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Essere Carmelo Bene. Sul film di Franco Maresco, una sublime catastrofe
Questa volta il Festival del Cinema di Venezia 2025 ci ha regalato una scossa, un’inquietudine fertile, finalmente un vero sussulto: Franco Maresco che ha osato agitare il fantasma di Carmelo Bene tentando di fare il film che il maestro non aveva fatto: Un film fatto per Bene, ispirato alla sceneggiatura che C.B. pubblica per Einaudi nel 1976: Giuseppe Desa da Copertino. A Boccaperta e che Bompiani ripubblica tra i “Classici” insieme a una selezione della documentazione drammaturgica beniana in: Opere nel 1995 da cui il celebre secondo intervento al “Maurizio Costanzo Show”, irresistibile: “ora sono un classico, non posso dare risposte”. L’audace e delirante esperimento di Maresco, una sorta di coloratissimo “Cinico Tv” sub-pasolinano e sub-felliniano più che beniano, con il suo sgangherato circo di freak e comparse derelitte e il tema costante dell’inconcludenza esistenziale metaforizzata dal fallimento della ripresa filmica, ci interroga comunque in modo estremamente serio e urgente su due temi legati ad ogni “discorso sull’Arte: il rapporto tra artificio e arte e il rapporto tra poetica-visione dell’arte e opera autoriale. Più praticamente: può la straordinaria visione dell’Arte di Carmelo Bene, a sua volta opera d’arte quasi non discernibile senza l’opera “in scena” (“togliendosi di scena”, come diceva) sopravvivere al suo Artefice e darsi ancora oggi attuale, abitabile, sperimentabile? Provai a rispondere positivamente al quesito con due divagazioni: “Essere Carmelo Bene” e “Cantico” dove ricordavo come C.B. non sia appunto separabile dal suo “discorso sull’Arte” tanto che non esiste a mio parere artista così lucidamente consapevole delle proprie fonti letterarie e filosofiche quanto l’attore totale di Campi Salentina e non esiste attore totale così trasparente nel metabolizzare e trasfigurare le proprie frequentazioni artistico-letterarie: Stirner, Deleuze (specie: La piega, e: Identità e ripetizione), Schopenhauer de Il mondo come volontà e rappresentazione, La nascita della tragedia del nomade di Basilea, Verdi, Bellini, Donizzetti, le mistiche statuarie del Bernini, Francis Bacon, De Sade, le novelle del Bandello, l’inglese di Pound, l’Ulisse, l’ironia iper-borghese e meta-teatrale di La Forgues, l’a-moralità di Buster Keaton vs l’odiato Chaplin, la teologia negativa sottesa in Montale, il neopaganesimo di Byron, il pathos dis-individuante di Gozzano, l’essenza greco-nichilista nel Bardo inglese e in Marlowe, il misticismo gnostico di Klossowsky (e molto altro, ovviamente). Perché nessuno si è riconnesso al mondo letterario come già digerito da C.B.? Se fosse accaduto ci saremmo risparmiati molte rappresentazioni teatrali prive di qualsivoglia visione profonda, mero maquillage sul cadavere beniano ma senza spessore lirico-tragico.    La seconda domanda richiama il tema della “macchina attoriale” (oggi diremmo: organismo post-attoriale) beniana che nessuno (disonore a molti) ha mai tentato di riaccendere. Onore invece al bizzarro e trash Moresco, a questo punto, e anche alla sua furbizia da commedia dell’arte insta nel suo auto-assolversi dal cadere in questo esperimento attraverso il soggetto narrativo del suo film: il fallimento da cineasta nel realizzare il film su San Giuseppe da Copertino (“frate asino”) come l’avrebbe voluto C.B. Il rapporto tra arte e artificio richiama uno dei fili rossi ritornanti del discorso beniano sull’Arte e richiama anche il suo affetto per Leopardi e specialmente per il suo pensiero sulla genesi artistica come possiamo rintracciarlo nell’ironia della poesia “Scherzo” e nelle prime pagine dello Zibaldone: quanto cioè l’opera artistica debba di sè stessa alla necessaria illusione indotta tramite una faticosa messa in scena testuale-espressiva-stilistica. Tema ripreso recentemente quasi solo da Woody Allen in alcuni suoi film (Scoop, Ombre e Nebbia, Basta che funzioni, Stardust Memories, Hollywood Ending, ecc.). Nel caso di questa dimenticata sceneggiatura beniana (anche il Tamerlano di Marlowe andrebbe ri-fatto, oggi, secondo la poiesis beniana) anche qui il folle del Salento ci conferma l’essenza non-individuante della sua poetica proprio in un testo in realtà ricco di riferimenti al suo vissuto: la campagna secca e oziosa del salentino, la madre fondamentalista e ossessiva, la simpatia degli “indigeni” per il “mostro-anomalìa” del frate-asino, cioè di C.B. giovane.  Non c’è nulla di attoriale né di personale nella poetica beniana e la sceneggiatura sul santo ignorante che levitava e faceva il guardiano di porci (come nella parabola del figliol prodigo) esplicita proprio l’essenza del tema universale prima che beniano dell’Arte quale “stato di grazia”, abbandono, volo, ineffabilità sfuggente, eccesso ultra-linguabile. L’essenza del Barocco senza tempo vivente nell’incapacità di stare al mondo di questo frate disprezzato per i suoi rapimenti, e il suo stare “a bocca aperta” a fissare il Cielo/Vuoto/Nulla. L’unica frase che dice il santo è: “bisogna tagliare lo filo”. Frase che spesso Carmelo ripeteva, senza spiegarla. Come se la virtus del “volo” cioè dell’immergersi nell’indicibile e nell’irrappresentabile fosse già dentro il corpo-anima come per una mongolfiera ancorata o un passero legato e quindi basterebbe eradere i legacci per liberare quel lievitare già in vita, già in potenza. Il Santo ri-trasfigurato “alla C.B.” appare una figura che evita il prossimo, si nasconde, inciampa, brancola, bofonchia: una sorta di ibrido tra il Salvatore del Nome della Rosa e Simone Weil.  Il “fare” è fatica, alienazione, “costringe all’essere”, induce dolore mentre l’otium senza scopo è la casa animica del santo come dell’artista. Giuseppe non trattiene le cose, le cose gli cadono dalle mani, sta fermo sotto il sole e non chiede alcunché. Il “diavolo” qui è l’immagine e il suo demonico moltiplicarsi, che disturba e ossessiona il povero frate. Ritorna l’ostilità platonica del decimo libro di Repubblica per la mimesis delle “copie delle copie” essendo il mondo già di per se una copia.  Per il frate come per C.B. la scuola è schola mortis dove si impara la necrosi dell’irrigidimento, della postura ripetuta allo sfinimento mentre è nell’attesa vuota di determinazioni, nel farsi oggetto tra gli oggetti che residuano alcuni varchi che San Giuseppe e C.B. ebbero la grazia di oltrepassare, o meglio: lasciarsi attraversare. Povero Heidegger che inciampò sul rapporto circolare autore-opera (L’origine dell’opera d’arte, 1955) come il criceto nella ruota vedendo solo il proprio narcisismo e non la necessità fatale di negare l’ego, scansare il soggetto, moltiplicare le maschere, curvare le linee, allargare e deformare le pieghe. Non c’è storia né imitazione né replica né passaggio né tradizione se il pensiero sull’arte è processo artistico esso stesso e se si pone contro il senso dell’individualità come contro ogni appartenenza. Onore quindi al prezioso fallimento di Maresco che ha avuto il coraggio sgarbato di mostrare che Pinocchio-Bene è veramente un corpo sepolto vivo che si dibatte e la luce del giorno è “catastrofe” (Von Kleist, Pentesilea).  Giacomo Maria Prati *In copertina: Carmelo Bene in Don Giovanni (1970) L'articolo Essere Carmelo Bene. Sul film di Franco Maresco, una sublime catastrofe proviene da Pangea.
September 12, 2025 / Pangea