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Rivista avventuriera di cultura&idee

“Finché non cado, fino alla fine del fiato”. Dialogo con Vipera
Fu, al principio, una visione erbivora. Ma quando cade la sera, alle pendici dell’Aspromonte, è come un sigillo che si spezza, come una trappola che si serra – tutto è prono al frainteso; non esistono ombre – acronimi della luce, semmai. E ciò che era preda, si svolge nel predatore.  Insomma, dovrei scrivere un trattato sulla dedizione e uno sull’abbandono. Perché ogni forma di dedizione è autentica se procede dall’abbandono – se lo precede. Che è poi: falconeria dello stare al mondo – abituarsi a scegliere con chi accompagnarsi dalle mani, mai dai volti – mere, metodiche maschere.  Caterina Dufì – credo sia pugliese, credo viva a Bologna, credo sia a questo mondo dal 1998 – si fa chiamare, quando musica, Vipera. È un nome strano, sacrificale, nel caso suo: se la si vede dal vivo – senza la triangolazione fotografica, senza quella genia di immagini – Caterina è quella che si fa bersaglio della Vipera, creatura che dardeggia, che eccelle nello scatto e nel veleno. Dedizione al feroce, allora, purché si abbandoni la ferocia. Si dirà: Caterina è l’avvelenata, il balenio del veleno o l’antidoto? “Le vipere strisciano ovunque, senza contare quelle che si hanno nel cuore”, dice una quasi bambina a Don Miguel, tragico co-protagonista di Anna, soror…, il più perfetto tra i racconti di Marguerite Yourcenar. La bimbetta, calabrese, figlia di un incantatore di serpenti, dice un’altra cosa: “Ci sono molti nomi che è meglio non conoscere”. Poi si dice di malattie meridiane, di amori panici e platonici, e di “brodo di vipera”. Mi è venuto in mente questo racconto ascoltando Acerbo e divorato, il primo album di Vipera, uscito un paio di anni fa. Chi conosce i nomi, ne sussurra alcuni, ne fa scorta – altri, li modella all’urlo. Soprattutto: di ogni nome va aperta la corazza, il carapace che ne inghiotte il senso. Ogni nome è un paravento: nasconde serpi – o tigri azzurre.  Acerbo e divorato è un album molto bello, che spiazza l’ecumenico andito dell’odierna musica. La ballata trobadorica si mescola all’elettronica, qui, Franco Battiato è commisurato ad Antonin Artaud e a Claudia Ruggeri, la poetessa, a cui è dedicato un pezzo, il primo, Il matto. Su tutto, aleggia lo spettro di Amelia Rosselli, la Santa Caterina della poesia italiana. “Che di alcune cose ti basti solo il nominarle. Guardare la lenta impollinazione di questi fiori bianchi”, bisbiglia Vipera – ma è voce marziale, che s’impiglia all’osso frontale – in un pezzo che s’intitola Il macedone. Allo stesso tempo: un’ingenuità che fa inermi – e uno stare al gioco del pericolo. Dal corpo della colomba si dirama la vipera, con andatura da pianta, da vivente che mette radice.  Vipera, cover di Acerbo e divorato, photo Alessia Rollo Poiché è alla ricerca di un’integrità infallibile – che significa: sapere i punti d’acqua, i punti di flessione, dove la carne è debole – Vipera non ama parlare di Acerbo e divorato, è già oltre. Non ha tempo di sanare ferite e di curare l’alfiere di ritorno dalla crociata: a quell’addestramento non si ritorna, non ha senso né sede. Altra autonomia richiede il durare, il duraturo. Così, mi fa dono d’ascolto. Tra i nuovi brani, uno si chiama Angelo nero, attacca così: “Adesso che sta a me farti una domanda lucida, arrivare fino in fondo a dove forse poi ti trovo di mandorla o di niente”. C’è un decoro, una indecorosa accuratezza nel modo in cui Vipera usa le parole che va per la rettitudine dei rettili, è vero. Attacca, stana – e dunque: quel suo bisbiglio, una voce con le squame, che ti dichiara da un andito del bosco dove per i più è patria di ululati, di ungulati in schiera.  A vederla, dico, Caterina, fu visione erbivora. Un erbario di occhi ampi, la figura di una cosa offerta, d’altura. È strano, si dirà, che una creatura simile, un essere d’aria, abbia scelto a protezione lo stigma di una bestia di terra, che striscia. Ma qui è il miracolo: l’innocente che s’incarica di tutti i veleni, che se ne fa carico, ne fa arco. Anima, forse, è un regno senza più porte: essere quel che si è e abbeverarsene; anima è un altro modo di dire sete. L’anima bella sibila, come la vipera – per i falchi, non è che la bianca circostanza della caccia.   Perché Vipera? Chi è vipera?  Suggerivano di non attraversare la macchia mediterranea a mezzogiorno, quando il sole bacia i rettili.  L’insidia, l’allerta che evoca il serpente, insieme a un’idea marziale che in me suscita (un rivestimento, una muta, un alfabeto sulla loro pelle che cambia). Un’immagine così forte è protezione. Sono elementi che hanno sempre destato in me un grande fascino, e mi sono fatta ospite loro. Ho scelto questo nome anche (e soprattutto) per il suo suono. Mi piace l’innesco di quelle consonanti aguzze e il fatto di avere la possibilità di scegliersi un nome ulteriore, diverso da quello che ho ricevuto in dono. Perché non usi il tuo nome nei dischi: necessità di scudo, di slancio, di disastro? Che un nome esista per annientamento?  Quando vado in scena cerco di presentarmi in uno stato vigile, sincero, inscalfibile. La scena è anche tipografica, comunicativa. Ho anche una grande passione per gli pseudonimi, i nomignoli, le parole inventate. Per questo ho scelto un altro nome, che non sia il mio, che mi aiuti nella ricerca di una postura diversa dal quotidiano.  Che cos’è “Acerbo e divorato”, cosa significa, da dove nasce? Uno slancio, un tuffo a candela. Un sogno sui rapporti di consanguineità, sui legami come vincoli e come ramificazioni su cui arrampicare gli occhi.  Un bambino di sei anni scala l’ulivo e arriva in cima, la sua testa sbuca dai rami e vede, in fondo alla campagna, il mare aperto. Poi una vela. Da lì sogna di prendere il largo. Lo prende. È un’immagine di giovinezza feroce, che vuole consumare tutto, avere tutto tra le mani. È un sentimento che mi sorge se penso al fiore giovane prima della catastrofe. Un’asincronia. Durante la scrittura di Tentativo di volo, l’EP che precede Acerbo e divorato, mi è saltata in mente l’immagine del frutto staccato, acerbo. Il gusto che lascia in bocca – il doppio strappo che crea, nel gesto e nel sapore. Questo titolo è in realtà il verso di un brano che non ho mai pubblicato. Ho notato che anche isolato restava denso. Acerbo e divorato lo vedo un po’ come un disco di formazione, in cui la ricerca sonora e stilistica hanno avuto la meglio sull’omogeneità di un album musicale. Così mi sentivo nella mia camera, fumando sul tavolo e guardando al cielo, così è sorta questa immagine. Che cos’è per te il verbo, la parola, la poesia? Che cosa la musica?  La parola è una capienza, una misura di efficacia, nitore, brillantezza. È un evento magico, dove materiale e effimero si scambiano i ruoli, danno vita a figure, a proposte, progetti sul mondo. Penso a fenomeni fisici, al prisma che scocca in raggi colorati. Al miraggio, o alle visioni annebbiate da qualche incenso. Penso a come la parola che prefigura possa agire in misura bipolare nel negativo e nel suo opposto.  Domina, lenisce. La musica e la poesia sono un luogo di rifugio, una lente felice, che mi tiene accesa e disarmata. Spiegami “Anime (intermezzo due)”; dimmi cos’è “l’equivalente spirituale dell’oro”. A.A.! Le Momo! Anime è un brano in cui le parole sono un’esortazione, un’auto-esortazione al restare in vita, nel suo senso più elevato e brillante, oltre alle distorsioni degli eventi.  “Il teatro alchimistico”, è da lì che deriva “l’equivalente spirituale dell’oro”. Antonin Artaud ne parla cercando un punto di congiunzione tra materiale e spirituale. Poter arrivare all’oro, nella mia metafora è una vetta, che si raggiunge oltrepassando stadi brutali, “malandando”. E “l’anima bella” nella canzone è esortata a malandare. Così questa vetta dorata può essere raggiunta nel corpo, attraverso il corpo. È qui che si evolve una parentela metallica, stavolta in un travaso organico. Qui una ricerca analoga può essere condotta, dalle funzioni vitali ad un sopra, un’esistenza di spirito che coesiste, nutre, alimenta quella materiale. Ecco l’equivalente. In controluce, nel disco, leggo Hegel, Claudia Ruggeri, i provenzali, i Mirmidoni… cosa te ne fai di queste più o meno occulte citazioni? Cosa te ne fai della ‘cultura’? Altre, ancora camuffate, ombrate, tradotte. Ci sono dei concetti che hanno guidato la scrittura di Acerbo e divorato, immaginandolo ancora come un disco di formazione. L’anima bella di Hegel, per esempio, è una figura che non scocca, non cade, non urta, non vive. Ho preso questo ritratto e indossandolo ho cercato di scardinarlo. Stessa cosa con la poesia della Ruggeri, nell’idea che una metafora per la crescita possa essere l’andare, il numero zero, l’inizio. In particolare nel primo brano del disco, Il Matto, avevo il desiderio di ridare voce a quei versi meravigliosi che aprono la raccolta inferno minore di Claudia Ruggeri.  Mi servo di strategie labirintiche per il lavoro sui testi, in maniera analoga a come avviene nel sampling e nell’elaborazione dei frammenti audio. È un processo simile, che porta alla composizione di significati attraverso un sistema di citazioni che volendo si svela, indica un disegno nuovo sul tappeto.  Cosa leggi? Dimmi: il poeta che continua a folgorarti; la poesia che hai tatuata nella cosa detta cuore.  Tornando da casa penso a una poesia di Carlo Bordini. Lui si guarda allo specchio ed è sicuro che i suoi non lo abbandoneranno mai, ritrovandone i lineamenti, i modi.  Ma quella che mi buca il cranio è “Se sinistramente ti vidi apparire…” da Documento di Amelia Rosselli.  Esiste l’anima? Che cos’è? A dodici anni mi è capitato di percepirne la sede: è come un’intercapedine sotto pelle, che divide la cute dal resto, dall’interno organico del corpo.  Cosa c’è dopo la morte? La ricombinazione dei miei vecchi atomi di carbonio. Confidi in qualcosa, ti arrocchi in qualche fede? No, ma credo molto nel lavoro su di sé, pensato come educazione all’equilibrio. La gratitudine che provo in alcuni momenti della vita mi porta ad uno stato simile alla fede, acceso e sincero. Qual è la tua bestia araldica, a protezione? Da cosa, poi, bisogna proteggersi? Proteggersi da quasi tutto, ma il mio trucco è giocare sulla velocità. La creatura che mi accompagna è il colibrì, certe volte – all’apice – il falco. Esseri leggeri, esseri record in velocità. Stai scrivendo – cosa? Ho passato l’estate a scrivere un disco nuovo, un insieme di brani che ho in parte suonato a lungo dal vivo, ora cerco un modo di fermarli, per farne un album. Vorrei assumesse la flessibilità di una lamina metallica che oscilla. Saranno sistemi elettrici, arteriosi. Sto lavorando anche a un progetto in duo, con un’amica performer e autrice, Eugenia Delbue. Ci chiamiamo ETEREA NOISE e uscirà presto il nostro primo album, versante sonoro dello spettacolo che ha nome Radio Tunnel, per Zoopalco-Zpl, etichetta bolognese di spoken music. ** I.Teatro Cava / Ferina Lavo i denti allo specchio con gli occhi sgranati come per prepararmi all’ammutinamento senza sapere da che parte sto senza pregarti a sangue di non cadere dalla trave. Immagino una scena scavata dentro ad un grande pezzo di tufo dove mi hanno promesso che ti potrò assalire la tana è profonda. * ho mangiato l’uva raccolta ho guardato nel centro del sole e non vedendo ho puntato il dito per caso di nuovo contro di te II. C’è una grande quantità di cadaveri di rana sulla strada che porta da un paese a un altro, attraversano l’asfalto e non sempre arrivano dove devono. Descrivere è implicito capire. Ore che ho contato, ora che – uno ad uno – i fili d’erba le attraversano, nel disordine che sembra sempre senza rimedio, un pensiero oltrepassa queste parole: sono questi i momenti in cui mi sento particolarmente piccola.  * III. Reset aspetto finché non cala aspetto finché non cade aspetto finché non cedo finché non cala finché non cedo  fino alla fine del fiato al tuo tempo diverso – più veloce a un certo punto coincide: arrivo a parlarti per davvero umidità tocca corrente. Attraversando la macchia mediterranea vicino al mare e dalle parti di Torre Chianca, raccogliamo asparagi selvatici e mi racconti che le centrali telefoniche, ai tempi tuoi, erano grandi quanto edifici. Quando non sono più servite, sono state vendute a venticinque lire al chilo e tu hai cambiato lavoro.  I blocchi relè, pieni di contatti, sono stati smontati e fatti passare uno a uno lungo un nastro.  Un magnete attraeva a sé i materiali preziosi: il rame, l’ottone, l’oro. Si tratta di cercare un modo in cui la traccia continua e scava i segni: pensieri-correnti, che a lungo frequenti: linee su linee nel cranio che prendono e mantengono una consistenza: una stanza da abitare in piedi e così piena da non chiedere agli arti di tenerti. La traccia continua, descrive un comportamento probabile: un mondo piccolo, personale, in cui la storia arriva come un sedimento: una ricerca dell’oro, per equivalerlo. Camminiamo, e non ti lamenti del caldo alla testa. Attraversando una rete si accede alle zone in cui la costa scogliosa viene segnata in superficie da piccole faglie continue: ogni goccia che cade disegna – graduale – le aree dove tra un po’ lo scoglio cederà.  Ci facciamo sismografi, geologi, trekker, ma ci troviamo spesso a camminare lì sopra, i nostri scogli li conosciamo. Tu una volta sei caduto, ti sei rotto il naso e dici che da allora respiri meglio.  Non posso scappare se l’allerta arriva insieme al crollo,  cosa corro a fare con la caviglia che mi ritrovo? Cosa corro a fare? Aspetto finché non cado, fino alla fine del fiato, al tuo tempo diverso, più veloce. *In copertina: Vipera in un ritratto fotografico di Clarissa Lapolla L'articolo “Finché non cado, fino alla fine del fiato”. Dialogo con Vipera proviene da Pangea.
September 22, 2025 / Pangea
“Del dolore conosco la Rosa”. Sulle poesie di Giorgio Anelli
Homo Poeticus  In un momento come questo, nel quale il gesto di scrivere libri ha perso ormai totalmente di senso, tanto che forse sarebbe meglio il contrario, la poesia resta l’ultimo baluardo a proteggere questa sacra vocazione, l’unico presidio in difesa di un tempio troppo spesso profanato in maniera ingiusta; si tratta di un’esperienza, una delle pochissime fra quelle una volta elettive, che ancora e per fortuna non è scesa alla portata di tutti, o di chiunque intenda farsi chiamare autore o autrice perché ha espettorato qualcosa su un foglio cartaceo o digitale. Tutto questo è successo se non altro perché il verso ha delle regole, una musicalità, una complessità anche strutturale, cose che vanno imparate e poi rispettate, concetti estetici che costitutivamente non possono essere alla portata di prosatori pedestri e occasionali.  Il poeta vero e di talento autentico sa rispettare le regole della composizione in modo naturale e ignaro: il genio è anche padronanza tecnica sublime ma inconsapevole. In più la poesia ha anche una storia, che la rende unica, e ogni opera in versi si colloca in un fluire atemporale, mentre invece, oggi, chi scrive, non considera niente e nessuno oltre sé, pensa di essere il primo e l’unico al mondo, trascurando il fatto che prima di lui ci sono stati Pablo Neruda, Josif Brodskij, Sylvia Plath, e Emily Dickinson. E la poesia è protetta non solo delle regole imposte dal metro, ma anche da quell’istanza autoriale unica nel redigere l’opera, che è qualcosa che anima solamente il poeta, il quale si distingue per la sua voce innocente, la limpida spontaneità, la grazia sorprendente. Tutte cose totalmente antitetiche rispetto alla meschinità borghese, contro la quale la silloge di poesie ci regala un sentire di nuovo, nudo e puro, una fresca lettura delle più banali movenze della vita, alla luce di una superiore sensibilità. Concetti unici, che fanno di quelle parole una sorta di osservatorio distintivo, una peculiare finestra sulle cose, a cui consegue una diversa visione del mondo.  Ben lontano da qualunque eventuale soluzione consolatoria, il poeta vero mischia con naturalezza il comico e il tragico della vita, la storia del mondo, e gli eventi personali. Vede le cose basse ancora più dal basso, e sa elevarle ancora più dell’alto. Si sente perseguitato da guardoni curiosi e cinici, e provocato continuamente dalla bruttezza e dalla volgarità dei suoi contemporanei. Offeso da tutto ciò si scava una tana dentro di sé, e nello sforzo lirico, emette un segnale di sola andata, come un’antenna che spara messaggi nello spazio disabitato del cosmo. Crea nuove sensibilità nelle coscienze, attraverso il recupero di sentimenti antichi, è drammatico in senso classico, ma ciò nonostante sa anche innovare, costringe i lettori a comprenderlo, superando così l’invisibile e pigra immobilità che ci impedisce spesso di capire noi stessi. Tutto questo privilegio nel sentire non è ripagato con la gloria e con la ricchezza, ma al contrario, il poeta ottiene in cambio solo un grande dolore ed una irreversibile solitudine. (Sandro Bonvissuto) ** Dal vostro al mio esilio Oh, voi immortali poeti d’ogni dove: poeti d’oltre oceano e della madre Russia. Poeti impanicati e poeti sbeffeggiati nascosti e salvati in ogni angolo del mondo; poeti suicidati e poeti martoriati nella Storia, io vi dico: non solo nel libro di Davide è il mio esilio, ma nei vostri libri! In tutti i vostri libri che traboccano versi intoccabili, io ritrovo vita e respiro e seppur solo – seppur solo! – attraverso le parole d’ogni tempo: libero. Perché l’epoca è adesso nella lettura d’un sacro verso; qui e ora, nella letteratura che dà senso al più profondo isolamento. *                                                                         a Gian Ruggero Manzoni Quell’uomo sconosciuto ha ucciso uomini, è stato nei servizi segreti, ha conosciuto Pier Vittorio Tondelli. Quell’uomo un giorno mi ha osservato si è avvicinato, e con un atto di umiltà e rispetto mi ha stretto la mano. Quell’uomo si chiama Gian Ruggero Manzoni e crede in dio. Cosa pensa di Amelia Rosselli e di Borges non lo so, ma li ha conosciuti. E quella notte, quando ci siamo salutati, mi ha detto: «È come se ci conoscessimo da sempre». * Del dolore ne conosco la rosa lo stelo e la spina. Del dolore forse avverto la causa, ma è il suo silenzio o il suo grido ciò che mi affascina e mi riavvicina a dio. Nel dolore riconosco una sequela, un qualcosa di tradito, un petalo spezzato all’improvviso dal tormento. Ma è il dolore della mente, il silenzio dell’anima, quello più inquietante. E quel poeta che ne soffre ancora, considerato pazzo da qualcuno, in realtà sta tessendo un poema d’amore. Con le sue parole rende vero un profumo, colora le rose d’un rosso potente; ne incarna il sangue, ne ribolle. Dunque, che sia la tua rosa la causa di tutto questo poetare? Di tutto questo soffrire? La tua rosa alchemica, la mia alchemica rosa, che nascondiamo da sempre al mondo ma non a un amico di una sera soltanto. Perché quel nostro incontro di poeti, oltre a dare il senso alla scusa di uno sfogo, permette al cuore di rinascere; come quando una musa ti ama per davvero. Giorgio Anelli *I testi, compresa l’introduzione, sono tratti dall’ultimo libro di Giorgio Anelli, “Rosa alchemica, alchemica rosa”, Ensemble, 2025 *In copertina: Peter van der Doort, Amphiteatrum sapientiae aeternae, XVI sec. L'articolo “Del dolore conosco la Rosa”. Sulle poesie di Giorgio Anelli proviene da Pangea.
September 22, 2025 / Pangea
“Non uccidere alcun essere vivente. Astenersi dal mentire”
Nato a Strasburgo nel luglio del 1856, Léon Wieger avrebbe dovuto percorrere la stessa carriera del padre, insigne professore di medicina all’università. I genitori lo avevano adornato di un paio di altri nomi – Georges e Frédéric –; il ragazzo, per devozione, si iscrisse a medicina. Resistette per un biennio: folgorato da Cristo, entrò come novizio nei ranghi della Compagnia di Gesù a ventiquattro anni. Compì l’addestramento a Drongen – Tronchiennes in francese –, nelle Fiandre, presso l’antica abbazia benedettina passata da poco, dopo alterni disastri, ai Gesuiti. Ordinato sacerdote nel 1887, Wieger volle impiantare il suo estro ‘scientifico’ nel cuore dell’ordine; ad ogni modo, preferiva avventarsi: quello stesso anno, partì per la Cina, presso la diocesi di Xianxian, nella provincia di Hebei, non lontano da Pechino. Non fece più ritorno in Europa. La diocesi era stata eretta da papa Pio IX una trentina di anni prima, affidandola ai missionari gesuiti. Lì Léon Wieger espresse il suo genio: imparò il cinese, andò a caccia di testi perduti, tradusse in francese i libri della tradizione taoista e buddista. Morì, dopo una vita di studi più che di apostolato, nel marzo del 1933, in Cina.  “I suoi lavori, destinati ai missionarî, sono guide talvolta indispensabili, per gli studiosi europei, per lo studio della scrittura, della lingua, della storia, delle credenze religiose e delle opinioni filosofiche della Cina”. Così scriveva Giovanni Vacca (1872-1953), che con Wieger condivideva la passione per la scienza – era stato assistente di Giuseppe Peano – e per la sinologia – occupò la cattedra di Storia dell’Asia a Firenze poi a Roma. A Wieger dobbiamo studi su Les pères du système taoïste (Laozi, Liezi, Zhuangzi), stampato nel 1913, e sul Folklore chinois moderne (1909); compilò uno studio sulla Histoire politique de la Chine (1929). A dire – come diceva Ezra Pound – della necessità di studiare la Cina; a dimostrazione che l’uomo ‘occidentale’ – brutto & cattivo che sia –, nella sua essenza, più che piegare, comprende, più che piagare, studia. Non si tratta di ‘illuminati’, per altro: era il buon senso ‘pratico’ a fare di Léon Wieger un formidabile scopritore di testi perduti. I suoi libri vengono ancora ciclicamente ristampati in Francia.  Erano anni, tra l’altro, in cui tutto un mondo era attratto verso Est, verso quell’attraversamento, alla ricerca di una sapienza remota, definitiva. Penso alla traduzione dell’I-Ching a cura del missionario tedesco Richard Wilhelm (1929), agli studi sul Tao Te Ching di Arthur Waley (1934; ma la prima traduzione inglese è del 1868, del missionario scozzese John Chalmers), alle esplorazioni di Giuseppe Tucci in Tibet, negli anni Trenta, agli studi dell’orientalista statunitense Ernest Fenollosa (morto a Londra nel 1908) ereditati da Pound. Ma anche, ai ‘tentativi’ verso la Cina di Lev Tolstoj, studioso di buddismo e taoismo. Un intero mondo intellettuale, per oltre un secolo, si è mosso e ha studiato nell’estremo Oriente. La Chinoiserie si riversò nel pensiero occidentale, conferendogli ‘leggerezza’: Mario Novaro, il poeta ligure che si era specializzato sull’opera di Giordano Bruno, realizzò nel 1922, per Carabba, una folgorante traduzione di Zhuāngzǐ con Acque d’autunno.  In particolare, qui, m’importano i volumi che Wieger ha dedicato al Bouddhisme chinois (1910; 1913; poi pubblicati da Les Belles Lettres nella serie “Textes de la Chine”), cioè sulle “Vie cinesi del Budda”.  > “Il Buddhismo primitivo, quello professato dal Buddha, non fu un sistema > originale. Emerse, per reazione e per adattamento, da sistemi religiosi > precedenti. Il Buddha fu il primo a proporre la liberazione a ‘uomini e donne > dediti al bene’, a tutti gli uomini di buona volontà, fossero analfabeti, > diseredati o gente comune. Questo rese il Buddhismo tanto celebre. La > religione vedica, il Sạ̄mkhya, lo Yoga erano rivolti a una ristretta élite. La > folla si precipitò entro la porta spalancata della nuova legge. Pur incerto > nella dottrina, il Buddhismo fu accolto, il primo luogo, grazie all’influenza > del suo fondatore, un uomo nobile e buono, dal fascino singolare. Si diffuse, > poi, perché offriva ai declassati, agli emarginati, ai paria, tramite uno > stile di vita semplice e immediato, una speranza di salvezza. In mancanza di > meglio, il Buddhismo soddisfò per secoli molte anime elette, stanche dei vani > sofismi della filosofia del tempo e innumerevoli uomini, desiderosi di pace e > giustizia”. > > Léon Wieger, Bouddhisme chinois, tome I : Vinaya, Monachisme et Discipline. > Hinayana, Véhicule inférieur, 1910 In particolare, abbiamo qui tradotto due brevi testi che riguardano l’accoglienza di un adepto laico e di un novizio nella comunità monastica. Il rito pertiene a due scuole buddhiste in particolare: quella Sarvāstivāda e quella legata a Dharmagupta.  Al di là delle norme previste – comprensibili anche a un bimbo, da far risuonare, proprio oggi, sì, ora, da urlare, a credito di secoli che altrimenti non sono che sabbia e scolo, insieme alle parole del Nazareno redatte da Luca: “amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male… non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati” (6, 27-38) – è il linguaggio a persuadere. Parole che implicano una pratica, un patto – parole che esigono di essere esaudite. Cosa vuol dire? Che bisogna fare i conti con questi concetti: milizia, obbedienza, lotta. Parole che alimentano la guerra interiore, non quella esteriore, che implicano il perfezionamento personale – o quanto meno, l’equilibrio, la summa della propria inquieta quiete. Già: l’uomo, di per sé, si sa, è malvagio, è agito da un senso – più o meno violento – di sopraffazione. Questo scintillio d’ira, tuttavia, può volgersi al bene se condotto nei ranghi della pratica interiore. Le parole non domano l’uomo, lo rendono autenticamente indomabile – se ne svolgiamo il frutto. Come un seme, la parola deve spezzarsi – la parola va sguainata. Messa a pratica di scherma, senza schemi.   Eppure, prima di tutto, occorre votarsi. Invocare il voto. Non più vociferare ma: essere voce. Vocalizzare il voto. Governare il tempo e lo spazio (cioè: il corpo e la mente, io e mondo, mondo e immondo) per precisare il compito. Questo significa: parola vivente, parola sigillo, farsi ingaggiare dalla promessa.  Rileggo ancora – ancora – le parole di Scipione, il grande pittore & poeta: > “Bisogna cristallizzarsi, costringersi nel ritmo giusto… Vivo nel voto, più > leggero, sicuro, quasi sereno… Fare un voto in assenza è aspettare… Quando si > scioglierà il voto si scioglierà la mia commozione”. Era il marzo del 1932; raso al suolo dalla tubercolosi, Scipione morirà l’anno dopo, ad Arco, il paese di Giovanni Segantini. Enrico Falqui, raccogliendo i fogli di Scipione per Vallecchi, scrisse di “parole che echeggiano dentro di noi”, che “ce ne resta inibito ogni commento”.  È proprio questo, alienando confini geografici e cronologici: ambire all’inibizione, non più commentare ma incamminarsi, e far grano di questo echeggiante dire – fino all’annunciazione dei corvi: assai azzurri benché li si continui a dire neri.  *** Accoglienza di un adepto laico a vita I cinque precetti  [Testo tratto da un rituale di scuola Sarvāstivāda] Quando un laico si presenta in monastero chiedendo di fare la professione di fede e di abbracciare i Cinque precetti, viene prima indottrinato riguardo alla vita del Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Gli viene poi insegnato a flettere le ginocchia, a congiungere le mani e a pentirsi di tutti gli eccessi commessi in pensieri parole azioni. Quindi, davanti al capitolo riunito, il maestro di cerimonia gli fa pronunciare la professione di fede: “Da questo giorno in poi, io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine”.  Il candidato ripete questa formula per tre volte. Quindi, dopo che il rito ha prodotto il suo effetto, continua: “Io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Chiedo con gioia di abbracciare i Cinque precetti dei laici, secondo la dottrina di Buddha Sākyamuni. Lo dico perché tutti lo sappiano”.  Il candidato ripete questa formula per tre volte, finché il maestro di cerimonia non dice: “Ascolta attentamente! Questo capitolo di adepti del Virtuoso, il Buddha Sākyamuni, il Tathagata, colui che è venuto, ti annuncia, per mio tramite, i Cinque precetti che i seguaci sono tenuti a osservare per tutta la vita. Ecco i Cinque precetti: 1 Non uccidere alcun essere vivente. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso) 2 Non appropriarsi di nulla che non ti sia donato. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso) 3 Vietarsi ogni immoralità. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso) 4 Astenersi dal mentire. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso) 5 Non bere liquori fermentati. Tutti i liquori rientrano in questo divieto, che siano estratti dal grano, dalla canna da zucchero o dall’uva, poco importa. Ciò che inebria è proibito. Riuscirai a osservare questo divieto? (Il candidato risponde: Posso) * Accoglienza di un novizio I Dieci precetti  [Testo tratto da un rituale di scuola Dharmagupta] Rivolgendosi al capitolo, il maestro di cerimonia presenta il candidato e dice: “Venerabile capitolo, vi chiedo di poter radere il capo alla persona che vi presento. Se il capitolo lo ritiene opportuno, che i capelli del candidato vengano tagliati”. Dopo aver rasato la testa al candidato, il maestro di cerimonia continua: “Venerabile capitolo, la persona che vi presento chiede di lasciare la sua casa e la sua famiglia e di unirsi al monaco scelto come padrino. Se il capitolo lo ritiene opportuno, conceda al candidato la possibilità di lasciare la sua famiglia”.  Dopo il consenso del capitolo, il maestro designato a istruire il novizio gli fa scoprire la spalla e il braccio destro, gli chiede di togliersi le scarpe, di piegare il ginocchio destro e di alzare le mani giunte. In questa posizione il candidato pronuncia questa formula per tre volte: “Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha, lascio la mia famiglia. Riconosco X. Come mio maestro. Il Tathagata, Colui che è venuto, il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia venerazione”. Ritenendo che questa formula abbia prodotto il suo effetto, il postulante, ancora in ginocchio e con le mani giunte, dice per tre volte: “Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha, lascio la mia famiglia. X. Sarà mio maestro. Il Tathagata, Colui che è venuto, il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia venerazione”. Il maestro recita dunque al novizio, articolo per articolo, i Dieci precetti. 1 Non uccidere, mai. Questo è il primo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 2 Non rubare, mai. Questo è il secondo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 3 Non fornicare, mai. Questo è il terzo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 4 Non mentire, mai. Questo è il quarto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 5 Non bere vino, mai. Questo è il quinto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 6 Non adornarsi il capo di fiori, non ungere il corpo di profumi. Questo è il sesto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 7 Non cantare né ballare, mai, come fanno attori e cortigiane. Non assistere mai a spettacoli simili, non ascoltare canzoni simili. Questo è il settimo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 8 Non sedersi mai su un seggio elevato, su un divano spazioso. Questo è l’ottavo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 9 Non mangiare mai oltre l’orario consentito, dall’alba al tramonto. Questo è il nono precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 10 Non toccare oro o argento, mai, né gioielli preziosi. Questo è il decimo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] Questi sono i Dieci precetti dei novizi che non dovrete violare fino alla morte corporale. Puoi osservarli? Li osserverò.  Così si conclude la regola: “Poiché ti sei sottomesso ai Dieci precetti, osservali con rispetto, non violarli mai. Onora il Buddha, la Legge il suo Ordine. Rispetta il tuo maestro e tutti coloro che ti daranno degli insegnamenti secondo la regola. Non mancare mai alla dovuta sottomissione. Rispetta i monaci, tutti, con tutto il cuore, sforzati di imparare da loro, per il tuo bene, a meditare, a recitare, a studiare. Ti aiuteranno a raggiungere la felicità, a evitare la via dell’espiazione (l’inferno, la vita famelica, la reincarnazione animale). Ti apriranno le porte del nirvana. Se pratichi le regole dei novizi poi quelle dei monaci, otterrai i quattro frutti del tuo stato, i quattro gradi della liberazione (il quarto dei quali, quello di arhan, assicura il nirvana dopo la morte)”.  L'articolo “Non uccidere alcun essere vivente. Astenersi dal mentire” proviene da Pangea.
September 20, 2025 / Pangea
“Andando sulle orme di un poeta”. Discorso sui “Sonetti a Orfeo” di Rilke
Leggendo la recentissima traduzione de I Sonetti a Orfeo di Rilke, curata da Riccardo Held, per la collana Lo Specchio di Mondadori, non posso fare a meno di pensare a Marina Cvetaeva:  > E oggi ho voglia che Rilke parli attraverso di me. Nel linguaggio comune > questo si chiama traduzione (com’è più bello in tedesco – Nachdichten! Andando > sulle orme di un poeta, aprire di nuovo tutta la strada da lui aperta […]). La traduzione poetica è sempre un atto di fedeltà, umiltà e soprattutto amore. Si tratta letteralmente della gestazione di una nuova creatura, che ancora non esiste nella lingua di approdo: bisogna attraversarla, traghettarla e partorirla in un nuovo registro linguistico. Un esercizio faticoso che presuppone ascolto, attenzione pura, molte letture e interiorizzazioni, fino a quando non si riesce a trovare quella parola perfetta – la sola – che possa “dire” la “cosa” in un’altra lingua, senza tradirne il senso.  Di certo è una sfida. Lo spiega bene Held nella sua nota di chiusura, una nota quasi sottovoce, mirabilmente rilkiana, nel tono, nello stile e soprattutto nell’essenza. In essa vi è tutto il Rilke dei Sonetti e delle Elegie, due opere intrinsecamente connesse che rappresentano un vertice lirico di tutti i tempi. Già nel titolo che antepone alle sue parole, tratto da un verso dei Sonetti (II, 23), Held ci parla in questo senso: «Niente più che un pensiero», ben consapevole di cimentarsi con l’ascesa ad una vetta e ai suoi molti “strati di senso”, che ancora oggi sfuggono agli interpreti.  Nel 1922, Rilke non aveva in programma i Sonetti: quei versi sgorgarono dagli appunti che l’amica Gertrud Ouckama Knopp prese sulla malattia e sulla morte della figlia Wera (che Rilke aveva conosciuto bambina), e che poi spedì a Rilke. L’immagine della giovanissima ragazza, promettente ballerina, strappata alla vita all’età di 19 anni per leucemia (la stessa malattia che – per ironia della sorte – lo condurrà alla morte), lo colpì così tanto da dedicare I sonetti a Orfeo alla sua memoria. La morte, cuore della vita Suddiviso in due parti e concepito come “monumento funebre” per Wera Ouckama Knopp (1900-1919), il ciclo dei Sonetti consente a Rilke di sostituire la contrapposizione tra vita e morte con la «grande unità» di un «doppio regno» che lega inscindibilmente vita e morte in un’unica, incessante, metamorfosi.  Da molti anni, ormai, il poeta andava delineando nella propria opera una peculiare visione della morte: dalla stesura del Libro della povertà e della morte (terza ed ultima parte de Il libro d’ore) ininterrotta divenne la sua riflessione sull’evolversi ultimo dell’esistenza, nel quale la morte assume un ruolo centrale. Rilke è sempre più convinto che le religioni si siano limitate a fornirne diverse “figurazioni”, a mo’ di consolazione, invece di offrire validi strumenti per comprenderla ed accoglierla in sé. Non si tratta allora di abbracciare la morte come l’altra faccia della vita, come l’altra sua metà che lasciamo in ombra? Così scriveva, nel marzo del 1920, in una lunghissima lettera ad una giovane amica, Anita Forrer:  > La mia inclinazione mi ha spinto, sempre più profondamente, anno dopo anno, a > fare della morte il cuore della vita, come se in essa fossimo veramente a > casa, serbati e protetti, cullati nella più profonda e sublime fiducia. Verso l’estremo Se la morte è dunque il «cuore della vita», allora, chi meglio di Orfeo, che entra nel regno dei morti per riportare in vita la sua Euridice, può incarnare nella sua figura la compresenza di vita e morte? Orfeo è il “Dio della cetra” che incanta il bosco e le fiere con la sua musica, conosce l’essere e il non-essere, la dolorosa caducità della vita, eppure, la canta e la celebra e, dal suo canto, sgorga una fanciulla: Wera. Ella portava con sé l’infanzia, la danza e la musica, ma anche la morte già dentro la vita: una figura orfica, una novella Euridice, che reca in sé l’accettazione e la celebrazione della metamorfosi dell’esistenza ed il suo naturale confluire nella morte.  Con Wera e con i Sonetti, che precedono la ripresa delle Elegie, la morte che aveva aleggiato intorno a Rilke, trattenendolo sulla “soglia” dell’opera, entra dunque dentro l’opera stessa e lo spinge “verso l’estremo” – là dove voleva arrivare dopo aver conosciuto l’opera di Cézanne. E questo spingersi verso l’estremo, la morte, anziché portare angoscia e terrore, porta addirittura la possibilità di salvezza.  Orfeo parla e canta, si apre al mondo; non conosce differenze tra l’aldiquà e l’aldilà, che celebra allo stesso modo. Anche dopo la morte continua a vivere nella natura, negli alberi e negli uccelli, in cui si dissolve “panteisticamente” come san Francesco nel Libro d’ore. Nei Sonetti, la poesia diviene parola che tenta l’indicibile. È una parola buia, densa di segreto, talvolta di inaudita complessità (nelle lettere Rilke parla del «dettato più misterioso ed enigmatico» cui abbia mai assolto) che si fa però scrittura perfetta, gioiosa, musicale.  Singolari relazioni tra i sensi Il poeta è consapevole del suo ruolo di cantore sul confine tra il regno dei vivi e quello dei morti, dove nuove insondabili relazioni (autentiche sinestesie) si instaurano tra i cinque sensi.  È la sfera acustica a dominare l’intera raccolta. Il poeta immagina la voce delle cose: il suo sguardo è diventato ascolto, secondo quell’intuizione che aveva vissuto in Egitto avanti alla sfinge, quando il fruscio delle ali di una civetta disegnò quell’immenso profilo nel suo udito. Fu questa l’intuizione iniziale dell’“udito di morto” che attraversa trasversalmente le Elegie e i Sonetti, ove si instaurano nuove, singolari, relazioni tra i sensi, tanto che ci parrà di “vedere gli odori”, “udire i colori”, “toccare i suoni”, “danzare i sapori”… I sensi mutano gli oggetti, spaziano da quelli che gli sono propri a quelli che appartengono ad altra sfera della percezione.  Siamo in presenza di un’opera d’arte di assoluta originalità e perfetto equilibrio compositivo, nella quale Orfeo vince le Menadi che volevano dilaniarlo, perché la sua musica è ordine e bellezza. Anche dopo essere stato ucciso, continua a vivere attraverso i boschi, gli alberi e gli animali. Così termina la prima parte dei Sonetti. La seconda è ancora più rarefatta. Rilke canta i suoi temi prediletti, cui attinge con costanza nel corso degli anni, da una parte all’altra della sua produzione, quasi in un percorso “circolare”: il respiro (vera cifra del tardo Rilke), l’aria, i venti, i mari, lo spazio, gli specchi: “intervalli di tempo” che riflettono infinite volte il volto della bellezza… Evoca gli animali, tra cui il mitico unicorno, invisibile ma vero, simbolo della verginità nel Medioevo. Celebra i fiori, tra cui l’immancabile rosa e l’anemone; la macchina, presuntuosa padrona della modernità, a cui non vuole obbedire. Invoca il mutamento, la sua fiamma; maledice l’oro e il denaro; si rivolge alle stelle, alle fontane, ai giardini, alle campane e, verso dopo verso, si immedesima in una parte del tutto, in uno spirito eterno che non tramonta e mai tramonterà, che “resiste ormai per sempre”, che acconsente al cambiamento, al rinnovamento, che si congeda dalle cose con la capacità di dire addio, accogliendo in sé il pensiero della morte nella vita. Alla legge della separazione dei due regni si contrappone quindi quella di un’incessante metamorfosi: è lì che ruotano i Sonetti, in uno “spazio interiore di mondo” che diventa il “doppio regno”, uno spazio che lega inscindibilmente vita e morte. Essenziale diviene la trasformazione del visibile nell’invisibile: la realtà esterna si ritrae (si comprime potremmo dire) a sorgente di materiali, quasi un deposito di immagini, cui il cuore attinge per adempiere la sua opera di metamorfosi-fusione-annullamento di confini tra esterno ed interno, tra oggetto osservato e soggetto che osserva in un unico, indivisibile, spazio terzo dove le cose – dentro di noi – raggiungono la loro pienezza.  L’esterno offre le immagini ma ciò che qui conta è il cuore: l’io del poeta-Orfeo, centro di realtà solo interiori – invisibili – dove tutto è in perenne trasformazione: l’albero matura il frutto nel silenzio; il frutto si scioglie nella bocca e diviene puro piacere; i morti nutrono le radici dei fiori; la danza diviene simbolo dell’anima, incarnazione della fiamma, come la poesia… Solo chi, come Orfeo, abbia levato la sua cetra nel regno delle ombre, potrà presagire col cuore un infinito canto – che non è più desiderio soggettivo verso uno scopo da raggiungere – ma il respiro che sfiora l’essere e il non-essere, il vivere ed il morire: quella “grande unità” che si chiama esistenza.  Marilena Garis *L’articolo, che si pubblica per gentile concessione, è uscito come “Nella «grande unità» di Rainer Maria Rilke”, sulla rivista “Studi Cattolici” delle Edizioni Ares In copertina: cartone di scena dall’Orphée di Jean Cocteau L'articolo “Andando sulle orme di un poeta”. Discorso sui “Sonetti a Orfeo” di Rilke proviene da Pangea.
September 20, 2025 / Pangea
Per un’estetica della scomparsa. Su Robert Walser, il santo patrono dell’insignificante
Un passo lieve, la strada sfiora una suola in una mattina come le altre; un uomo lascia il suo scrittoio per abbandonarsi al ritmo dei marciapiedi, alle preghiere dei vicoli che urlano monotonia. Dove comincia il senso delle cose? Nella vastità dei palazzi o nella piega di un fazzoletto? A volte è difficile gestire una trama quando, nel senso tradizionale, è di fatto inesistente: racconto senza intreccio, svolgimento o epilogo; solo un io narrante che decide, in un giorno qualunque, di uscire a passeggiare. Come se fosse un diario, una confessione, una divagazione, Robert Walser crea un cammino che non porta da nessuna parte. La meta non conta, è il vagare stesso, il farsi condurre dall’invisibile. > “Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del > genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti > di passata librai e funzionari di banca […] Eppure ciò può avvenire, e io > credo che in realtà sia avvvenuto.” Il protagonista – che altri non è se non un alter ego dell’autore – si fa minuscolo per poter ingigantire il mondo. L’estetica del dettaglio diviene cosmologia: la cravatta osservata distrattamente, la tenda che ondeggia, la voce ironica di un banchiere; l’atomo è cosmo, il dettaglio cattedrale. La prima versione de La passeggiata, oggi edita nella versione italiana da Adelphi, nasce nel 1917, tra le macerie di un’Europa ferita, destinata a confondersi tra i rumori della storia e a brillare solo per chi sa fermarsi e ascoltare la musica di sottofondo. Mentre i cannoni dettano il ritmo del continente, Walser scrive il suo vangelo minore, trasformando l’ordinario in epifania. La vita di Walser è dello stesso tessuto fragile del suo libro. Nato nel 1878 a Bienne, ultimo di una lunga schiera di fratelli, cresce in una Svizzera periferica, discreta come lui. Lavora come impiegato, servitore, copista; mestieri umili che lo avvicinano più ai margini che al centro. Pubblica racconti e romanzi, alfabeti ridotti a pulviscolo, che incantano giganti come Kafka, Musil, Canetti, Benjamin. Ma non cerca la ribalta. Walser preferisce dissolversi nella sua lingua minuta, che un giorno diverrà davvero microscopica, nei famosi microgrammi, fogli fittissimi di scrittura minuscola come polline. La sua estetica definitiva è scomparire. Non lasciare monumenti, ma tracce. Non statue, ma impronte di passi sulla neve. > “Ero disperato. Sì, in realtà io non avevo più nulla da dire. […] Spento, > estinto come una vecchia stufa. […] Andò a finire che mia sorella Lisa mi > portò nella clinica Waldau. Ancora davanti alla porta d’ingresso le chiesi se > quello che facevamo era giusto. Il silenzio di lei mi bastò. Che altro mi > rimaneva se non entrare?” Dal 1933, la sua esistenza si ritira nei sanatori con una prima diagnosi di schizofrenia, poi mai riconfermata. Da quel momento inziano ventiquattro anni di silenzio, trascorsi in istituti psichiatrici tra Berna e Appenzell, dove scrive sempre meno fino a smettere. Walser muore il giorno di Natale del 1956, in un campo di neve, riverso nel bianco durante una delle ultime passeggiate. Le fotografie ne immortalano le orme e, più avanti, il corpo, avvolto in un mantello nero, solo, pervaso dalla voglia di scomparire nel nulla. > “L’inizio e la fine si stringono la mano sorridendo. Apparire e scomparire > sono una cosa sola”. Sappiamo bene che ogni autore ha la sua unità di misura; Walser con questo racconto compone un’anti-epopea del quotidiano. Laddove i grandi romanzi dell’Ottocento si dilatano in trame ciclopiche, lui restringe la lente fino a cogliere il tremolio di una foglia o il sorriso sbiadito di un libraio. Non dominare il mondo così da farsi sorprendere da esso. > “Molte volte l’apparenza inganna, e l’esprimere un giudizio su qualcuno è > meglio lasciarlo a lui stesso, giacchè un uomo che ne abbia vissute di tutte > si conosce più a fondo di chiunque altro.” È nel granello che si apre la più grande figura retorica che governa La passeggiata: l’iperbole dell’infinitamente piccolo, dove un ciuffo d’erba può valere più di un impero. Walser ricama la città, la miniaturizza, come se ogni parola fosse un punto di ago su di un tessuto di brina. Lì dove altri autori vedono un fondale, lui scorge un oceano. C’è inoltre una retorica della leggerezza, in Walser, che tuttavia non scivola mai nella frivolezza, anzi. La sua è una leggerezza gravosa, come un palloncino che porta in sé il peso della malinconia. Le sue immagini e i suoi personaggi, cesellati e ironici, sanno trasformare la passeggiata in un pellegrinaggio laico, un atto di fede nell’insignificante. > “Quando mai c’è stata un’anima che senza nulla sacrificare, abbia visto > compirsi ogni sua ardita ispirazione, ogni dolce, sublime idea di felicità?” Il narratore, pur occupando la scena, non è mai davvero protagonista. Walser adotta una postura di auto-svanimento; egli parla, osserva, descrive, ma sempre con una modestia che lo dissolve. È un io che si offre e si ritira, che si mostra per rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe occulto. Le sue frasi sono sentieri che non portano a lui, ma al paesaggio. Sono scale che salgono non verso l’autore, ma verso la brezza che le attraversa. Le frasi, lunghe, sinuose, sono esse stesse passeggiate; divagano, si perdono, deviano, ritornano. Non sono mai rette, bensì curve, avvolgenti, labirintiche. È la periodicità serpentina di una scrittura che preferisce l’ombra alla luce diretta, l’allusione alla dichiarazione, il sorriso ironico al tono assertivo. > “Sono pronto a riconoscere che la nautra e la vita umana mi appaiono come > tutta una fuga non meno seria che affascinante di accostamenti, fenomeno che > ritengo sia da giudicare bello e fecondo.” Non a caso, Walter Benjamin trova in Walser l’esempio della teologia del minuscolo. L’opera di Walser sembra manifestare una politica della riduzione che Benjamin teorizza a suo modo nelle Passagen-Werk. Entrambi sono attenti al frammento come luogo rivelatore della storia. Per Benjamin la vetrina, la réclame, il frammento urbano custodiscono la storia materiale; per Walser ogni frammento custodisce una cosmologia privata. Benjamin e Walser convergono nell’idea che l’attenzione al marginale apre una conoscenza antigerarchica; il particolare diventa lente per leggere il generale. Tuttavia qui la prassi diverge – Benjamin indaga il politico e lo storico in quelle fessure; Walser li trasforma in esperienza estetica e morale, in modo meno teorico e più lirico. Il loro incontro è fecondo perché mostra come il frammento funzioni come vettore critico e come sublime ridotto. L’opera di Walser, però, incontra anche altre ombre discrete. Come nei Saggi di Montaigne, anche qui la divagazione è forma di verità, metodo. Montaigne scivola da un aneddoto a un ricordo, costruendo un io curioso, sfaccettato; Walser, nei suoi passi, porta la stessa pratica al limite della sparizione. Dove il francese si moltiplica, lo svizzero si riduce.  Inoltre, dietro la leggerezza, affiora il passo come terapia, il camminare come rimedio contro l’angoscia. Søren Kierkegaard percorreva le vie di Copenaghen per non soccombere alla disperazione; in Walser si ritrova la stessa intuizione: il movimento fisico come salvezza esistenziale. Solo che qui la cura non nasce da una scelta tragica, ma dalla sospensione stessa della scelta, dal balsamo del piccolo. Non a caso, a Herisau, luogo della morte di Walser, è stato inaugurato un sentiero dedicato a lui (Robert Walser-Pfad). > “Non perdete il desiderio di camminare; ho camminato fino ai miei migliori > pensieri, e non conosco pensiero così gravoso da cui non si possa camminare > lontano. […] Più si sta seduti, più ci si avvicina a sentirsi male. Salute e > salvezza si possono trovare solo nel movimento… se uno continua a camminare, > andrà tutto bene.”  > > Søren Kierkegaard In un’epoca che idolatra velocità, risultato e rumore, Walser è il santo patrono del rallentare. Il suo libro è un vero e proprio manuale di invisibilità; ci mostra come svanire per poter finalmente vedere. Ci insegna a essere distratti con cura, a perdere tempo come forma suprema di attenzione. È un inno alla lentezza, al vagare, al lasciarsi trasportare. Un invito a guardare i dettagli dimenticati, a riconoscere la grandezza nel piccolo, a vivere come perdersi. Walser compone dunque un’elegia al dettaglio, una litania dell’insignificante. Il suo libro è fragile come il vetro, e dunque incorruttibile come la verità. Solo chi si fa piccolo può toccare l’infinito, ma allora chi tocca veramente la realtà, chi guarda o ciò che viene guardato? Tommaso Filippucci L'articolo Per un’estetica della scomparsa. Su Robert Walser, il santo patrono dell’insignificante proviene da Pangea.
September 19, 2025 / Pangea
“Fuori orario” e “Tutto in una notte”: l’impensabile diventa realtà. Una lettura
Possiamo asserire senza tema di smentita che Fuori orario (1986) non è solo uno dei film più brillanti e alacri di Scorsese ma anche una vera e propria pellicola culto nella sua filmografia nutrita e variegata. L’idea portante di ambientare un intero film nell’arco di una sola notte è una sfida che Scorsese vince con bravura e ha in sé richiami picareschi che virano al grottesco… Non è di notte, del resto, nella diegetica di tanta letteratura, che si snodano le storie più nascoste, imprevedibili e ricche di mistero?  Un programmatore di computer di nome Paul Hackett, persona ordinaria e razionale per eccellenza, verrà catapultato in esperienze che hanno dell’assurdo e metteranno a dura prova la sua compassata compostezza iniziale. Se il Joyce dell’Ulisse dedicava un intero libro all’epopea di un solo giorno dei suoi personaggi (16 giugno 1904), Scorsese impiega ogni mezzo registico (e virtuosistico) per imprimere dinamismo all’epopea di una singola notte e delle disavventure che porta con sé per l’ignaro protagonista. La pellicola diviene un incubo allucinato e venato di ironia, iperbolico e inquieto. Se la carrellata iniziale, nell’ufficio in cui lavora il protagonista, dichiara un mestiere solido e un’arguzia visiva assoluta, muovendosi tra le scrivanie come tra i meandri di un labirinto di comune operosità impiegatizia, per poi passare a inquadrare le mani dei soggetti intenti al lavoro, allora si capisce bene che siamo di fronte a un film non comune, ricco di una forza propulsiva e di orge di espedienti visivi icastici e narrativamente eleganti. È bene accennare che, qui come in Cape Fear, viene letteralmente citato Henry Miller, nello specifico Tropico del Cancro, che lo stile plastico e vicino allo stream of consciousness dell’autore, ha molto di simile non solo a Céline ma anche al già citato Joyce, e trova nel film la cifra di un’espressione vicina a un flusso preconscio e caleidoscopico, sbalzato nella pellicola in maniera apparentemente non mediata, attraverso un profluvio di idee e situazioni al limite del paradossale e di una freschezza e vivacità desuete anche per chi, tra registi affini, amasse davvero osare. In realtà si capisce bene che il film intero pur apparendo sotto questa veste di spontaneismo creativo, è frutto di una costruzione a tavolino mai così minuziosa e studiata. Sembra che Scorsese si diverta a tessere le fila di una storia ordinaria e straordinaria nel medesimo tempo registico, passando dall’iperrealismo di una città imperlata di pioggia che trae vividi riflessi di luci e insegne tali da avere del sensuale proprio come era avvenuto in Taxi Driver, alla puntuale messa in scena di un tempo ora velocissimo e isterico, ora dilatato e inquieto, che avvolge di assurdo mistero dettagli altrimenti consueti e banali. Tutti quei dettagli che ingenerano nel protagonista una sorta di angoscia presaga che sfocia poi in una serie ininterrotta di colpi gobbi del destino. Ora attraverso lo zoom, ora attraverso carrellate di avvicinamento e allontanamento, ora attraverso una ripresa che asseconda i movimenti di oggetti e soggetti fino a accrescerne la carica mobile e plastica, o attraverso panoramiche circolari e a schiaffo, Scorsese imprime alla pellicola un isterico e animatissimo senso del movimento non scevro però di un’asfissia della ragione e un apparente esilio dalla normalità. In questo contesto, come detto, l’ordinario diviene straordinario, e lo straordinario appare cosa mai così fondata e realistica nella sua messa in scena. Il vaso di Pandora è aperto e la sequela di rischi, pericoli, scomode situazioni che il programmatore vive è un insieme di trovate uniche, ora cupe ora arlecchinesche, che descrivono un contesto in cui niente è ciò che immediatamente appare: esattamente come in una sorta di neo-medioevo, la realtà veste delle maschere e ama il nascondimento; e quando le maschere calano mettono in mostra male e pericolo.  Simile a un gigante organismo vivente la città reagisce ad ogni singola mossa del protagonista con contromosse che lo mettono alla prova con un carosello di contrattempi, disagi e rischi che sfociano perfino in un tentato linciaggio nel convulso finale; un organismo in suppurazione che espelle la scheggia confitta sotto la sua pelle-superficie, Paul, come un elemento estraneo. E Paul Hackett è di fatto estraneo e sempre più stropicciato e estraniato, incredulo, di fronte al debordante avanzare di un destino di malasorte che si risolve poi in una chiusa senza pari, carambolesca e da teatro dell’assurdo. L’espediente di mettere a dura prova e fino all’esasperazione un individuo ragionevole e razionale, solidamente integrato, nell’arco di una sola notte, diviene un enorme congegno registico a orologeria, con un crescendo rossiniano di disguidi e avvenimenti avversi che hanno del kafkiano… Esattamente come ne Il processo o La metamorfosi di Kafka, non ci si chiede perché l’assurdo avvenga o si manifesti, perché vive di vita propria e rigetta ogni forma di spiegazione e addentellato razionalmente fondato: esso sembra non avere un’origine seppure ha un inizio.  Forse vale la pena di notare come questa black-comedy notturna, ancorché non misogina, metta in scena una sorta di continua castrazione psicologica del protagonista, attraverso l’incontro con donne che incarnano forme di perturbante… Basterebbe citare l’immagine in cui Paul, che si dà una rinfrescata nel bagno di un locale cheap, vede sul muro il graffito di un pescecane che morde un pene. Titolo originale: “After-Hours”: traducibile come “dopolavoro”.Andamento circolare della pellicola, comincia nel luogo di lavoro e finisce con un nuovo ingresso in esso, mai così improbabile e straniante, mentre albeggia. Vinse il cinquantaseiesimo Festival di Cannes per la regia. Una curiosità: Inizialmente il film doveva essere diretto da un giovanissimo Tim Burton ma Scorsese lesse la sceneggiatura dopo la realizzazione del controverso L’ultima tentazione di Cristo e Burton rinunciò di buon grado alla regia del film quando Scorsese espresse di volerlo dirigere personalmente. Tutto in una notte di John Landis (titolo originale: “Into the night”) esce lo stesso anno di Fuori orario (1986) e pur avendo una struttura simile al film di Scorsese (l’idea di fondo è la stessa: un’epopea di disguidi e accadimenti avversi lunga una sola notte) ha un impianto diegetico e un tocco registico ben diverso. I due protagonisti sono un Jeff Goldblum (Ed Okin nel film: ovvero il prototipo dell’uomo comune) e una Michelle Pfeiffer (Diana nel film) davvero affiatati e scoppiettanti. A oggi il film di Landis – regista anarchico e scopertamente politico anche quando il suo sembra essere un discorso che esula dalla dimensione politica dell’esistenza e dell’esistente –, non sembra aver risentito della sua età (solo anagraficamente superata) e offre un ritratto scanzonato dell’America paranoica e controversa dell’era reaganiana.  La partitura del film è tesa e fitta di sorprese e rivolgimenti di trama, e sembra avere a che spartire, in quanto commedia nera, anche qualcosa con la tradizionale commedia degli equivoci, il tutto miscelato a elementi che potremmo definire di stampo quasi hitchcockiano nel calare il protagonista ignaro e dal profilo umano ordinario, all’interno di un tourbillon di eventi inaspettati e avventurosi che hanno invece ben poco di comune e lo metteranno alla prova nello sfoderare inventiva e capacità di azzardare tali da collocare la dimensione castrante della sua vita precedente nell’ambito del puro ricordo. Il protagonista conduce infatti una vita routinaria e colma di elementi simili a altrettanti luoghi comuni dell’american way of life: una moglie che lo tradisce, un lavoro che lo vede insoddisfatto e una ansiosa forma di insonnia che sarà il proscenio a un’avventura a suo modo comica anche quando belluina, colma di un understatement che, anche nei momenti più concitati e rocamboleschi, non pigia sul pedale della retorica e dell’enfasi. Interessante anche il discorso metafilmico di Landis che a un tratto presenta i due protagonisti all’interno di un set cinematografico che viene letteralmente smontato pezzo a pezzo: prima Ed cerca di fare una chiamata da un telefono posticcio che due operatori gli portano via sotto gli occhi, poi si appoggia a un muro che sembra solido ma è in realtà un altro elemento di scena, finendo per rovinare all’indietro mentre esso crolla: una sequenza che ha del chapliniano… Come a dire che il cinema è la cosa più insincera e artificiale che esiste, anche quando il suo discorso vuole farsi serio nel senso di “oggettivo”, finisce per essere solo uguale e mai identico alla realtà che narra.  Le nuove esperienze di Ed sembrano divenire sempre più assurde e irreali, in questo dedalo notturno di imprevisti e apparenze ingannevoli, doppie e anzi plurime, che lo mettono alla prova su un terreno sdrucciolo e a lui sconosciuto, ma finendo per essere più concreto, veridico e vitale in questa nuova forma che non nel suo opaco passato medioborghese. È questa una dimensione che gli consente di dare sfogo senza i legacci dell’urbanamente consentito e di una morale da nodo scorsoio, a una forma disinibita di scelte e soluzioni, inventiva e resilienza, assolutamente fuori del copione grigio, senza respiro e ripetitivo, della sua esistenza di sempre. Se le litanie esistenziali dell’uomo qualunque sono la malattia di una società improntata a valori posticci, materialismo, arrivismo, qualunquismo e mancanza di reale coraggio, allora il protagonista del film da antieroe della propria stessa esistenza diviene eroe di essa nell’arco di una sola notte; e non perché il suo sguardo sul mondo è diverso da quello di chiunque altro, ma perché la vita, con un improvviso cambio di rotta e prospettiva, lo chiama a scegliere di non essere un sonnambulo che attraversa i giorni nell’ovatta di un comportamento anodino e incapace di affrontare tutto il carico di un imprevisto che diviene legge; scozzando le carte di un’esistenza torpida e priva di attrattive, per la quale non servivano né la capacità di osare né quella di reagire agli ostacoli e alle condizioni avverse, la vita di Ed diviene il campo delle sue scelte, invece di lasciarsi scegliere da essa. Tutto procede fuori dai canoni classici, in una forma che ibrida i generi e aggira gli stereotipi – come uso di questo regista così poco hollywoodiano anche quando sforna successi da botteghino – fino al risultato di spiazzare le aspettative dello spettatore. E il protagonista condivide con esso la scoperta dell’impensabile e un cambiamento incessante delle regole del gioco: filmico e non. Impreziosiscono il film numerosi camei: Jack Arnold, Paul Bartel, David Bowie e David Cronenberg, John Demme, Don Siegel ed altri ancora. Se le due diverse pellicole sono la declinazione di un ordinario che deraglia dai propri binari e dell’inatteso che diventa regola, mettendo a dura prova due vite che non l’avevano chiesto né sperato o cercato per sé, la possibile compromissione della tenuta della loro razionalità e del loro sangue freddo, nella pellicola di Scorsese è il contrappasso di un’esistenza spesa senza osare e figlia di un raziocinio asfittico che riconduce tutto alla regola del probabile e del consolidato; mentre in quella di Landis è l’occasione irripetibile di far valere il proprio coraggio e la propria capacità di scelta, sul piano di risposte a una lotta senza esclusione di colpi (anche di scena) e in un duello all’ultimo azzardo, con un’asta al rialzo dei rischi e dei possibili vantaggi. Finale amaro e grottesco in Fuori orario, lieto e aperto in Tutto in una notte. Per finire potremmo dire che sia Landis sia Scorsese, non hanno mai avuto tanta voglia di “giocare” con le aspettative del genere e degli stessi spettatori, offrendo dei virtuosismi di scrittura e di regia che piegano plasticamente le immagini e gli snodi delle due pellicole, al servizio di deliranti (filologicamente, la parola “delirio” significa “uscita dal solco”) espedienti picareschi, i quali scrivono e riscrivono la condotta di due nauti di uno stesso destino che non si dispiega conformemente alle mortifere situazioni che erano la norma prima di una notte tale da inverare una poiesi dell’inatteso – sia sul piano degli accadimenti sia su quello della capacità di farvi fronte. Parafrasando Scheler: la vita è sempre più della somma dei suoi singoli istanti… E i due registi sembrano volerlo ribadire cambiando drasticamente le carte in tavola di due vite spese all’insegna di una sommatoria di gesti e comportamenti uniformi e senza sobbalzi. Massimo Triolo *Massimo Triolo presenterà il suo ultimo libro in versi, “Il sacrificio del miele” (Raffaelli), giovedì 25 settembre ad Arezzo, ore 18, presso la libreria Mondadori (via Roma, 15) L'articolo “Fuori orario” e “Tutto in una notte”: l’impensabile diventa realtà. Una lettura proviene da Pangea.
September 19, 2025 / Pangea
“Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti”. Il poeta e il politico
La categoria del ‘politico’ è propria della poesia italiana, dal punto di vista simbolico – le invettive di Dante che scandiscono la Commedia, i sonetti ‘babilonesi’ di Petrarca, ad esempio – come da quello esistenziale. I poeti italiani, quando ancora l’Italia era un’idea, un pullulare di principi e di principati, erano assunti a corte, esercitavano mansioni di funzionari nei nascenti comuni. Così – per dire – Iacopo da Lentini, “il Notaro”, operava presso la corte di Federico II e Ludovico Ariosto si dimostrò abile amministratore in Garfagnana, per conto dagli Este.  Ciò non vuol dire che il poeta sia per forza un cortigiano. È vero, il potente ha bisogno del suo eloquio, del poema encomiastico, per lo più didascalico, esornativo – ma è pur vero che il poeta, se tale è, va a briglia sciolta, impenna il senno; benché possa essere animato da scaltrezza (che significa: giustezza d’intenti; figura dell’altro mondo che si adopera nel mondano) non si fa maculare dai lacchè. Il Malatesta aveva bisogno di un aedo, Basinio da Parma, che giustificasse le sue gesta; pur al soldo dei Medici, Angelo Poliziano conserva un’eminenza intellettuale che lo obbligherà all’esilio – d’altronde, la via ‘notturna’ della poesia italiana ha il suo zenit nel Tasso messo ai ceppi a Sant’Anna. La “Raccolta aragonese” voluta da Lorenzo de’ Medici dimostra che la poetica, la questione della lingua, è una branca della politica.  Certo, occorre non inquinare le fonti. Il rapporto tra poesia e politica non si regola nella poesia declamatoria, né nella poesia ‘civile’ – al contrario, il poeta è l’incivile del linguaggio, compie atti di brigantaggio linguistico contro la lingua imposta dal potere. Secoli di ‘impegno’ – pensiamo alla poesia risorgimentale italica – hanno prodotto una poesia esangue benché piena di urla, capace di infiammare gli animi, semmai, ma il cui fuoco lirico si è presto spento. Un conto è l’ardore di Ugo Foscolo o l’audacia di Vittorio Alfieri, altro il rovistar per peana del garibaldino Francesco Dall’Ongaro o i pur sapidi sketch di Vincenzo Riccardi di Lantosca (esempio, Dio, Patria, Famiglia: “Patria, ossia quei pochetti sicuretti; Famiglia,/ quel tanto della propria moglie, che uno si piglia;/ quanto a Dio ci s’intende che noi s’intende il prete”). Il ‘disimpegno’ esibito, disinibito, d’altro canto, ha prodotto tonnellate di bigiotteria lirica. Eppure, ogni potere, per fondarsi – non ho detto celebrarsi –, ha bisogno del poeta. Anche in questo caso, da un lato ci sono i bardi del bene comune, i boiardi dell’opportunismo verbale, dall’altra il poeta, l’inafferrabile. Ogni nazione si fonda sul poeta perché il suo linguaggio feconda il futuro, è motivo di avvenire, è ragione di esistenza; altresì, si affida al burocrate. L’Italia è Giacomo Leopardi più che Goffredo Mameli, giovane martire delle lotte risorgimentali. La Russia fonda il suo essere su Aleksandr Puškin e su Boris Pasternak, non certo su Nikolaj Tichonov, poeta tribunizio, più volte premio Stalin, deputato dei Soviet.  È interessante perché al contempo il poeta fonda la natura politica della propria nazione, e nello stesso tempo – in forza della sua assolutezza, della sua incoercibile singolarità – la disintegra. L’uno e il tutto, la costruzione e la distruzione si coagulano senza sintesi nel corpo lirico del poeta: che è per questo offerto.  Il Novecento è stato un secolo di profeti inascoltati, di poeti dal potente ardore ‘politico’ messi diversamente a tacere – penso a Ezra Pound, ovviamente, ma anche a Iosif Brodskij e a Hugh MacDiarmid, il paladino dei nazionalisti scozzesi, l’Omero dello scots. Soltanto in William Butler Yeats, magicamente, misteriosamente, la figura del poeta coincide con quella del ‘padre della patria’: l’Irlanda esiste perché un poeta mitografo e allampanato ha detto di una small cabin sulle sponde del lago Innisfree. Per molto tempo, più di altri poeti, Robert Frost ha incarnato l’identità autentica degli Stati Uniti d’America: è ancora così? Attorno a quale poeta vivente, oggi, riconosciamo la nostra identità? Quando una nazione perde memoria dei suoi poeti, perde se stessa. Ad oggi, i poeti cantano di rose e di passeggere indignazioni, sono i macchinisti di versi concettosi, sono troppo intelligenti, fanno del proprio ombelico la sola patria.  Ricevendo il Nobel per la letteratura, era il 1959, Salvatore Quasimodo volle affrontare la questione de “Il poeta e il politico”. Indipendentemente dalla poesia di Quasimodo – espressa tra Saffo e il Pci – quel discorso, a tratti enigmatico, ha ragione di fascino. Quasimodo distingue il poeta – che agisce il ‘politico’ alla greca, come una categoria della ribellione, ovvero dell’indomabile – dal letterato, che è poi il retore, il portaborse del potere.  > “Il poeta è solo: il muro di odio si alza intorno a lui con le pietre lanciate > dalle compagnie di ventura letterarie. Da questo muro il poeta considera il > mondo, e senza andare per le piazze come gli aedi o nel mondo ‘mondano’ come i > letterati, proprio da quella torre d’avorio, cosi cara ai seviziatori > dell’anima romantica, arriva in mezzo al popolo, non solo nei desideri del suo > sentimento, ma anche nei suoi gelosi pensieri politici”. È nell’esplicita distanza – quando non: lotta – con il potere che si esprime la ‘poetica della politica’ del poeta. Di questa libertà – che è: liberarsi dal giogo della lingua del potere, imponendo un verbo nuovo, nuovamente innocente – il poeta è il terribile portavoce.  > “Il poeta è un irregolare e non penetra nella scorza della falsa civiltà > letteraria piena di torri come al tempo dei Comuni; sembra distruggere le sue > forme stesse e invece le continua; dalla lirica passa all’epica per cominciare > a parlare del mondo e di ciò che nel mondo si tormenta attraverso l’uomo > numero e sentimento. Il poeta comincia allora a diventare un pericolo. Il > politico giudica con diffidenza la libertà della cultura e per mezzo della > critica conformista tenta di rendere immobile lo stesso concetto di poesia, > considerando il fatto creativo al di fuori del tempo e inoperante; come se il > poeta, invece di un uomo, fosse un’astrazione… Nel mondo contemporaneo il > politico assume vari aspetti, ma non sarà mai possibile un accordo col poeta, > perché uno si occupa dell’ordine interno dell’uomo e l’altro dell’ordinamento > dell’uomo… Oggi il poeta è libero? È libero, secondo le società che lo > esprimono, o il continuatore di illuminazioni pseudo-esistenziali, il > decoratore dei placidi sentimenti umani, o chi non scende profondamente nella > dialettica del proprio tempo per timore politico o per inerzia”. Cinquant’anni prima, in un saggio su Il poeta e il nostro tempo, Hugo von Hofmannsthal scriveva che misteriosamente il poeta, l’inerme, l’assoluto sconosciuto, il paria ai più, “è il luogo in cui le forze del tempo tendono ad equilibrarsi”; scrive che “è come se i poeti lavorassero all’unisono alla costruzione di una piramide, all’immensa dimora di un re defunto o di un dio non nato”, capaci di “creare l’accordo accettabile di tutto quanto si manifesta”. Ecco che il politico sfocia quasi nel teologico. Il Regno di questo mondo; “Il mio regno non è di questo mondo”.  Poi, certo, il vero compito politico del poeta è creare uno spazio di grazia e di bellezza quando tutto intorno è orrore, è morte. Confidare nella bellezza nonostante l’orrore e la morte. Quando la morte – che non ha l’ultima parola – avrà smesso di urlare, esisterà, per i sopravvissuti e i futuri, uno spazio di grazia e di bellezza. Un fuoco. Non per forza gradevole né confortevole, ma buono.  Per il resto, è prova dell’integralismo lirico del poeta la capacità di imprecare in versi. Quando è troppo, bisogna sobillare le Sibille del linguaggio, tramutare il verbo in Erinni. Al di là di isolati, alati esempi – “Muore ignominiosamente la repubblica”, Mario Luzi – la poesia più violenta, in questo senso, priva di orpelli poetici, quasi integralmente politica, integerrima, è Show, di Giorgio Caproni, che apre la sezione “Anarchiche o fuori tema” del libro postumo Res amissa (1991); libro in cui – scrive Giorgio Agamben – “la disappropriata maniera di Caproni”, “ha raggiunto ormai una regione sempre al di là del proprio e dell’improprio, della salvezza e della rovina”. È da questo non chiedere approvazione, da questo inappropriato, da questa rovina in cui tutto è salvo – cioè infinitamente finito – che si riparte – anzi, si vagabonda, dacché è lo sciacallo e la libellula, ora, l’icona del poeta. (Che Show stia anche per sciò è perfino ovvio marcarlo: sciò, sciò, fuori tutti, galletti del potere). ** Show Guardateli bene in faccia. Guardateli. Alla televisione, magari, in luogo di guardar la partita. Son loro, i “governanti”. Le nostre “guide”. I “tutori”  – eletti – della nostra vita. Guardateli. Ripugnanti. Sordidi fautori dell’“ordine”, il limo del loro animo tinge di pus la sicumera dei lineamenti. Sono (ben messi!) i nostri illibati Ministri. Sono i Senatori. I sinistri – i provvidi! – Sindacalisti. “Lottano” per il bene del Paese. Contro i Terroristi e la Mafia. Loro, che dentro son più tristi dei più tristi eversori. Arrampichini. Arrivisti. In nome del Popolo (Avanti! Sempre Avanti!), in perfetta Unità arraffano capitali – si fabbricano ville. Investono all’estero, mentre “auspicano” (Dio, quanto “auspicano”) pace e giustizia. Loro, i veri seviziatori della Giustizia in nome (sempre, sempre in nome!) del Dollaro e dell’Oro. Guardateli, i grandi attori: i guitti. Degni  – tutti – dei loro elettori. Proteggono i Valori (in Borsa!) e le Istituzioni… Ma cosa si nasconde dietro le invereconde Maschere? Il Male che dicono di combattere?… Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti. Giorgio Caproni Da G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1999 *In copertina e nel testo: opere di David Lynch L'articolo “Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti”. Il poeta e il politico proviene da Pangea.
September 18, 2025 / Pangea
Camminare sulla fune, ovvero: esercizi per assaporare il silenzio
Dove si trova il silenzio? È una condizione che fa parte di questo mondo o esiste solo nell’universo siderale? Il silenzio si trova nei cimiteri, ci riguarda o appartiene a un Altrove?  Esiste il silenzio?  A volte sembriamo cercarlo disperatamente, ne sentiamo la mancanza.  Dove abita il silenzio?  Non è un po’ come chiedersi: dove nasce il vento?  Siamo disposti a viaggiare e ad allontanarci molto per provare a stanarlo.  Lo cerchiamo durante i ritiri di meditazione, dove si rimane zitti per giorni, e quando poi si può ricominciare a parlare, non abbiamo nemmeno tutta questa voglia di farlo.  Ma il silenzio non è per tutti. Molti si sentono a disagio quando il mondo tace. Perché il silenzio è anche un invito all’introspezione. Restare soli con sé stessi può fare molto rumore. Eppure, come scrive il filosofo Peter Sloterdijk in Devi cambiare la tua vita, al contemplante basterebbe comprendere una procedura fondamentale che consiste nella “duplicazione di sé”, un metodo per stare in buona compagnia anche quando si sceglie di ritirarsi dal mondo; cogliere che dentro si ha già un partner superiore, un angelo, un monitor spirituale, un genio, un mentore, un custode, un compagno, un guardiano che protegge e controlla, che esamina e sostiene, senza cercare fuori qualcuno o qualcosa che compensi la paura. Un nobile osservatore che sorveglia e fa sentire al sicuro:  > “Chi vuole essere sé stesso sperimenta la presenza del suo altro interiore. > Per sapere come sta quest’ultimo, occorre un quotidiano esame interiore”.  Il passo successivo, in particolare nei percorsi spirituali orientali, sarà la fusione con questo Grande Altro o l’eliminazione della dualità tra Sé reale e Sé ideale.  * Io stessa ho cercato il silenzio nelle sinuosità del deserto dell’Oman. Ho esplorato il Negev, il Sahara, il Thar, il Wadi Rum e i deserti americani. E poi, durante un viaggio nella mia terra natìa, le Marche, ho capito che non c’era bisogno di andare così distante per sentir dialogare soltanto le stelle nella notte oscura. Là fuori, lontano dalle città, recuperare il silenzio diventa di nuovo un’opzione possibile ma che pochi sembrano intenzionati a perseguire. La maggior parte ha scelto di abbandonare i borghi e le campagne e di conseguenza il silenzio, perché in pochi hanno ancora insito in sé il contatto primordiale con la natura, quel luogo dove la solitudine può diventare contemplazione, dove le parole non servono, perché è più interessante ciò che ha da dire il mare.  Pensiamo che vivremo meglio silenziando il dolore, non capendo che solo ascoltandolo e accogliendolo potremo elaborarlo ed evolvere. Ma tutto ciò diventa possibile solo frequentando il silenzio e lasciando essere le cose così come sono. È questo a creare fiducia, come scrive la poetessa Chandra Livia Candiani ne Il silenzio è cosa viva:  > “La maggior parte di noi inizia un percorso meditativo in cerca di pace. Ma > ben presto ci accorgiamo che quello con cui entriamo in contatto è il caos > della nostra mente e la ristrettezza del nostro cuore. La pace non è la > quiete, è piuttosto l’accoglienza dell’irrequietezza”.  Tutto sta nella possibilità di aprirsi a quel conoscere senza pensare.  Ma silenziare il caos vuol dire anche appropinquarsi ad assaporare la morte, la lacerazione con ciò che consideriamo vita, con l’inizio e la fine di tutte le cose, con il loro apparire e scomparire, con l’ingannevole sicurezza e l’ignoto. Non troviamo il silenzio perché siamo distratti.  Viviamo in una società iperconnessa e industrializzata che mette a dura prova il nostro sistema nervoso. Non siamo più in armonia con la vita, come scrisse la filosofa e maestra spirituale Vimala Thakar ne Il mistero del silenzio. Se siamo seduti in silenzio e la mente fa resistenza anche soltanto al suono del pianto di un bambino, si crea una frizione, che genera irritazione e una reazione, una resistenza alla vita stessa. Cerchiamo rifugio nella meditazione, nella concentrazione, ma spesso non basta a trovare sollievo dal trambusto.  Dovremmo soggiornare in uno stato di osservazione consapevole che dovrebbe accompagnarci durante tutta la giornata per essere in grado di trovare il silenzio interiore, una condizione di non verbalizzazione, di sradicamento dei dogmi, dei simboli, di teorie e d’ideologie, di opinioni, credenze e affezioni, di nomi, di forme, d’identificazioni e di sentimenti; oltre l’io, il me, il mio, oltre il tempo e lo spazio:  > “Perché il silenzio possa diventare vivo, la totalità del movimento cerebrale > deve disattivarsi volontariamente”.  Il silenzio giace al di là del noto e dell’ignoto, di ciò che è visibile e invisibile. Il regno del silenzio è il regno dell’inconoscibile. Come nella via apofatica del misticismo cristiano di Meister Eckhart e Angelus Silesius, dell’Anonimo Francofortese e di Margherita Porete, la quale dichiarava: “Il mio Dio è colui di cui non si può dire parola”. La loro era una via di silenzio e di contemplazione, dove al massimo si poteva asserire cosa non fosse Dio. Perché se dici Dio, non è già più Dio, come dichiarava Sant’Agostino.  * È possibile trovare il silenzio nell’immobilità, nella non-azione, nel non-pensiero. Ma come si raggiunge il non-pensiero? Con il senza-pensiero, quando: “Pur essendo di fronte a tutti gli oggetti circostanti, la mente rimane pura ed incontaminata”, come scrisse Daisetsu Teitarō Suzuki, professore di Filosofia Buddhista dell’Università di Kyoto in La dottrina zen della non-mente. Per “oggetti circostanti” s’intendono la coscienza e l’Inconscio:  > “cioè uno stato in cui né pensieri, né coscienza, interferiscono col > funzionamento spontaneo della mente. Far sorgere pensieri verso gli oggetti > che ci circondano e trastullarci con false idee su questi pensieri, questa è > la fonte delle preoccupazioni e delle immaginazioni”.  Cosa vuol dire senza-pensiero?  > “Vedere tutte le cose eppure mantenere la propria mente libera da macchie e > attaccamenti. Obbligare la mente a non dirigersi verso qualsiasi cosa, questo > è ‘estirpare i pensieri’”.  Astensione dalle discriminazioni. Pura presenza. Qualcuno potrebbe dire che in questo modo si rischia di cedere all’annichilimento. Ma l’annichilamento non è ancora forma e parola? Un grande insegnamento del maestro zen Mazu Daoyi, parlando di cosa fosse l’illuminazione, fu: “Quando ho fame, mangio e quando sono stanco, vado a dormire”. Eihei Dōgen, filosofo, monaco e poeta zen fondatore della scuola Sōtō-shū, in una poesia scriveva:  > “In primavera i fiori  > in estate il cuculo e  > in autunno la luna.  > Nel freddo inverno  > la neve chiara e pura”.  Ecco l’essenza della vita, la necessità di smettere di classificare, concettualizzare, teorizzare e interpretare. D’altronde, anche William Shakespeare in Romeo e Giulietta scrisse: “Romeo, perché ti chiami Romeo? Cambia il tuo nome. In fondo, che cos’è un nome? Quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente”. Cosa? Perché? Dove? Come? Queste non sono domande utili per la comprensione della vita. Non sarebbe più utile prendere una tazza di tè seduti nel silenzio del senza-pensiero anziché inseguire le deviazioni della mente? Guardando fuori, poi dentro, poi di nuovo fuori, e capire che non c’è frammentazione.  Il silenzio è una forma di libertà e una via di vulnerabile accuratezza.  * Il compositore John Cage – famoso anche per il brano 4’33, in cui l’orchestra non deve suonare – ha sempre inserito lunghe pause tra le note, pause che ricordano anche i momenti di sospensione tra un respiro e l’altro, tra un’inspirazione e un’espirazione, come a evidenziare la rilevanza del silenzio. Un silenzio che, in realtà, non esiste, non è mai esistito e mai esisterà. Anche in una camera anecoica completamente insonorizzata c’è sempre qualcosa anziché nulla: non ci sono rumori esterni di nessun tipo… ma ecco il suono del nostro respiro, del sangue che scorre nelle vene, il battito cardiaco, il ronzio nelle orecchie, magari anche un acufene. Il silenzio non esiste. Perlomeno la totale assenza di rumori. Ma può esistere il silenzio della mente, e Cage, con le sue pause, ci fa cogliere proprio questa consapevolezza: la presenza mentale e la pace, giacciono in quello spazio vuoto, in quella pausa tra un pensiero e l’altro, tra la nascita e la morte di un giudizio. Solo una mente non discriminante può provare l’ebrezza della calma.  Ci sediamo a meditare, e veniamo invasi da pruriti, dolori, pensieri nefasti, immagini, ricordi, idee. Nel libro Silenzio, John Cage scriveva: “Un complesso d’archi, un tramonto, ciascuno agisce”. Si tratta di accettare che un suono è un suono e un uomo è un uomo, senza illusioni sull’ordine e orpelli estetici che abbiamo ereditato. Si tratta di considerare profondo l’ascoltare così come lo starnutire. Si tratta di saper vedere, e cioè riconoscere, comprendere, sentire nel cuore, sperimentare in prima persona. * E allora, dove cercare il silenzio? L’unica risposta plausibile è di non cercare. Questa è la via maestra dei meditanti più esperti. Può sembrare troppo, incomprensibile, ma intanto – per una volta – proviamo a incamminarci senza pensare alla meta. Una via di apparente improvvisazione che in realtà cela un programma di allenamento degno della più alta acrobatica spirituale. Perché dietro alla capacità di tacere e di silenziare i condizionamenti mentali, c’è sempre molta prassi ed esercizio, c’è dedizione e vocazione, intenzione ad abbandonare e a lasciar andare. La capacità di assaporare un vero silenzio interiore è direttamente proporzionale al saper camminare sulla fune della meraviglia del vuoto.  Dejanira Bada *In copertina: Philippe Petit durante un servizio fotografico nel dicembre del 1989 ritratto da Annie Leibovitz L'articolo Camminare sulla fune, ovvero: esercizi per assaporare il silenzio proviene da Pangea.
September 18, 2025 / Pangea
Che fare? Leggere Hohl in faccia a questo mondo assassino. Ovvero, sul senso della lettera ß
In questo momento storico esagitato, ora che il mondo che credevamo di conoscere si sta rivelando non essere affatto come credevamo che fosse, svincolatosi dalle leggi che credevamo lo governasse, in questo momento storico forsennato in cui si svela che il mondo ha smesso da così tanto tempo di essere regolato dalle leggi che credevamo lo governassero da rivelarsi praticamente a tutti così com’è diventato, come sta diventando, per tutti intendo anche me che sono uno tra i tutti, tutti tranne quei relativamente pochi che lo sanno da chissà quanto tempo che le regole del mondo sono cambiate, che il mondo ha infranto le regole precedenti e ne sta rodando delle nuove, che io non so affatto quali siano ma che spero ci siano, senza regole quali che siano il gioco del mondo semplicemente si fermerebbe invece il mondo gioca eccome, in questo momento storico prepotente e angosciante, apocalittico, omicida a livelli più che novecenteschi, ma progresso ormai non significa altro che aumento dell’intensità, del profitto e del danno, in questo momento storico che sarà storico anche lui come lo sono stati tutti quelli primi e che a me, personalmente, non piace lungo i suoi sommi capi, io leggo Ludwig Hohl, Note, Marcos y Marcos, e grazie a Ludwig Hohl – che nel 1980 curò una nuova edizione delle note “scritte nei tre anni che vanno dal 1934 al 1936, durante i quali vissi in Olanda in uno stato di assoluto isolamento spirituale”  – ora so che la lettera tedesca ß, cioè la doppia S tedesca, si chiama Eszett  o scharfes S (fonte: Wiki), lo so perché Hohl nella Nota 3 della Parte VI – Scrivere scrive: “Quanti leggono oggi Lichtenberg o Kaßner?”.  Io non ho mai letto né l’uno né l’altro ma se cercare Lichtenberg su Google è stato semplice non lo è stato per Kaßner: intanto dovevo capire come si inserisse il carattere ß, non ho mai usato il carattere ß, e anche una volta copiato online il carattere, una volta inserito sul motore di ricerca Kaßner, niente, nessun responso, perché l’occorrenza vale per Kassner, Rudolf Kassner: che piacque molto a Rilke oltre che a Hohl, si scopre navigando navigando, e Hohl su Rilke? Da una nota alla Nota 4 sempre della Parte VI – Scrivere: “Mi riferisco qui al tardo Rilke. E anche costui, allorché scrissi questo testo, venne da me sopravvalutato.”  In questo momento storico allarmato, valicato, sbeffeggiato, trucidato e molto molto molto commentato posso ancora addormentarmi la notte contento di aver imparato la lettera nuova di una lingua che non parlo, la ß che si pronuncia come una doppia esse in italiano e che allora potremmo ereditare, in questi tempi di scrittura stringata, raccorciata, stritolata, politicamente pudibonda, reticente, vieppiù omertosa, potremmo scrivere taßo e rifleßo e aßaßinio o, per bypaßare la censura delle piattaforme così perbenino a modo loro, per non temere di eßere derankizzati potremmo scrivere seßo quando avremo voglia di parlare di seßo – siccome parlare è già un po’ un fare e siccome è indubbio che qualcosa aßolutamente dobbiamo fare in questo momento storico demenziale, oßeßionato, impanicato, frustrato, esploso.  Che fare? Leggere Hohl, per esempio. antonio coda L'articolo Che fare? Leggere Hohl in faccia a questo mondo assassino. Ovvero, sul senso della lettera ß proviene da Pangea.
September 17, 2025 / Pangea
Pier Vittorio Tondelli e Marco Pesaresi. Tra nudità e spoliazione
È stato Mario Guaraldi, l’editore rivoluzionario, ad incarnare le fotografie di Marco Pesaresi nelle parole di Pier Vittorio Tondelli. L’edizione di Rimini, “Il romanzo vent’anni dopo”, a cura di Fulvio Panzeri, stampata da Guaraldi nell’estate del 2005, alterna le fotografie di Davide Minghini e i ritratti tondelliani di Fulvia Farassino, alle immagini, prepotentemente spudorate, di Pesaresi. Un colpo di genio paradossale: Tondelli nasce nove anni prima di Pesaresi e muore quando il fotografo riminese ha appena fatto il suo ingresso in Contrasto. È una specie di passaggio del testimone tra generazioni affini e inavvicinabili: Tondelli muore a metà dicembre del ’91, tre settimane dopo Freddie Mercury. La sua morte segna la fine di un’era. La morte di Pesaresi, invece, sempre in dicembre, dieci anni dopo Tondelli, inaugura una nuova era, brutale: l’Undici settembre del 2001, il World Trade Center di New York viene sbriciolato da due Boeing 767; alla guida, un manipolo di affiliati ad Al Qaida. La Storia fa una brusca virata, indossa il sudario.  Da Pesaresi a Tondelli: una specie di inseguimento.  Non c’è sconcezza negli scatti di Pesaresi, ma l’arcana sensazione di vivere nell’ultimo fuoco, un passo prima della cenere. Si passa, cioè, dal gioco al rito: i corpi fotografati da Pesaresi sono corpi donati, sono corpi perdonati, corpi sacramentali. Un rogo di corpi. A volte, ci si spoglia come si indossa un saio – o uno chador. Al contrario, negli anni Ottanta eletti a idolo da Tondelli, i corpi si rovesciano come acqua: uno scroscio di corpi di cui non resta altro che il vuoto, l’eco, il coccio del coccige. Ci si sveste per rivestire un vuoto, il nulla.  I corpi di Pesaresi, i corpi degli anni Novanta, sono corpi noir, sono corpi da notte oscura, corpi che ci falciano come un’accetta. Poco dopo, la mania turistica si sposterà dalle discoteche – Mecca bacchica, il tempio dove si consuma l’estasi, l’uscita da sé, svaginando le Baccanti in ‘cubiste’ – alle sagre, il culto di un amarcord da educande. Anche Tondelli si era accorto, poco prima della dipartita, di questa mutazione dell’essere – la Storia non è rettilinea: è un rettile. Nel 1990, per la mostra “Ricordando Fascinosa Riccione”, PVT scrive un saggio esemplare, Cabine! Cabine!, che raccoglie le “Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica”. In sostanza, pressoché dal nulla, Tondelli fonda un immaginario della riviera, costruisce una poetica della Romagna. In mezzo, ci sono Mussolini e Pasolini, Filippo De Pisis e Raffaello Baldini, Giorgio Bassani e Sibilla Aleramo, ma anche Alberto Arbasino, Mario Luzi, Dante Arfelli, Valerio Zurlini. Su tutto aleggia un senso di disincantato incanto – uno schianto.  Ma torniamo a Rimini. Tondelli giurava di aver scritto “il mio libro più ambizioso”; nelle pubblicità – plateali – Rimini era presentato come “Il romanzo dell’estate”: ne parlarono tutti, non per forza bene. A Enrico Regazzoni, su “Linus” (luglio, 1985), Tondelli disse di essersi ispirato a Raymond Chandler e a Francis Scott Fitzgerald, a Vito Bruno (“Reporter”, 4 giugno 1985) di aver “fatto solo del rock and roll”, a Michele Trecca (sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 28 giugno 1985) che “Esiste un establishment letterario (quello dei premi, delle pagine culturali dei giornali, dei professori, degli accademici) che, accecato dai propri fasti, da una cultura ottocentesca, non riesce a vedere il nuovo, non è assolutamente in grado di vedere il nuovo”. Il nuovo professato da Tondelli spaventò i vecchi mestieranti del verbo. Il 23 giugno del 1985 Pier Vittorio Tondelli avrebbe dovuto partecipare a “Domenica in”, portando Rimini in tivù: l’incontro saltò all’ultimo minuto. I giornali diguazzarono nel torbido (così la “Gazzetta di Reggio”: Tondelli censurato a “Domenica in”. Sesso e politica fan paura alla Rai; e poi: Pippo Baudo censura Tondelli); Tondelli denunciò l’infamia: “Nonostante uno degli autori di «Domenica in» avesse accettato, dopo la solita trattativa, di ammettere il romanzo alla presenza del faraone [Pippo Baudo; N.d.R.], nonostante un capostruttura della Rete avesse per tre volte ribadito la presentazione in base agli intrinseci valori del romanzo, all’ultimo momento pare che sia intervenuto il direttore della rete, o chi per lui, per bloccare la presentazione. Motivo ufficiale: come non presentiamo film vietati ai minori, così facciamo con i romanzi. Più probabilmente, si dice, la storia della misteriosa morte del senatore cattolico (la parola democristiano non viene mai fatta nel libro) e alcune sequenze erotiche hanno turbato i dirigenti televisivi così come nell’80 Altri libertini turbò l’allora magistrato de L’Aquila Bartolomei, fino a spingerlo al sequestro”. Qualche giorno dopo, l’ebbrezza toccò ineguagliate guglie. Il 5 luglio del 1985 Rimini viene presentato al Grand Hotel; l’atmosfera di ispirato edonismo è ricordata con queste parole da Roberto ‘Dago’ D’Agostino, il mattatore della festa: “Tondelli aveva magnetizzato i gay d’Italia… A un certo punto, tutto pronto per la presentazione, invitati già accalcati, fui incaricato di andare a chiamare Tondelli in camera. La porta era semi aperta e quello che vidi – gang-bang di corpi maschili rovesciati sul letto – ha sempre rappresentato per me un quadro-vivente di quegli anni, terribili e bellissimi. Un ‘sogno bagnato’ che Tondelli aveva svelato con i suoi libri”. Un paio di anni prima, il Grand Hotel era stata la cornice della ‘prima’ di E la nave va, il più malinconico dei film di Fellini: in prima fila, insieme al regista, lo Zeus di Cinecittà, c’era Umberto Eco; Mario Guaraldi – ancora lui – dirigeva le danze.  Nella biblioteca di Marco Pesaresi – angusta, augustea – non ricordo libri di Tondelli: ricordo Hermann Hesse, Dino Campana, Byron e Bakunin. La poesia come anarchia, il viaggio come brigantaggio dell’io. Pesaresi aveva una Transiberiana nel cuore; aveva cominciato a Londra, intuendo nel sottosuolo del tube il sole dell’India, il volto di Indra. Per un’idea di “colonna sonora” di Rimini, Tondelli scelse Leonard Cohen e i Duran Duran, I Wanna Be Loved di Elvis Costello e Time After Time di Cyndi Lauper, Prince, gli Smiths e i Talkin Heads. Probabilmente Pesaresi ascoltava gli stessi pezzi.  Il punto, tuttavia, è altro. Provo a dirlo così: la differenza tra nudità e spoliazione. C’è chi si denuda mostrando una maschera; chi, nudo, ha più abiti di quando è vestito. La nudità che non prevede spoliazione – cioè, un lento disfarsi dell’io, la resa all’inverno della carne – è una menzogna. L’attuale spaccio dei corpi – da YouPorn a OnlyFans – ha questa dimensione: la nudità non svela, non rivela e non svilisce. È avvilente. È una nudità-maschera. Una nudità travestita. Una nudità in vesti. Non c’è vestizione né spoliazione in quella nudità.  Eppure: la carne è effimera, passa, ma il corpo è tutto. Corpo: crisalide dello spirito.  Pesaresi fotografa la spoliazione. L’attimo in cui il corpo nudo, spoglio di tutto, finalmente disinibito, finalmente fuori di sé, si fa pasto a chi lo guarda. È un corpo a precipizio. Un corpo eucaristico, un corpo cibo – se vuoi, puoi masticarlo. Tutto, ormai, è spezzato. Non osate ricomporre, ora, ciò che è stato offerto per sempre.  Questo pensiero è dedicato a Mario Guaraldi, quasi un padre *A Rimini, presso i Palazzi dell’Arte (Piazza Cavour), è in atto fino all’8 dicembre 2025 la mostra di Marco Pesaresi “Rimini proibita”. A cura di Jana Liskova e Mario Beltrambini, la mostra mette in relazione gli scatti di Pesaresi – di cui nel testo si pubblicano alcuni esemplari – al romanzo di Pier Vittorio Tondelli, “Rimini” (1985). Il catalogo della mostra è edito da NFC edizioni. L'articolo Pier Vittorio Tondelli e Marco Pesaresi. Tra nudità e spoliazione proviene da Pangea.
September 17, 2025 / Pangea