Source - Pangea

Rivista avventuriera di cultura&idee

“È l’ardere del cuore per l’intera creazione”. Dialoghi intorno a Isacco di Ninive
Ho avuto il piacere, qualche giorno fa, di avere una lunga conversazione con Valentina Duca. Era da tempo che desideravo incontrarla, ma raramente fa ritorno in Italia da Gerusalemme, dove ora si trova. Sono stati i suoi studi nell’ambito della mistica cristiana, e in particolare lo studio sul mistico siro-orientale Isacco di Ninive e dei suoi autori di riferimento, a condurla lì, a lavorare come ricercatrice presso l’Università Ebraica. Su Isacco ha recentemente pubblicato, per Peeters di Lovanio, uno studio, frutto del suo lavoro di dottorato all’Università di Oxford: “Exploring Finitude”: Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (per ora accessibile solo in inglese). Degli scritti inediti di Isacco sta attualmente curando l’edizione critica (testo siriaco e traduzione inglese). Oltre ad articoli prevalentemente in inglese, si segnala, in italiano, il contributo “La grazia della debolezza e il limite della morte”, all’interno degli atti del convegno internazionale Isacco di Ninive e il suo insegnamento spirituale tenutosi al monastero di Bose nel 2022, recentemente pubblicati da Qiqajon. Un giorno, durante un incontro sul mondo siriaco a cui partecipavamo entrambe presso il monastero di Bose, sono rimasta a lungo a osservarla: ho avuto la sensazione che fosse una di quelle rare persone che si aggirano come “in punta di piedi” nel mondo, i cui gesti sono segnati da una sorta di nobile discrezione e di cura. Mi è parso che in lei la “dimensione spirituale” non fosse una porzione dell’esistenza, bensì il fondamento. Nel leggere i suoi lavori, così come nel sentirla parlare, insieme all’attenzione scientifica non si può non notare questa sensibilità, che mi pare le abbia dato strumenti essenziali per occuparsi di un autore come Isacco di Ninive.   Chi era Isacco di Ninive?  Isacco di Ninive era un solitario (termine usato qui per coloro che scelgono una vita semi-eremitica) del VII secolo e dell’area siriaca. Quest’area non fa riferimento solo a parte dell’attuale Siria, ma a un territorio più vasto: Isacco, in particolare, era nato nella regione del Qatar, dove nella sua epoca c’era una fiorente comunità cristiana, e visse in terra mesopotamica. Per breve tempo divenne vescovo di Ninive: rinunciò a questo incarico per andare a vivere sulle montagne, vicino a insediamenti monastici. Apparteneva a una chiesa, quella siro-orientale che, guardata a partire dal mondo latino e greco, poteva considerarsi marginale poiché “nestoriana” e quindi ritenuta eretica. E tuttavia era una cultura nient’affatto marginale, che ebbe una grande espansione in oriente, come in Asia Centrale e in Cina. Isacco è erede di una tradizione monastica composita, dove ci sono sia autori siriaci, come Giovanni il Solitario, sia della tradizione greca, con la quale intendiamo soprattutto autori monastici e mistici di lingua greca, con una forte presenza del mondo dei padri del deserto e di Evagrio Pontico.  Isacco poi non scrive trattati teologici, ma testi che intendono guidare i discepoli nell’esperienza. Quando parliamo di lui come “solitario” non ci riferiamo a una persona isolata, in tutto e per tutto solitaria: veniva da un contesto di relazioni e letture comuni, apparteneva a una corrente, quella della mistica siro-orientale, che include vari autori: alcuni a lui contemporanei, come Simone di Ṭaybuteh e Dadišo‘ Qaṭraya, e altri del secolo successivo, come Giuseppe Ḥazzaya e Giovanni di Dalyatha. Era un universo quindi, che impedisce di pensare il solitario come una persona completamente slegata da un contesto di riferimento.  Caravaggio, San Girolamo in meditazione, 1605 ca. Nei suoi scritti, parla dell’analisi che Isacco dà della condizione umana: in cosa consiste?  Isacco colpisce per come è in grado di tracciare una fenomenologia delle dinamiche interiori: all’interno di queste –  come l’incontro con le passioni, con situazioni di tentazione, o di malattia – l’uomo incontra una condizione di limitatezza, che Isacco chiama “debolezza” (mḥilutā). Isacco la interpreta come una condizione ontologica: nei suoi scritti si riferisce ad essa come una caratteristica della “debole schiera degli uomini” (III 7,6), condivisa con Adamo, di cui, dice, “portiamo l’odore” (I 5). Questa condizione non è legata solamente al peccato, quindi a una debolezza di tipo morale, ma è una condizione di fragilità originaria, non trascendibile. Questa condizione di debolezza ontologica include anche la soggezione alla morte, che è il problema principale per le creature assieme alla sofferenza. C’è quindi una precedenza, in Isacco, del problema ontologico su quello morale. Nella lettera ai Romani Paolo dice, in riferimento ad Adamo, che il peccato entrò con lui nel mondo e con esso, di conseguenza, la morte (Rom 5:12). Quindi in qualche modo per Paolo, e per la maggior parte della tradizione cristiana, è dal peccato che deriva la morte. In Isacco invece è il contrario: è dalla morte che deriva il problema del peccato (questa concezione proviene da un autore importante per i siro-orientali, Teodoro di Mopsuestia). E non si tratta per Isacco di un rapporto così diretto: non è dalla morte che deriva, quasi necessariamente, l’essere peccatori, ma è per paura di questa mortalità, di questo limite costitutivo, che avviene la caduta, che porta a una condizione di limitazione anche morale.  Quindi, è come se il peccato sorgesse da un tentativo di fuga. Le stesse passioni, in questa prospettiva, possono essere lette come meccanismi difensivi ed elusivi dell’incontro con questa dimensione di limitatezza creaturale. Isacco invece delinea un percorso in cui è possibile cercare di relazionarsi con questa condizione mortale, senza cercare di superarla, perché è insuperabile così come insuperabile è la nostra condizione creaturale. Nella stessa creazione per lui è inscritto che l’uomo sia mortale. Se mai ci potrà essere un trascendimento di questa condizione questo avverrà solo per grazia. Non si tratta di qualcosa di originario a cui tornare, come se dovessimo ritrovare una condizione edenica, ma di qualcosa che sta davanti a sé, come dono possibile. Perché, secondo Isacco, l’uomo è stato creato con questa strutturale mancanza?  Isacco non parla tanto del perché, riflette più che altro su una condizione che c’è. La sua scrittura è sempre innanzitutto esperienziale e parte dalla necessità dell’altro, dalla domanda che pone il discepolo. Sul perché di questa condizione, però, si possono chiamare in causa due elementi. In 2Cor 12 7-10 Paolo dice che “gli è stata data una spina nella carne”, e chiede che questa gli sia tolta, ma “il Signore” gli risponde: no, “ti basta la mia grazia, la mia forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Isacco riprende questo passo paolino per esprimere l’idea che in qualche forma, e grazie a una certa relazione con la debolezza, si può scoprire l’alterità della grazia.  Oltre a questo, però, c’è l’idea che tramite questa relazione con la debolezza, non solo si scopre Dio, ma la propria condizione di uomini. Questo secondo elemento è centrale: l’assunzione di sé come uomo. Il percorso non è: ho la debolezza e quindi mi merito la grazia, che mi libera da questo problema; ma: ho la debolezza e me ne faccio carico. Mi relaziono dunque con me stesso, con il mondo delle passioni, con il mondo del dolore fisico. Ed è solo grazie a questo scoprirsi uomini, e prendere in carico la propria condizione, che si può anche entrare in relazione con l’alterità di Dio. Isacco ha un forte senso di questa alterità, del mistero verticale di Dio. Io credo provenga proprio dalla percezione di sé come creatura. Anche per questo Isacco può stupirsi della venuta del Cristo, che discende fin qui. Se non si avesse il senso di questa trascendenza di Dio non si potrebbe neppure percepire la meraviglia dell’avvenimento della venuta del Cristo. Hieronymus Bosch, San Girolamo in preghiera, 1482 ca. È a questo relazionarsi che Isacco si riferisce quando dice che si deve “portare” la propria debolezza?  “Portare” (sbal, ṭ‘en, saibar) è un termine che in Isacco indica il “permanere dentro” a una situazione che può mettere alla prova, il “dimorarvi”. Può essere una situazione di dubbio, di tensione, di negatività. E questo avviene mettendosi “sotto” questo elemento negativo, portandolo appunto, nel senso del sostenerne il peso. In questo sostenere “dimorando a contatto” si sviluppa una relazione con l’elemento negativo, lo si abita, ed è in questo “abitare” che poi è possibile una trasformazione. Anche se è vero che per Isacco questa trasformazione avviene sempre per grazia. Quello che noi come uomini possiamo fare è appunto abitare, permanere, anche nella contraddizione, nel dubbio. A fronte di molte narrazioni che bonificano la realtà, credo che Isacco ci aiuti a mettere al centro la questione del negativo. Come qualcosa che però stimola una posizione attiva, e non succube, dell’umano. È da questa postazione e da questa azione, che poi può scaturire una trasformazione.  Isacco dice che il fatto “che una persona possa rimanere nella calunnia senza tristezza [è] perché il [suo] cuore inizia a vedere la verità” (I 5). In questo “rimanere in”, “abitare” e “permanere sotto” qualcosa avviene, ed è qualcosa che non ha a che fare con la nostra volontà: esso accade, si manifesta, “sorge” (dnaḥ), come Isacco spesso scrive, e noi allora lo riconosciamo come verità, e lo accogliamo. Per riferirsi a questo Isacco usa, in un passaggio, il termine “germinare” (II 34,2), che non parla di un atto di volontà, o di possesso, ma di un misterioso accadere. Quello che noi possiamo fare è portare, sostenere il negativo, rimanendo aperti. Tanto è vero che Isacco nelle sue Centurie di conoscenza (II 29) parla di un dolore che viene da Dio ed è per Dio, e un dolore che invece non viene da lui, come quando ci si sente solo colpevoli del proprio peccato, e chiusi al suo interno. Questo non è per lui un portare, ma un soccombere. Il portare, già in sé, mantiene l’apertura alla possibilità di ciò che con esso può venire. Quindi attraverso questo “portare” il proprio limite si entra in relazione con ciò che è altro da sé?  Non solo, anche con quella parte altra di sé, limitata e sofferente, con cui normalmente non si vorrebbe avere nessuna relazione. Solo dopo che si è fatto questo si entra in relazione con l’Altro di Dio, che si manifesta come grazia; e anche con l’altro nel senso dell’altra creatura, anch’essa limitata e sofferente. In Isacco è nota questa dimensione di amore radicale. In un passaggio molto conosciuto, alla domanda “che cos’è un cuore misericordioso”, risponde:  > “È l’ardere del cuore per l’intera creazione: per gli uomini, gli uccelli, gli > animali selvatici, i demoni e per tutto ciò che esiste. […] Il cuore […] non > può sopportare di sentire o vedere un danno o una piccola sofferenza di una > qualche creatura. Per questo, [l’uomo] prega in ogni tempo con lacrime anche > per gli animali irrazionali, per i nemici della verità, e pure per coloro che > gli fanno del male, affinché siano protetti e rafforzati – [prega] addirittura > per i rettili, a causa della grande compassione che si riversa nel suo cuore > senza misura, a somiglianza di Dio” (I 74). E come si può, nel concreto, relazionarsi con il limite senza fuggirlo? In Isacco c’è un’intensa descrizione dell’incontro col negativo. Si può fare un esempio, che si riferisce alla sua forma più estrema, che Isacco chiama “tenebra” o “oscurità” (ḥeškā; ḥešōkā;‘amṭānā). Indica uno stato in cui ci si sente completamente persi, e si perde anche la possibilità della fiducia in Dio. È “un’ora”, scrive, “piena di disperazione e paura”, in cui “la speranza in Dio” e “la consolazione della fede”, completamente nascoste all’uomo, vengono meno, e si è avvolti dal dubbio (pligutā)” (I 48), una parola siriaca che significa anche “divisione”. Davanti a questo venir meno della fede Isacco ha indicazioni varie. La prima è gettarsi in ginocchio e pregare, per cercare relazione, nell’umiltà dell’inginocchiarsi. Ma poi, se la preghiera non basta e viene meno, scrive: “Se non hai la forza di controllare te stesso e di cadere sul tuo volto in preghiera, avvolgi il tuo capo nel mantello e dormi, fino a quando l’ora dell’oscurità non sia passata da te, ma non uscire dalla tua cella” (I 48).  Questo semplice gettarsi a terra ed attendere, questa “azione muta”, in cui non è tematizzato ciò che si cerca e neppure più si è in grado di cercare, ma si sceglie tuttavia di “stare”, può veicolare, misteriosamente, un’attesa, e la speranza che qualcosa in esso possa manifestarsi. Ma in primo luogo è un “permanere dentro”, un “abitare”, appunto uno “stare”. Si tratta di parole che trovo interessanti per un contesto contemporaneo, che non necessariamente include la fede, o la preghiera. L’analisi che dà Isacco è interessante per due aspetti. Da un lato egli tenta di tenere aperto, nel lettore, un canale, dicendo che lui stesso più volte ha sperimentato questi stati, e che quel momento passerà. Ed è importante che il lettore ricordi questa cosa: che passerà. D’altro canto però dice che, passargli in mezzo, è una “Gehenna noetica” (I 65). Dunque non bonifica, riconosce il negativo come negativo: dire che passerà non toglie nulla all’intensità e alla problematicità del passaggio, poiché per colui che lo attraversa quella è l’unica realtà. In questo modo Isacco onora il vissuto del sofferente. Però la tradizione cristiana è stata spesso accusata di aver esaltato questa dimensione della croce e del patimento. Che differenza c’è invece tra il portare di cui parla Isacco e un servile sottomettersi al potere? È vero che un certo tipo di discorso sul dolore può portare a una dimensione che schiaccia e avvilisce. La differenza però la fa il soggetto che si confronta con esso, e qui torniamo al tema della relazione, presente in Isacco, e che lo rende così moderno. C’è una relazione che l’uomo può sviluppare con il proprio dolore. Il portare in Isacco non è un essere schiacciato dal dolore e neppure solo un “sopportare”, ma un cercare costantemente di sostenere la relazione con la prova, e così questo portare forgia la forza del soggetto e veicola in lui un’apertura e una trasformazione. C’è sicuramente una linea della tradizione cristiana giustamente criticabile, ma c’è anche una linea che io credo essere valida e vitale e che ha cercato una relazione con la sofferenza. Quella posizione attiva e di ricerca di vita chiama l’elemento trasformativo. Molte persone, non solo i mistici, hanno raccontato di questo: penso a quanto alcuni hanno scritto di fronte ai drammi del Novecento. Non credo quindi che il cristianesimo sia il problema, penso che il problema sia la rimozione del soffrire. La croce, come il Getsemani, sono momenti fondamentali nella nostra vita di tutti i giorni, centrali nella tradizione cristiana: non possono essere rimossi. La resurrezione stessa, e la grazia, non sono comprensibili senza quell’altro aspetto. La sofferenza ci interroga, e facendo ciò è qualcosa che ci evoca come soggetti, perché se siamo messi alla prova ci chiediamo chi siamo, cosa desideriamo, dove vogliamo andare. Isacco, in proposito, riprendendo un passaggio di Macario sui mutamenti, dice che è come il tempo atmosferico: c’è la pioggia e poi il sole, la grandine e poi il sereno, così è la vita di noi umani (I 72). È impensabile che ci sia solo il sole. Isacco è coerente con questo quando dice: “non pensare che io ti possa nutrire solo di miele” (II 28). Il che non vuol dire che non si deve godere della bellezza e del sereno, non è un’esaltazione del dolore. Isacco in proposito ha delle pagine bellissime sull’amore di Dio, sull’amore radicale per la creazione e per gli altri uomini. C’è in lui, come in molti altri mistici, tutto un lato di positività e di luce. Ma insieme c’è il tenere conto che la vita umana è complessa e contraddittoria: accanto alla luce ha il dubbio, ha l’assenza di fede, ha la sofferenza, e noi non possiamo pensare che la vita umana non abbia anche questo. O comunque se si tenta di pensare così si perde tanto.  È in questo che consiste l’ascesi?  Sì, anche. Per Isacco in essa il percepire questa sofferenza e questa mancanza è un elemento centrale. E questo percepire il dolore si deve sostenere, perché si può essere feriti, ma poi ritrovarsi distrutti. Invece, si deve sostenere la ferita. Quindi sì, percezione del dolore, ma anche forza. Il discorso di Isacco sul portare la debolezza non elude mai il fatto che il soggetto debba esercitare una forza per portare questa condizione ontologica, uno sforzo di tenuta. In questo senso l’ascesi è una via, per Isacco, di formazione di sé. Si tratta anche di tecniche, di modalità, che hanno lo scopo di insegnare a sostenere la difficoltà, o di relazionarti con i pensieri. L’elemento della pratica, della disciplina, dell’esercizio è importante, anche se non va sopravvalutato, perché poi l’incontro con l’inatteso non può essere disciplinato.  Isacco traccia questa distinzione anche nella preghiera. Da un lato parla di tecniche della preghiera, sia corporee, come le prostrazioni in ginocchio, simili alle metanie ancora oggi praticate nella tradizione ortodossa, sia mentali. C’è poi, però, un momento in cui tutto questo, queste tecniche, anche quelle mentali, cessano, e si entra nella “non-preghiera”: è quando la grazia si dà, e la tua tecnica finisce. Viene anzi interrotta, e Isacco dice più volte che se in quel momento tu cerchi di applicarla fai un errore. La tecnica può quindi sì, diventare una gabbia. Nel momento in cui accade il mistero, e vieni toccato dal mistero, devi lasciarti andare ad esso. Cosmè Tura, San Girolamo penitente, 1470 ca. E in cosa consiste questa dimensione di “non-preghiera”?  Sul tema della “non-preghiera” hanno scritto molti studiosi di Isacco. Si tratta di quell’oltre in cui l’agire umano si fa da parte, e subentra quello di Dio. In quel momento si è, per citare il titolo di un articolo di Paolo Bettiolo, “prigionieri dello Spirito”, cioè si è in un luogo dove l’azione umana, anche la più nobile, il portare stesso di cui si diceva, cessa, e Dio si dà. Sono luoghi misteriosi, che proviamo a nominare, ma di cui possiamo capire poco cognitivamente, però sappiamo che è un oltre l’azione, un oltre il cognitivo, un oltre il discorsivo, e sappiamo che lì si dà un bene. È interessante che il pensiero e il comprendere abbiano un limite, oltre il quale si dà qualcosa che è al di là del soggetto, e che però il soggetto ha preparato, ha cercato in modo molto attivo. È un po’ la comunione contraddittoria di grazia e libero arbitrio. L’interazione tra queste due dimensioni esiste ed è indagata da Isacco, nella consapevolezza però che non c’è tra la grazia e l’esercizio di sé un rapporto causa effetto: c’è sempre un aspetto di mistero e di non sapere nel venire di Dio, non programmabile attraverso l’uso di tecniche. L’uomo rimane sempre su un crinale, dove non sa, e con questo non sapere deve fare i conti. Questo è anche parte della vita quotidiana: il capire che la vita ha dei ritmi, ha dei misteri, ha degli arenarsi, delle cose che non si possono controllare. Ma quando, e perché, questo rapporto col limite e con la morte è venuto meno?  Come studiosa delle fonti spirituali posso dire quello che vedo in questi testi. C’è stata la perdita di un duplice rapporto: con sé come creatura, e poi con una dimensione trascendente, altra da sé. Di sicuro nella modernità abbiamo perso il rapporto col materico, col fisico, che di certo questi autori avevano. Però, più che capire il come e il perché questa nozione di limite sia andata perduta, mi pare interessante notare il fatto che, eludendola, essa torni indietro di rimando nell’esperienza. Dovremmo interrogarla, e interrogare il limite e noi stessi, ciascuno nel suo intimo. Io non mi sento attratta dai discorsi ampi sulla società, mi viene invece da chiedere: nel momento in cui incontro il limite, come individuo, nella mia vita, che ne faccio? Sarò pronto ad ascoltarlo? A sostenerlo e farne qualcosa, e usare questa prova come apertura? A usarla come via per vedere me stesso e l’altro? Credo che i percorsi individuali che cominciano a ragionare così potranno trovare vie nuove di attraversamento per le difficoltà di oggi. Oltre la pressione del collettivo e le sue dinamiche di oblio. Secondo me non è tramite il tentativo di ristabilire la centralità del trascendente che si ritroverà il rapporto con esso e con il limite, sebbene comprenda questo tentativo, ma è tramite l’attraversamento dell’esperienza del limite che ci scontreremo con la necessità di interrogazione sul trascendente. Lì ognuno di noi sarà solo di fronte al mistero, al cercare una via di fronte al mistero. Credo, e grazie a Isacco, che solo portando il negativo si entra in relazione con il proprio limite, con la propria condizione creaturale, e di conseguenza anche con ciò che è altro da sé. Isacco usa spesso un termine, argeš, che significa “percepire”. E lo usa in riferimento alla debolezza, dicendo:  > “beato l’uomo che ha conosciuto la sua debolezza! Questa conoscenza sarà per > lui fondamento e inizio di ogni cosa buona e bella. Quando un uomo ha > conosciuto e percepito (argeš) che esattamente e in verità è debole, allora > trattiene la sua anima dal divagare” (I 8). C’è quindi un percepire e un conoscere, ed è solo percependo la propria debolezza, stando dunque in contatto con sé, che è possibile una conoscenza, e con essa una trasformazione. Credo che questo sia molto moderno, e trascende il fatto che qualcuno sia un solitario, un monaco o altro; ciascuno nella sua individualità è chiamato, credo, a fare questo, se gli interessa tentare di vivere con verità, cercando la verità.  Bianca Cesari * Fonti Prima Collezione P. BETTIOLO, M. GALLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi ascetici 1, Roma: Città Nuova, 1984. S. CHIALÀ (trad.), Discorsi ascetici. Prima collezione, Magnano: Qiqajon, 2021. Seconda Collezione S. BROCK (ed.), Isaac of Nineveh (Isaac the Syrian).“The Second Part”, Chapters IV-XLI (CSCO, 554-555; Scr. Syri, 224-225), Louvain: Peeters, 1995. P. BETTIOLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi spirituali: Capitoli sulla conoscenza, Preghiere, Contemplazione sull’argomento della gehenna, altri opuscoli, Magnano: Qiqajon, 1985 (ristampa 1990). Terza Collezione S. CHIALÀ (ed.), Isacco di Ninive. Terza Collezione (CSCO, 637-638; Scr. Syri, 246-247), Leuven: Peeters, 2011. Studio principale: V. DUCA, “Exploring Finitude”: Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (OLA, 309; Bibliothèque de Byzantion, 28), Leuven: Peeters, 2022. *In copertina: Maestro dell’Emmaus di Pau, San Girolamo, XVII sec. L'articolo “È l’ardere del cuore per l’intera creazione”. Dialoghi intorno a Isacco di Ninive proviene da Pangea.
May 8, 2025 / Pangea
Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un libro di Giovanna Di Marco
Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille, forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la sua verità liberata dall’artificio della parola.  Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato (come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia. Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata: l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo che meriti di essere salvato.  È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa – Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura, affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi, Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio, Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt, Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.  A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale (siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona, monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico, giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del tutto ostile.  I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro. «Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel quadro».  Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo, l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente, inadeguato:  > «Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti > architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per > scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma > di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che > arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si > offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi > riconsegnarla sotto altra forma».  Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque, all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.  > «Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco > –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E > adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi». Fabrizio Coscia *In copertina: Camille Claudel (1864-1943) L'articolo Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un libro di Giovanna Di Marco proviene da Pangea.
May 8, 2025 / Pangea
“L’arte è aristocratica fino al midollo”. Witold Gombrowicz contro tutti
Ne nacque un affare diplomatico. Nel 1968, per L’Herne di Dominque de Roux, l’editore dei reprobi, Witold Gombrowicz aveva pubblicato un saggio Sur Dante (uscito, in Italia, da Sugar nel 1969 e da Dante & Descartes nel 2017). In direzione contraria ai pur formidabili libri del genere – chessò, i saggi danteschi di Thomas S. Eliot e Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam –, Gombrowicz scrive che Dante non gli pare granché; la Commedia, poi, è una boiata pazzesca. Davanti a Piero Sanavio, indimenticato giornalista hemingwayano, Gombrowicz rincarò la dose:  > “Se Dante mi annoia e se mi considero superiore a lui, lo affermo senza paura: > è un mio diritto”.  (A proposito: vale la pena ristampare lo studio di Sanavio edito cinquant’anni fa da Marsilio, Gombrowicz: la forma e il rito, è più brillante di troppi, mortificanti saggi odierni, è fitto di frasi bellissime, come questa: “Gombrowicz vivo l’ho sempre incontrato in giornate di pioggia”; il polacco, d’altronde, scriveva con furia d’acquazzone).  Giuseppe Ungaretti s’incazzò e scrisse a De Roux una lettera piena di spine (“Il libretto su Dante di quel polacco è vergognoso. È un fatto senza senso, idiota, che questa calunnia sia stata stampata”); nel Diario, Gombrowicz annota: “l’addetto dell’ambasciata italiana a Parigi ha annunciato una sua visita”. Siamo nel 1969; Witold morirà poco dopo; per L’Herne era da poco apparso un Cahier dedicato a Ungaretti, a cura di Sanavio.  La disfida – diciamo così – tra Gombrowicz e Dante durava da qualche anno. Già nel 1966 Gombrowicz squartava il Poeta con caustica acribia:  > “La Divina Commedia non mi basta. Vi cerco Dante senza trovarlo… A scuola e a > casa ci hanno insegnato solo a rispettarli e venerarli, mentre in realtà il > nostro rapporto verso i Grandi è di due tipi: da un lato ci prosterniamo e li > adoriamo, dall’altro li trattiamo con condiscendenza e disinvoltura”.  Comprendiamo l’euforica ira di Gombrowicz: l’anno prima, a Firenze, si era celebrato il trionfo di Dante; scoccavano i settecento anni dalla sua nascita. Saint-John Perse, il poeta e diplomatico francese, diplomato Nobel nel ’60, tenne un discorso inaugurale, Pour Dante, prontamente stampato da Gallimard; c’era anche Ungaretti, a rimarcare l’abissale grandezza dell’Alighieri. A Gombrowicz irritava l’atteggiamento ossequioso – e ipocrita – dei poeti verso il Poeta. Della Commedia, non salvava neanche l’Inferno: > “I tormenti dei suoi dannati sono talmente rozzi, poveri, logorroici! E tutti > quei predicozzi enunciati tra un tormento e l’altro…”.  Questo andazzo da Lucignolo – o, per restare in tema dantesco, da Cecco Angiolieri – celebra, sotto la superficie, un’idea guerresca della letteratura, mai assisa sugli allori – sui quali, invece, in perpetua acquiescenza, ronfano i critici sornioni e i poeti in carriera. La stessa idea, in fondo, è professata da Leopardi nelle Operette morali, dove si dice (siamo all’altezza del Parini o della Gloria) che le opinioni dei critici e degli storici sono corrotte da “consuetudine ciecamente abbracciata”. I lettori non mettono mai in discussione ciò che le accademie e il pregiudizio impongono; eppure, i grandi scrittori, proprio perché tali, devono essere interrogati e sfidati di continuo, fino a sfrattarli dal trono. Così – è ancora Leopardi – “a me interviene non di rado di ripigliare nelle mani Omero o Cicerone e il Petrarca e non sentirmi muovere da quella lettura in alcun modo”. Per continuare sulla scia del Gombrowicz “leopardiano”, bisogna leggere il Diario (ora in unico tomo per il Saggiatore, nella traduzione di allora, di Vera Verdiani, quando lo stampava Feltrinelli, in due tomi, usciti nel 2004 e nel 2008; medesima anche l’introduzione di Francesco M. Cataluccio, a parte lievi modifiche nel primo paragrafo) dal fondo, dalla formidabile allocuzione Contro i poeti. Gombrowicz ridicoleggia lo statuto dei poeti che “ormai non cantano più per la gente, ma per se stessi”, stigmatizza “il poeta come un essere che non può esprimere se stesso perché è costretto a esprimere la Poesia”. In sostanza, il Witold scatenato sbugiarda l’idolo della Letteratura, la menzogna della Cultura. Scrivere, dice Gombrowicz, vuol dire azzerare tutto, soprattutto se stessi, fare della penna il proprio plotone di esecuzione, rifuggire dai riti dei letterati e dai premi, rifulgere nella rinuncia.  Contro i poeti era stato preparato per un discorso pubblico accaduto a Buenos Aires nel 1947; trasferitosi nella capitale argentina dal 1939, Gombrowicz ha scritto lì, da reietto, da “eremita sepolto vivo in Argentina”, le pagine più violente del Diario. Malsopportava Victoria Ocampo, “un’anziana aristocratica piena di milioni”, e i galoppini d’intelletto fino che ronzavano intorno a “Sur” – Paul Valéry, Bernard Shaw, Keyserling – galvanizzati da “quell’insistente sentore di soldi aleggiante attorno alla signora”. Impossibile per uno scrittore “affascinato dagli strati inferiori del paese” entrare in contatto con Borges,  > “un artista che il caso aveva fatto nascere in Argentina, ma che avrebbe > potuto altrettanto bene, e forse meglio, essere nato a Montparnasse”.  Il Diario di Gombrowicz è tutt’altro dai pur mirabili Journal che i francesi hanno prodotto a frotte – quelli, ad esempio, di André Gide, di Marcel Jouhandeau, di Julien Green. Lì la suprema raffinatezza rispecchia l’impero dell’egotismo, l’energia di una schifiltosa interiorità; qui, invece, è l’audacia dell’individuo che dilania se stesso, sono le dighe disintegrate, i tombini bombardati, il dio del caos in casa. Gombrowicz disprezzava la letteratura dello show, la letteratura “sfrattata dallo spirito individuale”, che  > “diventa preda di fattori extra-spirituali e puramente sociali. Premi, > concorsi. Celebrazioni. Associazioni professionali. Editori. Stampa. Politica. > Cultura. Ambasciate. Convegni”.  Il Diario è un antidoto a quest’epoca esangue, retta dall’autocensura e dal perbenismo della correttezza. In spiaggia, per dire, a Piriápolis, Uruguay, è il 1962, Gombrowicz inveisce contro le grasse, contro lo “svaccato stravaccamento di quello schifo sfacciatamente sfrontato”, quel “donnesco baobab di donna dal debordante didietro… e chi lo trova un macellaio capace di venirne a capo?”. Terrorizzato dai grandi numeri – che annientano l’io allo sbadiglio, a uno sbaglio, allo zero – Gombrowicz disorienta il mito della fedeltà coniugale: come faccio ad amare un’unica donna se “non so chi sono io” e lei è  > “una delle tante femmine che abitano il globo terrestre, una delle tante > vacche… un miliardo di vacche, un miliardo di femmine?”.  Ha scritto che “l’arte è aristocratica fino al midollo, come un principe di sangue reale. È negazione dell’uguaglianza e culto della superiorità”. Resta il fondatore di un’eresia letteraria senza seguaci – per chiunque scriva, Witold Gombrowicz è un San Paolo: ci ha messo la croce addosso, aprendoci la via del tormento e della gloria.  L'articolo “L’arte è aristocratica fino al midollo”. Witold Gombrowicz contro tutti proviene da Pangea.
May 7, 2025 / Pangea
“Non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti sacrifici”. A lezione da Piperno
In coda al suo primo romanzo Alessandro Piperno ringraziava il proprio maestro, Enrico Guaraldo, per avergli insegnato “a leggere e a scrivere”. Allora ero molto giovane e ricordo che in un primo momento pensai che Guaraldo fosse il suo maestro delle elementari; devo dire che oggi quel mio errore mi diverte. Soltanto in seguito capii che leggere e scrivere sono due attività in continua evoluzione e che non si finisce mai di impratichirvisi, nemmeno da adulti. Piperno infatti ringraziava il suo professore universitario, e chissà se oggi – a vent’anni dall’esordio – ritiene di avere del tutto imparato a leggere e a scrivere. Di certo sa tenere interessanti discorsi al riguardo.  Con le peggiori intenzioni, il suo primo romanzo, usciva nel 2005. Allora avevo sedici anni ed era il libro di cui parlavano tutti; volli leggerlo anch’io e mi divertii, mi piacque. Ancora adesso, riprendendolo in mano, alcuni episodi mi paiono molto riusciti e talvolta riesce perfino a farmi ridere. Tuttavia non è all’opera romanzesca di Piperno – ai suoi alti e ai suoi bassi – che penso ora bensì ad alcune tracce per così dire “divulgative” che nel corso degli anni hanno accompagnato la sua scrittura e dunque la vita dei suoi lettori più attenti. Le coglievo su YouTube, sporadicamente: ogni tanto spuntava il filmato di una sua conferenza o di una sua lezione universitaria o anche soltanto di una sua intervista, e Piperno se la cavava sempre in modo egregio, da ottimo oratore qual è. Parlava di molti autori che amo – fra gli altri Proust, Flaubert, Nabokov, Bellow, Philip Roth, Capote, Baudelaire, Dickens, Kafka – e non era mai banale o noioso. Il fatto è che Piperno è uno di quegli scrittori che sono innanzitutto dei lettori forti e che perciò hanno stipulato una sorta di patto implicito con il proprio pubblico, ubbidendo sempre o quasi ai dettami della passione e della sincerità. Certe volte ha un occhio un po’ troppo benevolo per gli autori cresciuti (come lui) du côté de chez Siciliano, tuttavia i suoi consigli letterari non mi hanno quasi mai deluso: come suggeritore di libri Piperno inciampa di rado, specie se non parla dei suoi contemporanei italiani.  Il titolo del suo ultimo lavoro è Ogni maledetta mattina, il sottotitolo cinque lezioni sul vizio di scrivere. Se ho voluto accennare alle sue conferenze e lezioni che girano online è perché in questo libro esse vengono spesso riprese e arricchite. Piperno comincia raccontando della sua passione per la scrittura e poi elenca cinque ragioni (che saranno i cinque capitoli del libro) per mettersi a scrivere: ambizione, odio, senso di responsabilità, piacere, conoscenza. È un saggio a tratti divagante ma sempre ben strutturato. A un certo punto Piperno riprende una frase di John Cheever:  > “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre > all’eccellenza.”  Qualche anno fa l’aveva posta in epigrafe a Il manifesto del libero lettore, un suo libro che potrebbe essere appaiato a Ogni maledetta mattina; ora ce la ripropone come “una delle definizioni dell’arte di scrivere più persuasive” in cui ci si possa imbattere. Difficile dargli torto, specie in tempi in cui alla letteratura si collegano ogni sorta di doveri politici e sociali o addirittura didattici.  Piperno, ripeto, è un ottimo lettore e le pagine illuminanti o comunque dilettevoli del saggio sono parecchie. Mi sono rimasti impressi, per esempio, i brani sulla stupidità contemporanea (partendo da Bouvard e Pécuchet), o un originale e credo inedito accostamento fra Céline e Salinger, o la seguente frase: “È bene ribadirlo: non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti sacrifici”, o questa: “Attribuire un significato simbolico ai racconti di Kafka non è solo un esercizio infruttuoso, ma anche un oltraggio alla sua divina arte narrativa” (una chiosa che Kundera avrebbe apprezzato), oppure: “Ah, se ne ho conosciuti di scrittori talentuosi che, stritolati dalla fame di riconoscimenti, hanno finito per perdersi!”, o ancora un difficile ma riuscito trait d’union fra Proust e Kafka che suggella il finale del saggio e dunque il bel ricordo che ne conserviamo.  Insomma, Ogni maledetta domenica è un libro onesto e riuscito, che potrebbe avere come antenati o fratelli maggiori la prefazione di Musica per camaleonti di Truman Capote o L’arte del romanzo di Milan Kundera. Scrivere, come leggere, è divertente, può esserlo: Piperno in fondo non vuole dirci altro che questo, senza ergersi a gran maestro della sua arte. D’altro canto il suo amato Proust fa dire a Elstir, in All’ombra delle fanciulle in fiore:  > “La saggezza non la si riceve, bisogna scoprirla da soli al termine di un > itinerario che nessuno può compiere per noi, nessuno può risparmiarci, perché > è un modo di vedere le cose. Le vite che ammirate, gli atteggiamenti che vi > sembrano nobili non sono stati stabiliti dal padre o dal precettore, sono > stati preceduti da esordi ben diversi, influenzati dal male o dalla banalità > che regnavano tutt’intorno. Rappresentano una lotta e una vittoria.”  Chissà se Piperno, allievo di Guaraldo, concorderebbe. Di certo in Ogni maledetta domenica non ci sono pompose lezioni “tecniche” sull’arte del narrare, come ormai è d’uso negli sciagurati manuali di scrittura creativa che infestano le librerie. No, Piperno non fa questo, non lucra sugli aspiranti scrittori come sogliono fare in tanti, e di ciò gli siamo grati. Aspettiamo quindi con interesse il suo prossimo romanzo, perché – dopotutto – è lì che si e ci diverte davvero.  Edoardo Pisani *In copertina: un’opera di Honoré Daumier L'articolo “Non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti sacrifici”. A lezione da Piperno  proviene da Pangea.
May 7, 2025 / Pangea
Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla generazione che ha anestetizzato l’ignoto
Come accostarsi a un paese, a una cultura, a una visione del mondo e della vita radicalmente diversi dai nostri? Cosa si smuove, dentro di noi, quando il confronto con l’alterità si fa profondo, inevitabile, trasformativo? «Que devient-il un paysage lorsqu’il n’est plus contemplé?» – si chiedeva Béatrice Commengé, rievocando l’infanzia mitica di Lawrence Durrell nelle valli luminose dell’Himalaya. Un paesaggio, una cultura, esistono anche senza il nostro sguardo? E cosa diventano, quando vi posiamo sopra i nostri occhi inquieti? Si può scegliere la via di Pierre Loti: proiettare sull’altrove il volto inaccessibile e seducente di una donna, dare carne e sangue all’esotico, trasfigurandolo in desiderio. Oppure seguire le orme di un poeta come Odysseas Elytis: prendere la Grecia millenaria e custodirla come in un sogno, sottrarla agli urti della storia, popolarla di luce implacabile e di dèi che nuotano tra le onde dell’Egeo e i dolori intimi dell’uomo. Si può anche fare come Roland Barthes: accogliere il Giappone nella propria fantasia privata, lasciarsi attraversare da una costellazione di segni e immagini fino alla lacerazione del senso. E poi c’è chi si innamora perdutamente dell’Asia e, come in una favola zen, si immagina abitante della luna in viaggio di studio sulla Terra. È il caso di Fosco Maraini, che con Segreto Tibet ci consegna uno dei libri più belli e inclassificabili del Novecento italiano: non solo una superba testimonianza di viaggio, ma una meditazione profonda sulla bellezza, sul tempo, sulla meraviglia. * Nel Tibet degli anni Trenta – chiuso al mondo, accessibile solo a pochi – Maraini accompagna l’orientalista Giuseppe Tucci in due spedizioni memorabili, nel 1937 e nel 1948. Ne nasce un’opera che è insieme diario, trattato antropologico, poema in prosa e archivio della memoria. È allo stesso tempo documento storico e fiaba senza tempo: ha la nitidezza di una cronaca e la sospensione dell’archetipo. Racconta un mondo reale eppure mitico, in cui ogni gesto, ogni volto, ogni oggetto sembra affiorare da un tempo remoto e arcano. Segreto Tibet ci trasmette il senso della vertigine del nuovo – quella a cui non siamo più abituati. Noi, generazioni satellitari, cresciute con Google Maps e Street View, abbiamo addomesticato il mondo, anestetizzato l’ignoto. Maraini, invece, ci restituisce lo stupore intatto del primo sguardo, la sensazione di camminare davvero fuori mappa, come esploratori del proprio stesso sguardo. In questo, egli è l’epigono di Marco Polo: colui che non solo narra ciò che ha visto, ma lo ricrea. Un Ibn Battuta della parola, un Matteo Ricci dell’immaginazione. Seguiamo l’inizio della spedizione, quando Maraini descrive la partenza dal porto di Napoli. È ancora l’epoca dei lunghi e avventurosi viaggi in piroscafo, contenitori mobili di un’umanità cosmopolita e palpitante. Qualcuno dovrà pur scrivere, prima o poi, l’epopea di questi pachidermi acquatici. Nella nave avviene il primo incontro ufficiale del lettore con Tucci, al quale Maraini è legato da una profonda riconoscenza.  Si levano le ancore, si salpa, i cari e i curiosi gesticolano dalle banchine: l’anima vive già le promesse scintillanti del futuro. Maraini fa tappa in Egitto, visita le Piramidi, poi Gibuti, lo Yemen, infine l’approdo in India. Qui avviene il primo grande confronto con la monumentale civiltà asiatica. Con una certa dose di temperata ironia, Maraini già esercita la sua fulminante capacità di osservazione: quell’inseguire la divinità del dettaglio, senza però esaurirne il mistero. Infine, la lenta ascesa verso il Tibet, attraverso l’Himalaya Orientale: un lento e itinerante apprendistato all’incanto, una compiuta pedagogia del vedere. Il nuovo scenario si svela in immagini da creazione del mondo: coltri di nebbia, torrenti impetuosi, ghiacciai celesti, colossi di pietra. Tutto – le forme, i suoni, i colori – parla un linguaggio aurorale, da giorno-uno della Terra. E gli uomini che lo abitano – come i Lepcha, timidi e silenziosi, piccoli Hobbit asiatici in simbiosi con la natura – sembrano venuti da un altro ciclo cosmico. Anche il dettato di Maraini, allora, deve dar conto di questa aria di prodigio. La sua lingua diventa a tratti espressionistica, capace di evocare il brulicante e inesausto alternarsi e proliferare di vita e di morte delle foreste. Poi, come osservando gli altopiani a volo d’uccello, la prosa si apre ai monologhi del sole e del vento, “alle grandi cose di fronte a cui è inutile mentire”. Talvolta, con brevi pennellate da artista cinese, nascono quasi degli Haiku in prosa: > “Gli ultimi alberi, le prime nevi in distanza. Stamattina ci siamo incamminati > all’alba: dalle piante della foresta pendevano strani licheni che la rugiada > imperlava di luce”. Maraini è un narratore puro che dissemina qua e là schegge di poesia. La sua scrittura svezza il lettore dall’ovvio, fruga nella materia viva, apre sentieri nel bosco delle parole con la sicurezza di chi ha imparato a camminare nella giungla, a colpi di machete. La sua lingua sa essere precisa e limpida, ma anche lirica e visionaria: un equilibrio raro tra precisione e incanto. Segreto Tibet è anche un libro di ritratti. Come quello di Giuseppe Tucci: geniale, ombroso, carismatico, capace di passare con naturalezza dalla lettura delle scritture tibetane al ricordo commosso delle colline marchigiane e dei versi leopardiani. Attorno a lui, figure che sembrano uscite da un affresco: maharaja postumi, europei convertiti al buddismo che si aggirano fra i templi come pellegrini smarriti e devoti, nobili americani in cerca del proprio Gran Tour interiore. E infine lei: Pemà Chöki, la principessa del Sikkim. Figura femminile intensa, dolce e carismatica, colta e velata da un mistero lieve. Simbolo di un paese che si rivela nei suoi contrasti, è quasi l’incarnazione dell’anima tibetana: silenziosa, tenace, enigmatica. Io credo che, a dispetto di una produzione che è per la maggior parte prosa, Maraini abbia testa e cuore di poeta. E sono convinto che raggiunga l’apice del suo lirismo proprio nell’evocazione di Pemà. La incontriamo per la prima volta in un pranzo formale, a Gangtok, in un contesto dove “tutto è favola, convegno di gnomi e di fate”. Pemà ha da poco superato i venti anni, il suo nome significa Loto della Fede Gioiosa e vi è in lei una bellezza altera, un po’ nervosa, brillante. I suoi occhi sono intensi e penetranti, l’ovale del volto sottile, la bocca piccola e inquieta passa dal sorriso al disappunto in maniera del tutto naturale. I capelli, di un nero pece, sono molto lunghi e confluiscono in una treccia alla tibetana. È vestita secondo gli usi locali che prediligono i colori accesi e fanno apparire gli europei, stretti nei loro rigidi e scuri indumenti, come dei mesti pinguini. Pemà è avvolta da una seta viola, con una sciarpa che le cinge la vita. Le unghie delle mani sono smaltate in rosso: piccola, adorabile concessione alla moda occidentale. Ai piedi calza dei sandali francesi in pelle nera. Una catena tempestata di diamanti le adorna regalmente il collo. Pemà è un’abilissima e profonda conversatrice. Ha ricevuto un’ottima educazione: conosce assai bene l’inglese e i grandi autori della letteratura.  La principessa Pemá Chöki Namgyal. India. Sikkim. Passo Nāthū Lā. 27 febbraio-18 maggio 1948  Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi Alinari. C’è un passaggio del libro che mi è particolarmente caro. Maraini, di ritorno alla corte di Gangtok dopo svariati mesi, rivede Pemà e trascorre con lei un pomeriggio intero. La principessa, che nutre una profonda venerazione per Milarepa, decide di leggere in lingua originale alcuni passi del grande poeta tibetano. Maraini assiste, incredulo e incantato, alla scena che si svolge in quel momento. Il canto di Pemà racconta le immagini di Milarepa e le sue sensazioni di eremita durante le notti, nei deserti di ghiaccio. C’è forse un modo più bello per avvicinarsi, pieni di ritegno e di un ammirato stupore, al cuore stesso di una persona e di una civiltà a mille miglia lontana dalla nostra?  Quando si trova a Chubitang, Maraini ricorda che proprio da là, un anno prima, è passata Pemà, di ritorno da Lhasa. Immagina allora di avvistarla da lontano, come per incanto:  > “Da lontanissimo avrei visto la carovana come dei puntini; poi camminando i > puntini si sarebbero fatti uomini, cavalli e yak. Avrei sentito allora i > campani degli animali e le voci dei servi. Infine ti avrei vista, Loto della > Fede Gioiosa, per la prima volta, sul tuo cavallo, gli occhi fissi alle > distanze, il capo nel sole; rara, forte, fragile come la giada. Poi saresti > svanita nell’immenso della pianura. Da ultimo avrei soltanto inteso le voci > degli uomini per cui tu eri la cosa delicata e preziosa da proteggere, da > difendere, da condurre di là dall’Imàlaia” * Segreto Tibet ci scaraventa – senza indulgenze – in un mondo fatto di colori e costumi che sembrano usciti da un sogno miniato. Un universo che ignora la fretta, ma conosce l’attesa, il rito, la verticalità della preghiera e l’orizzontalità delle stagioni. Un mondo che si rivela a poco a poco, per squarci di meraviglia, sospensione dell’incredulità. Altopiani di orizzonti vasti, di cieli limpidi, di terre ocra che risplendono alla luce solare, dominate da vette leggendarie. Nei passi di montagna, al confine tra regioni e nei luoghi di transito, svettano i chörten, la versione tibetana degli stupa indiani, e i variopinti tarchö. Sono rettangoli di stoffa colorata, sui quali sono stampate preghiere e formule sacre. Si pensa che le benedizioni vengano portate dal vento, diffondendo buona volontà e compassione.  Tutto, in Segreto Tibet, parla di un tempo che non tornerà più. Non solo per i mutamenti storici, politici, culturali che hanno trasformato – spesso violentemente – il Tibet, ma perché è trascolorato anche, forse, un certo atteggiamento di fronte alla vita. Un capitolo del libro si chiama L’ebbrezza di scoprire. È il resoconto di una mente di fronte all’avventura spirituale della scoperta. Guidato e illuminato dal genio di Tucci, Maraini arriva alla sorgente pura della conoscenza, nel momento in cui essa non ha ancora vissuto lo svilimento dell’analisi, dell’antologia e della classificazione.   Il libro si può anche leggere, in fin dei conti, come la testimonianza bruciante di un evento irripetibile nella vita dello scrittore. Quel Tibet è forse, anche, un Tibet interiore, una segreta geografia dell’anima. Un luogo dove forze opposte convivono, come in uno yin e yang cosmico: luce e oscurità, violenza e dolcezza, umorismo e compassione.  * Fosco Maraini è sepolto nel piccolo cimitero dell’Alpe di Sant’Antonio, nella regione della Garfagnana, uno dei suoi luoghi del cuore. Sulla lapide, alle due estremità, sono incisi una croce di Cristo e un Buddha. Escursionisti, pellegrini e amanti delle sue opere vi portano fiori e piccole bandiere di stoffa tibetane.  Rifletto sulla biografia di Maraini. Certo, vi si può leggere una sintesi perfetta di un uomo che ha dialogato sempre dal cuore dell’Occidente a quello dell’Oriente. Maraini era innamorato dell’Asia, ma senza per questo dimenticare da dove proveniva. Il suo sforzo di sintesi tra civiltà, in un periodo storico drammatico, ha significato anche sacrificio, una dura prigionia, un dito mozzato. Segreto Tibetresta, nella vita e nelle lettere, come un misterioso ed irripetibile miracolo. Dalle porte del futuro, però, si intravedeva già quella manciata di isole poste ancora più ad Est: il Giappone. Lorenzo Giacinto *In copertina: La lotta contro il nulla. Giappone. Tokyo. Parco di Ueno, 1963. Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi Alinari L'articolo Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla generazione che ha anestetizzato l’ignoto proviene da Pangea.
May 6, 2025 / Pangea
Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al “Barabba” di Lagerkvist
Ho amici cattolici. Domenica delle Palme ero in piazza, per i saluti, e in piazza si diceva messa. Una piazza mesta come lo sono i luoghi inutilmente pubblici il più delle volte, quando non ci sono i leader delle ragioni superiori a organizzare i torpedoni. Quando ci sono gli stand della Coldiretti è un’altra storia, è quasi festa, per quanto anche lì a tener banco è l’illusione di poter comprare al miglior prezzo qualcosa di meno industrialmente nocivo. Si chiacchierava tutti ma quando è stata la volta della lettura del vangelo liturgico del giorno, recitato dal pulpito allestito al vento, cala un silenzio di attenzione dovuta, di ossequiosa osservanza delle circostanze cui s’adegua pure chi in piazza c’era per tutt’altra ragione, e taccio anch’io per colmo di stupore di fronte a tante persone, comunemente refrattarie a ogni letterarietà, che azzittiscono e mimano concentrazione per qualcuno che legge. I Vangeli, così come le Bibbia al completo, li ho letti nell’edizione concordata della Mondadori, perciò per me è sempre una novità ri-leggerli ascoltandoli nella versione approvata dalla CEI: troppi interessi di troppe parti difficilmente possono conciliarsi con quello principale della lealtà verso il testo, perché giunga a chi lo legge nella sua forma più aggiornata e il meno faziosa possibile.  «Ogni civiltà nasce da una traduzione», così Gianfranco Folena, citazione letta in un libro di Aldo Busi, per cui: dimmi a che traduzione t’affidi e ci capirò immediatamente qualcosa in più della civiltà che aspetta entrambi, se quella a cui t’affidi tu è la stessa a cui s’affidano in maggioranza. Ascolto. I vangeli nei secoli hanno avuto lettori sagaci, mica tanti, e sequele sterminate di pigri recettori di artate interpretazioni altrui, ma questo non dispensa nessuno dal farsene una lettura e un parere propri, se gli va, così come niente vieta che li si ignori come viene ignorata tanta parte della letteratura mondiale, al netto di quella che viene propinata nei programmi ministeriali, tante volte perché possa essere disprezzata subito e in blocco. Dal Vangelo di Luca:  > “…ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola… Io sto in > mezzo a voi come colui che serve…  il suo sudore diventò come gocce di sangue > che cadono a terra… con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?… E molte > altre cose dicevano contro di lui, insultandolo… Togli di mezzo costui! > Rimettici in libertà Barabba!… Detto questo, spirò.” Ascolto e mentre ascolto non sono più in piazza, non è più la Domenica delle Palme. È la notte di qualche mese fa, in gruppo rientriamo in albergo, siamo a Ischia per il matrimonio di una coppia di amici, è stato ufficializzato al comune di Forio la mattina stessa. Gli altri vanno ciascuno nella stanza assegnata, io resto a zonzo nella hall sottosopra dell’albergo. Siamo fuori stagione, nell’albergo sono in corso opere grosse di manutenzione: le porte delle camere non hanno gli stipiti, lungo i corridoi ammassano le biancherie da sostituire, le scaffalature stanno accatastate negli angoli. Ci si sente come in una delle narrazioni di Antonio Moresco, alla fine di un tempo e di uno spazio che ha perso memoria del suo prima e del suo dopo. Nella hall ci sono libri disposti in pile senza ordine bibliografico alcuno, le scruto a una a una, come resti di colonne di una cattedrale ipotetica, mentale. Scelgo quale pietra svellere: Barabba, di Lagerkvist, nell’edizione 1965 della Gherardo Casini Edizioni Periodiche, traduzione di Alois Baumgarthner, collana “I libri del sabato”. Lo scelgo perché è sottile, ideale per me che stanco come sono non mi aspetto di riuscire a leggere a lungo, in camera. Perché di Lagerkvist ho letto Il nano, e mi piacque. Lo scelgo perché di Saramago ho letto Il vangelo secondo Gesù Cristo, scrivendolo da scrittore quindi né noiosamente da apologista né facilmente da polemista.  Come ha scritto Lagerkvist di Barabba?, mi chiedo, scegliendolo per questo, non sapendo io se  Lagerkvist sia stato di qualche fede dichiarata o se no e se sì quale fosse e se no se si fosse sentito poi in dovere di dichiarare perché aveva preferito di no. Se a lettura del romanzo ultimato avessi continuato a non saperlo, a non poterlo sapere, Barabba sarebbe potuta dirsi l’opera di uno scrittore. La letteratura non può essere confessionale perché le religioni sono il contrario della letteratura. La religione si fonda sull’assunto che c’è una verità e che le narrazioni non possono che provare ad avvicinarsi a quella verità che le precede e che tutt’al più le ispira. Per la religione la narrazione viene dopo la verità. La letteratura sa che scoprirà una verità solo dopo averla raccontata e che quando racconta due volte una storia non avrà raccontato in due modi diversi la stessa verità ma avrà raccontato due verità, perché la verità e il racconto vanno assieme, si scoprono assieme, è impossibile stabilire chi venga prima, chi fondi chi, chi inventi chi, se la letteratura la verità o se la verità la letteratura. Certo, se non ci fossero verità da dire non ci sarebbe niente da raccontare. Ma se non ci fossero i racconti non ci sarebbe mai stata nessuna verità da dire.  La letteratura sa che per esserlo non può e non deve essere suddita della verità. Le religioni, quali che siano gli espedienti retorici perché non lo si noti, scelgono una verità rispetto alla quale rendere suddita la letteratura, e dunque l’umanità che quella letteratura informa. Per le religioni la verità è stata detta e non resta che dirla meglio, comprenderla meglio, purché non-la-si-travisi, quindi decidendolo comunque loro qual è la lettura-corretta, la lettura-consentita. La letteratura sa che la verità sta nell’avventura del linguaggio, di quello che tramite la scrittura è possibile scoprire inventandolo, inventare scoprendolo. La letteratura non la si sa né la si può mai definire ben bene ma una cosa è certa: se chiede di essere autorizzata, se si preoccupa di non-travisare le narrazioni che l’hanno preceduta e che le succederanno, non è letteratura. Sarà pubblicistica e morta lì. Lagerkvist sceglie di raccontare di Barabba. Aggiungere un pezzo di racconto al racconto-ufficiale, al racconto-raccontato-già-tutto, è di per sé atto inventivo audace, necessario, ma non basta scegliere un soggetto non autorizzato per fare letteratura ovvero qualcosa di non autorizzabile per eccellenza. Leggo Barabba di notte in un albergo dalle pastosità moreschiane per scoprire se l’opera di Lagerkvist è letteratura o un lavoretto di mano religiosa. Il romanzo si apre sulla cloaca del Golgotha,  > “teschi e ossa giacevano sparsi ovunque insieme a croci stese a terra, mezze > marcite, che non servivano più ma che nessuno portava via, perché nessuno > avrebbe toccato le cose di quel luogo.”  A osservare il rabbino crocifisso agonizzante c’è Barabba il liberato, che lo osserva dubbioso, inquietato. Corrisponde il corpo “magro e gracile” di quell’uomo dal “petto senza peli, come quello di un adolescente” a colui che nel pretorio “aveva visto circondato di uno splendore abbagliante”? Come si può avere rispetto di un uomo le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai lavorato”? Nel romanzo di Lagerkvist l’interlocutore – mentale – di Barabba il liberato non è il maestro dei cristiani che da lui prenderanno il nome. Non ha nemmeno un nome suo. L’interlocutore di Barabba maledetto nel seno di sua madre è il crocifisso benedetto nel seno della sua di madre, con la differenza che il crocifisso una madre che l’ha amato fino alla croce e prima e dopo la croce l’ha avuta, mentre Barabba no, una madre non l’ha avuta, non ha saputo chi fosse. E il padre? Anche in questo son diversi, il maledetto e il benedetto alla nascita: uno ha dovuto uccidere suo padre, per sopravvivere, sopravvivere per modo di dire, l’altro perché fosse fatta la volontà del suo di padre ha dovuto morire e morire in croce: per la vita eterna sua e di tutti, così dice il padre del benedetto nel seno di sua madre. Il padre di Barabba, di nessuna parola e a prima impressione assai più brutale, non è stato così terribile. O semplicemente non altrettanto potente, onnipotente addirittura. Il romanzo è appena iniziato, è iniziato da poco, e già siamo da tutt’altra parte rispetto al racconto e all’atmosfera dai Vangeli. Intanto il protagonista è un altro e lo è per davvero, è altro rispetto al Gesù dei Vangeli, è altro rispetto ai fatti e ai luoghi della narrazione perché ha tutt’altra origine chi ne è al centro. Non un uomo che comunque sia si è messo al centro di una scena, non è la storia di un predicatore che va incontro alle folle e dunque alla loro volubilità. È la storia di un marginale, un solitario, un omicida. Sono due fuorilegge, certo, ma rappresentano due modi ben distinti di fuoriuscirne. Il crocifisso non intende infrangerla quanto rifondarla, vuol istituire una nuova legge alla quale inchinarsi con gioia, sollievo, consolazione. Barabba desidera restare al di fuori dalla legge quale che sia. Per Barabba o sei tu a crocifiggere la legge o sarà lei a crocifiggere te se non vorrai vivere da inchinato ai suoi piedi.    Stando al presunto messaggio canonizzato dei Vangeli, Gesù è venuto per Barabba, per i Barabba. Il benedetto è venuto per i maledetti: ma un maledetto fin dal seno di sua madre cosa può voler spartire da un benedetto fin dal seno di sua madre?  Barabba e Gesù sono coetanei, per Lagerkvist. Barabba era  > “un uomo di una trentina d’anni, di corporatura robusta, dal colorito terreo, > aveva la barba rossa e i capelli neri. Anche le sopracciglia erano nere e i > suoi occhi infossati nelle orbite, come se lo sguardo avesse voluto > nascondersi. Sotto un occhio cominciava una profonda cicatrice che spariva tra > la barba. Ma l’aspetto fisico di una persona non dice molto.”   Ah, com’è bravo qui Lagerkvist a negare l’evidenza che lui stesso pone: cosa può avere in comune un uomo già scavato e scalfito e lapidato dalla vita come Barabba con quel crocifisso gracile, magrolino, adolescenziale, con quel Cristo che a me pare dostoevskiano, le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai lavorato”? Ma il crocifisso prima di essere crocifisso, prima di iniziare a predicare tra le genti eleggendo i suoi apostoli, non era stato a bottega di falegname? Possibile che un giovane falegname sulla trentina potesse essere magrolino, esile, con le braccia sottili, il petto glabro, il corpo adolescenziale? Io, se devo immaginarmi il crocifisso stando ai Vangeli e non alla sterminatezza delle raffigurazioni che ne sono state fatte poi, costringendo l’immaginario, viziandolo, snaturandolo, certo non me lo raffiguro nelle sembianze del Raz Degan ai suoi bei tempi né nelle sembianze di Ernesto Che Guevara bello anche da morto come un Cristo-da-canone-vivo, e meno ancora come un uomo smilzo, sottopeso, insomma debole nel corpo perché meglio risultasse forte nello spirito. Nonostante le torture e le vessazioni io sulla cloaca del Golgotha, in mezzo agli altri crocifissi torturati, m’immagino un pezzo d’uomo crocifisso, un ex-falegname che avrà saputo conquistarsi la fiducia e poi la venerazione dei suoi simili perché appunto simili a lui come lui deve essere stato simile a sua madre, che secondo Lagerkvist “aveva l’aria di una contadina semplice e rozza”.  Una contadina semplice e rozza avrebbe mai potuto generare un uomo sottile come il crocifisso? Stando a come la descrive Lagerkvist la madre del crocifisso sarebbe stata invece perfetta come madre di Barabba il liberato, solo che “Barabba non aveva una madre”. Perché il Barabba di Lagerkvist fosse proprio quel Barabba è stato necessario che il crocifisso fosse proprio quel crocifisso. Gli antipodi. La tensione, l’invenzione, l’occasione del racconto di diventare letteratura in Lagerkvist sta tutto in questa separazione iniziale: come può la vita e il sogno di un’altra vita oltre la morte di un benedetto fin dal seno di sua madre poter coincidere con la vita e l’incubo di un’altra vita oltre la morte di un maledetto fin dal seno di sua madre? Il crocefisso di Lagerkvist viene per liberare un Barabba che vivrebbe come un’offesa insanabile essere salvato da lui, lui salvato all’origine perché amato da sua madre, a differenza sua, di Barabba, non amato da sua madre e non amato da suo padre e quindi mai amato e quindi inamabile.  Che beffa per il Barabba di Lagerkvist essere salvato da qualcuno a cui per salvarsi basta essere sé stesso, il figlio di suo padre, il figlio di Dio che è Dio lui per primo, insomma essere salvato da colui al quale per salvarsi da solo e per salvare tutti basta essere nato così com’è nato: da un padre terribile, sia, un padre la cui benedizione verso il proprio figlio non è meno terribile della maledizione che il padre di Barabba ha avuto verso di lui, ma pure da una madre che l’ha amato e che amandolo l’ha seguito fino alla croce, disapprovando chissà quanto le scelte mano a mano più suicida di quel figlio predicatore, andato verso le folle invece di starsene nel proprio particolare, lo stesso seguendolo fino ai piedi della croce, conservandolo della benedizione del suo seno di madre che ama suo figlio nonostante suo figlio, poiché secondo Lagerkvist > “Essa non soffriva come gli altri, non lo guardava come lo guardavano loro, > era ben sua madre. Certamente provava una pietà più grande di chiunque altro; > eppure sembrava rimproverargli di aver fatto tutto per farsi crocifiggere. > Aveva proprio dovuto cercarselo, lui, così puro e innocente, ed essa non > poteva approvare una cosa simile. Essendo sua madre essa aveva la certezza > della sua innocenza. Qualunque cosa avesse fatto, l’avrebbe considerato > innocente”.  Che ingiustizia per uno ingiustamente nato maledetto essere salvato da un giusto benedetto fin dalla nascita.  Il trauma insanabile del Barabba di Lagerkvist, che si autodiagnostica a sua insaputa, è di non aver avuto una madre come a lui, a Barabba, sarebbe piaciuto che fosse: una madre che te le perdona tutte, una madre che avrebbe fatto di te il criminale che poi sarebbe diventato lo stesso se cresciuto da una madre disposta a reputarti innocente a prescindere.  Il miracolo del crocifisso, nella scrittura che ne fa Lagerkvist, a questo punto sta invece proprio nell’essersi saputo condurre innocentemente nonostante la madre che ha avuto, rabbiosamente determinata a perdonargli tutto, incapace come deve essere stata di saper amare di un amore che non avesse bisogno di trovarti qualcosa da poterti perdonare prima di amarti. Barabba non ha avuto una una madre e chi non ha madre non può mai avere certezza di essere innocente, per cui qualunque cosa farà non potrà considerarsi innocente, così Barabba in Lagerkvist.  Per meglio dire, Barabba spiega così a sé stesso il corso della sua vita: un maledetto dagli altri non potrà che maledire sé stesso, non ci sarà salvatore che tenga in questi casi, e d’altronde come vuoi salvarti se la madre del figlio che ti avrebbe salvato non ha nessuna intenzione di salvarti a sua volta, di perdonarti, se anzi anche lei ti maledice, raddoppiando il carico?  > “Essa si fermò e lo fissò con uno sguardo così disperato e accusatore, che > Barabba non potrà mai sperare di dimenticare”. Stando ai fatti, nei Vangeli e nel romanzo di Lagerkvist, il crocifisso non ha salvato nessuno dalla sua condizione terrena, al più dalla morte ma giusto per rinfilarlo nella vita dalla quale continua a cercare scampo – vedi Lazzaro o la donna col labbro leporino o il compagno di miniera di Barabba – e comunque non certamente lui, non Barabba.  È stato il popolaccio di leopardiana memoria a venire a condannare il crocifisso, che pur di condannarlo ha fatto liberare Barabba, continuando a ignorare Barabba, è stato il popolaccio a condannare il più debole di lui per fare la volontà dei più prepotenti di lui, illudendosi così che i prepotenti possano diventarlo di meno verso di lui,  rendendolo un po’ meno debole, o comunque  prendendosi la soddisfazione di essere lui per una volta, lui popolaccio, il più prepotente e non il più debole come al solito.  Condannando il debole di turno per ottenere il favore del prepotente di turno il popolaccio condanna sé stesso, quando alla elezioni ci va con questo spirito il popolaccio condanna sempre sé stesso, il prepotente lo sa, anche per questo ogni tanto lascia per un po’ a piede libero un debole che cerca di raccontare agli altri deboli quanto non siano deboli, quale sia la loro forza: per crocifiggerlo poi meglio e con più gusto, per la gioia dei prepotenti e ancor di più per quella di chi non saprebbe rinunciare allo stato di schiavitù che almeno ci pensa lei a spiegargli tutto del perché la sua vita gli faccia orrore. La differenza tra il Barabba di Lagerkvist e gli altri personaggi del romanzo che scelgono di convertirsi, di voler credere, è che quegli altri sono disposti a farsi a salvare e questa condizione di per sé basta a salvarli, al di là di chi sia poi il presunto Salvatore, meritevole soltanto di avergli dato l’occasione di credere che un Salvatore esista, occasione non da poco e non da tutti.  Barabba no. Barabba non vuole essere salvato, non vuole la vita eterna o stare all’interno di una comunità che creda che una vita eterna sia possibile, che lo sia essere salvati, che sia possibile essere amati per sé stessi e amarsi gli uni gli altri. Barabba ormai può fare anche a meno della madre che non ha mai avuto. Barabba vuole delle scuse. A scuse ricevute magari potrà prendere seriamente in considerazione l’idea di accettare un dio, ma niente scuse niente dio, no, non se ne parla. Su un dio, sulla possibilità di un amore, ci mette la croce sopra chi sulla croce è stato messo da ben prima che ce lo inchiodassero di fatto. Specie se ai piedi di quella croce non c’è nessuno, non c’è mai stato nessuno, nessuno s’è mai fatto ri-conoscere per dirti: Non sei solo, ai piedi di questa croce ci sono io. Almeno questo. Barabba è troppo offeso – e ogni volta che ha offeso gli altri, nell’implicita speranza di riparare così all’offesa subita, si è offeso ulteriormente, al punto che l’offesa ha ricoperto tutto, non lasciando spazio per nient’altro, per nessun altro. Ero all’inizio del romanzo e senza accorgermene sono quasi alla fine, sono alla fine, o sono ancora all’inizio? Sono a Barabba che ha fatto il giro largo per tornare al punto di partenza, alla crocifissione soltanto rimandata.  Ma: secondo Lagerkvist chi è il crocifisso? Il crocifisso di prima o il crocifisso di dopo? Chi crede di poter salvare tutti compreso sé stesso o chi crede che non si salva nessuno? Chi è più crocifisso, il benedetto o il maledetto? Quando c’è la religione c’è la risposta, la risposta diventa talmente invadente che non c’è più spazio per la domanda, neppure per il ricordo di quale fosse la domanda. Quando c’è letteratura la risposta tocca a te che leggi – e con ogni probabilità non sarà mai la stessa risposta molto a lungo.  Detto questo, chi è che spira adesso? La messa della domenica, il romanzo del 1965, io, tu? antonio coda     *In copertina: un’opera di Honoré Daumier L'articolo Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al “Barabba” di Lagerkvist proviene da Pangea.
May 6, 2025 / Pangea
“Voleva vivere in perfetta solitudine”. L’incontro tra Samuel Beckett e Suor Juana Inés de la Cruz
Sarebbe impossibile, oggi, definire Suor Juana Inés de la Cruz “una delle supreme figure simboliche in cui le donne moderne si sono riconosciute”. Eppure, così attaccava la ‘quarta’ delle Poesie di questa singolare e ineffabile personalità, tradotte da Roberto Paoli per la Bur nel 1983. Il libro – naturalmente, verrebbe da dire – fa parte di un’eternità non più libraria, è scomparso da cataloghi e scaffali; l’autrice è ormai un’innocua nota nei libri di storia, una chiosa capretta, tanto che pare paradossale l’enfasi con cui veniva presentata, allora: > “Voleva vivere in perfetta solitudine, leggendo, studiando e scrivendo, senza > essere disturbata dal tumulto della vita. ‘Il mio calamaio è il rogo nel quale > devo bruciarmi’, scrisse stupendamente. Pochi uomini possono vantare una così > adamantina, superba, disperata tensione intellettuale come questa suora > messicana: sognava di essere androgina, di dimenticare il suo sesso e ogni > sesso, il suo corpo e l’intero regno dei corpi, tutte le vicissitudini delle > sensazioni e dei sentimenti”. Anche il libro Einaudi che raccoglie i Versi d’amore e di circostanza di Juana – uscito nella ‘bianca’ nel 1995, a cura di Angelo Morino – risulta “non disponibile”. Peccato perché i versi di questa donna astrale, estranea al tempo, che fu dama d’onore della viceregina, carmelitana scalza per una manciata di mesi, poi affiliata all’ordine di San Gerolamo, temuta per spregiudicato intelletto, di glaciale bellezza, sono tra i più alti dell’epoca, tra i più belli mai scritti in lingua spagnola. Rimedieremo.  Chissà quali sono le “figure simboliche” in cui oggi si riconoscono le “donne moderne”… Non credo che Suor Juana possa essere addomesticata in simboli e in slogan: la sua mente, ferina, spaura; la sua libertà è violenta. Infine, si liberò della biblioteca – che contava oltre 4mila volumi, spesso ‘proibiti’ se non proibitivi – e degli strumenti musicali, che sapeva armeggiare. Chiuse anche con gli strumenti scientifici con cui si lambiccava, giocando all’alchimia – morì, troppo giovane, troppo altra, neppure cinquantenne, nel 1695, a causa di un’epidemia (si dedicò a curare le inferme, subendone il contagio). Leggeva, tra gli altri, Athanasius Kircher. A tratti, Suor Juana pare una delle donne dipinte da Zurbarán: Sant’Agata o Santa Elisabetta del Portogallo, evanescenti e feroci, con quel volto giaguaro. In lei, l’arguzia di Santa Teresa si svolge nell’aquila di Tenochtitlán: un’intelligenza dagli artigli tesi. Per darle giustizia ci vorrebbe la penna di Cristina Campo. Perfino Samuel Beckett restò stordito dalla voracità linguistica di Suor Juana. Su ispirazione di Octavio Paz – che a Suor Juana dedicò parte della sua vita da studioso: Suor Juana o le insidie della fedecampeggiava, nel 1991, in catalogo Garzanti, ora si trova nel mercato alternativo – cominciò a tradurla. L’esito del suo lavoro – che contempla altri autori del Seicento come Bernardo de Balbuena e Juan Ruíz de Alarcón – fu pubblicato nel 1958 dalla Indiana University Press come An Anthology of Mexican Poetry transleted by Samuel Beckett. Nel 1994 l’antologia è stata ripubblicata da Grove Press. Il libro è smilzo, sobrio, ‘beckettiano’: nell’ala compare – guarda un po’ – Suor Juana, nel ritratto di Miguel Cabrera: “Posseduta da un’ardente curiosità intellettuale, ha difeso con forza il proprio diritto alla conoscenza, la propria sete di sapere, scrivendo, tra l’altro, liriche di rara bellezza”.  Il 1958 è un anno importante per Beckett: traduce L’innominabile in inglese, scrive Acte sans Paroles, L’ultimo nastro di Krapp, Finale di partita. L’anno dopo il Trinity College lo investe del dottorato honoris causa. Credo che Beckett, in quel lotto di anni, sia stato invaso dal linguaggio di Suor Juana: esuberante, è vero, ma che esorbita fino ai confini dell’indicibile, dell’annientamento, per eccesso, di ogni lemma. Come sfregare due pietre d’oro perché accada una fiamma: è bianca, sa di acqua. Eppure – a dire dell’insignificanza di Suor Juana nei perigli della cultura d’oggi – non c’è cenno della Anthology of Mexican Poetry nel formidabile ‘Meridiano’ dedicato a Romanzi, teatro e televisione di Beckett. Eppure, è opera in cui coincidono – rarità al cubo – due futuri premi Nobel per la letteratura: Paz otterrà l’alloro nel 1990, ventuno anni dopo Beckett. Il punto di giunzione tra l’irlandese e il messicano è Antonin Artaud: credeva in misteriose analogie tra i Tarahumara, “razza di uomini perduti” nei recessi del Messico, e la civiltà delle Aran, tra il peyote e Bachall Isu, il mitico bastone di San Patrizio custodito – e poi bruciato – a Dublino. Soprattutto, modellò il linguaggio fino a farne magia, formula ipnotica. Ad ogni modo, ecco come Samuel Beckett rende uno dei sonetti più noti di Suor Juana, Éste que ves, engaño colorido: Questo frainteso a colori che tanto ammiri, vanagloria dell’eccellenza artistica non è che una furba frode dei sensi in fallaci sillogismi di pittura; questo, dico, adulazione da becchino che estenua l’odioso orrore degli anni, vaniloquente sconfitta degli oltraggi del tempo trionfo sull’oblio e sulla vecchiaia, è vano artificio della dedizione è fragile fiore al vento è inutile santuario del fato sordida inerte opera vana, conquista  che svanirà, ben fatta, certo, nient’altro  che carcassa e polvere, ombra e nulla.  Questa la traduzione, adesiva, di Paoli: Questo, che vedi, colorato inganno che dell’arte ostentando le bellezze con falsi sillogismi di colori è un inganno dei sensi malizioso; questo, nel quale la lusinga ha osato della vecchiaia eludere gli orrori e sconfiggendo del tempo i rigori trionfare sugli anni e sull’oblio, è un artificio vano della cura, è un fiore molto gracile nel vento, è un inutile scudo contro il fato: è una sciocca pazienza delirante, è un affanno fugace e, a ben guardare, è cadavere, è polvere, è ombra, è niente. Un sapiente drammaturgo dovrebbe figurarsi il giorno in cui Samuel Beckett incontrerà Suor Juana – le chiederà di ispezionare la sua calotta cranica, riconoscendo gli stessi ghiacciai, un padre chiamato Antartide. Dopo averle baciato le dita, è ovvio – rese al giglio e all’acciaio, fatte iena.  *** Da Primero sueño Venere era, Venere  per prima della bella stella  del mattino adorna brillò lungo l’alba arcigna sposa del vecchio Titone.  Amazzone di ardore rivestita armata contro la notte fatata e fatale pianto di malinconia pianta e mostra l’amabile fronte tra i ramificati bagliori del mattino tenero ma ferino araldo dell’astro feroce che viene, che viene schierando gli scherani e gli arcieri bagliori la retroguardia  di venerande veterane luci contro di lei, tiranno usurpatore dell’impero del giorno, mentre cinghie di neri tuoni trafiggono le ombre nottambule fino ad atterrirla.  Ma lei è bella, lei è l’avanguardia dell’araldo del sole che sventola il palio a Oriente e chiama alle armi le mere, bellicose genie dei rapaci: che sia ingenua la loro fede sonora come quella delle trombe quando il tiranno, in rotta, trema sconvolto da cupi presentimenti e si sforza di elencare la sua leggendaria potenza e controbatte con il funebre mantello le infallibili falci di luce ed è vano il valore della disperazione, futile ogni resistenza, così inclina alla fuga, unica via di salvezza e il rauco corno erutta e i neri battaglioni retrattili in geometrica ritirata. Ma una più arcana pienezza di raggi squarciò le più alte cime le torri del mondo. Il sole recluso nel suo girovagare rende oro l’azzurro raggi di luce virginea incidono il ceruleo cranio del cielo si abbattono su quella funesta tirannia.  E lei fugge e lei inciampa nei suoi stessi orrori calpesta la sua ombra: cieca fuga, luce che avanza luce che incalza, che sfonda il limite occidentale e la sfigura.  Ma la caduta la vivifica la rovina la imbeve di una rinnovata ribellione  e in quella parte di mondo ignara del giorno indossa ancora la corona mentre nel nostro emisfero il sole scuote la criniera conferendo a ogni cosa  il suo degno colore affidando agli ancoraggi  della luce il mondo – ora  tutto è luce e posso destarmi.  Versione di Samuel Beckett L'articolo “Voleva vivere in perfetta solitudine”. L’incontro tra Samuel Beckett e Suor Juana Inés de la Cruz proviene da Pangea.
May 5, 2025 / Pangea
Un romanzo che sfugge a ogni definizione. “Il Gattopardo” cambia per non cambiare: dal libro alla serie Netflix
Sicilia, 1860. Il principe di Salina, esponente dell’antica nobiltà isolana, traghetta la famiglia attraverso i moti risorgimentali, nel tentativo di strappare alla Storia uno scampolo di prestigio. Per farlo, dovrà scendere a compromessi con i nuovi ceti, gli sciacalli che minacciano i “gattopardi”, ormai ingabbiati nei loro palazzi in declino. Dopo oltre 60 anni dalla pubblicazione del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958), dalla sua consacrazione allo Strega (1959) e dal sontuoso adattamento di Luchino Visconti (1963), Il Gattopardo è approdato a marzo su Netflix, in una trasposizione seriale prodotta da Indiana Productions e Moonage Pictures per la regia di Tom Shankland. Luisa Cotta Ramosino[1], Direttrice delle serie italiane Netflix, ci racconta gli ingranaggi della serie-evento. Il Gattopardo è il romanzo del “gran rifiuto” di Elio Vittorini per Mondadori ed Einaudi, e fu pubblicato da Feltrinelli solo dopo la morte dell’autore (1957). Da sempre divisivo, pesa sull’opera l’accusa di conservatorismo rivolta all’autore, come del resto al suo protagonista, già dai contemporanei. Eppure, fa ancora parlare di sé con una serie-evento: cosa lo rende intramontabile? È un romanzo che già al momento della sua nascita sta riflettendo su sé stesso, perché parla delle epoche di passaggio, è stato scritto in un’epoca di passaggio e non a caso noi lo abbiamo riproposto in un momento di grandi passaggi. I suoi personaggi vivono questo passaggio in maniera drammatica, sia a livello individuale e famigliare, sia a livello sociale. È un incastro di dimensioni che rende il romanzo particolarmente forte, perché insiste sui sentimenti umani in un mondo in cui, un po’ come oggi, tutto è messo alla prova. Un mondo che è raccontato e, sì, in parte è giudicato, ma non giudicato per guardare al “bel tempo che fu”, immobilizzato in un tempo perduto. C’è chi prova curiosità per il mondo che cambia, come Tancredi, e invece chi quel mondo che cambia lo teme, e chi è affezionato al passato. È una contrapposizione che credo non sia per niente banale: non si dice che il nuovo è a tutti i costi buono, anzi; ma nello stesso tempo non si dice neanche che conservare il passato è a tutti i costi sbagliato. C’è quindi una grande capacità di sfidare il lettore, e poi lo spettatore, a guardare il mondo con più complessità. E la complessità, per quanto sia più faticosa da affrontare rispetto a un racconto lineare, è incredibilmente affascinante.  Che è poi ciò che ha “salvato” il romanzo. È un romanzo che sfugge a ogni definizione: è stato salvato dal fatto che ognuno ci vedeva qualcosa di diverso, ed è questa grande complessità a renderlo unico. “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”: le parole di Tancredi, nipote del Principe, sono forse le più conosciute del romanzo. Il mondo cambia, ma assistiamo, a livello nazionale e mondiale, a un fiorire del period drama, e questo nonostante gli alti costi di produzione: cosa è bene che rimanga com’è, e cosa è necessario che cambi, quando si racconta il passato per parlare al presente? Da una parte i sentimenti umani hanno un’universalità, e spesso e volentieri in questi personaggi del passato sono come amplificati. Dall’altra c’è il lavoro di scrittura, questo strano equilibrio per cui quel passato deve essere rievocato, attraverso i costumi, le scenografie, il racconto di alcuni fatti precisi, e allo stesso tempo bisogna cercare di fare capire allo spettatore cosa significassero quei sentimenti per le persone di quel mondo, e cosa di quei sentimenti conserviamo ancora noi oggi. Raccontare il passato non significa dire che questi personaggi erano uguali a noi, perché non lo erano. Eppure, avevano delle cose in comune con noi. Non credo che oggi tante ragazze di fronte al matrimonio del fidanzato con un’altra si chiuderebbero in convento, però di quel sentimento di Concetta possono riconoscere l’assolutezza e il dolore nudo da lei provato in quel momento, e in quello si riconoscono, e lo possono abbracciare. Come il sentimento di un genitore che vede un figlio che fa una scelta che non vorrebbe facesse, oppure che si rende conto di aver preferito un figlio a un altro, come capita a don Fabrizio. Sentimenti presenti nell’oggi, che lì vivono con una loro grandezza che li rende ancora più evidenti: il period ha questa capacità di essere come la realtà, ma con un grado più forte. Viviamo un momento in cui alcune tematiche, fondamentali da trattare e purtroppo tragicamente urgenti, sono onnipresenti nelle narrazioni che ci circondano e rischiano, soprattutto nelle ricostruzioni storiche, di essere o di essere percepite come…  Abusate. O anacronistiche, calate dall’alto rispetto alla storia, e alla Storia. Penso al potenziamento delle figure femminili: come avete trovato un equilibrio nella serie? Ci sono storie che già da qualche parte esistevano, ma che nessuno raccontava, perché non erano considerate importanti. C’è poi una differenza tra una serie storica che vuole essere la rievocazione di un’epoca, e una serie che voglia accogliere in quel passato un qualcosa che risuona ancora nel presente. Ci sono serie che spingono sull’attualizzazione, come Lidia Poët, altre che ci portano in un luogo dove siamo stati mille volte e ci fanno vedere che quel personaggio c’era, ma non avevamo colto quanto importante fosse, come per esempio le donne della serie I Medici, che in realtà anche nei libri di storia figurano come artefici della fortuna della famiglia, ma fino a quel momento erano sempre rimaste nell’ombra delle figure maschili. Dare attenzione a queste storie è giusto; forzare alcune linee narrative è meno interessante e richiede un livello di artificiosità che le rende meno appassionanti. Si trova la misura nel momento in cui una storia appassiona: se succede, lì c’è della verità. Quando l’autore deve metterci molto del suo, è perché probabilmente quella storia non ha una verità da raccontare, e forse si sta prendendo la strada sbagliata. La scelta de Il Gattopardo è un po’ diversa: il personaggio di Concetta era quasi invisibile, il fatto di averlo raccontato e reso presente lavorando sui vuoti è un modo per mettere in primo piano questo personaggio che nel romanzo esiste quasi solo in funzione degli altri. A proposito di lavorare sui vuoti: guardando la serie sembra di assistere a uno spin-off, a un ampliamento del materiale di partenza, al contrario di quanto avviene normalmente guardando le cosiddette “riduzioni” cinematografiche delle opere letterarie. Un period drama che diventa family drama, e sembra cercare tra le pieghe del testo un accenno o un silenzio per costruirvi una tridimensionalità che può essere abitata da tutta la famiglia dei personaggi, e non più solo dal protagonista. Il period tendenzialmente è già “famigliare” – Downton Abbey, per esempio, è la storia della famiglia. Raccontare la storia di un’intera famiglia permette di dare più sfumature a un’epoca, soprattutto quando ci si apre a diverse classi sociali. Non si tratta di un genere che prende il posto di un altro, perché di fatto i due generi coincidono: la saga famigliare, attraverso i suoi conflitti, è un modo di esplorare il passato, perché ognuno dei componenti della famiglia ha un’esperienza diversa di quell’epoca. Il Gattopardo ha al suo interno una quantità di personaggi che vengono anche solo accennati e aprono un orizzonte rispetto a quel mondo. Le parole di Tancredi riflettono alla perfezione anche il concetto stesso di adattamento transmediale, che spesso è chiamato a “tradire” la lettera dell’originale per custodirne lo spirito, a cambiare per rimanere come è. Qual è il più grande “tradimento” della serie nei confronti del romanzo, e perché è indispensabile? Il tradimento più grande – e lo dico anche con un certo orgoglio perché ho spinto molto per questo tradimento – è nel finale. Il finale del romanzo è molto triste: è la fine di un’epoca, c’è la morte del principe, ci sono le principesse ormai anziane, il cane imbalsamato… Si percepisce un senso di grande nostalgia per qualcosa che non c’è più. Inoltre, accade a distanza di alcuni anni rispetto al celebre ballo. I nostri sceneggiatori tenevano molto a mostrare la morte del principe, ma dedicarvi un intero episodio inevitabilmente avrebbe dato il senso di una grande sconfitta. Neppure Visconti lo ha mostrato. Invece il nostro finale, che è un piccolo finale, e che pure non è un happy ending, dà speranza: concludere la storia con i due fratelli che riportano dentro la famiglia alcune proprietà proprio grazie ai soldi del ceto emergente riguadagnati attraverso il matrimonio di Tancredi, che era stato vissuto come una sconfitta, personale e di classe, è una rivincita, e apre alla speranza. Come anche l’ultima passeggiata di Concetta, il nuovo Gattopardo. La tradizione rimane, ma preservare quel passato non significa immobilizzarlo, imbalsamarlo, perché questo passato, questa Sicilia che vediamo nella sua bellezza, ha un valore. Il finale non mette in scena un tramonto, ma un’alba: l’alba di un’epoca nuova, che non si sa cosa porterà, ma proprio per questo nasconde in sé anche una speranza per il futuro. Da un certo punto di vista c’è un tradimento del romanzo, però io credo che sia un tradimento che nell’economia del racconto, in cui Concetta è diventata la co-protagonista, era giusto dare e ci ha fatto piacere dare. Ormai la maggior parte delle opere audiovisive è composta da adattamenti: in un mondo in continua evoluzione, quali sono le storie a cui restare ancorati, per andare avanti e cambiare in meglio? Perché tutto cambi, cosa deve rimanere come è? Non è un caso che ci siano così tanti adattamenti letterari, perché il romanzo conferisce una naturale profondità ai personaggi che, è vero, si può costruire anche con storie originali, ma lì si può trovare con una tessitura consolidata dal tempo che l’autore ha impiegato nel raccontare. E poi spesso, quando si tratta di classici, esiste anche tutto il discorso che è nato intorno al romanzo, che è come se avesse dato un ulteriore spazio di apertura. Sembra una banalità, ma a rendere unica una storia è il fatto di avere dei personaggi indimenticabili: questo è ciò che attira come il miele l’audiovisivo. La cosa importante è trovare almeno un personaggio di cui ti innamori e dici: ecco, se riuscissi a trasferirlo sullo schermo sono sicura che la gente vorrebbe passare delle ore con questa persona per sentire la sua storia.  L’Italia è un Paese che legge poco. E in generale nel mondo la lettura, così legata allo sviluppo del pensiero critico e dell’empatia, è minacciata dai tanti stimoli offerti dalle nuove tecnologie e dalla competitività degli altri media. L’audiovisivo è un rivale o un alleato? E l’adattamento che ruolo ha in questa prospettiva?  La tragedia è che, se anche non ci fossero gli audiovisivi, la gente non leggerebbe comunque. Anzi, forse l’adattamento è un’occasione per invogliare a leggere il romanzo da cui è tratto. È ovvio che il tipo di fruizione è completamente diverso, perché il tempo della lettura – che sia su supporto fisico o digitale, pur nella differenza penso che qualunque forma di lettura sia da considerare positiva – è un tempo personale, in cui si riflette, ed è un tempo di solito più lungo rispetto al tempo di fruizione dell’audiovisivo. Spero però che una cosa non escluda l’altra. E poi il raccontare storie ha un valore di per sé: ci apre agli altri, perché una storia contiene un’esperienza umana che non è la nostra, e noi ne abbiamo terribilmente bisogno per non rimanere ancorati solo a noi stessi. Fruire le storie apre all’empatia, qualunque sia la forma. E la forma di quest’epoca è spesso quella della serialità televisiva.  E Netflix? Che tipo di storie sta cercando? È alle porte qualche progetto che vuole (e può) raccontarci? Ancora non c’è niente di annunciato. Però a me piacciono questo tipo di storie; è facile perciò che me ne arrivino altre di questo tipo. Per concludere, c’è qualche aspetto che desidera sottolineare, o aggiungere?  Avevamo il desiderio di raccontare l’identità italiana. Secondo me è stato esaudito, perché è stato fatto non in maniera teorica, ma attraverso i personaggi, grandi storie, grandi famiglie, grandi individualità, che ci portano dentro l’Italia di allora, che poi è anche quella di oggi. Credo che ci siano dei momenti che definiscono l’identità di un popolo, ed è sempre interessante raccontarli. L’Italia è un Paese che è arrivato tardi all’Unità: raccontare quel momento con tutte le sue contraddizioni, e quindi non con una celebrazione tout court, è sensato in un momento storico in cui i temi dell’identità nazionale danno vita a guerre. Queste storie hanno una capacità di parlare all’oggi e di essere urgenti a modo loro. Chiara Bianchi *Si pubblica per gentile concessioni delle Edizioni Ares; il servizio è in uscita su “Studi Cattolici” -------------------------------------------------------------------------------- [1] Luisa Cotta Ramosino è Director Local Language Series Netflix per l’Italia e coordina il team che, di concerto con i partner produttori, si occupa di sviluppare le serie italiane di Netflix, riportando a Tinny Andreatta. Si occupa poi direttamente dello sviluppo di alcune serie tra cui “Il Gattopardo”. Prima di arrivare a Netflix ha lavorato come sceneggiatrice e produttore creativo per diversi produttori italiani ed è stata responsabile delle coproduzioni internazionali per Lux Vide. L'articolo Un romanzo che sfugge a ogni definizione. “Il Gattopardo” cambia per non cambiare: dal libro alla serie Netflix proviene da Pangea.
May 5, 2025 / Pangea
“Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina
Nell’età di mezzo, quando si parla di epica eroica si fa riferimento a qualcosa di marmoreo, codificato, noto e arcinoto: le chansons carolingie, l’Orlando che si immola a Roncisvalle per il suo sovrano, redivivo nella letteratura italiana; El Cid, quel Rodrigo Diaz de Bivar che nella sua onorata sventura continua a servire il suo sovrano. Poi c’è un’epica tellurica, dimenticata ai margini dell’Impero, dove l’Europa è già Asia e il cristianesimo è vernice crepata sulle icone costantinopolitane. È l’epica bizantina, spesso ignorata, relegata nei ghetti della filologia, forse vista come qualcosa di minore. Eppure, è irresistibile il fascino che questa esercita: cimentarsi nella lettura di un poema epico bizantino ci dissocia dalle categorie dell’eroico che siamo abituati a conoscere e maneggiare, è qualcosa di radicalmente altro. Digenis Akritas è un titolo e un nome, aspro come l’uomo che designa: il “due volte nato”, il “guardiano del confine”. Digenis, al battesimo Basilio, osserva la frontiera dal suo avamposto sul fiume Eufrate, limite estremo di una Bisanzio non ancora crepuscolare. Chi era l’Akrita Basilio? Figlio di un emiro siriano convertito e di una nobildonna greca rapita – già nella sua carne, nel sangue digenis, c’è l’ordalia del confine, lo scontro e l’abbraccio tra Cristianità e Islam, tra due civiltà destinate a scrutarsi e scontrarsi – nasce da questa unione ma cresce con coordinate salde, che non possono non essere la crosta di Bisanzio, il gesto ieratico del pantocratore. Cresce distinguendosi per le eccezionali doti fisiche: in piena adolescenza, iniziano le gesta dell’eroe. L’eroe è sempre bastardo, non ha genealogie rassicuranti, non risiede nel cuore dell’Impero ma ai suoi margini, dove la legge è eco lontana e la civiltà si stempera nella ferocia del limes. La Bisanzio stessa che gli dona i natali faticherebbe a riconoscerne i connotati come tale. La sua epopea non celebra paladini immacolati al servizio di Dio e dell’Imperatore. Digenis è scheggia impazzita, individualismo che rasenta l’asocialità, campione di un onore selvatico che si misura nel ratto, nella razzia come esercizio di virilità primordiale. L’Imperatore desidera conoscerlo, l’eroe orientale non si smuove, che sia il sovrano a scomodarsi e raggiungerlo sulle rive dell’Eufrate «con pochi soldati». Sorveglia un deserto pullulante di nemici: saraceni, gli apelatai (i predoni delle montagne, fantasmi della libertà anarchica), persino draghi e amazzoni evocati da un immaginario ancora intriso di mito pagano sotto la patina cristiana. Non c’è netta contrapposizione etica tra lui e i suoi nemici, agiscono sullo stesso piano, rispondono allo stesso codice ancestrale. Digenis chiede addirittura di arruolarsi tra gli apelatai, rifiutando infine di unirsi ai predoni solo dopo aver constatato la loro inferiorità fisica, la forza è misura del diritto e del bene. Poi c’è l’amore, un amore che è rapina, possesso, difesa gelosa. Non poteva essere diversamente: il poema si apre con un ratto, quello della madre di Digenis; la vicenda dell’eroe stesso è poi inaugurata dal ratto della sposa, Eudokia. > “La pernice prese il volo e l’afferrò il falcone.  > Dolcemente si baciavano…” Alla celebrazione lirica dell’amor cortese si sostituisce l’affermazione di un diritto primordiale, ferino quasi. Il codice d’onore impone di rapire la donna amata e di difenderla dagli aggressori, che siano draghi, leoni o bande di predoni. La lotta per la sposa è teatro di una competizione maschile feroce, dove la donna è insieme premio e strumento per affermare la propria onorabilità virile. C’è anche un’altra faccia di Digenis: l’eroe cristiano, il timorato seminarista – ruolo che mal s’addice all’eroe – tormentato dal peccato dopo aver compiuto adulterio, essersene pentito e poi aver reiterato il misfatto nel canto successivo, l’amore per Eudokia non è sufficiente a placarlo: il fuoco non può ardere indefinitamente vicino all’erba, così si assolve mentre cede alla tentazione con una principessa araba – poco fanno i kyrie eleison recitati con il cuore colmo di sofferenza e ancor meno persuadono dopo aver ripetuto il gesto con l’amazzone Maximò. Ma questa duplicità, schizofrenia apparente, non è sintomo di labilità psicologica da lettino d’analisi. È lo stigma del poema stesso, prodotto ibrido di due modelli culturali contrastanti e mai perfettamente conciliati: l’arcaico eroe della frontiera, amorale e vitalistico da un lato, dall’altro il più tardo archetipo dell’eroe cristiano. In Digenis agiscono, sovrapposti e non fusi, questi due codici, generando cortocircuiti, contraddizioni che sono la cifra più autentica e perturbante del personaggio. La stessa storia della tradizione manoscritta del poema – con pochi codici superstiti, dal più antico e rude dell’Escorial al più tardo e ingentilito di Grottaferrata (dove aumentano le lodi all’imperatore e l’episodio degli apelatai è omesso) – testimonia un lavorio incessante, un tentativo di addomesticare una materia incandescente e ricondurre l’eroe bastardo entro schemi più rassicuranti, più “letterari”. Il crepuscolo dell’eroe è segnato dalla malattia, dalla consapevolezza del declino fisico e dall’avvicinarsi della morte. La tradizione posteriore, in particolare i canti popolari akritici, amplificherà questo momento finale, immaginando un’ultima, titanica lotta di Digenis contro la morte personificata, Charon o Thanatos. È l’unica battaglia che l’eroe è destinato a perdere. Questo confronto finale con l’oblio rappresenta il limite invalicabile di ogni potenza umana, la vanità ultima di ogni conquista terrena. La morte di Digenis, descritta quasi come un anticlimax nel poema – con la moglie che opportunamente spira prima di lui – distanzia ulteriormente questa epica da quella convenzionale. Non c’è apoteosi finale, ma lo spegnersi di una forza immensa di fronte all’inevitabile. > “Vedete dove mai giace l’audacia del valore!  > Vedete dove mai giace il Digenis Akrita, il fiore dei Romei” Andrea Falco Profili L'articolo “Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina proviene da Pangea.
May 3, 2025 / Pangea
“Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet
Non occorre manomettere un testo tanto perentorio, ci si inoltri in un versetto, si costruisca un cantuccio nei suoi meandri. Scelgo il primo versetto del capitolo 5; questa è traduzione alla lettera: > “Non affrettare la bocca, non precipitare il cuore a eruttare parola davanti a > Dio, perché Dio è in cielo e tu in terra: perciò siano rade le tue parole”.  Intanto: si parla a Dio con la bocca (peh) e con il cuore (leb). Esteriore e interiore debbono combaciare. Il cuore ha porte e ha bocche; la bocca sia la brocca del cuore.  Il punto è per sempre quello: come si parla a Dio? Qual è la parola che permette udienza da parte di Dio? Se è vero che ciò che chiediamo ci sarà dato, come chiedere? Qual è il linguaggio di Dio?  Poche parole, dice Qoelet, scarsità di verbo, fare del vocabolo umano deserto. Cosa scarsa, scarna: parola-ostia, parola-briciola.  Qoelet è libro dell’asserzione assoluta – è un libro all’assalto. Così breve – siano rade le tue parole: parola rase al suolo, cioè: rare – da infuocare l’intero Testo. La frustrante ripetizione di tutte le cose – stagioni; creature; fatti – testimonia che l’uomo è poca cosa, ombra che fugge, erba che sorge al mattino perché sia tagliata a sera. A tutti – saggi come stolti, potenti come poveri – è assegnata la stessa sorte: morte. Per ogni creatura – uomo o cane che sia – è apparecchiata la stessa meta: Sheol, il regno degli spettri. Dio ci ha insufflato l’anima, a Lui va resa – rasa. Al ricco sarà tolto ciò che ha, il povero sarà depredato perfino di ciò che manca. Con metodica crudeltà Qoelet elimina ogni certezza: in fondo, Dio equivale al Caos.  Corroborante è questa certezza del nulla: ci permette tutto – l’antinomismo è a un passo.  Eppure, esiste lo spiraglio. Poche parole bastano a sfigurare la distanza tra la terra e il cielo, ad avvicinare il Dio mai così distante dall’uomo (ma lo è pure il Cristo, a intendere le stimmate più abissali di ogni mai pensato Sheol, la Croce più ineffabile di ogni Babele mai costruita).  Già. Ma… quali parole? “Per te il silenzio è lode”, dice il Salmo 65. Dumiyyah: silenzio, attesa in quiete. Veglia silente.  Che cos’è questa preghiera silenziosa, di rade parola, che non si affretta, che è in perenne veglia?  Forse è la preghiera che ossessionava il pellegrino russo, sconvolto dall’invito che Paolo fa ai Tessalonicesi: “pregate ininterrottamente” (5, 17). Quali sono le “rade parole” che permettono la preghiera senza interruzioni? Secondo la tradizione cristiana, in particolare ortodossa, tali parole sono raccolte, in simbolo, nella cosiddetta “Preghiera del Cuore”, mutuata dal Vangelo di Luca (18, 13): “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!” (Κύριε ἸησοῦΧριστέ, Υἱὲ τοῦ Θεοῦ, ἐλέησόν με τὸν ἁμαρτωλόν). Rade, rare parole che non costringono Dio all’ascolto, ma aprono il nostro corpo – petto/orecchio; costato/occhio – ad ascoltare ciò che Dio ci dice. Preghiera da sussurrare di continuo per conferire un’aura al nostro fare, per illuminare l’opera. Parola che inchiavarda il cielo alla terra.  Il versetto di Qoelet, tuttavia, continua in questo modo: > “…perché arriva il sogno dalla troppa attività, il dire del vile dalle troppe > parole”.  Chi parla troppo è un cretino (kesil), uno stolto, un seguace del gregge. Si ostina al discorso – il logos greco –, inutile a incatenare Dio. Il discorso, vanto dei filosofi, rimarca Babele: il linguaggio che doveva unire Dio all’uomo ha sancito irremovibile divario. La parola umana non sfiora l’Impronunciabile; per giungere a Dio bisogna percorrere l’aldilà del linguaggio – le “lingue degli angeli”, la “glossolalia”, lingua-fiamma – come fanno i poeti, o essere da Lui invasati, invasi come accade ai profeti. Non si dà Dio in lingua umana, capace di sondare l’evidente, inabile al cospetto dell’invisibile. Per dirla come Lev Šestov,  > “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella storia. Egli è il > ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia”. Il sogno (chalom), qui, è agli antipodi della veglia, non impreziosisce la vita ma la svia, la inselvatica in un roveto di sinistri segni. Il sogno – che pure ha parte nella storia della salvezza: si guardi alla storia di Giuseppe, che i sogni dissigilla – è da Qoèlet deprezzato a segno della vita australe a Dio: nell’esatto dire, hahalowm consuona con haelohim, Dio, appunto, nella sua più neutra accezione, il dio moltiplicato in dèi. I sogni creano dèi, ci imbambolano, inibiscono la via a Dio, sono la controfigura dell’idolo. In questo caso, il sogno è in contrasto con il detto (neum) e l’oracolo (massà) che Dio concede al profeta: analoga differenza tra miraggio e miracolo, tra negromante ed eletto, tra mistagogo e vagabondo del mistero.  Il pensiero è estremizzato nel versetto 6:  > “…nella folla dei sogni è vanità come nelle troppe parole: perciò ti > impaurisca Dio”. Troppe parole intrappolano, bocca che tarpa la levità del cuore (ormai sede del male: “pieno di male il cuore dei figli dell’uomo”, dice Qoèlet, 9, 3, ripetendo l’originaria asserzione di Dio: “ogni intento del cuore umano è incline al male”, Gn8, 21). I sogni: meri preamboli di nebbia, come il discorso umano. Desto o addormentato, l’uomo vaga tra vanità: la mania del calcolo – circoscrivere in numeri la realtà – è pari al delirio di chi divina i segni tratti dal sonno, declivio nelle inconsistenze dell’incubo. Sembra di udire Eraclito: “È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo mutando son questi”.  Eppure, ancora. Come si parla a Dio, come parla il dio? Il verbo umano fermenta idoli, eccelle nell’ideare miraggi. Ci è voluto il Verbo – inchiodato come una falena, flagellato fino all’omega, franto e frainteso – per distruggere il vocabolario. Vocabolario: ghigliottina dell’uomo – formulario di inganni.  > “Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine, > il nesso in cui si presentano le parole rivela che non si tratta di parole > umane, bensì di parole divine. Di qui il carattere esteriore dell’oracolo: > l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza”. > > (Giorgio Colli, La nascita della filosofia).  Così, nel mondo greco classico: deragliare del linguaggio, delirare, singulti sul bavero della bestia, lacerti quasi increati di verbo, diverbio, animosità dell’amnio verbale. Da qui – come ai primordi dell’avventura cristiana – il carisma del ‘traduttore’: uomo capace di interpretare, trasformandola in gergo umano, la lingua divina.  Dunque, nel mondo greco, la divinizzazione dell’enigma, “la manifestazione nella parola di ciò che è divino, nascosto, un’interiorità indicibile” (Colli), che si sfa, nell’evo volgare, gioco di parole, rebus verbale, corazza retorica. Dalla Pizia alla Sfinge, dall’oracolo di Delfi all’idolatria della Ragione – Edipo – che sovrasta il Mostro – la Sfinge, che minaccia tramite indovinelli – ma infine si acceca. A chi domina l’evidente sfugge la terribile evidenza della verità.  La mistica: tentativo di sobillare il linguaggio.  Da qui, l’incanutirsi del linguaggio in concetto, in bruma di bizantinismi, nei principi, nell’essere/non-essere, nel vero vs. falso, nella ‘logica delle cose’.  Beata filosofia che tutto insegna tranne il dio, che decide di recidere i rapporti con il dio, per sempre.  Beata teologia: ragionare su Dio perché ci è sfuggito. Cingere in formule l’informe.  Beata divinità logica: la legge ci insegna cosa è bene fare e cosa non bisogna fare; linguaggio come corda, prigione, calcina della società.  Bisogna capirsi – da qui, gli azzeccagarbugli, gli irresponsabili, gli esoteristi del linguaggio massonico, specifico, degli ‘esperti’, potere che scimmiotta il dio; la sentenza: esigua, inerte, becera imitazione dell’oracolo.  Che cosa mi stai dicendo? Perché non mi capisci? Linguaggio: solo scandaglio del cuore – ma non scendiamo nel nostro abisso con la lanterna, a illuminare le beneamate oscurità. Spacchiamo il lume, che si infervori in fuoco. Fuoco-volpe, fuoco muta di cani in corsa.  E la poesia? Ipotesi di linguaggio angelico, ci addestra a spezzare l’ordinaria lingua. Ci addestra all’altro mondo del linguaggio – il solo.  Nel dire di Qoelet, che annienta evidenze e certezze, alla via dell’edonismo – ebbrezza che raddoppia la vanità; cruenta ironia: consumiamo ciò che ci consuma – segue quella dell’obbedienza. Imputridire nel timore di Dio. Lo ripete ancora a sigillo del rotolo: “Paura di Dio, osservanza dei suoi comandi: tutto questo è l’uomo” (12, 13). Yarè è proprio la paura, il terrore di Dio; è riconoscere la propria vergogna, l’insuperabile distanza da Dio. “La tua voce ho udito nel giardino e ho avuto paura perché ero nudo e mi sono nascosto”, dice Adamo a Dio (Gn 3, 10). “Paura di Dio” significa: memoria della caduta. Dalla “paura di Dio” comincia il percorso della salvezza, il rapporto tra Dio e l’uomo – “paura” è, per paradosso, l’anello nuziale tra Dio e uomo – il punto in cui si è sciolto un rapporto e si inaugura un nuovo patto. Mutilazione, massacro, frainteso, finché il Verbo non fonderà un nuovo vocabolario, il Dio ineffabile si farà volto, carne, corpo da abbracciare e deporre, da ungere con olio e fustigare.  Adamo ha paura di Dio perché è nudo – all’uomo è chiesto, fuori dal Giardino, atto di più radicale denudamento, suprema spoliazione.   All’opposto equinozio di Babele: l’arca – Noè – e la culla – Mosè. Spazi in cui rifugiarsi, oggetti che veleggiano sulle acque – ipotesi di nuova creazione. Lingua-arca; lingua-culla. Le tavole dell’alleanza – verbo che si struttura in legge per incapacità di intendere l’oracolo – custodite nell’arca: che ringiovaniscano, che ritornino bimbe. In Eden non c’è legge: si parla come una fioritura. Parole come foglie che sventagliano.  Tra Babele e arca/culla (arca: culla per tutti): il tempio. Il tempio non racchiude Dio, non ne è la gabbia: è luogo d’incontro. Nel tempio posso trovare Dio – o posso perderlo.  Nel tempio si risillabano le antiche parole per invitare Dio all’incontro.  Parole pari alla dipintura dell’icona. Parole-gesto, parole che ricalcano gli stessi gesti, perché Dio appaia. Ma la ripetizione è ricreazione. Chi confida nel ‘nuovo’ è un idolatra, un apostata.  Spogliarci del linguaggio.  L’estrema spoliazione è terribile. Defraudare il Nome per tentare il proprio nome. Farsi arca perché l’altro in noi si sieda.  Dunque: imparare le lingue dei passeri, arcangelici, e quelle della formica, della cimice, del capriolo.  Linguaggio: arte di trasalire – di travalicare.  Dunque: Vanitas vanitatum, farsi vanto della vanità. Vanità-vento. Incenerire tutto perché da quella cenere Dio ci rifondi. Rifilare il vento – rifondare il respiro. ** Da “Qoelet” 9 Nel cuore ho sperimentato questo: le opere dei giusti                                      l’estremismo dei santi                       tutto è tra le dita di Dio l’uomo non sa perché ama ignora il raduno dell’odio Stessa sorte per tutti                 il giusto e il vile                   il puro e l’impuro                   chi fa sacrifici e chi dissacra                   il buono e il peccatore                   chi giura e chi scongiura È male tutto sotto il sole stessa sorte per tutti nel cuore dell’uomo alligna il male follia nei suoi lembi il fine è la morte Speranza tra chi fluttua nella flotta dei vivi: un cane vivo è meglio di un leone morto I vivi sanno di dover morire i morti non sanno nulla privi di salario – memoria tra i sali dell’oblio Ciò che hanno amato i motivi della lotta e della gelosia: tutto è cenere, pericope del lutto per loro non c’è più posto nel mondo arreso al sole Allora: godi e mangia bevi il tuo vino divora i cuori Dio gratifica le tue opere Indossa bianche vesti olio purifichi il tuo capo La vita è vana: glorifica i giorni con la donna che ami unico sconto alla fatica al dolore sigillato dal sole Finché il corpo ti aiuta agisci non c’è opera né sapienza nello Sheol – tutto è insensato tra le ombre dove andrai Così è sotto il sole: non va ai capaci la gara                   la guerra non la vincono i forti                                     il pane non lo morde il santo                                                      la ricchezza non sorride ai geni né agli scaltri la grazia – su ogni cosa è il dominio del caso L’uomo ignora la sua ora come pesci presi tra perfide reti come uccelli intrappolati dai lacci il male migra sui figli dell’uomo – è ovunque Verità sgravata dal sole: Misera città miseri uomini la assedia un re onnipossente aureola di mura Un santo di scarsi natali salva la città ma nessuna memoria lo onora – E mi dico: preferisci la sapienza alla forza – eppure il santo impoverito dal fato è sfottuto – le sue profezie negate Deglutisci con cura le parole del santo ignora le urla di chi alleva viltà Anteponi la sapienza alle armi – ma una breve colpa avvelena un grande bene *Si pubblica per gentile concessione parte dei materiali editi in: “Qoelet. Nella traduzione di S. Arduini, D. Brullo, M. Bontempelli”, De Piante, 2025 *In copertina: Kazimir Malevič, Quadrato rosso, 1915 L'articolo “Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet proviene da Pangea.
May 3, 2025 / Pangea