Source - Pangea

Rivista avventuriera di cultura&idee

“Il segreto”: contro l’esibizionismo dei sentimenti, un inquieto elogio della timidezza
Nel 1961 veniva pubblicato per interessamento di Linuccia Saba, figlia del grande poeta Umberto, il romanzo Il segreto a firma di Anonimo Triestino. All’epoca fu un piccolo caso letterario anche per l’alone di mistero che lo circondava: dal nome dell’autore, al titolo, alla singolarità psicologica del protagonista. Con il passare degli anni il velo di mistero si dissolse, anche se solo in parte. In un primo tempo la paternità del romanzo venne attribuita a Guido Voghera (1884-1959), un professore di matematica triestino, che si sarebbe ispirato alle complesse vicende psicologiche del figlio Giorgio (1908-1999), il quale poi nel corso degli anni è stato riconosciuto come il vero autore, anche se lui, pur ammettendo di essere il protagonista, ha continuato a negare fino alla fine dei suoi giorni con una cerimoniosa ritrosia che la dice lunga sulla sua psicologia.  A tutt’oggi c’è ancora chi pensa a un libro scritto a quattro mani da padre e figlio.  Al di là della querelle autoriale, quello che non si è mai dissolto è il fascino del romanzo: una lunga struggente storia d’amore senza speranza. Il libro non è altro che il racconto prima di un bambino, poi di un ragazzo e infine di un uomo e della sua passione per Bianca, un amore mai dichiarato a causa di una timidezza che diventa una nevrosi inibitoria. Nella parte iniziale del libro è possibile rintracciare una possibile chiave di lettura quando Mino, il protagonista, che ancora non ha incontrato Bianca, alle prese con sue prime fantasie amorose fa una riflessione: > “Il concetto che l’amore dovesse venir nascosto prese, col fantasticarci a > lungo sopra, profonde radici nel mio animo, più profonde ancora di quanto io > stesso non me ne rendessi conto. E da ciò fu determinato, forse in parte non > piccola, il mio avvenire”. Lo stesso concetto lo ritroviamo nel momento in cui Mino realizza per la prima volta di essere innamorato di Bianca e al contempo che il loro amore è destinato a rimanere una sua fantasia. Una sera i loro sguardi si incrociano per pochi istanti lungo il Corso e tanto basta. I giochi sono fatti. Una passione appena sbocciata e già inibita. La nascita e la fine di un amore intrecciate in modo inestricabile.  > “Ecco, fra i molti visi che il mio sguardo sfiora e sorpassa, un viso che mi > fa un’impressione del tutto diversa dagli altri: è un viso di bambina, > delicato e serio, dolcemente pensieroso… Era proprio il destino che mi > indicava che l’avrei dovuta amare; era l’espressione del suo volto che, solo > fra mille, aveva parlato al mio cuore. Quella sera tornai a casa con la testa > piena di sogni, e con la coscienza che la barriera che c’era fra noi era > diventata ancora più alta, molto più alta”.  A mano a mano che si procede nella lettura del romanzo si viene presi da una duplice sensazione. Da una parte si vorrebbe che Mino si liberasse delle sue inibizioni e riuscisse a parlare con Bianca; dall’altra ci si rende conto di essere di fronte a un amore perfetto così com’è, non macchiato dalla banalità del quotidiano che finirebbe per incrinarne la purezza. Il protagonista non nasconde i limiti di Bianca, bella ma non bellissima, non particolarmente intelligente o colta, un po’ superficiale e capricciosa, ma il sentimento che prova per lei vola più alto e non viene scalfito dalla realtà e dalle sue miserie.  Uno scontro tra amore e desiderio nel quale il primo è troppo più forte e finisce per soffocare il secondo senza pietà. Potremmo dire che quella di Mino è una rinuncia all’amore per un eccesso di amore. E così la sua attrazione per Bianca resta per sempre confinata negli sconfinati meandri della fantasia nel cui filo Mino finisce per avvolgersi sempre di più finendo per chiudersi dentro di sé come in un bozzolo protettivo. Nel corso del romanzo Mino segue, ma forse è più giusto dire che osserva come un entomologo la vita di Bianca, prima da vicino come compagni di classe, poi da lontano quando lei lascia da scuola per fare la signorina di buona famiglia e lui si trasferisce a Roma per frequentare l’università. Quando Bianca si fidanza con un altro uomo Mino soffre per la gelosia ma ancora di più per i difetti e le debolezze che crede di cogliere nella sua amata quando qualche volta la incontra nelle strade di Trieste sotto braccio al fidanzato e continua a fantasticare di averla tutta per sé: > “Da quell’immagine, da quel pensiero, nasceva in me un desiderio, tormentoso > nella sua vanità, di proteggerla dalla volgarità del mondo, da tutto ciò che > poteva offenderla, turbarla o inquietarla; di tenermela vicina, di > accarezzarla come una bimba, di circondarla di tanto amore umile e puro, di > tanta infinita adorazione”. Di fatto Il segreto è un inno alla rinuncia. Mino è stretto parente dello scrivano Bartleby di Melville e dell’Emilio Brentani, che Svevo ha messo al centro di Senilità e sarebbe certamente piaciuto a Robert Walser, lo scrittore svizzero che per tutta la sua esistenza non ha fatto altro che praticare la rinuncia alla vita.  Coprotagonisti del libro sono la timidezza e il pudore che nelle pagine de Il segreto vengono mostrati senza reticenze in tutta la loro meravigliosa e al tempo stesso inquietante grandezza. Se il libro sessanta anni fa al momento della sua pubblicazione poteva anche essere definito un pugno nello stomaco, non oso pensare a come possa essere accolto in un tempo come quello di oggi in cui sentimenti come timidezza e pudore sono banditi e messi al pubblico ludibrio e nel quale, come giustamente ha osservato Claudio Magris: “Tutto deve essere detto, tutti devono sapere, non c’è nulla che vada trattato con discrezione”. Sempre a questo proposito, Milan Kundera ha detto parole scolpite nella pietra:  > “La fine dell’intimità è la catastrofe del mondo contemporaneo”. Nel libro non ci sono avvenimenti esterni significativi, tutto il romanzo è un monologo del protagonista e anche Trieste, la città in cui è ambientata la storia, resta sullo sfondo. Al centro della scena c’è solo e soltanto il continuo ininterrotto rimuginare di Mino. Una volta arrivati alla fine del romanzo, l’immagine che si spalanca davanti agli occhi del lettore è quella di uno straordinario panorama interiore, lo spaccato di un’anima tormentata. Silvano Calzini *In copertina: Vanni Rossi, Autoritratto, 1922 L'articolo “Il segreto”: contro l’esibizionismo dei sentimenti, un inquieto elogio della timidezza proviene da Pangea.
April 17, 2025 / Pangea
Contro i coccodrilli. Ovvero: ecco perché Mario Vargas Llosa è ancora vivo
Mi sono ripromesso che non leggerò nulla di scritto su Vargas Llosa giusto perché è morto, nessun articoletto salmodiante tenuto in caldo in attesa della salma apposita e sfornato per vendere qualche copia in più al mattino, come con Martin Amis, Paul Auster, e tutti gli altri eccetera all’indietro e in avanti. Non leggerò nessun aneddoto autobiografico pubblicato per dare l’impressione che loro, gli aneddotici, siano ancora vivi e lui, Vargas Llosa no, mentre anche così sarà vero il contrario, o meglio: l’opera letteraria di Vargas Llosa resterà più viva di chiunque pretenderà di essere nella condizione di poterla ricordare: è la letteratura che ci ricorda, che ci mette nella condizione di ricordarci semmai di noi stessi; quando avviene il viceversa non è letteratura, non lo è mai stata.  Non leggerò nulla su Vargas Llosa in morte di Vargas Llosa se prima non leggerò qualcos’altro di Vargas Llosa stesso. Di suo proprio di recente ho letto L’orgia perpetua ripubblicato di recente dalla Settecolori, l’avevo recuperato nel circuito dell’usato nella precedente edizione con la stessa traduzione, invece sono passati almeno un paio di decenni dal mio essere uscito frastornato dal romanzo che ha aveva separato la mia strada da lettore dalla sua di scrittore: La casa verde, che secondo me in italiano è stata tradotta non come merita, detto da chi non conosce affatto la lingua originale, ma se La casa verde è il capolavoro che è, e che non ho dubbio che sia, non può essere il romanzo che ho letto io nella resa di Enrico Cicogna – così come sono convinto che Meridiano di sangue di Cormac McCarthy non è quello che leggo nella resa di Raul Montanari. Un capolavoro tante volte lo è proprio per come lo resta nonostante le traduzioni che ce la mettono tutta perché non si noti quanto lo sia.   Meridiano di sangue me lo sogno tradotto dalla Balmelli che ha tradotto Suttree. Pure vero che La città e i cani, primo romanzo di Vargas Llosa, primo sia nel senso che è il primo scritto da lui sia che è il primo dei suoi che abbia letto, che mi conquistò totalmente e che sancì la mia ammirazione inconfutabile, io l’ho comunque letto nella traduzione del da me vituperato Enrico Cicogna. La casa verde è romanzo sorprendentemente e formalmente più ardito, però, de La città e i cani.  Così come le è stato chiesto di ritradurre Cent’anni di solitudine, di Marquez, a Ilde Carmignani non potrebbero chiedere una nuova traduzione di La casa verde? La traduzione precedente di Cent’anni di solitudine, tra l’altro, lo scopro adesso che ho controllato, era di Enrico Cicogna.  Speriamo che essere morto a Vargas Llosa valga almeno la consolazione di essere ri-tradotto perché possa risorgere come merita in italiano. In lingua originale, che è l’autentico piano dell’esistenza di uno scrittore che è riuscito a diventarlo, certo non occorre nulla del genere. Lì Vargas Llosa è diventato immediatamente immortale, cioè come tutti i grandi lo sarà finché qualcuno felice d’imparare a leggere-leggere a giro lo si troverà ancora.  Nella morte di uno scrittore io non ci trovo nulla di interessante, nulla di pertinente, tutto di necrofilo oltre che di ipocrita e opportunistico. Le prime pagine di giornale potevano aprirle, per esempio, con l’annunciata pubblicazione del prossimo romanzo di Thomas Pynchon: l’uscita di Shadow Ticket scagionerà il prossimo 7 ottobre dall’essere solo un infausto anniversario israelo-palestinese, oltre che mondiale, così come lo sono diventati il 24 febbraio in Ucraina, l’11 settembre negli Stati Uniti, il primo settembre in Polonia.  Giovandomi ripetendo: finché a scuotere le popolazioni informate non sarà l’annuncio di un nuovo romanzo di Aldo Busi o di Peter Handke o di J. M. Coetzee o di Helena Janeczek o di Herta Müller, per dire, ma il mero pettegolezzo della morte sempre da mettere in conto di Questo Scrittore o Quella Scrittrice, saranno più alte le probabilità di un nuovo 5 marzo 1933 in Germania che quelle di un nuovo 16 giugno 1904 a Dublino.        …Intanto aspetto mi arrivi via posta la copia ordinata della Lettera d’amore a Giacomo Leopardi, di Antonio Moresco: le rondini in copertina non importa non facciamo primavera, purché facciano letteratura. antonio coda L'articolo Contro i coccodrilli. Ovvero: ecco perché Mario Vargas Llosa è ancora vivo proviene da Pangea.
April 17, 2025 / Pangea
Il marchio del martirio e dell’amore. Riflessioni intorno a Danilo Kiš
Non sarebbe stato difficile scorgere a Parigi, nella livida luce del tramonto sul lungo Senna, il profilo imponente di Danilo Kiš. Dinoccolato, con una sigaretta tra le labbra appena dischiuse e una capigliatura da creatura mitologica, questo misterioso principe delle lettere amava girovagare per la città, sfiorando discretamente i banchetti dei bouquinistes, attratto dalle copertine e dai poster che occhieggiavano dagli scaffali. Con gli occhi azzurri e luminosi, il volto dalle linee irregolari e la voce di balcanica asprezza, Danilo Kiš si muoveva con l’incedere di un lare, quassi fosse una tenera e rassicurante divinità * La biografia pretende di racchiudere in pochi cenni l’arco di un’esistenza, più o meno lunga a seconda dei capricci delle Parche, disteso tra due banali date di calendario. Danilo Kiš nasce nel 1935 in una famiglia per metà ungherese e per metà montenegrina, ereditando dal padre la religione ebraica. Trascorre l’infanzia in Ungheria, dove si confronta presto con l’odio antisemita e inizia a maturare la sua precoce vocazione di scrittore. Poco prima della catastrofe, si rifugia con la madre e la sorella in Montenegro, riuscendo a sottrarsi ai rastrellamenti e a completare gli studi. Dopo la guerra, si laurea in letterature comparate all’Università di Belgrado. Il resto della vita lo trascorre tra Parigi e la capitale serba, insegnando come lettore di serbo-croato nelle università francesi. Traduce con grazia da tre lingue e scrive libri di ustionante bellezza. Assieme a Cortázar, appartiene a quella schiera di scrittori esuli a Parigi, sospinti dalle onde del destino, dai marosi della storia e dal richiamo delle Muse. Milan Kundera lo definì il più misterioso e il più grande della sua generazione. * Su pochi altri scrittori la storia ha calato i suoi artigli con altrettanta ferocia. Il giovane Kiš, in un triste e tragico battesimo, assiste come testimone impotente al massacro di Novi Sad, avvenuto nel 1942. Di suo padre e della maggior parte dei familiari si perderà ogni traccia: troveranno la morte ad Auschwitz e in altri campi nazisti. La letteratura di Kiš nasce sotto il segno della sofferenza e della crudeltà arbitraria: la scomparsa dei propri cari e un destino segnato dalla sventura si trasformano in un vero e proprio buco nero che travolge la biografia e orienta la scrittura. Il colloquio tra i vivi e i morti diventa la cifra peculiare di un equilibrio teso come una corda sull’abisso, sospeso tra memoria e oblio. Come dire: la letteratura veste le sembianze di Caronte, mettendoci in religioso ascolto di coloro che sono svaniti tra le nebbie della storia e ci attendono dall’altra parte del fiume.  Mi tornano in mente i favolosi ritratti del Fayyum, ritrovati quasi intatti tra le sabbie millenarie dell’Egitto: la scrittura di Kiš si posa come un amorevole sudario sui volti di chi è già salpato. Anche lui, come Mandel’štam, ha appreso la “scienza degli addii”. Il momento del congedo, però, non è mai netto, non avviene con il veloce e argenteo taglio di una lama: è piuttosto un lento dissolversi tra le fessure del tempo, il riconoscere infine che i partenti custodiscono con sé il mistero del passaggio, sigillandone il segreto come una rosa ben serrata tra le labbra. Tutta l’opera di Kiš, dagli acerbi tentativi poetici fino alla grande trilogia composta da Dolori precoci, Giardino, cenere e Clessidra, è attraversata dall’urgenza creativa di dar voce ai dimenticati della storia, a coloro che sono stati risucchiati dal gorgo delle atrocità novecentesche: come dar vita a una Genesi all’inverso, partendo dal termine ultimo, dall’isola di Patmos. In Enciclopedia dei morti, altra opera fulminante di Kiš, così come in Salmo 44, la scrittura nasce da un’esigenza quasi etica: ‘incarnare’ l’invisibile, quel muto e incolmabile spazio del distacco, e dargli un cuore, dei muscoli, una colonna vertebrale che abbia le sembianze della speranza. Solo attraverso la scrittura Kiš può congiungersi all’assenza siderale del padre, riascoltarne i frammenti di voce, riportarlo entro le cornici di un’esistenza che era pura vita in essere: come se, per miracolo, potesse farlo riemergere dalla periferia del tempo e del sogno. Colpisce, nella prosa di Kiš, un senso di devoto rispetto per l’atto creativo, oserei dire per ogni singola parola scelta. Nulla appare superfluo, tutto è assolutamente necessario, impossibile da esprimere altrimenti da come è: quasi l’osservanza amorosa di un rito millenario, da custodire e tramandare con la cura di un amanuense. * La scienza dell’etimologia rimescola le carte come un’astuta chiromante. Nelle lingue di derivazione germanica o slava, per formare la parola compassione, accanto al prefisso con- si sceglie invece un termine che significa sentimento. Così, in tedesco, ceco o polacco, provare compassione per qualcuno significa in realtà aderire intimamente a ogni emozione, sia essa gioia, angoscia, dolore o felicità. Tutta l’opera di Kiš è illuminata da questa particolare sfumatura di luce. Un misto di cristiana pietas, compassione e ritegno verso il mistero degli uomini guida la sua penna. Così anche in Salmo 44, dove le vicende di Maria – deportata ad Auschwitz e in procinto di evadere dal campo con il figlio appena nato e una compagna – prendono forma in una sorta di delirio onirico, attraverso continui slittamenti temporali tra passato e presente. Il ritratto del padre di Maria, seppur solo accennato, con la sua accorata e tragica consapevolezza della fine imminente, richiama inevitabilmente la biografia di Kiš e la figura di suo padre. Il presentimento della catastrofe, le continue vessazioni subite dagli ebrei, le esecuzioni sommarie e lo spettacolo tragico di una crudeltà efferata e gratuita non soffocano, ad ogni modo, la voglia di vivere della protagonista: anche nelle tenebre più fitte possono aprirsi spiragli di luce. Nel breve libro ricorre spesso un’immagine che mi sembra racchiudere in senso metaforico quanto appena detto: un fascio di luce, esile e tremolante, che si insinua nell’oscurità delle baracche attraverso piccole aperture. Quel bagliore le permette di vedere il figlio appena nato, di ripensare a Jakub, che forse li raggiungerà quando tutto questo sarà finito. Di esercitare, infine, il diritto sacrosanto alla speranza: il sentimento del futuro. Salmo 44 è attraversato da una tensione costante, che cresce via via avvicinandosi al culmine della vicenda: l’evasione dal campo, il cui esito incerto può significare tanto la morte quanto la vita: > “la sensazione di un momento che ha la densità dell’eternità e del sangue; il > momento decisivo in cui si intersecano il passato, il futuro e il presente”. Elemento simbolico, in questi attimi concitati, è il sangue: quello che Maria sente scorrere dopo il primo rapporto con Jakub, quello che macchia i cadaveri orrendamente uccisi e quello che segna l’inizio delle mestruazioni, proprio nell’istante che precede l’evasione dal campo: il sanguinamento delle ferite della storia si mescola a quello delle vicende individuali: > “perché sembra che nel flusso quotidiano degli eventi debbano intervenire le > morti e le nascite, affinché l’uomo rifletta su quel fiume di sangue da cui > emergiamo e in cui torniamo ad affondare, come un fiume sotterraneo che scorre > invisibile dentro di noi, e che riconosciamo solo quando sopraggiunge una > torbida piena o quando il fiume si secca e si prosciuga”. Adorno proclamò che, dopo Auschwitz, scrivere poesie sarebbe stato un atto di barbarie. In quello che viene definito il “crinale quasi fisico di un’epoca”, Maria si domanda se vi sia ancora spazio per una qualsiasi forma di trascendenza. Ecco allora riaffiorare il pensiero del padre: Dio come perfetta incarnazione della giustizia, dell’umanità, della bontà e della speranza. Alla vigilia dell’evasione, Maria vorrebbe a sua volta credere in un Dio,  > “fatto in parti uguali di speranza, di bontà, di compassione, di amore…Sì. E > di odio. E paura.” Il Dio di Maria si chiama Jan, il figlio nato nel campo, il legame con il futuro, con un orizzonte di vita aperto al vento di ogni possibilità. O forse il Dio di Maria si chiama Max, come il deus ex machina di cui si parla più volte ma che non incontriamo mai nel libro, e che Maria si appresta a conoscere solo anni dopo la guerra, mentre visita con Jakub e Jan il campo di Auschwitz. > “Sulla fronte di Jan voleva imprimere il marchio del martirio e dell’amore, > quello che lei e Jakub si erano guadagnati con le loro sofferenze. E la > ricompensa doveva andare a Jan. Ed era orgogliosa della sua missione: > trasmettere a Jan la gioia di coloro che erano riusciti a creare la vita dalla > morte e dall’amore. Donargli la gioia amara della sofferenza che lui non aveva > provato mai sulla propria pelle, una sofferenza che tuttavia doveva essere > presente in lui come un monito, come una gioia; come un obelisco.” * In un suo breve scritto, Danilo Kiš scrive che fra i suoi antenati del ramo materno c’è un leggendario eroe montenegrino che imparò a scrivere a cinquant’anni, sommando alla gloria della spada la gloria della penna, e anche “un’amazzone” che per vendetta tagliò la testa a un usurpatore turco. La rarità etnografica che Danilo rappresenta morì insieme a lui, alla fine degli anni Ottanta.  In un’intervista per “Il Tempo” realizzata in Italia nel 1988, Maurizio Ciampa è colpito dallo sguardo di Danilo Kiš. Gli appare incredibile che quegli occhi, dalla luce tanto intensa, abbiano potuto fissarsi, probabilmente increduli, su così tanto dolore. Mi piace immaginare che, in quel preciso istante, la sua indomabile speranza fosse segretamente affidata agli uccelli che volteggiavano sopra il giardino dell’Hotel Quirinale di Roma. Lorenzo Giacinto L'articolo Il marchio del martirio e dell’amore. Riflessioni intorno a Danilo Kiš  proviene da Pangea.
April 16, 2025 / Pangea
“Il rito del consumo è la superstizione più nefasta”. Dialogo con Gian Ruggero Manzoni, lo sciamano del Delta del Po
La produzione letteraria (e non solo) di Gian Ruggero Manzoni è delle più variegate e peculiari. Leggendone i libri, seguendone il percorso artistico (almeno di questi anni) ci si accorge facilmente di quanto l’autore abbia un piede nel presente e un piede in un passato remotissimo. Manzoni lo vedo un po’ così, attuale e allo stesso tempo antico, mentre paziente fila una tela che ricongiunge il presente con gli albori dell’umanità.  Dopo un libro come Dialoghi infami (Medusa, 2024), tremendamente macchiato dalla contemporaneità, con Nel lento movimento dei ghiacci (puntoacapo, 2024) facciamo un balzo indietro di millenni (come già aveva compiuto con Ultramodum), all’origine della vicenda umana, quando ancora non era Storia, sulle orme di sciamani che camminano sul sottile confine tra questo mondo e l’altro (o gli altri), fra religione e magia. Il libro raccoglie una serie di prose poetiche e disegni, suddivise in quattro sezioni: Nel lento movimento dei ghiacci, Sciamani, La quarta moira, La rinuncia. Mi domando se non stia tutto qui il senso della ricerca artistica, della scrittura come del disegno: ritrovare il filo di un discorso incominciato migliaia di anni fa e che abbiamo perso lungo la strada, ritrovare la magia di cui è ancora intrisa la realtà sotto tonnellate di cemento. Artista, poeta, scrittore; traduci e interroghi testi sacri e mercenari sanguinari: ti senti anche tu un po’ sciamano? A un recente Festival Internationnal des Traditions et Spiritualites Ancestrales et du Chamanisme, tenutosi in una vallata nei pressi di Reims, in Francia, confrontandomi con sciamani e sciamane riconosciuti quali Abdellah e Gnawa Akharraz, Vera Sakhina, Ayangat, Anja Normann, Frederic Roure, Bhola Nath Banstola, Tiegniery Diarra, Baruch Osorno, Domi Farinelli, sono stato riconosciuto, da loro, quale sciamano a mia volta… sciamano della parola, non celebrativo, cioè non operante tramite danze o gesti propiziatori, ma quale “guaritore”, così mi hanno definito, per mezzo della parola, ed “evocatore”, sempre tramite il suono che conteniamo, di entità superiori. Comunque già mia nonna Olimpia, a sua volta sciamana romagnola, mi aveva riconosciuto e, a suo tempo, mi passò il dono. Inoltre ogni buon poeta o artista o musicista è infine uno sciamano se opera per il bene e il bello, e se sempre rispettoso delle “anime naturali”.   Quale legame persiste fra l’uomo di oggi e quello che vestiva le pelli di mammut e interrogava il fato seguendo il volo degli uccelli? Sono lo stesso uomo unicamente in tempi diversi. Tutte le massime domande sono ancora sul tavolo prive di risposta, quindi nulla sapeva del cosmo e di sé l’uomo primitivo e nulla sappiamo di noi e del cosmo… o, meglio, della dimensione che ci contiene e che conteniamo… noi umani del XXI° secolo. Giusto sappiamo che un giorno moriremo e che la Terra è tonda e ruota attorno al Sole, mentre la Luna ruota attorno alla Terra, poi stop, che altro si sa? Dimenticavo, ancora molti continuano a credere che la Terra sia piatta… e detto ciò non resta che sorridere riguardo la nostra attuale condizione.  “La magia appare incredibile solo perché è l’evento più naturale e quotidiano che ci sia”. “Ciò che è stato creato è magia, e lo sciamano non è che l’indagatore dell’indagine”. Ma cos’è la magia? Credendo in un divino generatore, creatore e demiurgo, credo anche che esistano esseri umani e animali e piante che riescono a metterci in contatto con altre dimensioni. La magia è la capacità di proiettarti o proiettare un altro essere in universi paralleli, come sostengono le varie Teorie del Multiverso, così, scientificamente, oggi vengono appellate, mentre arcaicamente avevano e ancora hanno altri nomi. La magia è entrare in esse e giungere a vibrare come le stesse, fino alla scoperta della propria “nota armonica”, come la definiva il teosofo, pedagogista, filosofo, esoterista austriaco Rudolf Steiner. Il sommo Guido Ceronetti giustamente scriveva nel suo Il silenzio del corpo, un libro che consiglio:  > “La fame di magico è più che legittima, il rischio è, sempre, che il malvagio > destino la orienti, per sfogarla, sulla stella del male. Ma di magia buona c’è > oggi molto più bisogno che di medicina buona”. Quando osserviamo una civiltà arcaica (anche quella più vicina a noi, come quella contadina) con i suoi riti, ci appare come in balia delle superstizioni, eppure era una civiltà più solida della nostra. Siamo oggi, più di allora, vittime di superstizioni? Direi che il “rito del consumo” sia la superstizione più nefanda che oggi ci possa essere, idem la “messa del denaro”, paragonabile ad ogni “messa nera”. Tutto ciò che oggi divide e rende predatori risulta quale attuale superstizione, ciò che invece unisce è ‘savietà’, saggezza, buon senso, cultura base, consapevolezza, massima osservazione, “antica credenza popolare”, compenetrazione, quindi passata e accettabile superstizione. Sì, un tempo, anche noi Occidentali, oggi definiti evoluti, emancipati, civili, tramite l’attenzione persistente riuscivamo a compenetrare la materia e il mistero così come l’altro o l’altra da sé, al punto di partorire modi di dire valevoli ovunque atemporalmente. Quindi necessita suddividere la superstizione, come poi la magia, in bianca o nera. Su ciò che oggi definiamo idolatria o, peggio, ignoranza, un tempo si sono costruiti imperi, ma l’antica superstizione era troppo attinente al destino e allo stare attenti ai “segni” per poterla definire volgarmente ubbia. I “segni” e la capacità di interpretarli sono da considerarsi come le tracce lasciate sul suolo che i pellerossa riuscivano a leggere. L’interpretazione dei “segni” e delle atmosfere era l’arcaica buona, benevola, accrescente superstizione.  Questo lento movimento dei ghiacci, questo andare alla deriva, rappresenta un po’ la tua idea dell’umanità oggi. In alcuni passaggi sembri suggerire una fratellanza umana originaria perduta, ormai scaduta in uno “scontro tra simboli che, nell’errore, si leggono avversi… si disegnano quali contrari, di sanguinari eccessi o di ecatombi, oppure di massacri”. È una fratellanza recuperabile? Sì, la lenta deriva dei freddi… dei gelidi ghiacci è il nostro attuale andare. Mai gli uomini sono stati fratelli per sangue, quanto, invece, fratelli per idea, per idealità, quindi per fede, perciò uniti anche se non si è stati scaturiti dalla medesima carne. Gli ovuli e l’utero che rendono non solo fratelli ma gemelli si chiamano: credo comune, comune rappresentazione mentale, comune opinione, convinzione comune, sentire comune, spirito comune, volontà comune, divinità comune, comune magia. Nell’oggi l’Occidente ha perduto quei valori fondamentali che ho pocanzi elencato. Siamo molto… troppo lontani gli uni dagli altri. Crollata una memoria comune, così che nascessero infinite memorie, ecco che la frammentazione… la polverizzazione disintegra ogni possibile verità comune, o, meglio ancora, ogni comune verità.  La quarta moira, cioè il nulla, l’assenza di prima e dopo, la fine della fine, domina una parte centrale del libro. Qual è il tuo rapporto con la morte e con ciò che viene (se viene) dopo? Sono solito dire che i miei genitori più che vivere mi hanno insegnato il come morire con estrema dignità, sacralità, coraggio e spiritualità. Il senso di morte ha sempre aleggiato a casa mia, ma non in accezione cupa, oscura, deprimente, scoraggiante, quanto come persistente preparazione alla stessa. Ogni attimo può essere l’ultimo e per quell’ultimo necessita essere pronti. Infine la mia esistenza, finora, è stata un persistente apprestamento alla morte, con tutto quello che ne consegue, quale prima componente il cercare di vivere… sì, di vivere ogni attimo come appunto fosse l’ultimo. Ciò che di noi resta, così come ciò che di questo universo resterà, non sarà neppure un punto su di una mappa ampia quanto la potenza dell’inesprimibile. Il mio e il nostro nulla è il saper morire quindi il saper vivere in quell’inesprimibile. A tal proposito tanto mi fu caro quello strabiliante scritto titolato, in italiano, La Lettera di Lord Chandos, in tedesco “Ein Brief”, del grande Hugo von Hofmannsthal. Valerio Ragazzini ** Brani tratti da Nel lento movimento dei ghiacci (puntoacapo) di Gian Ruggero Manzoni Ogni dimensione ride attorno a me, e mai mi priverò di quello che la mia fede dona. Un sorriso è il Cristo, mai un atto d’accusa. Sciamano del Delta del Po, sempre scopro ogni notte che vago nell’immutata sostanza della natura umana. È ancora un antico sogno che riconduce alla mia terra d’origine, a quell’arcaico intrico di rami, rovi, edera, canne, alghe palustri. È nella natura aspra della mia gente che saldo la tragedia, ma anche l’elevazione, del nostro destino di eterni immaturi. Che gioia! Che ritrovata incoscienza pudica! Forse che l’Età dell’Oro dimori in un colpo di zappa o nel tergersi la fronte dal sudore? La genuinità perduta solca ancora la palude. Nulla è scomparso. Tutto è ancora lì, se apri gli occhi di tua madre, e, del padre, se indossi gli stivali di gomma e i pantaloni di velluto. * Mi diceva un filosofo e musicista di Praga: “La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo”; la stessa accusa fu di mia nonna, indagatrice di segni e di premonizioni sulla corteccia degli olmi o dei pioppi padani. Lei mai volle salire in auto, se non il giorno che la portarono all’ospedale dove le diagnosticarono che entro un mese sarebbe morta e che si preparasse a salpare. Al che si fece riportare nel suo letto (posto al centro della nostra casa), accese la candela che aveva sul comodino, recitò le orazioni e si spense con l’ultima goccia di cera scivolata… mentre le api, riunitesi, con lei migrarono in un’altra chiesa dimenticata… su di un altro altare. * Al che si disse che oltre la velocità della luce, pur sempre relativa, non si può andare, visto che non esiste alcun modo di accelerare una spinta fin oltre i 300.000 chilometri al secondo, se non fornendo un’energia che risulti al di là dell’estremo, quindi ardua, impossibile, lontana da noi, inavvicinabile, cattiva e infinita, non certo piccola giostra che tramite il calore muove pale, vele, seggiolini, camei, sputando sulle madri che glabre ammirano con facce ebeti i loro figli… privi di futuro, carne già morta, di già polvere, di già rutto di un mulinello di cielo, o coda gelida di uno spegnersi sia di stelle che d’illusioni… che di risorse… che di fermenti… che di fittizie occasioni. * L’11 maggio del 1872 il cielo d’Europa venne ammutolito da una pioggia di meteore in fiamme che cessarono in una nuvola di cenere che avvolse per giorni animali da latte, neonati, baldracche, lumache e api, poi connestabili, carabinieri, netturbini, scava pozzi, e pur anche cani e aironi, quale benedizione di me demone che per non molto custodirò l’equilibrio dei corpi astrali, così che lei, la gran signora, nella gravità copuli col marito mentre, gli ultimi gemiti, siano dell’amante, poi dell’amante, e dell’amante ancora, nella perduranza di una sterile ginnastica, frutto di una Gomorra petulante e allucinata, incensata dallo sperma di un toro che annaffia probi e tagliagole, avvocati, notai, banchieri, i quali si riconoscono fra loro tramite anelli ai lobi, occhi truccati, turbanti e gemme, cinismo, volgarità e nessuna carità parziale, cristiana, o chissà dove e come, la stessa, sia nata e possa custodire un valore ultraumano o solo menzogne, o sterili sermoni. *In copertina e nel testo, alcune opere di Gian Ruggero Manzoni L'articolo “Il rito del consumo è la superstizione più nefasta”. Dialogo con Gian Ruggero Manzoni, lo sciamano del Delta del Po proviene da Pangea.
April 16, 2025 / Pangea
La vita come magia: Attilio Bertolucci, il poeta del batticuore. Dialogo con Paolo Lagazzi
La lucertola di Casarola è il titolo della poesia che battezza l’ultimo libro di Attilio Bertolucci, uscito nel 1997 per Garzanti. La scena ha la luce olimpica dell’infanzia, una specie di celestiale crudeltà. “Ricordo che bambino m’incitavano/ a mozzar loro la coda – non temere,/ rinasce, non temere – e io a rifiutare, caparbio, silenzioso”. La poesia parla, in forme sotterranee, di ciò che permane e di ciò che va, della cenere e dell’indomito. Nella caparbietà, nel vello del silenzio, si intravede – come l’autoritratto di un pittore del Rinascimento, viso che fissa lo spettatore dall’angolo tra la massa degli altri – la firma del poeta. Un gatto fissa la scena, la figura rettile che appare e scompare. L’ultima lassa sfiora l’oracolo, una forma verminosa della luce: > “Sciocca felina, ignara > dei cunicoli cui torna, non fugge, > l’abitatrice avanti te e me > di questa verde plaga occidentale”. Secondo Paolo Lagazzi – in un libro, La casa del poeta, di leggiadra magia, ora edito da La Nave di Teseo, che assembla “Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci” – si tratta di una poesia-rivelazione: “la lucertola appenninica, ricca di cunicoli in cui nascondersi per tornare, di sortilegi per riemergere dalle proprie ferite, racchiude in sé la forza di ciò che dura e durerà sempre, attraverso e oltre i dubbi e i dolori la vita – e la poesia che in essa si cerca e riflette”. Forse quel rettile – figura di una vita non rettilinea – simboleggia la poesia stessa di Bertolucci: all’apparenza comune, sorgiva, come l’erba e le lucertole; in verità, retrattile, sapiente al mezzogiorno, edotta nei meandri dell’oscurità. Così, nel suo discorrere – come di chi è uso ad abusare della pazienza dei morti, come chi sa imbonire il miraggio, disperdere l’inganno in una fiaba: si legga l’insuperabile Per un ritratto dello scrittore da mago, Diabasis, 1994, poi Moretti & Vitali, 2006 –, Lagazzi dice della luce frontale di Bertolucci, gioviale Giove, principesco nell’avita Casarola, conficcata nell’Appennino parmense; non ne cela le aspre ombre. La crisi-catabasi del 1958, ad esempio – gli anni in cui il poeta comincia la lunghissima elaborazione del poema familiare La camera da letto –, in cui Bertolucci sperimenta ‘il terribile’, il mostro interiore; il gemellaggio, spiazzante, tra allegria e desiderio di isolamento; amicizia e reticenza.  Con nobile andare, da patriarca, Bertolucci ha attraversato tutti i tempi della cultura italiana: negli anni Trenta dirige per Guanda la collana “La Fenice”; vent’anni dopo guida “Il gatto selvatico”, la rivista dell’ENI; sarà alla direzione di “Nuovi Argomenti”. Amico di Vittorio Sereni e di Pier Paolo Pasolini, fu consulente per Garzanti; con Viaggio d’inverno (1971), tra l’altro, ottenne l’“Etna-Taormina”, nell’anno in cui presidente di giuria era Eugène Ionesco. In calce a La casa del poeta, Bernardo Bertolucci, primogenito di Attilio, appunta, “Continuo a chiedermi: e io dove ero?”. A significare, credo, la placida inafferrabilità del padre; il talento di un padre di ‘liberare’ i figli, che sappiano librarsi da sé. Chissà fino a che punto i grandi film di Bernardo – Ultimo tango a Parigi, Novecento, L’ultimo imperatore… – sono debitori dello sguardo di Attilio. Nei ricordi di Pietro Citati – riferiti da Lagazzi – “Appena parlava c’era odore di prati emiliani, di Tasso, di letteratura inglese, di famiglia, di mucche, di dolcezza e di infinita saggezza”.  Bertolucci amava Thomas Hardy e William Wordsworth; amava Proust – ha tradotto Baudelaire. Certo, la sua opera può avvicinarsi a quella pittorica di Vermeer: una luce fiamminga, esatta, non priva di enigma. Nel Ritratto di giovane gentiluomo di Lorenzo Lotto, una lucertola sfida l’uomo che ci guarda, drappeggiato da un’insanabile mestizia, mentre sfoglia un libro. Creatura a sangue freddo che si nutre di luce, ne fa scorta per i suoi viaggi sotterranei – sapersi nascondere, disgustati dalle mode, è il tono del poeta. Luce-lucertola, nostra verde torcia.  Nella sua ultima intervista, concessa nel gennaio del 1977 alla Radiotelevisione Svizzera, Cristina Campo parla della lucertola come emblema della vita, al contempo solare e terribile: > “Non mi sono mai posta il problema, perché si vive? Per me è un miracolo… > Avere visto una lucertola che prendeva la buccia di una pera, stando sopra il > mio piede, e la portava alla femmina, come un dono, mentre il sole tramontava. > Ecco, che bello essere creati… o che cosa spaventosa in altri momenti”. > > (in: Ottanta poetesse per Cristina Campo, Magog, 2023)  La nuda vita, la mera vita – una fredda incandescenza, come la spada che fa lo scalpo al sole. Nella prefazione alle Operedi Bertolucci, inscatolate nei ‘Meridiani’ (Mondadori, 1997), Lagazzi dà forma al concetto così: > “Non molte sono le opere del secolo in grado di procurarci un così intenso e > nutritivo batticuore perché assai rara è la capacità di restituire la vita > nella sua struggente evidenza, e non solo come onda del tempo, fino al > mormorio più segreto (il fruscìo d’una tenda che sbatte, il brivido d’una > clessidra), o come brusìo di voci prima del silenzio finale, ma anche come > verità di colori, di corpi e di tracce irriducibili alla corrosione del > tempo”.  Quando sento Lagazzi, la sua gioia è già presagio di un gioco di prestigio. “Andremo a Casarola… ti porterò a Casarola… e sarà una giornata memorabile”. E s’intuisce già, nel fondo, il mormorio dei prati, le lucertole che guizzano, quei rettili delfini, un dio aprico, con l’ascia e l’aratro, e il mormorio della parola memorabile fa di questo mondo, immediatamente, una ventura. Che la cosa, poi, accada, o rimandi all’assalto dell’impossibile, poco importa. Il grigio non esiste.  Bertolucci, ancora: descrivimelo in tre aggettivi. Potrei dirti che era seducente, vero e imprendibile.  Col primo aggettivo voglio dire che aveva quel dono molto raro, forse concesso dagli dèi solo ai maestri, che è il fascino personale nel senso più profondo, psichico, magico, sciamanico. Avvicinarlo davvero era impossibile senza lasciarsi sedurre, incantare, plagiare.  Col secondo aggettivo voglio sottolineare che il suo modo d’essere, per quanto tendente all’affabulazione nel quotidiano e alla rêverie nella scrittura, non era mai astratto, non fuggiva mai per la tangente, non si perdeva in discorsi vacui o retorici: c’era in lui, vivissimo, un bisogno di chiarezza, concretezza, fisicità, un bisogno di muoversi con un passo e un respiro giusto che era anche una necessità etica, e che nasceva dalle sue radici contadine e cristiane.   Nonostante la sua concretezza era a suo modo imprendibile, e dicendo questo alludo al fondo mercuriale del suo spirito, alla sua intima mobilità, al continuo trascolorare delle sue parole e delle sue fantasie tra le apparenze e i segreti della vita, ai suoi andirivieni fra naturalezza e malizia, agli spostamenti velocissimi del suo sguardo sul mondo, alla sua refrattarietà a essere incasellato in categorie, al suo grande bisogno di libertà, al suo sentimento della vita come avventura feriale, come magia e grazia, come radicamento delle parole e delle cose anche più umili e comuni nel mistero. Esiste, per tua esperienza, una consustanzialità tra il corpo del poeta e il suo corpus lirico, tra la tempra etica e quella estetica? Mi riferisco, va da sé, a Bertolucci: fino a che punto l’uomo combaciava con il poeta – e viceversa? Ha scritto Pietro Citati che sentirsi un poeta era per Bertolucci come essere “un bollito o una patata al forno”: una realtà naturale, accettata con assoluta innocenza. A mia volta ho ricordato nella Casa del poeta una lirica in cui Paolo Bertolani dice che Attilio sapeva trasformare in poesia qualunque gesto, fosse pure passare un giornale dalle proprie mani a quelle dell’ospite o versare il vino a tavola. Anch’io ho sempre avvertito una continuità essenziale fra la vita e la poesia nel carattere e nel destino di Attilio. Ciò non significa affatto che covasse il seme dell’estetismo. La fonte prima e necessaria della poesia era per lui la vita: la poesia non era vera se non si nutriva di vita, ma a sua volta “sentire” la vita nelle sue risonanze profonde non gli era concesso se non nella luce della poesia. Poiché era impossibile sbrogliare questo nodo con le forbici del pensiero, ho letto e riletto per mezzo secolo la sua poesia e ho camminato fianco a fianco con lui, ho respirato i suoi soffi lirico-epici e ho condiviso molti suoi momenti umani, soprattutto a Casarola. Mi sono lasciato intridere dal batticuore aritmico dei suoi giorni e dei suoi versi, ho cercato di accogliere e di lasciare che si muovessero dentro di me la luce e la pazienza, i lati umbratili e la joie de vivre che percorrevano il tempo della sua esistenza e le pieghe mobili della sua opera. Amava il jazz, il cinema, Verdi e Proust, è vero, ma qual è la vera ‘miccia’ culturale di Bertolucci, quella che lo animava? Forse il “la” alla creazione poetica di Attilio lo ha impresso la pittura, perché la sua poesia è anzitutto immagine, sguardo, visione. L’immagine è per lui il modo che ha il mistero vitale di manifestarsi nella luce. Guardare non è mai un esercizio “teorico”: è invece pura esperienza d’immersione nelle forme dell’essere, nei colori vivi e cangianti delle cose nel flusso del tempo. L’amore del poeta per la pittura precede l’incontro con Roberto Longhi (avvenuto nel ’35); già Sirio (del ’29) e Fuochi in novembre (del ’34) vibrano e brillano di riferimenti pittorici impliciti o dichiarati, da Monet a Bonnard, dal liberty a Modigliani, da Picasso a De Chirico. L’insieme delle scoperte della modernità pittorica è stato per il primissimo Bertolucci un crogiolo d’impareggiabile vitalità, una trama screziata di possibilità sperimentali, un invito al viaggio della poesia tra i sortilegi della luce e dell’ombra. Naturalmente la pittura (e subito dopo il cinema, sorta di pittura in movimento) è stata solo il “la” della sua avventura poetica: nel tempo l’amore per i maestri moderni e antichi della visione si è intrecciato sempre più fittamente con la passione per Proust, per Verdi e per altri poeti, soprattutto inglesi e americani. Ma è significativo che, ancora nel ’43, alla richiesta di Luciano Anceschi a tutti i poeti dell’antologia Lirici nuovi di fornirgli uno scritto di poetica, Attilio abbia risposto con quelle celebri righe sulla propria poesia come ricerca di “un po’ di luce vera” orientata verso fari della pittura quali gli impressionisti e Vermeer. Sul senso dell’amicizia e della famiglia in Bertolucci. Dimmi. Benché nel carattere di Attilio fosse esplicita la componente narcisistica, in lui era altrettanto viva è vera la capacità di amare, il calore dei sentimenti. A parte quello per i genitori e il fratello, l’amore fondamentale della sua vita era quello per Ninetta. Lei era tutto per lui: donna “dolce e pericolosa” e tenerissima compagna, musa e anima tutelare, regista degli spazi domestici e fonte, fino agli ultimi anni, di turbative scintille d’eros… L’amore per lei e con lei era un’esperienza privatissima, qualcosa come un sogno da sognare in due, eppure da quel sogno, da quel nocciolo irriducibile di bellezza erano nati i figli. L’amore si era rivelato una forza espansiva: la solitudine di coppia si era trasformata in una famiglia… In questo movimento di apertura continuava a irradiarsi un calore intimo, simile alle tante rêveries di fiamme e di fuochi che attraversano la poesia di Attilio; eppure né l’amore per Ninetta né quello per i figli ha mai assunto nello spirito e nell’opera del poeta i tratti dell’idillio. Il bisogno di essere amato e di amare è sempre percorso in quest’opera poetica da tremori, brividi, lievi sussulti, ombre, timori, ansie, fantasmi…  Quando lei si allontana, anche di poco, in lui sale una fitta d’angoscia; a loro volta i figli saranno presto risucchiati dal “fuori”, dall’altrove, dal lontano, e vani saranno gli esorcismi messi in atto dal padre (come nella struggente lirica I pescatori) per trattenerli, per rendere eterno e inattaccabile dal tempo il cerchio incantato della famiglia. Tutto questo non va inteso alla lettera. Attilio non era quel “ragno” vischioso di cui si è favoleggiato, dedito solo a intrappolare moglie e figli in una ragnatela nutrita d’ansia, senso del possesso, gelosia, ossessione, egoismo. Ninetta è sempre stata una donna intimamente libera, e lui l’amava proprio per questo. A loro volta i figli non sono mai stati tanto condizionati dal padre da non poter lanciarsi in tutte le avventure, verso tutti gli orizzonti. Attilio stesso desiderava che questo avvenisse: non è forse stato lui a propiziare l’incontro fra Bernardo e il Pasolini regista, incontro decisivo per la vita e la straordinaria carriera del primo? Attilio era uno spirito “di soglia”: se cercava di preservare dalle ombre i suoi spazi intimi – le sue dimore, la sua famiglia – era altrettanto portato a uscirne, a respirare i soffi del mondo. Questo secondo lato del suo essere non riguardava solo il rapporto con la natura ma anche quello con la società. Era curioso come Proust, gli piacevano i nuovi incontri, amava esplorare ambienti diversi. Fin da giovanissimo aveva amici che nutrivano le sue giornate di parole scambiate passeggiando o nelle lunghe soste in qualche caffè. Anche la scoperta precoce del cinema non sarebbe stata un’occasione di tale vitalità se non fosse stata da lui condivisa con amici quali Pietrino Bianchi e Cesare Zavattini. Certo questa sete di amicizie non era priva di un retroterra amaro e nevrotico. L’allegra disposizione al confronto, alla chiacchiera e anche al gioco si alternava con momenti in cui prevaleva il lato schivo e ombroso, il desiderio di solitudine, la voglia di fuggire “via dalla pazza folla”. Eppure prima o poi riemergeva sempre in lui il bisogno di aprirsi agli altri, di condividere i momenti, di gustare il piacere dell’incontro, perfino di “perdere il tempo” per poterlo magari, un giorno, ritrovare. Il nostro incontro durato ventisette anni è stato – non ho timore di dirlo – una grande amicizia. Nello scritto che accompagna il mio libro La casa del poeta (nella prima edizione era la prefazione), Bernardo dice che l’espressione “grande amicizia” riferita al rapporto tra suo padre e me “suona riduttiva e semplificatoria”. Senza dubbio lui era per me non solo un amico ma anzitutto un maestro e in un certo senso anche un secondo padre (questo l’ha capito e detto molto bene Emanuele Trevi nella prefazione alla nuova edizione del libro). Eppure se torno a sottolineare la grande amicizia fra noi è in primo luogo perché mi sembra che riuscire a essere veramente amici sia sempre più difficile nei nostri anni. Da alcune persone che ho ritenuto a lungo grandi amici sono stato, infine, tradito. Questo non è mai successo con Attilio. Non potrò mai dimenticare il suo sguardo l’ultima volta che lo vidi. Eravamo a Roma nel suo appartamento. Era tanto malato che sarebbe vissuto solo altri due mesi, eppure ne suoi occhi resisteva qualcosa – una luce, il segno di una specie di letizia – che non so esprimere ma in cui mi parve di riconoscere il senso del nostro incontro come dono reciproco, come destino. …gli hai fatto qualche gioco di prestigio? Sì, ho offerto diverse volte dei giochi di prestigio a lui, a Ninetta e anche ai loro ospiti di passaggio. Una volta a Casarola io e mio fratello gemello Corrado (da giovanissimi ci eravamo esibiti in varie occasioni, anche in alcuni teatri, come prestigiatori dilettanti in coppia) abbiamo portato da Parma una gran quantità di attrezzi magici e nella locanda Tramaloni abbiamo allestito un vero e proprio show invitando tutti gli abitanti del paese, specialmente i bambini. Ricordo la felicità di Attilio in quell’occasione. Era lo spettatore perfetto: sapeva benissimo che il solo atteggiamento giusto di fronte a un prestigiatore è stare al gioco, abbandonarsi al piacere dell’illusione senza cercare di capire il trucco. Secondo me è lo stesso atteggiamento che occorrerebbe a ogni critico di fronte a un testo letterario in grado di suscitare incanto. Il buon critico non cerca di smascherare il testo, di rivelarne i congegni o i doppifondi, di smontarlo come un meccanismo o di dissezionarlo come un cadavere utilizzando i bisturi della scienza (dalla psicanalisi alla linguistica alla semiotica): accetta, invece, di lasciarsi sedurre, di lasciarsi invadere dalle sue vibrazioni magiche, dalla trama mobile delle sue illusioni per restituirne almeno una parte ai lettori con le proprie parole. Ultima. Una poesia-emblema di Bertolucci, quella a cui sei più legato – e perché. Forse Il tempo si consuma, collocata al centro esatto di Viaggio d’inverno. Scritta nel 1957, in un momento di grave crisi psichica dell’autore, questa poesia sa illimpidire lo strazio trasfigurandolo “in stupore e in contemplazione”, per riprendere parole dedicate da Montale a Saba. Un padre (il poeta) entra in una chiesa romana all’ora della messa festiva, in cerca del giovane figlio; non vedendolo è assalito dall’ansia; ma un quadro che rappresenta Gesù mentre, bambino, aiuta Giuseppe nel suo lavoro di falegname, lo rincuora – e proprio dal ritorno del coraggio scocca l’abbandono giusto, quello che lo porta finalmente a individuare il figlio nell’“agitazione terrena/ delle ragazze e dei ragazzi tenuti/ lontani dal bel sole di domenica”. > Così, d’improvviso, in un angolo vicino > alla porta, t’ ho ritrovato, quieto > e solo, m’hai visto, ti sei > accostato timidamente, ho baciato > i tuoi capelli, figlio ritrovato > nel tempo doloroso che per me e te > e tutti noi con pena si consuma. Sul piano della visione il testo si sviluppa come una scena filmica scandita in tre momenti: l’ingresso del poeta nella chiesa e la panoramica inutile del suo sguardo sui banchi; la zoomata verso il quadro sul fondo; l’incontro col figlio. Attraverso i passaggi ottici, è una complessa vicenda spirituale a dipanarsi nell’anima del protagonista fra il suo improvviso inabissarsi in un vuoto generante terrore, il conforto che nasce dalla bellezza colta nella sua natura più semplice e sacra (il “garzone/ di falegname, Gesù”) e il ritrovamento del figlio insieme al riaffiorare della fiducia. Con una pregnanza e limpidezza davvero evangeliche (penso alle parabole del figliol prodigo e della pecorella smarrita), la poesia si squaderna come dramma di un tempo sospeso e ondeggiante fra la perdita e il ritorno del calore vitale, tra la piccola morte della distanza e la “resurrezione” dell’incontro, tra il brivido dell’assenza e la luce dell’amore ancora possibile.  Per quanto mi riguarda, non credo d’aver incontrato molte volte, nel Novecento, una voce tanto vibrante nella sua forza umile e salvifica, nel suo soffio capace di lenire le ferite profonde dei nostri cuori. L'articolo La vita come magia: Attilio Bertolucci, il poeta del batticuore. Dialogo con Paolo Lagazzi proviene da Pangea.
April 15, 2025 / Pangea
Una brutale immortalità. Günter Grass o della scrittura come coscienza critica
A dieci anni dalla morte di Günter Grass, avvenuta a Lubecca il 13 aprile 2015, accendiamo per un attimo i riflettori sulla vasta opera che ci ha lasciato e che forse non abbiamo ancora saputo valutare in tutta la sua ricchezza. Il capolavoro di Grass è sempre stato considerato la cosiddetta trilogia di Danzica, formata da tre romanzi scritti nell’arco di un lustro, il torrenziale Die Blechtrommel (Il tamburo di latta), del 1959, Katz und Maus(Gatto e topo), del 1961 e Hundejahre (Anni di cani), del 1963. Soprattutto il primo dei tre volumi – la storia del nano Oskar Matzerath che a un certo punto dell’infanzia, gettandosi giù per le scale della cantina, decide autonomamente di arrestare la propria crescita per protesta nei confronti di un mondo filisteo, violento e al contempo grottesco – ha avuto un notevole successo, rafforzato dall’omonima pellicola girata nel 1979 da Volker von Schlöndorff, con Angela Winkler e Mario Adorf. Nel suo insieme, la trilogia rappresenta un’accurata ricostruzione di quasi un secolo di storia visti dal punto di osservazione privilegiato di Danzica, una città in rapida trasformazione, che diventa simbolo ed epitome del mondo intero. Ma Danzica, in quanto città che la Germania ha dovuto cedere alla Polonia dopo la guerra, rappresenta anche il simbolo del paradiso perduto, delle effusioni e dei piaceri di un’infanzia mai più riconquistata. Benché la città, dove era nato nel 1927, rappresenti la sua Macondo, non bisogna pensare a Grass come a un auctor unius libri o a uno scrittore che, con martellante testardaggine, torni sempre sugli stessi temi. In Das Treffen in Telgte (L’incontro di Telgte), del 1979, per esempio, Grass traccia un brillante parallelismo fra la Germania del 1647, appena uscita dalle distruzioni della Guerra dei Trent’anni, e quella del 1947, in parte occupata dalle forze alleate e ridotta militarmente alla condizione di non poter più nuocere. Da un lato avremo l’incontro, nella cittadina di Telgte, nei pressi di Münster, in Vestfalia, di una serie di poeti, scrittori e musicisti, da Schütz a Grimmelshausen, uniti dalla volontà di rafforzare e rilanciare una lingua tedesca ancora frazionata in una miriade di dialetti e usi locali; dall’altro, spostandoci al secondo dopoguerra, la costituzione, intorno alla figura di Hans Werner Richter, del Gruppo ’47, un insieme di poeti e scrittori dal quale sarebbero poi emerse figure carismatiche come quelle di Ingeborg Bachmann, Heinrich Böll, Günter Eich, Ilse Aichinger, Martin Walser, Peter Bichsel o dello stesso Grass. La funzione del Gruppo ’47 è nell’insieme paragonabile a quella del consesso di tre secoli prima: si tratta – ancora una volta – di salvare la lingua tedesca stravolta dagli usi impropri del nazionalsocialismo e renderla nuovamente utilizzabile. Il tamburo di latta, vero archetipo dei suoi maggiori romanzi, costituirà, per Grass, anche l’applicazione pratica dei nuovi principi di scrittura maturati proprio attraverso le assidue frequentazioni di quegli anni. Altri due lavori di narrativa da citare in ogni caso sono Der Butt (Il rombo), del 1979, e Die Rättin (La ratta), del 1986: romanzi di un certo spessore e respiro epico, che richiedono impegno e un’attiva complicità da parte del lettore. Nel primo libro, il rombo è un pesce parlante che funziona come alleato e consulente del protagonista, un uomo senza tempo che ci racconta la storia dell’umanità, dal neolitico allo sciopero dei lavoratori polacchi nel 1970, sempre dall’angolo di osservazione formato dalla città di Danzica, con una particolare attenzione per una minoranza, la popolazione dei casciubi. Nel secondo, un romanzo complesso e in parte surreale, nel dialogo fra un io parlante indifferenziato e la ratta del titolo Grass riprende alcuni filoni tanto del romanzo precedente, quanto della sua trilogia, virando stavolta verso toni apocalittici e prefigurando il declino e la scomparsa finale dell’umanità, non senza accenni polemici e quasi, diremmo, militanti. La vis polemica di Grass si conferma del resto anche a teatro; tra i vari drammi da lui composti va segnalato almeno Die Plebejer proben den Aufstand (I plebei provano la rivolta), del 1966, in cui alle prove del Coriolanoda parte di una compagnia teatrale a Berlino Est si sovrappone la rivolta del 17 giugno 1953 contro il regime comunista. Tutta la pièce ruota intorno all’ambiguità del regista, da tutti chiamato “Chef”, e con tutta evidenza ispirato alla persona e agli atteggiamenti politici di Bertolt Brecht. Questi temporeggia per giorni e, malgrado le pressioni in senso opposto degli operai, finisce poi per rilasciare una dichiarazione di cauto appoggio alla SED, il Partito comunista – con degli abili distinguo atti ad alludere a un dissenso che non sarà colto e non avrà alcuna ripercussione –, solo quando la rivolta sarà stata ormai sanguinosamente repressa.  Oltre che romanziere, grafico e scultore – subito dopo la guerra aveva studiato alla Kunstakademie di Düsseldorf – Grass è stato anche un non trascurabile poeta, sempre animato da una vena ironica e iconoclasta. Riporto qui a mo’ d’esempio la versione italiana di una sua piccola poesia che mi capitò di tradurre tempo fa, dal titolo Die Seeschlacht (Battaglia navale):  > “Una portaerei americana  > e una cattedrale gotica  > reciprocamente  > s’affondarono  > nel Pacifico.  > Suonò l’organo fino alla fine  > il giovane vicario. –  > Volteggiano nell’aria ora angeli e aerei  > e non possono atterrare.” Politicamente, Grass si distinse da molti suoi colleghi per un impegno costante, e, in alcune fasi della recente storia tedesca, anche piuttosto convinto. Compagno di strada dei socialdemocratici, soprattutto durante la reggenza di Willy Brandt, partecipò al suo fianco a diverse campagne elettorali. Fu alla presenza sua e di un altro scrittore, Siegfried Lenz, che nel 1970 Brandt firmò a Varsavia il trattato d’amicizia fra Germania e Polonia. Inoltre, Grass fu uno dei pochi intellettuali europei a difendere la causa delle popolazioni rom e sinti, dando vita a una fondazione a essi dedicata. Le vedeva – con qualche eccesso romantico – come esempio di ibridazione e come ultimo baluardo contro l’omologazione culturale, parlando di una vera e propria persecuzione che apparentava a quella patita dalle comunità ebraiche sotto il nazismo. A suo parere, queste popolazioni avrebbero dovuto ottenere un seggio al Consiglio d’Europa e l’inserimento della loro lingua fra le materie d’insegnamento nelle scuole. Intervenne anche, e spesso, contro la guerra in Vietnam, contro il ricorso al nucleare e per il mantenimento della pace, in favore delle minoranze etniche e dei rifugiati, contro il razzismo e le discriminazioni di ogni tipo. Non si sentiva un “padre della patria” o la “coscienza della nazione”, né voleva essere d’ispirazione a chicchessia, ma attribuiva anche agli intellettuali la colpa della caduta della Repubblica di Weimar, e di certo l’idea dello scrittore rinchiuso in una torre d’avorio era lontana mille miglia dalla sua prassi quotidiana. A Grass non sono certo mai mancati nemici e detrattori. Una polemica passata alla storia letteraria lo oppose al “papa” della critica letteraria tedesca, Marcel Reich-Ranicki, che pure in passato era stato fra i suoi estimatori, allorché quest’ultimo, nell’agosto 1995, venne raffigurato sulla copertina dello Spiegel mentre strappava simbolicamente le pagine di un volume di Grass appena uscito, Ein weites Feld (È una lunga storia), scrivendone poi all’interno della rivista in termini tutt’altro che encomiastici. Ma non era la prima volta che i due si sfidavano virtualmente a duello: già nel 1990 Reich-Ranicki aveva qualificato come “assolutamente insensata” una posizione assunta da Grass in merito alla riunificazione tedesca – lo stesso tema portante del libro testé citato –, quando lo scrittore ne aveva negato l’utilità e l’opportunità, asserendo anzitutto che il ritorno a una Germania unita sarebbe stato visto fuori dalle frontiere come una minaccia, e poi che l’Olocausto negava alla Germania qualunque diritto alla riunificazione, tanto che bisognava invece accettare e capire la lezione della Seconda guerra mondiale e optare per due Stati distinti, uniti semmai da una comune identità culturale. Questa posizione l’avrebbe espressa poi più compiutamente nel pamphlet Unterwegs von Deutschland nach Deutschland. Tagebuch 1990 (Da una Germania all’altra. Diario 1990), uscito nel 2009. Una posizione, la sua, nell’entusiasmo sfrenato di quei giorni per la caduta del muro di Berlino, sicuramente impopolare, che non accrebbe le simpatie di molti nei suoi confronti, ma che rispecchiava il suo vissuto e forse anche una certa volontà di espiazione personale. Perché – come sarebbe emerso con la pubblicazione, nel 2006, dell’autobiografia Beim Häuten der Zwiebel (Sbucciando la cipolla) – Grass aveva un segreto ben custodito, un peccato di gioventù che fino a quel momento aveva attentamente e costantemente minimizzato, ma che lo metteva terribilmente a disagio e da cui riuscì appunto a liberarsi solo a quasi ottant’anni. Quando ne aveva diciassette, infatti, per sfuggire alla famiglia – un po’ come prima di lui Ernst Jünger – non si era solo arruolato nell’esercito, ma era entrato, a quanto pare volontariamente, a far parte delle Waffen-SS. E se, come poi sostenne, non aveva partecipato ad azioni sul campo, ma, ferito, era finito quasi subito in un campo di prigionia statunitense in Baviera, già il fatto stesso di aver aderito alle SS e di averlo poi taciuto lo mise in una posizione molto scomoda, tale da dare ragione, anche a posteriori, ai suoi detrattori. Molto si è discusso di quanto sia stata per lui provvidenziale quest’ellissi della sua memoria: ma va anche riconosciuto che, nel clima d’indiscriminata resa dei conti dell’immediato dopoguerra, ammettere un peccato del genere avrebbe significato dover rinunciare completamente all’attività letteraria, affrontare un ostracismo totale e veder stroncata la propria carriera di scrittore prima ancora di provare a gettarne le basi.  Non gli sono mancati però neanche amici ed estimatori di peso, da Hans Magnus Enzensberger a Christa Wolf, nonché, all’estero, da Salman Rushdie a Nadine Gordimer a György Konrád. Quando si seppe del conferimento del premio Nobel nel 1999, il poeta polacco Tadeusz Rózewicz dichiarò che il premio aveva finalmente riacquistato il proprio significato. Quanto a Rushdie, il sodalizio nacque quando Grass protestò pubblicamente contro l’Akademie der Künste di Berlino che prima aveva invitato Rushdie e poi, per ragioni di sicurezza, aveva deciso di annullare l’evento previsto.  Benché profondamente tedesco e perfino “locale” nei temi prescelti e nell’ossequio alla propria tradizione letteraria, con uno stile estremamente personale, ma che attraverso l’esempio di Döblin si riallaccia in realtà a un grande autore del Seicento come Grimmelshausen, Grass era – caso abbastanza raro in Germania – uno scrittore con un’autentica proiezione internazionale. Ed è stato anche uno degli autori più comprensivi e assidui nel rapporto con i propri traduttori: forse consapevole delle difficoltà che il suo tedesco e i molteplici riferimenti al mondo di Danzica e alla minoranza dei casciubi potevano creare agli incauti che avevano accettato l’incarico di tradurlo in altre lingue, si spendeva in tutti i modi per assicurar loro la propria presenza e assistenza pratica. Nella primavera del 1978, in vista della traduzione del Rombo, venne addirittura organizzata per la prima volta nella storia una specie di tavola rotonda con una ventina di traduttori nelle maggiori lingue. Come spesso accade in questi casi, il motivo scatenante era stata una disastrosa traduzione del Tamburo di latta in svedese, che indusse l’editore di Grass a cercare di correre ai ripari. Ebbene, la kermesse durò ben tre giorni, durante i quali Grass fu non solo presente, ma prodigo di chiarimenti. Al servizio, dunque, dei traduttori e dei futuri lettori, con i quali – da grande scrittore qual era – aveva saputo istituire un rapporto che andava molto al di là della sua persona fisica. Un’intesa basata sull’onestà intellettuale, che è poi forse, ben più di tanti proclami, lo strumento principale a disposizione dello scrittore per garantirsi una relativa immortalità. Raoul Precht L'articolo Una brutale immortalità. Günter Grass o della scrittura come coscienza critica proviene da Pangea.
April 15, 2025 / Pangea
“Qualche svago gradito”. I “consigli dietetici” di Guido Morselli
Lo scrittore Guido Morselli dai suoi nipoti si faceva chiamare “Orso”, anzi talvolta “Orzo”, forse per mettere dentro la parola orso quella zeta affilata dello zio che era, dopotutto. Zio di Loredana, Gianluca, Nicoletta, figli della sorella Maria, che, per vezzo e per dispetto, lui chiamava “Mariolino”. Per non parlare della nipote Loredana, da Guido battezzata “zia Lori” e poi Gianluca, che lui chiamava “Tonino”.  Non può che nascere da un’esigenza creativa profonda questo vezzo di mutare i nomi alle persone, di nominare le persone e le cose alla rovescia, ribaltare i punti di vista, invertire il genere, per scovare nuove chiavi di interpretazione del mondo. Nomina sunt consequentia rerum dice il latino? Etsi omnes, ego non replicherebbe Guido Morselli: l’eccezione poteva diventare la regola. Lui del resto “scrittore senza destinatario”, lo scrittore che è diventato tale solo post mortem. Lo scrittore che… non lo pubblicava nessuna casa editrice.  > “Era eclettico, sperimentò generi diversi, cambiò pelle letteraria. Mi ricordo > quando si mise a lavorare persino a un curioso Dizionarietto dietetico, con > l’aiuto di un medico”.  Queste le parole dell’amico “colto”, l’intellettuale Dante Isella che la giovane studiosa Elena Valentina Maiolini pone a epigrafe di un volume preziosissimo tanto curioso e stravagante, da lei curato, il Dizionario dietetico che esce proprio in questi giorni di aprile 2025, per Biblioteca Ronzani. Un’opera originale che testimonia, ennesima, amara prova, il talento e l’apertura alla sperimentazione, a tutto campo, dell’outsider italiano del Novecento. Giornalista, drammaturgo, reportagista, sceneggiatore e ora, qui, lessicografo. Anche se si tratta di un’attitudine che già gli riconoscevamo con certo uso creativo del linguaggio (leggi alla voce fobantropo, nittalopo). E già conoscevamo il suo interesse vitivinicolo (aveva seguito da vicino il colono Bosatelli nella produzione del Vino del Sasso di Gavirate) e quello nell’agronomia (dalle piante da frutto a quelle dei capperi da far sbocciare tra le fessure dei muretti a secco del podere di Santa Trinita a Gavirate). Altrettanto frequenti, nell’opera narrativa di Morselli, sono i riferimenti agli alimenti, alle pietanze tanto quanto alle “bicchierate”. Uno su tutti mi torna in mente, dall’opera Contro-passato prossimo:  > “seduto e vociante fra una dozzina di commensali, finché scomparve dietro una > montagnola di tagliatelle alla bolognese. Era F.T. Marinetti, seppe dal > cameriere. Con una rappresentanza apostolica di futuristi, la Nuova Accademia. > Quest’altra mensa al profumo di ragù e chianti, surrettiziamente gli si > sovrappose alla ‘mensa’ che aveva lasciato mezz’ora prima”. Si dice che Morselli non amasse cucinare, che, a casa sua, l’ospite avrebbe assaporato la ruggine della grattugia. A tavola nella casa di Milano, arrivando perennemente in ritardo, Guido toglieva lesto da sotto il naso di suo padre, Giovanni Morselli, il ricco piatto; non doveva esagerare. Il padre, modenese, figlio di un medico condotto, era laureato in Chimica Farmaceutica a Bologna ed era stato assunto alla Carlo Erba di Milano. Convinto sostenitore della ricerca nel campo della produzione, Giovanni Morselli aveva sperimentato con successo alimenti per l’infanzia quali farina lattea e alimento GIM, che gli conquistarono la fiducia di Giuseppe Visconti di Modrone. Giovanni Morselli aveva inventato per la Carlo Erba anche le polverine “IDRIZ” per render l’acqua gasata. E sembra proprio la chimica degli alimenti (che probabilmente respirava in casa, dove c’erano comunque, ai fornelli, diverse persone di servizio) sposata all’accurata scelta delle parole alla base di questa sua originale “filosofia dell’alimentazione”. L’attenzione a quella famosa regola che doveva essere la misura, il tanto celebrato “cum grano salis”. A tavola, scrive Guido Morselli: “è bene essere il più possibile allegri”, con un imperativo che fa riflettere:  > “non leggere e non trattare affari, così come è ottima norma riposare dopo i > pasti ascoltando qualche brano di piacevole musica o schiacciando un pisolino > o dedicandosi a qualche svago gradito che non implichi soprattutto eccessiva > applicazione mentale o visiva”.  A quale svago gradito fa riferimento?  Al suo fianco nella realizzazione del Dizionario l’amico medico chirurgo Giorgio Riva, specialista in medicina interna presso la clinica La Quiete di via Annunciata a Milano. Aveva chiesto lumi anche al medico Franco Zighetti, marito di Franca Bassi, figlia dell’amica Maria Bruna Bassi, e – mi suggerisce Andrea Bortoluzzi – al fratello dell’amico notaio Bepi Bortoluzzi, il dottor Emilio Bortoluzzi, fondatore del reparto di rianimazione dell’Ospedale di Circolo, a Varese. Amici medici e medici amici, di ispirazione letteraria (supponiamo) nel ventaglio dei personaggi che abbiamo imparato a conoscere, a riconoscere e ad amare tra le opere narrative di Morselli. Penso ovviamente a Karpinsky di Dissipatio H.G., ma anche al dottor Vanetti di Un dramma borghese, a Saverio Maggio di Uomini e amori e a tante tante figure salvifiche e di accudimento che incontriamo nell’opera narrativa di Guido Morselli. In questo caso, la strada di pubblicazione esula dalla letteratura per pigliare un sentiero divulgativo e di salute, una destinazione di “necessità sociale”.  La struttura è tripartita – spiega Maiolini nel saggio introduttivo Il gusto dello scrittore – “sommaria introduzione alla dietetica in generale”, sulle caratteristiche, le composizioni e i tempi di digestione degli alimenti (vi sono compresi i sintetici Consigli dietetici per sani), il dizionario “vero e proprio”, ossia il lemmario con le voci sulle sostanze commestibili (se ne contano 333), distribuite in ordine alfabetico, con indicazioni varie, da note linguistiche a componenti biochimiche, da proprietà digestive a tradizioni agricole; e infine una sezione sulle diete in regimi terapeutici particolari”. E qual è la finalità? Lo scopo voleva essere fondamentalmente civile come spiega Morselli all’inizio della Presentazione:  > “Scopo del nostro lavoro è stato quello di fornire al pubblico alcune nozioni > elementari e un orientamento di massima, nel campo > dell’alimentazione. È chiaro dunque che il presente volumetto non costituisce, > neppure in compendio, un trattato di bromatologia o di dietetica”. “La materia quando inizia a soffrire” era la sua annotazione alla voce vivere, pescata dal guazzabuglio del suo Diario. Un interesse mai sopito per la dimensione esistenziale che rende Guido Morselli un autore di culto. Come mi conferma Elena Valentina Maiolini. Qui riporto il nostro dialogo.  Come si concilia e dialoga la stesura del «Dizionario dietetico» con la produzione narrativa di Morselli? È il testo preliminare alla stagione creativa dei grandi romanzi. Ci lavora nell’estate del 1956, mentre al primo importante romanzo, Un dramma borghese, sappiamo che si mette nella seconda metà del 1961. Si potrebbe partire da questo dato, per valutare il Dizionario dietetico in rapporto alla produzione narrativa: dopo aver scritto per anni tanti testi brevi (quelli che hai raccolto tu l’anno scorso per il Saggiatore, con Giorgio Galetto e Fabio Pierangeli), prima di cambiare la sua «pelle letteraria» – con le parole di Dante Isella – con il genere del romanzo, si volle cimentare con una forma breve, anzi brevissima: un lemma di dizionario, appunto. Vede la luce a quasi settant’anni dalla sua stesura grazie al Fondo per ricercatori destinatomi dalla Commissione ricerca dell’Università dell’Insubria, che ci tengo a ringraziare, insieme al mio Dipartimento di Scienze umane e dell’innovazione per il territorio e al Centro Storie Locali dell’Insubria. Ma soprattutto, grazie al permesso degli Eredi, sostenuti da te con costanza. Qualcuno ha parlato di “fiducia nella parola” per Morselli, ma è sfiducia nel genere umano? Gianmarco Gaspari ha definito con questa felice formula la predilezione di Guido Morselli per la sintassi breve. Molto spesso le sue frasi si addensano; ci sono proprio dei punti dove la scrittura sulla pagina si restringe, e produce un aforisma: frasi brevi e molto efficaci, evocative, che si mandano a memoria volentieri. Ciò accade senz’altro anche in quest’opera lessicografica che non conoscevamo; e no, non direi che si tratti di una sfiducia nel genere umano. Potresti ben dirlo anche tu, che tanto hai studiato la sua biografia, come potesse essere attento verso gli altri. Sono d’accordo con Vittorio Coletti: l’umanesimo di Morselli consiste in «un’attenta fenomenologia degli atti umani» (atti alimentari, in questo caso!), che sottopone a una lucida osservazione, «con una tonificante dose di realismo pragmatico e positivo».  Che cosa ha spinto Morselli ad abbracciare un così vasto tema e un progetto così profondamente diverso dalle altre sue opere? Non dimentichiamo che non lo sapeva: non sapeva che cosa sarebbe venuto dopo. Per noi è l’autore sommerso di Un dramma borghese, di Roma senza papa, di Dissipatio H.G.… ma al tempo di questa impresa lessicografica, non li aveva ancora scritti. Aveva scritto saggi, articoli dal taglio giornalistico, racconti… poi questo dizionario. Forse era alla ricerca di un genere? Sicuramente il Dizionario dietetico è l’esito di una curiosità intellettuale e umana forte: vi si apprestò con l’entusiasmo testimoniato da alcuni picchi nel tono (come un onore! a Napoli, ideatrice degli spaghetti con le vongole!), e con la curiosità dell’intenditore di pasticcerie cittadine, dell’osservatore di insegne sulle vetrine dei formaggiai… ma anche del coltivatore in proprio di asparagi.  Quali sono le voci più folgoranti o più sorprendenti? Io trovo gustosissime quelle in cui si manifestano alcune sue predilezioni. Ad esempio, per la vita di campagna, rispetto a quella di città: uno dei temi in cui si incanala una vena ironica indubbia, che non gli è stata riconosciuta a sufficienza.  Prendiamo la voce aglio:  > «È veramente un condimento, se non un cibo, sanissimo, e varrebbe la pena di > esercitarci a superare l’avversione che suscita in noi, abitanti della città > raffinati e schizzinosi, il suo agreste profumo».  Questa è folgorante, e ben strutturata: c’è un senso di realtà territoriale, stereotipata, ma non troppo; c’è il profumo della terra, c’è il senso psicologico del cibo. E poi c’è il gusto della lingua italiana: il lessico, con la differenza tra condimento e cibo; la locuzione che definisce (se non un cibo…); le strategie che fanno il tono colloquiale, morbido, mai perentorio, ossia il condizionale (varrebbe la pena) e il noi inclusivo (esercitarci… noi, abitanti). Che cosa aggiunge questa opera inedita alla lettura del corpus letterario di Guido Morselli? Tra le varie cose, direi un catalogo. Appassionati e studiosi di Morselli vi troveranno un prontuario di tanti aspetti declinati in forma narrativa nei romanzi. Tu già dicevi che ci sono molto medici, nei suoi romanzi. E pure sappiamo che ci sono dei cibi, che c’è il caffè… Una mia laureanda, Eleonora Trezzi, sta scoprendo molti contatti con la prima opera che è seguita, Un dramma borghese. Ad esempio, il dottor Vanetti, che prima ricordavi, l’interlocutore privilegiato del protagonista, a un certo punto gli confida di essere socio di una fabbrica di caramelle a Losanna: «Adesso, per integrare il guadagno di medico, che non gli basta, è socio in una fabbrichetta di caramelle, a Losanna, e lo tiene nascosto, dice, per salvaguardare la sua dignità. Le caramelle sono tossiche per lui, gli paiono una degradazione», registra l’io narrante nel suo resoconto quotidiano al magnetofono. Ebbene, tra le fonti del Dizionario c’è un foglietto di pubblicità su uno spazzolino, brevettato nel 1949 da un dentista di Trieste, che sembra proprio esprimere tutte le preoccupazioni che in Vanetti, improvvisato imprenditore contro la salute dentale, si fanno sensi di colpa.  Segnalo che, grazie al permesso degli Eredi, con la tua mediazione, e alla disponibilità del Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di Autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia, ora le fonti di tipo giornalistico e pubblicitario sono tutte in rete nel sito del Centro Storie Locali: https://morselli.cslinsubria.it/. Affrontare e attraversare questo schivo autore del Novecento è un’avventura unica che non lascia indifferenti: che cosa insegna oggi a distanza di oltre mezzo secolo dalla sua scelta di abbandonare la vita? Che la fatica di vivere non è in contraddizione con l’amore per la vita. Linda Terziroli L'articolo “Qualche svago gradito”. I “consigli dietetici” di Guido Morselli proviene da Pangea.
April 14, 2025 / Pangea
“Sogni d’oro, imbecilli!”. Intorno a Holden Caulfield, il pipistrello della letteratura
Catcher in the rye, conosciuto in Italia come Il giovane Holden, esce in America nel 1951 e la sua ambientazione, leggendone i riferimenti, è da collocarsi probabilmente prima del Natale del 1949. È il romanzo che segna il successo, nella sua invero esigua produzione letteraria (un romanzo, nove racconti e quattro novelle), di J. D. Salinger; produzione nella quale ricorrono la descrizione di pensieri e azioni di giovani non adattati, adolescenti perlopiù laconici che non sanno o non possono esprimere ciò che provano realmente, la capacità di sottrarre allo scacco dell’inautentico e alla perdita di un senso verace che i bambini hanno su questi, e il rifiuto verso la società borghese e convenzionale. Questo autore che ha anche ispirato la Beat Generation, consegna con Catcher in the rye un capolavoro senza tempo che ha saputo parlare, in diversi decenni, a tanti lettori, giovani e non, senza perdere di freschezza e urgenza. Il protagonista è uno strampalato, pensoso, a tratti taciturno e a tratti verboso sedicenne, che eccelle in Inglese ed è carente nelle altre materie della scuola di preparazione al college che frequenta in Pennsylvania. Viene espulso dalla scuola e decide di andarsene da solo a intraprendere un viaggio che non ha meta precisa se non il ganglio urbano di New York. Quante volte nella letteratura di tutti i tempi il viaggio è tramite e veicolo di scoperta e rinascita… Ma per Holden Caulfield non è niente di tutto questo: il ragazzo, infatti, nella carrellata di incontri e esperienze che compie, reca con sé e rivolge molte domande ma non riceve mai risposte, o ne riceve di insoddisfacenti, finendo per inasprire il proprio senso di disorientamento e insoddisfazione; il tragitto che descrive è dettato dall’impulso del momento e risulta sconclusionato. Egli cerca forse non il senso della vita, ma se non altro un senso possibile, che non si palesa mai, però, nel corso delle sue picaresche vicissitudini. Holden è una figura romantica in chiave neoterica e novecentesca, parla il gergo dei giovani di allora, cosa che connota fortemente il romanzo per il verso di un realismo, spesso minimale, che ha affascinato generazioni. Appare un perdente, prende pugni, corteggia ragazze che non gli badano granché, sbatte contro muri fatti di convenzioni e contro situazioni che si volgono spesso al peggio o a una mancanza di esito. Tanto per cominciare non ama il cinema, a differenza dei suoi coetanei, forse perché foriero di sogni artefatti, vero corrispettivo di ciò che è mediato in senso deteriore. ed ama, per contro, la schiettezza d’animo (con la quale si esprime egli stesso) al di sopra di ogni altra cosa. Né adulto né bambino, ha pensieri desueti e sconcertanti, ricorda spesso il fratello che ha perso per una leucemia e, così si evince, non ama i propri genitori benestanti ma ha una spiccata simpatia per la sorellina. In un mondo che sembra avere solo strade ferrate, percorsi ordinari e ordinati, Holden si muove come un pipistrello in una stanza. Il suo ex insegnante di Inglese, il solo forse per cui prova simpatia, lo accoglie una notte in cui si trova in difficoltà, nel corso della sua fuga, e gli rivolge parole che parafrasiamo: “la differenza tra una persona immatura e una matura, è che la prima vuole morire per un ideale, la seconda vivere per esso”. Come negare che questo aneddoto che il professore rivolge affettuosamente al protagonista, sia veridico? Vivere significa anche morire mille volte e mille ancora dover risorgere, condurre una strenua battaglia per la verità e la bellezza, in un mondo che le nega entrambe ed è anzi di per sé mortifico. È questo un cimento cui Holden si avvia sprovveduto in ogni forma, sgangherato e idiosincratico, con pensieri strani, autentici e veritativi, che tiene per sé o deve dissimulare, e che fanno a cozzi con la sua sonnolenta, ordinaria generazione che vuole sentirsi adulta anzitempo e si prepara a un ingresso trionfale nella vita matura e che sogna coronato di certezze salde e successo conformi a un “sogno americano” mai così deviante e falso. Perché il suo tempo, il tempo intimo di Holden, fa a pugni con quello storico che vive, ed è una sorta di zona franca dall’ottusità dei più, dalla loro refrattaria esistenza così impermeabile al dubbio; un viatico, insomma, con cui cerca di tenersi lungi da convenzioni e ruoli, e dal dover declinare il suo autentico essere attraverso ogni sorta di possedere, dal doverlo smarrire goccia a goccia scivolando dissanguato nell’alveo dell’età adulta (che mente o è irretita nella menzogna, veste ruoli in cui si identifica totalmente, mette per propri idoli dei fini assoluti e pressoché senza complemento: fini che non le guadagnano senso di responsabilità, ma una pallida copia di esso assieme a un inventario di privilegi). Più propriamente egli non scimmiotta gli adulti né i propri coetanei, non gioca a interpretare nessun ufficio che all’età matura afferisca, raramente pronostica sul proprio futuro, perché tremendamente incombente ma lontano come un orizzonte simile a un’evanescente stringa. Holden non elude l’angoscia della libertà e non vuole entrare grufolante, con decorrenza precoce, tra recinti di affanni e preoccupazioni. In fondo gli basterebbe avere una ragazza a fianco, che sappia “tenerlo per mano”, perché a quell’età si è fragili spighe e nessuna ragazza ci capisce davvero, nessun genitore sa farsi carico, con risposte perspicue anziché cliché e morali posticce, dei dubbi, delle istanze e delle stranezze che si affoltano nella mente di un figlio in crescita… Si è soli in una folla di nomi, postazioni, ruoli, nel mezzo di un mondo che ad esser capito non basta una vita e ad esser sognato non basta una gioventù. Lo slancio sorgivo e autentico di questo giovane si strozza nel finale in rivi stenti di terapia psicanalitica, avverando paradossalmente le parole dell’amico Carl Luce, che dopo un fugace incontro attraversato da disagio e indolenza, gli consiglia di andare da uno psicanalista. Un luogo comune, certo, ma che traduce in fatto tutta la distanza che separa il giovane Holden da quel ragazzo adulto e già inquadrato. Holden, a New York dove è fuggito, si imbarca persino in un incontro con una prostituta senza riuscire a fare altro che parlarci e lasciar passare il suo quarto d’ora per procura, chiedendole poi di rivestirsi.L’amore, nella sua carnalità, è qualcosa a cui non è pronto, o forse semplicemente non a quel modo. Sente, sì, la sua urgenza, ma lo spaventa. Così come ogni cosa che sopravvenga dopo una lunga, smaniosa attesa, ma si riveli spogliata di ogni sogno, vera e cruda, impellente e mai realmente conquistata: solo tale da accadere lasciandoci “secchi”… Prima di fuggire anche da New York, Holden passa una giornata con la sorellina Phoebe, la sola che forse sappia accettarlo e capirlo, seppure in qualche ingenuo modo; e alla sua domanda su cosa Holden voglia fare da grande, lui le confida di voler fare  > “colui che salva i bambini, afferrandoli un attimo prima che cadano nel > burrone, mentre giocano in un campo di segale”.  Pare una sciarada, ma a parte il richiamo a una poesia di Burns e al gioco del baseball cui Holden è affezionato (conserva anche un guantone come ricordo di suo fratello) egli non fa manifesto altro che di voler soccorrere i bimbi persi in un mondo di giochi prima che la vita li getti a strapiombo in una età che si palesa come una rovinosa caduta; o forse semplicemente salvarli dal vuoto della vita, quando finiscono i sogni dell’infanzia e comincia la realtà di un’esistenza che non è pari alla poiesis di nuovi sogni e nuove sfide, ma opaca e priva di un vero senso se non quello artificioso e costrittivo del ruolo di adattati. Caulfield rimane un antieroe che ha affascinato intere generazioni, forse proprio perché così vicino a noi in una straniante età di passaggio che attraversiamo senza certezze e ripari, o nel ricordo di essa, che tanto può aver deciso della nostra vita attuale come anche tanto poco da destare sconcerto ed echi di una paura che perdura come una voce ormai inascoltata. Massimo Triolo L'articolo “Sogni d’oro, imbecilli!”. Intorno a Holden Caulfield, il pipistrello della letteratura  proviene da Pangea.
April 14, 2025 / Pangea
“Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth
Nel 1978, per la Christopher’s Books di Santa Barbara, piccola editrice eletta all’anticonformismo, esce un libro di spregiudicata bellezza. S’intitola The Love Poems of Marichiko; in copertina spiccano aerei, ermetici calligrammi. Kenneth Rexroth, il traduttore, ha settantatré anni, è nato tre giorni prima del Natale del 1905, a South Bend, Indiana. Il padre, venditore di farmaci, alcolizzato, muore che Kenneth è un ragazzino, nel 1919; la madre se n’era andata tre anni prima. Cresciuto con gli zii, a Chicago, reso spregiudicato dalla solitudine, Kenneth a diciannove anni prende la strada, gira il paese in autostop, si dà a diversi lavori – quello più proficuo sembra essere stato la guardia forestale. “Trovai lavoro a Marblemount. Zaino in spalla, mi presentai presso il Forest Service. Mi aprì Tommy Thompson, un tipo meraviglioso. ‘Vieni a cena con noi. Forse ho qualcosa’. Era uno dei paesaggi più selvaggi degli Stati Uniti: non sapevo nulla di scienze forestali, non conoscevo le ruvide vertigini delle montagne. Da bambino, ero stato nelle Alpi. Tommy mi disse di aprire un sentiero, oltre il bosco, verso il ghiacciaio. Partii con una sega, un’ascia, cibo nello zaino per una settimana”. Così scrive Kenneth in uno dei suoi reperti autobiografici; che sono, poi, l’autobiografia di un paese, tra vendemmia di vento e metropoli nell’urlo. Fronte ampia, baffi geroglifici, occhi pieni di pietà. Kenneth Rexroth pubblica il primo libro importante nel 1940, s’intitola In What Hour. Introdotto alla poesia da Louis Zukofsky, diventerà amico di Lawrence Ferlinghetti. A San Francisco, il 7 ottobre del 1955, è Rexroth il gran cerimoniere del leggendario “Six Gallery reading”, quello in cui Allen Ginsberg legge Howl, specie di Pentecoste dei Beat. Quando qualcuno gli dice di essere stato il profeta dei Beat, il Giovanni Battista di quella generazione di imbestiati e ‘battuti’, Rexroth si ribella – li credeva, Kerouac, Ginsberg & Co., tumefatti dalla fama, affratellati ai santi, in fondo, dei traditori. Lui era rimasto ciò che era: un uomo docilmente ribelle ai canoni imposti, un anarchico, un ulisside cercatore. Più prossimo al medianico Ezra Pound che al mediatico ribellismo di quella generation, Rexroth aveva tracciato da tempo la sua via verso Oriente: autodidatta, avventuriero dalla mente Bucefalo, per la New Directions aveva tradotto One Hundred Poems from the Japanese (1955) e One Hundred Poems from the Chinese (1956). Implacabile poligrafo, animato da una curiosità, si direbbe, animalesca, Rexroth ha tradotto García Lorca e Machado, Pierre Reverdy e Antonin Artaud, Basho e Wang Wei, Saffo e Leopardi (L’infinito attacca così: “This lonely hill has always/ Been dear to me, and this thicket / Which shuts out most of the final/ Horizon from view…”). Nella prefazione a The Phoenix and the Tortoise (1944) dichiarò di rifarsi “a fonti ellenistiche, bizantine e tardo romane – e a Marziale”. La poesia si sviluppava secondo “un più o meno sistematico, più o meno preciso punto di vista”; il poeta dichiarava il proprio “senso di disperazione e di abbandono di fronte al collasso di un intero sistema di valori culturali”. La raccolta era dedicata a David Herbert Lawrence – “morto nel tentativo di rifondare una famiglia spirituale” – e ad Albert Schweitzer, “l’uomo che, in questi tempi, ha realizzato il sogno di Leonardo da Vinci – Leonardo, che morì impotente, lasciando i suoi progetti a metà, che ha dimostrato che la volontà umana è una porta troppo stretta perché una persona possa forzarla verso l’universale”.  Infaticabile ‘molestatore’ culturale, nel 1949 Rexroth firma un’antologia che raduna il meglio dei New British Poets, dedicata, in parti uguali, a James Laughlin, il suo editore, e, “come sempre”, alla moglie, Marie. Lì, senza tema di discepoli, sono stivati i poeti che seguono il dominio di Eliot e di W.H. Auden: George Barker e Hugh Macdiarmid, Lawrence Durrell e David Gascoyne, Stephen Spender e Denise Levertov. Il cuore dell’antologia è Dylan Thomas (“Non c’è dubbio che sia lui il giovane poeta più influente che scriva oggi in Inghilterra. L’unanimità con cui tutti, tranne gli irriducibili stalinisti e i versificatori domestici, da rivista, lo indicano come il più formidabile fenomeno della poesia contemporanea è semplicemente sbalorditiva”); mirabili le pagini introduttive: > “Dylan Thomas è sfacciato. Non si mostra mai a cuore aperto. Ti prende per il > collo. Ti incunea il cuore in gola. Ti colpisce il muso con un cuore > sanguinante e odoroso, un cuore pieno di vermi e di aghi, di nerosangue, > spinato, il cuore di un lupo mannaro… Dylan Thomas scrive come se non avesse > mai incontrato essere umano, come se non conoscesse lo spazzolino da denti. > Non c’è nulla di male in questo. Egli è un capo selvaggio che guida la sua > spedizione di cacciatori, per fare lo scalpo ai visi pallidi. Appartiene a una > stirpe di eroi”.  In fondo estraneo ai patronimici della fama, ai club, alle combine dei premi, spesso disperso in piccole edizioni d’arte, Rexroth ha scritto di William Blake e di Rimbaud, dei canti dei nativi americani e del jazz, di Isaac B. Singer e della controcultura americana, dell’Ecclesiaste e della Cabbala. Un suo saggio sonda i legami tra Coleridge e lo Zen; un articolo pubblicato sul “San Francisco Examiner” – di cui era editorialista – s’intitola The Tao of Fishing, esce nell’agosto del 1960: il mese prima si era occupato del teatro Kabuki e di Samuel Beckett. È difficile, intendo, trovare un poeta dagli interessi tanto poliedrici ed eterogenei: leggere Rexroth è una gioia del cervello, obbliga a una perpetua gimkana tra comodità e convenzioni, è un poeta sempre in allarme, Rexroth, è un poeta-sentinella, alle pendici di un evo appena intuito. Ha scritto, con la stesso assiduo, generoso genio, con l’audacia del perpetuo dilettante, del bambino eterno, di Simone Weil e degli haiku, di Matteo Ricci, il gesuita nato a Macerata che partì nel Cinquecento ad evangelizzare la Cina, e delle lettere di Van Gogh. In Italia, tuttavia, Rexroth è per lo più un paria. L’ho conosciuto grazie a Flavio Santi: nel 1999, per Marcos y Marcos, ha curato l’antologia Su quale pianeta; esiste, ormai, nel mercato secondario. InternoPoesia, per la cura di Francesco Dalessandro, pubblicherà un mannello di “poesie scelte” come Lasciati celebrare.La celebreremo.   Cristina Giorcelli ha scritto che Rexroth, “Tenace oppositore del materialismo contemporaneo, nutrì palingenetiche speranze nelle filosofie orientali e nella poesia. Nella sua visione, mistica e sensuale a un tempo, la poesia costituisce l’atto comunicativo, ‘sacramentale’, per eccellenza: in poesia, infatti, il suono, il ritmo, l’attenzione alla calligrafia (quale si rivela nella resa grafica delle traduzioni di Rexroth di poesia cinese e giapponese), la cura tipografica del testo, devono partecipare all’‘estasi del senso’”.  In appendice, diamo minimo conto dell’affinità tra Rexroth e il mondo orientale: le sue traduzioni dicono – poundianamente – di un’armonia da lotofago, l’ingordigia della bellezza. Il poeta che traduce divorando.  Rexroth morì a Santa Barbara nel giugno del 1982. Poco prima, si era convertito al cattolicesimo; nel 1978 aveva pubblicato come The Burning Heart una selezione di “poetesse giapponesi”. Fu una raccolta di successo, poi ripresa da New Directions: per la prima volta, si squarciavano i paraventi di un’era remota, di una femminilità irredenta. The Love Poems of Marichiko pareva un’appendice a quell’assiduo lavoro di ricerca. Le poesie sono delicatissime, scritte su veli di carta, da mollare ai venti: > “Fare l’amore con te > è come bere acqua di mare. > Più bevo > più sete mi setaccia > niente può placarla, se non: > bere il mare per intero” > “E un giorno, sei pollici di > cenere sarà ciò > che resta del nostro incendio > mentale, di tutto il mondo creato, > di questo amore, l’origine > la dissipazione” Dietro il volto della giovane poetessa contemporanea Marichiko, si nascondeva Kenneth Rexroth. Estremo gioco d’ombre di un cannibale del linguaggio. Rexroth eccelleva nella poesia d’amore; l’arte dei famelici. ** GIAPPONE Yosano Akiko (1878-1942) Neri i capelli in mille rivoli annodati annodati i capelli annosi annodati nodosi ricordi delle nostre infinite notti d’amore. * L’autunno sfiorisce: nulla dura per sempre.  Il fato sfata le nostre vite. Accarezza i miei capezzoli con le tue mani da manovale.  * Cogli i miei seni squarcia ogni mistero un fiore esplode è cremisi e profuma.  * Fukao Sumako (1895-1974) Casa luminosa Che casa luminosa: nessuna stanza è resa al buio. La casa si erge alta sulle scogliere, scandita come un faro.  Quando arriva la notte depongo una luce una luce più grande del sole e della luna. Pensa  al mio cuore che si flette quando con dita tremanti accendo un fiammifero nella sera. Sollevo il petto inspiro ed espiro al rumore dell’amore come la figlia del guardiano del faro.  Questa è una casa luminosa. Voglio creare un mondo che nessun uomo può costruire.  * Noriko Ibaragi (1926-2006) La mente di una bambina Ecco cosa aveva in mente una bambina: perché la schiena delle mogli odora così forte di magnolia o di gardenia?  Cos’è  quel futile velo di nebbia sulle spalle delle mogli? Ne voleva avere  quella meravigliosa cosa che alle vergini è vietata.  La bambina crebbe divenne moglie – fu madre.  Un giorno capì: la tenerezza che si ammucchia sulle spalle delle mogli non è che fatica di amare – amare giorno dopo giorno.  * CINA Huang O (1498-1569) Sopra la melodia “Nuvole imbizzarrite” Hai tenuto il mio fiore di loto tra le labbra, hai slabbrato il pistillo. Abbiamo rubato un frammento del magico corno del rinoceronte: insonni per tutta la notte – per tutta la notte la cresta leonina del gallo  si è fermata. Per tutta la notte l’ape si è incuneata tremando tra gli stami del fiore. Oh mio dolce gioiello! Soltanto il mio signore domina sul sacro stagno di loto: ogni notte fa esplodere in me i suoi fiori di fuoco.  * Sun Yün-Feng  (1764-1814) Sulla strada, attraversando Chang-te L’anno scorso ho attraversato questo luogo: mi è piaciuto e sono felice di esserci ancora.  Il mercato del pesce si inabissa tra ombre blu. Da una locanda con il tetto di paglia si snoda il fumo del tè.  Le sabbie, a riva, interrano la bianca luna: il fiume sussurra. I salici attendono il verde della ventura primavera. I versi di una poesia mi lacerano. L’ho preteso: fermi per un po’, destriero.  * Viaggio tra le montagne  Il vento occidentale invita alla nostalgia: la polvere del carro sale fino alle nubi – è sera.  Le cicale fischiano tra le foglie ingiallite.  Al tramonto l’ombra di un uomo è spaventosa come una montagna – gli uccelli si ritirano tra i greti del sonno. Vago senza fermarmi – ho perso la via di casa. Mentre ammiro il fiume, un brivido d’invidia per il pescatore che siede in solitudine: pensa pensieri eleganti, senza peso.  * Qiu Jin (1875-1907) Una lettera alla Signora T’ao Ch’iu Sono sola con la mia ombra mormoro e scrivo strani  caratteri nell’aria, come Yin Hao.  Vino e malanni non mi spezzano non soffro per chi non c’è più: per avere ragione del mio cuore Li Ch’ing-chao ha messo sotto  torchio una città intera. Nessuno può capirmi: le mie visioni superano quelle degli uomini che mi stanno al fianco –  ma sopravvivere è impossibile.  A cosa serve il cuore di un eroe in abiti femminili? Il mio destino è il rischio: imploro il Cielo – le eroine del passato hanno mai  conosciuto l’invidia? L'articolo “Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth proviene da Pangea.
April 12, 2025 / Pangea
“Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con Maria Borio
Ancora Emily Dickinson? Questo ho pensato – devo ammettere – quando mi sono ritrovata davanti un altro libro della più famosa poetessa statunitense. “Più famosa” oggi, si intende. Negli ultimi anni abbiamo infatti assistito a una proliferazione di testi su o della “reclusa di Amherst” che in vita pubblicò pochissimo, e non fu quasi mai compresa – basti pensare che la prima edizione critica delle sue 1.775 poesie, a cura di Thomas H. Johnson, risale al 1955, sessantanove anni dopo la sua morte. Tutti pazzi per Emily, dunque: nuove traduzioni, nuove biografie, romanzi che la vedono protagonista, diversi film, fino ad arrivare a una (terribile) serie televisiva. Brucia un grande fuoco attorno alla sua figura. In tale contesto, c’è chi potrebbe domandarsi, con malinconia, se tutta questa attenzione avrebbe fatto piacere alla scrittrice solitaria, che si “auto-isolava” dal mondo esterno. Qualcun altro, invece, con ferina curiosità, si chiede perché proprio Dickinson sembra essere stata eretta a diventare il santino della poesia femminile – se non addirittura femminista. Sono domande a cui non so rispondere – non è compito mio –, ma posso dire che questo libro (Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, Crocetti Editore, 2025) mette in risalto alcune caratteristiche della poetessa che sono passate in secondo piano rispetto ad altre più decantate dalla critica. Prima di tutto, è interessante il progetto che si cela dietro al libro: i componimenti sono stati scelti da Jorie Graham, una delle voci poetiche più importanti e significative dei nostri giorni. Nata a New York nel 1951, è cresciuta in Italia, a Roma. Vincitrice del Premio Pulitzer per la poesia nel 1996, dal ’99 insegna scrittura creativa all’Università di Harvard – ricoprendo il ruolo che fu del poeta irlandese (e Premio Nobel) Seamus Heaney. Con i suoi versi traccia una lotta contro la decadenza del mondo, il caos e lo smarrimento. Si è confrontata con le poesie di Dickinson. Quelle qui raccolte rappresentano un campionario esemplare dei motivi più rilevanti e degli aspetti stilistici principali della sua produzione. La cura del volume è affidata a Maria Borio, come la traduzione – affrontata insieme a Jacob Blakesley. L’obiettivo principale: quello di “presentare una versione quanto più autentica della scrittura poetica di Dickinson e del suo carattere di autrice […]. Lo stile e la lingua di questa poesia testimoniano, infatti, che D. si confrontava acutamente con le questioni intellettuali e sociali più rilevanti della sua epoca, anzi che era all‘avanguardia, anticipando fenomeni artistici e di pensiero del Novecento”. Maria Borio è poeta e saggista. Dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea, cura la sezione poesia di «Nuovi Argomenti». La sua ultima silloge, Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni, Interlinea 2019) è stata tradotta negli USA. Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018). Ha gli occhi profondi e la voce gentile. Alla presentazione del libro di Crocetti, a Milano – in dialogo con Benedetta Centovalli e Tommaso Di Dio –, ha affascinato gli uditori parlando della “luce oscura” di Emily, della percezione fisica nelle sue poesie, della rivoluzione che ha creato a partire dal suo limite. Mi sono avvicinata, mi ha permesso di porle qualche domanda.  Cinquantacinque poesie, scritte da Emily Dickinson, selezionate da Jorie Graham, tradotte da Maria Borio e Jacob Blakesley. Credi che la poetessa statunitense contemporanea abbia fatto da “mediatore”, attraverso la sua sensibilità, nella selezione dei testi che più rappresentano Emily? Ritieni che la cooperazione tra diversi attori (e tra più poeti) abbia arricchito queste traduzioni, offrendo nuove prospettive rispetto alle versioni precedenti? Jorie Graham ha offerto un campione di poesie che restituisce una fisionomia autentica della poetica di Emily Dickinson, a lungo miscompresa. Non si tratta di una poetessa vagamente misticheggiante, vergine sacrificale confinata nella Homestead, ma di una scrittrice e intellettuale al passo con il proprio tempo, fine osservatrice delle questioni politiche, filosofiche, teologiche e letterarie del Rinascimento Americano, cioè quel giro di decenni in cui emergono le voci di Emerson con Self-Reliance e Thoreau con Walden, fino a Leaves of grass di Whitman. Lo sguardo di Emily si innerva anche di scienza, dalla botanica alla geologia; non dimentichiamo che condivideva le teorie di Darwin e leggeva l’«Atlantic Monthly». La sua poesia realizza una rivoluzione percettiva, esistenziale ed ontologica. La cooperazione che è alla base della raccolta cerca di restituire il carattere acuto e polivalente di questa rivoluzione. Tu stessa hai sottolineato la grande attenzione che si è posta nella resa del ritmo e nel rispetto della punteggiatura di Emily. Com’è stato adattarsi al suo “andamento meditativo anticonvenzionale”, e all’impossibilità di riportare sempre la rima? La metrica degli originali reinterpreta soprattutto la tradizione dei versetti cantati nella liturgia protestante, estranea alla poesia italiana. Ma perdere le corrispondenze della rima non comporta la rinuncia a quelle delle assonanze e delle consonanze e delle allitterazioni: non impedisce, cioè, di ricomporre una specie di tessuto ritmico sinottico parallelo a quello delle versioni inglesi. La punteggiatura, soprattutto i trattini, è il punto d’unione tra l’inglese di Dickinson e l’italiano, grazie a cui è stato ricucito il ritmo sincopato nelle traduzioni. Questa poesia si snoda come un discorso della coscienza, in anticipo rispetto allo stream of consciousness del Novecento, con avanzamenti e indietreggiamenti, in presa diretta, nel suo farsi. È il ritmo, prima che ogni altro aspetto stilistico, che rende questi testi come fotografie di una mente in movimento, nel suo tempo storico contingente, eppure percepita vicina, contemporanea, anche da chi legge oggi. Il ritmo dà a questa poesia una tangibile universalità. Quali sono, secondo te, gli aspetti linguistici di Dickinson più difficili da rendere in italiano? Le espressioni ironiche. Due esempi: l’uso di “Gentlemen”, quando Emily si rivolge a un ipotetico consesso di filosofi e scienziati che cercano di stabilire che cosa sia la fede, e che è stato tradotto con “Lor Signori” in “Faith” is a fine invention…; oppure, in I’m Nobody! Who are you?…, l’espressione “the livelong June”, tradotto “tutto il santo Giugno”, che descrive il tempo stagionale dell’assordante gracidare delle rane. Qual è la forza di Emily Dickinson, la sua modernità? Ciò che le permette di essere nel tempo, di resistere, anche quando i suoi versi non vengono compresi – addirittura rovinati, storpiati? Il ritmo, come dicevo prima, di una mente inquieta e totalmente vera – per questo è Brain, reale e pulsante, e non l’astratta Mind –, che non scrive soltanto per esprimere se stessa, ma per cercare di capire il mondo. La poesia come forma di intelligenza. L’ironia che accompagna la lirica di Emily Dickinson potrebbe essere intesa come elemento di innovazione rispetto alla tradizione poetica a lei contemporanea? C’è un componimento in particolare dove questi due elementi sono inseparabili, a tuo parere? L’ironia di Dickinson non è un espediente comico o una semplice tecnica di straniamento. Si tratta di un modo per inclinare e affinare la visione: un’angolatura diversa, che ci raggiunge all’improvviso, un’inversione di marcia rispetto all’abitudine e all’ipocrisia, un’intensificazione dell’intelligenza che cerca il fondo autentico dell’esperienza umana. Tell all the Truth, but tell it slant…, cioè “Dì tutta la Verità, ma dilla obliqua”: non esiste un’unità di senso, logica o scientifica, che fornisce soluzioni o regola le nostre vite in schemi e leggi; la verità è fatta di possibilità e di domande, e spesso sta proprio in quest’ultime, non nelle risposte. L’ironia serve a Dickinson per interrogare. “Sgretolarsi non è l’Atto di un istante/ […] Scivolare – è la legge del Signor Crollo –”. Commenteresti questi versi? Uno dei temi su cui Dickinson ritorna in modo ossessivo è la morte, il decadimento della materia, lo sgretolarsi del qui e ora. Il pungolo dell’esistenza che si scompone è controbilanciato da quello per l’eternità. Se la condizione delle creature mortali è transeunte, qual è quella opposta? L’eternità è plausibile, o è solo un’illusione che consola, come le promesse della fede possono essere un palliativo alle ingiustizie reali? Banalmente, Emily aveva una consuetudine quotidiana con la morte: la sua casa era vicina a un camposanto, come in moltissime cittadine americane dell’epoca, e i lutti si verificavano non di rado! Il tendere inevitabile della vita verso la morte, con l’ipoteca dell’eternità che attende al varco, la attira e la snerva: abituata a interrogare qualsiasi fenomeno, lo sgretolamento fisiologico e processuale (“non è l’Atto di un istante”) del corpo coincide, per lei, con la terribile dissoluzione della capacità di pensare, di avere una coscienza, che spera invece possa perpetuarsi. Il nostro decadimento è irreversibile, perciò è una “legge”, ma Dickinson sa affrontarlo con ironia e, infatti, “Crashe’s law” è stato tradotto con “legge del Signor Crollo”. Anche il tremendo decadimento è posto al vaglio di un’interrogazione. Possiamo dire che la poesia, per Emily Dickinson, è lo strumento che occorre per interrogare i rapporti tra le cose – e se stessa. Da poeta, tu condividi questa visione? Sì. La poesia è una forma di pensiero che, interrogando, esprime una creazione e decreazione continua di rapporti. Ti sei occupata, tra i tuoi studi, di Eugenio Montale. Nell’Introduzione al volume di Crocetti scrivi che “se Montale avesse dato meno peso alla religione nell’opera di Dickinson, forse si sarebbe accorto che alcuni aspetti della propria poetica lo accomunavano a quest’autrice”. Dove hai individuato maggiormente questi aspetti? Montale aveva una visione del mondo atea ed esistenzialista. Ma la sua poesia è anche una poesia di pensiero, come quella di Valéry. Spesso ha un tono filosofico. Non chiederci la parola…, negli Ossi di seppia, termina in questo modo: “questo solo possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, cioè condensa in una chiusa quasi epigrammatica una dichiarazione sull’esistenza umana, una dichiarazione che è metafisica, asserisce una verità. La prospettiva metafisica non è, però, astratta, incorporea, ma radicata nelle dinamiche complesse della coscienza. Per il legame viscerale e sensuoso tra coscienza e metafisica, Montale è vicino a Dickinson. Credo che tradurre un poeta comporti il fatto di passarci insieme molto tempo. “Abitare” il suo linguaggio – verbo a Emily tanto caro. Posso chiederti quali sensazioni o emozioni sono sorte in te durante, o dopo, questa esperienza? Emily Dickinson ha in qualche misura influenzato anche il tuo modo di guardare alla realtà? Ho imparato qualcosa di paradossale: l’arte di non prendersi sul serio. Non si tratta di irresponsabilità o superficialità, anzi, proprio l’opposto. Fino a quando ci ostiniamo a prendere estremamente sul serio quello che facciamo, con caparbietà, per quanto genuina, restiamo confinati in noi stessi, chiusi nell’ego. Allentando la tensione, con una curvatura ironica e un’accettazione del perdono, anche scegliendo di affrontare le cose con un impeto tragico, forse potremo riuscire a vederci come ci può vedere un altro, ad abitare lo spazio dell’altro, ad essere più autentici. Il tuo peggior nemico è te stesso. Anna Taravella ** 657 Io abito nella Possibilità – Una Casa più bella della Prosa – Più abbondante di Finestre – Più ricca di Porte – Di Camere come Cedri – Inespugnabili dall’Occhio – E come Tetto Eterno Le volte del Cielo – Di Visitatori – i più belli – Per il Lavorìo – Questo – Dispiegare ampio delle mie strette Mani A raccogliere il Paradiso – * 1129 Di’ tutta la Verità ma dilla obliqua – Il successo sta in un Circuito Troppo brillante per la nostra debole Delizia La sorpresa stupenda della Verità Come il Fulmine che per i Bambini si attenua Con spiegazioni soavi La Verità deve abbagliare gradualmente O tutti sarebbero ciechi – * 599 C’è un dolore – così totale – Che ingoia l’Essere – Poi copre l’Abisso con lo Stordimento – Così la Memoria può passarci Intorno – Attraverso – Sopra – Come chi in un Delirio – Vada sicuro – un occhio aperto – Lo farebbe cadere – Osso dopo Osso – * 997 Sgretolarsi non è l’Atto di un istante Una pausa fondamentale, I processi di Disgregazione Sono Decadimenti organizzati – Prima c’è una Ragnatela sull’Anima Una Pellicina di Polvere Un Tarlo nell’Asse Una Ruggine Primaria – La Rovina è accurata – il lavorio del Diavolo Consequenziale e lento – Perdersi in un istante, nessun uomo l’ha fatto Scivolare – è la legge del Signor Crollo – * 258 C’è un certo Taglio di luce, Pomeriggi d’Inverno – Che opprime, come la Gravità Delle Melodie da Cattedrali – Una Ferita celeste, ci procura – Noi non troviamo la cicatrice, Ma un’intima differenza, Dove è ciò che conta – Nessuno può insegnarla – Nessuno – È il Sigillo della Disperazione – Un’afflizione imperiale Mandata a noi dall’Aria – Quando arriva, il Paesaggio ascolta – Le Ombre – trattengono il respiro – Quando se ne va, è come la Distanza Negli occhi della Morte – * 642 Bandire – Me da Me stessa – Ne avessi l’Arte – La mia Fortezza invincibile Da Ogni Cuore – Ma poiché Io stessa – Mi assalto – Come potrei aver pace Se non soggiogando La Coscienza? E poiché Noi due siamo Re l’una per l’altra Come potrebbe essere Se non Abdicando – Me – da Me? Da Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, tr. it. di Maria Borio e Jacob Blakesley, Crocetti, 2025 L'articolo “Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con Maria Borio proviene da Pangea.
April 11, 2025 / Pangea