Tag - Cultura generale

“Un segreto inviolabile”. I “Sonetti” di Shakespeare nella traduzione di Giuseppe Ungaretti
Ognuno di noi serba nell’animo il ricordo di una lettura folgorante, un libro che ha segnato tutta una vita, confermato il presagio di una vocazione e illuminato la possibile traiettoria di un’esistenza. Un libro totem, un libro talismano – fatto per essere conservato come un amuleto o da indossare come un’armatura contro gli agguati del tempo, un orizzonte di privata salvezza in fondo alle nostre piccole e grandi apocalissi.  La mia copia dei Sonetti di Shakespeare, nella versione in prosa di Lucifero Darchini, risale ormai a più di venti anni fa. L’avevo comprata, se la memoria non m’inganna, durante le vacanze estive tra il secondo e il terzo anno di liceo. Mi aveva sedotto la copertina color blu cobalto con al centro un piccolo ritratto del poeta inglese, la famosa incisione di Martin Droeshout. Una copertina senza orpelli, piuttosto minimalista. Tante volte mi sono interrogato, nel corso degli anni, sulle ragioni che fanno dei Sonetti un’opera per me totalmente invulnerabile all’usura del tempo, del dolore e degli affetti. Ora, a distanza di due decenni, quel blu si è schiarito, le pagine si sono irrimediabilmente ingiallite. Resiste quell’odore inconfondibile e familiare dei libri che abbiamo portato in giro per il mondo, pieni di note e piccole illuminazioni scritte alla luce fievole di un abat-jour. Persiste anche, inalterabile, quella voglia di serrare il libro al petto, come si fa con le persone più care. Forse, è questa la migliore risposta alle mie domande. * Sugli interlocutori dei sonetti, sulla datazione, così come sulle misteriose vicende della pubblicazione, sono stati scritti e si continuano a scrivere fiumi d’inchiostro. Poco importa, in fondo, dare un nome e un cognome al “fair youth”, alla “dark lady” e al “rival poet”. Qualcuno ha scritto che in questi versi Shakespeare ha messo a nudo il suo cuore. Che in quei 14 pentametri giambici disposti in tre quartine in rima alternata più un distico finale in rima baciata, il poeta abbia voluto drammatizzare le tensioni più intime del suo poetico sentire. Per me, i Sonetti coincidono da sempre con la meridiana che segna il mezzogiorno della Poesia. * Cerco di indagare le ragioni del senso di meraviglia che i 154 sonetti sprigionano. Da cosa deriva il loro fascino irresistibile? Con quale lingua mi parlano, accarezzando il dolce mistero della poesia, aggirando le mie arrendevoli difese?  Forse – mi dico – il motivo è nell’intreccio tra la sfera del privato e dell’eterno, inscritta cioè nell’orizzonte delle umane passioni. O forse la ragione si trova nell’unione tra l’universale e il particolare – cioè l’irripetibile, o nella commistione miracolosa e al tempo stesso naturale tra il solenne e il sublime ordinario. Qualsiasi cosa sia, so che ad incantarmi è la drammatizzazione del discorso lirico, in cui sempre il dettato oscilla tra la prima, la seconda e la terza persona singolari. È già qualcosa, ma non basta ancora. Provo a mettere a fuoco, quanto basta per vedere più da vicino il mistero, ma senza correre il rischio di svelarlo. I Sonetti – una bussola con l’ago magnetico rivolto verso il Nord della poesia. Il che vuol dire nutrire in sé la perenne convinzione che quel libro attraverserà tempeste e schiarite della giovinezza, l’ingannevole saggezza della maturità, le vaste distanze marine e aeree, le possenti montagne dove mulina la neve, nel regno delle nubi. * I Sonetti compaiono per la prima volta nel 1609, mentre a Londra infuria la peste. Quasi tre secoli e mezzo dopo, un altro tipo di piaga affligge l’Europa e il mondo intero – la Seconda Guerra Mondiale. In una Roma che inizia a patire i primi bombardamenti, esce a cavallo tra il 1943 e il ’44, a firma di Giuseppe Ungaretti, la traduzione di 22 sonetti in 498 esemplari di lusso. S’era già cimentato, il sommo poeta italiano, nella traduzione di diversi poeti – diversi per indole, lingua e cultura – come Gongora, Esenin, Saint-John Perse, Blake e Paulhan. Ma è proprio il corpo a corpo con il poeta inglese, durato quasi quindici lunghi anni, a rivestire un’importanza decisiva nella vita e nell’opera ungarettiana. Ce lo dice il poeta stesso nella breve e fulminante nota introduttiva alla sua traduzione. Ungaretti inizia ad accostarsi ai versi di Shakespeare nel 1931. Lo assale, in quegli anni, un’esigenza profonda di rinnovamento formale, che s’accompagna a un inaridimento dell’ispirazione. Ungaretti sognava una poesia >  “dove la segretezza dell’animo, non tradita né falsata negli impulsi, si > conciliasse a un’estrema sapienza del discorso”. Desiderava quindi, il sommo poeta italiano, pervenire a un miracoloso equilibrio grazie a una lingua alleata ad un tempo con l’arcano e il popolare. Accogliere la rotonda inquietudine del Petrarca e l’angolosa asprezza dei versi michelangioleschi. Rinvenire, scegliendo le parole, quelle in grado di sollecitare lo spirito e i suoi moti, al di là delle leggi della prosodia. Di nuova linfa aveva bisogno Ungaretti, per volgersi di nuovo con sguardo fiducioso verso la poesia. Un vento proveniente da altro quadrante doveva gonfiare le sue vele, tirando fuori l’ispirazione dalla secca in cui era finita. Cosa spinge allora Ungaretti verso il canzoniere di Shakespeare? Perché la scelta, da poeta a poeta, cade proprio sul bardo inglese? * La lunga gestazione della traduzione dei Sonetti è da collocare in un decennio decisivo per Ungaretti. La morte della madre, una crisi mistica che sfocia nella conversione religiosa, la pubblicazione nel 1933 della raccolta Sentimento del tempo, la scomparsa durissima del figlio di appena nove anni nel 1939, portano il poeta a confrontarsi direttamente con il senso della finitudine umana e del dolore gratuito. E proprio l’intensa meditazione sulla morte e su come opporvisi costituisce uno degli accenti più vibranti dei versi di Shakespeare. Solo la poesia – giusta essenziale e retta –, per dirla con Elitis, può valere come argine contro la morte. Solo quel miracolo nato in mezzo all’Egeo, più di due millenni fa, è in grado di sgambettare la furiosa corsa del tempo verso l’oblio eterno. Poco importa se il tema è un topos letterario inaugurato da Orazio. Nei Sonetti, non avverti la maniera, l’esercizio freddo in ossequio al canone. L’io lirico riesce, sempre e comunque, a soffiar vita dentro i versi. Lo stesso si dica per l’amore. Cantato in tutte le sue gradazioni, dall’ammirazione alla procreazione, dalla gelosia alla sete di immortalità, l’amore evocato da Shakespeare è un amore nel quale senti il grido trasferirsi dal privato all’universale, “pieno d’echi di popolo, urlo”. Ecco “il diretto, il segreto contatto” che Ungaretti sentiva verso il poeta inglese, ancor prima di mettersi a tradurre i Sonetti. Nel sovrapporsi di figure diverse, nel colloquio incessante e drammatico tra intime e condivise passioni, noi siamo, rispetto ai Sonetti,spettatori ammirati, e Ungaretti insieme a noi. Uomo di teatro e per il teatro, Shakespeare riesce a proiettare anche tra quelle rime il palcoscenico dove si esibiscono le vaste esperienze umane. E tuttavia, anche nelle composizioni che si aprono al tepore di una primavera d’ispirazione, financo nello sbocciare armonioso e meridiano delle immagini e dei temi, senti la vibrazione tellurica di un mistero che è il nucleo stesso della grande poesia. Scrive Ungaretti nella nota introduttiva, e la citazione è di quelle che non lasciano spazio a repliche: > “Non esisterà mai poesia che non rechi in sé, traendone vita, un segreto > inviolabile”. Pare quasi di sentirlo parlare in una delle sue interviste, Ungà, con quel tono di voce cantilenante e magnetico – ogni frase cade come un meteorite di amorevole saggezza. Lo sguardo dolce, che lascia intuire tutto il dolore vissuto, ma trasfigurato ormai in qualcos’altro – una vaga serena docile consapevolezza. Quell’aria un po’esotica che sa di adolescenza e pleniluni africani, quel suo abitare la poesia con la giustezza di una vita interamente dedicata, senza compromessi, ai versi. Poesia come vocazione, poesia come destino. Che viaggi allora nel tempo, Ungaretti, con la speranza dell’immortalità, insieme alla sua traduzione del sonetto 55 di William Shakespeare: “Non il marmo, né gli aurei monumenti Di principi, potranno alla potenza delle mie rime sopravvivere; Ed in esse voi contenuto, splenderete più splendido Che non nella negletta pietra, dal sozzo tempo deturpata. Quando la guerra che devasta rovescerà le statue E le fazioni scalzeranno il lavoro di muratura, Non la sua spada Marte offenderà, né incendio di battaglie I vivi archivi del ricordo vostro. Contro ogni morte e ogni obliosa nimicizia Non si arresterà il vostro passo, ed avrà stanza il vostro elogio In tutti gli occhi di quante generazioni postere Avranno questo mondo da esaurire per l’ultimo giudizio. Così sino allo squillo che vi farà risorgere, Quaggiù vivrete e abiterete in sguardi innamorati”. Lorenzo Giacinto *In copertina: Giuseppe Ungaretti. © Archivio Fotografico Paolo Di Paolo L'articolo “Un segreto inviolabile”. I “Sonetti” di Shakespeare nella traduzione di Giuseppe Ungaretti proviene da Pangea.
November 13, 2025 / Pangea
Solitario, filosofo, cristiano. Note su Giacomo Casanova
Ho sempre trascurato se non, meglio, snobbato il nome di Giacomo Casanova, ritenendo la pur celebre Histoire de ma vie, l’unica opera sua conosciuta anche dai non specialisti, soltanto una delle tante memorie del Settecento, che poco o più tosto nulla avrebbero potuto nutrire chi come me si occupava con pretese e ambizioni di cultura europea. Non andai nemmeno a curiosare, né pigliai alcun appunto, quando, molti anni fa, lessi, non ricordo più dove, una pur curiosa allusione per cui nell’Histoire l’autore avrebbe riferito di una sua esperienza mistica coincidente con le classiche del genere. Era la forza del pregiudizio coartata da, mi sarei accorto, leggende e vaniloqui anche e sopra tutto di intellettuali, come sempre informatissimi e autorevoli. Ebbi poi quello che sarebbe stato, senza ch’io lo potessi presagire, l’ultimo e sereno colloquio con l’amico d’oltre diciassett’anni, alquanto noto a chi bazzichi librerie, il quale mi avrebbe di lì a pochissimo giocata un’infilata di delusioni a freddo tale da imporre una drastica e irricomponibile rottura. Mi parlò delle memorie, e proprio mentre stavo sondando il secolo di Casanova. In quelle pagine, mi disse, oltre a molto spasso, troverai biblioteche di notizie sul Settecento in ogni suo aspetto. Se dell’uomo, come avrei scoperto, non c’è da fidarsi, dello studioso in massima parte sì; sicché mi procurai in breve la traduzione – Storia della mia vita – di Piero Chiara e Roberto Fertonani, stampata nei ‘Meridiani’, che trovai nuova a un prezzo vantaggiosissimo, e sùbito la attaccai. Sarebbe assai presto venuto il giorno di un biasimo contro Chiara e il suo allora famiglio, che ancor dura; all’epoca l’introduzione dello scrittore italiano fu però un ottimo abbrivio, che m’ingolosì più di quanto non avesse fatto la chiacchierata col mio primo informatore. Restavano tuttavia sprazzi di diffidenza, che sperai di veder dileguare: e fu quanto accadde dopo le primissime pagine. Fui sùbito risucchiato in una vertigine di stupefazione, che si dilatava e accelerava. A ogni pagina ogni singola voce giuntami su Casanova dai soliti autorevoli commentatori e intellettuali, veniva sbugiardata, inchiodata alla sua mendacità, al suo pressappochismo, depistaggi e fraintendimenti erano svergognati. Che cosa avevano letto? Come lo avevano letto? Nulla del gabbamondo, del lestofante, del vago predone d’alcove, dell’avventuriere propalato resta all’inpiedi se solo si legga quell’autobiografia. La figura emergente dalla Storia è di un essere umano che ha vissuto nella sequela, afferma egli stesso, della Divina Provvidenza e che presenta sé stesso, sin dai primi rintocchi, quale cristiano e filosofo. E se si può discutere del suo cristianesimo (un cristianesimo a ogni buon conto certo assai più cristiano di quello di tanto sedicenti praticanti cristiani d’oggidì), bisogna in vece senz’altro concedere a Casanova lo statuto di philosophe, senza tuttavia le imposture le ossessioni e i pregiudizii della più parte di quelli. Egli bensì annette all’Histoire le avventure – così come, si badi, le disavventure, e molte – muliebri, ma il racconto non è mai fine a sé stesso. Casanova non scrive per vantarsi delle sue conquiste (peraltro non moltissime: altro dato da scoprire) o per amore di riferire storie pruriginose con cui accalappiare il lettore e perché altro non ha da dire, altro non pensa, come un qualsiasi Alberto Moravia. Le intenzioni saranno anche per l’amore dell’avventura e di una certa libertà che s’andava reinventando in quel secolo, ma sono funzionali a una visione del mondo, appresa vivendo, anche a traverso i rapporti con le donne. Casanova si dimostra un filosofo raffinato e costante, osservatore acutissimo e disinteressato di città e uomini, e tra i maggiori cronisti dell’epoca sua e non soltanto. Un uomo e uno scrittore paradossalmente inediti dunque riescono dalla Storia, benché questa sia stampata a chiare lettere e secondo le intenzione dell’autore sin dagli anni Sessanta del XX secolo. Ìndico questa data giacché per circa un secolo e mezzo le memorie circolarono in versioni appositamente corrotte e mùtile, come ne rende conto Chiara in più contributi. Non possiamo soffermarci sui dettagli. Questo rapido intervento serve soltanto a lanciare una «grida», per dirla con Manzoni, che suoni la sveglia ai molti, troppi pseudolettori di Casanova e a chi ancòra lo trascuri. Le relazioni con le donne sono state ridotte a manifestazioni priapesche e ossessive ma che sono in vece istruttivissime, tra il molto altro, per una più completa e veridica intelligenza sia delle femmine tout court, sia dei rapporti tra i due sessi nel XVIII secolo, anche a pieno Antico Regime. Le femministe e i femministi spregiatori dell’epoca prerivoluzionaria si vadano a leggere, a esempio, quanto sottomesse al “patriarcato” fossero le donne! Fa di poi sorridere che proprio taluni studiosi casanoviani – categoria assai numerosa e, va detto, nonostante tutto spesso giovevole – mentre bestemmiano a ragione sulle contraffazioni cui accennai, altro non seguitino a fare che a rimasticare le solite stracche e stucchevoli mezze verità e fandonie sul Veneziano e su quel secolo. Ed è credo proprio a cagione d’una completa distorta percezione propalata come verità storica e biografica, che da mesi l’anniversario dei trecento anni della nascita è stato ignorato. Nemmeno la massoneria, che non perde mai occasione di farsi vanto d’aver avuti nelle sue fila personaggi illustri, a quanto mi consta s’è spesa per il suo ex confratello. Ma oltre al disprezzo per il presunto trattamento riservato da Casanova al genere femminile, ci sono due altre radici della menzogna e dell’oblio. Ho accennato alla prima, o sia la professione di cristianesimo, per di più cattolico, colpa non perdonabile dagli stinti eredi di Robespierre o di Voltaire. A ciò si aggiunga l’irrefrenabile schifo e orrore nutriti da Casanova per la rivoluzione francese. Fu complice nella rimozione e nella distorsione esser la Storia escita proprio negli anni, già detti, in cui in Italia e in Europa si stavano caricando i cannoni a letame del Sessantotto, del quale ancor godiamo, rimmarciti, i frutti: abitudini, protervie, ottusità, professori, giornalisti, continuatori, imitatori. Giacomo Casanova non è territorio da annessione, per nessuno, se non a traverso la corruzione. Egli si staglia solitario in tutto il Settecento e nell’intiera storia europea, con la sua nudità di figura unica, forse davvero la sola sciolta autonoma libera. Suggerisco al lettore volenteroso e curioso di farsi da sé il suo Casanova sguazzando nella Storia e nelle altre splendide opere. Dopo, se vorrà, quando sarà immunizzato, potrà approfondire con la critica e le biografie, che per il momento è meglio lasciare sugli scaffali. Arriverà prima o poi, mi àuguro, chi voglia mettere la casa in ordine, fare a Casanova – una casa nuova. A cominciare magari dalla stanza da letto. Luca Bistolfi L'articolo Solitario, filosofo, cristiano. Note su Giacomo Casanova proviene da Pangea.
November 3, 2025 / Pangea
“Qualche disturbata Divinità”. Montale & Leopardi, poeti della luce
L’etichetta “pessimismo” è quella che maggiormente stritola tanto Leopardi quanto Montale; e la loro presunta resa di fronte alla ricerca della felicità va consolidandosi per generazioni di studenti, e (anche) di docenti. Questa gabbia li conquide, e li riduce a teorici del “male di vivere”, del “brutto vero”, definizioni sterili rispetto alla caratura della loro speculazione filosofica. Tuttavia, bisogna ammettere che il recanatese e il genovese non hanno dipinto la realtà come un felice girotondo, e l’hanno liricizzata con toni aspri, duri, talvolta difficili da difendere e da accettare. Ma se si andasse “più addentro”, come direbbe il Pirandello dell’Umorismo, si apprezzerebbero sentieri carsici che conducono ad una anelata atarassia. Forse utopistica, dunque inesistente; forse astratta, e per questo poco compresa; forse misteriosa, ma per questo poetica.  Montale, pertanto, guarda a Leopardi come il marinaio guarda il faro nella tempesta: non dico che ne diventi epigone, ma spesso, furtivamente, ricalca alcuni passi e ne ripropone la veridicità con le dovute differenze. Tra tutte le immagini, si pensi alla celebre “siepe” dell’Infinito, che si trasforma nella “muraglia” in Meriggiare, pallido e assorto: Leopardi la valica, e con il verso “io nel pensier mi fingo” celebra il potere dell’immaginazione, per poi “naufragare” nella dimensione fittizia del “vago e indefinito” intrisa di piacere eterno; Montale, invece, non vince il muro, e invoca la “divina Indifferenza”, unico “prodigio” capace di stemperare la perenne condizione di asfissìa e di prosciugamento, dilagante nel primo periodo ligure. In ogni caso, “la vita è male”. Ma se nella fase giovanile degli Idilli, l’invito leopardiano all’azione sospende il dolore, con il vagheggiare e la perdita nell’indefinitezza, l’invito montaliano è l’inibizione, il non-agire. Infatti, quando il poeta si muove e si volta, come nel caso di Forse un mattino andando, si scontra con il “nulla”, con il “vuoto”, con “l’inganno consueto”: essere indifferenti è la sola forma di “bene” saputa dal poeta degli Ossi di seppia, pertugio che “schiude” la quiete. I limiti, dunque, non sono trampolini per evadere dalla vita, concausa dell’infelicità umana, ma presentano “cocci aguzzi di bottiglia” sulla loro sommità. E come se non bastasse, se il vento leopardiano è uno “stormire” che si fonde con la “voce” dell’io poetico, il fruscìo che subisce Montale è un’aria desertica, che inaridisce e rinsecchisce, fino al midollo.  Da qui, la Natura “matrigna” si manifesta nelle sue espressioni più ostili: nel Dialogo della Natura e di un islandese, l’elenco di calamità è impressionante, in perfetta sintonia con gli effetti che il “meriggio” cocente ha sugli “oggetti montaliani” di Spesso il male di vivere ho incontrato. Dichiarazioni, ambedue, di una Natura totalmente indifferente, di quel “perpetuo circuito” che si innesca senza poi curarsi della sorte umana. In effetti, Miraggi di Montale ricalca le fasi di “produzione e distruzione” denunciate da Leopardi: “[La Natura, NdA] che regge il mondo, lo crea e lo distrugge/ per poi rifarlo sempre più spettrale/ e irriconoscibile”. Ma per confermare la mia tesi – Leopardi e Montale come poeti della luce e non del buio – vi sono affinità ottimistiche, che consentono di lenire i tormenti. Nonostante il ricordo sia un’arma ambigua, parzialmente efficace, segna il poetare dei due. Velleitario citare l’incipit di A Silvia, “Silvia, rimembri ancora quel tempo”, dove il verbo “rimembrare” è colonna portante dell’intera dissertazione; così la “vecchierella” del Sabato del villaggio, quando “novellando vien del suo buon tempo”, e il poeta stesso quando “ricorre al pensier” nella Sera del dì di festa (come in moltissimi altri passi dei testi leopardiani); rimembranza che sussurra alla flebile speranza del Montale delle Occasioni, come quando implora alla “forbice” del tempo di “non recidere quel volto, / solo nella memoria che si sfolla”. Il tempo, dunque, non fa altro che divorare tutto; e il contrasto tra la gioia e la sofferenza, tra la giovinezza, quel “fior degli anni gentili”, e la vecchiaia, può essere vinto dalla rievocazione. E bisogna fuggire la morte, quella stessa morte che pone fine al tutto, anche al piacere. I versi finali di A Silvia risuonano: > “e con la mano  > la fredda morte ed una tomba ignuda  > mostravi di lontano.”  Analogo è il profilo di Clizia, senhal di Irma Brandeis, nella Bufera, quando si congeda dal poeta e scompare nel buio – l’“abisso orrido” del Canto notturno leopardiano: > “come quando  > ti rivolgesti e con la mano, sgombra  > la fronte dalla nube dei capelli,  > mi salutasti – per entrare nel buio.” Ma il buio che si delinea al finire del sentiero, che Montale percorre con quel “segreto” di disagio e incomprensione, in mezzo agli “uomini che non si voltano”, è vinto dalla luce. E di nuovo in analogia con Leopardi, sempre nella Bufera, si legge di una consueta Clizia salvifica, poiché lucifera, portatrice di luce e di sole:  > “In alto, Clizia, è la tua sorte, tu  > che il mutato amor mutata serbi  > fino a che il cieco sole che in te porti  > si abbacini nell’altro e si distrugga in lui.”  Quegli “occhi” potenti come il sole, che si confondono e si mescolano per potenza e per efficacia con la stella del giorno, primeggiano già nel primo Leopardi. “Gli occhi ridenti e fuggitivi” di Teresa Fattorini in A Silvia, e gli occhi efficaci del Sogno: > “Ella negli occhi  > pur mi restava, e nell’incerto raggio  > del Sol vederla io mi credeva ancora.” E Leopardi, non a caso, introduce la Ginestra con il passo del Vangelo di Giovanni (III, 19), a conferma che la luce è accecante poiché rivela la Verità, ed è spesso barattata per le tenebre, in quanto difficile da assimilare: “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.” Montale e Leopardi, dunque, non sono altro che due radiografi della realtà sensibile, fonte di “affanno”. Il male non si può sconfiggere, poiché connaturato nell’essere umano, e non bisogna fare altro che conviverci. Da qui, il Leopardi della Ginestra e della dignità dell’uomo virtuoso, che deve emulare il “fiore del deserto”: prima profuma le “campagne dispogliate” e poi, quando giunge il suo momento, con estrema dignità e modestia, piegherà “il capo innocente”, senza superbia; così, Montale e la ricerca “varco”, che in una forma di “slancio vitalistico” ambisce titanicamente alla coesistenza con la disperazione:  > “i silenzi in cui si vede  > in ogni ombra umana che si allontana  > qualche disturbata Divinità.” E mentre imperano “le coincidenze, le prenotazioni,/ le trappole, gli scorni di chi crede/ che la realtà sia quella che si vede”, si cerca ancora quel pertugio, “dove s’accende/ rara la luce della petroliera”. Davide Chindamo L'articolo “Qualche disturbata Divinità”. Montale & Leopardi, poeti della luce proviene da Pangea.
October 23, 2025 / Pangea
Elogio dell’analfabetismo, o della poesia pura. Contro i legionari dell’algoritmo
È ormai difficile capire cosa intendesse José Bergamín per analfabetismo. L’analfabeta è stato sostituito dall’ignorante, l’alfabetizzato dal regime del logaritmo, dalle ragioni del risultato, dai legionari dell’io. Fiero di non leggere, leggiadro in ipocrisia, l’ignorante ostenta la gioia di essere mondano – non certo di essere al mondo, di questo mondo –, il genio pratico – l’opposto del dotarsi di una pratica – il corrispondere ai desideri del proprio intestino, l’unico interiore che contempli. Né anima né animale, l’ignorante di oggi è come l’intellettuale di ieri: l’uomo alfabetico, che costringe ogni fatto in dimora di misura, si diletta in statistiche, celebra il proprio status, bieco figlio dell’istituzione – sentendosi, naturalmente, libero, bonificato dallo Stato, anarca nel proprio ano, anodino.  L’analfabeta – cioè: il bambino, il popolo, l’apostolo, dunque il poeta – pare scomparso. La logica algoritmica, che crea umani-manovali, umani-replicanti, umanoidi mercenari dell’ego, in fondo, un’appendice del proprio portafogli, sembra aver finalmente ucciso l’analfabeta, l’uomo lordo di vita, lordo di Dio, in pieno possesso dell’essere mondo, dell’essere qui.  L’analfabeta non classifica le piante, le conosce; l’analfabeta non entra in contatto con gli animali ma con le anime; sa la pericolosità della bestia e la sua salvezza, e la riproduce in sé, nelle fattezze del viso e dell’agire. Così, l’uomo analfabeta, ostile ai nomi e alle definizioni, è corvo e volpe, è larice e airone, è luccio e luce, è acero e acerrimo nemico di chi alla persona sostituisce la personalità, l’ennesima menzogna.  L’analfabeta non comprende – apprende per apprensione, per trasalimento e assalto. Apprende per tradimento. L’analfabeta non conosce il linguaggio dacché è verbo.  Allo stesso modo, l’analfabeta assoluto, il poeta, non stuzzica la retorica, la stravolge; non sta al gioco del retore ma alla ferocia del re; non è al passo coi tempi e coi poseur, autentico passeur, trapper tra i regni; è incauto, fuori tono, scurrile, scomodo, senz’arte né parte, idiota ai più. È l’inosservato assoluto, perché non ha niente da dire e nulla da dare – è il dato di fatto, il dono, il detto e la contraddizione. Tutt’altro che incolto, il poeta legge divorando, legge sottraendosi – mentre l’intelligenza algoritmica procede per accumulo (norma bulimica, in cui non è contemplato l’eccedente, l’eccezionale, l’eccesso che non offre via di accesso), il poeta opera per sottrazione: toglie toglie toglie fino alla parola suprema, alla parola-stalattite, alla parola-stilita. Parola che non dice ma agisce.  L’analfabeta, il mago. L’analfabeta, il perpetuo orante. Analfabeta: altro modo di dire, vocazione. Essere chiamati; dunque: invasione di voci. Non vocalizzo, non vocalità. Restare veritieri alla voce. Il che implica: impunità da serpe, impurità, putridume nel dire. Allora: la vocale diventa angelo e a noi resta l’eccomi, il sì come si assiste alla cosa sgozzata, alla cosa benedetta, alla cosa cosmica.  Tommaso Scarponi, che figura tra i sapienti – leggete Distruzione e analogia, Castelvecchi, 2025 – mi volta un brano tratto dal memorabile scritto di José Bergamín. Eccolo:  > Quando Gesù era fanciullo analfabeta o analfabeta come un fanciullo (ché > analfabeta fu sempre: come fanciullo, come uomo e come Dio), quando era > fanciullo, Gesù si smarrì e fu trovato nel tempio. Lì insegnava ai dottori > della legge, dottori della legge scritta, della lettera legale (gli stessi che > poi lo avrebbero crocifisso per questo: perché era analfabeta); lì insegnò > loro la dottrina spirituale dell’ignoranza, che essi non ascoltarono e non > intesero. Perciò, quando poi lo condannarono a morte come analfabeta, lo > crocifissero letteralmente, cioè a piè della lettera o delle lettere, > collocando sulla sua testa un cartello o insegna su cui il letterato Pilato > fece scrivere appositamente: Io sono il Re dei Giudei; fece scrivere ciò per > mostrare a tutti che avevano preso alla lettera le parole di Cristo e che lo > avevano crocifisso prendendolo così, letteralmente. Sotto questo INRI > letterale, Cristo rese lo spirito a Dio; “dando un gran grido”, dice > l’apostolo: divinamente e umanamente analfabeta. Lo spirito muore sempre > crocifisso a piè della lettera. Ma muore per resuscitare. José Bergamín scrive La decadencia del analfabetismo nel 1933, pubblicando sulla rivista appena fondata, “Cruz y Raya”. Si premurava di far conoscere al mondo l’opera di Federico García Lorca, uno dei rari ‘analfabeti’; quattro anni dopo avrebbe guidato la delegazione spagnola del “II Congreso Internacional de Escritores para la Defensa de la Cultura” (tra i tanti, erano convenuti André Malraux e Wystan H. Auden, Pablo Neruda e Octavio Paz). Tradotto in italiano nel 1972, da Rusconi, riprodotto da Bompiani nel 2000, Decadenza dell’analfabetismo è un libro uscito dai ranghi del consesso editoriale come altri testi di José Bergamín. Nel 2003, Marco Dotti usò brandelli di Decadenza dell’analfabetismo – insieme a testi di Céline e di Artaud – come ‘manifesto’ per il “Primo festival della letteratura resistente dedicato agli scrittori analfabeti”, in atto a Pitigliano. Si reagiva – as usual – al “nuovo regime culturale, blindato ed escludente, intento solo a perpetuare se stesso a discapito di ogni scampolo di novità e impulso al rinnovamento” (così Marcello Baraghini autore della deliziosa antologia, La vita si scrive, per Stampa Alternativa).  Alla dinamica natura vs. cultura, José Bergamín ne pone un’altra, a vertigine, sacro vs. letterale. La lettera uccide il sacro, la legge fa massacro del cuore. Al linguaggio babelico – algoritmico – che fermenta burocrazia, si oppone il brigantaggio del linguaggio, il verbo nel roveto, l’annuncio, il miracolo. Al poeta cortigiano si preferisce il poeta ladro, il poeta in caccia aperta. Al poeta impegnato si sostituisca il poeta impari, il paria assoluto. Al linguaggio dell’istituzione, costituito dai vocabolari, il vocabolo onnivoro, parola che vive tra le piante e le pietre, vivo dire dei mari, parola vespertina che si sorseggia a colpo d’ala, insoluto sole.  L’attacco di Decadenza dell’analfabetismo – “Tutti i bambini, finché sono tali, sono analfabeti” – pare memore del Fanciullino di Pascoli: “È dentro noi un fanciullino… ma noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia”. Pascoli mirava all’anonimato, al sovvertimento dei nomi (“Quando fioriva la vera poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s’inventa; si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto, quando morto”); scriveva che il poeta “non deve avere, non ha altro fine… che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì”. Ma noi temiamo il selvaggio, la via senza ancoraggio di gloria o di nomea, così i poeti vengono stivati nelle storie della letteratura, inermi, come strane bestie in formaldeide, per lo più innocue. Parole sotto vuoto, parole disinnescate. E dei grandi autori che hanno operato verso il ritorno all’analfabetismo, cioè verso i modi della mania lirica, l’unica – chessò, Benjamin Fondane, Ted Hughes, Robinson Jeffers… – non si dice, si traduce a sprazzi, li si imbraga tra criteri accademici, tra erbari e mostre di lepidotteri.  Tra l’incolto che si bea della propria arrogante ignoranza e l’elegante istrione che si muove tra cadaverici tomi, non c’è differenza: entrambi sono i sacerdoti di un mondo morto; entrambi, alieni da un’eccezionalità individuale, erigono santuari intorno al proprio io, si credono i migliori, gli scaltri, i pronti a tutto. Di tutto privo, detto depravato dai doge di questo tempo, il poeta – se è tale e non la sua maschera, l’infame implume – è l’unica creatura libera, liberata: ripete le sue parole al vento – e se ne ritrae, perché nulla è invano e tutto opera secondo la scia dell’angelo e dell’agnello. *** Da Decadenza dell’analfabetismo Ciò che un popolo serba del bambino, e ciò che l’uomo serba del popolo, ovvero ciò che in lui è ancora bambino, è l’analfabetismo. Analfabetismo è la denominazione poetica di uno stato autenticamente spirituale. Possiamo assistere al processo di decadenza dell’analfabetismo nelle nostre vite come in quelle dei popoli più colti, i più letterati. Guai a noi – guai a loro – se accettassimo superstiziosamente come ineluttabile il monopolio del letterale, del letterario, della cultura! Esiste una cultura letterale. Esiste una cultura spirituale. La prima perseguita l’analfabetismo, il suo nemico. Ed è oggi – non ieri né domani – la più diffusa. È quella che ha disordinato il mondo: quella che ha disordinato le cose e ha soppresso le gerarchie. Quando il senso delle gerarchie è razionalmente perduto, tutto deve essere disposto in ordine alfabetico. L’ordine alfabetico, però, è un ordine falso. L’ordine alfabetico è il disordine spirituale: quello dei dizionari, dei vocaboli letterali, più o meno enciclopedico, in cui la cultura letterale tenta di ridurre l’universo.  Il monopolio letterale della cultura ha disordinato le cose disorganizzando le parole, che sono anch’esse cose, non lettere; e poiché sono cose (cose di idee o idee di cose, cose della ragione, cose del gioco) sono pura realtà razionale o poetica, realtà autenticamente spirituale o analfabeta. * C’è stata una sistematica esibizione stilistica della poesia. Attraverso questi sottili lambicchi, la poesia viene sterilizzata: sterilizzazione immaginativa del pensiero. La poesia distillata, lambiccata, sterilizzata, non è pura poesia: è poesia letterata, letteralizzata. La poesia diventa letterata, alfabetica, cercando la musica in una vocalizzazione esclusivamente letterale. Esiste un’intera letteratura lirica che ha testi e musicalità, ma è priva di poesia.  * La poesia pura è semplicemente la più impura: poesia analfabeta. La poesia è analfabetismo integrale perché integra spiritualmente ogni cosa. La poesia è il campo analfabeta della gravitazione universale di tutte le costruzioni spirituali dell’uomo.  * Lo stato poetico è uno stato del desiderio infantile o popolare: un desiderio di analfabetismo; desiderio paradisiaco dello stato dell’uomo puro. Il poeta anela all’ignoranza, all’infanzia, all’innocenza, all’ignoranza analfabeta che ha perduto; anela all’analfabetismo perduto: pura ragione spirituale della sua opera.  * La parola, la viva parola, non si conforma nell’ordine alfabetico: perché la vita accade tramite la parola, non la parola tramite la vita; così come la verità è tramite la parola e non viceversa: tramite la parola divina. (In principio era il Verbo e il Verbo era Dio e il Verbo era in Dio… così attacca Giovanni nel suo Vangelo poetico, che è il Vangelo dell’analfabetismo spirituale più puro).  * Al termine del primo libro sulla Dotta ignoranza, che è dottrina spirituale dell’analfabetismo, Nicola Cusano scrive che la verità risplende incomprensibilmente nell’oscurità della nostra ignoranza. Il potere dell’oscurità della nostra ignoranza, il potere spirituale dell’analfabetismo, è quello di far risplendere incomprensibilmente in noi la precisione della verità. Non esiste poesia che non richieda tale lucidità spirituale, rintracciabile soltanto nell’oscurità della nostra ignoranza, approfondendo, direbbe Giordano Bruno, la profondità della nostra ombra. * Il declino dell’analfabetismo è la decadenza della cultura spirituale quando la cultura letterale la perseguita e la distrugge. Tutti i valori spirituali si sbriciolano quando la lettera o le morte lettere sostituiscono la parola, che si esprime tramite vive voci. Il valore spirituale di un popolo è inversamente proporzionale al declino del suo analfabetismo pensante e parlante. Perseguitare l’analfabetismo significa proseguire strisciando nel retro del pensare: perseguire le tracce luminose e poetiche della parola. Le conseguenze letterali di questa persecuzione è la morte del pensiero.  Chiunque si allontani dal gioco poetico del pensare è perduto, irrimediabilmente perduto, perché abbandona la verità della vita, che è l’unica vera vita – quella della fede, della poesia – per la menzogna della morte. Prendere tutto alla lettera, confidando in essa: ma ciò che è letterale è morto.  Il declino dell’analfabetismo è, semplicemente, il declino della poesia. È il declino del nostro pensiero da quando abbiamo perso la fede nella poesia, da quando siamo diventati alfabetizzati: non abbiamo fede quando siamo orfani della vera ragione, la ragione pura, quando sradichiamo dal nostro pensare la poesia.  * La ragione poetica del pensare dell’uomo è la fede. La poesia appartiene sempre agli uomini di fede, mai a quelli di lettere, ai letterati. Gli apostoli, in quanto uomini di fede e dunque analfabeti, hanno dato la più perfetta espressione poetica alla vita di Cristo. Confrontate i loro testi, poeticamente puri, con una qualsiasi delle innumerevoli vite letterarie o da letterati di Gesù Cristo: quella di Renan, di Strauss, di Papini… o qualsiasi altra (tranne le visioni analfabete ed extra-letterarie dei mistici come Anna Katharina Emmerick). Quelle vite letterate di Cristo contengono pagine e pagine di letteratura vaga, amena, senza una parola di verità: non una sola parola di verità né di menzogna perché ciò che pronunciano non sono parole ma lettere; la parola può essere pronunciata soltanto come l’hanno pronunciata gli apostoli e i santi: poeticamente. Non tutti gli analfabeti sono santi, ma tutti i santi devono essere analfabeti.  * Per apprendere il vero timore di Dio bisogna varcare la soglia poetica dell’analfabetismo; l’altro, il timore letterale della morte – o della vita –, il timore alfabetico del vuoto, non è timore di Dio: è terror panico.  Terror panico, cioè panteismo letterario, cioè letteralità del divino: la confusione di Dio con il Demonio non è, letteralmente, altro che confusione infernale, confusione di tutti i demoni; pandemonio, come lo fu la confusione letterale di Babele, ma senza un dono illetterato delle lingue a succedergli: senza Pentecoste spirituale redentrice.  * L’ordine alfabetico internazionale della cultura, nato dagli enciclopedisti – specie di mortale anticipazione dell’Inferno – è giunto, come logica e naturale conseguenza, a trasformare per noi la rappresentazione totale del mondo e del cosmo in un enorme Dizionario Enciclopedico Generale, alfabeticamente organizzato. La progressiva alfabetizzazione della cultura ha agito sulla vita umana come una progressiva paralisi del pensiero.  * La lettera uccide lo spirito.  L’analfabeta ha dei diritti spirituali da difendere contro la dominazione alfabetica di qualsiasi cultura, più o meno letterale o alfabetizzata. Se parliamo dei diritti del bambino come possiamo ignorare i diritti dell’analfabeta che sono, in origine, quelli del bambino, i più puri interessi spirituali dell’infanzia? Diritti sacri perché esprimono l’unica indiscutibile libertà sociale: quella dello spirito, quella del linguaggio creativo, quella del pensiero immaginativo. L’analfabetismo spirituale e creativo dei popoli è ciò che i popoli hanno in comune con i bambini, la loro infanzia permanente. * Se i bambini e i popoli cessano di essere analfabeti, cosa diventeranno? Se i bambini e i popoli vengono privati dell’analfabetismo – quella vita spirituale immaginativa del loro pensiero che chiamiamo analfabetismo – cosa resta di loro? Un bambino e un popolo si snaturano quando vengono alfabetizzati, cominciano a corrompersi, a cessare di essere; a cessare di essere ciò che sono: bambini, popoli.  * L’alfabetizzazione, o alfabetizzazione culturale è il nemico mortale del linguaggio in quanto tale, nella misura in cui il linguaggio è spirito, è parola. L’alfabetizzazione è il nemico giurato di ogni linguaggio spirituale, cioè, in ultima analisi, della poesia.  José Bergamín *Traduzione di Compiuta Donzella In copertina: José Bergamín (1895-1983) L'articolo Elogio dell’analfabetismo, o della poesia pura. Contro i legionari dell’algoritmo proviene da Pangea.
October 18, 2025 / Pangea
“Io amo la vita”. Inseguendo Attilio Bertolucci, ovvero: storia familiare con aquila
Sull’arco, in pietra: D P B 1794. Rombano le cicale, alberi pachiderma – in basso, uno fa manovra col trattore. Dopo il chiostro, davanti all’avita dimora, stessa iscrizione, diversa la data: “ora segna una P e una B,/ una croce sottile, un Anno Domini 1798,/ e ha finito”. Così scrive Attilio Bertolucci nel primo, folgorante capitolo del “Romanzo famigliare” La camera da letto, poema imperiale, difforme, “che ha la freschezza delle cose nate en plein air e la flessibilità liquida dell’action painting” (Paolo Lagazzi); edito da Garzanti tra il 1984 e il 1988, scandito da novemila e quattrocento versi, è uno dei libri ‘impossibili’ della poesia italiana.  Il primo dei quarantasei capitoli in cui è suddiviso – forse il più bello – s’intitola Fantasticando sulla migrazione dei maremmani; Bertolucci proviene da un’antica famiglia di allevatori di cavalli trasferitasi sull’Appennino parmense. Una nota del “Patrimonio culturale dell’Emilia Romagna” dice che i Bertolucci sono a Casarola “fin dal 1500”; la casa è stata costruita da don Pietro Bertolucci: domina sul minuscolo borgo, confitto tra i boschi. Il papà di Attilio, Bernardo, diede agio alla famiglia: sagace nell’arte del commercio, fu, tra l’altro, presidente della Banca emiliana. Attilio, il poeta, nasce nel novembre del 1911 poco fuori Parma, a San Prospero.  Casarola, frazione di Monchio delle Corti, dista sessanta chilometri da Parma: bisogna passare per Langhirano, poi svoltare a Corniglio. D’improvviso, i boschi ti inghiottono – querce, faggi, castagni in regale assetto. Qualcuno, più tardi, mi dirà dell’odore penetrante del castagno, un odore che frastornava i sogni di Bernardo, il figlio di Attilio, il grande regista. Un cartello intima “Strada bloccata”; bisogna andare oltre. L’abisso, ai margini della strada, spaura, impone una vita cervide. I paesi, ora, hanno nomi araldici, non istruiti da mappe o da gps: Svizzo, Grammatica, Riana… In una poesia devotamente nota, Verso Casarola (raccolta in una delle raccolte più alte, Viaggio d’inverno), il poeta cita Montebello, Bellasola e Villula. Con nitore omerico, il poeta dice di Casarola “ricca d’asini di castagni e di sassi”, dice di un cielo in cui si mescolano “fumo e stelle”. Una trentina i residenti, nessun negozio, la mitica “Trattoria Tramaloni” ha chiuso qualche anno fa, all’era del covid. Per fortuna, il cellulare non prende.  Casarola: la dimora settecentesca dei Bertolucci Nessun poeta italiano ha stretto un rapporto così consustanziale con un luogo come Attilio Bertolucci con Casarola. Si può dire, in effetti, che l’opera poetica di Bertolucci sia una specie di casa padronale,che ripercorra, pietra per pietra, la struttura – scenica e salvifica – della dimora di Casarola. Qui, il 9 settembre del 1943, il poeta si trasferisce con la famiglia; “vi ho passato mesi meravigliosi, nella più completa irresponsabilità”, scrive; imperava la guerra. L’anno dopo, i tedeschi falciano l’Appennino, “erano giovanissimi, le ultime leve che il Führer era riuscito a strappare dalle case”. Il poeta si rifugia con i suoi alle pendici del Monte Navert; i nazisti setacciano, bruciano case, ammazzano partigiani.  Nella casa – proprietà della Fondazione Bernardo Bertolucci dal 2015 – è allestita una mostra di Carlo Bavagnoli, il grande fotoreporter che lavorava per “Life”, morto lo scorso anno. Attilio, egualmente scontroso e sorridente, passeggia per Casarola, siede su una pila di legna, legge, appollaiato sulla poltrona dello studio. Era ‘Ninetta’, l’incommensurabile moglie del poeta, a ‘fare casa’: aiutava le donne del borgo, organizzava i lavori di restauro. Di Attilio è restituita l’immagine di un uomo chiuso, buono fino a una sorda severità – un patriarca. Paolo Lagazzi – il fraterno esegeta del poeta, curatore delle Opere di Bertolucci nei ‘Meridiani’ Mondadori – ha scritto del “lato potenzialmente saturnino (depressivo, angoscioso)”, del poeta, in gemellaggio all’amore per la vita. “Era capace di osservazioni che avevano in sé la forza di un’improvvisa rivelazione o di un koan zen” (così Lagazzi in un libro di estatica potenza, La casa del poeta. Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci, La nave di Teseo, 2025): un giorno, nell’agosto del 1985, Bertolucci scocca un aforisma che riassume una poetica, “Io amo la vita, non la morte”.  A Casarola vedo la proverbiale lucertola (“emblema/ o stemma vivo/ non so se della famiglia o dell’estate”); lo studio e la camera del poeta pullulano di libri: erano davvero i suoi? Ne scorgo uno, Chiamalo sonno di Henry Roth; in un articolo, Il libro per la sera – pubblicato sulla “Gazzetta di Parma” nel dicembre del ’54 – Bertolucci parla dell’“abitudine di portarsi un libro in camera da letto, la sera, per una lettura intima, che consoli della giornata finita e aiuti contro la notte imminente”. Alternava Agatha Christie a Marcel Proust, Marco Aurelio e Lao-tzu ad Anton Čechov, di cui amava, su tutto, La steppa. Negli anni Cinquanta, Bertolucci era a Roma: abitava in via del Tritone, in un appartamento di Roberto Longhi. Era amico di Vittorio Sereni e di Gadda; soprattutto, di Pier Paolo Pasolini. Due settimane prima della sua morte, a Chia, ricorda, “volle farci gustare certi vini che gli erano stati invitati dal Friuli”. Per Guanda aveva fondato la straordinaria collana di poesia straniera “La Fenice”; è stato consulente per Garzanti; ha diretto – con genio ‘fantastico’, extracanonico – la rivista dell’Eni, “Il Gatto Selvatico”. A Casarola, il figlio di Attilio, Bernardo, quindicenne, scrive il suo primo ‘soggetto’, La teleferica – a quegli anni “della vocazione e dell’apprendistato” del figlio, il padre dedicherà la poesia omonima. Quando esce Ultimo tango a Parigi, pare che Attilio abbia sussurrato alla moglie, “questa volta finiamo tutti in galera”.   Sul tavolo all’ingresso della sala, il panama di Attilio, un monile: chissà se basta indossarlo per essere poeta. Il camino è enorme, inquietante – il poeta sapeva accendere il fuoco; la poesia, d’altronde, è aruspicina verbale. Fioccano, in abuso, gli aneddoti: lì Giuseppe Bertolucci ha abbozzato insieme a Benigni Non ci resta che piangere; là Bernardo ha avuto l’idea di Novecento; lì Attilio scriveva La camera da letto. Sembra di trovarsi al cospetto di una famiglia biblica, dove non c’è discontinuità tra l’opera dei padri e quella dei figli: conta la promessa.  Più tardi, ritornato in Romagna, in una sera in cui flottano zanzare che paiono Sherazade, leggo a mia figlia, che ha il nome di una regina persiana, alcune poesie di Bertolucci. Amo quella in cui il vento è paragonato al lupo, “poi, stanco s’addormenta e uno stupore/ prende le cose, come dopo l’amore”. Le dico che Bertolucci ha pubblicato un libro dal nome stellato, Sirio, a diciotto anni.  Il poeta è morto a Roma venticinque anni fa, è sepolto a Parma, al Cimitero della Villetta. Bernardo e Giuseppe, i figli, sono tumulati nel romito cimitero di Casarola, dove imperano, come gran khan, le erbe selvagge. Da quando Attilio Bertolucci è morto, dicono, l’aquila reale è tornata a nidificare sul Groppo Sovrano, la parete di arenaria che sovrasta Casarola – si vede pressoché da ogni finestra della casa dei Bertolucci. Il poeta è rinato in forma di rapace.  * Verso Casarola Lasciate che m’incammini per la strada in salita e al primo batticuore mi volga, già da stanchezza e gioia esaltato ed oppresso, a guardare le valli azzurre per la lontananza, azzurre le valli e gli anni che spazio e tempo distanziano. Così a una curva, vicina tanto che la frescura dei fitti noccioli e d’un’acqua pullulante perenne nel cavo gomito d’ombra giunge sin qui dove sole e aria baciano la fronte le mani di chi ha saputo vincere la tentazione al riposo, io veda la compagnia sbucare e meravigliarsi di tutto con l’inquieta speranza dei migratori e dei profughi scoccando nel cielo il mezzogiorno montano del 9 settembre ’43. Oh, campane di Montebello Belasola Villula Agna ignare, stordite noi che camminiamo in fuga mentre immobili guardano da destra e da sinistra più in alto più in basso nel faticato appennino dell’aratura quelli cui toccherà pagare anche per noi insolventi, ma ora pacificamente lasciano splendere il vomere a solco incompiuto, asciugare il sudore, arrestarsi il tempo per speculare sul fatto che un padre e una madre giovani un bambino e una serva s’arrampicano svelti, villeggianti fuori stagione (o gentile inganno ottico del caldo mezzodì), verso Casarola ricca d’asini di castagni e di sassi. Potessero ascoltare, questi che non sanno ancora nulla, noi che parliamo, rimasti un po’ indietro, perdutisi la ragazza e il bambino più su in un trionfo inviolato di more ritardatarie e dolcissime, potessi io, separato da quel giovane intrepido consiglio di famiglia in cammino, tenuto dopo aver deciso già tutto, tutto gettato nel piatto della bilancia con santo senso del giusto, oggi che nell’orecchio invecchiato e smagrito mi romba il vuoto di questi anni buttati via. Perché, chi meglio di un uomo e di una donna in età di amarsi e amare il frutto dell’amore, avrebbe potuto scegliere, maturando quel caldo e troppo calmo giorno di settembre, la strada per la salvezza dell’anima e del corpo congiunti strettamente come sposa e sposo nell’abbraccio? Scende, o sale, verso casa dai campi gente di Montebello prima, poi di Belasola, assorta in un lento pensiero, e già la compagnia forestiera s’è ricomposta, appare impicciolita più in alto finché l’inghiotte la bocca fresca d’un bosco di cerri: là c’è una fontana fresca nel ricordo di chi guida e ha deciso una sosta nell’ombra sino a quando i rondoni irromperanno nel cielo che fu delle allodole. Allora sarà tempo di caricare il figlio in cima alle spalle, che all’uscita del folto veda con meraviglia mischiarsi fumo e stelle su Casarola raggiunta. Attilio Bertolucci *In copertina: Attilio Bertolucci e Ninetta, photo Paolo Lagazzi; nel servizio le fotografie sono di Diana Mazon L'articolo “Io amo la vita”. Inseguendo Attilio Bertolucci, ovvero: storia familiare con aquila proviene da Pangea.
October 6, 2025 / Pangea
“Avete fatto una bella prodezza!” Pellegrino Artusi & la vita violenta del Passator Cortese
Nella Romagna di metà Ottocento che faceva parte dello Stato Pontificio ed era amministrata da una fitta rete di legazioni presidiate dagli austriaci, l’ordine di disarmo fu così capillare che si racconta si dovettero far spuntare persino i coltelli da tavola. Era una terra di confine, attraversata da commerci, contrabbandi e malcontento politico, dove le vie maestre collegavano città e campagne ma offrivano anche rifugio a bande di fuorilegge. Il brigantaggio non era solo criminalità comune, spesso si intrecciava con fermenti rivoluzionari e con un radicato sentimento di avversione verso l’autorità pontificia.  In questo scenario, la sera del 25 gennaio 1851 si verificò quello che Francesco Serantini definì l’avvenimento più clamoroso, passato alla storia come I fatti di Forlimpopoli. È stata proprio la voce di uno dei più grandi scrittori romagnoli, colui «che ha unito Virgilio e Stecchetti» e autore, con Addio alle Valli, di uno dei più bei libri di letteratura venatoria mai scritti, a ritrovare il polveroso fascicolo istruttorio del fatto e riportarcelo con assoluta aderenza alla realtà.  La città ospitava al proprio teatro una rappresentazione lirica che aveva richiamato gran parte della borghesia e delle autorità locali. In un’Italia ancora frammentata in Stati e Ducati, in una Romagna percorsa da tensioni politiche e sociali, quella cornice di svago divenne improvvisamente teatro di un evento destinato a entrare nella cronaca e nella leggenda: l’irruzione di Stefano Pelloni, detto il Passatore, e della sua banda armata. L’agguato non fu soltanto un atto di brigantaggio, ma un episodio che rivelò, con crudezza, la fragilità dell’ordine pubblico in una terra di confine. Pelloni, nato a Boncellino nel 1824, crebbe in questo clima, e in pochi anni divenne il più noto e controverso tra i briganti romagnoli. Soprannominato Passator Cortese perché il padre era traghettatore del Lamone e per una fama, non sempre veritiera, di gentilezza verso i poveri e durezza verso i ricchi. Garibaldi ne era un estimatore: si diceva volesse essere suo compagno nella lotta contro gli austriaci. Quella sera dal cielo grigio di nebbia, il teatro di Forlimpopoli era gremito. In palchi e platea sedevano famiglie benestanti, professionisti, ufficiali e funzionari, riuniti per assistere alla rappresentazione dell’episodio biblico de La morte di Sisara.  > «Giaele uscì incontro a Sisara e gli disse: “Fermati, mio signore, fermati da > me: non temere”.  > Egli entrò da lei nella sua tenda ed essa lo nascose con una coperta. > Egli le disse: “Dammi un po’ d’acqua da bere perché ho sete”. > Essa aprì l’otre del latte, gli diede da bere e poi lo ricoprì. > Egli le disse: “Sta’ all’ingresso della tenda; se viene qualcuno a > interrogarti dicendo: C’è qui un uomo? dirai: Nessuno”». Poco dopo l’inizio dello spettacolo, il Passatore e una quindicina di uomini (non molti in verità, ma i più audaci, dai soprannomi che ricordano i diavoli di Malebolge) circondarono l’edificio, bloccando le uscite e disarmando le sentinelle. Entrati in sala, intimarono agli spettatori di rimanere ai loro posti, mentre i complici perlustravano il teatro per raccogliere ogni cosa preziosa che trovavano. L’operazione fu rapida e organizzata: un bottino ingente e un’umiliazione pubblica per le autorità pontificie, incapaci di prevenire l’assalto in un luogo simbolo della vita cittadina.  «La sera del 25 gennaio 1851 Stefano Pelloni detto Il Passatore, guidando una masnada di ladri invase la città e in questa sala decretò impunito taglie e ricatti consacrando al riso ed alla vergogna la viltà dei governi non consentiti dal popolo libero e cosciente», recita una lapide apposta all’interno del teatro dettata da Olindo Guerrini, lo Stecchetti che non ha mai perso l’occasione di scagliare i suoi strali blasfemi e divertiti contro la Chiesa. La notizia dell’assalto al teatro si diffuse rapidamente in tutta la Romagna e oltre, alimentando la fama del Passatore. Per alcuni, fu la prova della sua audacia e della sua capacità di colpire il potere nei suoi luoghi più sicuri; per altri, soltanto un atto criminale che sfruttava la debolezza dell’ordine pubblico. Mentre al teatro di Forlimpopoli si consumava l’assalto, un altro episodio di quella notte segnò profondamente la memoria cittadina: l’aggressione in casa di Pellegrino Artusi, allora giovane commerciante nella bottega-guazzabuglio di famiglia. Proprio a seguito dell’agguato, l’allora trentenne decise di spostarsi da Forlimpopoli a Firenze, dove poi scrisse La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene.  La dimora della famiglia Artusi si trovava non lontano dal teatro, affacciata sulla Rocca della piazza principale: il bottino del palcoscenico non fu sufficiente a placare l’avidità della banda. Alcuni uomini del Passatore si recarono nelle abitazioni dei presenti, costringendo gli occupanti a consegnare denaro e beni. Nella sua autobiografia, l’Artusi racconta con precisione e amarezza l’episodio che colpì la sua famiglia quella notte. I briganti del Passatore riuscirono a entrare in casa grazie a un inganno: a bussare alla porta fu l’avvocato Ruggero Ricci, amico di famiglia, appena derubato a casa propria dopo esser stato prelevato dal teatro. Ricci si presentò annunciando l’arrivo in città di amici venditori di zucchero e spezie, desiderosi di fare affari. Il tradimento si consumò in questo modo: la porta si aprì, i banditi irruppero. Il vecchio padre riuscì a fuggire, Pellegrino si comportò con coraggio ma senza impedire che i malviventi facessero bottino, una delle sorelle scappò sui tetti. La stessa, Gertrude Artusi, dallo spavento (e forse da una violenza subita, anche se non si hanno conferme in merito) impazzì e morì reclusa nel manicomio di Pesaro.  > «Ma Giaele, moglie di Eber, prese un picchetto della tenda, prese in mano il martello, > venne pian piano a lui e gli conficcò il picchetto nella tempia, fino a > farlo penetrare in terra. Egli era profondamente addormentato e sfinito; > così morì». Artusi stesso precisa che Ricci agì sotto costrizione della banda e che, come conferma anche Serantini, anche lui sarebbe stato derubato; tuttavia, ciò che il futuro scrittore non gli perdonò fu la mancanza di un gesto di umanità. Nei giorni seguenti l’avvocato non si presentò nemmeno per chiedere scusa alla famiglia:  > «A questa trepidante scena era presente il Ricci a cui rivoltomi dissi: “Avete > fatto una bella prodezza!” ed egli: “Son stato costretto”. Nessuno lo > costringeva però di non venire o di non mandare i giorni appresso a fare un > atto di scusa per la involontaria ma brutta azione commessa». Il destino finale, che sembrava avviarsi su un sentiero karamazoviano, ha invece preso un’altra direzione. «Come segue in un pranzo che gli amaretti si servono in ultimo» diceva Artusi, così anche questa vicenda trova nel finale il suo momento più significativo, quello della riconciliazione. A distanza di oltre un secolo, quel silenzio è stato simbolicamente colmato. Solo recentemente, grazie a una testimonianza ritrovata nell’archivio della famiglia Foschini di Forlimpopoli, si è venuti a conoscenza che il pronipote dell’avvocato Ricci, l’architetto Ruggero Foschini, si mise in contatto con il pronipote di Pellegrino, lo storico Luciano Artusi. I due si incontrarono nel 2008, a distanza di 157 anni dalla terribile notte, e l’architetto chiese formalmente perdono a nome del bisnonno. La stretta di mano tra i due, fissata in una fotografia, restituì finalmente un atto di riparazione morale a una ferita rimasta aperta nella memoria familiare e cittadina. Cesare Dal Pane *In copertina: Silvestro Lega, Giuseppe Mazzini morente, 1873 L'articolo “Avete fatto una bella prodezza!” Pellegrino Artusi & la vita violenta del Passator Cortese  proviene da Pangea.
September 16, 2025 / Pangea
“Dovunque ha sparso la gioia”. Parlare ai morti
La prima lassa della Terra desolata, poema pentagonale di Thomas S. Eliot, s’intitola The Burial of the Dead, “il seppellimento dei morti”. Come si sa, Eliot parla di aprile, the cruellest month e di Unreal City, cita – senza apparente coerenza – Wagner, Dante, Baudelaire. Nell’affastellarsi di luoghi comuni e figure sacre, appaiono Madame Sosostris, specie di degradata Iside, famois calirvoyante, la Dama delle Rocce e the lady of situations, in un cortocircuito tra lascivia e verginità; il tempo è sospeso tra la battaglia di Milazzo – prima guerra punica, 260 a.C. – e l’oggi, sancito dall’anonimo traffico umano che scorre – latenza di frode, flatulenza d’inganno – sul London Bridge. Il figlio dell’uomo, ormai, nulla può più sapere dei “rami che crescono/ su queste macerie”: non è che “un mucchio di frante immagini”. Il poema di Eliot non è affatto “sepolcrale”, non appartiene al genio di Thomas Gray o di Edward Young (preromantici malsopportati dal T.S.), né a quello – con sopraggiunti accenti ‘eroici’ – di Foscolo. Con The Waste Land, Eliot scrive le esequie della poesia occidentale – poesia ‘rituale’ (proprio perché irrituale nel linguaggio), rivolta ai morti, a vivificarli.  * Mi hanno colpito le parole di Charles Wright in una delle sue rare interviste. Il giorno della morte, il grande poeta americano – benché non credente – vorrebbe farsi accompagnare dal Burial of the Dead, il rito funebre della Chiesa anglicana, accolto nel Book of Common Prayer. In effetti, anche l’opera di Wright – che nasce all’ombra di Ezra Pound, il gran maestro di Eliot – è una specie di servizio della parola rivolto ai morti. Va ancora riferito, con umile sfarzo, il rapporto vitale tra preghiera e poesia. * Il tema di questo articolo: la parola efficace rivolta ai morti. Parola che si radica nella landa dei morti: come crescerà; come chiamare quel virgulto alfabeto; come intendere quel puledro verbo?  Alcune parole – un formulario formulato da uomini – hanno effetto nell’aldilà. O meglio: agiscono nei pertugi tra questa vita e l’altra, l’autentica (stando al religioso dire). Il corpo matura come un frutto, come una crisalide, e ciò che sboccia – l’anima, lo spirito, il ‘respiro’, l’elan dell’altro, l’atman, la rancura o l’amore che ci fa viventi – vaga, disorientato, indeciso, nel regno di mezzo tra il mondo e l’oltre mondo. L’anima – chiamiamola così, per capirci – cresce, deve svilupparsi, deve scegliere e compiere delle prove prima di approssimarsi all’assoluto. L’anima trasmuta, mette il pelo – l’anima ha sete. Il rito aiuta l’anima in questa catabasi o ascesa.  L’anima ha bisogno di un patrimonio di linguaggio, di un abbecedario, per capire chi è e dov’è. Il rito: corde, ramponi, piccozze per aiutare l’anima a rampicare la schiena di Dio.  * Cosa succede se l’anima – o come vogliamo chiamare il polline del corpo – è priva di linguaggio? L’anima è disorientata, s’imbestia, cresce in ira e rimorso – le crescono i denti. Un uomo, per emergere da sé, per ergersi, deve morire. Esistono i non-morti: anime disperse, che non hanno trovato lo spiraglio per accedere all’altro mondo, restano recluse in questo. Anime incattivite. Che mordono. Che tormentano. Gli sciamani siberiani uscivano fuori di sé per placare le anime violente; come per concertare con gli spiriti il successo del parto.  > “Da questo luogo > sotto il grande sole > cominciò a camminare > Per tre giorni > egli va così. > Nella direzione davanti a lui > era un’isola-nube > tre grandi tende… > salì veloce sul palo > che sostiene le tende > salì nel cuore del fuoco > come coleottero di ferro”.  * Allo stesso modo, la preghiera per i defunti: linguaggio che conforta l’anima nella prova. Nessuna nostalgia in questo infondere coraggio. Puro esercizio di linguaggio: consuonare ai morti, con loro cantare.  * La Commedia di Dante non è forse un immenso tentativo di conciliarsi con i morti? E poi: trovare il linguaggio con cui colloquiare con Dio. Dunque: intendere il linguaggio con cui i morti si rivolgono a noi, ora.  * Oltre che ‘comunicare’ tra di loro, gli uomini manovrano il linguaggio per mettersi in comunicazione con i morti. La poesia nasce quando Gilgameš scopre che l’uomo è morituro: alza il lamento funebre sulle spoglie dell’amico Enkidu, va alla ricerca dell’immortalità. Allo stesso modo, l’Odissea è il grande canto dell’amore mortale rispetto all’ardore ultraterreno, è il poema dei figli che cercano i padri, il poema degli avi conficcati negli eredi – dalle invocate-evocate ombre (libro IX) agli spettri dei Pretendenti, che s’involano come pipistrelli, alla fine del poema.  Orfeo non può far risorgere dai morti – blanditi dal suo canto – l’amata Euridice: in quel voltarsi, in quel ‘gioco degli occhi’ è il momento in cui nasce la lirica occidentale, in cui il poeta si scinde dallo sciamano. I morti, da allora, rivivono nel canto, nel giogo della malinconia, nella grigia gioia del rimpianto. Non più compimento, ma compianto. Édouard Manet, Cristo morto sorretto dagli angeli, acquaforte, 1866-1867 * Dalla Laura di Petrarca al Moammed Sceab di Ungaretti. I morti agiscono sui vivi, fino a modellarli. Quanti viventi vivono conformandosi a una promessa conclusa con chi non è più qui? Quanti viventi sono il calco dei morti? Quanti viventi vivono credendo di poter ‘riscattare’ la memoria di un morto?  A volte, i morti ci incatenano. I morti si nutrono della nostra vita.  A volte, incateniamo i morti – succhiamo i loro empi capezzoli.  Al contrario, la parola rituale, The Burial of the Dead: parola efficace tra i morti, parola vivente. Sono i vivi, qui, che agiscono nell’altro mondo – che si fanno consegna, offerta. Che piantano torce sul torace dell’altro mondo.  * Parola vivente, parola vivanda.  * Di cos’altro dobbiamo parlare, in questo tempo moribondo, se non della parola che opera sui morti (e dunque, sulla vita)? Non più atto di supremazia magica, superamento di ogni mantica: suprema spoliazione, piuttosto, dedizione. Spiumare la lingua fino a ossea ispirazione.  * Millenaria tradizione di dialogo con i morti. Ad esempio: il Libro dei morti egizio. Sessione di liriche indicazioni – dunque: etiche – per uscire indenni dal giudizio degli dèi, presieduto dal dio-sciacallo, Anubi.  > “Concedete che il defunto venga a voi, > lui che non ha peccato > che non ha mentito > che non ha commesso male > che non ha fatto alcun crimine > che non ha reso falsa testimonianza > che nulla ha fatto contro se stesso > ma che vive di verità > si nutre di verità. > Dovunque ha sparso la gioia. > Di ciò che ha fatto > gli uomini parlano e gioiscono gli dèi. > Egli si è conciliato gli dèi con il suo amore”.  I testi che compongono il Libro dei morti “appartengono alla liturgia che accompagnava il seppellimento e venivano deposti accanto al morto mummificato, affinché se ne valesse come istruzione nell’affrontare il regno d’oltretomba” (Alonso M. Di Nola).  Questo m’interessa. La parola che agisce nell’aldilà. Parola umana che, al più puro punto di raffinamento, al più limpido monile, esiste per parlare ai morti. Parola che istruisce il defunto. Per questo: è opera pia, opera necessaria, inserire nella tomba del defunto – nella tasca dei pantaloni, nella camicia –, un testo-talismano. Una poesia. Parola che non leghi il defunto, ancora, a questa terra, che non lo ancori, ancora, al qui; che lo sprigioni. Parola che non reclama possesso, ma che liberi – che conforti senza confinare. Parola d’oltreconfine.  * Grande brigante: il sacerdote carda i morti sul petto, per guadare, guidandoli nell’altrove. Qualche verbo in borraccia.  * La differenza tra il Libro dei morti egizio e l’apparentemente analogo Libro tibetano dei morti, il Bardo Thödol, secondo l’immenso Giuseppe Tucci: > “Gli Egiziani cercarono di salvare il corpo dal corrompimento che fatalmente > dissolve ogni cosa creata: l’integrità del corpo è necessaria per la > continuazione della vita nell’oltretomba. Per i Tibetani il cadavere si brucia > o si squarta o si abbandona sulle montagne, perché le bestie da preda e gli > uccelli lo divorino.  > > Per gli Egiziani la morte è definitiva, delimita due mondi. La sopravvivenza > nel mistero che essa dischiude è sopravvivenza individua; cioè della medesima > creatura che già visse in questo mondo e colà perdura con le stesse parvenze e > lo stesso nome. Per i Tibetani la morte o è il cominciamento di una nuova > vita, come accade per le creature che la luce della verità non rigenerò e > trasse a salvazione, o il definitivo disparire di questa fatua personalità – > effimera e vana come riflesso della luna sull’acqua – nella luce > indiscriminata della coscienza cosmica, infinita potenzialità spirituale. > Continuare ad esistere in qualunque forma di esistenza, anche come dio, è > dolore: perché esistenza vuol dire divenire, e il divenire è l’ombra > dell’essere, un sempre rinnovato corrompimento, una pena che mai si placa”.  Il Bardo prevede almeno due settimane di prossimità con il moribondo, aiutandolo a vincere terrori e interrogativi, per condurlo alla “grande liberazione”. La liturgia, che stempera il tempo nell’eterno, il buio in bulimia di luci, si dispiega in versi, per ipnotizzare ogni illusione.  > “Mentre sorge in me il Bardo della Vita > lascerò ogni futile pigrizia che ruba il tempo > e affronterò il Sentiero dell’Ascolto, della Riflessione, > della Meditazione concentrandomi sull’Insegnamento > con il dono di un corpo umano > svelando la vera natura dell’illusione > realizzerò i Tre Corpi lasciando ogni indugio > > Mentre sorge in me il Bardo del Sogno > spegnerò il tenebroso sonno dell’ignoranza > concentrando la mente nel suo stato naturale > svelando la vera natura del sogno > senza sprofondare nel sonno dei bruti > mediterò sulla Chiara Luce della Miracolosa Trasformazione > portando questa pratica nel sonno”. Ho citato alcuni versi che presiedono il Bardo Thödol vero e proprio, nella versione approntata da Ugo Leonzio per Einaudi nel 1996. Superba, per glaciale nitidezza, la nota biografica che cinge Leonzio, estroso scrittore, studioso di allucinogeni e di Céline: “nato a Milano, ha viaggiato nelle regioni himalayane per studiare le pratiche rituali di cui questo libro fa parte”.  * Anche il Rito delle esequie cattolico è di sublime bellezza quanto a composizione. D’altronde, è il rito centrale, ‘pasquale’ – il momento in cui la fede nella resurrezione dei corpi è messa alla prova. Al sacerdote che guida il rito – ma che non è univoca guida: a noi il compito di procedere nel canto, a rincuorare e aiutare il morto – è chiesta particolare preparazione. Alle preghiere canoniche – alcuni Salmi, per lo più – si alternano parole scritte apposta per la cerimonia; queste, ad esempio: > “Con questa fede nel cuore ci accingiamo a deporre, > come un seme, nel sepolcro > il fragile e corruttibile corpo > del nostro fratello (della nostra sorella) N., > con la piena fiducia che nel giorno della sua venuta > il Signore lo(a) farà risorgere incorruttibile, > nella pienezza della sua gloria. > Rinnovando perciò la nostra adesione di fede, diciamo: > Tu sei la vita e la risurrezione nostra, Signore Gesù! > Tu che hai pianto la morte dell’amico Lazzaro, > trasfigura le nostre lacrime nella gioia della tua salvezza. > Tu che al ladrone pentito hai accordato il tuo perdono > e promesso il paradiso, > avvolgi il nostro fratello (la nostra sorella) > nel tuo abbraccio di misericordia e di vita. > Tu che sei stato spogliato delle tue vesti > e, avvolto in bende, sei stato deposto nella tomba, > fa’ indossare la splendida veste della vita immortale > al nostro fratello (alla nostra sorella), > che viene a te nella nudità della morte”. * Quanto, esaltando in retorica, in ‘letterarietà’, la poesia ha perso in efficacia? Con quali parole parlano tra loro i morti? Qual è il linguaggio dell’aldilà? Sussurro, latrato, biascichio, frattaglie d’angelo? Il linguaggio è il principio della caduta o un metodo per ascendere? * Certo: il chiacchierio chiesastico, questa eco da oratorio, va rimeditato. Ai poeti, dopo immenso sconvolgimento interiore, il compito di trovare la parola che attecchisca ancora nell’aldilà.  * Esalare l’ultimo respiro: slegare i nodi del linguaggio comune, che imprigiona e castra, per eseguire l’altro, che disincastra, che libera. Linguaggio: comunione tra i vivi e i morti. Lingua-ostia.  * Penso ad alcune lasse del poemetto di Carlo Betocchi, In piena primavera, pel Corpus Domini: > “La tua mente illusoria rifiutala > se non ha altri argomenti che te: > e il tuo cuore, se non ha che i tuoi > lamenti. Non avvilirti > compassionandoti. Sii non schiavo di te, > ma il cuore di ciascun altro: annullati > per tornar vivo dove non sei > più di te, ma l’altro che di te si nutra, > distinguilo dal numeroso, > chiama ciascuno col suo nome”. È già parola efficace, questa, che non permette alla letteratura di irrompere, corrompendo. Il letterario è la merce della lettera, ne è il baldacchino, la baldracca.  Se un poeta non ha efficacia, se la sua parola non ha effetto su questo e l’altro mondo, è un falso poeta. Non effonde – confonde.  *** La sepoltura dei morti In piedi, tutti, intonano l’inno: Io sono la resurrezione e la vita, dice il Signore; chi ha fede in me, benché sia morto, vivrà; chi vive e ha fede in me non morirà mai. So che il mio Redentore vive che all’ultimo giorno si ergerà sulla terra; e anche se questo corpo sarà sbriciolato, vedrò Dio; lo vedrò davanti a me, lo contemplerò con i miei occhi non mi sarà estraneo. Perché nessuno vive per sé per sé nessuno muore. Quando viviamo, viviamo nel Signore quando moriamo, moriamo nel Signore. Nella vita e nella morte siamo del Signore.  Beati i morti che nel Signore muoiono; così sussurra lo Spirito, resi hanno riposo dal dolore. Per la sepoltura di un adulto:  O Dio, dall’innumerevole misericordia: accetta le nostre preghiere per il tuo servo, concedigli l’ingresso nella terra della luce e della gioia, nella comunione dei tuoi santi, per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore, che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre. Amen.  Per la sepoltura di un bambino: O Dio, il cui diletto Figlio ha preso i bambini tra le braccia, benedicendoli: donaci la grazia, ti preghiamo, affidiamo questo bambino alla tua infallibile cura, al tuo inesauribile amore, conduci tutti noi nel tuo celeste regno; per mezzo del tuo figlio, Gesù Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre. Amen.  Consacrazione della tomba Qualora la tomba si trovi in un luogo non destinato a sepoltura cristiana, il sacerdote può recitare la seguente preghiera, al momento opportuno: O Dio, il cui Figlio benedetto è stato deposto in un sepolcro nel giardino: benedici, ti preghiamo, questa tomba e concedi che colui il cui corpo è qui sepolto possa dimorare in Cristo, in paradiso, e raggiungere il tuo celeste regno; per tramite di tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore. Amen.  Preghiera aggiuntiva:  Nelle tue mani, Signore, affidiamo il nostro caro fratello: che sia prezioso ai tuoi sguardi. Lavalo nel sangue dell’Agnello, l’innocente che fu immolato per annientare i peccati del mondo; perché, purificato, estinta ogni lordura contratta in questa vita terrena, possa essere presentato netto, limpido e senza macchia al tuo cospetto; per la grazia di Gesù Cristo, tuo unico Figlio e nostro Signore. Amen.  Ricordati del tuo servo, Signore, secondo la grazia con cui favorisci il tuo popolo: che cresca in amore e sapienza, per progredire sempre di più nella vita di perfetto servizio nel tuo celeste regno; per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.  O Dio degli infiniti giorni, Dio della misericordia innumerabile: facci certi, te ne supplichiamo, della brevità e dell’incertezza della vita; che lo Spirito Santo ci guidi in santità e giustizia lungo l’arco dei giorni; quando avremo servito i figli della nostra generazione, ci riuniremo ai padri, in retta coscienza; nella fiducia di una fede certa; nel conforto di una ragionevole, religiosa, santa speranza; nel tuo favore; in perfetta grazia con il mondo. Tutto ciò che ti chiediamo è per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro. Amen.  Da: “Burial of the Dead. Rite One”, raccolto in “Book of Common Prayer” *In copertina: Paul Troger, Cristo morto con angelo, XVII sec. L'articolo “Dovunque ha sparso la gioia”. Parlare ai morti proviene da Pangea.
September 6, 2025 / Pangea
“Io sono l’esiliato”. Intorno al “Canto del cigno”, un testo straordinario
L’icona di Leda avvinghiata al cigno è tra le più conturbanti della storia dell’arte. La donna che con virginea lascivia si unisce all’uccello ha occupato la mente, tra i tanti, di Michelangelo e di Leonardo; di entrambi possediamo, però, soltanto alcuni disegni dell’arcano soggetto, il dipinto (cioè: l’intero) è perduto. Anche questo è un segno.  Dall’unione tra la regina di Sparta e Zeus mutato in cigno, sarebbe nata, tramite uovo, Elena. Il mito – narrato, tra i tanti, da Igino, Lattanzio, Ovidio – ha una vespertina variante – riferita da Pausania, Omero e Apollodoro –: Zeus, in verità, si invaghì, fino al vagabondaggio nella follia, di Nemesi, l’antica dèa che distribuisce il Fato, la bellissima figlia di Oceano. L’inseguimento fu feroce: Nemesi si muta in diverse bestie, ma Zeus la vince, “Benché essa mutasse costantemente forma, egli infine riuscì a violarla assumendo l’aspetto di un cigno e dall’uovo che Nemesi depose nacque Elena, causa della guerra di Troia” (così Robert Graves nel suo regesto di Miti greci). Leda, in questa versione, ha valore di levatrice dell’uovo.  Dei racconti che narrano l’unione tra la donna e la bestia – estremo, inattaccato tabù – il più crudo riguarda Pasifae, la moglie di Minosse che va in estro per il bianco toro sacro a Poseidone: da questo amore nasce il mostro, Minotauro; scaturisce, come enigmatico effetto, Labirinto. Non diversa è la ‘mostruosità’ – cioè: la meraviglia – di Elena; in non diverso labirinto – per quel vivere da disorientati, da ossessi di sangue – si volge Troia.  Secondo Platone, il cigno è animale sacro ad Apollo, simbolo di rigenerazione spirituale: legato al cocchio celeste, è l’uccello che scorta il dio verso il regno degli Iperborei, dove si banchetta con le stelle e si danza tra fanciulle betulle. Si dice che in punto di morte il cigno “canti” perché “è contento di librarsi verso il dio di cui è ministro” (così nel Fedone). Nell’origine del termine cigno – kyknos in greco – è incardinato il destino al canto: “Gli antichi credevano che vicino a morte il cigno cantasse soavemente, onde fu detto fig. per Poeta o Illustre compositore di musica, come Rossini, Versi ed altri maestri” (così il Pianigiani, a dire del rapporto arcaico tra parola e morte, ovvero tra poesia e preghiera). Dall’induismo al mito celtico non c’è pensiero religioso in cui il cigno non sia eletto a simbolo. Spesso, il cigno è emblema di grazia, purezza, elezione spirituale; eppure, ogni simbolo reca, come contrappasso, il proprio opposto. Il cigno è anche la violenza della grazia, l’ambiguità, l’aristocratico disprezzo per il prossimo; in alcuni bestiari raffigura l’ipocrisia.  Leda e il cigno in uno studio di Leonardo Il cigno è penetrato nei rivoli delle fiabe; risuona nel Lohengrin di Wagner come nel Lago dei cigni di Čajkovskij. Secondo Dante, l’angelo che sigilla la quinta cornice del Purgatorio ha “l’ali aperte, che parean di cigno” (XIX, 46); secondo Baudelaire, straordinario dissacratore di simboli, il “mio grande cigno” è “ridicolo e sublime come gli esuli,/ roso da un desiderio senza tregua” (così la versione di Pierluigi Pellini in: C. Baudelaire, Il cigno, Mucchi, 2022). Nella vasta ornitologia lirica il cigno ha un ruolo di privilegio: Torquato Tassi si dice “cigno in mia prigione” che “quel che mi detta Amore imparo e canto”; Pascoli canta il cigno che “canta”, “nella luce boreale” (Il transito, nei Primi poemetti): “Il cigno canta; e lentamente il cielo/ sfuma nel buio, e si colora in giallo;/ spunta una luce verde a stelo a stelo”. Il grande cantore dei cigni è comunque William Butler Yeats, che in diversi testi (The Wild Swans at Coole e Leda and the Swan, ad esempio), dice la “misteriosa bellezza” di quegli uccelli, coagulando il mito greco a quello irlandese (per i quali il cigno è immagine di trasformazione interiore, di connessione con l’aldilà).  Nella Bibbia – per ragioni geografiche – il cigno non fa sfoggio di sé. Appare in Levitico, insieme al pellicano, la folaga e la cicogna, il nibbio e “ogni specie di corvo”, l’aquila, l’avvoltoio e altri uccelli su cui grava interdizione: non bisogna mangiarli “perché obbrobriosi” (perché sono “abominio”, sheqets). Ma è un apparire tra faine filologiche. La versione Cei – come la “King James” nel mondo inglese – traduce in cigno una parola, tinshemeth, quanto mai ambigua, che vale a classificare specie diverse, di lucertola e di uccello, accomunate da non ben definita irascibilità – alcuni traducono come “gufo bianco”.  Trapiantato in Europa, il cristianesimo ha convogliato nella figura di Cristo il precedente bestiario simbolico. Così Cristo, di volta in volta, è pellicano e pantera e cigno. Del cigno, è riferito il candore, l’allunaggio in luoghi impervi, a Nord, soprattutto, e il canto, connesso alle ultime parole pronunciate da Gesù in croce – una croce, invero, divaricata in apertura alare, come il rapace nella posta dello ‘spirito santo’. La testimonianza più potente del Cristo/cigno – punto sublime di fusione tra avventura cristiana e simbologia pagana – è il Planctus cygni redatto nell’abbazia di San Marziale di Limoges nel IX secolo.  Questa “allegoria ac de cigno ad lapsum hominis”, scritta nel latino dell’epoca, ha fatto parte della liturgia di Limoges, di Winchester e del Nord della Spagna per qualche secolo, cantata in memoria dei Santi Innocenti, i bambini di Betlemme sterminati da Erode (28 dicembre). Quasi che il cigno, con sovrappiù d’innocenza, possa lavare l’assassinio degli infanti – lamento che sovrasta il sangue, lo lecca. Il planctus non appare più nei manoscritti dal 1100 circa.  Il volto di Leda secondo Michelangelo Nel viaggio periglioso del cigno dalla terra oltre l’oceano, è prefigurato l’andare dell’anima da questo all’altro mondo. Nel planctus appaiono Oriente e Occidente, i poli e le costellazioni, guidate da Orione: tutto il cosmo – la terra, i mari e i cieli – converge nel volo messianico del cigno. Infine, finalmente salvo, il cigno guida al canto gli uccelli, a onorare il “grande re” di tutte le cose (in breve, è la mistica del viaggio, della consapevolezza del creato, dell’addestramento all’inno, vera e propria pratica del verbo, narrata da Attar nel Verbo degli uccelli).  Pienezza dell’uomo è fuggire da una visione predatoria, è elevarsi (cioè: incaricarsi degli inferi); assumere in sé i saperi della terra, del mare, del cielo; intonarsi agli astri; darsi alla preghiera. All’uomo che vuole essere stella si dica: sia audace il tuo cantare, alberghi un volo nella tua lingua.  Che nel plactus sia riassunta la pervicacia della pianta e lo strazio del compianto – questo sbriciolarsi in lacrime dell’anima – è emblema di grazia. Conficcati nel planctus, fino a sbriciolarlo.  ** Planctus cygni  Lamentazione canterò – figli  dell’alato cigno che insigni acque attraversò – dirò  del suo rude ululare fu reliquia per lui terra di aridi fiori: del mare abissale andò in cerca  e piangeva: “Misera bestia sono – sola –  miseria è il mio nome inutili le ali splendore che gemma in piogge: onda  mi scassa tempesta mi attenta io sono l’esiliato mi serrano maree pari a montagne –  e piango perché morde morte abbondano pesci ma non so conficcarmi in quelle vertigini vergini per ucciderli  Oriente – Occidente plaghe dei Poli conferitemi  brillio di stella suffragio a Orione: che sfugga da queste nubi barbare”. Taceva l’uccello intaccato da tale pensare e giunse rossa l’aurora – il vento lo incoraggia riaccorda le ali esulta ora  si leva levata fatica  a becchettare  le stelle gioia  smisurata  lo penetra tra  i reami dei mari canta – ora – canto  pieno di carezze e attracca a terra ora: creature dei cieli alate bestie  cantate insieme gloria ammanti il grande re Regi magno Sit gloria *In copertina: Jan Asselijn, Cigno minacciato, 1640 L'articolo “Io sono l’esiliato”. Intorno al “Canto del cigno”, un testo straordinario proviene da Pangea.
September 2, 2025 / Pangea
“Mi sono proposto di distruggere il mito sovietico”. George Orwell in Ucraina
Nel 1947 George Orwell sta lavorando a 1984. Per il momento, il libro, ancora in bozzolo, s’intitola “The Last Man in Europe”; Orwell ha scelto di scriverlo a Jura, nelle Ebridi, in condizioni di estrema solitudine. Orwell è un esteta dell’estremismo. Spesso, ricorda gli anni, a Parigi, in cui “vivevo nei quartieri più poveri, tra senzatetto e criminali, a mendicare o a rubare”; ricorda quando aveva scelto di condividere la vita dei minatori dell’Inghilterra del Nord. Due anni prima era morta la moglie, Eileen, in marzo; il 17 agosto del 1945 era uscito, per Secker & Warburg, La fattoria degli animali. Il libro – rifiutato da T.S. Eliot, direttore editoriale della Faber – ebbe un successo clamoroso, consentendo a Orwell una certa, inedita, sicurezza economica.  Tra le diverse traduzioni di Animal Farm, ci interessa quella polacca. “Swiatpol”, l’editore polacco che ha sede a Londra, stampa 5mila copie del libro; la traduttrice si chiama Teresa Jeleńska. Fu il figlio di Teresa, Konstanty, a far leggere Orwell a Ihor Ševčenko: nato in Polonia da genitori ucraini, il ragazzo compiva ventitré anni, studiava a Lovanio. Nell’aprile del 1946, Ihor prende coraggio e scrive a Orwell: avrebbe voluto tradurre La fattoria degli animali in ucraino. Lo scrittore, “mi capì subito, capì che la traduzione del suo libro avrebbe avuto un valore importante per i miei connazionali”. Negli anni, Ihor Ševčenko sarebbe diventato un importante docente di studi slavi e bizantini ad Harvard, nel 1996 ha pubblicato Ukraine between East and West. È morto il 26 dicembre del 2009, onorato da un ‘coccodrillo’ sul “New York Times”.  Negli scambi epistolari con Orwell, Ševčenko sottolinea che “Il mio pubblico sono i rifugiati sovietici: beh, l’effetto è sorprendente. Tutti approvano la sua interpretazione… hanno cercato immediatamente i punti in comune tra la realtà in cui vivono e il suo racconto. L’atmosfera del libro sembra corrispondere al loro reale stato d’animo”. Ševčenko traduce il libro nell’autunno del ’46, consegnandola a “Prometheus”, editore ucraino con base a Monaco. Nel marzo del ’47 Orwell, pur “spaventosamente impegnato”, accetta di scrivere una prefazione per l’edizione ucraina di Animal Farm (che si riporta, in parte, in calce). Nel testo, Orwell spiega che la guerra civile spagnola ha agito su di lui come una specie di rivelazione: > “A metà del 1937 i comunisti presero il controllo – pur parziale – del governo > spagnolo: cominciarono a dare la caccia ai trotzkisti, mi ritrovai tra le > vittime. Io e mia moglie siamo stati molto fortunati a uscire vivi dalla > Spagna, senza essere arrestati. Diversi amici furono fucilati, alcuni finirono > in prigione, altri semplicemente sparirono. Queste cacce all’uomo in Spagna si > sono svolte contemporaneamente alle grandi purghe sovietiche: ne sono state > una specie di appendice. Sia in Spagna che in Russia la natura delle accuse – > vale a dire: azioni fasciste e antirivoluzionarie – era la stessa; per quanto > riguarda la Spagna, posso dire che erano del tutto infondate. Ne uscii con una > lezione preziosa: capii con quale pervicacia la propaganda totalitaria possa > controllare l’opinione pubblica delle masse ‘illuminate’ dei paesi > democratici. Io e mia moglie abbiamo visto innocenti gettati in carcere perché > sospettati di non-ortodossia. Eppure, al nostro ritorno in Inghilterra diversi > ‘osservatori’ ben informati dimostravano di credere ai più fantasiosi > resoconti di tradimento e di sabotaggio riportati dalla stampa sovietica. > Compresi finalmente con chiarezza la nefasta influenza del mito sovietico per > il socialismo occidentale”. La traduzione ucraina de La fattoria degli animali uscì nel settembre del 1947, con esito sinistro. “Le autorità americane di stanza a Monaco ne hanno sequestrate 1500 copie, consegnandole al personale sovietico”, scrive Orwell ad Arthur Koestler. Tuttavia, almeno duemila copie del romanzo, scampate al sequestro, finirono in mano ai profughi (la vicenda è ricostruita con dettagli in: Masha Karp, George Orwell and Russia, Bloomsbury, 2023).  Ma Orwell era ormai altrove. L’inverno alle Ebridi lo logora, il 20 dicembre è ricoverato in un ospedale nei pressi di Glasgow. 1984, il libro che intende “mettere in luce le degenerazioni, in parte già verificatesi sotto il comunismo e il fascismo, a cui sono soggette le economie centralizzate”, lo sta lentamente logorando. Ma questa è un’altra storia, che riguarda la tirannia della scrittura e la ‘missione’ dello scrittore.  *** Prefazione per la traduzione in ucraino de “La fattoria degli animali” Non ho mai visitato la Russia: la conosco per ciò che ho letto su libri e giornali. Anche se ne avessi il potere, non vorrei interferire con gli affari del regime sovietico: non condannerei Stalin e i suoi per i metodi barbarici e antidemocratici che adottano. È perfino possibile che non abbiano potuto agire diversamente da come hanno fatto. Tuttavia, è per me della massima importanza che gli europei conoscano il regime sovietico per ciò che è realmente. Dal 1930 non ho visto nulla, nell’Urss, che possa riferirsi a ciò che intendiamo per socialismo. Al contrario, ho scoperto, con sorpresa, i chiari segni di una società gerarchica, i cui governanti non hanno motivo di rinunciare al loro potere, alla pari di qualsiasi classe dominante. I lavoratori e gli intellettuali inglesi non riescono a comprendere che l’Urss di oggi è totalmente diversa da quella del 1917. In parte, non vogliono capire – cioè, vogliono credere che esista davvero, da qualche parte, nel mondo, un paese socialista – dall’altra non possono: per costoro, abituati a una pur relativa libertà, è incomprendibile il totalitarismo.  Eppure, occorre ricordare che l’Inghilterra non è del tutto democratica. È un paese capitalista con grandi privilegi di classe (perfino ora che la guerra ha livellato tali classi), con enormi differenze di ricchezza. Ciononostante, è un paese in cui le persone convivono da secoli senza feroci conflitti, in cui le leggi sono relativamente giuste e le notizie e le statistiche ‘ufficiali’ sono per lo più affidabili – è un paese dove esprimere opinioni di minoranza non comporta alcun pericolo di morte. In un clima simile, l’uomo comune non può capire il senso dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa, degli arresti senza processo, della censura… Tutto ciò che in Inghilterra si legge a proposito dell’Urss viene tradotto in termini inglesi, e dunque assunto con totale innocenza, cibandosi della menzogna totalitaria. Fino al 1939 la maggior parte degli inglesi, d’altronde, è stata incapace di valutare l’entità autentica del regime nazista; con quello comunista è vittima della medesima illusione.  Ciò ha causato danni enormi al movimento socialista inglese e ha avuto gravi conseguenze sulla politica estera del mio paese. A mio parere, nulla ha contribuito tanto alla corruzione dell’originaria idea del socialismo quanto la convinzione che la Russia sia un paese socialista e che l’azione dei suoi governanti debba essere perdonata quando non imitata. Per questo, negli ultimi dieci anni mi sono proposto di distruggere il mito sovietico: perché il movimento socialista possa risorgere.  Di ritorno dalla Spagna, ho pensato di smascherare il mito sovietico con una storia che fosse facilmente comprensibile e traducibile in altre lingue. Lo schema della storia mi sfuggiva finché un giorno, nel piccolo villaggio in cui vivevo allora, non vidi un ragazzino, di circa dieci anni, che guidava un enorme cavallo da tiro, strigliandolo ogni volta che la bestia voleva cambiare strada. Mi colpì un fatto perfino banale: se gli animali da soma avessero coscienza della loro forza, non avremmo alcun potere su di loro. Allo stesso modo, con lo stesso metodo, i ricchi sfruttano i proletari.  Proseguii analizzando le teorie di Marx dal punto di vista degli animali. Cominciai a scrivere il libro intorno al 1943. Per sei anni ho rielaborato quella storia nella mia mente. Non desidero commentare oltre: se un libro non parla da sé, quel libro è un fallimento. Se a qualcuno interessano i miei fatti privati, potrei aggiungere che sono vedovo, ho un figlio di quasi tre anni, faccio lo scrittore di professione; dall’inizio della Seconda guerra ho lavorato essenzialmente come giornalista.  George Orwell L'articolo “Mi sono proposto di distruggere il mito sovietico”. George Orwell in Ucraina proviene da Pangea.
August 20, 2025 / Pangea
“E gli angeli del cielo discesero sulla terra”. Esasperato esoterismo: intorno all’“Oahspe”, una nuova bibbia
Il libro fu presentato il 20 ottobre del 1882, al civico 128 della trentaquattresima strada, New York. Era la casa di un dentista, John Ballou Newbrough; il secondo nome, Ballou, gli era stato dato in memoria di Hosea Ballou, il teologo della chiesa universalista. Newbrough era nato il 5 giugno del 1828 in Ohio, nella fattoria di famiglia; il padre, William, era un uomo duro: sfamava i sei figli con i frutti della sua terra. Abile coltivatore, faceva scoccare la cinghia sul corpo di John per sedarne le ‘visioni’: il ragazzino era dotato del dono della profezia. Si dice avesse fatto fortuna in California, setacciando oro, poco più che ventenne. Aveva studiato al Cincinnati Dental College: lo zio dirigeva un manicomio, la madre, di origine svizzera, aveva un cuore trepidante, propenso al fervore mistico.  Ma torniamo all’ottobre del 1882. Il libro aveva un titolo-totem, allo stesso tempo enigmatico e astruso, Oahspe: nel glossario annesso al tomo, l’autore spiegava che il neologismo voleva dire “Cielo, terra (corpo) e spirito. Il tutto; la somma della sapienza corporale e spirituale”. Il tutto – e il nulla.  Il sottotitolo dell’Oahspe amplificava le nebbie. Il libro era presentato come “una Nuova Bibbia” che divulgava le “Parole di Jehovih e dei suoi Angeli Ambasciatori”. Era lì squadernata – così sproloquiava il titolo –: “La sacra storia del dominio degli esseri celesti e inferi sulla terra da ventiquattromila anni con una sinossi della cosmogonia dell’universo, la creazione dei pianeti, la creazione dell’uomo, parole inaudite intorno alla gloria e all’opera degli dei e delle dee degli eterei cieli con i nuovi comandamenti di Jehovih all’uomo…”. Il libro era stampato a New York e a Londra da una fantomatica Oahspe Publishing Association.  Non era il primo libro pubblicato da John Newbrough. Nel 1855 aveva provato – con poco successo – il romanzo: The Lady of the West, or the Gold Seekers narrava una storia d’amore all’epoca della corsa all’ora. Era tornato quell’anno negli States dopo aver viaggiato per il globo; l’amore con Rachel Turnbull, la sorella del suo socio in affari, durò un ventennio, per l’arco di tre figli. John, che aveva aperto uno studio dentistico e New York, finì per invaghirsi della sua assistente, Frances, di trent’anni più giovane, da cui ebbe una figlia, Jone ‘Justine’: la moglie lo cacciò di casa. Era un uomo di genio, che deteneva diversi brevetti: uno di questi, per un fissante per denti molto più economica di quello in vogo, lo fece scontrare con un colosso, la Goodyear Rubber Co. Inventò un ventilatore, un attrezzo per esercizi ginnici, un mezzo ferroviario, un metodo per costruire denti artificiali. Non è raro, negli States, che una mente ‘scientifica’ si associ all’eccedenza mistica.  Quanto all’Oahspe, aveva cominciato a redigerlo nel 1880, ascoltando le ‘voci’, secondo i criteri della scrittura automatica. Così, in una lettera spedita nel 1883 al direttore della rivista spiritualista “Banner of Light”, spiegò l’evento: > “Implorai la luce del Cielo. Non volevo più comunicare con amici o parenti, > desideravo imparare qualcosa del mondo spirituale, cosa facessero gli angeli, > quale fosse il destino dell’universo… Mi fu detto di procurarmi una macchina > per scrivere, di scrivere come se suonassi un pianoforte. Mi applicai per > imparare, con scarso successo… Una mattina, una luce colpì le mie mani, gli > angeli che fino a quel momento avevano cercato di istruirmi si avvicinarono > alla macchina scrivendo con grande vigore per circa quindici minuti. Mi fu > imposto di non leggere ciò che era scritto, obbedii con riverenza. La mattina > dopo, poco prima dell’alba, lo stesso potere tornò e scrisse, di nuovo… Per > cinquanta settimane le cose accaddero in questo modo, ogni mattina, mezz’ora > prima dell’alba. Poi tutto finì e mi fu detto di pubblicare il libro chiamato > ‘Oahspe’”.  Il libro era costellato da geroglifici, opera dell’autore – o meglio, degli autoritari autori del testo – ad amplificare l’astrale stranezza di quel linguaggio ignoto. La “Nuova Bibbia” procedeva per novecento pagine, suddivisa in diversi libri: in uno di questi, First Book of God, si parla di “una generazione di Luce scaturita da Zarathustra”, che avrebbe dato vita all’impero cinese, deviando dagli insegnamenti del creatore: “Ad Han fu chiesto: Un uomo non deve adorare l’Invisibile? E lui rispose: Adorare una pietra è meglio, perché la vedi.  Han disse: Non adorate con le parole, ma con le opere; la preghiera non è che il grido della propria debolezza.  Se esiste una Luce invisibile, farà a suo modo: che senso ha pregare? Riti e cerimonie in Suo favore sono mania di folli. Riti e cerimonie per i nostri antenati sono scusabili. Le loro anime fluttuano, i riti le placano”.   Un giornalista del “New York Times” accorse all’evento. Scrisse che il “dottor Newbrough è uno spiritualista da circa dodici anni. Nativo dell’Ohio, pratica come dentista”. Scrisse di un uomo “dalla stazza imponente, con occhi scuri e penetranti, che si muove con peculiare lentezza”. All’evento erano convenute diverse persone. Il giornalista sfogliò una copia del libro: al Book of Jehovih segue il Book of Sethantes, il Book of Ah’shong, Son of Jehovih, il Book of Aph. La struttura dell’Oahspe è labirintica, spesso contraddittoria: al creatore assoluto – Jehovih, che è poi un modo per dire Jahvè o Geova – seguono, in gregarie dinastie, divinità minori, ‘cadute’, e cosmogonie in disastro. I libri di dottrina morale – Book of Judgment; Book of Discipline – che predicano un generico irenismo, una generica ‘ricerca interiore’, una super-religione che superi secolari dissidi, una ‘forma’ che sovrasti i formalismi rei di scisma e di guerre religiose, promuovendo una dieta ferrea, vegetariana, sono meno interessanti dei libri ‘mitologici’. In uno di questi, il Book of Saphah, si accenna a regni perduti – Pan, “un continente nell’Oceano Pacifico, sommerso circa 25mila anni fa” – e a linguaggi smarriti. Nella lingua dell’Oahspe la facoltà profetica, “la capacità di vedere o udire gli angeli”, si dice Su’is.  Il giornalista non virò dal vero: “A un osservatore, questa Bibbia pare una rivisitazione di testi indiani e fedi semitiche. Lo stile è in parte moderno in parte ancestrale, quasi che la Bibbia di Re Giacomo e quella cristiana si siano fuse nell’inglese dei nostri giorni”. Il pezzo uscì sul “NY Times” tra i fatti curiosi, in taglio basso; titolo: “Un volume ‘ispirato’ racconta 24mila anni di storia”.  Non è inutile ricordare che la Società Teosofica di Madame Blavatsky era nata proprio a New York qualche anno prima, nel 1875. Con qualche talento, John Newbrough aveva miniato il suo libro regolandosi sui testi gnostici, sui dialoghi buddisti, sul rigore assertivo della rivelazione coranica.  La “Nuova Bibbia” ebbe un suo, pur modesto, esito. Nel 1884 Newbrough, insieme a un facoltoso mecenate del New England, fondò una colonia a Las Cruces, nel New Mexico; gli si fecero attorno una ventina di accoliti. Edificarono scuole per i bambini orfani. Chi confida nell’Oahspe come testo chiave della propria ricerca interiore – Newbrough in questo è chiaro: il libro che gli è stato ‘rivelato’ deve essere ‘superato’ dalla singolare capacità di ciascuno – si chiama Faithist. Così è spiegato il neologismo nel glossario redatto da Newbrough: “Faithist è colui che ha fede in Jehovih, l’essere che è al di sopra e all’interno di ogni cosa; è colui che lavora per entrare in sintonia con Jehovih, operando per il bene del prossimo, sforzandosi di abbandonare l’egoismo”.  La comunità di Las Cruces, “Shalam Colony”, fu decimata da un’epidemia di influenza, nel 1891. Anche il maestro, Newbrough, morì, era il 22 aprile. Sporadici gruppi di Faithist nacquero nello Utah e in California, a Anaheim, in Colorado e in Oregon; alcuni si coalizzarono in Olanda e in Australia. Un “Circle of Jehovih’s Word” promuove ancora oggi l’Oahspe come testo per la liberazione interiore, con parole di fatua intensità: “L’Oahspe instilla insegnamenti che equilibrano il mondo visibile con quello invisibile, come la sapienza dei Nativi sul rispetto degli spiriti della terra, del cielo e delle acque. Insegna che la vita è interconnessa e che gli esseri umani hanno la responsabilità di vivere in pace tra loro e con il mondo che li circonda”. Dall’Oahspe hanno tratto un lezionario e un salterio che viene ‘pregato’ ogni giorno.  L’aspetto ‘etico’, tuttavia, è infimo rispetto a quello ‘visionario’, il più interessante dell’Oahspe. Più che alla Bibbia – di cui scimmiotta il ritmo – l’Oahspe, nei sui lati fecondi, rimanda a William Blake, ai canti persiani reinventati dagli orientalisti inglesi, è il preludio ai racconti magmatici di H.P. Lovecraft. Allo stesso modo, l’Oahspe fonde il talento ‘commerciale’ statunitense all’esotismo europeo, la chiromanzia e il brevetto, l’estremo razionalismo con l’assoluta irrazionalità, Edgar Allan Poe e l’esotismo di Jean-Léon Gérôme. Per queste ragioni, l’Oahspe, testo che altrimenti fluttua tra la dimenticanza e l’oblio, affascinò un poeta come David Gascoyne, che ne disse come del “Libro più stupefacente mai scritto in inglese” (in: D. Gascoyne, Selected Prose 1934-1996, Enitharmon, 1998). L’esagerazione era appropriata al suo carattere ‘apocalittico’: sodale – per un po’ – dei Surrealisti, seguace di Benjamin Fondane – a cui faceva filosofiche visite notturne – era ritenuto un redivivo Rimbaud e aveva tradotto, a tradimento, Friedrich Hölderlin. Usava l’Oahspe come oppiaceo lirico, per galvanizzare i suoi versi, tra l’altro bellissimi – per un po’, si credette investito di un compito messianico, per un po’ lo reclusero al Whitecroft Hospital, sull’Isola di Wight, dopo l’ennesimo crollo mentale. Del dio, nel libro, il poeta riconobbe la carcassa: squittiva il vento in quell’ossario, faceva bei suoni, che inorgoglivano le orecchie, davano in sfoggio d’aquile. Era sufficiente.   *** Oahspe 1 Il Creatore, Jehovih, creò l’uomo e gli disse: Affinché tu sappia che opera della Mia mano sei, sapienza ti ho concesso e potere e dominio. Questa fu la prima era.  2 Ma l’uomo era fragile, camminava sul ventre e non capiva la voce dell’Assoluto. E Jehovih chiamò i suoi angeli, gli antichi della terra, e disse loro: Andate, sollevate l’uomo, che sia eretto, e consegnatelo al sapere.  3 E gli angeli discesero dal cielo alla terra e sollevarono l’uomo. E l’uomo errò sulla terra. Questa è detta seconda era.  4 Jehovih disse agli angeli che scortavano l’uomo: Ecco, l’uomo si è moltiplicato sulla terra. Radunate gli uomini, insegnate loro a vivere in città, a forgiare nazioni.  5 E gli angeli di Jehovih insegnarono ai popoli della terra a vivere insieme in città e nazioni. Questa è la terza era.  6 Fu in quel tempo che la Bestia (il sé) si impennò davanti all’uomo e gli parlò dicendo: Possiedi ciò che vuoi perché tutto è tuo e ti obbedisce.  7 E l’uomo obbedì alla Bestia e la guerra dilagò nel mondo. Questa è la quarta era.  8 Ma l’uomo ammaccato nel cuore si ammalò e reclamò la Bestia e gli disse: Tu hai detto: Possiedi ciò che vuoi perché tutto è tuo e ti obbedisce. Ora, guerra e morte mi accerchiano. Ti prego, insegnami la pace! 9 Ma la Bestia disse: Non a portare la pace sulla terra sono venuto, ma a portare la spada. Sono venuto a mettere discordia tra il figlio e suo padre, tra la figlia e sua madre. Qualunque cosa tu vuoi per cibo, prendila, sfamati, che sia carne o pesce, non pensare al domani.  10 E l’uomo mangiò carne e fu carnivoro e l’oscurità lo avvolse: non udì più la voce di Jehovih e smise di credere in Lui. Questa è la quinta era.  11 E la Bestia spalancò le sue quattro enormi teste e fu padrona della terra. E l’uomo si prostrò, e l’uomo si mise in adorazione.  12 E i nomi delle quattro teste della Bestia erano: Bramino, Buddista, Cristiano, Musulmano. E si divisero la terra, la spartirono fra loro e scelsero eserciti per mantenere le proprie proprietà.  13 I Bramini avevano sette milioni di soldati, i Buddisti venti milioni, i Cristiani sette milioni, i Musulmani due milioni – loro mestiere era uccidere gli uomini. E l’uomo dedicò parte della vita alla guerra e alla proliferazione di eserciti e l’altra parte alla dissolutezza – era schiavo della Bestia. Questa fu la sesta era.  14 Jehovih disse all’uomo desisti dal male, ma l’uomo non lo ascoltava. L’astuzia della Bestia aveva trasformato la carne dell’uomo e la sua anima si era nascosta in una nube – l’uomo amava il peccato.  15 Jehovih allora chiamò i suoi angeli e disse: Scendete ancora sulla terra, dall’uomo, che ho creato perché dalla sua terra traesse godimento e dite all’uomo: Così dice Jehovih: 16 la settima era è prossima. Il tuo Creatore comanda la conversione: da uomo carnivoro e violenta diventa erbivoro, vivi in pace. Le quattro teste della Bestia saranno eliminate, la guerra sedata 17 i tuoi eserciti saranno sciolti e da quel momento non esisterà più la guerra perché questo comanda il tuo Creatore.  18 Non avrai alcun Dio né Signore né Salvatore oltre a Jehovih, colui che ti ha creato! Adorerai soltanto lui, di ora in ora, da ora e per sempre. Io precedo le mie creazioni, sono autosufficiente 19 e a tutti quelli che si separano dal dominio della Bestia, stipulando patti con me, darà il mio regno 20 e costoro saranno detti eletti: il patto e le opere li faranno miei sulla terra, Fedeli saranno chiamati, 21 ma chi ha stipulato patti con la Bestia, sarà chiamato Uziano che significa distruttore. E d’ora in poi ci saranno due categorie di genti sulla terra: Fedeli e Uziani.  22 E gli angeli del cielo discesero sulla terra, apparvero all’uomo, a centinaia, a centinaia di migliaia, e parlarono come parla un uomo, e scrissero come scrive un uomo, insegnando le parole dette da Jehovih.  23 E nel trentesimo anno, gli Ambasciatori delle angeliche schiere rivelarono all’uomo, nel nome di Jehovih, i Suoi regni celesti; resero note le Sue superbe creazioni per la resurrezione dei popoli della terra.  24 Oahspe, immacolato libro, insegna ai mortali come ascoltare la voce del Creatore e vedere i Suoi cieli, nella consapevolezza, mentre sono ancora vivi; che conoscano il luogo e la condizione che li attende dopo la morte.  25 Né tali rivelazioni dell’Oahspe sono del tutto nuove ai mortali: le stesse cose sono state rivelate a molti che vivono a grande distanza l’uno dall’altro, privi di contatti tra loro.  26 Poiché questa luce è onnicomprensiva, abbraccia cose corporee e spirituali, ed è chiamata era del Kosmon. Poiché si riferisce alla terra, al cielo e allo spirito si chiama Oahspe.  * Libro di Osiris, Figlio di Jehovih 1 E ora giunse Osiride, Figlio di Jehovih. A lui, sul suo trono a Lowtsin, nell’etereo mondo, dove il suo regno per centomila anni aveva illuminato molte stelle corporee, giunse la Voce, Jehovih il Grande, lo Spirito di ogni cosa, e disse: 2 Osiride! Osiride: Figlio mio, lascia gli immortali mondi, artiglia la peritura terra nel tuo volo obliquo; e proclama, con lo scettro levato, te stesso, l’Uno, il Dio che comanda. Come un padre indulgente cammina accanto al figlio, guardandolo con tenerezza e offrendogli i suoi consigli, così io, tramite i miei Dèi e i miei Capi, ho persuaso la rossa stella per molte migliaia di anni. Ma come un padre saggio si rivolge al figlio reietto, ormai in età, e gli ordina cosa deve o non deve fare, così io, tramite te, devoto figlio, stendo la mano sulla terra e sui suoi cieli.  3 Giace sepolta nell’abisso, resa all’anarchia, manovrata da falsi dèi e falsi principi, che devastano con la guerra i suoi cieli e riversano sul suo suolo milioni di spiriti della tenebra, che soltanto il crimine sazia. Come tronchi alla deriva su un oceano che ribolle, così gli spiriti dei morti si levano dalla terra al cielo per essere nuovamente precipitati.  […] 9 Come una stella si nutre del mutare delle stagioni, così Jehovih guidò l’orda dei suoi Serpenti per conferire agli eterei regni una vita infinita, che sappiano la gioia del mutamento, la gloria dello spirito.  […] 11 …Ecco, la razza dei Ghan, pianificata da Jehovih fin dalla fondazione del mondo, ora si erge trionfante sulla terra.  12 Non come agnelli sono i Ghan, ma indomiti leoni, nati per la conquista, con seme di sapienza che ragiona e disarticoli ogni cosa, che ha fede e potenza – ma non pone fiducia in Jehovih. Come un uomo che ha due figli, il primo vuoto di passioni, esangue, l’altro incessante in malizia, desideroso di delitti, delirante in distruzione, così sono I’hin e Ghan. Quando muoiono, gli I’hin vanno come agnelli là dove gli è ordinato; i Ghan, ancora pieni di ira, si ostinano a deridere ogni potere. Anime ben forgiate, maestose a vedersi, tornano sulla terra e fondano un regno celeste nell’oscurità – vendetta trama nei loro atti.  13 Con fragore distruggono i deboli regni dei Signori, li spogliano dei loro sudditi, proclamano il cielo in terra. Per questo, le sventurate anime dei cieli inferiori, sedotte, fuggono la resurrezione per tornare dai mortali, e vengono fissati in feri, chiusi a ogni luce.  14 E i mortali si abbandonarono a compiere la volontà degli spiriti delle tenebre, facendo desolazione della festa.  * Libro della Disciplina Discorso di Dio sull’amore 1 E verranno a chiederti: Cosa ci dici di chi è sposato e ha figli? Ameranno forse costoro così tanto la comunità e il regno di Jehovih da mettere da parte il loro amore filiale, affidando i loro figli a qualcun altro, giorno e notte? 2 Tu risponderai loro: No, in pienezza il loro amore si manifesta nei piccoli. E lo testimonia chi ha figli quando adotta un trovatello o un orfano, inglobandolo nella famiglia, senza parzialità. Questo è il più alto carisma dell’uomo: essere imparziale nell’amare.  3 Non per limitare l’amore ma per moltiplicarlo, come fa Dio, che abbraccia tutte le genti; così i vari membri della fraternità lavoreranno con Dio e i suoi santi angeli, per gloria di Jehovih.  *In copertina: uno dei disegni che costellano Oahspe L'articolo “E gli angeli del cielo discesero sulla terra”. Esasperato esoterismo: intorno all’“Oahspe”, una nuova bibbia  proviene da Pangea.
August 4, 2025 / Pangea