Ognuno di noi serba nell’animo il ricordo di una lettura folgorante, un libro
che ha segnato tutta una vita, confermato il presagio di una vocazione e
illuminato la possibile traiettoria di un’esistenza. Un libro totem, un libro
talismano – fatto per essere conservato come un amuleto o da indossare come
un’armatura contro gli agguati del tempo, un orizzonte di privata salvezza in
fondo alle nostre piccole e grandi apocalissi.
La mia copia dei Sonetti di Shakespeare, nella versione in prosa di Lucifero
Darchini, risale ormai a più di venti anni fa. L’avevo comprata, se la memoria
non m’inganna, durante le vacanze estive tra il secondo e il terzo anno di
liceo. Mi aveva sedotto la copertina color blu cobalto con al centro un piccolo
ritratto del poeta inglese, la famosa incisione di Martin Droeshout. Una
copertina senza orpelli, piuttosto minimalista. Tante volte mi sono interrogato,
nel corso degli anni, sulle ragioni che fanno dei Sonetti un’opera per me
totalmente invulnerabile all’usura del tempo, del dolore e degli affetti. Ora, a
distanza di due decenni, quel blu si è schiarito, le pagine si sono
irrimediabilmente ingiallite. Resiste quell’odore inconfondibile e familiare dei
libri che abbiamo portato in giro per il mondo, pieni di note e piccole
illuminazioni scritte alla luce fievole di un abat-jour. Persiste anche,
inalterabile, quella voglia di serrare il libro al petto, come si fa con le
persone più care. Forse, è questa la migliore risposta alle mie domande.
*
Sugli interlocutori dei sonetti, sulla datazione, così come sulle misteriose
vicende della pubblicazione, sono stati scritti e si continuano a scrivere fiumi
d’inchiostro. Poco importa, in fondo, dare un nome e un cognome al “fair youth”,
alla “dark lady” e al “rival poet”. Qualcuno ha scritto che in questi versi
Shakespeare ha messo a nudo il suo cuore. Che in quei 14 pentametri giambici
disposti in tre quartine in rima alternata più un distico finale in rima
baciata, il poeta abbia voluto drammatizzare le tensioni più intime del suo
poetico sentire. Per me, i Sonetti coincidono da sempre con la meridiana che
segna il mezzogiorno della Poesia.
*
Cerco di indagare le ragioni del senso di meraviglia che i 154 sonetti
sprigionano. Da cosa deriva il loro fascino irresistibile? Con quale lingua mi
parlano, accarezzando il dolce mistero della poesia, aggirando le mie
arrendevoli difese?
Forse – mi dico – il motivo è nell’intreccio tra la sfera del privato e
dell’eterno, inscritta cioè nell’orizzonte delle umane passioni. O forse la
ragione si trova nell’unione tra l’universale e il particolare – cioè
l’irripetibile, o nella commistione miracolosa e al tempo stesso naturale tra il
solenne e il sublime ordinario. Qualsiasi cosa sia, so che ad incantarmi è la
drammatizzazione del discorso lirico, in cui sempre il dettato oscilla tra la
prima, la seconda e la terza persona singolari. È già qualcosa, ma non basta
ancora. Provo a mettere a fuoco, quanto basta per vedere più da vicino il
mistero, ma senza correre il rischio di svelarlo. I Sonetti – una bussola con
l’ago magnetico rivolto verso il Nord della poesia. Il che vuol dire nutrire in
sé la perenne convinzione che quel libro attraverserà tempeste e schiarite della
giovinezza, l’ingannevole saggezza della maturità, le vaste distanze marine e
aeree, le possenti montagne dove mulina la neve, nel regno delle nubi.
*
I Sonetti compaiono per la prima volta nel 1609, mentre a Londra infuria la
peste. Quasi tre secoli e mezzo dopo, un altro tipo di piaga affligge l’Europa e
il mondo intero – la Seconda Guerra Mondiale. In una Roma che inizia a patire i
primi bombardamenti, esce a cavallo tra il 1943 e il ’44, a firma di Giuseppe
Ungaretti, la traduzione di 22 sonetti in 498 esemplari di lusso. S’era già
cimentato, il sommo poeta italiano, nella traduzione di diversi poeti – diversi
per indole, lingua e cultura – come Gongora, Esenin, Saint-John Perse, Blake e
Paulhan. Ma è proprio il corpo a corpo con il poeta inglese, durato quasi
quindici lunghi anni, a rivestire un’importanza decisiva nella vita e nell’opera
ungarettiana. Ce lo dice il poeta stesso nella breve e fulminante nota
introduttiva alla sua traduzione. Ungaretti inizia ad accostarsi ai versi di
Shakespeare nel 1931. Lo assale, in quegli anni, un’esigenza profonda di
rinnovamento formale, che s’accompagna a un inaridimento dell’ispirazione.
Ungaretti sognava una poesia
> “dove la segretezza dell’animo, non tradita né falsata negli impulsi, si
> conciliasse a un’estrema sapienza del discorso”.
Desiderava quindi, il sommo poeta italiano, pervenire a un miracoloso equilibrio
grazie a una lingua alleata ad un tempo con l’arcano e il popolare. Accogliere
la rotonda inquietudine del Petrarca e l’angolosa asprezza dei versi
michelangioleschi. Rinvenire, scegliendo le parole, quelle in grado di
sollecitare lo spirito e i suoi moti, al di là delle leggi della prosodia. Di
nuova linfa aveva bisogno Ungaretti, per volgersi di nuovo con sguardo fiducioso
verso la poesia. Un vento proveniente da altro quadrante doveva gonfiare le sue
vele, tirando fuori l’ispirazione dalla secca in cui era finita. Cosa spinge
allora Ungaretti verso il canzoniere di Shakespeare? Perché la scelta, da poeta
a poeta, cade proprio sul bardo inglese?
*
La lunga gestazione della traduzione dei Sonetti è da collocare in un decennio
decisivo per Ungaretti. La morte della madre, una crisi mistica che sfocia nella
conversione religiosa, la pubblicazione nel 1933 della raccolta Sentimento del
tempo, la scomparsa durissima del figlio di appena nove anni nel 1939, portano
il poeta a confrontarsi direttamente con il senso della finitudine umana e del
dolore gratuito. E proprio l’intensa meditazione sulla morte e su come opporvisi
costituisce uno degli accenti più vibranti dei versi di Shakespeare. Solo la
poesia – giusta essenziale e retta –, per dirla con Elitis, può valere come
argine contro la morte. Solo quel miracolo nato in mezzo all’Egeo, più di due
millenni fa, è in grado di sgambettare la furiosa corsa del tempo verso l’oblio
eterno. Poco importa se il tema è un topos letterario inaugurato da Orazio.
Nei Sonetti, non avverti la maniera, l’esercizio freddo in ossequio al canone.
L’io lirico riesce, sempre e comunque, a soffiar vita dentro i versi. Lo stesso
si dica per l’amore. Cantato in tutte le sue gradazioni, dall’ammirazione alla
procreazione, dalla gelosia alla sete di immortalità, l’amore evocato da
Shakespeare è un amore nel quale senti il grido trasferirsi dal privato
all’universale, “pieno d’echi di popolo, urlo”. Ecco “il diretto, il segreto
contatto” che Ungaretti sentiva verso il poeta inglese, ancor prima di mettersi
a tradurre i Sonetti. Nel sovrapporsi di figure diverse, nel colloquio
incessante e drammatico tra intime e condivise passioni, noi siamo, rispetto
ai Sonetti,spettatori ammirati, e Ungaretti insieme a noi. Uomo di teatro e per
il teatro, Shakespeare riesce a proiettare anche tra quelle rime il palcoscenico
dove si esibiscono le vaste esperienze umane. E tuttavia, anche nelle
composizioni che si aprono al tepore di una primavera d’ispirazione, financo
nello sbocciare armonioso e meridiano delle immagini e dei temi, senti la
vibrazione tellurica di un mistero che è il nucleo stesso della grande poesia.
Scrive Ungaretti nella nota introduttiva, e la citazione è di quelle che non
lasciano spazio a repliche:
> “Non esisterà mai poesia che non rechi in sé, traendone vita, un segreto
> inviolabile”.
Pare quasi di sentirlo parlare in una delle sue interviste, Ungà, con quel tono
di voce cantilenante e magnetico – ogni frase cade come un meteorite di
amorevole saggezza. Lo sguardo dolce, che lascia intuire tutto il dolore
vissuto, ma trasfigurato ormai in qualcos’altro – una vaga serena docile
consapevolezza. Quell’aria un po’esotica che sa di adolescenza e pleniluni
africani, quel suo abitare la poesia con la giustezza di una vita interamente
dedicata, senza compromessi, ai versi. Poesia come vocazione, poesia come
destino. Che viaggi allora nel tempo, Ungaretti, con la speranza
dell’immortalità, insieme alla sua traduzione del sonetto 55 di William
Shakespeare:
“Non il marmo, né gli aurei monumenti
Di principi, potranno alla potenza delle mie rime sopravvivere;
Ed in esse voi contenuto, splenderete più splendido
Che non nella negletta pietra, dal sozzo tempo deturpata.
Quando la guerra che devasta rovescerà le statue
E le fazioni scalzeranno il lavoro di muratura,
Non la sua spada Marte offenderà, né incendio di battaglie
I vivi archivi del ricordo vostro.
Contro ogni morte e ogni obliosa nimicizia
Non si arresterà il vostro passo, ed avrà stanza il vostro elogio
In tutti gli occhi di quante generazioni postere
Avranno questo mondo da esaurire per l’ultimo giudizio.
Così sino allo squillo che vi farà risorgere,
Quaggiù vivrete e abiterete in sguardi innamorati”.
Lorenzo Giacinto
*In copertina: Giuseppe Ungaretti. © Archivio Fotografico Paolo Di Paolo
L'articolo “Un segreto inviolabile”. I “Sonetti” di Shakespeare nella traduzione
di Giuseppe Ungaretti proviene da Pangea.
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Ho sempre trascurato se non, meglio, snobbato il nome di Giacomo Casanova,
ritenendo la pur celebre Histoire de ma vie, l’unica opera sua conosciuta anche
dai non specialisti, soltanto una delle tante memorie del Settecento, che poco o
più tosto nulla avrebbero potuto nutrire chi come me si occupava con pretese e
ambizioni di cultura europea.
Non andai nemmeno a curiosare, né pigliai alcun appunto, quando, molti anni fa,
lessi, non ricordo più dove, una pur curiosa allusione per cui
nell’Histoire l’autore avrebbe riferito di una sua esperienza mistica
coincidente con le classiche del genere. Era la forza del pregiudizio coartata
da, mi sarei accorto, leggende e vaniloqui anche e sopra tutto di intellettuali,
come sempre informatissimi e autorevoli.
Ebbi poi quello che sarebbe stato, senza ch’io lo potessi presagire, l’ultimo e
sereno colloquio con l’amico d’oltre diciassett’anni, alquanto noto a chi
bazzichi librerie, il quale mi avrebbe di lì a pochissimo giocata un’infilata di
delusioni a freddo tale da imporre una drastica e irricomponibile rottura. Mi
parlò delle memorie, e proprio mentre stavo sondando il secolo di Casanova. In
quelle pagine, mi disse, oltre a molto spasso, troverai biblioteche di notizie
sul Settecento in ogni suo aspetto.
Se dell’uomo, come avrei scoperto, non c’è da fidarsi, dello studioso in massima
parte sì; sicché mi procurai in breve la traduzione – Storia della mia vita – di
Piero Chiara e Roberto Fertonani, stampata nei ‘Meridiani’, che trovai nuova a
un prezzo vantaggiosissimo, e sùbito la attaccai.
Sarebbe assai presto venuto il giorno di un biasimo contro Chiara e il suo
allora famiglio, che ancor dura; all’epoca l’introduzione dello scrittore
italiano fu però un ottimo abbrivio, che m’ingolosì più di quanto non avesse
fatto la chiacchierata col mio primo informatore. Restavano tuttavia sprazzi di
diffidenza, che sperai di veder dileguare: e fu quanto accadde dopo le
primissime pagine.
Fui sùbito risucchiato in una vertigine di stupefazione, che si dilatava e
accelerava. A ogni pagina ogni singola voce giuntami su Casanova dai soliti
autorevoli commentatori e intellettuali, veniva sbugiardata, inchiodata alla sua
mendacità, al suo pressappochismo, depistaggi e fraintendimenti erano
svergognati. Che cosa avevano letto? Come lo avevano letto? Nulla del
gabbamondo, del lestofante, del vago predone d’alcove, dell’avventuriere
propalato resta all’inpiedi se solo si legga quell’autobiografia.
La figura emergente dalla Storia è di un essere umano che ha vissuto nella
sequela, afferma egli stesso, della Divina Provvidenza e che presenta sé stesso,
sin dai primi rintocchi, quale cristiano e filosofo. E se si può discutere del
suo cristianesimo (un cristianesimo a ogni buon conto certo assai più cristiano
di quello di tanto sedicenti praticanti cristiani d’oggidì), bisogna in vece
senz’altro concedere a Casanova lo statuto di philosophe, senza tuttavia le
imposture le ossessioni e i pregiudizii della più parte di quelli.
Egli bensì annette all’Histoire le avventure – così come, si badi,
le disavventure, e molte – muliebri, ma il racconto non è mai fine a sé stesso.
Casanova non scrive per vantarsi delle sue conquiste (peraltro non moltissime:
altro dato da scoprire) o per amore di riferire storie pruriginose con cui
accalappiare il lettore e perché altro non ha da dire, altro non pensa, come un
qualsiasi Alberto Moravia. Le intenzioni saranno anche per l’amore
dell’avventura e di una certa libertà che s’andava reinventando in quel secolo,
ma sono funzionali a una visione del mondo, appresa vivendo, anche a traverso i
rapporti con le donne.
Casanova si dimostra un filosofo raffinato e costante, osservatore acutissimo e
disinteressato di città e uomini, e tra i maggiori cronisti dell’epoca sua e non
soltanto. Un uomo e uno scrittore paradossalmente inediti dunque riescono
dalla Storia, benché questa sia stampata a chiare lettere e secondo le
intenzione dell’autore sin dagli anni Sessanta del XX secolo.
Ìndico questa data giacché per circa un secolo e mezzo le memorie circolarono in
versioni appositamente corrotte e mùtile, come ne rende conto Chiara in più
contributi. Non possiamo soffermarci sui dettagli. Questo rapido intervento
serve soltanto a lanciare una «grida», per dirla con Manzoni, che suoni la
sveglia ai molti, troppi pseudolettori di Casanova e a chi ancòra lo trascuri.
Le relazioni con le donne sono state ridotte a manifestazioni priapesche e
ossessive ma che sono in vece istruttivissime, tra il molto altro, per una più
completa e veridica intelligenza sia delle femmine tout court, sia dei rapporti
tra i due sessi nel XVIII secolo, anche a pieno Antico Regime. Le femministe e i
femministi spregiatori dell’epoca prerivoluzionaria si vadano a leggere, a
esempio, quanto sottomesse al “patriarcato” fossero le donne! Fa di poi
sorridere che proprio taluni studiosi casanoviani – categoria assai numerosa e,
va detto, nonostante tutto spesso giovevole – mentre bestemmiano a ragione sulle
contraffazioni cui accennai, altro non seguitino a fare che a rimasticare le
solite stracche e stucchevoli mezze verità e fandonie sul Veneziano e su quel
secolo. Ed è credo proprio a cagione d’una completa distorta percezione
propalata come verità storica e biografica, che da mesi l’anniversario dei
trecento anni della nascita è stato ignorato.
Nemmeno la massoneria, che non perde mai occasione di farsi vanto d’aver avuti
nelle sue fila personaggi illustri, a quanto mi consta s’è spesa per il suo ex
confratello. Ma oltre al disprezzo per il presunto trattamento riservato da
Casanova al genere femminile, ci sono due altre radici della menzogna e
dell’oblio.
Ho accennato alla prima, o sia la professione di cristianesimo, per di più
cattolico, colpa non perdonabile dagli stinti eredi di Robespierre o di
Voltaire. A ciò si aggiunga l’irrefrenabile schifo e orrore nutriti da Casanova
per la rivoluzione francese.
Fu complice nella rimozione e nella distorsione esser la Storia escita proprio
negli anni, già detti, in cui in Italia e in Europa si stavano caricando i
cannoni a letame del Sessantotto, del quale ancor godiamo, rimmarciti, i frutti:
abitudini, protervie, ottusità, professori, giornalisti, continuatori,
imitatori. Giacomo Casanova non è territorio da annessione, per nessuno, se non
a traverso la corruzione. Egli si staglia solitario in tutto il Settecento e
nell’intiera storia europea, con la sua nudità di figura unica, forse davvero la
sola sciolta autonoma libera.
Suggerisco al lettore volenteroso e curioso di farsi da sé il suo Casanova
sguazzando nella Storia e nelle altre splendide opere. Dopo, se vorrà, quando
sarà immunizzato, potrà approfondire con la critica e le biografie, che per il
momento è meglio lasciare sugli scaffali.
Arriverà prima o poi, mi àuguro, chi voglia mettere la casa in ordine, fare a
Casanova – una casa nuova. A cominciare magari dalla stanza da letto.
Luca Bistolfi
L'articolo Solitario, filosofo, cristiano. Note su Giacomo Casanova proviene da
Pangea.
L’etichetta “pessimismo” è quella che maggiormente stritola tanto Leopardi
quanto Montale; e la loro presunta resa di fronte alla ricerca della felicità va
consolidandosi per generazioni di studenti, e (anche) di docenti. Questa gabbia
li conquide, e li riduce a teorici del “male di vivere”, del “brutto vero”,
definizioni sterili rispetto alla caratura della loro speculazione
filosofica. Tuttavia, bisogna ammettere che il recanatese e il genovese non
hanno dipinto la realtà come un felice girotondo, e l’hanno liricizzata con toni
aspri, duri, talvolta difficili da difendere e da accettare. Ma se si andasse
“più addentro”, come direbbe il Pirandello dell’Umorismo, si apprezzerebbero
sentieri carsici che conducono ad una anelata atarassia. Forse utopistica,
dunque inesistente; forse astratta, e per questo poco compresa; forse
misteriosa, ma per questo poetica.
Montale, pertanto, guarda a Leopardi come il marinaio guarda il faro nella
tempesta: non dico che ne diventi epigone, ma spesso, furtivamente, ricalca
alcuni passi e ne ripropone la veridicità con le dovute differenze. Tra tutte le
immagini, si pensi alla celebre “siepe” dell’Infinito, che si trasforma nella
“muraglia” in Meriggiare, pallido e assorto: Leopardi la valica, e con il verso
“io nel pensier mi fingo” celebra il potere dell’immaginazione, per poi
“naufragare” nella dimensione fittizia del “vago e indefinito” intrisa di
piacere eterno; Montale, invece, non vince il muro, e invoca la “divina
Indifferenza”, unico “prodigio” capace di stemperare la perenne condizione di
asfissìa e di prosciugamento, dilagante nel primo periodo ligure.
In ogni caso, “la vita è male”. Ma se nella fase giovanile degli Idilli,
l’invito leopardiano all’azione sospende il dolore, con il vagheggiare e la
perdita nell’indefinitezza, l’invito montaliano è l’inibizione, il non-agire.
Infatti, quando il poeta si muove e si volta, come nel caso di Forse un mattino
andando, si scontra con il “nulla”, con il “vuoto”, con “l’inganno consueto”:
essere indifferenti è la sola forma di “bene” saputa dal poeta degli Ossi di
seppia, pertugio che “schiude” la quiete. I limiti, dunque, non sono trampolini
per evadere dalla vita, concausa dell’infelicità umana, ma presentano “cocci
aguzzi di bottiglia” sulla loro sommità. E come se non bastasse, se il vento
leopardiano è uno “stormire” che si fonde con la “voce” dell’io poetico, il
fruscìo che subisce Montale è un’aria desertica, che inaridisce e rinsecchisce,
fino al midollo.
Da qui, la Natura “matrigna” si manifesta nelle sue espressioni più ostili:
nel Dialogo della Natura e di un islandese, l’elenco di calamità è
impressionante, in perfetta sintonia con gli effetti che il “meriggio” cocente
ha sugli “oggetti montaliani” di Spesso il male di vivere ho
incontrato. Dichiarazioni, ambedue, di una Natura totalmente indifferente, di
quel “perpetuo circuito” che si innesca senza poi curarsi della sorte umana. In
effetti, Miraggi di Montale ricalca le fasi di “produzione e distruzione”
denunciate da Leopardi: “[La Natura, NdA] che regge il mondo, lo crea e lo
distrugge/ per poi rifarlo sempre più spettrale/ e irriconoscibile”.
Ma per confermare la mia tesi – Leopardi e Montale come poeti della luce e non
del buio – vi sono affinità ottimistiche, che consentono di lenire i tormenti.
Nonostante il ricordo sia un’arma ambigua, parzialmente efficace, segna il
poetare dei due. Velleitario citare l’incipit di A Silvia, “Silvia, rimembri
ancora quel tempo”, dove il verbo “rimembrare” è colonna portante dell’intera
dissertazione; così la “vecchierella” del Sabato del villaggio, quando
“novellando vien del suo buon tempo”, e il poeta stesso quando “ricorre al
pensier” nella Sera del dì di festa (come in moltissimi altri passi dei testi
leopardiani); rimembranza che sussurra alla flebile speranza del Montale
delle Occasioni, come quando implora alla “forbice” del tempo di “non recidere
quel volto, / solo nella memoria che si sfolla”. Il tempo, dunque, non fa altro
che divorare tutto; e il contrasto tra la gioia e la sofferenza, tra la
giovinezza, quel “fior degli anni gentili”, e la vecchiaia, può essere vinto
dalla rievocazione. E bisogna fuggire la morte, quella stessa morte che pone
fine al tutto, anche al piacere. I versi finali di A Silvia risuonano:
> “e con la mano
> la fredda morte ed una tomba ignuda
> mostravi di lontano.”
Analogo è il profilo di Clizia, senhal di Irma Brandeis, nella Bufera, quando si
congeda dal poeta e scompare nel buio – l’“abisso orrido” del Canto
notturno leopardiano:
> “come quando
> ti rivolgesti e con la mano, sgombra
> la fronte dalla nube dei capelli,
> mi salutasti – per entrare nel buio.”
Ma il buio che si delinea al finire del sentiero, che Montale percorre con quel
“segreto” di disagio e incomprensione, in mezzo agli “uomini che non si
voltano”, è vinto dalla luce. E di nuovo in analogia con Leopardi, sempre
nella Bufera, si legge di una consueta Clizia salvifica, poiché lucifera,
portatrice di luce e di sole:
> “In alto, Clizia, è la tua sorte, tu
> che il mutato amor mutata serbi
> fino a che il cieco sole che in te porti
> si abbacini nell’altro e si distrugga in lui.”
Quegli “occhi” potenti come il sole, che si confondono e si mescolano per
potenza e per efficacia con la stella del giorno, primeggiano già nel primo
Leopardi. “Gli occhi ridenti e fuggitivi” di Teresa Fattorini in A Silvia, e gli
occhi efficaci del Sogno:
> “Ella negli occhi
> pur mi restava, e nell’incerto raggio
> del Sol vederla io mi credeva ancora.”
E Leopardi, non a caso, introduce la Ginestra con il passo del Vangelo di
Giovanni (III, 19), a conferma che la luce è accecante poiché rivela la Verità,
ed è spesso barattata per le tenebre, in quanto difficile da assimilare: “E gli
uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.”
Montale e Leopardi, dunque, non sono altro che due radiografi della realtà
sensibile, fonte di “affanno”. Il male non si può sconfiggere, poiché
connaturato nell’essere umano, e non bisogna fare altro che conviverci. Da qui,
il Leopardi della Ginestra e della dignità dell’uomo virtuoso, che deve emulare
il “fiore del deserto”: prima profuma le “campagne dispogliate” e poi, quando
giunge il suo momento, con estrema dignità e modestia, piegherà “il capo
innocente”, senza superbia; così, Montale e la ricerca “varco”, che in una forma
di “slancio vitalistico” ambisce titanicamente alla coesistenza con la
disperazione:
> “i silenzi in cui si vede
> in ogni ombra umana che si allontana
> qualche disturbata Divinità.”
E mentre imperano “le coincidenze, le prenotazioni,/ le trappole, gli scorni di
chi crede/ che la realtà sia quella che si vede”, si cerca ancora quel pertugio,
“dove s’accende/ rara la luce della petroliera”.
Davide Chindamo
L'articolo “Qualche disturbata Divinità”. Montale & Leopardi, poeti della luce
proviene da Pangea.
È ormai difficile capire cosa intendesse José Bergamín per analfabetismo.
L’analfabeta è stato sostituito dall’ignorante, l’alfabetizzato dal regime del
logaritmo, dalle ragioni del risultato, dai legionari dell’io. Fiero di non
leggere, leggiadro in ipocrisia, l’ignorante ostenta la gioia di essere mondano
– non certo di essere al mondo, di questo mondo –, il genio pratico – l’opposto
del dotarsi di una pratica – il corrispondere ai desideri del proprio intestino,
l’unico interiore che contempli. Né anima né animale, l’ignorante di oggi è come
l’intellettuale di ieri: l’uomo alfabetico, che costringe ogni fatto in dimora
di misura, si diletta in statistiche, celebra il proprio status, bieco figlio
dell’istituzione – sentendosi, naturalmente, libero, bonificato dallo Stato,
anarca nel proprio ano, anodino.
L’analfabeta – cioè: il bambino, il popolo, l’apostolo, dunque il poeta – pare
scomparso. La logica algoritmica, che crea umani-manovali, umani-replicanti,
umanoidi mercenari dell’ego, in fondo, un’appendice del proprio portafogli,
sembra aver finalmente ucciso l’analfabeta, l’uomo lordo di vita, lordo di Dio,
in pieno possesso dell’essere mondo, dell’essere qui.
L’analfabeta non classifica le piante, le conosce; l’analfabeta non entra in
contatto con gli animali ma con le anime; sa la pericolosità della bestia e la
sua salvezza, e la riproduce in sé, nelle fattezze del viso e dell’agire. Così,
l’uomo analfabeta, ostile ai nomi e alle definizioni, è corvo e volpe, è larice
e airone, è luccio e luce, è acero e acerrimo nemico di chi alla persona
sostituisce la personalità, l’ennesima menzogna.
L’analfabeta non comprende – apprende per apprensione, per trasalimento e
assalto. Apprende per tradimento. L’analfabeta non conosce il linguaggio dacché
è verbo.
Allo stesso modo, l’analfabeta assoluto, il poeta, non stuzzica la retorica, la
stravolge; non sta al gioco del retore ma alla ferocia del re; non è al passo
coi tempi e coi poseur, autentico passeur, trapper tra i regni; è incauto, fuori
tono, scurrile, scomodo, senz’arte né parte, idiota ai più. È l’inosservato
assoluto, perché non ha niente da dire e nulla da dare – è il dato di fatto, il
dono, il detto e la contraddizione. Tutt’altro che incolto, il poeta legge
divorando, legge sottraendosi – mentre l’intelligenza algoritmica procede per
accumulo (norma bulimica, in cui non è contemplato l’eccedente, l’eccezionale,
l’eccesso che non offre via di accesso), il poeta opera per sottrazione: toglie
toglie toglie fino alla parola suprema, alla parola-stalattite, alla
parola-stilita. Parola che non dice ma agisce.
L’analfabeta, il mago. L’analfabeta, il perpetuo orante. Analfabeta: altro modo
di dire, vocazione. Essere chiamati; dunque: invasione di voci. Non vocalizzo,
non vocalità. Restare veritieri alla voce. Il che implica: impunità da serpe,
impurità, putridume nel dire. Allora: la vocale diventa angelo e a noi resta
l’eccomi, il sì come si assiste alla cosa sgozzata, alla cosa benedetta, alla
cosa cosmica.
Tommaso Scarponi, che figura tra i sapienti – leggete Distruzione e analogia,
Castelvecchi, 2025 – mi volta un brano tratto dal memorabile scritto di José
Bergamín. Eccolo:
> Quando Gesù era fanciullo analfabeta o analfabeta come un fanciullo (ché
> analfabeta fu sempre: come fanciullo, come uomo e come Dio), quando era
> fanciullo, Gesù si smarrì e fu trovato nel tempio. Lì insegnava ai dottori
> della legge, dottori della legge scritta, della lettera legale (gli stessi che
> poi lo avrebbero crocifisso per questo: perché era analfabeta); lì insegnò
> loro la dottrina spirituale dell’ignoranza, che essi non ascoltarono e non
> intesero. Perciò, quando poi lo condannarono a morte come analfabeta, lo
> crocifissero letteralmente, cioè a piè della lettera o delle lettere,
> collocando sulla sua testa un cartello o insegna su cui il letterato Pilato
> fece scrivere appositamente: Io sono il Re dei Giudei; fece scrivere ciò per
> mostrare a tutti che avevano preso alla lettera le parole di Cristo e che lo
> avevano crocifisso prendendolo così, letteralmente. Sotto questo INRI
> letterale, Cristo rese lo spirito a Dio; “dando un gran grido”, dice
> l’apostolo: divinamente e umanamente analfabeta. Lo spirito muore sempre
> crocifisso a piè della lettera. Ma muore per resuscitare.
José Bergamín scrive La decadencia del analfabetismo nel 1933, pubblicando sulla
rivista appena fondata, “Cruz y Raya”. Si premurava di far conoscere al mondo
l’opera di Federico García Lorca, uno dei rari ‘analfabeti’; quattro anni dopo
avrebbe guidato la delegazione spagnola del “II Congreso Internacional de
Escritores para la Defensa de la Cultura” (tra i tanti, erano convenuti André
Malraux e Wystan H. Auden, Pablo Neruda e Octavio Paz). Tradotto in italiano nel
1972, da Rusconi, riprodotto da Bompiani nel 2000, Decadenza
dell’analfabetismo è un libro uscito dai ranghi del consesso editoriale come
altri testi di José Bergamín. Nel 2003, Marco Dotti usò brandelli di Decadenza
dell’analfabetismo – insieme a testi di Céline e di Artaud – come ‘manifesto’
per il “Primo festival della letteratura resistente dedicato agli scrittori
analfabeti”, in atto a Pitigliano. Si reagiva – as usual – al “nuovo regime
culturale, blindato ed escludente, intento solo a perpetuare se stesso a
discapito di ogni scampolo di novità e impulso al rinnovamento” (così Marcello
Baraghini autore della deliziosa antologia, La vita si scrive, per Stampa
Alternativa).
Alla dinamica natura vs. cultura, José Bergamín ne pone un’altra, a vertigine,
sacro vs. letterale. La lettera uccide il sacro, la legge fa massacro del cuore.
Al linguaggio babelico – algoritmico – che fermenta burocrazia, si oppone il
brigantaggio del linguaggio, il verbo nel roveto, l’annuncio, il miracolo. Al
poeta cortigiano si preferisce il poeta ladro, il poeta in caccia aperta. Al
poeta impegnato si sostituisca il poeta impari, il paria assoluto. Al linguaggio
dell’istituzione, costituito dai vocabolari, il vocabolo onnivoro, parola che
vive tra le piante e le pietre, vivo dire dei mari, parola vespertina che si
sorseggia a colpo d’ala, insoluto sole.
L’attacco di Decadenza dell’analfabetismo – “Tutti i bambini, finché sono tali,
sono analfabeti” – pare memore del Fanciullino di Pascoli: “È dentro noi un
fanciullino… ma noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi
un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia”.
Pascoli mirava all’anonimato, al sovvertimento dei nomi (“Quando fioriva la vera
poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s’inventa;
si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane,
bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto,
quando morto”); scriveva che il poeta “non deve avere, non ha altro fine… che
quello di riconfondersi nella natura, donde uscì”. Ma noi temiamo il selvaggio,
la via senza ancoraggio di gloria o di nomea, così i poeti vengono stivati nelle
storie della letteratura, inermi, come strane bestie in formaldeide, per lo più
innocue. Parole sotto vuoto, parole disinnescate. E dei grandi autori che hanno
operato verso il ritorno all’analfabetismo, cioè verso i modi della mania
lirica, l’unica – chessò, Benjamin Fondane, Ted Hughes, Robinson Jeffers… – non
si dice, si traduce a sprazzi, li si imbraga tra criteri accademici, tra erbari
e mostre di lepidotteri.
Tra l’incolto che si bea della propria arrogante ignoranza e l’elegante istrione
che si muove tra cadaverici tomi, non c’è differenza: entrambi sono i sacerdoti
di un mondo morto; entrambi, alieni da un’eccezionalità individuale, erigono
santuari intorno al proprio io, si credono i migliori, gli scaltri, i pronti a
tutto. Di tutto privo, detto depravato dai doge di questo tempo, il poeta – se è
tale e non la sua maschera, l’infame implume – è l’unica creatura libera,
liberata: ripete le sue parole al vento – e se ne ritrae, perché nulla è invano
e tutto opera secondo la scia dell’angelo e dell’agnello.
***
Da Decadenza dell’analfabetismo
Ciò che un popolo serba del bambino, e ciò che l’uomo serba del popolo, ovvero
ciò che in lui è ancora bambino, è l’analfabetismo. Analfabetismo è la
denominazione poetica di uno stato autenticamente spirituale. Possiamo assistere
al processo di decadenza dell’analfabetismo nelle nostre vite come in quelle dei
popoli più colti, i più letterati. Guai a noi – guai a loro – se accettassimo
superstiziosamente come ineluttabile il monopolio del letterale, del letterario,
della cultura!
Esiste una cultura letterale. Esiste una cultura spirituale.
La prima perseguita l’analfabetismo, il suo nemico. Ed è oggi – non ieri né
domani – la più diffusa. È quella che ha disordinato il mondo: quella che ha
disordinato le cose e ha soppresso le gerarchie. Quando il senso delle gerarchie
è razionalmente perduto, tutto deve essere disposto in ordine alfabetico.
L’ordine alfabetico, però, è un ordine falso. L’ordine alfabetico è il disordine
spirituale: quello dei dizionari, dei vocaboli letterali, più o meno
enciclopedico, in cui la cultura letterale tenta di ridurre l’universo.
Il monopolio letterale della cultura ha disordinato le cose disorganizzando le
parole, che sono anch’esse cose, non lettere; e poiché sono cose (cose di idee o
idee di cose, cose della ragione, cose del gioco) sono pura realtà razionale o
poetica, realtà autenticamente spirituale o analfabeta.
*
C’è stata una sistematica esibizione stilistica della poesia. Attraverso questi
sottili lambicchi, la poesia viene sterilizzata: sterilizzazione immaginativa
del pensiero. La poesia distillata, lambiccata, sterilizzata, non è pura poesia:
è poesia letterata, letteralizzata. La poesia diventa letterata, alfabetica,
cercando la musica in una vocalizzazione esclusivamente letterale. Esiste
un’intera letteratura lirica che ha testi e musicalità, ma è priva di poesia.
*
La poesia pura è semplicemente la più impura: poesia analfabeta. La poesia è
analfabetismo integrale perché integra spiritualmente ogni cosa. La poesia è il
campo analfabeta della gravitazione universale di tutte le costruzioni
spirituali dell’uomo.
*
Lo stato poetico è uno stato del desiderio infantile o popolare: un desiderio di
analfabetismo; desiderio paradisiaco dello stato dell’uomo puro. Il poeta anela
all’ignoranza, all’infanzia, all’innocenza, all’ignoranza analfabeta che ha
perduto; anela all’analfabetismo perduto: pura ragione spirituale della sua
opera.
*
La parola, la viva parola, non si conforma nell’ordine alfabetico: perché la
vita accade tramite la parola, non la parola tramite la vita; così come la
verità è tramite la parola e non viceversa: tramite la parola divina. (In
principio era il Verbo e il Verbo era Dio e il Verbo era in Dio… così attacca
Giovanni nel suo Vangelo poetico, che è il Vangelo dell’analfabetismo spirituale
più puro).
*
Al termine del primo libro sulla Dotta ignoranza, che è dottrina spirituale
dell’analfabetismo, Nicola Cusano scrive che la verità risplende
incomprensibilmente nell’oscurità della nostra ignoranza. Il potere
dell’oscurità della nostra ignoranza, il potere spirituale dell’analfabetismo, è
quello di far risplendere incomprensibilmente in noi la precisione della verità.
Non esiste poesia che non richieda tale lucidità spirituale, rintracciabile
soltanto nell’oscurità della nostra ignoranza, approfondendo, direbbe Giordano
Bruno, la profondità della nostra ombra.
*
Il declino dell’analfabetismo è la decadenza della cultura spirituale quando la
cultura letterale la perseguita e la distrugge. Tutti i valori spirituali si
sbriciolano quando la lettera o le morte lettere sostituiscono la parola, che si
esprime tramite vive voci. Il valore spirituale di un popolo è inversamente
proporzionale al declino del suo analfabetismo pensante e parlante. Perseguitare
l’analfabetismo significa proseguire strisciando nel retro del pensare:
perseguire le tracce luminose e poetiche della parola. Le conseguenze letterali
di questa persecuzione è la morte del pensiero.
Chiunque si allontani dal gioco poetico del pensare è perduto, irrimediabilmente
perduto, perché abbandona la verità della vita, che è l’unica vera vita – quella
della fede, della poesia – per la menzogna della morte. Prendere tutto alla
lettera, confidando in essa: ma ciò che è letterale è morto.
Il declino dell’analfabetismo è, semplicemente, il declino della poesia. È il
declino del nostro pensiero da quando abbiamo perso la fede nella poesia, da
quando siamo diventati alfabetizzati: non abbiamo fede quando siamo orfani della
vera ragione, la ragione pura, quando sradichiamo dal nostro pensare la poesia.
*
La ragione poetica del pensare dell’uomo è la fede. La poesia appartiene sempre
agli uomini di fede, mai a quelli di lettere, ai letterati. Gli apostoli, in
quanto uomini di fede e dunque analfabeti, hanno dato la più perfetta
espressione poetica alla vita di Cristo. Confrontate i loro testi, poeticamente
puri, con una qualsiasi delle innumerevoli vite letterarie o da letterati di
Gesù Cristo: quella di Renan, di Strauss, di Papini… o qualsiasi altra (tranne
le visioni analfabete ed extra-letterarie dei mistici come Anna Katharina
Emmerick). Quelle vite letterate di Cristo contengono pagine e pagine di
letteratura vaga, amena, senza una parola di verità: non una sola parola di
verità né di menzogna perché ciò che pronunciano non sono parole ma lettere; la
parola può essere pronunciata soltanto come l’hanno pronunciata gli apostoli e i
santi: poeticamente. Non tutti gli analfabeti sono santi, ma tutti i santi
devono essere analfabeti.
*
Per apprendere il vero timore di Dio bisogna varcare la soglia poetica
dell’analfabetismo; l’altro, il timore letterale della morte – o della vita –,
il timore alfabetico del vuoto, non è timore di Dio: è terror panico.
Terror panico, cioè panteismo letterario, cioè letteralità del divino: la
confusione di Dio con il Demonio non è, letteralmente, altro che confusione
infernale, confusione di tutti i demoni; pandemonio, come lo fu la confusione
letterale di Babele, ma senza un dono illetterato delle lingue a succedergli:
senza Pentecoste spirituale redentrice.
*
L’ordine alfabetico internazionale della cultura, nato dagli enciclopedisti –
specie di mortale anticipazione dell’Inferno – è giunto, come logica e naturale
conseguenza, a trasformare per noi la rappresentazione totale del mondo e del
cosmo in un enorme Dizionario Enciclopedico Generale, alfabeticamente
organizzato. La progressiva alfabetizzazione della cultura ha agito sulla vita
umana come una progressiva paralisi del pensiero.
*
La lettera uccide lo spirito.
L’analfabeta ha dei diritti spirituali da difendere contro la dominazione
alfabetica di qualsiasi cultura, più o meno letterale o alfabetizzata. Se
parliamo dei diritti del bambino come possiamo ignorare i diritti
dell’analfabeta che sono, in origine, quelli del bambino, i più puri interessi
spirituali dell’infanzia? Diritti sacri perché esprimono l’unica indiscutibile
libertà sociale: quella dello spirito, quella del linguaggio creativo, quella
del pensiero immaginativo. L’analfabetismo spirituale e creativo dei popoli è
ciò che i popoli hanno in comune con i bambini, la loro infanzia permanente.
*
Se i bambini e i popoli cessano di essere analfabeti, cosa diventeranno? Se i
bambini e i popoli vengono privati dell’analfabetismo – quella vita spirituale
immaginativa del loro pensiero che chiamiamo analfabetismo – cosa resta di loro?
Un bambino e un popolo si snaturano quando vengono alfabetizzati, cominciano a
corrompersi, a cessare di essere; a cessare di essere ciò che sono: bambini,
popoli.
*
L’alfabetizzazione, o alfabetizzazione culturale è il nemico mortale del
linguaggio in quanto tale, nella misura in cui il linguaggio è spirito, è
parola. L’alfabetizzazione è il nemico giurato di ogni linguaggio spirituale,
cioè, in ultima analisi, della poesia.
José Bergamín
*Traduzione di Compiuta Donzella
In copertina: José Bergamín (1895-1983)
L'articolo Elogio dell’analfabetismo, o della poesia pura. Contro i legionari
dell’algoritmo proviene da Pangea.
Sull’arco, in pietra: D P B 1794. Rombano le cicale, alberi pachiderma – in
basso, uno fa manovra col trattore. Dopo il chiostro, davanti all’avita dimora,
stessa iscrizione, diversa la data: “ora segna una P e una B,/ una croce
sottile, un Anno Domini 1798,/ e ha finito”. Così scrive Attilio Bertolucci nel
primo, folgorante capitolo del “Romanzo famigliare” La camera da letto, poema
imperiale, difforme, “che ha la freschezza delle cose nate en plein air e la
flessibilità liquida dell’action painting” (Paolo Lagazzi); edito da Garzanti
tra il 1984 e il 1988, scandito da novemila e quattrocento versi, è uno dei
libri ‘impossibili’ della poesia italiana.
Il primo dei quarantasei capitoli in cui è suddiviso – forse il più bello –
s’intitola Fantasticando sulla migrazione dei maremmani; Bertolucci proviene da
un’antica famiglia di allevatori di cavalli trasferitasi sull’Appennino
parmense. Una nota del “Patrimonio culturale dell’Emilia Romagna” dice che i
Bertolucci sono a Casarola “fin dal 1500”; la casa è stata costruita da don
Pietro Bertolucci: domina sul minuscolo borgo, confitto tra i boschi. Il papà di
Attilio, Bernardo, diede agio alla famiglia: sagace nell’arte del commercio, fu,
tra l’altro, presidente della Banca emiliana. Attilio, il poeta, nasce nel
novembre del 1911 poco fuori Parma, a San Prospero.
Casarola, frazione di Monchio delle Corti, dista sessanta chilometri da Parma:
bisogna passare per Langhirano, poi svoltare a Corniglio. D’improvviso, i boschi
ti inghiottono – querce, faggi, castagni in regale assetto. Qualcuno, più tardi,
mi dirà dell’odore penetrante del castagno, un odore che frastornava i sogni di
Bernardo, il figlio di Attilio, il grande regista. Un cartello intima “Strada
bloccata”; bisogna andare oltre. L’abisso, ai margini della strada, spaura,
impone una vita cervide. I paesi, ora, hanno nomi araldici, non istruiti da
mappe o da gps: Svizzo, Grammatica, Riana… In una poesia devotamente nota, Verso
Casarola (raccolta in una delle raccolte più alte, Viaggio d’inverno), il poeta
cita Montebello, Bellasola e Villula. Con nitore omerico, il poeta dice di
Casarola “ricca d’asini di castagni e di sassi”, dice di un cielo in cui si
mescolano “fumo e stelle”. Una trentina i residenti, nessun negozio, la mitica
“Trattoria Tramaloni” ha chiuso qualche anno fa, all’era del covid. Per fortuna,
il cellulare non prende.
Casarola: la dimora settecentesca dei Bertolucci
Nessun poeta italiano ha stretto un rapporto così consustanziale con un luogo
come Attilio Bertolucci con Casarola. Si può dire, in effetti, che l’opera
poetica di Bertolucci sia una specie di casa padronale,che ripercorra, pietra
per pietra, la struttura – scenica e salvifica – della dimora di Casarola. Qui,
il 9 settembre del 1943, il poeta si trasferisce con la famiglia; “vi ho passato
mesi meravigliosi, nella più completa irresponsabilità”, scrive; imperava la
guerra. L’anno dopo, i tedeschi falciano l’Appennino, “erano giovanissimi, le
ultime leve che il Führer era riuscito a strappare dalle case”. Il poeta si
rifugia con i suoi alle pendici del Monte Navert; i nazisti setacciano, bruciano
case, ammazzano partigiani.
Nella casa – proprietà della Fondazione Bernardo Bertolucci dal 2015 – è
allestita una mostra di Carlo Bavagnoli, il grande fotoreporter che lavorava per
“Life”, morto lo scorso anno. Attilio, egualmente scontroso e sorridente,
passeggia per Casarola, siede su una pila di legna, legge, appollaiato sulla
poltrona dello studio. Era ‘Ninetta’, l’incommensurabile moglie del poeta, a
‘fare casa’: aiutava le donne del borgo, organizzava i lavori di restauro. Di
Attilio è restituita l’immagine di un uomo chiuso, buono fino a una sorda
severità – un patriarca. Paolo Lagazzi – il fraterno esegeta del poeta, curatore
delle Opere di Bertolucci nei ‘Meridiani’ Mondadori – ha scritto del “lato
potenzialmente saturnino (depressivo, angoscioso)”, del poeta, in gemellaggio
all’amore per la vita. “Era capace di osservazioni che avevano in sé la forza di
un’improvvisa rivelazione o di un koan zen” (così Lagazzi in un libro di
estatica potenza, La casa del poeta. Ventiquattro estati a Casarola con Attilio
Bertolucci, La nave di Teseo, 2025): un giorno, nell’agosto del 1985, Bertolucci
scocca un aforisma che riassume una poetica, “Io amo la vita, non la morte”.
A Casarola vedo la proverbiale lucertola (“emblema/ o stemma vivo/ non so se
della famiglia o dell’estate”); lo studio e la camera del poeta pullulano di
libri: erano davvero i suoi? Ne scorgo uno, Chiamalo sonno di Henry Roth; in un
articolo, Il libro per la sera – pubblicato sulla “Gazzetta di Parma” nel
dicembre del ’54 – Bertolucci parla dell’“abitudine di portarsi un libro in
camera da letto, la sera, per una lettura intima, che consoli della giornata
finita e aiuti contro la notte imminente”. Alternava Agatha Christie a Marcel
Proust, Marco Aurelio e Lao-tzu ad Anton Čechov, di cui amava, su tutto, La
steppa. Negli anni Cinquanta, Bertolucci era a Roma: abitava in via del Tritone,
in un appartamento di Roberto Longhi. Era amico di Vittorio Sereni e di Gadda;
soprattutto, di Pier Paolo Pasolini. Due settimane prima della sua morte, a
Chia, ricorda, “volle farci gustare certi vini che gli erano stati invitati dal
Friuli”. Per Guanda aveva fondato la straordinaria collana di poesia straniera
“La Fenice”; è stato consulente per Garzanti; ha diretto – con genio
‘fantastico’, extracanonico – la rivista dell’Eni, “Il Gatto Selvatico”. A
Casarola, il figlio di Attilio, Bernardo, quindicenne, scrive il suo primo
‘soggetto’, La teleferica – a quegli anni “della vocazione e dell’apprendistato”
del figlio, il padre dedicherà la poesia omonima. Quando esce Ultimo tango a
Parigi, pare che Attilio abbia sussurrato alla moglie, “questa volta finiamo
tutti in galera”.
Sul tavolo all’ingresso della sala, il panama di Attilio, un monile: chissà se
basta indossarlo per essere poeta. Il camino è enorme, inquietante – il poeta
sapeva accendere il fuoco; la poesia, d’altronde, è aruspicina verbale.
Fioccano, in abuso, gli aneddoti: lì Giuseppe Bertolucci ha abbozzato insieme a
Benigni Non ci resta che piangere; là Bernardo ha avuto l’idea di Novecento; lì
Attilio scriveva La camera da letto. Sembra di trovarsi al cospetto di una
famiglia biblica, dove non c’è discontinuità tra l’opera dei padri e quella dei
figli: conta la promessa.
Più tardi, ritornato in Romagna, in una sera in cui flottano zanzare che paiono
Sherazade, leggo a mia figlia, che ha il nome di una regina persiana, alcune
poesie di Bertolucci. Amo quella in cui il vento è paragonato al lupo, “poi,
stanco s’addormenta e uno stupore/ prende le cose, come dopo l’amore”. Le dico
che Bertolucci ha pubblicato un libro dal nome stellato, Sirio, a diciotto
anni.
Il poeta è morto a Roma venticinque anni fa, è sepolto a Parma, al Cimitero
della Villetta. Bernardo e Giuseppe, i figli, sono tumulati nel romito cimitero
di Casarola, dove imperano, come gran khan, le erbe selvagge. Da quando Attilio
Bertolucci è morto, dicono, l’aquila reale è tornata a nidificare sul Groppo
Sovrano, la parete di arenaria che sovrasta Casarola – si vede pressoché da ogni
finestra della casa dei Bertolucci. Il poeta è rinato in forma di rapace.
*
Verso Casarola
Lasciate che m’incammini per la strada in salita
e al primo batticuore mi volga,
già da stanchezza e gioia esaltato ed oppresso,
a guardare le valli azzurre per la lontananza,
azzurre le valli e gli anni
che spazio e tempo distanziano.
Così a una curva, vicina
tanto che la frescura dei fitti noccioli e d’un’acqua
pullulante perenne nel cavo gomito d’ombra
giunge sin qui dove sole e aria baciano la fronte le mani
di chi ha saputo vincere la tentazione al riposo,
io veda la compagnia sbucare e meravigliarsi di tutto
con l’inquieta speranza dei migratori e dei profughi
scoccando nel cielo il mezzogiorno montano
del 9 settembre ’43. Oh, campane
di Montebello Belasola Villula Agna ignare,
stordite noi che camminiamo in fuga
mentre immobili guardano da destra e da sinistra
più in alto più in basso nel faticato appennino
dell’aratura quelli cui toccherà pagare
anche per noi insolventi,
ma ora pacificamente lasciano splendere il vomere
a solco incompiuto, asciugare il sudore, arrestarsi
il tempo per speculare sul fatto
che un padre e una madre giovani un bambino e una serva
s’arrampicano svelti, villeggianti fuori stagione
(o gentile inganno ottico del caldo mezzodì),
verso Casarola ricca d’asini di castagni e di sassi.
Potessero ascoltare, questi che non sanno ancora nulla,
noi che parliamo, rimasti un po’ indietro,
perdutisi la ragazza e il bambino più su in un trionfo
inviolato di more ritardatarie e dolcissime,
potessi io, separato da quel giovane
intrepido consiglio di famiglia in cammino,
tenuto dopo aver deciso già tutto, tutto gettato nel piatto
della bilancia con santo senso del giusto,
oggi che nell’orecchio invecchiato e smagrito mi romba
il vuoto di questi anni buttati via. Perché,
chi meglio di un uomo e di una donna in età
di amarsi e amare il frutto dell’amore,
avrebbe potuto scegliere, maturando quel caldo
e troppo calmo giorno di settembre, la strada
per la salvezza dell’anima e del corpo congiunti
strettamente come sposa e sposo nell’abbraccio?
Scende, o sale, verso casa dai campi
gente di Montebello prima, poi di Belasola, assorta
in un lento pensiero, e già la compagnia forestiera
s’è ricomposta, appare impicciolita più in alto
finché l’inghiotte la bocca fresca d’un bosco
di cerri: là
c’è una fontana fresca nel ricordo
di chi guida e ha deciso
una sosta nell’ombra sino a quando i rondoni
irromperanno nel cielo che fu delle allodole. Allora
sarà tempo di caricare il figlio in cima alle spalle,
che all’uscita del folto veda con meraviglia
mischiarsi fumo e stelle su Casarola raggiunta.
Attilio Bertolucci
*In copertina: Attilio Bertolucci e Ninetta, photo Paolo Lagazzi; nel servizio
le fotografie sono di Diana Mazon
L'articolo “Io amo la vita”. Inseguendo Attilio Bertolucci, ovvero: storia
familiare con aquila proviene da Pangea.
Nella Romagna di metà Ottocento che faceva parte dello Stato Pontificio ed era
amministrata da una fitta rete di legazioni presidiate dagli austriaci, l’ordine
di disarmo fu così capillare che si racconta si dovettero far spuntare persino i
coltelli da tavola. Era una terra di confine, attraversata da commerci,
contrabbandi e malcontento politico, dove le vie maestre collegavano città e
campagne ma offrivano anche rifugio a bande di fuorilegge. Il brigantaggio non
era solo criminalità comune, spesso si intrecciava con fermenti rivoluzionari e
con un radicato sentimento di avversione verso l’autorità pontificia.
In questo scenario, la sera del 25 gennaio 1851 si verificò quello che Francesco
Serantini definì l’avvenimento più clamoroso, passato alla storia come I fatti
di Forlimpopoli. È stata proprio la voce di uno dei più grandi scrittori
romagnoli, colui «che ha unito Virgilio e Stecchetti» e autore, con Addio alle
Valli, di uno dei più bei libri di letteratura venatoria mai scritti, a
ritrovare il polveroso fascicolo istruttorio del fatto e riportarcelo con
assoluta aderenza alla realtà.
La città ospitava al proprio teatro una rappresentazione lirica che aveva
richiamato gran parte della borghesia e delle autorità locali. In un’Italia
ancora frammentata in Stati e Ducati, in una Romagna percorsa da tensioni
politiche e sociali, quella cornice di svago divenne improvvisamente teatro di
un evento destinato a entrare nella cronaca e nella leggenda: l’irruzione di
Stefano Pelloni, detto il Passatore, e della sua banda armata. L’agguato non fu
soltanto un atto di brigantaggio, ma un episodio che rivelò, con crudezza, la
fragilità dell’ordine pubblico in una terra di confine.
Pelloni, nato a Boncellino nel 1824, crebbe in questo clima, e in pochi anni
divenne il più noto e controverso tra i briganti romagnoli.
Soprannominato Passator Cortese perché il padre era traghettatore del Lamone e
per una fama, non sempre veritiera, di gentilezza verso i poveri e durezza verso
i ricchi. Garibaldi ne era un estimatore: si diceva volesse essere suo compagno
nella lotta contro gli austriaci.
Quella sera dal cielo grigio di nebbia, il teatro di Forlimpopoli era gremito.
In palchi e platea sedevano famiglie benestanti, professionisti, ufficiali e
funzionari, riuniti per assistere alla rappresentazione dell’episodio biblico
de La morte di Sisara.
> «Giaele uscì incontro a Sisara e gli disse: “Fermati, mio signore, fermati da
> me: non temere”.
> Egli entrò da lei nella sua tenda ed essa lo nascose con una coperta.
> Egli le disse: “Dammi un po’ d’acqua da bere perché ho sete”.
> Essa aprì l’otre del latte, gli diede da bere e poi lo ricoprì.
> Egli le disse: “Sta’ all’ingresso della tenda; se viene qualcuno a
> interrogarti dicendo: C’è qui un uomo? dirai: Nessuno”».
Poco dopo l’inizio dello spettacolo, il Passatore e una quindicina di uomini
(non molti in verità, ma i più audaci, dai soprannomi che ricordano i diavoli di
Malebolge) circondarono l’edificio, bloccando le uscite e disarmando le
sentinelle. Entrati in sala, intimarono agli spettatori di rimanere ai loro
posti, mentre i complici perlustravano il teatro per raccogliere ogni cosa
preziosa che trovavano. L’operazione fu rapida e organizzata: un bottino ingente
e un’umiliazione pubblica per le autorità pontificie, incapaci di prevenire
l’assalto in un luogo simbolo della vita cittadina.
«La sera del 25 gennaio 1851 Stefano Pelloni detto Il Passatore, guidando una
masnada di ladri invase la città e in questa sala decretò impunito taglie e
ricatti consacrando al riso ed alla vergogna la viltà dei governi non consentiti
dal popolo libero e cosciente», recita una lapide apposta all’interno del teatro
dettata da Olindo Guerrini, lo Stecchetti che non ha mai perso l’occasione di
scagliare i suoi strali blasfemi e divertiti contro la Chiesa.
La notizia dell’assalto al teatro si diffuse rapidamente in tutta la Romagna e
oltre, alimentando la fama del Passatore. Per alcuni, fu la prova della sua
audacia e della sua capacità di colpire il potere nei suoi luoghi più sicuri;
per altri, soltanto un atto criminale che sfruttava la debolezza dell’ordine
pubblico. Mentre al teatro di Forlimpopoli si consumava l’assalto, un altro
episodio di quella notte segnò profondamente la memoria cittadina: l’aggressione
in casa di Pellegrino Artusi, allora giovane commerciante nella
bottega-guazzabuglio di famiglia. Proprio a seguito dell’agguato, l’allora
trentenne decise di spostarsi da Forlimpopoli a Firenze, dove poi scrisse La
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene.
La dimora della famiglia Artusi si trovava non lontano dal teatro, affacciata
sulla Rocca della piazza principale: il bottino del palcoscenico non fu
sufficiente a placare l’avidità della banda. Alcuni uomini del Passatore si
recarono nelle abitazioni dei presenti, costringendo gli occupanti a consegnare
denaro e beni. Nella sua autobiografia, l’Artusi racconta con precisione e
amarezza l’episodio che colpì la sua famiglia quella notte. I briganti del
Passatore riuscirono a entrare in casa grazie a un inganno: a bussare alla porta
fu l’avvocato Ruggero Ricci, amico di famiglia, appena derubato a casa propria
dopo esser stato prelevato dal teatro. Ricci si presentò annunciando l’arrivo in
città di amici venditori di zucchero e spezie, desiderosi di fare affari. Il
tradimento si consumò in questo modo: la porta si aprì, i banditi irruppero. Il
vecchio padre riuscì a fuggire, Pellegrino si comportò con coraggio ma senza
impedire che i malviventi facessero bottino, una delle sorelle scappò sui tetti.
La stessa, Gertrude Artusi, dallo spavento (e forse da una violenza subita,
anche se non si hanno conferme in merito) impazzì e morì reclusa nel manicomio
di Pesaro.
> «Ma Giaele, moglie di Eber, prese un picchetto della tenda, prese in mano il martello,
> venne pian piano a lui e gli conficcò il picchetto nella tempia, fino a
> farlo penetrare in terra. Egli era profondamente addormentato e sfinito;
> così morì».
Artusi stesso precisa che Ricci agì sotto costrizione della banda e che, come
conferma anche Serantini, anche lui sarebbe stato derubato; tuttavia, ciò che il
futuro scrittore non gli perdonò fu la mancanza di un gesto di umanità. Nei
giorni seguenti l’avvocato non si presentò nemmeno per chiedere scusa alla
famiglia:
> «A questa trepidante scena era presente il Ricci a cui rivoltomi dissi: “Avete
> fatto una bella prodezza!” ed egli: “Son stato costretto”. Nessuno lo
> costringeva però di non venire o di non mandare i giorni appresso a fare un
> atto di scusa per la involontaria ma brutta azione commessa».
Il destino finale, che sembrava avviarsi su un sentiero karamazoviano, ha invece
preso un’altra direzione. «Come segue in un pranzo che gli amaretti si servono
in ultimo» diceva Artusi, così anche questa vicenda trova nel finale il suo
momento più significativo, quello della riconciliazione. A distanza di oltre un
secolo, quel silenzio è stato simbolicamente colmato. Solo recentemente, grazie
a una testimonianza ritrovata nell’archivio della famiglia Foschini di
Forlimpopoli, si è venuti a conoscenza che il pronipote dell’avvocato Ricci,
l’architetto Ruggero Foschini, si mise in contatto con il pronipote di
Pellegrino, lo storico Luciano Artusi. I due si incontrarono nel 2008, a
distanza di 157 anni dalla terribile notte, e l’architetto chiese formalmente
perdono a nome del bisnonno. La stretta di mano tra i due, fissata in una
fotografia, restituì finalmente un atto di riparazione morale a una ferita
rimasta aperta nella memoria familiare e cittadina.
Cesare Dal Pane
*In copertina: Silvestro Lega, Giuseppe Mazzini morente, 1873
L'articolo “Avete fatto una bella prodezza!” Pellegrino Artusi & la vita
violenta del Passator Cortese proviene da Pangea.
La prima lassa della Terra desolata, poema pentagonale di Thomas S. Eliot,
s’intitola The Burial of the Dead, “il seppellimento dei morti”. Come si sa,
Eliot parla di aprile, the cruellest month e di Unreal City, cita – senza
apparente coerenza – Wagner, Dante, Baudelaire. Nell’affastellarsi di luoghi
comuni e figure sacre, appaiono Madame Sosostris, specie di degradata
Iside, famois calirvoyante, la Dama delle Rocce e the lady of situations, in un
cortocircuito tra lascivia e verginità; il tempo è sospeso tra la battaglia di
Milazzo – prima guerra punica, 260 a.C. – e l’oggi, sancito dall’anonimo
traffico umano che scorre – latenza di frode, flatulenza d’inganno – sul London
Bridge. Il figlio dell’uomo, ormai, nulla può più sapere dei “rami che crescono/
su queste macerie”: non è che “un mucchio di frante immagini”. Il poema di Eliot
non è affatto “sepolcrale”, non appartiene al genio di Thomas Gray o di Edward
Young (preromantici malsopportati dal T.S.), né a quello – con sopraggiunti
accenti ‘eroici’ – di Foscolo. Con The Waste Land, Eliot scrive le esequie della
poesia occidentale – poesia ‘rituale’ (proprio perché irrituale nel linguaggio),
rivolta ai morti, a vivificarli.
*
Mi hanno colpito le parole di Charles Wright in una delle sue rare interviste.
Il giorno della morte, il grande poeta americano – benché non credente –
vorrebbe farsi accompagnare dal Burial of the Dead, il rito funebre della Chiesa
anglicana, accolto nel Book of Common Prayer. In effetti, anche l’opera di
Wright – che nasce all’ombra di Ezra Pound, il gran maestro di Eliot – è una
specie di servizio della parola rivolto ai morti.
Va ancora riferito, con umile sfarzo, il rapporto vitale tra preghiera e poesia.
*
Il tema di questo articolo: la parola efficace rivolta ai morti. Parola che si
radica nella landa dei morti: come crescerà; come chiamare quel virgulto
alfabeto; come intendere quel puledro verbo?
Alcune parole – un formulario formulato da uomini – hanno effetto nell’aldilà. O
meglio: agiscono nei pertugi tra questa vita e l’altra, l’autentica (stando al
religioso dire). Il corpo matura come un frutto, come una crisalide, e ciò che
sboccia – l’anima, lo spirito, il ‘respiro’, l’elan dell’altro, l’atman, la
rancura o l’amore che ci fa viventi – vaga, disorientato, indeciso, nel regno di
mezzo tra il mondo e l’oltre mondo. L’anima – chiamiamola così, per capirci –
cresce, deve svilupparsi, deve scegliere e compiere delle prove prima di
approssimarsi all’assoluto. L’anima trasmuta, mette il pelo – l’anima ha sete.
Il rito aiuta l’anima in questa catabasi o ascesa.
L’anima ha bisogno di un patrimonio di linguaggio, di un abbecedario, per capire
chi è e dov’è. Il rito: corde, ramponi, piccozze per aiutare l’anima a rampicare
la schiena di Dio.
*
Cosa succede se l’anima – o come vogliamo chiamare il polline del corpo – è
priva di linguaggio? L’anima è disorientata, s’imbestia, cresce in ira e rimorso
– le crescono i denti. Un uomo, per emergere da sé, per ergersi, deve morire.
Esistono i non-morti: anime disperse, che non hanno trovato lo spiraglio per
accedere all’altro mondo, restano recluse in questo. Anime incattivite. Che
mordono. Che tormentano. Gli sciamani siberiani uscivano fuori di sé per placare
le anime violente; come per concertare con gli spiriti il successo del parto.
> “Da questo luogo
> sotto il grande sole
> cominciò a camminare
> Per tre giorni
> egli va così.
> Nella direzione davanti a lui
> era un’isola-nube
> tre grandi tende…
> salì veloce sul palo
> che sostiene le tende
> salì nel cuore del fuoco
> come coleottero di ferro”.
*
Allo stesso modo, la preghiera per i defunti: linguaggio che conforta l’anima
nella prova. Nessuna nostalgia in questo infondere coraggio. Puro esercizio di
linguaggio: consuonare ai morti, con loro cantare.
*
La Commedia di Dante non è forse un immenso tentativo di conciliarsi con i
morti? E poi: trovare il linguaggio con cui colloquiare con Dio. Dunque:
intendere il linguaggio con cui i morti si rivolgono a noi, ora.
*
Oltre che ‘comunicare’ tra di loro, gli uomini manovrano il linguaggio per
mettersi in comunicazione con i morti. La poesia nasce quando Gilgameš scopre
che l’uomo è morituro: alza il lamento funebre sulle spoglie dell’amico Enkidu,
va alla ricerca dell’immortalità. Allo stesso modo, l’Odissea è il grande canto
dell’amore mortale rispetto all’ardore ultraterreno, è il poema dei figli che
cercano i padri, il poema degli avi conficcati negli eredi – dalle
invocate-evocate ombre (libro IX) agli spettri dei Pretendenti, che s’involano
come pipistrelli, alla fine del poema.
Orfeo non può far risorgere dai morti – blanditi dal suo canto – l’amata
Euridice: in quel voltarsi, in quel ‘gioco degli occhi’ è il momento in cui
nasce la lirica occidentale, in cui il poeta si scinde dallo sciamano. I morti,
da allora, rivivono nel canto, nel giogo della malinconia, nella grigia gioia
del rimpianto. Non più compimento, ma compianto.
Édouard Manet, Cristo morto sorretto dagli angeli, acquaforte, 1866-1867
*
Dalla Laura di Petrarca al Moammed Sceab di Ungaretti. I morti agiscono sui
vivi, fino a modellarli. Quanti viventi vivono conformandosi a una promessa
conclusa con chi non è più qui? Quanti viventi sono il calco dei morti? Quanti
viventi vivono credendo di poter ‘riscattare’ la memoria di un morto?
A volte, i morti ci incatenano. I morti si nutrono della nostra vita.
A volte, incateniamo i morti – succhiamo i loro empi capezzoli.
Al contrario, la parola rituale, The Burial of the Dead: parola efficace tra i
morti, parola vivente. Sono i vivi, qui, che agiscono nell’altro mondo – che si
fanno consegna, offerta. Che piantano torce sul torace dell’altro mondo.
*
Parola vivente, parola vivanda.
*
Di cos’altro dobbiamo parlare, in questo tempo moribondo, se non della parola
che opera sui morti (e dunque, sulla vita)? Non più atto di supremazia magica,
superamento di ogni mantica: suprema spoliazione, piuttosto, dedizione. Spiumare
la lingua fino a ossea ispirazione.
*
Millenaria tradizione di dialogo con i morti. Ad esempio: il Libro dei
morti egizio. Sessione di liriche indicazioni – dunque: etiche – per uscire
indenni dal giudizio degli dèi, presieduto dal dio-sciacallo, Anubi.
> “Concedete che il defunto venga a voi,
> lui che non ha peccato
> che non ha mentito
> che non ha commesso male
> che non ha fatto alcun crimine
> che non ha reso falsa testimonianza
> che nulla ha fatto contro se stesso
> ma che vive di verità
> si nutre di verità.
> Dovunque ha sparso la gioia.
> Di ciò che ha fatto
> gli uomini parlano e gioiscono gli dèi.
> Egli si è conciliato gli dèi con il suo amore”.
I testi che compongono il Libro dei morti “appartengono alla liturgia che
accompagnava il seppellimento e venivano deposti accanto al morto mummificato,
affinché se ne valesse come istruzione nell’affrontare il regno d’oltretomba”
(Alonso M. Di Nola).
Questo m’interessa. La parola che agisce nell’aldilà. Parola umana che, al più
puro punto di raffinamento, al più limpido monile, esiste per parlare ai morti.
Parola che istruisce il defunto. Per questo: è opera pia, opera necessaria,
inserire nella tomba del defunto – nella tasca dei pantaloni, nella camicia –,
un testo-talismano. Una poesia. Parola che non leghi il defunto, ancora, a
questa terra, che non lo ancori, ancora, al qui; che lo sprigioni. Parola che
non reclama possesso, ma che liberi – che conforti senza confinare. Parola
d’oltreconfine.
*
Grande brigante: il sacerdote carda i morti sul petto, per guadare, guidandoli
nell’altrove. Qualche verbo in borraccia.
*
La differenza tra il Libro dei morti egizio e l’apparentemente analogo Libro
tibetano dei morti, il Bardo Thödol, secondo l’immenso Giuseppe Tucci:
> “Gli Egiziani cercarono di salvare il corpo dal corrompimento che fatalmente
> dissolve ogni cosa creata: l’integrità del corpo è necessaria per la
> continuazione della vita nell’oltretomba. Per i Tibetani il cadavere si brucia
> o si squarta o si abbandona sulle montagne, perché le bestie da preda e gli
> uccelli lo divorino.
>
> Per gli Egiziani la morte è definitiva, delimita due mondi. La sopravvivenza
> nel mistero che essa dischiude è sopravvivenza individua; cioè della medesima
> creatura che già visse in questo mondo e colà perdura con le stesse parvenze e
> lo stesso nome. Per i Tibetani la morte o è il cominciamento di una nuova
> vita, come accade per le creature che la luce della verità non rigenerò e
> trasse a salvazione, o il definitivo disparire di questa fatua personalità –
> effimera e vana come riflesso della luna sull’acqua – nella luce
> indiscriminata della coscienza cosmica, infinita potenzialità spirituale.
> Continuare ad esistere in qualunque forma di esistenza, anche come dio, è
> dolore: perché esistenza vuol dire divenire, e il divenire è l’ombra
> dell’essere, un sempre rinnovato corrompimento, una pena che mai si placa”.
Il Bardo prevede almeno due settimane di prossimità con il moribondo, aiutandolo
a vincere terrori e interrogativi, per condurlo alla “grande liberazione”. La
liturgia, che stempera il tempo nell’eterno, il buio in bulimia di luci, si
dispiega in versi, per ipnotizzare ogni illusione.
> “Mentre sorge in me il Bardo della Vita
> lascerò ogni futile pigrizia che ruba il tempo
> e affronterò il Sentiero dell’Ascolto, della Riflessione,
> della Meditazione concentrandomi sull’Insegnamento
> con il dono di un corpo umano
> svelando la vera natura dell’illusione
> realizzerò i Tre Corpi lasciando ogni indugio
>
> Mentre sorge in me il Bardo del Sogno
> spegnerò il tenebroso sonno dell’ignoranza
> concentrando la mente nel suo stato naturale
> svelando la vera natura del sogno
> senza sprofondare nel sonno dei bruti
> mediterò sulla Chiara Luce della Miracolosa Trasformazione
> portando questa pratica nel sonno”.
Ho citato alcuni versi che presiedono il Bardo Thödol vero e proprio, nella
versione approntata da Ugo Leonzio per Einaudi nel 1996. Superba, per glaciale
nitidezza, la nota biografica che cinge Leonzio, estroso scrittore, studioso di
allucinogeni e di Céline: “nato a Milano, ha viaggiato nelle regioni himalayane
per studiare le pratiche rituali di cui questo libro fa parte”.
*
Anche il Rito delle esequie cattolico è di sublime bellezza quanto a
composizione. D’altronde, è il rito centrale, ‘pasquale’ – il momento in cui la
fede nella resurrezione dei corpi è messa alla prova. Al sacerdote che guida il
rito – ma che non è univoca guida: a noi il compito di procedere nel canto, a
rincuorare e aiutare il morto – è chiesta particolare preparazione. Alle
preghiere canoniche – alcuni Salmi, per lo più – si alternano parole scritte
apposta per la cerimonia; queste, ad esempio:
> “Con questa fede nel cuore ci accingiamo a deporre,
> come un seme, nel sepolcro
> il fragile e corruttibile corpo
> del nostro fratello (della nostra sorella) N.,
> con la piena fiducia che nel giorno della sua venuta
> il Signore lo(a) farà risorgere incorruttibile,
> nella pienezza della sua gloria.
> Rinnovando perciò la nostra adesione di fede, diciamo:
> Tu sei la vita e la risurrezione nostra, Signore Gesù!
> Tu che hai pianto la morte dell’amico Lazzaro,
> trasfigura le nostre lacrime nella gioia della tua salvezza.
> Tu che al ladrone pentito hai accordato il tuo perdono
> e promesso il paradiso,
> avvolgi il nostro fratello (la nostra sorella)
> nel tuo abbraccio di misericordia e di vita.
> Tu che sei stato spogliato delle tue vesti
> e, avvolto in bende, sei stato deposto nella tomba,
> fa’ indossare la splendida veste della vita immortale
> al nostro fratello (alla nostra sorella),
> che viene a te nella nudità della morte”.
*
Quanto, esaltando in retorica, in ‘letterarietà’, la poesia ha perso in
efficacia? Con quali parole parlano tra loro i morti? Qual è il linguaggio
dell’aldilà? Sussurro, latrato, biascichio, frattaglie d’angelo? Il linguaggio è
il principio della caduta o un metodo per ascendere?
*
Certo: il chiacchierio chiesastico, questa eco da oratorio, va rimeditato. Ai
poeti, dopo immenso sconvolgimento interiore, il compito di trovare la parola
che attecchisca ancora nell’aldilà.
*
Esalare l’ultimo respiro: slegare i nodi del linguaggio comune, che imprigiona e
castra, per eseguire l’altro, che disincastra, che libera.
Linguaggio: comunione tra i vivi e i morti. Lingua-ostia.
*
Penso ad alcune lasse del poemetto di Carlo Betocchi, In piena primavera, pel
Corpus Domini:
> “La tua mente illusoria rifiutala
> se non ha altri argomenti che te:
> e il tuo cuore, se non ha che i tuoi
> lamenti. Non avvilirti
> compassionandoti. Sii non schiavo di te,
> ma il cuore di ciascun altro: annullati
> per tornar vivo dove non sei
> più di te, ma l’altro che di te si nutra,
> distinguilo dal numeroso,
> chiama ciascuno col suo nome”.
È già parola efficace, questa, che non permette alla letteratura di irrompere,
corrompendo. Il letterario è la merce della lettera, ne è il baldacchino, la
baldracca.
Se un poeta non ha efficacia, se la sua parola non ha effetto su questo e
l’altro mondo, è un falso poeta. Non effonde – confonde.
***
La sepoltura dei morti
In piedi, tutti, intonano l’inno:
Io sono la resurrezione e la vita, dice il Signore;
chi ha fede in me, benché sia morto, vivrà;
chi vive e ha fede in me non morirà mai.
So che il mio Redentore vive
che all’ultimo giorno si ergerà sulla terra;
e anche se questo corpo sarà sbriciolato, vedrò Dio;
lo vedrò davanti a me, lo contemplerò con i miei occhi
non mi sarà estraneo.
Perché nessuno vive per sé
per sé nessuno muore.
Quando viviamo, viviamo nel Signore
quando moriamo, moriamo nel Signore.
Nella vita e nella morte siamo del Signore.
Beati i morti che nel Signore muoiono;
così sussurra lo Spirito, resi hanno riposo dal dolore.
Per la sepoltura di un adulto:
O Dio, dall’innumerevole misericordia: accetta le nostre preghiere per il tuo
servo, concedigli l’ingresso nella terra della luce e della gioia, nella
comunione dei tuoi santi, per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore,
che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre.
Amen.
Per la sepoltura di un bambino:
O Dio, il cui diletto Figlio ha preso i bambini tra le braccia, benedicendoli:
donaci la grazia, ti preghiamo, affidiamo questo bambino alla tua infallibile
cura, al tuo inesauribile amore, conduci tutti noi nel tuo celeste regno; per
mezzo del tuo figlio, Gesù Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te e con
lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre. Amen.
Consacrazione della tomba
Qualora la tomba si trovi in un luogo non destinato a sepoltura cristiana, il
sacerdote può recitare la seguente preghiera, al momento opportuno:
O Dio, il cui Figlio benedetto è stato deposto in un sepolcro nel giardino:
benedici, ti preghiamo, questa tomba e concedi che colui il cui corpo è qui
sepolto possa dimorare in Cristo, in paradiso, e raggiungere il tuo celeste
regno; per tramite di tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Preghiera aggiuntiva:
Nelle tue mani, Signore, affidiamo il nostro caro fratello: che sia prezioso ai
tuoi sguardi. Lavalo nel sangue dell’Agnello, l’innocente che fu immolato per
annientare i peccati del mondo; perché, purificato, estinta ogni lordura
contratta in questa vita terrena, possa essere presentato netto, limpido e senza
macchia al tuo cospetto; per la grazia di Gesù Cristo, tuo unico Figlio e nostro
Signore. Amen.
Ricordati del tuo servo, Signore, secondo la grazia con cui favorisci il tuo
popolo: che cresca in amore e sapienza, per progredire sempre di più nella vita
di perfetto servizio nel tuo celeste regno; per Gesù Cristo nostro Signore.
Amen.
O Dio degli infiniti giorni, Dio della misericordia innumerabile: facci certi,
te ne supplichiamo, della brevità e dell’incertezza della vita; che lo Spirito
Santo ci guidi in santità e giustizia lungo l’arco dei giorni; quando avremo
servito i figli della nostra generazione, ci riuniremo ai padri, in retta
coscienza; nella fiducia di una fede certa; nel conforto di una ragionevole,
religiosa, santa speranza; nel tuo favore; in perfetta grazia con il mondo.
Tutto ciò che ti chiediamo è per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro. Amen.
Da: “Burial of the Dead. Rite One”, raccolto in “Book of Common Prayer”
*In copertina: Paul Troger, Cristo morto con angelo, XVII sec.
L'articolo “Dovunque ha sparso la gioia”. Parlare ai morti proviene da Pangea.
L’icona di Leda avvinghiata al cigno è tra le più conturbanti della storia
dell’arte. La donna che con virginea lascivia si unisce all’uccello ha occupato
la mente, tra i tanti, di Michelangelo e di Leonardo; di entrambi possediamo,
però, soltanto alcuni disegni dell’arcano soggetto, il dipinto (cioè: l’intero)
è perduto. Anche questo è un segno.
Dall’unione tra la regina di Sparta e Zeus mutato in cigno, sarebbe nata,
tramite uovo, Elena. Il mito – narrato, tra i tanti, da Igino, Lattanzio, Ovidio
– ha una vespertina variante – riferita da Pausania, Omero e Apollodoro –: Zeus,
in verità, si invaghì, fino al vagabondaggio nella follia, di Nemesi, l’antica
dèa che distribuisce il Fato, la bellissima figlia di Oceano. L’inseguimento fu
feroce: Nemesi si muta in diverse bestie, ma Zeus la vince, “Benché essa mutasse
costantemente forma, egli infine riuscì a violarla assumendo l’aspetto di un
cigno e dall’uovo che Nemesi depose nacque Elena, causa della guerra di Troia”
(così Robert Graves nel suo regesto di Miti greci). Leda, in questa versione, ha
valore di levatrice dell’uovo.
Dei racconti che narrano l’unione tra la donna e la bestia – estremo,
inattaccato tabù – il più crudo riguarda Pasifae, la moglie di Minosse che va in
estro per il bianco toro sacro a Poseidone: da questo amore nasce il mostro,
Minotauro; scaturisce, come enigmatico effetto, Labirinto. Non diversa è la
‘mostruosità’ – cioè: la meraviglia – di Elena; in non diverso labirinto – per
quel vivere da disorientati, da ossessi di sangue – si volge Troia.
Secondo Platone, il cigno è animale sacro ad Apollo, simbolo di rigenerazione
spirituale: legato al cocchio celeste, è l’uccello che scorta il dio verso il
regno degli Iperborei, dove si banchetta con le stelle e si danza tra fanciulle
betulle. Si dice che in punto di morte il cigno “canti” perché “è contento di
librarsi verso il dio di cui è ministro” (così nel Fedone). Nell’origine del
termine cigno – kyknos in greco – è incardinato il destino al canto: “Gli
antichi credevano che vicino a morte il cigno cantasse soavemente, onde fu
detto fig. per Poeta o Illustre compositore di musica, come Rossini, Versi ed
altri maestri” (così il Pianigiani, a dire del rapporto arcaico tra parola e
morte, ovvero tra poesia e preghiera).
Dall’induismo al mito celtico non c’è pensiero religioso in cui il cigno non sia
eletto a simbolo. Spesso, il cigno è emblema di grazia, purezza, elezione
spirituale; eppure, ogni simbolo reca, come contrappasso, il proprio opposto. Il
cigno è anche la violenza della grazia, l’ambiguità, l’aristocratico disprezzo
per il prossimo; in alcuni bestiari raffigura l’ipocrisia.
Leda e il cigno in uno studio di Leonardo
Il cigno è penetrato nei rivoli delle fiabe; risuona nel Lohengrin di Wagner
come nel Lago dei cigni di Čajkovskij. Secondo Dante, l’angelo che sigilla la
quinta cornice del Purgatorio ha “l’ali aperte, che parean di cigno” (XIX, 46);
secondo Baudelaire, straordinario dissacratore di simboli, il “mio grande cigno”
è “ridicolo e sublime come gli esuli,/ roso da un desiderio senza tregua” (così
la versione di Pierluigi Pellini in: C. Baudelaire, Il cigno, Mucchi, 2022).
Nella vasta ornitologia lirica il cigno ha un ruolo di privilegio: Torquato
Tassi si dice “cigno in mia prigione” che “quel che mi detta Amore imparo e
canto”; Pascoli canta il cigno che “canta”, “nella luce boreale” (Il transito,
nei Primi poemetti): “Il cigno canta; e lentamente il cielo/ sfuma nel buio, e
si colora in giallo;/ spunta una luce verde a stelo a stelo”. Il grande cantore
dei cigni è comunque William Butler Yeats, che in diversi testi (The Wild Swans
at Coole e Leda and the Swan, ad esempio), dice la “misteriosa bellezza” di
quegli uccelli, coagulando il mito greco a quello irlandese (per i quali il
cigno è immagine di trasformazione interiore, di connessione con l’aldilà).
Nella Bibbia – per ragioni geografiche – il cigno non fa sfoggio di sé. Appare
in Levitico, insieme al pellicano, la folaga e la cicogna, il nibbio e “ogni
specie di corvo”, l’aquila, l’avvoltoio e altri uccelli su cui grava
interdizione: non bisogna mangiarli “perché obbrobriosi” (perché sono
“abominio”, sheqets). Ma è un apparire tra faine filologiche. La versione Cei –
come la “King James” nel mondo inglese – traduce in cigno una
parola, tinshemeth, quanto mai ambigua, che vale a classificare specie diverse,
di lucertola e di uccello, accomunate da non ben definita irascibilità – alcuni
traducono come “gufo bianco”.
Trapiantato in Europa, il cristianesimo ha convogliato nella figura di Cristo il
precedente bestiario simbolico. Così Cristo, di volta in volta, è pellicano e
pantera e cigno. Del cigno, è riferito il candore, l’allunaggio in luoghi
impervi, a Nord, soprattutto, e il canto, connesso alle ultime parole
pronunciate da Gesù in croce – una croce, invero, divaricata in apertura alare,
come il rapace nella posta dello ‘spirito santo’. La testimonianza più potente
del Cristo/cigno – punto sublime di fusione tra avventura cristiana e
simbologia pagana – è il Planctus cygni redatto nell’abbazia di San Marziale di
Limoges nel IX secolo. Questa “allegoria ac de cigno ad lapsum hominis”,
scritta nel latino dell’epoca, ha fatto parte della liturgia di Limoges, di
Winchester e del Nord della Spagna per qualche secolo, cantata in memoria dei
Santi Innocenti, i bambini di Betlemme sterminati da Erode (28 dicembre). Quasi
che il cigno, con sovrappiù d’innocenza, possa lavare l’assassinio degli infanti
– lamento che sovrasta il sangue, lo lecca. Il planctus non appare più nei
manoscritti dal 1100 circa.
Il volto di Leda secondo Michelangelo
Nel viaggio periglioso del cigno dalla terra oltre l’oceano, è prefigurato
l’andare dell’anima da questo all’altro mondo. Nel planctus appaiono Oriente e
Occidente, i poli e le costellazioni, guidate da Orione: tutto il cosmo – la
terra, i mari e i cieli – converge nel volo messianico del cigno. Infine,
finalmente salvo, il cigno guida al canto gli uccelli, a onorare il “grande re”
di tutte le cose (in breve, è la mistica del viaggio, della consapevolezza del
creato, dell’addestramento all’inno, vera e propria pratica del verbo, narrata
da Attar nel Verbo degli uccelli).
Pienezza dell’uomo è fuggire da una visione predatoria, è elevarsi (cioè:
incaricarsi degli inferi); assumere in sé i saperi della terra, del mare, del
cielo; intonarsi agli astri; darsi alla preghiera. All’uomo che vuole essere
stella si dica: sia audace il tuo cantare, alberghi un volo nella tua lingua.
Che nel plactus sia riassunta la pervicacia della pianta e lo strazio del
compianto – questo sbriciolarsi in lacrime dell’anima – è emblema di grazia.
Conficcati nel planctus, fino a sbriciolarlo.
**
Planctus cygni
Lamentazione
canterò – figli
dell’alato cigno
che insigni acque
attraversò – dirò
del suo rude ululare
fu reliquia per lui
terra di aridi fiori:
del mare abissale
andò in cerca
e piangeva: “Misera
bestia sono – sola –
miseria è il mio nome
inutili le ali
splendore che gemma
in piogge: onda
mi scassa tempesta
mi attenta
io sono l’esiliato
mi serrano maree
pari a montagne –
e piango perché
morde morte
abbondano pesci
ma non so conficcarmi
in quelle vertigini vergini
per ucciderli
Oriente – Occidente
plaghe dei Poli
conferitemi
brillio di stella
suffragio a Orione:
che sfugga da queste
nubi barbare”.
Taceva l’uccello
intaccato da tale pensare
e giunse rossa
l’aurora – il vento
lo incoraggia
riaccorda le ali
esulta ora
si leva levata fatica
a becchettare
le stelle
gioia
smisurata
lo penetra tra
i reami dei mari
canta – ora – canto
pieno di carezze
e attracca a terra ora:
creature dei cieli
alate bestie
cantate insieme
gloria ammanti
il grande re
Regi magno
Sit gloria
*In copertina: Jan Asselijn, Cigno minacciato, 1640
L'articolo “Io sono l’esiliato”. Intorno al “Canto del cigno”, un testo
straordinario proviene da Pangea.
Nel 1947 George Orwell sta lavorando a 1984. Per il momento, il libro, ancora in
bozzolo, s’intitola “The Last Man in Europe”; Orwell ha scelto di scriverlo a
Jura, nelle Ebridi, in condizioni di estrema solitudine. Orwell è un esteta
dell’estremismo. Spesso, ricorda gli anni, a Parigi, in cui “vivevo nei
quartieri più poveri, tra senzatetto e criminali, a mendicare o a rubare”;
ricorda quando aveva scelto di condividere la vita dei minatori dell’Inghilterra
del Nord. Due anni prima era morta la moglie, Eileen, in marzo; il 17 agosto del
1945 era uscito, per Secker & Warburg, La fattoria degli animali. Il libro –
rifiutato da T.S. Eliot, direttore editoriale della Faber – ebbe un successo
clamoroso, consentendo a Orwell una certa, inedita, sicurezza economica.
Tra le diverse traduzioni di Animal Farm, ci interessa quella polacca.
“Swiatpol”, l’editore polacco che ha sede a Londra, stampa 5mila copie del
libro; la traduttrice si chiama Teresa Jeleńska. Fu il figlio di Teresa,
Konstanty, a far leggere Orwell a Ihor Ševčenko: nato in Polonia da genitori
ucraini, il ragazzo compiva ventitré anni, studiava a Lovanio. Nell’aprile del
1946, Ihor prende coraggio e scrive a Orwell: avrebbe voluto tradurre La
fattoria degli animali in ucraino. Lo scrittore, “mi capì subito, capì che la
traduzione del suo libro avrebbe avuto un valore importante per i miei
connazionali”. Negli anni, Ihor Ševčenko sarebbe diventato un importante docente
di studi slavi e bizantini ad Harvard, nel 1996 ha pubblicato Ukraine between
East and West. È morto il 26 dicembre del 2009, onorato da un ‘coccodrillo’ sul
“New York Times”.
Negli scambi epistolari con Orwell, Ševčenko sottolinea che “Il mio pubblico
sono i rifugiati sovietici: beh, l’effetto è sorprendente. Tutti approvano la
sua interpretazione… hanno cercato immediatamente i punti in comune tra la
realtà in cui vivono e il suo racconto. L’atmosfera del libro sembra
corrispondere al loro reale stato d’animo”. Ševčenko traduce il libro
nell’autunno del ’46, consegnandola a “Prometheus”, editore ucraino con base a
Monaco. Nel marzo del ’47 Orwell, pur “spaventosamente impegnato”, accetta di
scrivere una prefazione per l’edizione ucraina di Animal Farm (che si riporta,
in parte, in calce). Nel testo, Orwell spiega che la guerra civile spagnola ha
agito su di lui come una specie di rivelazione:
> “A metà del 1937 i comunisti presero il controllo – pur parziale – del governo
> spagnolo: cominciarono a dare la caccia ai trotzkisti, mi ritrovai tra le
> vittime. Io e mia moglie siamo stati molto fortunati a uscire vivi dalla
> Spagna, senza essere arrestati. Diversi amici furono fucilati, alcuni finirono
> in prigione, altri semplicemente sparirono. Queste cacce all’uomo in Spagna si
> sono svolte contemporaneamente alle grandi purghe sovietiche: ne sono state
> una specie di appendice. Sia in Spagna che in Russia la natura delle accuse –
> vale a dire: azioni fasciste e antirivoluzionarie – era la stessa; per quanto
> riguarda la Spagna, posso dire che erano del tutto infondate. Ne uscii con una
> lezione preziosa: capii con quale pervicacia la propaganda totalitaria possa
> controllare l’opinione pubblica delle masse ‘illuminate’ dei paesi
> democratici. Io e mia moglie abbiamo visto innocenti gettati in carcere perché
> sospettati di non-ortodossia. Eppure, al nostro ritorno in Inghilterra diversi
> ‘osservatori’ ben informati dimostravano di credere ai più fantasiosi
> resoconti di tradimento e di sabotaggio riportati dalla stampa sovietica.
> Compresi finalmente con chiarezza la nefasta influenza del mito sovietico per
> il socialismo occidentale”.
La traduzione ucraina de La fattoria degli animali uscì nel settembre del 1947,
con esito sinistro. “Le autorità americane di stanza a Monaco ne hanno
sequestrate 1500 copie, consegnandole al personale sovietico”, scrive Orwell ad
Arthur Koestler. Tuttavia, almeno duemila copie del romanzo, scampate al
sequestro, finirono in mano ai profughi (la vicenda è ricostruita con dettagli
in: Masha Karp, George Orwell and Russia, Bloomsbury, 2023).
Ma Orwell era ormai altrove. L’inverno alle Ebridi lo logora, il 20 dicembre è
ricoverato in un ospedale nei pressi di Glasgow. 1984, il libro che intende
“mettere in luce le degenerazioni, in parte già verificatesi sotto il comunismo
e il fascismo, a cui sono soggette le economie centralizzate”, lo sta lentamente
logorando. Ma questa è un’altra storia, che riguarda la tirannia della scrittura
e la ‘missione’ dello scrittore.
***
Prefazione per la traduzione in ucraino de “La fattoria degli animali”
Non ho mai visitato la Russia: la conosco per ciò che ho letto su libri e
giornali. Anche se ne avessi il potere, non vorrei interferire con gli affari
del regime sovietico: non condannerei Stalin e i suoi per i metodi barbarici e
antidemocratici che adottano. È perfino possibile che non abbiano potuto agire
diversamente da come hanno fatto. Tuttavia, è per me della massima importanza
che gli europei conoscano il regime sovietico per ciò che è realmente.
Dal 1930 non ho visto nulla, nell’Urss, che possa riferirsi a ciò che intendiamo
per socialismo. Al contrario, ho scoperto, con sorpresa, i chiari segni di una
società gerarchica, i cui governanti non hanno motivo di rinunciare al loro
potere, alla pari di qualsiasi classe dominante. I lavoratori e gli
intellettuali inglesi non riescono a comprendere che l’Urss di oggi è totalmente
diversa da quella del 1917. In parte, non vogliono capire – cioè, vogliono
credere che esista davvero, da qualche parte, nel mondo, un paese socialista –
dall’altra non possono: per costoro, abituati a una pur relativa libertà, è
incomprendibile il totalitarismo.
Eppure, occorre ricordare che l’Inghilterra non è del tutto democratica. È un
paese capitalista con grandi privilegi di classe (perfino ora che la guerra ha
livellato tali classi), con enormi differenze di ricchezza. Ciononostante, è un
paese in cui le persone convivono da secoli senza feroci conflitti, in cui le
leggi sono relativamente giuste e le notizie e le statistiche ‘ufficiali’ sono
per lo più affidabili – è un paese dove esprimere opinioni di minoranza non
comporta alcun pericolo di morte. In un clima simile, l’uomo comune non può
capire il senso dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa, degli
arresti senza processo, della censura… Tutto ciò che in Inghilterra si legge a
proposito dell’Urss viene tradotto in termini inglesi, e dunque assunto con
totale innocenza, cibandosi della menzogna totalitaria. Fino al 1939 la maggior
parte degli inglesi, d’altronde, è stata incapace di valutare l’entità autentica
del regime nazista; con quello comunista è vittima della medesima illusione.
Ciò ha causato danni enormi al movimento socialista inglese e ha avuto gravi
conseguenze sulla politica estera del mio paese. A mio parere, nulla ha
contribuito tanto alla corruzione dell’originaria idea del socialismo quanto la
convinzione che la Russia sia un paese socialista e che l’azione dei suoi
governanti debba essere perdonata quando non imitata. Per questo, negli ultimi
dieci anni mi sono proposto di distruggere il mito sovietico: perché il
movimento socialista possa risorgere.
Di ritorno dalla Spagna, ho pensato di smascherare il mito sovietico con una
storia che fosse facilmente comprensibile e traducibile in altre lingue. Lo
schema della storia mi sfuggiva finché un giorno, nel piccolo villaggio in cui
vivevo allora, non vidi un ragazzino, di circa dieci anni, che guidava un enorme
cavallo da tiro, strigliandolo ogni volta che la bestia voleva cambiare strada.
Mi colpì un fatto perfino banale: se gli animali da soma avessero coscienza
della loro forza, non avremmo alcun potere su di loro. Allo stesso modo, con lo
stesso metodo, i ricchi sfruttano i proletari.
Proseguii analizzando le teorie di Marx dal punto di vista degli animali.
Cominciai a scrivere il libro intorno al 1943. Per sei anni ho rielaborato
quella storia nella mia mente. Non desidero commentare oltre: se un libro non
parla da sé, quel libro è un fallimento. Se a qualcuno interessano i miei fatti
privati, potrei aggiungere che sono vedovo, ho un figlio di quasi tre anni,
faccio lo scrittore di professione; dall’inizio della Seconda guerra ho lavorato
essenzialmente come giornalista.
George Orwell
L'articolo “Mi sono proposto di distruggere il mito sovietico”. George Orwell in
Ucraina proviene da Pangea.
Il libro fu presentato il 20 ottobre del 1882, al civico 128 della
trentaquattresima strada, New York. Era la casa di un dentista, John Ballou
Newbrough; il secondo nome, Ballou, gli era stato dato in memoria di Hosea
Ballou, il teologo della chiesa universalista. Newbrough era nato il 5 giugno
del 1828 in Ohio, nella fattoria di famiglia; il padre, William, era un uomo
duro: sfamava i sei figli con i frutti della sua terra. Abile coltivatore,
faceva scoccare la cinghia sul corpo di John per sedarne le ‘visioni’: il
ragazzino era dotato del dono della profezia. Si dice avesse fatto fortuna in
California, setacciando oro, poco più che ventenne. Aveva studiato al Cincinnati
Dental College: lo zio dirigeva un manicomio, la madre, di origine svizzera,
aveva un cuore trepidante, propenso al fervore mistico.
Ma torniamo all’ottobre del 1882. Il libro aveva un titolo-totem, allo stesso
tempo enigmatico e astruso, Oahspe: nel glossario annesso al tomo, l’autore
spiegava che il neologismo voleva dire “Cielo, terra (corpo) e spirito. Il
tutto; la somma della sapienza corporale e spirituale”. Il tutto – e il nulla.
Il sottotitolo dell’Oahspe amplificava le nebbie. Il libro era presentato come
“una Nuova Bibbia” che divulgava le “Parole di Jehovih e dei suoi Angeli
Ambasciatori”. Era lì squadernata – così sproloquiava il titolo –: “La sacra
storia del dominio degli esseri celesti e inferi sulla terra da ventiquattromila
anni con una sinossi della cosmogonia dell’universo, la creazione dei pianeti,
la creazione dell’uomo, parole inaudite intorno alla gloria e all’opera degli
dei e delle dee degli eterei cieli con i nuovi comandamenti di Jehovih
all’uomo…”. Il libro era stampato a New York e a Londra da una fantomatica
Oahspe Publishing Association.
Non era il primo libro pubblicato da John Newbrough. Nel 1855 aveva provato –
con poco successo – il romanzo: The Lady of the West, or the Gold
Seekers narrava una storia d’amore all’epoca della corsa all’ora. Era tornato
quell’anno negli States dopo aver viaggiato per il globo; l’amore con Rachel
Turnbull, la sorella del suo socio in affari, durò un ventennio, per l’arco di
tre figli. John, che aveva aperto uno studio dentistico e New York, finì per
invaghirsi della sua assistente, Frances, di trent’anni più giovane, da cui ebbe
una figlia, Jone ‘Justine’: la moglie lo cacciò di casa. Era un uomo di genio,
che deteneva diversi brevetti: uno di questi, per un fissante per denti molto
più economica di quello in vogo, lo fece scontrare con un colosso, la Goodyear
Rubber Co. Inventò un ventilatore, un attrezzo per esercizi ginnici, un mezzo
ferroviario, un metodo per costruire denti artificiali. Non è raro, negli
States, che una mente ‘scientifica’ si associ all’eccedenza mistica.
Quanto all’Oahspe, aveva cominciato a redigerlo nel 1880, ascoltando le ‘voci’,
secondo i criteri della scrittura automatica. Così, in una lettera spedita nel
1883 al direttore della rivista spiritualista “Banner of Light”, spiegò
l’evento:
> “Implorai la luce del Cielo. Non volevo più comunicare con amici o parenti,
> desideravo imparare qualcosa del mondo spirituale, cosa facessero gli angeli,
> quale fosse il destino dell’universo… Mi fu detto di procurarmi una macchina
> per scrivere, di scrivere come se suonassi un pianoforte. Mi applicai per
> imparare, con scarso successo… Una mattina, una luce colpì le mie mani, gli
> angeli che fino a quel momento avevano cercato di istruirmi si avvicinarono
> alla macchina scrivendo con grande vigore per circa quindici minuti. Mi fu
> imposto di non leggere ciò che era scritto, obbedii con riverenza. La mattina
> dopo, poco prima dell’alba, lo stesso potere tornò e scrisse, di nuovo… Per
> cinquanta settimane le cose accaddero in questo modo, ogni mattina, mezz’ora
> prima dell’alba. Poi tutto finì e mi fu detto di pubblicare il libro chiamato
> ‘Oahspe’”.
Il libro era costellato da geroglifici, opera dell’autore – o meglio, degli
autoritari autori del testo – ad amplificare l’astrale stranezza di quel
linguaggio ignoto. La “Nuova Bibbia” procedeva per novecento pagine, suddivisa
in diversi libri: in uno di questi, First Book of God, si parla di “una
generazione di Luce scaturita da Zarathustra”, che avrebbe dato vita all’impero
cinese, deviando dagli insegnamenti del creatore:
“Ad Han fu chiesto: Un uomo non deve adorare l’Invisibile? E lui rispose:
Adorare una pietra è meglio, perché la vedi.
Han disse: Non adorate con le parole, ma con le opere; la preghiera non è che il
grido della propria debolezza.
Se esiste una Luce invisibile, farà a suo modo: che senso ha pregare? Riti e
cerimonie in Suo favore sono mania di folli. Riti e cerimonie per i nostri
antenati sono scusabili. Le loro anime fluttuano, i riti le placano”.
Un giornalista del “New York Times” accorse all’evento. Scrisse che il “dottor
Newbrough è uno spiritualista da circa dodici anni. Nativo dell’Ohio, pratica
come dentista”. Scrisse di un uomo “dalla stazza imponente, con occhi scuri e
penetranti, che si muove con peculiare lentezza”. All’evento erano convenute
diverse persone. Il giornalista sfogliò una copia del libro: al Book of
Jehovih segue il Book of Sethantes, il Book of Ah’shong, Son of Jehovih, il Book
of Aph. La struttura dell’Oahspe è labirintica, spesso contraddittoria: al
creatore assoluto – Jehovih, che è poi un modo per dire Jahvè o Geova – seguono,
in gregarie dinastie, divinità minori, ‘cadute’, e cosmogonie in disastro. I
libri di dottrina morale – Book of Judgment; Book of Discipline – che predicano
un generico irenismo, una generica ‘ricerca interiore’, una super-religione che
superi secolari dissidi, una ‘forma’ che sovrasti i formalismi rei di scisma e
di guerre religiose, promuovendo una dieta ferrea, vegetariana, sono meno
interessanti dei libri ‘mitologici’. In uno di questi, il Book of Saphah, si
accenna a regni perduti – Pan, “un continente nell’Oceano Pacifico, sommerso
circa 25mila anni fa” – e a linguaggi smarriti. Nella lingua dell’Oahspe la
facoltà profetica, “la capacità di vedere o udire gli angeli”, si dice Su’is.
Il giornalista non virò dal vero: “A un osservatore, questa Bibbia pare una
rivisitazione di testi indiani e fedi semitiche. Lo stile è in parte moderno in
parte ancestrale, quasi che la Bibbia di Re Giacomo e quella cristiana si siano
fuse nell’inglese dei nostri giorni”. Il pezzo uscì sul “NY Times” tra i fatti
curiosi, in taglio basso; titolo: “Un volume ‘ispirato’ racconta 24mila anni di
storia”. Non è inutile ricordare che la Società Teosofica di Madame Blavatsky
era nata proprio a New York qualche anno prima, nel 1875. Con qualche talento,
John Newbrough aveva miniato il suo libro regolandosi sui testi gnostici, sui
dialoghi buddisti, sul rigore assertivo della rivelazione coranica.
La “Nuova Bibbia” ebbe un suo, pur modesto, esito. Nel 1884 Newbrough, insieme a
un facoltoso mecenate del New England, fondò una colonia a Las Cruces, nel New
Mexico; gli si fecero attorno una ventina di accoliti. Edificarono scuole per i
bambini orfani. Chi confida nell’Oahspe come testo chiave della propria ricerca
interiore – Newbrough in questo è chiaro: il libro che gli è stato ‘rivelato’
deve essere ‘superato’ dalla singolare capacità di ciascuno – si
chiama Faithist. Così è spiegato il neologismo nel glossario redatto da
Newbrough: “Faithist è colui che ha fede in Jehovih, l’essere che è al di sopra
e all’interno di ogni cosa; è colui che lavora per entrare in sintonia con
Jehovih, operando per il bene del prossimo, sforzandosi di abbandonare
l’egoismo”.
La comunità di Las Cruces, “Shalam Colony”, fu decimata da un’epidemia di
influenza, nel 1891. Anche il maestro, Newbrough, morì, era il 22 aprile.
Sporadici gruppi di Faithist nacquero nello Utah e in California, a Anaheim, in
Colorado e in Oregon; alcuni si coalizzarono in Olanda e in Australia. Un
“Circle of Jehovih’s Word” promuove ancora oggi l’Oahspe come testo per la
liberazione interiore, con parole di fatua intensità: “L’Oahspe instilla
insegnamenti che equilibrano il mondo visibile con quello invisibile, come la
sapienza dei Nativi sul rispetto degli spiriti della terra, del cielo e delle
acque. Insegna che la vita è interconnessa e che gli esseri umani hanno la
responsabilità di vivere in pace tra loro e con il mondo che li circonda”.
Dall’Oahspe hanno tratto un lezionario e un salterio che viene ‘pregato’ ogni
giorno.
L’aspetto ‘etico’, tuttavia, è infimo rispetto a quello ‘visionario’, il più
interessante dell’Oahspe. Più che alla Bibbia – di cui scimmiotta il ritmo –
l’Oahspe, nei sui lati fecondi, rimanda a William Blake, ai canti persiani
reinventati dagli orientalisti inglesi, è il preludio ai racconti magmatici di
H.P. Lovecraft. Allo stesso modo, l’Oahspe fonde il talento ‘commerciale’
statunitense all’esotismo europeo, la chiromanzia e il brevetto, l’estremo
razionalismo con l’assoluta irrazionalità, Edgar Allan Poe e l’esotismo di
Jean-Léon Gérôme. Per queste ragioni, l’Oahspe, testo che altrimenti fluttua tra
la dimenticanza e l’oblio, affascinò un poeta come David Gascoyne, che ne disse
come del “Libro più stupefacente mai scritto in inglese” (in: D.
Gascoyne, Selected Prose 1934-1996, Enitharmon, 1998). L’esagerazione era
appropriata al suo carattere ‘apocalittico’: sodale – per un po’ – dei
Surrealisti, seguace di Benjamin Fondane – a cui faceva filosofiche visite
notturne – era ritenuto un redivivo Rimbaud e aveva tradotto, a tradimento,
Friedrich Hölderlin. Usava l’Oahspe come oppiaceo lirico, per galvanizzare i
suoi versi, tra l’altro bellissimi – per un po’, si credette investito di un
compito messianico, per un po’ lo reclusero al Whitecroft Hospital, sull’Isola
di Wight, dopo l’ennesimo crollo mentale. Del dio, nel libro, il poeta riconobbe
la carcassa: squittiva il vento in quell’ossario, faceva bei suoni, che
inorgoglivano le orecchie, davano in sfoggio d’aquile. Era sufficiente.
***
Oahspe
1 Il Creatore, Jehovih, creò l’uomo e gli disse: Affinché tu sappia che opera
della Mia mano sei, sapienza ti ho concesso e potere e dominio. Questa fu la
prima era.
2 Ma l’uomo era fragile, camminava sul ventre e non capiva la voce
dell’Assoluto. E Jehovih chiamò i suoi angeli, gli antichi della terra, e disse
loro: Andate, sollevate l’uomo, che sia eretto, e consegnatelo al sapere.
3 E gli angeli discesero dal cielo alla terra e sollevarono l’uomo. E l’uomo
errò sulla terra. Questa è detta seconda era.
4 Jehovih disse agli angeli che scortavano l’uomo: Ecco, l’uomo si è
moltiplicato sulla terra. Radunate gli uomini, insegnate loro a vivere in città,
a forgiare nazioni.
5 E gli angeli di Jehovih insegnarono ai popoli della terra a vivere insieme in
città e nazioni. Questa è la terza era.
6 Fu in quel tempo che la Bestia (il sé) si impennò davanti all’uomo e gli parlò
dicendo: Possiedi ciò che vuoi perché tutto è tuo e ti obbedisce.
7 E l’uomo obbedì alla Bestia e la guerra dilagò nel mondo. Questa è la quarta
era.
8 Ma l’uomo ammaccato nel cuore si ammalò e reclamò la Bestia e gli disse: Tu
hai detto: Possiedi ciò che vuoi perché tutto è tuo e ti obbedisce. Ora, guerra
e morte mi accerchiano. Ti prego, insegnami la pace!
9 Ma la Bestia disse: Non a portare la pace sulla terra sono venuto, ma a
portare la spada. Sono venuto a mettere discordia tra il figlio e suo padre, tra
la figlia e sua madre. Qualunque cosa tu vuoi per cibo, prendila, sfamati, che
sia carne o pesce, non pensare al domani.
10 E l’uomo mangiò carne e fu carnivoro e l’oscurità lo avvolse: non udì più la
voce di Jehovih e smise di credere in Lui. Questa è la quinta era.
11 E la Bestia spalancò le sue quattro enormi teste e fu padrona della terra. E
l’uomo si prostrò, e l’uomo si mise in adorazione.
12 E i nomi delle quattro teste della Bestia erano: Bramino, Buddista,
Cristiano, Musulmano. E si divisero la terra, la spartirono fra loro e scelsero
eserciti per mantenere le proprie proprietà.
13 I Bramini avevano sette milioni di soldati, i Buddisti venti milioni, i
Cristiani sette milioni, i Musulmani due milioni – loro mestiere era uccidere
gli uomini. E l’uomo dedicò parte della vita alla guerra e alla proliferazione
di eserciti e l’altra parte alla dissolutezza – era schiavo della Bestia. Questa
fu la sesta era.
14 Jehovih disse all’uomo desisti dal male, ma l’uomo non lo ascoltava.
L’astuzia della Bestia aveva trasformato la carne dell’uomo e la sua anima si
era nascosta in una nube – l’uomo amava il peccato.
15 Jehovih allora chiamò i suoi angeli e disse: Scendete ancora sulla terra,
dall’uomo, che ho creato perché dalla sua terra traesse godimento e dite
all’uomo: Così dice Jehovih:
16 la settima era è prossima. Il tuo Creatore comanda la conversione: da uomo
carnivoro e violenta diventa erbivoro, vivi in pace. Le quattro teste della
Bestia saranno eliminate, la guerra sedata
17 i tuoi eserciti saranno sciolti e da quel momento non esisterà più la guerra
perché questo comanda il tuo Creatore.
18 Non avrai alcun Dio né Signore né Salvatore oltre a Jehovih, colui che ti ha
creato! Adorerai soltanto lui, di ora in ora, da ora e per sempre. Io precedo le
mie creazioni, sono autosufficiente
19 e a tutti quelli che si separano dal dominio della Bestia, stipulando patti
con me, darà il mio regno
20 e costoro saranno detti eletti: il patto e le opere li faranno miei sulla
terra, Fedeli saranno chiamati,
21 ma chi ha stipulato patti con la Bestia, sarà chiamato Uziano che significa
distruttore. E d’ora in poi ci saranno due categorie di genti sulla terra:
Fedeli e Uziani.
22 E gli angeli del cielo discesero sulla terra, apparvero all’uomo, a
centinaia, a centinaia di migliaia, e parlarono come parla un uomo, e scrissero
come scrive un uomo, insegnando le parole dette da Jehovih.
23 E nel trentesimo anno, gli Ambasciatori delle angeliche schiere rivelarono
all’uomo, nel nome di Jehovih, i Suoi regni celesti; resero note le Sue superbe
creazioni per la resurrezione dei popoli della terra.
24 Oahspe, immacolato libro, insegna ai mortali come ascoltare la voce del
Creatore e vedere i Suoi cieli, nella consapevolezza, mentre sono ancora vivi;
che conoscano il luogo e la condizione che li attende dopo la morte.
25 Né tali rivelazioni dell’Oahspe sono del tutto nuove ai mortali: le stesse
cose sono state rivelate a molti che vivono a grande distanza l’uno dall’altro,
privi di contatti tra loro.
26 Poiché questa luce è onnicomprensiva, abbraccia cose corporee e spirituali,
ed è chiamata era del Kosmon. Poiché si riferisce alla terra, al cielo e allo
spirito si chiama Oahspe.
*
Libro di Osiris, Figlio di Jehovih
1 E ora giunse Osiride, Figlio di Jehovih. A lui, sul suo trono a Lowtsin,
nell’etereo mondo, dove il suo regno per centomila anni aveva illuminato molte
stelle corporee, giunse la Voce, Jehovih il Grande, lo Spirito di ogni cosa, e
disse:
2 Osiride! Osiride: Figlio mio, lascia gli immortali mondi, artiglia la peritura
terra nel tuo volo obliquo; e proclama, con lo scettro levato, te stesso, l’Uno,
il Dio che comanda. Come un padre indulgente cammina accanto al figlio,
guardandolo con tenerezza e offrendogli i suoi consigli, così io, tramite i miei
Dèi e i miei Capi, ho persuaso la rossa stella per molte migliaia di anni. Ma
come un padre saggio si rivolge al figlio reietto, ormai in età, e gli ordina
cosa deve o non deve fare, così io, tramite te, devoto figlio, stendo la mano
sulla terra e sui suoi cieli.
3 Giace sepolta nell’abisso, resa all’anarchia, manovrata da falsi dèi e falsi
principi, che devastano con la guerra i suoi cieli e riversano sul suo suolo
milioni di spiriti della tenebra, che soltanto il crimine sazia. Come tronchi
alla deriva su un oceano che ribolle, così gli spiriti dei morti si levano dalla
terra al cielo per essere nuovamente precipitati.
[…]
9 Come una stella si nutre del mutare delle stagioni, così Jehovih guidò l’orda
dei suoi Serpenti per conferire agli eterei regni una vita infinita, che
sappiano la gioia del mutamento, la gloria dello spirito.
[…]
11 …Ecco, la razza dei Ghan, pianificata da Jehovih fin dalla fondazione del
mondo, ora si erge trionfante sulla terra.
12 Non come agnelli sono i Ghan, ma indomiti leoni, nati per la conquista, con
seme di sapienza che ragiona e disarticoli ogni cosa, che ha fede e potenza – ma
non pone fiducia in Jehovih. Come un uomo che ha due figli, il primo vuoto di
passioni, esangue, l’altro incessante in malizia, desideroso di delitti,
delirante in distruzione, così sono I’hin e Ghan. Quando muoiono, gli I’hin
vanno come agnelli là dove gli è ordinato; i Ghan, ancora pieni di ira, si
ostinano a deridere ogni potere. Anime ben forgiate, maestose a vedersi, tornano
sulla terra e fondano un regno celeste nell’oscurità – vendetta trama nei loro
atti.
13 Con fragore distruggono i deboli regni dei Signori, li spogliano dei loro
sudditi, proclamano il cielo in terra. Per questo, le sventurate anime dei cieli
inferiori, sedotte, fuggono la resurrezione per tornare dai mortali, e vengono
fissati in feri, chiusi a ogni luce.
14 E i mortali si abbandonarono a compiere la volontà degli spiriti delle
tenebre, facendo desolazione della festa.
*
Libro della Disciplina
Discorso di Dio sull’amore
1 E verranno a chiederti: Cosa ci dici di chi è sposato e ha figli? Ameranno
forse costoro così tanto la comunità e il regno di Jehovih da mettere da parte
il loro amore filiale, affidando i loro figli a qualcun altro, giorno e notte?
2 Tu risponderai loro: No, in pienezza il loro amore si manifesta nei piccoli. E
lo testimonia chi ha figli quando adotta un trovatello o un orfano, inglobandolo
nella famiglia, senza parzialità. Questo è il più alto carisma dell’uomo: essere
imparziale nell’amare.
3 Non per limitare l’amore ma per moltiplicarlo, come fa Dio, che abbraccia
tutte le genti; così i vari membri della fraternità lavoreranno con Dio e i suoi
santi angeli, per gloria di Jehovih.
*In copertina: uno dei disegni che costellano Oahspe
L'articolo “E gli angeli del cielo discesero sulla terra”. Esasperato
esoterismo: intorno all’“Oahspe”, una nuova bibbia proviene da Pangea.