> “Nel quadro, una figura femminile, bianca e luminosa, procede da est a ovest,
> tenendo tra le mani un libro e i fili del telegrafo (…); alle sue spalle, e
> nella stessa direzione, procedono i vagoni di un treno, mentre alla sua
> sinistra, più in primo piano nel dipinto, uomini armati di aratro camminano
> con calma su una strada dritta. I tre personaggi, la donna, il treno e i
> farmers, avanzano lungo tracciati paralleli e ordinati. La parte sinistra del
> quadro, quella a ovest, è invece occupata da figure disposte in modo
> decisamente più irregolare: si tratta di nativi e animali che fuggono
> incivilmente, spinti fuori campo dall’incedere rassicurante del progresso”.
>
> (Andrea Laquidara, John Ford e il cinema americano, Mimesis 2019, pp.29-30)
Nel dipinto del 1872 American Progress di John Gast, artista statunitense dalle
venature naïf nato a Berlino, specializzato in litografie, la donna splendente
con la stella sulla fronte che procede levitando verso Ovest (a cui si ispira il
personaggio della DC Comics Wonder Woman) incarna la famosa dottrina
ottocentesca del Manifest Destiny: il progresso inarrestabile visto come una
missione divina, affidata agli Stati Uniti, i quali avevano il dovere di
espandersi sul continente per portare la luce della civiltà verso la natura
oscura e selvaggia – e ostile – da colonizzare. Una civiltà che ha costruito la
sua identità in modo cruento, nell’inevitabile confronto/conflitto con il
selvaggio, che andava allontanato, piegato, addomesticato, e nelle fasi estreme
di guerra andava sterminato, proprio in nome del Destino Manifesto. Il termine,
coniato dal giornalista-editore John L. O’Sullivan, divenne popolare nel 1845
nella disputa territoriale per l’Oregon e nell’annessione del Texas: una
rivendicazione per «il diritto del nostro destino manifesto di diffonderci per
l’intero continente, che la Provvidenza ci ha dato per lo sviluppo di un grande
esperimento di libertà e di autogoverno federato». Termine che venne usato per
la prima volta in un discorso al Congresso da Robert Winthrop nel 1846: «I mean
that new revelation of right which has been designated as the right of our
manifest destiny to spread over this whole continent. (…) The right of our
manifest destiny! There is a right for a new chapter in the law of nations; or
rather, in the special laws of our own country; for I suppose the right of a
manifest destiny to spread will not be admitted to exist in any nation except
the universal Yankee nation!».
Per riprendere questo tema vogliamo tornare al saggio di Andrea Laquidara John
Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di Dioniso (Mimesis 2019), di
cui già abbiamo parlato a proposito della Diligenza per Lordsburg, trasposta al
cinema con il celeberrimo Stagecoach, ovvero Ombre rosse. Abbiamo visto che John
Ford ha segnato la storia del cinema per aver costantemente tematizzato il
confronto con il selvaggio, proprio attingendo alla tradizione dell’immaginario
statunitense ottocentesco. E il suo primo film di grande successo, quello che
gli diede notorietà e peso, risale al 1924, in pieno cinema muto: The Iron
Horse, una grande epopea che racconta la costruzione della prima linea
ferroviaria transcontinentale americana negli anni successivi alla Guerra
Civile. La pellicola venne girata in gran parte negli altopiani desertici vicino
a Reno, Nevada, e impiegò centinaia di comparse, che comprendevano operai
cinesi, irlandesi e indiani Paiute. Il racconto prende episodi fondamentali
della storia americana: la Guerra Civile, la presidenza di Lincoln, l’espansione
verso Ovest e gli scontri con gli indiani, e mostra come la costruzione della
ferrovia transcontinentale si sposava indefettibilmente con l’ideologia
del Manifest Destiny, sostenuta come necessaria e inevitabile.
Il progetto della ferrovia transcontinentale venne elaborato per la prima volta
nel 1845, ma il Congresso non riuscì a dargli una fisionomia definitiva a causa
dei contrasti sul percorso da scegliere. In seguito, la secessione degli stati
del Sud e la guerra conseguente favorirono la scelta, appoggiata dai nordisti,
di un percorso che tagliasse le regioni centrali degli Stati Uniti, e nel 1862
il Congresso approvò il Pacific Railway Act, che autorizzava la compagnia Union
Pacific Railroad a costruire in direzione ovest a partire da Omaha, mentre la
Central Pacific Railroad of California ottenne il permesso di costruire la linea
in direzione est, partendo da Sacramento. Era un’impresa di enorme difficoltà,
trattandosi di regioni isolate e quasi disabitate: tutto quanto, le traversine,
il pietrisco, i binari di ferro, il materiale rotabile, i macchinari dovevano
essere trasportati sui luoghi del cantiere da molto lontano, insieme alle
provviste e ai rifornimenti per migliaia di operai – in buona parte immigrati e
veterani dell’esercito dell’Unione smobilitati – che, spesso, erano costretti a
lasciare i picconi e a imbracciare i fucili per respingere gli immancabili
attacchi degli indiani.
In John Ford e il cinema americano, Andrea Laquidara si spinge ancora più
indietro rispetto al periodo canonico anni ’30 – anni ’60, considerato il più
significativo nella maggioranza delle monografie sul regista, per analizzare
proprio The Iron Horse del 1924, Il cavallo d’acciaio, la maestosa ricostruzione
dell’impresa ferroviaria ottocentesca. Abbiamo il topografo David Brandon Sr che
porta con sé il figlio David Jr in un viaggio esplorativo, nel sogno di
realizzare un giorno la grande ferrovia transcontinentale; ma i due vengono
assaliti da una banda di Cheyenne, il cui capo – un bianco travestito da
selvaggio – uccide il padre lasciando il figlio solo e abbandonato a sé stesso.
Anni dopo, l’imprenditore Marsh, padre di Miriam, la ragazzina che il piccolo
David Brandon aveva dovuto lasciare per seguire il padre, presiede la Union
Pacific, incaricata di costruire il tratto fra il Nebraska e lo Utah; Miriam è
fidanzata con Jesson, ingegnere al servizio del padre. Il ricco possidente
Deroux, il villain della storia, fa di tutto per impedire che la ferrovia segua
un percorso lineare, cercando di convincere l’imprenditore Marsh a farla deviare
nelle sue terre. Ma il provvidenziale rientro in scena di David Brandon, ora
impiegato come pony express, manda all’aria il suo intento: il giovane
suggerisce a Marsh una scorciatoia, lo shorter pass che aveva individuato col
padre in quel tragico viaggio. Va da sé che il malvagio Deroux cerchi di
eliminare David, con la complicità dell’ingegnere Jesson, geloso per l’amore che
sta rifiorendo fra i ritrovati David e Miriam, ma l’intento non riesce: “dunque
a Deroux non rimane che scatenare un gruppo di agguerriti Cheyenne: questi
aggrediscono i lavoratori, li accerchiano, e rischiano di interrompere
definitivamente il progredire della ‘civiltà’, se non fosse che l’intera
cittadina di Cheyenne City, costituita da immigrati irlandesi, cinesi, italiani
(un po’ riluttanti questi ultimi), si anima e corre in aiuto degli operai”.
Ora fermiamo il riassunto, lasciando il finale a chi voglia guardare la
pellicola, e partendo da qui dialoghiamo con l’autore, studioso, regista e
insegnante di Cinema all’Università di Urbino, per ragionare su alcuni aspetti –
anche sorprendenti – di questo film.
Dopo alcune scaramucce con gli indiani, risolte dalla determinazione degli
operai che si difendono a fucilate, il grande assalto alla ferrovia da parte dei
Cheyenne arriva dopo circa due ore: Ford filma l’aggressione, che si sviluppa
“at the end of the track”, con i lavoratori guidati da David Brandon che
“imbracciano le armi e si rifugiano sotto i vagoni, tra i binari, immediatamente
trasformati in trincea”. È interessante vedere la coreografia dell’assedio dei
Cheyenne: la provenienza da sinistra, ovvero da Ovest – che ricorda gli avispici
eseguiti dagli àuguri nella nostra antichità – e il senso antiorario della
corsa: tutti elementi carichi di significato.
Nel cinema – nel buon cinema – vi è sempre una compresenza di esplicito e
implicito, di non detto e dichiarato: significati, valori, visioni del mondo
arrivano allo sguardo dello spettatore tramite elementi evidenti del contenuto,
ma soprattutto grazie a scelte stilistiche insieme sottili e clamorose. Nella
scena della battaglia di The Iron Horse vi sono dettagli di regia densissimi di
richiami alla filosofia che pervade l’immaginario statunitense dai tempi della
Rivoluzione americana – probabilmente anche da prima.
I Cheyenne attaccano dalla sinistra dello schermo, dal West, da una terra non
ancora civilized, muovendosi in direzione opposta al simbolo più esemplare della
marcia del progresso, la ferrovia. Il percorso dei nativi (i “selvaggi”)
confluisce in un cerchio, e Ford ce lo mostra con chiarezza in una serie di
campi lunghissimi alternati con perizia a piani più stretti: il cerchio
(antiorario, perdipiù) contraddice la linea, la stasi selvaggia si oppone al
progresso razionale. Progresso borghese, potremmo aggiungere.
C’è poi un aspetto di grande rilevanza legato al taglio delle inquadrature e al
meccanismo di identificazione che esso determina nello spettatore. Per tutta la
sequenza della battaglia, i primi piani o le mezze figure sono riservati
esclusivamente ai lavoratori vittime dell’attacco, mentre i Cheyenne sono
inquadrati sempre con totali, pienamente assorbiti nella grigia e
ostile wilderness. Il pubblico è dunque indotto a empatizzare con le vittime,
mentre i nativi assumono il solo ruolo di mere e anonime minacce – inseriti nel
paesaggio, come le rocce e gli animali, ci dice Sandro Bernardi in una
riflessione interessantissima sul cinema di Ford.
Si tratta di un espediente retorico largamente presente nel cinema
hollywoodiano, anche in tempi più recenti. Mi viene in mente American Sniper, di
Clint Eastwood, un western “mediorientale”: la scena iniziale (il cecchino Chris
ha appena ucciso una donna intenta a lanciare una bomba contro un carro armato
statunitense; un bambino la raccoglie e prosegue la corsa verso l’obiettivo;
Chris prende la mira, ma esita per qualche istante) viene lasciata in sospeso
per consentire agli spettatori un approfondimento del contesto e dei personaggi.
Per quasi mezz’ora, un flashback ci accompagna nella memoria del cecchino, alla
ricerca di risposte ai nostri interrogativi: perché è qui con un fucile in mano?
Perché punta un bambino? Che educazione ha avuto? Cos’è accaduto agli Stati
Uniti negli ultimi trent’anni? A ben vedere, tuttavia, si tratta di un trucco,
anche piuttosto scorretto: per quale motivo Eastwood non dedica altrettanto
tempo ai due aggressori? Perché non approfondisce anche la loro storia? Come mai
sono lì con una bomba in mano? Che educazione hanno avuto? In che condizioni si
trova il Medio Oriente da almeno cinquant’anni? No, mamma e figlio sono solo due
pericolosi terroristi anonimi, e dunque il duplice omicidio messo in atto da
Chris (uno dei tanti difensori della civiltà hollywoodiana) è presentato sì come
terribile, ma necessario.
Il fatto che il cerchio contraddica la linea diritta del progresso ci rimanda al
simbolo del tempo per gli indiani d’America: per loro il tempo diurno, il tempo
notturno e le fasi della luna sarebbero posti sopra il mondo, e il tempo
dell’anno sarebbe un cerchio intorno al bordo del mondo. E questa circolarità,
come lei osserva, si imparenta con l’Ewige Wiederkunft del Gleichen, l’eterno
ritorno dell’uguale teorizzato da Friedrich Nietzsche.
Il discorso sul tempo, sulla filosofia del tempo che fonda le nostre identità, è
trattato spesso con frettolosità, o addirittura trascurato, mentre si tratta di
un tema urgente, che richiederebbe una riflessione molto ampia. A proposito
della teoria dell’Eterno ritorno di Nietzsche, credo si tratti di un’intuizione
sfuggente ed enigmatica, a volte fraintesa. Ho sentito opinioni (di semplici
amatori e di addetti ai lavori) che interpretano il ritorno nietzschiano come
ripetitività routinaria, da cui il filosofo ci inviterebbe a liberarci, come un
fiume smuove e ripulisce l’acqua torbida di uno stagno. In realtà la circolarità
del tempo di cui parla Nietzsche è tanto insopportabile quanto gioiosa: è una
potente affermazione della vita che divincola dalla perenne attesa di un mondo
altro. “Quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più
nient’altro!”, ci dice il demone ne La gaia scienza. Se osserviamo con
attenzione, dobbiamo constatare che la configurazione del tempo lineare, inteso
come una freccia tesa verso altrove, getta l’uomo in una condizione di attesa
speranzosa e pessimistica, che svaluta la vita presente, la vita terrena
tangibile. Una simile configurazione si colloca a fondamento tanto della
metafisica cristiana, quanto della società capitalista contemporanea, che
comanda il sacrificio del presente, in vista del conseguimento futuro di un
guadagno infinito. Un fantasma di guadagno, in realtà, ma efficacissimo come
punto di fuga per l’esistenza umana. Nel puritanesimo in cui affonda le radici
la cultura statunitense sono presenti entrambe le istanze, quella cristiana e
quella capitalista. È chiaro che, osservato dalla locomotiva che galoppa lineare
sui binari d’acciaio del progresso, il tempo ciclico dei nativi – proprio di
tante altre culture, antiche e contemporanee – non è altro che una torbida fase
di ristagno, l’avaria del motore, l’interruzione della linea: “The line went
dead”, afferma un soldato in Stagecoach, comunicando al comandante che il
selvaggio Geronimo ha tagliato la linea del telegrafo.
Vediamo come si arriva a quella specie di suprematismo che informava la dottrina
ottocentesca del Destino Manifesto, il motore dell’intera macchina
colonizzatrice dell’Uomo Bianco. Si parte da J. Hector St. John de Crèvecœur con
il suo Letters from an American Farmer del 1782, dove si definisce una
distinzione netta fra le due sponde dell’Atlantico: la vecchia Europa come
terreno ormai sterile e il suolo americano che può offrire una rigenerazione e
dar vita a una nuova umanità. Poi abbiamo Thomas Hart “Old Bullion” Benton,
primo senatore del Missouri che a partire dal 1820 teorizza l’espansione verso
il Pacifico come simbolo della libertà e della grandezza dell’America. Ora, dopo
duecento anni, sembra che questa dottrina stia trovando echi inquietanti anche
nell’America di oggi, in questa pirotecnica seconda presidenza di Donald Trump
con il suo Make America Great Again, con le dichiarate velleità espansionistiche
– ai limiti del grottesco – verso il confinante Canada e verso la Groenlandia,
definite “necessarie” per lo sviluppo americano e il progresso verso la
felicità, e le improvvise azioni guerresche che incendiano definitivamente il
Medio Oriente. Siamo di nuovo di fronte a un “tempo che ritorna”?
Non si tratta del ritorno nietzschiano come affermazione coraggiosa della vita,
tutt’altro: le narrazioni statunitensi sono piuttosto pervase di paura
dell’Altro, una forza centripeta che genera inevitabilmente chiusura e
conflitto. A proposito di questa immaginifica rigenerazione che avrebbe prodotto
l’uomo nuovo, l’americano, oltre ai personaggi già citati, de Crèvecœur, Benton,
vale la pena ricordare Frederick Turner e la sua interpretazione della frontiera
americana, proposta sul finire dell’Ottocento. Lo storico distingue le frontiere
europee (plurali), che separano una cultura da un’altra cultura, dalla frontiera
americana (singolare), che distingue cultura da wilderness. Questo confronto
arcaico, originario col grado zero della civiltà avrebbe rigenerato lo svigorito
uomo europeo, dando vita all’americano, l’uomo nuovo di frontiera, in grado di
riaffermare le leggi eterne che Dio ha dato alla Natura. Sembra la storia di
Superman… Noi sappiamo che si tratta di una gran bella menzogna: l’Europa non
era popolata da fiacchi individui occhialuti, malati di civiltà, e di là dal
recinto americano non c’era affatto una terra caotica in cui portare la
razionalità divina, ma una miriade di culture antiche e complesse che popolavano
un paesaggio ricco e vario. Tuttavia questa narrazione è stata efficacissima per
giustificare la chiusura verso le proprie origini e lo sterminio attuato ai
danni dei nativi. Il metodo è stato mantenuto nei decenni successivi, sempre più
evoluto, divincolato dalla dimensione esclusivamente territoriale: si legga al
riguardo il bel saggio di Ilaria Moschini Il grande cerchio. Theodore Roosevelt,
già nel 1904, investe gli Stati Uniti del ruolo di polizia internazionale,
chiamata a intervenire “elsewhere”, ovunque l’ordine e la stabilità sia messa in
pericolo; noi tutti ricordiamo l’“esportazione della democrazia” proposta
generosamente al mondo da George W. Bush, a inizio millennio, giustificata
dall’attentato alle Twin Towers. Per arrivare ai giorni nostri, ritengo che i
capricci e le pagliacciate di Trump siano l’ultimo aggiornamento di queste
narrazioni: armi di distrazione di massa che, al pari delle storie e dei
miti westerndi cento anni fa, servono a occultare un piano ben ordinato,
razionale, lineare di assimilazione, di appiattimento, di omologazione
dell’altro ai propri fantasmi ideali. Un’identità fragile difficilmente si apre
all’alterità. Chissà se alla Casa Bianca stanno già lavorando a un video che
prefiguri le meraviglie dell’Iran futuro…
Tornando a The Iron Horse, lei ha fatto riferimento alla frammentazione etnica
del corpo lavoratori, che con scavi e martellate posavano binari e traversine
con grande lena – anche in una specie di “gara” fra le due compagnie per
riuscire a completare il proprio tratto per prima. Nel film questa molteplicità
culturale, di indole e di espressioni verbali si vede anche nei pannelli delle
didascalie, dove a volte i dialoghi degli operai sono espressi in un americano
allegramente deformato, forse dalla spensieratezza lessicale degli sradicati.
Sì, in The Iron Horse è presentato quest’aspetto costitutivo della società
statunitense, punto d’incontro di traiettorie provenienti da origini molteplici.
Anche in questo fenomeno troviamo una interessante ambivalenza, una compresenza
di apertura e chiusura. Per lungo tempo si è parlato degli Stati Uniti come di
un Melting Pot, un calderone che raccoglie ingredienti di provenienza varia e li
compone insieme, formando una nuova, laboriosa società cosmopolita. Il termine è
ripreso dall’opera teatrale omonima di Israel Zangwill, che nel 1908 immaginava
l’America come il crogiuolo di Dio, in cui si entra italiani, cinesi, tedeschi,
irlandesi, e miracolosamente si esce americani. Vi è naturalmente il rischio
concreto di vivere un processo di omologazione, di assimilazione. Nel film di
Ford, la battaglia difensiva contro i nativi è in qualche modo il calderone che
impasta e compatta i lavoratori immigrati, trasformandoli in orgogliosi
statunitensi.
Mi viene in mente Jacques Feyder, grande regista francese, precursore del
Realismo poetico, e la gustosa descrizione che egli ci offre della sua
esperienza hollywoodiana, avuta negli anni Venti e Trenta. La riassumo in poche
righe. Stanchi dei loro prodotti piuttosto ripetitivi, gli americani decidono di
dare nuova linfa alla propria estetica chiamando qualche regista europeo alla
propria corte. E così Feyder approda a Hollywood, ci racconta i numerosi
incontri con i produttori, il confronto sul soggetto giusto, la sceneggiatura
appropriata, i compromessi, le incomprensioni, le strette di mano; e ancora
l’inizio della lavorazione, straordinariamente efficace e lineare: tutto
funziona alla perfezione, “tutto viaggia sul velluto”. Finché il film è
concluso, e ci si incontra per l’anteprima. È lì che il regista, seguendo sullo
schermo il fluire di un film che viaggia senza alcun intoppo, deve confessare a
se stesso: “E’ venuto molto bene, ma non è il mio film”. Non sono io. E a
conclusione della proiezione, sui volti di tutti i membri della produzione,
legge lo stesso pensiero: “Ma perché abbiamo chiamato dall’Europa uno che ha
girato un film che qualsiasi nostro regista avrebbe potuto dirigere?”. I pochi
cineasti che, chiamati a lavorare negli Stati Uniti, sono riusciti in qualche
modo a conservare la propria identità professionale – Stroheim, Renoir,
Antonioni – sono stati fortemente osteggiati da Hollywood. Anche in questo caso,
il cinema è metafora di una dinamica sociale fortemente radicata nella cultura
occidentale.
John Ford si è grandemente impegnato a inquadrare il Caos, ovvero la wilderness,
in diverse prospettive e da diverse angolazioni, dedicandosi all’epopea del West
quasi come un adepto alla sua religione. E lo ha fatto da uomo del suo tempo e
della sua cultura, in un orizzonte – come lei dice – denso di richiami agli
ideali illuministi, alla concezione borghese del viaggio, alla tecnologia come
strumento di dominio. In cosa credeva e come si gratificava John Ford nello
sviluppo della sua carriera, e in cosa smise di credere verso la conclusione
della sua parabola artistica?
John Ford era considerato il più affidabile dei registi hollywoodiani. E questa
affidabilità io ritengo sia dovuta anche al suo modo di inquadrare
la wilderness, allo sguardo che gettava – o credeva di gettare – al di là della
frontiera, in linea con lo sguardo di Hollywood. Prendendo a prestito il lessico
lacaniano, si può dire che sin dalle sue origini, il cinema americano abbia
collocato un’immagine della wilderness davanti alla wilderness stessa, per
rimuovere l’angoscia che essa può provocare, per evitare di esserne bewildered,
disorientato. Ho già citato Jean Renoir, grande regista francese, coevo di Ford.
Non è un caso che, nel suo periodo americano (gli anni Quaranta), fu fortemente
osteggiato dai produttori hollywoodiani proprio perché adoperava la macchina da
presa come strumento di apertura, di esplorazione, come espressione di curiosità
verso un territorio sconosciuto e inquieto.
La visione fordiana della wilderness, proprio per il suo carattere di chiusura,
era destinata a un’inesorabile decomposizione, destrutturata dall’interno
dall’autoreferenzialità che la fonda. Il che, lo ribadisco, la rende
rappresentativa dell’intera cultura occidentale dominante. Lindsay Anderson, nel
suo volume sul cineasta americano, registra negli ultimi anni della vita e della
filmografia di Ford un progressivo incupimento, un nichilismo ruvido che
impregna alcune delle ultime pellicole fordiane. Ce ne sono due, a mio parere,
significative, entrambe dirette negli anni ’60, quando il mondo e il cinema
erano ormai mutati e reclamavano un cambiamento di prospettiva dai cineasti. La
prima è Cheyenne Autumn: dopo decenni di demonizzazione degli “indiani”, il
regista western per eccellenza sembra fare ammenda e riconoscere valore alla
cultura dei nativi. Viene tuttavia mantenuta l’antipatica abitudine
hollywoodiana di far interpretare Comanche, Cheyenne, Sioux da attori che di
nativo non hanno nulla: messicani, italiani, spagnoli, etc, solo perché
rispondono al cliché del volto esotico. In più, leggendo le interviste
rilasciate in quegli anni dal regista, può lasciare perplessi il carattere
assimilazionista nascosto in alcune affermazioni: “Ho un enorme affetto per gli
Indiani. È un popolo molto morale […] hanno una letteratura […] amano i bambini
e gli animali”. Il valore dell’altro cresce proporzionalmente alla somiglianza
con l’identico.
L’altra pellicola è The Man Who Shot Liberty Valance. In questo film si avverte
la necessità di Ford di prestare orecchio alle istanze del nascente cinema
moderno, e, nello specifico, la forte influenza di quel capolavoro che
è Rashomon di Kurosawa. Ricorderete che nel film del regista giapponese, con una
serie di flashback, si cerca di definire cosa sia davvero accaduto nelle ore
precedenti al processo, e chi sia l’assassino dell’uomo ritrovato per caso da un
contadino di passaggio. Ciascuna delle testimonianze offre una prospettiva
diversa e ridisegna i personaggi, le azioni, le relazioni. Anche Ford costruisce
una narrazione prevalentemente orientata al passato, inquadrando un evento
cruciale accaduto decenni prima, sulla frontiera, l’uccisione del bandito
Liberty Valance, e, attraverso una duplicazione del flashback, si chiede chi lo
abbia ucciso davvero: il senatore Ransom (James Stewart), come la storia
ufficiale racconta, o il rude Tom (John Wayne)? Se però a conclusione
di Rashomon dobbiamo constatare che il regista ha inquadrato da tante
angolazioni un’oggettività sfuggente, invitandoci ad accettare l’assenza di una
verità unica, Ford adopera una tecnica simile ma con uno scopo diverso: svelare
la menzogna ufficiale e affermare la verità nascosta. È Tom – un americano vero,
direbbe Turner – che ha liberato la città dal bestiale Valance, è a lui che si
deve la fondazione della civiltà, anche se la storia lo ha voluto dimenticare.
C’è una fatica, una resistenza caparbia a rinunciare alla prospettiva certa, al
pensiero unico, alla Verità, una pericolosa fede nel proprio punto di vista che
non limita solo l’estetica cinematografica, ma la visione stessa della realtà,
fuori dalla finestra.
Paolo Ferrucci
*In copertina: John Gast, American Progress, 1872, rappresentazione allegorica
del “Destino manifesto” degli Stati Uniti
L'articolo “Manifest Destiny”: il progresso come missione, o del carisma degli
Stati Uniti. Dialogo con Andrea Laquidara proviene da Pangea.
Tag - Cinema
Forse, fra i lettori, proprio coloro che provano una certa inquietudine al
pensiero di ritrovarsi su un aereo e dover volare, spesso loro malgrado,
finiscono per apprezzare maggiormente i racconti e i romanzi dedicati a questo
strano desiderio umano di “staccare l’ombra da terra”. Siamo, o siamo stati,
tutti lettori appassionati di Saint-Exupéry nonché, in tempi più recenti, di
quel notevolissimo e sfortunato scrittore – sfortunato come uomo, ma fortunato e
talentuosissimo come scrittore – che è stato Daniele Del Giudice.
Il mondo degli aerei e dei piloti torna prepotentemente in primo piano
nell’opera di un altro grande scrittore del Novecento, lo statunitense James
Salter, ancora troppo poco conosciuto da noi, benché Guanda ne abbia pubblicato
quasi tutta l’opera. Di Salter ricorre ora un doppio anniversario: cent’anni
dalla nascita, avvenuta il 10 giugno 1925 e dieci dalla morte, il 19 giugno
2015, subito dopo il compimento dei novant’anni. Una vita lunga e, come vedremo,
anche complessa, a cui non corrisponde la mole di pubblicazioni che ci si
potrebbe forse aspettare. In termini quantitativi l’output è stato nell’insieme
modesto, insomma, ma se si passa, come si dovrebbe, a una valutazione
qualitativa, il discorso cambia radicalmente, perché Salter è da considerarsi
una figura di assoluto spicco nella letteratura statunitense del secondo
dopoguerra. La sua scrittura, scrive John Irving nella postfazione all’edizione
italiana di A Sport and a Pastime(Un gioco e un passatempo, edito da Rizzoli nel
2006 e riproposto da Guanda nel 2015) – un titolo, sia detto per inciso, tratto
curiosamente da una sura del Corano – “trasforma i suoi libri, romanzi o memorie
che siano, in risultati letterari eccezionali”, tanto che qualunque scrittore
contemporaneo “si sentirà umiliato dalla sua lingua”.
Nato nel New Jersey, all’età di appena due anni Salter, che in realtà si
chiamava James Arnold Horowitz, segue la famiglia a Manhattan, e New York
diventa la sua città, la città in cui frequenta anzitutto le scuole superiori
(fra i compagni di scuola si annoverano fra gli altri Julian Beck e Jack
Kerouac), pubblicando le prime poesie, a suo dire terribili, sul giornalino
scolastico. È uno studente brillante e molto portato per le materie
scientifiche, e al momento della scelta dell’università, indeciso fra il MIT e
Stanford, si lascerà convincere dal padre, un ex militare, a entrare – siamo nel
1942 – all’Accademia militare di West Point. Si arruola poi nell’aviazione, ma
nel frattempo si laurea e ottiene anche un master alla Georgetown University, e,
dopo alcuni incarichi nelle Filippine, in Giappone e alle Hawaii, partecipa alla
guerra di Corea eseguendo un centinaio di missioni di combattimento nei cieli
coreani. Da questa esperienza ricava nel 1956 il suo primo romanzo, The
Hunters (Per la gloria, Guanda, 2016), che per non dare nell’occhio fra i
commilitoni pubblica con lo pseudonimo di James Salter, nome che in seguito
deciderà di adottare anche nella vita civile. Da The Huntersverrà anche tratto
nel 1958 un fortunato film con Robert Mitchum.
Segue nel 1961 The Arm of Flesh, ripubblicato quasi quarant’anni dopo con varie
modifiche e con il nuovo titolo di Cassada, un altro romanzo incentrato sulle
sue esperienze di pilota, ma ambientato stavolta alla base aerea di Bitburg, in
Germania. Nel frattempo, tuttavia, Salter ha capito che, se davvero vuole
dedicarsi alla letteratura, deve cambiare vita. Un segnale di una possibile
crisi esistenziale, a ben vedere, si coglie già in alcune pagine di Per la
gloria (cito qui dalla traduzione di Katia Bagnoli) che sembrano attagliarsi a
chiunque vada in pensione o smetta un’attività:
> “Fare parte di una squadriglia era una sintesi dell’esistenza. Quando arrivavi
> eri un bambino. C’erano opportunità infinite, e tutto era nuovo. Gradualmente,
> quasi senza rendertene conto, i giorni degli studi faticosi e del piacere
> erano finiti, avevi raggiunto la maturità; e poi all’improvviso eri vecchio, e
> volti e persone nuove che faticavi a riconoscere ti spuntavano intorno in
> fretta, fin quando scoprivi di non essere più il benvenuto fra loro perché
> tutti quelli che avevi conosciuto e con cui avevi vissuto se ne erano andati e
> la guerra non era diventata altro che una serie di ricordi incondivisibili di
> eventi avvenuti tanto tempo prima.”
Salter lascia quindi l’aeronautica e per guadagnare qualcosa si dà alle
sceneggiature di film e documentari, vincendo anche un premio alla Mostra di
Venezia del 1962, scrivendo nel 1969 la sceneggiatura di un film ambientato a
Roma, L’appuntamento, diretto da Sidney Lumet e interpretato da Anouk Aimée e
Omar Sharif, e collaborando, fra gli altri, con Robert Redford, per il quale
scrisse la sceneggiatura di Downhill Racer(Gli spericolati). Quest’ultimo
tuttavia infine rifiutò, perché il protagonista gli sembrava troppo riservato e
inadatto a lui, la sceneggiatura per un altro film, Solo Faces, incentrato sul
mondo degli scalatori, che lo scrittore decise in seguito di trasformare in un
romanzo, uscito nel 1979. Romanzo che diventerà un libro di culto nell’ambiente
appunto degli appassionati di quello sport.
Ma la strada di Salter è decisamente quella della narrativa pura, e se sarà
ricordato, come credo e spero, ciò avverrà grazie a una manciata di romanzi e
volumi di racconti che hanno rappresentato un’alternativa forse minoritaria, ma
non per questo meno presente e proficua, rispetto alla tradizione prevalente
nella recente letteratura statunitense, quella delle narrazioni fluviali, da
Bellow a Roth, da Updike a Mailer, da Ford allo stesso Irving, e oggi da De
Lillo a Franzen. Tanto divergente è potuto sembrare a molti critici il suo
cammino che Salter è stato presto bollato come atipico ed “eurocentrico”, il che
forse non è del tutto errato, se si pensa ai forti legami da lui intrattenuti
con diverse letterature europee, e in particolare con quella francese (per un
periodo ha anche vissuto a Parigi). Dagli scrittori europei Salter mutua forse
la riflessione sulla letteratura come modalità di vita, e la sua forza sta nel
far sì che, grazie a un instancabile lavoro di cesello, ogni sua opera, dal
romanzo più corposo al più breve dei racconti, sia un piccolo o grande
capolavoro. Nei suoi quasi sessant’anni di attività come scrittore, da The
Hunters all’ultimo romanzo uscito nel 2013, All That Is (Tutto quel che è la
vita, Guanda, 2015), Salter ha saputo mantenere inalterata nel tempo la tensione
e la profonda meditazione che si avverte dietro ogni sua pagina, ogni paragrafo,
persino ogni frase da lui formulata – quella che considerava, cioè, la vera
unità di misura della narrativa. A proposito della sua frase, appunto, e di
quanto sia ben tornita, Richard Ford ha scritto una volta che “It is an article
of faith among readers of fiction that James Salter writes American sentences
better than anyone writing today” (“È articolo di fede tra i lettori di
narrativa che James Salter scrive oggi frasi americane meglio di chiunque
altro”).
Grande estimatore delle metafore, Salter riesce quasi sempre a stupire, a
coniarne di nuovissime. Per farmi capire meglio prendo, praticamente a caso, un
suo paragrafo, uno dei tanti che potrei citare, l’inizio del secondo capitolo
di Una perfetta felicità (nella traduzione di Katia Bagnoli). Ecco cosa scrive:
> “Era l’autunno del 1958. Le bambine avevano sette e cinque anni. Sul fiume,
> del colore dell’ardesia, si riversava la luce. Una luce morbida, un’indolenza
> divina. In lontananza il ponte nuovo scintillava come una dichiarazione
> d’intenti, come un’affermazione che in una lettera costringe chi legge a
> soffermarsi.”
Un paragrafo praticamente perfetto.
Scrivere, cancellare e riscrivere continuamente, questa la sua tecnica,
acquisita quando i computer non esistevano ancora, ma mantenuta poi anche in
seguito, a garanzia di una ricerca incessante e faticosa dell’espressione
migliore, più calzante. Diceva di odiare quanto sgorgava direttamente dalla
mente, e che l’unico piacere dello scrivere consisteva in realtà nel correggere
e riscrivere. A questa inclinazione artigianale Salter univa una grande
curiosità per gli altri e per il mondo, che gli consentiva di archiviare prima
nella sua mente e riutilizzare poi nelle sue storie impressioni e frammenti di
discorsi accumulati nei decenni, giungendo il più delle volte, come ha
confessato, a creare personaggi che sono spesso un originale collage di diverse
persone reali, colte in una battuta o in un singolo atteggiamento. Sebbene
qualche critico abbia definito il suo stile impressionistico, o addirittura
affine al pointillisme in pittura, Salter ha regolarmente sottolineato di aver
voluto solo e sempre ricercare la massima chiarezza, insistendo non tanto sulle
grandi teorie, quanto sulle gioie e sulle asperità della vita quotidiana.
La sua abilità nel descrivere la passione sentimentale e sessuale – ne è un
esempio evidente A Sport and a Pastime –, così come la pulsione di ciascuno di
noi verso le novità e il cambiamento, palesa uno studio appassionato di diversi
antecedenti letterari, fra cui Salter stesso ha sempre annoverato un altro
militare, Isaac Babel’, ma anche Gogol’, Gide, Kawabata, Nabokov, Karen Blixen,
Thomas Wolfe e Marguerite Duras. Uno studio, peraltro, ravvicinato e intenso,
senza limitazioni o timori reverenziali, fondata sull’augusta e oggi troppo
frettolosamente abbandonata pratica della mimesi.
Con Light Years, del 1975 (tradotto in italiano da Guanda nel 2015 con il
titolo Una perfetta felicità),Salter riesce a raccontare con un’ispirazione
felicissima e uno stile ellittico e obliquo una storia, d’amore prima e di
bruciante separazione poi, basandosi sulla convinzione più volte espressa che
nella vita non conti tanto la realtà oggettiva, quanto la memoria, i ricordi che
riusciamo a strappare all’oblio. Scriverne e descriverli è anzi l’unico modo per
farli e farci vivere ancora. “There is no complete life,” sostiene. “There are
only fragments” (“Non esiste la vita completa, ci sono solo frammenti”). Ma la
forza del libro sta anche nella sua capacità di descrivere le conseguenze della
dissoluzione di una famiglia per tutti i suoi componenti e di farci entrare con
discrezione, ma anche con consumata maestria, nella mente dei protagonisti: la
bella, sofisticata e confusa Nedra, avvinta dalla lettura della biografia di
Alma Mahler, e il marito Viri, un architetto ebreo elegante e a suo modo
romantico – ebreo proprio come quel Salter il cui matrimonio andrà in pezzi poco
dopo la stesura del libro. Ma d’altra parte in Salter l’autobiografia, seppur
ben dissimulata, è sempre in agguato: la storia d’amore torrida con la ragazza
francese di A Sport and a Pastime è tratta di peso dalle sue esperienze
personali, e la vita, fra il divorzio, la morte improvvisa di una figlia in
circostanze drammatiche e le malattie che contrappuntano l’avanzare dell’età,
non lo ha certo risparmiato. Ma nelle sue opere ha saputo sempre evitare
qualsiasi tentazione di ripiegamento su sé stesso e di sentimentalismo.
Sulla fine di un amore tornerà anche con il bellissimo racconto che dà il titolo
alla raccolta Dusk and Other Stories, uscita nel 1988 (Crepuscolo e altre
storie, Guanda, 2022), racconto seguito da una serie di altre piccole gemme. Il
libro otterrà il PEN/Faulkner Award, un premio di grande prestigio. Lo stesso
livello qualitativo si riscontra senz’ombra di dubbio nella seconda raccolta,
dal titolo Last Night, che esce nel 2005 (L’ultima notte, Guanda, 2018).
In Burning the Days, del 1997 (Bruciare i giorni, Guanda, 2018), che è invece
una specie di memoir o autobiografia per frammenti, in cui si muove senza alcuna
remora da un periodo all’altro della propria vita, lo scrittore spinge ancora
oltre l’idea della reminiscenza come (unica) base della narrazione. Anche in
questo caso Salter sfugge all’assillo, secondo lui deleterio, di dover evocare
tutto e ribadisce invece il proprio diritto al parziale silenzio, alla cernita,
alla scelta, che oltre tutto ha il potere di stimolare la collaborazione del
lettore, la cui curiosità a volte inappagata diventa un asse trainante del
libro.
James Salter (1925-2015)
Una curiosità per chiudere. Come il nostro Filippo Tuena, che ha voluto dedicare
al cocktail Martini un libro collettaneo uscito qualche anno fa per Nutrimenti,
anche Salter ne è stato per tutta la vita un adepto. Una volta calcolò quanti
Martini aveva bevuto in vita sua, e giunse alla conclusione che dovevano essere
all’incirca ottomilasettecento. Dev’essere, questa predilezione per il cocktail
Martini, un’altra caratteristica degli scrittori di oggi, almeno dei più
interessanti: qualcuno, prima o poi, potrebbe farne magari l’argomento di una
tesi di laurea.
Raoul Precht
*In copertina: poster di Downhill Racer (“Gli spericolati”), 1969, film di
Michael Ritchie, scritto da James Salter, con Robert Redford e Gene Hackman
L'articolo James Salter o della scrittura come cocktail Martini proviene da
Pangea.
Giù la testa è un film del 1971, il penultimo di Sergio Leone e il più ambiguo
di tutta la sua filmografia. È un western atipico, incentrato sulla Rivoluzione
Messicana, che ha per protagonisti due personaggi che apparentemente hanno ben
poco a che fare con quello specifico contesto rivoluzionario: un bandito
maldestro e straccione di nome Juan Miranda, e John H. “Sean” Mallory, un
dinamitardo irlandese colto e istruito, con un passato tra le file dell’IRA. È
un film sulla rivoluzione, girato in un periodo contraddistinto dal crollo degli
ideali rivoluzionari, quindi figlio del proprio tempo. Non è un caso, infatti,
che questo film sia stato pensato e girato da un regista italiano che, seppur
contraddistinto da un apparente distacco nei confronti della realtà
socio-politica in cui viveva, deve avere senz’altro colto l’aria che si
respirava in un Paese in cui, il 12 dicembre 1969, i movimenti studenteschi e
operai avevano visto drammaticamente crollare le proprie rivendicazioni in
seguito agli attacchi terroristici di piazza Fontana.
Con questo film Sergio Leone inserisce un tassello fondamentale nel processo di
crescita creativa che ha caratterizzato tutta la sua produzione, realizzando un
collegamento tra il Mito (il Far West) e la Storia (la Rivoluzione), e donando
al pubblico il suo film più smaccatamente politico. Questo scarto è
riscontrabile anche dal punto di vista prettamente tecnico. Pur rimanendo fedele
ai suoi famosi primi piani, rispetto ai film precedenti Leone utilizza molti
più campi lunghi, dando l’impressione di voler creare un film corale e, dunque,
restituire un affresco storico carico di implicazioni sociali e politiche. Da
questo punto di vista, l’ultima scena del film è emblematica. Purtroppo, è
necessario rivelare il finale per chiarire il concetto, quindi, si suggerisce a
chi non ha visto il film e non ha intenzione di rovinarsi la sorpresa di non
leggere i paragrafi successivi.
Dopo aver tentato di rapinare la banca di Mesa Verde, e aver sottratto non soldi
ma prigionieri politici, Juan e Sean si lasciano coinvolgere più profondamente
nella rivoluzione e si ritrovano a combattere contro le truppe del colonnello
Günther Reza, un brutale ufficiale governativo. Durante la battaglia finale,
Sean viene ferito dal capo delle truppe governative e decide di sacrificarsi per
salvare Juan. Nell’ultimo fotogramma prima dei titoli di coda, mentre viene
inquadrato mediante un primo piano di grande intensità, la voce fuori campo di
Juan pronuncia le parole chiave del film: “e adesso io?”
Benché ermetiche, le ultime battute del bandito messicano nascondono la chiave
interpretativa di tutto il film. L’epilogo di Sean sembra infatti essere la
scintilla che accende la coscienza politica del rozzo brigante messicano
interpretato da Rod Steiger. Gli eventi a cui ha preso parte e il rapporto
instaurato con l’intellettuale irlandese gli hanno permesso di maturare e di
passare dallo stato di bandito individualista e opportunista a quello di
rivoluzionario che ha sposato una causa collettiva di alto valore morale. In
questo senso, Leone sembra comunicare allo spettatore un messaggio di stampo
prettamente marxista: la Rivoluzione è il motore della storia e, con la sua
forza trasformativa, può cambiare le società. Tale chiave di lettura è
confermata dalla citazione di Mao Tse Tung in apertura del film:
> “la Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un
> disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e
> delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di
> violenza.”
Ad avvalorare tale interpretazione, però, è anche il rapporto che si instaura
tra i due protagonisti del film. Sean, interpretato da un azzeccatissimo James
Coburn, è un rivoluzionario deluso, un intellettuale che ha dedicato la propria
vita alla lotta collettiva e che non ne può più di quelli che “leggono i libri
[che] vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: qui ci
vuole un cambiamento! e la povera gente fa il cambiamento.” Sean ha sperimentato
sulla sua pelle la violenza che la rivoluzione inevitabilmente comporta e che
investe principalmente i “poveracci”, quelli che, fomentati dagli intellettuali,
pagano col sangue la lotta armata. La sua, quindi, è una visione della
rivoluzione decisamente pessimista. Così come lo è, evidentemente, quella di
Sergio Leone, il quale, probabilmente, dopo aver assistito con grande
disillusione alla fine degli ideali che avevano animato i primi settant’anni del
Novecento, ha deciso di mettere in scena un dramma crepuscolare carico di
riflessioni politiche.
Tuttavia, le dinamiche relazionali che Juan e Sean instaurano, ad un’analisi più
approfondita, lasciano trasparire un velato ottimismo da parte del regista:
Leone, infatti, sembra dire che gli intellettuali (rappresentati da Sean)
possono svolgere un ruolo cruciale nella formazione della coscienza di classe
del popolo (rappresentato da Juan), ma per farlo devono mantenere un rapporto
diretto con le masse, devono avventurarsi con e in esse, onde evitare di
diventare una classe privilegiata distante dalla realtà concreta. Ed è
esattamente ciò che fa Sean, immergendosi nel mondo straccione e degradato di
Juan Miranda, e accompagnandolo, però, tramite un percorso di emancipazione sia
fisico che morale, verso la rivoluzione.
L’epilogo del film sottolinea con grande enfasi questo messaggio: il sacrificio
di Sean, per quanto inutile ai fini della battaglia contro le truppe
governative, permette a Juan, e di conseguenza al popolo, di prendere coscienza
della propria condizione e di sviluppare una coscienza rivoluzionaria. La
domanda retorica di Juan con cui il film si chiude ha, quindi, una duplice
valenza: da un lato lascia trasparire lo spaesamento del popolo di fronte alla
perdita della guida intellettuale, dall’altro, invece, sottintende la volontà di
proseguire la lotta con maggiore consapevolezza, seppur con quella paura di
affrontare il mondo che tipicamente contraddistingue gli orfani.
In questo senso, il messaggio di Leone sembrerebbe ancora più esplicito:
l’emancipazione delle masse può essere possibile solo mediante il sacrificio, in
senso sociale, degli intellettuali, e la rivoluzione potrà realizzarsi solo se
le classi dominanti saranno disposte a sacrificarsi in nome dell’indottrinamento
del popolo. Da questo punto di vista, Giù la testa può essere interpretato come
il testamento politico di Leone. Il regista romano sembra dirci che il marxismo
ha fallito perché le classi dirigenti, decidendo di non rinunciare ai propri
privilegi, non sono state in grado di comprendere la complessità della realtà
delle masse. Viene inevitabilmente in mente il pensiero di Antonio Gramsci, il
quale aveva individuato negli intellettuali “l’anello mancante del materialismo
storico”, perché è la loro attività a determinare i rapporti tra le classi e i
gruppi sociali.
Di certo, fa un certo effetto sapere che un messaggio di questo tipo provenga da
un regista che ha fatto dell’individualismo il tema centrale della propria
produzione cinematografica. I suoi eroi sono fondamentalmente dei solitari, dei
pistoleri malinconici che riescono a trovare un rifugio dalla durezza del mondo
solamente nell’amicizia virile e nel denaro. E, da questo punto di vista, lo
sono anche i due protagonisti di Giù la testa. Ciononostante, con questo film
Leone sembra aver voluto lanciare un messaggio a quelli che, secondo lui, sono i
veri responsabili del fallimento di ogni sogno rivoluzionario: i membri delle
classi dirigenti e, più nello specifico, gli intellettuali. D’altronde, fu lui
stesso a dire
> “quando ero giovane credevo in tre cose: il Marxismo, il potere redentore del
> cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite”.
Un epilogo, questo, che spiega perfettamente la cupezza del suo ultimo
capolavoro, C’era una volta in America, in cui, invece, l’unico strumento di
emancipazione delle masse sembra essere l’acquisizione, con ogni mezzo
possibile, di denaro, anche a costo di sacrificare l’unico rapporto capace di
dare senso alle vite dei suoi personaggi, vale a dire l’amore, in senso sia
romantico che amicale.
In definitiva, Giù la testa si configura come un’opera complessa e stratificata,
ben lontana dalla semplice etichetta di “western atipico” che nel tempo gli è
stata affibbiata. Attraverso la lente della Rivoluzione Messicana e la dinamica
tra un rozzo bandito e un intellettuale disilluso, Sergio Leone offre una
riflessione amara e disincantata sul fallimento degli ideali rivoluzionari, pur
lasciando intravedere una flebile speranza nel potenziale trasformativo della
coscienza popolare, innescata dal sacrificio delle élite intellettuali. Il film
si erge così a testamento politico di un regista che, pur provenendo da un
universo cinematografico apparentemente distante da tali tematiche, dimostra una
lucida consapevolezza delle dinamiche socio-politiche del proprio tempo,
consegnando al pubblico un’opera potente e ancora oggi attuale, capace di
stimolare una profonda riflessione sul significato di rivoluzione, sul ruolo
degli intellettuali e sul destino delle masse. Un film estremamente attuale che,
oggi più che mai, potrebbe essere utile trasmettere nelle sezioni di più
partiti.
Alessandro Lugli
L'articolo Cinema, marxismo e dinamite: Sergio Leone, il regista rivoluzionario
proviene da Pangea.
Cento soldatini potevano certo bastare per un sogno. Cento soldatini di stagno a
suo fratello Dag in cambio del proiettore ricevuto a Natale. Un baratto che vale
l’essenza di una vita intera.
Dal guardaroba della camera, un giovanissimo, magrolino e inesperto Ingmar
Bergman sistema il proiettore su una scatola di zucchero e accende la lampada a
petrolio. Orienta la luce verso la parete dipinta di bianco e inserisce la
pellicola di un film romantico.
Un aneddoto, insieme alla torcia che illuminava il buio della punizione nello
sgabuzzino e la paura del mostro che mangia le dita dei piedini, tatuato nella
memoria che Ingmar Bergman registra per sempre, in quello straordinario romanzo
autobiografico, concluso a fine settembre 1986, dall’evocativo titolo Lanterna
magica (Garzanti, traduzione di Fulvio Ferrari). Un guazzabuglio di incontri e
scontri, gozzoviglie, solitudini, sceneggiature e opere per il teatro e la tivù
e pellicole, manoscritti tragicamente perduti come la fiaba della stanca torre
Eiffel (Joakim Naken), passioni travolgenti e sensuali, drammi e immani sensi di
colpa, disastri economici e rovesci familiari, rinascite e ricadute. “Fantasmi,
demoni e altri esseri senza nome e senza dimora” sembra che lo abbiano cinto
d’assedio sin dalla più tenera età.
Secondo figlio di un pastore protestante della corte reale, Bergman esordisce
come regista teatrale e proprio il teatro, prima che il cinema, ha
caratterizzato la sua esistenza, come si legge in questo romanzo fiume. Al
cinema dedica luminose pagine:
> “un’illusione progettata fin nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà
> che quanto più vivo tanto più mi appare illusoria”.
Il più grande maestro, secondo il grande Bergman, è Tarkovskij che non spiega
mai, ma rappresenta le sue visioni, poi Fellini, Kurosawa e Buñuel e quel mago
di Méliès. Le sue parole calano nitide e sognanti sulla pagina:
> “Film come sogno, film come musica. Nessun’altra arte come il cinema va
> direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della
> nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna”.
Il cinema è rivelazione:
> “Le ombre, mute o parlanti, si rivolgono direttamente alle regioni più segrete
> del mio animo. Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante,
> scintillante, il fruscìo della croce di Malta, la mano sulla manovella”.
Il cinema è come l’amore, in tutti i sensi.
> “Girare un film è un’operazione intensamente erotica. La vicinanza con gli
> attori non conosce riserve, ognuno si affida totalmente all’altro. L’intimità,
> l’affetto, la dipendenza, la tenerezza, la fiducia, la disinvoltura davanti al
> magico occhio della macchina da presa danno un caldo e forse illusorio senso
> di sicurezza”.
In questa autobiografia, Bergman parla senza riserve e senza censure della
fisicità, che spesso lo metteva a dura prova e lo divorava, quanto dei malesseri
interiori che lo costringevano a un doloroso conflitto interiore. Sensibilissimo
al fascino femminile, ogni storia d’amore che iniziava sembra il canovaccio di
una nuova opera da trasporre sul palcoscenico.
> “L’innamoramento, che ebbe modo e tempo di svilupparsi liberamente, aprì
> stanza chiuse, muri crollarono, io respirai. Il tradimento nei confronti di
> Ellen e dei bambini era avvolto nella nebbia, sempre presente ma stranamente
> stimolante. Per alcuni mesi visse e respirò un’audace messinscena,
> incorruttibile, autentica e quindi indispensabile. Si dimostrò spaventosamente
> cara quando arrivò il conto”.
Conti e debiti, difficoltà economiche e rovesci di fortuna che non sono mancati
lungo il corso di una vita. Ad un certo punto, il regista comprò persino il
primo cappello della sua vita per dare l’impressione di una solidità che proprio
non possedeva.
Le descrizioni dei teatri sono deliziosamente struggenti e nostalgiche:
> “A teatro c’erano le pulci. La vecchia compagnia era probabilmente immune, la
> nuova arrivò con sangue giovane e venimmo crudelmente morsicati. Il tubo di
> scarico del ristorante passava per i camerini degli uomini e gocciolava
> continuamente urina sul calorifero vicino alla parete”.
Una situazione drammatica che Bergman non esita a definire “il paradiso fatto
realtà”. Il maestro a teatro continuamente citato e preso come modello:
Strindberg. La famiglia d’origine, l’infanzia in canonica, un pensiero
ricorrente e intrecciato alle pagine della maturità. Una vita, quella dei
genitori, vissuta come “su un vassoio”, sempre davanti al pubblico.
> “Papà era un predicatore popolare, la chiesa era sempre piena quando parlava
> lui. Era un premuroso pastore d’anime e possedeva un talento inestimabile: la
> sua capacità di ricordare le persone era illimitata. Durante tutti quegli anni
> aveva battezzato, confermato, unito in matrimonio e sepolto molti dei suoi
> quarantamila parrocchiani. Di tutti ricordava il volto, il nome e le
> condizioni”.
Del fratello, invece, mette a fuoco l’odio verso il padre e il tentativo di
suicidio, un’antipatia reciproca e fraterna che lasciò il posto al vuoto, anche
dopo tantissimi anni, quando Dag andò a trovarlo nell’isola rifugio di Fårö con
la moglie greca. I genitori, per il fratello, continuavano ad essere
> “mitici, capricciosi, imprevedibili, giganteschi. Cercammo di ripercorrere con
> la mente sentieri abbandonati e ci guardammo stupiti l’un l’altro: due vecchi
> signori, usciti dallo stesso grembo, separati da una distanza incolmabile”.
Sulla sorella più piccola si accende una timida tenerezza sullo sfondo della
pagina.
> “I miei ricordi d’infanzia riguardo a Margareta sono pallidi e sfuggenti.
> Costruimmo un teatro delle marionette, lei cucì i costumi e io dipinsi le
> scene. La mamma era una spettatrice paziente e interessata, e ci regalò anche
> un sipario di velluto dai bei ricami”.
Nonostante avventurose e innumerevoli esperienze, quel gettarsi “a capofitto
nell’abisso della vita”, lo sguardo del regista svedese ritorna, anche alla fine
del suo memoir, all’album delle foto di famiglia, al piccolo cerotto
sull’indice, al disegno di una coperta, al profumo d’aringa fritta, al volto di
sua madre, che appare e scompare, nella brulicante folla elegante delle foto.
Riprende tra le mani il diario segreto della madre, le pagine che inquadrano il
momento della sua nascita, la sua venuta al mondo, correva il luglio 1918.
> “Nostro figlio è nato domenica mattina, quattordici luglio. (…) Sembra un
> piccolo scheletro con un nasone rosso fuoco. Rifiuta con ostinazione di aprire
> gli occhi. Dopo qualche giorno mi è venuto a mancare il latte per via della
> malattia. Allora è stato battezzato in tutta fretta in ospedale. Si chiama
> Ernst Ingmar”.
Questa ostinazione a non aprire gli occhi sembra intrecciata al sogno di
rimanere a vivere nelle segrete stanza dell’infanzia perduta, tra i morti che
sono “costretti a tormentare i vivi”.
> “In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti
> nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti
> alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la
> velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio
> una piccola visita alla realtà”.
In breve, anche nella sua Lanterna magica, Bergman riesce a mettersi a nudo:
“illusionista e reo confesso di questa illusione – secondo la netta definizione
di Olivier Assayas e Stig Björkman in Conversazione con Ingmar Bergman(Lindau) –
vulnerabile e inaccessibile, umano e insondabile”.
L’invito da cogliere è, quindi, quello di ascoltare la voce incoerente e
illogica delle emozioni:
> “Ma voi vi renderete certamente conto che quando si è artisti, quando si
> creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti.
> Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Dal punto di
> vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è proibito non esserlo. Ma se
> si ha fiducia nelle proprie emozioni, allora si può essere del tutto
> incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze
> delle emozioni che hai suscitato. Per sempre”.
Linda Terziroli
L'articolo “Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge”.
Nella magia di Ingmar Bergman proviene da Pangea.
Nella storia del cinema il 1955 fu l’anno di James Dean. Prima di scomparire
alla velocità di una meteora, il giovane ribelle statunitense lasciò dietro la
sua scia tre film indimenticabili, la promessa della fama mondiale e il sogno di
diventare regista.
Eletto a idolo romantico della gioventù degli anni Cinquanta, Dean diede corpo e
voce a personaggi fuori da ogni schema. Per Elia Kazan aveva vestito i panni del
rancoroso ma dolce eroe steinbeckiano di East of Eden (La Valle dell’Eden), nel
superbo Rebel Without A Cause (Gioventù bruciata) di Nicholas Ray si era
trasformato nell’intrepido Jim Stark, chiudendo con aplomb nella parte
dell’orgoglioso Jett Rink in Giant (Il Gigante postumo), a coronare la triade
per cui è ricordato come il “ragazzo d’oro” del cinema americano.
Nello stesso anno, la promessa di Broadway – il debutto in See the Jaguar è del
’52 – fuggiva dalle luci del successo e da lunghe notti insonni, trascinate sui
marciapiedi di New York, per tornare alle sue radici, a Fairmount. Qui poté
finalmente respirare, ancora per qualche tempo, l’aria di casa. Non appena
giunto nella cittadina sonnolenta dell’Indiana s’immerse a capofitto nel torpore
della vita rurale, confondendosi fra i contadini e i manovali del paese.
James ‘Byron’ Dean in compagnia del suo border collie Tuck a Fairmount, Indiana,
1955.
Nato nella vicina Marion, il piccolo Jimmy era cresciuto nella fattoria di
proprietà dello zio Mark Winslow, il quale tornava prodigamente ad ospitarlo.
Accolto a braccia aperte da tutti i suoi cari, riunì attorno a sé i membri di
almeno tre generazioni. L’avrebbe seguito ovunque, dal selciato bagnato di
Times Square ai suoi frugali ambienti domestici, l’obiettivo di Dennis Stock
(lo stesso che ispirerà le pose di Kate Moss e Liz Tyler dopo di lui). Deciso a
tracciarne le orme, per immortalarlo sotto un aspetto più intimo, il cronista
mondano gli avrebbe dedicato una celebre serie di ritratti destinata alle
prestigiose testate di Life. Come riporta l’editor Eliza Berman, l’incontro tra
il fotografo e la futura star ebbe un effetto folgorante:
> “Mentre Stock ascoltava Dean parlare con nostalgia della sua educazione a
> Fairmount, nell’Indiana, pensò bene di cogliere il ritratto di un giovane uomo
> sospeso tra due mondi: quello della fattoria di famiglia, dove i suoi zii lo
> avevano allevato dopo la morte della madre, e quello di Hollywood in cui
> sarebbe stato presto accolto”.
A metterne in luce i turbolenti rapporti si aggiunge in tempi recenti il tributo
offerto da Anton Corbijn ai due artisti, interpretati dai brillanti Robert
Pattinson e Dane DeHann, nel film Life (2015).
Nel febbraio 1955, alla domanda “Dove scattiamo le foto?” Stock aveva proposto
“dove sei più felice”. Da quel momento, l’appeal del saltimbanco nottambulo e
del selvaggio contadino andava fissato in una delle maggiori icone di bellezza
maschile del secolo.
Unico nel suo genere, il volume che raccoglie le fotografie di Stock – ironiche,
stravaganti e familiari –, uscito in Italia come James Dean. Per sempre
giovane (Contrasto, 2005), include anche una nota biografica sull’amico modello,
seguendone passo dopo passo il profilo anticonformista.
> “Jimmy non teneva minimamente al proprio aspetto: due volte su tre si vestiva
> in modo più che trasandato, che si trattasse di una riunione formale o
> informale”.
Aggirato il volto da leggenda, questi scatti delicati e spontanei lanciano uno
sguardo lucido sul ragazzo più autentico, legato alla sua terra e teneramente
devoto alla famiglia.
In quei giorni, la vita dai Winslow procedeva al suo ritmo regolare, essenziale
e aromatica, proprio come l’aveva lasciata prima di ascendere alla luce di Santa
Monica o ai ritmi sfrenati della vita newyorkese. Le ore più calde trascorrevano
in un’atmosfera rustica e serena, imbevuta di reminiscenze d’infanzia di stampo
quacchero e circondato dai suoi affetti.
Steso a pancia in giù sul tappetto del salotto e preso dall’entusiasmo nei
giochi del cuginetto Markie, che aveva visto crescere, Jim si sentiva racchiuso
nel grembo di un’alcova, un rifugio sicuro dove poter essere l’eterno fanciullo
dei suoi sogni. Adesso, più di tutto, il caos della metropoli era svanito
lontano come un’isola del Pacifico, scacciato dal suono del bongo che portava
sempre con sé.
Per sempre giovane. Dean gioca insieme al cugino Marcus Winslow Jr.
Durante il breve soggiorno, l’orgoglio d’Indianapolis ebbe anche il tempo di
visitare le aule della vecchia high school, venendo travolto da un’ondata di
nostalgia per gli anni dell’adolescenza consumati da vero campione tra
eccezionali partite di basket e prime produzioni teatrali. Più tardi, la sua
insegnante di recitazione e prima fan Adeline Nall avrebbe ricordato in toni
sinceri e commossi lo studente di genio che lasciò il segno sul palco
scolastico:
> “Jimmy Dean amava sentire il suolo dell’Indiana sotto ai suoi piedi, e credo
> che traesse da lì gran parte della sua energia.”
Un famoso scatto di Stock, poi rimasto iconico, lo vede davanti a tutta la
famiglia raccolta attorno alla tavola imbandita per il pranzo della domenica. A
un tratto, il nuovo arrivato prese a recitare un noto componimento del sommo
poeta locale James Whitcomb Riley: il preferito della madre che scelse di
chiamarlo James Byron in onore alle proprie passioni letterarie.
Con timbro enfatico e strampalato, la personalissima lettura
di Home-Going (1910), attestava il ritorno a casa attraverso la via diretta
della poesia:
> “Oh! Siamo così bisognosi di casa
> La risata del mondo è come un gemito
> Nei nostri orecchi stanchi, e pure i suoi canti son vani,
> Dobbiamo tornare a casa – dobbiamo tornare di nuovo a casa!
> Dobbiamo tornare a casa:
>
> […] Là dove tutto riposa:
> Il tocco di tenere mani su fronte e capelli –
> Stanze buie, in cui più dolce è la luce del sole –
> L’amore perduto di madre e figlio…”
James Dean declama i versi di James Whitcomb Riley, il poeta dell’Indiana.
Per una singolare nemesi, il giovane eroe del cinema avrebbe fatto nuovamente
ritorno in Indiana, ma stipato dentro un feretro più scomodo di quello in cui si
era adagiato, solo sette mesi prima, durante una buffa visita alle vicine
imprese funebri. La lente incredula dell’amico lo catturava allora, nel presagio
d’un eccesso burlesco, con l’espressione da bambino ferito stampata per sempre
sul volto.
Ma come ha scritto Oriana Fallaci, agli occhi del pubblico e dell’industria
cinematografica, James Dean non poteva rassomigliare in toto a un ingenuo
contadino del suo Stato natale, tanto sfaccettato era il talento che gli
spianava la strada per il mito. Da fervido seguace di Brando, si sarebbe
avvicinato di ruolo in ruolo ai divi moderni come ai vecchi idoli europei:
> “Era la Sagan tradotta in americano, l’adolescente pazzo per noia romantica,
> più vicino all’europeissimo Truman Capote e a Oscar Wilde che ai personaggi
> contadineschi di Peyton Place o ai giovani pazzi ma paesani che si riscontrano
> nei romanzi americani”.
Fissato nell’icona di Hollywood e del viveur di Manhattan, il nuovo “bello e
dannato” sfrecciava verso le stelle di una carriera tutta in ascesa.
A stroncare tragicamente la parabola della sua breve esistenza, sancendone la
consacrazione all’Olimpo californiano, una corsa maledetta sull’asfalto della
U.S. Route 466, sul sedile della temibile “piccola bastarda”, la sua Porsche 550
Spyder. In un amplesso di euforia e bagliori di gloria, rapido come aveva
vissuto, se ne andava in un lampo, direzione Salinas.
Pierluigi Piscopo
L'articolo “Dove sei più felice”. James Dean, il fanciullo dell’Indiana proviene
da Pangea.
> “In quella regione non ancora riconosciuta come Stato dell’Unione, era uno
> degli anni in cui i segnali di fumo apache si alzavano dalle cime delle
> montagne rocciose, e più di un ranch era ridotto ormai a un quadrato di cenere
> annerita che si stendeva sul terreno. La partenza della diligenza da Tonto
> segnava l’inizio di un’avventura dall’incerto lieto fine…”
>
> (incipit di La diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox, Sellerio editore,
> 1992)
Cronista giudiziario di Portland, Oregon, Ernest Haycox (1899-1950) è stato
autore di una ventina di romanzi e qualche centinaio di racconti di
ambientazione western, storie cominciate ad apparire nei pulp
magazines americani negli anni Venti, in cui si celebrano i grandi temi della
Frontiera, dalla vastità delle praterie al mistero minaccioso dell’altro,
dall’asprezza del deserto al silenzio che pervade anche l’animo dei personaggi,
solidamente sagomati su stereotipi ben collaudati. Le sue strutture narrative
essenziali, rese con una lingua asciutta e meccanismi elementari che
sfruttano topoi e figure retoriche ricorrenti, si rendevano buoni canovacci
adatti a ulteriori sviluppi, alcuni dei quali sono stati trasposti al cinema
hollywoodiano. Fra i suoi estimatori c’erano Gertrude Stein e Ernest Hemingway,
il quale – secondo la vulgata – ebbe a scrivere “I read The Saturday Evening
Post whenever it has a serial by Ernest Haycox”.
Il racconto Stagecoach to Lordsburg, uscito sul Collier’s Magazine di
Springfield, Ohio, nel 1937, è il più famoso perché vanta un’ascendenza e una
discendenza illustri. Il suo “prima” è la celebre novella di Guy de
Maupassant Boule de suif, mentre il suo “dopo” viene dal cineasta John Ford e
dal suo sceneggiatore Dudley Nichols, che lo giudicò un’ottima trama: «Cercammo
subito di tirarne fuori un film creando i personaggi, visto che quelli che
offriva non erano che abbozzi. Quindi li mettemmo da parte cercandone dei nuovi
che ci apparissero più interessanti». Fu così che Stagecoach to
Lordsburg divenne il celeberrimo film Stagecoach – reso in italiano come Ombre
rosse –, che nel 1939 (anno dell’epocale Via col vento) segnò il punto cardine
della filmografia western, definito come il momento in cui il genere “diventa
maggiorenne” e s’impone come “il cinema americano per eccellenza”.
In Boule de suif di Maupassant una prostituta francese estroversa e
grassottella, passeggera della carrozza in fuga da Rouen durante la guerra
franco-prussiana del 1870, è decisa a rifiutare per senso patriottico
le avances di un ufficiale prussiano che ha fermato la comitiva, ma alla fine si
vede costretta a cedergli per le pressioni dei suoi compagni di viaggio, persone
per bene e rispettabili – commercianti, nobili, due suore, un pericoloso
democratico – che non vogliono ritrovarsi bloccate dalla sfrontata prepotenza
dell’ufficiale e dalla caparbietà della ragazza. L’esito lo conosciamo, con la
cinica ipocrisia della buona società francese che apre e chiude la partita nel
modo più classico. In Stagecoach to Lordsburg, rifacendosi a quel racconto,
Haycox prende il riscontro storico della fuga nel 1885 del capo apache Geronimo
dalla riserva di San Carlos in cui era stato confinato, nell’ultimo sanguinoso
tentativo di ribellione attraverso scorrerie e devastazioni degli insediamenti
dei Bianchi. Come per Boule de suif, i passeggeri della diligenza per Lordsburg
compongono un microcosmo sociale, e qui sono proiettati verso una Frontiera in
progressivo e inarrestabile movimento verso ovest: sono quelli che
colonizzeranno le terre sottratte agli indiani, quelli che vivono di espedienti
professionali, e anche gli emarginati come la prostituta Henriette, schiva e
gentile, e il bel pistolero “smilzo e biondo” Malpais Bill, diretto verso la sua
vendetta contro chi gli ha ucciso il padre e il fratello. Come osserva Attilio
Brilli nell’introduzione, i personaggi hanno un carattere bozzettistico
efficace, con un gusto fra l’arcaico e l’ingenuo che risponde alla mitologia
popolare in cui si muovono; ognuno porta i segni del suo status sociale, dai
dettagli del vestire ai tratti somatici rappresentativi, fino ai gesti e agli
atteggiamenti che tradiscono i loro umori e le loro storie. Malpais Bill – che
nel film di John Ford diventa Ringo interpretato da John Wayne – ha “negli
angoli degli occhi e nella lunga piega della bocca” il segno di una natura
selvaggia, quella del mezzosangue inevitabilmente reietto.
Nel racconto abbiamo una ragazza – Miss Robertson – che va a sposarsi con un
ufficiale di fanteria, un piazzista di whisky di Kansas City, un inglese alto e
ossuto con un enorme fucile da caccia, un elegante giocatore d’azzardo, un
robusto mercante di bestiame con una grossa pepita d’oro appesa alla catena
dell’orologio, lo smilzo Malpais Bill con le pistole che gli pendono ai fianchi
e la prostituta Henriette – queste ultime le due figure centrali. Con questo
materiale, John Ford e Dudley Nichols plasmarono e “riformarono” la tipologia
dei personaggi di Haycox per caricarla dei significati simbolici più adatti alla
narrativa hollywoodiana. La evanescente “ragazza dell’ufficiale” si trasforma
nella volitiva Lucy Mallory, moglie incinta di un ufficiale dell’esercito che
vuole raggiungere il marito; l’inglese col fucile e il mercante di bestiame
vengono rimpiazzati da un banchiere avido che è fuggito con la cassa e dal
medico ubriacone Doc Boone, figura divenuta classica nella mitologia
cinematografica western; Malpais Bill diventa Ringo Kind, che è ricercato e per
questo scortato nella diligenza dalla nuova figura dello sceriffo, e Henriette
diventa Dallas Douglas, la reietta che viene fatta salire sulla carrozza da un
drappello di signore arcigne e avvizzite della Lega per la moralità. Nel film lo
sgangherato Doc Boone, costretto a fuggire da un luogo all’altro, è il
contrappeso speculare del giocatore d’azzardo Hartfield, virginiano dai modi
fini e l’aspetto nobile, entrambi figure che si redimono nel corso del viaggio.
L’opposizione più netta nel microcosmo della diligenza è fra la donna pubblica
Henriette/Dallas e Miss Mallory, ovvero la prostituta e la rispettabile dama che
deve raggiungere il marito, e si esplica in un percorso di sguardi, di
espressioni e di inquadrature soggettive – è la donna civilizzata a osservare la
prostituta, avvertendo una curiosità partecipativa – che nel film prepara la
riconciliazione solidale che avverrà in uno degli eventi centrali, la nascita
della bambina nella stazione lungo il deserto. Qui abbiamo lo svelamento dei
ruoli e la redenzione dei reietti, uno dei grandi marchi del cinema “etico” di
John Ford.
Uno sguardo analitico e complessivo sul suo cinema lo troviamo nel bel saggio di
Andrea Laquidara John Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di
Dioniso (Mimesis, 2019), che passa in esame la filmografia fordiana
concentrandosi sulle pietre miliari della sua sterminata produzione e traendone
quelle implicazioni storico-filosofiche che ci riportano anche all’America di
oggi. Vediamo innanzitutto che tutti i film di John Martin Feeney, figlio di un
irlandese giunto in America nel 1872, sono girati – anche quelli non
squisitamente western – sulla Frontiera, cioè sul limite, sulla soglia, quella
linea che difende la civiltà dalla wilderness: un cinema che rappresenta nel
modo più compiuto il mito di fondazione degli Stati Uniti d’America. Prendiamo
le sequenze che aprono Stagecoach: in una piccola cittadina dell’Arizona giunge
la notizia che gli Apache sono sul piede di guerra. Dopo qualche inquadratura in
esterni, che riprende due figure a cavallo che corrono negli spazi del deserto,
finiamo all’interno di una caserma, dove una delle due figure spiega a un
ufficiale seduto alla scrivania che gli Apache infestano le colline circostanti.
L’ufficiale chiede al telegrafista di predisporre la linea di comunicazione con
Lordsburg, più a ovest nel New Mexico, ma proprio da quella città sta arrivando
un messaggio urgente. L’inquadratura si stringe, l’attesa si fa preoccupata, ma
la comunicazione non arriva: «The line went dead, sir» dice il telegrafista, la
linea è interrotta. Da Lordsburg arriva solo la prima ferale parola: “Geronimo”.
Come osserva Laquidara:
> “Tutti i presenti restano in un lugubre silenzio, e la frattura che Geronimo
> ha provocato nella linea del telegrafo è riempita solo dalla colonna sonora,
> improvvisa, grave, piena di semitoni e sinistre dissonanze: un chiaro invito
> lanciato allo spettatore di preoccuparsi seriamente. (…) La linea di
> comunicazione si è improvvisamente trasformata in un binario morto. Si è
> fratturata. L’unione si è fatta divisione. E in questa frattura si è inserito
> il nome di Geronimo, il selvaggio, l’irrazionale, accompagnato da un accordo
> musicale disarmonico. Ecco dunque cosa determina il carattere tragico,
> agonistico del percorso della storia, la possibile frattura del binario
> provocata dall’imboscata tesa dal selvaggio. La dinamica e ottimistica
> mobilità del progresso muta improvvisamente in stasi. Nel Caos della stasi”.
A metà della storia la diligenza attraversa il tratto in cui Geronimo avrebbe
tagliato il filo del telegrafo, nel territorio denso di ostili premonizioni
rappresentato dalla Monument Valley, divenuta il più mitico dei paesaggi
americani: qui è evidente che il gruppo racchiuso nella carrozza – la piccola
comunità – è esposto al passaggio nel mondo spaventevole dell’irrazionale. E
l’irrazionale arriva:
> “Tutta la celebre sequenza della fuga della diligenza, inseguita dagli Apache,
> e della battaglia realizzata in frenetica corsa, è tra le più studiate nei
> corsi di Storia del cinema. Una delle ragioni sta nel fatto che John Ford
> compone insieme magistralmente un materiale molto eterogeneo. Nella pazza
> corsa di carrozza e uomini a cavallo si susseguono: velocissimi carrelli
> girati in esterni; inquadrature più ravvicinate dei passeggeri che si
> difendono (girate evidentemente in studio); riprese dall’alto che mostrano la
> diligenza fendere un territorio bianco come un lago asciutto, inseguite dalle
> ombre minacciose dei selvaggi; citazioni da Griffith (raccordi in asse e sullo
> sguardo); citazioni dal cinema sovietico (la spettacolarità di angolazioni
> inusuali, con prospettiva dal basso); passaggi di azione pura che si alternano
> a primi piani fortemente espressivi, che definiscono la psicologia dei
> passeggeri”.
L’attacco degli Apache dura ben sei minuti, con una dinamica forsennata in cui
non v’è un minimo cedimento o dispersione della tensione narrativa, fino al
momento in cui gli squilli di tromba annunciano il soccorso salvifico del
battaglione di cavalleria al galoppo e lo scioglimento del dramma. I selvaggi
sono rappresentati come figure omogenee, anonime, accomunate dall’impersonare il
pericolo, il caos e la violenza, sia quando sono invisibili sia quando irrompono
sulla scena come incubi. E in effetti gli Apache Chiricahua, a cui apparteneva
Geronimo, rientravano nel gruppo di popoli aggressivi e di mentalità guerriera
per i quali le scorrerie erano l’impresa tribale più importante e legittima, e
la guerra di vendetta era l’inevitabile conseguenza della dinamica delle
scorrerie. I giovani maschi venivano allevati per essere corridori forti, rapidi
e rapaci, per diventare ladri di bestiame e razziatori di carovane, abili nel
nascondersi e nello schivare, e implacabili odiatori dei vicini di altre
tribù. È lo stesso Geronimo a narrare il mito chiricahua della creazione, in cui
uno dei due eroi tradizionali è chiamato “uccisore di nemici”. Poiché vivono
razziando, devono affinare le arti dell’inseguimento, dell’imboscata, della
morte, in quanto la morte dei nemici è la loro vita.
Per la mente indiana l’attaccamento al paese nativo era una necessità vitale, e
non potere farvi ritorno equivaleva alla separazione dalla sorgente di vita
della terra. Gli Apache Chiricahua fondevano questo attaccamento alla propria
terra con la pratica tradizionale della guerra di razzia, e ciò rese possibile a
Geronimo di evitare la resa definitiva per più di un decennio, periodo fatto di
menzogne e promesse non mantenute da entrambe parti in conflitto. Per i Bianchi
Geronimo era il peggiore fra tutti, perché era il migliore sotto l’aspetto della
civiltà chiricahua: il più diffidente, intransigente, selvaggio, crudele.Quando
lo stile di vita dei Chiricahua fu minacciato come mai prima, egli divenne una
sorta di capo supremo, e nulla lo convinceva che il suo predecessore Cochise
avesse fatto bene a portare le sue bande nella riserva loro assegnata. I
Chiricahua non erano mai stati agricoltori, perché si spostavano di continuo, ed
era impensabile che si convertissero in contadini all’interno di una riserva;
senza contare che non avrebbero più avuto la libertà di picchiare la moglie per
le sue malefatte e nemmeno di tagliarle la punta del naso quando la scoprivano
infedele, oltre a non potersi più fare il tiswin, la birra tradizionale a base
di granturco. In breve, sarebbero dovuti somigliare agli uomini bianchi che
erano devoti alla terra solo nella misura in cui potevano impossessarsene per
sfruttarla a scapito di tutto il resto, mentre per i Bianchi il fatto che gli
Apache non riuscissero a concepire la nozione della mobilità verso l’alto
mediante l’accumulo di ricchezze era la dimostrazione della loro natura
sub-umana.
Tornando a Stagecoach e al saggio di Andrea Laquidara, abbiamo Ringo e Dallas,
lui ricercato – prigioniero dello sceriffo che viaggia in cassetta – e lei
prostituta: due figure emblematicamente collocate ai margini del sistema
sociale, che in una delle pause del viaggio vengono a trovarsi all’aperto, in un
esterno notte. Dallas cammina lungo uno steccato di tronchi, in un paesaggio
spettrale “alla Murnau” che però è stemperato dalla colonna sonora delicata e
sentimentale.
> “Lo steccato è il vero protagonista del quadro: il legno robusto e livido
> taglia l’immagine in diagonale e ne attraversa il centro. Dallas, prima in
> ombra, poi investita da una luce dolorosa, si ferma sul bordo destro dello
> schermo. Ringo, una nera silhouette, le si avvicina, ma, senza evidente
> motivo, decide di orientarsi verso la parte ovest dell’inquadratura, e dunque
> restare al di là del recinto di legno cui Dallas sta appoggiata. L’intero
> dialogo si svolgerà con la presenza triste e ingombrante dello steccato che
> separa i due interlocutori”.
Pur divisi, i due sono accomunati dallo stato di marginalità:
> “entrambi sono esclusi da una società ipocrita e formale; entrambi hanno
> vissuto un trauma che li ha privati della famiglia; entrambi sono soli, alla
> ricerca di qualcosa, un ricordo o un’attesa che custodiscono sotto la scorza
> dura che li corazza. L’identificazione, man mano che il dialogo procede, si fa
> più viva ed evidente: le inquadrature si stringono e si intensificano nei bei
> primi piani con cui John Ford rende palese la predilezione e l’affetto che ha
> per simili personaggi. Il gioco di campo e controcampo, che alterna il volto
> fiero e intenerito di Wayne a quello di Claire Trevor, pieno di dolcezza
> dimenticata, grazie all’ambivalenza naturale del montaggio, congiunge e
> contemporaneamente mantiene separati i due amanti virtuali”.
Dal West, Ringo si decide a dirle che al di là della frontiera possiede una casa
dove un uomo e una donna potrebbero vivere felici. Dallas, dall’East, è sorpresa
e intimidita, perché la crudeltà del mondo l’ha disabituata all’idea della
felicità. A questo punto avanza nell’oscurità lo sceriffo, che accarezzando lo
steccato ricorda a Ringo che non può allontanarsi, essendo un ricercato sotto la
sua custodia, mentre sullo sfondo la figura di Dallas si allontana profondamente
turbata. Come un rasoio, la legge della Frontiera è intervenuta a dividere il
corpo unico della felicità. Perché sappiamo come “il lavoro di costruzione
narrativa si esprima proprio nella selezione che distingue il necessario dal
superfluo, l’utile dall’inutile, il civile dal selvaggio, il buono dal cattivo.
È in quella linea di demarcazione che risiede il senso profondo del narrare; ed
è nella capacità di operare col rasoio, distinguendo l’identità dall’alterità,
che affonda le radici il montaggio, e dunque la costruzione di una particolare
visione della realtà”.
Mentre in Boule de suif la visione negativa di Maupassant si estende all’intera
fisionomia della società in viaggio, nella micro-società di Stagecoach il medico
ubriacone, lo sceriffo, Ringo e anche Mrs. Mallory (nella sua solidarietà finale
verso Dallas, che nel pericolo le ha protetto la neonata) rappresentano
l’aspetto migliore della civiltà, quello che giustifica il procedere verso la
via del progresso; l’unica figura negativa resta il banchiere Gatewood,
esponente di un capitalismo cinico, vorace ed esasperato. E la valorizzazione
della prostituta Dallas viene proprio dalla “sterilizzazione” della sua
femminilità e del suo eros, che viene normalizzato e ricondotto nel sistema,
promosso alla funzione procreativa, di costruzione della famiglia e della
società. È la cinepresa di Ford e lo sguardo tenero di Ringo che la sollevano
dalla sua condizione misera, incorniciandola nell’icona familiare della
donna-madre – della Madonna, secondo l’interpretazione di Laquidara – che tiene
in braccio la bambina appena partorita da Mrs. Mallory. Un lavoro strategico che
“risulta efficacissimo, giacché riesce a esorcizzare l’aspetto più spaventevole
della donna, la sua carica erotica e sensuale”. Ma non solo: il viaggio che Mrs.
Mallory e Dallas hanno fatto attraverso l’inferno le ha condotte insieme a una
maturazione, la prima al superamento dei propri atteggiamenti misurati e rigidi
di signora dell’Est, con la presa di coscienza che restituisce dignità alla
reietta, la seconda alla consapevolezza del proprio valore – riconosciuto dalla
comunità che torna ad accettarla – e della reale possibilità di amare ed essere
ricambiata.
Paolo Ferrucci
*In copertina: Adolph F. Muhr, Ritratto di Geronimo, 1898
L'articolo Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford proviene
da Pangea.
Il volgere dell’anno ha portato sui nostri schermi i due più recenti adattamenti
di uno dei maggiori capolavori letterari di tutti i tempi, Il conte di
Montecristo di Alexandre Dumas (1844-1846), quasi a celebrarne simbolicamente i
180 anni dalla pubblicazione. Tra dicembre e febbraio, Rai e Mediaset hanno
infatti proposto rispettivamente la serie-evento coprodotta da Italia e Francia
per la regia del premio Oscar per il miglior film straniero Bille August e la
pellicola francese accolta al Festival di Cannes 2024, dove è stata presentata
fuori concorso, con dodici minuti di applausi e al cinema con un record di
incassi che la proietta sulla vetta dei venti film francesi più visti della
storia.
Due trasposizioni-specchio che riflettono volti molto diversi del Montecristo, e
non solo per le scelte imposte dalla necessità di fare convergere un romanzo
monumentale di 1500 pagine in adattamenti audiovisivi di durate sì differenti
(tre e otto ore), ma egualmente difficili da riplasmare entro i confini di un
tempo che possa ospitare un’opera-mondo come quella di Dumas.
Edmond Dantès, il suo protagonista, è l’emblema di una tragica galleria di
ritratti, un carnevale inesorabile di maschere vuote di storia ma che piangono
le stesse lacrime assetate di giustizia. O di vendetta. Maschere che si
costringe a indossare per compiere la sua missione: l’onnipotente conte di
Montecristo, il leggendario Sinbad il marinaio, il venerabile abate Busoni, lo
sfuggente Lord Wilmore, e ancora l’angelo custode che dispensa ricompense dove
ha raccolto briciole di bontà, l’angelo sterminatore che brandisce la spada di
una provvidenza rimasta in silenzio, l’angelo del male che indica con un dito
sulle labbra la casa dove è passata la collera divina, o la propria; la fata
malefica «dei racconti di Perrault che qualcuno ha dimenticato di invitare a
qualche festa di nozze o di battesimo»[1].
Da qui il fascino senza tempo di un personaggio caleidoscopico, che ha popolato
una lunghissima serie di adattamenti, tutti pervasi dalla voglia di raccontare,
ciascuno a suo modo, la storia del giovane marinaio Edmond, innamorato della
bella catalana Mercédès e del mare. Incastrato dal rivale Danglars, che mal
sopportava la sua nomina a capitano del Pharaon, e da Fernand, che desiderava la
sua promessa, viene ingiustamente accusato di essere un agente bonapartista e
condannato dal corrotto sostituto procuratore Villefort a quattordici anni di
reclusione nel Castello d’If, al largo della sua Marsiglia, dove il mare, da
culla della sua giovinezza, diviene la sua cella. Qui incontra il saggio abate
Faria, che gli dona la sua infinita conoscenza, e con essa la
consapevolezza. Consapevolezza di non essere una vittima del caso, ma di un
tradimento. E non solo: gli instillerà anche la volontà e i mezzi per evadere, e
gli rivelerà il segreto di un tesoro custodito nel ventre della deserta isola di
Montecristo. Una Itaca ricca di tesori nascosti, ma spoglia di affetti, l’isola
di cui Edmond si autoproclamerà conte una volta rivendicati i suoi forzieri, e
da cui salperà dichiarando vendetta a coloro che lo avevano tradito, tessendo
un’immane ragnatela in cui le pedine ignorano il loro burattinaio, ma convergono
inesorabilmente nel centro del suo gioco.
Un’epica storia di vendetta, che giunta all’apice del compimento, posta di
fronte alle conseguenze delle proprie azioni, precipita nel senso di colpa di
chi ha voluto porsi al di sopra degli uomini e di Dio, ponendosi sul trono di
una presunta giustizia umana e divina. E arriva a concedere il perdono e a
desiderarlo per sé, ritenendolo però ormai fatalmente irraggiungibile. Ciò che
resta è il bene disseminato con le ricompense elargite, all’apparenza
infinitesimamente piccole rispetto alle punizioni, ma immensamente grandi per i
depositari di tali doni. Perché solo chi ha provato l’estremo dolore, può
gustare appieno la più grande felicità. Come lo stesso Edmond, che scoprendo di
poter essere ancora amato e di potere amare ancora, grazie a Haydée, vede
riaccendersi in sé la speranza.
*
La serie Rai: una storia di riscatto
Attesissimo il ritorno del Montecristo sui canali Rai. L’ammiraglia aveva
infatti ospitato già nel 1966 il famoso sceneggiato diretto da Edmo Fenoglio,
che vedeva un giovanissimo Andrea Giordana nei panni del conte: allora,
l’accento era posto sulla fedeltà alla lettera, nell’ottica pedagogizzante di un
servizio pubblico che, al pari degli affreschi nelle chiese antiche, traducesse
in immagini una formazione culturale che tanti non avevano avuto il privilegio
di ricevere.
Di tutt’altro stampo la serie-evento presentata alla Festa del Cinema di Roma
2024, prodotta da Palomar (Mediawan) e che accredita alla sceneggiatura anche il
pluripremiato Sandro Petraglia, con un cast che riunisce i beniamini di diverse
generazioni, guidato da Sam Claflin (Hunger Games) nel ruolo del protagonista e
dal Premio Oscar Jeremy Irons (Il mistero Von Bulow) nelle vesti dell’abate
Faria. Tanti i volti del cinema e della televisione italiani, con Lino Guanciale
e Gabriella Pession (La porta rossa), Michele Riondino (Il giovane Montalbano),
e Nicolas Maupas (Mare fuori).
Una serie che non vuole istruire, ma fornire una chiave interpretativa, e
interrogare i propri spettatori su tematiche come la giustizia, il desiderio di
vendetta e la possibilità di riscatto.
A dirigere i lavori il regista danese Bille August, che già si era cimentato con
l’adattamento di un classico della letteratura francese nel 1998, con il film
tratto dal romanzo Les Misérables di Victor Hugo, a cui aveva donato un finale
inaspettatamente positivo omettendo l’ultima parte di racconto, che rischiava di
oscurare con la tragicità degli eventi narrati un messaggio di speranza,
tradendo così la lettera per salvare lo spirito dell’opera. Secondo August,
infatti, per adattare un romanzo «devi trovare una storia nella storia,
altrimenti diventa letteratura illustrata. Per essere fedeli a un romanzo
bisogna essere infedeli».
Le otto puntate di questa serie accolgono un intreccio che può però ben
soddisfare chi negli adattamenti va alla ricerca della fedeltà alla lettera
dell’originale. Allo stesso tempo, non si tratta certo – né sarebbe opportuno
che lo fosse – di una filologica traduzione per immagini del materiale di
partenza: la sceneggiatura si prende qualche licenza, senza tuttavia stravolgere
le svolte principali della trama o le funzioni dei personaggi.
Le trasformazioni che intaccano la sostanza e donano un taglio personale
all’adattamento convergono perlopiù nel finale, luogo e tempo in cui una storia
ci pone di fronte alla resa dei conti. Sfuma il personaggio di Haydée, che nel
romanzo rappresentava il nuovo amore e la nuova vita di Dantès: egli è ormai un
uomo nuovo, nel bene e nel male, andato oltre ogni possibile orizzonte condiviso
con Mercédès.
In questa trasposizione lo ritroviamo invece a Marsiglia, sullo scoglio che
monta la guardia di fronte al Castello d’If, insieme a Mercédès. Sarà lei,
davanti alla sua volontà di partire per un viaggio di sola andata, a ricordargli
che «l’amore può guarire», lasciando aperta una speranza per un amore che
nell’immaginario di Dumas la vita aveva trasformato inesorabilmente.
photo Paolo Modugno
Questa scelta sembra andare oltre la volontà di “sacrificare” un personaggio,
quello di Haydée, in favore di quello del primo grande amore, Mercédès, da cui
tutta la storia ha avuto origine, per abbracciare invece una visione più moderna
della giustizia poetica, che predilige i personaggi “grigi”, ben lontani dagli
archetipi immensamente grandi, nel bene come nel male, della letteratura
ottocentesca.
Mercédès rappresenta la possibilità non solo di ricominciare, ma di ricominciare
da un punto molto vicino a quello di partenza, pericolosamente simile al punto
zero. Nonostante il male che si è fatto. Incontriamo qui un Dantès che non
perdona, e che viene posto (e che si pone) solo di taglio di fronte alle
terribili conseguenze delle proprie azioni. Anche il bene è visto in
trasparenza, quasi non fosse dovuto.
Eppure, non vuole essere un’apologia della vendetta: il Montecristo porta con sé
l’universalità dei classici, il loro essere senza tempo, e insieme di tutti i
tempi. Questa serie getta un velo più moderno su un tema, quello della giustizia
e del riscatto, sempre e tremendamente attuale, mostrandoci un riflesso di
un’epoca, la nostra, smaniosa di rivendicare diritti, spesso a lungo negati, e
meno rigorosa nel richiamare ai doveri.
*
Il film Mediaset: una storia di redenzione
Una trasposizione di orientamento quasi opposto è quella prodotta da Pathé e
Chapter 2 (Mediawan), insieme a Fargo Films e M6 Films, e scritta e diretta da
Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, già sceneggiatori di un dittico
di adattamenti della saga dumasiana de I tre moschettieri (2023).
Nel ruolo di Montecristo, Pierre Niney, vincitore del Premio César nel 2015 per
la sua interpretazione di Yves Saint Laurent nell’omonimo biopic, e, nei panni
dell’abate, il nostro Pierfrancesco Favino.
Ci troviamo questa volta di fronte a un film che, per quanto di una durata non
indifferente, ha chiaramente a disposizione un lasso inferiore di tempo in cui
concentrare una storia lunga e articolata. Da ciò deriva un processo di sintesi
dei personaggi: alcuni scompaiono totalmente, altri si fondono in un unico
personaggio che riunisce in sé le loro funzioni. È questo il caso di Albert, il
figlio di Mercédès e Fernand, e Haydée, attraverso cui si intravede il riflesso
di Maximilien e Valentine, la coppia a cui nel romanzo Dantès salva la vita e
con essa la possibilità di vivere il loro amore.
Ma si va ben oltre la pura necessità “tecnica”. I cambiamenti, anche in questo
caso, e ancor di più vista la loro maggiore rilevanza rispetto alla serie,
impattano sull’interpretazione che il film desidera dare alla storia originale.
L’estetica stessa della pellicola sembra strizzare l’occhio alle atmosfere dei
film delle sorelle Wachowski (si pensi a V per Vendetta o a Matrix), e, di
conseguenza, ai temi di cui si fanno portavoce: giustizia e vendetta, prigionia
e libertà, realtà e apparenza, identità e maschera.
La storia dell’eredità del cardinal Spada nascosta sull’isola di Montecristo si
intreccia qui alla leggenda del tesoro dei templari, i travestimenti di Edmond
non si privano di maschere e protesi degne di Ethan Hunt, e i duelli mancati del
romanzo qui si svolgono senza esclusione di colpi. Haydée e il figlio
illegittimo di Villefort non si limitano qui a essere semplici pedoni in una
partita più grande di loro, ma formano insieme al conte una squadra di
vendicatori, e incarnano rispettivamente la sublimazione e l’apoteosi della
vendetta: da un lato il perdono, dall’altro la legge del taglione.
Sarà proprio l’inutile morte del giovane, ormai consumato dalla sete di rivalsa,
che sconvolgerà i piani e l’animo di Dantès. Un Dantès che salutiamo mentre
salpa verso l’orizzonte, finalmente sereno, ma solo, diversamente da quanto
accade nel romanzo. Il suo testamento è un’ultima lettera scritta a Mercédès: in
essa, affida la felicità conquistata alla seconda generazione, composta da
Albert e Haydée, che vivranno un futuro d’amore che a Dantès e alla bella
catalana, rispettivamente padre adottivo dell’uno e madre dell’altra, erano
stati negati. E così la giustizia veterotestamentaria di cui Montecristo stesso
si era fatto braccio e spada («È scritto nella Bibbia» disse Montecristo. «“Le
colpe dei padri ricadranno sui figli fino alla terza e quarta generazione”, dal
momento che Dio disse queste parole al suo profeta, perché io dovrei essere
migliore di Dio?»[2]) cede il posto al perdono e alla misericordia.
A fronte quindi di una patina marcatamente più moderna della serie firmata
Palomar, da kolossal, ritroviamo un senso della giustizia poetica ancora più
rigoroso rispetto a quello proposto dal romanzo: l’eroe che ha ceduto alle
lusinghe del male non può riconquistare senza abnegazione e spirito di
sacrificio una felicità piena. Eppure, invita Mercédès, e con lei gli
spettatori, come Dumas aveva fatto con i lettori del romanzo, a meditare sul
fatto che tutta la saggezza umana è riposta in queste due parole: aspettare e
sperare.
*
Aspettare e sperare: i Dantès di domani
Siamo stati spettatori di due trasposizioni che hanno preso vie anche
radicalmente diverse, ma che hanno restituito anime altrettanto autentiche del
Montecristo, e tanto è ancora da esplorare.
Perché pochi sono i dilemmi umani più ricorrenti e dilanianti del diritto alla
felicità. È uno degli insegnamenti che Edmond ci lascia alla fine del romanzo, e
che sembra fare eco a un pensiero che lo aveva tormentato alla vigilia del
matrimonio con Mercédès, poco prima del fatidico arresto:
«La felicità è come quei palazzi delle isole incantate le cui porte sono
guardate dai draghi; bisogna combattere per conquistarli»[3].
E forse il vero grande tema, più che la dicotomia tra vendetta e perdono, è
proprio il senso del dolore visto in prospettiva del desiderio di felicità che
pervade l’uomo. Felicità che è insieme un diritto e un dovere, anche e
soprattutto nei confronti degli altri.
Ciascun adattamento ha sottolienato determinati aspetti, ma infinite sono le
possibili interpretazioni di questa tematica universale, come infinite sono le
chiavi di lettura dei classici. Non ci resta che aspettare e sperare, in quelle
che verranno. E lasciarci ricordare da Valentine, come Maximilien quando, alla
fine del romanzo, si chiede se mai rivedranno Montecristo:
> «Amico mio, […] il conte non ci ha forse lasciato scritto che l’umana saggezza
> sta racchiusa in queste due parole: Aspettare e sperare?»[4].
Chiara Bianchi
*In copertina: Victor Hugo, Senza titolo o evocazione di un’isola, 1870
*Il servizio di Chiara Bianchi si pubblica in anteprima, per gentile concessione
della rivista “Studi Cattolici”, edita da Ares
--------------------------------------------------------------------------------
[1] A. Dumas, Il conte di Montecristo, traduzione di Emilio Franceschini,
Mondadori, Milano 2012, prima edizione Oscar classici, 2 voll., p. 1464.
[2] Ibidem, p. 1214.
[3] Ibidem, p. 48.
[4] Ibidem, p. 1538.
L'articolo Il conte di Montecristo, o del diritto alla felicità proviene da
Pangea.