> “In quella regione non ancora riconosciuta come Stato dell’Unione, era uno
> degli anni in cui i segnali di fumo apache si alzavano dalle cime delle
> montagne rocciose, e più di un ranch era ridotto ormai a un quadrato di cenere
> annerita che si stendeva sul terreno. La partenza della diligenza da Tonto
> segnava l’inizio di un’avventura dall’incerto lieto fine…”
>
> (incipit di La diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox, Sellerio editore,
> 1992)
Cronista giudiziario di Portland, Oregon, Ernest Haycox (1899-1950) è stato
autore di una ventina di romanzi e qualche centinaio di racconti di
ambientazione western, storie cominciate ad apparire nei pulp
magazines americani negli anni Venti, in cui si celebrano i grandi temi della
Frontiera, dalla vastità delle praterie al mistero minaccioso dell’altro,
dall’asprezza del deserto al silenzio che pervade anche l’animo dei personaggi,
solidamente sagomati su stereotipi ben collaudati. Le sue strutture narrative
essenziali, rese con una lingua asciutta e meccanismi elementari che
sfruttano topoi e figure retoriche ricorrenti, si rendevano buoni canovacci
adatti a ulteriori sviluppi, alcuni dei quali sono stati trasposti al cinema
hollywoodiano. Fra i suoi estimatori c’erano Gertrude Stein e Ernest Hemingway,
il quale – secondo la vulgata – ebbe a scrivere “I read The Saturday Evening
Post whenever it has a serial by Ernest Haycox”.
Il racconto Stagecoach to Lordsburg, uscito sul Collier’s Magazine di
Springfield, Ohio, nel 1937, è il più famoso perché vanta un’ascendenza e una
discendenza illustri. Il suo “prima” è la celebre novella di Guy de
Maupassant Boule de suif, mentre il suo “dopo” viene dal cineasta John Ford e
dal suo sceneggiatore Dudley Nichols, che lo giudicò un’ottima trama: «Cercammo
subito di tirarne fuori un film creando i personaggi, visto che quelli che
offriva non erano che abbozzi. Quindi li mettemmo da parte cercandone dei nuovi
che ci apparissero più interessanti». Fu così che Stagecoach to
Lordsburg divenne il celeberrimo film Stagecoach – reso in italiano come Ombre
rosse –, che nel 1939 (anno dell’epocale Via col vento) segnò il punto cardine
della filmografia western, definito come il momento in cui il genere “diventa
maggiorenne” e s’impone come “il cinema americano per eccellenza”.
In Boule de suif di Maupassant una prostituta francese estroversa e
grassottella, passeggera della carrozza in fuga da Rouen durante la guerra
franco-prussiana del 1870, è decisa a rifiutare per senso patriottico
le avances di un ufficiale prussiano che ha fermato la comitiva, ma alla fine si
vede costretta a cedergli per le pressioni dei suoi compagni di viaggio, persone
per bene e rispettabili – commercianti, nobili, due suore, un pericoloso
democratico – che non vogliono ritrovarsi bloccate dalla sfrontata prepotenza
dell’ufficiale e dalla caparbietà della ragazza. L’esito lo conosciamo, con la
cinica ipocrisia della buona società francese che apre e chiude la partita nel
modo più classico. In Stagecoach to Lordsburg, rifacendosi a quel racconto,
Haycox prende il riscontro storico della fuga nel 1885 del capo apache Geronimo
dalla riserva di San Carlos in cui era stato confinato, nell’ultimo sanguinoso
tentativo di ribellione attraverso scorrerie e devastazioni degli insediamenti
dei Bianchi. Come per Boule de suif, i passeggeri della diligenza per Lordsburg
compongono un microcosmo sociale, e qui sono proiettati verso una Frontiera in
progressivo e inarrestabile movimento verso ovest: sono quelli che
colonizzeranno le terre sottratte agli indiani, quelli che vivono di espedienti
professionali, e anche gli emarginati come la prostituta Henriette, schiva e
gentile, e il bel pistolero “smilzo e biondo” Malpais Bill, diretto verso la sua
vendetta contro chi gli ha ucciso il padre e il fratello. Come osserva Attilio
Brilli nell’introduzione, i personaggi hanno un carattere bozzettistico
efficace, con un gusto fra l’arcaico e l’ingenuo che risponde alla mitologia
popolare in cui si muovono; ognuno porta i segni del suo status sociale, dai
dettagli del vestire ai tratti somatici rappresentativi, fino ai gesti e agli
atteggiamenti che tradiscono i loro umori e le loro storie. Malpais Bill – che
nel film di John Ford diventa Ringo interpretato da John Wayne – ha “negli
angoli degli occhi e nella lunga piega della bocca” il segno di una natura
selvaggia, quella del mezzosangue inevitabilmente reietto.
Nel racconto abbiamo una ragazza – Miss Robertson – che va a sposarsi con un
ufficiale di fanteria, un piazzista di whisky di Kansas City, un inglese alto e
ossuto con un enorme fucile da caccia, un elegante giocatore d’azzardo, un
robusto mercante di bestiame con una grossa pepita d’oro appesa alla catena
dell’orologio, lo smilzo Malpais Bill con le pistole che gli pendono ai fianchi
e la prostituta Henriette – queste ultime le due figure centrali. Con questo
materiale, John Ford e Dudley Nichols plasmarono e “riformarono” la tipologia
dei personaggi di Haycox per caricarla dei significati simbolici più adatti alla
narrativa hollywoodiana. La evanescente “ragazza dell’ufficiale” si trasforma
nella volitiva Lucy Mallory, moglie incinta di un ufficiale dell’esercito che
vuole raggiungere il marito; l’inglese col fucile e il mercante di bestiame
vengono rimpiazzati da un banchiere avido che è fuggito con la cassa e dal
medico ubriacone Doc Boone, figura divenuta classica nella mitologia
cinematografica western; Malpais Bill diventa Ringo Kind, che è ricercato e per
questo scortato nella diligenza dalla nuova figura dello sceriffo, e Henriette
diventa Dallas Douglas, la reietta che viene fatta salire sulla carrozza da un
drappello di signore arcigne e avvizzite della Lega per la moralità. Nel film lo
sgangherato Doc Boone, costretto a fuggire da un luogo all’altro, è il
contrappeso speculare del giocatore d’azzardo Hartfield, virginiano dai modi
fini e l’aspetto nobile, entrambi figure che si redimono nel corso del viaggio.
L’opposizione più netta nel microcosmo della diligenza è fra la donna pubblica
Henriette/Dallas e Miss Mallory, ovvero la prostituta e la rispettabile dama che
deve raggiungere il marito, e si esplica in un percorso di sguardi, di
espressioni e di inquadrature soggettive – è la donna civilizzata a osservare la
prostituta, avvertendo una curiosità partecipativa – che nel film prepara la
riconciliazione solidale che avverrà in uno degli eventi centrali, la nascita
della bambina nella stazione lungo il deserto. Qui abbiamo lo svelamento dei
ruoli e la redenzione dei reietti, uno dei grandi marchi del cinema “etico” di
John Ford.
Uno sguardo analitico e complessivo sul suo cinema lo troviamo nel bel saggio di
Andrea Laquidara John Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di
Dioniso (Mimesis, 2019), che passa in esame la filmografia fordiana
concentrandosi sulle pietre miliari della sua sterminata produzione e traendone
quelle implicazioni storico-filosofiche che ci riportano anche all’America di
oggi. Vediamo innanzitutto che tutti i film di John Martin Feeney, figlio di un
irlandese giunto in America nel 1872, sono girati – anche quelli non
squisitamente western – sulla Frontiera, cioè sul limite, sulla soglia, quella
linea che difende la civiltà dalla wilderness: un cinema che rappresenta nel
modo più compiuto il mito di fondazione degli Stati Uniti d’America. Prendiamo
le sequenze che aprono Stagecoach: in una piccola cittadina dell’Arizona giunge
la notizia che gli Apache sono sul piede di guerra. Dopo qualche inquadratura in
esterni, che riprende due figure a cavallo che corrono negli spazi del deserto,
finiamo all’interno di una caserma, dove una delle due figure spiega a un
ufficiale seduto alla scrivania che gli Apache infestano le colline circostanti.
L’ufficiale chiede al telegrafista di predisporre la linea di comunicazione con
Lordsburg, più a ovest nel New Mexico, ma proprio da quella città sta arrivando
un messaggio urgente. L’inquadratura si stringe, l’attesa si fa preoccupata, ma
la comunicazione non arriva: «The line went dead, sir» dice il telegrafista, la
linea è interrotta. Da Lordsburg arriva solo la prima ferale parola: “Geronimo”.
Come osserva Laquidara:
> “Tutti i presenti restano in un lugubre silenzio, e la frattura che Geronimo
> ha provocato nella linea del telegrafo è riempita solo dalla colonna sonora,
> improvvisa, grave, piena di semitoni e sinistre dissonanze: un chiaro invito
> lanciato allo spettatore di preoccuparsi seriamente. (…) La linea di
> comunicazione si è improvvisamente trasformata in un binario morto. Si è
> fratturata. L’unione si è fatta divisione. E in questa frattura si è inserito
> il nome di Geronimo, il selvaggio, l’irrazionale, accompagnato da un accordo
> musicale disarmonico. Ecco dunque cosa determina il carattere tragico,
> agonistico del percorso della storia, la possibile frattura del binario
> provocata dall’imboscata tesa dal selvaggio. La dinamica e ottimistica
> mobilità del progresso muta improvvisamente in stasi. Nel Caos della stasi”.
A metà della storia la diligenza attraversa il tratto in cui Geronimo avrebbe
tagliato il filo del telegrafo, nel territorio denso di ostili premonizioni
rappresentato dalla Monument Valley, divenuta il più mitico dei paesaggi
americani: qui è evidente che il gruppo racchiuso nella carrozza – la piccola
comunità – è esposto al passaggio nel mondo spaventevole dell’irrazionale. E
l’irrazionale arriva:
> “Tutta la celebre sequenza della fuga della diligenza, inseguita dagli Apache,
> e della battaglia realizzata in frenetica corsa, è tra le più studiate nei
> corsi di Storia del cinema. Una delle ragioni sta nel fatto che John Ford
> compone insieme magistralmente un materiale molto eterogeneo. Nella pazza
> corsa di carrozza e uomini a cavallo si susseguono: velocissimi carrelli
> girati in esterni; inquadrature più ravvicinate dei passeggeri che si
> difendono (girate evidentemente in studio); riprese dall’alto che mostrano la
> diligenza fendere un territorio bianco come un lago asciutto, inseguite dalle
> ombre minacciose dei selvaggi; citazioni da Griffith (raccordi in asse e sullo
> sguardo); citazioni dal cinema sovietico (la spettacolarità di angolazioni
> inusuali, con prospettiva dal basso); passaggi di azione pura che si alternano
> a primi piani fortemente espressivi, che definiscono la psicologia dei
> passeggeri”.
L’attacco degli Apache dura ben sei minuti, con una dinamica forsennata in cui
non v’è un minimo cedimento o dispersione della tensione narrativa, fino al
momento in cui gli squilli di tromba annunciano il soccorso salvifico del
battaglione di cavalleria al galoppo e lo scioglimento del dramma. I selvaggi
sono rappresentati come figure omogenee, anonime, accomunate dall’impersonare il
pericolo, il caos e la violenza, sia quando sono invisibili sia quando irrompono
sulla scena come incubi. E in effetti gli Apache Chiricahua, a cui apparteneva
Geronimo, rientravano nel gruppo di popoli aggressivi e di mentalità guerriera
per i quali le scorrerie erano l’impresa tribale più importante e legittima, e
la guerra di vendetta era l’inevitabile conseguenza della dinamica delle
scorrerie. I giovani maschi venivano allevati per essere corridori forti, rapidi
e rapaci, per diventare ladri di bestiame e razziatori di carovane, abili nel
nascondersi e nello schivare, e implacabili odiatori dei vicini di altre
tribù. È lo stesso Geronimo a narrare il mito chiricahua della creazione, in cui
uno dei due eroi tradizionali è chiamato “uccisore di nemici”. Poiché vivono
razziando, devono affinare le arti dell’inseguimento, dell’imboscata, della
morte, in quanto la morte dei nemici è la loro vita.
Per la mente indiana l’attaccamento al paese nativo era una necessità vitale, e
non potere farvi ritorno equivaleva alla separazione dalla sorgente di vita
della terra. Gli Apache Chiricahua fondevano questo attaccamento alla propria
terra con la pratica tradizionale della guerra di razzia, e ciò rese possibile a
Geronimo di evitare la resa definitiva per più di un decennio, periodo fatto di
menzogne e promesse non mantenute da entrambe parti in conflitto. Per i Bianchi
Geronimo era il peggiore fra tutti, perché era il migliore sotto l’aspetto della
civiltà chiricahua: il più diffidente, intransigente, selvaggio, crudele.Quando
lo stile di vita dei Chiricahua fu minacciato come mai prima, egli divenne una
sorta di capo supremo, e nulla lo convinceva che il suo predecessore Cochise
avesse fatto bene a portare le sue bande nella riserva loro assegnata. I
Chiricahua non erano mai stati agricoltori, perché si spostavano di continuo, ed
era impensabile che si convertissero in contadini all’interno di una riserva;
senza contare che non avrebbero più avuto la libertà di picchiare la moglie per
le sue malefatte e nemmeno di tagliarle la punta del naso quando la scoprivano
infedele, oltre a non potersi più fare il tiswin, la birra tradizionale a base
di granturco. In breve, sarebbero dovuti somigliare agli uomini bianchi che
erano devoti alla terra solo nella misura in cui potevano impossessarsene per
sfruttarla a scapito di tutto il resto, mentre per i Bianchi il fatto che gli
Apache non riuscissero a concepire la nozione della mobilità verso l’alto
mediante l’accumulo di ricchezze era la dimostrazione della loro natura
sub-umana.
Tornando a Stagecoach e al saggio di Andrea Laquidara, abbiamo Ringo e Dallas,
lui ricercato – prigioniero dello sceriffo che viaggia in cassetta – e lei
prostituta: due figure emblematicamente collocate ai margini del sistema
sociale, che in una delle pause del viaggio vengono a trovarsi all’aperto, in un
esterno notte. Dallas cammina lungo uno steccato di tronchi, in un paesaggio
spettrale “alla Murnau” che però è stemperato dalla colonna sonora delicata e
sentimentale.
> “Lo steccato è il vero protagonista del quadro: il legno robusto e livido
> taglia l’immagine in diagonale e ne attraversa il centro. Dallas, prima in
> ombra, poi investita da una luce dolorosa, si ferma sul bordo destro dello
> schermo. Ringo, una nera silhouette, le si avvicina, ma, senza evidente
> motivo, decide di orientarsi verso la parte ovest dell’inquadratura, e dunque
> restare al di là del recinto di legno cui Dallas sta appoggiata. L’intero
> dialogo si svolgerà con la presenza triste e ingombrante dello steccato che
> separa i due interlocutori”.
Pur divisi, i due sono accomunati dallo stato di marginalità:
> “entrambi sono esclusi da una società ipocrita e formale; entrambi hanno
> vissuto un trauma che li ha privati della famiglia; entrambi sono soli, alla
> ricerca di qualcosa, un ricordo o un’attesa che custodiscono sotto la scorza
> dura che li corazza. L’identificazione, man mano che il dialogo procede, si fa
> più viva ed evidente: le inquadrature si stringono e si intensificano nei bei
> primi piani con cui John Ford rende palese la predilezione e l’affetto che ha
> per simili personaggi. Il gioco di campo e controcampo, che alterna il volto
> fiero e intenerito di Wayne a quello di Claire Trevor, pieno di dolcezza
> dimenticata, grazie all’ambivalenza naturale del montaggio, congiunge e
> contemporaneamente mantiene separati i due amanti virtuali”.
Dal West, Ringo si decide a dirle che al di là della frontiera possiede una casa
dove un uomo e una donna potrebbero vivere felici. Dallas, dall’East, è sorpresa
e intimidita, perché la crudeltà del mondo l’ha disabituata all’idea della
felicità. A questo punto avanza nell’oscurità lo sceriffo, che accarezzando lo
steccato ricorda a Ringo che non può allontanarsi, essendo un ricercato sotto la
sua custodia, mentre sullo sfondo la figura di Dallas si allontana profondamente
turbata. Come un rasoio, la legge della Frontiera è intervenuta a dividere il
corpo unico della felicità. Perché sappiamo come “il lavoro di costruzione
narrativa si esprima proprio nella selezione che distingue il necessario dal
superfluo, l’utile dall’inutile, il civile dal selvaggio, il buono dal cattivo.
È in quella linea di demarcazione che risiede il senso profondo del narrare; ed
è nella capacità di operare col rasoio, distinguendo l’identità dall’alterità,
che affonda le radici il montaggio, e dunque la costruzione di una particolare
visione della realtà”.
Mentre in Boule de suif la visione negativa di Maupassant si estende all’intera
fisionomia della società in viaggio, nella micro-società di Stagecoach il medico
ubriacone, lo sceriffo, Ringo e anche Mrs. Mallory (nella sua solidarietà finale
verso Dallas, che nel pericolo le ha protetto la neonata) rappresentano
l’aspetto migliore della civiltà, quello che giustifica il procedere verso la
via del progresso; l’unica figura negativa resta il banchiere Gatewood,
esponente di un capitalismo cinico, vorace ed esasperato. E la valorizzazione
della prostituta Dallas viene proprio dalla “sterilizzazione” della sua
femminilità e del suo eros, che viene normalizzato e ricondotto nel sistema,
promosso alla funzione procreativa, di costruzione della famiglia e della
società. È la cinepresa di Ford e lo sguardo tenero di Ringo che la sollevano
dalla sua condizione misera, incorniciandola nell’icona familiare della
donna-madre – della Madonna, secondo l’interpretazione di Laquidara – che tiene
in braccio la bambina appena partorita da Mrs. Mallory. Un lavoro strategico che
“risulta efficacissimo, giacché riesce a esorcizzare l’aspetto più spaventevole
della donna, la sua carica erotica e sensuale”. Ma non solo: il viaggio che Mrs.
Mallory e Dallas hanno fatto attraverso l’inferno le ha condotte insieme a una
maturazione, la prima al superamento dei propri atteggiamenti misurati e rigidi
di signora dell’Est, con la presa di coscienza che restituisce dignità alla
reietta, la seconda alla consapevolezza del proprio valore – riconosciuto dalla
comunità che torna ad accettarla – e della reale possibilità di amare ed essere
ricambiata.
Paolo Ferrucci
*In copertina: Adolph F. Muhr, Ritratto di Geronimo, 1898
L'articolo Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford proviene
da Pangea.
Tag - Cinema
Il volgere dell’anno ha portato sui nostri schermi i due più recenti adattamenti
di uno dei maggiori capolavori letterari di tutti i tempi, Il conte di
Montecristo di Alexandre Dumas (1844-1846), quasi a celebrarne simbolicamente i
180 anni dalla pubblicazione. Tra dicembre e febbraio, Rai e Mediaset hanno
infatti proposto rispettivamente la serie-evento coprodotta da Italia e Francia
per la regia del premio Oscar per il miglior film straniero Bille August e la
pellicola francese accolta al Festival di Cannes 2024, dove è stata presentata
fuori concorso, con dodici minuti di applausi e al cinema con un record di
incassi che la proietta sulla vetta dei venti film francesi più visti della
storia.
Due trasposizioni-specchio che riflettono volti molto diversi del Montecristo, e
non solo per le scelte imposte dalla necessità di fare convergere un romanzo
monumentale di 1500 pagine in adattamenti audiovisivi di durate sì differenti
(tre e otto ore), ma egualmente difficili da riplasmare entro i confini di un
tempo che possa ospitare un’opera-mondo come quella di Dumas.
Edmond Dantès, il suo protagonista, è l’emblema di una tragica galleria di
ritratti, un carnevale inesorabile di maschere vuote di storia ma che piangono
le stesse lacrime assetate di giustizia. O di vendetta. Maschere che si
costringe a indossare per compiere la sua missione: l’onnipotente conte di
Montecristo, il leggendario Sinbad il marinaio, il venerabile abate Busoni, lo
sfuggente Lord Wilmore, e ancora l’angelo custode che dispensa ricompense dove
ha raccolto briciole di bontà, l’angelo sterminatore che brandisce la spada di
una provvidenza rimasta in silenzio, l’angelo del male che indica con un dito
sulle labbra la casa dove è passata la collera divina, o la propria; la fata
malefica «dei racconti di Perrault che qualcuno ha dimenticato di invitare a
qualche festa di nozze o di battesimo»[1].
Da qui il fascino senza tempo di un personaggio caleidoscopico, che ha popolato
una lunghissima serie di adattamenti, tutti pervasi dalla voglia di raccontare,
ciascuno a suo modo, la storia del giovane marinaio Edmond, innamorato della
bella catalana Mercédès e del mare. Incastrato dal rivale Danglars, che mal
sopportava la sua nomina a capitano del Pharaon, e da Fernand, che desiderava la
sua promessa, viene ingiustamente accusato di essere un agente bonapartista e
condannato dal corrotto sostituto procuratore Villefort a quattordici anni di
reclusione nel Castello d’If, al largo della sua Marsiglia, dove il mare, da
culla della sua giovinezza, diviene la sua cella. Qui incontra il saggio abate
Faria, che gli dona la sua infinita conoscenza, e con essa la
consapevolezza. Consapevolezza di non essere una vittima del caso, ma di un
tradimento. E non solo: gli instillerà anche la volontà e i mezzi per evadere, e
gli rivelerà il segreto di un tesoro custodito nel ventre della deserta isola di
Montecristo. Una Itaca ricca di tesori nascosti, ma spoglia di affetti, l’isola
di cui Edmond si autoproclamerà conte una volta rivendicati i suoi forzieri, e
da cui salperà dichiarando vendetta a coloro che lo avevano tradito, tessendo
un’immane ragnatela in cui le pedine ignorano il loro burattinaio, ma convergono
inesorabilmente nel centro del suo gioco.
Un’epica storia di vendetta, che giunta all’apice del compimento, posta di
fronte alle conseguenze delle proprie azioni, precipita nel senso di colpa di
chi ha voluto porsi al di sopra degli uomini e di Dio, ponendosi sul trono di
una presunta giustizia umana e divina. E arriva a concedere il perdono e a
desiderarlo per sé, ritenendolo però ormai fatalmente irraggiungibile. Ciò che
resta è il bene disseminato con le ricompense elargite, all’apparenza
infinitesimamente piccole rispetto alle punizioni, ma immensamente grandi per i
depositari di tali doni. Perché solo chi ha provato l’estremo dolore, può
gustare appieno la più grande felicità. Come lo stesso Edmond, che scoprendo di
poter essere ancora amato e di potere amare ancora, grazie a Haydée, vede
riaccendersi in sé la speranza.
*
La serie Rai: una storia di riscatto
Attesissimo il ritorno del Montecristo sui canali Rai. L’ammiraglia aveva
infatti ospitato già nel 1966 il famoso sceneggiato diretto da Edmo Fenoglio,
che vedeva un giovanissimo Andrea Giordana nei panni del conte: allora,
l’accento era posto sulla fedeltà alla lettera, nell’ottica pedagogizzante di un
servizio pubblico che, al pari degli affreschi nelle chiese antiche, traducesse
in immagini una formazione culturale che tanti non avevano avuto il privilegio
di ricevere.
Di tutt’altro stampo la serie-evento presentata alla Festa del Cinema di Roma
2024, prodotta da Palomar (Mediawan) e che accredita alla sceneggiatura anche il
pluripremiato Sandro Petraglia, con un cast che riunisce i beniamini di diverse
generazioni, guidato da Sam Claflin (Hunger Games) nel ruolo del protagonista e
dal Premio Oscar Jeremy Irons (Il mistero Von Bulow) nelle vesti dell’abate
Faria. Tanti i volti del cinema e della televisione italiani, con Lino Guanciale
e Gabriella Pession (La porta rossa), Michele Riondino (Il giovane Montalbano),
e Nicolas Maupas (Mare fuori).
Una serie che non vuole istruire, ma fornire una chiave interpretativa, e
interrogare i propri spettatori su tematiche come la giustizia, il desiderio di
vendetta e la possibilità di riscatto.
A dirigere i lavori il regista danese Bille August, che già si era cimentato con
l’adattamento di un classico della letteratura francese nel 1998, con il film
tratto dal romanzo Les Misérables di Victor Hugo, a cui aveva donato un finale
inaspettatamente positivo omettendo l’ultima parte di racconto, che rischiava di
oscurare con la tragicità degli eventi narrati un messaggio di speranza,
tradendo così la lettera per salvare lo spirito dell’opera. Secondo August,
infatti, per adattare un romanzo «devi trovare una storia nella storia,
altrimenti diventa letteratura illustrata. Per essere fedeli a un romanzo
bisogna essere infedeli».
Le otto puntate di questa serie accolgono un intreccio che può però ben
soddisfare chi negli adattamenti va alla ricerca della fedeltà alla lettera
dell’originale. Allo stesso tempo, non si tratta certo – né sarebbe opportuno
che lo fosse – di una filologica traduzione per immagini del materiale di
partenza: la sceneggiatura si prende qualche licenza, senza tuttavia stravolgere
le svolte principali della trama o le funzioni dei personaggi.
Le trasformazioni che intaccano la sostanza e donano un taglio personale
all’adattamento convergono perlopiù nel finale, luogo e tempo in cui una storia
ci pone di fronte alla resa dei conti. Sfuma il personaggio di Haydée, che nel
romanzo rappresentava il nuovo amore e la nuova vita di Dantès: egli è ormai un
uomo nuovo, nel bene e nel male, andato oltre ogni possibile orizzonte condiviso
con Mercédès.
In questa trasposizione lo ritroviamo invece a Marsiglia, sullo scoglio che
monta la guardia di fronte al Castello d’If, insieme a Mercédès. Sarà lei,
davanti alla sua volontà di partire per un viaggio di sola andata, a ricordargli
che «l’amore può guarire», lasciando aperta una speranza per un amore che
nell’immaginario di Dumas la vita aveva trasformato inesorabilmente.
photo Paolo Modugno
Questa scelta sembra andare oltre la volontà di “sacrificare” un personaggio,
quello di Haydée, in favore di quello del primo grande amore, Mercédès, da cui
tutta la storia ha avuto origine, per abbracciare invece una visione più moderna
della giustizia poetica, che predilige i personaggi “grigi”, ben lontani dagli
archetipi immensamente grandi, nel bene come nel male, della letteratura
ottocentesca.
Mercédès rappresenta la possibilità non solo di ricominciare, ma di ricominciare
da un punto molto vicino a quello di partenza, pericolosamente simile al punto
zero. Nonostante il male che si è fatto. Incontriamo qui un Dantès che non
perdona, e che viene posto (e che si pone) solo di taglio di fronte alle
terribili conseguenze delle proprie azioni. Anche il bene è visto in
trasparenza, quasi non fosse dovuto.
Eppure, non vuole essere un’apologia della vendetta: il Montecristo porta con sé
l’universalità dei classici, il loro essere senza tempo, e insieme di tutti i
tempi. Questa serie getta un velo più moderno su un tema, quello della giustizia
e del riscatto, sempre e tremendamente attuale, mostrandoci un riflesso di
un’epoca, la nostra, smaniosa di rivendicare diritti, spesso a lungo negati, e
meno rigorosa nel richiamare ai doveri.
*
Il film Mediaset: una storia di redenzione
Una trasposizione di orientamento quasi opposto è quella prodotta da Pathé e
Chapter 2 (Mediawan), insieme a Fargo Films e M6 Films, e scritta e diretta da
Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, già sceneggiatori di un dittico
di adattamenti della saga dumasiana de I tre moschettieri (2023).
Nel ruolo di Montecristo, Pierre Niney, vincitore del Premio César nel 2015 per
la sua interpretazione di Yves Saint Laurent nell’omonimo biopic, e, nei panni
dell’abate, il nostro Pierfrancesco Favino.
Ci troviamo questa volta di fronte a un film che, per quanto di una durata non
indifferente, ha chiaramente a disposizione un lasso inferiore di tempo in cui
concentrare una storia lunga e articolata. Da ciò deriva un processo di sintesi
dei personaggi: alcuni scompaiono totalmente, altri si fondono in un unico
personaggio che riunisce in sé le loro funzioni. È questo il caso di Albert, il
figlio di Mercédès e Fernand, e Haydée, attraverso cui si intravede il riflesso
di Maximilien e Valentine, la coppia a cui nel romanzo Dantès salva la vita e
con essa la possibilità di vivere il loro amore.
Ma si va ben oltre la pura necessità “tecnica”. I cambiamenti, anche in questo
caso, e ancor di più vista la loro maggiore rilevanza rispetto alla serie,
impattano sull’interpretazione che il film desidera dare alla storia originale.
L’estetica stessa della pellicola sembra strizzare l’occhio alle atmosfere dei
film delle sorelle Wachowski (si pensi a V per Vendetta o a Matrix), e, di
conseguenza, ai temi di cui si fanno portavoce: giustizia e vendetta, prigionia
e libertà, realtà e apparenza, identità e maschera.
La storia dell’eredità del cardinal Spada nascosta sull’isola di Montecristo si
intreccia qui alla leggenda del tesoro dei templari, i travestimenti di Edmond
non si privano di maschere e protesi degne di Ethan Hunt, e i duelli mancati del
romanzo qui si svolgono senza esclusione di colpi. Haydée e il figlio
illegittimo di Villefort non si limitano qui a essere semplici pedoni in una
partita più grande di loro, ma formano insieme al conte una squadra di
vendicatori, e incarnano rispettivamente la sublimazione e l’apoteosi della
vendetta: da un lato il perdono, dall’altro la legge del taglione.
Sarà proprio l’inutile morte del giovane, ormai consumato dalla sete di rivalsa,
che sconvolgerà i piani e l’animo di Dantès. Un Dantès che salutiamo mentre
salpa verso l’orizzonte, finalmente sereno, ma solo, diversamente da quanto
accade nel romanzo. Il suo testamento è un’ultima lettera scritta a Mercédès: in
essa, affida la felicità conquistata alla seconda generazione, composta da
Albert e Haydée, che vivranno un futuro d’amore che a Dantès e alla bella
catalana, rispettivamente padre adottivo dell’uno e madre dell’altra, erano
stati negati. E così la giustizia veterotestamentaria di cui Montecristo stesso
si era fatto braccio e spada («È scritto nella Bibbia» disse Montecristo. «“Le
colpe dei padri ricadranno sui figli fino alla terza e quarta generazione”, dal
momento che Dio disse queste parole al suo profeta, perché io dovrei essere
migliore di Dio?»[2]) cede il posto al perdono e alla misericordia.
A fronte quindi di una patina marcatamente più moderna della serie firmata
Palomar, da kolossal, ritroviamo un senso della giustizia poetica ancora più
rigoroso rispetto a quello proposto dal romanzo: l’eroe che ha ceduto alle
lusinghe del male non può riconquistare senza abnegazione e spirito di
sacrificio una felicità piena. Eppure, invita Mercédès, e con lei gli
spettatori, come Dumas aveva fatto con i lettori del romanzo, a meditare sul
fatto che tutta la saggezza umana è riposta in queste due parole: aspettare e
sperare.
*
Aspettare e sperare: i Dantès di domani
Siamo stati spettatori di due trasposizioni che hanno preso vie anche
radicalmente diverse, ma che hanno restituito anime altrettanto autentiche del
Montecristo, e tanto è ancora da esplorare.
Perché pochi sono i dilemmi umani più ricorrenti e dilanianti del diritto alla
felicità. È uno degli insegnamenti che Edmond ci lascia alla fine del romanzo, e
che sembra fare eco a un pensiero che lo aveva tormentato alla vigilia del
matrimonio con Mercédès, poco prima del fatidico arresto:
«La felicità è come quei palazzi delle isole incantate le cui porte sono
guardate dai draghi; bisogna combattere per conquistarli»[3].
E forse il vero grande tema, più che la dicotomia tra vendetta e perdono, è
proprio il senso del dolore visto in prospettiva del desiderio di felicità che
pervade l’uomo. Felicità che è insieme un diritto e un dovere, anche e
soprattutto nei confronti degli altri.
Ciascun adattamento ha sottolienato determinati aspetti, ma infinite sono le
possibili interpretazioni di questa tematica universale, come infinite sono le
chiavi di lettura dei classici. Non ci resta che aspettare e sperare, in quelle
che verranno. E lasciarci ricordare da Valentine, come Maximilien quando, alla
fine del romanzo, si chiede se mai rivedranno Montecristo:
> «Amico mio, […] il conte non ci ha forse lasciato scritto che l’umana saggezza
> sta racchiusa in queste due parole: Aspettare e sperare?»[4].
Chiara Bianchi
*In copertina: Victor Hugo, Senza titolo o evocazione di un’isola, 1870
*Il servizio di Chiara Bianchi si pubblica in anteprima, per gentile concessione
della rivista “Studi Cattolici”, edita da Ares
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[1] A. Dumas, Il conte di Montecristo, traduzione di Emilio Franceschini,
Mondadori, Milano 2012, prima edizione Oscar classici, 2 voll., p. 1464.
[2] Ibidem, p. 1214.
[3] Ibidem, p. 48.
[4] Ibidem, p. 1538.
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