Tag - Musica

“Detto da un sedicente artista è grave…” Il Canone Godano della letteratura universale
Per qualche tempo abbiamo duellato a colpi di WhatsApp. La discussione, impennata verso gli impossibili, deragliò quasi subito: gli domandai dell’anima, dell’eternità, del senso dell’arte, di Dio e dell’addio. Cristiano Godano ha pubblicato undici album con i Marlene Kuntz e quattro libri: il primo, I vivi (Rizzoli, 2008) è una raccolta di racconti; l’ultimo, Il suono della rabbia (il Saggiatore, 2024) è una raccolta di “Pensieri sulla musica e il mondo”. Nel suo terzo libro, Nuotando nell’aria (La nave di Teseo, 2019), che sviscera “35 canzoni dei Marlene Kuntz”, Godano racconta di aver scoperto Vladimir Nabokov, il suo scrittore-idolo, “all’epoca di Catartica”, quell’album memorabile – “generazionale” come dicono gli studiosi – uscito nel 1994. Godano compiva ventotto anni, il disco era prodotto dal Consorzio Produttori Indipendenti di Gianni Maroccolo, Zamboni+Ferretti etc. e io imparavo a giocare a calcio guardando Roberto Baggio, il Bodhisattva del pallone, evangelizzare i mondiali americani.  Da lì nasce il nostro incontro. Da Vladimir Nabokov – per me, il conte Vlad della letteratura occidentale, il sommo vampiro: lo leggi e ti dissangua. Così, con Godano ci inoltriamo nei meandri di Fuoco pallido, il libro più estremo, estenuato di Nabokov; entrambi eleggiamo Intransigenze – la raccolta di corrosive e corroboranti interviste nabokoviane – a libro-totem. Insomma, diamo dimostrazione che anche WhatsApp, altrimenti umana camera degli orrori, di sbandierate banalità, può essere qualcosa di non troppo dissimile dal Fedone o da Macbeth. Entrambi – credo – crediamo che ogni verità vada temprata distruggendola; che occorra il coraggio di spogliarsi di ogni convinzione. Fare di sé il vento e il lupo, la pula e il pullulare di ululati.  Credo, piuttosto, che Cristiano Godano sia uno dei rari cantautori italiani – per un sano senso della sprezzatura e dello snobismo – non inquadrabile in schemi, non liquidabile in teoremi. Rifugge dai cliché della rockstar; ha in odio le grige manie degli ‘alternativi’ che – ormai altro da sé – fanno reddito con la malinconia, con l’epopea della giovinezza trascorsa. Gli album ‘in solitaria’ – Mi ero perso il cuore, 2020; Stammi accanto, 2025 – dicono di un artista che non si placa, inappagato, implacabile soprattutto verso se stesso, che ha imparato la voluttà di non piacere ai più. Chi è cresciuto ascoltando i Marlene Kuntz nella fetida periferia torinese, nei lividi Novanta – “Mi piacerebbe sai, sentirti piangere/ anche una lacrima, per pochi attimi” – sa che la sola speranza è spezzarsi, che la sola vita è precipitare.  Nel libro Nuotando nell’aria, Godano cita Borges e Rimbaud, Keats e Dostoevskij, scrive per trenta volte la parola “poesia” (molte più volte della parola “sesso”) e per ventisette volte la parola “poeta”; in venti circostanze appare Nick Cave, il suo prediletto. A chi gli dà del poeta, però, Godano risponde, perentorio, che “l’autore di testi per canzoni non è un poeta”, semmai “è potenzialmente un poeta mancato”. Fine della discussione.  A volte, Godano sembra decorarsi con le pose da doge del nulla: gli piace ripetere che deriviamo dai vermi e dai pesci, che l’uomo è un incidente di percorso nell’esistenza terrena, che la vita è spietata, che l’intelligenza è un sovrappiù di sfiga perché ci obbliga a indugiare sul dolore, che infine l’arte è niente. Che tutto, in fondo, finirà e nessun dio ci attende a bocca aperta negli altri mondi. Tutte cose che si sanno, che insaporiscono il discutere di zuccherine oscurità. In fondo, si ascolta una canzone per liquefarsi in un regno ulteriore della mente; in fondo, chi scrive una canzone è già al di là di questo mondo – che si dica salvezza, che si dica disperazione, che importa.  Se ti dico la parola “poesia” cosa ti viene in mente? La famosa definizione di Paul Valéry sulla poesia (“La poesia è una lunga esitazione fra il suono e il significato”) mi è sempre piaciuta al punto da lasciarmene condizionare irrimediabilmente. Ed è ciò che mi sovviene ora a seguito della tua domanda. So che questo inizio di risposta è connesso alle specifiche necessità del creatore di versi più che al lettore, e immagino che solo un lettore molto allenato e consapevole possa avere una tale consapevolezza raffinata comprendendo la complessità del fare poesia. Dunque il lettore attento sa che la poesia ha un ritmo e ha un suono, e anche di questo gode leggendo, mentre il lettore meno strutturato ed esperto basa il suo gradimento principalmente sulle emozioni di natura sentimentale. Senza voler qua demonizzare questo tipo di emozioni, penso che si collochino a un livello inferiore nella scala del giudizio. Io, come lettore, dichiaro la mia non robusta frequentazione del genere: le leggo principalmente quando sono nel processo creativo per fare un disco nuovo, poiché in quel caso la contiguità del mio far versi per canzone con le esigenze del poeta nel suo verseggiare mi aiuta a connettermi con la specificità di ciò che sto per affrontare.  Penso che si è ottimi lettori di poesia quando si è dotati di immaginazione: a volte a me sembra di non averne a sufficienza. Detto da un sedicente artista è grave, lo so. Nel tuo discutere e nei tuoi pezzi citi, tra i tanti, Borges (adoratissimo da Mick Jagger, per altro…), Baudelaire, Rimbaud, Gozzano, Montale… Viene fuori una specie di “Contro-Canone Godano” della letteratura. Proviamo a redigerlo una volta per tutte? Citami dieci libri che in qualche modo hanno orientato la tua vita – e perché. Se la domanda è “i libri che hanno orientato la tua vita” sono spinto a nominare anche le opere non di finzione che sono state per me importanti. Premettendo che la più parte delle cose che ho letto è stata da me un po’ dimenticata, sto guardando in questo momento i miei libri (una parte, per lo meno) per cercare la risposta adatta; noto che molti di essi mi dicono “sì, mi leggesti tempo addietro”, e posso nominare: Lolita di Nabokov (letto due volte), Intransigenze di Nabokov (l’ho letto e riletto più volte), Fuoco pallido di Nabokov (letto due volte), La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda (libro straziante), Fratello cicala di John Updike (una raccolta di racconti: mi approcciai a lui con questo libro, non certo il suo più famoso: rimasi incantato dalle qualità estetiche della sua scrittura), due o tre opere di Shakespeare contenute nello stesso libro dei ‘Meridiani’ (non importa quali: è la lettura di Shakespeare in sé che mi estasiò), Odile di Raymond Queneau (ero catturato dalle stranezze dell’Oulipo e dai tentativi di commistione matematica-letteratura), Scritti sull’artedi Paul Valéry (raccolta di micro-saggi che influenzarono molto il mio pensiero in costruzione), Sulla poesia di Eugenio Montale (raccolta di micro-saggi, idem come per Valéry), alcuni racconti e le poesie di Borges (raccolti anch’essi nei ‘Meridiani’: mi affascinavano i labirinti di Borges, ma anche le qualità riflessivo-filosofiche della sua poesia), Nera schiena del tempo di Javier Marías (ricordo che mi catturò molto: ero immerso in qualche processo creativo per un disco dei Marlene). C’è poi – lo abbiamo capito mentre compulsavi il tuo “canone” privato – la conclamata passione per Nabokov. Da dove nasce e perché è per te fonte di ispirazione?  La mia passione per lui nasce con la lettura di Lolita e, subito dopo, con quella di Intransigenze, spassosa e serissima al contempo raccolta di interviste che rilasciò soprattutto dopo il successo di Lolita. Intransigenze fu un magnifico regalo che mi fece colei che sarebbe diventata la mamma di mio figlio: se già Lolita mi aveva appassionato per via di uno stile che recepii immediatamente e del tutto istintivamente come magnifico, con Intransigenze mi addentrai nell’abbagliante personalità di Nabokov, innamorandomene. Penso che Nabokov sia il classico caso di “o lo ami o lo odi”: non tutti amerebbero sentire uno scrittore sbeffeggiare Dostoevskij o Faulkner o Thomas Mann o Balzac, per dire… Ammetto di essere affascinato dalla forza tonitruante di certe opinioni: ci vuole coraggio ad averle, e lui aveva coraggio da vendere. I libri fondamentali per me, sottolineando che non ho letto Ada (lo temo!) e altri tre o quattro, sono Lolita, Fuoco pallido, Invito a una decapitazione, Il dono, Parla ricordo, La vera vita di Sebastian Knight. E Pnin, per ridere tanto.  Il mondo rigurgita di orrori. Un manipolo di vecchi si sta bombardando con una violenza equiparata alla vile scaltrezza. Che senso ha fare arte, allora? Che senso ha la ‘bellezza’? Siamo in un momento esacerbato, e cieco, e sordo: polarizzati e sempre più incazzati vediamo il bianco o il nero e non siamo più disposti a comprendere le sfumature, quelle che la tanto vituperata democrazia ci aveva insegnato con la sua inevitabile pazienza, che non c’è più. L’arte temo possa fare poco. O perlomeno: a livello individuale può fare tantissimo (io ad esempio spero che non manchi molto al mio rifugiarmi in essa per fuggire dallo schifo intorno), ma a livello di possibilità di ergersi a barriera del deragliamento temo di no, che non possa farcela. Rileggo meglio la tua domanda: “che senso ha fare arte?” Beh, come minimo può aiutare chi la fa a sganciarsi da questo pessimo mondo: è una condizione a cui, come ho detto qua sopra, idealmente ambisco. Non so se ci riuscirò: è un auspicio.  Nel tuo ultimo album, Stammi accanto, intuisco, consapevole o meno, una qualche ricerca del sacro, un andare verso l’altro, l’oltre. È così? Siamo solo pappa per vermi? Cosa resta di ciò che abbiamo fatto, vissuto, scritto? Ci dev’essere qualche contraddizione in me, perché spesso mi si fa notare che nonostante tutte le mie tiritere pessimiste i miei testi palesano una spiritualità di qualche tipo, o ricerca del sacro, come dici tu… Forse quando solletico il mio afflato scateno qualcosa dentro di me che lotta in sottotraccia per non farsi vessare dal raziocinio: una latenza pronta a farsi viva quando ritiene utile… O è semplicemente la mia parte più vera, che non sa arrendersi nonostante tutto alla dialettica stringente della ragione. Non so che dire: in Stammi accantoc’è una canzone, peraltro la mia preferita, che si chiama Cerco il nulla, dove mi pare di esprimere un non so che piuttosto lontano dal sacro. Ho solo 59 anni, tempo per vederci meglio e capirmi meglio ne ho ancora… *In copertina: Cristiano Godano nel ritratto fotografico di Antonio Viscido L'articolo “Detto da un sedicente artista è grave…” Il Canone Godano della letteratura universale proviene da Pangea.
November 6, 2025 / Pangea
“Le nostre sorti incatenate”. Lou Reed riscrive Edgar Allan Poe
Mi ero imbattuto nell’ultimo disco in studio di Lou Reed (“The Raven”), quasi scettico per l’operazione proposta ma fortemente incuriosito. Essendo sia amante di Poe e dei suoi racconti plumbei e angosciosi, sia di Lou Reed, fin dagli albori della sua carriera nei Velvet Underground, l’ho ascoltato con sincera attenzione e voluto approfondire comperando in edizione Minimum Fax i testi integrali del lavoro poetico di riscrittura di Poe, che prendono il medesimo nome e dell’album e della celeberrima lirica del maestro del gotico, per la traduzione di Riccardo Duranti.  Scriveva nell’introduzione lo stesso Lou Reed:  > “Nella mia mente Poe è il padre di William Burroughs e di Hubert Selby > (ricordiamo quest’ultimo, per chi non lo conoscesse, come una specie di Joyce > maledetto e metropolitano). Cerco sempre di adattare il loro sangue alle mie > melodie. Perché facciamo quello che non dovremmo fare? (con un occhio > al Demone della perversità). Perché amiamo quello che non possiamo avere? > Perché abbiamo sempre una gran passione per la cosa sbagliata? E che cosa > intendiamo per ‘sbagliato’?… Mi sono innamorato ancora una volta di Poe e > quando mi si è presentata l’opportunità di riportarlo in vita attraverso > parole e musica – testo e danza – be’ (suggestione diabolica di vanità > autoriale?, ci chiediamo), l’ho afferrata al volo: come farebbe un rottweiler > con un osso sanguinolento. L’ho riletto e poi recitato ad alta voce e per la > prima volta ho capito Il cuore rivelatore…” Omettendo di dare uno sguardo ravvicinato all’album e alle prestigiose collaborazioni, soprattutto nei recitati, di artisti di grande calibro tra i quali William Dafoe, Steve Buscemi, Fisher Stevens, Amanda Plummer, possiamo senz’altro approcciare uno dei passaggi più significativi, a nostro modo di vedere, della preziosa versione integrale cartacea delle riscritture di Lou Reed presso i gangli più significativi dell’opera di Poe.  Prenderemo infatti in esame, principalmente, la riscrittura magnifica del racconto dal titolo Hop-Frog (il nano buffone di corte). Va detto, a giusta premessa, che Lou Reed raggiunge qui, ma anche di più altrove, vette inedite di estro poetico e cura filologica nell’uso di una parola aulica e tale da vibrare di musica assecondando l’estetica stessa dell’autore di origine. L’inizio pare una litania quasi insignificante dal lato della consistenza contenutistica, offrendo una versione scanzonata del personaggio a cavallo tra la vita di corte e la sua natura “salterina” (esiste niente di più buffo e caricaturale del salto di una rana). Prosegue alzando l’asticella, con lo scritto dal titolo “Ogni ranocchio ha la sua giornata di riscossa”. Qui il re esorta Hop-Frog a procurargli gaiezza e riso chiamandolo “mellifluo principe dei buffoni” ed egli risponde con tono serio che la giornata presente “non è adatta a farsi una risata”, perché quel momento “sacro è per i tramonti reali” piuttosto che “per lo sbraco comico o il suicidio dei giullari”. Il re incalza, dicendo imperativamente che a decidere è lui e il suo “cagnolino” deve suscitare la sua ilarità, tracannando vino e assecondandolo durante la festa. Hop-Frog sa bene che il vino gli dà alla testa e cerca di aggirare l’ostacolo, ma il re insiste con nerbo e comando. Ed ecco comparire Tripitena (auratica creatura, dal nome sonoramente fittizio che evoca quasi una onomatopea, e ingegnosa rappresentazione di Musa meta-parnassiana che intuisce il valore dinamitardo dell’arte di Hop-Frog, al quale si rivolgerà più tardi amorevolmente, con disprezzo profondo per il re e la sua corte)… Attenzione che nella versione palesemente denigratoria di Lou Reed la corte intera compare come accolita di squallidi affaristi e faccendieri, quindi in chiave più moderna e maturamente capitalistica. Esattamente come, in simmetria, “Il verme conquistatore” appare come il protagonista di un “escrementizio” numero di Broadway in cui luci, paillettes e ballerine, nascondono il marcio di un ricco intrattenimento che ottunde la ragione e tradisce la sincerità, facendo di Poe stesso una caricatura da show. E dice Tripitena, attraverso un espediente che fa leva sulla vanità della corona: “Riservate, mio possente Sire/ a nemici più degni le vostre ire”. Il re non desiste e apostrofa malamente Hop-Frog ingiungendogli nuovamente di farlo ridere. Ma il re, dichiara Tripitena nel magnifico monologo che costruisce il musicista newyorchese, dovrebbe chiamarsi in realtà “orinale”, in bisticcio con la propria indiscussa autorità e senza mezzi termini di condanna. Hop-Frog, invece, nella sua visione troneggia su tutti, e la regale compagine appare come una accolita di scimmioni festanti. Tripitena dice di aver osservato il nano destinato a giganteggiare e che il suo valore supera ampiamente la sua natura di nano, ed è superiore alla sua pur vertiginosa ampiezza d’animo e alla profondità di pena interiore che la suggella. Le sue parole sono vibranti d’amore: >  “O reietto ostinato, non vedi la luce del nostro amore – le nostri sorti > incatenate – i nostri cuori fusi insieme in un fine merletto di fili d’oro > intrecciati?” Il re e la sua accolita di ruffiani ascoltano “la musica degli idioti” e i loro affari e faccende sono sordidi. Non sono né cose angeliche né appartenenti ad alcun superiore avamposto a cui sia degno aspirare. Il re-affarista è creatura misera e indegna, e i suoi consiglieri sono “decrepite caricature di erudizione guidata dall’avidità”. Come negare che allo stato attuale faccendieri e cultura ruffiana, adulatrice del potere, sono all’ordine delle cose? E allora serve “disordine”… Arriva quindi il suggerimento di Tripitena che raccoglie lo snodo centrale del racconto di origine: far travestire tutti da scimmioni, con la scusa di una burlesca messa in scena per il triviale divertimento di costoro, e poi dar fuoco alle loro pellicce. Perché se a questo mondo la giustizia e fuggevole, per una volta sia lecito ascoltare il “raglio e il pianto” del sovrano-affarista”. Devono, tutti costoro, solo impersonare gli scimmioni che già sono, con catene e ridicole sottane, e poi perire nel rogo che appiccherà il buffone di corte. Perché chi lo sottovaluta “prima o poi è destinato a trovare la verità sublime e a sdraiarsi vuoto sulla griglia di un disordine sistematico”.  È una grande dichiarazione di anarchia e sovvertimento, di disordine che deflagra come una forza annientatrice dello status quo, della sordida vita che perpetra se stessa grufolando nel fango del potere e nei suoi abusi, nella bassezza di un ordine babelico di vizio e sopruso, guadagno ed esercizio vessatorio di potere. Il finale del monologo è assai crudo e Tripitena dichiara a chiare lettere che gli “affaristi” non sono degni neanche di farsi defecare addosso.                                                          Prosegue il testo con una domanda di carattere quasi esistenzialista: “Chi sono?” Ed è ancora Tripitena a parlare: ella vede nello specchio il tempo che ha arato la sua pelle durante il corso della rievocazione bruciante dei ricordi d’amore legati a Hop-Frog, preda di una passione che vince la ragione e le sue leggi. E in aggiunta, dice, si pensa a ciò che avremmo voluto diventare, ma la realtà che si affronta dedica a questi slanci uno spazio così esiguo da svuotarli. Si chiede chi sia, Tripitena, e chi ha fatto le foreste, il cielo, la tempesta e persino il crepacuore, e quanta vita possa ancora ella sopportare. Perché sogna e insiste nel sognare e immaginare mondi inesistenti e vorrebbe non dover neanche respirare, librandosi in volo come un “magico putto”, baciando un serafino in fronte, risolvendo l’enigma della vita col tagliare a qualcuno la gola o strappandogli il cuore. Rivolgendosi al nano, dichiarato già di una statura che non fa il paio con quella del suo sembiante ma solo per essere infinitamente maggiore, sembra dichiarare di essere trapassata ma ancora viva nella fiamma ardente di un amore che memorie ormai opache non sono tali da celebrare per la sua possanza e urgenza. E se il suo amato si aggrapperà alle sue ginocchia, udendo ancora il battito del cuore (immagine di sanguigno vitalismo e non tarlo della coscienza), allora non sarà un errore il pensiero di stringere in pugno il passato ormai morto… Altrimenti perché ci sarebbe dato ricordare? Ella si domanda chi sia, mentre il mondo corre e pare seminarla e il ragazzo di un tempo è ormai in età senile; si chiede cosa il futuro ha da riservarle e chi sia stato a dare la scintilla di creazione a questo immenso teatro di vita… Forse un Dio innamorato che ha lambito in bacio qualcuno che gli ha invece riservato amaro tradimento… Cosicché “l’amore senza Dio” ci ha scacciato tutti. Il seguito è serrato e brachilogico, una successione breve che disegna il rogo macchinato dal nano. Egli propone alla Maestà e ai suoi ministri un ballo in costume. Il suo suggerimento fa leva sullo spirito goliardico e volgare del re, insinuando l’idea che la messa in scena spaventerebbe e genererebbe scompiglio, assecondando così l’eccentricità che si conviene a un sovrano che tutto può solo per comando. Il giullare vendicherà così molti torti e torturerà i potenti vedendoli bruciare a morte.                                                                                       È il rovesciamento della statura apparente, è il far leva sull’inconsistente idiozia e pecoreccia volgarità di una corte di viziosi arrampicatori senza nerbo né morale, per consegnar loro la tortura e il marchio di fuoco di una vendetta che ristabilisce un ordine che appare perduto dacché si ha memoria. Il più piccolo e deriso, il più insignificante e angariato, usa l’ingegno e l’astuzia per far cadere in trappola il re e i suoi ministri con la compiacenza della loro smania di gaudio e sollazzo. Le parole che Tripitena aveva dedicato a Hop-Frog erano delicate e disegnavano una filigrana aurea e splendente di amore votivo, avevano invece tuonato feroci e lapidarie contro gli affaristi di corte e il re che incarnava un potere volgare fatto solo di guadagno e pochezza.                                        La parte finale dei testi di Lou Reed merita anch’essa una menzione, quasi che fosse il naturale continuo di questo episodio di vendetta e sovvertimento di regole simili a pesanti catene, e un epifanico avvento di giustizia vera e ragione incoronata di virtù; anzi, la virtù è la vera assente nella compagine regale, dedita al sudicio esercizio di mercimoni e speculazioni, così come moralmente decrepita e legata al vizio e alla dismisura dell’ego. La parte conclusiva cui accennavamo è la canzone L’angelo custode, dove recita un Poe giovane assieme a ogni altro personaggio che punteggia l’opera e nella quale è evocato l’angelo convocato al proprio capezzale da chi teme paura e solitudine, un angelo che dispensa e protegge dal male, un angelo che suggerisce che l’unico modo per rovinarsi è smettere di confidare in sé. Che ha sempre mostrato dove fosse il bene, tra tempeste perfide e tambureggiare di cristalli, alla destra di chi soffre e spera; e se l’istinto era in errore, questi suggeriva e correggeva.    Un angelo che mostra il sogno laddove è ben desto l’incubo. Per chi “vicino ai libri sotto le tazze da tè/ tiene una specie di inferno”, e per il quale panico e angoscia sono ospiti consuetudinari; per colui, infine, per il quale tutto è rifuso nelle immagini (di un simbolismo puntuale a icastico) che seguono: “il tappo di champagne – il gufo alla luce della luna/ un corvo e un’anatra/ la semenza di genitori in pena/ e del tuo amore che perde la speranza…”  Tutti sembrano avere un angelo che li protegge e veglia sui loro affanni e le loro speranze, così compenetrati da cambiare di volto gli uni con le altre, perché “Amore e fortuna hanno vite incantate/ e tutte le cose possono essere rivoltate” (e noi pensiamo a colpa/rovina e sollievo/trionfo, caduta e ascesa, al dominare e al soccombere, alla ragione più arrogante e al cuore più umile e grato, al sogno e all’incubo, alla statura apparente e a quella che cala l’ideale nel concreto, e tutte assieme che cozzano senza elidersi e danno fermento e vita al prodigioso spettacolo di una compagnia umana sospesa tra il sublime e la burla, tra il magnifico e l’infimo, tra le luci più fulgenti e le tenebre più mortifere, tra una virtù da “baraccone” ed una virtù inoppugnabilmente splendida). Ed è forse lecito ricordare, a questo punto, che ogni colpevole ha un testimone, se non altro in se stesso, e che una colpa orba a sé è la più esiziale delle menzogne. Ogni disegno ha una strada ma non tutto è giusto, non tutto risarcisce e sana, quasi niente è dato avere in amore, se non un sogno desto che si giustifica senza tregua, estenuanti sensi di colpa e perdizione che tambureggiano come un tell-tale heart sotto l’assito dell’anima. Perché l’ordito di Lou Reed ricalca le opere di origine simile a una cuspide di luce capace di brillare oggi di un’aura ancora veritiera; e ferisce a fondo “l’arroganza della mente” – al di là di ogni colpa riconosciuta o non riconosciuta. Ed è proprio la colpa nelle sue proteiformi sembianze ad attraversare queste notevoli riscritture, assieme a un’esistenza di ombra o una vita come una macchia tumescente che insiste in ciò che “non si deve” recando danno precipuamente a sé. Il resto è un canto ora sommesso ora corrusco e vitale di ombre, visoni e parvenze larvate che si agitano nel teatro di una vita sognante almeno quanto ferita. Come appare ne La caduta della casa degli Usher, per Roderick (come per ogni creatura sensibile fino al morbo di sé) che ha sensi così acuiti da mangiare solo cibi insipidi, indossare abiti impalpabili, essere abbacinato da una luce appena meno fioca di un cero, e trovare opprimente perfino il profumo dei fiori, il confine tra sanità e malattia, tra tara e superstizione è assai labile e la visione non è il prodotto di “fenomeni elettrici” niente affatto rari, ma la rima funerea e veridica col proprio rimosso, una voce che ascoltare può condurre alla follia ma alla quale non si può rinunciare senza rendere le proprie armi vinte persino al cospetto di sé; il nemico siamo noi, in definitiva, e  > “la mente capricciosa si confonde con il futuro che essa stessa prevede e si > ripiega su di sé con ribrezzo e terrore. Con la premeditazione e con il > semplice pensiero, siamo condannati a conoscere la nostra fine”. E nella “valle inquieta” di Roderick “non sono forse tutte le cose belle lontane?” Una valle dal fiume malato e i monti raggelati in un “rigor mortis” atavico e inappellabile, lontana essa stessa come il sole “allettato nell’orizzonte luminoso”, e dove egli, come l’occhio umano, “si è chiuso per sempre” colpevole di non udire il pulsare del cuore ma “solo lacrime di perfetto pianto”. Là un tempo regnava “Re Pensiero”, la cui arguta saggezza era cantata da voci di impareggiabile dolcezza, in un reame dove il vento portava fragranza di rari fiori e tutto era armonia e virtù sotto l’egida di un fiero emblema baciato dal sole – pressappoco così scriveva Poe –, e là regnano ora discordanti melodie, disordine e risa, ma mai pi un sorriso. Mai più. E “mai più” è la parola chiave che compare con ripetute anafore anche ne Il corvo, l’originale. Da sottolineare che la vetta, forse, di questa raffinata opera di Lou Reed, rimane proprio la  riscrittura della lirica Il corvo, sublimemente fastosa, di un linguaggio poetico prezioso e decadente, in carattere con l’originale e tale da evocare con potenza un canto funebre e plutonico che echeggia di assenza fino quasi allo smarrimento del confine tra ragione e distorsione onirica, e in cui il lutto è compenetrato all’amore… L’amore un grido di impossibilità (non solo fisica) di adempienza alle leggi sovrane di un cuore stregato. Massimo Triolo L'articolo “Le nostre sorti incatenate”. Lou Reed riscrive Edgar Allan Poe proviene da Pangea.
November 5, 2025 / Pangea
La musica non ama le parole, non ama le inutili ciance, il chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero
La solerzia con cui spesso si attribuiscono alla musica virtù che naturalmente le sono estranee, induce molte menti deboli a produrre lavori o a esprimere giudizi di una scandalosa e sconcertante vacuità. Il brusio molesto di certe considerazioni fatte a piena voce o il grafismo isterico di anonimi e sedicenti teorici, sovente dimenticano l’aspetto più importante della faccenda: la musica non ama le parole. Dopotutto è la smania interpretativa ad alimentare la fastidiosa chiacchiera che di volta in volta nasce intorno a un’opera d’arte o a un concerto. Senza un così chiassoso stimolo, questa imbarazzante pratica finirebbe motu proprio. Ma per fortuna, l’opera è chiusa, serrata su sé stessa, fortemente protetta da un’impenetrabile solitudine. Così, tra la musica e la parola agisce una considerevole distanza. Piedi, miglia, incalcolabili chilometri le separano. Come per le Vite parallele di Plutarco, è solo la circostanza artistico-letteraria a renderle affini, null’altro le lega, niente le tiene insieme. E una solenne estraneità ne celebra il mistero. La musica non ama le parole se non sono canto. Non ama l’insolenza del parlato o di qualsiasi discorso che intenda sottrarle lo scettro regale col quale essa impone le sue diaboliche leggi. La musica tollera soltanto il verso misurato di un refrain, la sillaba pronunciata in accordo con i suoni, il soffio sottile di un’ugola leggera. Come un violento sbuffo di maestrale essa ci rammenta i suoi severi comandamenti dinanzi ai quali timidamente chiniamo il capo. La parola le si affida con lo stesso candore con cui il discepolo segue il maestro. E come gli antichi pitagorici, spesso non fa domande. La musica non ama le parole se non sono canto. Non ama le inutili ciance, il chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero. Come ogni spasimo d’amore è flatus vocis, così l’introduzione al concerto, la didascalia o il programma di sala non sono che ridicoli esercizi di stile, vuoti accademismi, ékphrasis. Tuttavia qui la parola non accampa pretese, fa quello che deve e ritorna in silenzio da dov’era venuta. Si dice che Beethoven componesse a parole, che sul suo taccuino, anziché note, scrivesse frasi. Così qualcuno chiedeva perplesso: «Cosa fa?», e mentre il maestro continuava i suoi nervosi appunti, un altro rispondeva: «Compone musica». Ma Beethoven amava un solitario grafismo. Scriveva parole di canti immaginari o per una musica che soltanto lui ormai sentiva. I taccuini erano il suo nervo acustico e sostituivano le sue orecchie malate. Con la scrittura cercava di rievocare suoni che aveva perso per sempre. Adesso ascoltava soltanto con gli occhi. Antonio Donghi, Strumenti musicali, 1935 Dicendo che il poeta – un musico in potenza – conosce il segreto della parola e il suo insondabile mistero, non si afferma nulla di nuovo. La rima, l’enjambement, l’anafora, l’ossimoro assecondano lo stupore e annullano la frustrazione che il parlato quotidianamente imprime alla voce ma, bisogna dirlo, la poesia non è ancora musica in senso assoluto. I sussulti del tenace Rousseau per le opere di Pergolesi sono certo legati ai melodiosi accenti della lingua italiana, eppure qualcosa gli sfuggì. Ciò che egli non comprese mai è che parlare è tutt’altro che scrivere, tutt’altro che cantare. Il suo agognato ritorno alle meravigliose sonorità di una lingua primitiva si sfasciò proprio dinanzi all’impossibilità che il segno linguistico o la parola scritta assomigliassero, una volta per tutte, al canto. Insomma, la sua sfrenata convinzione che il linguaggio fosse nato esclusivamente per esprimere i sentimenti, gli fece trascurare tutto il resto. Cosicché un Da Ponte non compose arie o cavatine semplicemente mettendo insieme endecasillabi o alessandrini. Non intrecciò scene o sgranò versi distillando dello stupido sentimentalismo. Egli, invece, cesellò preziosi monili che il solito Mozart mise in musica divinamente. Ci sono ancora troppe parole sulla musica o nell’amalgama di suoni che proviene da quest’Occidente malato e ormai alla fine. (E non si ricorra al solito Spengler per darmi ragione ma si leggano i nostri Ceronetti o Sgalambro e poi ne riparliamo). Che la musica debba essere spiegata, commentata o discussa, mi annoia. Che qualcuno debba dirmi questo o quello su un quartetto di Haydn o su una sinfonia di Mahler m’immusonisce. È come se dinanzi a L’origine del mondo di Gustave Courbet, dinanzi, cioè, a quella fica pelosa d’altri tempi, dovessimo dire chissà che, invece di rimanere in silenzio o in voluttuosa contemplazione. Non so come dire, ma il commento al Cinque maggio manzoniano o la parafrasi de L’infinito di Leopardi si muovono ancora nel campo dell’adaequatio rei et intellectus. Lo spiegone sul significato delle quattro celebri note all’inizio della Quinta di Beethoven, invece, appartiene alla categoria delle cose vana et futilia o, per così dire, a quella delle chiacchiere da bar. Fintanto che la parola commenta sé stessa, rende un servizio all’umanità. L’esegesi di un testo antico, il commento rabbinico alla Scrittura, la recensione di un romanzo e finanche la postilla giornalistica a un articolo uscito qualche giorno prima rendono il loro apostolato. Ma quando la parola prende il sopravvento e sgomita in ambiti che non le competono o in cui è addirittura esclusa, non si può che subirne l’irritazione. Evaristo Baschenis, Accademia musicale, 1665 ca. In un saggio del 1838, con una sola frase, Robert Schumann dà un’idea della musica e dello stile di Chopin come chiunque dotato di senso della misura dovrebbe fare in questi casi:  > «Chopin – dice costui – ormai non può più scrivere nulla, che alla settima od > ottava battuta non debba farci esclamare: è suo!».  Anteponendo l’ammirazione agli inutili e superflui tentativi di analisi, alle congetture fasulle o addirittura alle chiacchiere, Schumann evita di parlare della musica di Chopin lasciando intendere che quella musica parla già da sé.  Un tempo la musica dovette sopportare l’affronto della notazione. In un attimo il suono si trasformò in segno e, come si è detto, in un grafismo isterico. Così, da un giorno all’altro, dall’orecchio la musica passò all’occhio. Il suo mondo di fluttuanti vibrazioni, alieno dalla scrittura e dalla parola, improvvisamente inciampò nella grossolana ovvietà della grafia. Una mole di ruvida carta stampata oggi sopravanza alla delicata vita dei suoni.  Senza tener conto che ogni parola è un fenomeno extramusicale, Mauricio Kagel si lascia andare a questa dichiarazione che mette i brividi per la sua poca lucidità:  > «L’errore del passato fu credere che la musica non avesse, in quanto arte > autonoma, bisogno di un commento esemplificativo, un’illusione che non > corrispondeva ai fatti. Entrambe, sia l’arte che la musica, non possono fare a > meno della parola per coinvolgere in un costante processo educativo quanti > siano pronti ad accoglierle e percepirle».  > > (Sulla consapevolezza e i compiti dell’artista, 1979) Qui siamo nell’ambito della pedagogia o in quella che, meno sprezzante del solito, Adorno chiamava «musica pedagogica». Si vuole che la musica diletti, che intrattenga e, quando non lo fa o non ci riesce, quando cioè il pubblico si annoia o, come spesso accade, “non capisce”, si ricorre alla parola «in un costante processo educativo». Educare è compito della scuola (quando ci riesce), delle parrocchie e, in extremis, di quelli che una volta si chiamavano Istituti di correzione e pena. All’arte sia lasciato il piacere di stupire, di meravigliare e infine di sabotare il mondo. Alla musica, invece, sia ridato ciò che le spetta: l’acustica delle cattedrali e il silenzio memorabile dell’ascolto. È vero, si è detto che la musica non ama le parole se non sono canto. Ma del resto, per il canto, non ci sono già gli usignoli? Vincenzo Liguori *In copertina: Hendrick ter Brugghen, Donna che suona il liuto, 1624 ca. L'articolo La musica non ama le parole, non ama le inutili ciance, il chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero proviene da Pangea.
October 28, 2025 / Pangea
“Finché non cado, fino alla fine del fiato”. Dialogo con Vipera
Fu, al principio, una visione erbivora. Ma quando cade la sera, alle pendici dell’Aspromonte, è come un sigillo che si spezza, come una trappola che si serra – tutto è prono al frainteso; non esistono ombre – acronimi della luce, semmai. E ciò che era preda, si svolge nel predatore.  Insomma, dovrei scrivere un trattato sulla dedizione e uno sull’abbandono. Perché ogni forma di dedizione è autentica se procede dall’abbandono – se lo precede. Che è poi: falconeria dello stare al mondo – abituarsi a scegliere con chi accompagnarsi dalle mani, mai dai volti – mere, metodiche maschere.  Caterina Dufì – credo sia pugliese, credo viva a Bologna, credo sia a questo mondo dal 1998 – si fa chiamare, quando musica, Vipera. È un nome strano, sacrificale, nel caso suo: se la si vede dal vivo – senza la triangolazione fotografica, senza quella genia di immagini – Caterina è quella che si fa bersaglio della Vipera, creatura che dardeggia, che eccelle nello scatto e nel veleno. Dedizione al feroce, allora, purché si abbandoni la ferocia. Si dirà: Caterina è l’avvelenata, il balenio del veleno o l’antidoto? “Le vipere strisciano ovunque, senza contare quelle che si hanno nel cuore”, dice una quasi bambina a Don Miguel, tragico co-protagonista di Anna, soror…, il più perfetto tra i racconti di Marguerite Yourcenar. La bimbetta, calabrese, figlia di un incantatore di serpenti, dice un’altra cosa: “Ci sono molti nomi che è meglio non conoscere”. Poi si dice di malattie meridiane, di amori panici e platonici, e di “brodo di vipera”. Mi è venuto in mente questo racconto ascoltando Acerbo e divorato, il primo album di Vipera, uscito un paio di anni fa. Chi conosce i nomi, ne sussurra alcuni, ne fa scorta – altri, li modella all’urlo. Soprattutto: di ogni nome va aperta la corazza, il carapace che ne inghiotte il senso. Ogni nome è un paravento: nasconde serpi – o tigri azzurre.  Acerbo e divorato è un album molto bello, che spiazza l’ecumenico andito dell’odierna musica. La ballata trobadorica si mescola all’elettronica, qui, Franco Battiato è commisurato ad Antonin Artaud e a Claudia Ruggeri, la poetessa, a cui è dedicato un pezzo, il primo, Il matto. Su tutto, aleggia lo spettro di Amelia Rosselli, la Santa Caterina della poesia italiana. “Che di alcune cose ti basti solo il nominarle. Guardare la lenta impollinazione di questi fiori bianchi”, bisbiglia Vipera – ma è voce marziale, che s’impiglia all’osso frontale – in un pezzo che s’intitola Il macedone. Allo stesso tempo: un’ingenuità che fa inermi – e uno stare al gioco del pericolo. Dal corpo della colomba si dirama la vipera, con andatura da pianta, da vivente che mette radice.  Vipera, cover di Acerbo e divorato, photo Alessia Rollo Poiché è alla ricerca di un’integrità infallibile – che significa: sapere i punti d’acqua, i punti di flessione, dove la carne è debole – Vipera non ama parlare di Acerbo e divorato, è già oltre. Non ha tempo di sanare ferite e di curare l’alfiere di ritorno dalla crociata: a quell’addestramento non si ritorna, non ha senso né sede. Altra autonomia richiede il durare, il duraturo. Così, mi fa dono d’ascolto. Tra i nuovi brani, uno si chiama Angelo nero, attacca così: “Adesso che sta a me farti una domanda lucida, arrivare fino in fondo a dove forse poi ti trovo di mandorla o di niente”. C’è un decoro, una indecorosa accuratezza nel modo in cui Vipera usa le parole che va per la rettitudine dei rettili, è vero. Attacca, stana – e dunque: quel suo bisbiglio, una voce con le squame, che ti dichiara da un andito del bosco dove per i più è patria di ululati, di ungulati in schiera.  A vederla, dico, Caterina, fu visione erbivora. Un erbario di occhi ampi, la figura di una cosa offerta, d’altura. È strano, si dirà, che una creatura simile, un essere d’aria, abbia scelto a protezione lo stigma di una bestia di terra, che striscia. Ma qui è il miracolo: l’innocente che s’incarica di tutti i veleni, che se ne fa carico, ne fa arco. Anima, forse, è un regno senza più porte: essere quel che si è e abbeverarsene; anima è un altro modo di dire sete. L’anima bella sibila, come la vipera – per i falchi, non è che la bianca circostanza della caccia.   Perché Vipera? Chi è vipera?  Suggerivano di non attraversare la macchia mediterranea a mezzogiorno, quando il sole bacia i rettili.  L’insidia, l’allerta che evoca il serpente, insieme a un’idea marziale che in me suscita (un rivestimento, una muta, un alfabeto sulla loro pelle che cambia). Un’immagine così forte è protezione. Sono elementi che hanno sempre destato in me un grande fascino, e mi sono fatta ospite loro. Ho scelto questo nome anche (e soprattutto) per il suo suono. Mi piace l’innesco di quelle consonanti aguzze e il fatto di avere la possibilità di scegliersi un nome ulteriore, diverso da quello che ho ricevuto in dono. Perché non usi il tuo nome nei dischi: necessità di scudo, di slancio, di disastro? Che un nome esista per annientamento?  Quando vado in scena cerco di presentarmi in uno stato vigile, sincero, inscalfibile. La scena è anche tipografica, comunicativa. Ho anche una grande passione per gli pseudonimi, i nomignoli, le parole inventate. Per questo ho scelto un altro nome, che non sia il mio, che mi aiuti nella ricerca di una postura diversa dal quotidiano.  Che cos’è “Acerbo e divorato”, cosa significa, da dove nasce? Uno slancio, un tuffo a candela. Un sogno sui rapporti di consanguineità, sui legami come vincoli e come ramificazioni su cui arrampicare gli occhi.  Un bambino di sei anni scala l’ulivo e arriva in cima, la sua testa sbuca dai rami e vede, in fondo alla campagna, il mare aperto. Poi una vela. Da lì sogna di prendere il largo. Lo prende. È un’immagine di giovinezza feroce, che vuole consumare tutto, avere tutto tra le mani. È un sentimento che mi sorge se penso al fiore giovane prima della catastrofe. Un’asincronia. Durante la scrittura di Tentativo di volo, l’EP che precede Acerbo e divorato, mi è saltata in mente l’immagine del frutto staccato, acerbo. Il gusto che lascia in bocca – il doppio strappo che crea, nel gesto e nel sapore. Questo titolo è in realtà il verso di un brano che non ho mai pubblicato. Ho notato che anche isolato restava denso. Acerbo e divorato lo vedo un po’ come un disco di formazione, in cui la ricerca sonora e stilistica hanno avuto la meglio sull’omogeneità di un album musicale. Così mi sentivo nella mia camera, fumando sul tavolo e guardando al cielo, così è sorta questa immagine. Che cos’è per te il verbo, la parola, la poesia? Che cosa la musica?  La parola è una capienza, una misura di efficacia, nitore, brillantezza. È un evento magico, dove materiale e effimero si scambiano i ruoli, danno vita a figure, a proposte, progetti sul mondo. Penso a fenomeni fisici, al prisma che scocca in raggi colorati. Al miraggio, o alle visioni annebbiate da qualche incenso. Penso a come la parola che prefigura possa agire in misura bipolare nel negativo e nel suo opposto.  Domina, lenisce. La musica e la poesia sono un luogo di rifugio, una lente felice, che mi tiene accesa e disarmata. Spiegami “Anime (intermezzo due)”; dimmi cos’è “l’equivalente spirituale dell’oro”. A.A.! Le Momo! Anime è un brano in cui le parole sono un’esortazione, un’auto-esortazione al restare in vita, nel suo senso più elevato e brillante, oltre alle distorsioni degli eventi.  “Il teatro alchimistico”, è da lì che deriva “l’equivalente spirituale dell’oro”. Antonin Artaud ne parla cercando un punto di congiunzione tra materiale e spirituale. Poter arrivare all’oro, nella mia metafora è una vetta, che si raggiunge oltrepassando stadi brutali, “malandando”. E “l’anima bella” nella canzone è esortata a malandare. Così questa vetta dorata può essere raggiunta nel corpo, attraverso il corpo. È qui che si evolve una parentela metallica, stavolta in un travaso organico. Qui una ricerca analoga può essere condotta, dalle funzioni vitali ad un sopra, un’esistenza di spirito che coesiste, nutre, alimenta quella materiale. Ecco l’equivalente. In controluce, nel disco, leggo Hegel, Claudia Ruggeri, i provenzali, i Mirmidoni… cosa te ne fai di queste più o meno occulte citazioni? Cosa te ne fai della ‘cultura’? Altre, ancora camuffate, ombrate, tradotte. Ci sono dei concetti che hanno guidato la scrittura di Acerbo e divorato, immaginandolo ancora come un disco di formazione. L’anima bella di Hegel, per esempio, è una figura che non scocca, non cade, non urta, non vive. Ho preso questo ritratto e indossandolo ho cercato di scardinarlo. Stessa cosa con la poesia della Ruggeri, nell’idea che una metafora per la crescita possa essere l’andare, il numero zero, l’inizio. In particolare nel primo brano del disco, Il Matto, avevo il desiderio di ridare voce a quei versi meravigliosi che aprono la raccolta inferno minore di Claudia Ruggeri.  Mi servo di strategie labirintiche per il lavoro sui testi, in maniera analoga a come avviene nel sampling e nell’elaborazione dei frammenti audio. È un processo simile, che porta alla composizione di significati attraverso un sistema di citazioni che volendo si svela, indica un disegno nuovo sul tappeto.  Cosa leggi? Dimmi: il poeta che continua a folgorarti; la poesia che hai tatuata nella cosa detta cuore.  Tornando da casa penso a una poesia di Carlo Bordini. Lui si guarda allo specchio ed è sicuro che i suoi non lo abbandoneranno mai, ritrovandone i lineamenti, i modi.  Ma quella che mi buca il cranio è “Se sinistramente ti vidi apparire…” da Documento di Amelia Rosselli.  Esiste l’anima? Che cos’è? A dodici anni mi è capitato di percepirne la sede: è come un’intercapedine sotto pelle, che divide la cute dal resto, dall’interno organico del corpo.  Cosa c’è dopo la morte? La ricombinazione dei miei vecchi atomi di carbonio. Confidi in qualcosa, ti arrocchi in qualche fede? No, ma credo molto nel lavoro su di sé, pensato come educazione all’equilibrio. La gratitudine che provo in alcuni momenti della vita mi porta ad uno stato simile alla fede, acceso e sincero. Qual è la tua bestia araldica, a protezione? Da cosa, poi, bisogna proteggersi? Proteggersi da quasi tutto, ma il mio trucco è giocare sulla velocità. La creatura che mi accompagna è il colibrì, certe volte – all’apice – il falco. Esseri leggeri, esseri record in velocità. Stai scrivendo – cosa? Ho passato l’estate a scrivere un disco nuovo, un insieme di brani che ho in parte suonato a lungo dal vivo, ora cerco un modo di fermarli, per farne un album. Vorrei assumesse la flessibilità di una lamina metallica che oscilla. Saranno sistemi elettrici, arteriosi. Sto lavorando anche a un progetto in duo, con un’amica performer e autrice, Eugenia Delbue. Ci chiamiamo ETEREA NOISE e uscirà presto il nostro primo album, versante sonoro dello spettacolo che ha nome Radio Tunnel, per Zoopalco-Zpl, etichetta bolognese di spoken music. ** I.Teatro Cava / Ferina Lavo i denti allo specchio con gli occhi sgranati come per prepararmi all’ammutinamento senza sapere da che parte sto senza pregarti a sangue di non cadere dalla trave. Immagino una scena scavata dentro ad un grande pezzo di tufo dove mi hanno promesso che ti potrò assalire la tana è profonda. * ho mangiato l’uva raccolta ho guardato nel centro del sole e non vedendo ho puntato il dito per caso di nuovo contro di te II. C’è una grande quantità di cadaveri di rana sulla strada che porta da un paese a un altro, attraversano l’asfalto e non sempre arrivano dove devono. Descrivere è implicito capire. Ore che ho contato, ora che – uno ad uno – i fili d’erba le attraversano, nel disordine che sembra sempre senza rimedio, un pensiero oltrepassa queste parole: sono questi i momenti in cui mi sento particolarmente piccola.  * III. Reset aspetto finché non cala aspetto finché non cade aspetto finché non cedo finché non cala finché non cedo  fino alla fine del fiato al tuo tempo diverso – più veloce a un certo punto coincide: arrivo a parlarti per davvero umidità tocca corrente. Attraversando la macchia mediterranea vicino al mare e dalle parti di Torre Chianca, raccogliamo asparagi selvatici e mi racconti che le centrali telefoniche, ai tempi tuoi, erano grandi quanto edifici. Quando non sono più servite, sono state vendute a venticinque lire al chilo e tu hai cambiato lavoro.  I blocchi relè, pieni di contatti, sono stati smontati e fatti passare uno a uno lungo un nastro.  Un magnete attraeva a sé i materiali preziosi: il rame, l’ottone, l’oro. Si tratta di cercare un modo in cui la traccia continua e scava i segni: pensieri-correnti, che a lungo frequenti: linee su linee nel cranio che prendono e mantengono una consistenza: una stanza da abitare in piedi e così piena da non chiedere agli arti di tenerti. La traccia continua, descrive un comportamento probabile: un mondo piccolo, personale, in cui la storia arriva come un sedimento: una ricerca dell’oro, per equivalerlo. Camminiamo, e non ti lamenti del caldo alla testa. Attraversando una rete si accede alle zone in cui la costa scogliosa viene segnata in superficie da piccole faglie continue: ogni goccia che cade disegna – graduale – le aree dove tra un po’ lo scoglio cederà.  Ci facciamo sismografi, geologi, trekker, ma ci troviamo spesso a camminare lì sopra, i nostri scogli li conosciamo. Tu una volta sei caduto, ti sei rotto il naso e dici che da allora respiri meglio.  Non posso scappare se l’allerta arriva insieme al crollo,  cosa corro a fare con la caviglia che mi ritrovo? Cosa corro a fare? Aspetto finché non cado, fino alla fine del fiato, al tuo tempo diverso, più veloce. *In copertina: Vipera in un ritratto fotografico di Clarissa Lapolla L'articolo “Finché non cado, fino alla fine del fiato”. Dialogo con Vipera proviene da Pangea.
September 22, 2025 / Pangea
“Tu potresti essere uno dei geni di cui senti la mancanza!” Note su Sergiu Celibidache
> Alla materia sonora evocata con arte secondo una prassi disciplinata in modo > cristallino, Sergiu Celibidache ha riconosciuto, disegnato in un processo > filosofico improntato all’insolito taglio fenomenologico maturato nel tempo, > un ruolo di veicolo alla trascendenza. > > U. Padroni, Sergiu Celibidache. La fenomenologia per l’uomo Celibidache arrivò – ne accennavo nella prima puntata di questa serie – come tappabuchi sul podio dei Berliner per sostituire Furtwängler. Che cosa sarebbe stato dell’allora giovanissimo direttore romeno, ma ormai in parte germanizzato, senza la cacciata del vecchio maestro, è difficile divinarlo. Sappiamo in vece che quell’episodio infame della nuova Germania diede abbrivio a un destino dei più rutilanti nella storia dell’interpretazione musicale. Felix culpa, per non dire che talora dalla merda, se non ne ustioni la semente, nascono i fiori. Pur ancòra odoroso delle stanze del conservatorio Celibidache si mi impose alla guida dell’orchestra bensì con rispetto ma con la sfrontatezza della giovinezza e del suo popolo d’origine e, sopra tutto, con una preparazione esorbitante dal ristretto dominio della teoria musicale, rarissima in un musicista pratico. Per tutta la vita, oltre alla musica, egli aveva studiate matematica e filosofia (fu allievo di Nicolai Hartmann, niente di meno); sarebbe arrivato negli anni più matura lo zen, fuso – passatemi la sbrigatività – in una rara e preziosa lega con la fenomenologia di Edmund Husserl, che nella storia della filosofia fece sin dal suo apparire la figura dell’estemporanea e ardita bizzarria, e che fu soffocata quasi in culla dalle “deviazioni”, queste sì di enormi peso e conseguenze, non solo per la filosofia, di Heidegger Sartre Merleau-Ponty. Nonostante qualche iniziale passo stentato e talora qualche accidente direttore e orchestra si intesero ben presto. La compagine non aveva trovato un altro Furtwängler, e grazie al Cielo: in arte, come ovunque, le imitazioni sono pestilenziali; ma uno che si avviava con rapide ma ben posate falcate a diventare un’altra divinità. Durò tuttavia poco, pochissimo, ed è la ragione per la quale i più a stento ricordano nella pur breve teoria dei direttori berlinesi quel nome estraneo e remoto. Solo isolato non protetto se non dall’orchestra, allora tuttavia non sindacalizzata e quindi impotente a imporre il proprio volere, Celibidache fu spodestato da una di quelle manovre di potere a tenaglia, che vedeva, da una parte, l’industria discografica e, dall’altra, Herbert von Karajan, che di pianista (pare eccellente) si era fatto maestro concertatore spinto dall’ambizione e dal pressante consiglio di Bernhard Paumgartner, il biografo di Schubert e di Mozart, che nel giovane austriaco aveva intuìte potenzialità superiori a quelle per la sola tastiera. I particolari assai curiosi e i vasti silenzi della vita artistica di Celibidache nei lunghissimi anni successivi li lascio seguire sulla magnifica monografia Zecchini che al direttore dedica Umberto Padroni citato in esergo – davvero esemplare e, per soprammercato, dalla prosa di rara bellezza ed eleganza –, e salto a Monaco di Baviera, l’ultima e più corrusca tappa. Alla guida dei Filarmonici monacensi Celibidache appare trasfigurato. I Münchner erano un di quei gioielli nascosti ai più dalle erme internazionali di Berlino e Vienna, Leningrado e Milano e Roma, come altre magnifiche orchestre tedesche (Dresda, Bavària). Le occorreva “soltanto” il direttore che sapesse estrarre da codesta pianta vigorosa e tenace i migliori frutti, ciò che riuscì al solo Celibidache. Sergiu Celibidache (1912-1996) Sulla palingenesi (altro nome non trovo) dei monacensi, che da marginale compagine si tramutano in orchestra di primissimo rango internazionale, dà ancòra conto l’insostituibile Padroni. A noi basti di rammentare i due massimi miracoli di Monaco e che stanno tra i massimi di tutta la storia dell’interpretazione musicale. Anzitutto Anton Bruckner, tra i giganti del sinfonismo certo il meno eseguito e capìto. «Io sono venuto al mondo per dirigere Bruckner», disse con la sua solita e benedetta immodestia Celibidache a un gruppo di allievi radunati presso la Scuola d’alto perfezionamento di Saluzzo, provincia di Cuneo, come mi riferì uno di essi, una donna che aggiunse di non avere mai avuto, nella sua lunga carriera di musicista, grazia maggiore di quelle estati piemontesi. Non era un paradosso, ma precisa consapevolezza di quelle che afferrano i pochi, i rari, e che, sopra tutto, trovano conferma nella sala da concerto e, per come la tecnologia lo consenta, nel disco. Tolti Arthur Nikisch e Furtwängler, esemplari d’altre epoca, razza e poetica, mai musicista alle prese con l’“alieno” di Linz seppe indagarne forme e penetràli, con buona pace di chi, ancòra oggi, colloca a esempio il pur eccellente Eugen Jochum sul piedistallo del sinfonismo bruckneriano. Per certi versi ben più sbigottente è quanto Celibidache disse nel 1992, in occasione d’una Settima organizzata per raccogliere fondi destinati agli orfani di Romania, da poco entrata con inganni e sangue spremuti alla popolazione nella democrazia. Guardando gli orchestrali disciplinati e diffidenti con quegli occhi birbanti ma di grande bontà e consapevolezza, pronunziò queste parole: «Eseguirete Bruckner come non lo avete mai eseguito». Dicevo sbigottente giacché se egli avesse parlato dinanzi a una compagine tra le millanta, la frase avrebbe avuto peso leggero. Ma parlò davanti ai Berliner, ai quali Celibidache ritornava, dopo trentasette anni dalla cacciata, per quella volta soltanto e con un equipaggiamento irripetibile. Causa lo sciatto o più volentieri proditorio atteggiamento dei soliti maneggioni, di quella esecuzione non ne tirarono alcuna incisione. Ne abbiamo un frammento di prova soltanto. Erano, quelle parole, stizza o acredine per l’antico ostracismo? Celibidache non era un simile tanghero; e poi in quei quasi quarant’anni c’era stato un totale avvicendamento dei professori d’orchestra, sì che gli attuali, se non commetto un errore, non avevano suonato mai né con lui, né con Furtwängler, ma erano stati cucinati prima da Karajan, poi dal suo immediato successore Claudio Abbado – una colata a picco da stordire –, cui, più che ai musici astanti, quel messaggio era rivolto, e in ispecie, credo, all’italiano. Celibidache aveva detta semplicemente la verità. Nonostante in fatti tutta la réclame e il fracasso d’attorno a quei nomi, il Bruckner di Karajan non aveva aggiunto alcunché a quello di Furtwängler né d’altrui: se mai aveva sottratto parecchio; Abbado dirigeva Bruckner – e tutti gli altri olimpi del sinfonismo e dell’opera – come dirigeva l’Innominabile di Busseto. Davvero di Bruckner, a Berlino, non se ne sentiva dagli anni Quaranta. Fu durante quel rimasuglio di prova che mi avvidi, tra il molto altro, della ragione per cui a esempio l’attacco innumeri volte ascoltato nell’unico disco circolante, sonasse così inaudito. Come fa?, mi chiedevo, senza mai trovare una risposta plausibile. La scrittura è semplicissima, parrebbe non far problema, Bruckner non ha ancòra scatenata tutta la sua altissima maestria tecnica e creativa. E pure quelle iniziali battute riescono a Celibidache come a nessun altro, eccetto che a Furtwängler, anche se questi ha un approccio tutt’affatto differente. Il lettore si faccia ascoltatore e si vada a scoprire il “segreto” di quei primi secondi. Completo l’episodio con queste parole d’Umberto Padroni:  > «Nell’arte e nella vita pubblica del suo tempo questo fu un evento che oggi > (…) è possibile definire “storico”: nella connotazione la meno inflazionata. > Esaurita l’esaltante, trascendente avventura musicale, allo spegnersi del > breve accordo finale in mi maggiore, dopo qualche attimo di silenzio, applausi > e feste a non finire; il vecchio maestro si volge all’orchestra portando alla > fronte le mani giunte nel bel gesto buddista, riceve mazzi di fiori e ne > distribuisce agli archi vicini. Su, nella balconata, il presidente [tedesco] > Weizsäcker applaude forte e sorride (…). Poi, dietro, il musico ottantenne > abbraccerà gli anziani, e stringerà la mano a tutti gli orchestrali. “Sul > piano umano è accaduta una cosa meravigliosa; per quanto attiene alla musica, > il nostro livello era al di sotto della media. I Berliner oggi non sono altro > che un’orchestra dotata di buona tecnica. Tutto qui”. E l’orchestra: “Abbiamo > dovuto dire addio a tante abitudini. Effettivamente stiamo scoprendo > quest’opera in modo del tutto nuovo”». Il secondo miracolo se possibile è ancor più eloquente e sconcertante: la sesta Sinfonia in Si minore di Tchaikowskij, così detta “Patetica”. Salvo trascurabili eccezioni, se ne sono impossessati tutti i direttori, anche e talora sopra tutto i meno adatti e dotati. Dopo ricognizioni in che si alternavano perplessità disgusti ed entusiasmi, ancòra abbastanza giovane, scopersi, insieme a Shostakovich, uno dei suoi più straordinari interpreti sinfonici, ciò è a dire Evgenij Mravinskij, direttore della Filarmonica di Leningrado, una delle svettanti autorità in fatto di musica russa e non da meno di moltissimi direttori europei e americani quando si  cimenti col repertorio occidentale. A mio giudizio, nonostante i Temirkanov, i Roždestvenskij, i Barshai, Mravinskij è la prima e l’ultima parola sulla musica russa di ogni tempo. La sua “Patetica” salì sùbito in cima alla mia personale classifica. Chi altri avrebbe potuto sopravanzare quelle letture? Mi sbagliavo, e come. Bisogna avere del fegato per abbrancare quella Sinfonia così troppo bistrattata e frusta, caduta nelle mani davvero d’ogni sbacchettatore. (Un pomeriggio in macchina, aprii la radio sulla benemerita Filodiffusione, ventiquattr’ore di musica classica tutti i giorni dell’anno: quasi una “minaccia”. Transitavo davanti allo stabilimento torinese della Fiat e pensai che un operaio qualsiasi avrebbe arrecati meno danni. «Sembra Riccardo Muti», mi dissi confidando in buon orecchio. La suadente e algida voce femminile dell’annunciatrice, dalla dizione perfetta, me lo confermò alla fine di quello strazio). Dico fegato e taccio di altre parti meno nobili del corpo, altrettanto necessarie per non ridurre quel capolavoro a flaccida geremiade e a lontana eco della Romantik. Ma anche un cervello fuor del comune. Al termine d’una delle lezioni di canto che mi impartiva, un amico bravo musicista mi infilò nella borsa l’incisione di Celibidache coi Münchner, ch’egli aveva definito poco convincente, e «C’è qualcosa che non va», mi sussurrò scotendo il capo. Qualche giorno dopo gli restituii il disco: «C’è qualcosa che non va, in effetto», gli dissi per ischerzo, «Ma nella tua testa». Ritornato a casa avevo ascoltata la Sinfonia una prima volta, sbigottito. Che cosa succedeva? Tchaikowskij sembrava averla scritta, dopo che per sé medesimo, pel direttore romeno-tedesco. Ripigliai daccapo, due, tre, quattro volte. Sempre trovavo qualcosa di nuovo di profondo di “disumano”. Mi arresi volentieri alla verità. Una delle più strazianti sincere e squassanti autobiografie in musica dell’intiera storia di quest’arte trovava sotto la guida di Sergiu Celibidache l’agognato riscatto da plurimi decenni dei varii conquistadores protervi e sanguinarii che si ergevano a sacerdoti e maestri, e non la mollano. Non un errore o una sbavatura. Tutto dal vivo, beninteso, com’era uso di Celibidache che, al pari e anzi più di Furtwängler detestava la sala d’incisione. Anche gli applausi elargiti all’ingresso del direttore e alla fine dell’esecuzione sembravano esser parte di quel disco, perfetto quant’altri mai. Non esagero dicendo che quel pomeriggio avevo finalmente capìta la “Patetica”. Ma di dove nasceva codesto modo di far musica? In una concezione che lascio spiegare ancòra a Padroni: interpretare è «banale e fuorviante luogo comune implicante inevitabilmente il peccato mortale dell’arbitrio: un sedersi più o meno malamente, con i propri capricci, sulla partitura. Una forma di interpretazione avviene semmai nella coscienza di chi ascolti [c.m.], del destinatario ultimo dell’opera realizzata nel suono. Chi realizzi il testo musicale è sempre e comunque un esecutore: superficiale o profondo nella lettura, glabro o ricco di espressione, banale o di forti intenzioni, sciocco o acuto, ma sempre esecutore, partecipe del prodigio dell’inveramento, ricostruttore, nella vibrazione sonora storicamente connotata, del testo, il quale sulla carta è un’indicazione grafica convenzionale, un modesto approssimativo suggerimento, privo di vibrante vitalità fisica, insomma quasi lettera morta e freddo scrigno delle lontane emozioni dell’autore, pur dotato riccamente di spirito; lettera morta, quindi, quando non traduca la spirituale latenza, dopo la più colta e illuminata fase noetica, nel suono: suono vivente, come sostiene Enzo Fantin, il quale ha riconosciuto in Sergiu Celibidache l’apostolo dell’inveramento del principio bruckneriano del “ricominciamento e del perenne ritorno all’origine”, cioè del motivo di profondo della musica di questa civiltà». È lo stesso concetto stracco quando non cadaverico di musica a essere stravolto da Celibidache:  > «La musica non sono le note, la musica non sono i forti, i piano, il lento, > l’allegro. No! Io mi servo di quello per esprimere qualche cosa che io non > posso definire in modo razionale, come qualsiasi altro fenomeno estetico: > rimane un mistero per la ragione (…). È impossibile definire la musica: non > c’è definizione. È esclusa dal pensiero; io ho cercato di capire che cosa si > possa chiamare realtà; come ogni intellettuale intendevo materializzarla, > farla diventare concreta: sbagliando, come ho sbagliato tentando di definire > la musica (…). La musica esiste solo nell’arco di tempo della sua esecuzione. > Il brano musicale non esiste: nasce ogni volta che si esegue». Correggo ora una certa facile e naturale terminologia, adoperata anche da me. Sbaglierebbe, giusta lo stesso Celibidache, chi parlasse troppo sul serio di geniounico, di eccezione miracolosa. Discutendo presso la scuola di perfezionamento di Saluzzo con un giovane oboista, Celibidache fa questo discorso:  > «Tu non sei un povero oboista ma sei tutto, sei tu, sei assoluto. La dualità > esiste solo nella mente speculativa. Rifugiandosi nella tecnica ci si > dimentica che si tratta di un fattore fisico funzionale al raggiungimento di > un clima spirituale; mitizzarla è cosa grave poiché distrae dalla necessità di > salvare le idee originali. Nella concezione borghese esiste [sic] “il genio” e > “gli altri”: questo non porta a nulla. Io ho piacere di parlare con te, e non > con quello che la vita ha fatto di te». E ancòra: «Nella concezione di Celibidache l’interpretazione è una faccenda un po’ infantile da salotto domenicale, o anche un passatempo per i più modesti abbonati quando si incontrano, nell’intervallo del concerto, a scambiarsi tranquille banalità nell’ex fumoir. Che dire poi dei trastulli del tipo “Interpreti a confronto”? “Allontanatevi da tutti quei rifiuti – diceva il maestro ai suoi allievi – amalgamati in concerti prefissati. L’interpretazione, ad esempio, è in realtà una rischiosa addizione tra l’ignoranza di chi esegue e quella di chi ascolta. Concetti come genio, talento sono scemenze. Ognuno di noi ha le sue possibilità, solo che nella maggior parte di noi, sono bloccate in maniera diversa”». A un giovane che poneva la impossibile domanda se i geni del passato sarebbero un giorno tornati, il maestro non esitava:  > «Tu potresti essere uno dei geni di cui senti la mancanza! Non sorridete! È > invece una vergogna che questi tempi, questa civiltà, questo mondo ti abbia > impedito di diventare un altro Bach. Ma in te c’è tutto questo; è la verità, > se c’è la luce della coscienza, cioè la libertà di attingere concretamente al > passato, per proiettarti nel futuro: questo devi cercare per stabilire un > rapporto con la realtà; la Realtà, non quella falsa, condizionata, virtuale». Sincere senza alcun dubbio, queste parole peccano forse d’una visione un po’ ottimistica. Fissato con certe questioni neurologiche e della fisica, sarei più cauto a democratizzare l’artista. Certo gli è però che ticchi pigrizia distrazione vecchiezza vanità ambizione hanno soffocate in vizii e balordaggini irremeabili potenzialità e capacità già acquisite. Penso a esempio a quanto e come avrebbe potuto fare un Karajan se si fosse liberato dalle sue connotazioni deleterie. Ma certe dotazioni o le hai dalla nascita oppure al massimo potrai elevarti sopra i mediocri, non oltre. Accanto e insieme a questa prospettiva si deve contemplare l’analoga, che investe l’orchestra, e che rende ragione del resultato, educativo e artistico, raggiunto sotto di lui dai monacensi. > «Egli comprese (…) quanto fosse preferibile lavorare con orchestre di modesta > storia e spessore (…), ma animate da buona volontà, quindi più permeabili a > nuove idee e all’originalità, piuttosto che mettere a punto un’esecuzione dal > podio di un’illustre orchestra che si senta depositaria di una, talvolta solo > presunta, tradizione. In questi casi l’eccellenza dell’organico, ufficialmente > riconosciuta, è solitamente da leggere anche in termini di supponenza, e il > direttore che disponga di idee, il quale subito si compiace della prontezza > della lettura e dell’efficienza della compagine, non tarda però a realizzare > quanto essa sia invece chiusa in difesa, e persino ottusa, e nella sua prassi > sia limitato lo spazio per la comprensione, e quindi l’adesione > alle condizioni sempre mutevoli dell’esecuzione musicale [c.m.]. “Il sapere è > attaccamento al passato, una zavorra che fa perdere la spontaneità”. Qui > sembra rilucere il diamante che impreziosisce, con il taglio fenomenologico > (…) il nuovo e più vero rapporto con la pagina; per Celibidache esso assegna > all’atto del fare musica, solistica od orchestrale, il compito di trarre dalla > multiforme realtà contingente sempre mutabili, l’unica vera, possibile > identità dell’opera musicale (…) hic et nunc». Non voglio tuttavia lasciare nel lettore l’impressione di un’adesione acritica a un artista il cui metodo ritengo in fatti inadatto con Beethoven, sopra tutto col Beethoven più noto, della Quinta o della Settima. Taccio le ragioni di un mancata persuasione, ché non importano a nessuno e allungherebbero troppo l’articolo. Lascio all’ascoltatore il piacere di esplorare da sé questo meandro. Un altro aspetto di Celibidache che può far storcere il naso è l’avversione per i suoi colleghi. Vorrei davvero che, tolti certuni su cui Celibidache disse solo la verità («ignoranti» e altre simili graziosità), le considerazioni dedicate a esempio a un Karl Böhm, tra le sommità, siano state dette o in momenti di stizza, riportate male, o invenzioni di sana pianta di qualche giornalista malevolo. Ma se temo di no. Certamente Celibidache andrebbe però in questo senso lodato almeno perché ebbe il coraggio di dire schiettamente ciò che altri pensano ma tacciono,oppure si limitano a dire solo agli intimi, minacciandoli di morte se dovessero spifferare quei loro giudizii. Altro ci sarebbe da aggiungere, ma è meglio piantarla qui e andare ad ascoltare. Luca Bistolfi L'articolo “Tu potresti essere uno dei geni di cui senti la mancanza!” Note su Sergiu Celibidache proviene da Pangea.
August 27, 2025 / Pangea
Graffi, grafie e graph. L’eresia della scrittura musicale
> Viviamo nell’era del dio della Carta. La musica ne è soggetta proprio come > tutto il resto. Se escludiamo il jazz o le orchestre di musica leggera, che > hanno conservato i concetti di un tempo, abbandonati dalla musica classica, > […] non c’è più una singola nota di un fugace arpeggio nella musica > occidentale odierna – la nostra musica – che non sia stata precedentemente > disegnata con un cerchio, una coda e piccoli uncini, né una singola sfumatura > o inflessione che non sia stata segnalata, come un rallentamento in > autostrada, da un piccolo disegno o da un segno ad hoc, su un foglio di cinque > righi o suo equivalente, da quell’altra divinità mitica che è diventato il > Compositore. > > Jacques Chailley, La Musique et le Signe, Edition d’aujourd’hui, > Plan-de-la-tour, France, 2004, p. 5 (trad. mia). Che la grafia sia segno o lasci un segno è cosa nota e per lo più scontata. Lo scrivere, atto innaturale e volgare che infatti i re e le divinità concedevano a scribi e profeti, dopotutto è quella cosa lì, tracciare sulla cera, sulla carta, sul muro o sulle porte delle latrine le proprie bêtises. Eppure, che a un certo punto la musica abbia sentito la necessità di dotarsi di una grafia, di un segno, di qualcosa che la rappresentasse, lascia interdetti. Benché questo segno non le sia congeniale e con essa non abbia alcuna contiguità, la musica ne ha voluto uno tutto per sé come la zitella che non vedeva l’ora di prendere marito. Cosicché il suo mondo dirozzato dal segno grafico e dalla parola improvvisamente inciampa, diciamo così, nella grossolana ovvietà della grafia che, nel suo caso, diventa notazione. La musica, insomma, come un linguaggio qualsiasi, avverte l’inspiegabile necessità di dotarsi di un segno e infine lo ottiene, ma in un attimo perde la noblesse che il phàrmakon della scrittura proditoriamente le ha sottratto. Musicisti e strimpelloni dovrebbero tenerne conto invece di scimunirsi con Études d’exécution transcendante e Gradus ad Parnassum. A costoro farebbe bene adottare un po’ di quell’intransigenza con la quale nel Fedroplatonico Thamus schivò le blandizie del dio Theuth che gli presentava le miracolose virtù della scrittura. Invece il loro grafismo isterico e il loro ottuso narcisismo trascurano la parte più importante della faccenda: la musica non ama l’insolenza del segno o di qualsiasi discorso che intenda sottrarle lo scettro regale con il quale impone le sue diaboliche leggi. Con il nobile pretesto di tracciare una provvisoria e non esaustiva storia della Scuola pianistica a Napoli dall’Ottocento a oggi, Girolamo De Simone (Napoli, 1964) è tra i pochi musicisti contemporanei che si è posto il problema della grafia musicale concettualizzandolo. L’esito di questo lavoro è depositato nell’ultimo capitolo del suo nuovo saggio intitolato, appunto, Graffi e Grafie. Pianismi e pianisti a Napoli. Non che per le sue composizioni De Simone abbia completamente abbandonato la tradizionale notazione musicale (già perlopiù deformata o adattata alla nuova frontiera della sua espressione artistica), ma ciò che qui si fa interessante e si impone per novità di pensiero è l’adozione e l’uso personalissimo del graph, del «segno mobile» che egli prende dalla lettura e dallo studio delle poche e quasi sconosciute opere di Aldo Braibanti (1922-2014), il libero pensatore piacentino che alla fine degli anni Sessanta subì un processo per plagio – credo unico in Italia – culminato con la sua condanna a quattro anni di carcere. Il graph, afferma Girolamo De Simone, deve poter attestare e garantire la «totale mobilità formale» necessaria alla ricerca e alla nascita di nuovi linguaggi sonori. Perciò esso, più che segno vero e proprio, più che forma cristallizzata e stantia di notazione musicale, è l’idea stessa che incoraggia il cambiamento, è ciò che «trascorre al di là della dialettica», è il nome dato allo «sforzo di ricondurre lo strumento inorganico all’organo». Per tale motivo, il graph deve essere libero, deve potersi muovere, poter scorrere, scavare, solcare e ferire come il graffio con il quale condivide esiti e assonanze linguistiche. Dunque, il graph di Braibanti nella ripresa concettuale che ne fa De Simone si accresce di senso fino al punto che la sua mobilità diventa sinonimo di passaggio generazionale, di attraversamento, di transito verso nuovi codici e nuovi stili. La stagnazione del pensiero che produce il tanfo mucido delle accademie è assolutamente ostile a Girolamo De Simone che in Graffi e Grafie si confronta con il pensiero acratico dell’“eretico” Braibanti. Sì, acratico è l’aggettivo che Braibanti preferiva al più comune anarchico. («Acrazia, e anticrazia come suo aspetto operativo, vogliono essere non tanto parole da sostituirsi alle classiche parole dell’anarchia storica, quanto indicazioni eloquenti della necessità di estendere l’indagine anarchica al di là delle sue accezioni strettamente politiche, cercandone l’origine e i fondamenti in uno spazio più comprensivo»: A. Braibanti, Impresa dei prolegomeni acratici). È in questo sistema di libertà che opera il graph di Braibanti e muove la sua reinterpretazione in chiave storico-musicale Girolamo De Simone. Il graffio sfregiante che il musicista napoletano individua in origine nella scrittura rarefatta delle composizioni di Luciano Cilio (1950-1983) fino a quella concettuale e al limite del silenzio di Gabriele Montagano (1960) e poi nella musica di Enrico Renna (1952), di Lorenzo Pone (1991), per prolungarsi, in linea di continuità, con la propria produzione musicale, come nel recente Liturgie du souffle,sfruttando il trait d’union generazionale di Eugenio Fels (recentemente scomparso), conferma la lucidità della sua intuizione. La mobilità acratica del graph che se ne sbatte del potere costituito e della tignosa supponenza delle élites accademiche è la radice comune della produzione artistica dei compositori che a Napoli, città ingrata come poche, hanno operato nella seconda metà del Novecento e che, con più difficoltà che altrove, continuano ancora oggi la loro ricerca sonora. Una ricerca che, per ora, è registrata in dettaglio e con pignoleria nell’agile saggio di Girolamo De Simone pubblicato da Konsequenz. Vincenzo Liguori *In copertina: Theodoor Rombouts, Il suonatore di liuto, 1620 ca. L'articolo Graffi, grafie e graph. L’eresia della scrittura musicale proviene da Pangea.
July 16, 2025 / Pangea
“Detesto la morte”. Dialogo filosofico (via WhatsApp) con Cristiano Godano, tra Nabokov, Marlene Kuntz e l’insensatezza di tutto il resto
Poi – giorni dopo – sono, per lo più, due occhi verdi, verbosi, per sempre fanciulli, occhi da bimbo con la cerbottana. Occhi d’erba. Cristiano Godano, per lo più, è lì, negli occhi: occhi che scalpitano. Occhi con le unghie. Occhi tra l’altalena e la fame, tra azzurro e azzardo.  Siamo ancora qui, mi dirà, dopo. Beve Red Bull. Ha ordinato una quantità di piatti. Mangia poco. Sono di una lentezza esasperante, dice. Ride. Poi, ancora. Siamo ancora qui, dice. Dice dei Marlene Kuntz. Cita i Verdena. Parliamo di Gianni Maroccolo e di Ferretti, dei CSI e del Consorzio Produttori Indipendenti. Tenacia nell’occhio destro, malinconia in quello sinistro. Cristiano ha occhi da Alessandro. Catartica esce nel 1994 – dovevi essere nella brutale periferia torinese, in quegli anni anodini, ad ascoltarlo. Cesare Pavese ha intravisto, in un celebre saggio, il Middle West in Piemonte, ha tentato un gemellaggio tra le Langhe e l’Ohio, mitica terra narrata da Sherwood Anderson. Sono cresciuto a Orbassano, gattopardesco ghetto degli operai della Fiat: quel luogo, nei neri e nubiformi anni Novanta, pareva paragonabile, semmai, agli slums scozzesi di Trainspotting; pensavo alle brughiere di Emily Brontë, a tratti, per uno slancio di sentimentalismo esistenziale. Per salvarmi, rubavo Dylan Thomas e Julio Cortázar nelle librerie di Torino (a Orbassano non esistevano); il mio amico Jonathan suonava Eric Clapton, Mark Knopfler e Jeff Beck. Ascoltavamo, annegando, Nuotando nell’aria: > “Intanto > l’aria intorno è più nebbia che altro… > Mi piacerebbe sai, sentirti piangere > anche una lacrima, per pochi attimi”. Imperava la droga – Roberto Baggio, imperiale, negli Usa – il podio del Festival di Sanremo diceva la piagnona disumanità italica: Aleandro Baldi, Giorgio Faletti, Laura Pausini – in maggio, si insediava il Governo Berlusconi I.  Intorno a Orbassano: chilometri di terre infeconde – il marrone addosso come un bastone, il marrone in faccia. In fondo, a Sfinge, le montagne, bianche, inaccesse – cupa mascella di Dio, pari alle nostre montagne interiori.  * Più tardi suonerà Osja, amore mio, il pezzo dedicato a Osip Mandel’štam, il grande poeta russo straziato da Stalin, morto di stenti nei Gulag sovietici, poco dopo il Natale del 1938. La canzone trae spunto dall’ultima, memorabile lettera di Nadežda al marito – una lettera rimasticata dagli spettri, che Osip non leggerà mai. Osja, amore mio esce nel 2013, l’album dei Marlene Kuntz s’intitola Nella tua luce. “Se mi senti dimmi dove sei…”. Amo le memorie di Nadežda, bellissime e tremende: c’era quel libro, L’epoca e i lupi, ora so che l’hanno ristampato come Speranza contro speranza, mi dice Godano. Poi parliamo di Iosif Brodskij. Fondamenta degli Incurabili.  Come se fosse un abbecedario minimo – Godano indossa gli occhiali da sole come fossero un elmo. All’inizio, però, era Oblomov. Incupito, Cristiano Godano costretto ad ascoltare le prediche di Brullo * Sono a letto, scusami, non si addice alla nostra conversazione: ora mi alzo. Mi dice Godano, giorni fa – giorni che potremmo chiamare Alpi, giorni in rampicata. Come Oblomov, faccio io.  Insieme a Roberta Rocelli, donna di indocile lucidità, che alterna la tenerezza al cazzotto, abbiamo deciso di invitare Cristiano Godano a suonare al Festival Biblico e a parlare del “Salterio dei Poeti”. Così, gli telefono. Che mi dici di Dio? Andavo a Messa da bambino – potrei dirmi ateo, preferisco agnostico: non è nel mio orizzonte, fa lui. E i poeti? Non li leggo. Non è vero, lo incalzo. In Poeti – brano installato in Bianco sporco, album dei Marlene del 2005 – citi Guido Gozzano, “il gran poeta”: Un mio gioco di sillabe ti illuse, da L’onesto rifiuto, gran bella poesia. È vero…, fa lui, intendevo dire che non sono un buon lettore di poesia. Più tardi si attarderà su Montale, “è sempre disponibile a farsi leggere e rileggere”; poi va a Borges, “una sua poesia mi ha ispirato”.  Comincia così un dialogo in ascesa. Come corda, piccozza e artigli usiamo WhatsApp. Facciamo un esperimento, gli dico: ti faccio una domanda al giorno. Sondiamo gli insondati, gli indicibili. Con rapace generosità – sbandato tra un concerto e l’altro – Godano ci sta.  * Parto dal campo base. Ci accomuna l’amore per Nick Cave e Vladimir Nabokov. Il primo è semplice. Mentre io andavo in delirio per No More Shall We Part – ipnotico brano di apertura, As I Sat Sadly by Her Side, mandato a ripetizione in una casa-catafalco a Milano – i Marlene avevano pubblicato da poco Che cosa vedi. Più tardi, sul palco, Godano sradicherà da quel disco il pezzo-Houdini, quello che scatena i cuori ammanettati degli astanti, La canzone che scrivo per te. Manca Skin, non ho il physique. “Di Nick Cave amo tutto. I miei tre dischi preferiti? Forse The Good Son, The Boatman’s Call, Kicking Against the Pricks”.  Poi c’è Nabokov. Ovunque. Cosa c’entri Nabokov con Nick Cave, a parte l’ecumene di N e di K, lo faccio dire a lui, copio-incollo da Il suono della rabbia (il Saggiatore, 2024): > “Due dei miei eroi di riferimento nel campo artistico, Nick Cave e Vladimir > Nabokov, un cantante e uno scrittore, hanno vissuto una vita dedita in maniera > spontaneamente totalizzante all’arte. Immuni a qualsiasi ingerenza del sociale > nei loro lavori artistici, mi hanno sempre dato la sensazione, influente e > ispiratrice, di una esistenza eccitante nella ben nota (e da molti > disprezzata) torre d’avorio dell’artista”.  Godano cita Nabokov come un amuleto. Entrambi siamo affascinati dall’uomo; quando gli parlo di Intransigenze, raccolta nabokoviana di interviste rette dal carisma della crudeltà (in Italia: Adelphi, 1994; l’anno di Catartica…), Godano va in brodo, cita a memoria alcuni giudizi del sommo, “l’asinina Morte a Venezia di Mann… le pannocchiesche cronache di Faulkner”. Ride. L’austerità dell’arte incline a tirannica ascesi. Lo scrittore: al contempo demone e crocefisso all’asse del proprio mondo. Godano preferisce La vera vita di Sebastian Knight; parliamo di Fuoco pallido; quando scopre che ho scritto un romanzo, Nabokov, su Nabokov, mi piglia per matto.  Credo che a Godano piaccia distruggere le maschere. Eleva la maschera a idolo, poi la abolisce, ne fa abominio. Si leva la maschera e la offre come trogolo al pubblico. Condanna di chi vive sul palco, perpetuo pasto dei fan, costretto a essere sigillo di memorie altrui, che non gli appartengono, di cui è ignaro. Nell’ultimo disco, Stammi accanto, un lotto di testi – Lode all’istante, Cerco il nulla, Vacuità – costituisce una specie di sentiero dello spirito, rasenta una poetica dell’esistere.  Vuol farmi credere che “nel Cristiano solista c’è meno frattura – o zero proprio – fra l’io narrante e il sottoscritto”. Fosse così, l’artista morirebbe a ogni pezzo. Spaccare lo specchio, esercitarsi coi vetri finché il sangue non è che una variante del cielo. * Un giorno lo scambio si infuoca. Gli piace Cioran, lo stringo sulla morte, sull’aldilà.  > “Adoro il black humour di Cioran: la penso come lui sul senso della vita, che > per me non c’è. Dunque, detesto profondamente la morte che considero > tremendamente ingiusta. Non ho alcun rapporto ‘foscoliano’ particolare con i > morti: un cimitero mi dice poco in merito al dialogo con loro, nonostante > camminarvi dentro mi consegni una fantastica pace. Una volta ho fatto footing > in un cimitero: inverno, otto e trenta del mattino, tentavo di trovare una > routine salvifica dagli stati ansiogeni che mi assillavano. Sforzo vano: > detesto correre”.  …ma ti rendi conto la noia di essere eterni? “Oh, no, siamo in totale disaccordo. Penso che si tenda a parlare di noia dell’eternità perché la si immagina in connessione con il mortificante accadimento della senescenza, ma se si potesse essere eterni senza invecchiare sfido chiunque a ritrovarsi a un certo punto annoiati della vita…” …eppure la bellezza esiste perché sfiorisce e gli uomini si amano, fino a morirne, proprio perché muoiono… altrimenti, crepino nel crepitio eterno. “Farei a meno dell’amore (ah, l’amore, il mio mistero per eccellenza: l’unica crepa nella mia apparentemente radicale convinzione che tutto sia illusione e che i vari nostri valori – bellezza inclusa – non siano altro che nostre inevitabili costruzioni) se in cambio avessi l’eternità”. Ad ogni modo, hai un figlio. Per lui, sei tu il senso. Al suo cospetto, la vita torna vita, non più tenue insensatezza.  “Sono il senso per mio figlio perché la vita (e l’evoluzione) ci ha tirato questo brutto scherzo: a tutti gli esseri viventi la condanna a cercare di vivere a tutti i costi, affannandoci costantemente e costringendoci a legarci ai più prossimi (genitori in primis) per non soccombere, e a noi esseri umani, in più, la sfiga della coscienza (siamo costretti a essere coscienti) che ci porta e riflettere e speculare e inventare illusioni. (Sono così, ahinoi, soverchiato dal raziocinio)”.  …ma l’arte è mania, mantica, insorgenza dell’irrazionale. La ragione, il logos, è la quintessenza dell’illusione. Se non esistesse la morte (il pensiero della morte, dunque l’amore che ci lega a questo ferito e fetido mondo e non ci fa suicidi), non avrebbe peso né presa l’arte. Un figlio non è generato dal caos, ma dal fato: un dono più che una condanna, da preservare, come il fuoco e il suo fuco. Che si spegnerà è ovvio: intanto, scalda, è luce. Si vive per dare la vita a un altro (anche se l’altro la rifiuta). Da gettati. “Ahimè, per me la vita è condanna. Questione di tempra. ‘Si vive per dare la vita a un alto’ è un altro brutto tiro della vita e dell’evoluzione, questa insensatezza rivolta in avanti (anche se il tempo, come dicono, non esiste). Vedi che è la cazzo di morte (violenta, ingiusta) che definisce tutto? È la sua protervia che ci costringe a ogni tipo di sotterfugi, arte inclusa (che fra tutte le illusioni è l’unica con qualche potenziale, illusorio anch’esso, salvifico)”.  Se è grazie alla morte che ho potuto leggere Trakl e Rilke, vedere Bellini e ascoltare… Godano e Nick Cave, beh, sono felice di morire. Il sotterfugio è il vero gioco da illusionisti. Amo questa terra grave di morte, ma non così tanto. Levarsi di torno senza tema di memoria, di lacrime, di arpie pettegole sarebbe saggio. Sparire più che morire. La morte fa da sprone – la vita, mai nostra, sia restituita. Il resto, chissà… troppo chiasso fanno i pensatori, i poeti impastano l’impensato. “Io amo la vita, ma solo nel senso che è mia con tutto il corredo di sentimenti emozioni affetti che a lei mi lega tenacemente. Odio la morte, che temo ardentemente. Per me ci si può con tranquillità chiedere se fosse meglio non nascere, e propendo più per il sì, con qualche circostanziata remora”. * Un giorno gli dico che è lui il grande illusionista.  I cantautori scrivono pezzi che inchiodano chi li ascolta a quel particolare ricordo, frainteso, acido d’anni: una rosa che si rivela iena, che ti si rivolta addosso. Schiavizzano, e sono schiavi. Mi risponde poco dopo:  > “Credo di poter dire che alla fin fine i miei scopi artistici sono > principalmente estetici. Nell’ambito della scrittura questo vuol dire che > gioisco in particolare di una qualche forma di eleganza connessa all’idea > dello stile, come se avesse un piccolo vantaggio sul significato”.  La forma è il significato (scarceriamo le parole dalla condanna di significare qualcosa, lasciamole essere falchi, ungulati, a unghiate); la chiarezza: idolatria da geometri, da vetusti cardinali del vocabolario. Su questo siamo (quasi) d’accordo. Più tardi costringo Godano al ‘sacro’; si smarca: “non avendo fede e non riuscendo a immaginare credibile l’esistenza di una deità che ci abbia a cuore non penso di nutrire una qualche riverenza altrettanto credibile nei confronti del sacro. Sacri al limite, per me, possono essere alcuni nostri valori (nostri in quanto creati da noi esseri umani), come la compassione”. Parliamo dell’anima, ma so che è fare Arlecchino con il fumo. “Ragionerei più in termini di coscienza”, fa lui, e fiancheggia altre vie, l’arsura del no, “ammetto di non essere particolarmente attratto o consolato dall’idea che la nostra ‘energetica coscienza’ confluisca in un gigantesco ricettacolo universale… anche ’sti cazzi”. Potrebbe essere il motto di una nuova formula teologica.  * Più che altro, va tenuta sull’ambone questa nostra vita da sfracellati. Forse “Cristiano Godano”, votato alla musica, obbligato a concelebrare sul palco, non ha avuto lo spazio per poter essere Cristiano Godano. Da qui gli occhi: perpetuamente famelici. Felici.  Ogni parola, con le sue botole, i botoli, le trappole, semina disorientamenti.   Poi è il concerto, nel giardino del palazzo vescovile di Vicenza, tra fantesche gelsomini. Il canto annienta ogni concetto e tutto torna come è, per sempre primo, rupestre. La vita, allora, è questa immemore caccia di comete felidi, questa luce tra le mani, i volti come stelle filanti.  Quando mi chiama – Davide, Davide – siamo già all’Ade di noi, in un altro mondo di ombre.  *In copertina: Cristiano Godano in un ritratto fotografico di Gabriella Vaghini; nel servizio le fotografie sono di Nicola Zolin L'articolo “Detesto la morte”. Dialogo filosofico (via WhatsApp) con Cristiano Godano, tra Nabokov, Marlene Kuntz e l’insensatezza di tutto il resto proviene da Pangea.
June 5, 2025 / Pangea
Tra l’Iliade e De André. Portiamo i cantautori a scuola. Dialogo con Marcello Bramati
Se muoiono i poeti/ ma non muore la poesia, come scrive Aldo Palazzeschi in Congedo, che cosa si può dire oggi della canzone d’autore? Che ne sarà della canzone d’autore italiana? Quale sarà il suo destino? Cantautori del calibro di De André, Jannacci, Gaber, Guccini, Fossati e via dicendo, tra i banchi di scuola, chi li conosce e riconosce più? La premessa dell’amico e collega Marcello Bramati nel libro L’ultimo miglio. Motivi e modi per accogliere i cantautori nella letteratura e in classe (con prefazione di Massimo Bubola) pubblicato da pochi giorni per Mimesis è questa:  > “La canzone d’autore ha giocato un ruolo decisivo nell’espressione di ciò che > è stato il Novecento, un secolo che ha avuto bisogno di nuovi linguaggi e che > ha rivoluzionato gli schemi secolari precedenti fino a far emergere nuove > forme d’arte e nuove parole per raccontare le tragedie immani e il progresso > esponenziale”, ma “qui sta il punto: la cultura del Novecento non può > affidarsi alla nicchia di colti appassionati e alla buona volontà individuale, > perché la trasmissione dei saperi e del patrimonio culturale è un fatto > sociale e un atto politico che riguarda una generazione intera”.  Insomma, la proposta di Bramati è chiarissima e altrettanto seria: inseriamo i cantautori nell’ultimo miglio della letteratura italiana. Si intervenga anche sulle famigerate Indicazioni ministeriali, ferme all’altro ieri, ovvero il 2010:  > “è necessario dare maggiore luce al Novecento, specie al quarto periodo, > quello in cui hanno scritto poeti straordinari come Mario Luzi, ancora > esclusi de facto dallo studio scolastico, e tutti i cantautori”.  Basta una lezione di prova per capire fino a che punto il cantautorato sia sull’orlo dell’oblio: provare per credere. La tesi è suggestiva e importante e ha un suo appello:  > “provare a portare la musica cantautorale a scuola in modo tale che rientri > nell’istruzione dei cittadini di domani e risulti un’azione di tasso culturale > elevato e non un alleggerimento, un’ora di ricreazione, una bizza di un > docente appassionato che si concede il lusso di buttare via un’ora per qualche > canzone”.  L’amore per la letteratura lo richiede, il docente è chiamato a lasciarne il segno: “La letteratura lascia traccia del suo passaggio nell’anima, nell’immaginazione, nel linguaggio e nel lessico di chi la incontra”. Perché non potrebbe essere così con una canzone “d’autore”? Del resto – ci ricorda il cantautore Massimo Bubola nella bellissima Prefazione dal taglio storico poetico – la canzone nasce dalla poesia e dalla musica che “si sono sempre date la mano”. L’interrogativo non è nuovo, già Montale nel discorso pronunciato per la consegna del Premio Nobel per la letteratura – correva il dicembre 1975, mezzo secolo fa – denunciava:  > “uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla > quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi”.  Era lo stesso Eugenio Montale che, in un articolo sul “Corriere della Sera”, il 21 giugno 1964, a proposito dei “poeti moderni” raccontava che questi scrivevano “seguendo un metronomo interiore”. Ora, al di là della annosa questione della clamorosa assenza della musica e della storia della musica come materia alle superiori nel nostro paese, si pone un’ulteriore questione: i cantautori italiani sono poeti? Bramati riconosce che si tratta di “una tesi tutta da dimostrare e che conta diversi acerrimi nemici”. Tutti ricordiamo quando, suscitando un vespaio di polemiche, nel 2016, il Nobel per la letteratura venne assegnato a Bob Dylan. Tra gli altri anche Alessandro Baricco fu molto critico, invitando a non confondere letteratura e canzone. Sciogliamo un po’ di nodi con l’autore.  Marcello Bramati, da dove cominciamo? C’è il “canone dei cantautori italiani” pubblicato recentemente da Paolo Talanca (Carabba editore) che indica un sentiero, ma come facciamo a forzare la mano e a far entrare in classe i cantautori? “Mi dispiace che si usi questa metafora, perché portare i cantautori in classe è compiere un atto di giustizia. Ciononostante, è proprio così, perché le indicazioni per i programmi della scuola superiore non ne fanno cenno, le antologie inseriscono qualche inserto di quelli che non si fila nessuno, a parte l’appassionato di turno. Di conseguenza, se si vuole portare la canzone d’autore in classe, serve operare un’incisione nel programma e prevedere un fuoripista, un’uscita consapevole dal tracciato ufficiale. Eppure, come diceva De Gregori, la storia siamo noi, nessuno si senta escluso, e quella storia, che passa anche dalle note e dalle parole dei nostri cantautori, deve poter trovare posto tra i banchi. Serve coraggio e non basta la passione, servono una visione educativa più ampia e la volontà di dire: questa non è un’ora persa, è un’ora ritrovata. Il cantautorato è letteratura vissuta, poesia popolare se volessimo cogliere la curvatura di alcune ballate sia per linguistica – si pensi ad alcune scelte semantiche di De Gregori o al dialetto di De André – che per il sociale – in questo caso, il pensiero vada subito Jannacci e a Gaber, fino alla Canzone popolare di Ivano Fossati, manifesto di un modo di far canzone d’autore. Ma la canzone d’autore è ancora di più, molto di più: il labor limae sui suoni e sulla parola carica di significato ne fa un prodotto letterario, quindi pur dovendo forzare la mano per portarla in aula, non si forza la serratura della letteratura nell’inserirla nel suo alveo, anzi si colma una lacuna”. Non sarebbe più facile pensare alla musica come una materia alle scuole superiori? “Sarebbe naturale. Perché la musica è un linguaggio che pervade la vita ordinaria, è passione, passatempo, svago, studio per i pensieri oggi dei ragazzi sui banchi e sempre in quelli dell’essere umano. ‘Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti’, cantava De André. Escludere sistematicamente la musica dagli studi superiori è una responsabilità che porta alla mercificazione e allo svilimento: la musica non è ricreazione, è riflessione. Non è solo ritmo, è senso. Una materia musicale seria alle superiori colmerebbe un vuoto antico. E magari lì, tra un rigo e l’altro, ci sarebbe spazio per Bob Dylan e per Brunori Sas, che con ironia e dolore canta ‘per chi non ha voglia d’abbaiare o di ringhiare/ canzoni tanto per cantare’ che facciano dire: Ma guarda, lo potevo scrivere anche io – e invece no, non potevi. E questo è il potere dell’arte, renderci umani e renderci pensanti, ed è qui che sta la responsabilità della scuola, che insegni il bello e il discernimento tra il bello-artistico e ciò che così arte non è”. Come mai non c’è mai spazio per le cantautrici? “Perché spesso si guarda solo dove la luce è già accesa, e negli ultimi sessant’anni – questo è l’arco temporale della canzone d’autore italiana – nella musica e ovunque gli uomini hanno avuto più possibilità delle donne, quindi hanno spiccato. Ma la verità è che le cantautrici ci sono, eccome. E brillano. Una breve galleria di autrici – e voci – straordinarie potrebbe includere Grazia Di Michele, che ha raccontato l’identità femminile con un’intensità rara, Teresa De Sio, voce del sud e della resistenza culturale, Nada, irregolare e viscerale, Cristina Donà, delicata e potente insieme, Giovanna Marini, storica e voce delle lotte sociali. C’è poi una nuova generazione che probabilmente ha maggiori possibilità e, con la distanza storica necessaria, potrà essere valutata con la lente dell’arte della parola in musica: in questo caso il pensiero va a Levante, che canta l’inquietudine dell’oggi con parole da romanzo, e poi a Carmen Consoli, con la sua prosa affilata e lirica insieme. Nella mia disamina individuo quattro autori da inserire nel programma di letteratura – almeno uno, a scelta – tra De André, Guccini, Battiato e De Gregori, ma a questi possono affiancarsi molti inserti personali e prove individuali. Cito Bubola, autore della prefazione, Niccolò Fabi, penso a Samuele Bersani, e così alle cantautrici appena citate. La letteratura non è solo Dante, Leopardi e Manzoni, ma c’è posto anche per Gozzano e Deledda: lo stesso vale per la canzone d’autore. In questo spazio, ben venga l’inserimento di autrici e autori, in piena parità di valori e dignità. Tutte loro meritano lo stesso palco, la stessa cattedra, la stessa dignità. Come diceva De André, ‘si sa che la gente dà buoni consigli, se non può più dare cattivo esempio’. È ora di dare spazio, di ascoltare davvero”.  A scuola, i tuoi studenti come reagiscono alle lezioni sui cantautori italiani?  “Nel corso dei  cinque anni di superiori, ho sempre inserito la musica d’autore in punta di piedi: una citazione, un rimando, un esercizio, un ascolto per casa, un lavoro su un brano stampato – e magari non ascoltato – sempre inserendo in un discorso più ampio l’opera in questione. Un esempio è La storia di De Gregori, proposta in prima insieme ad alcuni testi tratti da Erodoto, Tucidide, Manzoni. C’è sempre stato interesse, come accade quando una lezione decolla e diventa interessante: qualcuno ha ricordato di avere in casa questo o quell’album (come avviene per i libri), qualcuno di conoscere un nome, un titolo, una melodia, una storia. Proprio come avviene con tutto il materiale buono che si porta in classe, senza dare alla canzone un potere di affascinare più potente di altro. Solo in quinta presento interamente l’autore De Gregori e, a quel punto, giocando a carte scoperte, vengono garantiti ascolto e interesse ben sapendo di essere in un sentiero inesplorato ma che riserva pietre preziose scintillanti. Penso a Mondo politico, traduzione della dylaniana Political World, un esercizio di traduzione e interpretazione che si fa scuola di pensiero e di lingua”. È ancora possibile la poesia? “Sì. Perché la poesia, come diceva Montale nel suo discorso per il Nobel, ‘è ancora un atto di fede nella parola, anche quando la parola è consapevole del proprio fallimento’. In un mondo che vende tutto, anche l’inutile, la poesia resta un gesto di resistenza. È un seme che non sempre attecchisce, ma che va lanciato lo stesso. Perché ‘dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior’, cantava De André. La poesia è linguaggio carico al massimo grado di significato, è un patto generazionale che assegna al fruitore quella dignità di cui gli studenti hanno bisogno, è esercizio di sintesi, di ricerca e di attenzione così raro e così necessario. Ecco, è ancora possibile perché è ancora necessaria. Anche se spesso non si chiama più col suo nome e molto, che poesia non è, viene contrabbandato per esserlo”. Ha ancora senso insegnarla a scuola? “Ha più senso che mai. In un tempo che corre veloce, che urla e dimentica, insegnare poesia è un atto controcorrente. È dire: fermiamoci. Guardiamo. Sentiamo. Andiamo in profondità. Cogliamo la sfumatura. Cerchiamo il silenzio. Insegnare poesia è insegnare compassione, meraviglia, dubbio. Ci sono poesie che sono come un grido (Dante definisce proprio così la sua Commedia in Paradiso XVII), ci sono canzoni che sono ‘come sberle in faccia per costringerti a pensare’ (come canta Brunori): insegnare poesia significa dare strumenti per vivere meglio e sentire di più. E se una cosa bella non è più ordinaria, tocca alla scuola trasmetterla per garantire spazio, risonanza, vita. Questo è il compito più nobile della scuola. Non l’unico, non il più pratico, ma certamente il più alto. Dalla cetra di Omero alla chitarra dei cantautori, il passo non è poi così lungo: entrambi hanno intonato storie che attraversano i secoli, entrambi hanno usato la musica per dare forma alla memoria, alla sofferenza, all’epica quotidiana dell’umanità. Omero cantava di eroi e dei, ma lo faceva con il ritmo della voce e del respiro, affidando alla musica la sua poesia, la sua forza, la sua durata. È in quella scia che si muove ancora oggi la canzone d’autore. Massimo Bubola, nella sua visione limpida e poetica, ci ricorda nella prefazione al mio libro che  > “la canzone nasce dalla poesia e dalla musica che si sono sempre date la mano > come due muse, due sorelle che si tengono per mano e scendono nel mondo per > avvolgerlo di bellezza, per cantarlo e consolarlo”.  In questa immagine c’è tutto: la continuità tra le parole dei classici e le voci dei cantautori, tra il verso epico e la ballata, tra l’Iliade e La guerra di Piero. Letteratura e musica, dunque, non sono mondi separati, ma fili intrecciati nello stesso tessuto dell’anima. La scuola, la cultura, noi tutti abbiamo il compito di custodire questo tessuto. Perché se è vero che i poeti possono morire, come scriveva Palazzeschi, è altrettanto vero che la poesia – in ogni sua forma, anche quella cantata – resta. E resta per cantare ancora”. Linda Terziroli L'articolo Tra l’Iliade e De André. Portiamo i cantautori a scuola. Dialogo con Marcello Bramati proviene da Pangea.
June 4, 2025 / Pangea
“Il nome della rosa” alla Scala. Scenografia possente, musica dimenticabile
«Che sentieri avrebbe percorso un ipotetico compositore Umberto Eco se avesse dovuto scrivere Il nome della rosa non negli anni Ottanta sotto forma di libro, ma oggi sotto forma di opera?». Questa è la domanda che si pone il compositore Francesco Filidei, al quale La Scala e l’Opera di Parigi commissionano un progetto titanico: la trasposizione del romanzo in opera lirica.  «Eco stesso,» continua il musicista, «nelle Postille al Nome della rosa indica la strada da seguire quando parla di “un libro che assumeva una struttura da melodramma buffo, con lunghi recitativi, e ampie arie”». Assodata la forma da adottare, il problema si ripercuote sulla sostanza: «Non avrei potuto continuare senza un elemento fondamentale: un buon motivo per far cantare i personaggi. Siamo in un’abbazia, luogo che si vuole di preghiera: chi dice preghiera dice canto, e nello specifico canto gregoriano, un canto talmente antico da risultare ormai atemporale, sul quale ho fatto scivolare elementi barocchi, ottocenteschi, contemporanei, stemperando la presenza massiva di voci maschili con ruoli en travesti di Adso, Gui e Ubertino.» Dunque, un’opera buffa in due atti, imperniata su una contaminazione musicale tra antico e moderno e una rivisitazione dei personaggi. Manca il libretto, che viene affidato allo stesso Filidei, insieme a Stefano Busellato, Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti. «Abbiamo dovuto tagliare alcuni personaggi e semplificare dal punto di vista narrativo numerose situazioni» ammettono gli autori – ciò nonostante, si tratta di uno spettacolo che dura quasi tre ore. Qui iniziano le criticità. Il primo atto è di una lunghezza disumana, appesantito da un libretto troppo fedele al romanzo. Le citazioni in latino e in greco – perdipiù in forma medievale – non migliorano una proposta musicale stridente e spigolosa. Sebbene vi siano stati momenti di notevole qualità (la tentazione di Adso e la supplica alla Vergine), la musica è orfana di melodie solenni, di tensioni liriche potenti. Questo è dovuto alla latitanza delle arie, che, laddove appaiono, sono prive di ogni coinvolgimento patetico, e alla freddezza dei recitativi, che non si fondono mai con lo spartito. Ibridare l’insegnamento sinfonico di Liszt e Mahler con il gusto contemporaneo sembra privare la musica del suo mistero più profondo:emozionare, commuovere, fare breccia nel cuore al punto che “la parola muore nel pianto”.  Di certo l’intenzione non è questa, ma non si può prescindere dal protagonismo che la musica deve avere nell’opera. Così come non si può prescindere dalla caratterizzazione di certi personaggi. Eco ha speso moltissime righe per il profilo psicologico di Bernardo Gui – per non parlare dell’essenza di Adso. La scelta di inserire dei ruoli en travesti per “stemperare la presenza di voci maschili”, come chiarito da Filidei, è fallimentare. L’inquisitore, sebbene Daniela Barcellona sia stata monumentale e tecnicamente impeccabile, è privo di ogni veridicità storica e letteraria. Se si ricerca la fedeltà al romanzo, non si può trascurare la descrizione che ne fa Eco:  > «Era un domenicano di circa settant’anni, esile ma diritto nella figura. Mi > colpirono i suoi occhi grigi, freddi, capaci di fissare senza espressione, e > che molte volte avrei visto invece balenare di lampi equivoci, abile sia nel > celare pensieri e passioni che nell’esprimerli a bella posta».  Non penso vi siano dubbi sulla legittimità di una voce profonda e baritonale, in perfetta sintonia con la cupezza e l’oscurità di quell’animo impietoso.  Se la musica tende ad essere metallica – in pieno stile Filidei – e il libretto si rivela un deterrente per l’attenzione, il vero trionfo sta nella direzione di Metzmacher, nella regia di Michieletto e nella scenografia di Fantin. Quest’ultimo, però, è il vero protagonista al Piermarini. Sulla base del romanzo, crea “un labirinto psicologico”, con dei teli trasparenti e una grande croce luminosa che pende. Il coro è sopraelevato, posto dietro questa grande “struttura della mente”: con la sua voce incarna l’esoterismo medievale e la parola divina che incute timore, come nella recita tuonante dei versetti dell’Apocalisse.  Strepitoso quanto accade, ad esempio, nella prima stanza: compare un portale scolpito che mostra Cristo Re attorniato da animali terribili; ad un tratto, contorsionisti abilissimi – personificazione del peccato – rompono il finto marmo e avvinghiano Adso e lo sollevano, fino a dominarlo. Stesso stupore nell’apparizione di una gigantesca miniatura animata, nel movimento di un muro che stritola l’Abate e nell’incendio finale, che brucia la croce e “distrugge” la biblioteca.  Scenografia e regia sublimi, direzione e coro eccellenti, meritevole di lode tutto il cast. Filidei onesto e fedele a se stesso, ma non alla tradizione operistica; nulla di male, ma difficile da annoverare tra i grandi melodrammatici: come diceva Verdi a Puccini, dopo il fiasco delle Villi, «l’opera è l’opera, la sinfonia è la sinfonia». È evidente che l’opera di Filidei è cervellotica, straniante, ma il tentativo mentale di ricreare il mondo dell’abbazia e il suo universo medievale prevale sulla creazione artistica; l’idea è vibrante, ma si raffredda quando prende vita. Con Il nome della rosa è venuto meno il motivo per cui si varca il foyer di un teatro come quello scaligero: lasciarsi pervadere dalla musica che colpisce lo stomaco, che accarezza l’anima e rimane incisa per sempre nella memoria. Credo che nessuno si ricorderà la musica del Nome della rosa come si ricorderanno le note verdiane della Donna è mobile o gli accordi pucciniani del Nessun dorma e di E lucevan le stelle. No, noi non siamo ancora pronti a “recidere quel volto”. Davide Chindamo L'articolo “Il nome della rosa” alla Scala. Scenografia possente, musica dimenticabile proviene da Pangea.
May 28, 2025 / Pangea
Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano alla Biennale
“Ci voleva un maomettano.” Così scherza Pietrangelo Buttafuoco, non accreditato motore del progetto straordinario della Biennale di Venezia dedicato all’Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem del filosofo e teologo domenicano “Meister” Johannes Eckhart (1260 – 1328 ca.), in scena a Venezia fino al 15 marzo. Ma più che un maomettano, chi scrive aggiungerebbe che ci voleva un Buttafuoco per trasformare in spettacolo lo sguardo che la vertigine teologica di Eckhart schiude sulle pagine evangeliche di Giovanni, scegliendole in relazione a cinque temi: Logos, Essere, Amore, Bene e Male, Anima e Corpo. Le risposte a ciascuno di questi soggetti, antologie tratte dall’Expositio eckhartiana, diventano così una serie di spettacoli di “teatro della parola”, che prendono vita nel Portego delle colonne della Scuola Grande di San Marco. Grazie alla visione del regista Antonello Pocetti e dello scenografo Antonino Viola (già protagonisti della ricreazione del Prometeo di Luigi Nono nel 2024), lo spazio si trasforma in una basilica trascendente, dalle pareti mutevoli, che si popolano di scorci d’arte, figure astratte e giochi d’ombre (opera dell’artista video Andrew Quinn). Un pulpito è posto al centro – come quello che si racconta fosse stato fatto realizzare da Savonarola per la chiesa di San Marco – e da esso si irradia la parola, il Logos. Una triplice voce, talvolta corale, talvolta dialettica (interpretata dagli attori Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita), tuona da dietro un velo. (E qui la mente già si sforza di superarlo per affrontare il mistero: tra le sue pieghe l’akousma pitagorico, il velo del Tempio, ma anche le cortine chiuse dei presbitèri orientali in questo tempo di Quaresima).  L’Expositio serve, se non a squarciare quel velo, a renderlo trasparente: la parola ambisce a far “apparire attraverso” (trans-parere) la verità trascendente, in linea con la vocazione dell’Ordo predicatorum a cui Eckhart apparteneva (insieme a Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena e Alberto Magno, per citare alcuni illustri domenicani). Ma in queste serate veneziane, accanto al Logos come ragione, parola e argomentazione, troviamo anche il Logos come suggestione sottile e non verbale. L’uno al centro, l’altro tutt’attorno: oltre alla dialettica con l’arte suggerita dai mutevoli muri di video, il “dramma totale” in scena alla Scuola di San Marco si avvale anche della musica. Canto gregoriano, per lo più, ma anche telluriche e primordiali polifonie improvvisate, eseguite dal Coro della Cappella Marciana diretto da Marco Gemmani, promana da quattro palchetti intorno al pubblico. Dopotutto, il canto gregoriano è musica rivelata, e in esso ancora si manifesta il Logos. Ogni sera, dunque, ottanta adepti si raccolgono tra le colonne della Scuola di San Marco e assistono all’esposizione di quel pensiero attorno a cui è stato costruito questo immaginifico apparato, che racchiude la teatralità del dramma come rito: le parole e il pensiero di Eckhart, a suo tempo – e così ancora oggi – in bilico tra santità sapienziale ed esoterica eresia. Nelle prime due sere, per il Logos e l’Essere, Eckhart ci parla di un Verbo creatore e divino, Essenza trascendente che coincide con Dio e che diviene altresì principio divino dell’anima umana: quella Parola (magica?) che permette l’unione mistica con Dio. Poi, l’Amore: amore per Dio, testimoniato dai mistici, e amore di Dio per la creazione, che ama sia l’altro da sé sia quanto di sé è nella creazione. Le ultime due diadi teologiche chiudono i cinque episodi: Bene e Male, Anima e Corpo. Qui la cautela è d’obbligo: il Dio eckhartiano è totalmente trascendente, al di là di ogni conoscenza, e dunque si sottrae alle categorie umane. Il bene e il male, intesi in senso umano, non esistono, ma esiste solo il bene del seguire Dio, senza porsi il problema di cosa sia bene o male. Allo stesso tempo, non c’è contrapposizione tra mondo (e dunque corpo) e Dio, poiché il mondo è teofania continua e presente. Per l’“uomo nobile” non c’è “contemptus mundi”, ma una gioia continua nella contemplazione della potenza dell’Essere divino, percepibile nel mondo fisico e percepibile. Nelle prime serate, con la prima sequenza di cinque episodi, ospiti speciali hanno offerto prospettive e spunti illuminando il multiforme testo eckhartiano: il Cardinale Tolentino de Mendonça, il filosofo Peter Sloterdijk, la studiosa d’arte Cristiana Collu, la filologa e critica Monica Centanni, il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia. Troppo lungo sarebbe anche solo richiamare i momenti più alti dei loro interventi, ma, nella loro libertà, peculiarità, rivelazione personale delle prospettive interiori dei cinque ospiti, questi testi preparavano i convenuti al viaggio, lo facevano avvicinare ed immergere nell’atmosfera mistica, disponevano lo spirito e la mente a quello che sarebbe venuto di lì a poco. Eppure, per quanto illuminanti, questi interventi appartengono alla dimensione della superficie razionale. La comprensione vera avviene dopo: quando si spengono le luci, il velo si chiude, e comincia il rito. Carlo Ferdinando de Nardis L'articolo Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano alla Biennale proviene da Pangea.
March 11, 2025 / Pangea