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“Noi amiamo tutto”. Aleksandr Blok, l’arcangelo della poesia russa (o il mito degli Sciti)
Paolo Nori conclude il suo assai smilzo repertorio di “poesie russe” – s’intitola E questo cielo, e queste nuvole, Crocetti, 2025 – con una poesia italiana di Angelo Maria Ripellino, “un poeta che è stato anche russista e boemista”. Un gesto di onestà prima che di grazia. Ripellino è l’autore della formidabile Poesia russa del ’900 (Guanda, 1954; poi, dal 1960, Feltrinelli): antologia superba, pionieristica per sapienza, folleggiare antiaccademico, creatività, titanomachia dei luoghi comuni, eccedenza del linguaggio. Perché al posto di commissionare a Nori un’esangue antologia della poesia russa – fiacca per estro & per autori antologizzati –, in cui l’autore parla di sé e dei libri suoi e dei fatti suoi, non ripubblicano l’antologia di Ripellino? L’antologia di Ripellino è un atto d’amore, quella di Nori un atto d’ufficio, un compitino. A pagina 95 (la penultima) Nori scrive che “quello che mi interessa… non sono i premi letterari”: intanto, è nella cinquina dello Strega con un libro dedicato a un grande poeta, Raffaello Baldini. Auguri.  * Ma non è questo il punto.  A pagina 34 Paolo Nori antologizza Gli Sciti, poemetto straordinario – e straordinariamente feroce – di Aleksandr Blok. Il testo – bello di per sé, senza ma né se – è emblematico per capire la distanza cosmica tra Russia ed Europa, fin dall’attacco: > “Voi siete milioni. E noi miriadi miriadi miriadi.  > Provateci a combattere con noi! > Sì, noi siamo sciti! Sì, noi siamo asiatici, > Dagli occhi avidi e obliqui!” Blok rimodella un topos della letteratura russa – la ‘missione’ della Russia, il panslavismo, il suo essere alle frontiere dell’Asia, né Ovest né Est, nutrice d’Occidente, alcova d’Oriente, nazione del destino, totalmente ‘altra’ – conferendogli un ritmo di cembali e tamburi, un ritmo dionisiaco. Forse Gli Sciti è una delle poesie più violente mai scritte. La Russia è simboleggiata dalla “Sfinge” e dall’“enigma”; la fratellanza che promette stritola. “…Nessuno di voi sa amare da tempo! Avete dimenticato che al mondo c’è l’amore, Che brucia e che distrugge! Noi amiamo tutto: e il calore dei freddi numeri, E il dono delle visioni divine, A noi tutto è chiaro: e l’acuto spirito gallico E il tenebroso genio germanico… Noi amiamo la carne, e il suo gusto e colore, E l’odore soffocante, mortale della carne… Siamo forse colpevoli se scricchiola il vostro scheletro Tra le nostre pesanti, tenere zampe?” Ricalco, qui, dalla vecchia traduzione di Eridano Bazzarelli – I Dodici. Gli Sciti. La patria, Bur, 1998 – il quale, a differenza di Nori, fa capire il contesto in cui è stato scritto il poema e il suo significato, per così dire, ‘politico’ (o ‘geopoetico’): “Il poeta si rivolge agli europei: o venite e state con noi come fratelli o noi, questa volta, lasceremo che l’orda asiatica vi distrugga”.  Secondo Angelo Maria Ripellino, Blok “apparve ai contemporanei in una luce di leggenda, angelo caduto fra le paludi di Pietroburgo… e intorno a lui si formò un alone di favola e nacque un culto”. In Blok, cioè, la figura del poeta e del profeta convergono, fino al punto d’ustione, d’incendio. I Dodici e Gli Sciti, scritti intorno alla Rivoluzione, sono l’esito estremo – apocalittico – della sua poesia: il poeta, ora, vive in un’aura di fiamma, in nozze col rogo.  * Affastello qui una serie di dati per capire lo stivaggio simbolico del testo di Blok.  Gli Sciti sono i leggendari abitanti del Ponto: abili nell’arco e nell’addestrare i cavalli, prodigiosi nella razzia e nell’arte orafa. Erodoto dice, nel libro quarto delle Storie, che “quando uno scita abbatte il primo nemico, ne beve il sangue”, lo scotenna e usa la sua pelle per foggiarsi mantelli e faretre. Il cranio del nemico più odiato viene rivestito d’oro e voltato per farne delle coppe. Quando un re degli Sciti muore, il suo corpo viene “completamente spalmato di cera; il ventre aperto, ripulito, riempito di cipero tritato, di aromi, di semi d’apio e di aneto”. Per onorare il triste evento, vengono strangolati cinquanta cavalli, i più potenti – svuotati di viscere, il corpo è rimpinguato di paglia perché resti prestante nell’altro mondo – e cinquanta giovani.  La testimonianza più bella della postura esistenziale degli Sciti ci viene però dallo storico romano Curzio Rufo. Nel settimo libro delle Storie di Alessano Magno – tradotte in Italia per la Fondazione Valla – si dice dell’impossibilità del grande re macedone, durante le razzie in Battriana, di sgominare gli Sciti. Alessandro accoglie nella sua tenda una delegazione di Sciti perché “non hanno un’intelligenza grossolana e primitiva e alcuni di loro coltivano la sapienza”. Il più anziano di questi pronuncia parole che spiazzano il sommo guerriero: > “Dall’Europa vai in Asia, dall’Asia passi in Europa; poi, se avrai sconfitto > tutto il genere umano, muoverai guerra alle foreste, alle nevi, ai fiumi e > alle bestie feroci… Eppure: anche il leone è stato qualche volta il pasto di > piccolissimi uccelli, e la ruggine corrode il ferro. Niente è così forte che > non possa essere messo in pericolo anche dal debole… Oltrepassa pure il Tanai: > saprai quanto siano grandi i territori che occupano, ma non raggiungerai mai > gli Sciti. La nostra povertà sarà più veloce del tuo esercito, che trasporta > il bottino di tanti popoli”.  Così si coltiva, lungo la criniera dei secoli, la leggenda degli Sciti, il popolo irraggiungibile.  * Molti anni fa, nel 1964, il Saggiatore pubblicava, nella collana ‘Il Marcopolo’, I popoli delle steppe, uno studio dell’archeologo tedesco Karl Jettmar. È un libro bellissimo, ricco di immagini, che mostra i manufatti degli Sciti: placche d’osso, spade, pettini e fibbie d’oro, tappeti e diademi. Quasi sempre, gli Sciti ritraevano animali: il cervo e l’aquila, il grifone e il cavallo. A volte, le bestie sono stilizzate, a nitor di simbolo. Tra le immagini più audaci: un serpente che accerchia il lupo, fino a soffocarlo – sembra sussurrargli frasi incantatorie. Un sapere tanto esatto prevede adorazione e dialogo tra il guerriero scita e la bestia, una sorta di immedesimazione. Dilaga la magia.  * Ancora grazie a Eridano Bazzarelli, scopriamo la dimensione ‘lirico-politica’ dell’inno di Blok. L’epica degli Sciti viene rinnovata dagli artisti ‘rivoluzionari’: Skify (Gli Sciti) “gruppo di letterati e poeti, di intonazione mistica”, guidati da Ivanov Razumnik e da Andrej Belyj, “proclamavano che base della nazione e della rivoluzione doveva essere la coscienza nazionale russa… La Rivoluzione avrebbe vinto in tutto il mondo perché i suoi portatori erano i russi, un popolo giovane, fresco, selvaggio”. Alla Rivoluzione sociale, costoro anteponevano quella spirituale e artistica. Nella rivista “Skify” – durò un paio di numeri, editi tra il 1917 e il ’18 – apparvero testi di Sergej Esenin, di Belyj e di Evgenij Zamjatin, l’autore di Noi. Ben presto, il movimento d’avanguardia, quella oreficeria dell’anima, quello scrivere con l’arco a tracolla, entrò in contrasto col regime bolscevico. L’arcangelico Aleksandr Blok, che prestò voce e aiuto ai fasti della Rivoluzione, fu falciato dal sospetto, dalla guerra civile, dal cupo inverno. Un mondo di speranze era mutato nel sabba delle iene.  * Nel febbraio del 1921, in memoria dell’ottantaquattresimo anniversario dalla morte di Puškin, Aleksandr Blok, già alieno dalla storia, pronunciò un discorso memorabile, La missione del poeta (lo trovate qui: A. Blok, L’intelligencija e la Rivoluzione, Adelphi, 1978). Disse che “il poeta è figlio dell’armonia”, che il poeta deve “liberare i suoni dalla nativa anarchia degli elementi in cui sono immersi” e “condurre quei suoni all’armonia”. Soprattutto, osò dire che “pace e libertà sono indispensabili al poeta per la liberazione dell’armonia”; osò scagliarsi contro  > “quei funzionari che si preparano a indirizzare la poesia su rotte da loro > prestabilite, attentando così alla sua segreta libertà, impedendole di > adempiere alla sua misteriosa missione”.   Al poeta non restava che morire – “Noi moriamo, e l’arte rimane”, disse. Morì pochi mesi dopo, era agosto – “la Rivoluzione, che doveva essere l’inizio di un rinnovamento non solo della Russia, ma cosmico, si trasformò in un fatto politico, poliziesco, burocratico” (Bazzarelli). Il cuore scita del poeta dismise la sella, obliò le briglie. Cavalcava a pelo nudo, per sempre insicuro, verso le praterie celesti – il suo sibilo, lassù, fu urlo; gli angeli decisero per la calvizie.  *In copertina: Aleksandr Blok e la moglie Ljubov’ Dmitrievna, nel 1903 L'articolo “Noi amiamo tutto”. Aleksandr Blok, l’arcangelo della poesia russa (o il mito degli Sciti) proviene da Pangea.
June 27, 2025 / Pangea
“La lampada cammina, le ombre parlano”. Bogoraz e gli incantesimi dei Ciukci
Si trasformò da arguto rivoluzionario a “Robinson polare”. Nato Natan Mandelevich Bogoraz a Ovruč, attuale Ucraina, da famiglia colta ebraica, voltò il nome in Vladimir dopo essersi convertito al cristianesimo, firmava i suoi libri “Tan”. Come se il suo nome fosse il suono di un tamburo, un richiamo dai primordi d’Oriente. Agli studi di legge a San Pietroburgo, Vladimir alternava l’attività rivoluzionaria nei gangli dell’organizzazione antizarista e sovversiva “Narodnaja volja”. Arrestato nel 1886, poco più ventenne, fu spedito in Siberia, presso la Kolyma, in Jacuzia, area dei futuri campi stalinista, luogo d’orrore reso leggenda nei memorabili Racconti della Kolyma di Varlam Šalamov. La reclusione e l’esilio nell’Estremo Oriente russo cambiarono la vita di Vladimir Bogoraz. Fu affascinato dalla popolazione autoctona dei Ciukci: tribù di pescatori, di cacciatori e allevatori di renne, veneravano l’orso, vivevano in tende vaste come ville, si muovevano in kayak o su slitta. Sapevano addestrare il cane e la renna alla briglia. Erano riusciti a tradurre un luogo inospitale in una terra fertile di ‘segni’; perfino la più infima ombra, ai loro occhi, era viva: > “La lampada ha le zampe, cammina. Le pareti della tenda hanno voci > proprie…  le ombre sul muro costituiscono tribù ben definite, con un proprio > terreno di caccia, delle proprie dimore, dei cacciatori sapienti…” In questo mondo di ombre e di segni, che proliferavano ovunque, come il caglio di un dio, gli sciamani avevano un ruolo preponderante. Vivevano in prossimità dei boschi, addestrati dalle ‘voci’, per lo più eccentrici, decentrati all’esistenza comune. Evanescenti come la neve. A loro ci si rivolgeva di continuo: per propiziare la caccia e l’unione, per benedire le bestie e i nascituri, per dialogare con i morti, che dilagavano, dappertutto. Esistevano sciamani crudeli, scoppiavano guerre tra sciamani avversari. Bogoraz era affascinato, soprattutto, dalla struttura sociale dei Ciukci: pareva non avessero governanti diretti, le attività si svolgevano secondo un’‘autogestione’, per così dire, guidata da gerarchie cosmiche, da una consuetudine che nessuno osava intaccare. Gli parve di trovarsi di fronte a degli uomini buoni.  La prima raccolta di “Miti e leggende dei Ciukci” è pubblicata da Bogoraz nel 1899; l’anno dopo esce a San Pietroburgo l’importantissimo “Materiali per lo studio della lingua e del folclore dei ciukci”. Il giovane rivoluzionario divenuto pioniere dell’antropologia russa, è accolto nei gangli dell’Accademia delle Scienze. Quando può, però, Bogoraz attraversa l’oceano a sbarca a New York: presso l’American Museum of Natural History trova un complice nell’etnologo Franz Boas e partecipa alla mitica “Jesup North Pacific Expedition”. La missione si occupa di snidare, sondare e studiare le popolazioni indigene intorno allo stretto di Bering, tra Alaska e Estremo Oriente russo; l’esito di queste osservazioni permette a Vladimir Bogoraz – ormai americanizzato “Waldemar” – di pubblicare, nel 1910, Chukchee Mythology (da cui abbiamo tratto i testi in appendice) e nel 1913 The Eskimo of Siberia. Sono lavori miliari: la pagina dedicata ai Ciukci in Testi dello Sciamanesimo siberiano e centro-asiatico (Utet 1984; 2009), si avvale ancora di quel repertorio.  Rientrato in Russia, Bogoraz fu professore di etologia; forse vide in Lenin il prototipo dello sciamano moderno; intuì che la Rivoluzione era guidata da un fervore ‘magico’, che le masse si muovono soltanto se guidate dalle voci e dalle ombre – cioè: dalle idee o dal dio, che a tratti sono la stessa cosa. Nel 1930 fondò a San Pietroburgo – allora Leningrado – l’“Istituto dei Popoli del Nord”, con il compito precipuo di studiare le lingue degli indigeni, organizzandole per vocabolari. Fu facile per Bogoraz intuire la parentela tra i Ciukci e gli Ainu, gli indigeni del Giappone settentrionale, un popolo per molti versi avvolto nel mistero. Ma i tempi cambiavano con rapidità di fortunale: Bogoraz, patriarca dell’antropologia russa, fu attaccato dagli allievi più giovani perché si rifiutava di utilizzare i codici della “lotta di classe” nell’interpretare l’organizzazione sociale dei Ciukci. Lo accusarono di voler preservare i nativi del Nord dai fasti dello “sviluppo economico”: per Bogoraz il cosiddetto ‘progresso’ avrebbe definitivamente corrotto la sciamanica autarchia dei Ciukci. Voleva credere in un Eden nordico, nella possibilità – ancora viva, prossima – di poter parlare con le renne, di cavalcare l’orso, di coalizzare un esercito di spiriti. Le ombre avevano preso a dialogare con lui.  Il vecchio rivoluzionario fu costretto a ritrattare e a rivedere alcune conclusioni. Comunque, morì poco dopo, nel maggio del 1936, in circostanze non del tutto chiare. Costantemente ristampate nel mondo americano, le opere di Bogoraz sono state recepite di recente dalle Éditions des Syrtes, in Francia: Récits de la Perdition raccoglie i miti dei Ciukci, ma soprattutto il picaresco racconto di un intellettuale perduto nel grande Nord. Così ne ha scritto “Le Monde”: “Intriso di una tenerezza non priva di humour, il libro racconta l’intima tragedia e il turbamento metafisico di un uomo bandito dalla società, prigioniero di una natura superba ma di cui non sa riconoscere i simboli, in cui è disorientato”.   Dal vasto repertorio di leggende, proverbi, miti assemblato da Bogoraz, si è scelto di tradurre alcuni “Incantesimi”. Si tratta di parole pronunciate dagli sciamani Ciukci e di brevi sketch che dicono di un mondo affollato di demoni, in cui l’invisibile ha la prevalenza sulla mera, sgargiante superficie delle cose; in cui le bestie parlano e risorgere vale quanto vendicarsi. Questo è un mondo in cui la parola – coagulata in gesti, in effluvio di gesticolii – è efficace o non è – come dovrebbe essere la parola poetica. Non c’è nulla di esornativo nella ripetizione della formula verbale, perché è grazie a quel giaculio, a quel gracidio, che il mondo continua a parlarci, continua a esistere. Vivere nel canto per non subire l’incanto; fare nido nel miracolo osteggiando il miraggio.  In un testo raccolto in Testo dello Sciamanesimo siberiano e centro-asiatico, “Il giovane sciamano e la sua fidanzata”, si narra del più piccolo di cinque fratelli che rifiuta di conformarsi ai riti sociali. Quando è il suo turno di prendere moglie, scappa, si nasconde, “sciamanizza” (cioè: articola canti a ritmo di tamburo). Infine, si innamora di una ragazza morta, dopo aver scorto il suo feretro trascinato dalle renne. Grazie agli innati, misteriosi poteri, il giovane va nell’aldilà (“Ora io andrò… mi immergo… cerco la sua anima…”), recupera l’anima della ragazza, la incastra nel corpo, fa della risorta la propria moglie. L’estasi dello sciamano è un’immersione nell’amnio del mondo – ascesi per apnea, diremmo –; la sua unione l’opera di un potere degno di aura. I fratelli non canzoneranno più il più piccolo, accogliendo il suo destino di solitudine e di estraneità.  A volte, attirato nell’altro mondo, nell’altrove, nel nessundove, uno sciamano non fa ritorno su questa terra. Il suo corpo resta crisalide vuota, in una specie di infantile rimbambimento. Tra le mani dello sciamano, si dice, mangiano gli orsi; lo sciamano, si dice, può domare perfino la tigre dell’Amur, la preda sbalorditiva, amata da Dersu Uzala, il “piccolo uomo delle grandi pianure” eternato dal film di Kurosawa.  Di questa recluta di leggende desunte da un sussurro, di identità spaiate in fotografia, in una cronaca della scienza, forse, restano le viscere di un dio, il pellame messo a nudo, lo scalpo, lo scalpiccio.  *** Incantesimo di una donna rifiutata dal proprio marito, gelosa della rivale Dunque sei tu quella donna! Amore hai da mio marito – tanto che lui mi respinge.  Ma tu non sei un umano essere. In carogna ti muto, carogna che crolla sui ciottoli, carogna vecchia, putrefatta.  Muto mio marito in un orso. Orso che viene da terre lontane. Orso roso dalla fame. Orso che incrocia la carogna e la divora. Poi la vomita. In quel vomito ti volto. Mio marito contempla il vomito. E la rifiuta appena la vede. Muto il mio corpo in quello di un giovane castoro appena svezzato. Liscio ogni mio pelo. Questa donna è gradita a lui, lui mi insegue, mi desidera, perché l’altra gli è ripugnante.  (Sputa, si imbratta di bava dalla testa ai piedi, il marito comincia a volerla). Egli mi ha rigettata e io mi rivolgo a lui, per lui mi trasformo in un male mortale. Che sia attratto dal mio odore, che mi azzanni. Lo respingo perché con più forza mi assalga.  Finché mio marito non abbandona la sua amante.  * Incantesimo per far tornare indietro i morti L’uomo è morto da poco e un altro esce allo scoperto: il morto è ancora nella sala d’attesa della morte, nella più remota stanza.  L’altro uomo parla all’Alba e all’Essere Superiore. Dice: Mente disorientata la mia, mente dissennata. A chi posso chiedere aiuto? Mi rivolgo a te. Dammi il tuo cane! Sono addolorato per mio figlio, che è scappato in un luogo lontano. Lasciami usare il tuo cane.  Muove la mano sinistra, come se afferrasse il cane. Poi sussurra all’occhio del morto, ulula come un cane, Uu, uuu, così. Il cane allora si lascia avvincere e insegue il morto. Lo insegue e ulula e abbaia. Gli passa davanti, lo incrocia, lo incorna. Abbaia con ferocia. Gli si avventa contro, gli blocca in ogni direzione il cammino. Infine, lo obbliga a interrompere il suo lungo viaggio e a tornare indietro. Deve rimetterlo nel corpo, deve riposizionarlo nel corpo. Poi il morto ricomincia lentamente a respirare. Pur essendo morto, ora vive.  * Per curare un malato Quando un uomo è malato fino al punto di poter morire e il suo corpo è debole, quest’uomo viene portato fuori casa, con grandi sforzi, e viene strofinato con la neve, dappertutto. Un altro uomo implora le Regioni Superiori e il fiume detto Ciottolo. “O Fiume Ciottolo, vieni a me! Scivola in me! Desidero che tu mi serva”. Inoltre, reclama il vento dell’Est.  Segue un acquazzone. Il fiume si gonfia. Il malato diventa le rapide del fiume. Tutto viene spazzato via – non resta più nulla. Qualcuno getta cibo nelle acque, e il fiume trascina via ogni rifiuto e ogni dono.  Così l’uomo che soffre può guarire e viene riportato a casa. * Incantesimo per allontanare Ke’let, il demone Quando scende la sera, lego due grandi orsi sulla soglia di casa mia e dico: “Oh, voi siete così grandi, così forti, non può capitarmi nulla di male finché sono al vostro fianco”.  Se un ke’let mi vuole e cerca di entrare in casa, gli orsi lo afferrano perché non fanno passare nessuno.  Poi c’è una vecchia, cieca, con gli occhi incavati, con le orbite vuote: agita una frusta di ferro tutta la notte, in ogni direzione. Lei sa spaventare i ke’let. È difficile assalirla. Dopo, su ogni lato della casa devi porre dei gufi polari di ferro. Hanno becchi di ferro e ali di ferro. Hanno becchi molto affilati.  Quando ke’let, l’Assassino, l’aggressore, trova la casa, loro lo colpiscono, lo feriscono, gli cavano gli occhi. Il demone, pieno di sangue, volta verso il deserto – vola obliquo, ha paura, se ne va per sempre.  L'articolo “La lampada cammina, le ombre parlano”. Bogoraz e gli incantesimi dei Ciukci proviene da Pangea.
June 21, 2025 / Pangea
I leoni in città. Ovvero: “La mia Africa” nella calura piemontese o dell’arte di rompere gli specchi
L’umidità, le escrescenze di nebbia, il sole a brandelli, un sole lebbroso e inguaiato di guaiti: tutto consegna Orbassano, pallida periferia torinese, alla savana. Da un momento all’altro, nel latteo parco che congiunge, con minuzia da sarta, il cimitero alle palazzine di fresco conio, sbucherà un leone.  Le montagne, alle spalle, visibili appena, per bianchi picchi – restano Alpi ma sembrano il Kilimangiaro.  Eppure, sono le cornacchie (Corvus cornix) a dominare gli apparati cittadini e le abitudini orfiche degli abitanti. Sono loro, ovunque, a spiarci – presto, ci soppianteranno: la loro intelligenza è violenta. Nel disastro nebbioso, sono iene.  * Mi madre amava La mia Africa; io ho amato Karen Blixen. Nella biografia di Ole Wivel, Karen Blixen. Un conflitto irrisolto – stampa Iperborea; ma per capire qualcosa su Karen Blixen bisogna leggere la biografia di Rossella Pretto (Karen Blixen. Il coraggio, l’amore e l’ironia), edita di recente da Ares  –, non per forza bella, spiccano alcune fotografie di Karen da giovane: è più affascinante di Meryl Streep. Anche Denys Finch-Hatton, audace rampollo dell’antica aristocrazia inglese, educato a Eton, capace nel volo, spicca, nelle rare fotografie, con uno sguardo magnetico non inferiore a quello – più pittorico ma meno pittoresco – di Robert Redford.  Ad ogni modo. Seduto sul balcone della casa popolare di mia madre, mi sembra di essere in “una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong”. * I libri di Karen Blixen sono tra i rari cimeli della biblioteca di famiglia, quando stavamo in un’altra casa, da ospiti, opliti alle incurie parentele. La casa, della fine dell’Ottocento, aveva un giardino con matrona magnolia in mezzo – un alto cancello mi separava dal mondo. Non era difficile sognare l’Africa – la biblioteca pareva un baobab.  Resiste, dalla dispersione di tutto, alla persecuzione del fato, la maschera di legno di un guerriero giapponese – di chi sia e da dove provenga lo ignoro.  * La mia Africa, per la avventuriera singolarità, mi è sempre parso un libro meraviglioso. A differenza di Hemingway, che racconta l’Africa con la tempra dell’uomo nuovo, del disperso disperato, Blixen mantiene un aplomb micidiale nel dire le bestie e i boschi, le savane e i safari. La nostalgia con cui intride le frasi è quella di una divinità antica, nordica, priva di compassione, consapevole che di quel sole australe puoi nutrirti una volta per sempre – dopo averlo dissanguato, resta una conchiglia, l’eco di evi. È vero, Le nevi del Kilimangiaro è il racconto onnipossente di Hemingway, ma alcune pagine de La mia Africa non sono meno belle – ‘Papa’ lo sapeva, e ricamò, in pubblico, più volte la sua ammirazione per Karen.  Nella veranda, a Orbassano, sognando un Africa che non vedrò mai, ho letto le pagine in cui Blixen racconta una battuta di caccia ordita con Finch-Hatton: i leoni stavano ammazzando diverse bestie della sua mandria.  > “L’aria del primo mattino, sugli altipiani d’Africa, è fresca e così > palpabilmente frizzante da spingerci di continuo alla stessa fantasticheria: > pare di trovarsi non sulla terra ma immersi in una profonda acqua scura e di > avanzare sul fondo del mare”. Da qualche parte, mi pare, Karen Blixen ha scritto che il senso della vita è nella sua insensatezza – che per questo è bene vivere sempre nell’anatema e nel rischio.  Senza sfoggio di aggettivi, con l’accuratezza di chi sa infierire, con astuzia, nel linguaggio – disinnescando trappole e confessioni –, Blixen racconta di una caccia notturna con Denys, tra le latebre, maneggiando una lanterna che potremmo chiamare Delfi.  > “L’Africa, di colpo, divenne sconfinatamente grande, e Denys e io, lì, in > piedi, infinitamente piccoli. Non c’era che buio oltre la luce della lampada. > Nel buio due leoni caduti in due punti diversi, e dal cielo la pioggia. Ma > quando il rantolo si spense, niente si mosse più”.  Chi può uccidere il figliastro del sole? Karen ha difeso la propria fattoria – che andrà in disastro, comunque, secondo i precordi del destino, poco dopo.  * Per scampare alle malie della periferia, bisogna sognare i leoni.  Sono le cornacchie, piuttosto, a ripotarmi al vero – la calura infetta i giochi dei bambini, in basso: in due su una jeep giocattolo; in tre con la palla. Un molosso, dalle siepi, abbaia; il padrone sbraita; tutto vive per consunzione.  Ballata per piccole iene esce nel 2005; Manuel Agnelli ha leonina la voce; l’ascolto più tardi, in autostrada, come un’appendice alle memorie di Karen Blixen. “Fra piccole iene/ Anche il sole sorge/ Solo se conviene…”. Preferisco questo brandello, che sa di un amore moribondo: > “Aiutami a trovare > Qualcosa di pulito > Uccidi, ma non vuoi morire > Uccidi, ma non vuoi morire”. Cosa c’è di pulito nell’amare? Amare è un effluvio di carcasse. Pulire cioè: eliminare le scorie; dare alle ossa tornitura di tuono. Che le ossa brillino, allora, come un collier.  Karen Blixen (1885-1962) * Ma prima c’era qualcos’altro, non per forza attinente. Qualche giorno fa, in liturgia, la Seconda lettera ai Corinzi: “Noi tutti, svelati nel volto alla gloria di Dio, vedendo come in uno specchio la sua immagine, veniamo trasformati in essa, di gloria in gloria, dallo Spirito di Dio” (3, 18). Il testo contrappone il velo allo specchio, la legge alla libertà, l’icona all’idolo. Esoptron è uno specchio metallico, non vitreo; Paolo usa lo stesso termine in 1 Cor 13,12 dicendo qualcosa di diverso: “Adesso noi vediamo nell’enigma, come attraverso uno specchio; allora [vedremo] faccia nella faccia”.  Nel primo caso, lo specchio è il tramite per trasformarsi in Dio; lo specchio è come la placenta del Volto – nel secondo caso, lo specchio è un enigma.  Nella Bibbia, lo specchio è citato di rado: soltanto sei volte; soltanto tre nel Primo Testamento.  Chissà se Paolo conosceva la leggenda dello “specchio [katoptron] di Dioniso”.  > “Dioniso, dopo aver posto la sua immagine nello specchio, la seguì e fu > infranto nel Tutto”. Così scrive Olimpiodoro, e così commenta Angelo Tonelli: “Dioniso è l’Assoluto che si fa molteplice frammentandosi in una pluralità di riflessi o apparenze che originano perpetuamente da esso” (in: Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Gracia antica, Feltrinelli, 2021).  I termini in contrasto sono immagine e immaginazione, riflesso e riflessione, somiglianza e idolo. Se l’uomo, fatto ‘ somiglianza’, confida nel proprio riflesso, è incarcerato dallo specchio, suo trono e patibolo.  Da un lato – Dioniso – il dio è puntiforme, si dissemina in frammenti (“Per questo dicono anche che Efesto fabbricò uno specchio per Dioniso e che il dio guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità”: così Proclo). Dall’altro, Dio è davvero nello specchio, è l’uno e non il molteplice, è l’enigma e la sua soluzione: lo specchio è il punto d’ustione del sole. Trasformarsi: incenerire il viso, incendiare l’identità ‘specchiata’ per tradursi in quella veritiera. Farsi fuoco. Nati incendio.  Rompere lo specchio – evento dionisiaco – prevede spargimento di sangue; penetrare nello specchio – evento paolino – è affondare in un lago, sprofondare. Serviranno branchie.  * Per un attimo, la periferia torinese ha rispecchiato la mia idea di Africa – per un po’, mia madre è stata lo specchio di Karen Blixen, la scrittrice in cui si è specchiata Meryl Streep. Due specchi contrapporti – diceva Borges – creano un labirinto: ci rendono infiniti, infinitamente prigionieri.  La vicina di casa si rifiuta di possedere specchi: li ritiene di malaugurio, come un vento nefasto, pieno di insetti. Vorrebbe dimenticarsi di sé – non abusa di veli né di velami.  *In copertina: Eugène Delacroix, Studio di leoni reclini, 1860 ca. L'articolo I leoni in città. Ovvero: “La mia Africa” nella calura piemontese o dell’arte di rompere gli specchi proviene da Pangea.
June 14, 2025 / Pangea
“Nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia”. Elitis e Kavafis, i poeti della luce
Un lento avvicinamento al cuore di Roma in una mattina di tarda primavera: corona della solarità, vasti aneliti di azzurro e un sentore di gelsomino nell’aria. Andiamo alla ricerca del Graal nascosto in fondo al silenzio dei tempi, la rosa dei secoli sfracellati – la fuga a ritroso dalla storia al mito. Ci avviciniamo dall’alto, disegnando dolci traiettorie. Avvistiamo i bastioni del Vaticano, San Pietro. Ecco le maestose forme, corolle di bianco marmo, fregi e lesene di ionica nostalgia – mettiamo a fuoco lo sguardo verso l’oro inseguito da Giasone. Eccesso di idealismo? Forse. Come a dire: da una sponda dell’Egeo alla costa tirrenica, presidiamo l’arco interiore della distanza con la fedeltà senescente di Argo, innalzando iliache fortezze d’amore e fari di luminosa verità. Da due lustri ormai riecheggia la marea dell’Egeo, non lontano dalla città di Smirne. Quella notte è ormai istoriata nelle pareti del sogno. Lo pensava Saffo, lo ha scritto Elitis:  > “nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia.” E la luna era un astro più vivido che mai, come gli occhi luminosi della circassa descritta da Kavafis. Con solide reti da pesca andavamo a caccia di coralli, tenendo chiusa in petto quella voce che si sarebbe riversata, calda e dolce come mosto, in puri esametri greci.  La strada per Efeso si snodava attraverso dorati campi di ulivi. Un tempo – dove ora il muschio ricopre gli angoli sbreccati dei capitelli – si respirava salsedine. Ho sempre creduto che la felicità occupi, nello spettro cromatico dell’anima, il posto dell’ocra e dell’azzurro, sigillati uno dentro l’altro come verso la linea dell’orizzonte. È qui, mi dico, che il grande solitario lanciava i suoi frammenti. Sì, scagliati come piccole meteore infuocate. Per questo, leggendo Eraclito, si accendono ancora piccoli falò ai bordi delle pagine e sotto l’epidermide.  Sul lungomare di Smirne, nel viavai dei traghetti e tra i richiami alla preghiera, pensavo all’Asia Minore, ad Efeso e Antiochia – all’oro dell’Ellenismo –: è da qui, e non dall’Acropoli di Atene, che nasce l’umanesimo di Kavafis, come suggerisce Marguerite Yourcenar nella sua splendida presentazione critica del poeta. In quel momento, come dalle vigne e dai frutteti pieni di agrumi di Archiloco, ho cercato di spremere il succo di un modo di esistere, di una postura che giustificasse le coordinate presenti e quelle passate. Era a Odisseas Elitis che dovevo guardare: > “Devi saper afferrare il mare dall’odore perché esso ti dia la nave e perché > la nave ti dia la Gorgona e la Gorgona ti dia Alessandro Magno e tutte le pene > della grecità.” Voglio dire: deve pur esserci un filo, un’immagine, una catena che tenga uniti la pietra, i graffiti nelle caverne, la gola, il mattone e la pergamena: qualcosa che rifluisce nel tempo, nonostante il tempo, dentro il tempo, attraverso e al di fuori del tempo. > “Dorme più profondamente chi è intriso di Storia > Avanti accendila con un fiammifero come fosse alcol.  > Solo Poesia è > Quello che rimane. Poesia. Giusta essenziale e retta > Come forse l’hanno immaginata le prime due creature > Giusta nell’asprezza del giardino e infallibile nel tempo.”    > > (Odisseas Elitis, Come Endimione) Nelle linee esatte dei palazzi del centro, nelle fughe dei cornicioni – fosforescenza del passato – ripenso a Kavafis e a Elitis: poeti della luce. Sì, anche Kavafis, considerato il poeta della penombra e delle stanze oscurate dalle finestre chiuse. Per me, la poesia di K. inonda di luce. Come l’innamorata ateniese ascolta le parole dello straniero Orazio e vi scopre immagini di fulgida bellezza, così i versi del poeta greco rivelano squarci di mondo, aprono nuove rotte da percorrere con fremito di piacere. > “Il giovane professa il proprio amore > E l’ateniese ascolta silenziosa > Il suo eloquente innamorato Orazio; > e del grande italiano la passione > con mondi nuovi di Beltà l’abbaglia.”                   > > (Kavafis, Orazio ad Atene) Anche io, mi dico con ingenuo spirito d’immedesimazione, sono un “Greco con emozioni d’Asia”. Ecco, la vedo quella geometria invisibile che mi diverto a incrinare con il richiamo di steppe, deserti e passi himalayani… Ho scritto: “una fuga a ritroso dalla storia al mito” – un’anfora greca, un ciottolo levigato, lo zampillio dell’acqua e lo sguardo di una ragazza. Dai colli della periferia romana siamo arrivati a uno splendido borgo sul mare. La natura non ha bisogno di camuffamenti e maschere. Dove fallisce la storia, arriva la poesia. Il grano ci insegna ad esercitare la sua solare e libera disciplina. I colori: buganvillea viola, lo smeraldo del mare, la ginestra, un ciuffo di papavero. Tra gli arbusti e i rovi roventi per il mezzogiorno sgusciano piccole vipere – anfibio attaccamento al cuore pulsante della terra. Basilico, gelsomino e tiglio; sciame di vespe: il ronzio dei millenni.  La prima voce lirica nella poesia, l’obbedienza del marmo alla carezza umana, il triangolo delle montagne introdotto nell’architettura, il richiamo dell’acqua, l’attesa minoica del tuffo, l’etrusco sorriso: c’è qualcosa che incede lungo i colli della storia, più persuasivo della tettonica delle placche. Mi viene in mente ancora una volta Kavafis:  > “Oh, terra d’Ionia, te amano ancora, > le loro anime te ricordano ancora. > Quando l’alba d’agosto splende su di te > Un rigoglio della loro vita percorre l’aria; > e un’eterea forma di adolescente, a volte; > indistinta, con passo celere, > incede sopra le tue alture.” > > (Kavafis, Ionico)  A un’ansa del sentiero si trova una piccola edicola votiva dedicata alla Madonna. La ospita una nicchia scavata nella pietra. Credo sia in quella posizione da secoli. Da lì, ha vegliato sui pescatori, sui viandanti e ora continua a vigilare sulle fiumane di sciatti turisti domenicali. In un lampo di associazione, penso alle divinità dei crocevia: in Giappone, a ogni svolta, trovi piccole statue di Jizō, bodhisattva protettore dei viaggiatori. Questa Madonna mi ricorda le cappelle votive in Grecia: una in particolare, con annessa chiesetta in miniatura, sul colle di una collina ateniese che vede il Partenone. Su tutto, il bianco e l’azzurro. Tra le pagine della mia antologia di Elitis ho ritrovato una piccola icona greca: raffigura un San Giorgio fiammante nell’atto di uccidere il drago. Ho smesso da tempo di credere alle coincidenze. E infatti, lo sguardo individua subito delle frasi sottolineate con un lieve tratto di lapis: > “Tendo con tutto me stesso verso un – come dire? – avvolgente, abbagliante > bene. Da come mordo un frutto a come guardo dalla finestra, sento formarsi un > intero alfabeto che mi sforzo di mettere in atto con l’intenzione di comporre > parole e frasi e, massima ambizione, giambi e tetrametri. Il che vuol dire: > concepire e parlare di un altro secondo mondo che dentro di me arriva sempre > primo.” Quando rileggo e rimedito tutto questo, nell’immaginazione e poi nel meriggio spalancato della cassa toracica, allora, per dirlo con Elitis,  > “è come se sorgesse un secondo giorno dentro al primo”. Lorenzo Giacinto *La traduzione di Kavafis è di Nicola Crocetti; la traduzione di Elitis è di Paola Maria Minucci L'articolo “Nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia”. Elitis e Kavafis, i poeti della luce proviene da Pangea.
June 6, 2025 / Pangea
Intorno a un classico della letteratura cinese: “Chin P’ing Mei”, il fiore di prugno nel vaso d’oro
Chin P’ing Mei (in cinese 金瓶梅, pinyin Jīn Píng Méi, che si può tradurre come “Il fiore di prugno nel vaso d’oro”) è un celebre romanzo cinese scritto in lingua vernacolare (baihua) verso la fine della dinastia Ming, nel XVI secolo. L’autore – o forse autrice – rimane anonimo, conosciuto solo con lo pseudonimo di Lanling Xiaoxiao Sheng: forse il poeta Wang Shih-chen. Le prime copie del romanzo circolavano manoscritte, mentre la prima edizione a stampa risale al 1610. L’opera completa oggi comprende circa cento capitoli. La narrazione si incentra sulla figura di Ximen Qing (西门庆), tradotto anche come Hsi-Mên, un ricco mercante di medicinali, e sulle intricate vicende delle sue numerose mogli (Loto D’Oro, Madama Luna, Loto Fragrante, Madama P’Ing, Stelo di Giada, Girasole) e concubine. La famiglia, inizialmente immersa in ricchezze, piaceri e relazioni spesso moralmente ambigue, finisce per essere travolta da un lento ma inesorabile declino, che culmina con la morte dello stesso protagonista. Il romanzo offre uno spaccato vivace e dettagliato della società cinese durante la dinastia Song Settentrionale, nel XII secolo, fino agli eventi legati all’invasione tartara. Considerato da molti il “quinto” tra i Quattro Grandi Romanzi Classici della letteratura cinese, Chin P’ing Mei è noto per essere la prima grande opera della narrativa cinese a trattare in maniera esplicita il tema della sessualità. La storia prende avvio quando il giovane e benestante Hsi-Mên incontra casualmente Pan Jinlian (P’an Chin-lien, poi Loto D’Oro), moglie del modesto Wu Dalang. I due iniziano una relazione adulterina, e Pan Jinlian, stregata dalla passione e dall’opulenza del suo amante, arriva ad avvelenare il marito per poter entrare nell’harem di Ximen Qing come concubina. Mentre il fratello della vittima, Wu Sung, deciso a vendicare la morte del fratello, finisce per uccidere per errore un innocente e viene esiliato. Con la minaccia di vendetta sventata, Ximen Qing si abbandona completamente ai vizi e agli eccessi. Tra le nuove donne che accoglie nel suo harem vi sono Madama P’Ing, vedova di un suo amico, e Chunmei, una giovane schiava. Tuttavia, la fortuna della famiglia inizia a svanire: Madama P’Ing e il figlio muoiono, Loto D’Oro viene uccisa da Wu Sung al suo ritorno, che così può vendicarsi del fratello ucciso, per poi darsi alla macchia; Chunmei viene venduta, tutto questo dopo che lo stesso protagonista era deceduto, a causa di Loto D’Oro, che gli somministra una dose troppo elevata di pillole afrodisiache. Con il Paese invaso dai tartari, Madama Luna, la prima moglie di Hsi-Mên, cerca rifugio in un tempio buddhista insieme all’unico figlio rimasto in vita, Xiao Ke. Qui, in sogno, scopre che il bambino è la reincarnazione del defunto marito. Per evitare che il figlio segua lo stesso cammino dissoluto, decide di farlo diventare un monaco, in virtù di una promessa che era stata fatta anni prima a un’eremita. Questo romanzo, pubblicato agli albori del Seicento, dimostra quanto la narrativa cinese fosse già pienamente matura e strutturata. In Occidente, opere di simile complessità e respiro arriveranno solo molto più tardi, nel corso dell’Ottocento. Lo stile è fortemente imparentato col linguaggio teatrale: l’azione domina, le descrizioni sono al tempo stesso puntuali e cariche di poesia, il linguaggio ricco e stratificato. Nell’edizione da noi letta (Feltrinelli, 1970, nella traduzione di Piero Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman, basata sulla versione inglese di Arthur Waley), il romanzo si estende per 919 pagine suddivise in quarantanove capitoli di altissima intensità. Dal punto di vista stilistico, si potrebbe paragonare all’unione di tre grandi nomi della letteratura occidentale: il naturalismo minuzioso di Zola, la delicatezza poetica di Flaubert e il senso del ritmo scenico di Maupassant. Quasi mille pagine raccontano un arco temporale piuttosto breve, pochi anni appena, eppure con tale dovizia di dettagli che sembra davvero di vivere accanto ai personaggi. Di loro apprendiamo ogni gesto, ogni pensiero quotidiano, dalle conversazioni ai banchetti, fino alle scene erotiche, anch’esse descritte con cura e senza veli. Proprio per questo, l’opera è stata spesso fraintesa, ridotta – anche per motivi pubblicitari – a romanzo erotico, e in passato soggetta a censure che eliminavano le parti più esplicite. Ma l’eros, in realtà, è trattato come una dimensione naturale e paritaria dell’esistenza, non viene enfatizzato né nascosto, bensì integrato nella narrazione complessiva della vita dei protagonisti. L’intento dell’autore è chiaro: restituirci l’eccesso, lo sfarzo, la smania di potere del protagonista. Questi, pur essendo già un amante esperto e insaziabile, ricorre a pillole afrodisiache per superare i limiti umani — ed è proprio questo abuso a condurlo infine alla morte. Così come accade al protagonista, anche gli altri personaggi del romanzo sono vittime delle proprie ossessioni, travolti da eccessi che li consumano. L’opera potrebbe idealmente essere divisa in due grandi momenti: una prima parte di ascesa e costruzione, e una seconda di decadenza e rovina. Tutte le colpe, le ambizioni e le esagerazioni che si manifestano nella prima metà trovano nella seconda il loro inevitabile contrappasso. > “Madama Luna finalmente si arrese alle sue sollecitazioni. Dette all’ancella > Gioietta le chiavi dei cancelli del parco, e tutte e tre – perché si unì a > loro la cognata Wu – vi si recarono insieme. Ma come era mutato il suo aspetto > nell’intervallo! Sui muri e sugli edifici, i variopinti stucchi eran svaniti, > ed in alcuni punti scrostati, cosicché rimaneva scoperta la nuda pietra, e qua > e là ci cresceva sopra il muschio. Le lastre di marmo e i blocchi dei gradini > e dei terrazzi si eran spostati, o erano sprofondati in modo disuguale entro > terra, cosicché so eran formati crepacci beanti, nei quali fiorivan le > erbacce. Sui tetti, le tegole si erano spezzate o spostate, aprendo il cammino > a una vigorosa vegetazione verde. Le pietre dure di valore e i minerali sui > margini del lago eran coperti di crosta di sporcizia e avevano perduto la > lucentezza. Il graticcio intrecciato dei mobili di vimini del padiglione era > strappato e cadeva a pezzi. L’ingresso della grotta era parato di spesse > ragnatele grige. Gli stagni dei pesci eran diventati dimora di rane. Il > Padiglione delle Nubi in Riposo era ora un covo di volpi. La Grotta della > Sorgente Celata brulicava di fecondissimi Topi“. > > (Dal capitolo 46, “Prugna Primaverile ritorna alla sua vecchia casa. Un amico > infedele svela il proprio volto di lupo”) Da questo brano si evince proprio la struttura di Chin P’ing Mei, dove in un primo momento viene mostrato il quadro di una famiglia felice e serena, immersa in un’atmosfera gioiosa; successivamente, però, quello stesso scenario si trasforma in un luogo desolato e abbandonato, in cui il locus amoenus si tramuta in locus horridus. La forma duale riflette uno dei principi fondamentali del Taoismo, più volte evocato nel testo: l’universo si regge su un equilibrio dinamico tra Yin e Yang, e ogni forza, giunta al suo apice, genera automaticamente il proprio opposto per ristabilire l’armonia. È una visione profondamente catartica dell’esistenza: la tragedia non è fine a sé stessa, ma necessaria al riequilibrio del cosmo e dell’animo umano. In questo senso, anche gli eventi più dolorosi — come il suicidio della moglie Loto Fragrante, la morte del giovane figlio maschio di Hsi-Mên, la scomparsa della moglie Madama P’Ing e infine quella del protagonista — assumono un significato più ampio e concettualmente conchiuso. Non sono semplici colpi di scena, ma tasselli di un disegno più grande, in cui ogni eccesso viene punito e ogni squilibrio viene sanato. Il romanzo, dunque, non si limita a raccontare un’epoca o una famiglia, ma si propone anche come monito morale: l’eccesso di lusso, potere e desiderio conduce inevitabilmente alla rovina. Solo agendo in nome dell’armonia e della misura si può sperare di mantenere un vero equilibrio. Impossibile, in un singolo articolo, rendere giustizia all’intero ventaglio di personaggi che popolano questo vasto romanzo. Tuttavia, tre figure spiccano per centralità e forza narrativa: il ricco e ambizioso Hsi-Mên, la sua quinta moglie, la seducente e inquieta Loto d’Oro, e la prima, Madama Luna. Hsi-Mên, come detto, è un imprenditore di successo nel campo dei medicinali, ma la sua sete di potere e piacere sembra inesauribile. Desidera tutto: ricchezze, donne, prestigio politico. Per ottenere ciò che vuole, non esita a ricorrere a mezzi disonesti, mostrandoci, attraverso le sue azioni, un sistema sociale corrotto, basato su tangenti e favori — dinamiche, peraltro, tristemente riconoscibili anche nella nostra contemporaneità. Eppure, accanto a questo lato calcolatore e spregiudicato, affiora talvolta un aspetto più umano e sentimentale. Hsi-Mên appare, a tratti, sinceramente innamorato della vita e delle sue donne, prigioniero di un conflitto interiore tra razionalità e impulso, tra controllo e desiderio. Diverso il caso di Loto d’Oro, donna di straordinaria bellezza e carica erotica, interamente guidata dall’istinto. La sua presenza in scena è destabilizzante: semina discordia, alimenta gelosie e manipola chi le sta attorno con feroce lucidità. Per legarsi a Hsi-Mên, partecipa all’assassinio del suo primo marito, e in seguito, accecata dalla gelosia verso Madama P’Ing, arriva persino a causare la morte del figlioletto che quest’ultima ha avuto con Hsi-Mên. Il suo comportamento oscillante tra idealizzazione e denigrazione degli altri delinea un profilo che oggi potremmo definire narcisistico, un personaggio moderno, nel suo essere tragicamente autodistruttivo. E infatti, come gli altri, pagherà il prezzo delle sue azioni. Dopo la morte di Hsi-Mên, verrà uccisa in modo crudo e spietato da Wu Sung, che la prende in moglie solo per vendicarsi. In uno dei capitoli più potenti e drammatici del romanzo — insieme a quelli dedicati alla morte del piccolo figlio di Madama P’Ing — Wu Sung, in un gesto tanto simbolico quanto brutale, le strappa il cuore con un coltello. Un epilogo che suggella, con forza tragica, il destino di chi vive nel segno della dismisura di brama e ambizione e infine della manipolazione. Infine, Madama Luna, è l’unico personaggio che spicca per fedeltà e virtù. Solo lei infatti, nonostante tutte le avversità e i contrasti con i quali deve vedersela, rimane moralmente intatta e sempre fedele a suo marito, nonostante questo sia profondamente lussurioso. Le sue scelte non sono di carattere istintivo e ingenuo, come sono quelle di altri soggetti – come il Giovane Ch’ên, uno degli amanti di Loto d’Oro. Le sue scelte si basano su razionalità e fermi principi. Grazie a lei proprio nel finale del romanzo, spicca un altro personaggio, al quale non si dà grande peso per tutto lo scritto, si tratta del servo Tai-An, che in effetti si è dimostrato sempre virtuoso e fedele. È proprio lui nel finale a diventare erede di tutto il patrimonio della famiglia, dopo che il figlio di Madama Luna viene preso in custodia dal monaco buddista. Per questa ragione Tai-An prenderà il nome di Il Piccolo Hsi-Mên. E anche questo è emblematico e rivela una verità fondamentale, che spesso chi opera nel nome del bene lo fa nell’ombra, senza apparire, senza azioni evidenti, semplicemente nel nome dell’equilibrio e della giustizia, e per questa ragione prima o dopo verrà ripagato. In definitiva, Chin P’ing Mei è giustamente considerato uno dei capolavori assoluti della letteratura cinese: dovrebbe essere riconosciuto come un classico della letteratura mondiale. Lo merita non solo per la ricchezza dei suoi contenuti, ma anche per lo stile raffinato, che alterna prosa e la poesia, e per l’eccezionale profondità psicologica con cui sono tratteggiati i personaggi. Pur nell’ampiezza del cast narrativo, ogni figura è caratterizzata con precisione, vive di un’identità propria, autentica, che contribuisce a rendere l’universo del romanzo straordinariamente realistico e vitale. In queste pagine si respira la storia, la cultura, il pensiero cinese in tutta la loro complessità. Ma, al di là delle specificità culturali, emerge con forza un messaggio universale: Oriente e Occidente, pur nei rispettivi linguaggi e sensibilità, si sono sempre confrontati con le stesse grandi questioni umane – la lotta contro la corruzione, l’illusione del superfluo, il desiderio di potere. Laddove l’Occidente ha cercato soluzioni nella scienza e nella razionalità, l’Oriente ha affiancato a queste anche la spiritualità, non come elemento decorativo o astratto, ma come forza viva e trasformativa, capace di agire nella realtà. Una spiritualità che, nel romanzo, affiora spesso come voce interiore, come principio regolatore, come invito all’armonia. In fondo, ogni cultura – in modi diversi ma convergenti – tende verso un medesimo fine: la ricerca dell’equilibrio. Un equilibrio che non può essere raggiunto se si dà più valore all’esteriorità che alla sostanza, se si insegue il superfluo dimenticando ciò che davvero è cruciale. Stefano Duranti Poccetti *In copertina: il ‘Chin P’ing Mei’ nella versione scenica del Beijing Dance Theater L'articolo Intorno a un classico della letteratura cinese: “Chin P’ing Mei”, il fiore di prugno nel vaso d’oro proviene da Pangea.
May 12, 2025 / Pangea
“Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina
Nell’età di mezzo, quando si parla di epica eroica si fa riferimento a qualcosa di marmoreo, codificato, noto e arcinoto: le chansons carolingie, l’Orlando che si immola a Roncisvalle per il suo sovrano, redivivo nella letteratura italiana; El Cid, quel Rodrigo Diaz de Bivar che nella sua onorata sventura continua a servire il suo sovrano. Poi c’è un’epica tellurica, dimenticata ai margini dell’Impero, dove l’Europa è già Asia e il cristianesimo è vernice crepata sulle icone costantinopolitane. È l’epica bizantina, spesso ignorata, relegata nei ghetti della filologia, forse vista come qualcosa di minore. Eppure, è irresistibile il fascino che questa esercita: cimentarsi nella lettura di un poema epico bizantino ci dissocia dalle categorie dell’eroico che siamo abituati a conoscere e maneggiare, è qualcosa di radicalmente altro. Digenis Akritas è un titolo e un nome, aspro come l’uomo che designa: il “due volte nato”, il “guardiano del confine”. Digenis, al battesimo Basilio, osserva la frontiera dal suo avamposto sul fiume Eufrate, limite estremo di una Bisanzio non ancora crepuscolare. Chi era l’Akrita Basilio? Figlio di un emiro siriano convertito e di una nobildonna greca rapita – già nella sua carne, nel sangue digenis, c’è l’ordalia del confine, lo scontro e l’abbraccio tra Cristianità e Islam, tra due civiltà destinate a scrutarsi e scontrarsi – nasce da questa unione ma cresce con coordinate salde, che non possono non essere la crosta di Bisanzio, il gesto ieratico del pantocratore. Cresce distinguendosi per le eccezionali doti fisiche: in piena adolescenza, iniziano le gesta dell’eroe. L’eroe è sempre bastardo, non ha genealogie rassicuranti, non risiede nel cuore dell’Impero ma ai suoi margini, dove la legge è eco lontana e la civiltà si stempera nella ferocia del limes. La Bisanzio stessa che gli dona i natali faticherebbe a riconoscerne i connotati come tale. La sua epopea non celebra paladini immacolati al servizio di Dio e dell’Imperatore. Digenis è scheggia impazzita, individualismo che rasenta l’asocialità, campione di un onore selvatico che si misura nel ratto, nella razzia come esercizio di virilità primordiale. L’Imperatore desidera conoscerlo, l’eroe orientale non si smuove, che sia il sovrano a scomodarsi e raggiungerlo sulle rive dell’Eufrate «con pochi soldati». Sorveglia un deserto pullulante di nemici: saraceni, gli apelatai (i predoni delle montagne, fantasmi della libertà anarchica), persino draghi e amazzoni evocati da un immaginario ancora intriso di mito pagano sotto la patina cristiana. Non c’è netta contrapposizione etica tra lui e i suoi nemici, agiscono sullo stesso piano, rispondono allo stesso codice ancestrale. Digenis chiede addirittura di arruolarsi tra gli apelatai, rifiutando infine di unirsi ai predoni solo dopo aver constatato la loro inferiorità fisica, la forza è misura del diritto e del bene. Poi c’è l’amore, un amore che è rapina, possesso, difesa gelosa. Non poteva essere diversamente: il poema si apre con un ratto, quello della madre di Digenis; la vicenda dell’eroe stesso è poi inaugurata dal ratto della sposa, Eudokia. > “La pernice prese il volo e l’afferrò il falcone.  > Dolcemente si baciavano…” Alla celebrazione lirica dell’amor cortese si sostituisce l’affermazione di un diritto primordiale, ferino quasi. Il codice d’onore impone di rapire la donna amata e di difenderla dagli aggressori, che siano draghi, leoni o bande di predoni. La lotta per la sposa è teatro di una competizione maschile feroce, dove la donna è insieme premio e strumento per affermare la propria onorabilità virile. C’è anche un’altra faccia di Digenis: l’eroe cristiano, il timorato seminarista – ruolo che mal s’addice all’eroe – tormentato dal peccato dopo aver compiuto adulterio, essersene pentito e poi aver reiterato il misfatto nel canto successivo, l’amore per Eudokia non è sufficiente a placarlo: il fuoco non può ardere indefinitamente vicino all’erba, così si assolve mentre cede alla tentazione con una principessa araba – poco fanno i kyrie eleison recitati con il cuore colmo di sofferenza e ancor meno persuadono dopo aver ripetuto il gesto con l’amazzone Maximò. Ma questa duplicità, schizofrenia apparente, non è sintomo di labilità psicologica da lettino d’analisi. È lo stigma del poema stesso, prodotto ibrido di due modelli culturali contrastanti e mai perfettamente conciliati: l’arcaico eroe della frontiera, amorale e vitalistico da un lato, dall’altro il più tardo archetipo dell’eroe cristiano. In Digenis agiscono, sovrapposti e non fusi, questi due codici, generando cortocircuiti, contraddizioni che sono la cifra più autentica e perturbante del personaggio. La stessa storia della tradizione manoscritta del poema – con pochi codici superstiti, dal più antico e rude dell’Escorial al più tardo e ingentilito di Grottaferrata (dove aumentano le lodi all’imperatore e l’episodio degli apelatai è omesso) – testimonia un lavorio incessante, un tentativo di addomesticare una materia incandescente e ricondurre l’eroe bastardo entro schemi più rassicuranti, più “letterari”. Il crepuscolo dell’eroe è segnato dalla malattia, dalla consapevolezza del declino fisico e dall’avvicinarsi della morte. La tradizione posteriore, in particolare i canti popolari akritici, amplificherà questo momento finale, immaginando un’ultima, titanica lotta di Digenis contro la morte personificata, Charon o Thanatos. È l’unica battaglia che l’eroe è destinato a perdere. Questo confronto finale con l’oblio rappresenta il limite invalicabile di ogni potenza umana, la vanità ultima di ogni conquista terrena. La morte di Digenis, descritta quasi come un anticlimax nel poema – con la moglie che opportunamente spira prima di lui – distanzia ulteriormente questa epica da quella convenzionale. Non c’è apoteosi finale, ma lo spegnersi di una forza immensa di fronte all’inevitabile. > “Vedete dove mai giace l’audacia del valore!  > Vedete dove mai giace il Digenis Akrita, il fiore dei Romei” Andrea Falco Profili L'articolo “Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina proviene da Pangea.
May 3, 2025 / Pangea
La frode, ovvero: la scoperta di un falso Goethe da parte di Vittorio Mathieu
Già Anacleto Verrecchia mi avvertiva di prestare attenzione «a quel Mefistofele di Vittorio», amico d’una vita, che tra l’altro gli aveva accompagnati i suoi Cieli d’Italia (poi La batracomachia di Bayreuth, versione ampliata), spassosissima raccolta di narrazioni erudite. «Macché Mefistofele», aggiungeva il satiro vegliardo, ripensandoci, «Vittorio ne sa una più del demonio!». Quanta ragione aveva. Di Mathieu leggevo da giovanissimo, con gusto e profitto, alcuni interventi sul «Giornale» post-montanelliano, e ne ricordavo uno con particolare piacere, da cui Romano Prodi usciva lordo e in pezzi a causa di alcuni comportamenti osservati de visu da Mathieu stesso. Per quanto tuttavia preparato all’effetto perturbatore delle sue pagine, non potetti reprimere una vertigine di sbigottimento leggendo, nel Goethe e il suo diavolo custode, uscito con Adelphi nel 2002, l’accenno a un’ipotesi tellurica, ripresa e compiutamente sviluppata ed esposta dodici anni appresso, nel 2014, in Una frode inaudita ai danni di Goethe (Marcovalerio), che adesso incontriamo. Secondo lo studioso, La vocazione – o missione – teatrale di Wilhelm Meister (da qui in avanti: Sendung, come suona la parola chiave dell’originale), accolta da tutta la critica con grandi festeggiamenti quando solo nel 1910 se ne trovò il testo fino a quel momento sconosciuto, e che sarebbe il prodromo, o sia germe del capolavoro Wilhelm Meisters Lehrjahre (Gli anni di apprendistato di W. M.), ebbene questa Sendung sarebbe niente di meno che un falso. Mathieu non scherza, non sta provocando, né ha solo vaghi sospetti: egli invece procede sicuro, ben protetto da uno spesso muraglione di prove estetiche cronologiche filologiche e biografiche, tutte edificate su alacri e attente ricerche in documenti e biblioteche. La Frode è un’opera per specialisti perché entra nei dettagli della biografia goethiana, della storia culturale e sociale di luoghi e tempi lontani, della lingua tedesca e della tessitura dei due romanzi, ma non c’è un solo momento di noia o inaccostabile. Non voglio guastare il piacere della scoperta, e d’altro canto sarebbe difficile descrivere in relativamente poco spazio anche solo buona parte dei nodi, taluni complessi, che compongono la fitta trama della tesi. Per stuzzicare il lettore, basterà evocarne alcuni momenti, in ordine sparso. Anzitutto, lo stile della Sendung, è assai distante da tutta la restante opera goethiana, bensì cangiante negli anni ma sempre riconoscibile per un orecchio allenato. Notizie sull’abbigliamento del protagonista e di natura tipografica s’affiancano alle osservazioni, edificate sulla biografia, circa Mignon, centrale nei Lehrjahre. E ancòra, aleggia nella Sendung un moralismo che fu sempre del tutto estraneo a Goethe, il quale, aggiungo io in parentesi, séguita, ahilui e ahinoi, a portarsi appresso un’aura assai differente da quella reale e trabocchevole, che riescirebbe se solo si studiassero con un poco d’attenzione sia l’opera, sia le lettere, sia la vita, e magari anche le testimonianze di chi lo conobbe e frequentò. Se ci fu uno spregiudicato senza eccessi, questi fu proprio Goethe. Di poi, il colore smorto e l’afror di sagrestia spingono Mathieu a intercettare l’officina in cui venne fabbricata la contraffazione nel circolo bigotteggiante di Lavater, il padre della moderna fisiognomica, col quale Goethe fu legato da una stima e un’amicizia, che però a un certo punto dovettero dileguare e tramutarsi in qualcosa d’altro. La scoperta di Mathieu, va aggiunto per chi fosse poco avvezzo alla lettura di Goethe, è dirompente poiché, oltre a tutto, investe uno scorcio cruciale del percorso goethiano, i cui Lehrjahre non solo fondano un genere nella modernità, il Bildungsroman, ma stanno nel novero delle opere cui Goethe dedicò più tempo e fatiche, e che ha implicazioni di natura sociale e politica, nonché biografiche, rilevantissime, oltre ovviamente alle letterarie, e che segnò la vita di parecchi intellettuali di lingua tedesca. C’è notoriamente chi giunse a dire che i Lehrjahrecostituivano l’evento epocale insieme alla Dottrina della scienza di Fichte e alla Rivoluzione francese. Si potrebbe giungere persino a dire senza troppo temere di pigliare uno scivolone, che Wilhelm Meister è senz’altro la figura goethiana più importante dopo Faust, superando per vastità d’intenti anche quella di Werther, la quale tuttavia è molto, molto più di ciò che per il solito viene spacciata: e anche su questo Mathieu ha parecchio di istruttivo da proporre nel titolo adelphiano. Ho svolti alcuni semplici controlli per confermare ciò che già temevo e anzi divinavo circa l’accoglienza ricevuta dal libro di Mathieu presso la germanistica italiana e in generale presso la critica e la storiografia letterarie. Come prevedevo, ho trovata solo una catena montuosa di silenzio. Codesto silenzio non si può certo imputare alla ridotte dimensioni dell’editore, buona scusante per esser sfuggito, dacché esse sono ampiamente compensate sia dalla rinomanza dell’autore, soprattutto in àmbito accademico, sia dal fatto che, come accennavo, il primo lancio della tesi avvenne in un libro d’una delle case editrici, italiane e non solo, più seguíte e che peraltro cinque anni avanti, 1997, aveva pubblicato lo straordinario Goethe e i suoi editori di Siegfried Unseld, direttore della Suhrkamp, una delle principali case editrici di lingua tedesca. Temo sia del tutto inverosimile che agli studiosi sia sfuggito Goethe e il suo diavolo custode, oppure bisogna pensare a una lettura assai superficiale. Insomma, tutte le faticose e lunghe indagini condotte da Mathieu e l’esposizione d’una ipotesi così rivoluzionaria, e per la biografia goethiana, e per la storia culturale europea, sono rimaste senza eco alcuna. Non è la prima volta, né sarà l’ultima, in cui i padroni del discorso, insieme alle schiere dei loro subalterni e tirapiedi, ignorano o rifiutano d’interessarsi a studii che potrebbero incrinare la loro immagine d’un autore, ben propalata e imposta a generazioni di studenti e liberi lettori. Ma soprattutto procurerebbe loro una figura da cioccolatai poiché significherebbe che in un intiero secolo di (presunto) lavoro di convegni lezioni conferenze libri riunioni telefonate viaggi e via elencando, le migliaia di professori non si sono mai accorti di quella patente contraffazione, messa invece in luce da uno studioso ufficialmente estraneo agli studi goethiani e alla germanistica. Gli opliti e i sacerdoti dell’accademia, al contrario, fanno sempre a gara per allungare le zampe sulla Sendung con una introduzione o un articolo e così annettere il proprio nome al sensazionale ritrovamento, fosse pure cinquanta o cent’anni appresso. Da noi il principe di questi segugi con la sinusite cronica è, nemmeno a dirlo, Italo Alighiero Chiusano, che già sistemo nel mio intervento sulle biografie di Goethe pubblicato su questa rivista. Né nella introduzione alla Sendung per Rizzoli nel 1994, né altrove, Chiusano si fa sfiorare almeno dal dubbio che l’opera possa essere, se non un totale falso, almeno un’anomalia nel corpus letterario goethiano. Ben al contrario, la definisce «un’altra perla nella collana del romanzo europeo», un «capolavoro» e un’«autentica opera d’arte». Per difendere ed esaltare la camorra universitaria, egli scrive altresì che il romanzo fu «rapidamente acquisito (…) per la sensibilità critica del mondo intero». Se Chiusano non fosse un riverito barone accademico, si dovrebbe pensare a un comico provetto. Invero l’unica cosa che fece la «sensibilità critica del monto intero» fu di cadere nel sacco. A partire dalla pubblicazione della Sendung l’anno appresso il suo presunto rinvenimento, tutti esultarono, compresi niente meno che Hofmannsthal ed Hermann Hesse, i quali tuttavia almeno dissero che i Lehrjahre erano senz’altro superiori al romanzo “ritrovato”, ciò che avrebbe dovuto suscitare interrogativi nella germanistica ma che invece restò lettera morta. Don Benedetto “Corleone” Croce, con la consueta boria, arrivò invece a dichiarare addirittura di preferire la Sendung ai Lehrjahre, ovviamente con le solite inoppugnabili e oracolari ragioni estetiche. Per intenderci, è come scambiare di ruolo un Notturno di John Field con un Notturno di Chopin, o una Cantata d’un qualsiasi Musikanten barocco con una Cantata di Bach. Con simili precursori era ben prevedibile che nessuno dei nostrani cavalieri della verità e della cultura si sarebbe posta qualche domanda, e che se anche avesse subodorato qualcosa, avrebbe tenuta la bocca chiusa: anche perché per dimostrare il falso avrebbero dovuto schiodare i deretani dalle sedie e rimboccarsi le maniche. Ma chi glielo avrebbe fatto fare? A parità di stipendio, è molto più comodo concionare anziché scavare negli archivi e studiare. Inoltre ciò avrebbe significato dare ragione a un anomalo della cultura italiana, benché docente universitario, e per giunta non specialista di germanistica. Il succitato silenzio, però, è un’ulteriore prova di quanto la tesi di Mathieu sia fondata. Se ne sia infatti sicuri: se egli avesse scritta una scempiaggine, lo avrebbero messo della pubblica gogna. A ogni buon conto, a noi non deve importare troppo la genia di codesti guastacervelli, ma invece assai di poter accedere a una tesi rivoluzionaria, per giunta ben scritta, e di aggiungere una decisiva pagina alla biografia di Goethe. Bisogna inoltre considerare quanto il lavoro di Mathieu sia d’esempio a chi voglia impegnarsi con serietà e acribia nella ricerca storico-biografica: un cammino aspro ma che, se percorso con diligenza e passione, può condurre molto, molto lontano. Quasi come Wilhelm Meister. Luca Bistolfi *In copertina: Goethe contraffatto da Andy Warhol, 1982  L'articolo La frode, ovvero: la scoperta di un falso Goethe da parte di Vittorio Mathieu proviene da Pangea.
April 2, 2025 / Pangea
«Un Beat venuto dal Medioevo»: storia di Sylvester Houédard, monaco e poeta
Se nel Novecento inglese non sono mancati gli esempi di sacerdoti cattolici votati alla letteratura, come R. H. Benson, Ronald Knox o John Ayscough, di certo Sylvester Houédard ne è stato il rappresentante più eccentrico, monaco benedettino e poeta della Beat Generation.  Classe 1924, Pierre-Thomas-Paul Joseph Houédard – Sylvester è il nome assunto da religioso – era nato a Guernsey, una piccola isola nel canale della Manica, da una famiglia di origini francesi. Sin da ragazzo dimostrò una non comune vivacità intellettuale che si associava a una profonda devozione. Nel 1977, in un articolo per il «Tablet» intitolato Memories of a Catholic Childhood, raccontò del suo amore di allora per la liturgia latina e di come volentieri accompagnasse la madre alla messa domenicale.  Rimasto orfano, allo scoppio del Secondo conflitto mondiale fu costretto a trasferirsi nel Lancashire con il fratello maggiore, pilota della RAF, purtroppo destinato a morire in combattimento poco tempo dopo. Nel 1941 riuscì a ottenere l’ingresso al Jesus College di Oxford, dove studiò storia moderna, e venne nominato presidente della prestigiosa Newman Society, in prima fila nell’animare la pastorale cattolica in università.  Intanto Houédard iniziava a scorgere nel proprio animo i chiari segnali di una vocazione religiosa e perciò volle recarsi in visita al monastero di Prinknash, vicino a Gloucester, dove, di lì a poco, sarebbe entrato come novizio l’amico Victor Brooke, nipote del famoso generale Lord Alanbrooke. Sul finire della guerra fu chiamato a operare in Asia per conto dell’Intelligence e, per un breve periodo, lavorò al Ministero dell’Alimentazione. Data la pessima calligrafia dovuta alla meningite e all’artrite reumatoide di cui aveva sofferto da piccolo, finì per essere costretto a usare sistematicamente la macchina da scrivere: non è esagerato affermare che senza la scoperta di quel prezioso strumento la sua successiva carriera d’autore non sarebbe mai iniziata. Una volta congedato, Houédard ritornò a Oxford per completare il suo percorso di studi, dopodiché nel 1949 fu libero di indossare l’abito monacale. Prima di entrare a Prinknash, regalò agli amici ciò che possedeva e a Christopher Tolkien, terzogenito dell’autore de Il Signore degli Anelli, toccò un bastone da passeggio in ebano, con un pomello d’avorio finemente intarsiato, che si diceva fosse appartenuto all’Imperatore d’Abissinia. Tra il 1951 e il 1954 studiò al Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma, scrivendo una tesi sulla libertà nell’opera di Sartre, e nel 1959 venne ordinato sacerdote. Al di là dei meriti squisitamente ecclesiastici – scrisse di teologia, collaborò con diverse case editrici cattoliche e curò la pubblicazione, nel 1966, della Bibbia di Gerusalemme – Houédard si distinse per essere stato tra i principali interpreti della cosiddetta “poesia concreta” (concrete poetry), una delle tante manifestazioni artistiche germogliate in seno al milieucontroculturale degli anni Sessanta e Settanta. Teorizzata dal brasiliano E. M. de Melo e Castro, la “poesia concreta” sposta l’attenzione dal contenuto del testo ai suoi elementi costitutivi, che sono parole, sillabe e fonemi di cui si esalta la dimensione tipografica, variamente valorizzati mediante la disposizione sul foglio o anche su materiali diversi dalla carta. L’intento, sulla falsariga delle prove futuriste, è quello di scomporre il linguaggio tradizionale per donargli una dimensione visiva e sonora inedita, con un esito che si situa a metà strada tra la letteratura e l’arte figurativa. La lettera-manifesto di E. M. de Melo e Castro, apparsa sul «Times Literary Supplement» nel 1962, incoraggiò un drastico cambio di direzione nella poesia di Houédard, fino a quel momento limitata a componimenti semi-confessionali in versi liberi. Le possibilità offerte dalla “poesia concreta” dettero pure un nuovo contesto agli arabeschi che andava producendo sin dagli anni Quaranta con la sua fidata macchina da scrivere, una Olivetti Lettera 22.  Houédard realizzò la quasi totalità dei suoi lavori nell’arco di una decina d’anni, tutti firmati con l’acronimo “dsh” (Dom Sylvester Houédard). Li chiamò “poemi visivi” o “typestracts”, una crasi tra typewriter e abstractsuggeritagli dall’amico Edwin Morgan. Fu pertanto molto prolifico, ma solo per un periodo relativamente limitato, collaborando con numerose riviste, gruppi artistici e piccole realtà teatrali. Inoltre fu un conferenziere instancabile e le sue opere vennero esposte sia in Inghilterra che negli Stati Uniti. Inevitabilmente il suo stato ambiguo di monaco e autore, o, secondo una fortunata definizione, di «seguace della cultura Beat venuto dal Medioevo», non mancò di procurare qualche malumore a Prinknash, anche perché il suo legame col movimento controculturale lo portò a schierarsi politicamente e a occuparsi di tematiche sessuali in termini un po’ troppo espliciti.   In generale Houédard predicava una visione teologica e artistica la più inclusiva possibile. Fu un pioniere del dialogo ecumenico, un appassionato studioso di Islam, di religioni orientali e del mistico Meister Eckhart, e nei suoi articoli, privi di punteggiatura e zeppi di segni grafici inusuali, sostenne sempre la necessità di fondere le arti, sintetizzandole in un prodotto omnicomprensivo. La macchina da scrivere cosmica a cui allude il titolo del volume curato da Nicola Simpson nel 2012, Notes from the Cosmic Typewriter, ad oggi lo studio migliore sulla vita e le opere del benedettino, fa appunto riferimento a una poesia concepita come preghiera, anti-dogmatica, senza limiti, intesa a cogliere frammenti di quello spirito universale che è Dio. Sebbene Houédard fosse un tipo schivo, più interessato a sostenere gli scrittori emergenti che alle luci della ribalta, godette anch’egli del proverbiale quarto d’ora di celebrità: una sua foto apparve su «Vogue» ed entrò in contatto con un numero così elevato di letterati e artisti, tra cui Allen Ginsberg, William S. Burroughs, Jack Kerouac, Yoko Ono e John Cage, che la sua rubrica telefonica pare contasse quasi tremila nomi. Non è dunque una sorpresa scoprirlo tra gli spettatori in presenti alla Albert Hall, nel 1965, in occasione della prima International Poet Incarnation (il suo volto glabro, seminascosto dagli immancabili occhiali da sole, fa capolino nel filmato dell’evento, The Wholly Communion, diretto da Peter Whitehead). Houédard morì nel 1992, all’età di sessantasette anni, e il suo corpo venne sepolto nel parco del nuovo monastero, dove i benedettini si erano trasferiti vent’anni prima. Secondo l’ex abate Aldhelm Cameron-Brown, malgrado il confratello fosse un tipo peculiare,  > «era pur sempre una persona adorabile, ed era dedito alla comunità, anche se > sentiva che non sempre apprezzavamo quello che stava facendo. […]. A suo modo > condusse una vita piena di Fede». Luca Fumagalli L'articolo «Un Beat venuto dal Medioevo»: storia di Sylvester Houédard, monaco e poeta  proviene da Pangea.
April 1, 2025 / Pangea
Gli antichi non raccontavano favole. Il mito di Troia e il sito di Hisarlık
A scuola si ripete spesso che la guerra di Troia è soltanto un episodio del mito, che non si sarebbe mai svolto nella realtà storica, o almeno non in quelle dimensioni e certamente non a causa di una donna. Con un titolo un po’ provocatorio, preso in prestito dal più evemerista degli evemeristi, Mauro Biglino, in questo articolo si cercherà di fare chiarezza. Già gli antichi avevano notato le numerose incongruenze dei poemi omerici, che così possiamo riassumere: il re dei Paflagoni Pilemene prima muore in battaglia (Iliade V, 576) e poi riappare in lutto per il figlio morto (XIII, 643-658); nel canto IX ai vv. 182-198 c’è una serie di verbi al duale che però si riferisce a tre personaggi (Odisseo, Aiace e Fenice); nella notte che è oggetto dei canti IX e X Odisseo cena tre volte e si tengono due consigli notturni dopo che il poeta ha mandato a dormire i protagonisti; Agamennone regna ora come primus inter pares, ora come un signore assoluto miceneo; il re dell’Argolide è ora Agamennone, ora Diomede; la Dolonia (canto X) è un episodio isolato e del tutto insignificante per la narrazione, peraltro con notevoli problemi esegetici.  Nonostante ciò, nessuno mise mai in dubbio che il conflitto fosse realmente avvenuto in un’epoca remota della storia greca, anche se la tradizione storiografica ci fornisce diverse possibili date per la guerra di Troia, che oscillano tra il 1344 e il 1150 a. C. Quella divenuta canonica è la datazione di Eratostene (1194-1184 a. C.), mentre Erodoto riferisce che Omero visse 400 anni prima di lui e che la guerra avvenne 400 anni prima di Omero, quindi approssimativamente intorno al 1250 a. C. Come noto, la tesi della storicità della guerra di Troia ricevette importanti conferme dalle scoperte del tedesco Heinrich Schliemann, che nel 1868 raggiunse il sito di Hisarlık e nell’aprile 1870 diede inizio agli scavi. A dire il vero, il sito gli era stato indicato da Frank Calvert, che vi aveva condotto degli scavi esplorativi tra il 1863 e il 1865, ma all’inglese mancavano le finanze, la fantasia e le capacità narrative di Schliemann, che finì per oscurarne la figura. Va detto anche che dell’antica città non si era mai persa la memoria: i più ritenevano che il sito antico sorgesse al di sotto della città romana di Ilium (Troia IX, I secolo a. C.-IV secolo d. C.) e della città greca di Ἴλιον (Troia VIII, 950-I secolo a. C.). In età bizantina, al tempo dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito (913-959), Ilium era stata una piccola sede arcivescovile e, simbolicamente, l’ultimo a farvi visita era stato il sultano Maometto II, poco dopo la caduta di Costantinopoli, quasi a simboleggiare la rivincita dell’Asia sulla Grecia. Determinato a ritrovare a tutti i costi la città omerica e convinto che quest’ultima si dovesse trovare necessariamente al di sotto di almeno altri tre strati (quello romano, quello greco e quello lidio dell’epoca di Omero), Schliemann scambiò però le mura dell’Età del Bronzo per mura di età classica e ordinò la distruzione dei primi nove metri della collina di Hisarlık, nonostante gli inviti a una maggiore prudenza da parte di Calvert. Proprio quand’era sul punto di abbandonare l’impresa, il 31 maggio 1873 Schliemann s’imbatté in quello che ribattezzò “tesoro di Priamo”. Soddisfatto del proprio lavoro, l’anno successivo pubblicò i risultati dei suoi scavi e partì alla volta di Micene. Malgrado l’enfasi con la quale Schliemann presentò le sue scoperte, nulla era stato dimostrato: come si è detto, dell’antico sito di Troia non si era mai persa la memoria, anche se la sua precisa collocazione era ancora ignota. Generazioni di conquistatori avevano fatto visita al sito: Serse, Alessandro Magno, Cesare, Adriano, Caracalla e molti altri, ma non mancava chi, come Erodoto e Strabone, dubitava del racconto omerico. Il fatto che fosse stata scoperta una città di nome Troia non provava che la guerra si fosse effettivamente svolta lì. Come se non bastasse, quando tornò a Hisarlık, nel 1878 e soprattutto nel 1882 e nel 1890, Schliemann si rese conto che la città che aveva trovato non poteva coincidere con quella omerica, che doveva invece essere identificata in Troia VI (1750-1300 a. C.), come proposto dal suo assistente Wilhelm Dörpfeld, che lo affiancò negli ultimi scavi. Il tesoro di Priamo in realtà era di mille anni più antico (Troia II, 2550-2300 a. C. circa). Fu una terribile constatazione: per ironia della sorte, nella sua affannosa ricerca della città omerica, Schliemann aveva distrutto gran parte dell’evidenza archeologica di quel periodo! Ammalatosi di tumore, mentre programmava una nuova stagione di scavi alla ricerca di una città bassa, Schliemann morì a Napoli nei pressi di piazza della Carità, durante uno dei suoi numerosi soggiorni partenopei. Grazie al sostegno finanziario della vedova Sophia e del kaiser Guglielmo II, Dörpfeld poté continuare i lavori per altre due stagioni (1893-1894) e alla fine riportò alla luce le mura dell’Età del Bronzo (quelle che Schliemann aveva scambiato per mura di età classica). Si trattava di mura imponenti: erano alte nove metri, in blocchi calcarei squadrati con elevato in mattoni crudi, presentavano torri imponenti e cinque porte, la più maestosa delle quali viene identificata da coloro che credono al racconto omerico con le porte Scee. Curiosamente, il settore più debole delle mura è quello settentrionale, proprio come nell’Iliade; inoltre, come si può notare dalla foto, le mura sono inclinate, il che potrebbe spiegare il fatto che nell’Iliade Patroclo cerchi per ben quattro volte di scalarle. Si tratta, ovviamente, di semplici suggestioni. Troia VI: tratto di mura e torre di possibile influsso ittita vicino alla Porta Est (primo esempio conosciuto di mura a dente di sega); sulla terrazza adiacente, case di Troia VIIa Tra il 1932 e il 1938, grazie al sostegno dello stesso Dörpfeld, i lavori ripresero sotto la direzione di Carl Blegen, dell’università di Cincinnati, le cui ricerche, però, erano viziate da una sorta di bias di conferma: infatti, egli era assolutamente convinto della storicità della guerra di Troia. Blegen notò il crollo delle torri e la caduta delle mura fuori asse e giunse alla conclusione che Troia VIh era stata distrutta da un terremoto che possiamo datare ai primi decenni del XIII secolo a. C. Secondo lo storico austriaco Fritz Schachermeyr, la leggenda del cavallo di Troia conserverebbe proprio la memoria di questa catastrofe: il cavallo sarebbe soltanto una metafora di Poseidone, dio del mare e, appunto, dei terremoti. Falsa è, invece, la teoria di Francesco Tiboni secondo la quale il cavallo di Troia sarebbe stato soltanto una nave fenicia con protome equina: rappresentazioni del cavallo di Troia sono attestate nell’iconografia sin dall’VIII secolo a. C. Se Troia VIh era stata distrutta da un terremoto, la città di Omero non poteva essere che lo strato successivo, Troia VIIa (1300-1180 a. C.). Blegen notò che questo strato presentava una maggiore densità abitativa, con muri divisori tra le case, e interpretò questo fatto come la prova di un assedio prolungato. Ciò non è affatto scontato: le strutture di Troia VIIa potrebbero essere interpretate anche come baracche temporanee per ovviare alle distruzioni causate dal terremoto. Del resto, ad oggi le uniche possibili prove di scontri sono alcuni resti umani nelle strade, tre punte di frecce, due rinvenute nella cittadella e una nella città bassa, e una punta di lancia rinvenuta nell’area occidentale. Una delle punte di frecce trovate nella cittadella potrebbe essere di fabbricazione micenea, ma neppure questa può essere considerata prova di un evento bellico: potrebbe trattarsi di una freccia caduta da una faretra o abbandonata! Infine, Troia VIIa mostra chiari segnali di un incendio, ma tale incendio potrebbe anche essere attribuito a una catastrofe naturale. La nuova stagione di scavi, su scala internazionale, è stata inaugurata nel 1988 da Manfred Korfmann, dell’università di Tubinga, e ha coinvolto più di 350 accademici da oltre venti Paesi. Obiettivo principale di Korfmann era l’individuazione della città bassa. Infatti, la cittadella di Troia ha un diametro di non più di 200m e copre un’area di appena due ettari: essa avrebbe potuto ospitare al massimo qualche centinaio di persone. Come si è detto, già Schliemann aveva in programma lo scavo della fertile piana circostante la cittadella, ma la morte glielo aveva impedito e Dörpfeld non era riuscito a ottenere risultati definitivi. Secondo Korfmann, nei livelli che ci interessano (VI e VIIa) la città bassa si sarebbe estesa per circa 20 ettari e complessivamente Troia avrebbe avuto una popolazione compresa tra 4000 e 10000 abitanti, o forse anche più se si include la popolazione che potrebbe aver vissuto al di fuori del perimetro della città, in aree rurali facenti parte del regno. Nel XIII secolo a. C., il perimetro della città sarebbe stato protetto da un muro in mattoni crudi e da due fossati con una palizzata, il primo 400m a sud della cittadella e il secondo altri 100-150m più a sud.  Nel 2001, Korfmann presentò i risultati delle sue ricerche al grande pubblico in un’esposizione intitolata Troia. Traum und Wirklichkeit, nella quale, tra le altre cose, veniva mostrata una ricostruzione completa della città bassa. Fu proprio questo modello ad attirare le aspre critiche di Frank Kolb, suo collega presso l’università di Tubinga. Purtroppo, tale polemica travalicò i confini dell’accademia: intervistato dal Berliner Morgenpost, Kolb accusò Korfmann di ingannare il pubblico con ricostruzioni fantasiose e lo ribattezzò “il von Däniken dell’archeologia” (Erich von Däniken è un celebre pseudoarcheologo sostenitore della teoria degli antichi astronauti, ndr). Secondo Kolb, non ci sarebbe alcuna evidenza dell’esistenza di una città bassa, i due fossati potrebbero essere dei canali usati a scopo agricolo e, calcolando una popolazione di 100/200 abitanti per ettaro, se si ipotizzasse un’area di 11-15 ettari si arriverebbe al massimo a 1000-3000 abitanti. Per Kolb, Troia non presenta alcuna affinità con siti come Efeso e Mileto, è priva di edifici monumentali e di una pianificazione stradale e assomiglia più a un centro protourbano isolato che a una città vera e propria (la ceramica importata è solo l’1%!).  Mentre Schliemann e Blegen erano stati criticati per la loro eccessiva fiducia nel racconto omerico, paradossalmente Kolb criticò Korfmann proprio facendo ricorso al cieco cantore. La città ricostruita da Korfmann – dice Kolb – non ha nulla della monumentalità dell’alta rocca di Priamo: l’edificio più imponente, la Pillar House di Blegen, non ha nulla a che vedere con le sessanta stanze del palazzo descritto in Iliade VI, 242-249. Inoltre, essa presenta due cinte murarie, mentre quella omerica ne ha solo una. Infine, la città di Korfmann ha una vocazione commerciale, mentre quella omerica è abitata da allevatori, pastori e costruttori, non da commercianti. Come si può vedere, si tratta di una tesi facilmente smontabile: Omero è pur sempre un poeta, non un archeologo, e si può sempre ipotizzare che alla sua epoca il muro in mattoni crudi della città bassa fosse crollato. Questo eccessivo scetticismo, unito con la volontà di spiegare la realtà archeologica di Hisarlık attraverso Omero, si è imposto nell’immaginario collettivo e ha dato adito alle teorie più strampalate: ex-ingegneri nucleari si sono improvvisati archeologi e ci hanno spiegato che queste incongruenze sono facilmente risolvibili se si sposta la cittadella di Priamo 3000 km più a nord e nel XVIII secolo a. C., a Toija, in Finlandia. Un abbaglio culturale collettivo, quello generato da Omero nel Baltico di Felice Vinci, che non ha risparmiato illustri classicisti e accademici, primi tra tutti Rosa Calzecchi Onesti e Umberto Eco (quandoque bonus dormitat Ecus). Tornando a questioni più serie, la ricerca successiva ha dimostrato, invece, che questo scetticismo era del tutto ingiustificato. Tra il 15 e il 16 febbraio 2002, l’università di Tubinga organizzò un simposio dal titolo The Meaning of Troy in the Late Bronze Age, con la partecipazione di 13 relatori, che giunsero alla conclusione che i dati di Korfmann erano in larga misura validi. La scarsità di evidenze archeologiche per la città bassa è dovuta all’eccezionalità delle condizioni del sito di Hisarlık, che è stato in gran parte danneggiato dall’erosione – come del resto è avvenuto anche alle fasi preistoriche – e all’asportazione di materiali in età ellenistica e romana. Del resto, meno del 5% del sito è stato scavato! Pertanto, la presenza di una città bassa può essere solamente dedotta sulla base della presenza di ceramica al di fuori della cittadella nei periodi VI e VIIa e anche sulla base di un semplice argomento logico e contrario: l’idea che Troia rappresenti soltanto una residenza aristocratica non può essere sostenuta perché rappresenterebbe un unicum a livello archeologico, laddove il sistema di fortificazioni ricostruito da Korfmann, con fossato, cinta muraria esterna e muro principale, è il più frequente del mondo antico, dall’Età del Bronzo fino all’età bizantina! Negli studi più recenti, si ipotizza che la città bassa occupasse un’area compresa tra 25 e 35 ettari, con circa 5000-6000 abitanti, dimensioni del tutto compatibili con i centri micenei e con città ittite di medie dimensioni come Gordion, Alişar, Kuşaklı/Šarišša, Beycesultan e la città-Stato portuale di Ugarit, il che ne farebbe una potenza regionale. L’idea che i due fossati avessero uno scopo agricolo non è più sostenibile, anche se è stato dimostrato che essi non sono contemporanei, ma risalgono a due fasi diverse, rispettivamente VI e VIIa. A Korfmann è succeduto il collega Pernicka, dal 2006 al 2012, poi Rüstem Aslan dal 2014. Quest’ultimo ha riportato alla luce un ulteriore livello precedente a tutti gli altri, Troia 0 (3500-3000 a. C.). Complessivamente, sono stati riportati alla luce undici diversi livelli, suddivisi a loro volta in oltre cinquanta fasi: Troia 0 (3500-3000 a. C.), Troia I (3000-2550 a. C.), Troia II (2550-2300 a. C.), Troia III (2300-2200 a. C.), Troia IV (2200-2000 a. C.), Troia V (2000-1750 a. C.), Troia VI (1750-1300 a. C.), Troia VIIa (1300-1180 a. C.), Troia VIIb (1180-1000 a. C.), Troia VIII (= Ἴλιον, 950-I secolo a. C.), Troia IX (I secolo a. C.- IV secolo d. C.) e Troia X (dopo il IV secolo d. C.). Christian Allasino  *In copertina: Henry Fuseli, Frammenti dall’Iliade, da un quaderno di schizzi L'articolo Gli antichi non raccontavano favole. Il mito di Troia e il sito di Hisarlık proviene da Pangea.
March 29, 2025 / Pangea