Un conoscente, in vena cinica, disse, dopo aver dato un occhio al cadavere e
sogghignato sui presenti, “d’altronde, si è scavato la fossa da solo”. Nel
ritratto firmato da Boris Kustodiev ha il doppio petto, le mani eleganti giocano
con una sigaretta, il viso reca un sorriso cupo, violento, che non ha paura di
nulla. Evgenij Zamjatin morì il 10 marzo del 1937, d’infarto: aveva 53 anni, il
cielo era, secondo il canone, grigio, simile a un pugno. “Molto ho visto… si è
chiuso un cerchio. Ancora non so, non vedo quali curve si profilino nella mia
vita”, aveva scritto in un abbozzo autobiografico, nel 1928. La vita l’aveva
portato a Parigi, tra i russi emigrati, antibolscevichi, solitamente ricchi,
eleganti, rappresentati dall’eccentrica Zinaida Gippius e da Ivan Bunin,
scrittore eccelso, tolstojano, adatto, che nel 1933 era stato insignito del
Nobel per la letteratura.
Zamjatin, che aveva creduto nell’euforia della Rivoluzione, non stava bene in
quel giro. Se li inimicò tutti, scrisse qualche sceneggiatura per Jean Renoir,
morì povero di tutto. Fu sepolto nel cimitero di Thiais, fuori Parigi, dove
sarebbero stati sepolti anche Joseph Roth e Paul Celan: la tomba è semplice,
cruda, al funerale parteciparono rari conoscenti. Zamjatin finì per azzerarsi.
Nel 1931 era arrivato a Parigi tramite le buone relazioni di Maksim Gork’ij.
> “Il giorno era straordinariamente caldo e un temporale tropicale aveva
> scassato Mosca”, ricorda Zamjatin, “quando la segretaria di Gork’ij annunciò
> che mi si voleva a cena”.
La cena era una specie di raduno di letterati, una festa, nella villa in
campagna di Gork’ij. Il vino illuminava la conversazione. Zamjatin era
considerato un reietto dall’Unione degli scrittori sovietici – da cui si era
felicemente ‘licenziato’ –, una specie di sovversivo dai politici. Incurante del
disastro, nel 1924 aveva fatto in modo che il suo romanzo proibito, Noi,
attraversasse il confine, fosse tradotto, venisse pubblicato a New York, da E.P.
Dutton.Come si sa, il libro inscena gli esiti di un regime totalitario, secondo
l’epica statale sovietica e l’etica del lavoro taylorista. Zamjatin era stato
tra le barricate bolsceviche nel 1905; credeva che la Rivoluzione fosse,
soprattutto, una rivoluzione spirituale, estetica, che i veri rivoluzionari
avessero l’onere di criticare la deriva autoritaria del Politburo. Si stava
scavando la fossa, appunto. Peccava di logica, di buon senso, di lucidità – o
meglio: di comicità.
Nel 1919 Lenin aveva varato le Edizioni di Stato, Gosizdat, che sostituirono le
case editrici private, con funzioni per lo più censorie. Nel 1921 Zamjatin firmò
un articolo, Ho paura, in cui riassume lo stato dell’arte nell’era dell’arte di
Stato:
> “Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono
> funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori,
> ribelli, scettici”.
Una frase da stampare sui muri dei palazzi di governo. Dieci anni dopo scrive a
Stalin di poter lasciare l’Unione Sovietica, “qui la mia posizione è disperata,
la condanna a morte grava su di me, nella mia patria, in quanto scrittore”.
Nella fatidica cena in villa, Gork’ij si avvicinò a Zamjatin dicendogli che “la
faccenda del passaporto è risolta”; gli chiese di ritornare sulle sue posizioni.
Zamjatin preferì non abboccare.
> “Era appena terminato il temporale. Gork’ij si accigliò, tornò dagli altri
> ospiti. Più tardi, me ne stavo andando, mi domandò quando ci saremmo rivisti,
> ‘in Italia, forse?, vieni a trovarmi, ti prego’”.
Non si videro mai più: Gork’ij, “il fondatore del realismo socialista,
l’iniziatore della letteratura sovietica” (così nelle antologie scolastiche
russe), morì, in situazioni mai chiarite, un anno prima di Zamjatin.
Ingegnere navale, Zamjatin, nel 1915, andò a lavorare a Glasgow, Newcastle,
Sunderland, “costruivo rompighiaccio”. I tedeschi sganciavano bombe dagli
zeppelin e allo scrittore l’Occidente parve “tutto nuovo e tutto strano”.
Zamjatin resta, sempre, straordinariamente russo: rientrò in patria per gustarsi
la Rivoluzione, “nel settembre del 1917, su un vecchio piroscafuccio inglese… a
fari spenti, con addosso le cinture di salvataggio, le scialuppe pronte”, certo
che “se non fossi vissuto insieme alla Russia, non sarei più stato in grado di
scrivere”.
I Racconti di Zamjatin (Mondadori, 2021), raccolti a cura di Alessandro Niero,
già traduttore di Noi – e di un altro splendido ribelle, Boris Pasternak –,
quasi una primizia (i Racconti inglesi sono editi da Voland nel 1999; alcuni
testi, Nella vecchia Russia, X e La caverna, sono usciti per Urban Apnea nel
2019), testimoniano il genio caustico, scorbutico, espressionista dello
scrittore che un po’ da tutti era ritenuto una specie di Gogol’ redivivo. La
scrittura sconcerta per eccessi (questo è l’incipit de La iolla: “Le nubi,
addensatesi per due settimane, si squarciarono all’improvviso, come
accoltellate, e dallo strappo, stendendosi per numerosi aršiny e saženi, sgusciò
l’azzurro”), ha livore e gioia; la critica politica è ovunque. Zamjatin non
sopporta l’istituzione, la clausura burocratica, la botanica dei delatori, il
sacerdozio delle norme: lo Stato non include, occlude con la sua perversa
pervasività; tutto ciò che limita l’esplosione anarchica della fantasia uccide,
è coercitivo, un veleno. Da Parigi vide il deperimento della Rivoluzione in
marchingegno del terrore: si fece livido, solo. Morì tra la morte di Vladimir
Majakovskij, che si spara un giorno di aprile del 1930 sigillando la fine di
ogni pia utopia comunista, e quella di Vladislav Chodasevič, il poeta, passato a
Parigi, pure lui, nel 1925, malato, morto di stenti, nel 1939, gran maestro di
Nabokov, che nel suo capolavoro tombale, Necropoli, ricorda “le misure
inibitorie contro la libera creazione artistica” subite da Zamjatin.
Noi diventò il libro di culto degli anticomunisti e degli occidentali liberi: vi
si ispirarono George Orwell, Aldous Huxley, Kurt Vonnegut; Tom Wolfe,
nell’oceanica intervista rilasciata alla “Paris Review” nel 1991, dichiara di
aver iniziato a scrivere imitando Zamjatin, su cui si era laureato. Tutto bello.
In un saggio del 1923 Zamjatin scrive che
> “Gli eretici sono l’unico rimedio contro l’entropia del pensiero… Il dogma,
> nella scienza, nella religione, nella vita sociale, nell’arte, è l’entropia
> del pensiero. Il dogma non brucia; è glaciale. Al posto del Discorso della
> Montagna, infuocato, assistiamo alla preghiera sonnolenta magnificata nelle
> chiese; invece di Galileo ci sono calcoli in stanze ben attrezzate, epigoni
> che costruiscono le proprie strutture e le proprie carriere intorno
> all’intuizione di un genio… Il dogma accusa la letteratura eretica: afferma
> che essa è dannosa. Ma la letteratura ‘dannosa’ è più utile di quella utile,
> utilitaristica, perché sfida la calcificazione, la sclerosi, il muschio, la
> quiescenza”.
Eppure, questa è l’era della rabbia senza mediazioni, senza meditazione, degli
intellettuali servili, dei sudditi. Zamjatin fa l’effetto di uno che ti sega la
calotta cranica e riempie il vuoto cerebrale di falchi, di fenici.
L'articolo “Gli eretici sono l’unico rimedio contro l’entropia del pensiero”.
Elogio di Zamjatin proviene da Pangea.
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Per comprenderne l’indole, dobbiamo partire dalla fine. Alfred De Vigny – che
una celebre fotografia di Nadar mostra a braccia incrociate, il viso
corrucciato, la giacca ad ampie falde: un pipistrello, insomma – morì nel
settembre del 1863. Soffriva, da tempo, di un cancro allo stomaco; passò gli
ultimi anni a curare la moglie, Lydia Jane Bunbury, di origine inglese,
bellissimo, dicono, ricchissima, sprofondata in una nera demenza. L’amore della
sua vita – ovviamente: tormentato, inquieto, destinato a niente – fu però
l’attrice Marie Dorval, tra le più grandi dell’epoca, pervicace nella posa e nel
capriccio. Da anni alieno ai circoli letterari, per il disgusto verso le mode
imperanti, per una disciplina all’arte della sprezzatura, nel buon ritiro di
Maine-Giraud, un maniero in Charente, Alfred De Vigny, il poeta idolatrato da
Marcel Proust – da ragazzo lo considerava, insieme a Baudelaire, “il più grande
poeta del XIX secolo: anche nelle sue poesie meno note, mantiene una calma,
quell’ineffabile bellezza che ci sfuggono” – morì solo. La biografia redatta
dall’Académie française è spietata per rigore: “Indifferente al pubblico, fu il
vuoto intorno alla sua bara, accompagnata soltanto da qualche romantico della
prima ora”.
Fu eletto al seggio 32 – attualmente occupato da Pascal Ory, vi sedette, tra gli
altri, Alain Robbe-Grillet – nel maggio del 1845, dopo essere stato rifiutato
per sette volte. Gli “accademici” non amavano le sregolatezze dei Romantici;
Vigny rifiutò di presentarsi al cospetto di Luigi Filippo I di Francia. Quando
tentò di far eleggere tra i ranghi dell’Accademia Balzac, gli andò male.
Rampollo di una genia di militari, Alfred de Vigny passò la giovinezza in armi.
Pensava di fare carriera, di mettere alla prova la sua ideale audacia; languì
nella palude di guarnigioni mal assemblate. I fasti napoleonici – esemplificati
nello schietto romanzo di Conrad, I duellanti – erano un ricordo. Ottenne i
gradi, si licenziò capitano; in un ritratto, ragazzo, con la divisa della
“Maison du roi”, ha lo sguardo languido, la bellezza scapigliata, ininterrotta.
Alfred de Vigny (1797-1864) fotografato da Nadar
Dicono fosse incapace di “capire la realtà” – il che, per un poeta, non è poi
grave –, crebbe nel mito di Lord Byron, fece parte del circolo di Victor Hugo.
Tradusse – con spigliata grazia, in versi – Shakespeare, i suoi Poèmes antiques
et modernes (usciti, in edizione definitiva, nel 1829 e aggiornata nel 1841) gli
diedero autorevolezza lirica. I critici dicono che i “poèmes philosophiques”
raccolti come Les Destinées nel 1864, la sua opera definitiva, annunciano le
innovazioni di Stéphane Mallarmé (dei Poemi antichi e moderni e de I
destini esiste una traduzione di Lanfranco Binni, edita da Garzanti nel 1991).
Il capolavoro di Alfred de Vigny resta comunque Chatterton: andata in scena al
Théâtre français il 12 febbraio del 1835 (con l’amata Marie Dorval nei panni di
protagonista femminile), la pièce riscosse un successo assoluto; fu applaudita,
tra gli altri, da George Sand e da Sainte-Beuve. Da quel testo, Leoncavallo
trasse un’opera lirica assai meno fortunata, omonima, andata sul palco del
Teatro Drammatico Nazionale di Roma nel 1896, con scarse repliche.
Alfred de Vigny era ossessionato dalla figura di Thomas Chatterton, l’acerbo,
geniale poeta di Bristol, suicidatosi a poco meno di diciotto anni, nel 1770, a
Londra. Gli pareva, più di ogni altro, prima di tutti, l’emblema del poeta,
eternamente giovane, che si schianta contro l’indifferenza della società
letteraria e “va fino in fondo”. Il poeta che si immola per la poesia, con
disperazione messianica. Thomas Chatterton, amato da Coleridge e da Keats,
sbandierato, via via, come un simbolo, più citato che letto (la sua storia e la
sua opera sono state recepite per la prima volta in Italia di recente, in: T.
Chatterton, Nell’aura del fulmine, Feltrinelli, 2025), sarebbe piaciuto a
Borges: quindicenne, si era corazzato con un alter ego, il monaco Thomas Rowley,
vissuto nel XV secolo, che scriveva odi in un inglese antico di inedito conio,
fitto di indecifrabili invenzioni. L’eterno fanciullo della poesia inglese,
ridotto in miseria, malcompreso (da Horace Walpole, soprattutto, l’autore
del Castello di Otranto, doge dei circoli letterari londinesi del tempo), fu il
primo a scatenarsi contro le viete formalità della cultura – scriveva versi
audaci fino al rebus, pieni di abissi, di ferina ingenuità, che delizieranno
Dylan Thomas.
Già in Stello – romanzo nottambulo del 1832 – Alfred de Vigny si era appellato a
Thomas Chatterton come a uno spettro amico; con Chatterton ideò il più vigoroso
manifesto del romanticismo francese. In particolare, sono le pagine poste a
introdurre la pièce, Dernière nuit de travail, a costituire una sorta di manuale
dell’indole romantica di allora. Alfred de Vigny fa di Chatterton il poeta per
antonomasia, l’ispirato assoluto, che non si piega di fronte alla necessità del
mondo, non scende a compromessi, ed è trattato dagli uomini come uno strano, un
estraneo, un folle. Il testo – qui tradotto, in calce – evita i rischi della
secca retorica perché Vigny è sorretto da un’intuizione sagace: Chatterton non è
colpevole di suicidio, è la società ad averlo costretto a uccidersi. Il poeta è
come lo scorpione rinchiuso per gioco dai bambini in un cerchio di fuoco;
vedendosi perduto, l’artropode rivolge contro di sé il velenoso aculeo e muore,
mentre gli altri, intorno, ridono. L’idea del suicidato dalla società sarà
ripresa con furia da Antonin Artaud parlando di Vincent Van Gogh, un altro
artista messianico. Ci sono artisti la cui scelta si staglia come un’opera con
esiti spesso sfrenati, inattesi.
Di fronte alla morte di un ragazzo – eternata da quadri che ne hanno fatto una
specie di figurina pronta alla lacrima e al solido applauso – bisogna tumularsi
nel silenzio – anzi, nella preghiera. Più che altro, Alfred de Vigny ha
profetizzato la figura del maledetto: a lui Paul Verlaine si riferisce quando,
nel 1884, licenzia il saggio sui Poètes maudits. Thomas Chatterton ha
stigmatizzato i poeti, costringendoli alla sequela estrema, “li condanna
all’eterno esempio di una morte in miseria, abbandono, speranza mutilata”. Tutti
gli altri – chi stringe accordi con il tempo, ‘a fin di bene’, per sopravvivere
– è, in fondo, reo di tradimento, un vile.
A suo modo, Alfred de Vigny si allineò al duro addestramento di Chatterton.
Voltò le spalle alla città, rifiutò di pubblicare, continuando a molare e ad
approfondire l’opera. Vedeva Chatterton ogni giorno, nei brevi boschi che
circondavano la sua villa – era mutato in volpe, diceva.
***
Ultima notte di lavoro. Per Thomas Chatterton
La causa: il perpetuo martirio e la perpetua immolazione del Poeta. La causa: il
diritto che egli ha di vivere. La causa: il pane che gli viene sottratto. La
causa: la morte che è costretto a infliggersi.
Da dove tutto questo? Dal fatto che lodiamo il genio, ma uccidiamo i geniali. Li
uccidiamo negando loro la vita. Potremmo pensare, vista la scarsa importanza con
cui viene trattato, che il Poeta sia cosa comune. Una nazione dovrebbe essere
orgogliosa se avrà due Poeti in dieci secoli. Ci sono Stati che non ne hanno mai
avuto uno. Eppure: perché così tante stelle si estinguono appena cominciano a
brillare?
Perché ignorate cosa sia un Poeta.
Continuerete ancora a non vedere? Per quanto?
Tre tipi umani, che non dobbiamo confondere, agiscono nella società tramite il
pensiero, muovendosi in regioni separate.
L’uomo esperto negli affari della vita, apprezzato dal mondo, si incontra ad
ogni passo. A tutti adatto, a tutto si adatta. Ha una flessibilità e una
disinvoltura che rasentano il prodigio. La sua mente è libera, sempre fresca,
pronta a ogni risposta. Privo di autentiche emozioni, restituisce buone parole a
seconda delle occasioni. Scrive di economia come di letteratura. Pratica l’arte
come la critica, assume per l’una toni alla moda per l’altra la dissertazione
sentenziosa. Sa combinare le parole per creare l’effimero della passione, della
malinconia, dell’erudizione, dell’entusiasmo. È posseduto da fredde
inclinazioni, che intuisce più che comprendere; le respira da lontano, come i
vaghi odori di fiori sconosciuti. Crea il linguaggio dei ‘generi’ come si
forgiano le maschere per i volti. Può scrivere commedie e orazioni funebri,
romanzi e fiabe, epistole e tragedie, poesie e discorsi politici. È l’uomo di
lettere, da sempre amato e compreso, sempre in auge, bene in vista, mai
inviso. Quest’uomo non ha bisogno della nostra pietà.
Sopra di lui, c’è un uomo dalla natura più forte e raffinata. Una profonda e
grave convinzione fonda le sue opere, che riversa su una terra cruda, spesso
ingrata. Ha meditato in solitudine la propria filosofia, la vede al colpo
d’occhio, squadernata, la tiene in mano come una catena: sa che il primo anello
condurrà all’ultimo, sa come ogni anello si colleghi agli altri. La sua memoria
è ricca, quasi infallibile, il giudizio sano, è uno studioso completo, calmo. Il
suo genio è attenzione al massimo grado, buon senso nella più piena espressione.
Il linguaggio è coerente, limpido, franco, grandioso nel portamento, vigoroso
nei tratti. Soprattutto, gli occorrono ordine e chiarezza. L’ardore della lotta
perpetua infiamma la sua vita e i suoi scritti. Il suo cuore racchiude grandi
rivolte e l’ira superba, che lo rode in segreto. Sa seminare a grande profondità
e attendere che l’opera germogli: è spaventoso quando è immobile, in veglia. È
padrone di se stesso e di molte anime, che conduce a Nord e a Sud, a suo
piacere; tiene in mano un polo, e l’opinione che la gente ha di lui lo obbliga a
custodire la propria vita, a mantenere desto il suo amor proprio. È il
vero, grande scrittore.
Non è infelice; ha ciò che desidera; sarà sempre in lotta, ma quando concederà
tregua ai nemici, riceverà degni omaggi. Vincitore o vinto, sarà sempre
incoronato. Non ha bisogno della vostra pietà.
Ma c’è un altro tipo, dalla natura passionale più pura e più rara. La sua opera
proviene da Dio e giunge al mondo a intervalli rari. È un peso per gli altri,
perché appartiene completamente alla stirpe degli ispirati. L’emozione, in lui,
è così intima e profonda che vi si è immerso fin dall’infanzia. L’immaginazione
lo possiede sopra ogni cosa. Al minimo urto, si sbriciola; al minimo respiro,
volta verso mondi sconosciuti. Da allora in poi, smette i rapporti con la
creatura umana. La sua sensibilità è troppo vivida; ferisce fino al sangue; i
suoi eccessivi entusiasmi lo traviano; le sue simpatie sono troppo veraci;
compatisce chi soffre infinitamente meno di lui, muore dei dolori degli altri.
Le resistenze della società umana, il suo disgusto, lo gettano in un profondo
sconforto, in una nera indignazione, in una desolazione insormontabile, perché
tutto comprende, e troppo profondamente. In questo modo, tace, si ripiega su se
stesso, recluso nella sua prigione. Lì si forma qualcosa di simile a un vulcano.
Il fuoco cova lento, la lava è armoniosa. Ma quando esploderà? Si direbbe che
assista come uno straniero a ciò che accade dentro di lui. Cammina come un
malato, non sa dove andare, vaga per giorni. Non ha bisogno di fare nulla,
perché accada la sua arte. Non deve fare nulla, perché gli accordi del mondo si
formano comunque nella sua anima: il roco rumore del lavoro regolare irrompe, li
interrompe. Lui è il poeta. Appena si mostra, è mutilato – tutte le lacrime,
tutta la nostra pietà sia per lui!
La lingua che ha scelto è compresa da un infimo numero di uomini ed è a loro che
egli grida: “Ascoltatemi, fatemi vivere a mio modo!”. Ma molti sono inebriati
dalle proprie opere, altri lo sdegnano perché in quel perenne bambino vogliono
la perfezione dell’uomo maturo; i più sono distratti, indifferenti; tutti sono
impotenti nel bene.
E lui grida ai Poteri: “Ascoltatemi, fate che non muoia!”. Ma i Poteri
proteggono soltanto gli interessi positivi, sono estranei al genio, che li
offende.
Se ne ha la forza, diventerà un soldato, trascorrendo la vita sotto le armi; una
vita attiva, rozza, che ucciderà il suo essere morale. Altrimenti, se ha
costanza, si condannerà alle fatiche del numero, al calcolo che uccide le
illusioni. Se il suo cuore non si impenna con violenza, può piegarsi, molare i
pensieri, smettere il canto. Si farà, allora, uomo di lettere; oppure, se la
filosofia lo sorregge e incoraggia, diventare un grande scrittore; ma a lungo
andare il giudizio soffocherà la visione, schiacciando il poema che aveva in
petto.
In ogni caso, ucciderà una parte di sé, ma per questi suicidi a metà, per queste
immense irragionate rassegnazioni è necessaria una forza rara, nera. Se questa
forza non gli è data, quale strada gli resta da intraprendere? Quella di Thomas
Chatterton: il suicidio radicale.
Dunque, è un criminale! Un criminale davanti a Dio e agli uomini, dacché il
suicidio è un crimine, religioso e sociale. Chi può negarlo? Il dovere e la
ragione lo confermano. Si tratta soltanto di capire se la disperazione non sia
qualcosa di più forte di dovere e ragione. […] La vera disperazione è un potere
che divora, irresistibile, famelico, al di là della ragione, che comincia
annichilendo il pensiero. La disperazione non è un’idea, è una bestia che
tortura, che stringe, schiaccia e lacera il cuore di un uomo, fino a farlo
impazzire.
Ma è lui, il poeta, il vero colpevole o lo è la società, che lo disarma, che lo
bracca senza fine?
C’è un gioco terribile comune ai bambini del Midi. Essi costruiscono un cerchio
con i carboni ardenti; in mezzo, mettono uno scorpione, catturato con le pinze.
All’inizio, lo scorpione resta immobile. Quando il fuoco comincia a bruciarlo,
si agita. I bimbi ridono. La creatura cerca di evadere dalle fiamme, facendosi
strada tra i carboni ardenti; ma il dolore è troppo e si ritira. E ridono. Lo
scorpione cerca un passaggio impossibile, uno spiraglio. Poi ritorna al centro,
in una più oscura quiete. Infine, rivolge il dardo avvelenato contro se stesso e
muore, sul colpo. E ridono – e ridono più forte di prima. È lo scorpione il
colpevole? I bambini sono innocenti e buoni?
Quando un uomo muore nello stesso modo, è davvero un suicida? No. È la società a
gettarlo nel fuoco.
I bei versi, dobbiamo dirlo, sono merce che non piace alla gente comune. La
moltitudine mira a moltiplicare il proprio stipendio; nelle nazioni più nobili,
la massa ama ciò che amano tutti. Soltanto dopo una lenta istruzione e un
continuo addestramento può apprezzare la bellezza; nel frattempo, schiaccia il
talento nascente, il genio sorgivo, senza udire le grida della sua angoscia.
Ho voluto mostrare l’uomo spirituale soffocato dalla società materialista, dove
l’avido calcolo sfrutta senza pietà l’intelligenza e il lavoro. Non voglio
giustificare gli atti disperati degli sventurati ma protestare contro
l’indifferenza che costringe costoro a compierli.
Il Poeta è tutto per me; Chatterton è il nome di un uomo – ho omesso i fatti
esatti della sua esistenza per trarre dal suo destino l’emblema eterno di una
nobile miseria.
Oggi i tuoi compatrioti, caro Chatterton, ti chiamano ‘ragazzo meraviglia’… Eri
infelice – tanto mi basta. Anima desolata, povera anima diciottenne! Perdonami
di aver eretto a simbolo il nome mortale che indossavi su questa terra, per fare
del bene nel tuo nome.
Tra il 29 e il 30 giugno 1834
Alfred de Vigny
*In copertina: Egon Schiele, Bildnis Paris von Gütersloh, 1918
L'articolo Il poeta, “il suicidato dalla società”. Un testo di Alfred de Vigny
proviene da Pangea.
Un esile monolite austero, essenziale, incandescente. Breve come una sentenza
capace di incidere nella carne viva della Storia, la domanda che nessun
fiammifero riesce a pronunciare senza bruciare: da dove nasce un assassino?
Il male non ha un principio teatrale, non comincia con un grido o
un’esplosione. Il male indossa i panni del giorno feriale, siede in cattedra,
detta compiti, chiede declinazioni. Il male, spesso, si impara. E in un breve
romanzo – un pugno e una preghiera – Alfred Andersch ci porta dentro l’aula dove
il suo alter ego, Franz Kien, adolescente inquieto, è protagonista di
un’inquietudine più grande: la sua espulsione dalla ginnasio per mano del
preside Himmler; sì, il padre di quel Himmler, quell’Heinrich al tempo ancora
ragazzino, ancora impacciato, ancora figlio, colui che diverrà generale,
poliziotto e criminale di guerra tedesco; il diretto organizzatore della
soluzione finale all’origine dell’Olocausto.
Il padre di un assassino (Der Vater eines Mörders) è l’ultimo testo che Alfred
Andersch pubblica, un ago di luce infilato nel passato, rivolto al silenzio. È
un’invocazione contro l’oblio travestita da racconto scolastico. Scrivere questo
libro – nel 1980, un mese prima della sua morte – fu per Andersch una forma
di testamento civile. Trasmettere una ferita.
> “Il giovane Himmler è un tipo molto a posto – gli aveva detto suo padre – un
> giovanotto in gamba, un seguace di Hitler, ma non fazioso.”
È il 1928. Siamo in un Gymnasium bavarese. Andersch è protagonista di una scena
apparentemente banale: un’interrogazione, un errore, uno sguardo che si fa
giudizio. Ma tra quei banchi, tra quelle frasi arcaiche e le pause imposte dal
silenzio, si gioca qualcosa di più profondo: il rito della sottomissione.
Il preside Himmler è il custode di un mondo morente, quello della Germania
imperiale, della pedagogia rigida come il passo dell’oca, del latino come lingua
sacra dell’obbedienza. Il preside. L’autorità. Il vetro. L’arma. Kien, invece, è
l’erede di un tempo nuovo, ancora oscuro, ancora informe, ma già indotto a
sfidare la violenza. L’atto educativo diventa allora un processo al bambino
stesso: il preside non insegna, giudica. E il giudizio, lo sappiamo, è la prima
forma di condanna.
> “Le pagelle scolastiche sono l’unico documento personale della mia infanzia e
> della mia adolescenza che sia sopravvissuto alla guerra. Sono firmate dal
> preside del ginnasio Wittelsbach: Himmler.”
Nato nel 1914 a Monaco, Alfred Andersch cresce nel cuore di una Germania ancora
traumatizzata dalla sconfitta nella Prima guerra e dalle turbolenze della
Repubblica di Weimar. Abbandona presto la scuola, rifiutando la disciplina
soffocante dell’istruzione tradizionale. Si iscrive giovanissimo al partito
comunista e subisce l’internamento a Dachau.
Durante la seconda guerra mondiale viene arruolato nella Wehrmacht e, nel 1944,
diserta in Italia per farsi catturare dagli Alleati. Passa il resto della guerra
come prigioniero in un campo americano. Al ritorno, fonda con Hans Werner
Richter il celebre Gruppo 47, fucina della nuova letteratura tedesca del
dopoguerra.
> “Non serve davvero a niente, pensò Franz, che io continui a fingere che le
> risposte alle sue domande mi vengano a mancare proprio quando me le pone.
> Perchiò butto fuori un ‘no’ a bassa voce, ma senza esitazione.”
Andersch è un autore schivo e complesso, fin troppo antiaccademico per l’élite
letteraria, troppo borghese per la sinistra rivoluzionaria. È tuttavia sempre
lucido, sempre inquieto. Mai compromesso nonostante le censure. Reduce dal
dissenso, esule per scelta, narratore del margine, egli affida al ricordo
l’onere della resistenza. Scrive con la sobrietà di chi ha molto visto e poco
dimenticato. Non c’è pianto, non c’è retorica. Il suo stile è secco come una
sentenza scolastica ma ci fa sentire come se sotto la superficie asciutta del
testo si agitasse un magma di colpa e domande senza risposta. Lui stesso spiega
il motivo dell’uso di un alter ego:
> “Il raccontare in terza persona permette a uno scrittore di essere il più
> sincero possibile. Lo aiuta a superare le inibizioni di cui difficilmente puo’
> liberarsi quando dice – Io –”.
Perché, però, raccontare questo spaccato d’infanzia congelata? Perché lì, in
quella mattina di maggio, Andersch ha visto l’origine del nazismo: non nei
proclami, non nella folla, ma nell’educazione come strumento di controllo, nella
famiglia come prima caserma, nella scuola come anticamera del Reich. Il ventre
in cui si forma la disciplina cieca, il seme del fanatismo, la grammatica
dell’obbedienza. Una frase come una misura. Una bilancia. Un confine. È tutto
qui, nel gesto minimo del giudicare, Andersch cerca la radice, osserva, ricorda
la forma mentis che rende possibile l’assassinio; egli scrive per non tacere..
> “La definizione di assassino per Heinrich Himmler è molto mite; non è stato un
> assassino qualsiasi ma, fin dove arrivano le mie nozioni storiche, il più
> grande sterminatore di vite umane che sia mai esistito.”
Il vero tema del libro, dunque, non è Himmler o lo stesso Andersch: è il modo in
cui si costruisce un individuo incapace di scegliere. Andersch lascia che la
scena parli da sé. L’assassino non nasce per vocazione. Ma per esposizione
quotidiana a una cultura che educa all’obbedienza come virtù. Il vero Nazismo è
un’enorme pedagogia del conformismo.
Quando nel 1961 Hannah Arendt assiste al processo Eichmann a Gerusalemme,
formula la celebre teoria della Banalità del male. Eichmann non è un mostro, non
è un sadico: è un uomo mediocre, che si è rifiutato di pensare. Un funzionario
della morte che ha applicato regole. Un alunno modello del sistema. Il padre di
un assassino mostra qualcosa di simile: il male come effetto collaterale
dell’obbedienza, come frutto dell’incapacità di mettere in discussione
l’autorità, di dire “no”. Il preside Himmler, con la sua educazione cinica, non
guida; misura. E nella misura c’è già la distanza, e nella distanza,
l’abbandono.
> “Non era stupido, era semplicemente senza idee. Quella lontananza dalla realtà
> e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli
> istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo.”
>
> Hannah Arendt
Il padre di un assassino (uscito, in Italia, per Guanda e per Marcos y Marcos) è
anche un trattato implicito su come l’istruzione possa deformare l’essere umano.
Il giovane Himmler, sconosciuto all’Andersch ragazzino, non è all’epoca l’uomo
dei campi di sterminio, ma è guidato verso la metamorfosi in
mostro. Foucault affermava che la scuola, così come la caserma e la prigione, è
un’istituzione che plasma i corpi e le menti attraverso la microfisica del
potere. L’autorità si interiorizza nei gesti quotidiani, nei voti, negli
sguardi. Chi obbedisce non lo fa più per pa1ura, ma perché ha imparato che
obbedire è giusto. In questo senso, il padre di Himmler — preside, figura
autorevole, rappresentante della vecchia Germania imperiale — è un’emanazione
viva del potere disciplinare. Ma non è un carnefice. Non è nemmeno un ideologo.
È un funzionario. Un nodo nella rete.
Anche Nietzsche, in Al di là del bene e del male, smaschera l’educazione, la
intende come meccanismo di addomesticamento. La cultura borghese tedesca, quella
in cui è nato Himmler, ha prodotto individui obbedienti, ben nutriti e incapaci
di pensiero critico. L’uomo addestrato non è l’uomo libero. La massa, infatti,
come spiega EliasCanetti, desidera il comando, e l’autorità diventa figura sacra
proprio perché intoccabile, distante, paterna. La scena del preside che espelle
il giovane Andersch è perfetta per incarnare una distanza sacralizzata: il
potere che si legittima non parlando mai abbastanza.
> “Io mi sono tratto d’impaccio, poichè ho tentato di scrivere la storia di un
> ragazzo che non ha voglia di studiare. E neppure in questo senso la cos aè
> priva di ambiguità: ci saranno lettori che, di fronte allo scontro fra il Rex
> e Franz Kien, prenderanno le parti del preside.”
La tragedia non è che Himmler diventerà un assassino. È che nessuno glielo
impedirà in tempo, perché tutti avranno fatto della disciplina la regola della
sopravvivenza. Andersch ci da quindi un avvertimento. Un libro breve come un
ricordo, ma duro come un monito inciso nella carne. Ogni società educa i propri
figli. Ogni educazione trasmette una visione del mondo. Quale mondo stiamo
insegnando?
In un tempo in cui vige la reificazione dell’uomo; in un’epoca che ama la
performance, il ranking, la produttività, e che premia il silenzio mascherandolo
da competenza, questo libro resta un contrappunto filosofico radicale. Forse non
è l’odio a generare l’assassino. Forse è l’obbedienza cieca, il rispetto con la
benda sugli occhi, il sistema che premia chi non mette in dubbio nulla. Forse,
siamo tutti fanatici prigioneri.
Tommaso Filippucci
L'articolo Genesi di un nazista. Alfred Andersch e la scuola di Himmler, ovvero:
imparare a obbedire proviene da Pangea.
Il testo che apre il ‘Meridiano’ che accoglie Tutte le liriche di Hölderlin, è
il punto più alto, riassuntivo, della ‘funzione Hölderlin’ nella poesia
italiana. In quel testo – Con Hölderlin, una leggenda –, Andrea Zanzotto dice di
una “insistenza”, di un “lasciarmi andare… all’apertura di libro quasi
magica”. Quando arriva, Hölderlin – il gran mago, colui che conosce i nomi per
dissipazione e sublimazione – spiazza, fa piazza pulita, costringe a partecipare
del suo precipitare.
“L’incontro con Hölderlin è stato tanto intenso quanto quello con Rimbaud”,
scrive Zanzotto. È vero: entrambi i poeti sembrano dei banditi dal linguaggio,
degli irredenti al verbo, ma il loro impeto – troppi anni li separano, quasi
millenni – è opposto. Rimbaud non tenta l’armonia, solletica il caos; non cerca
gli dèi celesti ma quelli inferi; non alla Grecia mira ma all’ebbrezza esotica;
la sua è una fuga verso l’altro mondo, l’Africa, verso una vita che metta a
tacere la vita; Hölderlin sprofonda in sé, come chi ritorna dopo aver toccato le
vette: che altro dire dell’empito di quel cielo se non il frastiono? Rimbaud
strega il linguaggio fino all’Adamo; Hölderlin lo dissoda perché accada, ancora,
un qualche rivelazione del ‘secondo Adamo’. Le Illuminazioni vanno lette insieme
alle cosiddette “Poesie della torre”.
“Sentiamo che in Hölderlin ci sono delle zone oracolari, piziache, quasi”,
scrive Zanzotto. A dire: Hölderlin non sfregia il linguaggio per inorgoglire
l’opera di gorgiere, tutto il contrario – sfrega fino all’ultimo brillio, al
verbo che precede ogni verbo. Cioè – e Zanzotto lo sapeva bene –: troppi poeti
più o meno ‘oracolari’ abbiamo letto in questi decenni, ma dov’è l’oracolo il
poeta, semplicemente, non è, scompare. Dunque: Hölderlin non è un’opera, ma
una pratica – l’esito, sconvolgente (come dopo l’attraversamento di ogni grande
poeta), potrebbe realizzarsi nel balbettio, nel brivido, nel silenzio.
Tornando a noi. Nel secolo della poesia che si esprime per negazioni, che dice
ciò che non è (Montale), il poeta dell’essere, della solarità che acceca, “come
una gigantesca figura di poeta-profeta, che attinge alla civiltà greca i grandi
ideali che egli propone – in metri accesi e pindarici – ad una umanità migliore,
che deve ancora venire e di cui egli canta presago” (Vincenzo Errante nel
poderoso “Tesoro della lirica universale”, Orfeo, da lui allestito per Sansoni
nel 1949).
Si diceva, appunto, di una ‘funzione Hölderlin’ nella poesia italiana. Hölderlin
è stato tradotto, tra i tantissimi, da Giosuè Carducci (“Perché tutto co’ morti
il mio cuor è”) e da Gianfranco Contini (“Un segno noi siamo, indecifrato,/ non
avvertiamo il dolore,/ lontano dalla patria la lingua abbiam quasi scordata”),
da Cristina Campo e da Leone Traverso; Zanzotto cita le versioni di Giorgio
Vigolo e quelle, in dialetto, di Giacomo Noventa. Ungaretti dichiara Hölderlin –
insieme a Blake, Leopardi e Lautréamont – il poeta-totem della propria ricerca
lirica. Luigi Reitani, nel ‘Meridiano’ del 2001, pare aver chiuso il discorso
sulla filologia hölderliniana: tra l’altro, ormai, di Hölderlin abbiamo
setacciato i cunicoli della vita, degli amori e degli ardori; le lettere ci
permettono di spiarne i tormenti. Eppure, Hölderlin è un sovrappiù del
linguaggio, ha tana nel bianco-banchisa dei suoi frammenti incompiuti: si
rinnova – e ci sfida – ad ogni lettura. Così, per alcuni – come all’autrice del
libro di cui parliamo – è sempre oro la versione delle Liriche di Hölderlin
realizzata da Enzo Mandruzzato – gran traduttore di Pindaro, per altro,
poeta-pilastro di Hölderlin – stampata da Adelphi nel 1977:
> “Ma a noi non è dato
> riposare in un luogo,
> dileguano precipitano
> i mortali dolenti, da una
> all’altra delle ore, ciecamente,
> come acqua di scoglio
> in scoglio negli anni
> già nell’Ignoto”
>
> da Canto di Iperione e del destino
In sostanza: in Hölderlin la poesia si compie superandosi – che il suo tempo lo
abbia rinnegato e il nostro lo fraintenda è naturale, dacché l’opera è il
fermento di un altrove. Così, Ladro di stelle – bellissimo titolo che indaga
“Hölderlin e il poeta come titano”, stampa Solfanelli, con una partecipe
“presentazione” di Giovanni Sessa – non è un’analisi della ‘poetica’ di
Hölderlin, ma uno studio sui suoi effetti, sulla sua efficacia. “Intendiamo
guardare all’esperienza estetica hölderliniana come a un’esperienza religiosa”,
scrive, quasi subito, arrischiando, l’autrice. Chi la conosce, sa che Livia Di
Vona – l’autrice – è gentile quanto coriacea; dietro l’apparenza docile nasconde
l’accetta e la sfacciataggine. Ha lavorato anni a questo libro – che come ogni
vero libro è infinito –, in esatta solitudine, libera dalle asfissianti
categorie dell’accademia. Il suo saggio sfiora a tratti il segreto di ogni dire
poetico, si inabissa negli indicibili. In alcune pagine, l’autrice lega, in
sintonia di vertigini, il dire di Hölderlin a quello di Marina Cvetaeva (Il
poeta a giudizio: capitolo pieno di folgorazioni). “Indugio ogni benedetto
giorno nel tormento della lingua. Da profana, da non poeta. Con Hölderlin le
cose sono drasticamente peggiorate, cioè migliorate perché come conduce lui nel
cuore della questione, nessuno”, mi scrive, un giorno, Livia. A dire di un libro
che è come un cuore messo a nudo – anzi, un cuore interrato: nascerà la bianca
betulla, libellula del bosco, oppure l’albero sacro alla civetta.
Intanto: perché “Ladro di stelle”? Cos’è questo ladrocinio, cosa sono queste
stelle?
Sono le lettere dell’alfabeto. Il titolo, indirettamente, mi è stato suggerito
da un libro di Giuseppe Sermonti sull’origine della scrittura: L’alfabeto scende
dalle stelle in cui si ripercorrono le antichissime teorie che volevano le
lettere dell’alfabeto greco corrispondenti alle costellazioni boreali. Sicché,
detto molto sinteticamente, “dire” significa ripetere i suoni della Creazione.
Il poeta, che ha l’altissima responsabilità di partecipare alla Creazione, nel
momento in cui titaneggia ruba, letteralmente, le stelle/lettere, che non crea
lui.
Ti faccio la domanda con cui inizi il tuo lavoro: “Perché il linguaggio è il più
pericoloso dei beni?”
Perché il nostro stare nel mondo dipende anche (se non soprattutto) dal modo in
cui abitiamo la parola. È nel linguaggio che per la prima volta sperimentiamo la
vertigine del titanismo. La tentazione fortissima di rinnegare la nostra radice
creaturale per competere con Dio. Per Hölderlin, la parola svolge soprattutto la
funzione di rendere testimonianza alla verità e ciò solo ed esclusivamente alla
condizione che la parola stessa sia un dono, qualcosa che l’uomo non crea
assolutamente da sé. Ma quando il poeta compete con Dio, quando pretende, cioè,
di versare da sé “la fiala della vita” (Inno alla Dea dell’Armonia), rinuncia
alla sua radice creaturale e provoca uno svuotamento della realtà. Realtà, per
Hölderlin, è sempre stare dentro una compagnia “verticale”; con lo svevo
penetriamo nel linguaggio come luogo di una compagnia meravigliosa che consente
al dire del poeta di fiorire in mondo, oppure come luogo di una solitudine
dolorosissima.
…ma poi, mi viene da dire, qual è questo logos che ci coinvolge e ci tortura:
quello di Eraclito o quello di Platone, quello di Gorgia o quello del prologo
del Vangelo di Giovanni? Tra ‘verbo’ e Verbo, tra ‘per verba’ e diverbio, dove
di pone Hölderlin?
Entriamo nel vivo dell’unità simbolica per Hölderlin, cioè l’armonia tra aorgico
(Dèi/natura) e organico (intelletto). Se lo seguiamo nella sua peregrinazione
dall’origine della Tradizione della poesia occidentale nella Grecia del mito
fino alla Germania tra il Settecento e l’Ottocento, tocchiamo lo zenith e il
nadir del linguaggio poetico: dal sorgere dell’armonia degli opposti in senso
eracliteo, fino alla sua disgregazione, passando dal momento fatale del
titanismo, in cui il linguaggio da luogo da abitare, si trasforma in strumento
di dominio sul mondo da parte del poeta. Quindi Hölderlin attraversa tutte le
sfaccettature che hai nominato fino a quando non si arresta dentro un’attesa. Il
suo qui ed ora (ovvero il periodo della torre), è senza il vivente. Scrive
infatti in una versione tarda di Patmos: “Ma è terribile come Dio dissipi
all’infinito, qua e là, ciò che è vivente”. E poco più avanti: “Nulla di
immortale si vedeva nella natura”. Hölderlin si trova in un vuoto di realtà (nel
senso spiegato prima), perché il vivente non c’è. Allora la parola, diversamente
dai tempi gloriosi del mito, non può celebrare “ciò che è”, ma necessariamente e
apofaticamente aggiungo, deve nominare ciò che non è. In questo modo prepara,
per i posteri, il ritorno dei celesti. Stare dentro un’attesa, significa nel
linguaggio che la nominazione si pone all’inseguimento di realtà, di una
pienezza di senso che senza una compagnia altra non si dà mai.
…e dunque: dal prodigioso – titanico – tentativo di sintesi tra ‘grecità’ e
cristianità, tra Dioniso e Cristo, tra Empedocle e Apocalisse, cosa viene fuori,
cosa ci resta in mano?
In Hölderlin, nell’innocenza del suo cuore, resta un’attesa indefinita. Io direi
che siamo sempre dentro una scelta di cui dobbiamo assumerci la responsabilità:
o vogliamo riconoscere una radice creaturale, oppure continuiamo ad espellere il
dio dal destino con una parola autosufficiente, cioè condannarci ad una infinita
solitudine.
Dichiara la poesia-emblema di H., e dimmi perché.
Direi Come quando il giorno di festa (Wie Wenn am Feiertage) in cui la frattura
nella Tradizione della poesia occidentale si consuma definitivamente. Questo
inno comincia descrivendo l’armonia tra aorgico e organico, come se nel qui ed
ora di Hölderlin fosse realtà. Poi però accade qualcosa di inaudito: l’irruzione
di un pianto al termine, che ci dice che non è più possibile, come dicevo prima,
“celebrare ciò che è”. Il poeta è sempre, per lo svevo, sacerdote della verità.
Se il vivente non c’è, non può dire che c’è, altrimenti dice il falso visto che
per lui la verità non è mai un prodotto del linguaggio. Questo è uno degli
indicatori, per quanto mi riguarda, per cui il poeta tedesco rinuncia alla
creazione di un linguaggio. Non si può riempire il vuoto di un’assenza con gli
artifici linguistici. Una delle tante tracce di ciò che accade qui, la si trova
in due poesiole giovanili, entrambe dal titolo indicativo: Il poeta
cieco e Palinodia. Lascio un suggerimento: poiché, per quanto mi riguarda, non
c’è affatto cesura tra fase giovanile e cosiddetta fase “della pazzia”,
potrebbero essere lette insieme proprio a Come quando il giorno di festa, inno
della maturità, in uno dei suoi versi più significativi: “Ciò che vidi, il
sacro, sia la mia parola”. Si potrebbe scoprire una sorprendente continuità tra
prima e dopo la “pazzia”.
Dichiara la poesia che più ami di H. – e perché.
Difficile dirne una sola, ma mi vengono in mente adesso Il viaggiatore,
l’elegia Lamento di Menone per Diotima o La veduta. Per quanto mi riguarda, è
difficile non fargli compagnia, non stare con lui lungo il sentiero scosceso di
una malinconia, mentre il Neckar solitario rinuncia ai suoi abissi misteriosi.
Era davvero folle H.? Meglio: come la sua ‘mania’ irrompe nel ‘logos’? E che
senso ha, nell’esistere, la necessità di ‘poetare’?
Sempre più spesso gli studiosi, negli ultimi anni, tendono a riconsiderare la
pazzia di Hölderlin. Cito come esempio l’importante studio di Giorgio
Agamben, La follia di Hölderlin, in cui si ipotizza una simulazione della pazzia
per sottrarsi alle conseguenze giudiziarie delle sue antiche simpatie per i
valori della Rivoluzione francese, ma personalmente credo che si possa
considerare anche la questione del pietismo, sempre – a mio avviso – troppo
trascurata quando si parla dello svevo. I pietisti più radicali sceglievano
volontariamente di abdicare dalla vita esteriore, ritirandosi preferibilmente in
luoghi appartati in campagna, e rinunciando anche alla volontà di esprimere una
propria individualità. Per il resto, più che un’irruzione della mania nel logos,
in Hölderlin irrompe un necessario balbettio, la constatazione amara di una
solitudine nel flutto, nella fiamma e nella parola. Che può dire il poeta “se
nulla di immortale si vede”?
Insomma: il poeta ha per fine esaudire la poesia incenerendola?
Dipende. Il poeta deve sempre scegliere da che parte stare. Il suo dire può
partecipare alla Creazione, come in origine, oppure – citando la chiosa di una
poesiola di Rilke dedicata a Baudelaire – “E perfino la furia che annienta si fa
mondo”, venirsi a trovare, cioè, nel punto esatto in cui la Creazione stessa si
disfa, per realizzare quella tiranna tentazione titanica. Dal punto di vista
meramente estetico, non c’è momento più alto, poeticamente, del competere con un
dio, e in ciò i geni come Baudelaire, come i simbolisti francesi, sono maestri.
Ma se platonicamente diciamo che la bellezza è splendore del vero, stando con
Hölderlin il poeta deve rinunciare alla signoria dell’ego.
*In copertina: Caspar David Friedrich, Luna che sorge su una spiaggia deserta,
1837/39
L'articolo “Già nell’Ignoto”. Dialoghi intorno a Hölderlin proviene da Pangea.
Un Balzac tirato a lucido e caricato a pallettoni, in una forma a dir poco
smagliante. Non è certo una novità dal momento che quando aveva la penna, o per
essere più precisi, la piuma in mano Balzac era sempre in forma smagliante. Come
facesse resta ancora oggi un mistero. Può darsi che fosse un modo per sfuggire
ai ricordi di un’infanzia senza calore o per inseguire le sue mille illusioni
perdute. Scrivere capolavori era certo una rivalsa per un provinciale come lui
che, arrivato a Parigi da Tours, aveva passato molti anni in una squallida
mansarda nel quartiere dell’Arsenale; forse ad aiutarlo erano le dosi
industriali di caffè che ingurgitava.
Stiamo ai fatti. Scritto tra il 1840 e il 1841, uscito prima a puntate
come feuilleton e poi in volume unico, per motivi a me del tutto
incomprensibili Un caso tenebroso è un romanzo tra i meno noti di Balzac, ma è
un libro modernissimo, anticipatore e quelli che se ne intendono lo considerano
a tutti gli effetti il primo noir della storia della letteratura. Uno
straordinario ritratto della società francese di inizio Ottocento colta nei suoi
aspetti essenziali; un’epoca nella quale gli ideali della Rivoluzione ormai
erano degradati a mero scontro di potere e gli opportunisti di ogni sorta e
colore la facevano da padroni. Balzac sapeva guardare dentro la Storia e le sue
complicazioni come nessun altro.
Se volessimo riassumerlo in uno strillo di copertina potremmo dire: Giochi di
potere sullo sfondo dell’Impero napoleonico. Una vicenda nella quale si
intrecciano storia e politica e che trae spunto da due fatti realmente accaduti:
la congiura antinapoleonica che costò la vita al duca Enghien e il rapimento del
senatore Clément de Ris. Anche nel romanzo abbiamo una congiura contro Napoleone
Bonaparte ordita dalla giovane e bellissima contessa Laurence de Cinq-Cygne
insieme ad alcuni suoi parenti e amici. Tra i complottatori i due gemelli cugini
della contessa che entrambi corteggiano la bella Laurence, come d’altra parte fa
Adrien uno dei due fratelli d’Hauteserre, anche loro implicati nella congiura.
Per aggiungere mistero al mistero un gruppo di uomini rapisce Malin, un
importante funzionario dell’Impero, e del fattaccio vengono accusati la contessa
e il suo entourage. In realtà sono assolutamente innocenti, ma finiranno
condannati al termine di un drammatico processo, magistralmente raccontato da
Balzac in un turbinio di testimonianze e colpi di scena dove un ruolo non
secondario è giocato dagli umori del pubblico.
> «Se è vero che, durante i processi, la verità assomiglia spesso a una bugia, è
> anche vero che la bugia assomiglia molto alla verità.»
Il processo arriva a una sentenza che però non chiarisce affatto l’intricato
caso, come d’altra parte molto spesso vediamo accadere anche oggi. Più
anticipatore di così!
Dulcis in fundo, una memorabile scena in cui la bella Laurence va a incontrare
Napoleone alla vigilia di una delle sue tante battaglie per chiedere la grazia
per tutti quanti i condannati. Lei sarà prosciolta, uno verrà sacrificato alla
sete giustizialista popolare e condannato alla pena di morte, gli altri
finiranno ai lavori forzati.
> «Da quando la società civile ha inventato la Giustizia, non ha mai trovato i
> mezzi per dare all’imputato innocente un potere uguale a quello di cui dispone
> il magistrato contro il criminale.»
In definitiva, nonostante il funzionario rapito venga rilasciato dai suoi
sequestratori, la verità su tutta la vicenda non viene acclarata. Solo venti
anni dopo verrà raccontata a Laurence, ormai unica sopravvissuta. Si scoprirà
così che dietro le quinte a tirare le fila del “tenebroso caso” c’erano
dueprotagonisti assoluti della vita pubblica francese a partire dalla
Rivoluzione del 1789: l’ex giacobino e poi bonapartista Fouché, uomo
spregiudicato e ambizioso
> «uno di quei personaggi che hanno tante facce e tanta profondità in ogni
> faccia da essere impenetrabili nel loro gioco e che possono essere compresi
> solo molto tempo dopo che la partita è finita»
e il camaleontico Talleyrand, astuto nobile di vecchia casata, freddo e
calcolatore. Due figure con origini e personalità molto diverse, accomunate però
dalla consapevolezza che i regimi cambiano ma gli uomini restano.
Vanno assolutamente messi in evidenza due aspetti tutt’altro che secondari e che
sono parte essenziale del piacere della lettura del libro: innanzitutto le
affascinanti ambientazioni naturali descritte con grande abilità e dovizia di
particolari, con quella foresta di Simeuse che va considerata a tutti gli
effetti una protagonista del romanzo e costituisce ben più di uno sfondo a tutta
la storia, e poi il personaggio della contessa Laurence, una straordinaria
figura di donna tenace, energica, intrepida, intelligente e coraggiosa,
ammirevole sotto tutti i punti di vista. Come direbbe Karl Kraus: «Per essere
perfetta le mancava solo un difetto».
A prima vista la trama può risultare ingarbugliata, a volte ci si può perdere
nella selva oscura dei tanti nomi citati, nell’intrico delle macchinazioni dei
vari personaggi e nei mille rivoli della vicenda, ma quando sei dentro a un
romanzo di Balzac non puoi scappare; ergo, fatevi prendere per mano e lasciatelo
fare. Ci penserà lui a spiegarvi come la durezza della realtà e l’asprezza della
storia siano in grado di spezzare ogni fiero slancio ideale e come i destini dei
singoli non possano rimanere esenti dalle strumentalizzazioni dalla politica,
per la quale molto spesso gli esseri umani sono solo marionette di cui tirare i
fili: burattini che si credono burattinai. Un finale amaro, senza sconti per
nessuno, ma che a quasi duecento anni di distanza spinge noi lettori di oggi ad
aprire gli occhi sulla realtà e a fare una serie di riflessioni sulla natura
umana. Che cosa volete di più da uno scrittore? Lasciatemelo dire: Balzac è
formidabile!
Silvano Calzini
L'articolo Quando sei dentro a un romanzo di Balzac non puoi scappare… Ovvero:
anatomia di un libro modernissimo proviene da Pangea.
Nel 1950, scrivendo una recensione di The Lost Traveller, il secondo romanzo di
Antonia White, Evelyn Waugh colse l’occasione per dire la sua sulla letteratura
cattolica:
> «Molti hanno iniziato a dubitare che esista una cosa del genere. Ebbene, qui
> si può trovare in una forma completa e splendida. […] I personaggi sono tutti
> permeati dalla fede. Dio è l’influenza suprema nelle loro vite, […] e quando
> vi è la minaccia di un disastro, tutti si rivolgono alla preghiera. La loro
> religione è la loro vita, sebbene superficialmente siano occupati con altro.
> Non si tratta di “trascinare il cattolicesimo dentro”. È sempre lì, al centro
> della storia».
Per quanto poco conosciuta in Italia, la White – pseudonimo di Eirene Botting –
è stata una delle personalità più rappresentative di quella letteratura di marca
“papista” che conobbe una certa diffusione nella Gran Bretagna del Novecento, in
particolare nella prima metà del secolo.
La sua fu un’esistenza travagliata, segnata non solo dalla cronica mancanza di
denaro, ma anche da tre matrimoni falliti, da un rapporto complicato con le
figlie e da una serie di frustranti impieghi d’ufficio che le toglievano tempo
ed energie per la scrittura. Persino la sua fede, abbracciata da bambina in
seguito alla conversione dei genitori, non fu sempre salda e per parecchi anni
smise di praticarla. Infine, dovette sopportare pure il peso di una grave
malattia psicologica, da lei ribattezzata «la bestia», che minò non poco le sue
potenzialità creative (la questione è stata recentemente analizzata nel
dettaglio da Patricia Moran nel volume Antonia White and Manic-Depressive
Illness). Come sottolinea Jane Dunn, autrice di Antonia White: A Life, quello
della inglese
> «è un dramma di vasta portata che abbraccia grandi questioni di fede, i
> bisogni dell’anima, la lotta per diventare sia scrittrice che donna;
> l’impossibilità di essere moglie e madre quando si combatte per la propria
> sanità mentale».
Da ciò deriva la scarsità della sua bibliografia, che comprende quattro romanzi
parzialmente autobiografici, un epistolario, una manciata di poesie, qualche
articolo, delle traduzioni dal francese e una smilza raccolta di racconti; a
questi lavori vanno aggiunti due libri per bambini con protagonista una coppia
di gatti – gli animali preferiti della White – il primo dei quali, Mila e Cuor
di Leone, è ad oggi l’unica sua opera ad essere stata tradotta in italiano.
Nata nel 1899, tutto o quasi del suo destino umano e letterario fu deciso
nell’infanzia, quando venne mandata a studiare presso la scuola femminile
annessa al Convento del Sacro Cuore, a Roehampton, dove le suore, il cui ordine
era stato fondato da una santa francese, erano famose per mantenere una
disciplina ferrea. Lì imparò ad amare i libri e volle provare, appena
quindicenne, a scrivere un romanzo. Nelle sue intenzioni doveva essere la
classica storia di un peccatore che cambia vita; peccato, però, che il
manoscritto, ancora fermo alla prima parte, quando il protagonista è immerso nel
vizio, venne scoperto e giudicato scandaloso. La conseguente espulsione fu un
duro colpo e da allora la White non fu più in grado di mettere nero su bianco
nulla che non fosse in qualche modo legato alla propria esperienza personale. A
questo si aggiungeva un perfezionismo esasperato che la portava a riempire le
pagine di così tante correzioni da renderle quasi illeggibili, causandole di
riflesso parentesi intermittenti di blocco della scrittura.
Terminati gli studi alla St Paul’s Girls’ School, dopo vari rovesci sentimentali
e un ricovero di nove mesi in un ospedale psichiatrico, nel 1933 vide la luce il
suo primo e più famoso romanzo, Frost in May, oggi considerato un classico della
narrativa a sfondo scolastico, sebbene privo del lieto fine che solitamente
caratterizza il genere. La storia vanta uno stile limpido, distaccato, e
racconta le giornate di Nanda Gray, un’alunna del collegio cattolico di
Lippington, da cui però è infine allontanata a causa di uno spiacevole
incidente. Il titolo, suggerito all’autrice da un articolo sulle rose trovato in
una rivista di giardinaggio, sottolinea l’infelice destino di Nanda, a cui si
accompagna una critica non tanto alla Chiesa quanto all’autoritarismo e alla
miopia di un’istituzione educativa al limite del sadismo.
Durante la Seconda guerra, segnata da un’esistenza che non le aveva risparmiato
nulla, tornò definitivamente al cattolicesimo, una decisione motivata per esteso
in un volume del 1965, The Hound and the Falcon, che contiene una serie di
missive scambiate tra il 1940 e il 1941 con il sessantenne giornalista Peter
Thorp, ex seminarista che come lei aveva da poco riscoperto la fede.
Anche se la scrittrice seguitò a non condividere alcuni aspetti della dottrina,
specie quelli legati al sesso, e le sue simpatie erano tutte per gli
intellettuali più divisivi, mosse diverse critiche alle riforme liturgiche
introdotte a seguito del Concilio Vaticano II, ritenute impoverenti:
> «Nella messa ormai non c’è più spazio per il silenzio. Quando sono andata alla
> messa solenne in latino, sono stata profondamente scossa da un moto di
> nostalgia, [ma] sono stata pure colpita da quanto la liturgia abbia perso
> nella versione scarna che abbiamo oggi. Tutto quel lento e riverente rituale
> dà il tempo di apprezzare il significato mistico della messa. E persino
> l’ammirevole preoccupazione per le ingiustizie della società e gli ardenti
> preti “rivoluzionari” sembrano dare troppa enfasi a quello che si potrebbe
> definire il lato “materiale” del cattolicesimo – o forse “l’amore per il
> prossimo” a danno dell’amore per Dio».
Nel frattempo, grazie anche al supporto di alcuni amici scrittori come David
Gascoyne, Dylan Thomas e Graham Greene, dopo anni di gestazione, la White era
finalmente riuscita a pubblicare l’attesissimo seguito di Frost in May,
intitolato The Lost Traveller, a cui erano seguiti The Sugar House (1952)
e Beyond the Glass (1954). La protagonista, ribattezzata Clara, ancora una volta
ripercorre più o meno le medesime tappe esistenziali della sua autrice, finendo
per essere ricoverata a causa di un crollo nervoso.
I romanzi, di impianto troppo tradizionale per colpire i critici alla moda,
vennero accolti tiepidamente, col risultato che la White, oltremodo delusa,
lasciò incompiute le bozze di un quinto libro della serie, conosciuto col titolo
provvisorio di Julian Tye o Clara IV, e preferì trasferirsi per un periodo negli
Stati Uniti, occupando la cattedra di scrittura creativa al Saint Mary’s
College, affiliato alla Notre Dame University.
A salvarla dall’oblio letterario ci pensò Carmen Callil, fondatrice della Virago
Press, incontrata alla fine degli anni Settanta. Quest’ultima fece
ripubblicare Frost in May e i suoi seguiti garantendo alla scrittrice, di cui
divenne anche agente, una fama mai goduta prima.
Dopo la morte della White, avvenuta nel 1980, videro la luce il frammento
autobiografico As Once in May – incentrato sui suoi primi anni di vita– e i
diari, raccolti in due volumi. Nel 1982 la BBC acquistò i diritti dei romanzi e
ne trasse una miniserie in quattro episodi.
Grazie alla Virago, ancora oggi in prima linea nella promozione di una
letteratura “al femminile”, la scrittrice in perenne crisi creativa continua,
almeno in Inghilterra, a essere letta e amata. C’è da esser certi che nulla
l’avrebbe resa più felice.
Luca Fumagalli
L'articolo “I bisogni dell’anima”. Antonia White, una scrittrice “papista”
contro il Concilio Vaticano II proviene da Pangea.
In Italia, come si sa, è Giuseppe Ungaretti il traduttore complice di Blake:
edite in prima battuta nel 1965, le sue Visioni di William Blake sono
recentemente tornate in catalogo Mondadori. In entrambi i poeti agisce la
pratica dell’illuminazione più che dell’occasione, della visione prima della
vista. Ungaretti sa che la semplicità del poeta può apparire ostica al lettore:
si tratta di costruire un alfabeto per l’invisibile.
> “Lavoro alle traduzioni di Blake da più di sette lustri. È un poeta difficile.
> Sempre, anche quando è semplice come l’acqua. Ma c’è poeta, o un qualsiasi
> uomo che parli, che sia nel suo dire interamente decifrabile?”
I poeti, per favorire vaghe classifiche, possono dividersi in due classi: quelli
che ci mostrano le cose nascoste – i riverberi di ciò che l’uomo comune
non vede – e quelli che svelano il nascosto. Tra questi ultimi, vanno impilati
poeti aurorali come Blake, Hölderlin, Rimbaud, Emily Dickinson, figure di luce,
che incendiano, non per caso quasi del tutto postume. La fama non può cogliere
la fame di questi cannibali del segreto.
Ad ogni modo. Per il grande Ungaretti – un genio che ha fatto cattedra della
poesia – William Blake è portentoso alchimista del linguaggio, un idolo nella
virtù immaginifica; eppure – per quanto appaia assurdo, ma il poeta è il primate
dell’assurdo – nei testi di Blake occorre credere come nei libri biblici.
> “La cultura in Blake è sempre e solo conflitto, mai trasmissione di consenso o
> legittimazione. Di qui il rifiuto e anche l’incapacità di mediare con la
> razionalità della filosofia, dell’arte, della religione illuministica, e la
> ricerca di una contrapposizione sintetica… Alla razionalità illuminista che si
> regola sull’astrazione, sulla quantificazione e sul controllo, Blake
> contrappone l’illuminismo della visione e dell’immaginazione”.
>
> (Stefano Zecchi, “Nelle foreste della notte”, in: W. Blake, Opere, Guanda,
> Milano 1984)
In Blake il mito, riedificato in legioni bibliche – Urizen, Urthona, Tharmas,
Thiriel, Los… – non è esornativo, tanto meno nostalgico (come l’epica della
fiaba recuperata dai Romantici) ma attivo. Il poeta scava oltre la crosta dei
culti odierni per giungere alla prima covata del cosmo: dissotterra la prima
parola per pronunciare l’ultima. Ne Il matrimonio del cielo e dell’inferno il
poeta spiega – ma ogni spiegazione ha un incastro di virtù contraddittorie – il
suo agire:
“Gli antichi Poeti pensavano tutti gli oggetti sensibili come animati da
Divinità o da Genii, chiamandoli con i nomi e adornandoli con le proprietà dei
boschi, dei fiumi, delle montagne, dei laghi, delle città, delle nazioni, e di
qualunque altra cosa i loro sensi dilatati e numerosi potessero percepire.
E particolarmente studiarono il Genio d’ogni città e regione, dislocandolo sotto
la sua Divinità Mentale;
Finché si venne formando un Sistema, da cui alcuni trassero vantaggio e resero
schiavo il popolo col tentativo di rendere reali o di astrarre le Divinità
Mentali dai loro oggetti – e così ebbe inizio il Clero;
Trascegliendo forme di culto da favole poetiche.
E infine dichiarando che tali cose erano state ordinate dagli Dei.
Fu così che gli uomini dimenticarono che Tutte le Divinità risiedono nel cuore
dell’Uomo”.
A questa ingenuità – oppure: originalità del dio – anela William Butler Yeats,
il grande poeta irlandese. Il suo inseguimento di Blake comincia da ragazzo; in
uno scritto del 1897, William Blake e l’immaginazione, attacca così:
> “Ci sono stati uomini che amavano il futuro come un’amante e il futuro
> mescolava il suo respiro con il loro e scuoteva i capelli intorno ad essi e li
> celava alla comprensione della loro epoca. Uno di questi uomini era William
> Blake e, se si espresse in modo confuso e oscuro, fu perché parlava di cose
> per le quali nel mondo a lui noto non trovava modelli atti a esprimerle”.
>
> (In: W.B. Yeats, Magia, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, Milano 2019)
A differenza di Blake, aedo di un mondo a lui solo noto, Yeats, però, è un
druido. In Yeats agisce l’invisibile non l’oscuro. D’altronde, Yeats comincia
sul sentiero degli antichi miti irlandesi, manovra gli “inni antichi”; Blake
parla da un mondo in cui gli dèi sono defunti e le pietre, lungi da ogni magia,
sbadigliano. Nel sistema mistico di Yeats, A Vision, Blake occupa la “Fase
sedici”, insieme a Paracelso e a “certe donne belle”, costituita da “una
eccitazione senza meta” e da “un sogno antitetico”: “C’è sempre una componente
di delirio, e quasi sempre il piacere di certe immagini splendenti o luminose di
forza concentrata: la fucina del fabbro; il cuore; la forma umana nella sua
massima vigoria; il disco solare; qualche rappresentazione simbolica degli
organi sessuali; perché l’essere non può fare a meno di vantarsi del suo trionfo
sulla propria incongruità”.
A differenza di Yeats, sintonizzato sul ‘profeta’, Thomas S. Eliot, preferiva il
poeta. In un saggio uscito in origine su “Athenaeum” nel febbraio del 1920
scrisse che “La poesia di Blake ha la sgradevolezza della grande poesia”,
scrisse che Blake, lungi dall’essere “un ingenuo, un selvaggio, una bestia sacra
ai supercolti” era un poeta i cui lacerti lirici “si ritrovano in Omero,
Eschilo, Dante e Villon e, nascostamente, nell’opera di Shakespeare”.
Ossessionato dal lignaggio, Eliot ha bisogno di un ‘canone’, di una
‘istituzione’: eppure, non erra quando dice che è “terrificante e spaventosa” la
“brutale onestà” di Blake – è il lavorio di chi strappa i veli, di chi denuda le
forme. Il bello abbaglia.
Blake morì d’estate, il 12 agosto del 1827, in stato d’estasi: “componendo e
cantando poesie al suo Creatore”. Pur sulla soglia dell’indigenza, era scortato
da radi allievi: la sua figura ardeva come un lume – mungitura di lingue
araldiche attorno a lui. Quasi subito, un po’ tutti cercarono di carpire le
ragioni di una mente eccentrica quale quella di Blake. Nel 1825 su “Urania; or,
the Astrologer’s Chronicle, and Mystical Magazine”, Merlinus Anglicus, The
Astrologer of the Nineteenth Century, pubblicò l’oroscopo di Blake. Era l’ultimo
‘servizio’ del primo e unico numero di “Urania”: la rivista, edita a Londra, al
24 di Fetter Lane, sotto gli auspici della “Metropolitan Society of Occult
Philosophers”, pubblicava, tra l’altro, un articolo sulla simbologia del drago e
un profilo dei “rimarchevoli eventi astronomici” accaduti quell’anno;
naturalmente non mancavano le Predictions for 1825.
Dietro la maschera di “Merlinus Anglicus” si celava Robert Cross Smith
(1795-1832), astrologo, nativo di Bristol, meglio noto con lo pseudonimo di
“Raphael”. Nell’era dei giornali e dei ‘fatti’ si occupava di geomanzia,
nell’epoca della ferrovia a vapore – la “Stockton & Darlington Railway” fu
inaugurata nel Regno Unito proprio nel 1825 – si dava all’antica arte di
divinare gli astri. Inventò riviste e almanacchi – “The Straggling Astrologer”;
“The Prophetic Messenger”; “Raphael’s Ephemeris” – di effimera durata.
Nativity of Mr. Blake è uno dei documenti più eccentrici sorti intorno alla
personalità inarginabile di Blake. Lo ha pubblicato Arthur Symons nel 1907
in William Blake, a biography and selection of contemporary sources; lo
replichiamo in appendice. Tra le varie testimonianze, affascina quella della
scrittrice inglese Charlotte Campbell, reperita nel suo diario. La signora –
sposa, in seconde nozze, al reverendo Edward Bury, dama di compagnia di Carolina
di Brunswick, principessa del Galles – incontrò Blake nel gennaio del 1820, “una
di quelle rare persone che praticano l’arte per la sola felicità che essa gli
reca”. La donna fu folgorata dalla “splendida immaginazione e genialità” di
Blake:
> “Il signor Blake ignora tutto ciò che riguarda questo mondo e, da ciò che
> dice, temo sia tra le anime rare i cui sentimenti sono di gran lunga superiori
> alla propria situazione sociale. Appare sfinito, disfatto; ma il suo volto si
> illumina quando parla della sua attività. Immagino che raramente incontri
> qualcuno che condivida le sue idee: sono così estreme da elevarsi sopra il
> comune livello delle opinioni apprese. Non ho potuto fare a meno di comparare
> il genio di questo umile artista con quello del potente Sir Thomas Lawrence:
> Blake è certamente più degno di fama, per distinzione, rispetto a
> quest’ultimo. Il signor Blake, tuttavia, manca di quella saggezza mondana e di
> quella scaltrezza nei modi che permettono a un uomo di raggiungere un qualche
> successo in società. Ogni sua parola esprime l’esterrefatta semplicità della
> sua mente, una totale ignoranza nelle questioni mondane”.
Che ‘quadro’ meraviglioso: nell’idiota si rivela l’errore del ‘sistema’, la
sfasatura, il punto in cui le cose si ricollocano nell’innocenza originaria. Nel
primato di Adamo. Più che essere stigmatizzato dagli astri, Blake, all’equinozio
del mondo, divora le stelle.
**
L’oroscopo di William Blake. L’artista mistico
L’oroscopo qui riportato si calcola secondo la stima dell’ora di nascita di
William Blake, soggetto ben noto tra gli esperti per la sua peculiare e
ineguagliata genialità, per la vivida immaginazione. Le sue illustrazioni del
libro di Giobbe gli hanno riservato diversi elogi; in effetti, nei modi che
adotta questo artista non ha pari ai giorni nostri. Blake non era meno
eccentrico e stravagante nelle proprie idee: pareva avere profonde relazioni con
il mondo invisibile e secondo i suoi racconti (nei quali si dimostra certamente
sincero) dice di essere stato sempre circondato dagli spiriti dei defunti di
ogni epoca, nazione e paese. Afferma di aver avuto conversazioni con
Michelangelo, Raffaello, Milton, Dryden oltre che con i protagonisti
dell’antichità. Il suo ultimo poema gli è stato sussurrato dallo spirito di
Milton; i disegni mistici di questo gentiluomo non sono meno curiosi e degni di
nota per chi si libra oltre le trappole dell’elemento terreno, a cui spesso
siamo fin troppo incatenati per poter comprendere la natura e le azioni del
mondo degli spiriti.
I dipinti del Giudizio Universale, i profili di Wallace, Edoardo VI, Aroldo,
Cleopatra e numerosi altri che abbiamo visto, sono davvero mirabili per lo
spirito che li ha generati. Spesso abbiamo avuto il privilegio di incontrare
Blake restando incantati dalla facoltà del suo dire, colmi di meraviglia per la
straordinaria potenza emanata della sua persona; le sue convinzioni non sono
frutto di superstizioni: egli vi crede con fermezza. I nostri limiti non ci
permettono di indagare troppo negli abissi del suo genio: ci limitiamo a
considerarlo uno straordinario esempio per gli studiosi di astrologia.
In particolare, è probabile che le mirabili qualità eccentriche del suo pensiero
siano gli effetti della Luna in Cancro nella dodicesima casa (segno e casa
entrambi legati alla mistica), del trigono di Urano (o Herschel) nel segno
mistico dei Pesci, della casa della scienza, e dal trigono mondano a Saturno nel
segno scientifico dell’Acquario; quest’ultimo pianeta è in quadratura a Mercurio
in Scorpione e in quintile al Sole e a Giove, nel mistico segno del Sagittario.
Anche il quadrato di Marte e Mercurio, proveniente da segni fissi, ha notevole
tendenza nell’acuire l’intelletto e getta le basi per idee fuori dall’ordinario.
Altre ragioni reggono le bizzarre peculiarità sopra menzionate: per lo studioso
sarà facile gioco scoprirle.
*In copertina: William Blake, Autoritratto, 1802 ca.
L'articolo “Ignora tutto ciò che riguarda questo mondo”. L’oroscopo di William
Blake proviene da Pangea.
Ogni tanto, mi scrivo con Dominique Rouche. Si ostina a scrivermi in italiano:
errori, imperfezioni, fraintesi conferiscono a questa scrittura un surplus di
enigma. Dominique forza il linguaggio nel sentiero interrotto, nel fiume
interrato, sperando così di cogliere in fallo le parole, di defalcare la
falsità, di intuire il loro segreto. Opera da bandito.
Si pratica una lingua estranea, da fuggiaschi, da delinquenti, per
familiarizzare con sé – stranieri a se stessi, come intendersi, altrimenti?
Giovanissimo, nel 1973, per Gallimard, Dominique Rouche esordisce con Hiulques
Copules. È un libro primo e unico, quello, impossibile, in cui la lingua è
forzata fino al neologismo, in cui la grammatica – ormai evaporata – si
magnifica in olio purissimo. Ascritto – per noia e cecità – a uno sfinito
sperimentalismo, Dominique non è un artefice, non è un sobillatore del
linguaggio: Hiulques Copules, semmai, rasenta un dire da mistico bracconaggio,
tra Laozi e Swedenborg. Sempre, la caccia è nella lingua: chi anela
all’assoluto, nelle due dimensioni – ascesa e catabasi – forza il verbo fino
alla resa. Fino al tutt’altro. Lo esercita per eccesso o per ascesso:
l’analfabeta e il retore sono lo stesso.
Quel libro – pubblicato nella collana ‘Le Chemin’, che pubblicava Jean
Starobinski, Henri Meschonnic, Georges Perros e il futuro Nobel J.M.G. Le Clézio
– piacque a Michel Foucault e a Michel de Certeau; annientò l’autore che da
allora si inoltrò in un proprio deserto. Lo ha mutilato dentro. Non aveva più
nulla da poetare – il verbo gli si era avventato nel cobra, nel veleno.
Più di recente, per le edizioni L’Harmattan, Dominque Rouche ha scritto libri
inclassificabili, d’indole meditativa. Uno di questi, Vers l’inframonde, è
descritto così: “Letteratura: pratica di un linguaggio che riconcilia uomini e
dèi prima di tornare alle antiche lotte infinite che mai finiranno. Questo libro
mostra visioni di mondi perduti e ritrovati: un inframondo dove vagano le ombre
dei morti e di coloro che non sono ancora nati”. Il libro è uscito nel 2011;
Dominique non pubblica da più di dieci anni, negli anni Novanta ha pubblicato
una enquête sur les miracles.
Qualche mese fa, Dominique mi scrive: “Quanto a me, la letteratura mi invade
sempre di più: ma ho dei testimoni che assistono alla mia lotta segreta. Lascio
a voi indovinare il significato che anch’io coltivo come un fiore velenoso”.
Diceva di volermi inviare dei disegni, che “possano illuminarci sul significato
della nostra attività”. Suppongo che noi equivalga e io: conteniamo moltitudini
– meglio: siamo legione.
I disegni, infine, arrivano. Se non ho capito male, Dominique li ha realizzati
in Umbria. In ciascuna tavola, è la messa in scena del sacrificio. Teatralità
compenetrata dall’incombere del pericolo. In scena, sempre, uomini nudi su fondo
muto, neutro. Spesso appare un coltello. A volte uno specchio. Non è chiaro se
gli uomini stiano provando una pièce; spesso la finzione – la regola – sfama nel
vero; spesso il vento si rivela sangue, il soffio un anatema. Non è chiaro se
questi uomini appartengano a una setta, a una compagnia teatrale a un eremo. La
magrezza ci conduce al digiuno, alle artiche norme della rinuncia.
Qualche giorno fa, una lettera di Dominique che vaga in orfismi:
“Appartengo a questo mondo come se lo avessi pronunciato io: è un’illusione
quella che sto per dimostrare. Non sapendo più: ma continuando a renderci ciechi
all’unica immagine che percepiamo in questa oscurità in cui siamo relegati,
prigionieri delle armi e delle leggi di cui un tempo ero l’implacabile custode.
Per quello?
Sono venuto qui solo per corrompere le virtù dell’anima e glorificare lo Spirito
a cui esse affermano di appartenere. Virtù: Dove sei nascosto?
Scrivere senza sosta: questa è la mia vocazione di uomo libero o di prigioniero,
evocare le figure divine che un tempo ho incontrato e che hanno ispirato questi
libri che voglio vedere perire nel fuoco che la terra vomita.
Siamo in due a non sapere cosa quindi resterà sconosciuto.
È il sangue degli Xst che scorre nelle nostre vene. (Questo è ciò che ci
allontana da Lui.)
La servitù è ormai senza appello: non esiste altro che questa abitudine:
suicidio?
Non esiste linguaggio per coloro che hanno perso l’uso di questa parola
sconosciuta che esprime la Legge universale nascosta di cui siamo solo ombre
distaccate.
Oro: Voglio il Male che incarniamo contro la nostra volontà.
L’arte della meditazione mi consuma”.
Non so quale sia l’appello di Dominique, questo parlare lebbrosario, questi
verbi tenuti tra bende, come scorpioni d’oro. Gli dico che i suoi disegni mi
ricordano Luca Cambiaso, mi ricordano Alfred Kubin, mi ricordano l’ossessione
teatrante del Seicento e il perturbante di Balthus. Una processione di lanterne.
Ma che importa poi questo cumolo di citazioni cadaveriche?
Nello stesso giorno in cui da Parigi mi giungono i disegni di Dominique:
Riccardo Corsi, illuminata mente delle Edizioni degli Animali, mi manda l’ultimo
libro di Thierry Metz – la traduzione è di Pasquale Di Palmo. Dolmen, suivi de
La demeure phréatique esce per le edizioni di Jacques Brémond nel 2001, dopo
essere stato pubblicato nei “Cahier Froissart” nel 1989. Ha trentatré anni,
Metz, quell’anno; l’anno prima è morto il figlio di otto anni, divorato da
un’auto.
> “Aprire la dimora freatica
> essere là
> nelle acque che preparano una cascata
> niente è più fresco”.
In verità, siamo in un poema per frammenti, per via crucis: alla scrittura su
pietra si alterna quella su acqua. L’uomo fa cronaca di sé sulla pietra, si
incolonna nel marmo, sperando di resistere un’ora in più al proprio corpo
transitorio; Dio sussurra alle acque. Quasi a dire: dono della pietra – suo
lignaggio – è diventare fiume. O meglio: il fiume esiste finché la pietra ne è
il passeur, l’intransigente calesse.
Spesso, poesie d’intrepida intensità che fanno di Thierry Metz, da qualche anno,
uno dei poeti più risonanti in Italia.
“questo qui
– senza nome –
rifornisce la lingua
con quello che trova:
ramoscelli
argilla sterco
appena qualche parola qui
per accogliere l’imprevedibile
quasi nulla dietro la porta
salvo che lui
– l’abitante –
preferisce alla dimora la finestra”
Metz impasta poesie con pochi lemmi, con una radura di scarni vocaboli,
all’osso. D’altronde, è così che si evade dal linguaggio: per combustione
interna, finché il fuoco non lacera ogni parola, o per esplosione, per
espansione, fino all’anonimato degli assedianti. Giungere all’uno insediandosi
nei molti. Poesia-corda – oppure: poesia-ragnatela.
Dolmen: questo pachiderma che Metz rende passerotto. Parola-totem che ridiventa
fiore. Senza più dèi né aforismi stellari, soltanto Metz sa ricondurre tutto –
dalla piena del dolore – a un eden dei maniaci. Bellissimo.
Certo, fin nel titolo, il detto ‘geologico’ di Paul Celan, la cerca di una
parola che abbia tenuta di pietra: Dolmencome Kamen, la pietra di Mandel’štam.
Su questa pietra… Pietro/Kepha, l’uomo su cui il Vangelo non si compie ma fa di
sé scempio. (Volto reso irriconoscibile per contusione di pietra; pietra che
sigilla il Nazareno nel sepolcro).
Ma no, non si tratta di lapidare, qui: di levitare, semmai:
“eclissi d’uccelli
e l’ala che trattiene i venti
d’improvviso ti solleva
ti porta il più lontano possibile
dove la parola nidifica
nella tua voce”
E sempre, infinitamente, tornare alla voce di René Char – il nido; punto di
snodo della poesia recente, che da atto lirico si faccia lancinante assalto.
Oppure: premura di andare al Nord di tutto – transumanza di figure glaciali,
vita boreale, la sula che in azzurrità si ciba del nostro corpo, fino a
redimerlo giovanneo.
Parlando, forse, dei suoi testi poetici, mi scrive, Dominique Rouche: “Un
mosaico informale che ci guida e ci fa sentire un’unica voce che ci raggiunge
fino alla fine: la fine di un discorso risuonante nel buio generale? Una sola
voce per una moltitudine di discorsi che culminano nel silenzio: Mehr Licht!,
Più luce!”.
Non c’è più pietra né dimora né strato freatico nella scrittura di Dominique.
Tutto è al punto estremo di fame, nel più lucido istante: basta rovesciare una
parola, pronunciare con errato tono un verso e tutto si sbriciola, si sillaba in
briciole. Cosa ci sia dietro – bestia o pascolo, neve o niente – non è dato
sapere: sentiamo il rintocco, un feroce mormorio, con l’orecchio appeso alla
parete.
*I disegni nel testo e in copertina sono di Dominique Rouche
L'articolo “Per corrompere le virtù dell’anima”. Dialogo cruento con Dominique
Rouche e Thierry Metz proviene da Pangea.
Il 9 luglio del 2025 Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound, compie cento
anni. Un po’ Sfinge, un po’ menhir è lì, memoria stilita, memoria petroglifo, a
sigillare lo stigma del padre. Mary, col suo dire fermo, pieno di meli e di
vespe, pare un monito. Il padre, ‘Ez’, il poeta che si è fatto carico – come
profeta, maestro, pioniere, lottatore – del Novecento (e forse della ‘fine’
della letteratura per come l’abbiamo conosciuta, sfinendola), è nato
nell’ottobre del 1885; quarant’anni fa Mary pubblicava la ‘sua’ prima edizione
dei “Cantos” nei ‘Meridiani’ Mondadori. L’introduzione – in impeccabile
‘distanza’ – attaccava così: “The Cantos: poema scritto in pubblico, ma anche
poesia chiusa. Dai trovatori Pound ha imparato a coprire le proprie tracce. E
più i giri si volgono verso il centro di sé e della sua tribù, più si imbozzola.
Ma per chi riesce a rompere il guscio è un entrare nella ‘ghianda di luce’, un
reggere ‘la sfera di cristallo’”. Un poema che riassuma azione e divinazione,
tenacia e teurgia, storia e mito, assiduità e assurdo. Che impresa vertiginosa.
I giorni di Mary paiono consustanziali a quelli del padre: qualcosa che ha a che
vedere con il patto. Investita del compito di penetrare i “Cantos”, la ragazza
ha tremato, tumultuoso il sì, consapevole che ogni investitura è crocefissione.
Pound ha unito in sé Provenza e Giappone, Usa e Cina, eppure, di biblica essenza
è tale paternità.
Ad ogni modo. Qui si ricalca il reportage di un viaggio compiuto a Brunnenburg,
alla corte di Mary: fu stampato, in origine, tempo fa, sul “Giornale”. Mantiene
una sua stremata ‘autenticità’. L’ultima volta, ho sentito Mary lo scorso anno:
parlammo di Pound e del Giappone, del desiderio di tradurre i suoi drammi No;
lei, la ragazza, citava Aristotele – cento anni sono un soffio per chi levita
sui millenni.
**
La fine è una luna enorme, davanti all’autostrada, simile al calcagno di Dio.
Rimini-Brunnenburg andata e ritorno. In un giorno. Agosto luciferino. Oltre
novecento chilometri. Abbiamo sorbito il tè con la Storia della letteratura.
Tanto basta.
Accompagno Walter Raffaelli nel forte dei principi de Rachewiltz, appena sotto
Castel Tirolo, dove abita Mary, la figlia di Ezra Pound. Dopo Vanni Schewiller,
Raffaelli è l’editore poundiano per antonomasia: ha pubblicato testi di Ezra, le
poesie di Mary e della figlia Patrizia, i libri del marito di Mary, l’egittologo
Boris. Il castello dei de Rachewiltz è arpionato alla roccia come un urlo. La
strada per arrivare è ripida, intitolata – vivaddio – a Pound. Pochi elementi,
però, entrando nella dimora, arcigna, ricordano il poeta. Un manifesto racconta
un ciclo estivo di concerti; l’ingresso è per il Museo agricolo. Da un’aiuola
sbuca la faccia di Pound scolpita da Gaudier-Brzeska. Al castello sono ospiti
dei musicisti: nastri sonori avvolgono chi entra. Mary sbuca all’improvviso da
una porta laterale. Minuta ed energica, classe 1925, un sorriso ampio come un
balcone di gerani e quegli occhi, azzurri e spogli, che pietrificano i ricordi.
Ci conduce per una scala a chiocciola. Sulle pareti, schizzi vorticisti tratti
da “Blast”, la rivista creata da Pound insieme a Wyndham Lewis. Più tardi
sorbiremo il tè su una teca di vetro. Sotto le tazze, piccolissimi monili egizi,
occhi, orecchini, pettini, divinità enigmatiche, che adornavano tombe di tremila
anni fa.
«Vuole accomodarsi sulla sedia di William Butler Yeats o su quella di Ezra
Pound?». Un senso d’inferiorità rende le mie ossa acciaio. Per il momento resto
in piedi. Da una parte c’è il ritratto di Pound fatto da Rolando Monti: il
poeta, davanti al mare ligure, cammina in avanti, bruscamente, con la mano
sinistra in tasca, ma guarda, severo, indietro. Sotto, libri di Pound in tutte
le lingue del pianeta. Una parte della libreria è dedicata alle pubblicazioni di
Pound in italiano. Dalla stanza, un bunker in cui si è frenato il tempo, la
vista sulla valle di Tirolo è vertiginosa. «A mio padre non piacevano le case né
i nidi», mi dice la figlia, che alternativamente chiama Pound «Pound» o «mio
padre». «Secondo lui le case erano inutili. Un uomo, diceva, non ha bisogno di
case, ma di due valigie. Una per i vestiti. L’altra per i libri». La cassa dei
libri di Pound, in legno, c’è anche quella, griffata «Ezra Pound, Rapallo». Su
una parete, il calco dei visi del poeta e di Olga Rudge, l’amata, la madre di
Mary. Su un tavolo, la copia dell’Ulisse di James Joyce dedicata a Pound.
Insieme a Mary, ci accompagna nella discussione la figlia Patrizia. Più tardi,
all’uscita, incrocio l’altro figlio, Siegfried, che cavalca la bicicletta manco
fosse uno stallone. «Pound qui non stava bene», dice, sibilando, Mary.
Dopo dodici anni di reclusione nel manicomio criminale di St. Elizabeths,
Washington D.C., nell’estate del 1958, Pound attracca in Italia, a bordo della
“Cristoforo Colombo”. Va a stare da Mary e da Boris, nel castello tirolese,
vasta solitudine di campi verdi, rocce in picchiata, gelo. «Mio padre è e resta
un americano: aveva bisogno di spazio. Qui sentiva freddo. Questi luoghi gli
trasmettevano una certa angustia intellettuale. Cominciò a fare il processo a se
stesso, visto che non fu mai processato. Si accusava, si interrogava se avesse
sbagliato tutto… La gente non può immaginare, ma per sopravvivere nel campo di
prigionia a Pisa, prima, e poi al St. Elizabeths, Pound ha dovuto concentrarsi
totalmente sul suo lavoro. Altrimenti, sarebbe impazzito». Quelli del ritorno
sono anni durissimi per il poeta.
> «Non riconosce più l’Italia che ha lasciato anni prima. Gli crolla
> letteralmente il mondo addosso. La morte di Ernest Hemingway e di Hilda
> Doolittle nel 1961, quella di E.E. Cummings nel 1962, di William Carlos
> Williams nel 1963, di Thomas S. Eliot nel 1965… Pound vede morire tutti i suoi
> amici, vede disintegrarsi un’epoca».
Mentre Mary parla appaiono e scompaiono nella stanza i volti di quegli uomini
che hanno cambiato la letteratura occidentale. Di fianco a Mary si spalanca una
nicchia con la biblioteca consultata da Pound. Mi accompagna. I libri sono
coperti da una carta trasparente. Estrae alcuni volumi, una storia della Cina
antica, in francese. «Nel 1940 Pound pubblica i Cantos LII-LXXI, quelli relativi
all’epica cinese e agli scritti di John Adams. Vede, Pound a Rapallo, in quegli
anni, non faceva il fascista, studiava…». Che fine ha fatto quel mondo, gli
Eliot, i Joyce, gli Hemingway, quella energia? Oggi la cultura è mercanteggio di
sciocchezze. «Cosa la stupisce? Dopo l’epoca di Dante sono dovuti passare secoli
per avere un Leopardi!». Risposta rotonda. «E poi, io non voglio uscire da
questa stanza, sono nel pieno di quell’era, di quegli istanti, lo capisce?». Lo
capisco, certo. Anch’io vorrei annegare qui.
Ezra e Mary
Quest’anno, un ennesimo anniversario poundiano. Il rammarico di Mary si
percepisce, vivo come un fuoco, sotto pelle. «Spererei che Mondadori pubblicasse
un’edizione economica dei Cantos, per rendere più accessibile l’opera di Pound».
Invece niente. «Il problema è che per non incorrere nelle accuse di fascismo
bisogna sempre mascherare Pound con un involucro sufficientemente grande. Magari
parlarne con altri autori, in contesti più ampi». Quando Mary se ne esce,
«vorrei fondare una Repubblica poundiana!», ci zittiamo tutti. Parla piano, con
accuratezza. «Pretendo che qualcuno, il governo degli Stati Uniti d’America, un
gruppo di Università americane, restituisca a mio padre la personalità
giuridica. Dal 1945, quando, senza processo, fu internato al St. Elizabeths,
Pound non ha più riavuto i suoi diritti civili: e cos’è un uomo privo di
diritti?». Più che l’ira, la rassegnazione colora il viso di Mary, sulle cui
spalle grava un secolo di grande letteratura. Gli ultimi anni di Pound replicano
il silenzio – «che equivale a una dichiarazione di non-colpevolezza» – opposto
in quel 1945 alle autorità americane.
> «Negli ultimi anni mio padre non parlava con nessuno. Una fotografia lo
> ritrae, magrissimo, davanti a una rosa. Un articolo di Indro Montanelli, che
> in passato non era stato molto gentile con Pound, lo descrive a Venezia, in
> un’aula piena di persone, forse un’ambasciata, seduto, che gioca con un
> gatto».
L’articolo di Montanelli, Pound, uscì sul “Corriere della Sera” l’11 aprile del
1971. L’episodio ricordato da Mary è raccontato in questo modo dal grande
giornalista:
> «In salotto, si rimise sul divano al suo posto di esule e risprofondò nella
> sua lignea immobilità. Di vivo, c’erano solo le mani, che continuamente si
> cercano e auscultano, ma con dolcezza e senza orgasmo. Esse sembravano
> esercitare non so quale ipnotico potere su Crim, la gattina siamese di
> Liselotte che, accucciata ai suoi piedi, le fissava con le pupille dilatate da
> una folle stupefazione. Poi, scalato il sofà con un soffice balzo, cominciò a
> leccargliele. E infine vi si raccolse facendone la sua cuccia e reclamandone
> la carezza. Per un poco, Pound subì. Subì anche lo sguardo della bestiola che
> gli teneva gli occhi negli occhi, unica fra tutti noi a non sentirsene
> turbata. Poi la prese delicatamente per la collottola e la rimise accanto a
> sé. Ma Crim non si diede per vinta e ricominciò la sua morbida insinuante
> ascensione dal cuscino alle ginocchia di Pound e dalle ginocchia alle braccia,
> fra le quali si accoccolò. Tutti seguitavano a parlare, ma senza distogliere
> lo sguardo da quel muto dialogo – forse un idillio, forse un duello – fra Ezra
> e il gatto».
>
> (L’articolo è accolto in: E. Pound, È inutile che io parli. Interviste e
> incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021)
Alcuni taccuini mostrano la poesia estrema di Pound, quella dei Drafts and
Fragments. Scrittura minima, obliqua, confusa. Orfica. «Oggi finirei i Cantos in
un altro modo…».
Sono venuto fin quassù per capire questo. Dove finiscono davvero, in quella
turba di note dalla grafia oracolare, i Cantos? «Le ipotesi più veritiere sono
tre. I Cantos terminano con la frase “ma la bellezza esiste”, che non è
confluita nel poema. Oppure con “Un po’ di luce, come un barlume/ ci riconduca
allo splendore”. Infine, ed è la fine che preferisco, il capolavoro di Pound si
blocca su questo verso: let the wind speak, lascia che parli il vento». Il
poeta, a quel punto, non ha più verbo né voce: è realizzato.
*In copertina: Ezra e Homer Pound insieme a Mary
L'articolo “Ci riconduca allo splendore”. Alla ricerca di Ezra Pound. Ovvero, in
gita da Mary proviene da Pangea.
Due anniversari poundiani ci ‘obbligano’ a rileggere il poeta-totem del secolo.
Il primo è sul bivio della tragedia: ottant’anni fa – era il maggio del 1945 –
Pound viene arrestato con l’accusa di alto tradimento, recluso in un campo, a
Pisa, in durissime condizioni. In giugno subisce diverse visite psichiatriche;
sarà poi scortato nel reclusorio militare di St. Elizabeths, Washington DC.
D’altro stampo il secondo anniversario: il 9 luglio Mary de Rachewiltz compie
cento anni. La figlia – nata dall’unione di Pound con la violinista Olga Rudge –
ha dedicato la vita alla divulgazione e alla traduzione delle opere del padre,
custodendone il carisma. Una mostra, allestita presso il Palais Mamming di
Merano, “Mary’s Dream. Portrait of a Lady”, ne riassume l’esistere, a suo modo
rude – e regale. In memoria di Ezra Pound, l’ultimo numero di “Studi Cattolici”,
la rivista di Ares – tra i rari, integerrimi editori ‘poundiani’ in Italia –
dedica un “Quaderno” speciale da cui abbiamo estratto lo studio di Alessandro
Rivali, già autore del libro-intervista “Ho cercato di scrivere Paradiso. Ezra
Pound nelle parole della figlia” (Mondadori, 2018). Il fascicolo è arricchito da
materiali poundiani inediti tratti dall’archivio di Cesare Cavalleri; è
trascritta inoltre una lettera di Pound alla figlia dalla prigione di Pisa il 19
ottobre del 1945, di particolare bellezza, a liceità di un ‘compito’: “sei
autorizzata a curare il mio ms [manoscritto] ma non voglio che tu venga
sommersa, preferirei piuttosto che tu scriva dieci pagine per conto tuo invece
di curarne un centinaio. Ok per un lavoro di dieci anni nel tuo tempo libero, ma
attenta a non affondare in un lavoro accademico”.
**
Ottant’anni fa – era il 3 maggio del 1945 – iniziò la prigionia del poeta Ezra
Pound (1887-1972). Sulle sue spalle pesava la gravissima accusa di tradimento,
per aver parlato – da cittadino statunitense – ai microfoni della Radio
Fascista1. Dopo i primi interrogatori, relativamente tranquilli, a Genova,
presso il Centro del controspionaggio americano distaccato presso la 92ª
Divisione Usa, il 25 maggio il poeta fu portato al campo di reclusione e
rieducazione per soldati americani costruito nel comune di Metato, a nord di
Pisa. Qui, Pound fu rinchiuso in una gabbia non troppo diversa da quelle che
abbiamo visto nei servizi tv dedicati alla prigione di Guantanamo. Esposto al
sole cocente di giorno e alla luce dei riflettori di notte, in uno spazio
ristrettissimo e senza ripari, incerto sulla sua condizione futura, che avrebbe
potuto anche condurlo sulla sedia elettrica, il poeta pensò – come mi confidò la
figlia Mary – al suicidio, forse tagliandosi i polsi con il reticolato con cui
era stata rinforzata la sua gabbia. Il 18 giugno Pound patì un collasso nervoso
dovuto all’asprezza della detenzione, e di conseguenza gli furono concesse
condizioni mitigate nell’infermeria del campo.
In queste circostanze così drammatiche il poeta continuò a scrivere
quei Cantos che nel suo intento dovevano essere il Grande poema americano e a
cui si era dedicato anima e corpo dagli anni della Prima guerra mondiale (i
primi tre canti, poi completamente rivisti, uscirono su Poetry nel 1917).
I canti nati dalla prigionia di Pisa – i famosi Pisan Cantos, vincitori del
prestigioso Premio Bollingen del 1949 – sono forse il momento più alto e
commosso della multiforme avventura poetica di Pound. Sono il personalissimo
“Purgatorio” di un uomo su cui «il sole è tramontato», che scopre che «la carità
più profonda / si trova fra chi ha infranto / le regole», che si sente un «cane
bastonato sotto la grandine» e che comprende che «chi ha trascorso un mese nelle
celle della morte / non crede più alla pena capitale / Dopo un mese nelle celle
della morte un uomo / non ammetterà gabbie per belve». Nel suo Commento
ai Cantos, in appendice all’edizione del ‘Meridiano’ Mondadori, la figlia Mary
scriverà dei Pisani: «Si possono considerare anche un testamento, un addio agli
amici e un’autobiografia degli affetti».
Pound nel campo di Pisa scrive sull’improvvisato materiale che ha a
disposizione, fosse pure un lembo di carta igienica (se ne può vedere uno in
foto nell’edizione New Directions dei Pisan Cantos curata da Richard Sieburth2).
Pound diventa uno scriba che ha per appiglio lo scrigno della memoria e per
ispirazione la realtà osservabile dalla gabbia. È «sostenuto» dall’apparizione
di una lucertola, nota «gli uccelli selvatici [che] mangiavano pane bianco»,
come «un grillino verde / smeraldo più pallido» a cui «manca la zampina destra»,
suggerisce perfino a un felino intruso di cambiare le sue abitudini: «Gatto
ladro nottambulo lascia stare i miei duri tomi / non è cibo per gatti / se tu
fossi più furbo / verresti all’ora dei pasti / quando la carne abbonda / non
puoi mangiare i manoscritti né il Confucio / e neppure la Bibbia / fuori da
questa scatola di lardo / timbrata W, 11 o o 9 o / che mi fa da guardaroba». E
ancora, Pound benedice il vento che «sa di mare» e lo «toglie all’inferno, alla
fossa / alla polvere e alla luce accecante».
Nei Pisani Pound è la «formica solitaria da un formicaio distrutto» e «dalle
rovine dell’Europa» si chiede se rivedrà «le antiche strade», inoltre riavvolge
il nastro della memoria fino al giorno in cui lasciò l’America per l’Europa con
80 dollari in tasca e il sogno di diventare poeta. Nel suo “diario di un dolore”
dietro i reticolati scriverà alcuni dei più toccanti versi del Novecento, tra
cui quelli indimenticabili del Canto 81: «Quello che veramente ami rimane, / il
resto è scorie / Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che
veramente ami è la tua vera eredità».
Il primo traduttore dei Pisani fu Alfredo Rizzardi che compendiò bene i motivi
portanti dell’opera:
> “Nei Canti pisani la fantasia scopre la memoria, e il suo calore non è più
> fuoco fatuo, ma giunge a bruciare. Costante in ogni pagina è la scoperta della
> propria vita passata, per cui le figure evocate nel cerchio infiammato della
> propria vita passata paiono ancora più reali, più vive di quelle sbiadite, che
> lo circondano. Amici. Compagni di giovinezza, figure care: evocate dalla terra
> dei morti quasi il Poeta vi avesse posato il piede e a essi parlasse”3.
*
I Drafts and Fragments
Se i Pisani sono felicemente noti, non si può dire lo stesso per l’ultimo
tassello del grande poema incompiuto (o “infinito” secondo la suggestione della
figlia Mary) dei Cantos. Quei Drafts and Fragments che in Italia conosciamo in
tre edizioni: Scheiwiller (1973, a cura di Mary de Rachewiltz), Guanda (1981, a
cura di Carlo Alberto Corsi e Michelangelo Coviello) e quella del ‘Meridiano’
Mondadori preparato sempre da Mary de Rachewiltz nel 1985 per il centenario
della nascita di Pound.
Questi ultimi frammenti sono di una bellezza lacerante. Schegge purissime.
Bagliori carichi di pietasche segnano il tempo di un uomo al tramonto della
vita. Di un uomo che aveva scontato senza processo tredici anni di manicomio
criminale a Washington e che, una volta tornato in Italia, correva l’estate del
1958, sognava di dare un “Paradiso” al suo poema. La realtà fu ben diversa,
senz’altro più cruda.
Gli anni del “ritorno” non furono facili. Pound era invecchiato, era stato
privato della personalità giuridica e affidato alla moglie Dorothy, nominata suo
tutore legale, da tanti era considerato un “nemico” dal passato ingombrante,
sentiva la mancanza di troppi amici. Eppure, in quel tempo difficile, iniziò gli
appunti per l’ultimo tratto del suo lungo viaggio. Iniziò a scrivere a
Brunnenburg, il castello di Mary e Boris de Rachewiltz a Tirolo, pochi
chilometri sopra Merano, cercando di combattere i demoni che di volta in volta
lo tentavano: i rigori del clima, l’isolamento del luogo, la solitudine, lo
spaesamento e persino la gelosia delle donne intorno a lui, come avrebbe
annotato nel Canto 113. Per il poeta Brunnenburg sarebbe dovuta essere la
personale Ezuversity dove accogliere discepoli e amici e continuare a scrivere
(come aveva fatto negli anni di reclusione in cui aveva lavorato alle
sezioni Rock Drill e Thrones dei Cantos). Invece iniziò il sofferto periodo
del tempus tacendi. Resta magnifico il ritratto di Grazia Livi
per Epoca tracciato a cinque anni di distanza dal rientro in Italia:
> “La prima cosa che colpisce, in Ezra Pound, è la sua genialità ormai vinta e
> naufragante oltre gli illusori confini del mondo. È ancora diritto e solenne
> d’aspetto, con la faccia asciutta ornata da una bianca barbetta appuntita, le
> mani magre e agili, il gesto da gentiluomo che subito si alza in piedi e offre
> la sua poltrona, ma nello stesso tempo si ha la chiara impressione che egli
> non appartenga più a sé stesso e che tutti gli elementi della sua persona
> siano coordinati fra di loro in maniera puramente fisica, funzionale. L’occhio
> è come vitreo e contempla le facce, gli oggetti con una fissità dolorante; la
> voce emerge a fatica dal torace stanco a comporre lentissime frasi meditanti;
> i piedi immobili sul tappeto, sono calzati di pantofole. Non c’è un libro,
> attorno a lui, che testimoni della sua gloria trascorsa: solo un’edizione
> parigina dei primi sedici Cantos, pubblicata nel 1925 […]. Questo, infatti, è
> Ezra Pound al giorno d’oggi: non un uomo ma un simbolo, che mantiene rapporti
> soltanto formali con la vita; non un personaggio, ma una presenza che guarda
> alle vicende di questo mondo con animo già liberato, già lontano, già
> naufragante nella tragica e illuminata saggezza che precede la fine”4.
Il Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano è una miniera di
informazioni per gli amanti di Pound, in primis perché custodisce l’archivio
Scheiwiller, l’intrepido editore che sostenne sempre il poeta americano,
pubblicando nel 1955, tra l’altro, in anteprima mondiale, Section: Rock-Drill
85-95 de los cantares.
Nell’archivio è custodita un’interessante lettera di Ugo Dadone (1886-1963),
amico di Boris e poliedrica figura di giornalista, viaggiatore e “agente
segreto”, che ospitò Pound a Roma nel 1961. Dadone raccontava con preoccupazione
a Scheiwiller le difficilissime condizioni del poeta. A suo dire, Pound si
sentiva in colpa per aver combinato “guai” a Brunnenburg, era depresso perché
non aveva più amici, il suo conto in banca era in passivo e non voleva più
pubblicare perché non sarebbe stato comunque pagato; infine, non si sentiva in
grado di fare nulla di buono perché non aveva più idee da svolgere.
Era il Pound che l’anno prima aveva scritto a Eliot (15 aprile 1960) dicendo che
si sentiva seduto sulle proprie “rovine”: a tale missiva l’autore di The Waste
Land rispose con un telegramma: «Tu sei il più grande poeta di sempre. E io devo
tutto a te».
*
L’iter della pubblicazione degli ultimi Cantos
In questo contesto delicato iniziò l’iter che avrebbe rocambolescamente portato
alla pubblicazione dei meravigliosi Drafts and Fragments. La figlia Mary parlò
di «un crepuscolo con tenerezza e rimpianto e un’affermazione della propria
innocenza», mentre Massimo Bacigalupo nel suo indispensabile L’ultimo Poundparlò
di «una nuova, sofferta, temperie psicologica»:
> “Il Poeta che s’era lasciato allegramente alle spalle la pietra miliare del
> Canto 100 senza quasi farci caso e che emerge indenne, “aloof”, cinquanta
> pagine innanzi dalle “onde scure” che hanno più d’una volta minacciato di
> sommergerlo, sente ora che la sua poesia – e la sua vita – ha i giorni
> contati, che il “nemico” – non più l’ossessivo “they” ma l’oscurità, la morte,
> e anche un mondo di cultura dal quale egli è escluso – sta guadagnando terreno
> da tutte le parti, al punto di invertire le posizioni mantenute nonostante
> tutto – in quanto conditio sine qua non dello scrivere – sino a ora”.
Nel ricco saggio Hall of Mirrors6 Peter Stoicheff ha ricostruito un periodo di
vicenda della pubblicazione di questi ultimi Cantos, pubblicazione che avvenne
con un Pound riluttante che non si sentiva pronto per l’ultima revisione e che
fin dal 17 ottobre 1959 aveva annotato «la bellezza perduta per mancanza di
energia nella mano che scrive»7.
Tutto nacque dall’intervista che Donald Hall chiese a Pound per la Paris Review,
rivista di cui Hall era allora poetry editor. Si incontrarono per tre giorni a
Roma, in via Poliziano, nel tempo in cui Pound era ospite di Dadone. Pound
voleva essere pagato per l’intervista e in risposta si sentì dire che si sarebbe
potuto fare, ma che l’intervista sarebbe dovuta essere corredata da poesie
inedite. Pound propose gli inediti Versi prosaici e alcune lettere inedite a
Basil Bunting, ma la proposta venne respinta; la rivista rilanciò per avere
un’anteprima di nuovi Cantos. Pound mandò le bozze di sette Canti acconsentendo
poi alla pubblicazione dei Canti 115 e 116. Quando James Laughlin, lo storico
editore di Pound con le sue New Directions, vide il materiale, scrisse al poeta
che aveva letto qualcosa di veramente meraviglioso, erano versi semplicemente
«magnifici». Non fu però Laughlin a pubblicare l’ultimo tassello dei Cantos. Fu
“bruciato” nel 1967 dall’edizione pirata di Fuck You Press (un nome un
programma…) di Ed Sanders, che aveva avuto il materiale “incandescente” da Tom
Clark, un ragazzo che stava preparando una tesi sulla struttura dei Cantos e che
a sua volta aveva ricevuto i dattiloscritti da Hall. La Fuck Press stampò (o
disse di aver stampato…) 300 copie dei Drafts and Fragments che andarono subito
a ruba. Per Laughlin si trattò di un’edizione disgustosa, ma fu il volano perché
New Directions desse il via all’edizione autorizzata che noi conosciamo. Una
curiosità: c’è stato anche uno studioso come Joshua Kotin che si è messo sulle
tracce delle 300 copie per cercare di “mapparle” (finora è riuscito a
rintracciare il destino di 152 esemplari)8.
Una nota a margine. L’intervista di Pound con Hall fu pubblicata nel
prezioso Per conoscere Pound9 e offre molti spunti sugli ultimi pensieri del
poeta. Pound ricordava come un poeta dovesse avere «una curiosità continua»,
come l’artista «dovesse continuare a muoversi». Non dissimile il suo consiglio
per i giovani. A suo parere andavano incoraggiati a “migliorare la loro
curiosità” senza fingere,
> “ma ciò non basta. La pura registrazione del mal di pancia, il solo svuotare
> il cestino non basta. Infatti la coppa di ponce degli studenti dell’Università
> di Pennsylvania aveva come motto: «Qualsiasi cretino può essere spontaneo»”.
Nel corso della conversazione Pound ammetteva le sue difficoltà a concludere
i Cantos con un paradiso:
> “È difficile scrivere il paradiso quando tutti i segni superficiali dicono
> che dovresti scrivere un’apocalisse. È più facile trovare abitanti per
> l’inferno o anche per il purgatorio. Sto cercando di riunire e fissare i più
> alti voli della mente…”
*
La verità sta nella tenerezza
Pur con queste drammatiche premesse, gli ultimi frammenti di Pound restano tra i
momenti più alti della sua poesia. Sono l’esame di coscienza di un grande
dolente all’epilogo della vita. Sono le illuminazioni piene di tenerezza di un
uomo che ha inseguito l’arte (rinnovandola) in ogni istante della sua vita. Che
ha visto da vicino la bellezza, la morte e la disperazione. È un poeta in cerca
di «una quieta dimora», di «un amato e quieto paradiso» e che, come scrive
nel Canto 110, riesce a vedere con occhi di «corallo o turchese». È una
scrittura difficile, ma allo stesso tempo carica di accensioni ed epifanie.
Ritornano i luoghi cari, dalla Liguria a Venezia, gli affetti, gli eletti da
inserire nel paradiso (Mozart, Agassiz e Linneo), i versi perfetti segnati dalla
lunga confidenza con l’Estremo Oriente: «Il mare oltre i tetti, ma sempre mare e
promontorio. / E in ogni donna, pur fra l’acredine c’è una tenerezza, / Una luce
azzurra sotto le stelle».
È un poeta che, come tutti i grandi poeti, dona sentenze memorabili che
racchiudono un mondo: «La verità sta nella tenerezza». Ritorna il tema
dell’umiltà, così presente nei Pisani, perché è «un uomo che cerca il bene, / e
fa il male», ed è consapevole che «la bellezza non sta nella pazzia / Anche se
cocci ed errori miei mi circondano. / E non sono un semidio, / Non riesco a
dargli un nesso. / Se in casa l’amore manca, manca tutto».
E, ancora, «Ammettere l’errore e tenere al giusto: / Carità talvolta io l’ebbi,
/ non riesco a farla fluire. / Un po’ di luce, come un barlume / ci riconduca
allo splendore ora».
Un poeta della sensibilità di Giovanni Raboni colse al volo la grandezza di
questi frammenti. Nell’introduzione alla bellissima edizione Guanda preparò una
memorabile pagina di accompagnamento, in cui tra l’altro affermava:
> “Col passare del tempo, la grandezza della poesia di Pound mi appare sempre
> più evidente, solitaria e indimostrabile. A volte ho l’impressione di trovarmi
> solo a contemplarla, e mi prende il timore che, a chi me ne chiedesse conto,
> non saprei rispondere che con un gesto di rinuncia o una parola di sgomento.
> Altre volte, è come se questa grandezza mi fosse stata rivelata in sogno, e il
> suo segreto, la sua prova scomparissero, si dissolvessero ogni mattina con
> l’avvento della luce… […] Ma ecco, intanto, una buona occasione per rileggere,
> e ripensare, Pound: questi stupendi Drafts & Fragments, che… hanno il grande
> merito o vantaggio di mostrarci un Pound anche praticamente in bilico e
> tensione fra “poema” e “frammento”, fra la drammatica, impossibile ricerca
> dell’unità e della compiutezza e l’esaltante vitalità della dispersione,
> dell’esplosione, del molteplice. Insomma, un Pound ancora più fortemente e
> visibilmente “potenziale” – sino al puro abbozzo, al puro appunto stenografico
> –, ancora più vicino del solito a quello stato di energia pura, non incarnata
> né incarnabile una volta per tutte, che costituisce la verità più profonda (il
> segno – il sogno – più vero) della sua grandezza”.
Il parere di Raboni si accorda perfettamente a quanto scrisse Ford Madox Ford
per l’opuscolo che accompagnò la pubblicazione americana di XXX Cantos nel
1933:
> “La prima parola da dire sui Cantos è bellezza. E l’ultima sarà bellezza. La
> loro straordinaria incomparabile bellezza. Formano una storia del mondo senza
> eguali vista da queste coste che sono la culla della nostra civiltà… E una
> sola cosa è necessaria alla nostra società più della Storia. Ed è che ci sia
> da qualche parte un’opera d’arte o qualcuno che produce un’opera d’arte che
> ogni volta che la visiti susciterà infallibilmente in te delle emozioni.
> Questo è quanto fanno i Cantos”.
E per avere la misura di questa tersa grandezza forse non c’è modo migliore che
riportare alcuni luminosi frammenti della versione finale dei Cantos scelta da
Mary de Rachewiltz:
“Ho provato a scrivere il Paradiso
non ti muovere,
lascia parlare il vento
così è Paradiso
Lascia che gli Dei perdonino quel che
ho costruito
Chi ho amato cerchi di perdonare
quello che ho costruito
[…]
Uomini siate non distruttori”.
Alessandro Rivali
1 Sulla vicenda si veda il recente Luca Gallesi, Ezra Pound a Pisa – Un poeta in
prigione, Ares, Milano 2024. Per un inquadramento a tutto tondo degli ultimi
anni di Pound: A. David Moody, Ezra Pound: poet, vol. III, The Tragic Years
1939-1972, Oxford University Press, Oxford 2015.
2 New Directions, New York 2003.
3 A. Rizzardi, La maschera e la poesia in Ezra Pound, in Canti Pisani di Ezra
Pound, Guanda, Parma 1953, p. XXIII.
4 G. Livi, “Vi parla Ezra Pound: Io so di non sapere nulla”, intervista con Ezra
Pound, Epoca, n. 652, 24 marzo 1963, pp. 90-93.
5 M. Bacigalupo, L’ultimo Pound, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1981, p.
525.
6 P. Stoicheff, The Hall of Mirrors: “Drafts & Fragments” and the End of Ezra
Pound’s “Cantos”, University of Michigan Press, Michigan 1995.
7 Commento a Stesure e frammenti dei Cantos CX-CXVII, in E. Pound, I Cantos, a
cura di Mary de Rachewiltz, Meridiani Mondadori, Milano 1985, p. 1629.
8 Sulla vicenda, l’articolo dello stesso J. Kotin “The Fuck You Press Cantos: A
Census”, realitystudio.org/bibliographic-bunker/fuck-you-press-archive/the-fuck-you-press-cantos-a-census/
9 A cura di Mary de Rachewiltz, con un saggio introduttivo di M.L. Ardizzone,
Mondadori, Milano 1989.
L'articolo “La verità sta nella tenerezza”. Gli ultimi Cantos: il testamento di
Ezra Pound proviene da Pangea.