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Rivista avventuriera di cultura&idee

“Per conquistare il cielo”. La poetica dello sciamano. (Qualcosa, ancora, su GRM)
Così appunta Elias Canetti, è il 30 luglio del 1966: > “Leggo poesie in tutte le lingue che conosco, e in traduzione, quando sono > scritte in lingue che non conosco, ma cerco di farmi almeno un’idea di quelle > lingue… Sfoglio libri su tutti i possibili animali. Torno ad ascoltare, cosa > che da moltissimi anni non facevo più, le mie care voci degli animali”.  Canetti associa la lettura della poesia alla voce animale – imparare lingue sconosciute, cioè: imparare la parola del lupo, l’urlo dell’ungulato, il cigolio della gazza. Il brano è in un libro, Processi. Su Franz Kafka (Adelphi, 2024), di inclassificabile bellezza. Inutile ricordare la presenza ‘animale’, da strenuo classificatore, nei libri di Kafka: florilegio di sciacalli e ratti, di cani e di pantere, di cavalli e scimmie. L’opera di Kafka è un bestiario; valicare il simbolo a cui sottende quella singola bestia vuol dire franare nella follia.  Ad ogni modo, che scena magnifica. Uno dei più potenti intelletti del secolo, Canetti, che, nel suo studio, ascolta le voci degli animali, per liberarsi dal linguaggio umano (si legge poesia anche per questo: per sobillare il linguaggio, per liberarsi da umana lingua). Per chi fosse interessato, Canetti fa riferimento ad Animal Language, libro fotografico del 1938, con due dischi “che riproducevano i versi degli animali africani di giorno e di notte”, ideato da Julian Huxley, il fratello di Aldous, che è stato, tra l’altro, il fondatore del WWF, l’uomo che ha inventato la parola Transhumanism, transumanesimo.  Incapace di ‘contattare’ gli animali, Canetti li ascolta, nel suo studio gonfio di libri, fiero della propria interiore ‘animalità’.  Sono quasi certo che i libri sciorinati da Canetti tra quelli “che più contano per me”, facciano parte della biblioteca ideale di Gian Ruggero Manzoni. Pascal e i Presocratici, Sofocle e William Blake, Georg Trakl e Zhuang-zi, Confucio, Lao-Tzu ed Erodoto, Atlantis, soprattutto, la formidabile enciclopedia di miti e fiabe africane collezionata da Leo Frobenius negli anni Venti. Manzoni ha lo stesso physique intellettuale di Canetti: è uno ramingo tra più mondi culturali; un vagabondaggio – è chiaro – che opera in orizzontale (libri) e in verticale (pratica; ascesi/ascesa). A Canetti manca l’estremismo dell’azione, dell’esteta armato; possedeva, tuttavia, il dono dell’ira e dell’eros. Ma non è questo il punto.  Nel suo ultimo libro – se è poi l’ultimo: GRM pratica la giusta liturgia della dissipazione, ogni libro è sempre l’ultimo –, Nel lento movimento dei ghiacci (stampa puntoacapo), Manzoni dichiara i punti di giunzione tra il verbo e l’animale, tra il poeta e lo sciamano (“Sciamano del Delta del Po, sempre scopro ogni notte che vago nell’immutata sostanza della natura umana”: sua serpe e suo scettro sia l’angusta anguilla). Sciamino, a questo punto, gli scettici: al netto del consueto, cospicuo proliferare di ‘cultura’ (Leopold Zunz, Pascal, Aristotele, i canti dei nativi d’America), Manzoni si dà alla ‘natura’ del gesto lirico, inaugura la danza con gambe tese ad arco: > “Nel lento movimento dei ghiacci, la porta spalancata è alla cometa, quella > recante vita nel suo strascico… recante l’essenza di un altro mondo, che mai > vedremo, se non ipotizzando un oltre alla tenebra, in piena luce”.  In un brano – che ricorda gli incantesimi orditi da Álvaro Mutis – GRM parla dello “sciamano Ainu” che balla con l’orso dell’Hokkaido; parla delle “maghe del Rio delle Amazzoni”, parla dell’“angelo di carne”. Ossidati all’oggi, i poeti scontano la latitanza dal linguaggio che ‘agisce’, che si fa atto: espulsi dalla natura e dalla storia – il poeta non ‘serve’ più, se non in civiltà più raffinate, a cementare il senso d’appartenenza a una nazione, di servizio a una terra, a una lingua/seme, lingua-seminagione –, i poeti, servili, sono utili, semmai, a stimolare le anime belle, a far leva sui ‘sentimenti’; mai che trafiggano e trasformino le anime. Così, sono i falsi poeti a proliferare, oggi, a primeggiare, come sono i falsi profeti a guidare le adunate dei fedeli. Ma al poeta nulla importa dell’applauso o del consenso – necessario, invece, al romanziere, a chi lavora per ‘comunicare’ –: attende che la sua parola sia efficace, e non mero guscio, vocabolo inerte, vocabolo-carcassa.  Manzoni riassomiglia la poesia al suo dire originario, ne fa nenia, sacra cantilena – dunque, sacrilegio – in assenza di opera sacra. E allora: > “Oggi sono la lince del fiume Amur, ieri fui il daino preso in trappola, > domani sarò l’orso polare che, ai cacciatori, parlerà del sonno che t’invade, > quando il freddo ti prende l’anima e le carni… quando i liquami umani via via > si solidificano e l’alito vaporoso si trasforma in neve sulla barba”.  Chi vede in questi brani mere figure esornative, ‘immagini’, pittogrammi del fallimento, è un idolatra del vocabolario. Chi conosce Manzoni sa che la pratica è tale da sempre, da Il mercante di allodole (era il 1977, primo verso che testimonia un’indole indocile: “Chi comprende i simboli con le mani è l’unico uomo libero”), a Le battane di bronzo (uscì per la Stamperia dell’Arancio, trent’anni fa, ne riproduco le cifre finali: “Per conquistare il cielo occorrono macchine di luce, un modello che convinca e che riempia ognuno; e una religione, votata all’essenza, o alla più feroce risposta”), in qua. Oggi – nell’era della simulazione, che chiede di dissimularsi nell’altro – tale pratica è semplicemente più esplicita.  Dunque, la congiunzione tra il poeta e l’animale. L’anima dello sciamano – così ne dice Klaus E. Müller in Sciamanismo. Guaritori. Spiriti. Rituali, Bollati Boringhieri, 2001 – veniva ruminata per tre anni dalla “Madre animale” (sia alce, cervo o renna), era “l’anima di un essere dalla duplice natura, animale e umana”, riconoscibile fin da bambino per eccezionalità fisica, ‘mostruosa’ (“gli individui destinati a diventare grandi sciamani nascevano con i denti, oppure ‘con la camicia’ e con un numero eccedente di dita per mano (o per piede), o con un neo vistoso sul corpo”), e psichica (“tendevano a cadere in deliquio e avevano un carattere chiuso; di indole pensosa, passavano il tempo a rimuginare, soli”). Ne seguiva, l’addestramento, la vita riparata dal convegno umano, in luoghi spesso inaccessi; il corredo sonoro e lirico, che riproduceva le voci degli animali-guida. Parola che sana, quello dello sciamano, che piega, che piaga. L’amorfo repertorio che leggiamo, preziosità etnografica (ad esempio, in: Testi dello sciamanesimo siberiano e centroasiatico, Utet, 1984), non va letto come si leggerebbero Yeats o Blake (due poeti-sciamani, tra l’altro, che sciamanizzano) ma come canto che anima, che opera, che in assenza di compito resta esteticamente inerme. Lo sciamano presiede alla vita – il parto – e alla morte – la sepoltura – e al pasto – la caccia. Eleva a suo grado gli elementi. Ora: che può il poeta se non riferire un deciduo dire, la caducità della parola? Il libro di Manzoni non è la cronaca di uno sciamano infame, senza futuro, ma l’indizio iniziale di chi torna a manovrare il fuoco, di chi, con la timida tenerezza del nudo uomo, che ascolta l’erba, i fiumi, lo scalciare del sole, leva le briglie alle parole, leva ogni paramento, a trafittura d’ululato.   Compito del poeta: liberarsi della poesia. Scatenarla.  Per altro, il riferimento – GRM ha tradotto Genesi, Esodo, Isaia, una manciata di Salmi per il “Salterio dei Poeti” e altro ancora va traducendo dal Testo – ha pertinenza biblica. Iubal, figlio di Lamec, della genia di Caino, è “il padre di tutti i suonatori di cetra (kinnor) e di flauto (ugab)”. Iubal non è il primogenito – non lo era neanche Abele; a sottendere: destino di sacrificio – e gli strumenti che crea indicano un opposto approccio all’arte mantica della musica. Ugab, lo strumento a fiato, ruba il ‘soffio’ di chi lo suona: appare poche volte nel testo biblico. Kinnor, invece, partecipa di ogni luogo del Testo (42 occorrenze): lo strumento a corda pretende maneggevolezza nella voce, accordo con il canto. Ogni strumento musicale è trasmutazione di uno strumento di guerra: il flauto fu cerbottana; la cetra fu arco e fionda. Il flauto adombra la tattica dell’uccello, la cetra quella del felide. Anche il più alto atto d’arte reca un pervicace sentore di sangue.  Chi lamenta assenza di animali nei Vangeli ha lo sguardo fuori asse. Al dialogo umano, frutto di sacri fraintesi, il Nazareno preferisce quello con le bestie e con gli angeli (così insegna l’evangelista Marco). Il suo stesso corpo è arca, nella sua voce la voce delle miriadi di bestie. Per altro, gli apostoli operavano guarigioni, andavano in estasi, afferravano la serpe senza che gliene incorresse danno. Di ciò, non restano neppure le vestigia – se non negli esorcismi –, ma il sottile fastidio di un tempo andato.  Manzoni, intanto, continua la sua danza – a me ricorda, di spalle, il Giudice Holden, istoriata creatura uscita dalle fucine di Cormac McCarthy, un poco Pan un poco Astaroth, che sganghera la luce nel suo noccioleto. A noi, succhiare di quel fiele.  *In copertina: strumento sciamanico esposto in “Shamans. Communicating the invisible”, al Muse di Trento; nel testo: opere di Gian Ruggero Manzoni L'articolo “Per conquistare il cielo”. La poetica dello sciamano. (Qualcosa, ancora, su GRM) proviene da Pangea.
May 29, 2025 / Pangea
“La dolcezza dell’amore maledetto”. Jacques Fersen, l’esule di Capri
La storia della letteratura è costellata di nomi invisi alla critica e destinati a un immeritato oblio. Spesso scavalcati dalle righe antologiche, censurati o macchiati dallo stigma di un castigo morale imposto dalla propria epoca, la cui eco grava a tutt’oggi sulla loro eredità artistica, costituiscono un lavoro avventuroso – e quanto mai necessario – per molti esegeti. È certamente questo il caso di Jacques d’Adelswärd-Fersen, il poeta barone francese ritratto con scrupolosa attenzione da Roger Peyrefitte – autore delle pubescenti Amitiés particulières (1943) – ne L’Exilé de Capri[1] (Edizioni La Conchiglia, Capri 2020).  Dalla precisione di un testamento, la biografia romanzata rende omaggio a uno scrittore considerato assai controverso, oltretutto ancora poco noto, restituendo al contempo l’affresco di un mondo perduto, quello dei primi del Novecento, al confine tra Italia e Oltralpe. Nella prefazione al romanzo, un impietoso Jean Cocteau lo etichettava ingiustamente come «Eros Apteros». Per dirla col Vate, il disdegnato maudit incarnava una sorta di Cupido «larvato e senz’ali» (Il Fuoco, 1900), una razza di impotente lirico al quale sono state tarpate le ali alla nascita, che è riuscito tuttavia a tramutare la propria vita in un’opera d’arte.  Sotto questa luce, l’elegante damerino della Belle Époque rassomiglia a prima vista a “uno di quei personaggi emersi direttamente dalla letteratura, uno di quei protagonisti tipici che non è difficile incontrare in certi libri di Baudelaire e di Flaubert, una via di mezzo tra Dorian Gray e Andrea Sperelli.”[2] Eppure, colui che fu definito a suo tempo un «Oscar Wilde au petit pied»[3] era in realtà molto più complesso dell’esteta apollineo modellato sullo stereotipo. Come ribadisce il suo più tenace studioso Gianpaolo Furgiuele (Jacques d’Adelswärd-Fersen. La cospirazione delle sirene[4], Ladolfi, 2021), promotore di una riscoperta del talento artistico così come della assoluta modernità della voce – coraggiosa, vibrante e fuori da ogni regola – di questo «ultimo dandy» della sua generazione, Jacques Fersen è stato testimone di un Decadentismo ormai agli sgoccioli ed è riuscito ad attirare attorno alla sua figura una colonia di artisti e intellettuali rinnegati in patria. Poeta mercuriale e ramingo, compose versi carichi di spleen poggiandosi su eclettiche commistioni metriche. Il sogno irrealizzabile di ritorno al paganesimo in un mondo di pregiudizi lo avrebbe perlomeno elevato al ruolo di cantore del passato classico.  Non esente dall’invettiva polemica, in aperta sfida delle convenzioni, fu anche direttore di una delle prime riviste europee a carattere marcatamente omosessuale, la “Revue Mensuelle d’Art Libre et de Critique” (in vita un anno, 1909), che raccolse, tra gli altri, contributi di Anatole France, Achille Essebac, Colette e del nostro Tommaso Marinetti.  Finito ben presto sulle liste di proscrizione francesi come “persona non grata”, il beniamino diurno dei salotti mondani, schiavo di orde fameliche di ragazzi (tra cui molti minorenni) e libertino sfrenato durante la notte, pensò bene di lanciare una satira alla «maschera infiacchita e grottesca» della società benpensante, la stessa che l’aveva condannato – in modo non dissimile dal caso wildiano in Inghilterra – per oltraggio alla morale pubblica, in Voi siete i borghesi: > “[…] Contro un male sconosciuto  > Mettete alla porta Ganimede, e nudo, > Benché segretamente ne conserviate la brama; > Insensati, pensate di avere un gesto d’artisti  > E vi scagliate sui nostri pretesi vizi. > Credete di cancellare il riso di Narciso, > Scapini che non siete, valletti di Cesare?” In seguito agli scandali delle sue “Messe nere” (difese in Lord Lyllian[5], 1905) – nient’altro che innocenti tableaux vivants più che cortei di giovinetti in panni di efebi – inscenate nei suoi appartamenti parigini, si rifugiò in esilio volontario nella terra del Grand Tour, da qui alla volta di Napoli fino a Capri. Nel 1904 tornava sull’isola dei piaceri segreti della sua giovinezza, a cui era stato iniziato dal nobile Robert de Tournel, immortalata da Norman Douglas[6] in Vento del Sud (1917) e da Compton McKenzie[7] nel romanzo caprese Le vestali del fuoco (1927). Intorno a lui, i contemporanei conosciuti sul posto, vittime sofisticate dell’etica nordica che popolano l’aneddotica del sogno italiano d’inizio secolo, erano le “sorelle” Walcott-Perry – le inquiline saffiche di Villa Torricella – al braccio dell’amatissima marchesa Casati (detta la Semiramide), la principessa Ephi Lovatelli e Godfrey Henry Thornton, l’ufficiale in congedo coinvolto in malaffari con giovanotti locali, tutti invitati speciali ai suoi festini, dove passò la crème de la crème di quegli anni. L’episodio, riportato da Peyrefitte, che imprime la parabola all’intera storia, reale e immaginaria, del giovane aristocratico fu però l’incontro folgorante con gli sventurati amanti inglesi, ‘Bosie’ Douglas e Wilde (appena liberato da Reading), apparsi in un breve cameo vacanziero del 1897, quando questi ultimi vennero cacciati dal ristorante Quisisana: > “Robert gli prese la mano sotto la tovaglia. ‘Calmatevi, ragazzo mio, > calmatevi.’ Con aria ironica, il giovane Lord toccò la spalla del maître > d’hôtel con il suo bastone. ‘Vi faccio i miei complimenti in nome > dell’Inghilterra’, disse. Se ne andò con il suo amico e gli ospiti tornarono a > sedersi, senza domandargli spiegazione per quelle parole. Negli occhi di > Jacques brillavano le lacrime, e le aveva viste brillare in quelli di Oscar > Wilde”.  Dopo un turbinoso giro del Mediterraneo, il tragico Fersen – spogliatosi del primo cognome d’alto lignaggio – oserà scappare definitivamente sull’isola blu con l’amato Nino Cesarini, un manovale quindicenne conosciuto per le vie dell’Urbe e «più bello della luce di Roma», perfetto per gli scatti iconici dei fotografi Plüschow e Von Gloeden. Assunto il piccolo Adone come “segretario” privato, a tratti algido eppure fedele in lunghi pellegrinaggi orientali e divertimenti oppiacei, l’illustrissimo conte (così per gli amici) creò a Capri il suo paradiso artificiale: un paesaggio «infernale e divino insieme», ma anche un riparo fatto di silenzio e pace per poter scrivere e amare come desiderava, senza ostacoli di perbenismo borghese o riprovazione di sorta. Per coltivare le sue passioni più intime, fece costruire su un eremo dell’isola una magnifica residenza in stile rocaille, «sacra al dolore e all’amore», ribattezzata poi Villa Lysis da La Gloriette. Un tempio d’amicizia platonica, divenuto il simbolo di una personale Acropoli della bellezza, comunicante con la gloriosa Villa Jovis di Tiberio (due passi più in alto), dove riceveva file di accoliti.   Allo stesso tempo, l’amara realtà lo risvegliava col fardello di un’angoscia insaziabile derivata in gran parte dall’ostracismo sociale. Nell’autunno 1923, recluso dentro il suo fumoir sotterraneo, dal cuore stanco di ogni frenesia e reprobo degli isolani, ingiuriato a più riprese dalla stampa scandalistica in quanto omosessuale e “mangiatore di oppio”, decise di tagliare corto con un’overdose di coca affondata in un bicchiere di champagne.  Gli ultimi fleurs du mal, sparsi come anatemi sugli altari dell’invocato Angelo della morte, fanno eco alle litanie di Lionel Johnson (The Dark Angel, 1894), mentre cade allucinato: “O bell’Angelo del male che vivi nelle tenebre  Per esaltarmi la dolcezza dell’amore maledetto; Angelo triste, esule dai divini paradisi,  Quale ombra serra il tuo funebre sorriso? Eppure, hai conosciuto i baci più sanguinanti, L’abbraccio urlante e tenero dei giovani. In te si è riflesso il loro più bel sonno Come il chiaro di luna in mare nelle sere dei poeti. I fanciulli ti hanno offerto la freschezza della loro bocca E la loro anima innocente in cui tremava l’ignoto. Il mondo intero ha vibrato nelle tue braccia nude Sul tuo ventre, O Satana, che sogghigni truce, Perché tu passi, vai, disprezzi, muori, rinasci, Spazzando la terra con le tue ali,  Mentre si prova, nell’eterno errore, a colmare Attraverso un dio il vuoto dei nostri cuori.” Nella sua casa dell’anima, a distanza di più di cent’anni, lo spettro malinconico del barone sembra risalire dai marosi e aleggiare tra le stanze desolate, sopra gli occhi dei visitatori che in ogni stagione accorrono a quell’antica dimora attratti dalla sua fama. La targa apposta a strapiombo sull’azzurro intorno alla villa, da lui consacrata «alla gioventù d’amore», reca il monito di una vita consumata al limite della vertigine. Dopotutto, come detta la Morante nella vicina Achilleide, fuori del limbo non v’è eliso. Pierluigi Piscopo ***** Messi da parte i versi della maturità, si propone qui una manciata di poesie giovanili di Jacques Fersen, tratte da L’innario di Adone: alla maniera del signor marchese de Sade (1902), dove la tipica provocazione del verbo si stempera in un’insueta dolcezza, con echi ai maestri simbolisti e decadenti prediletti, da Rimbaud a d’Aurevilly. L’innario di Adone (Proemio) Per le aurore d’oro dove l’erba giace addormentata Sotto la rugiada caduta dalle labbra della notte, Per le aurore d’oro quando canti amici Si svegliano nei nidi con un frullo d’ali e di voci, Son partito leggero, più leggero d’un capro, Attraverso i campi arati e i boschi tremanti, Con nastri chiari e munito d’un arco in legno bianco, Per venire a conquistare, O giovane Adone, la tua bocca! Udivo i richiami dei fiori e dei pastori, – il riflesso del tuo sorriso negli stagni che attraversavo –  E qua e là dei canti modulati da lire, Le uniche a celebrare la tua viva dolcezza. Vedevo fanciulli, come me, mormorare Parole d’amore alle tue statue, a cui rassomigli; Offrendo lillà, profumi e latte. E tutto ciò vagando, bello, fra i verzieri. E il cielo infinito, quel cielo dei templi ellenici, Che rende gli Dèi più belli e le preghiere più caste, Stendeva sui tuoi proseliti un velo di luce, Dove i cuori crepitavano come legna secca al fuoco. Ma a sera, triste e dolce, tornai più fedele, Meno gioioso e più calmo, ch’avevo dentro al cuore  Il fermento sconosciuto dei dolori divini Con cui tu sai domare gli schiavi ribelli: I campi lontani lasciavano svolazzi nell’oblio Tra fuochi brillanti sulle alte montagne, Un riposo virgiliano accarezzava i campi E io mi sentivo puro, il male annientato. I miti antichi in cui avevi creato il tuo Impero Palpitavano nella mia carne con vaga sorpresa; Avrei voluto morire di un bacio nel momento Di quella sera mesta e dolce come l’inizio di un delirio! Per ciò mi trovo qui, in lacrime ai tuoi piedi, Ai tuoi piedi più setosi dell’ala di una colomba, Per offrirti il mio cuore come una coppa cadente Satolla dei frutti vermigli raccolti dal pastore. E ti offro le mie grida, i miei sogni, la mia supplica, Deboli lamenti d’amore in baci di sillabe, Sogni infantili simili al cielo roseo E la mia bocca umida per proferire questi inni! * Innocenza Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa, I nostri cuori bambini han spiegato le ali, Sogni confusi, ignari d’ogni nevrosi, Li han fatti tremare come tortorelle; Sugli occhi addormentati, sulle manine richiuse, La lampada notturna ha posato il suo chiarore, E sulle labbra inebriate da una preghiera pia,  I nostri piccoli cuori bambini sanno che Dio li chiama. A momenti, come il suono di una viola lontana, Che vibra sulla pace di candide visioni, Un brivido, un sospiro infantile si diffonde Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa. * Schoolboy Era un liceo vecchio e cupo, Mi ricordo, e come mi ricordo… Nei miei occhi calarono le ombre, La prima volta che vi entrai, Il direttore era austero e duro, Mi pareva un Dio, E quando dovetti dire addio, Separandomi dalla mamma, Il mio cuore bambino non osò Gridare dolore né incertezza, Proseguii da solo sul selciato, Fra ricordi di antiche carezze. Un ragazzino mi condusse in aula, Tutti a fissare il novizio, Credendolo un vitellino, E da solo trovai un posto. Aprii un libro a caso, Sentendo ronzare nella testa, I giorni andati, come tamburi,  Che mi cantavano il caro abbandono. Rivedevo la casa serrata, Il grande sole la riscaldava, E il giardino tremante  Di uccelli, insetti e rose. Allora, non appena una lacrima Stillò lungo il viso, Per evitare scherni  E risate sulla mia tristezza, Cercai qualcosa da scrivere Laggiù, alla mia cara mamma, Da scrivere a singhiozzi, Che mi annoio senza il suo sorriso! *Le traduzioni delle poesie in calce sono di Pierluigi Piscopo. Per le citazioni dalle opere restanti, si fa riferimento al romanzo di Roger Peyrefitte e ai volumi su Jacques Fersen indicati in bibliografia. Bibliografia consigliata: J. Fersen, Amori et dolori sacrum, La Conchiglia, Capri 1990 (prefazione di Roger Peyrefitte). F. Esposito, I misteri di villa Lysis. Testamento e morte del barone Jacques Fersen, La Conchiglia, Capri 1996.  R. Ciuni, I peccati di Capri, Longanesi, Milano 1998. J. Fersen, E il fuoco si spense sul mare…, La Conchiglia, Capri 2005. AA. VV., À la jeunesse d’amour. Villa Lysis a Capri: 1905-2005, La Conchiglia, Capri 2005. T.M. Pellicanò, Villa Lysis, Abrabooks, 2021. C.M. d’Ambrosìa, Nino, il sole di Roma, la luna di Capri. Vita reale ed immaginata di Nino Cesarini, La Conchiglia, Capri 2023. *In copertina: Jacques d’Adelswärd-Fersen nel 1901 -------------------------------------------------------------------------------- [1] https://laconchigliacapri.it/prodotto/lesule-di-capri-2/ [2] https://caprinews.it/?p=22986 [3] Philip J., Pourriture, in «L’Aurore», 14 luglio 1904, p. 1. [4]https://www.ladolfieditore.it/index.php/it/catalogo/agata/jacques-d-adelswaerd-fersen-la-cospirazione-delle-sirene.html [5] https://www.pendragon.it/catalogo/narrativa-1/linferno/lord-lyllian-detail.html [6] https://isoladicapriportal.com/norman-douglas-alla-scoperta-di-capri/ [7] https://isoladicapriportal.com/compton-mackenzie-luomo-che-amava-le-isole/ L'articolo “La dolcezza dell’amore maledetto”. Jacques Fersen, l’esule di Capri proviene da Pangea.
May 29, 2025 / Pangea
“Preferisco sparire, adesso”. Vita di Robert Walser, lo scrittore che divenne uno zero assoluto
> «Ciò che non viene detto, ha la vita più forte, perché ogni dire ed ogni > accennare toglie qualcosa all’oggetto, lo intacca, e così lo diminuisce». Riflessioni del genere non possono venire che da un grande silenzioso come lo scrittore svizzero Robert Walser (1878-1956). Il più silenzioso dei silenziosi. Un antidoto a un mondo come quello di oggi dominato dal presenzialismo a tutti i costi, dalla facile indignazione, dalla protesta a buon mercato, dallo spasmodico bisogno di apparire e di parlare anche quando non si ha niente da dire. Leggerlo e conoscerlo vuol dire disintossicarsi dalla stupidità dilagante per entrare in regioni dello spirito dove soffia un vento sicuramente gelido, ma tonificante e salutare, che ci può aiutare a conservare un minimo di dignità. Sto parlando di uno scrittore unico e di una personalità originalissima, non classificabile in nessun gruppo, in nessuna categoria o comunità. Un isolato cultore della riservatezza e della povertà che non ha mai alzato la voce o protestato; un uomo che ha fatto dell’assenza la sua religione e che si è nascosto nelle pieghe della vita per salvarsi l’anima.  Se stiamo ai canoni esistenziali dominanti Walser è uno sconfitto dalla vita, un perdente, ma se si impara a conoscerlo un po’ si capisce che in realtà è un vincente. Sì, perché quest’uomo mite e inerme ha combattuto una lotta titanica e probabilmente è uno dei pochi esseri umani che sia riuscito a non farsi inghiottire da quell’ingranaggio infernale che ci stritola tutti, giorno per giorno, ora per ora.  > «Non è forse bello che nella nostra esistenza rimanga qualcosa d’ignoto, di > strano, come dietro un muro coperto d’edera? Questo le conferisce un fascino > indicibile che sempre più si va perdendo. Oggi si ha voglia di tutto, ci > s’impossessa di tutto con brutalità». I protagonisti dei suoi romanzi e delle sue prose brevi sono sempre dei perdigiorno o dei servitori che conducono un’esistenza insignificante, costretta nei limiti imposti da qualche entità superiore. Ma è proprio in questa subalternità il segreto. Solo mimetizzandosi in un ruolo anonimo è possibile salvaguardare il proprio io, non essere identificati dal potere e non cadere nella macina sociale. Walser vede con grande lucidità il vuoto e il non senso della realtà ed è convinto che per preservare un minimo di identità sia necessario abdicare alla vita. L’unica via di salvezza è in un’apparente sconfitta. Da qui la sua ossessione del “servire”. Dipendere da qualcuno o da qualcosa vuol dire rinunciare a un’effimera affermazione della propria personalità, ma anche essere esentati dal partecipare all’orrore del mondo.  Robert Walser (1878-1956) La stessa biografia di Walser è una testimonianza di questa sofisticata e silente tecnica di sopravvivenza. Prima si è dato a mille mestieri: dall’apprendista in banca nella natia Biel al commesso di libreria, dal copista al domestico in un continuo peregrinare tra la Svizzera e la Germania, quasi sempre a piedi perché Robert Walser era un formidabile camminatore, nel senso più nobile del termine come afferma Piero Citati: > «Passeggiare era il ritmo interiore della sua mente: accresceva e placava la > sua inquietudine, era la gioia, l’estasi. Dove poteva abitare, se la vita lo > teneva fuori dalla porta? Solo sulle strade interminabili, bagnate dalla > pioggia e dalla neve, dove vagava da quando la rugiada era ancora lucida > sull’erba sino alla discesa delle tenebre». Poi, in seguito a certi suoi comportamenti e a crisi di ansia, nel gennaio del 1929, quando Walser ha cinquant’anni, viene ricoverato in una clinica per malattie nervose vicino a Berna. Da allora, per ventisette anni, vivrà sempre in case di cura, in un’assoluta solitudine, rinunciando anche a scrivere per coltivare solo e soltanto il silenzio. Almeno ufficialmente. In realtà molti anni dopo la sua morte si è scoperto che anche nei lunghi anni di ricovero Walser aveva continuato a scrivere, ma lo aveva fatto alla sua maniera, in modo nascosto; a matita, utilizzando fogli riciclati che trovava qua e là, e con una grafia talmente minuta da risultare illeggibile a occhio nudo. Sono i suoi cosiddetti microgrammi. Un altro modo per celarsi agli occhi del mondo. Nei lunghi anni di ricovero l’unico contatto con l’esterno saranno le lunghe passeggiate fatte in compagnia dell’amico Carl Seelig, che ci ha lasciato una toccante e preziosa testimonianza con il libro Passeggiate con Robert Walser di cui consiglio vivamente la lettura. Per il resto Walser passava le giornate nella grande camerata con gli altri malati intento a piegare sacchetti di carta, osservando in modo scrupoloso tutte le regole dell’istituto, anche le più stupide e insensate, e quando l’amico Seelig gli propose un trasferimento che migliorasse la sua situazione rifiutò in modo deciso. Non voleva avere privilegi né tanto meno rientrare in contatto con il mondo e si proponeva soltanto di soddisfare quella che una volta definì come la sua massima aspirazione: «diventare uno zero assoluto». > «Preferisco sparire, adesso. Certo, potevo scegliere un convento per > chiudermici dentro e pregare, rispettato dalla chiesa e dai potenti. Ma forse > è meglio il manicomio. Ci sono meno idee su Dio qui dentro, meno preghiere > incomprensibili, meno riti da accettare. Qui si sopravvive calmi. Qui si è > sicuramente malati. Certificazioni, esami, firme, diagnosi. Perché bisogna > avere sempre la testa inquieta? Il mondo non è già abbastanza agitato? Almeno > opponiamoci al furore. Qui deve esserci la quiete». La mattina di Natale del 1956 Robert Walser uscì dall’istituto psichiatrico di Herisau per una delle sue solite passeggiate. Da solo, nel silenzio più assoluto. Qualche ora più tardi venne ritrovato morto in un pendio coperto di neve. Giaceva disteso con la testa un po’ piegata, la bocca aperta e sul volto aveva un’espressione che assomigliava a un lieve sorriso. Silvano Calzini L'articolo “Preferisco sparire, adesso”. Vita di Robert Walser, lo scrittore che divenne uno zero assoluto proviene da Pangea.
May 28, 2025 / Pangea
“Il nome della rosa” alla Scala. Scenografia possente, musica dimenticabile
«Che sentieri avrebbe percorso un ipotetico compositore Umberto Eco se avesse dovuto scrivere Il nome della rosa non negli anni Ottanta sotto forma di libro, ma oggi sotto forma di opera?». Questa è la domanda che si pone il compositore Francesco Filidei, al quale La Scala e l’Opera di Parigi commissionano un progetto titanico: la trasposizione del romanzo in opera lirica.  «Eco stesso,» continua il musicista, «nelle Postille al Nome della rosa indica la strada da seguire quando parla di “un libro che assumeva una struttura da melodramma buffo, con lunghi recitativi, e ampie arie”». Assodata la forma da adottare, il problema si ripercuote sulla sostanza: «Non avrei potuto continuare senza un elemento fondamentale: un buon motivo per far cantare i personaggi. Siamo in un’abbazia, luogo che si vuole di preghiera: chi dice preghiera dice canto, e nello specifico canto gregoriano, un canto talmente antico da risultare ormai atemporale, sul quale ho fatto scivolare elementi barocchi, ottocenteschi, contemporanei, stemperando la presenza massiva di voci maschili con ruoli en travesti di Adso, Gui e Ubertino.» Dunque, un’opera buffa in due atti, imperniata su una contaminazione musicale tra antico e moderno e una rivisitazione dei personaggi. Manca il libretto, che viene affidato allo stesso Filidei, insieme a Stefano Busellato, Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti. «Abbiamo dovuto tagliare alcuni personaggi e semplificare dal punto di vista narrativo numerose situazioni» ammettono gli autori – ciò nonostante, si tratta di uno spettacolo che dura quasi tre ore. Qui iniziano le criticità. Il primo atto è di una lunghezza disumana, appesantito da un libretto troppo fedele al romanzo. Le citazioni in latino e in greco – perdipiù in forma medievale – non migliorano una proposta musicale stridente e spigolosa. Sebbene vi siano stati momenti di notevole qualità (la tentazione di Adso e la supplica alla Vergine), la musica è orfana di melodie solenni, di tensioni liriche potenti. Questo è dovuto alla latitanza delle arie, che, laddove appaiono, sono prive di ogni coinvolgimento patetico, e alla freddezza dei recitativi, che non si fondono mai con lo spartito. Ibridare l’insegnamento sinfonico di Liszt e Mahler con il gusto contemporaneo sembra privare la musica del suo mistero più profondo:emozionare, commuovere, fare breccia nel cuore al punto che “la parola muore nel pianto”.  Di certo l’intenzione non è questa, ma non si può prescindere dal protagonismo che la musica deve avere nell’opera. Così come non si può prescindere dalla caratterizzazione di certi personaggi. Eco ha speso moltissime righe per il profilo psicologico di Bernardo Gui – per non parlare dell’essenza di Adso. La scelta di inserire dei ruoli en travesti per “stemperare la presenza di voci maschili”, come chiarito da Filidei, è fallimentare. L’inquisitore, sebbene Daniela Barcellona sia stata monumentale e tecnicamente impeccabile, è privo di ogni veridicità storica e letteraria. Se si ricerca la fedeltà al romanzo, non si può trascurare la descrizione che ne fa Eco:  > «Era un domenicano di circa settant’anni, esile ma diritto nella figura. Mi > colpirono i suoi occhi grigi, freddi, capaci di fissare senza espressione, e > che molte volte avrei visto invece balenare di lampi equivoci, abile sia nel > celare pensieri e passioni che nell’esprimerli a bella posta».  Non penso vi siano dubbi sulla legittimità di una voce profonda e baritonale, in perfetta sintonia con la cupezza e l’oscurità di quell’animo impietoso.  Se la musica tende ad essere metallica – in pieno stile Filidei – e il libretto si rivela un deterrente per l’attenzione, il vero trionfo sta nella direzione di Metzmacher, nella regia di Michieletto e nella scenografia di Fantin. Quest’ultimo, però, è il vero protagonista al Piermarini. Sulla base del romanzo, crea “un labirinto psicologico”, con dei teli trasparenti e una grande croce luminosa che pende. Il coro è sopraelevato, posto dietro questa grande “struttura della mente”: con la sua voce incarna l’esoterismo medievale e la parola divina che incute timore, come nella recita tuonante dei versetti dell’Apocalisse.  Strepitoso quanto accade, ad esempio, nella prima stanza: compare un portale scolpito che mostra Cristo Re attorniato da animali terribili; ad un tratto, contorsionisti abilissimi – personificazione del peccato – rompono il finto marmo e avvinghiano Adso e lo sollevano, fino a dominarlo. Stesso stupore nell’apparizione di una gigantesca miniatura animata, nel movimento di un muro che stritola l’Abate e nell’incendio finale, che brucia la croce e “distrugge” la biblioteca.  Scenografia e regia sublimi, direzione e coro eccellenti, meritevole di lode tutto il cast. Filidei onesto e fedele a se stesso, ma non alla tradizione operistica; nulla di male, ma difficile da annoverare tra i grandi melodrammatici: come diceva Verdi a Puccini, dopo il fiasco delle Villi, «l’opera è l’opera, la sinfonia è la sinfonia». È evidente che l’opera di Filidei è cervellotica, straniante, ma il tentativo mentale di ricreare il mondo dell’abbazia e il suo universo medievale prevale sulla creazione artistica; l’idea è vibrante, ma si raffredda quando prende vita. Con Il nome della rosa è venuto meno il motivo per cui si varca il foyer di un teatro come quello scaligero: lasciarsi pervadere dalla musica che colpisce lo stomaco, che accarezza l’anima e rimane incisa per sempre nella memoria. Credo che nessuno si ricorderà la musica del Nome della rosa come si ricorderanno le note verdiane della Donna è mobile o gli accordi pucciniani del Nessun dorma e di E lucevan le stelle. No, noi non siamo ancora pronti a “recidere quel volto”. Davide Chindamo L'articolo “Il nome della rosa” alla Scala. Scenografia possente, musica dimenticabile proviene da Pangea.
May 28, 2025 / Pangea
“Su un vassoio, la testa pallida del poeta”. Tradurre poesia, un crimine linguistico
Per spiegare se un testo sia traducibile sono stati scritti centinaia di libri e di saggi di traduttologia, sono state spese milioni parole in decine di lingue, tradotte a loro volta in altre decine di lingue. Quello che resta, di questo profluvio verbale, di questo scialo teoretico, sono alcune affermazioni apodittiche e contraddittorie, che spesso sconfinano nel paradosso o nella boutade, e che fanno il giro del mondo nei convegni sulla traduzione. Il repertorio è infinito: dal precetto di Cicerone di non tradurre verbum pro verbo alle polemiche di San Gerolamo, dalle considerazioni di Lutero alle argomentazioni di Du Bellay, Montaigne e Chapman, a quelle di Ben Jonson sull’imitazione, fino alle considerazioni filosofiche di Von Humboldt e ai resoconti di Goethe, Schopenhauer, Arnold, Valéry, alle teorizzazioni di Pound, Benjamin e Ortega y Gasset. In Italia domina la battuta, citatissima e un po’ misogina – attribuita a Croce ma in realtà di Carl Bertrand, il traduttore tedesco di Dante, che riprese una definizione di Gilles Ménage –, secondo cui le traduzioni sarebbero come le donne, “brutte e fedeli o belle e infedeli”. Come anche quella, attribuita a Robert Frost, secondo cui “poesia è ciò che si perde nella traduzione”. Per Ortega y Gasset, la traduzione, semplicemente, “non è possibile”; per Jakobson “la poesia è intraducibile per definizione”. Walter Benjamin, pur nel suo pessimismo, sostiene che “la traduzione è necessaria”. Secondo Novalis e Humboldt, tutta la comunicazione è traduzione. C’è poi la celebre quartina di Nabokov:  > “Cos’è la traduzione? Su un vassoio  > La testa pallida e fiammante di un poeta,  > Uno stridìo di pappagallo, una ciancia di scimmia,  > E una profanazione dei morti”. Come afferma George Steiner in Dopo Babele, “per circa duemila anni di discussioni e di precetti, le convinzioni e i contrasti manifestati sulla natura della traduzione sono stati quasi gli stessi. Tesi identiche, mosse e confutazioni familiari ricorrono nelle dispute, quasi senza eccezioni, da Cicerone e Quintiliano ai giorni nostri”. Il postulato dell’intraducibilità “poggia sulla convinzione, formale e pragmatica, che non vi possa essere autentica simmetria, rispecchiamento adeguato, tra due sistemi semantici differenti”. Il punto, conclude ancora Steiner, è sempre il medesimo: la cenere non è la traduzione del fuoco. Scuola spagnola, Testa di Giovanni il Battista, XVII secolo Se, come sostiene Croce, “l’intraducibilità è la vita della parola”, resta nondimeno il dato incontrovertibile che centinaia di migliaia di biblioteche straripano di libri tradotti. E restano i milioni di libri tradotti da un’infinità di lingue: molti egregiamente, altri mediocremente, altri ancora pessimamente. Perché è vero che in nome della traduzione – della sua necessità, e del suo culto – sono stati commessi i delitti più infami e i più gloriosi atti di eroismo. Sepolti negli scaffali delle biblioteche, esposti sui banconi dei librai di tutto il mondo, giacciono crimini linguistici efferati, compiuti spesso da persone, come si dice, al di sopra di ogni sospetto, che le logiche editoriali impongono, o tollerano o incoraggiano, che spesso i lettori subiscono impotenti, e che nessuno punisce mai. In questa necessaria, indispensabile quanto spesso inutile attività dell’ingegno umano, si sono esercitate schiere di inetti, ignari spesso della lingua di partenza come di quella d’arrivo, consegnando agli editori o alle stampe aborti mostruosi; e imperano legioni di scrittori mancati e di scribacchini frustrati che cercano, come uccelli usurpatori, confortevole riparo in nidi altrui. Ma a tale attività offrono il loro contributo anche legioni di onesti mestieranti, che pur dietro compensi offensivi nobilitano la professione; per non dire dei non pochi geni che la elevano da attività funambolica a sublime forma d’arte. Con ciò non si vuole infierire sulle traduzioni letterarie malfatte, ma semplicemente porre l’accento su quanto sia arduo riuscire a fare una buona traduzione. Com’è noto, una delle attività preferite di moltissimi critici e traduttori è la caccia all’errore nelle traduzioni altrui: sport che ha prodotto qualche libro divertente e molte gogne umilianti, come l’americano Glorious Mistakes. Il che equivale, comunque, a sparare ai passeri. I francesi hanno un’espressione deliziosa per definire questi perditempo frustrati che cercano un po’ di gloria dando la caccia all’errore in traduzioni di onesti professionisti che per pochi soldi si sono consumati gli occhi su testi a volte difficilissimi al limite dell’intraducibilità: li chiamano (excuse my French) le enculeurs des mouches, i sodomizzatori delle mosche. Giovanni Bellini, Testa di Giovanni il Battista, 1470 ca. Come diceva Pound, i critici dovrebbero ricordarsi che scopo della traduzione poetica è appunto la “poesia”, non le definizioni verbali dei dizionari; e che a volte una traduzione è brutta proprio perché non sbaglia mai. Il fondamento della traduzione poetica, infatti, è la trasposizione, non il rispecchiamento, vale a dire la restituzione fedele del senso poetico, e la necessità di compiere, nella lingua d’arrivo, lo stesso percorso creativo che ha condotto l’autore originale a dare al suo testo, tra tutte le forme possibili, quella storicamente proposta e non altre. In questo senso, allora, ogni testo diventa traducibile, con buona pace di Croce (che del resto non era poeta) e di tutti i pudichi glottologi che con reverenza quasi superstiziosa ritengono sacro e inviolabile il testo originale. Prendiamo il caso del greco-alessandrino Costantino Kavafis, che mentre in Grecia (dove lui non è mai vissuto) infuriava asperrima la questione della lingua, se cioè si dovesse usare la lingua popolare (dimotikì) o quella riformata (l’aulica katharèvusa), lui, “alla periferia dell’impero”, ad Alessandria d’Egitto, usava nella sua poesia un amalgama delle due lingue, creando uno stile personalissimo, unico e inimitabile. Se il neogreco è dunque l’unico caso di diglossia praticata in un Paese moderno, com’è possibile tradurre un poeta, che tra l’altro occasionalmente usa metrica e rima, e una lingua “schizofrenica”, in qualsiasi altra lingua a cui sia estraneo il fenomeno della diglossia? Eppure lo hanno fatto in moltissimi. Secondo una recente ricerca dell’Università di Salonicco, Kavafis è in assoluto il poeta moderno più tradotto e imitato al mondo (seguito a diverse lunghezze da Pessoa). Che cosa sarà mai rimasto della “intraducibile” poesia di Kavafis nelle innumerevoli versioni fatte nelle lingue più ignote, compresa la lingua dei maori? Di certo, come nel caso di molti altri poeti, qualche inevitabile scempio metafrastico. Ma forse non solo. Io credo che resti dell’altro, che se si perde molta “filologia” rimanga però anche un po’ di buona “poesia”. Diversamente non si spiegherebbe il paradosso che uno dei poeti moderni “più intraducibili” come Kavafis abbia influenzato forse più di chiunque altro buona parte della poesia contemporanea moderna. Personalmente credo che la traduzione vada intesa secondo il principio dell’equivalenza, e che il traduttore dovrebbe sforzarsi di pensare a come sarebbe l’opera originale se fosse stata scritta nella propria lingua. E mi torna alla mente Novalis, secondo cui la traduzione è “poesia della poesia”, giacché il traduttore, nel suo sforzo di dare una nuova veste linguistica all’originale, deve prima enuclearne la “poeticità”. Questo è il principio di equivalenza su cui dovrebbe fondarsi l’atto del tradurre. Atto che è garantito solo se il traduttore è un poeta o ha alle spalle una solida cultura poetica. Se poi il traduttore-poeta condivide con l’autore che traduce principî estetici e artistici comuni, e ha con quest’ultimo affinità ideali, allora il testo tradotto riuscirà davvero a costituirsi come un’opera nuova e originale. Credo che l’obiettivo finale di ogni traduzione, infatti, sia quello di trascendere l’originale, in un certo senso ucciderlo per trasformarlo in un nuovo originale. Giovan Francesco Maineri, Testa di Giovanni il Battista, 1502 Ma questa è una situazione ideale, quasi sempre difficile da verificarsi. Le necessità dell’editoria moderna sembrano far prevalere le esigenze delle traduzioni di servizio su quelle artistiche, e d’altro canto non sempre i buoni traduttori sono anche poeti, e viceversa. Ma anche quando una stessa persona riesca a coniugare in sé le qualità del poeta e del traduttore, i pericoli non mancano. Il testo originale rischia di essere dimenticato e sostituito completamente da un altro testo (a volte persino migliore, come per esempio è capitato al Cinque maggio di Alessandro Manzoni tradotto da Goethe), che reca in sé le tracce dell’ideologia e delle esperienze di colui che pertanto dovrà considerarsi il nuovo autore, e le specificità proprie dell’ambito linguistico e culturale d’arrivo. Tradurre, dunque, non è né possibile né impossibile: è semplicemente necessario. Per dirla con Benjamin, la traduzione è un luogo d’incontro tra lingue e culture diverse, un luogo utopico di raccordo tra le divergenze. È un mezzo di circolazione, di crescita e di arricchimento culturale prezioso e indispensabile.  Forse la miglior traduzione letteraria possibile è quella della poesia tradotta dai poeti, cioè la poesia tradotta in “poesia”. Nicola Crocetti *Questo testo è stato scritto per una conferenza sulla traduzione tenutasi a Parigi nel 2000. Fortunosamente ritrovato dall’autore, ci è parso bello pubblicarlo, non come l’ennesimo documento su un tema per sua natura infinito – come lo è il linguaggio, come lo è il suo umile tedoforo: l’uomo – ma per la sua smaliziata ‘luccicanza’, per la sua inesausta fede nel ‘fatto’ poetico. Al poeta, in effetti, non interessano gli applausi del pubblico pagante (o fraudolento), ma che la sua poesia ‘agisca’ davvero: che faccia piovere sul deserto, che faccia muovere le montagne, che muova a compassione gli induriti cuori.  In copertina: Albrecht Bouts, Testa di Giovanni il Battista, XV secolo L'articolo “Su un vassoio, la testa pallida del poeta”. Tradurre poesia, un crimine linguistico proviene da Pangea.
May 27, 2025 / Pangea
Neutralizzare Heidegger. Sui tentativi (più o meno goffi) di fare di un maestro un mero “oggetto di studio”
È notoriamente impossibile fare lo spoglio della mole di studi sfornata ogni anno dalle università e dalle case editrici sui classici della letteratura e del pensiero. Tuttavia ogni tanto, un po’ per caso, un po’ perché ce la andiamo a cercare, è necessario buttare un occhio in strada per constatarne la situazione e, se si intercetti qualche soggetto disturbante, prendersi la soddisfazione e ottemperare al diritto/dovere di critica, di scagliare qualche freccia o, almeno, qualche voce di allarme. Ed è ciò che faremo ora presentando due lavori su Martin Heidegger, esciti entrambi per Mimesis: Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica di Thomas Vašek, e Heidegger e la Gnosi di Lucrezia Fava. Inizieremo col primo, il più problematico e urticante. * * * Partiamo dal titolo originale: Schein und Zeit – Heidegger und Michelstaedter. Auf den Spuren einere Enteignung, o sia: «Apparenza e tempo – Heidegger e Michelstaedter. Sulle tracce d’una espropriazione». La versione italiana quindi corrompe radicalmente l’intenzione dell’autore: Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica sarà commercialmente più appetibile, ma non si può sempre sacrificare tutto al dio mercato. Nel titolo originale, dietro l’espressione palese, ci sono due allusioni. La più facile: «Schein» in luogo di «Sein», che sta a indicare una sorta di maschera, indossata naturalmente da Heidegger. La seconda è meno perspicua e riguarda la parola centrale del titolo: Enteignung, che rimanda evidentemente allo spettro dello «Er-eignis» uno dei concetti centrali heideggeriani e quello che sorregge i Beiträge zur Philosophie. Mi auguro solo di non aver sopravvalutato un autore a dir poco sospetto. Il titolo originale, si capisce, accenna a un possibile e forse, secondo l’autore, probabile plagio ai danni di Carlo Michelstaedter da parte di Martin Heidegger. Una tesi invero sorprendente e di quelle che per solito ingenerano due ordini di reazioni: o grande interesse, oppure totale negligenza. I contenuti di simili “inchieste” sono infatti davvero squassanti oppure un fuoco fatuo, molto spesso presente solo nella testa dell’autore. Io opto per una terza posizione: pregiudizio che porta alla contraffazione. Evidenzio súbito una “stranezza” di Vašek, già alle pagine 11 e 12, o sia la precisazione d’aver tenuto fuori dal suo studio ogni discussione circa i così detti “Quaderni neri” e quindi circa le (del tutto) presunte responsabilità di Heidegger durante il governo nazionalsocialista. È un segno sia di malafede, sia dell’inquinamento del clima che si respira ogniqualvolta si tratti di Martin Heidegger. Sentirsi obbligati a precisare di non voler trattare il tema è come ammettere che, parlando di Heidegger, si dovrebbe comunque ricordare sempre ch’egli fu (si dice, man sagt) nazionalsocialista. E infatti poco dopo (pp. 25-26) Vašek non manca di affermare che «non vi sono dubbi sulla vicinanza di Heidegger al Nazionalsocialismo, tantomeno sul suo antisemitismo». Purtroppo esula dal cómpito del mio contributo d’inoltrarsi nella faccenda (di cui tuttavia dirò in un successivo articolo). Ma è mio dovere dichiarare qui con grande forza che quei dubbi per Vašek, e per parecchie altre persone, inesistenti lo sono davvero, ma in senso affatto opposto a quello inteso da questo autore. Lo dimostra la schiera di ricercatori italiani tedeschi e francesi che ha smontato pezzo a pezzo ogni ricostruzione e costruzione infamante ai danni di Martin Heidegger. Mi riferisco, cito a solo titolo d’esempio, a François Fédier e a Francesco Alfieri. Ritenere, oggi, Heidegger nazista e antisemita dimostra o grave “distrazione” oppure disonestà. E dico di più: la frase di Vašek è sbagliata perché, se proprio vogliamo concedere qualcosa alla tesi colpevolista, Heidegger fu bensì iscritto al Partito nazionalsocialista ma non manifestò mai sentimenti o idee antiebraici. Peraltro sarebbe uno strano antisemitismo quello di Heidegger: allievo dell’ebreo Husserl; circondatosi di ebrei; plagiatore dell’ebreo Michelstaedter (e anche di un secondo, vedremo). Scopo del lavoro è dimostrare le coincidenze, nel senso stretto della parola, tra il pensiero di Michelstaedter espresso ne La persuasione e la rettorica e quello di Essere e tempo. Invero la dichiarazione preliminare dell’autore di limitarsi a Essere e tempo non trova corrispondenza nel testo, in cui è presente un nubifragio di citazioni da svariate altre opere di Heidegger, precedenti e successive al capolavoro del 1927.Avanti tuttavia di immergerci nel raffronto testuale e tematico, onde dimostrare la tesi dell’Enteignung, Vašek ci informa che l’opus magnum del goriziano fu tradotto in tedesco solo nel 1999, ciò che, non conoscendo Heidegger l’italiano, rende impossibile un contatto diretto tra questi e il testo michelstaedteriano, testo che fu pubblicato la prima volta in Italia tre anni dopo il suicidio del goriziano, nel 1913, da Vallecchi di Firenze (che Vašek invece colloca, chissà perché, a Genova). Tuttuavia Vašek fa ciò che mi pare di poter definire una scoperta non dappoco, o sia una traduzione in tedesco della parte dedicata alla Persuasione della celebre tesi di laurea, per mano niente di meno che di Argia Cassini, la così detta fidanzata di Michelstaedter (scrivo «così detta» per buone ragioni biografiche che qui non importa di esporre). Sorgono però adesso due problemi molto pesanti, che Vašek non solleva. Anzitutto si ignora lo scopo di questa traduzione, fatta in forma dattiloscritta e, in apparenza, privata, cioè a dire non espressamente destinata ad alcuno. Essa inoltre è priva di data ed essendo Argia Cassini morta nel 1944, avrebbe avuti come minimo trent’anni di tempo per tradurre quel mazzetto di pagine. Vašek invero accenna all’assenza della data, ma in maniera anodina, senza porre in evidenza il dato cruciale, e men che meno interrogandosi sulle sue implicazioni all’interno dell’indagine in corso. Partendo da questa traduzione parziale, Vašek si slancia nella ricostruzione di rapporti tra Italia Svizzera e Germania insino a questo momento, per quanto mi è dato di sapere, ignoti. Essa è esposta alle pagine dalla 19 alla 22 e io non toglierò la soddisfazione al lettore di scoprirsela da sé, tanto essa è invero sorprendente. Inoltre mi astengo dal parlarne per non spingere il giudizio del lettore in una direzione anziché in un’altra. Idem valga per l’indagine tematica e testuale di Vašek, anche perché riferirne anche solo succintamente renderebbe questo articolo da rivista specialistica e quindi “illeggibile”. Qui voglio solo far emergere il puro tentativo di Vašek e discutere alle corte il suo metodo. Il libro è efficace e va preso in considerazione, ché in effetto le coincidenze tra i due pensatori ci sono. Vašek apre un problema, che per lui tuttavia è una specie di vaso di Pandora, il cui contenuto si scatenerebbe non già sulla storia della filosofia ma su Heidegger e sugli heideggeriani, heideggeriani ch’egli fa passare a un dipresso come una sètta. Postoché ciò sia vero, gli antiheideggeriani in moltissimi casi a me paiono somigliare invece a una cosca, con tanto di picciotti pronti alle mani e alle armi contro chi osi contestare la loro lettura – politica morale e anche filosofica – di Heidegger. Esemplare è il caso d’una accanita arcinemica e diffamatrice di Heidegger e degli heideggeriani (che la ignoravano fino a quando ella non si mise a strepitare sui giornali, portando quindi la discussione dal parrucchiere). Smentita più e più volte, la studiosa non si è ancòra data per vinta, seguitando a collezionare magrissime figure. Altro difetto del lavoro di Vašek è la tendenza alla ripetizione. Se tuttavia talora essa riesce molesta, altre è invece utile poiché certi concetti e osservazioni meritano di essere ripigliati. Nondimeno, stupisco constatando che aver più volte ribadito, oltre alle simiglianze, anche le differenze tra i due pensatori, non porta Vašek a essere conseguente, sicché il libro è composto solo delle prime. Ma Vašek si spinge ben oltre, ché, ringalluzzito dalle sue “scoperte” sciorinate nelle duecento e cinquanta pagine precedenti, a metà della quinta e ultima parte del lavoro si inoltra nel tentativo di dimostrare un altro esproprio heideggeriano, questa volta ai danni di Franz Rosenzweig e in ispecie della sua opera principale, Die Stern der Erlösung («La stella della redenzione»). Un altro ebreo al quale rubare, quindi. In apparenza (forse la parola chiave del libro…) Thomas Vašek dà l’impressione di sapere adoperare la vanga come pochi altri, tanto scava scava scava nei testi heideggeriani e in Michelstaedter. Ma giunto su certi terreni si limita a passare oltre, al massimo sollevando un po’ di polvere, per ritornare su d’uno più congeniale (in apparenza…). Egli infatti solo indirettamente dice che a unire Heidegger e Michelstaedter oltre all’aria che si respirava in Europa nei primi decenni del XX secolo, vi sono anche profonde conoscenze storico-filosofiche, in ispecie la Greciantica dei Presocratici, di Platone e Artistotile, tre momenti del pensiero occidentale conosciuti e da Heidegger, e da Michelstaedter come pochissimi altri. E questo trait d’union è il primo dato che, volendoci inoltrare in un raffronto tra i due pensatori, balza immediatamente allo sguardo di occhi sani e onesti, anche solo letteralmentescorrendo l’elenco delle loro opere o, al massimo, letteralmente sfogliando le pagine di queste. Vašek però non dà il benché minimo peso a questa giuntura. Indubbio merito, quantunque indiretto, da riconoscere a Vašek è d’aver accennato in modo da incuriosire parecchio al nome di Oskar Ewald, filosofo viennese, «fervente ammiratore di Michelstaedter» e «in contatto con Edmund Husserl» (p. 10). Ma Vašek lo brandisce come un’arma impropria ma difettosa. Infatti fa cilecca. Purtroppo di Ewald non c’è nemmeno mezza pagina tradotta in italiano e, per soprammercato, le sue opere, pubblicate oltre un secolo fa, non sono mai state ristampate, né in Germania né in Austria. Questo buco è davvero irritante, giacché dai pochi cenni di Vašek, Ewald dev’essere un di quei pensatori irregolari e anomali di notevole fecondità e forza. Ewald tuttavia ci pone un problema piuttosto pesante, su cui Vašek tace del tutto, ignoro se per gravissima distrazione ovvero con intenzione. Su quali basi Vasheck definisce Ewald «fervente ammiratore» del goriziano? Se – anche questo vedemmo – La persuasione e la rettorica fu vòlta in tedesco solo nel 1999 e storia e destino della versione d’Argia Cassini sono ignoti, come fu possibile a Ewald, ignaro della lingua italiana, leggere Michelstaedter? Si può ipotizzare, sulla scorta della ricostruzione di legami alle pagine 17 e seguenti, che Ewald abbia appreso di Michelstaedter da Husserl e da altri: ma può bastare qualche scambio di battute su chicchessia a farne di qualcuno «fervente ammiratore»? Possiamo a esempio noi dopo pochi cenni su Ewald dichiararcene tali? Direi di no.  Se invece Ewald, per ipotesi, lesse la traduzione d’Argia, data la suddetta catena di sant’Antonio ricostruita da Vašek, è probabile che anche Heidegger l’abbia letta. Ma di questa traduzione noi non si sa null’altro fuorché la sua esistenza, ciò che è insufficiente a determinare alcunché. Inoltre – ed è un dettaglio a mio giudizio cruciale – la traduzione di Argia Cassini si trova attualmente nel Fondo Carlo Michelstaedter di Gorizia. Un dato che ci obbliga a domandarci: se è ben possibile che essa traduzione abbia a un certo momento intrapreso in viaggio tra Austria e Germania, è probabile che poi sia ritornata a Gorizia, sia sopravvissuta allo sfacelo della Seconda guerra mondiale e sia di poi stata messa al sicuro tra le carte del filosofo goriziano ancòra semisconosciuto? (Il vero “lancio” avverrà soprattutto nel 1958, quando l’amico – si fa per dire – Gaetano Chiavacci pubblicherà una scelta delle opere e delle lettere, censurate, del Goriziano per Sansoni). La risposta più ovvia mi pare questa: quella traduzione non è mai escita da Gorizia e attualmente non resulta che alcun attore di questa storia abbia intrapreso un viaggio a Gorizia, nemmeno Ewald che, essendo cittadino austroungarico, bazzicava non molto distante dalla città friulana. Resto tuttavia aperto a proficue e documentate smentite. C’è ancòra un altro dato cruciale di che tener conto. Lo abbiamo anche questo accennato: Argia tradusse solo «La persuasione», o sia pochissime pagine. Ora, ipotizziamo che codesta traduzione abbia fatto il giro delle sette chiese d’Austria e Germania (lo ritengo improbabile, ma transeat) e che quindi sia giunta nella mani di Heidegger, com’è possibile trovare, come pretende Vašek, delle cogenti simiglianze e identità tra il pensiero heideggeriano del «Si» (man) e la rettorica michelstaedteriana? È realistico pensare che l’espropriazione sia dovuta solo ai racconti orali della catena di sant’Antonio? A me non pare sostenibile alcunché di siffatto. Chiediamoci inoltre: se uno dei tramiti tra Michelstaedter e Heidegger, giusta il tentativo di ricostruzione della catena di sant’Antonio di Vašek, fu Husserl, è realistico che questi non abbia giammai evocato il pensatore goriziano allorché si lamenta pubblicamente della deviazione, addirittura del tradimento perpetrato da Heidegger, a petto dell’impostazione fenomenologica originaria, in Essere e tempo? Inoltre: è credibile che, come allude Vašek per tutto il libro, e sin dal titolo originale, la mole enorme degli scritti heideggeriani derivi da Michelstaedter? Amo e leggo Michelstaedter da trent’anni esatti, ma nemmeno da briaco riuscirei a sostenere che l’opera di Heidegger, dalle prime lezioni della fine degli anni Venti, insino – come minino – ai lavori postbellici, sia un’espropriazione da «La persuasione», né da altri scritti michelstaedteriani. Vašek commette anche un errore filosofico madornale ed è anche questo – oltre al patente pregiudizio “razziale” politico e ideologico – a condurlo sulla via sbagliata della sua lettura di Heidegger. Egli infatti scrive che Essere e tempo non tratta «principalmente della questione dell’essere, bensì dell’idea di rinascita o di trasformazione dell’uomo, che è stata influenzata da una certa “letteratura del risveglio” dopo la Prima guerra mondiale» (p. 10). Insomma, la solita tesi dello Heidegger esistenzialista. Oltre a essere una tesi vecchia come il cucco è anche imprecisa, soprattutto se detta così. Ritenere che la questione dell’essere non abbia strettamente a che fare con la trasformazione individuale, e viceversa, significa maneggiare poco e male non solo Heidegger ma in generale la filosofia. Inoltre questa lettura contraddice in maniera brusca la tesi principale di Vašek, o sia l’espropriazione da parte di Heidegger ai danni di Michelstaedter. Il pensatore goriziano, infatti, è sempre stato collocato, per usare una bellissima espressione di Camillo Pellizzi, tra gli «spiriti della vigilia», cioè a dire tra coloro i quali chiedevano, ciascuno more suo, un cambio di passo, una metánoia, una palingenesi – individuale ovvero collettiva, qui non conta trattarne – per lumeggiare e fronteggiare i rivolgimenti politici sociali e culturali avviati a cavaliere tra XIX e XX secolo, e che avrebbero avuto il loro primo banco di prova nella grande massacro della primo conflitto mondiale. Michelstaedter è, secondo molti, tra quanti intercettarono i movimenti tellurici ctonii preludenti la guerra e si posero in gioco. Inoltre Michelstaedter – ciò che viene assai poco ricordato – era cittadino di quell’Impero che già agli inizi del secolo scorso iniziava a dare vistosi segnali di cedimento. Anche Heidegger, coetaneo di Michelstaedter (1889), sentiva l’aria, pur da diversa prospettiva, anzitutto geograficamente diversa. Ma era anch’egli un cittadino d’Europa e mosse i suoi primi passi filosofici consapevole della necessità di una trasformazione, di una epistrofé. Heidegger e Michelstaedter, per essere sbrigativi, respirarono lo stesso clima, come ho già detto. È inaccettabile quindi attribuire al pensiero heideggeriano (parziale, parzialissimo!) un’aura non dissimile a quella del pensiero michelstaedteriano ma al contempo tacciare il pensatore tedesco di Enteignung. Amenoché Vašek non ignori del tutto la biografia di Carlo Michelstaedter. Insomma, come lo giri lo studio di Thomas Vašek non sta in piedi. Voglio riservare un ulteriore appunto ancòra al traduttore, che per i passi da Sein und Zeit, si avvale esclusivamente della versione Chiodi-Volpi e ignora quella di Alfredo Marini, non esente da difetti ma senz’altro più fondata e corretta dell’altra, anche sotto il riguardo della semplice comprensione grammaticale del tedesco. Per replicare si può ipotizzare che la versione classica di Pietro Chiodi sia ancòra la più accreditata e quindi utilizzata, anche se è un’affermazione discutibile. Nondimeno essa coinvolgerebbe la sola versione di Chiodi e non quella di Chiodi e Volpi. Si tratta certo di legittime scelte soggettive: forse un po’ troppo soggettive. * * * Il libro di Lucrezia Fava su Heidegger e la Gnosi, graziaddio, presenta molti meno problemi e quelli che ci sono, vanno imputati a personali scelte ermeneutiche e non a qualche basso sentimento o alla volontà di attirare l’attenzione. La vera magagna dell’opera, che forse può guastarla del tutto, è l’assenza del cruciale riferimento ai concetti di Nichts e di Nichtigkeit, senza i quali ogni comprensione di Heidegger è preclusa. Essi sono condensati per lo più nella celebre conferenza Che cos’è metafisica? Ritengo che Lucrezia Fava non abbia aggirato il problema volontariamente, o almeno spero, ma sia stata, per quanto assai grave, solo una svista. Certo gli è che introducendo il nulla/niente nella sua tesi sulla gnosi heideggeriana, l’impianto avrebbe fortemente traballato minacciando di crollare sul suo pur abile e originale architetto. Ma sarebbe stato il caso di osare, anche a costo di revocare in dubbio o addirittura in un… niente tutti i fondamenti dell’indagine. Un esito assai preferibile per non indurre qualcuno a giudicare Heidegger e la Gnosiun ennesimo tassello di quello strano mosaico cui siamo avvezzi ormai da tempo immemorabile. Quando si ha difficoltà a definire un pensatore o un’idea, ma lo si vuole fare a tutti i costi, oppure quando si vogliano tentare altre vie dalle già battute e cieche, spesso si finisce per definirlo gnostico. Del tutto assente dall’indagine di Lucrezia Fava è la storia, quindi la biografia. C’è un fuggevole cenno a probabili conoscenze da parte di Heidegger di testi gnostici e alla vicinanza con Rudolf Bultmann (un altro gnostico?), ma niente di più. Ora, che Heidegger, quale persona colta come lo erano a quell’epoca tutti in certi ambienti, abbia conosciuti i principii dell’antica Gnosi, nessuno può metterlo in dubbio. Ma non ci sono riferimenti né impliciti né espliciti nelle sue opere al pensiero della Gnosi storica (a meno che non mi sia sfuggito qualcosa). E non essendoci alcun riferimento testuale, fosse pure epistolare, anziché procedere tout court a un accostamento, già di per sé problematico, bisognerebbe avanti a tutto pensare alle ragioni –storiche filosofiche psicologiche – di questa eventuale corrispondenza. Postoché Lucrezia Fava abbia visto un aspetto del pensiero heideggeriano con lucidità e verità (per quanto con l’aiuto esplicito di Hans Jonas), ella non si domanda mai donde derivi tale corrispondenza. E questa indagine, si capisce, è rigorosamente obbligatoria. C’è un ulteriore inciampo in Heidegger e la Gnosi, e non dappoco, ed è indurre a credere qualche lettore impaziente – e Dio sa quanti ce ne sono – che il pensiero di Martin Heidegger cada in un calderone sbrigativamente definito «irrazionalista», che costella la storia dell’uomo sotto diversi abiti da tempo immemorabile. Ma mentre in epoca antica e financo in svolti più recenti e in individui considerati “perdonabili” (si pensi, per esempio, al Romanticismo o a Hölderlin), l’irrazionalismo è accettato, esso – si dice – non può più avere diritto di cittadinanza nell’èra della scienza e della tecnica, questa nuova èra metafisica che stiamo vivendo, e delle superstiti istanze politiche. Heidegger dové già scontare l’accusa di misticismo e di irrazionalismo dopo la così detta Kehre, la svolta, come si sa e come ben riassume Hans Georg Gadamer nei Sentieri di Heidegger (Marietti 1987, pp. XV-XVI). L’accusa era evidentemente pregiudiziale, spinta sia dall’«ondata di nuovo illuminismo» (io avrei detto più tosto neopositivismo), sia dall’«ossessione social-rivoluzionaria», come lì scrive Gadamer, e ben pochi, ancòra oggi, si sono levàti dalla zucca una simile rappresentazione farlocca. A meno che Lucrezia Fava non creda, anche lei in senso squalificante, a uno Heidegger davvero irrazionalista, allora mettere in circolazione simili raffronti, senza opportune premesse, può costituire un errore sia di metodo, sia strettamente filosofico. Ricordiamo a margine l’intelligente osservazione di Medard Boss:  > «Sono numerosi i derisori, che ritengono il “tardo” Heidegger soltanto un > poeta o un mistico, che avrebbe da lungo tempo abbandonato il terreno di una > “filosofia scientifica”. Tuttavia, in primo luogo, tali spiriti della > superficialità non vedono che quello “più tardo” non si è affatto separato dal > “primo” Heidegger (…). Il pensiero di Heidegger pensa sempre il medesimo del > medesimo (…). In secondo luogo, i Suoi critici tralasciano di confrontare la > rigorosa adeguatezza del Suo primo e tardo pensiero a quanto detto, dunque la > sua “obiettività”, nel senso supremo di questo termine, con la rigogliosa e > oscura magia, che domina completamente tante rappresentazioni della scienza > moderna». > > (Lettera di Medard Boss ad Heidegger, in M. Heidegger, Seminari di Zollikon, > Guida 1991, p. 411; traduzione lievemente modificata e corsivi miei) La tesi di Lucrezia Fava è dunque parecchio spericolata. E aggiungo ch’essa, almeno così come la declina l’autrice, non conduce in alcundove e, anzi, allontana dall’obbiettivo heideggeriano principe. In questa analisi dov’è infatti l’Essere? In altri termini: che cosa se ne fa il lettore di un’analisi in opposizione alla filosofia come la intende Heidegger sin dai primordi del suo pensiero? Lucrezia Fava (ma anche Thomas Vašek con sgradevoli aggravanti) ci ripiomba in quelle metodologie che lo stesso Heidegger voleva superare, in quella forma mentis di ostacolo al “progetto” heideggeriano non solo di dire e di pensare altrimenti a petto della tradizione e delle consuetudini, ma anche di essere altrimenti. Ma questo è forse impossibile a recepirsi da parte di chi legge i filosofi e certi filosofi in particolare come oggetti di indagine, eventualmente di carriera. Heidegger spende gran parte della sua vita a mettere in guardia da questo genere di mentalità esiziale ed ecco sopraggiungere ancòra dopo plurimi decenni imperturbati studiosi, i quali, credendo di fargli i complimeti, gli intonano l’ennesimo Requiem. Heidegger diventa l’ennesimo oggetto di studio, e non resta quale, giustissimamente, lo hanno definito Safranski e decine di suoi allievi e lettori postumi: «ein Meister aus Deutschland», un maestro tedesco, o sia un maestro tout court, del pensiero ateoretico e rigorosamente pratico, filosofia incarnata o sia filosofia, per dirla con Hadot, quale esercizio spirituale, e quindi pratico. Heidegger trattato alla stregua d’un Popper o d’un Kant, che neppure se lo meritano, cioè alla stregua d’un “qualsiasi” filosofo. Ciò significa anestetizzare, neutralizzare Heidegger, il quale, saviamente, mise in guardia dal commentare i suoi lavori. Parlò, ahimè come al solito, a vuoto, ai vuoti. Luca Bistolfi L'articolo Neutralizzare Heidegger. Sui tentativi (più o meno goffi) di fare di un maestro un mero “oggetto di studio” proviene da Pangea.
May 27, 2025 / Pangea
“Anche sul prato della fine del mondo”. Storia di Pyramiden, la città fantasma. Dialogo con Linda Terziroli
Poco importa che si riferisse alle bianche montagne che spiccano alle spalle della cittadina: quel nome, attribuito con razionalità da irragionevoli, ha un sapore di Egitto, di gesti che adombrano, con severità, la rivoluzione degli astri, di un mistero ispido, felino, del sangue che nutre l’oltre, un aldilà di angeli sciacalli, lo sciacallaggio dell’io, e quell’arrischiata geometria – Pyramiden-Piramida-piramide – che incombe, come se si potesse armonizzare il pasto, favoleggiare su una dottrina dell’assalto, approvvigionare il cuore di memorie passeriformi.  E poi, sì, il ghiacciaio – il Nordenskjøldbree – che pare una Sfinge, gonfio di leonini, femminei enigmi; il fiordo che fende una liceale idea di fede; l’idea che lassù, alle Svalbard, esista il Messia paria, l’impari, in forma orsina, l’irsuto, nonostante l’impero dei Soviet che manda a pascolare i sudditi negli inaccessibili luoghi. Uomini che, per incuria e per purezza del luogo, divengono torce, uomini-fuoco. Già. La Terza Roma, Mosca, che fa proseliti al Polo; Cirillo trapiantato in una baia. Pyramiden come Gerusalemme, allora: forse è lì, nella fantomatica città – dismessa dagli anni Novanta, oggi meta degli estremismi del turismo –, che avverrà il Giorno.  Lascia una stimmate nel cuore la vista di Pyramiden, se non altro per quella sproporzione di un Eden all’estremo Nord. E poi: la sovranità dell’uomo che vuole costruire città in luoghi a lui sigillati. In scala, Pyramiden mi ricorda l’utopia di Cosimo I de’ Medici, Granduca di Toscana: ribattezzò “Città del Sole” – già nei ventricoli del nome, l’idra dell’utopia, una solarità nera, la nigredo di Adamo – un borgo costruito sul Sasso Simone, impervia rocca nei pressi di Carpegna, poco lontano da Urbino. Della città – col mastio, la chiesa, il tribunale e le botteghe –, ideata tra astrazioni, nel laboratorio fiorentino del Granduca, restano tracce di vie, rudi cisterne: sfiorì in un secolo, falciata da cupi inverni, dalle intemerate dei lupi, dal dilagare di delittuose malattie; nel XVII secolo era già spirata. Dicono di un ebrietà di orsi.  Pyramiden, però – ecco, il miracolo (e la condanna) del gelo –, non è sparita; è lì, l’espianto dei volti, le vite confitte, la confettura dei ricordi. Inossidabile memoria del Nord. Così, intorno a Pyramiden. Una città fantasma (Bertoni, 2025), Linda Terziroli ha costruito un romanzo di ferma ferocia – che è poi, anche, un modo per dire: sono sopravvissuta, sono qui, a tempio disfatto, con la piccola reliquia tra le palpebre mani. Ma un libro, soprattutto, non è la cronaca dei fatti, bensì carrellata di immagini. Ne scelgo due, indelebili, che vanno incapsulate l’una nell’altra a dire della ricerca dell’assoluto, di una innocenza che giunge dai primordi della pena. La prima: > “Le altalene davanti alla scuola danzano, oggi, scricchiolando, al gelido > fiato del vento polare… I bambini, che non erano numerosi quanto gli adulti, > si divertivano per ore su quelle magre altalene azzurre di acciaio verniciato. > Nonostante il freddo, nonostante la penuria di luce. I bambini sanno giocare > ovunque. Anche sul prato della fine del mondo”.   L’altra riguarda l’animale: > “Dietro il nuovo capanno di legno si muoveva un orso bianco di almeno duecento > chili… Era ormai da un paio d’anni che non mi capitava di vedere un orso da > così vicino. Potevo sentire il suo fiato caldo. E, soprattutto, il suo odore > acre. Ho visto la sua bocca spalancata, i denti piuttosto gialli. Il giallo > della pelliccia vicino alle fauci. E soprattutto i suoi occhi che mi > guardavano. Forse non mi avrebbe fatto del male. Gli animali di varie specie > hanno un rispetto quasi religioso nei confronti di una donna incinta. L’avevo > letto da qualche parte. Ero sorprendentemente tranquilla. Intercettare il suo > sguardo, tuttavia, mi ha dato una scossa violentissima. Era il suo sguardo a > graffiarmi con potenza”.  Più che a Guido Morselli – autore-totem di Terizoroli – si va a volte nei dintorni di Karen Blixen. Quando incontrano un orso, gli Iacuti lanciano un’invocazione: > “Modera la tua ira! > Se tu volessi ritirarti nel profondo della foresta, > come una crepa nel legno, > diverresti simile a una soffice piuma di zibellino”. Nel romanzo, alla protagonista, ignara del sistro e del tamburo, insegnano a maneggiare il Mosin-Nagant “in caso di necessità”: un fucile a ripetizione tra i più usati nel regno sovietico. Ma qui è accaduto qualcos’altro. Il nascituro, forse, avrà la statura di un compiuto essere, non sarà più mero strumento dell’uomo. Ad ogni modo, ho interpellato Linda.  Preliminare: perché l’ossessione del Nord? Che cosa si prova quando ci si accorge, improvvisamente, di non aver scampo? Mi hanno sempre affascinato le storie ambientate al Polo. La tragica fine tra i ghiacci del celebre esploratore Roald Amundsen, scomparso per salvare il vecchio rivale Umberto Nobile. La celebre “tenda rossa”. Ma anche la spedizione scientifica di Salomon August Andrée nel 1882. La storia della casa svedese a Kapp Thorsen, nell’Isfjorden, a Spitsbergen, il cuore dell’arcipelago delle Svalbard dove diciassette cacciatori di foca trovarono la morte nell’inverno 1872 – 1873. Tanto per citare alcune storie artiche che mi appassionano molto. Il Polo Nord è aspro e senza speranza, inospitale e sublime. Con una luce abbagliante e una tenebra feroce: è terra dai forti contrasti. Terra di conquista e terra di morte, dove si distilla l’umanità perché la natura prende il sopravvento, perché l’uomo di fronte alla natura è destinato a soccombere. Le storie polari sono dense di eroismi e di tragedie. L’odore di morte è sepolto da una coltre di mistero e non riesci a cogliere il segreto del suo mistero, ma ne sei catturato, soggiogato come da una malia. Sono terre affascinanti che serbano in grembo molte storie affascinanti che devono essere ancora portate alla luce. Poi: Pyramiden. Che cosa ti affascina di quella città-fantasma, erede geologica di un tempo perduto, non so quanto da rimpiangere? Pyramiden è il nome di questa città mineraria sovietica, ormai un fantasma nel cuore dell’isola di Spitsbergen, alle Svalbard, che si trovano appunto in Norvegia. Fondata da minatori svedesi nei primi anni del Novecento, la città fu venduta ai russi nel 1927. E ancora oggi è un avamposto russo in terra norvegese. Ma al di là del dato, del riferimento storico, un tempo sovietico che non esiste più, un sogno di grandezza piuttosto assurdo nel cuore del fiordo, l’idea di piramide che evoca il suo nome certo fa riferimento alle montagne piramidali o se vogliamo triangolari che qui si vedono, ma ancor di più mi fa pensare alla morte. Ad una pace (come è scritto sulla montagna della città in cirillico “Miru Mir”) che è una riduzione al silenzio, un riposo fatale, una istigazione al suicidio, un calice di veleno. Un luogo, insomma, in cui il passato si congela e si squaderna placido davanti al tuo sguardo, come un freddo cadavere. Un luogo in cui la notte artica allunga una coperta di tenebra e la luce illumina un mistero che non sei in grado, razionalmente, di interpretare. In esergo: Ezra Pound – perché? Poi, Pascoli. C’è forse un refrain, un sottofondo lirico che anima il romanzo? Ciò che ami veramente rimarrà, ciò che ami veramente non ti sarà portato via, è la tua vera eredità, scrive Ezra Pound. L’oggetto del nostro amore non è quindi un luogo, non è un qualcosa che ci può essere strappato, è invece qualcosa che rimane per sempre, come un ricordo ancorato al cuore. Ecco il senso del ritorno della protagonista – a distanza di tanti anni – nei luoghi in cui ha vissuto come insegnante, ormai ridotti a relitti, a fotografie ingiallite e perdute sul fondo di un cassetto. Si accorge, insomma, Anna, la protagonista, che non serve ritornare dove era stata una giovane insegnante innamorata, da ragazza, ormai che è donna. Tutto quello che le serve è ricordare. Ricordare tuttavia non significa ricostruire il passato e le sue verità. La verità è opaca e il male che in questa strana terra perduta si consumava non si legge chiaramente ad occhio nudo. La verità è che le radici del male sono spesso ben nascoste e sono piuttosto aggrovigliate. Da dove ti è arrivata questa storia, come l’hai elaborata? Sono certa che la potenza di un luogo misterioso come Pyramiden può essere in grado di stregare anche il più razionale e indifferente degli uomini. Dopo aver visitato Pyramiden, ormai diversi anni fa, ho iniziato a visitarla dal punto di vista narrativo e mi sono spesso domandata come inserire una vicenda inventata tra le pagine di un luogo così particolare e seducente e inquietante. Ho quindi pensato che certo doveva essere un luogo di morte ma anche la culla di un amore tragico e tormentato. Una mia amica mi ha detto che è un romanzo da leggere nel cuore dell’inverno.  Che cosa hai scelto di omettere, di velare nel pudore? Qual è ‘l’indicibile’ del tuo romanzo? Ho scelto di omettere e quindi di non rivelare alcuni particolari che potrebbero spiegare il comportamento enigmatico di un paio di personaggi. Perché mi sembrava molto interessante non dare troppe spiegazioni. Non mettere le mani avanti. Non tenere per mano il lettore. Ma nella vita non è forse così? Quello che vediamo è sempre vero? La spiegazione che ci danno di alcune vicende del passato è vera del tutto? La voce che sentiamo nel bel mezzo della notte è il grido d’aiuto o una raffica di vento gelido? Inoltre, mi piaceva l’idea che la protagonista, un poco per volta, arrivasse a capire di essere ascoltata, controllata e spiata. Del resto, a Pyramden, con l’ufficio con le finestre sbarrate del KGB più a nord della Terra, potrebbe essere piuttosto qualcosa di corrispondente alla verità. Ritaglia un nugolo di frasi dal libro, quelle che ritieni importanti.  Ad esempio questa che ha a che fare con l’insondabilità della verità e del male. > “C’è sempre un giorno in cui uno dei veli che copre la verità scende e puoi > contemplare una parte della realtà in tutta la sua crudezza e la sua > integrità, ma solo una parte minima e alquanto stropicciata. La vedi e senti > come un’ustione sulla pelle. Per me quello è stato un giorno particolarmente > freddo, era marzo, ma la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero e, > nonostante questo, si iniziava a intravedere il risveglio della primavera. Il > fiordo ghiacciato cominciava a mostrare le prime crepe, i primi cedimenti, > sotto il respiro della stagione più mite. Si sentivano dei rumori provenire > dai ghiacciai. Improvvisamente si staccavano pezzi di ghiaccio con il fragore > improvviso, spaventoso come di un colpo di fucile”. Oppure penso alla descrizione di una donna bellissima, ricoverata nel grembo dell’ospedale inaccessibile che è prigioniera della sua pazzia e delle conseguenti, drammatiche cure della sua stessa malattia mentale. > “Congiungeva le mani, sembrava pregasse. Ho pronunciato il suo nome, prima con > un sussurro poi con la voce più alta. “Nastas’ya, Nastas’ya!”. Lei che ha > capito di essere chiamata, ha diretto lo sguardo nella mia direzione e ha > sorriso. Ma nella sua bocca c’erano solo saliva e gengive spoglie. Sorrideva, > ma non aveva nessun dente in bocca. Glieli avevano strappati tutti”. Questa frase che segue penso invece racchiuda, in uno sguardo, il significato che ho tentato di dare alla mia storia ambientata nella città fantasma di Pyramiden: > “Quando muore, il passato continua a sopravvivere in una stanza piena di > polvere, dentro il nostro cuore. Camminando tra queste pietre, ci sono > migliaia di occhi che ci scrutano”. E ora? Cosa scrivi, cosa studi? Ho presentato pochi giorni fa il saggio La nascita nella letteratura (Oligo editore) che è uscito dopo il romanzo Pyramiden. Un itinerario nel cuore dell’ossessione della maternità, un viaggio tra le pagine letterarie dedicate al parto e all’aborto. Cerco sempre di trovare nuovi terreni di riflessione accanto alla passione per gli autori che amo, come certamente Guido Morselli. In questo momento, sto studiando le scrittrici del Novecento, cerco di ascoltare la loro voce, di distinguere e distillare insomma la voce femminile che è, di per sé, più bassa, più misteriosa e, per certi versi, fioca rispetto a quella maschile. Ma talvolta è necessariamente più potente e audace. *In copertina e nel testo: immagini da Pyramiden L'articolo “Anche sul prato della fine del mondo”. Storia di Pyramiden, la città fantasma. Dialogo con Linda Terziroli proviene da Pangea.
May 26, 2025 / Pangea
“Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di Silvio Perrella
Che cosa sta accadendo? Niente, semplicemente niente. O meglio, è niente in quanto accade in me, solo in me. Non è che gli altri non se ne accorgano, anzi. Eppure è qualcosa di più grande che non riesco a dire. Proviamo! È un’idea della maschera, ma trasparente. Un diorama. Un vetro posto davanti a un paesaggio, per descriverlo, per tenerlo sotto lo sguardo. Appena lo spessore di un vetro, che non mente, non permette di mentire, posto di fronte alla profondità dello spazio, per dire il mio sentimento… Sentimento, sì, è questo! Quello che si scambiano Hatem e Suleika, un canto intenso per loro, misurato, come un universo corale, maturo a tal punto da essere in grado di raggiungere una sorta di fenomenologia interna, poetica dello stare in equilibrio, costretti dalla necessità di questo e del pensarsi in questo. Quasi una metafisica dell’essere e del rimandare all’indicazione montaliana di un più in là, sempre in cerca, per trovare pace nello spettacolo del mare, dove l’uomo non c’è, se non in superficie, o in contemplazione, distante/vicino, manifestandosi la necessità umana dell’abbandono. Come posso esistere ancora, se non per te. Oh, che cos’è tutta questa vita? Ore incerte, la risposta, che è il titolo dell’ultimo libro di Silvio Perrella (Il Saggiatore, 2024). È ricorrente, durante la lettura del volume, la parola diorama, vuole riflettere, è il paesaggio descritto che viene avanti, insieme alle immagini dei quadri di Redon, che percorrono il libro. E si potrebbe dire che paradossalmente non hanno la funzione di illustrare, giacché sono parte del testo, cercano l’identificazione perfetta che avvenga fra la parola e l’immagine. Non stanno lì solo per un fatto decorativo, vogliono suscitare un’identità fra parola e cosa. La parola deve essere quella, lirica, rotonda, incisiva, tronca su un finale, azzurra di cieli e di attesa ad incipit di racconto. Si apre un prodigio sotto i nostri occhi. La letteratura ancora dice, può dire, può aiutare a capire (ci meravigliamo, ma se è fatta per questo!). E pensare che si parlava di niente, all’inizio. Un bel salto!  Così come accade qualcosa nel nostro spirito, scorrendo le immagini da una pagina all’altra, le riproduzioni dei quadri di Odilon Redon (dipinte fra Ottocento e Novecento). Sono nello spazio alto e cerchiato di un oblò, spiccate sul bianco, oppure a pagina intera, o di fianco, o a marcare un angolo basso. Hanno il colore del gesso, e allo stesso tempo si approssimano alla cenere, in quanto evento avvenuto. Intendono quell’universo che si va sbriciolando in tardo neoclassicismo, estenuato, stremato, e perciò cupo, ma impregnato di sentimento, di bellezza. Rappresentano la follia del mondo dopo la fine, o all’inizio della creazione, che è quasi un ritorno all’essere, hanno inscritto sul proprio corpo la pietà. Sembrano questo, e aleggiano a un teatro antico, risalente al tempo delle maschere, maschere nude, ma indossate al momento che non servono più, in atto di dissolversi. E senza maschera che sono? Ecco l’incerto, ma cosa si vede? A volte una creatura redenta, aureolata, a volte statuaria, o arresa, inginocchiata sul paiolo di una barca, il mare sanguigno. A volte un particolare mostra in primissimo piano un effetto materico della pittura. Ma ancora ci sfugge tutto, il libro è profondo, non si riesce mai a dire completamente, anche se siamo attratti, allietati, la parola ci conferma, ci accompagna a un sicuro divenire, ci porta a stare dentro le cose, la loro natura. L’amore di Hatem e Suleika, i due personaggi in giro per la terra, che lo scrittore incontra nei pressi della Zisa di Palermo. Noi seguiamo, ci lasciamo guidare, perché sentiamo lo spessore dei maestri.  Il corpo della scrittura, che cerca e registra, assorbe e si fa reale. È un libro di spostamenti, di viaggi. E nell’andare dice il punto in cui cade il sipario, crolla letteralmente, e finisce l’epoca della rappresentazione. Prospero, nel finale de La tempesta di Shakespeare, spezza la sua bacchetta magica, non ha più poteri. Non si può più continuare. Che cosa resta? Tutto, niente, il mondo, la sua immagine, il dover morire, l’io, il non-io. Mi viene in mente un racconto di Daniele Del Giudice, di un naufrago che trova come unico sostegno in mare un quadro, egli ci si aggrappa con tutte le sue energie e si salva, prosegue la sua navigazione fantastica, da Venezia a Buenos Aires, per raggiungere il luogo dove avverrà la sua mostra. In realtà egli è un pittore, il quadro è suo, galleggia, ce la fa a sopravvivere. La soggettività ci soccorre. Piccola cosa, incerta, appunto, ma nell’esperienza dell’eterno si compie. Natura che si compie in un frammento, stiamo su quello, guardiamo da lì. Ripeto, insisto: cosa si vede? Viaggi e viaggi per il mondo, irrequietezza, si cerca dov’è morto il poeta, dov’è vissuto, dove ha sperato, e si va all’origine della propria nascita, della vita. Un quadro che improvvisamente si svela (ancora quadri, quadri), ma è sempre un particolare. Non ce la facciamo a dire l’interezza che comunque ci riguarda. Eppure, nel dire questo, si apre il mondo, si spalanca la conoscenza. Il diorama senza anima, senza Dio, è un mistero assoluto. Come si fa a vivere?, si chiede Silvio Perrella, in giro per il mondo, come si fa ad amare? Il quadro davanti a cui sostiamo ce lo dice, perché anche il pittore si è posto le stesse domande, e una domanda dietro l’altra fa un infinito. Attualmente, dove c’è il vuoto si sovrappone il mito, e il mito permane ad avvalorare la sua inconsistenza. Che mito è?, insensatezza di spirito, moda, gestualità che si sostituisce alla parola, blablabla. Si potrebbe interpretare come teatro dell’assurdo, ma non lo è. Qui la nascita non avviene. Ci troviamo a fare i conti con questo. Estremismo dell’inutilità, ma forse è sempre esistito. Oggi è più grave? La radice del libro consiste nel fatto che si può dire ancora l’umanità. Dunque cercare in lungo e in largo il senso. È ricerca di bellezza, di vocazione, è, in una parola, la fiamma, il nucleo abbagliante della fiamma, lisergico ed esegetico. Quel farsi luce nella luce che è il libro, la parola. Fare della parola ricerca. Colpisce la forza del movimento; la motivazione a dire chiede forma. Si potrebbe pensare che non basta, occorre trovare il punto di verità della parola, che è un vissuto, il mistero e il tragico che si compiono, ma senza strepiti, solo uno svanire, che è lo sguardo incerto sull’orizzonte, la pupilla tremante. Chiedere: se non siamo lì dove siamo? Tutto sta in questa riflessione, in questo inizio, che allo stesso tempo stabilisce una rotta, un’attitudine. Chiunque verrà a distrarci non otterrà quello che vuole. La parola infatti è strumento, modella il nostro pensiero. Siamo una relazione. Al chiudersi del libro se ne apre un altro, e un altro ancora. Libro che è personaggio e lettore. Stai sognando?, mi correggono: ma se la morte è lì, e ci sorprende.  Mi ricordo un filmato-intervista su Calvino, un giornalista e lo scrittore insieme a Parigi, visitano una zona nuova, un cantiere. A un certo punto, fra gli scavi, uno strano uomo con la pipa, chinato, ha trovato dei resti umani, risalenti a chissà quando, e li spolvera servendosi di un pennello. Stupisce la sorpresa di quell’evento, e poi in diretta! Tutto fa contrasto, una nuova Pompei si apre… Ma come?, a Parigi? Sui visi di quei tre uomini (perché del cameraman non sappiamo niente) un’umanità rinnovata si rivela, quasi una gratitudine, la vita conferma la sua forza, non siamo venuti qui per niente, siamo vivi, che è persino un andare oltre la pietà, per via di quello che abbiamo di fronte, ed è capitato a loro, che sono uomini qualunque nel mezzo di un evento inatteso. Incredibile! A questo serve la letteratura, io penso. Ma cosa c’è all’origine di questo libro? Vedrete che alla fine lo capiremo. Ricominciamo, leggiamo l’inizio: > “Entra pure, lettore; attraversa la soglia: dai una prima occhiata; posiziona > gli occhi; metti il corpo in condizione di essere veicolo; preparati al > viaggio”.  L’autore vive attraverso noi che lo leggiamo, è una scelta consapevole, realistica e percettiva, forse più che percettiva, di verità, oltre Calvino, a cui sembra riferirsi come modello. La lingua è invitante fin dalle prime righe, si accosta all’antico, s’incarica di dire l’ampiezza che ossigena il respiro. Di seguito si legge:  > “Non si tratta di un viaggio consequenziale; un andare rettilineo; un portare > il passo da un luogo all’altro seguendo la disposizione giudiziosa di una > mappa”.  Ed entriamo subito nel cuore della scrittura:  > “Si tratta piuttosto di un’altalena tra Oriente e Occidente, tra albe e > tramonti, con soste su mezzogiorni allucinati scarni meridiani”. Ci appaiono Hatem e Suleika, qui è quando l’autore li vede per la prima volta, e così pure il lettore:  > “Nel Divano occidentale-orientale di Goethe ho incontrato Hatem e Suleika. Ed > ero a Palermo, nelle vicinanze della Zisa, maniero arabo-normanno; e lì, > rifacendo nuovo lo sguardo, m’è parso rivederli vivere come clandestini > dell’esistenza, amanti per i quali Baghdad non è mai lontana, intenti a > svernare i giorni tra diorami meridiane caleidoscopi jukebox in disuso e > capelli così arricciolati da spezzare i denti dei pettini. M’è sembrato che > dalla loro posizione ambigua seguissero i miei movimenti; e mi veniva voglia e > desiderio di ricambiare per sottrarre attimi di meraviglia amorosa dai loro > corpi avvinti”. Il nostro universo, la nostra memoria, sono un affastellarsi di tavole sovrapposte, ma non per formare barricate, bensì per costruire il nostro vissuto inestricabile, che si struttura inizialmente come un accumulo e poi distingue, allinea, va a rintracciare un solco che dai nostri piedi corre lontano. Lingua immersa nella lingua-mondo, lingua geometrica per dire il mondo-prisma. Che gesto è?… pur dicendo il frammento, aspira a collocarsi nel tutto. Siamo nell’Ora denominata occidentale orientale:  > “Epoche, quasi ere: prima Bisanzio, poi Costantinopoli; sempre crogiolo e > arzigogolo, necessità di contatti, Occidente di qua, Oriente di là. Sempre > ponti da costruire, visibili invisibili fragili spezzati ricostruiti slanciati > nella notte illuminati ad arcobaleno con campate sempre più ardite e > slanciate. Il ponte di Galata sta rintanato nel Corno d’oro; le sue ambizioni > si restringono a un contatto stretto tra due parti della città”.  Passando per l’Ora baltica (“Arcipelago bosco soprattutto acqua. Lieve è lo sciabordio del mare, fa suono come un’eco lontana. Ma c’è, basta avvicinarsi ai contorni terracquei e agisce. Ninnananna ipnotica”), in grande arco di tempo e di spazio, arriviamo all’Ora americana (“New York, la baia lampo nell’oblò-diorama, la sua disarmante acquaticità. Il taxi lo lascia sul margine di un marciapiede; l’albergo non è lontano; il trolley lo segue. Su su fino al piano della camera; dalla finestra i passanti nella lontananza verticale sembrano disegnati da Saul Steinberg; il fuso orario fa girare i pensieri all’incontrario”). Tuttavia è a metà del libro che avviene una ricomposizione con il mondo che siamo, è venuto il momento di un ricongiungimento, il Mediterraneo, nostos, non a caso il capitolo s’intitola Ora di battesimo:  > “Essenzialità di Punta Licosa, terraferma a forma di isola che si accompagna a > un’isolina. Vasta pineta sul mare, punteggiata di carrubi e soprattutto di > fichi. Tempo frammisto a pietre scanalate, arenarie in scivolo obliquo su > materie intermedie. Se la raggiungi quando è il suo turno nella scansione > delle ore ti dà misura di te”. Il discorso si fa universale, non è nostalgico, aspira a divenire tutto, perciò anche nostalgia. Oriente e Occidente segnano il cammino, il flusso della parola che è in andirivieni, avamposto al sentimento dell’unire. Non è Silvio Perrella che ha scritto Da qui a lì (Italo Svevo, 2018)?, una riflessione sul ponte. L’abbiamo detto, adesso però si accenna all’infinito, insieme a percorsi che uniscono, aspirazione ad andare di là, e sposarla quell’altra riva, attraversando le strade sospese, carreggiate aeree che ci stanno sulla testa.  > “Ogni ponte ne richiama un altro e tutti i ponti, mentre Hatem cammina su > quello di Cordova, si danno a convegno di pietre, fanno che si guardi > dall’altra parte senza chiedersi cosa davvero ci aspetti, quale nuovo > quartiere, quale pezzo ancorato di città si disegni nell’aria. Hatem si > avvicina al ponte vecchio e osserva la sua curvatura che per un attimo lancia > gli occhi nell’infinito. Non si vede altro che cielo andaluso, quasi al > tramonto, le luci dei lampioni ancora spenti ma in procinto d’infiammarsi per > dare chiarore alla notte”.  Ma la luce, che per tutto il tempo della narrazione ha prevalso, ora si spegne. “La luce declina”, “facendoci ciechi di noi stessi”, in Ora oceanica si legge:  > “A Porto si arriva per desiderio di finisterre, all’indomani di molte cume > senz’oracolo, di ore abbandonate, di minuti spersi nel buio, di brilli e > capoversi”.  Alla fine dello spettacolo luminoso che è la vita, non corrisponde un indebolirsi della parola, anzi, aumenta la suggestione: “Sono morto senza saperlo”. Ci affidiamo all’enigma che siamo. Vincenzo Gambardella *In copertina e nell’articolo: opere di Odilon Redon (1840-1916) L'articolo “Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di Silvio Perrella proviene da Pangea.
May 26, 2025 / Pangea
“Altrimenti sei il solito poetastro rompicoglioni”. Pasolini & Ferretti, l’allievo eretico
Dotato di quella rabbiosa precocità che soltanto il dolore rende esatta – endocardite reumatica, dissero: faceva le elementari – e di uno sguardo mesmerico, da mari del Nord, Massimo Ferretti inviò la plaquette che s’era stampato a sue spese, presso una tipografia di Jesi, a una decina di riviste letterarie. Doveva ancora diplomarsi, compiva vent’anni: eccelleva nei temi, restio al resto lo bocciarono in seconda. Nato a Chiaravalle, figlio di un geometra e di una maestra elementare, fu snobbato da quasi tutti i papaveri dell’editoria di allora. Gli rispose, entusiasta, Pier Paolo Pasolini; di lui scrisse, entusiasta, su “Officina”. Ferretti si rivolgeva al “caro professore” con deferenza non priva di ferocia; Pasolini, che alternava generosità e tirannia (due monete della stessa zecca), tentò di fare di quel ceruleo marchigiano uno dei suoi adepti. Quando gli intimò di non pubblicare per Schwarz – “ha stampato un pacco di inutili libri vanitosi e superficialmente sperimentali” – Ferretti obbedì; quando gli propose di scrivere per la Rai, Ferretti ci si mise (senza successo). Quando, desolato dall’università – a Perugia, “un labirinto di vicoli; profumi claustrali; manie cosmopolite” –, Ferretti gioca all’uomo in rivolta, carpito di una rivoltante depressione, e gli chiede “tu frequenti l’ambiente del cinematografo: e io porto dentro di me un attore”, Pasolini lo blocca, bacchetta il suo “maleodorante romanticismo”, gli dice di tornare a studiare.  > “Altrimenti sei il solito mandolinista italiano, il solito poetastro > rompicoglioni, dilettante e presuntuoso”.  Siamo agli inizi del ’57: Pasolini sta acconciando Le ceneri di Gramsci; ha da poco pubblicato Ragazzi di vita. Grazie ai suoi auspici, Ferretti pubblicherà per Garzanti, nel 1963, Allergia: pochi ne parlano, pochi lo comprano, alcuni se ne entusiasmano (Ferretti giura di aver visto, a Roma, “Sul bus 37, Giorgio Manganelli… con un libro sotto il braccio: Allergia”). Ad ogni modo, il libro è onorato con il “Premio Viareggio” opera prima; negli anni, s’inabissa nell’oblio, diventando – per sparuti poeti che ormeggiano le proprie aspirazioni verso l’inattuale – un testo ‘di culto’: all’edizione Marcos y Marcos del 1994 seguirà, nel 2019, quella definitiva, edita da Giometti & Antonello. Aveva ragione Pasolini – che leggeva il giovane Ferretti “con le lacrime agli occhi, come in sogno” –: quella poesia, di un Leopardi passato sotto i torchi di Marx, reca una spaventosa innocenza, un delirare che viene dai primordi, lo stigma dell’“adolescente segnato dalla malattia e da un’inquietudine perpetua come un personaggio di Thomas Mann” (così Massimo Raffaeli). L’attacco di Polemica per un’epopea tascabile, per dire, è bellissimo:  > “Sono un animale ferito. > Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere > definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda. > Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il > cuore m’avrebbe solo bagnato”. Successe, poi, il disastro.  Pasolini intendeva il magistero nelle forme di un’arte predatoria; Ferretti – creatura dagli insondabili umori, da erbivoro con zanne da tigre – gli sfuggì. A metà dicembre del 1957 i due – il maestro e il pupillo – s’incontrano, a Roma. Ferretti si ritrae, rientra a casa inquieto, inquietato: “Avevo 20 anni e t’ho fatto diventare un eroe… questa è stata la mia grande colpa”. Pasolini gli risponde con un autoritratto:  > “io mi innamoro esclusivamente dei ragazzi sotto i vent’anni, e molto ingenui, > direi quasi soltanto del popolo (ingenui dal punto di vista culturale, non > erotico)… Una vita estremamente libera e dissipata non ha scalfito la mia > innocenza nemmeno di un millimetro: sono veramente vergine e ragazzo, da > questo punto di vista”. Da lì, il rapporto si corrode: Ferretti segue l’armata del Gruppo 63, frequenta Nanni Balestrini, si scrive con Antonio Porta; pubblica con Feltrinelli, nel 1965, Il gazzarra. Nonostante il romanzo sia esaltato, in copertina, come “Divertentissimo: un Zazie nel metrò italiano, un nuovo Pian della Tortilla”, Ferretti non è Queneau né Steinbeck; la critica lo snobba e Il gazzarra – come il romanzo precedente, Rodrigo, edito da Garzanti nel 1963 – resta tra le retrovie dell’epoca. Nel 1959 Ferretti si era “consegnato”, per l’ennesima volta, a Pasolini; gli racconta del cugino suicida, “aveva un anno più di me e non era un giovane bruciato: era disperato”. Il maestro gli risponde, trafelato, tra “il trasloco” e “il Premio Strega, con le sue mille telefonate”. È una risposta sbrindellata, da bovina madama ideologia in imperio: “Quello che non capisco – e che ti minaccia – che minaccia te, la tua poesia, il tuo equilibrio – è quella voglia a essere ciò che non vuoi essere: borghese, reazionario, fascista”. Ferretti lo malmena: “Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente… sei diventato vecchio o non hai più niente da dirmi?”.  Da qui in poi, il carteggio – che si legge in un libro violento e istruttivo edito da Giometti & Antonello: Massimo Ferretti, Lettere a Pier Paolo Pasolini e altri inediti, a cura di Massimo Raffaeli – segue l’atroce trama di un tema capitale: il maestro che diventa aguzzino; o meglio: l’angelo che si tramuta, per infatuata furia, in vampiro. Pasolini, creatura angelica, sapeva azzannare al collo.  Per un po’, Ferretti lavora in Longanesi, scrive saltuariamente su “Il Giorno”; per Feltrinelli traduce Tra, romanzo sperimentale (mai più ripubblicato) di Christine Brooke-Rose; per Astrolabio traduce Hilda Doolittle (I segno sul muro, 1973), primordiale musa di Pound, e l’antropologa Margaret Murray (Il dio delle streghe, 1972). Nel 1968 aveva sposato, a Roma, Nilvia, una compagna del liceo: chiedendo a Pasolini di fargli da testimone gli scrisse di aver visto Teorema, “è proprio avvilente (per uno che ti ha stimato come me) assistere allo spettacolo di come degradi il tuo talento”. Pasolini replica da chioccia in estro (“Teorema è un bellissimo film, quasi assoluto”) e accetta di fargli da testimone, “disumanamente”. Le date, tuttavia, non collimano: al fianco di Ferretti ci sarà Balestrini. Qualche tempo prima, Pasolini lo aveva bollato così: “Rimbaud integrato in una società di imbecilli”.  Schifato dall’odierno mondo della cultura italiana, Ferretti si isola, scrive nascostamente, guarda il calcio in tivù, gioca a scacchi. Non attende altro e nel novembre del 1974 muore, nel sonno. Qualche mese prima aveva scritto l’ultima, allucinata lettera-invettiva a “Pierpaolo mio”:  > “Decaduta si insabbia nella tua religiosa mondanità la mia vispa teresa per > niente sorpresa che Pasolini faccia rima soprattutto con quattrini”.  Era arrivato l’astio, infine, il cupo gemello della pietà.  Pasolini sarebbe morto, nei modi che sappiamo, esattamente un anno dopo.  *In copertina: Pier Paolo Pasolini nel 1966, ritratto da Richard Avedon L'articolo “Altrimenti sei il solito poetastro rompicoglioni”. Pasolini & Ferretti, l’allievo eretico proviene da Pangea.
May 24, 2025 / Pangea
“Come un sogno, come un sogno!”. Piccola antologia della poesia cinese classica
Tutto si può dire del vuoto, fuorché che lo si possa fare. * Li riempio soltanto o vivo appieno ogni giorno? Giorni come gabbie, solo fra soli. La vita è piena di rischi e c’è un male che è vero e un bene che è falso – soltanto sperare mi fa cambiare in meglio. Mi torna in mente, allora, quel detto di Samuel Johnson, in Rasselas, principe d’Abissinia (citato una volta da Simon Leys):  > “non lasciare che la vita ristagni… riaffidati al flusso del mondo”.  Annoto queste parole di Papa Leone XIV, dette al suo primo incontro con i giornalisti: “Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che rappresentano una sfida per tutti noi e che non dobbiamo fuggire. Al contrario, essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi, di non cedere mai alla mediocrità. […] Come ci ricorda Sant’Agostino, che diceva: ‘Viviamo bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi’”. Se me lo chiedessero, in effetti, non saprei dire perché mi metta a scrivere: il mio cuore ha ancora tanti nodi che forse non potrò mai sciogliere – o che, simile a un fine elastico per capelli, lo storceranno per sempre. * Alla ricerca di uomini grandi, di chi ti conferma cose di te stesso che soltanto sospettavi – o comunque, che fanno un po’ di “chiarezza”. In una vecchia intervista, Giampiero Neri, descrivendo il suo rapporto con uno dei personaggi di un recente libro, Piazza Libia, diceva di passaggio:  > “Devo dire, non è stato neanche facile entrare in rapporto con questo Signor > Giovanni [disoccupato da anni]… perché la società naturalmente vive di > rapporti di lavoro, sicché, non lavorare, trovarsi ai margini, imbarbarisce un > po’ i nostri comportamenti. Quindi, il signor Giovanni, non era disponibile > sempre…”  Banale, ma io che un “lavoro” vero e proprio non l’ho mai avuto, né mi ci sono mai identificato, per essere semplicemente quel che sono, temo di non aver mai fatto che lottare in – contro – questo tipo di società. * Domenica in bicicletta per delle colline a ovest di Pechino. Fino a un tempio buddista, dai cortili a diversi livelli, alti pini – una coppia è chiamata “drago che sposa la fenice”, uno piegato abbraccia una pagoda che sorge oltre una terrazza. Ce n’è uno di mille e passa anni, un gushu 古树 (“albero antico”): dal tronco larghissimo, che si dirama in una decina d’altri, ha la corteccia sottile, pare un platano non fosse per i suoi aghi verdi scuri. Mi attardo a decifrare alcuni caratteri intorno alla porta di una sala in cima: > “le nuvole si aprono sul mondo del loto, sull’altare si sparge come pioggia la > suprema saggezza > > le onde si alzano, la foresta manda aromi, il padiglione nella nebbia si > affaccia sulla sala dell’Arhat” Al tempio, mangiamo degli spaghetti in brodo, dando le spalle a quelli dietro, faccia a faccia con chi è dall’altra parte della stanza; alle pareti ci sono due cartelli con scritto: “non parlare”, “restare in quiete”. Nelle altre pareti, su carta color cachi, passaggi dai sutra e due grandi caratteri: “Saggezza” (hui 慧), “Prosperità” (fu 福). In due stanze laterali dell’ultimo cortile, siedono centinaia di statue di bronzo rappresentanti diversi monaci e santi: c’è chi suona un flauto, chi porta una ciotola di riso, chi è in meditazione, chi ride. Ci cammino di fianco, posando le mani sulla superficie fresca, come fanno gli altri visitatori. Due fedeli percorrono il corridoio a mani giunte.  * Per strada, con le mani fra le ruote dentate e la catena intoppata, mi viene in mente mio nonno materno, un omone alto e robusto, con una pancia durissima, sempre abbronzato e in canottiera, a piedi nudi. Di mestiere riparava macchinari pesanti: nel garage della vecchia casa in campagna c’era un’officina ordinatissima, con ogni strumento possibile.  Dopo la pensione, si costruì quella casa in campagna, comprò dei campi per coltivare viti – vinse dei premi per il suo Erbaluce – e kiwi. In cima a una collina, dove ora è un vigneto, mise file di noccioli: ci salivo spesso a vedere il panorama: la pianura nella foschia e i funghi della centrale nucleare dismessa di Trino. Poi attraverso un sentiero nel bosco – che lui teneva pulito, anche per poter andarci a funghi – si arriva a un santuario dedicato alla Madonna. Più oltre si scollina in un paese dove ho degli amici. Me lo ricordo nel fragore di un trattorino, manovrare davanti alla strada di casa. Da un lato, la strada scendeva e dava sui garage, di fronte a qualche filare di kiwi. Qualche anno fa, quando ormai la casa era disabitata, d’estate, andavo ad aprire regolarmente l’acqua per annaffiare il prato del giardino nel retro, con altissimi pini, alberi di diversa specie (come una larga magnolia) e qualche pianta esotica. Un sentiero di mattonelle portava all’orto, dove su un muro crescevano le zucche, a fianco di una tettoia per accatastare la legna, un pollaio in disuso. Sotto i garage, in un freddo scantinato, i macchinari per fare il vino. I serramenti erano in ottone. Sul balcone al primo piano una panchina a dondolo. Sopra una piccola mansarda, dove i miei vissero prima che nascessi. Davanti alla casa c’era un grande prato incolto, e a lato una stradina, che si fa sterrata e sale sempre più ripida e stretta, immergendosi nel bosco, verso il santuario, segnata dalle nicchie della Via Crucis – aprendosi qui e là su dei prati, qualche isolato vigneto, o sulla pianura sotto, fra gli alberi… la Dora, Vestigné, Ivrea, la maestà delle Alpi sullo sfondo. Da bambino andavo a fare ripetizioni d’inglese da una signora venuta a ritirarsi in una villa appena dietro. Aveva studiato ad Oxford, indossava le Clarks, andava a fare tiro con l’arco per i boschi, e mi offriva delle caramelle di viola. Si faceva pagare profumatamente.  Pensavo in effetti che ho avuto un’adolescenza piuttosto selvaggia. Alle superiori passavo la settimana a Torino, dove vivevo in un convitto con il figlio di un albergatore di certe valli piemontesi, riccioluto, sempre in tuta, un secchione, e nel weekend o nelle vacanze tornavo nel mio paese di provincia. Passavo con i miei amici d’infanzia pomeriggi a fare nulla su delle panchine, in qualche angolo di strada, nei pressi di una chiesetta fra i campi, o in giro per i boschi. Ci si accampava da qualche parte e ci si inventava qualche cosa da fare: spedizioni in fabbriche abbandonate, furti di trattori, infastidire il vicinato. Avevo diversi volti: quello a scuola, più composto, e quello con i miei vecchi amici – comunque sempre contrassegnato da un certo distacco, insieme ad una ricerca di continua approvazione, mi sembra ora.  Forse soffrivo questi continui addii, una vita sempre scissa?   * Forse, volevo parlare del fratello minore di mio nonno, che era invece un filosofo, – nelle foto a casa dei nonni – magro, capelluto e con una folta barba nera. Sempre elegante, volto da santone, o da Marx redivivo. Scriveva e teneva corrispondenze colte, era intelligentissimo: lo presero a lavorare per una grande azienda di gomme, ai massimi vertici, ma ci durò poco.  Aveva una folta biblioteca, di cui una parte finì tra gli scaffali di casa nostra: ci ho passato non poche estati, fra quei libri: aveva di tutto, dai classici di ogni tempo, romanzi moderni e contemporanei, a saggi di ogni argomento, libri per fare l’orto e di cucina, sulle religioni e la magia – immagino, tracce di diversi periodi della sua vita, come le sgualcite cartoline e fogli di appunti al loro interno. Per lo più tascabili, comprati e – immagino – letti compulsivamente. Ricordo la sua fitta e precisa grafia di ragazzo, negli appunti ai margini di un manuale ingiallito di storia di letteratura italiana.  Da quel che ne so, il prozio finì per sposarsi con una specie di maga, prima delle sue rovine. Un giorno, a cavallo dei quarant’anni – io non ero ancora nato –, parcheggiò la macchina sulla soglia di un bosco, vi si inoltrò e si lasciò morire fra gli alberi.  Mia mamma, che si commuove sempre quando ne parla, dice che i miei bisnonni – dei “marghé”, produttori di burro, gente semplice ma che aveva potuto arricchirsi dopo la guerra – l’avevano viziato troppo, forse non sapendo come affrontare la situazione. Lei lo ammirava: da lui aveva imparato per esempio ad apprezzare la musica classica: a casa abbiamo una ricca collezione di vinili dei compositori più importanti della storia, raccolti da mia madre.  Chissà a quante famiglie è capitato lo stesso – e che la sua anima ancora sofferente – riposi in pace – non abbia continuato a tormentare noi, o me, nascosta fra le pagine di quei libri.  * Questo libro, una raccolta di traduzioni inglesi di 101 liriche cinesi, l’ho trovato tempo fa in una bancarella, passeggiando per un’università a Pechino. Con l’aiuto di queste versioni di Chu Dagao, ne rendo alcune in italiano pensando a qualche amico, e questa poesia di Su Shi: Dopo aver bevuto Questa notte ho bevuto al Versante Orientale – di continuo tra il sobrio e l’ebbro. Al mio ritorno, sembrava fosse la terza ora. Romba già il fiato del servo, nessuno risponde alla porta appoggiato al bastone ascolto il suono del fiume. Spesso odio il fatto che questo corpo non mi appartenga: quando potrò finalmente obliare gli affari terreni? A notte fonda la brezza, onde fini come la seta. Che passi di qua una piccola barca  per fiumi e mari per il resto della mia vita! * 101 Chinese Lyrics (New World Press), ristampato nel 1987, compie una raccolta di 50 liriche pubblicata dall’Università di Cambridge nel 1937. Il traduttore, Chu Dagao 初大告 (1898-1987), originario dello Shandong (contea di Laiyang), fu professore all’Istituto di lingue straniere di Pechino (ora Università di lingue straniere di Pechino).  Laureatosi nel 1925 presso l’Università normale di Pechino, tra il 1934 e il 1937 studiò appunto a Cambridge, per poi insegnare in diversi istituti in Cina – lo dicono “uno straordinario traduttore, educatore e poeta. Con la sua profonda comprensione della letteratura cinese, specialmente della poesia lirica, ha contribuito grandemente all’introduzione dei versi e dei classici filosofici cinesi nel mondo anglofono” (dal risvolto di copertina). Sua è anche, infatti, una traduzione del classico del taoismo, il Tao Tê Ching. Nel 1919, Chu partecipò alle dimostrazioni studentesche del Quattro Maggio, venendo arrestato – e liberato grazie al “supporto della popolazione”. Con la nuova Cina, contribuì a fondare la Società Jiusan (“Nove-tre”, in riferimento alla vittoria nella seconda guerra sino-giapponese, avvenuta il 3 settembre 1945), uno degli otto “partiti democratici” minori consentiti tutt’ora, animato dagli intellettuali. Andrea Corsi * Da 101 liriche cinesi (a cura di Chu Dagao)  Zhang Zhihe  Canzone del pescatore Volano bianchi aironi davanti alla collina Xisai fiori di pesco scorrono sul fiume, il persico è grasso. Con un cappello azzurro di bambù e un verde mantello, nel vento obliquo e la pioggia fine non c’è fretta che torni.  Zhang Zhihe (732-774) fu un poeta della dinastia Tang (618-907) ed un buon calligrafo e pittore. * Liu Yuxi  Onde sulla spiaggia All’ottavo mese odo il suono delle onde che mugghiano sulla terra, le creste alte una decina di metri si rompono sulla parete rocciosa, e si ritirano. All’improvviso si ritraggono alla porta del mare alzando cumuli di sabbia che sembrano di neve. Liu Yuxi (772-842), anche conosciuto come Liu Mengde, fu un letterato e filosofo. Fu ufficiale durante il regno dell’imperatore De Zong della dinastia Tang e un amico intimo di Bai Juyi, uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. * Wen Tingyun L’isolotto di bianco trifoglio Pulito e vestito, solo, mi sporgo dalla Torre sul fiume. Vedo mille vele, tranne quella che vorrei passasse. Che incanto i raggi del sole al tramonto sull’acqua lontana il mio cuore spezzato è volto a quell’isolotto di bianco trifoglio. Wen Tingyun (812-866) fu un famoso poeta lirico della dinastia Tang. Sono sopravvissute Intorno a 60 sue poesie, tutte scritte in uno stile fiorito. * Wei Zhuang Le terre del Sud I Tutti lodano le terre del Sud il viaggiatore vi prende dimora fino alla vecchiaia. In primavera, le acque dei fiumi sono più blu del cielo, si cade nel sonno ascoltando la pioggia su barche dipinte. Le locandiere per strada splendono come lune,  i polsi dietro alle maniche sembrano di neve. Resta finché non sei vecchio se non vuoi spezzarti il cuore non tornare a casa. II Ricordo ancora le gioie del Sud, quando ero giovane e indossavo vesti leggere. A cavallo sostavo sui ponti, dai balconi rosse maniche mi mandavano saluti. Nel paravento si nascondeva l’oro della giada ebbro mi inoltravo in stanze gemmanti. Se dovessi vedere ancora quei rami fioriti, vi resterei fino a che i miei capelli non si facessero bianchi. * Passeggiata in primavera È primavera, camminando mi soffiano sulla testa fiori di albicocco. Per strada, chi è quel giovane dall’aria nobile? Mi farei sua serva e mi offrirei a lui in sposa, fino alla fine dei miei giorni. Non ne proverei vergogna, anche se senza amore dovesse un giorno abbandonarmi. * Fiori di magnolia Solo salgo sul piccolo padiglione, la primavera volge alla fine triste guardo la strada verdeggiante verso il valico di frontiera. Non giungono notizie, né viaggiatori. Aggrotto le sottili sopracciglia, me ne torno al salotto. Sedersi a guardare i fiori che cadono è cosa vana lacrime rosse rigano le mie maniche di seta. Non mi sono mai inoltrato tra montagne e fiumi, prima d’ora, potrà il mio spirito trovare in sogno un degno compagno? Wei Zhuang (c.836-910) fu un poeta delle Cinque Dinastie (907-960) conosciuto per la grazia dell’implicita bellezza della sua poesia lirica.  * Li Xun Una nuvola sul monte Wu Il tempio antico si affaccia su una verde scogliera, la residenza dell’imperatore poggia su un fiume di giada. Il boudoir è immerso nei suoni del fiume e nei colori della montagna. Interminabili, i pensieri giungono dal passato. Nuvole e pioggia si danno il cambio dalla mattina alla sera tra foschie e fiori, passano le primavere e gli autunni. È inutile che il pianto delle scimmie segua la barca solitaria il viaggiatore ha già per sé non pochi turbamenti. Li Xun (c.855-c.930), discendente di un persiano, fu un poeta lirico delle Cinque Dinastie. Gran parte dei suoi poemi descrivono i costumi e panorami del sud della Cina. * Lü Yan Aspettando un amico Obliqui i raggi di luna, freddo il vento autunnale. Questa sera, verrà il mio vecchio amico? Ho aspettato fino all’ultima ombra dell’albero dei parasoli.  Lü Yan, poeta della dinastia Tang. Le date della sua nascita e morte non sono conosciute. Sappiamo solo che fu attivo intorno all’857. * Li Cunxu Come un sogno Un tempo festeggiammo nella caverna della Fonte del Fiore di Pesco, intonavamo musiche pure e ballavamo come fenici. Ricordo ancora quando ci separammo con le lacrime ti accompagnai alla porta. Come un sogno, come un sogno! Sono rimasto con la luna calante, i fiori cadevano nella foschia.  Li Cunxu (885-926), fondatore della dinastia Tang posteriore (923-936), divenne imperatore nel 923 e restò ucciso in un ammutinamento nel 926. * Su Shi  In memoria Per dieci anni, un abisso ha separato i vivi dai morti. Anche se non ti penso, mi è impossibile dimenticare. La tomba spoglia è lontana mille li non c’è luogo dove possa dire la mia tristezza. Se ci incontrassimo non mi riconosceresti, sembra che il mio volto sia coperto dalla polvere e alle tempie i capelli sono brina. Ieri notte ho sognato di tornare all’improvviso a casa. Eri davanti alla finestra della camera, alla toeletta.  Ci siamo guardati le lacrime hanno preso il posto delle parole. Ricordo anno dopo anno, quel luogo che mi ha spezzato il cuore notte di chiara luna, i pini bassi sul poggio. Su Shi (1037-1101), anche conosciuto come Su Dongpo, nacque nella contea di Meishan, provincia dello Sichuan. Poeta maggiore della dinastia dei Song settentrionali, fu anche un celebre calligrafo e pittore. Si distinse come uomo di stato e coprì diverse cariche ufficiali, ma fu spesso mandato in esilio. Allargò l’ambito della poesia ci introducendo argomenti più seri, rendendolo dunque un genere più consistente. La sua poesia è fresca, audace e vivida nello stile.  * Xiang Gao Solitudine Chi siede in compagnia sotto la finestra illuminata? Siamo in due, io e la mia ombra. Ma quando la lampada si esaurisce, e sarà ora di ritirarmi anche la mia ombra sarà presa dal buio.  Non so che fare!  Quanto sono misero e disperato! Xiang Gao nacque intorno al 1100. * Yue Fei Devozione non ricambiata Ieri sera i grilli d’autunno non hanno smesso di cantare mi hanno suscitato in sogno luoghi a migliaia di li. Era già la terza ora. Mi sono alzato, mi sono messo a passeggiare sulla soglia di casa. Tutto era nel silenzio, dietro la tenda la luna illuminava appena. Tutta la mia vita l’ho spesa al servizio dello stato. A quelle vecchie montagne dove le foreste stanno invecchiando il ritorno mi è impedito. Vorrei affidare le preoccupazioni del mio cuore a un liuto di diaspro: ma chi potrebbe comprenderne la melodia spezzata se non i miei amici lontani? Yue Fei (1103-1142), eroe nazionale della dinastia dei Song meridionali che combatté contro l’invasione dei Nüchen. Solo alcune sue opere sono state tramandare, tutte permeate da forte patriottismo. * Nota sullo sviluppo della poesia in stile “ci” La poesia lirica cinese Ci affonda le sue radici più antiche nel classico Libro delle odi (Shijing), il quale pose le basi dei suoi schemi ritmici, i motivi tonali, le differenti misure dei versi e la loro applicazione alla musica. Con la dinastia Han, la poesia prese forme regolari e l’accento venne messo sulla creazione musicale, con odi e inni per le occasioni cerimoniali. Durante le dinastie Sui, Tang e in particolar modo Song, attraverso le accademie di musica, si assisté ad un divorzio completo tra quest’ultima e la poesia.  In seguito ai frequenti contatti con le regioni occidentali e l’Asia centrale, furono introdotti motivi musicali senza parole o con mere traduzioni illetterate. I poeti che volevano scrivere una canzone per una musica, dovevano “riempire la melodia con le parole”, adattando i motivi tonali della lirica e la lunghezza dei versi (alternanza di “versi lunghi e brevi”). Da cui, poi, la poesia ci 词. Questo tipo di lavoro, tuttavia, non teneva molto conto della libertà dei poeti. I quali cominciarono a non rispettare le regole, o a mantenerne soltanto alcune. Molti poeti scrissero allora delle poesie per melodie senza attenersi al loro tema originale. Se una gran parte delle melodie o canzoni originali trattavano il tema dell’amore, i poeti scrivevano sulla guerra o eventi storici. Così che le melodie vennero tramandate soltanto nella loro forma, senza relazione effettiva con il significato delle poesie.  Ad ogni modo, basti dire che la formazione della categoria di versi ci, non solo ha abbellita ma anche arricchito la poesia cinese in generale. Nella presente traduzione i nomi delle melodie sono stati lasciati soltanto nella versione originale cinese, tra parentesi.   L'articolo “Come un sogno, come un sogno!”. Piccola antologia della poesia cinese classica proviene da Pangea.
May 24, 2025 / Pangea