L’occupazione va avanti ormai da tre giorni e il liceo in cui insegno — un
edificio di fine anni Sessanta, grigio e rosso scuro, incastrato al limitare del
quartiere Isola, quello di Niguarda e viale Jenner — sembra quasi un animale che
muta umore al passare delle mezze giornate. Ogni piano ha una storia diversa: un
gruppo discute di diritti civili, due classi suonano senza sosta, qualcuno cerca
un proiettore introvabile mentre qualcun altro scrive slogan con pennarelli
colorati e mezzi scarichi; c’è poi sempre chi attraversa il corridoio a passo
svelto con la testa bassa sul telefono o chi, seduto sulle piastrelle
dell’atrio, gioca a carte per ingannare l’attesa bevendo un succo confezione
famiglia. Girando per la scuola capita che al brusio della vita in corridoio si
sostituisca un silenzio da edificio deserto carico dell’odore di sigarette e di
marijuana che aleggia lontano dalle finestre socchiuse; ma basta un niente, una
porta che sbatte, una cassa che riparte in lontananza, perché l’edificio torni a
vibrare con il suo ritmo insolito di questi giorni.
Da due mattine le giornate passano così. Oggi decido di salire ai piani non
coinvolti dalle attività degli studenti, nell’aula che mi spetta a quell’ora,
nella speranza — poco convinta — di trovare almeno uno spazio che somigli a un
riparo o un’isola dove potermi concentrare. Guardo l’orologio a muro in sala
docenti e deduco che devo andare in 2E. Non ne sono entusiasta, perché so che
quell’aula non è mai ben riscaldata: i termosifoni funzionano a singhiozzo e il
freddo si insinua sotto i pantaloni, tanto che a fine ora ci si ritrova spesso
intirizziti, tranne i pochi accalcati intorno all’unico calorifero che irradia
un caldo beffardo, inutile per tutti ma insopportabile e fastidioso per chi gli
è addosso. Sono vestito come mi pare di esserlo tutti i giorni: camicia, oggi
bianca, maglione, oggi verde scuro, sneakers, sempre bianche; ho con me lo zaino
con il laptop, la Moleskine chiusa dal suo elastico nero, qualche foglio per gli
appunti e un pacco di compiti da correggere, l’iPhone tra la tasca e la mano, in
continuazione.
Fuori, Milano è ingrigita da una pioggia non battente ma ostinata, una di quelle
che fanno sembrare tutto più pesante e fanno camminare i passanti in fretta, in
fuga; qualcuno dice che forse nevicherà, anche se in realtà non avrebbe dovuto
nemmeno piovere. Le auto sollevano schizzi passando sulle pozzanghere, e su
alcuni balconi si intravedono già delle luminare accese, destinate più a
rispettare una scadenza commerciale sempre anticipata che a evocare un
sentimento reale; sono luci che non aggiungono nulla e non scaldano. Il Natale
non è ancora nei pensieri di nessuno e non sono questi promemoria coercitivi a
regalare un anticipo di festa: a Milano lo spirito natalizio – come si misura
ormai? corsa ai regali? voglia di rallentare? – arriverà solo più tardi, con
Sant’Ambrogio, i mercatini, il vin brulé e la Prima della Scala, fino ai nuovi
riti più prosaici del Black Friday o della prima sciata di stagione.
Io sento ogni anno la stessa nostalgia: come se il Natale restasse sempre un po’
sfocato da adulti, come un’immagine che ricordavo più nitida, e invece
sfugge. Forse per questo, da anni, provo a scrivere un racconto di Natale, e
ogni volta fallisco, ma puntualmente ci riprovo, perché ho sempre amato leggere
storie ambientate a Natale, così come mi piace ora raccontarle agli studenti,
stupirli con la proposta di letture natalizie senza un compito allegato, senza
un riassunto cui pensare o un’analisi da studiare, sperando persino di poter
dare loro un argomento di conversazione per le feste, o una buona idea regalo:
un libro di un autore che è piaciuto, un guizzo letterario. Certo che conoscere
i racconti, leggerli e proporli è una cosa, scriverli è un altro mestiere, e il
paradosso è che non si possono scrivere a dicembre: i racconti di Natale nascono
altrove, in estate, o in un giorno qualunque, quando non ci pensi e forse non ne
senti nemmeno il bisogno. Poi, a dicembre improvvisamente vengono buoni. Tutti,
tranne quello mio che non c’è mai. Così, mentre salgo al secondo piano, penso
che forse questo venti novembre, in una scuola occupata, lontano da tutto ciò
che ricorda una festa, potrebbe essere il momento giusto per provarci di nuovo.
Apro la porta della 2E, contando di trovarla deserta. L’aula è immersa in una
penombra irregolare: la veneziana accanto alla cattedra è ancora rotta e lascia
intravedere un pezzo di Milano con i tetti bagnati, gli alberi ormai spogli e le
automobili che si confondono tra quelle parcheggiate e quelle intrappolate nel
traffico. Faccio un passo, accendo la luce cercando con le dita il pulsante alla
parete e mi blocco, colpito da una presenza che non so spiegare. Tra i banchi
più lontani dai vetri, alla mia sinistra, una donna minuta indossa un vestito
che sembra uscito da un ricordo troppo vivido perché sia immaginato, un vestito
semplice con un grembiule sottile, e tiene tra le mani una torta avvolta in un
panno, pronta per essere spedita “a qualche sconosciuto che ne ha bisogno” – mi
dice, terminando con parole sue un mio pensiero. La riconosco: è Sook, leggo
sempre di lei; è la cugina di Truman Capote, la protagonista del suo racconto di
Natale più bello. Mi sorride, e il suo sorriso sembra sciogliere un poco il
freddo dell’aula. Accanto a lei, seduto su un banco, Paul Auster fa girare una
moneta tra le dita, facendola brillare sotto il neon che tremola per un attimo
sopra di noi; mi osserva con la sua calma che sa di storie infinite e mormora
che «è tutto un trucco, ma a Natale i trucchi contano», come se stesse citando
il suo stesso racconto mentre lo vive. Dietro, quasi nascosto nell’ombra, un
vecchio con la barba sfoglia un registro di classe come fosse un libro mastro
capace di contenere ogni bilancio morale del mondo: non è Charles Dickens, ma il
suo Scrooge, il primo, quello rigido, il più umano e il meno redento,
semitrasparente come se l’aula stessa lo consumasse. E poi vedo oltre questi
tre: contro il muro, appoggiata senza custodia, c’è una chitarra acustica.
Accanto a essa, con le mani infilate nelle tasche del cappotto e una sigaretta
spenta tra le dita, c’è Francesco De Gregori. Porta degli occhiali con le lenti
sfumate, il volto è segnato da una barba bianco-rossiccia curata e se ne sta lì
con la naturalezza di chi stava aspettando di parlare. Si stacca dal muro e mi
saluta con un “Ohé professore” appena accennato, “stiamo provando un racconto di
Natale”, e aggiunge che siccome a me non riesce mai, sono venuti loro a darmi
una mano. Poi si volta verso la finestra e aggiunge, quasi tra sé e sé, che
certe storie non vogliono essere scritte nel momento giusto, ma compaiono quando
meno te lo aspetti. “Quello che non so, lo so cantare – ricordi?”
Ed è mentre lui si sposta che, dietro la sua figura, vedo un bambino: magro, gli
occhi scuri, le scarpe fradicie, la felpa troppo leggera per il gelo di quella
mattina, lo zaino che gli scivola dalla spalla. Non ha nulla del fantasma o del
personaggio inventato: è proprio un bambino, troppo giovane perché sia uno dei
miei studenti, ma allo stesso tempo sembra somigliare a tanti di loro. Per un
attimo mi sembra di riconoscere chi di solito siede dove sta lui ora, un attimo
dopo è un bambino di Gaza con gli arti mutilati, poi me stesso da piccolo, poi
mio figlio, poi mia figlia, e infine uno sconosciuto che potrei avere incrociato
per strada senza mai accorgermene. Questo bambino, penso, è tutti e nessuno, ed
è lì: è un prisma vivente che rimanda il volto del mondo attraverso le sue
sfaccettature e le sue crepe, e forse è proprio questo scorgerlo che rende il
Natale possibile. Lo guardo e lui mi dice soltanto “sto aspettando”, e quando
gli chiedo che cosa aspetti, risponde “tutto”, come se quel tutto comprendesse
anche la sua storia taciuta, il suo Natale mai raccontato. A quel punto De
Gregori, in piedi dietro di lui, gli appoggia una mano sulla spalla e mi indica
il bambino con un semplice cenno del mento e del viso, un gesto quasi
impercettibile e chiarissimo. È lui – sembra dirmi – è lui il tuo Natale. E in
quell’attimo mi torna in mente che proprio in quella stessa aula, un anno prima,
quando era la 5C, avevo letto e raccontato agli studenti Capote, Auster,
Dickens, Andersen e O. Henry, e dopo di loro avevo fatto ascoltare tre brani
natalizi di Francesco De Gregori, evocandoli tutti con l’entusiasmo che mi
prende sempre quando parlo dei racconti di Natale che amo, e che ogni anno provo
a scriverne uno senza riuscirci. Ora tutti gli autori e le loro storie sono
davanti a me, e a me tocca.
Dal corridoio arrivano voci, passi, il rumore di un banco trascinato: qualcuno
forse sta per entrare. Dentro di me cresce una certezza limpida, quasi
incontestabile, che ciò che sto vivendo non può svanire soltanto perché un
rumore interrompe la quiete. Chiudo la porta con naturalezza e decisione
insieme, difendendo questo istante fragile come si proteggerebbe il segreto di
Babbo Natale ai figli che, diventando grandi, iniziano a fare domande
difficili. Quando mi volto di nuovo, gli autori e i personaggi sembrano ancora
lì, ma più luminosi e più leggeri, come se stessero concedendo a me — e solo a
me — la possibilità di trattenere ciò che serve davvero per scrivere, mentre il
resto può dissolversi senza rumore. Il bambino, però, rimane immobile: è
presente come un banco, reale come una domanda cui non si può sfuggire.
«Lo scrivi?» chiede, e la sua voce ha qualcosa di gentile e insieme
irrevocabile, come se la domanda non fosse rivolta soltanto a me, ma anche a
tutte le versioni di lui che ho intravisto un istante prima.
Poso lo zaino, apro l’agenda, accendo il laptop, sento la penna tra le dita:
sembra tutto pronto, come se questo momento non fosse solo un incontro inatteso,
ma la soglia che cercavo da anni. Intuisco ora che il Natale, prima ancora di
essere una festa, è una ricerca ostinata di bellezza e di verità, un tentativo
di ritrovarsi in uno sguardo verso l’altro, un modo per tornare al punto in cui
tutto è nuovo e possibile.
Sì, lo scriverò: lo scriverò perché è già qui, perché è già accaduto, perché il
racconto nasce proprio adesso, in quest’aula fredda e in una scuola
occupata, dove un bambino che porta dentro di sé tutti i natali del mondo mi
guarda in attesa e mi concede la possibilità di trasformare questa attesa in
parole.
Il Natale, comprendo qui e ora, non è un luogo, né una data: il Natale è un
bambino da proteggere e che salva, da aiutare e che cura, da sfamare e che
nutre, da educare e che insegna.
Il Natale è bambino.
E allora sì: il racconto sta arrivando. Finalmente.
Marcello Bramati
*Marcello Bramati ha pubblicato, tra l’altro, “Leggere per piacere” (Sperling &
Kupfer, 2017) e “L’ultimo miglio. Motivi e modi per accogliere i cantautori
nella letteratura e in classe” (Mimesis, 2024). Insegna, ha due lauree.
**In copertina e nel testo: opere di Mervyn Peake (1911-1968)
L'articolo Classe II E. Un racconto di Natale (con Capote, Scrooge e De Gregori)
proviene da Pangea.
Source - Pangea
Rivista avventuriera di cultura&idee
Per alcuni artisti l’arte è un campo di battaglia. È certamente il caso
dell’eclettico e sorprendente Pablo Echaurren, pittore romano nato nel 1951 che
da più di mezzo secolo sovverte il mondo della pittura contemporanea. Io però
non lo scoprii come pittore bensì come fumettista. C’è infatti un suo libro
edito da Bollati Boringhieri nel 2000 che si intitola Vite di
poeti: Campana, Majakovskij, Pound. È un fumetto, e per molti pittori-parrucconi
quella del fumetto è un’arte minore o nient’affatto un’arte. Non per Pablo
Echaurren.
Quando trovai quel libro cercavo una visione di Campana che non fosse artefatta
o legnosa o viceversa troppo roboante ma in fondo vacua, simile più a un fuoco
d’artificio che alla vera fiamma dei poeti. Cercavo qualcuno che amasse
veramente Campana e che capisse la portata a un tempo rivoluzionaria e classica
della sua poesia e della sua avventura poetica. In una vignetta Echaurren
scrive:
> “Il suo cuore goccia stilla a stilla quel senso dei colori che intende portare
> nella poesia italiana.”
Ma ancora più conta il disegno: una mano, la mano di Campana, stringe un cuore
pulsante e delle stilografiche e dei pastelli, in un’esplosione di colori e
sentimento, di sangue e inchiostro. La poesia non deve essere separata dai
sentimenti del poeta, sembra dirci Echaurren. L’arte deve saper celebrare la
vividezza e l’unicità della vita dell’artista.
L’arte di Pablo Echaurren è uno stato d’animo in rivolta. È figlia per l’appunto
di Campana, di Pound, di Majakovskij, di Marinetti. È un’arte che sa vedere dove
altri non vedono, sentire e creare dove altri non sentono o non creano o creano
male e controvoglia, seguendo la moda o i dettami della noia. I suoi quadri sono
disseminati di vortici e sequenze coloratissime e ipnotizzanti che trovano anche
un ordine nel caos. I suoi collage usano il punk (penso a Ex-pistols, dai Sex
Pistols) e il futurismo e i fumetti e le sagome dei cartoni più conosciuti, però
con uno stile composito e personale che non è mai azzardato ma porta alla
felicità di chi osserva e – ripeto – alla rivolta. Perché l’arte di Pablo
Echaurren non è mai innocua né accondiscendente. Non è un’arte per ricconi in
cerca di facili brividi fintamente rivoluzionari.
C’è un altro volumetto che ho a cuore quasi quanto i suoi quadri più
sovversivi, Controstoria dell’arte, pubblicato da Gallucci nel 2012. Il
sottotitolo suona come un verso surrealista: Breviario di un bastiancontrario.
Qui Echaurren indossa le vesti di scrittore e affronta a proprio modo la storia
dell’arte nel corso dei secoli, dalla preistoria alla street art. Il libro è un
diletto sovversivo che a tratti dissacra i miti intoccabili del mondo dell’arte,
perché da esso – dal mondo artistico, dal mondo culturale – nasce “l’artista
d’avanguardia che nessuno capisce ma ciascuno ambisce a mostrare ai propri
ospiti quale fiore all’occhiello, quale belva trasformata in agnello, quale
orpello per abbellire il tinello”, scrive Echaurren nel capitolo L’artista. Come
a dire che la sua non sarà mai un’arte da salotto. Che Pablo Echaurren, in vita
e in vecchiaia e quindi in morte, non si lascerà addomesticare dalla brama di
denaro o dal demi-monde dei nobili tirchi o spendaccioni.
L’opera pittorica (e non solo) di Echaurren è ancora in parte inesplorata. Pablo
Echaurren è un rivoluzionario incallito che fa della propria arte una
rivoluzione permanente, e le vere rivoluzioni finiscono spesso sconfitte dal
mercato o dagli stolti. Quest’anno sono usciti due suoi libri in
sordina: L’eterna periferia (Bordeaux Edizioni) e Il mio Baruchello (Mauvais
livres). Seguire le sue tracce non è semplice, perché si muove fra piccoli
editori e vecchi cataloghi di mostre che conservano però intatta la loro aura
eccentrica e contestataria. Vale la pena di scoprirlo e sorprendersi. Vale la
pena di aggregarsi alle insurrezioni indomite di Pablo Echaurren.
Edoardo Pisani
L'articolo La rivoluzione permanente di Pablo Echaurren, l’arista “bastian
contrario” proviene da Pangea.
Ho conosciuto Douglas Glover grazie a Eugene Marten. Nell’intervista realizzata
su questo foglio telematico, l’ottimo scrittore americano appena tradotto da
Playground cita The Life and Times of Captain N.; un libro, dice, più bello
di Meridiano di sangue. M’informo. Il romanzo, ambientato durante gli anni della
Rivoluzione americana, tra il 1779 e il 1781, alterna rovinosi tradimenti ad
affabili efferatezze. Il protagonista, Oskar, un ragazzino, scrive una lettera a
George Washington; il padre – arguto in violenza – ha scelto di stare col Regno
di Gran Bretagna; la madre è in piena isteria, i nativi imperversano, a fiotti,
elegantissimi nell’uccidere (“Verità è bellezza”, dice, a un certo punto, un
nano, mentre maneggia il Tristram Shandy e la Anatomy of Melancholy di Burton,
“Guarda i selvaggi: poesia che prende vita. Ogni loro gesto è retorico. Per loro
bellezza è verità. Per raccontare la loro verità devi dimenticare questo mondo e
parteggiare per il poetico”).
Del romanzo esiste anche una versione francese, dal titolo più incisivo: Le
Rédempteur. In origine, uscì per Knopf nel 1993, l’anno in cui Cormac McCarthy,
dopo decenni di grandi romanzi per lo più sconosciuti ai più, accede al grande
pubblico, con Cavalli selvaggi. L’anno prima, Richard B. Woodward lo aveva
intervistato per il “New York Times”, creando l’icona del the best unknown
novelist in America: lo scrittore assiso in una sua insonorizzata solitudine,
che parla poco, professa l’eremitaggio etico, conosce i serpenti a sonagli del
Mojave. Grosso modo con le stesse parole – the most eminent unknown Canadian
writer alive – è stato censito Douglas Glover. La nota che appare sul suo sito,
alimenta un’agiografia di smarrimenti e sottrazioni: “L’oscurità di Douglas
Glover è leggendaria; è noto soprattutto per essere sconosciuto”. Si citano i
due figli, “Jacob e Jonah, che senza dubbio diventeranno più bravi di lui”. I
suoi libri – così scrivono alcuni giornali come “Music & Literature” – “possono
essere paragonati ai romanzi di Cormac McCarthy, Donald Barthelme e William
Faulkner”.
In realtà, di Douglas Glover si sa molto – per lo meno, abbastanza. Nato nel
1948 a Simcoe, piccolo borgo canadese, in Ontario, dove aveva sede l’azienda di
tabacco della famiglia, ha studiato filosofia a Toronto, si è specializzato a
Edimburgo, ha praticato come giornalista, è stato “writer in residence” in
diverse università, più o meno note. Nel 2010 ha fondato la rivista letteraria
“Numéro Cinq”, che ha diretto per sette anni. Douglas Glover ha le stimmate del
guru, è messianico perfino nel viso: fronte ampia, occhi levati da uno spirito
lupo, impettita magrezza; lo straordinario nell’ordinario. Quando lo
fotografano, spesso si vela il volto con mani in mandria.
È un teorico della letteratura; meglio: è un profeta della scrittura, uno che
scava, uno che stana il verbo. Uno in caccia. Tra l’altro, ha scritto un saggio
su “Don Chisciotte”, The Enamoured Knight, ma i suoi interventi più sagaci sono
quelli brevi, predatori. Tra i tanti, preferisco The Novel as a Poem; attacca
così:
> “Il miglior insegnante di scrittura che abbia mai avuto era un cowboy del
> Kansas, si chiamava Robert Day, l’ho conosciuto all’Iowa Writer’s Workshop,
> era capitato all’ultimo minuto per sostituire un collega: sarebbe stato con
> noi un semestre, era il gennaio del 1981. Il primo giorno di lezione –
> indossava stivali, jeans, camicia a scacchi – non disse una parola, prese il
> gesso, segnò la lavagna con una scrittura a caratteri cubitali: Ricordati di
> ricordargli che il romanzo è una poesia”.
Robert Day, da giovane, aveva lavorato per G.P. Putnam’s, a New York, “ricordava
ancora l’entusiasmo per la pubblicazione di Lolita”, aveva pubblicato un solo
romanzo, The Last Cattle Drive, aveva un ranch nel Kansas occidentale, “gestito,
ai limiti della legalità, insieme ad alcuni amici”. Indottrinò Glover intorno
alla sapienza letteraria di Raymond Queneau, Robert Musil, Chinua Achebe, Amos
Tutuola, Vladimir Nabokov e Kobo Abe. Non potremmo immaginare scrittori più
diversi tra loro.
Douglas Glover esordisce alla letteratura proprio nel 1981, con The Mad River
and Other Stories, un libro pressoché introvabile. Il primo dei suoi cinque
romanzi, Precious, esce due anni dopo: è la parodia di un giallo; il
protagonista, “un giornalista alcolizzato ed esausto con la tendenza a cacciarsi
nei guai e tre matrimoni falliti alle spalle”, pare ritagliato sulla sagoma di
Hank Quinlain, il personaggio eternato da Orson Welles. Il romanzo più noto – e
più tradotto – di Glover s’intitola Elle: ambientato nel XVI secolo, romanza
l’epopea di Marguerite de La Rocque, giovane donna francese abbandonata da
Jacques Cartier presso la leggendaria “Isola dei Demoni”, Terranova. Si
susseguono, in rissa, orsi, spettri, inuit; dissero dell’“immaginazione
rabelaisiana di Glover”. Il romanzo, uscito nel 2003, dieci anni dopo The Life
and Times of Captain N., permise a Glover il Governor General’s Award, il premio
letterario più importante del Canada, superando Margaret Atwood.
L’ultimo libro pubblicato da Glover, The Erotics of Restraint, una raccolta di
saggi, è uscito nel 2019; l’ultimo pensiero on writing è uscito la scorsa
estate: Glover parla di Anna Karenina e più in particolare di Literary Suicide.
Avrebbe voluto scrivere un romanzo “sul suicidio del mio bisnonno, nel 1914.
Alla fine ho abbandonato l’impresa perché, immagino, non avrei saputo descrivere
un suicidio”.
The Life and Times of Captain N. – di cui in calce si offrono, in libera
traduzione, alcune pagine – è un libro docilmente torbido, molto bello. Rispetto
a Meridiano di sangue, la cui scrittura, biblica e ancestrale, procede per
gnostiche involuzioni, qui si va per folgori, per agnizioni improvvise, per
bruschi lampi. Meridiano di sangueè un romanzo-assedio; The Life and Times of
Captain N. è un romanzo razzia. Nello stesso anno in cui esce il romanzo – per
dire della pervicacia del ‘genere’ – Gli spietati, il cupo western di Clint
Eastwood, ottiene quattro Oscar.
Soprattutto, The Life and Times of Captain N. è una riflessione sul senso della
scrittura, se la scrittura possa davvero testimoniare la verità quando non il
suo idolo, la sua contraffazione. A un certo punto Oskar, il ragazzo che sta
scrivendo la sua storia, scrive:
> “Intendo dire la Verità, ma è difficile afferrarla. La Verità è una Maschera &
> il suo Stigma è la Divisione. Non è che il Nulla che giace tra le Cose.
> Vortica. Eppure credo che conoscerla sia una specie di Pazzia, di gioioso
> Conforto”.
Tracciare i punti di contatto tra Douglas Glover e Cormac McCarthy è infine
inutile: un gioco di apparenze, di eteree strategie letterarie, di fuochi in
fuga. Le grandi singolarità sono imparagonabili, la scrittura prevede un uomo
solo, qualcosa che scalfisce la parola pioniere e la parola primevo. È ora di
tradurre Douglas Glover.
***
Da The Life and Times of Captain N.
Il Patto sconfitto
Agosto-settembre 1779
Dio d’acqua
Il ragazzo arranca con la penna d’oca, schizza gocce d’inchiostro preparato in
casa sulla rude corteccia di betulla. La lingua lecca il labbro superiore: si
concentra. Sei pronto a scrivere? Pensa. Sei pronto a dire la verità? Sì.
Il ragazzo ha quindici anni. Il padre è scomparso nella foresta, è andato a
cercare il re. La madre è a letto. Le sue grida e i suoi miagolii allontanano
tutti dalla casa. Nella chiesa che il padre ha costruito in una porzione della
fattoria, la gente del villaggio recita preghiere per lei e per i suoi figli –
blatera bestemmie contro il padre del ragazzo. Gli zii e le zie del ragazzo sono
in fila sui banchi per denunciare il fratello. Quando pregano in silenzio, odono
le urla della madre del ragazzo.
Non si lava – non mangia. Lo spazio puzza, galoppano i gemiti. Ci sono altri sei
bambini oltre al ragazzo – lui è il più grande. Corrono, liberi, nel cortile
della fattoria, nel bosco. Venite, vicini, venite, servitevi degli animali della
fattoria, fottete gli attrezzi del padre. Cardi e bardana, senape selvatica e
erbe matte soffocano i filari di mais. I cervi “pascolano di notte dove le
recinzioni sono state sfondate.
Caro Gen. Washington, mio Padre ci ha picchiati tutti”, scrive il ragazzo. “Era
un terribile Uomo. Non dovremmo essere trattati male per quel che ci ha fatto.
Lui picchiava mia Madre & lei picchiava il bambino. Mio Padre picchiava me & io
picchiavo Ephas, Jonah, Sophronia, Cacophonia & Ella. Poi mi ha picchiato perché
li picchiavo e li ha picchiato perché si sono fatti picchiare. Per altri versi,
era un Uomo Buono, ma ora può capire perché è andato a combattere per il Re. Il
mio nome è Oskar Nellis. Sono per la Repubblica. Penso che ci debbano restituire
la Mucca. Goldie, il Nero, è andato via con Papà. Altri tre sono scappati nella
foresta. Ce li devono restituire”.
Il ragazzo smette di scrivere perché qualcuno cerca di forzare la serratura del
gabinetto. La porta si apre e rivela un ragazzo magro, sulla ventina, naso
lungo, verruca sul mento, cappello a tesa larga, sporco, pantaloni strappati
fino al ginocchio. È scalzo, come Oskar.
È un dio d’acqua, un Dunkard, un battista errante di nome Tobias Catchpole, che
venne a pregare circa tre anni prima con la madre di Oskar, grosso modo quando
il padre di Oskar è partito per la guerra. Lei disse che le aveva donato la
Luce. Una volta ricevuta la Luce, smise di parlare del padre di Oskar. Non fu
mai più menzionato il suo nome. Ora Tobias Catchpole ha il controllo totale
della casa dei Nellis. Ha buttato giù Oskar ed Ephas dal loro letto in soffitta.
Uccide polli e maiali per cena senza chiedere il permesso, senza condividerli
con i ragazzi. Ha venduto i vestiti del padre di Oskar ai passanti.
“Cosa fai?”, chiede il dio d’acqua: si abbassa i pantaloni, ha le anche pallide
e sporche, la scorreggia squittisce.
“Scrivo”, dice il ragazzo.
“Opera di Satana”, dice il dio d’acqua. “Chi ti ha insegnato?”. “Sir William
Johnson, signore, il nano”, dice Oskar. “I bambini andavano a scuola ma il nano
mi ha insegnato a scrivere prima che fossi abbastanza grande per la scuola”.
“Ti ha insegnato a scrivere col sangue?”, gli chiede il dio d’acqua.
“Nossignore. Non ho mai sentito parlare di quel metodo”.
“Probabilmente, ti stava fregando. Ti ha fatto firmare qualcosa?”.
“Mi ha addestrato a firmare con il mio nome”, risponde Oskar. “Ma solo sulla
corteccia di betulla”.
“Senza alcun dubbio hai firmato qualche patto diabolico con i selvaggi. C’erano
disegni sul rotolo?”
“A volte”.
“Dobbiamo portarti all’acqua. Dobbiamo lavarti e purificarti nell’acqua”, dice
il dio d’acqua.
*
Non c’era nessuno
Non c’era nessuno. Poi furono tutti. Silenti, come la luce del sole.
Nonna Hunsacker sedeva e canticchiava sulla sedia a dondolo, con i piedi sulla
padella. Giuro su Dio: continuò a canticchiare anche dopo che Dolce Vento le
spaccò il cranio, anche dopo che il cervello le sbocciò ovunque. Stava ancora
canticchiando e lui le sollevò i capelli e cominciò a scorticarle la fronte.
Mentre mio fratello Abiel tentava di sollevare un’obiezione, Tuono che Scalpita
gli segò lo stomaco con un coltello da caccia. Abiel si sedette sulla sedia
dallo schienale vertiginoso, quella che usava Papà, a capotavola, tenendosi le
budella nella camicia, tirando su col naso, a vaste zaffate. Philomela urlò agli
assassini, corse all’aperto, tenendosi la gonna. Uccello che Vola e Luce che si
Sbriciola, nient’altro che ragazzi, poco più grandi di Abiel, la fecero
inciampare nel porcile. Quando cercò di strisciare, le saltarono in groppa,
finché non le si spezzò la schiena.
Buttai Baby Orvis dalla finestra tuffandomi a capofitto dietro di lui, corremmo
verso il campo di grano dove mamma e zia Annie ammucchiavano i covoni. Gli unici
suoni che udivo erano la cantilena di nonna Hunsacker, i lamenti di Abiel, le
urla di Philomena. Mi voltai e vidi Tuono che Scalpita che mi fissava.
Tra me e la casa c’erano una mezza dozzina di alberi; mi diressi verso il covone
più vicino; mi rintanai lì con Baby Orvis. Philomena gemeva, mormorava “Mamma,
Mamma…”; Abiel rovesciò un urlo orribile. Non vedevo mamma e zia Annie,
probabilmente si erano date alla fuga.
Il piccolo Orvis cominciò a piangere. Dalla luce che filtrava dai covoni vidi
una specie di uovo d’oca, una specie di pugno blu che gli usciva dalla fronte,
dove aveva sbattuto, precipitando dalla finestra. Cercai di zittirlo – non servì
a nulla. Mi tirai giù la parte superiore della maglia e gli ficcai un capezzolo
in bocca, come avevo visto fare a mamma: anche se non avevo un petto degno di
nota, Orvis non se ne accorse, non lo voleva. La pula mi inceneriva le narici,
si insinuava sotto le vesti.
Caldo come febbre.
Sopra ogni cosa, là fuori – la fattoria e i campi, la natura selvaggia oltre le
recinzioni – era planato il silenzio.
“Ci farai uccidere”, sussurrai a Baby Orvis. Avevano ucciso il mio cane,
Romulus, pensai.
Baby Orvis lo hanno ucciso.
Uccello che Vola, indossando il grembiule di Philomena, lanciò Orvis in aria: lo
colpì con la baionetta otto o nove volte prima che Orvis smettesse di urlare.
Ero sdraiato tra le stoppie di grano, Dolce Vento mi teneva le mani. I capelli
di nonna Hunsacker pendevano dalla sua cintura, gocciolava sangue. il sangue di
Orvis piroettava verso il sole ogni volta che Uccello che Vola lo sollevava.
Rotolò su se stesso contro il cielo azzurro, torceva la testa, urlava, in un
groviglio di sangue e di azzurro. Benché non avesse ancora capelli degni di
nota, Uccello che Vola raspò il cranio di Orvis, infilò lo scalpo nella
cinghia.
Incrociammo mamma e zia Annie ai margini del bosco: erano sdraiate, le teste
mozze, mosche che si infilavano nei loro occhi sbarrati. Nonno Hunsacker era
appollaiato, illeso, su una roccia. Sedeva, le mani sulle ginocchia. Quando
Tuono che Scalpita lo chiamò, nonno Hunsacker si alzò, zoppicò verso di lui.
Tuono che Scalpita lo colpì con un moschetto. Poi si inginocchiò, cominciò a
fargli lo scalpo, tagliava come si raccolgono i cavoli.
Douglas Glover
*In copertina: Newell Convers Wyeth, Crows in Winter, 1941
L'articolo Sia lode a Douglas Glover, il Cormac McCarthy canadese proviene da
Pangea.
Morì nel 1492, secondo il calendario d’Occidente, Jami – un anno fatale.
Cristoforo Colombo aveva scoperto l’America; il Sultanato di Granada, ultimo
lembo musulmano in Spagna, veniva definitivamente corroso. A suo modo, anche la
figura di Jami è uno spartiacque tra il vecchio e il nuovo mondo della poesia
persiana – con lui, un pioniere, benché radicato nella tradizione, un’epoca
finisce. Mahmood Jamal, ideatore, per Penguin, della più nota antologia di
poesia Sufi, Islamic Mystical Poetry, lo definisce “l’ultimo grande poeta
sufista, l’ultimo grande interprete della lirica persiana”.
Mawlanā Nūr al-Dīn ’Abd al-Rahmān – questo il nome autentico, per esteso –
nacque a Torbat-e-Jam, nell’attuale Iran, al confine con l’Afghanistan, nel
1414. Fu il padre a introdurlo alla mistica Sufi, dopo averne saggiato i
‘segni’. Jami – il nome proviene dal luogo natio; così il poeta si celebra in un
distico: “Jam è il mio paese natale, del miele di Ahmad/ si è abbeverata la mia
profetica penna” – perfezionò gli studi a Samarcanda. Nel curriculum di un
sapiente dell’epoca, la conoscenza lirica – necessaria ad assurgere a Dio, ad
assaggiarne il nettare – si mescola a quella scientifica, terrena: all’uomo
compiuto è chiesto di unire cielo e terra nelle proprie mani, di divorarli. Di
Jami, tra i molteplici scritti – un’ottantina – resiste uno studio per
progettare strumenti idrici ancora efficaci. Conosceva i metodi per irrigare a
dovere i campi – i modi per dare acqua agli assetati di sapienza.
Per un po’, pensò di unirsi totalmente a Dio, mollando il mondo con radicalità
catacombale. Infine – sedotto da un sogno, certo di averne intuito i rivoli
simbolici – sposò la nipote del suo maestro, Kasgari. Ebbe quattro figli – tre
morirono poco più che neonati; il dolore, a fendenti, istruì Jami negli
impossibili meandri della perseveranza. Ebbe incarichi a Herat, dove edificò la
sua scuola; dominavano i Timuridi, gli eredi di Tamerlano. Fu attratto dalla
dissoluzione del sé – a tratti, disse di sentirsi “sparire” – e lo sentì
“spaventosamente”.
Nei suoi insegnamenti mistici, Jami enfatizzava la via dell’amore – “O Jami,
solo Amore è la via verso Dio:/ la pace ammanti chi segue la vera via” – l’unica
capace di scuotere l’uomo dal mondo. Credeva nella veglia incessante, nella
pratica del silenzio, nella meditazione che porta a confondere il proprio stato
terreno con quello celeste. Credeva che l’uomo può – scotennando la propria
crosta transeunte – sbocciare in creatura angelica. Uomo, crisalide di Dio.
Scrisse che Dio è ovunque, che si manifesta in ogni cosa, che il compito del
seguace Sufi è assurgere alla dimensione del ‘santo’, colui che supera l’etica
della differenza, le istituite distinzioni, al di là del bene e del male,
immerso nell’ardore.
Radunò una serie di celebri “Fiabe mistiche” che sfociano in una morale
spiazzante rispetto ai canoni mondani. È nella poesia, tuttavia, che si
consolidano le sue esperienze mistiche e sapienziali. È vero: Jami non è un
innovatore – sarebbe inesatto intenderlo come un ‘esecutore’. Egli porta a
compimento il ciclo della grande poesia persiana – di Rumi, di Hafez, per
intenderci – riutilizzandone codici e cliché; eppure, alcune sentenze trovano
nei suoi versi una freschezza arcana, immotivata, soltanto sua. Tentò di elevare
l’uomo dalle ganasce del pensiero, dai sofismi, le levatrici del maligno;
scrisse che “Ogni pensiero/ che non sia memoria di Dio è malvagio”.
Un’epigrafe irradiava, dalla tomba, il suo estremo sentire. “Quando il tuo viso
si nasconde, come la luna è nascosta dalle nuvole oscure, stillo lacrime
stellari: nonostante le stelle, a miriadi, rimane buia la mia notte”. È bello –
nei giochi delle corrispondenze – tracciare avidi legami, impossibili, con
Giovanni della Croce (uno spagnolo, non a caso). Anche in Jami, il rovesciamento
dei simboli è totale: ciascuno sperimenti la propria notte, fino alla cecità. In
sovrappiù, Jami identifica l’andare ‘lunatico’ dell’Amato, la necessità del
pianto – quasi che le stelle non siano che lacrime cristallizzate. Del sapiente,
svanì la tomba, il corpo, l’eremo del pianto.
Agli studenti che gli chiedevano di essere ammessi alla sua scuola, Jami
chiedeva, anzi tutto, se fossero mai stati innamorati. Di fronte a chi diceva,
con servile severità, di non aver mai amato, rispondeva, “Vai – ama – poi
ritorna: ti mostrerò la via”. A dire che non esiste ascesi senza l’abisso della
carne, la rovina del corpo – sfigurarsi sullo spigolo di questa terra.
***
Nel giardino
Nel giardino, sulla riva del fiume
con il calice in mano:
Sorgi, Saqi! Versami il vino!
L’astinenza qui è crimine!
Lo Sceicco è ubriaco di religione:
la paura affolla le moschee,
ma la vera estasi permane
nella bettola piena di ubriaconi.
Hai baciato il calice con le tue
labbra: ero così ubriaco che
non ho distinto il rosso della
tua bocca dal rosso del vino.
Non devi sguainare la spada
per spezzarmi il cuore:
trattieni le armi, il tuo sguardo
è un dardo sufficiente.
Agli uomini che confidano
nella ragione non spiegare
le pene d’amore; non svelare
tali segreti ai mediocri.
Jami è ubriaco del tuo Amore
e non ha ancora cominciato
a bere: in questo banchetto
nessuno ha bisogno di vino.
*
Il senso dell’insensato amore
Quando l’eternità sussurra “Amore”
Amore mette il fuoco nello stilo.
La penna sorge dall’eterno desco
e disegna ogni bellezza possibile.
I cieli sono i virgulti di Amore
gli elementi vengono al mondo grazie ad Amore.
Senza Amore non capisci il bene né il male;
ciò che orbita lontano da Amore è inesistente.
Il tetto azzurro del mondo
che ruota lungo le vie del giorno
è il Loto del giardino di Amore
è l’elsa del bastone di Amore.
Il magnete nel cuore della pietra
che costringe il ferro a scalpitare
è Amore dalla volontà ferrea
appare nell’abisso della roccia
contempla la pietra nel suo riposo
e ama chi lo ama. Da qui
proviene il dolore di chi è lapidato
dall’Amore per l’Amato.
È vero: Amore reca dolore
ma è anche il più puro conforto.
L’uomo non può sfuggire al ciclo
della vita e della morte senza la benedizione di Amore.
*
O Tu, la cui bellezza è in tutto ciò che è manifesto
possano mille venerabili spiriti essere il Tuo sacrificio!
Come un flauto canto il canto della separazione
da Te, anche se mi sei vicino in ogni istante.
L’Amore si rivela in tutto ciò che vediamo:
a volte ha le vesti di un re, altre volte
è un mendicante, vive per strada
ha la ciotola dell’elemosina in mano.
Issati, o Saqi, e versa il vino
che lenisce il dolore dai nostri cuori!
Quel vino ci libera dall’onnipotente io
gettandoci nella certezza del Potente.
O Jami, solo Amore è la via verso Dio:
la pace ammanti chi segue la vera via.
*
Sono così ubriaco che il vino mi esce dagli occhi;
il mio cuore è in fiamme: sento il suo odore mentre brucia!
Se l’Amato si presenta a mezzanotte senza veli
un anziano estremista scapperà dalla moschea.
Ti ho visto all’alba e ho dimenticato di pregare:
è inutile la supplica quando il sole sorge.
Su una goccia del dolore di Jami cadesse nel fiume,
i pesci, arsi dal dolore, balzerebbero a riva.
*
Ti attraggono le forme terrene:
il destino le incenerirà tra un attimo –
va’ e dona il tuo cuore a chi è sempre
stato con te e con te resterà sempre.
*
Ho vissuto rincorrendoti – ho lottato
per unirmi a Te: intuire il tuo sguardo
tra fraintesi d’ombra è preferibile, per me,
che assaggiare le più belle bellezze della terra.
*
Oh, mio cuore… quanto ancora cercherai
il perfetto nelle scuole, per quanto tempo
continuerai a perfezionarti con la filosofia
e le regole matematiche? Ogni pensiero
che non sia memoria di Dio è malvagio.
Inchinati davanti a Dio, slaccia da te
ogni pensiero, molla il mondo dei concetti
ai filosofi, agli stolti intellettuali!
*
Il mondo esiste grazie a Te
ma di Te non c’è traccia:
benché Tu non abbia bisogno
di me, io vivo per Te.
*
Il vicino e il parente, lo straniero e il vagabondo:
tutti sono Lui! – Lui è nell’abito del mendicante
e nella stola del re. Nelle assemblee e nelle alcove
nei tribunali e nei postriboli, Dio è in tutto, il tutto è Lui.
*
Senza velo non posso vederti
senza schermo non posso fissarti:
prima devo raggiungere l’illuminazione.
D’altronde, chi può scrutare le sorgenti del sole?
*
Se vuoi essere l’inquieto usignolo, diventa usignolo!
Tu sei una parte e la Realtà è il Tutto:
per qualche giorno medita sul Tutto, diventa Tutto!
Se nel tuo cuore appare una rosa, diventa quella rosa.
**
Fiabe mistiche
Un cammello e un asino marciavano assieme. Giunti alla riva di un fiume, il
cammello si immerse per primo in acqua. L’acqua gli arrivava poco oltre le
ginocchia, refrigerando appena il corpo. Così disse: “Vieni anche tu, il fiume
mi arriva soltanto ai fianchi!”. “Ti credo”, rispose il saggio amico dalle
lunghe orecchie, “ma noi siamo molto diversi: l’acqua che ti arriva ai fianchi
mi sommergerebbe la schiena…”.
Il saggio rifiuta di farsi condurre oltre le profondità che conosce.
*
Il cane e il pane
Un cane, straziato dalla fame, stava alle porte di un villaggio quando vide una
pagnotta rotolare fuori dalle mura e dirigersi verso il deserto. Il cane si
lanciò all’inseguimento, corse, gridando, “Oh Bastone della Vita, Potenza del
Viaggiatore, Oggetto del mio Desiderio, Consolazione dell’Anima! In quale
direzione volgi i tuoi passi, dove stai andando?”
“Nel deserto”, gli disse il pane, “a trovare i miei amici, il lupo e il
leopardo, per ricambiare la visita che mi hanno fatto, un tempo”.
“Il tuo discorso sprezzante non mi spaventa”, replicò il cane, “ti inseguirei
nella bocca di un coccodrillo, tra le fauci di un leone. Se rotolassi per tutto
il mondo, ti inseguirei comunque”.
Chi vive di solo pane si sottomette, per averlo, ai più vili abusi: è come un
cane famelico.
*
La vespa rossa e l’ape
Una vespa rossa, un giorno, attaccò un’ape, desiderosa di suggere della sua
dolcezza. L’ape iniziò a piangere dicendo: “Circondanti come siamo dal più puro
miele e dal dolce nettare dei fiori, perché insegui soltanto me, abbandonando
tutto il resto?”. La vespa rispose: “Se c’è del miele al mondo, tu ne sei la
fonte; se c’è dolce nettare, tu ne sei la sorgente”.
Felice l’uomo che distingue il vero dal falso e rifiuta di accettare il poco.
*In copertina: Y.Z. Kami, Endless Prayers XXVIII, 2009
L'articolo “Se nel tuo cuore appare una rosa, diventa quella rosa”. Jami, il
poeta sapiente proviene da Pangea.
Nel 1956 Alberto Arbasino intervistava Céline a Meudon, incontrando «un vecchio
sfinito, abbandonato dentro un maglione a pezzi, fra mobili e pavimenti che
gridano “ma non ce l’avete uno straccio per la polvere in questa casa? Piuttosto
ve lo porto io”, troppo stanco e confuso e al di là d’ogni possibile moto del
cuore perché sembrasse importargli di nulla».
Però, quest’uomo forse così sfinito non era, se diceva:
> «gli accademici e i gesuiti non hanno inteso i valori e il mistero delle
> letteratura classica, inafferrabili con strumenti ordinari, compresi soltanto
> dai mistici e dai romantici tedeschi».
Oltre l’apparente esaurimento delle forze, questo padrone di casa osava
coltivare formule e fiori per l’immortalità?
Le sue vere, disperate, prime preoccupazioni: cose molto difficili, come il
dolore, la vita, la morte, la grazia. In un mondo spesso ripugnante, la bellezza
vera dove si rifugerà? Ecco, le idee etiche ed estetiche più urgenti per Céline
sono la consistenza del trapezio (come in Verlaine) e lo stile:
> «ormai – spiega Céline ad Arbasino – i contatti umani sono così invadenti che
> l’insegnamento e l’informazione non hanno più niente in comune con la
> letteratura, e viceversa. E poi c’è troppa gente che gira in automobile, che
> vuole arrivare in fretta. Vivono tra il comunismo fittizio e le vendite a
> rate: sempre più fedeli ai dettati borghesi».
Per lui questi dettati (riassunti nella parola «fingere») sono un veleno che
irrigidisce il ritmo del cuore, sterilizza l’emozione del respiro, sacrifica
l’oralità e il corpo della frase.
È la grigia, piccola lingua senza musica degli uomini qualsiasi che tengono la
morte (e quindi la vita) a distanza, con la «sintassi perfetta» ed evitano il
rischio, mettendo in sordina la verità per restare presentabili e defunti.
«Finzione di sé» che Céline sabota col fraseggio scosso, i tre puntini come
sfiato, la radiosità intermittente (ironia della sorte, la sua insubordinazione
è diventata nuovo canone che i borghesi d’oggi fingono di desiderare e capire?).
Céline ribadisce fino alla morte la fiducia nelle sue invenzioni linguistiche,
nell’argot, nella tecnica della sua scrittura, con l’intento di proseguire la
sua vocazione estetica oltre la vita, quasi un debito morale verso sé stesso e
verso gli altri che vorrebbe diversi, migliori: «voglio continuare a fare il
vecchio clown su un trapezio, lassù, a quarantacinque metri». Ma è difficile
praticare quelle alture per la gente qualsiasi dove la vita è solo una rovina
tutta coltivata al suolo. Cosa che pure Pasolini (altro uomo del trapezio)
sapeva.
Che cos’hanno in comune due autori come Pasolini e Céline? Essere contesissimi
ostaggi per malati ideologici, fra destre e sinistre. Portati entrambi a forza
al commissariato per certificare adesioni totalizzanti e precise mai
avvenute. Tutti e due molto «amati», cioè svenduti, per incarnare la scrittura
schierata a esprimere un’impossibile e indesiderabile «letteratura politica». In
particolare c’è sempre molta attenta, ossessiva, filologia riguardo
inequivocabili intenzioni di Céline in materia di razzismi, nazismi, fanatismi.
Ma nessun amatore d’arte letteraria dovrebbe occuparsi di questi folklori,
figurarsi la critica. Non ci sono troppi dubbi: l’attuale ricezione di Céline è
storpia, distratta, patologica, impronta una telenovela. Per miracolo, a
proporre il farmaco a questa malattia insopportabile è già lo stesso
Céline in Céline, talentuoso patologo. Una comprensione ardita, ossia rovesciata
e paradossale della sua opera. Forse i lettori di Céline sono anche suoi
‘pazienti’? Se sì, lui è un medico severo. Riga dopo riga, chiede: “sei
stupido?”, “sei vivo”?, “quanta merda inghiotti?”.
Louis-Ferdinand Céline (1894-1961)
Fra le mentite spoglie del finto cameratismo, i libri di Céline negano ai
curiosi il diritto a mentire sulla loro eventuale condizione deprimente di
cadaveri. Non cercano nel lettore un complice ma un colpevole di morte in vita.
È il tranello perfetto di un medico-poeta del romanzo.
Travestito da guascone disilluso, chiede per tutto il tempo della sua
letteratura, serissimo: che cosa hai fatto della tua coscienza? Della tua vita?
Del tuo tempo storico? Sei il famigerato morto che cammina? Questo scrittore,
questo sciamano, cerca un colpevole che ha compiuto una specie di vilipendio di
verità e di desiderio. Involontario ospite dello sguardo filosofico di Cristo
sul mondo, pare Céline abbia osservato fino all’ultimo quella legge biblica che
già «Ferdinand» bambino aveva trascritta «nella carne del cuore»: la vita non ha
bisogno di essere redenta ma pronunciata, e per intero, senza esitazione o
pietà. Il «fico secco» è condannato.
Però, come si blinda una così alta idea dell’esistenza (e quindi anche della
morte) da sguaiate effrazioni dei superficialini e dei fans?
Infatti, Louis-Ferdinand Céline (un nome, un brand, un trend?), coincide
amaramente con tentativi multipli di sintesi maledettiste, perfette per
cacciatori di titoli e scandalini: “dissacrante”, “proibito”,
“ingovernabile”, “mostruoso”, “geniale”, “dissacrante”, “sconcertante”,
“realista, “osceno”, “pessimista”, “scorrettissimo”, “grottesco”, “visionario”,
“illeggibile”, “delirante”, “disturbante”, “innovativo”, “maledetto”,
“impopolare”, “innominabile”, “vietato”, “morboso”, “angosciante”, “crudo”,
“irascibile”, “collerico”, “arrabbiato”, “narratore dell’orrore di questo mondo”
(per tacere la targhetta “Nichilista”, e Disincanto&Cinismo, quasi in una sete
di naming). Tutto vero o tutto falso?
Forse solo banale, dunque osceno, qualunquistico.
Molestia alla sua intima irriducibilità. Etichette che suonano puerili, in
accumulo compulsivo di aggettivi, prova indiretta dell’incapacità critica nel
sostenere il passo della parola céliniana. Perché la sua scrittura, più che da
fotografare con termini veloci, è da guardare come vita che pulsa oltre il mito
mediatico del cantore della dissoluzione. Una vita piena, sovrabbondante,
eruttiva, verticale. Rigore mascherato da tenebroso caos, che invece è un sole e
una guida abbagliante?
In molte tradizioni filosofiche ciò che è più vivo non è evidente, ma nascosto.
L’Ātman indiano, quella «tenebra sovrabbondante» di luce inaccessibile alla
ragione discorsiva, coincide con quella dimensione che i greci chiamavano zoé,
il più di vita, la vita che rende viva la vita, e non è semplice sopravvivenza,
ma intensificazione irriducibile dell’esperienza. Céline conosce questa
dimensione intimamente. L’ha sperimentata nel solo modo possibile, con
l’attraversamento della morte, con la carne, il dolore, la rinascita. Da vero
artista, ha osato, manganellianamente, «abitare la soglia», fino a scoprire che
l’energia vitale, se mossa dal vero desiderio, sa crescere quando più viene
messa in pericolo dai tradimenti mortiferi che la vita rischia di infiggerle:
seppellire la propria verità la rivolterà contro il suo carnefice. Il pensiero
di Céline è un anatema a Thanatos, quasi un «chi conserva la propria vita la
perderà».
Da questo punto di vista, la sua opera somiglia a un’insolita epifania bardica
più che all’accessibile bestemmia moderna. «Io sono celtico, prima di tutto»,
confessava in lettera a Milton Hindus, «sognatore bardico… la mia musica è la
leggenda». Questa è la via per il forziere di Ferdinand/Céline? La leggenda come
patria dell’anima, custode dell’Essere? (altro che “anti-eroe”!). Quali elementi
Céline ci autorizza a bruciare come incensi e quali, invece, a «buttare nel
cesso»? Cosa fa, quando scrive? La sua scrittura non è nemmeno nel segno del
«realismo. C’è, in apparenza, seppure in forma di piccolo strumento, piegato
come un prigioniero alla vendetta contro la crudeltà del mondo; ma sotto la
superficie di una forsennata tendenza al «racconto» e al «fatto», come un
segreto canto di fondo vibra qualcosa di enorme: avranno le orecchie per
danzarlo, tutti questi veloci lettori céliniani?
Marina Alberghini annoda – nel suo saggio Céline magico – il segno metafisico a
questo vibrare. Céline si circonda di «Fiori dell’Essere» (mémoire des
fleurs)[1], mondo marittimo e celeste, d’altrove e d’oltre, extrasensoriale,
abitato da figure simboliche, nobili archetipi, forze mitiche, Onde, da cui
diceva gli arrivasse la voce che lo rendeva romanziere. Eppure a fiumi lo
chiamano nichilista.
L’idea che Céline sia notista letterario della morte è facile ma povera.
Il suo cruccio è lontano dal beatificare la fine, e sembra invece punire,
confinare, in ogni sua mossa (che sia letteraria, o di opinione critica, lungo
risposte inesorabili durante interviste), la morte e i suoi effetti, in un
carcere di massima sicurezza, e farla incapace di pronunciare l’ultima parola.
Questo carcere è quel tipo di opzione che una parte degli esseri umani sceglie
di attraversare nel modo più scemo possibile: suicidandosi da vivi. Céline
quindi non «celebra la morte», ma la comicità che vede nella scelta
maggioritaria di farne una ridicola, grottesca edificazione a stile e postura
nel vissuto (travestimento ipocrita, o alibi, della sopravvivenza).
Come i veri poeti, non conosceva il vuoto: l’assenza di pienezza è la vita non
poetica, non generativa, non trascendentale. Sapeva che l’unica «vittoria»
possibile è contro sé stessi – contro le miserie dell’ego rapace e materiale –,
è intensificare la vita fino a percepirla più forte della sua negazione (se il
dolore, come il bello, va udito e poi coltivato con l’anima, non estetizzato).
Leggere Céline, che insegue, minacciandolo, il suo lettore, puntandogli un
coltello alla schiena, richiede esperienza del profondo, o almeno il desiderio
di farne una, e non si può parlare della sua visione dell’Essere senza aver
misurato la propria, nelle scelte, nella rinascita vigorosa quotidiana di sé.
Chi scriverà su Céline senza essersi bruciato il cuore, senza aver accettato di
vedersi e da altri essere visto, di portare la ferita alla luce, resta un suo
grigio commentatore, esterno, inservibile. Va indossato, senza esitazione, il
piglio del bardo e dello sciamano, travestiti da uomini qualsiasi.
Morte a credito lo dimostra, con una grinta intellettiva che non ha bisogno di
interpretazioni astratte. Il libro scorre come sangue freschissimo, irruento, in
dono al lettore anemico. Céline incita, pagina dopo pagina, a uscire allo
scoperto, a correre il rischio di essere riconosciuti. Nascondersi significa
morire per gradi, vivere significa aprirsi al suono più vero dell’anima propria,
costi quel che costi. E Ferdinand, bambino-funambolo tra miseria, frustrazione e
pressioni familiari, fatte di malumori e ricatti morali, lo sa. Gli schiaffi del
padre, la durezza della madre, le aspettative schiaccianti della “Coccinella”,
il grigiore del Passage non producono in lui vittimismo ma visione. E Courtial
De Pereires, brillante imbroglione, non è solo un personaggio, è l’allegoria
esplosiva del sogno che insiste anche quando tutto lo contraddice. L’unico
credito che non si riscuote mai è quello che vale davvero?
Così pare dica il nostro Dottor Ferdinand.
Céline non permette alla realtà di diventare palude. Non negozia la vita al
ribasso, e anche quando odia, odia per amore della vita.
Il Passage des Bérésinas è tutto: geografia, teatro del mondo, destino. Céline
lo dipinge con un tocco pienissimo di realtà che mai risuona cinico. La miseria
per lui non è retorica impressionista, è dato compositivo con cui la scrittura
fa nascere una musica nuova. Pagine graveolenti, piene di gas, urine, catarri e
sputi, e di meraviglia divertita, come un film delle comiche girato dentro la
pellicola della tragedia.
Grandezza infante dell’occhio di Ferdinand, amorevolmente lì a tradurre e
sublimare la farsa in rivelazione e il dolore in beffa: la verità dei malnati è
tutta nel silenzio che segue il rospo quotidiano inghiottito senza batter
ciglio, e la violenza nasce esattamente e sempre là dove la parola è assente,
quando parlano solo i corpi con le loro acri smorfie di malessere. Il mondo dei
subalterni, e dei morti viventi, può parlare solo con una lingua ibrida,
spezzata, piena di ripetizioni, ricca di lessico basso. Il francese elegante non
rappresenta chi non ha le parole, chi non parla mai veramente, o non è nato
mai.
E infatti l’argot è la tattica designata a ritrarre e livellare «tutto quello
che fa schifo secondo Céline», i borghesi e i mascalzoni da strada funzionano,
nel mondo, allo stesso modo, sono malati dello stessa malattia. Argot che
viaggia sulla petite musique, canzone che è traduzione del parlato e del battito
sulla pagina, così come del pensato, del vissuto.
Possiamo dire su Céline solo quanto ci ha indicato di ereditare. Detesta la
felicità superficiale, quella che si ostenta per non sentire il dolore della
vita. Gli interessa la gioia vera, che nasce solo dal combattimento con la
realtà, ed è questo forse una prospettiva di Céline che oggi pochi critici hanno
curiosità di osservare, quella trascendentale. Non religiosa – in senso
tradizionale – ma radicata nella convinzione che esista una sfera dell’Essere
conosciuta solo da mistici, sensitivi, artisti.
Di certo, lui la abitava, per questo chi lo inquadra nel nichilismo è sordo al
bersaglio. Certo che si potrebbe accusare Céline di nichilismo. E sarebbe
corretto, se non fosse che il suo però è un nichilismo pieno, attivo, non
contemplativo. Non prolifera nel dire «niente ha senso!» ma nell’esporre
l’abominio dei meccanismi che triturano gli individui, e nonostante questo
continuano a «funzionare», indipendentemente dalle idee, dalle cadute in basso e
dalle speranze.
Il suo sguardo è quello del medico, che non può curare la malattia e deve però
descriverla con precisione, la sua etica è l’onestà nel referto.
Da qui la potenza rifrattiva della sua scrittura, Céline non consola,
diagnostica.
Ma la critica letteraria non serve per assolvere o condannare.
È compito del lettore adulto, non del pedagogo, confrontarsi con ciò che Céline
ha edificato, un monumento alla parte buia, un’opera che costringe a guardarci
senza abbellimenti.
La diagnosi poco accurata che gli viene rifilata — “nichilista”, “disincantato”
— nasce forse, nei più ingenui, cioè nei lettori sentimentali, dallo shock della
sua messa a nudo che da una reale pulsione a cancellare il mondo: il nichilista
prosciuga i significati, Céline invece comprime la vita per farne esplodere la
densità.
Questa lettura pànica di Céline (poco conforme alla moda attuale che lo vuole un
po’ instancabile becchino e un po’ distruttore sadico), trova appoggio nelle
ricerche che hanno indagato l’origine della sua voce letteraria: una “musica”
interna — la petite musique — e una fedeltà a immagini e archetipi (la leggenda,
la danza, le “Onde”) che sono lontani da un vuoto ontologico e vicini a una
esperienza trascendente della vita trasformativa. La stessa struttura testuale
di Céline – la sintassi schiacciata, la ripetizione ossessiva, l’oralità
scorticata – non è indizio di un desiderio di annientare senso. Persino le
interpretazioni, abbastanza retoriche, che collegano la prosa ai soliti dogmi
“trauma & memoria” (in particolare le analisi post-belliche e quelle sulla
ferita della Grande Guerra) non possono mentire più di tanto; la frammentazione
narrativa è spesso letta come modalità di rappresentare una vitalità scissa e
riportata alla pagina per resistere alla morte.
Il frammento, il balbettìo, la punteggiatura come sparatoria, sono il volto
della messa in forma dell’esclamazione vitalistica: quanto a chi ignora tale
profondità e preferisce leggere Céline come folklore di «torbidume e infimità»,
si può soltanto constatare un fatto elementare: certi lettori, davanti a un
immaginario che pretende coraggio scelgono la comodità del loro piccolo
orizzonte, e lo scambiano per giudizio. Ma non c’è nulla da spiegare a chi è
fiero della propria cecità – Céline avrebbe detto che per loro la letteratura è
già troppo lunga alla prima riga.
Secondo Marina Alberghini, ridurre Céline a semplice «catalogatore disperato»
della miseria indica ignorare l’intero impianto metafisico che attraversa la sua
opera. Alberghini insiste su un punto decisivo, ossia che il «delirio» di Céline
non è distrazione esoterica, né rifugio evasivo, una pratica semmai di
ostinazione contro la decomposizione del reale. La féerie – quella “realtà
fatata” che egli inseguiva – opera per scarti, folgorazioni, come un’antica
controfigura del mondo che permette allo scrittore di abitare con rigore il caos
senza farsene inghiottire.
Non c’è dunque fuga nel mito, ma una forma di vita nel mito.
Questa è la «perla metafisica» custodita dentro la sua scrittura e la sua
geografia, dove agiscono simboli anteriori alla storia, quelle Onde che
avvertiva come correnti arcaiche, autentiche pressioni del mito sul presente.
Céline ha generato questi incantevoli crateri a partire da una scia ricchissima
e lontana, ha iniziato una ricerca nuova dentro quella «tradizione illustre» che
si tenderebbe a ignorare, ma di cui lui era amante e studioso
consapevole. Una ricerca, quella celiniana, fiorita lungo esempi lontani,
letterari e pittorici: le lugubri ballate di Villon e del romanzo «carnevalesco»
e polifonico di Rabelais. Omaggi a El Greco, Goya, e a quelli che lo stesso
Céline indica come i suoi pittori prediletti, Bruegel e Bosch.
Attitudini letterarie di Céline che alcuni, insultandolo, leggono come
«rivoluzionarie» (ossia sradicate), sono parte della tradizione francese fino
all’Ottocento (la miglior letteratura francese!), dai racconti fantastici di
Gautier ai romanzi d’avventure di Verne, agli impianti immaginativi e alle
figure simboliche di Hugo, al gusto decadente di Baudelaire, agli itinerari
spirituali di Verlaine, Mallarmé, Rimbaud.
Rubina Mendola
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[1] In un’intervista, poco prima di morire, disse: «Je ne suis pas un artiste,
mais j’ai la mémoire des fleurs». È una frase che ci lascia nel dubbio: la
«memoria dei fiori» è ricordare i fiori, ma forse Céline vuole dirci che
possiede la memoria peculiare e misteriosa, inaccessibile, che può avere un
fiore?
L'articolo “Voglio continuare a fare il vecchio clown”. Perché è impossibile
ingabbiare Céline in didascalie museruole proviene da Pangea.
Quale traccia di senso è liberata dal nostro tempo? Derrida parlava di “aporia”
come assenza di esito e, quindi, di compimento (vedi J. L. Nancy, Derrida da
capo, in A partire da Jacques Derrida, Jaca Book, Milano 2007, a cura di
Gianfranco Dalmasso). Per questo, l’unico senso possibile sembrerebbe
indecidibile e disseminato, senza origine e senza identificazione, puro mistero
metafisico e consapevolezza di un’alterità impensata e, perciò, per sempre
impensabile. No-where perenne e allo stesso tempo qui e adesso, questa è la vera
“oltranza” e il fuori confine: l’accensione costante di un senso che contiene la
sua caduta, che non può comprendersi se non in avvii improvvisi che, però,
covano nel tempo, come una “nube della non conoscenza” post litteram:
> come se il mio ventre covasse una bomba
>
> (Antonio Porta, Airone)
l’intera vita non è altro che desiderio e attraversamento costante di frontiere
che riportano l’ombra di una percezione incomprensibile e rigiocano l’origine
nel continuo ri-chiamo che è verso e parola, balbettio di nuovi linguaggi per
tornare ancora a smentire la tensione, l’accecamento della relazione e il suo
ritardo. Il soggetto diventa “realtà espressiva”, avrebbe detto Raboni, e la
realtà di mondo che implica l’identità si formula solo attraverso l’intreccio
indissolubile e l’aspirazione costante. Il “suono del contatto” che è l’airone
di Porta funziona come sentimento e avvertimento (“avverto il sobbollire nello
scroto”) per una sessualità al suo risveglio, la tensione relazionale, la
ri-nascita continua del contatto desiderato, fecondazione e spargimento e allo
stesso tempo rimando e resistenza: uomo “umile dio del suo corpo” che “resiste
sulle rive dei fiumi”.
L’uomo è come l’airone? Simbolo transizionale ma riconoscibile “non troppo uomo
non troppo animale” “quando muove le zampe / nei primi passi della danza
amorosa”, si apre ai limiti dell’identità individuale, alla trasformazione
restando se stesso
> come la cagna
> lupa affamata insegue disperata
> la lepre elegante troppo veloce
> quasi non si fa distanziare nel breve piano
> ma alla soglia di un boschetto
> tra i primi cespugli quella sparisce
> perché la cagna è vecchia ormai
> e la sua fame non diminuisce
> come la sua crudeltà di prima,
> della sua giovinezza,
> così la chiamiamo: crudeltà
> invece è fame
> di mille altre lepri
> eleganti paurose prudenti veloci
> di continuo nascono e muoiono al mondo
> inseguite inseguitrici,
> è tanto semplice, infine,
> quando la vita mostra di bastare a se stessa
> riflessa nei nostri occhi puntati
> dalla cima della collina
> come nei tuoi specchi ciechi, airone
La frontiera tra il boschetto e la “semplice vita” è l’età, la soglia
dell’abbandono nonostante il desiderio sia ancora “affamato”, la frontiera è
“nascere e morire, / rinascere e volare via” come l’airone-angelo indica.
Messaggero di relazione,
> ilare sorgente ultima di melodia
> contro la sua assenza di voce, airone,
> i tuoi striduli messaggi,
> hai partorito l’invisibile usignolo
la musica dell’invisibile è l’ultima e prima sorgente di senso. Marc Augé diceva
che “una frontiera non è un muro che vieta il passaggio, ma una soglia che
invita al passaggio. Non è un caso che gli incroci e i limiti, in tutte le
culture del mondo, siano stati oggetto di un’intensa attività rituale. Non è un
caso che gli esseri umani abbiano dispiegato ovunque un’intensa attività
simbolica per pensare il passaggio dalla vita alla morte come una frontiera: è
solo grazie all’idea che la si possa attraversare nei due sensi che la frontiera
non cancella irrevocabilmente la relazione fra gli uni e gli altri” e
“l’illusione, diceva Freud, è figlia del desiderio”.
Il desiderio è il problema dell’identità, del dio di cui l’airone è il feticcio,
quasi un albatro rovesciato, cioè il “dio oggetto” simbolo di una realtà di cui
si tenta ancora di cogliere il senso. Riassumendo ancora Augé (Il dio oggetto),
il senso del limite e il limite del senso hanno in ogni cultura un nonluogo
pensato e vissuto con e nel sistema generale dei valori della vita, che solo il
rituale è in grado di individuare e re-inventare, aggiungerei, come l’airone di
Porta:
> Nel tuo volo immagino, Airone
> osservi le ferite della Terra
> scopri l’opera dell’uomo
> dove senza sosta rivoli di sangue
> e la fame morde
> camminano uomini che non possono
> essere ancora uomini
> e ci porti testimonianza
> del silenzio di morte
> e ci imponi di ammutolire
> con te sorvoliamo un luogo
> che è un luogo più di ogni altro di tortura
> El Sexto, il carcere di Lima
> dove i perduti rinchiusi
> leccano per sete il sangue delle ferite dell’altro rinchiuso
> si sappia non si dimentichi che cosa
> all’uomo nasce dall’uomo, fratello
> come non chiamarti fratello che ti rifiuto
> Airone hai due occhi come ribes purpurei
> mi chiedo se sono ciechi
> solo un puro ornamento
Un rituale che è cammino costante verso frontiere inaudite e incomprensibili,
verso un’ibridazione di forme per “continuare a nuotare”, “sollevarsi tra gli
dèi / e sprofondare nel cuore marino” o nell’ “intorno” (il mondo) “cerchiato
dai boschi pieni d’ombra / dove altri dèi dormono in silenzio / visibili
invisibili”. La nuova frontiera è “il fuoco puro dell’energia” (metafora
nucleare) che annienta il vecchio soggetto, il concetto stesso di uomo e
l’identità per come l’abbiamo conosciuta:
> ci sarà non io
> e il pensiero non mi dà tristezza né gioia
> ma quiete, soltanto, felicità del limite
Siamo nella fase liminare della rinascita, in un mondo intermedio e in transito
ma bloccato all’azione, in uno stato di perenne immaginazione. Come viene detto
in La nube della non conoscenza, siamo nella “facoltà attraverso la quale ci
rappresentiamo tutte le immagini di cose assenti e presenti. Sia essa che gli
strumenti per mezzo dei quali essa opera”, in attesa di una “grazia” che
interrompa la proiezione di “differenti immagini illusorie di creature
materiali” e indirizzi alla pratica di diverse ritualità relazionali:
> come in attesa di essere ancora luce
> all’alba quando il conflitto si placa e si racchiude
> in un uovo minuscolo
> dove già pulsa il cuore di un usignolo
> dove batte il minuscolo mio cuore neonato
> come milioni di altri muscoli nascosti
> potenti macchine da guerra che avanzano
> che scuotono la cintura della terra
> e misurano ogni altro respiro
La rinascita in nuova forma dentro la metafora del volo, nell’Airone di Porta,
demarca l’urgenza di liberazione dall’impasse concettuale che vede l’essere
umano stretto nella sua stessa definizione, come una lingua morta che vuole
rinascere dal solco della sua scomparsa: volare per essere risucchiato “verso un
passaggio strettissimo”, per poi essere partorito “in una forma che non conosco
ancora”.
“L’anticipo nel desiderio…”, quel desiderio di cui dicevamo in precedenza, è il
margine (la frontiera) che non annienta il sociale per manifestare il principio
di senso (ancora Augé, per cui nel passaggio-limite è ravvisabile la “grazia”
come base “concreta” che non riesamina l’origine ma si arrende alla
trasformazione) ma è punto di arrivo senza esserlo, un presente che indaga il
passato per scoprire il limite della vita nella sua alterazione. Il futuro è
finito a causa della sua indeterminazione, senza possibilità di rinvio, se non
costante e immanente. La grazia è uno spazio senza speranza che, ugualmente,
tende al semplice riconoscimento di quel che è e ne rende grazie. Possibile
trascendenza di sé nell’altro, la grazia immanente corre sempre il rischio della
disperazione ma anche questo è “un dono che viene da se stesso”; persino
l’airone feticcio, allora, non è più una guida ma un gioco di parole, una
questione linguistica, e come ogni lingua mutuabile, trasformabile (in questo
senso non un cascame, ma un nuovo inizio):
> Ai, nero, qui il tuo inchiostro
> arriva l’intraducibile scrittura
> il filo spinato dei tuoi versi
> aire, no, non spira
> non vola, si chiude:
> è questa la fodera dell’aire immobile
> impermeabile calor bianco
> occhicorallini, biancospada
> buchi il sole debole del crepuscolo
> buchi la piena luna dell’alba, mi chiedo
> come seguire la tua assenza?
Forse camminando in questa assenza, nonostante la fine di ogni fine o il non
finire della fine, possono scoprirsi linguaggi altri, come i riassemblaggi
verbali sembrano suggerire, e perfino la coscienza di sé può sorprendersi
“altra”: “(lo stellato mi ha attraversato senza dolore / ora sono albero, ora
bottiglia)”. Il “terrore della perdita” è la parola ri-trovata nella caduta,
l’incontro col dio è l’incontroscontro col mondo:
> Qui in casa dormono tutti, un’ondata
> improvvisa mi rigetta sulla spiaggia
> a incontrare il tuo becco.
Gianluca D’Andrea
(dicembre 2025)
*In copertina: opera di Helena Almeida
L'articolo “In attesa di essere ancora luce”. L’airone di Porta e la vita oltre
frontiera proviene da Pangea.
Cinquant’anni fa, per Einaudi, usciva un libro straordinario.
Titolo a caratteri cubitali, numero 70 della collana “Nuovo Politecnico”: era
l’8 febbraio del 1975 – la copertina ricordava Malevič (piccolo quadrato rosso
su fondo bianco), l’autore, Roman Jakobson, era noto per essere – così la
bertuccia Treccani – l’“iniziatore del metodo formalista” e “fra i fondatori…
dello strutturalismo in linguistica”; un tempo i suoi Saggi di linguistica
generale erano dati per naturale bagaglio nella ‘formazione’ di uno studente. Il
pamphlet – Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, trenta pagine uscite
in origine nel 1931 – tentava di analizzare “Il problema Majakovskij”: in
realtà, era il più sottile atto d’accusa mai scritto contro il dominio
sovietico. Più in generale, era il più potente atto d’accusa mai scritto contro
ogni potere che per giustificare e assolvere se stesso ha bisogno,
sistematicamente, di eliminare i suoi poeti. Per sussistere, un potere –
tirannico o ‘democratico’ che sia – ha bisogno di cantori; ha bisogno di
assassinare i poeti.
> “Noi viviamo nel cosiddetto periodo ricostruttivo e, probabilmente, produrremo
> ancora non poche locomotive d’ogni sorta e non poche ipotesi scientifiche. Ma
> alla nostra generazione è già predestinata la penosa impresa di una
> costruzione priva di canti”.
Che pena l’epoca – che è poi questa, la nostra – che si svolge “priva di canti”,
priva di incanto.
Nell’introduzione a quel libello che fu incendio, Vittorio Strada scriveva che
“La leggenda di Majakovskij non ha pari nella poesia del secolo”: oggi, della
“leggenda” resta l’infiorescenza bibliografica – Majakovskij si legge senza
scosse, si traduce al merletto, in lode della botticelliana madama Filologia,
non fa più legge, non ‘penetra’ più nelle nostre rivoluzioni domestiche. Roman
Jakobson aveva temprato le proprie scoperte studiando gli sconcertanti poemi di
Velimir Chlebnikov, il suo amico più caro, il più folle.
Poi verranno i Gulag, la “guerra patriottica”, la Guerra Fredda. Verranno
Solženicyn e Šalamov, Brodskij e Limonov. Verranno i reclusi, le accuse, gli
esodi e gli esordi. Roman Jakobson capì per primo l’origine indicibile del
problema: un’epoca “priva di canti” sfocia, con cruenta naturalezza, nella
società del controllo, nella società cannibale – questa. La lista dei
massacrati, degli annientati – che culmina con il proiettile che perfora il
cuore di Majakovskij, un proiettile che potremmo chiamare Zeus – è micidiale:
> “La fucilazione di Gumilëv (1886-1921), la lunga agonia spirituale, gli
> insopportabili tormenti fisici e la fine di Blok (1880-1921), le crudeli
> privazioni e la morte tra sofferenze inumane di Chlebnikov (1885-1922), i
> meditati suicidi di Esenin (1895-1925) e di Majakovskij (1894-1930). Così nel
> corso degli anni venti periscono in età dai trenta ai quarant’anni gli
> ispiratori di una generazione, e in ognuno di essi v’è la coscienza
> dell’ineluttabile condanna, intollerabile nella sua lentezza e precisione”.
Jakobson insegnava a Praga e a Brno; nel 1939, per scampare ai tedeschi, si era
rifugiato a Oslo, per poi trasferirsi negli Stati Uniti. Nel 1962 sarà candidato
al Nobel per la letteratura. Riteneva che i pur “splendidi libri” di Pasternak e
di Mandel’štam fossero “poesia da camera, che non accenderà una creazione
nuova”. Sbagliava. Mentre in Italia usciva – tardivamente – Una generazione che
dissipato i suoi poeti – in una collana che contava, a quei tempi, opere di
Roland Barthes e di Kate Millet, di Enrico Berlinguer e di Franco Basaglia –
Roman Jakobson incontrava, a Stoccolma, Bengt Jangfeldt, all’epoca trentenne,
che sarebbe diventato, come dicono le quarte, “uno dei massimi conoscitori al
mondo dell’opera di Majakovskij” (dida, alle mie orecchie, che sa di dedizione
borgesiana). Jangfeldt – i suoi libri majakovskijani sono editi in Italia da
Neri Pozza – tenne con sé le registrazioni di quegli incontri per un po’; nel
1992 le riunì in un libro, che esce oggi come Io, futurista per Feltrinelli
(nella traduzione di Serena Prina, la grande interprete di Dostoevskij,
Bulgakov, Pasternak).
I russi hanno il genio per l’autobiografia. Tutto ciò che vivono – per una
qualche complicità con l’apocalittica –, anche il più minuto fatto, splende con
la potenza di un’icona, di un annuncio. Scrittori e poeti altrimenti
incomparabili – chessò: Anna Achmatova e Vladislav Chodasevič, Vladimir Nabokov
e Iosif Brodskij – sono uniti dal genio della memoria, dal talento
autobiografico. Nella sua autobiografia più lucida, Uomini e posizioni– ma la
prima, Il salvacondotto, è ben più bella, per folleggiare del linguaggio – Boris
Pasternak scrive che degli anni che precedono e seguono la Rivoluzione, di quel
“mondo di fini e di aspirazioni, di problemi e di imprese prima sconosciuti”, di
quel “mondo unico e senza pari”, “bisogna scriverne in modo tale che il cuore si
stringa e i capelli si rizzino in testa”. Entrambe le sue autobiografie
terminano con il suicidio di Majakovskij – la seconda, l’ultima, accenna
all’altro, il più assurdo e dolente, quello di Marina Cvetaeva. Le memorie di
Jakobson parlano di quel mondo “senza pari” con il cuore spezzato.
Il tema fondamentale è ribadito con costanza senza ostacoli: la Rivoluzione
russa è stata, prima di tutto, una rivoluzione del linguaggio, è stata
una poetica. Come dar torto a Jakobson? Le radici di una nazione – di una
conversione – sono sempre, misteriosamente, liriche. Ogni sconvolgimento storico
ha alla sua base, misteriosamente, un poeta. Walt Whitman e Robert Frost hanno
fondato i momenti miliari della storia degli Stati Uniti d’America; Hugo,
Baudelaire, Valéry e René Char sono le fonti della storia moderna francese come
Wordsworth, Tennyson, Auden e Ted Hughes lo sono stati della storia moderna
inglese. William Butler Yeats ha ‘creato’ l’odierna Repubblica d’Irlanda come
Hugh MacDiarmid è all’origine delle rivendicazioni nazionaliste scozzesi; in
Italia abbiamo avuto, nelle ultime diverse fasi, Manzoni, D’Annunzio, Ungaretti
e Pasolini. Naturalmente, in questa considerazione non conta il ‘gusto’ o la
singola potenza lirica (potrei preferire Leopardi, Pascoli, Campana, Zanzotto),
ma la singolare possanza storica di un poeta. Quando un Paese ignora o tenta
sistematicamente di marginalizzare il poeta, di industriarlo all’indifferenza,
accade un sovvertimento radicale dei valori ‘politici’ – sorge una generazione
senza identità, serva, servile, benché cieca in ferocia.
Di Majakovskij – il protagonista, in fondo, di Io, futurista – si dice che “non
fu mai felice”, che “non amava i bambini” perché era un bambino all’eccesso, che
“amava molto i cani”. Majakovskij era “l’uomo del futuro”, il poeta-Adamo che
seminava versi per la nascita di un nuovo mondo. Quel mondo, se mai nacque,
nacque storpio, malvagio – l’albero della conoscenza svoltò in gogna e
ghigliottina. “Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro
perché ci potesse restare un passato”, scrive Jakobson, con sobria veggenza,
in Una generazione che ha dissipato i suoi poeti – di cui Io, futurista è, di
fatto, l’appendice. Nella straziante poesia “in morte di Vladimir Majakovskij”,
Pasternak scrive dell’eterno ragazzo che si getta “ancora una volta di colpo/
nella schiera delle leggende giovani”. Le poesie “in morte di Majakovskij”
diventarono una moda, un modo per costruire il futuro incenerendolo; Marina
Cvetaeva aveva riconosciuto in lui i caratteri dell’“arcangelo carrettiere”.
In Io, futurista il Futurismo c’entra poco. Jakobson ricorda la gita di
Marinetti a Mosca nel gennaio del 1914. Fu un incontro sballato, tra estranei.
> “Marinetti era un grande diplomatico e sapeva fare buona impressione su certi
> settori del pubblico. Parlava francese con un forte accento italiano, ma molto
> bene. Ebbi modo di ascoltare Marinetti due o tre volte. Era un uomo nel
> complesso limitato, con un grande temperamento, che sapeva leggere con grande
> effetto anche se in modo superficiale. Ma tutto questo non ci irretiva. Non
> capiva affatto i futuristi russi. Chlebnikov gli era profondamente avverso”.
Quando il futurismo russo decise di ergersi a soggetto politico chiamandosi
“Kom-Fut”(comunisti-futuristi), per iniziativa di Majakovskij, nel 1919, fu
presto sciolto – e cominciarono i guai. Per le sorti della Rivoluzione, i poeti,
che ne erano stati il propellente primo, diventarono un problema. Nel maggio del
1921, sul margine del poema 150.000.000, che gli era stato donato da
Majakovskij, Lenin scrive, “Una sciocchezza… una stupidità matricolata e
pretenziosa. Secondo me solo una su dieci di queste cose dovrebbe essere
pubblicata e in non più di 1500 esemplari per le biblioteche e per gli
eccentrici”. La politica comincia, clinicamente, cinicamente, a impedire l’opera
dei poeti – a limitare le pubblicazione, a censire censure.
In calce al libro, le lettere di Jakobson a Elsa Triolet. Nata Ella Kagan, donna
di inflessibile bellezza, fu l’imperterrita amata di Jakobson, monito della
perduta gioventù. Le lettere sono belle, svenevoli a tratti – “E adesso, mentre
ti scrivo, di nuovo non è questione di domande o di racconti, ma solo di labbra
che si contraggono e di un pensiero caparbio, caparbio: voglio Elsa. Adesso non
c’è altro pensiero” –; insegnano l’ovvio: dietro ogni grande rivoluzione –
poetica, scientifica, politica – c’è un grande amore. Elsa preferì, con
meteorologica precisione, sempre altri a Jakobson: l’ufficiale francese André
Triolet la portò a Tahiti e a Parigi, infine, dove conobbe tanti altri e, nel
’28, Louis Aragon, l’uomo della vita.
La sorella maggiore di Elsa, Lilja, fu la leggendaria amante di Majakovskij. A
tal proposito, la scena più bella di Io, futurista, a pagina 81, racconta di
quando Majakovskij, affittuario di “un borghese di medio livello”, tale Bal’šin,
sradicò il telefono di casa, inchiodato al muro, per portarselo in camera, “con
un pezzetto di parete”, e discutere, in intimità, “con la sua Lilicka”. Come
scriveva Pasternak, “Quando un poeta ama,/ è un dio smanioso che si innamora/ e
il caos di nuovo sbuca alla luce/ come ai tempi dei fossili”. Il poeta che
sradica con foia il telefono dalla parete per parlare con la donna che ama – per
urlare parole d’amore. Eccolo, l’emblema di un’epoca irripetibile – l’epoca
delle passioni forti.
L'articolo Per urlare ancora parole d’amore. Lamento su un’epoca che ha ucciso i
suoi poeti. (Ovvero: intorno a Majakovskij) proviene da Pangea.
Mi chiedo, da buon pisquano, che interesse dovrei avere di andare in libreria a
scegliere dei libri quando sul PlayStation Store posso comprarmi a 18,99 euro
videogiochi come Final Fantasy XV: ditelo a vostra madre e storcerà il naso –
invece, è sintomo d’intelligenza. Prodotti come questo hanno raggiunto livelli
di complessità e costruzione del mondo che la letteratura italiana ha smesso di
perseguire da tempo.
FFXV è uscito nel 2016 dopo dieci anni di sviluppo; ha richiesto, nel corso del
suo ciclo di produzione, tra le 200 e le 300 persone – nonché un budget fra i 50
e gli 80 milioni di dollari (escluso il marketing). Racconta la storia di
Noctis, un ragazzo privilegiato e irrisolto che esce di casa per sposarsi, sale
in macchina con tre amici, parte leggero e scopre che quello sarà il suo ultimo
viaggio da persona normale. Hajime Tabata, il creatore, ha dichiarato: il cuore
del gioco è il viaggio insieme agli amici, il rapporto padre-figlio rappresenta
uno dei pilastri della narrativa.
Nella prima scena non c’è nulla di epico: si spinge una macchina in panne
con Stand by me (appositamente interpretata da Florence + The Machine) in
sottofondo. Poco dopo, campeggio brandizzato Coleman, pasti preparati alla
griglia, foto cretine della giornata: un fantasy basato sulla realtà, un mondo
di dèi e demoni con pompe di benzina, noodle istantanei e cani che abbaiano
fuori dai motel. Narrativamente, concretizza in un gesto preciso: il lettore non
si affeziona alla trama, si lega alla complicità tra i personaggi. E quando la
storia virerà nel tragico saremo turbati dagli eventi in sé, certo, ma ancora di
più dal fatto che sia finita per loro quattro.
Si potrebbe riassumere FFXV così: un road trip americano applicato a un JRPG
giapponese, dove il viaggio in macchina è metafora dell’ingresso nell’età
adulta. Si attraversano una serie di riti di passaggio tra cui il primo grande
lutto: la morte di Regis, re di Insomnia, avviene off-screen per Noctis. Il
figlio la scoprirà infatti in televisione, come un qualsiasi ragazzo che assiste
al crollo del proprio mondo al telegiornale.
Allo stesso modo l’Anello di Lucis, ottenuto attraverso il sacrificio di uno dei
personaggi principali – qualcuno che brucia attraverso la sua assenza – è un
potere che consuma chi non è degno. Non offre nulla di miracoloso: non
conferisce a Noctis gloria, bensì morte. E quando nel finale il protagonista
accetta di morire sul trono completa la curva. Smette di essere il ragazzo ai
margini diventando suo padre, il re che si sacrifica per il mondo.
L’universo di FFXV concretizza tutta una serie di topoi dei JRPG. Un miscuglio
barocco di riferimenti (Roma imperiale, cattolicesimo, modernità occidentale,
mitologia targata Square Enix) per un risultato che genera un’atmosfera precisa:
una leggenda sporca, dove dèi ostili ti costringono a pagare il conto di un
passato mai vissuto. Se si esamina il lore di FFXV con l’occhio di chi tiene
corsi di scrittura creativa è un disastro: nomi, testi, divinità e profezie che
si accavallano, spiegazioni arrivate troppo tardi o di sbieco. Quando si smette
però di chiedergli la coerenza del manuale, e lo si inizia a leggere per ciò che
è, ne otteniamo un ritratto cristallino.
I libri della Cosmogonia sono fondamentali per capirlo: scritture sacre interne
all’universo di gioco, hanno il tono dell’Antico Testamento. Non spiegano per
rassicurare, proclamano per farti sentire piccolo davanti a una storia che
esisteva prima di te – e che continuerà dopo di te. Gli dèi non sono mai dalla
parte giusta: sono divinità lontane, indifferenti, quando non apertamente
ostili. Non ti aiutano perché sei il protagonista: ti mettono alla prova, ti
schiacciano, ti utilizzano come strumento. Nella Cosmogonia sono descritti come
esseri il cui pensiero trascende la comprensione umana: non cercano empatia, non
spiegano le loro scelte, non offrono misericordia. Siamo noi a dover dimostrare
qualcosa.
Noctis è una figura chiaramente cristologica, e priva di consolazione. Simbolo
della luce che si immola per scacciare l’oscurità e pagare il debito
dell’espiazione. L’iconografia è esplicita: il sacrificio del Re-Cristo, il
trono come Calvario, i Re del passato che lo trafiggono come una comunione
violenta di Santi. La tradizione non accoglie, uccide. E solo così riconosce. La
mitologia di FFXV promette solo che qualcuno dovrà farsi carico del male: ciò
che è divino non è buono, l’ordine cosmico non è giusto e il sacrificio non è
glorioso – è necessario.
Il ruolo del villain, Ardyn, mostra l’essenza della narrazione. Il villain
rappresenta una domanda in grado di farsi sentire anche dopo aver superato le
cento ore di gioco. Perché Ardyn, all’inizio, era il prescelto. Non un
usurpatore, né un mostro sfortunato: assorbiva il male del mondo su di sé per
purificarlo, caricandosi letteralmente addosso la sofferenza altrui. Eppure il
suo gesto non viene riconosciuto. Gli dèi e la dinastia dei re lo trasformano in
una discarica cosmica, sfruttandolo finché fa comodo, per poi cancellarlo dalla
storia.
Da qui nasce tutto. Ardyn non è immortale nel senso romantico del termine. La
sua è un’immortalità marcia, corrotta, tenuta in vita esclusivamente per
continuare a soffrire. E il rapporto con gli dèi si mostra emblematico: semplice
relazione di uso e scarto.
Ardyn è indirizzato, costretto e lasciato marcire. L’odio del villain non viene
davvero rivolto a Noctis, il bersaglio è il sistema: la monarchia sacralizzata,
la profezia, l’ordine divino che decide chi deve sacrificarsi e chi no. Ardyn
non contesta il sacrificio in astratto: contesta chi lo impone e con quale
diritto. La volontà implicita è devastante: perché io devo diventare un mostro
per assorbire il male del mondo, mentre voi restate puri, intatti, venerati?
Il villain di FFXV non vuole governare, non vuole vincere: non vuole sostituirsi
a Noctis. Il suo obiettivo è quello di far crollare l’impalcatura morale che
rende quel sacrificio accettabile. Per questo è vicino ai grandi personaggi
della tragedia: la persona giusta nel posto sbagliato, spezzata dal sistema, che
ora vuole trascinare tutto con sé. La sua presenza rende il finale di Final
Fantasy XV molto più amaro. Perché sì, il sacrificio di Noctis è necessario. Ma
Ardyn costringe il lettore a vedere che lo diventa a causa di un ordine cosmico
profondamente ingiusto. Non c’è armonia, né provvidenza, né equilibrio. Soltanto
qualcuno che paga il conto, ogni volta, al posto degli altri. FFXV fa una cosa
rara. Non ti consola. Ti lascia con l’idea che il mondo possa essere salvato
solo attraverso un sacrificio imposto da dèi – che non sono buoni – e da una
storia che non è mai pulita. Ardyn non è l’errore del sistema. Ardyn è la prova
che il sistema è sempre stato marcio.
La struttura stessa di FFXV è una di quelle cose che, sulla carta, sembrano un
errore. La prima metà aperta, dispersiva, svagata; la seconda parte che si fa
chiusa, lineare, soffocante. Un gioco che per ore ti lascia libero di perdere
tempo e poi, senza chiedere il permesso, ti toglie tutto. Eppure questa scelta
così sbilenca è una delle ragioni per cui la narrazione funziona. I grandi
eventi che avvengono fuori scena, il colpo di stato, la guerra, le decisioni
politiche, non vengono vissuti perché Noctis non li attraversa. Lo scopo della
narrazione non è quello di essere onnisciente: non ti informa, non si pone al
tuo servizio mettendoti al centro del mondo. Ti costringe ad abitare uno sguardo
limitato: quello di un ragazzo che all’inizio pensa solo a viaggiare, rimandando
tutto il resto. Nella prima metà si fa esattamente questo. Ci si perde in cacce
inutili, momenti fotografici, dungeon opzionali, battute di pesca, deviazioni
prive di senso. Insomnia e la guerra restano un rumore lontano, qualcosa che sai
esistere ma non ti riguarda davvero. Lunafreya, Ravus, la politica: conosci le
loro gesta per interposta persona, come notizie lette di sfuggita. Rappresenta
la fase della vita in cui il mondo va avanti e si è convinti di avere ancora del
tempo.
Poi, dal capitolo del treno in avanti, tutto cambia. La mappa si chiude, il
gioco smette di lasciarti respirare trasformandosi in un corridoio narrativo,
cupo, insistente. I toni si scuriscono: Niflheim, Gralea, Tenebrae in rovina.
Lo Starscourge avanza e il mondo diventa letteralmente buio. E il colpo finale
arriva con il salto temporale di dieci anni: torni a Eos e non la riconosci. Gli
amici sono invecchiati, segnati, stanchi. I luoghi che prima erano tappe del
viaggio ora sono infestati da demoni. Ciò che sembrava un ritorno è in realtà un
epilogo.
La struttura funziona perché è metanarrativa – facendoti sentire il rimpianto
del tempo buttato. Hai perso settimane cavalcando Chocoboco mentre il mondo
andava in rovina e ora ti si presenta il conto.E soprattutto rafforza il finale:
lo avverti, tutto è già successo, non resta che accompagnare la storia alla sua
ultima esalazione. Qui il respiro è millimetrico. L’ultima notte accampati
insieme. L’ultimo falò. Un momento in cui puoi parlare con Gladio, Ignis e
Prompto ma il messaggio è univoco: ti abbiamo portato fin qui, adesso sei
solo. E qualche ora dopo, la scelta dell’ultima fotografia prima di affrontare
Ardyn è il gesto narrativo più potente della narrazione. Una sola immagine da
portare con sé prima di morire. Nessuna spiegazione, nessuna enfasi. Soltanto
una meccanica, narrativa pura: ti costringe a ripercorrere tutta la tua
esperienza e decidere cosa rappresenta la tua vita.
Infine, sul trono, i Re del passato trafiggono Noctis e lui li invita a colpire
con maggiore forza. È la rappresentazione più brutale dell’eredità: per entrare
nella tradizione occorre lasciare che ti uccida. L’epilogo, con Noctis e
Lunafreya in uno spazio sospeso, gioca apertamente la carta del sentimentalismo.
Ma a quel punto hai addosso almeno cento ore di strada, di notti in tenda, di
silenzi in macchina. E colpisce. Forte.
FFXV fa ciò che chiediamo alla letteratura quando smette di essere un compitino.
Perché ti fa vivere la parte noiosa della vita, perché ti lega a quattro
persone, perché racconta la crescita come perdita: perderai il padre, perderai
la fidanzata, perderai la normalità e infine perderai te stesso. È un ibrido
instabile: road trip americano, purezza da anime, mitologia pseudo-cristiana,
estetica occidentale filtrata dallo sguardo giapponese. Non sempre coerente.
Emotivamente devastante.
Perché quando tutto finisce si pensa solo a una cosa. Molto semplice, molto
vera.
Vorresti ancora una giornata in macchina insieme a loro.
Il punto è imbarazzante nella sua semplicità: in un videogioco come Final
Fantasy XV puoi restarci dentro per più di cento ore senza annoiarti. Nessun
riempitivo, nessuna cortesia: strada, ritorni, scontri e routine che si
accumulano e producono senso. Questo mondo non ha fretta di lasciarti andare,
non ti accompagna educatamente verso l’uscita, non ti tratta come un consumatore
da rispettare. Anzi, devi restare.
La narrativa italiana contemporanea risulta sempre più spesso costruita come
opuscoletto a servizio del lettore: libri che chiudi nel tempo di fare Fano
Torrette-Forlimpopoli con il regionale. Scendi dal treno con addosso la
sensazione di aver letto qualcosa di scritto bene senza che nulla ti sia rimasto
addosso. I protagonisti si chiamano tutti Giampirla, fingono di soffrire e gli
riesce nel modo giusto: riconoscibile, contenuto, presentabile. La fruizione è
misurata, innocua, a prova di barbagianni. È una narrativa che raramente
richiede tempo, dedizione o rischio. Ti accompagna all’uscita, con un Grazie per
avere viaggiato con noi su questo treno e nessuna pretesa di essere
ricordata. Quando esci da mondi vasti come quello di FFXV e apri un romanzo
italiano contemporaneo la sproporzione è umiliante.
C’è poi una ragione materiale, che di solito si finge non esista: un autore
italiano pubblicato da una grande casa editrice riceve, nella maggior parte dei
casi, un anticipo fra i 1.500 e i 3.000 euro. Stipendio simbolico per un lavoro
che dovrebbe richiedere mesi, se non anni, di concentrazione totale. Per dare un
ordine di grandezza: un animatore junior in uno studio giapponese o americano
guadagna la stessa cifra in un paio di settimane.
Lo scrittore, invece, dovrebbe costruire un universo, inventare una voce,
reggere una struttura, lavorare sulla lingua, sul ritmo, sull’architettura
narrativa: scrivere diventa inevitabilmente un’attività da ritagli, notti
rubate, fine settimana deserti. È un miracolo che qualcuno ci riesca. Ed è in
questo vuoto che prosperano le operette a servizio del lettore. Fino a pochi
anni fa relegate agli Autogrill, oggi catene fondanti di molte collane di
narrativa: traumi minimi, famiglie raccontate sottovoce, autofiction così
controllate da perdere ogni ragion d’essere. Una letteratura fatta di banalità
che registra il vissuto senza filtrarlo, come se raccontare fosse diventato un
atto di buona educazione – qua e là camuffato da titoli sciocchi come La vita
sessuale di Guglielmo Sputacchiera. Narrativa che ha smesso di costruire mondi
per accontentarsi di descrivere stanze.
A questo punto la questione smette di essere teorica e diventa personale,
materiale, misurabile. Io vivo di scrittura. Vengo pagato – e pure bene – per
creare strategie SEO e scrivere articoli su pomodori, lucidalabbra, insetticidi,
piastrelle, vacanze a Riccione. Qualsiasi cosa le persone cerchino su Google.
Lavori apparentemente insignificanti, privi di aura, senza alcuna ambizione
simbolica. Li scrivo con metodo e responsabilità: producono valore e risultati,
ottengo stipendi regolari. Insegno alla Scuola Holden, vengo contattato dalle
agenzie di comunicazione, nel 2025 ho formato più di duecento persone su come si
scrive davvero oggi: come si struttura un testo, come si governa l’attenzione,
come si produce senso in un algoritmo che non regala nulla. Scrivo, tutti i
giorni. Solo che lo faccio dove ha ancora senso farlo.
L’alternativa sarebbe investire una manciata di mesi in un romanzo italiano
contemporaneo: sottopagato, destinato a una circolazione gentile quanto breve.
Un libro che deve stare sotto una certa soglia di rischio, che non può essere
troppo lungo, troppo strano, troppo ambizioso. Un libro che nasce già pensando a
dove verrà presentato, premiato, difeso. Un oggetto di consumo da chiudere in
poche ore e non pretende nulla.
Scrivere narrativa oggi è un gesto di adattamento: si scrive per stare dentro un
perimetro, mai per infrangerlo. Si limano le asperità, si riduce il mondo, si
abbassa il volume dell’immaginazione. Il risultato sono romanzi corretti, molto
spesso ben scritti, a volte sinceri, necessari a un’editoria fondata
sull’inflazione. Opere che descrivono stanze perché non hanno i mezzi per
costruire mondi. E allora la scelta diventa brutale e limpida. Da una parte
posso passare cento ore dentro Final Fantasy XV, attraversando un luogo che non
ha fretta di lasciarmi andare, che richiede tempo, attenzione, labirinti che mi
fanno perdere, tornare indietro, cercare il punto di noleggio dei Chocoboco,
sbagliare. Un’opera che non mi tratta come un consumatore da compiacere, ma come
qualcuno che deve trovare da sé la via.
Dall’altra posso leggere – o scrivere – un romanzo pensato per non disturbare,
non eccedere, non pretendere troppo: un prodotto che finisce in fretta, si
commenta educatamente su Instagram e viene sostituito dalla successiva notifica
di Tik Tok.
Tra le due cose, oggi, non c’è davvero gara.
Quando un videogioco da 18,99 euro riesce a offrire più tempo, spazio, memoria e
più perdita d’orientamento di gran parte della narrativa contemporanea, il
problema non è il medium. È l’ecosistema che ha disintegrato l’ambizione. È un
sistema editoriale che paga poco, isola gli autori, premia chi è moderato e
scambia la rinuncia per profondità. Scrivere oggi, in Italia, non è difficile
perché mancano le storie. È difficile perché manca la possibilità di prenderle
sul serio.
E finché sarà così, finché la letteratura continuerà a ridursi a oggetto di
consumo tranquillo, finché verrà chiesto agli autori di essere visionari senza
fornire loro spazio, tempo e denaro il lettore continuerà a cercare altrove – in
un gioco, in una serie, in un mondo digitale – quella sensazione di vastità che
i libri hanno smesso di promettere.
Quando rinunci ai mondi non perdi solo lettori. Perdi ambizione. Tempo. Senso.
Nicolò Locatelli
*In copertina e nel testo: immagini tratte da Final Fantasy XV
L'articolo Ai romanzi italiani preferisco Final Fantasy XV. Sulla narrativa che
ha smesso di costruire mondi proviene da Pangea.
A partire dal 13 ottobre 2022, la Biblioteca Bernardini, a Lecce, accoglie nei
suoi spazi il Living Archive Floating Islands (Archivio Vivente Isole
Galleggianti) dimora per la vita e l’opera di Eugenio Barba, gli avventurosi
sessant’anni dell’Odin Teatret come teatro laboratorio e la memoria delle
diverse realtà delle Isole Galleggianti, nome che Barba ha donato al Terzo
Teatro, alla molteplicità culturale dei gruppi teatrali che hanno segnato la
storia del teatro della seconda metà del Novecento sino ai giorni nostri.
Un archivio mostra-installazione interattiva da attraversare e conoscere in una
dimensione reale immersa nella fantasia ludica. “La durata è la forma di
resistenza di un teatro”, afferma Eugenio Barba riprendendo le parole di Jacques
Copeau; ne consegue che questa proiezione della memoria viene concepita per
“rimettere in scena” i limiti del passato verso il presente e il futuro.
Inoltre, l’Archivio Vivente delle Isole Galleggianti è alimentato dal
partenariato con la Fondazione Barba-Varley, fondato sull’atto di donazione con
il quale Eugenio Barba ha ceduto al Polo Biblio Museale della Regione Puglia i
fondi bibliografici e documentari relativi alla sua esperienza artistica e a
quelli dell’Odin Teatret. L’accordo, inoltre, prevede una collaborazione
scientifica di ricerca e di supporto alla didattica per la valorizzazione
dell’Archivio, allestito dall’architetto Luca Ruzza con Daniela Dispoto e Laura
Colombo, in uno spazio interattivo animato da campi di papaveri rossi disegnati
dalla Open Lab Company con Francesca Carallo e l’antica tecnica della
cartapesta, dalle mappature digitali di Natan A. Ruzza e dalle partiture video
di Zeno M. Ruzza. Un comitato scientifico individuato dallo stesso Barba, si
occupa della gestione culturale dell’archivio.
Inoltre la sezione della biblioteca dedicata al teatro e allo spettacolo – che
custodisce anche il fondo Silvio D’Amico e Carmelo Bene – è impegnata da anni
con l’obiettivo di ampliare le sue collezioni per valorizzare la presenza dei
grandi protagonisti italiani della storia teatrale.
Ne abbiamo parlato con Luigi De Luca direttore del Museo Castromediano di Lecce
e coordinatore dei Poli Bibliomuseali Regione Puglia.
Eugenio Barba
Come si struttura l’idea di questo particolare percorso espositivo
intitolato Archivio Vivente Isole Galleggianti ?
Abbiamo condiviso con Eugenio Barba la decisione di assegnare la definizione
di Archivio Vivente Isole Galleggianti allo spazio che ospita i materiali della
sua biografia artistica, dell’Odin Teatret e del Terzo Teatro. Siamo entrambi
consapevoli che questa definizione non connota un’istituzione, ma una pratica:
quella di lavorare sulla memoria individuale e collettiva per indurre visioni
del mondo fuori dalla “dittatura del presente”.
Inizia il nostro percorso immersivo…
Eugenio Barba ha cercato di riproporre in questi spazi espositivi
l’organizzazione delle sale prova presenti ad Holtebro (Danimarca): la sala
bianca, la sala nera, la sala rossa. La nostra visita incomincia dalla sala
bianca, sintesi dei suoi viaggi; difatti siamo accolti da una grande maschera
Barong proveniente da Bali, a raccontarne il suo rapporto fecondo accresciuto
tra l’oriente ed il sud del mondo. Qui troviamo anche una buona parte dei suoi
libri, fondamentali per la sua produzione artistica, collocati volutamente dalle
mani di Barba in ordine “casuale”.
La contaminazione tra oggetti e libri ne è l’essenza: la collezione di maschere,
souvenir, sassi, piccole sculture, moltissimi nastri, tessuti, raccolti nei più
disparati angoli del mondo, evocano e rappresentano l’universo immaginario e
simbolico dell’Odin Teatret, a circa sessant’anni dalla sua nascita. Al centro
il “tavolo degli avi”, che simbolicamente imbandito, ricostruisce il rapporto
con i suoi antenati provenienti da Gallipoli (anche se Barba nasce a Brindisi).
Prossimamente, in allestimento, una sorta di altare barocco al termine del
grande spazio dedicato.
La sala nera…
Presenti i manifesti dei suoi spettacoli, oggetti di scena provenienti
interamente da Holstebro, le citazioni letterarie che ne hanno arricchito la sua
poetica… Kaspariana, ad esempio, primo spettacolo che l’Odin composto in
Danimarca, nella nuova sede di Holstebro nei primi mesi dopo il trasferimento
dalla Norvegia, era uno spettacolo per soli sessanta spettatori, come
il Principe Costante di Grotowski. In una sala nera arredata con sei
piattaforme, ed una cassa pure nera, si svolgeva la vita di Kaspar Hauser,
argomento molto attuale purtroppo per le pregnanti tematiche di guerra…
Eugenio Barba si è avvalso di altri collaboratori per l’ideazione dello spazio
espositivo?
Si. L’architetto Luca Ruzza, che raggiunse l’Odin da giovanissimo in Danimarca,
grazie ad una borsa di studio, e che successivamente ha collaborato moltissimo
insieme ad Eugenio Barba.
Il progetto dell’allestimento complessivo di tutti gli spazi dedicati è una
sintesi di entrambi.
La disposizione poetica dei singoli oggetti è, invece, interamente curata da
Barba.
La sala rossa…
Il particolare contributo di Luca Ruzza, lo si vede nella sala rossa, che
contiene una sorta di archivio in movimento; l’archivio dei gruppi di terzo
teatro che sono nati, quasi per gemmazione, dall’esperienza dell’Odin Teatret. I
papaveri progettati da Luca Ruzza e realizzati dalla OpenLab Company con
Francesca Carallo, artigiana della cartapesta, richiamano ogni singolo gruppo di
terzo teatro, la cui storia è raccontata attraverso una proiezione visiva e
sonora sulla parete bianca. Il nome Isole Galleggianti, che deriva da un libro
di Barba, non è altro che il grande arcipelago costituito da tutti i gruppi
prima citati. L’obiettivo è documentarne la presenza e la vita, anche dell’Ista
(International School of Theatre Antropology) fondata da Barba.
Il pavimento galleggiante…
Nel nostro percorso realmente immaginifico tornano i libri, richiamo quasi
ossessivo alla produzione letteraria molto intensa di Eugenio Barba. Collocati,
questa volta, in una sorta di pavimento galleggiante che sommerge Gandhi
sorridente, in una vasca da bagno.
I camerini studio…
Accediamo alla parte più stupefacente dell’archivio, saliamo una rampa di scale
e ci accolgono due camerini studio entrambi in legno bianco, due piccole
mansarde smontate da Holstebro e rimontate con cura quasi maniacale dopo essere
state fotografate: il primo di Eugenio, realizzato da uno dei suoi scenografi.
Gli oggetti appartengono tutti a Barba, utilizzati nei suoi spettacoli, i suoi
libri, i souvenir e le fotografie provenienti da tutto il mondo. Il secondo è di
Julia Varley, attrice dal ruolo storico per l’Odin Teatret, che dal 1983
partecipa all’ideazione ed organizzazione del Magdalen Project, una rete per
l’affermazione delle donne di teatro contemporaneo. Nel suo camerino, identico
per struttura a quello di Barba, un piccolo armadio con scarpe e vestiti di
scena, borse, oggetti.
La necessità della memoria ci rende responsabili di una tradizione per le
generazioni a venire. “Il futuro è sempre costruito a partire dai frammenti del
passato”. Così recita una celebre frase dello storico dell’arte Erwin Panofsky.
Siamo onorati e felici di proteggere la memoria dell’Odin Teatret, tra le
esperienze più rivoluzionarie del teatro contemporaneo, fondata sul “baratto”
nata in Salento nel 1974.
Maria Giovanna Barletta
L'articolo Gita nel “Living Archive” di Eugenio Barba (o del genio dell’Odin
Teatret) proviene da Pangea.
In uno dei momenti più belli del libro, di primordiale bellezza, “Antonio
dell’isola delle Ghiandaie” fissa le stelle. Non riesce a dormire, eppure “su
tutta l’ampiezza del cielo e della terra regnavano una pace e una mitezza che
annunciavano il giorno”. Gli si fa al fianco un mandriano. Insieme, danno i nomi
alle costellazioni.
> “Quelle, disse Antonio, io le chiamerò ‘la ferita della donna’. Le chiamerò
> così perché fanno come un buco nella notte”.
Il mandriano offre ad Antonio il suo mantello; è freddo “per te che resti fermo
a guardare la notte”. Antonio continua a enumerare le stelle, a inventare i
nomi. Un grumo di luci, a est,
> “Le chiamerò ‘gli occhi’. Perché credo che siano come lo sguardo di colei che
> sta dormento e non ha ancora aperto le palpebre”.
È una scena straordinaria, potremmo trovarla nella Teogonia di Esiodo o
nell’Esodo, nei primi libri dell’uomo, epopee di stelle e di grandi cacce, di
duelli e di imperi d’erba, di genti selvagge e di domestiche bestie, di briglie
e di imbrogli. D’altronde, il compito di uno scrittore non è altro: assemblare i
nomi, assegnare miti alle stelle. Un libro è come una stele. Così, il cosmo
informe dà forma a una cronaca e dal caos si caglia armonia.
Jean Giono pubblica Le chant du monde nel 1934, per Gallimard. Diceva di aver
tratto quel titolo – che è poi un incanto, un incantesimo – da Walt Whitman;
amava Melville, di cui avrebbe tradotto Moby Dick; più che altro, l’incarnato
del romanzo, il più potente di Giono (ora, nella sgargiante traduzione di
Leopoldo Carra, per Settecolori come Il canto del mondo), è omerico. Ambientato
in un senza tempo da inizio e termine del mondo, tra età dell’oro e
apocalisse, Il canto del mondo parla di razzie e di vagabondaggi, di fuochi e di
fiumi, di patti d’amicizia e di atroci vendette, di terra e cielo, di amore e
morte.
La scrittura di Giono è armata di uno splendore petroglifico, si sente, in
sottofondo, un ritmo di tamburi (ascoltate: “All’alba le bestie vennero avanti.
Antonio vide uscire dalle ombre a occidente i tori con le corna a lira.
Spuntavano dai pascoli all’imbocco della valle, e subito il sole nascente si
posava sulle loro fronti”), una limpidezza nuova, che non ha lignaggio né trama
d’eredi. Mescolando Stendhal all’epopea di Gilgamesh, Jean Giono ha portato il
romanzo, creatura di città, nei boschi, a far leggenda tra gli acquitrini. In
questo libro – mai così sconfinato – appaiono le “uldre” e il “grongo”, “un
pesce che assomiglia al serpente”; c’è il sesso e l’assassinio; c’è un sentore
di sangue che rintrona la mente, che non dà pace.
Non bello ma volitivo, occhi grandi, di creatura d’acqua dolce, Jean Giono nel
’34 andava per i quaranta. Figlio di umile gente – il padre era un ciabattino,
anarchico, originario del Piemonte – era nato nel 1895 a Manosque, in Alta
Provenza, e fece di quel borgo – fondato dai Celti, abitato dai Romani,
saccheggiato dai Saraceni – il proprio eden, la scaturigine dei propri australi
romanzi. Avrebbe dovuto impiegarsi in banca, leggeva, nel tempo libero, Tacito,
Seneca, Virgilio, Eschilo; il successo del primo libro, Colline (edito da
Grasset nel 1929), gli permise di alienarsi dal mondo, di mollare la banca, di
allearsi alla scrittura. Mobilitato durante la Prima guerra, ne uscì sconvolto:
sperimentò l’imperio della macchina, il massacro privo di cavalierato, la
canaglieria degli Stati. Fu sui campi più duri – si fece Verdun, la Somme, lo
Chamin des Dames – assistendo alla morte degli amici. Sulla rivista “Europe”,
proprio nell’anno in cui pubblica Il canto del mondo, Giono scrive Refus
d’obéissance, uno degli inni più potenti contro il militarismo. Scrive “di non
aver ammazzato nessuno” durante la Prima guerra, di aver “partecipato agli
attacchi senza fucile o con un fucile inutilizzabile”. “Non ho avuto il coraggio
di disertare”, scrive. Poi l’onda d’urto di quello straziante j’accuse monta:
> “Ho annusato l’odore dei morti. Ho mostrato corpi in frantumi. Ho riempito le
> stanze di fantasmi lordi di fango, con le orbite succhiate dagli uccelli. I
> feriti gemevano sulle mie ginocchia. Quando ho detto ‘mai più’ tutti, in coro,
> hanno ripetuto ‘no, no, mai più’. Ma il giorno dopo riprendevano posto nel
> reggimento civile borghese. Ricominciavano a creare il capitale per il
> capitalista. Erano meri strumenti della società capitalista”.
Giono attacca l’ipocrisia del “regime borghese”, il sistema coercitivo del
lavoro cittadino, “ideato per assopirci, per instillare in noi uno spirito di
schiavitù”.
Agli albori della Seconda guerra, l’ardore pacifista di Giono fu preso per
tradimento: lo scrittore fu arrestato nel settembre del ’39; rilasciato, si
ritirò nella sua fattoria. Durante Vichy diede rifugio a transfughi ebrei e a
comunisti; le riviste di regime – il periodico nazista “Signal”, ad esempio –
parlarono con curiosità del suo “neoprimitivismo”. I resistenti non gli
perdonarono di aver pubblicato un paio di racconti su “La Gerbe”, il giornale
collaborazionista: prima cercarono di ucciderlo – piazzando una bomba, nel
gennaio del ’43, davanti a casa sua – poi lo arrestarono – dal settembre del ’44
al gennaio dell’anno dopo – infine lo processarono; il “Comité national des
écrivains”, con sarcastica pignoleria, gli impedì di pubblicare per un paio di
anni.
Poligrafo dallo stile vertiginoso, Giono scrisse L’ussaro sul tetto e L’uomo che
piantava gli alberi, i libri per cui è più noto, nei primi anni Cinquanta. Nel
1965 Marcel Camus trasse una versione cinematografica da Le chant du monde –
passata in Italia con il titolo, assurdamente hard, Ossessione nuda – con
Catherine Deneuve nel ruolo di Clara, la donna dai “grandi occhi di gesso e di
menta”, la tanto amata. Giono morì cinque anni dopo, nella sua dimora, a
Manosque, in pieno estro verbale (L’Iris de Suse era uscito da poco).
Per capire l’importanza di Jean Giono basta sfogliare il catalogo della
‘Pléiade’: otto tomi, di cui sei dedicati alle Œuvres romanesques complète. A
differenza degli “esistenzialisti”, Giono – il cui talento è d’altro conio, più
puro, di quello di Albert Camus – ha cantato la brutalità della gioia, le glorie
della carne. Amato da Henry Miller – che lo insediò tra i pochi, grandi
scrittori della sua vita – è l’esatto opposto di Céline – che lo sopportava a
tratti. Se uno è il cantore della notte e dell’oscurità, l’altro lo è della
luce. Jean Giono è lo scrittore dell’estate perpetua, dell’avventura totale,
dell’elemento primo, di preistorica eloquenza.
Non ammette lettori vili.
L'articolo Non ammette lettori vili. Vasto elogio di Jean Giono proviene da
Pangea.