Nella Romagna di metà Ottocento che faceva parte dello Stato Pontificio ed era
amministrata da una fitta rete di legazioni presidiate dagli austriaci, l’ordine
di disarmo fu così capillare che si racconta si dovettero far spuntare persino i
coltelli da tavola. Era una terra di confine, attraversata da commerci,
contrabbandi e malcontento politico, dove le vie maestre collegavano città e
campagne ma offrivano anche rifugio a bande di fuorilegge. Il brigantaggio non
era solo criminalità comune, spesso si intrecciava con fermenti rivoluzionari e
con un radicato sentimento di avversione verso l’autorità pontificia.
In questo scenario, la sera del 25 gennaio 1851 si verificò quello che Francesco
Serantini definì l’avvenimento più clamoroso, passato alla storia come I fatti
di Forlimpopoli. È stata proprio la voce di uno dei più grandi scrittori
romagnoli, colui «che ha unito Virgilio e Stecchetti» e autore, con Addio alle
Valli, di uno dei più bei libri di letteratura venatoria mai scritti, a
ritrovare il polveroso fascicolo istruttorio del fatto e riportarcelo con
assoluta aderenza alla realtà.
La città ospitava al proprio teatro una rappresentazione lirica che aveva
richiamato gran parte della borghesia e delle autorità locali. In un’Italia
ancora frammentata in Stati e Ducati, in una Romagna percorsa da tensioni
politiche e sociali, quella cornice di svago divenne improvvisamente teatro di
un evento destinato a entrare nella cronaca e nella leggenda: l’irruzione di
Stefano Pelloni, detto il Passatore, e della sua banda armata. L’agguato non fu
soltanto un atto di brigantaggio, ma un episodio che rivelò, con crudezza, la
fragilità dell’ordine pubblico in una terra di confine.
Pelloni, nato a Boncellino nel 1824, crebbe in questo clima, e in pochi anni
divenne il più noto e controverso tra i briganti romagnoli.
Soprannominato Passator Cortese perché il padre era traghettatore del Lamone e
per una fama, non sempre veritiera, di gentilezza verso i poveri e durezza verso
i ricchi. Garibaldi ne era un estimatore: si diceva volesse essere suo compagno
nella lotta contro gli austriaci.
Quella sera dal cielo grigio di nebbia, il teatro di Forlimpopoli era gremito.
In palchi e platea sedevano famiglie benestanti, professionisti, ufficiali e
funzionari, riuniti per assistere alla rappresentazione dell’episodio biblico
de La morte di Sisara.
> «Giaele uscì incontro a Sisara e gli disse: “Fermati, mio signore, fermati da
> me: non temere”.
> Egli entrò da lei nella sua tenda ed essa lo nascose con una coperta.
> Egli le disse: “Dammi un po’ d’acqua da bere perché ho sete”.
> Essa aprì l’otre del latte, gli diede da bere e poi lo ricoprì.
> Egli le disse: “Sta’ all’ingresso della tenda; se viene qualcuno a
> interrogarti dicendo: C’è qui un uomo? dirai: Nessuno”».
Poco dopo l’inizio dello spettacolo, il Passatore e una quindicina di uomini
(non molti in verità, ma i più audaci, dai soprannomi che ricordano i diavoli di
Malebolge) circondarono l’edificio, bloccando le uscite e disarmando le
sentinelle. Entrati in sala, intimarono agli spettatori di rimanere ai loro
posti, mentre i complici perlustravano il teatro per raccogliere ogni cosa
preziosa che trovavano. L’operazione fu rapida e organizzata: un bottino ingente
e un’umiliazione pubblica per le autorità pontificie, incapaci di prevenire
l’assalto in un luogo simbolo della vita cittadina.
«La sera del 25 gennaio 1851 Stefano Pelloni detto Il Passatore, guidando una
masnada di ladri invase la città e in questa sala decretò impunito taglie e
ricatti consacrando al riso ed alla vergogna la viltà dei governi non consentiti
dal popolo libero e cosciente», recita una lapide apposta all’interno del teatro
dettata da Olindo Guerrini, lo Stecchetti che non ha mai perso l’occasione di
scagliare i suoi strali blasfemi e divertiti contro la Chiesa.
La notizia dell’assalto al teatro si diffuse rapidamente in tutta la Romagna e
oltre, alimentando la fama del Passatore. Per alcuni, fu la prova della sua
audacia e della sua capacità di colpire il potere nei suoi luoghi più sicuri;
per altri, soltanto un atto criminale che sfruttava la debolezza dell’ordine
pubblico. Mentre al teatro di Forlimpopoli si consumava l’assalto, un altro
episodio di quella notte segnò profondamente la memoria cittadina: l’aggressione
in casa di Pellegrino Artusi, allora giovane commerciante nella
bottega-guazzabuglio di famiglia. Proprio a seguito dell’agguato, l’allora
trentenne decise di spostarsi da Forlimpopoli a Firenze, dove poi scrisse La
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene.
La dimora della famiglia Artusi si trovava non lontano dal teatro, affacciata
sulla Rocca della piazza principale: il bottino del palcoscenico non fu
sufficiente a placare l’avidità della banda. Alcuni uomini del Passatore si
recarono nelle abitazioni dei presenti, costringendo gli occupanti a consegnare
denaro e beni. Nella sua autobiografia, l’Artusi racconta con precisione e
amarezza l’episodio che colpì la sua famiglia quella notte. I briganti del
Passatore riuscirono a entrare in casa grazie a un inganno: a bussare alla porta
fu l’avvocato Ruggero Ricci, amico di famiglia, appena derubato a casa propria
dopo esser stato prelevato dal teatro. Ricci si presentò annunciando l’arrivo in
città di amici venditori di zucchero e spezie, desiderosi di fare affari. Il
tradimento si consumò in questo modo: la porta si aprì, i banditi irruppero. Il
vecchio padre riuscì a fuggire, Pellegrino si comportò con coraggio ma senza
impedire che i malviventi facessero bottino, una delle sorelle scappò sui tetti.
La stessa, Gertrude Artusi, dallo spavento (e forse da una violenza subita,
anche se non si hanno conferme in merito) impazzì e morì reclusa nel manicomio
di Pesaro.
> «Ma Giaele, moglie di Eber, prese un picchetto della tenda, prese in mano il martello,
> venne pian piano a lui e gli conficcò il picchetto nella tempia, fino a
> farlo penetrare in terra. Egli era profondamente addormentato e sfinito;
> così morì».
Artusi stesso precisa che Ricci agì sotto costrizione della banda e che, come
conferma anche Serantini, anche lui sarebbe stato derubato; tuttavia, ciò che il
futuro scrittore non gli perdonò fu la mancanza di un gesto di umanità. Nei
giorni seguenti l’avvocato non si presentò nemmeno per chiedere scusa alla
famiglia:
> «A questa trepidante scena era presente il Ricci a cui rivoltomi dissi: “Avete
> fatto una bella prodezza!” ed egli: “Son stato costretto”. Nessuno lo
> costringeva però di non venire o di non mandare i giorni appresso a fare un
> atto di scusa per la involontaria ma brutta azione commessa».
Il destino finale, che sembrava avviarsi su un sentiero karamazoviano, ha invece
preso un’altra direzione. «Come segue in un pranzo che gli amaretti si servono
in ultimo» diceva Artusi, così anche questa vicenda trova nel finale il suo
momento più significativo, quello della riconciliazione. A distanza di oltre un
secolo, quel silenzio è stato simbolicamente colmato. Solo recentemente, grazie
a una testimonianza ritrovata nell’archivio della famiglia Foschini di
Forlimpopoli, si è venuti a conoscenza che il pronipote dell’avvocato Ricci,
l’architetto Ruggero Foschini, si mise in contatto con il pronipote di
Pellegrino, lo storico Luciano Artusi. I due si incontrarono nel 2008, a
distanza di 157 anni dalla terribile notte, e l’architetto chiese formalmente
perdono a nome del bisnonno. La stretta di mano tra i due, fissata in una
fotografia, restituì finalmente un atto di riparazione morale a una ferita
rimasta aperta nella memoria familiare e cittadina.
Cesare Dal Pane
*In copertina: Silvestro Lega, Giuseppe Mazzini morente, 1873
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violenta del Passator Cortese proviene da Pangea.
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La prima lassa della Terra desolata, poema pentagonale di Thomas S. Eliot,
s’intitola The Burial of the Dead, “il seppellimento dei morti”. Come si sa,
Eliot parla di aprile, the cruellest month e di Unreal City, cita – senza
apparente coerenza – Wagner, Dante, Baudelaire. Nell’affastellarsi di luoghi
comuni e figure sacre, appaiono Madame Sosostris, specie di degradata
Iside, famois calirvoyante, la Dama delle Rocce e the lady of situations, in un
cortocircuito tra lascivia e verginità; il tempo è sospeso tra la battaglia di
Milazzo – prima guerra punica, 260 a.C. – e l’oggi, sancito dall’anonimo
traffico umano che scorre – latenza di frode, flatulenza d’inganno – sul London
Bridge. Il figlio dell’uomo, ormai, nulla può più sapere dei “rami che crescono/
su queste macerie”: non è che “un mucchio di frante immagini”. Il poema di Eliot
non è affatto “sepolcrale”, non appartiene al genio di Thomas Gray o di Edward
Young (preromantici malsopportati dal T.S.), né a quello – con sopraggiunti
accenti ‘eroici’ – di Foscolo. Con The Waste Land, Eliot scrive le esequie della
poesia occidentale – poesia ‘rituale’ (proprio perché irrituale nel linguaggio),
rivolta ai morti, a vivificarli.
*
Mi hanno colpito le parole di Charles Wright in una delle sue rare interviste.
Il giorno della morte, il grande poeta americano – benché non credente –
vorrebbe farsi accompagnare dal Burial of the Dead, il rito funebre della Chiesa
anglicana, accolto nel Book of Common Prayer. In effetti, anche l’opera di
Wright – che nasce all’ombra di Ezra Pound, il gran maestro di Eliot – è una
specie di servizio della parola rivolto ai morti.
Va ancora riferito, con umile sfarzo, il rapporto vitale tra preghiera e poesia.
*
Il tema di questo articolo: la parola efficace rivolta ai morti. Parola che si
radica nella landa dei morti: come crescerà; come chiamare quel virgulto
alfabeto; come intendere quel puledro verbo?
Alcune parole – un formulario formulato da uomini – hanno effetto nell’aldilà. O
meglio: agiscono nei pertugi tra questa vita e l’altra, l’autentica (stando al
religioso dire). Il corpo matura come un frutto, come una crisalide, e ciò che
sboccia – l’anima, lo spirito, il ‘respiro’, l’elan dell’altro, l’atman, la
rancura o l’amore che ci fa viventi – vaga, disorientato, indeciso, nel regno di
mezzo tra il mondo e l’oltre mondo. L’anima – chiamiamola così, per capirci –
cresce, deve svilupparsi, deve scegliere e compiere delle prove prima di
approssimarsi all’assoluto. L’anima trasmuta, mette il pelo – l’anima ha sete.
Il rito aiuta l’anima in questa catabasi o ascesa.
L’anima ha bisogno di un patrimonio di linguaggio, di un abbecedario, per capire
chi è e dov’è. Il rito: corde, ramponi, piccozze per aiutare l’anima a rampicare
la schiena di Dio.
*
Cosa succede se l’anima – o come vogliamo chiamare il polline del corpo – è
priva di linguaggio? L’anima è disorientata, s’imbestia, cresce in ira e rimorso
– le crescono i denti. Un uomo, per emergere da sé, per ergersi, deve morire.
Esistono i non-morti: anime disperse, che non hanno trovato lo spiraglio per
accedere all’altro mondo, restano recluse in questo. Anime incattivite. Che
mordono. Che tormentano. Gli sciamani siberiani uscivano fuori di sé per placare
le anime violente; come per concertare con gli spiriti il successo del parto.
> “Da questo luogo
> sotto il grande sole
> cominciò a camminare
> Per tre giorni
> egli va così.
> Nella direzione davanti a lui
> era un’isola-nube
> tre grandi tende…
> salì veloce sul palo
> che sostiene le tende
> salì nel cuore del fuoco
> come coleottero di ferro”.
*
Allo stesso modo, la preghiera per i defunti: linguaggio che conforta l’anima
nella prova. Nessuna nostalgia in questo infondere coraggio. Puro esercizio di
linguaggio: consuonare ai morti, con loro cantare.
*
La Commedia di Dante non è forse un immenso tentativo di conciliarsi con i
morti? E poi: trovare il linguaggio con cui colloquiare con Dio. Dunque:
intendere il linguaggio con cui i morti si rivolgono a noi, ora.
*
Oltre che ‘comunicare’ tra di loro, gli uomini manovrano il linguaggio per
mettersi in comunicazione con i morti. La poesia nasce quando Gilgameš scopre
che l’uomo è morituro: alza il lamento funebre sulle spoglie dell’amico Enkidu,
va alla ricerca dell’immortalità. Allo stesso modo, l’Odissea è il grande canto
dell’amore mortale rispetto all’ardore ultraterreno, è il poema dei figli che
cercano i padri, il poema degli avi conficcati negli eredi – dalle
invocate-evocate ombre (libro IX) agli spettri dei Pretendenti, che s’involano
come pipistrelli, alla fine del poema.
Orfeo non può far risorgere dai morti – blanditi dal suo canto – l’amata
Euridice: in quel voltarsi, in quel ‘gioco degli occhi’ è il momento in cui
nasce la lirica occidentale, in cui il poeta si scinde dallo sciamano. I morti,
da allora, rivivono nel canto, nel giogo della malinconia, nella grigia gioia
del rimpianto. Non più compimento, ma compianto.
Édouard Manet, Cristo morto sorretto dagli angeli, acquaforte, 1866-1867
*
Dalla Laura di Petrarca al Moammed Sceab di Ungaretti. I morti agiscono sui
vivi, fino a modellarli. Quanti viventi vivono conformandosi a una promessa
conclusa con chi non è più qui? Quanti viventi sono il calco dei morti? Quanti
viventi vivono credendo di poter ‘riscattare’ la memoria di un morto?
A volte, i morti ci incatenano. I morti si nutrono della nostra vita.
A volte, incateniamo i morti – succhiamo i loro empi capezzoli.
Al contrario, la parola rituale, The Burial of the Dead: parola efficace tra i
morti, parola vivente. Sono i vivi, qui, che agiscono nell’altro mondo – che si
fanno consegna, offerta. Che piantano torce sul torace dell’altro mondo.
*
Parola vivente, parola vivanda.
*
Di cos’altro dobbiamo parlare, in questo tempo moribondo, se non della parola
che opera sui morti (e dunque, sulla vita)? Non più atto di supremazia magica,
superamento di ogni mantica: suprema spoliazione, piuttosto, dedizione. Spiumare
la lingua fino a ossea ispirazione.
*
Millenaria tradizione di dialogo con i morti. Ad esempio: il Libro dei
morti egizio. Sessione di liriche indicazioni – dunque: etiche – per uscire
indenni dal giudizio degli dèi, presieduto dal dio-sciacallo, Anubi.
> “Concedete che il defunto venga a voi,
> lui che non ha peccato
> che non ha mentito
> che non ha commesso male
> che non ha fatto alcun crimine
> che non ha reso falsa testimonianza
> che nulla ha fatto contro se stesso
> ma che vive di verità
> si nutre di verità.
> Dovunque ha sparso la gioia.
> Di ciò che ha fatto
> gli uomini parlano e gioiscono gli dèi.
> Egli si è conciliato gli dèi con il suo amore”.
I testi che compongono il Libro dei morti “appartengono alla liturgia che
accompagnava il seppellimento e venivano deposti accanto al morto mummificato,
affinché se ne valesse come istruzione nell’affrontare il regno d’oltretomba”
(Alonso M. Di Nola).
Questo m’interessa. La parola che agisce nell’aldilà. Parola umana che, al più
puro punto di raffinamento, al più limpido monile, esiste per parlare ai morti.
Parola che istruisce il defunto. Per questo: è opera pia, opera necessaria,
inserire nella tomba del defunto – nella tasca dei pantaloni, nella camicia –,
un testo-talismano. Una poesia. Parola che non leghi il defunto, ancora, a
questa terra, che non lo ancori, ancora, al qui; che lo sprigioni. Parola che
non reclama possesso, ma che liberi – che conforti senza confinare. Parola
d’oltreconfine.
*
Grande brigante: il sacerdote carda i morti sul petto, per guadare, guidandoli
nell’altrove. Qualche verbo in borraccia.
*
La differenza tra il Libro dei morti egizio e l’apparentemente analogo Libro
tibetano dei morti, il Bardo Thödol, secondo l’immenso Giuseppe Tucci:
> “Gli Egiziani cercarono di salvare il corpo dal corrompimento che fatalmente
> dissolve ogni cosa creata: l’integrità del corpo è necessaria per la
> continuazione della vita nell’oltretomba. Per i Tibetani il cadavere si brucia
> o si squarta o si abbandona sulle montagne, perché le bestie da preda e gli
> uccelli lo divorino.
>
> Per gli Egiziani la morte è definitiva, delimita due mondi. La sopravvivenza
> nel mistero che essa dischiude è sopravvivenza individua; cioè della medesima
> creatura che già visse in questo mondo e colà perdura con le stesse parvenze e
> lo stesso nome. Per i Tibetani la morte o è il cominciamento di una nuova
> vita, come accade per le creature che la luce della verità non rigenerò e
> trasse a salvazione, o il definitivo disparire di questa fatua personalità –
> effimera e vana come riflesso della luna sull’acqua – nella luce
> indiscriminata della coscienza cosmica, infinita potenzialità spirituale.
> Continuare ad esistere in qualunque forma di esistenza, anche come dio, è
> dolore: perché esistenza vuol dire divenire, e il divenire è l’ombra
> dell’essere, un sempre rinnovato corrompimento, una pena che mai si placa”.
Il Bardo prevede almeno due settimane di prossimità con il moribondo, aiutandolo
a vincere terrori e interrogativi, per condurlo alla “grande liberazione”. La
liturgia, che stempera il tempo nell’eterno, il buio in bulimia di luci, si
dispiega in versi, per ipnotizzare ogni illusione.
> “Mentre sorge in me il Bardo della Vita
> lascerò ogni futile pigrizia che ruba il tempo
> e affronterò il Sentiero dell’Ascolto, della Riflessione,
> della Meditazione concentrandomi sull’Insegnamento
> con il dono di un corpo umano
> svelando la vera natura dell’illusione
> realizzerò i Tre Corpi lasciando ogni indugio
>
> Mentre sorge in me il Bardo del Sogno
> spegnerò il tenebroso sonno dell’ignoranza
> concentrando la mente nel suo stato naturale
> svelando la vera natura del sogno
> senza sprofondare nel sonno dei bruti
> mediterò sulla Chiara Luce della Miracolosa Trasformazione
> portando questa pratica nel sonno”.
Ho citato alcuni versi che presiedono il Bardo Thödol vero e proprio, nella
versione approntata da Ugo Leonzio per Einaudi nel 1996. Superba, per glaciale
nitidezza, la nota biografica che cinge Leonzio, estroso scrittore, studioso di
allucinogeni e di Céline: “nato a Milano, ha viaggiato nelle regioni himalayane
per studiare le pratiche rituali di cui questo libro fa parte”.
*
Anche il Rito delle esequie cattolico è di sublime bellezza quanto a
composizione. D’altronde, è il rito centrale, ‘pasquale’ – il momento in cui la
fede nella resurrezione dei corpi è messa alla prova. Al sacerdote che guida il
rito – ma che non è univoca guida: a noi il compito di procedere nel canto, a
rincuorare e aiutare il morto – è chiesta particolare preparazione. Alle
preghiere canoniche – alcuni Salmi, per lo più – si alternano parole scritte
apposta per la cerimonia; queste, ad esempio:
> “Con questa fede nel cuore ci accingiamo a deporre,
> come un seme, nel sepolcro
> il fragile e corruttibile corpo
> del nostro fratello (della nostra sorella) N.,
> con la piena fiducia che nel giorno della sua venuta
> il Signore lo(a) farà risorgere incorruttibile,
> nella pienezza della sua gloria.
> Rinnovando perciò la nostra adesione di fede, diciamo:
> Tu sei la vita e la risurrezione nostra, Signore Gesù!
> Tu che hai pianto la morte dell’amico Lazzaro,
> trasfigura le nostre lacrime nella gioia della tua salvezza.
> Tu che al ladrone pentito hai accordato il tuo perdono
> e promesso il paradiso,
> avvolgi il nostro fratello (la nostra sorella)
> nel tuo abbraccio di misericordia e di vita.
> Tu che sei stato spogliato delle tue vesti
> e, avvolto in bende, sei stato deposto nella tomba,
> fa’ indossare la splendida veste della vita immortale
> al nostro fratello (alla nostra sorella),
> che viene a te nella nudità della morte”.
*
Quanto, esaltando in retorica, in ‘letterarietà’, la poesia ha perso in
efficacia? Con quali parole parlano tra loro i morti? Qual è il linguaggio
dell’aldilà? Sussurro, latrato, biascichio, frattaglie d’angelo? Il linguaggio è
il principio della caduta o un metodo per ascendere?
*
Certo: il chiacchierio chiesastico, questa eco da oratorio, va rimeditato. Ai
poeti, dopo immenso sconvolgimento interiore, il compito di trovare la parola
che attecchisca ancora nell’aldilà.
*
Esalare l’ultimo respiro: slegare i nodi del linguaggio comune, che imprigiona e
castra, per eseguire l’altro, che disincastra, che libera.
Linguaggio: comunione tra i vivi e i morti. Lingua-ostia.
*
Penso ad alcune lasse del poemetto di Carlo Betocchi, In piena primavera, pel
Corpus Domini:
> “La tua mente illusoria rifiutala
> se non ha altri argomenti che te:
> e il tuo cuore, se non ha che i tuoi
> lamenti. Non avvilirti
> compassionandoti. Sii non schiavo di te,
> ma il cuore di ciascun altro: annullati
> per tornar vivo dove non sei
> più di te, ma l’altro che di te si nutra,
> distinguilo dal numeroso,
> chiama ciascuno col suo nome”.
È già parola efficace, questa, che non permette alla letteratura di irrompere,
corrompendo. Il letterario è la merce della lettera, ne è il baldacchino, la
baldracca.
Se un poeta non ha efficacia, se la sua parola non ha effetto su questo e
l’altro mondo, è un falso poeta. Non effonde – confonde.
***
La sepoltura dei morti
In piedi, tutti, intonano l’inno:
Io sono la resurrezione e la vita, dice il Signore;
chi ha fede in me, benché sia morto, vivrà;
chi vive e ha fede in me non morirà mai.
So che il mio Redentore vive
che all’ultimo giorno si ergerà sulla terra;
e anche se questo corpo sarà sbriciolato, vedrò Dio;
lo vedrò davanti a me, lo contemplerò con i miei occhi
non mi sarà estraneo.
Perché nessuno vive per sé
per sé nessuno muore.
Quando viviamo, viviamo nel Signore
quando moriamo, moriamo nel Signore.
Nella vita e nella morte siamo del Signore.
Beati i morti che nel Signore muoiono;
così sussurra lo Spirito, resi hanno riposo dal dolore.
Per la sepoltura di un adulto:
O Dio, dall’innumerevole misericordia: accetta le nostre preghiere per il tuo
servo, concedigli l’ingresso nella terra della luce e della gioia, nella
comunione dei tuoi santi, per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore,
che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre.
Amen.
Per la sepoltura di un bambino:
O Dio, il cui diletto Figlio ha preso i bambini tra le braccia, benedicendoli:
donaci la grazia, ti preghiamo, affidiamo questo bambino alla tua infallibile
cura, al tuo inesauribile amore, conduci tutti noi nel tuo celeste regno; per
mezzo del tuo figlio, Gesù Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te e con
lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre. Amen.
Consacrazione della tomba
Qualora la tomba si trovi in un luogo non destinato a sepoltura cristiana, il
sacerdote può recitare la seguente preghiera, al momento opportuno:
O Dio, il cui Figlio benedetto è stato deposto in un sepolcro nel giardino:
benedici, ti preghiamo, questa tomba e concedi che colui il cui corpo è qui
sepolto possa dimorare in Cristo, in paradiso, e raggiungere il tuo celeste
regno; per tramite di tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Preghiera aggiuntiva:
Nelle tue mani, Signore, affidiamo il nostro caro fratello: che sia prezioso ai
tuoi sguardi. Lavalo nel sangue dell’Agnello, l’innocente che fu immolato per
annientare i peccati del mondo; perché, purificato, estinta ogni lordura
contratta in questa vita terrena, possa essere presentato netto, limpido e senza
macchia al tuo cospetto; per la grazia di Gesù Cristo, tuo unico Figlio e nostro
Signore. Amen.
Ricordati del tuo servo, Signore, secondo la grazia con cui favorisci il tuo
popolo: che cresca in amore e sapienza, per progredire sempre di più nella vita
di perfetto servizio nel tuo celeste regno; per Gesù Cristo nostro Signore.
Amen.
O Dio degli infiniti giorni, Dio della misericordia innumerabile: facci certi,
te ne supplichiamo, della brevità e dell’incertezza della vita; che lo Spirito
Santo ci guidi in santità e giustizia lungo l’arco dei giorni; quando avremo
servito i figli della nostra generazione, ci riuniremo ai padri, in retta
coscienza; nella fiducia di una fede certa; nel conforto di una ragionevole,
religiosa, santa speranza; nel tuo favore; in perfetta grazia con il mondo.
Tutto ciò che ti chiediamo è per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro. Amen.
Da: “Burial of the Dead. Rite One”, raccolto in “Book of Common Prayer”
*In copertina: Paul Troger, Cristo morto con angelo, XVII sec.
L'articolo “Dovunque ha sparso la gioia”. Parlare ai morti proviene da Pangea.
L’icona di Leda avvinghiata al cigno è tra le più conturbanti della storia
dell’arte. La donna che con virginea lascivia si unisce all’uccello ha occupato
la mente, tra i tanti, di Michelangelo e di Leonardo; di entrambi possediamo,
però, soltanto alcuni disegni dell’arcano soggetto, il dipinto (cioè: l’intero)
è perduto. Anche questo è un segno.
Dall’unione tra la regina di Sparta e Zeus mutato in cigno, sarebbe nata,
tramite uovo, Elena. Il mito – narrato, tra i tanti, da Igino, Lattanzio, Ovidio
– ha una vespertina variante – riferita da Pausania, Omero e Apollodoro –: Zeus,
in verità, si invaghì, fino al vagabondaggio nella follia, di Nemesi, l’antica
dèa che distribuisce il Fato, la bellissima figlia di Oceano. L’inseguimento fu
feroce: Nemesi si muta in diverse bestie, ma Zeus la vince, “Benché essa mutasse
costantemente forma, egli infine riuscì a violarla assumendo l’aspetto di un
cigno e dall’uovo che Nemesi depose nacque Elena, causa della guerra di Troia”
(così Robert Graves nel suo regesto di Miti greci). Leda, in questa versione, ha
valore di levatrice dell’uovo.
Dei racconti che narrano l’unione tra la donna e la bestia – estremo,
inattaccato tabù – il più crudo riguarda Pasifae, la moglie di Minosse che va in
estro per il bianco toro sacro a Poseidone: da questo amore nasce il mostro,
Minotauro; scaturisce, come enigmatico effetto, Labirinto. Non diversa è la
‘mostruosità’ – cioè: la meraviglia – di Elena; in non diverso labirinto – per
quel vivere da disorientati, da ossessi di sangue – si volge Troia.
Secondo Platone, il cigno è animale sacro ad Apollo, simbolo di rigenerazione
spirituale: legato al cocchio celeste, è l’uccello che scorta il dio verso il
regno degli Iperborei, dove si banchetta con le stelle e si danza tra fanciulle
betulle. Si dice che in punto di morte il cigno “canti” perché “è contento di
librarsi verso il dio di cui è ministro” (così nel Fedone). Nell’origine del
termine cigno – kyknos in greco – è incardinato il destino al canto: “Gli
antichi credevano che vicino a morte il cigno cantasse soavemente, onde fu
detto fig. per Poeta o Illustre compositore di musica, come Rossini, Versi ed
altri maestri” (così il Pianigiani, a dire del rapporto arcaico tra parola e
morte, ovvero tra poesia e preghiera).
Dall’induismo al mito celtico non c’è pensiero religioso in cui il cigno non sia
eletto a simbolo. Spesso, il cigno è emblema di grazia, purezza, elezione
spirituale; eppure, ogni simbolo reca, come contrappasso, il proprio opposto. Il
cigno è anche la violenza della grazia, l’ambiguità, l’aristocratico disprezzo
per il prossimo; in alcuni bestiari raffigura l’ipocrisia.
Leda e il cigno in uno studio di Leonardo
Il cigno è penetrato nei rivoli delle fiabe; risuona nel Lohengrin di Wagner
come nel Lago dei cigni di Čajkovskij. Secondo Dante, l’angelo che sigilla la
quinta cornice del Purgatorio ha “l’ali aperte, che parean di cigno” (XIX, 46);
secondo Baudelaire, straordinario dissacratore di simboli, il “mio grande cigno”
è “ridicolo e sublime come gli esuli,/ roso da un desiderio senza tregua” (così
la versione di Pierluigi Pellini in: C. Baudelaire, Il cigno, Mucchi, 2022).
Nella vasta ornitologia lirica il cigno ha un ruolo di privilegio: Torquato
Tassi si dice “cigno in mia prigione” che “quel che mi detta Amore imparo e
canto”; Pascoli canta il cigno che “canta”, “nella luce boreale” (Il transito,
nei Primi poemetti): “Il cigno canta; e lentamente il cielo/ sfuma nel buio, e
si colora in giallo;/ spunta una luce verde a stelo a stelo”. Il grande cantore
dei cigni è comunque William Butler Yeats, che in diversi testi (The Wild Swans
at Coole e Leda and the Swan, ad esempio), dice la “misteriosa bellezza” di
quegli uccelli, coagulando il mito greco a quello irlandese (per i quali il
cigno è immagine di trasformazione interiore, di connessione con l’aldilà).
Nella Bibbia – per ragioni geografiche – il cigno non fa sfoggio di sé. Appare
in Levitico, insieme al pellicano, la folaga e la cicogna, il nibbio e “ogni
specie di corvo”, l’aquila, l’avvoltoio e altri uccelli su cui grava
interdizione: non bisogna mangiarli “perché obbrobriosi” (perché sono
“abominio”, sheqets). Ma è un apparire tra faine filologiche. La versione Cei –
come la “King James” nel mondo inglese – traduce in cigno una
parola, tinshemeth, quanto mai ambigua, che vale a classificare specie diverse,
di lucertola e di uccello, accomunate da non ben definita irascibilità – alcuni
traducono come “gufo bianco”.
Trapiantato in Europa, il cristianesimo ha convogliato nella figura di Cristo il
precedente bestiario simbolico. Così Cristo, di volta in volta, è pellicano e
pantera e cigno. Del cigno, è riferito il candore, l’allunaggio in luoghi
impervi, a Nord, soprattutto, e il canto, connesso alle ultime parole
pronunciate da Gesù in croce – una croce, invero, divaricata in apertura alare,
come il rapace nella posta dello ‘spirito santo’. La testimonianza più potente
del Cristo/cigno – punto sublime di fusione tra avventura cristiana e
simbologia pagana – è il Planctus cygni redatto nell’abbazia di San Marziale di
Limoges nel IX secolo. Questa “allegoria ac de cigno ad lapsum hominis”,
scritta nel latino dell’epoca, ha fatto parte della liturgia di Limoges, di
Winchester e del Nord della Spagna per qualche secolo, cantata in memoria dei
Santi Innocenti, i bambini di Betlemme sterminati da Erode (28 dicembre). Quasi
che il cigno, con sovrappiù d’innocenza, possa lavare l’assassinio degli infanti
– lamento che sovrasta il sangue, lo lecca. Il planctus non appare più nei
manoscritti dal 1100 circa.
Il volto di Leda secondo Michelangelo
Nel viaggio periglioso del cigno dalla terra oltre l’oceano, è prefigurato
l’andare dell’anima da questo all’altro mondo. Nel planctus appaiono Oriente e
Occidente, i poli e le costellazioni, guidate da Orione: tutto il cosmo – la
terra, i mari e i cieli – converge nel volo messianico del cigno. Infine,
finalmente salvo, il cigno guida al canto gli uccelli, a onorare il “grande re”
di tutte le cose (in breve, è la mistica del viaggio, della consapevolezza del
creato, dell’addestramento all’inno, vera e propria pratica del verbo, narrata
da Attar nel Verbo degli uccelli).
Pienezza dell’uomo è fuggire da una visione predatoria, è elevarsi (cioè:
incaricarsi degli inferi); assumere in sé i saperi della terra, del mare, del
cielo; intonarsi agli astri; darsi alla preghiera. All’uomo che vuole essere
stella si dica: sia audace il tuo cantare, alberghi un volo nella tua lingua.
Che nel plactus sia riassunta la pervicacia della pianta e lo strazio del
compianto – questo sbriciolarsi in lacrime dell’anima – è emblema di grazia.
Conficcati nel planctus, fino a sbriciolarlo.
**
Planctus cygni
Lamentazione
canterò – figli
dell’alato cigno
che insigni acque
attraversò – dirò
del suo rude ululare
fu reliquia per lui
terra di aridi fiori:
del mare abissale
andò in cerca
e piangeva: “Misera
bestia sono – sola –
miseria è il mio nome
inutili le ali
splendore che gemma
in piogge: onda
mi scassa tempesta
mi attenta
io sono l’esiliato
mi serrano maree
pari a montagne –
e piango perché
morde morte
abbondano pesci
ma non so conficcarmi
in quelle vertigini vergini
per ucciderli
Oriente – Occidente
plaghe dei Poli
conferitemi
brillio di stella
suffragio a Orione:
che sfugga da queste
nubi barbare”.
Taceva l’uccello
intaccato da tale pensare
e giunse rossa
l’aurora – il vento
lo incoraggia
riaccorda le ali
esulta ora
si leva levata fatica
a becchettare
le stelle
gioia
smisurata
lo penetra tra
i reami dei mari
canta – ora – canto
pieno di carezze
e attracca a terra ora:
creature dei cieli
alate bestie
cantate insieme
gloria ammanti
il grande re
Regi magno
Sit gloria
*In copertina: Jan Asselijn, Cigno minacciato, 1640
L'articolo “Io sono l’esiliato”. Intorno al “Canto del cigno”, un testo
straordinario proviene da Pangea.
Nel 1947 George Orwell sta lavorando a 1984. Per il momento, il libro, ancora in
bozzolo, s’intitola “The Last Man in Europe”; Orwell ha scelto di scriverlo a
Jura, nelle Ebridi, in condizioni di estrema solitudine. Orwell è un esteta
dell’estremismo. Spesso, ricorda gli anni, a Parigi, in cui “vivevo nei
quartieri più poveri, tra senzatetto e criminali, a mendicare o a rubare”;
ricorda quando aveva scelto di condividere la vita dei minatori dell’Inghilterra
del Nord. Due anni prima era morta la moglie, Eileen, in marzo; il 17 agosto del
1945 era uscito, per Secker & Warburg, La fattoria degli animali. Il libro –
rifiutato da T.S. Eliot, direttore editoriale della Faber – ebbe un successo
clamoroso, consentendo a Orwell una certa, inedita, sicurezza economica.
Tra le diverse traduzioni di Animal Farm, ci interessa quella polacca.
“Swiatpol”, l’editore polacco che ha sede a Londra, stampa 5mila copie del
libro; la traduttrice si chiama Teresa Jeleńska. Fu il figlio di Teresa,
Konstanty, a far leggere Orwell a Ihor Ševčenko: nato in Polonia da genitori
ucraini, il ragazzo compiva ventitré anni, studiava a Lovanio. Nell’aprile del
1946, Ihor prende coraggio e scrive a Orwell: avrebbe voluto tradurre La
fattoria degli animali in ucraino. Lo scrittore, “mi capì subito, capì che la
traduzione del suo libro avrebbe avuto un valore importante per i miei
connazionali”. Negli anni, Ihor Ševčenko sarebbe diventato un importante docente
di studi slavi e bizantini ad Harvard, nel 1996 ha pubblicato Ukraine between
East and West. È morto il 26 dicembre del 2009, onorato da un ‘coccodrillo’ sul
“New York Times”.
Negli scambi epistolari con Orwell, Ševčenko sottolinea che “Il mio pubblico
sono i rifugiati sovietici: beh, l’effetto è sorprendente. Tutti approvano la
sua interpretazione… hanno cercato immediatamente i punti in comune tra la
realtà in cui vivono e il suo racconto. L’atmosfera del libro sembra
corrispondere al loro reale stato d’animo”. Ševčenko traduce il libro
nell’autunno del ’46, consegnandola a “Prometheus”, editore ucraino con base a
Monaco. Nel marzo del ’47 Orwell, pur “spaventosamente impegnato”, accetta di
scrivere una prefazione per l’edizione ucraina di Animal Farm (che si riporta,
in parte, in calce). Nel testo, Orwell spiega che la guerra civile spagnola ha
agito su di lui come una specie di rivelazione:
> “A metà del 1937 i comunisti presero il controllo – pur parziale – del governo
> spagnolo: cominciarono a dare la caccia ai trotzkisti, mi ritrovai tra le
> vittime. Io e mia moglie siamo stati molto fortunati a uscire vivi dalla
> Spagna, senza essere arrestati. Diversi amici furono fucilati, alcuni finirono
> in prigione, altri semplicemente sparirono. Queste cacce all’uomo in Spagna si
> sono svolte contemporaneamente alle grandi purghe sovietiche: ne sono state
> una specie di appendice. Sia in Spagna che in Russia la natura delle accuse –
> vale a dire: azioni fasciste e antirivoluzionarie – era la stessa; per quanto
> riguarda la Spagna, posso dire che erano del tutto infondate. Ne uscii con una
> lezione preziosa: capii con quale pervicacia la propaganda totalitaria possa
> controllare l’opinione pubblica delle masse ‘illuminate’ dei paesi
> democratici. Io e mia moglie abbiamo visto innocenti gettati in carcere perché
> sospettati di non-ortodossia. Eppure, al nostro ritorno in Inghilterra diversi
> ‘osservatori’ ben informati dimostravano di credere ai più fantasiosi
> resoconti di tradimento e di sabotaggio riportati dalla stampa sovietica.
> Compresi finalmente con chiarezza la nefasta influenza del mito sovietico per
> il socialismo occidentale”.
La traduzione ucraina de La fattoria degli animali uscì nel settembre del 1947,
con esito sinistro. “Le autorità americane di stanza a Monaco ne hanno
sequestrate 1500 copie, consegnandole al personale sovietico”, scrive Orwell ad
Arthur Koestler. Tuttavia, almeno duemila copie del romanzo, scampate al
sequestro, finirono in mano ai profughi (la vicenda è ricostruita con dettagli
in: Masha Karp, George Orwell and Russia, Bloomsbury, 2023).
Ma Orwell era ormai altrove. L’inverno alle Ebridi lo logora, il 20 dicembre è
ricoverato in un ospedale nei pressi di Glasgow. 1984, il libro che intende
“mettere in luce le degenerazioni, in parte già verificatesi sotto il comunismo
e il fascismo, a cui sono soggette le economie centralizzate”, lo sta lentamente
logorando. Ma questa è un’altra storia, che riguarda la tirannia della scrittura
e la ‘missione’ dello scrittore.
***
Prefazione per la traduzione in ucraino de “La fattoria degli animali”
Non ho mai visitato la Russia: la conosco per ciò che ho letto su libri e
giornali. Anche se ne avessi il potere, non vorrei interferire con gli affari
del regime sovietico: non condannerei Stalin e i suoi per i metodi barbarici e
antidemocratici che adottano. È perfino possibile che non abbiano potuto agire
diversamente da come hanno fatto. Tuttavia, è per me della massima importanza
che gli europei conoscano il regime sovietico per ciò che è realmente.
Dal 1930 non ho visto nulla, nell’Urss, che possa riferirsi a ciò che intendiamo
per socialismo. Al contrario, ho scoperto, con sorpresa, i chiari segni di una
società gerarchica, i cui governanti non hanno motivo di rinunciare al loro
potere, alla pari di qualsiasi classe dominante. I lavoratori e gli
intellettuali inglesi non riescono a comprendere che l’Urss di oggi è totalmente
diversa da quella del 1917. In parte, non vogliono capire – cioè, vogliono
credere che esista davvero, da qualche parte, nel mondo, un paese socialista –
dall’altra non possono: per costoro, abituati a una pur relativa libertà, è
incomprendibile il totalitarismo.
Eppure, occorre ricordare che l’Inghilterra non è del tutto democratica. È un
paese capitalista con grandi privilegi di classe (perfino ora che la guerra ha
livellato tali classi), con enormi differenze di ricchezza. Ciononostante, è un
paese in cui le persone convivono da secoli senza feroci conflitti, in cui le
leggi sono relativamente giuste e le notizie e le statistiche ‘ufficiali’ sono
per lo più affidabili – è un paese dove esprimere opinioni di minoranza non
comporta alcun pericolo di morte. In un clima simile, l’uomo comune non può
capire il senso dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa, degli
arresti senza processo, della censura… Tutto ciò che in Inghilterra si legge a
proposito dell’Urss viene tradotto in termini inglesi, e dunque assunto con
totale innocenza, cibandosi della menzogna totalitaria. Fino al 1939 la maggior
parte degli inglesi, d’altronde, è stata incapace di valutare l’entità autentica
del regime nazista; con quello comunista è vittima della medesima illusione.
Ciò ha causato danni enormi al movimento socialista inglese e ha avuto gravi
conseguenze sulla politica estera del mio paese. A mio parere, nulla ha
contribuito tanto alla corruzione dell’originaria idea del socialismo quanto la
convinzione che la Russia sia un paese socialista e che l’azione dei suoi
governanti debba essere perdonata quando non imitata. Per questo, negli ultimi
dieci anni mi sono proposto di distruggere il mito sovietico: perché il
movimento socialista possa risorgere.
Di ritorno dalla Spagna, ho pensato di smascherare il mito sovietico con una
storia che fosse facilmente comprensibile e traducibile in altre lingue. Lo
schema della storia mi sfuggiva finché un giorno, nel piccolo villaggio in cui
vivevo allora, non vidi un ragazzino, di circa dieci anni, che guidava un enorme
cavallo da tiro, strigliandolo ogni volta che la bestia voleva cambiare strada.
Mi colpì un fatto perfino banale: se gli animali da soma avessero coscienza
della loro forza, non avremmo alcun potere su di loro. Allo stesso modo, con lo
stesso metodo, i ricchi sfruttano i proletari.
Proseguii analizzando le teorie di Marx dal punto di vista degli animali.
Cominciai a scrivere il libro intorno al 1943. Per sei anni ho rielaborato
quella storia nella mia mente. Non desidero commentare oltre: se un libro non
parla da sé, quel libro è un fallimento. Se a qualcuno interessano i miei fatti
privati, potrei aggiungere che sono vedovo, ho un figlio di quasi tre anni,
faccio lo scrittore di professione; dall’inizio della Seconda guerra ho lavorato
essenzialmente come giornalista.
George Orwell
L'articolo “Mi sono proposto di distruggere il mito sovietico”. George Orwell in
Ucraina proviene da Pangea.
Il libro fu presentato il 20 ottobre del 1882, al civico 128 della
trentaquattresima strada, New York. Era la casa di un dentista, John Ballou
Newbrough; il secondo nome, Ballou, gli era stato dato in memoria di Hosea
Ballou, il teologo della chiesa universalista. Newbrough era nato il 5 giugno
del 1828 in Ohio, nella fattoria di famiglia; il padre, William, era un uomo
duro: sfamava i sei figli con i frutti della sua terra. Abile coltivatore,
faceva scoccare la cinghia sul corpo di John per sedarne le ‘visioni’: il
ragazzino era dotato del dono della profezia. Si dice avesse fatto fortuna in
California, setacciando oro, poco più che ventenne. Aveva studiato al Cincinnati
Dental College: lo zio dirigeva un manicomio, la madre, di origine svizzera,
aveva un cuore trepidante, propenso al fervore mistico.
Ma torniamo all’ottobre del 1882. Il libro aveva un titolo-totem, allo stesso
tempo enigmatico e astruso, Oahspe: nel glossario annesso al tomo, l’autore
spiegava che il neologismo voleva dire “Cielo, terra (corpo) e spirito. Il
tutto; la somma della sapienza corporale e spirituale”. Il tutto – e il nulla.
Il sottotitolo dell’Oahspe amplificava le nebbie. Il libro era presentato come
“una Nuova Bibbia” che divulgava le “Parole di Jehovih e dei suoi Angeli
Ambasciatori”. Era lì squadernata – così sproloquiava il titolo –: “La sacra
storia del dominio degli esseri celesti e inferi sulla terra da ventiquattromila
anni con una sinossi della cosmogonia dell’universo, la creazione dei pianeti,
la creazione dell’uomo, parole inaudite intorno alla gloria e all’opera degli
dei e delle dee degli eterei cieli con i nuovi comandamenti di Jehovih
all’uomo…”. Il libro era stampato a New York e a Londra da una fantomatica
Oahspe Publishing Association.
Non era il primo libro pubblicato da John Newbrough. Nel 1855 aveva provato –
con poco successo – il romanzo: The Lady of the West, or the Gold
Seekers narrava una storia d’amore all’epoca della corsa all’ora. Era tornato
quell’anno negli States dopo aver viaggiato per il globo; l’amore con Rachel
Turnbull, la sorella del suo socio in affari, durò un ventennio, per l’arco di
tre figli. John, che aveva aperto uno studio dentistico e New York, finì per
invaghirsi della sua assistente, Frances, di trent’anni più giovane, da cui ebbe
una figlia, Jone ‘Justine’: la moglie lo cacciò di casa. Era un uomo di genio,
che deteneva diversi brevetti: uno di questi, per un fissante per denti molto
più economica di quello in vogo, lo fece scontrare con un colosso, la Goodyear
Rubber Co. Inventò un ventilatore, un attrezzo per esercizi ginnici, un mezzo
ferroviario, un metodo per costruire denti artificiali. Non è raro, negli
States, che una mente ‘scientifica’ si associ all’eccedenza mistica.
Quanto all’Oahspe, aveva cominciato a redigerlo nel 1880, ascoltando le ‘voci’,
secondo i criteri della scrittura automatica. Così, in una lettera spedita nel
1883 al direttore della rivista spiritualista “Banner of Light”, spiegò
l’evento:
> “Implorai la luce del Cielo. Non volevo più comunicare con amici o parenti,
> desideravo imparare qualcosa del mondo spirituale, cosa facessero gli angeli,
> quale fosse il destino dell’universo… Mi fu detto di procurarmi una macchina
> per scrivere, di scrivere come se suonassi un pianoforte. Mi applicai per
> imparare, con scarso successo… Una mattina, una luce colpì le mie mani, gli
> angeli che fino a quel momento avevano cercato di istruirmi si avvicinarono
> alla macchina scrivendo con grande vigore per circa quindici minuti. Mi fu
> imposto di non leggere ciò che era scritto, obbedii con riverenza. La mattina
> dopo, poco prima dell’alba, lo stesso potere tornò e scrisse, di nuovo… Per
> cinquanta settimane le cose accaddero in questo modo, ogni mattina, mezz’ora
> prima dell’alba. Poi tutto finì e mi fu detto di pubblicare il libro chiamato
> ‘Oahspe’”.
Il libro era costellato da geroglifici, opera dell’autore – o meglio, degli
autoritari autori del testo – ad amplificare l’astrale stranezza di quel
linguaggio ignoto. La “Nuova Bibbia” procedeva per novecento pagine, suddivisa
in diversi libri: in uno di questi, First Book of God, si parla di “una
generazione di Luce scaturita da Zarathustra”, che avrebbe dato vita all’impero
cinese, deviando dagli insegnamenti del creatore:
“Ad Han fu chiesto: Un uomo non deve adorare l’Invisibile? E lui rispose:
Adorare una pietra è meglio, perché la vedi.
Han disse: Non adorate con le parole, ma con le opere; la preghiera non è che il
grido della propria debolezza.
Se esiste una Luce invisibile, farà a suo modo: che senso ha pregare? Riti e
cerimonie in Suo favore sono mania di folli. Riti e cerimonie per i nostri
antenati sono scusabili. Le loro anime fluttuano, i riti le placano”.
Un giornalista del “New York Times” accorse all’evento. Scrisse che il “dottor
Newbrough è uno spiritualista da circa dodici anni. Nativo dell’Ohio, pratica
come dentista”. Scrisse di un uomo “dalla stazza imponente, con occhi scuri e
penetranti, che si muove con peculiare lentezza”. All’evento erano convenute
diverse persone. Il giornalista sfogliò una copia del libro: al Book of
Jehovih segue il Book of Sethantes, il Book of Ah’shong, Son of Jehovih, il Book
of Aph. La struttura dell’Oahspe è labirintica, spesso contraddittoria: al
creatore assoluto – Jehovih, che è poi un modo per dire Jahvè o Geova – seguono,
in gregarie dinastie, divinità minori, ‘cadute’, e cosmogonie in disastro. I
libri di dottrina morale – Book of Judgment; Book of Discipline – che predicano
un generico irenismo, una generica ‘ricerca interiore’, una super-religione che
superi secolari dissidi, una ‘forma’ che sovrasti i formalismi rei di scisma e
di guerre religiose, promuovendo una dieta ferrea, vegetariana, sono meno
interessanti dei libri ‘mitologici’. In uno di questi, il Book of Saphah, si
accenna a regni perduti – Pan, “un continente nell’Oceano Pacifico, sommerso
circa 25mila anni fa” – e a linguaggi smarriti. Nella lingua dell’Oahspe la
facoltà profetica, “la capacità di vedere o udire gli angeli”, si dice Su’is.
Il giornalista non virò dal vero: “A un osservatore, questa Bibbia pare una
rivisitazione di testi indiani e fedi semitiche. Lo stile è in parte moderno in
parte ancestrale, quasi che la Bibbia di Re Giacomo e quella cristiana si siano
fuse nell’inglese dei nostri giorni”. Il pezzo uscì sul “NY Times” tra i fatti
curiosi, in taglio basso; titolo: “Un volume ‘ispirato’ racconta 24mila anni di
storia”. Non è inutile ricordare che la Società Teosofica di Madame Blavatsky
era nata proprio a New York qualche anno prima, nel 1875. Con qualche talento,
John Newbrough aveva miniato il suo libro regolandosi sui testi gnostici, sui
dialoghi buddisti, sul rigore assertivo della rivelazione coranica.
La “Nuova Bibbia” ebbe un suo, pur modesto, esito. Nel 1884 Newbrough, insieme a
un facoltoso mecenate del New England, fondò una colonia a Las Cruces, nel New
Mexico; gli si fecero attorno una ventina di accoliti. Edificarono scuole per i
bambini orfani. Chi confida nell’Oahspe come testo chiave della propria ricerca
interiore – Newbrough in questo è chiaro: il libro che gli è stato ‘rivelato’
deve essere ‘superato’ dalla singolare capacità di ciascuno – si
chiama Faithist. Così è spiegato il neologismo nel glossario redatto da
Newbrough: “Faithist è colui che ha fede in Jehovih, l’essere che è al di sopra
e all’interno di ogni cosa; è colui che lavora per entrare in sintonia con
Jehovih, operando per il bene del prossimo, sforzandosi di abbandonare
l’egoismo”.
La comunità di Las Cruces, “Shalam Colony”, fu decimata da un’epidemia di
influenza, nel 1891. Anche il maestro, Newbrough, morì, era il 22 aprile.
Sporadici gruppi di Faithist nacquero nello Utah e in California, a Anaheim, in
Colorado e in Oregon; alcuni si coalizzarono in Olanda e in Australia. Un
“Circle of Jehovih’s Word” promuove ancora oggi l’Oahspe come testo per la
liberazione interiore, con parole di fatua intensità: “L’Oahspe instilla
insegnamenti che equilibrano il mondo visibile con quello invisibile, come la
sapienza dei Nativi sul rispetto degli spiriti della terra, del cielo e delle
acque. Insegna che la vita è interconnessa e che gli esseri umani hanno la
responsabilità di vivere in pace tra loro e con il mondo che li circonda”.
Dall’Oahspe hanno tratto un lezionario e un salterio che viene ‘pregato’ ogni
giorno.
L’aspetto ‘etico’, tuttavia, è infimo rispetto a quello ‘visionario’, il più
interessante dell’Oahspe. Più che alla Bibbia – di cui scimmiotta il ritmo –
l’Oahspe, nei sui lati fecondi, rimanda a William Blake, ai canti persiani
reinventati dagli orientalisti inglesi, è il preludio ai racconti magmatici di
H.P. Lovecraft. Allo stesso modo, l’Oahspe fonde il talento ‘commerciale’
statunitense all’esotismo europeo, la chiromanzia e il brevetto, l’estremo
razionalismo con l’assoluta irrazionalità, Edgar Allan Poe e l’esotismo di
Jean-Léon Gérôme. Per queste ragioni, l’Oahspe, testo che altrimenti fluttua tra
la dimenticanza e l’oblio, affascinò un poeta come David Gascoyne, che ne disse
come del “Libro più stupefacente mai scritto in inglese” (in: D.
Gascoyne, Selected Prose 1934-1996, Enitharmon, 1998). L’esagerazione era
appropriata al suo carattere ‘apocalittico’: sodale – per un po’ – dei
Surrealisti, seguace di Benjamin Fondane – a cui faceva filosofiche visite
notturne – era ritenuto un redivivo Rimbaud e aveva tradotto, a tradimento,
Friedrich Hölderlin. Usava l’Oahspe come oppiaceo lirico, per galvanizzare i
suoi versi, tra l’altro bellissimi – per un po’, si credette investito di un
compito messianico, per un po’ lo reclusero al Whitecroft Hospital, sull’Isola
di Wight, dopo l’ennesimo crollo mentale. Del dio, nel libro, il poeta riconobbe
la carcassa: squittiva il vento in quell’ossario, faceva bei suoni, che
inorgoglivano le orecchie, davano in sfoggio d’aquile. Era sufficiente.
***
Oahspe
1 Il Creatore, Jehovih, creò l’uomo e gli disse: Affinché tu sappia che opera
della Mia mano sei, sapienza ti ho concesso e potere e dominio. Questa fu la
prima era.
2 Ma l’uomo era fragile, camminava sul ventre e non capiva la voce
dell’Assoluto. E Jehovih chiamò i suoi angeli, gli antichi della terra, e disse
loro: Andate, sollevate l’uomo, che sia eretto, e consegnatelo al sapere.
3 E gli angeli discesero dal cielo alla terra e sollevarono l’uomo. E l’uomo
errò sulla terra. Questa è detta seconda era.
4 Jehovih disse agli angeli che scortavano l’uomo: Ecco, l’uomo si è
moltiplicato sulla terra. Radunate gli uomini, insegnate loro a vivere in città,
a forgiare nazioni.
5 E gli angeli di Jehovih insegnarono ai popoli della terra a vivere insieme in
città e nazioni. Questa è la terza era.
6 Fu in quel tempo che la Bestia (il sé) si impennò davanti all’uomo e gli parlò
dicendo: Possiedi ciò che vuoi perché tutto è tuo e ti obbedisce.
7 E l’uomo obbedì alla Bestia e la guerra dilagò nel mondo. Questa è la quarta
era.
8 Ma l’uomo ammaccato nel cuore si ammalò e reclamò la Bestia e gli disse: Tu
hai detto: Possiedi ciò che vuoi perché tutto è tuo e ti obbedisce. Ora, guerra
e morte mi accerchiano. Ti prego, insegnami la pace!
9 Ma la Bestia disse: Non a portare la pace sulla terra sono venuto, ma a
portare la spada. Sono venuto a mettere discordia tra il figlio e suo padre, tra
la figlia e sua madre. Qualunque cosa tu vuoi per cibo, prendila, sfamati, che
sia carne o pesce, non pensare al domani.
10 E l’uomo mangiò carne e fu carnivoro e l’oscurità lo avvolse: non udì più la
voce di Jehovih e smise di credere in Lui. Questa è la quinta era.
11 E la Bestia spalancò le sue quattro enormi teste e fu padrona della terra. E
l’uomo si prostrò, e l’uomo si mise in adorazione.
12 E i nomi delle quattro teste della Bestia erano: Bramino, Buddista,
Cristiano, Musulmano. E si divisero la terra, la spartirono fra loro e scelsero
eserciti per mantenere le proprie proprietà.
13 I Bramini avevano sette milioni di soldati, i Buddisti venti milioni, i
Cristiani sette milioni, i Musulmani due milioni – loro mestiere era uccidere
gli uomini. E l’uomo dedicò parte della vita alla guerra e alla proliferazione
di eserciti e l’altra parte alla dissolutezza – era schiavo della Bestia. Questa
fu la sesta era.
14 Jehovih disse all’uomo desisti dal male, ma l’uomo non lo ascoltava.
L’astuzia della Bestia aveva trasformato la carne dell’uomo e la sua anima si
era nascosta in una nube – l’uomo amava il peccato.
15 Jehovih allora chiamò i suoi angeli e disse: Scendete ancora sulla terra,
dall’uomo, che ho creato perché dalla sua terra traesse godimento e dite
all’uomo: Così dice Jehovih:
16 la settima era è prossima. Il tuo Creatore comanda la conversione: da uomo
carnivoro e violenta diventa erbivoro, vivi in pace. Le quattro teste della
Bestia saranno eliminate, la guerra sedata
17 i tuoi eserciti saranno sciolti e da quel momento non esisterà più la guerra
perché questo comanda il tuo Creatore.
18 Non avrai alcun Dio né Signore né Salvatore oltre a Jehovih, colui che ti ha
creato! Adorerai soltanto lui, di ora in ora, da ora e per sempre. Io precedo le
mie creazioni, sono autosufficiente
19 e a tutti quelli che si separano dal dominio della Bestia, stipulando patti
con me, darà il mio regno
20 e costoro saranno detti eletti: il patto e le opere li faranno miei sulla
terra, Fedeli saranno chiamati,
21 ma chi ha stipulato patti con la Bestia, sarà chiamato Uziano che significa
distruttore. E d’ora in poi ci saranno due categorie di genti sulla terra:
Fedeli e Uziani.
22 E gli angeli del cielo discesero sulla terra, apparvero all’uomo, a
centinaia, a centinaia di migliaia, e parlarono come parla un uomo, e scrissero
come scrive un uomo, insegnando le parole dette da Jehovih.
23 E nel trentesimo anno, gli Ambasciatori delle angeliche schiere rivelarono
all’uomo, nel nome di Jehovih, i Suoi regni celesti; resero note le Sue superbe
creazioni per la resurrezione dei popoli della terra.
24 Oahspe, immacolato libro, insegna ai mortali come ascoltare la voce del
Creatore e vedere i Suoi cieli, nella consapevolezza, mentre sono ancora vivi;
che conoscano il luogo e la condizione che li attende dopo la morte.
25 Né tali rivelazioni dell’Oahspe sono del tutto nuove ai mortali: le stesse
cose sono state rivelate a molti che vivono a grande distanza l’uno dall’altro,
privi di contatti tra loro.
26 Poiché questa luce è onnicomprensiva, abbraccia cose corporee e spirituali,
ed è chiamata era del Kosmon. Poiché si riferisce alla terra, al cielo e allo
spirito si chiama Oahspe.
*
Libro di Osiris, Figlio di Jehovih
1 E ora giunse Osiride, Figlio di Jehovih. A lui, sul suo trono a Lowtsin,
nell’etereo mondo, dove il suo regno per centomila anni aveva illuminato molte
stelle corporee, giunse la Voce, Jehovih il Grande, lo Spirito di ogni cosa, e
disse:
2 Osiride! Osiride: Figlio mio, lascia gli immortali mondi, artiglia la peritura
terra nel tuo volo obliquo; e proclama, con lo scettro levato, te stesso, l’Uno,
il Dio che comanda. Come un padre indulgente cammina accanto al figlio,
guardandolo con tenerezza e offrendogli i suoi consigli, così io, tramite i miei
Dèi e i miei Capi, ho persuaso la rossa stella per molte migliaia di anni. Ma
come un padre saggio si rivolge al figlio reietto, ormai in età, e gli ordina
cosa deve o non deve fare, così io, tramite te, devoto figlio, stendo la mano
sulla terra e sui suoi cieli.
3 Giace sepolta nell’abisso, resa all’anarchia, manovrata da falsi dèi e falsi
principi, che devastano con la guerra i suoi cieli e riversano sul suo suolo
milioni di spiriti della tenebra, che soltanto il crimine sazia. Come tronchi
alla deriva su un oceano che ribolle, così gli spiriti dei morti si levano dalla
terra al cielo per essere nuovamente precipitati.
[…]
9 Come una stella si nutre del mutare delle stagioni, così Jehovih guidò l’orda
dei suoi Serpenti per conferire agli eterei regni una vita infinita, che
sappiano la gioia del mutamento, la gloria dello spirito.
[…]
11 …Ecco, la razza dei Ghan, pianificata da Jehovih fin dalla fondazione del
mondo, ora si erge trionfante sulla terra.
12 Non come agnelli sono i Ghan, ma indomiti leoni, nati per la conquista, con
seme di sapienza che ragiona e disarticoli ogni cosa, che ha fede e potenza – ma
non pone fiducia in Jehovih. Come un uomo che ha due figli, il primo vuoto di
passioni, esangue, l’altro incessante in malizia, desideroso di delitti,
delirante in distruzione, così sono I’hin e Ghan. Quando muoiono, gli I’hin
vanno come agnelli là dove gli è ordinato; i Ghan, ancora pieni di ira, si
ostinano a deridere ogni potere. Anime ben forgiate, maestose a vedersi, tornano
sulla terra e fondano un regno celeste nell’oscurità – vendetta trama nei loro
atti.
13 Con fragore distruggono i deboli regni dei Signori, li spogliano dei loro
sudditi, proclamano il cielo in terra. Per questo, le sventurate anime dei cieli
inferiori, sedotte, fuggono la resurrezione per tornare dai mortali, e vengono
fissati in feri, chiusi a ogni luce.
14 E i mortali si abbandonarono a compiere la volontà degli spiriti delle
tenebre, facendo desolazione della festa.
*
Libro della Disciplina
Discorso di Dio sull’amore
1 E verranno a chiederti: Cosa ci dici di chi è sposato e ha figli? Ameranno
forse costoro così tanto la comunità e il regno di Jehovih da mettere da parte
il loro amore filiale, affidando i loro figli a qualcun altro, giorno e notte?
2 Tu risponderai loro: No, in pienezza il loro amore si manifesta nei piccoli. E
lo testimonia chi ha figli quando adotta un trovatello o un orfano, inglobandolo
nella famiglia, senza parzialità. Questo è il più alto carisma dell’uomo: essere
imparziale nell’amare.
3 Non per limitare l’amore ma per moltiplicarlo, come fa Dio, che abbraccia
tutte le genti; così i vari membri della fraternità lavoreranno con Dio e i suoi
santi angeli, per gloria di Jehovih.
*In copertina: uno dei disegni che costellano Oahspe
L'articolo “E gli angeli del cielo discesero sulla terra”. Esasperato
esoterismo: intorno all’“Oahspe”, una nuova bibbia proviene da Pangea.
Il poeta presiede all’identità di un luogo.
Potremmo dire che un luogo esiste in virtù del canto del poeta.
Quando quel canto si perde, da quei luoghi fuggono gli dèi e i negromanti; quei
luoghi tornano anonimi, legati, semmai, a qualche catena di parentele – che come
ogni altra cosa, prima o poi si slegherà – a qualche circostanza
‘paesaggistica’, fotografica. The nymphs are departed, cantava Eliot sulla sua
rovinosa arpa: il Tamigi scorre dolce, trascinando “bottiglie vuote, carte da
sandwich… cicche di sigarette”; al posto dei fauni corrono, fatui, i ben
agghindati banchieri della City, in brigata.
*
Soltanto il canto dispiega i nomi, ne dice – celandolo – il segreto. E quel nome
– cioè: quel fiume e quella valle, quel bosco e quella particolare rocca, quella
particola fonte – splende, imperituro, imperiale, nostro. Se perdiamo il canto,
siamo dispersi al mondo. L’arte, allora – o ciò che ne resta – non è che
implorazione e lamento, peana malinconico, reprimenda, semmai, inerte trama di
marce vocali. Gli artisti – non più poeti, non più aedi – si rinnovano nei
ricami del lacchè, dei mestieranti del sé. Diventano esperti,
sono professionisti – mentre l’incanto e l’inesprimibile cerca gli ingenui e i
dilettanti; chi, vuoto di sé, sappia davvero incaricarsi dell’altro, invasarsi
di altro. L’angelo, allora, non grida più dalle pareti delle più inerpicate
pievi; il dio non scende più dalla volta celeste, non scoscende come un
acquazzone, in corsa – i lupi, i licaoni e gli stambecchi non corrispondono più
al canto – il poeta ha smesso di essere falco e erba, cicala e serpe.
*
In un dialogo privato, Rosita Copioli, poetessa, studiosa di William Butler
Yeats e del misticismo irlandese, mi ha introdotto alla figura dell’ollam. Nella
cultura d’Irlanda, l’ollam ha un ruolo diverso dal bardo, dall’aedo, dal poeta
di corte: egli serba i canti che riformulano il mondo. L’ollam è il garante del
re, in quanto mediatore dei poteri superni. L’ollam somma in sé la statura del
bardo e la sapienza del druido: il suo addestramento è un destino, al ruolo si è
avviati per lignaggio. Quando un ollam sceglie di farsi morire perché un re gli
ha mancato di rispetto, si siede sulla soglia del castello e digiuna. Alla morte
dell’ollam segue, necessariamente, quella del re: la legge terrena è officiata
dal canto celeste.
Tutti conosciamo la storia di Eraclito, tramandata da Diogene Laerzio. Il
pensatore oscuro, artefice di enigmi, capace di penetrare nelle angustie del
linguaggio – avrà un eletto discepolo nel poeta francese René Char – è preteso
dagli abitanti di Efeso, la sua città. Alla richiesta di plasmare per loro la
costituzione, Eraclito si indigna, preferisce ritirarsi all’ombra del tempio di
Artemide e giocare a dadi con i bambini. Infine, sceglie l’ascesi tra i boschi,
si imbestia, dimentico di sé, a quattro zampe, seguace delle belve notturne.
*
Alla poesia incantatoria seguirà il poema cavalleresco, che reca diletto ai
principi in stanze corredate di orsi impagliati e impigliati falchi, contorno di
Titani alle pareti, di nubi e forre ricche di satiri. Nelle sale dei re rivive
il selvatico e la selva, ormai dragato dall’ingegno umano, che relega le ninfe a
ninfette, le sirene a pin up, i duelli all’arma bianca, sotto lo stemma del
fato, a stermini di massa. L’azione fine a se stessa si volge in azienda, il
‘bel gesto’, connaturato al cavaliere, stinge in spiccio utilitarismo. La fiaba
reca ancora, sigillato, il segreto di un mondo fatato e fatale; il motto e
l’adagio popolare serbano dell’antico poema cosmico la lisca, l’estrema esca.
Carlo Fornara, Da una leggenda alpina, 1902
*
Forse è per l’ancestrale potere degli ollamain che in Irlanda il poeta è tenuto
in alto onore: è ancora lui a onorare i nomi delle valli, dei fiumi, dei brutali
bastioni. Un’amicizia si stringe sotto il fuoco del poeta. In Inghilterra un
valore simile ha il “Poet Laureate”: l’incarico (mutuato dall’alloro poetico
conferito in Italia, tra l’altro, a Petrarca), di eminenza ‘politica’ (a
investire il poeta è il Primo ministro in carica e il sovrano, non una combine
di intellettuale né un club di letterati), dura dieci anni. Un tempo – fino al
1999 – era un compito da percorrere a vita, ora è qualcosa di simile al
‘servizio di Stato’. Il primo poeta laureato fu John Dryden, incoronato nel
1668. L’esercizio, dicevo, è ‘politico’: il poeta si fa – secondo il proprio
insindacabile, ingiustificabile estro – portavoce dell’identità della nazione.
Il poeta laureato inglese di maggior talento, Ted Hughes, trafficava con gli
oroscopi, ha dedicato il suo libro più bello al corvo, l’uccello psicopompo, si
ritirava nello Yorkshire a scrivere e a cacciare. Non è un caso che abbia
tradotto Eschilo, tra i tragici il più grave di sacro. In una intervista del
1971, rilasciata al “London Magazine”, Hughes anela al ritorno del
poeta-sciamano: “Il Bardo Thodol è un volo sciamanico, con ritorno. Il buddismo
tibetano è influenzato enormemente dallo sciamanesimo. Il potere occulto che
emana la cultura tibetana proviene dal substrato sciamanico più che dal
buddismo. Lo sciamanesimo si concentra sull’attività di uno stregone, un uomo di
medicina, presso le genti primordiali. L’individuo è evocato da certi sogni. Gli
stessi sogni in tutto il mondo. Uno spirito lo chiama… di solito un animale o
una donna. Se egli rifiuta la chiamata, muore… o muore uno che gli è accanto. Se
accetta, si predispone al lavoro, ci vogliono anni… Di solito si apprende l’arte
da un altro sciamano, ma lo spirito può dare insegnamenti diretti. Una volta
educato, può entrare in trance a suo piacimento e varcare il mondo degli
spiriti… Lo stesso schema lo troviamo in migliaia di racconti popolari e di
miti. L’Odissea, la Divina Commedia, Faust… Come può un poeta tornare stregone e
volare alla fonte, saper guarire e pronunciare oracoli?”.
*
Nella prima delle Leggende delle Alpi Lepontine catalogate e riscritte con garbo
da Aurelio Garobbio (ora stampate dall’Associazione culturale Terra Insubre per
tramite di De Piante Editore), Il drago di Sesto Calende, si dice di un
pescatore che d’improvviso partecipa ai misteri della terra e del cielo. “L’uomo
sentì dentro di sé un che di immenso nel quale gli parve naufragare”. Al di là
della eco leopardiana, è proprio questa, frugale, lignea, l’esperienza
sciamanica: cogliere i colloqui tra “acqua terra cielo”. Il poeta ascolta, si fa
da parte – inscrive se stesso e i suoi in un luogo. Digging, direbbe Seamus
Heaney, il grande poeta irlandese – scavando.
*
Nelle leggende registrate da Garobbio ci sono le ninfe di lago: sono nella Valle
Isorno, una delle valli dell’Ossola; sguazzano nel Matogno, a poco più di
duemila metri. Attraggono a sé i viandanti, il loro fare ricorda quello delle
Sirene:
> “Sono creature amorose ed attirano i giovani cantando. L’incauto che udendole
> s’avvicina alle rive, difficilmente riesce a sottrarsi a tanto fascino; esse
> lo invitano mostrandosi dalle ginocchia in su. Chi mette un piede nell’acqua
> più non si libera dall’incantesimo e le segue immergendosi pian piano, come
> esse si immergono, scomparendo nei flutti in un abbraccio che non ha fine”.
C’è qualcosa di liberty in queste donne che all’ardore omerico uniscono le
ambiguità dei ritratti di Klimt.
“Tra i ghiacciai del Rosa”, invece, si apre “una misteriosa isola verde”, specie
di Eden di ubertose terre, a contrasto con le gelide lande. Sembra di rileggere
il mito tibetano di Śambhala, di varcare la prodigiosa città di Shangri-la,
conficcata in un luogo segreto, a nord del Ladakh. In quel luogo – che è poi un
varco tra i mondi, è un luogo simbolico – il viandante accede a un’armonia
perduta, impara il linguaggio delle bestie:
> “Per tre settimane egli resta nella valle fatata, in mezzo agli animali che
> più non fuggono dinanzi a lui, e vive la loro vita imparando il loro
> linguaggio. Ode suoni mai uditi e vede cose che sempre sfuggirono al suo
> occhio acutissimo, apprende mille segreti penetrando nell’armonia del
> creato”.
È una sorta di quarantena al contrario, questa, di ventuno giorni: l’uomo
ritorna Adamo e Mowgli, puer eterno che doma le fiere e ascolta i sussurri degli
alberi.
Al ghiacciaio del Belvedere, presso Macugnaga, dimora invece la Fata Bianca:
naturalmente, è agli umani precluso il suo “volto fulgente”. Secondo il mito
classico – Atteone, mutato in cervo dopo aver scorto Artemide nuda – e il monito
biblico – “Mosè si coprì il volto, aveva paura di guardare verso Dio”, Es 3, 6 –
la vista del divino è vietata all’uomo, pena la cecità e la morte: “gli occhi
umani non resistono a quel celestiale splendore”.
D’altronde, se si è ciechi a se stessi è per eguale ragione: terrore provoca
sondare il mostro che si agita nel nostro cuore. Meglio ignorarlo – e che lui,
ingordo, ci divori da dentro. Rinnegare se stessi, cioè: disertarsi, essere di
sé il bandito, bandire razzia all’ego. Così, vuoti, potremo fare altare
dell’Altro.
*
Da bambino, volevo conquistare il monte Zeda. Forse per quel nome, definitivo.
Più tardi, avrei associato lo Zeda a Zembla, l’immaginaria regione dei ghiacci
inventata da Vladimir Nabokov in Fuoco pallido, romanzo impossibile che ruota
attorno a un poema, un’eredità, una filigrana di magie. Zembla è mutuato, credo,
da Novaja Zemlja, l’inaccessibile arcipelago russo che perfora il Mar Glaciale
Artico. Vi domina l’orso polare e la volpe bianca – fu un’importante base
nucleare sovietica.
Anselm Kiefer, Voglio vedere le mie montagne – für Giovanni Segantini, 2013
Lo Zeda svetta in Val Grande. Da bambino, si partiva verso il Rifugio Pian
Cavallone da Miazzina o da Comero. Si passava lì la notte – le stelle,
agnelline, belavano – i pascoli pieni di mirtilli. Lo Zeda – poco più di duemila
metri – mi fissava, come un selvaggio con l’arco a tracolla. L’ho sognato più
volte – come fosse il mio Himalaya personale, un Everest da taschino. Garobbio
scrive dello Zeda in un racconto che s’intitola Il pastore malvagio; come
sempre, è capace nel pennello, pare un Segantini:
> “In alto stanno i pascoli del monte Zeda, e da lontano sembrano velluto,
> soffici come sono all’occhio che riposato li percorre digradando lungo pendici
> e sostando su ripiani e pianori. L’aria risuona del martellante scampanio
> delle mandrie; in qualche anfratto gli ultimi rododendri segnano rosse
> pennellate”.
Nel sentiero che dal rifugio porta allo Zeda, si spalanca, dopo un po’, una
cella. Vi è dipinto, in modo rudimentale, un angelo che schiaccia la serpe, il
demonio. La serpe si diparte in un cespuglio di corpi che sibilano; l’angelo ha
il volto camuffato, ha un volto da lupo. Le ali, appese alla meglio, sembrano
chiese in prestito da un airone. Lo zio mi diceva che lì abitava il monaco dello
Zeda. Figura per lo più leggendaria, non apparteneva, nel suo appartarsi al
mondo, ad alcun ordine monastico costituito. Vagabondava con una Bibbia in mano,
come l’antico pellegrino russo, di tutto spoglio, di nulla manchevole. Dicono
sapesse mutarsi in cervo; dicono sapesse curare chi era preda, su quel suolo di
ingannevoli pietre, di un incidente; morso di vipera non ne intaccava il nerbo.
Dicono che le stelle lo seguissero, a notte, come cani. Sognavo di vivere quella
stessa vita – lo dicono altissimo, bianchissimo, purificato dal gelo – a metà
tra l’eremita e il licaone.
*
Quando racconta degli strani abitanti nei pressi di Dongio, in Canton Ticino,
Garobbio scrive che costoro “conoscevano i segreti delle erbe, delle piante,
degli animali, dei sassi, leggevano nelle stelle, adoravano il sole e la luna e
forse vedevano al di là delle cose visibili”. Dimoravano presso pareti
vertiginose, vivendo secondo la formula degli antichi cenacoli: dai pitagorici
ai Terapeuti, dai seguaci di Orfeo agli Esseni, agli pneumatici confitti nelle
meteore dell’Athos. A quello stadio, il canto non conta più: si vive
nell’incanto. Il poeta non ha più peso né senso perché si è tutti poeti e la
profezia è ormai realizzata. Non esiste legge né loggia, mio o tuo, bene o male
– tutto, semplicemente, è.
*In copertina: Giovanni Segantini, Il castigo delle lussuriose, 1891
L'articolo “Conoscevano i segreti delle erbe, delle piante, degli animali, dei
sassi, leggevano nelle stelle” proviene da Pangea.
> Viviamo nell’era del dio della Carta. La musica ne è soggetta proprio come
> tutto il resto. Se escludiamo il jazz o le orchestre di musica leggera, che
> hanno conservato i concetti di un tempo, abbandonati dalla musica classica,
> […] non c’è più una singola nota di un fugace arpeggio nella musica
> occidentale odierna – la nostra musica – che non sia stata precedentemente
> disegnata con un cerchio, una coda e piccoli uncini, né una singola sfumatura
> o inflessione che non sia stata segnalata, come un rallentamento in
> autostrada, da un piccolo disegno o da un segno ad hoc, su un foglio di cinque
> righi o suo equivalente, da quell’altra divinità mitica che è diventato il
> Compositore.
>
> Jacques Chailley, La Musique et le Signe, Edition d’aujourd’hui,
> Plan-de-la-tour, France, 2004, p. 5 (trad. mia).
Che la grafia sia segno o lasci un segno è cosa nota e per lo più scontata. Lo
scrivere, atto innaturale e volgare che infatti i re e le divinità concedevano a
scribi e profeti, dopotutto è quella cosa lì, tracciare sulla cera, sulla carta,
sul muro o sulle porte delle latrine le proprie bêtises.
Eppure, che a un certo punto la musica abbia sentito la necessità di dotarsi di
una grafia, di un segno, di qualcosa che la rappresentasse, lascia interdetti.
Benché questo segno non le sia congeniale e con essa non abbia alcuna
contiguità, la musica ne ha voluto uno tutto per sé come la zitella che non
vedeva l’ora di prendere marito.
Cosicché il suo mondo dirozzato dal segno grafico e dalla parola improvvisamente
inciampa, diciamo così, nella grossolana ovvietà della grafia che, nel suo caso,
diventa notazione. La musica, insomma, come un linguaggio qualsiasi, avverte
l’inspiegabile necessità di dotarsi di un segno e infine lo ottiene, ma in un
attimo perde la noblesse che il phàrmakon della scrittura proditoriamente le ha
sottratto.
Musicisti e strimpelloni dovrebbero tenerne conto invece di scimunirsi
con Études d’exécution transcendante e Gradus ad Parnassum. A costoro farebbe
bene adottare un po’ di quell’intransigenza con la quale nel Fedroplatonico
Thamus schivò le blandizie del dio Theuth che gli presentava le miracolose virtù
della scrittura. Invece il loro grafismo isterico e il loro ottuso narcisismo
trascurano la parte più importante della faccenda: la musica non ama l’insolenza
del segno o di qualsiasi discorso che intenda sottrarle lo scettro regale con il
quale impone le sue diaboliche leggi.
Con il nobile pretesto di tracciare una provvisoria e non esaustiva storia della
Scuola pianistica a Napoli dall’Ottocento a oggi, Girolamo De Simone (Napoli,
1964) è tra i pochi musicisti contemporanei che si è posto il problema della
grafia musicale concettualizzandolo. L’esito di questo lavoro è depositato
nell’ultimo capitolo del suo nuovo saggio intitolato, appunto, Graffi e Grafie.
Pianismi e pianisti a Napoli.
Non che per le sue composizioni De Simone abbia completamente abbandonato la
tradizionale notazione musicale (già perlopiù deformata o adattata alla nuova
frontiera della sua espressione artistica), ma ciò che qui si fa interessante e
si impone per novità di pensiero è l’adozione e l’uso personalissimo del graph,
del «segno mobile» che egli prende dalla lettura e dallo studio delle poche e
quasi sconosciute opere di Aldo Braibanti (1922-2014), il libero pensatore
piacentino che alla fine degli anni Sessanta subì un processo per plagio – credo
unico in Italia – culminato con la sua condanna a quattro anni di carcere.
Il graph, afferma Girolamo De Simone, deve poter attestare e garantire la
«totale mobilità formale» necessaria alla ricerca e alla nascita di nuovi
linguaggi sonori. Perciò esso, più che segno vero e proprio, più che forma
cristallizzata e stantia di notazione musicale, è l’idea stessa che incoraggia
il cambiamento, è ciò che «trascorre al di là della dialettica», è il nome dato
allo «sforzo di ricondurre lo strumento inorganico all’organo». Per tale motivo,
il graph deve essere libero, deve potersi muovere, poter scorrere, scavare,
solcare e ferire come il graffio con il quale condivide esiti e assonanze
linguistiche.
Dunque, il graph di Braibanti nella ripresa concettuale che ne fa De Simone si
accresce di senso fino al punto che la sua mobilità diventa sinonimo di
passaggio generazionale, di attraversamento, di transito verso nuovi codici e
nuovi stili. La stagnazione del pensiero che produce il tanfo mucido delle
accademie è assolutamente ostile a Girolamo De Simone che in Graffi e Grafie si
confronta con il pensiero acratico dell’“eretico” Braibanti. Sì, acratico è
l’aggettivo che Braibanti preferiva al più comune anarchico. («Acrazia, e
anticrazia come suo aspetto operativo, vogliono essere non tanto parole da
sostituirsi alle classiche parole dell’anarchia storica, quanto indicazioni
eloquenti della necessità di estendere l’indagine anarchica al di là delle sue
accezioni strettamente politiche, cercandone l’origine e i fondamenti in uno
spazio più comprensivo»: A. Braibanti, Impresa dei prolegomeni acratici).
È in questo sistema di libertà che opera il graph di Braibanti e muove la sua
reinterpretazione in chiave storico-musicale Girolamo De Simone. Il graffio
sfregiante che il musicista napoletano individua in origine nella scrittura
rarefatta delle composizioni di Luciano Cilio (1950-1983) fino a quella
concettuale e al limite del silenzio di Gabriele Montagano (1960) e poi nella
musica di Enrico Renna (1952), di Lorenzo Pone (1991), per prolungarsi, in linea
di continuità, con la propria produzione musicale, come nel recente Liturgie du
souffle,sfruttando il trait d’union generazionale di Eugenio Fels (recentemente
scomparso), conferma la lucidità della sua intuizione.
La mobilità acratica del graph che se ne sbatte del potere costituito e della
tignosa supponenza delle élites accademiche è la radice comune della produzione
artistica dei compositori che a Napoli, città ingrata come poche, hanno operato
nella seconda metà del Novecento e che, con più difficoltà che altrove,
continuano ancora oggi la loro ricerca sonora. Una ricerca che, per ora, è
registrata in dettaglio e con pignoleria nell’agile saggio di Girolamo De Simone
pubblicato da Konsequenz.
Vincenzo Liguori
*In copertina: Theodoor Rombouts, Il suonatore di liuto, 1620 ca.
L'articolo Graffi, grafie e graph. L’eresia della scrittura musicale proviene da
Pangea.
Usava una parola molto più possente. Per dire ciò che noi intendiamo, indotti
dagli intellettuali modaioli, con fake news, lui diceva «controverità» – e
occorre aggiungere che quest’uomo dal nome di un brigante variopinto, con gli
occhiali tondi e il sorriso laccato, aveva già capito tutto ottant’anni fa o
quasi. L’immagine è questa. Siamo nel 1941 e il tizio, prima per impegno
contratto con il ministero dell’Informazione del governo di Vichy, poi da casa
sua, per i fatti suoi, ha le cuffie e ascolta le voci. Si è costruito un
apparecchio radio, e lui è lì, specie di sentinella che smista i linguaggi, a
spiare cosa si dice a Tokyo, a Istanbul, a Mosca, a Londra, a New York. Tutto il
mondo ronza nelle sue orecchie. E lui, registra. In un capoverso che pare il
sunto di un romanzo di H.P. Lovecraft, racconta così ciò che ascolta, la notte,
mentre Morfeo disintegra Parigi:
> «Nel corso del mio tête-à-tête con le radio del mondo, mi capita di provare la
> sensazione, come per via medianica, di un contatto con i temibili esseri
> psichici che assediano il pianeta, ossessionano l’umanità, cercano interi
> popoli di menti da soggiogare, divorare, saharizzare… Al di là delle parole,
> percepisco le grida dei carnivori della mente in cerca del pasto».
Armand Robin, classe 1912, ultimo di otto figli, si vantava di essere nato in
«una famiglia contadina scarsamente alfabetizzata»: nel 1931 comincia a studiare
il russo e il polacco, s’impantana nei linguaggi e in quel labirinto si perde,
«è destinato a diventare un vero e proprio poliglotta, arrivando ad usare,
quando non parlare e scrivere, una ventina di lingue e dialetti». Traduttore
inossidabile, di Goethe, Shakespeare, Pessoa, Khayyam, Majakovskij e Lope de
Vega, il suo talento è riconosciuto anche da Ungaretti:
> «le mie poesie tradotte da Robin sono io più Robin. Mi ha colto alla radice.
> Sotto terra c’è una seconda fioritura».
Robin ha il radar del linguaggio, è una specie di Isaia che profetizza, nel
niente contemporaneo, in tutte le lingue del mondo. Sa, pure, che il linguaggio
è spietato e chiede tutto. A lui sottrae il talento creativo. In un aforisma di
violenta nitidezza, Robin si definisce
> «poeta senz’opera, eliminato dalla sua stessa poesia, suicida canto per canto,
> una gola strozzata da parole troppo esigenti».
Ma torniamo in quella stanza radiofonica, dove Robin ascolta le voci degli
altri.
Lì, nel suo bunker privato, uno shuttle gettato nel cuore della Storia – «Non
vivevo che visitato da lamenti, preso di mira dai pianti di ogni Paese» – Robin
esplicita l’essenza delle fake news. Tutto comincia, però, con il fatidico
viaggio in Russia, nel 1933, in estasi comunista. Prima di tutti, sul campo,
Robin capisce cos’è l’Unione Sovietica: «Quanto hai visto fu un incubo, un mondo
in cui ogni senso della dignità umana è morto, perseguitato». Nel 1940 incontra
Pierre Drieu La Rochelle e collabora con Vichy come «ascoltatore di voci» via
radio. L’esito di questi ascolti, che proseguono per oltre un decennio, sfocia
in un libro indefinibile e magnetico, La fausse parole, pubblicato dalla
Éditions de Minuit nel 1953 e proposto, insieme ad altri scritti, da Giometti &
Antonello, nel 2018, come L’indesiderabile. La falsa parola e altri scritti (a
cura di Antonio Malinverno). In un paragrafo, Al di là di menzogna e verità.
Mosca alla radio, Robin spiega la dinamica della fake new, della «controverità»,
che durante l’era stalinista giunge a vertici deliranti. Proclamare
reiteratamente che il mondo in cui si vive, anche se fa schifo, è il più bello
possibile, ha per scopo l’annientamento della realtà. Obbiettivo di ogni regime
– anzi, di ogni politica –, risolto da Stalin con sublime audacia.
> «In breve, è come se la realtà non esistesse, o almeno come se il vero scopo a
> cui si mira fosse di correggere l’umanità dalla sua indesiderabile propensione
> a constatare che quanto esiste, esiste davvero… Per quanta immaginazione si
> abbia, è difficile concepire un modo migliore per far sentire agli uomini che
> la loro coscienza non ha più nessuna ragion d’essere, che è ormai soltanto una
> grottesca vestige. Si tratta della liquidazione dell’umano intendere.
> Nonostante sia la prima volta nella storia dell’umanità che una simile impresa
> viene tentata con tanta suprema abilità, essa porta lo stesso nome da secoli:
> è l’assalto di Lucifero contro l’uomo».
Robin, l’uomo che disinnescò il sistema della propaganda, lavorava con Vichy e
passava le notizie ai giornali clandestini: sorvegliato dalla Gestapo,
malsopportato dagli intellettuali di sinistra – rappresentati da Eluard e
Aragon, su cui piombavano i devastanti fulmini di Robin: «La nostra letteratura
è stata disonorata da quella miserabile farsa chiamata per antifrasi poesia
della Resistenza (quale poesia? Quale resistenza?)… Si sono visti i cantori
della libertà presiedere i tribunali dell’inquisizione, i distruttori di
prigioni reclamare la moltiplicazione delle prigioni». Dopo la guerra, fu
inserito nella lista nera dei collaborazionisti. Non se ne curò. S’iscrisse alla
Fédération Anarchiste per puro spirito, si diede a epici vagabondaggi in
motocicletta, tradusse Boris Pasternak, verso cui riservava un’ammirazione
assoluta («è l’individuo in quanto tale assolutamente inscalfito dal
comunismo»).
Morì nel 1961, sopraffatto dai debiti, «per cause mai accertate», dopo essere
stato condotto a forza al commissariato di quartiere, Parigi. Era il 28 marzo,
faceva a cazzotti in un caffè, forse; «in seguito al rifiuto dell’eredità da
parte della famiglia, tutti i beni di Robin sono finiti nella discarica
pubblica. Solo tre valigie di manoscritti raccolti in dieci minuti vengono
salvate in extremis».
Così, come un errore grammaticale, svanì un uomo fantomatico, di traslucida
veggenza – di sé disse: «attraversando tutti i paesi fui trasparente. Non ho
riconosciuto frontiere». Il regime irrigidisce la grammatica, preda il
linguaggio, lo conquista e da lì imprigiona l’uomo – questo ci ha insegnato
Robin.
*In copertina: una immagine tratta da “Le vite degli altri”, film di Florian
Henckel von Donnersmarck del 2006
L'articolo “È l’assalto di Lucifero contro il mondo”. Armand Robin, l’uomo che
ascoltava le voci e svelò il metodo delle “fake news” proviene da Pangea.
> “Nel quadro, una figura femminile, bianca e luminosa, procede da est a ovest,
> tenendo tra le mani un libro e i fili del telegrafo (…); alle sue spalle, e
> nella stessa direzione, procedono i vagoni di un treno, mentre alla sua
> sinistra, più in primo piano nel dipinto, uomini armati di aratro camminano
> con calma su una strada dritta. I tre personaggi, la donna, il treno e i
> farmers, avanzano lungo tracciati paralleli e ordinati. La parte sinistra del
> quadro, quella a ovest, è invece occupata da figure disposte in modo
> decisamente più irregolare: si tratta di nativi e animali che fuggono
> incivilmente, spinti fuori campo dall’incedere rassicurante del progresso”.
>
> (Andrea Laquidara, John Ford e il cinema americano, Mimesis 2019, pp.29-30)
Nel dipinto del 1872 American Progress di John Gast, artista statunitense dalle
venature naïf nato a Berlino, specializzato in litografie, la donna splendente
con la stella sulla fronte che procede levitando verso Ovest (a cui si ispira il
personaggio della DC Comics Wonder Woman) incarna la famosa dottrina
ottocentesca del Manifest Destiny: il progresso inarrestabile visto come una
missione divina, affidata agli Stati Uniti, i quali avevano il dovere di
espandersi sul continente per portare la luce della civiltà verso la natura
oscura e selvaggia – e ostile – da colonizzare. Una civiltà che ha costruito la
sua identità in modo cruento, nell’inevitabile confronto/conflitto con il
selvaggio, che andava allontanato, piegato, addomesticato, e nelle fasi estreme
di guerra andava sterminato, proprio in nome del Destino Manifesto. Il termine,
coniato dal giornalista-editore John L. O’Sullivan, divenne popolare nel 1845
nella disputa territoriale per l’Oregon e nell’annessione del Texas: una
rivendicazione per «il diritto del nostro destino manifesto di diffonderci per
l’intero continente, che la Provvidenza ci ha dato per lo sviluppo di un grande
esperimento di libertà e di autogoverno federato». Termine che venne usato per
la prima volta in un discorso al Congresso da Robert Winthrop nel 1846: «I mean
that new revelation of right which has been designated as the right of our
manifest destiny to spread over this whole continent. (…) The right of our
manifest destiny! There is a right for a new chapter in the law of nations; or
rather, in the special laws of our own country; for I suppose the right of a
manifest destiny to spread will not be admitted to exist in any nation except
the universal Yankee nation!».
Per riprendere questo tema vogliamo tornare al saggio di Andrea Laquidara John
Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di Dioniso (Mimesis 2019), di
cui già abbiamo parlato a proposito della Diligenza per Lordsburg, trasposta al
cinema con il celeberrimo Stagecoach, ovvero Ombre rosse. Abbiamo visto che John
Ford ha segnato la storia del cinema per aver costantemente tematizzato il
confronto con il selvaggio, proprio attingendo alla tradizione dell’immaginario
statunitense ottocentesco. E il suo primo film di grande successo, quello che
gli diede notorietà e peso, risale al 1924, in pieno cinema muto: The Iron
Horse, una grande epopea che racconta la costruzione della prima linea
ferroviaria transcontinentale americana negli anni successivi alla Guerra
Civile. La pellicola venne girata in gran parte negli altopiani desertici vicino
a Reno, Nevada, e impiegò centinaia di comparse, che comprendevano operai
cinesi, irlandesi e indiani Paiute. Il racconto prende episodi fondamentali
della storia americana: la Guerra Civile, la presidenza di Lincoln, l’espansione
verso Ovest e gli scontri con gli indiani, e mostra come la costruzione della
ferrovia transcontinentale si sposava indefettibilmente con l’ideologia
del Manifest Destiny, sostenuta come necessaria e inevitabile.
Il progetto della ferrovia transcontinentale venne elaborato per la prima volta
nel 1845, ma il Congresso non riuscì a dargli una fisionomia definitiva a causa
dei contrasti sul percorso da scegliere. In seguito, la secessione degli stati
del Sud e la guerra conseguente favorirono la scelta, appoggiata dai nordisti,
di un percorso che tagliasse le regioni centrali degli Stati Uniti, e nel 1862
il Congresso approvò il Pacific Railway Act, che autorizzava la compagnia Union
Pacific Railroad a costruire in direzione ovest a partire da Omaha, mentre la
Central Pacific Railroad of California ottenne il permesso di costruire la linea
in direzione est, partendo da Sacramento. Era un’impresa di enorme difficoltà,
trattandosi di regioni isolate e quasi disabitate: tutto quanto, le traversine,
il pietrisco, i binari di ferro, il materiale rotabile, i macchinari dovevano
essere trasportati sui luoghi del cantiere da molto lontano, insieme alle
provviste e ai rifornimenti per migliaia di operai – in buona parte immigrati e
veterani dell’esercito dell’Unione smobilitati – che, spesso, erano costretti a
lasciare i picconi e a imbracciare i fucili per respingere gli immancabili
attacchi degli indiani.
In John Ford e il cinema americano, Andrea Laquidara si spinge ancora più
indietro rispetto al periodo canonico anni ’30 – anni ’60, considerato il più
significativo nella maggioranza delle monografie sul regista, per analizzare
proprio The Iron Horse del 1924, Il cavallo d’acciaio, la maestosa ricostruzione
dell’impresa ferroviaria ottocentesca. Abbiamo il topografo David Brandon Sr che
porta con sé il figlio David Jr in un viaggio esplorativo, nel sogno di
realizzare un giorno la grande ferrovia transcontinentale; ma i due vengono
assaliti da una banda di Cheyenne, il cui capo – un bianco travestito da
selvaggio – uccide il padre lasciando il figlio solo e abbandonato a sé stesso.
Anni dopo, l’imprenditore Marsh, padre di Miriam, la ragazzina che il piccolo
David Brandon aveva dovuto lasciare per seguire il padre, presiede la Union
Pacific, incaricata di costruire il tratto fra il Nebraska e lo Utah; Miriam è
fidanzata con Jesson, ingegnere al servizio del padre. Il ricco possidente
Deroux, il villain della storia, fa di tutto per impedire che la ferrovia segua
un percorso lineare, cercando di convincere l’imprenditore Marsh a farla deviare
nelle sue terre. Ma il provvidenziale rientro in scena di David Brandon, ora
impiegato come pony express, manda all’aria il suo intento: il giovane
suggerisce a Marsh una scorciatoia, lo shorter pass che aveva individuato col
padre in quel tragico viaggio. Va da sé che il malvagio Deroux cerchi di
eliminare David, con la complicità dell’ingegnere Jesson, geloso per l’amore che
sta rifiorendo fra i ritrovati David e Miriam, ma l’intento non riesce: “dunque
a Deroux non rimane che scatenare un gruppo di agguerriti Cheyenne: questi
aggrediscono i lavoratori, li accerchiano, e rischiano di interrompere
definitivamente il progredire della ‘civiltà’, se non fosse che l’intera
cittadina di Cheyenne City, costituita da immigrati irlandesi, cinesi, italiani
(un po’ riluttanti questi ultimi), si anima e corre in aiuto degli operai”.
Ora fermiamo il riassunto, lasciando il finale a chi voglia guardare la
pellicola, e partendo da qui dialoghiamo con l’autore, studioso, regista e
insegnante di Cinema all’Università di Urbino, per ragionare su alcuni aspetti –
anche sorprendenti – di questo film.
Dopo alcune scaramucce con gli indiani, risolte dalla determinazione degli
operai che si difendono a fucilate, il grande assalto alla ferrovia da parte dei
Cheyenne arriva dopo circa due ore: Ford filma l’aggressione, che si sviluppa
“at the end of the track”, con i lavoratori guidati da David Brandon che
“imbracciano le armi e si rifugiano sotto i vagoni, tra i binari, immediatamente
trasformati in trincea”. È interessante vedere la coreografia dell’assedio dei
Cheyenne: la provenienza da sinistra, ovvero da Ovest – che ricorda gli avispici
eseguiti dagli àuguri nella nostra antichità – e il senso antiorario della
corsa: tutti elementi carichi di significato.
Nel cinema – nel buon cinema – vi è sempre una compresenza di esplicito e
implicito, di non detto e dichiarato: significati, valori, visioni del mondo
arrivano allo sguardo dello spettatore tramite elementi evidenti del contenuto,
ma soprattutto grazie a scelte stilistiche insieme sottili e clamorose. Nella
scena della battaglia di The Iron Horse vi sono dettagli di regia densissimi di
richiami alla filosofia che pervade l’immaginario statunitense dai tempi della
Rivoluzione americana – probabilmente anche da prima.
I Cheyenne attaccano dalla sinistra dello schermo, dal West, da una terra non
ancora civilized, muovendosi in direzione opposta al simbolo più esemplare della
marcia del progresso, la ferrovia. Il percorso dei nativi (i “selvaggi”)
confluisce in un cerchio, e Ford ce lo mostra con chiarezza in una serie di
campi lunghissimi alternati con perizia a piani più stretti: il cerchio
(antiorario, perdipiù) contraddice la linea, la stasi selvaggia si oppone al
progresso razionale. Progresso borghese, potremmo aggiungere.
C’è poi un aspetto di grande rilevanza legato al taglio delle inquadrature e al
meccanismo di identificazione che esso determina nello spettatore. Per tutta la
sequenza della battaglia, i primi piani o le mezze figure sono riservati
esclusivamente ai lavoratori vittime dell’attacco, mentre i Cheyenne sono
inquadrati sempre con totali, pienamente assorbiti nella grigia e
ostile wilderness. Il pubblico è dunque indotto a empatizzare con le vittime,
mentre i nativi assumono il solo ruolo di mere e anonime minacce – inseriti nel
paesaggio, come le rocce e gli animali, ci dice Sandro Bernardi in una
riflessione interessantissima sul cinema di Ford.
Si tratta di un espediente retorico largamente presente nel cinema
hollywoodiano, anche in tempi più recenti. Mi viene in mente American Sniper, di
Clint Eastwood, un western “mediorientale”: la scena iniziale (il cecchino Chris
ha appena ucciso una donna intenta a lanciare una bomba contro un carro armato
statunitense; un bambino la raccoglie e prosegue la corsa verso l’obiettivo;
Chris prende la mira, ma esita per qualche istante) viene lasciata in sospeso
per consentire agli spettatori un approfondimento del contesto e dei personaggi.
Per quasi mezz’ora, un flashback ci accompagna nella memoria del cecchino, alla
ricerca di risposte ai nostri interrogativi: perché è qui con un fucile in mano?
Perché punta un bambino? Che educazione ha avuto? Cos’è accaduto agli Stati
Uniti negli ultimi trent’anni? A ben vedere, tuttavia, si tratta di un trucco,
anche piuttosto scorretto: per quale motivo Eastwood non dedica altrettanto
tempo ai due aggressori? Perché non approfondisce anche la loro storia? Come mai
sono lì con una bomba in mano? Che educazione hanno avuto? In che condizioni si
trova il Medio Oriente da almeno cinquant’anni? No, mamma e figlio sono solo due
pericolosi terroristi anonimi, e dunque il duplice omicidio messo in atto da
Chris (uno dei tanti difensori della civiltà hollywoodiana) è presentato sì come
terribile, ma necessario.
Il fatto che il cerchio contraddica la linea diritta del progresso ci rimanda al
simbolo del tempo per gli indiani d’America: per loro il tempo diurno, il tempo
notturno e le fasi della luna sarebbero posti sopra il mondo, e il tempo
dell’anno sarebbe un cerchio intorno al bordo del mondo. E questa circolarità,
come lei osserva, si imparenta con l’Ewige Wiederkunft del Gleichen, l’eterno
ritorno dell’uguale teorizzato da Friedrich Nietzsche.
Il discorso sul tempo, sulla filosofia del tempo che fonda le nostre identità, è
trattato spesso con frettolosità, o addirittura trascurato, mentre si tratta di
un tema urgente, che richiederebbe una riflessione molto ampia. A proposito
della teoria dell’Eterno ritorno di Nietzsche, credo si tratti di un’intuizione
sfuggente ed enigmatica, a volte fraintesa. Ho sentito opinioni (di semplici
amatori e di addetti ai lavori) che interpretano il ritorno nietzschiano come
ripetitività routinaria, da cui il filosofo ci inviterebbe a liberarci, come un
fiume smuove e ripulisce l’acqua torbida di uno stagno. In realtà la circolarità
del tempo di cui parla Nietzsche è tanto insopportabile quanto gioiosa: è una
potente affermazione della vita che divincola dalla perenne attesa di un mondo
altro. “Quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più
nient’altro!”, ci dice il demone ne La gaia scienza. Se osserviamo con
attenzione, dobbiamo constatare che la configurazione del tempo lineare, inteso
come una freccia tesa verso altrove, getta l’uomo in una condizione di attesa
speranzosa e pessimistica, che svaluta la vita presente, la vita terrena
tangibile. Una simile configurazione si colloca a fondamento tanto della
metafisica cristiana, quanto della società capitalista contemporanea, che
comanda il sacrificio del presente, in vista del conseguimento futuro di un
guadagno infinito. Un fantasma di guadagno, in realtà, ma efficacissimo come
punto di fuga per l’esistenza umana. Nel puritanesimo in cui affonda le radici
la cultura statunitense sono presenti entrambe le istanze, quella cristiana e
quella capitalista. È chiaro che, osservato dalla locomotiva che galoppa lineare
sui binari d’acciaio del progresso, il tempo ciclico dei nativi – proprio di
tante altre culture, antiche e contemporanee – non è altro che una torbida fase
di ristagno, l’avaria del motore, l’interruzione della linea: “The line went
dead”, afferma un soldato in Stagecoach, comunicando al comandante che il
selvaggio Geronimo ha tagliato la linea del telegrafo.
Vediamo come si arriva a quella specie di suprematismo che informava la dottrina
ottocentesca del Destino Manifesto, il motore dell’intera macchina
colonizzatrice dell’Uomo Bianco. Si parte da J. Hector St. John de Crèvecœur con
il suo Letters from an American Farmer del 1782, dove si definisce una
distinzione netta fra le due sponde dell’Atlantico: la vecchia Europa come
terreno ormai sterile e il suolo americano che può offrire una rigenerazione e
dar vita a una nuova umanità. Poi abbiamo Thomas Hart “Old Bullion” Benton,
primo senatore del Missouri che a partire dal 1820 teorizza l’espansione verso
il Pacifico come simbolo della libertà e della grandezza dell’America. Ora, dopo
duecento anni, sembra che questa dottrina stia trovando echi inquietanti anche
nell’America di oggi, in questa pirotecnica seconda presidenza di Donald Trump
con il suo Make America Great Again, con le dichiarate velleità espansionistiche
– ai limiti del grottesco – verso il confinante Canada e verso la Groenlandia,
definite “necessarie” per lo sviluppo americano e il progresso verso la
felicità, e le improvvise azioni guerresche che incendiano definitivamente il
Medio Oriente. Siamo di nuovo di fronte a un “tempo che ritorna”?
Non si tratta del ritorno nietzschiano come affermazione coraggiosa della vita,
tutt’altro: le narrazioni statunitensi sono piuttosto pervase di paura
dell’Altro, una forza centripeta che genera inevitabilmente chiusura e
conflitto. A proposito di questa immaginifica rigenerazione che avrebbe prodotto
l’uomo nuovo, l’americano, oltre ai personaggi già citati, de Crèvecœur, Benton,
vale la pena ricordare Frederick Turner e la sua interpretazione della frontiera
americana, proposta sul finire dell’Ottocento. Lo storico distingue le frontiere
europee (plurali), che separano una cultura da un’altra cultura, dalla frontiera
americana (singolare), che distingue cultura da wilderness. Questo confronto
arcaico, originario col grado zero della civiltà avrebbe rigenerato lo svigorito
uomo europeo, dando vita all’americano, l’uomo nuovo di frontiera, in grado di
riaffermare le leggi eterne che Dio ha dato alla Natura. Sembra la storia di
Superman… Noi sappiamo che si tratta di una gran bella menzogna: l’Europa non
era popolata da fiacchi individui occhialuti, malati di civiltà, e di là dal
recinto americano non c’era affatto una terra caotica in cui portare la
razionalità divina, ma una miriade di culture antiche e complesse che popolavano
un paesaggio ricco e vario. Tuttavia questa narrazione è stata efficacissima per
giustificare la chiusura verso le proprie origini e lo sterminio attuato ai
danni dei nativi. Il metodo è stato mantenuto nei decenni successivi, sempre più
evoluto, divincolato dalla dimensione esclusivamente territoriale: si legga al
riguardo il bel saggio di Ilaria Moschini Il grande cerchio. Theodore Roosevelt,
già nel 1904, investe gli Stati Uniti del ruolo di polizia internazionale,
chiamata a intervenire “elsewhere”, ovunque l’ordine e la stabilità sia messa in
pericolo; noi tutti ricordiamo l’“esportazione della democrazia” proposta
generosamente al mondo da George W. Bush, a inizio millennio, giustificata
dall’attentato alle Twin Towers. Per arrivare ai giorni nostri, ritengo che i
capricci e le pagliacciate di Trump siano l’ultimo aggiornamento di queste
narrazioni: armi di distrazione di massa che, al pari delle storie e dei
miti westerndi cento anni fa, servono a occultare un piano ben ordinato,
razionale, lineare di assimilazione, di appiattimento, di omologazione
dell’altro ai propri fantasmi ideali. Un’identità fragile difficilmente si apre
all’alterità. Chissà se alla Casa Bianca stanno già lavorando a un video che
prefiguri le meraviglie dell’Iran futuro…
Tornando a The Iron Horse, lei ha fatto riferimento alla frammentazione etnica
del corpo lavoratori, che con scavi e martellate posavano binari e traversine
con grande lena – anche in una specie di “gara” fra le due compagnie per
riuscire a completare il proprio tratto per prima. Nel film questa molteplicità
culturale, di indole e di espressioni verbali si vede anche nei pannelli delle
didascalie, dove a volte i dialoghi degli operai sono espressi in un americano
allegramente deformato, forse dalla spensieratezza lessicale degli sradicati.
Sì, in The Iron Horse è presentato quest’aspetto costitutivo della società
statunitense, punto d’incontro di traiettorie provenienti da origini molteplici.
Anche in questo fenomeno troviamo una interessante ambivalenza, una compresenza
di apertura e chiusura. Per lungo tempo si è parlato degli Stati Uniti come di
un Melting Pot, un calderone che raccoglie ingredienti di provenienza varia e li
compone insieme, formando una nuova, laboriosa società cosmopolita. Il termine è
ripreso dall’opera teatrale omonima di Israel Zangwill, che nel 1908 immaginava
l’America come il crogiuolo di Dio, in cui si entra italiani, cinesi, tedeschi,
irlandesi, e miracolosamente si esce americani. Vi è naturalmente il rischio
concreto di vivere un processo di omologazione, di assimilazione. Nel film di
Ford, la battaglia difensiva contro i nativi è in qualche modo il calderone che
impasta e compatta i lavoratori immigrati, trasformandoli in orgogliosi
statunitensi.
Mi viene in mente Jacques Feyder, grande regista francese, precursore del
Realismo poetico, e la gustosa descrizione che egli ci offre della sua
esperienza hollywoodiana, avuta negli anni Venti e Trenta. La riassumo in poche
righe. Stanchi dei loro prodotti piuttosto ripetitivi, gli americani decidono di
dare nuova linfa alla propria estetica chiamando qualche regista europeo alla
propria corte. E così Feyder approda a Hollywood, ci racconta i numerosi
incontri con i produttori, il confronto sul soggetto giusto, la sceneggiatura
appropriata, i compromessi, le incomprensioni, le strette di mano; e ancora
l’inizio della lavorazione, straordinariamente efficace e lineare: tutto
funziona alla perfezione, “tutto viaggia sul velluto”. Finché il film è
concluso, e ci si incontra per l’anteprima. È lì che il regista, seguendo sullo
schermo il fluire di un film che viaggia senza alcun intoppo, deve confessare a
se stesso: “E’ venuto molto bene, ma non è il mio film”. Non sono io. E a
conclusione della proiezione, sui volti di tutti i membri della produzione,
legge lo stesso pensiero: “Ma perché abbiamo chiamato dall’Europa uno che ha
girato un film che qualsiasi nostro regista avrebbe potuto dirigere?”. I pochi
cineasti che, chiamati a lavorare negli Stati Uniti, sono riusciti in qualche
modo a conservare la propria identità professionale – Stroheim, Renoir,
Antonioni – sono stati fortemente osteggiati da Hollywood. Anche in questo caso,
il cinema è metafora di una dinamica sociale fortemente radicata nella cultura
occidentale.
John Ford si è grandemente impegnato a inquadrare il Caos, ovvero la wilderness,
in diverse prospettive e da diverse angolazioni, dedicandosi all’epopea del West
quasi come un adepto alla sua religione. E lo ha fatto da uomo del suo tempo e
della sua cultura, in un orizzonte – come lei dice – denso di richiami agli
ideali illuministi, alla concezione borghese del viaggio, alla tecnologia come
strumento di dominio. In cosa credeva e come si gratificava John Ford nello
sviluppo della sua carriera, e in cosa smise di credere verso la conclusione
della sua parabola artistica?
John Ford era considerato il più affidabile dei registi hollywoodiani. E questa
affidabilità io ritengo sia dovuta anche al suo modo di inquadrare
la wilderness, allo sguardo che gettava – o credeva di gettare – al di là della
frontiera, in linea con lo sguardo di Hollywood. Prendendo a prestito il lessico
lacaniano, si può dire che sin dalle sue origini, il cinema americano abbia
collocato un’immagine della wilderness davanti alla wilderness stessa, per
rimuovere l’angoscia che essa può provocare, per evitare di esserne bewildered,
disorientato. Ho già citato Jean Renoir, grande regista francese, coevo di Ford.
Non è un caso che, nel suo periodo americano (gli anni Quaranta), fu fortemente
osteggiato dai produttori hollywoodiani proprio perché adoperava la macchina da
presa come strumento di apertura, di esplorazione, come espressione di curiosità
verso un territorio sconosciuto e inquieto.
La visione fordiana della wilderness, proprio per il suo carattere di chiusura,
era destinata a un’inesorabile decomposizione, destrutturata dall’interno
dall’autoreferenzialità che la fonda. Il che, lo ribadisco, la rende
rappresentativa dell’intera cultura occidentale dominante. Lindsay Anderson, nel
suo volume sul cineasta americano, registra negli ultimi anni della vita e della
filmografia di Ford un progressivo incupimento, un nichilismo ruvido che
impregna alcune delle ultime pellicole fordiane. Ce ne sono due, a mio parere,
significative, entrambe dirette negli anni ’60, quando il mondo e il cinema
erano ormai mutati e reclamavano un cambiamento di prospettiva dai cineasti. La
prima è Cheyenne Autumn: dopo decenni di demonizzazione degli “indiani”, il
regista western per eccellenza sembra fare ammenda e riconoscere valore alla
cultura dei nativi. Viene tuttavia mantenuta l’antipatica abitudine
hollywoodiana di far interpretare Comanche, Cheyenne, Sioux da attori che di
nativo non hanno nulla: messicani, italiani, spagnoli, etc, solo perché
rispondono al cliché del volto esotico. In più, leggendo le interviste
rilasciate in quegli anni dal regista, può lasciare perplessi il carattere
assimilazionista nascosto in alcune affermazioni: “Ho un enorme affetto per gli
Indiani. È un popolo molto morale […] hanno una letteratura […] amano i bambini
e gli animali”. Il valore dell’altro cresce proporzionalmente alla somiglianza
con l’identico.
L’altra pellicola è The Man Who Shot Liberty Valance. In questo film si avverte
la necessità di Ford di prestare orecchio alle istanze del nascente cinema
moderno, e, nello specifico, la forte influenza di quel capolavoro che
è Rashomon di Kurosawa. Ricorderete che nel film del regista giapponese, con una
serie di flashback, si cerca di definire cosa sia davvero accaduto nelle ore
precedenti al processo, e chi sia l’assassino dell’uomo ritrovato per caso da un
contadino di passaggio. Ciascuna delle testimonianze offre una prospettiva
diversa e ridisegna i personaggi, le azioni, le relazioni. Anche Ford costruisce
una narrazione prevalentemente orientata al passato, inquadrando un evento
cruciale accaduto decenni prima, sulla frontiera, l’uccisione del bandito
Liberty Valance, e, attraverso una duplicazione del flashback, si chiede chi lo
abbia ucciso davvero: il senatore Ransom (James Stewart), come la storia
ufficiale racconta, o il rude Tom (John Wayne)? Se però a conclusione
di Rashomon dobbiamo constatare che il regista ha inquadrato da tante
angolazioni un’oggettività sfuggente, invitandoci ad accettare l’assenza di una
verità unica, Ford adopera una tecnica simile ma con uno scopo diverso: svelare
la menzogna ufficiale e affermare la verità nascosta. È Tom – un americano vero,
direbbe Turner – che ha liberato la città dal bestiale Valance, è a lui che si
deve la fondazione della civiltà, anche se la storia lo ha voluto dimenticare.
C’è una fatica, una resistenza caparbia a rinunciare alla prospettiva certa, al
pensiero unico, alla Verità, una pericolosa fede nel proprio punto di vista che
non limita solo l’estetica cinematografica, ma la visione stessa della realtà,
fuori dalla finestra.
Paolo Ferrucci
*In copertina: John Gast, American Progress, 1872, rappresentazione allegorica
del “Destino manifesto” degli Stati Uniti
L'articolo “Manifest Destiny”: il progresso come missione, o del carisma degli
Stati Uniti. Dialogo con Andrea Laquidara proviene da Pangea.
Due bimbi lerci e bellissimi saltellano verso di noi non appena smontati
dalla maršrutka, ancora ubriachi dall’assurdo viaggio, un serpente di asfalto
lungo precipizi abissali, banchi di nebbia e cumuli di ghiaccio e piramidi di
massi al bordo della carreggiata. Fra le mani reggono delle calze colorate di
lana di pecora, e ce le porgono. La tessitura delle calze di lana di pecora è
una attività del posto in cui ci troviamo, forse l’unica.
Siamo a Khinalig, remoto villaggio dell’Azerbaigian nordorientale, posto su un
cucuzzolo a circa 2.300 metri di altezza fra i picchi del Grande Caucaso. È il
più alto e isolato centro abitato dell’ex repubblica socialista sovietica e uno
di quelli più sperduti e ad altitudine maggiore della regione del Caucaso e di
tutta l’Eurasia.
A Khinalig – Xınalıq in azero – ci si arriva da Quba, popolosa cittadina a nord
di Baku distante circa sessanta chilometri, percorrendo quella che in principio
è una strada di grande comunicazione e di straordinaria impervietà lungo il
letto pietroso del Qudiyalçay, un fiume che senz’altro ha vissuto anni migliori.
Qua e là, sul margine della corsia polverosa, bovini al pascolo, capannelle di
venditori di kebab e contadini che offrono su dei banchetti mobili i frutti
delle loro terre. Sono immagini di un mondo dimenticato, distantissimo dai
processi di integrazione e di mondializzazione del nostro secolo.
Man mano che percorriamo i chilometri alla velocità elevata tipica degli autisti
dell’Est ma di certo non appropriata a questi tragitti, le auto diminuiscono e
la strada si restringe. La civiltà così come la conosciamo è sparita da un pezzo
quando, dopo l’ennesimo curvone coperto dalla bruma, scorgiamo d’improvviso
Khinalig, a dritta, a poche centinaia di metri, nell’anfiteatro naturale che ci
offrono le vette innevate del Tufandağ, del Shahdagh e del Bazardüzü,
quest’ultima la cima più elevata dell’Azerbaigian coi suoi quasi 4.500 metri di
altezza.
Avvolta da una caligine azzurrina, Khinalig consegna di sé istantaneamente
un’immagine fuori dal tempo che attraversiamo. Qua la storia si è davvero
fermata. Ci arrampichiamo sul sentiero roccioso che conduce sulla sommità
dell’abitato. Qua incontriamo altri bambini. Ci scrutano con una vaga
diffidenza, ci seguono, ci indicano il percorso; tutto nel silenzio, ché gli
indigeni di Khinalig parlano una lingua unica, incomprensibile anche agli stessi
azeri, quindi anche alla giovane guida che ci accompagna. In questo mondo in
essenza, anche la parola è superflua. L’idioma è comunque una delle
particolarità del popolo khinalig. Loro lo chiamano ketsh – conosciuto anche
come ketshmits o khinalug – ed è un linguaggio isolato all’interno della
famiglia linguistica del Caucaso nordorientale, più vicino alla parlata del
Daghestan, repubblica russa della Ciscaucasia, appena di là del pizzo bianco del
Bazardüzü, che a quella della patria azera. Il suo alfabeto, definito da alcuni
linguisti nel secolo scorso, è composto da una settantina di lettere, di cui
ventotto vocali.
Località antituristica, non fosse per la sua posizione recondita, per l’assenza
di reali strutture ricettive e per la rigidità del clima per gran parte
dell’anno – in inverno si registrano temperature anche oltre i dieci gradi sotto
lo zero –, Khinalig presenta un’architettura spontanea e razionale, un grappolo
di case abborracciate e consolidate qualche tempo fa grazie all’intervento
diretto del presidente della repubblica d’Azerbaigian Ilham Aliyev.
Le abitazioni di quest’isola fra le montagne sono di pietra di fiume e argilla –
non dissimili a come dovevano essere migliaia di anni fa, al netto
dell’inserimento di alcuni elementi di lamiera e delle coperture in eternit –,
costruite praticamente una a ridosso dell’altra, al fine di fronteggiare al
meglio il clima inclemente e i forti venti della regione. Non è raro imbattersi
in un tetto di una casupola che al contempo funga da terrazza per quella che
sorge al livello superiore. In Europa lo liquideremmo come un accampamento di
nomadi e invece dal 2023 l’insediamento rurale di Khinalig, assieme alla lingua,
alle tradizioni dell’allevamento del bestiame e della transumanza, alla cultura
del villaggio, costituisce il sito patrimonio dell’umanità Unesco del Paesaggio
culturale del popolo khinalig.
Un signore paonazzo, con indosso un completo blu a righe, un po’ liso sulle
maniche, una camicia plumbea senza cravatta – eleganza arcaica, modesta, povera
ma non misera –, ci accoglie nella sua dimora, sbarrata da una porticina color
acquamarina. Premuroso nel suo silenzio, ci guida verso il piano superiore,
passando una parete foderata di tappetti dai colori caldi, costume funzionale
dei Paesi dell’Est. Ci fa accomodare a un tavolo lungo, già imbandito con tè,
caramelle, zollette di zucchero e coppette colme di marmellata di ciliegie. Più
in là, su un mobiletto, il samovar e un altro semplice servizio da tè pronto per
i prossimi ospiti.
Consumata la merenda e ringraziato con lenti inchini e mani sul petto, ci
ritroviamo di nuovo nelle stradine sospese nel tempo di Khinalig, diretti verso
il museo storico-etnografico, allestito all’interno di una rocca di pietra. I
tappeti, i libri antichi, alcune copie del giornale locale – il Xınalıq –, le
terrecotte, i manufatti e i recipienti in rame, gli utensili da lavoro e la
collezione di reperti archeologici risalenti all’Età del Bronzo – circa
cinquemila anni fa, le prime fasi di vita dell’insediamento – conservati nella
sala del piccolo edificio raccontano la storia di un inestimabile tesoro umano e
culturale, la memoria e la storia minima di un luogo e di un popolo capaci
di conservare la propria identità e di resistere a millenni di guerre,
colonizzazioni, commistioni ed evoluzioni della società dei sapiens.
Khinalig, villaggio alla fine e al principio del mondo; sì, perché tradizione
locale di cui i nativi khinalig sono fermamente convinti e orgogliosi vuole che
proprio su questo altopiano delle montagne del Caucaso Noè abbia gettato
l’ancora della sua arca, scampando al Diluvio e dando vita a una rinnovata
umanità. Verosimilmente una delle ventisei tribù della Albania caucasica citate
nel I secolo da Strabone nella Geografia – opera fondamentale per lo studio
della storia del mondo antico –, i khinalig sono un’umanità romita, legata alla
tradizione nomade dell’Asia Centrale, ma non erma e destinata all’estinzione,
ché il villaggio sperduto del Caucaso non conosce la irreversibile crisi
demografica che angaria i paesi dell’interno dell’Europa e dell’Italia in
particolare.
I residenti di Khinalig sono circa duemila – un numero che va pesato in
proporzione alla popolazione totale dell’Azerbaigian, più o meno dieci milioni,
circa un sesto di quella italiana – e la somma dei luoghi sacri – sono ben
cinque le moschee locali con la più importante, la moschea Abu Muslim, risalente
all’ottavo secolo – e l’ammodernamento recente della scuola a servizio
della nutrita popolazione in età verde riescono a parlarci di futuro pur in una
cornice immobile nel tempo, pressoché incontaminata e incorrotta, espressione di
una eccezionale resistenza al durissimo isolamento, una capacità che andrebbe
studiata dagli antropologi, ma pure dagli amministratori, dagli apostoli della
turistificazione forzata e da tutti i saltimbanchi esperti di piani fallimentari
di ripopolamento delle aree interne del Vecchio Continente.
La luce comincia ad affievolire e la temperatura cala rapidamente quando
intraprendiamo la strada del ritorno, accompagnati dai saluti muti di diverse
teste che spuntano dalle bicocche. Chissà se le lasceranno mai, se un giorno
abbandoneranno il loro remoto minareto per cercare nuovi orizzonti altrove.
Chissà se si lasceranno ingannare. Li guardo e penso che abbiano compreso e
raggiunto quello che in Occidente, avviluppati in un vortice di opportunità a
buon mercato, inondati di stimoli e modelli da emulare, dagli infiniti possibili
realizzabili, non riusciamo più a capire e a conquistare: la nostra vera natura.
L’autista ha riacceso l’agonizzante motore della maršrutka. Ritornano i bambini,
fra le mani ancora qualche calza variopinta. Ci scambiamo un ultimo sguardo. Uno
di loro sembra sorridermi, un altro mi guarda inespressivo. Cosa mi trasmettono
i loro occhi? Che li sto abbandonando, anche io, che forse avrei potuto fare
qualcosa di più? Ma cosa? Sarà forse l’insita arroganza dell’uomo occidentale,
la sua formazione eurocentrica, il suo latente senso di superiorità verso tutto
ciò che lo circonda a farmi credere questo? È un tremolio dello stomaco che dura
un attimo; il tempo di salire sulla sgangherata vettura perché tutto svanisca,
nella nebbia che torna a compattarsi sulla strada. Si va via, col presentimento
che quei ragazzini, nella loro primitiva autenticità, luminosa espressione
di un’alterità non traviata, non inquinata dall’opera di corruzione morale del
mondo capitalistico, eredi sì del pastore errante dell’Asia di Leopardi, ma
spogli delle sue penose angosce, non abbiano pensato proprio niente.
Antonio Pagliuso
*Tutte le fotografie scattate a Khinalig sono dell’autore del reportage
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