Non sarebbe stato difficile scorgere a Parigi, nella livida luce del tramonto
sul lungo Senna, il profilo imponente di Danilo Kiš. Dinoccolato, con una
sigaretta tra le labbra appena dischiuse e una capigliatura da creatura
mitologica, questo misterioso principe delle lettere amava girovagare per la
città, sfiorando discretamente i banchetti dei bouquinistes, attratto dalle
copertine e dai poster che occhieggiavano dagli scaffali.
Con gli occhi azzurri e luminosi, il volto dalle linee irregolari e la voce di
balcanica asprezza, Danilo Kiš si muoveva con l’incedere di un lare, quassi
fosse una tenera e rassicurante divinità
*
La biografia pretende di racchiudere in pochi cenni l’arco di un’esistenza, più
o meno lunga a seconda dei capricci delle Parche, disteso tra due banali date di
calendario. Danilo Kiš nasce nel 1935 in una famiglia per metà ungherese e per
metà montenegrina, ereditando dal padre la religione ebraica. Trascorre
l’infanzia in Ungheria, dove si confronta presto con l’odio antisemita e inizia
a maturare la sua precoce vocazione di scrittore. Poco prima della catastrofe,
si rifugia con la madre e la sorella in Montenegro, riuscendo a sottrarsi ai
rastrellamenti e a completare gli studi. Dopo la guerra, si laurea in
letterature comparate all’Università di Belgrado. Il resto della vita lo
trascorre tra Parigi e la capitale serba, insegnando come lettore di
serbo-croato nelle università francesi. Traduce con grazia da tre lingue e
scrive libri di ustionante bellezza. Assieme a Cortázar, appartiene a quella
schiera di scrittori esuli a Parigi, sospinti dalle onde del destino, dai marosi
della storia e dal richiamo delle Muse. Milan Kundera lo definì il più
misterioso e il più grande della sua generazione.
*
Su pochi altri scrittori la storia ha calato i suoi artigli con altrettanta
ferocia. Il giovane Kiš, in un triste e tragico battesimo, assiste come
testimone impotente al massacro di Novi Sad, avvenuto nel 1942. Di suo padre e
della maggior parte dei familiari si perderà ogni traccia: troveranno la morte
ad Auschwitz e in altri campi nazisti.
La letteratura di Kiš nasce sotto il segno della sofferenza e della crudeltà
arbitraria: la scomparsa dei propri cari e un destino segnato dalla sventura si
trasformano in un vero e proprio buco nero che travolge la biografia e orienta
la scrittura. Il colloquio tra i vivi e i morti diventa la cifra peculiare di un
equilibrio teso come una corda sull’abisso, sospeso tra memoria e oblio.
Come dire: la letteratura veste le sembianze di Caronte, mettendoci in religioso
ascolto di coloro che sono svaniti tra le nebbie della storia e ci attendono
dall’altra parte del fiume.
Mi tornano in mente i favolosi ritratti del Fayyum, ritrovati quasi intatti tra
le sabbie millenarie dell’Egitto: la scrittura di Kiš si posa come un amorevole
sudario sui volti di chi è già salpato. Anche lui, come Mandel’štam, ha appreso
la “scienza degli addii”. Il momento del congedo, però, non è mai netto, non
avviene con il veloce e argenteo taglio di una lama: è piuttosto un lento
dissolversi tra le fessure del tempo, il riconoscere infine che i partenti
custodiscono con sé il mistero del passaggio, sigillandone il segreto come una
rosa ben serrata tra le labbra.
Tutta l’opera di Kiš, dagli acerbi tentativi poetici fino alla grande trilogia
composta da Dolori precoci, Giardino, cenere e Clessidra, è attraversata
dall’urgenza creativa di dar voce ai dimenticati della storia, a coloro che sono
stati risucchiati dal gorgo delle atrocità novecentesche: come dar vita a una
Genesi all’inverso, partendo dal termine ultimo, dall’isola di Patmos.
In Enciclopedia dei morti, altra opera fulminante di Kiš, così come in Salmo 44,
la scrittura nasce da un’esigenza quasi etica: ‘incarnare’ l’invisibile, quel
muto e incolmabile spazio del distacco, e dargli un cuore, dei muscoli, una
colonna vertebrale che abbia le sembianze della speranza.
Solo attraverso la scrittura Kiš può congiungersi all’assenza siderale del
padre, riascoltarne i frammenti di voce, riportarlo entro le cornici di
un’esistenza che era pura vita in essere: come se, per miracolo, potesse farlo
riemergere dalla periferia del tempo e del sogno.
Colpisce, nella prosa di Kiš, un senso di devoto rispetto per l’atto creativo,
oserei dire per ogni singola parola scelta. Nulla appare superfluo, tutto è
assolutamente necessario, impossibile da esprimere altrimenti da come è: quasi
l’osservanza amorosa di un rito millenario, da custodire e tramandare con la
cura di un amanuense.
*
La scienza dell’etimologia rimescola le carte come un’astuta chiromante. Nelle
lingue di derivazione germanica o slava, per formare la parola compassione,
accanto al prefisso con- si sceglie invece un termine che significa sentimento.
Così, in tedesco, ceco o polacco, provare compassione per qualcuno significa in
realtà aderire intimamente a ogni emozione, sia essa gioia, angoscia, dolore o
felicità.
Tutta l’opera di Kiš è illuminata da questa particolare sfumatura di luce. Un
misto di cristiana pietas, compassione e ritegno verso il mistero degli uomini
guida la sua penna. Così anche in Salmo 44, dove le vicende di Maria – deportata
ad Auschwitz e in procinto di evadere dal campo con il figlio appena nato e una
compagna – prendono forma in una sorta di delirio onirico, attraverso continui
slittamenti temporali tra passato e presente. Il ritratto del padre di Maria,
seppur solo accennato, con la sua accorata e tragica consapevolezza della fine
imminente, richiama inevitabilmente la biografia di Kiš e la figura di suo
padre.
Il presentimento della catastrofe, le continue vessazioni subite dagli ebrei, le
esecuzioni sommarie e lo spettacolo tragico di una crudeltà efferata e gratuita
non soffocano, ad ogni modo, la voglia di vivere della protagonista: anche nelle
tenebre più fitte possono aprirsi spiragli di luce.
Nel breve libro ricorre spesso un’immagine che mi sembra racchiudere in senso
metaforico quanto appena detto: un fascio di luce, esile e tremolante, che si
insinua nell’oscurità delle baracche attraverso piccole aperture. Quel bagliore
le permette di vedere il figlio appena nato, di ripensare a Jakub, che forse li
raggiungerà quando tutto questo sarà finito. Di esercitare, infine, il diritto
sacrosanto alla speranza: il sentimento del futuro.
Salmo 44 è attraversato da una tensione costante, che cresce via via
avvicinandosi al culmine della vicenda: l’evasione dal campo, il cui esito
incerto può significare tanto la morte quanto la vita:
> “la sensazione di un momento che ha la densità dell’eternità e del sangue; il
> momento decisivo in cui si intersecano il passato, il futuro e il presente”.
Elemento simbolico, in questi attimi concitati, è il sangue: quello che Maria
sente scorrere dopo il primo rapporto con Jakub, quello che macchia i cadaveri
orrendamente uccisi e quello che segna l’inizio delle mestruazioni, proprio
nell’istante che precede l’evasione dal campo: il sanguinamento delle ferite
della storia si mescola a quello delle vicende individuali:
> “perché sembra che nel flusso quotidiano degli eventi debbano intervenire le
> morti e le nascite, affinché l’uomo rifletta su quel fiume di sangue da cui
> emergiamo e in cui torniamo ad affondare, come un fiume sotterraneo che scorre
> invisibile dentro di noi, e che riconosciamo solo quando sopraggiunge una
> torbida piena o quando il fiume si secca e si prosciuga”.
Adorno proclamò che, dopo Auschwitz, scrivere poesie sarebbe stato un atto di
barbarie. In quello che viene definito il “crinale quasi fisico di un’epoca”,
Maria si domanda se vi sia ancora spazio per una qualsiasi forma di
trascendenza. Ecco allora riaffiorare il pensiero del padre: Dio come perfetta
incarnazione della giustizia, dell’umanità, della bontà e della speranza. Alla
vigilia dell’evasione, Maria vorrebbe a sua volta credere in un Dio,
> “fatto in parti uguali di speranza, di bontà, di compassione, di amore…Sì. E
> di odio. E paura.”
Il Dio di Maria si chiama Jan, il figlio nato nel campo, il legame con il
futuro, con un orizzonte di vita aperto al vento di ogni possibilità. O forse il
Dio di Maria si chiama Max, come il deus ex machina di cui si parla più volte ma
che non incontriamo mai nel libro, e che Maria si appresta a conoscere solo anni
dopo la guerra, mentre visita con Jakub e Jan il campo di Auschwitz.
> “Sulla fronte di Jan voleva imprimere il marchio del martirio e dell’amore,
> quello che lei e Jakub si erano guadagnati con le loro sofferenze. E la
> ricompensa doveva andare a Jan. Ed era orgogliosa della sua missione:
> trasmettere a Jan la gioia di coloro che erano riusciti a creare la vita dalla
> morte e dall’amore. Donargli la gioia amara della sofferenza che lui non aveva
> provato mai sulla propria pelle, una sofferenza che tuttavia doveva essere
> presente in lui come un monito, come una gioia; come un obelisco.”
*
In un suo breve scritto, Danilo Kiš scrive che fra i suoi antenati del ramo
materno c’è un leggendario eroe montenegrino che imparò a scrivere a
cinquant’anni, sommando alla gloria della spada la gloria della penna, e anche
“un’amazzone” che per vendetta tagliò la testa a un usurpatore turco. La rarità
etnografica che Danilo rappresenta morì insieme a lui, alla fine degli anni
Ottanta.
In un’intervista per “Il Tempo” realizzata in Italia nel 1988, Maurizio Ciampa è
colpito dallo sguardo di Danilo Kiš. Gli appare incredibile che quegli occhi,
dalla luce tanto intensa, abbiano potuto fissarsi, probabilmente increduli, su
così tanto dolore.
Mi piace immaginare che, in quel preciso istante, la sua indomabile speranza
fosse segretamente affidata agli uccelli che volteggiavano sopra il giardino
dell’Hotel Quirinale di Roma.
Lorenzo Giacinto
L'articolo Il marchio del martirio e dell’amore. Riflessioni intorno a Danilo
Kiš proviene da Pangea.
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La produzione letteraria (e non solo) di Gian Ruggero Manzoni è delle più
variegate e peculiari. Leggendone i libri, seguendone il percorso artistico
(almeno di questi anni) ci si accorge facilmente di quanto l’autore abbia un
piede nel presente e un piede in un passato remotissimo. Manzoni lo vedo un po’
così, attuale e allo stesso tempo antico, mentre paziente fila una tela che
ricongiunge il presente con gli albori dell’umanità. Dopo un libro
come Dialoghi infami (Medusa, 2024), tremendamente macchiato dalla
contemporaneità, con Nel lento movimento dei ghiacci (puntoacapo, 2024) facciamo
un balzo indietro di millenni (come già aveva compiuto con Ultramodum),
all’origine della vicenda umana, quando ancora non era Storia, sulle orme di
sciamani che camminano sul sottile confine tra questo mondo e l’altro (o gli
altri), fra religione e magia. Il libro raccoglie una serie di prose poetiche e
disegni, suddivise in quattro sezioni: Nel lento movimento dei
ghiacci, Sciamani, La quarta moira, La rinuncia.
Mi domando se non stia tutto qui il senso della ricerca artistica, della
scrittura come del disegno: ritrovare il filo di un discorso incominciato
migliaia di anni fa e che abbiamo perso lungo la strada, ritrovare la magia di
cui è ancora intrisa la realtà sotto tonnellate di cemento.
Artista, poeta, scrittore; traduci e interroghi testi sacri e mercenari
sanguinari: ti senti anche tu un po’ sciamano?
A un recente Festival Internationnal des Traditions et Spiritualites Ancestrales
et du Chamanisme, tenutosi in una vallata nei pressi di Reims, in Francia,
confrontandomi con sciamani e sciamane riconosciuti quali Abdellah e Gnawa
Akharraz, Vera Sakhina, Ayangat, Anja Normann, Frederic Roure, Bhola Nath
Banstola, Tiegniery Diarra, Baruch Osorno, Domi Farinelli, sono stato
riconosciuto, da loro, quale sciamano a mia volta… sciamano della parola, non
celebrativo, cioè non operante tramite danze o gesti propiziatori, ma quale
“guaritore”, così mi hanno definito, per mezzo della parola, ed “evocatore”,
sempre tramite il suono che conteniamo, di entità superiori. Comunque già mia
nonna Olimpia, a sua volta sciamana romagnola, mi aveva riconosciuto e, a suo
tempo, mi passò il dono. Inoltre ogni buon poeta o artista o musicista è infine
uno sciamano se opera per il bene e il bello, e se sempre rispettoso delle
“anime naturali”.
Quale legame persiste fra l’uomo di oggi e quello che vestiva le pelli di mammut
e interrogava il fato seguendo il volo degli uccelli?
Sono lo stesso uomo unicamente in tempi diversi. Tutte le massime domande sono
ancora sul tavolo prive di risposta, quindi nulla sapeva del cosmo e di sé
l’uomo primitivo e nulla sappiamo di noi e del cosmo… o, meglio, della
dimensione che ci contiene e che conteniamo… noi umani del XXI° secolo. Giusto
sappiamo che un giorno moriremo e che la Terra è tonda e ruota attorno al Sole,
mentre la Luna ruota attorno alla Terra, poi stop, che altro si sa? Dimenticavo,
ancora molti continuano a credere che la Terra sia piatta… e detto ciò non resta
che sorridere riguardo la nostra attuale condizione.
“La magia appare incredibile solo perché è l’evento più naturale e quotidiano
che ci sia”. “Ciò che è stato creato è magia, e lo sciamano non è che
l’indagatore dell’indagine”. Ma cos’è la magia?
Credendo in un divino generatore, creatore e demiurgo, credo anche che esistano
esseri umani e animali e piante che riescono a metterci in contatto con altre
dimensioni. La magia è la capacità di proiettarti o proiettare un altro essere
in universi paralleli, come sostengono le varie Teorie del Multiverso, così,
scientificamente, oggi vengono appellate, mentre arcaicamente avevano e ancora
hanno altri nomi. La magia è entrare in esse e giungere a vibrare come le
stesse, fino alla scoperta della propria “nota armonica”, come la definiva il
teosofo, pedagogista, filosofo, esoterista austriaco Rudolf Steiner. Il sommo
Guido Ceronetti giustamente scriveva nel suo Il silenzio del corpo, un libro che
consiglio:
> “La fame di magico è più che legittima, il rischio è, sempre, che il malvagio
> destino la orienti, per sfogarla, sulla stella del male. Ma di magia buona c’è
> oggi molto più bisogno che di medicina buona”.
Quando osserviamo una civiltà arcaica (anche quella più vicina a noi, come
quella contadina) con i suoi riti, ci appare come in balia delle superstizioni,
eppure era una civiltà più solida della nostra. Siamo oggi, più di allora,
vittime di superstizioni?
Direi che il “rito del consumo” sia la superstizione più nefanda che oggi ci
possa essere, idem la “messa del denaro”, paragonabile ad ogni “messa nera”.
Tutto ciò che oggi divide e rende predatori risulta quale attuale superstizione,
ciò che invece unisce è ‘savietà’, saggezza, buon senso, cultura base,
consapevolezza, massima osservazione, “antica credenza popolare”,
compenetrazione, quindi passata e accettabile superstizione. Sì, un tempo, anche
noi Occidentali, oggi definiti evoluti, emancipati, civili, tramite l’attenzione
persistente riuscivamo a compenetrare la materia e il mistero così come l’altro
o l’altra da sé, al punto di partorire modi di dire valevoli ovunque
atemporalmente. Quindi necessita suddividere la superstizione, come poi la
magia, in bianca o nera. Su ciò che oggi definiamo idolatria o, peggio,
ignoranza, un tempo si sono costruiti imperi, ma l’antica superstizione era
troppo attinente al destino e allo stare attenti ai “segni” per poterla definire
volgarmente ubbia. I “segni” e la capacità di interpretarli sono da considerarsi
come le tracce lasciate sul suolo che i pellerossa riuscivano a leggere.
L’interpretazione dei “segni” e delle atmosfere era l’arcaica buona, benevola,
accrescente superstizione.
Questo lento movimento dei ghiacci, questo andare alla deriva, rappresenta un
po’ la tua idea dell’umanità oggi. In alcuni passaggi sembri suggerire una
fratellanza umana originaria perduta, ormai scaduta in uno “scontro tra simboli
che, nell’errore, si leggono avversi… si disegnano quali contrari, di sanguinari
eccessi o di ecatombi, oppure di massacri”. È una fratellanza recuperabile?
Sì, la lenta deriva dei freddi… dei gelidi ghiacci è il nostro attuale andare.
Mai gli uomini sono stati fratelli per sangue, quanto, invece, fratelli per
idea, per idealità, quindi per fede, perciò uniti anche se non si è stati
scaturiti dalla medesima carne. Gli ovuli e l’utero che rendono non solo
fratelli ma gemelli si chiamano: credo comune, comune rappresentazione mentale,
comune opinione, convinzione comune, sentire comune, spirito comune, volontà
comune, divinità comune, comune magia. Nell’oggi l’Occidente ha perduto quei
valori fondamentali che ho pocanzi elencato. Siamo molto… troppo lontani gli uni
dagli altri. Crollata una memoria comune, così che nascessero infinite memorie,
ecco che la frammentazione… la polverizzazione disintegra ogni possibile verità
comune, o, meglio ancora, ogni comune verità.
La quarta moira, cioè il nulla, l’assenza di prima e dopo, la fine della fine,
domina una parte centrale del libro. Qual è il tuo rapporto con la morte e con
ciò che viene (se viene) dopo?
Sono solito dire che i miei genitori più che vivere mi hanno insegnato il come
morire con estrema dignità, sacralità, coraggio e spiritualità. Il senso di
morte ha sempre aleggiato a casa mia, ma non in accezione cupa, oscura,
deprimente, scoraggiante, quanto come persistente preparazione alla stessa. Ogni
attimo può essere l’ultimo e per quell’ultimo necessita essere pronti. Infine la
mia esistenza, finora, è stata un persistente apprestamento alla morte, con
tutto quello che ne consegue, quale prima componente il cercare di vivere… sì,
di vivere ogni attimo come appunto fosse l’ultimo. Ciò che di noi resta, così
come ciò che di questo universo resterà, non sarà neppure un punto su di una
mappa ampia quanto la potenza dell’inesprimibile. Il mio e il nostro nulla è il
saper morire quindi il saper vivere in quell’inesprimibile. A tal proposito
tanto mi fu caro quello strabiliante scritto titolato, in italiano, La Lettera
di Lord Chandos, in tedesco “Ein Brief”, del grande Hugo von Hofmannsthal.
Valerio Ragazzini
**
Brani tratti da Nel lento movimento dei ghiacci (puntoacapo) di Gian Ruggero
Manzoni
Ogni dimensione ride attorno a me, e mai mi priverò di quello che la mia fede
dona.
Un sorriso è il Cristo, mai un atto d’accusa.
Sciamano del Delta del Po, sempre scopro ogni notte che vago nell’immutata
sostanza della natura umana.
È ancora un antico sogno che riconduce alla mia terra d’origine, a quell’arcaico
intrico di rami, rovi, edera, canne, alghe palustri.
È nella natura aspra della mia gente che saldo la tragedia, ma anche
l’elevazione, del nostro destino di eterni immaturi.
Che gioia! Che ritrovata incoscienza pudica!
Forse che l’Età dell’Oro dimori in un colpo di zappa o nel tergersi la fronte
dal sudore?
La genuinità perduta solca ancora la palude.
Nulla è scomparso. Tutto è ancora lì, se apri gli occhi di tua madre, e, del
padre, se indossi gli stivali di gomma e i pantaloni di velluto.
*
Mi diceva un filosofo e musicista di Praga: “La velocità è la forma di estasi
che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo”; la stessa accusa fu di mia
nonna, indagatrice di segni e di premonizioni sulla corteccia degli olmi o dei
pioppi padani.
Lei mai volle salire in auto, se non il giorno che la portarono all’ospedale
dove le diagnosticarono che entro un mese sarebbe morta e che si preparasse a
salpare.
Al che si fece riportare nel suo letto (posto al centro della nostra casa),
accese la candela che aveva sul comodino, recitò le orazioni e si spense con
l’ultima goccia di cera scivolata… mentre le api, riunitesi, con lei migrarono
in un’altra chiesa dimenticata… su di un altro altare.
*
Al che si disse che oltre la velocità della luce, pur sempre relativa, non si
può andare, visto che non esiste alcun modo di accelerare una spinta fin oltre i
300.000 chilometri al secondo, se non fornendo un’energia che risulti al di là
dell’estremo, quindi ardua, impossibile, lontana da noi, inavvicinabile, cattiva
e infinita, non certo piccola giostra che tramite il calore muove pale, vele,
seggiolini, camei, sputando sulle madri che glabre ammirano con facce ebeti i
loro figli… privi di futuro, carne già morta, di già polvere, di già rutto di un
mulinello di cielo, o coda gelida di uno spegnersi sia di stelle che
d’illusioni… che di risorse… che di fermenti… che di fittizie occasioni.
*
L’11 maggio del 1872 il cielo d’Europa venne ammutolito da una pioggia di
meteore in fiamme che cessarono in una nuvola di cenere che avvolse per giorni
animali da latte, neonati, baldracche, lumache e api, poi connestabili,
carabinieri, netturbini, scava pozzi, e pur anche cani e aironi, quale
benedizione di me demone che per non molto custodirò l’equilibrio dei corpi
astrali, così che lei, la gran signora, nella gravità copuli col marito mentre,
gli ultimi gemiti, siano dell’amante, poi dell’amante, e dell’amante ancora,
nella perduranza di una sterile ginnastica, frutto di una Gomorra petulante e
allucinata, incensata dallo sperma di un toro che annaffia probi e tagliagole,
avvocati, notai, banchieri, i quali si riconoscono fra loro tramite anelli ai
lobi, occhi truccati, turbanti e gemme, cinismo, volgarità e nessuna carità
parziale, cristiana, o chissà dove e come, la stessa, sia nata e possa custodire
un valore ultraumano o solo menzogne, o sterili sermoni.
*In copertina e nel testo, alcune opere di Gian Ruggero Manzoni
L'articolo “Il rito del consumo è la superstizione più nefasta”. Dialogo con
Gian Ruggero Manzoni, lo sciamano del Delta del Po proviene da Pangea.
A dieci anni dalla morte di Günter Grass, avvenuta a Lubecca il 13 aprile 2015,
accendiamo per un attimo i riflettori sulla vasta opera che ci ha lasciato e che
forse non abbiamo ancora saputo valutare in tutta la sua ricchezza.
Il capolavoro di Grass è sempre stato considerato la cosiddetta trilogia di
Danzica, formata da tre romanzi scritti nell’arco di un lustro, il
torrenziale Die Blechtrommel (Il tamburo di latta), del 1959, Katz und
Maus(Gatto e topo), del 1961 e Hundejahre (Anni di cani), del 1963. Soprattutto
il primo dei tre volumi – la storia del nano Oskar Matzerath che a un certo
punto dell’infanzia, gettandosi giù per le scale della cantina, decide
autonomamente di arrestare la propria crescita per protesta nei confronti di un
mondo filisteo, violento e al contempo grottesco – ha avuto un notevole
successo, rafforzato dall’omonima pellicola girata nel 1979 da Volker von
Schlöndorff, con Angela Winkler e Mario Adorf. Nel suo insieme, la trilogia
rappresenta un’accurata ricostruzione di quasi un secolo di storia visti dal
punto di osservazione privilegiato di Danzica, una città in rapida
trasformazione, che diventa simbolo ed epitome del mondo intero. Ma Danzica, in
quanto città che la Germania ha dovuto cedere alla Polonia dopo la guerra,
rappresenta anche il simbolo del paradiso perduto, delle effusioni e dei piaceri
di un’infanzia mai più riconquistata.
Benché la città, dove era nato nel 1927, rappresenti la sua Macondo, non bisogna
pensare a Grass come a un auctor unius libri o a uno scrittore che, con
martellante testardaggine, torni sempre sugli stessi temi. In Das Treffen in
Telgte (L’incontro di Telgte), del 1979, per esempio, Grass traccia un brillante
parallelismo fra la Germania del 1647, appena uscita dalle distruzioni della
Guerra dei Trent’anni, e quella del 1947, in parte occupata dalle forze alleate
e ridotta militarmente alla condizione di non poter più nuocere. Da un lato
avremo l’incontro, nella cittadina di Telgte, nei pressi di Münster, in
Vestfalia, di una serie di poeti, scrittori e musicisti, da Schütz a
Grimmelshausen, uniti dalla volontà di rafforzare e rilanciare una lingua
tedesca ancora frazionata in una miriade di dialetti e usi locali; dall’altro,
spostandoci al secondo dopoguerra, la costituzione, intorno alla figura di Hans
Werner Richter, del Gruppo ’47, un insieme di poeti e scrittori dal quale
sarebbero poi emerse figure carismatiche come quelle di Ingeborg Bachmann,
Heinrich Böll, Günter Eich, Ilse Aichinger, Martin Walser, Peter Bichsel o dello
stesso Grass. La funzione del Gruppo ’47 è nell’insieme paragonabile a quella
del consesso di tre secoli prima: si tratta – ancora una volta – di salvare la
lingua tedesca stravolta dagli usi impropri del nazionalsocialismo e renderla
nuovamente utilizzabile. Il tamburo di latta, vero archetipo dei suoi maggiori
romanzi, costituirà, per Grass, anche l’applicazione pratica dei nuovi principi
di scrittura maturati proprio attraverso le assidue frequentazioni di quegli
anni.
Altri due lavori di narrativa da citare in ogni caso sono Der Butt (Il rombo),
del 1979, e Die Rättin (La ratta), del 1986: romanzi di un certo spessore e
respiro epico, che richiedono impegno e un’attiva complicità da parte del
lettore. Nel primo libro, il rombo è un pesce parlante che funziona come alleato
e consulente del protagonista, un uomo senza tempo che ci racconta la storia
dell’umanità, dal neolitico allo sciopero dei lavoratori polacchi nel 1970,
sempre dall’angolo di osservazione formato dalla città di Danzica, con una
particolare attenzione per una minoranza, la popolazione dei casciubi. Nel
secondo, un romanzo complesso e in parte surreale, nel dialogo fra un io
parlante indifferenziato e la ratta del titolo Grass riprende alcuni filoni
tanto del romanzo precedente, quanto della sua trilogia, virando stavolta verso
toni apocalittici e prefigurando il declino e la scomparsa finale dell’umanità,
non senza accenni polemici e quasi, diremmo, militanti.
La vis polemica di Grass si conferma del resto anche a teatro; tra i vari drammi
da lui composti va segnalato almeno Die Plebejer proben den Aufstand (I plebei
provano la rivolta), del 1966, in cui alle prove del Coriolanoda parte di una
compagnia teatrale a Berlino Est si sovrappone la rivolta del 17 giugno 1953
contro il regime comunista. Tutta la pièce ruota intorno all’ambiguità del
regista, da tutti chiamato “Chef”, e con tutta evidenza ispirato alla persona e
agli atteggiamenti politici di Bertolt Brecht. Questi temporeggia per giorni e,
malgrado le pressioni in senso opposto degli operai, finisce poi per rilasciare
una dichiarazione di cauto appoggio alla SED, il Partito comunista – con degli
abili distinguo atti ad alludere a un dissenso che non sarà colto e non avrà
alcuna ripercussione –, solo quando la rivolta sarà stata ormai sanguinosamente
repressa.
Oltre che romanziere, grafico e scultore – subito dopo la guerra aveva studiato
alla Kunstakademie di Düsseldorf – Grass è stato anche un non trascurabile
poeta, sempre animato da una vena ironica e iconoclasta. Riporto qui a mo’
d’esempio la versione italiana di una sua piccola poesia che mi capitò di
tradurre tempo fa, dal titolo Die Seeschlacht (Battaglia navale):
> “Una portaerei americana
> e una cattedrale gotica
> reciprocamente
> s’affondarono
> nel Pacifico.
> Suonò l’organo fino alla fine
> il giovane vicario. –
> Volteggiano nell’aria ora angeli e aerei
> e non possono atterrare.”
Politicamente, Grass si distinse da molti suoi colleghi per un impegno costante,
e, in alcune fasi della recente storia tedesca, anche piuttosto
convinto. Compagno di strada dei socialdemocratici, soprattutto durante la
reggenza di Willy Brandt, partecipò al suo fianco a diverse campagne
elettorali. Fu alla presenza sua e di un altro scrittore, Siegfried Lenz, che
nel 1970 Brandt firmò a Varsavia il trattato d’amicizia fra Germania e Polonia.
Inoltre, Grass fu uno dei pochi intellettuali europei a difendere la causa delle
popolazioni rom e sinti, dando vita a una fondazione a essi dedicata. Le vedeva
– con qualche eccesso romantico – come esempio di ibridazione e come ultimo
baluardo contro l’omologazione culturale, parlando di una vera e propria
persecuzione che apparentava a quella patita dalle comunità ebraiche sotto il
nazismo. A suo parere, queste popolazioni avrebbero dovuto ottenere un seggio al
Consiglio d’Europa e l’inserimento della loro lingua fra le materie
d’insegnamento nelle scuole. Intervenne anche, e spesso, contro la guerra in
Vietnam, contro il ricorso al nucleare e per il mantenimento della pace, in
favore delle minoranze etniche e dei rifugiati, contro il razzismo e le
discriminazioni di ogni tipo. Non si sentiva un “padre della patria” o la
“coscienza della nazione”, né voleva essere d’ispirazione a chicchessia, ma
attribuiva anche agli intellettuali la colpa della caduta della Repubblica di
Weimar, e di certo l’idea dello scrittore rinchiuso in una torre d’avorio era
lontana mille miglia dalla sua prassi quotidiana.
A Grass non sono certo mai mancati nemici e detrattori. Una polemica passata
alla storia letteraria lo oppose al “papa” della critica letteraria tedesca,
Marcel Reich-Ranicki, che pure in passato era stato fra i suoi estimatori,
allorché quest’ultimo, nell’agosto 1995, venne raffigurato sulla copertina dello
Spiegel mentre strappava simbolicamente le pagine di un volume di Grass appena
uscito, Ein weites Feld (È una lunga storia), scrivendone poi all’interno della
rivista in termini tutt’altro che encomiastici. Ma non era la prima volta che i
due si sfidavano virtualmente a duello: già nel 1990 Reich-Ranicki aveva
qualificato come “assolutamente insensata” una posizione assunta da Grass in
merito alla riunificazione tedesca – lo stesso tema portante del libro testé
citato –, quando lo scrittore ne aveva negato l’utilità e l’opportunità,
asserendo anzitutto che il ritorno a una Germania unita sarebbe stato visto
fuori dalle frontiere come una minaccia, e poi che l’Olocausto negava alla
Germania qualunque diritto alla riunificazione, tanto che bisognava invece
accettare e capire la lezione della Seconda guerra mondiale e optare per due
Stati distinti, uniti semmai da una comune identità culturale. Questa posizione
l’avrebbe espressa poi più compiutamente nel pamphlet Unterwegs von Deutschland
nach Deutschland. Tagebuch 1990 (Da una Germania all’altra. Diario 1990), uscito
nel 2009. Una posizione, la sua, nell’entusiasmo sfrenato di quei giorni per la
caduta del muro di Berlino, sicuramente impopolare, che non accrebbe le simpatie
di molti nei suoi confronti, ma che rispecchiava il suo vissuto e forse anche
una certa volontà di espiazione personale. Perché – come sarebbe emerso con la
pubblicazione, nel 2006, dell’autobiografia Beim Häuten der Zwiebel (Sbucciando
la cipolla) – Grass aveva un segreto ben custodito, un peccato di gioventù che
fino a quel momento aveva attentamente e costantemente minimizzato, ma che lo
metteva terribilmente a disagio e da cui riuscì appunto a liberarsi solo a quasi
ottant’anni. Quando ne aveva diciassette, infatti, per sfuggire alla famiglia –
un po’ come prima di lui Ernst Jünger – non si era solo arruolato nell’esercito,
ma era entrato, a quanto pare volontariamente, a far parte delle Waffen-SS. E
se, come poi sostenne, non aveva partecipato ad azioni sul campo, ma, ferito,
era finito quasi subito in un campo di prigionia statunitense in Baviera, già il
fatto stesso di aver aderito alle SS e di averlo poi taciuto lo mise in una
posizione molto scomoda, tale da dare ragione, anche a posteriori, ai suoi
detrattori. Molto si è discusso di quanto sia stata per lui provvidenziale
quest’ellissi della sua memoria: ma va anche riconosciuto che, nel clima
d’indiscriminata resa dei conti dell’immediato dopoguerra, ammettere un peccato
del genere avrebbe significato dover rinunciare completamente all’attività
letteraria, affrontare un ostracismo totale e veder stroncata la propria
carriera di scrittore prima ancora di provare a gettarne le basi.
Non gli sono mancati però neanche amici ed estimatori di peso, da Hans Magnus
Enzensberger a Christa Wolf, nonché, all’estero, da Salman Rushdie a Nadine
Gordimer a György Konrád. Quando si seppe del conferimento del premio Nobel nel
1999, il poeta polacco Tadeusz Rózewicz dichiarò che il premio aveva finalmente
riacquistato il proprio significato. Quanto a Rushdie, il sodalizio nacque
quando Grass protestò pubblicamente contro l’Akademie der Künste di Berlino che
prima aveva invitato Rushdie e poi, per ragioni di sicurezza, aveva deciso di
annullare l’evento previsto.
Benché profondamente tedesco e perfino “locale” nei temi prescelti e
nell’ossequio alla propria tradizione letteraria, con uno stile estremamente
personale, ma che attraverso l’esempio di Döblin si riallaccia in realtà a un
grande autore del Seicento come Grimmelshausen, Grass era – caso abbastanza raro
in Germania – uno scrittore con un’autentica proiezione internazionale. Ed è
stato anche uno degli autori più comprensivi e assidui nel rapporto con i propri
traduttori: forse consapevole delle difficoltà che il suo tedesco e i molteplici
riferimenti al mondo di Danzica e alla minoranza dei casciubi potevano creare
agli incauti che avevano accettato l’incarico di tradurlo in altre lingue, si
spendeva in tutti i modi per assicurar loro la propria presenza e assistenza
pratica. Nella primavera del 1978, in vista della traduzione del Rombo, venne
addirittura organizzata per la prima volta nella storia una specie di tavola
rotonda con una ventina di traduttori nelle maggiori lingue. Come spesso accade
in questi casi, il motivo scatenante era stata una disastrosa traduzione
del Tamburo di latta in svedese, che indusse l’editore di Grass a cercare di
correre ai ripari. Ebbene, la kermesse durò ben tre giorni, durante i quali
Grass fu non solo presente, ma prodigo di chiarimenti. Al servizio, dunque, dei
traduttori e dei futuri lettori, con i quali – da grande scrittore qual era –
aveva saputo istituire un rapporto che andava molto al di là della sua persona
fisica. Un’intesa basata sull’onestà intellettuale, che è poi forse, ben più di
tanti proclami, lo strumento principale a disposizione dello scrittore per
garantirsi una relativa immortalità.
Raoul Precht
L'articolo Una brutale immortalità. Günter Grass o della scrittura come
coscienza critica proviene da Pangea.
Lo scrittore Guido Morselli dai suoi nipoti si faceva chiamare “Orso”, anzi
talvolta “Orzo”, forse per mettere dentro la parola orso quella zeta affilata
dello zio che era, dopotutto. Zio di Loredana, Gianluca, Nicoletta, figli della
sorella Maria, che, per vezzo e per dispetto, lui chiamava “Mariolino”. Per non
parlare della nipote Loredana, da Guido battezzata “zia Lori” e poi Gianluca,
che lui chiamava “Tonino”.
Non può che nascere da un’esigenza creativa profonda questo vezzo di mutare i
nomi alle persone, di nominare le persone e le cose alla rovescia, ribaltare i
punti di vista, invertire il genere, per scovare nuove chiavi di interpretazione
del mondo. Nomina sunt consequentia rerum dice il latino? Etsi omnes, ego
non replicherebbe Guido Morselli: l’eccezione poteva diventare la regola. Lui
del resto “scrittore senza destinatario”, lo scrittore che è diventato tale
solo post mortem. Lo scrittore che… non lo pubblicava nessuna casa editrice.
> “Era eclettico, sperimentò generi diversi, cambiò pelle letteraria. Mi ricordo
> quando si mise a lavorare persino a un curioso Dizionarietto dietetico, con
> l’aiuto di un medico”.
Queste le parole dell’amico “colto”, l’intellettuale Dante Isella che la giovane
studiosa Elena Valentina Maiolini pone a epigrafe di un volume preziosissimo
tanto curioso e stravagante, da lei curato, il Dizionario dietetico che esce
proprio in questi giorni di aprile 2025, per Biblioteca Ronzani. Un’opera
originale che testimonia, ennesima, amara prova, il talento e l’apertura alla
sperimentazione, a tutto campo, dell’outsider italiano del Novecento.
Giornalista, drammaturgo, reportagista, sceneggiatore e ora, qui, lessicografo.
Anche se si tratta di un’attitudine che già gli riconoscevamo con certo uso
creativo del linguaggio (leggi alla voce fobantropo, nittalopo). E già
conoscevamo il suo interesse vitivinicolo (aveva seguito da vicino il colono
Bosatelli nella produzione del Vino del Sasso di Gavirate) e quello
nell’agronomia (dalle piante da frutto a quelle dei capperi da far sbocciare tra
le fessure dei muretti a secco del podere di Santa Trinita a Gavirate).
Altrettanto frequenti, nell’opera narrativa di Morselli, sono i riferimenti agli
alimenti, alle pietanze tanto quanto alle “bicchierate”. Uno su tutti mi torna
in mente, dall’opera Contro-passato prossimo:
> “seduto e vociante fra una dozzina di commensali, finché scomparve dietro una
> montagnola di tagliatelle alla bolognese. Era F.T. Marinetti, seppe dal
> cameriere. Con una rappresentanza apostolica di futuristi, la Nuova Accademia.
> Quest’altra mensa al profumo di ragù e chianti, surrettiziamente gli si
> sovrappose alla ‘mensa’ che aveva lasciato mezz’ora prima”.
Si dice che Morselli non amasse cucinare, che, a casa sua, l’ospite avrebbe
assaporato la ruggine della grattugia. A tavola nella casa di Milano, arrivando
perennemente in ritardo, Guido toglieva lesto da sotto il naso di suo padre,
Giovanni Morselli, il ricco piatto; non doveva esagerare. Il padre, modenese,
figlio di un medico condotto, era laureato in Chimica Farmaceutica a Bologna ed
era stato assunto alla Carlo Erba di Milano. Convinto sostenitore della ricerca
nel campo della produzione, Giovanni Morselli aveva sperimentato con successo
alimenti per l’infanzia quali farina lattea e alimento GIM, che gli
conquistarono la fiducia di Giuseppe Visconti di Modrone. Giovanni Morselli
aveva inventato per la Carlo Erba anche le polverine “IDRIZ” per render l’acqua
gasata. E sembra proprio la chimica degli alimenti (che probabilmente respirava
in casa, dove c’erano comunque, ai fornelli, diverse persone di servizio)
sposata all’accurata scelta delle parole alla base di questa sua originale
“filosofia dell’alimentazione”. L’attenzione a quella famosa regola che doveva
essere la misura, il tanto celebrato “cum grano salis”. A tavola, scrive Guido
Morselli: “è bene essere il più possibile allegri”, con un imperativo che fa
riflettere:
> “non leggere e non trattare affari, così come è ottima norma riposare dopo i
> pasti ascoltando qualche brano di piacevole musica o schiacciando un pisolino
> o dedicandosi a qualche svago gradito che non implichi soprattutto eccessiva
> applicazione mentale o visiva”.
A quale svago gradito fa riferimento?
Al suo fianco nella realizzazione del Dizionario l’amico medico chirurgo Giorgio
Riva, specialista in medicina interna presso la clinica La Quiete di via
Annunciata a Milano. Aveva chiesto lumi anche al medico Franco Zighetti, marito
di Franca Bassi, figlia dell’amica Maria Bruna Bassi, e – mi suggerisce Andrea
Bortoluzzi – al fratello dell’amico notaio Bepi Bortoluzzi, il dottor Emilio
Bortoluzzi, fondatore del reparto di rianimazione dell’Ospedale di Circolo, a
Varese. Amici medici e medici amici, di ispirazione letteraria (supponiamo) nel
ventaglio dei personaggi che abbiamo imparato a conoscere, a riconoscere e ad
amare tra le opere narrative di Morselli. Penso ovviamente a Karpinsky
di Dissipatio H.G., ma anche al dottor Vanetti di Un dramma borghese, a Saverio
Maggio di Uomini e amori e a tante tante figure salvifiche e di accudimento che
incontriamo nell’opera narrativa di Guido Morselli. In questo caso, la strada di
pubblicazione esula dalla letteratura per pigliare un sentiero divulgativo e di
salute, una destinazione di “necessità sociale”.
La struttura è tripartita – spiega Maiolini nel saggio introduttivo Il gusto
dello scrittore – “sommaria introduzione alla dietetica in generale”, sulle
caratteristiche, le composizioni e i tempi di digestione degli alimenti (vi sono
compresi i sintetici Consigli dietetici per sani), il dizionario “vero e
proprio”, ossia il lemmario con le voci sulle sostanze commestibili (se ne
contano 333), distribuite in ordine alfabetico, con indicazioni varie, da note
linguistiche a componenti biochimiche, da proprietà digestive a tradizioni
agricole; e infine una sezione sulle diete in regimi terapeutici particolari”. E
qual è la finalità? Lo scopo voleva essere fondamentalmente civile come spiega
Morselli all’inizio della Presentazione:
> “Scopo del nostro lavoro è stato quello di fornire al pubblico alcune nozioni
> elementari e un orientamento di massima, nel campo
> dell’alimentazione. È chiaro dunque che il presente volumetto non costituisce,
> neppure in compendio, un trattato di bromatologia o di dietetica”.
“La materia quando inizia a soffrire” era la sua annotazione alla voce vivere,
pescata dal guazzabuglio del suo Diario. Un interesse mai sopito per la
dimensione esistenziale che rende Guido Morselli un autore di culto. Come mi
conferma Elena Valentina Maiolini. Qui riporto il nostro dialogo.
Come si concilia e dialoga la stesura del «Dizionario dietetico» con la
produzione narrativa di Morselli?
È il testo preliminare alla stagione creativa dei grandi romanzi. Ci lavora
nell’estate del 1956, mentre al primo importante romanzo, Un dramma borghese,
sappiamo che si mette nella seconda metà del 1961. Si potrebbe partire da questo
dato, per valutare il Dizionario dietetico in rapporto alla produzione
narrativa: dopo aver scritto per anni tanti testi brevi (quelli che hai raccolto
tu l’anno scorso per il Saggiatore, con Giorgio Galetto e Fabio Pierangeli),
prima di cambiare la sua «pelle letteraria» – con le parole di Dante Isella –
con il genere del romanzo, si volle cimentare con una forma breve, anzi
brevissima: un lemma di dizionario, appunto.
Vede la luce a quasi settant’anni dalla sua stesura grazie al Fondo per
ricercatori destinatomi dalla Commissione ricerca dell’Università dell’Insubria,
che ci tengo a ringraziare, insieme al mio Dipartimento di Scienze umane e
dell’innovazione per il territorio e al Centro Storie Locali dell’Insubria. Ma
soprattutto, grazie al permesso degli Eredi, sostenuti da te con costanza.
Qualcuno ha parlato di “fiducia nella parola” per Morselli, ma è sfiducia nel
genere umano?
Gianmarco Gaspari ha definito con questa felice formula la predilezione di Guido
Morselli per la sintassi breve. Molto spesso le sue frasi si addensano; ci sono
proprio dei punti dove la scrittura sulla pagina si restringe, e produce un
aforisma: frasi brevi e molto efficaci, evocative, che si mandano a memoria
volentieri. Ciò accade senz’altro anche in quest’opera lessicografica che non
conoscevamo; e no, non direi che si tratti di una sfiducia nel genere umano.
Potresti ben dirlo anche tu, che tanto hai studiato la sua biografia, come
potesse essere attento verso gli altri. Sono d’accordo con Vittorio Coletti:
l’umanesimo di Morselli consiste in «un’attenta fenomenologia degli atti umani»
(atti alimentari, in questo caso!), che sottopone a una lucida osservazione,
«con una tonificante dose di realismo pragmatico e positivo».
Che cosa ha spinto Morselli ad abbracciare un così vasto tema e un progetto così
profondamente diverso dalle altre sue opere?
Non dimentichiamo che non lo sapeva: non sapeva che cosa sarebbe venuto dopo.
Per noi è l’autore sommerso di Un dramma borghese, di Roma senza papa,
di Dissipatio H.G.… ma al tempo di questa impresa lessicografica, non li aveva
ancora scritti. Aveva scritto saggi, articoli dal taglio giornalistico,
racconti… poi questo dizionario. Forse era alla ricerca di un genere?
Sicuramente il Dizionario dietetico è l’esito di una curiosità intellettuale e
umana forte: vi si apprestò con l’entusiasmo testimoniato da alcuni picchi nel
tono (come un onore! a Napoli, ideatrice degli spaghetti con le vongole!), e con
la curiosità dell’intenditore di pasticcerie cittadine, dell’osservatore di
insegne sulle vetrine dei formaggiai… ma anche del coltivatore in proprio di
asparagi.
Quali sono le voci più folgoranti o più sorprendenti?
Io trovo gustosissime quelle in cui si manifestano alcune sue predilezioni. Ad
esempio, per la vita di campagna, rispetto a quella di città: uno dei temi in
cui si incanala una vena ironica indubbia, che non gli è stata riconosciuta a
sufficienza.
Prendiamo la voce aglio:
> «È veramente un condimento, se non un cibo, sanissimo, e varrebbe la pena di
> esercitarci a superare l’avversione che suscita in noi, abitanti della città
> raffinati e schizzinosi, il suo agreste profumo».
Questa è folgorante, e ben strutturata: c’è un senso di realtà territoriale,
stereotipata, ma non troppo; c’è il profumo della terra, c’è il senso
psicologico del cibo. E poi c’è il gusto della lingua italiana: il lessico, con
la differenza tra condimento e cibo; la locuzione che definisce (se non un
cibo…); le strategie che fanno il tono colloquiale, morbido, mai perentorio,
ossia il condizionale (varrebbe la pena) e il noi inclusivo (esercitarci… noi,
abitanti).
Che cosa aggiunge questa opera inedita alla lettura del corpus letterario di
Guido Morselli?
Tra le varie cose, direi un catalogo. Appassionati e studiosi di Morselli vi
troveranno un prontuario di tanti aspetti declinati in forma narrativa nei
romanzi. Tu già dicevi che ci sono molto medici, nei suoi romanzi. E pure
sappiamo che ci sono dei cibi, che c’è il caffè… Una mia laureanda, Eleonora
Trezzi, sta scoprendo molti contatti con la prima opera che è seguita, Un dramma
borghese. Ad esempio, il dottor Vanetti, che prima ricordavi, l’interlocutore
privilegiato del protagonista, a un certo punto gli confida di essere socio di
una fabbrica di caramelle a Losanna: «Adesso, per integrare il guadagno di
medico, che non gli basta, è socio in una fabbrichetta di caramelle, a Losanna,
e lo tiene nascosto, dice, per salvaguardare la sua dignità. Le caramelle sono
tossiche per lui, gli paiono una degradazione», registra l’io narrante nel suo
resoconto quotidiano al magnetofono. Ebbene, tra le fonti del Dizionario c’è un
foglietto di pubblicità su uno spazzolino, brevettato nel 1949 da un dentista di
Trieste, che sembra proprio esprimere tutte le preoccupazioni che in Vanetti,
improvvisato imprenditore contro la salute dentale, si fanno sensi di colpa.
Segnalo che, grazie al permesso degli Eredi, con la tua mediazione, e alla
disponibilità del Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di Autori
moderni e contemporanei dell’Università di Pavia, ora le fonti di tipo
giornalistico e pubblicitario sono tutte in rete nel sito del Centro Storie
Locali: https://morselli.cslinsubria.it/.
Affrontare e attraversare questo schivo autore del Novecento è un’avventura
unica che non lascia indifferenti: che cosa insegna oggi a distanza di oltre
mezzo secolo dalla sua scelta di abbandonare la vita?
Che la fatica di vivere non è in contraddizione con l’amore per la vita.
Linda Terziroli
L'articolo “Qualche svago gradito”. I “consigli dietetici” di Guido Morselli
proviene da Pangea.
Ho sognato Aldo Busi. Sogno Aldo Busi periodicamente. È una sorta di campanello
neuronale che mi avvisa su come sia passato troppo tempo dall’ultima iniezione
di linguaggio vivo nella psiche – perché seppure non possa diventare viva
altrettanto almeno non si lasci spegnere del tutto, costretta com’è a subire
l’uso generale della lingua o sciatto o ideologico, nostalgico e dunque
finto-avanguardistico.
Dal giorno appresso ho iniziato una nuova lettura di Grazie del pensiero, per
Mondadori, del 1995. Che bel libro politico nell’accezione più estetica!, più
ventoteniana, sovversivo fin dal titolo. Il libro, assieme ad altri testi,
raccoglie le ‘lettere e risposte’ apparse sul giornale “L’indipendente”,
calendario alla mano nel suo intervallo di pubblicazione tra il novembre del
1991 e il novembre del 1994. Si era alle prime battute del ciclo berlusconiano.
La collaborazione valse a Busi il sospetto di essersi ‘riciclato’ a destra, un
po’ come se per essere di sinistra bastasse presentarsi nelle piazze convocate
dai giornali che si spacciano per tali, e in generale come se il giornalismo lo
fosse ancora quando per qualificarsi deve rivendicarsi quale organo che non
conta più di quale partito sia, trattandosi di sicuro dell’ennesimo organo
espiantato alla democrazia. La letteratura, poi.
> “Ma che scrittore è colui che crede che il contesto sia il testo? Io,
> semplicemente, ho sempre pensato che il mio testo è più importante di
> qualsiasi contesto in cui appaia, e vorrei ben vedere il contrario.”
A nuova lettura in corso – la precedente risale al 2011, a una vita da lettore e
da cittadino fa – a pagina 73 ri-cado nella carta lettoricida al passaggio «Ogni
civiltà nasce da una traduzione»: se mi verrà in mente la falena che l’ha
scritto, la citerò, se no pazienza. Pazienza.).
Non lascio tempo in mezzo, non paziento fino a pagina 80 dove apparirà il
rimbalzo al voluto effetto di mancanza-di-memoria. La citazione sarà infatti
ripetuta a pagina 80 con tanto di soluzione della dimenticanza: “([…] era di
Gianfranco Folena, Volgarizzare e tradurre, 1991) [ma non so chi sia Folena,
ricordarsi di guardare sulla «Garzantina», n.d.r]”. Il rimbalzo contribuisce al
dinamismo interno del testo, al suo riformularsi in corso d’opera. Il libro
riscrive sé stesso in fase redazionale, mentre lega assieme le sue parti già
pubblicate altrove. Il testo respira, pensa.
Affetto da sindrome da informazione precoce, in linea con l’epoca, invece e
intanto sono andato su Google inserendo come chiave di ricerca la citazione
della falena, pregustando la soddisfazione di poterne sapere più io oggi, nel
2025, di Busi nel 1995 quando Larry Page e Sergey Brin si stavano ancora
laureando e conoscendo all’Università di Standford.
Sono allora risalito alla paternità della citazione da una nota in appendice a
un fascicolo sulla World literature(s) di tal Michele Sisto, di una università
di Chieti-Pescara, del 2024, tramite la quale ho raggiunto un seminario del 1995
conservato nell’archivio online di Radio Radicale, con per tema “Come parlano i
classici oggi? Modernità e fedeltà nella traduzione” (10.05.1995). Seminario
tenuto a Roma il 10 maggio 1995. Da chi? Aldo Busi. Di nuovo lui.
Come nei sogni, e non solo, il presente è un bislacco cortocircuito tra un
passato lungimirante a vuoto e un futuro pieno di tecnologia che per quanto
spinta resta insufficiente perché lo si possa definire compiutamente moderno.
Il link al seminario che mi era sconosciuto però l’ho rimediato!, mi dico,
sentendomi uno speleologo della ricerca degno di menzione in targa comunale
affissa in strada senza uscita. Per consolazione e per farmi bello lo mando a
Dario, altro lettore appassionato di Aldo Busi, e lui mi spegne immediatamente
gl’entusiasmi, comprovando che cercare online qualcosa di nuovo è come cercare
un ago in un pagliaio senza aghi.
“Coda, saranno stati dieci anni fa, il sito Altriabusi.it era ancora online, fui
io a inviare a te e Mario che intanto è morto lo stesso link. Invecchi, come
tutti coloro che credono la vera svolta per l’umanità stia nell’inventare
macchine più intelligenti di lei, cioè stupide uguali, e grazie tante al
pensiero… Comunque: pensa alla grandezza anche accademica di Busi che si è tutto
fatto da sé, con per interlocutore dico Agostino Lombardo! Busi ha avuto degli
estimatori eccellenti [ma non so chi sia Lombardo, ricordarsi di guardare su
Wikipedia]. Non ti ho detto che circa un mese fa a cena di amici a Brescia ci ho
conosciuto un marito altrui che ha vissuto a Montichiari fino ai sedici anni. E
io a lui: Lo saprai, a Montichiari ci è nato e ci vive un grande scrittore! E
lui: Certo, Aldo Busi. Non l’ho mai letto ma lo stimo molto, è una persona
seria. A Montichiari ci torno spesso, ci vive mio padre che è vecchio, e Busi
l’ho visto un paio di settimane fa. M’è sembrato trascurato, un barbone quasi.”
E io a Dario, di rilancio: “E la barbosità di chi si guarda bene dal leggerlo
per giudicare meglio Aldo Busi avendolo intravisto oggi a passeggio e ieri su un
teleschermo? Un barbone è a conti fatti un grande Barbino, per uno
scrittore-scrittore la grandezza si palesa così.”
Da Grazie del pensiero:
> “E che ne faremo di tutta la sofferenza altrui che ci lascia indifferenti o
> che addirittura ci ripugna?”
Il merito delle opere degli scrittori, anche le cosiddette minori, non consiste
nel loro essere in anticipo rispetto a propri tempi ma nel rendere lampante a
chi le legge quanto continui a essere in ritardo rispetto ai suoi. Chi legge ha
meno scusanti di chi non legge, e chi non legge ha meno speranze ancora di poter
vivere senza doverci ricorrere.
La letteratura non chiede scusa se è quel che è, e perché mai dovrebbe? Come la
vita quando è bella, da sogno, vale a dire intelligente per davvero.
antonio coda
L'articolo Sognando Busi. Ovvero: rileggendo “Grazie del pensiero” proviene da
Pangea.
Nella ben documentata biografia dedicatagli da Blake Bailey (Cheever. A Life),
si racconta a un certo punto di come John Cheever s’imbatta in un romanzo di
Saul Bellow e sia, da quel momento in poi, soggiogato, anzi quasi ossessionato
dal collega. Già gli erano piaciuti i primi due romanzi di Bellow, e in
particolare The Dangling Man (L’uomo in bilico), ma la sua reazione alla lettura
del terzo romanzo bellowiano, The Adventures of Augie March (Le avventure di
Augie March), che esce nel 1953, sarà tale da stordirlo. Una vera e propria
rivelazione, tanto da spingerlo a scrivere al suo quasi coetaneo che, se avesse
continuato su quella strada, per lui, cioè per il povero Cheever, non ci sarebbe
stato altro destino possibile se non quello di tornarsene a casa e “andare a
lavorare a una pompa di benzina a fare il pieno agli automobilisti in transito
per Cape Cod”. Un modo indubbiamente immaginifico e autoironico di esprimere la
propria ammirazione, ma anche un segnale di quanto la prosa di Bellow l’avesse
colpito; anche se in seguito, moderando leggermente gli entusiasmi, dirà (ma
sempre con riferimento all’esempio di Bellow, che quindi continuava a
bruciargli) che in fondo la scrittura non è un’attività competitiva.
Non è questo che uno dei tanti esempi possibili per descrivere l’impatto avuto
da Bellow sugli scrittori della sua generazione, come per esempio Malamud, per
non parlare naturalmente di quelle successive (Philip Roth in primis), che ne
hanno magari criticato il progressivo scivolamento verso posizioni
neoconservative, ma hanno fatto comunque pienamente tesoro delle sue conquiste
espressive. A vent’anni dalla morte, avvenuta il 5 aprile 2005, cerchiamo allora
di verificare quanto di Bellow e della sua opera sia rimasto. Da The
Victim(1947) a Henderson the Rain King (1957) – l’unico dei romanzi bellowiani
il cui protagonista non sia ebreo –, da Herzog (1964) a Mr Sammler’s
Planet (1970), da Humboldt’s Gift (1975) a The Dean’s December (1982), da More
Die of Heartbreak (1987) a Ravelstein (2000): anche se ci limitiamo ai titoli
dei soli romanzi principali, riscontriamo sempre almeno due doti, una prodigiosa
ispirazione e un’inesauribile creatività. Perché una cosa è certa:
il corpus prodotto in mezzo secolo di attività da Bellow è impressionante per
qualità e continuità d’ispirazione, per il sottile intreccio tra profondità di
contenuti e padronanza delle tecniche narrative.
Non gli sono mancati i riconoscimenti, fra cui il premio Nobel, che gli venne
conferito nel 1976, mentre l’anno precedente gli era stato preferito Montale, in
quell’alternanza prosa/poesia che ne contrassegnò diverse edizioni. E va detto
che di rado premio Nobel fu più meritato, né mai fu al tempo stesso più
ortodosso, legato cioè non a questioni extraletterarie (ossia, spesso,
politiche) o all’esigenza di ampliare la portata del concetto di letteratura, ma
intrinseco, volto cioè a premiare davvero l’eccellenza nella scrittura. E a
proposito di Nobel: diversamente da altri scrittori, che nei confronti del
premio furono molto critici (Beckett) o addirittura lo rifiutarono (Sartre), pur
non essendo del tutto convinto dell’utilità né degli aspetti pubblicitari ad
esso connessi, Bellow si limitò a ringraziare, da persona discreta e gentile
qual era. In passato, aveva detto dei propri libri e dei propri lettori che, se
di un suo romanzo riusciva a venderne cinquantamila copie, l’avrebbero poi letto
forse in cinquemila, ma avrebbero reagito ad esso al massimo in trecento, e il
Nobel gli sembrò quindi semplicemente uno dei possibili strumenti per far
aumentare queste cifre (e magari in particolare l’ultima).
Una volta tanto, l’occasione del conferimento del Nobel risulta interessante
anche per i contenuti della lecture tenuta da Bellow, in cui, polemizzando con
le posizioni di Alain Robbe-Grillet e altri, esalta la vitalità del romanzo (e
dei suoi personaggi) e mostra di perseguire l’ideale di una narrativa eclettica,
che non si lasci limitare o coartare dall’esterno, che non tema le grandi
dimensioni e le scommesse creative e perfino che non sia necessariamente
equilibrata, e anzi contenga al proprio interno elementi alieni
al plot principale e magari centrifughi. Menziona a un certo punto una frase di
Joseph Conrad, il quale, nella prefazione al Negro del “Narciso”, diceva che
l’arte è il tentativo di rendere la massima giustizia possibile all’universo
visibile. Ben lungi dall’accettare l’idea di una crisi strisciante o di
un’implosione del romanzo quale genere letterario, Bellow rivendica al contrario
l’importanza di continuare a svilupparlo senza confini prestabiliti, aprendosi
all’influenza di quelli che tre anni dopo, in un’altra intervista (a Maggie
Simmons per “Quest”), chiamerà “deeper motives” (“motivi più profondi”), che
spesso sgorgano direttamente dall’inconscio e dall’emotività dello scrittore
configurandosi come onesti elementi morali (non moralistici), scaturenti cioè
dall’approccio etico di ciascuno scrittore con la realtà e dalla sua
rielaborazione mentale della stessa.
Da tutto questo derivava un rifiuto del postmodernismo e delle tendenze più in
voga negli anni Settanta e Ottanta, il suo orgoglio di essere uno scrittore
“unfashionable”, ovvero non alla moda, il suo amore e piacere per la lingua di
cui si serviva, un inglese ricchissimo e duttile. E ne derivava anche una certa
intransigenza, che non lo farà arretrare dinanzi alle accuse di conservatorismo,
soprattutto a partire da Il pianeta di Mr Sammler, dovute anche al suo graduale
avvicinarsi a posizioni neoliberali e a figure come quella del filosofo Allan
Bloom. Per Bloom, che sarà insieme a Mircea Eliade uno dei protagonisti del
romanzo a chiave Ravelstein, e per il suo The Closing of the American Mind – una
specie di trattato in cui, considerato il nichilismo delle più giovani
generazioni, si preconizzava un imminente trionfo della barbarie – l’elettore
democratico Bellow scrive infatti un criticatissimo prologo. Un conservatorismo
peraltro non politico, il suo, ma morale, dovuto al disagio provato nel vedere
tante promesse svanire nel nulla e la società americana incapace di assorbire le
pulsioni verso una maggiore giustizia civile e razziale, verso un superamento
della povertà estrema, verso un maggiore rispetto dei diritti
civili. Conservatore controcorrente in un’America che a suo parere andava verso
un liberalismo ingenuo, confuso e velleitario, oggi Bellow sarebbe probabilmente
all’estrema sinistra dello spettro politico, a burlarsi di questo nuovo ceto
politico sciatto e pasticcione, se non decisamente fascista, emerso dalle ultime
elezioni.
Qualche altra caratteristica di Bellow da mettere rapidamente in luce, anche se
in maniera non sistematica (proprio come forse avrebbe amato): anzitutto, la
capacità di essere ironico e autoironico. Tanto per fare un solo esempio, nel
rispondere alle domande di Joseph Epstein per la “New York Times Book Review”,
il 5 dicembre 1976, Bellow esordisce così: “Well, you are not Eckermann, I am
not Goethe, and this, our City of Chicago, is most distinctly not Weimar. But
let’s go ahead anyway. Shoot.” (“Lei non è Eckermann, io non sono Goethe, e
questa nostra città di Chicago di certo non è Weimar. Ma procediamo pure.
Spari.”)
Poi, la capacità di cogliere nel segno, che caratterizza in pratica ciascuno dei
suoi quattrodici romanzi. Bellow lo spiegava senza davvero spiegarselo: a lui
sembrava semplicemente di dar voce a paure e confusioni che erano sue proprie e
a cui solo a posteriori riconosceva un carattere di universalità. Diceva che, in
quanto romanziere, era parte del suo lavoro quotidiano cercare di dare
espressione, nel modo più preciso e circostanziato possibile, ai dubbi e alle
angosce che serpeggiano in una società di per sé sempre più impaziente e
incerta. E questo, nella maggior parte dei casi, gli è senza alcun dubbio
riuscito: certe profonde e strampalate lettere di Moses Herzog ai suoi
impossibili interlocutori, da Eisenhower a Nietzsche a Spinoza, fanno già parte
della storia della letteratura. “Se sono matto, per me va benissimo”, come
recita l’incipit del libro; e a quanto pare, nel creare il prototipo
dell’intellettuale ebreo metropolitano, ironico e fortemente nevrotico, sempre
sospeso fra riflessione e azione (il più delle volte mancata) – prototipo che al
cinema farà poi la fortuna di un Woody Allen – Bellow tocca davvero un tasto
sensibile, dà vita letteraria a qualcosa che cominciava a esistere e a
propagarsi in natura.
E ancora, il legame indissolubile con Chicago. Nato a Lachine, nel Quebec, nel
1915 – il vero nome è Salomon Byelo, è l’ultimo di quattro figli e il primo a
vedere la luce nel Nuovo Mondo –, Bellow trascorre l’infanzia a Montreal e a
Chicago si trasferisce con la famiglia (emigrata in origine da San Pietroburgo)
all’età di nove anni. Vivranno da emigrati canadesi nel West Side, una delle
zone più problematiche della città in termini di piccola criminalità e
d’insicurezza. Nella magmatica e caotica Chicago, Bellow avrebbe poi seguito gli
studi liceali, si sarebbe anche iscritto, in una prima fase, alla locale
università, dove avrebbe però subito toccato con mano lo strisciante
antisemitismo che imperava anche negli Stati Uniti e che gli ispirerà il secondo
romanzo, La vittima, prima di spostarsi alla Northwestern per laurearsi in
sociologia e antropologia (non in lettere, e forse è significativo anche
questo). A Chicago, lavora in seguito al Federal Writer’s Project – un centro
studi che era diventato anche una specie di sinecura per scrittori progressisti
e che Trump oggi si affretterebbe a chiudere –, stringendo con la città un
legame indissolubile, che resta in essere anche quando la lascerà
temporaneamente. Viaggerà infatti in Europa grazie a una borsa Guggenheim – è a
Parigi che comincia a scrivere, a suo dire soprattutto in treno e nei cafés, il
brillante e picaresco Augie March – e per determinati periodi vorrà o dovrà
trasferirsi a Minneapolis e a Boston. Ma nella maggior parte dei suoi romanzi
Chicago è onnipresente; il richiamo e il fascino che la città esercita su di lui
ben si rispecchiano nella convinzione di alcuni tra i suoi personaggi principali
di non poter vivere altrove, in un’accettazione totale anche delle brutture e
delle manchevolezze della vita cittadina che non si riscontra nelle opere di
altri scrittori, come Theodore Dreiser, Nelson Algren o Richard Wright, i quali
a Chicago hanno trascorso quasi tutta, se non tutta la vita. In alcuni libri di
Bellow, come per esempio Il dono di Humboldt – romanzo davvero pirotecnico su un
intellettuale in crisi, in cui fra le righe prende a modello l’amico poeta
Delmore Schwartz, morto una decina d’anni prima –, la Chicago dei grattacieli,
dei mattatoi, della polizia corrotta, della criminalità organizzata per bande,
del business che primeggia su tutto è ritratta con rara maestria e ricchezza di
sfumature.
Bellow è stato amatissimo dalle donne (cinque mogli, quattro divorzi, avrà
l’ultima figlia all’età di ottantaquattro anni) e naturalmente dal suo pubblico,
sempre più vasto, ma anche da molti colleghi scrittori, che in qualche caso
potrebbero passare, sia pure entro certi limiti, per suoi discepoli. È ancora
Blake Bailey, ma stavolta nella biografia dedicata a Philip Roth, a raccontare
del bellissimo rapporto fra i due, che insieme a Malamud, a Mailer e ai fratelli
Singer, erano uniti anche dal fatto di far parte di quella che Truman Capote
aveva voluto sprezzantemente definire nel 1968 su “Playboy” la “Jewish literary
Mafia”. (Di sicuro, assieme a tutti questi altri autori Bellow è riuscito se non
altro a creare un genere letterario, quello dell’immigrato alle prese con
l’incomprensibile realtà urbana, e a far emergere nelle lettere americane
moderne la presenza ebraica, soprattutto quella degli ebrei ormai integrati o in
via di sempre maggiore integrazione.) Roth, che con le sue battute e barzellette
riusciva invariabilmente a divertirlo, continuerà a telefonare a Bellow anche
quando quest’ultimo, ormai novantenne, era troppo confuso persino per sapere chi
fosse, e parteciperà al suo funerale, nella remota Brattleboro, in Vermont,
benché soffrisse di una patologia alla schiena che lo aveva quasi immobilizzato.
Ma il rispetto e l’ossequio al maestro, a volte, permette di superare qualunque
avversità; e Bellow era stato per lui e molti altri indiscutibilmente un vero
maestro.
Raoul Precht
L'articolo “Se sono matto, per me va benissimo”. Saul Bellow, un maestro
proviene da Pangea.
Giacca giusta, cravatta, viso affilato e aristocratico, cappello costoso,
William S. Burroughs sembrava un Lord. Il Lord della disperazione; il Baronetto
del sottosuolo; il Principe della morfina.
La letteratura, si sa, nasce dal disastro, dalla morte.
E da una leggenda bugiarda.
Settembre 1951, Messico. Bisognerebbe scrivere una storia della letteratura
sugli scrittori che hanno sentito il bisogno di perdersi in Messico, in quei
meandri del delirio, che infernale ubriacatura, ce ne sono un mucchio, da
Antonin Artaud a Malcolm Lowry, da Carlo Coccioli a Hart Crane e Cormac
McCarthy.
Burroughs in delirio lisergico.
Piglia la pistola.
Mette il flûte in testa alla moglie, Joan Vollmer. 28 anni, viso da bambola.
William è più grande di un paio di lustri, ha studiato ad Harvard, rampollo
sregolato di una famiglia di ricchi; afferra l’arma, gioca a fare l’eroe, le
spara in faccia.
> “Poi ci fu quel terribile incidente con Joan Vollmer, mia moglie. Avevo un
> revolver che volevo vendere a un amico. Lo stavo controllando ed è partito un
> colpo: lei è rimasta uccisa. Qualcuno ha messo in giro la voce che stessi
> cercando di centrare un bicchiere di champagne sulla sua testa, alla Guglielmo
> Tell. Una cosa assurda e falsa”.
Verità, memoria e menzogna sono il fango mistico da cui esala l’esaltante
narrativa di Burroughs. Di certo c’è che Joan dà a William un figlio, nel 1947,
e che lui, scampando il processo, se ne scappa a casa di Paul Bowles, quello
del Tè nel deserto, a Tangeri. Lì, sgangherato dalla colpa, colto nel folto del
tremendo, Burroughs scrive il libro di culto, Pasto nudo, l’epos di un Ulisse
cocainomane, il regesto visionario di un malato (“La Malattia è la
tossicodipendenza e io per quindici anni sono stato un tossicomane”), la
stagionatura agli inferi di un cervello rimbaudiano in mescalina.
Pasto nudo diventò il Corano dei Beat, Burroughs l’Allah dei beatnik, Jack
Kerouac il suo profeta.
> “Jack Kerouac è stato fondamentale nell’alimentare il mio interesse per la
> scrittura. Tra l’altro, il titolo Pasto nudo si deve a lui: è stato un caso,
> naturalmente. Continuava a dirmi che dovevo fare lo scrittore, e io gli
> rispondevo che non sapevo niente di letteratura. Così ho davvero cominciato
> piuttosto tardi”.
Raffinato, viziato, vizioso, nessuno ha mai saputo descrivere adeguatamente
Burroughs. “Era un Raskol’nikov in cerca di tutte le cose che non si dovrebbero
fare. Voleva semplicemente provare tutto”, ha detto Allen Ginsberg. Certo. C’è
il delitto, l’immolazione nel castigo, la baraonda catartica, l’alchimia della
droga.
Nel 1963, a Parigi, prima di intervistarlo, Joseph Barry lo vede così,
> “Un tizio un po’ curvo, alto circa uno e ottanta; magro; un volto scarno che
> sembra un misto di Ralph Richardson e Buster Keaton”.
Insomma, un attore dell’assurdo. Su Village Voice, a declamarne il talento, uscì
questa didascalia:
> “Tossico e assassino formatosi ad Harvard, William S. Burroughs è stato un
> illustre decano della feccia… In misura maggiore di quanto non lo rendesse
> possibile la sua leggenda, era anche un uomo dal pensiero complesso,
> inquietante e visionario, profondamente paranoico e profondamente morale”.
Lui, teorico della letteratura come sprofondamento nella notte oscura dei sensi
e dei pensieri, era più sbrigativo, “sono robaccia – e sarò per sempre un
drogato”.
L’ennesimo paradosso di questo inafferrabile surfer dell’Lsd è che “odiava
rilasciare interviste” (così Sylvère Lotringer), solo che il tomo che
raccoglie tutte le sue Interviste, stampato da il Saggiatore, una specie di
monumento e di monolite, va avanti per 1200 pagine e passa (2018). Burroughs
stava meglio nel suo mondo immaginario, macerato a dovere dalla coca, più che in
quello reale. Lo intervistavano e lui balbettava, eludeva, rispondeva a
monosillabi, si perdeva in una amazzonia di metafore. A Londra, nel 1974, il
Duca della Beat generation dialoga con il Duca Bianco, David Bowie, e tartaglia,
farfuglia, William tratta la superstar come uno scrittore vero (“È piuttosto
sorprendente che siano testi così complessi, e che possano conquistare un
pubblico di massa…”), e Bowie fa spallucce, fa il falso modesto, come di fronte
al frontman dei fan (“Sono abbastanza sicuro che alla gente che ascolta le mie
cose non interessano i testi”).
Dunque, a cosa serve questa mole micidiale di interviste, colloqui,
registrazioni (un centinaio)? A fare l’elenco dei – rari – scrittori che
piacciono al guru dei fulminati, ad esempio. Sintesi magnetica:
> “C’è Joyce. Shakespeare, Rimbaud, alcuni scrittori di cui la gente non ha mai
> sentito parlare… Genet, naturalmente, ma la sua è una prosa francese classica.
> Non è un innovatore linguistico. Poi ci sono Kafka, Eliot e Conrad, che è uno
> dei miei preferiti”.
Legge con gusto Graham Greene, legge Le Carré (“proprio un bravo scrittore”),
non gli parlate di 1984 (“sembra quasi naif, alquanto obsoleto”), è lucidamente
crudele riguardo a Hemingway (“Le nevi del Kilimangiaro penso che sia un grande
racconto. Se prendi invece cose come Verdi colline d’Africa e Di là dal fiume e
tra gli alberi, la sua immagine ha preso il sopravvento. L’eccesso di immagine è
molto pericoloso per uno scrittore”), ama H.G. Wells (“mi è sempre sembrato uno
dei migliori”) e C.S. Lewis (“Un altro che mi piace moltissimo.
In Quell’orribile forza e Lontano dal pianeta silenzioso ho trovato molte
analogie con le mie idee”), offre una fulminante esegesi di Céline:
> “Mi pare che i fraintendimenti dei critici rispetto alla sua opera siano
> simili a quelli che investono anche i miei lavori: dicevano che fosse un
> diario della disperazione ecc. Io la trovavo invece molto divertente. Penso
> che sia in primo luogo uno scrittore umoristico”.
Quanto al resto, Burroughs, dal suo Nirvana nitido come un urlo, ha capito, già
allora, che la frustrazione è la molla del capitalismo (“La celebrazione totale
del piacere assoluto significherebbe la fine del sistema. Se davvero fossimo
tutti appagati sessualmente, il bisogno di automobili e televisioni
diminuirebbe”), disprezza indolentemente i politici (“Trovo insulso il loro modo
di pensare, così rivolto all’esterno, orientato sull’immagine, sul potere. Mi
annoiano; non li odio”), vorrebbe fare la rivoluzione con i Rolling Stones (“I
Rolling Stones si considerano dei rivoluzionari? Certo che sì, baby. Cercano di
aiutare in tutti i modi, e sono dalla nostra parte, completamente”), inaugura un
ambientalismo radiosamente radicale (“L’uomo è un cattivo animale. Prima
distrugge la razza umana, poi gli animali, infine l’ambiente”).
Quando gli chiedono che razza di vita selvaggia abbia vissuto, Burroughs, con
educazione, blocca chi lo interpella, “La maggior parte del tempo l’ho passata
alla macchina da scrivere e non a tenermi impegnato con chissà quali
spumeggianti accadimenti”, dice. E se uno pensa che William sia un contorto
nichilista, mostrificato dal nulla, sbaglia, “Se non fossi sorpreso della tua
vita, non saresti vivo. La vita è una sorpresa!”, grida.
Così il decano degli sballati decanta l’esistenza, compila il suo folle inno
all’ottimismo.
L'articolo Ulisse cocainomane, Raskol’nikov dei Beat. Vita eccentrica di William
S. Burroughs, un ottimista proviene da Pangea.
> «E questo tema del doppio, questo tema amato e variato, delibato e citato,
> fosse una maschera di comodo per il vero tema: del triplo, del quintuplo, del
> millesimo e via?».
>
> (M. Mari, Locus Desperatus, Einaudi, 2024)
In questo breve passaggio il protagonista di Locus desperatus di Michele Mari ci
riporta alla ricorrente paura del doppio, fino alle estreme conseguenze di una
riproduzione seriale, forse infinita dell’essere umano.
Il tema del doppio, del sosia, del gemello malvagio, del doppelgänger uscito da
qualche dimensione parallela, da qualche Loggia Nera, è un tema su cui si è
scritto moltissimo (per uno studio significativo, si veda O. Rank, Il doppio,
SE, Milano, 2001). Incarna forse una paura atavica dell’uomo moderno, così
ossessionato dalla propria individualità, dal suo essere unico e irripetibile,
che inevitabilmente compare una figura identica in tutto e per tutto, ma con
scopi spesso ignominiosi, partorita dalla mente o da un luogo oscuro, pronta a
sottrargli proprio questa unicità.
Immagini riflesse nello specchio che si staccano e vanno per la loro strada; la
propria ombra venduta al diavolo che torna per prendere il nostro posto; l’uomo
nero di Esenin, riflesso dello specchio, che si accosta al letto del poeta per
torturarlo nelle ore notturne: da E. A. T. Hoffmann fino a David Lynch, ci
rendiamo conto che non si tratta di una tematica unicamente letteraria;
nonostante si tratti di una fantasia, anche se del tutto improbabile che questo
capiti nella realtà, l’apparizione di un altro uguale a noi rappresenta forse la
più grande delle paure dell’uomo moderno fino ai giorni nostri, e l’idea che
l’altro si nasconda proprio dentro noi stessi rende il tutto ancora più
inquietante. Se questo tema viene periodicamente riproposto in differenti
chiavi, è per via dell’abitudine che ha l’uomo di torturarsi mettendo in scena
le proprie paure al fine di esorcizzarle. Si può dire che l’uomo, spinto da una
morbosa curiosità, goda nel gettare uno sguardo nell’abisso, almeno finché dal
fondo non emerge un altro se stesso, uguale in tutto e per tutto.
Il più grande libro su questa tematica è probabilmente Il sosia di Dostoevskij.
In questo racconto seguiamo la vicenda del burocrate Goliadkin che, fin dalle
prime pagine, stenta a esistere.Quest’uomo si vergogna di tutto, in particolare
della sua presenza; vive in modo appartato, mai in vista; quando noleggia una
carrozza per fare bella figura si vergogna se qualche conoscente lo riconosce;
pensa di essere un uomo onesto e di agire onestamente, ma è il più malizioso di
tutti; è ossessionato da ciò che gli altri pensano o dicono sul suo conto;
spesso si lascia andare a fantasticazioni a tal punto contorte e articolate da
materializzarsi davanti ai suoi occhi, tanto da credere in una fitta
cospirazione ordita ai suoi danni, così machiavellica da prevedere l’uso
sfacciato di un suo sosia reperito chissà dove. Anche se per tutto il racconto
Goliadkin lotterà con le sue forze (davvero esigue e inconcludenti, a dire il
vero) contro questo sosia malvagio, è stato lui in primis a rinnegare se stesso,
a non voler essere riconosciuto; e tale opera di estraniamento giunge al culmine
dopo l’ennesimo momento di profondo imbarazzo in società, dopo essersi
intrufolato a un ballo al quale era stato rifiutato, e quindi ricacciato via in
malo modo.
Questo sosia si insinua nella sua vita timidamente, come un possibile alleato,
ma ben presto rivela la sua natura malvagia. Esso incarna tutte quelle
caratteristiche che Goliadkin disprezza negli altri: il doppiogiochismo, la
natura adulatoria, l’oscenità dei modi, ecc. E grazie a queste sue “doti” riesce
più simpatico ai superiori e agli amici di Goliadkin, tanto da prenderne
progressivamente il posto. In un certo senso, la mente di Goliadkin sembra aver
partorito questo sosia malvagio per giustificare il suo rigetto dalla società:
in parole povere, se loro non mi vogliono, è perché io sono un uomo onesto,
mentre la buona società ammette solo persone false e arriviste.
Goliadkin è ben più di un semplice nevrotico che naufraga nella follia, è il
prototipo dell’uomo del sottosuolo: egli odia la società, ma allo stesso tempo
odia esserne escluso. Il sosia è un vincente, possiede tutte quelle viscide
caratteristiche che gli possono garantire il successo e di cui Goliadkin è
sprovvisto. Infatti l’originale accusa la sua copia di volergli rubare il posto,
ma lui, quel posto, non ce l’ha e mai lo potrà avere. Non gli spetta. Diremo di
più: tutta la vicenda è lo stesso Goliadkin a portarla avanti, in più occasioni
si ripromette di far finta di niente, di lasciare che le cose facciano il loro
corso, di continuare la sua vita rettamente, ma non ci riesce. Sono cose che
capitano, capita di avere un sosia, non c’è niente di male, si ripete; ma
qualcosa di male c’è eccome, perché non si tratta di un sosia, ma di una parte
di sé. Insiste nel dirsi una persona onesta, “Pulito, retto, lavato, piacevole,
senza rancore…”, ma è colpevole di vedere il male in ogni persona che lo
circonda, dall’umile servitore al capo del suo dipartimento. Ai suoi occhi,
straccioni e Eccellenze, amici e nemici, fanno tutti parte dello stesso liquame
che trama alle sue spalle.
Dostoevskij sembra suggerirci che la natura stessa dell’uomo è duplice, fondata
su bene e male.Goliadkin, avendo la presunzione di mostrarsi per quello che è,
in tutta la sua sincerità, perde la sua maschera, gli si stacca letteralmente di
dosso e incomincia una vita propria (come fece a suo tempo il naso di Gogol’).
Forse perché è la società stessa, con i suoi inganni, le sue riverenze, le sue
meschinità, a esigere che gli individui indossino una maschera.
Ma diremo di più: Dostoevskij lascia intendere che vedere il marcio in ogni cosa
credendosi senza peccato, porta verso il baratro, a perdere se stessi. Non
riconoscere la propria fragilità, le proprie debolezze, porta l’uomo a credersi
un dio e quindi a perdersi.
Un altro grande esempio è quello offertoci da Saramago: in una Lisbona
contemporanea e affollatissima, dai tratti meno cupi della San Pietroburgo
innevata di metà Ottocento, ambienta il suo dramma sul sosia con L’uomo
duplicato. Qui non ci troviamo di fronte alla paranoia di un uomo meschino che
sfocia nella follia, ma di un fatto, se non reale, verosimile. Seguiamo
l’esistenza di un professore di storia dal non comune nome di Tertulliano Maximo
Afonso, il quale conduce una vita grigia e inespressiva; a dare una svolta a
questa quotidianità è una scoperta sconcertante: in un film per nulla famoso, di
quelli a scarso budget, scorge un uomo del tutto identico a lui. È una comparsa,
o fa piccole particine, ma è uguale a lui. Incomincia così una forsennata caccia
all’uomo (all’uomo uguale a sé) in mezzo a milioni di individui.
Anche in questo caso salta subito agli occhi la futilità del tutto, perché una
volta rintracciato quell’uomo completamente identico tranne che nel nome, non sa
bene cosa fare. Una volta scoperta l’esistenza di un doppio, che però non si
conosce, cosa impedisce al protagonista di continuare la sua vita come prima?
Perché deve assolutamente trovarlo e parlargli? E per dirgli cosa? La scoperta
di un sosia è una cosa senza senso che però rende la vita di prima insensata,
invivibile. Dirà che lo ha voluto rintracciare per semplice curiosità, ma allo
stesso tempo qualcosa di minaccioso si insinua fra i due uomini uguali. Nascono
pensieri morbosi e ossessivi, come quelli sulla morte:
> “Un uomo uguale a un altro, che importanza ha, se vuole che glielo dica
> francamente, l’unica cosa che in questo momento mi preoccupa per davvero è se,
> visto che siamo nati nello stesso giorno, in uno stesso giorno moriremo pure
> […]”.
In una brulicante metropoli contemporanea, la presenza di un sosia blocca la
vita di un uomo; non può esserci un altro come me, non deve esserci. Possono
esistere milioni di persone, miliardi, ma la presenza di qualcuno col nostro
stesso volto è inammissibile. Saramago mette così in scena l’ossessione per i
corpi, in particolare per il vuoto che li abita. Corpi che possono essere
riempiti con un altro spirito, un’altra vita, a piacimento. Corpi
intercambiabili perché contengono spiriti scialbi, grigi e del tutto simili,
ugualmente meschini. Se questi spiriti non fossero così aridi, verrebbe da
pensare, avrebbero le qualità necessarie per accettare un simile scherzo della
natura, girarsi dall’altra parte e passare oltre, ma non ci riescono, perché
posseduti dalla stessa smania di unicità delle loro fattezze. Come il
protagonista, anche il sosia incomincerà a sentire la necessità di un confronto,
di mettersi di fronte a questo essere uguale, anche lui per curiosità, dice, ma
finendo investito dal panico generato dalla perdita dell’unica cosa che per loro
conta: l’esteriorità.
Ma tanto in Dostoevskij quanto in Saramago, la paura del sosia non si limita
solo al caso specifico, ma nasconde infine una paura più raccapricciante: se ne
esiste uno uguale a me, perché non potrebbero essercene molti altri?
> “…a ogni battere del suo piede sul granito del marciapiede, saltava fuori come
> di sotto terra un altro uomo, identico, esattamente simile al signor Goliadkin
> ma repugnante per depravazione di cuore. E tutti costoro, copie conformi,
> subito, al loro comparire, si mettevano a correre uno dietro l’altro e, come
> una fila di oche, si snodavano in lunga catena arrancando dietro il signor
> Goliadkin senior, sicché non c’era modo di sfuggire a quelle copie, e al
> signor Goliadkin, degno del tutto di comprensione, mancava il fiato per il
> terrore… e alla fine comparve una paurosa moltitudine di copie perfette, tanto
> che tutta la capitale pullulava di queste copie”.
>
> (F. Dostoevskij, Il sosia)
Valerio Ragazzini
*In copertina: René Magritte, La reproduction interdite, 1937
L'articolo “Un uomo uguale a un altro”. L’eterno tema del doppio: da Dostoevskij
e Saramago a “Twin Peaks” proviene da Pangea.
Thomas Chatterton si ammazza alla fine di agosto del 1770, in un angusto abbaino
di Londra, in Brook Street: avrebbe compiuto diciott’anni a novembre. Nato a
Bristol, si era trasferito nella capitale certo di poter vivere del proprio
estro poetico: scriveva versi di screanzata nobiltà da quando era bambino. Tra
l’altro, si era inventato un accattivante alter ego: Thomas Rowley, monaco
vissuto nel XV secolo, sagace nell’ode, nell’afflato epico – la Song from
Ælla in questo particolare canone è un piccolo capolavoro –, nell’inno
dall’ardore biblico. Un odore di selva, di Gerusalemme nei boschi, si respira
nelle poesie di Rowley. Per un po’, qualcuno credette agli inganni di
Chatterton, il ragazzino che trafficava con l’antica parlata inglese, leggeva
Edmund Spenser, adorava le Bibbie miniate, che celavano draghi e manifesti elfi
dietro il leggio degli evangelisti. È vero, era l’era dei rifacimenti medioevali
– l’Ossian forgiato da Macpherson, per dire – e delle liriche nate tra cimiteri
di campagna; in Chatterton, tuttavia, la razzia è raddoppiata, pura previsione
di Borges: a volte, il fittizio Rowley riscrive versi di Acca, il vescovo di
Hereford vissuto nell’VIII secolo. Traduceva Orazio.
A Londra, il ragazzino tentò di accattivarsi i favori di Horace Walpole: lo
scrittore del Castello di Otranto, l’inventore del gothic story, abile mestatore
di manoscritti ritrovati, frequentava il Parlamento, era conte di Ortford, tra i
più potenti e autorevoli intellettuali del tempo. Walpole cadde nel tranello di
Chatterton: quando scoprì che Rowley non esisteva, mero frutto della sua
adolescente invenzione, s’incupì, livido d’invidia; fece saltare una
pubblicazione già prevista, alienò Thomas dall’ambiente. Il ragazzo rispose con
le armi della poesia, inviando a Walpole un’ode altera, intrisa d’ira,
dall’attacco spiazzante, naturalmente postuma:
> Walpole, non avrei mai pensato
> che esistesse un cuore meschino come il tuo.
> Tu che, cullato dal lusso, fissi con disprezzo
> il ragazzo disperato, senza amici né padre…
Forlorn: così si descriveva Thomas the Boy – disperato, desolato, da tutti
desertificato. Si uccise con l’arsenico, non prima di aver fatto a pezzi i
propri residui versi. Nel quadro del preraffaellita Henry Wallis, The Death of
Chatterton (1856), il ragazzo è chino sul letto, pare un corpo di ceramica;
fulvi i capelli, i pantaloni viola; dalla finestra, semiaperta, un frammento
londinese: la luce è fulgida, sotto l’ala dell’arcangelo.
Thomas Chatterton, il primo poeta maledetto della storia della poesia moderna,
diventò un mito. A lui si riferiscono, a turno, inserendosi in quella imberbe
epopea, John Keats e Percy Bysshe Shelley; la sua fama varcò i confini
nazionali. Alfred de Vigny gli dedicò un’opera, Chatterton (1835), appunto, che
inaugura il tema – da allora dominante – del talento puro, barbarico,
inappropriato al proprio tempo, del poeta ingiuriato, suicidato dalla società.
Intorno a quel testo, Leoncavallo costruì Chatterton, opera lirica in tre atti,
andata in scena al Teatro Drammatico di Roma nel marzo del 1896 – senza troppi
successi, va detto. Prima della biografia di Rimbaud ordita da Ardengo Soffici,
Ettore Allodoli – amico di Papini, futuro biografo di Michelangelo, Cellini,
Giovanni delle Bande Nere e Savonarola –, nel 1904, firmò un rapace profilo
di Thomas Chatterton, secondo la moda delle agiografie dei ‘ribelli’. Scrisse
che leggendo Chatterton, una leggenda, “ci sentiamo turbati come dinanzi a
qualcosa di straordinario”.
Più che il genio sfiorito dalla sfortuna, l’idea del talento troppo presto
reciso, in Chatterton s’impone la profezia del prodigio. Intendo: la prodigalità
del verbo, la pronuncia inselvatichita da un eccesso di solitudine,
l’immaginario sbrindellato. È naturale che la città rigetti Chatterton, il poeta
provinciale, alla provincia dell’adultità, che vaga tra chiese dismesse e
dimesse valli, che ci impone un Medioevo dei sensi. A differenza di William
Blake, uomo ‘totale’, uomo celeste, compiuto nel creare, Thomas Chatterton è
il puer, l’infinitamente ingenuo, il totalmente ispirato, il tutto che spira:
ovvia, dunque, l’imperfezione, lo sbrego, la lingua mutilata, la speranza
messianica presto delusa. Egli sfregia l’ordine originario, la cultura
costituita: è, allo stesso tempo, un Jackson Pollock tra i poeti pompier e un
arcano bizantino agli occhi di chi crede di aver inventato la prospettiva
lirica. È esagerato tra i contemporanei, ma pure il più arguto tradizionalista.
Per tale intransigenza, Chatterton diventa l’inno e la coccarda dei Romantici
inglese.
È stato William Wordsworth ad affibbiare a Chatterton la definizione – the
marvellous Boy – che gli resta eternamente incisa: la troviamo in un Resolution
and Independence, il poema pubblicato nel 1807. Eppure, fu Samuel Taylor
Coleridge a nutrire una specie di demoniaca affinità con Chatterton. Della
sua Monody of the Death of Chatterton esistono sette versioni; la prima è del
1790, il poeta ha diciott’anni, vuole eguagliare l’estro funereo di Chatterton,
si aggrappa alla musa:
> “Musa, sussurra lirici lai
> il mio cuore s’imbatta nella lode!
> Ma, Chatterton… ora odo il tuo nome
> e Fantasia raggela, ragguaglia morte ogni Speranza di Fama.
>
> Quando Bisogno e Inettitudine hanno sfibrato la tua anima
> inzuppata nella tazza vedo Morte che assidera
> e il tuo cadavere abbagliante di lividi
> sulla cruda terra vedo, vedo
> l’ardore che già arma il mio immaginare
> e il petto sfodera un sospiro
> poi è l’Ira che lampeggia
> nella lacrima e mi erode gli occhi”.
Di questo dice questo raffazzonato articolo: dell’ossessione dei poeti per i
poeti che non ci sono più. Ciascuno ha i suoi: alcuni ci ruotano attorno come
cagnolini, altri ci crescono in seno come una serpe. C’è chi tiene accesa per
noi la luce, fino all’alba – chi screzia i nostri appunti. Chi imita il suono
del chiurlo o il rumore della pioggia; chi si traveste da civetta o da gatto.
Ciascun poeta vivo ha i propri poeti morti per padrini, di cui non sa nulla –
eppure, sono loro a introdursi nelle nostre vite di soppiatto, inattesi, a
testimonianza. Un poeta è vivo per il patto che ha stretto con un poeta morto.
L’ultima versione della Monody è del 1834: Coleridge è in punto di morte,
zittito, da tempo, dall’abuso di oppiacei, da una vita di flebili successi,
grave nel fallire. Nel 1817 aveva pubblicato la Biographia Literaria. Perfino
negli anni cruciali, quelli del Rime of the Ancient Mariner (1798), Coleridge
continua, con demoniaca furia, a riscrivere la Monody. È una sorta di sabba, di
ostile liturgia: Coleridge sfregia se stesso per evocare lo spirito di
Chatterton. La versione più riuscita è quella del 1829, in cui la vita di
Coleridge pareggia misticamente quella di Chatterton. Eccone alcuni squarci:
“Un miracolo pare pallore di morte:
tutti dormono con gaudio, Feti
e Infanti, Giovani e Vecchi, notte
che segue notte fino alla notte perenne!
Raddoppiata stranezza: la vita non è che
ansimare sulle ripide vie della Necessità.
Ma vai via, Fantasma col grugno, Re Scorpione, via!
Riserva i tuoi terrori, quel pavoneggiare di spine
ai Ricchi codardi, alla Colpa con la stola di Stato!
Ecco, io preferisco stare di fianco alla tomba di uno
marcato dal prodigio e dall’avaro Fato
(lui che tutto dona e tutto nega):
faceva risuonare enigmatiche cupole, antiche
campane con la voce di una Madre: torna
povero Puer, torna a casa, strenuo vagabondo!
O Chatterton! Questa smorfia di pietre ti protegge
dallo scempio, dal cupo gelo dell’abbandono.
Troppo a lungo l’irriconoscenza ti ha irritato.
Qui hai riposo, sotto questa zotica zolla!
Ma la tua parola vaga, non è congiunta alla terra
ma tra le abbacinanti schiere dei giusti
presso il trono di pietà del tuo Dio
dove l’amore redime nell’inno ogni cosa
(credici, anima mia), all’arpa dei Serafini. […]
Lontano dagli uomini, tra boschi dai sentieri
insensati, era solito vagare, come il raggio
di una stella che mareggia tra i rami dell’albero.
Qui, nella famelica ora degli ispirati
quando l’anima sente ribollire il proprio potere,
in queste terre selvagge, nel ruggire delle cave rocche
dove si libra il leonino gabbiano
sei passato, con gambe ineguali e sassoni
versando al vento la resina di un canto in coccio:
sulla soglia di qualche spaventoso scoglio
ti fermavi, fissando le onde, ovunque. […]
O Chatterton! Se fossi ancora vivo
di certo apriresti le danze della burrasca
ti uniresti a noi per guidarci verso
l’indivisa valle della Libertà;
e quando cadrà la sera, la serafica,
saremo una folla intorno a te, rapiti
dal tuo maestoso canto, esultanti
per quella Poesia dagli occhi di ragazzo
mascherata con la canizie dell’Antichità”.
In questa specie di manifesto romantico – il poeta canta nei meandri del bosco,
non nei club della City, si fa editare dagli alcioni e dalle querce – si
prefigura l’icona del Wanderer di Friedrich. Diversi decenni dopo, nel 1938,
tenendo insieme i toni di Coleridge e il mito di Chatterton, Dylan Thomas
scrive O Chatterton – come a dire che i morti non hanno requie, che tutto
reclamano. Il riferimento alla “valle della Libertà” è specificato nella strofa
finale, qui non tradotta. Coleridge cita il Susquehannah, il fiume che
attraversa la Pennsylvania, lo stato di New York e il Maryland. Coinvolto dalle
idee dell’amico Robert Southey, Coleridge voleva fondare in un luogo boschivo
non ben precisato intorno al Susquehannah una comunità egualitaria. Sarebbero
partiti in dodici, tutti poeti, con relative consorti. La loro idea di
vita, pantisocrazia, fondeva averi messi in comune, assenza di proprietà
privata, ricerca spirituale. Si trattava di una poetica dell’esistere: i poeti
avrebbero coltivato i campi per tre ore al giorno, destinando il resto del tempo
alla poesia e allo studio. Nessuno, in quella colonia, avrebbe primeggiato
sull’altro. Le donne, devote, avrebbero alienato i mariti dall’ira con le arti
dell’amore. Coleridge pensava che la politica europea, in sé, fosse rea di
schiavismo e di oppressione. Gli mancarono le sostanze economiche – e spirituali
– per realizzare gli intenti, presto naufragati. Preferiva baloccare con gli
spiriti. Chatterton, poeta irredento, non è mai morto: se non lo vedi è nascosto
lì, sotto il tuo palato, usa la tua lingua come una zattera. Azzannalo.
*In copertina: un disegno di Mervyn Peake
L'articolo “Nella famelica ora degli ispirati”. L’ossessione di Coleridge e lo
spirito inquieto di Chatterton proviene da Pangea.
Filologia spettrale. Qualche tempo fa, quando si è saputo che Adelphi sarebbe
divenuto il nuovo editore italiano di Philip Roth, mi è venuta voglia di tornare
ai suoi romanzi in veste Einaudi. Ho riletto integralmenteOperazione Shylock,
poi sono passato a Pastorale americana. Entrambe le traduzioni sono di Vincenzo
Mantovani e mi paiono ottime; mi chiedo se Adelphi le conserverà o se
proporranno delle nuove versioni.Tuttavia qui non si tratta di traduzioni bensì
di fantasmi. Intendo infatti servirmi di un libro di Roth per provare
l’esistenza di un fantasma. Vi prego di seguirmi, perché la dimostrazione vuole
essere – opere alla mano – inconfutabile.
Stiamo leggendo Pastorale americana. Siamo al secondo capitolo della prima
parte, precisamente a pagina cinquantanove. Il narratore del romanzo, Nathan
Zuckerman, è alla riunione degli ex studenti della scuola in cui è cresciuto, in
una scena che è anche una parodia di Proust. D’un tratto gli si presenta davanti
un compagno che non ricorda, Ira Posner. È “un ometto dall’aria severa con una
corta barba bianca, un’orribile cicatrice sotto un occhio e due apparecchi
acustici”. Zoppica. Si appoggia a un bastone. Respira con difficoltà. Dice a
Zuckerman che suo padre è stato molto importante per lui e gli chiede se sia
morto. “Sì” fa Nathan. “E il tuo?” La risposta è: “Il mio non vedeva l’ora di
morire. L’insuccesso gli ha dato alla testa.” E qui mi sono fermato,
riconoscendo una celebre battuta di Ennio Flaiano.
Pare infatti che dopo il fallimento della commedia Un marziano a Roma Flaiano
abbia dichiarato: “L’insuccesso mi ha dato alla testa.” In realtà molti
attribuiscono la frase a Mino Maccari, amico di Flaiano, che gli avrebbe detto:
“L’insuccesso ti ha dato alla testa.” L’attribuzione della boutade è comunque
incerta.
Fin qui non c’è niente di trascendentale. Dubito che Roth avesse letto Flaiano,
quindi sono andato a cercare il testo in originale. La frase esatta di Roth è:
“Failure went to his head in a really big way.” Mantovani la traduce così:
“L’insuccesso gli ha dato alla testa”, forse (mi dissi in un primo momento)
pensando proprio a Ennio Flaiano.
Andiamo avanti. Voltiamo pagina. Ira Posner chiede a Nathan Zuckerman da quanto
tempo sia morto suo padre. La risposta è: “Nel 1969. Da ventisei anni. Molto
tempo.” E Ira Posner ribatte: “Per chi? Per lui? Non credo. Per i defunti, è una
goccia nel mare.”
E qui cogliamo il fantasma in fragrante. O è lui a volersi rivelare, può darsi.
Perché bisogna fare caso ai numeri. Il padre di Nathan Zuckerman è morto da
ventisei anni. American Pastoral viene pubblicato nel 1997, mentre la traduzione
italiana, Pastorale americana, esce l’anno successivo, nel 1998. E quindi?,
direte voi.
E quindi Ennio Flaiano è morto nel 1972, esattamente ventisei anni prima della
pubblicazione della versione italiana di Pastorale americana, nel 1998.
Forse Flaiano mi ha dato alla testa. Forse no. Per i morti ventisei anni sono
una goccia nel mare, dice Ira Posner dopo aver citato inconsapevolmente Flaiano
(“L’insuccesso gli ha dato alla testa”), a ventisei anni esatti dalla sua
morte. Ora – nel 2025 – Flaiano è morto da cinquantatré anni e le gocce nel mare
sono dunque due. Poco tempo, molto tempo: dipende dai punti di vista. Presto
Ennio Flaiano e Philip Roth convivranno nello stesso catalogo. I fantasmi si
divertiranno.
Edoardo Pisani
L'articolo Breve chiosa di filologia spettrale – o dell’incontro postumo fra
Ennio Flaiano e Philip Roth proviene da Pangea.