Qualche giorno fa, il 5 agosto, sul “Corriere della Sera”, Luciano Canfora, lo
storico, ha firmato un lungo pezzo, s’intitola: “Il senso della storia, dono
divino”. Pretesto dell’articolo, la pubblicazione, per la “piccola e vivace casa
editrice lucchese Le Vele”, di Qoelet, il formidabile, corrosivo testo biblico.
Si tratta del libro che inaugura “una grande opera dissodatrice” (copy Canfora):
la pubblicazione, tomo per tomo, della Bibbia, per fini culturali (consentire la
lettura della Bibbia ai più) più che ecumenici. Non è esattamente una novità:
già Einaudi, a cavallo del millennio, aveva tentato un’operazione simile.
I Salmi, “ragguardevoli non solo sul piano religioso ma anche su quello
letterario” (dida di infantile inutilità) erano introdotti da Bono; il Vangelo
secondo Marco da Nick Cave; il Qohèlet da Doris Lessing. La traduzione d’uso,
allora, era di quella di Filippo Nardoni; l’iniziativa, eguale a quella proposta
da Le Vele (“La Bibbia pensata non come testo di fede per fedeli, ma come testo
di lettura per lettori”), durò poco, una manciata di anni. La collana inaugurata
dall’editore Le Vele – che s’intitola, va da sé, come quella Einaudi, “I libri
della Bibbia” – è curata da Sergio Valzania, giornalista, autore radiofonico
Rai, scrittore: tra l’altro, ha scritto “una nota” a un antico libro di
Canfora, 1914 (Sellerio, 2006).
L’articolo del “Corriere” – à la Canfora: vigoroso, ruvido, ma anche un po’
superficiale nelle sintesi – mi è stato mostrato da un amico, uno di quelli
sempre pronti a salvarti dal baratro, con un certo sconcerto. Negli stessi mesi,
infatti, per De Piante è uscita una versione di Qoelet, culmine di un progetto
editoriale di pubblicazione, libro per libro, del canone biblico. Il
progetto, inaugurato nel 2022 con Genesi, non riproduce il Testo secondo la
versione Cei che tutti hanno sul comodino (“accogliendone purtroppo anche i
difetti”, così Canfora): l’idea, titanica, è quella di affidare “i singoli libri
della Bibbia a narratori, poeti, pensatori di oggi”. In
particolare, Genesi e Isaia sono stati tradotti dall’artista e scrittore
polimorfico Gian Ruggero Manzoni e Apocalisse dal poeta e fine
grecista Giancarlo Pontiggia. L’idea di Qoelet – uscito dai torchi nel marzo del
’25 –, testo magnetico come pochi altri, è più complessa. Il testo è tradotto,
secondo una nuova ipotesi sul ritmo e sul suono, da Stefano Arduini, linguista,
teorico della traduzione (tra gli ultimi libri: Traduzioni in cerca di
originale. La Bibbia e i suoi traduttori, Jaca Book, 2021), traduttore, tra
l’altro, di Giovanni della Croce (per Città Nuova). A questa versione, si
affianca la mia – a dire della lotta tra i botri e i dogi del linguaggio – e
quella, storica, di Massimo Bontempelli. Quest’ultima, ha un’importanza storica
peculiare perché testimonia una sotterranea ma pur robusta ‘tradizione’ della
traduzione biblica da parte degli scrittori italiani: pensiamo ai Vangeli
tradotti da Diego Valeri, Corrado Alvaro, Nicola Lisi e Bontempelli,
alla Lettera ai Corinzi secondo Giovanni Testori, alle versioni di Ceronetti e
ai tentativi di Emilio Villa, all’innario di David Maria Turoldo, fino ai
reperti di Erri De Luca. Su questa scia, Roberta Rocelli, nella scorsa edizione
del “Festival Biblico”, ha ideato il Salterio dei Poeti, il primo germe della
traduzione dei Salmi ad opera dei poeti di oggi: tra gli altri, hanno
partecipato Mariangela Gualtieri e Andrea Ponso, Giuseppe Conte e Federico
Italiano, Francesca Serragnoli, Alessandro Rivali, Susan Stewart e John
Kinsella. Ne abbiamo scritto a lungo.
Insomma, è da tempo che si opera nel ring del testo biblico. Per chiudere con i
dati: nel 2010 proprio Stefano Arduini, insieme all’editore Walter Raffaelli,
hanno fondato la collana “La Bibbia” con gli stessi intenti – la pubblicazione,
libro per libro, del canone, in nuova traduzione. Erano libri deliziosi, in
formato minino, da tenere in una mano: ferine falene di carta. Sono usciti, in
quel contesto, il Cantico dei Cantici secondo Andrea Temporelli, l’Esodo secondo
Gian Ruggero Manzoni, Il libro di Giona secondo Giovanni Tuzet. Uno
scrittore-cantautore come Leonardo Bonetti avrebbe ‘musicato’ il libro di
Daniele; tra i protagonisti del progetto – di cui qualche giornale ha detto –
figurava il poeta Pier Luigi Cappello – io ho tradotto le Lamentazioni. Ma
queste sono minuzie.
Bisognerebbe, piuttosto, domandarsi se tradurre un libro biblico sia come
tradurne qualsiasi altro: se, per dire, tradurre Geremia o le lettere di
Giovanni sia come tradurre Emily Dickinson o Rimbaud. Come scriveva Edgard Wind
in Arte e anarchia, l’uso ha un suo peso: una Crocefissione appesa da secoli in
una cattedrale, che ha accolto le preghiere di migliaia di fedeli (divorandone
le intenzioni e il cuore), è diversa da una Crocefissione esposta in un museo,
sotto gli occhi di attenti – o disattenti – ‘fruitori’ d’arte. insomma: la
Bibbia ha un ‘peso’ diverso, la traduzione – come postula San Paolo – è un
carisma. Non si può tradurre senza precipitare. Il rischio di abbellimento
retorico – sempre presente nel lavorio degli artisti – è sacrilegio, è
idolatria: tradurre vuol dire scotennare, levare l’ultimo velo al Volto. Che se
ne torni inceneriti è norma.
Ma qui vado per erbe avvelenate.
Torniamo a noi. È evidente che esistano alcuni eventi culturali, alcune
avventure dello spirito, non marginali, tuttavia per sempre ignote alle ‘grandi
firme’, ostili ai ‘grandi palchi’. Sono invisibili. Rimangono paria. Frotte di
lebbrosi. Perché Luciano Canfora, parlando di una nuova, meritoria edizione
di Qoelet non ha fatto riferimento al Qoelet edito da De Piante negli stessi
mesi, rintracciabile in ogni repertorio digitale? Escludendo la malafede, resta
l’ignoranza. Se è così, è grave: è come se uno storico, organizzando i fatti,
non conoscesse una fonte autorevole.
Per il resto, basta Qoelet, cioè la beatitudine della vanità. “Non arrabbiarti:
l’ira/ alberga nel petto del vile”, dice il sapiente.
*In copertina: Memento mori, studio di cranio, XVII secolo
L'articolo La “qoeletica” ignoranza di Luciano Canfora. Vane riflessioni
proviene da Pangea.
Source - Pangea
Rivista avventuriera di cultura&idee
La chiamavano Squirearchy: un nome per un sistema, ovvero un’egemonia culturale
in grado di dominare l’intero panorama letterario britannico. E se a dirlo erano
quelli di Bloomsbury (dando man forte all’amico T.S. Eliot) – state pur certi –
il commento poteva diventare legge, per ingiusta che fosse la fama.
Dagli scribacchini delle maggiori testate giornalistiche ai poeti e critici più
influenti del primo Novecento, gli “Squirearchisti” si configurano come gli
eredi di un conservatorismo che potremmo definire – con le giuste misure
– tipicamente “georgiano”, intriso di nostalgia per un passato nazionale
spazzato via dalla Grande Guerra.
Non era quello del resto il mondo dei garden parties, abbondante di latte e
miele, in cui il privilegio di classe si misurava, in primo luogo, sui campi da
cricket e nei collegi più prestigiosi, dove venivano formati i figli dell’Impero
destinati alle cime dell’establishment? Una sorta di età dell’oro che
l’Inghilterra avrebbe provato ciecamente a rianimare durante il «lungo week-end»
interbellico (descritto da Robert Graves in A Social History of Great Britain
1918-1939), nascondendo le sue ferite dietro il fascino della tradizione.
Eppure, era svanito da secoli il sogno edenico di una «England’s green e
pleasant land», eretta sulle colline dell’innocenza di William Blake (And did
those feet in ancient time), dal futuro rigoglioso di «fresh woods and pastures
new», memore della profezia di Milton (come detta la pastorale Lycidas), lontano
anni luce dalla desolazione novecentesca.
Al vertice di questa élite di intellettuali e scrittori controcorrente che,
asserviti a un ideale comune, esercitavano ancora piena autorità nel mondo delle
lettere, spicca il genio poliedrico di John Collings Squire. Poeta, giornalista
e editore di base al “London Statesman” (per cui scrisse recensioni sotto lo
pseudonimo di “Solomon Eagle”), all’inizio della sua carriera si distinse sulle
colonne della rivista fabiana per la dote eccezionale nella parodia.
Riconosciuto ben presto dalla critica come uno degli uomini più colti e
versatili del suo tempo, era pure un militante tradizionalista in campo poetico,
una vera e propria spina nel fianco per la controparte modernista che avrebbe
cambiato una volta per tutte gli orizzonti contemporanei.
J.C. Squire (1884-1958), l’ultimo leader georgiano
Fra gli studenti di spicco del St John’s College, il talento di Cambridge –
laureato in storia e traduttore di Baudelaire – si era fatto strada nella
capitale grazie alla serie di antologie curate da Sir Edward Marsh – cinque in
tutto e dalla vita breve – sotto il titolo solenne di Georgian
Poetry (1911-22). Insieme a Lascelles Abercrombie, Walter de La Mare e al
capofila Rupert Brooke, figura negli ultimi tre volumi, trovando posto accanto a
penne del calibro di John Masefield, Robert Nichols e John Drinkwater. Sulla
scia dei compagni – i quali si consideravano a loro modo moderni e progressisti
per l’epoca –, anche Squire, in quella fase, componeva versi ispirati dalla
bellezza della natura, profusi d’amor patrio (per ciò additati dai posteri di
non poco sentimentalismo) e devoti a un’agreste “Merry England”. Prendendo a
modello i classici – dal “Green World” di Shakespeare e l’Arcadia di Sidney alle
ballate romantiche –, i giovani Georgians intendevano estirpare dalla poesia
inglese la densità stilistica e la carica retorica di un vittorianesimo fuori
tempo, riportandola al lessico ordinario e alla purezza formale di un primo
Wordsworth.
Con la ripartenza postbellica, fu proprio Squire ad assumere il ruolo di tenace
oppositore delle tendenze radicali (Eliot e Pound erano già sulla
scena), difendendo l’esperienza georgiana fino agli ultimi fuochi. Per queste
ragioni, diede alle stampe la sua antologia di idoli poetici, Selections from
Modern Poets (1921; ristampata a più riprese lungo un decennio). La silloge
epocale non mancava di includere alcuni autori sfuggiti volutamente dall’indice
di Marsh come dal successivo Oxford Book of Modern Verse 1892–1935 (pubblicato
nel ’36 da W.B. Yeats), in specie i poeti di guerra Wilfred Owen e Charles
Sorley, per non tacere l’orrore del fronte. Infatti, se non lo si può annoverare
strettamente fra i poeti combattenti, il noto curatore (risparmiato dalla leva
per problemi alla vista) era comunque un war poet di protesta – a dire il vero,
uno dei primi, alla pari di Siegfried Sassoon – attivo sull’home front. In
quanto tale, non poté trascurare le pagine più terribili e toccanti della storia
umana, ora macchiate dalla descrizione di fetide trincee ora puntellate da
invettive di accesa satira politica.
A interrompere quel filone poetico dalle dimensioni utopiche, il 1922 –
ricordato come l’annus mirabilisdella letteratura anglofona – segnò la svolta
definitiva, una cesura dirimente sfociata in un dibattito critico tra tradizione
e modernità. In sostanza, lo schieramento vedeva l’autore della Waste Land e i
suoi fervidi seguaci contro la coterie formata da Robert Bridges (Poeta Laureato
fino al ’30) e georgiani: una lotta tra titani, non excludit alterum.
Inesorabilmente, dopo gli anni del conflitto, il lavoro monumentale di quei
poeti ragazzi precoci e brillanti, che si impegnarono con ardore nel progetto
sostenuto dal patrocinio di Marsh – al fianco di Harold Monro che li ospitava
presso il suo Poetry Bookshop –, poteva dirsi concluso e superato da istanze
sperimentali ritenute più adatte a rappresentare i rapidi mutamenti spirituali,
epistemici e culturali del nuovo secolo. Da qui, l’oblio – di cui purtroppo
siamo testimoni tutt’oggi – della poesia d’anteguerra, destinata a cadere nel
baratro dell’anacronismo perché sintomatica di quel “mondo di ieri” stravolto
dalle bombe, che il pubblico di lettori volle allontanare dalla vista e dal
cuore.
All’enorme interesse editoriale del tempo fece quindi seguito una sfortunata
ricezione, a cui contriburono i pareri di una critica insofferente a stilemi e
toni non più riproducibili nell’era moderna. Al netto delle singole esperienze
poetiche pressoché eterogenee (si pensi al camaleontico Brooke e ad altri che vi
entrarono di sguincio, come D.H. Lawrence), da una parte le forme metriche ormai
desuete apparivano troppo ancorate alla classicità, dall’altra la vena
nostalgica e il riparo bucolico entro il confine delle contee assimilavano il
profilo del Georgian poet a quello di un arcade moderno. Cantore della vita
semplice e abitante di una realtà rurale rimasta ai margini dello spaesamento
metropolitano, il timbro imperiale era capace di prestare le proprie corde a
un’armonia perduta nel caos contemporaneo, estraneo in definitiva all’apertura
trasnazionale del Modernismo.
In questo complesso scenario, J.C. Squire divenne, assieme ai “suoi”,
l’animatore di punta di una polemica incendiaria, arrivando a monopolizzare –
fino alla saturazione, secondo l’acuto Alec Waugh – le vette delle principali
riviste letterarie, dal “New Age” allo “Statesman”. Con alacrità, il portavoce
del gruppo investì tutte le sue energie, come scrittore prima ancora che come
editore, per tenere alto lo stendardo reale anche dopo la dispersione dei suoi
membri (alcuni dei quali morirono in servizio militare nel fiore dell’età).
A tarpargli le ali, nell’immediato dopoguerra, il giudizio poco lusinghiero
di Virginia Woolf, e con lei quello dissacrante di Lytton Strachey, saettava
nell’opinione pubblica come una sentenza che non gli rendeva affatto giustizia
come letterato. Per la regina di Bloomsbury, era solamente un tipo “volgare, […]
più ripugnante di quanto si possa esprimere a parole, e perfido nei suoi
malaffari”, mentre l’eminente Strachey lo definì “un lurido verme”. Molti, poi,
ne riconobbero l’enome potere persuasivo, tacciandolo di orientare il parere del
pubblico fino a dominare il mondo giornalistico con le sue frivolezze: “Se ce la
fa, sarà difficile vedere qualcosa di buono”, affermò l’acerrimo nemico T.S.
Eliot (nonché futuro direttore per i tipi Faber). Secondo Robert H. Ross (The
Georgian Revolt, 1967), intorno al 1920 Squire era sulla buona strada per creare
una cerchia letteraria right-wing tanto influente quanto i circoli di sinistra,
in diuturna competizione con l’Athenaeum presieduto da John Middleton Murry
(marito di Katherine Mansfield).
Per coloro che l’avevano conosciuto in amicizia e per contratto, invece, era un
modello di dissimulazione e simpatia affettata, dalla scusa sempre pronta, ma
anche un uomo generoso, infaticabile nel suo lavoro e, senza ombra di dubbio, un
vero intellettuale engagé. Di casa ai ricevimenti dell’aristocratica Lady
Ottoline Morrell, l’allegro personaggio mondano dalla parlantina accattivante –
espertissimo di formaggio Stilton come dell’ultima uscita editoriale – adunò una
larga schiera di giovani promesse (a esclusione dei rivali bloomsburiani). Nel
1927 fu perfino commentatore radiofonico nei tornei di Wimbledon e creò una
propria squadra di cricket, The Invalids, composta da reduci di guerra rimasti
feriti in azione, che avrebbe fatto invidia ai vecchi Allahakbarries (per
intenderci, Conan Doyle, J.K. Jerome, eccetera) capeggiati da James Barrie.
La scalata verso il successo lo aveva lanciato, dal 1919, negli uffici del
mensile “London Mercury”, una delle prime riviste a carattere esclusivamente
letterario, da lui riportata in auge con un’intensa attività di redattore (che
gli valse nel 1933 il titolo di cavaliere del Re, dunque fu eletto Sir).
Associato a un sostrato upper-middle class, il periodico diventò sotto la sua
ala l’avamposto georgiano per antonomasia. D.H. Lawrence vi contribuì con la
poesia Snake (1921) e più tardi tornò sul pezzo in Nettles:
> Quando Mercurio arrivò a Londra
> Lo fecero “sistemare”.
> Lo salvarono da tante associazioni indesiderate.
> A questo punto tutte le ziette lo adorarono
> Perché, vedi, non è “né carne né pesce, mia cara!”
I rapporti altalenanti con l’enfant terrible del romanzo inglese duravano da
quando, in una recensione del 1915 a The Rainbow, Squire lo aveva sì difeso
dalle accuse di indecenza ma senza nascondere il suo disappunto per lo scarso
valore letterario del libro. Così un furioso Lytton Strachey rispose: “Siano
dannati i suoi occhi!”.
A darne un’impietosa caricatura si precipitò anche il maestro della
satira Evelyn Waugh nel romanzo d’esordio Decline and Fall (1928). In queste
pagine, l’accanito georgiano incarna la figura di editor fazioso
dell’immaginario “London Hercules”, Mr Jack Spire, e certi suoi tratti si
nascondono dietro l’eccentrico Augustus Fagan, Esquire (Cavaliere), PhD in
filosofia e rettore presso il Castello di Llanabba (sede della peggiore public
school del Galles). O ancora, nel romanzo England, Their England (1933) è il
bersaglio comico di A. G. Macdonell, nei panni di Mr. William Hodge, il leader
sfacciato del “London Weekly”.
Come i suoi alter ego letterari, quella di Squire è a tutti gli effetti una
storia di trionfo e fallimento. Dal bel mondo di Londra alla consunzione fatale
per alcolismo, una volta caduto in disgrazia, si ritrovò isolato dal giro
dell’alta società conosciuta in gioventù. Dopo essere stato lettore per
Macmillan e tornato a recensire per il settimanale “Illustrated London
News”, col tempo la fiaschetta facile prese il posto della penna. Avversato
dagli augusti Sitwell e assalito da violente accuse di fascismo (per aver
incontrato il Duce in qualità di membro dell’esclusivo January Club) si ritirò
in un remoto cottage, che andò distrutto in un incendio, e da lì in una magione
del Weald. Ma il crollo finale giunse alla perdita del figlio Maurice, ucciso
nella Seconda guerra mondiale.
Tra successi e dispute letterarie, il vecchio Jack scomparve nel 1958 dopo una
lunga e mirabile carriera. Degli anni ruggenti che lo videro protagonista era
scomparso quasi tutto, compreso l’ideale per cui aveva combattuto.
Ciononostante, la sua apologia resta scritta, come una rivelazione, ne La legge
del più forte (1916):
“Questi erano i miei amici; Strachey, tu non li conoscevi,
Perché erano uomini semplici, senza pretese […]
Se solo avessero avuto il privilegio di radunarsi
Ai piedi di Gamaliele, avrebbero capito
Che anche l’odio e il massacro hanno il loro splendore,
E che l’uomo non può vivere di solo Amore […]
Davanti ai loro occhi si ergeva
L’Inghilterra, crociata immemoriale,
Una grande statua-sogno, assisa e serena,
Che molto sangue aveva versato, e figli traditori,
Ma ancora risplendeva con mani e vesti intatte […]
E Lei, pur significando un passaggio amaro e veloce,
Dovevano servire, poiché Lei serviva la Libertà,
Romanzo e retorica! Eppure, nutriti da tali sciocchezze,
Affrontarono i cannoni, i morti, i topi e la pioggia.
E tutti, in un mese, mentre l’estate svaniva, perirono;
Avevano occhi limpidi, corpi forti, e anche un po’ di cervello.
Strachey, questi sono morti. Che bisogno c’è di dire altro?”
*
Un canto
I teneri petali cadono e l’albero che ondeggia lieve
Ha conosciuto molte primavere e ha visto molti petali,
Anno dopo anno, spargersi sui verdi sentieri silenziosi,
Sulla statua, lo stagno e il basso muro pieno di crepe.
Sbiadito è il ricordo delle vecchie cose che furono,
La pace aleggia sulle rovine di antichi banchetti;
Esse giacciono e scoloriscono nel calore del sole,
E un cielo azzurro-argenteo si incurva su tutte loro.
Così dolcemente, teneramente, adesso il cuore si desta
Con desideri lievi e informi; e, senza cercare, trovo
Pensieri quieti che guizzano come martin pescatori azzurri
Sul placido specchio illuminato della mente.
*
Sonetto
C’era un indiano, rimasto sempre giovane,
Che vagava sereno lungo una spiaggia assolata
Raccogliendo conchiglie. D’improvviso udì uno strano
Rumore confuso: alzò lo sguardo; e restò senza fiato.
Perché nella baia, dove non c’era niente prima,
Avanzavano sul mare, come per magia, grandi canoe,
Con le vele gonfie sugli alberi, senza neanche un remo,
Le insegne colorate sventolavano e le ciurme si arrampicavano.
E lui, impaurito, quell’uomo solo e senza vesti,
Le mani cadute, dimentiche di tutte le conchiglie,
Le labbra impallidite, si inginocchiò dietro una roccia,
Fissava, vedeva, ma non comprendeva,
Le caravelle di Colombo, gravide di destino,
Inclinarsi verso la riva, e tutti i loro marinai pronti allo sbarco.
*
Paradiso perduto
Quali colori possedeva la luce del sole e quant’erano ricche le ombre,
Le ombre azzurre e intricate che cadevano dai rami incrostati
Di meli deformi sull’erba del frutteto.
Quale blu celestiale era il colore di due uova lisce e morbide
Immerse nel fango arrotondato che rivestiva il nido del tordo:
E quale profondo piacere davano le macchie che le punteggiavano.
E quel piccolo ruscello che correva da siepe a siepe,
Ombreggiato dagli alberi e scintillante nei raggi del sole,
Quant’era limpida l’acqua, i letti piatti di sabbia
Con bolle di riflessi vaghi, ciascuno un piccolo mondo dorato
Ai miei occhi incantati. Allora la terra mi appariva nuova.
Ma ora cammino su questa terra come fosse un ripostiglio,
E a volte vivo una settimana, vedendo solo semplici erbe,
Pietre e uccelli migratori: né guardo qualcosa
Per abbastanza tempo da sentirne l’assalto calmo e deliberato:
La sua forza, la sua parola, il suo cuore regale.
L’infanzia non tornerà; ma non ho forse la volontà
Di tendere la mia mente torbida, che fertilizza ogni cosa esteriore,
E, aperto di nuovo a tutti i miracoli della luce,
Vedere il mondo con gli occhi di un cieco che torna a vedere?
*
Luce stellare
Ieri notte giacevo in un campo solitario
E guardavo le stelle con le labbra sigillate;
Nessun rumore muoveva l’aria senza vento,
E guardavo le stelle con sguardo fisso.
Ce n’erano alcune che scintillavano e altre che brillavano
Con un bagliore morbido e uniforme, e una
Che regnava sul circolo sparso,
Oscillando la schiera con tacito suono.
“Calme creature,” pensai, “nella vostra caverna azzurra,
Imparerò a conoscervi, a trattenervi e a dominarvi;
Vi metterò al giogo e vi irriderò come posso,
Perché l’orgoglio del mio cuore è l’orgoglio di un uomo.”
Con l’erba sulla guancia nel campo rugiadoso,
Giacevo immobile, le labbra serrate
E l’orgoglio di un uomo dallo sguardo rigido
Che cavalcavano come spade i sentieri del cielo.
Attraverso un varco imprevedibile si insinuò
L’Universo, spargendosi sulla mia anima;
Veloci andarono il respiro e il cuore,
E guardai le stelle a labbra socchiuse.
*
La morte di un cane
La grossa zolla di terra cade nella fossa come un respiro tranquillo e regolare;
Troppo simile al suo, per un attimo il suono mi inganna:
Copre il mucchio di felci che il giardiniere ha posto sopra di lui;
Il badile oscilla silenzioso: eccola la sua tomba.
Una chiazza di terra fresca sul pavimento della camera fertile del bosco:
Tutto intorno l’erba, il muschio e i germogli verde scuro del giacinto;
E sopra gli alberi, querce già vecchie quando il suo cinquantesimo antenato era
un cucciolo;
E distanti, nel giardino, sento le grida dei bambini.
La loro gioia è lontana come un sogno. È strano come comperiamo il nostro dolore
Per toccare cose che periscono, oziosamente, con gli occhi aperti;
Come diamo i nostri cuori a bestie moribonde che durano poche stagioni,
Senza curarci di ciò che facciamo quando lo facciamo; né vorremmo altro.
*L’introduzione, la scelta e la traduzione dei testi sono di Pierluigi Piscopo.
*Per approfondire la vita e l’opera di J.C. Squire si consigliano i seguenti
volumi:
P. Howart, Squire. ‘Most generous of men’, Hutchinson, 1963.
J. Smart, Shores of Paradise. The Life of Sir John Squire: The Last Man of
Letters, Troubador, 2021.
T. Rogers, a cura di, Georgian Poetry 1911-22: The Critical Heritage, Routledge,
2013.
K. Hale, a cura di, A Compilation of Georgian Poetry 1911-22, Watersgreen House,
2016.
In copertina: John Mansbridge, Ritratto di Sir John Collings Squire, 1933-34.
L'articolo “Diamo i nostri cuori a bestie moribonde”. J. C. Squire, il critico
più odiato degli anni Venti proviene da Pangea.
Robert Bob Wilson è mancato il 31 luglio scorso a 83 anni nella sua casa di
Water Mill a New York e non ci voleva certo la celebrazione della sua morte per
parlarne. Se lo si ricorda oggi è per un indispensabile tributo alla sua
straordinaria carriera, ma anche per il timore che la sua vastissima lezione
artistico-teatrale non abbia – almeno per il momento – un’eredità attendibile e
originale. In oltre sessant’anni di creatività, Wilson ha realizzato più di
duecento produzioni, collaborando con molti dei protagonisti di questi ultimi
cinquant’anni: da Philip Glass ad Arvӧ Part e David Byrne, da Tom Waits a Lou
Reed, dalla performer Marina Abramović al drammaturgo Heiner Müller, usufruendo
anche dello spirito anarchico e dissacratorio di William Burroughs per comporre
un universo polifonico declinato nelle rispettive peculiarità. Una moderna,
insolita, geniale Gesamtkunstwerk – opera d’arte totale – coniata illo
tempore dal filosofo tedesco K.F.E Trahndorff nel 1827 e teorizzata dal
compositore Richard Wagner più di un ventennio dopo, corroborata dalle moderne,
esplosive sensibilità delle Avanguardie Storiche. Dalla multidisciplinarietà del
Futurismo e del Suprematismo – nei suoni, nella danza, nell’impiego radente
delle luci – alla dissacrazione sistematica del Dadaismo, dalle deformazioni
grottesche del Surrealismo alla controcultura alternativa della Beat/Pop dei
suoi anni. Wilson è stato un attento coagulatore di avanguardie, mixate
sapientemente facendo attenzione allo spirito del tempo, combinate in modo che
il risultato finale non fosse dirompente – come per loro natura – ma bensì
permeato dalla distanza, da una lontananza spaesante, da una lentezza
penetrante, quasi proveniente da altri mondi, là dov’è l’attenzione a dominare
il fare dell’uomo. Un mondo contrastato, fragoroso e violento, nella riduzione
pacificatoria del silenzio e della lentezza.
Lentezza quasi cerimoniale che domina la scena nei suoi progetti teatrali,
pressoché in assenza di testo, immersa in un silenzio diffuso, arricchita da
un’illuminazione sapiente – si potrebbe dire “mentale” – evocando una sequenza
di tempi vuoti, di attimi dilatati da riempire di gesti, di allusioni
rallentate, di movimenti sapienti. Un teatro che vuol raccontare per sensazioni,
pur senza dire, senza esporsi, quasi nell’ombra o – al contrario – percorrendo
l’aura luminosa del suo contorno, così padroneggiando entrambe le zone
estreme: Dove non potevo parlare, ho cominciato a costruire immagini. Il teatro
di Wilson è ipnotico, senza regole prestabilite quasi fosse d’improvvisazione,
ma in realtà messo in scena seguendo sensazioni rabdomantiche dominate dalla
lentezza, dove ogni attimo, ogni piccola variazione appare intenzionale, ogni
dettaglio si carica di significato, trasformando le difficoltà in risorsa
scenica, in guizzo creativo spontaneo, generativo.
La vocazione per il teatro si manifesta negli anni Sessanta al Pratt Institute,
dopo una formazione come architetto, retroterra che manterrà soprattutto nelle
scenografie: “Non ho mai pensato all’allestimento teatrale come ad una
decorazione, ma come a qualcosa di architettonico”; avvicinandosi allo stesso
tempo al mondo della danza ispirato da Merce Cunningham, Marta Graham e George
Balanchine. Ma Wilson coltiverà la sua specificità con l’impegno nel reintegro
di ragazzi disabili, sensibile all’esperienza personale del recupero della sua
balbuzie. Fonderà quindi la Byrd Hoffman School of Byrds, dedicata
affettuosamente a Miss Hoffman, la danzatrice che aveva risolto il suo problema.
Sarà questa peculiarità a procurare la svolta nella sua carriera nel 1970 con
l’opera Deafman Glance, con Raymond come protagonista, ragazzo orfano e
sordomuto che poi adotterà. Sette ore di silenzio osservando Raymond e le sue
movenze minimali cariche di significato: opera muta in uno spazio rarefatto
dominato dal silenzio e da un’architettura luminosa, dove ogni gesto diviene
rituale, ogni dissolvenza significativa. Un quinquennio intensissimo che
evolverà nell’opera Einstein on the beach con la collaborazione di Christopher
Knowles – afflitto da rilevanti danni cerebrali – e con lo sperimentatore sonoro
Philip Glass. È anche la stagione di The Life and Times of Joseph Stalin (1973)
opera epica di dodici ore in sette atti che si dipana in sette giornate con il
coinvolgimento di centinaia di artisti:
> “Avevo l’idea di fare un’opera teatrale che sarebbe stata messa in scena per
> sette giorni, una specie di finestra sul mondo in cui eventi ordinari e
> straordinari potessero essere visti insieme. Si poteva vedere alle 8 del
> mattino, alle 3 del pomeriggio o a mezzanotte e l’opera sarebbe sempre stata
> lì, un orologio di 24 ore composto da tempo naturale interrotto da tempo
> soprannaturale”.
Faraonico e minimale.
Ma Robert Bob Wilson è artista multidisciplinare e fin dal ’76 espone i
suoi storyboard anche alla prestigiosa Paula Cooper Gallery, con una carriera
che culminerà con l’attribuzione del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel
1993 grazie alla sua installazione Memory/Loss.
Nel 1991, seguendo la sua indole generosa e altruista, fonderà il campus The
Watermill Center, laboratorio creativo – ancora attivo – che raduna anche la sua
sconfinata collezione di oggetti reperiti in tutto il mondo e le sue opere
d’arte, con l’intento di formare nuovi talenti all’insegna della massima libertà
espressiva, seppur con il rischio concreto di dare troppi spunti personali
ottenendo alla fine giovani controfigure. Espone al Louvre anche il ritratto
della cantante Lady Gaga, frutto di un lavoro durato tre giorni con sessioni di
prova estenuanti anche di 15 ore, frequentando il versante artistico fino al
2023 con l’installazione al Museo LAC di Lugano trasformato in una foresta
virtuale, anno in cui viene insignito del Praemium Imperiale per il teatro dalla
Japan Art Association. È di pochi mesi fa la sua partecipazione al Salone del
Mobile di Milano con l’installazione dedicata alla Pietà Rondanini di
Michelangelo e la serata inaugurale alla Scala di Milano, tenuta dall’orchestra
del Teatro.
Quello di Wilson è un teatro senza paura, totalizzante, che può divenire
esplicitamente elitario quando richiede il massimo sforzo allo spettatore
impegnandolo per ore, se non per intere giornate. È anche il caso delle tre ore
di rappresentazione di Odissey (2013), poema omerico divenuto fiaba recitato
interamente in greco, simmetricamente incomprensibile ai più, ma immediatamente
ricevibile se ci si pone in ascesi verso il globo di luce che attanaglia la
scena fin dal primo minuto, trasformando una pièce teatrale nella possibilità di
un’esperienza elettiva.
Attraversando la temperatura novecentesca dell’Occidente e delle sue
avanguardie, nel teatro di Wilson è la lezione dell’Oriente – parco nelle parole
ed estremo nel controllo – che si afferma nel movimento. Avanzare e retrocedere
bilanciandosi con un procedere misurato, affondando il peso sulle leve,
ascoltando senza sussulto il traslocare felpato della propria massa con mani,
braccia, gambe, spalle, gomiti, piante dei piedi, bacino, controllati, mentre lo
sguardo si direziona secondo intenzione e mai casualmente, con gli occhi puntati
come il taglio di una lama, tracciando le geometrie della scena. In silenzio,
dove il respiro detta la sequenza del battito cardiaco e non viceversa. È con
questa attenzione al corpo (“Coltivare il proprio corpo come un orto”: Yukio
Mishima) che la sua balbuzie, anziché limite, diverrà risorsa, che il disagio
fisico dei suoi protagonisti consentirà l’apertura verso nuovi linguaggi, nuove
sensibilità, ampliando le possibilità d’interpretazione.
Bob Wilson alimenterà con intelligenza collaborazioni con i talenti più
distintivi del suo tempo, arricchendosi dei loro contributi e considerando il
suo teatro come un corpo vivo, pulsante e mai definitivo, modificandolo di
continuo nel corso delle prove, per carpire le sensazioni scaturite in tempo
reale dalle luci, dai corpi, dagli sguardi, dai respiri, come testimoniato dai
suoi collaboratori. Il suo teatro ha quindi catalizzato in un nuovo universo
multiforme le esperienze estreme dell’avanguardia, servendosi dei suoni
disarmonici e metallici coniati dall’Arte dei Rumori del Futurismo di Russolo,
del silenzio prolungato e allusivo di John Cage, con i suoi 4’e 33’’ (1952,
Maverick Concert Hall di New York), delle illuminazioni sghembe e dei tagli di
luce laterali dei Suprematisti, suggestioni innescate dall’irripetibile
capolavoro del 1913 Il Trionfo sul Sole, andato in scena al teatro Luna Park di
San Pietroburgo nel 1913, con prologo di Chlebnikov, “il poeta dei poeti”,
libretto scritto in Zaum, linguaggio transmentale elaborato da Kručënych con
pause dopo ogni sillaba, scene e costumi di Kazimir Malević asimmetrici e
sghembi, luci di Majakovskij a taglio di lama e musiche rumoriste di Matjušin,
completati da un coro inetto di sette persone assunto due giorni prima e da un
piano scordato.
Dovendo riassumere oggi il lascito di Wilson, non credo che “rivoluzionario” sia
il termine più corretto – come molti dei tributi in suo onore affermano oggi –
semmai riferibile alle prime esperienze permeate della protesta
anticonvenzionale del periodo Beat e Pop. Wilson è sicuramente un innovatore, un
“combinatore” straordinario di quanto più alto possa essere espresso nelle varie
discipline, riuscendo in questo modo ad essere realmente unico nei risultati
raggiunti, frutto anche dell’altrettanto straordinario talento dei celebri
partner che lo hanno affiancato nel corso della sua incredibile carriera. Non
attribuendo al termine “combinatore”, alcuna accezione limitativa, nel tentativo
di conferire alla sua ricerca artistica il termine più calzante, più
significativo.
Assistere ad uno spettacolo di Robert Wilson si può considerare un’esperienza
immersiva, come capitatomi nel 2003 a Roma, nella Nuvola di Fuksas, dove Wilson
dialogò con la musica totale di Arvo Pärt. Sodalizio nato nel 2009 – grazie
all’evento voluto da papa Benedetto XVI riunendo duecentosessanta artisti da
tutto il mondo nella Cappella Sistina – che farà scaturire Adam’s Passion, pièce
dedicata al primo uomo, che vive per primo la tragedia della proliferazione dei
popoli nelle differenze, anziché nelle radici comuni.Un’idea teologica di
riunificazione delle anime profonde dei popoli, un’evocazione dell’opera d’arte
come messaggio spirituale che prende corpo in un’atmosfera blu diffusa, avvolti
nella Musica come Luce di Part che evoca una verità assoluta, inevitabile,
votiva. Wilson diviene con le sue presenze eteree e silenziose, con
gl’inconsueti oggetti sospesi della scenografia che evocano la precarietà della
situazione umana, la parte complementare perfetta ad un suono celestiale, la
pietra angolare che sostiene in silenzio l’arco del messaggio sonoro,
partecipando attivamente ad una compenetrazione scenica minimale che rasenta la
perfezione, semmai questa possa realizzarsi su questa Terra.
Talmente vasta e articolata la produzione di Robert Bob Wilson che sono di gran
lunga più le opere non citate che quelle raccontate, anche se vale ricordare a
chiusura la motivazione dell’attribuzione del premio Europa per il Teatro nel
1997: “Per la sua capacità di reinventare il teatro come arte globale”, cui mi
preme aggiungere il non detto: Attento alle sensibilità più acute e dirompenti
delle Avanguardie Storiche del Novecento. Pur pacificate.
Roberto Floreani
*Nel testo: immagini dalle creazioni di Bob Wilson; in copertina: photo Lucie
Jansch
L'articolo Bob Wilson, il pacificatore di Avanguardie proviene da Pangea.
In un articolo pubblicato sulla “London Review of Books” nel marzo del
1993, Under the Sphinx, Alasdair Gray, l’istrionico scrittore scozzese che
l’anno prima aveva pubblicato Povere creature!, esalta, con il suo linguaggio di
fulmini e coltelli, un libro – o meglio, un poeta. Il libro s’intitola Places of
the Mind, lo ha scritto un ‘collega’ di Gray, Tom Leonard (1944-2018), noto, più
che altro, per le poesie – masticate nel dialetto di Glasgow – e gli studi
critici, tesi a dimostrare l’autentica autarchia della letteratura di Scozia. Un
paio di anni prima, aveva pubblicato un acceso poemetto contro la guerra in
Iraq, On the Mass Bombing of Iraq and Kuwait, commonly known as The Gulf War. In
quel libro – Places of the Mind –, “un’autentica opera d’arte più che uno studio
critico” (così Gray), Leonard racconta “The Life and Work of James Thomson”,
geniale, oscuro, misconosciuto poeta nato a Port Glasgow nel novembre del 1834 e
morto, quarantasettenne, a Londra. Abusava di oppio, fece della poesia –
drammaticamente – la propria ragione di vita; nelle rare fotografie ha la barba,
lo sguardo tra il rabbioso e il rassegnato. Secondo Gray, “la vita di Thomson
riflette lo stato della Gran Bretagna in modo più completo di altri autori della
propria epoca, ad eccezione di Gerard Manley Hopkins e di Thomas Hardy”.
L’opera più nota di Thomson, il poemetto The City of Dreadful Night (in Italia
ne esiste una versione a cura di Mili Romano, stampata da Panozzo nel 2000),
uscito in edizione definitiva a Londra, per Reeves and Turner, nel 1880, pare
abbia ispirato la “Unreal City” su cui si incardina La terra desolata di Thomas
S. Eliot, è dedicato To the memory of the younger brother of Dante, Giacomo
Leopardi, “Spirito vertiginoso, genio radicale, finito tragicamente”. A dire di
Gray, The City of Dreadful Night nasce sotto l’egida della Melancolia di
Albrecht Dürer:
> “L’Inferno secondo Thomson è la città moderna, dove il sole non sorge mai, la
> gente vaga insonne per le strade, priva di fede, speranza, amore… Shakespeare
> ha descritto un universo privo di senso ben prima di Thomson e con parole ben
> più memorabili, ma i suoi portavoce sono re folli, comunque, personaggi
> importanti, eroici. Gli abitanti della City di Thomson, invece, sono creature
> anonime, esseri cupamente stoici. Alcuni, rammemorano una vita in cui hanno
> cercato di fare del bene: risvegliatisi ‘in questa notte totale’ hanno capito
> che la memoria è un’illusione”.
Figlio di un maggiore della marina mercantile, madre profondamente religiosa,
sconfitta da un perpetuo senso di colpa, morta che lui aveva sette anni, Thomson
cresce al Caledonian Orphan Asylum, tenta la via del giornalismo, vive, in
sostanza, di stenti. Scrisse sul “Secolarist” e sul “National Reformer”, firmava
i suoi versi B.V., ovvero Bysshe Vanolis, in onore dei suoi miti, Shelley e
Novalis. George Eliot e Meredith riconobbero a Thomson le stimmate del genio;
l’autore non aveva modo – cioè: soldi – per farsi notare tra i club dei
letterati dell’epoca. Henry Stephens Salt – biografo di Shelley e di Thoreau –
nella nota su Thomson redatta per il Dictionary of National Biography, scrisse
di “uno spirito indomito congiunto a una nefasta malinconia”, di uno “zelo
ardente per la democrazia e il libero pensiero che si coagulava a un’ostinata
diffidenza nel progresso umano”. Disse che più che a De Quincey, la sua ricerca
lirica si legava a Heinrich Heine, che aveva tradotto.
James Thomson (1834-1882)
Di contrasto ai grigi orrori della vita ‘moderna’, Thomson si figurò un Egitto
dei sogni, proteso – come tutti gli esotisti dell’Ottocento, stretti tra Le
mille e una notte e le visioni degli antichi poeti persiani – verso un Oriente
che in lui, tuttavia, ha tinte dispotiche, cannibali (così almeno nella raccolta
postuma A Voice from the Nile, and Other Poems, 1882). Non si permise di avere
pace, tentò di credere, ma di Dio intravedeva soltanto le vertigini, le vette
feline di chi chiede tutto per quasi nulla, un refolo di quiete. A suo avviso, i
poeti dovevano sondare la disperazione – anche quando è rattenuta da muta
nostalgia – e i filosofi il mistero della morte.
La nota della Encyclopædia Britannica che lo riguarda mette in luce le debolezze
di questo ‘stile’: monotonia, palustri lungaggini, “mera retorica e verbosità”.
James Thomson – la cui forma eletta è il poema, un dire che sa di pilastro,
anacoresi da stilita –, in sostanza, è uno di quei poeti che riescono bene in
regesto antologico, in grado di riferirne l’eccezionalità: “Inutile classificare
questo poeta: la sua angusta ma solitaria altezza gli garantisce il ruolo di una
ben distinta originalità… Pur con i suoi limiti, il tempo dimostrerà che la sua
è un’opera straordinaria quanto unica”.
Anche in Italia era noto: Salvatore Rosati redige per la “Treccani” (edizione
1937) una nota tutto sommato esatta:
> “Temperamento ricco d’immaginazione ma con un vivo senso della realtà; mosso
> da elevate aspirazioni spirituali ma prostrato da una grave melanconia e dallo
> scetticismo verso ogni forma di umano progresso, il Thomson ha tratto da
> queste tendenze contrastanti una poesia cupa, fortemente drammatica,
> intimamente simbolica”.
Alasdair Gray ‘canonizza’ Thomson “Nel club delle rare anime capaci di
confrontarsi con il peggio, le anime depresse per cui la poesia agì come un
tonico. Se leggiamo Thomson con acume, scopriamo che del suo mondo fanno parte
Leopardi e Schopenhauer, Baudelaire, Melville, Thomas Hardy e l’autore
dell’Ecclesiaste”. Lo scozzese non ha sbagliato mira. Quanto a Leopardi, è stato
il nume totale di Thomson, che realizzò una traduzione mirabile – a detta dei
critici – delle Operette morali e dei Pensieri (gli Essays, dialogues and
thoughts di Leopardi a cura di Thomson uscirono soltanto nel 1905, per la cura
di Bertam Dobell).
Quanto a Melville, Thomson fu la bella lettura della sua vecchiaia. Era stato
l’oxfordiano Charles James Billson (1858-1932), altrimenti noto per una
scolastica traduzione dell’Eneide e per uno studio sulle tradizioni medioevali
di Leicester, a fargliene dono. Gli scrisse la prima volta nell’ottobre del
1884: Melville viveva ormai da semisconosciuto, sepolto nelle sue lugubri
riflessioni oceaniche – “Nessuno sembra sapere nulla del solo grande scrittore
di immaginazione che possa stare alla pari di Whitman su quel continente”, aveva
scritto Robert Buchanan –, i romanzi esauriti da anni. Chiedendogli notizie
“di altri miei libri” – White-Jacket, Clarel, Battle Pieces – gli fece dono dei
libri di Thomson. Il commento di Melville non si fece attendere:
> “Il vostro amico era un poeta genuino, se mai ve ne è stato. Quanto al suo
> pessimismo, per quanto io stesso non sia né pessimista né ottimista, tuttavia
> mi piace nei versi se non altro come risposta all’esorbitante fiducia,
> immatura e superficiale, che fa tanto chiasso ai nostri giorni, almeno in
> certi luoghi”.
Il rapporto epistolare tra i due durò qualche anno, concentrandosi quasi
maniacalmente sull’opera di Thomson. Nel poeta morto troppo giovane, spossessato
del successo, Melville riconobbe un altro se stesso:
> “Quanto al suo non aver ottenuto la ‘fama’, che significa? Non è per questo da
> meno, ma tanto maggiore. Deve esservi passato per la mente, come a me, che più
> la nostra civiltà avanza sulla linea attuale più a buon mercato diventa la
> ‘fama’, specie di tipo letterario. Questa specie di ‘fama’ una mia conoscenza
> burlona dice che può essere prodotta su ordinazione…”
>
> (H. Melville a J. Billson, New York, 20 dicembre 1885, in: H. Melville, Opere,
> a cura di M. Bacigalupo, Mondadori, 1991)
Da qualche tempo, anche come una reazione al ‘linguaggio’ del tempo, Melville
era tornato alla poesia. Pubblicava piccole placche, in tirature limitatissime
(venticinque copie): John Marr and Other Sailors esce dai torchi nel
1888; Timoleon, Etc. nel 1891. Forse la lettura di James Thomson, poeta
decentrato da una malia oscura, fiero della propria ricercata marginalità, lo
aveva rinvigorito, gli aveva conferito nuovo veleno lirico.
In cambio dei volumi di Thomson – compresa la raccolta di saggi al
vetriolo, Satires and profanities, anch’essa edita postuma – Billson avrebbe
voluto una fotografia di Melville. Il grande scrittore si scherma – “mi avete
chiesto una fotografia: non ne ho” –, poi parla di Blake – “Mi fa piacere
apprendere che Thomson era interessato a William Blake” – spalancando lo spazio
di un incontro. Gli altri si occupino pure di fotografie, meri calchi del
transitorio, Melville imbarcava una ciurma di poeti esagitati per cacciare la
Balena Bianca nell’altro mondo. Cosa può il tempo di fronte a questo sgarbo?
***
Da Una voce dal Nilo
Vengo da monti diversi, vivo sotto
stelle che non si riflettono su queste acque;
vago per vasti regni, per cieli capodoglio scorro
oltre dune arabe e libiche, per immergermi
nel grande Mare di Mezzo ed è mia
questa terra d’Egitto. Tutto è mio:
la palma e la colomba che la elegge a tana
i campi di grano e ogni fioritura
la pazienza del bue e il coccodrillo
l’ibis l’airone il falco
il loto e i papiri in falange
le barche dalle vele oblique
o le ripide che spezzano ogni ormeggio.
Perfino i volti possenti dei templi
con le colonne e le enormi effigi,
le piramidi e Memnone e la Sfinge
il Cairo e le città dei Greci
come Menfi e Tebe dalle cento porte
Sais e Dendera retta da Iside;
se sono cresciuti è perché li ho nutriti.
Se nego il mio flusso, carestia
devastante miete vittime tra gli uomini
che nulla hanno da mietere
e orrore e languore sgorgano ovunque;
quando, retrattile, ho deviato altrove
i miei eterni fiumi, gli antichi reami
si sono inariditi, fama infame li affligge,
ricoperti dalle sabbie del deserto:
scompaiono sepolti e dov’era oro
ora è silenzio solitudine morte.
L’esattezza del silenzio, mentre trottano
i venti sopra la desolazione, implacabile.
*
Da Despotismo temprato dalla dinamite
I miei schiavi, gente dei campi, lavorano
senza fine e dormono, da fatica sfiancati.
Non sperano in un mondo migliore
eppure, disperati, la morte non li avvinghia nell’incubo.
Si accontentano del loro scarso cibo, in pace –
con terrore guardo al giorno della mia incoronazione.
I palazzi sono la mia prigione;
in ogni cibo intravedo il veleno;
ovunque mi muovo, è timore
di esplosione, istantanea devastazione;
con terrore, ogni giorno, ogni notte, con
moltiplicata paura, guardo al giorno della mia incoronazione.
*
Da The City of Dreadful Night
A volte soltanto la rabbia, fredda
può mostrare gli sfregi della verità
nuda, spoglia di ogni inganno:
i falsi sogni, i falsi moniti,
le futili maschere della moina giovinezza
e in una specie di indocile innocenza
plasmare il dolore in vita, per quanto rozza.
Di certo, non scrivo per i ragazzi pieni
di speranze, per chi crede nella felicità
e pascola e ingrassa tra gli spettacoli dell’esistere
senza provare dubbio, senza sentire carenza e carestia
non scrivo per gli spiriti buoni, allattati
da un Dio che li santifica e li ama
né per i saggi che vedono il paradiso in terra.
Per costoro non scrivo: non potrebbero
neppure leggere questo scritto – continuino
pure a prosperare nella loro giustizia
su questa dolce terra, veleggino
pure nei loro appropriati cieli. Queste parole
appartate importano ai desolati, ai rosi
dal destino, a quelli che desiderano morte.
Qualche stremato vagabondo, forse,
in questa città di tremende notti
capirà il mio dire, franerà in un fremito
compagno nella disastrosa lotta:
“Soffro, muto e solo, eppure un altro
ulula comune dolore e mi fa sentire
fratello sugli stessi sentieri selvaggi”.
Triste fratellanza, rivelo forse
misteri imbavagliati dal tempo?
No, nessun segreto può essere
rivelato a chi non lo ha visto.
Chi non è iniziato ai presagi
non può comprendere il verbo
che continuo a urlare.
*
Da Nuda divinità
D’improvviso, le bestie si accucciano;
gemono, sopraffatte; i popoli
cadono in ginocchio davanti
alla dea feroce e splendida
offesa per incuria;
flebile preghiera mormorano
inarticolate disperazioni
finché il suo aspetto altero
non si svolge in gentilezza.
*
Confessione
La Chiesa si erge laggiù, oltre il frutteto:
con quanta nostalgia contemplo le sue guglie!
Mistero eletto dal crepuscolo che si dissolve
in un fuoco dorato, come tenue incenso
dilaga all’alba e scava i cieli.
Quando il cuore sprofonda nel baratro
più fondo, un sussurro mi rincuora: è bello
entrare in chiesa, inginocchiarsi, pregare
per le persone che amiamo.
Ogni incredulità svanisce, la pace
scorre in noi come la campana nel Sabato.
L’anima risponde: Il buon riposo accade
quando appoggi il capo sul petto della Verità.
*
Da Il filosofo
Come vendicare la propria alterità?
Occhi che mendicano approdo, sondano
la superficie della terra, ascendono ai cieli,
investigano e ogni cosa si arrende a questo
arrembaggio: vuoto avvolge tutto
un fuoco divampa e sembra un fiore.
Perfora la bellezza e vede ossa
reticolo di vene, l’orrore della carne
sotto la pelle perlacea, giovane:
varca lo Spazio, vaga nella nebbia che tutto
avvolge, nuota nelle acque del Tempo nel nero
abisso; capisce che la Vita è un sogno
nel sonno eterno della Morte.
James Thomson
*In copertina: un acquerello di Victor Hugo
L'articolo “Di certo, non scrivo per chi confida nella felicità”. Storia & versi
di James Thomson, il poeta malinconico proviene da Pangea.
> “Io non sono un uomo, sono dinamite”
>
> Friedrich Nietzsche
Ci vuole coraggio a leggere Valerio Zecchini, onestà intellettuale, capacità di
ragionare trasversalmente, di confrontarsi criticamente e in solitudine con se
stessi, consapevolezza della provvisorietà di certi giudizi e della
insussistenza della “nera scienza catalogale”, avanguardistica brama
demolitoria, voluttà di cieli e di fango, vocazione per la provocazione e per la
tradizione vivente, che trascende i suoi stessi dogmi, i luoghi comuni.
Con questo spirito e rassegnati financo a non condividere affatto alcune delle
sue tesi, è possibile esperire l’essenza di un libro che è molto più di un
reportage sulle orme di un poco noto fondatore di Stati quale è stato il
carismatico James Brooke. La silloge di articoli, interviste e poesie James
Brooke e altre storie dall’Oriente estremo, edito da Pendragon nel 2025 e
introdotto da Gabriele Marconi, sulla carta prende difatti le mosse dalla
enigmatica, succitata figura per poi discostarsene conservandone per così dire
la tendenza alla esplorazione, a tratti sonnambolica, labirintica e surreale, di
luoghi fisici e metafisici, delle emozioni, delle culture, delle arti, del
pensiero. L’idea di partire da James Brooke, ovvero dal cattivo della saga
salgariana di Sandokan e ispiratore di Lord Jim di Conrad, ha qualcosa di
libertario. Brooke, ancora oggi celebre nel mondo anglosassone e pressoché
sconosciuto in Italia, non fu infatti soltanto un individuo benestante di sangue
inglese nato in India da un funzionario della Compagnia delle Indie Orientali e
un ufficiale della marina britannica, ma un rajah bianco che governò in
autonomia ed estese lo Stato del Sarawak fondando nella città dei gatti
(Kuching) una vera propria dinastia (1841-1946). Brooke realizzò anche un
originale esperimento politico che non si ridusse alla guerra contro i pirati
malesi e i cercatori di teste avendo invece come principio fondamentale il
coinvolgimento dei nativi (“ideologia dell’imperialismo umanitario”); dotato di
“semangat” (“coraggio fisico, carisma, forza spirituale”), fu pure un elegante
libertino; un omosessuale amante come Pasolini di giovani in un tempo in cui
l’adolescenza, scrive Zecchini, non era stata ancora inventata; un artista, se
accettiamo di annoverare tra le arti quella della vita. E in fondo l’idea
secondo cui l’arte e la vita siano una sola cosa e che dunque, sprofondando
talvolta nell’abisso di abbandonate strade e parole, si debba forgiare
l’esistenza come un’opera, è il retroterra di molte delle riflessioni di
Zecchini, il quale è primariamente – potremmo dire alla Wagner “totalmente” – un
artista (non a caso fondatore, col compianto Dario Parisini e Luca Oleastri, del
post-avanguardistico progetto poetico-sonoro Post Contemporaney
Corporation nonché artefice nel 2024 dell’evocativo, visionario, corrosivo,
esoterico e a dir poco provocatorio album Patriottismo psichedelico).
Certo, la parola “artista” potrebbe fuorviare laddove si intendesse alludere a
un certo tipo di “sentimentalismo abietto” che, potendo sfociare in un cieco e
vuoto individualismo edonistico, potrebbe ingenerare cedevolezza interiore,
debolezza di carattere e di pensiero. L’arte di Zecchini non ha infatti nulla di
cedevole ma molto di eroico, marziale, immaginifico, “futuristico”, potentemente
dadaistico – come mostra lo stesso incedere dei suoi irriverenti versi declamati
e delle poesie presenti nella stessa raccolta. E, in effetti, ciò che attrae di
più di questo libro e in parte della stessa produzione musicale di Zecchini, non
ha a che fare soltanto con le seppur stimolanti informazioni di prima mano sulla
situazione di vari Stati dell’Estremo Oriente e con la vivida capacità di
scandagliarne l’anima al di là dei fenomeni politici transeunti. Ciò che
coinvolge e apre maggiormente alla riflessione è piuttosto la weltanschauung da
cui tutto, esperienze e viaggi compresi, si anima. Ci si riferisce all’idea
secondo cui la stessa Tradizione resta viva e non scade in “stolida adorazione
della consuetudine” nel momento in cui la si interroga e violenta tutti i
giorni; ci si riferisce inoltre alla volontà di decostruire con spirito
iconoclasta l’uomo contemporaneo e i suoi “troppo umani” ideali per dischiudere
una via che conduca alla formazione dell’individuo assoluto – tipo umano
diametralmente opposto all’ultimo uomo che solca con esibizionistica spavalderia
e sconfortante superficialità le lande di questa età oscura.
Per realizzare questo compito dalla portata metafisica si dovrebbe procedere
oltre le de-terminazioni incasellanti, praticare se stessi al di là del bene e
del male, sprigionare le energie ataviche e avvicinarsi a una dimensione
di coincidentia oppositorum da cui diventare dinamicamente “ciò che si è”.
Considerando questi principi che, pur discostandosene parecchio, sembrano qua e
là rievocare per quel che concerne gli argomenti la metafisica del sesso di
Julius Evola, è possibile – ma non facilissimo né necessariamente condivisibile!
– interpretare la pratica del travestitismo come un modo per trascendere i
propri limiti e identificarsi, mediante una esistenza estetica e controcorrente,
con un essere androgino. In questo senso viene analizzata la figura
dell’Onnagata del teatro giapponese che, pur essendo di sesso maschile e non
profanando il proprio sacro corpo, si veste e vive come una donna non soltanto
quando recita, ma anche quotidianamente. Egli ha così modo di immedesimarsi
integralmente con la figura primordiale che rappresenta “facendo della sua
esistenza un sublime esercizio di stile”, realizzandosi hic et nunc, “come se si
fosse sempre in punto di morte”. Per evitare che il discorso tracimi nella
celebrazione del mondo LGBT e dunque del mondo moderno che lo incornicia,
Zecchini, pur non scadendo in una acritica e banale demolizione di questo
universo ma ricordando comunque “l’edonismo pezzente che domina il mondo drag
queen e transgender”, sottolinea come nell’età classica l’omosessualità fosse
vista alla stregua di un potenziamento della virilità e assumesse in certe
culture orientali una funzione sacrale, essendo l’omosessuale considerato una
sorta di tramite tra il mondo fenomenico e quello sovrannaturale, degli dèi.
Nella misura in cui non degenerino in forme di individualismo materialistico e
di nichilismo passivo ma siano pura epifania di un’“etica della gioia”, di un
“militarismo che danza”, certe esperienze erotiche e la relativa estetica
assumerebbero perciò un valore esistenziale, filosofico, finanche morale. Non si
tratterebbe infatti di rivendicare semplicemente i propri diritti e di
combattere per l’esaudimento dei propri desideri, ma di esperire quasi
cristologicamente il proprio dolore minando con grazia, artisticità e colore i
duri involucri che imprigionano e irretiscono le energie primigenie per farle
eruttare in una sorta di amoralistica volontà di potenza oltre ogni limite
imposto:
> “dare precedenza a un ideale estetico e non alla solita, obbligatoria logica
> del profitto è un atteggiamento che oggi già di per sé assume una valenza
> quasi eroica”.
In questo senso si comprende quanto l’autore scrive di Mishima:
> “nella sua vita e nella sua opera le virtù virili archetipiche (audacia e
> determinazione, senso dell’onore, controllo delle passioni, resistenza al
> dolore) incontrano finalmente la grazia e l’eleganza”.
Nella intervista contenuta nel libro il poliedrico artista spiega tra l’altro la
teoria del quarto sesso – “quarto” rispetto a maschile, femminile, omosessuale.
Zecchini rispolvera a tal proposito il Manifesto della donna futurista e
il Manifesto futurista della lussuria di Valentine de Saint-Point e cita il
“femminismo differenzialista” di Luce Irigaray pensando che ritenere nulle le
differenze tra i sessi costringa infine il femminile ad adeguarsi al modello del
“maschio integro”; Zecchini afferma che le differenze tra i sessi vadano
sviluppate ma che allo stesso tempo alcuni possano sperimentare “le pluralità
contenute in quelle differenze” per “vivere negli stati molteplici dell’essere”
puntando “all’inveramento dell’individuo unico e assoluto” e trovando nel
travestimento stesso la modalità per esplorare la vera essenza dell’uomo:
l’angelo, “entità androgina per antonomasia”. Il poeta ci tiene altresì a
sottolineare che il quarto sesso non è altro che lo stesso Zekkiny:
> “l’altissima qualità della sua vita interiore, la sua sovrabbondanza ormonale
> e il modo in cui reagiscono la sua opera e il suo mondo relazionale a tale
> sovrabbondanza”.
Di conseguenza pare che, pur essendo rispettate e sviluppate le differenze di
genere, queste si possano evidentemente celare financo in uno stesso individuo e
solo pochi avrebbero la capacità estetica di attuarle tutte e di coagularle
alchemicamente in un unico plurivalente modo di essere tramite la via della
“sperimentazione dinamica”. È così che, oltre al sottofondo antiumanistico che
ricorda per certi versi l’analisi heideggeriana e ai riferimenti alla
riflessione filosofica e artistica post-contemporanea, si colgono i richiami
nietzscheani che tra l’altro indirizzano a rivalutare in positivo
l’estetizzazione della esistenza, la quale, però, non deve innescare recessivi
fenomeni di infiacchimento, ma al contrario autodisciplina, lavoro incessante su
se stessi, spasmodica cura dei particolari e dello stile, spirito guerriero,
forza plastica, a un tempo dionisiaca e apollinea, femminile e maschile. Nella
esperienza di alcuni individui straordinari, ovviamente non necessariamente
omosessuali, l’uomo sarebbe destinato a essere superato o, a seconda di come si
interpreta la stessa nozione di Übermensch, potenziato a tal punto da
oltrepassare la mera individualità egoica e le sue rigide conformazioni per
essere come le onde del mare altro dal mare e lo stesso mare, la sua indomita,
sempiterna, multiforme, elementare energia creatrice. Questa trasfigurazione che
assume valenze esoteriche e dopo la morte di Dio sfocia in una sorta di estetica
pratica dell’estasi, coinvolge l’esistenza integralmente facendo dell’arte un
modo religioso della vita e della vita un modo religioso dell’arte. Siffatta
sacrale estetizzazione non può rinnegare i materiali che utilizza per conferire
bella forma al mondo.
Affiora perciò non solo la propensione a considerare il nichilismo in senso
attivo ma a cavalcare senza remore moralistiche la tigre della modernità
servendosi dei suoi stessi strumenti tecnologici e virtuali; per questo ad
esempio sono valutate positivamente la “poetica del pixel” di Yayoi Kusama e la
connessa filosofia della “self-obliteration” che intende “annullare l’io di
superfice e farlo uscire dal gioco dei ruoli e delle funzioni” per “percepire
noi stessi in modo tale da pervenire ad un’inscindibile armonia tra intimo ed
estrinseco”. Epperò, se da un lato è necessario decostruire per ricreare e
redimere il mondo nella bellezza, dall’altro bisogna essere inattuali e, al di
là della stessa avanguardia, indossare “la lucente corazza della Tradizione”
facendone propri i valori essenziali: coraggio iconoclasta, aristocratico senso
della irriverenza, ardore e senso della sfida, dignità e “capacità di sapersi
accontentare” contro la morbosa etica del profitto, “autentico cameratismo” ,
“amore per la natura” e non per l’efficienza, “amore di patria” e non
“sciovinismo”, saper essere all’occorrenza semplici e frugali, capacità di
comandare e di avere fede, ad esempio nell’Imperatore. I nomi che in un modo o
nell’altro e ognuno in modo originale hanno costruito delle vie in un certo
senso estetizzanti e assai critiche rispetto al mondo moderno sono tanti, tra
questi Pound, D’Annunzio, Keller, Miller, Marinetti, Carmelo Bene, Dino Campana
e vari altri artisti come Andy Warhol o Takashi Murakami, musicisti come
Battiato e scrittrici come Wei Hui.
Il superamento estatico della morale borghese e del moralismo nonché la stessa
sublimazione estetica e la capacità di disfare l’individualità “per approdare
all’oceano della pura coscienza” ed “essere tutto senza tentare di essere
qualcosa”, possono concretarsi anche nella via dello zen (“raccoglimento e
silenzio”) o nella via del rumorismo elettronico (“pulsare ossessivo del ritmo”)
e possono produrre a seconda dei casi anche l’auto-annientamento – di cui è
emblema moderno il sacrificio catartico di Mishima.
Il libro di cui si discute è denso di informazioni sugli Stati asiatici dei
quali Zecchini ha vissuto con poetico slancio dionisiaco strade, uomini e numi.
Non ci troviamo perciò davanti a una esegesi che pecchi di astratto accademismo,
ma di fronte a una interpretazione assai personale della civiltà orientale che
si incontra con la corruttiva occidentalizzazione, con la globalizzazione e che,
in alcuni casi, fa i conti col devastante passaggio del comunismo. E se con
perfetta, a tratti spietata sincerità l’autore osserva come buona parte degli
Stati in questione siano assai diversi dall’idea rarefatta che di solito se ne
ha in Occidente, ci fa percepire pure che qualcosa di originario è rimasto.
L’originario, però, è tale se è in grado di reinventarsi illimitatamente, come
fanno alcuni leader orientali armonizzando consumismo ed ecologismo, libertà e
senso della comunità, crescita economica e solidarietà, modernità e tradizione,
io e noi. Con Zecchini si ha l’impressione che l’Occidente possa essere letto a
partire dall’Oriente e l’Oriente a partire dall’Occidente per approdare forse a
una nuova, viva sintesi che, pur rispettando le reciproche differenze, parimenti
le distilli e potenzi in una originale concezione del mondo e
dell’uomo. Leggendo Zecchini si ha infine l’impressione che nella autentica
ricerca di se stessi gli schemi debbano per forza saltare in aria e i luccicanti
frantumi barbagliare nel caotico ordine di un etere rinnovellato. Si tratta del
cielo di un falco inattuale, intimo dei demoni e intero nel frammento, che come
un terribile, altro viandante agisce rapsodicamente
> “contro il tempo, e in tal modo sul tempo, e, speriamolo, a favore di un tempo
> venturo”.
Luca Caddeo
*In copertina: una fotografia dal Giappone di Felice Beato (1832-1909)
L'articolo Contro il tempo. Il manuale marziale di Valerio Zecchini proviene da
Pangea.
Il libro fu presentato il 20 ottobre del 1882, al civico 128 della
trentaquattresima strada, New York. Era la casa di un dentista, John Ballou
Newbrough; il secondo nome, Ballou, gli era stato dato in memoria di Hosea
Ballou, il teologo della chiesa universalista. Newbrough era nato il 5 giugno
del 1828 in Ohio, nella fattoria di famiglia; il padre, William, era un uomo
duro: sfamava i sei figli con i frutti della sua terra. Abile coltivatore,
faceva scoccare la cinghia sul corpo di John per sedarne le ‘visioni’: il
ragazzino era dotato del dono della profezia. Si dice avesse fatto fortuna in
California, setacciando oro, poco più che ventenne. Aveva studiato al Cincinnati
Dental College: lo zio dirigeva un manicomio, la madre, di origine svizzera,
aveva un cuore trepidante, propenso al fervore mistico.
Ma torniamo all’ottobre del 1882. Il libro aveva un titolo-totem, allo stesso
tempo enigmatico e astruso, Oahspe: nel glossario annesso al tomo, l’autore
spiegava che il neologismo voleva dire “Cielo, terra (corpo) e spirito. Il
tutto; la somma della sapienza corporale e spirituale”. Il tutto – e il nulla.
Il sottotitolo dell’Oahspe amplificava le nebbie. Il libro era presentato come
“una Nuova Bibbia” che divulgava le “Parole di Jehovih e dei suoi Angeli
Ambasciatori”. Era lì squadernata – così sproloquiava il titolo –: “La sacra
storia del dominio degli esseri celesti e inferi sulla terra da ventiquattromila
anni con una sinossi della cosmogonia dell’universo, la creazione dei pianeti,
la creazione dell’uomo, parole inaudite intorno alla gloria e all’opera degli
dei e delle dee degli eterei cieli con i nuovi comandamenti di Jehovih
all’uomo…”. Il libro era stampato a New York e a Londra da una fantomatica
Oahspe Publishing Association.
Non era il primo libro pubblicato da John Newbrough. Nel 1855 aveva provato –
con poco successo – il romanzo: The Lady of the West, or the Gold
Seekers narrava una storia d’amore all’epoca della corsa all’ora. Era tornato
quell’anno negli States dopo aver viaggiato per il globo; l’amore con Rachel
Turnbull, la sorella del suo socio in affari, durò un ventennio, per l’arco di
tre figli. John, che aveva aperto uno studio dentistico e New York, finì per
invaghirsi della sua assistente, Frances, di trent’anni più giovane, da cui ebbe
una figlia, Jone ‘Justine’: la moglie lo cacciò di casa. Era un uomo di genio,
che deteneva diversi brevetti: uno di questi, per un fissante per denti molto
più economica di quello in vogo, lo fece scontrare con un colosso, la Goodyear
Rubber Co. Inventò un ventilatore, un attrezzo per esercizi ginnici, un mezzo
ferroviario, un metodo per costruire denti artificiali. Non è raro, negli
States, che una mente ‘scientifica’ si associ all’eccedenza mistica.
Quanto all’Oahspe, aveva cominciato a redigerlo nel 1880, ascoltando le ‘voci’,
secondo i criteri della scrittura automatica. Così, in una lettera spedita nel
1883 al direttore della rivista spiritualista “Banner of Light”, spiegò
l’evento:
> “Implorai la luce del Cielo. Non volevo più comunicare con amici o parenti,
> desideravo imparare qualcosa del mondo spirituale, cosa facessero gli angeli,
> quale fosse il destino dell’universo… Mi fu detto di procurarmi una macchina
> per scrivere, di scrivere come se suonassi un pianoforte. Mi applicai per
> imparare, con scarso successo… Una mattina, una luce colpì le mie mani, gli
> angeli che fino a quel momento avevano cercato di istruirmi si avvicinarono
> alla macchina scrivendo con grande vigore per circa quindici minuti. Mi fu
> imposto di non leggere ciò che era scritto, obbedii con riverenza. La mattina
> dopo, poco prima dell’alba, lo stesso potere tornò e scrisse, di nuovo… Per
> cinquanta settimane le cose accaddero in questo modo, ogni mattina, mezz’ora
> prima dell’alba. Poi tutto finì e mi fu detto di pubblicare il libro chiamato
> ‘Oahspe’”.
Il libro era costellato da geroglifici, opera dell’autore – o meglio, degli
autoritari autori del testo – ad amplificare l’astrale stranezza di quel
linguaggio ignoto. La “Nuova Bibbia” procedeva per novecento pagine, suddivisa
in diversi libri: in uno di questi, First Book of God, si parla di “una
generazione di Luce scaturita da Zarathustra”, che avrebbe dato vita all’impero
cinese, deviando dagli insegnamenti del creatore:
“Ad Han fu chiesto: Un uomo non deve adorare l’Invisibile? E lui rispose:
Adorare una pietra è meglio, perché la vedi.
Han disse: Non adorate con le parole, ma con le opere; la preghiera non è che il
grido della propria debolezza.
Se esiste una Luce invisibile, farà a suo modo: che senso ha pregare? Riti e
cerimonie in Suo favore sono mania di folli. Riti e cerimonie per i nostri
antenati sono scusabili. Le loro anime fluttuano, i riti le placano”.
Un giornalista del “New York Times” accorse all’evento. Scrisse che il “dottor
Newbrough è uno spiritualista da circa dodici anni. Nativo dell’Ohio, pratica
come dentista”. Scrisse di un uomo “dalla stazza imponente, con occhi scuri e
penetranti, che si muove con peculiare lentezza”. All’evento erano convenute
diverse persone. Il giornalista sfogliò una copia del libro: al Book of
Jehovih segue il Book of Sethantes, il Book of Ah’shong, Son of Jehovih, il Book
of Aph. La struttura dell’Oahspe è labirintica, spesso contraddittoria: al
creatore assoluto – Jehovih, che è poi un modo per dire Jahvè o Geova – seguono,
in gregarie dinastie, divinità minori, ‘cadute’, e cosmogonie in disastro. I
libri di dottrina morale – Book of Judgment; Book of Discipline – che predicano
un generico irenismo, una generica ‘ricerca interiore’, una super-religione che
superi secolari dissidi, una ‘forma’ che sovrasti i formalismi rei di scisma e
di guerre religiose, promuovendo una dieta ferrea, vegetariana, sono meno
interessanti dei libri ‘mitologici’. In uno di questi, il Book of Saphah, si
accenna a regni perduti – Pan, “un continente nell’Oceano Pacifico, sommerso
circa 25mila anni fa” – e a linguaggi smarriti. Nella lingua dell’Oahspe la
facoltà profetica, “la capacità di vedere o udire gli angeli”, si dice Su’is.
Il giornalista non virò dal vero: “A un osservatore, questa Bibbia pare una
rivisitazione di testi indiani e fedi semitiche. Lo stile è in parte moderno in
parte ancestrale, quasi che la Bibbia di Re Giacomo e quella cristiana si siano
fuse nell’inglese dei nostri giorni”. Il pezzo uscì sul “NY Times” tra i fatti
curiosi, in taglio basso; titolo: “Un volume ‘ispirato’ racconta 24mila anni di
storia”. Non è inutile ricordare che la Società Teosofica di Madame Blavatsky
era nata proprio a New York qualche anno prima, nel 1875. Con qualche talento,
John Newbrough aveva miniato il suo libro regolandosi sui testi gnostici, sui
dialoghi buddisti, sul rigore assertivo della rivelazione coranica.
La “Nuova Bibbia” ebbe un suo, pur modesto, esito. Nel 1884 Newbrough, insieme a
un facoltoso mecenate del New England, fondò una colonia a Las Cruces, nel New
Mexico; gli si fecero attorno una ventina di accoliti. Edificarono scuole per i
bambini orfani. Chi confida nell’Oahspe come testo chiave della propria ricerca
interiore – Newbrough in questo è chiaro: il libro che gli è stato ‘rivelato’
deve essere ‘superato’ dalla singolare capacità di ciascuno – si
chiama Faithist. Così è spiegato il neologismo nel glossario redatto da
Newbrough: “Faithist è colui che ha fede in Jehovih, l’essere che è al di sopra
e all’interno di ogni cosa; è colui che lavora per entrare in sintonia con
Jehovih, operando per il bene del prossimo, sforzandosi di abbandonare
l’egoismo”.
La comunità di Las Cruces, “Shalam Colony”, fu decimata da un’epidemia di
influenza, nel 1891. Anche il maestro, Newbrough, morì, era il 22 aprile.
Sporadici gruppi di Faithist nacquero nello Utah e in California, a Anaheim, in
Colorado e in Oregon; alcuni si coalizzarono in Olanda e in Australia. Un
“Circle of Jehovih’s Word” promuove ancora oggi l’Oahspe come testo per la
liberazione interiore, con parole di fatua intensità: “L’Oahspe instilla
insegnamenti che equilibrano il mondo visibile con quello invisibile, come la
sapienza dei Nativi sul rispetto degli spiriti della terra, del cielo e delle
acque. Insegna che la vita è interconnessa e che gli esseri umani hanno la
responsabilità di vivere in pace tra loro e con il mondo che li circonda”.
Dall’Oahspe hanno tratto un lezionario e un salterio che viene ‘pregato’ ogni
giorno.
L’aspetto ‘etico’, tuttavia, è infimo rispetto a quello ‘visionario’, il più
interessante dell’Oahspe. Più che alla Bibbia – di cui scimmiotta il ritmo –
l’Oahspe, nei sui lati fecondi, rimanda a William Blake, ai canti persiani
reinventati dagli orientalisti inglesi, è il preludio ai racconti magmatici di
H.P. Lovecraft. Allo stesso modo, l’Oahspe fonde il talento ‘commerciale’
statunitense all’esotismo europeo, la chiromanzia e il brevetto, l’estremo
razionalismo con l’assoluta irrazionalità, Edgar Allan Poe e l’esotismo di
Jean-Léon Gérôme. Per queste ragioni, l’Oahspe, testo che altrimenti fluttua tra
la dimenticanza e l’oblio, affascinò un poeta come David Gascoyne, che ne disse
come del “Libro più stupefacente mai scritto in inglese” (in: D.
Gascoyne, Selected Prose 1934-1996, Enitharmon, 1998). L’esagerazione era
appropriata al suo carattere ‘apocalittico’: sodale – per un po’ – dei
Surrealisti, seguace di Benjamin Fondane – a cui faceva filosofiche visite
notturne – era ritenuto un redivivo Rimbaud e aveva tradotto, a tradimento,
Friedrich Hölderlin. Usava l’Oahspe come oppiaceo lirico, per galvanizzare i
suoi versi, tra l’altro bellissimi – per un po’, si credette investito di un
compito messianico, per un po’ lo reclusero al Whitecroft Hospital, sull’Isola
di Wight, dopo l’ennesimo crollo mentale. Del dio, nel libro, il poeta riconobbe
la carcassa: squittiva il vento in quell’ossario, faceva bei suoni, che
inorgoglivano le orecchie, davano in sfoggio d’aquile. Era sufficiente.
***
Oahspe
1 Il Creatore, Jehovih, creò l’uomo e gli disse: Affinché tu sappia che opera
della Mia mano sei, sapienza ti ho concesso e potere e dominio. Questa fu la
prima era.
2 Ma l’uomo era fragile, camminava sul ventre e non capiva la voce
dell’Assoluto. E Jehovih chiamò i suoi angeli, gli antichi della terra, e disse
loro: Andate, sollevate l’uomo, che sia eretto, e consegnatelo al sapere.
3 E gli angeli discesero dal cielo alla terra e sollevarono l’uomo. E l’uomo
errò sulla terra. Questa è detta seconda era.
4 Jehovih disse agli angeli che scortavano l’uomo: Ecco, l’uomo si è
moltiplicato sulla terra. Radunate gli uomini, insegnate loro a vivere in città,
a forgiare nazioni.
5 E gli angeli di Jehovih insegnarono ai popoli della terra a vivere insieme in
città e nazioni. Questa è la terza era.
6 Fu in quel tempo che la Bestia (il sé) si impennò davanti all’uomo e gli parlò
dicendo: Possiedi ciò che vuoi perché tutto è tuo e ti obbedisce.
7 E l’uomo obbedì alla Bestia e la guerra dilagò nel mondo. Questa è la quarta
era.
8 Ma l’uomo ammaccato nel cuore si ammalò e reclamò la Bestia e gli disse: Tu
hai detto: Possiedi ciò che vuoi perché tutto è tuo e ti obbedisce. Ora, guerra
e morte mi accerchiano. Ti prego, insegnami la pace!
9 Ma la Bestia disse: Non a portare la pace sulla terra sono venuto, ma a
portare la spada. Sono venuto a mettere discordia tra il figlio e suo padre, tra
la figlia e sua madre. Qualunque cosa tu vuoi per cibo, prendila, sfamati, che
sia carne o pesce, non pensare al domani.
10 E l’uomo mangiò carne e fu carnivoro e l’oscurità lo avvolse: non udì più la
voce di Jehovih e smise di credere in Lui. Questa è la quinta era.
11 E la Bestia spalancò le sue quattro enormi teste e fu padrona della terra. E
l’uomo si prostrò, e l’uomo si mise in adorazione.
12 E i nomi delle quattro teste della Bestia erano: Bramino, Buddista,
Cristiano, Musulmano. E si divisero la terra, la spartirono fra loro e scelsero
eserciti per mantenere le proprie proprietà.
13 I Bramini avevano sette milioni di soldati, i Buddisti venti milioni, i
Cristiani sette milioni, i Musulmani due milioni – loro mestiere era uccidere
gli uomini. E l’uomo dedicò parte della vita alla guerra e alla proliferazione
di eserciti e l’altra parte alla dissolutezza – era schiavo della Bestia. Questa
fu la sesta era.
14 Jehovih disse all’uomo desisti dal male, ma l’uomo non lo ascoltava.
L’astuzia della Bestia aveva trasformato la carne dell’uomo e la sua anima si
era nascosta in una nube – l’uomo amava il peccato.
15 Jehovih allora chiamò i suoi angeli e disse: Scendete ancora sulla terra,
dall’uomo, che ho creato perché dalla sua terra traesse godimento e dite
all’uomo: Così dice Jehovih:
16 la settima era è prossima. Il tuo Creatore comanda la conversione: da uomo
carnivoro e violenta diventa erbivoro, vivi in pace. Le quattro teste della
Bestia saranno eliminate, la guerra sedata
17 i tuoi eserciti saranno sciolti e da quel momento non esisterà più la guerra
perché questo comanda il tuo Creatore.
18 Non avrai alcun Dio né Signore né Salvatore oltre a Jehovih, colui che ti ha
creato! Adorerai soltanto lui, di ora in ora, da ora e per sempre. Io precedo le
mie creazioni, sono autosufficiente
19 e a tutti quelli che si separano dal dominio della Bestia, stipulando patti
con me, darà il mio regno
20 e costoro saranno detti eletti: il patto e le opere li faranno miei sulla
terra, Fedeli saranno chiamati,
21 ma chi ha stipulato patti con la Bestia, sarà chiamato Uziano che significa
distruttore. E d’ora in poi ci saranno due categorie di genti sulla terra:
Fedeli e Uziani.
22 E gli angeli del cielo discesero sulla terra, apparvero all’uomo, a
centinaia, a centinaia di migliaia, e parlarono come parla un uomo, e scrissero
come scrive un uomo, insegnando le parole dette da Jehovih.
23 E nel trentesimo anno, gli Ambasciatori delle angeliche schiere rivelarono
all’uomo, nel nome di Jehovih, i Suoi regni celesti; resero note le Sue superbe
creazioni per la resurrezione dei popoli della terra.
24 Oahspe, immacolato libro, insegna ai mortali come ascoltare la voce del
Creatore e vedere i Suoi cieli, nella consapevolezza, mentre sono ancora vivi;
che conoscano il luogo e la condizione che li attende dopo la morte.
25 Né tali rivelazioni dell’Oahspe sono del tutto nuove ai mortali: le stesse
cose sono state rivelate a molti che vivono a grande distanza l’uno dall’altro,
privi di contatti tra loro.
26 Poiché questa luce è onnicomprensiva, abbraccia cose corporee e spirituali,
ed è chiamata era del Kosmon. Poiché si riferisce alla terra, al cielo e allo
spirito si chiama Oahspe.
*
Libro di Osiris, Figlio di Jehovih
1 E ora giunse Osiride, Figlio di Jehovih. A lui, sul suo trono a Lowtsin,
nell’etereo mondo, dove il suo regno per centomila anni aveva illuminato molte
stelle corporee, giunse la Voce, Jehovih il Grande, lo Spirito di ogni cosa, e
disse:
2 Osiride! Osiride: Figlio mio, lascia gli immortali mondi, artiglia la peritura
terra nel tuo volo obliquo; e proclama, con lo scettro levato, te stesso, l’Uno,
il Dio che comanda. Come un padre indulgente cammina accanto al figlio,
guardandolo con tenerezza e offrendogli i suoi consigli, così io, tramite i miei
Dèi e i miei Capi, ho persuaso la rossa stella per molte migliaia di anni. Ma
come un padre saggio si rivolge al figlio reietto, ormai in età, e gli ordina
cosa deve o non deve fare, così io, tramite te, devoto figlio, stendo la mano
sulla terra e sui suoi cieli.
3 Giace sepolta nell’abisso, resa all’anarchia, manovrata da falsi dèi e falsi
principi, che devastano con la guerra i suoi cieli e riversano sul suo suolo
milioni di spiriti della tenebra, che soltanto il crimine sazia. Come tronchi
alla deriva su un oceano che ribolle, così gli spiriti dei morti si levano dalla
terra al cielo per essere nuovamente precipitati.
[…]
9 Come una stella si nutre del mutare delle stagioni, così Jehovih guidò l’orda
dei suoi Serpenti per conferire agli eterei regni una vita infinita, che
sappiano la gioia del mutamento, la gloria dello spirito.
[…]
11 …Ecco, la razza dei Ghan, pianificata da Jehovih fin dalla fondazione del
mondo, ora si erge trionfante sulla terra.
12 Non come agnelli sono i Ghan, ma indomiti leoni, nati per la conquista, con
seme di sapienza che ragiona e disarticoli ogni cosa, che ha fede e potenza – ma
non pone fiducia in Jehovih. Come un uomo che ha due figli, il primo vuoto di
passioni, esangue, l’altro incessante in malizia, desideroso di delitti,
delirante in distruzione, così sono I’hin e Ghan. Quando muoiono, gli I’hin
vanno come agnelli là dove gli è ordinato; i Ghan, ancora pieni di ira, si
ostinano a deridere ogni potere. Anime ben forgiate, maestose a vedersi, tornano
sulla terra e fondano un regno celeste nell’oscurità – vendetta trama nei loro
atti.
13 Con fragore distruggono i deboli regni dei Signori, li spogliano dei loro
sudditi, proclamano il cielo in terra. Per questo, le sventurate anime dei cieli
inferiori, sedotte, fuggono la resurrezione per tornare dai mortali, e vengono
fissati in feri, chiusi a ogni luce.
14 E i mortali si abbandonarono a compiere la volontà degli spiriti delle
tenebre, facendo desolazione della festa.
*
Libro della Disciplina
Discorso di Dio sull’amore
1 E verranno a chiederti: Cosa ci dici di chi è sposato e ha figli? Ameranno
forse costoro così tanto la comunità e il regno di Jehovih da mettere da parte
il loro amore filiale, affidando i loro figli a qualcun altro, giorno e notte?
2 Tu risponderai loro: No, in pienezza il loro amore si manifesta nei piccoli. E
lo testimonia chi ha figli quando adotta un trovatello o un orfano, inglobandolo
nella famiglia, senza parzialità. Questo è il più alto carisma dell’uomo: essere
imparziale nell’amare.
3 Non per limitare l’amore ma per moltiplicarlo, come fa Dio, che abbraccia
tutte le genti; così i vari membri della fraternità lavoreranno con Dio e i suoi
santi angeli, per gloria di Jehovih.
*In copertina: uno dei disegni che costellano Oahspe
L'articolo “E gli angeli del cielo discesero sulla terra”. Esasperato
esoterismo: intorno all’“Oahspe”, una nuova bibbia proviene da Pangea.
La prima, autentica edizione italiana integrale di Foglie d’erba uscì nel 1950,
a cura di Enzo Giachino – Einaudi la pubblica ancora. L’edizione del 1907 era –
giustamente – definita “antiquata”: il traduttore, Luigi Gamberale, si era volto
allo studio di Whitman su consiglio di Pascoli. Il libro stampato da Einaudi, di
biblica consistenza – quasi mille pagine, comprensive di una selezione
di Prose whitmaniane –, ha un sovrappiù in commozione: quell’anno, a fine
agosto, era morto, per scelta, all’Hotel Roma di Torino, Cesare Pavese. Proprio
a lui, “che alle pagine del poeta americano fu legato da sensibile amore fin
dagli anni della giovinezza”, è dedicata quella traduzione. Pavese si era
laureato Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman nel 1930; in qualche
modo – basta leggere Lavorare stanca – voleva essere il Whitman delle Langhe. Il
più acuto lettore di Foglie d’erba in Italia resta tuttavia Dino Campana: il
formidabile poeta cita Whitman a sigillo dei Canti Orfici; “Leaves of Grass è
talmente importante da essere l’unico libro che porta con sé in Argentina”
(Gianni Turchetta, in: D. Campana, L’opera in versi e in prosa, Mondadori,
2024).
Enzo Giachino, nella sua succinta introduzione, registra i temi fondamentali
di Foglie d’erba: il rapporto consustanziale tra opera e autore, il canto del
corpo liberato e della libertà democratica, l’io lirico che impregna di sé ogni
singolo incanto del creato, dal più umile prato al presidente Lincoln; quella
scrittura dionisiaca. L’idea, soprattutto, del libro totale, del libro-tutto:
> “Il desiderio di dare finalmente al paese il suo poema nazionale, la sua
> Bibbia poetica fu certo uno dei motivi e delle illusioni che indussero il
> Whitman a comporre le Foglie d’erba”.
La prima edizione di Foglie d’erba – alquanto diversa dall’ultima, la
cosiddetta deathbed edition, allestita in punto di morte, nel 1892 – era uscita
quasi un secolo prima, nel 1855: nella tonante ouverture, il poeta lega
inscindibilmente il poema alla nazione,
> “L’anima della più grande, della più ricca, della più fiera nazione può ben
> avanzare a mezza strada per incontrare l’anima dei suoi poeti”.
Foglie d’erba – con quel titolo stagionale, di vita che viene e muore e rinasce
– è “l’America” e “gli Americani”; quanto a Whitman, egli è al contempo Omero,
Shakespeare e Mosè. Che paradosso: un secolo dopo la prima edizione di Foglie
d’erba, Thomas H. Johnson edita, in tre volumi, i Poems of Emily Dickinson;
Emily era morta nel 1886. Da allora, da settant’anni, gli Stati Uniti d’America
hanno i loro libri-titani, i tomi-totem, la loro Iliade e la loro Odissea, la
Teogonia e l’Edda.
Già Giachino aveva avvisato che “l’arte del Whitman è ardua”, che occorre
indagarne, oltre il “primo senso evidente… la segreta armonia che si cela e si
svela”. Sostanzialmente, è il concetto proposto da Alberto Cristofori, che ha
curato una nuova, colta versione del Canto di me stesso (Edizioni Low,
2025) insistendo sulla manicale consapevolezza di Whitman, tutt’altro che “poeta
ingenuo, spontaneo”. D’altronde, Harold Bloom, l’insigne critico americano,
strenuo difensore del Canone occidentale, insegnava a leggere Whitman come un
oracolo. A suo dire, “Whitman è l’alto sacerdote di quella che chiamo Religione
Americana, una bizzarra fusione di Entusiasmo e Gnosticismo”. Bloom ha scritto
che Foglie d’erba è il libro perfetto per l’isola deserta, quello da cui
rifondare un mondo; ha scritto che
> “Whitman è al tempo stesso Adamo e Cristo, il Vecchio Adamo e il Nuovo… un
> poeta universale che sopravvive alle traduzioni e alle revisioni radicali”.
In Italia, non si contano le traduzioni di Whitman, il poeta che si
diceva untranslatable; in parte le ha conteggiate Cristofori, che traduce i
versi più noti del poeta in questo modo: “Il falco maculato scende in picchiata
e mi accusa,/ si lamenta delle mie chiacchiere e dei miei indugi.// Anch’io non
sono affatto domato, anch’io sono intraducibile,/ Faccio risuonare il mio
barbarico yawp sopra i tetti del mondo”. Giachino, al di là di vetuste
variazioni ornitologiche (il “falco maculato”, the spotted hawk, è per lui una
mistica “aquila grigiolata”), traduce allo stesso modo; io continuo a preferire
la versione di Alessandro Ceni, il più autorevole poeta italiano vivente (è da
poco uscita per Crocetti la raccolta della sua opera intera, I bracciali dello
scudo), dotata di genio eccentrico. Yawp, ad esempio, viene reso con un
intrepido – e bellissimo – “graculio”: andate a stanarne il
significato (di Foglie d’erba Ceni sceglie “la prima edizione del 1855”,
Feltrinelli, 2012).
È impossibile misurare la presenza di Whitman nella letteratura occidentale:
il Song of Myself ha letteralmente mutato il modo di scrivere in versi, è come
passare dal Giurassico al Quaternario, è uno spostamento dei continenti
grammaticali. Nel 1909 Ezra Pound stringe “un patto” con Walt Whitman (“Fosti tu
ad abbattere il nuovo legno,/ Ora è tempo di intagliarlo”); nel 1955 Allen
Ginsberg vede l’ombra di Whitman, lonely old courage-teacher, in un supermarket
californiano. Jorge Luis Borges – che nel 1969 aveva curato un’edizione
di Foglie d’erba – fu afflitto da un’ossessione per Whitman. Lo affascinava –
come è ovvio – l’idea del “libro dei libri che li reclude tutti”, del “libro
assoluto”, ma soprattutto lo sdoppiamento di Whitman: a suo dire – lo scrive
nella Nota su Walt Whitman pubblicata in Altre inquisizioni – l’eroico
protagonista del Canto di me stesso non ha nulla a che fare con il suo autore,
“il modesto giornalista Walt Whitman, nativo di Long Island”, a tal punto che
“Passare dall’orbe paradisiaco dei suoi versi all’ispida cronaca dei suoi giorni
costituisce una transizione melanconica”. Gli dedicò una poesia, Camden, 1892:
il poeta è sul ciglio della morte, “quasi/ non sono, tuttavia i miei versi
ritmano/ la vita e il suo splendore”.
Atletico, carnale, sorridente, dal 1873 Whitman era stato falciato da paralisi:
a quegli anni risalgono le fotografie del vegliardo con la lunga barba bianca e
il mitico ritratto di Thomas Eakins, pittore esaltato dal nudo e dallo
scandalo. Durante il tour americano, anche Oscar Wilde fece visita al poeta,
rattrappito nel corpo ma non nell’animo, a Camden, New Jersey. “È l’uomo più
umile e più potente che abbia mai incontrato in tutta la mia vita”, dichiarò
all’“Evening Star”, era il gennaio del 1882 (insieme a una mole di documenti
whitmaniani, l’incontro tra Wilde e Whitman è raccolto in: W. Whitman, Non
esiste diavolo peggiore dell’uomo. Interviste, De Piante, 2022). “Mi consideravo
invulnerabile”, gli sussurrò il poeta, ormai crisalide di se stesso.
“Uomo: come erba i tuoi giorni”, dice il Salmo 103. “Io attraverso la morte con
chi muore/ e la nascita con i bambini appena lavati/… Sono l’amico e il compagno
della gente, immortale e insondabile come me” (traduzione di Cristofori), canta
Whitman, il poeta che fu Genesi. Già morto mille volte in mille uomini e
migliaia di volte rinato, dicono che il poeta morì il 26 marzo del 1892. Il
cielo era curvo, rade le nubi – seppellirlo fu inutile. Inutile rintracciare il
poeta tra feretri e lapidi e studi: bastava passeggiare nei prati per sentirne
l’odore. Ineludibile – eterno.
L'articolo “Io sono intraducibile”. Walt Whitman, il poeta titano proviene da
Pangea.
Sui passi di un imperdonabile, le gambe percorrono a piedi i chilometri di
strade smemorate per strapparlo ancora una volta via dai recessi della Storia,
dove i parigini hanno lasciato il suo nome sotto una coltre di polvere e
ignominia. Marco Spada, dottorando presso l’Istituto Italiano di Cultura di
Parigi, saggista e traduttore, ci porta dentro Le Parigi di Drieu (Bietti, 2025;
s’intende: La Rochelle), tracciando una mappa geografica e sentimentale della
capitale, in cui il tempo di ieri si sovrappone a quello caotico e strafottente
di oggi, nell’intreccio di vita e opera. “Non vi è nulla a Parigi che lo
ricordi”, scrive Spada.
> “Di lui non è rimasto neppure l’edificio nel quale ha deciso di mantenere la
> sua parola. Demolito, è stato rimpiazzato da un altro palazzo. La casa dov’è
> nato è ancora lì, così come il Parc Monceau o l’Hôtel d’Orsay. Tuttavia,
> bisogna immaginarselo, prendere con sé i suoi testi e camminare a piedi lungo
> le strade di Parigi, riscoprendo il gusto mediterraneo dell’estetismo armato
> tra i boulevard ghiacciati, quando a gennaio il termometro segna -12, e
> degustando, irrimediabilmente, una degna polibibita al Maxim’s.”
Aggiungendo che forse è meglio così, troppo spesso l’onorificenza coincide con
un oltraggio. Seguendolo in queste estenuanti passeggiate, in cui il racconto
coinvolgente a volte non solo fa dimenticare dove finisce Marco Spada e comincia
Drieu, ma ci trascina direttamente su quei boulevard, cominciando il viaggio da
una libreria di rue de Médicis, dove scaffali ricolmi di esistenzialismo e
poesia contemporanea accolgono con diffidenza lo studioso in cerca di “un suo
consanguineo”. Scopre così dalle parole del libraio, che di La Rochelle non si
parla mai se non in relazione ad un altro reietto geniale, Robert Brasillach e
all’occupazione tedesca. Del resto, a Parigi l’abbraccio mortale e
moralisteggiante di Letteratura e Storia, inaugurato dalle parole di De Gaulle
sugli Champs-Élysées, in una città appena liberata nella tarda estate del 1944,
“Il talento impone l’obbligo di una superiore responsabilità”, diede il via alla
stagione dell’epurazione sulla scia dell’art. 75 del codice francese, massima
punizione per gli scrittori colpevoli di intelligenza col nemico.
Impossibile ricomporre gli strappi sul piano dell’arte, che trascende i limiti
degli artisti in nome dell’opera conducendo invece ad una loro esacerbazione,
selezionando con malevola acribia i nomi meritevoli di memoria.
Eppure, l’opera in qualche modo resta e ci interroga.
Interroga la nostra libertà e il nostro spirito critico, che fioriscono proprio
dentro le contraddizioni, perfino quelle più odiose e per questo dolorose, del
cuore dell’uomo. Nomi che non sta bene pronunciare, dunque, altrimenti cade su
di sé la mannaia del sospetto. Marco Spada, profondo conoscitore e amante
dell’opera di questo dandy pessimista, dando fondo alle lettere e soprattutto
agli scritti più autobiografici, come Il diario, recupera con una scrittura
coinvolgente e padrona dell’argomento, sia letterariamente che storicamente, le
Parigi dell’infanzia e dell’adolescenza di Drieu, in cui “diventa oggetto della
cupidigia e della rivalsa dei genitori, sentimenti che lo accompagneranno
funestamente per tutto l’arco della vita, sfociando negli scritti al vetriolo
di Stato civile e nel romanzo Piccoli borghesi”.
Scrive Stenio Solinas nell’introduzione che inaugura il volumetto, che se si
guarda alla biografia di Drieu La Rochelle a partire dagli anni Venti, si scopre
un parigino poco stanziale, per cui è difficile trovare traccia di un
radicamento o “una corrispondenza di amorosi sensi” con la città. Ma l’accurato
e appassionato lavoro filologico di Spada ricostruisce le strade e i quartieri
restituendoci un’immedesimazione tra Drieu e Parigi che non emerge dai suoi
romanzi. Un viaggio che non si esaurisce in un solo volto della città, ma ne
racconta tre, perché lo sguardo di Drieu che la accarezza – con amore-odio –
conosce diverse fasi.
Due date e due indirizzi, alfa e omega della vita dello scrittore nella capitale
francese: 3 gennaio 1893, decimo arrondissement; 14 marzo 1945, 23 di rue Saint
Ferdinand. A cinquantadue anni, Pierre Drieu La Rochelle, ormai braccato
dal redde rationem imposto dal nuovo corso, con una dose massiccia di Gardenal
porrà termine ai suoi giorni, alle sue Parigi e ai suoi amori con le donne – tra
tutte, Colette, Olesia e Victoria Ocampo – le uniche creature ad avergli dato
per istanti mai abbastanza lunghi, la sensazione di potersi radicare nella
vita.
E una raccomandazione: al termine di questo viaggio metafisico, posare cinque
rose sulla tomba di Drieu a Neuilly, dove c’è ancora la bianca pietra tombale
con la sigla B. à H. fatta incidere da Christiane Renault, le iniziali dei due
protagonisti-amanti di Beloukia, omaggio di La Rochelle al suo amore per lei.
Livia Di Vona
L'articolo Cinque rose sulla tomba di Drieu. Viaggio nel cuore di un genio
tragico proviene da Pangea.
> “Ci sono occhi che vanno al fondo delle cose. Che ne scorgono il fondo. E ce
> ne sono altri che vanno nella profondità delle cose. Essi non scorgono nessun
> fondo. Ma vedono ben più a fondo”.
>
> [P. Celan, Microliti]
Lois Pereiro fu un poeta. Autentico come la sola poesia, quando è lotta, è
autentica. “Questa è la natura finale delle parole” [M. Rivas]. Gli specchi,
questa alchemica calcinazione di argento e mercurio, sono l’epifania della luce
mediante l’oscurità della materia di cui sono consustanziati.
E la poesia di Pereiro ripropone la medesima simmetria in un teatro della
crudeltà, dell’oscenità batailliana/beniana, ordita di eros e uncinata di morte.
Nato nel 1958 e morto di Aids nel 1996, il galego (l’edizione che mi arde le
dita – Poesia ultima di amore e malattia, 1992-1995, Aguaplano, 2017 è frutto
dell’attività di ricerca del Centro di Studi Galeghi dell’Università di Perugia,
per la cura magistrale di Marco Paone cui estendo il mio più sincero
ringraziamento per l’amore che tracima sin dalla Introduzione) sembra la
scaturigine di alcune delle più riuscite eterografie di Bolaño, con il suo
cromatismo prepotente ma interrotto di sangue e di inchiostro. Come avrà a
pronunciare in uno de suoi ultimi interventi su rivista lo stesso Pereiro:
> “Nulla importa di ciò che ho scritto: solo immagini e parole d’inchiostro, in
> poesie fatte con la mia vita e il mio sangue liquido, con cui ho convissuto
> nella stessa tonalità”.
Vera “icona della controcultura galega” [Nogueira, 2011], Pereiro dopo
l’infanzia in provincia di Lugo si trasferisce a Madrid nel 1975 per studiare
Sociologia. Deluso dall’università come sovente accade a chi di talento in
proprio già esonda si dedicherà allo studio della lingua francese, inglese e
tedesca; anni di Transizione quelli del post-Franco in Spagna e la Capitale ne è
l’epicentro di più vasta magnitudo. Tra il 1975 e il 1978 la rivista “Loia”
fungerà da luogo di incontro e sperimentazione per i galeghi residenti a Madrid.
Nel 1981, in seguito all’avvelenamento da olio di colza (che in Spagna colpì più
di 20mila persone uccidendone all’incirca mille) fece ritorno in Galizia dove
lavora come traduttore per il doppiaggio di film e serie televisive galeghe,
nonché – ed è qui che Bolaño si appalesa – per il mondo del
porno. Appassionato viveur del Rinascimento spagnolo che permea gli anni ’80,
Pereiro collaborerà con gruppi rock, riviste d’avanguardia e poetiche viaggiando
al contempo attraverso l’Europa, sotto il segno della musica alternativa e della
poesia che Pereiro dimostra di maneggiare con innata maestria ed
inquietudine. Nel 1992 Paco Macías, dapprima collega di doppiaggio ed in seguito
fondatore della casa editrice “Positiva”, lo inviterà a pubblicare la sua prima
silloge, Poemas 1981-1991; nel 1994 gli verrà diagnosticato l’Aids e nei suoi
due ultimi anni, tra ricoveri, amore e disamore, inizia a scrivere Poesía última
de amor e enfermidade (1995), testo di culto e definito dal fratello Xosé “il
libro più sincero e crudele della letteratura galega contemporanea”.
In uno degli ultimi interventi pubblicati dal poeta, il cui titolo
swiftiano/borgesiano già si connota di manifesto – Modesta proposta per
rinunciare a far girare la ruota idraulica di una storia ciclica e universale
dell’infamia (1996) – il galego consegnerà il proprio testamento:
> “La vera Poesia non mente mai, per quanto possa ferire. Chi crea qualcosa
> senza intenzioni perverse è innocente rispetto alla sua possibile perversione.
> Bernhard, Beckett, Cioran, Genet, Celan, Valente, Schopenhauer, Pound, Carver,
> Poe avevano ragione, abbiamo ragione. E avevano ragione Yeats, Dylan Thomas,
> Eliot, Joyce, Omero, Dante… e abbiamo ragione, ognuno di noi allo stesso
> tempo, come tutti i pittori, tormentati o felici, della Bellezza e delle
> tenebre che convivono con me nel mio cervello, discutendo senza pausa nella
> mia anima…”.
In Poesia ultima di amore e di malattia Pereiro costella la raccolta di
citazioni ed allusioni, precipuamente nelle epigrafi ai testi, in un processo di
condensamento del suo universo poetico, consapevole di avere poche pagine per
far martirio, testimonio di sé. La silloge si compone di 3 sezioni:
> “La prima parte riflette la mia autodistruzione, non riuscita. La seconda la
> mia resurrezione, quando torno ad amare la vita dopo un fallimento intimo e
> sociale – la sensazione di non aver ottenuto nulla. L’ultima parte del libro è
> più generazionale, collettiva”.
>
> [Pereiro, 1996]
La scrittura è misuratamente trattenuta, lo sperimentalismo delle prime
pubblicazioni si stempera in un ideale babelico di poesia ULTIMA per l’appunto
che ibridi tecnicismi e lingua volgare, genuinamente popolare, una lingua
espressiva ed esplosiva che possa descrivere tanto la personale Passione del
poeta quanto il mutamento sociale in atto nella nazione iberica.
Quanto segue è una necessaria carrellata almovodoriana su alcuni dei testi – a
nostro giudizio – più significativi dell’universo poetico del galego estratti
dall’athanor della sua estrema fatica:
“Sapere che si sta per morire
e il corpo è un paesaggio di battaglia:
un mattatoio nel cervello.
E tu permetteresti, deserto amore,
che in questa febbre penitente aprissi
l’ultima porta e la chiudessi
dietro di me, sonnambulo e impassibile,
o infileresti il piede
fra essa e il destino?”
(Curiosità)
*
“Il passato marcisce sotto terra
e il presente non scorre,
è un fiume morto.
Ma questa volta non ci sarà resurrezione
e il futuro è per forza altro da me.”
(If I Die Before I Wake, che echeggia ombreggiature care a Pereiro come quelle
dei Joy Division, in ciò avvicinandosi ai coevi esiti di un altro sepolto
“d’autore”, Michael Strunge)
*
“(…) accettando che avrei dovuto sapere
impedire a me stesso
di scoprire che sono stato solo un interludio
spietato fra due muri di silenzio…”
(Acrostico)
*
“Immergersi nel silenzio è ciò che distingue
coloro che amano con spirito suicida
da quelli che solamente sono
un sogno breve.
Nel viaggio notturno che intraprendiamo
all’interno di un corpo differente
un atto d’amore è un fluido urgente
di sudore lacrime e sperma
contro la paura
parole disarmate
desideri che si perdono
nella nebbia di mille notti
fra le lenzuola sconvolte
dal feroce presente
di due corpi che dimenticano.”
(I)
*
“Innamorato un’altra volta
dell’amore che porto dentro
la sete furiosa di un futuro
ha esaurito le mie alternative
portandomi dritto verso l’impatto:
un proiettile congelato in aria
a pochi metri da un cuore freddo
e attendo un minimo segno di calore
per aprire la sua pelle ed entrare nel sangue
vinto dalla forza del desiderio
ciecamente e senza paura
del possibile disastro.”
(III)
*
“(…) Notti in bianco come lenzuola umide
nelle circonvoluzioni del mio cervello
tese sempre al vento del pericolo
dell’eruzione e della combustione eterna
di un’altra pelle desiderata che sarebbe arsa
nel fuoco che la sua visione aveva provocato.
(…) Una stagione all’inferno, un’altra in cielo
momentaneamente accogliente e terso,
e alla fine sempre la triste bellezza
di un’altra prova generale del sonno eterno.”
(VI)
*
“(…) Ascolta come attraversa il silenzio
questo rumore carnale disperato
che si avvicina notturno alla tua esistenza
contagiando i tuoi desideri con i suoi
e penetrando in te si va radicando
impercettibile e fatale
nelle tue viscere.”
(Prayer, XII)
*
“Maledico il dolore che porto in ogni cellula!”
(dall’epigrafe a Precauzione, XVII)
*
“(…) E io sono qui
con lei dentro sempre
insonne
e irredenta
come unica compagnia una volta ancora;
la malattia.”
(XXI)
*
“Il disamore, brutale amputazione
o atrofia di un sogno maltrattato,
dovrebbe essere sempre un rituale intimo
messo in scena in sale clandestine.
Interpretando monologhi organici
reciteremmo con scioltezza il dolore interno
delle nostre tristi ossa
quando l’amore si scioglie in emorragie
di liquidi desideri
abortiti.”
(XXII)
*
“(…) o meglio
inoculami tu
veleno dai tuoi denti
immergiti nel mio sangue
inièttati nelle vene
che ti osservano
e ormai dolente mi duole
il tuo dolore nel tuo desiderio
urlando in ogni osso
e la tua morte
mi uccide e mi resuscita
per alla fine
morire per me.”
(XXVII)
*
Altri e molti sarebbero i frammenti, le escoriazioni di Lois Pereiro da citare.
Mi preme evidenziare come la duplice radice di cui al titolo della silloge sia
pervasiva e martellante nell’immaginario poetico dell’ultimo Pereiro, condannato
all’amore/impossibilitato ad amare.
Luca Ormelli
L'articolo “Della Bellezza e delle tenebre che convivono nel mio cervello”. Lois
Pereiro, il poeta della controcultura proviene da Pangea.
Di scienza, Rainer Maria Rilke parlò sia con Rudolf Kassner che con Paul Valéry.
Questi ultimi coltivarono un interesse profondo verso le rivoluzionarie teorie
comparse agli albori del ventesimo secolo. Relatività e meccanica quantistica,
dunque, pervennero al poeta nella forma di dialoghi evaporati nel tempo. Sul
livello di comprensione che ne ebbe, l’unica testimonianza diretta – quella di
Kassner – restituisce un responso severo:
> “non capì nulla degli aspetti concreti e del tutto discutibili della teoria di
> Einstein più di quanto non capissero la maggior parte dei lettori di giornali,
> riviste e opuscoli all’inizio degli anni Venti”.
Aggiunge poi, a conclusione di una serie di incontri:
> “Lo vidi per l’ultima volta per tre giorni; sicuramente la conversazione si
> rivolse anche alla teoria della relatività, e sicuramente mi sarei accorto se
> avesse fatto un’affermazione che tradisse qualcosa di più della semplice
> curiosità per qualcosa di curioso”.
Ma si lascia sfuggire, in ultimo, un:
> “solo che guardava l’incomprensibile con il suo occhio di poeta plastico.
> […]”.
Appesa a quella timida dubitazione, che cede il passo ad una remota ipotesi
contraria, sta il mistero della prova smarrita dalla storia. Bisogna, allora,
aprire un varco alle parole che, come gocce di pioggia, cadono dallo sconfinato
cielo della sua poesia e dei suoi epistolari. Lì, dove precipitano ed increspano
le pozzanghere delle nostre coscienze, un’introiezione profonda emerge e pare
replicare, nel verbo, le regole delle fisiche cui obbediscono l’infinitamente
grande e l’infinitamente piccolo. Non una mera somiglianza metaforica, ma
un’identità di strutture di base essenziali, che siritrovano in una insperata
unità d’intendimento.
*
Il 22 febbraio 1923, rivolgendosi a Ilse Jahr, Rilke scrive:
> “c’è un’incredibile discrezione tra noi, e dove un tempo era vicinanza e
> penetrazione, ora si tendono nuove distanze, come nell’atomo, che la nuova
> scienza anche comprende come un universo in piccolo. L’afferrabile se ne va,
> si trasforma, invece del possesso s’impara la relazione, e nasce un’anonimità,
> che deve cominciare a sua volta da Dio, per essere perfetta e senza scampo”.
Arcane consapevolezze rimuginano come
> “‘il moto continuo’ che accade spontaneamente e dappertutto, in ‘ogni vuoto’…
> attivo ‘centro di forze’ […]; la vivente forza del divenire è imperitura, è
> l’incomprensibile madre. L’incomprensibile madre è radice del tutto; tessendo
> continuamente non ha bisogno di impulso”.
Una concezione moderna, coerente con le più recenti teorie sulla nascita
dell’universo filtra, qui, e parla di origini tratte dalla perturbazione interna
di un vuoto-pieno, più che da una deflagrazione soprannaturale.
Prospettive avvedute dei fenomeni scientifici e delle loro componenti elementali
echeggiano nei versi della poesia Gong:
> “Risonanza, non più con l’udito
> misurabile. Come fosse il suono
> che tutt’intorno ci trascende
> una maturità dello spazio”
Risonanza – è campo perenne di forze interagenti e confliggenti, muro di suoni e
silenzi, nota e pausa di uno spartito, alternanza di vita e di morte che, in
perpetuo moto, genera mondo e lo precipita nel vuoto. Risonanza è – movimento
interiore, “suono della campana dell’essere”, spazio “vibrante”, in questa
vivida rappresentazione.
“Maturità dello spazio” – è pienezza della percezione, sforzo giunto a
compimento, pretesa di astrazione, che infine approda alla completa
comprensione. Ogni parola disloca la poesia nell’alveo della scienza e lì,
annullate le distanze tra fenomeno fisico e spirituale, si sperimenta una
prodigiosa unità animata da meccaniche gemelle.
*
Ancor più nella prosa, Rilke sorprende per ricchezza di messaggi. Paradigmatica
è l’elaborazione dell’immagine-suono, di cui fa esperienza in Egitto, al
cospetto della grande Sfinge. La racconta in una memorabile lettera scritta il
primo febbraio 1914 alla musicista Madga von Hattingberg:
> “…Quante volte, già, avevo tentato di cogliere quella vasta guancia in tutti i
> suoi dettagli: si arrotondava in alto con tanta lentezza, come se in quel
> luogo ci fosse spazio per più punti che quaggiù […] nella più grande pienezza
> del sentire, feci esperienza della sua rotondità. Solo un istante dopo
> compresi che cosa fosse accaduto. Pensi: dietro la sporgenza del copricapo
> regale, sulla testa della Sfinge, si era alzata in volo una Civetta e lenta,
> indescrivibilmente udibile nella pura profondità della notte, aveva sfiorato
> il volto col suo morbido volo; e in quel momento, nel mio udito, divenuto
> perfettamente chiaro per il lungo silenzio della notte, si era inciso, come
> per miracolo, il profilo della guancia”.
Dove “una costellazione e un Dio indugiavano (n.d.a.: da secoli immemori)
silenziosamente l’una di fronte all’altro”, si consuma l’involontario amplesso
tra fisica e letteratura. Nel silenzio e nell’immobilità di quel luogo della
mente, una perturbazione, un fattore chiarificante si palesa e perfeziona la
comprensione del contesto: la Civetta. Stupisce, ancora, l’assoluto
allineamento tra la realtà – che esiste e si manifesta quando viene osservata,
stimolata, messa alla prova, verificata – e la parola che fa esistere le cose
perché di esse se ne dice. Di questi poteri e potenze del verbo la vita stessa
di Rilke è dogma incarnato.
L’immagine-suono, che in se stessa sfugge alla fisicità dei cinque sensi –
invocandone un sesto – è trasposizione poetica dell’esperienza attonita che
l’uomo fa quando incontra, per la prima volta, la relatività einsteniana e la
meccanica quantistica; esse stesse invocano quarte e ulteriori dimensioni alle
tre a noi note: essenze non sperimentabili, di cui è concesso scoprire la misura
e la forma solo quando sono interrogate dagli eventi.
*
Le fotografie che l’universo proietta nei nostri occhi attraverso i telescopi
sono scatti, frammenti perduti e sparpagliati dappertutto. Osservandoli, consci
che il loro tempo è ormai annichilito – e pure vivo – assistiamo ad un eterno
nostro essere, contemporaneamente ovunque. La figura mistica dell’Angelo
rilkiano pare vivere in noi in omologo rapporto: una monade che scruta ogni cosa
con “sguardo laterale”, in cui tutto esiste e permane simultaneamente, a
dispetto di un tempo che svanisce quando perde la caratteristica principale che
ha per noi: il potere di scandire il prima, l’adesso e il dopo; l’essere e il
non essere; la morte e la vita.
Rainer Maria Rilke e Paul Valéry, 13 settembre 1926
*
La professione di fede che Rilke fa verso i traguardi della scienza viene a
galla – cristallina – nella lettera a von Hulewicz del 13 novembre 1925:
> “Tutti i mondi dell’universo precipitano nell’invisibile, nella realtà più
> profonda che abbiano accanto; alcune stelle si potenziano immediatamente e si
> spengono nell’infinita coscienza degli angeli; altre devono affidarsi ad
> esseri che le trasformano con lentezza e fatica, nei cui terrori ed estasi
> esse raggiungono la loro prossima invisibile realizzazione”.
Un superiore intendimento poetico lo attraversa quando dice che
> “La caducità precipita ovunque in un essere profondo; e così, tutte le
> figurazioni di ciò che è non vanno usate soltanto entro i confini temporali,
> ma, per quanto possiamo, sono da inserire in quelle superiori significazioni
> di cui partecipiamo”.
La coscienza della prevalente invisibilità del tutto traspare in controluce e fa
intuire ulteriori consapevolezze:
> “Le Elegie mostrano noi intenti a quest’opera, all’opera in queste incessanti
> trasposizioni dell’amato visibile e tangibile nell’invisibile vibrazione ed
> eccitamento della nostra natura, che introduce nuove cifre di vibrazione nelle
> sfere di vibrazione dell’universo. (Siccome le diverse materie dell’universo
> non sono che diversi esponenti di vibrazione, noi prepariamo in questo modo
> non soltanto intensità di natura spirituale, ma chissà, nuovi corpi, metalli,
> nebulose e costellazioni). E questa attività viene singolarmente sostenuta e
> spinta dal sempre più rapido sparire di tante cose visibili che non verranno
> sostituite”.
*
L’accesso all’infinitamente piccolo avviene con la stessa avidità poetica
mostrata verso l’infinitamente grande. Accade nel vertice del suo pensiero, nel
luogo di confine tra i due mondi, dove occhio di vivo e occhio di morto
osservano le cose che sono “l’una all’altra nascoste”.
Il linguaggio, che deve dare voce ad entrambi i punti di
osservazione, contemporaneamente, cela un intreccio che mostra più di una vaga
somiglianza con la complementarità e l’entanglement quantistico.
È nella Quinta Elegia, dove si incontrano i saltimbanchi parigini del Père
Rollin, che il poeta articola plasticamente il mistero di quella prodigiosa
meccanica:
> “Ma chi sono, dimmi, questi girovaghi;
> Ma dove, oh, dove è quel posto – io lo porto nel cuore –
> dov’erano ancora tanto lontani dal farcela
> dove ancora cadevano l’uno dall’altro”.
Il dove – luogo metafisico in cui accade un evento indicibile è il passaggio
dal puro troppo poco del non essere ancora in grado, al vuoto troppo dell’essere
in grado; e pare riguardare necessariamente ciò che, come vale per le
particelle, dispone le parti di un sistema in modo che le loro qualità siano
rilevabili solo singolarmente e mai tutte insieme.
La metà delle cose che si volge all’occhio del vivo è la prima – quella che può
(solo) notare l’assenza o la presenza dell’abilità secondo una logica causale e
temporale, mentre il quid che definisce la dote ora acquisita è visibile (solo)
ad un occhio dotato di “desertica lucidità”.
Se Einstein incarna l’immagine dello scienziato capace di sfatare i dogmi e
porre l’uomo in una definitiva ottica di probabilità – e mai di certezza – Rilke
ne rappresenta il corrispettivo letterario. A noi, fortunati beneficiari di
insperate consapevolezze, la presa d’atto che “a cavallo di un raggio di luce”,
entrambi avrebbero potuto apporre la firma a questo pensiero:
> “Noi, che siamo qui e oggi, non siamo appagati neppure per un istante nel
> mondo del tempo, né a esso legati. Trapassiamo senza sosta, trapassiamo verso
> gli avi, verso la nostra origine e verso coloro che in apparenza vengono dopo
> di noi. In tale mondo immenso e ‘aperto’ tutti sono, non si può dire
> ‘contemporaneamente’, perché è appunto il venir meno del tempo che fa sì che
> tutti siano”.
Riccardo Peratoner
L'articolo Rilke incontra Einstein. Ovvero: le “Elegie duinesi” e la teoria
della relatività proviene da Pangea.