Un tempo, Daphne du Maurier (1907-1989), la scrittrice inglese, era pubblicata
nella mitica ‘Medusa’ Mondadori. Era una colonna di quella collana. Il suo
romanzo più noto, Rebecca (1938) fu tradotto nel 1940 da Alessandro Scalero
come La prima moglie; ce ne ricordiamo per la versione di Hitchcock, che vinse
l’Oscar e che opera, nella versione italiana, una sintesi tra l’originale e il
tradotto: suona come Rebecca, la prima moglie. Daphne du Maurier indossava un
viso inquieto, da transfuga tra le ombre: amava i cani, morì in Cornovaglia,
reclina in una ricercata solitudine. Spesso ritenuta una scrittrice di seconda
fila, da un po’ di tempo la si è rivalutata a dovere: il Saggiatore ha in
catalogo le sue opere più importanti; questa estate sono usciti Rendez-vous e Il
capro espiatorio; l’anno scorso sono stati editi i racconti con il titolo
complessivo, Gli uccelli, che rimanda a uno dei film più noti di Hitchcock – che
però ha poco a che fare con l’originale. Nel regno anglofono, la casa editrice
Virago ha appena pubblicato come After Midnight “Thirteen Chilling Tales for the
Dark Hours by Daphne du Maurier”. L’introduzione – che qui riportiamo in parte –
è di uno dei più audaci ammiratori dell’opera di Daphne: Stephen King. Buona
lettura.
***
“La scorsa notta ho sognato di essere di nuovo a Manderley”. Questo, tratto
da Rebecca, è uno degli incipit più noti nella storia del romanzo. Di certo, è
il più memorabile: l’ho usato come esergo a uno dei miei libri, Mucchio d’ossa.
Daphne du Maurier ha scritto anche uno dei più riusciti incipit tra i racconti
del perturbante e dell’eccentrico. Gli uccelli si apre così: “Il tre dicembre,
di notte, il vento voltò – e fu inverno”. Breve, freddo, preciso. Potrebbe
sembrare un bollettino meteorologico.
Funziona bene fin dal principio, quel racconto in cui ogni specie di volatile
attacca senza motivo l’uomo: è diretto, realistico, privo di fronzoli. Du
Maurier può evocare l’orrore quando vuole – si leggano The Doll e The Blue
Lenses, come le ultime due pagine di Don’t Look Now – perché sa che a volte, per
infondere credibilità (e suspense) a quanto si racconta ci vuole un tono più
vicino al reportage che alla narrazione pura. La versione cinematografica de Gli
uccelli, appesantita da una storia d’amore tra belle persone hollywoodiane (Rod
Taylor nel ruolo di Mitch e Tippi Hedren in quello di Melanie), non somiglia
quasi per nulla al racconto di Du Maurier. È ambientata nella soleggiata Bodega
Bay invece che nella fredda Cornovaglia, con un numero di personaggi decisamente
in eccesso. L’unica vera somiglianza tra il racconto e il film è nel finale. Nel
film, Mitch e Melanie scappano mentre migliaia di uccelli, appollaiati ovunque,
riposano tra un attacco e l’altro. Cosa accadrà in seguito sarà lo spettatore a
indovinarlo.
La conclusione del racconto è ancora più agghiacciante. Dopo aver fumato
l’ultima sigaretta, Nat aziona la radio, che non funziona. “Gettò il pacchetto
nel fuoco, lo fissò mentre bruciava”. L’ultima frase è perentoriamente
terribile, cupa eppure concreta, come quella che apre la storia. Cosa succederà
a Nat, alla moglie, ai figli? Non lo sappiamo. A Daphne du Maurier non importa –
e ha ragione a non occuparsene. Resta sulla soglia. Ci offre soltanto
quell’ultima sigaretta, che ha il sentore di un plotone d’esecuzione, e un
pacchetto che brucia. Ci dice: decidete voi. Questa è la quintessenza del suo
genio inquietante.
Non sopporto il termine “spoilerare”, diventato di moda insieme ad altri
spiacevoli effetti collaterali di Internet in generale e dei social in
particolare. Trovo che “hai spoilerato!” sia il tipico modo di esprimersi delle
persone viziate. È difficile ‘spoilerare’ una bella storia, perché la gioia
della lettura è nel viaggio non certo nella conclusione. I racconti di Du
Maurier sono un’eccezione alla regola. Parlarne a lungo ne distruggerebbe
l’effetto. Siete nelle mani di un maestro della narrazione. Per giunta,
diabolico.
Lo ammetto: adoro i racconti di Du Maurier. Amo la loro chiarezza, la visione
sontuosamente sinistra che hanno della natura umana, il prodigioso talento
nell’arte narrativa. C’è una ragione per cui le raccolte di racconti, di norma,
sono meno popolari dei romanzi. Con un romanzo, ci si acclimata alla vita di un
gruppo di personaggi, con cui si abita per un paio di giorni (se si legge
voracemente, come mia moglie) o per una settimana e più (se si legge lentamente,
come me). Nei racconti, il lettore deve creare un mondo immaginario che si
smonta in poco tempo. Può essere difficile da accettare. Non è così per questi
racconti.
Entrare nei mondi ideati da Du Maurier è un piacere più che uno sforzo. Anche
quando le cose sembrano relativamente innocue, si percepisce un letale
addensarsi di ombre. È un dono concesso a pochi scrittori.
Non voglio dire altro. Prendete in mano Daphne du Maurier, lasciatevi guidare
nell’oscurità. Il suo talento è una torcia. Invidio le sue scoperte. Invidio il
vostro prossimo disagio.
Stephen King
L'articolo Sul suo genio inquietante. Stephen King parla di Daphne du Maurier
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