Fu, al principio, una visione erbivora. Ma quando cade la sera, alle pendici
dell’Aspromonte, è come un sigillo che si spezza, come una trappola che si serra
– tutto è prono al frainteso; non esistono ombre – acronimi della luce, semmai.
E ciò che era preda, si svolge nel predatore.
Insomma, dovrei scrivere un trattato sulla dedizione e uno sull’abbandono.
Perché ogni forma di dedizione è autentica se procede dall’abbandono – se lo
precede. Che è poi: falconeria dello stare al mondo – abituarsi a scegliere con
chi accompagnarsi dalle mani, mai dai volti – mere, metodiche maschere.
Caterina Dufì – credo sia pugliese, credo viva a Bologna, credo sia a questo
mondo dal 1998 – si fa chiamare, quando musica, Vipera. È un nome strano,
sacrificale, nel caso suo: se la si vede dal vivo – senza la triangolazione
fotografica, senza quella genia di immagini – Caterina è quella che si fa
bersaglio della Vipera, creatura che dardeggia, che eccelle nello scatto e nel
veleno. Dedizione al feroce, allora, purché si abbandoni la ferocia. Si dirà:
Caterina è l’avvelenata, il balenio del veleno o l’antidoto? “Le vipere
strisciano ovunque, senza contare quelle che si hanno nel cuore”, dice una quasi
bambina a Don Miguel, tragico co-protagonista di Anna, soror…, il più perfetto
tra i racconti di Marguerite Yourcenar. La bimbetta, calabrese, figlia di un
incantatore di serpenti, dice un’altra cosa: “Ci sono molti nomi che è meglio
non conoscere”. Poi si dice di malattie meridiane, di amori panici e platonici,
e di “brodo di vipera”. Mi è venuto in mente questo racconto ascoltando Acerbo e
divorato, il primo album di Vipera, uscito un paio di anni fa. Chi conosce i
nomi, ne sussurra alcuni, ne fa scorta – altri, li modella all’urlo.
Soprattutto: di ogni nome va aperta la corazza, il carapace che ne inghiotte il
senso. Ogni nome è un paravento: nasconde serpi – o tigri azzurre.
Acerbo e divorato è un album molto bello, che spiazza l’ecumenico andito
dell’odierna musica. La ballata trobadorica si mescola all’elettronica, qui,
Franco Battiato è commisurato ad Antonin Artaud e a Claudia Ruggeri, la
poetessa, a cui è dedicato un pezzo, il primo, Il matto. Su tutto, aleggia lo
spettro di Amelia Rosselli, la Santa Caterina della poesia italiana. “Che di
alcune cose ti basti solo il nominarle. Guardare la lenta impollinazione di
questi fiori bianchi”, bisbiglia Vipera – ma è voce marziale, che s’impiglia
all’osso frontale – in un pezzo che s’intitola Il macedone. Allo stesso tempo:
un’ingenuità che fa inermi – e uno stare al gioco del pericolo. Dal corpo della
colomba si dirama la vipera, con andatura da pianta, da vivente che mette
radice.
Vipera, cover di Acerbo e divorato, photo Alessia Rollo
Poiché è alla ricerca di un’integrità infallibile – che significa: sapere i
punti d’acqua, i punti di flessione, dove la carne è debole – Vipera non ama
parlare di Acerbo e divorato, è già oltre. Non ha tempo di sanare ferite e di
curare l’alfiere di ritorno dalla crociata: a quell’addestramento non si
ritorna, non ha senso né sede. Altra autonomia richiede il durare, il duraturo.
Così, mi fa dono d’ascolto. Tra i nuovi brani, uno si chiama Angelo nero,
attacca così: “Adesso che sta a me farti una domanda lucida, arrivare fino in
fondo a dove forse poi ti trovo di mandorla o di niente”. C’è un decoro, una
indecorosa accuratezza nel modo in cui Vipera usa le parole che va per la
rettitudine dei rettili, è vero. Attacca, stana – e dunque: quel suo bisbiglio,
una voce con le squame, che ti dichiara da un andito del bosco dove per i più è
patria di ululati, di ungulati in schiera.
A vederla, dico, Caterina, fu visione erbivora. Un erbario di occhi ampi, la
figura di una cosa offerta, d’altura. È strano, si dirà, che una creatura
simile, un essere d’aria, abbia scelto a protezione lo stigma di una bestia di
terra, che striscia. Ma qui è il miracolo: l’innocente che s’incarica di tutti i
veleni, che se ne fa carico, ne fa arco. Anima, forse, è un regno senza più
porte: essere quel che si è e abbeverarsene; anima è un altro modo di dire sete.
L’anima bella sibila, come la vipera – per i falchi, non è che la bianca
circostanza della caccia.
Perché Vipera? Chi è vipera?
Suggerivano di non attraversare la macchia mediterranea a mezzogiorno, quando il
sole bacia i rettili.
L’insidia, l’allerta che evoca il serpente, insieme a un’idea marziale che in me
suscita (un rivestimento, una muta, un alfabeto sulla loro pelle che
cambia). Un’immagine così forte è protezione.
Sono elementi che hanno sempre destato in me un grande fascino, e mi sono fatta
ospite loro. Ho scelto questo nome anche (e soprattutto) per il suo suono. Mi
piace l’innesco di quelle consonanti aguzze e il fatto di avere la possibilità
di scegliersi un nome ulteriore, diverso da quello che ho ricevuto in dono.
Perché non usi il tuo nome nei dischi: necessità di scudo, di slancio, di
disastro? Che un nome esista per annientamento?
Quando vado in scena cerco di presentarmi in uno stato vigile, sincero,
inscalfibile. La scena è anche tipografica, comunicativa. Ho anche una grande
passione per gli pseudonimi, i nomignoli, le parole inventate. Per questo ho
scelto un altro nome, che non sia il mio, che mi aiuti nella ricerca di una
postura diversa dal quotidiano.
Che cos’è “Acerbo e divorato”, cosa significa, da dove nasce?
Uno slancio, un tuffo a candela. Un sogno sui rapporti di consanguineità, sui
legami come vincoli e come ramificazioni su cui arrampicare gli occhi.
Un bambino di sei anni scala l’ulivo e arriva in cima, la sua testa sbuca dai
rami e vede, in fondo alla campagna, il mare aperto. Poi una vela. Da lì sogna
di prendere il largo. Lo prende. È un’immagine di giovinezza feroce, che vuole
consumare tutto, avere tutto tra le mani. È un sentimento che mi sorge se penso
al fiore giovane prima della catastrofe. Un’asincronia.
Durante la scrittura di Tentativo di volo, l’EP che precede Acerbo e divorato,
mi è saltata in mente l’immagine del frutto staccato, acerbo. Il gusto che
lascia in bocca – il doppio strappo che crea, nel gesto e nel sapore. Questo
titolo è in realtà il verso di un brano che non ho mai pubblicato. Ho notato che
anche isolato restava denso. Acerbo e divorato lo vedo un po’ come un disco di
formazione, in cui la ricerca sonora e stilistica hanno avuto la meglio
sull’omogeneità di un album musicale.
Così mi sentivo nella mia camera, fumando sul tavolo e guardando al cielo, così
è sorta questa immagine.
Che cos’è per te il verbo, la parola, la poesia? Che cosa la musica?
La parola è una capienza, una misura di efficacia, nitore, brillantezza. È un
evento magico, dove materiale e effimero si scambiano i ruoli, danno vita a
figure, a proposte, progetti sul mondo. Penso a fenomeni fisici, al prisma che
scocca in raggi colorati. Al miraggio, o alle visioni annebbiate da qualche
incenso. Penso a come la parola che prefigura possa agire in misura bipolare nel
negativo e nel suo opposto. Domina, lenisce. La musica e la poesia sono un
luogo di rifugio, una lente felice, che mi tiene accesa e disarmata.
Spiegami “Anime (intermezzo due)”; dimmi cos’è “l’equivalente spirituale
dell’oro”.
A.A.! Le Momo!
Anime è un brano in cui le parole sono un’esortazione, un’auto-esortazione al
restare in vita, nel suo senso più elevato e brillante, oltre alle distorsioni
degli eventi.
“Il teatro alchimistico”, è da lì che deriva “l’equivalente spirituale
dell’oro”. Antonin Artaud ne parla cercando un punto di congiunzione tra
materiale e spirituale. Poter arrivare all’oro, nella mia metafora è una vetta,
che si raggiunge oltrepassando stadi brutali, “malandando”. E “l’anima bella”
nella canzone è esortata a malandare. Così questa vetta dorata può essere
raggiunta nel corpo, attraverso il corpo. È qui che si evolve una parentela
metallica, stavolta in un travaso organico. Qui una ricerca analoga può essere
condotta, dalle funzioni vitali ad un sopra, un’esistenza di spirito che
coesiste, nutre, alimenta quella materiale. Ecco l’equivalente.
In controluce, nel disco, leggo Hegel, Claudia Ruggeri, i provenzali, i
Mirmidoni… cosa te ne fai di queste più o meno occulte citazioni? Cosa te ne fai
della ‘cultura’?
Altre, ancora camuffate, ombrate, tradotte. Ci sono dei concetti che hanno
guidato la scrittura di Acerbo e divorato, immaginandolo ancora come un disco di
formazione. L’anima bella di Hegel, per esempio, è una figura che non scocca,
non cade, non urta, non vive. Ho preso questo ritratto e indossandolo ho cercato
di scardinarlo. Stessa cosa con la poesia della Ruggeri, nell’idea che una
metafora per la crescita possa essere l’andare, il numero zero, l’inizio. In
particolare nel primo brano del disco, Il Matto, avevo il desiderio di ridare
voce a quei versi meravigliosi che aprono la raccolta inferno minore di Claudia
Ruggeri.
Mi servo di strategie labirintiche per il lavoro sui testi, in maniera analoga a
come avviene nel sampling e nell’elaborazione dei frammenti audio. È un processo
simile, che porta alla composizione di significati attraverso un sistema di
citazioni che volendo si svela, indica un disegno nuovo sul tappeto.
Cosa leggi? Dimmi: il poeta che continua a folgorarti; la poesia che hai tatuata
nella cosa detta cuore.
Tornando da casa penso a una poesia di Carlo Bordini. Lui si guarda allo
specchio ed è sicuro che i suoi non lo abbandoneranno mai, ritrovandone i
lineamenti, i modi.
Ma quella che mi buca il cranio è “Se sinistramente ti vidi apparire…”
da Documento di Amelia Rosselli.
Esiste l’anima? Che cos’è?
A dodici anni mi è capitato di percepirne la sede: è come un’intercapedine sotto
pelle, che divide la cute dal resto, dall’interno organico del corpo.
Cosa c’è dopo la morte?
La ricombinazione dei miei vecchi atomi di carbonio.
Confidi in qualcosa, ti arrocchi in qualche fede?
No, ma credo molto nel lavoro su di sé, pensato come educazione all’equilibrio.
La gratitudine che provo in alcuni momenti della vita mi porta ad uno stato
simile alla fede, acceso e sincero.
Qual è la tua bestia araldica, a protezione? Da cosa, poi, bisogna proteggersi?
Proteggersi da quasi tutto, ma il mio trucco è giocare sulla velocità. La
creatura che mi accompagna è il colibrì, certe volte – all’apice – il falco.
Esseri leggeri, esseri record in velocità.
Stai scrivendo – cosa?
Ho passato l’estate a scrivere un disco nuovo, un insieme di brani che ho in
parte suonato a lungo dal vivo, ora cerco un modo di fermarli, per farne un
album. Vorrei assumesse la flessibilità di una lamina metallica che oscilla.
Saranno sistemi elettrici, arteriosi.
Sto lavorando anche a un progetto in duo, con un’amica performer e autrice,
Eugenia Delbue. Ci chiamiamo ETEREA NOISE e uscirà presto il nostro primo album,
versante sonoro dello spettacolo che ha nome Radio Tunnel, per Zoopalco-Zpl,
etichetta bolognese di spoken music.
**
I.Teatro Cava / Ferina
Lavo i denti allo specchio con gli occhi sgranati
come per prepararmi all’ammutinamento
senza sapere da che parte sto
senza pregarti a sangue di non cadere dalla trave.
Immagino una scena scavata dentro ad un grande pezzo di tufo
dove mi hanno promesso che ti potrò assalire
la tana è profonda.
*
ho mangiato l’uva raccolta ho guardato nel centro del sole e non vedendo ho
puntato il dito
per caso
di nuovo
contro di te
II.
C’è una grande quantità di cadaveri di rana sulla strada che porta da un paese a
un altro, attraversano l’asfalto e non sempre arrivano dove devono.
Descrivere è implicito capire.
Ore che ho contato, ora che – uno ad uno – i fili d’erba le attraversano, nel
disordine che sembra sempre senza rimedio, un pensiero oltrepassa queste parole:
sono questi i momenti in cui mi sento particolarmente piccola.
*
III. Reset
aspetto finché non cala
aspetto finché non cade
aspetto finché non cedo
finché non cala
finché non cedo
fino alla fine del fiato
al tuo tempo diverso – più veloce
a un certo punto coincide:
arrivo a parlarti per davvero
umidità tocca corrente.
Attraversando la macchia mediterranea vicino al mare e dalle parti di Torre
Chianca, raccogliamo asparagi selvatici e mi racconti che le centrali
telefoniche, ai tempi tuoi, erano grandi quanto edifici. Quando non sono più
servite, sono state vendute a venticinque lire al chilo e tu hai cambiato
lavoro.
I blocchi relè, pieni di contatti, sono stati smontati e fatti passare uno a uno
lungo un nastro.
Un magnete attraeva a sé i materiali preziosi: il rame, l’ottone, l’oro.
Si tratta di cercare un modo in cui la traccia continua e scava i segni:
pensieri-correnti, che a lungo frequenti: linee su linee nel cranio che prendono
e mantengono una consistenza: una stanza da abitare in piedi e così piena da non
chiedere agli arti di tenerti.
La traccia continua, descrive un comportamento probabile: un mondo piccolo,
personale, in cui la storia arriva come un sedimento: una ricerca dell’oro, per
equivalerlo.
Camminiamo, e non ti lamenti del caldo alla testa. Attraversando una rete si
accede alle zone in cui la costa scogliosa viene segnata in superficie da
piccole faglie continue: ogni goccia che cade disegna – graduale – le aree dove
tra un po’ lo scoglio cederà.
Ci facciamo sismografi, geologi, trekker, ma ci troviamo spesso a camminare lì
sopra, i nostri scogli li conosciamo. Tu una volta sei caduto, ti sei rotto il
naso e dici che da allora respiri meglio.
Non posso scappare se l’allerta arriva insieme al crollo,
cosa corro a fare con la caviglia che mi ritrovo?
Cosa corro a fare?
Aspetto
finché non cado,
fino alla fine del fiato,
al tuo tempo diverso, più veloce.
*In copertina: Vipera in un ritratto fotografico di Clarissa Lapolla
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> Alla materia sonora evocata con arte secondo una prassi disciplinata in modo
> cristallino, Sergiu Celibidache ha riconosciuto, disegnato in un processo
> filosofico improntato all’insolito taglio fenomenologico maturato nel tempo,
> un ruolo di veicolo alla trascendenza.
>
> U. Padroni, Sergiu Celibidache. La fenomenologia per l’uomo
Celibidache arrivò – ne accennavo nella prima puntata di questa serie – come
tappabuchi sul podio dei Berliner per sostituire Furtwängler. Che cosa sarebbe
stato dell’allora giovanissimo direttore romeno, ma ormai in parte germanizzato,
senza la cacciata del vecchio maestro, è difficile divinarlo. Sappiamo in vece
che quell’episodio infame della nuova Germania diede abbrivio a un destino dei
più rutilanti nella storia dell’interpretazione musicale. Felix culpa, per non
dire che talora dalla merda, se non ne ustioni la semente, nascono i fiori.
Pur ancòra odoroso delle stanze del conservatorio Celibidache si mi impose alla
guida dell’orchestra bensì con rispetto ma con la sfrontatezza della giovinezza
e del suo popolo d’origine e, sopra tutto, con una preparazione esorbitante dal
ristretto dominio della teoria musicale, rarissima in un musicista pratico. Per
tutta la vita, oltre alla musica, egli aveva studiate matematica e filosofia (fu
allievo di Nicolai Hartmann, niente di meno); sarebbe arrivato negli anni più
matura lo zen, fuso – passatemi la sbrigatività – in una rara e preziosa lega
con la fenomenologia di Edmund Husserl, che nella storia della filosofia fece
sin dal suo apparire la figura dell’estemporanea e ardita bizzarria, e che fu
soffocata quasi in culla dalle “deviazioni”, queste sì di enormi peso e
conseguenze, non solo per la filosofia, di Heidegger Sartre Merleau-Ponty.
Nonostante qualche iniziale passo stentato e talora qualche accidente direttore
e orchestra si intesero ben presto. La compagine non aveva trovato un altro
Furtwängler, e grazie al Cielo: in arte, come ovunque, le imitazioni sono
pestilenziali; ma uno che si avviava con rapide ma ben posate falcate a
diventare un’altra divinità.
Durò tuttavia poco, pochissimo, ed è la ragione per la quale i più a stento
ricordano nella pur breve teoria dei direttori berlinesi quel nome estraneo e
remoto.
Solo isolato non protetto se non dall’orchestra, allora tuttavia non
sindacalizzata e quindi impotente a imporre il proprio volere, Celibidache fu
spodestato da una di quelle manovre di potere a tenaglia, che vedeva, da una
parte, l’industria discografica e, dall’altra, Herbert von Karajan, che di
pianista (pare eccellente) si era fatto maestro concertatore spinto
dall’ambizione e dal pressante consiglio di Bernhard Paumgartner, il biografo di
Schubert e di Mozart, che nel giovane austriaco aveva intuìte potenzialità
superiori a quelle per la sola tastiera.
I particolari assai curiosi e i vasti silenzi della vita artistica di
Celibidache nei lunghissimi anni successivi li lascio seguire sulla magnifica
monografia Zecchini che al direttore dedica Umberto Padroni citato in esergo –
davvero esemplare e, per soprammercato, dalla prosa di rara bellezza ed eleganza
–, e salto a Monaco di Baviera, l’ultima e più corrusca tappa.
Alla guida dei Filarmonici monacensi Celibidache appare trasfigurato.
I Münchner erano un di quei gioielli nascosti ai più dalle erme internazionali
di Berlino e Vienna, Leningrado e Milano e Roma, come altre magnifiche orchestre
tedesche (Dresda, Bavària). Le occorreva “soltanto” il direttore che sapesse
estrarre da codesta pianta vigorosa e tenace i migliori frutti, ciò che riuscì
al solo Celibidache.
Sergiu Celibidache (1912-1996)
Sulla palingenesi (altro nome non trovo) dei monacensi, che da marginale
compagine si tramutano in orchestra di primissimo rango internazionale, dà
ancòra conto l’insostituibile Padroni. A noi basti di rammentare i due massimi
miracoli di Monaco e che stanno tra i massimi di tutta la storia
dell’interpretazione musicale. Anzitutto Anton Bruckner, tra i giganti del
sinfonismo certo il meno eseguito e capìto.
«Io sono venuto al mondo per dirigere Bruckner», disse con la sua solita e
benedetta immodestia Celibidache a un gruppo di allievi radunati presso la
Scuola d’alto perfezionamento di Saluzzo, provincia di Cuneo, come mi riferì uno
di essi, una donna che aggiunse di non avere mai avuto, nella sua lunga carriera
di musicista, grazia maggiore di quelle estati piemontesi.
Non era un paradosso, ma precisa consapevolezza di quelle che afferrano i pochi,
i rari, e che, sopra tutto, trovano conferma nella sala da concerto e, per come
la tecnologia lo consenta, nel disco. Tolti Arthur Nikisch e Furtwängler,
esemplari d’altre epoca, razza e poetica, mai musicista alle prese con
l’“alieno” di Linz seppe indagarne forme e penetràli, con buona pace di chi,
ancòra oggi, colloca a esempio il pur eccellente Eugen Jochum sul piedistallo
del sinfonismo bruckneriano.
Per certi versi ben più sbigottente è quanto Celibidache disse nel 1992, in
occasione d’una Settima organizzata per raccogliere fondi destinati agli orfani
di Romania, da poco entrata con inganni e sangue spremuti alla popolazione nella
democrazia. Guardando gli orchestrali disciplinati e diffidenti con quegli occhi
birbanti ma di grande bontà e consapevolezza, pronunziò queste parole:
«Eseguirete Bruckner come non lo avete mai eseguito».
Dicevo sbigottente giacché se egli avesse parlato dinanzi a una compagine tra le
millanta, la frase avrebbe avuto peso leggero. Ma parlò davanti ai Berliner, ai
quali Celibidache ritornava, dopo trentasette anni dalla cacciata, per quella
volta soltanto e con un equipaggiamento irripetibile. Causa lo sciatto o più
volentieri proditorio atteggiamento dei soliti maneggioni, di quella esecuzione
non ne tirarono alcuna incisione. Ne abbiamo un frammento di prova soltanto.
Erano, quelle parole, stizza o acredine per l’antico ostracismo? Celibidache non
era un simile tanghero; e poi in quei quasi quarant’anni c’era stato un totale
avvicendamento dei professori d’orchestra, sì che gli attuali, se non commetto
un errore, non avevano suonato mai né con lui, né con Furtwängler, ma erano
stati cucinati prima da Karajan, poi dal suo immediato successore Claudio Abbado
– una colata a picco da stordire –, cui, più che ai musici astanti, quel
messaggio era rivolto, e in ispecie, credo, all’italiano.
Celibidache aveva detta semplicemente la verità. Nonostante in fatti tutta la
réclame e il fracasso d’attorno a quei nomi, il Bruckner di Karajan non aveva
aggiunto alcunché a quello di Furtwängler né d’altrui: se mai aveva sottratto
parecchio; Abbado dirigeva Bruckner – e tutti gli altri olimpi del sinfonismo e
dell’opera – come dirigeva l’Innominabile di Busseto. Davvero di Bruckner, a
Berlino, non se ne sentiva dagli anni Quaranta.
Fu durante quel rimasuglio di prova che mi avvidi, tra il molto altro, della
ragione per cui a esempio l’attacco innumeri volte ascoltato nell’unico disco
circolante, sonasse così inaudito. Come fa?, mi chiedevo, senza mai trovare una
risposta plausibile. La scrittura è semplicissima, parrebbe non far problema,
Bruckner non ha ancòra scatenata tutta la sua altissima maestria tecnica e
creativa. E pure quelle iniziali battute riescono a Celibidache come a nessun
altro, eccetto che a Furtwängler, anche se questi ha un approccio tutt’affatto
differente.
Il lettore si faccia ascoltatore e si vada a scoprire il “segreto” di quei primi
secondi.
Completo l’episodio con queste parole d’Umberto Padroni:
> «Nell’arte e nella vita pubblica del suo tempo questo fu un evento che oggi
> (…) è possibile definire “storico”: nella connotazione la meno inflazionata.
> Esaurita l’esaltante, trascendente avventura musicale, allo spegnersi del
> breve accordo finale in mi maggiore, dopo qualche attimo di silenzio, applausi
> e feste a non finire; il vecchio maestro si volge all’orchestra portando alla
> fronte le mani giunte nel bel gesto buddista, riceve mazzi di fiori e ne
> distribuisce agli archi vicini. Su, nella balconata, il presidente [tedesco]
> Weizsäcker applaude forte e sorride (…). Poi, dietro, il musico ottantenne
> abbraccerà gli anziani, e stringerà la mano a tutti gli orchestrali. “Sul
> piano umano è accaduta una cosa meravigliosa; per quanto attiene alla musica,
> il nostro livello era al di sotto della media. I Berliner oggi non sono altro
> che un’orchestra dotata di buona tecnica. Tutto qui”. E l’orchestra: “Abbiamo
> dovuto dire addio a tante abitudini. Effettivamente stiamo scoprendo
> quest’opera in modo del tutto nuovo”».
Il secondo miracolo se possibile è ancor più eloquente e sconcertante: la sesta
Sinfonia in Si minore di Tchaikowskij, così detta “Patetica”. Salvo trascurabili
eccezioni, se ne sono impossessati tutti i direttori, anche e talora sopra tutto
i meno adatti e dotati. Dopo ricognizioni in che si alternavano perplessità
disgusti ed entusiasmi, ancòra abbastanza giovane, scopersi, insieme a
Shostakovich, uno dei suoi più straordinari interpreti sinfonici, ciò è a dire
Evgenij Mravinskij, direttore della Filarmonica di Leningrado, una delle
svettanti autorità in fatto di musica russa e non da meno di moltissimi
direttori europei e americani quando si cimenti col repertorio occidentale. A
mio giudizio, nonostante i Temirkanov, i Roždestvenskij, i Barshai, Mravinskij è
la prima e l’ultima parola sulla musica russa di ogni tempo. La sua “Patetica”
salì sùbito in cima alla mia personale classifica. Chi altri avrebbe potuto
sopravanzare quelle letture? Mi sbagliavo, e come.
Bisogna avere del fegato per abbrancare quella Sinfonia così troppo bistrattata
e frusta, caduta nelle mani davvero d’ogni sbacchettatore. (Un pomeriggio in
macchina, aprii la radio sulla benemerita Filodiffusione, ventiquattr’ore di
musica classica tutti i giorni dell’anno: quasi una “minaccia”. Transitavo
davanti allo stabilimento torinese della Fiat e pensai che un operaio qualsiasi
avrebbe arrecati meno danni. «Sembra Riccardo Muti», mi dissi confidando in buon
orecchio. La suadente e algida voce femminile dell’annunciatrice, dalla dizione
perfetta, me lo confermò alla fine di quello strazio).
Dico fegato e taccio di altre parti meno nobili del corpo, altrettanto
necessarie per non ridurre quel capolavoro a flaccida geremiade e a lontana eco
della Romantik. Ma anche un cervello fuor del comune. Al termine d’una delle
lezioni di canto che mi impartiva, un amico bravo musicista mi infilò nella
borsa l’incisione di Celibidache coi Münchner, ch’egli aveva definito poco
convincente, e «C’è qualcosa che non va», mi sussurrò scotendo il capo. Qualche
giorno dopo gli restituii il disco: «C’è qualcosa che non va, in effetto», gli
dissi per ischerzo, «Ma nella tua testa».
Ritornato a casa avevo ascoltata la Sinfonia una prima volta, sbigottito. Che
cosa succedeva? Tchaikowskij sembrava averla scritta, dopo che per sé medesimo,
pel direttore romeno-tedesco. Ripigliai daccapo, due, tre, quattro volte. Sempre
trovavo qualcosa di nuovo di profondo di “disumano”. Mi arresi volentieri alla
verità. Una delle più strazianti sincere e squassanti autobiografie in musica
dell’intiera storia di quest’arte trovava sotto la guida di Sergiu Celibidache
l’agognato riscatto da plurimi decenni dei varii conquistadores protervi e
sanguinarii che si ergevano a sacerdoti e maestri, e non la mollano.
Non un errore o una sbavatura. Tutto dal vivo, beninteso, com’era uso di
Celibidache che, al pari e anzi più di Furtwängler detestava la sala
d’incisione. Anche gli applausi elargiti all’ingresso del direttore e alla fine
dell’esecuzione sembravano esser parte di quel disco, perfetto quant’altri mai.
Non esagero dicendo che quel pomeriggio avevo finalmente capìta la “Patetica”.
Ma di dove nasceva codesto modo di far musica? In una concezione che lascio
spiegare ancòra a Padroni: interpretare è «banale e fuorviante luogo comune
implicante inevitabilmente il peccato mortale dell’arbitrio: un sedersi più o
meno malamente, con i propri capricci, sulla partitura. Una forma di
interpretazione avviene semmai nella coscienza di chi ascolti [c.m.], del
destinatario ultimo dell’opera realizzata nel suono. Chi realizzi il testo
musicale è sempre e comunque un esecutore: superficiale o profondo nella
lettura, glabro o ricco di espressione, banale o di forti intenzioni, sciocco o
acuto, ma sempre esecutore, partecipe del prodigio dell’inveramento,
ricostruttore, nella vibrazione sonora storicamente connotata, del testo, il
quale sulla carta è un’indicazione grafica convenzionale, un modesto
approssimativo suggerimento, privo di vibrante vitalità fisica, insomma quasi
lettera morta e freddo scrigno delle lontane emozioni dell’autore, pur dotato
riccamente di spirito; lettera morta, quindi, quando non traduca la spirituale
latenza, dopo la più colta e illuminata fase noetica, nel suono: suono vivente,
come sostiene Enzo Fantin, il quale ha riconosciuto in Sergiu Celibidache
l’apostolo dell’inveramento del principio bruckneriano del “ricominciamento e
del perenne ritorno all’origine”, cioè del motivo di profondo della musica di
questa civiltà».
È lo stesso concetto stracco quando non cadaverico di musica a essere stravolto
da Celibidache:
> «La musica non sono le note, la musica non sono i forti, i piano, il lento,
> l’allegro. No! Io mi servo di quello per esprimere qualche cosa che io non
> posso definire in modo razionale, come qualsiasi altro fenomeno estetico:
> rimane un mistero per la ragione (…). È impossibile definire la musica: non
> c’è definizione. È esclusa dal pensiero; io ho cercato di capire che cosa si
> possa chiamare realtà; come ogni intellettuale intendevo materializzarla,
> farla diventare concreta: sbagliando, come ho sbagliato tentando di definire
> la musica (…). La musica esiste solo nell’arco di tempo della sua esecuzione.
> Il brano musicale non esiste: nasce ogni volta che si esegue».
Correggo ora una certa facile e naturale terminologia, adoperata anche da me.
Sbaglierebbe, giusta lo stesso Celibidache, chi parlasse troppo sul serio
di geniounico, di eccezione miracolosa.
Discutendo presso la scuola di perfezionamento di Saluzzo con un giovane
oboista, Celibidache fa questo discorso:
> «Tu non sei un povero oboista ma sei tutto, sei tu, sei assoluto. La dualità
> esiste solo nella mente speculativa. Rifugiandosi nella tecnica ci si
> dimentica che si tratta di un fattore fisico funzionale al raggiungimento di
> un clima spirituale; mitizzarla è cosa grave poiché distrae dalla necessità di
> salvare le idee originali. Nella concezione borghese esiste [sic] “il genio” e
> “gli altri”: questo non porta a nulla. Io ho piacere di parlare con te, e non
> con quello che la vita ha fatto di te».
E ancòra: «Nella concezione di Celibidache l’interpretazione è una faccenda un
po’ infantile da salotto domenicale, o anche un passatempo per i più modesti
abbonati quando si incontrano, nell’intervallo del concerto, a scambiarsi
tranquille banalità nell’ex fumoir. Che dire poi dei trastulli del tipo
“Interpreti a confronto”? “Allontanatevi da tutti quei rifiuti – diceva il
maestro ai suoi allievi – amalgamati in concerti prefissati. L’interpretazione,
ad esempio, è in realtà una rischiosa addizione tra l’ignoranza di chi esegue e
quella di chi ascolta. Concetti come genio, talento sono scemenze. Ognuno di noi
ha le sue possibilità, solo che nella maggior parte di noi, sono bloccate in
maniera diversa”».
A un giovane che poneva la impossibile domanda se i geni del passato sarebbero
un giorno tornati, il maestro non esitava:
> «Tu potresti essere uno dei geni di cui senti la mancanza! Non sorridete! È
> invece una vergogna che questi tempi, questa civiltà, questo mondo ti abbia
> impedito di diventare un altro Bach. Ma in te c’è tutto questo; è la verità,
> se c’è la luce della coscienza, cioè la libertà di attingere concretamente al
> passato, per proiettarti nel futuro: questo devi cercare per stabilire un
> rapporto con la realtà; la Realtà, non quella falsa, condizionata, virtuale».
Sincere senza alcun dubbio, queste parole peccano forse d’una visione un po’
ottimistica.
Fissato con certe questioni neurologiche e della fisica, sarei più cauto a
democratizzare l’artista. Certo gli è però che ticchi pigrizia distrazione
vecchiezza vanità ambizione hanno soffocate in vizii e balordaggini irremeabili
potenzialità e capacità già acquisite. Penso a esempio a quanto e come avrebbe
potuto fare un Karajan se si fosse liberato dalle sue connotazioni deleterie. Ma
certe dotazioni o le hai dalla nascita oppure al massimo potrai elevarti sopra i
mediocri, non oltre.
Accanto e insieme a questa prospettiva si deve contemplare l’analoga, che
investe l’orchestra, e che rende ragione del resultato, educativo e artistico,
raggiunto sotto di lui dai monacensi.
> «Egli comprese (…) quanto fosse preferibile lavorare con orchestre di modesta
> storia e spessore (…), ma animate da buona volontà, quindi più permeabili a
> nuove idee e all’originalità, piuttosto che mettere a punto un’esecuzione dal
> podio di un’illustre orchestra che si senta depositaria di una, talvolta solo
> presunta, tradizione. In questi casi l’eccellenza dell’organico, ufficialmente
> riconosciuta, è solitamente da leggere anche in termini di supponenza, e il
> direttore che disponga di idee, il quale subito si compiace della prontezza
> della lettura e dell’efficienza della compagine, non tarda però a realizzare
> quanto essa sia invece chiusa in difesa, e persino ottusa, e nella sua prassi
> sia limitato lo spazio per la comprensione, e quindi l’adesione
> alle condizioni sempre mutevoli dell’esecuzione musicale [c.m.]. “Il sapere è
> attaccamento al passato, una zavorra che fa perdere la spontaneità”. Qui
> sembra rilucere il diamante che impreziosisce, con il taglio fenomenologico
> (…) il nuovo e più vero rapporto con la pagina; per Celibidache esso assegna
> all’atto del fare musica, solistica od orchestrale, il compito di trarre dalla
> multiforme realtà contingente sempre mutabili, l’unica vera, possibile
> identità dell’opera musicale (…) hic et nunc».
Non voglio tuttavia lasciare nel lettore l’impressione di un’adesione acritica a
un artista il cui metodo ritengo in fatti inadatto con Beethoven, sopra tutto
col Beethoven più noto, della Quinta o della Settima. Taccio le ragioni di un
mancata persuasione, ché non importano a nessuno e allungherebbero troppo
l’articolo. Lascio all’ascoltatore il piacere di esplorare da sé questo meandro.
Un altro aspetto di Celibidache che può far storcere il naso è l’avversione per
i suoi colleghi. Vorrei davvero che, tolti certuni su cui Celibidache disse solo
la verità («ignoranti» e altre simili graziosità), le considerazioni dedicate a
esempio a un Karl Böhm, tra le sommità, siano state dette o in momenti di
stizza, riportate male, o invenzioni di sana pianta di qualche giornalista
malevolo. Ma se temo di no.
Certamente Celibidache andrebbe però in questo senso lodato almeno perché ebbe
il coraggio di dire schiettamente ciò che altri pensano ma tacciono,oppure si
limitano a dire solo agli intimi, minacciandoli di morte se dovessero spifferare
quei loro giudizii.
Altro ci sarebbe da aggiungere, ma è meglio piantarla qui e andare ad ascoltare.
Luca Bistolfi
L'articolo “Tu potresti essere uno dei geni di cui senti la mancanza!” Note su
Sergiu Celibidache proviene da Pangea.
> Viviamo nell’era del dio della Carta. La musica ne è soggetta proprio come
> tutto il resto. Se escludiamo il jazz o le orchestre di musica leggera, che
> hanno conservato i concetti di un tempo, abbandonati dalla musica classica,
> […] non c’è più una singola nota di un fugace arpeggio nella musica
> occidentale odierna – la nostra musica – che non sia stata precedentemente
> disegnata con un cerchio, una coda e piccoli uncini, né una singola sfumatura
> o inflessione che non sia stata segnalata, come un rallentamento in
> autostrada, da un piccolo disegno o da un segno ad hoc, su un foglio di cinque
> righi o suo equivalente, da quell’altra divinità mitica che è diventato il
> Compositore.
>
> Jacques Chailley, La Musique et le Signe, Edition d’aujourd’hui,
> Plan-de-la-tour, France, 2004, p. 5 (trad. mia).
Che la grafia sia segno o lasci un segno è cosa nota e per lo più scontata. Lo
scrivere, atto innaturale e volgare che infatti i re e le divinità concedevano a
scribi e profeti, dopotutto è quella cosa lì, tracciare sulla cera, sulla carta,
sul muro o sulle porte delle latrine le proprie bêtises.
Eppure, che a un certo punto la musica abbia sentito la necessità di dotarsi di
una grafia, di un segno, di qualcosa che la rappresentasse, lascia interdetti.
Benché questo segno non le sia congeniale e con essa non abbia alcuna
contiguità, la musica ne ha voluto uno tutto per sé come la zitella che non
vedeva l’ora di prendere marito.
Cosicché il suo mondo dirozzato dal segno grafico e dalla parola improvvisamente
inciampa, diciamo così, nella grossolana ovvietà della grafia che, nel suo caso,
diventa notazione. La musica, insomma, come un linguaggio qualsiasi, avverte
l’inspiegabile necessità di dotarsi di un segno e infine lo ottiene, ma in un
attimo perde la noblesse che il phàrmakon della scrittura proditoriamente le ha
sottratto.
Musicisti e strimpelloni dovrebbero tenerne conto invece di scimunirsi
con Études d’exécution transcendante e Gradus ad Parnassum. A costoro farebbe
bene adottare un po’ di quell’intransigenza con la quale nel Fedroplatonico
Thamus schivò le blandizie del dio Theuth che gli presentava le miracolose virtù
della scrittura. Invece il loro grafismo isterico e il loro ottuso narcisismo
trascurano la parte più importante della faccenda: la musica non ama l’insolenza
del segno o di qualsiasi discorso che intenda sottrarle lo scettro regale con il
quale impone le sue diaboliche leggi.
Con il nobile pretesto di tracciare una provvisoria e non esaustiva storia della
Scuola pianistica a Napoli dall’Ottocento a oggi, Girolamo De Simone (Napoli,
1964) è tra i pochi musicisti contemporanei che si è posto il problema della
grafia musicale concettualizzandolo. L’esito di questo lavoro è depositato
nell’ultimo capitolo del suo nuovo saggio intitolato, appunto, Graffi e Grafie.
Pianismi e pianisti a Napoli.
Non che per le sue composizioni De Simone abbia completamente abbandonato la
tradizionale notazione musicale (già perlopiù deformata o adattata alla nuova
frontiera della sua espressione artistica), ma ciò che qui si fa interessante e
si impone per novità di pensiero è l’adozione e l’uso personalissimo del graph,
del «segno mobile» che egli prende dalla lettura e dallo studio delle poche e
quasi sconosciute opere di Aldo Braibanti (1922-2014), il libero pensatore
piacentino che alla fine degli anni Sessanta subì un processo per plagio – credo
unico in Italia – culminato con la sua condanna a quattro anni di carcere.
Il graph, afferma Girolamo De Simone, deve poter attestare e garantire la
«totale mobilità formale» necessaria alla ricerca e alla nascita di nuovi
linguaggi sonori. Perciò esso, più che segno vero e proprio, più che forma
cristallizzata e stantia di notazione musicale, è l’idea stessa che incoraggia
il cambiamento, è ciò che «trascorre al di là della dialettica», è il nome dato
allo «sforzo di ricondurre lo strumento inorganico all’organo». Per tale motivo,
il graph deve essere libero, deve potersi muovere, poter scorrere, scavare,
solcare e ferire come il graffio con il quale condivide esiti e assonanze
linguistiche.
Dunque, il graph di Braibanti nella ripresa concettuale che ne fa De Simone si
accresce di senso fino al punto che la sua mobilità diventa sinonimo di
passaggio generazionale, di attraversamento, di transito verso nuovi codici e
nuovi stili. La stagnazione del pensiero che produce il tanfo mucido delle
accademie è assolutamente ostile a Girolamo De Simone che in Graffi e Grafie si
confronta con il pensiero acratico dell’“eretico” Braibanti. Sì, acratico è
l’aggettivo che Braibanti preferiva al più comune anarchico. («Acrazia, e
anticrazia come suo aspetto operativo, vogliono essere non tanto parole da
sostituirsi alle classiche parole dell’anarchia storica, quanto indicazioni
eloquenti della necessità di estendere l’indagine anarchica al di là delle sue
accezioni strettamente politiche, cercandone l’origine e i fondamenti in uno
spazio più comprensivo»: A. Braibanti, Impresa dei prolegomeni acratici).
È in questo sistema di libertà che opera il graph di Braibanti e muove la sua
reinterpretazione in chiave storico-musicale Girolamo De Simone. Il graffio
sfregiante che il musicista napoletano individua in origine nella scrittura
rarefatta delle composizioni di Luciano Cilio (1950-1983) fino a quella
concettuale e al limite del silenzio di Gabriele Montagano (1960) e poi nella
musica di Enrico Renna (1952), di Lorenzo Pone (1991), per prolungarsi, in linea
di continuità, con la propria produzione musicale, come nel recente Liturgie du
souffle,sfruttando il trait d’union generazionale di Eugenio Fels (recentemente
scomparso), conferma la lucidità della sua intuizione.
La mobilità acratica del graph che se ne sbatte del potere costituito e della
tignosa supponenza delle élites accademiche è la radice comune della produzione
artistica dei compositori che a Napoli, città ingrata come poche, hanno operato
nella seconda metà del Novecento e che, con più difficoltà che altrove,
continuano ancora oggi la loro ricerca sonora. Una ricerca che, per ora, è
registrata in dettaglio e con pignoleria nell’agile saggio di Girolamo De Simone
pubblicato da Konsequenz.
Vincenzo Liguori
*In copertina: Theodoor Rombouts, Il suonatore di liuto, 1620 ca.
L'articolo Graffi, grafie e graph. L’eresia della scrittura musicale proviene da
Pangea.
Poi – giorni dopo – sono, per lo più, due occhi verdi, verbosi, per sempre
fanciulli, occhi da bimbo con la cerbottana. Occhi d’erba. Cristiano Godano, per
lo più, è lì, negli occhi: occhi che scalpitano. Occhi con le unghie. Occhi tra
l’altalena e la fame, tra azzurro e azzardo.
Siamo ancora qui, mi dirà, dopo. Beve Red Bull. Ha ordinato una quantità di
piatti. Mangia poco. Sono di una lentezza esasperante, dice. Ride. Poi, ancora.
Siamo ancora qui, dice. Dice dei Marlene Kuntz. Cita i Verdena. Parliamo di
Gianni Maroccolo e di Ferretti, dei CSI e del Consorzio Produttori Indipendenti.
Tenacia nell’occhio destro, malinconia in quello sinistro. Cristiano ha occhi da
Alessandro.
Catartica esce nel 1994 – dovevi essere nella brutale periferia torinese, in
quegli anni anodini, ad ascoltarlo. Cesare Pavese ha intravisto, in un celebre
saggio, il Middle West in Piemonte, ha tentato un gemellaggio tra le Langhe e
l’Ohio, mitica terra narrata da Sherwood Anderson. Sono cresciuto a Orbassano,
gattopardesco ghetto degli operai della Fiat: quel luogo, nei neri e nubiformi
anni Novanta, pareva paragonabile, semmai, agli slums scozzesi di Trainspotting;
pensavo alle brughiere di Emily Brontë, a tratti, per uno slancio di
sentimentalismo esistenziale. Per salvarmi, rubavo Dylan Thomas e Julio Cortázar
nelle librerie di Torino (a Orbassano non esistevano); il mio amico Jonathan
suonava Eric Clapton, Mark Knopfler e Jeff Beck. Ascoltavamo,
annegando, Nuotando nell’aria:
> “Intanto
> l’aria intorno è più nebbia che altro…
> Mi piacerebbe sai, sentirti piangere
> anche una lacrima, per pochi attimi”.
Imperava la droga – Roberto Baggio, imperiale, negli Usa – il podio del Festival
di Sanremo diceva la piagnona disumanità italica: Aleandro Baldi, Giorgio
Faletti, Laura Pausini – in maggio, si insediava il Governo Berlusconi I.
Intorno a Orbassano: chilometri di terre infeconde – il marrone addosso come un
bastone, il marrone in faccia. In fondo, a Sfinge, le montagne, bianche,
inaccesse – cupa mascella di Dio, pari alle nostre montagne interiori.
*
Più tardi suonerà Osja, amore mio, il pezzo dedicato a Osip Mandel’štam, il
grande poeta russo straziato da Stalin, morto di stenti nei Gulag sovietici,
poco dopo il Natale del 1938. La canzone trae spunto dall’ultima, memorabile
lettera di Nadežda al marito – una lettera rimasticata dagli spettri, che Osip
non leggerà mai. Osja, amore mio esce nel 2013, l’album dei Marlene Kuntz
s’intitola Nella tua luce. “Se mi senti dimmi dove sei…”. Amo le memorie di
Nadežda, bellissime e tremende: c’era quel libro, L’epoca e i lupi, ora so che
l’hanno ristampato come Speranza contro speranza, mi dice Godano. Poi parliamo
di Iosif Brodskij. Fondamenta degli Incurabili. Come se fosse un abbecedario
minimo – Godano indossa gli occhiali da sole come fossero un elmo. All’inizio,
però, era Oblomov.
Incupito, Cristiano Godano costretto ad ascoltare le prediche di Brullo
*
Sono a letto, scusami, non si addice alla nostra conversazione: ora mi alzo. Mi
dice Godano, giorni fa – giorni che potremmo chiamare Alpi, giorni in rampicata.
Come Oblomov, faccio io.
Insieme a Roberta Rocelli, donna di indocile lucidità, che alterna la tenerezza
al cazzotto, abbiamo deciso di invitare Cristiano Godano a suonare al Festival
Biblico e a parlare del “Salterio dei Poeti”. Così, gli telefono. Che mi dici di
Dio? Andavo a Messa da bambino – potrei dirmi ateo, preferisco agnostico: non è
nel mio orizzonte, fa lui. E i poeti? Non li leggo. Non è vero, lo incalzo.
In Poeti – brano installato in Bianco sporco, album dei Marlene del 2005 – citi
Guido Gozzano, “il gran poeta”: Un mio gioco di sillabe ti illuse, da L’onesto
rifiuto, gran bella poesia. È vero…, fa lui, intendevo dire che non sono un buon
lettore di poesia. Più tardi si attarderà su Montale, “è sempre disponibile a
farsi leggere e rileggere”; poi va a Borges, “una sua poesia mi ha ispirato”.
Comincia così un dialogo in ascesa. Come corda, piccozza e artigli usiamo
WhatsApp. Facciamo un esperimento, gli dico: ti faccio una domanda al giorno.
Sondiamo gli insondati, gli indicibili. Con rapace generosità – sbandato tra un
concerto e l’altro – Godano ci sta.
*
Parto dal campo base. Ci accomuna l’amore per Nick Cave e Vladimir Nabokov. Il
primo è semplice. Mentre io andavo in delirio per No More Shall We Part –
ipnotico brano di apertura, As I Sat Sadly by Her Side, mandato a ripetizione in
una casa-catafalco a Milano – i Marlene avevano pubblicato da poco Che cosa
vedi. Più tardi, sul palco, Godano sradicherà da quel disco il pezzo-Houdini,
quello che scatena i cuori ammanettati degli astanti, La canzone che scrivo per
te. Manca Skin, non ho il physique. “Di Nick Cave amo tutto. I miei tre dischi
preferiti? Forse The Good Son, The Boatman’s Call, Kicking Against the Pricks”.
Poi c’è Nabokov. Ovunque. Cosa c’entri Nabokov con Nick Cave, a parte l’ecumene
di N e di K, lo faccio dire a lui, copio-incollo da Il suono della rabbia (il
Saggiatore, 2024):
> “Due dei miei eroi di riferimento nel campo artistico, Nick Cave e Vladimir
> Nabokov, un cantante e uno scrittore, hanno vissuto una vita dedita in maniera
> spontaneamente totalizzante all’arte. Immuni a qualsiasi ingerenza del sociale
> nei loro lavori artistici, mi hanno sempre dato la sensazione, influente e
> ispiratrice, di una esistenza eccitante nella ben nota (e da molti
> disprezzata) torre d’avorio dell’artista”.
Godano cita Nabokov come un amuleto. Entrambi siamo affascinati dall’uomo;
quando gli parlo di Intransigenze, raccolta nabokoviana di interviste rette dal
carisma della crudeltà (in Italia: Adelphi, 1994; l’anno di Catartica…), Godano
va in brodo, cita a memoria alcuni giudizi del sommo, “l’asinina Morte a
Venezia di Mann… le pannocchiesche cronache di Faulkner”. Ride. L’austerità
dell’arte incline a tirannica ascesi. Lo scrittore: al contempo demone e
crocefisso all’asse del proprio mondo. Godano preferisce La vera vita di
Sebastian Knight; parliamo di Fuoco pallido; quando scopre che ho scritto un
romanzo, Nabokov, su Nabokov, mi piglia per matto.
Credo che a Godano piaccia distruggere le maschere. Eleva la maschera a idolo,
poi la abolisce, ne fa abominio. Si leva la maschera e la offre come trogolo al
pubblico. Condanna di chi vive sul palco, perpetuo pasto dei fan, costretto a
essere sigillo di memorie altrui, che non gli appartengono, di cui è ignaro.
Nell’ultimo disco, Stammi accanto, un lotto di testi – Lode all’istante, Cerco
il nulla, Vacuità – costituisce una specie di sentiero dello spirito, rasenta
una poetica dell’esistere.
Vuol farmi credere che “nel Cristiano solista c’è meno frattura – o zero proprio
– fra l’io narrante e il sottoscritto”. Fosse così, l’artista morirebbe a ogni
pezzo. Spaccare lo specchio, esercitarsi coi vetri finché il sangue non è che
una variante del cielo.
*
Un giorno lo scambio si infuoca. Gli piace Cioran, lo stringo sulla morte,
sull’aldilà.
> “Adoro il black humour di Cioran: la penso come lui sul senso della vita, che
> per me non c’è. Dunque, detesto profondamente la morte che considero
> tremendamente ingiusta. Non ho alcun rapporto ‘foscoliano’ particolare con i
> morti: un cimitero mi dice poco in merito al dialogo con loro, nonostante
> camminarvi dentro mi consegni una fantastica pace. Una volta ho fatto footing
> in un cimitero: inverno, otto e trenta del mattino, tentavo di trovare una
> routine salvifica dagli stati ansiogeni che mi assillavano. Sforzo vano:
> detesto correre”.
…ma ti rendi conto la noia di essere eterni?
“Oh, no, siamo in totale disaccordo. Penso che si tenda a parlare di noia
dell’eternità perché la si immagina in connessione con il mortificante
accadimento della senescenza, ma se si potesse essere eterni senza invecchiare
sfido chiunque a ritrovarsi a un certo punto annoiati della vita…”
…eppure la bellezza esiste perché sfiorisce e gli uomini si amano, fino a
morirne, proprio perché muoiono… altrimenti, crepino nel crepitio eterno.
“Farei a meno dell’amore (ah, l’amore, il mio mistero per eccellenza: l’unica
crepa nella mia apparentemente radicale convinzione che tutto sia illusione e
che i vari nostri valori – bellezza inclusa – non siano altro che nostre
inevitabili costruzioni) se in cambio avessi l’eternità”.
Ad ogni modo, hai un figlio. Per lui, sei tu il senso. Al suo cospetto, la vita
torna vita, non più tenue insensatezza.
“Sono il senso per mio figlio perché la vita (e l’evoluzione) ci ha tirato
questo brutto scherzo: a tutti gli esseri viventi la condanna a cercare di
vivere a tutti i costi, affannandoci costantemente e costringendoci a legarci ai
più prossimi (genitori in primis) per non soccombere, e a noi esseri umani, in
più, la sfiga della coscienza (siamo costretti a essere coscienti) che ci porta
e riflettere e speculare e inventare illusioni. (Sono così, ahinoi, soverchiato
dal raziocinio)”.
…ma l’arte è mania, mantica, insorgenza dell’irrazionale. La ragione, il logos,
è la quintessenza dell’illusione. Se non esistesse la morte (il pensiero della
morte, dunque l’amore che ci lega a questo ferito e fetido mondo e non ci fa
suicidi), non avrebbe peso né presa l’arte. Un figlio non è generato dal caos,
ma dal fato: un dono più che una condanna, da preservare, come il fuoco e il suo
fuco. Che si spegnerà è ovvio: intanto, scalda, è luce. Si vive per dare la vita
a un altro (anche se l’altro la rifiuta). Da gettati.
“Ahimè, per me la vita è condanna. Questione di tempra. ‘Si vive per dare la
vita a un alto’ è un altro brutto tiro della vita e dell’evoluzione, questa
insensatezza rivolta in avanti (anche se il tempo, come dicono, non esiste).
Vedi che è la cazzo di morte (violenta, ingiusta) che definisce tutto? È la sua
protervia che ci costringe a ogni tipo di sotterfugi, arte inclusa (che fra
tutte le illusioni è l’unica con qualche potenziale, illusorio anch’esso,
salvifico)”.
Se è grazie alla morte che ho potuto leggere Trakl e Rilke, vedere Bellini e
ascoltare… Godano e Nick Cave, beh, sono felice di morire. Il sotterfugio è il
vero gioco da illusionisti. Amo questa terra grave di morte, ma non così tanto.
Levarsi di torno senza tema di memoria, di lacrime, di arpie pettegole sarebbe
saggio. Sparire più che morire. La morte fa da sprone – la vita, mai nostra, sia
restituita. Il resto, chissà… troppo chiasso fanno i pensatori, i poeti
impastano l’impensato.
“Io amo la vita, ma solo nel senso che è mia con tutto il corredo di sentimenti
emozioni affetti che a lei mi lega tenacemente. Odio la morte, che temo
ardentemente. Per me ci si può con tranquillità chiedere se fosse meglio non
nascere, e propendo più per il sì, con qualche circostanziata remora”.
*
Un giorno gli dico che è lui il grande illusionista.
I cantautori scrivono pezzi che inchiodano chi li ascolta a quel particolare
ricordo, frainteso, acido d’anni: una rosa che si rivela iena, che ti si rivolta
addosso. Schiavizzano, e sono schiavi. Mi risponde poco dopo:
> “Credo di poter dire che alla fin fine i miei scopi artistici sono
> principalmente estetici. Nell’ambito della scrittura questo vuol dire che
> gioisco in particolare di una qualche forma di eleganza connessa all’idea
> dello stile, come se avesse un piccolo vantaggio sul significato”.
La forma è il significato (scarceriamo le parole dalla condanna di significare
qualcosa, lasciamole essere falchi, ungulati, a unghiate); la chiarezza:
idolatria da geometri, da vetusti cardinali del vocabolario. Su questo siamo
(quasi) d’accordo.
Più tardi costringo Godano al ‘sacro’; si smarca: “non avendo fede e non
riuscendo a immaginare credibile l’esistenza di una deità che ci abbia a cuore
non penso di nutrire una qualche riverenza altrettanto credibile nei confronti
del sacro. Sacri al limite, per me, possono essere alcuni nostri valori (nostri
in quanto creati da noi esseri umani), come la compassione”. Parliamo
dell’anima, ma so che è fare Arlecchino con il fumo. “Ragionerei più in termini
di coscienza”, fa lui, e fiancheggia altre vie, l’arsura del no, “ammetto di non
essere particolarmente attratto o consolato dall’idea che la nostra ‘energetica
coscienza’ confluisca in un gigantesco ricettacolo universale… anche ’sti
cazzi”. Potrebbe essere il motto di una nuova formula teologica.
*
Più che altro, va tenuta sull’ambone questa nostra vita da sfracellati.
Forse “Cristiano Godano”, votato alla musica, obbligato a concelebrare sul
palco, non ha avuto lo spazio per poter essere Cristiano Godano. Da qui gli
occhi: perpetuamente famelici. Felici.
Ogni parola, con le sue botole, i botoli, le trappole, semina disorientamenti.
Poi è il concerto, nel giardino del palazzo vescovile di Vicenza, tra fantesche
gelsomini. Il canto annienta ogni concetto e tutto torna come è, per sempre
primo, rupestre. La vita, allora, è questa immemore caccia di comete felidi,
questa luce tra le mani, i volti come stelle filanti.
Quando mi chiama – Davide, Davide – siamo già all’Ade di noi, in un altro mondo
di ombre.
*In copertina: Cristiano Godano in un ritratto fotografico di Gabriella Vaghini;
nel servizio le fotografie sono di Nicola Zolin
L'articolo “Detesto la morte”. Dialogo filosofico (via WhatsApp) con Cristiano
Godano, tra Nabokov, Marlene Kuntz e l’insensatezza di tutto il resto proviene
da Pangea.
Se muoiono i poeti/ ma non muore la poesia, come scrive Aldo Palazzeschi
in Congedo, che cosa si può dire oggi della canzone d’autore? Che ne sarà della
canzone d’autore italiana? Quale sarà il suo destino? Cantautori del calibro di
De André, Jannacci, Gaber, Guccini, Fossati e via dicendo, tra i banchi di
scuola, chi li conosce e riconosce più? La premessa dell’amico e
collega Marcello Bramati nel libro L’ultimo miglio. Motivi e modi per accogliere
i cantautori nella letteratura e in classe (con prefazione di Massimo Bubola)
pubblicato da pochi giorni per Mimesis è questa:
> “La canzone d’autore ha giocato un ruolo decisivo nell’espressione di ciò che
> è stato il Novecento, un secolo che ha avuto bisogno di nuovi linguaggi e che
> ha rivoluzionato gli schemi secolari precedenti fino a far emergere nuove
> forme d’arte e nuove parole per raccontare le tragedie immani e il progresso
> esponenziale”, ma “qui sta il punto: la cultura del Novecento non può
> affidarsi alla nicchia di colti appassionati e alla buona volontà individuale,
> perché la trasmissione dei saperi e del patrimonio culturale è un fatto
> sociale e un atto politico che riguarda una generazione intera”.
Insomma, la proposta di Bramati è chiarissima e altrettanto seria: inseriamo i
cantautori nell’ultimo miglio della letteratura italiana. Si intervenga anche
sulle famigerate Indicazioni ministeriali, ferme all’altro ieri, ovvero il
2010:
> “è necessario dare maggiore luce al Novecento, specie al quarto periodo,
> quello in cui hanno scritto poeti straordinari come Mario Luzi, ancora
> esclusi de facto dallo studio scolastico, e tutti i cantautori”.
Basta una lezione di prova per capire fino a che punto il cantautorato sia
sull’orlo dell’oblio: provare per credere. La tesi è suggestiva e importante e
ha un suo appello:
> “provare a portare la musica cantautorale a scuola in modo tale che rientri
> nell’istruzione dei cittadini di domani e risulti un’azione di tasso culturale
> elevato e non un alleggerimento, un’ora di ricreazione, una bizza di un
> docente appassionato che si concede il lusso di buttare via un’ora per qualche
> canzone”.
L’amore per la letteratura lo richiede, il docente è chiamato a lasciarne il
segno: “La letteratura lascia traccia del suo passaggio nell’anima,
nell’immaginazione, nel linguaggio e nel lessico di chi la incontra”. Perché non
potrebbe essere così con una canzone “d’autore”? Del resto – ci ricorda il
cantautore Massimo Bubola nella bellissima Prefazione dal taglio storico poetico
– la canzone nasce dalla poesia e dalla musica che “si sono sempre date la
mano”.
L’interrogativo non è nuovo, già Montale nel discorso pronunciato per la
consegna del Premio Nobel per la letteratura – correva il dicembre 1975, mezzo
secolo fa – denunciava:
> “uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla
> quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi”.
Era lo stesso Eugenio Montale che, in un articolo sul “Corriere della Sera”, il
21 giugno 1964, a proposito dei “poeti moderni” raccontava che questi scrivevano
“seguendo un metronomo interiore”. Ora, al di là della annosa questione della
clamorosa assenza della musica e della storia della musica come materia alle
superiori nel nostro paese, si pone un’ulteriore questione: i cantautori
italiani sono poeti? Bramati riconosce che si tratta di “una tesi tutta da
dimostrare e che conta diversi acerrimi nemici”. Tutti ricordiamo quando,
suscitando un vespaio di polemiche, nel 2016, il Nobel per la letteratura venne
assegnato a Bob Dylan. Tra gli altri anche Alessandro Baricco fu molto critico,
invitando a non confondere letteratura e canzone. Sciogliamo un po’ di nodi con
l’autore.
Marcello Bramati, da dove cominciamo? C’è il “canone dei cantautori italiani”
pubblicato recentemente da Paolo Talanca (Carabba editore) che indica un
sentiero, ma come facciamo a forzare la mano e a far entrare in classe i
cantautori?
“Mi dispiace che si usi questa metafora, perché portare i cantautori in classe è
compiere un atto di giustizia. Ciononostante, è proprio così, perché le
indicazioni per i programmi della scuola superiore non ne fanno cenno, le
antologie inseriscono qualche inserto di quelli che non si fila nessuno, a parte
l’appassionato di turno. Di conseguenza, se si vuole portare la canzone d’autore
in classe, serve operare un’incisione nel programma e prevedere un fuoripista,
un’uscita consapevole dal tracciato ufficiale. Eppure, come diceva De
Gregori, la storia siamo noi, nessuno si senta escluso, e quella storia, che
passa anche dalle note e dalle parole dei nostri cantautori, deve poter trovare
posto tra i banchi. Serve coraggio e non basta la passione, servono una visione
educativa più ampia e la volontà di dire: questa non è un’ora persa, è un’ora
ritrovata. Il cantautorato è letteratura vissuta, poesia popolare se volessimo
cogliere la curvatura di alcune ballate sia per linguistica – si pensi ad alcune
scelte semantiche di De Gregori o al dialetto di De André – che per il sociale –
in questo caso, il pensiero vada subito Jannacci e a Gaber, fino alla Canzone
popolare di Ivano Fossati, manifesto di un modo di far canzone d’autore. Ma la
canzone d’autore è ancora di più, molto di più: il labor limae sui suoni e sulla
parola carica di significato ne fa un prodotto letterario, quindi pur dovendo
forzare la mano per portarla in aula, non si forza la serratura della
letteratura nell’inserirla nel suo alveo, anzi si colma una lacuna”.
Non sarebbe più facile pensare alla musica come una materia alle scuole
superiori?
“Sarebbe naturale. Perché la musica è un linguaggio che pervade la vita
ordinaria, è passione, passatempo, svago, studio per i pensieri oggi dei ragazzi
sui banchi e sempre in quelli dell’essere umano. ‘Anche se voi vi credete
assolti, siete lo stesso coinvolti’, cantava De André. Escludere
sistematicamente la musica dagli studi superiori è una responsabilità che porta
alla mercificazione e allo svilimento: la musica non è ricreazione, è
riflessione. Non è solo ritmo, è senso. Una materia musicale seria alle
superiori colmerebbe un vuoto antico. E magari lì, tra un rigo e l’altro, ci
sarebbe spazio per Bob Dylan e per Brunori Sas, che con ironia e dolore
canta ‘per chi non ha voglia d’abbaiare o di ringhiare/ canzoni tanto per
cantare’ che facciano dire: Ma guarda, lo potevo scrivere anche io – e invece
no, non potevi. E questo è il potere dell’arte, renderci umani e renderci
pensanti, ed è qui che sta la responsabilità della scuola, che insegni il bello
e il discernimento tra il bello-artistico e ciò che così arte non è”.
Come mai non c’è mai spazio per le cantautrici?
“Perché spesso si guarda solo dove la luce è già accesa, e negli ultimi
sessant’anni – questo è l’arco temporale della canzone d’autore italiana – nella
musica e ovunque gli uomini hanno avuto più possibilità delle donne, quindi
hanno spiccato. Ma la verità è che le cantautrici ci sono, eccome. E brillano.
Una breve galleria di autrici – e voci – straordinarie potrebbe includere Grazia
Di Michele, che ha raccontato l’identità femminile con un’intensità rara, Teresa
De Sio, voce del sud e della resistenza culturale, Nada, irregolare e viscerale,
Cristina Donà, delicata e potente insieme, Giovanna Marini, storica e voce delle
lotte sociali. C’è poi una nuova generazione che probabilmente ha maggiori
possibilità e, con la distanza storica necessaria, potrà essere valutata con la
lente dell’arte della parola in musica: in questo caso il pensiero va a Levante,
che canta l’inquietudine dell’oggi con parole da romanzo, e poi a Carmen
Consoli, con la sua prosa affilata e lirica insieme. Nella mia disamina
individuo quattro autori da inserire nel programma di letteratura – almeno uno,
a scelta – tra De André, Guccini, Battiato e De Gregori, ma a questi possono
affiancarsi molti inserti personali e prove individuali. Cito Bubola, autore
della prefazione, Niccolò Fabi, penso a Samuele Bersani, e così alle cantautrici
appena citate. La letteratura non è solo Dante, Leopardi e Manzoni, ma c’è posto
anche per Gozzano e Deledda: lo stesso vale per la canzone d’autore. In questo
spazio, ben venga l’inserimento di autrici e autori, in piena parità di valori e
dignità. Tutte loro meritano lo stesso palco, la stessa cattedra, la stessa
dignità. Come diceva De André, ‘si sa che la gente dà buoni consigli, se non può
più dare cattivo esempio’. È ora di dare spazio, di ascoltare davvero”.
A scuola, i tuoi studenti come reagiscono alle lezioni sui cantautori italiani?
“Nel corso dei cinque anni di superiori, ho sempre inserito la musica d’autore
in punta di piedi: una citazione, un rimando, un esercizio, un ascolto per casa,
un lavoro su un brano stampato – e magari non ascoltato – sempre inserendo in un
discorso più ampio l’opera in questione. Un esempio è La storia di De Gregori,
proposta in prima insieme ad alcuni testi tratti da Erodoto, Tucidide, Manzoni.
C’è sempre stato interesse, come accade quando una lezione decolla e diventa
interessante: qualcuno ha ricordato di avere in casa questo o quell’album (come
avviene per i libri), qualcuno di conoscere un nome, un titolo, una melodia, una
storia. Proprio come avviene con tutto il materiale buono che si porta in
classe, senza dare alla canzone un potere di affascinare più potente di
altro. Solo in quinta presento interamente l’autore De Gregori e, a quel punto,
giocando a carte scoperte, vengono garantiti ascolto e interesse ben sapendo di
essere in un sentiero inesplorato ma che riserva pietre preziose scintillanti.
Penso a Mondo politico, traduzione della dylaniana Political World, un esercizio
di traduzione e interpretazione che si fa scuola di pensiero e di lingua”.
È ancora possibile la poesia?
“Sì. Perché la poesia, come diceva Montale nel suo discorso per il Nobel, ‘è
ancora un atto di fede nella parola, anche quando la parola è consapevole del
proprio fallimento’. In un mondo che vende tutto, anche l’inutile, la poesia
resta un gesto di resistenza. È un seme che non sempre attecchisce, ma che va
lanciato lo stesso. Perché ‘dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i
fior’, cantava De André. La poesia è linguaggio carico al massimo grado di
significato, è un patto generazionale che assegna al fruitore quella dignità di
cui gli studenti hanno bisogno, è esercizio di sintesi, di ricerca e di
attenzione così raro e così necessario. Ecco, è ancora possibile perché è ancora
necessaria. Anche se spesso non si chiama più col suo nome e molto, che poesia
non è, viene contrabbandato per esserlo”.
Ha ancora senso insegnarla a scuola?
“Ha più senso che mai. In un tempo che corre veloce, che urla e dimentica,
insegnare poesia è un atto controcorrente. È dire: fermiamoci. Guardiamo.
Sentiamo. Andiamo in profondità. Cogliamo la sfumatura. Cerchiamo il silenzio.
Insegnare poesia è insegnare compassione, meraviglia, dubbio. Ci sono poesie che
sono come un grido (Dante definisce proprio così la sua Commedia in Paradiso
XVII), ci sono canzoni che sono ‘come sberle in faccia per costringerti a
pensare’ (come canta Brunori): insegnare poesia significa dare strumenti per
vivere meglio e sentire di più. E se una cosa bella non è più ordinaria, tocca
alla scuola trasmetterla per garantire spazio, risonanza, vita. Questo è il
compito più nobile della scuola. Non l’unico, non il più pratico, ma certamente
il più alto. Dalla cetra di Omero alla chitarra dei cantautori, il passo non è
poi così lungo: entrambi hanno intonato storie che attraversano i secoli,
entrambi hanno usato la musica per dare forma alla memoria, alla sofferenza,
all’epica quotidiana dell’umanità. Omero cantava di eroi e dei, ma lo faceva con
il ritmo della voce e del respiro, affidando alla musica la sua poesia, la sua
forza, la sua durata. È in quella scia che si muove ancora oggi la canzone
d’autore. Massimo Bubola, nella sua visione limpida e poetica, ci ricorda nella
prefazione al mio libro che
> “la canzone nasce dalla poesia e dalla musica che si sono sempre date la mano
> come due muse, due sorelle che si tengono per mano e scendono nel mondo per
> avvolgerlo di bellezza, per cantarlo e consolarlo”.
In questa immagine c’è tutto: la continuità tra le parole dei classici e le voci
dei cantautori, tra il verso epico e la ballata, tra l’Iliade e La guerra di
Piero. Letteratura e musica, dunque, non sono mondi separati, ma fili
intrecciati nello stesso tessuto dell’anima. La scuola, la cultura, noi tutti
abbiamo il compito di custodire questo tessuto. Perché se è vero che i poeti
possono morire, come scriveva Palazzeschi, è altrettanto vero che la poesia – in
ogni sua forma, anche quella cantata – resta. E resta per cantare ancora”.
Linda Terziroli
L'articolo Tra l’Iliade e De André. Portiamo i cantautori a scuola. Dialogo con
Marcello Bramati proviene da Pangea.
«Che sentieri avrebbe percorso un ipotetico compositore Umberto Eco se avesse
dovuto scrivere Il nome della rosa non negli anni Ottanta sotto forma di libro,
ma oggi sotto forma di opera?». Questa è la domanda che si pone il compositore
Francesco Filidei, al quale La Scala e l’Opera di Parigi commissionano un
progetto titanico: la trasposizione del romanzo in opera lirica.
«Eco stesso,» continua il musicista, «nelle Postille al Nome della rosa indica
la strada da seguire quando parla di “un libro che assumeva una struttura da
melodramma buffo, con lunghi recitativi, e ampie arie”».
Assodata la forma da adottare, il problema si ripercuote sulla sostanza: «Non
avrei potuto continuare senza un elemento fondamentale: un buon motivo per far
cantare i personaggi. Siamo in un’abbazia, luogo che si vuole di preghiera: chi
dice preghiera dice canto, e nello specifico canto gregoriano, un canto talmente
antico da risultare ormai atemporale, sul quale ho fatto scivolare elementi
barocchi, ottocenteschi, contemporanei, stemperando la presenza massiva di voci
maschili con ruoli en travesti di Adso, Gui e Ubertino.»
Dunque, un’opera buffa in due atti, imperniata su una contaminazione musicale
tra antico e moderno e una rivisitazione dei personaggi. Manca il libretto, che
viene affidato allo stesso Filidei, insieme a Stefano Busellato, Hannah Dübgen e
Carlo Pernigotti. «Abbiamo dovuto tagliare alcuni personaggi e semplificare dal
punto di vista narrativo numerose situazioni» ammettono gli autori – ciò
nonostante, si tratta di uno spettacolo che dura quasi tre ore.
Qui iniziano le criticità. Il primo atto è di una lunghezza disumana,
appesantito da un libretto troppo fedele al romanzo. Le citazioni in latino e in
greco – perdipiù in forma medievale – non migliorano una proposta musicale
stridente e spigolosa. Sebbene vi siano stati momenti di notevole qualità (la
tentazione di Adso e la supplica alla Vergine), la musica è orfana di melodie
solenni, di tensioni liriche potenti. Questo è dovuto alla latitanza delle arie,
che, laddove appaiono, sono prive di ogni coinvolgimento patetico, e alla
freddezza dei recitativi, che non si fondono mai con lo spartito. Ibridare
l’insegnamento sinfonico di Liszt e Mahler con il gusto contemporaneo sembra
privare la musica del suo mistero più profondo:emozionare, commuovere, fare
breccia nel cuore al punto che “la parola muore nel pianto”.
Di certo l’intenzione non è questa, ma non si può prescindere dal protagonismo
che la musica deve avere nell’opera. Così come non si può prescindere dalla
caratterizzazione di certi personaggi. Eco ha speso moltissime righe per il
profilo psicologico di Bernardo Gui – per non parlare dell’essenza di Adso. La
scelta di inserire dei ruoli en travesti per “stemperare la presenza di voci
maschili”, come chiarito da Filidei, è fallimentare. L’inquisitore, sebbene
Daniela Barcellona sia stata monumentale e tecnicamente impeccabile, è privo di
ogni veridicità storica e letteraria. Se si ricerca la fedeltà al romanzo, non
si può trascurare la descrizione che ne fa Eco:
> «Era un domenicano di circa settant’anni, esile ma diritto nella figura. Mi
> colpirono i suoi occhi grigi, freddi, capaci di fissare senza espressione, e
> che molte volte avrei visto invece balenare di lampi equivoci, abile sia nel
> celare pensieri e passioni che nell’esprimerli a bella posta».
Non penso vi siano dubbi sulla legittimità di una voce profonda e baritonale, in
perfetta sintonia con la cupezza e l’oscurità di quell’animo impietoso.
Se la musica tende ad essere metallica – in pieno stile Filidei – e il libretto
si rivela un deterrente per l’attenzione, il vero trionfo sta nella direzione di
Metzmacher, nella regia di Michieletto e nella scenografia di Fantin.
Quest’ultimo, però, è il vero protagonista al Piermarini. Sulla base del
romanzo, crea “un labirinto psicologico”, con dei teli trasparenti e una grande
croce luminosa che pende. Il coro è sopraelevato, posto dietro questa grande
“struttura della mente”: con la sua voce incarna l’esoterismo medievale e la
parola divina che incute timore, come nella recita tuonante dei versetti
dell’Apocalisse.
Strepitoso quanto accade, ad esempio, nella prima stanza: compare un portale
scolpito che mostra Cristo Re attorniato da animali terribili; ad un tratto,
contorsionisti abilissimi – personificazione del peccato – rompono il finto
marmo e avvinghiano Adso e lo sollevano, fino a dominarlo. Stesso stupore
nell’apparizione di una gigantesca miniatura animata, nel movimento di un muro
che stritola l’Abate e nell’incendio finale, che brucia la croce e “distrugge”
la biblioteca.
Scenografia e regia sublimi, direzione e coro eccellenti, meritevole di lode
tutto il cast. Filidei onesto e fedele a se stesso, ma non alla tradizione
operistica; nulla di male, ma difficile da annoverare tra i grandi
melodrammatici: come diceva Verdi a Puccini, dopo il fiasco delle Villi,
«l’opera è l’opera, la sinfonia è la sinfonia». È evidente che l’opera di
Filidei è cervellotica, straniante, ma il tentativo mentale di ricreare il mondo
dell’abbazia e il suo universo medievale prevale sulla creazione artistica;
l’idea è vibrante, ma si raffredda quando prende vita. Con Il nome della rosa è
venuto meno il motivo per cui si varca il foyer di un teatro come quello
scaligero: lasciarsi pervadere dalla musica che colpisce lo stomaco, che
accarezza l’anima e rimane incisa per sempre nella memoria.
Credo che nessuno si ricorderà la musica del Nome della rosa come si
ricorderanno le note verdiane della Donna è mobile o gli accordi pucciniani
del Nessun dorma e di E lucevan le stelle. No, noi non siamo ancora pronti a
“recidere quel volto”.
Davide Chindamo
L'articolo “Il nome della rosa” alla Scala. Scenografia possente, musica
dimenticabile proviene da Pangea.
“Ci voleva un maomettano.” Così scherza Pietrangelo Buttafuoco, non accreditato
motore del progetto straordinario della Biennale di Venezia
dedicato all’Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem del filosofo e teologo
domenicano “Meister” Johannes Eckhart (1260 – 1328 ca.), in scena a Venezia fino
al 15 marzo.
Ma più che un maomettano, chi scrive aggiungerebbe che ci voleva un Buttafuoco
per trasformare in spettacolo lo sguardo che la vertigine teologica di Eckhart
schiude sulle pagine evangeliche di Giovanni, scegliendole in relazione a cinque
temi: Logos, Essere, Amore, Bene e Male, Anima e Corpo.
Le risposte a ciascuno di questi soggetti, antologie tratte
dall’Expositio eckhartiana, diventano così una serie di spettacoli di “teatro
della parola”, che prendono vita nel Portego delle colonne della Scuola Grande
di San Marco. Grazie alla visione del regista Antonello Pocetti e dello
scenografo Antonino Viola (già protagonisti della ricreazione del Prometeo di
Luigi Nono nel 2024), lo spazio si trasforma in una basilica trascendente, dalle
pareti mutevoli, che si popolano di scorci d’arte, figure astratte e giochi
d’ombre (opera dell’artista video Andrew Quinn).
Un pulpito è posto al centro – come quello che si racconta fosse stato fatto
realizzare da Savonarola per la chiesa di San Marco – e da esso si irradia la
parola, il Logos. Una triplice voce, talvolta corale, talvolta dialettica
(interpretata dagli attori Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita), tuona
da dietro un velo. (E qui la mente già si sforza di superarlo per affrontare il
mistero: tra le sue pieghe l’akousma pitagorico, il velo del Tempio, ma anche le
cortine chiuse dei presbitèri orientali in questo tempo di Quaresima).
L’Expositio serve, se non a squarciare quel velo, a renderlo trasparente: la
parola ambisce a far “apparire attraverso” (trans-parere) la verità
trascendente, in linea con la vocazione dell’Ordo predicatorum a cui Eckhart
apparteneva (insieme a Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena e Alberto Magno, per
citare alcuni illustri domenicani).
Ma in queste serate veneziane, accanto al Logos come ragione, parola e
argomentazione, troviamo anche il Logos come suggestione sottile e non verbale.
L’uno al centro, l’altro tutt’attorno: oltre alla dialettica con l’arte
suggerita dai mutevoli muri di video, il “dramma totale” in scena alla Scuola di
San Marco si avvale anche della musica. Canto gregoriano, per lo più, ma anche
telluriche e primordiali polifonie improvvisate, eseguite dal Coro della
Cappella Marciana diretto da Marco Gemmani, promana da quattro palchetti intorno
al pubblico. Dopotutto, il canto gregoriano è musica rivelata, e in esso ancora
si manifesta il Logos.
Ogni sera, dunque, ottanta adepti si raccolgono tra le colonne della Scuola di
San Marco e assistono all’esposizione di quel pensiero attorno a cui è stato
costruito questo immaginifico apparato, che racchiude la teatralità del dramma
come rito: le parole e il pensiero di Eckhart, a suo tempo – e così ancora oggi
– in bilico tra santità sapienziale ed esoterica eresia.
Nelle prime due sere, per il Logos e l’Essere, Eckhart ci parla di un Verbo
creatore e divino, Essenza trascendente che coincide con Dio e che diviene
altresì principio divino dell’anima umana: quella Parola (magica?) che permette
l’unione mistica con Dio. Poi, l’Amore: amore per Dio, testimoniato dai mistici,
e amore di Dio per la creazione, che ama sia l’altro da sé sia quanto di sé è
nella creazione.
Le ultime due diadi teologiche chiudono i cinque episodi: Bene e Male, Anima e
Corpo. Qui la cautela è d’obbligo: il Dio eckhartiano è totalmente trascendente,
al di là di ogni conoscenza, e dunque si sottrae alle categorie umane. Il bene e
il male, intesi in senso umano, non esistono, ma esiste solo il bene del seguire
Dio, senza porsi il problema di cosa sia bene o male. Allo stesso tempo, non c’è
contrapposizione tra mondo (e dunque corpo) e Dio, poiché il mondo è teofania
continua e presente. Per l’“uomo nobile” non c’è “contemptus mundi”, ma una
gioia continua nella contemplazione della potenza dell’Essere divino,
percepibile nel mondo fisico e percepibile.
Nelle prime serate, con la prima sequenza di cinque episodi, ospiti speciali
hanno offerto prospettive e spunti illuminando il multiforme testo eckhartiano:
il Cardinale Tolentino de Mendonça, il filosofo Peter Sloterdijk, la studiosa
d’arte Cristiana Collu, la filologa e critica Monica Centanni, il Patriarca di
Venezia Francesco Moraglia. Troppo lungo sarebbe anche solo richiamare i momenti
più alti dei loro interventi, ma, nella loro libertà, peculiarità, rivelazione
personale delle prospettive interiori dei cinque ospiti, questi testi
preparavano i convenuti al viaggio, lo facevano avvicinare ed immergere
nell’atmosfera mistica, disponevano lo spirito e la mente a quello che sarebbe
venuto di lì a poco.
Eppure, per quanto illuminanti, questi interventi appartengono alla dimensione
della superficie razionale. La comprensione vera avviene dopo: quando si
spengono le luci, il velo si chiude, e comincia il rito.
Carlo Ferdinando de Nardis
L'articolo Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano
alla Biennale proviene da Pangea.