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Contro il tempo. Il manuale marziale di Valerio Zecchini
> “Io non sono un uomo, sono dinamite” > > Friedrich Nietzsche  Ci vuole coraggio a leggere Valerio Zecchini, onestà intellettuale, capacità di ragionare trasversalmente, di confrontarsi criticamente e in solitudine con se stessi, consapevolezza della provvisorietà di certi giudizi e della insussistenza della “nera scienza catalogale”, avanguardistica brama demolitoria, voluttà di cieli e di fango, vocazione per la provocazione e per la tradizione vivente, che trascende i suoi stessi dogmi, i luoghi comuni.  Con questo spirito e rassegnati financo a non condividere affatto alcune delle sue tesi, è possibile esperire l’essenza di un libro che è molto più di un reportage sulle orme di un poco noto fondatore di Stati quale è stato il carismatico James Brooke. La silloge di articoli, interviste e poesie James Brooke e altre storie dall’Oriente estremo, edito da Pendragon nel 2025 e introdotto da Gabriele Marconi, sulla carta prende difatti le mosse dalla enigmatica, succitata figura per poi discostarsene conservandone per così dire la tendenza alla esplorazione, a tratti sonnambolica, labirintica e surreale, di luoghi fisici e metafisici, delle emozioni, delle culture, delle arti, del pensiero. L’idea di partire da James Brooke, ovvero dal cattivo della saga salgariana di Sandokan e ispiratore di Lord Jim di Conrad, ha qualcosa di libertario. Brooke, ancora oggi celebre nel mondo anglosassone e pressoché sconosciuto in Italia, non fu infatti soltanto un individuo benestante di sangue inglese nato in India da un funzionario della Compagnia delle Indie Orientali e un ufficiale della marina britannica, ma un rajah bianco che governò in autonomia ed estese lo Stato del Sarawak fondando nella città dei gatti (Kuching) una vera propria dinastia (1841-1946). Brooke realizzò anche un originale esperimento politico che non si ridusse alla guerra contro i pirati malesi e i cercatori di teste avendo invece come principio fondamentale il coinvolgimento dei nativi (“ideologia dell’imperialismo umanitario”); dotato di “semangat” (“coraggio fisico, carisma, forza spirituale”), fu pure un elegante libertino; un omosessuale amante come Pasolini di giovani in un tempo in cui l’adolescenza, scrive Zecchini, non era stata ancora inventata; un artista, se accettiamo di annoverare tra le arti quella della vita. E in fondo l’idea secondo cui l’arte e la vita siano una sola cosa e che dunque, sprofondando talvolta nell’abisso di abbandonate strade e parole, si debba forgiare l’esistenza come un’opera, è il retroterra di molte delle riflessioni di Zecchini, il quale è primariamente – potremmo dire alla Wagner “totalmente” – un artista (non a caso fondatore, col compianto Dario Parisini e Luca Oleastri, del post-avanguardistico progetto poetico-sonoro Post Contemporaney Corporation nonché artefice nel 2024 dell’evocativo, visionario, corrosivo, esoterico e a dir poco provocatorio album Patriottismo psichedelico).  Certo, la parola “artista” potrebbe fuorviare laddove si intendesse alludere a un certo tipo di “sentimentalismo abietto” che, potendo sfociare in un cieco e vuoto individualismo edonistico, potrebbe ingenerare cedevolezza interiore, debolezza di carattere e di pensiero. L’arte di Zecchini non ha infatti nulla di cedevole ma molto di eroico, marziale, immaginifico, “futuristico”, potentemente dadaistico – come mostra lo stesso incedere dei suoi irriverenti versi declamati e delle poesie presenti nella stessa raccolta. E, in effetti, ciò che attrae di più di questo libro e in parte della stessa produzione musicale di Zecchini, non ha a che fare soltanto con le seppur stimolanti informazioni di prima mano sulla situazione di vari Stati dell’Estremo Oriente e con la vivida capacità di scandagliarne l’anima al di là dei fenomeni politici transeunti. Ciò che coinvolge e apre maggiormente alla riflessione è piuttosto la weltanschauung da cui tutto, esperienze e viaggi compresi, si anima. Ci si riferisce all’idea secondo cui la stessa Tradizione resta viva e non scade in “stolida adorazione della consuetudine” nel momento in cui la si interroga e violenta tutti i giorni; ci si riferisce inoltre alla volontà di decostruire con spirito iconoclasta l’uomo contemporaneo e i suoi “troppo umani” ideali per dischiudere una via che conduca alla formazione dell’individuo assoluto – tipo umano diametralmente opposto all’ultimo uomo che solca con esibizionistica spavalderia e sconfortante superficialità le lande di questa età oscura.  Per realizzare questo compito dalla portata metafisica si dovrebbe procedere oltre le de-terminazioni incasellanti, praticare se stessi al di là del bene e del male, sprigionare le energie ataviche e avvicinarsi a una dimensione di coincidentia oppositorum da cui diventare dinamicamente “ciò che si è”. Considerando questi principi che, pur discostandosene parecchio, sembrano qua e là rievocare per quel che concerne gli argomenti la metafisica del sesso di Julius Evola, è possibile – ma non facilissimo né necessariamente condivisibile! – interpretare la pratica del travestitismo come un modo per trascendere i propri limiti e identificarsi, mediante una esistenza estetica e controcorrente, con un essere androgino. In questo senso viene analizzata la figura dell’Onnagata del teatro giapponese che, pur essendo di sesso maschile e non profanando il proprio sacro corpo, si veste e vive come una donna non soltanto quando recita, ma anche quotidianamente. Egli ha così modo di immedesimarsi integralmente con la figura primordiale che rappresenta “facendo della sua esistenza un sublime esercizio di stile”, realizzandosi hic et nunc, “come se si fosse sempre in punto di morte”. Per evitare che il discorso tracimi nella celebrazione del mondo LGBT e dunque del mondo moderno che lo incornicia, Zecchini, pur non scadendo in una acritica e banale demolizione di questo universo ma ricordando comunque “l’edonismo pezzente che domina il mondo drag queen e transgender”, sottolinea come nell’età classica l’omosessualità fosse vista alla stregua di un potenziamento della virilità e assumesse in certe culture orientali una funzione sacrale, essendo l’omosessuale considerato una sorta di tramite tra il mondo fenomenico e quello sovrannaturale, degli dèi. Nella misura in cui non degenerino in forme di individualismo materialistico e di nichilismo passivo ma siano pura epifania di un’“etica della gioia”, di un “militarismo che danza”, certe esperienze erotiche e la relativa estetica assumerebbero perciò un valore esistenziale, filosofico, finanche morale. Non si tratterebbe infatti di rivendicare semplicemente i propri diritti e di combattere per l’esaudimento dei propri desideri, ma di esperire quasi cristologicamente il proprio dolore minando con grazia, artisticità e colore i duri involucri che imprigionano e irretiscono le energie primigenie per farle eruttare in una sorta di amoralistica volontà di potenza oltre ogni limite imposto: >  “dare precedenza a un ideale estetico e non alla solita, obbligatoria logica > del profitto è un atteggiamento che oggi già di per sé assume una valenza > quasi eroica”.  In questo senso si comprende quanto l’autore scrive di Mishima:  > “nella sua vita e nella sua opera le virtù virili archetipiche (audacia e > determinazione, senso dell’onore, controllo delle passioni, resistenza al > dolore) incontrano finalmente la grazia e l’eleganza”. Nella intervista contenuta nel libro il poliedrico artista spiega tra l’altro la teoria del quarto sesso – “quarto” rispetto a maschile, femminile, omosessuale. Zecchini rispolvera a tal proposito il Manifesto della donna futurista e il Manifesto futurista della lussuria di Valentine de Saint-Point e cita il “femminismo differenzialista” di Luce Irigaray pensando che ritenere nulle le differenze tra i sessi costringa infine il femminile ad adeguarsi al modello del “maschio integro”; Zecchini afferma che le differenze tra i sessi vadano sviluppate ma che allo stesso tempo alcuni possano sperimentare “le pluralità contenute in quelle differenze” per “vivere negli stati molteplici dell’essere” puntando “all’inveramento dell’individuo unico e assoluto” e trovando nel travestimento stesso la modalità per esplorare la vera essenza dell’uomo: l’angelo, “entità androgina per antonomasia”. Il poeta ci tiene altresì a sottolineare che il quarto sesso non è altro che lo stesso Zekkiny: >  “l’altissima qualità della sua vita interiore, la sua sovrabbondanza ormonale > e il modo in cui reagiscono la sua opera e il suo mondo relazionale a tale > sovrabbondanza”. Di conseguenza pare che, pur essendo rispettate e sviluppate le differenze di genere, queste si possano evidentemente celare financo in uno stesso individuo e solo pochi avrebbero la capacità estetica di attuarle tutte e di coagularle alchemicamente in un unico plurivalente modo di essere tramite la via della “sperimentazione dinamica”. È così che, oltre al sottofondo antiumanistico che ricorda per certi versi l’analisi heideggeriana e ai riferimenti alla riflessione filosofica e artistica post-contemporanea, si colgono i richiami nietzscheani che tra l’altro indirizzano a rivalutare in positivo l’estetizzazione della esistenza, la quale, però, non deve innescare recessivi fenomeni di infiacchimento, ma al contrario autodisciplina, lavoro incessante su se stessi, spasmodica cura dei particolari e dello stile, spirito guerriero, forza plastica, a un tempo dionisiaca e apollinea, femminile e maschile. Nella esperienza di alcuni individui straordinari, ovviamente non necessariamente omosessuali, l’uomo sarebbe destinato a essere superato o, a seconda di come si interpreta la stessa nozione di Übermensch, potenziato a tal punto da oltrepassare la mera individualità egoica e le sue rigide conformazioni per essere come le onde del mare altro dal mare e lo stesso mare, la sua indomita, sempiterna, multiforme, elementare energia creatrice. Questa trasfigurazione che assume valenze esoteriche e dopo la morte di Dio sfocia in una sorta di estetica pratica dell’estasi, coinvolge l’esistenza integralmente facendo dell’arte un modo religioso della vita e della vita un modo religioso dell’arte. Siffatta sacrale estetizzazione non può rinnegare i materiali che utilizza per conferire bella forma al mondo.  Affiora perciò non solo la propensione a considerare il nichilismo in senso attivo ma a cavalcare senza remore moralistiche la tigre della modernità servendosi dei suoi stessi strumenti tecnologici e virtuali; per questo ad esempio sono valutate positivamente la “poetica del pixel” di Yayoi Kusama e la connessa filosofia della “self-obliteration” che intende “annullare l’io di superfice e farlo uscire dal gioco dei ruoli e delle funzioni” per “percepire noi stessi in modo tale da pervenire ad un’inscindibile armonia tra intimo ed estrinseco”. Epperò, se da un lato è necessario decostruire per ricreare e redimere il mondo nella bellezza, dall’altro bisogna essere inattuali e, al di là della stessa avanguardia, indossare “la lucente corazza della Tradizione” facendone propri i valori essenziali: coraggio iconoclasta, aristocratico senso della irriverenza, ardore e senso della sfida, dignità e “capacità di sapersi accontentare” contro la morbosa etica del profitto, “autentico cameratismo” , “amore per la natura” e non per l’efficienza, “amore di patria” e non “sciovinismo”, saper essere all’occorrenza semplici e frugali, capacità di comandare e di avere fede, ad esempio nell’Imperatore. I nomi che in un modo o nell’altro e ognuno in modo originale hanno costruito delle vie in un certo senso estetizzanti e assai critiche rispetto al mondo moderno sono tanti, tra questi Pound, D’Annunzio, Keller, Miller, Marinetti, Carmelo Bene, Dino Campana e vari altri artisti come Andy Warhol o Takashi Murakami, musicisti come Battiato e scrittrici come Wei Hui.  Il superamento estatico della morale borghese e del moralismo nonché la stessa sublimazione estetica e la capacità di disfare l’individualità “per approdare all’oceano della pura coscienza” ed “essere tutto senza tentare di essere qualcosa”, possono concretarsi anche nella via dello zen (“raccoglimento e silenzio”) o nella via del rumorismo elettronico (“pulsare ossessivo del ritmo”) e possono produrre a seconda dei casi anche l’auto-annientamento – di cui è emblema moderno il sacrificio catartico di Mishima.  Il libro di cui si discute è denso di informazioni sugli Stati asiatici dei quali Zecchini ha vissuto con poetico slancio dionisiaco strade, uomini e numi. Non ci troviamo perciò davanti a una esegesi che pecchi di astratto accademismo, ma di fronte a una interpretazione assai personale della civiltà orientale che si incontra con la corruttiva occidentalizzazione, con la globalizzazione e che, in alcuni casi, fa i conti col devastante passaggio del comunismo. E se con perfetta, a tratti spietata sincerità l’autore osserva come buona parte degli Stati in questione siano assai diversi dall’idea rarefatta che di solito se ne ha in Occidente, ci fa percepire pure che qualcosa di originario è rimasto. L’originario, però, è tale se è in grado di reinventarsi illimitatamente, come fanno alcuni leader orientali armonizzando consumismo ed ecologismo, libertà e senso della comunità, crescita economica e solidarietà, modernità e tradizione, io e noi. Con Zecchini si ha l’impressione che l’Occidente possa essere letto a partire dall’Oriente e l’Oriente a partire dall’Occidente per approdare forse a una nuova, viva sintesi che, pur rispettando le reciproche differenze, parimenti le distilli e potenzi in una originale concezione del mondo e dell’uomo. Leggendo Zecchini si ha infine l’impressione che nella autentica ricerca di se stessi gli schemi debbano per forza saltare in aria e i luccicanti frantumi barbagliare nel caotico ordine di un etere rinnovellato. Si tratta del cielo di un falco inattuale, intimo dei demoni e intero nel frammento, che come un terribile, altro viandante agisce rapsodicamente  > “contro il tempo, e in tal modo sul tempo, e, speriamolo, a favore di un tempo > venturo”.      Luca Caddeo *In copertina: una fotografia dal Giappone di Felice Beato (1832-1909) L'articolo Contro il tempo. Il manuale marziale di Valerio Zecchini proviene da Pangea.
August 5, 2025 / Pangea
Cinque rose sulla tomba di Drieu. Viaggio nel cuore di un genio tragico
Sui passi di un imperdonabile, le gambe percorrono a piedi i chilometri di strade smemorate per strapparlo ancora una volta via dai recessi della Storia, dove i parigini hanno lasciato il suo nome sotto una coltre di polvere e ignominia. Marco Spada, dottorando presso l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, saggista e traduttore, ci porta dentro Le Parigi di Drieu (Bietti, 2025; s’intende: La Rochelle), tracciando una mappa geografica e sentimentale della capitale, in cui il tempo di ieri si sovrappone a quello caotico e strafottente di oggi, nell’intreccio di vita e opera. “Non vi è nulla a Parigi che lo ricordi”, scrive Spada. > “Di lui non è rimasto neppure l’edificio nel quale ha deciso di mantenere la > sua parola. Demolito, è stato rimpiazzato da un altro palazzo. La casa dov’è > nato è ancora lì, così come il Parc Monceau o l’Hôtel d’Orsay. Tuttavia, > bisogna immaginarselo, prendere con sé i suoi testi e camminare a piedi lungo > le strade di Parigi, riscoprendo il gusto mediterraneo dell’estetismo armato > tra i boulevard ghiacciati, quando a gennaio il termometro segna -12, e > degustando, irrimediabilmente, una degna polibibita al Maxim’s.” Aggiungendo che forse è meglio così, troppo spesso l’onorificenza coincide con un oltraggio. Seguendolo in queste estenuanti passeggiate, in cui il racconto coinvolgente a volte non solo fa dimenticare dove finisce Marco Spada e comincia Drieu, ma ci trascina direttamente su quei boulevard, cominciando il viaggio da una libreria di rue de Médicis, dove scaffali ricolmi di esistenzialismo e poesia contemporanea accolgono con diffidenza lo studioso in cerca di “un suo consanguineo”. Scopre così dalle parole del libraio, che di La Rochelle non si parla mai se non in relazione ad un altro reietto geniale, Robert Brasillach e all’occupazione tedesca. Del resto, a Parigi l’abbraccio mortale e moralisteggiante di Letteratura e Storia, inaugurato dalle parole di De Gaulle sugli Champs-Élysées, in una città appena liberata nella tarda estate del 1944, “Il talento impone l’obbligo di una superiore responsabilità”, diede il via alla stagione dell’epurazione sulla scia dell’art. 75 del codice francese, massima punizione per gli scrittori colpevoli di intelligenza col nemico.  Impossibile ricomporre gli strappi sul piano dell’arte, che trascende i limiti degli artisti in nome dell’opera conducendo invece ad una loro esacerbazione, selezionando con malevola acribia i nomi meritevoli di memoria.  Eppure, l’opera in qualche modo resta e ci interroga.  Interroga la nostra libertà e il nostro spirito critico, che fioriscono proprio dentro le contraddizioni, perfino quelle più odiose e per questo dolorose, del cuore dell’uomo. Nomi che non sta bene pronunciare, dunque, altrimenti cade su di sé la mannaia del sospetto. Marco Spada, profondo conoscitore e amante dell’opera di questo dandy pessimista, dando fondo alle lettere e soprattutto agli scritti più autobiografici, come Il diario, recupera con una scrittura coinvolgente e padrona dell’argomento, sia letterariamente che storicamente, le Parigi dell’infanzia e dell’adolescenza di Drieu, in cui “diventa oggetto della cupidigia e della rivalsa dei genitori, sentimenti che lo accompagneranno funestamente per tutto l’arco della vita, sfociando negli scritti al vetriolo di Stato civile e nel romanzo Piccoli borghesi”.   Scrive Stenio Solinas nell’introduzione che inaugura il volumetto, che se si guarda alla biografia di Drieu La Rochelle a partire dagli anni Venti, si scopre un parigino poco stanziale, per cui è difficile trovare traccia di un radicamento o “una corrispondenza di amorosi sensi” con la città. Ma l’accurato e appassionato lavoro filologico di Spada ricostruisce le strade e i quartieri restituendoci un’immedesimazione tra Drieu e Parigi che non emerge dai suoi romanzi. Un viaggio che non si esaurisce in un solo volto della città, ma ne racconta tre, perché lo sguardo di Drieu che la accarezza – con amore-odio – conosce diverse fasi.  Due date e due indirizzi, alfa e omega della vita dello scrittore nella capitale francese: 3 gennaio 1893, decimo arrondissement; 14 marzo 1945, 23 di rue Saint Ferdinand.  A cinquantadue anni, Pierre Drieu La Rochelle, ormai braccato dal redde rationem imposto dal nuovo corso, con una dose massiccia di Gardenal porrà termine ai suoi giorni, alle sue Parigi e ai suoi amori con le donne – tra tutte, Colette, Olesia e Victoria Ocampo – le uniche creature ad avergli dato per istanti mai abbastanza lunghi, la sensazione di potersi radicare nella vita.  E una raccomandazione: al termine di questo viaggio metafisico, posare cinque rose sulla tomba di Drieu a Neuilly, dove c’è ancora la bianca pietra tombale con la sigla B. à H. fatta incidere da Christiane Renault, le iniziali dei due protagonisti-amanti di Beloukia, omaggio di La Rochelle al suo amore per lei.  Livia Di Vona L'articolo Cinque rose sulla tomba di Drieu. Viaggio nel cuore di un genio tragico proviene da Pangea.
August 2, 2025 / Pangea
La mente è un campo di battaglia. “Auto da fé”: storia di un libro necessario
Si alza un fumo denso da una biblioteca addormentata, tra scaffali muti e finestre sigillate. Una lingua di fuoco percorre costole di volumi, lambisce l’inchiostro, accarezza le idee fino a consumarle e trasformarle in alveo perturbante. L’aria è immobile, ma qualcosa brucia, lentamente, silenziosamente, nel cuore stesso del pensiero. Là dove la mente si fa tempio e prigione e il sapere incanta, inabissa, devasta. L’incontro tra follia e cultura ha un nome, un volto, un ordine narrativo. Esso nasce come visione, febbre, vertigine. Il delirio e l’erudizione di Auto da fè sono incisioni su lastre di vetro: ogni parola taglia, rifrange, moltiplica. E ciò che prende forma è il ritratto di un’intelligenza assoluta e assolutista, che cerca nella purezza intellettuale la salvezza, trovandovi invece la più irreversibile delle solitudini. > “La nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità”. Il romanzo-mondo di Elias Canetti, apparso nel 1935 sotto il titolo tedesco Die Blendung è un’opera unica, per certi versi indecifrabile, e si offre al globo come labirinto, rogo in cui la parola si consuma nel falò della conoscenza. Il protagonista, Peter Kien, sinologo di fama internazionale, vive immerso in un culto libresco che sconfina nella più feroce misantropia. La sua esistenza ascetica si svolge interamente tra gli scaffali della sterminata biblioteca privata: ottantamila volumi, che Kien definisce “le uniche creature degne di rispetto”. La realtà esterna, per Kien, è un’interferenza da cui difendersi; la lingua un’arma da perfezionare sino alla lacerazione. Ma come ogni sistema autoreferenziale, anche la sua torre di Babele è destinata a crollare. Il matrimonio con la sua governante Therese, figura grottesca e carnale, antitesi vivente della purezza intellettuale, innesca una vertiginosa discesa nell’abisso. > “Poco mancava che Kien cedesse alla tentazione di credere nella felicità, > questa spregevole meta degli analfabeti”. Canetti, ebreo sefardita nato il 25 luglio del 1905 a Ruse e cresciuto fra Vienna, Zurigo e Francoforte, scrive questo romanzo negli anni in cui l’Europa si inabissa nel culto della forza e della massa, su cui Canetti inciderà con il celebre Massa e potere. In contrasto, Auto da Fé, a lungo ignorato, ha trovato un nuovo eco nel secondo dopoguerra, anche grazie al riconoscimento tardivo conferito a Canetti con il Nobel per la Letteratura nel 1981. Il titolo originario, Die Blendung, evoca l’accecamento, tanto fisico quanto metaforico: è la cecità dell’intellettuale isolato, incapace di leggere i segni del tempo; ma è anche la cecità della cultura quando si chiude in sé stessa, quando diventa autorità dogmatica, repressione del corpo, negazione del mondo. Non a caso, il titolo inglese, scelto da Canetti stesso, Auto da Fé, richiama i roghi inquisitoriali, in cui i libri, e le idee, venivano ridotti in cenere. Il sapere che brucia se stesso. A livello stilistico, Auto da fé è un’opera straniante, costruita su un linguaggio ossessivo, talora volutamente meccanico, che restituisce la rigidità mentale dei personaggi. Ogni figura è iperbolica, caricaturale, come se uscisse da un incubo kafkiano o da una pièce espressionista: Therese, massa informe e famelica; il portinaio Fischerle, gobbo paranoico e megalomane; Georges, il fratello psichiatra, emblema della razionalità normalizzante. Tutti i personaggi orbitano attorno a Kien come satelliti impazziti, e insieme compongono una satira amara della società moderna, in cui la cultura non salva, ma isola, ossifica, disumanizza. > “Si potrebbe quasi credere che sia un morto. A che scopo vive un essere di > quella specie […] Una persona simile non serve a nulla.” In questo senso, Auto da fé è una critica radicale alla fiducia illuminista nella ragione. Kien non è un umanista, ma un feticista del sapere; la sua cultura è ritiro solitario, la sua mente una camera stagna. Lungi dall’essere salvifica, la conoscenza diventa un assoluto che divora colui che la persegue. “Chi non ha libri è perduto,” dice Kien. Ma Canetti ci mostra, con feroce lucidità, che chi ha solo libri lo è altrettanto. Proprio per questo, pochi giorni fa, ho deciso di incidere Kien sulla mia pelle; il suo volto baffuto che si fascia gli occhi per isolarsi nel suo mondo, per essere come quei ciechi che lui stesso ama e detesta; Kien sta lì, completamente perso, cieco volontario tra i ciechi inconsapevoli, a ricordarmi che oggi, in un’epoca segnata dal sovraccarico informativo, dall’inflazione dei saperi e dalla crisi dell’autorità intellettuale, la sua storia risuona con un’attualità inquietante. È un monito contro ogni forma di idolatria del sapere, contro la tentazione di annientarsi, di nascondersi dentro un cervello inanime, di rinchiudersi nella torre d’avorio della propria persona.  > “Al mondo, dice, ci sono troppi libri e troppi stomaci affamati.” Elias Canetti ci considera impotenti, non vuole e non può proporci soluzioni o redenzioni. Ci offre solamente un ritratto impietoso della mente contemporanea, colta nel momento della sua combustione. Un cervello in fiamme, come la biblioteca di Kien. Un’auto da fé, appunto, in cui si brucia non solo il corpo dell’intellettuale, ma anche la sua illusione di dominio. E in questo luglio che si arroventa, non possiamo non ricordare che il 25 saranno trascorsi 120 anni dalla nascita di Elias Canetti. 120 anni dalla comparsa di uno spirito lucido e profetico, che ha saputo guardare nell’occhio della follia collettiva senza arretrare, e che ancora oggi ci parla con una voce che arde come brace sotto la cenere della storia. Auto da fé è un’opera al limite tra sapere e psicosi, tra parola e silenzio, tra individuo e massa. Canetti ci costringe a interrogarci non solo su ciò che sappiamo, ma su come e perché lo sappiamo. L’anima di Kien è rovina nobile, cattedrale gotica che crolla su chi la abita troppo a lungo. Il pensiero, se assoluto, si chiude con catene d’oro, lucide e serrate. E allora, cosa ci resta? Il crepitio, l’eco. Resta la figura dell’intellettuale come incendiario e superstite, come martire di un sapere che abbaglia e consuma. Canetti ci insegna che la mente è un campo di battaglia e solo l’incendio può redimerci; nel buio della catarsi, l’abisso sa leggere anche noi. Tommaso Filippucci *In copertina: Francisco Goya, Capricho No. 23: Aquellos polvos L'articolo La mente è un campo di battaglia. “Auto da fé”: storia di un libro necessario proviene da Pangea.
July 22, 2025 / Pangea
“Corremmo in acqua”. Hertha Pauli, memorie dal cuore del secolo
Il modo migliore per festeggiare la nascita di una nuova casa editrice, che fin dai primi titoli appare più che promettente, consiste a mio parere nel dedicarle almeno una recensione, scegliendo, in un catalogo ancora smilzo ma in rapido sviluppo, un titolo che sembra davvero interpellarci. Mi riferisco a Palingenia, una nuova realtà editoriale sospesa fra Milano e Venezia – che delle due città dovrebbe riunire l’efficacia, da una parte, e il fascino, dall’altra –, e qui in particolare alle memorie della scrittrice austriaca Hertha Pauli intitolate Lo strappo del tempo nel mio cuore, pubblicate in edizione originale nel 1970, riedite più volte (l’ultima da Zsolnay tre anni fa) e tradotto oggi con vivace fedeltà, appunto per Palingenia, da Enrico Arosio. Il bellissimo titolo, così drammatico e suggestivo, è la variante di alcuni versi di Heinrich Heine, come la stessa Pauli debitamente riconosce nel prologo; e se il cuore è quello della narratrice-protagonista, il tempo è l’oscuro e tormentato periodo che porterà allo scoppio della Seconda guerra mondiale, mentre lo strappo è quello a cui ciascun individuo e dunque l’intera collettività furono sottoposti e costretti dalla follia di pochi, da un lato, e dall’altro anche da un concorso di circostanze inopinate e inarrestabili che ci sembra oggi così prossimo forse perché – pur riconoscendo che la storia non si ripete mai del tutto – in quell’epoca troviamo tante sfortunate analogie con la nostra. A corroborare quest’ipotesi e a suscitare allarme nel lettore di oggi basta un breve passo in cui la scrittrice racconta quali furono le reazioni popolari, da parte quindi della gente comune, alle prime decisioni prese per contrastare la politica hitleriana: “L’Inghilterra aveva dichiarato guerra ad Adolf Hitler. E la Francia? – che cosa faceva la Francia? Per ora neppure una parola… Le signore al tavolo accanto si misero a strepitare. L’Inghilterra, sentii, ci trascinerà di nuovo in guerra… Ma chi ce lo fa fare di combattere per la Polonia?” Sostituite Ucraina a Polonia e l’equazione diventa quasi imbarazzante. Ma chi era Hertha Pauli, anzitutto? Nata nel 1906 in una famiglia della borghesia intellettuale viennese, ebrea, come molti, a metà, in quanto il padre, Wolfgang Josef Pauli, medico e biochimico, benché nato ebreo si era convertito da tempo al cristianesimo, Hertha è anche la sorella minore del fisico e futuro premio Nobel Wolfgang Pauli. A diciassette anni interrompe gli studi liceali per darsi al teatro e va a recitare prima a Breslavia, poi con Max Reinhardt a Berlino. Quando di anni ne ha ventuno, la madre, giornalista e fra le prime esponenti del movimento femminista, si toglie la vita. Nel 1929 Hertha sposa l’attore Carl Behr, ma divorzia tre anni dopo, essendosi nel frattempo innamorata di Ödön von Horváth. Quando questi le annuncia l’intenzione di sposare un’altra donna, anche Hertha tenterà il suicidio, ma sarà salvata e manterrà anche in futuro una stretta amicizia con il drammaturgo.  Nel 1933, vista l’atmosfera che si respirava in Germania, se ne torna a Vienna, dove apre un’agenzia letteraria che rappresenta autori di lingua tedesca e stranieri. Cinque anni dopo, con gli amici Karl Frucht (Carli) e Walter Mehring, che compariranno spesso nel libro, decide di trasferirsi a Parigi, passando per Zurigo (dove dovrebbe incontrare il fratello, che però si trova già a Cambridge), prima che l’Anschluβ di un paese umiliato, ridotto a insignificante Ostmark (marca orientale) del Reich tedesco, finisca per rendere impossibile qualunque fuga. Non le manca anche qualche ragione personale: la sua biografia della pacifista Bertha von Suttner, Nur eine Frau, non era affatto piaciuta ai nazisti, che l’avevano messa in cima ai libri vietati. In ogni caso, l’intuizione di Hertha è giusta: altri intellettuali della sua cerchia, che si muovono leggermente in ritardo, non sfuggiranno più alle truppe tedesche. Neanche Parigi, tuttavia, è sicura, lo diventa anzi sempre meno con il passare dei giorni e dei mesi, tanto che nel 1940 Hertha dovrà lasciarla per raggiungere la parte ancora libera della Francia, con la speranza di trovare, a Marsiglia, in Spagna o in Portogallo, un passaggio per gli Stati Uniti.  Per farla molto breve e lasciare al lettore il piacere di scoprire, leggendo il libro, i dettagli della fuga, assieme a Franz Werfel e alla moglie Alma, Hertha figurerà – nel suo caso specifico grazie alla segnalazione di Thomas Mann, al quale aveva cercato di rivolgersi per un aiuto all’inizio delle ostilità – fra i numerosi intellettuali salvati da Varian Fry con la lodevole e a lungo misconosciuta iniziativa dell’Emergency Rescue Committee, per il quale Fry era riuscito ad avere il sostegno (discreto ma tenace) della First Lady, Eleanor Roosevelt. (A proposito di storia che non si ripete, direi che a distanza di generazioni non si ripetono nemmeno il valore, la sensibilità e la cultura delle First Ladies.) Venendo ora al libro, la scrittura di Hertha Pauli è una scrittura asciutta e funzionale, perfettamente adatta a un memoir, senza voli pindarici ma fresca e avvincente. Non v’è dubbio che abbia il dono della sintesi e idee chiare su come raccontare e sviluppare una storia. Al contempo, sa benissimo di non possedere né la stoffa né il talento dei grandi scrittori che ha incontrato e che fanno capolino da queste pagine, da Ödön von Horváth, di cui racconta l’assurda morte e il funerale, a Joseph Roth, da Franz Werfel a Walter Mehring. Non è forse un caso che anche in seguito, durante la lunga permanenza negli Stati Uniti, e fino alla morte nel 1973, Pauli si sia dedicata prevalentemente alla letteratura di genere, e in particolare a quella per ragazzi. Non le manca però­ – e per un memoir come questo è fondamentale – la capacità di cogliere il dettaglio significativo, finendo per regalarci quasi inavvertitamente qualche piccola perla descrittiva ed evocativa come il passaggio seguente, posto a metà libro, proprio all’inizio dell’ottavo capitolo:  > “Arrivammo a Étampes al sorgere del sole. Trovammo un paese in macerie. Ecco > spiegati i lampi dell’ultima notte. Appoggiata alla porta mezza sfondata di > una casa c’era una donna. Impietrita dallo spavento, con gli occhi sbarrati > scrutava il cielo, ritornato azzurro e vuoto. Ci avvicinammo e le chiedemmo > indicazioni sulla strada. Non si mosse. Solo allora notammo l’azzurro e il > vuoto anche nei suoi occhi.” Molto incalzanti e precise anche le pagine iniziali, in cui racconta come, attraverso quale insieme di sotterfugi e di umiliazioni, si arrivò all’Anschluβ: la convocazione di Schuschnigg nel “covo dell’aquila” di Hitler a Berchtesgaden, le manovre di Seiβ-Inquart, l’imposizione dell’amnistia per gli assassini di Dollfuss, lo scippo del referendum popolare. Un prologo da cui si dipana poi, in un drammatico crescendo, una vicenda umana individuale che acquista però subito una valenza simbolica e collettiva. Uno degli elementi che ci accompagnano lungo tutta la lettura è l’ardua gestione, da parte della protagonista, delle coordinate di tempo e spazio. La sua fuga avviene infatti sotto il segno (e la maledizione) di entrambi; è costretta non solo a continue dislocazioni logistiche, ma anche ad accelerazioni repentine e rallentamenti che le permettano di sfuggire quanto più a lungo possibile fra le maglie tanto dell’esercito invasore (i tedeschi ormai penetrati capillarmente in Francia), quanto della stessa gendarmeria francese a caccia di stranieri e presunte spie, da deportare in campi d’internamento come quello di Gurs. (Fu questo del resto il destino di chi come Thea Sternheim, tanto per fare un solo esempio, era rimasto a Parigi; anche in questo caso, Hertha capì subito i rischi ai quali si esponeva.) Una riuscita descrizione di questa percezione del tempo la si trova in uno dei passaggi dedicati, sempre con estremo pudore, alla storia d’amore che riuscirà a vivere anche in frangenti così drammatici:  > “Insieme alla schiuma della risacca anche i minuti si dissolsero nella sabbia. > Corremmo in acqua. Mi dimenticai di togliere l’orologio che avevo al polso. Le > lancette si fermarono, ma non le onde. Ingannammo il tempo per tutta la durata > della marea.” Ingannare il tempo, e con esso la soldataglia che la bracca per tutta la Francia: questo, il compito principale della fuggiasca che, a volte sola, a volte in compagnia di amici e conoscenti quasi miracolosamente ritrovati nei vari spostamenti, finisce per raggiungere Marsiglia e infine per salvarsi, approdando a Hoboken, nel New Jersey, il 12 settembre 1940. Just in time… Un’altra immagine o elemento simbolico che ricorre più volte nel libro è quella del ponte: la presenza discreta di quello del paesino di Clairac, dove Hertha sosta in contemplazione ogni qualvolta riesce a ritagliarsi un attimo di serenità, rimanda irresistibilmente alla sua stessa concezione della vita, all’immagine di sé come ponte fra due mondi e due culture. Prima, a Vienna, in quanto agente letteraria che si occupa della traduzione e della pubblicazione di opere straniere, poi – una volta trasferitasi negli Stati Uniti – come trait d’union fra la cultura europea e quella americana. Hertha Pauli (1906-1973) Molti, dicevo, gli accenni ai colleghi e amici lasciati per strada o ritrovati il più delle volte in modo fortunoso. Senza voler mai apparire didascalico o emblematico, in qualche modo il libro è (anche) un inno all’amicizia, all’inseparabilità di certi destini. Colpisce inoltre sempre la lucidità e insieme la delicatezza con cui la scrittrice affronta temi tragici come quello del suicidio. Si vedano le poche ma intense righe dedicate a Weiss, scrittore ceco in fuga e povertà perpetua, sostenuto finanziariamente, con la sua proverbiale generosità, da un altro grande suicida di quegli anni, Stefan Zweig:  > “Ernst Weiss, invece, fu scovato dai tedeschi lì a Parigi ­­– morto. Nel suo > albergo si era tagliato le vene dei polsi. Per andare sul sicuro, essendo > anche medico, prima aveva pure assunto del veleno. Lo avevamo lasciato solo. È > una cosa, questa, che non mi sono mai perdonata.”  Come per Hasenclever, anche per Weiss gli americani avevano predisposto un visto d’espatrio, ma essi non ne erano al corrente. Ed ecco allora che i due si aggiungono all’elenco degli altri suicidi eccellenti di quegli anni, che comprende anche Benjamin, Toller, Stefan Zweig e Joseph Roth (sia pure, in questo caso, per interposto alcol). L’elenco degli scrittori tedeschi e austriaci morti suicidi in quel breve e drammatico episodio della storia è davvero lungo e impressionante, e terribilmente denso in termini di qualità. Ma saranno molti, gli errori, il più delle volte forzati e attribuibili alle circostanze, che Hertha Pauli non riuscirà a perdonarsi. Eppure, in frangenti come quelli, nel caos di una fuga disperata, certe sottovalutazioni e ingenuità sembrano a tutti noi, lettori avvinti da questo testo, dei peccati del tutto veniali; e viene davvero da chiedersi se al posto dei malcapitati protagonisti di questo libro saremmo stati capaci di maggiore lucidità, di maggiore disinvoltura. In realtà, sappiamo bene che il comportamento di ciascuno dinanzi al male assoluto non è prevedibile, e che in questi casi la sorpresa (positiva o negativa) è a ogni angolo di strada. Raoul Precht In copertina: Otto Dix e la moglie Martha fotografati da August Sander nel 1925 L'articolo “Corremmo in acqua”. Hertha Pauli, memorie dal cuore del secolo proviene da Pangea.
July 17, 2025 / Pangea
Il libro come essere vivente. Su “Gli istrici”, un romanzo di Valentina Di Cesare
Cos’è che mi fa scrivere?, s’impone?, a me che non sono nessuno. Il mistero s’insinua e prevale. La trance, lucida, precisa, è generativa. Ma si potrebbe continuare all’infinito. Anche questa mia abitudine a ripetere la parola tutto. L’ho notato, c’infilo sempre la parola tutto da qualche parte, prima o poi, e devo negarla per evitare il condizionamento. Il tutto ha totalità di emergenza, richiama a dire l’abbraccio grande che mi circonda, perché dev’essere grande, in grado di comprendere l’uomo intero, di accoglierlo. Ma quale uomo? Quello che si affida alla parola, all’ascolto, che non tende a dire se stesso, lui e basta. Kafka, in un suo racconto intitolato Descrizione di una battaglia, scritto col suo amico Max Brod, fa dire a un pazzo: “Io vivo affinché gli altri mi guardino”. Credo che Kafka si opponesse a questo. Non giudica, è attratto dall’estremo, è sorpreso e ne ha pietà. Egli prefigura il mondo di oggi. Farsi notare a ogni costo. Ecco la stortura, il malanno, e senza sapere che malattia è. Godere di quel minuto di fama che è il niente, il mio niente. L’apoteosi che non sono. Se penso a come scriveva Ungaretti nelle trincee della Prima guerra mondiale, piantato dentro il fango, utilizzando quello che trovava, scarti di giornali, pezzi di cartone che racimolava. Quei frammenti stabilivano già il respiro della lirica, l’impaginazione era in quel formato esile. Possiamo dire ritagli di sangue, il corpo delle cose martoriate, mutilate, resistere con la poesia alla paura, alla morte vicina, al fatto che domani potrei non esserci più. Che lezione! Si scrive sul confine, nel tempo che c’incastra e decide chi siamo. A questo punto dico: chi è Valentina Di Cesare se non una scrittrice, e insieme una madre, una moglie, un’insegnante di Lettere nella scuola secondaria di primo grado, e lingua italiana per gli studenti stranieri. Non la stessa trincea di Ungaretti, certo, ma se ci penso mi vengono i brividi. L’amore per la Letteratura, per la scrittura sono quelli, si dichiarano nel cuore, si consumano e si esprimono lì, nascono come un figlio nel chiuso di un abisso, e più va scurendosi il desiderio, più aumenta l’assillo di vederlo nascere, di voler essere con lui… Più il seme si fa luce, sotterrato nella carne, più scoppia di vita, esplode la sua natura. Gli istrici (Caffèorchidea Edizioni, 2025) sono questo, l’ha scritto Valentina Di Cesare. Potrebbe continuare in avanti e oltre la fine per chissà quante pagine, in quanto trasborda e suggerisce ancora altra vita. La vitalità, l’energia che trasmette, risiede nel suo io, un cuore che a ogni pagina si apre, e verso cui corre come in faccia al vento, o nel solco di una strada che si rinvigorisce e si delinea sempre di nuovo, a mano a mano che prosegue, nelle sue vicende e nei suoi personaggi, che ne rappresentano la voce, l’io in cui abitano e s’intessono i discorsi, i pensieri, le parole. Quattro nature, quattro protagonisti, come le nostre stagioni, per dire quanto è grande il tempo, quanto è grande la vita, e densa, umile, impareggiabile, spettacolare, ricca. Gli istrici è un libro che vuole essere amato, per la sua quieta vitalità, ancora in essere quando il romanzo è compiuto, che non pare finito allo scoccare dell’ultima parola. Perché Gli istrici non tende a contrarsi, ad avvitarsi in iperbolici avvitamenti, tende bensì a fiorire, a immaginare. > “Più di una nuvola aveva confuso le stelle quella notte e i bagliori si > vedevano appena […] Quasi che si trattasse di un accordo con la luce […] > Iniziava di nuovo il mondo […] e gli sterrati storti […] qualche baracca > sbieca […] tutti gli usci erano serrati”. È l’inizio del romanzo, ma come l’ho letto io, con un’invenzione mia, arbitraria direi, si vede dalle parentesi quadre che ho innestato dove manca il testo, agendo in levare al fine di far procedere a salti la scrittura, che non si deforma, non si decompone, non si sgualcisce, nonostante il mio personale intervento, anzi, il miracolo è lì, resta unitario il dettato, per dare risalto al pensiero, la sua natura, la forma che procede per punti nodali, quasi inavvertiti dal lettore, per cui si può dire che il mio esperimento è riuscito: riportare la caratura del linguaggio (significativa, intatta, unitaria) alla luce, anche se sottratta di alcune parti. La luce, questo il sugo dell’incipit! Così ho deciso: dimostrare il sunto di una prosa fatta di contrasti, che rimanda alla sua complessità. L’autrice non me ne voglia. Più avanti, a pagina 53, il passo del racconto si fa elegante, pur restando descrittivo, ma ora nell’obiettivo di un chiaroscuro che lo distingua (stavolta la pagina è rimasta integra):  > “Certi giorni di novembre, alcuni vicoli deserti davano l’impressione di > essere più stretti, quando si sentiva scalpitare l’acqua dalle grondaie già di > prima mattina, e i tronchi degli alberi sulle montagne intorno si ergevano > come grigie lame di ferro incolonnate”. E le cose, a pagina 77, gli ambienti, sono il correlativo oggettivo del personaggio, particolarmente vissuti, esperienza che si compie, mistero, passato, memoria che non svanisce, nella scoperta che si presenta col suo carico umano di stupore.  > “Era scalza. Iniziò silenziosamente a gironzolare per la casa, andando prima > nel bagno a piano terra, quello con la piccola finestra che l’aveva sempre > incuriosita da fuori e poi in salotto, la stanza che Francesca teneva sempre > chiusa. Cercandone a tentoni l’interruttore, Carla sentì già infilando la > mano, che quella stanza era più fredda rispetto alle altre. Annusò l’aria e > subito intese che lì non v’era l’odore delle altre camere, nonostante > campeggiasse in mezzo al grande tavolo un contenitore di fiori secchi e foglie > colorate che emanavano un vecchio profumo. Con le labbra semiaperte e gli > occhi attenti, Carla visitò quella stanza dalle finestre sbarrate, mentre > lasciava correre la piccola mano sul ripiano del mobile a muro”. Ed ecco il tema principale del libro, che appare all’improvviso, a pagina 144. “Sapete che per paesi come il nostro vanno bene solo le lacrime di nostalgia?”. La solitudine. È il motivo per cui Valentina Di Cesare ha scritto il romanzo, per esorcizzarla, penso io, per conoscerla profondamente, e così combatterla.  Il valore de Gli istrici risiede in questo corpo a corpo. Ne è valsa la pena. Tutti i personaggi sono soli. Qui il libro resta nudo. La scrittura si avvolge intorno alle cose per vestirle di compassione, sebbene circospetta, perché occorre descrivere, la scrittura ha le sue regole. E poi la nudità ferisce, si pensi al Cristo in croce, e non si vuole. C’è orgoglio, distanza, le montagne dell’Abruzzo sono giganti impossibili. Da un lato assistiamo alla fuga, dall’altro si afferma la resistenza degli uomini, la fedeltà a quell’isolamento, in fondo così amato. Se c’è un destino è l’amore. L’amore cristiano, quando è nudo e celestiale di risurrezione, non chiede di soffrire, è consapevolezza di ciò che saremo. La dualità porta scontento. Il desiderio si abbassa fino a terra, è simile a qualche animale che scorrazza libero. Eppure, è proprio la natura che ricompensa, in quanto la natura predomina nel romanzo, fa impressione vedere com’è piccolo l’uomo in quegli scenari.  Mi sono appuntato una frase (o me la sono sognata?): “Le piccole salvezze gliele offrivano gli animali”. Piccole per pudore o per diffidenza?, mi chiedo. Il corpo s’impone e gli sbarriamo la strada, ci dice dove andare, ma noi preferiamo la sconfitta dei pensieri, il rimuginare sempre e ancora. Ma anche l’uomo è natura. Noi non lo capiamo. Pensiamo che la promessa sia stata negata, invece è ancora lì, nel fatto che siamo vivi. E se moriamo (quando moriamo!), resta un chiodo infisso nel cuore degli altri che grida non dimenticarmi, non dimenticare, a questo sono servito, per questo ho vissuto. Supremo atto d’amore, sacrificio, valore umano. Dai grattacieli di Manhattan alle altitudini del nostro Abruzzo. “Settembre, andiamo. È tempo di migrare”, recita il grande D’Annunzio, nel 1903. Possibile?, la vita non si muove? Che scandalo è questo? Allora la mia pena continuerà anche dopo? Mi pare che da queste domande, da questi tormenti si sviluppano le storie moderne dei personaggi de Gli istrici. Istrici proprio in quanto corazzati di aculei, contro chi ci vuole cambiare. Sbuca una mezza luna per contrasto, sulla bella copertina del libro, s’imbianca fra le punte ritorte e graffianti di una selva oscura, terribile e respingente. Nessuno impedirà la nostra salvezza, nonostante tutto. “Noi non possiamo mai nascere abbastanza”, dice la citazione di E.E. Cummings ad apertura del libro. Il che vuol dire che quando una voce viene dall’esterno, ed è vera, profonda, come il mite Doì (il giapponese protagonista di un capitolo, che decide di stabilirsi in quelle terre), allora qualcosa si realizza anche in noi. Il nostro libro è scritto, è umano come un essere vivente. Vincenzo Gambardella L'articolo Il libro come essere vivente. Su “Gli istrici”, un romanzo di Valentina Di Cesare proviene da Pangea.
July 9, 2025 / Pangea
“Tra le mie mani nasce il deserto”. Leopoldo María Panero, l’hidalgo della beffa, il martire dell’erranza
> “Il manicomio, quel monastero psichico dove il muro che divide la medicina > dalla religione si apre, e dove arrendersi alla degradazione”. > > (J. Hillman, La vana fuga degli dèi) È grazie ad una sollecita curatela, aliena dalle deadline-codice-a-barre degli editori convenzionali, del coraggioso samizdat Nessuno Editore di Antonio Curcetti, nella traduzione di Antonio Bux e arricchito di una testimonianza di Ianus Pravo, che il lettore italiano (esiste? o, reductio ad unum, si perita di scrivere soltanto?) può godere di una raccolta o, preferibile scelta lessicale, di un ingemmato ed inedito ‘poema’ – ‘poema’ sia detto e ciò basti, non per svogliatezza di traduttore ma poiché, come scrive Bux nella sua nota di gestazione, nella concezione paneriana del dire poesia non meno che nel far(si) poesia tutto l’opus del castigliano è un poema ininterrotto alla Éluard, tanto per tematiche, crimini commessi o presunti ed ossessioni quanto per circolarità del verso del poeta madrileno, repubblicano, alcolista, dalla sessualità feroce e promiscua. Un vademecum per l’internamento nella Spagna franchista.  La raccolta si apre con un epitaffio che è distillato di provocazione: All’Esercito Popolare Repubblicano e di verso in verso de-costruisce i miti fondanti della Monarchia iberica, Patria e Religione: > “Un giorno le mosche mangeranno dalla mia mano > e umiliato io sarò solo uno spettro da marciapiede.” > > (Edgar Allan Poe, o il volto del fascismo) o ancora:  > “(…) il nulla, > un’entità che fatalmente rompe > con l’amore e la vita, chiede un’ascesa, > per questo una croce negli occhi > e uno scorpione sul fallo raffigurano il poeta > tra le braccia del nulla, del nulla rigonfio, > quando dice che neanche Dio è superiore al poema.” > > (Quello che Stéphane Mallarmé volle dire nelle sue poesie) o ancora:  > “(…) e tra le mie mani nasce il deserto, > la paura tra i miei occhi è Gesù Cristo > come una stella che giace nel nulla.” > > (Nascita di Gesù) In Panero coincide la profezia di Tiresia (la follia distorce lo spazio-tempo dell’umanità meccanica) non meno che il furore anticattolico in un qui ed ora dove la religione non può che farsi pre-colombiana o non essere: > “E il mondo dice, Dio non esiste > è immaginare il Papa > mentre gli atei piangono, > piangono la sua bellezza perduta, > e Dio non esiste più, > sta piangendo all’Inferno. > È tutta qui la statua del nulla.” > > (La monaca atea) Panero è il più nobile e decaduto rappresentante della vita per l’arte e dell’arte per e nella vita degli ultimi decenni di poesia europea. La sua vicenda biografica non può in alcun modo essere disgiunta dai suoi scritti tale è la compenetrazione, la trasfusione che sanguina sulla pagina. Non vi è nulla in Panero che non appaia necessario e fatale, pur nella sua attitudine picaresca che si burla della tradizione ‘alta’ (siamo tutti figli di Cervantes quando incontriamo un mulino a vento) del cavaliere errante; proprio il tòpos del cavaliere armato o goffeggiante è ricorrente nei versi del poeta di Madrid come incessanti sono i richiami alla crassa materia che ci fece nati “a viver come bruti”: escrementi, sperma, urina sono elementi organici su cui Panero indugia non (solo) per il compiacimento d’un maledettismo ducassiano/laforguiano che lo de-finisce ma per l’autenticità della sua visione. Se pretendiamo di cantare, novelli Blake, l’Innocenza non possiamo esimerci dal menzionare la merda dalla quale nasciamo e nella quale finiremo: > “(…) guarda, uomo caduto, guarda il mattino > che di nuovo si solleva per continuare la tortura, > anche quando la tua anima che sa d’escremento > finge d’essere una rosa e la vita > tra le pareti crudeli di questa camera, > uguali alla cella di un condannato a morte > e coi giorni che rinnovano la sentenza, > ti fa dire: appartieni all’uomo o al nulla?” > > (Apparizione) o ancora:  > “(…) vivere voglio, assediato da nessuno > e con un marchio di merda sulla fronte.” > > (Tangeri) Panero possiede gli occhi del visionario, del folle in Cristo direbbero i russi, ma la cifra che esprime è sovente giullaresca, donchisciottesca appunto, con aperture all’osceno dissacratorio – quello di Bataille, di Genet e di Buñuel – e imbardate di macabra goticità:  > “Io sono solo un maiale che invoca la protezione del silenzio.” > > (***) e tuttavia, del folle conserva la saturnina meraviglia dinnanzi al mondo, chiave che schiude paradisi d’infanzie a colui che sa udire il pianto dell’alba: > “Il rito della morte chiama a sé la vita > e Dio si nasconde tra le mie cosce > e i miei genitori chiedono perdono per avermi consegnato > nudo agli uomini nella pianura buia.” > > (Regalo di un uomo) Lettore onnivoro, enciclopedico, nato poeta in una famiglia di poeti e tocchi, Panero è muscolare nella sua espressione della violenza e soave nella sua lunare melanconia, fabbro di schegge di esistenzialismo selvaggio e di chirurgica precisione nell’oltraggio. Il suo senhal è il ‘Nulla’:  > “(…) il fiore che cercavamo nel poema > significava la tomba.” > > (Segreti del poema) Da ultimo, alcune considerazioni sull’operazione editoriale: la versione di Bux, colata di cemento a fondare la travatura del ‘poema’, è sorretta dall’intervento a posteriori di riletture tentacolari ad opera di castigliani madre-lingua che traducono senza tradire l’argot paneriano, quel vomitare analogie del gergo carcerario e/o psichiatrico che nella piena euforica buxiana sarebbero andati irrimediabilmente smarriti. L’apparato di note è adeguato e corrobora i passi incerti di chi scelga di avventurarsi lungo i supplizi di Panero. Come per la raccolta di Kinski (Febbre. Diario di un lebbroso), la passione e l’urgenza rapace di Curcetti meriterebbero platee strepitanti e non semi-clandestine. Meglio essere pubblicato in Unione Sovietica come clandestino, avrebbe detto Limonov, che adorato da traditore ed esule come Brodskij? Postilla e gran finale per la testimonianza di prima mano di Ianus Pravo che di Panero è stato confidente presso l’ultimo asilo a Las Palmas: l’uomo Panero, acquarellato nel suo rigagnolo di urina, emerge ammonitorio come un hidalgo della beffa, sodale dei reietti nella inesausta lotta contro le miserie dell’Esserci: > “Uscire dalla cloaca è solo un ripiego, > vivere tra i topi il nostro destino.” > > (Poveraccio) Luca Ormelli Il libro: Leopoldo María Panero, Contro la Spagna e altri poemi non d’amore, Nessuno Editore, 2024 (f.c.); traduzione di Antonio Bux, a cura di Antonio Curcetti. L'articolo “Tra le mie mani nasce il deserto”. Leopoldo María Panero, l’hidalgo della beffa, il martire dell’erranza proviene da Pangea.
July 4, 2025 / Pangea
Sul doppio “Meridiano” di Philip Dick. Ovvero: come si neutralizza un grande scrittore
Sebbene con due anni e mezzo di ritardo a petto del trionfale annunzio sui giornali, che lo prometteva in libreria per la fine del 2022, è finalmente escito il doppio ‘Meridiano’ delle Opere scelte di Philip Kindred Dick, curato da Emanuele Trevi. L’attesa, carica di promesse, si è però rivelata, a esser generosi, una mezza buggeratura e un attacco, se bene dissimulato, contro lo scrittore americano. In queste tremila pagine s’adunano in fatti fesserie e sfondoni, qualche imbroglio non involontario, e parecchi arbitrii. Qui passeremo in rassegna solo un’infima parte di tutto ciò: se dovessimo rintuzzare ogni guasto e carognata, occorrerebbe un intiero terzo tomo. * Liberiamoci anzi tutto della «Cronologia», affidata a Emmanuel Carrère. Come si sa, le cronologie dei ‘Meridiani’, negli ultimi anni, sono vere e proprie piccole biografie, che occupano lunghe fitte e talora critiche pagine, quindi non soltanto un elenco di date ed eventi.Poiché Carrère è l’autore di una così detta “biografia” dickiana, forse ahinoi la maggiormente letta in Italia dacché stampata da Adelphi, Trevi e Alessandro Piperno, l’attuale direttore della collana, hanno ritenuto ovvio di assegnare a colui codesta preziosa parte del ‘Meridiano’. Una scelta disgraziata quant’altre mai come potrà constatare il lettore leggendo un mio lungo intervento, pubblicato su questa rivista. Siccome là dico già tutto ciò che di essenziale si deve sapere, qui non mi ripeterò. Rilevo solo che ancòra una volta è dimostrato quanto a signoreggiare la più parte delle logiche culturali italiane sono criterii familistici e ideologici. La seconda scelleratezza è il «Profilo di Philip K. Dick», firmato da Trevi. Pur assai informato e non del tutto disutile, esso nondimeno porta un guasto irremeabile, cioè a dire il radicale rifiuto di attribuire a Dick il duplice statuto di filosofo e di veggente, l’unico cui egli tenesse e che dimostrò sempre di meritare, e di rilevare i connotati religiosi dello scrittore. Dick è per Trevi un buon autore ma gravato da tabe psichiche. Frusta e stracca robaccia di magliari (la medesima di Carrère, ça va sans dire), fondata su periclitanti congetture gabellate per verità. Nel mio succitato articolo indugio anche su questa delicata faccenda. Proseguiamo. Il ‘Meridiano’ offre, nell’ordine, i seguenti titoli di Philip Dick: Occhio nel cielo; Tempo fuori luogo; L’uomo nell’alto castello; Le tre stigmate di Palmer Eldritch; Gli androidi sognano pecore elettriche?; Ubick; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; Un oscuro scrutare; Valis; L’invasione divina e La trasmigrazione di Timothy Archer. Per motivi di spazio non indugerò oltremodo sull’Occhio nel cielo, Tempo fuori luogo e Un oscuro scrutare. Mi limito soltanto a rilevare che: il primo non necessitava di una nuova traduzione, sarebbe in fatti stato sufficiente ripulire una delle pregresse; mentre il secondo e il terzo sono la riproposizione delle versioni già da anni a disposizione e, al contrario di altre versioni miserabili, tra le poche salvabili. Di poi Occhio nel cielo – in vero più un racconto lungo che romanzo – è opera bensì gradevole e abbastanza importante nell’arsenale dickiano, ma non tra le maggiori. La scelta ha natura politica, non certo letteraria, dacché lì Philip Dick… strizza l’occhio ai comunisti. A oltre trentacinque anni dal fatale biennio 1989-1991 certi intellettuali (sit iniuria verbo) sembrano quei soldati giapponesi che decenni dopo la Seconda guerra mondiale li trovavi ancòra appostati in attesa di un contrordine dell’imperatore. Peraltro lor signori confondono i sinistri di quegli anni ormai remoti, bensì funzionalissimi ai regimi, ma ogni tanto capaci di qualche utile manovra critica. Oggi si sono sostituiti al potere un tempo avversato e ne sono diventati i degnissimi eredi. I cinque più noti romanzi dello scrittore americano: Ma gli androidi sognano pecore elettriche?; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; L’uomo nell’alto castello; Ubick; Le tre stigmate di Palmer Eldritch sono in verità un’ottima scelta, ma si tratta delle stesse versioni già escite dal 2021 in avanti negli Oscar. In somma: sette titoli su undici di questa lussuosa e pretenziosa edizione ricicla testi già in circolazione. Ci sono tuttavia due differenze: aver abbandonate le orrende prefazioni di Carrère annesse agli Oscar e la presenza di un apparato critico, com’è nelle prerogative della collana. Ma è certo che lo scambio sia stato svantaggiosissimo, per Dick e per il lettore. Prendiamo a solo titolo d’esempio il paragrafo «Gnosi» (pp. 3012 e sgg) che accompagna Valis e da cui trascelgo in modo aleatorio. È firmato, come tutti gli accompagnamenti alla lettura, da Emanuele Trevi e Paol Parisi Presicce. Leggiamo sùbito questa fesseria: «Non è mai esistita una chiesa gnostica paragonabile alla chiesa cattolica, con le sue ferree gerarchie (vescovi, diaconi, laici…) intese a salvaguardare le verità della dottrina garantendo la successione apostolica» (pp. 3012-3013). Negare l’esistenza d’una chiesa gnostica organizzativamente paragonabile alla cattolica significa aver studiato poco e parlare a vanvera: basti in fatti pensare al manicheismo, a cui aderì per nove anni niente meno che Agostino d’Ippona. Esso fu la più grande eresia cristiana della storia, una vera e propria chiesa, con tutte le caratteristiche di una qualsiasi chiesa universale: dottrina, gerarchia, liturgie, riti, etcoetera. Durò per circa mille anni e si estendeva all’attuale Cina insino all’attuale Marocco. Andiamo avanti. Trevi & Presicce definiscono Ireneo di Lione e Tertulliano «grandi polemisti ortodossi» (p. 3014). Niente da dire, giusta la teologia tradizionale, sull’ortodossia di Ireneo, ch’è pure stato elevato agli altari. Tertulliano fu in vece pressoché da sempre considerato ai limiti dell’ortodossia e per certi versi incompatibile con la dottrina, sia della Chiesa occidentale, sia della Chiesa orientale. Nessuna di queste, in fatti, gli attribuisce alcun titolo ed entrambe ne sconsigliano la lettura. Poco dopo, un altro sfondone: Ireneo e Tertulliano «detestavano gli gnostici, li consideravano pericolosi eretici e vedevano nelle loro idee diaboliche minacce alle verità e alla nascente dottrina del cattolicesimo» (p. 3014). Trascuriamo la sciatta disinvoltura con cui i nostri beniamini maneggiano il concetto di «eretico», e limitiamoci a constatare che negli anni di Ireneo e Tertulliano, cioè a cavaliere tra II e III secolo, non esisteva alcuna «nascente dottrina del cattolicesimo». I commentatori confondono cattolicesimo con cattolicità, due concetti assai ben distinti, sia nella storia delle religioni, sia nella lingua italiana. È lecito parlare di «cattolicesimo» soltanto a partire, come minimo, dal 1054, data dello scisma cristiano tra Oriente e Occidente. Evocare una dottrina ovvero una Chiesa cattolica avanti di quello svolto è indice di crassa ignoranza. Non è finita. La premiata ditta Trevi & Presicce, alla pagina 3013, spara: «In primo luogo la gnosis, com’è evidente fin dal nome, è un percorso salvifico basato sulla conoscenza, una sorta di risveglio che riconnette l’individuo alla sua vera natura». Spiacenti, ma dal nome «gnosis» è evidente soltanto il nome, e non un percorso: men che meno se descritto come si provano a fare T&P. Trascuro di commentare l’evidente loro incapacità di distinguere «gnosi» e «gnosticismo». * Trascorrendo dal fronte religioso al letterario, la caccastrofe è inarrestabile. Nelle «Notizie sui testi» viene citato due volte C. S. Lewis. Nella prima occorrenza (p. 3007) T&P ne evocano l’opera Out of the Silent Planet, modello per Radio Libera Albemuth, una delle ultime pagine dickiane, dicendo dello scrittore irlandese soltanto che fu amico di Tolkien. Nella seconda (p. 3029) invece si parla «dello scrittore inglese C. S. Lewis, che fu grande studioso di letteratura medievale, saggista di fede cattolica e autore di testi fantastici e fantascientifici». Ora, dare informazioni circa Lewis solo alla seconda occorrenza del nome, è già di per sé sintomo di severa distrazione. E ciò senza contare che, in un libro ambizioso per lettori ambiziosi, non è davvero necessario spiegare chi sia Lewis. Così come è esornativo, in quel contesto, sottolineare l’amicizia con Tolkien, come se ciò fosse issofatto titolo di merito. Ma le maggiori cannonate sono anzitutto d’aver limitato le competenze di Lewis alla sola letteratura medievale, quando è noto che egli fu un conoscitore a tutto tondo del così detto Medio Evo; e in secondo luogo, sopra tutto, d’aver definito Lewis «di fede cattolica». C.S. Lewis fu per una certa parte della sua vita un teista. Poi, grazie ad alcune esperienze (che si possono leggere sia nell’autobiografico Sorpreso dalla gioia, sia nella bella biografia di Alister McGrath), si convertì al cristianesimo ma non già al cattolicesimo, bensì alla fede anglicana.Sarebbe stato utile rilevare a questo preciso proposito l’amicizia tra Lewis e Tolkien, e non a casaccio. Fu in fatti il futuro autore del Signore degli Anelli a imprimere una svolta decisiva al percorso dell’amico. Ma mentre Tolkien, comprensibilmente, si attendeva da parte di Lewis un’adesione al cattolicesimo, questi optò altrimenti. Sia bene inteso che tutti questi sfondoni di storia delle religioni e di letteratura sarebbero stati evitabili consultando anche solo wikipedia. L’ultimo studente fuori corso dell’università di Roccacannuccia non li avrebbe commessi.  Ciò che non voglio commentare poiché anche di questo parlo nel mio già evocato articolo, sono le note all’Uomo nell’alto castello, forse l’opera più politica di Philip Dick e, per la mentalità dominante da ottant’anni, la più inaccettabile e quindi la più falsificata. Prendo solo atto che il mondo culturale italiano è zeppo di lupi travestiti da agnelli: proprio il concetto che lo scrittore americano esprime nel romanzo declinandolo alla politica mondiale. Voglio invece evidenziare con favore le molte note ai romanzi che rimandano a esempio a precisi passaggi della Sacra Scrittura citati o suggeriti da Dick. Il lavoro, se non ho straveduto, è svolto con perizia, sì che possiamo ammettere che, almeno come bibliotecarii o impiegati di redazione, certi intellettuali non sfigurerebbero. Perché non pensarci e cambiare lavoro? * Scopo ufficiale del ‘Meridiano’ sarebbe di restituire dignità letteraria a Philip Dick, considerato, come tutti gli autori di fantascienza, alla stregua di un dilettante nel senso peggiore, indegno di prendere dimora sul Parnaso. Un’iniziativa dunque lodevole per chi abbia saputo riconoscere nello scrittore americano non soltanto un fantasioso facitore di mondi e trame relegato al dominio della fantascienza – tenuto, con grave sbaglio, in gran dispregio dagli intellettuali e da certi lettori colti –, ma un classico, se bene sui generis, meritevole di ben altra considerazione. Il resultato però è sviante. Piperno e Trevi, col contributo di Carrère, hanno voluto istituzionalizzare Philip Dick, ciò è a dire neutralizzarlo, renderlo maneggevole, addomesticarlo, anzi tutto tacendone le propensioni filosofiche e religiose: nella fattispecie, gnostico-cristiane. Lo si capisce pure dalla scelta di escludere, anche solo in forma antologica, L’esegesi, opera cruciale per capire sia il Philip Dick uomo, sia il Philip Dick scrittore. Una delle visioni-simbolo di Dick è riassunta in una frase, famosa tra i lettori: «L’Impero non è mai cessato». L’Impero è quello romano, persecutore dei cristiani, che ancòra negli anni Settanta Dick vedeva, more suo, all’opera, anche sulla propria persona, con resultati esiziali per la società, gli individui, le anime. A mezzo secolo di distanza Dick è ancòra perseguitato. A mezzo secolo di distanza noi possiamo unirci alla voce di Philip Kindred Dick. * Poscritto A maggior benefizio dei lettori più curiosi e di quelli che ancor credono alle chiacchiere dei nostri intellettuali, riferisco per sommi capi un episodio occorso diversi anni fa a un mio amico, superbo germanista italiano, uomo altresì di raffinatissimo gusto linguistico, quando volle – e anche dové – avere un confronto con chi presiedeva alla direzione dei ‘Meridiani’. Tacerò per ragionevoli motivi i nomi sia dell’uno, sia dell’altro protagonista di questa eloquente e istruttiva storiella e così il sesso dell’allora capo della collana. All’uscita della raccolta completa, con originale, dell’opera poetica di un grande tedesco, il nostro germanista si avvide, non appena schiuso il volume, d’una seria di svarioni sciatterie e talune bestialità nella traduzione, firmata da uno dei mostri sacri della germanistica italiana. Per ciò che possa valere io stesso, indipendentemente dall’amico germanista, avevo sùbito notato lo stato pietoso di quel volume, sì che posso assicurare che questo germanista aveva veduto assai bene. Il nostro amico, pel solito schivo, fu còlto da un tal moto di fastidio, da non poter evitare di scrivere una lettera al direttore (si potrebbe adoperare il maschile anche se la persona fosse di sesso femminile), una lettera in che egli, con toni garbati ma fermi, snocciolava solo alcune delle minchiate eternate nel prezioso volume. Attese diverse settimane senza ricevere risposta. Ma siccome la gravità era così spaventosa da impedirgli di soprassedere, e altresì non volendo accettare di essere ignorato, il germanista tentò di raggiungere al telefono il direttore, ciò che, con sua grande sorpresa, gli riuscì. Il direttore avrebbe dovuto conoscere il germanista dall’altro capo del filo, ché questi era la firma di numerose preziose e note versioni italiane di grandi classici tedeschi, e della letteratura, e della filosofia, per marchi editoriali di diversa levatura. Ma o era all’oscuro, o finse di non sapere. Nondimeno stette ad ascoltare. Il germanista aprì con un breve preludio di gentilezze e scuse per aver “disturbata” l’attività di quel membro senatorio della repubblica letteraria italiana. Ma, precisò, siccome non aveva ricevuta risposta alla lettera, non aveva avuta altra strada che il telefono. Il direttore negò di aver mai ricevuta la missiva, ma pur lo invitò a esporgli la sua intenzione, annunziandogli di avere davanti al naso il volume incriminato. Nemmeno a dirlo, con tono tra il condiscendente e l’irritato. Il germanista iniziò, aprendo davvero a caso il volume, a evidenziare i punti critici. Si attendeva qualche reazione, ma l’altra persona non dava segno di apprezzare, in alcun senso, le osservazioni di quell’oscuro molestatore. L’elencazione delle magagne fu alquanto breve, ma a qualsiasi onesto e competente e in tedesco e in italiano, sarebbe stata sufficiente per cospargersi il capo di cenere ed eventualmente ritirare il volume dal mercato, licenziare l’autore della traduzione e incaricare altrui più attento – magari lo stesso germanista della nostra storiella – per ripassare da cima a fondo il non esile tomo. Andò invece diversamente. Il direttore del Meridiano, in fatti, si limitò a dire queste testuali parole, glaciali: «Dottor …, mi stupiscono molto le sue osservazioni. Tutte le recensioni al volume non parlano di errori e sono state tutte molto favorevoli». Ma il germanista di rimando: «Lei sa bene, caro direttore, che le recensioni, a certi livelli sopra tutto, sono, anzi che spontanee, sono spintanee. E poi non è sempre detto che i recensori, quali ch’essi si siano, abbiano le competenze per giudicare un lavoro così importante. Mi stupisce invece che Lei, alla sua volta germanista, non abbia fatto caso a questa legione di errori, di morti….». «Guardi, dottore», lo interruppe l’alto impiegato ora sensibilmente irritato, «Le ho detto che le recensioni sono state tutte favorevoli e quindi non occorre dire altro». Il nostro amico non ebbe quasi il tempo di replicare, ché, dopo uno sbrigativo saluto, la comunicazione si interruppe. E non certo per un mal funzionamento della linea telefonica. Luca Bistolfi L'articolo Sul doppio “Meridiano” di Philip Dick. Ovvero: come si neutralizza un grande scrittore proviene da Pangea.
July 2, 2025 / Pangea
“Che si può fare se il destino è morire?” Qualcosa sulla poesia iraniana contemporanea
Che sia un solo verso, a volte, a colpirci, lo sappiamo. La potenza di alcune parole irretisce retina e cuore. L’intelletto gode, l’emozione si fa scossa. Brivido è la colonna vertebrale. Così è quando leggo: Dovrò prepararmi a fiorire, e subito la fantasia immagina poesie che si estendono da questa gemma primordiale. Ho con me in mano un libro, che di quel verso ne ha fatto il titolo. Si tratta di un’antologia, curata e tradotta da Faezeh Mardani e Francesco Occhetto, che dà voce a Forugh Farrokhzād, Bitā Malakuti, Leila Kordbacheh, Parvin Salājeghe, Fereshteh Sāri e Grānāz Moussavi. È la prima rassegna italiana della poesia femminile di un Paese quale l’Iran da sempre abituato ad affidare al canto poetico tutte le componenti della propria vitalità esistenziale e spirituale. > Ardue prove mi offrì il giardiniere del firmamento > ma che si può dire al predatore dei tempi? > Che si può fare se il destino è morire? > Sei giunto al giardino e noi ce ne andammo, > colui che qui ti condusse ci prese e ci portò via. > In questo libro di vittoria il cielo > conteggiò per noi l’incalcolabile. > Il fiore, appena vide acqua e aria, > ignaro di dover presto appassire sbocciò. > Il coppiere della taverna del mondo è Destino, > tutti beviamo il vino dalla sua coppa. > > Parvin Eʻtesāmi (1907-1941) Che sia la poesia a farsi bandiera universale è bene ricordarlo sempre. Poesia che si dimentica ai più, ma che ci costituisce. Poesia cellula, atomo, big-bang del mondo. Poesia che garrisce. Poesia che sta nel vento, fa frusciare l’erba, inventa rivoluzioni. Poesia che è voce e protesta ‒ bellezza incontinente. Fruscia essa stessa nell’esondazione del peccato. È bene ricordare, quindi, come ci ricorda il libro stesso, che in Iran è ancora centrale la figura del poeta quale profetico testimone della storia di un intero popolo cui è stata privata la libertà ma non il sentimento di profonda appartenenza a una millenaria tradizione artistica e letteraria. Perché in occidente ‒ forse, maldestramente ‒ ce lo siamo dimenticato? La poesia è del popolo, e sta tra il popolo, ne dà voce. Senza poesia, il terrore prevarica su tutto. E anche un giardino ‒ che sia pieno di rose, o di parole, o di pesci e sorgenti ‒ come ci insegna Forugh Farrokhzād nella prossima poesia, va coltivato e curato finché si è in vita, prima che esso diventi immortale o moribondo, e ci abbandoni al nostro, forse vuoto, forse triste, destino. E anche un cortile va curato, affinché la memoria si perpetui, e la parola continui a raccontare e a raccontarsi nel cuore dell’uomo attraverso la tradizione. Mi fa pena il giardino Nessuno pensa ai fiori, nessuno pensa ai pesci, nessuno vuole credere che il giardino sta morendo, che il suo cuore si gonfia sotto il sole e la sua memoria si svuota lentamente del ricordo del verde e il suo sentire astratto si consuma in solitudine. Il cortile di casa nostra è solo, il cortile di casa nostra sbadiglia in attesa di una pioggia sconosciuta. Vuota la vasca nel cortile, dagli alberi cadono per terra piccole ingenue stelle. La notte dalle pallide finestre si sentono colpi di tosse nella casa dei pesci. Il cortile di casa nostra è solo. Dice mio padre: «È troppo tardi, è troppo tardi per me. Ho portato il mio peso e ho fatto tutto quel che potevo». Da mattina a sera, nella sua stanza legge il Libro dei re o il Compendio delle storie. Mio padre dice a mia madre: «Al diavolo i pesci e gli uccelli. Quando sarò morto, che differenza farà se ancora ci sarà il giardino oppure no. Mi basta la pensione». L’intera vita di mia madre è un tappeto da preghiera steso sulla spaventosa soglia dell’inferno. Mia madre in fondo a ogni cosa cerca le orme del peccato, e pensa che la bestemmia di una pianta abbia contaminato il giardino. Mia madre prega tutto il giorno. Mia madre è peccatrice per natura e per esorcizzare ogni peccato soffia sui fiori e sui pesci, soffia su sé stessa. Mia madre aspetta la venuta del Promesso e le grazie che ne discenderanno. Mio fratello chiama il giardino cimitero. Conta i cadaveri dei pesci imputriditi sotto l’acqua infetta e si beffa dei confusi grovigli dell’erba. Mio fratello è malato di filosofia. Per lui la cura del giardino consiste nella sua distruzione. Si ubriaca. Dà pugni sui muri, sulle porte e prova a mostrare quanto è triste, stanco e disperato. Porta in strada e al bazar la sua disperazione come se fosse una carta d’identità, un’agenda, un fazzoletto, un accendino, una penna. Ma la sua disperazione è così piccola che svanisce nella calca dell’osteria tutte le sere. Mia sorella, che era amica dei fiori e quando mia madre la picchiava raccontava le pene del cuore a quei fiori gentili e silenziosi e invitava ogni tanto la famiglia dei pesci a una festa di dolcetti e sole, ora abita dall’altra parte della città. Lei, nella sua casa finta,  con pesciolini rossi finti, protetta da un marito finto, sotto i rami di un melo finto, canta canzoni finte ma partorisce figli veri. Mia sorella, ogni volta che viene a trovarci e si sporca l’orlo della gonna con la miseria del giardino, fa un bagno nell’acqua di colonia. Lei, ogni volta che viene a trovarci, è incinta. Il cortile di casa nostra è solo, il cortile di casa nostra è solo. Tutto il giorno, dietro la porta, si sente il frastuono di scoppi e crolli. I nostri vicini nei loro giardini al posto dei fiori piantano granate e mitragliatrici. I nostri vicini ricoprono le vasche di maiolica del cortile che controvoglia diventano depositi di polvere da sparo e i ragazzi del nostro quartiere riempiono le borse di piccole bombe. Il cortile di casa nostra è stordito. Ho paura di questo tempo che ha perduto il suo cuore ho paura dell’immagine di queste mani vuote di questi volti sconosciuti. Io, come una scolaretta che ama follemente le lezioni di geometria, sono sola e penso che si possa portare il giardino all’ospedale penso… penso… penso… e il cuore del giardino si gonfia sotto il sole e la sua memoria si svuota lentamente del ricordo del verde. (Giorgio Anelli) *In copertina: Forough Farrokhzad (1934-1967) L'articolo “Che si può fare se il destino è morire?” Qualcosa sulla poesia iraniana contemporanea proviene da Pangea.
June 30, 2025 / Pangea
Le rassegne letterarie ai tempi del narcisismo della mediocrità
Il ridicolo spettacolo che in questi giorni di torrido caldo estivo va in scena dal teatro sempre attivo dei social con l’amletico dubbio (si fa per dire!) “presentazione dei libri, sì o no?” fa lo stesso effetto della mosca che molesta la pennichella pomeridiana. A leggere questi messaggi parrebbe che da un giorno all’altro le presentazioni dei libri siano diventate inutili e soprattutto improduttive: per i librai che devono mettere a disposizione e allestire i loro ambienti ricavandoci poco o nulla, per le case editrici che già da tempo investono pochissimi denari in queste iniziative e, infine, anche per gli stessi scrittori che si sono accorti (sempre con maggiore lentezza degli altri, sia chiaro) dell’ininfluenza – sulle vendite e sulla auspicata notorietà – di queste futili sagre dell’ovvio e della banalità. Il bello, però, è che ad aggiungersi alla compagnia dei tristi teatranti siano proprio gli stessi protagonisti della cosiddetta scena culturale che fino a qualche giorno fa smaniavano per esporsi, per presentarsi, per far parlare di sé… per coprirsi di ridicolo, insomma. Gli stessi che, pur di mostrare la copertina del proprio libro, erano disposti a macinare chilometri viaggiando dalla Pro Loco di Cuneo alla Società Bocciofila di Gioia Tauro anche nella stessa giornata; i medesimi che avrebbero fatto carte false pur di esporre i loro modesti prodotti artistici nel primo tinello disponibile a quel cenacolo di amici e di parenti che (non lo dicono, ma è così!) non ne possono più di avere nel proprio giro “uno che scrive”. Nella mia città, una piccola libreria che programma almeno un paio di presentazioni alla settimana occupa lo spazio di una piazzetta a essa antistante e là, tra il via vai di chi porta a casa la spesa, tra l’insolenza di chi urla parlando al cellulare e il bivacco scomposto di chi occupa le gradinate pubbliche che collegano quella piazza alla strada che vi passa sopra, lo scrittore di turno prova a interessare qualcuno parlandogli da un microfono con amplificazione, come i Cristiani Evangelici che testimoniano ai passanti la loro conversione religiosa e il cammino di fede, della sua ultima fatica che con ogni probabilità nessuno degli astanti acquisterà e mai leggerà. Recentemente, poi, ho preso parte alla presentazione del saggio di un filosofo nostrano che si è tenuta in un bistrot di trenta metri quadri dopo la quale è stato servito, con la formula della “consumazione obbligatoria”, un aperitivo rigorosamente “a pagamento”. Ho dovuto inventare uno stratagemma per trovare una via di fuga e sottrarmi a questa laida estorsione. Allora, alla luce di tutto ciò, chiedo a voi, scrittori della vanagloria, poeti da diporto, artisti della fanfaluca: davvero trovate utile e vantaggioso ciarlare dei vostri raccontini a un pubblico di persone che nella maggior parte dei casi vi è seduto davanti perché non aveva di meglio da fare o perché in libreria, al bar, nella saletta parrocchiale in cui vi esibite c’è l’aria condizionata? Veramente vi piace stordirvi e mostrare le vostre miserie letterarie alla ridda dei saloni del libro o ai Barnum dell’arte in cui tutto è soltanto siparietti, convenevoli, spettacolo, caciara e marketing? Ma davvero trovate divertente e soddisfacente scrivere frasi di circostanza e dediche fasulle, sotto le quali mettete pure la vostra firma (un’aggravante!), a persone che non conoscete e che voi, invece di identificare come mitomani, chiamate impunemente “lettori”? Quante foto che vi ritraggono mostrare giulivi e soddisfatti la copertina del vostro libro appagheranno il vostro patologico narcisismo? E quante sedie vuote dovrete ancora contare alle vostre presentazioni prima di capire, una volta per tutte, che la giostra si è fermata e che il giostraio è morto? È vero, lo so, le cose non vanno meglio neppure alle rassegne letterarie e ai festival del libro. Soprattutto quelli estivi che ora ci attendono, dove purtroppo al ridicolo si aggiunge inesorabile anche il malcostume. L’inarrestabile décadence di quest’epoca svaligiata, avvilita e colpevolmente traviata si manifesta con preoccupazione quando, ahimè, i suoi segni giungono proprio dagli ambiti artistico-culturali. Se un tempo lo hippie era la reazione al pettinato conformismo borghese, oggi la sciatteria dei costumi (altro che la kantiana metafisica!) è essa stessa il conformismo, la regola più che l’eccezione. Il capellone, il figlio dei fiori, il punk, costituivano il fenomeno culturale che investiva polemicamente una società chiamata, in un modo o nell’altro, a farsene carico con confronti e analisi. Oggi, invece, pare che la parola d’ordine sia soltanto la pigra strafottenza che livella tutto ai propri confortevoli bisogni, alle proprie trasandate necessità, ai propri infantili capricci.  E così, non è insolito assistere a festival letterari in cui i travet della scrittura presentano i loro improbabili capolavori in pantaloncini, bermuda, camicie hawaiane sbottonate fino all’ombelico, scarponcini da spiaggia e infradito. Poi, collassati come dei Proust di periferia su poltroncine e cuscini d’ogni foggia, si avvicendano nel resoconto balbettante del valore artistico del loro nuovo romanzo (leggasi “esposizione della trama”, “sintesi o riassunto del racconto”) a un pubblico che, in giornate di arsura estiva, forse meriterebbe di più per coraggio e resistenza.  Ma tant’è, la conventicola delle nostrane lettere si riconosce anche da questo glamourstraccione, da questa apparente nonchalance da artista incompreso che alla fine si riduce allo smercio (magari!) di qualche altra copia del proprio libriccino, a uno stravagante selfie per Instagram e a poche altre ridicole bramosie. Che tristezza! È in questi casi di esasperazione che, maledicendo l’attimo in cui ho deciso di uscire di casa e di assistere a quest’inesorabile débacle, mi sovviene il titolo, bizzarro ma implacabile, di quell’anomalo libro di Peter Bichsel: Al mondo ci sono più zie che lettori, libro che i nostri scrittori e organizzatori di rassegne letterarie un giorno dovranno leggere e tenere a mente come viatico. Ahimé, «La vita o è stile o è errore» ebbe a dire un tempo Giovanni Arpino. Già, un tempo!  Vincenzo Liguori *In copertina: Giacomo Balla, Autosmorfia, 1900, Collezione privata L'articolo Le rassegne letterarie ai tempi del narcisismo della mediocrità proviene da Pangea.
June 28, 2025 / Pangea
“Flettimi, spezzami, raschiami”. Qualcosa sui poeti e la traduzione dei Salmi
Nella tradizione cristiana i testi biblici sono ritenuti «ispirati». A onore del vero non sono tanto i testi, ma i loro autori, i cosiddetti agiografi, ad essere ispirati, cioè assistiti dallo Spirito santo allorché hanno composto quelle pagine che non smettono di generare la fede. Lo Spirito non cancella l’umanità dello scrittore, anzi la lascia intatta: le asperità e le goffaggini del greco di Marco emergono in modo evidente, eppure in quella lingua è scritto un Vangelo fra i più vivaci, capace di farci toccare con mano il mistero di Gesù, Cristo e Figlio di Dio. Analoga alla tradizione teologica è la tradizione poetica. Anche il poeta è ispirato allorché riesce a trovare le parole giuste per dire quanto alberga nel suo cuore. Indubbiamente il poeta non è assistito dallo Spirito santo, né quanto fissa sulla carta appartiene ai testi generatori della fede, eppure la sua opera ha una stretta parentela con testi biblici, i testi ispirati per eccellenza. In occasione del XXI Festival Biblico di Vicenza del 2025, Roberta Rocelli e Davide Brullo hanno affidato a trentatré poeti l’arduo compito di rielaborare altrettanti Salmi. È nato così un piccolo volume (Salterio dei Poeti) che propone le riappropriazioni dei testi ispirati e poetici della Bibbia, i Salmi. Non si tratta di nuove traduzioni della grande raccolta dell’Antico Testamento, ma piuttosto di trentatré personalissime riscritture di quei poemi. Brullo propone all’inizio non tanto un’introduzione, ma una serie di aforismi graffianti che dicono bene il senso della raccolta: «Agli “esperti” preferiamo gli untori del linguaggio» (13); «Salmeggiare non da salomonici, ma come i salmoni, a ritroso, verso il ghiacciaio, il celestiale» (14).  Chi scrive di professione è biblista, sicché da tempo mi dedico allo studio dei testi sacri, prediligendo proprio i Salmi. Chi scrive è pure, per grazia di Dio, un credente che da più di quaranta anni prega ogni giorno con le parole dei Salmi e dal 2000 recita il Salterio come libro, cioè rispettando l’ordine delle composizioni: inizio con il Salmo 1 ai primi vespri della domenica e termino con il Salmo 151 (sì, il Salmo «fuori dal numero», attestato solo in greco ma, guarda caso, ritrovato anche a Qumran) all’ora media del sabato della seconda settimana, per ricominciare da capo, quella stessa sera. Ma chi scrive è anche un prete cattolico che durante l’ordinazione ha promesso al vescovo di essere fedele alla preghiera della liturgia delle ore, interamente costruita sui Salmi; in quei versetti ritrovo quanto nella vita quotidiana sperimento e soprattutto le molte persone che incontro con le loro vicende, le loro gioie e le loro angosce, i loro slanci e le loro frenate; pregando il Salterio porto quelle persone davanti al Signore, il Dio misterioso che non smette di affascinare e di coinvolgere uomini e donne: «La liturgia delle ore si articola intorno al salterio – parola che, letteralmente, salva il mondo – lo innesta al primo giorno, gli dà il sollievo dell’ultimo» (14).  Per questi complessi intrecci la raccolta Salterio dei Poeti mi ha catturato. Vorrei semplicemente dare parola a tre impressioni sgorgate nel mio cuore durante la lettura di queste poesie. Ho apprezzato, in primo luogo, il fine lavorio di traduzione. Qualcuno ha inteso offrire una versione personale. E lo ha fatto in maniera magistrale, filologicamente impeccabile, aggiungendo un «di più», il di più della sensibilità poetica, l’«unzione del linguaggio». È il caso di Davide Brullo che ha riscritto il Salmo 151. L’inizio è folgorante: «Minuscolo ero tra i miei fratelli/ il più giovane nella casa di mio padre/ di mio padre le pecore portavo ai pascoli». “Minuscolo” è molto più di “piccolo” e apparenta l’ultimo Salmo della Settanta (la versione greca dell’Antico Testamento) alla scrittura minuscola, cioè quotidiana, meno solenne dell’onciale, ma veicolo prezioso per la diffusione della Parola. Più avanti il poeta rende così l’affermazione del Salmo: «il Dio che tutto ode ed esaudisce». Brullo introduce uno sdoppiamento adeguato; un unico verbo greco è riproposto in uno splendido allargamento che ne esalta l’intensità: non solo “esaudire”, ma “tutto udire” (la totalità dell’ascolto in enfatica posizione iniziale non sfugge) e per questo “esaudire”. E ancora, Brullo sceglie di tradurre sempre “Dio” il termine greco kyrios: un’opzione che radica nella confidenza con il mistero dell’Altissimo, ma insieme ne esprime il timore che nemmeno osa il più familiare “Signore”.  L’intensità della relazione con Dio osa parole forti e concise, concentra i discorsi in domande dirette, accumula i verbi dentro una tensione nervosa, lascia sempre le frasi aperte, senza punto finale. È la riscrittura del Salmo 22 di Giancarlo Pontiggia: «Io grido,/ e non mi ascolti: grido/ il giorno e la notte,/e non per mia rancura» (v. 2). «Non andartene/ da questo lenguaio di assillo:/ non un cagnazzo che mi aiuti» (v. 11). E poi rivolta a sé: «Vivrai in lui,/ mia anima:/ e tu servilo,/mio legno,/ seme» (v. 30). Anche la relazione con sé è quasi violenta in rapporto a Dio, come dice Tiziana Cera Rosco, riscrivendo il Salmo 51: «Annegami/ Fammi sbranare dal centro di questo petto/ L’iniquità che mi protegge offendendoti/ Flettimi, spezzami, raschiami/ Scorzami da questa pelle». E di nuovo invocando l’Altissimo: «Riconoscimi bianco, spezza ogni osso/ Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me». Anche Valentino Fossati rende la parola rarefatta: un rigo e poi il bianco, un altro rigo con due parole e ancora il bianco; in questo modo ridisegna il Salmo 79: «Entrarono o Dio// genti estranee// come discendenti del tuo Regno». E nella presentazione degli oranti: «E i tuoi servi/ abbandonati// (brandelli)//…/…// dov’è il dio vostro?// perché?».  Giambattista Tiepolo, Davide con la testa di Golia, 1717 ca. Nella preghiera non si può fingere, perché ci si pone davanti a Dio in verità, anche con espressioni forti. Con parole decise Giuliano Ladolfi riscrive il Salmo 143: «Comprendimi e rispondi alla mia supplica./ Puoi forse giudicare/ la mia fragilità?». Lo scavo interiore giunge alle profondità dell’angoscia: «Dentro di me si agita un nemico,/ mi tortura, mi sgomenta e mi distrugge;/ io vivo nelle tenebre/ quasi fossi già morto». La radicalità del male non toglie, tuttavia, la fiducia nella potenza del Signore. Così conclude il poeta: «I miei fantasmi si dilegueranno/ a un semplice tuo cenno/ e io riprenderò a servirti/con l’infinita gioia del mio spirito».  Insomma, ancora una volta l’ispirazione accomuna il testo biblico e il testo poetico e dice la verità dell’uomo: un’apertura all’esterno, verso l’altro da sé, verso il reale e la sua trascendenza a cui si accorda credito e a cui, soprattutto, si concede di fare irruzione presso di sé.  Un fecondo dialogo, una contaminazione necessaria. Matteo Crimella *Matteo Crimella è dottore della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano e professore straordinario di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano; insegna anche presso lo Studio Teologico del Pontificio Istituto Missioni Estere di Monza. **In copertina: Pietro Novelli, Davide con la testa di Golia, 1630 ca. L'articolo “Flettimi, spezzami, raschiami”. Qualcosa sui poeti e la traduzione dei Salmi proviene da Pangea.
June 24, 2025 / Pangea