«Che sentieri avrebbe percorso un ipotetico compositore Umberto Eco se avesse
dovuto scrivere Il nome della rosa non negli anni Ottanta sotto forma di libro,
ma oggi sotto forma di opera?». Questa è la domanda che si pone il compositore
Francesco Filidei, al quale La Scala e l’Opera di Parigi commissionano un
progetto titanico: la trasposizione del romanzo in opera lirica.
«Eco stesso,» continua il musicista, «nelle Postille al Nome della rosa indica
la strada da seguire quando parla di “un libro che assumeva una struttura da
melodramma buffo, con lunghi recitativi, e ampie arie”».
Assodata la forma da adottare, il problema si ripercuote sulla sostanza: «Non
avrei potuto continuare senza un elemento fondamentale: un buon motivo per far
cantare i personaggi. Siamo in un’abbazia, luogo che si vuole di preghiera: chi
dice preghiera dice canto, e nello specifico canto gregoriano, un canto talmente
antico da risultare ormai atemporale, sul quale ho fatto scivolare elementi
barocchi, ottocenteschi, contemporanei, stemperando la presenza massiva di voci
maschili con ruoli en travesti di Adso, Gui e Ubertino.»
Dunque, un’opera buffa in due atti, imperniata su una contaminazione musicale
tra antico e moderno e una rivisitazione dei personaggi. Manca il libretto, che
viene affidato allo stesso Filidei, insieme a Stefano Busellato, Hannah Dübgen e
Carlo Pernigotti. «Abbiamo dovuto tagliare alcuni personaggi e semplificare dal
punto di vista narrativo numerose situazioni» ammettono gli autori – ciò
nonostante, si tratta di uno spettacolo che dura quasi tre ore.
Qui iniziano le criticità. Il primo atto è di una lunghezza disumana,
appesantito da un libretto troppo fedele al romanzo. Le citazioni in latino e in
greco – perdipiù in forma medievale – non migliorano una proposta musicale
stridente e spigolosa. Sebbene vi siano stati momenti di notevole qualità (la
tentazione di Adso e la supplica alla Vergine), la musica è orfana di melodie
solenni, di tensioni liriche potenti. Questo è dovuto alla latitanza delle arie,
che, laddove appaiono, sono prive di ogni coinvolgimento patetico, e alla
freddezza dei recitativi, che non si fondono mai con lo spartito. Ibridare
l’insegnamento sinfonico di Liszt e Mahler con il gusto contemporaneo sembra
privare la musica del suo mistero più profondo:emozionare, commuovere, fare
breccia nel cuore al punto che “la parola muore nel pianto”.
Di certo l’intenzione non è questa, ma non si può prescindere dal protagonismo
che la musica deve avere nell’opera. Così come non si può prescindere dalla
caratterizzazione di certi personaggi. Eco ha speso moltissime righe per il
profilo psicologico di Bernardo Gui – per non parlare dell’essenza di Adso. La
scelta di inserire dei ruoli en travesti per “stemperare la presenza di voci
maschili”, come chiarito da Filidei, è fallimentare. L’inquisitore, sebbene
Daniela Barcellona sia stata monumentale e tecnicamente impeccabile, è privo di
ogni veridicità storica e letteraria. Se si ricerca la fedeltà al romanzo, non
si può trascurare la descrizione che ne fa Eco:
> «Era un domenicano di circa settant’anni, esile ma diritto nella figura. Mi
> colpirono i suoi occhi grigi, freddi, capaci di fissare senza espressione, e
> che molte volte avrei visto invece balenare di lampi equivoci, abile sia nel
> celare pensieri e passioni che nell’esprimerli a bella posta».
Non penso vi siano dubbi sulla legittimità di una voce profonda e baritonale, in
perfetta sintonia con la cupezza e l’oscurità di quell’animo impietoso.
Se la musica tende ad essere metallica – in pieno stile Filidei – e il libretto
si rivela un deterrente per l’attenzione, il vero trionfo sta nella direzione di
Metzmacher, nella regia di Michieletto e nella scenografia di Fantin.
Quest’ultimo, però, è il vero protagonista al Piermarini. Sulla base del
romanzo, crea “un labirinto psicologico”, con dei teli trasparenti e una grande
croce luminosa che pende. Il coro è sopraelevato, posto dietro questa grande
“struttura della mente”: con la sua voce incarna l’esoterismo medievale e la
parola divina che incute timore, come nella recita tuonante dei versetti
dell’Apocalisse.
Strepitoso quanto accade, ad esempio, nella prima stanza: compare un portale
scolpito che mostra Cristo Re attorniato da animali terribili; ad un tratto,
contorsionisti abilissimi – personificazione del peccato – rompono il finto
marmo e avvinghiano Adso e lo sollevano, fino a dominarlo. Stesso stupore
nell’apparizione di una gigantesca miniatura animata, nel movimento di un muro
che stritola l’Abate e nell’incendio finale, che brucia la croce e “distrugge”
la biblioteca.
Scenografia e regia sublimi, direzione e coro eccellenti, meritevole di lode
tutto il cast. Filidei onesto e fedele a se stesso, ma non alla tradizione
operistica; nulla di male, ma difficile da annoverare tra i grandi
melodrammatici: come diceva Verdi a Puccini, dopo il fiasco delle Villi,
«l’opera è l’opera, la sinfonia è la sinfonia». È evidente che l’opera di
Filidei è cervellotica, straniante, ma il tentativo mentale di ricreare il mondo
dell’abbazia e il suo universo medievale prevale sulla creazione artistica;
l’idea è vibrante, ma si raffredda quando prende vita. Con Il nome della rosa è
venuto meno il motivo per cui si varca il foyer di un teatro come quello
scaligero: lasciarsi pervadere dalla musica che colpisce lo stomaco, che
accarezza l’anima e rimane incisa per sempre nella memoria.
Credo che nessuno si ricorderà la musica del Nome della rosa come si
ricorderanno le note verdiane della Donna è mobile o gli accordi pucciniani
del Nessun dorma e di E lucevan le stelle. No, noi non siamo ancora pronti a
“recidere quel volto”.
Davide Chindamo
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dimenticabile proviene da Pangea.
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“Ci voleva un maomettano.” Così scherza Pietrangelo Buttafuoco, non accreditato
motore del progetto straordinario della Biennale di Venezia
dedicato all’Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem del filosofo e teologo
domenicano “Meister” Johannes Eckhart (1260 – 1328 ca.), in scena a Venezia fino
al 15 marzo.
Ma più che un maomettano, chi scrive aggiungerebbe che ci voleva un Buttafuoco
per trasformare in spettacolo lo sguardo che la vertigine teologica di Eckhart
schiude sulle pagine evangeliche di Giovanni, scegliendole in relazione a cinque
temi: Logos, Essere, Amore, Bene e Male, Anima e Corpo.
Le risposte a ciascuno di questi soggetti, antologie tratte
dall’Expositio eckhartiana, diventano così una serie di spettacoli di “teatro
della parola”, che prendono vita nel Portego delle colonne della Scuola Grande
di San Marco. Grazie alla visione del regista Antonello Pocetti e dello
scenografo Antonino Viola (già protagonisti della ricreazione del Prometeo di
Luigi Nono nel 2024), lo spazio si trasforma in una basilica trascendente, dalle
pareti mutevoli, che si popolano di scorci d’arte, figure astratte e giochi
d’ombre (opera dell’artista video Andrew Quinn).
Un pulpito è posto al centro – come quello che si racconta fosse stato fatto
realizzare da Savonarola per la chiesa di San Marco – e da esso si irradia la
parola, il Logos. Una triplice voce, talvolta corale, talvolta dialettica
(interpretata dagli attori Federica Fracassi, Leda Kreider e Dario Aita), tuona
da dietro un velo. (E qui la mente già si sforza di superarlo per affrontare il
mistero: tra le sue pieghe l’akousma pitagorico, il velo del Tempio, ma anche le
cortine chiuse dei presbitèri orientali in questo tempo di Quaresima).
L’Expositio serve, se non a squarciare quel velo, a renderlo trasparente: la
parola ambisce a far “apparire attraverso” (trans-parere) la verità
trascendente, in linea con la vocazione dell’Ordo predicatorum a cui Eckhart
apparteneva (insieme a Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena e Alberto Magno, per
citare alcuni illustri domenicani).
Ma in queste serate veneziane, accanto al Logos come ragione, parola e
argomentazione, troviamo anche il Logos come suggestione sottile e non verbale.
L’uno al centro, l’altro tutt’attorno: oltre alla dialettica con l’arte
suggerita dai mutevoli muri di video, il “dramma totale” in scena alla Scuola di
San Marco si avvale anche della musica. Canto gregoriano, per lo più, ma anche
telluriche e primordiali polifonie improvvisate, eseguite dal Coro della
Cappella Marciana diretto da Marco Gemmani, promana da quattro palchetti intorno
al pubblico. Dopotutto, il canto gregoriano è musica rivelata, e in esso ancora
si manifesta il Logos.
Ogni sera, dunque, ottanta adepti si raccolgono tra le colonne della Scuola di
San Marco e assistono all’esposizione di quel pensiero attorno a cui è stato
costruito questo immaginifico apparato, che racchiude la teatralità del dramma
come rito: le parole e il pensiero di Eckhart, a suo tempo – e così ancora oggi
– in bilico tra santità sapienziale ed esoterica eresia.
Nelle prime due sere, per il Logos e l’Essere, Eckhart ci parla di un Verbo
creatore e divino, Essenza trascendente che coincide con Dio e che diviene
altresì principio divino dell’anima umana: quella Parola (magica?) che permette
l’unione mistica con Dio. Poi, l’Amore: amore per Dio, testimoniato dai mistici,
e amore di Dio per la creazione, che ama sia l’altro da sé sia quanto di sé è
nella creazione.
Le ultime due diadi teologiche chiudono i cinque episodi: Bene e Male, Anima e
Corpo. Qui la cautela è d’obbligo: il Dio eckhartiano è totalmente trascendente,
al di là di ogni conoscenza, e dunque si sottrae alle categorie umane. Il bene e
il male, intesi in senso umano, non esistono, ma esiste solo il bene del seguire
Dio, senza porsi il problema di cosa sia bene o male. Allo stesso tempo, non c’è
contrapposizione tra mondo (e dunque corpo) e Dio, poiché il mondo è teofania
continua e presente. Per l’“uomo nobile” non c’è “contemptus mundi”, ma una
gioia continua nella contemplazione della potenza dell’Essere divino,
percepibile nel mondo fisico e percepibile.
Nelle prime serate, con la prima sequenza di cinque episodi, ospiti speciali
hanno offerto prospettive e spunti illuminando il multiforme testo eckhartiano:
il Cardinale Tolentino de Mendonça, il filosofo Peter Sloterdijk, la studiosa
d’arte Cristiana Collu, la filologa e critica Monica Centanni, il Patriarca di
Venezia Francesco Moraglia. Troppo lungo sarebbe anche solo richiamare i momenti
più alti dei loro interventi, ma, nella loro libertà, peculiarità, rivelazione
personale delle prospettive interiori dei cinque ospiti, questi testi
preparavano i convenuti al viaggio, lo facevano avvicinare ed immergere
nell’atmosfera mistica, disponevano lo spirito e la mente a quello che sarebbe
venuto di lì a poco.
Eppure, per quanto illuminanti, questi interventi appartengono alla dimensione
della superficie razionale. La comprensione vera avviene dopo: quando si
spengono le luci, il velo si chiude, e comincia il rito.
Carlo Ferdinando de Nardis
L'articolo Eckhart on stage. Inseguire Dio: l’Expositio del teologo domenicano
alla Biennale proviene da Pangea.