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“Andiamo” alle “bollicine”: “ci sta”! Note su alcuni orrori del linguaggio odierno
Scritti o verbali, la sciatteria linguistica e l’analfabetismo di ritorno sono come la calunnia della cavatina famosa: iniziano in sordina, montano, si espandono e finalmente producono «un’esplosione – Come un colpo di cannone, – Come un colpo di cannone, – Un tremuoto, un temporale, – Un tumulto generale – Che fa l’aria rimbombar». C’è però una differenza cruciale: mentre spesso calunnia calunniatori e calunniati, proprio come il temporale, passano, i disastri linguistici restano e si aggravano, e più che da Sterbini e Rossini, dovremmo toglier da un trattato d’oncologia o dal Dsm. Ora isolerò alcuni modi di esprimersi ormai cuciti a doppio fil di ferro sulle lingue degli italiani, che tali possono essere definiti soltanto in modo residuale e anagrafico. Li trascelgo, questi macelli, in modo quasi aleatorio e assai parzialmente: ma a ogni buon conto avremo, con dovizia e tristizia, la misura della sciagura. Iniziamo stappando una bottiglia di bollicine. Sino a non gran tempo addietro ne avremmo sturata una di spumante, ovvero di vino frizzante o mosso, magari di champagne (sciampagna, pei puristi vecchio stile). Gli astemii o chi avesse dovuto guidare si sarebbero contentati d’acqua gassata, o gasata, o frizzante. E siccome fa male bere senza mangiare, sarà nostro piacere comandare un dolcino, che non è il medievale frate chiliasta, ma, a esempio, una pannina cotta o, per esser più rigorosi, una pannacottina, come ho sentito dire, lo giuro, da un pasticcere (o pasticciere: è davvero lo stesso), per giunta di toschi natali. Ahi Guido! Ahi Cino! Ahi Cecco! E s’i’ fosse foco… Che sbadato, però. Ho scordato d’annunciare che in precedenza la “bollicina” serviva di accompagnamento a una pietanza (parola, quest’ultima, definitivamente sostituita con «piatto», che è poi aggettivo perfettissimo per il linguaggio attuale), una pietanza, dicevo, di carnina, guarnita con del succulento prosciuttino e un po’ piccantina(doppietta!) e contorno vegetale. Ma, o disdetta!, essendo indaffarato a sgorbiare per questo articolo ho dovuto ripiegare al supermercato e acquistare, leggo sul tubo, una «Salsina per le verdurine», che rammenta l’omogeneizzato. A soccorso di chi avesse trascurate le scuole alte e ignorasse o avesse dimenticato il significato di «frizzante» o «gassata», si precipita un’azienda imbottigliatrice che tosto ha modificata l’etichetta: un tempo scriveva «Acqua gassata», ora «Tante bollicine». Non ne faccio il nome per ovvie ragioni, ma vi assicuro che esiste. Avanti di sorbire un corroborante caffettino o magari un ginsenghino (ho sentita anche questa), arrestiamoci un istante ché il pasto si sta facendo greve assai, e «tra noi parliamo da buoni amici», come invita Scarpia la buona Floria Tosca offrendole «vin di Spagna» che ignoro se fosse con o senza “bollicine”. Quand’ero balilla gl’insegnanti e anche qualche adulto di casa, non per forza laureati alla Normale summa cum laude, ti fulminavano udendo implorare «un attimino»; e quanti lazzi contro le casalinghe che impetravano «un aiutino, signor Mike!». Dire e scrivere «tante bollicine» e «pannacottina», oltre a fare esteticamente schifo, è sintomo di regressione cognitiva, emotiva, psicologica. È il linguaggio dei e pei bambini, che ora si è tradotto negli “adulti”. Una traduzione con, a mio giudizio, due origini. Da una parte la regressione intellettuale e psicologica dei così detti “adulti” disabituati alla serietà, come già dissi nell’intervento sulla fotografia e le risate; dall’altra la tendenza, anch’essa scimmiesca come le risate sguaiate, a imitare il prossimo per farsene accettare. Se tuttavia lo scimmiottamento è manifestazione del cervello primitivo, non sono altrettanto certo (non lo sono per nulla) che il rimminchionimento universale sia il frutto marcio di una ipotetica stanchezza della civiltà e non, più tosto, il resultato d’un ammaestramento subìto a traverso i mezzi di comunicazione e di svago, che poi oggi i due pari sono. Ho ancòra nella memoria le parole d’un dirigente d’una grande televisione privata, per le quali appresi che progetto lucidamente perseguìto dagli inventori dei programmi è di somministrare spazzatura e droga a che i cervelli si atrofizzino. Come si vede i complottisti (accusa di chi non ha argomenti) non sempre sono complottisti. Tornando alle “bollicine” e simili è giocoforza che il suo indefesso utilizzo contribuisca anche all’egerstà di linguaggio, il quale non a caso, giusta indagini ufficiali, è sempre più limitato banale trasandato. Pur restando a tavola, andiamo avanti. Una mattina mia moglie mi annuncia con tono tra il minaccioso e l’accorato, che la sera sarebbe arrivata a cena una sua amica, che non mi era propriamente gradita. Non mi sarei potuto opporre neppur volendo ché si era a casa dei suoceri. La consegna implicita riservatami era: profilo basso, voglio trascorre una serata piacevole. Obbedisco. Arriva l’amica e ci accomodiamo attorno al tavolo. La madre di mia moglie ha preparata la sua solita squisitissima pizza, ma a pranzo ho mangiato un po’ troppa pasta e quindi declino i riquadri di pomodoro e funghi e mi contento di pan biscotto inzuppato nel latte. Perché mai non condividevo la succulenta pizza?, chiede l’ospite. Rispondo che per via della pasta del mezzogiorno, etcoetera. E quella con tono serissimo: «Uhm… Ma adesso mangi pane… carbo su carbo non va bene». Carbo: una marca di pane? Mi ero perso un pezzo della conversazione? Macché: carbo stava per carboidrati, che poi naturalmente, nella testolina della fanciulla, la pizza non ha. Mica finita. Mia moglie, appena udita l’amica, mi scaglia un’occhiata più lancinante della folgore di Donner: per l’amor del Cielo taci. Io mi limito a replicare all’ospite con un’alzata di spalle e un’espressione facciale altrettanto eloquente. Ma quella si ostina e si sente in dovere anche di darmi un suggerimento: «Dopo, dammi retta, bevi una tisa digerente». Rimasi col cucchiaio a mezz’aria e qualche goccia di latte mi dové colar per la barba. Strizzai la faccia in un’espressione di ribrezzo; ma qui, oltre all’occhiataccia, mi arrivò un calcetto di sotto il tavolo. Naturalmente tisa stava per «tisana». E c’era poi l’altra bestialità: digerente in vece di digestiva. Incassai occhiatacce, calci e insulti alla madrelingua e me ne andai via, lasciando i carbo sotto forma di pane galleggiare nel latte ormai quasi freddo. Soffocai anche un rutto, che non era indizio di ribellione gastrica per il lattosio ma del tutto psicosomatico. E adesso possiamo andare a parlare d’altro. Dalla televisione al bar, dall’idraulico al gazzettiere, dall’insegnante al musicista: s’è pigliato il vizio d’infilare il verbo «andare» ovunque e a sproposito. Il cuciniere televisivo ai fornelli: «Vado a mettere il sale nella padella e poi vado a scolare la pasta»; lo “iutuber”: «Andiamo a guardare questo video» (per inciso non esistono più «filmati» o «riprese»: esistono solo video e contenuti); il giornalista ci invita: «Andiamo a sentire gli ospiti» che sono lì a un metro. Persone più edotte di me in inglese mi spiegano che è una sorta di calco da quella lingua: «Let’s go to…». Dunque non bastavano gli innumeri intarsi, gli abusivi, i clandestini verbali imposti nudi e crudi al nostro idioma: adesso c’è anche un virus che lo aggredisce alla base, corrodendolo polverizzandolo e spazzandolo via, per infilarci quei cancheri. Se poi io sia stato informato male o abbia fraintesa la spiegazione, poco importa: “andare” quando non si va da nessuna parte è da dementi. Ravviso in questa forma che si pensa elegante il vezzo degli incolti o, razza ancor più perniciosa, semi-colti, gli orecchianti, gli “studiati” a mezz’aria, come il cocciuto Willy il Coyote che precipita al fondo del burrone poiché incapace di spiccare il salto completo. Ma l’irresistibile cartone perlomeno si schianta da solo e ci dà sollazzo. Quegli altri in vece ci cadono sulla zucca e ci impestano l’aria. Per mascherare insipienza e ottusità costoro si annettono espressioni che al loro cerèbro suonano colte, raffinate. Ma sono come l’innocente gatto un po’ goffo, che tenta di nascondere la cacca raspando nella sabbia. (Per inciso, non conto più le volte che m’è toccato di sentire sabbietta, parola doppiamente fessa, ché la sabbia di lettiera ha grani sensibilmente più grandi di quelli d’arena). Mi ricordo d’un tanghero che conoscevo una quindicina d’anni fa, proprietario d’una caffetteria nel centro di Torino, fisiognomicamente – e non è un’iperbole – assai più prossimo a un gibbone che a un sapiens, e di un’ignoranza da fare invidia, benché dicesse d’aver studiato e s’accompagnasse a una donna, dicevano, laureata. Più e più volte lo sentivo dire: «Nel tal caso che Paola arriva [ovvio], dille…», «Nel tal caso che il fornitore…». Il vocabolo «tale» era ai suoi orecchi così alato che gli pareva doveroso infilarlo ovunque; ma è come spruzzarsi un mediocre profumo su stracci puteolenti. Che fatica! Ma, insomma, pur tanta roba, no? Ecco un altro mostro. «Roba mia, vientene con me!», risovviene dai gorghi della memoria insieme alla spiegazione della maestra (un tempo già alle elementari ci facevano almeno assaggiare la buona letteratura, oh sì). La spiegazione era seguìta dall’ammonimento, ribadita alle medie, di non dar di «roba» o «cosa» a checcheffosse; i dizionari grondano di parole, di sinonimi: che li imparassimo, che li usassimo, senza ripieghi generalissimi. Parole al vento per moltissimi, vistoché anche miei coetanei che si suppone abbiano frequentate almeno buone scuole di base, lardellano il discorso di quell’espressione grossolana, davanti a ogni vetrina, notizia, sensazione che colpisca, ma altrettanto a capocchia. Meglio, di questa espressione tappabuchi o ombrello, una sana imprecazione veneta: greve bensì ma senza che chi la sbuffa pretenda d’essere alla moda. Eppoi, suvvia, ogni tanto manifestare lode al cielo con una bestemmia ci sta, nevvero? Ecco un altro colpo di mannaia ai diti (Leopardi scrive così, non mi scocciate) dei negletti e defraudati Tommaseo, Prèmoli, Zingarelli, Devoto, Oli.(Per inciso – questa non me la posso tenere – c’era un di quei professori laureati col Sessantotto pel quale Devoto e Oli erano una sola persona, anche se non si capacitava di non aver trovato sulle Pagine Bianche alcun «Oli professor Devoto». Chissà che non lo stia ancòra cercando: e chi aveva il coraggio di togliergli la convinzione?). Ci sta, dicevamo. ‘Sta specie di singhiozzo interiettivo è talmente entrato nell’uso da aver impestato anche penne che un tempo sapevano stare inclinate correttamente, e non stravaccate. Me la ritrovo in fatti in un piccolo libro su Amadeo Bordiga, il comunista più serio d’ogni internazionale e scrittore abbagliante, di Pietro Basso – docente di sociologia, niente di meno, a Ca’ Foscari – il quale, bontà sua, consapevole dell’anomalia piega le due parolette in corsivo come usa per gli esterismi (mio pseudoneologismo da «estero» e «isterismo»), anche se ahimè sempre di meno. Questo linguaggio giovanilistico (Basso ha ampiamente varcati di settanta) sarà un modo per cattivarsi i semprinvocati giovani, dovendo trattare d’un soggetto che in Italia conosceremo non solo per sentito dire in duecento, età media settant’anni. Se è così, ci sta. O forse no. (Siccome il libro uscì anche in Gran Bretagna come prefazione a un’antologia bordighiana, mi domando come accidenti se la siano cavata). C’è anche il tu distribuito come coriandoli a carnevale. In pratica il Lei è in via d’abolizione. Dico, si noti, abolizione e non estinzione, ché questa è un processo spontaneo, naturale, mentre l’altra è deliberata scelta. Non a caso – conservo ancòra il messaggio di una medichessa – non a caso lo chiamano «tu inclusivo», e ormai a milioni lo dispensano a ogni categoria e anagrafe. Persone alle quali avantieri non si sarebbe rivolta parola se non a capo chino e sull’attenti eccole apostrofate con la seconda persona singolare; nemmeno la nuora o il capufficio li arpiona così, e adesso arrivano bimbiminkia, anche di cinquant’anni. E ciò, in parentesi, nell’epoca dell’autismo universale, dove ognuno si contempla nemmen più allo specchio, ma solo il proprio orifizio anale. È la compensazione. E con la medichessa, giustappunto, dovetti altercare, ché nonostante il «tu inclusivo» non si degnava di rispondermi al telefono, giacché rifiutava per principio di sentire i pazienti a voce: solo inclusivissimi messaggi. È però arrivato il momento di fermarci, anche se potremmo davvero seguitare a lungo. Vado solo ad aggiungere una noticina, che ci sta. Che sia saltata la discriminazione tra espressione scritta e parlata, è ormai ahinoi storia vecchia. Più recente è la sgangheratezza irremeabile insinuatasi nella carta stampata. Saranno almeno tre o quattr’anni che mi càpita d’imbattermi in titolazioni di grandi quotidiani italiani “in rete” privi di punteggiatura, sicché il soggetto della prima frase sembra passare alla seconda, ma senza concordare col verbo, e un predicato è conteso tra due frammenti di titolo. Tutto ciò comporta che occorra mezzo secondo in più per capire che cosa si stia leggendo. Le prime volte, giuro, per un istante temetti qualche mia microischemia cerebrale, sopra tutto quando di secondi me ne occorsero ben due o tre per cogliere che accidenti si volesse comunicare. Sono le medesime negligenze sintattiche che spesso, sempre più spesso ricevo sul telefono. Con la differenza che qui mi scrive per solito un idraulico, il barista cinese, o la donna delle pulizie. So per certo che i titoli, sulle pagine virtuali dei giornaloni, sono affidati perlopiù a giovanissimi praticanti (non pagati) o arcigiovanissimi “stagisti” (non pagati). I quali, tuttavia, stanno lì perché vogliono, poveretti!, diventare gazzettieri. E che costoro non abbiano le basi per farlo, è evidente. Ma a chi controlla la titolazione, o sia giornalisti fatti e finiti, quei “whatsapp” o “sms” non fanno problema e forse nemmeno se ne accorgono. È molto indisponente che su fogli che ogni santo giorno ammanniscono lezioncine politiche e morali non si controlli nemmeno la lingua italiana. Ma questo ennesimo imbarbarimento della stampa va a vantaggio di molti: avete una ragione in più per non leggerla e per invitare chi possiate a evitare quelle pattumaie. Sulle quali, ne sono certo, non vedrete mai comparire un articolo come questo. Luca Bistolfi *In copertina e nel testo: opere di Roland Topor L'articolo “Andiamo” alle “bollicine”: “ci sta”! Note su alcuni orrori del linguaggio odierno proviene da Pangea.
December 16, 2025 / Pangea
Condannati a ridere. Piccolo discorso intorno a dentature guaste e a piccole iene
Qualche tempo fa m’imbattei nell’articolo d’un grande quotidiano nazionale italiano, abbeveratoio della sinistra “illuminata”, che s’incaricava appunto di rischiarare le menti dei lettori sulla ragione per cui la stragrande maggioranza dei ritratti pittorici e fotografici del passato, remoto e più recente, fissano volti privi di sorriso e men che meno di una risata. La soluzione dell’enigma era laconica unica e tassativa: la dentatura guasta o mancante. Avendo i nostri avi una chiostra impresentabile, era giocoforza serrare i labbri per celare il vergognoso scempio. Una rivelazione che se non avessi appresa da quel foglio, avrei pensato a un lazzo di burlone o a un momentaneo oscuramento cognitivo dell’autore, tanto si tratta d’una sonora e proterva imbecillità avvolta in rigore “scientifico”. Vale la pena di spenderci qualche parola, ché essa è segno dei tempi. Anzitutto, ammettendo che il re, o il condottiero, o il compositore musicale, poniamo del Seicento o del Settecento, avesse i denti marci o assenti, non vedo la ragione da parte del pintore di darsi al verismo ante litteram, postoché volesse serbare la committenza e magari anche il capo sul collo. E mi sento più fesso di quel giornalista a dover osservare tanto: ma a un’idiozia si deve replicare, non potendo con pedate nel didietro, con altrettali banalità, come si fa coi bambini tardi. Meno, assai meno c’è – a proposito – da ridere o sorridere, se non di commiserazione, traducendo il discorso dalla pittura alla fotografia: giacché non c’era alcunché da celare. Eh sì. Se l’estensore di quell’articolo rivelatore avesse letti buoni libri o anche soltanto scartabellato “in rete”, si sarebbe sùbito accorto che le dentature dei nostri antenati erano più che complete sane e non di rado bellissime. Chi avesse avute magagne dentarie aveva di poi alla disposizione diversi tipi di protesi, le quali risalgono – si aprano bene gli occhi – al 2500 a.C. Delle condizioni di molari e incisivi nelle epoche “arretrate” si trova ampia traccia ovunque. Penso a esempio ai Colloqui con Arthur Schopenhauer o a qualche buona biografia di Abramo Lincoln, il quale, come riferisce John Kleeves (Stefano Anelli) in Un Paese pericoloso, possedeva una protesi di denti umani. Leggendo di poi l’Histoire de ma vie di Giacomo Casanova si trovano non poche descrizioni di splendide dentature naturali, anche presso le classi meno abbienti, così mirabili che il Gran Veneziano si sente in dovere di rilevarlo. Spostandoci nel tempo arriviamo a Gabriele d’Annunzio, del quale molti non mancavano di far notare una dentatura infelice; segno, l’osservazione, che ancòra cent’anni fa una bocca guasta, per di più in una persona alla quale non mancavano di certo conoscenze e danari per farsela arrangiare, attirava l’attenzione (e anche gli scherni di qualche tanghero). Ci sostiene anche Totò, cantando per di più d’una popolana, l’acquaiola, nella poesia eponima, che «se chiamma Teresina, – sì e no tene vint’anne, – capille curte nire nire e riccie, – na dentatura janca comm’ ‘a neve». Sulle epoche antiche o antichissime basterà sfogliare qualche volume di archeologia per ammirare teschi con denti originali perfetti, nonostante le migliaia d’anni trascorse. Un archeologo che interpello conferma: al massimo manca qualche dente ogni tanto, ma sono in stragrande maggioranza bocche intatte, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi èra. Brutte dentature in qualche passato, beninteso, ce ne saranno state; ma non certo nella misura imaginata da certi scribacchini perdigiorno. Proseguiamo. È falso che i nostri avi, celebri o meno, si facessero ritrarre pressoché sempre col cipiglio. Ci sono intiere biblioteche di imagini di contadini, e operai, e bottegai sorridenti (e, peraltro, talora sdentati); così come non è inferiore il novero di figure fissate nell’abbozzo o nello spiegamento d’un sorriso. Almeno in un paio di ritratti fotografici si vede proprio Schopenhauer con la faccia mossa in un lieve sorriso sarcastico. Come dunque si vede, l’analisi di quel rappresentante dell’intellettualità progressista, che verisimilmente avrà ripresa la grande rivelazione da qualche ricercatore americano o inglese, è, per adoperare un proverbio giusto di quelle parti, una cagata nel ventilatore (acceso). Ma di dove viene una simile boriosa sicumera? Credo di avere la risposta, che è duplice. Per cominciare, da un pregiudizio tipicamente moderno, della modernità più corriva e ottusa, per la quale tutti, sino al giorno avanti in cui il progressista pensa e (purtroppo) parla, erano dei cavernicoli. Pei progressisti la storia è composta di grandi magagne e orridi sociali tecnici artistici politici, che solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo e vieppiù nella seconda metà del XX, sono stati colmati e spazzati via. Sicché anche solo l’esistenza di una dentiera prima d’avantieri è letteralmente impensabile. Il che significa anche ignoranza e poltronaggine. Ma dietro a questo pregiudizio materiale, se ne staglia uno morale, che è la seconda scaturigine della cialtronata in esame. Una ‘testa di carattere’ di Franz Xaver Messerschmidt (1736-1783) Il tono dell’articolo in fatti (che peraltro consuona, per la mia esperienza, con numerose chiacchierate avute con svariate persone, non necessariamente progressiste, segno che il lavaggio del cervello e la tassidermia cranica sono efficaci e democratici), il tono dell’articolo mostra stizza e contrarietà per quella schiera di facce serie e compunte. Che noia, che tristezza, mai un sorriso, e ridete una volta ogni tanto!, sembra di udire. È l’andazzo odierno, uno dei segni più eloquenti e agghiaccianti dello spirito del nostro miserabile tempo. Ridere più che sorridere e, ancor meglio, sghignazzare, magari con le fauci spalancate, è segno di vitalità, di gioia, ci aiuta a dimenticare che la vita è cosa seria.Guardate le fotografie sugli apparecchi telefonici, sui “social”, guardatevi d’attorno, al lavoro, in famiglia, sul treno: quasi mai si vedono facce serie, in ispecie se sono adunati due o più individui. Tutti (e tutte) squadernano la chiostra e più volentieri ancòra divaricano le mascelle (non di rado mostrando qualche otturazione…). Ed è in questi casi che costoro, e non i nostri antenati, dimostrano di essere più prossimi ai nostri (del tutto presunti) progenitori scimmie. Se oggi solo provi a farti scattare una fotografia restando più o meno serio, il Cartier-Bresson di turno – un amico, un collega – ti rintuzzano: «Uh, ma come sei seriooo…! Non siamo mica a un funeraleee… Ridi un po’!». A me è capitato anche durante la breve seduta dal fotografo per la carta di identità. Cosa accidenti poi ci fosse da ridere per uno che di lì a poco si sarebbe infilato in un ufficio pubblico, ignoro. Oggidì la risata, sopra tutto se a sproposito e ostentata, è un segnacolo di riconoscimento obbligatorio, come la targa dell’autovettura, come il tatuaggio, altro emblema, quest’ultimo, della mutazione antropologica in atto. Vi racconto questa. Non molto tempo fa sostavo per una pausa sul portone d’una grande biblioteca. A un metro dietro le mie spalle c’era un quartetto di donne tra i trenta e i cinquant’anni, ben conciate e del tutto sobrie, intente a discutere di questioni ordinarie, figli famiglia vacanze lavoro, quindi nulla che potesse suscitare risate, men che meno di quelle a cui per venti minuti abbondanti volli assistere con discrezione. «Com’è andata al mare?»: giù risate di tutte. «E tu col bambino? È guarito?»: altre risate. «Sì sì, per fortuna»: risate. «Massì, dài, insomma», eh eh eh ah ah ah. Era tuttavia ammirevole che quelle donne riescissero a ridere anche mentre “articolavano” le parole, che in effetto talvolta mi diventavano oscure. Avrò limiti, ma quando rido della grossa (lo faccio, tranquilli, lo faccio) mi è impossibile parlare, e viceversa. Temo però che quelle risa, come moltissime altre, oltreché fuor di luogo e inutili, e anche moleste, siano di natura isterica. E certi contenuti del “dialogo” al quale assistetti me lo confermano. Una risata sincera è suscitata da una scena o da un motto di spirito e si manifesta in tutt’altro modo. Durante quei lunghi ma istruttivi minuti mi venne alla mente, come ogni volta che mi imbatto in scene analoghe, un frammento dei Griffin, il cartone animato famoso, con protagonista un gruppo di donne al ristorante intente a ordinare un dolce. Non anticipo alcunché; ma vi assicuro che avrete la rappresentazione plastica della scena della quale fui abusivo spettatore. E se persino Seth MacFarlane e i suoi impietosi (e talora diabolici) collaboratori, progressisti spinti, quindi non tacciabili di bigottismo, si sono sentiti in dovere di isolare la mostruosità di certi contegni, occorre che gli altri progressisti – e non – svolgano una seria riflessione su loro stessi e sul mondo in cui viviamo e che hanno contribuito a forgiare. Tornando ai nostri avi, la ragione in forza della quale essi si facevano ritrarre perlopiù serii e in pose composte era una soltanto, indipendentemente dal soggetto: dare e tramandare di sé e magari della loro categoria e del loro ceto sociale, qualunque fosse, un’imagine decorosa esemplare e persino nobile, sopra tutto se ricoprivano ruoli, pubblici o privati, dai quali dipendevano e ai quali riguardavano magari migliaia o milioni di persone. Ma di più: non solo volevano essere serii, ma lo erano, non si sforzavano di esserlo per il tempo della seduta davanti alla macchina fotografica per poi scomporsi una volta lontani. A conferma e rafforzamento di questa verità basterà guardare libri fotografici o documentarii dagli anni Quaranta ai Settanta del secolo scòrso con qualsiasi persona a protagonista. Vedrete sùbito l’abissale e irriducibile divergenza di contegno dall’oggi. Ciò però non significa che un tempo non sapessero ridere anche le persone i cui volti ci sono arrivati composti. Si pensi a Hegel, i cui ritratti possono essere l’incarnazione della severità e della compostezza. Ma basta leggere una paginetta dalla biografia del filosofo scritta dall’allievo e amico Karl Rosenkranz per apprendere che il grande pensatore di Stoccarda sapeva anche ridere di gusto. L’ultima volta fu davanti a una locanda in cui si era intrattenuto con alcuni amici, che testimoniano della giovialità del filosofo, il quale peraltro di lì a pochissimo tempo sarebbe morto, pare assai serenamente, a causa del colera che aveva colpita Berlino. Ma chissà che cosa direbbero certi partigiani della risata se sapessero che, in tanti anni di assidua frequentazione, un suo amico ha veduto sorridere Coetzee soltanto in un’occasione. Beninteso: non sto tessendo un elogio della mutria. Ma si converrà che una persona normale (sì, ho detto normale: e quindi?) si senta più al sicuro davanti a qualcuno di composto che non a una “iena ridens”. Mi domando di poi, guardando tutte quelle bocche spalancate e sentendo tutti gli inviti a «ridere un po’», quale valore rappresenti di per sé ridere, in quella maniera sguaiata e berciante poi, che cosa aggiunga a un individuo. Non è affascinante e rassicurante il sorriso della Gioconda o dell’Auriga di Delfi? E forse non gli è che sommi artisti – un Bosch, un Kranak – hanno castigata la sguaiataggine? Ricordiamoci poi l’imbarazzo (penso ancòra a Schopenhauer) dinanzi alla bocca del Laocoonte, che sembra, anziché gridare, nemmen ridere ma solo sbadigliare. Se poi vogliamo “buttarla in religione” ecco san Tommaso d’Aquino, che annovera il risus superfluus addirittura tra i peccati, benché veniali:  > «Talora invece la volontà del peccatore si volge verso cose che contengono in se stesse un certo disordine, senza però opporsi all’amore di Dio e del prossimo: tali sono le parole oziose, le risate smodate [risus superfluus] e altre cose simili. E questi peccati sono veniali nel loro genere». > > (Somma teologica, I-II, 88, 2) Tuttavia non si commetta l’errore di leggere la parola «peccato» in senso moralistico, come purtroppo molto spesso, se non quasi sempre, anche gli stessi cristiani inclinano. «Peccato» in greco antico – che è la lingua ufficiale degli Evangeli – è «amartía», letteralmente «mancare il bersaglio, andar fuori strada», che può essere inteso anche in modo estensivo. E in effetto, se ci pensiamo, quando ridiamo in modo eccessivo è come se escissimo da noi stessi, e così quando straparliamo sospinti da un eccesso emotivo dicendo fesserie o parole che possono nuocere ad altrui ovvero ritorcersi contro di noi: anche Schopenhauer, non certo un partigiano del cristianesimo, raccomanda di contenere le parole affine di non incorrere in qualche guaio. Ricordiamoci che «non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo; ma è ciò che esce dalla bocca, che contamina l’uomo» (Mt 15,11). Le Scritture sono molto eloquenti. Forse che Sara non rise quando udì che avrebbe avuto un figlio nonostante l’avanzata età (Gn 18,12)? Risero anche di Gesù quando questi disse che la figlia di Iairo «non è morta, ma dorme» (Lc 8,52). E forse i soldati romani non irridono Gesù? Ma «guai a voi che ora ridete, perché farete cordoglio e piangerete» (Lu 6,25), e perché «io ho detto del riso: “È una follia”» (Ec 2,2). Contemplando quelle schiere di bocche scontorte, gli elogi della sguaiataggine, gli stimoli a ridere ridere ridere, mi vien da pensare al Batman di Tim Burton, quando Jocker, interpretato da Jack Nicholson, sbuffa nell’aria di Gotham City un gas verdognolo che stermina la popolazione e la irrigidisce in un ghigno simile al suo, derivatogli dal bagno in una vasca di acido e dalle manovre imperìte d’un chirurgo clandestino. Un ghigno, quello di quei morti, che è l’antifrasi dell’animo di Jocker e dei tristi cittadini, morti prima di morire, di quell’oscura città: «Anche ridendo, il cuore può essere triste» (Pr 14,13). Gli abitanti di Gotham City erano condannati a ridere. Proprio come voi. Luca Bistolfi *In copertina: Conrad Veidt in “L’uomo che ride”, 1928 L'articolo Condannati a ridere. Piccolo discorso intorno a dentature guaste e a piccole iene  proviene da Pangea.
November 14, 2025 / Pangea
Solitario, filosofo, cristiano. Note su Giacomo Casanova
Ho sempre trascurato se non, meglio, snobbato il nome di Giacomo Casanova, ritenendo la pur celebre Histoire de ma vie, l’unica opera sua conosciuta anche dai non specialisti, soltanto una delle tante memorie del Settecento, che poco o più tosto nulla avrebbero potuto nutrire chi come me si occupava con pretese e ambizioni di cultura europea. Non andai nemmeno a curiosare, né pigliai alcun appunto, quando, molti anni fa, lessi, non ricordo più dove, una pur curiosa allusione per cui nell’Histoire l’autore avrebbe riferito di una sua esperienza mistica coincidente con le classiche del genere. Era la forza del pregiudizio coartata da, mi sarei accorto, leggende e vaniloqui anche e sopra tutto di intellettuali, come sempre informatissimi e autorevoli. Ebbi poi quello che sarebbe stato, senza ch’io lo potessi presagire, l’ultimo e sereno colloquio con l’amico d’oltre diciassett’anni, alquanto noto a chi bazzichi librerie, il quale mi avrebbe di lì a pochissimo giocata un’infilata di delusioni a freddo tale da imporre una drastica e irricomponibile rottura. Mi parlò delle memorie, e proprio mentre stavo sondando il secolo di Casanova. In quelle pagine, mi disse, oltre a molto spasso, troverai biblioteche di notizie sul Settecento in ogni suo aspetto. Se dell’uomo, come avrei scoperto, non c’è da fidarsi, dello studioso in massima parte sì; sicché mi procurai in breve la traduzione – Storia della mia vita – di Piero Chiara e Roberto Fertonani, stampata nei ‘Meridiani’, che trovai nuova a un prezzo vantaggiosissimo, e sùbito la attaccai. Sarebbe assai presto venuto il giorno di un biasimo contro Chiara e il suo allora famiglio, che ancor dura; all’epoca l’introduzione dello scrittore italiano fu però un ottimo abbrivio, che m’ingolosì più di quanto non avesse fatto la chiacchierata col mio primo informatore. Restavano tuttavia sprazzi di diffidenza, che sperai di veder dileguare: e fu quanto accadde dopo le primissime pagine. Fui sùbito risucchiato in una vertigine di stupefazione, che si dilatava e accelerava. A ogni pagina ogni singola voce giuntami su Casanova dai soliti autorevoli commentatori e intellettuali, veniva sbugiardata, inchiodata alla sua mendacità, al suo pressappochismo, depistaggi e fraintendimenti erano svergognati. Che cosa avevano letto? Come lo avevano letto? Nulla del gabbamondo, del lestofante, del vago predone d’alcove, dell’avventuriere propalato resta all’inpiedi se solo si legga quell’autobiografia. La figura emergente dalla Storia è di un essere umano che ha vissuto nella sequela, afferma egli stesso, della Divina Provvidenza e che presenta sé stesso, sin dai primi rintocchi, quale cristiano e filosofo. E se si può discutere del suo cristianesimo (un cristianesimo a ogni buon conto certo assai più cristiano di quello di tanto sedicenti praticanti cristiani d’oggidì), bisogna in vece senz’altro concedere a Casanova lo statuto di philosophe, senza tuttavia le imposture le ossessioni e i pregiudizii della più parte di quelli. Egli bensì annette all’Histoire le avventure – così come, si badi, le disavventure, e molte – muliebri, ma il racconto non è mai fine a sé stesso. Casanova non scrive per vantarsi delle sue conquiste (peraltro non moltissime: altro dato da scoprire) o per amore di riferire storie pruriginose con cui accalappiare il lettore e perché altro non ha da dire, altro non pensa, come un qualsiasi Alberto Moravia. Le intenzioni saranno anche per l’amore dell’avventura e di una certa libertà che s’andava reinventando in quel secolo, ma sono funzionali a una visione del mondo, appresa vivendo, anche a traverso i rapporti con le donne. Casanova si dimostra un filosofo raffinato e costante, osservatore acutissimo e disinteressato di città e uomini, e tra i maggiori cronisti dell’epoca sua e non soltanto. Un uomo e uno scrittore paradossalmente inediti dunque riescono dalla Storia, benché questa sia stampata a chiare lettere e secondo le intenzione dell’autore sin dagli anni Sessanta del XX secolo. Ìndico questa data giacché per circa un secolo e mezzo le memorie circolarono in versioni appositamente corrotte e mùtile, come ne rende conto Chiara in più contributi. Non possiamo soffermarci sui dettagli. Questo rapido intervento serve soltanto a lanciare una «grida», per dirla con Manzoni, che suoni la sveglia ai molti, troppi pseudolettori di Casanova e a chi ancòra lo trascuri. Le relazioni con le donne sono state ridotte a manifestazioni priapesche e ossessive ma che sono in vece istruttivissime, tra il molto altro, per una più completa e veridica intelligenza sia delle femmine tout court, sia dei rapporti tra i due sessi nel XVIII secolo, anche a pieno Antico Regime. Le femministe e i femministi spregiatori dell’epoca prerivoluzionaria si vadano a leggere, a esempio, quanto sottomesse al “patriarcato” fossero le donne! Fa di poi sorridere che proprio taluni studiosi casanoviani – categoria assai numerosa e, va detto, nonostante tutto spesso giovevole – mentre bestemmiano a ragione sulle contraffazioni cui accennai, altro non seguitino a fare che a rimasticare le solite stracche e stucchevoli mezze verità e fandonie sul Veneziano e su quel secolo. Ed è credo proprio a cagione d’una completa distorta percezione propalata come verità storica e biografica, che da mesi l’anniversario dei trecento anni della nascita è stato ignorato. Nemmeno la massoneria, che non perde mai occasione di farsi vanto d’aver avuti nelle sue fila personaggi illustri, a quanto mi consta s’è spesa per il suo ex confratello. Ma oltre al disprezzo per il presunto trattamento riservato da Casanova al genere femminile, ci sono due altre radici della menzogna e dell’oblio. Ho accennato alla prima, o sia la professione di cristianesimo, per di più cattolico, colpa non perdonabile dagli stinti eredi di Robespierre o di Voltaire. A ciò si aggiunga l’irrefrenabile schifo e orrore nutriti da Casanova per la rivoluzione francese. Fu complice nella rimozione e nella distorsione esser la Storia escita proprio negli anni, già detti, in cui in Italia e in Europa si stavano caricando i cannoni a letame del Sessantotto, del quale ancor godiamo, rimmarciti, i frutti: abitudini, protervie, ottusità, professori, giornalisti, continuatori, imitatori. Giacomo Casanova non è territorio da annessione, per nessuno, se non a traverso la corruzione. Egli si staglia solitario in tutto il Settecento e nell’intiera storia europea, con la sua nudità di figura unica, forse davvero la sola sciolta autonoma libera. Suggerisco al lettore volenteroso e curioso di farsi da sé il suo Casanova sguazzando nella Storia e nelle altre splendide opere. Dopo, se vorrà, quando sarà immunizzato, potrà approfondire con la critica e le biografie, che per il momento è meglio lasciare sugli scaffali. Arriverà prima o poi, mi àuguro, chi voglia mettere la casa in ordine, fare a Casanova – una casa nuova. A cominciare magari dalla stanza da letto. Luca Bistolfi L'articolo Solitario, filosofo, cristiano. Note su Giacomo Casanova proviene da Pangea.
November 3, 2025 / Pangea
“Tu potresti essere uno dei geni di cui senti la mancanza!” Note su Sergiu Celibidache
> Alla materia sonora evocata con arte secondo una prassi disciplinata in modo > cristallino, Sergiu Celibidache ha riconosciuto, disegnato in un processo > filosofico improntato all’insolito taglio fenomenologico maturato nel tempo, > un ruolo di veicolo alla trascendenza. > > U. Padroni, Sergiu Celibidache. La fenomenologia per l’uomo Celibidache arrivò – ne accennavo nella prima puntata di questa serie – come tappabuchi sul podio dei Berliner per sostituire Furtwängler. Che cosa sarebbe stato dell’allora giovanissimo direttore romeno, ma ormai in parte germanizzato, senza la cacciata del vecchio maestro, è difficile divinarlo. Sappiamo in vece che quell’episodio infame della nuova Germania diede abbrivio a un destino dei più rutilanti nella storia dell’interpretazione musicale. Felix culpa, per non dire che talora dalla merda, se non ne ustioni la semente, nascono i fiori. Pur ancòra odoroso delle stanze del conservatorio Celibidache si mi impose alla guida dell’orchestra bensì con rispetto ma con la sfrontatezza della giovinezza e del suo popolo d’origine e, sopra tutto, con una preparazione esorbitante dal ristretto dominio della teoria musicale, rarissima in un musicista pratico. Per tutta la vita, oltre alla musica, egli aveva studiate matematica e filosofia (fu allievo di Nicolai Hartmann, niente di meno); sarebbe arrivato negli anni più matura lo zen, fuso – passatemi la sbrigatività – in una rara e preziosa lega con la fenomenologia di Edmund Husserl, che nella storia della filosofia fece sin dal suo apparire la figura dell’estemporanea e ardita bizzarria, e che fu soffocata quasi in culla dalle “deviazioni”, queste sì di enormi peso e conseguenze, non solo per la filosofia, di Heidegger Sartre Merleau-Ponty. Nonostante qualche iniziale passo stentato e talora qualche accidente direttore e orchestra si intesero ben presto. La compagine non aveva trovato un altro Furtwängler, e grazie al Cielo: in arte, come ovunque, le imitazioni sono pestilenziali; ma uno che si avviava con rapide ma ben posate falcate a diventare un’altra divinità. Durò tuttavia poco, pochissimo, ed è la ragione per la quale i più a stento ricordano nella pur breve teoria dei direttori berlinesi quel nome estraneo e remoto. Solo isolato non protetto se non dall’orchestra, allora tuttavia non sindacalizzata e quindi impotente a imporre il proprio volere, Celibidache fu spodestato da una di quelle manovre di potere a tenaglia, che vedeva, da una parte, l’industria discografica e, dall’altra, Herbert von Karajan, che di pianista (pare eccellente) si era fatto maestro concertatore spinto dall’ambizione e dal pressante consiglio di Bernhard Paumgartner, il biografo di Schubert e di Mozart, che nel giovane austriaco aveva intuìte potenzialità superiori a quelle per la sola tastiera. I particolari assai curiosi e i vasti silenzi della vita artistica di Celibidache nei lunghissimi anni successivi li lascio seguire sulla magnifica monografia Zecchini che al direttore dedica Umberto Padroni citato in esergo – davvero esemplare e, per soprammercato, dalla prosa di rara bellezza ed eleganza –, e salto a Monaco di Baviera, l’ultima e più corrusca tappa. Alla guida dei Filarmonici monacensi Celibidache appare trasfigurato. I Münchner erano un di quei gioielli nascosti ai più dalle erme internazionali di Berlino e Vienna, Leningrado e Milano e Roma, come altre magnifiche orchestre tedesche (Dresda, Bavària). Le occorreva “soltanto” il direttore che sapesse estrarre da codesta pianta vigorosa e tenace i migliori frutti, ciò che riuscì al solo Celibidache. Sergiu Celibidache (1912-1996) Sulla palingenesi (altro nome non trovo) dei monacensi, che da marginale compagine si tramutano in orchestra di primissimo rango internazionale, dà ancòra conto l’insostituibile Padroni. A noi basti di rammentare i due massimi miracoli di Monaco e che stanno tra i massimi di tutta la storia dell’interpretazione musicale. Anzitutto Anton Bruckner, tra i giganti del sinfonismo certo il meno eseguito e capìto. «Io sono venuto al mondo per dirigere Bruckner», disse con la sua solita e benedetta immodestia Celibidache a un gruppo di allievi radunati presso la Scuola d’alto perfezionamento di Saluzzo, provincia di Cuneo, come mi riferì uno di essi, una donna che aggiunse di non avere mai avuto, nella sua lunga carriera di musicista, grazia maggiore di quelle estati piemontesi. Non era un paradosso, ma precisa consapevolezza di quelle che afferrano i pochi, i rari, e che, sopra tutto, trovano conferma nella sala da concerto e, per come la tecnologia lo consenta, nel disco. Tolti Arthur Nikisch e Furtwängler, esemplari d’altre epoca, razza e poetica, mai musicista alle prese con l’“alieno” di Linz seppe indagarne forme e penetràli, con buona pace di chi, ancòra oggi, colloca a esempio il pur eccellente Eugen Jochum sul piedistallo del sinfonismo bruckneriano. Per certi versi ben più sbigottente è quanto Celibidache disse nel 1992, in occasione d’una Settima organizzata per raccogliere fondi destinati agli orfani di Romania, da poco entrata con inganni e sangue spremuti alla popolazione nella democrazia. Guardando gli orchestrali disciplinati e diffidenti con quegli occhi birbanti ma di grande bontà e consapevolezza, pronunziò queste parole: «Eseguirete Bruckner come non lo avete mai eseguito». Dicevo sbigottente giacché se egli avesse parlato dinanzi a una compagine tra le millanta, la frase avrebbe avuto peso leggero. Ma parlò davanti ai Berliner, ai quali Celibidache ritornava, dopo trentasette anni dalla cacciata, per quella volta soltanto e con un equipaggiamento irripetibile. Causa lo sciatto o più volentieri proditorio atteggiamento dei soliti maneggioni, di quella esecuzione non ne tirarono alcuna incisione. Ne abbiamo un frammento di prova soltanto. Erano, quelle parole, stizza o acredine per l’antico ostracismo? Celibidache non era un simile tanghero; e poi in quei quasi quarant’anni c’era stato un totale avvicendamento dei professori d’orchestra, sì che gli attuali, se non commetto un errore, non avevano suonato mai né con lui, né con Furtwängler, ma erano stati cucinati prima da Karajan, poi dal suo immediato successore Claudio Abbado – una colata a picco da stordire –, cui, più che ai musici astanti, quel messaggio era rivolto, e in ispecie, credo, all’italiano. Celibidache aveva detta semplicemente la verità. Nonostante in fatti tutta la réclame e il fracasso d’attorno a quei nomi, il Bruckner di Karajan non aveva aggiunto alcunché a quello di Furtwängler né d’altrui: se mai aveva sottratto parecchio; Abbado dirigeva Bruckner – e tutti gli altri olimpi del sinfonismo e dell’opera – come dirigeva l’Innominabile di Busseto. Davvero di Bruckner, a Berlino, non se ne sentiva dagli anni Quaranta. Fu durante quel rimasuglio di prova che mi avvidi, tra il molto altro, della ragione per cui a esempio l’attacco innumeri volte ascoltato nell’unico disco circolante, sonasse così inaudito. Come fa?, mi chiedevo, senza mai trovare una risposta plausibile. La scrittura è semplicissima, parrebbe non far problema, Bruckner non ha ancòra scatenata tutta la sua altissima maestria tecnica e creativa. E pure quelle iniziali battute riescono a Celibidache come a nessun altro, eccetto che a Furtwängler, anche se questi ha un approccio tutt’affatto differente. Il lettore si faccia ascoltatore e si vada a scoprire il “segreto” di quei primi secondi. Completo l’episodio con queste parole d’Umberto Padroni:  > «Nell’arte e nella vita pubblica del suo tempo questo fu un evento che oggi > (…) è possibile definire “storico”: nella connotazione la meno inflazionata. > Esaurita l’esaltante, trascendente avventura musicale, allo spegnersi del > breve accordo finale in mi maggiore, dopo qualche attimo di silenzio, applausi > e feste a non finire; il vecchio maestro si volge all’orchestra portando alla > fronte le mani giunte nel bel gesto buddista, riceve mazzi di fiori e ne > distribuisce agli archi vicini. Su, nella balconata, il presidente [tedesco] > Weizsäcker applaude forte e sorride (…). Poi, dietro, il musico ottantenne > abbraccerà gli anziani, e stringerà la mano a tutti gli orchestrali. “Sul > piano umano è accaduta una cosa meravigliosa; per quanto attiene alla musica, > il nostro livello era al di sotto della media. I Berliner oggi non sono altro > che un’orchestra dotata di buona tecnica. Tutto qui”. E l’orchestra: “Abbiamo > dovuto dire addio a tante abitudini. Effettivamente stiamo scoprendo > quest’opera in modo del tutto nuovo”». Il secondo miracolo se possibile è ancor più eloquente e sconcertante: la sesta Sinfonia in Si minore di Tchaikowskij, così detta “Patetica”. Salvo trascurabili eccezioni, se ne sono impossessati tutti i direttori, anche e talora sopra tutto i meno adatti e dotati. Dopo ricognizioni in che si alternavano perplessità disgusti ed entusiasmi, ancòra abbastanza giovane, scopersi, insieme a Shostakovich, uno dei suoi più straordinari interpreti sinfonici, ciò è a dire Evgenij Mravinskij, direttore della Filarmonica di Leningrado, una delle svettanti autorità in fatto di musica russa e non da meno di moltissimi direttori europei e americani quando si  cimenti col repertorio occidentale. A mio giudizio, nonostante i Temirkanov, i Roždestvenskij, i Barshai, Mravinskij è la prima e l’ultima parola sulla musica russa di ogni tempo. La sua “Patetica” salì sùbito in cima alla mia personale classifica. Chi altri avrebbe potuto sopravanzare quelle letture? Mi sbagliavo, e come. Bisogna avere del fegato per abbrancare quella Sinfonia così troppo bistrattata e frusta, caduta nelle mani davvero d’ogni sbacchettatore. (Un pomeriggio in macchina, aprii la radio sulla benemerita Filodiffusione, ventiquattr’ore di musica classica tutti i giorni dell’anno: quasi una “minaccia”. Transitavo davanti allo stabilimento torinese della Fiat e pensai che un operaio qualsiasi avrebbe arrecati meno danni. «Sembra Riccardo Muti», mi dissi confidando in buon orecchio. La suadente e algida voce femminile dell’annunciatrice, dalla dizione perfetta, me lo confermò alla fine di quello strazio). Dico fegato e taccio di altre parti meno nobili del corpo, altrettanto necessarie per non ridurre quel capolavoro a flaccida geremiade e a lontana eco della Romantik. Ma anche un cervello fuor del comune. Al termine d’una delle lezioni di canto che mi impartiva, un amico bravo musicista mi infilò nella borsa l’incisione di Celibidache coi Münchner, ch’egli aveva definito poco convincente, e «C’è qualcosa che non va», mi sussurrò scotendo il capo. Qualche giorno dopo gli restituii il disco: «C’è qualcosa che non va, in effetto», gli dissi per ischerzo, «Ma nella tua testa». Ritornato a casa avevo ascoltata la Sinfonia una prima volta, sbigottito. Che cosa succedeva? Tchaikowskij sembrava averla scritta, dopo che per sé medesimo, pel direttore romeno-tedesco. Ripigliai daccapo, due, tre, quattro volte. Sempre trovavo qualcosa di nuovo di profondo di “disumano”. Mi arresi volentieri alla verità. Una delle più strazianti sincere e squassanti autobiografie in musica dell’intiera storia di quest’arte trovava sotto la guida di Sergiu Celibidache l’agognato riscatto da plurimi decenni dei varii conquistadores protervi e sanguinarii che si ergevano a sacerdoti e maestri, e non la mollano. Non un errore o una sbavatura. Tutto dal vivo, beninteso, com’era uso di Celibidache che, al pari e anzi più di Furtwängler detestava la sala d’incisione. Anche gli applausi elargiti all’ingresso del direttore e alla fine dell’esecuzione sembravano esser parte di quel disco, perfetto quant’altri mai. Non esagero dicendo che quel pomeriggio avevo finalmente capìta la “Patetica”. Ma di dove nasceva codesto modo di far musica? In una concezione che lascio spiegare ancòra a Padroni: interpretare è «banale e fuorviante luogo comune implicante inevitabilmente il peccato mortale dell’arbitrio: un sedersi più o meno malamente, con i propri capricci, sulla partitura. Una forma di interpretazione avviene semmai nella coscienza di chi ascolti [c.m.], del destinatario ultimo dell’opera realizzata nel suono. Chi realizzi il testo musicale è sempre e comunque un esecutore: superficiale o profondo nella lettura, glabro o ricco di espressione, banale o di forti intenzioni, sciocco o acuto, ma sempre esecutore, partecipe del prodigio dell’inveramento, ricostruttore, nella vibrazione sonora storicamente connotata, del testo, il quale sulla carta è un’indicazione grafica convenzionale, un modesto approssimativo suggerimento, privo di vibrante vitalità fisica, insomma quasi lettera morta e freddo scrigno delle lontane emozioni dell’autore, pur dotato riccamente di spirito; lettera morta, quindi, quando non traduca la spirituale latenza, dopo la più colta e illuminata fase noetica, nel suono: suono vivente, come sostiene Enzo Fantin, il quale ha riconosciuto in Sergiu Celibidache l’apostolo dell’inveramento del principio bruckneriano del “ricominciamento e del perenne ritorno all’origine”, cioè del motivo di profondo della musica di questa civiltà». È lo stesso concetto stracco quando non cadaverico di musica a essere stravolto da Celibidache:  > «La musica non sono le note, la musica non sono i forti, i piano, il lento, > l’allegro. No! Io mi servo di quello per esprimere qualche cosa che io non > posso definire in modo razionale, come qualsiasi altro fenomeno estetico: > rimane un mistero per la ragione (…). È impossibile definire la musica: non > c’è definizione. È esclusa dal pensiero; io ho cercato di capire che cosa si > possa chiamare realtà; come ogni intellettuale intendevo materializzarla, > farla diventare concreta: sbagliando, come ho sbagliato tentando di definire > la musica (…). La musica esiste solo nell’arco di tempo della sua esecuzione. > Il brano musicale non esiste: nasce ogni volta che si esegue». Correggo ora una certa facile e naturale terminologia, adoperata anche da me. Sbaglierebbe, giusta lo stesso Celibidache, chi parlasse troppo sul serio di geniounico, di eccezione miracolosa. Discutendo presso la scuola di perfezionamento di Saluzzo con un giovane oboista, Celibidache fa questo discorso:  > «Tu non sei un povero oboista ma sei tutto, sei tu, sei assoluto. La dualità > esiste solo nella mente speculativa. Rifugiandosi nella tecnica ci si > dimentica che si tratta di un fattore fisico funzionale al raggiungimento di > un clima spirituale; mitizzarla è cosa grave poiché distrae dalla necessità di > salvare le idee originali. Nella concezione borghese esiste [sic] “il genio” e > “gli altri”: questo non porta a nulla. Io ho piacere di parlare con te, e non > con quello che la vita ha fatto di te». E ancòra: «Nella concezione di Celibidache l’interpretazione è una faccenda un po’ infantile da salotto domenicale, o anche un passatempo per i più modesti abbonati quando si incontrano, nell’intervallo del concerto, a scambiarsi tranquille banalità nell’ex fumoir. Che dire poi dei trastulli del tipo “Interpreti a confronto”? “Allontanatevi da tutti quei rifiuti – diceva il maestro ai suoi allievi – amalgamati in concerti prefissati. L’interpretazione, ad esempio, è in realtà una rischiosa addizione tra l’ignoranza di chi esegue e quella di chi ascolta. Concetti come genio, talento sono scemenze. Ognuno di noi ha le sue possibilità, solo che nella maggior parte di noi, sono bloccate in maniera diversa”». A un giovane che poneva la impossibile domanda se i geni del passato sarebbero un giorno tornati, il maestro non esitava:  > «Tu potresti essere uno dei geni di cui senti la mancanza! Non sorridete! È > invece una vergogna che questi tempi, questa civiltà, questo mondo ti abbia > impedito di diventare un altro Bach. Ma in te c’è tutto questo; è la verità, > se c’è la luce della coscienza, cioè la libertà di attingere concretamente al > passato, per proiettarti nel futuro: questo devi cercare per stabilire un > rapporto con la realtà; la Realtà, non quella falsa, condizionata, virtuale». Sincere senza alcun dubbio, queste parole peccano forse d’una visione un po’ ottimistica. Fissato con certe questioni neurologiche e della fisica, sarei più cauto a democratizzare l’artista. Certo gli è però che ticchi pigrizia distrazione vecchiezza vanità ambizione hanno soffocate in vizii e balordaggini irremeabili potenzialità e capacità già acquisite. Penso a esempio a quanto e come avrebbe potuto fare un Karajan se si fosse liberato dalle sue connotazioni deleterie. Ma certe dotazioni o le hai dalla nascita oppure al massimo potrai elevarti sopra i mediocri, non oltre. Accanto e insieme a questa prospettiva si deve contemplare l’analoga, che investe l’orchestra, e che rende ragione del resultato, educativo e artistico, raggiunto sotto di lui dai monacensi. > «Egli comprese (…) quanto fosse preferibile lavorare con orchestre di modesta > storia e spessore (…), ma animate da buona volontà, quindi più permeabili a > nuove idee e all’originalità, piuttosto che mettere a punto un’esecuzione dal > podio di un’illustre orchestra che si senta depositaria di una, talvolta solo > presunta, tradizione. In questi casi l’eccellenza dell’organico, ufficialmente > riconosciuta, è solitamente da leggere anche in termini di supponenza, e il > direttore che disponga di idee, il quale subito si compiace della prontezza > della lettura e dell’efficienza della compagine, non tarda però a realizzare > quanto essa sia invece chiusa in difesa, e persino ottusa, e nella sua prassi > sia limitato lo spazio per la comprensione, e quindi l’adesione > alle condizioni sempre mutevoli dell’esecuzione musicale [c.m.]. “Il sapere è > attaccamento al passato, una zavorra che fa perdere la spontaneità”. Qui > sembra rilucere il diamante che impreziosisce, con il taglio fenomenologico > (…) il nuovo e più vero rapporto con la pagina; per Celibidache esso assegna > all’atto del fare musica, solistica od orchestrale, il compito di trarre dalla > multiforme realtà contingente sempre mutabili, l’unica vera, possibile > identità dell’opera musicale (…) hic et nunc». Non voglio tuttavia lasciare nel lettore l’impressione di un’adesione acritica a un artista il cui metodo ritengo in fatti inadatto con Beethoven, sopra tutto col Beethoven più noto, della Quinta o della Settima. Taccio le ragioni di un mancata persuasione, ché non importano a nessuno e allungherebbero troppo l’articolo. Lascio all’ascoltatore il piacere di esplorare da sé questo meandro. Un altro aspetto di Celibidache che può far storcere il naso è l’avversione per i suoi colleghi. Vorrei davvero che, tolti certuni su cui Celibidache disse solo la verità («ignoranti» e altre simili graziosità), le considerazioni dedicate a esempio a un Karl Böhm, tra le sommità, siano state dette o in momenti di stizza, riportate male, o invenzioni di sana pianta di qualche giornalista malevolo. Ma se temo di no. Certamente Celibidache andrebbe però in questo senso lodato almeno perché ebbe il coraggio di dire schiettamente ciò che altri pensano ma tacciono,oppure si limitano a dire solo agli intimi, minacciandoli di morte se dovessero spifferare quei loro giudizii. Altro ci sarebbe da aggiungere, ma è meglio piantarla qui e andare ad ascoltare. Luca Bistolfi L'articolo “Tu potresti essere uno dei geni di cui senti la mancanza!” Note su Sergiu Celibidache proviene da Pangea.
August 27, 2025 / Pangea
Sul doppio “Meridiano” di Philip Dick. Ovvero: come si neutralizza un grande scrittore
Sebbene con due anni e mezzo di ritardo a petto del trionfale annunzio sui giornali, che lo prometteva in libreria per la fine del 2022, è finalmente escito il doppio ‘Meridiano’ delle Opere scelte di Philip Kindred Dick, curato da Emanuele Trevi. L’attesa, carica di promesse, si è però rivelata, a esser generosi, una mezza buggeratura e un attacco, se bene dissimulato, contro lo scrittore americano. In queste tremila pagine s’adunano in fatti fesserie e sfondoni, qualche imbroglio non involontario, e parecchi arbitrii. Qui passeremo in rassegna solo un’infima parte di tutto ciò: se dovessimo rintuzzare ogni guasto e carognata, occorrerebbe un intiero terzo tomo. * Liberiamoci anzi tutto della «Cronologia», affidata a Emmanuel Carrère. Come si sa, le cronologie dei ‘Meridiani’, negli ultimi anni, sono vere e proprie piccole biografie, che occupano lunghe fitte e talora critiche pagine, quindi non soltanto un elenco di date ed eventi.Poiché Carrère è l’autore di una così detta “biografia” dickiana, forse ahinoi la maggiormente letta in Italia dacché stampata da Adelphi, Trevi e Alessandro Piperno, l’attuale direttore della collana, hanno ritenuto ovvio di assegnare a colui codesta preziosa parte del ‘Meridiano’. Una scelta disgraziata quant’altre mai come potrà constatare il lettore leggendo un mio lungo intervento, pubblicato su questa rivista. Siccome là dico già tutto ciò che di essenziale si deve sapere, qui non mi ripeterò. Rilevo solo che ancòra una volta è dimostrato quanto a signoreggiare la più parte delle logiche culturali italiane sono criterii familistici e ideologici. La seconda scelleratezza è il «Profilo di Philip K. Dick», firmato da Trevi. Pur assai informato e non del tutto disutile, esso nondimeno porta un guasto irremeabile, cioè a dire il radicale rifiuto di attribuire a Dick il duplice statuto di filosofo e di veggente, l’unico cui egli tenesse e che dimostrò sempre di meritare, e di rilevare i connotati religiosi dello scrittore. Dick è per Trevi un buon autore ma gravato da tabe psichiche. Frusta e stracca robaccia di magliari (la medesima di Carrère, ça va sans dire), fondata su periclitanti congetture gabellate per verità. Nel mio succitato articolo indugio anche su questa delicata faccenda. Proseguiamo. Il ‘Meridiano’ offre, nell’ordine, i seguenti titoli di Philip Dick: Occhio nel cielo; Tempo fuori luogo; L’uomo nell’alto castello; Le tre stigmate di Palmer Eldritch; Gli androidi sognano pecore elettriche?; Ubick; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; Un oscuro scrutare; Valis; L’invasione divina e La trasmigrazione di Timothy Archer. Per motivi di spazio non indugerò oltremodo sull’Occhio nel cielo, Tempo fuori luogo e Un oscuro scrutare. Mi limito soltanto a rilevare che: il primo non necessitava di una nuova traduzione, sarebbe in fatti stato sufficiente ripulire una delle pregresse; mentre il secondo e il terzo sono la riproposizione delle versioni già da anni a disposizione e, al contrario di altre versioni miserabili, tra le poche salvabili. Di poi Occhio nel cielo – in vero più un racconto lungo che romanzo – è opera bensì gradevole e abbastanza importante nell’arsenale dickiano, ma non tra le maggiori. La scelta ha natura politica, non certo letteraria, dacché lì Philip Dick… strizza l’occhio ai comunisti. A oltre trentacinque anni dal fatale biennio 1989-1991 certi intellettuali (sit iniuria verbo) sembrano quei soldati giapponesi che decenni dopo la Seconda guerra mondiale li trovavi ancòra appostati in attesa di un contrordine dell’imperatore. Peraltro lor signori confondono i sinistri di quegli anni ormai remoti, bensì funzionalissimi ai regimi, ma ogni tanto capaci di qualche utile manovra critica. Oggi si sono sostituiti al potere un tempo avversato e ne sono diventati i degnissimi eredi. I cinque più noti romanzi dello scrittore americano: Ma gli androidi sognano pecore elettriche?; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; L’uomo nell’alto castello; Ubick; Le tre stigmate di Palmer Eldritch sono in verità un’ottima scelta, ma si tratta delle stesse versioni già escite dal 2021 in avanti negli Oscar. In somma: sette titoli su undici di questa lussuosa e pretenziosa edizione ricicla testi già in circolazione. Ci sono tuttavia due differenze: aver abbandonate le orrende prefazioni di Carrère annesse agli Oscar e la presenza di un apparato critico, com’è nelle prerogative della collana. Ma è certo che lo scambio sia stato svantaggiosissimo, per Dick e per il lettore. Prendiamo a solo titolo d’esempio il paragrafo «Gnosi» (pp. 3012 e sgg) che accompagna Valis e da cui trascelgo in modo aleatorio. È firmato, come tutti gli accompagnamenti alla lettura, da Emanuele Trevi e Paol Parisi Presicce. Leggiamo sùbito questa fesseria: «Non è mai esistita una chiesa gnostica paragonabile alla chiesa cattolica, con le sue ferree gerarchie (vescovi, diaconi, laici…) intese a salvaguardare le verità della dottrina garantendo la successione apostolica» (pp. 3012-3013). Negare l’esistenza d’una chiesa gnostica organizzativamente paragonabile alla cattolica significa aver studiato poco e parlare a vanvera: basti in fatti pensare al manicheismo, a cui aderì per nove anni niente meno che Agostino d’Ippona. Esso fu la più grande eresia cristiana della storia, una vera e propria chiesa, con tutte le caratteristiche di una qualsiasi chiesa universale: dottrina, gerarchia, liturgie, riti, etcoetera. Durò per circa mille anni e si estendeva all’attuale Cina insino all’attuale Marocco. Andiamo avanti. Trevi & Presicce definiscono Ireneo di Lione e Tertulliano «grandi polemisti ortodossi» (p. 3014). Niente da dire, giusta la teologia tradizionale, sull’ortodossia di Ireneo, ch’è pure stato elevato agli altari. Tertulliano fu in vece pressoché da sempre considerato ai limiti dell’ortodossia e per certi versi incompatibile con la dottrina, sia della Chiesa occidentale, sia della Chiesa orientale. Nessuna di queste, in fatti, gli attribuisce alcun titolo ed entrambe ne sconsigliano la lettura. Poco dopo, un altro sfondone: Ireneo e Tertulliano «detestavano gli gnostici, li consideravano pericolosi eretici e vedevano nelle loro idee diaboliche minacce alle verità e alla nascente dottrina del cattolicesimo» (p. 3014). Trascuriamo la sciatta disinvoltura con cui i nostri beniamini maneggiano il concetto di «eretico», e limitiamoci a constatare che negli anni di Ireneo e Tertulliano, cioè a cavaliere tra II e III secolo, non esisteva alcuna «nascente dottrina del cattolicesimo». I commentatori confondono cattolicesimo con cattolicità, due concetti assai ben distinti, sia nella storia delle religioni, sia nella lingua italiana. È lecito parlare di «cattolicesimo» soltanto a partire, come minimo, dal 1054, data dello scisma cristiano tra Oriente e Occidente. Evocare una dottrina ovvero una Chiesa cattolica avanti di quello svolto è indice di crassa ignoranza. Non è finita. La premiata ditta Trevi & Presicce, alla pagina 3013, spara: «In primo luogo la gnosis, com’è evidente fin dal nome, è un percorso salvifico basato sulla conoscenza, una sorta di risveglio che riconnette l’individuo alla sua vera natura». Spiacenti, ma dal nome «gnosis» è evidente soltanto il nome, e non un percorso: men che meno se descritto come si provano a fare T&P. Trascuro di commentare l’evidente loro incapacità di distinguere «gnosi» e «gnosticismo». * Trascorrendo dal fronte religioso al letterario, la caccastrofe è inarrestabile. Nelle «Notizie sui testi» viene citato due volte C. S. Lewis. Nella prima occorrenza (p. 3007) T&P ne evocano l’opera Out of the Silent Planet, modello per Radio Libera Albemuth, una delle ultime pagine dickiane, dicendo dello scrittore irlandese soltanto che fu amico di Tolkien. Nella seconda (p. 3029) invece si parla «dello scrittore inglese C. S. Lewis, che fu grande studioso di letteratura medievale, saggista di fede cattolica e autore di testi fantastici e fantascientifici». Ora, dare informazioni circa Lewis solo alla seconda occorrenza del nome, è già di per sé sintomo di severa distrazione. E ciò senza contare che, in un libro ambizioso per lettori ambiziosi, non è davvero necessario spiegare chi sia Lewis. Così come è esornativo, in quel contesto, sottolineare l’amicizia con Tolkien, come se ciò fosse issofatto titolo di merito. Ma le maggiori cannonate sono anzitutto d’aver limitato le competenze di Lewis alla sola letteratura medievale, quando è noto che egli fu un conoscitore a tutto tondo del così detto Medio Evo; e in secondo luogo, sopra tutto, d’aver definito Lewis «di fede cattolica». C.S. Lewis fu per una certa parte della sua vita un teista. Poi, grazie ad alcune esperienze (che si possono leggere sia nell’autobiografico Sorpreso dalla gioia, sia nella bella biografia di Alister McGrath), si convertì al cristianesimo ma non già al cattolicesimo, bensì alla fede anglicana.Sarebbe stato utile rilevare a questo preciso proposito l’amicizia tra Lewis e Tolkien, e non a casaccio. Fu in fatti il futuro autore del Signore degli Anelli a imprimere una svolta decisiva al percorso dell’amico. Ma mentre Tolkien, comprensibilmente, si attendeva da parte di Lewis un’adesione al cattolicesimo, questi optò altrimenti. Sia bene inteso che tutti questi sfondoni di storia delle religioni e di letteratura sarebbero stati evitabili consultando anche solo wikipedia. L’ultimo studente fuori corso dell’università di Roccacannuccia non li avrebbe commessi.  Ciò che non voglio commentare poiché anche di questo parlo nel mio già evocato articolo, sono le note all’Uomo nell’alto castello, forse l’opera più politica di Philip Dick e, per la mentalità dominante da ottant’anni, la più inaccettabile e quindi la più falsificata. Prendo solo atto che il mondo culturale italiano è zeppo di lupi travestiti da agnelli: proprio il concetto che lo scrittore americano esprime nel romanzo declinandolo alla politica mondiale. Voglio invece evidenziare con favore le molte note ai romanzi che rimandano a esempio a precisi passaggi della Sacra Scrittura citati o suggeriti da Dick. Il lavoro, se non ho straveduto, è svolto con perizia, sì che possiamo ammettere che, almeno come bibliotecarii o impiegati di redazione, certi intellettuali non sfigurerebbero. Perché non pensarci e cambiare lavoro? * Scopo ufficiale del ‘Meridiano’ sarebbe di restituire dignità letteraria a Philip Dick, considerato, come tutti gli autori di fantascienza, alla stregua di un dilettante nel senso peggiore, indegno di prendere dimora sul Parnaso. Un’iniziativa dunque lodevole per chi abbia saputo riconoscere nello scrittore americano non soltanto un fantasioso facitore di mondi e trame relegato al dominio della fantascienza – tenuto, con grave sbaglio, in gran dispregio dagli intellettuali e da certi lettori colti –, ma un classico, se bene sui generis, meritevole di ben altra considerazione. Il resultato però è sviante. Piperno e Trevi, col contributo di Carrère, hanno voluto istituzionalizzare Philip Dick, ciò è a dire neutralizzarlo, renderlo maneggevole, addomesticarlo, anzi tutto tacendone le propensioni filosofiche e religiose: nella fattispecie, gnostico-cristiane. Lo si capisce pure dalla scelta di escludere, anche solo in forma antologica, L’esegesi, opera cruciale per capire sia il Philip Dick uomo, sia il Philip Dick scrittore. Una delle visioni-simbolo di Dick è riassunta in una frase, famosa tra i lettori: «L’Impero non è mai cessato». L’Impero è quello romano, persecutore dei cristiani, che ancòra negli anni Settanta Dick vedeva, more suo, all’opera, anche sulla propria persona, con resultati esiziali per la società, gli individui, le anime. A mezzo secolo di distanza Dick è ancòra perseguitato. A mezzo secolo di distanza noi possiamo unirci alla voce di Philip Kindred Dick. * Poscritto A maggior benefizio dei lettori più curiosi e di quelli che ancor credono alle chiacchiere dei nostri intellettuali, riferisco per sommi capi un episodio occorso diversi anni fa a un mio amico, superbo germanista italiano, uomo altresì di raffinatissimo gusto linguistico, quando volle – e anche dové – avere un confronto con chi presiedeva alla direzione dei ‘Meridiani’. Tacerò per ragionevoli motivi i nomi sia dell’uno, sia dell’altro protagonista di questa eloquente e istruttiva storiella e così il sesso dell’allora capo della collana. All’uscita della raccolta completa, con originale, dell’opera poetica di un grande tedesco, il nostro germanista si avvide, non appena schiuso il volume, d’una seria di svarioni sciatterie e talune bestialità nella traduzione, firmata da uno dei mostri sacri della germanistica italiana. Per ciò che possa valere io stesso, indipendentemente dall’amico germanista, avevo sùbito notato lo stato pietoso di quel volume, sì che posso assicurare che questo germanista aveva veduto assai bene. Il nostro amico, pel solito schivo, fu còlto da un tal moto di fastidio, da non poter evitare di scrivere una lettera al direttore (si potrebbe adoperare il maschile anche se la persona fosse di sesso femminile), una lettera in che egli, con toni garbati ma fermi, snocciolava solo alcune delle minchiate eternate nel prezioso volume. Attese diverse settimane senza ricevere risposta. Ma siccome la gravità era così spaventosa da impedirgli di soprassedere, e altresì non volendo accettare di essere ignorato, il germanista tentò di raggiungere al telefono il direttore, ciò che, con sua grande sorpresa, gli riuscì. Il direttore avrebbe dovuto conoscere il germanista dall’altro capo del filo, ché questi era la firma di numerose preziose e note versioni italiane di grandi classici tedeschi, e della letteratura, e della filosofia, per marchi editoriali di diversa levatura. Ma o era all’oscuro, o finse di non sapere. Nondimeno stette ad ascoltare. Il germanista aprì con un breve preludio di gentilezze e scuse per aver “disturbata” l’attività di quel membro senatorio della repubblica letteraria italiana. Ma, precisò, siccome non aveva ricevuta risposta alla lettera, non aveva avuta altra strada che il telefono. Il direttore negò di aver mai ricevuta la missiva, ma pur lo invitò a esporgli la sua intenzione, annunziandogli di avere davanti al naso il volume incriminato. Nemmeno a dirlo, con tono tra il condiscendente e l’irritato. Il germanista iniziò, aprendo davvero a caso il volume, a evidenziare i punti critici. Si attendeva qualche reazione, ma l’altra persona non dava segno di apprezzare, in alcun senso, le osservazioni di quell’oscuro molestatore. L’elencazione delle magagne fu alquanto breve, ma a qualsiasi onesto e competente e in tedesco e in italiano, sarebbe stata sufficiente per cospargersi il capo di cenere ed eventualmente ritirare il volume dal mercato, licenziare l’autore della traduzione e incaricare altrui più attento – magari lo stesso germanista della nostra storiella – per ripassare da cima a fondo il non esile tomo. Andò invece diversamente. Il direttore del Meridiano, in fatti, si limitò a dire queste testuali parole, glaciali: «Dottor …, mi stupiscono molto le sue osservazioni. Tutte le recensioni al volume non parlano di errori e sono state tutte molto favorevoli». Ma il germanista di rimando: «Lei sa bene, caro direttore, che le recensioni, a certi livelli sopra tutto, sono, anzi che spontanee, sono spintanee. E poi non è sempre detto che i recensori, quali ch’essi si siano, abbiano le competenze per giudicare un lavoro così importante. Mi stupisce invece che Lei, alla sua volta germanista, non abbia fatto caso a questa legione di errori, di morti….». «Guardi, dottore», lo interruppe l’alto impiegato ora sensibilmente irritato, «Le ho detto che le recensioni sono state tutte favorevoli e quindi non occorre dire altro». Il nostro amico non ebbe quasi il tempo di replicare, ché, dopo uno sbrigativo saluto, la comunicazione si interruppe. E non certo per un mal funzionamento della linea telefonica. Luca Bistolfi L'articolo Sul doppio “Meridiano” di Philip Dick. Ovvero: come si neutralizza un grande scrittore proviene da Pangea.
July 2, 2025 / Pangea
Neutralizzare Heidegger. Sui tentativi (più o meno goffi) di fare di un maestro un mero “oggetto di studio”
È notoriamente impossibile fare lo spoglio della mole di studi sfornata ogni anno dalle università e dalle case editrici sui classici della letteratura e del pensiero. Tuttavia ogni tanto, un po’ per caso, un po’ perché ce la andiamo a cercare, è necessario buttare un occhio in strada per constatarne la situazione e, se si intercetti qualche soggetto disturbante, prendersi la soddisfazione e ottemperare al diritto/dovere di critica, di scagliare qualche freccia o, almeno, qualche voce di allarme. Ed è ciò che faremo ora presentando due lavori su Martin Heidegger, esciti entrambi per Mimesis: Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica di Thomas Vašek, e Heidegger e la Gnosi di Lucrezia Fava. Inizieremo col primo, il più problematico e urticante. * * * Partiamo dal titolo originale: Schein und Zeit – Heidegger und Michelstaedter. Auf den Spuren einere Enteignung, o sia: «Apparenza e tempo – Heidegger e Michelstaedter. Sulle tracce d’una espropriazione». La versione italiana quindi corrompe radicalmente l’intenzione dell’autore: Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica sarà commercialmente più appetibile, ma non si può sempre sacrificare tutto al dio mercato. Nel titolo originale, dietro l’espressione palese, ci sono due allusioni. La più facile: «Schein» in luogo di «Sein», che sta a indicare una sorta di maschera, indossata naturalmente da Heidegger. La seconda è meno perspicua e riguarda la parola centrale del titolo: Enteignung, che rimanda evidentemente allo spettro dello «Er-eignis» uno dei concetti centrali heideggeriani e quello che sorregge i Beiträge zur Philosophie. Mi auguro solo di non aver sopravvalutato un autore a dir poco sospetto. Il titolo originale, si capisce, accenna a un possibile e forse, secondo l’autore, probabile plagio ai danni di Carlo Michelstaedter da parte di Martin Heidegger. Una tesi invero sorprendente e di quelle che per solito ingenerano due ordini di reazioni: o grande interesse, oppure totale negligenza. I contenuti di simili “inchieste” sono infatti davvero squassanti oppure un fuoco fatuo, molto spesso presente solo nella testa dell’autore. Io opto per una terza posizione: pregiudizio che porta alla contraffazione. Evidenzio súbito una “stranezza” di Vašek, già alle pagine 11 e 12, o sia la precisazione d’aver tenuto fuori dal suo studio ogni discussione circa i così detti “Quaderni neri” e quindi circa le (del tutto) presunte responsabilità di Heidegger durante il governo nazionalsocialista. È un segno sia di malafede, sia dell’inquinamento del clima che si respira ogniqualvolta si tratti di Martin Heidegger. Sentirsi obbligati a precisare di non voler trattare il tema è come ammettere che, parlando di Heidegger, si dovrebbe comunque ricordare sempre ch’egli fu (si dice, man sagt) nazionalsocialista. E infatti poco dopo (pp. 25-26) Vašek non manca di affermare che «non vi sono dubbi sulla vicinanza di Heidegger al Nazionalsocialismo, tantomeno sul suo antisemitismo». Purtroppo esula dal cómpito del mio contributo d’inoltrarsi nella faccenda (di cui tuttavia dirò in un successivo articolo). Ma è mio dovere dichiarare qui con grande forza che quei dubbi per Vašek, e per parecchie altre persone, inesistenti lo sono davvero, ma in senso affatto opposto a quello inteso da questo autore. Lo dimostra la schiera di ricercatori italiani tedeschi e francesi che ha smontato pezzo a pezzo ogni ricostruzione e costruzione infamante ai danni di Martin Heidegger. Mi riferisco, cito a solo titolo d’esempio, a François Fédier e a Francesco Alfieri. Ritenere, oggi, Heidegger nazista e antisemita dimostra o grave “distrazione” oppure disonestà. E dico di più: la frase di Vašek è sbagliata perché, se proprio vogliamo concedere qualcosa alla tesi colpevolista, Heidegger fu bensì iscritto al Partito nazionalsocialista ma non manifestò mai sentimenti o idee antiebraici. Peraltro sarebbe uno strano antisemitismo quello di Heidegger: allievo dell’ebreo Husserl; circondatosi di ebrei; plagiatore dell’ebreo Michelstaedter (e anche di un secondo, vedremo). Scopo del lavoro è dimostrare le coincidenze, nel senso stretto della parola, tra il pensiero di Michelstaedter espresso ne La persuasione e la rettorica e quello di Essere e tempo. Invero la dichiarazione preliminare dell’autore di limitarsi a Essere e tempo non trova corrispondenza nel testo, in cui è presente un nubifragio di citazioni da svariate altre opere di Heidegger, precedenti e successive al capolavoro del 1927.Avanti tuttavia di immergerci nel raffronto testuale e tematico, onde dimostrare la tesi dell’Enteignung, Vašek ci informa che l’opus magnum del goriziano fu tradotto in tedesco solo nel 1999, ciò che, non conoscendo Heidegger l’italiano, rende impossibile un contatto diretto tra questi e il testo michelstaedteriano, testo che fu pubblicato la prima volta in Italia tre anni dopo il suicidio del goriziano, nel 1913, da Vallecchi di Firenze (che Vašek invece colloca, chissà perché, a Genova). Tuttuavia Vašek fa ciò che mi pare di poter definire una scoperta non dappoco, o sia una traduzione in tedesco della parte dedicata alla Persuasione della celebre tesi di laurea, per mano niente di meno che di Argia Cassini, la così detta fidanzata di Michelstaedter (scrivo «così detta» per buone ragioni biografiche che qui non importa di esporre). Sorgono però adesso due problemi molto pesanti, che Vašek non solleva. Anzitutto si ignora lo scopo di questa traduzione, fatta in forma dattiloscritta e, in apparenza, privata, cioè a dire non espressamente destinata ad alcuno. Essa inoltre è priva di data ed essendo Argia Cassini morta nel 1944, avrebbe avuti come minimo trent’anni di tempo per tradurre quel mazzetto di pagine. Vašek invero accenna all’assenza della data, ma in maniera anodina, senza porre in evidenza il dato cruciale, e men che meno interrogandosi sulle sue implicazioni all’interno dell’indagine in corso. Partendo da questa traduzione parziale, Vašek si slancia nella ricostruzione di rapporti tra Italia Svizzera e Germania insino a questo momento, per quanto mi è dato di sapere, ignoti. Essa è esposta alle pagine dalla 19 alla 22 e io non toglierò la soddisfazione al lettore di scoprirsela da sé, tanto essa è invero sorprendente. Inoltre mi astengo dal parlarne per non spingere il giudizio del lettore in una direzione anziché in un’altra. Idem valga per l’indagine tematica e testuale di Vašek, anche perché riferirne anche solo succintamente renderebbe questo articolo da rivista specialistica e quindi “illeggibile”. Qui voglio solo far emergere il puro tentativo di Vašek e discutere alle corte il suo metodo. Il libro è efficace e va preso in considerazione, ché in effetto le coincidenze tra i due pensatori ci sono. Vašek apre un problema, che per lui tuttavia è una specie di vaso di Pandora, il cui contenuto si scatenerebbe non già sulla storia della filosofia ma su Heidegger e sugli heideggeriani, heideggeriani ch’egli fa passare a un dipresso come una sètta. Postoché ciò sia vero, gli antiheideggeriani in moltissimi casi a me paiono somigliare invece a una cosca, con tanto di picciotti pronti alle mani e alle armi contro chi osi contestare la loro lettura – politica morale e anche filosofica – di Heidegger. Esemplare è il caso d’una accanita arcinemica e diffamatrice di Heidegger e degli heideggeriani (che la ignoravano fino a quando ella non si mise a strepitare sui giornali, portando quindi la discussione dal parrucchiere). Smentita più e più volte, la studiosa non si è ancòra data per vinta, seguitando a collezionare magrissime figure. Altro difetto del lavoro di Vašek è la tendenza alla ripetizione. Se tuttavia talora essa riesce molesta, altre è invece utile poiché certi concetti e osservazioni meritano di essere ripigliati. Nondimeno, stupisco constatando che aver più volte ribadito, oltre alle simiglianze, anche le differenze tra i due pensatori, non porta Vašek a essere conseguente, sicché il libro è composto solo delle prime. Ma Vašek si spinge ben oltre, ché, ringalluzzito dalle sue “scoperte” sciorinate nelle duecento e cinquanta pagine precedenti, a metà della quinta e ultima parte del lavoro si inoltra nel tentativo di dimostrare un altro esproprio heideggeriano, questa volta ai danni di Franz Rosenzweig e in ispecie della sua opera principale, Die Stern der Erlösung («La stella della redenzione»). Un altro ebreo al quale rubare, quindi. In apparenza (forse la parola chiave del libro…) Thomas Vašek dà l’impressione di sapere adoperare la vanga come pochi altri, tanto scava scava scava nei testi heideggeriani e in Michelstaedter. Ma giunto su certi terreni si limita a passare oltre, al massimo sollevando un po’ di polvere, per ritornare su d’uno più congeniale (in apparenza…). Egli infatti solo indirettamente dice che a unire Heidegger e Michelstaedter oltre all’aria che si respirava in Europa nei primi decenni del XX secolo, vi sono anche profonde conoscenze storico-filosofiche, in ispecie la Greciantica dei Presocratici, di Platone e Artistotile, tre momenti del pensiero occidentale conosciuti e da Heidegger, e da Michelstaedter come pochissimi altri. E questo trait d’union è il primo dato che, volendoci inoltrare in un raffronto tra i due pensatori, balza immediatamente allo sguardo di occhi sani e onesti, anche solo letteralmentescorrendo l’elenco delle loro opere o, al massimo, letteralmente sfogliando le pagine di queste. Vašek però non dà il benché minimo peso a questa giuntura. Indubbio merito, quantunque indiretto, da riconoscere a Vašek è d’aver accennato in modo da incuriosire parecchio al nome di Oskar Ewald, filosofo viennese, «fervente ammiratore di Michelstaedter» e «in contatto con Edmund Husserl» (p. 10). Ma Vašek lo brandisce come un’arma impropria ma difettosa. Infatti fa cilecca. Purtroppo di Ewald non c’è nemmeno mezza pagina tradotta in italiano e, per soprammercato, le sue opere, pubblicate oltre un secolo fa, non sono mai state ristampate, né in Germania né in Austria. Questo buco è davvero irritante, giacché dai pochi cenni di Vašek, Ewald dev’essere un di quei pensatori irregolari e anomali di notevole fecondità e forza. Ewald tuttavia ci pone un problema piuttosto pesante, su cui Vašek tace del tutto, ignoro se per gravissima distrazione ovvero con intenzione. Su quali basi Vasheck definisce Ewald «fervente ammiratore» del goriziano? Se – anche questo vedemmo – La persuasione e la rettorica fu vòlta in tedesco solo nel 1999 e storia e destino della versione d’Argia Cassini sono ignoti, come fu possibile a Ewald, ignaro della lingua italiana, leggere Michelstaedter? Si può ipotizzare, sulla scorta della ricostruzione di legami alle pagine 17 e seguenti, che Ewald abbia appreso di Michelstaedter da Husserl e da altri: ma può bastare qualche scambio di battute su chicchessia a farne di qualcuno «fervente ammiratore»? Possiamo a esempio noi dopo pochi cenni su Ewald dichiararcene tali? Direi di no.  Se invece Ewald, per ipotesi, lesse la traduzione d’Argia, data la suddetta catena di sant’Antonio ricostruita da Vašek, è probabile che anche Heidegger l’abbia letta. Ma di questa traduzione noi non si sa null’altro fuorché la sua esistenza, ciò che è insufficiente a determinare alcunché. Inoltre – ed è un dettaglio a mio giudizio cruciale – la traduzione di Argia Cassini si trova attualmente nel Fondo Carlo Michelstaedter di Gorizia. Un dato che ci obbliga a domandarci: se è ben possibile che essa traduzione abbia a un certo momento intrapreso in viaggio tra Austria e Germania, è probabile che poi sia ritornata a Gorizia, sia sopravvissuta allo sfacelo della Seconda guerra mondiale e sia di poi stata messa al sicuro tra le carte del filosofo goriziano ancòra semisconosciuto? (Il vero “lancio” avverrà soprattutto nel 1958, quando l’amico – si fa per dire – Gaetano Chiavacci pubblicherà una scelta delle opere e delle lettere, censurate, del Goriziano per Sansoni). La risposta più ovvia mi pare questa: quella traduzione non è mai escita da Gorizia e attualmente non resulta che alcun attore di questa storia abbia intrapreso un viaggio a Gorizia, nemmeno Ewald che, essendo cittadino austroungarico, bazzicava non molto distante dalla città friulana. Resto tuttavia aperto a proficue e documentate smentite. C’è ancòra un altro dato cruciale di che tener conto. Lo abbiamo anche questo accennato: Argia tradusse solo «La persuasione», o sia pochissime pagine. Ora, ipotizziamo che codesta traduzione abbia fatto il giro delle sette chiese d’Austria e Germania (lo ritengo improbabile, ma transeat) e che quindi sia giunta nella mani di Heidegger, com’è possibile trovare, come pretende Vašek, delle cogenti simiglianze e identità tra il pensiero heideggeriano del «Si» (man) e la rettorica michelstaedteriana? È realistico pensare che l’espropriazione sia dovuta solo ai racconti orali della catena di sant’Antonio? A me non pare sostenibile alcunché di siffatto. Chiediamoci inoltre: se uno dei tramiti tra Michelstaedter e Heidegger, giusta il tentativo di ricostruzione della catena di sant’Antonio di Vašek, fu Husserl, è realistico che questi non abbia giammai evocato il pensatore goriziano allorché si lamenta pubblicamente della deviazione, addirittura del tradimento perpetrato da Heidegger, a petto dell’impostazione fenomenologica originaria, in Essere e tempo? Inoltre: è credibile che, come allude Vašek per tutto il libro, e sin dal titolo originale, la mole enorme degli scritti heideggeriani derivi da Michelstaedter? Amo e leggo Michelstaedter da trent’anni esatti, ma nemmeno da briaco riuscirei a sostenere che l’opera di Heidegger, dalle prime lezioni della fine degli anni Venti, insino – come minino – ai lavori postbellici, sia un’espropriazione da «La persuasione», né da altri scritti michelstaedteriani. Vašek commette anche un errore filosofico madornale ed è anche questo – oltre al patente pregiudizio “razziale” politico e ideologico – a condurlo sulla via sbagliata della sua lettura di Heidegger. Egli infatti scrive che Essere e tempo non tratta «principalmente della questione dell’essere, bensì dell’idea di rinascita o di trasformazione dell’uomo, che è stata influenzata da una certa “letteratura del risveglio” dopo la Prima guerra mondiale» (p. 10). Insomma, la solita tesi dello Heidegger esistenzialista. Oltre a essere una tesi vecchia come il cucco è anche imprecisa, soprattutto se detta così. Ritenere che la questione dell’essere non abbia strettamente a che fare con la trasformazione individuale, e viceversa, significa maneggiare poco e male non solo Heidegger ma in generale la filosofia. Inoltre questa lettura contraddice in maniera brusca la tesi principale di Vašek, o sia l’espropriazione da parte di Heidegger ai danni di Michelstaedter. Il pensatore goriziano, infatti, è sempre stato collocato, per usare una bellissima espressione di Camillo Pellizzi, tra gli «spiriti della vigilia», cioè a dire tra coloro i quali chiedevano, ciascuno more suo, un cambio di passo, una metánoia, una palingenesi – individuale ovvero collettiva, qui non conta trattarne – per lumeggiare e fronteggiare i rivolgimenti politici sociali e culturali avviati a cavaliere tra XIX e XX secolo, e che avrebbero avuto il loro primo banco di prova nella grande massacro della primo conflitto mondiale. Michelstaedter è, secondo molti, tra quanti intercettarono i movimenti tellurici ctonii preludenti la guerra e si posero in gioco. Inoltre Michelstaedter – ciò che viene assai poco ricordato – era cittadino di quell’Impero che già agli inizi del secolo scorso iniziava a dare vistosi segnali di cedimento. Anche Heidegger, coetaneo di Michelstaedter (1889), sentiva l’aria, pur da diversa prospettiva, anzitutto geograficamente diversa. Ma era anch’egli un cittadino d’Europa e mosse i suoi primi passi filosofici consapevole della necessità di una trasformazione, di una epistrofé. Heidegger e Michelstaedter, per essere sbrigativi, respirarono lo stesso clima, come ho già detto. È inaccettabile quindi attribuire al pensiero heideggeriano (parziale, parzialissimo!) un’aura non dissimile a quella del pensiero michelstaedteriano ma al contempo tacciare il pensatore tedesco di Enteignung. Amenoché Vašek non ignori del tutto la biografia di Carlo Michelstaedter. Insomma, come lo giri lo studio di Thomas Vašek non sta in piedi. Voglio riservare un ulteriore appunto ancòra al traduttore, che per i passi da Sein und Zeit, si avvale esclusivamente della versione Chiodi-Volpi e ignora quella di Alfredo Marini, non esente da difetti ma senz’altro più fondata e corretta dell’altra, anche sotto il riguardo della semplice comprensione grammaticale del tedesco. Per replicare si può ipotizzare che la versione classica di Pietro Chiodi sia ancòra la più accreditata e quindi utilizzata, anche se è un’affermazione discutibile. Nondimeno essa coinvolgerebbe la sola versione di Chiodi e non quella di Chiodi e Volpi. Si tratta certo di legittime scelte soggettive: forse un po’ troppo soggettive. * * * Il libro di Lucrezia Fava su Heidegger e la Gnosi, graziaddio, presenta molti meno problemi e quelli che ci sono, vanno imputati a personali scelte ermeneutiche e non a qualche basso sentimento o alla volontà di attirare l’attenzione. La vera magagna dell’opera, che forse può guastarla del tutto, è l’assenza del cruciale riferimento ai concetti di Nichts e di Nichtigkeit, senza i quali ogni comprensione di Heidegger è preclusa. Essi sono condensati per lo più nella celebre conferenza Che cos’è metafisica? Ritengo che Lucrezia Fava non abbia aggirato il problema volontariamente, o almeno spero, ma sia stata, per quanto assai grave, solo una svista. Certo gli è che introducendo il nulla/niente nella sua tesi sulla gnosi heideggeriana, l’impianto avrebbe fortemente traballato minacciando di crollare sul suo pur abile e originale architetto. Ma sarebbe stato il caso di osare, anche a costo di revocare in dubbio o addirittura in un… niente tutti i fondamenti dell’indagine. Un esito assai preferibile per non indurre qualcuno a giudicare Heidegger e la Gnosiun ennesimo tassello di quello strano mosaico cui siamo avvezzi ormai da tempo immemorabile. Quando si ha difficoltà a definire un pensatore o un’idea, ma lo si vuole fare a tutti i costi, oppure quando si vogliano tentare altre vie dalle già battute e cieche, spesso si finisce per definirlo gnostico. Del tutto assente dall’indagine di Lucrezia Fava è la storia, quindi la biografia. C’è un fuggevole cenno a probabili conoscenze da parte di Heidegger di testi gnostici e alla vicinanza con Rudolf Bultmann (un altro gnostico?), ma niente di più. Ora, che Heidegger, quale persona colta come lo erano a quell’epoca tutti in certi ambienti, abbia conosciuti i principii dell’antica Gnosi, nessuno può metterlo in dubbio. Ma non ci sono riferimenti né impliciti né espliciti nelle sue opere al pensiero della Gnosi storica (a meno che non mi sia sfuggito qualcosa). E non essendoci alcun riferimento testuale, fosse pure epistolare, anziché procedere tout court a un accostamento, già di per sé problematico, bisognerebbe avanti a tutto pensare alle ragioni –storiche filosofiche psicologiche – di questa eventuale corrispondenza. Postoché Lucrezia Fava abbia visto un aspetto del pensiero heideggeriano con lucidità e verità (per quanto con l’aiuto esplicito di Hans Jonas), ella non si domanda mai donde derivi tale corrispondenza. E questa indagine, si capisce, è rigorosamente obbligatoria. C’è un ulteriore inciampo in Heidegger e la Gnosi, e non dappoco, ed è indurre a credere qualche lettore impaziente – e Dio sa quanti ce ne sono – che il pensiero di Martin Heidegger cada in un calderone sbrigativamente definito «irrazionalista», che costella la storia dell’uomo sotto diversi abiti da tempo immemorabile. Ma mentre in epoca antica e financo in svolti più recenti e in individui considerati “perdonabili” (si pensi, per esempio, al Romanticismo o a Hölderlin), l’irrazionalismo è accettato, esso – si dice – non può più avere diritto di cittadinanza nell’èra della scienza e della tecnica, questa nuova èra metafisica che stiamo vivendo, e delle superstiti istanze politiche. Heidegger dové già scontare l’accusa di misticismo e di irrazionalismo dopo la così detta Kehre, la svolta, come si sa e come ben riassume Hans Georg Gadamer nei Sentieri di Heidegger (Marietti 1987, pp. XV-XVI). L’accusa era evidentemente pregiudiziale, spinta sia dall’«ondata di nuovo illuminismo» (io avrei detto più tosto neopositivismo), sia dall’«ossessione social-rivoluzionaria», come lì scrive Gadamer, e ben pochi, ancòra oggi, si sono levàti dalla zucca una simile rappresentazione farlocca. A meno che Lucrezia Fava non creda, anche lei in senso squalificante, a uno Heidegger davvero irrazionalista, allora mettere in circolazione simili raffronti, senza opportune premesse, può costituire un errore sia di metodo, sia strettamente filosofico. Ricordiamo a margine l’intelligente osservazione di Medard Boss:  > «Sono numerosi i derisori, che ritengono il “tardo” Heidegger soltanto un > poeta o un mistico, che avrebbe da lungo tempo abbandonato il terreno di una > “filosofia scientifica”. Tuttavia, in primo luogo, tali spiriti della > superficialità non vedono che quello “più tardo” non si è affatto separato dal > “primo” Heidegger (…). Il pensiero di Heidegger pensa sempre il medesimo del > medesimo (…). In secondo luogo, i Suoi critici tralasciano di confrontare la > rigorosa adeguatezza del Suo primo e tardo pensiero a quanto detto, dunque la > sua “obiettività”, nel senso supremo di questo termine, con la rigogliosa e > oscura magia, che domina completamente tante rappresentazioni della scienza > moderna». > > (Lettera di Medard Boss ad Heidegger, in M. Heidegger, Seminari di Zollikon, > Guida 1991, p. 411; traduzione lievemente modificata e corsivi miei) La tesi di Lucrezia Fava è dunque parecchio spericolata. E aggiungo ch’essa, almeno così come la declina l’autrice, non conduce in alcundove e, anzi, allontana dall’obbiettivo heideggeriano principe. In questa analisi dov’è infatti l’Essere? In altri termini: che cosa se ne fa il lettore di un’analisi in opposizione alla filosofia come la intende Heidegger sin dai primordi del suo pensiero? Lucrezia Fava (ma anche Thomas Vašek con sgradevoli aggravanti) ci ripiomba in quelle metodologie che lo stesso Heidegger voleva superare, in quella forma mentis di ostacolo al “progetto” heideggeriano non solo di dire e di pensare altrimenti a petto della tradizione e delle consuetudini, ma anche di essere altrimenti. Ma questo è forse impossibile a recepirsi da parte di chi legge i filosofi e certi filosofi in particolare come oggetti di indagine, eventualmente di carriera. Heidegger spende gran parte della sua vita a mettere in guardia da questo genere di mentalità esiziale ed ecco sopraggiungere ancòra dopo plurimi decenni imperturbati studiosi, i quali, credendo di fargli i complimeti, gli intonano l’ennesimo Requiem. Heidegger diventa l’ennesimo oggetto di studio, e non resta quale, giustissimamente, lo hanno definito Safranski e decine di suoi allievi e lettori postumi: «ein Meister aus Deutschland», un maestro tedesco, o sia un maestro tout court, del pensiero ateoretico e rigorosamente pratico, filosofia incarnata o sia filosofia, per dirla con Hadot, quale esercizio spirituale, e quindi pratico. Heidegger trattato alla stregua d’un Popper o d’un Kant, che neppure se lo meritano, cioè alla stregua d’un “qualsiasi” filosofo. Ciò significa anestetizzare, neutralizzare Heidegger, il quale, saviamente, mise in guardia dal commentare i suoi lavori. Parlò, ahimè come al solito, a vuoto, ai vuoti. Luca Bistolfi L'articolo Neutralizzare Heidegger. Sui tentativi (più o meno goffi) di fare di un maestro un mero “oggetto di studio” proviene da Pangea.
May 27, 2025 / Pangea
La frode, ovvero: la scoperta di un falso Goethe da parte di Vittorio Mathieu
Già Anacleto Verrecchia mi avvertiva di prestare attenzione «a quel Mefistofele di Vittorio», amico d’una vita, che tra l’altro gli aveva accompagnati i suoi Cieli d’Italia (poi La batracomachia di Bayreuth, versione ampliata), spassosissima raccolta di narrazioni erudite. «Macché Mefistofele», aggiungeva il satiro vegliardo, ripensandoci, «Vittorio ne sa una più del demonio!». Quanta ragione aveva. Di Mathieu leggevo da giovanissimo, con gusto e profitto, alcuni interventi sul «Giornale» post-montanelliano, e ne ricordavo uno con particolare piacere, da cui Romano Prodi usciva lordo e in pezzi a causa di alcuni comportamenti osservati de visu da Mathieu stesso. Per quanto tuttavia preparato all’effetto perturbatore delle sue pagine, non potetti reprimere una vertigine di sbigottimento leggendo, nel Goethe e il suo diavolo custode, uscito con Adelphi nel 2002, l’accenno a un’ipotesi tellurica, ripresa e compiutamente sviluppata ed esposta dodici anni appresso, nel 2014, in Una frode inaudita ai danni di Goethe (Marcovalerio), che adesso incontriamo. Secondo lo studioso, La vocazione – o missione – teatrale di Wilhelm Meister (da qui in avanti: Sendung, come suona la parola chiave dell’originale), accolta da tutta la critica con grandi festeggiamenti quando solo nel 1910 se ne trovò il testo fino a quel momento sconosciuto, e che sarebbe il prodromo, o sia germe del capolavoro Wilhelm Meisters Lehrjahre (Gli anni di apprendistato di W. M.), ebbene questa Sendung sarebbe niente di meno che un falso. Mathieu non scherza, non sta provocando, né ha solo vaghi sospetti: egli invece procede sicuro, ben protetto da uno spesso muraglione di prove estetiche cronologiche filologiche e biografiche, tutte edificate su alacri e attente ricerche in documenti e biblioteche. La Frode è un’opera per specialisti perché entra nei dettagli della biografia goethiana, della storia culturale e sociale di luoghi e tempi lontani, della lingua tedesca e della tessitura dei due romanzi, ma non c’è un solo momento di noia o inaccostabile. Non voglio guastare il piacere della scoperta, e d’altro canto sarebbe difficile descrivere in relativamente poco spazio anche solo buona parte dei nodi, taluni complessi, che compongono la fitta trama della tesi. Per stuzzicare il lettore, basterà evocarne alcuni momenti, in ordine sparso. Anzitutto, lo stile della Sendung, è assai distante da tutta la restante opera goethiana, bensì cangiante negli anni ma sempre riconoscibile per un orecchio allenato. Notizie sull’abbigliamento del protagonista e di natura tipografica s’affiancano alle osservazioni, edificate sulla biografia, circa Mignon, centrale nei Lehrjahre. E ancòra, aleggia nella Sendung un moralismo che fu sempre del tutto estraneo a Goethe, il quale, aggiungo io in parentesi, séguita, ahilui e ahinoi, a portarsi appresso un’aura assai differente da quella reale e trabocchevole, che riescirebbe se solo si studiassero con un poco d’attenzione sia l’opera, sia le lettere, sia la vita, e magari anche le testimonianze di chi lo conobbe e frequentò. Se ci fu uno spregiudicato senza eccessi, questi fu proprio Goethe. Di poi, il colore smorto e l’afror di sagrestia spingono Mathieu a intercettare l’officina in cui venne fabbricata la contraffazione nel circolo bigotteggiante di Lavater, il padre della moderna fisiognomica, col quale Goethe fu legato da una stima e un’amicizia, che però a un certo punto dovettero dileguare e tramutarsi in qualcosa d’altro. La scoperta di Mathieu, va aggiunto per chi fosse poco avvezzo alla lettura di Goethe, è dirompente poiché, oltre a tutto, investe uno scorcio cruciale del percorso goethiano, i cui Lehrjahre non solo fondano un genere nella modernità, il Bildungsroman, ma stanno nel novero delle opere cui Goethe dedicò più tempo e fatiche, e che ha implicazioni di natura sociale e politica, nonché biografiche, rilevantissime, oltre ovviamente alle letterarie, e che segnò la vita di parecchi intellettuali di lingua tedesca. C’è notoriamente chi giunse a dire che i Lehrjahrecostituivano l’evento epocale insieme alla Dottrina della scienza di Fichte e alla Rivoluzione francese. Si potrebbe giungere persino a dire senza troppo temere di pigliare uno scivolone, che Wilhelm Meister è senz’altro la figura goethiana più importante dopo Faust, superando per vastità d’intenti anche quella di Werther, la quale tuttavia è molto, molto più di ciò che per il solito viene spacciata: e anche su questo Mathieu ha parecchio di istruttivo da proporre nel titolo adelphiano. Ho svolti alcuni semplici controlli per confermare ciò che già temevo e anzi divinavo circa l’accoglienza ricevuta dal libro di Mathieu presso la germanistica italiana e in generale presso la critica e la storiografia letterarie. Come prevedevo, ho trovata solo una catena montuosa di silenzio. Codesto silenzio non si può certo imputare alla ridotte dimensioni dell’editore, buona scusante per esser sfuggito, dacché esse sono ampiamente compensate sia dalla rinomanza dell’autore, soprattutto in àmbito accademico, sia dal fatto che, come accennavo, il primo lancio della tesi avvenne in un libro d’una delle case editrici, italiane e non solo, più seguíte e che peraltro cinque anni avanti, 1997, aveva pubblicato lo straordinario Goethe e i suoi editori di Siegfried Unseld, direttore della Suhrkamp, una delle principali case editrici di lingua tedesca. Temo sia del tutto inverosimile che agli studiosi sia sfuggito Goethe e il suo diavolo custode, oppure bisogna pensare a una lettura assai superficiale. Insomma, tutte le faticose e lunghe indagini condotte da Mathieu e l’esposizione d’una ipotesi così rivoluzionaria, e per la biografia goethiana, e per la storia culturale europea, sono rimaste senza eco alcuna. Non è la prima volta, né sarà l’ultima, in cui i padroni del discorso, insieme alle schiere dei loro subalterni e tirapiedi, ignorano o rifiutano d’interessarsi a studii che potrebbero incrinare la loro immagine d’un autore, ben propalata e imposta a generazioni di studenti e liberi lettori. Ma soprattutto procurerebbe loro una figura da cioccolatai poiché significherebbe che in un intiero secolo di (presunto) lavoro di convegni lezioni conferenze libri riunioni telefonate viaggi e via elencando, le migliaia di professori non si sono mai accorti di quella patente contraffazione, messa invece in luce da uno studioso ufficialmente estraneo agli studi goethiani e alla germanistica. Gli opliti e i sacerdoti dell’accademia, al contrario, fanno sempre a gara per allungare le zampe sulla Sendung con una introduzione o un articolo e così annettere il proprio nome al sensazionale ritrovamento, fosse pure cinquanta o cent’anni appresso. Da noi il principe di questi segugi con la sinusite cronica è, nemmeno a dirlo, Italo Alighiero Chiusano, che già sistemo nel mio intervento sulle biografie di Goethe pubblicato su questa rivista. Né nella introduzione alla Sendung per Rizzoli nel 1994, né altrove, Chiusano si fa sfiorare almeno dal dubbio che l’opera possa essere, se non un totale falso, almeno un’anomalia nel corpus letterario goethiano. Ben al contrario, la definisce «un’altra perla nella collana del romanzo europeo», un «capolavoro» e un’«autentica opera d’arte». Per difendere ed esaltare la camorra universitaria, egli scrive altresì che il romanzo fu «rapidamente acquisito (…) per la sensibilità critica del mondo intero». Se Chiusano non fosse un riverito barone accademico, si dovrebbe pensare a un comico provetto. Invero l’unica cosa che fece la «sensibilità critica del monto intero» fu di cadere nel sacco. A partire dalla pubblicazione della Sendung l’anno appresso il suo presunto rinvenimento, tutti esultarono, compresi niente meno che Hofmannsthal ed Hermann Hesse, i quali tuttavia almeno dissero che i Lehrjahre erano senz’altro superiori al romanzo “ritrovato”, ciò che avrebbe dovuto suscitare interrogativi nella germanistica ma che invece restò lettera morta. Don Benedetto “Corleone” Croce, con la consueta boria, arrivò invece a dichiarare addirittura di preferire la Sendung ai Lehrjahre, ovviamente con le solite inoppugnabili e oracolari ragioni estetiche. Per intenderci, è come scambiare di ruolo un Notturno di John Field con un Notturno di Chopin, o una Cantata d’un qualsiasi Musikanten barocco con una Cantata di Bach. Con simili precursori era ben prevedibile che nessuno dei nostrani cavalieri della verità e della cultura si sarebbe posta qualche domanda, e che se anche avesse subodorato qualcosa, avrebbe tenuta la bocca chiusa: anche perché per dimostrare il falso avrebbero dovuto schiodare i deretani dalle sedie e rimboccarsi le maniche. Ma chi glielo avrebbe fatto fare? A parità di stipendio, è molto più comodo concionare anziché scavare negli archivi e studiare. Inoltre ciò avrebbe significato dare ragione a un anomalo della cultura italiana, benché docente universitario, e per giunta non specialista di germanistica. Il succitato silenzio, però, è un’ulteriore prova di quanto la tesi di Mathieu sia fondata. Se ne sia infatti sicuri: se egli avesse scritta una scempiaggine, lo avrebbero messo della pubblica gogna. A ogni buon conto, a noi non deve importare troppo la genia di codesti guastacervelli, ma invece assai di poter accedere a una tesi rivoluzionaria, per giunta ben scritta, e di aggiungere una decisiva pagina alla biografia di Goethe. Bisogna inoltre considerare quanto il lavoro di Mathieu sia d’esempio a chi voglia impegnarsi con serietà e acribia nella ricerca storico-biografica: un cammino aspro ma che, se percorso con diligenza e passione, può condurre molto, molto lontano. Quasi come Wilhelm Meister. Luca Bistolfi *In copertina: Goethe contraffatto da Andy Warhol, 1982  L'articolo La frode, ovvero: la scoperta di un falso Goethe da parte di Vittorio Mathieu proviene da Pangea.
April 2, 2025 / Pangea