Quando c’è letteratura la risposta tocca a te che leggi – e
con ogni probabilità non sarà mai la stessa risposta molto a lungo.
Detto questo, chi è che spira adesso? La messa della domenica, il romanzo del
1965, io, tu?
antonio coda
*In copertina: un’opera di Honoré Daumier
L'articolo Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al
“Barabba” di Lagerkvist proviene da Pangea.
Sarebbe impossibile, oggi, definire Suor Juana Inés de la Cruz “una delle
supreme figure simboliche in cui le donne moderne si sono riconosciute”. Eppure,
così attaccava la ‘quarta’ delle Poesie di questa singolare e ineffabile
personalità, tradotte da Roberto Paoli per la Bur nel 1983. Il libro –
naturalmente, verrebbe da dire – fa parte di un’eternità non più libraria, è
scomparso da cataloghi e scaffali; l’autrice è ormai un’innocua nota nei libri
di storia, una chiosa capretta, tanto che pare paradossale l’enfasi con cui
veniva presentata, allora:
> “Voleva vivere in perfetta solitudine, leggendo, studiando e scrivendo, senza
> essere disturbata dal tumulto della vita. ‘Il mio calamaio è il rogo nel quale
> devo bruciarmi’, scrisse stupendamente. Pochi uomini possono vantare una così
> adamantina, superba, disperata tensione intellettuale come questa suora
> messicana: sognava di essere androgina, di dimenticare il suo sesso e ogni
> sesso, il suo corpo e l’intero regno dei corpi, tutte le vicissitudini delle
> sensazioni e dei sentimenti”.
Anche il libro Einaudi che raccoglie i Versi d’amore e di circostanza di Juana –
uscito nella ‘bianca’ nel 1995, a cura di Angelo Morino – risulta “non
disponibile”. Peccato perché i versi di questa donna astrale, estranea al tempo,
che fu dama d’onore della viceregina, carmelitana scalza per una manciata di
mesi, poi affiliata all’ordine di San Gerolamo, temuta per spregiudicato
intelletto, di glaciale bellezza, sono tra i più alti dell’epoca, tra i più
belli mai scritti in lingua spagnola. Rimedieremo.
Chissà quali sono le “figure simboliche” in cui oggi si riconoscono le “donne
moderne”… Non credo che Suor Juana possa essere addomesticata in simboli e in
slogan: la sua mente, ferina, spaura; la sua libertà è violenta. Infine, si
liberò della biblioteca – che contava oltre 4mila volumi, spesso ‘proibiti’ se
non proibitivi – e degli strumenti musicali, che sapeva armeggiare. Chiuse anche
con gli strumenti scientifici con cui si lambiccava, giocando all’alchimia –
morì, troppo giovane, troppo altra, neppure cinquantenne, nel 1695, a causa di
un’epidemia (si dedicò a curare le inferme, subendone il contagio). Leggeva, tra
gli altri, Athanasius Kircher. A tratti, Suor Juana pare una delle donne dipinte
da Zurbarán: Sant’Agata o Santa Elisabetta del Portogallo, evanescenti e feroci,
con quel volto giaguaro. In lei, l’arguzia di Santa Teresa si svolge nell’aquila
di Tenochtitlán: un’intelligenza dagli artigli tesi. Per darle giustizia ci
vorrebbe la penna di Cristina Campo.
Perfino Samuel Beckett restò stordito dalla voracità linguistica di Suor Juana.
Su ispirazione di Octavio Paz – che a Suor Juana dedicò parte della sua vita da
studioso: Suor Juana o le insidie della fedecampeggiava, nel 1991, in catalogo
Garzanti, ora si trova nel mercato alternativo – cominciò a tradurla. L’esito
del suo lavoro – che contempla altri autori del Seicento come Bernardo de
Balbuena e Juan Ruíz de Alarcón – fu pubblicato nel 1958 dalla Indiana
University Press come An Anthology of Mexican Poetry transleted by Samuel
Beckett. Nel 1994 l’antologia è stata ripubblicata da Grove Press. Il libro è
smilzo, sobrio, ‘beckettiano’: nell’ala compare – guarda un po’ – Suor Juana,
nel ritratto di Miguel Cabrera: “Posseduta da un’ardente curiosità
intellettuale, ha difeso con forza il proprio diritto alla conoscenza, la
propria sete di sapere, scrivendo, tra l’altro, liriche di rara bellezza”.
Il 1958 è un anno importante per Beckett: traduce L’innominabile in inglese,
scrive Acte sans Paroles, L’ultimo nastro di Krapp, Finale di partita. L’anno
dopo il Trinity College lo investe del dottorato honoris causa. Credo che
Beckett, in quel lotto di anni, sia stato invaso dal linguaggio di Suor Juana:
esuberante, è vero, ma che esorbita fino ai confini dell’indicibile,
dell’annientamento, per eccesso, di ogni lemma. Come sfregare due pietre d’oro
perché accada una fiamma: è bianca, sa di acqua. Eppure – a dire
dell’insignificanza di Suor Juana nei perigli della cultura d’oggi – non c’è
cenno della Anthology of Mexican Poetry nel formidabile ‘Meridiano’ dedicato
a Romanzi, teatro e televisione di Beckett. Eppure, è opera in cui coincidono –
rarità al cubo – due futuri premi Nobel per la letteratura: Paz otterrà l’alloro
nel 1990, ventuno anni dopo Beckett. Il punto di giunzione tra l’irlandese e il
messicano è Antonin Artaud: credeva in misteriose analogie tra i Tarahumara,
“razza di uomini perduti” nei recessi del Messico, e la civiltà delle Aran, tra
il peyote e Bachall Isu, il mitico bastone di San Patrizio custodito – e poi
bruciato – a Dublino. Soprattutto, modellò il linguaggio fino a farne magia,
formula ipnotica.
Ad ogni modo, ecco come Samuel Beckett rende uno dei sonetti più noti di Suor
Juana, Éste que ves, engaño colorido:
Questo frainteso a colori che tanto ammiri,
vanagloria dell’eccellenza artistica
non è che una furba frode dei sensi
in fallaci sillogismi di pittura;
questo, dico, adulazione da becchino
che estenua l’odioso orrore degli anni,
vaniloquente sconfitta degli oltraggi del tempo
trionfo sull’oblio e sulla vecchiaia,
è vano artificio della dedizione
è fragile fiore al vento
è inutile santuario del fato
sordida inerte opera vana, conquista
che svanirà, ben fatta, certo, nient’altro
che carcassa e polvere, ombra e nulla.
Questa la traduzione, adesiva, di Paoli:
Questo, che vedi, colorato inganno
che dell’arte ostentando le bellezze
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dei sensi malizioso;
questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggendo del tempo i rigori
trionfare sugli anni e sull’oblio,
è un artificio vano della cura,
è un fiore molto gracile nel vento,
è un inutile scudo contro il fato:
è una sciocca pazienza delirante,
è un affanno fugace e, a ben guardare,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.
Un sapiente drammaturgo dovrebbe figurarsi il giorno in cui Samuel Beckett
incontrerà Suor Juana – le chiederà di ispezionare la sua calotta cranica,
riconoscendo gli stessi ghiacciai, un padre chiamato Antartide. Dopo averle
baciato le dita, è ovvio – rese al giglio e all’acciaio, fatte iena.
***
Da Primero sueño
Venere era, Venere
per prima della bella stella
del mattino adorna
brillò lungo l’alba
arcigna sposa del vecchio Titone.
Amazzone di ardore rivestita
armata contro la notte
fatata e fatale
pianto di malinconia pianta
e mostra l’amabile fronte
tra i ramificati bagliori del mattino
tenero ma ferino araldo
dell’astro feroce
che viene, che viene
schierando gli scherani
e gli arcieri bagliori
la retroguardia
di venerande veterane luci
contro di lei, tiranno usurpatore
dell’impero del giorno, mentre
cinghie di neri tuoni
trafiggono le ombre nottambule
fino ad atterrirla.
Ma lei è bella, lei è l’avanguardia
dell’araldo del sole
che sventola il palio a Oriente
e chiama alle armi le mere, bellicose
genie dei rapaci:
che sia ingenua la loro fede
sonora come quella delle trombe
quando il tiranno, in rotta, trema
sconvolto da cupi presentimenti
e si sforza di elencare la sua leggendaria
potenza e controbatte con il funebre
mantello le infallibili
falci di luce
ed è vano il valore
della disperazione, futile
ogni resistenza, così inclina
alla fuga, unica via di salvezza
e il rauco corno erutta
e i neri battaglioni
retrattili in geometrica ritirata.
Ma una più arcana pienezza
di raggi squarciò le più alte cime
le torri del mondo. Il sole
recluso nel suo girovagare
rende oro l’azzurro
raggi di luce virginea
incidono il ceruleo cranio del cielo
si abbattono su quella
funesta tirannia.
E lei fugge e lei inciampa
nei suoi stessi orrori
calpesta la sua ombra:
cieca fuga, luce che avanza
luce che incalza, che sfonda
il limite occidentale e la sfigura.
Ma la caduta la vivifica
la rovina la imbeve di una
rinnovata ribellione
e in quella parte di mondo
ignara del giorno
indossa ancora la corona
mentre nel nostro emisfero
il sole scuote la criniera
conferendo a ogni cosa
il suo degno colore
affidando agli ancoraggi
della luce il mondo – ora
tutto è luce e posso destarmi.
Versione di Samuel Beckett
L'articolo “Voleva vivere in perfetta solitudine”. L’incontro tra Samuel Beckett
e Suor Juana Inés de la Cruz proviene da Pangea.
Sicilia, 1860. Il principe di Salina, esponente dell’antica nobiltà isolana,
traghetta la famiglia attraverso i moti risorgimentali, nel tentativo di
strappare alla Storia uno scampolo di prestigio. Per farlo, dovrà scendere a
compromessi con i nuovi ceti, gli sciacalli che minacciano i “gattopardi”, ormai
ingabbiati nei loro palazzi in declino.
Dopo oltre 60 anni dalla pubblicazione del romanzo di Giuseppe Tomasi di
Lampedusa (1958), dalla sua consacrazione allo Strega (1959) e dal sontuoso
adattamento di Luchino Visconti (1963), Il Gattopardo è approdato a marzo su
Netflix, in una trasposizione seriale prodotta da Indiana Productions e Moonage
Pictures per la regia di Tom Shankland. Luisa Cotta Ramosino[1], Direttrice
delle serie italiane Netflix, ci racconta gli ingranaggi della serie-evento.
Il Gattopardo è il romanzo del “gran rifiuto” di Elio Vittorini per Mondadori ed
Einaudi, e fu pubblicato da Feltrinelli solo dopo la morte dell’autore (1957).
Da sempre divisivo, pesa sull’opera l’accusa di conservatorismo rivolta
all’autore, come del resto al suo protagonista, già dai contemporanei. Eppure,
fa ancora parlare di sé con una serie-evento: cosa lo rende intramontabile?
È un romanzo che già al momento della sua nascita sta riflettendo su sé stesso,
perché parla delle epoche di passaggio, è stato scritto in un’epoca di passaggio
e non a caso noi lo abbiamo riproposto in un momento di grandi passaggi. I suoi
personaggi vivono questo passaggio in maniera drammatica, sia a livello
individuale e famigliare, sia a livello sociale. È un incastro di dimensioni che
rende il romanzo particolarmente forte, perché insiste sui sentimenti umani in
un mondo in cui, un po’ come oggi, tutto è messo alla prova. Un mondo che è
raccontato e, sì, in parte è giudicato, ma non giudicato per guardare al “bel
tempo che fu”, immobilizzato in un tempo perduto. C’è chi prova curiosità per il
mondo che cambia, come Tancredi, e invece chi quel mondo che cambia lo teme, e
chi è affezionato al passato. È una contrapposizione che credo non sia per
niente banale: non si dice che il nuovo è a tutti i costi buono, anzi; ma nello
stesso tempo non si dice neanche che conservare il passato è a tutti i costi
sbagliato. C’è quindi una grande capacità di sfidare il lettore, e poi lo
spettatore, a guardare il mondo con più complessità. E la complessità, per
quanto sia più faticosa da affrontare rispetto a un racconto lineare, è
incredibilmente affascinante.
Che è poi ciò che ha “salvato” il romanzo.
È un romanzo che sfugge a ogni definizione: è stato salvato dal fatto che ognuno
ci vedeva qualcosa di diverso, ed è questa grande complessità a renderlo unico.
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”: le parole di
Tancredi, nipote del Principe, sono forse le più conosciute del romanzo. Il
mondo cambia, ma assistiamo, a livello nazionale e mondiale, a un fiorire
del period drama, e questo nonostante gli alti costi di produzione: cosa è bene
che rimanga com’è, e cosa è necessario che cambi, quando si racconta il passato
per parlare al presente?
Da una parte i sentimenti umani hanno un’universalità, e spesso e volentieri in
questi personaggi del passato sono come amplificati. Dall’altra c’è il lavoro di
scrittura, questo strano equilibrio per cui quel passato deve essere rievocato,
attraverso i costumi, le scenografie, il racconto di alcuni fatti precisi, e
allo stesso tempo bisogna cercare di fare capire allo spettatore cosa
significassero quei sentimenti per le persone di quel mondo, e cosa di quei
sentimenti conserviamo ancora noi oggi. Raccontare il passato non significa dire
che questi personaggi erano uguali a noi, perché non lo erano. Eppure, avevano
delle cose in comune con noi. Non credo che oggi tante ragazze di fronte al
matrimonio del fidanzato con un’altra si chiuderebbero in convento, però di quel
sentimento di Concetta possono riconoscere l’assolutezza e il dolore nudo da lei
provato in quel momento, e in quello si riconoscono, e lo possono abbracciare.
Come il sentimento di un genitore che vede un figlio che fa una scelta che non
vorrebbe facesse, oppure che si rende conto di aver preferito un figlio a un
altro, come capita a don Fabrizio. Sentimenti presenti nell’oggi, che lì vivono
con una loro grandezza che li rende ancora più evidenti: il period ha questa
capacità di essere come la realtà, ma con un grado più forte.
Viviamo un momento in cui alcune tematiche, fondamentali da trattare e purtroppo
tragicamente urgenti, sono onnipresenti nelle narrazioni che ci circondano e
rischiano, soprattutto nelle ricostruzioni storiche, di essere o di essere
percepite come…
Abusate.
O anacronistiche, calate dall’alto rispetto alla storia, e alla Storia. Penso al
potenziamento delle figure femminili: come avete trovato un equilibrio nella
serie?
Ci sono storie che già da qualche parte esistevano, ma che nessuno raccontava,
perché non erano considerate importanti. C’è poi una differenza tra una serie
storica che vuole essere la rievocazione di un’epoca, e una serie che voglia
accogliere in quel passato un qualcosa che risuona ancora nel presente. Ci sono
serie che spingono sull’attualizzazione, come Lidia Poët, altre che ci portano
in un luogo dove siamo stati mille volte e ci fanno vedere che quel personaggio
c’era, ma non avevamo colto quanto importante fosse, come per esempio le donne
della serie I Medici, che in realtà anche nei libri di storia figurano come
artefici della fortuna della famiglia, ma fino a quel momento erano sempre
rimaste nell’ombra delle figure maschili. Dare attenzione a queste storie è
giusto; forzare alcune linee narrative è meno interessante e richiede un livello
di artificiosità che le rende meno appassionanti. Si trova la misura nel momento
in cui una storia appassiona: se succede, lì c’è della verità. Quando l’autore
deve metterci molto del suo, è perché probabilmente quella storia non ha una
verità da raccontare, e forse si sta prendendo la strada sbagliata.
La scelta de Il Gattopardo è un po’ diversa: il personaggio di Concetta era
quasi invisibile, il fatto di averlo raccontato e reso presente lavorando sui
vuoti è un modo per mettere in primo piano questo personaggio che nel romanzo
esiste quasi solo in funzione degli altri.
A proposito di lavorare sui vuoti: guardando la serie sembra di assistere a uno
spin-off, a un ampliamento del materiale di partenza, al contrario di quanto
avviene normalmente guardando le cosiddette “riduzioni” cinematografiche delle
opere letterarie. Un period drama che diventa family drama, e sembra cercare tra
le pieghe del testo un accenno o un silenzio per costruirvi una
tridimensionalità che può essere abitata da tutta la famiglia dei personaggi, e
non più solo dal protagonista.
Il period tendenzialmente è già “famigliare” – Downton Abbey, per esempio, è la
storia della famiglia. Raccontare la storia di un’intera famiglia permette di
dare più sfumature a un’epoca, soprattutto quando ci si apre a diverse classi
sociali. Non si tratta di un genere che prende il posto di un altro, perché di
fatto i due generi coincidono: la saga famigliare, attraverso i suoi conflitti,
è un modo di esplorare il passato, perché ognuno dei componenti della famiglia
ha un’esperienza diversa di quell’epoca. Il Gattopardo ha al suo interno una
quantità di personaggi che vengono anche solo accennati e aprono un orizzonte
rispetto a quel mondo.
Le parole di Tancredi riflettono alla perfezione anche il concetto stesso di
adattamento transmediale, che spesso è chiamato a “tradire” la lettera
dell’originale per custodirne lo spirito, a cambiare per rimanere come è. Qual è
il più grande “tradimento” della serie nei confronti del romanzo, e perché è
indispensabile?
Il tradimento più grande – e lo dico anche con un certo orgoglio perché ho
spinto molto per questo tradimento – è nel finale. Il finale del romanzo è molto
triste: è la fine di un’epoca, c’è la morte del principe, ci sono le principesse
ormai anziane, il cane imbalsamato… Si percepisce un senso di grande nostalgia
per qualcosa che non c’è più. Inoltre, accade a distanza di alcuni anni rispetto
al celebre ballo. I nostri sceneggiatori tenevano molto a mostrare la morte del
principe, ma dedicarvi un intero episodio inevitabilmente avrebbe dato il senso
di una grande sconfitta. Neppure Visconti lo ha mostrato. Invece il nostro
finale, che è un piccolo finale, e che pure non è un happy ending, dà speranza:
concludere la storia con i due fratelli che riportano dentro la famiglia alcune
proprietà proprio grazie ai soldi del ceto emergente riguadagnati attraverso il
matrimonio di Tancredi, che era stato vissuto come una sconfitta, personale e di
classe, è una rivincita, e apre alla speranza. Come anche l’ultima passeggiata
di Concetta, il nuovo Gattopardo. La tradizione rimane, ma preservare quel
passato non significa immobilizzarlo, imbalsamarlo, perché questo passato,
questa Sicilia che vediamo nella sua bellezza, ha un valore. Il finale non mette
in scena un tramonto, ma un’alba: l’alba di un’epoca nuova, che non si sa cosa
porterà, ma proprio per questo nasconde in sé anche una speranza per il futuro.
Da un certo punto di vista c’è un tradimento del romanzo, però io credo che sia
un tradimento che nell’economia del racconto, in cui Concetta è diventata la
co-protagonista, era giusto dare e ci ha fatto piacere dare.
Ormai la maggior parte delle opere audiovisive è composta da adattamenti: in un
mondo in continua evoluzione, quali sono le storie a cui restare ancorati, per
andare avanti e cambiare in meglio? Perché tutto cambi, cosa deve rimanere come
è?
Non è un caso che ci siano così tanti adattamenti letterari, perché il romanzo
conferisce una naturale profondità ai personaggi che, è vero, si può costruire
anche con storie originali, ma lì si può trovare con una tessitura consolidata
dal tempo che l’autore ha impiegato nel raccontare. E poi spesso, quando si
tratta di classici, esiste anche tutto il discorso che è nato intorno al
romanzo, che è come se avesse dato un ulteriore spazio di apertura. Sembra una
banalità, ma a rendere unica una storia è il fatto di avere dei personaggi
indimenticabili: questo è ciò che attira come il miele l’audiovisivo. La cosa
importante è trovare almeno un personaggio di cui ti innamori e dici: ecco, se
riuscissi a trasferirlo sullo schermo sono sicura che la gente vorrebbe passare
delle ore con questa persona per sentire la sua storia.
L’Italia è un Paese che legge poco. E in generale nel mondo la lettura, così
legata allo sviluppo del pensiero critico e dell’empatia, è minacciata dai tanti
stimoli offerti dalle nuove tecnologie e dalla competitività degli altri media.
L’audiovisivo è un rivale o un alleato? E l’adattamento che ruolo ha in questa
prospettiva?
La tragedia è che, se anche non ci fossero gli audiovisivi, la gente non
leggerebbe comunque. Anzi, forse l’adattamento è un’occasione per invogliare a
leggere il romanzo da cui è tratto. È ovvio che il tipo di fruizione è
completamente diverso, perché il tempo della lettura – che sia su supporto
fisico o digitale, pur nella differenza penso che qualunque forma di lettura sia
da considerare positiva – è un tempo personale, in cui si riflette, ed è un
tempo di solito più lungo rispetto al tempo di fruizione dell’audiovisivo. Spero
però che una cosa non escluda l’altra. E poi il raccontare storie ha un valore
di per sé: ci apre agli altri, perché una storia contiene un’esperienza umana
che non è la nostra, e noi ne abbiamo terribilmente bisogno per non rimanere
ancorati solo a noi stessi. Fruire le storie apre all’empatia, qualunque sia la
forma. E la forma di quest’epoca è spesso quella della serialità televisiva.
E Netflix? Che tipo di storie sta cercando? È alle porte qualche progetto che
vuole (e può) raccontarci?
Ancora non c’è niente di annunciato. Però a me piacciono questo tipo di storie;
è facile perciò che me ne arrivino altre di questo tipo.
Per concludere, c’è qualche aspetto che desidera sottolineare, o aggiungere?
Avevamo il desiderio di raccontare l’identità italiana. Secondo me è stato
esaudito, perché è stato fatto non in maniera teorica, ma attraverso i
personaggi, grandi storie, grandi famiglie, grandi individualità, che ci portano
dentro l’Italia di allora, che poi è anche quella di oggi. Credo che ci siano
dei momenti che definiscono l’identità di un popolo, ed è sempre interessante
raccontarli. L’Italia è un Paese che è arrivato tardi all’Unità: raccontare quel
momento con tutte le sue contraddizioni, e quindi non con una celebrazione tout
court, è sensato in un momento storico in cui i temi dell’identità nazionale
danno vita a guerre. Queste storie hanno una capacità di parlare all’oggi e di
essere urgenti a modo loro.
Chiara Bianchi
*Si pubblica per gentile concessioni delle Edizioni Ares; il servizio è in
uscita su “Studi Cattolici”
--------------------------------------------------------------------------------
[1] Luisa Cotta Ramosino è Director Local Language Series Netflix per l’Italia e
coordina il team che, di concerto con i partner produttori, si occupa di
sviluppare le serie italiane di Netflix, riportando a Tinny Andreatta. Si occupa
poi direttamente dello sviluppo di alcune serie tra cui “Il Gattopardo”. Prima
di arrivare a Netflix ha lavorato come sceneggiatrice e produttore creativo per
diversi produttori italiani ed è stata responsabile delle coproduzioni
internazionali per Lux Vide.
L'articolo Un romanzo che sfugge a ogni definizione. “Il Gattopardo” cambia per
non cambiare: dal libro alla serie Netflix proviene da Pangea.
Nell’età di mezzo, quando si parla di epica eroica si fa riferimento a qualcosa
di marmoreo, codificato, noto e arcinoto: le chansons carolingie, l’Orlando che
si immola a Roncisvalle per il suo sovrano, redivivo nella letteratura italiana;
El Cid, quel Rodrigo Diaz de Bivar che nella sua onorata sventura continua a
servire il suo sovrano. Poi c’è un’epica tellurica, dimenticata ai margini
dell’Impero, dove l’Europa è già Asia e il cristianesimo è vernice crepata sulle
icone costantinopolitane. È l’epica bizantina, spesso ignorata, relegata nei
ghetti della filologia, forse vista come qualcosa di minore. Eppure, è
irresistibile il fascino che questa esercita: cimentarsi nella lettura di un
poema epico bizantino ci dissocia dalle categorie dell’eroico che siamo abituati
a conoscere e maneggiare, è qualcosa di radicalmente altro.
Digenis Akritas è un titolo e un nome, aspro come l’uomo che designa: il “due
volte nato”, il “guardiano del confine”. Digenis, al battesimo Basilio, osserva
la frontiera dal suo avamposto sul fiume Eufrate, limite estremo di una Bisanzio
non ancora crepuscolare. Chi era l’Akrita Basilio? Figlio di un emiro siriano
convertito e di una nobildonna greca rapita – già nella sua carne, nel
sangue digenis, c’è l’ordalia del confine, lo scontro e l’abbraccio tra
Cristianità e Islam, tra due civiltà destinate a scrutarsi e scontrarsi – nasce
da questa unione ma cresce con coordinate salde, che non possono non essere la
crosta di Bisanzio, il gesto ieratico del pantocratore. Cresce distinguendosi
per le eccezionali doti fisiche: in piena adolescenza, iniziano le gesta
dell’eroe. L’eroe è sempre bastardo, non ha genealogie rassicuranti, non risiede
nel cuore dell’Impero ma ai suoi margini, dove la legge è eco lontana e la
civiltà si stempera nella ferocia del limes. La Bisanzio stessa che gli dona i
natali faticherebbe a riconoscerne i connotati come tale. La sua epopea non
celebra paladini immacolati al servizio di Dio e dell’Imperatore. Digenis è
scheggia impazzita, individualismo che rasenta l’asocialità, campione di un
onore selvatico che si misura nel ratto, nella razzia come esercizio di virilità
primordiale. L’Imperatore desidera conoscerlo, l’eroe orientale non si smuove,
che sia il sovrano a scomodarsi e raggiungerlo sulle rive dell’Eufrate «con
pochi soldati». Sorveglia un deserto pullulante di nemici: saraceni, gli
apelatai (i predoni delle montagne, fantasmi della libertà anarchica), persino
draghi e amazzoni evocati da un immaginario ancora intriso di mito pagano sotto
la patina cristiana. Non c’è netta contrapposizione etica tra lui e i suoi
nemici, agiscono sullo stesso piano, rispondono allo stesso codice ancestrale.
Digenis chiede addirittura di arruolarsi tra gli apelatai, rifiutando infine di
unirsi ai predoni solo dopo aver constatato la loro inferiorità fisica, la forza
è misura del diritto e del bene.
Poi c’è l’amore, un amore che è rapina, possesso, difesa gelosa. Non poteva
essere diversamente: il poema si apre con un ratto, quello della madre di
Digenis; la vicenda dell’eroe stesso è poi inaugurata dal ratto della sposa,
Eudokia.
> “La pernice prese il volo e l’afferrò il falcone.
> Dolcemente si baciavano…”
Alla celebrazione lirica dell’amor cortese si sostituisce l’affermazione di un
diritto primordiale, ferino quasi. Il codice d’onore impone di rapire la donna
amata e di difenderla dagli aggressori, che siano draghi, leoni o bande di
predoni. La lotta per la sposa è teatro di una competizione maschile feroce,
dove la donna è insieme premio e strumento per affermare la propria onorabilità
virile.
C’è anche un’altra faccia di Digenis: l’eroe cristiano, il timorato seminarista
– ruolo che mal s’addice all’eroe – tormentato dal peccato dopo aver compiuto
adulterio, essersene pentito e poi aver reiterato il misfatto nel canto
successivo, l’amore per Eudokia non è sufficiente a placarlo: il fuoco non può
ardere indefinitamente vicino all’erba, così si assolve mentre cede alla
tentazione con una principessa araba – poco fanno i kyrie eleison recitati con
il cuore colmo di sofferenza e ancor meno persuadono dopo aver ripetuto il gesto
con l’amazzone Maximò. Ma questa duplicità, schizofrenia apparente, non è
sintomo di labilità psicologica da lettino d’analisi. È lo stigma del poema
stesso, prodotto ibrido di due modelli culturali contrastanti e mai
perfettamente conciliati: l’arcaico eroe della frontiera, amorale e vitalistico
da un lato, dall’altro il più tardo archetipo dell’eroe cristiano. In Digenis
agiscono, sovrapposti e non fusi, questi due codici, generando cortocircuiti,
contraddizioni che sono la cifra più autentica e perturbante del personaggio. La
stessa storia della tradizione manoscritta del poema – con pochi codici
superstiti, dal più antico e rude dell’Escorial al più tardo e ingentilito di
Grottaferrata (dove aumentano le lodi all’imperatore e l’episodio degli apelatai
è omesso) – testimonia un lavorio incessante, un tentativo di addomesticare una
materia incandescente e ricondurre l’eroe bastardo entro schemi più
rassicuranti, più “letterari”.
Il crepuscolo dell’eroe è segnato dalla malattia, dalla consapevolezza del
declino fisico e dall’avvicinarsi della morte. La tradizione posteriore, in
particolare i canti popolari akritici, amplificherà questo momento finale,
immaginando un’ultima, titanica lotta di Digenis contro la morte personificata,
Charon o Thanatos. È l’unica battaglia che l’eroe è destinato a perdere. Questo
confronto finale con l’oblio rappresenta il limite invalicabile di ogni potenza
umana, la vanità ultima di ogni conquista terrena. La morte di Digenis,
descritta quasi come un anticlimax nel poema – con la moglie che opportunamente
spira prima di lui – distanzia ulteriormente questa epica da quella
convenzionale. Non c’è apoteosi finale, ma lo spegnersi di una forza immensa di
fronte all’inevitabile.
> “Vedete dove mai giace l’audacia del valore!
> Vedete dove mai giace il Digenis Akrita, il fiore dei Romei”
Andrea Falco Profili
L'articolo “Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina proviene da
Pangea.
Non occorre manomettere un testo tanto perentorio, ci si inoltri in un versetto,
si costruisca un cantuccio nei suoi meandri. Scelgo il primo versetto del
capitolo 5; questa è traduzione alla lettera:
> “Non affrettare la bocca, non precipitare il cuore a eruttare parola davanti a
> Dio, perché Dio è in cielo e tu in terra: perciò siano rade le tue parole”.
Intanto: si parla a Dio con la bocca (peh) e con il cuore (leb). Esteriore e
interiore debbono combaciare. Il cuore ha porte e ha bocche; la bocca sia la
brocca del cuore.
Il punto è per sempre quello: come si parla a Dio? Qual è la parola che permette
udienza da parte di Dio? Se è vero che ciò che chiediamo ci sarà dato, come
chiedere? Qual è il linguaggio di Dio?
Poche parole, dice Qoelet, scarsità di verbo, fare del vocabolo umano deserto.
Cosa scarsa, scarna: parola-ostia, parola-briciola.
Qoelet è libro dell’asserzione assoluta – è un libro all’assalto. Così breve
– siano rade le tue parole: parola rase al suolo, cioè: rare – da infuocare
l’intero Testo. La frustrante ripetizione di tutte le cose – stagioni; creature;
fatti – testimonia che l’uomo è poca cosa, ombra che fugge, erba che sorge al
mattino perché sia tagliata a sera. A tutti – saggi come stolti, potenti come
poveri – è assegnata la stessa sorte: morte. Per ogni creatura – uomo o cane che
sia – è apparecchiata la stessa meta: Sheol, il regno degli spettri. Dio ci ha
insufflato l’anima, a Lui va resa – rasa. Al ricco sarà tolto ciò che ha, il
povero sarà depredato perfino di ciò che manca. Con metodica crudeltà Qoelet
elimina ogni certezza: in fondo, Dio equivale al Caos.
Corroborante è questa certezza del nulla: ci permette tutto – l’antinomismo è a
un passo.
Eppure, esiste lo spiraglio. Poche parole bastano a sfigurare la distanza tra la
terra e il cielo, ad avvicinare il Dio mai così distante dall’uomo (ma lo è pure
il Cristo, a intendere le stimmate più abissali di ogni mai pensato Sheol, la
Croce più ineffabile di ogni Babele mai costruita).
Già. Ma… quali parole?
“Per te il silenzio è lode”, dice il Salmo 65. Dumiyyah: silenzio, attesa in
quiete. Veglia silente.
Che cos’è questa preghiera silenziosa, di rade parola, che non si affretta, che
è in perenne veglia?
Forse è la preghiera che ossessionava il pellegrino russo, sconvolto dall’invito
che Paolo fa ai Tessalonicesi: “pregate ininterrottamente” (5, 17). Quali sono
le “rade parole” che permettono la preghiera senza interruzioni? Secondo la
tradizione cristiana, in particolare ortodossa, tali parole sono raccolte, in
simbolo, nella cosiddetta “Preghiera del Cuore”, mutuata dal Vangelo di Luca
(18, 13): “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!”
(Κύριε ἸησοῦΧριστέ, Υἱὲ τοῦ Θεοῦ, ἐλέησόν με τὸν ἁμαρτωλόν).
Rade, rare parole che non costringono Dio all’ascolto, ma aprono il nostro corpo
– petto/orecchio; costato/occhio – ad ascoltare ciò che Dio ci dice. Preghiera
da sussurrare di continuo per conferire un’aura al nostro fare, per illuminare
l’opera. Parola che inchiavarda il cielo alla terra.
Il versetto di Qoelet, tuttavia, continua in questo modo:
> “…perché arriva il sogno dalla troppa attività, il dire del vile dalle troppe
> parole”.
Chi parla troppo è un cretino (kesil), uno stolto, un seguace del gregge. Si
ostina al discorso – il logos greco –, inutile a incatenare Dio. Il discorso,
vanto dei filosofi, rimarca Babele: il linguaggio che doveva unire Dio all’uomo
ha sancito irremovibile divario. La parola umana non sfiora l’Impronunciabile;
per giungere a Dio bisogna percorrere l’aldilà del linguaggio – le “lingue degli
angeli”, la “glossolalia”, lingua-fiamma – come fanno i poeti, o essere da Lui
invasati, invasi come accade ai profeti. Non si dà Dio in lingua umana, capace
di sondare l’evidente, inabile al cospetto dell’invisibile. Per dirla come Lev
Šestov,
> “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella storia. Egli è il
> ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia”.
Il sogno (chalom), qui, è agli antipodi della veglia, non impreziosisce la vita
ma la svia, la inselvatica in un roveto di sinistri segni. Il sogno – che pure
ha parte nella storia della salvezza: si guardi alla storia di Giuseppe, che i
sogni dissigilla – è da Qoèlet deprezzato a segno della vita australe a Dio:
nell’esatto dire, hahalowm consuona con haelohim, Dio, appunto, nella sua più
neutra accezione, il dio moltiplicato in dèi. I sogni creano dèi, ci
imbambolano, inibiscono la via a Dio, sono la controfigura dell’idolo. In questo
caso, il sogno è in contrasto con il detto (neum) e l’oracolo (massà) che Dio
concede al profeta: analoga differenza tra miraggio e miracolo, tra negromante
ed eletto, tra mistagogo e vagabondo del mistero.
Il pensiero è estremizzato nel versetto 6:
> “…nella folla dei sogni è vanità come nelle troppe parole: perciò ti
> impaurisca Dio”.
Troppe parole intrappolano, bocca che tarpa la levità del cuore (ormai sede del
male: “pieno di male il cuore dei figli dell’uomo”, dice Qoèlet, 9, 3, ripetendo
l’originaria asserzione di Dio: “ogni intento del cuore umano è incline al
male”, Gn8, 21). I sogni: meri preamboli di nebbia, come il discorso umano.
Desto o addormentato, l’uomo vaga tra vanità: la mania del calcolo –
circoscrivere in numeri la realtà – è pari al delirio di chi divina i segni
tratti dal sonno, declivio nelle inconsistenze dell’incubo. Sembra di udire
Eraclito: “È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il
giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo
mutando son questi”.
Eppure, ancora. Come si parla a Dio, come parla il dio?
Il verbo umano fermenta idoli, eccelle nell’ideare miraggi. Ci è voluto il Verbo
– inchiodato come una falena, flagellato fino all’omega, franto e frainteso –
per distruggere il vocabolario. Vocabolario: ghigliottina dell’uomo – formulario
di inganni.
> “Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine,
> il nesso in cui si presentano le parole rivela che non si tratta di parole
> umane, bensì di parole divine. Di qui il carattere esteriore dell’oracolo:
> l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza”.
>
> (Giorgio Colli, La nascita della filosofia).
Così, nel mondo greco classico: deragliare del linguaggio, delirare, singulti
sul bavero della bestia, lacerti quasi increati di verbo, diverbio, animosità
dell’amnio verbale. Da qui – come ai primordi dell’avventura cristiana – il
carisma del ‘traduttore’: uomo capace di interpretare, trasformandola in gergo
umano, la lingua divina.
Dunque, nel mondo greco, la divinizzazione dell’enigma, “la manifestazione nella
parola di ciò che è divino, nascosto, un’interiorità indicibile” (Colli), che si
sfa, nell’evo volgare, gioco di parole, rebus verbale, corazza retorica. Dalla
Pizia alla Sfinge, dall’oracolo di Delfi all’idolatria della Ragione – Edipo –
che sovrasta il Mostro – la Sfinge, che minaccia tramite indovinelli – ma infine
si acceca. A chi domina l’evidente sfugge la terribile evidenza della verità.
La mistica: tentativo di sobillare il linguaggio.
Da qui, l’incanutirsi del linguaggio in concetto, in bruma di bizantinismi, nei
principi, nell’essere/non-essere, nel vero vs. falso, nella ‘logica delle
cose’.
Beata filosofia che tutto insegna tranne il dio, che decide di recidere i
rapporti con il dio, per sempre.
Beata teologia: ragionare su Dio perché ci è sfuggito. Cingere in formule
l’informe.
Beata divinità logica: la legge ci insegna cosa è bene fare e cosa non bisogna
fare; linguaggio come corda, prigione, calcina della società.
Bisogna capirsi – da qui, gli azzeccagarbugli, gli irresponsabili, gli
esoteristi del linguaggio massonico, specifico, degli ‘esperti’, potere che
scimmiotta il dio; la sentenza: esigua, inerte, becera imitazione dell’oracolo.
Che cosa mi stai dicendo? Perché non mi capisci?
Linguaggio: solo scandaglio del cuore – ma non scendiamo nel nostro abisso con
la lanterna, a illuminare le beneamate oscurità. Spacchiamo il lume, che si
infervori in fuoco. Fuoco-volpe, fuoco muta di cani in corsa.
E la poesia? Ipotesi di linguaggio angelico, ci addestra a spezzare l’ordinaria
lingua. Ci addestra all’altro mondo del linguaggio – il solo.
Nel dire di Qoelet, che annienta evidenze e certezze, alla via dell’edonismo –
ebbrezza che raddoppia la vanità; cruenta ironia: consumiamo ciò che ci consuma
– segue quella dell’obbedienza. Imputridire nel timore di Dio. Lo ripete ancora
a sigillo del rotolo: “Paura di Dio, osservanza dei suoi comandi: tutto questo è
l’uomo” (12, 13). Yarè è proprio la paura, il terrore di Dio; è riconoscere la
propria vergogna, l’insuperabile distanza da Dio. “La tua voce ho udito nel
giardino e ho avuto paura perché ero nudo e mi sono nascosto”, dice Adamo a Dio
(Gn 3, 10). “Paura di Dio” significa: memoria della caduta. Dalla “paura di Dio”
comincia il percorso della salvezza, il rapporto tra Dio e l’uomo – “paura” è,
per paradosso, l’anello nuziale tra Dio e uomo – il punto in cui si è sciolto un
rapporto e si inaugura un nuovo patto. Mutilazione, massacro, frainteso, finché
il Verbo non fonderà un nuovo vocabolario, il Dio ineffabile si farà volto,
carne, corpo da abbracciare e deporre, da ungere con olio e fustigare.
Adamo ha paura di Dio perché è nudo – all’uomo è chiesto, fuori dal Giardino,
atto di più radicale denudamento, suprema spoliazione.
All’opposto equinozio di Babele: l’arca – Noè – e la culla – Mosè. Spazi in cui
rifugiarsi, oggetti che veleggiano sulle acque – ipotesi di nuova creazione.
Lingua-arca; lingua-culla. Le tavole dell’alleanza – verbo che si struttura in
legge per incapacità di intendere l’oracolo – custodite nell’arca: che
ringiovaniscano, che ritornino bimbe. In Eden non c’è legge: si parla come una
fioritura. Parole come foglie che sventagliano.
Tra Babele e arca/culla (arca: culla per tutti): il tempio. Il tempio non
racchiude Dio, non ne è la gabbia: è luogo d’incontro. Nel tempio posso trovare
Dio – o posso perderlo.
Nel tempio si risillabano le antiche parole per invitare Dio all’incontro.
Parole pari alla dipintura dell’icona. Parole-gesto, parole che ricalcano gli
stessi gesti, perché Dio appaia. Ma la ripetizione è ricreazione. Chi confida
nel ‘nuovo’ è un idolatra, un apostata.
Spogliarci del linguaggio.
L’estrema spoliazione è terribile. Defraudare il Nome per tentare il proprio
nome. Farsi arca perché l’altro in noi si sieda.
Dunque: imparare le lingue dei passeri, arcangelici, e quelle della formica,
della cimice, del capriolo.
Linguaggio: arte di trasalire – di travalicare.
Dunque: Vanitas vanitatum, farsi vanto della vanità. Vanità-vento. Incenerire
tutto perché da quella cenere Dio ci rifondi. Rifilare il vento – rifondare il
respiro.
**
Da “Qoelet”
9
Nel cuore ho sperimentato questo:
le opere dei giusti
l’estremismo dei santi
tutto è tra le dita di Dio
l’uomo non sa perché ama
ignora il raduno dell’odio
Stessa sorte per tutti
il giusto e il vile
il puro e l’impuro
chi fa sacrifici e chi dissacra
il buono e il peccatore
chi giura e chi scongiura
È male tutto
sotto il sole
stessa sorte
per tutti
nel cuore dell’uomo
alligna il male
follia nei suoi lembi
il fine è la morte
Speranza tra chi fluttua
nella flotta dei vivi:
un cane vivo è meglio
di un leone morto
I vivi sanno di dover morire
i morti non sanno nulla
privi di salario – memoria
tra i sali dell’oblio
Ciò che hanno amato
i motivi della lotta
e della gelosia: tutto
è cenere, pericope del lutto
per loro non c’è più posto
nel mondo arreso al sole
Allora:
godi e mangia
bevi il tuo vino
divora i cuori
Dio gratifica
le tue opere
Indossa bianche vesti
olio purifichi il tuo capo
La vita è vana: glorifica
i giorni con la donna che ami
unico sconto alla fatica
al dolore sigillato dal sole
Finché il corpo ti aiuta agisci
non c’è opera né sapienza
nello Sheol – tutto è insensato
tra le ombre dove andrai
Così è sotto il sole:
non va ai capaci la gara
la guerra non la vincono i forti
il pane non lo morde il santo
la ricchezza non sorride ai
geni
né agli scaltri la grazia –
su ogni cosa è il dominio del caso
L’uomo ignora la sua ora
come pesci presi tra perfide reti
come uccelli intrappolati dai lacci
il male migra sui figli dell’uomo – è ovunque
Verità sgravata dal sole:
Misera città
miseri uomini
la assedia un re
onnipossente
aureola di mura
Un santo di scarsi natali
salva la città ma nessuna
memoria lo onora –
E mi dico:
preferisci la sapienza
alla forza – eppure
il santo impoverito dal fato
è sfottuto – le sue
profezie negate
Deglutisci con cura
le parole del santo
ignora le urla
di chi alleva viltà
Anteponi la sapienza
alle armi – ma una
breve colpa avvelena
un grande bene
*Si pubblica per gentile concessione parte dei materiali editi in: “Qoelet.
Nella traduzione di S. Arduini, D. Brullo, M. Bontempelli”, De Piante, 2025
*In copertina: Kazimir Malevič, Quadrato rosso, 1915
L'articolo “Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet
proviene da Pangea.