Ne nacque un affare diplomatico. Nel 1968, per L’Herne di Dominque de Roux,
l’editore dei reprobi, Witold Gombrowicz aveva pubblicato un saggio Sur
Dante (uscito, in Italia, da Sugar nel 1969 e da Dante & Descartes nel 2017). In
direzione contraria ai pur formidabili libri del genere – chessò, i saggi
danteschi di Thomas S. Eliot e Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam –,
Gombrowicz scrive che Dante non gli pare granché; la Commedia, poi, è una boiata
pazzesca. Davanti a Piero Sanavio, indimenticato giornalista hemingwayano,
Gombrowicz rincarò la dose:
> “Se Dante mi annoia e se mi considero superiore a lui, lo affermo senza paura:
> è un mio diritto”.
(A proposito: vale la pena ristampare lo studio di Sanavio edito cinquant’anni
fa da Marsilio, Gombrowicz: la forma e il rito, è più brillante di troppi,
mortificanti saggi odierni, è fitto di frasi bellissime, come questa:
“Gombrowicz vivo l’ho sempre incontrato in giornate di pioggia”; il polacco,
d’altronde, scriveva con furia d’acquazzone).
Giuseppe Ungaretti s’incazzò e scrisse a De Roux una lettera piena di spine (“Il
libretto su Dante di quel polacco è vergognoso. È un fatto senza senso, idiota,
che questa calunnia sia stata stampata”); nel Diario, Gombrowicz annota:
“l’addetto dell’ambasciata italiana a Parigi ha annunciato una sua visita”.
Siamo nel 1969; Witold morirà poco dopo; per L’Herne era da poco apparso
un Cahier dedicato a Ungaretti, a cura di Sanavio.
La disfida – diciamo così – tra Gombrowicz e Dante durava da qualche anno. Già
nel 1966 Gombrowicz squartava il Poeta con caustica acribia:
> “La Divina Commedia non mi basta. Vi cerco Dante senza trovarlo… A scuola e a
> casa ci hanno insegnato solo a rispettarli e venerarli, mentre in realtà il
> nostro rapporto verso i Grandi è di due tipi: da un lato ci prosterniamo e li
> adoriamo, dall’altro li trattiamo con condiscendenza e disinvoltura”.
Comprendiamo l’euforica ira di Gombrowicz: l’anno prima, a Firenze, si era
celebrato il trionfo di Dante; scoccavano i settecento anni dalla sua nascita.
Saint-John Perse, il poeta e diplomatico francese, diplomato Nobel nel ’60,
tenne un discorso inaugurale, Pour Dante, prontamente stampato da Gallimard;
c’era anche Ungaretti, a rimarcare l’abissale grandezza dell’Alighieri. A
Gombrowicz irritava l’atteggiamento ossequioso – e ipocrita – dei poeti verso il
Poeta. Della Commedia, non salvava neanche l’Inferno:
> “I tormenti dei suoi dannati sono talmente rozzi, poveri, logorroici! E tutti
> quei predicozzi enunciati tra un tormento e l’altro…”.
Questo andazzo da Lucignolo – o, per restare in tema dantesco, da Cecco
Angiolieri – celebra, sotto la superficie, un’idea guerresca della letteratura,
mai assisa sugli allori – sui quali, invece, in perpetua acquiescenza, ronfano i
critici sornioni e i poeti in carriera. La stessa idea, in fondo, è professata
da Leopardi nelle Operette morali, dove si dice (siamo all’altezza del Parini o
della Gloria) che le opinioni dei critici e degli storici sono corrotte da
“consuetudine ciecamente abbracciata”. I lettori non mettono mai in discussione
ciò che le accademie e il pregiudizio impongono; eppure, i grandi scrittori,
proprio perché tali, devono essere interrogati e sfidati di continuo, fino a
sfrattarli dal trono. Così – è ancora Leopardi – “a me interviene non di rado di
ripigliare nelle mani Omero o Cicerone e il Petrarca e non sentirmi muovere da
quella lettura in alcun modo”.
Per continuare sulla scia del Gombrowicz “leopardiano”, bisogna
leggere il Diario (ora in unico tomo per il Saggiatore, nella traduzione di
allora, di Vera Verdiani, quando lo stampava Feltrinelli, in due tomi, usciti
nel 2004 e nel 2008; medesima anche l’introduzione di Francesco M. Cataluccio, a
parte lievi modifiche nel primo paragrafo) dal fondo, dalla formidabile
allocuzione Contro i poeti. Gombrowicz ridicoleggia lo statuto dei poeti che
“ormai non cantano più per la gente, ma per se stessi”, stigmatizza “il poeta
come un essere che non può esprimere se stesso perché è costretto a esprimere la
Poesia”. In sostanza, il Witold scatenato sbugiarda l’idolo della Letteratura,
la menzogna della Cultura. Scrivere, dice Gombrowicz, vuol dire azzerare tutto,
soprattutto se stessi, fare della penna il proprio plotone di esecuzione,
rifuggire dai riti dei letterati e dai premi, rifulgere nella rinuncia.
Contro i poeti era stato preparato per un discorso pubblico accaduto a Buenos
Aires nel 1947; trasferitosi nella capitale argentina dal 1939, Gombrowicz ha
scritto lì, da reietto, da “eremita sepolto vivo in Argentina”, le pagine più
violente del Diario. Malsopportava Victoria Ocampo, “un’anziana aristocratica
piena di milioni”, e i galoppini d’intelletto fino che ronzavano intorno a “Sur”
– Paul Valéry, Bernard Shaw, Keyserling – galvanizzati da “quell’insistente
sentore di soldi aleggiante attorno alla signora”. Impossibile per uno scrittore
“affascinato dagli strati inferiori del paese” entrare in contatto con Borges,
> “un artista che il caso aveva fatto nascere in Argentina, ma che avrebbe
> potuto altrettanto bene, e forse meglio, essere nato a Montparnasse”.
Il Diario di Gombrowicz è tutt’altro dai pur mirabili Journal che i francesi
hanno prodotto a frotte – quelli, ad esempio, di André Gide, di Marcel
Jouhandeau, di Julien Green. Lì la suprema raffinatezza rispecchia l’impero
dell’egotismo, l’energia di una schifiltosa interiorità; qui, invece, è
l’audacia dell’individuo che dilania se stesso, sono le dighe disintegrate, i
tombini bombardati, il dio del caos in casa. Gombrowicz disprezzava la
letteratura dello show, la letteratura “sfrattata dallo spirito individuale”,
che
> “diventa preda di fattori extra-spirituali e puramente sociali. Premi,
> concorsi. Celebrazioni. Associazioni professionali. Editori. Stampa. Politica.
> Cultura. Ambasciate. Convegni”.
Il Diario è un antidoto a quest’epoca esangue, retta dall’autocensura e dal
perbenismo della correttezza. In spiaggia, per dire, a Piriápolis, Uruguay, è il
1962, Gombrowicz inveisce contro le grasse, contro lo “svaccato stravaccamento
di quello schifo sfacciatamente sfrontato”, quel “donnesco baobab di donna dal
debordante didietro… e chi lo trova un macellaio capace di venirne a capo?”.
Terrorizzato dai grandi numeri – che annientano l’io allo sbadiglio, a uno
sbaglio, allo zero – Gombrowicz disorienta il mito della fedeltà coniugale: come
faccio ad amare un’unica donna se “non so chi sono io” e lei è
> “una delle tante femmine che abitano il globo terrestre, una delle tante
> vacche… un miliardo di vacche, un miliardo di femmine?”.
Ha scritto che “l’arte è aristocratica fino al midollo, come un principe di
sangue reale. È negazione dell’uguaglianza e culto della superiorità”. Resta il
fondatore di un’eresia letteraria senza seguaci – per chiunque scriva, Witold
Gombrowicz è un San Paolo: ci ha messo la croce addosso, aprendoci la via del
tormento e della gloria.
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tutti proviene da Pangea.
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Sarebbe impossibile, oggi, definire Suor Juana Inés de la Cruz “una delle
supreme figure simboliche in cui le donne moderne si sono riconosciute”. Eppure,
così attaccava la ‘quarta’ delle Poesie di questa singolare e ineffabile
personalità, tradotte da Roberto Paoli per la Bur nel 1983. Il libro –
naturalmente, verrebbe da dire – fa parte di un’eternità non più libraria, è
scomparso da cataloghi e scaffali; l’autrice è ormai un’innocua nota nei libri
di storia, una chiosa capretta, tanto che pare paradossale l’enfasi con cui
veniva presentata, allora:
> “Voleva vivere in perfetta solitudine, leggendo, studiando e scrivendo, senza
> essere disturbata dal tumulto della vita. ‘Il mio calamaio è il rogo nel quale
> devo bruciarmi’, scrisse stupendamente. Pochi uomini possono vantare una così
> adamantina, superba, disperata tensione intellettuale come questa suora
> messicana: sognava di essere androgina, di dimenticare il suo sesso e ogni
> sesso, il suo corpo e l’intero regno dei corpi, tutte le vicissitudini delle
> sensazioni e dei sentimenti”.
Anche il libro Einaudi che raccoglie i Versi d’amore e di circostanza di Juana –
uscito nella ‘bianca’ nel 1995, a cura di Angelo Morino – risulta “non
disponibile”. Peccato perché i versi di questa donna astrale, estranea al tempo,
che fu dama d’onore della viceregina, carmelitana scalza per una manciata di
mesi, poi affiliata all’ordine di San Gerolamo, temuta per spregiudicato
intelletto, di glaciale bellezza, sono tra i più alti dell’epoca, tra i più
belli mai scritti in lingua spagnola. Rimedieremo.
Chissà quali sono le “figure simboliche” in cui oggi si riconoscono le “donne
moderne”… Non credo che Suor Juana possa essere addomesticata in simboli e in
slogan: la sua mente, ferina, spaura; la sua libertà è violenta. Infine, si
liberò della biblioteca – che contava oltre 4mila volumi, spesso ‘proibiti’ se
non proibitivi – e degli strumenti musicali, che sapeva armeggiare. Chiuse anche
con gli strumenti scientifici con cui si lambiccava, giocando all’alchimia –
morì, troppo giovane, troppo altra, neppure cinquantenne, nel 1695, a causa di
un’epidemia (si dedicò a curare le inferme, subendone il contagio). Leggeva, tra
gli altri, Athanasius Kircher. A tratti, Suor Juana pare una delle donne dipinte
da Zurbarán: Sant’Agata o Santa Elisabetta del Portogallo, evanescenti e feroci,
con quel volto giaguaro. In lei, l’arguzia di Santa Teresa si svolge nell’aquila
di Tenochtitlán: un’intelligenza dagli artigli tesi. Per darle giustizia ci
vorrebbe la penna di Cristina Campo.
Perfino Samuel Beckett restò stordito dalla voracità linguistica di Suor Juana.
Su ispirazione di Octavio Paz – che a Suor Juana dedicò parte della sua vita da
studioso: Suor Juana o le insidie della fedecampeggiava, nel 1991, in catalogo
Garzanti, ora si trova nel mercato alternativo – cominciò a tradurla. L’esito
del suo lavoro – che contempla altri autori del Seicento come Bernardo de
Balbuena e Juan Ruíz de Alarcón – fu pubblicato nel 1958 dalla Indiana
University Press come An Anthology of Mexican Poetry transleted by Samuel
Beckett. Nel 1994 l’antologia è stata ripubblicata da Grove Press. Il libro è
smilzo, sobrio, ‘beckettiano’: nell’ala compare – guarda un po’ – Suor Juana,
nel ritratto di Miguel Cabrera: “Posseduta da un’ardente curiosità
intellettuale, ha difeso con forza il proprio diritto alla conoscenza, la
propria sete di sapere, scrivendo, tra l’altro, liriche di rara bellezza”.
Il 1958 è un anno importante per Beckett: traduce L’innominabile in inglese,
scrive Acte sans Paroles, L’ultimo nastro di Krapp, Finale di partita. L’anno
dopo il Trinity College lo investe del dottorato honoris causa. Credo che
Beckett, in quel lotto di anni, sia stato invaso dal linguaggio di Suor Juana:
esuberante, è vero, ma che esorbita fino ai confini dell’indicibile,
dell’annientamento, per eccesso, di ogni lemma. Come sfregare due pietre d’oro
perché accada una fiamma: è bianca, sa di acqua. Eppure – a dire
dell’insignificanza di Suor Juana nei perigli della cultura d’oggi – non c’è
cenno della Anthology of Mexican Poetry nel formidabile ‘Meridiano’ dedicato
a Romanzi, teatro e televisione di Beckett. Eppure, è opera in cui coincidono –
rarità al cubo – due futuri premi Nobel per la letteratura: Paz otterrà l’alloro
nel 1990, ventuno anni dopo Beckett. Il punto di giunzione tra l’irlandese e il
messicano è Antonin Artaud: credeva in misteriose analogie tra i Tarahumara,
“razza di uomini perduti” nei recessi del Messico, e la civiltà delle Aran, tra
il peyote e Bachall Isu, il mitico bastone di San Patrizio custodito – e poi
bruciato – a Dublino. Soprattutto, modellò il linguaggio fino a farne magia,
formula ipnotica.
Ad ogni modo, ecco come Samuel Beckett rende uno dei sonetti più noti di Suor
Juana, Éste que ves, engaño colorido:
Questo frainteso a colori che tanto ammiri,
vanagloria dell’eccellenza artistica
non è che una furba frode dei sensi
in fallaci sillogismi di pittura;
questo, dico, adulazione da becchino
che estenua l’odioso orrore degli anni,
vaniloquente sconfitta degli oltraggi del tempo
trionfo sull’oblio e sulla vecchiaia,
è vano artificio della dedizione
è fragile fiore al vento
è inutile santuario del fato
sordida inerte opera vana, conquista
che svanirà, ben fatta, certo, nient’altro
che carcassa e polvere, ombra e nulla.
Questa la traduzione, adesiva, di Paoli:
Questo, che vedi, colorato inganno
che dell’arte ostentando le bellezze
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dei sensi malizioso;
questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggendo del tempo i rigori
trionfare sugli anni e sull’oblio,
è un artificio vano della cura,
è un fiore molto gracile nel vento,
è un inutile scudo contro il fato:
è una sciocca pazienza delirante,
è un affanno fugace e, a ben guardare,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.
Un sapiente drammaturgo dovrebbe figurarsi il giorno in cui Samuel Beckett
incontrerà Suor Juana – le chiederà di ispezionare la sua calotta cranica,
riconoscendo gli stessi ghiacciai, un padre chiamato Antartide. Dopo averle
baciato le dita, è ovvio – rese al giglio e all’acciaio, fatte iena.
***
Da Primero sueño
Venere era, Venere
per prima della bella stella
del mattino adorna
brillò lungo l’alba
arcigna sposa del vecchio Titone.
Amazzone di ardore rivestita
armata contro la notte
fatata e fatale
pianto di malinconia pianta
e mostra l’amabile fronte
tra i ramificati bagliori del mattino
tenero ma ferino araldo
dell’astro feroce
che viene, che viene
schierando gli scherani
e gli arcieri bagliori
la retroguardia
di venerande veterane luci
contro di lei, tiranno usurpatore
dell’impero del giorno, mentre
cinghie di neri tuoni
trafiggono le ombre nottambule
fino ad atterrirla.
Ma lei è bella, lei è l’avanguardia
dell’araldo del sole
che sventola il palio a Oriente
e chiama alle armi le mere, bellicose
genie dei rapaci:
che sia ingenua la loro fede
sonora come quella delle trombe
quando il tiranno, in rotta, trema
sconvolto da cupi presentimenti
e si sforza di elencare la sua leggendaria
potenza e controbatte con il funebre
mantello le infallibili
falci di luce
ed è vano il valore
della disperazione, futile
ogni resistenza, così inclina
alla fuga, unica via di salvezza
e il rauco corno erutta
e i neri battaglioni
retrattili in geometrica ritirata.
Ma una più arcana pienezza
di raggi squarciò le più alte cime
le torri del mondo. Il sole
recluso nel suo girovagare
rende oro l’azzurro
raggi di luce virginea
incidono il ceruleo cranio del cielo
si abbattono su quella
funesta tirannia.
E lei fugge e lei inciampa
nei suoi stessi orrori
calpesta la sua ombra:
cieca fuga, luce che avanza
luce che incalza, che sfonda
il limite occidentale e la sfigura.
Ma la caduta la vivifica
la rovina la imbeve di una
rinnovata ribellione
e in quella parte di mondo
ignara del giorno
indossa ancora la corona
mentre nel nostro emisfero
il sole scuote la criniera
conferendo a ogni cosa
il suo degno colore
affidando agli ancoraggi
della luce il mondo – ora
tutto è luce e posso destarmi.
Versione di Samuel Beckett
L'articolo “Voleva vivere in perfetta solitudine”. L’incontro tra Samuel Beckett
e Suor Juana Inés de la Cruz proviene da Pangea.
Negli Venti, ventenne, gli accade tutto – i germi dei romanzi che saranno, il
futuro che ti cuce gli occhi.
Nel 1921 fa speleologia tra i documenti genealogici di famiglia; penetra nel
Seicento, entro scritture vaghe, in eccesso, caravaggesche (“un enorme romanzo
concepito e in parte febbrilmente compilato tra i miei diciotto e ventidue
anni”, scrive lei), che costituiscono il primo nucleo de L’opera al nero.
Una prima visita a Villa Adriana, nel 1924, la porteranno a concepire il suo
libro più importante, le memorie del grande imperatore romano, che uscirà quasi
trent’anni dopo, nel 1951.
*
Quasi a dire: maturità, per un artista, non è che confidare nelle apocalissi di
gioventù.
Il difficile è riconoscere di avere avuto una giovinezza – e a quale equatore.
Quella è l’alleluia, lo squillo. È in virtù di quelle aspirazioni che si è nel
sempre, negli elisi della scrittura. Il sommo peccato: eludere le passioni
diciottenni.
Certo: è lavoro, a strascico, di riscrittura, un cancellare che può dirsi
commiato. Raffinare vuol dire crocefiggersi – che l’antica colonna divenga,
finalmente, palmeto, prato.
*
Nouvelles orientales è il primo libro che Marguerite Yourcenar pubblica per
Gallimard. È un libro strano, voluto da Paul Morand per la collana ‘La
Renaissance de la nouvelle’, “atta a promuovere un genere, il racconto,
ingiustamente screditato”. Nel 1929 Yourcenar aveva esordito alla prosa
con Alexis ou le Traité du vain combat: quel libro – lieve, onirico, inaudito,
che parlava del “problema della libertà sensuale in tutte le sue forme” come
“problema di libertà d’espressione”, cioè della forma che il corpus scritto
prende in relazione al corpo fisico – era piaciuto a Morand. Nel ’35, propose a
Yourcenar un contratto.
*
Per Yourcenar è comune ritornare sullo stesso libro più volte, è per lei
importante patire il libro. Riverirlo fino alla dissacrazione.
Ritornare – senza levare un rigo – oppure: mai cheti, con la katana.
*
Nell’edizione del 1938, Novelle orientali è aperto con un racconto
d’ambientazione indiana, Kâli décapitée. È il primo del ciclo scritto da
Marguerite: in origine, è pubblico su “La Revue européenne”, nel 1928; sarà
drasticamente riscritto. Il testo è, a suo modo, bellissimo. Kali, ora “orribile
e bella”, è stata decapitata dagli dèi, incapaci di reggerne l’innocente
purezza: hanno assemblato il suo cranio sul corpo “di una prostituta condannata
a morte per aver tentato di turbare le meditazioni di un giovane Bramino”. Di
lì, l’irresoluta brama della dea, l’estro per l’abiezione, l’onnipotenza del
corpo:
> “Kali è abietta. Ha perduto la sua casta divina a forza di concedersi ai
> paria, ai condannati, e il suo viso baciato dai lebbrosi si è coperto di una
> crosta d’astri… Triste come un febbricitante che non riesca e procurarsi acqua
> fresca, va di villaggio in villaggio, di crocicchio in crocicchio alla ricerca
> delle solite squallide delizie”.
Il dialogo con un saggio, “Maestro della grande compassione”, le fa capire che
la lussuria nella miseria è già una parabola ascetica.
> “Forse, donna senza felicità, errando disonorata per le strade, sei più
> prossima ad accedere a ciò che è senza forma… Il desiderio ti ha insegnato la
> vanità del desiderio”.
Sembra la storia dell’idiota, la “vergine che simulava la follia e il demonio”,
narrata da Palladio nella Storia lausiaca e ripresa, con enfasi, da Michel de
Certeau in Fabula mistica. Quella donna, innominata, è “la spugna del
monastero”: svolge i servizi più miseri, mangia delle briciole, dei resti che le
sono offerti senza sedere a mensa, viene “battuta, ingiuriata, caricata di
maledizione e trattata con ripugnanza” dalle consorelle. In qualche modo, la
folle cerca questo tipo di trattamento, si erge capro d’espiazione. In realtà, è
lei, l’idiota, l’eletta, la “più religiosa”, secondo le parole dell’angelo. Un
monaco, allora, va a cercarla, ad obiettare all’ovvio.
Nel caso di Kali, l’offesa – l’impotenza nell’esercizio della potenza – è più
radicale. Presa da “vera furia contro tutto ciò che vive”, si dà a “uno scemo
che sbavava seduto sul ciglio di un letamaio”; svolta la propria connaturata
divinità in oscenità e orrore. Nessun dio può salvare quella perduta dea, nessun
angelo la addita, nessun uomo la addomestica.
Divinità che diviene nulla – divinità avvilita, avvolta nell’errare – “sono
stanca”, sussurra – che è poi dire, ho sete.
*
L’Oriente di Yourcenar ha poco a vedere con l’orientalismo di Pierre Loti o di
Nerval, con le poesie ‘cinesi’ di Victor Segalen, con le visioni indiane di
William B. Yeats; Marguerite non segue la via degli avventurieri anglofoni del
linguaggio: da Ezra Pound – che con Cathay fonda il ‘modernismo’ lirico – a T.S.
Eliot – affascinato dal buddismo –, da Arthur Waley a Amy Lowell. Assente, in
lei, il ‘gusto’ di Goethe per l’Islam, la ferocia di Kipling, gli incensi di
Edward FitzGerald, le audacie da neoconvertito (da colono o da pioniere che
sia). Yourcenar passeggia, apolide a ogni tempo, a ogni civiltà, e osserva:
questa esclusione – come nel caso della Roma antica, delle Fiandre
rinascimentali – le permette esclusività di sguardo. Non vuole ‘dare voce’, non
vuole dare una ‘visione del mondo’: registra istanti, riferisce chiacchiere,
rifiata leggende – c’è una dignità nuova in questo scrivere con la brocca,
mettendo acqua dove il muro è crepato. Questo, ha permesso a Marguerite di stare
da straniera tra le aule dell’Accademia di Francia: come alla corte di Praga,
trecento anni prima, ad Avignone nell’era dei contro-papi, tra le sibille
sillabiche di Erode quando fu promulgato di decollare Giovanni, a Micene, a
quell’epoca di maschere d’oro.
In sostanza, estranea perfino a una qualche storia della letteratura.
*
Antonia Arslan, scrivendo delle Novelle orientali, ha scritto che “è tutto
portento di stile”, ha scritto “di una scrittura corrusca e sfumata, capace di
realismi brutali e di languori sovrannaturali”. Dei dieci racconti, la Arslan
preferisce L’ultimo amore del Principe Genji, scritto per “colmare” una
reticenza lasciata lì, come un fazzoletto caduto, da Murasaki Shikibu, la
splendida narratrice del Genji Monogatari. In un passo di particolare potenza,
Genji, quel “don Giovanni asiatico di stile eccelso”, dice:
> “Sto per morire… Non mi lamento di un destino che condivido con i fiori, con
> gli insetti, con gli astri. In un universo dove tutto passa come un sogno, non
> ci perdoneremmo di durare per sempre. Non mi addolora sapere che le cose, gli
> esseri e i cuori siano perituri, dal momento che una parte della loro bellezza
> è fatta di questa sciagura. Ciò che mi affligge è che siano unici”.
Nel 1981 Yourcenar consolida il suo legame con il Giappone pubblicando un libro
affatto diverso, Mishima ou la Vision du vide. Yukio Mishima, quel tragico,
inafferrabile Genji… Di lui, tre anni dopo, Marguerite traduce Cinq nôs
modernes: “opera di un poeta autentico… che riguarda, in modo a tratti
sconvolgente, la nostra stessa vita”.
*
Nell’anno in cui pubblica Novelle orientali, traduce per Stock Le onde, il
romanzo di Virginia Woolf.
Sono anni fertili. A Capri, in poche aggraziate settimane, Marguerite scrive Il
colpo di grazia, uno dei suoi libri più belli e più inquieti. Ambientata durante
la Prima guerra, quella storia, residuo del ricordo di un ricordo che “si ispira
a un avvenimento autentico”, forse per quell’amore mutilo e muto, per il
risentito frainteso, per quella sprezzante atmosfera onirica, per il confidare
nell’impossibile, è così cruda da sembrare un diamante. Regge il confronto con i
romanzi più noti ed elaborati.
Soprattutto, nel ’36 pubblica, per Grasset, Fuochi, quel libro inattuale, “nato
da una crisi passionale”, di monologhi e feticci lirici, “una raccolta di poesie
d’amore o, se si preferisce, una serie di prose liriche collegate fra di loro
sulla base di una certa nozione dell’amore”. Il libro, dedicato A Hermes, viene
redatto nel 1935, a Costantinopoli, durante un viaggio compiuto con André
Embricos, poeta e psicoanalista a cui sono dedicate le Novelle orientali. È
vero: Fuochi è un libro a parte, è un libro per dipartiti, che Yourcenar tenta,
con levigata malizia, di disconoscere (“appartiene a quella maniera tesa e
ornata che fu la mia per un certo periodo”); è da quella stessa tempesta – per
rifrazioni e chiaroscuri e discordie – che nasce Novelle orientali. Tra i
testi-emblema, Nostra Signora delle Rondini. Yourcenar racconta la lotta tra il
monaco Terapione e un lotto di Ninfe superstiti, che confondono i contadini
neoconvertiti, che riportano l’uomo alle ragioni del fango e dell’umore terreno,
dell’amore e dell’ardore. Terapione riesce a murare le Ninfe in una grotta,
occlusa dalla sua cella; Maria, la madre del Nazareno, gli appare perché le
liberi.
> “Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e
> ai greggi delle capre?… Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di
> dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei
> boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan?… Non esaltare, come i
> pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno
> per la Sua opera”.
Tra le mani di Maria, le Ninfe sono mutate in rondini. Nella fiaba, si racconta
il punto di giunzione tra Atene e Gerusalemme, tra Cristo e Dioniso.
*
Nel perimetrare gli enigmi, nel decrittare i miraggi – secondo una strategia che
sarà anche di Pavese, nei Dialoghi con Leucò –, Yourcenar non scrive
propriamente ‘racconti’. In quell’arte, gli eccellenti sono Hemingway e Čechov,
Maupassant e la O’Connor, scrittori in grado di ‘dare la vita’. No, a Marguerite
non importa il vero, tanto meno il verosimile – si affratella ai fatti scorgendo
il prodigio. Imbraccia la fiaba, appunto, secondo i toni, ad esempio, di Hugo
von Hofmannsthal.
In Fuochi, incideva nella carne:
> “Non ho paura degli spettri. I vivi sono terribili soltanto perché hanno un
> corpo.
>
> Non esistono amori sterili. Le precauzioni non servono a niente. Quando ti
> lascio, il dolore sta a fondo del mio essere come una specie di orribile
> figlio”.
Nelle Novelle orientali: ombre sul paravento, sciacalli di tela, sagome in
ginocchio, apparizioni nel ghiaccio. Ci si libra, liberati, come su aquiloni.
*
La categoria del contemporaneo non si attaglia a Marguerite – in Adriano
ausculta i tremori di un’era; in Zenone il palpito dell’uomo totale; in Anna le
estasi della reclusa d’amore. Di anima in anima, va, come le api di fiore in
fiore – a noi resta il venefico miele, questo opale dolcissimo. Lei, la
scrittrice, inattingibile, lascia di sé una zuccherina traccia di cenere.
*
Le Novelle orientali sono ispirate, per lo più, da un viaggio in Grecia.
L’Oriente di Marguerite contempla Bisanzio e i Balcani, l’India, il Giappone,
Amsterdam.
In Italia, Novelle orientali esce nel 1983, per Rizzoli, tradotto da Maria Luisa
Spaziani, testimonianza di una ineffabile incomprensione. Nell’edizione
definitiva del libro, quella del 1963, Yourcenar incenerisce alcuni testi (Les
emmurés du Kremlin), muta alcuni titoli, cambia l’ordine delle apparizioni. Il
primo racconto non parla più di Kali, ma di Wang-Fô, il vecchio pittore taoista
che contemplava gli astri di notte e le libellule di giorno. Questo
straordinario pittore, che con il talento riesce a rendere straordinariamente
vivido il mondo, riesce a salvarsi dalla crudeltà dell’Imperatore prendendo il
largo, su una piccola barchetta, tra i meandri di una sua opera. L’Imperatore
pensò di ucciderlo: non accettava che il mondo non fosse bello come i dipinti
del vecchio Wang-Fô.
L’ultimo racconto, La tristezza di Cornelius Berg – nell’edizione del ’38: Les
tulipes de Cornélius Berg – parla di un “vecchio pittore di ritratti”, “oscuro
contemporaneo di Rembrandt”, ritratto mentre la malinconia, artigliata, lo
logora. Aveva fatto successo in Italia, Cornelius, aveva viaggiato per
“l’Oriente sordido” e dipinto il Sultano a Costantinopoli: non riesce ad
appassionarsi ai turgidi tulipani ostentati per lui dal Sindaco di Haarlem.
L’artista, il cui talento è ormai calcificato nell’abitudine, si rammarica che
Dio, “il pittore dell’universo”, non si sia limitato a creare paesaggi; gli
uomini gli sembrano orrendi. Wang-Fô, al contrario, riesce a penetrare la natura
delle cose, fino a sfatare le distanze tra verità e finzione, perché ogni
singolo elemento del cosmo – che siano i capelli di una donna, un ciottolo e un
insetto, la sciarpa che fluttua al collo di un impiccato e “il fiore esposto al
vento caldo e alle piogge d’estate” – gli sembra immenso, glorioso, degno. Anche
a lui, allora, è dato sparire in quella spaventosa magnificenza, felice.
In questo gioco di assennate asimmetrie, è bene intuire una poetica. Poi, anni
dopo, verrà Adriano, che è poi un modo per dire Occidente, i suoi valli, la
barbarie, la balbuzie, la bellezza.
L'articolo “Il desiderio ti ha insegnato la vanità del desiderio”. L’Oriente
secondo Marguerite Yourcenar proviene da Pangea.
In una fotografia scattata probabilmente nel 1932 – così dice la nota della casa
d’aste che l’ha venduta – René Daumal, sdraiato sopra un casotto, sembra
precipitare. Ha le braccia aperte, gli occhi e la bocca serrati, in estasi: lo
sorregge, da sotto, fiera della propria incertezza, Véra Milanova, che all’epoca
non è ancora sua moglie. René pare un angelo in volo contrario, ad arare il
cielo; siamo in un parco cittadino, gli alberi spettri; nel casotto, chissà, ci
sono degli attrezzi per il giardinaggio – forse è rinchiuso un centauro.
Dieci anni prima, al liceo di Reims, insieme a un paio di compagni, Roger
Gilbert-Lecomte e Roger Vailland, Daumal animava i “Phrères simplistes”, una
società iniziatica, una sorta di setta dei poeti estinti, che intendeva
dischiudere i mondi grazie al potere lisergico del linguaggio. Il padre di René,
Léon, era un professore, di fede socialista; il nonno, apicultore,
anticlericale, stregone alla bisogna. L’Alchimie du Verbe di Rimbaud fornì a
Daumal un ‘codice’ per stare al mondo:
> “Mi piacevano le pitture idiote… la letteratura fuori moda… racconti di fate,
> libretti per bambini… credevo a tutti gli incanti”.
Nel 1932 René Daumal ha già esperito tutto: non gli resta che espiare,
espatriare dal proprio tempo. Insieme agli amici del liceo, nel 1928, aveva
fondato “Le Grand Jeu”, una rivista, è scritto nel manifesto programmatico,
“alla ricerca dell’essenziale”. Già, ma cos’è questo essenziale? I redattori –
con le formule caotiche di chi vuole delegittimare il linguaggio – parlavano di
“vera morte” e di “vera follia” (quella “impotente come il sole… la follia senza
speranza di chi viene sgozzato come un cane”). Nell’introduzione al primo numero
– ne seguiranno altri due, fino al 1930 – Gilbert-Lecomte è laconico:
> “assorbiremo tutto, inghiottiremo Dio fino a diventare trasparenti, fino a
> sparire”.
Si scrive, d’altronde, per cancellarsi – esercizio di flagellazione.
Nelle fotografie di quegli anni, Daumal indossa strani occhiali, ha la posa del
santone, quella faccia sigillata, severa. Un fachiro a Parigi. Intanto, aveva
liquidato André Breton, il doge del Surrealismo, che voleva affiliare a sé quel
manipolo di affiatati ragazzi:
> “Curatevi di comparire nei manuali di storia della letteratura, Breton: per
> noi, sarà un onore essere ricordati dai posteri nella storia dei cataclismi”.
Così gli aveva scritto. Quello stesso anno – il 1930 – al Café Figon in St.
Germain, Daumal conosce Alexandre de Salzmann, artista georgiano di enigmatico
fascino, che lo introduce agli insegnamenti di Gurdjieff. Per Daumal è
l’incontro della vita.
Anni prima, aveva discusso con Simone Weil la necessità di imparare il
sanscrito, di ricongiungersi con l’antica sapienza indiana. Il suo professore,
Alain, “il più originale saggista e moralista della Terza Repubblica” – così la
nota ai Cento e un ragionamenti editi da Einaudi nel 1960, a cura di Sergio
Solmi – aveva scritto che
> “Tutti gli uomini che sono ora in vita non fanno che rivivere: sono tutti
> usciti da un vecchio involucro con un corpo ringiovanito; trascinano tutti con
> sé ricordi antichi almeno quanto il rosso fango quaternario nel quale
> sospingono l’aratro”.
Già: ma come coniugare la vita e la morte, i vivi e i morti, l’India, l’io, il
non-io, la parola che risana e quella che resuscita? Nel Vangelo di Marco è
scritto che “quelli che credono scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove…
imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (16, 17-18). Come attingere
alla parola che vince il male e sana i malati? Come raggiungere le “lingue
nuove”? Come credere nell’incredibile?
Daumal era disgustato dalla letteratura, dall’intrattenimento, dalla polluzione
delle avanguardie.
Erano anni, quelli, in cui un po’ tutti, pur assisi sulla tolda delle loro belle
scrivanie, si disorientavano a Oriente e in ogni dove. Ezra Pound aveva optato
per Confucio e il teatro No giapponese; Thomas S. Eliot alternava il buddismo
alla lettura di Dante e di John Donne; Saint-John Perse si era ritirato in un
tempio taoista in rovina, fuori Pechino, per scrivere il suo
capolavoro, Anabasi; Victor Segalen credeva negli oracoli cinesi, sfidava le
sacre formule dell’I-Ching. Nel giugno del 1933 la rivista “Minotaure”, stampata
a Parigi da Albert Skira, pubblicava gli esiti della “Mission Dakar-Djibouti”,
guidata da Marcel Griaule, con uno scrittore d’eccezione al seguito: Michel
Leiris. In Africa cercavano le Indie: la parola originaria, la parola
che agisce, un redivivo Orfeo.
René Daumal (1908-1944)
Con analogo spirito, Antonin Artaud viaggiava, disperatamente, tra il Messico e
l’Irlanda e William Butler Yeats, recluso a Maiorca con un guru indiano, Shri
Purohit Swami, traduceva le Upanishad, cercando il punto che accomuna “quei
Saggi della foresta che hanno pensato tutto” e Balzac, Goethe e i monaci del
deserto (le traduzioni di Yeats dalle Upanishad sono edite da Magog). Yeats era
ossessionato dalla figura dell’ollamh, il bardo irlandese che con le sue rime
garantiva la sopravvivenza del re e della quercia, della casa e della volpe; in
René Daumal agiva la potenza dei rishi, i poeti veggenti che hanno composto
i Veda. Negli anni Trenta, mentre Yeats favoleggiava di un viaggio in India con
una delle sue giovani amanti, Daumal seguiva il tour di Uday Shankar. In quello
straordinario ballerino indiano intuiva i “ritmi infantili” proclamati da
Rimbaud. “Né la danza né la musica dell’India hanno lo scopo di distrarre. Al
contrario; hanno il fine di ricondurre incessantemente lo sguardo di ciascuno
verso il centro insopportabile della propria solitudine”, scrive in un saggio di
nitida bellezza (ora in: René Daumal, Lanciato dal pensiero, Adelphi, 2019).
Seguiranno, a precipizio, anni sonnambuli, a bordeggiare il nulla.
Daumal aveva un volto messianico.
Nel Dialogo sullo stile trattenuto con Lanza del Vasto – raccolto ora in Il
rovescio della testa, a cura di Claudio Rugafiori, Adelphi, 2025 – Daumal
domanda:
> “Vivo in un’epoca senza stile. Dove troverò le regole del mio mestiere di
> scrittore – regole che non siano superstizioni o curiosità storiche, che
> abbiano realmente autorità?”.
Scriveva che “Il poeta danza posseduto da un pensiero”. Il suo capolavoro, Il
Monte analogo, termina, incompiuto, sulla soglia di una virgola, specie di
abisso che sta al lettore superare. Uscì postumo, per Gallimard, nel 1952; Roger
Nimier – lo strabiliante scrittore degli “Ussari”, morto di schianto sulla sua
velocissima Aston Martin – scrisse, in ‘quarta’, che “Ogni frase, qui, ha la
nitidezza dell’ascesa”.
Ascesa. Ascesi. Nella più nota delle fotografie – scattata dallo scrittore Luc
Dietrich nel maggio del 1944, pochi giorni prima della sua morte – Daumal ha la
barba, ma gli occhi sono sempre quelli, fissi, famelici, di bimbo eterno che sa
evocare giaguari in un glifo d’ombre. In lui, Patty Smith riconobbe “un
fratello… un punk”.
Nel testo più bello de Il rovescio della testa, Daumal racconta di un “potente
mago” che abita “in una mansarda” e “lavora in una succursale del Crédit
Mystique”. L’uomo che “avrebbe potuto essere pascià, alchimista, usignolo o
cedro del Libano”, sceglie la miseria. Confida nei “segreti disegni della
Provvidenza”, muore, e “nessuno aveva sospettato chi egli fosse”. Pare, in
vitro, la vita di Daumal – le cose più importanti vanno nascoste: non si
realizza la morte nel boato, ma in uno spiffero, tra le spire di un frainteso.
L'articolo “Inghiottiremo Dio”. René Daumal, storia di un angelo in picchiata
proviene da Pangea.
Dev’esserci, nella biografia di ogni poeta, un momento in cui la folgore cade
senza preavviso. L’istante in cui la poesia si incista nel destino: le stimmate
di una vocazione che è incontro fatale tra telos e contingenza.
Per Nicolas Bouvier, questo accade nella valle di Erzurum, quando l’alba si leva
verso il Caucaso, annunciata dagli occhi fosforescenti di una volpe:
> “in fin dei conti, ciò che costituisce l’ossatura dell’esistenza, non è né la
> famiglia, né la carriera, né ciò che gli altri diranno o penseranno di voi, ma
> alcuni istanti di questo tipo, sollevati da una levitazione ancora più serena
> di quella dell’amore, e che la vita ci distribuisce con parsimonia a misura
> del nostro debole cuore”.
*
La storia è nota, l’esordio ha quasi i contorni della leggenda. È il 1953.
Nicolas Bouvier, appena terminati gli studi universitari, parte dalla Svizzera a
bordo di una Topolino per raggiungere l’amico Thierry a Belgrado. Insieme, in
una sorta di sodalizio creativo e iniziatico, si mettono in viaggio verso est,
con l’intento di arrivare fino in India. Attraversano la Turchia, l’Iran, il
Pakistan e l’Afghanistan, spingendosi fino alle soglie del Passo Khyber.
Quando Thierry fa ritorno in Europa, Nicolas prosegue da solo. Si dirige in Sri
Lanka, dove – preda di un delirio febbrile e visionario – scrive Il Pesce
Scorpione. Raggiunge poi il Giappone, che agisce su di lui come un calmante
spirituale e gli ispira alcune delle pagine più intense e limpide della sua
opera. Il resto è un intreccio di ritorni e nuove partenze, un continuo
attraversamento delle stesse rotte e l’invenzione di itinerari futuri. Ma il
Passo Khyber, dove La polvere del mondo si arresta, rappresenta nell’itinerario
creativo di Nicolas Bouvier un confine simbolico. Oltre quell’imponente sistema
montuoso si apre un nuovo orizzonte: quello della creazione e della riflessione
poetica.
*
Bouvier si accosta al linguaggio della poesia relativamente tardi, a 35 anni.
Come racconta lui stesso in Routes et déroutes, la sua prima composizione risale
al soggiorno a Tabriz, benché la maggior parte dei versi venga scritta in
Giappone – il paese che, più di ogni altro, con la sua abbagliante sintesi di
ossimori, gli appare come una sorgente inesauribile di ispirazione. Non è un
caso, osserva, che proprio nel Sol Levante sia nata la forma dell’haiku, così
perfetta nella sua studiata semplicità. All’origine della poesia c’è il soffio
che riempie la cassa toracica, il daimon che piega i polsi e getta l’amo nei
fiumi della creazione. Scrivere è un atto da rabdomanti, misteriosa
trasmutazione alchemica. La poesia, dice,
> “era l’unico legame che mi restava con le parole, l’ultima passerella”.
Ma non basta. Il dettato poetico esige rigore: una lealtà da asceta, un lavoro
in sottrazione che può durare mesi, anni, persino decenni. A colpi d’ascia, fino
a raggiungere il cuore dorato del metallo – là dove si fronteggia la frontiera
del silenzio.
*
Nel 2012 esce la versione italiana delle poesie di Bouvier, curata da Luigi
Marfè, acuto indagatore del rapporto tra letteratura e viaggio. Il titolo della
raccolta – Il doppio sguardo. Le dehors et le dedans – sceglie con l’aggiunta
italiana una resa interpretativa, non letterale. Il doppio sguardo richiama
infatti l’idea di una visione sdoppiata. Eppure lo sguardo di Bouvier sulle cose
mi sembra piuttosto di natura “taoista”: non duplice, ma unitario nel suo
accogliere il dentro e il fuori, specchio e fiamma di estremi che si
compenetrano. Ecco che così dehors e dedans diventano due volti della stessa
medaglia. Il fuori: il mondo nel quale siamo immersi, colto nella sua energia
elementare, evocata da ciò che potremmo definire correlativi oggettivi. Il
dentro: un’esplorazione implacabile e dimessa di sé, alla ricerca di accorati
lampeggiamenti interiori.
*
Le poesie di Bouvier sono un irrimediabile ma necessario dissolvimento dell’io
nella pienezza nuda della natura. Voglio dire: come gettare l’io in pasto ai
lupi, seppellirlo sotto il candore della neve e trasfigurarlo nella notturna
luce delle costellazioni.
Piuttosto: viaggiare per addestrarsi alla solitudine ferale, al silenzio
astrale, agli esordi mai approfonditi. Apprendere a fare della mappa geografica
della propria vita il collo dell’imbuto dove smussare e levigare gli angoli
taglienti dell’autobiografia. Ritrovarsi sdraiati, come nel sogno di Kafka, alla
stessa altezza dello sguardo degli animali. Indagare i miti che da millenni
incendiano covoni di grano e spremono il succo dalle vigne.
Il viaggio è la forma più elegante e raffinata per congedarsi dalla tentazione
dell’io. Bisogna annientare l’idea del viaggio come carezza esotica, spogliarlo
di ogni orpello, liberarlo da ogni illusione di spensierata evasione. Tutto,
nelle poesie di Bouvier, parla il linguaggio di una scabra essenzialità, fatta
di elementi naturali primari, di superfici rocciose rastremate dalla salsedine,
di colori quasi chagalliani: luoghi e parole tra cui si avverta il passaggio
dell’aria, come all’inizio dei tempi.
*
La citazione di un anonimo cinese posta in esergo alla prima sezione della
raccolta conferisce a quest’ultima una tonalità poetica del tutto particolare.
> “Domani, se qualcuno si preoccupa del nostro amico d’oltremare,
> dite che, posati i sandali, è tornato a casa a piedi nudi”.
E in effetti i versi sono sospesi in una levità quasi aerea, dove la scelta
delle parole e l’evocazione delle immagini sono al tempo stesso un’aspirazione
alla leggerezza e un richiamo alla condizione terrestre. Nuvole che ammantano il
cielo, piogge che strizzano lembi di azzurro, fumi che si levano da spiagge
nere. E ancora: mormorii, cantilene, sussurri e bozzoli che volteggiano
nell’aria. Ma anche fieri cavalli di concreta carnalità, pozzanghere e campi
disertati, stazioni di treni e mercati orientali.
Personaggi, luoghi e scenari naturali costituiscono il serbatoio da cui il poeta
attinge per le sue composizioni poetiche. Molti degli episodi che danno vita
alle poesie si ritrovano anche nelle opere in prosa di Bouvier. A ben vedere, i
temi ricorrenti nello scrittore svizzero sono gli stessi: hanno a che fare con
la sciarada del viaggio, con la consapevolezza del tempo che passa, con
l’avvistamento dell’ultima dogana, la morte. Ciò che colpisce, nell’iterazione
di queste immagini, è che il dettato poetico di Bouvier, pur recalcitrante
all’io, si declina infine in una forma di poesia perfettamente classica, di
stampo lirico-elegiaco.
La poesia di Bouvier è pura epifania: un’improvvisa rivelazione suggerita da
un’immagine, una visione, un suono. Può accadere contemplando un tramonto
iraniano, osservando dei pellegrini in cammino dal Tibet verso l’India, o
ascoltando un motivo jazz suonato per strada a New York. Ciò che importa è che
sempre, a un certo momento, il tempo sembra raggrumarsi: quando il vasto e
misterioso respiro del mondo spira nel dettato poetico e l’animo vi aderisce
intimamente, in un attimo di agnizione -dissolvendosi completamente nello
sguardo muto dell’universo.
Nella seconda parte della raccolta, Le dedans, assistiamo all’irruzione
del tu, come se l’interiorità non potesse prescindere da un’intimità
relazionale, oltre che grammaticale. Le tre composizioni poetiche del ciclo Love
Song sembrano accendere schegge di lirismo. In realtà, ogni picco di emozione
viene trattenuto, smagato. Come il viaggio e la scrittura, anche l’amore spoglia
l’io da ogni scoria. Rimane sempre, a sigillare tutto, una sorta di misterioso
ritegno:
> “ma che la neve caduta questa notte
> sia come un dito sulla tua bocca”
*
Nicolas Bouvier aveva in mente di scrivere un ciclo di libri intitolato Livre
des Merveilles. Vi avrebbe dovuto appartenere anche Le vide et le plein, forse
l’opera più intensa del Bouvier prosatore, dove la scrittura aderisce con rara
levità alle asperità e ai declivi dell’anima. Livre des merveilles: un titolo
che richiama alla mente i libri di viaggio medievali, i mirabilia, popolati da
tempeste procellose, mostri marini e apparizioni miracolose; o che evoca le
peregrinazioni cartografate da celebri mercanti veneziani. Tuttavia, è bene non
divagare. Nei racconti cinesi, il pittore delle nuvole, dopo aver dato l’ultima
pennellata al suo capolavoro, avvolge i pennelli e li fissa alla cintura, prima
di mettersi in cammino. I manipolatori delle marionette Bunraku, presenti sulla
scena insieme alle loro figure, indossano un cappuccio quando sono ancora
novizi; i maestri, invece, agiscono a volto scoperto: sono diventati a tal punto
il personaggio che animano, da risultare, letteralmente, invisibili allo
sguardo.
Scrivere, come viaggiare, vuol dire scomparire. Scaraventare carta e inchiostro
e fuggire nel caldo ventre della terra.
Lorenzo Giacinto
**
Ulisse
A sud del parapetto,
non c’è più nulla fino alla Terra Antartica.
Leviatani e sirene solcano questi pascoli marini,
questo portolano increspato d’onde,
dove immense porzioni di cielo
si abbattono in scrosci spossati,
senza che Dio stesso
ne sia messo al corrente.
Ogni sera guardi il calice del sole
tuffarsi urlando nel mare a chiazze,
tra gli ammiccamenti dei grossi gatti di bordo
accovacciati tra le gomene.
I pescespada blu sfrecciano davanti alla prua,
come una banda di gioiellieri in fuga.
Sono mesi che non ricevi una lettera,
sei l’ultimo dei paria a bordo di questa nave,
il cuore sfatto, uno straccio di stoppa in mano,
già tutto nero di ricordi.
Ti annulli nel fremito delle eliche,
ascolti l’antico canto del sangue nelle orecchie –
coaguli di sole della memoria,
e l’inventario delle meraviglie,
quando sapevi vivere di poco,
e la vita ti seguiva come uno sciame d’api,
e pagavi, senza mercanteggiare,
il prezzo esorbitante della bellezza.
*
Hira – Mandi
Ultima bottega ancora aperta
nella notte della città –
ghirlande di peperoncini,
samovar e falene,
alone bianco dell’acetilene.
La barba del padrone è tinta
di un rosso birichino.
Tre uomini vestiti di cuoio
sorseggiano il tè versato nei piattini.
Alti zigomi,
che brillano nei volti color rame
sotto la frangia di cappelli informi.
Sono pellegrini del Tibet,
in cammino verso l’India del Gange
per appendere il loro mulinello da preghiera
ai rami del fico del Buddha,
prima di tornare alle loro terre
a fiato corto, a piccoli passi,
attraverso quei confini impraticabili
che passano sopra le nuvole.
Anch’io ho un appuntamento con un albero.
E in ogni caso non c’è più verso di dormire
quando la luna veleggia come una vela gonfia,
così brillante, così veloce,
che persino l’anima ne proietta un’ombra.
*
Love Song III
Quando attizzare le parole per un po’ di colore
non sarà più compito tuo,
quando il rosso del sorbo e le curve delle ragazze
non ti faranno più rimpiangere la tua giovinezza,
quando un nuovo volto, tutto scheggiato d’assenza,
non farà più tremare ciò che credevi solido,
quando il freddo avrà salutato il freddo
e l’oblio dirà addio all’oblio,
quando tutto avrà assunto la silenziosa opacità del
vischio –
quel giorno,
qualcuno ti aspetterà al margine della strada
per dirti che è stato giusto così,
che dovevi concludere il tuo viaggio
senza più nulla,
del tutto disarmato,
allora forse…
ma che la neve caduta questa notte
sia anche come un dito sulla tua bocca.
Nicolas Bouvier
Traduzione di Lorenzo Giacinto
L'articolo Per una poetica della sparizione. Sulla poesia di Nicolas Bouvier
proviene da Pangea.
Rileggendo Il Grande Gatsby sveliamo ogni volta una frase indimenticabile: “Così
continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel
passato”. La conosciamo tutti, l’abbiamo riletta o citata in decine di
occasioni, a volte senza nemmeno capire cosa significhi davvero: non si tratta
di una chiusura. Anche a distanza di cent’anni, è l’incipit della nostra vita.
Perché nel mondo edificato da F. S. Fitzgerald nessuno si rivolge avanti, tutti
guardano indietro – la direzione naturale dell’esistenza è il rimpianto. E Daisy
Fay ne è il faro: la luce verde che brilla dall’altra parte della baia. Non
soltanto per Gatsby. Ogni personaggio a suo modo suo insegue un tempo che non
esiste più. Il Grande Gatsby revoca il sogno della promessa americana.
*
Si potrebbe cominciare da lei, Daisy, e da come non sia innocente – lo sappiamo
–, ma nemmeno possa essere ridotta a mero simbolo dell’opportunismo. Daisy
rappresenta l’attimo in cui si cessa di sperare, una linea di separazione tra la
giovinezza dall’età adulta.
> “Spero che mia figlia sia una oca. Una piccola, splendida, stupida oca
> giuliva”.
La consapevolezza di essersi costruiti un’identità e di non poter mai più
diventare altro.
Per questo, quando Gatsby le chiede di negare l’amore per Tom, lei esita. Ciò
che le viene chiesto è impossibile: riscrivere la propria identità, negare il
tempo, rientrare in un abito lontano dalle sue forme. L’amore di Gatsby è una
fotografia: la convinzione che nulla sia cambiato. Eppure, Daisy vive. È
cambiata. È stanca. E nel suo cinismo nasconde un dolore autentico, la lucidità
di chi ha rinunciato a rincorrere ciò che non può più essere.
Gatsby non accetta il tempo: edifica, scollegandosi dalla realtà, se stesso per
diventare degno del sogno di Daisy. Un’immagine che per esistere necessita di
restare irrealizzata. Nell’intreccio è il motivo per cui Daisy – nel momento in
cui potrebbe amarlo di nuovo – termina con il rifiutarlo: tornare davvero
insieme a Gatsby significherebbe uccidere l’idea di lui, tenuta fino a quel
momento viva dentro di sé.
Gatsby è l’unico a credere davvero nel sogno americano. E per questo è il solo
che merita compassione. Ma anche il solo che non sopravvive.
*
Nick Carraway insegue il tempo. È lo scrittore che racconta quel momento della
sua vita come se fosse l’unico in cui tutto ha avuto un senso. Il romanzo,
allora, diviene un modo per abitare ancora una volta lo spazio liminale, il
confine tra l’ingenuità e la delusione. Nick scrive perché non può restare. E
non può restare perché ha capito. E se Gatsby crede nella luce verde, Nick crede
nel ricordo di Gatsby: nel tentativo – vano, quanto umano – di fissare il senso
in un mondo che sfugge. Di scrivere per salvarsi.
*
Tom Buchanan domanda indietro la sua giovinezza. La forza bruta che gli
permetteva di dominare gli altri senza sforzo, quella virilità che il tempo e la
cultura che cambia gli stanno sottraendo. Tom tradisce perché ha paura: ogni
nuova amante è un gesto disperato di riaffermazione. È l’unico che si sente
ancora in diritto di possedere il mondo – e il personaggio che più lo teme.
Fuggire insieme a Daisy, ricominciare, rappresenta una mera strategia di
sopravvivenza.
Myrtle Wilson invece guarda indietro con gli occhi di chi non ha mai avuto
nulla. Insegue la possibilità di un’altra vita: la scalata sociale, il rispetto,
il glamour del sogno americano. Myrtle crede sia sufficiente vestirsi bene e
sorridere a Tom per essere ammessa nel mondo che lui rappresenta. Eppure, quel
mondo, quando si tratta di dover scegliere, non esita ad annientarla: Myrtle è
la tragedia delle classi sociali in un romanzo che parla di sogni costruendo
confini. E il suo corpo sull’asfalto concretizza la prova che non tutti possano
permettersi un passato differente.
*
Il Grande Gatsby parla dell’impossibilità di abbandonare il passato e nella sua
sospensione si compie un’estetica. Gatsby non sogna il futuro: lo reitera. E la
luce verde è un’eco che precede, una prolessi emotiva. E se Nick Carraway scrive
è per abitare quella terra interstiziale che Barthes chiamava l’intervallo della
memoria, dove il tempo cessa di scorrere per addensarsi. Qui dove si cela
l’illusione: mai la promessa di un’esistenza nuova, ma la bellezza, dolcissima e
tragica, di una vita impossibile.
Nicolò Locatelli
*In copertina: Robert Redford come Jay Gatsby nel film di Jack Clayton del 1974
L'articolo Cent’anni di luce verde. “Il Grande Gatsby” o il sogno di una vita
impossibile proviene da Pangea.
> È vero che tutto deve cominciare repentinamente, ma se poi non segue un
> istante di raccoglimento la cosa si sgretola subito e va perduta. Repentinità
> e raccoglimento si compenetrano perché una cosa risulti bella: il lampo
> dell’occhio e la pazienza delle mani.
>
> E. Canetti, La rapidità dello spirito
*
Nelle folgoranti, indimenticabili pagine iniziali di Tolstoj e Dostoevskij,
George Steiner sostiene che la critica letteraria dovrebbe scaturire da un
debito di amore.
> “In modi evidenti e tuttavia misteriosi una poesia o un dramma o un romanzo
> afferrano la nostra immaginazione. Nel momento in cui deponiamo il libro non
> siamo più quelli che eravamo prima di leggerlo”.
Scrivere qualcosa su Canetti, oggi, mi pare richieda proprio questo: il
tentativo di saldare ciò che ancora resta in sospeso, a credito dell’autore
bulgaro.
Avevo previsto di cominciare con una disamina del volume di saggi La coscienza
delle parole. Ma ben presto mi sono accorto che Canetti mi tirava per la
giacchetta, trascinandomi altrove, irresistibilmente, verso altri suoi libri — e
in particolare verso le pagine degli Appunti, che egli scrisse con meticolosa
costanza dal 1942 fino a poco prima della morte. L’opera di Canetti è piena di
amorose corrispondenze: echi di significato che si richiamano da un luogo
all’altro del suo dettato, come stelle appartenenti alla medesima costellazione,
disperse tra le vaste distanze delle galassie.
Ecco perché quanto segue somiglierà più a ciò che, nella letteratura cinese, è
noto come biji, o, nella tradizione giapponese, come zuihitsu: uno zibaldone di
frammenti e lampeggiamenti, simili a colpi di pennello tremolanti appena
tracciati su una tela. Non sembrerà poi così assurdo, allora, parlare di Kafka
ed evocare, nello stesso respiro, la forza del mito e la leggerezza del taoismo.
Da qualche parte – nei Campi Elisi degli scrittori – immagino già un timido
sorriso illuminare il volto sobrio di Canetti.
*
Marina Nadotti, in una significativa chiosa a un’opera del compianto John
Berger, usò un’espressione che mi colpì per la sua risonanza evocativa:
“ospitalità del pensiero”. Con quell’immagine, Nadotti indicava una particolare
disposizione della mente e del cuore: un’attitudine a lasciarsi attraversare,
con curiosità e generosità, dalle multiformi esperienze della vita sensibile e
di quella interiore. Tutto, nel dettato di Canetti, sembra chiedere proprio
questo: di essere accolto, abbracciato, riconosciuto – con una smisurata empatia
emozionale.
In questo senso, Canetti appare come l’ultimo degli umanisti: un instancabile
alchimista del sapere, intento a ibridare ambiti solo apparentemente distinti
come l’antropologia, la storia, la letteratura, la critica. Ma, a differenza
della baldanza fiduciosa del faber rinascimentale, la sua aspirazione alla
conoscenza è costantemente attraversata da una minaccia incombente: il terribile
volto della storia.
Colpisce, in Canetti, la vastità dell’argomentazione, sostenuta da un’erudizione
mai fine a sé stessa, ma sempre animata da un profondo senso di responsabilità
etica. Una responsabilità che si esercita, in prima istanza, nei confronti della
lingua e delle parole che la compongono. Basti pensare al titolo del primo
volume del trittico autobiografico: La lingua salvata. La biografia canettiana è
segnata, fin dagli esordi, da una convivenza fitta e inquieta di lingue e
culture, che l’autore sente il dovere di proteggere dalla deriva babelica, dalla
cannibalesca supremazia dell’una sull’altra. Da qui nascono la sua fiducia nelle
parole “non travestite”, capaci di restituire barlumi di autenticità, e un
sentimento di vibrante commozione verso l’atto stesso del nominare il mondo:
come se, nel dare nome alle cose, si riattivasse ogni volta un legame originario
— e dunque atemporale — tra lo sguardo dello scrittore e ciò che lo circonda.
> “Il mio Dio è il nome, il soffio della mia vita è la parola.”
Le parole non sono mai ancelle né gregarie dell’uomo, ma ne riflettono la parte
migliore: quella, in fin dei conti, meno vulnerabile all’oblio della morte.
> “Ma ci sono parole di un tipo particolare, che accendono l’entusiasmo, quelle
> che contengono spazio e futuro, vastità da ogni parte. Quanto di storto e di
> vano era racchiuso nell’uomo ora si espande d’improvviso con enorme fretta in
> cento direzioni diverse, con le sue parole egli va a toccare per dritto e per
> traverso inizio e fine e centro del mondo.”
*
Seduce, in Canetti, il dialogo sempre aperto con le grandi civiltà asiatiche –
soprattutto con quella cinese: un volgersi verso forme altre di cultura, di
scrittura, di differente visione del mondo. A questo movimento di apertura verso
l’esterno ne corrisponde uno speculare di ripiegamento interiore in sé stessi: è
il Canetti degli Appunti, che si avvicina alla parte più autentica di noi, in un
atto di responsabilità verso il proprio tempo. Indagarsi, interrogarsi, aprirsi
all’orizzonte del cambiamento: come nella disposizione d’animo del viaggiatore.
Anche in questo, Canetti rivela una fibra quasi rinascimentale, come un
Montaigne del ventesimo secolo: tuttavia, sotto la superficie, affiora sempre un
senso sottile d’inquietudine, lo svelamento progressivo della desacralizzazione
di ogni cosa.
Diventa allora più arduo, per il viaggiatore-scrittore, testimoniare la perdita
dello stupore, l’ammutolirsi della sorpresa. Eppure, in fondo, la letteratura
non è che questo: il dimorare del pellegrino nella meraviglia.
La missione dello scrittore: fare il vuoto dentro di sé e accogliervi la
traboccante ricchezza dell’esistente, la metamorfosi continua che attraversa la
storia e le vicende umane. Ancora, cercare le fontane dove stilla la musica
delle antiche favole, ritrovare tracce dei miti nel respiro del mondo. Canetti
vorrebbe credere in un universo dove dimorano gli dèi, dove il lampo e il tuono
abitano nello sguardo delle tigri e i vascelli solcano le acque tra i mostri
marini e le isole incantate dei Feaci. Il mito è come il viaggio: si insedia in
una dimensione senza tempo, dove lo sguardo degli uomini non si posa mai due
volte sullo stesso luogo e ogni cosa parla il linguaggio prebabelico della
meraviglia.
> “I nuovi luoghi non si inseriscono nei vecchi significati. Per un certo tempo
> ci apriamo realmente. Tutte le storie passate, la nostra vita stracolma, che
> soffoca di senso, ci restano dietro le spalle d’improvviso, come se le
> avessimo lasciate in deposito da qualche parte., e mentre se ne stanno là
> accade l’assolutamente inesplicato: il nuovo”.
Una delle ragioni dell’imbarbarimento dei tempi moderni sta nell’aver staccato
la spina ai miti. Canetti vive con dolore l’assenza totale degli dèi nel
presente: al loro posto, sul trono del mondo, siede il volto impietoso e
definitivo della storia sanguinosa.
> “Per me il pensiero più desolante è che alla storia non si sfuggirà mai più. E
> questo il vero motivo per cui continuo ad armeggiare tra tutti i miti? Ripongo
> forse speranze in un mito dimenticato che possa salvarci dalla storia?”
*
All’interno della raccolta di saggi La coscienza delle parole, brillano i due
capitoli dedicati a Kafka e al suo epistolario con Felice, la donna che avrebbe
dovuto sposare e alla quale fu legato da un rapporto tormentoso e conflittuale.
Lo sguardo di Canetti sul celebre scrittore è di una sconvolgente e disarmante
tenerezza. Faccio fatica a trovare altri esempi in cui la critica letteraria si
spogli della sua arroganza cattedratica per diventare pura immersione nell’opera
che si pone come oggetto di studio. Forse, solo Cortázar, nel suo memorabile A
passeggio con John Keats, può essere annoverato come una fulgida eccezione.
Nessun altro scrittore è stato capace di penetrare così a fondo nelle
interiorità di un autore, e al tempo stesso, da speleologo di un destino
incistato nella letteratura, di offrirci un ritratto così potente. Kafka:
l’artista che trova giustificazione solo nella letteratura, che vive grazie alla
letteratura e di letteratura. Il dilemma intimo dello scrittore boemo: quanto
più la sua scrittura cresce in intensità, tanto più l’individuo si percepisce
sempre più piccolo, attratto come da un gorgo incantato dal grande, terribile e
meraviglioso oceano d’inchiostro nero che si stende sul foglio di fronte a lui.
Il sogno di Kafka: così come un certo tipo di storiografia ci mostra Nerone,
all’apice della solitudine, contemplare Roma devastata dall’incendio, così Kafka
desidera che, nella notte, solo lui rimanga sveglio nel mondo, per poter
finalmente “farsi carico” dell’umanità e confrontarsi con la sua multiforme
essenza. Si sente, in quel momento, giustificato davanti a sé stesso e agli
altri. A Kafka serve una statura, una postura da superstite, da ultimo uomo
sulla terra: nella sua stanza, a lume di candela, scrive come se inviasse
missive dall’Arca, in mezzo al diluvio.
Kafka: il poeta sempre in lotta contro il potere, alla ricerca di una libertà
assoluta e senza vincoli, così come il ritmo del respiro, il compenetrarsi degli
estremi, l’abbraccio di violenza e tenerezza.
Ecco uno dei sensi della parabola di Canetti, alfiere di un dettato che cavalca
verso l’altrove, ma mai in fuga rispetto al cuore oscuro del presente – più che
di vino, di oscuro sangue è fatta la storia del mondo. In questo senso,
l’eterogeneità della raccolta di saggi diventa naturale rifrazione della
multiformità dell’esistente: convivono, in una straordinaria galleria di
ritratti, Hermann Broch, autore del folgorante La morte di Virgilio, Karl
Kraus, Georg Büchner – il cui Woyzeck ha cambiato la vita di Canetti –, Tolstoj
e Confucio, esempio mirabile di integrità etica e letteraria.
*
Nel capitolo Dialogo con il terribile partner, tra i più belli di tutta la
raccolta, Canetti esplora le ragioni che spingono certi uomini a tenere un
diario. Colpisce, in queste pagine, l’importanza attribuita ai diari di viaggio,
ai quali ci si accosta fin da bambini. Il sentimento di una vita ingessata in
pose ormai fisse, l’oppressione di una realtà troppo carica di senso,
l’avvicendarsi di vicende sempre note ci spingono verso i resoconti di viaggio,
dove tutto è ancora al di qua di ogni inizio, avventura dopo avventura, giorno
dopo giorno. Solo immaginando città straniere, lingue misteriose e luoghi
irripetibili possiamo colmare la nostra insaziabile voglia di metamorfosi.
Non sorprendono quindi l’interesse sempre vivo di Canetti per l’antropologia, lo
studio comparato di civiltà lontane nello spazio e nel tempo, la sua
predilezione verso i grandi diari di viaggio, come quello del cinese Hsüan Tang
o dell’arabo Ibn Battura, e l’ammirazione verso forme di scrittura distanti –
il Libro del Guanciale di Sei Shōnagon e Storia di Genji, di Murasaki Shikibu.
*
Tutti ricordano giustamente Canetti per il trittico autobiografico o per quel
monumento del pensiero che è Massa e Potere. Eppure, io credo che il vero
capolavoro dello scrittore siano i suoi Appunti, raccolti nell’arco di tutta una
vita. Come non restare trafitti da quel dettato eracliteo fatto di
lampeggiamenti, echi di senso dove il tuono si propaga a valle, di piccoli
incendi e ripide cascate? Leggere Canetti è come cartografare il mondo, portando
sempre dentro di sé il senso del mistero e della meraviglia.
Esiste un breve scritto di Borges che chiude L’artefice, piccola opera quasi
testamentaria del grande argentino. Nella mia copia del libro, ormai un po’
sgualcita, ho sottolineato con un leggerissimo tratto di lapis le ultime righe.
Mi sembra che possano spiegare meglio di qualsiasi altra cosa ciò che Elias
Canetti rappresenta per me.
> “Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno
> spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli,
> di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone.
> Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia
> l’immagine del suo volto”.
Lorenzo Giacinto
L'articolo Il pellegrino della meraviglia. Omaggio a Elias Canetti proviene da
Pangea.
Gli editori hanno avuto un’indubbia influenza sulla mia vita, in un modo o
nell’altro. A Milano, molti anni fa – e sono davvero molti – mi ritrovai a cena
con due amici e un alto funzionario della narrativa Mondadori. Questi amici che
intendo ricordare erano lo storico del cristianesimo Remo Cacitti e l’editore
Mario Guaraldi. L’uso dell’imperfetto è d’obbligo, poiché Remo è passato dal
tempo all’eterno il 3 marzo 2023, Mario ha intrapreso lo stesso viaggio lo
scorso 2 febbraio.
A quella sorta di convivio pensavo lo scorso 2 febbraio viaggiando verso Rimini,
dove il più lungimirante editore che io abbia conosciuto, Mario Guaraldi, stava
morendo. Di lui scrisse allora Davide Brullo qui su Pangea. Non mi soffermerò
quindi su ciò che è già stato scritto, e “con miglior plettro”. Ricorderò solo
qualcosa di quell’episodio dove Remo e Mario si incontrarono per la prima ed
ultima volta, poiché in seguito non ci sarebbe stata un’altra occasione.
Quella sera io avevo letteralmente le ore contate, nel senso che dovevo fare
rientro da una certa licenza (niente affatto poetica!) entro la mezzanotte, come
Cenerentolo, poiché a quell’ora finiva l’incantesimo della libertà. Si parlò di
molte cose, ed io, come al solito, più che alto rimasi ad ascoltare. Ma ad un
certo punto si fece il nome di Tolstoj, e qui trovai la forza di vincere la
timidezza. Parlai di Guerra e Pace, che avevo letto e riletto, in vari momenti
della mia vita, persino in francese e in inglese (conservo le edizioni Gallimard
e Collins), non avendo potuto leggerlo in originale. E, in particolare, mi venne
in mente e parlai di quelle che stimo alcune tra le più ispirate pagine della
letteratura universale: quelle della morte del principe Andrej. Pagine che –
chiunque le abbia lette – difficilmente può dimenticare. Ricordate, lettori?
Ferito nella battaglia di Borodino, il principe Andrej Bolkonskij viene
trasportato via da Mosca e una notte, in una isba, mentre la sua amata e
ritrovata Natascia lo veglia al lume di candela, in apparenza concentrata a far
la calza, egli si assopisce e sogna. Sogna una “cosa” che vuole entrare nella
stanza, e lui che la teme, però si sente impotente di fronte ad essa. Scende
giù dal letto e striscia sino alla porta e cerca di impedirglielo. Ma “quella
cosa” sembra onnipotente mentre l’energia vitale del principe Andrej è al
lumicino. Così la porta cede alla forza e “quella cosa” entra nella stanza e si
disvela: è la morte. Ma in quello stesso istante, il principe Andrej apre gli
occhi e intuisce che la morte è un risveglio.
Voglia Dio che lo stesso sia accaduto alle anime generose di Remo e Mario.
Ricordo che quella sera milanese l’editore Guaraldi sfogliava un post-libro che
aveva pubblicato col titolo Due viaggi di Ulisse. Conteneva un mio breve
racconto seguito dalle due versioni del viaggio: Pound che omaggia Dante col
XXVI canto dell’Inferno, dopodiché questi gli recita la versione contenuta
nei Cantos. Mario aveva voluto dedicare questo reciproco riconoscimento poetico,
non solo immaginario, alla figlia di Pound:
> “Si ringrazia Mary de Rachewiltz per essere stata al gioco di questo ideale
> dialogo fra Dante e Pound”.
L’alto funzionario intanto sembrava sorpreso (glielo leggevo nello sguardo) che
uno con la mia storia, un “ex combattente e reduce” della sinistra più
guerrigliera e sinistrata, potesse provare empatia per uno scrittore che – di
certo a sua insaputa (!) – era diventato l’icona dei buzzurri di Casa Pound.
Mario mi liberò dall’imbarazzo dicendo che io i Cantos li avevo letti e
apprezzati per davvero e che Mary de Rachewiltz non vedeva l’ora di liberare il
nome del padre incatenato in quella casa di tortura. (A tal fine, anni dopo Mary
de Rachewiltz avrebbe intentato persino una causa legale.) Remo Cacitti
intervenne ricordando un memorabile incontro che Pier Paolo Pasolini aveva avuto
nel 1968 a Venezia col grande vecchio e poeta maledetto.
Qui concludo il mio breve ricordo di quel convivio con i miei amici con poche
righe tratte dai Due viaggi di Ulisse.
> “Quando lo spirito di Ezra Pound dalla bella Venezia giunse al Limbo, qualcuno
> in cielo sentì una fitta all’anima. Era il suo pupillo T. S. Eliot, che in
> vita mortale gli aveva dedicato il poema La Terra Desolata: ‘Al miglior
> fabbro!’ Allora costui si alzò dal suo posto nella Rosa paradisiaca e si mise
> a girare tra gli altri beati con una petizione il favore dell’antico maestro.
>
> Anche Dante era pronto a firmare. Ma quando T. S. Eliot gli fu davanti rimase
> con la penna d’angelo sospesa in un dubbio, o forse era soltanto il desiderio
> di conoscere l’autore dei Cantos di Babele, prima di firmare per la salvezza
> della sua anima. Così decise e così si accinse a fare, dopo aver pregato
> l’Autore della vita affinché gli permettesse di lasciare il suo scranno per
> ritornare un poco nel Limbo dei sospiri. Poi che gli fu concesso, già esperto
> della strada in breve si ritrovò fra le tenebre dell’Inferno, nel primo
> cerchio: vide subito la ‘ghianda di luce’ dov’erano gli spiriti magni. Pound
> si aggirava nel settore orientale come Alice nel Paese delle meraviglie, a
> fare la conoscenza dei ricchi di scienza e arte…”
Enzo Fontana
L'articolo In memoria di due amici (e dell’incontro mistico tra Dante e Ezra
Pound) proviene da Pangea.
Devo molto ad Aurelio Picca. Lui non lo sa. Quando lessi un suo racconto, negli
Anni Novanta, sulla rivista letteraria “Clandestino” (credo s’intitolasse La
mano), mi si aprì un mondo, che si rovesciò addosso a me. Non pensavo si potesse
scrivere così. Fui stupito dalla libertà, e dal modo diretto di entrare nella
materia, fui sorpreso dal livello di espressione. Le immagini erano quasi
scolpite, direi in avanzamento vitale, si poteva vedere lo spazio che circolava
intorno, e la pressione della lingua che risultava essenziale alla pagina.
L’ossessione della realtà è il centro, fa perno, la frase gira, permette di
scorgere una prospettiva via via diversa del soggetto, dinamica nel cuore del
racconto: visione incisa a lama di coltello, o a punta elicoidale.
È la grande tradizione della prosa italiana, dei Comisso, Savinio, Malaparte,
Parise, Domenico Rea, Gadda, Testori. Credo che Picca abbia a che fare col corpo
incandescente della parola, e ci lavora sopra come un fabbro col ferro. Vengono
fuori la sua Roma, la provincia laziale, il gesto dello sportivo segnato dalla
totalità della vocazione, di vigore che vuol dirsi in tutto, in movimento di
vita che prende finalmente significato, per cui siamo saliti su un ring a
combattere, o la storia estrema che avrebbe potuto portarci da un’altra parte,
fuori strada, e invece no, o ce l’ha fatta con altri, nostri compagni, a cui
dobbiamo tutto. La strada, in questo caso, insegna, arriva a dire, a far capire
persino la solitudine del poeta, perché è mito generoso, radioso e salva. Nel
popolo vi è la conoscenza, questo popolo italiano che vuole rimanere
nell’origine, per orgoglio, tradizione, e morirci dentro.
La parola soprattutto merita, in quanto teatro dell’abisso, del tragico, che
coglie nello sguardo l’irresistibile forza che ci pervade.
> “Ho sempre sognato di ficcarmi nei loro occhi larghi e languidi come pianeti
> sconosciuti”.
L’autore sta parlando dei cavalli, una delle passioni di Aurelio Picca, che è
nel libro sullo sport, ultimo uscito, intitolato La gloria (Baldini + Castoldi,
2024). E ci affacciamo testa e collo, e spalle protesi sul mito dell’Italia che
è il mito dell’io. L’Italia è morta, io sono l’Italia (Bompiani, 2011), il suo
poema civile, scavo e risorgenza dal suolo profondo del nostro animo. Tutto è
carnale, ma lo spirito è nel palmo della mano, chiuso a pugno, e in cui sono
segnate le linee dell’amore, della fortuna, della salute, insomma il destino che
si nasconde a noi, o si rivela quasi in archetipo. Spirito dunque impiantato
nella superficie e nell’intimo, che in quanto carne risulta mistero. Come fa a
vivere? Questo stare sul limite lo caratterizza. Il suo stile è tutto. Lo stile
della scrittura, che è una gabbia, e lo scrittore la abita, ne sonda la
capienza, ci entra come in un abitacolo calzante. Prosa è ritmo che trascende
ogni forma, quotidiana e soprannaturale. Cosa cerca? È l’impulso acrobatico
della scrittura che persegue il reale; stare sul limite, a spigolo, per lanciare
alla terra e al cielo, nonché agli uomini, il proprio significato di eternità.
Conoscenza che non si compie mai, sempre tradita. Ci vorrebbe una prova
maiuscola per noi e conseguentemente per il mondo, che sia capace di guardare
oltre. Una prova stellata di cielo, per ripeterci quello che abbiamo perduto, e
rinnovarlo in modo da dirci chi siamo. Diventare piccoli, umili, per solcare
quel mare abbagliante di memoria, doloroso, verticale, e scrivere come il primo
scrittore del mondo, che non ha pari.
È un’immersione. Pensiamo a Se la fortuna è nostra (Rizzoli, 2011). C’è un
dramma del ringraziamento in quel romanzo, romanzo di famiglia, corale,
cristiano, e proprio perché cristiano impossibile, solo a costo di ricevere, per
mano di un altro; vocazione che si realizza, che si somma in ricordi,
riflessioni, descrizioni precise, da bulino che incide sulla lastra, scrive al
momento esatto di una trama, densa di compimenti… “L’ho compreso da poco” si
legge a pagina 174. Ciò che accade si compie in attesa rivelatrice, non
puramente rievocativa, infatti tutto si traduce in atto. Questa la sua tensione
interna, il suo moto lineare.
Anche la violenza, negata e affermata insieme, si apre su un quaderno le cui
pagine sono il corpo del Cristo che subisce e annulla il male, lo conferma come
negazione. Le vicende raccontate da Picca hanno sempre questo doppio registro,
ma per attraversarepienamente il corpo redento. Intorno sono seduti i maestri,
quelli che ho già citato, che guardano la scena, perché si configura un’azione
nel leggere, e accade, una dinamica incessante di energia letteraria,
raffreddata dalla parola poetica, che non smette di sondare il campo, l’immagine
che si è presentata agli occhi dell’autore, fino a trovare una sponda esemplare,
non per effetto, per dimostrazione di bravura, bensì in scoperta del senso,
quello che si opera in noi, di cui siamo opera.
Letteratura + identità, e più identità nel dire. Scorporarsi, annullarsi nel
cuore degli altri, che è il corpo di Gesù ma che è entrato nelle lettere, perché
è fatto di verità, di smascheramento. Pazzesca è l’intuizione del Gesù
mutilato (De Piante Editore, 2017), l’stinto di verità che si viene a proclamare
in scrittura! Egli non è il Verbo?, non è venuto per dirci?, per stare con noi?,
per incontrarci attraverso la parola e incarnare la sua fine?, e la sua
risurrezione non si può riconoscere e toccare?… Allora perché? L’autore continua
a interrogarsi. Ci credo che poi i suoi libri s’intitolano Addio, La gloria,
Sacrocuore, I racconti dell’eternità, il già citato Gesù mutilato, eccetera,
perché la parola nasce nel sorgere, o risorgere, e se si cade nel buio, il tempo
provvederà, la tragedia è comunque dell’amore, sconfina.
Adesso, mi chiedo: chi meglio del Nostro potrebbe dire le notti dei droni, i
cieli feriti dai traccianti, i colpi infernali che cadono improvvisamente sui
bersagli, devastando; lo smarrimento disarmato, la pietà, le macerie, il dolore,
la speranza che ci assale? Oggi è il mito, qui da noi, in pace, inteso come ogni
cosa che si specchia e risplende su schermi al lattice, o altro, ogni episodio
che precipita nella sua temporalità contingente, ed effimera, di vita vissuta
assistendo, nel sentimento, che s’illude di escludere la morte. La sua radice
sembra essere lì. Perché, comunque, la sua radice è profonda. Contiene anche il
nostro bisogno di assenza, di fuga, escapismo, mi hanno suggerito che si dice,
adesso lo chiamano così, che è il mistero del dileguarsi, della vita che ci
chiede di fare a meno della vita, come morti, sepolti, sottratti allo stupore
della rivelazione, ancora in atto.
Picca combatte, fa cura di frase perfetta, rotonda, lirica e realistica insieme.
Il gesto che si sporge a scrivere è mosso dalla dinamica luminosa
dell’intuizione: tutti i personaggi sono il Cristo! Lo scandalo è questo. Gesù
che si fa imbuto, scolo, canale folgorante delle parole, dell’ispirazione, del
senso. Ognuno che si destina agli altri è Lui, il Salvatore. Un atleta, un
amico, un animale, un albero, un cielo, una spiaggia, una casa, una città, una
terra, un mare. Prosa rastremata di orgoglio e santità, incanto e punizione.
Spesso sono i bambini a tenere la strada, a indicarla agli adulti, che non
vedono. Allora la pagina fa un salto, tutt’assieme prende a raccontare del
destino, o parte da quell’inizio, dall’infanzia, e si delinea, poi, col tempo,
verso una nuova era. Si ha l’impressione di una dipendenza, invece si tratta di
talento, vocazione alla totalità del racconto. Totalità innervata nello spirito,
tanto da proclamare un parallelo (gliel’ho sentito dire all’autore in
un’intervista) fra il gesto mortale dell’assassino, e quello generativo
dell’artista, in funzione di assorbimento, unione, interpreto io. La nostra
duplicità fusa nell’assoluto e placata, abbracciata. Ma senza dubbio, e in
conseguenza, la lancia ha dovuto colpire, il chiodo è entrato, ha lacerato. È
un’immagine difficile da spiegare, estrema, riguarda il cosmo.
Dal suo ultimo libro La gloria, che racconta delle imprese di famosi talenti
dello sport, come pure degli anonimi, ma non meno nobili, cito a pagina 175:
> “Io ho iniziato a scrivere con la morte del nonno; Luigi e Pier Vittorio hanno
> incominciato a sollevare pesi dopo le morti della madre e del padre”.
Arricchiti da questo passo, da qui in poi si potrebbe scrivere un altro
articolo, più profondo del presente, azzurro e cupo, di luce screziata,
affezionata al mondo, ai suoi paesaggi, alla sua gente, denso di poesia, di
umanità massima. Invece mi limito a riportare il racconto intitolato Il pesce,
tratto dalla raccolta I racconti dell’eternità (Nuova Compagnia Editrice, 1995).
> “La rete non si poteva neanche più chiamare rete, tanti erano i buchi che
> l’avevano strappata. Io, pazientissimo, ne sciolsi un pezzo. Poi presi due
> sassi e ce li legai. Così, col brandello del pescatore, mi misi immobile coi
> piedi nel mare. A quell’età non avevo mai visto pesce vivo. Né morto. Né
> speravo di catturarne. Attesi ore, gustando la noia di un precipizio
> intraducibile. Ma ecco che un pesce grosso come una mia gamba, si intrufola
> tra le maglie. È catturato. Mi fulmina la potenza. Non faccio altro. Lui è
> fuggito”.
Lo scrittore è assorto, nella pietà!
Vincenzo Gambardella
L'articolo Assorto nella pietà. Su Aurelio Picca, uno scrittore in lotta
proviene da Pangea.
Non sarebbe stato difficile scorgere a Parigi, nella livida luce del tramonto
sul lungo Senna, il profilo imponente di Danilo Kiš. Dinoccolato, con una
sigaretta tra le labbra appena dischiuse e una capigliatura da creatura
mitologica, questo misterioso principe delle lettere amava girovagare per la
città, sfiorando discretamente i banchetti dei bouquinistes, attratto dalle
copertine e dai poster che occhieggiavano dagli scaffali.
Con gli occhi azzurri e luminosi, il volto dalle linee irregolari e la voce di
balcanica asprezza, Danilo Kiš si muoveva con l’incedere di un lare, quassi
fosse una tenera e rassicurante divinità
*
La biografia pretende di racchiudere in pochi cenni l’arco di un’esistenza, più
o meno lunga a seconda dei capricci delle Parche, disteso tra due banali date di
calendario. Danilo Kiš nasce nel 1935 in una famiglia per metà ungherese e per
metà montenegrina, ereditando dal padre la religione ebraica. Trascorre
l’infanzia in Ungheria, dove si confronta presto con l’odio antisemita e inizia
a maturare la sua precoce vocazione di scrittore. Poco prima della catastrofe,
si rifugia con la madre e la sorella in Montenegro, riuscendo a sottrarsi ai
rastrellamenti e a completare gli studi. Dopo la guerra, si laurea in
letterature comparate all’Università di Belgrado. Il resto della vita lo
trascorre tra Parigi e la capitale serba, insegnando come lettore di
serbo-croato nelle università francesi. Traduce con grazia da tre lingue e
scrive libri di ustionante bellezza. Assieme a Cortázar, appartiene a quella
schiera di scrittori esuli a Parigi, sospinti dalle onde del destino, dai marosi
della storia e dal richiamo delle Muse. Milan Kundera lo definì il più
misterioso e il più grande della sua generazione.
*
Su pochi altri scrittori la storia ha calato i suoi artigli con altrettanta
ferocia. Il giovane Kiš, in un triste e tragico battesimo, assiste come
testimone impotente al massacro di Novi Sad, avvenuto nel 1942. Di suo padre e
della maggior parte dei familiari si perderà ogni traccia: troveranno la morte
ad Auschwitz e in altri campi nazisti.
La letteratura di Kiš nasce sotto il segno della sofferenza e della crudeltà
arbitraria: la scomparsa dei propri cari e un destino segnato dalla sventura si
trasformano in un vero e proprio buco nero che travolge la biografia e orienta
la scrittura. Il colloquio tra i vivi e i morti diventa la cifra peculiare di un
equilibrio teso come una corda sull’abisso, sospeso tra memoria e oblio.
Come dire: la letteratura veste le sembianze di Caronte, mettendoci in religioso
ascolto di coloro che sono svaniti tra le nebbie della storia e ci attendono
dall’altra parte del fiume.
Mi tornano in mente i favolosi ritratti del Fayyum, ritrovati quasi intatti tra
le sabbie millenarie dell’Egitto: la scrittura di Kiš si posa come un amorevole
sudario sui volti di chi è già salpato. Anche lui, come Mandel’štam, ha appreso
la “scienza degli addii”. Il momento del congedo, però, non è mai netto, non
avviene con il veloce e argenteo taglio di una lama: è piuttosto un lento
dissolversi tra le fessure del tempo, il riconoscere infine che i partenti
custodiscono con sé il mistero del passaggio, sigillandone il segreto come una
rosa ben serrata tra le labbra.
Tutta l’opera di Kiš, dagli acerbi tentativi poetici fino alla grande trilogia
composta da Dolori precoci, Giardino, cenere e Clessidra, è attraversata
dall’urgenza creativa di dar voce ai dimenticati della storia, a coloro che sono
stati risucchiati dal gorgo delle atrocità novecentesche: come dar vita a una
Genesi all’inverso, partendo dal termine ultimo, dall’isola di Patmos.
In Enciclopedia dei morti, altra opera fulminante di Kiš, così come in Salmo 44,
la scrittura nasce da un’esigenza quasi etica: ‘incarnare’ l’invisibile, quel
muto e incolmabile spazio del distacco, e dargli un cuore, dei muscoli, una
colonna vertebrale che abbia le sembianze della speranza.
Solo attraverso la scrittura Kiš può congiungersi all’assenza siderale del
padre, riascoltarne i frammenti di voce, riportarlo entro le cornici di
un’esistenza che era pura vita in essere: come se, per miracolo, potesse farlo
riemergere dalla periferia del tempo e del sogno.
Colpisce, nella prosa di Kiš, un senso di devoto rispetto per l’atto creativo,
oserei dire per ogni singola parola scelta. Nulla appare superfluo, tutto è
assolutamente necessario, impossibile da esprimere altrimenti da come è: quasi
l’osservanza amorosa di un rito millenario, da custodire e tramandare con la
cura di un amanuense.
*
La scienza dell’etimologia rimescola le carte come un’astuta chiromante. Nelle
lingue di derivazione germanica o slava, per formare la parola compassione,
accanto al prefisso con- si sceglie invece un termine che significa sentimento.
Così, in tedesco, ceco o polacco, provare compassione per qualcuno significa in
realtà aderire intimamente a ogni emozione, sia essa gioia, angoscia, dolore o
felicità.
Tutta l’opera di Kiš è illuminata da questa particolare sfumatura di luce. Un
misto di cristiana pietas, compassione e ritegno verso il mistero degli uomini
guida la sua penna. Così anche in Salmo 44, dove le vicende di Maria – deportata
ad Auschwitz e in procinto di evadere dal campo con il figlio appena nato e una
compagna – prendono forma in una sorta di delirio onirico, attraverso continui
slittamenti temporali tra passato e presente. Il ritratto del padre di Maria,
seppur solo accennato, con la sua accorata e tragica consapevolezza della fine
imminente, richiama inevitabilmente la biografia di Kiš e la figura di suo
padre.
Il presentimento della catastrofe, le continue vessazioni subite dagli ebrei, le
esecuzioni sommarie e lo spettacolo tragico di una crudeltà efferata e gratuita
non soffocano, ad ogni modo, la voglia di vivere della protagonista: anche nelle
tenebre più fitte possono aprirsi spiragli di luce.
Nel breve libro ricorre spesso un’immagine che mi sembra racchiudere in senso
metaforico quanto appena detto: un fascio di luce, esile e tremolante, che si
insinua nell’oscurità delle baracche attraverso piccole aperture. Quel bagliore
le permette di vedere il figlio appena nato, di ripensare a Jakub, che forse li
raggiungerà quando tutto questo sarà finito. Di esercitare, infine, il diritto
sacrosanto alla speranza: il sentimento del futuro.
Salmo 44 è attraversato da una tensione costante, che cresce via via
avvicinandosi al culmine della vicenda: l’evasione dal campo, il cui esito
incerto può significare tanto la morte quanto la vita:
> “la sensazione di un momento che ha la densità dell’eternità e del sangue; il
> momento decisivo in cui si intersecano il passato, il futuro e il presente”.
Elemento simbolico, in questi attimi concitati, è il sangue: quello che Maria
sente scorrere dopo il primo rapporto con Jakub, quello che macchia i cadaveri
orrendamente uccisi e quello che segna l’inizio delle mestruazioni, proprio
nell’istante che precede l’evasione dal campo: il sanguinamento delle ferite
della storia si mescola a quello delle vicende individuali:
> “perché sembra che nel flusso quotidiano degli eventi debbano intervenire le
> morti e le nascite, affinché l’uomo rifletta su quel fiume di sangue da cui
> emergiamo e in cui torniamo ad affondare, come un fiume sotterraneo che scorre
> invisibile dentro di noi, e che riconosciamo solo quando sopraggiunge una
> torbida piena o quando il fiume si secca e si prosciuga”.
Adorno proclamò che, dopo Auschwitz, scrivere poesie sarebbe stato un atto di
barbarie. In quello che viene definito il “crinale quasi fisico di un’epoca”,
Maria si domanda se vi sia ancora spazio per una qualsiasi forma di
trascendenza. Ecco allora riaffiorare il pensiero del padre: Dio come perfetta
incarnazione della giustizia, dell’umanità, della bontà e della speranza. Alla
vigilia dell’evasione, Maria vorrebbe a sua volta credere in un Dio,
> “fatto in parti uguali di speranza, di bontà, di compassione, di amore…Sì. E
> di odio. E paura.”
Il Dio di Maria si chiama Jan, il figlio nato nel campo, il legame con il
futuro, con un orizzonte di vita aperto al vento di ogni possibilità. O forse il
Dio di Maria si chiama Max, come il deus ex machina di cui si parla più volte ma
che non incontriamo mai nel libro, e che Maria si appresta a conoscere solo anni
dopo la guerra, mentre visita con Jakub e Jan il campo di Auschwitz.
> “Sulla fronte di Jan voleva imprimere il marchio del martirio e dell’amore,
> quello che lei e Jakub si erano guadagnati con le loro sofferenze. E la
> ricompensa doveva andare a Jan. Ed era orgogliosa della sua missione:
> trasmettere a Jan la gioia di coloro che erano riusciti a creare la vita dalla
> morte e dall’amore. Donargli la gioia amara della sofferenza che lui non aveva
> provato mai sulla propria pelle, una sofferenza che tuttavia doveva essere
> presente in lui come un monito, come una gioia; come un obelisco.”
*
In un suo breve scritto, Danilo Kiš scrive che fra i suoi antenati del ramo
materno c’è un leggendario eroe montenegrino che imparò a scrivere a
cinquant’anni, sommando alla gloria della spada la gloria della penna, e anche
“un’amazzone” che per vendetta tagliò la testa a un usurpatore turco. La rarità
etnografica che Danilo rappresenta morì insieme a lui, alla fine degli anni
Ottanta.
In un’intervista per “Il Tempo” realizzata in Italia nel 1988, Maurizio Ciampa è
colpito dallo sguardo di Danilo Kiš. Gli appare incredibile che quegli occhi,
dalla luce tanto intensa, abbiano potuto fissarsi, probabilmente increduli, su
così tanto dolore.
Mi piace immaginare che, in quel preciso istante, la sua indomabile speranza
fosse segretamente affidata agli uccelli che volteggiavano sopra il giardino
dell’Hotel Quirinale di Roma.
Lorenzo Giacinto
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