C’è un filo diafano, un’arcana gravitazione che stringe i mistici di ogni epoca
al seno del mistero. Karol Józef Wojtyła a 24 anni, sul bordo di una vocazione
nitida e cruciale, scriveva poesie. Liriche liminali, dal passo pacato ma
custodite nella gravità di un movimento basale, gregoriano: una monodia di
devozione incessante e inviolata.
Poiesis che è primordio, promessa, esercizio d’estasi. Rive piene di
silenzio come stati dell’essere, dove non è l’alta parabola, ma l’intimo affondo
l’atto del lambire. Spoliazione di ogni avvistamento, di ogni appetito
cromatico, di ogni intenzionale attesa. Non guardare, perché si è guardati: da
prima dei vagiti del tempo.
Sono sempre nel fiore della lentezza i movimenti del sacro, ripetono il rito: un
effluvio ardente diffonde dall’oltre, s’attenua nel suo passo custodendo il
varco; e preme di silenzio il punto profondo. Durare nella trasparenza, nello
stupore che addita l’eternità: pronunciare la cessione di sé, per quell’assise
di chiarore che è il chinarsi di Dio.
L’amore, sapienza che trasfigura, sa il vincolo dirotto tra ferita e grazia, la
rosa segreta della croce: verità che pertiene all’ombra, alle rifrazioni
dell’acqua, all’estremo volo che piega all’orizzonte. Cui è basilare far spazio,
deprivandosi di lemmi e cognizioni, dando il grembo a un “nulla crescente”, che
ha cara la luce.
Vertigine di “strana morte” in cui lo smisurato alberga in gloriose minuzie: un
cinguettio di fanciulli, il fieno odoroso; un pane di frumento, le foglie
cadute. È l’umiltà sacra delle cose primarie, ridestate in essenza dal soffio
perpetuo, le esistenze minime che recano l’esile offerta: lo stento e l’assillo
di ogni anonima incarnazione: “minuscola cella” in cui il sacro si corica, senza
clamore.
La poesia di Wojtyła è un piovasco di bagliori, fenomeni inversi, in cui
l’universo si eclissa per rivelare, nel suo svanire, le pure altezze
dell’Intelletto divino, mentre un canto oceanico s’alza dai corpi in elegia, che
anelano al “vortice di sole”, sostenendo in cuore “l’esilio di Dio”: suo velarsi
in suprema presenza.
Trema l’anima in uno schiudersi di rose quando l’interminato sospiro l’avvolge,
e accoglie nell’incanto della propria povertà il punto aureo di teofania,
l’oceano di luce del “grande Tacere”.
Nel Canto del sole inesauribile, il sovrano sguardo eleva e sfianca l’inezia
vivente: e nel declinare della vita è fatto saldo il patto con il grande astro
di luce, che trattiene a sé ogni fiato in chiarità definitiva. Il dolore porge
sé stesso in tenera nostalgia, nello struggente ricordo del Volto fa eucaristia
minore che “si arrossa di sangue/ come trafitta da spine”. Sete sacra, che
lascia vorticare accanto un cosmo adolescente di gravami e fulgori; fissandone
il cuore segreto, l’oscura stilla, aghiforme totalità e pienezza immobile.
Sorgente del gesto di genesi, in cui già dimora la discesa alla passione, al
pane, al grano: l’infinità si curva nell’umile riserbo, nel mite ricovero: il
grembo di Maria, “la mangiatoia”, “il fieno”. La grazia diserta il computo e si
china verso irrisorie, lucenti umiltà. Quando posa nel cuore umano, mondi nuovi
germinano nella reciprocità di sguardo: è l’armonia del trinitario mistero,
laddove il Padre ama nel Figlio e attraverso lo Spirito si dona.
Il poeta fa una teologia del nascondimento epifanico, dell’apparizione criptata,
in cui l’Eucaristia è memoriale e atto creativo corrente, vivo: la puntuale,
assidua rigenerazione cosmica e personale, rubino taciturno d’intimo albore,
fuoco risorto nell’intenzione di Dio, è dove l’uomo si riconosce come brama
velata: ché anche l’Eterno emana per carenza d’amore, e crea ogni forma dal
palmo, chiamandola per nome.
Esiste una via cristica che accomuna il celeste alla creatura: il risalire
l’erta della croce, il cui vertice d’intuito e senso di sacra presenza non è
sangue versato, ma vegliato vuoto, spalancato di preghiera nella carne: anche in
Gesù, sull’albero atroce, fu la consegna, non la ferita, a generare il nome del
Padre sulle labbra.
Nelle acque del cuore, fatte torbide dall’umana miseria, il chiarore del posarsi
profondo di Dio crea il “Punto Candido” di visione, io eucaristico d’incantevole
convegno che risale con soavità l’invisibile nodale: altare insostenibile dove
il sensibile si spezza e l’occhio vero non osa. La tracotante fragilità di
arroccarsi, talora, nel pensiero, e non essere fiamma di totale ardore, è
redenta, al cospetto delle fluide e radiose – il sole, il mare – epiclèsi del
creato: che generano confidenza, meraviglia, senso di tutela. Dove l’umano,
nonostante le sue ambiguità e imposture, trova riparo in incommensurabili
fedeltà; è questo il vibrato mistico: che porterà alla partitura interiore di
lode, alla consonanza di adesione perfetta.
Lucente e scoscesa, profondamente cristocentrica la teologia contemplativa
distesa nel canto di Karol Wojtyła snuda l’apòfasi come via diletta
dell’esperienza mistica. Tanto nella visionarietà quanto nell’edificio
spirituale, nel sentire che oltrepassa l’intelletto, nell’ascesi inversa alle
lucòree voragini interiori, nelle antitesi metafisiche tra oscurità e bagliori,
nella preghiera silente, terminale della pura adorazione, nell’anima come alveo
del riconoscimento, riecheggiano le atmosfere di Sant’Agostino, Isacco di
Ninive, Meister Eckhart, Giovanni della Croce, Angelo Silesio.
Toni umilissimi, ma a vertiginose altezze, laddove l’Amore è l’evento teofanico
per eccellenza, ciò che “spiega ogni cosa”. Il Pellegrino cherubico di Silesio
risuona in quell’anelito alla semplicità radicale in cui Dio è presente solo “là
dove nulla più rimane”. Una poesia che fa lectio divina per puro nitore, e prega
con un affetto teologico struggente.
Una costante tensione tra immanenza e trascendenza trova ristoro nel gesto
soprannaturale dell’abbassamento: l’umiltà di Dio che si riduce nell’uomo. Pure,
l’incarnazione del Verbo ritorna ossessivamente in immagini di discesa e
decremento sempre nuove: Dio si fa croce, si fa occhi, si fa abisso, si fa
perfino nostalgia, e sosta nelle briciole di materia, grano e pane: luoghi
ontologici, nei quali l’Essere si mostra nella diatonia tra finitezza e
pienezza.
Il poeta guada ampi corsi d’intensità mistica, semplicità lirica e tensione
all’invisibile; in particolare, nel Canto del sole inesauribile questa
traiettoria si arricchisce di un’ulteriore stratificazione cosmica, laddove il
sole non è più solo simbolo di Dio, ma interlocutore metafisico dell’anima, che
“non è una foglia”, non conosce la nuda impermanenza, ma contiene in sé una
partecipazione eterna al movimento del creato. Il cosmo si traduce in figura
sacramentale: “il frammento di pane più reale dell’universo/ più colmo d’Essere,
colmo del Verbo”: la parola si sostanzia nella cosa. Il pane eucaristico è
metonimia potente dell’Essere.
Nel lessico essenziale, vicino alla sorgente biblica e patristica, la poesia di
Karol si compie canto dell’umiltà ontologica. Scritture sapienziali in essenza,
mai nei toni, frammenti di un’apocalisse centrale, in cui l’uomo e Dio si
cercano nei luoghi più reconditi della coscienza, e nelle trasparenze del
silenzio che dilata lentissimo, di fronte allo svelarsi di un’eccedenza. Tale
tensione all’inesprimibile genera una poesia prossima al sublime romantico –
Novalis, Hölderlin – ma qui rifratta attraverso una spiritualità profondamente
cristocentrica e pascaliana: “più aguzzo lo sguardo, meno riesco a vedere”.
Similmente a quello che accadeva in Cristina Campo, la funzione del linguaggio
nel poeta è performativa, ma anche liturgica: la figura campiana è vaso d’oro in
cui, per astinenza e accumulo, precipita l’ignoto liquore dell’idea; e così
l’atto del nominare nel poeta Wojtyła – “Ah, accogli, Signore, l’ammirazione che
mi zampilla dal cuore” – è invocazione, rito che plasma lo spazio interiore e lo
dispone all’incontro con il mistero.
Il linguaggio non descrive Dio, ma rasenta quel “fiore inaccessibile” che è
icona teandrica d’intimità senza tempo, luce nuziale, mutua fiamma. Il poeta
cerca trasparenza, per essere pura rifrazione delle solenni vastità
evocate. Teologo del lemma incarnato, viandante del muto brillare, esegeta di
sobrietà: ecco Karol Wojtyła giovanissimo poeta. Il resto pertiene alla storia:
l’agire nel mondo di un uomo intero, abitato dallo Spirito.
Isabella Bignozzi
**
da: Il canto del Dio nascosto[1]
Lontane rive di silenzio cominciano appena di là dalla soglia.
Non le sorvolerai come un uccello.
Devi fermarti a guardare sempre più in profondità
finché non riuscirai a distogliere l’anima dal fondo.
Là nessun verde sazierà la vista,
e gli occhi prigionieri non si libereranno.
Credevi che la vita ti nascondesse a quella Vita
chinata sugli abissi.
Ma da questa corrente – sappi – non c’è ritorno.
Avvolto dalla misteriosa bellezza dell’eternità!
Durare e durare. Non interrompere la fuga
delle ombre, durare solamente
in modo sempre più chiaro e più semplice.
Intanto sempre indietreggi davanti a Qualcuno che viene di là
chiudendo piano dietro a sé la porta della piccola stanza
e venendo smorza il passo
– e col silenzio colpisce quello che è più profondo.
*
Ecco l’amico. Sempre ritorni con la mente
a quel mattino invernale.
da tanti anni ormai credevi, sapevi certamente
ma lo stupore non ti può lasciare.
Chino sopra la lampada, nel fascio di luce unita in alto,
senza alzare il viso perché sarebbe inutile –
ormai non sai se è là, là visto di lontano,
oppure qui, nel profondo degli occhi chiusi –
È là. Mentre qui non c’è soltanto tremore,
soltanto le parole del nulla ritrovate –
ah, ti rimane ancora un briciolo di questo stupore
che sarà tutto il contenuto dell’eternità.
*
Non così si presenta la forza vitale della luce.
Quando il mare rapidamente ti nasconde
e ti scioglie in abissi silenziosi
– la luce strappa bagliori verticali alle onde languide
e il mare piano finisce, affluisce un chiarore.
E allora, in ogni direzione, negli specchi lontani e vicini,
vedi la tua ombra.
Come ti nasconderai in questa Luce?
Sei troppo poco trasparente
e il chiarore alita dappertutto.
In quell’istante – guarda dentro di te. Ecco l’Amico
che è solo una scintilla, eppure è tutt’intera la Luce.
Accogliendo dentro di te quella scintilla
non scorgi altro,
e non senti di quale Amore sei avvolto.
*
Il Signore, quando attecchisce nell’intimo è come un fiore
assetato di caldo sole.
Vieni, dunque, o luce, dalle profondità dell’inesplicabile giorno.
e pósati sulla mia riva.
Ardi, non troppo vicino al cielo
e non troppo lontano.
Ricordati, cuore, di quello sguardo
in cui ti attende tutta l’eternità.
Chìnati, cuore, chìnati, sulla riva,
annebbiata nella profondità degli occhi,
sul fiore inaccessibile,
su una delle rose.
*
Io stacco piano la luce dalle parole
e raduno i pensieri come un gregge di ombre
e lentamente in tutto immetto il nulla
che attende l’alba della creazione.
Lo faccio per creare uno spazio
alle Tue mani tese
lo faccio per avvicinare
l’eternità in cui Tu possa alitare…
Inappagato dall’unico giorno della creazione
io bramo un nulla crescente,
perché il mio cuore sia disposto al soffio
del Tuo Amore.
*
V’era Dio, in cuore, v’era l’universo,
ma l’universo si oscurava
e diveniva, piano, canto del Suo intelletto,
diveniva la stella più bassa.
O maestri dell’Ellade, vi narro un grande miracolo:
non importa vegliare sull’Essere che scorre via tra le dita,
c’è la Bellezza reale,
celata sotto il Sangue vivo.
Il frammento di pane più reale dell’universo
più colmo d’Essere, colmo del Verbo
– il canto che sommerge come un mare
– il vortice di sole
– l’esilio di Dio.
*
Il Tuo sguardo fisso sull’anima, come il sole verso la foglia s’inclina,
ne arricchisce il fiorire con la profonda, trasparente bontà,
l’accoglie nel suo raggio
– ma Tu, Maestro, guarda:
che accadrà della foglia e del sole? – la sera si avvicina.
*
L’anima non è una foglia.
E su di sé può trattenere il sole
e insieme a lui discendere
in un arco inscindibile, al tramonto.
E laggiù lo raggiunge e rimane,
partecipando al solare declino,
e quando ancora procede il cammino,
in una lunga ombra a lui si salda –
Non spezza l’orizzonte,
nell’ansia di giorni lontani,
– ma solo sta alla porta e bussa.
Ed ecco, ha giù raggiunto tutto:
ecco, ogni giorno le riporta il sole
nel cerchio visibile.
*
È in me l’acqua profonda trasparente,
ai miei occhi velata di nebbia –
quando, come un torrente, io corro troppo in fretta,
non sono degno che quel fondo così abissale.
Là, ogni giorno, il mio Signore viene e resta –
scia di sangue quando s’immerge nella neve –
– e vi è reciproco riconoscimento
e alita una reciproca abbondanza.
Se, allora, qualcuno sapesse togliere
dalle profondità trasparenti la nebbia,
si vedrebbe – in quale miseria,
si vedrebbe – in chi –
e si vedrebbe – quale chiarore
inonda la profondità oscurata,
si vedrebbe – nel cuore umano,
nel più semplice dei soli.
*
O Signore, perdona al mio pensiero che non Ti ama ancora abbastanza,
perdona al mio amore, Signore, ch’è sì terribilmente incatenato al pensiero
che Ti sperde in pensieri freddi come la corrente
e non avvolge in brucianti falò.
Ah, accogli, Signore, l’ammirazione che mi zampilla dal cuore
come zampilla un ruscello dalla fonte –
– il segno che di lì verrà la vampa –
e non respingere, Signore, neanche la tiepida ammirazione
che un giorno colmerai con una pietra ardente sulle labbra –
Non respingere, Signore, la mia ammirazione
che per Te è un nulla, perché Tu Intero sei in Te Stesso,
ma per me, ora, è tutto,
un torrente che rapisce le sue rive
prima di dire la sua nostalgia per gli oceani smisurati.
--------------------------------------------------------------------------------
[1] in: L’opera poetica completa di Karol Wojtyla, a cura di Santino Spartà,
Libreria Editrice Vaticana 2012
L'articolo “Nel profondo degli occhi chiusi”. Karol Wojtyła, poeta proviene da
Pangea.
Source - Pangea
Rivista avventuriera di cultura&idee
Debellati gli aggettivi con la corazza, quelli che piacciono alla critica – a
ciò che ne rimane, a ciò che razzola tra la cenere –: finalmente, la scoperta di
un poeta primigenio, senza lignaggio. Un poeta senza paladini né palafreni né
padrini in parata.
Un poeta, cioè, che comporta l’abbandono delle norme ortografiche, delle
grammatiche cattedratiche, di ogni forma di subdola tattica; alieno
all’abbondanza dei retori del quieto vivere e del quieto amare. Non dovrebbe
fare così un poeta: interrare il vocabolario, pio stendardo, e sfoderare l’ascia
del verbo? “Insegnaci a pregare”, implorano gli inebetiti discepoli al maestro:
Gesù sbriciola per loro le scarne parole del Pater – mai un dio è stato così
prossimo, così grano e spada, e noi fummo il suo pasto, il suo desco, il suo
desinare e il suo destino a morire di sete.
Insegnaci a parlare, dovremmo chiedere ai poeti.
Ricorda: si prega nei luoghi desolati, dove vagano, in tormento, gli spiriti
impuri, dove appaiono in Appalachia di zampe gli angeli. Non altrove si deve
scrivere.
Così, questo libro di Blu Temperini va letto insieme ai trattati di falconeria,
ai bestiari medioevali, alle carte celesti dove gli astri, con strenua pazienza,
indossano il volto del leone e del cavallo, dell’eroe e della vergine.
Questo libro – un esordio mai così antichissimo – è requie e cinghia, nuovo
culto al di là dai cultori dell’odierno lirismo. Potremmo chiamarlo – come si
diceva una volta, senza essere iniziati ad alcunché che all’obbedienza –
“ufficio delle tenebre”.
Non c’è linea di continuità, intendo, tra questo poeta – d’indecente precocia,
di sfiancata facondia – e la quadrupede tradizione dei poeti recenti, altra è la
sua biada, altitudine diaccia, propria di chi frequenta i ghiacciai, le
inimmaginabili alture.
Hanno gli artigli, il becco e le cangianti penne queste poesie.
A esasperare lo spaesamento, una lista di avi e di archivi costruiti a casaccio,
in casa, da autodidatta, piccoli idoli di legno: Sergio Solmi e Guido Ceronetti,
Giovanni Boine ed Egle Marini, Maria Maddalena de’ Pazzi, Tommaso Landolfi,
Maria Banuș, che tanto piacque ad Andrea Zanzotto. La formula, cioè, di
addobbarsi estranei al proprio tempo, di ancheggiare in un altrove di trine,
come se l’Eden, in fondo, non fosse altro che un decalogo di candele.
Nella più piena spoliazione – tolti dalla bocca gli ultimi nutrimenti, la
particola poetica che ci rende soddisfatti del ‘buon lavoro’ – Blu Temperini
reca l’estremismo di Alejandra Pizarnik, la premura oracolare di una visionaria
dell’anno mille. Poesia, cioè, come frammento mesolitico e contrafforte in
selce; turba del toro primordiale da cui estrarre il corallino per aggiornare a
luce le latebre grotte.
Lingua che ci precede, da assumere tenendo l’orecchio confitto al tronco e alla
nubile nube. Parola impareggiabile, allora, nel senso che neppure il poeta –
scriba senza arte di concia – sa dire da dove quel dire provenga, da quale piaga
o plaga.
Da qui, l’ostinato cicaleccio dei morti, l’orma bivalve del verbo penitente, i
celesti fatti paglia. Tutto un sistema divinatorio per costringere le stelle,
ancora, a brucare nella brocca delle nostre mani, a bruciarci. Il resoconto di
questa ecchimosi: poesia.
Che a Torino – città d’elezione di Blu – sia custodita la Sindone e si celi, tra
cunicoli a forma di serpe e di capra, il Graal (o la sua ombra, è lo stesso), è
sintomatico di una scrittura che non si coagula nell’iride né nella mente, che
restituisce il sangue degli andati in statura di rosa, in sutura.
Si sarebbe tentati di sussurrare la parola sacro; semplicemente, come accade
nella poesia autentica, rarissima, si tratta del cuore Lancillotto, del cuore
cavalleggero, senza cavilli, di cui, a fine lettura, non resta che la brace, un
bronzeo da primo giorno del mondo, il santo pudore.
**
La violenza è maestosa, nel suo presente
anche il domani, prima del tempo;
e la brama si ostina laddove
non può essere disimparata,
nel filamento partecipe e
non partecipe dell’attenzione.
Il futuro è nell’oltrepassare
le cose vedute alla fine.
*
Miracolo
Da falce e creta è nutrito il tuo
corpo in questo abbraccio e
vedi solo il prestito del cuore
compiere un arco nel risveglio.
Una colomba trasvola nella stanza:
migrano da parete a parete
– vuote – le coordinate del miracolo.
*
Non più vincitori vorrebbe il cielo
Sul nome d’oggi termini la fabula,
l’opera che nell’amichevole cuore
nasconde il rifiuto ad ogni benevolenza,
tragitto di ambedue – vincitori
e vinti – per gli annali di innocenza.
Ma solo i vincitori trapassano sulla
più violenta sponda che si inclina;
di ogni vittima innamorati sono
i primi a sommare il fuoco con la frode.
Giustizia stessa si reca su uno solo
e con gli altri vagabonda.
*
Ogni ultima cosa la chiamo notizia
ed è sadico dover dire sì alla vita
che miete le sue vittime, dire sì
all’agnello distrutto nel coro,
all’insetto fratello della perdita,
ma più sadico è festeggiarne l’indolenza,
più sadico è restare attesi nell’ordinario sangue.
Tra le voci perdenti dell’effimero
nell’effimero lume del mondo
il torto è fatto, ogni ultima
cosa la chiamai vantandomi
e fui punita, puniti i miei anni.
– Umiliati! –
*
Non ho altra volontà
– dicono gli innocenti –
che ardere su due paragoni:
prima schiavi, poi trasparenza
dovunque riletta, trafugata
da ospiti tutti attesi, tutti danneggiati.
In uno scrigno di irriconoscibili
difetti d’amore è possibile trovarli,
fedeli alla doppiezza del gesto;
e se il mondo non potrà morire
sarà un innocente a vivere.
*
I tonni o della fame di forme
Non esiste l’uscita materna,
tutto è contorta fluttuazione;
nessuna immagine e nessun
disegno, tutto è somigliante
nel branco e non ha difetto.
Poi l’artificio pesante dell’azzurro
accomuna la fame di forme.
*
La serpe o della degradazione
Forse prima celebrava messe
col capo sollevato ed era attrezzo
di individuo contrariato dallo spirito,
sola tolleranza che esibiva il sangue.
Ora intransigente si inchina
a questa sospensione e si
arricchisce dell’ombra sua
come di ogni oggetto spezzato.
*
Gli uccelli o dell’esilio
Gli uccelli abitano alte impressioni
e nel tornare alla fonte si contorcono:
la terra brucia per quelli che volano.
Sotterrano con l’unica lastra
di sguardi ogni rivalsa:
nel cielo una radice sfigurata,
la prova di un altro mondo che ripugna.
*
Da Elemento (Uno studio)
(VII)
Nella caccia segnali di rupe,
le terre già improntate:
lusinghe, bestiame.
Il cacciatore, la ricerca
e l’estinzione gettata in questi obblighi:
operazione, opere di rinuncia.
Le carni fedeli al carnefice,
i sensi alla vittima:
un prodigio i doppi umori.
*
(XIV)
Dove è passata la terra
fu niente l’immagine, il suono;
fu il lavorio delle cose interminabili,
dei mattini impietositi.
Da nulla è lasciato intendere
quale sole, quale tempo inganna
e sulle tavole non le scritture, i gesti.
Blu Temperini
*I testi, pubblicati per gentile concessione, sono tratti da: Blu Temperini,
“Nel principio infondato”, Crocetti, 2025
**In copertina: Frida Kahlo, “Il cervo ferito”, 1946
L'articolo “Ufficio delle tenebre”. Intorno a un libro di Blu Temperini proviene
da Pangea.
Non era tornato a casa. I compagni di plotone non lo avevano trovato. Nemmeno le
squadre di cercatori inviate a Hulluch, nell’Alta Francia, riportarono notizie
certe su di lui. Disperso tra le ceneri della battaglia in qualche fossa comune,
il suo nome arrivò in tondo su un telegramma che i genitori, in Inghilterra,
lessero in lacrime. Il biglietto avvisava la dipartita del capitano Charles
Hamilton Sorley, colpito in testa da un cecchino durante i combattimenti a Loos,
nell’ottobre 1915. Ucciso all’istante, il loro ragazzo se ne era andato con la
promessa del congedo previsto di lì a qualche mese. Aveva appena vent’anni.
Così la sua scomparsa si univa alla fine di un’intera generazione di giovani
vittime in un massacro senza precedenti. Difatti, era da secoli che l’antica
menzogna del «dolce morire per la patria» – il dictum latino trapiantato nel
suolo d’Albione – aveva preparato schiere di figli devoti, mossi all’azione dai
valori dei padri ed allevati nel grembo delle public schools, da immolare al
momento opportuno sui campi di battaglia.
Che il capitano Sorley componesse versi è una storia altrettanto amara quanto
avventurosa. Annoverato fra i sedici war poets della Prima guerra onorati sulla
lapide di Westminster, ne è il più giovane rappresentante, forse uno dei meno
noti per l’opera rimasta incompiuta, benché prolifica, addirittura sorprendente
se si considera l’età anagrafica. La sua voce singolare è attestata in una vasta
messe di componimenti – quelli d’anteguerra i migliori – che rivelano un’esperta
caratura tecnica d’impronta tradizionale, una combinazione di perfezione
stilistica nel dettato e auscultazione del ritmo interno alla strofa, sempre
attento alla rima e sostenuto dalla profonda cultura classica. La lucidità di
visione e il rigore metrico ne fanno, in definitiva, uno dei lirici più dotati
nell’eterogeneo coro di talenti che sbocciarono – per essere infine soffocati –
sotto le bombe. Tuttavia, il suo profilo tende a sfuggire ad ogni etichetta
affibbiata nel tentativo di inquadrarne la posizione verso il conflitto in un
anello di congiunzione tra filone eroico-patriottico e svolta
realistico-satirica, di per sé fallace se si considera la risposta di ciascun
autore all’evolversi degli eventi, oltre la caratteristica linea d’azione.
Per circostanze storiche indubbie, i primi poeti-combattenti volontari cantavano
la guerra in versi idealistici e patriottici, celeri a scattare al segnale della
propaganda per partecipare al “gioco” o show (come incitava la sciovinista
Jessie Pope, Who’s for the Game?) tenuto sull’impietoso palcoscenico del mondo.
Se per un guerriero di razza come l’aristocratico Julian Grenfell era facile
osannare la morte onorevole dalle «soffici ali» (Into Battle), un immaturo
Rupert Brooke – non avendo conosciuto la vita di trincea – elogiava l’impresa
virtuosa che avrebbe restituito la gloria eterna al milite sepolto in un campo
straniero (The Soldier). Contro i grandi ideali dei suoi contemporanei, Charles
Sorley – scozzese di origini e inglese per elezione – scaglia con coraggio la
sua abiura, eppure non da subito. Agli inizi della campagna, aveva nutrito anche
lui vaghe fantasie cavalleresche rispetto al pericolo della caduta, tra canti
enfatici e ingenuità romantiche: «Ricoprite di gioia il letto della terra/ E
così morite, siate felici.» (All the Hills and Vales Along).
Sorley studente a Marlborough (fila inferiore al centro) © reserved Marlborough
College
Il testo più famoso e antologizzato, distante dai toni esultanti del 1914, sarà
l’ultimo vergato al fronte, rinvenuto dai commilitoni nel suo kit, che, assieme
ad altri frammenti e abbozzi di prose, lascia ai posteri un monito potente di
fronte a ogni mistificazione della carneficina reale. Crollata l’edulcorata
visione della guerra, la poesia apre uno slargo inaspettato nel panorama
dell’epoca, un bagliore di verità nella critica al sistema bellicista
dell’Impero, messa a segno in versi crudi e irriverenti, tesi a guardare la
morte dritta negli occhi:
> “Quando vedrai milioni di morti senza parole
> Che incedono nei tuoi sogni in pallidi battaglioni,
> Non dire loro cose dolci come hanno fatto altri uomini,
> Rammenta questo. Perché non è necessario.
> Non concedere lodi. Sordi ormai, come potrebbero capire
> Che soltanto le maledizioni si addensano sopra ogni testa squartata?
> Né lacrime. I loro occhi ciechi non vedono scorrere le tue lacrime.
> Né onore. È facile morire…”
Dinanzi al culto vittoriano degli eroi, il blasone di Scozia fa sentire senza
orpelli la sua natura indocile, rinunciando alla fedeltà dogmatica verso la
corona. Fuori dalle gesta eroiche del mito, l’orrore della strage si poteva
raccontare solamente nei resti umani risucchiati dentro la waste land della
Terra di Nessuno, ovvero l’altra faccia dell’epopea. Dopo gli eccidi della
Somme, la percezione del conflitto – e di conseguenza la sua rappresentazione
letteraria, specie in poesia – non sarebbe stata più la stessa. La tragedia che
aveva sperperato il fiore della gioventù britannica sui terreni delle Fiandre si
annunciava agli occhi dei conterranei al netto di tutte le possibili distorsioni
della memoria. Secondo Siegfried Sasson, il “sicuro” mondo d’anteguerra si era
ridotto a un «inferno dove finiscono risate e ragazzi», e lo stesso Rudyard
Kipling – il figlio John caduto anch’egli a Loos – avrebbe parlato, nei
suoi Epitaphs of War (1914-18), a nome dei «giovani arrabbiati e traditi» (A
Dead Statesman) nelle loro illusioni, derubati degli anni di innocenza con un
sacrificio ingiusto.
In questo solco di condanna dei mali inferti dal conflitto, il timbro di Sorley,
col suo grido all’internazionalismo (To Germany), spicca per drammaticità e
premonizione circa la futilità dell’impresa che vanifica ogni azione umana
(Such, Such is Death), ponendosi da antesignano: una vena sovversiva precedente
alla virata antimilitarista di un Siegfried Sassoon, degli epigoni Wilfred Owen
e Isaac Rosenberg. Per questo, nella sua autobiografia Good-Bye to All That,
Robert Graves lo pianse come la perdita più dolorosa di cui avesse sofferto la
moderna poesia inglese.
La raccolta che gli diede la fama – giunta postuma e limitata alle liriche a
tema bellico –, dal titolo Marlborough & Other Poems, venne pubblicata nel 1916
per volere della famiglia ed ebbe una tiratura altissima, con varie ristampe,
nel primo dopoguerra. Nonostante ciò, colui al quale non spettò una
canonizzazione simile all’apollineo Brooke merita di essere ricordato senza armi
e divisa.
Frontespizio della raccolta Marlborough and Other Poems con un ritratto in
gessetto di Cecil Jameson
Discendente di una stirpe illustre sorta tra i fiumi Tay e Tweed, conta fra i
suoi avi eminenti Scots del calibro di William Sorley, reverendo della Chiesa di
provincia, e George Smith, uomo di lettere edimburghese rinomato per il suo
“passaggio in India”. Il padre William Ritchie Sorley è professore emerito di
filosofia all’Università di Aberdeen, le cui idee rivoluzionarie nel campo della
morale gli valgono una cattedra a Cambridge nel 1900. Da questo momento, tutta
la famiglia, d’indole eclettica e apertura cosmopolita, decide di avvicinarsi
alla venerata città universitaria.
Fin dalla tenera età, i piccoli Sorley – la sorella Jean e i due gemelli Charles
e Kenneth – vengono allevati dalla madre con una buona dose di grammatica
francese e letteratura nazionale: passi di Shakespeare, brani di Scott e canti
di Blake sono di casa. Da ragazzino, Charles divora i classici greci e tutti i
drammi elisabettiani sugli scaffali, legge le odi di Keats come un salterio e
allena l’orecchio sulle note di A. E. Housman (A Shropshire Lad, fra i suoi
libri preferiti) fino a comporre versi propri. L’istruzione migliore a cui
poteva aspirare lo vede dapprima allievo diurno alla King’s College Choir School
di Cambridge e dal 1908 nel convitto privato di Marlborough, trampolino di
lancio per le cime oxbridge. Qui viene eletto ai principali club studenteschi,
conteso tra la Debating Society e la Junior Literary Society.
Il talento precoce nella scrittura lo condurrà ben presto alle prime
pubblicazioni sulle riviste collegiali, tra cui il Marlburian. Nello stesso
tempo, si distingue fuori dalle aule per l’eccezionale talento sportivo: nella
corsa è una meteora. Sembra inoltre non badare a premi, medaglie e
riconoscimenti poetico-letterari che si succedono sul suo cammino. Umile di
carattere, fa anche fatica a riconoscere il fascino che emana crescendo. Alla
soglia della maggiore età, è diventato un ragazzo bellissimo, dalla dizione
perfetta e magnetico nei modi. Alle prese con le nuove consapevolezze, si ritrae
come un privilegiato (come per gli estratti successivi, si fa riferimento al
volume a cura di W. R. Sorley, The letters of Charles Sorley, with a chapter of
biography, Cambridge University Press, 1919):
> “Mi sento terribilmente indegno e inesperto perché la vita non mi ha dato
> difficoltà in casa né grossi problemi da risolvere, soltanto quelli possono
> rafforzare davvero un uomo…”
Si rende conto, a quell’altezza, che la vita è stata fin troppo buona con lui. E
per restituire al mondo il dono ricevuto avrebbe fatto del suo meglio in tutto.
Il nervo resistente della sua personalità, temprato sulle prediche evangeliche e
addestrato al valore della disciplina, trovava in ogni cosa una prova da
affrontare, in ogni difficoltà una sfida, come ricorderà il padre orgoglioso:
> “Voleva sempre crescere. Ogni nuova esperienza, che fosse un gioco, un libro,
> un luogo o una persona da conoscere — era per lui un’avventura; dava la sua
> opinione con entusiasmo, mentre coglieva soltanto il meglio, nient’altro
> contava. Qualunque delusione, apprensione o senso di sconfitta, per qualsiasi
> fallimento, lo teneva per sé, andando incontro alle sue imprese, soprattutto
> la più grande di tutte – nell’agosto 1914 – con un’allegra prontezza e un
> umorismo che regalavano un senso di conforto e sicurezza a tutti quelli che lo
> vedevano. ‘Ecco Charlie, sempre brillante e coraggioso,’ diceva la nostra
> vecchia padrona di casa dello Yorkshire alla fine di ogni vacanza.”
Alla luce dei successi scolastici, i versi della fase Marlborough raccontano
slanci d’ebbrezza giovanile, l’abitudine alla camaraderie contratta dalla vita
di collegio e, più di tutto, un desiderio indomabile di libertà, il bisogno di
solitudine nella natura selvaggia e incontaminata, a contatto con burrasche e
temporali. Lungo i pendii delle vicine Downs o sulle native Highlands, Charles
ama ritirarsi, come un asceta, percorrendo ampie distese a lunghi passi,
attirato dai misteri dei glen, in maratone da cui torna rigenerato:
> “Era solito fare lunghe passeggiate, come quando spariva per correre in
> maglietta e pantaloncini sulle Downs. Aveva scelto di starsene per conto suo.”
Il cognome Sorley – in gaelico sta per pellegrino o viandante – lo aveva
predestinato, imprimendo nel suo spirito il desiderio di un riparo dell’anima,
l’istinto animale a fuggire “via dalla pazza folla”. A quell’atteggiamento
romantico verso l’esistenza si sarebbe aggrappato per capire sé stesso nel
profondo del cuore, ma soprattutto per scrivere. Corsa, pioggia, vento e poesia
sono per lui un tutt’uno.
> “[…] nello Yorkshire, dove le brughiere discendono verso il mare, oppure in
> qualche luogo delle sue origini – Selkirk, Dunbar o Aberdeen; […] attraverso
> la Francia, in bici, cavalcò la costa della Normandia e le sponde della Senna.
> Una volta, in un pomeriggio di tempesta, dopo aver percorso a fatica una
> scarpata, sul punto di attraversare le colline, ci imbattemmo improvvisamente
> in un campo coperto da grandi selci bianche. Ma Charlie, che in genere
> rispondeva prontamente, non disse una parola; fissava il campo come se ci
> vedesse scritto qualcosa.”
Più tardi, il talento di famiglia viene ammesso a Oxford con una borsa di studio
e grazie all’intervento paterno gli è concessa l’interruzione prematura degli
studi. Al giovane spettava la gioia di un Grand Tour, o almeno una breve
esperienza formativa all’estero, prima di precipitarsi nel mondo dei college.
Non perde tempo e all’inizio del 1914 è a Jena per frequentare i corsi di
filologia all’università locale. Dopo un tour mitteleuropeo, si cala appieno
nella vita della città. La lingua gli dà la fame della scoperta, trasmettendogli
la ricchezza di una cultura che non smetterà mai di affascinarlo. In questo
periodo, la visita del fratello e dei genitori, che coinvolge in passeggiate
campestri e giri turistici, viene a ricordargli il calore della patria, a
rinsaldare il rapporto sincero custodito per lettera. Una sera, in cima a un
colle, guarda insieme a loro una Jena luccicante sotto il crepuscolo, e in
quell’istante si sente al sicuro.
Basterà la notizia della dichiarazione di guerra a richiamarlo al di là della
Manica dopo una rocambolesca giornata di carcere a Treviri (nel frattempo Russia
e Germania sono diventate nemiche). Non appena tocca terra, firma convinto le
liste di coscrizione. L’invasione tedesca del Belgio è una mossa troppo
oltraggiosa per resistere alla tentazione. Arruolato come secondo tenente nei
reparti del Suffolk Regiment, viene da qui mobilitato in fretta sul Fronte
occidentale, a marcia indietro sul continente.
A sostenerlo durante l’addestramento militare sarà l’amicizia fraterna di Arthur
Watts (soldato del battaglione alleato ed ex lettore di inglese a Jena), più
dolce dei vecchi legami camerateschi, che riaccende in lui l’amore dei miti
greci. Uniti da comuni interessi letterari, i loro scambi epistolari celano, in
sordina, intense vibrazioni romantiche, scintille di intimità che tentano di
ricucire la distanza sulla scia dell’epica. Tra le righe cifrate in greco e
tedesco, come un appassionato codice segreto, un adorante Charles trasfigura il
compagno nei panni di Ulisse per sentirlo più vicino:
> “Dammi l’Odissea e restituirò il Nuovo Testamento. Indicami la strada, sia
> fisica che spirituale. Solo qualche volta l’orribile visione di pane e burro
> viene ad eclissare il mio sogno; […] In questi sogni mi appari come il
> sergente-pioniere. Forse sei tu l’Odisseo, mentre io non sono altro che uno di
> quei fedeli ἑταῖροι [compagni]… Ma comunque sia, le nostre vite saranno
> πολύπλαγκτοι [agitate dal Fato]. E noi verremo sepolti dal mare – […]
> Dall’inizio di questa lettera, sento un certo profumo di romanticismo durante
> la ronda notturna.”
Mentre si scrivono, i due amici separati dalla guerra guardano lo stesso cielo
inondato di malinconia, l’uno al lume di un fiammifero, l’altro proiettato verso
le stelle:
> “Tu, al telescopio, vedi la strada verso la stella nella sua vastità, senza
> l’ingombro degli atomi che soffiano negli occhi e riempiono i nostri pori di
> linfa vitale – metà strada verso quella stella – ad ogni curva. […] E così
> fino al nostro prossimo incontro!”
Negli ultimi mesi in trincea, Sorley non ha perso il suo umorismo né la
nostalgia degli affetti. Ciò che lo tiene sveglio di notte è il pensiero di aver
dimenticato a casa la sua copia di Omero – come detta il frammento Non ho
portato la mia Odissea con me sul mare [XXXVI] – e il desiderio di una colazione
rigorosamente inglese.
Irrequieto e in preda all’attesa spasmodica nelle retrovie, ha il tempo di
scrivere ai propri cari che la firma della pace sembra «un brutto scherzo» sulla
bocca di tutti. Il suo addio alle armi, del resto, lo ha già annotato nel
taccuino impolverato che porta in tasca. Esegue quindi l’ultimo comando, butta
giù una lettera per Arthur e a qualche giorno dall’azione saluta l’Inghilterra
con Auf Wiedersehen.
*
Per riscoprire la penna di Charles Sorley, si propone qui di seguito una
selezione di testi inediti e rappresentativi della sua opera poetica, tratti
ciascuno da una sezione della raccolta Marlborough e altre poesie:
Il canto dei corridori spogli
Agitiamo i fianchi discinti
Con la luce negli occhi,
La pioggia ci cade sulle labbra,
Non corriamo per vincere.
Non sappiamo di chi fidarci,
Ma non torniamo indietro,
Perché è nostro dovere correre
Attraverso l’immensità dell’aria.
Le acque dei mari
Si agitano come in tempesta.
La tempesta spezza gli alberi
E non li lascia al caldo.
Eppure, si ferma forse la lacerante tempesta?
Si chiedono perché le cime degli alberi?
Così, noi corriamo senza una ragione
Sotto la grandezza del cielo terso.
La pioggia ci cade sulle labbra,
Non corriamo per vincere.
La tempesta frusta l’acqua
E l’onda ulula ai cieli.
S’alzano i venti, che la colpiscono
E la infrangono come sabbia,
E noi corriamo perché ci dà piacere
Lungo la radiosa vastità della terra.
*
Pioggia (estratto)
C’è qualcosa nella pioggia
Che mi invita a rimanere:
C’è qualcosa nel vento
Che mi sussurra “Lasciati alle spalle
Questa terra di tempi e regole,
Terra di campane e lezioni mattutine.
Il latino, il greco e il cibo del collegio
Non ti servono a molto.
Lasciali: se vuoi essere libero
Seguimi, seguimi, vieni con me!”
Quando raggiungo i quattro chilometri,
Per guardare di nuovo là fuori
Sui cieli bianco opaco
E il velo di pioggia alla deriva,
E il mucchio di siepi sparse
Che ondeggia debole sul dirupo,
E l’infinita distesa di colline
Ricoperte di vesti verdi e d’argento;
C’è qualcosa nella loro foggia
Di desolante e sterile bruttezza,
Che mi sussurra “Hai letto
di una terra di luce e gloria:
Ma non credere a ciò che dicono.
È un regno tetro e desolato,
Dove i venti e le tempeste ti chiamano
E la pioggia spazza via ogni cosa.
Non dar retta ai predicatori
Che parlano di una terra dolce e remota.
Qui c’è una terra migliore e più gentile
E non si trova lontano”.
*
Due sonetti (Parte I)
I santi hanno adorato la nobiltà della tua anima.
I poeti sono diventati pallidi davanti alla tua gloria.
Noi siamo tra i milioni di anime che in ogni ora
Attendono di percorrere il tuo cammino.
Tu, così familiare, un tempo diverso: abbiamo tentato
Di vivere senza pensare alla tua presenza.
Ma in ogni strada, da ogni parte, adesso
Vediamo la tua insegna dritta e ferma.
La immagino come quel cartello nella mia terra,
Alto e canuto, che mi indicava di andare
In alto, sulle colline, a destra,
Dove nuotano le nebbie e i venti urlano e soffiano,
Una terra senza casa e senza amici, ma pur sempre
Una terra ignota che desideravo conoscere.
*
Smarrito
Sulle fantasie del mio passato
È calata una cecità grave e silente.
Adesso il mio sguardo si volge ad altre cose,
Non quelle che un tempo vide e conobbe.
Non posso pensare a quelle terre a me care
(O laggiù, i tempi andati!)
Dove il vecchio cartello malconcio resta in piedi
E le quattro strade vanno in silenzio
Verso est, ovest, sud e nord,
Dove spirano i freddi venti invernali.
E cosa porterà con sé la sera
Non spetta a me né a voi saperlo.
*Il servizio e la traduzione dei testi sono di Pierluigi Piscopo
Riferimenti bibliografici:
– C. H. Sorley, Marlborough: and other poems, a cura di W. R. Sorley, Cambridge
University Press, Cambridge 1916.
– C. H. Sorley, Collected Poems, a cura di J. Moorcroft Wilson, Cecil Woolf,
London 1985.
– J. Moorcroft Wilson, Charles Hamilton Sorley: A Biography, Cecil Woolf, London
1985.
– W. R. Sorley, a cura di, The letters of Charles Sorley, with a chapter of
biography, Cambridge University Press, Cambridge 1919.
– J. Moorcroft Wilson, a cura di, The Collected Letters of Charles Hamilton
Sorley, Cecil Woolf, London 1990.
– N. McPherson, It Is Easy to Be Dead, Oberon Books, 2016.
*In copertina: Charles Hamilton Sorley, fotografo sconosciuto, circa 1914.
L'articolo “Quando vedrai milioni di morti senza parole…” Vita & poesia di
Charles Hamilton Sorley proviene da Pangea.
Il 9 luglio del 2025 Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound, compie cento
anni. Un po’ Sfinge, un po’ menhir è lì, memoria stilita, memoria petroglifo, a
sigillare lo stigma del padre. Mary, col suo dire fermo, pieno di meli e di
vespe, pare un monito. Il padre, ‘Ez’, il poeta che si è fatto carico – come
profeta, maestro, pioniere, lottatore – del Novecento (e forse della ‘fine’
della letteratura per come l’abbiamo conosciuta, sfinendola), è nato
nell’ottobre del 1885; quarant’anni fa Mary pubblicava la ‘sua’ prima edizione
dei “Cantos” nei ‘Meridiani’ Mondadori. L’introduzione – in impeccabile
‘distanza’ – attaccava così: “The Cantos: poema scritto in pubblico, ma anche
poesia chiusa. Dai trovatori Pound ha imparato a coprire le proprie tracce. E
più i giri si volgono verso il centro di sé e della sua tribù, più si imbozzola.
Ma per chi riesce a rompere il guscio è un entrare nella ‘ghianda di luce’, un
reggere ‘la sfera di cristallo’”. Un poema che riassuma azione e divinazione,
tenacia e teurgia, storia e mito, assiduità e assurdo. Che impresa vertiginosa.
I giorni di Mary paiono consustanziali a quelli del padre: qualcosa che ha a che
vedere con il patto. Investita del compito di penetrare i “Cantos”, la ragazza
ha tremato, tumultuoso il sì, consapevole che ogni investitura è crocefissione.
Pound ha unito in sé Provenza e Giappone, Usa e Cina, eppure, di biblica essenza
è tale paternità.
Ad ogni modo. Qui si ricalca il reportage di un viaggio compiuto a Brunnenburg,
alla corte di Mary: fu stampato, in origine, tempo fa, sul “Giornale”. Mantiene
una sua stremata ‘autenticità’. L’ultima volta, ho sentito Mary lo scorso anno:
parlammo di Pound e del Giappone, del desiderio di tradurre i suoi drammi No;
lei, la ragazza, citava Aristotele – cento anni sono un soffio per chi levita
sui millenni.
**
La fine è una luna enorme, davanti all’autostrada, simile al calcagno di Dio.
Rimini-Brunnenburg andata e ritorno. In un giorno. Agosto luciferino. Oltre
novecento chilometri. Abbiamo sorbito il tè con la Storia della letteratura.
Tanto basta.
Accompagno Walter Raffaelli nel forte dei principi de Rachewiltz, appena sotto
Castel Tirolo, dove abita Mary, la figlia di Ezra Pound. Dopo Vanni Schewiller,
Raffaelli è l’editore poundiano per antonomasia: ha pubblicato testi di Ezra, le
poesie di Mary e della figlia Patrizia, i libri del marito di Mary, l’egittologo
Boris. Il castello dei de Rachewiltz è arpionato alla roccia come un urlo. La
strada per arrivare è ripida, intitolata – vivaddio – a Pound. Pochi elementi,
però, entrando nella dimora, arcigna, ricordano il poeta. Un manifesto racconta
un ciclo estivo di concerti; l’ingresso è per il Museo agricolo. Da un’aiuola
sbuca la faccia di Pound scolpita da Gaudier-Brzeska. Al castello sono ospiti
dei musicisti: nastri sonori avvolgono chi entra. Mary sbuca all’improvviso da
una porta laterale. Minuta ed energica, classe 1925, un sorriso ampio come un
balcone di gerani e quegli occhi, azzurri e spogli, che pietrificano i ricordi.
Ci conduce per una scala a chiocciola. Sulle pareti, schizzi vorticisti tratti
da “Blast”, la rivista creata da Pound insieme a Wyndham Lewis. Più tardi
sorbiremo il tè su una teca di vetro. Sotto le tazze, piccolissimi monili egizi,
occhi, orecchini, pettini, divinità enigmatiche, che adornavano tombe di tremila
anni fa.
«Vuole accomodarsi sulla sedia di William Butler Yeats o su quella di Ezra
Pound?». Un senso d’inferiorità rende le mie ossa acciaio. Per il momento resto
in piedi. Da una parte c’è il ritratto di Pound fatto da Rolando Monti: il
poeta, davanti al mare ligure, cammina in avanti, bruscamente, con la mano
sinistra in tasca, ma guarda, severo, indietro. Sotto, libri di Pound in tutte
le lingue del pianeta. Una parte della libreria è dedicata alle pubblicazioni di
Pound in italiano. Dalla stanza, un bunker in cui si è frenato il tempo, la
vista sulla valle di Tirolo è vertiginosa. «A mio padre non piacevano le case né
i nidi», mi dice la figlia, che alternativamente chiama Pound «Pound» o «mio
padre». «Secondo lui le case erano inutili. Un uomo, diceva, non ha bisogno di
case, ma di due valigie. Una per i vestiti. L’altra per i libri». La cassa dei
libri di Pound, in legno, c’è anche quella, griffata «Ezra Pound, Rapallo». Su
una parete, il calco dei visi del poeta e di Olga Rudge, l’amata, la madre di
Mary. Su un tavolo, la copia dell’Ulisse di James Joyce dedicata a Pound.
Insieme a Mary, ci accompagna nella discussione la figlia Patrizia. Più tardi,
all’uscita, incrocio l’altro figlio, Siegfried, che cavalca la bicicletta manco
fosse uno stallone. «Pound qui non stava bene», dice, sibilando, Mary.
Dopo dodici anni di reclusione nel manicomio criminale di St. Elizabeths,
Washington D.C., nell’estate del 1958, Pound attracca in Italia, a bordo della
“Cristoforo Colombo”. Va a stare da Mary e da Boris, nel castello tirolese,
vasta solitudine di campi verdi, rocce in picchiata, gelo. «Mio padre è e resta
un americano: aveva bisogno di spazio. Qui sentiva freddo. Questi luoghi gli
trasmettevano una certa angustia intellettuale. Cominciò a fare il processo a se
stesso, visto che non fu mai processato. Si accusava, si interrogava se avesse
sbagliato tutto… La gente non può immaginare, ma per sopravvivere nel campo di
prigionia a Pisa, prima, e poi al St. Elizabeths, Pound ha dovuto concentrarsi
totalmente sul suo lavoro. Altrimenti, sarebbe impazzito». Quelli del ritorno
sono anni durissimi per il poeta.
> «Non riconosce più l’Italia che ha lasciato anni prima. Gli crolla
> letteralmente il mondo addosso. La morte di Ernest Hemingway e di Hilda
> Doolittle nel 1961, quella di E.E. Cummings nel 1962, di William Carlos
> Williams nel 1963, di Thomas S. Eliot nel 1965… Pound vede morire tutti i suoi
> amici, vede disintegrarsi un’epoca».
Mentre Mary parla appaiono e scompaiono nella stanza i volti di quegli uomini
che hanno cambiato la letteratura occidentale. Di fianco a Mary si spalanca una
nicchia con la biblioteca consultata da Pound. Mi accompagna. I libri sono
coperti da una carta trasparente. Estrae alcuni volumi, una storia della Cina
antica, in francese. «Nel 1940 Pound pubblica i Cantos LII-LXXI, quelli relativi
all’epica cinese e agli scritti di John Adams. Vede, Pound a Rapallo, in quegli
anni, non faceva il fascista, studiava…». Che fine ha fatto quel mondo, gli
Eliot, i Joyce, gli Hemingway, quella energia? Oggi la cultura è mercanteggio di
sciocchezze. «Cosa la stupisce? Dopo l’epoca di Dante sono dovuti passare secoli
per avere un Leopardi!». Risposta rotonda. «E poi, io non voglio uscire da
questa stanza, sono nel pieno di quell’era, di quegli istanti, lo capisce?». Lo
capisco, certo. Anch’io vorrei annegare qui.
Ezra e Mary
Quest’anno, un ennesimo anniversario poundiano. Il rammarico di Mary si
percepisce, vivo come un fuoco, sotto pelle. «Spererei che Mondadori pubblicasse
un’edizione economica dei Cantos, per rendere più accessibile l’opera di Pound».
Invece niente. «Il problema è che per non incorrere nelle accuse di fascismo
bisogna sempre mascherare Pound con un involucro sufficientemente grande. Magari
parlarne con altri autori, in contesti più ampi». Quando Mary se ne esce,
«vorrei fondare una Repubblica poundiana!», ci zittiamo tutti. Parla piano, con
accuratezza. «Pretendo che qualcuno, il governo degli Stati Uniti d’America, un
gruppo di Università americane, restituisca a mio padre la personalità
giuridica. Dal 1945, quando, senza processo, fu internato al St. Elizabeths,
Pound non ha più riavuto i suoi diritti civili: e cos’è un uomo privo di
diritti?». Più che l’ira, la rassegnazione colora il viso di Mary, sulle cui
spalle grava un secolo di grande letteratura. Gli ultimi anni di Pound replicano
il silenzio – «che equivale a una dichiarazione di non-colpevolezza» – opposto
in quel 1945 alle autorità americane.
> «Negli ultimi anni mio padre non parlava con nessuno. Una fotografia lo
> ritrae, magrissimo, davanti a una rosa. Un articolo di Indro Montanelli, che
> in passato non era stato molto gentile con Pound, lo descrive a Venezia, in
> un’aula piena di persone, forse un’ambasciata, seduto, che gioca con un
> gatto».
L’articolo di Montanelli, Pound, uscì sul “Corriere della Sera” l’11 aprile del
1971. L’episodio ricordato da Mary è raccontato in questo modo dal grande
giornalista:
> «In salotto, si rimise sul divano al suo posto di esule e risprofondò nella
> sua lignea immobilità. Di vivo, c’erano solo le mani, che continuamente si
> cercano e auscultano, ma con dolcezza e senza orgasmo. Esse sembravano
> esercitare non so quale ipnotico potere su Crim, la gattina siamese di
> Liselotte che, accucciata ai suoi piedi, le fissava con le pupille dilatate da
> una folle stupefazione. Poi, scalato il sofà con un soffice balzo, cominciò a
> leccargliele. E infine vi si raccolse facendone la sua cuccia e reclamandone
> la carezza. Per un poco, Pound subì. Subì anche lo sguardo della bestiola che
> gli teneva gli occhi negli occhi, unica fra tutti noi a non sentirsene
> turbata. Poi la prese delicatamente per la collottola e la rimise accanto a
> sé. Ma Crim non si diede per vinta e ricominciò la sua morbida insinuante
> ascensione dal cuscino alle ginocchia di Pound e dalle ginocchia alle braccia,
> fra le quali si accoccolò. Tutti seguitavano a parlare, ma senza distogliere
> lo sguardo da quel muto dialogo – forse un idillio, forse un duello – fra Ezra
> e il gatto».
>
> (L’articolo è accolto in: E. Pound, È inutile che io parli. Interviste e
> incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021)
Alcuni taccuini mostrano la poesia estrema di Pound, quella dei Drafts and
Fragments. Scrittura minima, obliqua, confusa. Orfica. «Oggi finirei i Cantos in
un altro modo…».
Sono venuto fin quassù per capire questo. Dove finiscono davvero, in quella
turba di note dalla grafia oracolare, i Cantos? «Le ipotesi più veritiere sono
tre. I Cantos terminano con la frase “ma la bellezza esiste”, che non è
confluita nel poema. Oppure con “Un po’ di luce, come un barlume/ ci riconduca
allo splendore”. Infine, ed è la fine che preferisco, il capolavoro di Pound si
blocca su questo verso: let the wind speak, lascia che parli il vento». Il
poeta, a quel punto, non ha più verbo né voce: è realizzato.
*In copertina: Ezra e Homer Pound insieme a Mary
L'articolo “Ci riconduca allo splendore”. Alla ricerca di Ezra Pound. Ovvero, in
gita da Mary proviene da Pangea.
Cos’è che mi fa scrivere?, s’impone?, a me che non sono nessuno. Il mistero
s’insinua e prevale. La trance, lucida, precisa, è generativa. Ma si potrebbe
continuare all’infinito. Anche questa mia abitudine a ripetere la parola tutto.
L’ho notato, c’infilo sempre la parola tutto da qualche parte, prima o poi, e
devo negarla per evitare il condizionamento. Il tutto ha totalità di emergenza,
richiama a dire l’abbraccio grande che mi circonda, perché dev’essere grande, in
grado di comprendere l’uomo intero, di accoglierlo. Ma quale uomo? Quello che si
affida alla parola, all’ascolto, che non tende a dire se stesso, lui e basta.
Kafka, in un suo racconto intitolato Descrizione di una battaglia, scritto col
suo amico Max Brod, fa dire a un pazzo: “Io vivo affinché gli altri mi
guardino”. Credo che Kafka si opponesse a questo. Non giudica, è attratto
dall’estremo, è sorpreso e ne ha pietà. Egli prefigura il mondo di oggi. Farsi
notare a ogni costo. Ecco la stortura, il malanno, e senza sapere che malattia
è. Godere di quel minuto di fama che è il niente, il mio niente. L’apoteosi che
non sono. Se penso a come scriveva Ungaretti nelle trincee della Prima guerra
mondiale, piantato dentro il fango, utilizzando quello che trovava, scarti di
giornali, pezzi di cartone che racimolava. Quei frammenti stabilivano già il
respiro della lirica, l’impaginazione era in quel formato esile.
Possiamo dire ritagli di sangue, il corpo delle cose martoriate, mutilate,
resistere con la poesia alla paura, alla morte vicina, al fatto che domani
potrei non esserci più. Che lezione! Si scrive sul confine, nel tempo che
c’incastra e decide chi siamo. A questo punto dico: chi è Valentina Di Cesare se
non una scrittrice, e insieme una madre, una moglie, un’insegnante di Lettere
nella scuola secondaria di primo grado, e lingua italiana per gli studenti
stranieri. Non la stessa trincea di Ungaretti, certo, ma se ci penso mi vengono
i brividi. L’amore per la Letteratura, per la scrittura sono quelli, si
dichiarano nel cuore, si consumano e si esprimono lì, nascono come un figlio nel
chiuso di un abisso, e più va scurendosi il desiderio, più aumenta l’assillo di
vederlo nascere, di voler essere con lui… Più il seme si fa luce, sotterrato
nella carne, più scoppia di vita, esplode la sua natura.
Gli istrici (Caffèorchidea Edizioni, 2025) sono questo, l’ha scritto Valentina
Di Cesare. Potrebbe continuare in avanti e oltre la fine per chissà quante
pagine, in quanto trasborda e suggerisce ancora altra vita. La vitalità,
l’energia che trasmette, risiede nel suo io, un cuore che a ogni pagina si apre,
e verso cui corre come in faccia al vento, o nel solco di una strada che si
rinvigorisce e si delinea sempre di nuovo, a mano a mano che prosegue, nelle sue
vicende e nei suoi personaggi, che ne rappresentano la voce, l’io in cui abitano
e s’intessono i discorsi, i pensieri, le parole. Quattro nature, quattro
protagonisti, come le nostre stagioni, per dire quanto è grande il tempo, quanto
è grande la vita, e densa, umile, impareggiabile, spettacolare, ricca. Gli
istrici è un libro che vuole essere amato, per la sua quieta vitalità, ancora in
essere quando il romanzo è compiuto, che non pare finito allo scoccare
dell’ultima parola. Perché Gli istrici non tende a contrarsi, ad avvitarsi in
iperbolici avvitamenti, tende bensì a fiorire, a immaginare.
> “Più di una nuvola aveva confuso le stelle quella notte e i bagliori si
> vedevano appena […] Quasi che si trattasse di un accordo con la luce […]
> Iniziava di nuovo il mondo […] e gli sterrati storti […] qualche baracca
> sbieca […] tutti gli usci erano serrati”.
È l’inizio del romanzo, ma come l’ho letto io, con un’invenzione mia, arbitraria
direi, si vede dalle parentesi quadre che ho innestato dove manca il testo,
agendo in levare al fine di far procedere a salti la scrittura, che non si
deforma, non si decompone, non si sgualcisce, nonostante il mio personale
intervento, anzi, il miracolo è lì, resta unitario il dettato, per dare risalto
al pensiero, la sua natura, la forma che procede per punti nodali, quasi
inavvertiti dal lettore, per cui si può dire che il mio esperimento è riuscito:
riportare la caratura del linguaggio (significativa, intatta, unitaria) alla
luce, anche se sottratta di alcune parti. La luce, questo il sugo dell’incipit!
Così ho deciso: dimostrare il sunto di una prosa fatta di contrasti, che rimanda
alla sua complessità. L’autrice non me ne voglia.
Più avanti, a pagina 53, il passo del racconto si fa elegante, pur restando
descrittivo, ma ora nell’obiettivo di un chiaroscuro che lo distingua (stavolta
la pagina è rimasta integra):
> “Certi giorni di novembre, alcuni vicoli deserti davano l’impressione di
> essere più stretti, quando si sentiva scalpitare l’acqua dalle grondaie già di
> prima mattina, e i tronchi degli alberi sulle montagne intorno si ergevano
> come grigie lame di ferro incolonnate”.
E le cose, a pagina 77, gli ambienti, sono il correlativo oggettivo del
personaggio, particolarmente vissuti, esperienza che si compie, mistero,
passato, memoria che non svanisce, nella scoperta che si presenta col suo carico
umano di stupore.
> “Era scalza. Iniziò silenziosamente a gironzolare per la casa, andando prima
> nel bagno a piano terra, quello con la piccola finestra che l’aveva sempre
> incuriosita da fuori e poi in salotto, la stanza che Francesca teneva sempre
> chiusa. Cercandone a tentoni l’interruttore, Carla sentì già infilando la
> mano, che quella stanza era più fredda rispetto alle altre. Annusò l’aria e
> subito intese che lì non v’era l’odore delle altre camere, nonostante
> campeggiasse in mezzo al grande tavolo un contenitore di fiori secchi e foglie
> colorate che emanavano un vecchio profumo. Con le labbra semiaperte e gli
> occhi attenti, Carla visitò quella stanza dalle finestre sbarrate, mentre
> lasciava correre la piccola mano sul ripiano del mobile a muro”.
Ed ecco il tema principale del libro, che appare all’improvviso, a pagina 144.
“Sapete che per paesi come il nostro vanno bene solo le lacrime di nostalgia?”.
La solitudine. È il motivo per cui Valentina Di Cesare ha scritto il romanzo,
per esorcizzarla, penso io, per conoscerla profondamente, e così combatterla.
Il valore de Gli istrici risiede in questo corpo a corpo. Ne è valsa la pena.
Tutti i personaggi sono soli. Qui il libro resta nudo. La scrittura si avvolge
intorno alle cose per vestirle di compassione, sebbene circospetta, perché
occorre descrivere, la scrittura ha le sue regole. E poi la nudità ferisce, si
pensi al Cristo in croce, e non si vuole. C’è orgoglio, distanza, le montagne
dell’Abruzzo sono giganti impossibili. Da un lato assistiamo alla fuga,
dall’altro si afferma la resistenza degli uomini, la fedeltà a quell’isolamento,
in fondo così amato. Se c’è un destino è l’amore. L’amore cristiano, quando è
nudo e celestiale di risurrezione, non chiede di soffrire, è consapevolezza di
ciò che saremo. La dualità porta scontento. Il desiderio si abbassa fino a
terra, è simile a qualche animale che scorrazza libero. Eppure, è proprio la
natura che ricompensa, in quanto la natura predomina nel romanzo, fa impressione
vedere com’è piccolo l’uomo in quegli scenari.
Mi sono appuntato una frase (o me la sono sognata?): “Le piccole salvezze gliele
offrivano gli animali”. Piccole per pudore o per diffidenza?, mi chiedo. Il
corpo s’impone e gli sbarriamo la strada, ci dice dove andare, ma noi preferiamo
la sconfitta dei pensieri, il rimuginare sempre e ancora. Ma anche l’uomo è
natura. Noi non lo capiamo. Pensiamo che la promessa sia stata negata, invece è
ancora lì, nel fatto che siamo vivi. E se moriamo (quando moriamo!), resta un
chiodo infisso nel cuore degli altri che grida non dimenticarmi, non
dimenticare, a questo sono servito, per questo ho vissuto. Supremo atto d’amore,
sacrificio, valore umano. Dai grattacieli di Manhattan alle altitudini del
nostro Abruzzo. “Settembre, andiamo. È tempo di migrare”, recita il grande
D’Annunzio, nel 1903. Possibile?, la vita non si muove? Che scandalo è questo?
Allora la mia pena continuerà anche dopo?
Mi pare che da queste domande, da questi tormenti si sviluppano le storie
moderne dei personaggi de Gli istrici. Istrici proprio in quanto corazzati di
aculei, contro chi ci vuole cambiare. Sbuca una mezza luna per contrasto, sulla
bella copertina del libro, s’imbianca fra le punte ritorte e graffianti di una
selva oscura, terribile e respingente. Nessuno impedirà la nostra salvezza,
nonostante tutto. “Noi non possiamo mai nascere abbastanza”, dice la citazione
di E.E. Cummings ad apertura del libro. Il che vuol dire che quando una voce
viene dall’esterno, ed è vera, profonda, come il mite Doì (il giapponese
protagonista di un capitolo, che decide di stabilirsi in quelle terre), allora
qualcosa si realizza anche in noi. Il nostro libro è scritto, è umano come un
essere vivente.
Vincenzo Gambardella
L'articolo Il libro come essere vivente. Su “Gli istrici”, un romanzo di
Valentina Di Cesare proviene da Pangea.
Usava una parola molto più possente. Per dire ciò che noi intendiamo, indotti
dagli intellettuali modaioli, con fake news, lui diceva «controverità» – e
occorre aggiungere che quest’uomo dal nome di un brigante variopinto, con gli
occhiali tondi e il sorriso laccato, aveva già capito tutto ottant’anni fa o
quasi. L’immagine è questa. Siamo nel 1941 e il tizio, prima per impegno
contratto con il ministero dell’Informazione del governo di Vichy, poi da casa
sua, per i fatti suoi, ha le cuffie e ascolta le voci. Si è costruito un
apparecchio radio, e lui è lì, specie di sentinella che smista i linguaggi, a
spiare cosa si dice a Tokyo, a Istanbul, a Mosca, a Londra, a New York. Tutto il
mondo ronza nelle sue orecchie. E lui, registra. In un capoverso che pare il
sunto di un romanzo di H.P. Lovecraft, racconta così ciò che ascolta, la notte,
mentre Morfeo disintegra Parigi:
> «Nel corso del mio tête-à-tête con le radio del mondo, mi capita di provare la
> sensazione, come per via medianica, di un contatto con i temibili esseri
> psichici che assediano il pianeta, ossessionano l’umanità, cercano interi
> popoli di menti da soggiogare, divorare, saharizzare… Al di là delle parole,
> percepisco le grida dei carnivori della mente in cerca del pasto».
Armand Robin, classe 1912, ultimo di otto figli, si vantava di essere nato in
«una famiglia contadina scarsamente alfabetizzata»: nel 1931 comincia a studiare
il russo e il polacco, s’impantana nei linguaggi e in quel labirinto si perde,
«è destinato a diventare un vero e proprio poliglotta, arrivando ad usare,
quando non parlare e scrivere, una ventina di lingue e dialetti». Traduttore
inossidabile, di Goethe, Shakespeare, Pessoa, Khayyam, Majakovskij e Lope de
Vega, il suo talento è riconosciuto anche da Ungaretti:
> «le mie poesie tradotte da Robin sono io più Robin. Mi ha colto alla radice.
> Sotto terra c’è una seconda fioritura».
Robin ha il radar del linguaggio, è una specie di Isaia che profetizza, nel
niente contemporaneo, in tutte le lingue del mondo. Sa, pure, che il linguaggio
è spietato e chiede tutto. A lui sottrae il talento creativo. In un aforisma di
violenta nitidezza, Robin si definisce
> «poeta senz’opera, eliminato dalla sua stessa poesia, suicida canto per canto,
> una gola strozzata da parole troppo esigenti».
Ma torniamo in quella stanza radiofonica, dove Robin ascolta le voci degli
altri.
Lì, nel suo bunker privato, uno shuttle gettato nel cuore della Storia – «Non
vivevo che visitato da lamenti, preso di mira dai pianti di ogni Paese» – Robin
esplicita l’essenza delle fake news. Tutto comincia, però, con il fatidico
viaggio in Russia, nel 1933, in estasi comunista. Prima di tutti, sul campo,
Robin capisce cos’è l’Unione Sovietica: «Quanto hai visto fu un incubo, un mondo
in cui ogni senso della dignità umana è morto, perseguitato». Nel 1940 incontra
Pierre Drieu La Rochelle e collabora con Vichy come «ascoltatore di voci» via
radio. L’esito di questi ascolti, che proseguono per oltre un decennio, sfocia
in un libro indefinibile e magnetico, La fausse parole, pubblicato dalla
Éditions de Minuit nel 1953 e proposto, insieme ad altri scritti, da Giometti &
Antonello, nel 2018, come L’indesiderabile. La falsa parola e altri scritti (a
cura di Antonio Malinverno). In un paragrafo, Al di là di menzogna e verità.
Mosca alla radio, Robin spiega la dinamica della fake new, della «controverità»,
che durante l’era stalinista giunge a vertici deliranti. Proclamare
reiteratamente che il mondo in cui si vive, anche se fa schifo, è il più bello
possibile, ha per scopo l’annientamento della realtà. Obbiettivo di ogni regime
– anzi, di ogni politica –, risolto da Stalin con sublime audacia.
> «In breve, è come se la realtà non esistesse, o almeno come se il vero scopo a
> cui si mira fosse di correggere l’umanità dalla sua indesiderabile propensione
> a constatare che quanto esiste, esiste davvero… Per quanta immaginazione si
> abbia, è difficile concepire un modo migliore per far sentire agli uomini che
> la loro coscienza non ha più nessuna ragion d’essere, che è ormai soltanto una
> grottesca vestige. Si tratta della liquidazione dell’umano intendere.
> Nonostante sia la prima volta nella storia dell’umanità che una simile impresa
> viene tentata con tanta suprema abilità, essa porta lo stesso nome da secoli:
> è l’assalto di Lucifero contro l’uomo».
Robin, l’uomo che disinnescò il sistema della propaganda, lavorava con Vichy e
passava le notizie ai giornali clandestini: sorvegliato dalla Gestapo,
malsopportato dagli intellettuali di sinistra – rappresentati da Eluard e
Aragon, su cui piombavano i devastanti fulmini di Robin: «La nostra letteratura
è stata disonorata da quella miserabile farsa chiamata per antifrasi poesia
della Resistenza (quale poesia? Quale resistenza?)… Si sono visti i cantori
della libertà presiedere i tribunali dell’inquisizione, i distruttori di
prigioni reclamare la moltiplicazione delle prigioni». Dopo la guerra, fu
inserito nella lista nera dei collaborazionisti. Non se ne curò. S’iscrisse alla
Fédération Anarchiste per puro spirito, si diede a epici vagabondaggi in
motocicletta, tradusse Boris Pasternak, verso cui riservava un’ammirazione
assoluta («è l’individuo in quanto tale assolutamente inscalfito dal
comunismo»).
Morì nel 1961, sopraffatto dai debiti, «per cause mai accertate», dopo essere
stato condotto a forza al commissariato di quartiere, Parigi. Era il 28 marzo,
faceva a cazzotti in un caffè, forse; «in seguito al rifiuto dell’eredità da
parte della famiglia, tutti i beni di Robin sono finiti nella discarica
pubblica. Solo tre valigie di manoscritti raccolti in dieci minuti vengono
salvate in extremis».
Così, come un errore grammaticale, svanì un uomo fantomatico, di traslucida
veggenza – di sé disse: «attraversando tutti i paesi fui trasparente. Non ho
riconosciuto frontiere». Il regime irrigidisce la grammatica, preda il
linguaggio, lo conquista e da lì imprigiona l’uomo – questo ci ha insegnato
Robin.
*In copertina: una immagine tratta da “Le vite degli altri”, film di Florian
Henckel von Donnersmarck del 2006
L'articolo “È l’assalto di Lucifero contro il mondo”. Armand Robin, l’uomo che
ascoltava le voci e svelò il metodo delle “fake news” proviene da Pangea.
Quanto mi piacciono i libri dai quali esco sapendone qualcosa in più rispetto a
quando ci ero entrato! Volevo fosse il caso dello spillato di Federico Fubini,
omaggiato dal “Corriere della Sera” del trenta giugno. Titolo: Dazi.
Sottotitolo: Il secolo della guerra economica. In copertina: guantone a stelle
strisce contro guantone a stelle europee, perché l’immaginario italo-americano
resta affezionato allo Stallone di Balboa, e nel sottopancia un istogramma in
dissolvenza, come fossero grattacieli lynchiani.
In effetti i guantoni, il sinistro sulla destra che cozza col destro sulla
sinistra, potrebbero essere dello stesso pugile, per cui il dubbio: è una guerra
autolesionista, e schizoide, se non proprio l’ennesimo show per un pubblico
pagante pago di vedere gli altri darsi apparenti botte da orbi, in pieno stile
wrestler, restando cieco di fronte all’evidenza che a finire pestato più di
tutti resterà lui, pubblico spettatore, e non certo i proprietari dell’arena, i
fornitori, i preparatori atletici, i lottatori in scena, gli sponsor
dell’evento, le emittenze varie e eventuali?
L’estenuante guerra vinta dai ricchi che continuano a dichiararne, terrorizzati
come sono dall’idea di esserlo meno. Guerre combattute dai poveri, magari lo
fossero solo di spirito, contro i poveri di volta in volta convinti di averlo
finalmente trovato il ricco che renderà ricco anche loro, alla faccia di chi
povero lo resterà anche stavolta perché avrà puntato sul ricco sbagliato,
neanche l’errore madornale non fosse continuare a stare nello stesso gioco della
guerra su cui si fonda la straricchezza di quei ricchi che sanno arruolare i
poveri con la sola promessa di ricchezza, guadagnandoci pure, arricchendosi
assecondando la propria natura, del resto i poveri non stanno tanto a
sottilizzare tra una povertà e una ancora peggiore. Almeno per un po’ si saranno
illusi di qualcosa, un altro niente di fatto è pur sempre meglio del solito
niente di prima.
Metti il dazio, togli il dazio, questo dazio qua spostalo là e quello là mettilo
qua, la politica doganale trumpiana è esilarante, è il gioco degli “assetti del
potere” che sta creando “ostacoli al commercio internazionale” facendo
barcollare nella sola Europa “trenta milioni di posti di lavoro”, ciò non toglie
non serva un Dario Fo per metterla in opera buffa: sembra proprio di stare nella
favola dell’imperatore che brontola nell’attesa di quel bimbo che lo punterà a
dito per dirgli quant’è nudo, stufo – l’imperatore – di dover continuare a
andare in giro chiappe all’arie rischiando di buscarsi polmoniti, alla sua età!,
attorniato da comprimari il cui massimo sforzo critico è civettare
un Presidente, ma quanto le dona la calzamaglia color carne!
Che lo scenario economico e quindi geopolitico mondiale sia favoloso lo scrive
Fubini stesso, ricordando come degli “organismi internazionali dalle regole
condivise quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale o
l’Organizzazione mondiale del commercio” ormai resta “quasi solo il guscio:
vuoto come la corazza del Cavaliere inesistente del romanzo di Italo Calvino.”
L’avverarsi delle ambizioni della sinistra più antagonista, per opera del suo
antagonista più spavaldo e beffardo.
Di macroeconomia e dunque del nocciolo della politica cosa mai ne posso capire
io lettore di letteratura, in particolar modo di quegli scrittori che tante
volte provocano tali buchi a bilancio cheppoi va da sé gli editori debbano
stampare chef, tiktoker, ex-presidenti del Consiglio e giallisti tinti di nero
per non doversi riciclare del tutto in copisterie di catena? Non ho le carte,
non faccio deal, sono profano al punto da trovare brillante una sintesi
associativa che immagino del tutto usurata per indicare gli effetti
dell’economia finanziaria su quella reale, “da Wall Street a Main Street”, e da
mandare giù come pillola prescritta dello specialista la descrizione di
stablecoin: le chiamiamole valute “digitali private sostenute da depositi, per
lo più in dollari, di valore equivalente”.
Sono il corrispettivo italiano di quegli americani, stimati il 38% del totale,
“che non possiedono azioni quotate alla Borsa di New York e che non hanno altro
che debiti”, convinti – erroneamente – “di avere poco a che fare con l’andamento
di Wall Street e molto da perdere dalla globalizzazione”, dico erroneamente
perché se il 38% di americani azioni non ne ha, il restante 62% sì, e se si
rovinano economicamente due americani su tre, il terzo non si arricchirà certo a
loro spese, anzi: loro le spese le ridurranno, potendosele comunque permettere,
e sarà proprio il terzo, ulteriormente colpito dalle contrazioni del mercato, a
rimetterci il poco che aveva e vedere ancora più lontana la possibilità di
acquistarla una Ferrari, ora che l’azienda “ha alzato i suoi listini del 10%
prima ancora che entrassero effettivamente i vigori i dazi al 25% sulle auto in
arrivo negli Stati Uniti.” Per dire: le conseguenze della guerra dei dazi non
potranno mai essere le stesse per chi dovrà rinviare all’anno prossimo
l’acquisto di una Ferrari e per chi già da ora deve pagare “spesso anche il 28%
sulle loro carte di credito: interessi da mafia dei colletti bianchi, che in
Europa verrebbero puniti per il reato di usura”.
Da lettore non specialista ho l’ambizione anti-economica che Vollmann rielabori
in centinaia e centinaia di pagine psichedeliche il materiale che Fubini
precipita nel capitolo che in Dazi ne conta soltanto tredici: La storia nelle
vite di tre uomini: Clinton, Stiglitz e Vance. Per essere più sintetici di
Fubini: Stiglitz, nato in una steel town 82 anni fa, aveva capito per tempo “che
la globalizzazione beneficia i detentori di capitale e i lavoratori con diplomi
di college o con master in università prestigiose, nei Paesi avanzati; ma
svantaggia chi non ha né qualifica né capitali” e aveva fatto in modo che il
messaggio arrivasse a Clinton quando era lui il Presidente. Clitton il 20 aprile
del 1999 dalla libreria della Casa Bianca disse: “Questo è il momento di agire
per impedire che le crisi finanziarie raggiungano livelli catastrofici in
futuro.” Dopodiché non si agì affatto, e qui entra in scena Vance, nato in una
steel town circa quaranta anni dopo Stiglitz, solo che Vance non diventa un
economista anche premio Nobel e saggista prolifico tanto acquistato quanto
ignorato come Stiglitz: Vance a 32 anni pubblica Elegia americana prima di
diventare vicepresidente degli States a 40, rappresentando in pieno la
narrazione dell’elettorato di Trump: uno che non ci crede più ai rimedi
macroeconomici di uno Stiglitz, uno che rivuole la fabbrica in casa anche se da
casa sua sta espellendo i migranti indispensabili per coprire la forza lavoro
richiesta. Vance vuole riscatto ovvero vendetta subito, Promuovendo l’America
Grande Ancora, il cui acronimo un italiano forse rende meglio l’idea. E se
sostituissimo Promuovendo con Costruendo?
Riflessione: lo scrittore di autofiction Vance ha e ha avuto un effetto sul
mondo cosiddetto reale molto più sensibile dello stimato e inascoltato saggista
Stiglitz. Dipende dai lettori che raggiungi, da come li raggiungi, da cosa gli
racconti, se quello che racconti a quegli stessi lettori piaccia doverlo
sentirselo dire, dopo essersi dovuti prendere persino l’impegno di leggerlo, per
ascoltarlo.
E cosa dovrebbe gridare il bambino europeo al petulante imperatore nordamericano
che lascia indizi peggio di Pollicino, sbottando ogni tanto un vagamente
depistante meglio un jockstrap in filo spinato che un fottuto kimono di seta
cinese? Scrive Fubini: chiamare col suo nome la coercizione economica fra Stati
che è l’ultima moda del commercio internazionale, poiché
> “In sostanza Trump e Bessent [il Segretario del Tesoro] potrebbero stare
> cercando di mettere l’Europa davanti a una brutale alternativa: comprare
> debito americano man mano che viene emesso – e comprarlo malgrado rendimenti
> contenuti – oppure rischiare di perdere l’accesso al mercato dei consumatori
> americani e a quel che resta dell’ombrello di sicurezza del Pentagono.”
Che gli unici valori realmente difesi dalle civiltà egemoni odierne o meno,
quelli per i quali sono disposte ad architettare aggressioni verso tutto e tutti
dalle soft alle ultrahard, siano quelli che ci stanno in una borsa, specialmente
se la Borsa è la loro, per capirlo mica bisognava aspettare il ventunesimo
secolo e leggere Fubini! Bastava l’Ottocento e leggere Balzac. O Bel Ami di
Maupassant, che secondo me è la più bella biografia mai scritta sui normalissimi
uomini di potere, e dei secoli precedenti al 1885, anno in cui fu pubblicato, e
di quelli a venire. Per le mire dell’America made-in-Trump verso la per nulla
virginale Europa può valere il trattamento che George Duroy riservò alla
ammansita, cavalcata e pussata via signora Walter: lei
> “D’un tratto, smise di lottare e, vinta, rassegnata, si lasciò spogliare.”
antonio coda
L'articolo Letteratura da manuale. Per capire i dazi bisogna leggere Maupassant
(mica Fubini…) proviene da Pangea.
Nella Seconda lettera ai Corinzi, capitolo 12, Paolo dice di essere stato
“rapito fino al terzo cielo”, nel luogo detto “Paradiso” e lì di aver “udito
parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare”. Ne dice parlando in
terza persona – “so che un uomo, in Cristo…” – dicendo di non sapere se questa
razzia di sé, accaduta quattordici anni prima, sia stata compiuta “con il corpo
o senza corpo”. L’insenziente corpo, l’insaziato corpo, è posseduto da Cristo.
Nella Prima lettera ai Corinzi, Paolo – capitoli 12-14 – distingue tra
“profezia”, linguaggio a edificazione della neonata ecclesia, e “glossolalia” –
le “lingue degli angeli” – l’incomprensibile idioletto che congiunge il fedele,
l’ispirato, a Dio, frutto di singolare esperienza, che non si può comunicare.
Paolo scrive agli abitanti di Corinto, la città legata a Poseidone, dove si
svolgevano i giochi Istmici; la città di Sisifo, dove Medea ordisce la sua
vendetta contro Giasone. In cima all’Acrocorinto, ricorda Pausania, spiccava il
tempio di Venere, “nel quale sono la statua della Dea armata, quella del Sole,
quella dell’Amore con l’arco”. Non è un caso che Paolo operi il suo trattato sul
linguaggio nella terra del logos; che parli della “straordinaria grandezza delle
rivelazioni” nella terra dei misteri, dell’enigma, della trance. Scrivendo in
greco – lingua accessoria, d’uso, non connaturata, che è poi la subdola lingua
dei Vangeli, redatti nella lingua che Gesù non parlava – Paolo risignifica ogni
parola. È come se mutasse su zattera il senso di ogni sintagma. Nella terra
del logos egli si fa portavoce del Logos, il Verbo che sconfigge ogni verbo.
*
Nel dodicesimo libro della Genesi alla lettera, Agostino sviscera il brano di
Paolo. Come esistono tre cieli, così esistono tre specie di visioni, quella
“corporale”, quella “spirituale” e quella “intellettiva”. Delle visioni, occorre
discernere quelle che sono ispirate dagli “angeli buoni” da quelle che sono
insinuante opera del demonio. In sostanza – sulla stessa scia di Paolo –
Agostino disciplina la facondia estatica dei fedeli. Il tempo in cui gli dèi
parlavano nei fiumi, nel vento e negli alberi, in cui tutto era opera, è al
tramonto: improvvisamente, non c’è più strepito, ma silenzio, le cose mutevoli
sono ormai mute, alla selva fa specchio la basilica, al mito il rito.
A un certo punto, per assecondare “alcuni dei più stimati commentatori delle
Sacre Scritture in conformità con la fede cattolica”, Agostino scrive che
“l’Apostolo inoltre sarebbe stato rapito per contemplare in una visione di
straordinaria evidenza il regno delle realtà incorporee che le persone
spirituali anche in questa vita amano e desiderano godere al di sopra di ogni
altra cosa”.
In realtà, Paolo non dice di aver visto, ma di aver udito qualcosa. Visione per
verba, preverbale.
*
I pionieri del cristianesimo, gli apostoli, parlavano in lingue, possedevano
parole efficaci, in grado di sanare e di far risorgere i morti. Così dice Gesù
ai Dodici: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi,
scacciate i demoni”; atto che si compie “dicendo che il regno dei cieli è
vicino” (Mt 10, 7-8). Annuncio che guarisce, linguaggio che vince la morte. Non
unguento né formulario offre il Nazareno, ma un “potere” che lavora tramite
corpo e lingua – linguaggio incarnato, lingua amuleto, Verbo che dilaga. Di ciò
non resta che qualche vestigia – l’esorcismo –; quanto al resto, è compilazione
di atti ruderi che segnalano una sequela. Mirabile danza – nei sacerdoti che non
optano per un ‘fai-da-te’ liturgico – la cui forza si misura, semmai, in eoni.
Quasi che all’entusiasmo delle origini sia sostituita la sfinente attesa, il
dispiegarsi di una spettrale speranza. All’efficacia seguì l’ufficio.
*
Alle origini, i cristiani ‘sciamanizzavano’ – guarivano i malati, avevano
visioni, elevavano a nuova vita i morti, parlavano in lingue – e andavano in
estasi. La parola ekstasis – nel senso proprio della trance, dell’uscire fuori
di sé – ricorre due volte nel Nuovo Testamento. La prima (At 10, 9 ss.) riguarda
Pietro: la guida degli apostoli è a Giaffa, è mezzogiorno, è sulla terrazza di
una casa a pregare, quando, “Gli venne fame e voleva prendere cibo. Mentre
glielo preparavano, fu rapito in estasi”. Pietro vede una tovaglia, imbandita di
quadrupedi, rettili, uccelli. Il senso della visione è legato alla storia del
centurione Cornelio, “uomo giusto e timorato di Dio”, un “impuro” – come i cibi
visti in estasi – che si avvia alla conversione. All’estasi di Pietro sono
legati i criteri dell’estasi arcaica: la preghiera solitaria, il digiuno
preparatorio, la visione che rovescia il canone costituito.
Gli Atti degli Apostoli dicono anche del rapimento di Paolo (22, 17). È lui a
farne testimonianza, davanti ai Giudei: al racconto della “voce” udita mentre
andava verso Damasco, della luce che lo acceca, segue quello dell’estasi. “Dopo
il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi”.
Durante l’estasi, Paolo vede Cristo che gli rivela “ti manderò lontano, alle
nazioni”. Pur diversa da quella di Pietro – qui si calca un compito – l’estasi è
simile nel codice: convertire i pagani.
*
Che s’intende dire? Che il cristianesimo originario non è statico, non
istituisce norme, ma è insicuro, instabile – è nella giovinezza della danza. La
parola estasi, nel mondo greco, è centrale (si legga: Negli abissi luminosi.
Sciamanesimo, trance ed estasi nella Gracia antica, a cura di Angelo Tonelli,
Feltrinelli, 2021) nell’affronto col numinoso, nell’addestrarsi al suo contatto.
Nei Vangeli, Gesù obbliga a una continua uscita da sé, a un linciaggio del sé,
al brigantaggio dell’io – e lo fa nel Verbo. Dopo la sua morte, l’accesso a Lui
è tramite memoria e estasi.
Così scrive Tonelli, per capirci sulla tempesta estatica greca:
> “La capacità profetica nasce dalla mania, ovvero da una condizione
> di trance che consente di trascendere i limiti dell’ego e della coscienza
> ordinaria, strutturata spaziotemporalmente, aprire un varco ed entrare in
> contatto con l’Assoluto invisibile”.
Emozione sonnambula nell’assistere al mutamento radicale di alcune parole-dolmen
– profezia, estasi, mania, logos – da un tempio (Atene) a un altro
(Gerusalemme). Paolo sa di aprire un nuovo mondo: scrive come dal sepolcro
vuoto; scrive rovesciando le pietre.
Ai primordi del cristianesimo tutti i paramenti – le vesti animalesche, il
tamburo, i cembali, le maschere, il fuoco e le erbe – sono inutili: in quella
fanciullezza, Gesù accadeva così, d’improvviso, senza preparazione, era dietro
la porta, origliava, preparava la tavola.
*
Unico compito della poesia, svestita delle corazze letterarie: dire le “parole
indicibili [ekousen arreta] che non è lecito ad alcuno pronunciare”. Il resto:
didattica del verbo, bieco conforto, confusione.
*
Vado a Mercatello sul Metauro: il luogo di Veronica Giuliani. Nella violenta
sequela del linguaggio non arretra di fronte alle ekousen arreta, non indottrina
le indicibili parole.
Vedo il sentiero che da Mercatello va a Città di Castello, dove Veronica si
infossa tra le cappuccine. Trenta chilometri. Li faceva a piedi. Tra forre,
campi, terre glabre, lunari scollinamenti: era questo il deserto di Veronica. Il
sole è filisteo – è tutto un furore di lucertole.
Nella casa natale di Veronica – nata qui il 27 dicembre del 1660 – elargiscono
lieti depliant. Uno di questi, Spes contra Spem, raduna uno spettro di pensieri
che non ammette decoro. Questo è il primo:
> “Mi sento con una oscurità ed aridità così grande, che non ho neppure un
> pensiero buono. Non mi posso aiutare con atti di fede, perché non mi pare
> d’aver fede in niente; né con atti di speranza, perché non trovo ove fermarmi;
> né con atti di carità perché non so cosa sia. Mi sento la mente così offuscata
> e come una nebbia densa che mi copre qualsiasi bene”.
Diremmo, il coraggio della disperazione – sfigurare il niente. Un niente che è
nient’altro che niente – nessun premio corona la corsa del fedele in tale notte
oscura. La Giuliani non è Giovanni della Croce – è al di là.
Il pio cronachista stempera a inconsistenza il martirio di Veronica e scrive che
“Tante esperienze mistiche destano l’attenzione del Sant’Ufficio che esamina e
controlla severamente il suo operato, provocandole una grande sofferenza; viene
però scagionata da ogni accusa di falsità e mistificazione”. Nello specifico, le
cose, riguardo alla grande sofferenza, sono andate così: “Denunciata al
Sant’Uffizio nel 1697, viene esaminata con insistenza impietosa, ispezionata
corporalmente in modi umilianti, segregata, privata d’ogni carica, interdetta
dal comunicare con l’esterno. Il rigore si attenua, ma riprende presto in forme
più dure, toccando l’apice nel 1714, con le sconsideratezze d’un giovane
confessore che la tratta da strega (in un’età in cui le streghe andavano al
togo), da indemoniata e le impone di leccare sterco, inghiottire insetti” (così
in: Scrittrici mistiche italiane, a cura di G. Pozzi e C. Leonardi,
Marietti,1988). Veronica muore nel luglio del 1727. Da bambina fu falciata dalle
estasi: vedeva Gesù; da ragazza, a Piacenza, al seguito del padre, fu desiderata
da molti, era bellissima. Sconveniente il suo essere: tirava di scherma,
preferiva gli abiti maschili, non dominava l’ira. Dai pretendenti – nobili,
tanti – si schermò con l’immagine del Crocefisso.
*
Della Giuliani, l’agone nel linguaggio, l’agonia. Analfabeta, “imparò a scrivere
scrivendo”, sotto obbligo del confessore, dal 1693: da quella tortura proviene
il diario, abnorme – oltre ventiduemila pagine –, in cui, con rozza violenza,
descrive le sue rivelazioni. È tra i grandi scrittori italiani di ogni tempo –
purissimo cannibalismo si avverte qui, e avvince. Temprato, il suo scrivere,
dalla scomodità e dallo scandalo: Veronica “scriveva solo di notte, in positure
estremamente disagiate… una scrittura, la sua, nata nel coniugio del buio
esteriore con le tenebre dell’anima”.
Per dire l’indicibile, inventa parole. La sua speleologia nel niente è
insuperata:
> “…perché Idio più si fa sentire e intendere, meno si sente e si cape. È
> incomprensibile, non v’è modo di capire niente, è immenso, non c’è capacità a
> comprenderlo, né creatura alcuna pò mai arivare a questo, e se esso dà qualche
> sagio al’anima di questo suoi divini atributi è in modo che non si trova modo
> a racontarlo. Più si cape meno si cape, più s’intende men s’intende; ci fa
> scordare di tutto; resta l’anima tutta asorbita in Dio, non capisce più niente
> di sé né di nulla di questa vita”.
L’enorme inermità della parola – “Dico e ridico e non dico niente” – la rende
rondine a penetrare l’eterno. Mistero dei misteri, il Dio che non va pronunciato
invano è, invece, detto e contraddetto – detto fino a esaurire ogni umano verbo
– detto fino a spaccargli il volto.
Il diario della Giuliani: una straordinaria cancellatura, una sparizione nella
torba linguaggio. Una diario-petroglifo: lapidazione di frasi lapidarie. “Io non
dico altro. Non so cosa abbia detto”; “Non dico altro, perché tanto non dico
niente”. Eppure, continua a dire, a ridire, ossessionando l’alfabeto fino al
bestiario, alle fiere e ai mostri, Veronica, a fecondare il divino niente (“Te
ne stai nel profondo del tuo annientamento”): che fiorisca – lei sguainerà falce
e denti in legione.
*
Mettere a repentaglio il linguaggio, rapinarlo da ogni senso, insediarsi in esso
per insidiarlo.
Più tardi scendo verso il Metauro. Le acque sono straordinariamente limpide –
limpide come di capelli chiari. Non c’è difetto di distanza tra il corpo di
Veronica Giuliani e il corpus dei suoi scritti: si scrive, si intaglia. A quel
punto di concisione, basta che qualcuno ti dica davvero e sparirai – puf!
Comunque, a Mercatello, cornacchie ovunque, in ogni infisso di casa. Sono una
decina, sul ponte. Hanno preso dominio di una piccola cappella. Sopruso di
becchi nei ruderi. Forse gli abitanti, qui, rinascono cornacchie. Forse Veronica
ha previsto l’immacolato tormento di Kafka. Al cielo bufalo hanno tagliato le
corna.
*In copertina e nell’articolo alcuni “Studj di pittura” di Giambattista
Piazzetta (1682-1754)
L'articolo Il tormento e l’estasi. Tra apostoli sciamani e stregonerie del
linguaggio: il poeta dica soltanto “parole indicibili” proviene da Pangea.
Nel settembre del 1906 il poeta René Bichet, vicino a Jacques Rivière e André
Gide, scrive all’amico Alain-Fournier rievocando un ritratto di Infanta di Juana
Romani. In esso proietta la nostalgia per Parigi: una città «necessaria»[1]che
la figura della pittrice incarna simbolicamente. Dieci anni dopo, nel racconto
di Fritz-René Vanderpyl pubblicato sul Mercure de France, un quadro firmato
«Juanita Romani» diviene l’emblema di uno «charme simil-orientale»[2] di cattivo
gusto, che solo gli americani potrebbero appendere sopra i propri caminetti: in
entrambi i casi, Romani è immaginata come simbolo ibrido e ambivalente, legata
visceralmente alla capitale francese. La sua molteplice identità fu oggetto di
un’elaborazione retorica: il poeta Armand Silvestre la presenta come erede di
Tiziano e Correggio, mentre lei stessa si definisce «figlia di Benozzo Gozzoli»
e della solida tradizione artistica italiana. Nel 1901, Vittorio Pica la
descrive, accostandola a Giovanni Boldini, come «una giovane pittrice di non
comune bravura, destinata a piacere sempre più al gran pubblico e sempre meno
agli austeri amatori d’arte»[3].
Ma chi era questa artista vivacemente presente nella cultura
europea fin-de-siècle, eppure oggi così poco conosciuta?
All’origine c’è una realtà sociale dura: Juana nasce come Carolina Carlesimo nel
1867 a Velletri, da un brigante e da una bracciante del Lazio meridionale.
Emigra a Parigi nel 1877 con la madre e il patrigno musicista, Temistocle
Romani, membro di una famiglia di ricchi proprietari terrieri. In Francia inizia
la carriera di modella per artisti, per poi divenire pittrice. Espone
regolarmente ai Salon, alle esposizioni universali, in Italia alla IV Biennale
di Venezia (1901) e alla II Esposizione internazionale femminile di belle arti
di Torino (1913). La sua attività è segnata dalla vincita della medaglia
d’argento (1889), acquisti di Stato e da un’intensa attività di ritrattista.
Celebrata all’inizio del XX secolo, Juana fu inclusa come artista tra le più
note della sua generazione in Women in the Fine Arts di Clara Clement (1904)
e Women Painters of the World di Walter Sparrow (1905). Amata dal pubblico, ma
anche da insospettabili personaggi come Josephin Péladan, nel 1901 il dandy
Jacques d’Adelswärd-Fersen la rievoca nel romanzo Notre-Dame des Mers
Mortes[4] accostandola a da Vinci e Raffaello. Assiste da vicino alla nascita
del cinematografo grazie all’amicizia con Antoine Lumière e nello stesso periodo
la sua immagine circola tra profumi, colori, vini, affiche e riviste
come Fémina, assieme a Camille Claudel, e Le Figaro-Modes.
Tuttavia, già dagli anni Dieci la sua fama declina: Francis Carco la liquida con
pittrice “accademica” di un secolo passato e Henri Matisse la cita ironicamente
tra i pittori ancora “vendibili” ma superati. Il manifesto letterario Les
Somptuaires (1903) di Fleischmann e Levengard la nomina invece come esempio di
un’arte sontuosa e passionale da trasporre nel mondo cangiante delle parole e
della poesia, mentre Guillaume Apollinaire la confonde nel 1912 con il futurista
Romolo Romani, segno della sua ormai appannata notorietà. La sua carriera
s’interrompe bruscamente per una grave malattia mentale nel 1903. Internata a
Ivry-sur-Seine dal 1906, poi a Sainte-Anne e infine a Suresnes, morirà nel
1923.
Juana Romani, Rosina, 1892, collezione privata
*
Juana è da sempre stata lievemente strabica – come lo era Charcot, fatto che gli
procurava un certo disagio – e il suo occhio sinistro tendeva verso l’esterno:
lo sguardo che ne scaturiva attraeva per quella sottile incongruenza che
coinvolgeva l’osservatore. Chi la incontra rimane stordito dalla sua «bellezza
strana» fondata sull’«attrazione profonda e dispotica dei suoi occhi».
Nel 1884 Prouvé invia a Nancy due disegni a china, che saranno esposti nella
vetrina del laboratorio del rilegatore René Wiener: ad ottobre espone
una Magicienne e a novembre Une japonerie. L’italiana posa per entrambe
impersonando una sorta di geisha e un’incantatrice che, nel pieno di un’oscura
liturgia, con una bacchetta indica un grande occhio dal quale si irradia un
fascio elettrico.
Prouvé fa esperienza dell’incoscienza dell’occhio della sua modella che, più che
ritorcersi in sé stesso, viene riconsegnato al pittore restituendogli il segno
di uno sconcertante ribaltamento dei ruoli. Il disegno, dalla «fantasia
debordante», è conosciuto anche come Jettatura e nasce forse dall’assimilazione
che Juana può aver fatto del magnetismo degli atelier a ciò che era rapportabile
alla cultura ereditata dalla madre e dalla nonna. Diffusa al pubblico grazie
alla letteratura romantica francese, la jettatura è una credenza nata nel
Settecento e connaturata nel Regno di Napoli di cui Juana raccoglie il nucleo
più incandescente: lo sguardo come tecnologia, mezzo di azione, mano armata
dell’invidia che può uccidere.
L’occhio del disegno di Prouvé è comunque un pezzo staccato, esso si dà a vedere
come a volersi porre come problema e di sicuro lo sarà nel Novecento quando
artisti e filosofi francesi ne ripenseranno il valore disgiungendolo dallo
sguardo, accoppiandolo all’ano o all’alluce, lacerandolo, perfino, con una lama
da rasoio. Fluidità dello sguardo, elettricità del gesto, incoerenza della
rappresentazione sono le facce di un prisma al cui cuore ci sono nuove
significazioni. Questa instabilità nervosa è il costo da pagare per un mondo in
risemantizzazione. Non a caso Prouvé condivide con Juana la passione per il
poeta Maurice Rollinat che sarà ricoverato nella stessa casa di cura per malati
mentali dove alloggerà la pittrice per quasi venti anni: in cura dal dottor Paul
Grellety, Rollinat aveva assistito agli spettacoli del magnetizzatore Donato e,
per circa due anni, alle lezioni settimanali di Charcot, dando vita a
performance musicali che generano nel pubblico profondi stati d’inquietudine.
Membro degli Hydropathes e poi cantante di punta dello Chat Noir, nel 1883
pubblica la raccolta poetica Les Névrosesche gli conferisce una grande notorietà
e che, a più riprese, sarà ispirazione delle opere di Prouvé. In una poesia
Rollinat si dichiara la vittima della persecuzione di un occhio che non solo lo
fissa come un condannato a morte, ma lo accompagna in ogni suo spostamento:
«Dovunque io vada, ovunque il mio piede inciampi,/ Il mal-occhio!».
Un’inquietudine simile provata da August Strindberg che, come racconta
in Inferno (1897), si sente perseguitato dalla folla parigina.
Juana Romani, Primavera, 1894, Courbevoie, musée Roybet Fould
C’è un presentimento nell’aria e la paranoia si respira lungo le strade della
capitale: quella sensazione traduce il sospetto di una possibile animazione
dell’inorganico che diviene il principio stilistico stesso dell’art nouveau che
si afferma in quegli anni. L’interesse di Prouvé per la grafica e le arti minori
– collabora con Émile Gallé con cui è membro dell’École de Nancy – rivelano la
volontà trasversale di esplorare il mondo degli oggetti attraverso una loro
vitalizzazione per mezzo delle rappresentazioni vegetali. Ne impone a tutti gli
effetti uno stato di fatto: le cose, tra cui le modelle (e le donne) guardano,
sono in moto, fioriscono e hanno una loro esistenza a cui l’uomo inevitabilmente
partecipa.
Questa ruminazione artistica sullo sguardo porta Prouvé a coniugare ancora la
poesia di Rollinat con Juana che posa per Les visions roses (Rollinat), opera
che verrà esposta al Salon (SAF, n. 1988) del 1884: la modella è reclinata
all’indietro facendo mostra del proprio corpo nudo. È il seno di Juana il punto
di congiunzione tra l’opera di Prouvé e la poesia di Rollinat: «Vedo le tue
carni tutte rosa,/ I dardi aguzzi dei tuoi seni freddi,/ E poi le tue labbra!
quando vedo/ nelle loro così languide pose/ Corolle e boccioli di rose!».
Non solo il corpo diviene il territorio di metamorfosi floreali – ecco l’art
nouveau! – ma i seni si allineano simmetricamente allo sguardo, come nei corpi
femminili del Mediterraneo antico. Tiresia viene accecato dalla nudità e dal
seno nudo di Atena, così come Atteone che, trasformato in cervo e sbranato dai
cani, aveva posato lo sguardo sul corpo nudo di Artemide.
Il gesto intimidatorio dell’esposizione del seno «transiterà senza soluzione di
continuità dal mondo antico ai repertori folkloristici contemporanei, a indicare
un potenziale di altissimo rischio, che può formalizzarsi nella maledizione più
terribile» come rappresentato in Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci dove
una madre espone il petto come arma temibile contro i fascisti. Il potere
tagliente, castrante dello sguardo tornerà a essere indagato ancora nel 1884 con
la rappresentazione di Juana come Salomè che porge allo spettatore la testa del
San Giovanni per la quale Prouvé prende a modello sé stesso: è dunque Juana a
offrire al pittore la sua stessa testa. Si potrebbe dire: è Juana a offrire al
pittore il suo stesso sguardo.
Gabriele Romani
*La vicenda artistica e biografica di Juana Romani è l’oggetto dell’ultimo libro
di Gabriele Romani: Confini d’identità. Juana Romani: modella e pittrice, edito
Castelvecchi (Roma, 2024).
*In copertina: Edmond Bénard, Juana Romani nell’atelier di rue du Mont-Thabor,
1893, Parigi, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris.
--------------------------------------------------------------------------------
[1] René Bichet, Les poèmes du Petit B, Parigi, Éditions Émile-Paul Frères,
1938, p. 142.
[2] Fritz-René Vanderpyl, «Marsden Stanton a Paris» in Mercure de France,
vol. CXVII, settembre-ottobre 1916, p. 461.
[3] Vittorio Pica, «La pittura all’esposizione di Parigi» in Emporium,
vol. XIII, n.76, aprile 1901, p. 260.
[4] Jacques d’Adelswärd-Fersen, Notre-Dame des Mers Mortes (Venise), P. Sevin et
E. Rey, Paris 1901, pp. 25-26.
L'articolo Storia tragica di Juana Romani, la pittrice di successo che fu
internata e rosa dall’oblio proviene da Pangea.
Gliel’ho detto così, brutale, a bruciapelo. Il tuo libro non mi è piaciuto.
Sembrava saperlo. Sembra sapere tutto. Sembrava sollevato. Poi ho capito
qualcosa – che dirò più tardi.
Con La Repubblica italiana dei poeti – Edizioni Industria & Letteratura, 2025 –
Andrea Temporelli tenta di costruire un orizzonte per comprendere la poesia
italiana contemporanea. Lo fa consapevole del frainteso, per un bene più grande,
a mo’ di lascito. Più che la costruzione di un nuovo canone, mi pare la sua
disfatta – qualcosa di simile all’Uranometria di Johann Bayer, dove gli ammassi
stellari possono sembrare draghi, pellicani ed eroi omerici fuori tempo, oppure
meri emblemi del nostro disorientamento. In sostanza, Temporelli passa in
rassegna oltre seicento poeti. Neppure troppi, se si pensa che Pier Vincenzo
Mengaldo, nel ’78, ne ha riferiti, a rappresentare i Poeti italiani del
Novecento, una cinquantina – non tutti indimenticabili –; un numero che è
andato, con lo svolgersi dei decenni, drammaticamente levitando.
La Repubblica italiana dei poeti – io propendo ancora per la “Dittatura
dell’unico” – è costruita a contrario rispetto a una comune antologia. Dopo aver
impilato i poeti di cui occorre “leggere tutto”, “tutto o quasi”, “tutto o quel
che si può” (il che è tutto risolto a pagina 28), l’autore si impegna – per le
successive duecento e passa pagine – a dar conto degli esclusi. Questa porzione
del libro s’intitola La cura degli assenti; non è secondario ricordare – a dire
della mente simbolica dell’autore, nel senso che tiene assieme tutto – che
quello è anche il titolo di una recente poesia di Temporelli (il quale, per buon
gusto – anzi, con alta malizia –, non si auto-antologizza), apparsa su un numero
di “Poesia” (n.31, Maggio-Giugno 2025). Ne ricalco alcuni lacerti, i più belli:
> “La neve invece
> prepara il fango, l’usura del gelo, il silenzio
> ingoiato per fame, vera fame. […]
> L’osso scartato dai cani
> è la prima idea del mattino”.
Nel circuito di queste parole – la neve e la fame, l’osso, il mattino, i cani –
si trova forse la chiave per comprendere La Repubblica dei poeti.
Smetto di cianciare.
Il lavoro di Temporelli è folle: richiede la mente di Cartesio in un corpo
dionisiaco. La danza, selvaggia, pretende, perché la profezia si avveri, di
polverizzare tutto: così un figlio s’india nel padre e il padre può smettere di
essere padre, ma acqua, mano, neve.
La Repubblica italiana dei poeti, attaccavo, è un libro che non mi piace. Ovvio:
la vertigine dei nomi – legionedirebbe l’evangelista – fa svenire, fa venir
voglia di consacrarsi ad altro. Ma sarebbe sbagliato perché ogni singola vita –
insegna l’autore o la sua ombra – va benedetta. Non mi piace, dicevo, perché ho
avuto il privilegio di scorrazzare nella savana di “Atelier”, la rivista ideata
da Marco Merlin – l’altro lato di Andrea Temporelli, il suo idolo – trent’anni
fa e da lui diretta fino al 2013. A quell’epoca – di cui potete leggere tutto –,
era già tutto chiaro, con furia lungimirante, ad alto grado di ebbrezza: la fine
dei ‘maestri’, l’implosione di ogni ordine di autorevolezza (ergo: pubblicare
per ‘Lo Specchio’ Mondadori equivale a stampare per l’editore-artigiano sotto
casa), la latitanza da ogni orizzonte di gloria, il brigantaggio del linguaggio,
la critica spettrale, atta a certificare la lebbra, la morte-in-vita. Alla
letteratura, appunto – con le sue stole, le moine, i premi, il delirio
patologico dell’egotismo – preferimmo la vita. Per intenderci, così scriveva
Marco Merlin nell’editoriale di “Atelier” del marzo 2004:
> “La nostra parte ci è chiara. Quello che spetta a noi è stare, verticali,
> dentro il nostro respiro, smemorati del nostro nome, aperti a tutto, senza
> privilegio alcuno da difendere. Ma anche senza la paura di testimoniare le
> passioni che ci animano e di soffiare sull’orizzonte, per vedere se qualche
> zolla comincia a bruciare”.
Ho conosciuto Marco Merlin attorno a un editoriale dal titolo che ancora brucia,
“Militare più che militante”. Era il 2001. Quegli editoriali (dai
titoli-emblema: “Siamo poeti o giullari?”; “Fine del Novecento”; “Lo scisma
della poesia”; “La poesia è una marchetta”; “Liberarsi dalla letteratura”), che
costituiscono una delle audacie più pure e più folli della poesia recente, sono
stati poi raccolti in un libro, Smarcamenti, affondi e fughe(Giuliano Ladolfi
Editore, 2016). L’autore di quel libro risulta essere Andrea Temporelli – in
realtà è Marco Merlin. Andrea Temporelli – che ho chiamato al dialogo – ha
inglobato e divorato Marco Merlin, maestro di cui sono ormai orfano.
Ricalco alcune frasi – come sempre di miliare potenza, che istigano a un compito
– con cui Temporelli chiude La Repubblica dei poeti. “La competizione, semmai, è
crescere verticali su sé stessi per raccogliere più luce”; “Riconosciamo nel
dissenso e nella diversità di vedute l’unica opportunità sensata e interessante
per superare la palude contemporanea. Il nemico leale sarà il vero maestro, la
pietra per saggiare e rafforzare il talento”.
Ora ho capito – dicevo al principio. La ridda di nomi serve per disfarsene – per
disfarsi, soprattutto, del proprio sguardo ‘critico’, del proprio io. Un
ritornare puri dopo la puritana guerra. Sporchi, luridi – ma vivi.
Andrea Temporelli ha scelto il deserto – che lo dica bosco è lo stesso. Lo
chiamerò Ismaele. Il figlio di Abramo “abitò nel deserto e divenne un arciere”
(Gn 21, 20). Arciere in ebraico si dice qashshath, parola che viene usata
soltanto una volta in tutto il Testo, per onorare Ismaele. Il figlio sinistro ha
destrezza nell’arco, non si fa addestrare dalla trafila del Patto. Alla Terra
Promessa preferisce il Nessundove dei rettili e dei cavalli rudi, dal pelo
ispido, le dune e le tende al giardino del tempio. Mi viene in mente il bel
libro di Octavio Paz, L’arco e la lira – ma lì si parlava di Apollo. Chissà se
il dardo sibila in endecasillabi prima di avverarsi nella preda. Parole,
parole.
Immagino Temporelli, di spalle, l’arco a tracolla – ed è tutto.
Andrea Temporelli: che fine ha fatto Marco Merlin?
Finalmente si è tolto dalle scatole. Me lo sono divorato e sbocconcellato fino
all’ultimo brandello e ora, dopo una bella dieta dimagrante, posso scattare
senza ingombri oltre il suo territorio limitato. Averlo fatto fuori, mi
permetterà di scrivere, disinibito, lasciando ad altri la teoria e il lavoro
critico. Temo solo che qualcuno voglia fare pagare a me i suoi debiti. Ma, si
sappia, non ci penso nemmeno. Mi chiedo, divertito, quanto tempo gli altri ci
metteranno a capire che non c’è più.
Che rapporto c’è tra “L’opera comune” e “La Repubblica italiana dei poeti”?
Idealmente, sono due meravigliosi fallimenti concentrici. Il primo, entro il
raggio ristretto dell’amicizia; il secondo, con un raggio quasi illimitato che
rilancia in una dimensione politica la medesima utopia.
Che rapporto c’è, nel tuo ‘metodo’ poetico – dunque, esistenziale – tra il
deserto che ti sei scavato e la massa di poeti – una schiera, una falange, una
squadriglia – che hai scovato?
Non lo so. Era una domanda da porre a quell’altro, che non c’è più. Io non
possiedo il metodo, semmai ne sono posseduto e solo dall’esterno qualcuno potrà
descriverlo. Per me la massa è il deserto.
I maestri sono scimmie ammaestrate che desiderano portaborse, l’autorevolezza
editoriale è defunta da un pezzo, gli editori ‘di peso’ equivalgono ai pesi
piuma. In questo spazio – che dura da più di un ventennio – di libertà assoluta,
che senso ha rifondare un canone, perimetrare un ‘orizzonte’?
Tutta la vicenda umana consiste nell’innalzare castelli di ghiaccio nel deserto!
Lo si fa per obbedienza a un senso di bellezza, alla bellezza di un senso che ci
sfugge. Detto questo, tu lo sai bene e lo hai spiegato: si fa l’appello per lo
sterminio della vanità, per attraversare il fuoco dell’opera (nostra, altrui,
comune) che ci travalica, che diventa dono. Di maestri non ne ho più bisogno,
ormai. Ma non fraintendermi: preferirei averne ancora desiderio, significherebbe
essere ancora giovani e aperti a molteplici sviluppi. Alla mia età, però,
sarebbe patologico insistere a cercare “padri”. Quelli che si sono presentati
come tali, erano padrini incapaci di riconoscere e difendere la profezia degli
eventuali figli e, dunque, non c’è stato reciproco riconoscimento. Hanno
preferito, come indichi nella domanda, la gratificazione immediata del
rispecchiamento. Si sono bruciati da soli, in tal senso. E sono fiducioso: la
loro eredità, per fortuna, andrà perduta. La loro autoconsacrazione nel canone
non ha fondamento. Io, con questo libro, rimetto idealmente tutto in
discussione. I conti con la tradizione, vivaddio, sono sempre aperti, e lo
sguardo determinante è quello dei posteri, degli alieni che equivocheranno,
rimedieranno, rimuoveranno secondo la loro logica, non secondo quella di chi li
ha preceduti.
Lui è Andrea Temporelli o Marco Merlin?
Nella tua “Repubblica” pare che la quantità abbia soppiantato la qualità. Mentre
il secolo scorso si può riassumere entro una piramide di nomi e di dicotomie
(Pascoli/D’Annunzio; Ungaretti/Montale/Svevo; Luzi/Zanzotto/Sereni/Caproni etc.,
con singolarità satellitari – es. Campana, Sbarbaro, Rosselli, Bertolucci,
Pasolini, Pozzi…) l’oggi è l’assembramento di centinaia. Il poeta è detronizzato
dallo storicismo, dall’orizzontalità dilagante, da una analfabeta
alfabetizzazione? Cosa?
Siamo passati dall’umanesimo aristocratico, con i suoi pregi e difetti, alla
democratura dell’individualismo capitalistico. Ma la rete si sta formando: i
nodi strategici si rafforzeranno, le cricche saranno poste ai margini, la
coscienza generale lascerà emergere le nuove strutture, e anche la matassa ora
apparentemente indistricabile in cui ognuno pare avere il diritto di
autorealizzarsi (in qualsiasi pratica sociale o forma d’arte) avrà una sua
figura riconoscibile. Manca qualcuno, nel mio catalogo? Indubbiamente. Tu
aggiungeresti, mi hai detto, Ivano Fermini, io Sonia Gentili e, forse, Ugo
Magnanti e Domenico Segna; ma anche qualche decina di nomi ulteriori non
smuoverebbe la massa critica di oltre seicento autori (selezionati!). Per questo
la fotografia del panorama resta complessivamente credibile e, adesso che il
perimetro è ragionevolmente chiuso, si potrà anche eleggere i pochi che
veramente svettano – spiegando perché, rendendo ragione, insomma, di tutti gli
altri. Questo è l’intento del libro. Se poi si vorrà ammettere che non svetta
nessuno, che abbiamo tante colline e che in generale la produzione poetica è
buona (una visione ottimistica e inclusiva), sia pure. Saremo un’epoca di
produzione di massa da cui prendere, di volta in volta, esempi a capriccio. Per
quel che riguarda me, invece, arriverei a dire che i poeti che mi interessano e
che continuerò a seguire sono pochissimi. Due mani per contarli basteranno.
Che rapporto c’è, cioè, tra il singolare talento di un poeta e la ‘comunità’ dei
poeti?
Vedo che fatichi anche tu a ricordarti che Marco Merlin non c’è più. È una
domanda a cui lui avrebbe saputo rispondere. Non a caso, la Repubblica italiana
dei poeti non è un suo libro, perché non ha metodo e uniformità di sguardo
critico. È il bolo fermentante, il rigurgito con cui ho digerito ciò che lui
avrebbe voluto apparecchiare con perizia tecnica. Perdonerai l’immagine
infelice, che però coglie nel segno.
Che differenza c’è, cioè, tra generosità ed ecumenismo, tra dottrina e
indottrinamento?
Non lo so. Umanamente e intellettualmente, mi addestro alla generosità, con
risultati alterni. L’ecumenismo e l’indottrinamento spettano a chi ha qualche
idea da imporre agli altri. Magari qualche poetica. Io invece non ne ho. Non a
caso, nel libro non escludo nessuna ipotesi di poesia, nessun orientamento
specifico.
In un recente incontro, hai usato la parola ‘benedire’. Spiegami: cosa significa
nel contesto della tua ricerca?
Benedire significa dire bene. Pronunciare un nome in modo che il chiamato si
senta compreso, rispettato, amato. Significa riconoscere l’alterità. Anche
quando si convoca l’altro per una responsabilità, per chiedere di rispondere a
qualcosa che ha che fare con la relazione. Occorre benedire ogni poeta, e
benedire ogni epoca. Anche la propria, che è sempre così facile da disprezzare.
La poesia all’epoca dell’Intelligenza Artificiale: che senso ha? Che poeta
verrà?
Non lo so. Ma sono molto curioso. Penso che mi troverò a mio agio nella
strategia della continua evoluzione di pensiero e di stile. L’IA è il terreno in
cui coltivare la Maniera. L’arte sopravvivrà in forme più selvatiche. L’errore,
l’imperfezione, lo scatto qualitativo imprevisto rispetto al sistema saranno le
stimmate della verità poetica. E l’errore evolutivo, lo scarto, ogni forma di
smarcamento hanno a che fare con l’emozione, che resta supporto
dell’intelligenza umana, come ha dimostrato Damasio.
Ma chissà, staremo a vedere.
Mi pare che la poesia abbia perso premura di profezia, è così orientata al tempo
presente da perderlo di vista. Sbaglio, sono un qualunquista?
Ciò che è davvero presente, pre-sente. Ma molti poeti, hai ragione, non sono
presenti a sé stessi, perché si fissano nello specchio, anziché guardare la
scena in cui sono essi stessi inseriti. Forse, la fotografia dell’oggidì
scattata in questa Repubblica italiana dei poeti fornirà a qualcuno la scossa
per risvegliarsi dall’incantamento.
E ora… cosa scrivi?
Ho una raccolta di poesie quasi pronta; si intitola Luz. Ho in gestazione un
poema, per ora informe. Queste le sento come due opere urgenti, che vorrei
licenziare quanto prima, per determinare un punto di non ritorno. Ma sto
concependo anche un romanzo fantasy, o forse più propriamente epico, che
potrebbe anche abortire e ho un semenzaio di appunti su quaderni e diari
piuttosto vasto. Ho il presentimento di un flusso poetico che vuole emergere in
modo continuativo con una sua particolare struttura, insieme mossa e
determinata. Mi tenta, per tutte queste avventure, l’ipotesi di dedicarmici in
una condizione di libertà dalla pubblicazione. Molto di ciò che scriverò, oltre
ai prossimi due passi poetici (Luz e il poema), potrebbe restare inedito per
scelta. Non so. Non vorrei che fosse il segno di una resa, un alibi rispetto
alla “lotta” per difendere ciò in cui si crede. Ma l’idea di attendere i
fatidici nove anni prima di rileggersi ed eventualmente proporsi a un editore mi
piace, mi dà pace. O magari andare ben oltre i nove anni. Ci pensi anche tu?
Scrivere per non pubblicare, ma solo per dedicarsi all’opera. Che vertigine di
libertà!
*In copertina: Leonardo da Vinci, Studio per la testa di un guerriero, 1504 ca.
L'articolo “Benedire tutto, crescere verticali su sé stessi”. Dialogo con Andrea
Temporelli proviene da Pangea.