Giù la testa è un film del 1971, il penultimo di Sergio Leone e il più ambiguo
di tutta la sua filmografia. È un western atipico, incentrato sulla Rivoluzione
Messicana, che ha per protagonisti due personaggi che apparentemente hanno ben
poco a che fare con quello specifico contesto rivoluzionario: un bandito
maldestro e straccione di nome Juan Miranda, e John H. “Sean” Mallory, un
dinamitardo irlandese colto e istruito, con un passato tra le file dell’IRA. È
un film sulla rivoluzione, girato in un periodo contraddistinto dal crollo degli
ideali rivoluzionari, quindi figlio del proprio tempo. Non è un caso, infatti,
che questo film sia stato pensato e girato da un regista italiano che, seppur
contraddistinto da un apparente distacco nei confronti della realtà
socio-politica in cui viveva, deve avere senz’altro colto l’aria che si
respirava in un Paese in cui, il 12 dicembre 1969, i movimenti studenteschi e
operai avevano visto drammaticamente crollare le proprie rivendicazioni in
seguito agli attacchi terroristici di piazza Fontana.
Con questo film Sergio Leone inserisce un tassello fondamentale nel processo di
crescita creativa che ha caratterizzato tutta la sua produzione, realizzando un
collegamento tra il Mito (il Far West) e la Storia (la Rivoluzione), e donando
al pubblico il suo film più smaccatamente politico. Questo scarto è
riscontrabile anche dal punto di vista prettamente tecnico. Pur rimanendo fedele
ai suoi famosi primi piani, rispetto ai film precedenti Leone utilizza molti
più campi lunghi, dando l’impressione di voler creare un film corale e, dunque,
restituire un affresco storico carico di implicazioni sociali e politiche. Da
questo punto di vista, l’ultima scena del film è emblematica. Purtroppo, è
necessario rivelare il finale per chiarire il concetto, quindi, si suggerisce a
chi non ha visto il film e non ha intenzione di rovinarsi la sorpresa di non
leggere i paragrafi successivi.
Dopo aver tentato di rapinare la banca di Mesa Verde, e aver sottratto non soldi
ma prigionieri politici, Juan e Sean si lasciano coinvolgere più profondamente
nella rivoluzione e si ritrovano a combattere contro le truppe del colonnello
Günther Reza, un brutale ufficiale governativo. Durante la battaglia finale,
Sean viene ferito dal capo delle truppe governative e decide di sacrificarsi per
salvare Juan. Nell’ultimo fotogramma prima dei titoli di coda, mentre viene
inquadrato mediante un primo piano di grande intensità, la voce fuori campo di
Juan pronuncia le parole chiave del film: “e adesso io?”
Benché ermetiche, le ultime battute del bandito messicano nascondono la chiave
interpretativa di tutto il film. L’epilogo di Sean sembra infatti essere la
scintilla che accende la coscienza politica del rozzo brigante messicano
interpretato da Rod Steiger. Gli eventi a cui ha preso parte e il rapporto
instaurato con l’intellettuale irlandese gli hanno permesso di maturare e di
passare dallo stato di bandito individualista e opportunista a quello di
rivoluzionario che ha sposato una causa collettiva di alto valore morale. In
questo senso, Leone sembra comunicare allo spettatore un messaggio di stampo
prettamente marxista: la Rivoluzione è il motore della storia e, con la sua
forza trasformativa, può cambiare le società. Tale chiave di lettura è
confermata dalla citazione di Mao Tse Tung in apertura del film:
> “la Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un
> disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e
> delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di
> violenza.”
Ad avvalorare tale interpretazione, però, è anche il rapporto che si instaura
tra i due protagonisti del film. Sean, interpretato da un azzeccatissimo James
Coburn, è un rivoluzionario deluso, un intellettuale che ha dedicato la propria
vita alla lotta collettiva e che non ne può più di quelli che “leggono i libri
[che] vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: qui ci
vuole un cambiamento! e la povera gente fa il cambiamento.” Sean ha sperimentato
sulla sua pelle la violenza che la rivoluzione inevitabilmente comporta e che
investe principalmente i “poveracci”, quelli che, fomentati dagli intellettuali,
pagano col sangue la lotta armata. La sua, quindi, è una visione della
rivoluzione decisamente pessimista. Così come lo è, evidentemente, quella di
Sergio Leone, il quale, probabilmente, dopo aver assistito con grande
disillusione alla fine degli ideali che avevano animato i primi settant’anni del
Novecento, ha deciso di mettere in scena un dramma crepuscolare carico di
riflessioni politiche.
Tuttavia, le dinamiche relazionali che Juan e Sean instaurano, ad un’analisi più
approfondita, lasciano trasparire un velato ottimismo da parte del regista:
Leone, infatti, sembra dire che gli intellettuali (rappresentati da Sean)
possono svolgere un ruolo cruciale nella formazione della coscienza di classe
del popolo (rappresentato da Juan), ma per farlo devono mantenere un rapporto
diretto con le masse, devono avventurarsi con e in esse, onde evitare di
diventare una classe privilegiata distante dalla realtà concreta. Ed è
esattamente ciò che fa Sean, immergendosi nel mondo straccione e degradato di
Juan Miranda, e accompagnandolo, però, tramite un percorso di emancipazione sia
fisico che morale, verso la rivoluzione.
L’epilogo del film sottolinea con grande enfasi questo messaggio: il sacrificio
di Sean, per quanto inutile ai fini della battaglia contro le truppe
governative, permette a Juan, e di conseguenza al popolo, di prendere coscienza
della propria condizione e di sviluppare una coscienza rivoluzionaria. La
domanda retorica di Juan con cui il film si chiude ha, quindi, una duplice
valenza: da un lato lascia trasparire lo spaesamento del popolo di fronte alla
perdita della guida intellettuale, dall’altro, invece, sottintende la volontà di
proseguire la lotta con maggiore consapevolezza, seppur con quella paura di
affrontare il mondo che tipicamente contraddistingue gli orfani.
In questo senso, il messaggio di Leone sembrerebbe ancora più esplicito:
l’emancipazione delle masse può essere possibile solo mediante il sacrificio, in
senso sociale, degli intellettuali, e la rivoluzione potrà realizzarsi solo se
le classi dominanti saranno disposte a sacrificarsi in nome dell’indottrinamento
del popolo. Da questo punto di vista, Giù la testa può essere interpretato come
il testamento politico di Leone. Il regista romano sembra dirci che il marxismo
ha fallito perché le classi dirigenti, decidendo di non rinunciare ai propri
privilegi, non sono state in grado di comprendere la complessità della realtà
delle masse. Viene inevitabilmente in mente il pensiero di Antonio Gramsci, il
quale aveva individuato negli intellettuali “l’anello mancante del materialismo
storico”, perché è la loro attività a determinare i rapporti tra le classi e i
gruppi sociali.
Di certo, fa un certo effetto sapere che un messaggio di questo tipo provenga da
un regista che ha fatto dell’individualismo il tema centrale della propria
produzione cinematografica. I suoi eroi sono fondamentalmente dei solitari, dei
pistoleri malinconici che riescono a trovare un rifugio dalla durezza del mondo
solamente nell’amicizia virile e nel denaro. E, da questo punto di vista, lo
sono anche i due protagonisti di Giù la testa. Ciononostante, con questo film
Leone sembra aver voluto lanciare un messaggio a quelli che, secondo lui, sono i
veri responsabili del fallimento di ogni sogno rivoluzionario: i membri delle
classi dirigenti e, più nello specifico, gli intellettuali. D’altronde, fu lui
stesso a dire
> “quando ero giovane credevo in tre cose: il Marxismo, il potere redentore del
> cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite”.
Un epilogo, questo, che spiega perfettamente la cupezza del suo ultimo
capolavoro, C’era una volta in America, in cui, invece, l’unico strumento di
emancipazione delle masse sembra essere l’acquisizione, con ogni mezzo
possibile, di denaro, anche a costo di sacrificare l’unico rapporto capace di
dare senso alle vite dei suoi personaggi, vale a dire l’amore, in senso sia
romantico che amicale.
In definitiva, Giù la testa si configura come un’opera complessa e stratificata,
ben lontana dalla semplice etichetta di “western atipico” che nel tempo gli è
stata affibbiata. Attraverso la lente della Rivoluzione Messicana e la dinamica
tra un rozzo bandito e un intellettuale disilluso, Sergio Leone offre una
riflessione amara e disincantata sul fallimento degli ideali rivoluzionari, pur
lasciando intravedere una flebile speranza nel potenziale trasformativo della
coscienza popolare, innescata dal sacrificio delle élite intellettuali. Il film
si erge così a testamento politico di un regista che, pur provenendo da un
universo cinematografico apparentemente distante da tali tematiche, dimostra una
lucida consapevolezza delle dinamiche socio-politiche del proprio tempo,
consegnando al pubblico un’opera potente e ancora oggi attuale, capace di
stimolare una profonda riflessione sul significato di rivoluzione, sul ruolo
degli intellettuali e sul destino delle masse. Un film estremamente attuale che,
oggi più che mai, potrebbe essere utile trasmettere nelle sezioni di più
partiti.
Alessandro Lugli
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proviene da Pangea.
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Cento soldatini potevano certo bastare per un sogno. Cento soldatini di stagno a
suo fratello Dag in cambio del proiettore ricevuto a Natale. Un baratto che vale
l’essenza di una vita intera.
Dal guardaroba della camera, un giovanissimo, magrolino e inesperto Ingmar
Bergman sistema il proiettore su una scatola di zucchero e accende la lampada a
petrolio. Orienta la luce verso la parete dipinta di bianco e inserisce la
pellicola di un film romantico.
Un aneddoto, insieme alla torcia che illuminava il buio della punizione nello
sgabuzzino e la paura del mostro che mangia le dita dei piedini, tatuato nella
memoria che Ingmar Bergman registra per sempre, in quello straordinario romanzo
autobiografico, concluso a fine settembre 1986, dall’evocativo titolo Lanterna
magica (Garzanti, traduzione di Fulvio Ferrari). Un guazzabuglio di incontri e
scontri, gozzoviglie, solitudini, sceneggiature e opere per il teatro e la tivù
e pellicole, manoscritti tragicamente perduti come la fiaba della stanca torre
Eiffel (Joakim Naken), passioni travolgenti e sensuali, drammi e immani sensi di
colpa, disastri economici e rovesci familiari, rinascite e ricadute. “Fantasmi,
demoni e altri esseri senza nome e senza dimora” sembra che lo abbiano cinto
d’assedio sin dalla più tenera età.
Secondo figlio di un pastore protestante della corte reale, Bergman esordisce
come regista teatrale e proprio il teatro, prima che il cinema, ha
caratterizzato la sua esistenza, come si legge in questo romanzo fiume. Al
cinema dedica luminose pagine:
> “un’illusione progettata fin nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà
> che quanto più vivo tanto più mi appare illusoria”.
Il più grande maestro, secondo il grande Bergman, è Tarkovskij che non spiega
mai, ma rappresenta le sue visioni, poi Fellini, Kurosawa e Buñuel e quel mago
di Méliès. Le sue parole calano nitide e sognanti sulla pagina:
> “Film come sogno, film come musica. Nessun’altra arte come il cinema va
> direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della
> nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna”.
Il cinema è rivelazione:
> “Le ombre, mute o parlanti, si rivolgono direttamente alle regioni più segrete
> del mio animo. Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante,
> scintillante, il fruscìo della croce di Malta, la mano sulla manovella”.
Il cinema è come l’amore, in tutti i sensi.
> “Girare un film è un’operazione intensamente erotica. La vicinanza con gli
> attori non conosce riserve, ognuno si affida totalmente all’altro. L’intimità,
> l’affetto, la dipendenza, la tenerezza, la fiducia, la disinvoltura davanti al
> magico occhio della macchina da presa danno un caldo e forse illusorio senso
> di sicurezza”.
In questa autobiografia, Bergman parla senza riserve e senza censure della
fisicità, che spesso lo metteva a dura prova e lo divorava, quanto dei malesseri
interiori che lo costringevano a un doloroso conflitto interiore. Sensibilissimo
al fascino femminile, ogni storia d’amore che iniziava sembra il canovaccio di
una nuova opera da trasporre sul palcoscenico.
> “L’innamoramento, che ebbe modo e tempo di svilupparsi liberamente, aprì
> stanza chiuse, muri crollarono, io respirai. Il tradimento nei confronti di
> Ellen e dei bambini era avvolto nella nebbia, sempre presente ma stranamente
> stimolante. Per alcuni mesi visse e respirò un’audace messinscena,
> incorruttibile, autentica e quindi indispensabile. Si dimostrò spaventosamente
> cara quando arrivò il conto”.
Conti e debiti, difficoltà economiche e rovesci di fortuna che non sono mancati
lungo il corso di una vita. Ad un certo punto, il regista comprò persino il
primo cappello della sua vita per dare l’impressione di una solidità che proprio
non possedeva.
Le descrizioni dei teatri sono deliziosamente struggenti e nostalgiche:
> “A teatro c’erano le pulci. La vecchia compagnia era probabilmente immune, la
> nuova arrivò con sangue giovane e venimmo crudelmente morsicati. Il tubo di
> scarico del ristorante passava per i camerini degli uomini e gocciolava
> continuamente urina sul calorifero vicino alla parete”.
Una situazione drammatica che Bergman non esita a definire “il paradiso fatto
realtà”. Il maestro a teatro continuamente citato e preso come modello:
Strindberg. La famiglia d’origine, l’infanzia in canonica, un pensiero
ricorrente e intrecciato alle pagine della maturità. Una vita, quella dei
genitori, vissuta come “su un vassoio”, sempre davanti al pubblico.
> “Papà era un predicatore popolare, la chiesa era sempre piena quando parlava
> lui. Era un premuroso pastore d’anime e possedeva un talento inestimabile: la
> sua capacità di ricordare le persone era illimitata. Durante tutti quegli anni
> aveva battezzato, confermato, unito in matrimonio e sepolto molti dei suoi
> quarantamila parrocchiani. Di tutti ricordava il volto, il nome e le
> condizioni”.
Del fratello, invece, mette a fuoco l’odio verso il padre e il tentativo di
suicidio, un’antipatia reciproca e fraterna che lasciò il posto al vuoto, anche
dopo tantissimi anni, quando Dag andò a trovarlo nell’isola rifugio di Fårö con
la moglie greca. I genitori, per il fratello, continuavano ad essere
> “mitici, capricciosi, imprevedibili, giganteschi. Cercammo di ripercorrere con
> la mente sentieri abbandonati e ci guardammo stupiti l’un l’altro: due vecchi
> signori, usciti dallo stesso grembo, separati da una distanza incolmabile”.
Sulla sorella più piccola si accende una timida tenerezza sullo sfondo della
pagina.
> “I miei ricordi d’infanzia riguardo a Margareta sono pallidi e sfuggenti.
> Costruimmo un teatro delle marionette, lei cucì i costumi e io dipinsi le
> scene. La mamma era una spettatrice paziente e interessata, e ci regalò anche
> un sipario di velluto dai bei ricami”.
Nonostante avventurose e innumerevoli esperienze, quel gettarsi “a capofitto
nell’abisso della vita”, lo sguardo del regista svedese ritorna, anche alla fine
del suo memoir, all’album delle foto di famiglia, al piccolo cerotto
sull’indice, al disegno di una coperta, al profumo d’aringa fritta, al volto di
sua madre, che appare e scompare, nella brulicante folla elegante delle foto.
Riprende tra le mani il diario segreto della madre, le pagine che inquadrano il
momento della sua nascita, la sua venuta al mondo, correva il luglio 1918.
> “Nostro figlio è nato domenica mattina, quattordici luglio. (…) Sembra un
> piccolo scheletro con un nasone rosso fuoco. Rifiuta con ostinazione di aprire
> gli occhi. Dopo qualche giorno mi è venuto a mancare il latte per via della
> malattia. Allora è stato battezzato in tutta fretta in ospedale. Si chiama
> Ernst Ingmar”.
Questa ostinazione a non aprire gli occhi sembra intrecciata al sogno di
rimanere a vivere nelle segrete stanza dell’infanzia perduta, tra i morti che
sono “costretti a tormentare i vivi”.
> “In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti
> nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti
> alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la
> velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio
> una piccola visita alla realtà”.
In breve, anche nella sua Lanterna magica, Bergman riesce a mettersi a nudo:
“illusionista e reo confesso di questa illusione – secondo la netta definizione
di Olivier Assayas e Stig Björkman in Conversazione con Ingmar Bergman(Lindau) –
vulnerabile e inaccessibile, umano e insondabile”.
L’invito da cogliere è, quindi, quello di ascoltare la voce incoerente e
illogica delle emozioni:
> “Ma voi vi renderete certamente conto che quando si è artisti, quando si
> creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti.
> Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Dal punto di
> vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è proibito non esserlo. Ma se
> si ha fiducia nelle proprie emozioni, allora si può essere del tutto
> incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze
> delle emozioni che hai suscitato. Per sempre”.
Linda Terziroli
L'articolo “Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge”.
Nella magia di Ingmar Bergman proviene da Pangea.
Nella storia del cinema il 1955 fu l’anno di James Dean. Prima di scomparire
alla velocità di una meteora, il giovane ribelle statunitense lasciò dietro la
sua scia tre film indimenticabili, la promessa della fama mondiale e il sogno di
diventare regista.
Eletto a idolo romantico della gioventù degli anni Cinquanta, Dean diede corpo e
voce a personaggi fuori da ogni schema. Per Elia Kazan aveva vestito i panni del
rancoroso ma dolce eroe steinbeckiano di East of Eden (La Valle dell’Eden), nel
superbo Rebel Without A Cause (Gioventù bruciata) di Nicholas Ray si era
trasformato nell’intrepido Jim Stark, chiudendo con aplomb nella parte
dell’orgoglioso Jett Rink in Giant (Il Gigante postumo), a coronare la triade
per cui è ricordato come il “ragazzo d’oro” del cinema americano.
Nello stesso anno, la promessa di Broadway – il debutto in See the Jaguar è del
’52 – fuggiva dalle luci del successo e da lunghe notti insonni, trascinate sui
marciapiedi di New York, per tornare alle sue radici, a Fairmount. Qui poté
finalmente respirare, ancora per qualche tempo, l’aria di casa. Non appena
giunto nella cittadina sonnolenta dell’Indiana s’immerse a capofitto nel torpore
della vita rurale, confondendosi fra i contadini e i manovali del paese.
James ‘Byron’ Dean in compagnia del suo border collie Tuck a Fairmount, Indiana,
1955.
Nato nella vicina Marion, il piccolo Jimmy era cresciuto nella fattoria di
proprietà dello zio Mark Winslow, il quale tornava prodigamente ad ospitarlo.
Accolto a braccia aperte da tutti i suoi cari, riunì attorno a sé i membri di
almeno tre generazioni. L’avrebbe seguito ovunque, dal selciato bagnato di
Times Square ai suoi frugali ambienti domestici, l’obiettivo di Dennis Stock
(lo stesso che ispirerà le pose di Kate Moss e Liz Tyler dopo di lui). Deciso a
tracciarne le orme, per immortalarlo sotto un aspetto più intimo, il cronista
mondano gli avrebbe dedicato una celebre serie di ritratti destinata alle
prestigiose testate di Life. Come riporta l’editor Eliza Berman, l’incontro tra
il fotografo e la futura star ebbe un effetto folgorante:
> “Mentre Stock ascoltava Dean parlare con nostalgia della sua educazione a
> Fairmount, nell’Indiana, pensò bene di cogliere il ritratto di un giovane uomo
> sospeso tra due mondi: quello della fattoria di famiglia, dove i suoi zii lo
> avevano allevato dopo la morte della madre, e quello di Hollywood in cui
> sarebbe stato presto accolto”.
A metterne in luce i turbolenti rapporti si aggiunge in tempi recenti il tributo
offerto da Anton Corbijn ai due artisti, interpretati dai brillanti Robert
Pattinson e Dane DeHann, nel film Life (2015).
Nel febbraio 1955, alla domanda “Dove scattiamo le foto?” Stock aveva proposto
“dove sei più felice”. Da quel momento, l’appeal del saltimbanco nottambulo e
del selvaggio contadino andava fissato in una delle maggiori icone di bellezza
maschile del secolo.
Unico nel suo genere, il volume che raccoglie le fotografie di Stock – ironiche,
stravaganti e familiari –, uscito in Italia come James Dean. Per sempre
giovane (Contrasto, 2005), include anche una nota biografica sull’amico modello,
seguendone passo dopo passo il profilo anticonformista.
> “Jimmy non teneva minimamente al proprio aspetto: due volte su tre si vestiva
> in modo più che trasandato, che si trattasse di una riunione formale o
> informale”.
Aggirato il volto da leggenda, questi scatti delicati e spontanei lanciano uno
sguardo lucido sul ragazzo più autentico, legato alla sua terra e teneramente
devoto alla famiglia.
In quei giorni, la vita dai Winslow procedeva al suo ritmo regolare, essenziale
e aromatica, proprio come l’aveva lasciata prima di ascendere alla luce di Santa
Monica o ai ritmi sfrenati della vita newyorkese. Le ore più calde trascorrevano
in un’atmosfera rustica e serena, imbevuta di reminiscenze d’infanzia di stampo
quacchero e circondato dai suoi affetti.
Steso a pancia in giù sul tappetto del salotto e preso dall’entusiasmo nei
giochi del cuginetto Markie, che aveva visto crescere, Jim si sentiva racchiuso
nel grembo di un’alcova, un rifugio sicuro dove poter essere l’eterno fanciullo
dei suoi sogni. Adesso, più di tutto, il caos della metropoli era svanito
lontano come un’isola del Pacifico, scacciato dal suono del bongo che portava
sempre con sé.
Per sempre giovane. Dean gioca insieme al cugino Marcus Winslow Jr.
Durante il breve soggiorno, l’orgoglio d’Indianapolis ebbe anche il tempo di
visitare le aule della vecchia high school, venendo travolto da un’ondata di
nostalgia per gli anni dell’adolescenza consumati da vero campione tra
eccezionali partite di basket e prime produzioni teatrali. Più tardi, la sua
insegnante di recitazione e prima fan Adeline Nall avrebbe ricordato in toni
sinceri e commossi lo studente di genio che lasciò il segno sul palco
scolastico:
> “Jimmy Dean amava sentire il suolo dell’Indiana sotto ai suoi piedi, e credo
> che traesse da lì gran parte della sua energia.”
Un famoso scatto di Stock, poi rimasto iconico, lo vede davanti a tutta la
famiglia raccolta attorno alla tavola imbandita per il pranzo della domenica. A
un tratto, il nuovo arrivato prese a recitare un noto componimento del sommo
poeta locale James Whitcomb Riley: il preferito della madre che scelse di
chiamarlo James Byron in onore alle proprie passioni letterarie.
Con timbro enfatico e strampalato, la personalissima lettura
di Home-Going (1910), attestava il ritorno a casa attraverso la via diretta
della poesia:
> “Oh! Siamo così bisognosi di casa
> La risata del mondo è come un gemito
> Nei nostri orecchi stanchi, e pure i suoi canti son vani,
> Dobbiamo tornare a casa – dobbiamo tornare di nuovo a casa!
> Dobbiamo tornare a casa:
>
> […] Là dove tutto riposa:
> Il tocco di tenere mani su fronte e capelli –
> Stanze buie, in cui più dolce è la luce del sole –
> L’amore perduto di madre e figlio…”
James Dean declama i versi di James Whitcomb Riley, il poeta dell’Indiana.
Per una singolare nemesi, il giovane eroe del cinema avrebbe fatto nuovamente
ritorno in Indiana, ma stipato dentro un feretro più scomodo di quello in cui si
era adagiato, solo sette mesi prima, durante una buffa visita alle vicine
imprese funebri. La lente incredula dell’amico lo catturava allora, nel presagio
d’un eccesso burlesco, con l’espressione da bambino ferito stampata per sempre
sul volto.
Ma come ha scritto Oriana Fallaci, agli occhi del pubblico e dell’industria
cinematografica, James Dean non poteva rassomigliare in toto a un ingenuo
contadino del suo Stato natale, tanto sfaccettato era il talento che gli
spianava la strada per il mito. Da fervido seguace di Brando, si sarebbe
avvicinato di ruolo in ruolo ai divi moderni come ai vecchi idoli europei:
> “Era la Sagan tradotta in americano, l’adolescente pazzo per noia romantica,
> più vicino all’europeissimo Truman Capote e a Oscar Wilde che ai personaggi
> contadineschi di Peyton Place o ai giovani pazzi ma paesani che si riscontrano
> nei romanzi americani”.
Fissato nell’icona di Hollywood e del viveur di Manhattan, il nuovo “bello e
dannato” sfrecciava verso le stelle di una carriera tutta in ascesa.
A stroncare tragicamente la parabola della sua breve esistenza, sancendone la
consacrazione all’Olimpo californiano, una corsa maledetta sull’asfalto della
U.S. Route 466, sul sedile della temibile “piccola bastarda”, la sua Porsche 550
Spyder. In un amplesso di euforia e bagliori di gloria, rapido come aveva
vissuto, se ne andava in un lampo, direzione Salinas.
Pierluigi Piscopo
L'articolo “Dove sei più felice”. James Dean, il fanciullo dell’Indiana proviene
da Pangea.
> “In quella regione non ancora riconosciuta come Stato dell’Unione, era uno
> degli anni in cui i segnali di fumo apache si alzavano dalle cime delle
> montagne rocciose, e più di un ranch era ridotto ormai a un quadrato di cenere
> annerita che si stendeva sul terreno. La partenza della diligenza da Tonto
> segnava l’inizio di un’avventura dall’incerto lieto fine…”
>
> (incipit di La diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox, Sellerio editore,
> 1992)
Cronista giudiziario di Portland, Oregon, Ernest Haycox (1899-1950) è stato
autore di una ventina di romanzi e qualche centinaio di racconti di
ambientazione western, storie cominciate ad apparire nei pulp
magazines americani negli anni Venti, in cui si celebrano i grandi temi della
Frontiera, dalla vastità delle praterie al mistero minaccioso dell’altro,
dall’asprezza del deserto al silenzio che pervade anche l’animo dei personaggi,
solidamente sagomati su stereotipi ben collaudati. Le sue strutture narrative
essenziali, rese con una lingua asciutta e meccanismi elementari che
sfruttano topoi e figure retoriche ricorrenti, si rendevano buoni canovacci
adatti a ulteriori sviluppi, alcuni dei quali sono stati trasposti al cinema
hollywoodiano. Fra i suoi estimatori c’erano Gertrude Stein e Ernest Hemingway,
il quale – secondo la vulgata – ebbe a scrivere “I read The Saturday Evening
Post whenever it has a serial by Ernest Haycox”.
Il racconto Stagecoach to Lordsburg, uscito sul Collier’s Magazine di
Springfield, Ohio, nel 1937, è il più famoso perché vanta un’ascendenza e una
discendenza illustri. Il suo “prima” è la celebre novella di Guy de
Maupassant Boule de suif, mentre il suo “dopo” viene dal cineasta John Ford e
dal suo sceneggiatore Dudley Nichols, che lo giudicò un’ottima trama: «Cercammo
subito di tirarne fuori un film creando i personaggi, visto che quelli che
offriva non erano che abbozzi. Quindi li mettemmo da parte cercandone dei nuovi
che ci apparissero più interessanti». Fu così che Stagecoach to
Lordsburg divenne il celeberrimo film Stagecoach – reso in italiano come Ombre
rosse –, che nel 1939 (anno dell’epocale Via col vento) segnò il punto cardine
della filmografia western, definito come il momento in cui il genere “diventa
maggiorenne” e s’impone come “il cinema americano per eccellenza”.
In Boule de suif di Maupassant una prostituta francese estroversa e
grassottella, passeggera della carrozza in fuga da Rouen durante la guerra
franco-prussiana del 1870, è decisa a rifiutare per senso patriottico
le avances di un ufficiale prussiano che ha fermato la comitiva, ma alla fine si
vede costretta a cedergli per le pressioni dei suoi compagni di viaggio, persone
per bene e rispettabili – commercianti, nobili, due suore, un pericoloso
democratico – che non vogliono ritrovarsi bloccate dalla sfrontata prepotenza
dell’ufficiale e dalla caparbietà della ragazza. L’esito lo conosciamo, con la
cinica ipocrisia della buona società francese che apre e chiude la partita nel
modo più classico. In Stagecoach to Lordsburg, rifacendosi a quel racconto,
Haycox prende il riscontro storico della fuga nel 1885 del capo apache Geronimo
dalla riserva di San Carlos in cui era stato confinato, nell’ultimo sanguinoso
tentativo di ribellione attraverso scorrerie e devastazioni degli insediamenti
dei Bianchi. Come per Boule de suif, i passeggeri della diligenza per Lordsburg
compongono un microcosmo sociale, e qui sono proiettati verso una Frontiera in
progressivo e inarrestabile movimento verso ovest: sono quelli che
colonizzeranno le terre sottratte agli indiani, quelli che vivono di espedienti
professionali, e anche gli emarginati come la prostituta Henriette, schiva e
gentile, e il bel pistolero “smilzo e biondo” Malpais Bill, diretto verso la sua
vendetta contro chi gli ha ucciso il padre e il fratello. Come osserva Attilio
Brilli nell’introduzione, i personaggi hanno un carattere bozzettistico
efficace, con un gusto fra l’arcaico e l’ingenuo che risponde alla mitologia
popolare in cui si muovono; ognuno porta i segni del suo status sociale, dai
dettagli del vestire ai tratti somatici rappresentativi, fino ai gesti e agli
atteggiamenti che tradiscono i loro umori e le loro storie. Malpais Bill – che
nel film di John Ford diventa Ringo interpretato da John Wayne – ha “negli
angoli degli occhi e nella lunga piega della bocca” il segno di una natura
selvaggia, quella del mezzosangue inevitabilmente reietto.
Nel racconto abbiamo una ragazza – Miss Robertson – che va a sposarsi con un
ufficiale di fanteria, un piazzista di whisky di Kansas City, un inglese alto e
ossuto con un enorme fucile da caccia, un elegante giocatore d’azzardo, un
robusto mercante di bestiame con una grossa pepita d’oro appesa alla catena
dell’orologio, lo smilzo Malpais Bill con le pistole che gli pendono ai fianchi
e la prostituta Henriette – queste ultime le due figure centrali. Con questo
materiale, John Ford e Dudley Nichols plasmarono e “riformarono” la tipologia
dei personaggi di Haycox per caricarla dei significati simbolici più adatti alla
narrativa hollywoodiana. La evanescente “ragazza dell’ufficiale” si trasforma
nella volitiva Lucy Mallory, moglie incinta di un ufficiale dell’esercito che
vuole raggiungere il marito; l’inglese col fucile e il mercante di bestiame
vengono rimpiazzati da un banchiere avido che è fuggito con la cassa e dal
medico ubriacone Doc Boone, figura divenuta classica nella mitologia
cinematografica western; Malpais Bill diventa Ringo Kind, che è ricercato e per
questo scortato nella diligenza dalla nuova figura dello sceriffo, e Henriette
diventa Dallas Douglas, la reietta che viene fatta salire sulla carrozza da un
drappello di signore arcigne e avvizzite della Lega per la moralità. Nel film lo
sgangherato Doc Boone, costretto a fuggire da un luogo all’altro, è il
contrappeso speculare del giocatore d’azzardo Hartfield, virginiano dai modi
fini e l’aspetto nobile, entrambi figure che si redimono nel corso del viaggio.
L’opposizione più netta nel microcosmo della diligenza è fra la donna pubblica
Henriette/Dallas e Miss Mallory, ovvero la prostituta e la rispettabile dama che
deve raggiungere il marito, e si esplica in un percorso di sguardi, di
espressioni e di inquadrature soggettive – è la donna civilizzata a osservare la
prostituta, avvertendo una curiosità partecipativa – che nel film prepara la
riconciliazione solidale che avverrà in uno degli eventi centrali, la nascita
della bambina nella stazione lungo il deserto. Qui abbiamo lo svelamento dei
ruoli e la redenzione dei reietti, uno dei grandi marchi del cinema “etico” di
John Ford.
Uno sguardo analitico e complessivo sul suo cinema lo troviamo nel bel saggio di
Andrea Laquidara John Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di
Dioniso (Mimesis, 2019), che passa in esame la filmografia fordiana
concentrandosi sulle pietre miliari della sua sterminata produzione e traendone
quelle implicazioni storico-filosofiche che ci riportano anche all’America di
oggi. Vediamo innanzitutto che tutti i film di John Martin Feeney, figlio di un
irlandese giunto in America nel 1872, sono girati – anche quelli non
squisitamente western – sulla Frontiera, cioè sul limite, sulla soglia, quella
linea che difende la civiltà dalla wilderness: un cinema che rappresenta nel
modo più compiuto il mito di fondazione degli Stati Uniti d’America. Prendiamo
le sequenze che aprono Stagecoach: in una piccola cittadina dell’Arizona giunge
la notizia che gli Apache sono sul piede di guerra. Dopo qualche inquadratura in
esterni, che riprende due figure a cavallo che corrono negli spazi del deserto,
finiamo all’interno di una caserma, dove una delle due figure spiega a un
ufficiale seduto alla scrivania che gli Apache infestano le colline circostanti.
L’ufficiale chiede al telegrafista di predisporre la linea di comunicazione con
Lordsburg, più a ovest nel New Mexico, ma proprio da quella città sta arrivando
un messaggio urgente. L’inquadratura si stringe, l’attesa si fa preoccupata, ma
la comunicazione non arriva: «The line went dead, sir» dice il telegrafista, la
linea è interrotta. Da Lordsburg arriva solo la prima ferale parola: “Geronimo”.
Come osserva Laquidara:
> “Tutti i presenti restano in un lugubre silenzio, e la frattura che Geronimo
> ha provocato nella linea del telegrafo è riempita solo dalla colonna sonora,
> improvvisa, grave, piena di semitoni e sinistre dissonanze: un chiaro invito
> lanciato allo spettatore di preoccuparsi seriamente. (…) La linea di
> comunicazione si è improvvisamente trasformata in un binario morto. Si è
> fratturata. L’unione si è fatta divisione. E in questa frattura si è inserito
> il nome di Geronimo, il selvaggio, l’irrazionale, accompagnato da un accordo
> musicale disarmonico. Ecco dunque cosa determina il carattere tragico,
> agonistico del percorso della storia, la possibile frattura del binario
> provocata dall’imboscata tesa dal selvaggio. La dinamica e ottimistica
> mobilità del progresso muta improvvisamente in stasi. Nel Caos della stasi”.
A metà della storia la diligenza attraversa il tratto in cui Geronimo avrebbe
tagliato il filo del telegrafo, nel territorio denso di ostili premonizioni
rappresentato dalla Monument Valley, divenuta il più mitico dei paesaggi
americani: qui è evidente che il gruppo racchiuso nella carrozza – la piccola
comunità – è esposto al passaggio nel mondo spaventevole dell’irrazionale. E
l’irrazionale arriva:
> “Tutta la celebre sequenza della fuga della diligenza, inseguita dagli Apache,
> e della battaglia realizzata in frenetica corsa, è tra le più studiate nei
> corsi di Storia del cinema. Una delle ragioni sta nel fatto che John Ford
> compone insieme magistralmente un materiale molto eterogeneo. Nella pazza
> corsa di carrozza e uomini a cavallo si susseguono: velocissimi carrelli
> girati in esterni; inquadrature più ravvicinate dei passeggeri che si
> difendono (girate evidentemente in studio); riprese dall’alto che mostrano la
> diligenza fendere un territorio bianco come un lago asciutto, inseguite dalle
> ombre minacciose dei selvaggi; citazioni da Griffith (raccordi in asse e sullo
> sguardo); citazioni dal cinema sovietico (la spettacolarità di angolazioni
> inusuali, con prospettiva dal basso); passaggi di azione pura che si alternano
> a primi piani fortemente espressivi, che definiscono la psicologia dei
> passeggeri”.
L’attacco degli Apache dura ben sei minuti, con una dinamica forsennata in cui
non v’è un minimo cedimento o dispersione della tensione narrativa, fino al
momento in cui gli squilli di tromba annunciano il soccorso salvifico del
battaglione di cavalleria al galoppo e lo scioglimento del dramma. I selvaggi
sono rappresentati come figure omogenee, anonime, accomunate dall’impersonare il
pericolo, il caos e la violenza, sia quando sono invisibili sia quando irrompono
sulla scena come incubi. E in effetti gli Apache Chiricahua, a cui apparteneva
Geronimo, rientravano nel gruppo di popoli aggressivi e di mentalità guerriera
per i quali le scorrerie erano l’impresa tribale più importante e legittima, e
la guerra di vendetta era l’inevitabile conseguenza della dinamica delle
scorrerie. I giovani maschi venivano allevati per essere corridori forti, rapidi
e rapaci, per diventare ladri di bestiame e razziatori di carovane, abili nel
nascondersi e nello schivare, e implacabili odiatori dei vicini di altre
tribù. È lo stesso Geronimo a narrare il mito chiricahua della creazione, in cui
uno dei due eroi tradizionali è chiamato “uccisore di nemici”. Poiché vivono
razziando, devono affinare le arti dell’inseguimento, dell’imboscata, della
morte, in quanto la morte dei nemici è la loro vita.
Per la mente indiana l’attaccamento al paese nativo era una necessità vitale, e
non potere farvi ritorno equivaleva alla separazione dalla sorgente di vita
della terra. Gli Apache Chiricahua fondevano questo attaccamento alla propria
terra con la pratica tradizionale della guerra di razzia, e ciò rese possibile a
Geronimo di evitare la resa definitiva per più di un decennio, periodo fatto di
menzogne e promesse non mantenute da entrambe parti in conflitto. Per i Bianchi
Geronimo era il peggiore fra tutti, perché era il migliore sotto l’aspetto della
civiltà chiricahua: il più diffidente, intransigente, selvaggio, crudele.Quando
lo stile di vita dei Chiricahua fu minacciato come mai prima, egli divenne una
sorta di capo supremo, e nulla lo convinceva che il suo predecessore Cochise
avesse fatto bene a portare le sue bande nella riserva loro assegnata. I
Chiricahua non erano mai stati agricoltori, perché si spostavano di continuo, ed
era impensabile che si convertissero in contadini all’interno di una riserva;
senza contare che non avrebbero più avuto la libertà di picchiare la moglie per
le sue malefatte e nemmeno di tagliarle la punta del naso quando la scoprivano
infedele, oltre a non potersi più fare il tiswin, la birra tradizionale a base
di granturco. In breve, sarebbero dovuti somigliare agli uomini bianchi che
erano devoti alla terra solo nella misura in cui potevano impossessarsene per
sfruttarla a scapito di tutto il resto, mentre per i Bianchi il fatto che gli
Apache non riuscissero a concepire la nozione della mobilità verso l’alto
mediante l’accumulo di ricchezze era la dimostrazione della loro natura
sub-umana.
Tornando a Stagecoach e al saggio di Andrea Laquidara, abbiamo Ringo e Dallas,
lui ricercato – prigioniero dello sceriffo che viaggia in cassetta – e lei
prostituta: due figure emblematicamente collocate ai margini del sistema
sociale, che in una delle pause del viaggio vengono a trovarsi all’aperto, in un
esterno notte. Dallas cammina lungo uno steccato di tronchi, in un paesaggio
spettrale “alla Murnau” che però è stemperato dalla colonna sonora delicata e
sentimentale.
> “Lo steccato è il vero protagonista del quadro: il legno robusto e livido
> taglia l’immagine in diagonale e ne attraversa il centro. Dallas, prima in
> ombra, poi investita da una luce dolorosa, si ferma sul bordo destro dello
> schermo. Ringo, una nera silhouette, le si avvicina, ma, senza evidente
> motivo, decide di orientarsi verso la parte ovest dell’inquadratura, e dunque
> restare al di là del recinto di legno cui Dallas sta appoggiata. L’intero
> dialogo si svolgerà con la presenza triste e ingombrante dello steccato che
> separa i due interlocutori”.
Pur divisi, i due sono accomunati dallo stato di marginalità:
> “entrambi sono esclusi da una società ipocrita e formale; entrambi hanno
> vissuto un trauma che li ha privati della famiglia; entrambi sono soli, alla
> ricerca di qualcosa, un ricordo o un’attesa che custodiscono sotto la scorza
> dura che li corazza. L’identificazione, man mano che il dialogo procede, si fa
> più viva ed evidente: le inquadrature si stringono e si intensificano nei bei
> primi piani con cui John Ford rende palese la predilezione e l’affetto che ha
> per simili personaggi. Il gioco di campo e controcampo, che alterna il volto
> fiero e intenerito di Wayne a quello di Claire Trevor, pieno di dolcezza
> dimenticata, grazie all’ambivalenza naturale del montaggio, congiunge e
> contemporaneamente mantiene separati i due amanti virtuali”.
Dal West, Ringo si decide a dirle che al di là della frontiera possiede una casa
dove un uomo e una donna potrebbero vivere felici. Dallas, dall’East, è sorpresa
e intimidita, perché la crudeltà del mondo l’ha disabituata all’idea della
felicità. A questo punto avanza nell’oscurità lo sceriffo, che accarezzando lo
steccato ricorda a Ringo che non può allontanarsi, essendo un ricercato sotto la
sua custodia, mentre sullo sfondo la figura di Dallas si allontana profondamente
turbata. Come un rasoio, la legge della Frontiera è intervenuta a dividere il
corpo unico della felicità. Perché sappiamo come “il lavoro di costruzione
narrativa si esprima proprio nella selezione che distingue il necessario dal
superfluo, l’utile dall’inutile, il civile dal selvaggio, il buono dal cattivo.
È in quella linea di demarcazione che risiede il senso profondo del narrare; ed
è nella capacità di operare col rasoio, distinguendo l’identità dall’alterità,
che affonda le radici il montaggio, e dunque la costruzione di una particolare
visione della realtà”.
Mentre in Boule de suif la visione negativa di Maupassant si estende all’intera
fisionomia della società in viaggio, nella micro-società di Stagecoach il medico
ubriacone, lo sceriffo, Ringo e anche Mrs. Mallory (nella sua solidarietà finale
verso Dallas, che nel pericolo le ha protetto la neonata) rappresentano
l’aspetto migliore della civiltà, quello che giustifica il procedere verso la
via del progresso; l’unica figura negativa resta il banchiere Gatewood,
esponente di un capitalismo cinico, vorace ed esasperato. E la valorizzazione
della prostituta Dallas viene proprio dalla “sterilizzazione” della sua
femminilità e del suo eros, che viene normalizzato e ricondotto nel sistema,
promosso alla funzione procreativa, di costruzione della famiglia e della
società. È la cinepresa di Ford e lo sguardo tenero di Ringo che la sollevano
dalla sua condizione misera, incorniciandola nell’icona familiare della
donna-madre – della Madonna, secondo l’interpretazione di Laquidara – che tiene
in braccio la bambina appena partorita da Mrs. Mallory. Un lavoro strategico che
“risulta efficacissimo, giacché riesce a esorcizzare l’aspetto più spaventevole
della donna, la sua carica erotica e sensuale”. Ma non solo: il viaggio che Mrs.
Mallory e Dallas hanno fatto attraverso l’inferno le ha condotte insieme a una
maturazione, la prima al superamento dei propri atteggiamenti misurati e rigidi
di signora dell’Est, con la presa di coscienza che restituisce dignità alla
reietta, la seconda alla consapevolezza del proprio valore – riconosciuto dalla
comunità che torna ad accettarla – e della reale possibilità di amare ed essere
ricambiata.
Paolo Ferrucci
*In copertina: Adolph F. Muhr, Ritratto di Geronimo, 1898
L'articolo Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford proviene
da Pangea.
Il volgere dell’anno ha portato sui nostri schermi i due più recenti adattamenti
di uno dei maggiori capolavori letterari di tutti i tempi, Il conte di
Montecristo di Alexandre Dumas (1844-1846), quasi a celebrarne simbolicamente i
180 anni dalla pubblicazione. Tra dicembre e febbraio, Rai e Mediaset hanno
infatti proposto rispettivamente la serie-evento coprodotta da Italia e Francia
per la regia del premio Oscar per il miglior film straniero Bille August e la
pellicola francese accolta al Festival di Cannes 2024, dove è stata presentata
fuori concorso, con dodici minuti di applausi e al cinema con un record di
incassi che la proietta sulla vetta dei venti film francesi più visti della
storia.
Due trasposizioni-specchio che riflettono volti molto diversi del Montecristo, e
non solo per le scelte imposte dalla necessità di fare convergere un romanzo
monumentale di 1500 pagine in adattamenti audiovisivi di durate sì differenti
(tre e otto ore), ma egualmente difficili da riplasmare entro i confini di un
tempo che possa ospitare un’opera-mondo come quella di Dumas.
Edmond Dantès, il suo protagonista, è l’emblema di una tragica galleria di
ritratti, un carnevale inesorabile di maschere vuote di storia ma che piangono
le stesse lacrime assetate di giustizia. O di vendetta. Maschere che si
costringe a indossare per compiere la sua missione: l’onnipotente conte di
Montecristo, il leggendario Sinbad il marinaio, il venerabile abate Busoni, lo
sfuggente Lord Wilmore, e ancora l’angelo custode che dispensa ricompense dove
ha raccolto briciole di bontà, l’angelo sterminatore che brandisce la spada di
una provvidenza rimasta in silenzio, l’angelo del male che indica con un dito
sulle labbra la casa dove è passata la collera divina, o la propria; la fata
malefica «dei racconti di Perrault che qualcuno ha dimenticato di invitare a
qualche festa di nozze o di battesimo»[1].
Da qui il fascino senza tempo di un personaggio caleidoscopico, che ha popolato
una lunghissima serie di adattamenti, tutti pervasi dalla voglia di raccontare,
ciascuno a suo modo, la storia del giovane marinaio Edmond, innamorato della
bella catalana Mercédès e del mare. Incastrato dal rivale Danglars, che mal
sopportava la sua nomina a capitano del Pharaon, e da Fernand, che desiderava la
sua promessa, viene ingiustamente accusato di essere un agente bonapartista e
condannato dal corrotto sostituto procuratore Villefort a quattordici anni di
reclusione nel Castello d’If, al largo della sua Marsiglia, dove il mare, da
culla della sua giovinezza, diviene la sua cella. Qui incontra il saggio abate
Faria, che gli dona la sua infinita conoscenza, e con essa la
consapevolezza. Consapevolezza di non essere una vittima del caso, ma di un
tradimento. E non solo: gli instillerà anche la volontà e i mezzi per evadere, e
gli rivelerà il segreto di un tesoro custodito nel ventre della deserta isola di
Montecristo. Una Itaca ricca di tesori nascosti, ma spoglia di affetti, l’isola
di cui Edmond si autoproclamerà conte una volta rivendicati i suoi forzieri, e
da cui salperà dichiarando vendetta a coloro che lo avevano tradito, tessendo
un’immane ragnatela in cui le pedine ignorano il loro burattinaio, ma convergono
inesorabilmente nel centro del suo gioco.
Un’epica storia di vendetta, che giunta all’apice del compimento, posta di
fronte alle conseguenze delle proprie azioni, precipita nel senso di colpa di
chi ha voluto porsi al di sopra degli uomini e di Dio, ponendosi sul trono di
una presunta giustizia umana e divina. E arriva a concedere il perdono e a
desiderarlo per sé, ritenendolo però ormai fatalmente irraggiungibile. Ciò che
resta è il bene disseminato con le ricompense elargite, all’apparenza
infinitesimamente piccole rispetto alle punizioni, ma immensamente grandi per i
depositari di tali doni. Perché solo chi ha provato l’estremo dolore, può
gustare appieno la più grande felicità. Come lo stesso Edmond, che scoprendo di
poter essere ancora amato e di potere amare ancora, grazie a Haydée, vede
riaccendersi in sé la speranza.
*
La serie Rai: una storia di riscatto
Attesissimo il ritorno del Montecristo sui canali Rai. L’ammiraglia aveva
infatti ospitato già nel 1966 il famoso sceneggiato diretto da Edmo Fenoglio,
che vedeva un giovanissimo Andrea Giordana nei panni del conte: allora,
l’accento era posto sulla fedeltà alla lettera, nell’ottica pedagogizzante di un
servizio pubblico che, al pari degli affreschi nelle chiese antiche, traducesse
in immagini una formazione culturale che tanti non avevano avuto il privilegio
di ricevere.
Di tutt’altro stampo la serie-evento presentata alla Festa del Cinema di Roma
2024, prodotta da Palomar (Mediawan) e che accredita alla sceneggiatura anche il
pluripremiato Sandro Petraglia, con un cast che riunisce i beniamini di diverse
generazioni, guidato da Sam Claflin (Hunger Games) nel ruolo del protagonista e
dal Premio Oscar Jeremy Irons (Il mistero Von Bulow) nelle vesti dell’abate
Faria. Tanti i volti del cinema e della televisione italiani, con Lino Guanciale
e Gabriella Pession (La porta rossa), Michele Riondino (Il giovane Montalbano),
e Nicolas Maupas (Mare fuori).
Una serie che non vuole istruire, ma fornire una chiave interpretativa, e
interrogare i propri spettatori su tematiche come la giustizia, il desiderio di
vendetta e la possibilità di riscatto.
A dirigere i lavori il regista danese Bille August, che già si era cimentato con
l’adattamento di un classico della letteratura francese nel 1998, con il film
tratto dal romanzo Les Misérables di Victor Hugo, a cui aveva donato un finale
inaspettatamente positivo omettendo l’ultima parte di racconto, che rischiava di
oscurare con la tragicità degli eventi narrati un messaggio di speranza,
tradendo così la lettera per salvare lo spirito dell’opera. Secondo August,
infatti, per adattare un romanzo «devi trovare una storia nella storia,
altrimenti diventa letteratura illustrata. Per essere fedeli a un romanzo
bisogna essere infedeli».
Le otto puntate di questa serie accolgono un intreccio che può però ben
soddisfare chi negli adattamenti va alla ricerca della fedeltà alla lettera
dell’originale. Allo stesso tempo, non si tratta certo – né sarebbe opportuno
che lo fosse – di una filologica traduzione per immagini del materiale di
partenza: la sceneggiatura si prende qualche licenza, senza tuttavia stravolgere
le svolte principali della trama o le funzioni dei personaggi.
Le trasformazioni che intaccano la sostanza e donano un taglio personale
all’adattamento convergono perlopiù nel finale, luogo e tempo in cui una storia
ci pone di fronte alla resa dei conti. Sfuma il personaggio di Haydée, che nel
romanzo rappresentava il nuovo amore e la nuova vita di Dantès: egli è ormai un
uomo nuovo, nel bene e nel male, andato oltre ogni possibile orizzonte condiviso
con Mercédès.
In questa trasposizione lo ritroviamo invece a Marsiglia, sullo scoglio che
monta la guardia di fronte al Castello d’If, insieme a Mercédès. Sarà lei,
davanti alla sua volontà di partire per un viaggio di sola andata, a ricordargli
che «l’amore può guarire», lasciando aperta una speranza per un amore che
nell’immaginario di Dumas la vita aveva trasformato inesorabilmente.
photo Paolo Modugno
Questa scelta sembra andare oltre la volontà di “sacrificare” un personaggio,
quello di Haydée, in favore di quello del primo grande amore, Mercédès, da cui
tutta la storia ha avuto origine, per abbracciare invece una visione più moderna
della giustizia poetica, che predilige i personaggi “grigi”, ben lontani dagli
archetipi immensamente grandi, nel bene come nel male, della letteratura
ottocentesca.
Mercédès rappresenta la possibilità non solo di ricominciare, ma di ricominciare
da un punto molto vicino a quello di partenza, pericolosamente simile al punto
zero. Nonostante il male che si è fatto. Incontriamo qui un Dantès che non
perdona, e che viene posto (e che si pone) solo di taglio di fronte alle
terribili conseguenze delle proprie azioni. Anche il bene è visto in
trasparenza, quasi non fosse dovuto.
Eppure, non vuole essere un’apologia della vendetta: il Montecristo porta con sé
l’universalità dei classici, il loro essere senza tempo, e insieme di tutti i
tempi. Questa serie getta un velo più moderno su un tema, quello della giustizia
e del riscatto, sempre e tremendamente attuale, mostrandoci un riflesso di
un’epoca, la nostra, smaniosa di rivendicare diritti, spesso a lungo negati, e
meno rigorosa nel richiamare ai doveri.
*
Il film Mediaset: una storia di redenzione
Una trasposizione di orientamento quasi opposto è quella prodotta da Pathé e
Chapter 2 (Mediawan), insieme a Fargo Films e M6 Films, e scritta e diretta da
Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, già sceneggiatori di un dittico
di adattamenti della saga dumasiana de I tre moschettieri (2023).
Nel ruolo di Montecristo, Pierre Niney, vincitore del Premio César nel 2015 per
la sua interpretazione di Yves Saint Laurent nell’omonimo biopic, e, nei panni
dell’abate, il nostro Pierfrancesco Favino.
Ci troviamo questa volta di fronte a un film che, per quanto di una durata non
indifferente, ha chiaramente a disposizione un lasso inferiore di tempo in cui
concentrare una storia lunga e articolata. Da ciò deriva un processo di sintesi
dei personaggi: alcuni scompaiono totalmente, altri si fondono in un unico
personaggio che riunisce in sé le loro funzioni. È questo il caso di Albert, il
figlio di Mercédès e Fernand, e Haydée, attraverso cui si intravede il riflesso
di Maximilien e Valentine, la coppia a cui nel romanzo Dantès salva la vita e
con essa la possibilità di vivere il loro amore.
Ma si va ben oltre la pura necessità “tecnica”. I cambiamenti, anche in questo
caso, e ancor di più vista la loro maggiore rilevanza rispetto alla serie,
impattano sull’interpretazione che il film desidera dare alla storia originale.
L’estetica stessa della pellicola sembra strizzare l’occhio alle atmosfere dei
film delle sorelle Wachowski (si pensi a V per Vendetta o a Matrix), e, di
conseguenza, ai temi di cui si fanno portavoce: giustizia e vendetta, prigionia
e libertà, realtà e apparenza, identità e maschera.
La storia dell’eredità del cardinal Spada nascosta sull’isola di Montecristo si
intreccia qui alla leggenda del tesoro dei templari, i travestimenti di Edmond
non si privano di maschere e protesi degne di Ethan Hunt, e i duelli mancati del
romanzo qui si svolgono senza esclusione di colpi. Haydée e il figlio
illegittimo di Villefort non si limitano qui a essere semplici pedoni in una
partita più grande di loro, ma formano insieme al conte una squadra di
vendicatori, e incarnano rispettivamente la sublimazione e l’apoteosi della
vendetta: da un lato il perdono, dall’altro la legge del taglione.
Sarà proprio l’inutile morte del giovane, ormai consumato dalla sete di rivalsa,
che sconvolgerà i piani e l’animo di Dantès. Un Dantès che salutiamo mentre
salpa verso l’orizzonte, finalmente sereno, ma solo, diversamente da quanto
accade nel romanzo. Il suo testamento è un’ultima lettera scritta a Mercédès: in
essa, affida la felicità conquistata alla seconda generazione, composta da
Albert e Haydée, che vivranno un futuro d’amore che a Dantès e alla bella
catalana, rispettivamente padre adottivo dell’uno e madre dell’altra, erano
stati negati. E così la giustizia veterotestamentaria di cui Montecristo stesso
si era fatto braccio e spada («È scritto nella Bibbia» disse Montecristo. «“Le
colpe dei padri ricadranno sui figli fino alla terza e quarta generazione”, dal
momento che Dio disse queste parole al suo profeta, perché io dovrei essere
migliore di Dio?»[2]) cede il posto al perdono e alla misericordia.
A fronte quindi di una patina marcatamente più moderna della serie firmata
Palomar, da kolossal, ritroviamo un senso della giustizia poetica ancora più
rigoroso rispetto a quello proposto dal romanzo: l’eroe che ha ceduto alle
lusinghe del male non può riconquistare senza abnegazione e spirito di
sacrificio una felicità piena. Eppure, invita Mercédès, e con lei gli
spettatori, come Dumas aveva fatto con i lettori del romanzo, a meditare sul
fatto che tutta la saggezza umana è riposta in queste due parole: aspettare e
sperare.
*
Aspettare e sperare: i Dantès di domani
Siamo stati spettatori di due trasposizioni che hanno preso vie anche
radicalmente diverse, ma che hanno restituito anime altrettanto autentiche del
Montecristo, e tanto è ancora da esplorare.
Perché pochi sono i dilemmi umani più ricorrenti e dilanianti del diritto alla
felicità. È uno degli insegnamenti che Edmond ci lascia alla fine del romanzo, e
che sembra fare eco a un pensiero che lo aveva tormentato alla vigilia del
matrimonio con Mercédès, poco prima del fatidico arresto:
«La felicità è come quei palazzi delle isole incantate le cui porte sono
guardate dai draghi; bisogna combattere per conquistarli»[3].
E forse il vero grande tema, più che la dicotomia tra vendetta e perdono, è
proprio il senso del dolore visto in prospettiva del desiderio di felicità che
pervade l’uomo. Felicità che è insieme un diritto e un dovere, anche e
soprattutto nei confronti degli altri.
Ciascun adattamento ha sottolienato determinati aspetti, ma infinite sono le
possibili interpretazioni di questa tematica universale, come infinite sono le
chiavi di lettura dei classici. Non ci resta che aspettare e sperare, in quelle
che verranno. E lasciarci ricordare da Valentine, come Maximilien quando, alla
fine del romanzo, si chiede se mai rivedranno Montecristo:
> «Amico mio, […] il conte non ci ha forse lasciato scritto che l’umana saggezza
> sta racchiusa in queste due parole: Aspettare e sperare?»[4].
Chiara Bianchi
*In copertina: Victor Hugo, Senza titolo o evocazione di un’isola, 1870
*Il servizio di Chiara Bianchi si pubblica in anteprima, per gentile concessione
della rivista “Studi Cattolici”, edita da Ares
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[1] A. Dumas, Il conte di Montecristo, traduzione di Emilio Franceschini,
Mondadori, Milano 2012, prima edizione Oscar classici, 2 voll., p. 1464.
[2] Ibidem, p. 1214.
[3] Ibidem, p. 48.
[4] Ibidem, p. 1538.
L'articolo Il conte di Montecristo, o del diritto alla felicità proviene da
Pangea.