Nel 1943 uno scrittore pressoché sconosciuto, René Barjavel, pubblica il romanzo
del secolo e inventa – pressoché dal nulla – la fantascienza
francese. Ravage uscì per Denoël, l’editore di Céline e di Mussolini (Le
Fascisme: doctrine, institutions esce nel ’33), del collaborazionista Lucien
Rebatet e del comunista Louis Aragon. Nel romanzo – edito nel 1957 in Italia
come Diluvio di fuoco, nell’‘Urania’ Mondadori, poi, in nuova traduzione, nel
2019, per L’Orma, come Sfacelo –, ambientato in un ipertecnologico oggi datato
2052, si racconta il collasso di una civiltà, stordita da eccesso di progresso:
il disastro comincia con un black out… Nato in provincia, a Nyons, Barjavel era
cresciuto leggendo Balzac e le avventure di Nick Carter, integerrimo
investigatore americano. Aveva fatto diversi lavori – dall’impiegato in banca
all’agente immobiliare –, aveva dedicato il suo primo saggio a Colette: Denoël
scelse di prenderlo nelle sue grazie. Durante la guerra, intruppato tra gli
zuavi, lavorava in cucina, serviva il rancio; scrisse Ravage nei torbidi
dell’occupazione. A Parigi, viveva al settimo piano, scalfito dallo scalpiccio
dei piccioni.
Il libro, costantemente ripubblicato, distopico attacco ai paladini del
progresso, ebbe successo – il suo autore fu messo alla gogna. In Ravage – l’inno
alla natura, la messa al bando della scienza – qualcuno vide un oscuro elogio
pétainista; d’altronde, Barjavel aveva pubblicato sulla rivista
collaborazionista “Je suis partout”. Inserito nella lista nera dal “Comité
national des écrivains”, fu scagionato da ogni accusa. Un paio di altri romanzi
di successo – Tarendol, 1946 e Le diable l’emporte, 1948 – gli aprirono le porte
del cinema. René Barjaval è conosciuto, oltre che per aver ‘inventato’ la sci-fi
francese, per le sceneggiature di “Don Camillo”, il ciclo filmato da Julien
Duviver. Tra l’altro, ha ridotto I miserabili per la resa filmica di Jean-Paul
Le Chanois (era il 1958, Jean Gabin protagonista), ha tradotto i dialoghi
del Gattopardo per la versione francese del capolavoro di Visconti.
Ma questa è aneddotica.
Un evento, in particolare, smuove la vita di Barjavel: l’incontro, all’epoca di
Vichy, con Gurdjieff. Così lo scrittore ne ha detto a Louis Pauwels:
> “Lo incontrai una volta soltanto, a Parigi, durante l’occupazione, a una delle
> cene in cui era contornato di discepoli. Eravamo dieci persone al tavolo. Lui
> sogghignò. Gli piaceva mettere in imbarazzo chi gli si avvicinava per la prima
> volta, così mi offrì una cipolla cruda da mangiare. Ignorava che venissi dalla
> campagna: per ma la cipolla è una delizia. Ad ogni modo, quella era un po’
> marcia. Non rividi più Gurdjieff. Perché? Mancanza di tempo, mancanza di
> soldi, due bimbi piccoli da mantenere, insomma, le solite preoccupazioni
> materiali che mettono a tacere quelle spirituali. Gurdjieff aveva un
> temperamento vulcanico: era una montagna ruggente – preferii arrestarmi al
> ruscello che scorreva intorno a essa. È successo tanto tempo fa. Ma so di aver
> bevuto alla fonte della verità, la verità da cui sgorga tutta la saggezza del
> mondo, da dove si sono formate tutte le religioni”.
Benché continuasse a dirsi “una merda” al cospetto della purezza gurdjieffiana,
tentò una via di luce. Nel 1950, lo scrittore annota nel diario una frase
gravida di conseguenze:
> “Dio ha fatto l’uomo a sua immagine, ma lo ha plasmato dal fango, che
> contiene, in potenza, ogni putrefazione. Eppure, lo ha pesato sulla stessa
> bilancia degli spiriti puri. Questa è vera giustizia. Se un uomo vuole restare
> in Paradiso – o desidera entrarvi – deve purificarsi dal fango di cui è
> fatto”.
Per un po’, René Barjavel frequentò Daumal e Lanza del Vasto. Nel 1966
pubblica La faim du tigre, un libro anomalo, che sfida l’assurdo di esistere, o
meglio, l’assurdità dell’uomo di credersi al centro del cosmo. Continuamente
riedito – l’ultima edizione esce nel 2020 per Gallimard – il libro è figlio
della nobile tradizione aforistica francese (si avverte, in particolare, un
sentore di Alain), tuttavia, ha un’inattuale singolarità, inattingibile.
Barjavel mescola teologia e biologia, carne e mente, parola dei primordi e
trafitture alla Marco Aurelio. Alcuni hanno tentato di edificare su quel
panorama un tempio, una religiosità postumana. Me lo ha mostrato un ragazzo che
viene dal Belgio; ama scrivere e in un suo racconto, con stile leggiadro,
impaniato di humor nero, narra di una ragazza che offre ai familiari, per il
cenone natalizio, il proprio fidanzato, imbandito come un tacchino.
Nei decenni, Barjavel non si farà ingabbiare dal pensiero dominante: a Sartre –
“il borghese che ama le masse popolari” – preferiva Ray Bradbury. Scrisse che
> “Un leader di partito, di destra come di sinistra, o un militante ambizioso,
> non presenta mai i fatti come sono ma come gli possono essere utili. Se gli si
> pone una domanda specifica su un punto specifico, risponde a bruciapelo.
> Sembra che abbia risposto, ma non ha detto nulla. Mente appena apre bocca. Non
> può fare altrimenti perché la menzogna è il suo respiro. È così imbevuto delle
> sue menzogne e di quelle dei suoi compagni e di quelle dei suoi avversari, che
> non sa più nulla della verità, anzi, non crede che esista una verità”.
I comunisti attesero la sua morte per fargli lo scalpo. René Barjavel morì il 24
novembre del 1985; “professava le idee della destra più estrema”, scrisse nel
‘coccodrillo’ “L’Humanité”, “benché indossasse gli occhiali, restò cieco al
senso della storia, alle sorti dei suoi concittadini”. Barjavel avrebbe riso;
detestava i colpi bassi, ma in fondo – lo aveva scritto lui – è la legge della
vita: polline, copula, cianciare di cince, brevi licenze, liceali licenziosità,
lotte e attorialità prima della cenere, della carcassa, dello sparire
nell’impasto del mondo. Nel 1978 aveva scritto un feroce pamphlet contro le armi
nucleari che andrebbe letto oggi, s’intitola (ed è tutto detto) Lettre ouverte
aux vivants qui veulent le rester. “Ho i miei talenti e i miei limiti. Ho
camminato con le ossa e i muscoli dei miei antenati, con l’addestramento che mi
hanno offerto i miei maestri. Ho cercato di non nuocere, di essere utile. Che
ciascuno faccia lo stesso”, scrisse in La charrette bleue. I genitori, di
origine protestante, era fornai – per tutta la vita, Barjavel si era vantato di
saper fare il pane. Un dettaglio non secondario per spiegare la sua scrittura.
**
Da “Fame di tigre”
La primavera non sarà mai la mia abitudine. Anno dopo anno, mi sorprende e mi
meraviglia. L’età non può nulla, né l’accumulo di dubbi e di amarezze. Non
appena il castagno si illumina di frutti e gli uccelli cantano, il mio cuore
germoglia come una gemma. È certo: tutto andrà bene, l’inverno è un incidente,
causa della nostra lasciva goffaggine; aprile e maggio non ci sfuggiranno più.
Il cielo è limpido, nobili le nubi, l’aria è libera da liquami gassosi, nessuno
uccide gli agnelli e le rondini sono libere; il tiglio fiorirà accogliendo le
api, le rose sbocceranno e l’usignolo, questa notte, ci ricorderà che il mondo
giace nella gioia. Tutto ricomincia con entusiasmo nuovo; questa volta, tutto
avrà successo, culminerà in uno scopo. Sono più giovane di un anno. No, non di
un solo anno: la mia vita, intera, è giovane. Sono anch’io la primavera che
sorge.
Ecco, la grande annuale illusione. Il regno vegetale è il primo a cadervi. Con
una perfetta esplosione, miliardi di alberi e di piante emergono, mirabili gli
steli, miracolose le foglie, non c’è alcun motivo perché non siano eterne.
Eppure, nell’altra metà del mondo è autunno: le meraviglie vengono gettate al
suolo, l’inverno le farà marcire. Ma per noi, prossimi alla primavera, l’autunno
è improbabile e l’inverno non è più reale della morte. Il castagno è bianco come
il fiore della comunione, il pesco è una fiammata rosa, il lillà è una torcia.
In tutti i giardini, nei campi e nei boschi, nei coltivi e nei lembi selvaggi,
non c’è centimetro di terra in cui non si dispieghi in prodigiosi modi l’amore
silenzioso e lento delle piante. Ciascun fiore è un sesso. Non ci pensi quando
annusi la rosa? Il pesco fa l’amore con sé tramite i suoi fiori; l’erba fa lo
stesso, i campi sono immersi nell’amore. In metà del mondo, in poche settimane,
piante e alberi rilasciano miliardi di tonnellate di polline – la maggior parte
si disperde nel vento. Alcuni, grazie alla brezza o all’opera degli insetti,
raggiungeranno l’erezione congelata del pistillo, feconderanno gli ovuli. Perché
la vita continui.
Nelle foreste e nelle savane, sotto le pietre, sotto le cortecce, negli
antefatti della terra, negli anfratti del vento, tutte le specie animali,
dall’acaro all’elefante, gettano i maschi perché afferrino le femmine. In ogni
pozza d’acqua, negli stagni, nei fiumi, negli oceani, le femmine del pesce
depongono miliardi di uova su cui i maschi spargeranno il seme. Per alcuni
giorni, le acque non saranno che rimescolamento seminale. Gli avanotti sbucano a
grappoli, la loro ingenua agitazione attira mascelle fameliche. In molti vengono
inghiottiti, risucchiati e digeriti nei primi istanti di vita. Alcuni
matureranno in pesci, deponendo uova, a loro volta, prima di essere catturati e
uccisi. Alcuni.
Abbastanza, perché la vita continui.
*
Ogni essere vivente, in sostanza, è un organo di riproduzione. Gli organi
associati esistono soltanto per consentirgli di sopravvivere e compiere la sua
missione.
La materia vivente non ha altra ragion d’essere che espandersi nello spazio e
perpetuarsi nel tempo. Le specie incaricate di assicurare questa doppia
espansione non hanno possibilità di sottrarvisi: la loro esistenza ne è succube
con la stessa freddezza di un filo di piombo teso dal grave, dalla gravità.
Anche se il vento lo muove, il filo torna sempre in verticale, oscilla prima di
rientrare nel suo stato.
*
L’uomo ha di fronte a sé due destini possibili: morire nella culla, o per
propria scelta, per un’efferatezza del genio o per un eccesso di stupidità,
oppure slanciarsi, correre nell’eternità del tempo, verso lo spazio infinito, e
perpetuare la vita, libera dall’assassinio.
La scelta spetta al domani. Potresti averla già fatta.
*
L’individuo non si è fatto da sé, non ha voluto la vita, la vita continua senza
l’aiuto della sua volontà. Non esiste perché lo vuole, in alcun momento. La vita
è indipendente dalla sua coscienza; non sono le decisioni dell’individuo a
mantenerlo in vita. La sua intelligenza è misera, instabile la veggenza, enorme
l’ignoranza: se un individuo diventasse interamente responsabile del proprio
corpo, affonderebbe nel disordine e nella decomposizione. Il governo di un mondo
complesso come il corpo umano richiede una conoscenza totale delle leggi
dell’universo. Richiede vigilanza perpetua, attenzione ininterrotta, capacità di
coordinare ogni parte dell’organismo. Tutto ciò è al di sopra delle possibilità
della comprensione umana.
L’uomo è alloggiato in se stesso come un passeggero incompetente.
Per la maggior parte delle religioni, il suicidio è considerato il peggiore dei
peccati e provoca sempre, tra le persone prossime a chi lo commette, uno stupore
misto a orrore. È un intervento dell’individuo in uno spazio non suo.
L’omicidio, per certi versi, è meno grave: forse è biologicamente normale che un
individuo causi la morte di altri individui, come è normale essere la ragione di
altre nascite. Ma non della sua.
*
La fame della tigre è pari alla fame dell’agnello. È la fame naturale e
implacabile – eppure, dolorosa – di vivere. È questo appetito mai sazio a
provocare le atrocità quotidiane, e a permettere di sopportarle; è questo
appetito che perpetua, da sempre e per sempre, il sinistro teatro del mondo,
dove avvengono sofferenza e crimine, terrore e schiavitù, a cui solo la morte
può porre fine. La fame della tigre è infine e soprattutto la rabbiosa ricerca
della ragione per cui, in questo sordido cinismo, a punteggiare questa tragedia,
esistano la grazia, la bellezza, l’innocenza e l’amore.
*
Prodotto dalla trasformazione della cellula iniziale e dall’attività di miliardi
di cellule, l’uomo non interviene in alcun momento per dirigere il loro lavoro.
L’uomo è il risultato di tale maestria, non il maestro. Se le maltratta, le
avvelena, le soffoca e le mutila, le cellule si arrangiano come possono.
Quando sopravviene la morte dell’individuo, quando la materia vivente si
decompone e ritorna agli elementi, una di queste cellule, o due o più tra
miliardi, si stacca dall’individuo e trasmette nuova vita. L’individuo serve a
questo scopo: è garante che la vita continui. Per la propria infima parte, serve
a mantenere l’enorme corrente che trasporta le creature nel tempo e nello
spazio.
Incapace di autodeterminarsi e di dirigersi, ignaro della propria direzione,
l’essere umano possiede solo in apparenza una vita indipendente. La sua
esistenza individuale, in effetti, è un imbroglio.
René Barjavel
L'articolo “Perché la vita continui”. René Barjavel, lo scrittore che sapeva
fare il pane e ha inventato la fantascienza francese proviene da Pangea.
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La storia della letteratura è costellata di nomi invisi alla critica e destinati
a un immeritato oblio. Spesso scavalcati dalle righe antologiche, censurati o
macchiati dallo stigma di un castigo morale imposto dalla propria epoca, la cui
eco grava a tutt’oggi sulla loro eredità artistica, costituiscono un lavoro
avventuroso – e quanto mai necessario – per molti esegeti. È certamente questo
il caso di Jacques d’Adelswärd-Fersen, il poeta barone francese ritratto con
scrupolosa attenzione da Roger Peyrefitte – autore delle pubescenti Amitiés
particulières (1943) – ne L’Exilé de Capri[1] (Edizioni La Conchiglia, Capri
2020).
Dalla precisione di un testamento, la biografia romanzata rende omaggio a uno
scrittore considerato assai controverso, oltretutto ancora poco noto,
restituendo al contempo l’affresco di un mondo perduto, quello dei primi del
Novecento, al confine tra Italia e Oltralpe.
Nella prefazione al romanzo, un impietoso Jean Cocteau lo etichettava
ingiustamente come «Eros Apteros». Per dirla col Vate, il
disdegnato maudit incarnava una sorta di Cupido «larvato e senz’ali» (Il Fuoco,
1900), una razza di impotente lirico al quale sono state tarpate le ali alla
nascita, che è riuscito tuttavia a tramutare la propria vita in un’opera
d’arte. Sotto questa luce, l’elegante damerino della Belle Époque rassomiglia a
prima vista a “uno di quei personaggi emersi direttamente dalla letteratura, uno
di quei protagonisti tipici che non è difficile incontrare in certi libri di
Baudelaire e di Flaubert, una via di mezzo tra Dorian Gray e Andrea
Sperelli.”[2]
Eppure, colui che fu definito a suo tempo un «Oscar Wilde au petit pied»[3] era
in realtà molto più complesso dell’esteta apollineo modellato sullo stereotipo.
Come ribadisce il suo più tenace studioso Gianpaolo Furgiuele (Jacques
d’Adelswärd-Fersen. La cospirazione delle sirene[4], Ladolfi, 2021), promotore
di una riscoperta del talento artistico così come della assoluta modernità della
voce – coraggiosa, vibrante e fuori da ogni regola – di questo «ultimo dandy»
della sua generazione, Jacques Fersen è stato testimone di un Decadentismo ormai
agli sgoccioli ed è riuscito ad attirare attorno alla sua figura una colonia di
artisti e intellettuali rinnegati in patria.
Poeta mercuriale e ramingo, compose versi carichi di spleen poggiandosi su
eclettiche commistioni metriche. Il sogno irrealizzabile di ritorno al
paganesimo in un mondo di pregiudizi lo avrebbe perlomeno elevato al ruolo di
cantore del passato classico. Non esente dall’invettiva polemica, in aperta
sfida delle convenzioni, fu anche direttore di una delle prime riviste europee a
carattere marcatamente omosessuale, la “Revue Mensuelle d’Art Libre et de
Critique” (in vita un anno, 1909), che raccolse, tra gli altri, contributi di
Anatole France, Achille Essebac, Colette e del nostro Tommaso Marinetti.
Finito ben presto sulle liste di proscrizione francesi come “persona non grata”,
il beniamino diurno dei salotti mondani, schiavo di orde fameliche di ragazzi
(tra cui molti minorenni) e libertino sfrenato durante la notte, pensò bene di
lanciare una satira alla «maschera infiacchita e grottesca» della società
benpensante, la stessa che l’aveva condannato – in modo non dissimile dal caso
wildiano in Inghilterra – per oltraggio alla morale pubblica, in Voi siete i
borghesi:
> “[…] Contro un male sconosciuto
> Mettete alla porta Ganimede, e nudo,
> Benché segretamente ne conserviate la brama;
> Insensati, pensate di avere un gesto d’artisti
> E vi scagliate sui nostri pretesi vizi.
> Credete di cancellare il riso di Narciso,
> Scapini che non siete, valletti di Cesare?”
In seguito agli scandali delle sue “Messe nere” (difese in Lord
Lyllian[5], 1905) – nient’altro che innocenti tableaux vivants più che cortei di
giovinetti in panni di efebi – inscenate nei suoi appartamenti parigini, si
rifugiò in esilio volontario nella terra del Grand Tour, da qui alla volta di
Napoli fino a Capri. Nel 1904 tornava sull’isola dei piaceri segreti della sua
giovinezza, a cui era stato iniziato dal nobile Robert de Tournel, immortalata
da Norman Douglas[6] in Vento del Sud (1917) e da Compton McKenzie[7] nel
romanzo caprese Le vestali del fuoco (1927). Intorno a lui, i contemporanei
conosciuti sul posto, vittime sofisticate dell’etica nordica che popolano
l’aneddotica del sogno italiano d’inizio secolo, erano le “sorelle”
Walcott-Perry – le inquiline saffiche di Villa Torricella – al braccio
dell’amatissima marchesa Casati (detta la Semiramide), la principessa Ephi
Lovatelli e Godfrey Henry Thornton, l’ufficiale in congedo coinvolto in
malaffari con giovanotti locali, tutti invitati speciali ai suoi festini, dove
passò la crème de la crème di quegli anni.
L’episodio, riportato da Peyrefitte, che imprime la parabola all’intera storia,
reale e immaginaria, del giovane aristocratico fu però l’incontro folgorante con
gli sventurati amanti inglesi, ‘Bosie’ Douglas e Wilde (appena liberato da
Reading), apparsi in un breve cameo vacanziero del 1897, quando questi ultimi
vennero cacciati dal ristorante Quisisana:
> “Robert gli prese la mano sotto la tovaglia. ‘Calmatevi, ragazzo mio,
> calmatevi.’ Con aria ironica, il giovane Lord toccò la spalla del maître
> d’hôtel con il suo bastone. ‘Vi faccio i miei complimenti in nome
> dell’Inghilterra’, disse. Se ne andò con il suo amico e gli ospiti tornarono a
> sedersi, senza domandargli spiegazione per quelle parole. Negli occhi di
> Jacques brillavano le lacrime, e le aveva viste brillare in quelli di Oscar
> Wilde”.
Dopo un turbinoso giro del Mediterraneo, il tragico Fersen – spogliatosi del
primo cognome d’alto lignaggio – oserà scappare definitivamente sull’isola blu
con l’amato Nino Cesarini, un manovale quindicenne conosciuto per le vie
dell’Urbe e «più bello della luce di Roma», perfetto per gli scatti iconici dei
fotografi Plüschow e Von Gloeden. Assunto il piccolo Adone come “segretario”
privato, a tratti algido eppure fedele in lunghi pellegrinaggi orientali e
divertimenti oppiacei, l’illustrissimo conte (così per gli amici) creò a
Capri il suo paradiso artificiale: un paesaggio «infernale e divino insieme», ma
anche un riparo fatto di silenzio e pace per poter scrivere e amare come
desiderava, senza ostacoli di perbenismo borghese o riprovazione di sorta. Per
coltivare le sue passioni più intime, fece costruire su un eremo dell’isola una
magnifica residenza in stile rocaille, «sacra al dolore e all’amore»,
ribattezzata poi Villa Lysis da La Gloriette. Un tempio d’amicizia platonica,
divenuto il simbolo di una personale Acropoli della bellezza, comunicante con la
gloriosa Villa Jovis di Tiberio (due passi più in alto), dove riceveva file di
accoliti.
Allo stesso tempo, l’amara realtà lo risvegliava col fardello di un’angoscia
insaziabile derivata in gran parte dall’ostracismo sociale. Nell’autunno 1923,
recluso dentro il suo fumoir sotterraneo, dal cuore stanco di ogni frenesia e
reprobo degli isolani, ingiuriato a più riprese dalla stampa scandalistica in
quanto omosessuale e “mangiatore di oppio”, decise di tagliare corto con
un’overdose di coca affondata in un bicchiere di champagne.
Gli ultimi fleurs du mal, sparsi come anatemi sugli altari dell’invocato Angelo
della morte, fanno eco alle litanie di Lionel Johnson (The Dark Angel, 1894),
mentre cade allucinato:
“O bell’Angelo del male che vivi nelle tenebre
Per esaltarmi la dolcezza dell’amore maledetto;
Angelo triste, esule dai divini paradisi,
Quale ombra serra il tuo funebre sorriso?
Eppure, hai conosciuto i baci più sanguinanti,
L’abbraccio urlante e tenero dei giovani.
In te si è riflesso il loro più bel sonno
Come il chiaro di luna in mare nelle sere dei poeti.
I fanciulli ti hanno offerto la freschezza della loro bocca
E la loro anima innocente in cui tremava l’ignoto.
Il mondo intero ha vibrato nelle tue braccia nude
Sul tuo ventre, O Satana, che sogghigni truce,
Perché tu passi, vai, disprezzi, muori, rinasci,
Spazzando la terra con le tue ali,
Mentre si prova, nell’eterno errore, a colmare
Attraverso un dio il vuoto dei nostri cuori.”
Nella sua casa dell’anima, a distanza di più di cent’anni, lo spettro
malinconico del barone sembra risalire dai marosi e aleggiare tra le stanze
desolate, sopra gli occhi dei visitatori che in ogni stagione accorrono a
quell’antica dimora attratti dalla sua fama. La targa apposta a strapiombo
sull’azzurro intorno alla villa, da lui consacrata «alla gioventù d’amore», reca
il monito di una vita consumata al limite della vertigine. Dopotutto, come detta
la Morante nella vicina Achilleide, fuori del limbo non v’è eliso.
Pierluigi Piscopo
*****
Messi da parte i versi della maturità, si propone qui una manciata di poesie
giovanili di Jacques Fersen, tratte da L’innario di Adone: alla maniera del
signor marchese de Sade (1902), dove la tipica provocazione del verbo si
stempera in un’insueta dolcezza, con echi ai maestri simbolisti e decadenti
prediletti, da Rimbaud a d’Aurevilly.
L’innario di Adone (Proemio)
Per le aurore d’oro dove l’erba giace addormentata
Sotto la rugiada caduta dalle labbra della notte,
Per le aurore d’oro quando canti amici
Si svegliano nei nidi con un frullo d’ali e di voci,
Son partito leggero, più leggero d’un capro,
Attraverso i campi arati e i boschi tremanti,
Con nastri chiari e munito d’un arco in legno bianco,
Per venire a conquistare, O giovane Adone, la tua bocca!
Udivo i richiami dei fiori e dei pastori,
– il riflesso del tuo sorriso negli stagni che attraversavo –
E qua e là dei canti modulati da lire,
Le uniche a celebrare la tua viva dolcezza.
Vedevo fanciulli, come me, mormorare
Parole d’amore alle tue statue, a cui rassomigli;
Offrendo lillà, profumi e latte.
E tutto ciò vagando, bello, fra i verzieri.
E il cielo infinito, quel cielo dei templi ellenici,
Che rende gli Dèi più belli e le preghiere più caste,
Stendeva sui tuoi proseliti un velo di luce,
Dove i cuori crepitavano come legna secca al fuoco.
Ma a sera, triste e dolce, tornai più fedele,
Meno gioioso e più calmo, ch’avevo dentro al cuore
Il fermento sconosciuto dei dolori divini
Con cui tu sai domare gli schiavi ribelli:
I campi lontani lasciavano svolazzi nell’oblio
Tra fuochi brillanti sulle alte montagne,
Un riposo virgiliano accarezzava i campi
E io mi sentivo puro, il male annientato.
I miti antichi in cui avevi creato il tuo Impero
Palpitavano nella mia carne con vaga sorpresa;
Avrei voluto morire di un bacio nel momento
Di quella sera mesta e dolce come l’inizio di un delirio!
Per ciò mi trovo qui, in lacrime ai tuoi piedi,
Ai tuoi piedi più setosi dell’ala di una colomba,
Per offrirti il mio cuore come una coppa cadente
Satolla dei frutti vermigli raccolti dal pastore.
E ti offro le mie grida, i miei sogni, la mia supplica,
Deboli lamenti d’amore in baci di sillabe,
Sogni infantili simili al cielo roseo
E la mia bocca umida per proferire questi inni!
*
Innocenza
Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa,
I nostri cuori bambini han spiegato le ali,
Sogni confusi, ignari d’ogni nevrosi,
Li han fatti tremare come tortorelle;
Sugli occhi addormentati, sulle manine richiuse,
La lampada notturna ha posato il suo chiarore,
E sulle labbra inebriate da una preghiera pia,
I nostri piccoli cuori bambini sanno che Dio li chiama.
A momenti, come il suono di una viola lontana,
Che vibra sulla pace di candide visioni,
Un brivido, un sospiro infantile si diffonde
Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa.
*
Schoolboy
Era un liceo vecchio e cupo,
Mi ricordo, e come mi ricordo…
Nei miei occhi calarono le ombre,
La prima volta che vi entrai,
Il direttore era austero e duro,
Mi pareva un Dio,
E quando dovetti dire addio,
Separandomi dalla mamma,
Il mio cuore bambino non osò
Gridare dolore né incertezza,
Proseguii da solo sul selciato,
Fra ricordi di antiche carezze.
Un ragazzino mi condusse in aula,
Tutti a fissare il novizio,
Credendolo un vitellino,
E da solo trovai un posto.
Aprii un libro a caso,
Sentendo ronzare nella testa,
I giorni andati, come tamburi,
Che mi cantavano il caro abbandono.
Rivedevo la casa serrata,
Il grande sole la riscaldava,
E il giardino tremante
Di uccelli, insetti e rose.
Allora, non appena una lacrima
Stillò lungo il viso,
Per evitare scherni
E risate sulla mia tristezza,
Cercai qualcosa da scrivere
Laggiù, alla mia cara mamma,
Da scrivere a singhiozzi,
Che mi annoio senza il suo sorriso!
*Le traduzioni delle poesie in calce sono di Pierluigi Piscopo. Per le citazioni
dalle opere restanti, si fa riferimento al romanzo di Roger Peyrefitte e ai
volumi su Jacques Fersen indicati in bibliografia.
Bibliografia consigliata:
J. Fersen, Amori et dolori sacrum, La Conchiglia, Capri 1990 (prefazione di
Roger Peyrefitte).
F. Esposito, I misteri di villa Lysis. Testamento e morte del barone Jacques
Fersen, La Conchiglia, Capri 1996.
R. Ciuni, I peccati di Capri, Longanesi, Milano 1998.
J. Fersen, E il fuoco si spense sul mare…, La Conchiglia, Capri 2005.
AA. VV., À la jeunesse d’amour. Villa Lysis a Capri: 1905-2005, La Conchiglia,
Capri 2005.
T.M. Pellicanò, Villa Lysis, Abrabooks, 2021.
C.M. d’Ambrosìa, Nino, il sole di Roma, la luna di Capri. Vita reale ed
immaginata di Nino Cesarini, La Conchiglia, Capri 2023.
*In copertina: Jacques d’Adelswärd-Fersen nel 1901
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[1] https://laconchigliacapri.it/prodotto/lesule-di-capri-2/
[2] https://caprinews.it/?p=22986
[3] Philip J., Pourriture, in «L’Aurore», 14 luglio 1904, p. 1.
[4]https://www.ladolfieditore.it/index.php/it/catalogo/agata/jacques-d-adelswaerd-fersen-la-cospirazione-delle-sirene.html
[5] https://www.pendragon.it/catalogo/narrativa-1/linferno/lord-lyllian-detail.html
[6] https://isoladicapriportal.com/norman-douglas-alla-scoperta-di-capri/
[7] https://isoladicapriportal.com/compton-mackenzie-luomo-che-amava-le-isole/
L'articolo “La dolcezza dell’amore maledetto”. Jacques Fersen, l’esule di Capri
proviene da Pangea.
> «Ciò che non viene detto, ha la vita più forte, perché ogni dire ed ogni
> accennare toglie qualcosa all’oggetto, lo intacca, e così lo diminuisce».
Riflessioni del genere non possono venire che da un grande silenzioso come lo
scrittore svizzero Robert Walser (1878-1956). Il più silenzioso dei
silenziosi. Un antidoto a un mondo come quello di oggi dominato dal
presenzialismo a tutti i costi, dalla facile indignazione, dalla protesta a buon
mercato, dallo spasmodico bisogno di apparire e di parlare anche quando non si
ha niente da dire. Leggerlo e conoscerlo vuol dire disintossicarsi dalla
stupidità dilagante per entrare in regioni dello spirito dove soffia un vento
sicuramente gelido, ma tonificante e salutare, che ci può aiutare a conservare
un minimo di dignità.
Sto parlando di uno scrittore unico e di una personalità originalissima, non
classificabile in nessun gruppo, in nessuna categoria o comunità. Un isolato
cultore della riservatezza e della povertà che non ha mai alzato la voce o
protestato; un uomo che ha fatto dell’assenza la sua religione e che si è
nascosto nelle pieghe della vita per salvarsi l’anima.
Se stiamo ai canoni esistenziali dominanti Walser è uno sconfitto dalla vita, un
perdente, ma se si impara a conoscerlo un po’ si capisce che in realtà è un
vincente. Sì, perché quest’uomo mite e inerme ha combattuto una lotta titanica e
probabilmente è uno dei pochi esseri umani che sia riuscito a non farsi
inghiottire da quell’ingranaggio infernale che ci stritola tutti, giorno per
giorno, ora per ora.
> «Non è forse bello che nella nostra esistenza rimanga qualcosa d’ignoto, di
> strano, come dietro un muro coperto d’edera? Questo le conferisce un fascino
> indicibile che sempre più si va perdendo. Oggi si ha voglia di tutto, ci
> s’impossessa di tutto con brutalità».
I protagonisti dei suoi romanzi e delle sue prose brevi sono sempre dei
perdigiorno o dei servitori che conducono un’esistenza insignificante, costretta
nei limiti imposti da qualche entità superiore. Ma è proprio in questa
subalternità il segreto. Solo mimetizzandosi in un ruolo anonimo è possibile
salvaguardare il proprio io, non essere identificati dal potere e non cadere
nella macina sociale.
Walser vede con grande lucidità il vuoto e il non senso della realtà ed è
convinto che per preservare un minimo di identità sia necessario abdicare alla
vita. L’unica via di salvezza è in un’apparente sconfitta. Da qui la sua
ossessione del “servire”. Dipendere da qualcuno o da qualcosa vuol dire
rinunciare a un’effimera affermazione della propria personalità, ma anche essere
esentati dal partecipare all’orrore del mondo.
Robert Walser (1878-1956)
La stessa biografia di Walser è una testimonianza di questa sofisticata e
silente tecnica di sopravvivenza. Prima si è dato a mille mestieri:
dall’apprendista in banca nella natia Biel al commesso di libreria, dal copista
al domestico in un continuo peregrinare tra la Svizzera e la Germania, quasi
sempre a piedi perché Robert Walser era un formidabile camminatore, nel senso
più nobile del termine come afferma Piero Citati:
> «Passeggiare era il ritmo interiore della sua mente: accresceva e placava la
> sua inquietudine, era la gioia, l’estasi. Dove poteva abitare, se la vita lo
> teneva fuori dalla porta? Solo sulle strade interminabili, bagnate dalla
> pioggia e dalla neve, dove vagava da quando la rugiada era ancora lucida
> sull’erba sino alla discesa delle tenebre».
Poi, in seguito a certi suoi comportamenti e a crisi di ansia, nel gennaio del
1929, quando Walser ha cinquant’anni, viene ricoverato in una clinica per
malattie nervose vicino a Berna. Da allora, per ventisette anni, vivrà sempre in
case di cura, in un’assoluta solitudine, rinunciando anche a scrivere per
coltivare solo e soltanto il silenzio. Almeno ufficialmente. In realtà molti
anni dopo la sua morte si è scoperto che anche nei lunghi anni di ricovero
Walser aveva continuato a scrivere, ma lo aveva fatto alla sua maniera, in modo
nascosto; a matita, utilizzando fogli riciclati che trovava qua e là, e con una
grafia talmente minuta da risultare illeggibile a occhio nudo. Sono i suoi
cosiddetti microgrammi. Un altro modo per celarsi agli occhi del mondo.
Nei lunghi anni di ricovero l’unico contatto con l’esterno saranno le lunghe
passeggiate fatte in compagnia dell’amico Carl Seelig, che ci ha lasciato una
toccante e preziosa testimonianza con il libro Passeggiate con Robert Walser di
cui consiglio vivamente la lettura. Per il resto Walser passava le giornate
nella grande camerata con gli altri malati intento a piegare sacchetti di carta,
osservando in modo scrupoloso tutte le regole dell’istituto, anche le più
stupide e insensate, e quando l’amico Seelig gli propose un trasferimento che
migliorasse la sua situazione rifiutò in modo deciso. Non voleva avere privilegi
né tanto meno rientrare in contatto con il mondo e si proponeva soltanto di
soddisfare quella che una volta definì come la sua massima
aspirazione: «diventare uno zero assoluto».
> «Preferisco sparire, adesso. Certo, potevo scegliere un convento per
> chiudermici dentro e pregare, rispettato dalla chiesa e dai potenti. Ma forse
> è meglio il manicomio. Ci sono meno idee su Dio qui dentro, meno preghiere
> incomprensibili, meno riti da accettare. Qui si sopravvive calmi. Qui si è
> sicuramente malati. Certificazioni, esami, firme, diagnosi. Perché bisogna
> avere sempre la testa inquieta? Il mondo non è già abbastanza agitato? Almeno
> opponiamoci al furore. Qui deve esserci la quiete».
La mattina di Natale del 1956 Robert Walser uscì dall’istituto psichiatrico di
Herisau per una delle sue solite passeggiate. Da solo, nel silenzio più
assoluto. Qualche ora più tardi venne ritrovato morto in un pendio coperto di
neve. Giaceva disteso con la testa un po’ piegata, la bocca aperta e sul volto
aveva un’espressione che assomigliava a un lieve sorriso.
Silvano Calzini
L'articolo “Preferisco sparire, adesso”. Vita di Robert Walser, lo scrittore che
divenne uno zero assoluto proviene da Pangea.
Poco importa che si riferisse alle bianche montagne che spiccano alle spalle
della cittadina: quel nome, attribuito con razionalità da irragionevoli, ha un
sapore di Egitto, di gesti che adombrano, con severità, la rivoluzione degli
astri, di un mistero ispido, felino, del sangue che nutre l’oltre, un aldilà di
angeli sciacalli, lo sciacallaggio dell’io, e quell’arrischiata geometria –
Pyramiden-Piramida-piramide – che incombe, come se si potesse armonizzare il
pasto, favoleggiare su una dottrina dell’assalto, approvvigionare il cuore di
memorie passeriformi.
E poi, sì, il ghiacciaio – il Nordenskjøldbree – che pare una Sfinge, gonfio di
leonini, femminei enigmi; il fiordo che fende una liceale idea di fede; l’idea
che lassù, alle Svalbard, esista il Messia paria, l’impari, in forma orsina,
l’irsuto, nonostante l’impero dei Soviet che manda a pascolare i sudditi negli
inaccessibili luoghi. Uomini che, per incuria e per purezza del luogo, divengono
torce, uomini-fuoco. Già. La Terza Roma, Mosca, che fa proseliti al Polo;
Cirillo trapiantato in una baia. Pyramiden come Gerusalemme, allora: forse è lì,
nella fantomatica città – dismessa dagli anni Novanta, oggi meta degli
estremismi del turismo –, che avverrà il Giorno.
Lascia una stimmate nel cuore la vista di Pyramiden, se non altro per quella
sproporzione di un Eden all’estremo Nord. E poi: la sovranità dell’uomo che
vuole costruire città in luoghi a lui sigillati. In scala, Pyramiden mi ricorda
l’utopia di Cosimo I de’ Medici, Granduca di Toscana: ribattezzò “Città del
Sole” – già nei ventricoli del nome, l’idra dell’utopia, una solarità nera, la
nigredo di Adamo – un borgo costruito sul Sasso Simone, impervia rocca nei
pressi di Carpegna, poco lontano da Urbino. Della città – col mastio, la chiesa,
il tribunale e le botteghe –, ideata tra astrazioni, nel laboratorio fiorentino
del Granduca, restano tracce di vie, rudi cisterne: sfiorì in un secolo,
falciata da cupi inverni, dalle intemerate dei lupi, dal dilagare di delittuose
malattie; nel XVII secolo era già spirata. Dicono di un ebrietà di orsi.
Pyramiden, però – ecco, il miracolo (e la condanna) del gelo –, non è sparita; è
lì, l’espianto dei volti, le vite confitte, la confettura dei ricordi.
Inossidabile memoria del Nord. Così, intorno a Pyramiden. Una città
fantasma (Bertoni, 2025), Linda Terziroli ha costruito un romanzo di ferma
ferocia – che è poi, anche, un modo per dire: sono sopravvissuta, sono qui, a
tempio disfatto, con la piccola reliquia tra le palpebre mani.
Ma un libro, soprattutto, non è la cronaca dei fatti, bensì carrellata di
immagini. Ne scelgo due, indelebili, che vanno incapsulate l’una nell’altra a
dire della ricerca dell’assoluto, di una innocenza che giunge dai primordi della
pena. La prima:
> “Le altalene davanti alla scuola danzano, oggi, scricchiolando, al gelido
> fiato del vento polare… I bambini, che non erano numerosi quanto gli adulti,
> si divertivano per ore su quelle magre altalene azzurre di acciaio verniciato.
> Nonostante il freddo, nonostante la penuria di luce. I bambini sanno giocare
> ovunque. Anche sul prato della fine del mondo”.
L’altra riguarda l’animale:
> “Dietro il nuovo capanno di legno si muoveva un orso bianco di almeno duecento
> chili… Era ormai da un paio d’anni che non mi capitava di vedere un orso da
> così vicino. Potevo sentire il suo fiato caldo. E, soprattutto, il suo odore
> acre. Ho visto la sua bocca spalancata, i denti piuttosto gialli. Il giallo
> della pelliccia vicino alle fauci. E soprattutto i suoi occhi che mi
> guardavano. Forse non mi avrebbe fatto del male. Gli animali di varie specie
> hanno un rispetto quasi religioso nei confronti di una donna incinta. L’avevo
> letto da qualche parte. Ero sorprendentemente tranquilla. Intercettare il suo
> sguardo, tuttavia, mi ha dato una scossa violentissima. Era il suo sguardo a
> graffiarmi con potenza”.
Più che a Guido Morselli – autore-totem di Terizoroli – si va a volte nei
dintorni di Karen Blixen. Quando incontrano un orso, gli Iacuti lanciano
un’invocazione:
> “Modera la tua ira!
> Se tu volessi ritirarti nel profondo della foresta,
> come una crepa nel legno,
> diverresti simile a una soffice piuma di zibellino”.
Nel romanzo, alla protagonista, ignara del sistro e del tamburo, insegnano a
maneggiare il Mosin-Nagant “in caso di necessità”: un fucile a ripetizione tra i
più usati nel regno sovietico. Ma qui è accaduto qualcos’altro. Il nascituro,
forse, avrà la statura di un compiuto essere, non sarà più mero strumento
dell’uomo.
Ad ogni modo, ho interpellato Linda.
Preliminare: perché l’ossessione del Nord?
Che cosa si prova quando ci si accorge, improvvisamente, di non aver scampo? Mi
hanno sempre affascinato le storie ambientate al Polo. La tragica fine tra i
ghiacci del celebre esploratore Roald Amundsen, scomparso per salvare il vecchio
rivale Umberto Nobile. La celebre “tenda rossa”. Ma anche la spedizione
scientifica di Salomon August Andrée nel 1882. La storia della casa svedese a
Kapp Thorsen, nell’Isfjorden, a Spitsbergen, il cuore dell’arcipelago delle
Svalbard dove diciassette cacciatori di foca trovarono la morte nell’inverno
1872 – 1873. Tanto per citare alcune storie artiche che mi appassionano molto.
Il Polo Nord è aspro e senza speranza, inospitale e sublime. Con una luce
abbagliante e una tenebra feroce: è terra dai forti contrasti. Terra di
conquista e terra di morte, dove si distilla l’umanità perché la natura prende
il sopravvento, perché l’uomo di fronte alla natura è destinato a soccombere. Le
storie polari sono dense di eroismi e di tragedie. L’odore di morte è sepolto da
una coltre di mistero e non riesci a cogliere il segreto del suo mistero, ma ne
sei catturato, soggiogato come da una malia. Sono terre affascinanti che serbano
in grembo molte storie affascinanti che devono essere ancora portate alla luce.
Poi: Pyramiden. Che cosa ti affascina di quella città-fantasma, erede geologica
di un tempo perduto, non so quanto da rimpiangere?
Pyramiden è il nome di questa città mineraria sovietica, ormai un fantasma nel
cuore dell’isola di Spitsbergen, alle Svalbard, che si trovano appunto in
Norvegia. Fondata da minatori svedesi nei primi anni del Novecento, la città fu
venduta ai russi nel 1927. E ancora oggi è un avamposto russo in terra
norvegese. Ma al di là del dato, del riferimento storico, un tempo sovietico che
non esiste più, un sogno di grandezza piuttosto assurdo nel cuore del fiordo,
l’idea di piramide che evoca il suo nome certo fa riferimento alle montagne
piramidali o se vogliamo triangolari che qui si vedono, ma ancor di più mi fa
pensare alla morte. Ad una pace (come è scritto sulla montagna della città in
cirillico “Miru Mir”) che è una riduzione al silenzio, un riposo fatale, una
istigazione al suicidio, un calice di veleno. Un luogo, insomma, in cui il
passato si congela e si squaderna placido davanti al tuo sguardo, come un freddo
cadavere. Un luogo in cui la notte artica allunga una coperta di tenebra e la
luce illumina un mistero che non sei in grado, razionalmente, di interpretare.
In esergo: Ezra Pound – perché? Poi, Pascoli. C’è forse un refrain, un
sottofondo lirico che anima il romanzo?
Ciò che ami veramente rimarrà, ciò che ami veramente non ti sarà portato via, è
la tua vera eredità, scrive Ezra Pound. L’oggetto del nostro amore non è quindi
un luogo, non è un qualcosa che ci può essere strappato, è invece qualcosa che
rimane per sempre, come un ricordo ancorato al cuore. Ecco il senso del ritorno
della protagonista – a distanza di tanti anni – nei luoghi in cui ha vissuto
come insegnante, ormai ridotti a relitti, a fotografie ingiallite e perdute sul
fondo di un cassetto. Si accorge, insomma, Anna, la protagonista, che non serve
ritornare dove era stata una giovane insegnante innamorata, da ragazza, ormai
che è donna. Tutto quello che le serve è ricordare. Ricordare tuttavia non
significa ricostruire il passato e le sue verità. La verità è opaca e il male
che in questa strana terra perduta si consumava non si legge chiaramente ad
occhio nudo. La verità è che le radici del male sono spesso ben nascoste e sono
piuttosto aggrovigliate.
Da dove ti è arrivata questa storia, come l’hai elaborata?
Sono certa che la potenza di un luogo misterioso come Pyramiden può essere in
grado di stregare anche il più razionale e indifferente degli uomini. Dopo aver
visitato Pyramiden, ormai diversi anni fa, ho iniziato a visitarla dal punto di
vista narrativo e mi sono spesso domandata come inserire una vicenda inventata
tra le pagine di un luogo così particolare e seducente e inquietante. Ho quindi
pensato che certo doveva essere un luogo di morte ma anche la culla di un amore
tragico e tormentato. Una mia amica mi ha detto che è un romanzo da leggere nel
cuore dell’inverno.
Che cosa hai scelto di omettere, di velare nel pudore? Qual è ‘l’indicibile’ del
tuo romanzo?
Ho scelto di omettere e quindi di non rivelare alcuni particolari che potrebbero
spiegare il comportamento enigmatico di un paio di personaggi. Perché mi
sembrava molto interessante non dare troppe spiegazioni. Non mettere le mani
avanti. Non tenere per mano il lettore. Ma nella vita non è forse così? Quello
che vediamo è sempre vero? La spiegazione che ci danno di alcune vicende del
passato è vera del tutto? La voce che sentiamo nel bel mezzo della notte è il
grido d’aiuto o una raffica di vento gelido? Inoltre, mi piaceva l’idea che la
protagonista, un poco per volta, arrivasse a capire di essere ascoltata,
controllata e spiata. Del resto, a Pyramden, con l’ufficio con le finestre
sbarrate del KGB più a nord della Terra, potrebbe essere piuttosto qualcosa di
corrispondente alla verità.
Ritaglia un nugolo di frasi dal libro, quelle che ritieni importanti.
Ad esempio questa che ha a che fare con l’insondabilità della verità e del male.
> “C’è sempre un giorno in cui uno dei veli che copre la verità scende e puoi
> contemplare una parte della realtà in tutta la sua crudezza e la sua
> integrità, ma solo una parte minima e alquanto stropicciata. La vedi e senti
> come un’ustione sulla pelle. Per me quello è stato un giorno particolarmente
> freddo, era marzo, ma la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero e,
> nonostante questo, si iniziava a intravedere il risveglio della primavera. Il
> fiordo ghiacciato cominciava a mostrare le prime crepe, i primi cedimenti,
> sotto il respiro della stagione più mite. Si sentivano dei rumori provenire
> dai ghiacciai. Improvvisamente si staccavano pezzi di ghiaccio con il fragore
> improvviso, spaventoso come di un colpo di fucile”.
Oppure penso alla descrizione di una donna bellissima, ricoverata nel grembo
dell’ospedale inaccessibile che è prigioniera della sua pazzia e delle
conseguenti, drammatiche cure della sua stessa malattia mentale.
> “Congiungeva le mani, sembrava pregasse. Ho pronunciato il suo nome, prima con
> un sussurro poi con la voce più alta. “Nastas’ya, Nastas’ya!”. Lei che ha
> capito di essere chiamata, ha diretto lo sguardo nella mia direzione e ha
> sorriso. Ma nella sua bocca c’erano solo saliva e gengive spoglie. Sorrideva,
> ma non aveva nessun dente in bocca. Glieli avevano strappati tutti”.
Questa frase che segue penso invece racchiuda, in uno sguardo, il significato
che ho tentato di dare alla mia storia ambientata nella città fantasma di
Pyramiden:
> “Quando muore, il passato continua a sopravvivere in una stanza piena di
> polvere, dentro il nostro cuore. Camminando tra queste pietre, ci sono
> migliaia di occhi che ci scrutano”.
E ora? Cosa scrivi, cosa studi?
Ho presentato pochi giorni fa il saggio La nascita nella letteratura (Oligo
editore) che è uscito dopo il romanzo Pyramiden. Un itinerario nel cuore
dell’ossessione della maternità, un viaggio tra le pagine letterarie dedicate al
parto e all’aborto. Cerco sempre di trovare nuovi terreni di riflessione accanto
alla passione per gli autori che amo, come certamente Guido Morselli. In questo
momento, sto studiando le scrittrici del Novecento, cerco di ascoltare la loro
voce, di distinguere e distillare insomma la voce femminile che è, di per sé,
più bassa, più misteriosa e, per certi versi, fioca rispetto a quella maschile.
Ma talvolta è necessariamente più potente e audace.
*In copertina e nel testo: immagini da Pyramiden
L'articolo “Anche sul prato della fine del mondo”. Storia di Pyramiden, la città
fantasma. Dialogo con Linda Terziroli proviene da Pangea.
Dotato di quella rabbiosa precocità che soltanto il dolore rende esatta –
endocardite reumatica, dissero: faceva le elementari – e di uno sguardo
mesmerico, da mari del Nord, Massimo Ferretti inviò la plaquette che s’era
stampato a sue spese, presso una tipografia di Jesi, a una decina di riviste
letterarie. Doveva ancora diplomarsi, compiva vent’anni: eccelleva nei temi,
restio al resto lo bocciarono in seconda. Nato a Chiaravalle, figlio di un
geometra e di una maestra elementare, fu snobbato da quasi tutti i papaveri
dell’editoria di allora. Gli rispose, entusiasta, Pier Paolo Pasolini; di lui
scrisse, entusiasta, su “Officina”. Ferretti si rivolgeva al “caro professore”
con deferenza non priva di ferocia; Pasolini, che alternava generosità e
tirannia (due monete della stessa zecca), tentò di fare di quel ceruleo
marchigiano uno dei suoi adepti. Quando gli intimò di non pubblicare per Schwarz
– “ha stampato un pacco di inutili libri vanitosi e superficialmente
sperimentali” – Ferretti obbedì; quando gli propose di scrivere per la Rai,
Ferretti ci si mise (senza successo). Quando, desolato dall’università – a
Perugia, “un labirinto di vicoli; profumi claustrali; manie cosmopolite” –,
Ferretti gioca all’uomo in rivolta, carpito di una rivoltante depressione, e gli
chiede “tu frequenti l’ambiente del cinematografo: e io porto dentro di me un
attore”, Pasolini lo blocca, bacchetta il suo “maleodorante romanticismo”, gli
dice di tornare a studiare.
> “Altrimenti sei il solito mandolinista italiano, il solito poetastro
> rompicoglioni, dilettante e presuntuoso”.
Siamo agli inizi del ’57: Pasolini sta acconciando Le ceneri di Gramsci; ha da
poco pubblicato Ragazzi di vita. Grazie ai suoi auspici, Ferretti pubblicherà
per Garzanti, nel 1963, Allergia: pochi ne parlano, pochi lo comprano, alcuni se
ne entusiasmano (Ferretti giura di aver visto, a Roma, “Sul bus 37, Giorgio
Manganelli… con un libro sotto il braccio: Allergia”). Ad ogni modo, il libro è
onorato con il “Premio Viareggio” opera prima; negli anni, s’inabissa
nell’oblio, diventando – per sparuti poeti che ormeggiano le proprie aspirazioni
verso l’inattuale – un testo ‘di culto’: all’edizione Marcos y Marcos del 1994
seguirà, nel 2019, quella definitiva, edita da Giometti & Antonello.
Aveva ragione Pasolini – che leggeva il giovane Ferretti “con le lacrime agli
occhi, come in sogno” –: quella poesia, di un Leopardi passato sotto i torchi di
Marx, reca una spaventosa innocenza, un delirare che viene dai primordi, lo
stigma dell’“adolescente segnato dalla malattia e da un’inquietudine perpetua
come un personaggio di Thomas Mann” (così Massimo Raffaeli). L’attacco
di Polemica per un’epopea tascabile, per dire, è bellissimo:
> “Sono un animale ferito.
> Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere
> definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda.
> Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il
> cuore m’avrebbe solo bagnato”.
Successe, poi, il disastro.
Pasolini intendeva il magistero nelle forme di un’arte predatoria; Ferretti –
creatura dagli insondabili umori, da erbivoro con zanne da tigre – gli sfuggì. A
metà dicembre del 1957 i due – il maestro e il pupillo – s’incontrano, a Roma.
Ferretti si ritrae, rientra a casa inquieto, inquietato: “Avevo 20 anni e t’ho
fatto diventare un eroe… questa è stata la mia grande colpa”. Pasolini gli
risponde con un autoritratto:
> “io mi innamoro esclusivamente dei ragazzi sotto i vent’anni, e molto ingenui,
> direi quasi soltanto del popolo (ingenui dal punto di vista culturale, non
> erotico)… Una vita estremamente libera e dissipata non ha scalfito la mia
> innocenza nemmeno di un millimetro: sono veramente vergine e ragazzo, da
> questo punto di vista”.
Da lì, il rapporto si corrode: Ferretti segue l’armata del Gruppo 63, frequenta
Nanni Balestrini, si scrive con Antonio Porta; pubblica con Feltrinelli, nel
1965, Il gazzarra. Nonostante il romanzo sia esaltato, in copertina, come
“Divertentissimo: un Zazie nel metrò italiano, un nuovo Pian della Tortilla”,
Ferretti non è Queneau né Steinbeck; la critica lo snobba e Il gazzarra – come
il romanzo precedente, Rodrigo, edito da Garzanti nel 1963 – resta tra le
retrovie dell’epoca.
Nel 1959 Ferretti si era “consegnato”, per l’ennesima volta, a Pasolini; gli
racconta del cugino suicida, “aveva un anno più di me e non era un giovane
bruciato: era disperato”. Il maestro gli risponde, trafelato, tra “il trasloco”
e “il Premio Strega, con le sue mille telefonate”. È una risposta sbrindellata,
da bovina madama ideologia in imperio: “Quello che non capisco – e che ti
minaccia – che minaccia te, la tua poesia, il tuo equilibrio – è quella voglia a
essere ciò che non vuoi essere: borghese, reazionario, fascista”. Ferretti lo
malmena: “Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente… sei
diventato vecchio o non hai più niente da dirmi?”.
Da qui in poi, il carteggio – che si legge in un libro violento e
istruttivo edito da Giometti & Antonello: Massimo Ferretti, Lettere a Pier Paolo
Pasolini e altri inediti, a cura di Massimo Raffaeli – segue l’atroce trama di
un tema capitale: il maestro che diventa aguzzino; o meglio: l’angelo che si
tramuta, per infatuata furia, in vampiro. Pasolini, creatura angelica, sapeva
azzannare al collo.
Per un po’, Ferretti lavora in Longanesi, scrive saltuariamente su “Il Giorno”;
per Feltrinelli traduce Tra, romanzo sperimentale (mai più ripubblicato) di
Christine Brooke-Rose; per Astrolabio traduce Hilda Doolittle (I segno sul muro,
1973), primordiale musa di Pound, e l’antropologa Margaret Murray (Il dio delle
streghe, 1972). Nel 1968 aveva sposato, a Roma, Nilvia, una compagna del liceo:
chiedendo a Pasolini di fargli da testimone gli scrisse di aver
visto Teorema, “è proprio avvilente (per uno che ti ha stimato come me)
assistere allo spettacolo di come degradi il tuo talento”. Pasolini replica da
chioccia in estro (“Teorema è un bellissimo film, quasi assoluto”) e accetta di
fargli da testimone, “disumanamente”. Le date, tuttavia, non collimano: al
fianco di Ferretti ci sarà Balestrini. Qualche tempo prima, Pasolini lo aveva
bollato così: “Rimbaud integrato in una società di imbecilli”.
Schifato dall’odierno mondo della cultura italiana, Ferretti si isola, scrive
nascostamente, guarda il calcio in tivù, gioca a scacchi. Non attende altro e
nel novembre del 1974 muore, nel sonno. Qualche mese prima aveva scritto
l’ultima, allucinata lettera-invettiva a “Pierpaolo mio”:
> “Decaduta si insabbia nella tua religiosa mondanità la mia vispa teresa per
> niente sorpresa che Pasolini faccia rima soprattutto con quattrini”.
Era arrivato l’astio, infine, il cupo gemello della pietà.
Pasolini sarebbe morto, nei modi che sappiamo, esattamente un anno dopo.
*In copertina: Pier Paolo Pasolini nel 1966, ritratto da Richard Avedon
L'articolo “Altrimenti sei il solito poetastro rompicoglioni”. Pasolini &
Ferretti, l’allievo eretico proviene da Pangea.
Il fuoco e la paglia, il crampo tra la noce moscata e il chiodo di garofano, il
nubìvago dimenticato; Salomo Friedlaender – alias Mynona – è il filosofo
giambico che fece della carezza prima dello schiaffo la chiave della sua
rivolta. Nel deserto dei cadaveri dell’identità sociale, l’assurdo balla, il
delirio squarta, la cicciona sconfigge l’orco; Mynona è la maschera che non
chiede scusa – ma che ride, e ride, e ride…
Nato nel 1871 a Gollantsch, allora terra tedesca, oggi Polonia, Salomo
Friedlaender sboccia nella prigione della serietà; figlio di un medico ebreo e
di una madre musicista, crebbe al crocevia tra rigore e dissonanza, scienza e
poesia. La sua vita fu un ponte levatoio tra l’interno e l’esterno, tra la
filosofia e il grottesco, tra la maschera e la verità assoluta.
Studente di medicina a Monaco, poi filosofo per vocazione a Berlino e Jena,
Friedlaender non cercava risposte, bensì domande più grandi. Ben presto trovò
nella speculazione il suo teatro interiore. A Berlino si immerse nei circoli
bohémien, accanto agli espressionisti, ai dadaisti, ai visionari. Qui nacque
Mynona: “Anonym” (anonimo) scritto al contrario – la firma di una scrittura che
ride sotto i baffi, di un giocoliere grottesco.
Dal 1909 iniziò a firmare racconti, satire e poesie che sembravano sfuggire a
ogni logica – o meglio, che reinventavano la logica come un carnevale perpetuo e
provocatore.
> “Affermo con coraggio di essere attualmente l’unico a rappresentare una certa
> sintesi tra Kant e il clown Chaplin”.
Il suo mondo era popolato da personaggi eccentrici, situazioni impossibili,
frasi che si rincorrevano come equilibristi sul filo dell’assurdo. “Fasching als
Logik” – il carnevale come logica – divenne la sua poetica. Mynona è sempre
attratto dall’aspetto pietoso o derisorio della condizione umana; una situazione
è spinta all’estremo fino a sfociare nell’assurdo o nel surreale.
> “Tutto questo è, Dio ce ne scampi, solo una zuffa da topi, una piccola rissa
> teologica da gattini.”
Tra il 1910 e il 1920, Berlino fu il suo laboratorio: una metropoli in fermento,
tra avanguardie artistiche e tempeste politiche. Dietro la maschera
dell’umorismo, infatti, Friedlaender celava un pensiero radicale. Dopo
un’iniziale passione per Schopenhauer, fu Kant a segnare per lui una
“rivoluzione spirituale”. Visse un’esistenza laboriosa da insegnante e al
contempo una vita bohémien con i suoi amici, in particolare Paul Scheerbart e
Carl Einstein. Fu parte dei gruppi d’avanguardia, dei circoli espressionisti,
dadaisti e attivisti, e nel cenacolo della rivista Der Sturm. Fin dall’inizio
del secolo, apparse spesso sulla scena del “Neopathetisches Cabaret”, dove,
insieme a Kurt Hiller, Jakob van Hoddis, Georg Heym, René Schickele, e Frank
Wedekind, portò al successo la satira, la polemica e l’umorismo nero, leggendo i
suoi testi grotteschi.
> “Posso solo darvi un buon consiglio: non urlate mai dentro un uovo! provoca un
> tale trambusto rotolante, che vi farà stare malissimo”.
Dal 1911 al 1914, collaborò con Die Aktion e, già dal 1910, il suo nome apparve
nei sommari di una serie di periodici d’avanguardia, spesso molto effimeri, di
cui adotta volentieri il tono aggressivo e polemico. La libertà del pensiero,
l’indipendenza dello spirito, la religione della ragione: la sua teorizzazione
di “Indifferenzza Attiva” è un invito a non lasciarsi ingabbiare: né dai dogmi,
né dalle ideologie, né dalle identità imposte.
Nei suoi scritti, filosofia e letteratura si confondono: ogni aforisma è
un’esperienza, ogni racconto una domanda. Divenne un maestro del grottesco, una
figura inclassificabile che destabilizza e incanta. “Nessun autore di lingua
tedesca, prima o dopo di lui, ha sviluppato la forma del grottesco a un tale
livello di maestria,” scrive Hartmut Geerken.
La sua associazione al movimento dadaista potrebbe facilmente specchiarsi
nell’affermazione di Hugo Ball:
> “Il dadaista combatte contro l’agonia e il delirio di morte del suo tempo…
> Quello che celebriamo è al tempo stesso una buffonata e una messa funebre”.
Ma Friedlaender resta, nonostante tutto, un metafisico e un moralista, e di
certo non mancano le critiche dei suoi colleghi, così Thomas Mann rispose a una
lettera di René Schickele nel 1939, che gli chiedeva di sostenere Mynona:
> “Non mi piace Mynona e non voglio vederlo in giro. Ha sempre avuto una bocca
> sfacciata alla Tersite”.
Anche il mondo accademico faticò a seguirlo. Mentre l’Europa si avviava verso
l’orrore, Mynona si mise in guardia dai “pigrotti della svastica”, anticipando
con ironia disperata la propria emarginazione.
Con l’ascesa del nazismo, la sua voce si fece più affilata e più tragica. Nel
1933 fuggì in esilio a Parigi, dove visse anni difficili, dimenticato dai più,
ma fedele al proprio stile, scriveva ancora, anche se il mondo attorno sembrava
non ascoltare.
> “Da un secolo ormai mi sforzo enormemente di solleticare il mio popolo con
> ogni sorta di pagliuzze nel naso, senza che esso abbia finora davvero voluto
> starnutire”.
Morì a Parigi nel 1946, nella povertà assoluta, lasciando dietro di sé un’opera
frammentaria, scomoda, impossibile da incasellare. Fu grazie a Ellen Otten e ad
altri studiosi che la sua opera cominciò a riemergere, come un enigma letterario
da decifrare; fu tradotto solamente in lingua inglese e spagnola ed è inedito in
Italia.
> “Chi porta alla luce, in modo stridente e urlante, il grottesco della nostra
> esistenza, apre uno scorcio indiretto su una vita autentica, tanto oscura
> quanto certa”.
Come un caleidoscopio in cui apparenza e verità, comicità e profondità, si
rincorrono all’infinito, Mynona è un invito a guardare il mondo da
un’angolazione obliqua, dove solo chi ride può intuire davvero l’assoluto.
La raccolta Rosa, die schöne Schutzemannsfrau. Grotesken (1913), segnò il suo
debutto e uno dei suoi maggiori successi. Nel breve racconto da cui prende il
nome (tradotto a fine articolo), Mynona trasforma il desiderio e il potere in un
grottesco paradosso. L’eroismo della divisa si trasforma in un feticismo
erotico. Rosa, la bella donna del poliziotto, non è attratta dall’uomo che
indossa il simbolo del potere, ma dal potere stesso che l’uniforme incarna. Rosa
è la protagonista di una “Verkehrung”, un’inversione in cui ciò che è sacro –
l’autorità – diventa oggetto di desiderio erotico. Il potere, anziché essere la
forza dell’individuo, diventa simbolo di un vuoto identitario. Mynona gioca con
il linguaggio, distorcendolo per smascherare le contraddizioni della modernità.
La risata che nasce da questa inversione non è solo comica, ma una critica
feroce ai valori stabiliti, dove il sacro e il profano si mescolano. In questa
parodia del potere, l’isteria diventa la chiave per vedere il mondo con occhi
nuovi, finalmente liberi dalle maschere dell’autorità.
Egli non solo deride le convenzioni, ma le riplasma, le distorce, le trasforma
in una lingua che è tanto poetica quanto inquietante. In ogni battuta, in ogni
paradosso, invita a riflettere: se l’ordine è il caos vestito da divisa, cosa
rimane della nostra identità? Se l’erotico è ridotto a ideologia, quanto siamo
davvero liberi di scegliere ciò che amiamo?
> “Il creatore del grottesco è profondamente convinto che bisogna quasi
> ‘disinfettare con lo zolfo’ questo mondo che ci circonda, per purificarlo da
> ogni parassita; egli diventa un disinfestatore dell’anima”.
Mynona – duplice firma bastarda – è il simbolo di una scrittura che non si
inginocchia, di un pensiero che osa schernire l’assoluto. Friedlaender fu
pensatore clandestino, artista dell’inversione, solitario in dialogo con
l’infinito. Leggerlo è un sogno lucido; da evitare se si cercano certezze, da
seguire se si ama l’estremo.
Salomo Friedlaender è il vento metafisico scandito da folate di parodia; il
riflesso di uno specchio infranto, la maschera derisoria che trasfigura, che
rovescia. Dietro smorfie e lazzi, caricature da cabaret sono i lapilli di un
pensiero che scoppietta sotto la lingua. Mynona è un vulcano travestito da
giullare, un alchimista utopico, un’ombra deforme che mantiene la sua promessa.
L’identità moderna non può tirare i freni dell’uomo, le vertigini non possono
fermare la rivoluzione, la resa non può essere un’alternativa; con il viso nella
lava, nell’Atanor, nel buio del mondo, Mynona assapora la possibilità di
rimanere umani.
Tommaso Filippucci
***
Rosa, la bella donna del poliziotto
Avete presente le ore uggiose in cui il poliziotto rimane sotto la pioggia per
ore e ore, e la sua donna nel mentre…?
Ma Rosa, la bella donna del poliziotto, era completamente diversa. Perché?
Perché era così diversa? Non erano certo le circostanze, ma lei stessa. E non
era certo a causa del marito, un tipo all’antica, diciamo, che Rosa amava. Ma un
miglior conoscitore di donne (con la fortuna negli occhi) una volta mi disse: la
donna è un bel segreto. E quando non fui d’accordo con lui, aggiunse: svelala
solo esteriormente, mai emotivamente! Poi disse qualcosa di Schiller, una
citazione che ho dimenticato, ma che non dimenticherò mai! Nel frattempo, Rosa
uscì e – credetemi! – camminava così bene che la bocca di un antico invalido si
aprì di scatto e la sua pipa divenne anch’essa invalida. Rosa camminava
sull’asfalto bagnato; attraversava uno splendido passaggio, superava il
terrapieno con la gonna alta. All’angolo si trovava l’uomo che l’amava, non suo
marito, ma anche lui un uomo.
Così a quest’uomo scese una lacrima alla vista della profumata Rosa che
passeggiava (non camminava come le signore d’accordo con se stesse, né
problematicamente come le donne di mezzo mondo, e certamente non come la troppo
nota ragazza del popolo, sapete, formosa e allegrotta; camminava, non posso
dirlo in altro modo: come se camminasse nella sua persona). Un monocolo sarebbe
stato generalmente più seducente, ma questo insegna l’autocontrollo, e l’uomo
non lo aveva per lei. Rosa non si accorse dell’uomo fino a che non gli si
avvicinò di corsa e gli parlò con foga:
“Farei qualsiasi cosa per te, qualsiasi cosa! Non dire niente, ti capisco. Ma
lei non mi capisce, non si rende conto di quanto sto soffrendo e di quanto sono
felice nonostante tutto. Non dire niente! Mio marito è in servizio, piove, sta
in piedi sul bagnato, è un poliziotto. Non è questo! Ma non riesco a superarlo.
Oh! Gli sono ancora più fedele quando non è con me. So che mi ami.
Non è un pericolo – oh mio Dio! Potremmo possederci a vicenda. . . Certo! Ed è
interiormente impossibile per me: non come moglie, ma come donna del poliziotto.
Vi amo – se questo vi consola! Niente mi può consolare, sono peggio di una
suora, perché lei può rinunciare ai suoi voti, io sono legata a me stessa”.
Ricordo che l’uomo aveva due gambe, che iniziarono ad agitarsi in modo
particolare durante le parole di Rosa. A volte stava a destra, a volte a
sinistra, si toglieva anche il cappello e si passava la mano tra i ricchi e
folti capelli bruni. Stava in piedi sulla testa, sospirando come un uccello
della foresta sognante, schiaffeggiando i polpacci con il bastone da passeggio,
roteando gli occhi come Nerone al rogo di Roma. Rosa concluse così:
“Comprendimi! Già da piccola, quando vedevo una guardia, avevo le convulsioni.
Non so se è così per tutti. La mia coscienza non mi lascia riposare, questa
divisa è ciò che mi rende donna, qualcosa di morbido, pallido, tremante,
sopraffatto”.
Nella testa dell’uomo si accese una luce, percepì qualcosa come la nascita
dell’uniforme dallo spirito dell’erotismo. Poi all’improvviso chiese
gelidamente: “E se osassi indossare un’uniforme come quella? E dicessi: che cosa
ha tuo marito in più degli altri?”.
Rosa arricciò il naso da Venere: “Prima, assolutamente niente, ma ora tutto,
tutto! Quando ne ho preso uno, per gli altri era finita – sì, anche se ci ha
fatto il favore di rendermi vedova – non potevo dimenticarlo! Non è amore,
l’amore è stupido al confronto, sono questa donna del poliziotto con tutto il
corpo e l’anima. Lo sono e lo resterò”.
L’uomo barcollò come Golia quando fu colpito dalla fionda di Davide… beh, già lo
sapete. Ma non cadde; urlò così forte che un poliziotto si avvicinò. Urlò come
un pazzo: “Ma questa è follia! Bisogna lasciarla andare via con l’ipnosi! È una
cosa facilissima da determinare psicoanaliticamente. Oh, devo andare subito a
Vienna da Freud in persona…”
Non andò oltre; una di quelle mani pesanti, familiari a quasi tutti i nativi
tedeschi, si posò sulla sua spalla contratta: “Non lo farai!” affermò il
poliziotto di Rosa – era lui. “Per favore, andatevene in modo discreto e
decoroso. Non mi preoccupo per mia moglie. Tutti la amano e lei ama tutti.
Nell’amore non c’è resistenza. È giovane, bella e focosa: basta guardarla! Ma ha
la stoffa per farlo! Hai sentito. E adesso basta! Spesso non sono a casa, non
posso fermarti – ma sono più protetto dalle corna. Avrebbe rotto il matrimonio
senza esitazione, ma non questo; È così garantito da ciò che hai appena chiamato
follia che io stesso – a volte si hanno pensieri del genere – non potrei
cambiarlo. Nanu Adieu!”.
Se ne andò con Rosa. L’uomo, stordito, nella direzione opposta. Non vide mai più
Rosa. Non riuscì mai a strappare dal suo cuore l’amore per lei. Fu molto più
tardi (davanti alla cattedrale di Strasburgo) che mormorò cupamente tra sé e sé:
“Rosa, adorabile segreto! Sfinge di tutta la gendarmeria!”
“Accidenti”, disse qualcuno quando glielo dissi, “Reprimi meglio le tue idee!”.
Oh sì! Tutti dovrebbero tenere la bocca chiusa sulla Sfinge, più Sfinge della
Sfinge. “E non chiamate la mia bocca bocca!”, mi interruppe la sfinge nel suo
silenzio lungo un miglio.
L'articolo “Una piccola rissa teologica da gattini”. Mynona, lo scrittore
grottesco, una sintesi tra Kant e Chaplin proviene da Pangea.
È un sabato pomeriggio d’aprile. Parigi pare celebrare l’arrivo della primavera.
La musica della vita invade le strade, la gente affolla i locali della Rive
Gauche, forse nascono nuovi amori. In me risuonano le parole di Olga Ivinskaja,
la donna che ha condiviso gli ultimi quattordici anni della vita di Boris
Pasternak:
> “E dirò a me stessa sospirando
> nell’impietosa luce del giorno:
> sì, sarò stata malvagia, e peccatrice,
> ma pur con tutto questo m’hai amata.”
Tengo strette le sue memorie, Prigioniero del tempo. La mia vita con Pasternak,
mentre mi appresto ad incontrare Irina Emelianova, sua figlia.
Mi accoglie sulla soglia di casa, con limpidi e sereni occhi azzurri. Vedere
quello sguardo terso, che ha incrociato quello di Pasternak, Ariadna Efron,
Varlam Šalamov… mi commuove nel profondo. Mi toglie il fiato. Ma la sua
gentilezza, il sorriso aperto, mi fanno subito sentire “a casa”, come se ci
conoscessimo da sempre. Respiro familiarità, quello stesso calore che emerge dal
suo libro Légendes de la rue Potapov, il leggendario appartamento a venti minuti
dal centro di Mosca, dove l’amore, la gioia e la poesia hanno convissuto con le
tragedie, le perquisizioni, gli arresti, le separazioni.
Mentre osservo le fotografie che campeggiano nel suo salotto, mi trovo a pensare
che se il verbo ha un potere, è proprio quello di far risorgere la “vera vita”.
Nel momento in cui Boris Pasternak muore, nel 1960, il suo romanzo, Il dottor
Zivago, conosce un destino eccezionale, un successo planetario. Sappiamo che
Olga Ivinskaja ha ispirato il personaggio di Lara e Irina quello della piccola
Katia. Ecco: ora, davanti a me, c’è Katia, il riflesso di Lara, non più due
eroine, simboli romantici, ma due donne vive, in carne ed ossa, che hanno
suggerito a Pasternak la concezione di un’esistenza e di un amore fuori dal
comune.
Sul treno che da Torino mi ha condotto a Parigi ho riletto per l’ennesima volta
il capitolo finale di Zivago, quello in cui Lara ripercorre la sua storia con
Jurij, di fronte alla sua salma, avanti all’inesorabilità della morte. In quelle
pagine, Zivago-Pasternak pare anticipare la sua fine, come per donare a
Lara-Olga gli strumenti per affrontarla, il diritto di piangere per lui da sola,
nella certezza d’un amore unico, fondato sulla più intima conoscenza reciproca,
qualcosa “che non veniva dal ragionamento, ardente, mutua. Istintiva, diretta”.
Come mi suonano vere, oggi, quelle parole… Irina mi mostra le foto di famiglia e
il verbo si fa carne. “Oh, che amore era stato il loro, libero, inaudito,
diverso da ogni cosa al mondo! Pensavano, come altri cantavano. Si sono amati
non perché fosse ineluttabile, non perché ‘travolti dalla passione’, come si
dice, falsando i fatti. Si sono amati perché così voleva tutto ciò che li
circondava: la terra sotto di loro, il cielo sopra alle loro teste, le nuvole e
gli alberi… Mai, mai, nemmeno nei momenti della felicità più gratuita, immemore,
li aveva abbandonati qualcosa di più elevato e appassionante: il godimento al
cospetto della generale armonia del mondo, il sentimento della loro appartenenza
a tutto ciò, la sensazione di essere parte della bellezza di tutto quello
spettacolo, di tutto l’universo. Da loro emanava questa comunione”.
È una comunione cristiana quella che emerge da Zivago e Pasternak la sperimenta
in prima persona con Olga Ivinskaja.
Mentre il poeta ci osserva dall’alto della libreria, Irina mi racconta le loro
tribolazioni: il primo arresto della madre, nel 1949, cui seguirono quattro anni
di reclusione nei gulag. Lei ha undici anni. Boris la “adotta” e le permette di
sopravvivere alla più grande miseria. In quegli stessi anni lo scrittore è in
corrispondenza con Ariadna Efron, la figlia di Marina Cvetaeva, al confino
aTuruchansk, nel nord della Siberia. È grazie al suo sostegno morale e
finanziario se Ariadna sopravvive a condizioni esistenziali estreme. Irina e
Ariadna divengono così le “figlie adottive” del poeta, figlie della sua anima,
in un autentico “arcipelago di cuori” che li legherà fino alla fine.
Tutto questo passa attraverso le parole di Zivago, una lezione di vita,
un’autentica “attrezzatura spirituale” che affonda le sue radici nel Vangelo,
nell’amore per il prossimo
> “questa forma suprema dell’energia vivente, che riempie il cuore dell’uomo ed
> esige di espandersi e di essere spesa”.
Queste le parole chiave che mi trovo a condividere con Irina, testimone vivente
di quell’amore straordinario
> “l’apice di una reciproca
> compatibilità di intenti
> che non ammette gradazioni
> e in cui nessuno sta sopra o sotto,
> è un’equivalenza di intenzioni
> dell’essere pieno nella sua interezza”.
Ripercorriamo assieme le Tre variazioni sull’amore, là ove Pasternak ne canta la
“selvaggia tenerezza”. Su tutto, prevale l’ottica di un “amore superiore” che si
stacca dalla terra per elevarsi verso il cielo. Dall’abbandono negli abbracci,
la sensualità dei corpi si fa “anima e dolcezza”, veicolo di elevazione:
> “ognuno degli istanti,
> in cui ci viene addosso come un alito
> d’eternità il fremito della passione,
> è un momento di rivelazione,
> di un approfondimento
> di noi stessi e della vita”.
Versi da incidere nel cuore, cui aggrapparsi come a un deltaplano. Rileggendoli,
ho sempre pensato: questo è “l’amore come dovrebbe essere” e ora ne sono
pienamente consapevole.
Grazie ad Irina Emelianova vivo un momento di autentica rivelazione. La
letteratura si fa vita. E quello che emerge è il quadro – umanissimo – di un
amore vissuto come “empatia, indulgenza, comprensione, compassione”, così me ne
parla Irina. Pasternak era lacerato tra l’amore per Olga e il matrimonio con
Zinaida Neuhaus, ma “mia madre lo rassicurava…”, mi racconta, “era felice con
lui, non gli ha chiesto di lasciare la sua famiglia… perché complicargli la
vita? Con la sua età e tutto il resto?”. Ecco un sorprendente sustine et
abstine, pronunciato con un tale equilibrio di forze da commuovermi.
“Mia madre ed io”, continua Irina, “abbiamo vissuto un secondo arresto due mesi
dopo la morte di Pasternak. Il potere, l’incarnazione del male, si è vendicato
sull’anima del poeta per questa ‘passione illegale’. Questo è stato il prezzo
che mia madre ha dovuto pagare, scontando nove anni in prigione. Il 30 maggio di
quest’anno avremo il nostro ‘giubileo’, a 65 anni dalla morte di Pasternak e dal
nostro arresto.”
Mi affretto a trascrivere queste parole sul taccuino: Irina le pronuncia in
francese e le ripete in russo. In questa comprensione-compassione, in questo
prezzo da pagare (per vivere e amare), c’è tutto Il dottor Zivago. Zivago, Lara
e Katia… ma soprattutto: Pasternak, Olga e Irina. Cuori pulsanti, sanguinanti,
attraverso cui passa la vita. Quella vera: la testimonianza di una grande luce
sulle persone che ne sono state irradiate, a cui essere grati, nel riflesso di
una lezione universale.
Marilena Garis
*In copertina: Boris Pasternak insieme a Olga e alla figlia, Irina
L'articolo Un arcipelago di cuori. Incontro con Irina Emelianova, la figlia
“adottata” da Pasternak proviene da Pangea.
«Sono nato in un grande possente impero, nella monarchia degli Absburgo, ma non
si vada a cercarla sulla carta geografica essa è sparita senza traccia. Sono
cresciuto a Vienna, metropoli supernazionale bimillenaria, e l’ho dovuta
lasciare come un delinquente prima che essa venisse degradata a città
provinciale tedesca. Io ora non appartengo ad alcun luogo, sono dovunque uno
straniero e tutt’al più un ospite; anche la vera patria che il mio cuore si era
eletta, l’Europa, è perduta per me da quando per la seconda volta, con furia
suicida, si dilania in una guerra fraterna.»
In queste parole tratte dall’introduzione alla sua autobiografia, Il mondo di
ieri, c’è il ritratto completo della vita e del dramma di Stefan Zweig
(1881-1942). Nato in una famiglia della grande borghesia ebraica di Vienna,
cosmopolita per spirito e formazione, trascorse buona parte della sua vita
viaggiando tra Vienna, Berlino, Zurigo, Parigi, Londra, e poi la Russia,
l’Italia, l’America, sempre in contatto con i maggiori intellettuali dell’epoca.
Autore soprattutto di racconti e biografie, fu uno scrittore popolarissimo tra
le due guerre, ma resta un “minore” rispetto ai tanti giganti suoi
contemporanei, da Thomas Mann a Robert Musil, solo per citare due scrittori
della sua stessa epoca.
Con il passare degli anni la sua fama è sempre più rimasta legata all’immagine
dell’ultimo cantore di un’epoca e di un’Europa ormai scomparse, un mondo dove ai
suoi occhi regnavano l’amore per l’intelligenza e la cultura, il gusto per la
poesia e la musica, un mondo nel quale:
> «ognuno sapeva quanto possedeva e quanto gli era dovuto, quel che era permesso
> e quel che era proibito in cui tutto aveva una sua norma, un peso e una misura
> precisi».
L’Europa di Zweig era quella dove non esistevano frontiere e passaporti,
accomunata da una spiritualità comune, che credeva nella funzione storica della
cultura, strumento di comunicazione e di dialogo tra i popoli e tra le
società. L’avvento della modernità, così arrogante e volgare, il culto
dell’efficientismo e l’esplosione dei nazionalismi che porteranno l’Europa a
“suicidarsi” con le due guerre mondiali, furono qualcosa di sconvolgente e
incomprensibile per Zweig, del tutto incapace di accettare la nuova realtà. Per
restare fedele al suo personaggio, Zweig diede alla sua autobiografia, Il mondo
di ieri, scritta quando era già in esilio, il sottotitolo “Ricordi di un
europeo”.
La sua era senza dubbio una visione aristocratica, di chi era cresciuto e si era
formato nel privilegio, e la critica ha spesso colto nella sua nostalgia un
sapore dolciastro, un che di troppo caramelloso. Facile immaginare che un tipo
del genere poteva dare sui nervi a uno scrittore come Carlo Emilio Gadda, che
infatti dopo avere letto Il mondo di ieri diede uno dei suoi giudizi al
vetriolo:
> «Un trufolone europeo che va in cerca di tutti, è amico e ospite di tutti, è
> stato a balia con tutti (…) Tutto ciò non gli impedisce di ‘nutrire degli
> ideali’. Il più alto, il più generoso, e ad un tempo il più facile, è la
> comunione delle anime universe nella civiltà della supernazione. Auspicio
> supremo la scomparsa dei passaporti».
Con il passare degli anni però, aldilà dell’alone nostalgico, resta un punto
fermo incontestabile che Zweig aveva colto a pieno: il grande ciclo storico
dell’Europa si è chiuso per sempre. Tutto quello che è successo dal 1945 a oggi
lo testimonia senza ombra di dubbio.
Per capire meglio quella che era la sua visione del mondo, vecchio e nuovo, il
consiglio migliore resta quello di leggere La novella degli scacchi, forse il
racconto più famoso e sicuramente, almeno a mio parere, il più bello di Stefan
Zweig, scritto negli ultimi mesi di vita. Il tema è quello di una sfida tra due
personaggi che rappresentano due opposte umanità: uno, il dottor B, sensibile e
tormentato, è arrivato agli scacchi attraverso un percorso drammatico, l’altro,
Mirko Czentović, un gelido professionista, arido, rozzo e del tutto ignorante,
“specializzato” solo nel gioco degli scacchi.
> «Il contrasto spirituale dell’habitus dei due avversari divenne, nel corso
> della partita, sempre più plastico, più concreto. Czentović, il praticone,
> rimase per tutto il tempo immobile come un masso, gli occhi strenuamente fissi
> sulla scacchiera… Il dottor B. invece si muoveva del tutto disteso e
> disinvolto. Come il vero dilettante nel senso migliore del termine, che nel
> gioco vede solo il gioco che procura “diletto”».
Una sfida che alla fine vede inesorabilmente soccombere il “mondo di ieri”,
rappresentato dall’anima aristocratica e sensibile del dottor B., di fronte al
“mondo nuovo”, sotto le sembianze della forza brutale e ottusa di Czentović.
Questo racconto va considerato come il testamento spirituale di Zweig, che lo
scrisse negli ultimi mesi del 1941 a Petropolis, la cittadina vicino a Rio de
Janeiro dove era andato a vivere, lontano, il più lontano possibile, dalla sua
Europa che non riconosceva più. Ormai era un uomo stanco, deluso, che vedeva
finire in cenere tutto ciò in cui aveva sempre creduto.
Allo stesso modo dei vecchi elefanti che quando sentono avvicinarsi la fine
abbandonano il branco, anche Zweig, preso atto della sua sconfitta definitiva,
se ne andò in fondo al buco del culo del mondo dove il 23 febbraio del 1942 si
suicidò insieme alla seconda moglie.
Silvano Calzini
*In copertina: Samuel Reshevsky (1911-1992), scacchista di genio e bambino
prodigio, il 6 aprile del 1922, sfida alcuni maestri a Washington DC
L'articolo Il suicidio di un’epoca. Elogio di Zweig, l’ultimo cantore di
un’Europa scomparsa proviene da Pangea.
Nel 1952, per la Harvill Press, Roy Campbell, l’esagitato poeta di Durban,
Sudafrica, pubblica Poems of Baudelaire, la propria versione di Les Fleurs du
Mal. Il poeta – ascendenze scozzesi, studi distratti a Oxford, abile nella
caccia, “bellissimo, enorme, ingenuo, docile, selvaggio”, l’avrebbe detto, anni
dopo, Evelyn Waugh – compiva cinquantuno anni; sarebbe morto poco dopo,
nell’aprile del 1957, di schianto, in un incidente d’auto, nei pressi di
Setúbal, Portogallo, dove si era trasferito da tempo con la famiglia. Le sue
spoglie riposano a Sintra, nel cimitero di São Pedro, di fronte
all’oceanico: oceanica, in effetti, e senza ancoraggi, è l’opera di questo poeta
che fonde la facondia visionaria di Blake agli oratori irti di piume, lance e
danze degli Zulu, di cui si sentiva confratello.
Nella breve introduzione al ‘suo’ Baudelaire, Roy Campbell – con il solito tasso
di alcolica sbruffonaggine – si tesse l’agiografia:
> “Dopo l’intrepido successo delle mie versioni di Giovanni della Croce, ho
> deciso di tradurre un peccatore senza scrupoli, non meno credente, tuttavia,
> anche nei momenti di ribellione assoluta e di assoluta blasfemia, di quel
> Santo. Leggo Baudelaire da quando ho quindici anni, è stato nella mia bisaccia
> durante due guerre, l’ho amato più di qualsiasi altro poeta. Ho tradotto
> Giovanni della Croce perché mi ha salvato miracolosamente la vita, a Toledo.
> Traduco Baudelaire perché ha vissuto la mia stessa vita: i peccati, i rimorsi,
> gli ostracismi, la povertà, la stessa disperata speranza di una
> riconciliazione…”.
Secondo George Steiner, Roy Campbell, insieme a Ezra Pound, è il più folgorante
poeta-traduttore in lingua inglese del Novecento. Insieme a Ezra Pound, è anche
il poeta più ostracizzato, malmenato, minato di fraintesi. Thomas S. Eliot – il
più arguto lettore di Baudelaire di quella generazione – amava, con rispettoso
turbamento, Roy Campbell: nel 1930 gli aveva pubblicato, per la Faber &
Faber, Adamastor; nel 1946 fu la volta di Talking Bronco.
La prima delle due guerre menzionate da Campbell nell’intro al Baudelaire è la
guerra civile spagnola. Cattolico fervente, avventuriero imperiale, Roy Campbell
è l’unico tra gli intellettuali anglofoni a parteggiare per Franco: cerca di
arruolasti tra i Carlisti; di fatto, non prenderà parte attiva al conflitto. Nel
luglio del 1936, a Toledo, aveva assistito al massacro: le truppe comuniste
predano e uccidono diciassette monaci del Carmelo dov’era ospite il poeta, con
la moglie. Campbell riuscì a salvarsi, salvando dalla razzia alcuni codici di
Giovanni della Croce lì conservati. I Poems of St John of the Cross vengono
tradotti e pubblicati da Campbell nel 1951; piacquero molto a Jorge Luis Borges,
che cominciò ad apprezzare “quel grande poeta scozzese, incidentalmente
sudafricano”.
Durante la Seconda guerra, il ‘fascista’ Roy Campbell – ben più antifascista di
molti, tiepidi intellettuali ‘di sinistra’ – fu arruolato nell’Intelligence
Corps; poi inviato a Nairobi, incluso tra i King’s African Rifles. Un incidente
in moto lo mise fuori ruolo: passò l’ultima parte della guerra sulla costa
kenyota, in operazioni atte a smontare l’azione dei sommergibili nemici. A
Londra, durante il “Blitz”, conobbe Dylan Thomas: diventarono fraterni compagni
di colossali bevute. Ogni tanto, si univa agli ‘Inklings’: a Tolkien – che era
nato in Sudafrica come lui – stava simpatico quel poeta sopra le righe, dal
talento smodato, che da ragazzo sfotteva gli snob del Bloomsbury e ora faceva a
cazzotti contro tutti; C.S. Lewis, simpaticamente, malsopportava l’ego del
“poeta e soldato”. Nel 1949, durante un incontro pubblico, Campbell si scaglierà
contro Stephen Spender, che rappresentava, ai suoi occhi, il côté tipico degli
intellettuali della sinistra anglofona: pallidi, pavidi reggenti della poesia
contemporanea, assertori di un patetico nepotismo. Gli spaccò il naso. Spender –
comunque, un cavaliere – si rifiutò di denunciarlo: “è un grande poeta e i
grandi poeti devono essere capiti”. È vero: Flowering Rifle, “a poem from the
battlefield of Spain”, uscito nel 1939, grandguignolesco poema sulla guerra
civile spagnola, è ascrivibile, più che altro, a un documento letterario
‘dell’altra parte’ – letterariamente, è goffo, tonitruante, malrassettato. Più
che altro, garantì a Roy Campbell un pervicace ostracismo. Quanto a lui –
gioviale, ingenuo, sempre in cerca di battaglie – percorreva la provocazione.
Strenuo oppositore del sistema fratricida dell’apartheid, nel ’53 ricevette una
laura in onore dalla University of Natal. Denunciò il “suprematismo bianco” del
primo ministro sudafricano, D.F. Malan; nello stesso tempo, diede dello “zombie
ridacchiante” a Franklin Delano Roosevelt, reo di aver mollato a Stalin l’Europa
orientale. Churchill gli pareva un pachiderma.
Intrattabile, inarginabile Campbell: nel 1924 aveva esordito, per Jonathan Cape,
con The Flaming Terrapin, imponente poemetto dal genio ‘aggressivo’, fuori
classifica rispetto ai libri dell’epoca, al contempo, inno sciamanico, iliade
africana, leviatano lirico. In Italia, cominciamo a colmare la lacuna soltanto
ora: l’ultimo numero della rivista “Poesia” (n.31, maggio/giugno 2025, Crocetti
Editore) dedica la copertina a Roy Campbell, “Il poeta guerriero”, pubblicando
una porzione di The Flaming Terrapin tradotta da Andrea Temporelli (il poema
sarà edito, prossimamente, dalle edizioni Magog).
Nel 1952 – a testimonianza della mente multiforme del poeta – Campbell pubblica
un poderoso omaggio a Federico García Lorca, An Appreciation, With Selected
Translations of His Poetry. Campbell idolatrava il poeta repubblicano, vilmente
fucilato e oltraggiato dai nazionalisti nel ’36. Alcuni dicono che le sue
versioni di García Lorca siano tra le più belle uscite nel mondo inglese. Sul
“New York Times”, il 21 dicembre del ’52, Dudley Fitts firmò una partecipe
recensione:
> “Pare che Roy Campbell sia nato per scrivere questo piccolo, esplosivo
> libello. Egli stesso possiede quelle qualità ‘romantiche’ che rintraccia in
> Federico García Lorca – avventatezza e galanteria, un maquillage andaluso di
> cruda vita e misticismo, il genio della poesia, soprattutto –: difficilmente
> potremmo immaginare coincidenza più felice tra un autore e il suo soggetto”.
Già: l’erculeo Roy Campbell, autore di una lirica tra le più vertiginose e
inavvicinabili del secolo, possedeva un’energumena generosità. Lo hanno dipinto
come un Ciclope – per la cecità politica, per la cieca ira –, era un uomo buono,
un cavaliere medioevale. Sognava di essere un Centauro: lo fu – all’incirca.
**
Da Charles Baudelaire
Corrispondenze
La natura è un tempio, ogni pilastro
getta, a tratti, vaghi sussurri. L’Uomo avanza
nella foresta dei simboli, strani e solenni,
che lo mirano con sguardi familiari.
Dilaga l’eco, si mescola e trasfonde
finché nel profondo oscuro unisono si confonde
vasto come la notte, come la cupola del mezzogiorno –
così si embricano profumi, suoni, colori.
Profumi freschi come il vello dei bimbi
come i violini, dolci come i verdi tumidi prati.
Ricchi, complessi, trionfanti, altri rotolano
insieme alla vasta gamma delle infinite non rifinite
cose: ambra, muschio, incenso, resine, ciascuno
canta il trasporto dei sensi e dell’anima.
*
Il nemico
Fu tempesta oscura, selvaggia, il mio giovane
giaculìo: vi sfrecciava un sole abbagliante.
Tuono e pioggia hanno devastato tutto
il mio giardino è avaro di rosati frutti.
Ora è l’autunno della mente
e vanga e rastrello raspano la terra
per salvare frantumi dei miei campi
allagati, dove l’acqua insudicia una tomba.
Chissà se i fiori prefigurati dai miei sogni
troveranno, su questa dilavata terra, per una malizia
almeno, il nutrimento mistico che li farà germogliare.
Il tempo divora la nostra vita, è brutale!
L’oscuro nemico rode le radici del cuore
e cresce sempre più forte sulla nostra chioma.
*
Sopra il ritratto di Tasso in prigione di Delacroix
Il poeta è malato e mezzo nudo:
calpesta un manoscritto nell’oscura cella
e fissa con terrore la scala dove
il suo spirito, infine, crollerà.
Risate inebrianti sbracano quell’aia
lo invitano allo Strano e all’Assurdo.
Intorno a lui, sguainate le orribili figure
del Dubbio e del Terrore, le multiformi.
Questo genio recluso in sotterranei pestilenziali
queste grida, il ghignare di spettri che si contorcono
che si accalcano intorno a lui, beffardi,
questo sognatore destato dalle urla del proprio incubo
è il tuo emblema, Anima sorta dalla nebbia.
Attorno a te la Realtà erige il suo muro e la sua museruola.
*
Da Federico García Lorca
Vasto fantasma d’argento, il vento di mezzanotte
spira e spalanca la mia ferita antica
con la sua grigia mano: se ne andò
e svenni, preda di un triste desiderio.
Questa ferita mi darà la vita: da essa
germoglierà la luce, il sangue che senza
tema sgorga – uno spiraglio dove l’usignolo,
muto, troverà un bosco, un nido e un addio.
Oh, che dolce litania fa tintinnare la mente!
Sul fiore più modesto deporrò il mio dolore
dove fluttua, senz’anima, l’orgoglio della tua beltà.
Allora, il fiume mercenario si tingerà
di rosso, mentre il mio sangue scende
lungo le fragranti selve, nell’aura della rugiada.
*
Adamo
Presso l’albero del sangue, il mattino stilla
rugiada e il neonato urla.
La sua voce mette un vetro nella ferita
e cosparge le finestre con diagrammi di ossa.
Il giorno ha raggiunto a luce costante
i limiti della favola: evadi
dal tumulto del sangue e vola
verso la mela, verso la sua fioca ombra.
Adamo, con quella febbre d’argilla,
sogna che il bimbo galoppa verso di lui –
raddoppia il puledro sangue nelle sue guance.
Ma un altro oscuro Adamo sogna: anela
una luna di pietra, neutra, dove nulla germoglia
dove il figlio della gloria sarà bruciato.
*In copertina: Augustus John, The Poet: Roy Campbell, ca. 1925, Carnegie Museums
of Art, Pittsburgh
L'articolo “Un invito all’Assurdo”. Roy Campbell, poeta guerriero proviene da
Pangea.
Ne sappiamo poco o nulla, ma quello che avviene a Petrópolis tra il 22 e il 23
febbraio del 1942, in pieno Carnevale, ha di certo anche un aspetto teatrale, di
accurata messinscena: il doppio suicidio di Stefan e Lotte assomiglia
terribilmente, o costituisce un’allusione neanche troppo criptica, ai limiti del
plagio, a un altro doppio suicidio della storia letteraria tedesca: quello che
nel 1811 aveva visti coinvolti, al Wannsee presso Potsdam, Henriette Vogel e
Heinrich von Kleist, autore che Zweig venerava e con il quale forse, a proprio
discapito, si confrontava come scrittore. Ci si può quindi chiedere se, oltre
all’avanzata apparentemente inarrestabile del nazismo, al venir meno
dell’ammirazione e della vicinanza dei lettori, alla solitudine e all’isolamento
intellettuale nonché alla malattia di Lotte, una parte nella decisione di Zweig
non l’abbia avuta anche la suggestione di replicare, come in un macabro omaggio,
l’autodistruzione kleistiana. Imbastendo una storia magari leggermente diversa
nei dettagli, ma al contempo così simile nell’incapacità, da parte di entrambi
gli scrittori, di affrontare la realtà.
Fatto sta che nello schizzo biografico che Zweig aveva dedicato a Kleist molti
anni prima sembra di cogliere una partecipazione autentica, non artefatta, alla
vicenda narrata. A un certo punto Zweig menziona anche (e sembra far suo)
il Doppelblick (“doppio sguardo”) teorizzato da Kleist, uno sguardo volto
contemporaneamente tanto al passato quanto al futuro da parte di colui che,
consacrandosi alla morte, raggiunge la suprema armonia. Molte delle
caratteristiche che Zweig attribuisce a Kleist, scrittore ammiratissimo per la
compresenza di eccesso e disciplina, di veemenza e freddo rigore, potrebbero
essere riferite anche a lui stesso:
> “Come gli accade nei confronti degli esseri umani, Kleist si interessa alla
> natura, al mondo, solo nei loro limiti più estremi, dove si superano sfociando
> nell’inaudito e nell’improbabile, anzi direi quasi, dove diventano eccessivi e
> viziosi e abbandonano ogni forma. E come nei confronti dell’umanità, a lui
> interessa solo l’anormale, la deviazione dalla regola (la Marchesa di O.; la
> mendicante di Locarno; il terremoto in Cile), sempre il momento in cui
> sembrano irrompere fuori dalle cerchie preferite da Dio”.
E aggiunge, a proposito proprio del suicidio di Kleist, delle sue modalità e
delle sue ragioni profonde:
> “L’essenza intima del suo essere era impazienza e tensione, il significato
> ineliminabile del suo destino era l’autodistruzione attraverso l’eccesso: ecco
> perché la sua morte prematura e volontaria è il suo capolavoro, tanto quanto
> il Principe di Homburg: perché accanto ai potenti, a coloro che sono dei
> maestri della vita come Goethe, di tanto in tanto emerge qualcuno che invece
> padroneggia la morte e attraverso la morte crea una poesia che va al di là del
> tempo”.
E proprio come Kleist aveva cercato e trovato nell’amica Henriette Vogel,
gravemente malata di cancro, qualcuno che lo seguisse e lo accompagnasse
nell’atto fatale, così Zweig aveva potuto contare sul sostegno e sulla
complicità, non sappiamo fino a che punto convinta, di Lotte.
Questo del doppio suicidio è un motivo che era già comparso, comunque,
nell’opera di Zweig, anche se veniva solo programmato senza essere poi portato a
termine. Mi riferisco al romanzo incompiuto Estasi di libertà (Rausch der
Verwandlung), in parte utilizzato dal regista Wes Anderson quale fonte
d’ispirazione per il suo recente film Grand Budapest Hotel (2014). I due
protagonisti, la giovane Christine Hoflehner e Ferdinand, reduce dalla Grande
guerra e dalla prigionia in Russia, entrambi frustrati e indignati con uno Stato
che non li tutela, decidono dapprima di farla finita insieme, per poi ripiegare
su una soluzione meno drastica, la rapina di un ufficio postale. Quello che nel
romanzo era un semplice espediente narrativo risoltosi in commedia torna ora
d’attualità sotto una forma molto più drammatica e reale, acquisendo uno statuto
di fattibilità e forse persino di opportunità.[1]
Si è molto discusso delle reali condizioni di salute di Lotte, che soffriva
d’asma, doveva usare un inalatore durante la notte e passava attraverso ripetute
crisi respiratorie, ma il cui stato di salute generale, sebbene aggravatosi dopo
il soggiorno a New York, non sembrava poter giustificare una decisione così
drastica. Certo, le crisi di Lotte non contribuirono a rasserenare l’atmosfera
generale, e se Zweig si era mai aspettato che una moglie tanto più giovane
potesse in qualche modo spronarlo e legarlo alla vita, ora dovette disilludersi.
Quanto aveva amato in passato quella sua fragilità, che lo induceva a
proteggerla e a custodirla come un bene prezioso, tanto ora gli sembrava un
ulteriore onere, un ostacolo insormontabile che gli impediva di vivere
pienamente la propria esistenza. In una lettera scritta proprio alla vigilia del
suicidio ai cognati Manfred e Hannah Altmann, e quindi alla famiglia di Lotte,
Zweig fa riferimento a una prolungata cura d’iniezioni, probabilmente a base di
antigeni, che non le avrebbe fatto alcun effetto, convincendoli quindi
dell’opportunità dell’atto finale. Ma è mai possibile che ad appena trentatré
anni Lotte fosse davvero già così stanca della vita e incapace di lottare? E non
è forse plausibile che avere al fianco una persona sicuramente malinconica, se
non depressa, come Zweig, abbia potuto fiaccarne e cancellarne l’istinto di
autoconservazione?
A quanto pare, la morte di Zweig fu causata dall’ingestione di numerose
compresse di Veronal, il cui tubetto vuoto fu trovato sul tavolino da notte
insieme a una bottiglia d’acqua minerale di cui non rimaneva che un quarto.
Maggiori dubbi riguardano invece la sostanza ingerita da Lotte, che sembra
essere morta più tardi e aver preferito un altro tipo di barbiturico, perché
rispetto a quello di Stefan il corpo emanava un diverso e più forte odore. Si è
notata anche una differenza nel modo di presentarsi alla morte: Zweig era
vestito di tutto punto (camicia sportiva a maniche corte, cravatta nera,
pantaloni scuri – con un tocco di eleganza austriaca, insomma), mentre Lotte
portava una vestaglia a fiori senza pretese. Così come ha lasciato perplessi
un’ulteriore differenza, riguardante la posizione, che nel caso di Zweig sembra
non lasciare nulla al caso ed è estremamente dignitosa, là dove invece Lotte lo
cinge e gli stringe le mani, ma è tutta contratta e raggomitolata su un fianco.
In ogni caso, Zweig avrebbe voluto delle esequie private e un rito laico,
avrebbe preferito insomma scomparire in silenzio. Ma la trasformazione del suo
funerale, alla presenza del dittatore brasiliano Vargas, in un grande evento
spettacolare sancirà il mancato rispetto anche di quest’ultima volontà. Un
corteo imponente, seguito da quattromila persone, poi una funzione ebraica,
e dulcis in fundo un versetto biblico inciso sulla pietra tombale – nulla che
alla fin fine importi davvero, alla resa dei conti, ma certo non quello che
Zweig, ormai lontano da ogni esibizione religiosa, avrebbe voluto.
Raoul Precht
*Per gentile concessione si pubblica un estratto da: R. Precht, “Stefan
Zweig. La fine di un mondo”, Milano, Ares, 2025
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[1] Con Estasi di libertà, scritto nel 1930-31, Zweig ritenta senza troppo
successo la strada del romanzo, riprendendo alcuni temi, come le conseguenze
della Prima guerra mondiale e della successiva inflazione per i ceti popolari o
il dramma dei reduci, temi già trattati in alcuni racconti precedenti e nel
dramma Das Lamm des Armen, mettendo in drammatico risalto da un lato il potere
del denaro e dall’altro la contrapposizione fra gente comune e quello sparuto
gruppo di ricchi che possono permettersi di vivere negli hotel di lusso.
L'articolo Il gusto della messinscena. Gli ultimi giorni di Stefan Zweig
proviene da Pangea.