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Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford
> “In quella regione non ancora riconosciuta come Stato dell’Unione, era uno > degli anni in cui i segnali di fumo apache si alzavano dalle cime delle > montagne rocciose, e più di un ranch era ridotto ormai a un quadrato di cenere > annerita che si stendeva sul terreno. La partenza della diligenza da Tonto > segnava l’inizio di un’avventura dall’incerto lieto fine…” > > (incipit di La diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox, Sellerio editore, > 1992) Cronista giudiziario di Portland, Oregon, Ernest Haycox (1899-1950) è stato autore di una ventina di romanzi e qualche centinaio di racconti di ambientazione western, storie cominciate ad apparire nei pulp magazines americani negli anni Venti, in cui si celebrano i grandi temi della Frontiera, dalla vastità delle praterie al mistero minaccioso dell’altro, dall’asprezza del deserto al silenzio che pervade anche l’animo dei personaggi, solidamente sagomati su stereotipi ben collaudati. Le sue strutture narrative essenziali, rese con una lingua asciutta e meccanismi elementari che sfruttano topoi e figure retoriche ricorrenti, si rendevano buoni canovacci adatti a ulteriori sviluppi, alcuni dei quali sono stati trasposti al cinema hollywoodiano. Fra i suoi estimatori c’erano Gertrude Stein e Ernest Hemingway, il quale – secondo la vulgata – ebbe a scrivere “I read The Saturday Evening Post whenever it has a serial by Ernest Haycox”.  Il racconto Stagecoach to Lordsburg, uscito sul Collier’s Magazine di Springfield, Ohio, nel 1937, è il più famoso perché vanta un’ascendenza e una discendenza illustri. Il suo “prima” è la celebre novella di Guy de Maupassant Boule de suif, mentre il suo “dopo” viene dal cineasta John Ford e dal suo sceneggiatore Dudley Nichols, che lo giudicò un’ottima trama: «Cercammo subito di tirarne fuori un film creando i personaggi, visto che quelli che offriva non erano che abbozzi. Quindi li mettemmo da parte cercandone dei nuovi che ci apparissero più interessanti». Fu così che Stagecoach to Lordsburg divenne il celeberrimo film Stagecoach – reso in italiano come Ombre rosse –, che nel 1939 (anno dell’epocale Via col vento) segnò il punto cardine della filmografia western, definito come il momento in cui il genere “diventa maggiorenne” e s’impone come “il cinema americano per eccellenza”. In Boule de suif di Maupassant una prostituta francese estroversa e grassottella, passeggera della carrozza in fuga da Rouen durante la guerra franco-prussiana del 1870, è decisa a rifiutare per senso patriottico le avances di un ufficiale prussiano che ha fermato la comitiva, ma alla fine si vede costretta a cedergli per le pressioni dei suoi compagni di viaggio, persone per bene e rispettabili – commercianti, nobili, due suore, un pericoloso democratico – che non vogliono ritrovarsi bloccate dalla sfrontata prepotenza dell’ufficiale e dalla caparbietà della ragazza. L’esito lo conosciamo, con la cinica ipocrisia della buona società francese che apre e chiude la partita nel modo più classico. In Stagecoach to Lordsburg, rifacendosi a quel racconto, Haycox prende il riscontro storico della fuga nel 1885 del capo apache Geronimo dalla riserva di San Carlos in cui era stato confinato, nell’ultimo sanguinoso tentativo di ribellione attraverso scorrerie e devastazioni degli insediamenti dei Bianchi. Come per Boule de suif, i passeggeri della diligenza per Lordsburg compongono un microcosmo sociale, e qui sono proiettati verso una Frontiera in progressivo e inarrestabile movimento verso ovest: sono quelli che colonizzeranno le terre sottratte agli indiani, quelli che vivono di espedienti professionali, e anche gli emarginati come la prostituta Henriette, schiva e gentile, e il bel pistolero “smilzo e biondo” Malpais Bill, diretto verso la sua vendetta contro chi gli ha ucciso il padre e il fratello. Come osserva Attilio Brilli nell’introduzione, i personaggi hanno un carattere bozzettistico efficace, con un gusto fra l’arcaico e l’ingenuo che risponde alla mitologia popolare in cui si muovono; ognuno porta i segni del suo status sociale, dai dettagli del vestire ai tratti somatici rappresentativi, fino ai gesti e agli atteggiamenti che tradiscono i loro umori e le loro storie. Malpais Bill – che nel film di John Ford diventa Ringo interpretato da John Wayne – ha “negli angoli degli occhi e nella lunga piega della bocca” il segno di una natura selvaggia, quella del mezzosangue inevitabilmente reietto. Nel racconto abbiamo una ragazza – Miss Robertson – che va a sposarsi con un ufficiale di fanteria, un piazzista di whisky di Kansas City, un inglese alto e ossuto con un enorme fucile da caccia, un elegante giocatore d’azzardo, un robusto mercante di bestiame con una grossa pepita d’oro appesa alla catena dell’orologio, lo smilzo Malpais Bill con le pistole che gli pendono ai fianchi e la prostituta Henriette – queste ultime le due figure centrali. Con questo materiale, John Ford e Dudley Nichols plasmarono e “riformarono” la tipologia dei personaggi di Haycox per caricarla dei significati simbolici più adatti alla narrativa hollywoodiana. La evanescente “ragazza dell’ufficiale” si trasforma nella volitiva Lucy Mallory, moglie incinta di un ufficiale dell’esercito che vuole raggiungere il marito; l’inglese col fucile e il mercante di bestiame vengono rimpiazzati da un banchiere avido che è fuggito con la cassa e dal medico ubriacone Doc Boone, figura divenuta classica nella mitologia cinematografica western; Malpais Bill diventa Ringo Kind, che è ricercato e per questo scortato nella diligenza dalla nuova figura dello sceriffo, e Henriette diventa Dallas Douglas, la reietta che viene fatta salire sulla carrozza da un drappello di signore arcigne e avvizzite della Lega per la moralità. Nel film lo sgangherato Doc Boone, costretto a fuggire da un luogo all’altro, è il contrappeso speculare del giocatore d’azzardo Hartfield, virginiano dai modi fini e l’aspetto nobile, entrambi figure che si redimono nel corso del viaggio. L’opposizione più netta nel microcosmo della diligenza è fra la donna pubblica Henriette/Dallas e Miss Mallory, ovvero la prostituta e la rispettabile dama che deve raggiungere il marito, e si esplica in un percorso di sguardi, di espressioni e di inquadrature soggettive – è la donna civilizzata a osservare la prostituta, avvertendo una curiosità partecipativa – che nel film prepara la riconciliazione solidale che avverrà in uno degli eventi centrali, la nascita della bambina nella stazione  lungo il deserto. Qui abbiamo lo svelamento dei ruoli e la redenzione dei reietti, uno dei grandi marchi del cinema “etico” di John Ford.  Uno sguardo analitico e complessivo sul suo cinema lo troviamo nel bel saggio di Andrea Laquidara John Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di Dioniso (Mimesis, 2019), che passa in esame la filmografia fordiana concentrandosi sulle pietre miliari della sua sterminata produzione e traendone quelle implicazioni storico-filosofiche che ci riportano anche all’America di oggi. Vediamo innanzitutto che tutti i film di John Martin Feeney, figlio di un irlandese giunto in America nel 1872, sono girati – anche quelli non squisitamente western – sulla Frontiera, cioè sul limite, sulla soglia, quella linea che difende la civiltà dalla wilderness: un cinema che rappresenta nel modo più compiuto il mito di fondazione degli Stati Uniti d’America. Prendiamo le sequenze che aprono Stagecoach: in una piccola cittadina dell’Arizona giunge la notizia che gli Apache sono sul piede di guerra. Dopo qualche inquadratura in esterni, che riprende due figure a cavallo che corrono negli spazi del deserto, finiamo all’interno di una caserma, dove una delle due figure spiega a un ufficiale seduto alla scrivania che gli Apache infestano le colline circostanti. L’ufficiale chiede al telegrafista di predisporre la linea di comunicazione con Lordsburg, più a ovest nel New Mexico, ma proprio da quella città sta arrivando un messaggio urgente. L’inquadratura si stringe, l’attesa si fa preoccupata, ma la comunicazione non arriva: «The line went dead, sir» dice il telegrafista, la linea è interrotta. Da Lordsburg arriva solo la prima ferale parola: “Geronimo”. Come osserva Laquidara: > “Tutti i presenti restano in un lugubre silenzio, e la frattura che Geronimo > ha provocato nella linea del telegrafo è riempita solo dalla colonna sonora, > improvvisa, grave, piena di semitoni e sinistre dissonanze: un chiaro invito > lanciato allo spettatore di preoccuparsi seriamente. (…) La linea di > comunicazione si è improvvisamente trasformata in un binario morto. Si è > fratturata. L’unione si è fatta divisione. E in questa frattura si è inserito > il nome di Geronimo, il selvaggio, l’irrazionale, accompagnato da un accordo > musicale disarmonico. Ecco dunque cosa determina il carattere tragico, > agonistico del percorso della storia, la possibile frattura del binario > provocata dall’imboscata tesa dal selvaggio. La dinamica e ottimistica > mobilità del progresso muta improvvisamente in stasi. Nel Caos della stasi”. A metà della storia la diligenza attraversa il tratto in cui Geronimo avrebbe tagliato il filo del telegrafo, nel territorio denso di ostili premonizioni rappresentato dalla Monument Valley, divenuta il più mitico dei paesaggi americani: qui è evidente che il gruppo racchiuso nella carrozza – la piccola comunità – è esposto al passaggio nel mondo spaventevole dell’irrazionale. E l’irrazionale arriva: > “Tutta la celebre sequenza della fuga della diligenza, inseguita dagli Apache, > e della battaglia realizzata in frenetica corsa, è tra le più studiate nei > corsi di Storia del cinema. Una delle ragioni sta nel fatto che John Ford > compone insieme magistralmente un materiale molto eterogeneo. Nella pazza > corsa di carrozza e uomini a cavallo si susseguono: velocissimi carrelli > girati in esterni; inquadrature più ravvicinate dei passeggeri che si > difendono (girate evidentemente in studio); riprese dall’alto che mostrano la > diligenza fendere un territorio bianco come un lago asciutto, inseguite dalle > ombre minacciose dei selvaggi; citazioni da Griffith (raccordi in asse e sullo > sguardo); citazioni dal cinema sovietico (la spettacolarità di angolazioni > inusuali, con prospettiva dal basso); passaggi di azione pura che si alternano > a primi piani fortemente espressivi, che definiscono la psicologia dei > passeggeri”. L’attacco degli Apache dura ben sei minuti, con una dinamica forsennata in cui non v’è un minimo cedimento o dispersione della tensione narrativa, fino al momento in cui gli squilli di tromba annunciano il soccorso salvifico del battaglione di cavalleria al galoppo e lo scioglimento del dramma. I selvaggi sono rappresentati come figure omogenee, anonime, accomunate dall’impersonare il pericolo, il caos e la violenza, sia quando sono invisibili sia quando irrompono sulla scena come incubi. E in effetti gli Apache Chiricahua, a cui apparteneva Geronimo, rientravano nel gruppo di popoli aggressivi e di mentalità guerriera per i quali le scorrerie erano l’impresa tribale più importante e legittima, e la guerra di vendetta era l’inevitabile conseguenza della dinamica delle scorrerie. I giovani maschi venivano allevati per essere corridori forti, rapidi e rapaci, per diventare ladri di bestiame e razziatori di carovane, abili nel nascondersi e nello schivare, e implacabili odiatori dei vicini di altre tribù. È lo stesso Geronimo a narrare il mito chiricahua della creazione, in cui uno dei due eroi tradizionali è chiamato “uccisore di nemici”. Poiché vivono razziando, devono affinare le arti dell’inseguimento, dell’imboscata, della morte, in quanto la morte dei nemici è la loro vita. Per la mente indiana l’attaccamento al paese nativo era una necessità vitale, e non potere farvi ritorno equivaleva alla separazione dalla sorgente di vita della terra. Gli Apache Chiricahua fondevano questo attaccamento alla propria terra con la pratica tradizionale della guerra di razzia, e ciò rese possibile a Geronimo di evitare la resa definitiva per più di un decennio, periodo fatto di menzogne e promesse non mantenute da entrambe parti in conflitto. Per i Bianchi Geronimo era il peggiore fra tutti, perché era il migliore sotto l’aspetto della civiltà chiricahua: il più diffidente, intransigente, selvaggio, crudele.Quando lo stile di vita dei Chiricahua fu minacciato come mai prima, egli divenne una sorta di capo supremo, e nulla lo convinceva che il suo predecessore Cochise avesse fatto bene a portare le sue bande nella riserva loro assegnata. I Chiricahua non erano mai stati agricoltori, perché si spostavano di continuo, ed era impensabile che si convertissero in contadini all’interno di una riserva; senza contare che non avrebbero più avuto la libertà di picchiare la moglie per le sue malefatte e nemmeno di tagliarle la punta del naso quando la scoprivano infedele, oltre a non potersi più fare il tiswin, la birra tradizionale a base di granturco. In breve, sarebbero dovuti somigliare agli uomini bianchi che erano devoti alla terra solo nella misura in cui potevano impossessarsene per sfruttarla a scapito di tutto il resto, mentre per i Bianchi il fatto che gli Apache non riuscissero a concepire la nozione della mobilità verso l’alto mediante l’accumulo di ricchezze era la dimostrazione della loro natura sub-umana. Tornando a Stagecoach e al saggio di Andrea Laquidara, abbiamo Ringo e Dallas, lui ricercato – prigioniero dello sceriffo che viaggia in cassetta – e lei prostituta: due figure emblematicamente collocate ai margini del sistema sociale, che in una delle pause del viaggio vengono a trovarsi all’aperto, in un esterno notte. Dallas cammina lungo uno steccato di tronchi, in un paesaggio spettrale “alla Murnau” che però è stemperato dalla colonna sonora delicata e sentimentale. > “Lo steccato è il vero protagonista del quadro: il legno robusto e livido > taglia l’immagine in diagonale e ne attraversa il centro. Dallas, prima in > ombra, poi investita da una luce dolorosa, si ferma sul bordo destro dello > schermo. Ringo, una nera silhouette, le si avvicina, ma, senza evidente > motivo, decide di orientarsi verso la parte ovest dell’inquadratura, e dunque > restare al di là del recinto di legno cui Dallas sta appoggiata. L’intero > dialogo si svolgerà con la presenza triste e ingombrante dello steccato che > separa i due interlocutori”. Pur divisi, i due sono accomunati dallo stato di marginalità:  > “entrambi sono esclusi da una società ipocrita e formale; entrambi hanno > vissuto un trauma che li ha privati della famiglia; entrambi sono soli, alla > ricerca di qualcosa, un ricordo o un’attesa che custodiscono sotto la scorza > dura che li corazza. L’identificazione, man mano che il dialogo procede, si fa > più viva ed evidente: le inquadrature si stringono e si intensificano nei bei > primi piani con cui John Ford rende palese la predilezione e l’affetto che ha > per simili personaggi. Il gioco di campo e controcampo, che alterna il volto > fiero e intenerito di Wayne a quello di Claire Trevor, pieno di dolcezza > dimenticata, grazie all’ambivalenza naturale del montaggio, congiunge e > contemporaneamente mantiene separati i due amanti virtuali”. Dal West, Ringo si decide a dirle che al di là della frontiera possiede una casa dove un uomo e una donna potrebbero vivere felici. Dallas, dall’East, è sorpresa e intimidita, perché la crudeltà del mondo l’ha disabituata all’idea della felicità. A questo punto avanza nell’oscurità lo sceriffo, che accarezzando lo steccato ricorda a Ringo che non può allontanarsi, essendo un ricercato sotto la sua custodia, mentre sullo sfondo la figura di Dallas si allontana profondamente turbata. Come un rasoio, la legge della Frontiera è intervenuta a dividere il corpo unico della felicità. Perché sappiamo come “il lavoro di costruzione narrativa si esprima proprio nella selezione che distingue il necessario dal superfluo, l’utile dall’inutile, il civile dal selvaggio, il buono dal cattivo. È in quella linea di demarcazione che risiede il senso profondo del narrare; ed è nella capacità di operare col rasoio, distinguendo l’identità dall’alterità, che affonda le radici il montaggio, e dunque la costruzione di una particolare visione della realtà”. Mentre in Boule de suif la visione negativa di Maupassant si estende all’intera fisionomia della società in viaggio, nella micro-società di Stagecoach il medico ubriacone, lo sceriffo, Ringo e anche Mrs. Mallory (nella sua solidarietà finale verso Dallas, che nel pericolo le ha protetto la neonata) rappresentano l’aspetto migliore della civiltà, quello che giustifica il procedere verso la via del progresso; l’unica figura negativa resta il banchiere Gatewood, esponente di un capitalismo cinico, vorace ed esasperato. E la valorizzazione della prostituta Dallas viene proprio dalla “sterilizzazione” della sua femminilità e del suo eros, che viene normalizzato e ricondotto nel sistema, promosso alla funzione procreativa, di costruzione della famiglia e della società. È la cinepresa di Ford e lo sguardo tenero di Ringo che la sollevano dalla sua condizione misera, incorniciandola nell’icona familiare della donna-madre – della Madonna, secondo l’interpretazione di Laquidara – che tiene in braccio la bambina appena partorita da Mrs. Mallory. Un lavoro strategico che “risulta efficacissimo, giacché riesce a esorcizzare l’aspetto più spaventevole della donna, la sua carica erotica e sensuale”. Ma non solo: il viaggio che Mrs. Mallory e Dallas hanno fatto attraverso l’inferno le ha condotte insieme a una maturazione, la prima al superamento dei propri atteggiamenti misurati e rigidi di signora dell’Est, con la presa di coscienza che restituisce dignità alla reietta, la seconda alla consapevolezza del proprio valore – riconosciuto dalla comunità che torna ad accettarla – e della reale possibilità di amare ed essere ricambiata. Paolo Ferrucci *In copertina: Adolph F. Muhr, Ritratto di Geronimo, 1898 L'articolo Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford proviene da Pangea.
March 25, 2025 / Pangea
Il conte di Montecristo, o del diritto alla felicità
Il volgere dell’anno ha portato sui nostri schermi i due più recenti adattamenti di uno dei maggiori capolavori letterari di tutti i tempi, Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas (1844-1846), quasi a celebrarne simbolicamente i 180 anni dalla pubblicazione. Tra dicembre e febbraio, Rai e Mediaset hanno infatti proposto rispettivamente la serie-evento coprodotta da Italia e Francia per la regia del premio Oscar per il miglior film straniero Bille August e la pellicola francese accolta al Festival di Cannes 2024, dove è stata presentata fuori concorso, con dodici minuti di applausi e al cinema con un record di incassi che la proietta sulla vetta dei venti film francesi più visti della storia. Due trasposizioni-specchio che riflettono volti molto diversi del Montecristo, e non solo per le scelte imposte dalla necessità di fare convergere un romanzo monumentale di 1500 pagine in adattamenti audiovisivi di durate sì differenti (tre e otto ore), ma egualmente difficili da riplasmare entro i confini di un tempo che possa ospitare un’opera-mondo come quella di Dumas. Edmond Dantès, il suo protagonista, è l’emblema di una tragica galleria di ritratti, un carnevale inesorabile di maschere vuote di storia ma che piangono le stesse lacrime assetate di giustizia. O di vendetta. Maschere che si costringe a indossare per compiere la sua missione: l’onnipotente conte di Montecristo, il leggendario Sinbad il marinaio, il venerabile abate Busoni, lo sfuggente Lord Wilmore, e ancora l’angelo custode che dispensa ricompense dove ha raccolto briciole di bontà, l’angelo sterminatore che brandisce la spada di una provvidenza rimasta in silenzio, l’angelo del male che indica con un dito sulle labbra la casa dove è passata la collera divina, o la propria; la fata malefica «dei racconti di Perrault che qualcuno ha dimenticato di invitare a qualche festa di nozze o di battesimo»[1]. Da qui il fascino senza tempo di un personaggio caleidoscopico, che ha popolato una lunghissima serie di adattamenti, tutti pervasi dalla voglia di raccontare, ciascuno a suo modo, la storia del giovane marinaio Edmond, innamorato della bella catalana Mercédès e del mare. Incastrato dal rivale Danglars, che mal sopportava la sua nomina a capitano del Pharaon, e da Fernand, che desiderava la sua promessa, viene ingiustamente accusato di essere un agente bonapartista e condannato dal corrotto sostituto procuratore Villefort a quattordici anni di reclusione nel Castello d’If, al largo della sua Marsiglia, dove il mare, da culla della sua giovinezza, diviene la sua cella. Qui incontra il saggio abate Faria, che gli dona la sua infinita conoscenza, e con essa la consapevolezza. Consapevolezza di non essere una vittima del caso, ma di un tradimento. E non solo: gli instillerà anche la volontà e i mezzi per evadere, e gli rivelerà il segreto di un tesoro custodito nel ventre della deserta isola di Montecristo. Una Itaca ricca di tesori nascosti, ma spoglia di affetti, l’isola di cui Edmond si autoproclamerà conte una volta rivendicati i suoi forzieri, e da cui salperà dichiarando vendetta a coloro che lo avevano tradito, tessendo un’immane ragnatela in cui le pedine ignorano il loro burattinaio, ma convergono inesorabilmente nel centro del suo gioco. Un’epica storia di vendetta, che giunta all’apice del compimento, posta di fronte alle conseguenze delle proprie azioni, precipita nel senso di colpa di chi ha voluto porsi al di sopra degli uomini e di Dio, ponendosi sul trono di una presunta giustizia umana e divina. E arriva a concedere il perdono e a desiderarlo per sé, ritenendolo però ormai fatalmente irraggiungibile. Ciò che resta è il bene disseminato con le ricompense elargite, all’apparenza infinitesimamente piccole rispetto alle punizioni, ma immensamente grandi per i depositari di tali doni. Perché solo chi ha provato l’estremo dolore, può gustare appieno la più grande felicità. Come lo stesso Edmond, che scoprendo di poter essere ancora amato e di potere amare ancora, grazie a Haydée, vede riaccendersi in sé la speranza.  * La serie Rai: una storia di riscatto Attesissimo il ritorno del Montecristo sui canali Rai. L’ammiraglia aveva infatti ospitato già nel 1966 il famoso sceneggiato diretto da Edmo Fenoglio, che vedeva un giovanissimo Andrea Giordana nei panni del conte: allora, l’accento era posto sulla fedeltà alla lettera, nell’ottica pedagogizzante di un servizio pubblico che, al pari degli affreschi nelle chiese antiche, traducesse in immagini una formazione culturale che tanti non avevano avuto il privilegio di ricevere. Di tutt’altro stampo la serie-evento presentata alla Festa del Cinema di Roma 2024, prodotta da Palomar (Mediawan) e che accredita alla sceneggiatura anche il pluripremiato Sandro Petraglia, con un cast che riunisce i beniamini di diverse generazioni, guidato da Sam Claflin (Hunger Games) nel ruolo del protagonista e dal Premio Oscar Jeremy Irons (Il mistero Von Bulow) nelle vesti dell’abate Faria. Tanti i volti del cinema e della televisione italiani, con Lino Guanciale e Gabriella Pession (La porta rossa), Michele Riondino (Il giovane Montalbano), e Nicolas Maupas (Mare fuori). Una serie che non vuole istruire, ma fornire una chiave interpretativa, e interrogare i propri spettatori su tematiche come la giustizia, il desiderio di vendetta e la possibilità di riscatto. A dirigere i lavori il regista danese Bille August, che già si era cimentato con l’adattamento di un classico della letteratura francese nel 1998, con il film tratto dal romanzo Les Misérables di Victor Hugo, a cui aveva donato un finale inaspettatamente positivo omettendo l’ultima parte di racconto, che rischiava di oscurare con la tragicità degli eventi narrati un messaggio di speranza, tradendo così la lettera per salvare lo spirito dell’opera. Secondo August, infatti, per adattare un romanzo «devi trovare una storia nella storia, altrimenti diventa letteratura illustrata. Per essere fedeli a un romanzo bisogna essere infedeli». Le otto puntate di questa serie accolgono un intreccio che può però ben soddisfare chi negli adattamenti va alla ricerca della fedeltà alla lettera dell’originale. Allo stesso tempo, non si tratta certo – né sarebbe opportuno che lo fosse – di una filologica traduzione per immagini del materiale di partenza: la sceneggiatura si prende qualche licenza, senza tuttavia stravolgere le svolte principali della trama o le funzioni dei personaggi.  Le trasformazioni che intaccano la sostanza e donano un taglio personale all’adattamento convergono perlopiù nel finale, luogo e tempo in cui una storia ci pone di fronte alla resa dei conti. Sfuma il personaggio di Haydée, che nel romanzo rappresentava il nuovo amore e la nuova vita di Dantès: egli è ormai un uomo nuovo, nel bene e nel male, andato oltre ogni possibile orizzonte condiviso con Mercédès. In questa trasposizione lo ritroviamo invece a Marsiglia, sullo scoglio che monta la guardia di fronte al Castello d’If, insieme a Mercédès. Sarà lei, davanti alla sua volontà di partire per un viaggio di sola andata, a ricordargli che «l’amore può guarire», lasciando aperta una speranza per un amore che nell’immaginario di Dumas la vita aveva trasformato inesorabilmente. photo Paolo Modugno Questa scelta sembra andare oltre la volontà di “sacrificare” un personaggio, quello di Haydée, in favore di quello del primo grande amore, Mercédès, da cui tutta la storia ha avuto origine, per abbracciare invece una visione più moderna della giustizia poetica, che predilige i personaggi “grigi”, ben lontani dagli archetipi immensamente grandi, nel bene come nel male, della letteratura ottocentesca.  Mercédès rappresenta la possibilità non solo di ricominciare, ma di ricominciare da un punto molto vicino a quello di partenza, pericolosamente simile al punto zero. Nonostante il male che si è fatto. Incontriamo qui un Dantès che non perdona, e che viene posto (e che si pone) solo di taglio di fronte alle terribili conseguenze delle proprie azioni. Anche il bene è visto in trasparenza, quasi non fosse dovuto. Eppure, non vuole essere un’apologia della vendetta: il Montecristo porta con sé l’universalità dei classici, il loro essere senza tempo, e insieme di tutti i tempi. Questa serie getta un velo più moderno su un tema, quello della giustizia e del riscatto, sempre e tremendamente attuale, mostrandoci un riflesso di un’epoca, la nostra, smaniosa di rivendicare diritti, spesso a lungo negati, e meno rigorosa nel richiamare ai doveri. * Il film Mediaset: una storia di redenzione Una trasposizione di orientamento quasi opposto è quella prodotta da Pathé e Chapter 2 (Mediawan), insieme a Fargo Films e M6 Films, e scritta e diretta da Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, già sceneggiatori di un dittico di adattamenti della saga dumasiana de I tre moschettieri (2023). Nel ruolo di Montecristo, Pierre Niney, vincitore del Premio César nel 2015 per la sua interpretazione di Yves Saint Laurent nell’omonimo biopic, e, nei panni dell’abate, il nostro Pierfrancesco Favino. Ci troviamo questa volta di fronte a un film che, per quanto di una durata non indifferente, ha chiaramente a disposizione un lasso inferiore di tempo in cui concentrare una storia lunga e articolata. Da ciò deriva un processo di sintesi dei personaggi: alcuni scompaiono totalmente, altri si fondono in un unico personaggio che riunisce in sé le loro funzioni. È questo il caso di Albert, il figlio di Mercédès e Fernand, e Haydée, attraverso cui si intravede il riflesso di Maximilien e Valentine, la coppia a cui nel romanzo Dantès salva la vita e con essa la possibilità di vivere il loro amore. Ma si va ben oltre la pura necessità “tecnica”. I cambiamenti, anche in questo caso, e ancor di più vista la loro maggiore rilevanza rispetto alla serie, impattano sull’interpretazione che il film desidera dare alla storia originale. L’estetica stessa della pellicola sembra strizzare l’occhio alle atmosfere dei film delle sorelle Wachowski (si pensi a V per Vendetta o a Matrix), e, di conseguenza, ai temi di cui si fanno portavoce: giustizia e vendetta, prigionia e libertà, realtà e apparenza, identità e maschera. La storia dell’eredità del cardinal Spada nascosta sull’isola di Montecristo si intreccia qui alla leggenda del tesoro dei templari, i travestimenti di Edmond non si privano di maschere e protesi degne di Ethan Hunt, e i duelli mancati del romanzo qui si svolgono senza esclusione di colpi. Haydée e il figlio illegittimo di Villefort non si limitano qui a essere semplici pedoni in una partita più grande di loro, ma formano insieme al conte una squadra di vendicatori, e incarnano rispettivamente la sublimazione e l’apoteosi della vendetta: da un lato il perdono, dall’altro la legge del taglione. Sarà proprio l’inutile morte del giovane, ormai consumato dalla sete di rivalsa, che sconvolgerà i piani e l’animo di Dantès. Un Dantès che salutiamo mentre salpa verso l’orizzonte, finalmente sereno, ma solo, diversamente da quanto accade nel romanzo. Il suo testamento è un’ultima lettera scritta a Mercédès: in essa, affida la felicità conquistata alla seconda generazione, composta da Albert e Haydée, che vivranno un futuro d’amore che a Dantès e alla bella catalana, rispettivamente padre adottivo dell’uno e madre dell’altra, erano stati negati. E così la giustizia veterotestamentaria di cui Montecristo stesso si era fatto braccio e spada («È scritto nella Bibbia» disse Montecristo. «“Le colpe dei padri ricadranno sui figli fino alla terza e quarta generazione”, dal momento che Dio disse queste parole al suo profeta, perché io dovrei essere migliore di Dio?»[2]) cede il posto al perdono e alla misericordia. A fronte quindi di una patina marcatamente più moderna della serie firmata Palomar, da kolossal, ritroviamo un senso della giustizia poetica ancora più rigoroso rispetto a quello proposto dal romanzo: l’eroe che ha ceduto alle lusinghe del male non può riconquistare senza abnegazione e spirito di sacrificio una felicità piena. Eppure, invita Mercédès, e con lei gli spettatori, come Dumas aveva fatto con i lettori del romanzo, a meditare sul fatto che tutta la saggezza umana è riposta in queste due parole: aspettare e sperare. * Aspettare e sperare: i Dantès di domani Siamo stati spettatori di due trasposizioni che hanno preso vie anche radicalmente diverse, ma che hanno restituito anime altrettanto autentiche del Montecristo, e tanto è ancora da esplorare. Perché pochi sono i dilemmi umani più ricorrenti e dilanianti del diritto alla felicità. È uno degli insegnamenti che Edmond ci lascia alla fine del romanzo, e che sembra fare eco a un pensiero che lo aveva tormentato alla vigilia del matrimonio con Mercédès, poco prima del fatidico arresto:  «La felicità è come quei palazzi delle isole incantate le cui porte sono guardate dai draghi; bisogna combattere per conquistarli»[3]. E forse il vero grande tema, più che la dicotomia tra vendetta e perdono, è proprio il senso del dolore visto in prospettiva del desiderio di felicità che pervade l’uomo. Felicità che è insieme un diritto e un dovere, anche e soprattutto nei confronti degli altri. Ciascun adattamento ha sottolienato determinati aspetti, ma infinite sono le possibili interpretazioni di questa tematica universale, come infinite sono le chiavi di lettura dei classici. Non ci resta che aspettare e sperare, in quelle che verranno. E lasciarci ricordare da Valentine, come Maximilien quando, alla fine del romanzo, si chiede se mai rivedranno Montecristo:  > «Amico mio, […] il conte non ci ha forse lasciato scritto che l’umana saggezza > sta racchiusa in queste due parole: Aspettare e sperare?»[4]. Chiara Bianchi *In copertina: Victor Hugo, Senza titolo o evocazione di un’isola, 1870 *Il servizio di Chiara Bianchi si pubblica in anteprima, per gentile concessione della rivista “Studi Cattolici”, edita da Ares  -------------------------------------------------------------------------------- [1] A. Dumas, Il conte di Montecristo, traduzione di Emilio Franceschini, Mondadori, Milano 2012, prima edizione Oscar classici, 2 voll., p. 1464. [2] Ibidem, p. 1214. [3] Ibidem, p. 48. [4] Ibidem, p. 1538. L'articolo Il conte di Montecristo, o del diritto alla felicità proviene da Pangea.
March 19, 2025 / Pangea