Nel 1904, per “La Nuova Rassegna” di Firenze, Ettore Allodoli scrive un ispirato
profilo di Thomas Chatterton. Con l’acribia del critico, Allodoli tenta di
scindere il mito dall’uomo, la leggenda dall’opera. Impresa, per lo più,
vana. Thomas Chatterton, il poeta morto per scelta neppure diciottenne, aveva
finito per incarnare l’idolo del genio ribelle alle coercizioni della società,
l’artista incompreso, umiliato. Era una specie di Werther, rinnovava i caratteri
del puer virgiliano – parola che redime i mondi –, è stato il ragazzino giunto a
sconvolgere la scena lirica del proprio tempo, dominata da poeti ipocriti, da
piumati, spumeggianti lacchè.
Icona triste, notturna, già totalmente ‘romantica’, dalla giovinezza
lunare, Thomas Chatterton rischiò di essere il Rimbaud della poesia inglese – la
morte fu per lui una sorta di infernale Harar. Non ci riuscì perché l’epoca –
per usare una formula di Antonin Artaud – aveva scelto di suicidarlo. Così, il
giovane Allodoli – aveva poco più di vent’anni: amico di Giovanni Papini, sarà
Accademico d’Italia, critico infaticabile e biografo, tra i tanti, di
Michelangelo, Savonarola e Giovanni dalle Bande Nere – riporta il ragazzo al suo
vero, pionieristico ruolo: il precursore di Keats, Shelley e Byron, nei toni
poetici e nella postura del vivere (dissennata: per eccesso di vitalismo come
d’intimismo). Ce lo descrive “ambizioso e orgoglioso” fino alla mania –
“l’orgoglio gli ottenebrò la mente e lo fece sviare nei suoi ragionamenti e
nelle sue riflessioni” –, grave di “generosa baldanza” e “indipendenza di idee”.
Anche il critico, tuttavia, non può non impuntarsi nel mito, dalle oscurità
elisabettiane:
> “ritiratosi dalla vita brillante presso un fabbricante di manifatture in
> Brookstreet nelle vicinanze di Londra, visse alquanto in silenzio finché un
> giorno, dopo avere orgogliosamente rifiutato un pranzo che il padrone di casa
> gli offriva, la fame, le delusioni e la disperazione lo costrinsero ad
> uccidersi. Quasi nessuno parlò della sua morte e il suo corpo fu sepolto nella
> fossa comune”.
Alla dissipazione del corpo seguì la resurrezione del corpus: ci si accorse –
troppo tardi – di essere al cospetto di un talento selvatico, dall’opera
esondante, un Niagara, capace di passare, con aggressivo agio, dal poema
cavalleresco alla scena ‘da camera’, dall’idillio alla satira, violenta. Non so
se la solitudine ricercata, la sovrabbondante ira, la frustrazione abbiano
favorito o stravolto l’opera di Chatterton: ancora oggi egli è l’autentico
rivoluzionario della poesia inglese, ignifugo alle mode critiche e alle
stagionali rivalutazioni. Se William Blake, per dire – per effetto, è ovvio, di
una agghiacciante singolarità – è diventato un idolo, Chatterton resta nel volgo
dei vampiri, a ruminare tra le ombre: per sempre insoddisfatto, non ci dà pace,
ci dà di morso.
Luigi Berti – tra i rari che abbiano tentato di tradurre Chatterton nella nostra
lingua – credette di trovarsi al cospetto di un genio ingenuo, di un rebus, in
fondo (“Chatterton ci ha lasciato due volumi di versi e certi critici vi hanno
veduto anche un’evasione immaginativa di rara potenza, altri ancora uno stato
morboso che lo spingeva a crearsi un mondo d’immagini e di musica in cui la
morte era regina”, in: I preromantici inglesi, Guanda, 1964); scrisse che se
fosse vissuto di più, chissà, “sarebbe stato tra i più forti poeti preromantici
e forse anche tra i maggiori del suo tempo”. Al tempo di Allodoli – che costella
il suo saggio di qualche traduzione, qua e là –, i ragazzi mandavano a memoria
le poesie di Chatterton rimpinguandosi della sua leggenda: il poeta incompreso,
il poeta ribelle, l’uomo che ha scelto di vivere poeticamente, fino alla
tragedia. La frase con cui Allodoli chiude il saggio – “pensando al diciottenne
poeta, noi ci sentiamo turbati come dinanzi a qualcosa di straordinario” –
dichiara il destro di una poetica: il poeta è sempre fuori dall’ordinario, non
si lascia intimidire dalle norme stantie della storia dell’arte; il poeta è il
perturbante.
Henry Wallis, The Death of Chatterton, 1856
Fresca, d’altronde, era l’impressione di Chatterton, l’opera lirica di
Leoncavallo andata in scena al Teatro Drammatico Nazionale di Roma nel marzo del
1896. Il libretto era tratto dalla drammaturgia del 1835 di Alfred de Vigny, tra
le sue più grandi. L’introduzione dello scrittore – Dernière nuit de travail –,
di fatto, fa di Chatterton un monito e un mito ‘universale’.
> “La mia causa è il perpetuo martirio del poeta, la sua perpetua immolazione –
> La mia causa: il diritto che egli viva – La mia causa: il pane che non gli
> diamo – La mia causa: la morte che è costretto a darsi”.
A De Vigny non importava l’opera di Chatterton, poeta solare pur nella sua
disperazione, ma l’epopea del “criminale davanti a Dio e davanti agli uomini,
dacché il suicidio è un crimine religioso e sociale”. Ne fa il sovrano
dell’angoscia, il prototipo del suicidato dalla società – “Quando un uomo muore
in questo modo possiamo parlare di suicidio? È la società che lo ha gettato
negli inferi” –, l’erma di un sopruso che tutto mette in discussione:
> “Il Poeta era tutto per me; Chatterton non era che un nome; ho deliberatamente
> messo da parte gli esatti fatti della sua vita per prelevare da quel destino
> ciò che lo rendeva un esempio per sempre deplorevole di una nobile miseria. I
> tuoi compatrioti ti dissero bimbo meraviglioso! Giusto o meno che fosse, eri
> infelice; ne sono certo, e mi basta. Anima desolata, povera anima diciottenne!
> Perdonami se ho preso come un simbolo il nome che hai portato su questa terra,
> e in tuo nome aver tentato il bene”.
Il cadavere di Chatterton, pari a un burattino, si prestò a essere manovrato da
molti, travestito dai tanti. Il suicidio tramutò l’esistenza di un irregolare in
quella di un reietto dell’assoluto. Caso singolare in cui una vita, malridotta,
ha vampirizzato l’opera.
In realtà, scevra dalla gigantografia leggendaria, la burrascosa esistenza di
Thomas Chatterton si muove attorno ad alcuni, miliari, elementi. Nato a Bristol
il 20 novembre del 1752 – quasi un secolo dopo, il 20 ottobre del 1854, nasce,
pure lui in provincia, quell’altro “ragazzo meraviglia”, Arthur Rimbaud: nella
genuflessione del genetliaco, lievemente obliquo, c’è anche la sostanziale
differenza di statura lirica, ma non di carisma – Chatterton subisce, da subito,
lo stigma della perdita. Il padre, che si chiamava come il figlio – biblica
surplace, la saggezza del sangue – muore pochi mesi prima della sua nascita, in
agosto: musico mediocre, poeta per dire, per diletto praticava l’occultismo.
Thomas cresce con la madre, insegnante di cucito e di ‘ornato’: di suo, acuisce
un’indole alla solitudine, alla lettura disordinata. Da bambino, faticava ad
apprendere l’alfabeto, lo consideravano alla stregua di un idiota. La scuola –
frequentata a Bristol – lo infastidisce, come, in generale, le gerarchie
dell’ordine costituito e i fatui giochi dei suoi compagni. Mitizza, invece, i
meandri della chiesa di St Mary Redcliffe, in cui è sagrestano lo zio, per
tradizione legata al lignaggio dei Chatterton. Orfano di padre, Thomas
Chatterton trova una parentela tra affini nei cavalieri medioevali, nei vescovi
capaci nell’elargire le pene e nello sguainare la spada. Ama insinuarsi in un
altro modo: predilige l’epoca della Guerra delle Rose e quella di Enrico VIII,
s’inventa un XV secolo a suo uso, comincia a scovare vecchie pergamene negli
archivi di famiglia e in quelli della parrocchia, balocca con la lingua. La sua
precocità è inquietante: a otto anni l’idiota si rivela un lettore formidabile;
a undici si ritiene poeta compiuto. È l’era in cui vanno di moda i ‘notturni’ e
l’esotismo di un Medioevo ricostruito in vitro, con sapienza letteraria:
spopolano i canti di Ossian di James Macpherson – stampati dagli anni settanta
del Settecento, in Italia hanno un traduttore d’elezione in Melchiorre Cesarotti
– e le Reliques Of Ancient English Poetry di Thomas Percy; la caccia al
manoscritto perduto è lo sport più in voga tra i letterati del tempo.
All’accademismo, Thomas Chatterton preferisce l’energumena genuinità
dell’ispirazione; l’invenzione di Thomas Rowley, immaginario monaco vissuto nel
XV secolo, nei dintorni di Bristol, è la testimonianza di un talento senza
freni.
Abile nella mistificazione, nell’arte di produrre poemi in un middle english di
propria foggia, sagace nel gioco dei labirinti verbali, Thomas Chatterton
comincia a vendere i testi di Rowley, suo medioevale alter ego, come li avesse
tratti da un manoscritto fortunosamente ritrovato. Per un po’, nessuno sa
sbugiardarlo e il falso gli rende – ancora nel 1778, il poeta ‘laureato’ Thomas
Warton inserisce i poemi di Rowley nella sua History of English Poetry, tra John
Gower e Geoffrey Chaucer. Per contrasto, la stoffa di Chatterton – portata
all’esuberanza come all’esuberante depressione – non sopportava le falsità del
proprio tempo.
Talento burrascoso e inarginabile, il ragazzo sbarca, sedicenne, a Londra, certo
di poter sopravvivere del proprio talento. Le poesie gli rendono poco; in genere
– privo di appoggi e di sostanze – una specie di sovrumana indifferenza gli fa
da aura. Sono, in ogni caso, anni di prodigiosa scrittura: Chatterton tocca
tutti gli angoli della sensibilità lirica – dalla satira allo ieratico poema
medioevale, dall’imitazione alla poesia d’amore, dall’invettiva all’improvviso,
dalla pièce teatrale al ‘pezzo’ cosmico –, è famelico di fama. A differenza dei
poeti del suo tempo, vive ciò che scrive, incarna il proprio verbo, crede alla
parola con fanciullesca ingenuità – è questo, in lui, a spaventare, ad atterrire
chi lo incrocia, riconoscendo, nello spavaldo ragazzo, il marchio feroce del
prescelto. Il rapporto con Horace Walpole è emblematico. Chatterton inviò
all’autore del Castello di Otranto– che, nella finzione narrativa, è presentato
come un manoscritto stampato a Napoli nel XVI secolo – una silloge di testi di
Rowley. Walpole, dapprincipio, ne è entusiasta e propone una pubblicazione di
quei testi; poi, scoperto l’inganno, si nega a Chatterton, rifiutando di
restituirgli le poesie. Sembra – per sinistre preveggenze – la sorte subita dal
manoscritto dei Canti Orfici di Dino Campana, perduti, per incuranza, da Ardengo
Soffici. Sembra, cioè, che nelle retrovie di una grande opera ci sia sempre uno
smarrimento, un’irriconoscenza – foss’anche dell’autore, incapace di ‘fare i
conti’ con il proprio talento, di metterlo a profitto –, una perdita.
Per un carattere scheggiato come quello di Chatterton, la sconfitta è
irricevibile, irredimibile. Per un po’, il ragazzo tenta di conquistare il
Sindaco di Londra, William Beckford, che distrattamente lo stima; poi cerca di
concupire qualche possibile mecenate. I testi più languidi lasciano spazio alle
poesie corrosive; benché pubblichi, qua e là, sui giornali dell’epoca, il poeta,
letteralmente, fa la fame. Poco prima di morire, chiede a un amico, chirurgo, di
farlo assumere come suo assistente su un cargo che viaggia verso l’Africa –
anche in questo caso, la prossimità con le scelte di Rimbaud sfiora la vita
apocrifa.
Gli ultimi giorni della vita di Thomas Chatterton sono pura immersione
nell’amnio di una notte oscura del cuore. Nel cimitero della chiesa di St
Pancras, annebbiato dai pensieri, il poeta cade in un sepolcro vuoto, in attesa
della tomba; ne esce indenne, tra gli stornelli dell’amico che lo accompagna,
“Ho visto risorgere un genio”. La risposta di Chatterton ha il crisma della
nottola: “Da tempo, ormai, sono in combutta con le tombe”. Morì il 24 agosto del
1770, neppure diciottenne, nella scarna soffitta in cui abitava, in Brook
Street. Inghiottì arsenico, fece a pezzi i pochi quaderni che aveva con sé.
La sua morte passò praticamente inavvertita dai letterati dell’epoca; il suo
corpo fu gettato in una fosse comune, nel cimitero annesso alla parrocchia di St
Andrew a Holborn, presso la Shoe Lane Workhouse. Alcuni credono che lo zio abbia
disseppellito e recuperato il corpo di Chatterton, insediandolo nell’amata
chiesa di St Mary Redcliffe, dove un cenotafio ne fa memoria. Pochi giorni dopo
la sua morte, un certo Thomas Fry approdò a Londra con l’intento di scoprire chi
fosse l’autore – o lo scopritore – delle poesie ascritte a Thomas Rowley: voleva
fargli da mecenate.
Non si contano gli omaggi lirici e biografici destinati a Chatterton. Uno dei
più riusciti, tra i recenti, è il romanzo storico di Peter Ackroyd, Chatterton:
finalista al Booker Prize nel 1987, fu tradotto in Italia due anni dopo, nel
1989, come Il ragazzo meraviglioso (Chatterton). In copertina, come è ovvio,
spicca The Death of Chatterton, capolavoro del pittore preraffaellita Henry
Wallis. Il ragazzo, di cerea, incredula bellezza, apollinea, è sdraiato sul
letto, morto; ha i capelli rossa e al suo fianco, in un forziere, semiaperto, i
fogli con le sue poesie, a pezzi – quasi che le mani potessero imitare un rogo.
Il ragazzo ha i pantaloni blu; la finestra, spalancata sulla quinta londinese;
una pianta, umile, eroica, sul davanzale, insegna – chissà – che la morte
feconda la vita. Per il quadro, compiuto nel 1856 e che moltiplicò la fama
postuma di Chatterton, aveva posato un giovane George Meredith, l’autore
de L’egoista. Nella cerchia dei Preraffaelliti, Thomas Chatterton figurava come
uno degli eroi; Dante Gabriel Rossetti lo omaggiò con un sonetto dall’attacco
esagerato: “con la virilità di Shakespeare nel cuore selvaggio di un
ragazzo”. Fu William Wordsworth, tuttavia, molto tempo prima, a coniare per
Thomas Chatterton un’indelebile definizione: the marvellous Boy. La poesia
– Resolution and Independence, 1807 – parla di quell’“anima insonne che perì del
proprio orgoglio” e lega, in un dittico efficace, il poeta della gioia
(gladness) con quello della mania (madness), il sole e la sua eclissi, la luce e
la sua irredimibile ombra.
Da qui, è pressoché impossibile inseguire lo spettro di Chatterton nell’opera
dei più potenti poeti inglesi di ogni tempo. Coleridge scrive una Monody of the
Death of Chatterton che lo accompagna per tutta la vita: la prima versione è del
1790, nell’ultima, del 1834, il poeta della Ballata del vecchio marinaio si
rivolge al Poor Chatterton, “Il tuo destino mi riempie di dolore/ chi avrebbe
potuto amarti prima della fine?… ho gettato una corona di oscuri fiori/ sulla
tua tomba informe”. John Keats dedica Endymion “alla memoria di Thomas
Chatterton”; intorno al suo “triste destino” aveva già scritto un sonetto – To
Chatterton, appunto – di azzurra tenerezza: “La tua gemma per il gelo è
crollata./ Ma questo è il passato: ora sei tra le stelle/ nei più alti cieli,
alle sfere canti/ soavi inni, nulla ti turba/ dell’ingrato mondo, delle umane
paure”. Keats associava Chatterton “all’autunno”, lo riteneva “il più puro
scrittore in Lingua Inglese” (così a John Hamilton Reynolds, 21 settembre 1819).
In risposta, Percy Bysshe Shelley cita “la solenne agonia” di Chatterton
in Adonais, “An Elegy on the Death of John Keats”. Entrambi, introdotti alla
vita lirica dall’astro di Chatterton, morirono troppo giovani: la fatalità, al
calor bianco, pare insinuare una poetica.
La poesia ‘in memoria’ di Thomas Chatterton – sorta di amuleto per accedere
nell’empireo dei poeti – divenne un genere, una sorta di formula teurgica. Lo
praticò, tra i tanti, anche da Dylan Thomas, legato a Chatterton dal duro
lignaggio dei pionieri del verbo. O Chatterton, poesia del 1938, ha modi da musa
ubriaca: “O Chatterton e altri su in soffitta/ Congiunti in uno stesso lume a
gas/ A usare lysoformio per narcotico;/ Bevete alle tette della terra;/ Bevuta
liscia la vita/ È un veleno migliore che in bottiglia/ Nella saliva fermenta un
veleno migliore/ Di quello che uno caverebbe/ Dalle budella d’un serpente” (la
traduzione è di Ariodante Marianni). Serge Gainsbourg, invece, cantò la morte
di Chatterton nel 1967: “Chatterton suicida/ Annibale suicida/ Demostene
suicida/ Nietzsche/ in delirio/ Quanto a me/ non va poi meglio”.
Ogni letteratura ha bisogno, per trovare nuova nascita, nuova foggia
linguistica, di un capro espiatorio, di un agnello sacrificale. Il ragazzo di
belle speranze che s’incaglia nella sfortuna. Il pioniere che si perde nel
deserto, a un passo dalla terra promessa, appena intuita – la cui novità risiede
nell’annuncio, spericolato, incomprensibile. Thomas Chatterton è stato
l’agnus della poesia inglese moderna. È stato sconfitto, è vero – ma questa
sconfitta, ora, ci sovrasta.
*Si pubblica, in parte, l’introduzione al volume: Thomas Chatterton, “Nell’aura
del fulmine. Poesie scelte”, Feltrinelli, 2025, a cura di Davide Brullo
In copertina: Nicola Samorì, Arco della sete, 2020
L'articolo “Turbati, come dinanzi a qualcosa di straordinario”. Storia & versi
di Thomas Chatterton, il poeta maledetto proviene da Pangea.
Source - Pangea
Rivista avventuriera di cultura&idee
È un sublime omaggio all’immaginario anglosassone quello che Ignacio Peyró –
direttore dell’Istituto Cervantes, saggista e giornalista per “El Pais” – regala
al lettore con il suo ultimo Anglofilia. Piccolo glossario sentimentale della
cultura inglese (Graphe.it edizioni). Un libro-miniera (versione breve di quella
spagnola che supera le mille pagine) che attraverso uno stile intrigante e
raffinato compone un elegante ed eccentrico mosaico della englishness mischiando
umorismo ed erudizione, profondità ed acume per raccontare il grande mito di
un’Inghilterra eterna capace di essere icona di stile, riferimento letterario e
santuario estetico. Definendo un personalissimo e luccicante alfabeto della Gran
Bretagna: dalla A di Alcol alla B di Big Ben, passando per la R di Rolls Royce,
fino alla P di Pub. Ne emerge un gioiello letterario che regala a chi legge il
fascino di quella Gran Bretagna dello spirito, paradiso perduto di tutti gli
anglofili. Un immaginario sentimentale ed estetico (prima che politico e morale)
che nelle pagine di Peyró viene immortalato senza nostalgia o pedanteria, ma con
grande cultura, eleganza e fantasia.
Che cos’è per lei l’anglofilia? E come la ha vissuta?
È più un’esperienza accumulata da generazioni che un’esperienza personale.
Probabilmente è qualcosa che ormai si è andata perdendo con il tempo. In tutta
Europa c’è stato un innamoramento per la politica, le istituzioni e le abitudini
britanniche dal Settecento al Novecento. Da loro abbiamo copiato in gran parte
la stampa, il parlamentarismo… e perfino lo snobismo e l’imperialismo. Ma c’è
stata anche una grande seduzione britannica attraverso i costumi: la moda, i
giochi – pensiamo al calcio. Così, l’Inghilterra è riuscita a far sì che
“inglese” per molto tempo fosse una sorta di titolo di prestigio oltre che
un’origine. Il paradosso è che molte cose che sembrano al cento per cento
britanniche hanno in realtà origini continentali. La mia generazione – sono del
1980 – è tra le ultime ad aver vissuto quella che è stata un’abitudine molto
europea e poco contestata all’anglofilia.
Come nasce questo libro(sia nella versione spagnola che in quella italiana)?
Ero un giovane giornalista spagnolo che voleva scrivere. Ho sempre voluto
scrivere, è la mia vocazione. Ho scritto libri per altri, non ce n’era ancora
nessuno in libreria che portasse il mio nome. Così sono andato da un editore con
varie proposte: scelse questa. Mi ci concentrai per diversi anni e gli consegnai
un libro di 1100 pagine: dovevo fare qualcosa per attirare l’attenzione. La
selezione italiana è di poco più di 400. La genesi, diciamo, spirituale è più
semplice: sui giornali finivo sempre per scrivere di cose britanniche, il tema
giunse da sé.
Quali lemmi della versione originale avrebbe voluto aggiungere?
Non aggiungerei nulla. Così come è fatta, la selezione è ottima.
Che ruolo hanno avuto nobiltà e aristocrazia, a cui dedica uno splendido
paragrafo nella sua opera, nella formazione dell’anglofilia e di una certa idea
delle englishness?
L’importante, più che la nobiltà e l’aristocrazia, è la capacità dei britannici,
nel corso della storia, di generare élite sociali positive. Lo fanno a partire
dall’ideale del gentleman – che ha molto a che vedere con il gentiluomo del
Rinascimento italiano – e dalla scuola. Così, si può essere un gentleman, con un
ideale aristocratico, indipendentemente dalle proprie origini.
Leggendo le voci “Alcol”, “Cabine telefoniche” e “Big Ben”, tra le altre, in
pochi dettagli emerge la capacità di dare vita ad un immaginario anglosassone
affascinante che oltre a raccontare sa anche “intrattenere”. A quali dei lemmi
della sua opera è più legato e quali la hanno più divertita nella loro
scrittura? E perché?
Una delle peculiarità del mondo britannico è che può essere, oltre che molto
iconico, particolarmente narrativo; all’interno di questa narrazione c’è sempre
un forte umorismo, ricco di aneddoti e ironia. Questo è un libro di libri, di
erudizione festosa, e mi sono divertito moltissimo a scriverlo quasi quindici
anni fa. In effetti, vorrei ampliarlo nell’edizione spagnola da 1100 pagine…
Secondo lei come è cambiato il mito anglofilo con la Brexit? O è iniziato a
decadere ben prima?
C’è sempre stato un rapporto conflittuale tra Regno Unito e continente. Questo
non vuol dire che non sia stato ricco: pensiamo al Grand Tour, ad Agincourt, a
Verdun… La Brexit è un passo in più in questa storia di incontri e scontri.
L’anglofilia ha una sua età dell’oro, che va dalla fine del XVIII secolo fino
alla metà del XX, con Churchill e la Seconda guerra. Poi ci sarà un’altra
anglofilia, pop. Esiste ancora un’anglofilia, per così dire, d’immagine:
automobili, arredamento, abbigliamento. L’anglofilia come libertà, istituzioni e
letteratura è meno presente, in parte per il successo che hanno avuto alcune sue
esportazioni come la monarchia parlamentare, la tolleranza, la stampa o i
romanzi leggibili.
Ignacio Peyró è l’attuale direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, dopo aver
diretto quello di Londra
Come valuta la narrazione del finis britanniae che è propria di questi anni?
È una narrazione che non esiste solo all’esterno, ma soprattutto all’interno del
Regno Unito, e che proviene dal dopo-sbornia post-imperiale. In effetti, gran
parte di questa cattiva assimilazione è alla base della Brexit. Lo disse un
Segretario di Stato degli Stati Uniti: si tratta di trovare un nuovo ruolo nel
mondo.
La visita di Re Carlo in Italia ha suscitato molto clamore. Sta ritornando una
marcata anglofilia in Italia e in Europa?
L’Italia è stata un paese molto anglofilo, così come la Gran Bretagna ha preso
molto dall’Italia con il Grand Tour: idee di arredamento e arte (classicismo e
neoclassicismo), modi e urbanità, il gusto per il passato… Ma la Brexit è stata
una cattiva scelta che ha allontanato le simpatie anglofile dal mondo.
Come si sono declinate in letteratura e in estetica questa anglofilia e
anglofobia?
L’anglofobia ha a che fare (cibo e clima a parte) con la critica a ciò che viene
percepito come materialismo inglese. È una critica in realtà più filosofica.
L’antiliberale tende a essere antibritannico. L’anglofilia, invece, può essere
molto alta o molto bassa: ha a che vedere con le istituzioni, la politica, la
libertà e la tolleranza… e anche con abitudini come la caccia o le giacche.
Dal “Telegraph” a personalità come Macmillan e Disraeli poche cose hanno
rappresentato la britishness come i Tory e il mondo conservatore. Come vede oggi
lo stato del mito di questa antichissima classe dirigente che ha incarnato
l’anima più autentica del potere britannico?
Il partito Tory era la cosa più solida della Gran Bretagna. Ed era, in effetti,
il grande partito politico del mondo britannico, almeno il modello per gli
altri, soprattutto nell’ambito della destra. Era “il partito della nazione”,
benché sappiamo che in una democrazia una cosa del genere non è possibile né
auspicabile. Ma era un partito capace di integrare numerose sensibilità. Ora ha
avuto un’eresia postmoderna con Nigel Farage.
Da spagnolo di cultura europea come ha vissuto il confronto con il mondo e la
cultura britannica come direttore del Cervantes di Londra?
La storiografia classica britannica, quella whig, contempla la creazione
dell’Inghilterra moderna in lotta contro la Spagna e il Papato. Così, siamo
stati nemici metafisici, nonostante Castiglia e Inghilterra avessero molto in
comune e, come sottolinea Sir John Elliott, l’impero britannico si sia ispirato
a quello spagnolo. Dal XIX secolo esiste una certa visione un po’ folkloristica
della Spagna, coerente con uno sguardo anglosassone che guardava con
condiscendenza il resto del mondo. Questo è cambiato progressivamente nelle
ultime generazioni.
Quali sono gli scrittori e registi contemporanei in cui ritrova ancora oggi il
mito (o l’ethos se vogliamo) britannico?
Oh, beh, ce ne sono molti. Cito gli appena scomparsi Roger Scruton, Auberon
Waugh… ma anche John Le Carré. È una cultura di grande prosa e narrazione.
Oggi è direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, è in lavorazione un dizionario
sentimentale se non italiano almeno romano?
Josep Pla, grande scrittore catalano, osò affrontare tutta l’Italia – è
sorprendente che le sue Lettere dall’Italia non siano tradotte – tranne Roma. Mi
sembra una scelta saggia. Invece di scrivere un libro molto grande e pieno di
altri libri come quello che ho fatto sulla Gran Bretagna, vorrei farne uno molto
breve, un arabesco, con una bibliografia minima – cosa quasi impossibile – su
questo paese meraviglioso.
Francesco Subiaco
L'articolo Anglofilia. Perché amiamo gli inglesi (tanto quanto li odiamo).
Dialogo con Ignacio Peyró proviene da Pangea.
August Strindberg sta alla solitudine come Marcel Proust sta alla
memoria. Parafrasando quello che una volta Walter Benjamin ha detto di Proust,
si può dire che per lo scrittore svedese la parte principale non è affatto
svolta da ciò che egli ha vissuto, ma dalla tela di Penelope della sua
solitudine.
D’altra parte basta leggere Solo, il romanzo breve pubblicato nel 1903 per avere
conferma di quanto ho appena affermato. Il protagonista-narrante è un
cinquantenne vedovo che, dopo avere vissuto per una decina di anni in provincia,
torna nella sua città natale, Stoccolma. Qui si trova faccia a faccia con la
noia per i vuoti rituali sociali travestiti da normalità e per le futili
chiacchiere da caffè con i vecchi amici di un tempo, così sceglie
deliberatamente l’isolamento ed elegge la solitudine come il luogo più autentico
dove realizzare se stesso. Affitta una camera ammobiliata da cui esce solo per
delle brevi passeggiate, evitando ogni rapporto con il prossimo che non sia
quello puramente formale della sopravvivenza quotidiana. Non vuole avere niente
a che fare con quello che gli altri chiamano progresso, civiltà, normalità.
Per molti versi Solo è la rappresentazione del conflitto insanabile tra la
società e l’individuo.
> «Nel rompere i contatti con gli altri ebbi dapprima l’impressione di perdere
> energia, ma intanto il mio io cominciava come a coagularsi, ad addensarsi
> intorno a un nucleo in cui si riunivano, si fondevano le mie sensazioni, e la
> mia anima le assorbiva come nutrimento. Inoltre mi abituai a dare corpo a
> qualsiasi cosa vedessi o udissi in casa, per la strada o nella natura, e nel
> trasferire ogni mia percezione al lavoro in corso sentivo crescere il mio
> capitale; così, gli studi che facevo in solitudine risultavano più
> significativi degli studi sulla gente nella mia vita di società.»
Quella dell’io-narrante di Solo è una solitudine voluta e ricercata, una
solitudine allo stato puro, tonica, fortificante, tutta tesa a riassaporare
idee, ricordi e istanti vissuti sotto un’ottica diversa. Una condizione che
nella visione di Strindberg è essenziale per conoscere se stessi, ritrovarsi e
approfondire la propria identità.
Coprotagonista assoluta del romanzo è Stoccolma, rappresentata nello
scorrere dei giorni, dei mesi, delle stagioni, dalle luminose e interminabili
serate estive alle cupe e brevi giornate invernali e alla quale l’autore si
abbandona senza opporre resistenza.
> «È di nuovo inverno, il cielo è grigio e la luce viene dal basso, dalla neve
> candida per terra.»
Case e strade hanno il potere di stimolare sensazioni del tutto particolari. In
una delle scene più belle di Solo il protagonista ritorna per qualche minuto in
una casa dove aveva abitato molti anni prima e nel suo animo riprendono vita le
speranze e le paure di quando era giovane. Come dice bene Franco Perrelli nella
acuta e penetrante introduzione al romanzo presente nell’edizione di Carbonio,
in Solo «Stoccolma è soprattutto un luogo intimo, che vibra dentro e con il suo
essere».
In questo mare di solitudine però affiorano delle isole di socialità. In modo in
apparenza del tutto involontario il personaggio narrante ha delle frequentazioni
con quelle che lui definisce le “conoscenze impersonali”; sono gli estranei
incrociati per caso in strada oppure visti di sfuggita attraverso le finestre
illuminate di una casa. Ecco che allora, quasi per magia, quelle figure
intraviste solo per qualche istante diventano la scintilla per accendere
l’immaginazione del protagonista, che in questo modo approfitta della solitudine
in cui è immerso per trasformare e potenziare a dismisura il proprio io.
Un processo con un fascino del tutto particolare e anche un po’ inquietante.
Leggete la citazione che segue e ditemi se non è vero che per molti versi fa
venire alla mente, mutatis mutandis, la metamorfosi raccontata da Stevenson
ne Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde:
> «Quando però torno a casa e mi siedo alla scrivania mi sento veramente vivo…
> sguscio fuori dalla mia persona e parlo come fossi un bambino, una donna o un
> vecchio: sono re e mendicante, sono il signore potente, il tiranno e il più
> disprezzato, il ribelle sconfitto; qualsiasi opinione mi appartiene e
> qualsiasi religione è la mia; vivo in qualsiasi epoca, e io stesso non esisto
> più.»
Chi lo conosce e ha letto un po’ dei suoi libri sa bene che esistono molti
Strindberg diversi: ildrammaturgo, il romanziere, il botanico, il chimico e
persino l’occultista. La sua è stata una personalità complessa e tormentata che
ha attraversato molte crisi, e così abbiamo avuto lo Strindberg antifemminista,
quello ateo, il precursore dell’autoanalisi psicologica, lo scrittore
naturalista e quello espressionista, il mistico seguace di Swedenborg e poi di
Nietzsche. Quello che incontriamo in Solo è uno Strindberg lontano dai toni
veementi e dalle furie selvagge per cui è più conosciuto. Le sue proverbiali
invettive qui lasciano il posto a toni più sommessi, i suoi furori misogini
vengono messi in disparte per lasciare spazio a tormenti più intimi e personali.
Lo Strindberg brutale misantropo dei tanti drammi teatrali che ha scritto, il
tormentato visionario delle sue opere più autobiografiche si prende una pausa di
riflessione e preferisce volgersi verso le sfumature più sensibili del proprio
animo. In Solo Strindberg ha deposto la sciabola dell’invettiva per affidarsi al
fioretto della poesia. In queste poco più di cento pagine prima ancora del suono
della sua voce sentiamo i battiti del suo cuore.
Silvano Calzini
L'articolo “…e io stesso non esisto più”. Divorando il cuore di Strindberg
proviene da Pangea.
È recentemente apparsa un’antologia che segna uno spartiacque nel mondo della
letteratura e degli studi iranistici italiani. Sino ad ora, dell’Iran si aveva
un’immagine perlopiù fuorviata, o da rappresentazioni che ne enfatizzavano le
antiche memorie di sfarzosi sultani e fiabesche notti arabe o da reportages di
impronta giornalistica, fissatisi negli ultimi anni soltanto sulla drammatica
situazione politica del Paese.
Da un punto di vista letterario, dal Settecento in poi, grande attenzione
traduttiva è stata riservata alla Persia, basti ricordare l’amore goethiano per
Hāfez, le pregevoli versioni europee di Rumi e ‘Attār, Sā‘di e Firdusi, fino
alla secolare fortuna di un classico dei classici della poesia universale quale
Omar Khayyām. Tale lascito ha senz’altro posto la letteratura classica persiana
nell’olimpo delle grandi imprese di traduzione moderna, portando l’iranistica a
esiti raffinatissimi a discapito di qualsivoglia incursione nei suoi più recenti
sviluppi. Mi riferisco alla smisurata quantità di imprescindibili autori
iraniani vissuti tra XIX e XX secolo del tutto ignorati dall’accademia
occidentale, consegnati a impietoso oblio, lo stesso incrementato dalla
narrazione politica e massmediatica internazionale ideologicamente impegnata,
dal 1979 in poi, a far emergere solo alcuni aspetti – soprattutto politici ed
economici – della multisfaccettata e particolarmente feconda cultura dell’Iran.
Con Poeti iraniani (Mondadori, 2024) scopriamo invece un Paese dove la poesia
rappresenta ancor oggi il linguaggio identitario di un popolo desideroso di
raccontarsi in ogni aspetto, esistenziale e filosofico. Il volume è curato da
Faezeh Mardani che della letteratura persiana contemporanea è tra le massime
esperte non solo in Italia, e compendia le dodici più emblematiche voci della
poesia, presentate secondo un criterio diacronico in un’ottica riassuntiva anche
degli enormi mutamenti sociopolitici del Novecento iraniano. Si parte da Nimā
Yushij, padre della Poesia nuova nonché primo autore che nel 1921 aprì al verso
libero e ai temi del modernismo simbolista, per arrivare ad Ahmad Shāmlu,
poeta-profeta la cui opera di magmatico impegno civile galoppa per tutto il
secolo breve innalzando monumentali mausolei di carta, passando per Mehdi
Akhavān Sāles, nostalgico aedo delle attuali rovine persuaso del potere
salvifico delle fonti preislamiche, sino alle voci più conosciute nel mondo
occidentale come Forugh Farrokhzād, la poetessa del peccato che negli anni
Sessanta osò per prima pubblicare versi di spregiudicata femminilità in
opposizione a una cultura maschilista e retrograda, o Sohrāb Sepehri, vero
mistico sufi interessato alla pittura e alle vie esoteriche orientali. Da questa
prima generazione di poeti – non a torto definiti “colonne della Poesia nuova” –
si giunge poi a una seconda ondata, toccata invece da istanze
neoavanguardistiche e antiletterarie. Abbiamo qui Bijan Jalāli, autore di densi
frammenti lirici dal registro colloquiale ma profondo valore
sapienziale, Yadollāh Royāi, maestro della Nouvelle vague letteraria iraniana e
di uno sperimentalismo linguistico mai privo di pathos e autenticità, Mohammad
Reza Shafiei Kadkani, prodigioso conoscitore dell’eredità lirica persiana i cui
lacerti d’oro interseca a versi carichi di disincanto e dissenso per l’oggi,
fino a Seyyed ‘Ali Sālehi, decano della Poesia parlata che nei suoi testi
inaugura un connubio tra linguaggio popolare e mistico. L’antologia si chiude
con le firme ad oggi più amate e lette: Ziyā’ Movahhed, poeta-filosofo
insuperabile nell’intrecciare riflessioni metafisiche a lampi e intuizioni di
gusto impressionista, Abbās Kiārostami, artista abilissimo nel tratteggiare il
proprio visionario orizzonte interiore tramite fulminei fotogrammi-haiku, e
infine Garous Abdolmalekiān, poeta poco più che quarantenne ma già affermato e
celebrato, firma di diverse opere dove un ispirato afflato lirico si interseca a
una dolente e impetuosa denuncia civile.
Insomma, una caleidoscopica rassegna volta a far scoprire ai lettori italiani lo
scrigno dei tesori poetici dell’Iran contemporaneo e altresì il particolare
sentimento che unisce il Paese alla poesia, a tutti i livelli. Nell’introduzione
dei suoi Canti azzurri (2010), Ziyā’ Movahhed spiega così la propria ragione
poetica:
> «Il regno della poesia è totalmente diverso dal territorio della prosa. La
> poesia è dire l’indicibile… Vi siete mai chiesti perché gli uccelli mentre
> volano e saltano da un ramo all’altro cantano? Non potrebbero saltare e volare
> senza cantare? Avete mai sentito il canto degli uccelli sui rami al mattino
> presto? Cos’è che li fa cantare? Quale bisogno è appagato dal canto? Non
> basterebbe solo volare? La poesia è la forma più alta del piacere e di quella
> libertà che allontana ansia e paura. È la voce della protesta che può
> esprimere l’ineffabile. E, infine, è il canto degli uomini, il canto
> dell’anima, il canto cui aspira il nostro spirito».
In tale passaggio di Movahhed si precisano le due direttive su cui scorre tanto
la letteratura persiana contemporanea quanto il sentire profondo che lega il
popolo iraniano alla poesia, considerata all’unisono voce della protesta e canto
dello spirito. Per quanto riguarda la cifra di dissenso e impegno civile, ne è
da sempre il principale canale, essendo la figura del poeta ancora socialmente
centrale in Iran come testimone della storia di un intero popolo cui è stata
privata la libertà ma non il fermento culturale, il senso profondo di
appartenenza a una millenaria tradizione di arte, musica, cultura e, appunto,
scrittura poetica. Non è un caso che quand’anche si tinga di furia e ribellione,
la poesia persiana suole comunque vestirsi di una singolare, epica solennità,
osservando una radicata fiducia e riverenza verso la parola, ritenuta sacra.
Ed ecco arrivati alla ancestrale tensione metafisica che seguita a perdurare e
ardere nella poesia persiana dal Novecento a oggi. Sebbene il più giovane tra
gli antologizzati, Garous Abdolmalekiān, scriva «La poesia non è poesia/ se non
è manciate, manciate, manciate, / se non è sassi, sassi, sassi,/ se non è…», la
ricerca che sembra impregnarne i versi discende dalla stessa tradizione
neoplatonica avente come primario interesse la vita e la cura dell’anima: fuoco,
cardine di una nuova generazione di poeti che, pur essendosi distaccati dalle
forme metriche della maestosa civiltà letteraria del passato, continuano a
diffonderne, con picchi di assoluta creatività sperimentale, l’intenso portato
filosofico e teosofico. Da qui la plenaria attenzione riservata al fragile e
dissacrato universo della parola, intesa sempre quale alata messaggera
dell’ispirazione, bussola che orienta a invisibili mondi.
Sohrāb Sepehri (1928-1980)
«Ci siamo svegliati all’alba/ ci siamo sciacquati la faccia/ abbiamo lavato le
mani/ ma non/ le parole. […] Possa Dio redimerci l’anima / per averle lasciate
così sporche» scrive Ziyā’ Movahhed. E così, di rimbalzo, Shafiei Kadkani: «In
principio era la parola e la parola era sola/ e la parola era bella./ Bacio,
pane e sguardo di colomba era./ Dalle dita di Salomone, il demone/ sfilò la
gemma del sapere e della bellezza./ Fece magie quel perfido vecchio/ e la parola
(il mistero decretato) divenne sterile e inerme.// O tu, principio,/ rovina,
sommità, abisso,/ o tu, cantore dell’esistenza, scintilla d’ogni verso e poema/
ridona alla parola, un’altra volta,/ quell’eterno splendore, gioia e lucore,/
equità e sapienza./ Ridona alla parola quell’arcana magnificenza,/ amen!/ La
purezza del primo giorno ancora,/ amen!». Come si può notare, l’inchiostro in
cui i nostri poeti intingono la loro penna è lo stesso dei mistici del passato,
consci, secondo la prescrizione coranica, dei pericoli conseguenti a un
esercizio bulimico e retorico della parola strappata alla sua primordiale e
ineffabile lucentezza, al suo uso oculato e allegorico. Esemplare, in tal senso,
un passo del sufi Jāmi:
> «Meglio è per il derviscio celare le sciagure
> e per l’innamorato usare l’intelletto:
> poiché le parole sono un velo sul volto dell’Amico
> migliore di qualsiasi discorso è il silenzio.
>
> Tu, preso da continua brama di parlare,
> se sei saggio sappiti misurare.
> Né svelare potrai i segreti dell’Essere,
> perla che nemmeno il diamante della parola trafigge.
> Sopra brutto e bello tira una riga
> tira il velo che occulta il nascosto Splendore:
> i piedi nella veste, la testa sul petto ritrai:
> non fuor di te abita la luce di Quella bellezza».
Se è nell’oscuro oceano dell’umana e cosmica interiorità ad annidarsi la luce
divina, i poeti iraniani cercano ancor oggi di preservarne l’abissale vertigine
verbale eleggendo la poesia a unico linguaggio capace di esprimere la suprema
essenza della vita, attraverso i movimenti e le accensioni di un iridescente,
magico dettato: «O sermone dell’acqua/ vergato su metalliche tavolette marine/
magari in questa greve eloquenza d’indaco/ fosse il mio corpo una dolce
pronuncia d’acqua!» invoca a tal proposito Royāi. Del resto, ricordando
l’appellativo ladri di fuoco assegnato ai poeti occidentali da Rimbaud, già
Giuseppe Conte parlò di loro come eredi dell’acqua, adoratori delle antiche
sorgenti sapienziali dell’umanità, mai così necessari per tutti noi. «Ho parole
da vedere, annusare, toccare/ e non da spiegare/ parole come onde d’acqua/
tortuose e increspate» confessa Movahhed, rispolverando l’antica e immortale
metafora della poesia associata al ventre marino, il cui vero idioma non può che
essere una misteriosa, equorea sinfonia recante in sé l’esperienza dell’abisso,
del celeste fondale da cui riaffiorano «le parole dense del tacere».
Pare infine proprio questo il principale suggerimento che i poeti iraniani
contemporanei, nella loro policroma diversità d’approcci e accenti,
dall’emisfero più infiammato del pianeta intendono consegnarci: rifondare il
senso della scrittura a partire dal suo primato di viaggio interiore, di scavo
metafisico, oltre l’imperio dell’«arido vero», di ogni forma di rivendicazione
ideologico-materialista della letteratura, senza paura d’essere accusati di
rifiuto della realtà. Lo aveva già intuito Hölderlin: «Chi pensa il più
profondo/ ama il più vivo». Tanto più ci si cala in sé stessi, tanto più
dell’Altro si trova e ama. L’unica via di fuga dall’inferno del mondo ce la
abbiamo dentro, l’unica salvezza è smettere di cercare salvezza, imparando a
contemplare l’oasi infuocata di ogni istante. Ce lo ricorda una volta per tutte
Sepehri:
> «Bisogna chiudere il libro.
> Bisogna passeggiare
> nell’orizzonte esteso dell’attimo,
> osservare il fiore,
> percepire l’ambiguità.
> Bisogna correre fino in fondo all’Essere,
> fino al profumo terrestre del Nulla,
> alla congiunzione di albero e Dio».
Francesco Occhetto
*
Il sussurro della parola “vita”
Dietro la pineta, la neve.
La neve, uno stormo di corvi.
Strada vuol dire esilio.
Vento, canto, viaggiatore, un po’ di sonno.
Un ramo d’edera, un arrivo, un cortile.
Io, la nostalgia e il vetro bagnato.
Scrivo in questo spazio.
Due muri e qualche passero.
Qualcuno è triste.
Qualcuno fa la maglia.
Qualcuno conta.
Qualcuno canticchia.
La vita: uno stormo che vola via.
Perché questa angoscia?
Non mancano le speranze: c’è il sole,
il bambino del dopodomani,
la colomba dell’altra settimana.
Ieri notte morì qualcuno
ma ancora è buono il pane di grano.
E ancora gocciola l’acqua, e i cavalli bevono.
Scorrono le gocce,
la neve è sulle spalle del silenzio,
il tempo sulla spina dorsale del gelsomino.
Sohrāb Sepehri
*
Un’altra nascita
a Ebrāhim Golestān
Tutto il mio essere è un canto oscuro
che in un continuo ripetersi ti porterà
verso l’alba di eterne crescite e fioriture.
Ti ho sospirato, in questo canto io
ti ho sospirato, in questo canto io
ti ho unito all’albero, all’acqua, al fuoco.
La vita è forse il lungo viale
che ogni giorno percorre
una donna con la sua cesta.
La vita è forse la corda sul ramo dell’uomo che si impicca.
La vita è forse il bambino che torna da scuola.
La vita è forse accendersi una sigaretta
nella languida pausa tra due amplessi
o lo sguardo assente di un passante
quando si toglie il cappello, banalmente
sorride e all’altro dice: «buongiorno!»
La vita è forse quell’attimo sospeso
quando nelle tue pupille si strugge il mio sguardo,
presentimento che legherò alla percezione della luna,
alla conquista delle tenebre.
In una stanza grande quanto la solitudine
il mio cuore grande come l’amore
scruta le sue semplici pretese di felicità,
la bellezza dell’appassire dei fiori nel vaso,
l’alberello che hai piantato
nel giardino della nostra casa,
il cinguettio dei canarini
che cantano nella cornice della finestra.
Oh…
questa è la mia parte,
questa è la mia parte.
La mia parte è un cielo nascosto da una tenda appesa.
La mia parte è scendere una rampa di logori gradini
per scovare ciarpami e nostalgie.
La mia parte è una passeggiata
melanconica nel giardino dei ricordi,
è morire nella tristezza di una voce
che mi dice: «Amo
le tue mani».
Pianterò le mie mani in giardino,
lo so, lo so, lo so, crescerò
e le rondini deporranno le uova
nelle pieghe delle mie dita sporche d’inchiostro.
Per orecchini indosserò due rosse ciliegie gemelle
e alle mie unghie incollerò petali di dalia.
C’è una stradina
dove i ragazzi che mi amavano
con i loro capelli spettinati
i colli sottili e le gambe magre
pensano ancora al sorriso innocente di una ragazza
che una notte il vento portò via.
C’è una stradina che il mio cuore
ha rubato ai quartieri dell’infanzia.
Viaggio di una sagoma sulla linea del tempo,
di una sagoma che feconda la sterile linea del tempo,
sagoma cosciente di un’immagine che torna
da una festa nello specchio.
È così che qualcuno muore
e qualcuno resta.
Nessun pescatore raccoglierà mai una perla
dall’esile ruscello che sfocia nel fosso.
Io
conosco una fata piccola e triste
che vive nell’oceano e dolcemente
in un magico flauto suona il suo cuore.
Una fata piccola e triste
che di notte muore con un bacio
e all’alba con un altro bacio rinascerà.
Forugh Farrokhzād
*
E la parola era Dio
Quante volte abbiamo taciuto
per non dire quella sola parola.
Figura
allegoria
metafora
poesia
e le nostre mani restarono in tasca.
Ci siamo svegliati all’alba
ci siamo sciacquati la faccia
abbiamo lavato le mani
ma non
le parole.
Accanto a una candela
tenuta così spenta,
ora sia benedetta la notte,
sia benedetta.
Possa Dio redimerci l’anima
per averle lasciate così sporche.
Ziyā’ Movahhed
*
Mi disseto
a un miraggio,
vogliate crederci o no.
Abbās Kiārostami
*
Dimentica
Dimentica
la mitragliatrice
la morte
e pensa al destino dell’ape
che in mezzo alla piazza minata
cerca il ramo di un fiore.
Garous Abdolmalekiān
Traduzioni di Faezeh Mardani e Francesco Occhetto
*In copertina: Forugh Farrokhzād (1934-1967)
L'articolo “Mi disseto a un miraggio”. Per conoscere davvero l’Iran dobbiamo
leggere i suoi poeti proviene da Pangea.
Dunque, è dal termine che bisogna partire: dalla gemma partorita con dolore,
dalla goccia che prima di cadere e di mutarsi in folgore, trema, si aggrappa,
icona di spina, sventata vampa, al ramo. Così scrive lei, Karin Boye, in una
delle poesie più note: ciò che sboccia succede al dolore, ciò che nasce ferisce,
il nuovo accade per ventura di inverno in grammatura d’oro. Sembra di auscultare
la Decima elegia di Rilke, quella della “felicità ascendente”, della commozione
che lascia sgomenti (bestürzt) “quando cade una cosa felice”. In Karin è
epidermica la violenza, la screziata grazia della cosa che si spezza – la fiamma
prima della felicità, la forza che discende.
Fu pure lei, Karin, goccia che cade, il frutto che, risolto a maturità – cioè:
in parentela con il sole, un sole che si può dire Bicorne e Bucefalo –, si apre,
nella polpa da leccare, nella pappa leccornia, nel seme da piantare. Purissima
gemma, Karin scelse Alingsås, una cittadina di laghi; scelse i sonniferi –
cadde. Aveva 41 anni; l’anno, il 1941, è lo stesso – stimmate di santa, mesi in
costato, segni di cui fare sudario – in cui muoiono, volontariamente, anche
Virginia Woolf e Marina Cvetaeva. Karin optò per aprile, the cruellest month, il
mese che “genera/ lillà da terra morta, confondendo/ memoria e desiderio”. Aveva
tradotto La terra desolata di Eliot dieci anni prima – anni di esperienze
spaesanti, quelle. Il matrimonio con Leif Björk, nel ’29, l’attività totale nel
movimento socialista “Clarté”, il viaggio – per certi versi agghiacciante – in
Unione Sovietica e quello in Jugoslavia.
Nata a Göteborg nell’ottobre del 1900, in famiglia di alti studi – padre
ingegnere, madre impegnata nel ‘sociale’ e nello spirituale –, fu segnata da
feroce precocità: a nove anni scriveva i primi testi; a diciotto compose per il
compleanno del padre un libro di poesie e di leggiadre leggende, illustrandolo;
nel 1922 pubblica Moln(“Nuvole”), una raccolta di versi che sanno di fiaba e di
petroglifo, un esordio in stile Lascaux – aveva già inciso, a suo modo, la nuova
via della lirica svedese. Non difforme dalla poetica di Nelly Sachs, dalla voce
di Karin Boye (tradotta in Italia da Daniela Marcheschi; le Poesie di Karin sono
in catalogo Le Lettere dal 2018) proviene – ad esempio – la poesia di empia
bellezza, la poesia d’empito di Birgitta Trotzig. Fu amica Harry Martinson, che
la trasfigurò in Isagel, ‘carattere’ indimenticabile del poema
epico-cosmico Aniara.
Leggeva Kipling e Tagore, si interessò al buddismo, studiò il sanscrito, preferì
il cristianesimo – maneggiava l’Edda e i miti norreni. A dire di una poetica che
assembla la profezia, a dire dello scoperchiare gli altri cosmi, del tenere sul
palmo la foglia e la galassia, l’erba e la materia oscura, dell’adesione all’Ade
dei poeti ctoni, che confabulano con gli spettri, capaci di estrarre fibule di
luce, sfreccianti agnizioni. Certo, è da aggiungere: le depressioni ricorrenti,
l’omosessualità celata, il matrimonio fallito, i viaggi in Germania, a Berlino,
per frequenti, infeconde sedute psicoanalitiche. Lentamente, Karin Boye si slegò
da tutto – da tutti si sentiva annodata. Poetessa tra le più ardite, aderente al
linguaggio sabbatico, al linguaggio come sabba, cioè a stanare le forze, Karin
deve il successo, per paradosso, a un romanzo, Kallocaina, uscito nel 1940, in
cui, dietro al delirio statalista e alla fatidica “droga della verità” sono
adombrati i regimi sovietico e nazista. In Italia, il romanzo distopico è
tradotto da Iperborea: “Scritto nel 1940, quando era difficile nutrire grandi
speranze nell’avvenire, Kallocaina ha in comune con Noi di Zamjatin, Il mondo
nuovo di Huxley, 1984 di Orwell l’allucinata visione di una società
spersonalizzata, dominata da uno Stato poliziesco che arriva a invadere anche la
sfera privata dei cittadini sopprimendo ogni libertà”.
Tuttavia, per così dire, Karin aveva “uno Stato poliziesco” dentro di sé. Le
fotografie di famiglia sembrano tratte da un film di Ingmar Bergman: sorrisi
senza fiordi, orche sotto le bianche vesti e le belle trecce. Fece un viaggio in
Grecia che la empì di una luce cerbiatto, di una luce Cerbero. Tutto diventò
troppo – troppo tardi, soprattutto. La ragazza non riuscì a spezzarsi, si volse
alla morte nel sonno.
Ma va detto del seme, ora. De sju dödssynderna (“I sette peccati capitali”), la
raccolta postuma, alterna le visioni di Emanuel Swedenborg alle tenerezze di un
cronachista di mondi perduti, desunti da un acquazzone. Letale il poemetto
accusatorio che dà titolo al libro:
> “Di generazione in generazione non siamo stati altro che la nostra segreta
> follia
> il nostro mai-nato.
> Oh Dio, quanto sei prossimo a ciò che non esiste.
> Occupati di noi. Non possiamo più durare.
> Distruggi il male che non ha cura di distruggersi.
> Distruggi il sogno della nostra follia incapace di farsi reale.
> Distruggici”.
Qualcuno disse di fenomenali epifanie, di apatie d’acqua, qualcuno credeva
bastassero i fiori a imbonirla, imbottita di buoni odori. Ma lei, Karin, sapeva
che l’angelo è oscuro, che l’angelo è maculato, che l’angelo può chinarsi nella
foga della iena. Chissà – Rilke si sarebbe innamorato di lei.
**
Gli dèi
I carri degli dèi
non scuotono le nubi
scivolano silenti
come raggi.
I passi degli dèi
sono difficili da udire
come un mormorio
nell’erba.
Con cautela
segui le loro tracce:
profumano di una
vicinanza tremenda.
Voleranno, lasciandoti
pieno di parole
in un mondo vuoto.
*
Non nominare
Molte cose fanno male e non hanno nome.
Taci e accettale.
Il molto è segreto, oscuro il pericolo.
Sopporta e porta rispetto.
Meglio confinarsi nel segreto
e non solleticare i semi che crescono.
“Dove il pensiero non si avventura
Madre di Tutto, guidami, esortami!”
È bene ascoltare la voce della Madre –
non ha parole la cura, non ha nomi il cuore.
*
Il conforto delle stelle
Ho parlato con una stella, la scorsa notte
luce lontana, in inabitati spazi –
“Cosa illumini, strana stella?
Ti muovi così grande e luminosa”.
La mia pietà l’ha ammutolita
poi, con il suo stellato sguardo:
“L’eterna notte illumino
illumino lo spazio senza vita.
La mia luce è fiore che appassisce
nello spinato autunno del cielo.
Questa luce è tutto ciò
che ho, è il mio solo conforto”.
*
Alcuni cuori sono
inesauribili tesori.
I loro proprietari gettano
con generosità, ovunque, i rivoli di quel sole.
Con mani tenaci accogliamo
il dono, grati. Felicità
e salute a te, benedetto,
che maneggi l’oro come fosse sabbia!
Alcuni cuori sono
inabissati fuochi.
Nella più fredda notte
un riflesso sulla neve.
In quell’incanto, nessuno
sopporta il desiderio
tranne chi scorge una luce
nella notte e ne vuole la fiamma.
*
Certo, è ovvio, fa male quando il germoglio sboccia.
Altrimenti, che senso avrebbe la primavera?
Altrimenti, perché sedare nella gelida brina
quell’ardente desiderio?
Il germoglio è stato crisalide lo scorso
inverno: una novità che ora si spezza, scoppia.
È ovvio, è certo, ferisce il germoglio che sboccia
perché fa male ciò che cresce
e ciò che serba.
Certo, è ovvio, fa male la goccia che cade.
Trema di paura, pende grave
al ramo si avvinghia e si gonfia, scivola –
il peso la assilla, più forte si aggrappa.
Fa male essere smarriti, fa male la paura
e la separazione; fa male sentire che il profondo
ti attira e chiama – eppure
siedi e trema
è duro resistere
e resistere al desiderio di cadere.
Poi, all’acme dell’agonia, quando ogni aiuto è inutile
le gemme dell’albero sbocciano in gloria
poi, quando la paura svanisce
le gocce cadono e diventano luce
si dimenticano che il nuovo le atterriva
si dimenticano che la caduta è un rischio
per un attimo abitano la certezza
riposano nella fede
che ha creato il mondo.
*
È così grande questa quiete, la quiete
di un’assolata foresta in inverno.
Come ha fatto la mia volontà a diventare
così perfetta, così obbediente la mia vita?
Portavo in mano una ciotola di vetro – risuonava.
Il mio piede è diventato cauto – non inciampa più.
La mia mano è precisa – non trema più.
Sono stata travolta dalla violenza delle cose fragili.
*
Preghiera al sole
Non hai pietà perché i tuoi occhi non
conoscono il buio.
Salvami.
Come linee, gli steli dei fiori sono
risucchiati dalle altezze:
tremano, prossimi a te, i loro calici.
Gli alberi si scagliano come pilastri verso la gloria:
stendono le braccia piumate di foglie
assetate di luce, devote.
Hai tratto l’uomo
da una pietra, con ciechi sguardi
l’hai trafitto alla pianta sagomata dai venti.
Tuo è il gambo, tuo lo stelo. Tua la spina dorsale.
Salvami.
Non la vita. Non la pelle.
Un dio non ha potere sulle cose estreme.
Con occhi estinti e arti spezzati
è tuo colui che visse eretto
con colui che eretto muore
tu sei, oscurità che inghiotte oscurità.
Il ruggito si impenna. La notte è nel parto.
La vita brilla, preziosa.
Salva, salva, dio che vede,
ciò che hai donato.
*
Il vagabondo dei deserti
Voi pesate su bilance sbilenche
con pesi penosi misurate
non davanti al qadi che smista
le colpe dei criminali
ma davanti ad Allah, benedetto
il suo nome, il creatore della vita.
Per una piccola perla date mille datteri
ma io che ho sofferto la fame nel deserto
so quanto è inutile una cintura di perle
che non dà nutrimento,
ma io, corroso dalla sabbia,
so quanto è inutile l’elsa di un pugnale
istoriata di gemme
che non sa dissetarmi.
In questa città di minareti, distante dal deserto,
non mi inchinerò davanti ai severi mausolei
e alle porte dorate
ma presso gli umili pozzi, nascosti
dal viavai, dove il pastore porta la mandria
a sera, e semina il latte agli allettati.
*
E io voglio ringraziare, ora, per l’ora della grande umiliazione
per l’ora in cui ci si rivela nudi
senza trama d’orgoglio
e ci si abbandona
come un grano di polvere nel magnanimo bagliore dei mondi –
e scopri che tutto è meraviglia, che la vita è meraviglia
una meraviglia questo mero rifugio e il pane e l’acqua
e più di ogni altra cosa è meravigliosa l’immeritata grazia
la fiducia eternamente riposta in un essere umano.
*
La forma che io sono
La forma che io sono
ma la materia è primordiale fiamma.
Fuoco negli occhi
fiamme le mani.
Nell’ebbrezza creatrice
si annodano lingue di fuoco
fameliche attorno al profilo
del tuo essere.
Diventa mera forma
forma ben temprata
eterea
che galleggia su infuocati mari
miracolo e miraggio
increata e in crescita
– perché questo è un dio –
che ribolle sopra il caos.
Di tutte le cose
il dio è il più transitorio
di tutte le cose
l’adorazione permane.
Ribolli, ribolli
illusione, elisione
tra le fiamme
trovi l’eterno.
*
Bevo il sacrificio
Sul vino grezzo si gettano musi pesanti.
Non è il vino a deformarli tanto.
Il vino libera i pensieri
ma incardina la lingua al palato.
Come segreto bagliore, la pira sacrificale
è grezzo vino rosso.
Soltanto io so per quali
poteri si snoda il fumo.
Soltanto io so quali
mondi mondano la mia ebbrezza.
Ciascuno è fisso altrove
altrove qualcuno respira.
Ciascuno alza i calici verso
cose invisibili agli altri, verso
oscure terre dove gioia e dolore
non hanno alcun senso.
Così, in segreto, alzo il vino
mia fiamma sacrificale
presso un dolore che è soltanto mio
e che paragono all’eterna burrasca in mare.
*
Quegli oscuri angeli maculati di blu
con fiori di fuoco tra i neri capelli
conoscono le risposte a strane domande blasfeme –
forse sanno dove porta il ponte
dalle cave della notte alla luce del giorno –
forse sanno dove si rifugia l’uno
forse nella casa del Padre esiste
un luminoso rifugio che porta il loro nome.
Karin Boye
L'articolo “Non siamo altro che la nostra segreta follia”. Karin Boye, la
poetessa angelica proviene da Pangea.
Di Mota, avevo sentito parlare. Del suo ventennio trascorso in solitudine sulle
montagne piemontesi, del suo alter ego che ha calcato le scene del rap,
dell’argomento spinoso su cui si impernia il suo testo. Ho provato a immaginare
quale difficoltà debba fronteggiare un autore nello sporgersi, e nell’esporsi
personalmente, sul ciglio di un abisso che in potenza è senza fondo, armato
soltanto delle proprie parole e del proprio coraggio. Quando la narrativa di
finzione arriva così vicina al punto di fusione con l’autobiografia, non c’è
niente da fare: la sfida la vinci o la perdi.
Conosco Mota nel caos di piazza Garibaldi, a Napoli, insieme al suo editor
Emiliano Peguiron, in una tarda mattinata di maggio, col sole che scalda e non
scalda. Pantaloni cargo, maglietta basica, berretto militare con visiera. Al
volo, ci imbarchiamo su un autobus sgangherato in direzione Pomigliano D’Arco. A
destinazione, ci attende l’ormai storica libreria Wojtek, roccaforte di lettori
preparati ed esigenti – una rarità, purtroppo, per lo stivale. In tangenziale,
col vento che rumoreggia attraverso i finestrini abbassati, saltano fuori
Houellebecq, Bergman e Vollmann, conveniamo che gli scrittori possano essere
“pugili o ex-pugili” e l’atmosfera subito si distende, prendendo inevitabilmente
corpo.
> “Di aguzzini e torturatori noi, in fondo, è come se ne avessimo bisogno. Non
> appena questi vengono meno, dileguandosi per forza di cose nel nostro passato,
> siamo pronti a sostituirli, a prendere il loro posto; assumiamo il loro ruolo,
> contro di noi. Continuiamo a ferirci, negandoci ogni diritto a una tregua,
> continuiamo a far del male a noi stessi, come se il virus con cui ci hanno
> infettati non potesse smettere di operare, richiedendo per sua natura una
> continua proliferazione, una mutazione inarrestabile. Il virus che sopravvive
> perché debellarlo sembrerebbe impossibile. E così, incrementando la nostra
> dipendenza, ci trasforma in molestatori e carnefici di noi stessi; non
> dobbiamo permettere che la familiare dose di mutilazione e castigo e
> sabotaggio vada perduta, e in mancanza di fonti esterne, dobbiamo
> somministrarcela da soli.”
Quella sera, nella tana dell’orso, nell’aria sulle teste della platea si
condensa un sottile stato di elettricità. I volti dei partecipanti, molti dei
quali hanno già affrontato il calvario della lettura, sono contratti, come
anneriti da un velo. Si avverte ciascuno mettere mano agli scaffali più oscuri
dell’anima e scavare, in segreto, nell’intimità delle proprie angosce
chiedendosi: cosa avrei fatto, se fosse successo a me? La risposta è una mano
fredda sulla fronte, gelida come il cadavere del buonsenso che quella domanda ha
appena ucciso.
L’incontro ha un carico emotivo a tratti insostenibile. Alcuni dettagli che Mota
decide di condividere da sotto la visiera del suo berretto, pescati direttamente
dalla sua esperienza, deflagrano come mine antiuomo all’interno della sala,
dando un peso specifico a un terrore che poteva vantare, fino a quel momento,
una certa dose di incorporeità. L’aberrante condotta del nonno. La disperazione
furibonda del padre. L’istantaneo omicidio di un’intera famiglia, il giorno in
cui, a molti anni distanza, Mota decide di confessare la verità dei fatti.
Squarciando il velo. Gettando la maschera. Le conseguenze sulla platea sono
evidenti.
> “Mi sto inoltrando verso il dormitorio in un’ombra più estesa e più fitta. A
> chi vuoi dirlo?, bisbiglia la voce piena di sangue, con quelle innumerevoli e
> minuscole gocce di sangue sulle corde vocali. Non voglio dirlo a nessuno,
> perché non c’è niente di sbagliato, forse lui ha davvero rischiato di morire
> ma io non ho fatto nulla di male. Non vuoi dirlo a nessuno? Neanche a te
> stesso? No. E allora lui ha vinto.
>
> Davvero? Domani farò colazione. E sì che racconterò tutto, ma solamente a
> Martin e a Vanessa. Domani, quando ci sveglieremo, faremo colazione. Con i
> biscotti e il latte freddo, in modo che i biscotti inzuppati solo per un
> attimo non diventino molli e restino comunque croccanti e piacevoli da
> mordere, e non vadano a formare quella poltiglia sul fondo della tazza.”
Di rado capita, specie nel nostro anemico panorama letterario, di trovarsi di
fronte a un’opera che obblighi a un tour nell’abiezione prima dell’uscita, che
sia in grado di far sanguinare il lettore anziché leccargli l’ego; un’opera il
cui tema risulti tanto scomodo, scivoloso, inospitale, e solitamente relegato a
semi-taciuti o presto insabbiati scandali ecclesiastici, da poter essere
ritenuto respingente. Anzi, si potrebbe affermare che l’abuso minorile sia una
di quelle dispute in cui è meglio non immischiarsi (non giova agli affari) o su
cui soprassedere, facendo finta di niente.
La Luce Inversa rifiuta categoricamente di volgere altrove lo sguardo, di
schierarsi a favore di un glissato troppo spesso in voga nei corridoi delle sedi
istituzionali. I suoi contenuti non risparmiano niente al lettore. I dettagli
anatomici. Le pratiche di adescamento e stupro. Le secrezioni. Le cantine
maleodoranti. La necrosi dei rapporti di forza relazionali su cui un individuo
può, in condizioni, per così dire, sane, fondare la propria identità. Nessuna
edulcorazione. Nessuna salvezza.
Vanessa, Siddiq e Martin sono gli incolpevoli protagonisti delle storie di
violenza infantile che raccontano e nella così detta “camera a luce inversa”
partecipano all’esperimento terapeutico di regressione della dott.ssa
Hollis. Con uno stile lirico ad alto contenuto immaginifico (si odono gli echi
dei Canti di Maldoror, di Lautréamont), Mota ci costringe a guardare laddove è
più buio. Laddove in eterno muore ogni possibile redenzione. Pur non rinunciando
al montaggio e a un certo gusto dickiano per la science–fiction, la lingua si
dispiega sulle pagine, alta, agile e ricca, dilatandosi, dagli abusi al mare,
dalla “casa tra le nuvole” alle remote galassie interstellari, come gas da
inalare d’un fiato, fino in fondo, fino a imparare, anche noi, per interposta
persona, la tecnica maestra per scarnificare le pareti organiche dei nostri
inferni privati.
> “ […] gli disse che tutto questo era capitato anche a lui molto tempo prima e
> che un altro vecchio ormai morto aveva fatto con lui le stesse cose che adesso
> lui stava facendo con il bambino che erano le cose più normali che potessero
> accadere tra due come loro due così legati e analoghi e necessari e obbligati
> lì a esserci l’uno per l’altro che tutto si ripeteva allo stesso modo da
> generazioni che era una specie di insegnamento e di trasmissione e non
> bisognava averne paura e allora il bambino disse va bene nonno e smise di
> singhiozzare e più tardi disse al vecchio che aveva freddo ma proprio attorno
> allo zero assoluto il vecchio continuava a cantilenare delle cose più normali
> che potessero accadere e poi di colpo il vecchio cambiò modalità strisciò
> sulle ginocchia ripercorrendo il materasso in direzione del muro trafficando
> con la cintura dei pantaloni al centro del contagio di luce sospesa si slacciò
> i pantaloni e poi slacciò la bocca del bambino spingendo con un dito sul mento
> e con l’altro sul labbro superiore mentre con una spalla appoggiata al muro
> […]”
Per quanto abbiamo disimparato a sentirci coinvolti negli orrori e nei genocidi
che, nel silenzio complice dell’Occidente, il nostro tempo pubblicamente
sbandiera, se esiste un modo di “superare” la lettura de La luce inversa è
quello di prendere sulle nostre spalle un pezzo di abominio. Farci carico di un
brandello di questo dolore e smettere di sentirci intoccabili davanti all’altare
del trauma. Consideralo un neo comunitario.
Quando usciamo dalla tana dell’orso, dopo due lunghe ore di indagini del
baratro, restiamo per un attimo fermi, sotto a un cielo che nel frattempo si è
fatto scuro. Il libro, sul ring della lotta per la sopravvivenza dell’individuo,
vince la sfida per knock-out. Chissà se, come consorzio umano, riusciremo a
vincere mai, almeno ai punti.
Vincenzo Montisano
*In copertina: Anselm Kiefer, Schnee, 1995-2012
L'articolo Il nostro bisogno di torturatori. “La Luce Inversa”: storia di un
libro devastante proviene da Pangea.
Forse, fra i lettori, proprio coloro che provano una certa inquietudine al
pensiero di ritrovarsi su un aereo e dover volare, spesso loro malgrado,
finiscono per apprezzare maggiormente i racconti e i romanzi dedicati a questo
strano desiderio umano di “staccare l’ombra da terra”. Siamo, o siamo stati,
tutti lettori appassionati di Saint-Exupéry nonché, in tempi più recenti, di
quel notevolissimo e sfortunato scrittore – sfortunato come uomo, ma fortunato e
talentuosissimo come scrittore – che è stato Daniele Del Giudice.
Il mondo degli aerei e dei piloti torna prepotentemente in primo piano
nell’opera di un altro grande scrittore del Novecento, lo statunitense James
Salter, ancora troppo poco conosciuto da noi, benché Guanda ne abbia pubblicato
quasi tutta l’opera. Di Salter ricorre ora un doppio anniversario: cent’anni
dalla nascita, avvenuta il 10 giugno 1925 e dieci dalla morte, il 19 giugno
2015, subito dopo il compimento dei novant’anni. Una vita lunga e, come vedremo,
anche complessa, a cui non corrisponde la mole di pubblicazioni che ci si
potrebbe forse aspettare. In termini quantitativi l’output è stato nell’insieme
modesto, insomma, ma se si passa, come si dovrebbe, a una valutazione
qualitativa, il discorso cambia radicalmente, perché Salter è da considerarsi
una figura di assoluto spicco nella letteratura statunitense del secondo
dopoguerra. La sua scrittura, scrive John Irving nella postfazione all’edizione
italiana di A Sport and a Pastime(Un gioco e un passatempo, edito da Rizzoli nel
2006 e riproposto da Guanda nel 2015) – un titolo, sia detto per inciso, tratto
curiosamente da una sura del Corano – “trasforma i suoi libri, romanzi o memorie
che siano, in risultati letterari eccezionali”, tanto che qualunque scrittore
contemporaneo “si sentirà umiliato dalla sua lingua”.
Nato nel New Jersey, all’età di appena due anni Salter, che in realtà si
chiamava James Arnold Horowitz, segue la famiglia a Manhattan, e New York
diventa la sua città, la città in cui frequenta anzitutto le scuole superiori
(fra i compagni di scuola si annoverano fra gli altri Julian Beck e Jack
Kerouac), pubblicando le prime poesie, a suo dire terribili, sul giornalino
scolastico. È uno studente brillante e molto portato per le materie
scientifiche, e al momento della scelta dell’università, indeciso fra il MIT e
Stanford, si lascerà convincere dal padre, un ex militare, a entrare – siamo nel
1942 – all’Accademia militare di West Point. Si arruola poi nell’aviazione, ma
nel frattempo si laurea e ottiene anche un master alla Georgetown University, e,
dopo alcuni incarichi nelle Filippine, in Giappone e alle Hawaii, partecipa alla
guerra di Corea eseguendo un centinaio di missioni di combattimento nei cieli
coreani. Da questa esperienza ricava nel 1956 il suo primo romanzo, The
Hunters (Per la gloria, Guanda, 2016), che per non dare nell’occhio fra i
commilitoni pubblica con lo pseudonimo di James Salter, nome che in seguito
deciderà di adottare anche nella vita civile. Da The Huntersverrà anche tratto
nel 1958 un fortunato film con Robert Mitchum.
Segue nel 1961 The Arm of Flesh, ripubblicato quasi quarant’anni dopo con varie
modifiche e con il nuovo titolo di Cassada, un altro romanzo incentrato sulle
sue esperienze di pilota, ma ambientato stavolta alla base aerea di Bitburg, in
Germania. Nel frattempo, tuttavia, Salter ha capito che, se davvero vuole
dedicarsi alla letteratura, deve cambiare vita. Un segnale di una possibile
crisi esistenziale, a ben vedere, si coglie già in alcune pagine di Per la
gloria (cito qui dalla traduzione di Katia Bagnoli) che sembrano attagliarsi a
chiunque vada in pensione o smetta un’attività:
> “Fare parte di una squadriglia era una sintesi dell’esistenza. Quando arrivavi
> eri un bambino. C’erano opportunità infinite, e tutto era nuovo. Gradualmente,
> quasi senza rendertene conto, i giorni degli studi faticosi e del piacere
> erano finiti, avevi raggiunto la maturità; e poi all’improvviso eri vecchio, e
> volti e persone nuove che faticavi a riconoscere ti spuntavano intorno in
> fretta, fin quando scoprivi di non essere più il benvenuto fra loro perché
> tutti quelli che avevi conosciuto e con cui avevi vissuto se ne erano andati e
> la guerra non era diventata altro che una serie di ricordi incondivisibili di
> eventi avvenuti tanto tempo prima.”
Salter lascia quindi l’aeronautica e per guadagnare qualcosa si dà alle
sceneggiature di film e documentari, vincendo anche un premio alla Mostra di
Venezia del 1962, scrivendo nel 1969 la sceneggiatura di un film ambientato a
Roma, L’appuntamento, diretto da Sidney Lumet e interpretato da Anouk Aimée e
Omar Sharif, e collaborando, fra gli altri, con Robert Redford, per il quale
scrisse la sceneggiatura di Downhill Racer(Gli spericolati). Quest’ultimo
tuttavia infine rifiutò, perché il protagonista gli sembrava troppo riservato e
inadatto a lui, la sceneggiatura per un altro film, Solo Faces, incentrato sul
mondo degli scalatori, che lo scrittore decise in seguito di trasformare in un
romanzo, uscito nel 1979. Romanzo che diventerà un libro di culto nell’ambiente
appunto degli appassionati di quello sport.
Ma la strada di Salter è decisamente quella della narrativa pura, e se sarà
ricordato, come credo e spero, ciò avverrà grazie a una manciata di romanzi e
volumi di racconti che hanno rappresentato un’alternativa forse minoritaria, ma
non per questo meno presente e proficua, rispetto alla tradizione prevalente
nella recente letteratura statunitense, quella delle narrazioni fluviali, da
Bellow a Roth, da Updike a Mailer, da Ford allo stesso Irving, e oggi da De
Lillo a Franzen. Tanto divergente è potuto sembrare a molti critici il suo
cammino che Salter è stato presto bollato come atipico ed “eurocentrico”, il che
forse non è del tutto errato, se si pensa ai forti legami da lui intrattenuti
con diverse letterature europee, e in particolare con quella francese (per un
periodo ha anche vissuto a Parigi). Dagli scrittori europei Salter mutua forse
la riflessione sulla letteratura come modalità di vita, e la sua forza sta nel
far sì che, grazie a un instancabile lavoro di cesello, ogni sua opera, dal
romanzo più corposo al più breve dei racconti, sia un piccolo o grande
capolavoro. Nei suoi quasi sessant’anni di attività come scrittore, da The
Hunters all’ultimo romanzo uscito nel 2013, All That Is (Tutto quel che è la
vita, Guanda, 2015), Salter ha saputo mantenere inalterata nel tempo la tensione
e la profonda meditazione che si avverte dietro ogni sua pagina, ogni paragrafo,
persino ogni frase da lui formulata – quella che considerava, cioè, la vera
unità di misura della narrativa. A proposito della sua frase, appunto, e di
quanto sia ben tornita, Richard Ford ha scritto una volta che “It is an article
of faith among readers of fiction that James Salter writes American sentences
better than anyone writing today” (“È articolo di fede tra i lettori di
narrativa che James Salter scrive oggi frasi americane meglio di chiunque
altro”).
Grande estimatore delle metafore, Salter riesce quasi sempre a stupire, a
coniarne di nuovissime. Per farmi capire meglio prendo, praticamente a caso, un
suo paragrafo, uno dei tanti che potrei citare, l’inizio del secondo capitolo
di Una perfetta felicità (nella traduzione di Katia Bagnoli). Ecco cosa scrive:
> “Era l’autunno del 1958. Le bambine avevano sette e cinque anni. Sul fiume,
> del colore dell’ardesia, si riversava la luce. Una luce morbida, un’indolenza
> divina. In lontananza il ponte nuovo scintillava come una dichiarazione
> d’intenti, come un’affermazione che in una lettera costringe chi legge a
> soffermarsi.”
Un paragrafo praticamente perfetto.
Scrivere, cancellare e riscrivere continuamente, questa la sua tecnica,
acquisita quando i computer non esistevano ancora, ma mantenuta poi anche in
seguito, a garanzia di una ricerca incessante e faticosa dell’espressione
migliore, più calzante. Diceva di odiare quanto sgorgava direttamente dalla
mente, e che l’unico piacere dello scrivere consisteva in realtà nel correggere
e riscrivere. A questa inclinazione artigianale Salter univa una grande
curiosità per gli altri e per il mondo, che gli consentiva di archiviare prima
nella sua mente e riutilizzare poi nelle sue storie impressioni e frammenti di
discorsi accumulati nei decenni, giungendo il più delle volte, come ha
confessato, a creare personaggi che sono spesso un originale collage di diverse
persone reali, colte in una battuta o in un singolo atteggiamento. Sebbene
qualche critico abbia definito il suo stile impressionistico, o addirittura
affine al pointillisme in pittura, Salter ha regolarmente sottolineato di aver
voluto solo e sempre ricercare la massima chiarezza, insistendo non tanto sulle
grandi teorie, quanto sulle gioie e sulle asperità della vita quotidiana.
La sua abilità nel descrivere la passione sentimentale e sessuale – ne è un
esempio evidente A Sport and a Pastime –, così come la pulsione di ciascuno di
noi verso le novità e il cambiamento, palesa uno studio appassionato di diversi
antecedenti letterari, fra cui Salter stesso ha sempre annoverato un altro
militare, Isaac Babel’, ma anche Gogol’, Gide, Kawabata, Nabokov, Karen Blixen,
Thomas Wolfe e Marguerite Duras. Uno studio, peraltro, ravvicinato e intenso,
senza limitazioni o timori reverenziali, fondata sull’augusta e oggi troppo
frettolosamente abbandonata pratica della mimesi.
Con Light Years, del 1975 (tradotto in italiano da Guanda nel 2015 con il
titolo Una perfetta felicità),Salter riesce a raccontare con un’ispirazione
felicissima e uno stile ellittico e obliquo una storia, d’amore prima e di
bruciante separazione poi, basandosi sulla convinzione più volte espressa che
nella vita non conti tanto la realtà oggettiva, quanto la memoria, i ricordi che
riusciamo a strappare all’oblio. Scriverne e descriverli è anzi l’unico modo per
farli e farci vivere ancora. “There is no complete life,” sostiene. “There are
only fragments” (“Non esiste la vita completa, ci sono solo frammenti”). Ma la
forza del libro sta anche nella sua capacità di descrivere le conseguenze della
dissoluzione di una famiglia per tutti i suoi componenti e di farci entrare con
discrezione, ma anche con consumata maestria, nella mente dei protagonisti: la
bella, sofisticata e confusa Nedra, avvinta dalla lettura della biografia di
Alma Mahler, e il marito Viri, un architetto ebreo elegante e a suo modo
romantico – ebreo proprio come quel Salter il cui matrimonio andrà in pezzi poco
dopo la stesura del libro. Ma d’altra parte in Salter l’autobiografia, seppur
ben dissimulata, è sempre in agguato: la storia d’amore torrida con la ragazza
francese di A Sport and a Pastime è tratta di peso dalle sue esperienze
personali, e la vita, fra il divorzio, la morte improvvisa di una figlia in
circostanze drammatiche e le malattie che contrappuntano l’avanzare dell’età,
non lo ha certo risparmiato. Ma nelle sue opere ha saputo sempre evitare
qualsiasi tentazione di ripiegamento su sé stesso e di sentimentalismo.
Sulla fine di un amore tornerà anche con il bellissimo racconto che dà il titolo
alla raccolta Dusk and Other Stories, uscita nel 1988 (Crepuscolo e altre
storie, Guanda, 2022), racconto seguito da una serie di altre piccole gemme. Il
libro otterrà il PEN/Faulkner Award, un premio di grande prestigio. Lo stesso
livello qualitativo si riscontra senz’ombra di dubbio nella seconda raccolta,
dal titolo Last Night, che esce nel 2005 (L’ultima notte, Guanda, 2018).
In Burning the Days, del 1997 (Bruciare i giorni, Guanda, 2018), che è invece
una specie di memoir o autobiografia per frammenti, in cui si muove senza alcuna
remora da un periodo all’altro della propria vita, lo scrittore spinge ancora
oltre l’idea della reminiscenza come (unica) base della narrazione. Anche in
questo caso Salter sfugge all’assillo, secondo lui deleterio, di dover evocare
tutto e ribadisce invece il proprio diritto al parziale silenzio, alla cernita,
alla scelta, che oltre tutto ha il potere di stimolare la collaborazione del
lettore, la cui curiosità a volte inappagata diventa un asse trainante del
libro.
James Salter (1925-2015)
Una curiosità per chiudere. Come il nostro Filippo Tuena, che ha voluto dedicare
al cocktail Martini un libro collettaneo uscito qualche anno fa per Nutrimenti,
anche Salter ne è stato per tutta la vita un adepto. Una volta calcolò quanti
Martini aveva bevuto in vita sua, e giunse alla conclusione che dovevano essere
all’incirca ottomilasettecento. Dev’essere, questa predilezione per il cocktail
Martini, un’altra caratteristica degli scrittori di oggi, almeno dei più
interessanti: qualcuno, prima o poi, potrebbe farne magari l’argomento di una
tesi di laurea.
Raoul Precht
*In copertina: poster di Downhill Racer (“Gli spericolati”), 1969, film di
Michael Ritchie, scritto da James Salter, con Robert Redford e Gene Hackman
L'articolo James Salter o della scrittura come cocktail Martini proviene da
Pangea.
Il 6 maggio al Teatro Nazionale di Milano è andato in scena “Muse 1984 –
Resistance”, opera rock che è insieme un concerto tributo dedicato ai Muse, una
delle più importanti band del panorama musicale degli ultimi decenni, e
una pièce teatrale tratta da 1984 di George Orwell, classico della letteratura
novecentesca che ha ispirato l’album capolavoro dei Muse, “The Resistance”.
Diretto da Marco Rampoldi e prodotto dalla sua Rara Produzione, per la
drammaturgia di Paola Ornati, lo spettacolo tornerà sul palcoscenico il 7
novembre al teatro Michelangelo di Modena[1].
1984 di George Orwell (1949)
In un 1984 profetizzato all’ombra delle dittature del secolo breve, una Londra
post-atomica vive nell’era della solitudine: negli uffici, nei luoghi di
ritrovo, persino nell’intimità delle case, teleschermi sempre accesi scrutano e
ascoltano ogni espressione involontaria, ogni sospiro. Pensare è un crimine, e
come tale la Psicopolizia lo combatte, condannando i colpevoli a una damnatio
memoriae totale. Ogni atto d’amore è bandito. Nessuno è al sicuro, nemmeno da
colleghi e amici, nemmeno dai propri stessi figli. Nessuno è solo, eppure
nessuno lo è mai stato tanto radicalmente.
L’occhio del Grande Fratello non dorme mai. Un distopico Mago di Oz che muove i
fili del mondo da dietro le quinte. Un mortale, un superuomo, o forse un dio,
realmente esistente, o solo proiezione di un’ideologia. Impone all’umanità un
eterno presente, sempre mutevole eppure sempre uguale a sé stesso, perennemente
riscritto dal Partito ogniqualvolta cambi il vento. Perché il Partito non
sbaglia, e ciò che afferma è immutabile. Il tempo della Storia è finito, esiste
solo la narrazione del Partito, con le sue macchine che sputano fuori senza
sosta informazione, romanzi, film e musica, costruiti a tavolino sulla
Neolingua, un nuovo vocabolario ridotto all’osso, come del resto il pensiero,
ormai atrofizzato.
Uniche vestigia del passato, i versi di una filastrocca che cantano le voci
delle campane di Londra, un fermacarte di corallo, un diario dalle pagine
immacolate. Su questo diario Winston Smith, impiegato del Partito, scrive,
incidendo nelle sue pagine il disperato tentativo di ricordare, di rimanere
sano, di essere libero.
Affida la sua resistenza alla scrittura, e all’amore per Julia. Ma anche l’amore
e il desiderio di libertà fine a se stessi, senza istinti ideologici
rivoluzionari, sono condannati a non essere mai incontaminati, a essere sempre
un atto politico. Si è con il Partito o contro il Partito, unico polo di
attrazione o repulsione, la neutralità è morta. Non si può essere invisibili di
fronte allo sguardo del Grande Fratello.
Nato in un’epoca dilaniata dagli orrori del Nazismo e dello Stalinismo, il
romanzo nasce come condanna a qualunque dittatura, rivelandone, pur nella
grottesca iperbole della fantapolitica distopica, il reale meccanismo che
accomuna ogni forma deviante di governo, il potere per il potere. Era ancora
troppo coinvolto per aprire alla speranza in un mondo migliore: se infatti fin
dall’inizio la rivoluzione è affidata ai posteri, e rimandata a un futuro
lontano, sul finire del romanzo Winston è definito “l’ultimo uomo”, l’unico
sopravvissuto di una specie in via di estinzione, e forse già estinta. Ma anche
lui rinnegherà Julia e il loro amore, a cui si sostituirà quello cieco per il
Grande Fratello, marchiato a fuoco nella sua mente da torture fisiche e
psicologiche. È un punto di vista drammatico, ma, in quel momento storico,
necessario.
*
L’album “The Resistance” dei Muse (2009)
Un fremito di speranza fa vibrare invece le corde di “The Resistance”, quinto
album dei Muse, gruppo musicale rock alternativo britannico tra i più influenti
a livello globale. Nata negli anni Novanta e composta da Matthew Bellamy, Chris
Wolstenholme e Dominic Howard, la band si è aggiudicata alcuni tra i più
prestigiosi premi del mondo musicale, e nel 2022, anno di uscita dell’ultimo
album, ha raggiunto il traguardo di oltre trenta milioni di copie vendute in
tutto il mondo.
La distopia è un universo narrativo da spesso frequentato dai Muse, ma questa
volta con “The Resistance” il richiamo a 1984 è voluto ed esplicito. Ed
estremamente riuscito nel suo adattamento in chiave musicale, canonizzato dal
Grammy al miglior album rock.
Una definizione che restringe però i confini “rivoluzionariamente” indefiniti di
“The Resistance”, che all’insegna dello sperimentalismo, e di una libertà di
espressione fortemente tematica, percorre spazi dal rock all’elettronica, dal
metal alla ballad, fino a toccare la musica classica, in un crescendo di scambi
e unioni tra gli strumenti tipici della formazione dei Muse (chitarra elettrica,
basso e batteria) e l’orchestra sinfonica, posti in dialogo da un ponte ideale
gettato dagli assoli di piano del frontman, nonché compositore, Matthew Bellamy.
Siamo quindi accompagnati in un viaggio che ci porta dal ritmo incalzante di un
inno rivoluzionario come “Uprising” (Non ci sottometteranno/ Smetteranno di
umiliarci/ Non ci controlleranno/ Saremo vittoriosi/ Quindi, forza!) a brani più
intimi, come “Resistance”, pezzo che dà il nome all’album e che culmina quasi
con l’afflato di una preghiera (L’amore è la nostra resistenza/ Portaci via
dall’inferno/ Proteggici da ogni altro male/ Resistenza), fino ad arrivare a “I
Belong to You (+ Mon Coeur S’Ouvre a Ta Voix)”, che incastona una rivisitazione
dell’aria tratta dall’opera Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns.
Di straordinaria potenza è poi il dittico “United States of Eurasia” e “Guiding
Light”: il primo brano è un’opera in miniatura, un mosaico di movimenti che in
quasi sei minuti racconta il presunto stato di guerra perenne che in 1984 è
utilizzato dal Partito come instrumentum regni, e condanna con esso tutte le
guerre, destinate a non finire mai perché continuamente alimentate dal potere al
fine di controllare le masse, quando invece il mondo potrebbe essere un’unica
realtà (E queste guerre, non possono essere vinte/ E tu vuoi che vadano avanti/
Ancora e ancora/ Perché dividere gli Stati/ Quando può essercene uno solo?). Uno
specchio di terribile attualità che ricorda le geografie sonore quasi oniriche
di “Innuendo”, capolavoro dei Queen, attraversando sonorità rock, inserti
arabeggianti e una coda, intitolata “Collateral Damage”, in cui Bellamy
interpreta al pianoforte il Notturno in Mi bemolle maggiore op. 9 n. 2 di
Fryderyk Chopin, mentre di sottofondo intuiamo risate di bambini, e l’eco di un
aereo miliare, che prosegue il suo volo di morte nel brano seguente, spegnendosi
nel boato delle percussioni che introducono la struggente ballad “Guiding Light”
(Ma sono perso, schiacciato, infreddolito e confuso/ Senza una luce guida
rimasta dentro di me/ Tu sei la mia luce guida/ Quando non c’è nessuna luce
guida che ci è rimasta dentro/ Quando non c’è nessuna luce guida nelle nostre
vite).
Chiude l’album il trittico dal titolo “Exogenesis”, una sinfonia composta da tre
movimenti, “Overture”, “Cross-Pollination” e “Redemption”.
È quindi nell’ottica della redenzione, e della promessa di ricominciare
percorrendo questa volta la giusta strada, che si chiude l’album: i 60 anni che
separavano il romanzo da “The Resistance” avevano frapposto un velo di distacco
che apriva uno spazio per sperare, e per resistere.
*
Muse 1984 – Resistance. Rock Opera
Ed è proprio in questo spazio reso fertile dalla speranza che mette radici la
“resistenza”, e con essa la partecipazione e l’adesione a un progetto
rivoluzionario di amore, libertà e pace.
Partecipazione e adesione che si respirano al Nazionale non solo grazie
all’energia travolgente dei più grandi successi dei Muse, che ha fatto alzare
dalle poltroncine e cantare anche un pubblico “introverso” e composto come
quello milanese, nel petto l’eco impetuosa della musica dal vivo, ma anche
grazie alla scelta tematica dei passi tratti dal romanzo e trasformati in
recitativi, a creare un percorso narrativo tra i brani musicali, trasformando un
concerto tributo in una vera e propria opera teatrale: l’accento, come
nell’album madre dello spettacolo, è posto sul seme di una rivoluzione destinata
a deflagrare e su di un’incorruttibile storia d’amore tra Julia (quasi un sogno,
che vediamo e ascoltiamo solo attraverso gli schermi) e Winston, interpretato da
Arcangelo Deleo con recitativi e tramite l’interpretazione dei brani nel ruolo
del frontman. Una rivoluzione e un amore che nel romanzo sono destinati a
fallire, andando a estirpare forse l’ultimo germoglio di umanità rimasto nel
mondo, e che qui invece sembrano volti a un disegno più grande, al di là della
salvezza e della libertà individuale dei protagonisti, un disegno che mira a
risvegliare l’umanità intera.
E il pubblico. Gli spettatori sono chiamati a vivere un’esperienza immersiva,
calamitati da un universo scenografico, progettato dallo stesso regista Marco
Rampoldi, che non lascia scampo: un’impalcatura in ferro sovrasta il
protagonista come un ingranaggio immane e fatale, e punta sulla platea gli occhi
implacabili dei teleschermi che nella Londra orwelliana spiavano ogni angolo
della vita della gente, e proiettavano le ingannevoli narrazioni della
propaganda.
Questa incombente struttura accoglie su piani solo apparentemente incomunicabili
i musicisti, giovani artisti di straordinario talento formatisi in alcune delle
più prestigiose scuole italiane e internazionali (Luca Corbani al basso, Giacomo
Gagliardini alla chitarra, Simone Mauro Ghilardi alle tastiere e Matteo Rampoldi
alla batteria). A tratti, negli intermezzi dei brani, indossano (idealmente) la
maschera, interpretando sia con recitativi dal vivo sia tramite video proiettati
dagli schermi gli agenti del Partito, con le agghiaccianti contraddizioni dei
suoi slogan: “la guerra è pace”, “la libertà è schiavitù”, “l’ignoranza è
forza”.
Eppure, i teleschermi non sono solo occhi e strumenti della propaganda, ma anche
finestre: finestre sull’interiorità di Winston, sui suoi spazi di libertà. E
così vi leggiamo le traduzioni dei testi delle canzoni, perché nulla vada
perduto, e le pagine del diario scritto in segreto dal protagonista.
Perché in un mondo dove tutto è sintetico, il linguaggio è atrofizzato, il
pensiero è un crimine, e nessuno è libero di scrivere, o di cantare, e dove si
distrugge anziché costruire, la creazione, l’arte, sono rivoluzionarie. E, in un
presente che sembra adombrato dalla distopia di Orwell, dove la guerra, la
solitudine e il silenzio interiore di una società troppo rumorosa sono ancora
drammaticamente attuali, sono un coraggioso atto d’amore per l’umanità.
Sono la nostra forma di resistenza. Perché salvare l’umanità non significa
preservare a ogni costo la nostra sopravvivenza, ma custodire ciò che ci rende
umani: “l’obbiettivo non è restare vivi, ma restare umani”.
Chiara Bianchi
*Si pubblica in anteprima l’articolo di Chiara Bianchi, in uscita sull’ultimo
numero di “Studi Cattolici”
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[1] Per rimanere aggiornati sulle prossime novità, consultate il
sito www.raraproduzione.it e le pagine Instagram dedicate @rara_produzione e
@muse1984.
L'articolo “L’amore è la nostra resistenza”. 1984: dal romanzo all’opera rock,
da Orwell ai Muse proviene da Pangea.
L’umidità, le escrescenze di nebbia, il sole a brandelli, un sole lebbroso e
inguaiato di guaiti: tutto consegna Orbassano, pallida periferia torinese, alla
savana. Da un momento all’altro, nel latteo parco che congiunge, con minuzia da
sarta, il cimitero alle palazzine di fresco conio, sbucherà un leone.
Le montagne, alle spalle, visibili appena, per bianchi picchi – restano Alpi ma
sembrano il Kilimangiaro.
Eppure, sono le cornacchie (Corvus cornix) a dominare gli apparati cittadini e
le abitudini orfiche degli abitanti. Sono loro, ovunque, a spiarci – presto, ci
soppianteranno: la loro intelligenza è violenta. Nel disastro nebbioso, sono
iene.
*
Mi madre amava La mia Africa; io ho amato Karen Blixen. Nella biografia di Ole
Wivel, Karen Blixen. Un conflitto irrisolto – stampa Iperborea; ma per capire
qualcosa su Karen Blixen bisogna leggere la biografia di Rossella Pretto (Karen
Blixen. Il coraggio, l’amore e l’ironia), edita di recente da Ares –, non per
forza bella, spiccano alcune fotografie di Karen da giovane: è più affascinante
di Meryl Streep. Anche Denys Finch-Hatton, audace rampollo dell’antica
aristocrazia inglese, educato a Eton, capace nel volo, spicca, nelle rare
fotografie, con uno sguardo magnetico non inferiore a quello – più pittorico ma
meno pittoresco – di Robert Redford.
Ad ogni modo. Seduto sul balcone della casa popolare di mia madre, mi sembra di
essere in “una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong”.
*
I libri di Karen Blixen sono tra i rari cimeli della biblioteca di famiglia,
quando stavamo in un’altra casa, da ospiti, opliti alle incurie parentele. La
casa, della fine dell’Ottocento, aveva un giardino con matrona magnolia in mezzo
– un alto cancello mi separava dal mondo. Non era difficile sognare l’Africa –
la biblioteca pareva un baobab.
Resiste, dalla dispersione di tutto, alla persecuzione del fato, la maschera di
legno di un guerriero giapponese – di chi sia e da dove provenga lo ignoro.
*
La mia Africa, per la avventuriera singolarità, mi è sempre parso un libro
meraviglioso. A differenza di Hemingway, che racconta l’Africa con la tempra
dell’uomo nuovo, del disperso disperato, Blixen mantiene un aplomb micidiale nel
dire le bestie e i boschi, le savane e i safari. La nostalgia con cui intride le
frasi è quella di una divinità antica, nordica, priva di compassione,
consapevole che di quel sole australe puoi nutrirti una volta per sempre – dopo
averlo dissanguato, resta una conchiglia, l’eco di evi. È vero, Le nevi del
Kilimangiaro è il racconto onnipossente di Hemingway, ma alcune pagine de La mia
Africa non sono meno belle – ‘Papa’ lo sapeva, e ricamò, in pubblico, più volte
la sua ammirazione per Karen.
Nella veranda, a Orbassano, sognando un Africa che non vedrò mai, ho letto le
pagine in cui Blixen racconta una battuta di caccia ordita con Finch-Hatton: i
leoni stavano ammazzando diverse bestie della sua mandria.
> “L’aria del primo mattino, sugli altipiani d’Africa, è fresca e così
> palpabilmente frizzante da spingerci di continuo alla stessa fantasticheria:
> pare di trovarsi non sulla terra ma immersi in una profonda acqua scura e di
> avanzare sul fondo del mare”.
Da qualche parte, mi pare, Karen Blixen ha scritto che il senso della vita è
nella sua insensatezza – che per questo è bene vivere sempre nell’anatema e nel
rischio.
Senza sfoggio di aggettivi, con l’accuratezza di chi sa infierire, con astuzia,
nel linguaggio – disinnescando trappole e confessioni –, Blixen racconta di una
caccia notturna con Denys, tra le latebre, maneggiando una lanterna che potremmo
chiamare Delfi.
> “L’Africa, di colpo, divenne sconfinatamente grande, e Denys e io, lì, in
> piedi, infinitamente piccoli. Non c’era che buio oltre la luce della lampada.
> Nel buio due leoni caduti in due punti diversi, e dal cielo la pioggia. Ma
> quando il rantolo si spense, niente si mosse più”.
Chi può uccidere il figliastro del sole? Karen ha difeso la propria fattoria –
che andrà in disastro, comunque, secondo i precordi del destino, poco dopo.
*
Per scampare alle malie della periferia, bisogna sognare i leoni.
Sono le cornacchie, piuttosto, a ripotarmi al vero – la calura infetta i giochi
dei bambini, in basso: in due su una jeep giocattolo; in tre con la palla. Un
molosso, dalle siepi, abbaia; il padrone sbraita; tutto vive per consunzione.
Ballata per piccole iene esce nel 2005; Manuel Agnelli ha leonina la voce;
l’ascolto più tardi, in autostrada, come un’appendice alle memorie di Karen
Blixen. “Fra piccole iene/ Anche il sole sorge/ Solo se conviene…”. Preferisco
questo brandello, che sa di un amore moribondo:
> “Aiutami a trovare
> Qualcosa di pulito
> Uccidi, ma non vuoi morire
> Uccidi, ma non vuoi morire”.
Cosa c’è di pulito nell’amare? Amare è un effluvio di carcasse. Pulire cioè:
eliminare le scorie; dare alle ossa tornitura di tuono. Che le ossa brillino,
allora, come un collier.
Karen Blixen (1885-1962)
*
Ma prima c’era qualcos’altro, non per forza attinente. Qualche giorno fa, in
liturgia, la Seconda lettera ai Corinzi: “Noi tutti, svelati nel volto alla
gloria di Dio, vedendo come in uno specchio la sua immagine, veniamo trasformati
in essa, di gloria in gloria, dallo Spirito di Dio” (3, 18). Il testo
contrappone il velo allo specchio, la legge alla libertà, l’icona
all’idolo. Esoptron è uno specchio metallico, non vitreo; Paolo usa lo stesso
termine in 1 Cor 13,12 dicendo qualcosa di diverso: “Adesso noi vediamo
nell’enigma, come attraverso uno specchio; allora [vedremo] faccia nella
faccia”.
Nel primo caso, lo specchio è il tramite per trasformarsi in Dio; lo specchio è
come la placenta del Volto – nel secondo caso, lo specchio è un enigma.
Nella Bibbia, lo specchio è citato di rado: soltanto sei volte; soltanto tre nel
Primo Testamento.
Chissà se Paolo conosceva la leggenda dello “specchio [katoptron] di Dioniso”.
> “Dioniso, dopo aver posto la sua immagine nello specchio, la seguì e fu
> infranto nel Tutto”.
Così scrive Olimpiodoro, e così commenta Angelo Tonelli: “Dioniso è l’Assoluto
che si fa molteplice frammentandosi in una pluralità di riflessi o apparenze che
originano perpetuamente da esso” (in: Negli abissi luminosi. Sciamanesimo,
trance ed estasi nella Gracia antica, Feltrinelli, 2021).
I termini in contrasto sono immagine e immaginazione, riflesso e riflessione,
somiglianza e idolo. Se l’uomo, fatto ‘ somiglianza’, confida nel proprio
riflesso, è incarcerato dallo specchio, suo trono e patibolo.
Da un lato – Dioniso – il dio è puntiforme, si dissemina in frammenti (“Per
questo dicono anche che Efesto fabbricò uno specchio per Dioniso e che il dio
guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla
fabbricazione di tutta la pluralità”: così Proclo). Dall’altro, Dio è davvero
nello specchio, è l’uno e non il molteplice, è l’enigma e la sua soluzione: lo
specchio è il punto d’ustione del sole. Trasformarsi: incenerire il viso,
incendiare l’identità ‘specchiata’ per tradursi in quella veritiera. Farsi
fuoco. Nati incendio.
Rompere lo specchio – evento dionisiaco – prevede spargimento di sangue;
penetrare nello specchio – evento paolino – è affondare in un lago, sprofondare.
Serviranno branchie.
*
Per un attimo, la periferia torinese ha rispecchiato la mia idea di Africa – per
un po’, mia madre è stata lo specchio di Karen Blixen, la scrittrice in cui si è
specchiata Meryl Streep. Due specchi contrapporti – diceva Borges – creano un
labirinto: ci rendono infiniti, infinitamente prigionieri.
La vicina di casa si rifiuta di possedere specchi: li ritiene di malaugurio,
come un vento nefasto, pieno di insetti. Vorrebbe dimenticarsi di sé – non abusa
di veli né di velami.
*In copertina: Eugène Delacroix, Studio di leoni reclini, 1860 ca.
L'articolo I leoni in città. Ovvero: “La mia Africa” nella calura piemontese o
dell’arte di rompere gli specchi proviene da Pangea.
Valéry è il poeta. Valéry è il poeta francese tra i più importanti di sempre. Il
suo intelletto sovrasta ogni ragione. Lui è matematico, magmatico e filosofo;
nel senso che per lui la filosofia è tutt’altro che filosofare. La sua mente ha
ragione su tutto.
Il sentimento non lo scalfisce. Nemmeno l’istinto. Eppure ha due crisi
importanti nella sua vita.
La prima, a Genova: durante la nuit de Gênes, decide di abbandonare la poesia
per lungo tempo, privilegiando riflessione e autoanalisi. Difatti, per
cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino,
Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale
circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche
movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry,
l’illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido
fino alla sera». Ma che cos’era prima? Una pura attività mentale che scrive se
stessa. All’origine di Valéry c’è una folgorazione: la scoperta dell’«impero
nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò
che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento
d’osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di
«aumentare la precisione».
Genova, città materna: “Questa città tutta visibile e presente a se stessa,
rifilata con il suo mare, la sua roccia la sua ardesia, i suoi mattoni, i suoi
marmi. In lavorio continuo contro la montagna”, annotava il poeta.
La sua, dunque, fu una vera e propria crisi esistenziale.
La seconda crisi però, non meno importante della prima, fu l’innamorarsi di una
donna in particolare, una poetessa anch’essa: Catherine Pozzi. Per otto anni i
due si amarono, si odiarono, si sfinirono vicendevolmente. Passione, enigma,
mistero dell’esistenza. Fiumane di parole riportate nelle lettere e nei diari e
nei quaderni. Ogni attimo scritto: eternato nella passione!
La ragione contro il sentimento. La precisione della disciplina che ostacolava
l’amore istintuale. Due geni non solo a confronto: due geni in incontro, ad
attraversarsi il cuore con le parole.
Paul Valéry. Il poeta del Cimitero marino è stato anche questo. È stato
soprattutto un ragazzo prodigio, che già a quindici anni scriveva testi teatrali
e poesie. Ne ricalchiamo una, ora, che scrisse prima della fantomatica crisi di
Genova.
Elevazione della luna
L’ombra veniva, i fiori s’aprivano, la mia Anima sognava,
E il vento addormentato taceva il suo ululo,
La Notte cadeva, dolce la Notte come una donna,
Sottile e violetta episcopalmente!
Le Stelle sembravano ceri funerari
Accesi come in una chiesa nelle sere;
E spandendo profumi, i gigli Turiferari
Dondolavano dolcemente i fratelli incensieri.
Una preghiera saliva in me come un’onda
E nell’immensità inazzurrante e profonda,
Gli astri raccolti abbassavano i casti occhi!…
Allora, apparve! ostia immensa e bionda
Poi scintillò, staccandosi dal Mondo
Poiché dita invisibili la innalzavano verso Cieli!…
È stupendo il canto nel verso. Ancora più meraviglioso, abbandonarlo; quasi per
sempre, quasi di schianto, col lampo nella notte a tiranneggiare la mente
prodigio.
È stupendo poi ritrovarlo il verso, diverso, essenziale, difficile, enigmatico,
maturo.
Ma come non ritrovare la bellezza già in questi prematuri versi: “Una preghiera
saliva in me come un’onda […] Allora, apparve! ostia immensa e bionda/ Poi
scintillò, staccandosi dal Mondoˮ. Quella stessa bellezza che Paul raccontava
entusiasta a Louÿs in una lettera del 1892:
> «Ciò che non invecchierà mai è il Bateau ivre, e un centinaio di frasi
> delle Illuminations, sono i Colloqui di Poe (e quasi tutto il resto),
> è Eureka, perché tutto ciò è vicino all’essenza della bellezza, perché è stato
> creato, strappato, liberato dalle viscere cosmiche, immerso nella gelida acqua
> per risuscitarne limpido, come la spada del giovane Sigfrido. Io faccio mille
> devozioni all’unico Poe e al solo Vinci, a quegli stessi angeli Rimbaud,
> Mallarmé, Wagner. Nulla esiste al di fuori salvo tenebre, imperfezione,
> nauseante incoscienza.»
Giorgio Anelli
L'articolo “Nell’immensità inazzurrante e profonda”. Paul Valéry, il poeta
proviene da Pangea.