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La frode, ovvero: la scoperta di un falso Goethe da parte di Vittorio Mathieu
Già Anacleto Verrecchia mi avvertiva di prestare attenzione «a quel Mefistofele di Vittorio», amico d’una vita, che tra l’altro gli aveva accompagnati i suoi Cieli d’Italia (poi La batracomachia di Bayreuth, versione ampliata), spassosissima raccolta di narrazioni erudite. «Macché Mefistofele», aggiungeva il satiro vegliardo, ripensandoci, «Vittorio ne sa una più del demonio!». Quanta ragione aveva. Di Mathieu leggevo da giovanissimo, con gusto e profitto, alcuni interventi sul «Giornale» post-montanelliano, e ne ricordavo uno con particolare piacere, da cui Romano Prodi usciva lordo e in pezzi a causa di alcuni comportamenti osservati de visu da Mathieu stesso. Per quanto tuttavia preparato all’effetto perturbatore delle sue pagine, non potetti reprimere una vertigine di sbigottimento leggendo, nel Goethe e il suo diavolo custode, uscito con Adelphi nel 2002, l’accenno a un’ipotesi tellurica, ripresa e compiutamente sviluppata ed esposta dodici anni appresso, nel 2014, in Una frode inaudita ai danni di Goethe (Marcovalerio), che adesso incontriamo. Secondo lo studioso, La vocazione – o missione – teatrale di Wilhelm Meister (da qui in avanti: Sendung, come suona la parola chiave dell’originale), accolta da tutta la critica con grandi festeggiamenti quando solo nel 1910 se ne trovò il testo fino a quel momento sconosciuto, e che sarebbe il prodromo, o sia germe del capolavoro Wilhelm Meisters Lehrjahre (Gli anni di apprendistato di W. M.), ebbene questa Sendung sarebbe niente di meno che un falso. Mathieu non scherza, non sta provocando, né ha solo vaghi sospetti: egli invece procede sicuro, ben protetto da uno spesso muraglione di prove estetiche cronologiche filologiche e biografiche, tutte edificate su alacri e attente ricerche in documenti e biblioteche. La Frode è un’opera per specialisti perché entra nei dettagli della biografia goethiana, della storia culturale e sociale di luoghi e tempi lontani, della lingua tedesca e della tessitura dei due romanzi, ma non c’è un solo momento di noia o inaccostabile. Non voglio guastare il piacere della scoperta, e d’altro canto sarebbe difficile descrivere in relativamente poco spazio anche solo buona parte dei nodi, taluni complessi, che compongono la fitta trama della tesi. Per stuzzicare il lettore, basterà evocarne alcuni momenti, in ordine sparso. Anzitutto, lo stile della Sendung, è assai distante da tutta la restante opera goethiana, bensì cangiante negli anni ma sempre riconoscibile per un orecchio allenato. Notizie sull’abbigliamento del protagonista e di natura tipografica s’affiancano alle osservazioni, edificate sulla biografia, circa Mignon, centrale nei Lehrjahre. E ancòra, aleggia nella Sendung un moralismo che fu sempre del tutto estraneo a Goethe, il quale, aggiungo io in parentesi, séguita, ahilui e ahinoi, a portarsi appresso un’aura assai differente da quella reale e trabocchevole, che riescirebbe se solo si studiassero con un poco d’attenzione sia l’opera, sia le lettere, sia la vita, e magari anche le testimonianze di chi lo conobbe e frequentò. Se ci fu uno spregiudicato senza eccessi, questi fu proprio Goethe. Di poi, il colore smorto e l’afror di sagrestia spingono Mathieu a intercettare l’officina in cui venne fabbricata la contraffazione nel circolo bigotteggiante di Lavater, il padre della moderna fisiognomica, col quale Goethe fu legato da una stima e un’amicizia, che però a un certo punto dovettero dileguare e tramutarsi in qualcosa d’altro. La scoperta di Mathieu, va aggiunto per chi fosse poco avvezzo alla lettura di Goethe, è dirompente poiché, oltre a tutto, investe uno scorcio cruciale del percorso goethiano, i cui Lehrjahre non solo fondano un genere nella modernità, il Bildungsroman, ma stanno nel novero delle opere cui Goethe dedicò più tempo e fatiche, e che ha implicazioni di natura sociale e politica, nonché biografiche, rilevantissime, oltre ovviamente alle letterarie, e che segnò la vita di parecchi intellettuali di lingua tedesca. C’è notoriamente chi giunse a dire che i Lehrjahrecostituivano l’evento epocale insieme alla Dottrina della scienza di Fichte e alla Rivoluzione francese. Si potrebbe giungere persino a dire senza troppo temere di pigliare uno scivolone, che Wilhelm Meister è senz’altro la figura goethiana più importante dopo Faust, superando per vastità d’intenti anche quella di Werther, la quale tuttavia è molto, molto più di ciò che per il solito viene spacciata: e anche su questo Mathieu ha parecchio di istruttivo da proporre nel titolo adelphiano. Ho svolti alcuni semplici controlli per confermare ciò che già temevo e anzi divinavo circa l’accoglienza ricevuta dal libro di Mathieu presso la germanistica italiana e in generale presso la critica e la storiografia letterarie. Come prevedevo, ho trovata solo una catena montuosa di silenzio. Codesto silenzio non si può certo imputare alla ridotte dimensioni dell’editore, buona scusante per esser sfuggito, dacché esse sono ampiamente compensate sia dalla rinomanza dell’autore, soprattutto in àmbito accademico, sia dal fatto che, come accennavo, il primo lancio della tesi avvenne in un libro d’una delle case editrici, italiane e non solo, più seguíte e che peraltro cinque anni avanti, 1997, aveva pubblicato lo straordinario Goethe e i suoi editori di Siegfried Unseld, direttore della Suhrkamp, una delle principali case editrici di lingua tedesca. Temo sia del tutto inverosimile che agli studiosi sia sfuggito Goethe e il suo diavolo custode, oppure bisogna pensare a una lettura assai superficiale. Insomma, tutte le faticose e lunghe indagini condotte da Mathieu e l’esposizione d’una ipotesi così rivoluzionaria, e per la biografia goethiana, e per la storia culturale europea, sono rimaste senza eco alcuna. Non è la prima volta, né sarà l’ultima, in cui i padroni del discorso, insieme alle schiere dei loro subalterni e tirapiedi, ignorano o rifiutano d’interessarsi a studii che potrebbero incrinare la loro immagine d’un autore, ben propalata e imposta a generazioni di studenti e liberi lettori. Ma soprattutto procurerebbe loro una figura da cioccolatai poiché significherebbe che in un intiero secolo di (presunto) lavoro di convegni lezioni conferenze libri riunioni telefonate viaggi e via elencando, le migliaia di professori non si sono mai accorti di quella patente contraffazione, messa invece in luce da uno studioso ufficialmente estraneo agli studi goethiani e alla germanistica. Gli opliti e i sacerdoti dell’accademia, al contrario, fanno sempre a gara per allungare le zampe sulla Sendung con una introduzione o un articolo e così annettere il proprio nome al sensazionale ritrovamento, fosse pure cinquanta o cent’anni appresso. Da noi il principe di questi segugi con la sinusite cronica è, nemmeno a dirlo, Italo Alighiero Chiusano, che già sistemo nel mio intervento sulle biografie di Goethe pubblicato su questa rivista. Né nella introduzione alla Sendung per Rizzoli nel 1994, né altrove, Chiusano si fa sfiorare almeno dal dubbio che l’opera possa essere, se non un totale falso, almeno un’anomalia nel corpus letterario goethiano. Ben al contrario, la definisce «un’altra perla nella collana del romanzo europeo», un «capolavoro» e un’«autentica opera d’arte». Per difendere ed esaltare la camorra universitaria, egli scrive altresì che il romanzo fu «rapidamente acquisito (…) per la sensibilità critica del mondo intero». Se Chiusano non fosse un riverito barone accademico, si dovrebbe pensare a un comico provetto. Invero l’unica cosa che fece la «sensibilità critica del monto intero» fu di cadere nel sacco. A partire dalla pubblicazione della Sendung l’anno appresso il suo presunto rinvenimento, tutti esultarono, compresi niente meno che Hofmannsthal ed Hermann Hesse, i quali tuttavia almeno dissero che i Lehrjahre erano senz’altro superiori al romanzo “ritrovato”, ciò che avrebbe dovuto suscitare interrogativi nella germanistica ma che invece restò lettera morta. Don Benedetto “Corleone” Croce, con la consueta boria, arrivò invece a dichiarare addirittura di preferire la Sendung ai Lehrjahre, ovviamente con le solite inoppugnabili e oracolari ragioni estetiche. Per intenderci, è come scambiare di ruolo un Notturno di John Field con un Notturno di Chopin, o una Cantata d’un qualsiasi Musikanten barocco con una Cantata di Bach. Con simili precursori era ben prevedibile che nessuno dei nostrani cavalieri della verità e della cultura si sarebbe posta qualche domanda, e che se anche avesse subodorato qualcosa, avrebbe tenuta la bocca chiusa: anche perché per dimostrare il falso avrebbero dovuto schiodare i deretani dalle sedie e rimboccarsi le maniche. Ma chi glielo avrebbe fatto fare? A parità di stipendio, è molto più comodo concionare anziché scavare negli archivi e studiare. Inoltre ciò avrebbe significato dare ragione a un anomalo della cultura italiana, benché docente universitario, e per giunta non specialista di germanistica. Il succitato silenzio, però, è un’ulteriore prova di quanto la tesi di Mathieu sia fondata. Se ne sia infatti sicuri: se egli avesse scritta una scempiaggine, lo avrebbero messo della pubblica gogna. A ogni buon conto, a noi non deve importare troppo la genia di codesti guastacervelli, ma invece assai di poter accedere a una tesi rivoluzionaria, per giunta ben scritta, e di aggiungere una decisiva pagina alla biografia di Goethe. Bisogna inoltre considerare quanto il lavoro di Mathieu sia d’esempio a chi voglia impegnarsi con serietà e acribia nella ricerca storico-biografica: un cammino aspro ma che, se percorso con diligenza e passione, può condurre molto, molto lontano. Quasi come Wilhelm Meister. Luca Bistolfi *In copertina: Goethe contraffatto da Andy Warhol, 1982  L'articolo La frode, ovvero: la scoperta di un falso Goethe da parte di Vittorio Mathieu proviene da Pangea.
April 2, 2025 / Pangea
«Un Beat venuto dal Medioevo»: storia di Sylvester Houédard, monaco e poeta
Se nel Novecento inglese non sono mancati gli esempi di sacerdoti cattolici votati alla letteratura, come R. H. Benson, Ronald Knox o John Ayscough, di certo Sylvester Houédard ne è stato il rappresentante più eccentrico, monaco benedettino e poeta della Beat Generation.  Classe 1924, Pierre-Thomas-Paul Joseph Houédard – Sylvester è il nome assunto da religioso – era nato a Guernsey, una piccola isola nel canale della Manica, da una famiglia di origini francesi. Sin da ragazzo dimostrò una non comune vivacità intellettuale che si associava a una profonda devozione. Nel 1977, in un articolo per il «Tablet» intitolato Memories of a Catholic Childhood, raccontò del suo amore di allora per la liturgia latina e di come volentieri accompagnasse la madre alla messa domenicale.  Rimasto orfano, allo scoppio del Secondo conflitto mondiale fu costretto a trasferirsi nel Lancashire con il fratello maggiore, pilota della RAF, purtroppo destinato a morire in combattimento poco tempo dopo. Nel 1941 riuscì a ottenere l’ingresso al Jesus College di Oxford, dove studiò storia moderna, e venne nominato presidente della prestigiosa Newman Society, in prima fila nell’animare la pastorale cattolica in università.  Intanto Houédard iniziava a scorgere nel proprio animo i chiari segnali di una vocazione religiosa e perciò volle recarsi in visita al monastero di Prinknash, vicino a Gloucester, dove, di lì a poco, sarebbe entrato come novizio l’amico Victor Brooke, nipote del famoso generale Lord Alanbrooke. Sul finire della guerra fu chiamato a operare in Asia per conto dell’Intelligence e, per un breve periodo, lavorò al Ministero dell’Alimentazione. Data la pessima calligrafia dovuta alla meningite e all’artrite reumatoide di cui aveva sofferto da piccolo, finì per essere costretto a usare sistematicamente la macchina da scrivere: non è esagerato affermare che senza la scoperta di quel prezioso strumento la sua successiva carriera d’autore non sarebbe mai iniziata. Una volta congedato, Houédard ritornò a Oxford per completare il suo percorso di studi, dopodiché nel 1949 fu libero di indossare l’abito monacale. Prima di entrare a Prinknash, regalò agli amici ciò che possedeva e a Christopher Tolkien, terzogenito dell’autore de Il Signore degli Anelli, toccò un bastone da passeggio in ebano, con un pomello d’avorio finemente intarsiato, che si diceva fosse appartenuto all’Imperatore d’Abissinia. Tra il 1951 e il 1954 studiò al Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma, scrivendo una tesi sulla libertà nell’opera di Sartre, e nel 1959 venne ordinato sacerdote. Al di là dei meriti squisitamente ecclesiastici – scrisse di teologia, collaborò con diverse case editrici cattoliche e curò la pubblicazione, nel 1966, della Bibbia di Gerusalemme – Houédard si distinse per essere stato tra i principali interpreti della cosiddetta “poesia concreta” (concrete poetry), una delle tante manifestazioni artistiche germogliate in seno al milieucontroculturale degli anni Sessanta e Settanta. Teorizzata dal brasiliano E. M. de Melo e Castro, la “poesia concreta” sposta l’attenzione dal contenuto del testo ai suoi elementi costitutivi, che sono parole, sillabe e fonemi di cui si esalta la dimensione tipografica, variamente valorizzati mediante la disposizione sul foglio o anche su materiali diversi dalla carta. L’intento, sulla falsariga delle prove futuriste, è quello di scomporre il linguaggio tradizionale per donargli una dimensione visiva e sonora inedita, con un esito che si situa a metà strada tra la letteratura e l’arte figurativa. La lettera-manifesto di E. M. de Melo e Castro, apparsa sul «Times Literary Supplement» nel 1962, incoraggiò un drastico cambio di direzione nella poesia di Houédard, fino a quel momento limitata a componimenti semi-confessionali in versi liberi. Le possibilità offerte dalla “poesia concreta” dettero pure un nuovo contesto agli arabeschi che andava producendo sin dagli anni Quaranta con la sua fidata macchina da scrivere, una Olivetti Lettera 22.  Houédard realizzò la quasi totalità dei suoi lavori nell’arco di una decina d’anni, tutti firmati con l’acronimo “dsh” (Dom Sylvester Houédard). Li chiamò “poemi visivi” o “typestracts”, una crasi tra typewriter e abstractsuggeritagli dall’amico Edwin Morgan. Fu pertanto molto prolifico, ma solo per un periodo relativamente limitato, collaborando con numerose riviste, gruppi artistici e piccole realtà teatrali. Inoltre fu un conferenziere instancabile e le sue opere vennero esposte sia in Inghilterra che negli Stati Uniti. Inevitabilmente il suo stato ambiguo di monaco e autore, o, secondo una fortunata definizione, di «seguace della cultura Beat venuto dal Medioevo», non mancò di procurare qualche malumore a Prinknash, anche perché il suo legame col movimento controculturale lo portò a schierarsi politicamente e a occuparsi di tematiche sessuali in termini un po’ troppo espliciti.   In generale Houédard predicava una visione teologica e artistica la più inclusiva possibile. Fu un pioniere del dialogo ecumenico, un appassionato studioso di Islam, di religioni orientali e del mistico Meister Eckhart, e nei suoi articoli, privi di punteggiatura e zeppi di segni grafici inusuali, sostenne sempre la necessità di fondere le arti, sintetizzandole in un prodotto omnicomprensivo. La macchina da scrivere cosmica a cui allude il titolo del volume curato da Nicola Simpson nel 2012, Notes from the Cosmic Typewriter, ad oggi lo studio migliore sulla vita e le opere del benedettino, fa appunto riferimento a una poesia concepita come preghiera, anti-dogmatica, senza limiti, intesa a cogliere frammenti di quello spirito universale che è Dio. Sebbene Houédard fosse un tipo schivo, più interessato a sostenere gli scrittori emergenti che alle luci della ribalta, godette anch’egli del proverbiale quarto d’ora di celebrità: una sua foto apparve su «Vogue» ed entrò in contatto con un numero così elevato di letterati e artisti, tra cui Allen Ginsberg, William S. Burroughs, Jack Kerouac, Yoko Ono e John Cage, che la sua rubrica telefonica pare contasse quasi tremila nomi. Non è dunque una sorpresa scoprirlo tra gli spettatori in presenti alla Albert Hall, nel 1965, in occasione della prima International Poet Incarnation (il suo volto glabro, seminascosto dagli immancabili occhiali da sole, fa capolino nel filmato dell’evento, The Wholly Communion, diretto da Peter Whitehead). Houédard morì nel 1992, all’età di sessantasette anni, e il suo corpo venne sepolto nel parco del nuovo monastero, dove i benedettini si erano trasferiti vent’anni prima. Secondo l’ex abate Aldhelm Cameron-Brown, malgrado il confratello fosse un tipo peculiare,  > «era pur sempre una persona adorabile, ed era dedito alla comunità, anche se > sentiva che non sempre apprezzavamo quello che stava facendo. […]. A suo modo > condusse una vita piena di Fede». Luca Fumagalli L'articolo «Un Beat venuto dal Medioevo»: storia di Sylvester Houédard, monaco e poeta  proviene da Pangea.
April 1, 2025 / Pangea
Gli antichi non raccontavano favole. Il mito di Troia e il sito di Hisarlık
A scuola si ripete spesso che la guerra di Troia è soltanto un episodio del mito, che non si sarebbe mai svolto nella realtà storica, o almeno non in quelle dimensioni e certamente non a causa di una donna. Con un titolo un po’ provocatorio, preso in prestito dal più evemerista degli evemeristi, Mauro Biglino, in questo articolo si cercherà di fare chiarezza. Già gli antichi avevano notato le numerose incongruenze dei poemi omerici, che così possiamo riassumere: il re dei Paflagoni Pilemene prima muore in battaglia (Iliade V, 576) e poi riappare in lutto per il figlio morto (XIII, 643-658); nel canto IX ai vv. 182-198 c’è una serie di verbi al duale che però si riferisce a tre personaggi (Odisseo, Aiace e Fenice); nella notte che è oggetto dei canti IX e X Odisseo cena tre volte e si tengono due consigli notturni dopo che il poeta ha mandato a dormire i protagonisti; Agamennone regna ora come primus inter pares, ora come un signore assoluto miceneo; il re dell’Argolide è ora Agamennone, ora Diomede; la Dolonia (canto X) è un episodio isolato e del tutto insignificante per la narrazione, peraltro con notevoli problemi esegetici.  Nonostante ciò, nessuno mise mai in dubbio che il conflitto fosse realmente avvenuto in un’epoca remota della storia greca, anche se la tradizione storiografica ci fornisce diverse possibili date per la guerra di Troia, che oscillano tra il 1344 e il 1150 a. C. Quella divenuta canonica è la datazione di Eratostene (1194-1184 a. C.), mentre Erodoto riferisce che Omero visse 400 anni prima di lui e che la guerra avvenne 400 anni prima di Omero, quindi approssimativamente intorno al 1250 a. C. Come noto, la tesi della storicità della guerra di Troia ricevette importanti conferme dalle scoperte del tedesco Heinrich Schliemann, che nel 1868 raggiunse il sito di Hisarlık e nell’aprile 1870 diede inizio agli scavi. A dire il vero, il sito gli era stato indicato da Frank Calvert, che vi aveva condotto degli scavi esplorativi tra il 1863 e il 1865, ma all’inglese mancavano le finanze, la fantasia e le capacità narrative di Schliemann, che finì per oscurarne la figura. Va detto anche che dell’antica città non si era mai persa la memoria: i più ritenevano che il sito antico sorgesse al di sotto della città romana di Ilium (Troia IX, I secolo a. C.-IV secolo d. C.) e della città greca di Ἴλιον (Troia VIII, 950-I secolo a. C.). In età bizantina, al tempo dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito (913-959), Ilium era stata una piccola sede arcivescovile e, simbolicamente, l’ultimo a farvi visita era stato il sultano Maometto II, poco dopo la caduta di Costantinopoli, quasi a simboleggiare la rivincita dell’Asia sulla Grecia. Determinato a ritrovare a tutti i costi la città omerica e convinto che quest’ultima si dovesse trovare necessariamente al di sotto di almeno altri tre strati (quello romano, quello greco e quello lidio dell’epoca di Omero), Schliemann scambiò però le mura dell’Età del Bronzo per mura di età classica e ordinò la distruzione dei primi nove metri della collina di Hisarlık, nonostante gli inviti a una maggiore prudenza da parte di Calvert. Proprio quand’era sul punto di abbandonare l’impresa, il 31 maggio 1873 Schliemann s’imbatté in quello che ribattezzò “tesoro di Priamo”. Soddisfatto del proprio lavoro, l’anno successivo pubblicò i risultati dei suoi scavi e partì alla volta di Micene. Malgrado l’enfasi con la quale Schliemann presentò le sue scoperte, nulla era stato dimostrato: come si è detto, dell’antico sito di Troia non si era mai persa la memoria, anche se la sua precisa collocazione era ancora ignota. Generazioni di conquistatori avevano fatto visita al sito: Serse, Alessandro Magno, Cesare, Adriano, Caracalla e molti altri, ma non mancava chi, come Erodoto e Strabone, dubitava del racconto omerico. Il fatto che fosse stata scoperta una città di nome Troia non provava che la guerra si fosse effettivamente svolta lì. Come se non bastasse, quando tornò a Hisarlık, nel 1878 e soprattutto nel 1882 e nel 1890, Schliemann si rese conto che la città che aveva trovato non poteva coincidere con quella omerica, che doveva invece essere identificata in Troia VI (1750-1300 a. C.), come proposto dal suo assistente Wilhelm Dörpfeld, che lo affiancò negli ultimi scavi. Il tesoro di Priamo in realtà era di mille anni più antico (Troia II, 2550-2300 a. C. circa). Fu una terribile constatazione: per ironia della sorte, nella sua affannosa ricerca della città omerica, Schliemann aveva distrutto gran parte dell’evidenza archeologica di quel periodo! Ammalatosi di tumore, mentre programmava una nuova stagione di scavi alla ricerca di una città bassa, Schliemann morì a Napoli nei pressi di piazza della Carità, durante uno dei suoi numerosi soggiorni partenopei. Grazie al sostegno finanziario della vedova Sophia e del kaiser Guglielmo II, Dörpfeld poté continuare i lavori per altre due stagioni (1893-1894) e alla fine riportò alla luce le mura dell’Età del Bronzo (quelle che Schliemann aveva scambiato per mura di età classica). Si trattava di mura imponenti: erano alte nove metri, in blocchi calcarei squadrati con elevato in mattoni crudi, presentavano torri imponenti e cinque porte, la più maestosa delle quali viene identificata da coloro che credono al racconto omerico con le porte Scee. Curiosamente, il settore più debole delle mura è quello settentrionale, proprio come nell’Iliade; inoltre, come si può notare dalla foto, le mura sono inclinate, il che potrebbe spiegare il fatto che nell’Iliade Patroclo cerchi per ben quattro volte di scalarle. Si tratta, ovviamente, di semplici suggestioni. Troia VI: tratto di mura e torre di possibile influsso ittita vicino alla Porta Est (primo esempio conosciuto di mura a dente di sega); sulla terrazza adiacente, case di Troia VIIa Tra il 1932 e il 1938, grazie al sostegno dello stesso Dörpfeld, i lavori ripresero sotto la direzione di Carl Blegen, dell’università di Cincinnati, le cui ricerche, però, erano viziate da una sorta di bias di conferma: infatti, egli era assolutamente convinto della storicità della guerra di Troia. Blegen notò il crollo delle torri e la caduta delle mura fuori asse e giunse alla conclusione che Troia VIh era stata distrutta da un terremoto che possiamo datare ai primi decenni del XIII secolo a. C. Secondo lo storico austriaco Fritz Schachermeyr, la leggenda del cavallo di Troia conserverebbe proprio la memoria di questa catastrofe: il cavallo sarebbe soltanto una metafora di Poseidone, dio del mare e, appunto, dei terremoti. Falsa è, invece, la teoria di Francesco Tiboni secondo la quale il cavallo di Troia sarebbe stato soltanto una nave fenicia con protome equina: rappresentazioni del cavallo di Troia sono attestate nell’iconografia sin dall’VIII secolo a. C. Se Troia VIh era stata distrutta da un terremoto, la città di Omero non poteva essere che lo strato successivo, Troia VIIa (1300-1180 a. C.). Blegen notò che questo strato presentava una maggiore densità abitativa, con muri divisori tra le case, e interpretò questo fatto come la prova di un assedio prolungato. Ciò non è affatto scontato: le strutture di Troia VIIa potrebbero essere interpretate anche come baracche temporanee per ovviare alle distruzioni causate dal terremoto. Del resto, ad oggi le uniche possibili prove di scontri sono alcuni resti umani nelle strade, tre punte di frecce, due rinvenute nella cittadella e una nella città bassa, e una punta di lancia rinvenuta nell’area occidentale. Una delle punte di frecce trovate nella cittadella potrebbe essere di fabbricazione micenea, ma neppure questa può essere considerata prova di un evento bellico: potrebbe trattarsi di una freccia caduta da una faretra o abbandonata! Infine, Troia VIIa mostra chiari segnali di un incendio, ma tale incendio potrebbe anche essere attribuito a una catastrofe naturale. La nuova stagione di scavi, su scala internazionale, è stata inaugurata nel 1988 da Manfred Korfmann, dell’università di Tubinga, e ha coinvolto più di 350 accademici da oltre venti Paesi. Obiettivo principale di Korfmann era l’individuazione della città bassa. Infatti, la cittadella di Troia ha un diametro di non più di 200m e copre un’area di appena due ettari: essa avrebbe potuto ospitare al massimo qualche centinaio di persone. Come si è detto, già Schliemann aveva in programma lo scavo della fertile piana circostante la cittadella, ma la morte glielo aveva impedito e Dörpfeld non era riuscito a ottenere risultati definitivi. Secondo Korfmann, nei livelli che ci interessano (VI e VIIa) la città bassa si sarebbe estesa per circa 20 ettari e complessivamente Troia avrebbe avuto una popolazione compresa tra 4000 e 10000 abitanti, o forse anche più se si include la popolazione che potrebbe aver vissuto al di fuori del perimetro della città, in aree rurali facenti parte del regno. Nel XIII secolo a. C., il perimetro della città sarebbe stato protetto da un muro in mattoni crudi e da due fossati con una palizzata, il primo 400m a sud della cittadella e il secondo altri 100-150m più a sud.  Nel 2001, Korfmann presentò i risultati delle sue ricerche al grande pubblico in un’esposizione intitolata Troia. Traum und Wirklichkeit, nella quale, tra le altre cose, veniva mostrata una ricostruzione completa della città bassa. Fu proprio questo modello ad attirare le aspre critiche di Frank Kolb, suo collega presso l’università di Tubinga. Purtroppo, tale polemica travalicò i confini dell’accademia: intervistato dal Berliner Morgenpost, Kolb accusò Korfmann di ingannare il pubblico con ricostruzioni fantasiose e lo ribattezzò “il von Däniken dell’archeologia” (Erich von Däniken è un celebre pseudoarcheologo sostenitore della teoria degli antichi astronauti, ndr). Secondo Kolb, non ci sarebbe alcuna evidenza dell’esistenza di una città bassa, i due fossati potrebbero essere dei canali usati a scopo agricolo e, calcolando una popolazione di 100/200 abitanti per ettaro, se si ipotizzasse un’area di 11-15 ettari si arriverebbe al massimo a 1000-3000 abitanti. Per Kolb, Troia non presenta alcuna affinità con siti come Efeso e Mileto, è priva di edifici monumentali e di una pianificazione stradale e assomiglia più a un centro protourbano isolato che a una città vera e propria (la ceramica importata è solo l’1%!).  Mentre Schliemann e Blegen erano stati criticati per la loro eccessiva fiducia nel racconto omerico, paradossalmente Kolb criticò Korfmann proprio facendo ricorso al cieco cantore. La città ricostruita da Korfmann – dice Kolb – non ha nulla della monumentalità dell’alta rocca di Priamo: l’edificio più imponente, la Pillar House di Blegen, non ha nulla a che vedere con le sessanta stanze del palazzo descritto in Iliade VI, 242-249. Inoltre, essa presenta due cinte murarie, mentre quella omerica ne ha solo una. Infine, la città di Korfmann ha una vocazione commerciale, mentre quella omerica è abitata da allevatori, pastori e costruttori, non da commercianti. Come si può vedere, si tratta di una tesi facilmente smontabile: Omero è pur sempre un poeta, non un archeologo, e si può sempre ipotizzare che alla sua epoca il muro in mattoni crudi della città bassa fosse crollato. Questo eccessivo scetticismo, unito con la volontà di spiegare la realtà archeologica di Hisarlık attraverso Omero, si è imposto nell’immaginario collettivo e ha dato adito alle teorie più strampalate: ex-ingegneri nucleari si sono improvvisati archeologi e ci hanno spiegato che queste incongruenze sono facilmente risolvibili se si sposta la cittadella di Priamo 3000 km più a nord e nel XVIII secolo a. C., a Toija, in Finlandia. Un abbaglio culturale collettivo, quello generato da Omero nel Baltico di Felice Vinci, che non ha risparmiato illustri classicisti e accademici, primi tra tutti Rosa Calzecchi Onesti e Umberto Eco (quandoque bonus dormitat Ecus). Tornando a questioni più serie, la ricerca successiva ha dimostrato, invece, che questo scetticismo era del tutto ingiustificato. Tra il 15 e il 16 febbraio 2002, l’università di Tubinga organizzò un simposio dal titolo The Meaning of Troy in the Late Bronze Age, con la partecipazione di 13 relatori, che giunsero alla conclusione che i dati di Korfmann erano in larga misura validi. La scarsità di evidenze archeologiche per la città bassa è dovuta all’eccezionalità delle condizioni del sito di Hisarlık, che è stato in gran parte danneggiato dall’erosione – come del resto è avvenuto anche alle fasi preistoriche – e all’asportazione di materiali in età ellenistica e romana. Del resto, meno del 5% del sito è stato scavato! Pertanto, la presenza di una città bassa può essere solamente dedotta sulla base della presenza di ceramica al di fuori della cittadella nei periodi VI e VIIa e anche sulla base di un semplice argomento logico e contrario: l’idea che Troia rappresenti soltanto una residenza aristocratica non può essere sostenuta perché rappresenterebbe un unicum a livello archeologico, laddove il sistema di fortificazioni ricostruito da Korfmann, con fossato, cinta muraria esterna e muro principale, è il più frequente del mondo antico, dall’Età del Bronzo fino all’età bizantina! Negli studi più recenti, si ipotizza che la città bassa occupasse un’area compresa tra 25 e 35 ettari, con circa 5000-6000 abitanti, dimensioni del tutto compatibili con i centri micenei e con città ittite di medie dimensioni come Gordion, Alişar, Kuşaklı/Šarišša, Beycesultan e la città-Stato portuale di Ugarit, il che ne farebbe una potenza regionale. L’idea che i due fossati avessero uno scopo agricolo non è più sostenibile, anche se è stato dimostrato che essi non sono contemporanei, ma risalgono a due fasi diverse, rispettivamente VI e VIIa. A Korfmann è succeduto il collega Pernicka, dal 2006 al 2012, poi Rüstem Aslan dal 2014. Quest’ultimo ha riportato alla luce un ulteriore livello precedente a tutti gli altri, Troia 0 (3500-3000 a. C.). Complessivamente, sono stati riportati alla luce undici diversi livelli, suddivisi a loro volta in oltre cinquanta fasi: Troia 0 (3500-3000 a. C.), Troia I (3000-2550 a. C.), Troia II (2550-2300 a. C.), Troia III (2300-2200 a. C.), Troia IV (2200-2000 a. C.), Troia V (2000-1750 a. C.), Troia VI (1750-1300 a. C.), Troia VIIa (1300-1180 a. C.), Troia VIIb (1180-1000 a. C.), Troia VIII (= Ἴλιον, 950-I secolo a. C.), Troia IX (I secolo a. C.- IV secolo d. C.) e Troia X (dopo il IV secolo d. C.). Christian Allasino  *In copertina: Henry Fuseli, Frammenti dall’Iliade, da un quaderno di schizzi L'articolo Gli antichi non raccontavano favole. Il mito di Troia e il sito di Hisarlık proviene da Pangea.
March 29, 2025 / Pangea