Nella Romagna di metà Ottocento che faceva parte dello Stato Pontificio ed era
amministrata da una fitta rete di legazioni presidiate dagli austriaci, l’ordine
di disarmo fu così capillare che si racconta si dovettero far spuntare persino i
coltelli da tavola. Era una terra di confine, attraversata da commerci,
contrabbandi e malcontento politico, dove le vie maestre collegavano città e
campagne ma offrivano anche rifugio a bande di fuorilegge. Il brigantaggio non
era solo criminalità comune, spesso si intrecciava con fermenti rivoluzionari e
con un radicato sentimento di avversione verso l’autorità pontificia.
In questo scenario, la sera del 25 gennaio 1851 si verificò quello che Francesco
Serantini definì l’avvenimento più clamoroso, passato alla storia come I fatti
di Forlimpopoli. È stata proprio la voce di uno dei più grandi scrittori
romagnoli, colui «che ha unito Virgilio e Stecchetti» e autore, con Addio alle
Valli, di uno dei più bei libri di letteratura venatoria mai scritti, a
ritrovare il polveroso fascicolo istruttorio del fatto e riportarcelo con
assoluta aderenza alla realtà.
La città ospitava al proprio teatro una rappresentazione lirica che aveva
richiamato gran parte della borghesia e delle autorità locali. In un’Italia
ancora frammentata in Stati e Ducati, in una Romagna percorsa da tensioni
politiche e sociali, quella cornice di svago divenne improvvisamente teatro di
un evento destinato a entrare nella cronaca e nella leggenda: l’irruzione di
Stefano Pelloni, detto il Passatore, e della sua banda armata. L’agguato non fu
soltanto un atto di brigantaggio, ma un episodio che rivelò, con crudezza, la
fragilità dell’ordine pubblico in una terra di confine.
Pelloni, nato a Boncellino nel 1824, crebbe in questo clima, e in pochi anni
divenne il più noto e controverso tra i briganti romagnoli.
Soprannominato Passator Cortese perché il padre era traghettatore del Lamone e
per una fama, non sempre veritiera, di gentilezza verso i poveri e durezza verso
i ricchi. Garibaldi ne era un estimatore: si diceva volesse essere suo compagno
nella lotta contro gli austriaci.
Quella sera dal cielo grigio di nebbia, il teatro di Forlimpopoli era gremito.
In palchi e platea sedevano famiglie benestanti, professionisti, ufficiali e
funzionari, riuniti per assistere alla rappresentazione dell’episodio biblico
de La morte di Sisara.
> «Giaele uscì incontro a Sisara e gli disse: “Fermati, mio signore, fermati da
> me: non temere”.
> Egli entrò da lei nella sua tenda ed essa lo nascose con una coperta.
> Egli le disse: “Dammi un po’ d’acqua da bere perché ho sete”.
> Essa aprì l’otre del latte, gli diede da bere e poi lo ricoprì.
> Egli le disse: “Sta’ all’ingresso della tenda; se viene qualcuno a
> interrogarti dicendo: C’è qui un uomo? dirai: Nessuno”».
Poco dopo l’inizio dello spettacolo, il Passatore e una quindicina di uomini
(non molti in verità, ma i più audaci, dai soprannomi che ricordano i diavoli di
Malebolge) circondarono l’edificio, bloccando le uscite e disarmando le
sentinelle. Entrati in sala, intimarono agli spettatori di rimanere ai loro
posti, mentre i complici perlustravano il teatro per raccogliere ogni cosa
preziosa che trovavano. L’operazione fu rapida e organizzata: un bottino ingente
e un’umiliazione pubblica per le autorità pontificie, incapaci di prevenire
l’assalto in un luogo simbolo della vita cittadina.
«La sera del 25 gennaio 1851 Stefano Pelloni detto Il Passatore, guidando una
masnada di ladri invase la città e in questa sala decretò impunito taglie e
ricatti consacrando al riso ed alla vergogna la viltà dei governi non consentiti
dal popolo libero e cosciente», recita una lapide apposta all’interno del teatro
dettata da Olindo Guerrini, lo Stecchetti che non ha mai perso l’occasione di
scagliare i suoi strali blasfemi e divertiti contro la Chiesa.
La notizia dell’assalto al teatro si diffuse rapidamente in tutta la Romagna e
oltre, alimentando la fama del Passatore. Per alcuni, fu la prova della sua
audacia e della sua capacità di colpire il potere nei suoi luoghi più sicuri;
per altri, soltanto un atto criminale che sfruttava la debolezza dell’ordine
pubblico. Mentre al teatro di Forlimpopoli si consumava l’assalto, un altro
episodio di quella notte segnò profondamente la memoria cittadina: l’aggressione
in casa di Pellegrino Artusi, allora giovane commerciante nella
bottega-guazzabuglio di famiglia. Proprio a seguito dell’agguato, l’allora
trentenne decise di spostarsi da Forlimpopoli a Firenze, dove poi scrisse La
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene.
La dimora della famiglia Artusi si trovava non lontano dal teatro, affacciata
sulla Rocca della piazza principale: il bottino del palcoscenico non fu
sufficiente a placare l’avidità della banda. Alcuni uomini del Passatore si
recarono nelle abitazioni dei presenti, costringendo gli occupanti a consegnare
denaro e beni. Nella sua autobiografia, l’Artusi racconta con precisione e
amarezza l’episodio che colpì la sua famiglia quella notte. I briganti del
Passatore riuscirono a entrare in casa grazie a un inganno: a bussare alla porta
fu l’avvocato Ruggero Ricci, amico di famiglia, appena derubato a casa propria
dopo esser stato prelevato dal teatro. Ricci si presentò annunciando l’arrivo in
città di amici venditori di zucchero e spezie, desiderosi di fare affari. Il
tradimento si consumò in questo modo: la porta si aprì, i banditi irruppero. Il
vecchio padre riuscì a fuggire, Pellegrino si comportò con coraggio ma senza
impedire che i malviventi facessero bottino, una delle sorelle scappò sui tetti.
La stessa, Gertrude Artusi, dallo spavento (e forse da una violenza subita,
anche se non si hanno conferme in merito) impazzì e morì reclusa nel manicomio
di Pesaro.
> «Ma Giaele, moglie di Eber, prese un picchetto della tenda, prese in mano il martello,
> venne pian piano a lui e gli conficcò il picchetto nella tempia, fino a
> farlo penetrare in terra. Egli era profondamente addormentato e sfinito;
> così morì».
Artusi stesso precisa che Ricci agì sotto costrizione della banda e che, come
conferma anche Serantini, anche lui sarebbe stato derubato; tuttavia, ciò che il
futuro scrittore non gli perdonò fu la mancanza di un gesto di umanità. Nei
giorni seguenti l’avvocato non si presentò nemmeno per chiedere scusa alla
famiglia:
> «A questa trepidante scena era presente il Ricci a cui rivoltomi dissi: “Avete
> fatto una bella prodezza!” ed egli: “Son stato costretto”. Nessuno lo
> costringeva però di non venire o di non mandare i giorni appresso a fare un
> atto di scusa per la involontaria ma brutta azione commessa».
Il destino finale, che sembrava avviarsi su un sentiero karamazoviano, ha invece
preso un’altra direzione. «Come segue in un pranzo che gli amaretti si servono
in ultimo» diceva Artusi, così anche questa vicenda trova nel finale il suo
momento più significativo, quello della riconciliazione. A distanza di oltre un
secolo, quel silenzio è stato simbolicamente colmato. Solo recentemente, grazie
a una testimonianza ritrovata nell’archivio della famiglia Foschini di
Forlimpopoli, si è venuti a conoscenza che il pronipote dell’avvocato Ricci,
l’architetto Ruggero Foschini, si mise in contatto con il pronipote di
Pellegrino, lo storico Luciano Artusi. I due si incontrarono nel 2008, a
distanza di 157 anni dalla terribile notte, e l’architetto chiese formalmente
perdono a nome del bisnonno. La stretta di mano tra i due, fissata in una
fotografia, restituì finalmente un atto di riparazione morale a una ferita
rimasta aperta nella memoria familiare e cittadina.
Cesare Dal Pane
*In copertina: Silvestro Lega, Giuseppe Mazzini morente, 1873
L'articolo “Avete fatto una bella prodezza!” Pellegrino Artusi & la vita
violenta del Passator Cortese proviene da Pangea.