Sebbene con due anni e mezzo di ritardo a petto del trionfale annunzio sui
giornali, che lo prometteva in libreria per la fine del 2022, è finalmente
escito il doppio ‘Meridiano’ delle Opere scelte di Philip Kindred Dick, curato
da Emanuele Trevi. L’attesa, carica di promesse, si è però rivelata, a esser
generosi, una mezza buggeratura e un attacco, se bene dissimulato, contro lo
scrittore americano. In queste tremila pagine s’adunano in fatti fesserie e
sfondoni, qualche imbroglio non involontario, e parecchi arbitrii. Qui passeremo
in rassegna solo un’infima parte di tutto ciò: se dovessimo rintuzzare ogni
guasto e carognata, occorrerebbe un intiero terzo tomo.
*
Liberiamoci anzi tutto della «Cronologia», affidata a Emmanuel Carrère.
Come si sa, le cronologie dei ‘Meridiani’, negli ultimi anni, sono vere e
proprie piccole biografie, che occupano lunghe fitte e talora critiche pagine,
quindi non soltanto un elenco di date ed eventi.Poiché Carrère è l’autore di una
così detta “biografia” dickiana, forse ahinoi la maggiormente letta in Italia
dacché stampata da Adelphi, Trevi e Alessandro Piperno, l’attuale direttore
della collana, hanno ritenuto ovvio di assegnare a colui codesta preziosa parte
del ‘Meridiano’. Una scelta disgraziata quant’altre mai come potrà constatare il
lettore leggendo un mio lungo intervento, pubblicato su questa rivista.
Siccome là dico già tutto ciò che di essenziale si deve sapere, qui non mi
ripeterò. Rilevo solo che ancòra una volta è dimostrato quanto a signoreggiare
la più parte delle logiche culturali italiane sono criterii familistici e
ideologici.
La seconda scelleratezza è il «Profilo di Philip K. Dick», firmato da Trevi.
Pur assai informato e non del tutto disutile, esso nondimeno porta un guasto
irremeabile, cioè a dire il radicale rifiuto di attribuire a Dick il duplice
statuto di filosofo e di veggente, l’unico cui egli tenesse e che dimostrò
sempre di meritare, e di rilevare i connotati religiosi dello scrittore.
Dick è per Trevi un buon autore ma gravato da tabe psichiche. Frusta e stracca
robaccia di magliari (la medesima di Carrère, ça va sans dire), fondata su
periclitanti congetture gabellate per verità. Nel mio succitato articolo indugio
anche su questa delicata faccenda. Proseguiamo.
Il ‘Meridiano’ offre, nell’ordine, i seguenti titoli di Philip Dick: Occhio nel
cielo; Tempo fuori luogo; L’uomo nell’alto castello; Le tre stigmate di Palmer
Eldritch; Gli androidi sognano pecore elettriche?; Ubick; Scorrete lacrime,
disse il poliziotto; Un oscuro scrutare; Valis; L’invasione divina e La
trasmigrazione di Timothy Archer.
Per motivi di spazio non indugerò oltremodo sull’Occhio nel cielo, Tempo fuori
luogo e Un oscuro scrutare. Mi limito soltanto a rilevare che: il primo non
necessitava di una nuova traduzione, sarebbe in fatti stato sufficiente ripulire
una delle pregresse; mentre il secondo e il terzo sono la riproposizione delle
versioni già da anni a disposizione e, al contrario di altre versioni
miserabili, tra le poche salvabili. Di poi Occhio nel cielo – in vero più un
racconto lungo che romanzo – è opera bensì gradevole e abbastanza importante
nell’arsenale dickiano, ma non tra le maggiori.
La scelta ha natura politica, non certo letteraria, dacché lì Philip Dick…
strizza l’occhio ai comunisti. A oltre trentacinque anni dal fatale biennio
1989-1991 certi intellettuali (sit iniuria verbo) sembrano quei soldati
giapponesi che decenni dopo la Seconda guerra mondiale li trovavi ancòra
appostati in attesa di un contrordine dell’imperatore. Peraltro lor signori
confondono i sinistri di quegli anni ormai remoti, bensì funzionalissimi ai
regimi, ma ogni tanto capaci di qualche utile manovra critica. Oggi si sono
sostituiti al potere un tempo avversato e ne sono diventati i degnissimi eredi.
I cinque più noti romanzi dello scrittore americano: Ma gli androidi sognano
pecore elettriche?; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; L’uomo nell’alto
castello; Ubick; Le tre stigmate di Palmer Eldritch sono in verità un’ottima
scelta, ma si tratta delle stesse versioni già escite dal 2021 in avanti negli
Oscar.
In somma: sette titoli su undici di questa lussuosa e pretenziosa edizione
ricicla testi già in circolazione.
Ci sono tuttavia due differenze: aver abbandonate le orrende prefazioni di
Carrère annesse agli Oscar e la presenza di un apparato critico, com’è nelle
prerogative della collana. Ma è certo che lo scambio sia stato
svantaggiosissimo, per Dick e per il lettore.
Prendiamo a solo titolo d’esempio il paragrafo «Gnosi» (pp. 3012 e sgg) che
accompagna Valis e da cui trascelgo in modo aleatorio. È firmato, come tutti gli
accompagnamenti alla lettura, da Emanuele Trevi e Paol Parisi Presicce.
Leggiamo sùbito questa fesseria: «Non è mai esistita una chiesa gnostica
paragonabile alla chiesa cattolica, con le sue ferree gerarchie (vescovi,
diaconi, laici…) intese a salvaguardare le verità della dottrina garantendo la
successione apostolica» (pp. 3012-3013).
Negare l’esistenza d’una chiesa gnostica organizzativamente paragonabile alla
cattolica significa aver studiato poco e parlare a vanvera: basti in fatti
pensare al manicheismo, a cui aderì per nove anni niente meno che Agostino
d’Ippona. Esso fu la più grande eresia cristiana della storia, una vera e
propria chiesa, con tutte le caratteristiche di una qualsiasi chiesa universale:
dottrina, gerarchia, liturgie, riti, etcoetera. Durò per circa mille anni e si
estendeva all’attuale Cina insino all’attuale Marocco.
Andiamo avanti.
Trevi & Presicce definiscono Ireneo di Lione e Tertulliano «grandi polemisti
ortodossi» (p. 3014). Niente da dire, giusta la teologia tradizionale,
sull’ortodossia di Ireneo, ch’è pure stato elevato agli altari. Tertulliano fu
in vece pressoché da sempre considerato ai limiti dell’ortodossia e per certi
versi incompatibile con la dottrina, sia della Chiesa occidentale, sia della
Chiesa orientale. Nessuna di queste, in fatti, gli attribuisce alcun titolo ed
entrambe ne sconsigliano la lettura.
Poco dopo, un altro sfondone: Ireneo e Tertulliano «detestavano gli gnostici, li
consideravano pericolosi eretici e vedevano nelle loro idee diaboliche minacce
alle verità e alla nascente dottrina del cattolicesimo» (p. 3014). Trascuriamo
la sciatta disinvoltura con cui i nostri beniamini maneggiano il concetto di
«eretico», e limitiamoci a constatare che negli anni di Ireneo e Tertulliano,
cioè a cavaliere tra II e III secolo, non esisteva alcuna «nascente dottrina del
cattolicesimo». I commentatori confondono cattolicesimo con cattolicità, due
concetti assai ben distinti, sia nella storia delle religioni, sia nella lingua
italiana. È lecito parlare di «cattolicesimo» soltanto a partire, come minimo,
dal 1054, data dello scisma cristiano tra Oriente e Occidente. Evocare una
dottrina ovvero una Chiesa cattolica avanti di quello svolto è indice di crassa
ignoranza.
Non è finita.
La premiata ditta Trevi & Presicce, alla pagina 3013, spara: «In primo luogo
la gnosis, com’è evidente fin dal nome, è un percorso salvifico basato sulla
conoscenza, una sorta di risveglio che riconnette l’individuo alla sua vera
natura». Spiacenti, ma dal nome «gnosis» è evidente soltanto il nome, e non un
percorso: men che meno se descritto come si provano a fare T&P.
Trascuro di commentare l’evidente loro incapacità di distinguere «gnosi» e
«gnosticismo».
*
Trascorrendo dal fronte religioso al letterario, la caccastrofe è inarrestabile.
Nelle «Notizie sui testi» viene citato due volte C. S. Lewis. Nella prima
occorrenza (p. 3007) T&P ne evocano l’opera Out of the Silent Planet, modello
per Radio Libera Albemuth, una delle ultime pagine dickiane, dicendo dello
scrittore irlandese soltanto che fu amico di Tolkien. Nella seconda (p. 3029)
invece si parla «dello scrittore inglese C. S. Lewis, che fu grande studioso di
letteratura medievale, saggista di fede cattolica e autore di testi fantastici e
fantascientifici».
Ora, dare informazioni circa Lewis solo alla seconda occorrenza del nome, è già
di per sé sintomo di severa distrazione. E ciò senza contare che, in un libro
ambizioso per lettori ambiziosi, non è davvero necessario spiegare chi sia
Lewis. Così come è esornativo, in quel contesto, sottolineare l’amicizia con
Tolkien, come se ciò fosse issofatto titolo di merito. Ma le maggiori cannonate
sono anzitutto d’aver limitato le competenze di Lewis alla sola letteratura
medievale, quando è noto che egli fu un conoscitore a tutto tondo del così detto
Medio Evo; e in secondo luogo, sopra tutto, d’aver definito Lewis «di fede
cattolica».
C.S. Lewis fu per una certa parte della sua vita un teista. Poi, grazie ad
alcune esperienze (che si possono leggere sia nell’autobiografico Sorpreso dalla
gioia, sia nella bella biografia di Alister McGrath), si convertì al
cristianesimo ma non già al cattolicesimo, bensì alla fede anglicana.Sarebbe
stato utile rilevare a questo preciso proposito l’amicizia tra Lewis e Tolkien,
e non a casaccio. Fu in fatti il futuro autore del Signore degli Anelli a
imprimere una svolta decisiva al percorso dell’amico. Ma mentre Tolkien,
comprensibilmente, si attendeva da parte di Lewis un’adesione al cattolicesimo,
questi optò altrimenti.
Sia bene inteso che tutti questi sfondoni di storia delle religioni e di
letteratura sarebbero stati evitabili consultando anche solo wikipedia. L’ultimo
studente fuori corso dell’università di Roccacannuccia non li avrebbe commessi.
Ciò che non voglio commentare poiché anche di questo parlo nel mio già evocato
articolo, sono le note all’Uomo nell’alto castello, forse l’opera più politica
di Philip Dick e, per la mentalità dominante da ottant’anni, la più
inaccettabile e quindi la più falsificata. Prendo solo atto che il mondo
culturale italiano è zeppo di lupi travestiti da agnelli: proprio il concetto
che lo scrittore americano esprime nel romanzo declinandolo alla politica
mondiale.
Voglio invece evidenziare con favore le molte note ai romanzi che rimandano a
esempio a precisi passaggi della Sacra Scrittura citati o suggeriti da Dick. Il
lavoro, se non ho straveduto, è svolto con perizia, sì che possiamo ammettere
che, almeno come bibliotecarii o impiegati di redazione, certi intellettuali non
sfigurerebbero. Perché non pensarci e cambiare lavoro?
*
Scopo ufficiale del ‘Meridiano’ sarebbe di restituire dignità letteraria a
Philip Dick, considerato, come tutti gli autori di fantascienza, alla stregua di
un dilettante nel senso peggiore, indegno di prendere dimora sul Parnaso.
Un’iniziativa dunque lodevole per chi abbia saputo riconoscere nello scrittore
americano non soltanto un fantasioso facitore di mondi e trame relegato al
dominio della fantascienza – tenuto, con grave sbaglio, in gran dispregio dagli
intellettuali e da certi lettori colti –, ma un classico, se bene sui generis,
meritevole di ben altra considerazione.
Il resultato però è sviante.
Piperno e Trevi, col contributo di Carrère, hanno
voluto istituzionalizzare Philip Dick, ciò è a dire neutralizzarlo, renderlo
maneggevole, addomesticarlo, anzi tutto tacendone le propensioni filosofiche e
religiose: nella fattispecie, gnostico-cristiane. Lo si capisce pure dalla
scelta di escludere, anche solo in forma antologica, L’esegesi, opera cruciale
per capire sia il Philip Dick uomo, sia il Philip Dick scrittore. Una delle
visioni-simbolo di Dick è riassunta in una frase, famosa tra i lettori:
«L’Impero non è mai cessato».
L’Impero è quello romano, persecutore dei cristiani, che ancòra negli anni
Settanta Dick vedeva, more suo, all’opera, anche sulla propria persona, con
resultati esiziali per la società, gli individui, le anime. A mezzo secolo di
distanza Dick è ancòra perseguitato. A mezzo secolo di distanza noi possiamo
unirci alla voce di Philip Kindred Dick.
*
Poscritto
A maggior benefizio dei lettori più curiosi e di quelli che ancor credono alle
chiacchiere dei nostri intellettuali, riferisco per sommi capi un episodio
occorso diversi anni fa a un mio amico, superbo germanista italiano, uomo
altresì di raffinatissimo gusto linguistico, quando volle – e anche dové – avere
un confronto con chi presiedeva alla direzione dei ‘Meridiani’. Tacerò per
ragionevoli motivi i nomi sia dell’uno, sia dell’altro protagonista di questa
eloquente e istruttiva storiella e così il sesso dell’allora capo della collana.
All’uscita della raccolta completa, con originale, dell’opera poetica di un
grande tedesco, il nostro germanista si avvide, non appena schiuso il volume,
d’una seria di svarioni sciatterie e talune bestialità nella traduzione, firmata
da uno dei mostri sacri della germanistica italiana. Per ciò che possa valere io
stesso, indipendentemente dall’amico germanista, avevo sùbito notato lo stato
pietoso di quel volume, sì che posso assicurare che questo germanista aveva
veduto assai bene. Il nostro amico, pel solito schivo, fu còlto da un tal moto
di fastidio, da non poter evitare di scrivere una lettera al direttore (si
potrebbe adoperare il maschile anche se la persona fosse di sesso femminile),
una lettera in che egli, con toni garbati ma fermi, snocciolava solo alcune
delle minchiate eternate nel prezioso volume.
Attese diverse settimane senza ricevere risposta. Ma siccome la gravità era così
spaventosa da impedirgli di soprassedere, e altresì non volendo accettare di
essere ignorato, il germanista tentò di raggiungere al telefono il direttore,
ciò che, con sua grande sorpresa, gli riuscì. Il direttore avrebbe dovuto
conoscere il germanista dall’altro capo del filo, ché questi era la firma di
numerose preziose e note versioni italiane di grandi classici tedeschi, e della
letteratura, e della filosofia, per marchi editoriali di diversa levatura. Ma o
era all’oscuro, o finse di non sapere. Nondimeno stette ad ascoltare. Il
germanista aprì con un breve preludio di gentilezze e scuse per aver
“disturbata” l’attività di quel membro senatorio della repubblica letteraria
italiana. Ma, precisò, siccome non aveva ricevuta risposta alla lettera, non
aveva avuta altra strada che il telefono. Il direttore negò di aver mai ricevuta
la missiva, ma pur lo invitò a esporgli la sua intenzione, annunziandogli di
avere davanti al naso il volume incriminato. Nemmeno a dirlo, con tono tra il
condiscendente e l’irritato. Il germanista iniziò, aprendo davvero a caso il
volume, a evidenziare i punti critici. Si attendeva qualche reazione, ma l’altra
persona non dava segno di apprezzare, in alcun senso, le osservazioni di
quell’oscuro molestatore.
L’elencazione delle magagne fu alquanto breve, ma a qualsiasi onesto e
competente e in tedesco e in italiano, sarebbe stata sufficiente per cospargersi
il capo di cenere ed eventualmente ritirare il volume dal mercato, licenziare
l’autore della traduzione e incaricare altrui più attento – magari lo stesso
germanista della nostra storiella – per ripassare da cima a fondo il non esile
tomo.
Andò invece diversamente.
Il direttore del Meridiano, in fatti, si limitò a dire queste testuali parole,
glaciali: «Dottor …, mi stupiscono molto le sue osservazioni. Tutte le
recensioni al volume non parlano di errori e sono state tutte molto favorevoli».
Ma il germanista di rimando: «Lei sa bene, caro direttore, che le recensioni, a
certi livelli sopra tutto, sono, anzi che spontanee, sono spintanee. E poi non è
sempre detto che i recensori, quali ch’essi si siano, abbiano le competenze per
giudicare un lavoro così importante. Mi stupisce invece che Lei, alla sua volta
germanista, non abbia fatto caso a questa legione di errori, di morti….».
«Guardi, dottore», lo interruppe l’alto impiegato ora sensibilmente irritato,
«Le ho detto che le recensioni sono state tutte favorevoli e quindi non occorre
dire altro».
Il nostro amico non ebbe quasi il tempo di replicare, ché, dopo uno sbrigativo
saluto, la comunicazione si interruppe. E non certo per un mal funzionamento
della linea telefonica.
Luca Bistolfi
L'articolo Sul doppio “Meridiano” di Philip Dick. Ovvero: come si neutralizza un
grande scrittore proviene da Pangea.
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È notoriamente impossibile fare lo spoglio della mole di studi sfornata ogni
anno dalle università e dalle case editrici sui classici della letteratura e del
pensiero. Tuttavia ogni tanto, un po’ per caso, un po’ perché ce la andiamo a
cercare, è necessario buttare un occhio in strada per constatarne la situazione
e, se si intercetti qualche soggetto disturbante, prendersi la soddisfazione e
ottemperare al diritto/dovere di critica, di scagliare qualche freccia o,
almeno, qualche voce di allarme.
Ed è ciò che faremo ora presentando due lavori su Martin Heidegger, esciti
entrambi per Mimesis: Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica di
Thomas Vašek, e Heidegger e la Gnosi di Lucrezia Fava.
Inizieremo col primo, il più problematico e urticante.
* * *
Partiamo dal titolo originale: Schein und Zeit – Heidegger und Michelstaedter.
Auf den Spuren einere Enteignung, o sia: «Apparenza e tempo – Heidegger e
Michelstaedter. Sulle tracce d’una espropriazione». La versione italiana quindi
corrompe radicalmente l’intenzione dell’autore: Heidegger e Michelstaedter.
Un’inchiesta filosofica sarà commercialmente più appetibile, ma non si può
sempre sacrificare tutto al dio mercato.
Nel titolo originale, dietro l’espressione palese, ci sono due allusioni. La più
facile: «Schein» in luogo di «Sein», che sta a indicare una sorta di maschera,
indossata naturalmente da Heidegger. La seconda è meno perspicua e riguarda la
parola centrale del titolo: Enteignung, che rimanda evidentemente allo spettro
dello «Er-eignis» uno dei concetti centrali heideggeriani e quello che sorregge
i Beiträge zur Philosophie.
Mi auguro solo di non aver sopravvalutato un autore a dir poco sospetto.
Il titolo originale, si capisce, accenna a un possibile e forse, secondo
l’autore, probabile plagio ai danni di Carlo Michelstaedter da parte di Martin
Heidegger. Una tesi invero sorprendente e di quelle che per solito ingenerano
due ordini di reazioni: o grande interesse, oppure totale negligenza. I
contenuti di simili “inchieste” sono infatti davvero squassanti oppure un fuoco
fatuo, molto spesso presente solo nella testa dell’autore.
Io opto per una terza posizione: pregiudizio che porta alla contraffazione.
Evidenzio súbito una “stranezza” di Vašek, già alle pagine 11 e 12, o sia la
precisazione d’aver tenuto fuori dal suo studio ogni discussione circa i così
detti “Quaderni neri” e quindi circa le (del tutto) presunte responsabilità di
Heidegger durante il governo nazionalsocialista. È un segno sia di malafede, sia
dell’inquinamento del clima che si respira ogniqualvolta si tratti di Martin
Heidegger. Sentirsi obbligati a precisare di non voler trattare il tema è come
ammettere che, parlando di Heidegger, si dovrebbe comunque ricordare sempre
ch’egli fu (si dice, man sagt) nazionalsocialista. E infatti poco dopo (pp.
25-26) Vašek non manca di affermare che «non vi sono dubbi sulla vicinanza di
Heidegger al Nazionalsocialismo, tantomeno sul suo antisemitismo».
Purtroppo esula dal cómpito del mio contributo d’inoltrarsi nella faccenda (di
cui tuttavia dirò in un successivo articolo). Ma è mio dovere dichiarare qui con
grande forza che quei dubbi per Vašek, e per parecchie altre persone,
inesistenti lo sono davvero, ma in senso affatto opposto a quello inteso da
questo autore. Lo dimostra la schiera di ricercatori italiani tedeschi e
francesi che ha smontato pezzo a pezzo ogni ricostruzione e costruzione
infamante ai danni di Martin Heidegger. Mi riferisco, cito a solo titolo
d’esempio, a François Fédier e a Francesco Alfieri. Ritenere, oggi, Heidegger
nazista e antisemita dimostra o grave “distrazione” oppure disonestà.
E dico di più: la frase di Vašek è sbagliata perché, se proprio vogliamo
concedere qualcosa alla tesi colpevolista, Heidegger fu bensì iscritto al
Partito nazionalsocialista ma non manifestò mai sentimenti o idee antiebraici.
Peraltro sarebbe uno strano antisemitismo quello di Heidegger: allievo
dell’ebreo Husserl; circondatosi di ebrei; plagiatore dell’ebreo Michelstaedter
(e anche di un secondo, vedremo).
Scopo del lavoro è dimostrare le coincidenze, nel senso stretto della parola,
tra il pensiero di Michelstaedter espresso ne La persuasione e la rettorica e
quello di Essere e tempo. Invero la dichiarazione preliminare dell’autore di
limitarsi a Essere e tempo non trova corrispondenza nel testo, in cui è presente
un nubifragio di citazioni da svariate altre opere di Heidegger, precedenti e
successive al capolavoro del 1927.Avanti tuttavia di immergerci nel raffronto
testuale e tematico, onde dimostrare la tesi dell’Enteignung, Vašek ci informa
che l’opus magnum del goriziano fu tradotto in tedesco solo nel 1999, ciò che,
non conoscendo Heidegger l’italiano, rende impossibile un contatto diretto tra
questi e il testo michelstaedteriano, testo che fu pubblicato la prima volta in
Italia tre anni dopo il suicidio del goriziano, nel 1913, da Vallecchi di
Firenze (che Vašek invece colloca, chissà perché, a Genova).
Tuttuavia Vašek fa ciò che mi pare di poter definire una scoperta non dappoco, o
sia una traduzione in tedesco della parte dedicata alla Persuasione della
celebre tesi di laurea, per mano niente di meno che di Argia Cassini, la così
detta fidanzata di Michelstaedter (scrivo «così detta» per buone ragioni
biografiche che qui non importa di esporre). Sorgono però adesso due problemi
molto pesanti, che Vašek non solleva. Anzitutto si ignora lo scopo di questa
traduzione, fatta in forma dattiloscritta e, in apparenza, privata, cioè a dire
non espressamente destinata ad alcuno. Essa inoltre è priva di data ed essendo
Argia Cassini morta nel 1944, avrebbe avuti come minimo trent’anni di tempo per
tradurre quel mazzetto di pagine. Vašek invero accenna all’assenza della data,
ma in maniera anodina, senza porre in evidenza il dato cruciale, e men che meno
interrogandosi sulle sue implicazioni all’interno dell’indagine in corso.
Partendo da questa traduzione parziale, Vašek si slancia nella ricostruzione di
rapporti tra Italia Svizzera e Germania insino a questo momento, per quanto mi è
dato di sapere, ignoti. Essa è esposta alle pagine dalla 19 alla 22 e io non
toglierò la soddisfazione al lettore di scoprirsela da sé, tanto essa è invero
sorprendente. Inoltre mi astengo dal parlarne per non spingere il giudizio del
lettore in una direzione anziché in un’altra. Idem valga per l’indagine tematica
e testuale di Vašek, anche perché riferirne anche solo succintamente renderebbe
questo articolo da rivista specialistica e quindi “illeggibile”.
Qui voglio solo far emergere il puro tentativo di Vašek e discutere alle corte
il suo metodo.
Il libro è efficace e va preso in considerazione, ché in effetto
le coincidenze tra i due pensatori ci sono.
Vašek apre un problema, che per lui tuttavia è una specie di vaso di Pandora, il
cui contenuto si scatenerebbe non già sulla storia della filosofia ma su
Heidegger e sugli heideggeriani, heideggeriani ch’egli fa passare a un dipresso
come una sètta. Postoché ciò sia vero, gli antiheideggeriani in moltissimi casi
a me paiono somigliare invece a una cosca, con tanto di picciotti pronti alle
mani e alle armi contro chi osi contestare la loro lettura – politica morale
e anche filosofica – di Heidegger. Esemplare è il caso d’una accanita arcinemica
e diffamatrice di Heidegger e degli heideggeriani (che la ignoravano fino a
quando ella non si mise a strepitare sui giornali, portando quindi la
discussione dal parrucchiere). Smentita più e più volte, la studiosa non si è
ancòra data per vinta, seguitando a collezionare magrissime figure.
Altro difetto del lavoro di Vašek è la tendenza alla ripetizione. Se tuttavia
talora essa riesce molesta, altre è invece utile poiché certi concetti e
osservazioni meritano di essere ripigliati. Nondimeno, stupisco constatando che
aver più volte ribadito, oltre alle simiglianze, anche le differenze tra i due
pensatori, non porta Vašek a essere conseguente, sicché il libro è
composto solo delle prime. Ma Vašek si spinge ben oltre, ché, ringalluzzito
dalle sue “scoperte” sciorinate nelle duecento e cinquanta pagine precedenti, a
metà della quinta e ultima parte del lavoro si inoltra nel tentativo di
dimostrare un altro esproprio heideggeriano, questa volta ai danni di Franz
Rosenzweig e in ispecie della sua opera principale, Die Stern der Erlösung («La
stella della redenzione»). Un altro ebreo al quale rubare, quindi.
In apparenza (forse la parola chiave del libro…) Thomas Vašek dà l’impressione
di sapere adoperare la vanga come pochi altri, tanto scava scava scava nei testi
heideggeriani e in Michelstaedter. Ma giunto su certi terreni si limita a
passare oltre, al massimo sollevando un po’ di polvere, per ritornare su d’uno
più congeniale (in apparenza…).
Egli infatti solo indirettamente dice che a unire Heidegger e Michelstaedter
oltre all’aria che si respirava in Europa nei primi decenni del XX secolo, vi
sono anche profonde conoscenze storico-filosofiche, in ispecie la Greciantica
dei Presocratici, di Platone e Artistotile, tre momenti del pensiero occidentale
conosciuti e da Heidegger, e da Michelstaedter come pochissimi altri. E questo
trait d’union è il primo dato che, volendoci inoltrare in un raffronto tra i due
pensatori, balza immediatamente allo sguardo di occhi sani e onesti, anche
solo letteralmentescorrendo l’elenco delle loro opere o, al
massimo, letteralmente sfogliando le pagine di queste.
Vašek però non dà il benché minimo peso a questa giuntura.
Indubbio merito, quantunque indiretto, da riconoscere a Vašek è d’aver accennato
in modo da incuriosire parecchio al nome di Oskar Ewald, filosofo viennese,
«fervente ammiratore di Michelstaedter» e «in contatto con Edmund Husserl» (p.
10). Ma Vašek lo brandisce come un’arma impropria ma difettosa. Infatti fa
cilecca. Purtroppo di Ewald non c’è nemmeno mezza pagina tradotta in italiano e,
per soprammercato, le sue opere, pubblicate oltre un secolo fa, non sono mai
state ristampate, né in Germania né in Austria. Questo buco è davvero irritante,
giacché dai pochi cenni di Vašek, Ewald dev’essere un di quei pensatori
irregolari e anomali di notevole fecondità e forza.
Ewald tuttavia ci pone un problema piuttosto pesante, su cui Vašek tace del
tutto, ignoro se per gravissima distrazione ovvero con intenzione. Su quali basi
Vasheck definisce Ewald «fervente ammiratore» del goriziano? Se – anche questo
vedemmo – La persuasione e la rettorica fu vòlta in tedesco solo nel 1999 e
storia e destino della versione d’Argia Cassini sono ignoti, come fu possibile a
Ewald, ignaro della lingua italiana, leggere Michelstaedter? Si può ipotizzare,
sulla scorta della ricostruzione di legami alle pagine 17 e seguenti, che Ewald
abbia appreso di Michelstaedter da Husserl e da altri: ma può bastare qualche
scambio di battute su chicchessia a farne di qualcuno «fervente ammiratore»?
Possiamo a esempio noi dopo pochi cenni su Ewald dichiararcene tali? Direi di
no.
Se invece Ewald, per ipotesi, lesse la traduzione d’Argia, data la suddetta
catena di sant’Antonio ricostruita da Vašek, è probabile che anche Heidegger
l’abbia letta. Ma di questa traduzione noi non si sa null’altro fuorché la sua
esistenza, ciò che è insufficiente a determinare alcunché. Inoltre – ed è un
dettaglio a mio giudizio cruciale – la traduzione di Argia Cassini si trova
attualmente nel Fondo Carlo Michelstaedter di Gorizia. Un dato che ci obbliga a
domandarci: se è ben possibile che essa traduzione abbia a un certo momento
intrapreso in viaggio tra Austria e Germania, è probabile che poi sia ritornata
a Gorizia, sia sopravvissuta allo sfacelo della Seconda guerra mondiale e sia di
poi stata messa al sicuro tra le carte del filosofo goriziano ancòra
semisconosciuto? (Il vero “lancio” avverrà soprattutto nel 1958, quando l’amico
– si fa per dire – Gaetano Chiavacci pubblicherà una scelta delle opere e delle
lettere, censurate, del Goriziano per Sansoni).
La risposta più ovvia mi pare questa: quella traduzione non è mai escita da
Gorizia e attualmente non resulta che alcun attore di questa storia abbia
intrapreso un viaggio a Gorizia, nemmeno Ewald che, essendo cittadino
austroungarico, bazzicava non molto distante dalla città friulana.
Resto tuttavia aperto a proficue e documentate smentite.
C’è ancòra un altro dato cruciale di che tener conto. Lo abbiamo anche questo
accennato: Argia tradusse solo «La persuasione», o sia pochissime pagine. Ora,
ipotizziamo che codesta traduzione abbia fatto il giro delle sette chiese
d’Austria e Germania (lo ritengo improbabile, ma transeat) e che quindi sia
giunta nella mani di Heidegger, com’è possibile trovare, come pretende Vašek,
delle cogenti simiglianze e identità tra il pensiero heideggeriano del «Si»
(man) e la rettorica michelstaedteriana? È realistico pensare che
l’espropriazione sia dovuta solo ai racconti orali della catena di sant’Antonio?
A me non pare sostenibile alcunché di siffatto.
Chiediamoci inoltre: se uno dei tramiti tra Michelstaedter e Heidegger, giusta
il tentativo di ricostruzione della catena di sant’Antonio di Vašek, fu Husserl,
è realistico che questi non abbia giammai evocato il pensatore goriziano
allorché si lamenta pubblicamente della deviazione, addirittura del tradimento
perpetrato da Heidegger, a petto dell’impostazione fenomenologica originaria,
in Essere e tempo?
Inoltre: è credibile che, come allude Vašek per tutto il libro, e sin dal titolo
originale, la mole enorme degli scritti heideggeriani derivi da Michelstaedter?
Amo e leggo Michelstaedter da trent’anni esatti, ma nemmeno da briaco riuscirei
a sostenere che l’opera di Heidegger, dalle prime lezioni della fine degli anni
Venti, insino – come minino – ai lavori postbellici, sia un’espropriazione da
«La persuasione», né da altri scritti michelstaedteriani.
Vašek commette anche un errore filosofico madornale ed è anche questo – oltre al
patente pregiudizio “razziale” politico e ideologico – a condurlo sulla via
sbagliata della sua lettura di Heidegger. Egli infatti scrive che Essere e
tempo non tratta «principalmente della questione dell’essere, bensì dell’idea di
rinascita o di trasformazione dell’uomo, che è stata influenzata da una certa
“letteratura del risveglio” dopo la Prima guerra mondiale» (p. 10). Insomma, la
solita tesi dello Heidegger esistenzialista. Oltre a essere una tesi vecchia
come il cucco è anche imprecisa, soprattutto se detta così. Ritenere che la
questione dell’essere non abbia strettamente a che fare con la trasformazione
individuale, e viceversa, significa maneggiare poco e male non solo Heidegger ma
in generale la filosofia.
Inoltre questa lettura contraddice in maniera brusca la tesi principale di
Vašek, o sia l’espropriazione da parte di Heidegger ai danni di Michelstaedter.
Il pensatore goriziano, infatti, è sempre stato collocato, per usare una
bellissima espressione di Camillo Pellizzi, tra gli «spiriti della vigilia»,
cioè a dire tra coloro i quali chiedevano, ciascuno more suo, un cambio di
passo, una metánoia, una palingenesi – individuale ovvero collettiva, qui non
conta trattarne – per lumeggiare e fronteggiare i rivolgimenti politici sociali
e culturali avviati a cavaliere tra XIX e XX secolo, e che avrebbero avuto il
loro primo banco di prova nella grande massacro della primo conflitto mondiale.
Michelstaedter è, secondo molti, tra quanti intercettarono i movimenti tellurici
ctonii preludenti la guerra e si posero in gioco. Inoltre Michelstaedter – ciò
che viene assai poco ricordato – era cittadino di quell’Impero che già agli
inizi del secolo scorso iniziava a dare vistosi segnali di cedimento.
Anche Heidegger, coetaneo di Michelstaedter (1889), sentiva l’aria, pur da
diversa prospettiva, anzitutto geograficamente diversa. Ma era anch’egli un
cittadino d’Europa e mosse i suoi primi passi filosofici consapevole della
necessità di una trasformazione, di una epistrofé.
Heidegger e Michelstaedter, per essere sbrigativi, respirarono lo stesso clima,
come ho già detto.
È inaccettabile quindi attribuire al pensiero heideggeriano (parziale,
parzialissimo!) un’aura non dissimile a quella del pensiero michelstaedteriano
ma al contempo tacciare il pensatore tedesco di Enteignung. Amenoché Vašek non
ignori del tutto la biografia di Carlo Michelstaedter.
Insomma, come lo giri lo studio di Thomas Vašek non sta in piedi.
Voglio riservare un ulteriore appunto ancòra al traduttore, che per i passi
da Sein und Zeit, si avvale esclusivamente della versione Chiodi-Volpi e ignora
quella di Alfredo Marini, non esente da difetti ma senz’altro più fondata e
corretta dell’altra, anche sotto il riguardo della semplice comprensione
grammaticale del tedesco. Per replicare si può ipotizzare che la versione
classica di Pietro Chiodi sia ancòra la più accreditata e quindi utilizzata,
anche se è un’affermazione discutibile. Nondimeno essa coinvolgerebbe la sola
versione di Chiodi e non quella di Chiodi e Volpi.
Si tratta certo di legittime scelte soggettive: forse un po’ troppo soggettive.
* * *
Il libro di Lucrezia Fava su Heidegger e la Gnosi, graziaddio, presenta molti
meno problemi e quelli che ci sono, vanno imputati a personali scelte
ermeneutiche e non a qualche basso sentimento o alla volontà di attirare
l’attenzione.
La vera magagna dell’opera, che forse può guastarla del tutto, è l’assenza del
cruciale riferimento ai concetti di Nichts e di Nichtigkeit, senza i quali ogni
comprensione di Heidegger è preclusa. Essi sono condensati per lo più nella
celebre conferenza Che cos’è metafisica? Ritengo che Lucrezia Fava non abbia
aggirato il problema volontariamente, o almeno spero, ma sia stata, per quanto
assai grave, solo una svista. Certo gli è che introducendo il nulla/niente nella
sua tesi sulla gnosi heideggeriana, l’impianto avrebbe fortemente traballato
minacciando di crollare sul suo pur abile e originale architetto. Ma sarebbe
stato il caso di osare, anche a costo di revocare in dubbio o addirittura in un…
niente tutti i fondamenti dell’indagine.
Un esito assai preferibile per non indurre qualcuno a giudicare Heidegger e la
Gnosiun ennesimo tassello di quello strano mosaico cui siamo avvezzi ormai da
tempo immemorabile. Quando si ha difficoltà a definire un pensatore o un’idea,
ma lo si vuole fare a tutti i costi, oppure quando si vogliano tentare altre vie
dalle già battute e cieche, spesso si finisce per definirlo gnostico.
Del tutto assente dall’indagine di Lucrezia Fava è la storia, quindi la
biografia. C’è un fuggevole cenno a probabili conoscenze da parte di Heidegger
di testi gnostici e alla vicinanza con Rudolf Bultmann (un altro gnostico?), ma
niente di più. Ora, che Heidegger, quale persona colta come lo erano a
quell’epoca tutti in certi ambienti, abbia conosciuti i principii dell’antica
Gnosi, nessuno può metterlo in dubbio. Ma non ci sono riferimenti né impliciti
né espliciti nelle sue opere al pensiero della Gnosi storica (a meno che non mi
sia sfuggito qualcosa). E non essendoci alcun riferimento testuale, fosse pure
epistolare, anziché procedere tout court a un accostamento, già di per sé
problematico, bisognerebbe avanti a tutto pensare alle ragioni –storiche
filosofiche psicologiche – di questa eventuale corrispondenza. Postoché Lucrezia
Fava abbia visto un aspetto del pensiero heideggeriano con lucidità e verità
(per quanto con l’aiuto esplicito di Hans Jonas), ella non si domanda mai donde
derivi tale corrispondenza. E questa indagine, si capisce, è rigorosamente
obbligatoria.
C’è un ulteriore inciampo in Heidegger e la Gnosi, e non dappoco, ed è indurre a
credere qualche lettore impaziente – e Dio sa quanti ce ne sono – che il
pensiero di Martin Heidegger cada in un calderone sbrigativamente definito
«irrazionalista», che costella la storia dell’uomo sotto diversi abiti da tempo
immemorabile. Ma mentre in epoca antica e financo in svolti più recenti e in
individui considerati “perdonabili” (si pensi, per esempio, al Romanticismo o a
Hölderlin), l’irrazionalismo è accettato, esso – si dice – non può più avere
diritto di cittadinanza nell’èra della scienza e della tecnica, questa nuova èra
metafisica che stiamo vivendo, e delle superstiti istanze politiche.
Heidegger dové già scontare l’accusa di misticismo e di irrazionalismo dopo la
così detta Kehre, la svolta, come si sa e come ben riassume Hans Georg Gadamer
nei Sentieri di Heidegger (Marietti 1987, pp. XV-XVI). L’accusa era
evidentemente pregiudiziale, spinta sia dall’«ondata di nuovo illuminismo» (io
avrei detto più tosto neopositivismo), sia dall’«ossessione
social-rivoluzionaria», come lì scrive Gadamer, e ben pochi, ancòra oggi, si
sono levàti dalla zucca una simile rappresentazione farlocca. A meno che
Lucrezia Fava non creda, anche lei in senso squalificante, a uno Heidegger
davvero irrazionalista, allora mettere in circolazione simili raffronti, senza
opportune premesse, può costituire un errore sia di metodo, sia strettamente
filosofico.
Ricordiamo a margine l’intelligente osservazione di Medard Boss:
> «Sono numerosi i derisori, che ritengono il “tardo” Heidegger soltanto un
> poeta o un mistico, che avrebbe da lungo tempo abbandonato il terreno di una
> “filosofia scientifica”. Tuttavia, in primo luogo, tali spiriti della
> superficialità non vedono che quello “più tardo” non si è affatto separato dal
> “primo” Heidegger (…). Il pensiero di Heidegger pensa sempre il medesimo del
> medesimo (…). In secondo luogo, i Suoi critici tralasciano di confrontare la
> rigorosa adeguatezza del Suo primo e tardo pensiero a quanto detto, dunque la
> sua “obiettività”, nel senso supremo di questo termine, con la rigogliosa e
> oscura magia, che domina completamente tante rappresentazioni della scienza
> moderna».
>
> (Lettera di Medard Boss ad Heidegger, in M. Heidegger, Seminari di Zollikon,
> Guida 1991, p. 411; traduzione lievemente modificata e corsivi miei)
La tesi di Lucrezia Fava è dunque parecchio spericolata. E aggiungo ch’essa,
almeno così come la declina l’autrice, non conduce in alcundove e, anzi,
allontana dall’obbiettivo heideggeriano principe. In questa analisi dov’è
infatti l’Essere? In altri termini: che cosa se ne fa il lettore di
un’analisi in opposizione alla filosofia come la intende Heidegger sin dai
primordi del suo pensiero?
Lucrezia Fava (ma anche Thomas Vašek con sgradevoli aggravanti) ci ripiomba in
quelle metodologie che lo stesso Heidegger voleva superare, in quella forma
mentis di ostacolo al “progetto” heideggeriano non solo di dire e di pensare
altrimenti a petto della tradizione e delle consuetudini, ma anche di essere
altrimenti. Ma questo è forse impossibile a recepirsi da parte di chi legge i
filosofi e certi filosofi in particolare come oggetti di indagine, eventualmente
di carriera. Heidegger spende gran parte della sua vita a mettere in guardia da
questo genere di mentalità esiziale ed ecco sopraggiungere ancòra dopo plurimi
decenni imperturbati studiosi, i quali, credendo di fargli i complimeti, gli
intonano l’ennesimo Requiem.
Heidegger diventa l’ennesimo oggetto di studio, e non resta quale,
giustissimamente, lo hanno definito Safranski e decine di suoi allievi e lettori
postumi: «ein Meister aus Deutschland», un maestro tedesco, o sia un maestro
tout court, del pensiero ateoretico e rigorosamente pratico, filosofia incarnata
o sia filosofia, per dirla con Hadot, quale esercizio spirituale,
e quindi pratico.
Heidegger trattato alla stregua d’un Popper o d’un Kant, che neppure se lo
meritano, cioè alla stregua d’un “qualsiasi” filosofo. Ciò significa
anestetizzare, neutralizzare Heidegger, il quale, saviamente, mise in guardia
dal commentare i suoi lavori. Parlò, ahimè come al solito, a vuoto, ai vuoti.
Luca Bistolfi
L'articolo Neutralizzare Heidegger. Sui tentativi (più o meno goffi) di fare di
un maestro un mero “oggetto di studio” proviene da Pangea.
Già Anacleto Verrecchia mi avvertiva di prestare attenzione «a quel Mefistofele
di Vittorio», amico d’una vita, che tra l’altro gli aveva accompagnati i
suoi Cieli d’Italia (poi La batracomachia di Bayreuth, versione ampliata),
spassosissima raccolta di narrazioni erudite. «Macché Mefistofele», aggiungeva
il satiro vegliardo, ripensandoci, «Vittorio ne sa una più del demonio!». Quanta
ragione aveva.
Di Mathieu leggevo da giovanissimo, con gusto e profitto, alcuni interventi sul
«Giornale» post-montanelliano, e ne ricordavo uno con particolare piacere, da
cui Romano Prodi usciva lordo e in pezzi a causa di alcuni comportamenti
osservati de visu da Mathieu stesso.
Per quanto tuttavia preparato all’effetto perturbatore delle sue pagine, non
potetti reprimere una vertigine di sbigottimento leggendo, nel Goethe e il suo
diavolo custode, uscito con Adelphi nel 2002, l’accenno a un’ipotesi tellurica,
ripresa e compiutamente sviluppata ed esposta dodici anni appresso, nel 2014,
in Una frode inaudita ai danni di Goethe (Marcovalerio), che adesso incontriamo.
Secondo lo studioso, La vocazione – o missione – teatrale di Wilhelm Meister (da
qui in avanti: Sendung, come suona la parola chiave dell’originale), accolta da
tutta la critica con grandi festeggiamenti quando solo nel 1910 se ne trovò il
testo fino a quel momento sconosciuto, e che sarebbe il prodromo, o sia germe
del capolavoro Wilhelm Meisters Lehrjahre (Gli anni di apprendistato di W. M.),
ebbene questa Sendung sarebbe niente di meno che un falso.
Mathieu non scherza, non sta provocando, né ha solo vaghi sospetti: egli invece
procede sicuro, ben protetto da uno spesso muraglione di prove estetiche
cronologiche filologiche e biografiche, tutte edificate su alacri e attente
ricerche in documenti e biblioteche.
La Frode è un’opera per specialisti perché entra nei dettagli della biografia
goethiana, della storia culturale e sociale di luoghi e tempi lontani, della
lingua tedesca e della tessitura dei due romanzi, ma non c’è un solo momento di
noia o inaccostabile.
Non voglio guastare il piacere della scoperta, e d’altro canto sarebbe difficile
descrivere in relativamente poco spazio anche solo buona parte dei nodi, taluni
complessi, che compongono la fitta trama della tesi. Per stuzzicare il lettore,
basterà evocarne alcuni momenti, in ordine sparso.
Anzitutto, lo stile della Sendung, è assai distante da tutta la restante opera
goethiana, bensì cangiante negli anni ma sempre riconoscibile per un orecchio
allenato. Notizie sull’abbigliamento del protagonista e di natura tipografica
s’affiancano alle osservazioni, edificate sulla biografia, circa Mignon,
centrale nei Lehrjahre.
E ancòra, aleggia nella Sendung un moralismo che fu sempre del tutto estraneo a
Goethe, il quale, aggiungo io in parentesi, séguita, ahilui e ahinoi, a portarsi
appresso un’aura assai differente da quella reale e trabocchevole, che
riescirebbe se solo si studiassero con un poco d’attenzione sia l’opera, sia le
lettere, sia la vita, e magari anche le testimonianze di chi lo conobbe e
frequentò. Se ci fu uno spregiudicato senza eccessi, questi fu proprio Goethe.
Di poi, il colore smorto e l’afror di sagrestia spingono Mathieu a
intercettare l’officina in cui venne fabbricata la contraffazione nel circolo
bigotteggiante di Lavater, il padre della moderna fisiognomica, col quale Goethe
fu legato da una stima e un’amicizia, che però a un certo punto dovettero
dileguare e tramutarsi in qualcosa d’altro.
La scoperta di Mathieu, va aggiunto per chi fosse poco avvezzo alla lettura di
Goethe, è dirompente poiché, oltre a tutto, investe uno scorcio cruciale del
percorso goethiano, i cui Lehrjahre non solo fondano un genere nella modernità,
il Bildungsroman, ma stanno nel novero delle opere cui Goethe dedicò più tempo e
fatiche, e che ha implicazioni di natura sociale e politica, nonché biografiche,
rilevantissime, oltre ovviamente alle letterarie, e che segnò la vita di
parecchi intellettuali di lingua tedesca. C’è notoriamente chi giunse a dire che
i Lehrjahrecostituivano l’evento epocale insieme alla Dottrina della scienza di
Fichte e alla Rivoluzione francese.
Si potrebbe giungere persino a dire senza troppo temere di pigliare uno
scivolone, che Wilhelm Meister è senz’altro la figura goethiana più importante
dopo Faust, superando per vastità d’intenti anche quella di Werther, la quale
tuttavia è molto, molto più di ciò che per il solito viene spacciata: e anche su
questo Mathieu ha parecchio di istruttivo da proporre nel titolo adelphiano.
Ho svolti alcuni semplici controlli per confermare ciò che già temevo e anzi
divinavo circa l’accoglienza ricevuta dal libro di Mathieu presso la
germanistica italiana e in generale presso la critica e la storiografia
letterarie. Come prevedevo, ho trovata solo una catena montuosa di silenzio.
Codesto silenzio non si può certo imputare alla ridotte dimensioni dell’editore,
buona scusante per esser sfuggito, dacché esse sono ampiamente compensate sia
dalla rinomanza dell’autore, soprattutto in àmbito accademico, sia dal fatto
che, come accennavo, il primo lancio della tesi avvenne in un libro d’una delle
case editrici, italiane e non solo, più seguíte e che peraltro cinque anni
avanti, 1997, aveva pubblicato lo straordinario Goethe e i suoi editori di
Siegfried Unseld, direttore della Suhrkamp, una delle principali case editrici
di lingua tedesca. Temo sia del tutto inverosimile che agli studiosi sia
sfuggito Goethe e il suo diavolo custode, oppure bisogna pensare a una lettura
assai superficiale.
Insomma, tutte le faticose e lunghe indagini condotte da Mathieu e l’esposizione
d’una ipotesi così rivoluzionaria, e per la biografia goethiana, e per la storia
culturale europea, sono rimaste senza eco alcuna. Non è la prima volta, né sarà
l’ultima, in cui i padroni del discorso, insieme alle schiere dei loro
subalterni e tirapiedi, ignorano o rifiutano d’interessarsi a studii che
potrebbero incrinare la loro immagine d’un autore, ben propalata e imposta a
generazioni di studenti e liberi lettori. Ma soprattutto procurerebbe loro una
figura da cioccolatai poiché significherebbe che in un intiero secolo di
(presunto) lavoro di convegni lezioni conferenze libri riunioni telefonate
viaggi e via elencando, le migliaia di professori non si sono mai accorti di
quella patente contraffazione, messa invece in luce da uno studioso
ufficialmente estraneo agli studi goethiani e alla germanistica.
Gli opliti e i sacerdoti dell’accademia, al contrario, fanno sempre a gara per
allungare le zampe sulla Sendung con una introduzione o un articolo e così
annettere il proprio nome al sensazionale ritrovamento, fosse pure cinquanta o
cent’anni appresso. Da noi il principe di questi segugi con la sinusite cronica
è, nemmeno a dirlo, Italo Alighiero Chiusano, che già sistemo nel mio intervento
sulle biografie di Goethe pubblicato su questa rivista.
Né nella introduzione alla Sendung per Rizzoli nel 1994, né altrove, Chiusano si
fa sfiorare almeno dal dubbio che l’opera possa essere, se non un totale falso,
almeno un’anomalia nel corpus letterario goethiano. Ben al contrario, la
definisce «un’altra perla nella collana del romanzo europeo», un «capolavoro» e
un’«autentica opera d’arte». Per difendere ed esaltare la camorra universitaria,
egli scrive altresì che il romanzo fu «rapidamente acquisito (…) per la
sensibilità critica del mondo intero». Se Chiusano non fosse un riverito barone
accademico, si dovrebbe pensare a un comico provetto.
Invero l’unica cosa che fece la «sensibilità critica del monto intero» fu di
cadere nel sacco. A partire dalla pubblicazione della Sendung l’anno appresso il
suo presunto rinvenimento, tutti esultarono, compresi niente meno che
Hofmannsthal ed Hermann Hesse, i quali tuttavia almeno dissero che
i Lehrjahre erano senz’altro superiori al romanzo “ritrovato”, ciò che avrebbe
dovuto suscitare interrogativi nella germanistica ma che invece restò lettera
morta.
Don Benedetto “Corleone” Croce, con la consueta boria, arrivò invece a
dichiarare addirittura di preferire la Sendung ai Lehrjahre, ovviamente con le
solite inoppugnabili e oracolari ragioni estetiche. Per intenderci, è come
scambiare di ruolo un Notturno di John Field con un Notturno di Chopin, o una
Cantata d’un qualsiasi Musikanten barocco con una Cantata di Bach.
Con simili precursori era ben prevedibile che nessuno dei nostrani cavalieri
della verità e della cultura si sarebbe posta qualche domanda, e che se anche
avesse subodorato qualcosa, avrebbe tenuta la bocca chiusa: anche perché per
dimostrare il falso avrebbero dovuto schiodare i deretani dalle sedie e
rimboccarsi le maniche. Ma chi glielo avrebbe fatto fare? A parità di stipendio,
è molto più comodo concionare anziché scavare negli archivi e studiare.
Inoltre ciò avrebbe significato dare ragione a un anomalo della cultura
italiana, benché docente universitario, e per giunta non specialista di
germanistica.
Il succitato silenzio, però, è un’ulteriore prova di quanto la tesi di Mathieu
sia fondata. Se ne sia infatti sicuri: se egli avesse scritta una scempiaggine,
lo avrebbero messo della pubblica gogna.
A ogni buon conto, a noi non deve importare troppo la genia di codesti
guastacervelli, ma invece assai di poter accedere a una tesi rivoluzionaria, per
giunta ben scritta, e di aggiungere una decisiva pagina alla biografia di
Goethe.
Bisogna inoltre considerare quanto il lavoro di Mathieu sia d’esempio a chi
voglia impegnarsi con serietà e acribia nella ricerca storico-biografica: un
cammino aspro ma che, se percorso con diligenza e passione, può condurre molto,
molto lontano. Quasi come Wilhelm Meister.
Luca Bistolfi
*In copertina: Goethe contraffatto da Andy Warhol, 1982
L'articolo La frode, ovvero: la scoperta di un falso Goethe da parte di Vittorio
Mathieu proviene da Pangea.