Tag - Cultura generale

Graffi, grafie e graph. L’eresia della scrittura musicale
> Viviamo nell’era del dio della Carta. La musica ne è soggetta proprio come > tutto il resto. Se escludiamo il jazz o le orchestre di musica leggera, che > hanno conservato i concetti di un tempo, abbandonati dalla musica classica, > […] non c’è più una singola nota di un fugace arpeggio nella musica > occidentale odierna – la nostra musica – che non sia stata precedentemente > disegnata con un cerchio, una coda e piccoli uncini, né una singola sfumatura > o inflessione che non sia stata segnalata, come un rallentamento in > autostrada, da un piccolo disegno o da un segno ad hoc, su un foglio di cinque > righi o suo equivalente, da quell’altra divinità mitica che è diventato il > Compositore. > > Jacques Chailley, La Musique et le Signe, Edition d’aujourd’hui, > Plan-de-la-tour, France, 2004, p. 5 (trad. mia). Che la grafia sia segno o lasci un segno è cosa nota e per lo più scontata. Lo scrivere, atto innaturale e volgare che infatti i re e le divinità concedevano a scribi e profeti, dopotutto è quella cosa lì, tracciare sulla cera, sulla carta, sul muro o sulle porte delle latrine le proprie bêtises. Eppure, che a un certo punto la musica abbia sentito la necessità di dotarsi di una grafia, di un segno, di qualcosa che la rappresentasse, lascia interdetti. Benché questo segno non le sia congeniale e con essa non abbia alcuna contiguità, la musica ne ha voluto uno tutto per sé come la zitella che non vedeva l’ora di prendere marito. Cosicché il suo mondo dirozzato dal segno grafico e dalla parola improvvisamente inciampa, diciamo così, nella grossolana ovvietà della grafia che, nel suo caso, diventa notazione. La musica, insomma, come un linguaggio qualsiasi, avverte l’inspiegabile necessità di dotarsi di un segno e infine lo ottiene, ma in un attimo perde la noblesse che il phàrmakon della scrittura proditoriamente le ha sottratto. Musicisti e strimpelloni dovrebbero tenerne conto invece di scimunirsi con Études d’exécution transcendante e Gradus ad Parnassum. A costoro farebbe bene adottare un po’ di quell’intransigenza con la quale nel Fedroplatonico Thamus schivò le blandizie del dio Theuth che gli presentava le miracolose virtù della scrittura. Invece il loro grafismo isterico e il loro ottuso narcisismo trascurano la parte più importante della faccenda: la musica non ama l’insolenza del segno o di qualsiasi discorso che intenda sottrarle lo scettro regale con il quale impone le sue diaboliche leggi. Con il nobile pretesto di tracciare una provvisoria e non esaustiva storia della Scuola pianistica a Napoli dall’Ottocento a oggi, Girolamo De Simone (Napoli, 1964) è tra i pochi musicisti contemporanei che si è posto il problema della grafia musicale concettualizzandolo. L’esito di questo lavoro è depositato nell’ultimo capitolo del suo nuovo saggio intitolato, appunto, Graffi e Grafie. Pianismi e pianisti a Napoli. Non che per le sue composizioni De Simone abbia completamente abbandonato la tradizionale notazione musicale (già perlopiù deformata o adattata alla nuova frontiera della sua espressione artistica), ma ciò che qui si fa interessante e si impone per novità di pensiero è l’adozione e l’uso personalissimo del graph, del «segno mobile» che egli prende dalla lettura e dallo studio delle poche e quasi sconosciute opere di Aldo Braibanti (1922-2014), il libero pensatore piacentino che alla fine degli anni Sessanta subì un processo per plagio – credo unico in Italia – culminato con la sua condanna a quattro anni di carcere. Il graph, afferma Girolamo De Simone, deve poter attestare e garantire la «totale mobilità formale» necessaria alla ricerca e alla nascita di nuovi linguaggi sonori. Perciò esso, più che segno vero e proprio, più che forma cristallizzata e stantia di notazione musicale, è l’idea stessa che incoraggia il cambiamento, è ciò che «trascorre al di là della dialettica», è il nome dato allo «sforzo di ricondurre lo strumento inorganico all’organo». Per tale motivo, il graph deve essere libero, deve potersi muovere, poter scorrere, scavare, solcare e ferire come il graffio con il quale condivide esiti e assonanze linguistiche. Dunque, il graph di Braibanti nella ripresa concettuale che ne fa De Simone si accresce di senso fino al punto che la sua mobilità diventa sinonimo di passaggio generazionale, di attraversamento, di transito verso nuovi codici e nuovi stili. La stagnazione del pensiero che produce il tanfo mucido delle accademie è assolutamente ostile a Girolamo De Simone che in Graffi e Grafie si confronta con il pensiero acratico dell’“eretico” Braibanti. Sì, acratico è l’aggettivo che Braibanti preferiva al più comune anarchico. («Acrazia, e anticrazia come suo aspetto operativo, vogliono essere non tanto parole da sostituirsi alle classiche parole dell’anarchia storica, quanto indicazioni eloquenti della necessità di estendere l’indagine anarchica al di là delle sue accezioni strettamente politiche, cercandone l’origine e i fondamenti in uno spazio più comprensivo»: A. Braibanti, Impresa dei prolegomeni acratici). È in questo sistema di libertà che opera il graph di Braibanti e muove la sua reinterpretazione in chiave storico-musicale Girolamo De Simone. Il graffio sfregiante che il musicista napoletano individua in origine nella scrittura rarefatta delle composizioni di Luciano Cilio (1950-1983) fino a quella concettuale e al limite del silenzio di Gabriele Montagano (1960) e poi nella musica di Enrico Renna (1952), di Lorenzo Pone (1991), per prolungarsi, in linea di continuità, con la propria produzione musicale, come nel recente Liturgie du souffle,sfruttando il trait d’union generazionale di Eugenio Fels (recentemente scomparso), conferma la lucidità della sua intuizione. La mobilità acratica del graph che se ne sbatte del potere costituito e della tignosa supponenza delle élites accademiche è la radice comune della produzione artistica dei compositori che a Napoli, città ingrata come poche, hanno operato nella seconda metà del Novecento e che, con più difficoltà che altrove, continuano ancora oggi la loro ricerca sonora. Una ricerca che, per ora, è registrata in dettaglio e con pignoleria nell’agile saggio di Girolamo De Simone pubblicato da Konsequenz. Vincenzo Liguori *In copertina: Theodoor Rombouts, Il suonatore di liuto, 1620 ca. L'articolo Graffi, grafie e graph. L’eresia della scrittura musicale proviene da Pangea.
July 16, 2025 / Pangea
“È l’assalto di Lucifero contro il mondo”. Armand Robin, l’uomo che ascoltava le voci e svelò il metodo delle “fake news”
Usava una parola molto più possente. Per dire ciò che noi intendiamo, indotti dagli intellettuali modaioli, con fake news, lui diceva «controverità» – e occorre aggiungere che quest’uomo dal nome di un brigante variopinto, con gli occhiali tondi e il sorriso laccato, aveva già capito tutto ottant’anni fa o quasi. L’immagine è questa. Siamo nel 1941 e il tizio, prima per impegno contratto con il ministero dell’Informazione del governo di Vichy, poi da casa sua, per i fatti suoi, ha le cuffie e ascolta le voci. Si è costruito un apparecchio radio, e lui è lì, specie di sentinella che smista i linguaggi, a spiare cosa si dice a Tokyo, a Istanbul, a Mosca, a Londra, a New York. Tutto il mondo ronza nelle sue orecchie. E lui, registra. In un capoverso che pare il sunto di un romanzo di H.P. Lovecraft, racconta così ciò che ascolta, la notte, mentre Morfeo disintegra Parigi:  > «Nel corso del mio tête-à-tête con le radio del mondo, mi capita di provare la > sensazione, come per via medianica, di un contatto con i temibili esseri > psichici che assediano il pianeta, ossessionano l’umanità, cercano interi > popoli di menti da soggiogare, divorare, saharizzare… Al di là delle parole, > percepisco le grida dei carnivori della mente in cerca del pasto». Armand Robin, classe 1912, ultimo di otto figli, si vantava di essere nato in «una famiglia contadina scarsamente alfabetizzata»: nel 1931 comincia a studiare il russo e il polacco, s’impantana nei linguaggi e in quel labirinto si perde, «è destinato a diventare un vero e proprio poliglotta, arrivando ad usare, quando non parlare e scrivere, una ventina di lingue e dialetti». Traduttore inossidabile, di Goethe, Shakespeare, Pessoa, Khayyam, Majakovskij e Lope de Vega, il suo talento è riconosciuto anche da Ungaretti:  > «le mie poesie tradotte da Robin sono io più Robin. Mi ha colto alla radice. > Sotto terra c’è una seconda fioritura».  Robin ha il radar del linguaggio, è una specie di Isaia che profetizza, nel niente contemporaneo, in tutte le lingue del mondo. Sa, pure, che il linguaggio è spietato e chiede tutto. A lui sottrae il talento creativo. In un aforisma di violenta nitidezza, Robin si definisce  > «poeta senz’opera, eliminato dalla sua stessa poesia, suicida canto per canto, > una gola strozzata da parole troppo esigenti». Ma torniamo in quella stanza radiofonica, dove Robin ascolta le voci degli altri.  Lì, nel suo bunker privato, uno shuttle gettato nel cuore della Storia – «Non vivevo che visitato da lamenti, preso di mira dai pianti di ogni Paese» – Robin esplicita l’essenza delle fake news. Tutto comincia, però, con il fatidico viaggio in Russia, nel 1933, in estasi comunista. Prima di tutti, sul campo, Robin capisce cos’è l’Unione Sovietica: «Quanto hai visto fu un incubo, un mondo in cui ogni senso della dignità umana è morto, perseguitato». Nel 1940 incontra Pierre Drieu La Rochelle e collabora con Vichy come «ascoltatore di voci» via radio. L’esito di questi ascolti, che proseguono per oltre un decennio, sfocia in un libro indefinibile e magnetico, La fausse parole, pubblicato dalla Éditions de Minuit nel 1953 e proposto, insieme ad altri scritti, da Giometti & Antonello, nel 2018, come L’indesiderabile. La falsa parola e altri scritti (a cura di Antonio Malinverno). In un paragrafo, Al di là di menzogna e verità. Mosca alla radio, Robin spiega la dinamica della fake new, della «controverità», che durante l’era stalinista giunge a vertici deliranti. Proclamare reiteratamente che il mondo in cui si vive, anche se fa schifo, è il più bello possibile, ha per scopo l’annientamento della realtà. Obbiettivo di ogni regime – anzi, di ogni politica –, risolto da Stalin con sublime audacia.  > «In breve, è come se la realtà non esistesse, o almeno come se il vero scopo a > cui si mira fosse di correggere l’umanità dalla sua indesiderabile propensione > a constatare che quanto esiste, esiste davvero… Per quanta immaginazione si > abbia, è difficile concepire un modo migliore per far sentire agli uomini che > la loro coscienza non ha più nessuna ragion d’essere, che è ormai soltanto una > grottesca vestige. Si tratta della liquidazione dell’umano intendere. > Nonostante sia la prima volta nella storia dell’umanità che una simile impresa > viene tentata con tanta suprema abilità, essa porta lo stesso nome da secoli: > è l’assalto di Lucifero contro l’uomo». Robin, l’uomo che disinnescò il sistema della propaganda, lavorava con Vichy e passava le notizie ai giornali clandestini: sorvegliato dalla Gestapo, malsopportato dagli intellettuali di sinistra – rappresentati da Eluard e Aragon, su cui piombavano i devastanti fulmini di Robin: «La nostra letteratura è stata disonorata da quella miserabile farsa chiamata per antifrasi poesia della Resistenza (quale poesia? Quale resistenza?)… Si sono visti i cantori della libertà presiedere i tribunali dell’inquisizione, i distruttori di prigioni reclamare la moltiplicazione delle prigioni». Dopo la guerra, fu inserito nella lista nera dei collaborazionisti. Non se ne curò. S’iscrisse alla Fédération Anarchiste per puro spirito, si diede a epici vagabondaggi in motocicletta, tradusse Boris Pasternak, verso cui riservava un’ammirazione assoluta («è l’individuo in quanto tale assolutamente inscalfito dal comunismo»). Morì nel 1961, sopraffatto dai debiti, «per cause mai accertate», dopo essere stato condotto a forza al commissariato di quartiere, Parigi. Era il 28 marzo, faceva a cazzotti in un caffè, forse; «in seguito al rifiuto dell’eredità da parte della famiglia, tutti i beni di Robin sono finiti nella discarica pubblica. Solo tre valigie di manoscritti raccolti in dieci minuti vengono salvate in extremis».  Così, come un errore grammaticale, svanì un uomo fantomatico, di traslucida veggenza – di sé disse: «attraversando tutti i paesi fui trasparente. Non ho riconosciuto frontiere». Il regime irrigidisce la grammatica, preda il linguaggio, lo conquista e da lì imprigiona l’uomo – questo ci ha insegnato Robin. *In copertina: una immagine tratta da “Le vite degli altri”, film di Florian Henckel von Donnersmarck del 2006 L'articolo “È l’assalto di Lucifero contro il mondo”. Armand Robin, l’uomo che ascoltava le voci e svelò il metodo delle “fake news” proviene da Pangea.
July 8, 2025 / Pangea
“Manifest Destiny”: il progresso come missione, o del carisma degli Stati Uniti. Dialogo con Andrea Laquidara
> “Nel quadro, una figura femminile, bianca e luminosa, procede da est a ovest, > tenendo tra le mani un libro e i fili del telegrafo (…); alle sue spalle, e > nella stessa direzione, procedono i vagoni di un treno, mentre alla sua > sinistra, più in primo piano nel dipinto, uomini armati di aratro camminano > con calma su una strada dritta. I tre personaggi, la donna, il treno e i > farmers, avanzano lungo tracciati paralleli e ordinati. La parte sinistra del > quadro, quella a ovest, è invece occupata da figure disposte in modo > decisamente più irregolare: si tratta di nativi e animali che fuggono > incivilmente, spinti fuori campo dall’incedere rassicurante del progresso”.  > > (Andrea Laquidara, John Ford e il cinema americano, Mimesis 2019, pp.29-30) Nel dipinto del 1872 American Progress di John Gast, artista statunitense dalle venature naïf nato a Berlino, specializzato in litografie, la donna splendente con la stella sulla fronte che procede levitando verso Ovest (a cui si ispira il personaggio della DC Comics Wonder Woman) incarna la famosa dottrina ottocentesca del Manifest Destiny: il progresso inarrestabile visto come una missione divina, affidata agli Stati Uniti, i quali avevano il dovere di espandersi sul continente per portare la luce della civiltà verso la natura oscura e selvaggia – e ostile – da colonizzare. Una civiltà che ha costruito la sua identità in modo cruento, nell’inevitabile confronto/conflitto con il selvaggio, che andava allontanato, piegato, addomesticato, e nelle fasi estreme di guerra andava sterminato, proprio in nome del Destino Manifesto. Il termine, coniato dal giornalista-editore John L. O’Sullivan, divenne popolare nel 1845 nella disputa territoriale per l’Oregon e nell’annessione del Texas: una rivendicazione per «il diritto del nostro destino manifesto di diffonderci per l’intero continente, che la Provvidenza ci ha dato per lo sviluppo di un grande esperimento di libertà e di autogoverno federato». Termine che venne usato per la prima volta in un discorso al Congresso da Robert Winthrop nel 1846: «I mean that new revelation of right which has been designated as the right of our manifest destiny to spread over this whole continent. (…) The right of our manifest destiny! There is a right for a new chapter in the law of nations; or rather, in the special laws of our own country; for I suppose the right of a manifest destiny to spread will not be admitted to exist in any nation except the universal Yankee nation!». Per riprendere questo tema vogliamo tornare al saggio di Andrea Laquidara John Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di Dioniso (Mimesis 2019), di cui già abbiamo parlato a proposito della Diligenza per Lordsburg, trasposta al cinema con il celeberrimo Stagecoach, ovvero Ombre rosse. Abbiamo visto che John Ford ha segnato la storia del cinema per aver costantemente tematizzato il confronto con il selvaggio, proprio attingendo alla tradizione dell’immaginario statunitense ottocentesco. E il suo primo film di grande successo, quello che gli diede notorietà e peso, risale al 1924, in pieno cinema muto: The Iron Horse, una grande epopea che racconta la costruzione della prima linea ferroviaria transcontinentale americana negli anni successivi alla Guerra Civile. La pellicola venne girata in gran parte negli altopiani desertici vicino a Reno, Nevada, e impiegò centinaia di comparse, che comprendevano operai cinesi, irlandesi e indiani Paiute. Il racconto prende episodi fondamentali della storia americana: la Guerra Civile, la presidenza di Lincoln, l’espansione verso Ovest e gli scontri con gli indiani, e mostra come la costruzione della ferrovia transcontinentale si sposava indefettibilmente con l’ideologia del Manifest Destiny, sostenuta come necessaria e inevitabile. Il progetto della ferrovia transcontinentale venne elaborato per la prima volta nel 1845, ma il Congresso non riuscì a dargli una fisionomia definitiva a causa dei contrasti sul percorso da scegliere. In seguito, la secessione degli stati del Sud e la guerra conseguente favorirono la scelta, appoggiata dai nordisti, di un percorso che tagliasse le regioni centrali degli Stati Uniti, e nel 1862 il Congresso approvò il Pacific Railway Act, che autorizzava la compagnia Union Pacific Railroad a costruire in direzione ovest a partire da Omaha, mentre la Central Pacific Railroad of California ottenne il permesso di costruire la linea in direzione est, partendo da Sacramento. Era un’impresa di enorme difficoltà, trattandosi di regioni isolate e quasi disabitate: tutto quanto, le traversine, il pietrisco, i binari di ferro, il materiale rotabile, i macchinari dovevano essere trasportati sui luoghi del cantiere da molto lontano, insieme alle provviste e ai rifornimenti per migliaia di operai – in buona parte immigrati e veterani dell’esercito dell’Unione smobilitati – che, spesso, erano costretti a lasciare i picconi e a imbracciare i fucili per respingere gli immancabili attacchi degli indiani. In John Ford e il cinema americano, Andrea Laquidara si spinge ancora più indietro rispetto al periodo canonico anni ’30 – anni ’60, considerato il più significativo nella maggioranza delle monografie sul regista, per analizzare proprio The Iron Horse del 1924, Il cavallo d’acciaio, la maestosa ricostruzione dell’impresa ferroviaria ottocentesca. Abbiamo il topografo David Brandon Sr che porta con sé il figlio David Jr in un viaggio esplorativo, nel sogno di realizzare un giorno la grande ferrovia transcontinentale; ma i due vengono assaliti da una banda di Cheyenne, il cui capo – un bianco travestito da selvaggio – uccide il padre lasciando il figlio solo e abbandonato a sé stesso. Anni dopo, l’imprenditore Marsh, padre di Miriam, la ragazzina che il piccolo David Brandon aveva dovuto lasciare per seguire il padre, presiede la Union Pacific, incaricata di costruire il tratto fra il Nebraska e lo Utah; Miriam è fidanzata con Jesson, ingegnere al servizio del padre. Il ricco possidente Deroux, il villain della storia, fa di tutto per impedire che la ferrovia segua un percorso lineare, cercando di convincere l’imprenditore Marsh a farla deviare nelle sue terre. Ma il provvidenziale rientro in scena di David Brandon, ora impiegato come pony express, manda all’aria il suo intento: il giovane suggerisce a Marsh una scorciatoia, lo shorter pass che aveva individuato col padre in quel tragico viaggio. Va da sé che il malvagio Deroux cerchi di eliminare David, con la complicità dell’ingegnere Jesson, geloso per l’amore che sta rifiorendo fra i ritrovati David e Miriam, ma l’intento non riesce: “dunque a Deroux non rimane che scatenare un gruppo di agguerriti Cheyenne: questi aggrediscono i lavoratori, li accerchiano, e rischiano di interrompere definitivamente il progredire della ‘civiltà’, se non fosse che l’intera cittadina di Cheyenne City, costituita da immigrati irlandesi, cinesi, italiani (un po’ riluttanti questi ultimi), si anima e corre in aiuto degli operai”.  Ora fermiamo il riassunto, lasciando il finale a chi voglia guardare la pellicola, e partendo da qui dialoghiamo con l’autore, studioso, regista e insegnante di Cinema all’Università di Urbino, per ragionare su alcuni aspetti – anche sorprendenti – di questo film. Dopo alcune scaramucce con gli indiani, risolte dalla determinazione degli operai che si difendono a fucilate, il grande assalto alla ferrovia da parte dei Cheyenne arriva dopo circa due ore: Ford filma l’aggressione, che si sviluppa “at the end of the track”, con i lavoratori guidati da David Brandon che “imbracciano le armi e si rifugiano sotto i vagoni, tra i binari, immediatamente trasformati in trincea”. È interessante vedere la coreografia dell’assedio dei Cheyenne: la provenienza da sinistra, ovvero da Ovest – che ricorda gli avispici eseguiti dagli àuguri nella nostra antichità – e il senso antiorario della corsa: tutti elementi carichi di significato. Nel cinema – nel buon cinema – vi è sempre una compresenza di esplicito e implicito, di non detto e dichiarato: significati, valori, visioni del mondo arrivano allo sguardo dello spettatore tramite elementi evidenti del contenuto, ma soprattutto grazie a scelte stilistiche insieme sottili e clamorose. Nella scena della battaglia di The Iron Horse vi sono dettagli di regia densissimi di richiami alla filosofia che pervade l’immaginario statunitense dai tempi della Rivoluzione americana – probabilmente anche da prima. I Cheyenne attaccano dalla sinistra dello schermo, dal West, da una terra non ancora civilized, muovendosi in direzione opposta al simbolo più esemplare della marcia del progresso, la ferrovia. Il percorso dei nativi (i “selvaggi”) confluisce in un cerchio, e Ford ce lo mostra con chiarezza in una serie di campi lunghissimi alternati con perizia a piani più stretti: il cerchio (antiorario, perdipiù) contraddice la linea, la stasi selvaggia si oppone al progresso razionale. Progresso borghese, potremmo aggiungere. C’è poi un aspetto di grande rilevanza legato al taglio delle inquadrature e al meccanismo di identificazione che esso determina nello spettatore. Per tutta la sequenza della battaglia, i primi piani o le mezze figure sono riservati esclusivamente ai lavoratori vittime dell’attacco, mentre i Cheyenne sono inquadrati sempre con totali, pienamente assorbiti nella grigia e ostile wilderness. Il pubblico è dunque indotto a empatizzare con le vittime, mentre i nativi assumono il solo ruolo di mere e anonime minacce – inseriti nel paesaggio, come le rocce e gli animali, ci dice Sandro Bernardi in una riflessione interessantissima sul cinema di Ford. Si tratta di un espediente retorico largamente presente nel cinema hollywoodiano, anche in tempi più recenti. Mi viene in mente American Sniper, di Clint Eastwood, un western “mediorientale”: la scena iniziale (il cecchino Chris ha appena ucciso una donna intenta a lanciare una bomba contro un carro armato statunitense; un bambino la raccoglie e prosegue la corsa verso l’obiettivo; Chris prende la mira, ma esita per qualche istante) viene lasciata in sospeso per consentire agli spettatori un approfondimento del contesto e dei personaggi. Per quasi mezz’ora, un flashback ci accompagna nella memoria del cecchino, alla ricerca di risposte ai nostri interrogativi: perché è qui con un fucile in mano? Perché punta un bambino? Che educazione ha avuto? Cos’è accaduto agli Stati Uniti negli ultimi trent’anni? A ben vedere, tuttavia, si tratta di un trucco, anche piuttosto scorretto: per quale motivo Eastwood non dedica altrettanto tempo ai due aggressori? Perché non approfondisce anche la loro storia? Come mai sono lì con una bomba in mano? Che educazione hanno avuto? In che condizioni si trova il Medio Oriente da almeno cinquant’anni? No, mamma e figlio sono solo due pericolosi terroristi anonimi, e dunque il duplice omicidio messo in atto da Chris (uno dei tanti difensori della civiltà hollywoodiana) è presentato sì come terribile, ma necessario. Il fatto che il cerchio contraddica la linea diritta del progresso ci rimanda al simbolo del tempo per gli indiani d’America: per loro il tempo diurno, il tempo notturno e le fasi della luna sarebbero posti sopra il mondo, e il tempo dell’anno sarebbe un cerchio intorno al bordo del mondo. E questa circolarità, come lei osserva, si imparenta con l’Ewige Wiederkunft del Gleichen, l’eterno ritorno dell’uguale teorizzato da Friedrich Nietzsche. Il discorso sul tempo, sulla filosofia del tempo che fonda le nostre identità, è trattato spesso con frettolosità, o addirittura trascurato, mentre si tratta di un tema urgente, che richiederebbe una riflessione molto ampia. A proposito della teoria dell’Eterno ritorno di Nietzsche, credo si tratti di un’intuizione sfuggente ed enigmatica, a volte fraintesa. Ho sentito opinioni (di semplici amatori e di addetti ai lavori) che interpretano il ritorno nietzschiano come ripetitività routinaria, da cui il filosofo ci inviterebbe a liberarci, come un fiume smuove e ripulisce l’acqua torbida di uno stagno. In realtà la circolarità del tempo di cui parla Nietzsche è tanto insopportabile quanto gioiosa: è una potente affermazione della vita che divincola dalla perenne attesa di un mondo altro. “Quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più nient’altro!”, ci dice il demone ne La gaia scienza. Se osserviamo con attenzione, dobbiamo constatare che la configurazione del tempo lineare, inteso come una freccia tesa verso altrove, getta l’uomo in una condizione di attesa speranzosa e pessimistica, che svaluta la vita presente, la vita terrena tangibile. Una simile configurazione si colloca a fondamento tanto della metafisica cristiana, quanto della società capitalista contemporanea, che comanda il sacrificio del presente, in vista del conseguimento futuro di un guadagno infinito. Un fantasma di guadagno, in realtà, ma efficacissimo come punto di fuga per l’esistenza umana. Nel puritanesimo in cui affonda le radici la cultura statunitense sono presenti entrambe le istanze, quella cristiana e quella capitalista. È chiaro che, osservato dalla locomotiva che galoppa lineare sui binari d’acciaio del progresso, il tempo ciclico dei nativi – proprio di tante altre culture, antiche e contemporanee – non è altro che una torbida fase di ristagno, l’avaria del motore, l’interruzione della linea: “The line went dead”, afferma un soldato in Stagecoach, comunicando al comandante che il selvaggio Geronimo ha tagliato la linea del telegrafo. Vediamo come si arriva a quella specie di suprematismo che informava la dottrina ottocentesca del Destino Manifesto, il motore dell’intera macchina colonizzatrice dell’Uomo Bianco. Si parte da J. Hector St. John de Crèvecœur con il suo Letters from an American Farmer del 1782, dove si definisce una distinzione netta fra le due sponde dell’Atlantico: la vecchia Europa come terreno ormai sterile e il suolo americano che può offrire una rigenerazione e dar vita a una nuova umanità. Poi abbiamo Thomas Hart “Old Bullion” Benton, primo senatore del Missouri che a partire dal 1820 teorizza l’espansione verso il Pacifico come simbolo della libertà e della grandezza dell’America. Ora, dopo duecento anni, sembra che questa dottrina stia trovando echi inquietanti anche nell’America di oggi, in questa pirotecnica seconda presidenza di Donald Trump con il suo Make America Great Again, con le dichiarate velleità espansionistiche – ai limiti del grottesco – verso il confinante Canada e verso la Groenlandia, definite “necessarie” per lo sviluppo americano e il progresso verso la felicità, e le improvvise azioni guerresche che incendiano definitivamente il Medio Oriente. Siamo di nuovo di fronte a un “tempo che ritorna”? Non si tratta del ritorno nietzschiano come affermazione coraggiosa della vita, tutt’altro: le narrazioni statunitensi sono piuttosto pervase di paura dell’Altro, una forza centripeta che genera inevitabilmente chiusura e conflitto. A proposito di questa immaginifica rigenerazione che avrebbe prodotto l’uomo nuovo, l’americano, oltre ai personaggi già citati, de Crèvecœur, Benton, vale la pena ricordare Frederick Turner e la sua interpretazione della frontiera americana, proposta sul finire dell’Ottocento. Lo storico distingue le frontiere europee (plurali), che separano una cultura da un’altra cultura, dalla frontiera americana (singolare), che distingue cultura da wilderness. Questo confronto arcaico, originario col grado zero della civiltà avrebbe rigenerato lo svigorito uomo europeo, dando vita all’americano, l’uomo nuovo di frontiera, in grado di riaffermare le leggi eterne che Dio ha dato alla Natura. Sembra la storia di Superman… Noi sappiamo che si tratta di una gran bella menzogna: l’Europa non era popolata da fiacchi individui occhialuti, malati di civiltà, e di là dal recinto americano non c’era affatto una terra caotica in cui portare la razionalità divina, ma una miriade di culture antiche e complesse che popolavano un paesaggio ricco e vario. Tuttavia questa narrazione è stata efficacissima per giustificare la chiusura verso le proprie origini e lo sterminio attuato ai danni dei nativi. Il metodo è stato mantenuto nei decenni successivi, sempre più evoluto, divincolato dalla dimensione esclusivamente territoriale: si legga al riguardo il bel saggio di Ilaria Moschini Il grande cerchio. Theodore Roosevelt, già nel 1904, investe gli Stati Uniti del ruolo di polizia internazionale, chiamata a intervenire “elsewhere”, ovunque l’ordine e la stabilità sia messa in pericolo; noi tutti ricordiamo l’“esportazione della democrazia” proposta generosamente al mondo da George W. Bush, a inizio millennio, giustificata dall’attentato alle Twin Towers. Per arrivare ai giorni nostri, ritengo che i capricci e le pagliacciate di Trump siano l’ultimo aggiornamento di queste narrazioni: armi di distrazione di massa che, al pari delle storie e dei miti westerndi cento anni fa, servono a occultare un piano ben ordinato, razionale, lineare di assimilazione, di appiattimento, di omologazione dell’altro ai propri fantasmi ideali. Un’identità fragile difficilmente si apre all’alterità. Chissà se alla Casa Bianca stanno già lavorando a un video che prefiguri le meraviglie dell’Iran futuro… Tornando a The Iron Horse, lei ha fatto riferimento alla frammentazione etnica del corpo lavoratori, che con scavi e martellate posavano binari e traversine con grande lena – anche in una specie di “gara” fra le due compagnie per riuscire a completare il proprio tratto per prima. Nel film questa molteplicità culturale, di indole e di espressioni verbali si vede anche nei pannelli delle didascalie, dove a volte i dialoghi degli operai sono espressi in un americano allegramente deformato, forse dalla spensieratezza lessicale degli sradicati.  Sì, in The Iron Horse è presentato quest’aspetto costitutivo della società statunitense, punto d’incontro di traiettorie provenienti da origini molteplici. Anche in questo fenomeno troviamo una interessante ambivalenza, una compresenza di apertura e chiusura. Per lungo tempo si è parlato degli Stati Uniti come di un Melting Pot, un calderone che raccoglie ingredienti di provenienza varia e li compone insieme, formando una nuova, laboriosa società cosmopolita. Il termine è ripreso dall’opera teatrale omonima di Israel Zangwill, che nel 1908 immaginava l’America come il crogiuolo di Dio, in cui si entra italiani, cinesi, tedeschi, irlandesi, e miracolosamente si esce americani. Vi è naturalmente il rischio concreto di vivere un processo di omologazione, di assimilazione. Nel film di Ford, la battaglia difensiva contro i nativi è in qualche modo il calderone che impasta e compatta i lavoratori immigrati, trasformandoli in orgogliosi statunitensi. Mi viene in mente Jacques Feyder, grande regista francese, precursore del Realismo poetico, e la gustosa descrizione che egli ci offre della sua esperienza hollywoodiana, avuta negli anni Venti e Trenta. La riassumo in poche righe. Stanchi dei loro prodotti piuttosto ripetitivi, gli americani decidono di dare nuova linfa alla propria estetica chiamando qualche regista europeo alla propria corte. E così Feyder approda a Hollywood, ci racconta i numerosi incontri con i produttori, il confronto sul soggetto giusto, la sceneggiatura appropriata, i compromessi, le incomprensioni, le strette di mano; e ancora l’inizio della lavorazione, straordinariamente efficace e lineare: tutto funziona alla perfezione, “tutto viaggia sul velluto”. Finché il film è concluso, e ci si incontra per l’anteprima. È lì che il regista, seguendo sullo schermo il fluire di un film che viaggia senza alcun intoppo, deve confessare a se stesso: “E’ venuto molto bene, ma non è il mio film”. Non sono io. E a conclusione della proiezione, sui volti di tutti i membri della produzione, legge lo stesso pensiero: “Ma perché abbiamo chiamato dall’Europa uno che ha girato un film che qualsiasi nostro regista avrebbe potuto dirigere?”. I pochi cineasti che, chiamati a lavorare negli Stati Uniti, sono riusciti in qualche modo a conservare la propria identità professionale – Stroheim, Renoir, Antonioni – sono stati fortemente osteggiati da Hollywood. Anche in questo caso, il cinema è metafora di una dinamica sociale fortemente radicata nella cultura occidentale.  John Ford si è grandemente impegnato a inquadrare il Caos, ovvero la wilderness, in diverse prospettive e da diverse angolazioni, dedicandosi all’epopea del West quasi come un adepto alla sua religione. E lo ha fatto da uomo del suo tempo e della sua cultura, in un orizzonte – come lei dice – denso di richiami agli ideali illuministi, alla concezione borghese del viaggio, alla tecnologia come strumento di dominio. In cosa credeva e come si gratificava John Ford nello sviluppo della sua carriera, e in cosa smise di credere verso la conclusione della sua parabola artistica? John Ford era considerato il più affidabile dei registi hollywoodiani. E questa affidabilità io ritengo sia dovuta anche al suo modo di inquadrare la wilderness, allo sguardo che gettava – o credeva di gettare – al di là della frontiera, in linea con lo sguardo di Hollywood. Prendendo a prestito il lessico lacaniano, si può dire che sin dalle sue origini, il cinema americano abbia collocato un’immagine della wilderness davanti alla wilderness stessa, per rimuovere l’angoscia che essa può provocare, per evitare di esserne bewildered, disorientato. Ho già citato Jean Renoir, grande regista francese, coevo di Ford. Non è un caso che, nel suo periodo americano (gli anni Quaranta), fu fortemente osteggiato dai produttori hollywoodiani proprio perché adoperava la macchina da presa come strumento di apertura, di esplorazione, come espressione di curiosità verso un territorio sconosciuto e inquieto. La visione fordiana della wilderness, proprio per il suo carattere di chiusura, era destinata a un’inesorabile decomposizione, destrutturata dall’interno dall’autoreferenzialità che la fonda. Il che, lo ribadisco, la rende rappresentativa dell’intera cultura occidentale dominante. Lindsay Anderson, nel suo volume sul cineasta americano, registra negli ultimi anni della vita e della filmografia di Ford un progressivo incupimento, un nichilismo ruvido che impregna alcune delle ultime pellicole fordiane. Ce ne sono due, a mio parere, significative, entrambe dirette negli anni ’60, quando il mondo e il cinema erano ormai mutati e reclamavano un cambiamento di prospettiva dai cineasti. La prima è Cheyenne Autumn: dopo decenni di demonizzazione degli “indiani”, il regista western per eccellenza sembra fare ammenda e riconoscere valore alla cultura dei nativi. Viene tuttavia mantenuta l’antipatica abitudine hollywoodiana di far interpretare Comanche, Cheyenne, Sioux da attori che di nativo non hanno nulla: messicani, italiani, spagnoli, etc, solo perché rispondono al cliché del volto esotico. In più, leggendo le interviste rilasciate in quegli anni dal regista, può lasciare perplessi il carattere assimilazionista nascosto in alcune affermazioni: “Ho un enorme affetto per gli Indiani. È un popolo molto morale […] hanno una letteratura […] amano i bambini e gli animali”. Il valore dell’altro cresce proporzionalmente alla somiglianza con l’identico. L’altra pellicola è The Man Who Shot Liberty Valance. In questo film si avverte la necessità di Ford di prestare orecchio alle istanze del nascente cinema moderno, e, nello specifico, la forte influenza di quel capolavoro che è Rashomon di Kurosawa. Ricorderete che nel film del regista giapponese, con una serie di flashback, si cerca di definire cosa sia davvero accaduto nelle ore precedenti al processo, e chi sia l’assassino dell’uomo ritrovato per caso da un contadino di passaggio. Ciascuna delle testimonianze offre una prospettiva diversa e ridisegna i personaggi, le azioni, le relazioni. Anche Ford costruisce una narrazione prevalentemente orientata al passato, inquadrando un evento cruciale accaduto decenni prima, sulla frontiera, l’uccisione del bandito Liberty Valance, e, attraverso una duplicazione del flashback, si chiede chi lo abbia ucciso davvero: il senatore Ransom (James Stewart), come la storia ufficiale racconta, o il rude Tom (John Wayne)? Se però a conclusione di Rashomon dobbiamo constatare che il regista ha inquadrato da tante angolazioni un’oggettività sfuggente, invitandoci ad accettare l’assenza di una verità unica, Ford adopera una tecnica simile ma con uno scopo diverso: svelare la menzogna ufficiale e affermare la verità nascosta. È Tom – un americano vero, direbbe Turner – che ha liberato la città dal bestiale Valance, è a lui che si deve la fondazione della civiltà, anche se la storia lo ha voluto dimenticare. C’è una fatica, una resistenza caparbia a rinunciare alla prospettiva certa, al pensiero unico, alla Verità, una pericolosa fede nel proprio punto di vista che non limita solo l’estetica cinematografica, ma la visione stessa della realtà, fuori dalla finestra.  Paolo Ferrucci *In copertina: John Gast, American Progress, 1872, rappresentazione allegorica del “Destino manifesto” degli Stati Uniti L'articolo “Manifest Destiny”: il progresso come missione, o del carisma degli Stati Uniti. Dialogo con Andrea Laquidara proviene da Pangea.
July 4, 2025 / Pangea
Viaggio a Khinalig, il villaggio alla fine e al principio del mondo
Due bimbi lerci e bellissimi saltellano verso di noi non appena smontati dalla maršrutka, ancora ubriachi dall’assurdo viaggio, un serpente di asfalto lungo precipizi abissali, banchi di nebbia e cumuli di ghiaccio e piramidi di massi al bordo della carreggiata. Fra le mani reggono delle calze colorate di lana di pecora, e ce le porgono. La tessitura delle calze di lana di pecora è una attività del posto in cui ci troviamo, forse l’unica. Siamo a Khinalig, remoto villaggio dell’Azerbaigian nordorientale, posto su un cucuzzolo a circa 2.300 metri di altezza fra i picchi del Grande Caucaso. È il più alto e isolato centro abitato dell’ex repubblica socialista sovietica e uno di quelli più sperduti e ad altitudine maggiore della regione del Caucaso e di tutta l’Eurasia. A Khinalig – Xınalıq in azero – ci si arriva da Quba, popolosa cittadina a nord di Baku distante circa sessanta chilometri, percorrendo quella che in principio è una strada di grande comunicazione e di straordinaria impervietà lungo il letto pietroso del Qudiyalçay, un fiume che senz’altro ha vissuto anni migliori. Qua e là, sul margine della corsia polverosa, bovini al pascolo, capannelle di venditori di kebab e contadini che offrono su dei banchetti mobili i frutti delle loro terre. Sono immagini di un mondo dimenticato, distantissimo dai processi di integrazione e di mondializzazione del nostro secolo. Man mano che percorriamo i chilometri alla velocità elevata tipica degli autisti dell’Est ma di certo non appropriata a questi tragitti, le auto diminuiscono e la strada si restringe. La civiltà così come la conosciamo è sparita da un pezzo quando, dopo l’ennesimo curvone coperto dalla bruma, scorgiamo d’improvviso Khinalig, a dritta, a poche centinaia di metri, nell’anfiteatro naturale che ci offrono le vette innevate del Tufandağ, del Shahdagh e del Bazardüzü, quest’ultima la cima più elevata dell’Azerbaigian coi suoi quasi 4.500 metri di altezza. Avvolta da una caligine azzurrina, Khinalig consegna di sé istantaneamente un’immagine fuori dal tempo che attraversiamo. Qua la storia si è davvero fermata. Ci arrampichiamo sul sentiero roccioso che conduce sulla sommità dell’abitato. Qua incontriamo altri bambini. Ci scrutano con una vaga diffidenza, ci seguono, ci indicano il percorso; tutto nel silenzio, ché gli indigeni di Khinalig parlano una lingua unica, incomprensibile anche agli stessi azeri, quindi anche alla giovane guida che ci accompagna. In questo mondo in essenza, anche la parola è superflua. L’idioma è comunque una delle particolarità del popolo khinalig. Loro lo chiamano ketsh – conosciuto anche come ketshmits o khinalug – ed è un linguaggio isolato all’interno della famiglia linguistica del Caucaso nordorientale, più vicino alla parlata del Daghestan, repubblica russa della Ciscaucasia, appena di là del pizzo bianco del Bazardüzü, che a quella della patria azera. Il suo alfabeto, definito da alcuni linguisti nel secolo scorso, è composto da una settantina di lettere, di cui ventotto vocali. Località antituristica, non fosse per la sua posizione recondita, per l’assenza di reali strutture ricettive e per la rigidità del clima per gran parte dell’anno – in inverno si registrano temperature anche oltre i dieci gradi sotto lo zero –, Khinalig presenta un’architettura spontanea e razionale, un grappolo di case abborracciate e consolidate qualche tempo fa grazie all’intervento diretto del presidente della repubblica d’Azerbaigian Ilham Aliyev.  Le abitazioni di quest’isola fra le montagne sono di pietra di fiume e argilla – non dissimili a come dovevano essere migliaia di anni fa, al netto dell’inserimento di alcuni elementi di lamiera e delle coperture in eternit –, costruite praticamente una a ridosso dell’altra, al fine di fronteggiare al meglio il clima inclemente e i forti venti della regione. Non è raro imbattersi in un tetto di una casupola che al contempo funga da terrazza per quella che sorge al livello superiore. In Europa lo liquideremmo come un accampamento di nomadi e invece dal 2023 l’insediamento rurale di Khinalig, assieme alla lingua, alle tradizioni dell’allevamento del bestiame e della transumanza, alla cultura del villaggio, costituisce il sito patrimonio dell’umanità Unesco del Paesaggio culturale del popolo khinalig. Un signore paonazzo, con indosso un completo blu a righe, un po’ liso sulle maniche, una camicia plumbea senza cravatta – eleganza arcaica, modesta, povera ma non misera –, ci accoglie nella sua dimora, sbarrata da una porticina color acquamarina. Premuroso nel suo silenzio, ci guida verso il piano superiore, passando una parete foderata di tappetti dai colori caldi, costume funzionale dei Paesi dell’Est. Ci fa accomodare a un tavolo lungo, già imbandito con tè, caramelle, zollette di zucchero e coppette colme di marmellata di ciliegie. Più in là, su un mobiletto, il samovar e un altro semplice servizio da tè pronto per i prossimi ospiti. Consumata la merenda e ringraziato con lenti inchini e mani sul petto, ci ritroviamo di nuovo nelle stradine sospese nel tempo di Khinalig, diretti verso il museo storico-etnografico, allestito all’interno di una rocca di pietra. I tappeti, i libri antichi, alcune copie del giornale locale – il Xınalıq –, le terrecotte, i manufatti e i recipienti in rame, gli utensili da lavoro e la collezione di reperti archeologici risalenti all’Età del Bronzo – circa cinquemila anni fa, le prime fasi di vita dell’insediamento – conservati nella sala del piccolo edificio raccontano la storia di un inestimabile tesoro umano e culturale, la memoria e la storia minima di un luogo e di un popolo capaci di conservare la propria identità e di resistere a millenni di guerre, colonizzazioni, commistioni ed evoluzioni della società dei sapiens.  Khinalig, villaggio alla fine e al principio del mondo; sì, perché tradizione locale di cui i nativi khinalig sono fermamente convinti e orgogliosi vuole che proprio su questo altopiano delle montagne del Caucaso Noè abbia gettato l’ancora della sua arca, scampando al Diluvio e dando vita a una rinnovata umanità. Verosimilmente una delle ventisei tribù della Albania caucasica citate nel I secolo da Strabone nella Geografia – opera fondamentale per lo studio della storia del mondo antico –, i khinalig sono un’umanità romita, legata alla tradizione nomade dell’Asia Centrale, ma non erma e destinata all’estinzione, ché il villaggio sperduto del Caucaso non conosce la irreversibile crisi demografica che angaria i paesi dell’interno dell’Europa e dell’Italia in particolare.  I residenti di Khinalig sono circa duemila – un numero che va pesato in proporzione alla popolazione totale dell’Azerbaigian, più o meno dieci milioni, circa un sesto di quella italiana – e la somma dei luoghi sacri – sono ben cinque le moschee locali con la più importante, la moschea Abu Muslim, risalente all’ottavo secolo – e l’ammodernamento recente della scuola a servizio della nutrita popolazione in età verde riescono a parlarci di futuro pur in una cornice immobile nel tempo, pressoché incontaminata e incorrotta, espressione di una eccezionale resistenza al durissimo isolamento, una capacità che andrebbe studiata dagli antropologi, ma pure dagli amministratori, dagli apostoli della turistificazione forzata e da tutti i saltimbanchi esperti di piani fallimentari di ripopolamento delle aree interne del Vecchio Continente. La luce comincia ad affievolire e la temperatura cala rapidamente quando intraprendiamo la strada del ritorno, accompagnati dai saluti muti di diverse teste che spuntano dalle bicocche. Chissà se le lasceranno mai, se un giorno abbandoneranno il loro remoto minareto per cercare nuovi orizzonti altrove. Chissà se si lasceranno ingannare. Li guardo e penso che abbiano compreso e raggiunto quello che in Occidente, avviluppati in un vortice di opportunità a buon mercato, inondati di stimoli e modelli da emulare, dagli infiniti possibili realizzabili, non riusciamo più a capire e a conquistare: la nostra vera natura. L’autista ha riacceso l’agonizzante motore della maršrutka. Ritornano i bambini, fra le mani ancora qualche calza variopinta. Ci scambiamo un ultimo sguardo. Uno di loro sembra sorridermi, un altro mi guarda inespressivo. Cosa mi trasmettono i loro occhi? Che li sto abbandonando, anche io, che forse avrei potuto fare qualcosa di più? Ma cosa? Sarà forse l’insita arroganza dell’uomo occidentale, la sua formazione eurocentrica, il suo latente senso di superiorità verso tutto ciò che lo circonda a farmi credere questo? È un tremolio dello stomaco che dura un attimo; il tempo di salire sulla sgangherata vettura perché tutto svanisca, nella nebbia che torna a compattarsi sulla strada. Si va via, col presentimento che quei ragazzini, nella loro primitiva autenticità, luminosa espressione di un’alterità non traviata, non inquinata dall’opera di corruzione morale del mondo capitalistico, eredi sì del pastore errante dell’Asia di Leopardi, ma spogli delle sue penose angosce, non abbiano pensato proprio niente. Antonio Pagliuso *Tutte le fotografie scattate a Khinalig sono dell’autore del reportage L'articolo Viaggio a Khinalig, il villaggio alla fine e al principio del mondo proviene da Pangea.
July 3, 2025 / Pangea
“Noi amiamo tutto”. Aleksandr Blok, l’arcangelo della poesia russa (o il mito degli Sciti)
Paolo Nori conclude il suo assai smilzo repertorio di “poesie russe” – s’intitola E questo cielo, e queste nuvole, Crocetti, 2025 – con una poesia italiana di Angelo Maria Ripellino, “un poeta che è stato anche russista e boemista”. Un gesto di onestà prima che di grazia. Ripellino è l’autore della formidabile Poesia russa del ’900 (Guanda, 1954; poi, dal 1960, Feltrinelli): antologia superba, pionieristica per sapienza, folleggiare antiaccademico, creatività, titanomachia dei luoghi comuni, eccedenza del linguaggio. Perché al posto di commissionare a Nori un’esangue antologia della poesia russa – fiacca per estro & per autori antologizzati –, in cui l’autore parla di sé e dei libri suoi e dei fatti suoi, non ripubblicano l’antologia di Ripellino? L’antologia di Ripellino è un atto d’amore, quella di Nori un atto d’ufficio, un compitino. A pagina 95 (la penultima) Nori scrive che “quello che mi interessa… non sono i premi letterari”: intanto, è nella cinquina dello Strega con un libro dedicato a un grande poeta, Raffaello Baldini. Auguri.  * Ma non è questo il punto.  A pagina 34 Paolo Nori antologizza Gli Sciti, poemetto straordinario – e straordinariamente feroce – di Aleksandr Blok. Il testo – bello di per sé, senza ma né se – è emblematico per capire la distanza cosmica tra Russia ed Europa, fin dall’attacco: > “Voi siete milioni. E noi miriadi miriadi miriadi.  > Provateci a combattere con noi! > Sì, noi siamo sciti! Sì, noi siamo asiatici, > Dagli occhi avidi e obliqui!” Blok rimodella un topos della letteratura russa – la ‘missione’ della Russia, il panslavismo, il suo essere alle frontiere dell’Asia, né Ovest né Est, nutrice d’Occidente, alcova d’Oriente, nazione del destino, totalmente ‘altra’ – conferendogli un ritmo di cembali e tamburi, un ritmo dionisiaco. Forse Gli Sciti è una delle poesie più violente mai scritte. La Russia è simboleggiata dalla “Sfinge” e dall’“enigma”; la fratellanza che promette stritola. “…Nessuno di voi sa amare da tempo! Avete dimenticato che al mondo c’è l’amore, Che brucia e che distrugge! Noi amiamo tutto: e il calore dei freddi numeri, E il dono delle visioni divine, A noi tutto è chiaro: e l’acuto spirito gallico E il tenebroso genio germanico… Noi amiamo la carne, e il suo gusto e colore, E l’odore soffocante, mortale della carne… Siamo forse colpevoli se scricchiola il vostro scheletro Tra le nostre pesanti, tenere zampe?” Ricalco, qui, dalla vecchia traduzione di Eridano Bazzarelli – I Dodici. Gli Sciti. La patria, Bur, 1998 – il quale, a differenza di Nori, fa capire il contesto in cui è stato scritto il poema e il suo significato, per così dire, ‘politico’ (o ‘geopoetico’): “Il poeta si rivolge agli europei: o venite e state con noi come fratelli o noi, questa volta, lasceremo che l’orda asiatica vi distrugga”.  Secondo Angelo Maria Ripellino, Blok “apparve ai contemporanei in una luce di leggenda, angelo caduto fra le paludi di Pietroburgo… e intorno a lui si formò un alone di favola e nacque un culto”. In Blok, cioè, la figura del poeta e del profeta convergono, fino al punto d’ustione, d’incendio. I Dodici e Gli Sciti, scritti intorno alla Rivoluzione, sono l’esito estremo – apocalittico – della sua poesia: il poeta, ora, vive in un’aura di fiamma, in nozze col rogo.  * Affastello qui una serie di dati per capire lo stivaggio simbolico del testo di Blok.  Gli Sciti sono i leggendari abitanti del Ponto: abili nell’arco e nell’addestrare i cavalli, prodigiosi nella razzia e nell’arte orafa. Erodoto dice, nel libro quarto delle Storie, che “quando uno scita abbatte il primo nemico, ne beve il sangue”, lo scotenna e usa la sua pelle per foggiarsi mantelli e faretre. Il cranio del nemico più odiato viene rivestito d’oro e voltato per farne delle coppe. Quando un re degli Sciti muore, il suo corpo viene “completamente spalmato di cera; il ventre aperto, ripulito, riempito di cipero tritato, di aromi, di semi d’apio e di aneto”. Per onorare il triste evento, vengono strangolati cinquanta cavalli, i più potenti – svuotati di viscere, il corpo è rimpinguato di paglia perché resti prestante nell’altro mondo – e cinquanta giovani.  La testimonianza più bella della postura esistenziale degli Sciti ci viene però dallo storico romano Curzio Rufo. Nel settimo libro delle Storie di Alessano Magno – tradotte in Italia per la Fondazione Valla – si dice dell’impossibilità del grande re macedone, durante le razzie in Battriana, di sgominare gli Sciti. Alessandro accoglie nella sua tenda una delegazione di Sciti perché “non hanno un’intelligenza grossolana e primitiva e alcuni di loro coltivano la sapienza”. Il più anziano di questi pronuncia parole che spiazzano il sommo guerriero: > “Dall’Europa vai in Asia, dall’Asia passi in Europa; poi, se avrai sconfitto > tutto il genere umano, muoverai guerra alle foreste, alle nevi, ai fiumi e > alle bestie feroci… Eppure: anche il leone è stato qualche volta il pasto di > piccolissimi uccelli, e la ruggine corrode il ferro. Niente è così forte che > non possa essere messo in pericolo anche dal debole… Oltrepassa pure il Tanai: > saprai quanto siano grandi i territori che occupano, ma non raggiungerai mai > gli Sciti. La nostra povertà sarà più veloce del tuo esercito, che trasporta > il bottino di tanti popoli”.  Così si coltiva, lungo la criniera dei secoli, la leggenda degli Sciti, il popolo irraggiungibile.  * Molti anni fa, nel 1964, il Saggiatore pubblicava, nella collana ‘Il Marcopolo’, I popoli delle steppe, uno studio dell’archeologo tedesco Karl Jettmar. È un libro bellissimo, ricco di immagini, che mostra i manufatti degli Sciti: placche d’osso, spade, pettini e fibbie d’oro, tappeti e diademi. Quasi sempre, gli Sciti ritraevano animali: il cervo e l’aquila, il grifone e il cavallo. A volte, le bestie sono stilizzate, a nitor di simbolo. Tra le immagini più audaci: un serpente che accerchia il lupo, fino a soffocarlo – sembra sussurrargli frasi incantatorie. Un sapere tanto esatto prevede adorazione e dialogo tra il guerriero scita e la bestia, una sorta di immedesimazione. Dilaga la magia.  * Ancora grazie a Eridano Bazzarelli, scopriamo la dimensione ‘lirico-politica’ dell’inno di Blok. L’epica degli Sciti viene rinnovata dagli artisti ‘rivoluzionari’: Skify (Gli Sciti) “gruppo di letterati e poeti, di intonazione mistica”, guidati da Ivanov Razumnik e da Andrej Belyj, “proclamavano che base della nazione e della rivoluzione doveva essere la coscienza nazionale russa… La Rivoluzione avrebbe vinto in tutto il mondo perché i suoi portatori erano i russi, un popolo giovane, fresco, selvaggio”. Alla Rivoluzione sociale, costoro anteponevano quella spirituale e artistica. Nella rivista “Skify” – durò un paio di numeri, editi tra il 1917 e il ’18 – apparvero testi di Sergej Esenin, di Belyj e di Evgenij Zamjatin, l’autore di Noi. Ben presto, il movimento d’avanguardia, quella oreficeria dell’anima, quello scrivere con l’arco a tracolla, entrò in contrasto col regime bolscevico. L’arcangelico Aleksandr Blok, che prestò voce e aiuto ai fasti della Rivoluzione, fu falciato dal sospetto, dalla guerra civile, dal cupo inverno. Un mondo di speranze era mutato nel sabba delle iene.  * Nel febbraio del 1921, in memoria dell’ottantaquattresimo anniversario dalla morte di Puškin, Aleksandr Blok, già alieno dalla storia, pronunciò un discorso memorabile, La missione del poeta (lo trovate qui: A. Blok, L’intelligencija e la Rivoluzione, Adelphi, 1978). Disse che “il poeta è figlio dell’armonia”, che il poeta deve “liberare i suoni dalla nativa anarchia degli elementi in cui sono immersi” e “condurre quei suoni all’armonia”. Soprattutto, osò dire che “pace e libertà sono indispensabili al poeta per la liberazione dell’armonia”; osò scagliarsi contro  > “quei funzionari che si preparano a indirizzare la poesia su rotte da loro > prestabilite, attentando così alla sua segreta libertà, impedendole di > adempiere alla sua misteriosa missione”.   Al poeta non restava che morire – “Noi moriamo, e l’arte rimane”, disse. Morì pochi mesi dopo, era agosto – “la Rivoluzione, che doveva essere l’inizio di un rinnovamento non solo della Russia, ma cosmico, si trasformò in un fatto politico, poliziesco, burocratico” (Bazzarelli). Il cuore scita del poeta dismise la sella, obliò le briglie. Cavalcava a pelo nudo, per sempre insicuro, verso le praterie celesti – il suo sibilo, lassù, fu urlo; gli angeli decisero per la calvizie.  *In copertina: Aleksandr Blok e la moglie Ljubov’ Dmitrievna, nel 1903 L'articolo “Noi amiamo tutto”. Aleksandr Blok, l’arcangelo della poesia russa (o il mito degli Sciti) proviene da Pangea.
June 27, 2025 / Pangea
“La lampada cammina, le ombre parlano”. Bogoraz e gli incantesimi dei Ciukci
Si trasformò da arguto rivoluzionario a “Robinson polare”. Nato Natan Mandelevich Bogoraz a Ovruč, attuale Ucraina, da famiglia colta ebraica, voltò il nome in Vladimir dopo essersi convertito al cristianesimo, firmava i suoi libri “Tan”. Come se il suo nome fosse il suono di un tamburo, un richiamo dai primordi d’Oriente. Agli studi di legge a San Pietroburgo, Vladimir alternava l’attività rivoluzionaria nei gangli dell’organizzazione antizarista e sovversiva “Narodnaja volja”. Arrestato nel 1886, poco più ventenne, fu spedito in Siberia, presso la Kolyma, in Jacuzia, area dei futuri campi stalinista, luogo d’orrore reso leggenda nei memorabili Racconti della Kolyma di Varlam Šalamov. La reclusione e l’esilio nell’Estremo Oriente russo cambiarono la vita di Vladimir Bogoraz. Fu affascinato dalla popolazione autoctona dei Ciukci: tribù di pescatori, di cacciatori e allevatori di renne, veneravano l’orso, vivevano in tende vaste come ville, si muovevano in kayak o su slitta. Sapevano addestrare il cane e la renna alla briglia. Erano riusciti a tradurre un luogo inospitale in una terra fertile di ‘segni’; perfino la più infima ombra, ai loro occhi, era viva: > “La lampada ha le zampe, cammina. Le pareti della tenda hanno voci > proprie…  le ombre sul muro costituiscono tribù ben definite, con un proprio > terreno di caccia, delle proprie dimore, dei cacciatori sapienti…” In questo mondo di ombre e di segni, che proliferavano ovunque, come il caglio di un dio, gli sciamani avevano un ruolo preponderante. Vivevano in prossimità dei boschi, addestrati dalle ‘voci’, per lo più eccentrici, decentrati all’esistenza comune. Evanescenti come la neve. A loro ci si rivolgeva di continuo: per propiziare la caccia e l’unione, per benedire le bestie e i nascituri, per dialogare con i morti, che dilagavano, dappertutto. Esistevano sciamani crudeli, scoppiavano guerre tra sciamani avversari. Bogoraz era affascinato, soprattutto, dalla struttura sociale dei Ciukci: pareva non avessero governanti diretti, le attività si svolgevano secondo un’‘autogestione’, per così dire, guidata da gerarchie cosmiche, da una consuetudine che nessuno osava intaccare. Gli parve di trovarsi di fronte a degli uomini buoni.  La prima raccolta di “Miti e leggende dei Ciukci” è pubblicata da Bogoraz nel 1899; l’anno dopo esce a San Pietroburgo l’importantissimo “Materiali per lo studio della lingua e del folclore dei ciukci”. Il giovane rivoluzionario divenuto pioniere dell’antropologia russa, è accolto nei gangli dell’Accademia delle Scienze. Quando può, però, Bogoraz attraversa l’oceano a sbarca a New York: presso l’American Museum of Natural History trova un complice nell’etnologo Franz Boas e partecipa alla mitica “Jesup North Pacific Expedition”. La missione si occupa di snidare, sondare e studiare le popolazioni indigene intorno allo stretto di Bering, tra Alaska e Estremo Oriente russo; l’esito di queste osservazioni permette a Vladimir Bogoraz – ormai americanizzato “Waldemar” – di pubblicare, nel 1910, Chukchee Mythology (da cui abbiamo tratto i testi in appendice) e nel 1913 The Eskimo of Siberia. Sono lavori miliari: la pagina dedicata ai Ciukci in Testi dello Sciamanesimo siberiano e centro-asiatico (Utet 1984; 2009), si avvale ancora di quel repertorio.  Rientrato in Russia, Bogoraz fu professore di etologia; forse vide in Lenin il prototipo dello sciamano moderno; intuì che la Rivoluzione era guidata da un fervore ‘magico’, che le masse si muovono soltanto se guidate dalle voci e dalle ombre – cioè: dalle idee o dal dio, che a tratti sono la stessa cosa. Nel 1930 fondò a San Pietroburgo – allora Leningrado – l’“Istituto dei Popoli del Nord”, con il compito precipuo di studiare le lingue degli indigeni, organizzandole per vocabolari. Fu facile per Bogoraz intuire la parentela tra i Ciukci e gli Ainu, gli indigeni del Giappone settentrionale, un popolo per molti versi avvolto nel mistero. Ma i tempi cambiavano con rapidità di fortunale: Bogoraz, patriarca dell’antropologia russa, fu attaccato dagli allievi più giovani perché si rifiutava di utilizzare i codici della “lotta di classe” nell’interpretare l’organizzazione sociale dei Ciukci. Lo accusarono di voler preservare i nativi del Nord dai fasti dello “sviluppo economico”: per Bogoraz il cosiddetto ‘progresso’ avrebbe definitivamente corrotto la sciamanica autarchia dei Ciukci. Voleva credere in un Eden nordico, nella possibilità – ancora viva, prossima – di poter parlare con le renne, di cavalcare l’orso, di coalizzare un esercito di spiriti. Le ombre avevano preso a dialogare con lui.  Il vecchio rivoluzionario fu costretto a ritrattare e a rivedere alcune conclusioni. Comunque, morì poco dopo, nel maggio del 1936, in circostanze non del tutto chiare. Costantemente ristampate nel mondo americano, le opere di Bogoraz sono state recepite di recente dalle Éditions des Syrtes, in Francia: Récits de la Perdition raccoglie i miti dei Ciukci, ma soprattutto il picaresco racconto di un intellettuale perduto nel grande Nord. Così ne ha scritto “Le Monde”: “Intriso di una tenerezza non priva di humour, il libro racconta l’intima tragedia e il turbamento metafisico di un uomo bandito dalla società, prigioniero di una natura superba ma di cui non sa riconoscere i simboli, in cui è disorientato”.   Dal vasto repertorio di leggende, proverbi, miti assemblato da Bogoraz, si è scelto di tradurre alcuni “Incantesimi”. Si tratta di parole pronunciate dagli sciamani Ciukci e di brevi sketch che dicono di un mondo affollato di demoni, in cui l’invisibile ha la prevalenza sulla mera, sgargiante superficie delle cose; in cui le bestie parlano e risorgere vale quanto vendicarsi. Questo è un mondo in cui la parola – coagulata in gesti, in effluvio di gesticolii – è efficace o non è – come dovrebbe essere la parola poetica. Non c’è nulla di esornativo nella ripetizione della formula verbale, perché è grazie a quel giaculio, a quel gracidio, che il mondo continua a parlarci, continua a esistere. Vivere nel canto per non subire l’incanto; fare nido nel miracolo osteggiando il miraggio.  In un testo raccolto in Testo dello Sciamanesimo siberiano e centro-asiatico, “Il giovane sciamano e la sua fidanzata”, si narra del più piccolo di cinque fratelli che rifiuta di conformarsi ai riti sociali. Quando è il suo turno di prendere moglie, scappa, si nasconde, “sciamanizza” (cioè: articola canti a ritmo di tamburo). Infine, si innamora di una ragazza morta, dopo aver scorto il suo feretro trascinato dalle renne. Grazie agli innati, misteriosi poteri, il giovane va nell’aldilà (“Ora io andrò… mi immergo… cerco la sua anima…”), recupera l’anima della ragazza, la incastra nel corpo, fa della risorta la propria moglie. L’estasi dello sciamano è un’immersione nell’amnio del mondo – ascesi per apnea, diremmo –; la sua unione l’opera di un potere degno di aura. I fratelli non canzoneranno più il più piccolo, accogliendo il suo destino di solitudine e di estraneità.  A volte, attirato nell’altro mondo, nell’altrove, nel nessundove, uno sciamano non fa ritorno su questa terra. Il suo corpo resta crisalide vuota, in una specie di infantile rimbambimento. Tra le mani dello sciamano, si dice, mangiano gli orsi; lo sciamano, si dice, può domare perfino la tigre dell’Amur, la preda sbalorditiva, amata da Dersu Uzala, il “piccolo uomo delle grandi pianure” eternato dal film di Kurosawa.  Di questa recluta di leggende desunte da un sussurro, di identità spaiate in fotografia, in una cronaca della scienza, forse, restano le viscere di un dio, il pellame messo a nudo, lo scalpo, lo scalpiccio.  *** Incantesimo di una donna rifiutata dal proprio marito, gelosa della rivale Dunque sei tu quella donna! Amore hai da mio marito – tanto che lui mi respinge.  Ma tu non sei un umano essere. In carogna ti muto, carogna che crolla sui ciottoli, carogna vecchia, putrefatta.  Muto mio marito in un orso. Orso che viene da terre lontane. Orso roso dalla fame. Orso che incrocia la carogna e la divora. Poi la vomita. In quel vomito ti volto. Mio marito contempla il vomito. E la rifiuta appena la vede. Muto il mio corpo in quello di un giovane castoro appena svezzato. Liscio ogni mio pelo. Questa donna è gradita a lui, lui mi insegue, mi desidera, perché l’altra gli è ripugnante.  (Sputa, si imbratta di bava dalla testa ai piedi, il marito comincia a volerla). Egli mi ha rigettata e io mi rivolgo a lui, per lui mi trasformo in un male mortale. Che sia attratto dal mio odore, che mi azzanni. Lo respingo perché con più forza mi assalga.  Finché mio marito non abbandona la sua amante.  * Incantesimo per far tornare indietro i morti L’uomo è morto da poco e un altro esce allo scoperto: il morto è ancora nella sala d’attesa della morte, nella più remota stanza.  L’altro uomo parla all’Alba e all’Essere Superiore. Dice: Mente disorientata la mia, mente dissennata. A chi posso chiedere aiuto? Mi rivolgo a te. Dammi il tuo cane! Sono addolorato per mio figlio, che è scappato in un luogo lontano. Lasciami usare il tuo cane.  Muove la mano sinistra, come se afferrasse il cane. Poi sussurra all’occhio del morto, ulula come un cane, Uu, uuu, così. Il cane allora si lascia avvincere e insegue il morto. Lo insegue e ulula e abbaia. Gli passa davanti, lo incrocia, lo incorna. Abbaia con ferocia. Gli si avventa contro, gli blocca in ogni direzione il cammino. Infine, lo obbliga a interrompere il suo lungo viaggio e a tornare indietro. Deve rimetterlo nel corpo, deve riposizionarlo nel corpo. Poi il morto ricomincia lentamente a respirare. Pur essendo morto, ora vive.  * Per curare un malato Quando un uomo è malato fino al punto di poter morire e il suo corpo è debole, quest’uomo viene portato fuori casa, con grandi sforzi, e viene strofinato con la neve, dappertutto. Un altro uomo implora le Regioni Superiori e il fiume detto Ciottolo. “O Fiume Ciottolo, vieni a me! Scivola in me! Desidero che tu mi serva”. Inoltre, reclama il vento dell’Est.  Segue un acquazzone. Il fiume si gonfia. Il malato diventa le rapide del fiume. Tutto viene spazzato via – non resta più nulla. Qualcuno getta cibo nelle acque, e il fiume trascina via ogni rifiuto e ogni dono.  Così l’uomo che soffre può guarire e viene riportato a casa. * Incantesimo per allontanare Ke’let, il demone Quando scende la sera, lego due grandi orsi sulla soglia di casa mia e dico: “Oh, voi siete così grandi, così forti, non può capitarmi nulla di male finché sono al vostro fianco”.  Se un ke’let mi vuole e cerca di entrare in casa, gli orsi lo afferrano perché non fanno passare nessuno.  Poi c’è una vecchia, cieca, con gli occhi incavati, con le orbite vuote: agita una frusta di ferro tutta la notte, in ogni direzione. Lei sa spaventare i ke’let. È difficile assalirla. Dopo, su ogni lato della casa devi porre dei gufi polari di ferro. Hanno becchi di ferro e ali di ferro. Hanno becchi molto affilati.  Quando ke’let, l’Assassino, l’aggressore, trova la casa, loro lo colpiscono, lo feriscono, gli cavano gli occhi. Il demone, pieno di sangue, volta verso il deserto – vola obliquo, ha paura, se ne va per sempre.  L'articolo “La lampada cammina, le ombre parlano”. Bogoraz e gli incantesimi dei Ciukci proviene da Pangea.
June 21, 2025 / Pangea
I leoni in città. Ovvero: “La mia Africa” nella calura piemontese o dell’arte di rompere gli specchi
L’umidità, le escrescenze di nebbia, il sole a brandelli, un sole lebbroso e inguaiato di guaiti: tutto consegna Orbassano, pallida periferia torinese, alla savana. Da un momento all’altro, nel latteo parco che congiunge, con minuzia da sarta, il cimitero alle palazzine di fresco conio, sbucherà un leone.  Le montagne, alle spalle, visibili appena, per bianchi picchi – restano Alpi ma sembrano il Kilimangiaro.  Eppure, sono le cornacchie (Corvus cornix) a dominare gli apparati cittadini e le abitudini orfiche degli abitanti. Sono loro, ovunque, a spiarci – presto, ci soppianteranno: la loro intelligenza è violenta. Nel disastro nebbioso, sono iene.  * Mi madre amava La mia Africa; io ho amato Karen Blixen. Nella biografia di Ole Wivel, Karen Blixen. Un conflitto irrisolto – stampa Iperborea; ma per capire qualcosa su Karen Blixen bisogna leggere la biografia di Rossella Pretto (Karen Blixen. Il coraggio, l’amore e l’ironia), edita di recente da Ares  –, non per forza bella, spiccano alcune fotografie di Karen da giovane: è più affascinante di Meryl Streep. Anche Denys Finch-Hatton, audace rampollo dell’antica aristocrazia inglese, educato a Eton, capace nel volo, spicca, nelle rare fotografie, con uno sguardo magnetico non inferiore a quello – più pittorico ma meno pittoresco – di Robert Redford.  Ad ogni modo. Seduto sul balcone della casa popolare di mia madre, mi sembra di essere in “una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong”. * I libri di Karen Blixen sono tra i rari cimeli della biblioteca di famiglia, quando stavamo in un’altra casa, da ospiti, opliti alle incurie parentele. La casa, della fine dell’Ottocento, aveva un giardino con matrona magnolia in mezzo – un alto cancello mi separava dal mondo. Non era difficile sognare l’Africa – la biblioteca pareva un baobab.  Resiste, dalla dispersione di tutto, alla persecuzione del fato, la maschera di legno di un guerriero giapponese – di chi sia e da dove provenga lo ignoro.  * La mia Africa, per la avventuriera singolarità, mi è sempre parso un libro meraviglioso. A differenza di Hemingway, che racconta l’Africa con la tempra dell’uomo nuovo, del disperso disperato, Blixen mantiene un aplomb micidiale nel dire le bestie e i boschi, le savane e i safari. La nostalgia con cui intride le frasi è quella di una divinità antica, nordica, priva di compassione, consapevole che di quel sole australe puoi nutrirti una volta per sempre – dopo averlo dissanguato, resta una conchiglia, l’eco di evi. È vero, Le nevi del Kilimangiaro è il racconto onnipossente di Hemingway, ma alcune pagine de La mia Africa non sono meno belle – ‘Papa’ lo sapeva, e ricamò, in pubblico, più volte la sua ammirazione per Karen.  Nella veranda, a Orbassano, sognando un Africa che non vedrò mai, ho letto le pagine in cui Blixen racconta una battuta di caccia ordita con Finch-Hatton: i leoni stavano ammazzando diverse bestie della sua mandria.  > “L’aria del primo mattino, sugli altipiani d’Africa, è fresca e così > palpabilmente frizzante da spingerci di continuo alla stessa fantasticheria: > pare di trovarsi non sulla terra ma immersi in una profonda acqua scura e di > avanzare sul fondo del mare”. Da qualche parte, mi pare, Karen Blixen ha scritto che il senso della vita è nella sua insensatezza – che per questo è bene vivere sempre nell’anatema e nel rischio.  Senza sfoggio di aggettivi, con l’accuratezza di chi sa infierire, con astuzia, nel linguaggio – disinnescando trappole e confessioni –, Blixen racconta di una caccia notturna con Denys, tra le latebre, maneggiando una lanterna che potremmo chiamare Delfi.  > “L’Africa, di colpo, divenne sconfinatamente grande, e Denys e io, lì, in > piedi, infinitamente piccoli. Non c’era che buio oltre la luce della lampada. > Nel buio due leoni caduti in due punti diversi, e dal cielo la pioggia. Ma > quando il rantolo si spense, niente si mosse più”.  Chi può uccidere il figliastro del sole? Karen ha difeso la propria fattoria – che andrà in disastro, comunque, secondo i precordi del destino, poco dopo.  * Per scampare alle malie della periferia, bisogna sognare i leoni.  Sono le cornacchie, piuttosto, a ripotarmi al vero – la calura infetta i giochi dei bambini, in basso: in due su una jeep giocattolo; in tre con la palla. Un molosso, dalle siepi, abbaia; il padrone sbraita; tutto vive per consunzione.  Ballata per piccole iene esce nel 2005; Manuel Agnelli ha leonina la voce; l’ascolto più tardi, in autostrada, come un’appendice alle memorie di Karen Blixen. “Fra piccole iene/ Anche il sole sorge/ Solo se conviene…”. Preferisco questo brandello, che sa di un amore moribondo: > “Aiutami a trovare > Qualcosa di pulito > Uccidi, ma non vuoi morire > Uccidi, ma non vuoi morire”. Cosa c’è di pulito nell’amare? Amare è un effluvio di carcasse. Pulire cioè: eliminare le scorie; dare alle ossa tornitura di tuono. Che le ossa brillino, allora, come un collier.  Karen Blixen (1885-1962) * Ma prima c’era qualcos’altro, non per forza attinente. Qualche giorno fa, in liturgia, la Seconda lettera ai Corinzi: “Noi tutti, svelati nel volto alla gloria di Dio, vedendo come in uno specchio la sua immagine, veniamo trasformati in essa, di gloria in gloria, dallo Spirito di Dio” (3, 18). Il testo contrappone il velo allo specchio, la legge alla libertà, l’icona all’idolo. Esoptron è uno specchio metallico, non vitreo; Paolo usa lo stesso termine in 1 Cor 13,12 dicendo qualcosa di diverso: “Adesso noi vediamo nell’enigma, come attraverso uno specchio; allora [vedremo] faccia nella faccia”.  Nel primo caso, lo specchio è il tramite per trasformarsi in Dio; lo specchio è come la placenta del Volto – nel secondo caso, lo specchio è un enigma.  Nella Bibbia, lo specchio è citato di rado: soltanto sei volte; soltanto tre nel Primo Testamento.  Chissà se Paolo conosceva la leggenda dello “specchio [katoptron] di Dioniso”.  > “Dioniso, dopo aver posto la sua immagine nello specchio, la seguì e fu > infranto nel Tutto”. Così scrive Olimpiodoro, e così commenta Angelo Tonelli: “Dioniso è l’Assoluto che si fa molteplice frammentandosi in una pluralità di riflessi o apparenze che originano perpetuamente da esso” (in: Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Gracia antica, Feltrinelli, 2021).  I termini in contrasto sono immagine e immaginazione, riflesso e riflessione, somiglianza e idolo. Se l’uomo, fatto ‘ somiglianza’, confida nel proprio riflesso, è incarcerato dallo specchio, suo trono e patibolo.  Da un lato – Dioniso – il dio è puntiforme, si dissemina in frammenti (“Per questo dicono anche che Efesto fabbricò uno specchio per Dioniso e che il dio guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità”: così Proclo). Dall’altro, Dio è davvero nello specchio, è l’uno e non il molteplice, è l’enigma e la sua soluzione: lo specchio è il punto d’ustione del sole. Trasformarsi: incenerire il viso, incendiare l’identità ‘specchiata’ per tradursi in quella veritiera. Farsi fuoco. Nati incendio.  Rompere lo specchio – evento dionisiaco – prevede spargimento di sangue; penetrare nello specchio – evento paolino – è affondare in un lago, sprofondare. Serviranno branchie.  * Per un attimo, la periferia torinese ha rispecchiato la mia idea di Africa – per un po’, mia madre è stata lo specchio di Karen Blixen, la scrittrice in cui si è specchiata Meryl Streep. Due specchi contrapporti – diceva Borges – creano un labirinto: ci rendono infiniti, infinitamente prigionieri.  La vicina di casa si rifiuta di possedere specchi: li ritiene di malaugurio, come un vento nefasto, pieno di insetti. Vorrebbe dimenticarsi di sé – non abusa di veli né di velami.  *In copertina: Eugène Delacroix, Studio di leoni reclini, 1860 ca. L'articolo I leoni in città. Ovvero: “La mia Africa” nella calura piemontese o dell’arte di rompere gli specchi proviene da Pangea.
June 14, 2025 / Pangea
“Nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia”. Elitis e Kavafis, i poeti della luce
Un lento avvicinamento al cuore di Roma in una mattina di tarda primavera: corona della solarità, vasti aneliti di azzurro e un sentore di gelsomino nell’aria. Andiamo alla ricerca del Graal nascosto in fondo al silenzio dei tempi, la rosa dei secoli sfracellati – la fuga a ritroso dalla storia al mito. Ci avviciniamo dall’alto, disegnando dolci traiettorie. Avvistiamo i bastioni del Vaticano, San Pietro. Ecco le maestose forme, corolle di bianco marmo, fregi e lesene di ionica nostalgia – mettiamo a fuoco lo sguardo verso l’oro inseguito da Giasone. Eccesso di idealismo? Forse. Come a dire: da una sponda dell’Egeo alla costa tirrenica, presidiamo l’arco interiore della distanza con la fedeltà senescente di Argo, innalzando iliache fortezze d’amore e fari di luminosa verità. Da due lustri ormai riecheggia la marea dell’Egeo, non lontano dalla città di Smirne. Quella notte è ormai istoriata nelle pareti del sogno. Lo pensava Saffo, lo ha scritto Elitis:  > “nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia.” E la luna era un astro più vivido che mai, come gli occhi luminosi della circassa descritta da Kavafis. Con solide reti da pesca andavamo a caccia di coralli, tenendo chiusa in petto quella voce che si sarebbe riversata, calda e dolce come mosto, in puri esametri greci.  La strada per Efeso si snodava attraverso dorati campi di ulivi. Un tempo – dove ora il muschio ricopre gli angoli sbreccati dei capitelli – si respirava salsedine. Ho sempre creduto che la felicità occupi, nello spettro cromatico dell’anima, il posto dell’ocra e dell’azzurro, sigillati uno dentro l’altro come verso la linea dell’orizzonte. È qui, mi dico, che il grande solitario lanciava i suoi frammenti. Sì, scagliati come piccole meteore infuocate. Per questo, leggendo Eraclito, si accendono ancora piccoli falò ai bordi delle pagine e sotto l’epidermide.  Sul lungomare di Smirne, nel viavai dei traghetti e tra i richiami alla preghiera, pensavo all’Asia Minore, ad Efeso e Antiochia – all’oro dell’Ellenismo –: è da qui, e non dall’Acropoli di Atene, che nasce l’umanesimo di Kavafis, come suggerisce Marguerite Yourcenar nella sua splendida presentazione critica del poeta. In quel momento, come dalle vigne e dai frutteti pieni di agrumi di Archiloco, ho cercato di spremere il succo di un modo di esistere, di una postura che giustificasse le coordinate presenti e quelle passate. Era a Odisseas Elitis che dovevo guardare: > “Devi saper afferrare il mare dall’odore perché esso ti dia la nave e perché > la nave ti dia la Gorgona e la Gorgona ti dia Alessandro Magno e tutte le pene > della grecità.” Voglio dire: deve pur esserci un filo, un’immagine, una catena che tenga uniti la pietra, i graffiti nelle caverne, la gola, il mattone e la pergamena: qualcosa che rifluisce nel tempo, nonostante il tempo, dentro il tempo, attraverso e al di fuori del tempo. > “Dorme più profondamente chi è intriso di Storia > Avanti accendila con un fiammifero come fosse alcol.  > Solo Poesia è > Quello che rimane. Poesia. Giusta essenziale e retta > Come forse l’hanno immaginata le prime due creature > Giusta nell’asprezza del giardino e infallibile nel tempo.”    > > (Odisseas Elitis, Come Endimione) Nelle linee esatte dei palazzi del centro, nelle fughe dei cornicioni – fosforescenza del passato – ripenso a Kavafis e a Elitis: poeti della luce. Sì, anche Kavafis, considerato il poeta della penombra e delle stanze oscurate dalle finestre chiuse. Per me, la poesia di K. inonda di luce. Come l’innamorata ateniese ascolta le parole dello straniero Orazio e vi scopre immagini di fulgida bellezza, così i versi del poeta greco rivelano squarci di mondo, aprono nuove rotte da percorrere con fremito di piacere. > “Il giovane professa il proprio amore > E l’ateniese ascolta silenziosa > Il suo eloquente innamorato Orazio; > e del grande italiano la passione > con mondi nuovi di Beltà l’abbaglia.”                   > > (Kavafis, Orazio ad Atene) Anche io, mi dico con ingenuo spirito d’immedesimazione, sono un “Greco con emozioni d’Asia”. Ecco, la vedo quella geometria invisibile che mi diverto a incrinare con il richiamo di steppe, deserti e passi himalayani… Ho scritto: “una fuga a ritroso dalla storia al mito” – un’anfora greca, un ciottolo levigato, lo zampillio dell’acqua e lo sguardo di una ragazza. Dai colli della periferia romana siamo arrivati a uno splendido borgo sul mare. La natura non ha bisogno di camuffamenti e maschere. Dove fallisce la storia, arriva la poesia. Il grano ci insegna ad esercitare la sua solare e libera disciplina. I colori: buganvillea viola, lo smeraldo del mare, la ginestra, un ciuffo di papavero. Tra gli arbusti e i rovi roventi per il mezzogiorno sgusciano piccole vipere – anfibio attaccamento al cuore pulsante della terra. Basilico, gelsomino e tiglio; sciame di vespe: il ronzio dei millenni.  La prima voce lirica nella poesia, l’obbedienza del marmo alla carezza umana, il triangolo delle montagne introdotto nell’architettura, il richiamo dell’acqua, l’attesa minoica del tuffo, l’etrusco sorriso: c’è qualcosa che incede lungo i colli della storia, più persuasivo della tettonica delle placche. Mi viene in mente ancora una volta Kavafis:  > “Oh, terra d’Ionia, te amano ancora, > le loro anime te ricordano ancora. > Quando l’alba d’agosto splende su di te > Un rigoglio della loro vita percorre l’aria; > e un’eterea forma di adolescente, a volte; > indistinta, con passo celere, > incede sopra le tue alture.” > > (Kavafis, Ionico)  A un’ansa del sentiero si trova una piccola edicola votiva dedicata alla Madonna. La ospita una nicchia scavata nella pietra. Credo sia in quella posizione da secoli. Da lì, ha vegliato sui pescatori, sui viandanti e ora continua a vigilare sulle fiumane di sciatti turisti domenicali. In un lampo di associazione, penso alle divinità dei crocevia: in Giappone, a ogni svolta, trovi piccole statue di Jizō, bodhisattva protettore dei viaggiatori. Questa Madonna mi ricorda le cappelle votive in Grecia: una in particolare, con annessa chiesetta in miniatura, sul colle di una collina ateniese che vede il Partenone. Su tutto, il bianco e l’azzurro. Tra le pagine della mia antologia di Elitis ho ritrovato una piccola icona greca: raffigura un San Giorgio fiammante nell’atto di uccidere il drago. Ho smesso da tempo di credere alle coincidenze. E infatti, lo sguardo individua subito delle frasi sottolineate con un lieve tratto di lapis: > “Tendo con tutto me stesso verso un – come dire? – avvolgente, abbagliante > bene. Da come mordo un frutto a come guardo dalla finestra, sento formarsi un > intero alfabeto che mi sforzo di mettere in atto con l’intenzione di comporre > parole e frasi e, massima ambizione, giambi e tetrametri. Il che vuol dire: > concepire e parlare di un altro secondo mondo che dentro di me arriva sempre > primo.” Quando rileggo e rimedito tutto questo, nell’immaginazione e poi nel meriggio spalancato della cassa toracica, allora, per dirlo con Elitis,  > “è come se sorgesse un secondo giorno dentro al primo”. Lorenzo Giacinto *La traduzione di Kavafis è di Nicola Crocetti; la traduzione di Elitis è di Paola Maria Minucci L'articolo “Nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia”. Elitis e Kavafis, i poeti della luce proviene da Pangea.
June 6, 2025 / Pangea
Intorno a un classico della letteratura cinese: “Chin P’ing Mei”, il fiore di prugno nel vaso d’oro
Chin P’ing Mei (in cinese 金瓶梅, pinyin Jīn Píng Méi, che si può tradurre come “Il fiore di prugno nel vaso d’oro”) è un celebre romanzo cinese scritto in lingua vernacolare (baihua) verso la fine della dinastia Ming, nel XVI secolo. L’autore – o forse autrice – rimane anonimo, conosciuto solo con lo pseudonimo di Lanling Xiaoxiao Sheng: forse il poeta Wang Shih-chen. Le prime copie del romanzo circolavano manoscritte, mentre la prima edizione a stampa risale al 1610. L’opera completa oggi comprende circa cento capitoli. La narrazione si incentra sulla figura di Ximen Qing (西门庆), tradotto anche come Hsi-Mên, un ricco mercante di medicinali, e sulle intricate vicende delle sue numerose mogli (Loto D’Oro, Madama Luna, Loto Fragrante, Madama P’Ing, Stelo di Giada, Girasole) e concubine. La famiglia, inizialmente immersa in ricchezze, piaceri e relazioni spesso moralmente ambigue, finisce per essere travolta da un lento ma inesorabile declino, che culmina con la morte dello stesso protagonista. Il romanzo offre uno spaccato vivace e dettagliato della società cinese durante la dinastia Song Settentrionale, nel XII secolo, fino agli eventi legati all’invasione tartara. Considerato da molti il “quinto” tra i Quattro Grandi Romanzi Classici della letteratura cinese, Chin P’ing Mei è noto per essere la prima grande opera della narrativa cinese a trattare in maniera esplicita il tema della sessualità. La storia prende avvio quando il giovane e benestante Hsi-Mên incontra casualmente Pan Jinlian (P’an Chin-lien, poi Loto D’Oro), moglie del modesto Wu Dalang. I due iniziano una relazione adulterina, e Pan Jinlian, stregata dalla passione e dall’opulenza del suo amante, arriva ad avvelenare il marito per poter entrare nell’harem di Ximen Qing come concubina. Mentre il fratello della vittima, Wu Sung, deciso a vendicare la morte del fratello, finisce per uccidere per errore un innocente e viene esiliato. Con la minaccia di vendetta sventata, Ximen Qing si abbandona completamente ai vizi e agli eccessi. Tra le nuove donne che accoglie nel suo harem vi sono Madama P’Ing, vedova di un suo amico, e Chunmei, una giovane schiava. Tuttavia, la fortuna della famiglia inizia a svanire: Madama P’Ing e il figlio muoiono, Loto D’Oro viene uccisa da Wu Sung al suo ritorno, che così può vendicarsi del fratello ucciso, per poi darsi alla macchia; Chunmei viene venduta, tutto questo dopo che lo stesso protagonista era deceduto, a causa di Loto D’Oro, che gli somministra una dose troppo elevata di pillole afrodisiache. Con il Paese invaso dai tartari, Madama Luna, la prima moglie di Hsi-Mên, cerca rifugio in un tempio buddhista insieme all’unico figlio rimasto in vita, Xiao Ke. Qui, in sogno, scopre che il bambino è la reincarnazione del defunto marito. Per evitare che il figlio segua lo stesso cammino dissoluto, decide di farlo diventare un monaco, in virtù di una promessa che era stata fatta anni prima a un’eremita. Questo romanzo, pubblicato agli albori del Seicento, dimostra quanto la narrativa cinese fosse già pienamente matura e strutturata. In Occidente, opere di simile complessità e respiro arriveranno solo molto più tardi, nel corso dell’Ottocento. Lo stile è fortemente imparentato col linguaggio teatrale: l’azione domina, le descrizioni sono al tempo stesso puntuali e cariche di poesia, il linguaggio ricco e stratificato. Nell’edizione da noi letta (Feltrinelli, 1970, nella traduzione di Piero Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman, basata sulla versione inglese di Arthur Waley), il romanzo si estende per 919 pagine suddivise in quarantanove capitoli di altissima intensità. Dal punto di vista stilistico, si potrebbe paragonare all’unione di tre grandi nomi della letteratura occidentale: il naturalismo minuzioso di Zola, la delicatezza poetica di Flaubert e il senso del ritmo scenico di Maupassant. Quasi mille pagine raccontano un arco temporale piuttosto breve, pochi anni appena, eppure con tale dovizia di dettagli che sembra davvero di vivere accanto ai personaggi. Di loro apprendiamo ogni gesto, ogni pensiero quotidiano, dalle conversazioni ai banchetti, fino alle scene erotiche, anch’esse descritte con cura e senza veli. Proprio per questo, l’opera è stata spesso fraintesa, ridotta – anche per motivi pubblicitari – a romanzo erotico, e in passato soggetta a censure che eliminavano le parti più esplicite. Ma l’eros, in realtà, è trattato come una dimensione naturale e paritaria dell’esistenza, non viene enfatizzato né nascosto, bensì integrato nella narrazione complessiva della vita dei protagonisti. L’intento dell’autore è chiaro: restituirci l’eccesso, lo sfarzo, la smania di potere del protagonista. Questi, pur essendo già un amante esperto e insaziabile, ricorre a pillole afrodisiache per superare i limiti umani — ed è proprio questo abuso a condurlo infine alla morte. Così come accade al protagonista, anche gli altri personaggi del romanzo sono vittime delle proprie ossessioni, travolti da eccessi che li consumano. L’opera potrebbe idealmente essere divisa in due grandi momenti: una prima parte di ascesa e costruzione, e una seconda di decadenza e rovina. Tutte le colpe, le ambizioni e le esagerazioni che si manifestano nella prima metà trovano nella seconda il loro inevitabile contrappasso. > “Madama Luna finalmente si arrese alle sue sollecitazioni. Dette all’ancella > Gioietta le chiavi dei cancelli del parco, e tutte e tre – perché si unì a > loro la cognata Wu – vi si recarono insieme. Ma come era mutato il suo aspetto > nell’intervallo! Sui muri e sugli edifici, i variopinti stucchi eran svaniti, > ed in alcuni punti scrostati, cosicché rimaneva scoperta la nuda pietra, e qua > e là ci cresceva sopra il muschio. Le lastre di marmo e i blocchi dei gradini > e dei terrazzi si eran spostati, o erano sprofondati in modo disuguale entro > terra, cosicché so eran formati crepacci beanti, nei quali fiorivan le > erbacce. Sui tetti, le tegole si erano spezzate o spostate, aprendo il cammino > a una vigorosa vegetazione verde. Le pietre dure di valore e i minerali sui > margini del lago eran coperti di crosta di sporcizia e avevano perduto la > lucentezza. Il graticcio intrecciato dei mobili di vimini del padiglione era > strappato e cadeva a pezzi. L’ingresso della grotta era parato di spesse > ragnatele grige. Gli stagni dei pesci eran diventati dimora di rane. Il > Padiglione delle Nubi in Riposo era ora un covo di volpi. La Grotta della > Sorgente Celata brulicava di fecondissimi Topi“. > > (Dal capitolo 46, “Prugna Primaverile ritorna alla sua vecchia casa. Un amico > infedele svela il proprio volto di lupo”) Da questo brano si evince proprio la struttura di Chin P’ing Mei, dove in un primo momento viene mostrato il quadro di una famiglia felice e serena, immersa in un’atmosfera gioiosa; successivamente, però, quello stesso scenario si trasforma in un luogo desolato e abbandonato, in cui il locus amoenus si tramuta in locus horridus. La forma duale riflette uno dei principi fondamentali del Taoismo, più volte evocato nel testo: l’universo si regge su un equilibrio dinamico tra Yin e Yang, e ogni forza, giunta al suo apice, genera automaticamente il proprio opposto per ristabilire l’armonia. È una visione profondamente catartica dell’esistenza: la tragedia non è fine a sé stessa, ma necessaria al riequilibrio del cosmo e dell’animo umano. In questo senso, anche gli eventi più dolorosi — come il suicidio della moglie Loto Fragrante, la morte del giovane figlio maschio di Hsi-Mên, la scomparsa della moglie Madama P’Ing e infine quella del protagonista — assumono un significato più ampio e concettualmente conchiuso. Non sono semplici colpi di scena, ma tasselli di un disegno più grande, in cui ogni eccesso viene punito e ogni squilibrio viene sanato. Il romanzo, dunque, non si limita a raccontare un’epoca o una famiglia, ma si propone anche come monito morale: l’eccesso di lusso, potere e desiderio conduce inevitabilmente alla rovina. Solo agendo in nome dell’armonia e della misura si può sperare di mantenere un vero equilibrio. Impossibile, in un singolo articolo, rendere giustizia all’intero ventaglio di personaggi che popolano questo vasto romanzo. Tuttavia, tre figure spiccano per centralità e forza narrativa: il ricco e ambizioso Hsi-Mên, la sua quinta moglie, la seducente e inquieta Loto d’Oro, e la prima, Madama Luna. Hsi-Mên, come detto, è un imprenditore di successo nel campo dei medicinali, ma la sua sete di potere e piacere sembra inesauribile. Desidera tutto: ricchezze, donne, prestigio politico. Per ottenere ciò che vuole, non esita a ricorrere a mezzi disonesti, mostrandoci, attraverso le sue azioni, un sistema sociale corrotto, basato su tangenti e favori — dinamiche, peraltro, tristemente riconoscibili anche nella nostra contemporaneità. Eppure, accanto a questo lato calcolatore e spregiudicato, affiora talvolta un aspetto più umano e sentimentale. Hsi-Mên appare, a tratti, sinceramente innamorato della vita e delle sue donne, prigioniero di un conflitto interiore tra razionalità e impulso, tra controllo e desiderio. Diverso il caso di Loto d’Oro, donna di straordinaria bellezza e carica erotica, interamente guidata dall’istinto. La sua presenza in scena è destabilizzante: semina discordia, alimenta gelosie e manipola chi le sta attorno con feroce lucidità. Per legarsi a Hsi-Mên, partecipa all’assassinio del suo primo marito, e in seguito, accecata dalla gelosia verso Madama P’Ing, arriva persino a causare la morte del figlioletto che quest’ultima ha avuto con Hsi-Mên. Il suo comportamento oscillante tra idealizzazione e denigrazione degli altri delinea un profilo che oggi potremmo definire narcisistico, un personaggio moderno, nel suo essere tragicamente autodistruttivo. E infatti, come gli altri, pagherà il prezzo delle sue azioni. Dopo la morte di Hsi-Mên, verrà uccisa in modo crudo e spietato da Wu Sung, che la prende in moglie solo per vendicarsi. In uno dei capitoli più potenti e drammatici del romanzo — insieme a quelli dedicati alla morte del piccolo figlio di Madama P’Ing — Wu Sung, in un gesto tanto simbolico quanto brutale, le strappa il cuore con un coltello. Un epilogo che suggella, con forza tragica, il destino di chi vive nel segno della dismisura di brama e ambizione e infine della manipolazione. Infine, Madama Luna, è l’unico personaggio che spicca per fedeltà e virtù. Solo lei infatti, nonostante tutte le avversità e i contrasti con i quali deve vedersela, rimane moralmente intatta e sempre fedele a suo marito, nonostante questo sia profondamente lussurioso. Le sue scelte non sono di carattere istintivo e ingenuo, come sono quelle di altri soggetti – come il Giovane Ch’ên, uno degli amanti di Loto d’Oro. Le sue scelte si basano su razionalità e fermi principi. Grazie a lei proprio nel finale del romanzo, spicca un altro personaggio, al quale non si dà grande peso per tutto lo scritto, si tratta del servo Tai-An, che in effetti si è dimostrato sempre virtuoso e fedele. È proprio lui nel finale a diventare erede di tutto il patrimonio della famiglia, dopo che il figlio di Madama Luna viene preso in custodia dal monaco buddista. Per questa ragione Tai-An prenderà il nome di Il Piccolo Hsi-Mên. E anche questo è emblematico e rivela una verità fondamentale, che spesso chi opera nel nome del bene lo fa nell’ombra, senza apparire, senza azioni evidenti, semplicemente nel nome dell’equilibrio e della giustizia, e per questa ragione prima o dopo verrà ripagato. In definitiva, Chin P’ing Mei è giustamente considerato uno dei capolavori assoluti della letteratura cinese: dovrebbe essere riconosciuto come un classico della letteratura mondiale. Lo merita non solo per la ricchezza dei suoi contenuti, ma anche per lo stile raffinato, che alterna prosa e la poesia, e per l’eccezionale profondità psicologica con cui sono tratteggiati i personaggi. Pur nell’ampiezza del cast narrativo, ogni figura è caratterizzata con precisione, vive di un’identità propria, autentica, che contribuisce a rendere l’universo del romanzo straordinariamente realistico e vitale. In queste pagine si respira la storia, la cultura, il pensiero cinese in tutta la loro complessità. Ma, al di là delle specificità culturali, emerge con forza un messaggio universale: Oriente e Occidente, pur nei rispettivi linguaggi e sensibilità, si sono sempre confrontati con le stesse grandi questioni umane – la lotta contro la corruzione, l’illusione del superfluo, il desiderio di potere. Laddove l’Occidente ha cercato soluzioni nella scienza e nella razionalità, l’Oriente ha affiancato a queste anche la spiritualità, non come elemento decorativo o astratto, ma come forza viva e trasformativa, capace di agire nella realtà. Una spiritualità che, nel romanzo, affiora spesso come voce interiore, come principio regolatore, come invito all’armonia. In fondo, ogni cultura – in modi diversi ma convergenti – tende verso un medesimo fine: la ricerca dell’equilibrio. Un equilibrio che non può essere raggiunto se si dà più valore all’esteriorità che alla sostanza, se si insegue il superfluo dimenticando ciò che davvero è cruciale. Stefano Duranti Poccetti *In copertina: il ‘Chin P’ing Mei’ nella versione scenica del Beijing Dance Theater L'articolo Intorno a un classico della letteratura cinese: “Chin P’ing Mei”, il fiore di prugno nel vaso d’oro proviene da Pangea.
May 12, 2025 / Pangea
“Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina
Nell’età di mezzo, quando si parla di epica eroica si fa riferimento a qualcosa di marmoreo, codificato, noto e arcinoto: le chansons carolingie, l’Orlando che si immola a Roncisvalle per il suo sovrano, redivivo nella letteratura italiana; El Cid, quel Rodrigo Diaz de Bivar che nella sua onorata sventura continua a servire il suo sovrano. Poi c’è un’epica tellurica, dimenticata ai margini dell’Impero, dove l’Europa è già Asia e il cristianesimo è vernice crepata sulle icone costantinopolitane. È l’epica bizantina, spesso ignorata, relegata nei ghetti della filologia, forse vista come qualcosa di minore. Eppure, è irresistibile il fascino che questa esercita: cimentarsi nella lettura di un poema epico bizantino ci dissocia dalle categorie dell’eroico che siamo abituati a conoscere e maneggiare, è qualcosa di radicalmente altro. Digenis Akritas è un titolo e un nome, aspro come l’uomo che designa: il “due volte nato”, il “guardiano del confine”. Digenis, al battesimo Basilio, osserva la frontiera dal suo avamposto sul fiume Eufrate, limite estremo di una Bisanzio non ancora crepuscolare. Chi era l’Akrita Basilio? Figlio di un emiro siriano convertito e di una nobildonna greca rapita – già nella sua carne, nel sangue digenis, c’è l’ordalia del confine, lo scontro e l’abbraccio tra Cristianità e Islam, tra due civiltà destinate a scrutarsi e scontrarsi – nasce da questa unione ma cresce con coordinate salde, che non possono non essere la crosta di Bisanzio, il gesto ieratico del pantocratore. Cresce distinguendosi per le eccezionali doti fisiche: in piena adolescenza, iniziano le gesta dell’eroe. L’eroe è sempre bastardo, non ha genealogie rassicuranti, non risiede nel cuore dell’Impero ma ai suoi margini, dove la legge è eco lontana e la civiltà si stempera nella ferocia del limes. La Bisanzio stessa che gli dona i natali faticherebbe a riconoscerne i connotati come tale. La sua epopea non celebra paladini immacolati al servizio di Dio e dell’Imperatore. Digenis è scheggia impazzita, individualismo che rasenta l’asocialità, campione di un onore selvatico che si misura nel ratto, nella razzia come esercizio di virilità primordiale. L’Imperatore desidera conoscerlo, l’eroe orientale non si smuove, che sia il sovrano a scomodarsi e raggiungerlo sulle rive dell’Eufrate «con pochi soldati». Sorveglia un deserto pullulante di nemici: saraceni, gli apelatai (i predoni delle montagne, fantasmi della libertà anarchica), persino draghi e amazzoni evocati da un immaginario ancora intriso di mito pagano sotto la patina cristiana. Non c’è netta contrapposizione etica tra lui e i suoi nemici, agiscono sullo stesso piano, rispondono allo stesso codice ancestrale. Digenis chiede addirittura di arruolarsi tra gli apelatai, rifiutando infine di unirsi ai predoni solo dopo aver constatato la loro inferiorità fisica, la forza è misura del diritto e del bene. Poi c’è l’amore, un amore che è rapina, possesso, difesa gelosa. Non poteva essere diversamente: il poema si apre con un ratto, quello della madre di Digenis; la vicenda dell’eroe stesso è poi inaugurata dal ratto della sposa, Eudokia. > “La pernice prese il volo e l’afferrò il falcone.  > Dolcemente si baciavano…” Alla celebrazione lirica dell’amor cortese si sostituisce l’affermazione di un diritto primordiale, ferino quasi. Il codice d’onore impone di rapire la donna amata e di difenderla dagli aggressori, che siano draghi, leoni o bande di predoni. La lotta per la sposa è teatro di una competizione maschile feroce, dove la donna è insieme premio e strumento per affermare la propria onorabilità virile. C’è anche un’altra faccia di Digenis: l’eroe cristiano, il timorato seminarista – ruolo che mal s’addice all’eroe – tormentato dal peccato dopo aver compiuto adulterio, essersene pentito e poi aver reiterato il misfatto nel canto successivo, l’amore per Eudokia non è sufficiente a placarlo: il fuoco non può ardere indefinitamente vicino all’erba, così si assolve mentre cede alla tentazione con una principessa araba – poco fanno i kyrie eleison recitati con il cuore colmo di sofferenza e ancor meno persuadono dopo aver ripetuto il gesto con l’amazzone Maximò. Ma questa duplicità, schizofrenia apparente, non è sintomo di labilità psicologica da lettino d’analisi. È lo stigma del poema stesso, prodotto ibrido di due modelli culturali contrastanti e mai perfettamente conciliati: l’arcaico eroe della frontiera, amorale e vitalistico da un lato, dall’altro il più tardo archetipo dell’eroe cristiano. In Digenis agiscono, sovrapposti e non fusi, questi due codici, generando cortocircuiti, contraddizioni che sono la cifra più autentica e perturbante del personaggio. La stessa storia della tradizione manoscritta del poema – con pochi codici superstiti, dal più antico e rude dell’Escorial al più tardo e ingentilito di Grottaferrata (dove aumentano le lodi all’imperatore e l’episodio degli apelatai è omesso) – testimonia un lavorio incessante, un tentativo di addomesticare una materia incandescente e ricondurre l’eroe bastardo entro schemi più rassicuranti, più “letterari”. Il crepuscolo dell’eroe è segnato dalla malattia, dalla consapevolezza del declino fisico e dall’avvicinarsi della morte. La tradizione posteriore, in particolare i canti popolari akritici, amplificherà questo momento finale, immaginando un’ultima, titanica lotta di Digenis contro la morte personificata, Charon o Thanatos. È l’unica battaglia che l’eroe è destinato a perdere. Questo confronto finale con l’oblio rappresenta il limite invalicabile di ogni potenza umana, la vanità ultima di ogni conquista terrena. La morte di Digenis, descritta quasi come un anticlimax nel poema – con la moglie che opportunamente spira prima di lui – distanzia ulteriormente questa epica da quella convenzionale. Non c’è apoteosi finale, ma lo spegnersi di una forza immensa di fronte all’inevitabile. > “Vedete dove mai giace l’audacia del valore!  > Vedete dove mai giace il Digenis Akrita, il fiore dei Romei” Andrea Falco Profili L'articolo “Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina proviene da Pangea.
May 3, 2025 / Pangea