Paolo Nori conclude il suo assai smilzo repertorio di “poesie russe”
– s’intitola E questo cielo, e queste nuvole, Crocetti, 2025 – con una poesia
italiana di Angelo Maria Ripellino, “un poeta che è stato anche russista e
boemista”. Un gesto di onestà prima che di grazia. Ripellino è l’autore della
formidabile Poesia russa del ’900 (Guanda, 1954; poi, dal 1960, Feltrinelli):
antologia superba, pionieristica per sapienza, folleggiare antiaccademico,
creatività, titanomachia dei luoghi comuni, eccedenza del linguaggio. Perché al
posto di commissionare a Nori un’esangue antologia della poesia russa – fiacca
per estro & per autori antologizzati –, in cui l’autore parla di sé e dei libri
suoi e dei fatti suoi, non ripubblicano l’antologia di Ripellino? L’antologia di
Ripellino è un atto d’amore, quella di Nori un atto d’ufficio, un compitino. A
pagina 95 (la penultima) Nori scrive che “quello che mi interessa… non sono i
premi letterari”: intanto, è nella cinquina dello Strega con un libro dedicato a
un grande poeta, Raffaello Baldini. Auguri.
*
Ma non è questo il punto.
A pagina 34 Paolo Nori antologizza Gli Sciti, poemetto straordinario – e
straordinariamente feroce – di Aleksandr Blok. Il testo – bello di per sé, senza
ma né se – è emblematico per capire la distanza cosmica tra Russia ed Europa,
fin dall’attacco:
> “Voi siete milioni. E noi miriadi miriadi miriadi.
> Provateci a combattere con noi!
> Sì, noi siamo sciti! Sì, noi siamo asiatici,
> Dagli occhi avidi e obliqui!”
Blok rimodella un topos della letteratura russa – la ‘missione’ della Russia, il
panslavismo, il suo essere alle frontiere dell’Asia, né Ovest né Est, nutrice
d’Occidente, alcova d’Oriente, nazione del destino, totalmente ‘altra’ –
conferendogli un ritmo di cembali e tamburi, un ritmo dionisiaco. Forse Gli
Sciti è una delle poesie più violente mai scritte. La Russia è simboleggiata
dalla “Sfinge” e dall’“enigma”; la fratellanza che promette stritola.
“…Nessuno di voi sa amare da tempo!
Avete dimenticato che al mondo c’è l’amore,
Che brucia e che distrugge!
Noi amiamo tutto: e il calore dei freddi numeri,
E il dono delle visioni divine,
A noi tutto è chiaro: e l’acuto spirito gallico
E il tenebroso genio germanico…
Noi amiamo la carne, e il suo gusto e colore,
E l’odore soffocante, mortale della carne…
Siamo forse colpevoli se scricchiola il vostro scheletro
Tra le nostre pesanti, tenere zampe?”
Ricalco, qui, dalla vecchia traduzione di Eridano Bazzarelli – I Dodici. Gli
Sciti. La patria, Bur, 1998 – il quale, a differenza di Nori, fa capire il
contesto in cui è stato scritto il poema e il suo significato, per così dire,
‘politico’ (o ‘geopoetico’): “Il poeta si rivolge agli europei: o venite e state
con noi come fratelli o noi, questa volta, lasceremo che l’orda asiatica vi
distrugga”.
Secondo Angelo Maria Ripellino, Blok “apparve ai contemporanei in una luce di
leggenda, angelo caduto fra le paludi di Pietroburgo… e intorno a lui si formò
un alone di favola e nacque un culto”. In Blok, cioè, la figura del poeta e del
profeta convergono, fino al punto d’ustione, d’incendio. I Dodici e Gli Sciti,
scritti intorno alla Rivoluzione, sono l’esito estremo – apocalittico – della
sua poesia: il poeta, ora, vive in un’aura di fiamma, in nozze col rogo.
*
Affastello qui una serie di dati per capire lo stivaggio simbolico del testo di
Blok.
Gli Sciti sono i leggendari abitanti del Ponto: abili nell’arco e
nell’addestrare i cavalli, prodigiosi nella razzia e nell’arte orafa. Erodoto
dice, nel libro quarto delle Storie, che “quando uno scita abbatte il primo
nemico, ne beve il sangue”, lo scotenna e usa la sua pelle per foggiarsi
mantelli e faretre. Il cranio del nemico più odiato viene rivestito d’oro e
voltato per farne delle coppe.
Quando un re degli Sciti muore, il suo corpo viene “completamente spalmato di
cera; il ventre aperto, ripulito, riempito di cipero tritato, di aromi, di semi
d’apio e di aneto”. Per onorare il triste evento, vengono strangolati cinquanta
cavalli, i più potenti – svuotati di viscere, il corpo è rimpinguato di paglia
perché resti prestante nell’altro mondo – e cinquanta giovani.
La testimonianza più bella della postura esistenziale degli Sciti ci viene però
dallo storico romano Curzio Rufo. Nel settimo libro delle Storie di Alessano
Magno – tradotte in Italia per la Fondazione Valla – si dice dell’impossibilità
del grande re macedone, durante le razzie in Battriana, di sgominare gli Sciti.
Alessandro accoglie nella sua tenda una delegazione di Sciti perché “non hanno
un’intelligenza grossolana e primitiva e alcuni di loro coltivano la sapienza”.
Il più anziano di questi pronuncia parole che spiazzano il sommo guerriero:
> “Dall’Europa vai in Asia, dall’Asia passi in Europa; poi, se avrai sconfitto
> tutto il genere umano, muoverai guerra alle foreste, alle nevi, ai fiumi e
> alle bestie feroci… Eppure: anche il leone è stato qualche volta il pasto di
> piccolissimi uccelli, e la ruggine corrode il ferro. Niente è così forte che
> non possa essere messo in pericolo anche dal debole… Oltrepassa pure il Tanai:
> saprai quanto siano grandi i territori che occupano, ma non raggiungerai mai
> gli Sciti. La nostra povertà sarà più veloce del tuo esercito, che trasporta
> il bottino di tanti popoli”.
Così si coltiva, lungo la criniera dei secoli, la leggenda degli Sciti, il
popolo irraggiungibile.
*
Molti anni fa, nel 1964, il Saggiatore pubblicava, nella collana ‘Il
Marcopolo’, I popoli delle steppe, uno studio dell’archeologo tedesco Karl
Jettmar. È un libro bellissimo, ricco di immagini, che mostra i manufatti degli
Sciti: placche d’osso, spade, pettini e fibbie d’oro, tappeti e diademi. Quasi
sempre, gli Sciti ritraevano animali: il cervo e l’aquila, il grifone e il
cavallo. A volte, le bestie sono stilizzate, a nitor di simbolo. Tra le immagini
più audaci: un serpente che accerchia il lupo, fino a soffocarlo – sembra
sussurrargli frasi incantatorie. Un sapere tanto esatto prevede adorazione e
dialogo tra il guerriero scita e la bestia, una sorta di immedesimazione. Dilaga
la magia.
*
Ancora grazie a Eridano Bazzarelli, scopriamo la dimensione ‘lirico-politica’
dell’inno di Blok. L’epica degli Sciti viene rinnovata dagli artisti
‘rivoluzionari’: Skify (Gli Sciti) “gruppo di letterati e poeti, di intonazione
mistica”, guidati da Ivanov Razumnik e da Andrej Belyj, “proclamavano che base
della nazione e della rivoluzione doveva essere la coscienza nazionale russa… La
Rivoluzione avrebbe vinto in tutto il mondo perché i suoi portatori erano i
russi, un popolo giovane, fresco, selvaggio”. Alla Rivoluzione sociale, costoro
anteponevano quella spirituale e artistica. Nella rivista “Skify” – durò un paio
di numeri, editi tra il 1917 e il ’18 – apparvero testi di Sergej Esenin, di
Belyj e di Evgenij Zamjatin, l’autore di Noi. Ben presto, il movimento
d’avanguardia, quella oreficeria dell’anima, quello scrivere con l’arco a
tracolla, entrò in contrasto col regime bolscevico. L’arcangelico Aleksandr
Blok, che prestò voce e aiuto ai fasti della Rivoluzione, fu falciato dal
sospetto, dalla guerra civile, dal cupo inverno. Un mondo di speranze era mutato
nel sabba delle iene.
*
Nel febbraio del 1921, in memoria dell’ottantaquattresimo anniversario dalla
morte di Puškin, Aleksandr Blok, già alieno dalla storia, pronunciò un discorso
memorabile, La missione del poeta (lo trovate qui: A. Blok, L’intelligencija e
la Rivoluzione, Adelphi, 1978). Disse che “il poeta è figlio dell’armonia”, che
il poeta deve “liberare i suoni dalla nativa anarchia degli elementi in cui sono
immersi” e “condurre quei suoni all’armonia”. Soprattutto, osò dire che “pace e
libertà sono indispensabili al poeta per la liberazione dell’armonia”; osò
scagliarsi contro
> “quei funzionari che si preparano a indirizzare la poesia su rotte da loro
> prestabilite, attentando così alla sua segreta libertà, impedendole di
> adempiere alla sua misteriosa missione”.
Al poeta non restava che morire – “Noi moriamo, e l’arte rimane”, disse. Morì
pochi mesi dopo, era agosto – “la Rivoluzione, che doveva essere l’inizio di un
rinnovamento non solo della Russia, ma cosmico, si trasformò in un fatto
politico, poliziesco, burocratico” (Bazzarelli). Il cuore scita del poeta
dismise la sella, obliò le briglie. Cavalcava a pelo nudo, per sempre insicuro,
verso le praterie celesti – il suo sibilo, lassù, fu urlo; gli angeli decisero
per la calvizie.
*In copertina: Aleksandr Blok e la moglie Ljubov’ Dmitrievna, nel 1903
L'articolo “Noi amiamo tutto”. Aleksandr Blok, l’arcangelo della poesia russa (o
il mito degli Sciti) proviene da Pangea.
Tag - Cultura generale
Si trasformò da arguto rivoluzionario a “Robinson polare”. Nato Natan
Mandelevich Bogoraz a Ovruč, attuale Ucraina, da famiglia colta ebraica, voltò
il nome in Vladimir dopo essersi convertito al cristianesimo, firmava i suoi
libri “Tan”. Come se il suo nome fosse il suono di un tamburo, un richiamo dai
primordi d’Oriente. Agli studi di legge a San Pietroburgo, Vladimir alternava
l’attività rivoluzionaria nei gangli dell’organizzazione antizarista e
sovversiva “Narodnaja volja”. Arrestato nel 1886, poco più ventenne, fu spedito
in Siberia, presso la Kolyma, in Jacuzia, area dei futuri campi stalinista,
luogo d’orrore reso leggenda nei memorabili Racconti della Kolyma di Varlam
Šalamov.
La reclusione e l’esilio nell’Estremo Oriente russo cambiarono la vita
di Vladimir Bogoraz. Fu affascinato dalla popolazione autoctona dei Ciukci:
tribù di pescatori, di cacciatori e allevatori di renne, veneravano l’orso,
vivevano in tende vaste come ville, si muovevano in kayak o su slitta. Sapevano
addestrare il cane e la renna alla briglia. Erano riusciti a tradurre un luogo
inospitale in una terra fertile di ‘segni’; perfino la più infima ombra, ai loro
occhi, era viva:
> “La lampada ha le zampe, cammina. Le pareti della tenda hanno voci
> proprie… le ombre sul muro costituiscono tribù ben definite, con un proprio
> terreno di caccia, delle proprie dimore, dei cacciatori sapienti…”
In questo mondo di ombre e di segni, che proliferavano ovunque, come il caglio
di un dio, gli sciamani avevano un ruolo preponderante. Vivevano in prossimità
dei boschi, addestrati dalle ‘voci’, per lo più eccentrici, decentrati
all’esistenza comune. Evanescenti come la neve. A loro ci si rivolgeva di
continuo: per propiziare la caccia e l’unione, per benedire le bestie e i
nascituri, per dialogare con i morti, che dilagavano, dappertutto. Esistevano
sciamani crudeli, scoppiavano guerre tra sciamani avversari. Bogoraz era
affascinato, soprattutto, dalla struttura sociale dei Ciukci: pareva non
avessero governanti diretti, le attività si svolgevano secondo
un’‘autogestione’, per così dire, guidata da gerarchie cosmiche, da una
consuetudine che nessuno osava intaccare. Gli parve di trovarsi di fronte a
degli uomini buoni.
La prima raccolta di “Miti e leggende dei Ciukci” è pubblicata da Bogoraz nel
1899; l’anno dopo esce a San Pietroburgo l’importantissimo “Materiali per lo
studio della lingua e del folclore dei ciukci”. Il giovane rivoluzionario
divenuto pioniere dell’antropologia russa, è accolto nei gangli dell’Accademia
delle Scienze. Quando può, però, Bogoraz attraversa l’oceano a sbarca a New
York: presso l’American Museum of Natural History trova un complice
nell’etnologo Franz Boas e partecipa alla mitica “Jesup North Pacific
Expedition”. La missione si occupa di snidare, sondare e studiare le popolazioni
indigene intorno allo stretto di Bering, tra Alaska e Estremo Oriente russo;
l’esito di queste osservazioni permette a Vladimir Bogoraz – ormai
americanizzato “Waldemar” – di pubblicare, nel 1910, Chukchee Mythology (da cui
abbiamo tratto i testi in appendice) e nel 1913 The Eskimo of Siberia. Sono
lavori miliari: la pagina dedicata ai Ciukci in Testi dello Sciamanesimo
siberiano e centro-asiatico (Utet 1984; 2009), si avvale ancora di quel
repertorio.
Rientrato in Russia, Bogoraz fu professore di etologia; forse vide in Lenin il
prototipo dello sciamano moderno; intuì che la Rivoluzione era guidata da un
fervore ‘magico’, che le masse si muovono soltanto se guidate dalle voci e dalle
ombre – cioè: dalle idee o dal dio, che a tratti sono la stessa cosa. Nel 1930
fondò a San Pietroburgo – allora Leningrado – l’“Istituto dei Popoli del Nord”,
con il compito precipuo di studiare le lingue degli indigeni, organizzandole per
vocabolari. Fu facile per Bogoraz intuire la parentela tra i Ciukci e gli Ainu,
gli indigeni del Giappone settentrionale, un popolo per molti versi avvolto nel
mistero. Ma i tempi cambiavano con rapidità di fortunale: Bogoraz, patriarca
dell’antropologia russa, fu attaccato dagli allievi più giovani perché si
rifiutava di utilizzare i codici della “lotta di classe” nell’interpretare
l’organizzazione sociale dei Ciukci. Lo accusarono di voler preservare i nativi
del Nord dai fasti dello “sviluppo economico”: per Bogoraz il cosiddetto
‘progresso’ avrebbe definitivamente corrotto la sciamanica autarchia dei Ciukci.
Voleva credere in un Eden nordico, nella possibilità – ancora viva, prossima –
di poter parlare con le renne, di cavalcare l’orso, di coalizzare un esercito di
spiriti. Le ombre avevano preso a dialogare con lui.
Il vecchio rivoluzionario fu costretto a ritrattare e a rivedere alcune
conclusioni. Comunque, morì poco dopo, nel maggio del 1936, in circostanze non
del tutto chiare. Costantemente ristampate nel mondo americano, le opere di
Bogoraz sono state recepite di recente dalle Éditions des Syrtes, in
Francia: Récits de la Perdition raccoglie i miti dei Ciukci, ma soprattutto il
picaresco racconto di un intellettuale perduto nel grande Nord. Così ne ha
scritto “Le Monde”: “Intriso di una tenerezza non priva di humour, il libro
racconta l’intima tragedia e il turbamento metafisico di un uomo bandito dalla
società, prigioniero di una natura superba ma di cui non sa riconoscere i
simboli, in cui è disorientato”.
Dal vasto repertorio di leggende, proverbi, miti assemblato da Bogoraz, si è
scelto di tradurre alcuni “Incantesimi”. Si tratta di parole pronunciate dagli
sciamani Ciukci e di brevi sketch che dicono di un mondo affollato di demoni, in
cui l’invisibile ha la prevalenza sulla mera, sgargiante superficie delle cose;
in cui le bestie parlano e risorgere vale quanto vendicarsi. Questo è un mondo
in cui la parola – coagulata in gesti, in effluvio di gesticolii – è efficace o
non è – come dovrebbe essere la parola poetica. Non c’è nulla di esornativo
nella ripetizione della formula verbale, perché è grazie a quel giaculio, a quel
gracidio, che il mondo continua a parlarci, continua a esistere. Vivere nel
canto per non subire l’incanto; fare nido nel miracolo osteggiando il miraggio.
In un testo raccolto in Testo dello Sciamanesimo siberiano e centro-asiatico,
“Il giovane sciamano e la sua fidanzata”, si narra del più piccolo di cinque
fratelli che rifiuta di conformarsi ai riti sociali. Quando è il suo turno di
prendere moglie, scappa, si nasconde, “sciamanizza” (cioè: articola canti a
ritmo di tamburo). Infine, si innamora di una ragazza morta, dopo aver scorto il
suo feretro trascinato dalle renne. Grazie agli innati, misteriosi poteri, il
giovane va nell’aldilà (“Ora io andrò… mi immergo… cerco la sua anima…”),
recupera l’anima della ragazza, la incastra nel corpo, fa della risorta la
propria moglie. L’estasi dello sciamano è un’immersione nell’amnio del mondo –
ascesi per apnea, diremmo –; la sua unione l’opera di un potere degno di aura. I
fratelli non canzoneranno più il più piccolo, accogliendo il suo destino di
solitudine e di estraneità.
A volte, attirato nell’altro mondo, nell’altrove, nel nessundove, uno sciamano
non fa ritorno su questa terra. Il suo corpo resta crisalide vuota, in una
specie di infantile rimbambimento. Tra le mani dello sciamano, si dice, mangiano
gli orsi; lo sciamano, si dice, può domare perfino la tigre dell’Amur, la preda
sbalorditiva, amata da Dersu Uzala, il “piccolo uomo delle grandi pianure”
eternato dal film di Kurosawa.
Di questa recluta di leggende desunte da un sussurro, di identità spaiate in
fotografia, in una cronaca della scienza, forse, restano le viscere di un dio,
il pellame messo a nudo, lo scalpo, lo scalpiccio.
***
Incantesimo di una donna rifiutata dal proprio marito, gelosa della rivale
Dunque sei tu quella donna!
Amore hai da mio marito – tanto che lui mi respinge.
Ma tu non sei un umano essere. In carogna ti muto, carogna che crolla sui
ciottoli, carogna vecchia, putrefatta.
Muto mio marito in un orso. Orso che viene da terre lontane. Orso roso dalla
fame. Orso che incrocia la carogna e la divora. Poi la vomita. In quel vomito ti
volto. Mio marito contempla il vomito. E la rifiuta appena la vede.
Muto il mio corpo in quello di un giovane castoro appena svezzato. Liscio ogni
mio pelo. Questa donna è gradita a lui, lui mi insegue, mi desidera, perché
l’altra gli è ripugnante.
(Sputa, si imbratta di bava dalla testa ai piedi, il marito comincia a volerla).
Egli mi ha rigettata e io mi rivolgo a lui, per lui mi trasformo in un male
mortale. Che sia attratto dal mio odore, che mi azzanni. Lo respingo perché con
più forza mi assalga.
Finché mio marito non abbandona la sua amante.
*
Incantesimo per far tornare indietro i morti
L’uomo è morto da poco e un altro esce allo scoperto: il morto è ancora nella
sala d’attesa della morte, nella più remota stanza.
L’altro uomo parla all’Alba e all’Essere Superiore. Dice: Mente disorientata la
mia, mente dissennata. A chi posso chiedere aiuto? Mi rivolgo a te. Dammi il tuo
cane! Sono addolorato per mio figlio, che è scappato in un luogo lontano.
Lasciami usare il tuo cane.
Muove la mano sinistra, come se afferrasse il cane. Poi sussurra all’occhio del
morto, ulula come un cane, Uu, uuu, così.
Il cane allora si lascia avvincere e insegue il morto. Lo insegue e ulula e
abbaia. Gli passa davanti, lo incrocia, lo incorna. Abbaia con ferocia. Gli si
avventa contro, gli blocca in ogni direzione il cammino. Infine, lo obbliga a
interrompere il suo lungo viaggio e a tornare indietro. Deve rimetterlo nel
corpo, deve riposizionarlo nel corpo. Poi il morto ricomincia lentamente a
respirare. Pur essendo morto, ora vive.
*
Per curare un malato
Quando un uomo è malato fino al punto di poter morire e il suo corpo è debole,
quest’uomo viene portato fuori casa, con grandi sforzi, e viene strofinato con
la neve, dappertutto. Un altro uomo implora le Regioni Superiori e il fiume
detto Ciottolo. “O Fiume Ciottolo, vieni a me! Scivola in me! Desidero che tu mi
serva”. Inoltre, reclama il vento dell’Est.
Segue un acquazzone. Il fiume si gonfia. Il malato diventa le rapide del fiume.
Tutto viene spazzato via – non resta più nulla. Qualcuno getta cibo nelle acque,
e il fiume trascina via ogni rifiuto e ogni dono.
Così l’uomo che soffre può guarire e viene riportato a casa.
*
Incantesimo per allontanare Ke’let, il demone
Quando scende la sera, lego due grandi orsi sulla soglia di casa mia e dico:
“Oh, voi siete così grandi, così forti, non può capitarmi nulla di male finché
sono al vostro fianco”.
Se un ke’let mi vuole e cerca di entrare in casa, gli orsi lo afferrano perché
non fanno passare nessuno.
Poi c’è una vecchia, cieca, con gli occhi incavati, con le orbite vuote: agita
una frusta di ferro tutta la notte, in ogni direzione. Lei sa spaventare i
ke’let. È difficile assalirla. Dopo, su ogni lato della casa devi porre dei gufi
polari di ferro. Hanno becchi di ferro e ali di ferro. Hanno becchi molto
affilati.
Quando ke’let, l’Assassino, l’aggressore, trova la casa, loro lo colpiscono, lo
feriscono, gli cavano gli occhi. Il demone, pieno di sangue, volta verso il
deserto – vola obliquo, ha paura, se ne va per sempre.
L'articolo “La lampada cammina, le ombre parlano”. Bogoraz e gli incantesimi dei
Ciukci proviene da Pangea.
L’umidità, le escrescenze di nebbia, il sole a brandelli, un sole lebbroso e
inguaiato di guaiti: tutto consegna Orbassano, pallida periferia torinese, alla
savana. Da un momento all’altro, nel latteo parco che congiunge, con minuzia da
sarta, il cimitero alle palazzine di fresco conio, sbucherà un leone.
Le montagne, alle spalle, visibili appena, per bianchi picchi – restano Alpi ma
sembrano il Kilimangiaro.
Eppure, sono le cornacchie (Corvus cornix) a dominare gli apparati cittadini e
le abitudini orfiche degli abitanti. Sono loro, ovunque, a spiarci – presto, ci
soppianteranno: la loro intelligenza è violenta. Nel disastro nebbioso, sono
iene.
*
Mi madre amava La mia Africa; io ho amato Karen Blixen. Nella biografia di Ole
Wivel, Karen Blixen. Un conflitto irrisolto – stampa Iperborea; ma per capire
qualcosa su Karen Blixen bisogna leggere la biografia di Rossella Pretto (Karen
Blixen. Il coraggio, l’amore e l’ironia), edita di recente da Ares –, non per
forza bella, spiccano alcune fotografie di Karen da giovane: è più affascinante
di Meryl Streep. Anche Denys Finch-Hatton, audace rampollo dell’antica
aristocrazia inglese, educato a Eton, capace nel volo, spicca, nelle rare
fotografie, con uno sguardo magnetico non inferiore a quello – più pittorico ma
meno pittoresco – di Robert Redford.
Ad ogni modo. Seduto sul balcone della casa popolare di mia madre, mi sembra di
essere in “una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong”.
*
I libri di Karen Blixen sono tra i rari cimeli della biblioteca di famiglia,
quando stavamo in un’altra casa, da ospiti, opliti alle incurie parentele. La
casa, della fine dell’Ottocento, aveva un giardino con matrona magnolia in mezzo
– un alto cancello mi separava dal mondo. Non era difficile sognare l’Africa –
la biblioteca pareva un baobab.
Resiste, dalla dispersione di tutto, alla persecuzione del fato, la maschera di
legno di un guerriero giapponese – di chi sia e da dove provenga lo ignoro.
*
La mia Africa, per la avventuriera singolarità, mi è sempre parso un libro
meraviglioso. A differenza di Hemingway, che racconta l’Africa con la tempra
dell’uomo nuovo, del disperso disperato, Blixen mantiene un aplomb micidiale nel
dire le bestie e i boschi, le savane e i safari. La nostalgia con cui intride le
frasi è quella di una divinità antica, nordica, priva di compassione,
consapevole che di quel sole australe puoi nutrirti una volta per sempre – dopo
averlo dissanguato, resta una conchiglia, l’eco di evi. È vero, Le nevi del
Kilimangiaro è il racconto onnipossente di Hemingway, ma alcune pagine de La mia
Africa non sono meno belle – ‘Papa’ lo sapeva, e ricamò, in pubblico, più volte
la sua ammirazione per Karen.
Nella veranda, a Orbassano, sognando un Africa che non vedrò mai, ho letto le
pagine in cui Blixen racconta una battuta di caccia ordita con Finch-Hatton: i
leoni stavano ammazzando diverse bestie della sua mandria.
> “L’aria del primo mattino, sugli altipiani d’Africa, è fresca e così
> palpabilmente frizzante da spingerci di continuo alla stessa fantasticheria:
> pare di trovarsi non sulla terra ma immersi in una profonda acqua scura e di
> avanzare sul fondo del mare”.
Da qualche parte, mi pare, Karen Blixen ha scritto che il senso della vita è
nella sua insensatezza – che per questo è bene vivere sempre nell’anatema e nel
rischio.
Senza sfoggio di aggettivi, con l’accuratezza di chi sa infierire, con astuzia,
nel linguaggio – disinnescando trappole e confessioni –, Blixen racconta di una
caccia notturna con Denys, tra le latebre, maneggiando una lanterna che potremmo
chiamare Delfi.
> “L’Africa, di colpo, divenne sconfinatamente grande, e Denys e io, lì, in
> piedi, infinitamente piccoli. Non c’era che buio oltre la luce della lampada.
> Nel buio due leoni caduti in due punti diversi, e dal cielo la pioggia. Ma
> quando il rantolo si spense, niente si mosse più”.
Chi può uccidere il figliastro del sole? Karen ha difeso la propria fattoria –
che andrà in disastro, comunque, secondo i precordi del destino, poco dopo.
*
Per scampare alle malie della periferia, bisogna sognare i leoni.
Sono le cornacchie, piuttosto, a ripotarmi al vero – la calura infetta i giochi
dei bambini, in basso: in due su una jeep giocattolo; in tre con la palla. Un
molosso, dalle siepi, abbaia; il padrone sbraita; tutto vive per consunzione.
Ballata per piccole iene esce nel 2005; Manuel Agnelli ha leonina la voce;
l’ascolto più tardi, in autostrada, come un’appendice alle memorie di Karen
Blixen. “Fra piccole iene/ Anche il sole sorge/ Solo se conviene…”. Preferisco
questo brandello, che sa di un amore moribondo:
> “Aiutami a trovare
> Qualcosa di pulito
> Uccidi, ma non vuoi morire
> Uccidi, ma non vuoi morire”.
Cosa c’è di pulito nell’amare? Amare è un effluvio di carcasse. Pulire cioè:
eliminare le scorie; dare alle ossa tornitura di tuono. Che le ossa brillino,
allora, come un collier.
Karen Blixen (1885-1962)
*
Ma prima c’era qualcos’altro, non per forza attinente. Qualche giorno fa, in
liturgia, la Seconda lettera ai Corinzi: “Noi tutti, svelati nel volto alla
gloria di Dio, vedendo come in uno specchio la sua immagine, veniamo trasformati
in essa, di gloria in gloria, dallo Spirito di Dio” (3, 18). Il testo
contrappone il velo allo specchio, la legge alla libertà, l’icona
all’idolo. Esoptron è uno specchio metallico, non vitreo; Paolo usa lo stesso
termine in 1 Cor 13,12 dicendo qualcosa di diverso: “Adesso noi vediamo
nell’enigma, come attraverso uno specchio; allora [vedremo] faccia nella
faccia”.
Nel primo caso, lo specchio è il tramite per trasformarsi in Dio; lo specchio è
come la placenta del Volto – nel secondo caso, lo specchio è un enigma.
Nella Bibbia, lo specchio è citato di rado: soltanto sei volte; soltanto tre nel
Primo Testamento.
Chissà se Paolo conosceva la leggenda dello “specchio [katoptron] di Dioniso”.
> “Dioniso, dopo aver posto la sua immagine nello specchio, la seguì e fu
> infranto nel Tutto”.
Così scrive Olimpiodoro, e così commenta Angelo Tonelli: “Dioniso è l’Assoluto
che si fa molteplice frammentandosi in una pluralità di riflessi o apparenze che
originano perpetuamente da esso” (in: Negli abissi luminosi. Sciamanesimo,
trance ed estasi nella Gracia antica, Feltrinelli, 2021).
I termini in contrasto sono immagine e immaginazione, riflesso e riflessione,
somiglianza e idolo. Se l’uomo, fatto ‘ somiglianza’, confida nel proprio
riflesso, è incarcerato dallo specchio, suo trono e patibolo.
Da un lato – Dioniso – il dio è puntiforme, si dissemina in frammenti (“Per
questo dicono anche che Efesto fabbricò uno specchio per Dioniso e che il dio
guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla
fabbricazione di tutta la pluralità”: così Proclo). Dall’altro, Dio è davvero
nello specchio, è l’uno e non il molteplice, è l’enigma e la sua soluzione: lo
specchio è il punto d’ustione del sole. Trasformarsi: incenerire il viso,
incendiare l’identità ‘specchiata’ per tradursi in quella veritiera. Farsi
fuoco. Nati incendio.
Rompere lo specchio – evento dionisiaco – prevede spargimento di sangue;
penetrare nello specchio – evento paolino – è affondare in un lago, sprofondare.
Serviranno branchie.
*
Per un attimo, la periferia torinese ha rispecchiato la mia idea di Africa – per
un po’, mia madre è stata lo specchio di Karen Blixen, la scrittrice in cui si è
specchiata Meryl Streep. Due specchi contrapporti – diceva Borges – creano un
labirinto: ci rendono infiniti, infinitamente prigionieri.
La vicina di casa si rifiuta di possedere specchi: li ritiene di malaugurio,
come un vento nefasto, pieno di insetti. Vorrebbe dimenticarsi di sé – non abusa
di veli né di velami.
*In copertina: Eugène Delacroix, Studio di leoni reclini, 1860 ca.
L'articolo I leoni in città. Ovvero: “La mia Africa” nella calura piemontese o
dell’arte di rompere gli specchi proviene da Pangea.
Un lento avvicinamento al cuore di Roma in una mattina di tarda primavera:
corona della solarità, vasti aneliti di azzurro e un sentore di gelsomino
nell’aria. Andiamo alla ricerca del Graal nascosto in fondo al silenzio dei
tempi, la rosa dei secoli sfracellati – la fuga a ritroso dalla storia al mito.
Ci avviciniamo dall’alto, disegnando dolci traiettorie. Avvistiamo i bastioni
del Vaticano, San Pietro. Ecco le maestose forme, corolle di bianco marmo, fregi
e lesene di ionica nostalgia – mettiamo a fuoco lo sguardo verso l’oro inseguito
da Giasone.
Eccesso di idealismo? Forse. Come a dire: da una sponda dell’Egeo alla costa
tirrenica, presidiamo l’arco interiore della distanza con la fedeltà senescente
di Argo, innalzando iliache fortezze d’amore e fari di luminosa verità.
Da due lustri ormai riecheggia la marea dell’Egeo, non lontano dalla città di
Smirne. Quella notte è ormai istoriata nelle pareti del sogno. Lo pensava Saffo,
lo ha scritto Elitis:
> “nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia.”
E la luna era un astro più vivido che mai, come gli occhi luminosi della
circassa descritta da Kavafis. Con solide reti da pesca andavamo a caccia di
coralli, tenendo chiusa in petto quella voce che si sarebbe riversata, calda e
dolce come mosto, in puri esametri greci.
La strada per Efeso si snodava attraverso dorati campi di ulivi. Un tempo – dove
ora il muschio ricopre gli angoli sbreccati dei capitelli – si respirava
salsedine. Ho sempre creduto che la felicità occupi, nello spettro cromatico
dell’anima, il posto dell’ocra e dell’azzurro, sigillati uno dentro l’altro come
verso la linea dell’orizzonte. È qui, mi dico, che il grande solitario lanciava
i suoi frammenti. Sì, scagliati come piccole meteore infuocate. Per questo,
leggendo Eraclito, si accendono ancora piccoli falò ai bordi delle pagine e
sotto l’epidermide.
Sul lungomare di Smirne, nel viavai dei traghetti e tra i richiami alla
preghiera, pensavo all’Asia Minore, ad Efeso e Antiochia – all’oro
dell’Ellenismo –: è da qui, e non dall’Acropoli di Atene, che nasce l’umanesimo
di Kavafis, come suggerisce Marguerite Yourcenar nella sua splendida
presentazione critica del poeta. In quel momento, come dalle vigne e dai
frutteti pieni di agrumi di Archiloco, ho cercato di spremere il succo di un
modo di esistere, di una postura che giustificasse le coordinate presenti e
quelle passate. Era a Odisseas Elitis che dovevo guardare:
> “Devi saper afferrare il mare dall’odore perché esso ti dia la nave e perché
> la nave ti dia la Gorgona e la Gorgona ti dia Alessandro Magno e tutte le pene
> della grecità.”
Voglio dire: deve pur esserci un filo, un’immagine, una catena che tenga uniti
la pietra, i graffiti nelle caverne, la gola, il mattone e la pergamena:
qualcosa che rifluisce nel tempo, nonostante il tempo, dentro il tempo,
attraverso e al di fuori del tempo.
> “Dorme più profondamente chi è intriso di Storia
> Avanti accendila con un fiammifero come fosse alcol.
> Solo Poesia è
> Quello che rimane. Poesia. Giusta essenziale e retta
> Come forse l’hanno immaginata le prime due creature
> Giusta nell’asprezza del giardino e infallibile nel tempo.”
>
> (Odisseas Elitis, Come Endimione)
Nelle linee esatte dei palazzi del centro, nelle fughe dei cornicioni –
fosforescenza del passato – ripenso a Kavafis e a Elitis: poeti della luce. Sì,
anche Kavafis, considerato il poeta della penombra e delle stanze oscurate dalle
finestre chiuse. Per me, la poesia di K. inonda di luce. Come l’innamorata
ateniese ascolta le parole dello straniero Orazio e vi scopre immagini di
fulgida bellezza, così i versi del poeta greco rivelano squarci di mondo, aprono
nuove rotte da percorrere con fremito di piacere.
> “Il giovane professa il proprio amore
> E l’ateniese ascolta silenziosa
> Il suo eloquente innamorato Orazio;
> e del grande italiano la passione
> con mondi nuovi di Beltà l’abbaglia.”
>
> (Kavafis, Orazio ad Atene)
Anche io, mi dico con ingenuo spirito d’immedesimazione, sono un “Greco con
emozioni d’Asia”. Ecco, la vedo quella geometria invisibile che mi diverto a
incrinare con il richiamo di steppe, deserti e passi himalayani…
Ho scritto: “una fuga a ritroso dalla storia al mito” – un’anfora greca, un
ciottolo levigato, lo zampillio dell’acqua e lo sguardo di una ragazza. Dai
colli della periferia romana siamo arrivati a uno splendido borgo sul mare. La
natura non ha bisogno di camuffamenti e maschere. Dove fallisce la storia,
arriva la poesia. Il grano ci insegna ad esercitare la sua solare e libera
disciplina. I colori: buganvillea viola, lo smeraldo del mare, la ginestra, un
ciuffo di papavero. Tra gli arbusti e i rovi roventi per il mezzogiorno
sgusciano piccole vipere – anfibio attaccamento al cuore pulsante della terra.
Basilico, gelsomino e tiglio; sciame di vespe: il ronzio dei millenni.
La prima voce lirica nella poesia, l’obbedienza del marmo alla carezza umana, il
triangolo delle montagne introdotto nell’architettura, il richiamo dell’acqua,
l’attesa minoica del tuffo, l’etrusco sorriso: c’è qualcosa che incede lungo i
colli della storia, più persuasivo della tettonica delle placche. Mi viene in
mente ancora una volta Kavafis:
> “Oh, terra d’Ionia, te amano ancora,
> le loro anime te ricordano ancora.
> Quando l’alba d’agosto splende su di te
> Un rigoglio della loro vita percorre l’aria;
> e un’eterea forma di adolescente, a volte;
> indistinta, con passo celere,
> incede sopra le tue alture.”
>
> (Kavafis, Ionico)
A un’ansa del sentiero si trova una piccola edicola votiva dedicata alla
Madonna. La ospita una nicchia scavata nella pietra. Credo sia in quella
posizione da secoli. Da lì, ha vegliato sui pescatori, sui viandanti e ora
continua a vigilare sulle fiumane di sciatti turisti domenicali. In un lampo di
associazione, penso alle divinità dei crocevia: in Giappone, a ogni svolta,
trovi piccole statue di Jizō, bodhisattva protettore dei viaggiatori. Questa
Madonna mi ricorda le cappelle votive in Grecia: una in particolare, con annessa
chiesetta in miniatura, sul colle di una collina ateniese che vede il Partenone.
Su tutto, il bianco e l’azzurro.
Tra le pagine della mia antologia di Elitis ho ritrovato una piccola icona
greca: raffigura un San Giorgio fiammante nell’atto di uccidere il drago. Ho
smesso da tempo di credere alle coincidenze. E infatti, lo sguardo individua
subito delle frasi sottolineate con un lieve tratto di lapis:
> “Tendo con tutto me stesso verso un – come dire? – avvolgente, abbagliante
> bene. Da come mordo un frutto a come guardo dalla finestra, sento formarsi un
> intero alfabeto che mi sforzo di mettere in atto con l’intenzione di comporre
> parole e frasi e, massima ambizione, giambi e tetrametri. Il che vuol dire:
> concepire e parlare di un altro secondo mondo che dentro di me arriva sempre
> primo.”
Quando rileggo e rimedito tutto questo, nell’immaginazione e poi nel meriggio
spalancato della cassa toracica, allora, per dirlo con Elitis,
> “è come se sorgesse un secondo giorno dentro al primo”.
Lorenzo Giacinto
*La traduzione di Kavafis è di Nicola Crocetti; la traduzione di Elitis è di
Paola Maria Minucci
L'articolo “Nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia”. Elitis e Kavafis,
i poeti della luce proviene da Pangea.
Chin P’ing Mei (in cinese 金瓶梅, pinyin Jīn Píng Méi, che si può tradurre come “Il
fiore di prugno nel vaso d’oro”) è un celebre romanzo cinese scritto in lingua
vernacolare (baihua) verso la fine della dinastia Ming, nel XVI secolo. L’autore
– o forse autrice – rimane anonimo, conosciuto solo con lo pseudonimo di Lanling
Xiaoxiao Sheng: forse il poeta Wang Shih-chen. Le prime copie del romanzo
circolavano manoscritte, mentre la prima edizione a stampa risale al 1610.
L’opera completa oggi comprende circa cento capitoli.
La narrazione si incentra sulla figura di Ximen Qing (西门庆), tradotto anche come
Hsi-Mên, un ricco mercante di medicinali, e sulle intricate vicende delle sue
numerose mogli (Loto D’Oro, Madama Luna, Loto Fragrante, Madama P’Ing, Stelo di
Giada, Girasole) e concubine. La famiglia, inizialmente immersa in ricchezze,
piaceri e relazioni spesso moralmente ambigue, finisce per essere travolta da un
lento ma inesorabile declino, che culmina con la morte dello stesso
protagonista. Il romanzo offre uno spaccato vivace e dettagliato della società
cinese durante la dinastia Song Settentrionale, nel XII secolo, fino agli eventi
legati all’invasione tartara.
Considerato da molti il “quinto” tra i Quattro Grandi Romanzi Classici della
letteratura cinese, Chin P’ing Mei è noto per essere la prima grande opera della
narrativa cinese a trattare in maniera esplicita il tema della sessualità.
La storia prende avvio quando il giovane e benestante Hsi-Mên incontra
casualmente Pan Jinlian (P’an Chin-lien, poi Loto D’Oro), moglie del modesto Wu
Dalang. I due iniziano una relazione adulterina, e Pan Jinlian, stregata dalla
passione e dall’opulenza del suo amante, arriva ad avvelenare il marito per
poter entrare nell’harem di Ximen Qing come concubina. Mentre il fratello della
vittima, Wu Sung, deciso a vendicare la morte del fratello, finisce per uccidere
per errore un innocente e viene esiliato. Con la minaccia di vendetta sventata,
Ximen Qing si abbandona completamente ai vizi e agli eccessi.
Tra le nuove donne che accoglie nel suo harem vi sono Madama P’Ing, vedova di un
suo amico, e Chunmei, una giovane schiava. Tuttavia, la fortuna della famiglia
inizia a svanire: Madama P’Ing e il figlio muoiono, Loto D’Oro viene uccisa da
Wu Sung al suo ritorno, che così può vendicarsi del fratello ucciso, per poi
darsi alla macchia; Chunmei viene venduta, tutto questo dopo che lo stesso
protagonista era deceduto, a causa di Loto D’Oro, che gli somministra una dose
troppo elevata di pillole afrodisiache.
Con il Paese invaso dai tartari, Madama Luna, la prima moglie di Hsi-Mên, cerca
rifugio in un tempio buddhista insieme all’unico figlio rimasto in vita, Xiao
Ke. Qui, in sogno, scopre che il bambino è la reincarnazione del defunto marito.
Per evitare che il figlio segua lo stesso cammino dissoluto, decide di farlo
diventare un monaco, in virtù di una promessa che era stata fatta anni prima a
un’eremita.
Questo romanzo, pubblicato agli albori del Seicento, dimostra quanto la
narrativa cinese fosse già pienamente matura e strutturata. In Occidente, opere
di simile complessità e respiro arriveranno solo molto più tardi, nel corso
dell’Ottocento. Lo stile è fortemente imparentato col linguaggio teatrale:
l’azione domina, le descrizioni sono al tempo stesso puntuali e cariche di
poesia, il linguaggio ricco e stratificato.
Nell’edizione da noi letta (Feltrinelli, 1970, nella traduzione di Piero Jahier
e Maj-Lis Rissler Stoneman, basata sulla versione inglese di Arthur Waley), il
romanzo si estende per 919 pagine suddivise in quarantanove capitoli di
altissima intensità. Dal punto di vista stilistico, si potrebbe paragonare
all’unione di tre grandi nomi della letteratura occidentale: il naturalismo
minuzioso di Zola, la delicatezza poetica di Flaubert e il senso del ritmo
scenico di Maupassant.
Quasi mille pagine raccontano un arco temporale piuttosto breve, pochi anni
appena, eppure con tale dovizia di dettagli che sembra davvero di vivere accanto
ai personaggi. Di loro apprendiamo ogni gesto, ogni pensiero quotidiano, dalle
conversazioni ai banchetti, fino alle scene erotiche, anch’esse descritte con
cura e senza veli.
Proprio per questo, l’opera è stata spesso fraintesa, ridotta – anche per motivi
pubblicitari – a romanzo erotico, e in passato soggetta a censure che
eliminavano le parti più esplicite. Ma l’eros, in realtà, è trattato come una
dimensione naturale e paritaria dell’esistenza, non viene enfatizzato né
nascosto, bensì integrato nella narrazione complessiva della vita dei
protagonisti. L’intento dell’autore è chiaro: restituirci l’eccesso, lo sfarzo,
la smania di potere del protagonista. Questi, pur essendo già un amante esperto
e insaziabile, ricorre a pillole afrodisiache per superare i limiti umani — ed è
proprio questo abuso a condurlo infine alla morte.
Così come accade al protagonista, anche gli altri personaggi del romanzo sono
vittime delle proprie ossessioni, travolti da eccessi che li consumano. L’opera
potrebbe idealmente essere divisa in due grandi momenti: una prima parte di
ascesa e costruzione, e una seconda di decadenza e rovina. Tutte le colpe, le
ambizioni e le esagerazioni che si manifestano nella prima metà trovano nella
seconda il loro inevitabile contrappasso.
> “Madama Luna finalmente si arrese alle sue sollecitazioni. Dette all’ancella
> Gioietta le chiavi dei cancelli del parco, e tutte e tre – perché si unì a
> loro la cognata Wu – vi si recarono insieme. Ma come era mutato il suo aspetto
> nell’intervallo! Sui muri e sugli edifici, i variopinti stucchi eran svaniti,
> ed in alcuni punti scrostati, cosicché rimaneva scoperta la nuda pietra, e qua
> e là ci cresceva sopra il muschio. Le lastre di marmo e i blocchi dei gradini
> e dei terrazzi si eran spostati, o erano sprofondati in modo disuguale entro
> terra, cosicché so eran formati crepacci beanti, nei quali fiorivan le
> erbacce. Sui tetti, le tegole si erano spezzate o spostate, aprendo il cammino
> a una vigorosa vegetazione verde. Le pietre dure di valore e i minerali sui
> margini del lago eran coperti di crosta di sporcizia e avevano perduto la
> lucentezza. Il graticcio intrecciato dei mobili di vimini del padiglione era
> strappato e cadeva a pezzi. L’ingresso della grotta era parato di spesse
> ragnatele grige. Gli stagni dei pesci eran diventati dimora di rane. Il
> Padiglione delle Nubi in Riposo era ora un covo di volpi. La Grotta della
> Sorgente Celata brulicava di fecondissimi Topi“.
>
> (Dal capitolo 46, “Prugna Primaverile ritorna alla sua vecchia casa. Un amico
> infedele svela il proprio volto di lupo”)
Da questo brano si evince proprio la struttura di Chin P’ing Mei, dove in un
primo momento viene mostrato il quadro di una famiglia felice e serena, immersa
in un’atmosfera gioiosa; successivamente, però, quello stesso scenario si
trasforma in un luogo desolato e abbandonato, in cui il locus amoenus si tramuta
in locus horridus.
La forma duale riflette uno dei principi fondamentali del Taoismo, più volte
evocato nel testo: l’universo si regge su un equilibrio dinamico tra Yin e Yang,
e ogni forza, giunta al suo apice, genera automaticamente il proprio opposto per
ristabilire l’armonia. È una visione profondamente catartica dell’esistenza: la
tragedia non è fine a sé stessa, ma necessaria al riequilibrio del cosmo e
dell’animo umano.
In questo senso, anche gli eventi più dolorosi — come il suicidio della moglie
Loto Fragrante, la morte del giovane figlio maschio di Hsi-Mên, la scomparsa
della moglie Madama P’Ing e infine quella del protagonista — assumono un
significato più ampio e concettualmente conchiuso. Non sono semplici colpi di
scena, ma tasselli di un disegno più grande, in cui ogni eccesso viene punito e
ogni squilibrio viene sanato. Il romanzo, dunque, non si limita a raccontare
un’epoca o una famiglia, ma si propone anche come monito morale: l’eccesso di
lusso, potere e desiderio conduce inevitabilmente alla rovina. Solo agendo in
nome dell’armonia e della misura si può sperare di mantenere un vero equilibrio.
Impossibile, in un singolo articolo, rendere giustizia all’intero ventaglio di
personaggi che popolano questo vasto romanzo. Tuttavia, tre figure spiccano per
centralità e forza narrativa: il ricco e ambizioso Hsi-Mên, la sua quinta
moglie, la seducente e inquieta Loto d’Oro, e la prima, Madama Luna.
Hsi-Mên, come detto, è un imprenditore di successo nel campo dei medicinali, ma
la sua sete di potere e piacere sembra inesauribile. Desidera tutto: ricchezze,
donne, prestigio politico. Per ottenere ciò che vuole, non esita a ricorrere a
mezzi disonesti, mostrandoci, attraverso le sue azioni, un sistema sociale
corrotto, basato su tangenti e favori — dinamiche, peraltro, tristemente
riconoscibili anche nella nostra contemporaneità.
Eppure, accanto a questo lato calcolatore e spregiudicato, affiora talvolta un
aspetto più umano e sentimentale. Hsi-Mên appare, a tratti, sinceramente
innamorato della vita e delle sue donne, prigioniero di un conflitto interiore
tra razionalità e impulso, tra controllo e desiderio.
Diverso il caso di Loto d’Oro, donna di straordinaria bellezza e carica erotica,
interamente guidata dall’istinto. La sua presenza in scena è destabilizzante:
semina discordia, alimenta gelosie e manipola chi le sta attorno con feroce
lucidità. Per legarsi a Hsi-Mên, partecipa all’assassinio del suo primo marito,
e in seguito, accecata dalla gelosia verso Madama P’Ing, arriva persino a
causare la morte del figlioletto che quest’ultima ha avuto con Hsi-Mên.
Il suo comportamento oscillante tra idealizzazione e denigrazione degli altri
delinea un profilo che oggi potremmo definire narcisistico, un personaggio
moderno, nel suo essere tragicamente autodistruttivo. E infatti, come gli altri,
pagherà il prezzo delle sue azioni. Dopo la morte di Hsi-Mên, verrà uccisa in
modo crudo e spietato da Wu Sung, che la prende in moglie solo per vendicarsi.
In uno dei capitoli più potenti e drammatici del romanzo — insieme a quelli
dedicati alla morte del piccolo figlio di Madama P’Ing — Wu Sung, in un gesto
tanto simbolico quanto brutale, le strappa il cuore con un coltello.
Un epilogo che suggella, con forza tragica, il destino di chi vive nel segno
della dismisura di brama e ambizione e infine della manipolazione.
Infine, Madama Luna, è l’unico personaggio che spicca per fedeltà e virtù. Solo
lei infatti, nonostante tutte le avversità e i contrasti con i quali deve
vedersela, rimane moralmente intatta e sempre fedele a suo marito, nonostante
questo sia profondamente lussurioso. Le sue scelte non sono di carattere
istintivo e ingenuo, come sono quelle di altri soggetti – come il Giovane Ch’ên,
uno degli amanti di Loto d’Oro. Le sue scelte si basano su razionalità e fermi
principi. Grazie a lei proprio nel finale del romanzo, spicca un altro
personaggio, al quale non si dà grande peso per tutto lo scritto, si tratta del
servo Tai-An, che in effetti si è dimostrato sempre virtuoso e fedele. È proprio
lui nel finale a diventare erede di tutto il patrimonio della famiglia, dopo che
il figlio di Madama Luna viene preso in custodia dal monaco buddista. Per questa
ragione Tai-An prenderà il nome di Il Piccolo Hsi-Mên. E anche questo è
emblematico e rivela una verità fondamentale, che spesso chi opera nel nome del
bene lo fa nell’ombra, senza apparire, senza azioni evidenti, semplicemente nel
nome dell’equilibrio e della giustizia, e per questa ragione prima o dopo verrà
ripagato.
In definitiva, Chin P’ing Mei è giustamente considerato uno dei capolavori
assoluti della letteratura cinese: dovrebbe essere riconosciuto come un classico
della letteratura mondiale. Lo merita non solo per la ricchezza dei suoi
contenuti, ma anche per lo stile raffinato, che alterna prosa e la poesia, e per
l’eccezionale profondità psicologica con cui sono tratteggiati i personaggi.
Pur nell’ampiezza del cast narrativo, ogni figura è caratterizzata con
precisione, vive di un’identità propria, autentica, che contribuisce a rendere
l’universo del romanzo straordinariamente realistico e vitale. In queste pagine
si respira la storia, la cultura, il pensiero cinese in tutta la loro
complessità. Ma, al di là delle specificità culturali, emerge con forza un
messaggio universale: Oriente e Occidente, pur nei rispettivi linguaggi e
sensibilità, si sono sempre confrontati con le stesse grandi questioni umane –
la lotta contro la corruzione, l’illusione del superfluo, il desiderio di
potere.
Laddove l’Occidente ha cercato soluzioni nella scienza e nella razionalità,
l’Oriente ha affiancato a queste anche la spiritualità, non come elemento
decorativo o astratto, ma come forza viva e trasformativa, capace di agire nella
realtà. Una spiritualità che, nel romanzo, affiora spesso come voce interiore,
come principio regolatore, come invito all’armonia.
In fondo, ogni cultura – in modi diversi ma convergenti – tende verso un
medesimo fine: la ricerca dell’equilibrio. Un equilibrio che non può essere
raggiunto se si dà più valore all’esteriorità che alla sostanza, se si insegue
il superfluo dimenticando ciò che davvero è cruciale.
Stefano Duranti Poccetti
*In copertina: il ‘Chin P’ing Mei’ nella versione scenica del Beijing Dance
Theater
L'articolo Intorno a un classico della letteratura cinese: “Chin P’ing Mei”, il
fiore di prugno nel vaso d’oro proviene da Pangea.
Nell’età di mezzo, quando si parla di epica eroica si fa riferimento a qualcosa
di marmoreo, codificato, noto e arcinoto: le chansons carolingie, l’Orlando che
si immola a Roncisvalle per il suo sovrano, redivivo nella letteratura italiana;
El Cid, quel Rodrigo Diaz de Bivar che nella sua onorata sventura continua a
servire il suo sovrano. Poi c’è un’epica tellurica, dimenticata ai margini
dell’Impero, dove l’Europa è già Asia e il cristianesimo è vernice crepata sulle
icone costantinopolitane. È l’epica bizantina, spesso ignorata, relegata nei
ghetti della filologia, forse vista come qualcosa di minore. Eppure, è
irresistibile il fascino che questa esercita: cimentarsi nella lettura di un
poema epico bizantino ci dissocia dalle categorie dell’eroico che siamo abituati
a conoscere e maneggiare, è qualcosa di radicalmente altro.
Digenis Akritas è un titolo e un nome, aspro come l’uomo che designa: il “due
volte nato”, il “guardiano del confine”. Digenis, al battesimo Basilio, osserva
la frontiera dal suo avamposto sul fiume Eufrate, limite estremo di una Bisanzio
non ancora crepuscolare. Chi era l’Akrita Basilio? Figlio di un emiro siriano
convertito e di una nobildonna greca rapita – già nella sua carne, nel
sangue digenis, c’è l’ordalia del confine, lo scontro e l’abbraccio tra
Cristianità e Islam, tra due civiltà destinate a scrutarsi e scontrarsi – nasce
da questa unione ma cresce con coordinate salde, che non possono non essere la
crosta di Bisanzio, il gesto ieratico del pantocratore. Cresce distinguendosi
per le eccezionali doti fisiche: in piena adolescenza, iniziano le gesta
dell’eroe. L’eroe è sempre bastardo, non ha genealogie rassicuranti, non risiede
nel cuore dell’Impero ma ai suoi margini, dove la legge è eco lontana e la
civiltà si stempera nella ferocia del limes. La Bisanzio stessa che gli dona i
natali faticherebbe a riconoscerne i connotati come tale. La sua epopea non
celebra paladini immacolati al servizio di Dio e dell’Imperatore. Digenis è
scheggia impazzita, individualismo che rasenta l’asocialità, campione di un
onore selvatico che si misura nel ratto, nella razzia come esercizio di virilità
primordiale. L’Imperatore desidera conoscerlo, l’eroe orientale non si smuove,
che sia il sovrano a scomodarsi e raggiungerlo sulle rive dell’Eufrate «con
pochi soldati». Sorveglia un deserto pullulante di nemici: saraceni, gli
apelatai (i predoni delle montagne, fantasmi della libertà anarchica), persino
draghi e amazzoni evocati da un immaginario ancora intriso di mito pagano sotto
la patina cristiana. Non c’è netta contrapposizione etica tra lui e i suoi
nemici, agiscono sullo stesso piano, rispondono allo stesso codice ancestrale.
Digenis chiede addirittura di arruolarsi tra gli apelatai, rifiutando infine di
unirsi ai predoni solo dopo aver constatato la loro inferiorità fisica, la forza
è misura del diritto e del bene.
Poi c’è l’amore, un amore che è rapina, possesso, difesa gelosa. Non poteva
essere diversamente: il poema si apre con un ratto, quello della madre di
Digenis; la vicenda dell’eroe stesso è poi inaugurata dal ratto della sposa,
Eudokia.
> “La pernice prese il volo e l’afferrò il falcone.
> Dolcemente si baciavano…”
Alla celebrazione lirica dell’amor cortese si sostituisce l’affermazione di un
diritto primordiale, ferino quasi. Il codice d’onore impone di rapire la donna
amata e di difenderla dagli aggressori, che siano draghi, leoni o bande di
predoni. La lotta per la sposa è teatro di una competizione maschile feroce,
dove la donna è insieme premio e strumento per affermare la propria onorabilità
virile.
C’è anche un’altra faccia di Digenis: l’eroe cristiano, il timorato seminarista
– ruolo che mal s’addice all’eroe – tormentato dal peccato dopo aver compiuto
adulterio, essersene pentito e poi aver reiterato il misfatto nel canto
successivo, l’amore per Eudokia non è sufficiente a placarlo: il fuoco non può
ardere indefinitamente vicino all’erba, così si assolve mentre cede alla
tentazione con una principessa araba – poco fanno i kyrie eleison recitati con
il cuore colmo di sofferenza e ancor meno persuadono dopo aver ripetuto il gesto
con l’amazzone Maximò. Ma questa duplicità, schizofrenia apparente, non è
sintomo di labilità psicologica da lettino d’analisi. È lo stigma del poema
stesso, prodotto ibrido di due modelli culturali contrastanti e mai
perfettamente conciliati: l’arcaico eroe della frontiera, amorale e vitalistico
da un lato, dall’altro il più tardo archetipo dell’eroe cristiano. In Digenis
agiscono, sovrapposti e non fusi, questi due codici, generando cortocircuiti,
contraddizioni che sono la cifra più autentica e perturbante del personaggio. La
stessa storia della tradizione manoscritta del poema – con pochi codici
superstiti, dal più antico e rude dell’Escorial al più tardo e ingentilito di
Grottaferrata (dove aumentano le lodi all’imperatore e l’episodio degli apelatai
è omesso) – testimonia un lavorio incessante, un tentativo di addomesticare una
materia incandescente e ricondurre l’eroe bastardo entro schemi più
rassicuranti, più “letterari”.
Il crepuscolo dell’eroe è segnato dalla malattia, dalla consapevolezza del
declino fisico e dall’avvicinarsi della morte. La tradizione posteriore, in
particolare i canti popolari akritici, amplificherà questo momento finale,
immaginando un’ultima, titanica lotta di Digenis contro la morte personificata,
Charon o Thanatos. È l’unica battaglia che l’eroe è destinato a perdere. Questo
confronto finale con l’oblio rappresenta il limite invalicabile di ogni potenza
umana, la vanità ultima di ogni conquista terrena. La morte di Digenis,
descritta quasi come un anticlimax nel poema – con la moglie che opportunamente
spira prima di lui – distanzia ulteriormente questa epica da quella
convenzionale. Non c’è apoteosi finale, ma lo spegnersi di una forza immensa di
fronte all’inevitabile.
> “Vedete dove mai giace l’audacia del valore!
> Vedete dove mai giace il Digenis Akrita, il fiore dei Romei”
Andrea Falco Profili
L'articolo “Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina proviene da
Pangea.
Già Anacleto Verrecchia mi avvertiva di prestare attenzione «a quel Mefistofele
di Vittorio», amico d’una vita, che tra l’altro gli aveva accompagnati i
suoi Cieli d’Italia (poi La batracomachia di Bayreuth, versione ampliata),
spassosissima raccolta di narrazioni erudite. «Macché Mefistofele», aggiungeva
il satiro vegliardo, ripensandoci, «Vittorio ne sa una più del demonio!». Quanta
ragione aveva.
Di Mathieu leggevo da giovanissimo, con gusto e profitto, alcuni interventi sul
«Giornale» post-montanelliano, e ne ricordavo uno con particolare piacere, da
cui Romano Prodi usciva lordo e in pezzi a causa di alcuni comportamenti
osservati de visu da Mathieu stesso.
Per quanto tuttavia preparato all’effetto perturbatore delle sue pagine, non
potetti reprimere una vertigine di sbigottimento leggendo, nel Goethe e il suo
diavolo custode, uscito con Adelphi nel 2002, l’accenno a un’ipotesi tellurica,
ripresa e compiutamente sviluppata ed esposta dodici anni appresso, nel 2014,
in Una frode inaudita ai danni di Goethe (Marcovalerio), che adesso incontriamo.
Secondo lo studioso, La vocazione – o missione – teatrale di Wilhelm Meister (da
qui in avanti: Sendung, come suona la parola chiave dell’originale), accolta da
tutta la critica con grandi festeggiamenti quando solo nel 1910 se ne trovò il
testo fino a quel momento sconosciuto, e che sarebbe il prodromo, o sia germe
del capolavoro Wilhelm Meisters Lehrjahre (Gli anni di apprendistato di W. M.),
ebbene questa Sendung sarebbe niente di meno che un falso.
Mathieu non scherza, non sta provocando, né ha solo vaghi sospetti: egli invece
procede sicuro, ben protetto da uno spesso muraglione di prove estetiche
cronologiche filologiche e biografiche, tutte edificate su alacri e attente
ricerche in documenti e biblioteche.
La Frode è un’opera per specialisti perché entra nei dettagli della biografia
goethiana, della storia culturale e sociale di luoghi e tempi lontani, della
lingua tedesca e della tessitura dei due romanzi, ma non c’è un solo momento di
noia o inaccostabile.
Non voglio guastare il piacere della scoperta, e d’altro canto sarebbe difficile
descrivere in relativamente poco spazio anche solo buona parte dei nodi, taluni
complessi, che compongono la fitta trama della tesi. Per stuzzicare il lettore,
basterà evocarne alcuni momenti, in ordine sparso.
Anzitutto, lo stile della Sendung, è assai distante da tutta la restante opera
goethiana, bensì cangiante negli anni ma sempre riconoscibile per un orecchio
allenato. Notizie sull’abbigliamento del protagonista e di natura tipografica
s’affiancano alle osservazioni, edificate sulla biografia, circa Mignon,
centrale nei Lehrjahre.
E ancòra, aleggia nella Sendung un moralismo che fu sempre del tutto estraneo a
Goethe, il quale, aggiungo io in parentesi, séguita, ahilui e ahinoi, a portarsi
appresso un’aura assai differente da quella reale e trabocchevole, che
riescirebbe se solo si studiassero con un poco d’attenzione sia l’opera, sia le
lettere, sia la vita, e magari anche le testimonianze di chi lo conobbe e
frequentò. Se ci fu uno spregiudicato senza eccessi, questi fu proprio Goethe.
Di poi, il colore smorto e l’afror di sagrestia spingono Mathieu a
intercettare l’officina in cui venne fabbricata la contraffazione nel circolo
bigotteggiante di Lavater, il padre della moderna fisiognomica, col quale Goethe
fu legato da una stima e un’amicizia, che però a un certo punto dovettero
dileguare e tramutarsi in qualcosa d’altro.
La scoperta di Mathieu, va aggiunto per chi fosse poco avvezzo alla lettura di
Goethe, è dirompente poiché, oltre a tutto, investe uno scorcio cruciale del
percorso goethiano, i cui Lehrjahre non solo fondano un genere nella modernità,
il Bildungsroman, ma stanno nel novero delle opere cui Goethe dedicò più tempo e
fatiche, e che ha implicazioni di natura sociale e politica, nonché biografiche,
rilevantissime, oltre ovviamente alle letterarie, e che segnò la vita di
parecchi intellettuali di lingua tedesca. C’è notoriamente chi giunse a dire che
i Lehrjahrecostituivano l’evento epocale insieme alla Dottrina della scienza di
Fichte e alla Rivoluzione francese.
Si potrebbe giungere persino a dire senza troppo temere di pigliare uno
scivolone, che Wilhelm Meister è senz’altro la figura goethiana più importante
dopo Faust, superando per vastità d’intenti anche quella di Werther, la quale
tuttavia è molto, molto più di ciò che per il solito viene spacciata: e anche su
questo Mathieu ha parecchio di istruttivo da proporre nel titolo adelphiano.
Ho svolti alcuni semplici controlli per confermare ciò che già temevo e anzi
divinavo circa l’accoglienza ricevuta dal libro di Mathieu presso la
germanistica italiana e in generale presso la critica e la storiografia
letterarie. Come prevedevo, ho trovata solo una catena montuosa di silenzio.
Codesto silenzio non si può certo imputare alla ridotte dimensioni dell’editore,
buona scusante per esser sfuggito, dacché esse sono ampiamente compensate sia
dalla rinomanza dell’autore, soprattutto in àmbito accademico, sia dal fatto
che, come accennavo, il primo lancio della tesi avvenne in un libro d’una delle
case editrici, italiane e non solo, più seguíte e che peraltro cinque anni
avanti, 1997, aveva pubblicato lo straordinario Goethe e i suoi editori di
Siegfried Unseld, direttore della Suhrkamp, una delle principali case editrici
di lingua tedesca. Temo sia del tutto inverosimile che agli studiosi sia
sfuggito Goethe e il suo diavolo custode, oppure bisogna pensare a una lettura
assai superficiale.
Insomma, tutte le faticose e lunghe indagini condotte da Mathieu e l’esposizione
d’una ipotesi così rivoluzionaria, e per la biografia goethiana, e per la storia
culturale europea, sono rimaste senza eco alcuna. Non è la prima volta, né sarà
l’ultima, in cui i padroni del discorso, insieme alle schiere dei loro
subalterni e tirapiedi, ignorano o rifiutano d’interessarsi a studii che
potrebbero incrinare la loro immagine d’un autore, ben propalata e imposta a
generazioni di studenti e liberi lettori. Ma soprattutto procurerebbe loro una
figura da cioccolatai poiché significherebbe che in un intiero secolo di
(presunto) lavoro di convegni lezioni conferenze libri riunioni telefonate
viaggi e via elencando, le migliaia di professori non si sono mai accorti di
quella patente contraffazione, messa invece in luce da uno studioso
ufficialmente estraneo agli studi goethiani e alla germanistica.
Gli opliti e i sacerdoti dell’accademia, al contrario, fanno sempre a gara per
allungare le zampe sulla Sendung con una introduzione o un articolo e così
annettere il proprio nome al sensazionale ritrovamento, fosse pure cinquanta o
cent’anni appresso. Da noi il principe di questi segugi con la sinusite cronica
è, nemmeno a dirlo, Italo Alighiero Chiusano, che già sistemo nel mio intervento
sulle biografie di Goethe pubblicato su questa rivista.
Né nella introduzione alla Sendung per Rizzoli nel 1994, né altrove, Chiusano si
fa sfiorare almeno dal dubbio che l’opera possa essere, se non un totale falso,
almeno un’anomalia nel corpus letterario goethiano. Ben al contrario, la
definisce «un’altra perla nella collana del romanzo europeo», un «capolavoro» e
un’«autentica opera d’arte». Per difendere ed esaltare la camorra universitaria,
egli scrive altresì che il romanzo fu «rapidamente acquisito (…) per la
sensibilità critica del mondo intero». Se Chiusano non fosse un riverito barone
accademico, si dovrebbe pensare a un comico provetto.
Invero l’unica cosa che fece la «sensibilità critica del monto intero» fu di
cadere nel sacco. A partire dalla pubblicazione della Sendung l’anno appresso il
suo presunto rinvenimento, tutti esultarono, compresi niente meno che
Hofmannsthal ed Hermann Hesse, i quali tuttavia almeno dissero che
i Lehrjahre erano senz’altro superiori al romanzo “ritrovato”, ciò che avrebbe
dovuto suscitare interrogativi nella germanistica ma che invece restò lettera
morta.
Don Benedetto “Corleone” Croce, con la consueta boria, arrivò invece a
dichiarare addirittura di preferire la Sendung ai Lehrjahre, ovviamente con le
solite inoppugnabili e oracolari ragioni estetiche. Per intenderci, è come
scambiare di ruolo un Notturno di John Field con un Notturno di Chopin, o una
Cantata d’un qualsiasi Musikanten barocco con una Cantata di Bach.
Con simili precursori era ben prevedibile che nessuno dei nostrani cavalieri
della verità e della cultura si sarebbe posta qualche domanda, e che se anche
avesse subodorato qualcosa, avrebbe tenuta la bocca chiusa: anche perché per
dimostrare il falso avrebbero dovuto schiodare i deretani dalle sedie e
rimboccarsi le maniche. Ma chi glielo avrebbe fatto fare? A parità di stipendio,
è molto più comodo concionare anziché scavare negli archivi e studiare.
Inoltre ciò avrebbe significato dare ragione a un anomalo della cultura
italiana, benché docente universitario, e per giunta non specialista di
germanistica.
Il succitato silenzio, però, è un’ulteriore prova di quanto la tesi di Mathieu
sia fondata. Se ne sia infatti sicuri: se egli avesse scritta una scempiaggine,
lo avrebbero messo della pubblica gogna.
A ogni buon conto, a noi non deve importare troppo la genia di codesti
guastacervelli, ma invece assai di poter accedere a una tesi rivoluzionaria, per
giunta ben scritta, e di aggiungere una decisiva pagina alla biografia di
Goethe.
Bisogna inoltre considerare quanto il lavoro di Mathieu sia d’esempio a chi
voglia impegnarsi con serietà e acribia nella ricerca storico-biografica: un
cammino aspro ma che, se percorso con diligenza e passione, può condurre molto,
molto lontano. Quasi come Wilhelm Meister.
Luca Bistolfi
*In copertina: Goethe contraffatto da Andy Warhol, 1982
L'articolo La frode, ovvero: la scoperta di un falso Goethe da parte di Vittorio
Mathieu proviene da Pangea.
Se nel Novecento inglese non sono mancati gli esempi di sacerdoti cattolici
votati alla letteratura, come R. H. Benson, Ronald Knox o John Ayscough, di
certo Sylvester Houédard ne è stato il rappresentante più eccentrico, monaco
benedettino e poeta della Beat Generation.
Classe 1924, Pierre-Thomas-Paul Joseph Houédard – Sylvester è il nome assunto da
religioso – era nato a Guernsey, una piccola isola nel canale della Manica, da
una famiglia di origini francesi. Sin da ragazzo dimostrò una non comune
vivacità intellettuale che si associava a una profonda devozione. Nel 1977, in
un articolo per il «Tablet» intitolato Memories of a Catholic Childhood,
raccontò del suo amore di allora per la liturgia latina e di come volentieri
accompagnasse la madre alla messa domenicale.
Rimasto orfano, allo scoppio del Secondo conflitto mondiale fu costretto a
trasferirsi nel Lancashire con il fratello maggiore, pilota della RAF, purtroppo
destinato a morire in combattimento poco tempo dopo. Nel 1941 riuscì a ottenere
l’ingresso al Jesus College di Oxford, dove studiò storia moderna, e venne
nominato presidente della prestigiosa Newman Society, in prima fila nell’animare
la pastorale cattolica in università.
Intanto Houédard iniziava a scorgere nel proprio animo i chiari segnali di una
vocazione religiosa e perciò volle recarsi in visita al monastero di Prinknash,
vicino a Gloucester, dove, di lì a poco, sarebbe entrato come novizio l’amico
Victor Brooke, nipote del famoso generale Lord Alanbrooke.
Sul finire della guerra fu chiamato a operare in Asia per conto
dell’Intelligence e, per un breve periodo, lavorò al Ministero
dell’Alimentazione. Data la pessima calligrafia dovuta alla meningite e
all’artrite reumatoide di cui aveva sofferto da piccolo, finì per essere
costretto a usare sistematicamente la macchina da scrivere: non è esagerato
affermare che senza la scoperta di quel prezioso strumento la sua successiva
carriera d’autore non sarebbe mai iniziata.
Una volta congedato, Houédard ritornò a Oxford per completare il suo percorso di
studi, dopodiché nel 1949 fu libero di indossare l’abito monacale. Prima di
entrare a Prinknash, regalò agli amici ciò che possedeva e a Christopher
Tolkien, terzogenito dell’autore de Il Signore degli Anelli, toccò un bastone da
passeggio in ebano, con un pomello d’avorio finemente intarsiato, che si diceva
fosse appartenuto all’Imperatore d’Abissinia.
Tra il 1951 e il 1954 studiò al Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma,
scrivendo una tesi sulla libertà nell’opera di Sartre, e nel 1959 venne ordinato
sacerdote.
Al di là dei meriti squisitamente ecclesiastici – scrisse di teologia, collaborò
con diverse case editrici cattoliche e curò la pubblicazione, nel 1966,
della Bibbia di Gerusalemme – Houédard si distinse per essere stato tra i
principali interpreti della cosiddetta “poesia concreta” (concrete poetry), una
delle tante manifestazioni artistiche germogliate in seno
al milieucontroculturale degli anni Sessanta e Settanta.
Teorizzata dal brasiliano E. M. de Melo e Castro, la “poesia concreta” sposta
l’attenzione dal contenuto del testo ai suoi elementi costitutivi, che sono
parole, sillabe e fonemi di cui si esalta la dimensione tipografica, variamente
valorizzati mediante la disposizione sul foglio o anche su materiali diversi
dalla carta. L’intento, sulla falsariga delle prove futuriste, è quello di
scomporre il linguaggio tradizionale per donargli una dimensione visiva e sonora
inedita, con un esito che si situa a metà strada tra la letteratura e l’arte
figurativa.
La lettera-manifesto di E. M. de Melo e Castro, apparsa sul «Times Literary
Supplement» nel 1962, incoraggiò un drastico cambio di direzione nella poesia di
Houédard, fino a quel momento limitata a componimenti semi-confessionali in
versi liberi. Le possibilità offerte dalla “poesia concreta” dettero pure un
nuovo contesto agli arabeschi che andava producendo sin dagli anni Quaranta con
la sua fidata macchina da scrivere, una Olivetti Lettera 22.
Houédard realizzò la quasi totalità dei suoi lavori nell’arco di una decina
d’anni, tutti firmati con l’acronimo “dsh” (Dom Sylvester Houédard). Li chiamò
“poemi visivi” o “typestracts”, una crasi tra typewriter e abstractsuggeritagli
dall’amico Edwin Morgan. Fu pertanto molto prolifico, ma solo per un periodo
relativamente limitato, collaborando con numerose riviste, gruppi artistici e
piccole realtà teatrali. Inoltre fu un conferenziere instancabile e le sue opere
vennero esposte sia in Inghilterra che negli Stati Uniti.
Inevitabilmente il suo stato ambiguo di monaco e autore, o, secondo una
fortunata definizione, di «seguace della cultura Beat venuto dal Medioevo», non
mancò di procurare qualche malumore a Prinknash, anche perché il suo legame col
movimento controculturale lo portò a schierarsi politicamente e a occuparsi di
tematiche sessuali in termini un po’ troppo espliciti.
In generale Houédard predicava una visione teologica e artistica la più
inclusiva possibile. Fu un pioniere del dialogo ecumenico, un appassionato
studioso di Islam, di religioni orientali e del mistico Meister Eckhart, e nei
suoi articoli, privi di punteggiatura e zeppi di segni grafici inusuali,
sostenne sempre la necessità di fondere le arti, sintetizzandole in un prodotto
omnicomprensivo. La macchina da scrivere cosmica a cui allude il titolo del
volume curato da Nicola Simpson nel 2012, Notes from the Cosmic Typewriter, ad
oggi lo studio migliore sulla vita e le opere del benedettino, fa appunto
riferimento a una poesia concepita come preghiera, anti-dogmatica, senza limiti,
intesa a cogliere frammenti di quello spirito universale che è Dio.
Sebbene Houédard fosse un tipo schivo, più interessato a sostenere gli scrittori
emergenti che alle luci della ribalta, godette anch’egli del proverbiale quarto
d’ora di celebrità: una sua foto apparve su «Vogue» ed entrò in contatto con un
numero così elevato di letterati e artisti, tra cui Allen Ginsberg, William S.
Burroughs, Jack Kerouac, Yoko Ono e John Cage, che la sua rubrica telefonica
pare contasse quasi tremila nomi. Non è dunque una sorpresa scoprirlo tra gli
spettatori in presenti alla Albert Hall, nel 1965, in occasione della prima
International Poet Incarnation (il suo volto glabro, seminascosto dagli
immancabili occhiali da sole, fa capolino nel filmato dell’evento, The Wholly
Communion, diretto da Peter Whitehead).
Houédard morì nel 1992, all’età di sessantasette anni, e il suo corpo venne
sepolto nel parco del nuovo monastero, dove i benedettini si erano trasferiti
vent’anni prima. Secondo l’ex abate Aldhelm Cameron-Brown, malgrado il
confratello fosse un tipo peculiare,
> «era pur sempre una persona adorabile, ed era dedito alla comunità, anche se
> sentiva che non sempre apprezzavamo quello che stava facendo. […]. A suo modo
> condusse una vita piena di Fede».
Luca Fumagalli
L'articolo «Un Beat venuto dal Medioevo»: storia di Sylvester Houédard, monaco e
poeta proviene da Pangea.
A scuola si ripete spesso che la guerra di Troia è soltanto un episodio del
mito, che non si sarebbe mai svolto nella realtà storica, o almeno non in quelle
dimensioni e certamente non a causa di una donna. Con un titolo un po’
provocatorio, preso in prestito dal più evemerista degli evemeristi, Mauro
Biglino, in questo articolo si cercherà di fare chiarezza.
Già gli antichi avevano notato le numerose incongruenze dei poemi omerici, che
così possiamo riassumere: il re dei Paflagoni Pilemene prima muore in battaglia
(Iliade V, 576) e poi riappare in lutto per il figlio morto (XIII, 643-658); nel
canto IX ai vv. 182-198 c’è una serie di verbi al duale che però si riferisce a
tre personaggi (Odisseo, Aiace e Fenice); nella notte che è oggetto dei canti IX
e X Odisseo cena tre volte e si tengono due consigli notturni dopo che il poeta
ha mandato a dormire i protagonisti; Agamennone regna ora come primus inter
pares, ora come un signore assoluto miceneo; il re dell’Argolide è ora
Agamennone, ora Diomede; la Dolonia (canto X) è un episodio isolato e del tutto
insignificante per la narrazione, peraltro con notevoli problemi esegetici.
Nonostante ciò, nessuno mise mai in dubbio che il conflitto fosse realmente
avvenuto in un’epoca remota della storia greca, anche se la tradizione
storiografica ci fornisce diverse possibili date per la guerra di Troia, che
oscillano tra il 1344 e il 1150 a. C. Quella divenuta canonica è la datazione di
Eratostene (1194-1184 a. C.), mentre Erodoto riferisce che Omero visse 400 anni
prima di lui e che la guerra avvenne 400 anni prima di Omero, quindi
approssimativamente intorno al 1250 a. C.
Come noto, la tesi della storicità della guerra di Troia ricevette importanti
conferme dalle scoperte del tedesco Heinrich Schliemann, che nel 1868 raggiunse
il sito di Hisarlık e nell’aprile 1870 diede inizio agli scavi. A dire il vero,
il sito gli era stato indicato da Frank Calvert, che vi aveva condotto degli
scavi esplorativi tra il 1863 e il 1865, ma all’inglese mancavano le finanze, la
fantasia e le capacità narrative di Schliemann, che finì per oscurarne la
figura. Va detto anche che dell’antica città non si era mai persa la memoria: i
più ritenevano che il sito antico sorgesse al di sotto della città romana
di Ilium (Troia IX, I secolo a. C.-IV secolo d. C.) e della città greca di Ἴλιον
(Troia VIII, 950-I secolo a. C.). In età bizantina, al tempo dell’imperatore
Costantino VII Porfirogenito (913-959), Ilium era stata una piccola sede
arcivescovile e, simbolicamente, l’ultimo a farvi visita era stato il sultano
Maometto II, poco dopo la caduta di Costantinopoli, quasi a simboleggiare la
rivincita dell’Asia sulla Grecia.
Determinato a ritrovare a tutti i costi la città omerica e convinto che
quest’ultima si dovesse trovare necessariamente al di sotto di almeno altri tre
strati (quello romano, quello greco e quello lidio dell’epoca di Omero),
Schliemann scambiò però le mura dell’Età del Bronzo per mura di età classica e
ordinò la distruzione dei primi nove metri della collina di Hisarlık, nonostante
gli inviti a una maggiore prudenza da parte di Calvert. Proprio quand’era sul
punto di abbandonare l’impresa, il 31 maggio 1873 Schliemann s’imbatté in quello
che ribattezzò “tesoro di Priamo”. Soddisfatto del proprio lavoro, l’anno
successivo pubblicò i risultati dei suoi scavi e partì alla volta di Micene.
Malgrado l’enfasi con la quale Schliemann presentò le sue scoperte, nulla era
stato dimostrato: come si è detto, dell’antico sito di Troia non si era mai
persa la memoria, anche se la sua precisa collocazione era ancora ignota.
Generazioni di conquistatori avevano fatto visita al sito: Serse, Alessandro
Magno, Cesare, Adriano, Caracalla e molti altri, ma non mancava chi, come
Erodoto e Strabone, dubitava del racconto omerico. Il fatto che fosse stata
scoperta una città di nome Troia non provava che la guerra si fosse
effettivamente svolta lì.
Come se non bastasse, quando tornò a Hisarlık, nel 1878 e soprattutto nel 1882 e
nel 1890, Schliemann si rese conto che la città che aveva trovato non poteva
coincidere con quella omerica, che doveva invece essere identificata in Troia VI
(1750-1300 a. C.), come proposto dal suo assistente Wilhelm Dörpfeld, che lo
affiancò negli ultimi scavi. Il tesoro di Priamo in realtà era di mille anni più
antico (Troia II, 2550-2300 a. C. circa). Fu una terribile constatazione: per
ironia della sorte, nella sua affannosa ricerca della città omerica, Schliemann
aveva distrutto gran parte dell’evidenza archeologica di quel periodo!
Ammalatosi di tumore, mentre programmava una nuova stagione di scavi alla
ricerca di una città bassa, Schliemann morì a Napoli nei pressi di piazza della
Carità, durante uno dei suoi numerosi soggiorni partenopei.
Grazie al sostegno finanziario della vedova Sophia e del kaiser Guglielmo II,
Dörpfeld poté continuare i lavori per altre due stagioni (1893-1894) e alla fine
riportò alla luce le mura dell’Età del Bronzo (quelle che Schliemann aveva
scambiato per mura di età classica). Si trattava di mura imponenti: erano alte
nove metri, in blocchi calcarei squadrati con elevato in mattoni crudi,
presentavano torri imponenti e cinque porte, la più maestosa delle quali viene
identificata da coloro che credono al racconto omerico con le porte Scee.
Curiosamente, il settore più debole delle mura è quello settentrionale, proprio
come nell’Iliade; inoltre, come si può notare dalla foto, le mura sono
inclinate, il che potrebbe spiegare il fatto che nell’Iliade Patroclo cerchi per
ben quattro volte di scalarle. Si tratta, ovviamente, di semplici suggestioni.
Troia VI: tratto di mura e torre di possibile influsso ittita vicino alla Porta
Est (primo esempio conosciuto di mura a dente di sega); sulla terrazza
adiacente, case di Troia VIIa
Tra il 1932 e il 1938, grazie al sostegno dello stesso Dörpfeld, i lavori
ripresero sotto la direzione di Carl Blegen, dell’università di Cincinnati, le
cui ricerche, però, erano viziate da una sorta di bias di conferma: infatti,
egli era assolutamente convinto della storicità della guerra di Troia. Blegen
notò il crollo delle torri e la caduta delle mura fuori asse e giunse alla
conclusione che Troia VIh era stata distrutta da un terremoto che possiamo
datare ai primi decenni del XIII secolo a. C. Secondo lo storico austriaco Fritz
Schachermeyr, la leggenda del cavallo di Troia conserverebbe proprio la memoria
di questa catastrofe: il cavallo sarebbe soltanto una metafora di Poseidone, dio
del mare e, appunto, dei terremoti. Falsa è, invece, la teoria di Francesco
Tiboni secondo la quale il cavallo di Troia sarebbe stato soltanto una nave
fenicia con protome equina: rappresentazioni del cavallo di Troia sono attestate
nell’iconografia sin dall’VIII secolo a. C.
Se Troia VIh era stata distrutta da un terremoto, la città di Omero non poteva
essere che lo strato successivo, Troia VIIa (1300-1180 a. C.). Blegen notò che
questo strato presentava una maggiore densità abitativa, con muri divisori tra
le case, e interpretò questo fatto come la prova di un assedio prolungato. Ciò
non è affatto scontato: le strutture di Troia VIIa potrebbero essere
interpretate anche come baracche temporanee per ovviare alle distruzioni causate
dal terremoto. Del resto, ad oggi le uniche possibili prove di scontri sono
alcuni resti umani nelle strade, tre punte di frecce, due rinvenute nella
cittadella e una nella città bassa, e una punta di lancia rinvenuta nell’area
occidentale. Una delle punte di frecce trovate nella cittadella potrebbe essere
di fabbricazione micenea, ma neppure questa può essere considerata prova di un
evento bellico: potrebbe trattarsi di una freccia caduta da una faretra o
abbandonata! Infine, Troia VIIa mostra chiari segnali di un incendio, ma tale
incendio potrebbe anche essere attribuito a una catastrofe naturale.
La nuova stagione di scavi, su scala internazionale, è stata inaugurata nel 1988
da Manfred Korfmann, dell’università di Tubinga, e ha coinvolto più di 350
accademici da oltre venti Paesi. Obiettivo principale di Korfmann era
l’individuazione della città bassa. Infatti, la cittadella di Troia ha un
diametro di non più di 200m e copre un’area di appena due ettari: essa avrebbe
potuto ospitare al massimo qualche centinaio di persone. Come si è detto, già
Schliemann aveva in programma lo scavo della fertile piana circostante la
cittadella, ma la morte glielo aveva impedito e Dörpfeld non era riuscito a
ottenere risultati definitivi. Secondo Korfmann, nei livelli che ci interessano
(VI e VIIa) la città bassa si sarebbe estesa per circa 20 ettari e
complessivamente Troia avrebbe avuto una popolazione compresa tra 4000 e 10000
abitanti, o forse anche più se si include la popolazione che potrebbe aver
vissuto al di fuori del perimetro della città, in aree rurali facenti parte del
regno. Nel XIII secolo a. C., il perimetro della città sarebbe stato protetto da
un muro in mattoni crudi e da due fossati con una palizzata, il primo 400m a sud
della cittadella e il secondo altri 100-150m più a sud.
Nel 2001, Korfmann presentò i risultati delle sue ricerche al grande pubblico in
un’esposizione intitolata Troia. Traum und Wirklichkeit, nella quale, tra le
altre cose, veniva mostrata una ricostruzione completa della città bassa. Fu
proprio questo modello ad attirare le aspre critiche di Frank Kolb, suo collega
presso l’università di Tubinga. Purtroppo, tale polemica travalicò i confini
dell’accademia: intervistato dal Berliner Morgenpost, Kolb accusò Korfmann di
ingannare il pubblico con ricostruzioni fantasiose e lo ribattezzò “il von
Däniken dell’archeologia” (Erich von Däniken è un celebre pseudoarcheologo
sostenitore della teoria degli antichi astronauti, ndr). Secondo Kolb, non ci
sarebbe alcuna evidenza dell’esistenza di una città bassa, i due fossati
potrebbero essere dei canali usati a scopo agricolo e, calcolando una
popolazione di 100/200 abitanti per ettaro, se si ipotizzasse un’area di 11-15
ettari si arriverebbe al massimo a 1000-3000 abitanti. Per Kolb, Troia non
presenta alcuna affinità con siti come Efeso e Mileto, è priva di edifici
monumentali e di una pianificazione stradale e assomiglia più a un centro
protourbano isolato che a una città vera e propria (la ceramica importata è solo
l’1%!).
Mentre Schliemann e Blegen erano stati criticati per la loro eccessiva fiducia
nel racconto omerico, paradossalmente Kolb criticò Korfmann proprio facendo
ricorso al cieco cantore. La città ricostruita da Korfmann – dice Kolb – non ha
nulla della monumentalità dell’alta rocca di Priamo: l’edificio più imponente,
la Pillar House di Blegen, non ha nulla a che vedere con le sessanta stanze del
palazzo descritto in Iliade VI, 242-249. Inoltre, essa presenta due cinte
murarie, mentre quella omerica ne ha solo una. Infine, la città di Korfmann ha
una vocazione commerciale, mentre quella omerica è abitata da allevatori,
pastori e costruttori, non da commercianti. Come si può vedere, si tratta di una
tesi facilmente smontabile: Omero è pur sempre un poeta, non un archeologo, e si
può sempre ipotizzare che alla sua epoca il muro in mattoni crudi della città
bassa fosse crollato. Questo eccessivo scetticismo, unito con la volontà di
spiegare la realtà archeologica di Hisarlık attraverso Omero, si è imposto
nell’immaginario collettivo e ha dato adito alle teorie più strampalate:
ex-ingegneri nucleari si sono improvvisati archeologi e ci hanno spiegato che
queste incongruenze sono facilmente risolvibili se si sposta la cittadella di
Priamo 3000 km più a nord e nel XVIII secolo a. C., a Toija, in Finlandia. Un
abbaglio culturale collettivo, quello generato da Omero nel Baltico di Felice
Vinci, che non ha risparmiato illustri classicisti e accademici, primi tra tutti
Rosa Calzecchi Onesti e Umberto Eco (quandoque bonus dormitat Ecus).
Tornando a questioni più serie, la ricerca successiva ha dimostrato, invece, che
questo scetticismo era del tutto ingiustificato. Tra il 15 e il 16 febbraio
2002, l’università di Tubinga organizzò un simposio dal titolo The Meaning of
Troy in the Late Bronze Age, con la partecipazione di 13 relatori, che giunsero
alla conclusione che i dati di Korfmann erano in larga misura validi. La
scarsità di evidenze archeologiche per la città bassa è dovuta all’eccezionalità
delle condizioni del sito di Hisarlık, che è stato in gran parte danneggiato
dall’erosione – come del resto è avvenuto anche alle fasi preistoriche – e
all’asportazione di materiali in età ellenistica e romana. Del resto, meno del
5% del sito è stato scavato! Pertanto, la presenza di una città bassa può essere
solamente dedotta sulla base della presenza di ceramica al di fuori della
cittadella nei periodi VI e VIIa e anche sulla base di un semplice argomento
logico e contrario: l’idea che Troia rappresenti soltanto una residenza
aristocratica non può essere sostenuta perché rappresenterebbe un unicum a
livello archeologico, laddove il sistema di fortificazioni ricostruito da
Korfmann, con fossato, cinta muraria esterna e muro principale, è il più
frequente del mondo antico, dall’Età del Bronzo fino all’età bizantina!
Negli studi più recenti, si ipotizza che la città bassa occupasse un’area
compresa tra 25 e 35 ettari, con circa 5000-6000 abitanti, dimensioni del tutto
compatibili con i centri micenei e con città ittite di medie dimensioni come
Gordion, Alişar, Kuşaklı/Šarišša, Beycesultan e la città-Stato portuale di
Ugarit, il che ne farebbe una potenza regionale. L’idea che i due fossati
avessero uno scopo agricolo non è più sostenibile, anche se è stato dimostrato
che essi non sono contemporanei, ma risalgono a due fasi diverse,
rispettivamente VI e VIIa. A Korfmann è succeduto il collega Pernicka, dal 2006
al 2012, poi Rüstem Aslan dal 2014. Quest’ultimo ha riportato alla luce un
ulteriore livello precedente a tutti gli altri, Troia 0 (3500-3000 a. C.).
Complessivamente, sono stati riportati alla luce undici diversi livelli,
suddivisi a loro volta in oltre cinquanta fasi: Troia 0 (3500-3000 a. C.), Troia
I (3000-2550 a. C.), Troia II (2550-2300 a. C.), Troia III (2300-2200 a. C.),
Troia IV (2200-2000 a. C.), Troia V (2000-1750 a. C.), Troia VI (1750-1300 a.
C.), Troia VIIa (1300-1180 a. C.), Troia VIIb (1180-1000 a. C.), Troia VIII (=
Ἴλιον, 950-I secolo a. C.), Troia IX (I secolo a. C.- IV secolo d. C.) e Troia X
(dopo il IV secolo d. C.).
Christian Allasino
*In copertina: Henry Fuseli, Frammenti dall’Iliade, da un quaderno di schizzi
L'articolo Gli antichi non raccontavano favole. Il mito di Troia e il sito di
Hisarlık proviene da Pangea.