Il 9 luglio del 2025 Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound, compie cento
anni. Un po’ Sfinge, un po’ menhir è lì, memoria stilita, memoria petroglifo, a
sigillare lo stigma del padre. Mary, col suo dire fermo, pieno di meli e di
vespe, pare un monito. Il padre, ‘Ez’, il poeta che si è fatto carico – come
profeta, maestro, pioniere, lottatore – del Novecento (e forse della ‘fine’
della letteratura per come l’abbiamo conosciuta, sfinendola), è nato
nell’ottobre del 1885; quarant’anni fa Mary pubblicava la ‘sua’ prima edizione
dei “Cantos” nei ‘Meridiani’ Mondadori. L’introduzione – in impeccabile
‘distanza’ – attaccava così: “The Cantos: poema scritto in pubblico, ma anche
poesia chiusa. Dai trovatori Pound ha imparato a coprire le proprie tracce. E
più i giri si volgono verso il centro di sé e della sua tribù, più si imbozzola.
Ma per chi riesce a rompere il guscio è un entrare nella ‘ghianda di luce’, un
reggere ‘la sfera di cristallo’”. Un poema che riassuma azione e divinazione,
tenacia e teurgia, storia e mito, assiduità e assurdo. Che impresa vertiginosa.
I giorni di Mary paiono consustanziali a quelli del padre: qualcosa che ha a che
vedere con il patto. Investita del compito di penetrare i “Cantos”, la ragazza
ha tremato, tumultuoso il sì, consapevole che ogni investitura è crocefissione.
Pound ha unito in sé Provenza e Giappone, Usa e Cina, eppure, di biblica essenza
è tale paternità.
Ad ogni modo. Qui si ricalca il reportage di un viaggio compiuto a Brunnenburg,
alla corte di Mary: fu stampato, in origine, tempo fa, sul “Giornale”. Mantiene
una sua stremata ‘autenticità’. L’ultima volta, ho sentito Mary lo scorso anno:
parlammo di Pound e del Giappone, del desiderio di tradurre i suoi drammi No;
lei, la ragazza, citava Aristotele – cento anni sono un soffio per chi levita
sui millenni.
**
La fine è una luna enorme, davanti all’autostrada, simile al calcagno di Dio.
Rimini-Brunnenburg andata e ritorno. In un giorno. Agosto luciferino. Oltre
novecento chilometri. Abbiamo sorbito il tè con la Storia della letteratura.
Tanto basta.
Accompagno Walter Raffaelli nel forte dei principi de Rachewiltz, appena sotto
Castel Tirolo, dove abita Mary, la figlia di Ezra Pound. Dopo Vanni Schewiller,
Raffaelli è l’editore poundiano per antonomasia: ha pubblicato testi di Ezra, le
poesie di Mary e della figlia Patrizia, i libri del marito di Mary, l’egittologo
Boris. Il castello dei de Rachewiltz è arpionato alla roccia come un urlo. La
strada per arrivare è ripida, intitolata – vivaddio – a Pound. Pochi elementi,
però, entrando nella dimora, arcigna, ricordano il poeta. Un manifesto racconta
un ciclo estivo di concerti; l’ingresso è per il Museo agricolo. Da un’aiuola
sbuca la faccia di Pound scolpita da Gaudier-Brzeska. Al castello sono ospiti
dei musicisti: nastri sonori avvolgono chi entra. Mary sbuca all’improvviso da
una porta laterale. Minuta ed energica, classe 1925, un sorriso ampio come un
balcone di gerani e quegli occhi, azzurri e spogli, che pietrificano i ricordi.
Ci conduce per una scala a chiocciola. Sulle pareti, schizzi vorticisti tratti
da “Blast”, la rivista creata da Pound insieme a Wyndham Lewis. Più tardi
sorbiremo il tè su una teca di vetro. Sotto le tazze, piccolissimi monili egizi,
occhi, orecchini, pettini, divinità enigmatiche, che adornavano tombe di tremila
anni fa.
«Vuole accomodarsi sulla sedia di William Butler Yeats o su quella di Ezra
Pound?». Un senso d’inferiorità rende le mie ossa acciaio. Per il momento resto
in piedi. Da una parte c’è il ritratto di Pound fatto da Rolando Monti: il
poeta, davanti al mare ligure, cammina in avanti, bruscamente, con la mano
sinistra in tasca, ma guarda, severo, indietro. Sotto, libri di Pound in tutte
le lingue del pianeta. Una parte della libreria è dedicata alle pubblicazioni di
Pound in italiano. Dalla stanza, un bunker in cui si è frenato il tempo, la
vista sulla valle di Tirolo è vertiginosa. «A mio padre non piacevano le case né
i nidi», mi dice la figlia, che alternativamente chiama Pound «Pound» o «mio
padre». «Secondo lui le case erano inutili. Un uomo, diceva, non ha bisogno di
case, ma di due valigie. Una per i vestiti. L’altra per i libri». La cassa dei
libri di Pound, in legno, c’è anche quella, griffata «Ezra Pound, Rapallo». Su
una parete, il calco dei visi del poeta e di Olga Rudge, l’amata, la madre di
Mary. Su un tavolo, la copia dell’Ulisse di James Joyce dedicata a Pound.
Insieme a Mary, ci accompagna nella discussione la figlia Patrizia. Più tardi,
all’uscita, incrocio l’altro figlio, Siegfried, che cavalca la bicicletta manco
fosse uno stallone. «Pound qui non stava bene», dice, sibilando, Mary.
Dopo dodici anni di reclusione nel manicomio criminale di St. Elizabeths,
Washington D.C., nell’estate del 1958, Pound attracca in Italia, a bordo della
“Cristoforo Colombo”. Va a stare da Mary e da Boris, nel castello tirolese,
vasta solitudine di campi verdi, rocce in picchiata, gelo. «Mio padre è e resta
un americano: aveva bisogno di spazio. Qui sentiva freddo. Questi luoghi gli
trasmettevano una certa angustia intellettuale. Cominciò a fare il processo a se
stesso, visto che non fu mai processato. Si accusava, si interrogava se avesse
sbagliato tutto… La gente non può immaginare, ma per sopravvivere nel campo di
prigionia a Pisa, prima, e poi al St. Elizabeths, Pound ha dovuto concentrarsi
totalmente sul suo lavoro. Altrimenti, sarebbe impazzito». Quelli del ritorno
sono anni durissimi per il poeta.
> «Non riconosce più l’Italia che ha lasciato anni prima. Gli crolla
> letteralmente il mondo addosso. La morte di Ernest Hemingway e di Hilda
> Doolittle nel 1961, quella di E.E. Cummings nel 1962, di William Carlos
> Williams nel 1963, di Thomas S. Eliot nel 1965… Pound vede morire tutti i suoi
> amici, vede disintegrarsi un’epoca».
Mentre Mary parla appaiono e scompaiono nella stanza i volti di quegli uomini
che hanno cambiato la letteratura occidentale. Di fianco a Mary si spalanca una
nicchia con la biblioteca consultata da Pound. Mi accompagna. I libri sono
coperti da una carta trasparente. Estrae alcuni volumi, una storia della Cina
antica, in francese. «Nel 1940 Pound pubblica i Cantos LII-LXXI, quelli relativi
all’epica cinese e agli scritti di John Adams. Vede, Pound a Rapallo, in quegli
anni, non faceva il fascista, studiava…». Che fine ha fatto quel mondo, gli
Eliot, i Joyce, gli Hemingway, quella energia? Oggi la cultura è mercanteggio di
sciocchezze. «Cosa la stupisce? Dopo l’epoca di Dante sono dovuti passare secoli
per avere un Leopardi!». Risposta rotonda. «E poi, io non voglio uscire da
questa stanza, sono nel pieno di quell’era, di quegli istanti, lo capisce?». Lo
capisco, certo. Anch’io vorrei annegare qui.
Ezra e Mary
Quest’anno, un ennesimo anniversario poundiano. Il rammarico di Mary si
percepisce, vivo come un fuoco, sotto pelle. «Spererei che Mondadori pubblicasse
un’edizione economica dei Cantos, per rendere più accessibile l’opera di Pound».
Invece niente. «Il problema è che per non incorrere nelle accuse di fascismo
bisogna sempre mascherare Pound con un involucro sufficientemente grande. Magari
parlarne con altri autori, in contesti più ampi». Quando Mary se ne esce,
«vorrei fondare una Repubblica poundiana!», ci zittiamo tutti. Parla piano, con
accuratezza. «Pretendo che qualcuno, il governo degli Stati Uniti d’America, un
gruppo di Università americane, restituisca a mio padre la personalità
giuridica. Dal 1945, quando, senza processo, fu internato al St. Elizabeths,
Pound non ha più riavuto i suoi diritti civili: e cos’è un uomo privo di
diritti?». Più che l’ira, la rassegnazione colora il viso di Mary, sulle cui
spalle grava un secolo di grande letteratura. Gli ultimi anni di Pound replicano
il silenzio – «che equivale a una dichiarazione di non-colpevolezza» – opposto
in quel 1945 alle autorità americane.
> «Negli ultimi anni mio padre non parlava con nessuno. Una fotografia lo
> ritrae, magrissimo, davanti a una rosa. Un articolo di Indro Montanelli, che
> in passato non era stato molto gentile con Pound, lo descrive a Venezia, in
> un’aula piena di persone, forse un’ambasciata, seduto, che gioca con un
> gatto».
L’articolo di Montanelli, Pound, uscì sul “Corriere della Sera” l’11 aprile del
1971. L’episodio ricordato da Mary è raccontato in questo modo dal grande
giornalista:
> «In salotto, si rimise sul divano al suo posto di esule e risprofondò nella
> sua lignea immobilità. Di vivo, c’erano solo le mani, che continuamente si
> cercano e auscultano, ma con dolcezza e senza orgasmo. Esse sembravano
> esercitare non so quale ipnotico potere su Crim, la gattina siamese di
> Liselotte che, accucciata ai suoi piedi, le fissava con le pupille dilatate da
> una folle stupefazione. Poi, scalato il sofà con un soffice balzo, cominciò a
> leccargliele. E infine vi si raccolse facendone la sua cuccia e reclamandone
> la carezza. Per un poco, Pound subì. Subì anche lo sguardo della bestiola che
> gli teneva gli occhi negli occhi, unica fra tutti noi a non sentirsene
> turbata. Poi la prese delicatamente per la collottola e la rimise accanto a
> sé. Ma Crim non si diede per vinta e ricominciò la sua morbida insinuante
> ascensione dal cuscino alle ginocchia di Pound e dalle ginocchia alle braccia,
> fra le quali si accoccolò. Tutti seguitavano a parlare, ma senza distogliere
> lo sguardo da quel muto dialogo – forse un idillio, forse un duello – fra Ezra
> e il gatto».
>
> (L’articolo è accolto in: E. Pound, È inutile che io parli. Interviste e
> incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021)
Alcuni taccuini mostrano la poesia estrema di Pound, quella dei Drafts and
Fragments. Scrittura minima, obliqua, confusa. Orfica. «Oggi finirei i Cantos in
un altro modo…».
Sono venuto fin quassù per capire questo. Dove finiscono davvero, in quella
turba di note dalla grafia oracolare, i Cantos? «Le ipotesi più veritiere sono
tre. I Cantos terminano con la frase “ma la bellezza esiste”, che non è
confluita nel poema. Oppure con “Un po’ di luce, come un barlume/ ci riconduca
allo splendore”. Infine, ed è la fine che preferisco, il capolavoro di Pound si
blocca su questo verso: let the wind speak, lascia che parli il vento». Il
poeta, a quel punto, non ha più verbo né voce: è realizzato.
*In copertina: Ezra e Homer Pound insieme a Mary
L'articolo “Ci riconduca allo splendore”. Alla ricerca di Ezra Pound. Ovvero, in
gita da Mary proviene da Pangea.
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Due anniversari poundiani ci ‘obbligano’ a rileggere il poeta-totem del secolo.
Il primo è sul bivio della tragedia: ottant’anni fa – era il maggio del 1945 –
Pound viene arrestato con l’accusa di alto tradimento, recluso in un campo, a
Pisa, in durissime condizioni. In giugno subisce diverse visite psichiatriche;
sarà poi scortato nel reclusorio militare di St. Elizabeths, Washington DC.
D’altro stampo il secondo anniversario: il 9 luglio Mary de Rachewiltz compie
cento anni. La figlia – nata dall’unione di Pound con la violinista Olga Rudge –
ha dedicato la vita alla divulgazione e alla traduzione delle opere del padre,
custodendone il carisma. Una mostra, allestita presso il Palais Mamming di
Merano, “Mary’s Dream. Portrait of a Lady”, ne riassume l’esistere, a suo modo
rude – e regale. In memoria di Ezra Pound, l’ultimo numero di “Studi Cattolici”,
la rivista di Ares – tra i rari, integerrimi editori ‘poundiani’ in Italia –
dedica un “Quaderno” speciale da cui abbiamo estratto lo studio di Alessandro
Rivali, già autore del libro-intervista “Ho cercato di scrivere Paradiso. Ezra
Pound nelle parole della figlia” (Mondadori, 2018). Il fascicolo è arricchito da
materiali poundiani inediti tratti dall’archivio di Cesare Cavalleri; è
trascritta inoltre una lettera di Pound alla figlia dalla prigione di Pisa il 19
ottobre del 1945, di particolare bellezza, a liceità di un ‘compito’: “sei
autorizzata a curare il mio ms [manoscritto] ma non voglio che tu venga
sommersa, preferirei piuttosto che tu scriva dieci pagine per conto tuo invece
di curarne un centinaio. Ok per un lavoro di dieci anni nel tuo tempo libero, ma
attenta a non affondare in un lavoro accademico”.
**
Ottant’anni fa – era il 3 maggio del 1945 – iniziò la prigionia del poeta Ezra
Pound (1887-1972). Sulle sue spalle pesava la gravissima accusa di tradimento,
per aver parlato – da cittadino statunitense – ai microfoni della Radio
Fascista1. Dopo i primi interrogatori, relativamente tranquilli, a Genova,
presso il Centro del controspionaggio americano distaccato presso la 92ª
Divisione Usa, il 25 maggio il poeta fu portato al campo di reclusione e
rieducazione per soldati americani costruito nel comune di Metato, a nord di
Pisa. Qui, Pound fu rinchiuso in una gabbia non troppo diversa da quelle che
abbiamo visto nei servizi tv dedicati alla prigione di Guantanamo. Esposto al
sole cocente di giorno e alla luce dei riflettori di notte, in uno spazio
ristrettissimo e senza ripari, incerto sulla sua condizione futura, che avrebbe
potuto anche condurlo sulla sedia elettrica, il poeta pensò – come mi confidò la
figlia Mary – al suicidio, forse tagliandosi i polsi con il reticolato con cui
era stata rinforzata la sua gabbia. Il 18 giugno Pound patì un collasso nervoso
dovuto all’asprezza della detenzione, e di conseguenza gli furono concesse
condizioni mitigate nell’infermeria del campo.
In queste circostanze così drammatiche il poeta continuò a scrivere
quei Cantos che nel suo intento dovevano essere il Grande poema americano e a
cui si era dedicato anima e corpo dagli anni della Prima guerra mondiale (i
primi tre canti, poi completamente rivisti, uscirono su Poetry nel 1917).
I canti nati dalla prigionia di Pisa – i famosi Pisan Cantos, vincitori del
prestigioso Premio Bollingen del 1949 – sono forse il momento più alto e
commosso della multiforme avventura poetica di Pound. Sono il personalissimo
“Purgatorio” di un uomo su cui «il sole è tramontato», che scopre che «la carità
più profonda / si trova fra chi ha infranto / le regole», che si sente un «cane
bastonato sotto la grandine» e che comprende che «chi ha trascorso un mese nelle
celle della morte / non crede più alla pena capitale / Dopo un mese nelle celle
della morte un uomo / non ammetterà gabbie per belve». Nel suo Commento
ai Cantos, in appendice all’edizione del ‘Meridiano’ Mondadori, la figlia Mary
scriverà dei Pisani: «Si possono considerare anche un testamento, un addio agli
amici e un’autobiografia degli affetti».
Pound nel campo di Pisa scrive sull’improvvisato materiale che ha a
disposizione, fosse pure un lembo di carta igienica (se ne può vedere uno in
foto nell’edizione New Directions dei Pisan Cantos curata da Richard Sieburth2).
Pound diventa uno scriba che ha per appiglio lo scrigno della memoria e per
ispirazione la realtà osservabile dalla gabbia. È «sostenuto» dall’apparizione
di una lucertola, nota «gli uccelli selvatici [che] mangiavano pane bianco»,
come «un grillino verde / smeraldo più pallido» a cui «manca la zampina destra»,
suggerisce perfino a un felino intruso di cambiare le sue abitudini: «Gatto
ladro nottambulo lascia stare i miei duri tomi / non è cibo per gatti / se tu
fossi più furbo / verresti all’ora dei pasti / quando la carne abbonda / non
puoi mangiare i manoscritti né il Confucio / e neppure la Bibbia / fuori da
questa scatola di lardo / timbrata W, 11 o o 9 o / che mi fa da guardaroba». E
ancora, Pound benedice il vento che «sa di mare» e lo «toglie all’inferno, alla
fossa / alla polvere e alla luce accecante».
Nei Pisani Pound è la «formica solitaria da un formicaio distrutto» e «dalle
rovine dell’Europa» si chiede se rivedrà «le antiche strade», inoltre riavvolge
il nastro della memoria fino al giorno in cui lasciò l’America per l’Europa con
80 dollari in tasca e il sogno di diventare poeta. Nel suo “diario di un dolore”
dietro i reticolati scriverà alcuni dei più toccanti versi del Novecento, tra
cui quelli indimenticabili del Canto 81: «Quello che veramente ami rimane, / il
resto è scorie / Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che
veramente ami è la tua vera eredità».
Il primo traduttore dei Pisani fu Alfredo Rizzardi che compendiò bene i motivi
portanti dell’opera:
> “Nei Canti pisani la fantasia scopre la memoria, e il suo calore non è più
> fuoco fatuo, ma giunge a bruciare. Costante in ogni pagina è la scoperta della
> propria vita passata, per cui le figure evocate nel cerchio infiammato della
> propria vita passata paiono ancora più reali, più vive di quelle sbiadite, che
> lo circondano. Amici. Compagni di giovinezza, figure care: evocate dalla terra
> dei morti quasi il Poeta vi avesse posato il piede e a essi parlasse”3.
*
I Drafts and Fragments
Se i Pisani sono felicemente noti, non si può dire lo stesso per l’ultimo
tassello del grande poema incompiuto (o “infinito” secondo la suggestione della
figlia Mary) dei Cantos. Quei Drafts and Fragments che in Italia conosciamo in
tre edizioni: Scheiwiller (1973, a cura di Mary de Rachewiltz), Guanda (1981, a
cura di Carlo Alberto Corsi e Michelangelo Coviello) e quella del ‘Meridiano’
Mondadori preparato sempre da Mary de Rachewiltz nel 1985 per il centenario
della nascita di Pound.
Questi ultimi frammenti sono di una bellezza lacerante. Schegge purissime.
Bagliori carichi di pietasche segnano il tempo di un uomo al tramonto della
vita. Di un uomo che aveva scontato senza processo tredici anni di manicomio
criminale a Washington e che, una volta tornato in Italia, correva l’estate del
1958, sognava di dare un “Paradiso” al suo poema. La realtà fu ben diversa,
senz’altro più cruda.
Gli anni del “ritorno” non furono facili. Pound era invecchiato, era stato
privato della personalità giuridica e affidato alla moglie Dorothy, nominata suo
tutore legale, da tanti era considerato un “nemico” dal passato ingombrante,
sentiva la mancanza di troppi amici. Eppure, in quel tempo difficile, iniziò gli
appunti per l’ultimo tratto del suo lungo viaggio. Iniziò a scrivere a
Brunnenburg, il castello di Mary e Boris de Rachewiltz a Tirolo, pochi
chilometri sopra Merano, cercando di combattere i demoni che di volta in volta
lo tentavano: i rigori del clima, l’isolamento del luogo, la solitudine, lo
spaesamento e persino la gelosia delle donne intorno a lui, come avrebbe
annotato nel Canto 113. Per il poeta Brunnenburg sarebbe dovuta essere la
personale Ezuversity dove accogliere discepoli e amici e continuare a scrivere
(come aveva fatto negli anni di reclusione in cui aveva lavorato alle
sezioni Rock Drill e Thrones dei Cantos). Invece iniziò il sofferto periodo
del tempus tacendi. Resta magnifico il ritratto di Grazia Livi
per Epoca tracciato a cinque anni di distanza dal rientro in Italia:
> “La prima cosa che colpisce, in Ezra Pound, è la sua genialità ormai vinta e
> naufragante oltre gli illusori confini del mondo. È ancora diritto e solenne
> d’aspetto, con la faccia asciutta ornata da una bianca barbetta appuntita, le
> mani magre e agili, il gesto da gentiluomo che subito si alza in piedi e offre
> la sua poltrona, ma nello stesso tempo si ha la chiara impressione che egli
> non appartenga più a sé stesso e che tutti gli elementi della sua persona
> siano coordinati fra di loro in maniera puramente fisica, funzionale. L’occhio
> è come vitreo e contempla le facce, gli oggetti con una fissità dolorante; la
> voce emerge a fatica dal torace stanco a comporre lentissime frasi meditanti;
> i piedi immobili sul tappeto, sono calzati di pantofole. Non c’è un libro,
> attorno a lui, che testimoni della sua gloria trascorsa: solo un’edizione
> parigina dei primi sedici Cantos, pubblicata nel 1925 […]. Questo, infatti, è
> Ezra Pound al giorno d’oggi: non un uomo ma un simbolo, che mantiene rapporti
> soltanto formali con la vita; non un personaggio, ma una presenza che guarda
> alle vicende di questo mondo con animo già liberato, già lontano, già
> naufragante nella tragica e illuminata saggezza che precede la fine”4.
Il Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano è una miniera di
informazioni per gli amanti di Pound, in primis perché custodisce l’archivio
Scheiwiller, l’intrepido editore che sostenne sempre il poeta americano,
pubblicando nel 1955, tra l’altro, in anteprima mondiale, Section: Rock-Drill
85-95 de los cantares.
Nell’archivio è custodita un’interessante lettera di Ugo Dadone (1886-1963),
amico di Boris e poliedrica figura di giornalista, viaggiatore e “agente
segreto”, che ospitò Pound a Roma nel 1961. Dadone raccontava con preoccupazione
a Scheiwiller le difficilissime condizioni del poeta. A suo dire, Pound si
sentiva in colpa per aver combinato “guai” a Brunnenburg, era depresso perché
non aveva più amici, il suo conto in banca era in passivo e non voleva più
pubblicare perché non sarebbe stato comunque pagato; infine, non si sentiva in
grado di fare nulla di buono perché non aveva più idee da svolgere.
Era il Pound che l’anno prima aveva scritto a Eliot (15 aprile 1960) dicendo che
si sentiva seduto sulle proprie “rovine”: a tale missiva l’autore di The Waste
Land rispose con un telegramma: «Tu sei il più grande poeta di sempre. E io devo
tutto a te».
*
L’iter della pubblicazione degli ultimi Cantos
In questo contesto delicato iniziò l’iter che avrebbe rocambolescamente portato
alla pubblicazione dei meravigliosi Drafts and Fragments. La figlia Mary parlò
di «un crepuscolo con tenerezza e rimpianto e un’affermazione della propria
innocenza», mentre Massimo Bacigalupo nel suo indispensabile L’ultimo Poundparlò
di «una nuova, sofferta, temperie psicologica»:
> “Il Poeta che s’era lasciato allegramente alle spalle la pietra miliare del
> Canto 100 senza quasi farci caso e che emerge indenne, “aloof”, cinquanta
> pagine innanzi dalle “onde scure” che hanno più d’una volta minacciato di
> sommergerlo, sente ora che la sua poesia – e la sua vita – ha i giorni
> contati, che il “nemico” – non più l’ossessivo “they” ma l’oscurità, la morte,
> e anche un mondo di cultura dal quale egli è escluso – sta guadagnando terreno
> da tutte le parti, al punto di invertire le posizioni mantenute nonostante
> tutto – in quanto conditio sine qua non dello scrivere – sino a ora”.
Nel ricco saggio Hall of Mirrors6 Peter Stoicheff ha ricostruito un periodo di
vicenda della pubblicazione di questi ultimi Cantos, pubblicazione che avvenne
con un Pound riluttante che non si sentiva pronto per l’ultima revisione e che
fin dal 17 ottobre 1959 aveva annotato «la bellezza perduta per mancanza di
energia nella mano che scrive»7.
Tutto nacque dall’intervista che Donald Hall chiese a Pound per la Paris Review,
rivista di cui Hall era allora poetry editor. Si incontrarono per tre giorni a
Roma, in via Poliziano, nel tempo in cui Pound era ospite di Dadone. Pound
voleva essere pagato per l’intervista e in risposta si sentì dire che si sarebbe
potuto fare, ma che l’intervista sarebbe dovuta essere corredata da poesie
inedite. Pound propose gli inediti Versi prosaici e alcune lettere inedite a
Basil Bunting, ma la proposta venne respinta; la rivista rilanciò per avere
un’anteprima di nuovi Cantos. Pound mandò le bozze di sette Canti acconsentendo
poi alla pubblicazione dei Canti 115 e 116. Quando James Laughlin, lo storico
editore di Pound con le sue New Directions, vide il materiale, scrisse al poeta
che aveva letto qualcosa di veramente meraviglioso, erano versi semplicemente
«magnifici». Non fu però Laughlin a pubblicare l’ultimo tassello dei Cantos. Fu
“bruciato” nel 1967 dall’edizione pirata di Fuck You Press (un nome un
programma…) di Ed Sanders, che aveva avuto il materiale “incandescente” da Tom
Clark, un ragazzo che stava preparando una tesi sulla struttura dei Cantos e che
a sua volta aveva ricevuto i dattiloscritti da Hall. La Fuck Press stampò (o
disse di aver stampato…) 300 copie dei Drafts and Fragments che andarono subito
a ruba. Per Laughlin si trattò di un’edizione disgustosa, ma fu il volano perché
New Directions desse il via all’edizione autorizzata che noi conosciamo. Una
curiosità: c’è stato anche uno studioso come Joshua Kotin che si è messo sulle
tracce delle 300 copie per cercare di “mapparle” (finora è riuscito a
rintracciare il destino di 152 esemplari)8.
Una nota a margine. L’intervista di Pound con Hall fu pubblicata nel
prezioso Per conoscere Pound9 e offre molti spunti sugli ultimi pensieri del
poeta. Pound ricordava come un poeta dovesse avere «una curiosità continua»,
come l’artista «dovesse continuare a muoversi». Non dissimile il suo consiglio
per i giovani. A suo parere andavano incoraggiati a “migliorare la loro
curiosità” senza fingere,
> “ma ciò non basta. La pura registrazione del mal di pancia, il solo svuotare
> il cestino non basta. Infatti la coppa di ponce degli studenti dell’Università
> di Pennsylvania aveva come motto: «Qualsiasi cretino può essere spontaneo»”.
Nel corso della conversazione Pound ammetteva le sue difficoltà a concludere
i Cantos con un paradiso:
> “È difficile scrivere il paradiso quando tutti i segni superficiali dicono
> che dovresti scrivere un’apocalisse. È più facile trovare abitanti per
> l’inferno o anche per il purgatorio. Sto cercando di riunire e fissare i più
> alti voli della mente…”
*
La verità sta nella tenerezza
Pur con queste drammatiche premesse, gli ultimi frammenti di Pound restano tra i
momenti più alti della sua poesia. Sono l’esame di coscienza di un grande
dolente all’epilogo della vita. Sono le illuminazioni piene di tenerezza di un
uomo che ha inseguito l’arte (rinnovandola) in ogni istante della sua vita. Che
ha visto da vicino la bellezza, la morte e la disperazione. È un poeta in cerca
di «una quieta dimora», di «un amato e quieto paradiso» e che, come scrive
nel Canto 110, riesce a vedere con occhi di «corallo o turchese». È una
scrittura difficile, ma allo stesso tempo carica di accensioni ed epifanie.
Ritornano i luoghi cari, dalla Liguria a Venezia, gli affetti, gli eletti da
inserire nel paradiso (Mozart, Agassiz e Linneo), i versi perfetti segnati dalla
lunga confidenza con l’Estremo Oriente: «Il mare oltre i tetti, ma sempre mare e
promontorio. / E in ogni donna, pur fra l’acredine c’è una tenerezza, / Una luce
azzurra sotto le stelle».
È un poeta che, come tutti i grandi poeti, dona sentenze memorabili che
racchiudono un mondo: «La verità sta nella tenerezza». Ritorna il tema
dell’umiltà, così presente nei Pisani, perché è «un uomo che cerca il bene, / e
fa il male», ed è consapevole che «la bellezza non sta nella pazzia / Anche se
cocci ed errori miei mi circondano. / E non sono un semidio, / Non riesco a
dargli un nesso. / Se in casa l’amore manca, manca tutto».
E, ancora, «Ammettere l’errore e tenere al giusto: / Carità talvolta io l’ebbi,
/ non riesco a farla fluire. / Un po’ di luce, come un barlume / ci riconduca
allo splendore ora».
Un poeta della sensibilità di Giovanni Raboni colse al volo la grandezza di
questi frammenti. Nell’introduzione alla bellissima edizione Guanda preparò una
memorabile pagina di accompagnamento, in cui tra l’altro affermava:
> “Col passare del tempo, la grandezza della poesia di Pound mi appare sempre
> più evidente, solitaria e indimostrabile. A volte ho l’impressione di trovarmi
> solo a contemplarla, e mi prende il timore che, a chi me ne chiedesse conto,
> non saprei rispondere che con un gesto di rinuncia o una parola di sgomento.
> Altre volte, è come se questa grandezza mi fosse stata rivelata in sogno, e il
> suo segreto, la sua prova scomparissero, si dissolvessero ogni mattina con
> l’avvento della luce… […] Ma ecco, intanto, una buona occasione per rileggere,
> e ripensare, Pound: questi stupendi Drafts & Fragments, che… hanno il grande
> merito o vantaggio di mostrarci un Pound anche praticamente in bilico e
> tensione fra “poema” e “frammento”, fra la drammatica, impossibile ricerca
> dell’unità e della compiutezza e l’esaltante vitalità della dispersione,
> dell’esplosione, del molteplice. Insomma, un Pound ancora più fortemente e
> visibilmente “potenziale” – sino al puro abbozzo, al puro appunto stenografico
> –, ancora più vicino del solito a quello stato di energia pura, non incarnata
> né incarnabile una volta per tutte, che costituisce la verità più profonda (il
> segno – il sogno – più vero) della sua grandezza”.
Il parere di Raboni si accorda perfettamente a quanto scrisse Ford Madox Ford
per l’opuscolo che accompagnò la pubblicazione americana di XXX Cantos nel
1933:
> “La prima parola da dire sui Cantos è bellezza. E l’ultima sarà bellezza. La
> loro straordinaria incomparabile bellezza. Formano una storia del mondo senza
> eguali vista da queste coste che sono la culla della nostra civiltà… E una
> sola cosa è necessaria alla nostra società più della Storia. Ed è che ci sia
> da qualche parte un’opera d’arte o qualcuno che produce un’opera d’arte che
> ogni volta che la visiti susciterà infallibilmente in te delle emozioni.
> Questo è quanto fanno i Cantos”.
E per avere la misura di questa tersa grandezza forse non c’è modo migliore che
riportare alcuni luminosi frammenti della versione finale dei Cantos scelta da
Mary de Rachewiltz:
“Ho provato a scrivere il Paradiso
non ti muovere,
lascia parlare il vento
così è Paradiso
Lascia che gli Dei perdonino quel che
ho costruito
Chi ho amato cerchi di perdonare
quello che ho costruito
[…]
Uomini siate non distruttori”.
Alessandro Rivali
1 Sulla vicenda si veda il recente Luca Gallesi, Ezra Pound a Pisa – Un poeta in
prigione, Ares, Milano 2024. Per un inquadramento a tutto tondo degli ultimi
anni di Pound: A. David Moody, Ezra Pound: poet, vol. III, The Tragic Years
1939-1972, Oxford University Press, Oxford 2015.
2 New Directions, New York 2003.
3 A. Rizzardi, La maschera e la poesia in Ezra Pound, in Canti Pisani di Ezra
Pound, Guanda, Parma 1953, p. XXIII.
4 G. Livi, “Vi parla Ezra Pound: Io so di non sapere nulla”, intervista con Ezra
Pound, Epoca, n. 652, 24 marzo 1963, pp. 90-93.
5 M. Bacigalupo, L’ultimo Pound, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1981, p.
525.
6 P. Stoicheff, The Hall of Mirrors: “Drafts & Fragments” and the End of Ezra
Pound’s “Cantos”, University of Michigan Press, Michigan 1995.
7 Commento a Stesure e frammenti dei Cantos CX-CXVII, in E. Pound, I Cantos, a
cura di Mary de Rachewiltz, Meridiani Mondadori, Milano 1985, p. 1629.
8 Sulla vicenda, l’articolo dello stesso J. Kotin “The Fuck You Press Cantos: A
Census”, realitystudio.org/bibliographic-bunker/fuck-you-press-archive/the-fuck-you-press-cantos-a-census/
9 A cura di Mary de Rachewiltz, con un saggio introduttivo di M.L. Ardizzone,
Mondadori, Milano 1989.
L'articolo “La verità sta nella tenerezza”. Gli ultimi Cantos: il testamento di
Ezra Pound proviene da Pangea.
Ci fu un tempo – non troppo lontano, eppure, pleistocenico all’oggi – in cui il
poeta era la creatura critica. Si poneva come punto di contraddizione, come
scandalo – era l’immorale e l’immolato. Tale era il significato, ai suoi occhi,
della parola politica: imporsi dal lato dell’assoluta debolezza. Irrompere a
difesa. Irritare con la corona di spine delle cause perse.
Di Nicolas Born, in Italia, non c’è quasi nulla. Grazie a Giovanni Nadiani e
alle edizioni Mobydick di Faenza, uscì, nel 2012, una selezione di
testi, Nessuno per sé, tutti per nessuno; Gio Batta Bucciol, nel 2019, ha
dedicato al poeta tedesco un servizio su “Poesia” (n. 347, “Tra bagliori e
abbagli”). Eppure, a dire di chi sa, Nicolas Born è stato tra i più importanti
poeti di Germania negli anni Sessanta e Settanta. Tra l’altro, uno dei più
venduti e dei più presenti nel cosiddetto ‘dibattito pubblico’. Das Auge des
Entdeckers, la raccolta edita nel 1972, fu un cambio di passo nella poesia del
tempo: Nicolas Born – che in verità si chiamava Klaus, era nato a Duisburg
l’ultimo giorno del 1937, il padre, poliziotto, aveva combattuto sul fronte
russo, a Stalingrado – si ribellava ai messia delle folle che annientano la
singolarità dell’individuo; odiava gli ideologi del progresso, “il mondo della
macchina”; quando lo invitavano in tivù si scagliava contro “il folle sistema
della nostra realtà”. In prima battuta, il libro vendette ottomila copie;
quell’anno, Born conobbe Peter Handke. “Qui fa freddo ed è meraviglioso perché
nulla può nascondersi. I fiammiferi ardono sul ghiaccio: vorrei comprarmi dei
pattini e noi dovremmo parlare, parlare, lontano dal chiasso letterario”, gli
scrisse, tra l’altro, a ridosso del suo compleanno.
A Martin Grzimek – scrittore ancora oggi sugli scudi – il poeta dettagliò in
qualche modo la sua ferrea poetica:
> “Non dirla rassegnazione, scetticismo, piuttosto – se non è anche questo un
> inganno. La letteratura in cui credo è quella dell’insicurezza universale, la
> veglia sulla catastrofe. La letteratura deve scuotere questo clima di false
> certezze, la fiducia in se stessi di chi governa sulla crisi di milioni. Alla
> scrittura questo è legittimo, allo scrittore non si può chiedere di più:
> anch’egli va ascritto tra i patetici, tra i miserabili”.
Era il marzo del 1978 – sarebbe morto poco dopo, nel dicembre del 1979, Nicolas
Born, di un tumore ai polmoni, fulminante. Aveva da poco pubblicato l’ultimo
libro, un romanzo, Die Fälschung: il protagonista è un giornalista inviato in
Libano a raccontare una ‘realtà’ di cui non riconosce più i contorni. È una
sorta di epica dell’atrofia della scrittura, genia di fraintesi. Il libro fu
tradotto in un film, L’inganno (1981), con Bruno Ganz nel ruolo centrale.
La stessa violenta lotta contro il reale, contro l’insensatezza, a stordire
l’assurdo, permea i versi di Born. Autodidatta, cominciò a lavorare in una
tipografia, scriveva nei ritagli di tempo. Fu Ernst Meister, il poeta dalla
scrittura enigmatica, a riconoscere per primo in Nicolas Born le stimmate del
talento. Così, Born, nel 1963, riuscì a partecipare agli importanti
“Literarisches Colloquium” a Berlino: diventò amico di Günter Grass e di Uwe
Johnson, lo scrittore de I giorni e gli anni. Si diede, con un certo successo,
al romanzo: Die erdabgewandte Seite der Geschichte fu tradotto in diverse
lingue. Una borsa di studio, nel 1970, gli consentì di perfezionare le proprie
ricerche all’Università dell’Iowa: conobbe, tra i tanti, Charles Bukowski e
Allen Ginsberg. Preferiva un linguaggio ‘oggettivo’, finché l’oggetto, tuttavia,
finisce per liquefarsi tra le sue mani: in quel liquame di immagini, di tumide
asserzioni, il lettore si aggira a piedi nudi, il lettore deve bagnarsi.
Riuscì a comprarsi una casa nel Wendland, in Bassa Sassonia, tra i boschi:
scrisse per bambini, scrisse per la radio, diventò un autore imprescindibile,
così si diceva un tempo. Un segno lo marchiò come il forcipe dell’angelo: il 3
settembre del 1976 la casa nel bosco va a fuoco, inceneriti la biblioteca e i
manoscritti di Born. Al poeta Jürgen Theobaldy, poco dopo, scrisse “Vorrei
prendere le distanze da così tante cose – è ingiusto che si debbano ‘conoscere’
– che tutto allora divenga linguaggio”.
Venticinque anni dopo la sua morte, Katharina Born, la figlia più piccola, ha
ripubblicato i suoi versi, con diversi inediti. È stata una sorta di rinascita,
culminata con un paio di premi postumi e il riconoscimento dell’alto, grigio
magistero di Born. Katharina era nata nel 1973, dalla seconda moglie di Born: il
poeta aveva tre figlie.
In una poesia epigrafica, Michael Krüger – la cui opera, in Italia, giace tra
Einaudi, La Nave di Teseo, Mondadori e Donzelli – ricorda la sua amicizia con
Nicolas Born:
> “Parlavamo di
> ciò che non era
> di ciò che non sarà.
> Ah, la triste ricchezza
> dei suoi canti, grida così acute.
> C’erano ragni anche allora:
> ora tessono una tela
> in cui sto soffocando”.
Che immagine ambigua e robusta. A volte, l’amicizia è una ragnatela: si scopre
di essere sotto veleno dopo tanto tempo, quando il ragno è ormai assente. A
volte, è il poeta a tessere una tela per intrappolarsi, ragno a se stesso.
***
Dentro il poema
Non puoi vivere
sfidando la realtà
della realtà non si vive
ma puoi sopravvivere all’assedio
e riprenderti tutto
e attraversare la vita
tramite rapida virtù di immagini
tu eri questo
tu eri vita che pullula
popolo che ansima sotto le lapidi
con sospiro continentale
da te agli antenati
mutilata intromissione
terra e acqua restano
il cielo resta
tu resisti
tu, l’impreparato a tutto
piccoli soli imperlano la tua democrazia e
l’eletto alla vita e alla morte
tu e le tue molte belle voci
tu la moltitudine
tu la pelle la pelle e in fondo
nient’altro che la pelle
tu il pioniere della vita
l’impresario delle bianche apparizioni
tu sei un essere spaziale che fluttua
tu l’autore dei flussi della storia
puoi stampare il tempo come un libro
tu pesi setacci ami mentre macerie di dittafoni
rombano nel vento
l’irragionevolezza è alla sua gemma
tu sei il fiore dell’irragionevolezza
tu sei giorno e notte ogni giorno e notte
tu sei l’omicida
apolide nel suo stesso sangue
sei il padre e il figlio
sei l’indiano a processo
sei i colori e le razze
sei la vedova e l’orfano
sei la rivolta dei prigionieri
sei l’ululato increscioso
coltelli spiritati e colpi sparati
sei il magnifico corridore della maratona del sogno
acquazzone di segni nella capitale democratica
sei il devastatore di tutte le catene
sei la formula magica delle segrete delle luce
l’insegna
l’avanguardia dei refettori
sei l’umano e
l’animale che odora di morte
sei solo e sei tutto
sei la tua morte e il grande desiderio
sei il progetto che infuria e
sei la tua morte
*
Per Pasolini
In sogno, Pasolini mi si avvicina
nel ruolo del protagonista.
Splende, lampeggia blu come una macchina
un attore in tutto –
Pasolini salta tra vaste pozzanghere, può essere
basso, laido, oscuro, asociale
ma è Pasolini ed è sempre altro a se stesso.
Poi si ferma sulla soglia delle palazzine
saluta dalle impalcature.
Indica una piramide di vecchie auto:
L’intero borgo
è il suo amante
e con la macchina da presa scopre paesi
che non può più vedere attraverso gli occhiali scuri.
Le mia immagini mugolano dice
dovrei fare film muti;
non sento una parola da anni.
Si strofina su di me e questo
mi piace.
Poi cade in una buca del cantiere.
Un auto arde.
Pioggia rimbalza sul mare.
Nel cinema, l’acquazzone è bianco – ancora.
olas
*
L’apparizione di un uomo nella folla
Benedetto essere soli
nel gulag dei pensieri, senza testimoni
senza l’occhio del pioniere che scorge il primato
senza l’orecchio disciplinato della folla.
Che valore ha un fatto che non si può spartire?
Che cos’è l’universo senza il tuo tremare
il tuo tremore sul palco davanti a file di sedie vuote?
La folla marcia sulla terra
e nessuno muore nella folla
sul dorso di ragnatele ronzanti
finché non accade la grande contraddizione:
l’apparizione di un uomo nella folla
*
Martedì, orrore
I dormienti
binari del tram, pavimentati
di asfalto, aspettano i vecchi tempi
come il ritorno della scrittura a mano
Inattesa pioggia, è pomeriggio
un po’ di luce fa nido sui volti
vergati in grigio, nei campi
tenebrosi canali, alberi pigmei
Colletti bagnati, bagnate le labbra
un vecchio guidato da una bimba con le trecce bagnate
Silos di cemento sopra binari morti
stormi di uccelli come stendardi
una commessa saluta dal vetro
I sobborghi si infiammano verso le sei
e io penso alla scoperta dell’“isola della mente”
Una gru, promontori di crudo cemento
guardo un mondo che ascende
che sa cosa significhi sopravvivere
*
La ballerina
Piuttosto piccola sullo schermo
signore e signori –
la ballerina
balla meravigliosamente anche per noi profani
favolose fiabe
di morte e di mutamento
a teatro
So che qualcuno dice
chi è quella?
dovrebbe ballare
dovrebbe muovere le gambe
con coerenza
in modo da non essere soltanto bella
ma disciplinata
con la sapienza sulla spalle
una danzatrice e un’artista
ben recinta nel suo ruolo
I miei amici hanno ragione
quanto conforta
esprimere il proprio talento
con totale dedizione
guardate la ballerina
osservate quei meditabondi gesti
la risonanza malinconica
in minore
la posa divina
guardate la ballerina sullo schermo
che interpreta il mondo
meglio del notiziario
*
Desideri
I fatti non sono che torbide torture.
Non sarebbe bello avere tre desideri
soltanto, ma che si avverino tutti?
Vorrei una vita senza pause
mentre i muri vengono presi a fucilati
rispetto a una vita percorsa in rapina
dai tesorieri.
Vorrei scrivere lettere in cui
esisto in parte.
Vorrei un libro in cui tutti abbiano accesso
e da cui possa uscire senza troppi drammi.
Non vorrei mai dimenticarmi che è più bello
amarti che essere amato.
Nicolas Born
L'articolo “Tu, l’impreparato a tutto”. Vita & poesia di Nicolas Born proviene
da Pangea.
La letteratura è come un maestoso iceberg sospinto senza posa nelle acque
polari. Nella parte emersa si mostra la storia “diurna” della letteratura,
quella che trova posto nelle biblioteche, nei manuali didattici e nelle
antologie. Negli abissi gelidi e cupi dimora invece il suo gemello “notturno” –
un’Atlantide sommersa di pagine e pagine destinate a un pugno di esploratori
estremi. L’astronomia ci presta l’immagine del satellite naturale che gravita
attorno al suo astro di riferimento e gli conferisce caratteristiche speciali:
moti, rivoluzioni e maree. Trasferendoci sul piano della letteratura, potremmo
dire che Memorie di Adriano è il pianeta e i Taccuini di appunti la sua luna
privata.
Carnets de notes: meno di quindici pagine, dense e tuttavia aeree, che si
leggono alla fine del libro e che vi gettano una luce laterale, descrivendo
l’arco interiore di una gestazione e di un corpo a corpo con l’opera durato un
trentennio.
Come nasce la prima immagine di un libro nella mente di uno scrittore? Che ruolo
giocano le arti visive nel caleidoscopio multiforme che romanticamente definiamo
ispirazione? E in che modo un libro, legandosi indissolubilmente alla biografia
e alle sue vicende, diventa talmente rilevante per un poeta da trasformarsi in
destino? A queste e tante altre domande cercano di rispondere i Carnets de
notes, tra annotazioni, lampi e memorie di una vita intera.
Un paesaggio in particolare può diventare letteratura – topografia mitica
dell’immaginazione. A soli 21 anni, nel 1924, Marguerite Yourcenar visita per la
prima volta Villa Adriana, a Tivoli, con l’amato padre Michel. L’impatto emotivo
e intellettuale del luogo lascia in lei una traccia profonda. È qui, tra i
filari di cipressi ormai scomparsi e il frinire millenario e solare delle
cicale, che nasce il primo nucleo immaginativo del suo capolavoro. Primo vagito
che sarà suggellato, verso il 1927, dalla lettura appassionata della monumentale
corrispondenza di Flaubert. Vi trova e vi sottolinea una frase indimenticabile:
> «Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco
> Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».
La Yourcenar avrebbe dedicato gran parte della sua vita a cercare di descrivere
quest’uomo.
È sorte di molti poeti e scrittori misurare concretamente la propria
inadeguatezza di fronte al compito che ci si era posti. Gli esiti di tale
spietata e lucida consapevolezza sono molteplici: la fuga verso il silenzio, il
revolver o le fiamme dove i manoscritti diventano cenere. Nel 1929, Yourcenar
brucia senza molte esitazioni la prima stesura di Memorie di Adriano.
Da quel fatidico anno, la vita le impone appuntamenti significativi: con
l’amore, la cui disillusione detta le prose liriche di Feux; con la storia, che
già mostra i segnali premonitori della sciagura imminente; infine con la
geografia privata, in virtù della quale la scrittrice lascia l’Europa per vivere
negli Stati Uniti, insieme alla fedele compagna Grace Frick. È qui, nel silenzio
ovattato di un’isoletta americana che si erge come avamposto atlantico, che
Marguerite vivrà fino alla morte, senza mai rinunciare peraltro ai tanti viaggi.
La quiete marina di Petite Plaisance è la cornice ideale in cui i ricordi della
donna riaffiorano dalla sfera del vissuto per trasformarsi in letteratura. Si
ridestano le memorie degli anni europei, gli incontri emblematici e le letture
importanti: le mattine trascorse a Villa Adriana, il brulichio del quartiere
Plaka di Atene, l’inquieto vagare sulle acque dell’Egeo e sulle strade dell’Asia
Minore.
> «Per riuscire a utilizzare questi ricordi, che sono i miei, essi hanno dovuto
> allontanarsi da me quanto il II secolo».
Come dire: quanto di noi e dei giorni vissuti altrove rimane nel nostro percorso
all’interno del Labirinto, dove, come un Minotauro assassino e liberatore, ci
attende l’opera compiuta?
Per tre decenni vaga la Yourcenar tra piani temporali e spaziali sciolti dal
presente e ricomposti solo nelle frontiere notturne del sogno. Nel 1949, un
plico di documenti lasciato in Svizzera prima della guerra e di cui si era persa
traccia, raggiunge Mount Desert Island. Il paragone con un messaggio nella
bottiglia gettata in mare non è del tutto improprio. Da quella scatola di
cartone si risvegliano antichi progetti, immagini che sembravano perdute
accarezzano di nuovo la sensibilità di Marguerite. Ogni scrittore che si
rispetti, d’altronde, fa i conti con le sue Erinni private che non gli perdonano
l’incompiuto. Nel tumulto dei gesti e della storia, i frammenti di un libro
sempre vagheggiato erano sopravvissuti in qualche modo alle migrazioni, alle
guerre e ai falò, per giungere infine nelle mani di una donna intenta a
riordinare la galleria di vivi e di morti nella sua esistenza.
I manoscritti non bruciano – si legge nello straordinario Il Maestro e
Margherita di Bulgakov. Dovremmo dire meglio: non bruciano completamente. A
Marguerite Yourcenar basta leggere la celebre formula iniziale «Mon cher
Marc»: il libro che si era portata sempre dentro andava finalmente scritto e
salvato dalle fiamme.
È possibile praticare un’archeologia dell’interiorità? Rinvenire in sé, scavando
tra le stratificazioni del passato, le testimonianze di quello che si era?
Ritrovare nel presente la scia delle intuizioni di un tempo? Nel tentativo di
entrare nell’intimità di un altro uomo, per giunta vissuto due millenni prima,
la Yourcenar deve colmare, prima di tutto, la distanza che la separa da sé
stessa. D’altronde, la vita di ognuno di noi non è che somma di sottrazioni –
così come un libro, fissato ormai nella sua forma ultima e definitiva, è l’esito
di una scelta in virtù della quale le lacune, le reticenze e le omissioni
costellano le pagine come i crateri le superfici di un pianeta.
> «Ripetersi senza tregua che tutto quello che racconto qui è falsato da quello
> che non racconto; queste note non circondano che una lacuna. Non vi si parla
> di ciò che facevo in quegli anni difficili, dei pensieri, i lavori, le
> angosce, le gioie, né dell’immensa ripercussione degli avvenimenti esteriori e
> della perenne prova di sé alla pietra di paragone dei fatti. Passo altresì
> sotto silenzio le esperienze della malattia e altre più segrete che queste
> portano con sé; e la perpetua presenza o ricerca dell’amore».
Ciò che rincuora Marguerite, nella notte della sua vita e della storia, è
l’immediata e plastica bellezza delle arti visive: l’obbedienza del marmo alla
mano, la linea chiara e precisa del disegno, il dettaglio che vivifica la
materia. Nel 1941, mentre si trova a New York con Grace, la scrittrice scopre
per caso in un negozio di arte quattro stampe di Piranesi. Una di esse raffigura
una veduta di Villa Adriana e lo splendido Canopo: l’architettura evocata
dall’artista sembra descrivere quella inquieta di un mondo interiore. Nelle sale
di un museo nel Connecticut, una tela di ambiente romano del Canaletto e
l’immagine del Pantheon con un cielo al tramonto, suscitano in Marguerite una
sensazione di calda serenità. Ma sono soprattutto le raffigurazioni di Antinoo a
provocare nella scrittrice una sorta di identificazione emozionale con
l’imperatore: un bassorilievo a firma di Antoniano di Afrodisia e un’illustre
sardonica dello stesso autore. Questi due pregevoli ritratti testimoniano che il
marmo e il minerale hanno resistito per secoli alla follia degli uomini,
obbedendo alla loro vocazione di amore e candore.
Si può davvero affermare che Memorie di Adriano sia il resoconto fedele di un
uomo e di un’epoca intera che ne fu testimone? Nabokov sosteneva che tutti i più
grandi libri – e questo vi figura a pieno titolo – non sono altro che
meravigliose fiabe. C’è qualcosa di irrevocabile che colpisce il lettore
dei Carnets: il senso che Memorie di Adriano sia nato non tanto da un atto
creativo, ma dall’obbedienza a un destino avvertito come ineludibile.
Dopo aver terminato il libro, Marguerite Yourcenar ritorna a Villa Adriana. Da
quella mattina del 1924 sono passati più o meno quarant’anni. Adempiuto un
destino, sfamata la tigre che le ruggiva in petto, è tempo di volgersi altrove.
> «Ma non sento più la presenza immediata di quegli esseri, l’attualità di quei
> fatti; mi restano vicini ma ormai sono superati, né più né meno come i ricordi
> della mia esistenza. I nostri rapporti con gli altri non hanno che una durata;
> quando si è ottenuta la soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il
> servigio, compiuta l’opera, cessano; quel che ero capace di dire è stato
> detto; quello che potevo apprendere è stato appreso.
>
> Occupiamoci ora di altri lavori».
Lorenzo Giacinto
L'articolo “Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per
un’archeologia dell’interiorità proviene da Pangea.
August Strindberg sta alla solitudine come Marcel Proust sta alla
memoria. Parafrasando quello che una volta Walter Benjamin ha detto di Proust,
si può dire che per lo scrittore svedese la parte principale non è affatto
svolta da ciò che egli ha vissuto, ma dalla tela di Penelope della sua
solitudine.
D’altra parte basta leggere Solo, il romanzo breve pubblicato nel 1903 per avere
conferma di quanto ho appena affermato. Il protagonista-narrante è un
cinquantenne vedovo che, dopo avere vissuto per una decina di anni in provincia,
torna nella sua città natale, Stoccolma. Qui si trova faccia a faccia con la
noia per i vuoti rituali sociali travestiti da normalità e per le futili
chiacchiere da caffè con i vecchi amici di un tempo, così sceglie
deliberatamente l’isolamento ed elegge la solitudine come il luogo più autentico
dove realizzare se stesso. Affitta una camera ammobiliata da cui esce solo per
delle brevi passeggiate, evitando ogni rapporto con il prossimo che non sia
quello puramente formale della sopravvivenza quotidiana. Non vuole avere niente
a che fare con quello che gli altri chiamano progresso, civiltà, normalità.
Per molti versi Solo è la rappresentazione del conflitto insanabile tra la
società e l’individuo.
> «Nel rompere i contatti con gli altri ebbi dapprima l’impressione di perdere
> energia, ma intanto il mio io cominciava come a coagularsi, ad addensarsi
> intorno a un nucleo in cui si riunivano, si fondevano le mie sensazioni, e la
> mia anima le assorbiva come nutrimento. Inoltre mi abituai a dare corpo a
> qualsiasi cosa vedessi o udissi in casa, per la strada o nella natura, e nel
> trasferire ogni mia percezione al lavoro in corso sentivo crescere il mio
> capitale; così, gli studi che facevo in solitudine risultavano più
> significativi degli studi sulla gente nella mia vita di società.»
Quella dell’io-narrante di Solo è una solitudine voluta e ricercata, una
solitudine allo stato puro, tonica, fortificante, tutta tesa a riassaporare
idee, ricordi e istanti vissuti sotto un’ottica diversa. Una condizione che
nella visione di Strindberg è essenziale per conoscere se stessi, ritrovarsi e
approfondire la propria identità.
Coprotagonista assoluta del romanzo è Stoccolma, rappresentata nello
scorrere dei giorni, dei mesi, delle stagioni, dalle luminose e interminabili
serate estive alle cupe e brevi giornate invernali e alla quale l’autore si
abbandona senza opporre resistenza.
> «È di nuovo inverno, il cielo è grigio e la luce viene dal basso, dalla neve
> candida per terra.»
Case e strade hanno il potere di stimolare sensazioni del tutto particolari. In
una delle scene più belle di Solo il protagonista ritorna per qualche minuto in
una casa dove aveva abitato molti anni prima e nel suo animo riprendono vita le
speranze e le paure di quando era giovane. Come dice bene Franco Perrelli nella
acuta e penetrante introduzione al romanzo presente nell’edizione di Carbonio,
in Solo «Stoccolma è soprattutto un luogo intimo, che vibra dentro e con il suo
essere».
In questo mare di solitudine però affiorano delle isole di socialità. In modo in
apparenza del tutto involontario il personaggio narrante ha delle frequentazioni
con quelle che lui definisce le “conoscenze impersonali”; sono gli estranei
incrociati per caso in strada oppure visti di sfuggita attraverso le finestre
illuminate di una casa. Ecco che allora, quasi per magia, quelle figure
intraviste solo per qualche istante diventano la scintilla per accendere
l’immaginazione del protagonista, che in questo modo approfitta della solitudine
in cui è immerso per trasformare e potenziare a dismisura il proprio io.
Un processo con un fascino del tutto particolare e anche un po’ inquietante.
Leggete la citazione che segue e ditemi se non è vero che per molti versi fa
venire alla mente, mutatis mutandis, la metamorfosi raccontata da Stevenson
ne Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde:
> «Quando però torno a casa e mi siedo alla scrivania mi sento veramente vivo…
> sguscio fuori dalla mia persona e parlo come fossi un bambino, una donna o un
> vecchio: sono re e mendicante, sono il signore potente, il tiranno e il più
> disprezzato, il ribelle sconfitto; qualsiasi opinione mi appartiene e
> qualsiasi religione è la mia; vivo in qualsiasi epoca, e io stesso non esisto
> più.»
Chi lo conosce e ha letto un po’ dei suoi libri sa bene che esistono molti
Strindberg diversi: ildrammaturgo, il romanziere, il botanico, il chimico e
persino l’occultista. La sua è stata una personalità complessa e tormentata che
ha attraversato molte crisi, e così abbiamo avuto lo Strindberg antifemminista,
quello ateo, il precursore dell’autoanalisi psicologica, lo scrittore
naturalista e quello espressionista, il mistico seguace di Swedenborg e poi di
Nietzsche. Quello che incontriamo in Solo è uno Strindberg lontano dai toni
veementi e dalle furie selvagge per cui è più conosciuto. Le sue proverbiali
invettive qui lasciano il posto a toni più sommessi, i suoi furori misogini
vengono messi in disparte per lasciare spazio a tormenti più intimi e personali.
Lo Strindberg brutale misantropo dei tanti drammi teatrali che ha scritto, il
tormentato visionario delle sue opere più autobiografiche si prende una pausa di
riflessione e preferisce volgersi verso le sfumature più sensibili del proprio
animo. In Solo Strindberg ha deposto la sciabola dell’invettiva per affidarsi al
fioretto della poesia. In queste poco più di cento pagine prima ancora del suono
della sua voce sentiamo i battiti del suo cuore.
Silvano Calzini
L'articolo “…e io stesso non esisto più”. Divorando il cuore di Strindberg
proviene da Pangea.
Forse, fra i lettori, proprio coloro che provano una certa inquietudine al
pensiero di ritrovarsi su un aereo e dover volare, spesso loro malgrado,
finiscono per apprezzare maggiormente i racconti e i romanzi dedicati a questo
strano desiderio umano di “staccare l’ombra da terra”. Siamo, o siamo stati,
tutti lettori appassionati di Saint-Exupéry nonché, in tempi più recenti, di
quel notevolissimo e sfortunato scrittore – sfortunato come uomo, ma fortunato e
talentuosissimo come scrittore – che è stato Daniele Del Giudice.
Il mondo degli aerei e dei piloti torna prepotentemente in primo piano
nell’opera di un altro grande scrittore del Novecento, lo statunitense James
Salter, ancora troppo poco conosciuto da noi, benché Guanda ne abbia pubblicato
quasi tutta l’opera. Di Salter ricorre ora un doppio anniversario: cent’anni
dalla nascita, avvenuta il 10 giugno 1925 e dieci dalla morte, il 19 giugno
2015, subito dopo il compimento dei novant’anni. Una vita lunga e, come vedremo,
anche complessa, a cui non corrisponde la mole di pubblicazioni che ci si
potrebbe forse aspettare. In termini quantitativi l’output è stato nell’insieme
modesto, insomma, ma se si passa, come si dovrebbe, a una valutazione
qualitativa, il discorso cambia radicalmente, perché Salter è da considerarsi
una figura di assoluto spicco nella letteratura statunitense del secondo
dopoguerra. La sua scrittura, scrive John Irving nella postfazione all’edizione
italiana di A Sport and a Pastime(Un gioco e un passatempo, edito da Rizzoli nel
2006 e riproposto da Guanda nel 2015) – un titolo, sia detto per inciso, tratto
curiosamente da una sura del Corano – “trasforma i suoi libri, romanzi o memorie
che siano, in risultati letterari eccezionali”, tanto che qualunque scrittore
contemporaneo “si sentirà umiliato dalla sua lingua”.
Nato nel New Jersey, all’età di appena due anni Salter, che in realtà si
chiamava James Arnold Horowitz, segue la famiglia a Manhattan, e New York
diventa la sua città, la città in cui frequenta anzitutto le scuole superiori
(fra i compagni di scuola si annoverano fra gli altri Julian Beck e Jack
Kerouac), pubblicando le prime poesie, a suo dire terribili, sul giornalino
scolastico. È uno studente brillante e molto portato per le materie
scientifiche, e al momento della scelta dell’università, indeciso fra il MIT e
Stanford, si lascerà convincere dal padre, un ex militare, a entrare – siamo nel
1942 – all’Accademia militare di West Point. Si arruola poi nell’aviazione, ma
nel frattempo si laurea e ottiene anche un master alla Georgetown University, e,
dopo alcuni incarichi nelle Filippine, in Giappone e alle Hawaii, partecipa alla
guerra di Corea eseguendo un centinaio di missioni di combattimento nei cieli
coreani. Da questa esperienza ricava nel 1956 il suo primo romanzo, The
Hunters (Per la gloria, Guanda, 2016), che per non dare nell’occhio fra i
commilitoni pubblica con lo pseudonimo di James Salter, nome che in seguito
deciderà di adottare anche nella vita civile. Da The Huntersverrà anche tratto
nel 1958 un fortunato film con Robert Mitchum.
Segue nel 1961 The Arm of Flesh, ripubblicato quasi quarant’anni dopo con varie
modifiche e con il nuovo titolo di Cassada, un altro romanzo incentrato sulle
sue esperienze di pilota, ma ambientato stavolta alla base aerea di Bitburg, in
Germania. Nel frattempo, tuttavia, Salter ha capito che, se davvero vuole
dedicarsi alla letteratura, deve cambiare vita. Un segnale di una possibile
crisi esistenziale, a ben vedere, si coglie già in alcune pagine di Per la
gloria (cito qui dalla traduzione di Katia Bagnoli) che sembrano attagliarsi a
chiunque vada in pensione o smetta un’attività:
> “Fare parte di una squadriglia era una sintesi dell’esistenza. Quando arrivavi
> eri un bambino. C’erano opportunità infinite, e tutto era nuovo. Gradualmente,
> quasi senza rendertene conto, i giorni degli studi faticosi e del piacere
> erano finiti, avevi raggiunto la maturità; e poi all’improvviso eri vecchio, e
> volti e persone nuove che faticavi a riconoscere ti spuntavano intorno in
> fretta, fin quando scoprivi di non essere più il benvenuto fra loro perché
> tutti quelli che avevi conosciuto e con cui avevi vissuto se ne erano andati e
> la guerra non era diventata altro che una serie di ricordi incondivisibili di
> eventi avvenuti tanto tempo prima.”
Salter lascia quindi l’aeronautica e per guadagnare qualcosa si dà alle
sceneggiature di film e documentari, vincendo anche un premio alla Mostra di
Venezia del 1962, scrivendo nel 1969 la sceneggiatura di un film ambientato a
Roma, L’appuntamento, diretto da Sidney Lumet e interpretato da Anouk Aimée e
Omar Sharif, e collaborando, fra gli altri, con Robert Redford, per il quale
scrisse la sceneggiatura di Downhill Racer(Gli spericolati). Quest’ultimo
tuttavia infine rifiutò, perché il protagonista gli sembrava troppo riservato e
inadatto a lui, la sceneggiatura per un altro film, Solo Faces, incentrato sul
mondo degli scalatori, che lo scrittore decise in seguito di trasformare in un
romanzo, uscito nel 1979. Romanzo che diventerà un libro di culto nell’ambiente
appunto degli appassionati di quello sport.
Ma la strada di Salter è decisamente quella della narrativa pura, e se sarà
ricordato, come credo e spero, ciò avverrà grazie a una manciata di romanzi e
volumi di racconti che hanno rappresentato un’alternativa forse minoritaria, ma
non per questo meno presente e proficua, rispetto alla tradizione prevalente
nella recente letteratura statunitense, quella delle narrazioni fluviali, da
Bellow a Roth, da Updike a Mailer, da Ford allo stesso Irving, e oggi da De
Lillo a Franzen. Tanto divergente è potuto sembrare a molti critici il suo
cammino che Salter è stato presto bollato come atipico ed “eurocentrico”, il che
forse non è del tutto errato, se si pensa ai forti legami da lui intrattenuti
con diverse letterature europee, e in particolare con quella francese (per un
periodo ha anche vissuto a Parigi). Dagli scrittori europei Salter mutua forse
la riflessione sulla letteratura come modalità di vita, e la sua forza sta nel
far sì che, grazie a un instancabile lavoro di cesello, ogni sua opera, dal
romanzo più corposo al più breve dei racconti, sia un piccolo o grande
capolavoro. Nei suoi quasi sessant’anni di attività come scrittore, da The
Hunters all’ultimo romanzo uscito nel 2013, All That Is (Tutto quel che è la
vita, Guanda, 2015), Salter ha saputo mantenere inalterata nel tempo la tensione
e la profonda meditazione che si avverte dietro ogni sua pagina, ogni paragrafo,
persino ogni frase da lui formulata – quella che considerava, cioè, la vera
unità di misura della narrativa. A proposito della sua frase, appunto, e di
quanto sia ben tornita, Richard Ford ha scritto una volta che “It is an article
of faith among readers of fiction that James Salter writes American sentences
better than anyone writing today” (“È articolo di fede tra i lettori di
narrativa che James Salter scrive oggi frasi americane meglio di chiunque
altro”).
Grande estimatore delle metafore, Salter riesce quasi sempre a stupire, a
coniarne di nuovissime. Per farmi capire meglio prendo, praticamente a caso, un
suo paragrafo, uno dei tanti che potrei citare, l’inizio del secondo capitolo
di Una perfetta felicità (nella traduzione di Katia Bagnoli). Ecco cosa scrive:
> “Era l’autunno del 1958. Le bambine avevano sette e cinque anni. Sul fiume,
> del colore dell’ardesia, si riversava la luce. Una luce morbida, un’indolenza
> divina. In lontananza il ponte nuovo scintillava come una dichiarazione
> d’intenti, come un’affermazione che in una lettera costringe chi legge a
> soffermarsi.”
Un paragrafo praticamente perfetto.
Scrivere, cancellare e riscrivere continuamente, questa la sua tecnica,
acquisita quando i computer non esistevano ancora, ma mantenuta poi anche in
seguito, a garanzia di una ricerca incessante e faticosa dell’espressione
migliore, più calzante. Diceva di odiare quanto sgorgava direttamente dalla
mente, e che l’unico piacere dello scrivere consisteva in realtà nel correggere
e riscrivere. A questa inclinazione artigianale Salter univa una grande
curiosità per gli altri e per il mondo, che gli consentiva di archiviare prima
nella sua mente e riutilizzare poi nelle sue storie impressioni e frammenti di
discorsi accumulati nei decenni, giungendo il più delle volte, come ha
confessato, a creare personaggi che sono spesso un originale collage di diverse
persone reali, colte in una battuta o in un singolo atteggiamento. Sebbene
qualche critico abbia definito il suo stile impressionistico, o addirittura
affine al pointillisme in pittura, Salter ha regolarmente sottolineato di aver
voluto solo e sempre ricercare la massima chiarezza, insistendo non tanto sulle
grandi teorie, quanto sulle gioie e sulle asperità della vita quotidiana.
La sua abilità nel descrivere la passione sentimentale e sessuale – ne è un
esempio evidente A Sport and a Pastime –, così come la pulsione di ciascuno di
noi verso le novità e il cambiamento, palesa uno studio appassionato di diversi
antecedenti letterari, fra cui Salter stesso ha sempre annoverato un altro
militare, Isaac Babel’, ma anche Gogol’, Gide, Kawabata, Nabokov, Karen Blixen,
Thomas Wolfe e Marguerite Duras. Uno studio, peraltro, ravvicinato e intenso,
senza limitazioni o timori reverenziali, fondata sull’augusta e oggi troppo
frettolosamente abbandonata pratica della mimesi.
Con Light Years, del 1975 (tradotto in italiano da Guanda nel 2015 con il
titolo Una perfetta felicità),Salter riesce a raccontare con un’ispirazione
felicissima e uno stile ellittico e obliquo una storia, d’amore prima e di
bruciante separazione poi, basandosi sulla convinzione più volte espressa che
nella vita non conti tanto la realtà oggettiva, quanto la memoria, i ricordi che
riusciamo a strappare all’oblio. Scriverne e descriverli è anzi l’unico modo per
farli e farci vivere ancora. “There is no complete life,” sostiene. “There are
only fragments” (“Non esiste la vita completa, ci sono solo frammenti”). Ma la
forza del libro sta anche nella sua capacità di descrivere le conseguenze della
dissoluzione di una famiglia per tutti i suoi componenti e di farci entrare con
discrezione, ma anche con consumata maestria, nella mente dei protagonisti: la
bella, sofisticata e confusa Nedra, avvinta dalla lettura della biografia di
Alma Mahler, e il marito Viri, un architetto ebreo elegante e a suo modo
romantico – ebreo proprio come quel Salter il cui matrimonio andrà in pezzi poco
dopo la stesura del libro. Ma d’altra parte in Salter l’autobiografia, seppur
ben dissimulata, è sempre in agguato: la storia d’amore torrida con la ragazza
francese di A Sport and a Pastime è tratta di peso dalle sue esperienze
personali, e la vita, fra il divorzio, la morte improvvisa di una figlia in
circostanze drammatiche e le malattie che contrappuntano l’avanzare dell’età,
non lo ha certo risparmiato. Ma nelle sue opere ha saputo sempre evitare
qualsiasi tentazione di ripiegamento su sé stesso e di sentimentalismo.
Sulla fine di un amore tornerà anche con il bellissimo racconto che dà il titolo
alla raccolta Dusk and Other Stories, uscita nel 1988 (Crepuscolo e altre
storie, Guanda, 2022), racconto seguito da una serie di altre piccole gemme. Il
libro otterrà il PEN/Faulkner Award, un premio di grande prestigio. Lo stesso
livello qualitativo si riscontra senz’ombra di dubbio nella seconda raccolta,
dal titolo Last Night, che esce nel 2005 (L’ultima notte, Guanda, 2018).
In Burning the Days, del 1997 (Bruciare i giorni, Guanda, 2018), che è invece
una specie di memoir o autobiografia per frammenti, in cui si muove senza alcuna
remora da un periodo all’altro della propria vita, lo scrittore spinge ancora
oltre l’idea della reminiscenza come (unica) base della narrazione. Anche in
questo caso Salter sfugge all’assillo, secondo lui deleterio, di dover evocare
tutto e ribadisce invece il proprio diritto al parziale silenzio, alla cernita,
alla scelta, che oltre tutto ha il potere di stimolare la collaborazione del
lettore, la cui curiosità a volte inappagata diventa un asse trainante del
libro.
James Salter (1925-2015)
Una curiosità per chiudere. Come il nostro Filippo Tuena, che ha voluto dedicare
al cocktail Martini un libro collettaneo uscito qualche anno fa per Nutrimenti,
anche Salter ne è stato per tutta la vita un adepto. Una volta calcolò quanti
Martini aveva bevuto in vita sua, e giunse alla conclusione che dovevano essere
all’incirca ottomilasettecento. Dev’essere, questa predilezione per il cocktail
Martini, un’altra caratteristica degli scrittori di oggi, almeno dei più
interessanti: qualcuno, prima o poi, potrebbe farne magari l’argomento di una
tesi di laurea.
Raoul Precht
*In copertina: poster di Downhill Racer (“Gli spericolati”), 1969, film di
Michael Ritchie, scritto da James Salter, con Robert Redford e Gene Hackman
L'articolo James Salter o della scrittura come cocktail Martini proviene da
Pangea.
Per vertigine, per vocalità d’abisso, Veronica Tomassini è tra i grandi
scrittori – non c’è genere nel generare l’opera, nella sua seminagione nelle
nostre boccucce pulcine – del tempo presente. Da tempo incorporata nel catalogo
de La Nave di Teseo – L’inganno, la ristampa di Sangue di cane –, da tempo
Veronica Tomassini scrive storie che scartavetrano l’era, storie turgide di
cristalli, di cuori taurini. Per gioco: paragonate la sua scrittura a quella
degli attuali autori dello Strega – ne sarete, autenticamente, stregati, quando
non sopraffatti. Ad ogni modo. Transeuropa Edizioni ha invitato Veronica
Tomassini a partecipare alla prima residenza creativa ordita dalla casa
editrice, con sede a Massa. Veronica ha accettato, il programma è questo: sabato
14 giugno “lettura condivisa e riflessione aperta al pubblico” nello Spazio
Transeuropa (ore 17.30, con Giorgiomaria Cornelio); sabato 28 e domenica 29
giugno, “laboratorio intensivo di ‘scrittura del sé’” con Veronica Tomassini e
Giulio Milani (informazioni del caso, qui: info@transeuropaedizioni.it; tel.
0585/1690324). La residenza è possibile grazie all’impegno, tra l’altro,
della Scuola Colombre di Paolo Bianchi e Annarita Briganti, che ha ‘costretto’
l’autrice a dissigillare la reclusione in cui vive.
L’esito della residenza sarà la scrittura e la pubblicazione di un pamphlet, Il
Roveto ardente, di cui, per gentile concessione, pubblichiamo un brano.
***
Il Roveto ardente
Scrivere è un lungo viaggio in treno, la noia del paesaggio frugato oltre il
finestrino, ingannato dalla nostra visione che tramonta su un poggio lontano, un
poggio che forse non esiste. Eppure è vivo, ardito, fremente. E la nostalgia
piomba su di esso quasi a cercarvi riparo o conforto o diremmo ancor meglio:
consolazione. Perché la nostalgia? Di chi, di cosa? Cosa indaga, o ancor prima,
quale regola morale governa la scrittura, o la visione, o la ricerca di solito
tormentata della verità, non di una qualche verità.
Io comincio da qui. Questa è la mia poetica. Prima ancora che la cosiddetta
pedestre tendenza al tremendismo, il mio vizio soggiace al modo di una ancella
che servilmente vorrebbe adornare il suo sovrano di umiltà e devozione, o
soltanto restandogli fedele.
La vita si è poi dimostrata complice, costellata da diverse stazioni in cui il
destino pareva soprassedere e non costruire. Come recitava Jaromil il poeta
ne La Vita è altrove di Milan Kundera: sembrava che avesse smesso di costruire
le sue stazioni. Nella desolazione dell’evidenza, la tragicità di un qualche
avvenimento, tuttavia il destino precipitava ancora a fornire altre
provocazioni, un folto bosco di pretesti per non sfuggirgli e a tentoni avanzare
nell’identico sentiero che conduceva, avrebbe dovuto perlomeno, non a una
qualche verità, ma alla sola, o al suo esecutore immaginifico e lucente, il
sovrano e il fanciullo. Innocenza e regalità. Purezza e autorevolezza. I chiodi
della scrittura.
Il compito in realtà si sarebbe rivelato molto tardi, non convalidando la vita e
i suoi avvenimenti esagerati e universali, scegliendo di fatto me, incapace,
l’eroe capovolto di Gogol’, ma appena meno, non in grado di suscitare la
commozione di un dolore epico, nemmeno quando da grottesco riusciva
terribilmente elevato, io ero soltanto o perlopiù una testimone. Testimone del
dolore epico universale. Non mio, non esattamente mio, alla fine del quale
trovavo l’altro, l’eroe mirgorodiano, capace di ingenerare il riso con il suono
del singhiozzo.
La scrittura era l’estenuante infinito viaggio in treno che affrontavo da
bambina per raggiungere i nonni all’altro capo dello stivale. Erano le lettere
noiose che galleggiavano davanti ai miei occhi fissi sugli scare dei vagoni: ne
pas se pencher au dehors. Riflessioni oniriche più che un’indagine tonda e
maniacale che perdeva senso mano mano che il tedio avanzava con le gallerie e il
disordine sonoro e monotematico delle rotaie. A starci dentro nell’esercizio
pedestre si finiva però per sorprendere una luce improvvisa, un pensiero
impetuoso e brevissimo che sarebbe fuggito anch’esso probabilmente a riparare
nel poggio di cui vi dicevo sopra, vibrante e inesistente.
Tuttavia sarebbe stata la vita a manifestarsi, venirmi in soccorso, presentarsi
sotto la forma della parola, al seguito di vicende spostate violentemente ai
margini dal resto, dai militanti del perbenismo, conclave sociale oramai fuori
moda. E sulla soglia della marginalità, la parola si edificava, ergeva
mirabolanti possibilità, costruzioni difficilissime da smontare, intoccabili,
inscalfibili. Non riuscivo a chiamarlo destino anche quello, un fenomeno
duttile, mobile, immeritato.
E nondimeno lo era.
Veronica Tomassini
*In copertina: Georges Rouault, lettera con volto di Cristo, 1930; “Se penso
alla pittura penso a Rouault. Non ai colori strozzati, urlati, dei fauves. Ma
alla sua pietà mista all’ira per il derelitto” (Veronica Tomassini)
L'articolo “Purezza e autorevolezza. I chiodi della scrittura”. Veronica
Tomassini ospite di Transeuropa proviene da Pangea.
Marlowe, poeta dal destino corsaro, forse spia, blasfemo per vocazione, morto
giovane in una rissa oscura – solo una mano del genere poteva partorire una
creatura come Tamerlano il Grande. Se Shakespeare è il mare, Marlowe è la
folgore. In Tamerlano il Grande, tragedia teatrale febbrile, il poeta raduna i
fuochi dell’universo per incoronare il potere come esercizio di estasi
poetica. Il pastore sciita ascende al trono del mondo non per diritto divino ma
per la forza esclusiva del verbo e della spada, che sono la stessa cosa: poesia
in atto, massacro come forma lirica estrema. Tamerlano è flagello, è astro nero
sorto a ustionare le retine dell’umanità quietata, un’opera che è un monumento
alla hybris che precede Nietzsche e ne divora già l’ombra. Tamerlano è un
profeta armato, un poeta in guerra contro la realtà. L’assurdità, la
sproporzione, la reiterazione dei suoi gesti non indicano difetti drammaturgici,
ma la tensione apocalittica verso l’assoluto. Tamerlano costruisce un altare per
trascendere la figura del generale geniale: vuole essere il logos che si fa
fuoco.
La vera chiave dell’opera, punto spesso trascurato, è che Tamerlano è prima di
tutto un poeta. Non nel senso manierato del termine, ma ritornando
all’origine: ποιητής, colui che crea, plasma la realtà con il linguaggio. Le sue
campagne militari sono versi in azione. Tamerlano conquista con la spada ciò che
ha già conquistato con l’immaginazione. La poesia, dunque, è l’essenza della sua
tirannia. Ma è una poesia dell’eccesso, dell’iperbole, della verticalità, una
poesia aristocratica.
“Ch’è la bellezza? Chiedono le mie angosce.
Se ogni penna che mai prese un poeta
ne avesse espresso tutto il sentimento,
e ogni dolcezza che su temi ammirati
ispirò i cuori e le menti e le Muse;
se ogni celeste quintessenza che stilla
dai loro fiori eterni di poesia
dove vediamo come in uno specchio
i più alti voli dell’ingegno umano;
se tutto fosse messo in una strofa
di combinata lode alla bellezza,
pur rimarrebbe in quelle teste inquiete
un pensiero, una grazia, uno stupore
che nessun’arte può dire in parole.
Ma quanto sono inadatti al mio sesso,
al mio mestiere d’armi e cavalleria,
al mio genio, al terrore del mio nome,
questi pensieri effemminati e deboli!
Salvo quel giusto applauso della bellezza,
col cui istinto ogni anima è dotata;
e ogni soldato rapito dall’amore
della fama, il coraggio e la vittoria
deve a volte pensare alla bellezza:
io che ci penso e tutt’e due soggiogo…
quel che ha abbassato la furia degli dèi
dall’igneo velo costellato del cielo
fino al fuoco gentile dei pastori
per vivere in capanne di paglia sparsa
io proverò, malgrado la mia nascita
che solo il merito porta alla gloria
e insegna all’uomo la nobiltà vera.”
Se si parla di morale in senso borghese, intesa come limite, non si può capire
Tamerlano. Qui si sta parlando dell’etica dell’incommensurabile. La tragedia non
insegna, non ammonisce, non migliora l’uomo. La tragedia lo costringe a guardare
il sole senza filtri e bruciare. Tamerlano è l’eroe della supremazia, rifiuta il
secondo posto, non perché voglia comandare, ma perché non può non farlo. Il
potere lo abita come una febbre, come un canto ossessivo.
Due sono le forze che reggono il mondo, scrive Machiavelli: la virtù e la
fortuna. Tamerlano le unisce in un terzo elemento, la poesia. La poesia di
Tamerlano è la forma ultima del potere, che non si misura col consenso ma col
timore, con l’incantamento, con la verticalità dell’estasi. La poesia è la forma
più assoluta di dominio perché non richiede eserciti, né leggi: le basta una
frase per instaurare un impero. Ecco perché Tamerlano, che è il re dei re, parla
come un dio. La sua è una teologia del desiderio, postula che l’anima umana non
sia fatta per la pace ma per la scalata, il riposo è peccato e la quiete è resa.
L’unico modo per onorare la vita è consumarla nell’azione. È l’espressione
teatrale di una visione del mondo premoderna e anti-egualitaria. Marlowe nella
figura del gran Tamerlano riunisce l’archetipo del conquistatore orientale e del
poeta prometeico.
Certo, c’è Zenocrate, la bellezza rapita che sembra addomesticare la furia, un
raggio di luna su un mattatoio. Ma la sua morte scatena un dolore che è ancora
delirio cosmico, guerra dichiarata agli dèi indifferenti o inesistenti.
Tamerlano brucia la città dove lei muore, sfida Maometto, si proclama “terrore
del mondo”, “flagello di Dio”.
> “Ma questo vostro viso celestiale
> è degno solo di chi vincerà l’Asia,
> e verrà detto il terrore del mondo
> e stenderà i confini del suo impero
> dall’est all’ovest come il corso di Febo”
Oltre al Dio delle scritture, convenientemente assente dal mondo che Marlowe
scuoia nelle parole del dominatore, l’unica forza dominatrice è proprio
Tamerlano, che si fa dio attraverso la negazione radicale di ogni limite, la
profanazione sistematica del sacro e dell’umano. Marlowe personifica così
l’archetipo del dominatore assoluto, è l’eruzione di una forza elementare che
cova sotto la crosta della civiltà come esigenza insopprimibile di grandezza
che, privata di sbocchi celesti, si fa titanismo infernale. Non vuole essere
apologia della tirannia, quanto la constatazione – tragica e grandiosa – che
certe forze esistono e che la poesia può essere strumento di dominio.
“Sete di regno, gioia di una corona,
che il figlio anziano di Opi in cielo indussero
a scacciare dal trono il vecchio padre
per sostituirlo nel cielo imperiale:
quello, mi spinse a dichiararti guerra.
Quale esempio migliore del grande Giove?
Natura che in noi mise quattro elementi
sempre in guerra nel petto per regnare,
ci insegna ad avere una mente ambiziosa;
l’anima nostra, le cui facoltà intendono
l’architettura stupenda del mondo
e misurano il corso dei pianeti,
sempre salendo a una scienza infinita,
sempre movendosi come le sfere inquiete,
vuole che ci esauriamo, senza riposo,
fino a raggiungere il frutto più maturo,
perfetta gioia, sola felicità,
dolce fruizione di una corona in terra.”
Ciò che Tamerlano ci lascia – se vogliamo parlare di lascito – è che la poesia è
l’unica forma tollerabile di tirannide. Perché essa non uccide nel nome
dell’interesse, ma della bellezza. E se c’è una morale, è che l’unico diritto
dell’uomo è quello di aspirare all’impossibile. Anche a costo della dannazione.
Christopher Marlowe ventenne, nel 1585
Tamerlano il Grande è un inno al divino che sopravvive nel cuore della barbarie.
È la lirica dell’eccesso, la liturgia del genius isolato. È una riflessione su
come la vera poesia non celebri la pace, ma la guerra, perché solo nel conflitto
si manifesta la grandezza. Come nella Bhagavadgītā, dove Krishna spinge Arjuna a
combattere per scoprire il proprio dharma, così Marlowe spinge il capo dello
spettatore dentro l’abisso a riconoscere al suo interno il proprio volto. Non si
tratta, ovvero, di capire Tamerlano, quanto di riconoscersi in lui. Possiamo
rinnegarlo con orrore, ma con la consapevolezza di ciò che incarna, la potenza
della parola, l’incanto dell’assoluto e il fascino del dominio inscritti nel
cuore stesso dell’uomo.
> “Ho il Destino ben saldo incatenato,
> faccio girare la ruota della Sorte,
> dovrà cadere il sole dalla sua sfera
> prima che Tamerlano sia morto o vinto.”
Andrea Falco Profili
L'articolo “Faccio girare la ruota della Sorte”. Sia lode a Tamerlano,
tiranno-poeta proviene da Pangea.
Se vuoi conoscere uno scrittore – uno scrittore vero – devi andare a Laveno.
Sponda lombarda del Lago Maggiore. Ho sempre frequentato l’altra, quella
piemontese: la preferivano Manzoni e Rebora, forse perché sboccia nella Val
Grande, la più grande area selvaggia d’Italia. Scrivere vuol dire dare del tu ai
lupi.
È vero: ho sempre tenuto in sospetto i lombardi di lago. Gente dai sorrisi
larghi e ingrigiti; di un’eleganza stantia, a un passo dalla città. Riccardo
Ielmini non fa eccezione. Classe 1973, elegante, educato – sorride sempre. A
Luino, poco più in là, sono nati Piero Chiara e Vittorio Sereni. Di mestiere,
Ielmini fa il dirigente scolastico di un Istituto comprensivo a Cuveglio:
tremila e passa abitanti in provincia di Varese. Non ci sono mai stato. Bisogna
sospettare sempre degli uomini di lago: dietro le apparenze da villino con
florilegio di ortensie, si cela un mostro. Anche quel gentile dirigente
scolastico nasconde, nei sotterranei del cuore, un Loch Ness.
Riccardo Ielmini, semplicemente, non ha mai sbagliato un libro. Esordì come
poeta nel nuovo millennio, nel 2000, con un libro rivoluzionario fin nel
titolo, Il privilegio della vita. A dispetto dei poeti inargentati dal dolore,
inclini al lamento, Ielmini canta la gioia, la sofferenza come prova, la
fermezza nell’amare. Alcuni versi, di per sé, segnarono una rivolta: “Arrivare a
dire sono uno fortunato”; “Stare nel privilegio della vita”; “Quanta vita ancora
chiede voce”. Ecco un poeta che ha la primavera tra le falangi, verrebbe da
dire; verrebbe da dire: ecco un poeta nel pieno della lotta, nell’urlo. In una
poesia, Ielmini scrive di Kurt Cobain (attacco memorabile: “I bambini belli la
vita li rovina/ quasi sempre, gli inficca nel cuore una lama”), un’altra
s’intitola Mio padre è uno stanco democristiano. Credo che Ielmini tifi ancora
Inter – fedeltà alla squadra come alla donna –; ha uno stuolo di figli, ho perso
il conto. A me ricorda James Stewart, il grande attore, quello di It’s a
Wonderful Life.
Riccardo Ielmini ha scritto un altro libro in versi memorabile: s’intitola –
appunto – Una stagione memorabile, lo ha pubblicato Il Ponte del Sale nel 2021,
ma non è questo il punto. Ielmini non ha sbagliato neppure un libro. Nel 2011 ha
pubblicato una folgorante raccolta di racconti, Belle speranze (stampa
Macchione), nel 2019, per le edizioni Unicopli, è uscito con Storia della mia
circoncisione. Leggetelo. Si parla di un venticinquenne, Giovanni De Ambrosis,
di un kibbutz in Lombardia, della Svizzera e di Dio.
Lui è Riccardo Ielmini
Forse Riccardo Ielmini è l’unico scrittore autenticamente “cattolico” d’Italia –
nel senso che gli scrittori cattolici, in Italia, di solito rifuggono dallo
scrivere di Dio; lui invece no, Ielmini non ha paura di lordare le sacre verità,
di dissacrare il tempio e di pronunciare invano il Nome. Quando si legge
Riccardo Ielmini accade uno strano fenomeno. Ielmini scrive in un italiano
sgargiante, ‘manzoniano’, si direbbe (di certo, marziano all’oggi); il suo è un
tono da ironia epica, eppure, pare, leggendolo, di sentire i modi di Philip
Roth, i toni di Saul Bellow e di Henry Roth, lo straordinario scrittore
di Chiamalo sonno. Ecco: Riccardo Ielmini, l’ultimo scrittore autenticamente
“cattolico” d’Italia, scrive come un ebreo-americano.
L’ultimo libro di Riccardo Ielmini – uno scrittore-cecchino, uno scrittore che
non sbaglia neanche un libro – s’intitola Spettri Diavoli Cristi Noi (Neo,
2025), ed è il libro più bello di questo autore così anomalo. Il romanzo si
svolge in un paese in riva al lago dal nome fittizio, Contea; i protagonisti
sono un gruppo di ragazzi, la Confraternita; il contesto mostra messe nere,
assassini in serie, orrori a tracannare. L’incipit è apocalittico, una specie di
John Milton all’imbarcadero:
> “In principio, nel buio, prima del sonno, è la paura, la magica
> incontrollabile paura del Diavolo che aleggia sulla giovinezza, il Diavolo
> bestemmiato dalle nostre vecchie come Anticristo, Bestia, Ciapìn,
> l’acchiappa-anime che visita i tuoi sogni, bambino, che si intrufola nel tuo
> ozio, pinìn, che perlustra gli angoli morti della tua fragile fortezza, stèla,
> e quindi sta’ lontano dal Diavolo…”
…e avanti così, in sabba, per un paio di pagine. Il romanzo è fitto di
personaggi sfacciati e fiabeschi – “Indiano Joe”, “L’Uomo Dei Boschi”, “Artù il
Muto”, “La Frida” –, alcuni dei quali – Von Arcimboldi e Frau Ingeborg Bauer –
sono tratti dai libri di Roberto Bolaño. Il romanzo inscena, soprattutto,
l’eterna lotta tra il Bene e il Male – “l’Altissimo dava retta alle giaculatorie
delle nostre vecchie e disseminava nelle boscaglie intorno alla Contea i suoi
spettri custodi” – perché il Male, quello al di là del raziocinio, esiste – “la
Bestia esiste e indossa panni di carne umana e schianta la sua fame aggredendo
altra carne, carne debole, innocua” –, ma pure il Bene, quello incredibile,
quello indicibile. Non mancano le viltà, i tradimenti e i giornalini porno:
l’orrore non è negato, ma narrato con la certezza che l’Onnipotente, prima o
poi, farà quadrare il caos. Più che a Flannery O’Connor, Ielmini guarda, in
questo romanzo, al ghigno da chassid di Isaac B. Singer. Su tutto, aleggia
un’atmosfera che mescola Twin Peaks ai Goonies; sgommano a go-go falangi di
vecchie, indimenticate bmx.
In un articolo pubblicato ricordando Simone Cattaneo – su “Atelier” n. 67, del
settembre 2012, lo trovate in rete –, Ielmini accenna a Dejan Stanković:
furoreggiava nell’Inter di allora. “Una volta mi aveva tenuto un monologo sugli
slavi: razza calcistica superiore, perfetta: bastardi con piedi buoni da
sudamericani e testa dura e cattiva, aveva detto”. Le stesse caratteristiche
tecniche di Ielmini: estro e ferocia, genio e pervicacia.
Non ha mai sbagliato un libro.
Mai trovarselo davanti. Sembra gentile, sorride sempre – è implacabile.
L'articolo Riccardo Ielmini: lo scrittore che non ha mai sbagliato un libro, con
un Loch Ness nel cuore proviene da Pangea.
Lawrence Durrell porterà sempre con sé l’impronta luminosa di un’infanzia
mitica, vissuta tra le valli immense ai piedi dell’Himalaya. Una nostalgia
scitica – fatta di cieli purissimi, del lampo negli occhi di una tigre, del
passo ieratico di uno yak – non lo abbandonò mai: forse il desiderio, mai
appagato, di ritrovare altrove quella prima, segreta armonia.
La sua esistenza, come la sua scrittura, fu tutta votata al nomadismo:
dall’India all’Inghilterra, dalla Grecia all’Africa, dal Sud America alla
Francia. Poeta, romanziere, spirito inquieto e cosmopolita, amico fraterno di
Henry Miller e di Giorgos Seferis, Durrell riposa oggi in un cimitero silenzioso
della Provenza.
Ma fu un luogo in particolare – oltre a Cipro, amata e dolorosa – a marchiare a
fuoco la sua immaginazione: Alessandria d’Egitto. Da quella città molteplice,
mitica e carnale, scaturì uno dei cicli romanzeschi più affascinanti del
Novecento, il “Quartetto di Alessandria”, vertigine di tempo, memoria e
desiderio.
*
Il libro si apre in un altro luogo del cuore di Lawrence Durrell: un’isola delle
Cicladi, che in realtà è Cipro, dove il poeta acquistò una casa e visse per anni
immerso nella vita della comunità locale, imparando anche la lingua greca. È tra
l’ocra delle case e della sabbia egiziana e l’azzurro profondo del Mediterraneo
che si dispiega lo sguardo interiore di Durrell. Nella solitudine assorta
dell’isola greca, la memoria delle vicende vissute ad Alessandria poco più di un
decennio prima riaffiora lenta, seguendo il ritmo delle onde che lambiscono il
bianco calce dei porticcioli.
A separarlo dalla città egiziana sono appena cento chilometri di mare – eppure
l’anima si tende come un ponte invisibile tra i due mondi: un cortile greco
ombreggiato da ulivi, il sorriso obliquo di una donna cipriota, un cielo che
esplode d’azzurro di giorno e si vela, la notte, di una costellazione di stelle
cerulee.
*
Il khamsin è un vento che nasce dalle profondità del Sahara. Soffia impetuoso
lungo tutta la fascia orientale del Nordafrica, investendo anche Alessandria
d’Egitto, che ne subisce la furia nei giorni sospesi della primavera. Irrompe
come presagio nella terza parte di Justine, primo movimento del “Quartetto di
Alessandria”. La città si ritrae sotto una coltre ocra di sabbia e silenzio. Le
imposte si chiudono in fretta; dietro le feritoie, occhi in allerta scrutano la
polvere che avanza. La luce si vela di bagliori apocalittici, il cielo si tinge
di una minacciosa oscurità. Le feluche ondeggiano lente, consapevoli del
pericolo imminente; a bordo, le ciurme si muovono come spettri d’acqua, presenze
furtive tra le ombre del porto.
Con la stessa violenza del khamsin, l’appello dei sensi e il desiderio di
piacere si abbattono sugli abitanti della città, trafiggendoli come una scarica
elettrica che li lascia storditi, spossati, annientati. I corpi, come le case,
restano inermi sotto la furia degli elementi, tra le rovine visibili e
invisibili che l’eros e il vento seminano nella polvere.
*
Alessandria, Alessandria! Quale altra città scegliere, che già non porti nel
nome come il presagio di un destino? In quale altro luogo, sulla terra, la
scomparsa delle meraviglie antiche diventa meravigliosa metafora del rovinoso
incedere del tempo? È qui che palpita una splendida e drammatica galleria di
personaggi – Justine, Nessim, Melissa, Darley – che attraversa tutto il libro e
continuerà poi a illuminare, in un raffinatissimo gioco di specchi e punti di
vista, le altre opere del Quartetto: Balthazar, Mountolive, Clea.
*
Nessim, ricco possidente egiziano e marito di Justine, dissimula, dietro una
cordiale esposizione pubblica, il disordinato viluppo dei suoi pensieri verso la
moglie. Ne seguiamo la parabola interiore, che lo conduce dapprima a
un’immaginazione venata di follia, dove i fantasmi della gelosia sfilano insieme
all’ossessione del sospetto. Dopo la partenza di Justine, la sua presunta
convalescenza non è che una maschera fragile: sotto di essa si spalanca un vuoto
silenzioso, irreparabile.
Melissa, la compagna del narratore, figlia dei bassifondi della città e
ballerina di cabaret, non priva di una sua grazia che leviga gli angoli di
un’aderenza tutta terrestre alla corporeità. Un candore di innocenza, unito alla
frequentazione del vizio per pura necessità e non per inclinazione, la rendono
quasi una martire. È forse l’unica figura del romanzo capace di com-passione, in
grado di intuire il tumulto che si dispiega nel cuore di Nessim. Con la morte di
Melissa – l’unica per cui l’amore non richiede gli eccessi dell’intelletto, ma
solo la purezza della natura – si spegne anche la speranza di una compiuta
dimensione sentimentale proiettata nel futuro.
Justine, la donna che dà il titolo al romanzo, è ispirata a Eve, che Durrell
conobbe proprio durante la sua parentesi in Egitto. Ebrea colta e aristocratica,
Justine sembra uscire da un libro surrealista. Simile a Nadja nel suo inesausto
peregrinare, con il suo enigmatico lampeggiamento interiore smentisce ogni
principio di causalità. Convivono in lei la Musa e la santa, la martire e la
cortigiana, l’amante e l’accanita fedifraga. Regna in Justine una fatale
impossibilità alla fedeltà, come se concedersi ai suoi pretendenti fortificasse
dentro di lei l’immagine del vero amato, rinchiuso come in una stiva
sballottolata dalla tempesta a largo. Donna aracnide, tesse una tela dove a
turno restano invischiati Arnauti – che su di lei scrive delle feroci
memorie, Moeurs –, Nessim, Darley, ma anche Clea, misteriosa pittrice che vive
in completa solitudine. Persone, storie, libri, lacrime e orgasmi conducono come
un vortice rapinoso, un ago magnetico, verso la loro sorgente creatrice e
disgregatrice. L’improvviso congedo di Justine sarà il nodo di scioglimento dei
personaggi che le gravitano attorno, ma anche dalla Palestina, dove si è
trasferita a vivere in un kibbutz, l’eco della sua memoria continua a risuonare
in Egitto. Divinità ferina metà ellenistica e metà egizia, Justine assurge a
simbolo di Alessandria.
Infine c’è Darley, alter-ego di Durrell e narratore del romanzo. Anche lui cade
vittima del fascino ipnotico di Justine e dell’atmosfera mollemente sensuale di
Alessandria, dove le persone sembrano pedine su una scacchiera manovrata da una
continua e sfrenata gratificazione della sensorialità. Svuotato da una ricerca
tanto effimera quanto estenuante, Darley sembra orientarsi infine verso il
tentativo di trovare un legame di sincera amicizia, capace di mettere in
comunicazione il cuore autentico di due individui. Ma la sua fuga verso l’isola
greca suona come una silenziosa resa: la conoscenza e lo schiudersi reciproco
delle anime paiono destinati allo scacco. Forse, solo la bambina che Darley
porta con sé accende un barlume di speranza: una promessa muta, rivolta a un
futuro che, almeno in potenza, si riappacifica con la parte migliore dell’uomo.
Dove si situano l’arte, la letteratura, all’interno di questa cornice? Può uno
scrittore, che ha fibra di poeta, trovare una scia luminosa nel tumulto dei
gesti e della memoria? Forse non si manca di molto il bersaglio affermando che
il tema principale del libro sia la trasfigurazione della realtà attraverso il
prisma dell’arte. Solamente sul piano della creazione letteraria, sembra dirci
Durrell, i confini della vita e dell’arte si allargano smisuratamente:
> “La ricompensa del lavoro che si compie con il cervello e con il cuore sta in
> questo – che solo lì, nei silenzi del pittore o dello scrittore, la realtà può
> ricevere un ordine nuovo, essere rielaborata e costretta a mostrare il suo
> senso. Le nostre azioni quotidiane nella realtà sono semplicemente il
> materiale grezzo che nasconde il filo aureo – il senso della composizione. Per
> noi artisti è lì che il compromesso gioioso dell’arte con tutto quello che ci
> ha ferito o sconfitto nel vivere quotidiano ci attende; in modo tale da non
> eludere il destino, come vorrebbero le persone comuni, ma per compierlo nella
> sua potenzialità reale – l’immaginario”.
Ma anche il groviglio di vicende e sentimenti è destinato a disfarsi sotto
l’opera sottile del tempo: i ricordi lentamente trascolorano, i volti si fanno
evanescenti. Solo Alessandria rimane, e nella memoria si erge come il suo Faro
perduto, sentinella immobile tra i flutti del mondo e quelli, più segreti, di
Mnemosine.
*
Alessandria, oh Alessandria! Città del mito, della storia che si fa archetipo,
patria del sogno e di un tempo disperso, quando i sensi guidavano cuore, mente e
mani; un tempo ormai sfocato all’orizzonte della vita, che solo il fulgore
dell’arte può riportare alla luce, in un lampo di miracolo. L’Alessandria del
passato si confonde con quella del presente: città subliminale, frontiera dello
spirito, atteggiamento unico e irripetibile nei confronti del vissuto. Ne è
cantore meraviglioso e insuperabile Kavafis, che alla città egizia ha dedicato
tanta parte della sua opera. Numerosi sono, nel romanzo, i rimandi – diretti e
sotterranei – a Kavafis: poeta della nostra Itaca interiore, della promessa
racchiusa nei porti fenici, di uno sguardo ionico innestato a una sensualità
asiatica; padre di un linguaggio che, come miele colato da un vaso attico,
scende nei cuori di chi ama la Poesia.
Il libro di Durrell è anche un omaggio straordinario – forse tra i più vibranti
mai tributati – al poeta greco:
> “L’equilibrio squisito tra ironia e tenerezza l’avrebbe fatto includere tra i
> santi, fosse stato religioso. Ma per volere divino era soltanto un poeta e
> spesso infelice, anche se con lui avevi l’impressione di essere con qualcuno
> capace di afferrare al volo ogni istante del tempo e di capovolgerlo per
> mostrarne l’aspetto felice. Consumò veramente sé stesso, il suo io interiore,
> vivendo. La maggior parte della gente si adagia e lascia che la vita giochi
> con loro, fermi sotto la vita come sotto i tiepidi scrosci d’una doccia. Alla
> proposizione cartesiana «Penso, dunque sono» contrapponeva la sua, che forse
> doveva suonare pressappoco così: «Immagino, dunque ho radici e sono libero»”.
Alessandria, presagio di un’epoca in cui estetica e creazione coincidevano;
nostalgia di un’armonia esplosa poi in mille frammenti. Solo di questi
frammenti, e di schegge di desiderio, possono accontentarsi i protagonisti
di Justine. Darley, il narratore, è come Rembrandt: ritrattista letterario della
carne e dei suoi fremiti. Città-labirinto nella quale si resta intrappolati,
alla quale si offre la propria interiorità senza riceverne nulla in cambio,
Alessandria è avvolta insieme dalla luce del meriggio e dall’ombra del
crepuscolo.
È possibile allora – parafrasando ancora Kavafis – andare per altre terre, per
altri mari, verso una più città più bella anche dei sogni?
La risposta, indimenticabile e luminosa, arriva dalle ultime righe di Clea, il
romanzo che chiude il Quartetto:
> “Sì, un giorno mi sorpresi a scrivere con mano tremante le quattro parole
> (quattro lettere! quattro volti!) sulle quali ogni narratore dall’inizio del
> mondo ha puntato il suo debole diritto all’attenzione dei suoi simili. Parole
> che presagiscono semplicemente la vecchia storia di un artista divenuto
> maggiorenne. Scrissi: C’era una volta…
>
> E mi parve che l’universo intero m’avesse fatto un cenno d’intesa!”
Lorenzo Giacinto
*In copertina: Anouk Aimée è stata “Justine” nell’omonimo film di George Cukor
del 1969, tratto dal romanzo di Lawrence Durrell
L'articolo “Immagino, dunque sono libero”. Lawrence Durrell o dell’ascetismo
della mente proviene da Pangea.