Già Anacleto Verrecchia mi avvertiva di prestare attenzione «a quel Mefistofele
di Vittorio», amico d’una vita, che tra l’altro gli aveva accompagnati i
suoi Cieli d’Italia (poi La batracomachia di Bayreuth, versione ampliata),
spassosissima raccolta di narrazioni erudite. «Macché Mefistofele», aggiungeva
il satiro vegliardo, ripensandoci, «Vittorio ne sa una più del demonio!». Quanta
ragione aveva.
Di Mathieu leggevo da giovanissimo, con gusto e profitto, alcuni interventi sul
«Giornale» post-montanelliano, e ne ricordavo uno con particolare piacere, da
cui Romano Prodi usciva lordo e in pezzi a causa di alcuni comportamenti
osservati de visu da Mathieu stesso.
Per quanto tuttavia preparato all’effetto perturbatore delle sue pagine, non
potetti reprimere una vertigine di sbigottimento leggendo, nel Goethe e il suo
diavolo custode, uscito con Adelphi nel 2002, l’accenno a un’ipotesi tellurica,
ripresa e compiutamente sviluppata ed esposta dodici anni appresso, nel 2014,
in Una frode inaudita ai danni di Goethe (Marcovalerio), che adesso incontriamo.
Secondo lo studioso, La vocazione – o missione – teatrale di Wilhelm Meister (da
qui in avanti: Sendung, come suona la parola chiave dell’originale), accolta da
tutta la critica con grandi festeggiamenti quando solo nel 1910 se ne trovò il
testo fino a quel momento sconosciuto, e che sarebbe il prodromo, o sia germe
del capolavoro Wilhelm Meisters Lehrjahre (Gli anni di apprendistato di W. M.),
ebbene questa Sendung sarebbe niente di meno che un falso.
Mathieu non scherza, non sta provocando, né ha solo vaghi sospetti: egli invece
procede sicuro, ben protetto da uno spesso muraglione di prove estetiche
cronologiche filologiche e biografiche, tutte edificate su alacri e attente
ricerche in documenti e biblioteche.
La Frode è un’opera per specialisti perché entra nei dettagli della biografia
goethiana, della storia culturale e sociale di luoghi e tempi lontani, della
lingua tedesca e della tessitura dei due romanzi, ma non c’è un solo momento di
noia o inaccostabile.
Non voglio guastare il piacere della scoperta, e d’altro canto sarebbe difficile
descrivere in relativamente poco spazio anche solo buona parte dei nodi, taluni
complessi, che compongono la fitta trama della tesi. Per stuzzicare il lettore,
basterà evocarne alcuni momenti, in ordine sparso.
Anzitutto, lo stile della Sendung, è assai distante da tutta la restante opera
goethiana, bensì cangiante negli anni ma sempre riconoscibile per un orecchio
allenato. Notizie sull’abbigliamento del protagonista e di natura tipografica
s’affiancano alle osservazioni, edificate sulla biografia, circa Mignon,
centrale nei Lehrjahre.
E ancòra, aleggia nella Sendung un moralismo che fu sempre del tutto estraneo a
Goethe, il quale, aggiungo io in parentesi, séguita, ahilui e ahinoi, a portarsi
appresso un’aura assai differente da quella reale e trabocchevole, che
riescirebbe se solo si studiassero con un poco d’attenzione sia l’opera, sia le
lettere, sia la vita, e magari anche le testimonianze di chi lo conobbe e
frequentò. Se ci fu uno spregiudicato senza eccessi, questi fu proprio Goethe.
Di poi, il colore smorto e l’afror di sagrestia spingono Mathieu a
intercettare l’officina in cui venne fabbricata la contraffazione nel circolo
bigotteggiante di Lavater, il padre della moderna fisiognomica, col quale Goethe
fu legato da una stima e un’amicizia, che però a un certo punto dovettero
dileguare e tramutarsi in qualcosa d’altro.
La scoperta di Mathieu, va aggiunto per chi fosse poco avvezzo alla lettura di
Goethe, è dirompente poiché, oltre a tutto, investe uno scorcio cruciale del
percorso goethiano, i cui Lehrjahre non solo fondano un genere nella modernità,
il Bildungsroman, ma stanno nel novero delle opere cui Goethe dedicò più tempo e
fatiche, e che ha implicazioni di natura sociale e politica, nonché biografiche,
rilevantissime, oltre ovviamente alle letterarie, e che segnò la vita di
parecchi intellettuali di lingua tedesca. C’è notoriamente chi giunse a dire che
i Lehrjahrecostituivano l’evento epocale insieme alla Dottrina della scienza di
Fichte e alla Rivoluzione francese.
Si potrebbe giungere persino a dire senza troppo temere di pigliare uno
scivolone, che Wilhelm Meister è senz’altro la figura goethiana più importante
dopo Faust, superando per vastità d’intenti anche quella di Werther, la quale
tuttavia è molto, molto più di ciò che per il solito viene spacciata: e anche su
questo Mathieu ha parecchio di istruttivo da proporre nel titolo adelphiano.
Ho svolti alcuni semplici controlli per confermare ciò che già temevo e anzi
divinavo circa l’accoglienza ricevuta dal libro di Mathieu presso la
germanistica italiana e in generale presso la critica e la storiografia
letterarie. Come prevedevo, ho trovata solo una catena montuosa di silenzio.
Codesto silenzio non si può certo imputare alla ridotte dimensioni dell’editore,
buona scusante per esser sfuggito, dacché esse sono ampiamente compensate sia
dalla rinomanza dell’autore, soprattutto in àmbito accademico, sia dal fatto
che, come accennavo, il primo lancio della tesi avvenne in un libro d’una delle
case editrici, italiane e non solo, più seguíte e che peraltro cinque anni
avanti, 1997, aveva pubblicato lo straordinario Goethe e i suoi editori di
Siegfried Unseld, direttore della Suhrkamp, una delle principali case editrici
di lingua tedesca. Temo sia del tutto inverosimile che agli studiosi sia
sfuggito Goethe e il suo diavolo custode, oppure bisogna pensare a una lettura
assai superficiale.
Insomma, tutte le faticose e lunghe indagini condotte da Mathieu e l’esposizione
d’una ipotesi così rivoluzionaria, e per la biografia goethiana, e per la storia
culturale europea, sono rimaste senza eco alcuna. Non è la prima volta, né sarà
l’ultima, in cui i padroni del discorso, insieme alle schiere dei loro
subalterni e tirapiedi, ignorano o rifiutano d’interessarsi a studii che
potrebbero incrinare la loro immagine d’un autore, ben propalata e imposta a
generazioni di studenti e liberi lettori. Ma soprattutto procurerebbe loro una
figura da cioccolatai poiché significherebbe che in un intiero secolo di
(presunto) lavoro di convegni lezioni conferenze libri riunioni telefonate
viaggi e via elencando, le migliaia di professori non si sono mai accorti di
quella patente contraffazione, messa invece in luce da uno studioso
ufficialmente estraneo agli studi goethiani e alla germanistica.
Gli opliti e i sacerdoti dell’accademia, al contrario, fanno sempre a gara per
allungare le zampe sulla Sendung con una introduzione o un articolo e così
annettere il proprio nome al sensazionale ritrovamento, fosse pure cinquanta o
cent’anni appresso. Da noi il principe di questi segugi con la sinusite cronica
è, nemmeno a dirlo, Italo Alighiero Chiusano, che già sistemo nel mio intervento
sulle biografie di Goethe pubblicato su questa rivista.
Né nella introduzione alla Sendung per Rizzoli nel 1994, né altrove, Chiusano si
fa sfiorare almeno dal dubbio che l’opera possa essere, se non un totale falso,
almeno un’anomalia nel corpus letterario goethiano. Ben al contrario, la
definisce «un’altra perla nella collana del romanzo europeo», un «capolavoro» e
un’«autentica opera d’arte». Per difendere ed esaltare la camorra universitaria,
egli scrive altresì che il romanzo fu «rapidamente acquisito (…) per la
sensibilità critica del mondo intero». Se Chiusano non fosse un riverito barone
accademico, si dovrebbe pensare a un comico provetto.
Invero l’unica cosa che fece la «sensibilità critica del monto intero» fu di
cadere nel sacco. A partire dalla pubblicazione della Sendung l’anno appresso il
suo presunto rinvenimento, tutti esultarono, compresi niente meno che
Hofmannsthal ed Hermann Hesse, i quali tuttavia almeno dissero che
i Lehrjahre erano senz’altro superiori al romanzo “ritrovato”, ciò che avrebbe
dovuto suscitare interrogativi nella germanistica ma che invece restò lettera
morta.
Don Benedetto “Corleone” Croce, con la consueta boria, arrivò invece a
dichiarare addirittura di preferire la Sendung ai Lehrjahre, ovviamente con le
solite inoppugnabili e oracolari ragioni estetiche. Per intenderci, è come
scambiare di ruolo un Notturno di John Field con un Notturno di Chopin, o una
Cantata d’un qualsiasi Musikanten barocco con una Cantata di Bach.
Con simili precursori era ben prevedibile che nessuno dei nostrani cavalieri
della verità e della cultura si sarebbe posta qualche domanda, e che se anche
avesse subodorato qualcosa, avrebbe tenuta la bocca chiusa: anche perché per
dimostrare il falso avrebbero dovuto schiodare i deretani dalle sedie e
rimboccarsi le maniche. Ma chi glielo avrebbe fatto fare? A parità di stipendio,
è molto più comodo concionare anziché scavare negli archivi e studiare.
Inoltre ciò avrebbe significato dare ragione a un anomalo della cultura
italiana, benché docente universitario, e per giunta non specialista di
germanistica.
Il succitato silenzio, però, è un’ulteriore prova di quanto la tesi di Mathieu
sia fondata. Se ne sia infatti sicuri: se egli avesse scritta una scempiaggine,
lo avrebbero messo della pubblica gogna.
A ogni buon conto, a noi non deve importare troppo la genia di codesti
guastacervelli, ma invece assai di poter accedere a una tesi rivoluzionaria, per
giunta ben scritta, e di aggiungere una decisiva pagina alla biografia di
Goethe.
Bisogna inoltre considerare quanto il lavoro di Mathieu sia d’esempio a chi
voglia impegnarsi con serietà e acribia nella ricerca storico-biografica: un
cammino aspro ma che, se percorso con diligenza e passione, può condurre molto,
molto lontano. Quasi come Wilhelm Meister.
Luca Bistolfi
*In copertina: Goethe contraffatto da Andy Warhol, 1982
L'articolo La frode, ovvero: la scoperta di un falso Goethe da parte di Vittorio
Mathieu proviene da Pangea.
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Se nel Novecento inglese non sono mancati gli esempi di sacerdoti cattolici
votati alla letteratura, come R. H. Benson, Ronald Knox o John Ayscough, di
certo Sylvester Houédard ne è stato il rappresentante più eccentrico, monaco
benedettino e poeta della Beat Generation.
Classe 1924, Pierre-Thomas-Paul Joseph Houédard – Sylvester è il nome assunto da
religioso – era nato a Guernsey, una piccola isola nel canale della Manica, da
una famiglia di origini francesi. Sin da ragazzo dimostrò una non comune
vivacità intellettuale che si associava a una profonda devozione. Nel 1977, in
un articolo per il «Tablet» intitolato Memories of a Catholic Childhood,
raccontò del suo amore di allora per la liturgia latina e di come volentieri
accompagnasse la madre alla messa domenicale.
Rimasto orfano, allo scoppio del Secondo conflitto mondiale fu costretto a
trasferirsi nel Lancashire con il fratello maggiore, pilota della RAF, purtroppo
destinato a morire in combattimento poco tempo dopo. Nel 1941 riuscì a ottenere
l’ingresso al Jesus College di Oxford, dove studiò storia moderna, e venne
nominato presidente della prestigiosa Newman Society, in prima fila nell’animare
la pastorale cattolica in università.
Intanto Houédard iniziava a scorgere nel proprio animo i chiari segnali di una
vocazione religiosa e perciò volle recarsi in visita al monastero di Prinknash,
vicino a Gloucester, dove, di lì a poco, sarebbe entrato come novizio l’amico
Victor Brooke, nipote del famoso generale Lord Alanbrooke.
Sul finire della guerra fu chiamato a operare in Asia per conto
dell’Intelligence e, per un breve periodo, lavorò al Ministero
dell’Alimentazione. Data la pessima calligrafia dovuta alla meningite e
all’artrite reumatoide di cui aveva sofferto da piccolo, finì per essere
costretto a usare sistematicamente la macchina da scrivere: non è esagerato
affermare che senza la scoperta di quel prezioso strumento la sua successiva
carriera d’autore non sarebbe mai iniziata.
Una volta congedato, Houédard ritornò a Oxford per completare il suo percorso di
studi, dopodiché nel 1949 fu libero di indossare l’abito monacale. Prima di
entrare a Prinknash, regalò agli amici ciò che possedeva e a Christopher
Tolkien, terzogenito dell’autore de Il Signore degli Anelli, toccò un bastone da
passeggio in ebano, con un pomello d’avorio finemente intarsiato, che si diceva
fosse appartenuto all’Imperatore d’Abissinia.
Tra il 1951 e il 1954 studiò al Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma,
scrivendo una tesi sulla libertà nell’opera di Sartre, e nel 1959 venne ordinato
sacerdote.
Al di là dei meriti squisitamente ecclesiastici – scrisse di teologia, collaborò
con diverse case editrici cattoliche e curò la pubblicazione, nel 1966,
della Bibbia di Gerusalemme – Houédard si distinse per essere stato tra i
principali interpreti della cosiddetta “poesia concreta” (concrete poetry), una
delle tante manifestazioni artistiche germogliate in seno
al milieucontroculturale degli anni Sessanta e Settanta.
Teorizzata dal brasiliano E. M. de Melo e Castro, la “poesia concreta” sposta
l’attenzione dal contenuto del testo ai suoi elementi costitutivi, che sono
parole, sillabe e fonemi di cui si esalta la dimensione tipografica, variamente
valorizzati mediante la disposizione sul foglio o anche su materiali diversi
dalla carta. L’intento, sulla falsariga delle prove futuriste, è quello di
scomporre il linguaggio tradizionale per donargli una dimensione visiva e sonora
inedita, con un esito che si situa a metà strada tra la letteratura e l’arte
figurativa.
La lettera-manifesto di E. M. de Melo e Castro, apparsa sul «Times Literary
Supplement» nel 1962, incoraggiò un drastico cambio di direzione nella poesia di
Houédard, fino a quel momento limitata a componimenti semi-confessionali in
versi liberi. Le possibilità offerte dalla “poesia concreta” dettero pure un
nuovo contesto agli arabeschi che andava producendo sin dagli anni Quaranta con
la sua fidata macchina da scrivere, una Olivetti Lettera 22.
Houédard realizzò la quasi totalità dei suoi lavori nell’arco di una decina
d’anni, tutti firmati con l’acronimo “dsh” (Dom Sylvester Houédard). Li chiamò
“poemi visivi” o “typestracts”, una crasi tra typewriter e abstractsuggeritagli
dall’amico Edwin Morgan. Fu pertanto molto prolifico, ma solo per un periodo
relativamente limitato, collaborando con numerose riviste, gruppi artistici e
piccole realtà teatrali. Inoltre fu un conferenziere instancabile e le sue opere
vennero esposte sia in Inghilterra che negli Stati Uniti.
Inevitabilmente il suo stato ambiguo di monaco e autore, o, secondo una
fortunata definizione, di «seguace della cultura Beat venuto dal Medioevo», non
mancò di procurare qualche malumore a Prinknash, anche perché il suo legame col
movimento controculturale lo portò a schierarsi politicamente e a occuparsi di
tematiche sessuali in termini un po’ troppo espliciti.
In generale Houédard predicava una visione teologica e artistica la più
inclusiva possibile. Fu un pioniere del dialogo ecumenico, un appassionato
studioso di Islam, di religioni orientali e del mistico Meister Eckhart, e nei
suoi articoli, privi di punteggiatura e zeppi di segni grafici inusuali,
sostenne sempre la necessità di fondere le arti, sintetizzandole in un prodotto
omnicomprensivo. La macchina da scrivere cosmica a cui allude il titolo del
volume curato da Nicola Simpson nel 2012, Notes from the Cosmic Typewriter, ad
oggi lo studio migliore sulla vita e le opere del benedettino, fa appunto
riferimento a una poesia concepita come preghiera, anti-dogmatica, senza limiti,
intesa a cogliere frammenti di quello spirito universale che è Dio.
Sebbene Houédard fosse un tipo schivo, più interessato a sostenere gli scrittori
emergenti che alle luci della ribalta, godette anch’egli del proverbiale quarto
d’ora di celebrità: una sua foto apparve su «Vogue» ed entrò in contatto con un
numero così elevato di letterati e artisti, tra cui Allen Ginsberg, William S.
Burroughs, Jack Kerouac, Yoko Ono e John Cage, che la sua rubrica telefonica
pare contasse quasi tremila nomi. Non è dunque una sorpresa scoprirlo tra gli
spettatori in presenti alla Albert Hall, nel 1965, in occasione della prima
International Poet Incarnation (il suo volto glabro, seminascosto dagli
immancabili occhiali da sole, fa capolino nel filmato dell’evento, The Wholly
Communion, diretto da Peter Whitehead).
Houédard morì nel 1992, all’età di sessantasette anni, e il suo corpo venne
sepolto nel parco del nuovo monastero, dove i benedettini si erano trasferiti
vent’anni prima. Secondo l’ex abate Aldhelm Cameron-Brown, malgrado il
confratello fosse un tipo peculiare,
> «era pur sempre una persona adorabile, ed era dedito alla comunità, anche se
> sentiva che non sempre apprezzavamo quello che stava facendo. […]. A suo modo
> condusse una vita piena di Fede».
Luca Fumagalli
L'articolo «Un Beat venuto dal Medioevo»: storia di Sylvester Houédard, monaco e
poeta proviene da Pangea.
A scuola si ripete spesso che la guerra di Troia è soltanto un episodio del
mito, che non si sarebbe mai svolto nella realtà storica, o almeno non in quelle
dimensioni e certamente non a causa di una donna. Con un titolo un po’
provocatorio, preso in prestito dal più evemerista degli evemeristi, Mauro
Biglino, in questo articolo si cercherà di fare chiarezza.
Già gli antichi avevano notato le numerose incongruenze dei poemi omerici, che
così possiamo riassumere: il re dei Paflagoni Pilemene prima muore in battaglia
(Iliade V, 576) e poi riappare in lutto per il figlio morto (XIII, 643-658); nel
canto IX ai vv. 182-198 c’è una serie di verbi al duale che però si riferisce a
tre personaggi (Odisseo, Aiace e Fenice); nella notte che è oggetto dei canti IX
e X Odisseo cena tre volte e si tengono due consigli notturni dopo che il poeta
ha mandato a dormire i protagonisti; Agamennone regna ora come primus inter
pares, ora come un signore assoluto miceneo; il re dell’Argolide è ora
Agamennone, ora Diomede; la Dolonia (canto X) è un episodio isolato e del tutto
insignificante per la narrazione, peraltro con notevoli problemi esegetici.
Nonostante ciò, nessuno mise mai in dubbio che il conflitto fosse realmente
avvenuto in un’epoca remota della storia greca, anche se la tradizione
storiografica ci fornisce diverse possibili date per la guerra di Troia, che
oscillano tra il 1344 e il 1150 a. C. Quella divenuta canonica è la datazione di
Eratostene (1194-1184 a. C.), mentre Erodoto riferisce che Omero visse 400 anni
prima di lui e che la guerra avvenne 400 anni prima di Omero, quindi
approssimativamente intorno al 1250 a. C.
Come noto, la tesi della storicità della guerra di Troia ricevette importanti
conferme dalle scoperte del tedesco Heinrich Schliemann, che nel 1868 raggiunse
il sito di Hisarlık e nell’aprile 1870 diede inizio agli scavi. A dire il vero,
il sito gli era stato indicato da Frank Calvert, che vi aveva condotto degli
scavi esplorativi tra il 1863 e il 1865, ma all’inglese mancavano le finanze, la
fantasia e le capacità narrative di Schliemann, che finì per oscurarne la
figura. Va detto anche che dell’antica città non si era mai persa la memoria: i
più ritenevano che il sito antico sorgesse al di sotto della città romana
di Ilium (Troia IX, I secolo a. C.-IV secolo d. C.) e della città greca di Ἴλιον
(Troia VIII, 950-I secolo a. C.). In età bizantina, al tempo dell’imperatore
Costantino VII Porfirogenito (913-959), Ilium era stata una piccola sede
arcivescovile e, simbolicamente, l’ultimo a farvi visita era stato il sultano
Maometto II, poco dopo la caduta di Costantinopoli, quasi a simboleggiare la
rivincita dell’Asia sulla Grecia.
Determinato a ritrovare a tutti i costi la città omerica e convinto che
quest’ultima si dovesse trovare necessariamente al di sotto di almeno altri tre
strati (quello romano, quello greco e quello lidio dell’epoca di Omero),
Schliemann scambiò però le mura dell’Età del Bronzo per mura di età classica e
ordinò la distruzione dei primi nove metri della collina di Hisarlık, nonostante
gli inviti a una maggiore prudenza da parte di Calvert. Proprio quand’era sul
punto di abbandonare l’impresa, il 31 maggio 1873 Schliemann s’imbatté in quello
che ribattezzò “tesoro di Priamo”. Soddisfatto del proprio lavoro, l’anno
successivo pubblicò i risultati dei suoi scavi e partì alla volta di Micene.
Malgrado l’enfasi con la quale Schliemann presentò le sue scoperte, nulla era
stato dimostrato: come si è detto, dell’antico sito di Troia non si era mai
persa la memoria, anche se la sua precisa collocazione era ancora ignota.
Generazioni di conquistatori avevano fatto visita al sito: Serse, Alessandro
Magno, Cesare, Adriano, Caracalla e molti altri, ma non mancava chi, come
Erodoto e Strabone, dubitava del racconto omerico. Il fatto che fosse stata
scoperta una città di nome Troia non provava che la guerra si fosse
effettivamente svolta lì.
Come se non bastasse, quando tornò a Hisarlık, nel 1878 e soprattutto nel 1882 e
nel 1890, Schliemann si rese conto che la città che aveva trovato non poteva
coincidere con quella omerica, che doveva invece essere identificata in Troia VI
(1750-1300 a. C.), come proposto dal suo assistente Wilhelm Dörpfeld, che lo
affiancò negli ultimi scavi. Il tesoro di Priamo in realtà era di mille anni più
antico (Troia II, 2550-2300 a. C. circa). Fu una terribile constatazione: per
ironia della sorte, nella sua affannosa ricerca della città omerica, Schliemann
aveva distrutto gran parte dell’evidenza archeologica di quel periodo!
Ammalatosi di tumore, mentre programmava una nuova stagione di scavi alla
ricerca di una città bassa, Schliemann morì a Napoli nei pressi di piazza della
Carità, durante uno dei suoi numerosi soggiorni partenopei.
Grazie al sostegno finanziario della vedova Sophia e del kaiser Guglielmo II,
Dörpfeld poté continuare i lavori per altre due stagioni (1893-1894) e alla fine
riportò alla luce le mura dell’Età del Bronzo (quelle che Schliemann aveva
scambiato per mura di età classica). Si trattava di mura imponenti: erano alte
nove metri, in blocchi calcarei squadrati con elevato in mattoni crudi,
presentavano torri imponenti e cinque porte, la più maestosa delle quali viene
identificata da coloro che credono al racconto omerico con le porte Scee.
Curiosamente, il settore più debole delle mura è quello settentrionale, proprio
come nell’Iliade; inoltre, come si può notare dalla foto, le mura sono
inclinate, il che potrebbe spiegare il fatto che nell’Iliade Patroclo cerchi per
ben quattro volte di scalarle. Si tratta, ovviamente, di semplici suggestioni.
Troia VI: tratto di mura e torre di possibile influsso ittita vicino alla Porta
Est (primo esempio conosciuto di mura a dente di sega); sulla terrazza
adiacente, case di Troia VIIa
Tra il 1932 e il 1938, grazie al sostegno dello stesso Dörpfeld, i lavori
ripresero sotto la direzione di Carl Blegen, dell’università di Cincinnati, le
cui ricerche, però, erano viziate da una sorta di bias di conferma: infatti,
egli era assolutamente convinto della storicità della guerra di Troia. Blegen
notò il crollo delle torri e la caduta delle mura fuori asse e giunse alla
conclusione che Troia VIh era stata distrutta da un terremoto che possiamo
datare ai primi decenni del XIII secolo a. C. Secondo lo storico austriaco Fritz
Schachermeyr, la leggenda del cavallo di Troia conserverebbe proprio la memoria
di questa catastrofe: il cavallo sarebbe soltanto una metafora di Poseidone, dio
del mare e, appunto, dei terremoti. Falsa è, invece, la teoria di Francesco
Tiboni secondo la quale il cavallo di Troia sarebbe stato soltanto una nave
fenicia con protome equina: rappresentazioni del cavallo di Troia sono attestate
nell’iconografia sin dall’VIII secolo a. C.
Se Troia VIh era stata distrutta da un terremoto, la città di Omero non poteva
essere che lo strato successivo, Troia VIIa (1300-1180 a. C.). Blegen notò che
questo strato presentava una maggiore densità abitativa, con muri divisori tra
le case, e interpretò questo fatto come la prova di un assedio prolungato. Ciò
non è affatto scontato: le strutture di Troia VIIa potrebbero essere
interpretate anche come baracche temporanee per ovviare alle distruzioni causate
dal terremoto. Del resto, ad oggi le uniche possibili prove di scontri sono
alcuni resti umani nelle strade, tre punte di frecce, due rinvenute nella
cittadella e una nella città bassa, e una punta di lancia rinvenuta nell’area
occidentale. Una delle punte di frecce trovate nella cittadella potrebbe essere
di fabbricazione micenea, ma neppure questa può essere considerata prova di un
evento bellico: potrebbe trattarsi di una freccia caduta da una faretra o
abbandonata! Infine, Troia VIIa mostra chiari segnali di un incendio, ma tale
incendio potrebbe anche essere attribuito a una catastrofe naturale.
La nuova stagione di scavi, su scala internazionale, è stata inaugurata nel 1988
da Manfred Korfmann, dell’università di Tubinga, e ha coinvolto più di 350
accademici da oltre venti Paesi. Obiettivo principale di Korfmann era
l’individuazione della città bassa. Infatti, la cittadella di Troia ha un
diametro di non più di 200m e copre un’area di appena due ettari: essa avrebbe
potuto ospitare al massimo qualche centinaio di persone. Come si è detto, già
Schliemann aveva in programma lo scavo della fertile piana circostante la
cittadella, ma la morte glielo aveva impedito e Dörpfeld non era riuscito a
ottenere risultati definitivi. Secondo Korfmann, nei livelli che ci interessano
(VI e VIIa) la città bassa si sarebbe estesa per circa 20 ettari e
complessivamente Troia avrebbe avuto una popolazione compresa tra 4000 e 10000
abitanti, o forse anche più se si include la popolazione che potrebbe aver
vissuto al di fuori del perimetro della città, in aree rurali facenti parte del
regno. Nel XIII secolo a. C., il perimetro della città sarebbe stato protetto da
un muro in mattoni crudi e da due fossati con una palizzata, il primo 400m a sud
della cittadella e il secondo altri 100-150m più a sud.
Nel 2001, Korfmann presentò i risultati delle sue ricerche al grande pubblico in
un’esposizione intitolata Troia. Traum und Wirklichkeit, nella quale, tra le
altre cose, veniva mostrata una ricostruzione completa della città bassa. Fu
proprio questo modello ad attirare le aspre critiche di Frank Kolb, suo collega
presso l’università di Tubinga. Purtroppo, tale polemica travalicò i confini
dell’accademia: intervistato dal Berliner Morgenpost, Kolb accusò Korfmann di
ingannare il pubblico con ricostruzioni fantasiose e lo ribattezzò “il von
Däniken dell’archeologia” (Erich von Däniken è un celebre pseudoarcheologo
sostenitore della teoria degli antichi astronauti, ndr). Secondo Kolb, non ci
sarebbe alcuna evidenza dell’esistenza di una città bassa, i due fossati
potrebbero essere dei canali usati a scopo agricolo e, calcolando una
popolazione di 100/200 abitanti per ettaro, se si ipotizzasse un’area di 11-15
ettari si arriverebbe al massimo a 1000-3000 abitanti. Per Kolb, Troia non
presenta alcuna affinità con siti come Efeso e Mileto, è priva di edifici
monumentali e di una pianificazione stradale e assomiglia più a un centro
protourbano isolato che a una città vera e propria (la ceramica importata è solo
l’1%!).
Mentre Schliemann e Blegen erano stati criticati per la loro eccessiva fiducia
nel racconto omerico, paradossalmente Kolb criticò Korfmann proprio facendo
ricorso al cieco cantore. La città ricostruita da Korfmann – dice Kolb – non ha
nulla della monumentalità dell’alta rocca di Priamo: l’edificio più imponente,
la Pillar House di Blegen, non ha nulla a che vedere con le sessanta stanze del
palazzo descritto in Iliade VI, 242-249. Inoltre, essa presenta due cinte
murarie, mentre quella omerica ne ha solo una. Infine, la città di Korfmann ha
una vocazione commerciale, mentre quella omerica è abitata da allevatori,
pastori e costruttori, non da commercianti. Come si può vedere, si tratta di una
tesi facilmente smontabile: Omero è pur sempre un poeta, non un archeologo, e si
può sempre ipotizzare che alla sua epoca il muro in mattoni crudi della città
bassa fosse crollato. Questo eccessivo scetticismo, unito con la volontà di
spiegare la realtà archeologica di Hisarlık attraverso Omero, si è imposto
nell’immaginario collettivo e ha dato adito alle teorie più strampalate:
ex-ingegneri nucleari si sono improvvisati archeologi e ci hanno spiegato che
queste incongruenze sono facilmente risolvibili se si sposta la cittadella di
Priamo 3000 km più a nord e nel XVIII secolo a. C., a Toija, in Finlandia. Un
abbaglio culturale collettivo, quello generato da Omero nel Baltico di Felice
Vinci, che non ha risparmiato illustri classicisti e accademici, primi tra tutti
Rosa Calzecchi Onesti e Umberto Eco (quandoque bonus dormitat Ecus).
Tornando a questioni più serie, la ricerca successiva ha dimostrato, invece, che
questo scetticismo era del tutto ingiustificato. Tra il 15 e il 16 febbraio
2002, l’università di Tubinga organizzò un simposio dal titolo The Meaning of
Troy in the Late Bronze Age, con la partecipazione di 13 relatori, che giunsero
alla conclusione che i dati di Korfmann erano in larga misura validi. La
scarsità di evidenze archeologiche per la città bassa è dovuta all’eccezionalità
delle condizioni del sito di Hisarlık, che è stato in gran parte danneggiato
dall’erosione – come del resto è avvenuto anche alle fasi preistoriche – e
all’asportazione di materiali in età ellenistica e romana. Del resto, meno del
5% del sito è stato scavato! Pertanto, la presenza di una città bassa può essere
solamente dedotta sulla base della presenza di ceramica al di fuori della
cittadella nei periodi VI e VIIa e anche sulla base di un semplice argomento
logico e contrario: l’idea che Troia rappresenti soltanto una residenza
aristocratica non può essere sostenuta perché rappresenterebbe un unicum a
livello archeologico, laddove il sistema di fortificazioni ricostruito da
Korfmann, con fossato, cinta muraria esterna e muro principale, è il più
frequente del mondo antico, dall’Età del Bronzo fino all’età bizantina!
Negli studi più recenti, si ipotizza che la città bassa occupasse un’area
compresa tra 25 e 35 ettari, con circa 5000-6000 abitanti, dimensioni del tutto
compatibili con i centri micenei e con città ittite di medie dimensioni come
Gordion, Alişar, Kuşaklı/Šarišša, Beycesultan e la città-Stato portuale di
Ugarit, il che ne farebbe una potenza regionale. L’idea che i due fossati
avessero uno scopo agricolo non è più sostenibile, anche se è stato dimostrato
che essi non sono contemporanei, ma risalgono a due fasi diverse,
rispettivamente VI e VIIa. A Korfmann è succeduto il collega Pernicka, dal 2006
al 2012, poi Rüstem Aslan dal 2014. Quest’ultimo ha riportato alla luce un
ulteriore livello precedente a tutti gli altri, Troia 0 (3500-3000 a. C.).
Complessivamente, sono stati riportati alla luce undici diversi livelli,
suddivisi a loro volta in oltre cinquanta fasi: Troia 0 (3500-3000 a. C.), Troia
I (3000-2550 a. C.), Troia II (2550-2300 a. C.), Troia III (2300-2200 a. C.),
Troia IV (2200-2000 a. C.), Troia V (2000-1750 a. C.), Troia VI (1750-1300 a.
C.), Troia VIIa (1300-1180 a. C.), Troia VIIb (1180-1000 a. C.), Troia VIII (=
Ἴλιον, 950-I secolo a. C.), Troia IX (I secolo a. C.- IV secolo d. C.) e Troia X
(dopo il IV secolo d. C.).
Christian Allasino
*In copertina: Henry Fuseli, Frammenti dall’Iliade, da un quaderno di schizzi
L'articolo Gli antichi non raccontavano favole. Il mito di Troia e il sito di
Hisarlık proviene da Pangea.