> Alla materia sonora evocata con arte secondo una prassi disciplinata in modo
> cristallino, Sergiu Celibidache ha riconosciuto, disegnato in un processo
> filosofico improntato all’insolito taglio fenomenologico maturato nel tempo,
> un ruolo di veicolo alla trascendenza.
>
> U. Padroni, Sergiu Celibidache. La fenomenologia per l’uomo
Celibidache arrivò – ne accennavo nella prima puntata di questa serie – come
tappabuchi sul podio dei Berliner per sostituire Furtwängler. Che cosa sarebbe
stato dell’allora giovanissimo direttore romeno, ma ormai in parte germanizzato,
senza la cacciata del vecchio maestro, è difficile divinarlo. Sappiamo in vece
che quell’episodio infame della nuova Germania diede abbrivio a un destino dei
più rutilanti nella storia dell’interpretazione musicale. Felix culpa, per non
dire che talora dalla merda, se non ne ustioni la semente, nascono i fiori.
Pur ancòra odoroso delle stanze del conservatorio Celibidache si mi impose alla
guida dell’orchestra bensì con rispetto ma con la sfrontatezza della giovinezza
e del suo popolo d’origine e, sopra tutto, con una preparazione esorbitante dal
ristretto dominio della teoria musicale, rarissima in un musicista pratico. Per
tutta la vita, oltre alla musica, egli aveva studiate matematica e filosofia (fu
allievo di Nicolai Hartmann, niente di meno); sarebbe arrivato negli anni più
matura lo zen, fuso – passatemi la sbrigatività – in una rara e preziosa lega
con la fenomenologia di Edmund Husserl, che nella storia della filosofia fece
sin dal suo apparire la figura dell’estemporanea e ardita bizzarria, e che fu
soffocata quasi in culla dalle “deviazioni”, queste sì di enormi peso e
conseguenze, non solo per la filosofia, di Heidegger Sartre Merleau-Ponty.
Nonostante qualche iniziale passo stentato e talora qualche accidente direttore
e orchestra si intesero ben presto. La compagine non aveva trovato un altro
Furtwängler, e grazie al Cielo: in arte, come ovunque, le imitazioni sono
pestilenziali; ma uno che si avviava con rapide ma ben posate falcate a
diventare un’altra divinità.
Durò tuttavia poco, pochissimo, ed è la ragione per la quale i più a stento
ricordano nella pur breve teoria dei direttori berlinesi quel nome estraneo e
remoto.
Solo isolato non protetto se non dall’orchestra, allora tuttavia non
sindacalizzata e quindi impotente a imporre il proprio volere, Celibidache fu
spodestato da una di quelle manovre di potere a tenaglia, che vedeva, da una
parte, l’industria discografica e, dall’altra, Herbert von Karajan, che di
pianista (pare eccellente) si era fatto maestro concertatore spinto
dall’ambizione e dal pressante consiglio di Bernhard Paumgartner, il biografo di
Schubert e di Mozart, che nel giovane austriaco aveva intuìte potenzialità
superiori a quelle per la sola tastiera.
I particolari assai curiosi e i vasti silenzi della vita artistica di
Celibidache nei lunghissimi anni successivi li lascio seguire sulla magnifica
monografia Zecchini che al direttore dedica Umberto Padroni citato in esergo –
davvero esemplare e, per soprammercato, dalla prosa di rara bellezza ed eleganza
–, e salto a Monaco di Baviera, l’ultima e più corrusca tappa.
Alla guida dei Filarmonici monacensi Celibidache appare trasfigurato.
I Münchner erano un di quei gioielli nascosti ai più dalle erme internazionali
di Berlino e Vienna, Leningrado e Milano e Roma, come altre magnifiche orchestre
tedesche (Dresda, Bavària). Le occorreva “soltanto” il direttore che sapesse
estrarre da codesta pianta vigorosa e tenace i migliori frutti, ciò che riuscì
al solo Celibidache.
Sergiu Celibidache (1912-1996)
Sulla palingenesi (altro nome non trovo) dei monacensi, che da marginale
compagine si tramutano in orchestra di primissimo rango internazionale, dà
ancòra conto l’insostituibile Padroni. A noi basti di rammentare i due massimi
miracoli di Monaco e che stanno tra i massimi di tutta la storia
dell’interpretazione musicale. Anzitutto Anton Bruckner, tra i giganti del
sinfonismo certo il meno eseguito e capìto.
«Io sono venuto al mondo per dirigere Bruckner», disse con la sua solita e
benedetta immodestia Celibidache a un gruppo di allievi radunati presso la
Scuola d’alto perfezionamento di Saluzzo, provincia di Cuneo, come mi riferì uno
di essi, una donna che aggiunse di non avere mai avuto, nella sua lunga carriera
di musicista, grazia maggiore di quelle estati piemontesi.
Non era un paradosso, ma precisa consapevolezza di quelle che afferrano i pochi,
i rari, e che, sopra tutto, trovano conferma nella sala da concerto e, per come
la tecnologia lo consenta, nel disco. Tolti Arthur Nikisch e Furtwängler,
esemplari d’altre epoca, razza e poetica, mai musicista alle prese con
l’“alieno” di Linz seppe indagarne forme e penetràli, con buona pace di chi,
ancòra oggi, colloca a esempio il pur eccellente Eugen Jochum sul piedistallo
del sinfonismo bruckneriano.
Per certi versi ben più sbigottente è quanto Celibidache disse nel 1992, in
occasione d’una Settima organizzata per raccogliere fondi destinati agli orfani
di Romania, da poco entrata con inganni e sangue spremuti alla popolazione nella
democrazia. Guardando gli orchestrali disciplinati e diffidenti con quegli occhi
birbanti ma di grande bontà e consapevolezza, pronunziò queste parole:
«Eseguirete Bruckner come non lo avete mai eseguito».
Dicevo sbigottente giacché se egli avesse parlato dinanzi a una compagine tra le
millanta, la frase avrebbe avuto peso leggero. Ma parlò davanti ai Berliner, ai
quali Celibidache ritornava, dopo trentasette anni dalla cacciata, per quella
volta soltanto e con un equipaggiamento irripetibile. Causa lo sciatto o più
volentieri proditorio atteggiamento dei soliti maneggioni, di quella esecuzione
non ne tirarono alcuna incisione. Ne abbiamo un frammento di prova soltanto.
Erano, quelle parole, stizza o acredine per l’antico ostracismo? Celibidache non
era un simile tanghero; e poi in quei quasi quarant’anni c’era stato un totale
avvicendamento dei professori d’orchestra, sì che gli attuali, se non commetto
un errore, non avevano suonato mai né con lui, né con Furtwängler, ma erano
stati cucinati prima da Karajan, poi dal suo immediato successore Claudio Abbado
– una colata a picco da stordire –, cui, più che ai musici astanti, quel
messaggio era rivolto, e in ispecie, credo, all’italiano.
Celibidache aveva detta semplicemente la verità. Nonostante in fatti tutta la
réclame e il fracasso d’attorno a quei nomi, il Bruckner di Karajan non aveva
aggiunto alcunché a quello di Furtwängler né d’altrui: se mai aveva sottratto
parecchio; Abbado dirigeva Bruckner – e tutti gli altri olimpi del sinfonismo e
dell’opera – come dirigeva l’Innominabile di Busseto. Davvero di Bruckner, a
Berlino, non se ne sentiva dagli anni Quaranta.
Fu durante quel rimasuglio di prova che mi avvidi, tra il molto altro, della
ragione per cui a esempio l’attacco innumeri volte ascoltato nell’unico disco
circolante, sonasse così inaudito. Come fa?, mi chiedevo, senza mai trovare una
risposta plausibile. La scrittura è semplicissima, parrebbe non far problema,
Bruckner non ha ancòra scatenata tutta la sua altissima maestria tecnica e
creativa. E pure quelle iniziali battute riescono a Celibidache come a nessun
altro, eccetto che a Furtwängler, anche se questi ha un approccio tutt’affatto
differente.
Il lettore si faccia ascoltatore e si vada a scoprire il “segreto” di quei primi
secondi.
Completo l’episodio con queste parole d’Umberto Padroni:
> «Nell’arte e nella vita pubblica del suo tempo questo fu un evento che oggi
> (…) è possibile definire “storico”: nella connotazione la meno inflazionata.
> Esaurita l’esaltante, trascendente avventura musicale, allo spegnersi del
> breve accordo finale in mi maggiore, dopo qualche attimo di silenzio, applausi
> e feste a non finire; il vecchio maestro si volge all’orchestra portando alla
> fronte le mani giunte nel bel gesto buddista, riceve mazzi di fiori e ne
> distribuisce agli archi vicini. Su, nella balconata, il presidente [tedesco]
> Weizsäcker applaude forte e sorride (…). Poi, dietro, il musico ottantenne
> abbraccerà gli anziani, e stringerà la mano a tutti gli orchestrali. “Sul
> piano umano è accaduta una cosa meravigliosa; per quanto attiene alla musica,
> il nostro livello era al di sotto della media. I Berliner oggi non sono altro
> che un’orchestra dotata di buona tecnica. Tutto qui”. E l’orchestra: “Abbiamo
> dovuto dire addio a tante abitudini. Effettivamente stiamo scoprendo
> quest’opera in modo del tutto nuovo”».
Il secondo miracolo se possibile è ancor più eloquente e sconcertante: la sesta
Sinfonia in Si minore di Tchaikowskij, così detta “Patetica”. Salvo trascurabili
eccezioni, se ne sono impossessati tutti i direttori, anche e talora sopra tutto
i meno adatti e dotati. Dopo ricognizioni in che si alternavano perplessità
disgusti ed entusiasmi, ancòra abbastanza giovane, scopersi, insieme a
Shostakovich, uno dei suoi più straordinari interpreti sinfonici, ciò è a dire
Evgenij Mravinskij, direttore della Filarmonica di Leningrado, una delle
svettanti autorità in fatto di musica russa e non da meno di moltissimi
direttori europei e americani quando si cimenti col repertorio occidentale. A
mio giudizio, nonostante i Temirkanov, i Roždestvenskij, i Barshai, Mravinskij è
la prima e l’ultima parola sulla musica russa di ogni tempo. La sua “Patetica”
salì sùbito in cima alla mia personale classifica. Chi altri avrebbe potuto
sopravanzare quelle letture? Mi sbagliavo, e come.
Bisogna avere del fegato per abbrancare quella Sinfonia così troppo bistrattata
e frusta, caduta nelle mani davvero d’ogni sbacchettatore. (Un pomeriggio in
macchina, aprii la radio sulla benemerita Filodiffusione, ventiquattr’ore di
musica classica tutti i giorni dell’anno: quasi una “minaccia”. Transitavo
davanti allo stabilimento torinese della Fiat e pensai che un operaio qualsiasi
avrebbe arrecati meno danni. «Sembra Riccardo Muti», mi dissi confidando in buon
orecchio. La suadente e algida voce femminile dell’annunciatrice, dalla dizione
perfetta, me lo confermò alla fine di quello strazio).
Dico fegato e taccio di altre parti meno nobili del corpo, altrettanto
necessarie per non ridurre quel capolavoro a flaccida geremiade e a lontana eco
della Romantik. Ma anche un cervello fuor del comune. Al termine d’una delle
lezioni di canto che mi impartiva, un amico bravo musicista mi infilò nella
borsa l’incisione di Celibidache coi Münchner, ch’egli aveva definito poco
convincente, e «C’è qualcosa che non va», mi sussurrò scotendo il capo. Qualche
giorno dopo gli restituii il disco: «C’è qualcosa che non va, in effetto», gli
dissi per ischerzo, «Ma nella tua testa».
Ritornato a casa avevo ascoltata la Sinfonia una prima volta, sbigottito. Che
cosa succedeva? Tchaikowskij sembrava averla scritta, dopo che per sé medesimo,
pel direttore romeno-tedesco. Ripigliai daccapo, due, tre, quattro volte. Sempre
trovavo qualcosa di nuovo di profondo di “disumano”. Mi arresi volentieri alla
verità. Una delle più strazianti sincere e squassanti autobiografie in musica
dell’intiera storia di quest’arte trovava sotto la guida di Sergiu Celibidache
l’agognato riscatto da plurimi decenni dei varii conquistadores protervi e
sanguinarii che si ergevano a sacerdoti e maestri, e non la mollano.
Non un errore o una sbavatura. Tutto dal vivo, beninteso, com’era uso di
Celibidache che, al pari e anzi più di Furtwängler detestava la sala
d’incisione. Anche gli applausi elargiti all’ingresso del direttore e alla fine
dell’esecuzione sembravano esser parte di quel disco, perfetto quant’altri mai.
Non esagero dicendo che quel pomeriggio avevo finalmente capìta la “Patetica”.
Ma di dove nasceva codesto modo di far musica? In una concezione che lascio
spiegare ancòra a Padroni: interpretare è «banale e fuorviante luogo comune
implicante inevitabilmente il peccato mortale dell’arbitrio: un sedersi più o
meno malamente, con i propri capricci, sulla partitura. Una forma di
interpretazione avviene semmai nella coscienza di chi ascolti [c.m.], del
destinatario ultimo dell’opera realizzata nel suono. Chi realizzi il testo
musicale è sempre e comunque un esecutore: superficiale o profondo nella
lettura, glabro o ricco di espressione, banale o di forti intenzioni, sciocco o
acuto, ma sempre esecutore, partecipe del prodigio dell’inveramento,
ricostruttore, nella vibrazione sonora storicamente connotata, del testo, il
quale sulla carta è un’indicazione grafica convenzionale, un modesto
approssimativo suggerimento, privo di vibrante vitalità fisica, insomma quasi
lettera morta e freddo scrigno delle lontane emozioni dell’autore, pur dotato
riccamente di spirito; lettera morta, quindi, quando non traduca la spirituale
latenza, dopo la più colta e illuminata fase noetica, nel suono: suono vivente,
come sostiene Enzo Fantin, il quale ha riconosciuto in Sergiu Celibidache
l’apostolo dell’inveramento del principio bruckneriano del “ricominciamento e
del perenne ritorno all’origine”, cioè del motivo di profondo della musica di
questa civiltà».
È lo stesso concetto stracco quando non cadaverico di musica a essere stravolto
da Celibidache:
> «La musica non sono le note, la musica non sono i forti, i piano, il lento,
> l’allegro. No! Io mi servo di quello per esprimere qualche cosa che io non
> posso definire in modo razionale, come qualsiasi altro fenomeno estetico:
> rimane un mistero per la ragione (…). È impossibile definire la musica: non
> c’è definizione. È esclusa dal pensiero; io ho cercato di capire che cosa si
> possa chiamare realtà; come ogni intellettuale intendevo materializzarla,
> farla diventare concreta: sbagliando, come ho sbagliato tentando di definire
> la musica (…). La musica esiste solo nell’arco di tempo della sua esecuzione.
> Il brano musicale non esiste: nasce ogni volta che si esegue».
Correggo ora una certa facile e naturale terminologia, adoperata anche da me.
Sbaglierebbe, giusta lo stesso Celibidache, chi parlasse troppo sul serio
di geniounico, di eccezione miracolosa.
Discutendo presso la scuola di perfezionamento di Saluzzo con un giovane
oboista, Celibidache fa questo discorso:
> «Tu non sei un povero oboista ma sei tutto, sei tu, sei assoluto. La dualità
> esiste solo nella mente speculativa. Rifugiandosi nella tecnica ci si
> dimentica che si tratta di un fattore fisico funzionale al raggiungimento di
> un clima spirituale; mitizzarla è cosa grave poiché distrae dalla necessità di
> salvare le idee originali. Nella concezione borghese esiste [sic] “il genio” e
> “gli altri”: questo non porta a nulla. Io ho piacere di parlare con te, e non
> con quello che la vita ha fatto di te».
E ancòra: «Nella concezione di Celibidache l’interpretazione è una faccenda un
po’ infantile da salotto domenicale, o anche un passatempo per i più modesti
abbonati quando si incontrano, nell’intervallo del concerto, a scambiarsi
tranquille banalità nell’ex fumoir. Che dire poi dei trastulli del tipo
“Interpreti a confronto”? “Allontanatevi da tutti quei rifiuti – diceva il
maestro ai suoi allievi – amalgamati in concerti prefissati. L’interpretazione,
ad esempio, è in realtà una rischiosa addizione tra l’ignoranza di chi esegue e
quella di chi ascolta. Concetti come genio, talento sono scemenze. Ognuno di noi
ha le sue possibilità, solo che nella maggior parte di noi, sono bloccate in
maniera diversa”».
A un giovane che poneva la impossibile domanda se i geni del passato sarebbero
un giorno tornati, il maestro non esitava:
> «Tu potresti essere uno dei geni di cui senti la mancanza! Non sorridete! È
> invece una vergogna che questi tempi, questa civiltà, questo mondo ti abbia
> impedito di diventare un altro Bach. Ma in te c’è tutto questo; è la verità,
> se c’è la luce della coscienza, cioè la libertà di attingere concretamente al
> passato, per proiettarti nel futuro: questo devi cercare per stabilire un
> rapporto con la realtà; la Realtà, non quella falsa, condizionata, virtuale».
Sincere senza alcun dubbio, queste parole peccano forse d’una visione un po’
ottimistica.
Fissato con certe questioni neurologiche e della fisica, sarei più cauto a
democratizzare l’artista. Certo gli è però che ticchi pigrizia distrazione
vecchiezza vanità ambizione hanno soffocate in vizii e balordaggini irremeabili
potenzialità e capacità già acquisite. Penso a esempio a quanto e come avrebbe
potuto fare un Karajan se si fosse liberato dalle sue connotazioni deleterie. Ma
certe dotazioni o le hai dalla nascita oppure al massimo potrai elevarti sopra i
mediocri, non oltre.
Accanto e insieme a questa prospettiva si deve contemplare l’analoga, che
investe l’orchestra, e che rende ragione del resultato, educativo e artistico,
raggiunto sotto di lui dai monacensi.
> «Egli comprese (…) quanto fosse preferibile lavorare con orchestre di modesta
> storia e spessore (…), ma animate da buona volontà, quindi più permeabili a
> nuove idee e all’originalità, piuttosto che mettere a punto un’esecuzione dal
> podio di un’illustre orchestra che si senta depositaria di una, talvolta solo
> presunta, tradizione. In questi casi l’eccellenza dell’organico, ufficialmente
> riconosciuta, è solitamente da leggere anche in termini di supponenza, e il
> direttore che disponga di idee, il quale subito si compiace della prontezza
> della lettura e dell’efficienza della compagine, non tarda però a realizzare
> quanto essa sia invece chiusa in difesa, e persino ottusa, e nella sua prassi
> sia limitato lo spazio per la comprensione, e quindi l’adesione
> alle condizioni sempre mutevoli dell’esecuzione musicale [c.m.]. “Il sapere è
> attaccamento al passato, una zavorra che fa perdere la spontaneità”. Qui
> sembra rilucere il diamante che impreziosisce, con il taglio fenomenologico
> (…) il nuovo e più vero rapporto con la pagina; per Celibidache esso assegna
> all’atto del fare musica, solistica od orchestrale, il compito di trarre dalla
> multiforme realtà contingente sempre mutabili, l’unica vera, possibile
> identità dell’opera musicale (…) hic et nunc».
Non voglio tuttavia lasciare nel lettore l’impressione di un’adesione acritica a
un artista il cui metodo ritengo in fatti inadatto con Beethoven, sopra tutto
col Beethoven più noto, della Quinta o della Settima. Taccio le ragioni di un
mancata persuasione, ché non importano a nessuno e allungherebbero troppo
l’articolo. Lascio all’ascoltatore il piacere di esplorare da sé questo meandro.
Un altro aspetto di Celibidache che può far storcere il naso è l’avversione per
i suoi colleghi. Vorrei davvero che, tolti certuni su cui Celibidache disse solo
la verità («ignoranti» e altre simili graziosità), le considerazioni dedicate a
esempio a un Karl Böhm, tra le sommità, siano state dette o in momenti di
stizza, riportate male, o invenzioni di sana pianta di qualche giornalista
malevolo. Ma se temo di no.
Certamente Celibidache andrebbe però in questo senso lodato almeno perché ebbe
il coraggio di dire schiettamente ciò che altri pensano ma tacciono,oppure si
limitano a dire solo agli intimi, minacciandoli di morte se dovessero spifferare
quei loro giudizii.
Altro ci sarebbe da aggiungere, ma è meglio piantarla qui e andare ad ascoltare.
Luca Bistolfi
L'articolo “Tu potresti essere uno dei geni di cui senti la mancanza!” Note su
Sergiu Celibidache proviene da Pangea.