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Rivista avventuriera di cultura&idee

Benedizione d’animale e di bimbo. Un incontro con Alessandro Ceni
La poesia di Alessandro Ceni è poesia disinteressata alla poesia, intesa come opera poetica (ricordo incidentalmente che Orfeo solo volgendosi e mancando l’opera trova ispirazione e voce), lontanissima dagli altari o altarini, dal dibattito spesso insulso tra acquarellisti e prefiche. Sono, i suoi, Mattoni per l’altare del fuoco (titolo del libro del 2002), dove la poesia si tiene ed erge – sta potremmo dire – in una dimensione d’innocenza, infantile e ferina, in attesa di avvertire l’usta, di stanare e a un tempo liberare quella miracolosa preda che l’alimenta.  Fin da qui, potremo scorgere nell’atto scrittorio di Ceni una sorta di celebrazione, un mysterion, un’azione liturgica compiuta per la salvezza del creato – per dargli riparo e dimora:  > “le pietre arrotondate indicano un focolare, > presumono persone accerchiantesi in un rito > per scrutare il volo circoscritto degli uccelli…” Misericordia francescana, perdono dell’adultera… Come uno sciamano, chiurlo, passera, falco o merla (penne e artigli ne sono spesso i paramenti esoterici), s’aggira tra paduli, spiagge, dune, pinete – la memoria di un’antica Toscana, la Versilia, l’Appennino – tra stiance e talasse, ad ascoltare il suono di voci lontane e pacificate, ed accostarsi, accedere infine a quel posto segreto, che sta nel cuore stesso del cosmo – e ne concede la più intima e autentica dizione.  Potremo fin d’ora immaginarne la tessitura elementare, una materia segnica (traccia ragniforme, arborescente), per lo più invisibile, ma carica di un’energia vibratoria che si scarica visibilmente in ogni pronuncia, perché ogni parola detta la trattiene tutta intorno a sé. Perché, la parola non può che essere detta – anche se scritta –, svuotarsi e ricaricarsi ritmicamente ogni volta che il poeta la proferisce.  Parlare, prendere parola? Proprio in quel posto?  Come se da questo potesse definirsene l’atto?    Cosa allora distingue questa pratica da quella della comunicazione ordinaria, dalle performance quotidiane che ci consentono di abitare il mondo, avere relazioni sociali ecc.? (Brevemente: scambi, transazioni, negoziati, chiedere e/o ricevere informazioni, raccogliere e trasmettere pensieri, emozioni stati d’animo…) Per arrischiare una risposta, sicuramente maldestra, tenteremo di dire qualcosa in merito alla posizione del poeta, al luogo da dove parla …  In diverse occasioni mi sono trovato con Alessandro a discutere di questa faccenda. Oggi tanto più insistente, soprattutto riguardo alla responsabilità, al ruolo dello scrittore – intellettuale (se sapessimo cosa significa questo temine) o poeta che sia – nella società. Bigongiari (ci accomuna un affetto inestinguibile per Piero e, per entrambi, una riconoscenza durevole), interrogato sulla questione al Quirinale dal Presidente della Repubblica, disse, col candore di un bimbo, che prima veniva la poesia, poi eventualmente la politica, la società civile e tutto il resto. Alludeva forse alla solitudine, alla disappartenenza del poeta alla città? O forse al particolare legame che la poesia instaura, alla sua dimensione propriamente etica, a quel patto inscindibile che, nella pronuncia, la stringe agli altri, ai lettori – essenzialmente alla lettura, alla dizione che, rendendola operativa, ne definisce appieno l’stanza politica.   Ceni, per parte sua, richiamava invece un barcollante Dylan Thomas (è noto quanto il gallese indulgesse con l’alcool) che di fronte alla Società Americana dei Poeti asseriva che del poeta la posizione propria è ovunque quella eretta… Effetto di un passaggio evolutivo e al contempo di una misteriosa mutazione antropologica che salda storia, parola e vita in un nesso inaggirabile, il poeta è – potremmo azzardare – una sorta di arrivante (alla parola)che è già là e la dice (la poesia “corre” raminga sul destriero del respiro, e sopraggiunge là dove “si rompe il fiato”, dove trova il giusto passo della pronuncia), senza davvero saperlo né poterne dire qualcosa. Sprovvedutamente. Pertanto, non bisogna chiedergli niente in merito a come sia giunto alla poesia o se possa sostarvi: né alla poesia stessa, nessun dettaglio interpretativo, messaggi o comunicazioni, neppure spiegazioni o giustificazioni… Leggete, leggete, diceva Celan, la comprensione arriverà (se ha da farlo). Il solo atto che in questa posizione si compie e si richiede, la sua sola destinazione è quella della voce, del dar voce – non il senso, la trasmissione di un messaggio: il suo affidarsi sostanzialmente a una voce – la sua Vocazione, per così dire. Enunciare, prendere parola, affinché ne sia giustificata la presenza facendo lavorare il dispositivo della lingua.  Che per tale affidamento si produca qualcosa, un enunciato significativamente pragmatico resta meramente contingente, per lo più ignoto e impronosticabile. Voce non solo, ma anche, in questa, l’eco di antichissime movenze, canto o danza, cadenza e ritmo, tanto intimi quanto naturali. Un discorrere senza parole – o prima di loro –, che le parole stesse registrano come una scossa, segreta motivazione del dato testuale: vibrazione o fremito – non la commozione né la tristezza o la gioia – che attiva e disattiva, arresta e riparte sul filo di un ductus che non conduce in nessun luogo. Il passo della poesia, potremo dire, è quello mortale della vita che vi si trascrive, il battito del cuore, la pulsazione del sangue, la sua pressione: poesia, dice Rilke, [è] invisibile respiro, in cui ritmicamente avvengo. Postura instabile, per lo più incerta, definita nondimeno dal dettato – gli Stilnovisti la chiamavano dettanza, un misto di fiducia e disperazione – dal sovvenire, dal capitare della voce – l’elemento sonoro del linguaggio, quello slancio – quasi un Trieb vocalico – che una lunga tradizione accosta all’immagine della corsa del cavallo. Potremo chiamarla Erfahrung, quell’esperienza dell’andare, del viaggiare che si dà quando il vivere non è ancora vissuto e il senso non ancora è là a racchiuderla in un viaggio, in un racconto.  Quando non c’è niente da dire, fatto o storia da riferire. Una sorta di vertigine, di capogiro che, nel suo “non è niente”, scampa il pericolo sommesso del Nulla e nomina l’evento inatteso – talvolta sconcertante – dello straordinario (in cui siamo permanentemente immersi). Pensiamo al devoto di Kafka, e a quel suo nominare… a casaccio le cose che gli si porgono – “prima di mostrarsi a me, dice, devono essere belle e tranquille perché la gente ne parla in questo modo”… Mal di mare sulla terra ferma. L’oscillare del corpo, il suo ritmico accadere nella lingua, l’accostarsi al silenzio (risonante) dell’infanzia.  L’atto allora. Il prendere parola dei poeti. Tentativo di familiarizzarsi con quel “discorrere”, assumendolo in un dispositivo storicamente consolidato in regole e vocaboli. Riuscendovi solo in infima parte, non possono che sospenderne il funzionamento, disattivarne le funzioni – significazione e informazione – generando sovente oscurità, un’insondabile cifratura che lascia nondimeno risuonare ritmi remoti che ancora scandiscono le nostre esistenze (l’acqua del fiume, il frusciare del vento, lo scroscio della pioggia, il susseguirsi delle stagioni)… La lingua, infatti, è trasmessa, la apprendiamo dalla madre (forse appartiene solo a lei, e per questo è materna): riempiamo la bocca vuota di capezzoli con parole che supplementano un silenzio intessuto di voci corporee, bisogni più o meno rumorosi (ne avvertiamo spesso il riverbero nell’amore, nel pianto o nel riso). Come il corpo, la lingua, la nostra lingua ci resta per lo più inappropriabile, permanentemente straniera. E come di quello, se esposto, proviamo vergogna, di questa restiamo soggetti sempre lavorati da un’infanzia tanto sonora quanto silenziosa. Lo dimostrano i lapsus, i balbettii dell’emozione, i rantoli della malattia, talvolta meglio i neologismi, giochi verbali, l’indulgenza nei vernacoli.  Il poeta – e qui, dopo l’affanno di questo giro, torno ad Alessandro (che mi perdonerà) – è così un parlante speciale, appena distinguibile da altri lazzeroni; testimonia di questa ambigua familiarità, la rivela abbandonandone la pratica e l’uso interrompendo i circuiti del significato e della comunicazione. Al punto di non avere niente da dire – neppure della poesia, s’è detto – solo da sostenere questa Unheimlichkeit della lingua, che come un’intima estraneità si rende praticabile nel brivido di un cambio di tono, nella sospensione del fiato, nelle pause del suono e soprattutto del senso. In quel moto segreto che ci agita nell’ascolto, che ci lascia dolcemente oscillare, perché, come in un inno, possiamo giubilare all’avvento di un mondo ogni volta come la prima volta.  Potremmo dire, concludendo, che per questo arcano legame musaico, la poesia è sempre felice, celebrativa; concede sempre l’ascolto di un’altra voce, troppo spesso silenziata da differenti esigenze… la possibilità di ricevere una benedizione d’animale o di bimbo, per lasciarsi saggiamente assorbire dal creato, e muoversi, creature tra creature, acconsentendo acquiescenti alla sua irresistibile cadenza. Mario Ajazzi Mancini *In copertina: l’animale, il cavallo, secondo Albrecht Dürer L'articolo Benedizione d’animale e di bimbo. Un incontro con Alessandro Ceni proviene da Pangea.
November 7, 2025 / Pangea
“Solo i docili avranno la terra in eredità”. Riflessioni su Yeats, Auden, Brodskij e Heaney
Quando scrive Lapislazzuli – siamo nel 1936 – William B. Yeats avverte forse già l’approssimarsi della fine. La poesia, tra le più alte mai composte dal bardo irlandese, è un mirabile esempio di ecfrasi in versi. È dedicata all’amico Harry Clifton, che gli aveva donato un cammeo di lapislazzuli di ispirazione orientale. Nelle ultime due lasse, tre pellegrini cinesi attraversano terre remote e valichi innevati. Sono in cammino verso una meta misteriosa, che concederà loro una tregua dagli affanni del viaggio. Sospesi tra montagne e fiumi – come nelle pitture classiche di Wu Daozi – le tre enigmatiche figure giungono infine alla lora provvisoria destinazione, dove rami di susino e di ciliegio conferiscono all’atmosfera un tono di calda, soffusa intimità. Nel “piccolo rifugio”, i tre contemplano il maestoso paesaggio che si apre dinanzi a loro. Avvolti da una coltre di acuta malinconia, chiedono che siano eseguite struggenti melodie. I volti sono solcati da profonde rughe; e tuttavia, dai loro occhi rimasti invulnerabili alle apocalissi della vita, balugina una luce di splendente letizia. * Il gusto della ricerca biografica ci autorizza a evocare le coincidenze. W.B. Yeats muore nel 1939 in Francia. In quello stesso anno, Auden finisce di scrivere Another Time, una delle raccolte poetiche più belle e significative del Novecento. La notizia della scomparsa di Yeats raggiunge Auden durante il suo soggiorno a New York. Di getto, il poeta inglese scrive quella dolente elegia che è In memoria di W.B. Yeats. Intanto, dall’altra parte dell’Atlantico, in un piovoso giorno di primavera irlandese, nasce nello stesso fatidico anno Seamus Heaney. Yeats si spegne alla vigilia della guerra: la sua morte, secondo Auden, è un cupo presagio della strage che incombe. Il poeta inglese si rivela presto, suo malgrado, buon profeta.  * Nella notte del pensiero e degli allarmi aerei, vale come unico argine possibile il poeta-palombaro: colui che sprofonda per raggiungere il cuore del male, fino a neutralizzarlo e a redimerci dalla condanna della pena. Ci salva il verso, non la bellezza: il verso che è coscienza ed espressione del dolore. Il dettato poetico trasfigura la miseria in canto, apre vie d’uscita all’uomo prigioniero dei suoi giorni, trasforma la terra devastata in vigna. Ecco la poesia che sopravvive attraverso   > “un modo di accadere, una bocca” * Quanto equivale a dire che scrivere versi è assoggettarsi a una forma d’amore. Lo spiega in modo folgorante Brodskij nella sua indimenticabile elegia in prosa Per compiacere un’ombra, altissimo omaggio al suo amato poeta inglese. L’incontro decisivo con Auden avviene mentre Brodskij sconta una condanna in uno sperduto villaggio ai confini del Circolo Polare Artico. In quel luogo così refrattario all’umano, dominato da paludi e cupe foreste, Brodskij riesce fortunosamente a farsi spedire un’antologia in inglese. Per puro caso, il libro si apre con una poesia di Auden – In memoria di W.B. Yeats. La lettura di quell’elegia è, per il giovane russo, decisiva. Nel dettato lirico del poeta inglese, si compie il miracolo del tempo piegato e asservito al linguaggio. Come a dire: i versi sono come raffiche di vento che soffiano sui bastoncini dello Shanghai – “il tempo: > “Time worships language” Nella poesia di Auden, si passa senza soluzione di continuità da versi che, da orizzontali, diventano incredibilmente verticali, viaggiando dalla metafisica al motto di spirito, dalla filastrocca alla scintilla lirica. Al di sopra di tutto, al di là della voce inconfondibile di Auden, affiora l’immagine riflessa del suo viso: le indimenticabili rughe della vecchiaia, le proporzioni un po’ sgraziate del naso e delle orecchie – che ne avrebbero fatto un perfetto candidato per un film di David Lynch –, l’amorevole saggezza ironica degli occhi che sembrano perdonare le storture del mondo.  * Un uomo – dice Brodskij – è la somma di ciò che legge. In parole più semplici: si è trasformati da quello che si ama. In quel villaggio artico assente anche dalle mappe geografiche, ciò che colpisce Brodskij, ciò che s’impone alla sua immaginazione, è  > “amore dilatato e accelerato dal linguaggio, dalla necessità di esprimerlo”.  Il che conduce a un’altra rivelazione: i sentimenti di uno scrittore o di un poeta si subordinano inevitabilmente alla lineare e incontenibile progressione dell’arte. Certo, Auden aveva conosciuto la sofferenza sotto varie forme: delusioni amorose, la coscienza di una sessualità tormentata, l’autoesilio imposto per sfuggire all’opprimente establishment letterario britannico, la disillusione politica. Eppure, i suoi versi sprigionano sempre amore, un amore immemore, come la lingua inglese, del genere maschile e femminile. Forse, più che di amore, sarebbe più giusto dire che la poesia di Auden è un acceleratore formidabile di tenerezza, di umana morbida dolcezza. * Con un balzo nel tempo e nello spazio, passiamo il testimone a un altro grande poeta irlandese: Seamus Heaney. Audenesque, una delle sue ultime poesie, è dedicata all’amico russo da poco scomparso, Iosif Brodskij. Esiste un omaggio più commovente, per un poeta, che accostare l’amico scomparso agli autori più amati in vita? Perché, come i bambini che uniscono i puntini nei giochi enigmistici, se tracciamo una linea immaginaria tra i versi che abbiamo più amato, alla fine l’immagine che ne affiora è la nostra: riflessa, come nell’ovale di uno specchio. Non è difficile, allora, confondere i ricordi di una conversazione su un treno lanciato nella tundra finlandese con i versi di Auden, e prima ancora con quelli di Yeats. Non è difficile ritrovarsi, nel freddo di un aeroporto di Dublino, a pensare a tutti i versi scritti – e a quelli soltanto sognati, che qualcun altro, forse, ha scritto al posto nostro. Anche nella regione della morte, tuttavia, la poesia può accendere scintille di futuro. * Yeats. Auden. Brodskij. Heaney. Cosa unisce questi quattro grandi poeti? Quanto, nel loro dettato, è riflesso e ombra dell’amore che li legava ad altri maestri? La poesia è anche cavalleresca espressione di amicizia, segno di profonda dedizione verso una “famiglia mentale”, per citare ancora una volta la magnifica intuizione di Brodskij. Viene in mente il sonetto forse più bello mai scritto sull’amicizia poetica: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, di Dante Alighieri. Quale filo li lega? Forse il senso di una vocazione maturata tra i rovesci della storia; la costante, sofferta oscillazione tra isolamento e rielaborazione degli eventi sullo sfondo? Soprattutto, il tentativo di superare l’autoreferenzialità attraverso l’incontro con altre vite – di spezzare il cerchio della solitudine aprendo la porta al vento della generosità e dell’altruismo. Ecco perché i viaggiatori cinesi della poesia di Yeats sembrano sostare, come i nostri poeti alla fine di un lungo viaggio, presso la fonte stessa della loro ispirazione. * In una poesia di Auden, una delle più belle, si dice che da qualche parte viva un bambino atterrito e pieno d’immaginazione. Lui sa, contro tutto e tutti, di essere il futuro; e comprende che solo i docili avranno in eredità la terra. Quel bambino non attira l’attenzione, né è particolarmente fortunato. Nel tumulto del mondo, tra leggi disumane e regole ingiuste, il suo pianto sale verso la vita del poeta – e la nostra – come una vocazione. Lorenzo Giacinto L'articolo “Solo i docili avranno la terra in eredità”. Riflessioni su Yeats, Auden, Brodskij e Heaney proviene da Pangea.
November 7, 2025 / Pangea
“Detto da un sedicente artista è grave…” Il Canone Godano della letteratura universale
Per qualche tempo abbiamo duellato a colpi di WhatsApp. La discussione, impennata verso gli impossibili, deragliò quasi subito: gli domandai dell’anima, dell’eternità, del senso dell’arte, di Dio e dell’addio. Cristiano Godano ha pubblicato undici album con i Marlene Kuntz e quattro libri: il primo, I vivi (Rizzoli, 2008) è una raccolta di racconti; l’ultimo, Il suono della rabbia (il Saggiatore, 2024) è una raccolta di “Pensieri sulla musica e il mondo”. Nel suo terzo libro, Nuotando nell’aria (La nave di Teseo, 2019), che sviscera “35 canzoni dei Marlene Kuntz”, Godano racconta di aver scoperto Vladimir Nabokov, il suo scrittore-idolo, “all’epoca di Catartica”, quell’album memorabile – “generazionale” come dicono gli studiosi – uscito nel 1994. Godano compiva ventotto anni, il disco era prodotto dal Consorzio Produttori Indipendenti di Gianni Maroccolo, Zamboni+Ferretti etc. e io imparavo a giocare a calcio guardando Roberto Baggio, il Bodhisattva del pallone, evangelizzare i mondiali americani.  Da lì nasce il nostro incontro. Da Vladimir Nabokov – per me, il conte Vlad della letteratura occidentale, il sommo vampiro: lo leggi e ti dissangua. Così, con Godano ci inoltriamo nei meandri di Fuoco pallido, il libro più estremo, estenuato di Nabokov; entrambi eleggiamo Intransigenze – la raccolta di corrosive e corroboranti interviste nabokoviane – a libro-totem. Insomma, diamo dimostrazione che anche WhatsApp, altrimenti umana camera degli orrori, di sbandierate banalità, può essere qualcosa di non troppo dissimile dal Fedone o da Macbeth. Entrambi – credo – crediamo che ogni verità vada temprata distruggendola; che occorra il coraggio di spogliarsi di ogni convinzione. Fare di sé il vento e il lupo, la pula e il pullulare di ululati.  Credo, piuttosto, che Cristiano Godano sia uno dei rari cantautori italiani – per un sano senso della sprezzatura e dello snobismo – non inquadrabile in schemi, non liquidabile in teoremi. Rifugge dai cliché della rockstar; ha in odio le grige manie degli ‘alternativi’ che – ormai altro da sé – fanno reddito con la malinconia, con l’epopea della giovinezza trascorsa. Gli album ‘in solitaria’ – Mi ero perso il cuore, 2020; Stammi accanto, 2025 – dicono di un artista che non si placa, inappagato, implacabile soprattutto verso se stesso, che ha imparato la voluttà di non piacere ai più. Chi è cresciuto ascoltando i Marlene Kuntz nella fetida periferia torinese, nei lividi Novanta – “Mi piacerebbe sai, sentirti piangere/ anche una lacrima, per pochi attimi” – sa che la sola speranza è spezzarsi, che la sola vita è precipitare.  Nel libro Nuotando nell’aria, Godano cita Borges e Rimbaud, Keats e Dostoevskij, scrive per trenta volte la parola “poesia” (molte più volte della parola “sesso”) e per ventisette volte la parola “poeta”; in venti circostanze appare Nick Cave, il suo prediletto. A chi gli dà del poeta, però, Godano risponde, perentorio, che “l’autore di testi per canzoni non è un poeta”, semmai “è potenzialmente un poeta mancato”. Fine della discussione.  A volte, Godano sembra decorarsi con le pose da doge del nulla: gli piace ripetere che deriviamo dai vermi e dai pesci, che l’uomo è un incidente di percorso nell’esistenza terrena, che la vita è spietata, che l’intelligenza è un sovrappiù di sfiga perché ci obbliga a indugiare sul dolore, che infine l’arte è niente. Che tutto, in fondo, finirà e nessun dio ci attende a bocca aperta negli altri mondi. Tutte cose che si sanno, che insaporiscono il discutere di zuccherine oscurità. In fondo, si ascolta una canzone per liquefarsi in un regno ulteriore della mente; in fondo, chi scrive una canzone è già al di là di questo mondo – che si dica salvezza, che si dica disperazione, che importa.  Se ti dico la parola “poesia” cosa ti viene in mente? La famosa definizione di Paul Valéry sulla poesia (“La poesia è una lunga esitazione fra il suono e il significato”) mi è sempre piaciuta al punto da lasciarmene condizionare irrimediabilmente. Ed è ciò che mi sovviene ora a seguito della tua domanda. So che questo inizio di risposta è connesso alle specifiche necessità del creatore di versi più che al lettore, e immagino che solo un lettore molto allenato e consapevole possa avere una tale consapevolezza raffinata comprendendo la complessità del fare poesia. Dunque il lettore attento sa che la poesia ha un ritmo e ha un suono, e anche di questo gode leggendo, mentre il lettore meno strutturato ed esperto basa il suo gradimento principalmente sulle emozioni di natura sentimentale. Senza voler qua demonizzare questo tipo di emozioni, penso che si collochino a un livello inferiore nella scala del giudizio. Io, come lettore, dichiaro la mia non robusta frequentazione del genere: le leggo principalmente quando sono nel processo creativo per fare un disco nuovo, poiché in quel caso la contiguità del mio far versi per canzone con le esigenze del poeta nel suo verseggiare mi aiuta a connettermi con la specificità di ciò che sto per affrontare.  Penso che si è ottimi lettori di poesia quando si è dotati di immaginazione: a volte a me sembra di non averne a sufficienza. Detto da un sedicente artista è grave, lo so. Nel tuo discutere e nei tuoi pezzi citi, tra i tanti, Borges (adoratissimo da Mick Jagger, per altro…), Baudelaire, Rimbaud, Gozzano, Montale… Viene fuori una specie di “Contro-Canone Godano” della letteratura. Proviamo a redigerlo una volta per tutte? Citami dieci libri che in qualche modo hanno orientato la tua vita – e perché. Se la domanda è “i libri che hanno orientato la tua vita” sono spinto a nominare anche le opere non di finzione che sono state per me importanti. Premettendo che la più parte delle cose che ho letto è stata da me un po’ dimenticata, sto guardando in questo momento i miei libri (una parte, per lo meno) per cercare la risposta adatta; noto che molti di essi mi dicono “sì, mi leggesti tempo addietro”, e posso nominare: Lolita di Nabokov (letto due volte), Intransigenze di Nabokov (l’ho letto e riletto più volte), Fuoco pallido di Nabokov (letto due volte), La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda (libro straziante), Fratello cicala di John Updike (una raccolta di racconti: mi approcciai a lui con questo libro, non certo il suo più famoso: rimasi incantato dalle qualità estetiche della sua scrittura), due o tre opere di Shakespeare contenute nello stesso libro dei ‘Meridiani’ (non importa quali: è la lettura di Shakespeare in sé che mi estasiò), Odile di Raymond Queneau (ero catturato dalle stranezze dell’Oulipo e dai tentativi di commistione matematica-letteratura), Scritti sull’artedi Paul Valéry (raccolta di micro-saggi che influenzarono molto il mio pensiero in costruzione), Sulla poesia di Eugenio Montale (raccolta di micro-saggi, idem come per Valéry), alcuni racconti e le poesie di Borges (raccolti anch’essi nei ‘Meridiani’: mi affascinavano i labirinti di Borges, ma anche le qualità riflessivo-filosofiche della sua poesia), Nera schiena del tempo di Javier Marías (ricordo che mi catturò molto: ero immerso in qualche processo creativo per un disco dei Marlene). C’è poi – lo abbiamo capito mentre compulsavi il tuo “canone” privato – la conclamata passione per Nabokov. Da dove nasce e perché è per te fonte di ispirazione?  La mia passione per lui nasce con la lettura di Lolita e, subito dopo, con quella di Intransigenze, spassosa e serissima al contempo raccolta di interviste che rilasciò soprattutto dopo il successo di Lolita. Intransigenze fu un magnifico regalo che mi fece colei che sarebbe diventata la mamma di mio figlio: se già Lolita mi aveva appassionato per via di uno stile che recepii immediatamente e del tutto istintivamente come magnifico, con Intransigenze mi addentrai nell’abbagliante personalità di Nabokov, innamorandomene. Penso che Nabokov sia il classico caso di “o lo ami o lo odi”: non tutti amerebbero sentire uno scrittore sbeffeggiare Dostoevskij o Faulkner o Thomas Mann o Balzac, per dire… Ammetto di essere affascinato dalla forza tonitruante di certe opinioni: ci vuole coraggio ad averle, e lui aveva coraggio da vendere. I libri fondamentali per me, sottolineando che non ho letto Ada (lo temo!) e altri tre o quattro, sono Lolita, Fuoco pallido, Invito a una decapitazione, Il dono, Parla ricordo, La vera vita di Sebastian Knight. E Pnin, per ridere tanto.  Il mondo rigurgita di orrori. Un manipolo di vecchi si sta bombardando con una violenza equiparata alla vile scaltrezza. Che senso ha fare arte, allora? Che senso ha la ‘bellezza’? Siamo in un momento esacerbato, e cieco, e sordo: polarizzati e sempre più incazzati vediamo il bianco o il nero e non siamo più disposti a comprendere le sfumature, quelle che la tanto vituperata democrazia ci aveva insegnato con la sua inevitabile pazienza, che non c’è più. L’arte temo possa fare poco. O perlomeno: a livello individuale può fare tantissimo (io ad esempio spero che non manchi molto al mio rifugiarmi in essa per fuggire dallo schifo intorno), ma a livello di possibilità di ergersi a barriera del deragliamento temo di no, che non possa farcela. Rileggo meglio la tua domanda: “che senso ha fare arte?” Beh, come minimo può aiutare chi la fa a sganciarsi da questo pessimo mondo: è una condizione a cui, come ho detto qua sopra, idealmente ambisco. Non so se ci riuscirò: è un auspicio.  Nel tuo ultimo album, Stammi accanto, intuisco, consapevole o meno, una qualche ricerca del sacro, un andare verso l’altro, l’oltre. È così? Siamo solo pappa per vermi? Cosa resta di ciò che abbiamo fatto, vissuto, scritto? Ci dev’essere qualche contraddizione in me, perché spesso mi si fa notare che nonostante tutte le mie tiritere pessimiste i miei testi palesano una spiritualità di qualche tipo, o ricerca del sacro, come dici tu… Forse quando solletico il mio afflato scateno qualcosa dentro di me che lotta in sottotraccia per non farsi vessare dal raziocinio: una latenza pronta a farsi viva quando ritiene utile… O è semplicemente la mia parte più vera, che non sa arrendersi nonostante tutto alla dialettica stringente della ragione. Non so che dire: in Stammi accantoc’è una canzone, peraltro la mia preferita, che si chiama Cerco il nulla, dove mi pare di esprimere un non so che piuttosto lontano dal sacro. Ho solo 59 anni, tempo per vederci meglio e capirmi meglio ne ho ancora… *In copertina: Cristiano Godano nel ritratto fotografico di Antonio Viscido L'articolo “Detto da un sedicente artista è grave…” Il Canone Godano della letteratura universale proviene da Pangea.
November 6, 2025 / Pangea
Fantasmagoria del rosso.  A Isabella Bignozzi su “Fermagenesi”
> “e piuttosto eccedi nell’amore: sono le due ali dello spirito per sollevarti > al di sopra di tutte le cose terrene e di te stessa” (Maria d’Agreda, Mistica > Città di Dio. Vita della Vergine Madre di Dio) > “o nel corpo, o fuori del corpo non so, Dio lo sa” (Seconda Lettera ai > Corinzi, 12, 2) > “mentre la terra era vacua e vuota, la tenebra era al di sopra dell’abisso e > l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque”  (Genesi, 1, 2) a te, che tutto è cuore.  ne L’anima del mondo e il pensiero del cuore, James Hillman parla dei tre cuori del mondo: il Cuor di leone, il Cuore di Harvey e il Cuore di Agostino. il Cuor di leone rimanda al Re, all’oro e al rosso. è il cuore che ha fede nella battaglia, nell’azione eroica, il cuore dell’agone. il Cuore di Harvey è quello meccanico, misurabile. il Re di Cuor di leone qui diventa macchina, pezzo di ricambio, “cuore-orologio”. è il cuore diviso della modernità. per arrivare alla sua altra metà deve uscire da sé e circumnavigare se stesso. non ha più l’unità solare del leone, è ambiguo, combattuto. il Cuore di Agostino è l’abisso, il cuore di un “Io” che si confessa, parla in prima persona. cuore scrigno, cuore anima “delle tempeste e delle lacrime”, passione della vita personale espressa nel sentimento. “nell’intimo del mio cuore” (Conf., VII, 10). Confiteor: ostendere, portare alla luce nello splendore. la preghiera, scrive Hillman, offre una terapia della confessione quando opera una traslazione a qualcosa di esterno, a una divinità, a delle figure immaginali di essa, una “capacità teofanica di portare a visibilità il volto del divino”. Henri Corbin chiama questa traslazione récit, “racconto”, quell’immaginazione attraverso la quale lo spirito dal cuore muove verso le origini di tutte le cose. così, l’azione caratteristica del cuore non è il sentire ma il vedere. il cuore è la sede della vera imaginatio, e l’immaginazione è la sua voce più autentica. nel suo studio su Ibn ‘Arabī, Corbin riconosce in questa potenza immaginifica del cuore l’“himma”, l’enthymesisgreca: l’atto di immaginare, progettare, desiderare ardentemente. l’himma crea come reali le figure dell’immaginazione in un afflato panico, rendendole creature autentiche (Hillman 2002). nella Considerazione XXIX sulla differenza tra teologia mistica e teologia speculativa Jean Gerson scrive che quando l’intelletto è pervaso dall’amore per le realtà contemplate esso si protende e si effonde tutto nella cosa desiderata, cercando di trasferirsi e di unirsi ad essa: “Guardiamo gli occhi di certe persone: come scintillano, come brillano, come vorrebbero riuscire ad abbracciare avidamente tutto” (Gerson 1992, 155). ciò è vicino alla volontà gioiosa dell’himma. i mistici Hanafi Al-Khālidi e Ibn Mustāfā al-Kumush riconoscono diversi stadi dell’himma. il primo è l’himma del risveglio (himmat al-ifāqa), l’attaccamento del cuore a Dio. questa himma, che apre il cammino che porta all’essenza di Dio, fa in modo che il “servitore” percepisca veramente quello che desidera attraverso l’“intuizione chiara”. volgere la propria attenzione a Dio significa astenersi da ogni altra riflessione o obiettivo:  con parole tue, “essere con, essere verso” nel cono dell’unità. l’amore tende all’unità, “è la forza divina che supera le distinzioni e compie ogni unità” (Barsotti 2002). per Ibn Mustāfā al-Kumush dai primi stadi in cui l’himma è legata all’obbedienza di Dio si distoglierà l’attenzione da ciò che effimero fino a portare tutte le himma ad una sola, “l’attaccamento del proprio cuore alla felicità che sempre rimane”, ad abbracciare l’amore divino, in quell’“amore selvatico, che avvampava senza pensiero e senza margine”  per Ibn ‘Arabī progressivamente si arriva allo stadio in cui gli gnostici, entrando in connessione con l’unità divina, scorgono l’unicità dietro la molteplicità dei fenomeni; vanno oltre la realtà delle cose e vedono se stessi come una manifestazione della realtà ultima, che è Dio. lasciando andare tutte le cose nell’ascensione attraverso le tappe dell’himma alla fine resta solo Dio (Lala 2023). allo stesso modo nel Salmo dell’estasi di Davide Agostino dice che “nell’uscire da sé della mente si scorgono due cose, il timore o l’anelito alle cose celesti sino al punto che, in un certo modo, vengono meno dalla memoria le cose terrene” (Comm. ai Salmi, “Sullo stesso Salmo 30, Esposizione II”, Discorso I, 2). questo impeto di accoglienza del divino è la capacità di dilatazione del cuore data dal desiderio risoluto di ricevere Dio. > SIGNORE, davanti a te è tutto il mio desiderio (Sal 38) lo spazio interiore dell’essere umano è incommensurabilmente più angusto dell’“amplissimo a largo” di Dio, eppure egli desidera ardentemente riceverlo, e questa ricezione è possibile grazie alla capacità di dilatazione gioiosa del cuore. rispetto ad essa, Agostino pensa che non si possa separare l’interno dall’esterno poiché la dilatatio cordis, segno e attestazione della grazia, è “ospitalità”, in cui host e guest sono indistinguibili. la gioia è l’arrivo in noi di un “invitato improvvisato” (Chrétien 2007, 62), lo Spirito Santo, che non siamo capaci di ricevere ma che riceviamo dilatandoci, provando un desiderio acuto e intensificato. il mistico domenicano Louis Chardon parla della dilatazione come di qualcosa di vertiginoso che coglie quanti sono sul bordo dell’abisso dell’infinità divina, davanti alla quale anche l’amore smisurato è insufficiente. per il mistico eremita Richard Rolle nella dilatazione l’anima si riempie di una dolcezza di miele e il cuore, cercando di stringere a sé questa dolcezza, compie uno sforzo continuo per abbracciare l’incommensurabile e si dilata sempre di più (Chrétien 2007). il desiderio di accogliere Dio non può non accompagnarsi a una purificazione del cuore:  > “Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque; > è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua > vista, lo ammetto e ne sono consapevole: ma chi potrà purificarla, a chi > griderò se non a te” (Conf., 1, 5; 6).  per Agostino è Dio che ci dilata. rimanere ‘rincuorati’ nel desiderio di Dio secondo fede, speranza e carità, quest’ultima potenza dilatante per eccellenza, è la condizione affinché la dilatazione avvenga; in questo modo l’essere umano diventa capiente per accogliere Dio.  nel tuo arazzo celeste i tre cuori trovano il loro compimento, i loro cammini diversi e complementari si intersecano, rondini inebriate. volta all’altissimo, ma ti abbeveri all’anima mundi con il cuore netto del leone, non dimentichi cosa fa della Terra la casa di una splendida finitudine: > “Se solo ricordassimo l’argento che guizza nei pesci, la matematica del > planare, come libero è il gettarsi in volo: rannicchiati fino al cielo i rami > con la loro quiete, adorano nel sole l’umile eternità che, nelle radici, gli > fa da madre senza sapere l’abbandono. Perché non sia dimenticato che pieno > d’oro è il salire. Pieno di spettacolo”.  lo spettacolo del cuore immaginifico che si nutre della propria fantasmagoria di bellezza. e allo stesso tempo segui “un’aorta incerta”, accogli il cuore diviso esposto alla beatitudine e alla disperazione, fai luce della sua confessione.  “Guarda là”  torni giù al guardare, strumento degli esseri umani, a “queste macchine produttive del dolore”, a “questi margini allibiti, che portano l’incisione ad armarsi d’ombra”. ritagli i bordi pesanti. eppure in compassione.  “e ulcere di legna verde, solo braciere la preghiera”  quella preghiera che sboccia acerba, a tentoni, “l’inizio sempre randagio” per Gerson, come la legna verde fatica a ricevere il calore del fuoco per accendersi a sua somiglianza, così colui che è destinato a ricevere il calore dello Spirito santo e ad attingere all’amore puro dovrà sottoporsi alla disciplina della penitenza. nel fuoco dell’amore la meditazione non cerca la verità speculativa ma la compunzione che fa seguito alla scoperta della verità, una penitenza necessaria per intraprendere il cammino verso la teologia mistica, il cammino verso “l’abbraccio dell’amore unitivo” (Gerson 1992, 151), del “crollare di candore”, “petto scalzo”,  > “il dolore rabdomante trova il corpo per dargli il suo cerchio di pace, > disfandogli la boria di ogni saldezza dorsale: quello che placa è lo stare in > ginocchio: nella nuda resa s’incontra l’eterno” > “santuari di rotta carità nel preciso istante della resa, che è qui che si > frana, su sé stessi di spalle” Ti basta la mia grazia, poiché la forza si manifesta pienamente nella debolezza (Seconda Lettera ai Corinzi, 12, 9).  si crolla di candore nello spavento della bellezza del divino,  > “Nel rosso cuore mio battente si posa il tuo nome, accanto alla paura,” nello sguardo che sostiene a fatica la sua visione, poiché ogni sguardo non trova avvenire che nello stesso luogo della sua estenuazione (Chrétien 1987), ché nessun essere umano può guardare a Dio senza accecarsi. solo l’amore può sostenere lo sguardo di eccesso dell’Amore, accomodarsi nell’abbaglio alla sua evidenza, cioè alla sua prova (Marion 2018). questo principio di ostensione insito nella confessione, nel crollo, che si esplicita nell’offerta dello scrigno del terzo cuore, è, con le parole di Michel Henry, l’auto-rivelazione della vita (Henry 2000). la vita parla nel cuore, nella sua “auto-rivelazione patica immediata”, dove lo spazio tra la senzienza e la sua esplicitazione, sotto forma di pensiero o linguaggio corrente, è annullato. dalla matrice prima all’individuo, la tua fermagenesi è l’evento vitale di auto-donazione, e quindi di auto-rivelazione, che non si guarda, fuori dal mondo, curvo sulla propria pulsazione. cos’è che si dona a se stesso senza mondo, senza che la donazione consista in un mondo? la vita. “la vita è qualcosa che prova se stessa”, scrive Henry, prima cosa originaria, senza intenzionalità, “proprio perché l’assenza di finalità, l’assenza di intenzione è l’essenza della bellezza del mondo” (Weil 2008, 135). e allo stesso tempo ha una soggettività assoluta, non risponde a un “Io”, ai ruoli dell’identità. è oltre la messa in atto della rappresentazione, sottratta ad ogni orizzonte di visibilità (Henry 2001). così tu, nel rovescio, nel concavo, nell’inverso, sottrai in pudore quello che ami, per soverchiamento. un privativo da cui sussurrare quell’infinito che arriva all’Uno, parafrasando Meister Eckhart, gravida del nulla:  > “l’indimostrabile del cosmo che vibra” vivere nell’immanenza della vita che prova se stessa nel mistero della simbiosi tra gioia e sofferenza. in questo senso per Henry la nascita non è ‘venire al mondo’, poiché siamo già nell’ostensione vitale della Vita assoluta. venire al mondo implica un’intenzionalità, una coscienza, mentre la vita ci viene di per sé, viene a sé e ci genera in quanto incessante auto-affezione.  fermagenesi nel suo mentre.  > “Rossi erano i cuori, battenti, un attimo prima del mondo” si è dati a se stessi senza che questa donazione rilevi da se stessi. non siamo affetti da null’altro, generati come un Sé nell’auto-affezione della Vita assoluta. e se chiamiamo la vita Dio, allora il Sé è la condizione della possibilità trascendentale di ogni individualità concepibile: “Dio mi genera come se stesso” (Meister Eckhart in Henry 2004, 132). Una Vita inesprimibile con il linguaggio, puro avvenimento,  > “ortogonale al parlato, > è l’ago di luce che pronuncia l’essere di ognuno tacendo” per questo la scienza non può fondare l’individuo, il cui anelito a liberarsi dal confine, dalla misura che vige nel mondo terreno, all’alterità circoscritta ed empirica attraverso gli oggetti, è nel rovesciamento di Novalis: “Quando non saranno più i numeri e le figure/ Che gireranno le chiavi di tutte le creature,/ Quando coloro che cantano e abbracciano/Ne sapranno più dei profondi dottori […]/ Quando il mondo si sarà arreso/ Alla vita libera e sarà restituito al mondo, […]/ Allora basterà una sola parola segreta/ Perché si involi tutto il modo di essere rovesciato delle cose” (Novalis in Marion 2014, 242). ossia la ‘realtà’ empirica del senso comune. > “il denaro come un’ara di plastica, che canta i numeri per fare più marcate le > ombre” > “mentre tutto tramonta e spiffera il segreto” mi vengono in mente “Hilda Welcomed” e “Communication”, due opere di Stanley Spencer in cui le persone si abbracciano in modo quasi ossessivo in un intreccio che disegna linee energetiche. Spencer dipinge esseri difformi, tremolanti, presi nella vibrazione che sottende quello che è visibile, solo apparentemente ‘dritto’. gesti apocalittici, torti, visti attraverso la lente aberrante dell’amore, portatori di cuore selvatico e scosso. i personaggi di Spencer sono colti nelle loro azioni quotidiane ma sembra che tutto sia immobile, rapito in una vertigine sotterranea che scuffia lo spazio, i corpi, senza spostarli. in una delle sue Crocifissioni (1958), la scena sovrasta i tetti delle case di mattoni di una cittadina dei primi del ’900. il Cristo guarda verso l’alto mentre due sgherri con un ventaglio di chiodi tra le labbra glieli piantano nelle mani. ai piedi della croce, una figura femminile è prostata a terra con le braccia divaricate. nei quadri di Spencer le braccia sono elemento vivo. nella Crocifissione si confondono con le assi della croce. braccia protese, levate, continua invocazione verso un abbraccio superiore di Amore verso cui si tende vibrando, “essere verso”. anche Spencer anela all’altissimo guardando con compassione le creature del suo sottomondo, l’infinitamente piccolo, mortale, orfano, dell’incommensurabile evento di fermagenesi.  più che rovesciamento essa è arrovesciamento, terremoto da fermi che vivifica non i cuori materia ma il loro rosso. > “un plotone di cuori rossi battenti nelle fiamme mai prese al laccio” lo scintillio del fuoco fa presagire un mondo in cui non ci sarà più che il fuoco del baleno, dove ogni cosa sarà come un fulmine (Chrétien 1992). “Rimani, se puoi, proprio in quel primo istante in cui sei attraversato da un lampo, quando viene detto: ‘verità’” (Agostino in Meister Eckhart, 2013, 85). rosso non è un colore, è perenne gioco di specchi tra l’arsura del credente nella sua protensione e la fiamma del Sacro Cuore, che chiama colui che crede, incarnazione del sacrificio cristico,  > “sangue acceso di fiume aperto” creatura di saturazione, il cuore cinto di spine apparso a Margherita Maria Alacoque, conchiuso nel corpo straziato di Cristo. rosso dono totale, dono senza intelletto che aderisce come la cieca fedeltà animale al suo versamento. Margherita Maria lo accoglie nel suo stesso seno. Giovanni della Croce parla del “volo” “alto e leggero di contemplazione” della colomba, arsa nell’amore, “rapimento ed estasi dello spirito a Dio” (Canto spirituale B, 13, 7-8). cuore nella sua transverberazione, “ferita d’amore”, un tocco d’amore che come saetta di fuoco ferisce e trapassa l’anima, “fiamma d’amor viva”, Spirito Santo. “Nel frattempo – dice Beatrice di Nazareth – l’Amore si fa talmente smisurato e soverchiante nell’anima, come fuoco la marchia nel cuore, che è come se il cuore fosse trafitto da ogni dove” (I sette modi del santo Amore). e così Teresa d’Avila: “Mi colpì con una freccia/ Avvelenata d’amore,/ E la mia anima divenne/ Una cosa sola con il suo Creatore” (“Sulle parole ‘Dilectus meus mihi’”).  > “bocciolo di punta” rosso come risposta alla chiamata di Dio. una chiamata che fende gli epifenomeni del senso comune e solleva la pura vita alla pura vita, la chiamata cui non deve seguire la parola perché ogni nostra reazione risponde ad “un’eco immemoriale, nella caduta di un doppio eccesso” (Chrétien 1992, 30), chiamata nella totalità del mondo in cui non si è che nel coro di una perpetua incoazione, nel mentre dell’auto-donazione. questa chiamata all’essere non è temporale, ma eterna e istantanea. per risuonare nella verità non può che risuonare nel vuoto, radicalmente altra dalle chiamate terrene che sollecitano il possibile, il contingente. “Per costituire, destituisce. Per dare, priva. Per creare, disgrega tutto quello che si considerasse forte di per sé prima della chiamata o indipendentemente da essa” (Idem, 33).  penso a quanto tu ripeta di questo travaglio cangiante alla chiamata, un pigolìo di preghiera che ti ruscella nel torace, e incessantemente riannodi braccia e gambe con una pazienza insopportabile. ti smonti e poi riprendi ogni pezzo in un tuo brusio ardente caro alla nullità. così testarda nell’amore, rannicchiata in una cavità in cui rinbomba un avvento che ti lascia sola. mi assale, questo tuo bianco che sbocca, si apre in corolle di ghiaccio e sconfina verticale, Candida Rosa. ma scrivi dell’estrema cima perché hai guardato in attenzione coloro che sopra non scorgono. aneli da basso, cucendo i tuoi angeli di organza. saperti lì assorta, ogni nuova infanzia. Cristiana Panella * Riferimenti bibliografici Agostino, Le confessioni. Testo latino a fronte. A cura di Maria Bettetini. Trad. di Carlo Carena. Torino: Einaudi, 2000. Agostino, Commento ai Salmi. A cura di Manlio Simonetti. Milano: Mondadori, 1989. Barsotti, Divo, La mistica della riparazione. Pref. di Giuseppe Gioia. Melara: Edizioni Parva, 2002. Bibbia. Progetto e direzione di Enzo Bianchi. A cura di Mario Cucca et al. Trad. di Enzo Bianchi et al. Torino: Einaudi, 2023. Bignozzi, Isabella, Fermagenesi. Quarta di copertina di Mara Cini. Verona: Anterem Edizioni, 2025. Cirlot, Veronica et al. (a cura di) La mistica cristiana (vol. 2). Progetto editoriale di Francesco Zambon. I Meridiani. Milano: Mondadori, 2021. Chrétien, Jean-Louis, L’effroi du beau. Parigi: Les Éditions du Cerf, 1987. Chrétien, Jean-Louis, La voix nue. Phénoménologie de la promesse. Parigi: Les Éditions de Minuit, 1990. Chrétien, Jean-Louis, L’appel et la réponse. Parigi : Les Éditions de Minuit, 1992. Chrétien, Jean-Louis, La joie spacieuse. Essai sur la dilatation. Parigi : Les Éditions de Minuit, 2007. Gerson, Jean, Teologia mistica. Testo latino a fronte. A cura di Marco Vannini. Cinisello Balsamo: Edizioni Paoline, 1992. Giovanni della Croce, Opere complete. Prefaz. di P. Emilio José Martίnez González. Introd. di Federico Ruiz. Roma: OCD, 2020.  Henry, Michel, Incarnation. Une philosophie de la chair. Parigi: Seuil, 2000. Henry, Michel, Fenomenologia materiale. A cura di Pietro d’Oriano. Milano: Guerini e Associati, 2001. Henry, Michel, Parole del Cristo, Brescia: Queriniana, 2003. Henry, Michel, Auto-donation, Parigi : Beauchesne, 2004. Hillman, James, L’anima del mondo e il pensiero del cuore. Milano: Adelphi, 2002. Lala, Ismail, “Turning Religious Experience into Reality: The Spiritual Power of Himma”, Religions, 14 (3), 385, 2023. Marion, Jean-Luc, Certezze negative, Firenze: Le Lettere, 2014. Marion, Jean-Luc, Prolégomène à la charité. Parigi: Grasset, 2018. Meister Eckhart, Commenti all’Antico Testamento. Testo latino a fronte. A cura di Marco Vannini. Milano: Bompiani, 2013.  Teresa d’Avila, Tutte le opere. Testo spagnolo a fronte. A cura di Massimo Bettetini. Milano: Bompiani per Giunti Editore, 2018. Weil, Simon, Attesa di Dio. Milano: Adelphi, 2008. L'articolo Fantasmagoria del rosso.  A Isabella Bignozzi su “Fermagenesi” proviene da Pangea.
November 6, 2025 / Pangea
“Le nostre sorti incatenate”. Lou Reed riscrive Edgar Allan Poe
Mi ero imbattuto nell’ultimo disco in studio di Lou Reed (“The Raven”), quasi scettico per l’operazione proposta ma fortemente incuriosito. Essendo sia amante di Poe e dei suoi racconti plumbei e angosciosi, sia di Lou Reed, fin dagli albori della sua carriera nei Velvet Underground, l’ho ascoltato con sincera attenzione e voluto approfondire comperando in edizione Minimum Fax i testi integrali del lavoro poetico di riscrittura di Poe, che prendono il medesimo nome e dell’album e della celeberrima lirica del maestro del gotico, per la traduzione di Riccardo Duranti.  Scriveva nell’introduzione lo stesso Lou Reed:  > “Nella mia mente Poe è il padre di William Burroughs e di Hubert Selby > (ricordiamo quest’ultimo, per chi non lo conoscesse, come una specie di Joyce > maledetto e metropolitano). Cerco sempre di adattare il loro sangue alle mie > melodie. Perché facciamo quello che non dovremmo fare? (con un occhio > al Demone della perversità). Perché amiamo quello che non possiamo avere? > Perché abbiamo sempre una gran passione per la cosa sbagliata? E che cosa > intendiamo per ‘sbagliato’?… Mi sono innamorato ancora una volta di Poe e > quando mi si è presentata l’opportunità di riportarlo in vita attraverso > parole e musica – testo e danza – be’ (suggestione diabolica di vanità > autoriale?, ci chiediamo), l’ho afferrata al volo: come farebbe un rottweiler > con un osso sanguinolento. L’ho riletto e poi recitato ad alta voce e per la > prima volta ho capito Il cuore rivelatore…” Omettendo di dare uno sguardo ravvicinato all’album e alle prestigiose collaborazioni, soprattutto nei recitati, di artisti di grande calibro tra i quali William Dafoe, Steve Buscemi, Fisher Stevens, Amanda Plummer, possiamo senz’altro approcciare uno dei passaggi più significativi, a nostro modo di vedere, della preziosa versione integrale cartacea delle riscritture di Lou Reed presso i gangli più significativi dell’opera di Poe.  Prenderemo infatti in esame, principalmente, la riscrittura magnifica del racconto dal titolo Hop-Frog (il nano buffone di corte). Va detto, a giusta premessa, che Lou Reed raggiunge qui, ma anche di più altrove, vette inedite di estro poetico e cura filologica nell’uso di una parola aulica e tale da vibrare di musica assecondando l’estetica stessa dell’autore di origine. L’inizio pare una litania quasi insignificante dal lato della consistenza contenutistica, offrendo una versione scanzonata del personaggio a cavallo tra la vita di corte e la sua natura “salterina” (esiste niente di più buffo e caricaturale del salto di una rana). Prosegue alzando l’asticella, con lo scritto dal titolo “Ogni ranocchio ha la sua giornata di riscossa”. Qui il re esorta Hop-Frog a procurargli gaiezza e riso chiamandolo “mellifluo principe dei buffoni” ed egli risponde con tono serio che la giornata presente “non è adatta a farsi una risata”, perché quel momento “sacro è per i tramonti reali” piuttosto che “per lo sbraco comico o il suicidio dei giullari”. Il re incalza, dicendo imperativamente che a decidere è lui e il suo “cagnolino” deve suscitare la sua ilarità, tracannando vino e assecondandolo durante la festa. Hop-Frog sa bene che il vino gli dà alla testa e cerca di aggirare l’ostacolo, ma il re insiste con nerbo e comando. Ed ecco comparire Tripitena (auratica creatura, dal nome sonoramente fittizio che evoca quasi una onomatopea, e ingegnosa rappresentazione di Musa meta-parnassiana che intuisce il valore dinamitardo dell’arte di Hop-Frog, al quale si rivolgerà più tardi amorevolmente, con disprezzo profondo per il re e la sua corte)… Attenzione che nella versione palesemente denigratoria di Lou Reed la corte intera compare come accolita di squallidi affaristi e faccendieri, quindi in chiave più moderna e maturamente capitalistica. Esattamente come, in simmetria, “Il verme conquistatore” appare come il protagonista di un “escrementizio” numero di Broadway in cui luci, paillettes e ballerine, nascondono il marcio di un ricco intrattenimento che ottunde la ragione e tradisce la sincerità, facendo di Poe stesso una caricatura da show. E dice Tripitena, attraverso un espediente che fa leva sulla vanità della corona: “Riservate, mio possente Sire/ a nemici più degni le vostre ire”. Il re non desiste e apostrofa malamente Hop-Frog ingiungendogli nuovamente di farlo ridere. Ma il re, dichiara Tripitena nel magnifico monologo che costruisce il musicista newyorchese, dovrebbe chiamarsi in realtà “orinale”, in bisticcio con la propria indiscussa autorità e senza mezzi termini di condanna. Hop-Frog, invece, nella sua visione troneggia su tutti, e la regale compagine appare come una accolita di scimmioni festanti. Tripitena dice di aver osservato il nano destinato a giganteggiare e che il suo valore supera ampiamente la sua natura di nano, ed è superiore alla sua pur vertiginosa ampiezza d’animo e alla profondità di pena interiore che la suggella. Le sue parole sono vibranti d’amore: >  “O reietto ostinato, non vedi la luce del nostro amore – le nostri sorti > incatenate – i nostri cuori fusi insieme in un fine merletto di fili d’oro > intrecciati?” Il re e la sua accolita di ruffiani ascoltano “la musica degli idioti” e i loro affari e faccende sono sordidi. Non sono né cose angeliche né appartenenti ad alcun superiore avamposto a cui sia degno aspirare. Il re-affarista è creatura misera e indegna, e i suoi consiglieri sono “decrepite caricature di erudizione guidata dall’avidità”. Come negare che allo stato attuale faccendieri e cultura ruffiana, adulatrice del potere, sono all’ordine delle cose? E allora serve “disordine”… Arriva quindi il suggerimento di Tripitena che raccoglie lo snodo centrale del racconto di origine: far travestire tutti da scimmioni, con la scusa di una burlesca messa in scena per il triviale divertimento di costoro, e poi dar fuoco alle loro pellicce. Perché se a questo mondo la giustizia e fuggevole, per una volta sia lecito ascoltare il “raglio e il pianto” del sovrano-affarista”. Devono, tutti costoro, solo impersonare gli scimmioni che già sono, con catene e ridicole sottane, e poi perire nel rogo che appiccherà il buffone di corte. Perché chi lo sottovaluta “prima o poi è destinato a trovare la verità sublime e a sdraiarsi vuoto sulla griglia di un disordine sistematico”.  È una grande dichiarazione di anarchia e sovvertimento, di disordine che deflagra come una forza annientatrice dello status quo, della sordida vita che perpetra se stessa grufolando nel fango del potere e nei suoi abusi, nella bassezza di un ordine babelico di vizio e sopruso, guadagno ed esercizio vessatorio di potere. Il finale del monologo è assai crudo e Tripitena dichiara a chiare lettere che gli “affaristi” non sono degni neanche di farsi defecare addosso.                                                          Prosegue il testo con una domanda di carattere quasi esistenzialista: “Chi sono?” Ed è ancora Tripitena a parlare: ella vede nello specchio il tempo che ha arato la sua pelle durante il corso della rievocazione bruciante dei ricordi d’amore legati a Hop-Frog, preda di una passione che vince la ragione e le sue leggi. E in aggiunta, dice, si pensa a ciò che avremmo voluto diventare, ma la realtà che si affronta dedica a questi slanci uno spazio così esiguo da svuotarli. Si chiede chi sia, Tripitena, e chi ha fatto le foreste, il cielo, la tempesta e persino il crepacuore, e quanta vita possa ancora ella sopportare. Perché sogna e insiste nel sognare e immaginare mondi inesistenti e vorrebbe non dover neanche respirare, librandosi in volo come un “magico putto”, baciando un serafino in fronte, risolvendo l’enigma della vita col tagliare a qualcuno la gola o strappandogli il cuore. Rivolgendosi al nano, dichiarato già di una statura che non fa il paio con quella del suo sembiante ma solo per essere infinitamente maggiore, sembra dichiarare di essere trapassata ma ancora viva nella fiamma ardente di un amore che memorie ormai opache non sono tali da celebrare per la sua possanza e urgenza. E se il suo amato si aggrapperà alle sue ginocchia, udendo ancora il battito del cuore (immagine di sanguigno vitalismo e non tarlo della coscienza), allora non sarà un errore il pensiero di stringere in pugno il passato ormai morto… Altrimenti perché ci sarebbe dato ricordare? Ella si domanda chi sia, mentre il mondo corre e pare seminarla e il ragazzo di un tempo è ormai in età senile; si chiede cosa il futuro ha da riservarle e chi sia stato a dare la scintilla di creazione a questo immenso teatro di vita… Forse un Dio innamorato che ha lambito in bacio qualcuno che gli ha invece riservato amaro tradimento… Cosicché “l’amore senza Dio” ci ha scacciato tutti. Il seguito è serrato e brachilogico, una successione breve che disegna il rogo macchinato dal nano. Egli propone alla Maestà e ai suoi ministri un ballo in costume. Il suo suggerimento fa leva sullo spirito goliardico e volgare del re, insinuando l’idea che la messa in scena spaventerebbe e genererebbe scompiglio, assecondando così l’eccentricità che si conviene a un sovrano che tutto può solo per comando. Il giullare vendicherà così molti torti e torturerà i potenti vedendoli bruciare a morte.                                                                                       È il rovesciamento della statura apparente, è il far leva sull’inconsistente idiozia e pecoreccia volgarità di una corte di viziosi arrampicatori senza nerbo né morale, per consegnar loro la tortura e il marchio di fuoco di una vendetta che ristabilisce un ordine che appare perduto dacché si ha memoria. Il più piccolo e deriso, il più insignificante e angariato, usa l’ingegno e l’astuzia per far cadere in trappola il re e i suoi ministri con la compiacenza della loro smania di gaudio e sollazzo. Le parole che Tripitena aveva dedicato a Hop-Frog erano delicate e disegnavano una filigrana aurea e splendente di amore votivo, avevano invece tuonato feroci e lapidarie contro gli affaristi di corte e il re che incarnava un potere volgare fatto solo di guadagno e pochezza.                                        La parte finale dei testi di Lou Reed merita anch’essa una menzione, quasi che fosse il naturale continuo di questo episodio di vendetta e sovvertimento di regole simili a pesanti catene, e un epifanico avvento di giustizia vera e ragione incoronata di virtù; anzi, la virtù è la vera assente nella compagine regale, dedita al sudicio esercizio di mercimoni e speculazioni, così come moralmente decrepita e legata al vizio e alla dismisura dell’ego. La parte conclusiva cui accennavamo è la canzone L’angelo custode, dove recita un Poe giovane assieme a ogni altro personaggio che punteggia l’opera e nella quale è evocato l’angelo convocato al proprio capezzale da chi teme paura e solitudine, un angelo che dispensa e protegge dal male, un angelo che suggerisce che l’unico modo per rovinarsi è smettere di confidare in sé. Che ha sempre mostrato dove fosse il bene, tra tempeste perfide e tambureggiare di cristalli, alla destra di chi soffre e spera; e se l’istinto era in errore, questi suggeriva e correggeva.    Un angelo che mostra il sogno laddove è ben desto l’incubo. Per chi “vicino ai libri sotto le tazze da tè/ tiene una specie di inferno”, e per il quale panico e angoscia sono ospiti consuetudinari; per colui, infine, per il quale tutto è rifuso nelle immagini (di un simbolismo puntuale a icastico) che seguono: “il tappo di champagne – il gufo alla luce della luna/ un corvo e un’anatra/ la semenza di genitori in pena/ e del tuo amore che perde la speranza…”  Tutti sembrano avere un angelo che li protegge e veglia sui loro affanni e le loro speranze, così compenetrati da cambiare di volto gli uni con le altre, perché “Amore e fortuna hanno vite incantate/ e tutte le cose possono essere rivoltate” (e noi pensiamo a colpa/rovina e sollievo/trionfo, caduta e ascesa, al dominare e al soccombere, alla ragione più arrogante e al cuore più umile e grato, al sogno e all’incubo, alla statura apparente e a quella che cala l’ideale nel concreto, e tutte assieme che cozzano senza elidersi e danno fermento e vita al prodigioso spettacolo di una compagnia umana sospesa tra il sublime e la burla, tra il magnifico e l’infimo, tra le luci più fulgenti e le tenebre più mortifere, tra una virtù da “baraccone” ed una virtù inoppugnabilmente splendida). Ed è forse lecito ricordare, a questo punto, che ogni colpevole ha un testimone, se non altro in se stesso, e che una colpa orba a sé è la più esiziale delle menzogne. Ogni disegno ha una strada ma non tutto è giusto, non tutto risarcisce e sana, quasi niente è dato avere in amore, se non un sogno desto che si giustifica senza tregua, estenuanti sensi di colpa e perdizione che tambureggiano come un tell-tale heart sotto l’assito dell’anima. Perché l’ordito di Lou Reed ricalca le opere di origine simile a una cuspide di luce capace di brillare oggi di un’aura ancora veritiera; e ferisce a fondo “l’arroganza della mente” – al di là di ogni colpa riconosciuta o non riconosciuta. Ed è proprio la colpa nelle sue proteiformi sembianze ad attraversare queste notevoli riscritture, assieme a un’esistenza di ombra o una vita come una macchia tumescente che insiste in ciò che “non si deve” recando danno precipuamente a sé. Il resto è un canto ora sommesso ora corrusco e vitale di ombre, visoni e parvenze larvate che si agitano nel teatro di una vita sognante almeno quanto ferita. Come appare ne La caduta della casa degli Usher, per Roderick (come per ogni creatura sensibile fino al morbo di sé) che ha sensi così acuiti da mangiare solo cibi insipidi, indossare abiti impalpabili, essere abbacinato da una luce appena meno fioca di un cero, e trovare opprimente perfino il profumo dei fiori, il confine tra sanità e malattia, tra tara e superstizione è assai labile e la visione non è il prodotto di “fenomeni elettrici” niente affatto rari, ma la rima funerea e veridica col proprio rimosso, una voce che ascoltare può condurre alla follia ma alla quale non si può rinunciare senza rendere le proprie armi vinte persino al cospetto di sé; il nemico siamo noi, in definitiva, e  > “la mente capricciosa si confonde con il futuro che essa stessa prevede e si > ripiega su di sé con ribrezzo e terrore. Con la premeditazione e con il > semplice pensiero, siamo condannati a conoscere la nostra fine”. E nella “valle inquieta” di Roderick “non sono forse tutte le cose belle lontane?” Una valle dal fiume malato e i monti raggelati in un “rigor mortis” atavico e inappellabile, lontana essa stessa come il sole “allettato nell’orizzonte luminoso”, e dove egli, come l’occhio umano, “si è chiuso per sempre” colpevole di non udire il pulsare del cuore ma “solo lacrime di perfetto pianto”. Là un tempo regnava “Re Pensiero”, la cui arguta saggezza era cantata da voci di impareggiabile dolcezza, in un reame dove il vento portava fragranza di rari fiori e tutto era armonia e virtù sotto l’egida di un fiero emblema baciato dal sole – pressappoco così scriveva Poe –, e là regnano ora discordanti melodie, disordine e risa, ma mai pi un sorriso. Mai più. E “mai più” è la parola chiave che compare con ripetute anafore anche ne Il corvo, l’originale. Da sottolineare che la vetta, forse, di questa raffinata opera di Lou Reed, rimane proprio la  riscrittura della lirica Il corvo, sublimemente fastosa, di un linguaggio poetico prezioso e decadente, in carattere con l’originale e tale da evocare con potenza un canto funebre e plutonico che echeggia di assenza fino quasi allo smarrimento del confine tra ragione e distorsione onirica, e in cui il lutto è compenetrato all’amore… L’amore un grido di impossibilità (non solo fisica) di adempienza alle leggi sovrane di un cuore stregato. Massimo Triolo L'articolo “Le nostre sorti incatenate”. Lou Reed riscrive Edgar Allan Poe proviene da Pangea.
November 5, 2025 / Pangea
“Devi cambiare la tua vita”. Rilke di fronte al torso arcaico di Apollo
Molte cose può la poesia: consolare, cullare ma – più delle altre – anche comandare. Chi entra in un museo – in questo caso il Louvre, dove i capolavori vanno in carcere e gli dèi all’obitorio – per cercare il sollievo borghese dell’estetica in una placida contemplazione del “bello”, ha già tradito tutto. Si muove orizzontalmente, come un turista dell’assoluto, e non verrà mai toccato dalla lama. Perché l’arte che ispira davvero è padrona e non ancella, lo sa bene chi in una statua o in un testo ieratico non ci ha visto un parere o un’interpretazione ma un giudizio. Un giudizio divino che fissando dal suo abisso marmoreo spoglia chi lo osserva. Ecco Rainer Maria Rilke davanti il Torso arcaico di Apollo. Un pezzo di pietra a cui la barbarie del tempo ha amputato la testa, le braccia e le gambe; è rimasto il nucleo del torso, un blocco tellurico che ne contiene il cuore. Eppure, c’è chi in questo più che una mancanza, ci ha visto una potenza accresciuta, una folgore contenuta in quel petto mozzo di ogni arto. La critica si è arrovellata per decenni, producendo biblioteche di esegesi flaccide, tentando di addomesticare quella violenza finale traducendola in inoffensivo gergo psicologico, in un invito a essere “più buoni”, “più consapevoli”. Non volevano vedere nulla. Gli dèi dettano ordini, non suggerimenti, lo sa Rilke e certamente, lo sa anche Apollo. L’imperativo che chiude il sonetto – “Devi cambiare la tua vita” – è un decreto divino, non derubricabile ad un mite consiglio amichevole.  La prima fondamentale operazione che questo torso compie è un atto di iconoclastia sublime annientando il suo stesso volto. La testa, con la sua mimica delle labbra e con i suoi occhi che si dice siano ponte per l’anima, è stata decapitata. Ma non si tratta di una perdita, chiaramente è una purificazione che emenda Apollo della maschera dell’Io e di ogni teatro emotivo umano. Si tratta di emendare il corpo dal logos cerebrale, che tutto vuole spiegare e ridurre a concetto. L’assenza della testa permette al corpo di diventare esso stesso sguardo totale. Rilke osserva come il torso, anche sprovvisto di occhi, ha uno sguardo simile a una stella che osserva da ogni punto della sua superficie. Altrimenti, sarebbe una pietra deforme e monca, ma non lo è; è intera metafisicamente, prima che anatomicamente. Lo sguardo di Apollo non emana più da un centro, ma si irradia dall’intera massa. È uno sguardo panottico-somatico di una divinità che non si esprime più attraverso un volto umano, ma per mezzo della tensione pura della forma. Il marmo trasuda luce e brilla come un candelabro sacro, la cui energia interna preme contro i confini della pietra fino a farla esplodere di incandescenza. Questo è un dio apocrifo, che non ha nulla della ragione apollinea e che invece ha assorbito la potenza dionisiaca. Rilke legge il torso di Apollo in maniera verticale. L’uomo orizzontale consuma arte come consuma cibo, la giudica passivamente e la recensisce con aggettivi esausti senza lasciarsi ferire o accettarne i comandi. Il torso che descrive Rilke, invece, irrompe su questo piano e impone l’incontro con il sacro e con una bellezza che non ammette neutralità. Si è costretti a prendere una posizione per elevarsi o annichilirsi, ma il torso apollineo diviene in ogni caso un maestro di una ginnastica spirituale. Il museo trae in inganno l’osservatore: il torso non è lì per essere ammirato ma per essere imitato nel campo di battaglia della propria esistenza. L’imperativo “Du mußt dein Leben ändern”, l’enfasi è sulla parola finale che – in tedesco si lega ad andere, altro – chiede l’alterità, rendere la propria vita altro. Cambiare la propria vita è il fondamento di ogni ascesi e disciplina, di ogni aristocrazia dello spirito. È il comando che sente il monaco nella sua cella e che l’atleta percepisce nello spasmo dei muscoli, un richiamo all’ordine, alla forma e al rifiuto del caso informe della vita biologica. Vivere orizzontalmente significa subire la propria esistenza, fluttuare secondo le correnti delle passioni e delle mode. Vivere verticalmente significa imporre una forma alla propria vita e farne un’opera, significa – in altre parole – praticare. Fu Sloterdijk a cogliere questo nucleo nella poesia. Rilke stava promulgando la legge fondamentale dell’antropotecnica: l’uomo è l’animale che si auto-impone discipline sovrumane per non restare semplicemente umano. La storia della civiltà non è la storia del progresso sociale, ma la storia degli esercizi che gli uomini hanno inventato per costringersi a diventare qualcosa di più. Dallo yoga alla filosofia stoica, dalla maratona alla meditazione, la posta in gioco è sempre la stessa: creare una tensione verticale, che distanzi ciò che si è da ciò che si deve essere. Il torso apollineo è latore di questa etica feroce, accusa con la sua bellezza, ci guarda e ci vede flaccidi, informi e indulgenti con noi stessi. Ci vede annegare e nella sua perfezione muta, ordina di smetterla di lamentarsi e di opinare per iniziare, finalmente, a praticare. Scolpire la propria giornata come uno scultore scolpisce la pietra. Imporsi un rigore affinché la morale non sia volgarmente intesa come un catalogo di divieti, ma come un’estetica della condotta. Il bene non è ciò che è giusto, ma ciò che ha forma. Rilke mette in pratica una controrivoluzione spirituale riconoscendo nell’opera d’arte una forma autocratica che esige obbedienza. Il suo messaggio è un imperativo estetico: la propria vita, così com’è, è inaccettabile. È un’opera mancata, insufficiente ed amorfa. Ora che si è stati visti, trafitti dalla luce del dio, non ci sono più alibi. Ciò a cui il poema chiama, in ultima istanza, è il superamento della sterile dialettica tra Apollo e Dioniso, ordine e caos, una dicotomia che ha nutrito la filosofia occidentale da Nietzsche in poi. Il Torsonon è semplicemente apollineo nella sua perfezione formale. Al suo interno, come nota Rilke, la pietra “flimmert… wie Raubtierfelle”, scintilla come pelle di belva, e il suo potere è pronto a straripare da ogni suo contorno. Questa non è chiaramente la fredda geometria del dio del rigore. È una forma che a stento contiene un’energia selvaggia e primordiale. L’Apollo che osserva Rilke è un punto di fusione tra la disciplina più rigorosa, la perfezione di quel torace sospeso, ed una vitalità sfrenata contenuta al suo interno, un dio che non ha mai essenzialmente abbandonato la statua che abitava. Questa è la tirannia benefica dell’Oggetto, Rilke mette in atto una sovversione gerarchica: non è lo spettatore a guardare l’opera, ma è l’opera che lo plasma. L’unica risposta degna a tale Epifania è la scelta di un’ascesi. Il torso non ha più il volto perché ora il suo volto è il nostro, e ci chiede cosa ne stiamo facendo. Tutto il resto è intellettualismo, e l’intelletto oggi più che mai, non serve a nulla. “Non conoscevamo il suo capo inaudito in cui maturarono i pomi oculari. Ma il suo torso ancora arde come un candelabro, dove il suo sguardo, ormai scorciato, si conserva e risplende. Non potrebbe sennò la curva del suo petto abbagliarti, e scorrendo la torsione delicata dei lombi non riuscirebbe un sorriso a posarsi su quel luogo centrale cui spettava la procreazione. Sarebbe sennò deforme questa pietra e corta sotto lo spiovere invisibile delle spalle, e non tremolerebbe come pelo di belva feroce; e non irradierebbe da ogni suo contorno come una stella: perché non v’è punto qui che non ti veda. Devi cambiare la tua vita.” Andrea Falco Profili L'articolo “Devi cambiare la tua vita”. Rilke di fronte al torso arcaico di Apollo proviene da Pangea.
November 5, 2025 / Pangea
“Canterò cose che nessuno ha mai visto”. Keith Douglas, un poeta in guerra
Probabilmente, è bene cominciare dalla fine.  Il ragazzo decide di partecipare allo sbarco in Normandia. Mobilitato in Nord Africa, chiede ai superiori di essere impiegato durante il “D-Day”. Il ragazzo ha i grandi di capitano, l’ostinato desiderio di essere al ‘centro della Storia’. Tre giorni dopo lo sbarco, è il 9 giugno del 1944, il suo reggimento si impantana a Tilly-sur-Seulles, piccolo borgo del Calvados – ad oggi, supera di poco i mille e cinquecento abitanti. Il ragazzo – abile nel disobbedire, desto nel prendere l’iniziativa – sbarca dal suo tank, avanza in ricognizione solitaria. Un colpo di mortaio lo ammazza. Il cappellano del reggimento, il capitano Leslie Skinner, lo seppellisce alla buona, presso una siepe. Più tardi, sedata la guerra, i resti del ragazzo vengono sepolti nel cimitero militare di Tilly-sur-Seulles: lotto 1, fila E, tomba 2. Il ragazzo si chiamava Keith Douglas. Poeta.  Destino infero quello dei poeti della Seconda guerra. Ce ne sono stati tanti, eccellenti – pensiamo, alle nostre quote, al Diario d’Algeria di Vittorio Sereni, oppure a Fogli d’Ipnos, la raccolta del poeta ‘resistente’ René Char, tradotta guarda caso da Sereni – eppure è stato il reportage, il documentario ‘in diretta’; è stato il cinema a dire, con sicurezza definitiva, la Seconda guerra. Al contrario, la Prima guerra è stata una sorta di ‘laboratorio’ per la poetica del nuovo mondo, dei tempi nuovi: lo dimostra – in Italia – la quantità eccezionale di repertori antologici (Vallecchi editava una straziante Antologia degli scrittori morti in guerra; va visto, in particolare, l’“Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale”, Le notti chiare erano tutte un’alba, ideata da Andrea Cortellessa per Bompiani nel 2018). La nostra poesia ‘moderna’ nasce in trincea, con Giuseppe Ungaretti.  È come se la Seconda guerra, per sovrabbondanza d’orrore, non possa essere narrata: dev’essere subita, a operare nei recessi dell’anima, quando non vista (tradotta in film, anatomizzata nei reperti documentari). Nel mondo inglese, così, per “War Poets” s’intendono, in particolare, i Poets of the First World War, quelli gloriosamente onorati nel “Poet’s Corner” a Westminster, tra Shakespeare e Lord Byron, tra Chaucer e Dickens (tra gli altri, Rupert Brooke e Isaac Rosenberg, Wilfred Owen e Robert Graves; per un approfondimento, si veda l’antologia War Poets. Nelle trincee della Prima guerra mondiale, costruita da Paola Tonussi per le Edizioni Ares nel 2022). Dei poeti della Seconda guerra si fa memoria occasionale – spesso ci si dimentica di loro, sepolti da un disastro incomparabile, tacito accordo sull’ineluttabile irresolutezza dell’arte, della poesia di fronte alla morte.  Nato nel gennaio del 1920, Keith Douglas morì che aveva da poco compiuto ventiquattro anni. Dalla sua poesia esala la facondia immaginativa, la complessità della ‘scena’ e delle scelte lessicali, un certosino distacco nel vegliare sui fatti di guerra, che al posto di idealizzarsi in muta indifferenza esalta una tenuta, una postura poetica in grado di estrarre il dettaglio al diamante dal nulla bellico. Nato nel Kent, Douglas studiò al Christ’s Hospital mettendosi in luce sia per il talento, esagitato, che per l’animo, poco disposto a subire i rigori dell’educazione britannica. Pubblicò le prime poesie sedicenne; decise di arruolarsi perché pensava che la guerra fosse il ‘grande argomento’ della letteratura del suo tempo. Fu disciplinato nel Derbyshire Yeomanry, praticò al Cairo e in Palestina, partecipò – anche lì, per ardimento: non voleva più servire per lavori d’ufficio – alla Seconda battaglia di El Alamein: guidava un carro armato. Il suo superiore era il colonnello Edward O. Kellett, che sarebbe stato ucciso l’anno dopo, in azione, in Tunisia. Di quell’esperienza, Douglas ha lasciato un memoir, Alamein to Zem Zem, pubblicato da Faber, introdotto da Lawrence Durrell.  Nella scelta di arruolarsi di Douglas agì anche la situazione familiare. Figlio di un militare in congedo, con cui aveva pessimi rapporti, Douglas crebbe, in sostanza, solo, in collegio. La madre collassò in un’encefalite letargica grave; il padre mollò la famiglia, risposandosi, che Keith aveva dieci anni.  In molti riconoscono in Keith Douglas i prodromi del grande poeta, il cupo carisma dell’inattuato, dell’inespresso. Fu Edmund Blunden, il poeta veterano di guerra – per altro, ricordato nel “Corner” –, più volte nominato al Nobel per la letteratura, a riconoscere in Keith Douglas la stazza del talento puro. Nel 1938 inviò una scelta di sue poesie a Thomas S. Eliot, che le apprezzò. Il ragazzo era giovane, i fatti precipitarono. I Collected Poems di Keith Douglas vengono stampati da Faber nel ’46, con un’introduzione di Blunden. A quella seguiranno diverse altre edizioni: la più nota – Selected Poems, 1964 – è introdotta da Ted Hughes, che ha sradicato Keith Douglas dalle malie del ‘poeta di guerra’, utile a fini non soltanto estetici, “è la sua poesia, in generale, a serbare un valore unico, che rende il poeta più vivo che mai”. Tese tra le stelle e il cadavere, le poesie di Keith Douglas irrompono in noi con corvina tenerezza – come incisioni sulle ossa.   *** La Bestia Meraviglia Barone dei mari, il grande pesce spada dei tropici, straziato sul famelico ponte dove i marinai lo hanno ucciso nel paradisiaco Pacifico: lama che indaga occhio che fugge e stana la preda nei regni oscuri dov’era re; arma forgiata nella semi-tenebra, eppure, strappata dal cadavere di questo estroso viaggiatore, è una lente d’ingrandimento che riflette l’inusuale zampillo del sole. Con quella lama un marinaio incide sul legno il nome di una prostituta abbordata  nell’ultimo porto. È uno degli strumenti più strani custoditi dalle onde –  suppongo che la querula voce dei marinai marciti in spettri digeriti dalle ingorde maree potrebbe descriverne molti.  Che siano i vostri ospiti, che vi conducano negli abissi dove brucano i loro vascelli dimenticati – che tutto risorga nell’occhio  che arde. Per incidere quel verbo, il sole perfora la potenza del mare e urla il suo nome, omaggia quella meraviglia.  Linney Head, Galles, 1941 * Come si uccide Sotto la parabola di una palla un bambino diventato uomo fissa l’aria troppo a lungo. La palla mi è caduta in mano, canta nel pugno chiuso: Usami Usami sono un dono ideato per uccidere.  Ora nel mirino vedo il soldato che sta per morire. Sorride, si muove nei modi che solo sua madre conosce.  Fili sul suo viso: è l’ora in cui piango. La morte è il mio  più intimo familiare e muta  in polvere un uomo di carne.  Ma questa è la mia stregoneria. Sono un dannato, amo ammirare il centro dell’amore spalancarsi e un’onda di amore vagare nel vuoto.  È così facile creare un fantasma. La zanzara, leggerissima, tocca la misera ombra sulla pietra: con quanta, infinta tenerezza l’uomo e la sua ombra si incontrano. Si fondono. L’uomo è un’ombra  e le zanzare obbediscono alla morte.  * Fioriture nel deserto Soltanto i fiori proliferano nei paesaggi selvaggi –  ripeto soltanto ciò che stavi dicendo, Rosenberg –  la conchiglia e il falco ad ogni ora uccidono uomini e gerboa, uccidono la mente: ma i corpi possono soddisfare gli affamati fiori e i cani che gridano come  uomini, di notte, la cosa più dura di tutte. Ma questa non è una novità. Ogni volta che la notte lancia stracci sugli occhi, lascia la mente desta, guardo ai lati della porta del sonno cerco la piccola moneta necessaria  per comprare il segreto che non saprò mantenere. Vedo uomini che soffrono come alberi confondono i dettagli e l’orizzonte. Metti la moneta sulla mia lingua  canterò cose che nessuno ha mai visto.  * Vergissmeinnicht Tre settimane dopo i guerrieri erano spariti: tornammo su quel campo da incubo – il soldato era  ancora lì, disteso, incubato dal sole.  All’ombra della canna del suo fucile. Avanzavamo quel giorno e lui colpì il mio carro come  se fosse la mascella di un demone. Guarda. Qui, nella trincea dirupo la fotografia disfatta della sua donna: ha scritto Steffi. Vergissmeinnicht con una calligrafia gotica perfetta.  Ci sembra felice, ormai degradato, deriso dalla sua stessa divisa così dura e superba quando il corpo è in decomposizione. Ma lei piangerebbe, oggi, nel vedere le mosche che si muovono oscure sulla sua pelle, la polvere sull’iride di carta, lo stomaco squarciato come una grotta. Perché qui amante e assassino sono lo stesso, hanno un solo corpo e un solo cuore. La morte che ha eletto quel soldato ha avvelenato con un male mortale l’amante.   * Stelle (Per Antoniette) Le stelle marciano ancora, in ordine sparso da nulla a nulla. Guardatele, sono immobili sul campo notturno, autentica terra di nessuno. Lì, lontana, con spada e cintura, dev’essere Orione. Per i commissari di questa guerra da esaltati è il Carro. Nessuno favoloso confine può annientare il loro coraggio, nessuna banda le sfiderà: soltanto la disciplina le ha mobilitate e le mantiene vive. Così  le hanno viste il Tempo e i suoi avi. Così  combattere il disordine è il loro compito e la vittoria persiste nelle loro mani.  Dal limite delle vecchie colline fino a quelle pianure, laggiù, si estende  il loro accampamento. Gli eterei ufficiali salutano, da tenda a tenda, i messaggeri  cometa. Guardiamo in alto, con dolore a quei compagni lontani, quelle plaghe  che non possiamo calpestare.  1939 * Canoa  Questa potrebbe essere la mia ultima estate e non voglio perdermi nulla del piacere che dona l’antica arte  dell’ozio. Non mi lascio terrorizzare dal destino che aleggia sullo sfondo mentre l’erba e le case e il fiume insonne credono di poter durare per sempre e si scambiano sussurri sommessi –  impera l’afa. Quale terribile fato potrà  impedire alla mia ombra di vagabondare da queste parti il prossimo anno? Fischia: ti sentirò e verrò, a sera, sulla stessa barca con cui vai verso Iffley mentre fissi il cielo in attesa del tuono che come una campana preannuncia  pioggia – il mio spettro ti sfiorerà le labbra.  Keith Douglas L'articolo “Canterò cose che nessuno ha mai visto”. Keith Douglas, un poeta in guerra proviene da Pangea.
November 4, 2025 / Pangea
“Il bosco reclina il capo come un toro ferito”. Una poesia di Octavio Paz
Sono giorni pieni di pensieri, questi ‒ e di riflessioni. Sono giorni di decisioni, che comportano rinunce. Non ho ancora toccato il fondo, e spero non accada mai. Ma se dovesse succedere, che tutto sia sincero, violento: che tutto esploda nel tremendo terribile istante. Ecco, di me, un’altra forma di nostalgia che ancora non conoscevo, la mestizia del non poter più fare molte cose, e di non poter vedere lei quanto vorrei: il mio amore… Motivi seri, importanti, sgretolano i sogni, e mi vincolano nella città di periferia… Seduto alla scrivania della stanza-studio, seduco le parole, ne rovino gli anfratti, rimango ferito. È il mio spazio di resistenza, questo. Qui, sono intoccabile. Allora, solo alla poesia m’appiglio; ai versi di Octavio Paz. Ed essi sono lo specchio di chi come me ‒ oggi, ora ‒ vorrebbe ma non può. Verranno tempi migliori, forse ‒ che frase banale!  Leggo. Ecco accontentato il mio tormento. Non sono che urlo. (Giorgio Anelli) TEMPORALE Nella montagna nera il torrente delira a voce alta A quella stessa ora avanzi tra precipizi nel tuo corpo sopito Il vento lotta al buio col tuo sogno boscaglia verde e bianca quercia fanciulla quercia millenaria il vento ti sradica e trascina e rade al suolo apre il tuo pensiero e lo disperde Turbine i tuoi occhi turbine il tuo ombelico turbine e vuoto Il vento ti spreme come un grappolo temporale sulla tua fronte temporale sulla tua nuca e sul tuo ventre Come un ramo secco il vento ti sbalza Nel tuo sogno entra il torrente mani verdi e piedi neri rotola per la gola di pietra della notte annodata al tuo corpo di montagna sopita Il torrente delira fra le tue cosce soliloquio di pietre e d’acqua Sulle scogliere della tua fronte passa come un fiume d’uccelli Il bosco reclina il capo come un toro ferito il bosco s’inginocchia sotto l’ala del vento ogni volta più alto il torrente delira ogni volta più fondo nel tuo corpo sopito ogni volta più notte Octavio Paz L'articolo “Il bosco reclina il capo come un toro ferito”. Una poesia di Octavio Paz proviene da Pangea.
November 4, 2025 / Pangea
“Azzurra fiera”. Inseguire Georg Trakl nel suo allucinato andare tra sogno e veglia
Qualcun altro per lui ha seminato bene crepuscoli. Sotto lo sguardo vigile di Cerbero, vendemmia grappoli di tenebra nei suoi occhi prima ancora che nel cielo. Al ritmo di un precipitare, dà coordinate esatte alla disperazione.  Grodek, 1914, novanta commilitoni squarciati nella carne e nell’anima che chiedono sollievo e l’inutile perché di una guerra: troppo esili le sue spalle per farsi carico di quel dolore, solo e senza farmaci – non resta che spingere la prosodia fino alle porte dell’Orco per strapparla un’ultima volta alla sua morsa. C’è Grete, “oscuro amore/ d’una selvaggia stirpe” e solo per questo casa vuol dire ancora qualcosa. Compagna di sangue e di abisso; sorella di un’innocenza che hanno perduto insieme, mano nella mano. Distilla bagliori autunnali in punta di dita, come “oro di stelle cadute” (Al fanciullo Elis).  Si cammina in giorni bui come nei boschi fitti – che riparo c’è, dove –, nella stagione signora del freddo e delle foglie ingiallite, non si capisce, nel tempo che impiegano a cadere dondolando, se la musica muta che le muove è giuramento di una prossima, lontana rifioritura o memoria volatile di un verde irripetibile. L’eterno, ciclico incedere pare spezzarsi e le pupille inchiodano un tramonto dove anche Dio, per un istante tutto umano, si raccoglie in solitudine al termine della battaglia quotidiana col poeta. L’orlo di un bicchiere di vino promette naufragi di porpora per domande troppo oscure, mentre il sambuco tace e “presto s’annideranno stelle nelle ciglia dell’estenuato” (L’autunno del solitario). Georg Trakl, nato dipartito. Con perizia di aruspice indaga le viscere del mondo, in un allucinato andare e tornare tra sogno e veglia ma sempre verso sé stesso, come scrive in una lettera ad Irene Amtmann. L’amico fraterno Karl Kraus, il bianco pontefice della Verità in una poesia a lui dedicata, non comprende del tutto come Georg possa vivere. E infatti, come si vive quaggiù non essendo di quaggiù? Sempre straniero in questa distesa sublunare che lacrima sangue nel clamore delle armi, dentro il quale tutti gli orizzonti cortissimi dell’eclissi del sacro cadono uno dopo l’altro, anche loro come soldati.  L’indigenza dell’arrischiato, scritta con la calma dei passi inesorabili, è la frantumazione del centro. Schegge di uno specchio rotto, le immagini familiari (la casa, un vecchio album di famiglia, il padre, la madre, etc…) sono ombre e volti di pietra; tutte le cose, dice Trakl, tacciono mentre gli enigmi dell’anima si sottraggono ad una chiarezza.  Nella poesia di Trakl – secondo Angelo Lumelli giocata tutta contro le aspettative del discorso – il poeta raccoglie e accoglie come compagnia, lungo la strada della parola, fantasmi, cioè silenzi che non redimono le domande più ostinate, rinunciando a scioglierle in risposte comode ma fragili. Sacrifica la tentazione di dire l’indicibile e per questo apre varchi ad azzurri diversi da quelli del pensiero.  […] Sotto cupi abeti due lupi mescolavano il loro sangue in abbraccio pietroso; d’oro si perdeva la nuvola sul varco, pazienza e silenzio dell’infanzia. Di nuovo s’incontra il tenero cadavere  Sullo stagno del Tritone Assopito nella sua chioma di giacinto. Oh finalmente s’infrangesse il fresco capo! Ché sempre segue, azzurra fiera,  un occhieggiare tra ombre crepuscolari d’alberi, questi varchi più bui vegliando e mossa da notturna armonia, dolce delirio; o suonava di oscura estasi piena la musica ai freschi piedi dell’espiatrice nella città di pietra.  Cosa va distruggendo in poesia, mentre tocca ad una “fiera azzurra” la custodia dell’”armonia degli anni spirituali” (Declino dell’estate)? Qui disperazione non è semplicemente sprofondare; è il tentativo di recuperare la durata, di strappare la vita alla marcescenza dell’epoca.  Ogni grande poeta va capito nel paradosso. Proprio perché si sottrae alle allodole del discorso, Trakl non canta la morte, ma dice, sanguinando, dunque proprio morendo, la vita. Al piano di sopra, noi che non siamo poeti e crediamo di essere al riparo dei paradossi, dei loro agguati, chiamiamo vita quest’andatura più o meno ordinata, regolare, ignari che c’è un poeta, proprio dove non osiamo scendere, pronto ad ingaggiare per il troppo amore quel duello decisivo contro il sole falso che abbiamo posto a misura dei nostri destini traditi. Sui passi di quella fiera azzurra, torna il poeta verso la sua infanzia, verso sé stesso con sfrontatezza da angelo caduto.  III Voi grandi città innalzate di pietra Sulla pianura! Così muto segue  chi non ha patria con oscura fronte il vento, alberi spogli sul colle. Voi correnti che lontane albeggiate! Potente affanna  orrore d’un tramonto  nei nembi della tempesta  Voi popoli morenti! Pallida onda  che si rompe alla spiaggia della notte, cadenti stelle.  (Occidente) (I versi citati sono nella traduzione di Leone Traverso) Livia Di Vona L'articolo “Azzurra fiera”. Inseguire Georg Trakl nel suo allucinato andare tra sogno e veglia proviene da Pangea.
November 3, 2025 / Pangea
Solitario, filosofo, cristiano. Note su Giacomo Casanova
Ho sempre trascurato se non, meglio, snobbato il nome di Giacomo Casanova, ritenendo la pur celebre Histoire de ma vie, l’unica opera sua conosciuta anche dai non specialisti, soltanto una delle tante memorie del Settecento, che poco o più tosto nulla avrebbero potuto nutrire chi come me si occupava con pretese e ambizioni di cultura europea. Non andai nemmeno a curiosare, né pigliai alcun appunto, quando, molti anni fa, lessi, non ricordo più dove, una pur curiosa allusione per cui nell’Histoire l’autore avrebbe riferito di una sua esperienza mistica coincidente con le classiche del genere. Era la forza del pregiudizio coartata da, mi sarei accorto, leggende e vaniloqui anche e sopra tutto di intellettuali, come sempre informatissimi e autorevoli. Ebbi poi quello che sarebbe stato, senza ch’io lo potessi presagire, l’ultimo e sereno colloquio con l’amico d’oltre diciassett’anni, alquanto noto a chi bazzichi librerie, il quale mi avrebbe di lì a pochissimo giocata un’infilata di delusioni a freddo tale da imporre una drastica e irricomponibile rottura. Mi parlò delle memorie, e proprio mentre stavo sondando il secolo di Casanova. In quelle pagine, mi disse, oltre a molto spasso, troverai biblioteche di notizie sul Settecento in ogni suo aspetto. Se dell’uomo, come avrei scoperto, non c’è da fidarsi, dello studioso in massima parte sì; sicché mi procurai in breve la traduzione – Storia della mia vita – di Piero Chiara e Roberto Fertonani, stampata nei ‘Meridiani’, che trovai nuova a un prezzo vantaggiosissimo, e sùbito la attaccai. Sarebbe assai presto venuto il giorno di un biasimo contro Chiara e il suo allora famiglio, che ancor dura; all’epoca l’introduzione dello scrittore italiano fu però un ottimo abbrivio, che m’ingolosì più di quanto non avesse fatto la chiacchierata col mio primo informatore. Restavano tuttavia sprazzi di diffidenza, che sperai di veder dileguare: e fu quanto accadde dopo le primissime pagine. Fui sùbito risucchiato in una vertigine di stupefazione, che si dilatava e accelerava. A ogni pagina ogni singola voce giuntami su Casanova dai soliti autorevoli commentatori e intellettuali, veniva sbugiardata, inchiodata alla sua mendacità, al suo pressappochismo, depistaggi e fraintendimenti erano svergognati. Che cosa avevano letto? Come lo avevano letto? Nulla del gabbamondo, del lestofante, del vago predone d’alcove, dell’avventuriere propalato resta all’inpiedi se solo si legga quell’autobiografia. La figura emergente dalla Storia è di un essere umano che ha vissuto nella sequela, afferma egli stesso, della Divina Provvidenza e che presenta sé stesso, sin dai primi rintocchi, quale cristiano e filosofo. E se si può discutere del suo cristianesimo (un cristianesimo a ogni buon conto certo assai più cristiano di quello di tanto sedicenti praticanti cristiani d’oggidì), bisogna in vece senz’altro concedere a Casanova lo statuto di philosophe, senza tuttavia le imposture le ossessioni e i pregiudizii della più parte di quelli. Egli bensì annette all’Histoire le avventure – così come, si badi, le disavventure, e molte – muliebri, ma il racconto non è mai fine a sé stesso. Casanova non scrive per vantarsi delle sue conquiste (peraltro non moltissime: altro dato da scoprire) o per amore di riferire storie pruriginose con cui accalappiare il lettore e perché altro non ha da dire, altro non pensa, come un qualsiasi Alberto Moravia. Le intenzioni saranno anche per l’amore dell’avventura e di una certa libertà che s’andava reinventando in quel secolo, ma sono funzionali a una visione del mondo, appresa vivendo, anche a traverso i rapporti con le donne. Casanova si dimostra un filosofo raffinato e costante, osservatore acutissimo e disinteressato di città e uomini, e tra i maggiori cronisti dell’epoca sua e non soltanto. Un uomo e uno scrittore paradossalmente inediti dunque riescono dalla Storia, benché questa sia stampata a chiare lettere e secondo le intenzione dell’autore sin dagli anni Sessanta del XX secolo. Ìndico questa data giacché per circa un secolo e mezzo le memorie circolarono in versioni appositamente corrotte e mùtile, come ne rende conto Chiara in più contributi. Non possiamo soffermarci sui dettagli. Questo rapido intervento serve soltanto a lanciare una «grida», per dirla con Manzoni, che suoni la sveglia ai molti, troppi pseudolettori di Casanova e a chi ancòra lo trascuri. Le relazioni con le donne sono state ridotte a manifestazioni priapesche e ossessive ma che sono in vece istruttivissime, tra il molto altro, per una più completa e veridica intelligenza sia delle femmine tout court, sia dei rapporti tra i due sessi nel XVIII secolo, anche a pieno Antico Regime. Le femministe e i femministi spregiatori dell’epoca prerivoluzionaria si vadano a leggere, a esempio, quanto sottomesse al “patriarcato” fossero le donne! Fa di poi sorridere che proprio taluni studiosi casanoviani – categoria assai numerosa e, va detto, nonostante tutto spesso giovevole – mentre bestemmiano a ragione sulle contraffazioni cui accennai, altro non seguitino a fare che a rimasticare le solite stracche e stucchevoli mezze verità e fandonie sul Veneziano e su quel secolo. Ed è credo proprio a cagione d’una completa distorta percezione propalata come verità storica e biografica, che da mesi l’anniversario dei trecento anni della nascita è stato ignorato. Nemmeno la massoneria, che non perde mai occasione di farsi vanto d’aver avuti nelle sue fila personaggi illustri, a quanto mi consta s’è spesa per il suo ex confratello. Ma oltre al disprezzo per il presunto trattamento riservato da Casanova al genere femminile, ci sono due altre radici della menzogna e dell’oblio. Ho accennato alla prima, o sia la professione di cristianesimo, per di più cattolico, colpa non perdonabile dagli stinti eredi di Robespierre o di Voltaire. A ciò si aggiunga l’irrefrenabile schifo e orrore nutriti da Casanova per la rivoluzione francese. Fu complice nella rimozione e nella distorsione esser la Storia escita proprio negli anni, già detti, in cui in Italia e in Europa si stavano caricando i cannoni a letame del Sessantotto, del quale ancor godiamo, rimmarciti, i frutti: abitudini, protervie, ottusità, professori, giornalisti, continuatori, imitatori. Giacomo Casanova non è territorio da annessione, per nessuno, se non a traverso la corruzione. Egli si staglia solitario in tutto il Settecento e nell’intiera storia europea, con la sua nudità di figura unica, forse davvero la sola sciolta autonoma libera. Suggerisco al lettore volenteroso e curioso di farsi da sé il suo Casanova sguazzando nella Storia e nelle altre splendide opere. Dopo, se vorrà, quando sarà immunizzato, potrà approfondire con la critica e le biografie, che per il momento è meglio lasciare sugli scaffali. Arriverà prima o poi, mi àuguro, chi voglia mettere la casa in ordine, fare a Casanova – una casa nuova. A cominciare magari dalla stanza da letto. Luca Bistolfi L'articolo Solitario, filosofo, cristiano. Note su Giacomo Casanova proviene da Pangea.
November 3, 2025 / Pangea