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Cinema, marxismo e dinamite: Sergio Leone, il regista rivoluzionario
Giù la testa è un film del 1971, il penultimo di Sergio Leone e il più ambiguo di tutta la sua filmografia. È un western atipico, incentrato sulla Rivoluzione Messicana, che ha per protagonisti due personaggi che apparentemente hanno ben poco a che fare con quello specifico contesto rivoluzionario: un bandito maldestro e straccione di nome Juan Miranda, e John H. “Sean” Mallory, un dinamitardo irlandese colto e istruito, con un passato tra le file dell’IRA. È un film sulla rivoluzione, girato in un periodo contraddistinto dal crollo degli ideali rivoluzionari, quindi figlio del proprio tempo. Non è un caso, infatti, che questo film sia stato pensato e girato da un regista italiano che, seppur contraddistinto da un apparente distacco nei confronti della realtà socio-politica in cui viveva, deve avere senz’altro colto l’aria che si respirava in un Paese in cui, il 12 dicembre 1969, i movimenti studenteschi e operai avevano visto drammaticamente crollare le proprie rivendicazioni in seguito agli attacchi terroristici di piazza Fontana.  Con questo film Sergio Leone inserisce un tassello fondamentale nel processo di crescita creativa che ha caratterizzato tutta la sua produzione, realizzando un collegamento tra il Mito (il Far West) e la Storia (la Rivoluzione), e donando al pubblico il suo film più smaccatamente politico. Questo scarto è riscontrabile anche dal punto di vista prettamente tecnico. Pur rimanendo fedele ai suoi famosi primi piani, rispetto ai film precedenti Leone utilizza molti più campi lunghi, dando l’impressione di voler creare un film corale e, dunque, restituire un affresco storico carico di implicazioni sociali e politiche. Da questo punto di vista, l’ultima scena del film è emblematica. Purtroppo, è necessario rivelare il finale per chiarire il concetto, quindi, si suggerisce a chi non ha visto il film e non ha intenzione di rovinarsi la sorpresa di non leggere i paragrafi successivi.  Dopo aver tentato di rapinare la banca di Mesa Verde, e aver sottratto non soldi ma prigionieri politici, Juan e Sean si lasciano coinvolgere più profondamente nella rivoluzione e si ritrovano a combattere contro le truppe del colonnello Günther Reza, un brutale ufficiale governativo. Durante la battaglia finale, Sean viene ferito dal capo delle truppe governative e decide di sacrificarsi per salvare Juan. Nell’ultimo fotogramma prima dei titoli di coda, mentre viene inquadrato mediante un primo piano di grande intensità, la voce fuori campo di Juan pronuncia le parole chiave del film: “e adesso io?” Benché ermetiche, le ultime battute del bandito messicano nascondono la chiave interpretativa di tutto il film. L’epilogo di Sean sembra infatti essere la scintilla che accende la coscienza politica del rozzo brigante messicano interpretato da Rod Steiger. Gli eventi a cui ha preso parte e il rapporto instaurato con l’intellettuale irlandese gli hanno permesso di maturare e di passare dallo stato di bandito individualista e opportunista a quello di rivoluzionario che ha sposato una causa collettiva di alto valore morale. In questo senso, Leone sembra comunicare allo spettatore un messaggio di stampo prettamente marxista: la Rivoluzione è il motore della storia e, con la sua forza trasformativa, può cambiare le società. Tale chiave di lettura è confermata dalla citazione di Mao Tse Tung in apertura del film:   > “la Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un > disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e > delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di > violenza.” Ad avvalorare tale interpretazione, però, è anche il rapporto che si instaura tra i due protagonisti del film. Sean, interpretato da un azzeccatissimo James Coburn, è un rivoluzionario deluso, un intellettuale che ha dedicato la propria vita alla lotta collettiva e che non ne può più di quelli che “leggono i libri [che] vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: qui ci vuole un cambiamento! e la povera gente fa il cambiamento.” Sean ha sperimentato sulla sua pelle la violenza che la rivoluzione inevitabilmente comporta e che investe principalmente i “poveracci”, quelli che, fomentati dagli intellettuali, pagano col sangue la lotta armata. La sua, quindi, è una visione della rivoluzione decisamente pessimista. Così come lo è, evidentemente, quella di Sergio Leone, il quale, probabilmente, dopo aver assistito con grande disillusione alla fine degli ideali che avevano animato i primi settant’anni del Novecento, ha deciso di mettere in scena un dramma crepuscolare carico di riflessioni politiche.  Tuttavia, le dinamiche relazionali che Juan e Sean instaurano, ad un’analisi più approfondita, lasciano trasparire un velato ottimismo da parte del regista: Leone, infatti, sembra dire che gli intellettuali (rappresentati da Sean) possono svolgere un ruolo cruciale nella formazione della coscienza di classe del popolo (rappresentato da Juan), ma per farlo devono mantenere un rapporto diretto con le masse, devono avventurarsi con e in esse, onde evitare di diventare una classe privilegiata distante dalla realtà concreta. Ed è esattamente ciò che fa Sean, immergendosi nel mondo straccione e degradato di Juan Miranda, e accompagnandolo, però, tramite un percorso di emancipazione sia fisico che morale, verso la rivoluzione.  L’epilogo del film sottolinea con grande enfasi questo messaggio: il sacrificio di Sean, per quanto inutile ai fini della battaglia contro le truppe governative, permette a Juan, e di conseguenza al popolo, di prendere coscienza della propria condizione e di sviluppare una coscienza rivoluzionaria. La domanda retorica di Juan con cui il film si chiude ha, quindi, una duplice valenza: da un lato lascia trasparire lo spaesamento del popolo di fronte alla perdita della guida intellettuale, dall’altro, invece, sottintende la volontà di proseguire la lotta con maggiore consapevolezza, seppur con quella paura di affrontare il mondo che tipicamente contraddistingue gli orfani.  In questo senso, il messaggio di Leone sembrerebbe ancora più esplicito: l’emancipazione delle masse può essere possibile solo mediante il sacrificio, in senso sociale, degli intellettuali, e la rivoluzione potrà realizzarsi solo se le classi dominanti saranno disposte a sacrificarsi in nome dell’indottrinamento del popolo. Da questo punto di vista, Giù la testa può essere interpretato come il testamento politico di Leone. Il regista romano sembra dirci che il marxismo ha fallito perché le classi dirigenti, decidendo di non rinunciare ai propri privilegi, non sono state in grado di comprendere la complessità della realtà delle masse. Viene inevitabilmente in mente il pensiero di Antonio Gramsci, il quale aveva individuato negli intellettuali “l’anello mancante del materialismo storico”, perché è la loro attività a determinare i rapporti tra le classi e i gruppi sociali.  Di certo, fa un certo effetto sapere che un messaggio di questo tipo provenga da un regista che ha fatto dell’individualismo il tema centrale della propria produzione cinematografica. I suoi eroi sono fondamentalmente dei solitari, dei pistoleri malinconici che riescono a trovare un rifugio dalla durezza del mondo solamente nell’amicizia virile e nel denaro. E, da questo punto di vista, lo sono anche i due protagonisti di Giù la testa. Ciononostante, con questo film Leone sembra aver voluto lanciare un messaggio a quelli che, secondo lui, sono i veri responsabili del fallimento di ogni sogno rivoluzionario: i membri delle classi dirigenti e, più nello specifico, gli intellettuali. D’altronde, fu lui stesso a dire > “quando ero giovane credevo in tre cose: il Marxismo, il potere redentore del > cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite”.  Un epilogo, questo, che spiega perfettamente la cupezza del suo ultimo capolavoro, C’era una volta in America, in cui, invece, l’unico strumento di emancipazione delle masse sembra essere l’acquisizione, con ogni mezzo possibile, di denaro, anche a costo di sacrificare l’unico rapporto capace di dare senso alle vite dei suoi personaggi, vale a dire l’amore, in senso sia romantico che amicale.  In definitiva, Giù la testa si configura come un’opera complessa e stratificata, ben lontana dalla semplice etichetta di “western atipico” che nel tempo gli è stata affibbiata. Attraverso la lente della Rivoluzione Messicana e la dinamica tra un rozzo bandito e un intellettuale disilluso, Sergio Leone offre una riflessione amara e disincantata sul fallimento degli ideali rivoluzionari, pur lasciando intravedere una flebile speranza nel potenziale trasformativo della coscienza popolare, innescata dal sacrificio delle élite intellettuali. Il film si erge così a testamento politico di un regista che, pur provenendo da un universo cinematografico apparentemente distante da tali tematiche, dimostra una lucida consapevolezza delle dinamiche socio-politiche del proprio tempo, consegnando al pubblico un’opera potente e ancora oggi attuale, capace di stimolare una profonda riflessione sul significato di rivoluzione, sul ruolo degli intellettuali e sul destino delle masse. Un film estremamente attuale che, oggi più che mai, potrebbe essere utile trasmettere nelle sezioni di più partiti.   Alessandro Lugli L'articolo Cinema, marxismo e dinamite: Sergio Leone, il regista rivoluzionario proviene da Pangea.
May 13, 2025 / Pangea
“Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge”. Nella magia di Ingmar Bergman
Cento soldatini potevano certo bastare per un sogno. Cento soldatini di stagno a suo fratello Dag in cambio del proiettore ricevuto a Natale. Un baratto che vale l’essenza di una vita intera.  Dal guardaroba della camera, un giovanissimo, magrolino e inesperto Ingmar Bergman sistema il proiettore su una scatola di zucchero e accende la lampada a petrolio. Orienta la luce verso la parete dipinta di bianco e inserisce la pellicola di un film romantico.  Un aneddoto, insieme alla torcia che illuminava il buio della punizione nello sgabuzzino e la paura del mostro che mangia le dita dei piedini, tatuato nella memoria che Ingmar Bergman registra per sempre, in quello straordinario romanzo autobiografico, concluso a fine settembre 1986, dall’evocativo titolo Lanterna magica (Garzanti, traduzione di Fulvio Ferrari). Un guazzabuglio di incontri e scontri, gozzoviglie, solitudini, sceneggiature e opere per il teatro e la tivù e pellicole, manoscritti tragicamente perduti come la fiaba della stanca torre Eiffel (Joakim Naken), passioni travolgenti e sensuali, drammi e immani sensi di colpa, disastri economici e rovesci familiari, rinascite e ricadute. “Fantasmi, demoni e altri esseri senza nome e senza dimora” sembra che lo abbiano cinto d’assedio sin dalla più tenera età. Secondo figlio di un pastore protestante della corte reale, Bergman esordisce come regista teatrale e proprio il teatro, prima che il cinema, ha caratterizzato la sua esistenza, come si legge in questo romanzo fiume. Al cinema dedica luminose pagine:  > “un’illusione progettata fin nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà > che quanto più vivo tanto più mi appare illusoria”.  Il più grande maestro, secondo il grande Bergman, è Tarkovskij che non spiega mai, ma rappresenta le sue visioni, poi Fellini, Kurosawa e Buñuel e quel mago di Méliès. Le sue parole calano nitide e sognanti sulla pagina:  > “Film come sogno, film come musica. Nessun’altra arte come il cinema va > direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della > nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna”.  Il cinema è rivelazione:  > “Le ombre, mute o parlanti, si rivolgono direttamente alle regioni più segrete > del mio animo. Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante, > scintillante, il fruscìo della croce di Malta, la mano sulla manovella”.  Il cinema è come l’amore, in tutti i sensi.  > “Girare un film è un’operazione intensamente erotica. La vicinanza con gli > attori non conosce riserve, ognuno si affida totalmente all’altro. L’intimità, > l’affetto, la dipendenza, la tenerezza, la fiducia, la disinvoltura davanti al > magico occhio della macchina da presa danno un caldo e forse illusorio senso > di sicurezza”.  In questa autobiografia, Bergman parla senza riserve e senza censure della fisicità, che spesso lo metteva a dura prova e lo divorava, quanto dei malesseri interiori che lo costringevano a un doloroso conflitto interiore. Sensibilissimo al fascino femminile, ogni storia d’amore che iniziava sembra il canovaccio di una nuova opera da trasporre sul palcoscenico. > “L’innamoramento, che ebbe modo e tempo di svilupparsi liberamente, aprì > stanza chiuse, muri crollarono, io respirai. Il tradimento nei confronti di > Ellen e dei bambini era avvolto nella nebbia, sempre presente ma stranamente > stimolante. Per alcuni mesi visse e respirò un’audace messinscena, > incorruttibile, autentica e quindi indispensabile. Si dimostrò spaventosamente > cara quando arrivò il conto”.  Conti e debiti, difficoltà economiche e rovesci di fortuna che non sono mancati lungo il corso di una vita. Ad un certo punto, il regista comprò persino il primo cappello della sua vita per dare l’impressione di una solidità che proprio non possedeva.  Le descrizioni dei teatri sono deliziosamente struggenti e nostalgiche:  > “A teatro c’erano le pulci. La vecchia compagnia era probabilmente immune, la > nuova arrivò con sangue giovane e venimmo crudelmente morsicati. Il tubo di > scarico del ristorante passava per i camerini degli uomini e gocciolava > continuamente urina sul calorifero vicino alla parete”.  Una situazione drammatica che Bergman non esita a definire “il paradiso fatto realtà”. Il maestro a teatro continuamente citato e preso come modello: Strindberg.  La famiglia d’origine, l’infanzia in canonica, un pensiero ricorrente e intrecciato alle pagine della maturità. Una vita, quella dei genitori, vissuta come “su un vassoio”, sempre davanti al pubblico.  > “Papà era un predicatore popolare, la chiesa era sempre piena quando parlava > lui. Era un premuroso pastore d’anime e possedeva un talento inestimabile: la > sua capacità di ricordare le persone era illimitata. Durante tutti quegli anni > aveva battezzato, confermato, unito in matrimonio e sepolto molti dei suoi > quarantamila parrocchiani. Di tutti ricordava il volto, il nome e le > condizioni”.  Del fratello, invece, mette a fuoco l’odio verso il padre e il tentativo di suicidio, un’antipatia reciproca e fraterna che lasciò il posto al vuoto, anche dopo tantissimi anni, quando Dag andò a trovarlo nell’isola rifugio di Fårö con la moglie greca. I genitori, per il fratello, continuavano ad essere  > “mitici, capricciosi, imprevedibili, giganteschi. Cercammo di ripercorrere con > la mente sentieri abbandonati e ci guardammo stupiti l’un l’altro: due vecchi > signori, usciti dallo stesso grembo, separati da una distanza incolmabile”.  Sulla sorella più piccola si accende una timida tenerezza sullo sfondo della pagina. > “I miei ricordi d’infanzia riguardo a Margareta sono pallidi e sfuggenti. > Costruimmo un teatro delle marionette, lei cucì i costumi e io dipinsi le > scene. La mamma era una spettatrice paziente e interessata, e ci regalò anche > un sipario di velluto dai bei ricami”.  Nonostante avventurose e innumerevoli esperienze, quel gettarsi “a capofitto nell’abisso della vita”, lo sguardo del regista svedese ritorna, anche alla fine del suo memoir, all’album delle foto di famiglia, al piccolo cerotto sull’indice, al disegno di una coperta, al profumo d’aringa fritta, al volto di sua madre, che appare e scompare, nella brulicante folla elegante delle foto.  Riprende tra le mani il diario segreto della madre, le pagine che inquadrano il momento della sua nascita, la sua venuta al mondo, correva il luglio 1918.  > “Nostro figlio è nato domenica mattina, quattordici luglio. (…) Sembra un > piccolo scheletro con un nasone rosso fuoco. Rifiuta con ostinazione di aprire > gli occhi. Dopo qualche giorno mi è venuto a mancare il latte per via della > malattia. Allora è stato battezzato in tutta fretta in ospedale. Si chiama > Ernst Ingmar”.  Questa ostinazione a non aprire gli occhi sembra intrecciata al sogno di rimanere a vivere nelle segrete stanza dell’infanzia perduta, tra i morti che sono “costretti a tormentare i vivi”.  > “In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti > nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti > alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la > velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio > una piccola visita alla realtà”.  In breve, anche nella sua Lanterna magica, Bergman riesce a mettersi a nudo: “illusionista e reo confesso di questa illusione – secondo la netta definizione di Olivier Assayas e Stig Björkman in Conversazione con Ingmar Bergman(Lindau) – vulnerabile e inaccessibile, umano e insondabile”.  L’invito da cogliere è, quindi, quello di ascoltare la voce incoerente e illogica delle emozioni:  > “Ma voi vi renderete certamente conto che quando si è artisti, quando si > creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. > Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Dal punto di > vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è proibito non esserlo. Ma se > si ha fiducia nelle proprie emozioni, allora si può essere del tutto > incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze > delle emozioni che hai suscitato. Per sempre”. Linda Terziroli L'articolo “Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge”. Nella magia di Ingmar Bergman proviene da Pangea.
April 30, 2025 / Pangea
“Dove sei più felice”. James Dean, il fanciullo dell’Indiana
Nella storia del cinema il 1955 fu l’anno di James Dean. Prima di scomparire alla velocità di una meteora, il giovane ribelle statunitense lasciò dietro la sua scia tre film indimenticabili, la promessa della fama mondiale e il sogno di diventare regista.  Eletto a idolo romantico della gioventù degli anni Cinquanta, Dean diede corpo e voce a personaggi fuori da ogni schema. Per Elia Kazan aveva vestito i panni del rancoroso ma dolce eroe steinbeckiano di East of Eden (La Valle dell’Eden), nel superbo Rebel Without A Cause (Gioventù bruciata) di Nicholas Ray si era trasformato nell’intrepido Jim Stark, chiudendo con aplomb nella parte dell’orgoglioso Jett Rink in Giant (Il Gigante postumo), a coronare la triade per cui è ricordato come il “ragazzo d’oro” del cinema americano. Nello stesso anno, la promessa di Broadway – il debutto in See the Jaguar è del ’52 – fuggiva dalle luci del successo e da lunghe notti insonni, trascinate sui marciapiedi di New York, per tornare alle sue radici, a Fairmount. Qui poté finalmente respirare, ancora per qualche tempo, l’aria di casa. Non appena giunto nella cittadina sonnolenta dell’Indiana s’immerse a capofitto nel torpore della vita rurale, confondendosi fra i contadini e i manovali del paese. James ‘Byron’ Dean in compagnia del suo border collie Tuck a Fairmount, Indiana, 1955. Nato nella vicina Marion, il piccolo Jimmy era cresciuto nella fattoria di proprietà dello zio Mark Winslow, il quale tornava prodigamente ad ospitarlo. Accolto a braccia aperte da tutti i suoi cari, riunì attorno a sé i membri di almeno tre generazioni. L’avrebbe seguito ovunque, dal selciato bagnato di Times Square  ai suoi frugali ambienti domestici, l’obiettivo di Dennis Stock (lo stesso che ispirerà le pose di Kate Moss e Liz Tyler dopo di lui). Deciso a tracciarne le orme, per immortalarlo sotto un aspetto più intimo, il cronista mondano gli avrebbe dedicato una celebre serie di ritratti destinata alle prestigiose testate di Life. Come riporta l’editor Eliza Berman, l’incontro tra il fotografo e la futura star ebbe un effetto folgorante: > “Mentre Stock ascoltava Dean parlare con nostalgia della sua educazione a > Fairmount, nell’Indiana, pensò bene di cogliere il ritratto di un giovane uomo > sospeso tra due mondi: quello della fattoria di famiglia, dove i suoi zii lo > avevano allevato dopo la morte della madre, e quello di Hollywood in cui > sarebbe stato presto accolto”. A metterne in luce i turbolenti rapporti si aggiunge in tempi recenti il tributo offerto da Anton Corbijn ai due artisti, interpretati dai brillanti Robert Pattinson e Dane DeHann, nel film Life (2015). Nel febbraio 1955, alla domanda “Dove scattiamo le foto?” Stock aveva proposto “dove sei più felice”. Da quel momento, l’appeal del saltimbanco nottambulo e del selvaggio contadino andava fissato in una delle maggiori icone di bellezza maschile del secolo.  Unico nel suo genere, il volume che raccoglie le fotografie di Stock – ironiche, stravaganti e familiari –, uscito in Italia come James Dean. Per sempre giovane (Contrasto, 2005), include anche una nota biografica sull’amico modello, seguendone passo dopo passo il profilo anticonformista. > “Jimmy non teneva minimamente al proprio aspetto: due volte su tre si vestiva > in modo più che trasandato, che si trattasse di una riunione formale o > informale”. Aggirato il volto da leggenda, questi scatti delicati e spontanei lanciano uno sguardo lucido sul ragazzo più autentico, legato alla sua terra e teneramente devoto alla famiglia. In quei giorni, la vita dai Winslow procedeva al suo ritmo regolare, essenziale e aromatica, proprio come l’aveva lasciata prima di ascendere alla luce di Santa Monica o ai ritmi sfrenati della vita newyorkese. Le ore più calde trascorrevano in un’atmosfera rustica e serena, imbevuta di reminiscenze d’infanzia di stampo quacchero e circondato dai suoi affetti.  Steso a pancia in giù sul tappetto del salotto e preso dall’entusiasmo nei giochi del cuginetto Markie, che aveva visto crescere, Jim si sentiva racchiuso nel grembo di un’alcova, un rifugio sicuro dove poter essere l’eterno fanciullo dei suoi sogni. Adesso, più di tutto, il caos della metropoli era svanito lontano come un’isola del Pacifico, scacciato dal suono del bongo che portava sempre con sé. Per sempre giovane. Dean gioca insieme al cugino Marcus Winslow Jr. Durante il breve soggiorno, l’orgoglio d’Indianapolis ebbe anche il tempo di visitare le aule della vecchia high school, venendo travolto da un’ondata di nostalgia per gli anni dell’adolescenza consumati da vero campione tra eccezionali partite di basket e prime produzioni teatrali. Più tardi, la sua insegnante di recitazione e prima fan Adeline Nall avrebbe ricordato in toni sinceri e commossi lo studente di genio che lasciò il segno sul palco scolastico: > “Jimmy Dean amava sentire il suolo dell’Indiana sotto ai suoi piedi, e credo > che traesse da lì gran parte della sua energia.” Un famoso scatto di Stock, poi rimasto iconico, lo vede davanti a tutta la famiglia raccolta attorno alla tavola imbandita per il pranzo della domenica. A un tratto, il nuovo arrivato prese a recitare un noto componimento del sommo poeta locale James Whitcomb Riley: il preferito della madre che scelse di chiamarlo James Byron in onore alle proprie passioni letterarie.  Con timbro enfatico e strampalato, la personalissima lettura di Home-Going (1910), attestava il ritorno a casa attraverso la via diretta della poesia:  > “Oh! Siamo così bisognosi di casa > La risata del mondo è come un gemito > Nei nostri orecchi stanchi, e pure i suoi canti son vani, > Dobbiamo tornare a casa – dobbiamo tornare di nuovo a casa! > Dobbiamo tornare a casa:  > > […] Là dove tutto riposa: > Il tocco di tenere mani su fronte e capelli – > Stanze buie, in cui più dolce è la luce del sole – > L’amore perduto di madre e figlio…”  James Dean declama i versi di James Whitcomb Riley, il poeta dell’Indiana. Per una singolare nemesi, il giovane eroe del cinema avrebbe fatto nuovamente ritorno in Indiana, ma stipato dentro un feretro più scomodo di quello in cui si era adagiato, solo sette mesi prima, durante una buffa visita alle vicine imprese funebri. La lente incredula dell’amico lo catturava allora, nel presagio d’un eccesso burlesco, con l’espressione da bambino ferito stampata per sempre sul volto.   Ma come ha scritto Oriana Fallaci, agli occhi del pubblico e dell’industria cinematografica, James Dean non poteva rassomigliare in toto a un ingenuo contadino del suo Stato natale, tanto sfaccettato era il talento che gli spianava la strada per il mito. Da fervido seguace di Brando, si sarebbe avvicinato di ruolo in ruolo ai divi moderni come ai vecchi idoli europei: > “Era la Sagan tradotta in americano, l’adolescente pazzo per noia romantica, > più vicino all’europeissimo Truman Capote e a Oscar Wilde che ai personaggi > contadineschi di Peyton Place o ai giovani pazzi ma paesani che si riscontrano > nei romanzi americani”. Fissato nell’icona di Hollywood e del viveur di Manhattan, il nuovo “bello e dannato” sfrecciava verso le stelle di una carriera tutta in ascesa.  A stroncare tragicamente la parabola della sua breve esistenza, sancendone la consacrazione all’Olimpo californiano, una corsa maledetta sull’asfalto della U.S. Route 466, sul sedile della temibile “piccola bastarda”, la sua Porsche 550 Spyder. In un amplesso di euforia e bagliori di gloria, rapido come aveva vissuto, se ne andava in un lampo, direzione Salinas. Pierluigi Piscopo L'articolo “Dove sei più felice”. 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April 28, 2025 / Pangea
Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford
> “In quella regione non ancora riconosciuta come Stato dell’Unione, era uno > degli anni in cui i segnali di fumo apache si alzavano dalle cime delle > montagne rocciose, e più di un ranch era ridotto ormai a un quadrato di cenere > annerita che si stendeva sul terreno. La partenza della diligenza da Tonto > segnava l’inizio di un’avventura dall’incerto lieto fine…” > > (incipit di La diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox, Sellerio editore, > 1992) Cronista giudiziario di Portland, Oregon, Ernest Haycox (1899-1950) è stato autore di una ventina di romanzi e qualche centinaio di racconti di ambientazione western, storie cominciate ad apparire nei pulp magazines americani negli anni Venti, in cui si celebrano i grandi temi della Frontiera, dalla vastità delle praterie al mistero minaccioso dell’altro, dall’asprezza del deserto al silenzio che pervade anche l’animo dei personaggi, solidamente sagomati su stereotipi ben collaudati. Le sue strutture narrative essenziali, rese con una lingua asciutta e meccanismi elementari che sfruttano topoi e figure retoriche ricorrenti, si rendevano buoni canovacci adatti a ulteriori sviluppi, alcuni dei quali sono stati trasposti al cinema hollywoodiano. Fra i suoi estimatori c’erano Gertrude Stein e Ernest Hemingway, il quale – secondo la vulgata – ebbe a scrivere “I read The Saturday Evening Post whenever it has a serial by Ernest Haycox”.  Il racconto Stagecoach to Lordsburg, uscito sul Collier’s Magazine di Springfield, Ohio, nel 1937, è il più famoso perché vanta un’ascendenza e una discendenza illustri. Il suo “prima” è la celebre novella di Guy de Maupassant Boule de suif, mentre il suo “dopo” viene dal cineasta John Ford e dal suo sceneggiatore Dudley Nichols, che lo giudicò un’ottima trama: «Cercammo subito di tirarne fuori un film creando i personaggi, visto che quelli che offriva non erano che abbozzi. Quindi li mettemmo da parte cercandone dei nuovi che ci apparissero più interessanti». Fu così che Stagecoach to Lordsburg divenne il celeberrimo film Stagecoach – reso in italiano come Ombre rosse –, che nel 1939 (anno dell’epocale Via col vento) segnò il punto cardine della filmografia western, definito come il momento in cui il genere “diventa maggiorenne” e s’impone come “il cinema americano per eccellenza”. In Boule de suif di Maupassant una prostituta francese estroversa e grassottella, passeggera della carrozza in fuga da Rouen durante la guerra franco-prussiana del 1870, è decisa a rifiutare per senso patriottico le avances di un ufficiale prussiano che ha fermato la comitiva, ma alla fine si vede costretta a cedergli per le pressioni dei suoi compagni di viaggio, persone per bene e rispettabili – commercianti, nobili, due suore, un pericoloso democratico – che non vogliono ritrovarsi bloccate dalla sfrontata prepotenza dell’ufficiale e dalla caparbietà della ragazza. L’esito lo conosciamo, con la cinica ipocrisia della buona società francese che apre e chiude la partita nel modo più classico. In Stagecoach to Lordsburg, rifacendosi a quel racconto, Haycox prende il riscontro storico della fuga nel 1885 del capo apache Geronimo dalla riserva di San Carlos in cui era stato confinato, nell’ultimo sanguinoso tentativo di ribellione attraverso scorrerie e devastazioni degli insediamenti dei Bianchi. Come per Boule de suif, i passeggeri della diligenza per Lordsburg compongono un microcosmo sociale, e qui sono proiettati verso una Frontiera in progressivo e inarrestabile movimento verso ovest: sono quelli che colonizzeranno le terre sottratte agli indiani, quelli che vivono di espedienti professionali, e anche gli emarginati come la prostituta Henriette, schiva e gentile, e il bel pistolero “smilzo e biondo” Malpais Bill, diretto verso la sua vendetta contro chi gli ha ucciso il padre e il fratello. Come osserva Attilio Brilli nell’introduzione, i personaggi hanno un carattere bozzettistico efficace, con un gusto fra l’arcaico e l’ingenuo che risponde alla mitologia popolare in cui si muovono; ognuno porta i segni del suo status sociale, dai dettagli del vestire ai tratti somatici rappresentativi, fino ai gesti e agli atteggiamenti che tradiscono i loro umori e le loro storie. Malpais Bill – che nel film di John Ford diventa Ringo interpretato da John Wayne – ha “negli angoli degli occhi e nella lunga piega della bocca” il segno di una natura selvaggia, quella del mezzosangue inevitabilmente reietto. Nel racconto abbiamo una ragazza – Miss Robertson – che va a sposarsi con un ufficiale di fanteria, un piazzista di whisky di Kansas City, un inglese alto e ossuto con un enorme fucile da caccia, un elegante giocatore d’azzardo, un robusto mercante di bestiame con una grossa pepita d’oro appesa alla catena dell’orologio, lo smilzo Malpais Bill con le pistole che gli pendono ai fianchi e la prostituta Henriette – queste ultime le due figure centrali. Con questo materiale, John Ford e Dudley Nichols plasmarono e “riformarono” la tipologia dei personaggi di Haycox per caricarla dei significati simbolici più adatti alla narrativa hollywoodiana. La evanescente “ragazza dell’ufficiale” si trasforma nella volitiva Lucy Mallory, moglie incinta di un ufficiale dell’esercito che vuole raggiungere il marito; l’inglese col fucile e il mercante di bestiame vengono rimpiazzati da un banchiere avido che è fuggito con la cassa e dal medico ubriacone Doc Boone, figura divenuta classica nella mitologia cinematografica western; Malpais Bill diventa Ringo Kind, che è ricercato e per questo scortato nella diligenza dalla nuova figura dello sceriffo, e Henriette diventa Dallas Douglas, la reietta che viene fatta salire sulla carrozza da un drappello di signore arcigne e avvizzite della Lega per la moralità. Nel film lo sgangherato Doc Boone, costretto a fuggire da un luogo all’altro, è il contrappeso speculare del giocatore d’azzardo Hartfield, virginiano dai modi fini e l’aspetto nobile, entrambi figure che si redimono nel corso del viaggio. L’opposizione più netta nel microcosmo della diligenza è fra la donna pubblica Henriette/Dallas e Miss Mallory, ovvero la prostituta e la rispettabile dama che deve raggiungere il marito, e si esplica in un percorso di sguardi, di espressioni e di inquadrature soggettive – è la donna civilizzata a osservare la prostituta, avvertendo una curiosità partecipativa – che nel film prepara la riconciliazione solidale che avverrà in uno degli eventi centrali, la nascita della bambina nella stazione  lungo il deserto. Qui abbiamo lo svelamento dei ruoli e la redenzione dei reietti, uno dei grandi marchi del cinema “etico” di John Ford.  Uno sguardo analitico e complessivo sul suo cinema lo troviamo nel bel saggio di Andrea Laquidara John Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di Dioniso (Mimesis, 2019), che passa in esame la filmografia fordiana concentrandosi sulle pietre miliari della sua sterminata produzione e traendone quelle implicazioni storico-filosofiche che ci riportano anche all’America di oggi. Vediamo innanzitutto che tutti i film di John Martin Feeney, figlio di un irlandese giunto in America nel 1872, sono girati – anche quelli non squisitamente western – sulla Frontiera, cioè sul limite, sulla soglia, quella linea che difende la civiltà dalla wilderness: un cinema che rappresenta nel modo più compiuto il mito di fondazione degli Stati Uniti d’America. Prendiamo le sequenze che aprono Stagecoach: in una piccola cittadina dell’Arizona giunge la notizia che gli Apache sono sul piede di guerra. Dopo qualche inquadratura in esterni, che riprende due figure a cavallo che corrono negli spazi del deserto, finiamo all’interno di una caserma, dove una delle due figure spiega a un ufficiale seduto alla scrivania che gli Apache infestano le colline circostanti. L’ufficiale chiede al telegrafista di predisporre la linea di comunicazione con Lordsburg, più a ovest nel New Mexico, ma proprio da quella città sta arrivando un messaggio urgente. L’inquadratura si stringe, l’attesa si fa preoccupata, ma la comunicazione non arriva: «The line went dead, sir» dice il telegrafista, la linea è interrotta. Da Lordsburg arriva solo la prima ferale parola: “Geronimo”. Come osserva Laquidara: > “Tutti i presenti restano in un lugubre silenzio, e la frattura che Geronimo > ha provocato nella linea del telegrafo è riempita solo dalla colonna sonora, > improvvisa, grave, piena di semitoni e sinistre dissonanze: un chiaro invito > lanciato allo spettatore di preoccuparsi seriamente. (…) La linea di > comunicazione si è improvvisamente trasformata in un binario morto. Si è > fratturata. L’unione si è fatta divisione. E in questa frattura si è inserito > il nome di Geronimo, il selvaggio, l’irrazionale, accompagnato da un accordo > musicale disarmonico. Ecco dunque cosa determina il carattere tragico, > agonistico del percorso della storia, la possibile frattura del binario > provocata dall’imboscata tesa dal selvaggio. La dinamica e ottimistica > mobilità del progresso muta improvvisamente in stasi. Nel Caos della stasi”. A metà della storia la diligenza attraversa il tratto in cui Geronimo avrebbe tagliato il filo del telegrafo, nel territorio denso di ostili premonizioni rappresentato dalla Monument Valley, divenuta il più mitico dei paesaggi americani: qui è evidente che il gruppo racchiuso nella carrozza – la piccola comunità – è esposto al passaggio nel mondo spaventevole dell’irrazionale. E l’irrazionale arriva: > “Tutta la celebre sequenza della fuga della diligenza, inseguita dagli Apache, > e della battaglia realizzata in frenetica corsa, è tra le più studiate nei > corsi di Storia del cinema. Una delle ragioni sta nel fatto che John Ford > compone insieme magistralmente un materiale molto eterogeneo. Nella pazza > corsa di carrozza e uomini a cavallo si susseguono: velocissimi carrelli > girati in esterni; inquadrature più ravvicinate dei passeggeri che si > difendono (girate evidentemente in studio); riprese dall’alto che mostrano la > diligenza fendere un territorio bianco come un lago asciutto, inseguite dalle > ombre minacciose dei selvaggi; citazioni da Griffith (raccordi in asse e sullo > sguardo); citazioni dal cinema sovietico (la spettacolarità di angolazioni > inusuali, con prospettiva dal basso); passaggi di azione pura che si alternano > a primi piani fortemente espressivi, che definiscono la psicologia dei > passeggeri”. L’attacco degli Apache dura ben sei minuti, con una dinamica forsennata in cui non v’è un minimo cedimento o dispersione della tensione narrativa, fino al momento in cui gli squilli di tromba annunciano il soccorso salvifico del battaglione di cavalleria al galoppo e lo scioglimento del dramma. I selvaggi sono rappresentati come figure omogenee, anonime, accomunate dall’impersonare il pericolo, il caos e la violenza, sia quando sono invisibili sia quando irrompono sulla scena come incubi. E in effetti gli Apache Chiricahua, a cui apparteneva Geronimo, rientravano nel gruppo di popoli aggressivi e di mentalità guerriera per i quali le scorrerie erano l’impresa tribale più importante e legittima, e la guerra di vendetta era l’inevitabile conseguenza della dinamica delle scorrerie. I giovani maschi venivano allevati per essere corridori forti, rapidi e rapaci, per diventare ladri di bestiame e razziatori di carovane, abili nel nascondersi e nello schivare, e implacabili odiatori dei vicini di altre tribù. È lo stesso Geronimo a narrare il mito chiricahua della creazione, in cui uno dei due eroi tradizionali è chiamato “uccisore di nemici”. Poiché vivono razziando, devono affinare le arti dell’inseguimento, dell’imboscata, della morte, in quanto la morte dei nemici è la loro vita. Per la mente indiana l’attaccamento al paese nativo era una necessità vitale, e non potere farvi ritorno equivaleva alla separazione dalla sorgente di vita della terra. Gli Apache Chiricahua fondevano questo attaccamento alla propria terra con la pratica tradizionale della guerra di razzia, e ciò rese possibile a Geronimo di evitare la resa definitiva per più di un decennio, periodo fatto di menzogne e promesse non mantenute da entrambe parti in conflitto. Per i Bianchi Geronimo era il peggiore fra tutti, perché era il migliore sotto l’aspetto della civiltà chiricahua: il più diffidente, intransigente, selvaggio, crudele.Quando lo stile di vita dei Chiricahua fu minacciato come mai prima, egli divenne una sorta di capo supremo, e nulla lo convinceva che il suo predecessore Cochise avesse fatto bene a portare le sue bande nella riserva loro assegnata. I Chiricahua non erano mai stati agricoltori, perché si spostavano di continuo, ed era impensabile che si convertissero in contadini all’interno di una riserva; senza contare che non avrebbero più avuto la libertà di picchiare la moglie per le sue malefatte e nemmeno di tagliarle la punta del naso quando la scoprivano infedele, oltre a non potersi più fare il tiswin, la birra tradizionale a base di granturco. In breve, sarebbero dovuti somigliare agli uomini bianchi che erano devoti alla terra solo nella misura in cui potevano impossessarsene per sfruttarla a scapito di tutto il resto, mentre per i Bianchi il fatto che gli Apache non riuscissero a concepire la nozione della mobilità verso l’alto mediante l’accumulo di ricchezze era la dimostrazione della loro natura sub-umana. Tornando a Stagecoach e al saggio di Andrea Laquidara, abbiamo Ringo e Dallas, lui ricercato – prigioniero dello sceriffo che viaggia in cassetta – e lei prostituta: due figure emblematicamente collocate ai margini del sistema sociale, che in una delle pause del viaggio vengono a trovarsi all’aperto, in un esterno notte. Dallas cammina lungo uno steccato di tronchi, in un paesaggio spettrale “alla Murnau” che però è stemperato dalla colonna sonora delicata e sentimentale. > “Lo steccato è il vero protagonista del quadro: il legno robusto e livido > taglia l’immagine in diagonale e ne attraversa il centro. Dallas, prima in > ombra, poi investita da una luce dolorosa, si ferma sul bordo destro dello > schermo. Ringo, una nera silhouette, le si avvicina, ma, senza evidente > motivo, decide di orientarsi verso la parte ovest dell’inquadratura, e dunque > restare al di là del recinto di legno cui Dallas sta appoggiata. L’intero > dialogo si svolgerà con la presenza triste e ingombrante dello steccato che > separa i due interlocutori”. Pur divisi, i due sono accomunati dallo stato di marginalità:  > “entrambi sono esclusi da una società ipocrita e formale; entrambi hanno > vissuto un trauma che li ha privati della famiglia; entrambi sono soli, alla > ricerca di qualcosa, un ricordo o un’attesa che custodiscono sotto la scorza > dura che li corazza. L’identificazione, man mano che il dialogo procede, si fa > più viva ed evidente: le inquadrature si stringono e si intensificano nei bei > primi piani con cui John Ford rende palese la predilezione e l’affetto che ha > per simili personaggi. Il gioco di campo e controcampo, che alterna il volto > fiero e intenerito di Wayne a quello di Claire Trevor, pieno di dolcezza > dimenticata, grazie all’ambivalenza naturale del montaggio, congiunge e > contemporaneamente mantiene separati i due amanti virtuali”. Dal West, Ringo si decide a dirle che al di là della frontiera possiede una casa dove un uomo e una donna potrebbero vivere felici. Dallas, dall’East, è sorpresa e intimidita, perché la crudeltà del mondo l’ha disabituata all’idea della felicità. A questo punto avanza nell’oscurità lo sceriffo, che accarezzando lo steccato ricorda a Ringo che non può allontanarsi, essendo un ricercato sotto la sua custodia, mentre sullo sfondo la figura di Dallas si allontana profondamente turbata. Come un rasoio, la legge della Frontiera è intervenuta a dividere il corpo unico della felicità. Perché sappiamo come “il lavoro di costruzione narrativa si esprima proprio nella selezione che distingue il necessario dal superfluo, l’utile dall’inutile, il civile dal selvaggio, il buono dal cattivo. È in quella linea di demarcazione che risiede il senso profondo del narrare; ed è nella capacità di operare col rasoio, distinguendo l’identità dall’alterità, che affonda le radici il montaggio, e dunque la costruzione di una particolare visione della realtà”. Mentre in Boule de suif la visione negativa di Maupassant si estende all’intera fisionomia della società in viaggio, nella micro-società di Stagecoach il medico ubriacone, lo sceriffo, Ringo e anche Mrs. Mallory (nella sua solidarietà finale verso Dallas, che nel pericolo le ha protetto la neonata) rappresentano l’aspetto migliore della civiltà, quello che giustifica il procedere verso la via del progresso; l’unica figura negativa resta il banchiere Gatewood, esponente di un capitalismo cinico, vorace ed esasperato. E la valorizzazione della prostituta Dallas viene proprio dalla “sterilizzazione” della sua femminilità e del suo eros, che viene normalizzato e ricondotto nel sistema, promosso alla funzione procreativa, di costruzione della famiglia e della società. È la cinepresa di Ford e lo sguardo tenero di Ringo che la sollevano dalla sua condizione misera, incorniciandola nell’icona familiare della donna-madre – della Madonna, secondo l’interpretazione di Laquidara – che tiene in braccio la bambina appena partorita da Mrs. Mallory. Un lavoro strategico che “risulta efficacissimo, giacché riesce a esorcizzare l’aspetto più spaventevole della donna, la sua carica erotica e sensuale”. Ma non solo: il viaggio che Mrs. Mallory e Dallas hanno fatto attraverso l’inferno le ha condotte insieme a una maturazione, la prima al superamento dei propri atteggiamenti misurati e rigidi di signora dell’Est, con la presa di coscienza che restituisce dignità alla reietta, la seconda alla consapevolezza del proprio valore – riconosciuto dalla comunità che torna ad accettarla – e della reale possibilità di amare ed essere ricambiata. Paolo Ferrucci *In copertina: Adolph F. Muhr, Ritratto di Geronimo, 1898 L'articolo Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford proviene da Pangea.
March 25, 2025 / Pangea
Il conte di Montecristo, o del diritto alla felicità
Il volgere dell’anno ha portato sui nostri schermi i due più recenti adattamenti di uno dei maggiori capolavori letterari di tutti i tempi, Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas (1844-1846), quasi a celebrarne simbolicamente i 180 anni dalla pubblicazione. Tra dicembre e febbraio, Rai e Mediaset hanno infatti proposto rispettivamente la serie-evento coprodotta da Italia e Francia per la regia del premio Oscar per il miglior film straniero Bille August e la pellicola francese accolta al Festival di Cannes 2024, dove è stata presentata fuori concorso, con dodici minuti di applausi e al cinema con un record di incassi che la proietta sulla vetta dei venti film francesi più visti della storia. Due trasposizioni-specchio che riflettono volti molto diversi del Montecristo, e non solo per le scelte imposte dalla necessità di fare convergere un romanzo monumentale di 1500 pagine in adattamenti audiovisivi di durate sì differenti (tre e otto ore), ma egualmente difficili da riplasmare entro i confini di un tempo che possa ospitare un’opera-mondo come quella di Dumas. Edmond Dantès, il suo protagonista, è l’emblema di una tragica galleria di ritratti, un carnevale inesorabile di maschere vuote di storia ma che piangono le stesse lacrime assetate di giustizia. O di vendetta. Maschere che si costringe a indossare per compiere la sua missione: l’onnipotente conte di Montecristo, il leggendario Sinbad il marinaio, il venerabile abate Busoni, lo sfuggente Lord Wilmore, e ancora l’angelo custode che dispensa ricompense dove ha raccolto briciole di bontà, l’angelo sterminatore che brandisce la spada di una provvidenza rimasta in silenzio, l’angelo del male che indica con un dito sulle labbra la casa dove è passata la collera divina, o la propria; la fata malefica «dei racconti di Perrault che qualcuno ha dimenticato di invitare a qualche festa di nozze o di battesimo»[1]. Da qui il fascino senza tempo di un personaggio caleidoscopico, che ha popolato una lunghissima serie di adattamenti, tutti pervasi dalla voglia di raccontare, ciascuno a suo modo, la storia del giovane marinaio Edmond, innamorato della bella catalana Mercédès e del mare. Incastrato dal rivale Danglars, che mal sopportava la sua nomina a capitano del Pharaon, e da Fernand, che desiderava la sua promessa, viene ingiustamente accusato di essere un agente bonapartista e condannato dal corrotto sostituto procuratore Villefort a quattordici anni di reclusione nel Castello d’If, al largo della sua Marsiglia, dove il mare, da culla della sua giovinezza, diviene la sua cella. Qui incontra il saggio abate Faria, che gli dona la sua infinita conoscenza, e con essa la consapevolezza. Consapevolezza di non essere una vittima del caso, ma di un tradimento. E non solo: gli instillerà anche la volontà e i mezzi per evadere, e gli rivelerà il segreto di un tesoro custodito nel ventre della deserta isola di Montecristo. Una Itaca ricca di tesori nascosti, ma spoglia di affetti, l’isola di cui Edmond si autoproclamerà conte una volta rivendicati i suoi forzieri, e da cui salperà dichiarando vendetta a coloro che lo avevano tradito, tessendo un’immane ragnatela in cui le pedine ignorano il loro burattinaio, ma convergono inesorabilmente nel centro del suo gioco. Un’epica storia di vendetta, che giunta all’apice del compimento, posta di fronte alle conseguenze delle proprie azioni, precipita nel senso di colpa di chi ha voluto porsi al di sopra degli uomini e di Dio, ponendosi sul trono di una presunta giustizia umana e divina. E arriva a concedere il perdono e a desiderarlo per sé, ritenendolo però ormai fatalmente irraggiungibile. Ciò che resta è il bene disseminato con le ricompense elargite, all’apparenza infinitesimamente piccole rispetto alle punizioni, ma immensamente grandi per i depositari di tali doni. Perché solo chi ha provato l’estremo dolore, può gustare appieno la più grande felicità. Come lo stesso Edmond, che scoprendo di poter essere ancora amato e di potere amare ancora, grazie a Haydée, vede riaccendersi in sé la speranza.  * La serie Rai: una storia di riscatto Attesissimo il ritorno del Montecristo sui canali Rai. L’ammiraglia aveva infatti ospitato già nel 1966 il famoso sceneggiato diretto da Edmo Fenoglio, che vedeva un giovanissimo Andrea Giordana nei panni del conte: allora, l’accento era posto sulla fedeltà alla lettera, nell’ottica pedagogizzante di un servizio pubblico che, al pari degli affreschi nelle chiese antiche, traducesse in immagini una formazione culturale che tanti non avevano avuto il privilegio di ricevere. Di tutt’altro stampo la serie-evento presentata alla Festa del Cinema di Roma 2024, prodotta da Palomar (Mediawan) e che accredita alla sceneggiatura anche il pluripremiato Sandro Petraglia, con un cast che riunisce i beniamini di diverse generazioni, guidato da Sam Claflin (Hunger Games) nel ruolo del protagonista e dal Premio Oscar Jeremy Irons (Il mistero Von Bulow) nelle vesti dell’abate Faria. Tanti i volti del cinema e della televisione italiani, con Lino Guanciale e Gabriella Pession (La porta rossa), Michele Riondino (Il giovane Montalbano), e Nicolas Maupas (Mare fuori). Una serie che non vuole istruire, ma fornire una chiave interpretativa, e interrogare i propri spettatori su tematiche come la giustizia, il desiderio di vendetta e la possibilità di riscatto. A dirigere i lavori il regista danese Bille August, che già si era cimentato con l’adattamento di un classico della letteratura francese nel 1998, con il film tratto dal romanzo Les Misérables di Victor Hugo, a cui aveva donato un finale inaspettatamente positivo omettendo l’ultima parte di racconto, che rischiava di oscurare con la tragicità degli eventi narrati un messaggio di speranza, tradendo così la lettera per salvare lo spirito dell’opera. Secondo August, infatti, per adattare un romanzo «devi trovare una storia nella storia, altrimenti diventa letteratura illustrata. Per essere fedeli a un romanzo bisogna essere infedeli». Le otto puntate di questa serie accolgono un intreccio che può però ben soddisfare chi negli adattamenti va alla ricerca della fedeltà alla lettera dell’originale. Allo stesso tempo, non si tratta certo – né sarebbe opportuno che lo fosse – di una filologica traduzione per immagini del materiale di partenza: la sceneggiatura si prende qualche licenza, senza tuttavia stravolgere le svolte principali della trama o le funzioni dei personaggi.  Le trasformazioni che intaccano la sostanza e donano un taglio personale all’adattamento convergono perlopiù nel finale, luogo e tempo in cui una storia ci pone di fronte alla resa dei conti. Sfuma il personaggio di Haydée, che nel romanzo rappresentava il nuovo amore e la nuova vita di Dantès: egli è ormai un uomo nuovo, nel bene e nel male, andato oltre ogni possibile orizzonte condiviso con Mercédès. In questa trasposizione lo ritroviamo invece a Marsiglia, sullo scoglio che monta la guardia di fronte al Castello d’If, insieme a Mercédès. Sarà lei, davanti alla sua volontà di partire per un viaggio di sola andata, a ricordargli che «l’amore può guarire», lasciando aperta una speranza per un amore che nell’immaginario di Dumas la vita aveva trasformato inesorabilmente. photo Paolo Modugno Questa scelta sembra andare oltre la volontà di “sacrificare” un personaggio, quello di Haydée, in favore di quello del primo grande amore, Mercédès, da cui tutta la storia ha avuto origine, per abbracciare invece una visione più moderna della giustizia poetica, che predilige i personaggi “grigi”, ben lontani dagli archetipi immensamente grandi, nel bene come nel male, della letteratura ottocentesca.  Mercédès rappresenta la possibilità non solo di ricominciare, ma di ricominciare da un punto molto vicino a quello di partenza, pericolosamente simile al punto zero. Nonostante il male che si è fatto. Incontriamo qui un Dantès che non perdona, e che viene posto (e che si pone) solo di taglio di fronte alle terribili conseguenze delle proprie azioni. Anche il bene è visto in trasparenza, quasi non fosse dovuto. Eppure, non vuole essere un’apologia della vendetta: il Montecristo porta con sé l’universalità dei classici, il loro essere senza tempo, e insieme di tutti i tempi. Questa serie getta un velo più moderno su un tema, quello della giustizia e del riscatto, sempre e tremendamente attuale, mostrandoci un riflesso di un’epoca, la nostra, smaniosa di rivendicare diritti, spesso a lungo negati, e meno rigorosa nel richiamare ai doveri. * Il film Mediaset: una storia di redenzione Una trasposizione di orientamento quasi opposto è quella prodotta da Pathé e Chapter 2 (Mediawan), insieme a Fargo Films e M6 Films, e scritta e diretta da Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, già sceneggiatori di un dittico di adattamenti della saga dumasiana de I tre moschettieri (2023). Nel ruolo di Montecristo, Pierre Niney, vincitore del Premio César nel 2015 per la sua interpretazione di Yves Saint Laurent nell’omonimo biopic, e, nei panni dell’abate, il nostro Pierfrancesco Favino. Ci troviamo questa volta di fronte a un film che, per quanto di una durata non indifferente, ha chiaramente a disposizione un lasso inferiore di tempo in cui concentrare una storia lunga e articolata. Da ciò deriva un processo di sintesi dei personaggi: alcuni scompaiono totalmente, altri si fondono in un unico personaggio che riunisce in sé le loro funzioni. È questo il caso di Albert, il figlio di Mercédès e Fernand, e Haydée, attraverso cui si intravede il riflesso di Maximilien e Valentine, la coppia a cui nel romanzo Dantès salva la vita e con essa la possibilità di vivere il loro amore. Ma si va ben oltre la pura necessità “tecnica”. I cambiamenti, anche in questo caso, e ancor di più vista la loro maggiore rilevanza rispetto alla serie, impattano sull’interpretazione che il film desidera dare alla storia originale. L’estetica stessa della pellicola sembra strizzare l’occhio alle atmosfere dei film delle sorelle Wachowski (si pensi a V per Vendetta o a Matrix), e, di conseguenza, ai temi di cui si fanno portavoce: giustizia e vendetta, prigionia e libertà, realtà e apparenza, identità e maschera. La storia dell’eredità del cardinal Spada nascosta sull’isola di Montecristo si intreccia qui alla leggenda del tesoro dei templari, i travestimenti di Edmond non si privano di maschere e protesi degne di Ethan Hunt, e i duelli mancati del romanzo qui si svolgono senza esclusione di colpi. Haydée e il figlio illegittimo di Villefort non si limitano qui a essere semplici pedoni in una partita più grande di loro, ma formano insieme al conte una squadra di vendicatori, e incarnano rispettivamente la sublimazione e l’apoteosi della vendetta: da un lato il perdono, dall’altro la legge del taglione. Sarà proprio l’inutile morte del giovane, ormai consumato dalla sete di rivalsa, che sconvolgerà i piani e l’animo di Dantès. Un Dantès che salutiamo mentre salpa verso l’orizzonte, finalmente sereno, ma solo, diversamente da quanto accade nel romanzo. Il suo testamento è un’ultima lettera scritta a Mercédès: in essa, affida la felicità conquistata alla seconda generazione, composta da Albert e Haydée, che vivranno un futuro d’amore che a Dantès e alla bella catalana, rispettivamente padre adottivo dell’uno e madre dell’altra, erano stati negati. E così la giustizia veterotestamentaria di cui Montecristo stesso si era fatto braccio e spada («È scritto nella Bibbia» disse Montecristo. «“Le colpe dei padri ricadranno sui figli fino alla terza e quarta generazione”, dal momento che Dio disse queste parole al suo profeta, perché io dovrei essere migliore di Dio?»[2]) cede il posto al perdono e alla misericordia. A fronte quindi di una patina marcatamente più moderna della serie firmata Palomar, da kolossal, ritroviamo un senso della giustizia poetica ancora più rigoroso rispetto a quello proposto dal romanzo: l’eroe che ha ceduto alle lusinghe del male non può riconquistare senza abnegazione e spirito di sacrificio una felicità piena. Eppure, invita Mercédès, e con lei gli spettatori, come Dumas aveva fatto con i lettori del romanzo, a meditare sul fatto che tutta la saggezza umana è riposta in queste due parole: aspettare e sperare. * Aspettare e sperare: i Dantès di domani Siamo stati spettatori di due trasposizioni che hanno preso vie anche radicalmente diverse, ma che hanno restituito anime altrettanto autentiche del Montecristo, e tanto è ancora da esplorare. Perché pochi sono i dilemmi umani più ricorrenti e dilanianti del diritto alla felicità. È uno degli insegnamenti che Edmond ci lascia alla fine del romanzo, e che sembra fare eco a un pensiero che lo aveva tormentato alla vigilia del matrimonio con Mercédès, poco prima del fatidico arresto:  «La felicità è come quei palazzi delle isole incantate le cui porte sono guardate dai draghi; bisogna combattere per conquistarli»[3]. E forse il vero grande tema, più che la dicotomia tra vendetta e perdono, è proprio il senso del dolore visto in prospettiva del desiderio di felicità che pervade l’uomo. Felicità che è insieme un diritto e un dovere, anche e soprattutto nei confronti degli altri. Ciascun adattamento ha sottolienato determinati aspetti, ma infinite sono le possibili interpretazioni di questa tematica universale, come infinite sono le chiavi di lettura dei classici. Non ci resta che aspettare e sperare, in quelle che verranno. E lasciarci ricordare da Valentine, come Maximilien quando, alla fine del romanzo, si chiede se mai rivedranno Montecristo:  > «Amico mio, […] il conte non ci ha forse lasciato scritto che l’umana saggezza > sta racchiusa in queste due parole: Aspettare e sperare?»[4]. Chiara Bianchi *In copertina: Victor Hugo, Senza titolo o evocazione di un’isola, 1870 *Il servizio di Chiara Bianchi si pubblica in anteprima, per gentile concessione della rivista “Studi Cattolici”, edita da Ares  -------------------------------------------------------------------------------- [1] A. Dumas, Il conte di Montecristo, traduzione di Emilio Franceschini, Mondadori, Milano 2012, prima edizione Oscar classici, 2 voll., p. 1464. [2] Ibidem, p. 1214. [3] Ibidem, p. 48. [4] Ibidem, p. 1538. L'articolo Il conte di Montecristo, o del diritto alla felicità proviene da Pangea.
March 19, 2025 / Pangea