Tag - Cinema

“Manifest Destiny”: il progresso come missione, o del carisma degli Stati Uniti. Dialogo con Andrea Laquidara
> “Nel quadro, una figura femminile, bianca e luminosa, procede da est a ovest, > tenendo tra le mani un libro e i fili del telegrafo (…); alle sue spalle, e > nella stessa direzione, procedono i vagoni di un treno, mentre alla sua > sinistra, più in primo piano nel dipinto, uomini armati di aratro camminano > con calma su una strada dritta. I tre personaggi, la donna, il treno e i > farmers, avanzano lungo tracciati paralleli e ordinati. La parte sinistra del > quadro, quella a ovest, è invece occupata da figure disposte in modo > decisamente più irregolare: si tratta di nativi e animali che fuggono > incivilmente, spinti fuori campo dall’incedere rassicurante del progresso”.  > > (Andrea Laquidara, John Ford e il cinema americano, Mimesis 2019, pp.29-30) Nel dipinto del 1872 American Progress di John Gast, artista statunitense dalle venature naïf nato a Berlino, specializzato in litografie, la donna splendente con la stella sulla fronte che procede levitando verso Ovest (a cui si ispira il personaggio della DC Comics Wonder Woman) incarna la famosa dottrina ottocentesca del Manifest Destiny: il progresso inarrestabile visto come una missione divina, affidata agli Stati Uniti, i quali avevano il dovere di espandersi sul continente per portare la luce della civiltà verso la natura oscura e selvaggia – e ostile – da colonizzare. Una civiltà che ha costruito la sua identità in modo cruento, nell’inevitabile confronto/conflitto con il selvaggio, che andava allontanato, piegato, addomesticato, e nelle fasi estreme di guerra andava sterminato, proprio in nome del Destino Manifesto. Il termine, coniato dal giornalista-editore John L. O’Sullivan, divenne popolare nel 1845 nella disputa territoriale per l’Oregon e nell’annessione del Texas: una rivendicazione per «il diritto del nostro destino manifesto di diffonderci per l’intero continente, che la Provvidenza ci ha dato per lo sviluppo di un grande esperimento di libertà e di autogoverno federato». Termine che venne usato per la prima volta in un discorso al Congresso da Robert Winthrop nel 1846: «I mean that new revelation of right which has been designated as the right of our manifest destiny to spread over this whole continent. (…) The right of our manifest destiny! There is a right for a new chapter in the law of nations; or rather, in the special laws of our own country; for I suppose the right of a manifest destiny to spread will not be admitted to exist in any nation except the universal Yankee nation!». Per riprendere questo tema vogliamo tornare al saggio di Andrea Laquidara John Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di Dioniso (Mimesis 2019), di cui già abbiamo parlato a proposito della Diligenza per Lordsburg, trasposta al cinema con il celeberrimo Stagecoach, ovvero Ombre rosse. Abbiamo visto che John Ford ha segnato la storia del cinema per aver costantemente tematizzato il confronto con il selvaggio, proprio attingendo alla tradizione dell’immaginario statunitense ottocentesco. E il suo primo film di grande successo, quello che gli diede notorietà e peso, risale al 1924, in pieno cinema muto: The Iron Horse, una grande epopea che racconta la costruzione della prima linea ferroviaria transcontinentale americana negli anni successivi alla Guerra Civile. La pellicola venne girata in gran parte negli altopiani desertici vicino a Reno, Nevada, e impiegò centinaia di comparse, che comprendevano operai cinesi, irlandesi e indiani Paiute. Il racconto prende episodi fondamentali della storia americana: la Guerra Civile, la presidenza di Lincoln, l’espansione verso Ovest e gli scontri con gli indiani, e mostra come la costruzione della ferrovia transcontinentale si sposava indefettibilmente con l’ideologia del Manifest Destiny, sostenuta come necessaria e inevitabile. Il progetto della ferrovia transcontinentale venne elaborato per la prima volta nel 1845, ma il Congresso non riuscì a dargli una fisionomia definitiva a causa dei contrasti sul percorso da scegliere. In seguito, la secessione degli stati del Sud e la guerra conseguente favorirono la scelta, appoggiata dai nordisti, di un percorso che tagliasse le regioni centrali degli Stati Uniti, e nel 1862 il Congresso approvò il Pacific Railway Act, che autorizzava la compagnia Union Pacific Railroad a costruire in direzione ovest a partire da Omaha, mentre la Central Pacific Railroad of California ottenne il permesso di costruire la linea in direzione est, partendo da Sacramento. Era un’impresa di enorme difficoltà, trattandosi di regioni isolate e quasi disabitate: tutto quanto, le traversine, il pietrisco, i binari di ferro, il materiale rotabile, i macchinari dovevano essere trasportati sui luoghi del cantiere da molto lontano, insieme alle provviste e ai rifornimenti per migliaia di operai – in buona parte immigrati e veterani dell’esercito dell’Unione smobilitati – che, spesso, erano costretti a lasciare i picconi e a imbracciare i fucili per respingere gli immancabili attacchi degli indiani. In John Ford e il cinema americano, Andrea Laquidara si spinge ancora più indietro rispetto al periodo canonico anni ’30 – anni ’60, considerato il più significativo nella maggioranza delle monografie sul regista, per analizzare proprio The Iron Horse del 1924, Il cavallo d’acciaio, la maestosa ricostruzione dell’impresa ferroviaria ottocentesca. Abbiamo il topografo David Brandon Sr che porta con sé il figlio David Jr in un viaggio esplorativo, nel sogno di realizzare un giorno la grande ferrovia transcontinentale; ma i due vengono assaliti da una banda di Cheyenne, il cui capo – un bianco travestito da selvaggio – uccide il padre lasciando il figlio solo e abbandonato a sé stesso. Anni dopo, l’imprenditore Marsh, padre di Miriam, la ragazzina che il piccolo David Brandon aveva dovuto lasciare per seguire il padre, presiede la Union Pacific, incaricata di costruire il tratto fra il Nebraska e lo Utah; Miriam è fidanzata con Jesson, ingegnere al servizio del padre. Il ricco possidente Deroux, il villain della storia, fa di tutto per impedire che la ferrovia segua un percorso lineare, cercando di convincere l’imprenditore Marsh a farla deviare nelle sue terre. Ma il provvidenziale rientro in scena di David Brandon, ora impiegato come pony express, manda all’aria il suo intento: il giovane suggerisce a Marsh una scorciatoia, lo shorter pass che aveva individuato col padre in quel tragico viaggio. Va da sé che il malvagio Deroux cerchi di eliminare David, con la complicità dell’ingegnere Jesson, geloso per l’amore che sta rifiorendo fra i ritrovati David e Miriam, ma l’intento non riesce: “dunque a Deroux non rimane che scatenare un gruppo di agguerriti Cheyenne: questi aggrediscono i lavoratori, li accerchiano, e rischiano di interrompere definitivamente il progredire della ‘civiltà’, se non fosse che l’intera cittadina di Cheyenne City, costituita da immigrati irlandesi, cinesi, italiani (un po’ riluttanti questi ultimi), si anima e corre in aiuto degli operai”.  Ora fermiamo il riassunto, lasciando il finale a chi voglia guardare la pellicola, e partendo da qui dialoghiamo con l’autore, studioso, regista e insegnante di Cinema all’Università di Urbino, per ragionare su alcuni aspetti – anche sorprendenti – di questo film. Dopo alcune scaramucce con gli indiani, risolte dalla determinazione degli operai che si difendono a fucilate, il grande assalto alla ferrovia da parte dei Cheyenne arriva dopo circa due ore: Ford filma l’aggressione, che si sviluppa “at the end of the track”, con i lavoratori guidati da David Brandon che “imbracciano le armi e si rifugiano sotto i vagoni, tra i binari, immediatamente trasformati in trincea”. È interessante vedere la coreografia dell’assedio dei Cheyenne: la provenienza da sinistra, ovvero da Ovest – che ricorda gli avispici eseguiti dagli àuguri nella nostra antichità – e il senso antiorario della corsa: tutti elementi carichi di significato. Nel cinema – nel buon cinema – vi è sempre una compresenza di esplicito e implicito, di non detto e dichiarato: significati, valori, visioni del mondo arrivano allo sguardo dello spettatore tramite elementi evidenti del contenuto, ma soprattutto grazie a scelte stilistiche insieme sottili e clamorose. Nella scena della battaglia di The Iron Horse vi sono dettagli di regia densissimi di richiami alla filosofia che pervade l’immaginario statunitense dai tempi della Rivoluzione americana – probabilmente anche da prima. I Cheyenne attaccano dalla sinistra dello schermo, dal West, da una terra non ancora civilized, muovendosi in direzione opposta al simbolo più esemplare della marcia del progresso, la ferrovia. Il percorso dei nativi (i “selvaggi”) confluisce in un cerchio, e Ford ce lo mostra con chiarezza in una serie di campi lunghissimi alternati con perizia a piani più stretti: il cerchio (antiorario, perdipiù) contraddice la linea, la stasi selvaggia si oppone al progresso razionale. Progresso borghese, potremmo aggiungere. C’è poi un aspetto di grande rilevanza legato al taglio delle inquadrature e al meccanismo di identificazione che esso determina nello spettatore. Per tutta la sequenza della battaglia, i primi piani o le mezze figure sono riservati esclusivamente ai lavoratori vittime dell’attacco, mentre i Cheyenne sono inquadrati sempre con totali, pienamente assorbiti nella grigia e ostile wilderness. Il pubblico è dunque indotto a empatizzare con le vittime, mentre i nativi assumono il solo ruolo di mere e anonime minacce – inseriti nel paesaggio, come le rocce e gli animali, ci dice Sandro Bernardi in una riflessione interessantissima sul cinema di Ford. Si tratta di un espediente retorico largamente presente nel cinema hollywoodiano, anche in tempi più recenti. Mi viene in mente American Sniper, di Clint Eastwood, un western “mediorientale”: la scena iniziale (il cecchino Chris ha appena ucciso una donna intenta a lanciare una bomba contro un carro armato statunitense; un bambino la raccoglie e prosegue la corsa verso l’obiettivo; Chris prende la mira, ma esita per qualche istante) viene lasciata in sospeso per consentire agli spettatori un approfondimento del contesto e dei personaggi. Per quasi mezz’ora, un flashback ci accompagna nella memoria del cecchino, alla ricerca di risposte ai nostri interrogativi: perché è qui con un fucile in mano? Perché punta un bambino? Che educazione ha avuto? Cos’è accaduto agli Stati Uniti negli ultimi trent’anni? A ben vedere, tuttavia, si tratta di un trucco, anche piuttosto scorretto: per quale motivo Eastwood non dedica altrettanto tempo ai due aggressori? Perché non approfondisce anche la loro storia? Come mai sono lì con una bomba in mano? Che educazione hanno avuto? In che condizioni si trova il Medio Oriente da almeno cinquant’anni? No, mamma e figlio sono solo due pericolosi terroristi anonimi, e dunque il duplice omicidio messo in atto da Chris (uno dei tanti difensori della civiltà hollywoodiana) è presentato sì come terribile, ma necessario. Il fatto che il cerchio contraddica la linea diritta del progresso ci rimanda al simbolo del tempo per gli indiani d’America: per loro il tempo diurno, il tempo notturno e le fasi della luna sarebbero posti sopra il mondo, e il tempo dell’anno sarebbe un cerchio intorno al bordo del mondo. E questa circolarità, come lei osserva, si imparenta con l’Ewige Wiederkunft del Gleichen, l’eterno ritorno dell’uguale teorizzato da Friedrich Nietzsche. Il discorso sul tempo, sulla filosofia del tempo che fonda le nostre identità, è trattato spesso con frettolosità, o addirittura trascurato, mentre si tratta di un tema urgente, che richiederebbe una riflessione molto ampia. A proposito della teoria dell’Eterno ritorno di Nietzsche, credo si tratti di un’intuizione sfuggente ed enigmatica, a volte fraintesa. Ho sentito opinioni (di semplici amatori e di addetti ai lavori) che interpretano il ritorno nietzschiano come ripetitività routinaria, da cui il filosofo ci inviterebbe a liberarci, come un fiume smuove e ripulisce l’acqua torbida di uno stagno. In realtà la circolarità del tempo di cui parla Nietzsche è tanto insopportabile quanto gioiosa: è una potente affermazione della vita che divincola dalla perenne attesa di un mondo altro. “Quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più nient’altro!”, ci dice il demone ne La gaia scienza. Se osserviamo con attenzione, dobbiamo constatare che la configurazione del tempo lineare, inteso come una freccia tesa verso altrove, getta l’uomo in una condizione di attesa speranzosa e pessimistica, che svaluta la vita presente, la vita terrena tangibile. Una simile configurazione si colloca a fondamento tanto della metafisica cristiana, quanto della società capitalista contemporanea, che comanda il sacrificio del presente, in vista del conseguimento futuro di un guadagno infinito. Un fantasma di guadagno, in realtà, ma efficacissimo come punto di fuga per l’esistenza umana. Nel puritanesimo in cui affonda le radici la cultura statunitense sono presenti entrambe le istanze, quella cristiana e quella capitalista. È chiaro che, osservato dalla locomotiva che galoppa lineare sui binari d’acciaio del progresso, il tempo ciclico dei nativi – proprio di tante altre culture, antiche e contemporanee – non è altro che una torbida fase di ristagno, l’avaria del motore, l’interruzione della linea: “The line went dead”, afferma un soldato in Stagecoach, comunicando al comandante che il selvaggio Geronimo ha tagliato la linea del telegrafo. Vediamo come si arriva a quella specie di suprematismo che informava la dottrina ottocentesca del Destino Manifesto, il motore dell’intera macchina colonizzatrice dell’Uomo Bianco. Si parte da J. Hector St. John de Crèvecœur con il suo Letters from an American Farmer del 1782, dove si definisce una distinzione netta fra le due sponde dell’Atlantico: la vecchia Europa come terreno ormai sterile e il suolo americano che può offrire una rigenerazione e dar vita a una nuova umanità. Poi abbiamo Thomas Hart “Old Bullion” Benton, primo senatore del Missouri che a partire dal 1820 teorizza l’espansione verso il Pacifico come simbolo della libertà e della grandezza dell’America. Ora, dopo duecento anni, sembra che questa dottrina stia trovando echi inquietanti anche nell’America di oggi, in questa pirotecnica seconda presidenza di Donald Trump con il suo Make America Great Again, con le dichiarate velleità espansionistiche – ai limiti del grottesco – verso il confinante Canada e verso la Groenlandia, definite “necessarie” per lo sviluppo americano e il progresso verso la felicità, e le improvvise azioni guerresche che incendiano definitivamente il Medio Oriente. Siamo di nuovo di fronte a un “tempo che ritorna”? Non si tratta del ritorno nietzschiano come affermazione coraggiosa della vita, tutt’altro: le narrazioni statunitensi sono piuttosto pervase di paura dell’Altro, una forza centripeta che genera inevitabilmente chiusura e conflitto. A proposito di questa immaginifica rigenerazione che avrebbe prodotto l’uomo nuovo, l’americano, oltre ai personaggi già citati, de Crèvecœur, Benton, vale la pena ricordare Frederick Turner e la sua interpretazione della frontiera americana, proposta sul finire dell’Ottocento. Lo storico distingue le frontiere europee (plurali), che separano una cultura da un’altra cultura, dalla frontiera americana (singolare), che distingue cultura da wilderness. Questo confronto arcaico, originario col grado zero della civiltà avrebbe rigenerato lo svigorito uomo europeo, dando vita all’americano, l’uomo nuovo di frontiera, in grado di riaffermare le leggi eterne che Dio ha dato alla Natura. Sembra la storia di Superman… Noi sappiamo che si tratta di una gran bella menzogna: l’Europa non era popolata da fiacchi individui occhialuti, malati di civiltà, e di là dal recinto americano non c’era affatto una terra caotica in cui portare la razionalità divina, ma una miriade di culture antiche e complesse che popolavano un paesaggio ricco e vario. Tuttavia questa narrazione è stata efficacissima per giustificare la chiusura verso le proprie origini e lo sterminio attuato ai danni dei nativi. Il metodo è stato mantenuto nei decenni successivi, sempre più evoluto, divincolato dalla dimensione esclusivamente territoriale: si legga al riguardo il bel saggio di Ilaria Moschini Il grande cerchio. Theodore Roosevelt, già nel 1904, investe gli Stati Uniti del ruolo di polizia internazionale, chiamata a intervenire “elsewhere”, ovunque l’ordine e la stabilità sia messa in pericolo; noi tutti ricordiamo l’“esportazione della democrazia” proposta generosamente al mondo da George W. Bush, a inizio millennio, giustificata dall’attentato alle Twin Towers. Per arrivare ai giorni nostri, ritengo che i capricci e le pagliacciate di Trump siano l’ultimo aggiornamento di queste narrazioni: armi di distrazione di massa che, al pari delle storie e dei miti westerndi cento anni fa, servono a occultare un piano ben ordinato, razionale, lineare di assimilazione, di appiattimento, di omologazione dell’altro ai propri fantasmi ideali. Un’identità fragile difficilmente si apre all’alterità. Chissà se alla Casa Bianca stanno già lavorando a un video che prefiguri le meraviglie dell’Iran futuro… Tornando a The Iron Horse, lei ha fatto riferimento alla frammentazione etnica del corpo lavoratori, che con scavi e martellate posavano binari e traversine con grande lena – anche in una specie di “gara” fra le due compagnie per riuscire a completare il proprio tratto per prima. Nel film questa molteplicità culturale, di indole e di espressioni verbali si vede anche nei pannelli delle didascalie, dove a volte i dialoghi degli operai sono espressi in un americano allegramente deformato, forse dalla spensieratezza lessicale degli sradicati.  Sì, in The Iron Horse è presentato quest’aspetto costitutivo della società statunitense, punto d’incontro di traiettorie provenienti da origini molteplici. Anche in questo fenomeno troviamo una interessante ambivalenza, una compresenza di apertura e chiusura. Per lungo tempo si è parlato degli Stati Uniti come di un Melting Pot, un calderone che raccoglie ingredienti di provenienza varia e li compone insieme, formando una nuova, laboriosa società cosmopolita. Il termine è ripreso dall’opera teatrale omonima di Israel Zangwill, che nel 1908 immaginava l’America come il crogiuolo di Dio, in cui si entra italiani, cinesi, tedeschi, irlandesi, e miracolosamente si esce americani. Vi è naturalmente il rischio concreto di vivere un processo di omologazione, di assimilazione. Nel film di Ford, la battaglia difensiva contro i nativi è in qualche modo il calderone che impasta e compatta i lavoratori immigrati, trasformandoli in orgogliosi statunitensi. Mi viene in mente Jacques Feyder, grande regista francese, precursore del Realismo poetico, e la gustosa descrizione che egli ci offre della sua esperienza hollywoodiana, avuta negli anni Venti e Trenta. La riassumo in poche righe. Stanchi dei loro prodotti piuttosto ripetitivi, gli americani decidono di dare nuova linfa alla propria estetica chiamando qualche regista europeo alla propria corte. E così Feyder approda a Hollywood, ci racconta i numerosi incontri con i produttori, il confronto sul soggetto giusto, la sceneggiatura appropriata, i compromessi, le incomprensioni, le strette di mano; e ancora l’inizio della lavorazione, straordinariamente efficace e lineare: tutto funziona alla perfezione, “tutto viaggia sul velluto”. Finché il film è concluso, e ci si incontra per l’anteprima. È lì che il regista, seguendo sullo schermo il fluire di un film che viaggia senza alcun intoppo, deve confessare a se stesso: “E’ venuto molto bene, ma non è il mio film”. Non sono io. E a conclusione della proiezione, sui volti di tutti i membri della produzione, legge lo stesso pensiero: “Ma perché abbiamo chiamato dall’Europa uno che ha girato un film che qualsiasi nostro regista avrebbe potuto dirigere?”. I pochi cineasti che, chiamati a lavorare negli Stati Uniti, sono riusciti in qualche modo a conservare la propria identità professionale – Stroheim, Renoir, Antonioni – sono stati fortemente osteggiati da Hollywood. Anche in questo caso, il cinema è metafora di una dinamica sociale fortemente radicata nella cultura occidentale.  John Ford si è grandemente impegnato a inquadrare il Caos, ovvero la wilderness, in diverse prospettive e da diverse angolazioni, dedicandosi all’epopea del West quasi come un adepto alla sua religione. E lo ha fatto da uomo del suo tempo e della sua cultura, in un orizzonte – come lei dice – denso di richiami agli ideali illuministi, alla concezione borghese del viaggio, alla tecnologia come strumento di dominio. In cosa credeva e come si gratificava John Ford nello sviluppo della sua carriera, e in cosa smise di credere verso la conclusione della sua parabola artistica? John Ford era considerato il più affidabile dei registi hollywoodiani. E questa affidabilità io ritengo sia dovuta anche al suo modo di inquadrare la wilderness, allo sguardo che gettava – o credeva di gettare – al di là della frontiera, in linea con lo sguardo di Hollywood. Prendendo a prestito il lessico lacaniano, si può dire che sin dalle sue origini, il cinema americano abbia collocato un’immagine della wilderness davanti alla wilderness stessa, per rimuovere l’angoscia che essa può provocare, per evitare di esserne bewildered, disorientato. Ho già citato Jean Renoir, grande regista francese, coevo di Ford. Non è un caso che, nel suo periodo americano (gli anni Quaranta), fu fortemente osteggiato dai produttori hollywoodiani proprio perché adoperava la macchina da presa come strumento di apertura, di esplorazione, come espressione di curiosità verso un territorio sconosciuto e inquieto. La visione fordiana della wilderness, proprio per il suo carattere di chiusura, era destinata a un’inesorabile decomposizione, destrutturata dall’interno dall’autoreferenzialità che la fonda. Il che, lo ribadisco, la rende rappresentativa dell’intera cultura occidentale dominante. Lindsay Anderson, nel suo volume sul cineasta americano, registra negli ultimi anni della vita e della filmografia di Ford un progressivo incupimento, un nichilismo ruvido che impregna alcune delle ultime pellicole fordiane. Ce ne sono due, a mio parere, significative, entrambe dirette negli anni ’60, quando il mondo e il cinema erano ormai mutati e reclamavano un cambiamento di prospettiva dai cineasti. La prima è Cheyenne Autumn: dopo decenni di demonizzazione degli “indiani”, il regista western per eccellenza sembra fare ammenda e riconoscere valore alla cultura dei nativi. Viene tuttavia mantenuta l’antipatica abitudine hollywoodiana di far interpretare Comanche, Cheyenne, Sioux da attori che di nativo non hanno nulla: messicani, italiani, spagnoli, etc, solo perché rispondono al cliché del volto esotico. In più, leggendo le interviste rilasciate in quegli anni dal regista, può lasciare perplessi il carattere assimilazionista nascosto in alcune affermazioni: “Ho un enorme affetto per gli Indiani. È un popolo molto morale […] hanno una letteratura […] amano i bambini e gli animali”. Il valore dell’altro cresce proporzionalmente alla somiglianza con l’identico. L’altra pellicola è The Man Who Shot Liberty Valance. In questo film si avverte la necessità di Ford di prestare orecchio alle istanze del nascente cinema moderno, e, nello specifico, la forte influenza di quel capolavoro che è Rashomon di Kurosawa. Ricorderete che nel film del regista giapponese, con una serie di flashback, si cerca di definire cosa sia davvero accaduto nelle ore precedenti al processo, e chi sia l’assassino dell’uomo ritrovato per caso da un contadino di passaggio. Ciascuna delle testimonianze offre una prospettiva diversa e ridisegna i personaggi, le azioni, le relazioni. Anche Ford costruisce una narrazione prevalentemente orientata al passato, inquadrando un evento cruciale accaduto decenni prima, sulla frontiera, l’uccisione del bandito Liberty Valance, e, attraverso una duplicazione del flashback, si chiede chi lo abbia ucciso davvero: il senatore Ransom (James Stewart), come la storia ufficiale racconta, o il rude Tom (John Wayne)? Se però a conclusione di Rashomon dobbiamo constatare che il regista ha inquadrato da tante angolazioni un’oggettività sfuggente, invitandoci ad accettare l’assenza di una verità unica, Ford adopera una tecnica simile ma con uno scopo diverso: svelare la menzogna ufficiale e affermare la verità nascosta. È Tom – un americano vero, direbbe Turner – che ha liberato la città dal bestiale Valance, è a lui che si deve la fondazione della civiltà, anche se la storia lo ha voluto dimenticare. C’è una fatica, una resistenza caparbia a rinunciare alla prospettiva certa, al pensiero unico, alla Verità, una pericolosa fede nel proprio punto di vista che non limita solo l’estetica cinematografica, ma la visione stessa della realtà, fuori dalla finestra.  Paolo Ferrucci *In copertina: John Gast, American Progress, 1872, rappresentazione allegorica del “Destino manifesto” degli Stati Uniti L'articolo “Manifest Destiny”: il progresso come missione, o del carisma degli Stati Uniti. Dialogo con Andrea Laquidara proviene da Pangea.
July 4, 2025 / Pangea
James Salter o della scrittura come cocktail Martini
Forse, fra i lettori, proprio coloro che provano una certa inquietudine al pensiero di ritrovarsi su un aereo e dover volare, spesso loro malgrado, finiscono per apprezzare maggiormente i racconti e i romanzi dedicati a questo strano desiderio umano di “staccare l’ombra da terra”. Siamo, o siamo stati, tutti lettori appassionati di Saint-Exupéry nonché, in tempi più recenti, di quel notevolissimo e sfortunato scrittore – sfortunato come uomo, ma fortunato e talentuosissimo come scrittore – che è stato Daniele Del Giudice.  Il mondo degli aerei e dei piloti torna prepotentemente in primo piano nell’opera di un altro grande scrittore del Novecento, lo statunitense James Salter, ancora troppo poco conosciuto da noi, benché Guanda ne abbia pubblicato quasi tutta l’opera. Di Salter ricorre ora un doppio anniversario: cent’anni dalla nascita, avvenuta il 10 giugno 1925 e dieci dalla morte, il 19 giugno 2015, subito dopo il compimento dei novant’anni. Una vita lunga e, come vedremo, anche complessa, a cui non corrisponde la mole di pubblicazioni che ci si potrebbe forse aspettare. In termini quantitativi l’output è stato nell’insieme modesto, insomma, ma se si passa, come si dovrebbe, a una valutazione qualitativa, il discorso cambia radicalmente, perché Salter è da considerarsi una figura di assoluto spicco nella letteratura statunitense del secondo dopoguerra. La sua scrittura, scrive John Irving nella postfazione all’edizione italiana di A Sport and a Pastime(Un gioco e un passatempo, edito da Rizzoli nel 2006 e riproposto da Guanda nel 2015) – un titolo, sia detto per inciso, tratto curiosamente da una sura del Corano – “trasforma i suoi libri, romanzi o memorie che siano, in risultati letterari eccezionali”, tanto che qualunque scrittore contemporaneo “si sentirà umiliato dalla sua lingua”. Nato nel New Jersey, all’età di appena due anni Salter, che in realtà si chiamava James Arnold Horowitz, segue la famiglia a Manhattan, e New York diventa la sua città, la città in cui frequenta anzitutto le scuole superiori (fra i compagni di scuola si annoverano fra gli altri Julian Beck e Jack Kerouac), pubblicando le prime poesie, a suo dire terribili, sul giornalino scolastico. È uno studente brillante e molto portato per le materie scientifiche, e al momento della scelta dell’università, indeciso fra il MIT e Stanford, si lascerà convincere dal padre, un ex militare, a entrare – siamo nel 1942 – all’Accademia militare di West Point. Si arruola poi nell’aviazione, ma nel frattempo si laurea e ottiene anche un master alla Georgetown University, e, dopo alcuni incarichi nelle Filippine, in Giappone e alle Hawaii, partecipa alla guerra di Corea eseguendo un centinaio di missioni di combattimento nei cieli coreani. Da questa esperienza ricava nel 1956 il suo primo romanzo, The Hunters (Per la gloria, Guanda, 2016), che per non dare nell’occhio fra i commilitoni pubblica con lo pseudonimo di James Salter, nome che in seguito deciderà di adottare anche nella vita civile. Da The Huntersverrà anche tratto nel 1958 un fortunato film con Robert Mitchum. Segue nel 1961 The Arm of Flesh, ripubblicato quasi quarant’anni dopo con varie modifiche e con il nuovo titolo di Cassada, un altro romanzo incentrato sulle sue esperienze di pilota, ma ambientato stavolta alla base aerea di Bitburg, in Germania. Nel frattempo, tuttavia, Salter ha capito che, se davvero vuole dedicarsi alla letteratura, deve cambiare vita. Un segnale di una possibile crisi esistenziale, a ben vedere, si coglie già in alcune pagine di Per la gloria (cito qui dalla traduzione di Katia Bagnoli) che sembrano attagliarsi a chiunque vada in pensione o smetta un’attività:  > “Fare parte di una squadriglia era una sintesi dell’esistenza. Quando arrivavi > eri un bambino. C’erano opportunità infinite, e tutto era nuovo. Gradualmente, > quasi senza rendertene conto, i giorni degli studi faticosi e del piacere > erano finiti, avevi raggiunto la maturità; e poi all’improvviso eri vecchio, e > volti e persone nuove che faticavi a riconoscere ti spuntavano intorno in > fretta, fin quando scoprivi di non essere più il benvenuto fra loro perché > tutti quelli che avevi conosciuto e con cui avevi vissuto se ne erano andati e > la guerra non era diventata altro che una serie di ricordi incondivisibili di > eventi avvenuti tanto tempo prima.” Salter lascia quindi l’aeronautica e per guadagnare qualcosa si dà alle sceneggiature di film e documentari, vincendo anche un premio alla Mostra di Venezia del 1962, scrivendo nel 1969 la sceneggiatura di un film ambientato a Roma, L’appuntamento, diretto da Sidney Lumet e interpretato da Anouk Aimée e Omar Sharif, e collaborando, fra gli altri, con Robert Redford, per il quale scrisse la sceneggiatura di Downhill Racer(Gli spericolati). Quest’ultimo tuttavia infine rifiutò, perché il protagonista gli sembrava troppo riservato e inadatto a lui, la sceneggiatura per un altro film, Solo Faces, incentrato sul mondo degli scalatori, che lo scrittore decise in seguito di trasformare in un romanzo, uscito nel 1979. Romanzo che diventerà un libro di culto nell’ambiente appunto degli appassionati di quello sport. Ma la strada di Salter è decisamente quella della narrativa pura, e se sarà ricordato, come credo e spero, ciò avverrà grazie a una manciata di romanzi e volumi di racconti che hanno rappresentato un’alternativa forse minoritaria, ma non per questo meno presente e proficua, rispetto alla tradizione prevalente nella recente letteratura statunitense, quella delle narrazioni fluviali, da Bellow a Roth, da Updike a Mailer, da Ford allo stesso Irving, e oggi da De Lillo a Franzen. Tanto divergente è potuto sembrare a molti critici il suo cammino che Salter è stato presto bollato come atipico ed “eurocentrico”, il che forse non è del tutto errato, se si pensa ai forti legami da lui intrattenuti con diverse letterature europee, e in particolare con quella francese (per un periodo ha anche vissuto a Parigi). Dagli scrittori europei Salter mutua forse la riflessione sulla letteratura come modalità di vita, e la sua forza sta nel far sì che, grazie a un instancabile lavoro di cesello, ogni sua opera, dal romanzo più corposo al più breve dei racconti, sia un piccolo o grande capolavoro. Nei suoi quasi sessant’anni di attività come scrittore, da The Hunters all’ultimo romanzo uscito nel 2013, All That Is (Tutto quel che è la vita, Guanda, 2015), Salter ha saputo mantenere inalterata nel tempo la tensione e la profonda meditazione che si avverte dietro ogni sua pagina, ogni paragrafo, persino ogni frase da lui formulata – quella che considerava, cioè, la vera unità di misura della narrativa. A proposito della sua frase, appunto, e di quanto sia ben tornita, Richard Ford ha scritto una volta che “It is an article of faith among readers of fiction that James Salter writes American sentences better than anyone writing today” (“È articolo di fede tra i lettori di narrativa che James Salter scrive oggi frasi americane meglio di chiunque altro”). Grande estimatore delle metafore, Salter riesce quasi sempre a stupire, a coniarne di nuovissime. Per farmi capire meglio prendo, praticamente a caso, un suo paragrafo, uno dei tanti che potrei citare, l’inizio del secondo capitolo di Una perfetta felicità (nella traduzione di Katia Bagnoli). Ecco cosa scrive:  > “Era l’autunno del 1958. Le bambine avevano sette e cinque anni. Sul fiume, > del colore dell’ardesia, si riversava la luce. Una luce morbida, un’indolenza > divina. In lontananza il ponte nuovo scintillava come una dichiarazione > d’intenti, come un’affermazione che in una lettera costringe chi legge a > soffermarsi.”  Un paragrafo praticamente perfetto. Scrivere, cancellare e riscrivere continuamente, questa la sua tecnica, acquisita quando i computer non esistevano ancora, ma mantenuta poi anche in seguito, a garanzia di una ricerca incessante e faticosa dell’espressione migliore, più calzante. Diceva di odiare quanto sgorgava direttamente dalla mente, e che l’unico piacere dello scrivere consisteva in realtà nel correggere e riscrivere. A questa inclinazione artigianale Salter univa una grande curiosità per gli altri e per il mondo, che gli consentiva di archiviare prima nella sua mente e riutilizzare poi nelle sue storie impressioni e frammenti di discorsi accumulati nei decenni, giungendo il più delle volte, come ha confessato, a creare personaggi che sono spesso un originale collage di diverse persone reali, colte in una battuta o in un singolo atteggiamento. Sebbene qualche critico abbia definito il suo stile impressionistico, o addirittura affine al pointillisme in pittura, Salter ha regolarmente sottolineato di aver voluto solo e sempre ricercare la massima chiarezza, insistendo non tanto sulle grandi teorie, quanto sulle gioie e sulle asperità della vita quotidiana.  La sua abilità nel descrivere la passione sentimentale e sessuale – ne è un esempio evidente A Sport and a Pastime –, così come la pulsione di ciascuno di noi verso le novità e il cambiamento, palesa uno studio appassionato di diversi antecedenti letterari, fra cui Salter stesso ha sempre annoverato un altro militare, Isaac Babel’, ma anche Gogol’, Gide, Kawabata, Nabokov, Karen Blixen, Thomas Wolfe e Marguerite Duras. Uno studio, peraltro, ravvicinato e intenso, senza limitazioni o timori reverenziali, fondata sull’augusta e oggi troppo frettolosamente abbandonata pratica della mimesi. Con Light Years, del 1975 (tradotto in italiano da Guanda nel 2015 con il titolo Una perfetta felicità),Salter riesce a raccontare con un’ispirazione felicissima e uno stile ellittico e obliquo una storia, d’amore prima e di bruciante separazione poi, basandosi sulla convinzione più volte espressa che nella vita non conti tanto la realtà oggettiva, quanto la memoria, i ricordi che riusciamo a strappare all’oblio. Scriverne e descriverli è anzi l’unico modo per farli e farci vivere ancora. “There is no complete life,” sostiene. “There are only fragments” (“Non esiste la vita completa, ci sono solo frammenti”). Ma la forza del libro sta anche nella sua capacità di descrivere le conseguenze della dissoluzione di una famiglia per tutti i suoi componenti e di farci entrare con discrezione, ma anche con consumata maestria, nella mente dei protagonisti: la bella, sofisticata e confusa Nedra, avvinta dalla lettura della biografia di Alma Mahler, e il marito Viri, un architetto ebreo elegante e a suo modo romantico – ebreo proprio come quel Salter il cui matrimonio andrà in pezzi poco dopo la stesura del libro. Ma d’altra parte in Salter l’autobiografia, seppur ben dissimulata, è sempre in agguato: la storia d’amore torrida con la ragazza francese di A Sport and a Pastime è tratta di peso dalle sue esperienze personali, e la vita, fra il divorzio, la morte improvvisa di una figlia in circostanze drammatiche e le malattie che contrappuntano l’avanzare dell’età, non lo ha certo risparmiato. Ma nelle sue opere ha saputo sempre evitare qualsiasi tentazione di ripiegamento su sé stesso e di sentimentalismo. Sulla fine di un amore tornerà anche con il bellissimo racconto che dà il titolo alla raccolta Dusk and Other Stories, uscita nel 1988 (Crepuscolo e altre storie, Guanda, 2022), racconto seguito da una serie di altre piccole gemme. Il libro otterrà il PEN/Faulkner Award, un premio di grande prestigio. Lo stesso livello qualitativo si riscontra senz’ombra di dubbio nella seconda raccolta, dal titolo Last Night, che esce nel 2005 (L’ultima notte, Guanda, 2018). In Burning the Days, del 1997 (Bruciare i giorni, Guanda, 2018), che è invece una specie di memoir o autobiografia per frammenti, in cui si muove senza alcuna remora da un periodo all’altro della propria vita, lo scrittore spinge ancora oltre l’idea della reminiscenza come (unica) base della narrazione. Anche in questo caso Salter sfugge all’assillo, secondo lui deleterio, di dover evocare tutto e ribadisce invece il proprio diritto al parziale silenzio, alla cernita, alla scelta, che oltre tutto ha il potere di stimolare la collaborazione del lettore, la cui curiosità a volte inappagata diventa un asse trainante del libro. James Salter (1925-2015) Una curiosità per chiudere. Come il nostro Filippo Tuena, che ha voluto dedicare al cocktail Martini un libro collettaneo uscito qualche anno fa per Nutrimenti, anche Salter ne è stato per tutta la vita un adepto. Una volta calcolò quanti Martini aveva bevuto in vita sua, e giunse alla conclusione che dovevano essere all’incirca ottomilasettecento. Dev’essere, questa predilezione per il cocktail Martini, un’altra caratteristica degli scrittori di oggi, almeno dei più interessanti: qualcuno, prima o poi, potrebbe farne magari l’argomento di una tesi di laurea. Raoul Precht *In copertina: poster di Downhill Racer (“Gli spericolati”), 1969, film di Michael Ritchie, scritto da James Salter, con Robert Redford e Gene Hackman L'articolo James Salter o della scrittura come cocktail Martini proviene da Pangea.
June 16, 2025 / Pangea
Cinema, marxismo e dinamite: Sergio Leone, il regista rivoluzionario
Giù la testa è un film del 1971, il penultimo di Sergio Leone e il più ambiguo di tutta la sua filmografia. È un western atipico, incentrato sulla Rivoluzione Messicana, che ha per protagonisti due personaggi che apparentemente hanno ben poco a che fare con quello specifico contesto rivoluzionario: un bandito maldestro e straccione di nome Juan Miranda, e John H. “Sean” Mallory, un dinamitardo irlandese colto e istruito, con un passato tra le file dell’IRA. È un film sulla rivoluzione, girato in un periodo contraddistinto dal crollo degli ideali rivoluzionari, quindi figlio del proprio tempo. Non è un caso, infatti, che questo film sia stato pensato e girato da un regista italiano che, seppur contraddistinto da un apparente distacco nei confronti della realtà socio-politica in cui viveva, deve avere senz’altro colto l’aria che si respirava in un Paese in cui, il 12 dicembre 1969, i movimenti studenteschi e operai avevano visto drammaticamente crollare le proprie rivendicazioni in seguito agli attacchi terroristici di piazza Fontana.  Con questo film Sergio Leone inserisce un tassello fondamentale nel processo di crescita creativa che ha caratterizzato tutta la sua produzione, realizzando un collegamento tra il Mito (il Far West) e la Storia (la Rivoluzione), e donando al pubblico il suo film più smaccatamente politico. Questo scarto è riscontrabile anche dal punto di vista prettamente tecnico. Pur rimanendo fedele ai suoi famosi primi piani, rispetto ai film precedenti Leone utilizza molti più campi lunghi, dando l’impressione di voler creare un film corale e, dunque, restituire un affresco storico carico di implicazioni sociali e politiche. Da questo punto di vista, l’ultima scena del film è emblematica. Purtroppo, è necessario rivelare il finale per chiarire il concetto, quindi, si suggerisce a chi non ha visto il film e non ha intenzione di rovinarsi la sorpresa di non leggere i paragrafi successivi.  Dopo aver tentato di rapinare la banca di Mesa Verde, e aver sottratto non soldi ma prigionieri politici, Juan e Sean si lasciano coinvolgere più profondamente nella rivoluzione e si ritrovano a combattere contro le truppe del colonnello Günther Reza, un brutale ufficiale governativo. Durante la battaglia finale, Sean viene ferito dal capo delle truppe governative e decide di sacrificarsi per salvare Juan. Nell’ultimo fotogramma prima dei titoli di coda, mentre viene inquadrato mediante un primo piano di grande intensità, la voce fuori campo di Juan pronuncia le parole chiave del film: “e adesso io?” Benché ermetiche, le ultime battute del bandito messicano nascondono la chiave interpretativa di tutto il film. L’epilogo di Sean sembra infatti essere la scintilla che accende la coscienza politica del rozzo brigante messicano interpretato da Rod Steiger. Gli eventi a cui ha preso parte e il rapporto instaurato con l’intellettuale irlandese gli hanno permesso di maturare e di passare dallo stato di bandito individualista e opportunista a quello di rivoluzionario che ha sposato una causa collettiva di alto valore morale. In questo senso, Leone sembra comunicare allo spettatore un messaggio di stampo prettamente marxista: la Rivoluzione è il motore della storia e, con la sua forza trasformativa, può cambiare le società. Tale chiave di lettura è confermata dalla citazione di Mao Tse Tung in apertura del film:   > “la Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un > disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e > delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di > violenza.” Ad avvalorare tale interpretazione, però, è anche il rapporto che si instaura tra i due protagonisti del film. Sean, interpretato da un azzeccatissimo James Coburn, è un rivoluzionario deluso, un intellettuale che ha dedicato la propria vita alla lotta collettiva e che non ne può più di quelli che “leggono i libri [che] vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: qui ci vuole un cambiamento! e la povera gente fa il cambiamento.” Sean ha sperimentato sulla sua pelle la violenza che la rivoluzione inevitabilmente comporta e che investe principalmente i “poveracci”, quelli che, fomentati dagli intellettuali, pagano col sangue la lotta armata. La sua, quindi, è una visione della rivoluzione decisamente pessimista. Così come lo è, evidentemente, quella di Sergio Leone, il quale, probabilmente, dopo aver assistito con grande disillusione alla fine degli ideali che avevano animato i primi settant’anni del Novecento, ha deciso di mettere in scena un dramma crepuscolare carico di riflessioni politiche.  Tuttavia, le dinamiche relazionali che Juan e Sean instaurano, ad un’analisi più approfondita, lasciano trasparire un velato ottimismo da parte del regista: Leone, infatti, sembra dire che gli intellettuali (rappresentati da Sean) possono svolgere un ruolo cruciale nella formazione della coscienza di classe del popolo (rappresentato da Juan), ma per farlo devono mantenere un rapporto diretto con le masse, devono avventurarsi con e in esse, onde evitare di diventare una classe privilegiata distante dalla realtà concreta. Ed è esattamente ciò che fa Sean, immergendosi nel mondo straccione e degradato di Juan Miranda, e accompagnandolo, però, tramite un percorso di emancipazione sia fisico che morale, verso la rivoluzione.  L’epilogo del film sottolinea con grande enfasi questo messaggio: il sacrificio di Sean, per quanto inutile ai fini della battaglia contro le truppe governative, permette a Juan, e di conseguenza al popolo, di prendere coscienza della propria condizione e di sviluppare una coscienza rivoluzionaria. La domanda retorica di Juan con cui il film si chiude ha, quindi, una duplice valenza: da un lato lascia trasparire lo spaesamento del popolo di fronte alla perdita della guida intellettuale, dall’altro, invece, sottintende la volontà di proseguire la lotta con maggiore consapevolezza, seppur con quella paura di affrontare il mondo che tipicamente contraddistingue gli orfani.  In questo senso, il messaggio di Leone sembrerebbe ancora più esplicito: l’emancipazione delle masse può essere possibile solo mediante il sacrificio, in senso sociale, degli intellettuali, e la rivoluzione potrà realizzarsi solo se le classi dominanti saranno disposte a sacrificarsi in nome dell’indottrinamento del popolo. Da questo punto di vista, Giù la testa può essere interpretato come il testamento politico di Leone. Il regista romano sembra dirci che il marxismo ha fallito perché le classi dirigenti, decidendo di non rinunciare ai propri privilegi, non sono state in grado di comprendere la complessità della realtà delle masse. Viene inevitabilmente in mente il pensiero di Antonio Gramsci, il quale aveva individuato negli intellettuali “l’anello mancante del materialismo storico”, perché è la loro attività a determinare i rapporti tra le classi e i gruppi sociali.  Di certo, fa un certo effetto sapere che un messaggio di questo tipo provenga da un regista che ha fatto dell’individualismo il tema centrale della propria produzione cinematografica. I suoi eroi sono fondamentalmente dei solitari, dei pistoleri malinconici che riescono a trovare un rifugio dalla durezza del mondo solamente nell’amicizia virile e nel denaro. E, da questo punto di vista, lo sono anche i due protagonisti di Giù la testa. Ciononostante, con questo film Leone sembra aver voluto lanciare un messaggio a quelli che, secondo lui, sono i veri responsabili del fallimento di ogni sogno rivoluzionario: i membri delle classi dirigenti e, più nello specifico, gli intellettuali. D’altronde, fu lui stesso a dire > “quando ero giovane credevo in tre cose: il Marxismo, il potere redentore del > cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite”.  Un epilogo, questo, che spiega perfettamente la cupezza del suo ultimo capolavoro, C’era una volta in America, in cui, invece, l’unico strumento di emancipazione delle masse sembra essere l’acquisizione, con ogni mezzo possibile, di denaro, anche a costo di sacrificare l’unico rapporto capace di dare senso alle vite dei suoi personaggi, vale a dire l’amore, in senso sia romantico che amicale.  In definitiva, Giù la testa si configura come un’opera complessa e stratificata, ben lontana dalla semplice etichetta di “western atipico” che nel tempo gli è stata affibbiata. Attraverso la lente della Rivoluzione Messicana e la dinamica tra un rozzo bandito e un intellettuale disilluso, Sergio Leone offre una riflessione amara e disincantata sul fallimento degli ideali rivoluzionari, pur lasciando intravedere una flebile speranza nel potenziale trasformativo della coscienza popolare, innescata dal sacrificio delle élite intellettuali. Il film si erge così a testamento politico di un regista che, pur provenendo da un universo cinematografico apparentemente distante da tali tematiche, dimostra una lucida consapevolezza delle dinamiche socio-politiche del proprio tempo, consegnando al pubblico un’opera potente e ancora oggi attuale, capace di stimolare una profonda riflessione sul significato di rivoluzione, sul ruolo degli intellettuali e sul destino delle masse. Un film estremamente attuale che, oggi più che mai, potrebbe essere utile trasmettere nelle sezioni di più partiti.   Alessandro Lugli L'articolo Cinema, marxismo e dinamite: Sergio Leone, il regista rivoluzionario proviene da Pangea.
May 13, 2025 / Pangea
“Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge”. Nella magia di Ingmar Bergman
Cento soldatini potevano certo bastare per un sogno. Cento soldatini di stagno a suo fratello Dag in cambio del proiettore ricevuto a Natale. Un baratto che vale l’essenza di una vita intera.  Dal guardaroba della camera, un giovanissimo, magrolino e inesperto Ingmar Bergman sistema il proiettore su una scatola di zucchero e accende la lampada a petrolio. Orienta la luce verso la parete dipinta di bianco e inserisce la pellicola di un film romantico.  Un aneddoto, insieme alla torcia che illuminava il buio della punizione nello sgabuzzino e la paura del mostro che mangia le dita dei piedini, tatuato nella memoria che Ingmar Bergman registra per sempre, in quello straordinario romanzo autobiografico, concluso a fine settembre 1986, dall’evocativo titolo Lanterna magica (Garzanti, traduzione di Fulvio Ferrari). Un guazzabuglio di incontri e scontri, gozzoviglie, solitudini, sceneggiature e opere per il teatro e la tivù e pellicole, manoscritti tragicamente perduti come la fiaba della stanca torre Eiffel (Joakim Naken), passioni travolgenti e sensuali, drammi e immani sensi di colpa, disastri economici e rovesci familiari, rinascite e ricadute. “Fantasmi, demoni e altri esseri senza nome e senza dimora” sembra che lo abbiano cinto d’assedio sin dalla più tenera età. Secondo figlio di un pastore protestante della corte reale, Bergman esordisce come regista teatrale e proprio il teatro, prima che il cinema, ha caratterizzato la sua esistenza, come si legge in questo romanzo fiume. Al cinema dedica luminose pagine:  > “un’illusione progettata fin nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà > che quanto più vivo tanto più mi appare illusoria”.  Il più grande maestro, secondo il grande Bergman, è Tarkovskij che non spiega mai, ma rappresenta le sue visioni, poi Fellini, Kurosawa e Buñuel e quel mago di Méliès. Le sue parole calano nitide e sognanti sulla pagina:  > “Film come sogno, film come musica. Nessun’altra arte come il cinema va > direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della > nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna”.  Il cinema è rivelazione:  > “Le ombre, mute o parlanti, si rivolgono direttamente alle regioni più segrete > del mio animo. Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante, > scintillante, il fruscìo della croce di Malta, la mano sulla manovella”.  Il cinema è come l’amore, in tutti i sensi.  > “Girare un film è un’operazione intensamente erotica. La vicinanza con gli > attori non conosce riserve, ognuno si affida totalmente all’altro. L’intimità, > l’affetto, la dipendenza, la tenerezza, la fiducia, la disinvoltura davanti al > magico occhio della macchina da presa danno un caldo e forse illusorio senso > di sicurezza”.  In questa autobiografia, Bergman parla senza riserve e senza censure della fisicità, che spesso lo metteva a dura prova e lo divorava, quanto dei malesseri interiori che lo costringevano a un doloroso conflitto interiore. Sensibilissimo al fascino femminile, ogni storia d’amore che iniziava sembra il canovaccio di una nuova opera da trasporre sul palcoscenico. > “L’innamoramento, che ebbe modo e tempo di svilupparsi liberamente, aprì > stanza chiuse, muri crollarono, io respirai. Il tradimento nei confronti di > Ellen e dei bambini era avvolto nella nebbia, sempre presente ma stranamente > stimolante. Per alcuni mesi visse e respirò un’audace messinscena, > incorruttibile, autentica e quindi indispensabile. Si dimostrò spaventosamente > cara quando arrivò il conto”.  Conti e debiti, difficoltà economiche e rovesci di fortuna che non sono mancati lungo il corso di una vita. Ad un certo punto, il regista comprò persino il primo cappello della sua vita per dare l’impressione di una solidità che proprio non possedeva.  Le descrizioni dei teatri sono deliziosamente struggenti e nostalgiche:  > “A teatro c’erano le pulci. La vecchia compagnia era probabilmente immune, la > nuova arrivò con sangue giovane e venimmo crudelmente morsicati. Il tubo di > scarico del ristorante passava per i camerini degli uomini e gocciolava > continuamente urina sul calorifero vicino alla parete”.  Una situazione drammatica che Bergman non esita a definire “il paradiso fatto realtà”. Il maestro a teatro continuamente citato e preso come modello: Strindberg.  La famiglia d’origine, l’infanzia in canonica, un pensiero ricorrente e intrecciato alle pagine della maturità. Una vita, quella dei genitori, vissuta come “su un vassoio”, sempre davanti al pubblico.  > “Papà era un predicatore popolare, la chiesa era sempre piena quando parlava > lui. Era un premuroso pastore d’anime e possedeva un talento inestimabile: la > sua capacità di ricordare le persone era illimitata. Durante tutti quegli anni > aveva battezzato, confermato, unito in matrimonio e sepolto molti dei suoi > quarantamila parrocchiani. Di tutti ricordava il volto, il nome e le > condizioni”.  Del fratello, invece, mette a fuoco l’odio verso il padre e il tentativo di suicidio, un’antipatia reciproca e fraterna che lasciò il posto al vuoto, anche dopo tantissimi anni, quando Dag andò a trovarlo nell’isola rifugio di Fårö con la moglie greca. I genitori, per il fratello, continuavano ad essere  > “mitici, capricciosi, imprevedibili, giganteschi. Cercammo di ripercorrere con > la mente sentieri abbandonati e ci guardammo stupiti l’un l’altro: due vecchi > signori, usciti dallo stesso grembo, separati da una distanza incolmabile”.  Sulla sorella più piccola si accende una timida tenerezza sullo sfondo della pagina. > “I miei ricordi d’infanzia riguardo a Margareta sono pallidi e sfuggenti. > Costruimmo un teatro delle marionette, lei cucì i costumi e io dipinsi le > scene. La mamma era una spettatrice paziente e interessata, e ci regalò anche > un sipario di velluto dai bei ricami”.  Nonostante avventurose e innumerevoli esperienze, quel gettarsi “a capofitto nell’abisso della vita”, lo sguardo del regista svedese ritorna, anche alla fine del suo memoir, all’album delle foto di famiglia, al piccolo cerotto sull’indice, al disegno di una coperta, al profumo d’aringa fritta, al volto di sua madre, che appare e scompare, nella brulicante folla elegante delle foto.  Riprende tra le mani il diario segreto della madre, le pagine che inquadrano il momento della sua nascita, la sua venuta al mondo, correva il luglio 1918.  > “Nostro figlio è nato domenica mattina, quattordici luglio. (…) Sembra un > piccolo scheletro con un nasone rosso fuoco. Rifiuta con ostinazione di aprire > gli occhi. Dopo qualche giorno mi è venuto a mancare il latte per via della > malattia. Allora è stato battezzato in tutta fretta in ospedale. Si chiama > Ernst Ingmar”.  Questa ostinazione a non aprire gli occhi sembra intrecciata al sogno di rimanere a vivere nelle segrete stanza dell’infanzia perduta, tra i morti che sono “costretti a tormentare i vivi”.  > “In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti > nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti > alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la > velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio > una piccola visita alla realtà”.  In breve, anche nella sua Lanterna magica, Bergman riesce a mettersi a nudo: “illusionista e reo confesso di questa illusione – secondo la netta definizione di Olivier Assayas e Stig Björkman in Conversazione con Ingmar Bergman(Lindau) – vulnerabile e inaccessibile, umano e insondabile”.  L’invito da cogliere è, quindi, quello di ascoltare la voce incoerente e illogica delle emozioni:  > “Ma voi vi renderete certamente conto che quando si è artisti, quando si > creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. > Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Dal punto di > vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è proibito non esserlo. Ma se > si ha fiducia nelle proprie emozioni, allora si può essere del tutto > incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze > delle emozioni che hai suscitato. Per sempre”. Linda Terziroli L'articolo “Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge”. Nella magia di Ingmar Bergman proviene da Pangea.
April 30, 2025 / Pangea
“Dove sei più felice”. James Dean, il fanciullo dell’Indiana
Nella storia del cinema il 1955 fu l’anno di James Dean. Prima di scomparire alla velocità di una meteora, il giovane ribelle statunitense lasciò dietro la sua scia tre film indimenticabili, la promessa della fama mondiale e il sogno di diventare regista.  Eletto a idolo romantico della gioventù degli anni Cinquanta, Dean diede corpo e voce a personaggi fuori da ogni schema. Per Elia Kazan aveva vestito i panni del rancoroso ma dolce eroe steinbeckiano di East of Eden (La Valle dell’Eden), nel superbo Rebel Without A Cause (Gioventù bruciata) di Nicholas Ray si era trasformato nell’intrepido Jim Stark, chiudendo con aplomb nella parte dell’orgoglioso Jett Rink in Giant (Il Gigante postumo), a coronare la triade per cui è ricordato come il “ragazzo d’oro” del cinema americano. Nello stesso anno, la promessa di Broadway – il debutto in See the Jaguar è del ’52 – fuggiva dalle luci del successo e da lunghe notti insonni, trascinate sui marciapiedi di New York, per tornare alle sue radici, a Fairmount. Qui poté finalmente respirare, ancora per qualche tempo, l’aria di casa. Non appena giunto nella cittadina sonnolenta dell’Indiana s’immerse a capofitto nel torpore della vita rurale, confondendosi fra i contadini e i manovali del paese. James ‘Byron’ Dean in compagnia del suo border collie Tuck a Fairmount, Indiana, 1955. Nato nella vicina Marion, il piccolo Jimmy era cresciuto nella fattoria di proprietà dello zio Mark Winslow, il quale tornava prodigamente ad ospitarlo. Accolto a braccia aperte da tutti i suoi cari, riunì attorno a sé i membri di almeno tre generazioni. L’avrebbe seguito ovunque, dal selciato bagnato di Times Square  ai suoi frugali ambienti domestici, l’obiettivo di Dennis Stock (lo stesso che ispirerà le pose di Kate Moss e Liz Tyler dopo di lui). Deciso a tracciarne le orme, per immortalarlo sotto un aspetto più intimo, il cronista mondano gli avrebbe dedicato una celebre serie di ritratti destinata alle prestigiose testate di Life. Come riporta l’editor Eliza Berman, l’incontro tra il fotografo e la futura star ebbe un effetto folgorante: > “Mentre Stock ascoltava Dean parlare con nostalgia della sua educazione a > Fairmount, nell’Indiana, pensò bene di cogliere il ritratto di un giovane uomo > sospeso tra due mondi: quello della fattoria di famiglia, dove i suoi zii lo > avevano allevato dopo la morte della madre, e quello di Hollywood in cui > sarebbe stato presto accolto”. A metterne in luce i turbolenti rapporti si aggiunge in tempi recenti il tributo offerto da Anton Corbijn ai due artisti, interpretati dai brillanti Robert Pattinson e Dane DeHann, nel film Life (2015). Nel febbraio 1955, alla domanda “Dove scattiamo le foto?” Stock aveva proposto “dove sei più felice”. Da quel momento, l’appeal del saltimbanco nottambulo e del selvaggio contadino andava fissato in una delle maggiori icone di bellezza maschile del secolo.  Unico nel suo genere, il volume che raccoglie le fotografie di Stock – ironiche, stravaganti e familiari –, uscito in Italia come James Dean. Per sempre giovane (Contrasto, 2005), include anche una nota biografica sull’amico modello, seguendone passo dopo passo il profilo anticonformista. > “Jimmy non teneva minimamente al proprio aspetto: due volte su tre si vestiva > in modo più che trasandato, che si trattasse di una riunione formale o > informale”. Aggirato il volto da leggenda, questi scatti delicati e spontanei lanciano uno sguardo lucido sul ragazzo più autentico, legato alla sua terra e teneramente devoto alla famiglia. In quei giorni, la vita dai Winslow procedeva al suo ritmo regolare, essenziale e aromatica, proprio come l’aveva lasciata prima di ascendere alla luce di Santa Monica o ai ritmi sfrenati della vita newyorkese. Le ore più calde trascorrevano in un’atmosfera rustica e serena, imbevuta di reminiscenze d’infanzia di stampo quacchero e circondato dai suoi affetti.  Steso a pancia in giù sul tappetto del salotto e preso dall’entusiasmo nei giochi del cuginetto Markie, che aveva visto crescere, Jim si sentiva racchiuso nel grembo di un’alcova, un rifugio sicuro dove poter essere l’eterno fanciullo dei suoi sogni. Adesso, più di tutto, il caos della metropoli era svanito lontano come un’isola del Pacifico, scacciato dal suono del bongo che portava sempre con sé. Per sempre giovane. Dean gioca insieme al cugino Marcus Winslow Jr. Durante il breve soggiorno, l’orgoglio d’Indianapolis ebbe anche il tempo di visitare le aule della vecchia high school, venendo travolto da un’ondata di nostalgia per gli anni dell’adolescenza consumati da vero campione tra eccezionali partite di basket e prime produzioni teatrali. Più tardi, la sua insegnante di recitazione e prima fan Adeline Nall avrebbe ricordato in toni sinceri e commossi lo studente di genio che lasciò il segno sul palco scolastico: > “Jimmy Dean amava sentire il suolo dell’Indiana sotto ai suoi piedi, e credo > che traesse da lì gran parte della sua energia.” Un famoso scatto di Stock, poi rimasto iconico, lo vede davanti a tutta la famiglia raccolta attorno alla tavola imbandita per il pranzo della domenica. A un tratto, il nuovo arrivato prese a recitare un noto componimento del sommo poeta locale James Whitcomb Riley: il preferito della madre che scelse di chiamarlo James Byron in onore alle proprie passioni letterarie.  Con timbro enfatico e strampalato, la personalissima lettura di Home-Going (1910), attestava il ritorno a casa attraverso la via diretta della poesia:  > “Oh! Siamo così bisognosi di casa > La risata del mondo è come un gemito > Nei nostri orecchi stanchi, e pure i suoi canti son vani, > Dobbiamo tornare a casa – dobbiamo tornare di nuovo a casa! > Dobbiamo tornare a casa:  > > […] Là dove tutto riposa: > Il tocco di tenere mani su fronte e capelli – > Stanze buie, in cui più dolce è la luce del sole – > L’amore perduto di madre e figlio…”  James Dean declama i versi di James Whitcomb Riley, il poeta dell’Indiana. Per una singolare nemesi, il giovane eroe del cinema avrebbe fatto nuovamente ritorno in Indiana, ma stipato dentro un feretro più scomodo di quello in cui si era adagiato, solo sette mesi prima, durante una buffa visita alle vicine imprese funebri. La lente incredula dell’amico lo catturava allora, nel presagio d’un eccesso burlesco, con l’espressione da bambino ferito stampata per sempre sul volto.   Ma come ha scritto Oriana Fallaci, agli occhi del pubblico e dell’industria cinematografica, James Dean non poteva rassomigliare in toto a un ingenuo contadino del suo Stato natale, tanto sfaccettato era il talento che gli spianava la strada per il mito. Da fervido seguace di Brando, si sarebbe avvicinato di ruolo in ruolo ai divi moderni come ai vecchi idoli europei: > “Era la Sagan tradotta in americano, l’adolescente pazzo per noia romantica, > più vicino all’europeissimo Truman Capote e a Oscar Wilde che ai personaggi > contadineschi di Peyton Place o ai giovani pazzi ma paesani che si riscontrano > nei romanzi americani”. Fissato nell’icona di Hollywood e del viveur di Manhattan, il nuovo “bello e dannato” sfrecciava verso le stelle di una carriera tutta in ascesa.  A stroncare tragicamente la parabola della sua breve esistenza, sancendone la consacrazione all’Olimpo californiano, una corsa maledetta sull’asfalto della U.S. Route 466, sul sedile della temibile “piccola bastarda”, la sua Porsche 550 Spyder. In un amplesso di euforia e bagliori di gloria, rapido come aveva vissuto, se ne andava in un lampo, direzione Salinas. Pierluigi Piscopo L'articolo “Dove sei più felice”. James Dean, il fanciullo dell’Indiana proviene da Pangea.
April 28, 2025 / Pangea
Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford
> “In quella regione non ancora riconosciuta come Stato dell’Unione, era uno > degli anni in cui i segnali di fumo apache si alzavano dalle cime delle > montagne rocciose, e più di un ranch era ridotto ormai a un quadrato di cenere > annerita che si stendeva sul terreno. La partenza della diligenza da Tonto > segnava l’inizio di un’avventura dall’incerto lieto fine…” > > (incipit di La diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox, Sellerio editore, > 1992) Cronista giudiziario di Portland, Oregon, Ernest Haycox (1899-1950) è stato autore di una ventina di romanzi e qualche centinaio di racconti di ambientazione western, storie cominciate ad apparire nei pulp magazines americani negli anni Venti, in cui si celebrano i grandi temi della Frontiera, dalla vastità delle praterie al mistero minaccioso dell’altro, dall’asprezza del deserto al silenzio che pervade anche l’animo dei personaggi, solidamente sagomati su stereotipi ben collaudati. Le sue strutture narrative essenziali, rese con una lingua asciutta e meccanismi elementari che sfruttano topoi e figure retoriche ricorrenti, si rendevano buoni canovacci adatti a ulteriori sviluppi, alcuni dei quali sono stati trasposti al cinema hollywoodiano. Fra i suoi estimatori c’erano Gertrude Stein e Ernest Hemingway, il quale – secondo la vulgata – ebbe a scrivere “I read The Saturday Evening Post whenever it has a serial by Ernest Haycox”.  Il racconto Stagecoach to Lordsburg, uscito sul Collier’s Magazine di Springfield, Ohio, nel 1937, è il più famoso perché vanta un’ascendenza e una discendenza illustri. Il suo “prima” è la celebre novella di Guy de Maupassant Boule de suif, mentre il suo “dopo” viene dal cineasta John Ford e dal suo sceneggiatore Dudley Nichols, che lo giudicò un’ottima trama: «Cercammo subito di tirarne fuori un film creando i personaggi, visto che quelli che offriva non erano che abbozzi. Quindi li mettemmo da parte cercandone dei nuovi che ci apparissero più interessanti». Fu così che Stagecoach to Lordsburg divenne il celeberrimo film Stagecoach – reso in italiano come Ombre rosse –, che nel 1939 (anno dell’epocale Via col vento) segnò il punto cardine della filmografia western, definito come il momento in cui il genere “diventa maggiorenne” e s’impone come “il cinema americano per eccellenza”. In Boule de suif di Maupassant una prostituta francese estroversa e grassottella, passeggera della carrozza in fuga da Rouen durante la guerra franco-prussiana del 1870, è decisa a rifiutare per senso patriottico le avances di un ufficiale prussiano che ha fermato la comitiva, ma alla fine si vede costretta a cedergli per le pressioni dei suoi compagni di viaggio, persone per bene e rispettabili – commercianti, nobili, due suore, un pericoloso democratico – che non vogliono ritrovarsi bloccate dalla sfrontata prepotenza dell’ufficiale e dalla caparbietà della ragazza. L’esito lo conosciamo, con la cinica ipocrisia della buona società francese che apre e chiude la partita nel modo più classico. In Stagecoach to Lordsburg, rifacendosi a quel racconto, Haycox prende il riscontro storico della fuga nel 1885 del capo apache Geronimo dalla riserva di San Carlos in cui era stato confinato, nell’ultimo sanguinoso tentativo di ribellione attraverso scorrerie e devastazioni degli insediamenti dei Bianchi. Come per Boule de suif, i passeggeri della diligenza per Lordsburg compongono un microcosmo sociale, e qui sono proiettati verso una Frontiera in progressivo e inarrestabile movimento verso ovest: sono quelli che colonizzeranno le terre sottratte agli indiani, quelli che vivono di espedienti professionali, e anche gli emarginati come la prostituta Henriette, schiva e gentile, e il bel pistolero “smilzo e biondo” Malpais Bill, diretto verso la sua vendetta contro chi gli ha ucciso il padre e il fratello. Come osserva Attilio Brilli nell’introduzione, i personaggi hanno un carattere bozzettistico efficace, con un gusto fra l’arcaico e l’ingenuo che risponde alla mitologia popolare in cui si muovono; ognuno porta i segni del suo status sociale, dai dettagli del vestire ai tratti somatici rappresentativi, fino ai gesti e agli atteggiamenti che tradiscono i loro umori e le loro storie. Malpais Bill – che nel film di John Ford diventa Ringo interpretato da John Wayne – ha “negli angoli degli occhi e nella lunga piega della bocca” il segno di una natura selvaggia, quella del mezzosangue inevitabilmente reietto. Nel racconto abbiamo una ragazza – Miss Robertson – che va a sposarsi con un ufficiale di fanteria, un piazzista di whisky di Kansas City, un inglese alto e ossuto con un enorme fucile da caccia, un elegante giocatore d’azzardo, un robusto mercante di bestiame con una grossa pepita d’oro appesa alla catena dell’orologio, lo smilzo Malpais Bill con le pistole che gli pendono ai fianchi e la prostituta Henriette – queste ultime le due figure centrali. Con questo materiale, John Ford e Dudley Nichols plasmarono e “riformarono” la tipologia dei personaggi di Haycox per caricarla dei significati simbolici più adatti alla narrativa hollywoodiana. La evanescente “ragazza dell’ufficiale” si trasforma nella volitiva Lucy Mallory, moglie incinta di un ufficiale dell’esercito che vuole raggiungere il marito; l’inglese col fucile e il mercante di bestiame vengono rimpiazzati da un banchiere avido che è fuggito con la cassa e dal medico ubriacone Doc Boone, figura divenuta classica nella mitologia cinematografica western; Malpais Bill diventa Ringo Kind, che è ricercato e per questo scortato nella diligenza dalla nuova figura dello sceriffo, e Henriette diventa Dallas Douglas, la reietta che viene fatta salire sulla carrozza da un drappello di signore arcigne e avvizzite della Lega per la moralità. Nel film lo sgangherato Doc Boone, costretto a fuggire da un luogo all’altro, è il contrappeso speculare del giocatore d’azzardo Hartfield, virginiano dai modi fini e l’aspetto nobile, entrambi figure che si redimono nel corso del viaggio. L’opposizione più netta nel microcosmo della diligenza è fra la donna pubblica Henriette/Dallas e Miss Mallory, ovvero la prostituta e la rispettabile dama che deve raggiungere il marito, e si esplica in un percorso di sguardi, di espressioni e di inquadrature soggettive – è la donna civilizzata a osservare la prostituta, avvertendo una curiosità partecipativa – che nel film prepara la riconciliazione solidale che avverrà in uno degli eventi centrali, la nascita della bambina nella stazione  lungo il deserto. Qui abbiamo lo svelamento dei ruoli e la redenzione dei reietti, uno dei grandi marchi del cinema “etico” di John Ford.  Uno sguardo analitico e complessivo sul suo cinema lo troviamo nel bel saggio di Andrea Laquidara John Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di Dioniso (Mimesis, 2019), che passa in esame la filmografia fordiana concentrandosi sulle pietre miliari della sua sterminata produzione e traendone quelle implicazioni storico-filosofiche che ci riportano anche all’America di oggi. Vediamo innanzitutto che tutti i film di John Martin Feeney, figlio di un irlandese giunto in America nel 1872, sono girati – anche quelli non squisitamente western – sulla Frontiera, cioè sul limite, sulla soglia, quella linea che difende la civiltà dalla wilderness: un cinema che rappresenta nel modo più compiuto il mito di fondazione degli Stati Uniti d’America. Prendiamo le sequenze che aprono Stagecoach: in una piccola cittadina dell’Arizona giunge la notizia che gli Apache sono sul piede di guerra. Dopo qualche inquadratura in esterni, che riprende due figure a cavallo che corrono negli spazi del deserto, finiamo all’interno di una caserma, dove una delle due figure spiega a un ufficiale seduto alla scrivania che gli Apache infestano le colline circostanti. L’ufficiale chiede al telegrafista di predisporre la linea di comunicazione con Lordsburg, più a ovest nel New Mexico, ma proprio da quella città sta arrivando un messaggio urgente. L’inquadratura si stringe, l’attesa si fa preoccupata, ma la comunicazione non arriva: «The line went dead, sir» dice il telegrafista, la linea è interrotta. Da Lordsburg arriva solo la prima ferale parola: “Geronimo”. Come osserva Laquidara: > “Tutti i presenti restano in un lugubre silenzio, e la frattura che Geronimo > ha provocato nella linea del telegrafo è riempita solo dalla colonna sonora, > improvvisa, grave, piena di semitoni e sinistre dissonanze: un chiaro invito > lanciato allo spettatore di preoccuparsi seriamente. (…) La linea di > comunicazione si è improvvisamente trasformata in un binario morto. Si è > fratturata. L’unione si è fatta divisione. E in questa frattura si è inserito > il nome di Geronimo, il selvaggio, l’irrazionale, accompagnato da un accordo > musicale disarmonico. Ecco dunque cosa determina il carattere tragico, > agonistico del percorso della storia, la possibile frattura del binario > provocata dall’imboscata tesa dal selvaggio. La dinamica e ottimistica > mobilità del progresso muta improvvisamente in stasi. Nel Caos della stasi”. A metà della storia la diligenza attraversa il tratto in cui Geronimo avrebbe tagliato il filo del telegrafo, nel territorio denso di ostili premonizioni rappresentato dalla Monument Valley, divenuta il più mitico dei paesaggi americani: qui è evidente che il gruppo racchiuso nella carrozza – la piccola comunità – è esposto al passaggio nel mondo spaventevole dell’irrazionale. E l’irrazionale arriva: > “Tutta la celebre sequenza della fuga della diligenza, inseguita dagli Apache, > e della battaglia realizzata in frenetica corsa, è tra le più studiate nei > corsi di Storia del cinema. Una delle ragioni sta nel fatto che John Ford > compone insieme magistralmente un materiale molto eterogeneo. Nella pazza > corsa di carrozza e uomini a cavallo si susseguono: velocissimi carrelli > girati in esterni; inquadrature più ravvicinate dei passeggeri che si > difendono (girate evidentemente in studio); riprese dall’alto che mostrano la > diligenza fendere un territorio bianco come un lago asciutto, inseguite dalle > ombre minacciose dei selvaggi; citazioni da Griffith (raccordi in asse e sullo > sguardo); citazioni dal cinema sovietico (la spettacolarità di angolazioni > inusuali, con prospettiva dal basso); passaggi di azione pura che si alternano > a primi piani fortemente espressivi, che definiscono la psicologia dei > passeggeri”. L’attacco degli Apache dura ben sei minuti, con una dinamica forsennata in cui non v’è un minimo cedimento o dispersione della tensione narrativa, fino al momento in cui gli squilli di tromba annunciano il soccorso salvifico del battaglione di cavalleria al galoppo e lo scioglimento del dramma. I selvaggi sono rappresentati come figure omogenee, anonime, accomunate dall’impersonare il pericolo, il caos e la violenza, sia quando sono invisibili sia quando irrompono sulla scena come incubi. E in effetti gli Apache Chiricahua, a cui apparteneva Geronimo, rientravano nel gruppo di popoli aggressivi e di mentalità guerriera per i quali le scorrerie erano l’impresa tribale più importante e legittima, e la guerra di vendetta era l’inevitabile conseguenza della dinamica delle scorrerie. I giovani maschi venivano allevati per essere corridori forti, rapidi e rapaci, per diventare ladri di bestiame e razziatori di carovane, abili nel nascondersi e nello schivare, e implacabili odiatori dei vicini di altre tribù. È lo stesso Geronimo a narrare il mito chiricahua della creazione, in cui uno dei due eroi tradizionali è chiamato “uccisore di nemici”. Poiché vivono razziando, devono affinare le arti dell’inseguimento, dell’imboscata, della morte, in quanto la morte dei nemici è la loro vita. Per la mente indiana l’attaccamento al paese nativo era una necessità vitale, e non potere farvi ritorno equivaleva alla separazione dalla sorgente di vita della terra. Gli Apache Chiricahua fondevano questo attaccamento alla propria terra con la pratica tradizionale della guerra di razzia, e ciò rese possibile a Geronimo di evitare la resa definitiva per più di un decennio, periodo fatto di menzogne e promesse non mantenute da entrambe parti in conflitto. Per i Bianchi Geronimo era il peggiore fra tutti, perché era il migliore sotto l’aspetto della civiltà chiricahua: il più diffidente, intransigente, selvaggio, crudele.Quando lo stile di vita dei Chiricahua fu minacciato come mai prima, egli divenne una sorta di capo supremo, e nulla lo convinceva che il suo predecessore Cochise avesse fatto bene a portare le sue bande nella riserva loro assegnata. I Chiricahua non erano mai stati agricoltori, perché si spostavano di continuo, ed era impensabile che si convertissero in contadini all’interno di una riserva; senza contare che non avrebbero più avuto la libertà di picchiare la moglie per le sue malefatte e nemmeno di tagliarle la punta del naso quando la scoprivano infedele, oltre a non potersi più fare il tiswin, la birra tradizionale a base di granturco. In breve, sarebbero dovuti somigliare agli uomini bianchi che erano devoti alla terra solo nella misura in cui potevano impossessarsene per sfruttarla a scapito di tutto il resto, mentre per i Bianchi il fatto che gli Apache non riuscissero a concepire la nozione della mobilità verso l’alto mediante l’accumulo di ricchezze era la dimostrazione della loro natura sub-umana. Tornando a Stagecoach e al saggio di Andrea Laquidara, abbiamo Ringo e Dallas, lui ricercato – prigioniero dello sceriffo che viaggia in cassetta – e lei prostituta: due figure emblematicamente collocate ai margini del sistema sociale, che in una delle pause del viaggio vengono a trovarsi all’aperto, in un esterno notte. Dallas cammina lungo uno steccato di tronchi, in un paesaggio spettrale “alla Murnau” che però è stemperato dalla colonna sonora delicata e sentimentale. > “Lo steccato è il vero protagonista del quadro: il legno robusto e livido > taglia l’immagine in diagonale e ne attraversa il centro. Dallas, prima in > ombra, poi investita da una luce dolorosa, si ferma sul bordo destro dello > schermo. Ringo, una nera silhouette, le si avvicina, ma, senza evidente > motivo, decide di orientarsi verso la parte ovest dell’inquadratura, e dunque > restare al di là del recinto di legno cui Dallas sta appoggiata. L’intero > dialogo si svolgerà con la presenza triste e ingombrante dello steccato che > separa i due interlocutori”. Pur divisi, i due sono accomunati dallo stato di marginalità:  > “entrambi sono esclusi da una società ipocrita e formale; entrambi hanno > vissuto un trauma che li ha privati della famiglia; entrambi sono soli, alla > ricerca di qualcosa, un ricordo o un’attesa che custodiscono sotto la scorza > dura che li corazza. L’identificazione, man mano che il dialogo procede, si fa > più viva ed evidente: le inquadrature si stringono e si intensificano nei bei > primi piani con cui John Ford rende palese la predilezione e l’affetto che ha > per simili personaggi. Il gioco di campo e controcampo, che alterna il volto > fiero e intenerito di Wayne a quello di Claire Trevor, pieno di dolcezza > dimenticata, grazie all’ambivalenza naturale del montaggio, congiunge e > contemporaneamente mantiene separati i due amanti virtuali”. Dal West, Ringo si decide a dirle che al di là della frontiera possiede una casa dove un uomo e una donna potrebbero vivere felici. Dallas, dall’East, è sorpresa e intimidita, perché la crudeltà del mondo l’ha disabituata all’idea della felicità. A questo punto avanza nell’oscurità lo sceriffo, che accarezzando lo steccato ricorda a Ringo che non può allontanarsi, essendo un ricercato sotto la sua custodia, mentre sullo sfondo la figura di Dallas si allontana profondamente turbata. Come un rasoio, la legge della Frontiera è intervenuta a dividere il corpo unico della felicità. Perché sappiamo come “il lavoro di costruzione narrativa si esprima proprio nella selezione che distingue il necessario dal superfluo, l’utile dall’inutile, il civile dal selvaggio, il buono dal cattivo. È in quella linea di demarcazione che risiede il senso profondo del narrare; ed è nella capacità di operare col rasoio, distinguendo l’identità dall’alterità, che affonda le radici il montaggio, e dunque la costruzione di una particolare visione della realtà”. Mentre in Boule de suif la visione negativa di Maupassant si estende all’intera fisionomia della società in viaggio, nella micro-società di Stagecoach il medico ubriacone, lo sceriffo, Ringo e anche Mrs. Mallory (nella sua solidarietà finale verso Dallas, che nel pericolo le ha protetto la neonata) rappresentano l’aspetto migliore della civiltà, quello che giustifica il procedere verso la via del progresso; l’unica figura negativa resta il banchiere Gatewood, esponente di un capitalismo cinico, vorace ed esasperato. E la valorizzazione della prostituta Dallas viene proprio dalla “sterilizzazione” della sua femminilità e del suo eros, che viene normalizzato e ricondotto nel sistema, promosso alla funzione procreativa, di costruzione della famiglia e della società. È la cinepresa di Ford e lo sguardo tenero di Ringo che la sollevano dalla sua condizione misera, incorniciandola nell’icona familiare della donna-madre – della Madonna, secondo l’interpretazione di Laquidara – che tiene in braccio la bambina appena partorita da Mrs. Mallory. Un lavoro strategico che “risulta efficacissimo, giacché riesce a esorcizzare l’aspetto più spaventevole della donna, la sua carica erotica e sensuale”. Ma non solo: il viaggio che Mrs. Mallory e Dallas hanno fatto attraverso l’inferno le ha condotte insieme a una maturazione, la prima al superamento dei propri atteggiamenti misurati e rigidi di signora dell’Est, con la presa di coscienza che restituisce dignità alla reietta, la seconda alla consapevolezza del proprio valore – riconosciuto dalla comunità che torna ad accettarla – e della reale possibilità di amare ed essere ricambiata. Paolo Ferrucci *In copertina: Adolph F. Muhr, Ritratto di Geronimo, 1898 L'articolo Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford proviene da Pangea.
March 25, 2025 / Pangea
Il conte di Montecristo, o del diritto alla felicità
Il volgere dell’anno ha portato sui nostri schermi i due più recenti adattamenti di uno dei maggiori capolavori letterari di tutti i tempi, Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas (1844-1846), quasi a celebrarne simbolicamente i 180 anni dalla pubblicazione. Tra dicembre e febbraio, Rai e Mediaset hanno infatti proposto rispettivamente la serie-evento coprodotta da Italia e Francia per la regia del premio Oscar per il miglior film straniero Bille August e la pellicola francese accolta al Festival di Cannes 2024, dove è stata presentata fuori concorso, con dodici minuti di applausi e al cinema con un record di incassi che la proietta sulla vetta dei venti film francesi più visti della storia. Due trasposizioni-specchio che riflettono volti molto diversi del Montecristo, e non solo per le scelte imposte dalla necessità di fare convergere un romanzo monumentale di 1500 pagine in adattamenti audiovisivi di durate sì differenti (tre e otto ore), ma egualmente difficili da riplasmare entro i confini di un tempo che possa ospitare un’opera-mondo come quella di Dumas. Edmond Dantès, il suo protagonista, è l’emblema di una tragica galleria di ritratti, un carnevale inesorabile di maschere vuote di storia ma che piangono le stesse lacrime assetate di giustizia. O di vendetta. Maschere che si costringe a indossare per compiere la sua missione: l’onnipotente conte di Montecristo, il leggendario Sinbad il marinaio, il venerabile abate Busoni, lo sfuggente Lord Wilmore, e ancora l’angelo custode che dispensa ricompense dove ha raccolto briciole di bontà, l’angelo sterminatore che brandisce la spada di una provvidenza rimasta in silenzio, l’angelo del male che indica con un dito sulle labbra la casa dove è passata la collera divina, o la propria; la fata malefica «dei racconti di Perrault che qualcuno ha dimenticato di invitare a qualche festa di nozze o di battesimo»[1]. Da qui il fascino senza tempo di un personaggio caleidoscopico, che ha popolato una lunghissima serie di adattamenti, tutti pervasi dalla voglia di raccontare, ciascuno a suo modo, la storia del giovane marinaio Edmond, innamorato della bella catalana Mercédès e del mare. Incastrato dal rivale Danglars, che mal sopportava la sua nomina a capitano del Pharaon, e da Fernand, che desiderava la sua promessa, viene ingiustamente accusato di essere un agente bonapartista e condannato dal corrotto sostituto procuratore Villefort a quattordici anni di reclusione nel Castello d’If, al largo della sua Marsiglia, dove il mare, da culla della sua giovinezza, diviene la sua cella. Qui incontra il saggio abate Faria, che gli dona la sua infinita conoscenza, e con essa la consapevolezza. Consapevolezza di non essere una vittima del caso, ma di un tradimento. E non solo: gli instillerà anche la volontà e i mezzi per evadere, e gli rivelerà il segreto di un tesoro custodito nel ventre della deserta isola di Montecristo. Una Itaca ricca di tesori nascosti, ma spoglia di affetti, l’isola di cui Edmond si autoproclamerà conte una volta rivendicati i suoi forzieri, e da cui salperà dichiarando vendetta a coloro che lo avevano tradito, tessendo un’immane ragnatela in cui le pedine ignorano il loro burattinaio, ma convergono inesorabilmente nel centro del suo gioco. Un’epica storia di vendetta, che giunta all’apice del compimento, posta di fronte alle conseguenze delle proprie azioni, precipita nel senso di colpa di chi ha voluto porsi al di sopra degli uomini e di Dio, ponendosi sul trono di una presunta giustizia umana e divina. E arriva a concedere il perdono e a desiderarlo per sé, ritenendolo però ormai fatalmente irraggiungibile. Ciò che resta è il bene disseminato con le ricompense elargite, all’apparenza infinitesimamente piccole rispetto alle punizioni, ma immensamente grandi per i depositari di tali doni. Perché solo chi ha provato l’estremo dolore, può gustare appieno la più grande felicità. Come lo stesso Edmond, che scoprendo di poter essere ancora amato e di potere amare ancora, grazie a Haydée, vede riaccendersi in sé la speranza.  * La serie Rai: una storia di riscatto Attesissimo il ritorno del Montecristo sui canali Rai. L’ammiraglia aveva infatti ospitato già nel 1966 il famoso sceneggiato diretto da Edmo Fenoglio, che vedeva un giovanissimo Andrea Giordana nei panni del conte: allora, l’accento era posto sulla fedeltà alla lettera, nell’ottica pedagogizzante di un servizio pubblico che, al pari degli affreschi nelle chiese antiche, traducesse in immagini una formazione culturale che tanti non avevano avuto il privilegio di ricevere. Di tutt’altro stampo la serie-evento presentata alla Festa del Cinema di Roma 2024, prodotta da Palomar (Mediawan) e che accredita alla sceneggiatura anche il pluripremiato Sandro Petraglia, con un cast che riunisce i beniamini di diverse generazioni, guidato da Sam Claflin (Hunger Games) nel ruolo del protagonista e dal Premio Oscar Jeremy Irons (Il mistero Von Bulow) nelle vesti dell’abate Faria. Tanti i volti del cinema e della televisione italiani, con Lino Guanciale e Gabriella Pession (La porta rossa), Michele Riondino (Il giovane Montalbano), e Nicolas Maupas (Mare fuori). Una serie che non vuole istruire, ma fornire una chiave interpretativa, e interrogare i propri spettatori su tematiche come la giustizia, il desiderio di vendetta e la possibilità di riscatto. A dirigere i lavori il regista danese Bille August, che già si era cimentato con l’adattamento di un classico della letteratura francese nel 1998, con il film tratto dal romanzo Les Misérables di Victor Hugo, a cui aveva donato un finale inaspettatamente positivo omettendo l’ultima parte di racconto, che rischiava di oscurare con la tragicità degli eventi narrati un messaggio di speranza, tradendo così la lettera per salvare lo spirito dell’opera. Secondo August, infatti, per adattare un romanzo «devi trovare una storia nella storia, altrimenti diventa letteratura illustrata. Per essere fedeli a un romanzo bisogna essere infedeli». Le otto puntate di questa serie accolgono un intreccio che può però ben soddisfare chi negli adattamenti va alla ricerca della fedeltà alla lettera dell’originale. Allo stesso tempo, non si tratta certo – né sarebbe opportuno che lo fosse – di una filologica traduzione per immagini del materiale di partenza: la sceneggiatura si prende qualche licenza, senza tuttavia stravolgere le svolte principali della trama o le funzioni dei personaggi.  Le trasformazioni che intaccano la sostanza e donano un taglio personale all’adattamento convergono perlopiù nel finale, luogo e tempo in cui una storia ci pone di fronte alla resa dei conti. Sfuma il personaggio di Haydée, che nel romanzo rappresentava il nuovo amore e la nuova vita di Dantès: egli è ormai un uomo nuovo, nel bene e nel male, andato oltre ogni possibile orizzonte condiviso con Mercédès. In questa trasposizione lo ritroviamo invece a Marsiglia, sullo scoglio che monta la guardia di fronte al Castello d’If, insieme a Mercédès. Sarà lei, davanti alla sua volontà di partire per un viaggio di sola andata, a ricordargli che «l’amore può guarire», lasciando aperta una speranza per un amore che nell’immaginario di Dumas la vita aveva trasformato inesorabilmente. photo Paolo Modugno Questa scelta sembra andare oltre la volontà di “sacrificare” un personaggio, quello di Haydée, in favore di quello del primo grande amore, Mercédès, da cui tutta la storia ha avuto origine, per abbracciare invece una visione più moderna della giustizia poetica, che predilige i personaggi “grigi”, ben lontani dagli archetipi immensamente grandi, nel bene come nel male, della letteratura ottocentesca.  Mercédès rappresenta la possibilità non solo di ricominciare, ma di ricominciare da un punto molto vicino a quello di partenza, pericolosamente simile al punto zero. Nonostante il male che si è fatto. Incontriamo qui un Dantès che non perdona, e che viene posto (e che si pone) solo di taglio di fronte alle terribili conseguenze delle proprie azioni. Anche il bene è visto in trasparenza, quasi non fosse dovuto. Eppure, non vuole essere un’apologia della vendetta: il Montecristo porta con sé l’universalità dei classici, il loro essere senza tempo, e insieme di tutti i tempi. Questa serie getta un velo più moderno su un tema, quello della giustizia e del riscatto, sempre e tremendamente attuale, mostrandoci un riflesso di un’epoca, la nostra, smaniosa di rivendicare diritti, spesso a lungo negati, e meno rigorosa nel richiamare ai doveri. * Il film Mediaset: una storia di redenzione Una trasposizione di orientamento quasi opposto è quella prodotta da Pathé e Chapter 2 (Mediawan), insieme a Fargo Films e M6 Films, e scritta e diretta da Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, già sceneggiatori di un dittico di adattamenti della saga dumasiana de I tre moschettieri (2023). Nel ruolo di Montecristo, Pierre Niney, vincitore del Premio César nel 2015 per la sua interpretazione di Yves Saint Laurent nell’omonimo biopic, e, nei panni dell’abate, il nostro Pierfrancesco Favino. Ci troviamo questa volta di fronte a un film che, per quanto di una durata non indifferente, ha chiaramente a disposizione un lasso inferiore di tempo in cui concentrare una storia lunga e articolata. Da ciò deriva un processo di sintesi dei personaggi: alcuni scompaiono totalmente, altri si fondono in un unico personaggio che riunisce in sé le loro funzioni. È questo il caso di Albert, il figlio di Mercédès e Fernand, e Haydée, attraverso cui si intravede il riflesso di Maximilien e Valentine, la coppia a cui nel romanzo Dantès salva la vita e con essa la possibilità di vivere il loro amore. Ma si va ben oltre la pura necessità “tecnica”. I cambiamenti, anche in questo caso, e ancor di più vista la loro maggiore rilevanza rispetto alla serie, impattano sull’interpretazione che il film desidera dare alla storia originale. L’estetica stessa della pellicola sembra strizzare l’occhio alle atmosfere dei film delle sorelle Wachowski (si pensi a V per Vendetta o a Matrix), e, di conseguenza, ai temi di cui si fanno portavoce: giustizia e vendetta, prigionia e libertà, realtà e apparenza, identità e maschera. La storia dell’eredità del cardinal Spada nascosta sull’isola di Montecristo si intreccia qui alla leggenda del tesoro dei templari, i travestimenti di Edmond non si privano di maschere e protesi degne di Ethan Hunt, e i duelli mancati del romanzo qui si svolgono senza esclusione di colpi. Haydée e il figlio illegittimo di Villefort non si limitano qui a essere semplici pedoni in una partita più grande di loro, ma formano insieme al conte una squadra di vendicatori, e incarnano rispettivamente la sublimazione e l’apoteosi della vendetta: da un lato il perdono, dall’altro la legge del taglione. Sarà proprio l’inutile morte del giovane, ormai consumato dalla sete di rivalsa, che sconvolgerà i piani e l’animo di Dantès. Un Dantès che salutiamo mentre salpa verso l’orizzonte, finalmente sereno, ma solo, diversamente da quanto accade nel romanzo. Il suo testamento è un’ultima lettera scritta a Mercédès: in essa, affida la felicità conquistata alla seconda generazione, composta da Albert e Haydée, che vivranno un futuro d’amore che a Dantès e alla bella catalana, rispettivamente padre adottivo dell’uno e madre dell’altra, erano stati negati. E così la giustizia veterotestamentaria di cui Montecristo stesso si era fatto braccio e spada («È scritto nella Bibbia» disse Montecristo. «“Le colpe dei padri ricadranno sui figli fino alla terza e quarta generazione”, dal momento che Dio disse queste parole al suo profeta, perché io dovrei essere migliore di Dio?»[2]) cede il posto al perdono e alla misericordia. A fronte quindi di una patina marcatamente più moderna della serie firmata Palomar, da kolossal, ritroviamo un senso della giustizia poetica ancora più rigoroso rispetto a quello proposto dal romanzo: l’eroe che ha ceduto alle lusinghe del male non può riconquistare senza abnegazione e spirito di sacrificio una felicità piena. Eppure, invita Mercédès, e con lei gli spettatori, come Dumas aveva fatto con i lettori del romanzo, a meditare sul fatto che tutta la saggezza umana è riposta in queste due parole: aspettare e sperare. * Aspettare e sperare: i Dantès di domani Siamo stati spettatori di due trasposizioni che hanno preso vie anche radicalmente diverse, ma che hanno restituito anime altrettanto autentiche del Montecristo, e tanto è ancora da esplorare. Perché pochi sono i dilemmi umani più ricorrenti e dilanianti del diritto alla felicità. È uno degli insegnamenti che Edmond ci lascia alla fine del romanzo, e che sembra fare eco a un pensiero che lo aveva tormentato alla vigilia del matrimonio con Mercédès, poco prima del fatidico arresto:  «La felicità è come quei palazzi delle isole incantate le cui porte sono guardate dai draghi; bisogna combattere per conquistarli»[3]. E forse il vero grande tema, più che la dicotomia tra vendetta e perdono, è proprio il senso del dolore visto in prospettiva del desiderio di felicità che pervade l’uomo. Felicità che è insieme un diritto e un dovere, anche e soprattutto nei confronti degli altri. Ciascun adattamento ha sottolienato determinati aspetti, ma infinite sono le possibili interpretazioni di questa tematica universale, come infinite sono le chiavi di lettura dei classici. Non ci resta che aspettare e sperare, in quelle che verranno. E lasciarci ricordare da Valentine, come Maximilien quando, alla fine del romanzo, si chiede se mai rivedranno Montecristo:  > «Amico mio, […] il conte non ci ha forse lasciato scritto che l’umana saggezza > sta racchiusa in queste due parole: Aspettare e sperare?»[4]. Chiara Bianchi *In copertina: Victor Hugo, Senza titolo o evocazione di un’isola, 1870 *Il servizio di Chiara Bianchi si pubblica in anteprima, per gentile concessione della rivista “Studi Cattolici”, edita da Ares  -------------------------------------------------------------------------------- [1] A. Dumas, Il conte di Montecristo, traduzione di Emilio Franceschini, Mondadori, Milano 2012, prima edizione Oscar classici, 2 voll., p. 1464. [2] Ibidem, p. 1214. [3] Ibidem, p. 48. [4] Ibidem, p. 1538. L'articolo Il conte di Montecristo, o del diritto alla felicità proviene da Pangea.
March 19, 2025 / Pangea