Fu, al principio, una visione erbivora. Ma quando cade la sera, alle pendici
dell’Aspromonte, è come un sigillo che si spezza, come una trappola che si serra
– tutto è prono al frainteso; non esistono ombre – acronimi della luce, semmai.
E ciò che era preda, si svolge nel predatore.
Insomma, dovrei scrivere un trattato sulla dedizione e uno sull’abbandono.
Perché ogni forma di dedizione è autentica se procede dall’abbandono – se lo
precede. Che è poi: falconeria dello stare al mondo – abituarsi a scegliere con
chi accompagnarsi dalle mani, mai dai volti – mere, metodiche maschere.
Caterina Dufì – credo sia pugliese, credo viva a Bologna, credo sia a questo
mondo dal 1998 – si fa chiamare, quando musica, Vipera. È un nome strano,
sacrificale, nel caso suo: se la si vede dal vivo – senza la triangolazione
fotografica, senza quella genia di immagini – Caterina è quella che si fa
bersaglio della Vipera, creatura che dardeggia, che eccelle nello scatto e nel
veleno. Dedizione al feroce, allora, purché si abbandoni la ferocia. Si dirà:
Caterina è l’avvelenata, il balenio del veleno o l’antidoto? “Le vipere
strisciano ovunque, senza contare quelle che si hanno nel cuore”, dice una quasi
bambina a Don Miguel, tragico co-protagonista di Anna, soror…, il più perfetto
tra i racconti di Marguerite Yourcenar. La bimbetta, calabrese, figlia di un
incantatore di serpenti, dice un’altra cosa: “Ci sono molti nomi che è meglio
non conoscere”. Poi si dice di malattie meridiane, di amori panici e platonici,
e di “brodo di vipera”. Mi è venuto in mente questo racconto ascoltando Acerbo e
divorato, il primo album di Vipera, uscito un paio di anni fa. Chi conosce i
nomi, ne sussurra alcuni, ne fa scorta – altri, li modella all’urlo.
Soprattutto: di ogni nome va aperta la corazza, il carapace che ne inghiotte il
senso. Ogni nome è un paravento: nasconde serpi – o tigri azzurre.
Acerbo e divorato è un album molto bello, che spiazza l’ecumenico andito
dell’odierna musica. La ballata trobadorica si mescola all’elettronica, qui,
Franco Battiato è commisurato ad Antonin Artaud e a Claudia Ruggeri, la
poetessa, a cui è dedicato un pezzo, il primo, Il matto. Su tutto, aleggia lo
spettro di Amelia Rosselli, la Santa Caterina della poesia italiana. “Che di
alcune cose ti basti solo il nominarle. Guardare la lenta impollinazione di
questi fiori bianchi”, bisbiglia Vipera – ma è voce marziale, che s’impiglia
all’osso frontale – in un pezzo che s’intitola Il macedone. Allo stesso tempo:
un’ingenuità che fa inermi – e uno stare al gioco del pericolo. Dal corpo della
colomba si dirama la vipera, con andatura da pianta, da vivente che mette
radice.
Vipera, cover di Acerbo e divorato, photo Alessia Rollo
Poiché è alla ricerca di un’integrità infallibile – che significa: sapere i
punti d’acqua, i punti di flessione, dove la carne è debole – Vipera non ama
parlare di Acerbo e divorato, è già oltre. Non ha tempo di sanare ferite e di
curare l’alfiere di ritorno dalla crociata: a quell’addestramento non si
ritorna, non ha senso né sede. Altra autonomia richiede il durare, il duraturo.
Così, mi fa dono d’ascolto. Tra i nuovi brani, uno si chiama Angelo nero,
attacca così: “Adesso che sta a me farti una domanda lucida, arrivare fino in
fondo a dove forse poi ti trovo di mandorla o di niente”. C’è un decoro, una
indecorosa accuratezza nel modo in cui Vipera usa le parole che va per la
rettitudine dei rettili, è vero. Attacca, stana – e dunque: quel suo bisbiglio,
una voce con le squame, che ti dichiara da un andito del bosco dove per i più è
patria di ululati, di ungulati in schiera.
A vederla, dico, Caterina, fu visione erbivora. Un erbario di occhi ampi, la
figura di una cosa offerta, d’altura. È strano, si dirà, che una creatura
simile, un essere d’aria, abbia scelto a protezione lo stigma di una bestia di
terra, che striscia. Ma qui è il miracolo: l’innocente che s’incarica di tutti i
veleni, che se ne fa carico, ne fa arco. Anima, forse, è un regno senza più
porte: essere quel che si è e abbeverarsene; anima è un altro modo di dire sete.
L’anima bella sibila, come la vipera – per i falchi, non è che la bianca
circostanza della caccia.
Perché Vipera? Chi è vipera?
Suggerivano di non attraversare la macchia mediterranea a mezzogiorno, quando il
sole bacia i rettili.
L’insidia, l’allerta che evoca il serpente, insieme a un’idea marziale che in me
suscita (un rivestimento, una muta, un alfabeto sulla loro pelle che
cambia). Un’immagine così forte è protezione.
Sono elementi che hanno sempre destato in me un grande fascino, e mi sono fatta
ospite loro. Ho scelto questo nome anche (e soprattutto) per il suo suono. Mi
piace l’innesco di quelle consonanti aguzze e il fatto di avere la possibilità
di scegliersi un nome ulteriore, diverso da quello che ho ricevuto in dono.
Perché non usi il tuo nome nei dischi: necessità di scudo, di slancio, di
disastro? Che un nome esista per annientamento?
Quando vado in scena cerco di presentarmi in uno stato vigile, sincero,
inscalfibile. La scena è anche tipografica, comunicativa. Ho anche una grande
passione per gli pseudonimi, i nomignoli, le parole inventate. Per questo ho
scelto un altro nome, che non sia il mio, che mi aiuti nella ricerca di una
postura diversa dal quotidiano.
Che cos’è “Acerbo e divorato”, cosa significa, da dove nasce?
Uno slancio, un tuffo a candela. Un sogno sui rapporti di consanguineità, sui
legami come vincoli e come ramificazioni su cui arrampicare gli occhi.
Un bambino di sei anni scala l’ulivo e arriva in cima, la sua testa sbuca dai
rami e vede, in fondo alla campagna, il mare aperto. Poi una vela. Da lì sogna
di prendere il largo. Lo prende. È un’immagine di giovinezza feroce, che vuole
consumare tutto, avere tutto tra le mani. È un sentimento che mi sorge se penso
al fiore giovane prima della catastrofe. Un’asincronia.
Durante la scrittura di Tentativo di volo, l’EP che precede Acerbo e divorato,
mi è saltata in mente l’immagine del frutto staccato, acerbo. Il gusto che
lascia in bocca – il doppio strappo che crea, nel gesto e nel sapore. Questo
titolo è in realtà il verso di un brano che non ho mai pubblicato. Ho notato che
anche isolato restava denso. Acerbo e divorato lo vedo un po’ come un disco di
formazione, in cui la ricerca sonora e stilistica hanno avuto la meglio
sull’omogeneità di un album musicale.
Così mi sentivo nella mia camera, fumando sul tavolo e guardando al cielo, così
è sorta questa immagine.
Che cos’è per te il verbo, la parola, la poesia? Che cosa la musica?
La parola è una capienza, una misura di efficacia, nitore, brillantezza. È un
evento magico, dove materiale e effimero si scambiano i ruoli, danno vita a
figure, a proposte, progetti sul mondo. Penso a fenomeni fisici, al prisma che
scocca in raggi colorati. Al miraggio, o alle visioni annebbiate da qualche
incenso. Penso a come la parola che prefigura possa agire in misura bipolare nel
negativo e nel suo opposto. Domina, lenisce. La musica e la poesia sono un
luogo di rifugio, una lente felice, che mi tiene accesa e disarmata.
Spiegami “Anime (intermezzo due)”; dimmi cos’è “l’equivalente spirituale
dell’oro”.
A.A.! Le Momo!
Anime è un brano in cui le parole sono un’esortazione, un’auto-esortazione al
restare in vita, nel suo senso più elevato e brillante, oltre alle distorsioni
degli eventi.
“Il teatro alchimistico”, è da lì che deriva “l’equivalente spirituale
dell’oro”. Antonin Artaud ne parla cercando un punto di congiunzione tra
materiale e spirituale. Poter arrivare all’oro, nella mia metafora è una vetta,
che si raggiunge oltrepassando stadi brutali, “malandando”. E “l’anima bella”
nella canzone è esortata a malandare. Così questa vetta dorata può essere
raggiunta nel corpo, attraverso il corpo. È qui che si evolve una parentela
metallica, stavolta in un travaso organico. Qui una ricerca analoga può essere
condotta, dalle funzioni vitali ad un sopra, un’esistenza di spirito che
coesiste, nutre, alimenta quella materiale. Ecco l’equivalente.
In controluce, nel disco, leggo Hegel, Claudia Ruggeri, i provenzali, i
Mirmidoni… cosa te ne fai di queste più o meno occulte citazioni? Cosa te ne fai
della ‘cultura’?
Altre, ancora camuffate, ombrate, tradotte. Ci sono dei concetti che hanno
guidato la scrittura di Acerbo e divorato, immaginandolo ancora come un disco di
formazione. L’anima bella di Hegel, per esempio, è una figura che non scocca,
non cade, non urta, non vive. Ho preso questo ritratto e indossandolo ho cercato
di scardinarlo. Stessa cosa con la poesia della Ruggeri, nell’idea che una
metafora per la crescita possa essere l’andare, il numero zero, l’inizio. In
particolare nel primo brano del disco, Il Matto, avevo il desiderio di ridare
voce a quei versi meravigliosi che aprono la raccolta inferno minore di Claudia
Ruggeri.
Mi servo di strategie labirintiche per il lavoro sui testi, in maniera analoga a
come avviene nel sampling e nell’elaborazione dei frammenti audio. È un processo
simile, che porta alla composizione di significati attraverso un sistema di
citazioni che volendo si svela, indica un disegno nuovo sul tappeto.
Cosa leggi? Dimmi: il poeta che continua a folgorarti; la poesia che hai tatuata
nella cosa detta cuore.
Tornando da casa penso a una poesia di Carlo Bordini. Lui si guarda allo
specchio ed è sicuro che i suoi non lo abbandoneranno mai, ritrovandone i
lineamenti, i modi.
Ma quella che mi buca il cranio è “Se sinistramente ti vidi apparire…”
da Documento di Amelia Rosselli.
Esiste l’anima? Che cos’è?
A dodici anni mi è capitato di percepirne la sede: è come un’intercapedine sotto
pelle, che divide la cute dal resto, dall’interno organico del corpo.
Cosa c’è dopo la morte?
La ricombinazione dei miei vecchi atomi di carbonio.
Confidi in qualcosa, ti arrocchi in qualche fede?
No, ma credo molto nel lavoro su di sé, pensato come educazione all’equilibrio.
La gratitudine che provo in alcuni momenti della vita mi porta ad uno stato
simile alla fede, acceso e sincero.
Qual è la tua bestia araldica, a protezione? Da cosa, poi, bisogna proteggersi?
Proteggersi da quasi tutto, ma il mio trucco è giocare sulla velocità. La
creatura che mi accompagna è il colibrì, certe volte – all’apice – il falco.
Esseri leggeri, esseri record in velocità.
Stai scrivendo – cosa?
Ho passato l’estate a scrivere un disco nuovo, un insieme di brani che ho in
parte suonato a lungo dal vivo, ora cerco un modo di fermarli, per farne un
album. Vorrei assumesse la flessibilità di una lamina metallica che oscilla.
Saranno sistemi elettrici, arteriosi.
Sto lavorando anche a un progetto in duo, con un’amica performer e autrice,
Eugenia Delbue. Ci chiamiamo ETEREA NOISE e uscirà presto il nostro primo album,
versante sonoro dello spettacolo che ha nome Radio Tunnel, per Zoopalco-Zpl,
etichetta bolognese di spoken music.
**
I.Teatro Cava / Ferina
Lavo i denti allo specchio con gli occhi sgranati
come per prepararmi all’ammutinamento
senza sapere da che parte sto
senza pregarti a sangue di non cadere dalla trave.
Immagino una scena scavata dentro ad un grande pezzo di tufo
dove mi hanno promesso che ti potrò assalire
la tana è profonda.
*
ho mangiato l’uva raccolta ho guardato nel centro del sole e non vedendo ho
puntato il dito
per caso
di nuovo
contro di te
II.
C’è una grande quantità di cadaveri di rana sulla strada che porta da un paese a
un altro, attraversano l’asfalto e non sempre arrivano dove devono.
Descrivere è implicito capire.
Ore che ho contato, ora che – uno ad uno – i fili d’erba le attraversano, nel
disordine che sembra sempre senza rimedio, un pensiero oltrepassa queste parole:
sono questi i momenti in cui mi sento particolarmente piccola.
*
III. Reset
aspetto finché non cala
aspetto finché non cade
aspetto finché non cedo
finché non cala
finché non cedo
fino alla fine del fiato
al tuo tempo diverso – più veloce
a un certo punto coincide:
arrivo a parlarti per davvero
umidità tocca corrente.
Attraversando la macchia mediterranea vicino al mare e dalle parti di Torre
Chianca, raccogliamo asparagi selvatici e mi racconti che le centrali
telefoniche, ai tempi tuoi, erano grandi quanto edifici. Quando non sono più
servite, sono state vendute a venticinque lire al chilo e tu hai cambiato
lavoro.
I blocchi relè, pieni di contatti, sono stati smontati e fatti passare uno a uno
lungo un nastro.
Un magnete attraeva a sé i materiali preziosi: il rame, l’ottone, l’oro.
Si tratta di cercare un modo in cui la traccia continua e scava i segni:
pensieri-correnti, che a lungo frequenti: linee su linee nel cranio che prendono
e mantengono una consistenza: una stanza da abitare in piedi e così piena da non
chiedere agli arti di tenerti.
La traccia continua, descrive un comportamento probabile: un mondo piccolo,
personale, in cui la storia arriva come un sedimento: una ricerca dell’oro, per
equivalerlo.
Camminiamo, e non ti lamenti del caldo alla testa. Attraversando una rete si
accede alle zone in cui la costa scogliosa viene segnata in superficie da
piccole faglie continue: ogni goccia che cade disegna – graduale – le aree dove
tra un po’ lo scoglio cederà.
Ci facciamo sismografi, geologi, trekker, ma ci troviamo spesso a camminare lì
sopra, i nostri scogli li conosciamo. Tu una volta sei caduto, ti sei rotto il
naso e dici che da allora respiri meglio.
Non posso scappare se l’allerta arriva insieme al crollo,
cosa corro a fare con la caviglia che mi ritrovo?
Cosa corro a fare?
Aspetto
finché non cado,
fino alla fine del fiato,
al tuo tempo diverso, più veloce.
*In copertina: Vipera in un ritratto fotografico di Clarissa Lapolla
L'articolo “Finché non cado, fino alla fine del fiato”. Dialogo con Vipera
proviene da Pangea.
Source - Pangea
Rivista avventuriera di cultura&idee
Homo Poeticus
In un momento come questo, nel quale il gesto di scrivere libri ha perso ormai
totalmente di senso, tanto che forse sarebbe meglio il contrario, la poesia
resta l’ultimo baluardo a proteggere questa sacra vocazione, l’unico presidio in
difesa di un tempio troppo spesso profanato in maniera ingiusta; si tratta di
un’esperienza, una delle pochissime fra quelle una volta elettive, che ancora e
per fortuna non è scesa alla portata di tutti, o di chiunque intenda farsi
chiamare autore o autrice perché ha espettorato qualcosa su un foglio cartaceo o
digitale. Tutto questo è successo se non altro perché il verso ha delle regole,
una musicalità, una complessità anche strutturale, cose che vanno imparate e poi
rispettate, concetti estetici che costitutivamente non possono essere alla
portata di prosatori pedestri e occasionali.
Il poeta vero e di talento autentico sa rispettare le regole della composizione
in modo naturale e ignaro: il genio è anche padronanza tecnica sublime ma
inconsapevole. In più la poesia ha anche una storia, che la rende unica, e ogni
opera in versi si colloca in un fluire atemporale, mentre invece, oggi, chi
scrive, non considera niente e nessuno oltre sé, pensa di essere il primo e
l’unico al mondo, trascurando il fatto che prima di lui ci sono stati Pablo
Neruda, Josif Brodskij, Sylvia Plath, e Emily Dickinson. E la poesia è protetta
non solo delle regole imposte dal metro, ma anche da quell’istanza autoriale
unica nel redigere l’opera, che è qualcosa che anima solamente il poeta, il
quale si distingue per la sua voce innocente, la limpida spontaneità, la grazia
sorprendente. Tutte cose totalmente antitetiche rispetto alla meschinità
borghese, contro la quale la silloge di poesie ci regala un sentire di nuovo,
nudo e puro, una fresca lettura delle più banali movenze della vita, alla luce
di una superiore sensibilità. Concetti unici, che fanno di quelle parole una
sorta di osservatorio distintivo, una peculiare finestra sulle cose, a cui
consegue una diversa visione del mondo.
Ben lontano da qualunque eventuale soluzione consolatoria, il poeta vero mischia
con naturalezza il comico e il tragico della vita, la storia del mondo, e gli
eventi personali. Vede le cose basse ancora più dal basso, e sa elevarle ancora
più dell’alto. Si sente perseguitato da guardoni curiosi e cinici, e provocato
continuamente dalla bruttezza e dalla volgarità dei suoi contemporanei. Offeso
da tutto ciò si scava una tana dentro di sé, e nello sforzo lirico, emette un
segnale di sola andata, come un’antenna che spara messaggi nello spazio
disabitato del cosmo. Crea nuove sensibilità nelle coscienze, attraverso il
recupero di sentimenti antichi, è drammatico in senso classico, ma ciò
nonostante sa anche innovare, costringe i lettori a comprenderlo, superando così
l’invisibile e pigra immobilità che ci impedisce spesso di capire noi stessi.
Tutto questo privilegio nel sentire non è ripagato con la gloria e con la
ricchezza, ma al contrario, il poeta ottiene in cambio solo un grande dolore ed
una irreversibile solitudine. (Sandro Bonvissuto)
**
Dal vostro al mio esilio
Oh, voi immortali
poeti d’ogni dove:
poeti d’oltre oceano
e della madre Russia.
Poeti impanicati
e poeti sbeffeggiati
nascosti e salvati in ogni angolo del mondo;
poeti suicidati e poeti martoriati nella Storia,
io vi dico:
non solo nel libro di Davide è il mio esilio,
ma nei vostri libri!
In tutti i vostri libri che traboccano versi intoccabili,
io ritrovo vita e respiro
e seppur solo – seppur solo! –
attraverso le parole d’ogni tempo: libero.
Perché l’epoca è adesso
nella lettura d’un sacro verso;
qui e ora,
nella letteratura che dà senso
al più profondo isolamento.
*
a Gian
Ruggero Manzoni
Quell’uomo sconosciuto ha ucciso uomini,
è stato nei servizi segreti,
ha conosciuto Pier Vittorio Tondelli.
Quell’uomo un giorno mi ha osservato
si è avvicinato, e con un atto di umiltà e rispetto
mi ha stretto la mano.
Quell’uomo si chiama Gian Ruggero Manzoni
e crede in dio.
Cosa pensa di Amelia Rosselli e di Borges non lo so,
ma li ha conosciuti.
E quella notte, quando ci siamo salutati, mi ha detto:
«È come se ci conoscessimo da sempre».
*
Del dolore ne conosco la rosa
lo stelo e la spina.
Del dolore forse avverto la causa,
ma è il suo silenzio o il suo grido
ciò che mi affascina e mi riavvicina a dio.
Nel dolore riconosco una sequela,
un qualcosa di tradito,
un petalo spezzato
all’improvviso dal tormento.
Ma è il dolore della mente,
il silenzio dell’anima,
quello più inquietante.
E quel poeta che ne soffre ancora,
considerato pazzo da qualcuno,
in realtà sta tessendo
un poema d’amore.
Con le sue parole
rende vero un profumo,
colora le rose d’un rosso potente;
ne incarna il sangue, ne ribolle.
Dunque, che sia la tua rosa
la causa di tutto questo poetare?
Di tutto questo soffrire?
La tua rosa alchemica,
la mia alchemica rosa,
che nascondiamo da sempre al mondo
ma non a un amico di una sera soltanto.
Perché quel nostro incontro di poeti,
oltre a dare il senso alla scusa di uno sfogo,
permette al cuore di rinascere;
come quando una musa ti ama per davvero.
Giorgio Anelli
*I testi, compresa l’introduzione, sono tratti dall’ultimo libro di Giorgio
Anelli, “Rosa alchemica, alchemica rosa”, Ensemble, 2025
*In copertina: Peter van der Doort, Amphiteatrum sapientiae aeternae, XVI sec.
L'articolo “Del dolore conosco la Rosa”. Sulle poesie di Giorgio Anelli proviene
da Pangea.
Nato a Strasburgo nel luglio del 1856, Léon Wieger avrebbe dovuto percorrere la
stessa carriera del padre, insigne professore di medicina all’università. I
genitori lo avevano adornato di un paio di altri nomi – Georges e Frédéric –; il
ragazzo, per devozione, si iscrisse a medicina. Resistette per un biennio:
folgorato da Cristo, entrò come novizio nei ranghi della Compagnia di Gesù a
ventiquattro anni. Compì l’addestramento a Drongen – Tronchiennes in francese –,
nelle Fiandre, presso l’antica abbazia benedettina passata da poco, dopo alterni
disastri, ai Gesuiti. Ordinato sacerdote nel 1887, Wieger volle impiantare il
suo estro ‘scientifico’ nel cuore dell’ordine; ad ogni modo, preferiva
avventarsi: quello stesso anno, partì per la Cina, presso la diocesi di
Xianxian, nella provincia di Hebei, non lontano da Pechino. Non fece più ritorno
in Europa. La diocesi era stata eretta da papa Pio IX una trentina di anni
prima, affidandola ai missionari gesuiti. Lì Léon Wieger espresse il suo genio:
imparò il cinese, andò a caccia di testi perduti, tradusse in francese i libri
della tradizione taoista e buddista. Morì, dopo una vita di studi più che di
apostolato, nel marzo del 1933, in Cina.
“I suoi lavori, destinati ai missionarî, sono guide talvolta indispensabili, per
gli studiosi europei, per lo studio della scrittura, della lingua, della storia,
delle credenze religiose e delle opinioni filosofiche della Cina”. Così scriveva
Giovanni Vacca (1872-1953), che con Wieger condivideva la passione per la
scienza – era stato assistente di Giuseppe Peano – e per la sinologia – occupò
la cattedra di Storia dell’Asia a Firenze poi a Roma. A Wieger dobbiamo studi
su Les pères du système taoïste (Laozi, Liezi, Zhuangzi), stampato nel 1913, e
sul Folklore chinois moderne (1909); compilò uno studio sulla Histoire politique
de la Chine (1929). A dire – come diceva Ezra Pound – della necessità di
studiare la Cina; a dimostrazione che l’uomo ‘occidentale’ – brutto & cattivo
che sia –, nella sua essenza, più che piegare, comprende, più che piagare,
studia. Non si tratta di ‘illuminati’, per altro: era il buon senso ‘pratico’ a
fare di Léon Wieger un formidabile scopritore di testi perduti. I suoi libri
vengono ancora ciclicamente ristampati in Francia.
Erano anni, tra l’altro, in cui tutto un mondo era attratto verso Est, verso
quell’attraversamento, alla ricerca di una sapienza remota, definitiva. Penso
alla traduzione dell’I-Ching a cura del missionario tedesco Richard Wilhelm
(1929), agli studi sul Tao Te Ching di Arthur Waley (1934; ma la prima
traduzione inglese è del 1868, del missionario scozzese John Chalmers), alle
esplorazioni di Giuseppe Tucci in Tibet, negli anni Trenta, agli studi
dell’orientalista statunitense Ernest Fenollosa (morto a Londra nel 1908)
ereditati da Pound. Ma anche, ai ‘tentativi’ verso la Cina di Lev Tolstoj,
studioso di buddismo e taoismo. Un intero mondo intellettuale, per oltre un
secolo, si è mosso e ha studiato nell’estremo Oriente. La Chinoiserie si riversò
nel pensiero occidentale, conferendogli ‘leggerezza’: Mario Novaro, il poeta
ligure che si era specializzato sull’opera di Giordano Bruno, realizzò nel 1922,
per Carabba, una folgorante traduzione di Zhuāngzǐ con Acque d’autunno.
In particolare, qui, m’importano i volumi che Wieger ha dedicato al Bouddhisme
chinois (1910; 1913; poi pubblicati da Les Belles Lettres nella serie “Textes de
la Chine”), cioè sulle “Vie cinesi del Budda”.
> “Il Buddhismo primitivo, quello professato dal Buddha, non fu un sistema
> originale. Emerse, per reazione e per adattamento, da sistemi religiosi
> precedenti. Il Buddha fu il primo a proporre la liberazione a ‘uomini e donne
> dediti al bene’, a tutti gli uomini di buona volontà, fossero analfabeti,
> diseredati o gente comune. Questo rese il Buddhismo tanto celebre. La
> religione vedica, il Sạ̄mkhya, lo Yoga erano rivolti a una ristretta élite. La
> folla si precipitò entro la porta spalancata della nuova legge. Pur incerto
> nella dottrina, il Buddhismo fu accolto, il primo luogo, grazie all’influenza
> del suo fondatore, un uomo nobile e buono, dal fascino singolare. Si diffuse,
> poi, perché offriva ai declassati, agli emarginati, ai paria, tramite uno
> stile di vita semplice e immediato, una speranza di salvezza. In mancanza di
> meglio, il Buddhismo soddisfò per secoli molte anime elette, stanche dei vani
> sofismi della filosofia del tempo e innumerevoli uomini, desiderosi di pace e
> giustizia”.
>
> Léon Wieger, Bouddhisme chinois, tome I : Vinaya, Monachisme et Discipline.
> Hinayana, Véhicule inférieur, 1910
In particolare, abbiamo qui tradotto due brevi testi che riguardano
l’accoglienza di un adepto laico e di un novizio nella comunità monastica. Il
rito pertiene a due scuole buddhiste in particolare: quella Sarvāstivāda e
quella legata a Dharmagupta.
Al di là delle norme previste – comprensibili anche a un bimbo, da far
risuonare, proprio oggi, sì, ora, da urlare, a credito di secoli che altrimenti
non sono che sabbia e scolo, insieme alle parole del Nazareno redatte da Luca:
“amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro
che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male… non giudicate e non
sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete
perdonati” (6, 27-38) – è il linguaggio a persuadere. Parole che implicano una
pratica, un patto – parole che esigono di essere esaudite. Cosa vuol dire? Che
bisogna fare i conti con questi concetti: milizia, obbedienza, lotta. Parole che
alimentano la guerra interiore, non quella esteriore, che implicano il
perfezionamento personale – o quanto meno, l’equilibrio, la summa della propria
inquieta quiete. Già: l’uomo, di per sé, si sa, è malvagio, è agito da un senso
– più o meno violento – di sopraffazione. Questo scintillio d’ira, tuttavia, può
volgersi al bene se condotto nei ranghi della pratica interiore. Le parole non
domano l’uomo, lo rendono autenticamente indomabile – se ne svolgiamo il frutto.
Come un seme, la parola deve spezzarsi – la parola va sguainata. Messa a pratica
di scherma, senza schemi.
Eppure, prima di tutto, occorre votarsi. Invocare il voto. Non più vociferare
ma: essere voce. Vocalizzare il voto. Governare il tempo e lo spazio (cioè: il
corpo e la mente, io e mondo, mondo e immondo) per precisare il compito. Questo
significa: parola vivente, parola sigillo, farsi ingaggiare dalla promessa.
Rileggo ancora – ancora – le parole di Scipione, il grande pittore & poeta:
> “Bisogna cristallizzarsi, costringersi nel ritmo giusto… Vivo nel voto, più
> leggero, sicuro, quasi sereno… Fare un voto in assenza è aspettare… Quando si
> scioglierà il voto si scioglierà la mia commozione”.
Era il marzo del 1932; raso al suolo dalla tubercolosi, Scipione morirà l’anno
dopo, ad Arco, il paese di Giovanni Segantini. Enrico Falqui, raccogliendo i
fogli di Scipione per Vallecchi, scrisse di “parole che echeggiano dentro di
noi”, che “ce ne resta inibito ogni commento”.
È proprio questo, alienando confini geografici e cronologici: ambire
all’inibizione, non più commentare ma incamminarsi, e far grano di questo
echeggiante dire – fino all’annunciazione dei corvi: assai azzurri benché li si
continui a dire neri.
***
Accoglienza di un adepto laico a vita
I cinque precetti
[Testo tratto da un rituale di scuola Sarvāstivāda]
Quando un laico si presenta in monastero chiedendo di fare la professione di
fede e di abbracciare i Cinque precetti, viene prima indottrinato riguardo alla
vita del Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Gli viene poi insegnato a
flettere le ginocchia, a congiungere le mani e a pentirsi di tutti gli eccessi
commessi in pensieri parole azioni. Quindi, davanti al capitolo riunito, il
maestro di cerimonia gli fa pronunciare la professione di fede:
“Da questo giorno in poi, io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo
Ordine”.
Il candidato ripete questa formula per tre volte. Quindi, dopo che il rito ha
prodotto il suo effetto, continua:
“Io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Chiedo con gioia di
abbracciare i Cinque precetti dei laici, secondo la dottrina di Buddha
Sākyamuni. Lo dico perché tutti lo sappiano”.
Il candidato ripete questa formula per tre volte, finché il maestro di cerimonia
non dice:
“Ascolta attentamente! Questo capitolo di adepti del Virtuoso, il Buddha
Sākyamuni, il Tathagata, colui che è venuto, ti annuncia, per mio tramite, i
Cinque precetti che i seguaci sono tenuti a osservare per tutta la vita. Ecco i
Cinque precetti:
1 Non uccidere alcun essere vivente. Questo comprende molte conseguenze. Sarai
in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
2 Non appropriarsi di nulla che non ti sia donato. Questo comprende molte
conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
3 Vietarsi ogni immoralità. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado
di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
4 Astenersi dal mentire. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di
sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
5 Non bere liquori fermentati. Tutti i liquori rientrano in questo divieto, che
siano estratti dal grano, dalla canna da zucchero o dall’uva, poco importa. Ciò
che inebria è proibito. Riuscirai a osservare questo divieto? (Il candidato
risponde: Posso)
*
Accoglienza di un novizio
I Dieci precetti
[Testo tratto da un rituale di scuola Dharmagupta]
Rivolgendosi al capitolo, il maestro di cerimonia presenta il candidato e dice:
“Venerabile capitolo, vi chiedo di poter radere il capo alla persona che vi
presento. Se il capitolo lo ritiene opportuno, che i capelli del candidato
vengano tagliati”.
Dopo aver rasato la testa al candidato, il maestro di cerimonia continua:
“Venerabile capitolo, la persona che vi presento chiede di lasciare la sua casa
e la sua famiglia e di unirsi al monaco scelto come padrino. Se il capitolo lo
ritiene opportuno, conceda al candidato la possibilità di lasciare la sua
famiglia”.
Dopo il consenso del capitolo, il maestro designato a istruire il novizio gli fa
scoprire la spalla e il braccio destro, gli chiede di togliersi le scarpe, di
piegare il ginocchio destro e di alzare le mani giunte. In questa posizione il
candidato pronuncia questa formula per tre volte:
“Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha,
lascio la mia famiglia. Riconosco X. Come mio maestro. Il Tathagata, Colui che è
venuto, il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia
venerazione”.
Ritenendo che questa formula abbia prodotto il suo effetto, il postulante,
ancora in ginocchio e con le mani giunte, dice per tre volte:
“Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha,
lascio la mia famiglia. X. Sarà mio maestro. Il Tathagata, Colui che è venuto,
il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia venerazione”.
Il maestro recita dunque al novizio, articolo per articolo, i Dieci precetti.
1 Non uccidere, mai. Questo è il primo precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
2 Non rubare, mai. Questo è il secondo precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
3 Non fornicare, mai. Questo è il terzo precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
4 Non mentire, mai. Questo è il quarto precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
5 Non bere vino, mai. Questo è il quinto precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
6 Non adornarsi il capo di fiori, non ungere il corpo di profumi. Questo è il
sesto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante
risponde: Lo osserverò]
7 Non cantare né ballare, mai, come fanno attori e cortigiane. Non assistere mai
a spettacoli simili, non ascoltare canzoni simili. Questo è il settimo precetto.
Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
8 Non sedersi mai su un seggio elevato, su un divano spazioso. Questo è l’ottavo
precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo
osserverò]
9 Non mangiare mai oltre l’orario consentito, dall’alba al tramonto. Questo è il
nono precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde:
Lo osserverò]
10 Non toccare oro o argento, mai, né gioielli preziosi. Questo è il decimo
precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo
osserverò]
Questi sono i Dieci precetti dei novizi che non dovrete violare fino alla morte
corporale. Puoi osservarli? Li osserverò.
Così si conclude la regola:
“Poiché ti sei sottomesso ai Dieci precetti, osservali con rispetto, non
violarli mai. Onora il Buddha, la Legge il suo Ordine. Rispetta il tuo maestro e
tutti coloro che ti daranno degli insegnamenti secondo la regola. Non mancare
mai alla dovuta sottomissione. Rispetta i monaci, tutti, con tutto il cuore,
sforzati di imparare da loro, per il tuo bene, a meditare, a recitare, a
studiare. Ti aiuteranno a raggiungere la felicità, a evitare la via
dell’espiazione (l’inferno, la vita famelica, la reincarnazione animale). Ti
apriranno le porte del nirvana. Se pratichi le regole dei novizi poi quelle dei
monaci, otterrai i quattro frutti del tuo stato, i quattro gradi della
liberazione (il quarto dei quali, quello di arhan, assicura il nirvana dopo la
morte)”.
L'articolo “Non uccidere alcun essere vivente. Astenersi dal mentire” proviene
da Pangea.
Leggendo la recentissima traduzione de I Sonetti a Orfeo di Rilke, curata da
Riccardo Held, per la collana Lo Specchio di Mondadori, non posso fare a meno di
pensare a Marina Cvetaeva:
> E oggi ho voglia che Rilke parli attraverso di me. Nel linguaggio comune
> questo si chiama traduzione (com’è più bello in tedesco – Nachdichten! Andando
> sulle orme di un poeta, aprire di nuovo tutta la strada da lui aperta […]).
La traduzione poetica è sempre un atto di fedeltà, umiltà e soprattutto amore.
Si tratta letteralmente della gestazione di una nuova creatura, che ancora non
esiste nella lingua di approdo: bisogna attraversarla, traghettarla e partorirla
in un nuovo registro linguistico. Un esercizio faticoso che presuppone ascolto,
attenzione pura, molte letture e interiorizzazioni, fino a quando non si riesce
a trovare quella parola perfetta – la sola – che possa “dire” la “cosa” in
un’altra lingua, senza tradirne il senso.
Di certo è una sfida. Lo spiega bene Held nella sua nota di chiusura, una nota
quasi sottovoce, mirabilmente rilkiana, nel tono, nello stile e soprattutto
nell’essenza. In essa vi è tutto il Rilke dei Sonetti e delle Elegie, due opere
intrinsecamente connesse che rappresentano un vertice lirico di tutti i tempi.
Già nel titolo che antepone alle sue parole, tratto da un verso dei Sonetti (II,
23), Held ci parla in questo senso: «Niente più che un pensiero», ben
consapevole di cimentarsi con l’ascesa ad una vetta e ai suoi molti “strati di
senso”, che ancora oggi sfuggono agli interpreti.
Nel 1922, Rilke non aveva in programma i Sonetti: quei versi sgorgarono dagli
appunti che l’amica Gertrud Ouckama Knopp prese sulla malattia e sulla morte
della figlia Wera (che Rilke aveva conosciuto bambina), e che poi spedì a Rilke.
L’immagine della giovanissima ragazza, promettente ballerina, strappata alla
vita all’età di 19 anni per leucemia (la stessa malattia che – per ironia della
sorte – lo condurrà alla morte), lo colpì così tanto da dedicare I sonetti a
Orfeo alla sua memoria.
La morte, cuore della vita
Suddiviso in due parti e concepito come “monumento funebre” per Wera Ouckama
Knopp (1900-1919), il ciclo dei Sonetti consente a Rilke di sostituire la
contrapposizione tra vita e morte con la «grande unità» di un «doppio regno» che
lega inscindibilmente vita e morte in un’unica, incessante, metamorfosi.
Da molti anni, ormai, il poeta andava delineando nella propria opera una
peculiare visione della morte: dalla stesura del Libro della povertà e della
morte (terza ed ultima parte de Il libro d’ore) ininterrotta divenne la sua
riflessione sull’evolversi ultimo dell’esistenza, nel quale la morte assume un
ruolo centrale. Rilke è sempre più convinto che le religioni si siano limitate a
fornirne diverse “figurazioni”, a mo’ di consolazione, invece di offrire validi
strumenti per comprenderla ed accoglierla in sé. Non si tratta allora di
abbracciare la morte come l’altra faccia della vita, come l’altra sua metà che
lasciamo in ombra? Così scriveva, nel marzo del 1920, in una lunghissima lettera
ad una giovane amica, Anita Forrer:
> La mia inclinazione mi ha spinto, sempre più profondamente, anno dopo anno, a
> fare della morte il cuore della vita, come se in essa fossimo veramente a
> casa, serbati e protetti, cullati nella più profonda e sublime fiducia.
Verso l’estremo
Se la morte è dunque il «cuore della vita», allora, chi meglio di Orfeo, che
entra nel regno dei morti per riportare in vita la sua Euridice, può incarnare
nella sua figura la compresenza di vita e morte?
Orfeo è il “Dio della cetra” che incanta il bosco e le fiere con la sua musica,
conosce l’essere e il non-essere, la dolorosa caducità della vita, eppure, la
canta e la celebra e, dal suo canto, sgorga una fanciulla: Wera. Ella portava
con sé l’infanzia, la danza e la musica, ma anche la morte già dentro la vita:
una figura orfica, una novella Euridice, che reca in sé l’accettazione e la
celebrazione della metamorfosi dell’esistenza ed il suo naturale confluire nella
morte.
Con Wera e con i Sonetti, che precedono la ripresa delle Elegie, la morte che
aveva aleggiato intorno a Rilke, trattenendolo sulla “soglia” dell’opera, entra
dunque dentro l’opera stessa e lo spinge “verso l’estremo” – là dove voleva
arrivare dopo aver conosciuto l’opera di Cézanne. E questo spingersi verso
l’estremo, la morte, anziché portare angoscia e terrore, porta addirittura la
possibilità di salvezza.
Orfeo parla e canta, si apre al mondo; non conosce differenze tra l’aldiquà e
l’aldilà, che celebra allo stesso modo. Anche dopo la morte continua a vivere
nella natura, negli alberi e negli uccelli, in cui si dissolve
“panteisticamente” come san Francesco nel Libro d’ore. Nei Sonetti, la poesia
diviene parola che tenta l’indicibile. È una parola buia, densa di segreto,
talvolta di inaudita complessità (nelle lettere Rilke parla del «dettato più
misterioso ed enigmatico» cui abbia mai assolto) che si fa però scrittura
perfetta, gioiosa, musicale.
Singolari relazioni tra i sensi
Il poeta è consapevole del suo ruolo di cantore sul confine tra il regno dei
vivi e quello dei morti, dove nuove insondabili relazioni (autentiche
sinestesie) si instaurano tra i cinque sensi.
È la sfera acustica a dominare l’intera raccolta. Il poeta immagina la voce
delle cose: il suo sguardo è diventato ascolto, secondo quell’intuizione che
aveva vissuto in Egitto avanti alla sfinge, quando il fruscio delle ali di una
civetta disegnò quell’immenso profilo nel suo udito. Fu questa l’intuizione
iniziale dell’“udito di morto” che attraversa trasversalmente le Elegie e
i Sonetti, ove si instaurano nuove, singolari, relazioni tra i sensi, tanto che
ci parrà di “vedere gli odori”, “udire i colori”, “toccare i suoni”, “danzare i
sapori”… I sensi mutano gli oggetti, spaziano da quelli che gli sono propri a
quelli che appartengono ad altra sfera della percezione.
Siamo in presenza di un’opera d’arte di assoluta originalità e perfetto
equilibrio compositivo, nella quale Orfeo vince le Menadi che volevano
dilaniarlo, perché la sua musica è ordine e bellezza. Anche dopo essere stato
ucciso, continua a vivere attraverso i boschi, gli alberi e gli animali. Così
termina la prima parte dei Sonetti.
La seconda è ancora più rarefatta. Rilke canta i suoi temi prediletti, cui
attinge con costanza nel corso degli anni, da una parte all’altra della sua
produzione, quasi in un percorso “circolare”: il respiro (vera cifra del tardo
Rilke), l’aria, i venti, i mari, lo spazio, gli specchi: “intervalli di tempo”
che riflettono infinite volte il volto della bellezza… Evoca gli animali, tra
cui il mitico unicorno, invisibile ma vero, simbolo della verginità nel
Medioevo. Celebra i fiori, tra cui l’immancabile rosa e l’anemone; la macchina,
presuntuosa padrona della modernità, a cui non vuole obbedire. Invoca il
mutamento, la sua fiamma; maledice l’oro e il denaro; si rivolge alle stelle,
alle fontane, ai giardini, alle campane e, verso dopo verso, si immedesima in
una parte del tutto, in uno spirito eterno che non tramonta e mai tramonterà,
che “resiste ormai per sempre”, che acconsente al cambiamento, al rinnovamento,
che si congeda dalle cose con la capacità di dire addio, accogliendo in sé il
pensiero della morte nella vita.
Alla legge della separazione dei due regni si contrappone quindi quella di
un’incessante metamorfosi: è lì che ruotano i Sonetti, in uno “spazio interiore
di mondo” che diventa il “doppio regno”, uno spazio che lega inscindibilmente
vita e morte. Essenziale diviene la trasformazione del visibile nell’invisibile:
la realtà esterna si ritrae (si comprime potremmo dire) a sorgente di materiali,
quasi un deposito di immagini, cui il cuore attinge per adempiere la sua opera
di metamorfosi-fusione-annullamento di confini tra esterno ed interno, tra
oggetto osservato e soggetto che osserva in un unico, indivisibile, spazio terzo
dove le cose – dentro di noi – raggiungono la loro pienezza.
L’esterno offre le immagini ma ciò che qui conta è il cuore: l’io del
poeta-Orfeo, centro di realtà solo interiori – invisibili – dove tutto è in
perenne trasformazione: l’albero matura il frutto nel silenzio; il frutto si
scioglie nella bocca e diviene puro piacere; i morti nutrono le radici dei
fiori; la danza diviene simbolo dell’anima, incarnazione della fiamma, come la
poesia…
Solo chi, come Orfeo, abbia levato la sua cetra nel regno delle ombre, potrà
presagire col cuore un infinito canto – che non è più desiderio soggettivo verso
uno scopo da raggiungere – ma il respiro che sfiora l’essere e il non-essere, il
vivere ed il morire: quella “grande unità” che si chiama esistenza.
Marilena Garis
*L’articolo, che si pubblica per gentile concessione, è uscito come “Nella
«grande unità» di Rainer Maria Rilke”, sulla rivista “Studi Cattolici” delle
Edizioni Ares
In copertina: cartone di scena dall’Orphée di Jean Cocteau
L'articolo “Andando sulle orme di un poeta”. Discorso sui “Sonetti a Orfeo” di
Rilke proviene da Pangea.
Un passo lieve, la strada sfiora una suola in una mattina come le altre; un uomo
lascia il suo scrittoio per abbandonarsi al ritmo dei marciapiedi, alle
preghiere dei vicoli che urlano monotonia. Dove comincia il senso delle cose?
Nella vastità dei palazzi o nella piega di un fazzoletto?
A volte è difficile gestire una trama quando, nel senso tradizionale, è di fatto
inesistente: racconto senza intreccio, svolgimento o epilogo; solo un io
narrante che decide, in un giorno qualunque, di uscire a passeggiare. Come se
fosse un diario, una confessione, una divagazione, Robert Walser crea un cammino
che non porta da nessuna parte. La meta non conta, è il vagare stesso, il farsi
condurre dall’invisibile.
> “Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del
> genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti
> di passata librai e funzionari di banca […] Eppure ciò può avvenire, e io
> credo che in realtà sia avvvenuto.”
Il protagonista – che altri non è se non un alter ego dell’autore – si fa
minuscolo per poter ingigantire il mondo. L’estetica del dettaglio diviene
cosmologia: la cravatta osservata distrattamente, la tenda che ondeggia, la voce
ironica di un banchiere; l’atomo è cosmo, il dettaglio cattedrale.
La prima versione de La passeggiata, oggi edita nella versione italiana da
Adelphi, nasce nel 1917, tra le macerie di un’Europa ferita, destinata a
confondersi tra i rumori della storia e a brillare solo per chi sa fermarsi e
ascoltare la musica di sottofondo. Mentre i cannoni dettano il ritmo del
continente, Walser scrive il suo vangelo minore, trasformando l’ordinario in
epifania.
La vita di Walser è dello stesso tessuto fragile del suo libro. Nato nel 1878 a
Bienne, ultimo di una lunga schiera di fratelli, cresce in una Svizzera
periferica, discreta come lui. Lavora come impiegato, servitore, copista;
mestieri umili che lo avvicinano più ai margini che al centro. Pubblica racconti
e romanzi, alfabeti ridotti a pulviscolo, che incantano giganti come Kafka,
Musil, Canetti, Benjamin. Ma non cerca la ribalta. Walser preferisce dissolversi
nella sua lingua minuta, che un giorno diverrà davvero microscopica, nei
famosi microgrammi, fogli fittissimi di scrittura minuscola come polline. La sua
estetica definitiva è scomparire. Non lasciare monumenti, ma tracce. Non statue,
ma impronte di passi sulla neve.
> “Ero disperato. Sì, in realtà io non avevo più nulla da dire. […] Spento,
> estinto come una vecchia stufa. […] Andò a finire che mia sorella Lisa mi
> portò nella clinica Waldau. Ancora davanti alla porta d’ingresso le chiesi se
> quello che facevamo era giusto. Il silenzio di lei mi bastò. Che altro mi
> rimaneva se non entrare?”
Dal 1933, la sua esistenza si ritira nei sanatori con una prima diagnosi di
schizofrenia, poi mai riconfermata. Da quel momento inziano ventiquattro anni di
silenzio, trascorsi in istituti psichiatrici tra Berna e Appenzell, dove scrive
sempre meno fino a smettere. Walser muore il giorno di Natale del 1956, in un
campo di neve, riverso nel bianco durante una delle ultime passeggiate. Le
fotografie ne immortalano le orme e, più avanti, il corpo, avvolto in un
mantello nero, solo, pervaso dalla voglia di scomparire nel nulla.
> “L’inizio e la fine si stringono la mano sorridendo. Apparire e scomparire
> sono una cosa sola”.
Sappiamo bene che ogni autore ha la sua unità di misura; Walser con questo
racconto compone un’anti-epopea del quotidiano. Laddove i grandi romanzi
dell’Ottocento si dilatano in trame ciclopiche, lui restringe la lente fino a
cogliere il tremolio di una foglia o il sorriso sbiadito di un libraio. Non
dominare il mondo così da farsi sorprendere da esso.
> “Molte volte l’apparenza inganna, e l’esprimere un giudizio su qualcuno è
> meglio lasciarlo a lui stesso, giacchè un uomo che ne abbia vissute di tutte
> si conosce più a fondo di chiunque altro.”
È nel granello che si apre la più grande figura retorica che
governa La passeggiata: l’iperbole dell’infinitamente piccolo, dove un ciuffo
d’erba può valere più di un impero. Walser ricama la città, la miniaturizza,
come se ogni parola fosse un punto di ago su di un tessuto di brina. Lì dove
altri autori vedono un fondale, lui scorge un oceano.
C’è inoltre una retorica della leggerezza, in Walser, che tuttavia non scivola
mai nella frivolezza, anzi. La sua è una leggerezza gravosa, come un palloncino
che porta in sé il peso della malinconia. Le sue immagini e i suoi personaggi,
cesellati e ironici, sanno trasformare la passeggiata in un pellegrinaggio
laico, un atto di fede nell’insignificante.
> “Quando mai c’è stata un’anima che senza nulla sacrificare, abbia visto
> compirsi ogni sua ardita ispirazione, ogni dolce, sublime idea di felicità?”
Il narratore, pur occupando la scena, non è mai davvero protagonista. Walser
adotta una postura di auto-svanimento; egli parla, osserva, descrive, ma sempre
con una modestia che lo dissolve. È un io che si offre e si ritira, che si
mostra per rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe occulto. Le sue frasi
sono sentieri che non portano a lui, ma al paesaggio. Sono scale che salgono non
verso l’autore, ma verso la brezza che le attraversa.
Le frasi, lunghe, sinuose, sono esse stesse passeggiate; divagano, si perdono,
deviano, ritornano. Non sono mai rette, bensì curve, avvolgenti, labirintiche. È
la periodicità serpentina di una scrittura che preferisce l’ombra alla luce
diretta, l’allusione alla dichiarazione, il sorriso ironico al tono assertivo.
> “Sono pronto a riconoscere che la nautra e la vita umana mi appaiono come
> tutta una fuga non meno seria che affascinante di accostamenti, fenomeno che
> ritengo sia da giudicare bello e fecondo.”
Non a caso, Walter Benjamin trova in Walser l’esempio della teologia del
minuscolo. L’opera di Walser sembra manifestare una politica della riduzione che
Benjamin teorizza a suo modo nelle Passagen-Werk. Entrambi sono attenti al
frammento come luogo rivelatore della storia. Per Benjamin la vetrina, la
réclame, il frammento urbano custodiscono la storia materiale; per Walser ogni
frammento custodisce una cosmologia privata.
Benjamin e Walser convergono nell’idea che l’attenzione al marginale apre una
conoscenza antigerarchica; il particolare diventa lente per leggere il generale.
Tuttavia qui la prassi diverge – Benjamin indaga il politico e lo storico in
quelle fessure; Walser li trasforma in esperienza estetica e morale, in modo
meno teorico e più lirico. Il loro incontro è fecondo perché mostra come il
frammento funzioni come vettore critico e come sublime ridotto.
L’opera di Walser, però, incontra anche altre ombre discrete. Come nei Saggi
di Montaigne, anche qui la divagazione è forma di verità, metodo. Montaigne
scivola da un aneddoto a un ricordo, costruendo un io curioso, sfaccettato;
Walser, nei suoi passi, porta la stessa pratica al limite della sparizione. Dove
il francese si moltiplica, lo svizzero si riduce.
Inoltre, dietro la leggerezza, affiora il passo come terapia, il camminare come
rimedio contro l’angoscia. Søren Kierkegaard percorreva le vie di Copenaghen per
non soccombere alla disperazione; in Walser si ritrova la stessa intuizione: il
movimento fisico come salvezza esistenziale. Solo che qui la cura non nasce da
una scelta tragica, ma dalla sospensione stessa della scelta, dal balsamo del
piccolo. Non a caso, a Herisau, luogo della morte di Walser, è stato inaugurato
un sentiero dedicato a lui (Robert Walser-Pfad).
> “Non perdete il desiderio di camminare; ho camminato fino ai miei migliori
> pensieri, e non conosco pensiero così gravoso da cui non si possa camminare
> lontano. […] Più si sta seduti, più ci si avvicina a sentirsi male. Salute e
> salvezza si possono trovare solo nel movimento… se uno continua a camminare,
> andrà tutto bene.”
>
> Søren Kierkegaard
In un’epoca che idolatra velocità, risultato e rumore, Walser è il santo patrono
del rallentare. Il suo libro è un vero e proprio manuale di invisibilità; ci
mostra come svanire per poter finalmente vedere. Ci insegna a essere distratti
con cura, a perdere tempo come forma suprema di attenzione. È un inno alla
lentezza, al vagare, al lasciarsi trasportare. Un invito a guardare i dettagli
dimenticati, a riconoscere la grandezza nel piccolo, a vivere come perdersi.
Walser compone dunque un’elegia al dettaglio, una litania dell’insignificante.
Il suo libro è fragile come il vetro, e dunque incorruttibile come la verità.
Solo chi si fa piccolo può toccare l’infinito, ma allora chi tocca veramente la
realtà, chi guarda o ciò che viene guardato?
Tommaso Filippucci
L'articolo Per un’estetica della scomparsa. Su Robert Walser, il santo patrono
dell’insignificante proviene da Pangea.
Possiamo asserire senza tema di smentita che Fuori orario (1986) non è solo uno
dei film più brillanti e alacri di Scorsese ma anche una vera e propria
pellicola culto nella sua filmografia nutrita e variegata. L’idea portante di
ambientare un intero film nell’arco di una sola notte è una sfida che Scorsese
vince con bravura e ha in sé richiami picareschi che virano al grottesco… Non è
di notte, del resto, nella diegetica di tanta letteratura, che si snodano le
storie più nascoste, imprevedibili e ricche di mistero?
Un programmatore di computer di nome Paul Hackett, persona ordinaria e razionale
per eccellenza, verrà catapultato in esperienze che hanno dell’assurdo e
metteranno a dura prova la sua compassata compostezza iniziale. Se il Joyce
dell’Ulisse dedicava un intero libro all’epopea di un solo giorno dei suoi
personaggi (16 giugno 1904), Scorsese impiega ogni mezzo registico (e
virtuosistico) per imprimere dinamismo all’epopea di una singola notte e delle
disavventure che porta con sé per l’ignaro protagonista. La pellicola diviene un
incubo allucinato e venato di ironia, iperbolico e inquieto. Se la carrellata
iniziale, nell’ufficio in cui lavora il protagonista, dichiara un mestiere
solido e un’arguzia visiva assoluta, muovendosi tra le scrivanie come tra i
meandri di un labirinto di comune operosità impiegatizia, per poi passare a
inquadrare le mani dei soggetti intenti al lavoro, allora si capisce bene che
siamo di fronte a un film non comune, ricco di una forza propulsiva e di orge di
espedienti visivi icastici e narrativamente eleganti. È bene accennare che, qui
come in Cape Fear, viene letteralmente citato Henry Miller, nello
specifico Tropico del Cancro, che lo stile plastico e vicino allo stream of
consciousness dell’autore, ha molto di simile non solo a Céline ma anche al già
citato Joyce, e trova nel film la cifra di un’espressione vicina a un flusso
preconscio e caleidoscopico, sbalzato nella pellicola in maniera apparentemente
non mediata, attraverso un profluvio di idee e situazioni al limite del
paradossale e di una freschezza e vivacità desuete anche per chi, tra registi
affini, amasse davvero osare. In realtà si capisce bene che il film intero pur
apparendo sotto questa veste di spontaneismo creativo, è frutto di una
costruzione a tavolino mai così minuziosa e studiata.
Sembra che Scorsese si diverta a tessere le fila di una storia ordinaria e
straordinaria nel medesimo tempo registico, passando dall’iperrealismo di una
città imperlata di pioggia che trae vividi riflessi di luci e insegne tali da
avere del sensuale proprio come era avvenuto in Taxi Driver, alla puntuale messa
in scena di un tempo ora velocissimo e isterico, ora dilatato e inquieto, che
avvolge di assurdo mistero dettagli altrimenti consueti e banali. Tutti quei
dettagli che ingenerano nel protagonista una sorta di angoscia presaga che
sfocia poi in una serie ininterrotta di colpi gobbi del destino. Ora attraverso
lo zoom, ora attraverso carrellate di avvicinamento e allontanamento, ora
attraverso una ripresa che asseconda i movimenti di oggetti e soggetti fino a
accrescerne la carica mobile e plastica, o attraverso panoramiche circolari e a
schiaffo, Scorsese imprime alla pellicola un isterico e animatissimo senso del
movimento non scevro però di un’asfissia della ragione e un apparente esilio
dalla normalità. In questo contesto, come detto, l’ordinario diviene
straordinario, e lo straordinario appare cosa mai così fondata e realistica
nella sua messa in scena. Il vaso di Pandora è aperto e la sequela di rischi,
pericoli, scomode situazioni che il programmatore vive è un insieme di trovate
uniche, ora cupe ora arlecchinesche, che descrivono un contesto in cui niente è
ciò che immediatamente appare: esattamente come in una sorta di neo-medioevo, la
realtà veste delle maschere e ama il nascondimento; e quando le maschere calano
mettono in mostra male e pericolo.
Simile a un gigante organismo vivente la città reagisce ad ogni singola mossa
del protagonista con contromosse che lo mettono alla prova con un carosello di
contrattempi, disagi e rischi che sfociano perfino in un tentato linciaggio nel
convulso finale; un organismo in suppurazione che espelle la scheggia confitta
sotto la sua pelle-superficie, Paul, come un elemento estraneo. E Paul Hackett è
di fatto estraneo e sempre più stropicciato e estraniato, incredulo, di fronte
al debordante avanzare di un destino di malasorte che si risolve poi in una
chiusa senza pari, carambolesca e da teatro dell’assurdo. L’espediente di
mettere a dura prova e fino all’esasperazione un individuo ragionevole e
razionale, solidamente integrato, nell’arco di una sola notte, diviene un enorme
congegno registico a orologeria, con un crescendo rossiniano di disguidi e
avvenimenti avversi che hanno del kafkiano… Esattamente come ne Il processo o La
metamorfosi di Kafka, non ci si chiede perché l’assurdo avvenga o si manifesti,
perché vive di vita propria e rigetta ogni forma di spiegazione e addentellato
razionalmente fondato: esso sembra non avere un’origine seppure ha un inizio.
Forse vale la pena di notare come questa black-comedy notturna, ancorché non
misogina, metta in scena una sorta di continua castrazione psicologica del
protagonista, attraverso l’incontro con donne che incarnano forme di
perturbante… Basterebbe citare l’immagine in cui Paul, che si dà una rinfrescata
nel bagno di un locale cheap, vede sul muro il graffito di un pescecane che
morde un pene. Titolo originale: “After-Hours”: traducibile come
“dopolavoro”.Andamento circolare della pellicola, comincia nel luogo di lavoro e
finisce con un nuovo ingresso in esso, mai così improbabile e straniante, mentre
albeggia. Vinse il cinquantaseiesimo Festival di Cannes per la regia.
Una curiosità: Inizialmente il film doveva essere diretto da un giovanissimo Tim
Burton ma Scorsese lesse la sceneggiatura dopo la realizzazione del
controverso L’ultima tentazione di Cristo e Burton rinunciò di buon grado alla
regia del film quando Scorsese espresse di volerlo dirigere personalmente.
Tutto in una notte di John Landis (titolo originale: “Into the night”) esce lo
stesso anno di Fuori orario (1986) e pur avendo una struttura simile al film di
Scorsese (l’idea di fondo è la stessa: un’epopea di disguidi e accadimenti
avversi lunga una sola notte) ha un impianto diegetico e un tocco registico ben
diverso. I due protagonisti sono un Jeff Goldblum (Ed Okin nel film: ovvero il
prototipo dell’uomo comune) e una Michelle Pfeiffer (Diana nel film) davvero
affiatati e scoppiettanti. A oggi il film di Landis – regista anarchico e
scopertamente politico anche quando il suo sembra essere un discorso che esula
dalla dimensione politica dell’esistenza e dell’esistente –, non sembra aver
risentito della sua età (solo anagraficamente superata) e offre un ritratto
scanzonato dell’America paranoica e controversa dell’era reaganiana.
La partitura del film è tesa e fitta di sorprese e rivolgimenti di trama, e
sembra avere a che spartire, in quanto commedia nera, anche qualcosa con la
tradizionale commedia degli equivoci, il tutto miscelato a elementi che potremmo
definire di stampo quasi hitchcockiano nel calare il protagonista ignaro e dal
profilo umano ordinario, all’interno di un tourbillon di eventi inaspettati e
avventurosi che hanno invece ben poco di comune e lo metteranno alla prova nello
sfoderare inventiva e capacità di azzardare tali da collocare la dimensione
castrante della sua vita precedente nell’ambito del puro ricordo. Il
protagonista conduce infatti una vita routinaria e colma di elementi simili a
altrettanti luoghi comuni dell’american way of life: una moglie che lo tradisce,
un lavoro che lo vede insoddisfatto e una ansiosa forma di insonnia che sarà il
proscenio a un’avventura a suo modo comica anche quando belluina, colma di un
understatement che, anche nei momenti più concitati e rocamboleschi, non pigia
sul pedale della retorica e dell’enfasi. Interessante anche il discorso
metafilmico di Landis che a un tratto presenta i due protagonisti all’interno di
un set cinematografico che viene letteralmente smontato pezzo a pezzo: prima Ed
cerca di fare una chiamata da un telefono posticcio che due operatori gli
portano via sotto gli occhi, poi si appoggia a un muro che sembra solido ma è in
realtà un altro elemento di scena, finendo per rovinare all’indietro mentre esso
crolla: una sequenza che ha del chapliniano… Come a dire che il cinema è la cosa
più insincera e artificiale che esiste, anche quando il suo discorso vuole farsi
serio nel senso di “oggettivo”, finisce per essere solo uguale e mai identico
alla realtà che narra.
Le nuove esperienze di Ed sembrano divenire sempre più assurde e irreali, in
questo dedalo notturno di imprevisti e apparenze ingannevoli, doppie e anzi
plurime, che lo mettono alla prova su un terreno sdrucciolo e a lui sconosciuto,
ma finendo per essere più concreto, veridico e vitale in questa nuova forma che
non nel suo opaco passato medioborghese. È questa una dimensione che gli
consente di dare sfogo senza i legacci dell’urbanamente consentito e di una
morale da nodo scorsoio, a una forma disinibita di scelte e soluzioni, inventiva
e resilienza, assolutamente fuori del copione grigio, senza respiro e
ripetitivo, della sua esistenza di sempre. Se le litanie esistenziali dell’uomo
qualunque sono la malattia di una società improntata a valori posticci,
materialismo, arrivismo, qualunquismo e mancanza di reale coraggio, allora il
protagonista del film da antieroe della propria stessa esistenza diviene eroe di
essa nell’arco di una sola notte; e non perché il suo sguardo sul mondo è
diverso da quello di chiunque altro, ma perché la vita, con un improvviso cambio
di rotta e prospettiva, lo chiama a scegliere di non essere un sonnambulo che
attraversa i giorni nell’ovatta di un comportamento anodino e incapace di
affrontare tutto il carico di un imprevisto che diviene legge; scozzando le
carte di un’esistenza torpida e priva di attrattive, per la quale non servivano
né la capacità di osare né quella di reagire agli ostacoli e alle condizioni
avverse, la vita di Ed diviene il campo delle sue scelte, invece di lasciarsi
scegliere da essa.
Tutto procede fuori dai canoni classici, in una forma che ibrida i generi e
aggira gli stereotipi – come uso di questo regista così poco hollywoodiano anche
quando sforna successi da botteghino – fino al risultato di spiazzare le
aspettative dello spettatore. E il protagonista condivide con esso la scoperta
dell’impensabile e un cambiamento incessante delle regole del gioco: filmico e
non.
Impreziosiscono il film numerosi camei: Jack Arnold, Paul Bartel, David Bowie e
David Cronenberg, John Demme, Don Siegel ed altri ancora.
Se le due diverse pellicole sono la declinazione di un ordinario che deraglia
dai propri binari e dell’inatteso che diventa regola, mettendo a dura prova due
vite che non l’avevano chiesto né sperato o cercato per sé, la possibile
compromissione della tenuta della loro razionalità e del loro sangue freddo,
nella pellicola di Scorsese è il contrappasso di un’esistenza spesa senza osare
e figlia di un raziocinio asfittico che riconduce tutto alla regola del
probabile e del consolidato; mentre in quella di Landis è l’occasione
irripetibile di far valere il proprio coraggio e la propria capacità di scelta,
sul piano di risposte a una lotta senza esclusione di colpi (anche di scena) e
in un duello all’ultimo azzardo, con un’asta al rialzo dei rischi e dei
possibili vantaggi. Finale amaro e grottesco in Fuori orario, lieto e aperto
in Tutto in una notte.
Per finire potremmo dire che sia Landis sia Scorsese, non hanno mai avuto tanta
voglia di “giocare” con le aspettative del genere e degli stessi spettatori,
offrendo dei virtuosismi di scrittura e di regia che piegano plasticamente le
immagini e gli snodi delle due pellicole, al servizio di deliranti
(filologicamente, la parola “delirio” significa “uscita dal solco”) espedienti
picareschi, i quali scrivono e riscrivono la condotta di due nauti di uno stesso
destino che non si dispiega conformemente alle mortifere situazioni che erano la
norma prima di una notte tale da inverare una poiesi dell’inatteso – sia sul
piano degli accadimenti sia su quello della capacità di farvi fronte.
Parafrasando Scheler: la vita è sempre più della somma dei suoi singoli istanti…
E i due registi sembrano volerlo ribadire cambiando drasticamente le carte in
tavola di due vite spese all’insegna di una sommatoria di gesti e comportamenti
uniformi e senza sobbalzi.
Massimo Triolo
*Massimo Triolo presenterà il suo ultimo libro in versi, “Il sacrificio del
miele” (Raffaelli), giovedì 25 settembre ad Arezzo, ore 18, presso la libreria
Mondadori (via Roma, 15)
L'articolo “Fuori orario” e “Tutto in una notte”: l’impensabile diventa realtà.
Una lettura proviene da Pangea.
La categoria del ‘politico’ è propria della poesia italiana, dal punto di vista
simbolico – le invettive di Dante che scandiscono la Commedia, i sonetti
‘babilonesi’ di Petrarca, ad esempio – come da quello esistenziale. I poeti
italiani, quando ancora l’Italia era un’idea, un pullulare di principi e di
principati, erano assunti a corte, esercitavano mansioni di funzionari nei
nascenti comuni. Così – per dire – Iacopo da Lentini, “il Notaro”, operava
presso la corte di Federico II e Ludovico Ariosto si dimostrò abile
amministratore in Garfagnana, per conto dagli Este.
Ciò non vuol dire che il poeta sia per forza un cortigiano. È vero, il potente
ha bisogno del suo eloquio, del poema encomiastico, per lo più didascalico,
esornativo – ma è pur vero che il poeta, se tale è, va a briglia sciolta,
impenna il senno; benché possa essere animato da scaltrezza (che significa:
giustezza d’intenti; figura dell’altro mondo che si adopera nel mondano) non si
fa maculare dai lacchè. Il Malatesta aveva bisogno di un aedo, Basinio da Parma,
che giustificasse le sue gesta; pur al soldo dei Medici, Angelo Poliziano
conserva un’eminenza intellettuale che lo obbligherà all’esilio – d’altronde, la
via ‘notturna’ della poesia italiana ha il suo zenit nel Tasso messo ai ceppi a
Sant’Anna. La “Raccolta aragonese” voluta da Lorenzo de’ Medici dimostra che
la poetica, la questione della lingua, è una branca della politica.
Certo, occorre non inquinare le fonti. Il rapporto tra poesia e politica non si
regola nella poesia declamatoria, né nella poesia ‘civile’ – al contrario, il
poeta è l’incivile del linguaggio, compie atti di brigantaggio linguistico
contro la lingua imposta dal potere. Secoli di ‘impegno’ – pensiamo alla poesia
risorgimentale italica – hanno prodotto una poesia esangue benché piena di urla,
capace di infiammare gli animi, semmai, ma il cui fuoco lirico si è presto
spento. Un conto è l’ardore di Ugo Foscolo o l’audacia di Vittorio Alfieri,
altro il rovistar per peana del garibaldino Francesco Dall’Ongaro o i pur sapidi
sketch di Vincenzo Riccardi di Lantosca (esempio, Dio, Patria, Famiglia:
“Patria, ossia quei pochetti sicuretti; Famiglia,/ quel tanto della propria
moglie, che uno si piglia;/ quanto a Dio ci s’intende che noi s’intende il
prete”). Il ‘disimpegno’ esibito, disinibito, d’altro canto, ha prodotto
tonnellate di bigiotteria lirica.
Eppure, ogni potere, per fondarsi – non ho detto celebrarsi –, ha bisogno del
poeta. Anche in questo caso, da un lato ci sono i bardi del bene comune, i
boiardi dell’opportunismo verbale, dall’altra il poeta, l’inafferrabile. Ogni
nazione si fonda sul poeta perché il suo linguaggio feconda il futuro, è motivo
di avvenire, è ragione di esistenza; altresì, si affida al burocrate. L’Italia è
Giacomo Leopardi più che Goffredo Mameli, giovane martire delle lotte
risorgimentali. La Russia fonda il suo essere su Aleksandr Puškin e su Boris
Pasternak, non certo su Nikolaj Tichonov, poeta tribunizio, più volte premio
Stalin, deputato dei Soviet.
È interessante perché al contempo il poeta fonda la natura politica della
propria nazione, e nello stesso tempo – in forza della sua assolutezza, della
sua incoercibile singolarità – la disintegra. L’uno e il tutto, la costruzione e
la distruzione si coagulano senza sintesi nel corpo lirico del poeta: che è per
questo offerto.
Il Novecento è stato un secolo di profeti inascoltati, di poeti dal potente
ardore ‘politico’ messi diversamente a tacere – penso a Ezra Pound, ovviamente,
ma anche a Iosif Brodskij e a Hugh MacDiarmid, il paladino dei nazionalisti
scozzesi, l’Omero dello scots. Soltanto in William Butler Yeats, magicamente,
misteriosamente, la figura del poeta coincide con quella del ‘padre della
patria’: l’Irlanda esiste perché un poeta mitografo e allampanato ha detto di
una small cabin sulle sponde del lago Innisfree. Per molto tempo, più di altri
poeti, Robert Frost ha incarnato l’identità autentica degli Stati Uniti
d’America: è ancora così? Attorno a quale poeta vivente, oggi, riconosciamo la
nostra identità? Quando una nazione perde memoria dei suoi poeti, perde se
stessa. Ad oggi, i poeti cantano di rose e di passeggere indignazioni, sono i
macchinisti di versi concettosi, sono troppo intelligenti, fanno del proprio
ombelico la sola patria.
Ricevendo il Nobel per la letteratura, era il 1959, Salvatore Quasimodo volle
affrontare la questione de “Il poeta e il politico”. Indipendentemente dalla
poesia di Quasimodo – espressa tra Saffo e il Pci – quel discorso, a tratti
enigmatico, ha ragione di fascino. Quasimodo distingue il poeta – che agisce il
‘politico’ alla greca, come una categoria della ribellione, ovvero
dell’indomabile – dal letterato, che è poi il retore, il portaborse del potere.
> “Il poeta è solo: il muro di odio si alza intorno a lui con le pietre lanciate
> dalle compagnie di ventura letterarie. Da questo muro il poeta considera il
> mondo, e senza andare per le piazze come gli aedi o nel mondo ‘mondano’ come i
> letterati, proprio da quella torre d’avorio, cosi cara ai seviziatori
> dell’anima romantica, arriva in mezzo al popolo, non solo nei desideri del suo
> sentimento, ma anche nei suoi gelosi pensieri politici”.
È nell’esplicita distanza – quando non: lotta – con il potere che si esprime la
‘poetica della politica’ del poeta. Di questa libertà – che è: liberarsi dal
giogo della lingua del potere, imponendo un verbo nuovo, nuovamente innocente –
il poeta è il terribile portavoce.
> “Il poeta è un irregolare e non penetra nella scorza della falsa civiltà
> letteraria piena di torri come al tempo dei Comuni; sembra distruggere le sue
> forme stesse e invece le continua; dalla lirica passa all’epica per cominciare
> a parlare del mondo e di ciò che nel mondo si tormenta attraverso l’uomo
> numero e sentimento. Il poeta comincia allora a diventare un pericolo. Il
> politico giudica con diffidenza la libertà della cultura e per mezzo della
> critica conformista tenta di rendere immobile lo stesso concetto di poesia,
> considerando il fatto creativo al di fuori del tempo e inoperante; come se il
> poeta, invece di un uomo, fosse un’astrazione… Nel mondo contemporaneo il
> politico assume vari aspetti, ma non sarà mai possibile un accordo col poeta,
> perché uno si occupa dell’ordine interno dell’uomo e l’altro dell’ordinamento
> dell’uomo… Oggi il poeta è libero? È libero, secondo le società che lo
> esprimono, o il continuatore di illuminazioni pseudo-esistenziali, il
> decoratore dei placidi sentimenti umani, o chi non scende profondamente nella
> dialettica del proprio tempo per timore politico o per inerzia”.
Cinquant’anni prima, in un saggio su Il poeta e il nostro tempo, Hugo von
Hofmannsthal scriveva che misteriosamente il poeta, l’inerme, l’assoluto
sconosciuto, il paria ai più, “è il luogo in cui le forze del tempo tendono ad
equilibrarsi”; scrive che “è come se i poeti lavorassero all’unisono alla
costruzione di una piramide, all’immensa dimora di un re defunto o di un dio non
nato”, capaci di “creare l’accordo accettabile di tutto quanto si manifesta”.
Ecco che il politico sfocia quasi nel teologico. Il Regno di questo mondo; “Il
mio regno non è di questo mondo”.
Poi, certo, il vero compito politico del poeta è creare uno spazio di grazia e
di bellezza quando tutto intorno è orrore, è morte. Confidare nella bellezza
nonostante l’orrore e la morte. Quando la morte – che non ha l’ultima parola –
avrà smesso di urlare, esisterà, per i sopravvissuti e i futuri, uno spazio di
grazia e di bellezza. Un fuoco. Non per forza gradevole né confortevole, ma
buono.
Per il resto, è prova dell’integralismo lirico del poeta la capacità di
imprecare in versi. Quando è troppo, bisogna sobillare le Sibille del
linguaggio, tramutare il verbo in Erinni. Al di là di isolati, alati esempi –
“Muore ignominiosamente la repubblica”, Mario Luzi – la poesia più violenta, in
questo senso, priva di orpelli poetici, quasi integralmente politica,
integerrima, è Show, di Giorgio Caproni, che apre la sezione “Anarchiche o fuori
tema” del libro postumo Res amissa (1991); libro in cui – scrive Giorgio Agamben
– “la disappropriata maniera di Caproni”, “ha raggiunto ormai una regione sempre
al di là del proprio e dell’improprio, della salvezza e della rovina”. È da
questo non chiedere approvazione, da questo inappropriato, da questa rovina in
cui tutto è salvo – cioè infinitamente finito – che si riparte – anzi, si
vagabonda, dacché è lo sciacallo e la libellula, ora, l’icona del poeta.
(Che Show stia anche per sciò è perfino ovvio marcarlo: sciò, sciò, fuori tutti,
galletti del potere).
**
Show
Guardateli bene in faccia.
Guardateli.
Alla televisione,
magari, in luogo
di guardar la partita.
Son loro, i “governanti”.
Le nostre “guide”.
I “tutori”
– eletti – della nostra vita.
Guardateli.
Ripugnanti.
Sordidi fautori
dell’“ordine”, il limo
del loro animo tinge
di pus la sicumera
dei lineamenti.
Sono
(ben messi!) i nostri
illibati Ministri.
Sono i Senatori.
I sinistri
– i provvidi! – Sindacalisti.
“Lottano” per il bene
del Paese.
Contro i Terroristi
e la Mafia.
Loro,
che dentro son più tristi
dei più tristi eversori.
Arrampichini.
Arrivisti.
In nome del Popolo (Avanti!
Sempre Avanti!), in perfetta
Unità arraffano
capitali – si fabbricano
ville.
Investono
all’estero, mentre “auspicano”
(Dio, quanto “auspicano”)
pace e giustizia.
Loro,
i veri seviziatori
della Giustizia in nome
(sempre, sempre in nome!)
del Dollaro e dell’Oro.
Guardateli, i grandi attori:
i guitti.
Degni
– tutti – dei loro elettori.
Proteggono i Valori
(in Borsa!) e le Istituzioni…
Ma cosa si nasconde
dietro le invereconde
Maschere?
Il Male
che dicono di combattere?…
Toglieteceli davanti.
Per sempre.
Tutti quanti.
Giorgio Caproni
Da G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1999
*In copertina e nel testo: opere di David Lynch
L'articolo “Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti”. Il poeta e il
politico proviene da Pangea.
Dove si trova il silenzio? È una condizione che fa parte di questo mondo o
esiste solo nell’universo siderale? Il silenzio si trova nei cimiteri, ci
riguarda o appartiene a un Altrove?
Esiste il silenzio?
A volte sembriamo cercarlo disperatamente, ne sentiamo la mancanza.
Dove abita il silenzio?
Non è un po’ come chiedersi: dove nasce il vento?
Siamo disposti a viaggiare e ad allontanarci molto per provare a stanarlo.
Lo cerchiamo durante i ritiri di meditazione, dove si rimane zitti per giorni, e
quando poi si può ricominciare a parlare, non abbiamo nemmeno tutta questa
voglia di farlo.
Ma il silenzio non è per tutti. Molti si sentono a disagio quando il mondo tace.
Perché il silenzio è anche un invito all’introspezione. Restare soli con sé
stessi può fare molto rumore. Eppure, come scrive il filosofo Peter Sloterdijk
in Devi cambiare la tua vita, al contemplante basterebbe comprendere una
procedura fondamentale che consiste nella “duplicazione di sé”, un metodo per
stare in buona compagnia anche quando si sceglie di ritirarsi dal mondo;
cogliere che dentro si ha già un partner superiore, un angelo, un monitor
spirituale, un genio, un mentore, un custode, un compagno, un guardiano che
protegge e controlla, che esamina e sostiene, senza cercare fuori qualcuno o
qualcosa che compensi la paura. Un nobile osservatore che sorveglia e fa sentire
al sicuro:
> “Chi vuole essere sé stesso sperimenta la presenza del suo altro interiore.
> Per sapere come sta quest’ultimo, occorre un quotidiano esame interiore”.
Il passo successivo, in particolare nei percorsi spirituali orientali, sarà la
fusione con questo Grande Altro o l’eliminazione della dualità tra Sé reale e Sé
ideale.
*
Io stessa ho cercato il silenzio nelle sinuosità del deserto dell’Oman. Ho
esplorato il Negev, il Sahara, il Thar, il Wadi Rum e i deserti americani. E
poi, durante un viaggio nella mia terra natìa, le Marche, ho capito che non
c’era bisogno di andare così distante per sentir dialogare soltanto le stelle
nella notte oscura. Là fuori, lontano dalle città, recuperare il silenzio
diventa di nuovo un’opzione possibile ma che pochi sembrano intenzionati a
perseguire. La maggior parte ha scelto di abbandonare i borghi e le campagne e
di conseguenza il silenzio, perché in pochi hanno ancora insito in sé il
contatto primordiale con la natura, quel luogo dove la solitudine può diventare
contemplazione, dove le parole non servono, perché è più interessante ciò che ha
da dire il mare.
Pensiamo che vivremo meglio silenziando il dolore, non capendo che solo
ascoltandolo e accogliendolo potremo elaborarlo ed evolvere. Ma tutto ciò
diventa possibile solo frequentando il silenzio e lasciando essere le cose così
come sono. È questo a creare fiducia, come scrive la poetessa Chandra Livia
Candiani ne Il silenzio è cosa viva:
> “La maggior parte di noi inizia un percorso meditativo in cerca di pace. Ma
> ben presto ci accorgiamo che quello con cui entriamo in contatto è il caos
> della nostra mente e la ristrettezza del nostro cuore. La pace non è la
> quiete, è piuttosto l’accoglienza dell’irrequietezza”.
Tutto sta nella possibilità di aprirsi a quel conoscere senza pensare.
Ma silenziare il caos vuol dire anche appropinquarsi ad assaporare la morte, la
lacerazione con ciò che consideriamo vita, con l’inizio e la fine di tutte le
cose, con il loro apparire e scomparire, con l’ingannevole sicurezza e l’ignoto.
Non troviamo il silenzio perché siamo distratti.
Viviamo in una società iperconnessa e industrializzata che mette a dura prova il
nostro sistema nervoso. Non siamo più in armonia con la vita, come scrisse la
filosofa e maestra spirituale Vimala Thakar ne Il mistero del silenzio. Se siamo
seduti in silenzio e la mente fa resistenza anche soltanto al suono del pianto
di un bambino, si crea una frizione, che genera irritazione e una reazione, una
resistenza alla vita stessa. Cerchiamo rifugio nella meditazione, nella
concentrazione, ma spesso non basta a trovare sollievo dal trambusto.
Dovremmo soggiornare in uno stato di osservazione consapevole che dovrebbe
accompagnarci durante tutta la giornata per essere in grado di trovare il
silenzio interiore, una condizione di non verbalizzazione, di sradicamento dei
dogmi, dei simboli, di teorie e d’ideologie, di opinioni, credenze e affezioni,
di nomi, di forme, d’identificazioni e di sentimenti; oltre l’io, il me, il mio,
oltre il tempo e lo spazio:
> “Perché il silenzio possa diventare vivo, la totalità del movimento cerebrale
> deve disattivarsi volontariamente”.
Il silenzio giace al di là del noto e dell’ignoto, di ciò che è visibile e
invisibile. Il regno del silenzio è il regno dell’inconoscibile. Come nella via
apofatica del misticismo cristiano di Meister Eckhart e Angelus Silesius,
dell’Anonimo Francofortese e di Margherita Porete, la quale dichiarava: “Il mio
Dio è colui di cui non si può dire parola”. La loro era una via di silenzio e di
contemplazione, dove al massimo si poteva asserire cosa non fosse Dio. Perché se
dici Dio, non è già più Dio, come dichiarava Sant’Agostino.
*
È possibile trovare il silenzio nell’immobilità, nella non-azione, nel
non-pensiero. Ma come si raggiunge il non-pensiero? Con il senza-pensiero,
quando: “Pur essendo di fronte a tutti gli oggetti circostanti, la mente rimane
pura ed incontaminata”, come scrisse Daisetsu Teitarō Suzuki, professore di
Filosofia Buddhista dell’Università di Kyoto in La dottrina zen della
non-mente. Per “oggetti circostanti” s’intendono la coscienza e l’Inconscio:
> “cioè uno stato in cui né pensieri, né coscienza, interferiscono col
> funzionamento spontaneo della mente. Far sorgere pensieri verso gli oggetti
> che ci circondano e trastullarci con false idee su questi pensieri, questa è
> la fonte delle preoccupazioni e delle immaginazioni”.
Cosa vuol dire senza-pensiero?
> “Vedere tutte le cose eppure mantenere la propria mente libera da macchie e
> attaccamenti. Obbligare la mente a non dirigersi verso qualsiasi cosa, questo
> è ‘estirpare i pensieri’”.
Astensione dalle discriminazioni. Pura presenza. Qualcuno potrebbe dire che in
questo modo si rischia di cedere all’annichilimento. Ma l’annichilamento non è
ancora forma e parola? Un grande insegnamento del maestro zen Mazu Daoyi,
parlando di cosa fosse l’illuminazione, fu: “Quando ho fame, mangio e quando
sono stanco, vado a dormire”.
Eihei Dōgen, filosofo, monaco e poeta zen fondatore della scuola Sōtō-shū, in
una poesia scriveva:
> “In primavera i fiori
> in estate il cuculo e
> in autunno la luna.
> Nel freddo inverno
> la neve chiara e pura”.
Ecco l’essenza della vita, la necessità di smettere di classificare,
concettualizzare, teorizzare e interpretare. D’altronde, anche William
Shakespeare in Romeo e Giulietta scrisse: “Romeo, perché ti chiami Romeo? Cambia
il tuo nome. In fondo, che cos’è un nome? Quella che noi chiamiamo una rosa, con
qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente”.
Cosa? Perché? Dove? Come? Queste non sono domande utili per la comprensione
della vita. Non sarebbe più utile prendere una tazza di tè seduti nel silenzio
del senza-pensiero anziché inseguire le deviazioni della mente? Guardando fuori,
poi dentro, poi di nuovo fuori, e capire che non c’è frammentazione.
Il silenzio è una forma di libertà e una via di vulnerabile accuratezza.
*
Il compositore John Cage – famoso anche per il brano 4’33, in cui l’orchestra
non deve suonare – ha sempre inserito lunghe pause tra le note, pause che
ricordano anche i momenti di sospensione tra un respiro e l’altro, tra
un’inspirazione e un’espirazione, come a evidenziare la rilevanza del silenzio.
Un silenzio che, in realtà, non esiste, non è mai esistito e mai esisterà. Anche
in una camera anecoica completamente insonorizzata c’è sempre qualcosa anziché
nulla: non ci sono rumori esterni di nessun tipo… ma ecco il suono del nostro
respiro, del sangue che scorre nelle vene, il battito cardiaco, il ronzio nelle
orecchie, magari anche un acufene.
Il silenzio non esiste. Perlomeno la totale assenza di rumori. Ma può esistere
il silenzio della mente, e Cage, con le sue pause, ci fa cogliere proprio questa
consapevolezza: la presenza mentale e la pace, giacciono in quello spazio vuoto,
in quella pausa tra un pensiero e l’altro, tra la nascita e la morte di un
giudizio. Solo una mente non discriminante può provare l’ebrezza della calma.
Ci sediamo a meditare, e veniamo invasi da pruriti, dolori, pensieri nefasti,
immagini, ricordi, idee. Nel libro Silenzio, John Cage scriveva: “Un complesso
d’archi, un tramonto, ciascuno agisce”. Si tratta di accettare che un suono è un
suono e un uomo è un uomo, senza illusioni sull’ordine e orpelli estetici che
abbiamo ereditato. Si tratta di considerare profondo l’ascoltare così come lo
starnutire. Si tratta di saper vedere, e cioè riconoscere, comprendere, sentire
nel cuore, sperimentare in prima persona.
*
E allora, dove cercare il silenzio? L’unica risposta plausibile è di non
cercare. Questa è la via maestra dei meditanti più esperti. Può sembrare troppo,
incomprensibile, ma intanto – per una volta – proviamo a incamminarci senza
pensare alla meta. Una via di apparente improvvisazione che in realtà cela un
programma di allenamento degno della più alta acrobatica spirituale. Perché
dietro alla capacità di tacere e di silenziare i condizionamenti mentali, c’è
sempre molta prassi ed esercizio, c’è dedizione e vocazione, intenzione ad
abbandonare e a lasciar andare. La capacità di assaporare un vero silenzio
interiore è direttamente proporzionale al saper camminare sulla fune della
meraviglia del vuoto.
Dejanira Bada
*In copertina: Philippe Petit durante un servizio fotografico nel dicembre del
1989 ritratto da Annie Leibovitz
L'articolo Camminare sulla fune, ovvero: esercizi per assaporare il silenzio
proviene da Pangea.
In questo momento storico esagitato, ora che il mondo che credevamo di conoscere
si sta rivelando non essere affatto come credevamo che fosse, svincolatosi dalle
leggi che credevamo lo governasse, in questo momento storico forsennato in cui
si svela che il mondo ha smesso da così tanto tempo di essere regolato dalle
leggi che credevamo lo governassero da rivelarsi praticamente a tutti così com’è
diventato, come sta diventando, per tutti intendo anche me che sono uno tra i
tutti, tutti tranne quei relativamente pochi che lo sanno da chissà quanto tempo
che le regole del mondo sono cambiate, che il mondo ha infranto le regole
precedenti e ne sta rodando delle nuove, che io non so affatto quali siano ma
che spero ci siano, senza regole quali che siano il gioco del mondo
semplicemente si fermerebbe invece il mondo gioca eccome, in questo momento
storico prepotente e angosciante, apocalittico, omicida a livelli più che
novecenteschi, ma progresso ormai non significa altro che aumento
dell’intensità, del profitto e del danno, in questo momento storico che sarà
storico anche lui come lo sono stati tutti quelli primi e che a me,
personalmente, non piace lungo i suoi sommi capi, io leggo Ludwig
Hohl, Note, Marcos y Marcos, e grazie a Ludwig Hohl – che nel 1980 curò una
nuova edizione delle note “scritte nei tre anni che vanno dal 1934 al 1936,
durante i quali vissi in Olanda in uno stato di assoluto isolamento
spirituale” – ora so che la lettera tedesca ß, cioè la doppia S tedesca, si
chiama Eszett o scharfes S (fonte: Wiki), lo so perché Hohl nella Nota
3 della Parte VI – Scrivere scrive: “Quanti leggono oggi Lichtenberg o
Kaßner?”.
Io non ho mai letto né l’uno né l’altro ma se cercare Lichtenberg su Google è
stato semplice non lo è stato per Kaßner: intanto dovevo capire come si
inserisse il carattere ß, non ho mai usato il carattere ß, e anche una volta
copiato online il carattere, una volta inserito sul motore di ricerca Kaßner,
niente, nessun responso, perché l’occorrenza vale per Kassner, Rudolf Kassner:
che piacque molto a Rilke oltre che a Hohl, si scopre navigando navigando, e
Hohl su Rilke? Da una nota alla Nota 4 sempre della Parte VI – Scrivere: “Mi
riferisco qui al tardo Rilke. E anche costui, allorché scrissi questo testo,
venne da me sopravvalutato.”
In questo momento storico allarmato, valicato, sbeffeggiato, trucidato e molto
molto molto commentato posso ancora addormentarmi la notte contento di aver
imparato la lettera nuova di una lingua che non parlo, la ß che si pronuncia
come una doppia esse in italiano e che allora potremmo ereditare, in questi
tempi di scrittura stringata, raccorciata, stritolata, politicamente pudibonda,
reticente, vieppiù omertosa, potremmo scrivere taßo e rifleßo e aßaßinio o, per
bypaßare la censura delle piattaforme così perbenino a modo loro, per non temere
di eßere derankizzati potremmo scrivere seßo quando avremo voglia di parlare di
seßo – siccome parlare è già un po’ un fare e siccome è indubbio che qualcosa
aßolutamente dobbiamo fare in questo momento storico demenziale, oßeßionato,
impanicato, frustrato, esploso.
Che fare? Leggere Hohl, per esempio.
antonio coda
L'articolo Che fare? Leggere Hohl in faccia a questo mondo assassino. Ovvero,
sul senso della lettera ß proviene da Pangea.
È stato Mario Guaraldi, l’editore rivoluzionario, ad incarnare le fotografie di
Marco Pesaresi nelle parole di Pier Vittorio Tondelli. L’edizione di Rimini, “Il
romanzo vent’anni dopo”, a cura di Fulvio Panzeri, stampata da Guaraldi
nell’estate del 2005, alterna le fotografie di Davide Minghini e i ritratti
tondelliani di Fulvia Farassino, alle immagini, prepotentemente spudorate, di
Pesaresi. Un colpo di genio paradossale: Tondelli nasce nove anni prima di
Pesaresi e muore quando il fotografo riminese ha appena fatto il suo ingresso in
Contrasto. È una specie di passaggio del testimone tra generazioni affini e
inavvicinabili: Tondelli muore a metà dicembre del ’91, tre settimane dopo
Freddie Mercury. La sua morte segna la fine di un’era. La morte di Pesaresi,
invece, sempre in dicembre, dieci anni dopo Tondelli, inaugura una nuova era,
brutale: l’Undici settembre del 2001, il World Trade Center di New York viene
sbriciolato da due Boeing 767; alla guida, un manipolo di affiliati ad Al Qaida.
La Storia fa una brusca virata, indossa il sudario.
Da Pesaresi a Tondelli: una specie di inseguimento.
Non c’è sconcezza negli scatti di Pesaresi, ma l’arcana sensazione di vivere
nell’ultimo fuoco, un passo prima della cenere. Si passa, cioè, dal gioco al
rito: i corpi fotografati da Pesaresi sono corpi donati, sono corpi perdonati,
corpi sacramentali. Un rogo di corpi. A volte, ci si spoglia come si indossa un
saio – o uno chador. Al contrario, negli anni Ottanta eletti a idolo da
Tondelli, i corpi si rovesciano come acqua: uno scroscio di corpi di cui non
resta altro che il vuoto, l’eco, il coccio del coccige. Ci si sveste per
rivestire un vuoto, il nulla.
I corpi di Pesaresi, i corpi degli anni Novanta, sono corpi noir, sono corpi da
notte oscura, corpi che ci falciano come un’accetta. Poco dopo, la mania
turistica si sposterà dalle discoteche – Mecca bacchica, il tempio dove si
consuma l’estasi, l’uscita da sé, svaginando le Baccanti in ‘cubiste’ – alle
sagre, il culto di un amarcord da educande. Anche Tondelli si era accorto, poco
prima della dipartita, di questa mutazione dell’essere – la Storia non è
rettilinea: è un rettile. Nel 1990, per la mostra “Ricordando Fascinosa
Riccione”, PVT scrive un saggio esemplare, Cabine! Cabine!, che raccoglie le
“Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica”. In sostanza,
pressoché dal nulla, Tondelli fonda un immaginario della riviera, costruisce una
poetica della Romagna. In mezzo, ci sono Mussolini e Pasolini, Filippo De Pisis
e Raffaello Baldini, Giorgio Bassani e Sibilla Aleramo, ma anche Alberto
Arbasino, Mario Luzi, Dante Arfelli, Valerio Zurlini. Su tutto aleggia un senso
di disincantato incanto – uno schianto.
Ma torniamo a Rimini. Tondelli giurava di aver scritto “il mio libro più
ambizioso”; nelle pubblicità – plateali – Rimini era presentato come “Il romanzo
dell’estate”: ne parlarono tutti, non per forza bene. A Enrico Regazzoni, su
“Linus” (luglio, 1985), Tondelli disse di essersi ispirato a Raymond Chandler e
a Francis Scott Fitzgerald, a Vito Bruno (“Reporter”, 4 giugno 1985) di aver
“fatto solo del rock and roll”, a Michele Trecca (sulla “Gazzetta del
Mezzogiorno”, 28 giugno 1985) che “Esiste un establishment letterario (quello
dei premi, delle pagine culturali dei giornali, dei professori, degli
accademici) che, accecato dai propri fasti, da una cultura ottocentesca, non
riesce a vedere il nuovo, non è assolutamente in grado di vedere il nuovo”.
Il nuovo professato da Tondelli spaventò i vecchi mestieranti del verbo. Il 23
giugno del 1985 Pier Vittorio Tondelli avrebbe dovuto partecipare a “Domenica
in”, portando Rimini in tivù: l’incontro saltò all’ultimo minuto. I giornali
diguazzarono nel torbido (così la “Gazzetta di Reggio”: Tondelli censurato a
“Domenica in”. Sesso e politica fan paura alla Rai; e poi: Pippo Baudo censura
Tondelli); Tondelli denunciò l’infamia: “Nonostante uno degli autori di
«Domenica in» avesse accettato, dopo la solita trattativa, di ammettere il
romanzo alla presenza del faraone [Pippo Baudo; N.d.R.], nonostante un
capostruttura della Rete avesse per tre volte ribadito la presentazione in base
agli intrinseci valori del romanzo, all’ultimo momento pare che sia intervenuto
il direttore della rete, o chi per lui, per bloccare la presentazione. Motivo
ufficiale: come non presentiamo film vietati ai minori, così facciamo con i
romanzi. Più probabilmente, si dice, la storia della misteriosa morte del
senatore cattolico (la parola democristiano non viene mai fatta nel libro) e
alcune sequenze erotiche hanno turbato i dirigenti televisivi così come
nell’80 Altri libertini turbò l’allora magistrato de L’Aquila Bartolomei, fino a
spingerlo al sequestro”.
Qualche giorno dopo, l’ebbrezza toccò ineguagliate guglie. Il 5 luglio del
1985 Rimini viene presentato al Grand Hotel; l’atmosfera di ispirato edonismo è
ricordata con queste parole da Roberto ‘Dago’ D’Agostino, il mattatore della
festa: “Tondelli aveva magnetizzato i gay d’Italia… A un certo punto, tutto
pronto per la presentazione, invitati già accalcati, fui incaricato di andare a
chiamare Tondelli in camera. La porta era semi aperta e quello che vidi –
gang-bang di corpi maschili rovesciati sul letto – ha sempre rappresentato per
me un quadro-vivente di quegli anni, terribili e bellissimi. Un ‘sogno bagnato’
che Tondelli aveva svelato con i suoi libri”. Un paio di anni prima, il Grand
Hotel era stata la cornice della ‘prima’ di E la nave va, il più malinconico dei
film di Fellini: in prima fila, insieme al regista, lo Zeus di Cinecittà, c’era
Umberto Eco; Mario Guaraldi – ancora lui – dirigeva le danze.
Nella biblioteca di Marco Pesaresi – angusta, augustea – non ricordo libri di
Tondelli: ricordo Hermann Hesse, Dino Campana, Byron e Bakunin. La poesia come
anarchia, il viaggio come brigantaggio dell’io. Pesaresi aveva una Transiberiana
nel cuore; aveva cominciato a Londra, intuendo nel sottosuolo del tube il sole
dell’India, il volto di Indra. Per un’idea di “colonna sonora” di Rimini,
Tondelli scelse Leonard Cohen e i Duran Duran, I Wanna Be Loved di Elvis
Costello e Time After Time di Cyndi Lauper, Prince, gli Smiths e i Talkin Heads.
Probabilmente Pesaresi ascoltava gli stessi pezzi.
Il punto, tuttavia, è altro. Provo a dirlo così: la differenza tra nudità e
spoliazione. C’è chi si denuda mostrando una maschera; chi, nudo, ha più abiti
di quando è vestito. La nudità che non prevede spoliazione – cioè, un lento
disfarsi dell’io, la resa all’inverno della carne – è una menzogna. L’attuale
spaccio dei corpi – da YouPorn a OnlyFans – ha questa dimensione: la nudità non
svela, non rivela e non svilisce. È avvilente. È una nudità-maschera. Una nudità
travestita. Una nudità in vesti. Non c’è vestizione né spoliazione in quella
nudità.
Eppure: la carne è effimera, passa, ma il corpo è tutto. Corpo: crisalide dello
spirito.
Pesaresi fotografa la spoliazione. L’attimo in cui il corpo nudo, spoglio di
tutto, finalmente disinibito, finalmente fuori di sé, si fa pasto a chi lo
guarda. È un corpo a precipizio. Un corpo eucaristico, un corpo cibo – se vuoi,
puoi masticarlo. Tutto, ormai, è spezzato. Non osate ricomporre, ora, ciò che è
stato offerto per sempre.
Questo pensiero è dedicato a Mario Guaraldi, quasi un padre
*A Rimini, presso i Palazzi dell’Arte (Piazza Cavour), è in atto fino all’8
dicembre 2025 la mostra di Marco Pesaresi “Rimini proibita”. A cura di Jana
Liskova e Mario Beltrambini, la mostra mette in relazione gli scatti di Pesaresi
– di cui nel testo si pubblicano alcuni esemplari – al romanzo di Pier Vittorio
Tondelli, “Rimini” (1985). Il catalogo della mostra è edito da NFC edizioni.
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