Per vertigine, per vocalità d’abisso, Veronica Tomassini è tra i grandi
scrittori – non c’è genere nel generare l’opera, nella sua seminagione nelle
nostre boccucce pulcine – del tempo presente. Da tempo incorporata nel catalogo
de La Nave di Teseo – L’inganno, la ristampa di Sangue di cane –, da tempo
Veronica Tomassini scrive storie che scartavetrano l’era, storie turgide di
cristalli, di cuori taurini. Per gioco: paragonate la sua scrittura a quella
degli attuali autori dello Strega – ne sarete, autenticamente, stregati, quando
non sopraffatti. Ad ogni modo. Transeuropa Edizioni ha invitato Veronica
Tomassini a partecipare alla prima residenza creativa ordita dalla casa
editrice, con sede a Massa. Veronica ha accettato, il programma è questo: sabato
14 giugno “lettura condivisa e riflessione aperta al pubblico” nello Spazio
Transeuropa (ore 17.30, con Giorgiomaria Cornelio); sabato 28 e domenica 29
giugno, “laboratorio intensivo di ‘scrittura del sé’” con Veronica Tomassini e
Giulio Milani (informazioni del caso, qui: info@transeuropaedizioni.it; tel.
0585/1690324). La residenza è possibile grazie all’impegno, tra l’altro,
della Scuola Colombre di Paolo Bianchi e Annarita Briganti, che ha ‘costretto’
l’autrice a dissigillare la reclusione in cui vive.
L’esito della residenza sarà la scrittura e la pubblicazione di un pamphlet, Il
Roveto ardente, di cui, per gentile concessione, pubblichiamo un brano.
***
Il Roveto ardente
Scrivere è un lungo viaggio in treno, la noia del paesaggio frugato oltre il
finestrino, ingannato dalla nostra visione che tramonta su un poggio lontano, un
poggio che forse non esiste. Eppure è vivo, ardito, fremente. E la nostalgia
piomba su di esso quasi a cercarvi riparo o conforto o diremmo ancor meglio:
consolazione. Perché la nostalgia? Di chi, di cosa? Cosa indaga, o ancor prima,
quale regola morale governa la scrittura, o la visione, o la ricerca di solito
tormentata della verità, non di una qualche verità.
Io comincio da qui. Questa è la mia poetica. Prima ancora che la cosiddetta
pedestre tendenza al tremendismo, il mio vizio soggiace al modo di una ancella
che servilmente vorrebbe adornare il suo sovrano di umiltà e devozione, o
soltanto restandogli fedele.
La vita si è poi dimostrata complice, costellata da diverse stazioni in cui il
destino pareva soprassedere e non costruire. Come recitava Jaromil il poeta
ne La Vita è altrove di Milan Kundera: sembrava che avesse smesso di costruire
le sue stazioni. Nella desolazione dell’evidenza, la tragicità di un qualche
avvenimento, tuttavia il destino precipitava ancora a fornire altre
provocazioni, un folto bosco di pretesti per non sfuggirgli e a tentoni avanzare
nell’identico sentiero che conduceva, avrebbe dovuto perlomeno, non a una
qualche verità, ma alla sola, o al suo esecutore immaginifico e lucente, il
sovrano e il fanciullo. Innocenza e regalità. Purezza e autorevolezza. I chiodi
della scrittura.
Il compito in realtà si sarebbe rivelato molto tardi, non convalidando la vita e
i suoi avvenimenti esagerati e universali, scegliendo di fatto me, incapace,
l’eroe capovolto di Gogol’, ma appena meno, non in grado di suscitare la
commozione di un dolore epico, nemmeno quando da grottesco riusciva
terribilmente elevato, io ero soltanto o perlopiù una testimone. Testimone del
dolore epico universale. Non mio, non esattamente mio, alla fine del quale
trovavo l’altro, l’eroe mirgorodiano, capace di ingenerare il riso con il suono
del singhiozzo.
La scrittura era l’estenuante infinito viaggio in treno che affrontavo da
bambina per raggiungere i nonni all’altro capo dello stivale. Erano le lettere
noiose che galleggiavano davanti ai miei occhi fissi sugli scare dei vagoni: ne
pas se pencher au dehors. Riflessioni oniriche più che un’indagine tonda e
maniacale che perdeva senso mano mano che il tedio avanzava con le gallerie e il
disordine sonoro e monotematico delle rotaie. A starci dentro nell’esercizio
pedestre si finiva però per sorprendere una luce improvvisa, un pensiero
impetuoso e brevissimo che sarebbe fuggito anch’esso probabilmente a riparare
nel poggio di cui vi dicevo sopra, vibrante e inesistente.
Tuttavia sarebbe stata la vita a manifestarsi, venirmi in soccorso, presentarsi
sotto la forma della parola, al seguito di vicende spostate violentemente ai
margini dal resto, dai militanti del perbenismo, conclave sociale oramai fuori
moda. E sulla soglia della marginalità, la parola si edificava, ergeva
mirabolanti possibilità, costruzioni difficilissime da smontare, intoccabili,
inscalfibili. Non riuscivo a chiamarlo destino anche quello, un fenomeno
duttile, mobile, immeritato.
E nondimeno lo era.
Veronica Tomassini
*In copertina: Georges Rouault, lettera con volto di Cristo, 1930; “Se penso
alla pittura penso a Rouault. Non ai colori strozzati, urlati, dei fauves. Ma
alla sua pietà mista all’ira per il derelitto” (Veronica Tomassini)
L'articolo “Purezza e autorevolezza. I chiodi della scrittura”. Veronica
Tomassini ospite di Transeuropa proviene da Pangea.