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“Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli”. Intorno a un libro inattuale
Il flagello: così s’intitola una poesia de Il conte di Kevenhüller, straordinaria raccolta di Giorgio Caproni – uscì per Garzanti, era il 1986. L’esergo recita: “Su un’Invenzione di Ginevra Bompiani”; la nota chiosa: “Chiedo perdono a Ginevra Bompiani per la mia quasi delittuosa distorsione del suo splendido racconto intitolato La cerva cornuta”. In effetti, la poesia pare quasi un calco dello “splendido racconto”.  “In perpetua corsa. Nessuno era mai riuscito a osservarla vicina. Di lei, si sapeva soltanto che razziava nei campi Ma chi, chi non razziava  – ogni giorno – nei campi? E quale voracità poteva avere, una cerva,  per creare un flagello”. Così Caproni; così Ginevra Bompiani: “…è difficile che qualcuno l’abbia guardata da vicino. Di lei si sapeva che razziava nei campi. Ma chi non razziava nei campi? E che appetito poteva mai avere una cerva da costituire un flagello?”.  Il racconto, tutto un precipizio, rilegge la terza fatica di Eracle, la cattura della cerva di Cerinea. Alcuni passi sono molto belli: > “La cerva non rappresentava altro pericolo che quello del desiderio. Il > desiderio di andarsene. Anche per sempre. Quello era il desiderio che lui > doveva spegnere, accollandoselo; una vertigine, lo spasimo di buttarsi nel > vuoto precipizio; bisognava che lui ci scendesse vertiginosamente, rischiando > di ruzzolare fino in fondo, sollevando sterpi sassi e radici sotto ogni passo, > perché la loro saggezza si risolvesse un’altra volta a star ferma, ad > accontentarsi, a non desiderare più”.  A un certo punto si dice che Eracle insegue la cerva “come un aspirante suicida, non come un eroe guerriero”.  Il racconto è estratto dalla seconda parte (La stanchezza) di un libro che s’intitola Le specie del sonno. Uscì nel 1975, per “La biblioteca blu” di Franco Maria Ricci, tirato in tremila copie. In copertina: un cammeo in cui Eracle tiene per il collare Cerbero, il cane infero. Ripreso nel 1998 da Quodlibet, Giorgio Agamben – che, tra l’altro, ha curato la raccolta postuma di Caproni, Res amissa – ne ha scritto come di “un classico ritrovato nella letteratura italiana del Novecento”. All’epoca – nel ’75 – Italo Calvino firmò un’introduzione accuratamente algida, in cui diceva che “L’occhio di Ginevra Bompiani fissa gli emblemi mitologici come macchie di Rorschach, con la differenza che il suo sguardo non può essere ingenuo e che il potere di fascinazione di queste figure non può essere quello di ciò che è visto per la prima volta”. La quarta parlava – in forma più brillante – di “un libro assolutamente unico nella letteratura italiana, che riunisce in esemplare equilibrio la grazia un po’ improbabile di un bestiario medioevale e il rigore quasi scientifico di un trattato di mitologia”.  Sono troppi gli autori del Novecento che hanno usato la maschera del mito, fino all’usura – da Camus a Pavese, da Rilke a Broch, da Marguerite Yourcenar a Ghiannis Ritsos, da Julio Cortázar a Borges a Robert Graves –: la Bompiani arriva ultima, sorprendendo “le creature del mito nei loro gesti più quotidiani e immediati, cioè nel loro assoluto ignorare di essere mitiche” (Agamben). Più di recente, in ambito anglofono – Anne Carson, Alice Oswald, Susan Stewart, Pat Barker – il mito ha dato misura di sempiterna inesauribilità. Ma questo è un altro discorso.  Cinquant’anni dopo, Le specie del sonno mantiene il ritmo di una sagace inattualità, è testimone di una immaginazione perturbante. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, ad esempio, si dice degli ermafroditi: > “Fatti per l’amore, e incapaci di provarlo, a loro non resta che la > malinconia, il sonno infantile e il dispetto”.  Insonni, invece, sono i Centauri. Vivono il doppio degli uomini, di cui afferrano, in razzia, le donne. Una ferina inquietudine li rende, al contempo, avidi di ogni sapere ma incapaci di trasmetterlo, di farne uso: > “A che scopo infatti costruire casa focolare giardino se non ci si può dormire > in mezzo? A che scopo fabbricare utensili se l’irrequietezza propria agli > eterni vigilanti li costringe a cambiare continuamente quartiere, a > trascorrere in solitudine da una collina all’altra, da una grotta a un fiume > montano?”.  Creature dell’istante, pari a rapaci, la sapienza dei Centauri è equivalente alla pura insipienza: la loro vita, un pozzo.  Riguardo agli angeli, è scritto che “guardano altrove”, intimoriti dal loro annuncio, che spartiscono per obbedienza, senza prendervi parte, come il pane sbriciolato per i piccioni, a orde. Tra tutte, una lassa è di folgorante bellezza: > “Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli. E quando sarà caduto > nel vostro giardino, col petto insanguinato e le ali che sbattono debolmente > sul terreno, avvolgetegli il capo e posatelo sulle vostre ginocchia, facendo > da cuscino alla sua agonia; e guardando la vostra casa, respirate di sollievo, > vedendola uscire con la consueta lentezza dalla penombra mattutina”.   Che raffinatezza intrisa di sangue. In questo gioco di specchi e di venefiche pozioni, a volte, vorremmo la bestia in disastro, che balzi dalle pagine per fracassarci il corpo – per farlo infine fruttificare. Ma sono dettagli, perché è proprio il rigore da entomologo – ardore geometrico che precipita nella pazzia – a rendere un libro tanto improbabile, autentico. Il talento per la sprezzatura non sempre è eccidio, a volte finisce per essere incendio. A volte, intendo, la limpidezza non è austera: è come mettere una sedia di fianco al muro di una casa: sali, lettore, entra di soppiatto nella camera da letto.  Max Klinger, Centauro inseguito, 1881 Ne Il calore animale, ad esempio, si dice che la donnola è la nemica del basilisco, ma soprattutto che  > “Contro l’inumano non è mai stata un’arma la verità, ma sempre la finzione o > l’inganno: l’astuzia delle catene di Ulisse mutila il canto delle sirene, un > falso nome deride il furore del ciclope, la testa di Medusa riflessa nel > bronzo devia il suo sguardo pietrificante e accorda la vittoria a Perseo; il > raggiro sottrae il mondo umano alla legge della coincidenza che lo fa > scomparire”.  Un racconto s’intitola Consigli a un cacciatore; tacitamente, sarà piaciuto a Caproni, il cui libro – quello citato in cima –, in fondo, è un lirico trattato di caccia. All’amico appostato il poeta indirizza un metafisico avvertimento: “Presta bene orecchio, amico, a quel che ti dico. Tu miri contro uno specchio. Sparerai a te stesso, amico”.  Per attingere al meraviglioso, bisogna conoscere la tessitura della trappola, avere occhi a filo d’ascia, approvati dalla nottola, annottare ogni pensiero. Caccia, cioè: non avere scusanti, otturare le scappatoie.  *In copertina: Giambattista Tiepolo, Centauro e Satiro, s.d. L'articolo “Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli”. Intorno a un libro inattuale proviene da Pangea.
May 9, 2025 / Pangea
Valérie Perrin, scrittrice del Vasto Pubblico (ovvero: quel bisogno irrefrenabile di mondanità)
> 2010. Samuel Paty, Simone Veil, Miloš Forman ed Elisabetta II erano ancora di > questo mondo, Barack Obama era presidente degli Stati Uniti e, quattro anni > prima, Vladimir Putin aveva fatto assassinare Anna Politkovskaja. Il 2010 è > stato dichiarato l’anno Francia-Russia. Non so cosa significhi.I talebani non > avevano ancora riconquistato il potere in Afghanistan. Kathryn Bigelow è > diventata la prima donna a vincere l’Oscar per la miglior regia con il > film The Hurt Locker. (…) Il presidente della Francia era Nicolas Sarkozy. > TikTok non esisteva. Adele non cantava ancora Someone Like You né Clara > Luciani cantava La grenade. Il 2010 è l’anno di J’accuse di Damien Saez. > > Il 2010 è l’anno in cui mia zia è morta per la seconda volta. > > (incipit di Tatà di Valérie Perrin, edizioni E/O, 2024) Tatà, questo lungo romanzo edito da E/O, l’abbiamo trovato nel cestino della carta da buttare un giorno in cui eravamo in visita qui alla redazione. Poiché non mastichiamo granché la letteraturina francese in voga oggi, un amico ci ha ragguagliati sull’autrice, spiegando che Valérie Perrin è la quarta moglie – di trent’anni più giovane – del quasi novantenne regista francese Claude Lelouch. È lei ad avergli scritto le sceneggiature degli ultimi sette film, e gli ha fatto anche da fotografa di scena; poi ha pubblicato alcuni romanzi di successo che qui in Italia sono stati propagandati in pompa magna, a suon di bla-bla-mila copie vendute in una settimana, in un mese, in un anno e via dicendo. Incuriositi, l’abbiamo esaminato per cercare il motivo di quella cestinatura: magari ci era finito per sbaglio. Innanzitutto, il riferimento puntiglioso all’anno 2010 nell’incipit riportato in epigrafe – per inciso, non abbiamo idea di cosa sia il J’accuse e nemmeno chi siano Damien Saez e Clara Luciani – serve a far partire la storia, in cui Colette, la zia della narratrice, “muore per la seconda volta” perché le avevano già fatto il funerale tre anni prima: > «Pronto?».«Buongiorno, qui è la gendarmeria di Gueugnon».«Buongiorno».«Parlo > con la nipote di Colette Septembre?».«Sì».«Sono il capitano Cyril Rampin. Devo > darle una brutta notizia, signora».«…».«Sua zia è deceduta».«Mia zia?».«Sì, > Colette Septembre. Sono qui con l’ambulanza. L’abbiamo trovata priva di vita > al numero 19 di rue des Fredins. A prima vista sembrerebbe che sia morta nel > sonno, ma stiamo portando le spoglie all’istituto medico legale per le > verifiche del caso».«Guardi che mia zia Colette è sepolta da tre anni nel > cimitero di Gueugnon. E abitava in rue Pasteur».«Ho la carta d’identità sotto > gli occhi: Colette Septembre, nata a Curdin il 7 febbraio 1946. Sulla foto è > più giovane, ma le somiglia».«Dev’esserci un errore. Probabilmente è un caso > di omonimia».«Nel suo portafoglio c’è un biglietto su cui è scritto: Persona > da contattare in caso di emergenza: mia nipote Agnès, 01 42 21 77 47».«…».«C’è > anche scritto che vuole essere cremata e riposare accanto a Jean > Septembre».«Jean?».«Sì. Lo conosce?».«Era mio padre». Già in questo primo scorcio, purtroppo, qualcosa non va. A parte la banalità di certe battute che si sarebbe potuta evitare («Buongiorno», «Buongiorno», «Sua zia», «Mia zia?»), a esser fuori luogo sono i tre puntini messi tra virgolette, tipici di un’ingenuità espressiva da andamento fumettistico del dialogo, dove si crede che il silenzio dello spiazzamento debba per forza essere rappresentato con un capoverso muto, per aiutare il lettore debole a immedesimarsi. Il guaio è che questa formula semplificante non è un incidente, ma viene riproposta in vari punti, come un vezzo stilistico: > «A cosa ti riferisci?».«A Charpie, te lo ricordi?».«No. Chi è Charpie?».«Un > dirigente, uno che non c’entrava niente con gli spogliatoi, ma ti giuro che ha > passato un bel po’ di tempo nelle docce dei ragazzi, si è rifatto gli occhi > con tre generazioni senza la minima discrezione. Per non parlare dei muscoli e > dei coglioni che palpeggiava i mercoledì pomeriggio».«…». Non vogliamo annoiarvi con citazioni inutili, ma vi assicuriamo che il silenzio espresso coi puntini fra le virgolette continua a comparire anche in seguito, come se fosse l’unico modo per esplicitare quel tipo di situazione. Questa dissonanza ci ha fatto insospettire un po’, spingendoci a cercare qualche notizia in più sull’autrice. In Wikipedia – la fonte principe dei nostri tempi – viene innanzitutto specificato che Valérie Perrin è “scrittrice, sceneggiatrice e fotografa”. Dunque, immaginiamo che lavori innanzitutto per il cinema: quali film ha sceneggiato? Oltre agli ultimi sette del marito, null’altro viene segnalato. Se non esistono altre collaborazioni al di fuori della cerchia familiare (qualora esistessero, qualcuno le menzioni) non sappiamo fino a che punto si possa parlare di sceneggiatrice come “professione”, nel senso di attività che si sia sviluppata e misurata col mondo professionale esterno. Inoltre, l’autrice viene definita fotografa. Bene, per chi ha lavorato? Quali riviste, quali eventuali campagne, o servizi su internet? Ha fatto qualche mostra, pubblicato qualche libro fotografico? Non si sa, perché l’unica cosa che risulta aver fatto è la “fotografa di scena” per i film del marito. Se non è così, suggeriamo di rimpolpare il curriculum con qualche notizia in più che possa chiarire le cose.  Rilevate queste criticità, asteniamoci da ogni illazione o elucubrazione sul personaggio e su come viene presentato al pubblico, e restiamo invece sull’argomento libro. Sempre Wikipedia dice che il primo romanzo della Perrin, Les Oubliés du dimanche (Il quaderno dell’amore perduto), ha ricevuto ben tredici premi, ma nell’elenco lì dedicato ne compaiono solo sette. E gli altri sei dove sarebbero? Si tratta forse di piccole manifestazioni di paese non degne di menzione? Poi leggiamo che il suo secondo romanzo Changer l’eau des fleurs (Cambiare l’acqua ai fiori), “ha ricevuto diversi premi tra cui il prix Maison de la Presse che premia un’opera scritta in francese per il vasto pubblico”: ecco dunque un indizio che ci aiuta a inquadrare questo genere di romanzi. Il Vasto Pubblico diventa la parola chiave, la formula magica del parco lettori da nutrire con ciò che chiede. Confermiamo comunque che questo romanzo procede in modo disinvolto e scorrevole, con quel genere di scrittura che piace tanto a chi usa dire “si legge d’un fiato!”, con la differenza che Tatà è un volume di seicento pagine, quindi di un fiato non si può certo leggere: al contrario è un macigno che fa penare parecchio chi si metta in testa – per principio o per cocciutaggine – di leggerlo fino in fondo. Secondo la vulgata di Wikipedia, i romanzi di Valérie Perrin “raccontano ‘storie di vita’, mettendo in scena dei personaggi accattivanti e dal percorso di vita atipico. Con uno stile semplice, vivace e a tutto tondo, l’autrice costruisce i suoi romanzi in corti capitoli al fine di dare un ritmo al suo racconto; Changer l’eau des fleurs, per esempio, comprende più di un centinaio di capitoli, riassunti ogni volta da un epitaffio poetico”. Ora qualcuno dovrebbe spiegarci cosa significa “uno stile a tutto tondo”. Essendo effettivamente semplice, lo stile in questo libro non decolla mai, resta rigorosamente sotto un’asticella definita, e rimane a galleggiare sulla superficie di un chiacchiericcio da consorteria che si riunisce in soggiorno o nella sala da tè: un chiacchiericcio che appartiene alla vita quotidiana di moltissimi, che sia declinato in seno alle classi medio-popolari oppure negli ambienti privilegiati della gauche intellectuelle a cui l’autrice sembra appartenere. Ma cerchiamo di essere più specifici. Il blocco narrativo che la Perrin cerca di dipanare per far stare in piedi la storia vorrebbe intrecciare “segreti familiari, memorie sepolte e il peso insondabile del passato, lasciando il lettore intrappolato in una ragnatela di emozioni e misteri” (citiamo formule elogiative raccolte in Rete). La protagonista Agnès è – ovviamente – una regista di successo che deve affrontare la (seconda) morte della zia Colette, detta affettuosamente Tatà, che furbescamente aveva finto di defungere tre anni prima. “Perché Colette ha fatto credere di essere morta? Questo enigma, oscuro e spiazzante, conduce Agnès in un viaggio a ritroso nel tempo, tra frammenti di memoria e segreti sepolti. Una valigia piena di audiocassette lasciata dalla zia si rivela il filo conduttore che lega voci dimenticate, vecchi amici e verità sommerse. Emergono storie che si intrecciano in un mosaico di destini e di personaggi”. E qui arrivano i dolori: purtroppo non c’è nessuna “esperienza emotiva che trascende le pagine”, nessuna “riflessione sulla memoria e sui legami familiari che invita il lettore a guardarsi dentro” (guardarsi dentro è un’espressione che andrebbe abolita); e i classici “fantasmi del passato” non portano nessun fardello che cerca redenzione, ma restano evanescenti e pretestuosi, senza nerbo come la girandola di personaggi che interagiscono come se si trovassero in un film commedia, ovviamente francese. Lo stile è quello lì, coi toni disinvolti e sbrigativi da sceneggiatura interpretata da Catherine Deneuve, con la spocchia velata della gauche intellectuelle che abbiamo citato, quella che finge spontaneità lasciando trasparire la consapevolezza di essere due gradini sopra, di poter trascurare quella che si chiama onestà artistica perché, comunque, il “vasto pubblico” ci cascherà e verserà i soldi in cassa. È l’espressione chiara di quella sorta di cripto-disprezzo che rimane tra le righe, che si omologa alla decadenza culturale del nostro tempo rinunciando a impegnarsi, cavalcando scorciatoie, gettando brioche al popolo per restare in sella. In Tatà la trama non esiste, ovvero si attorciglia in una sorta di labirinto che fa vagolare il lettore senza risolversi in una narrazione. I personaggi, così inconcludenti, fanno venire i nervi al pari di quei dannati tre puntini messi fra virgolette che ogni tanto spuntano senza motivo: > «Sono lì dentro?».«Sì» mormora.«Tutte?».«Sì».«Mi stai dicendo che zia Colette, > la persona più taciturna che abbia conosciuto in vita mia, ha registrato… > quanti minuti, Cornélia?».«Dodicimila».«…dodicimila minuti di nastro > magnetico?».«Sì, anche un po’ di più».«Un po’ di più?».«Sì».«Perché l’ha > fatto?».«Per te».«…». Le battute che ripetono, i famigerati tre puntini virgolettati, il chiacchiericcio sofisticato da Comédie Française, fino alla nemesi delle audiocassette registrate dalla zia con gli spezzoni di una storia incoerente, frammentata, che non riesce a formarsi in una narrazione logica. Una sarabanda di ricordi che sembra l’espediente per riempire le pagine senza una vera direzione, solo per inserire quegli elementi-chiave che simulano sostanza e vogliono dare il necessario appeal alla vicenda, per blandire il pubblico: la sopravvissuta di una famiglia ebrea deportata e sterminata dai nazisti, un celebre pianista, un assassino senza scrupoli, un insospettabile pedofilo, e il tifo sfegatato e pittoresco della zia per la squadra locale di calcio. Segnaliamo che Agnés è ossessionata dall’ex marito Pierre, che l’ha lasciata per una donna più giovane: va da sé che la donna in questione è – a seconda dei momenti – stronza, baldracca, troia, oppure pasticcino. Talvolta le elucubrazioni della protagonista sono enfaticamente spiattellate, a effetto, come se ci si trovasse in una scena comica di Louis De Funès: > “Sono Agnès”.Come avrebbe reagito? Non gli avrei dato il tempo di dire > “Agnès?” o “Agnès!” o “Perché mi chiami, è successo qualcosa?”.Gli avrei > detto: “Pensa, mi ha appena chiamato la gendarmeria di Gueugnon. È morta > Colette”.No, non avrei detto “pensa”, avrei detto: “Mi ha telefonato la > gendarmeria di Gueugnon. Hanno trovato il cadavere di una donna e sostengono > caparbiamente che si tratti di Colette”.No, caparbiamente non va bene, non > dico mai “caparbiamente”.Mi avrebbe risposto: “Ma è già morta… Hai bevuto? > Dimmi la verità, hai bevuto?”.Avrei replicato: “Ti piacerebbe, eh? Così tu e > la tua baldracca potreste avere la custodia esclusiva di Ana”. E avrei > riattaccato.Non ho mai detto la parola “baldracca”. Quando sono arrabbiata > grido “stronza” o “troia”. Chi dei due avrebbe riattaccato per primo? In quale > momento la conversazione si sarebbe inasprita? Che dubbi amletici, talmente drammatici da accorciare il respiro. Più si procede nella lettura più la protagonista Agnès diventa insopportabile, al punto da farci solidarizzare col marito fedifrago Pierre. E certe riflessioni sembrano rivelatrici dei problemi di questo libro: > “E io ero stanca. È il prezzo da pagare per la gloria: la paura, sempre più > presente e opprimente, di non avere più niente da dire, la sensazione di > rifilare sempre la stessa minestra. Cosa raccontare nel prossimo film? Tra le > altre donne che mio marito non guardava ce n’è stata una che ha fatto più che > guardarlo, gli è saltata addosso. Aveva un buon odore, era carina e > zuccherosa, aveva voglia e faceva venire voglia. E lui, senza opporsi, l’ha > lasciata fare, in un primo momento per sapere, per capire, per assaggiare > qualcosa di diverso”. In conclusione, possiamo dire che uno degli scopi occulti di questo libro pare essere quello di trasudare mondanità. Effettivamente, è una vocazione che viene da lontano, da quell’aristocrazia Ancien Régimeanteriore alla Rivoluzione del 1789, dove una piccola schiera di privilegiati, splendidamente condannati all’ozio, si creava una realtà circoscritta in cui autocelebrarsi. Era lì la Civiltà della conversazione, raccontata nel magnifico libro di Benedetta Craveri edito da Adelphi: fare della vita mondana un’arte e un fine in sé, come tratto distintivo di un’identità aristocratica che dal Sei-Settecento è riuscita a proiettare la sua eredità fino alla gauche intellectuelle francese novecentesca, l’estremo baluardo culturale che potesse arginare la deriva inevitabile, compiutasi nell’ultimo quarto di secolo per estinzione generazionale. L’autocelebrazione occulta, ben percepibile nella prosa pretestuosa della Perrin, discende proprio da quel bisogno irrefrenabile di mondanità, da quell’esprit de société che nel tempo si è sfilacciato fino ad annientarsi nel chiacchiericcio stolido che oggi macina tutto, che dice senza costrutto, che parte per tornare al punto di partenza, che celebra la propria inutilità in pagine che – siamo desolati – torneranno nel cestino.  Paolo Ferrucci *In copertina: un’opera di Roland Topor L'articolo Valérie Perrin, scrittrice del Vasto Pubblico (ovvero: quel bisogno irrefrenabile di mondanità) proviene da Pangea.
May 9, 2025 / Pangea
Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un libro di Giovanna Di Marco
Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille, forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la sua verità liberata dall’artificio della parola.  Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato (come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia. Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata: l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo che meriti di essere salvato.  È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa – Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura, affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi, Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio, Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt, Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.  A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale (siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona, monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico, giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del tutto ostile.  I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro. «Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel quadro».  Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo, l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente, inadeguato:  > «Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti > architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per > scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma > di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che > arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si > offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi > riconsegnarla sotto altra forma».  Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque, all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.  > «Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco > –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E > adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi». Fabrizio Coscia *In copertina: Camille Claudel (1864-1943) L'articolo Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un libro di Giovanna Di Marco proviene da Pangea.
May 8, 2025 / Pangea
“Non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti sacrifici”. A lezione da Piperno
In coda al suo primo romanzo Alessandro Piperno ringraziava il proprio maestro, Enrico Guaraldo, per avergli insegnato “a leggere e a scrivere”. Allora ero molto giovane e ricordo che in un primo momento pensai che Guaraldo fosse il suo maestro delle elementari; devo dire che oggi quel mio errore mi diverte. Soltanto in seguito capii che leggere e scrivere sono due attività in continua evoluzione e che non si finisce mai di impratichirvisi, nemmeno da adulti. Piperno infatti ringraziava il suo professore universitario, e chissà se oggi – a vent’anni dall’esordio – ritiene di avere del tutto imparato a leggere e a scrivere. Di certo sa tenere interessanti discorsi al riguardo.  Con le peggiori intenzioni, il suo primo romanzo, usciva nel 2005. Allora avevo sedici anni ed era il libro di cui parlavano tutti; volli leggerlo anch’io e mi divertii, mi piacque. Ancora adesso, riprendendolo in mano, alcuni episodi mi paiono molto riusciti e talvolta riesce perfino a farmi ridere. Tuttavia non è all’opera romanzesca di Piperno – ai suoi alti e ai suoi bassi – che penso ora bensì ad alcune tracce per così dire “divulgative” che nel corso degli anni hanno accompagnato la sua scrittura e dunque la vita dei suoi lettori più attenti. Le coglievo su YouTube, sporadicamente: ogni tanto spuntava il filmato di una sua conferenza o di una sua lezione universitaria o anche soltanto di una sua intervista, e Piperno se la cavava sempre in modo egregio, da ottimo oratore qual è. Parlava di molti autori che amo – fra gli altri Proust, Flaubert, Nabokov, Bellow, Philip Roth, Capote, Baudelaire, Dickens, Kafka – e non era mai banale o noioso. Il fatto è che Piperno è uno di quegli scrittori che sono innanzitutto dei lettori forti e che perciò hanno stipulato una sorta di patto implicito con il proprio pubblico, ubbidendo sempre o quasi ai dettami della passione e della sincerità. Certe volte ha un occhio un po’ troppo benevolo per gli autori cresciuti (come lui) du côté de chez Siciliano, tuttavia i suoi consigli letterari non mi hanno quasi mai deluso: come suggeritore di libri Piperno inciampa di rado, specie se non parla dei suoi contemporanei italiani.  Il titolo del suo ultimo lavoro è Ogni maledetta mattina, il sottotitolo cinque lezioni sul vizio di scrivere. Se ho voluto accennare alle sue conferenze e lezioni che girano online è perché in questo libro esse vengono spesso riprese e arricchite. Piperno comincia raccontando della sua passione per la scrittura e poi elenca cinque ragioni (che saranno i cinque capitoli del libro) per mettersi a scrivere: ambizione, odio, senso di responsabilità, piacere, conoscenza. È un saggio a tratti divagante ma sempre ben strutturato. A un certo punto Piperno riprende una frase di John Cheever:  > “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre > all’eccellenza.”  Qualche anno fa l’aveva posta in epigrafe a Il manifesto del libero lettore, un suo libro che potrebbe essere appaiato a Ogni maledetta mattina; ora ce la ripropone come “una delle definizioni dell’arte di scrivere più persuasive” in cui ci si possa imbattere. Difficile dargli torto, specie in tempi in cui alla letteratura si collegano ogni sorta di doveri politici e sociali o addirittura didattici.  Piperno, ripeto, è un ottimo lettore e le pagine illuminanti o comunque dilettevoli del saggio sono parecchie. Mi sono rimasti impressi, per esempio, i brani sulla stupidità contemporanea (partendo da Bouvard e Pécuchet), o un originale e credo inedito accostamento fra Céline e Salinger, o la seguente frase: “È bene ribadirlo: non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti sacrifici”, o questa: “Attribuire un significato simbolico ai racconti di Kafka non è solo un esercizio infruttuoso, ma anche un oltraggio alla sua divina arte narrativa” (una chiosa che Kundera avrebbe apprezzato), oppure: “Ah, se ne ho conosciuti di scrittori talentuosi che, stritolati dalla fame di riconoscimenti, hanno finito per perdersi!”, o ancora un difficile ma riuscito trait d’union fra Proust e Kafka che suggella il finale del saggio e dunque il bel ricordo che ne conserviamo.  Insomma, Ogni maledetta domenica è un libro onesto e riuscito, che potrebbe avere come antenati o fratelli maggiori la prefazione di Musica per camaleonti di Truman Capote o L’arte del romanzo di Milan Kundera. Scrivere, come leggere, è divertente, può esserlo: Piperno in fondo non vuole dirci altro che questo, senza ergersi a gran maestro della sua arte. D’altro canto il suo amato Proust fa dire a Elstir, in All’ombra delle fanciulle in fiore:  > “La saggezza non la si riceve, bisogna scoprirla da soli al termine di un > itinerario che nessuno può compiere per noi, nessuno può risparmiarci, perché > è un modo di vedere le cose. Le vite che ammirate, gli atteggiamenti che vi > sembrano nobili non sono stati stabiliti dal padre o dal precettore, sono > stati preceduti da esordi ben diversi, influenzati dal male o dalla banalità > che regnavano tutt’intorno. Rappresentano una lotta e una vittoria.”  Chissà se Piperno, allievo di Guaraldo, concorderebbe. Di certo in Ogni maledetta domenica non ci sono pompose lezioni “tecniche” sull’arte del narrare, come ormai è d’uso negli sciagurati manuali di scrittura creativa che infestano le librerie. No, Piperno non fa questo, non lucra sugli aspiranti scrittori come sogliono fare in tanti, e di ciò gli siamo grati. Aspettiamo quindi con interesse il suo prossimo romanzo, perché – dopotutto – è lì che si e ci diverte davvero.  Edoardo Pisani *In copertina: un’opera di Honoré Daumier L'articolo “Non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti sacrifici”. A lezione da Piperno  proviene da Pangea.
May 7, 2025 / Pangea
Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla generazione che ha anestetizzato l’ignoto
Come accostarsi a un paese, a una cultura, a una visione del mondo e della vita radicalmente diversi dai nostri? Cosa si smuove, dentro di noi, quando il confronto con l’alterità si fa profondo, inevitabile, trasformativo? «Que devient-il un paysage lorsqu’il n’est plus contemplé?» – si chiedeva Béatrice Commengé, rievocando l’infanzia mitica di Lawrence Durrell nelle valli luminose dell’Himalaya. Un paesaggio, una cultura, esistono anche senza il nostro sguardo? E cosa diventano, quando vi posiamo sopra i nostri occhi inquieti? Si può scegliere la via di Pierre Loti: proiettare sull’altrove il volto inaccessibile e seducente di una donna, dare carne e sangue all’esotico, trasfigurandolo in desiderio. Oppure seguire le orme di un poeta come Odysseas Elytis: prendere la Grecia millenaria e custodirla come in un sogno, sottrarla agli urti della storia, popolarla di luce implacabile e di dèi che nuotano tra le onde dell’Egeo e i dolori intimi dell’uomo. Si può anche fare come Roland Barthes: accogliere il Giappone nella propria fantasia privata, lasciarsi attraversare da una costellazione di segni e immagini fino alla lacerazione del senso. E poi c’è chi si innamora perdutamente dell’Asia e, come in una favola zen, si immagina abitante della luna in viaggio di studio sulla Terra. È il caso di Fosco Maraini, che con Segreto Tibet ci consegna uno dei libri più belli e inclassificabili del Novecento italiano: non solo una superba testimonianza di viaggio, ma una meditazione profonda sulla bellezza, sul tempo, sulla meraviglia. * Nel Tibet degli anni Trenta – chiuso al mondo, accessibile solo a pochi – Maraini accompagna l’orientalista Giuseppe Tucci in due spedizioni memorabili, nel 1937 e nel 1948. Ne nasce un’opera che è insieme diario, trattato antropologico, poema in prosa e archivio della memoria. È allo stesso tempo documento storico e fiaba senza tempo: ha la nitidezza di una cronaca e la sospensione dell’archetipo. Racconta un mondo reale eppure mitico, in cui ogni gesto, ogni volto, ogni oggetto sembra affiorare da un tempo remoto e arcano. Segreto Tibet ci trasmette il senso della vertigine del nuovo – quella a cui non siamo più abituati. Noi, generazioni satellitari, cresciute con Google Maps e Street View, abbiamo addomesticato il mondo, anestetizzato l’ignoto. Maraini, invece, ci restituisce lo stupore intatto del primo sguardo, la sensazione di camminare davvero fuori mappa, come esploratori del proprio stesso sguardo. In questo, egli è l’epigono di Marco Polo: colui che non solo narra ciò che ha visto, ma lo ricrea. Un Ibn Battuta della parola, un Matteo Ricci dell’immaginazione. Seguiamo l’inizio della spedizione, quando Maraini descrive la partenza dal porto di Napoli. È ancora l’epoca dei lunghi e avventurosi viaggi in piroscafo, contenitori mobili di un’umanità cosmopolita e palpitante. Qualcuno dovrà pur scrivere, prima o poi, l’epopea di questi pachidermi acquatici. Nella nave avviene il primo incontro ufficiale del lettore con Tucci, al quale Maraini è legato da una profonda riconoscenza.  Si levano le ancore, si salpa, i cari e i curiosi gesticolano dalle banchine: l’anima vive già le promesse scintillanti del futuro. Maraini fa tappa in Egitto, visita le Piramidi, poi Gibuti, lo Yemen, infine l’approdo in India. Qui avviene il primo grande confronto con la monumentale civiltà asiatica. Con una certa dose di temperata ironia, Maraini già esercita la sua fulminante capacità di osservazione: quell’inseguire la divinità del dettaglio, senza però esaurirne il mistero. Infine, la lenta ascesa verso il Tibet, attraverso l’Himalaya Orientale: un lento e itinerante apprendistato all’incanto, una compiuta pedagogia del vedere. Il nuovo scenario si svela in immagini da creazione del mondo: coltri di nebbia, torrenti impetuosi, ghiacciai celesti, colossi di pietra. Tutto – le forme, i suoni, i colori – parla un linguaggio aurorale, da giorno-uno della Terra. E gli uomini che lo abitano – come i Lepcha, timidi e silenziosi, piccoli Hobbit asiatici in simbiosi con la natura – sembrano venuti da un altro ciclo cosmico. Anche il dettato di Maraini, allora, deve dar conto di questa aria di prodigio. La sua lingua diventa a tratti espressionistica, capace di evocare il brulicante e inesausto alternarsi e proliferare di vita e di morte delle foreste. Poi, come osservando gli altopiani a volo d’uccello, la prosa si apre ai monologhi del sole e del vento, “alle grandi cose di fronte a cui è inutile mentire”. Talvolta, con brevi pennellate da artista cinese, nascono quasi degli Haiku in prosa: > “Gli ultimi alberi, le prime nevi in distanza. Stamattina ci siamo incamminati > all’alba: dalle piante della foresta pendevano strani licheni che la rugiada > imperlava di luce”. Maraini è un narratore puro che dissemina qua e là schegge di poesia. La sua scrittura svezza il lettore dall’ovvio, fruga nella materia viva, apre sentieri nel bosco delle parole con la sicurezza di chi ha imparato a camminare nella giungla, a colpi di machete. La sua lingua sa essere precisa e limpida, ma anche lirica e visionaria: un equilibrio raro tra precisione e incanto. Segreto Tibet è anche un libro di ritratti. Come quello di Giuseppe Tucci: geniale, ombroso, carismatico, capace di passare con naturalezza dalla lettura delle scritture tibetane al ricordo commosso delle colline marchigiane e dei versi leopardiani. Attorno a lui, figure che sembrano uscite da un affresco: maharaja postumi, europei convertiti al buddismo che si aggirano fra i templi come pellegrini smarriti e devoti, nobili americani in cerca del proprio Gran Tour interiore. E infine lei: Pemà Chöki, la principessa del Sikkim. Figura femminile intensa, dolce e carismatica, colta e velata da un mistero lieve. Simbolo di un paese che si rivela nei suoi contrasti, è quasi l’incarnazione dell’anima tibetana: silenziosa, tenace, enigmatica. Io credo che, a dispetto di una produzione che è per la maggior parte prosa, Maraini abbia testa e cuore di poeta. E sono convinto che raggiunga l’apice del suo lirismo proprio nell’evocazione di Pemà. La incontriamo per la prima volta in un pranzo formale, a Gangtok, in un contesto dove “tutto è favola, convegno di gnomi e di fate”. Pemà ha da poco superato i venti anni, il suo nome significa Loto della Fede Gioiosa e vi è in lei una bellezza altera, un po’ nervosa, brillante. I suoi occhi sono intensi e penetranti, l’ovale del volto sottile, la bocca piccola e inquieta passa dal sorriso al disappunto in maniera del tutto naturale. I capelli, di un nero pece, sono molto lunghi e confluiscono in una treccia alla tibetana. È vestita secondo gli usi locali che prediligono i colori accesi e fanno apparire gli europei, stretti nei loro rigidi e scuri indumenti, come dei mesti pinguini. Pemà è avvolta da una seta viola, con una sciarpa che le cinge la vita. Le unghie delle mani sono smaltate in rosso: piccola, adorabile concessione alla moda occidentale. Ai piedi calza dei sandali francesi in pelle nera. Una catena tempestata di diamanti le adorna regalmente il collo. Pemà è un’abilissima e profonda conversatrice. Ha ricevuto un’ottima educazione: conosce assai bene l’inglese e i grandi autori della letteratura.  La principessa Pemá Chöki Namgyal. India. Sikkim. Passo Nāthū Lā. 27 febbraio-18 maggio 1948  Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi Alinari. C’è un passaggio del libro che mi è particolarmente caro. Maraini, di ritorno alla corte di Gangtok dopo svariati mesi, rivede Pemà e trascorre con lei un pomeriggio intero. La principessa, che nutre una profonda venerazione per Milarepa, decide di leggere in lingua originale alcuni passi del grande poeta tibetano. Maraini assiste, incredulo e incantato, alla scena che si svolge in quel momento. Il canto di Pemà racconta le immagini di Milarepa e le sue sensazioni di eremita durante le notti, nei deserti di ghiaccio. C’è forse un modo più bello per avvicinarsi, pieni di ritegno e di un ammirato stupore, al cuore stesso di una persona e di una civiltà a mille miglia lontana dalla nostra?  Quando si trova a Chubitang, Maraini ricorda che proprio da là, un anno prima, è passata Pemà, di ritorno da Lhasa. Immagina allora di avvistarla da lontano, come per incanto:  > “Da lontanissimo avrei visto la carovana come dei puntini; poi camminando i > puntini si sarebbero fatti uomini, cavalli e yak. Avrei sentito allora i > campani degli animali e le voci dei servi. Infine ti avrei vista, Loto della > Fede Gioiosa, per la prima volta, sul tuo cavallo, gli occhi fissi alle > distanze, il capo nel sole; rara, forte, fragile come la giada. Poi saresti > svanita nell’immenso della pianura. Da ultimo avrei soltanto inteso le voci > degli uomini per cui tu eri la cosa delicata e preziosa da proteggere, da > difendere, da condurre di là dall’Imàlaia” * Segreto Tibet ci scaraventa – senza indulgenze – in un mondo fatto di colori e costumi che sembrano usciti da un sogno miniato. Un universo che ignora la fretta, ma conosce l’attesa, il rito, la verticalità della preghiera e l’orizzontalità delle stagioni. Un mondo che si rivela a poco a poco, per squarci di meraviglia, sospensione dell’incredulità. Altopiani di orizzonti vasti, di cieli limpidi, di terre ocra che risplendono alla luce solare, dominate da vette leggendarie. Nei passi di montagna, al confine tra regioni e nei luoghi di transito, svettano i chörten, la versione tibetana degli stupa indiani, e i variopinti tarchö. Sono rettangoli di stoffa colorata, sui quali sono stampate preghiere e formule sacre. Si pensa che le benedizioni vengano portate dal vento, diffondendo buona volontà e compassione.  Tutto, in Segreto Tibet, parla di un tempo che non tornerà più. Non solo per i mutamenti storici, politici, culturali che hanno trasformato – spesso violentemente – il Tibet, ma perché è trascolorato anche, forse, un certo atteggiamento di fronte alla vita. Un capitolo del libro si chiama L’ebbrezza di scoprire. È il resoconto di una mente di fronte all’avventura spirituale della scoperta. Guidato e illuminato dal genio di Tucci, Maraini arriva alla sorgente pura della conoscenza, nel momento in cui essa non ha ancora vissuto lo svilimento dell’analisi, dell’antologia e della classificazione.   Il libro si può anche leggere, in fin dei conti, come la testimonianza bruciante di un evento irripetibile nella vita dello scrittore. Quel Tibet è forse, anche, un Tibet interiore, una segreta geografia dell’anima. Un luogo dove forze opposte convivono, come in uno yin e yang cosmico: luce e oscurità, violenza e dolcezza, umorismo e compassione.  * Fosco Maraini è sepolto nel piccolo cimitero dell’Alpe di Sant’Antonio, nella regione della Garfagnana, uno dei suoi luoghi del cuore. Sulla lapide, alle due estremità, sono incisi una croce di Cristo e un Buddha. Escursionisti, pellegrini e amanti delle sue opere vi portano fiori e piccole bandiere di stoffa tibetane.  Rifletto sulla biografia di Maraini. Certo, vi si può leggere una sintesi perfetta di un uomo che ha dialogato sempre dal cuore dell’Occidente a quello dell’Oriente. Maraini era innamorato dell’Asia, ma senza per questo dimenticare da dove proveniva. Il suo sforzo di sintesi tra civiltà, in un periodo storico drammatico, ha significato anche sacrificio, una dura prigionia, un dito mozzato. Segreto Tibetresta, nella vita e nelle lettere, come un misterioso ed irripetibile miracolo. Dalle porte del futuro, però, si intravedeva già quella manciata di isole poste ancora più ad Est: il Giappone. Lorenzo Giacinto *In copertina: La lotta contro il nulla. Giappone. Tokyo. Parco di Ueno, 1963. Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi Alinari L'articolo Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla generazione che ha anestetizzato l’ignoto proviene da Pangea.
May 6, 2025 / Pangea
Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al “Barabba” di Lagerkvist
Ho amici cattolici. Domenica delle Palme ero in piazza, per i saluti, e in piazza si diceva messa. Una piazza mesta come lo sono i luoghi inutilmente pubblici il più delle volte, quando non ci sono i leader delle ragioni superiori a organizzare i torpedoni. Quando ci sono gli stand della Coldiretti è un’altra storia, è quasi festa, per quanto anche lì a tener banco è l’illusione di poter comprare al miglior prezzo qualcosa di meno industrialmente nocivo. Si chiacchierava tutti ma quando è stata la volta della lettura del vangelo liturgico del giorno, recitato dal pulpito allestito al vento, cala un silenzio di attenzione dovuta, di ossequiosa osservanza delle circostanze cui s’adegua pure chi in piazza c’era per tutt’altra ragione, e taccio anch’io per colmo di stupore di fronte a tante persone, comunemente refrattarie a ogni letterarietà, che azzittiscono e mimano concentrazione per qualcuno che legge. I Vangeli, così come le Bibbia al completo, li ho letti nell’edizione concordata della Mondadori, perciò per me è sempre una novità ri-leggerli ascoltandoli nella versione approvata dalla CEI: troppi interessi di troppe parti difficilmente possono conciliarsi con quello principale della lealtà verso il testo, perché giunga a chi lo legge nella sua forma più aggiornata e il meno faziosa possibile.  «Ogni civiltà nasce da una traduzione», così Gianfranco Folena, citazione letta in un libro di Aldo Busi, per cui: dimmi a che traduzione t’affidi e ci capirò immediatamente qualcosa in più della civiltà che aspetta entrambi, se quella a cui t’affidi tu è la stessa a cui s’affidano in maggioranza. Ascolto. I vangeli nei secoli hanno avuto lettori sagaci, mica tanti, e sequele sterminate di pigri recettori di artate interpretazioni altrui, ma questo non dispensa nessuno dal farsene una lettura e un parere propri, se gli va, così come niente vieta che li si ignori come viene ignorata tanta parte della letteratura mondiale, al netto di quella che viene propinata nei programmi ministeriali, tante volte perché possa essere disprezzata subito e in blocco. Dal Vangelo di Luca:  > “…ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola… Io sto in > mezzo a voi come colui che serve…  il suo sudore diventò come gocce di sangue > che cadono a terra… con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?… E molte > altre cose dicevano contro di lui, insultandolo… Togli di mezzo costui! > Rimettici in libertà Barabba!… Detto questo, spirò.” Ascolto e mentre ascolto non sono più in piazza, non è più la Domenica delle Palme. È la notte di qualche mese fa, in gruppo rientriamo in albergo, siamo a Ischia per il matrimonio di una coppia di amici, è stato ufficializzato al comune di Forio la mattina stessa. Gli altri vanno ciascuno nella stanza assegnata, io resto a zonzo nella hall sottosopra dell’albergo. Siamo fuori stagione, nell’albergo sono in corso opere grosse di manutenzione: le porte delle camere non hanno gli stipiti, lungo i corridoi ammassano le biancherie da sostituire, le scaffalature stanno accatastate negli angoli. Ci si sente come in una delle narrazioni di Antonio Moresco, alla fine di un tempo e di uno spazio che ha perso memoria del suo prima e del suo dopo. Nella hall ci sono libri disposti in pile senza ordine bibliografico alcuno, le scruto a una a una, come resti di colonne di una cattedrale ipotetica, mentale. Scelgo quale pietra svellere: Barabba, di Lagerkvist, nell’edizione 1965 della Gherardo Casini Edizioni Periodiche, traduzione di Alois Baumgarthner, collana “I libri del sabato”. Lo scelgo perché è sottile, ideale per me che stanco come sono non mi aspetto di riuscire a leggere a lungo, in camera. Perché di Lagerkvist ho letto Il nano, e mi piacque. Lo scelgo perché di Saramago ho letto Il vangelo secondo Gesù Cristo, scrivendolo da scrittore quindi né noiosamente da apologista né facilmente da polemista.  Come ha scritto Lagerkvist di Barabba?, mi chiedo, scegliendolo per questo, non sapendo io se  Lagerkvist sia stato di qualche fede dichiarata o se no e se sì quale fosse e se no se si fosse sentito poi in dovere di dichiarare perché aveva preferito di no. Se a lettura del romanzo ultimato avessi continuato a non saperlo, a non poterlo sapere, Barabba sarebbe potuta dirsi l’opera di uno scrittore. La letteratura non può essere confessionale perché le religioni sono il contrario della letteratura. La religione si fonda sull’assunto che c’è una verità e che le narrazioni non possono che provare ad avvicinarsi a quella verità che le precede e che tutt’al più le ispira. Per la religione la narrazione viene dopo la verità. La letteratura sa che scoprirà una verità solo dopo averla raccontata e che quando racconta due volte una storia non avrà raccontato in due modi diversi la stessa verità ma avrà raccontato due verità, perché la verità e il racconto vanno assieme, si scoprono assieme, è impossibile stabilire chi venga prima, chi fondi chi, chi inventi chi, se la letteratura la verità o se la verità la letteratura. Certo, se non ci fossero verità da dire non ci sarebbe niente da raccontare. Ma se non ci fossero i racconti non ci sarebbe mai stata nessuna verità da dire.  La letteratura sa che per esserlo non può e non deve essere suddita della verità. Le religioni, quali che siano gli espedienti retorici perché non lo si noti, scelgono una verità rispetto alla quale rendere suddita la letteratura, e dunque l’umanità che quella letteratura informa. Per le religioni la verità è stata detta e non resta che dirla meglio, comprenderla meglio, purché non-la-si-travisi, quindi decidendolo comunque loro qual è la lettura-corretta, la lettura-consentita. La letteratura sa che la verità sta nell’avventura del linguaggio, di quello che tramite la scrittura è possibile scoprire inventandolo, inventare scoprendolo. La letteratura non la si sa né la si può mai definire ben bene ma una cosa è certa: se chiede di essere autorizzata, se si preoccupa di non-travisare le narrazioni che l’hanno preceduta e che le succederanno, non è letteratura. Sarà pubblicistica e morta lì. Lagerkvist sceglie di raccontare di Barabba. Aggiungere un pezzo di racconto al racconto-ufficiale, al racconto-raccontato-già-tutto, è di per sé atto inventivo audace, necessario, ma non basta scegliere un soggetto non autorizzato per fare letteratura ovvero qualcosa di non autorizzabile per eccellenza. Leggo Barabba di notte in un albergo dalle pastosità moreschiane per scoprire se l’opera di Lagerkvist è letteratura o un lavoretto di mano religiosa. Il romanzo si apre sulla cloaca del Golgotha,  > “teschi e ossa giacevano sparsi ovunque insieme a croci stese a terra, mezze > marcite, che non servivano più ma che nessuno portava via, perché nessuno > avrebbe toccato le cose di quel luogo.”  A osservare il rabbino crocifisso agonizzante c’è Barabba il liberato, che lo osserva dubbioso, inquietato. Corrisponde il corpo “magro e gracile” di quell’uomo dal “petto senza peli, come quello di un adolescente” a colui che nel pretorio “aveva visto circondato di uno splendore abbagliante”? Come si può avere rispetto di un uomo le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai lavorato”? Nel romanzo di Lagerkvist l’interlocutore – mentale – di Barabba il liberato non è il maestro dei cristiani che da lui prenderanno il nome. Non ha nemmeno un nome suo. L’interlocutore di Barabba maledetto nel seno di sua madre è il crocifisso benedetto nel seno della sua di madre, con la differenza che il crocifisso una madre che l’ha amato fino alla croce e prima e dopo la croce l’ha avuta, mentre Barabba no, una madre non l’ha avuta, non ha saputo chi fosse. E il padre? Anche in questo son diversi, il maledetto e il benedetto alla nascita: uno ha dovuto uccidere suo padre, per sopravvivere, sopravvivere per modo di dire, l’altro perché fosse fatta la volontà del suo di padre ha dovuto morire e morire in croce: per la vita eterna sua e di tutti, così dice il padre del benedetto nel seno di sua madre. Il padre di Barabba, di nessuna parola e a prima impressione assai più brutale, non è stato così terribile. O semplicemente non altrettanto potente, onnipotente addirittura. Il romanzo è appena iniziato, è iniziato da poco, e già siamo da tutt’altra parte rispetto al racconto e all’atmosfera dai Vangeli. Intanto il protagonista è un altro e lo è per davvero, è altro rispetto al Gesù dei Vangeli, è altro rispetto ai fatti e ai luoghi della narrazione perché ha tutt’altra origine chi ne è al centro. Non un uomo che comunque sia si è messo al centro di una scena, non è la storia di un predicatore che va incontro alle folle e dunque alla loro volubilità. È la storia di un marginale, un solitario, un omicida. Sono due fuorilegge, certo, ma rappresentano due modi ben distinti di fuoriuscirne. Il crocifisso non intende infrangerla quanto rifondarla, vuol istituire una nuova legge alla quale inchinarsi con gioia, sollievo, consolazione. Barabba desidera restare al di fuori dalla legge quale che sia. Per Barabba o sei tu a crocifiggere la legge o sarà lei a crocifiggere te se non vorrai vivere da inchinato ai suoi piedi.    Stando al presunto messaggio canonizzato dei Vangeli, Gesù è venuto per Barabba, per i Barabba. Il benedetto è venuto per i maledetti: ma un maledetto fin dal seno di sua madre cosa può voler spartire da un benedetto fin dal seno di sua madre?  Barabba e Gesù sono coetanei, per Lagerkvist. Barabba era  > “un uomo di una trentina d’anni, di corporatura robusta, dal colorito terreo, > aveva la barba rossa e i capelli neri. Anche le sopracciglia erano nere e i > suoi occhi infossati nelle orbite, come se lo sguardo avesse voluto > nascondersi. Sotto un occhio cominciava una profonda cicatrice che spariva tra > la barba. Ma l’aspetto fisico di una persona non dice molto.”   Ah, com’è bravo qui Lagerkvist a negare l’evidenza che lui stesso pone: cosa può avere in comune un uomo già scavato e scalfito e lapidato dalla vita come Barabba con quel crocifisso gracile, magrolino, adolescenziale, con quel Cristo che a me pare dostoevskiano, le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai lavorato”? Ma il crocifisso prima di essere crocifisso, prima di iniziare a predicare tra le genti eleggendo i suoi apostoli, non era stato a bottega di falegname? Possibile che un giovane falegname sulla trentina potesse essere magrolino, esile, con le braccia sottili, il petto glabro, il corpo adolescenziale? Io, se devo immaginarmi il crocifisso stando ai Vangeli e non alla sterminatezza delle raffigurazioni che ne sono state fatte poi, costringendo l’immaginario, viziandolo, snaturandolo, certo non me lo raffiguro nelle sembianze del Raz Degan ai suoi bei tempi né nelle sembianze di Ernesto Che Guevara bello anche da morto come un Cristo-da-canone-vivo, e meno ancora come un uomo smilzo, sottopeso, insomma debole nel corpo perché meglio risultasse forte nello spirito. Nonostante le torture e le vessazioni io sulla cloaca del Golgotha, in mezzo agli altri crocifissi torturati, m’immagino un pezzo d’uomo crocifisso, un ex-falegname che avrà saputo conquistarsi la fiducia e poi la venerazione dei suoi simili perché appunto simili a lui come lui deve essere stato simile a sua madre, che secondo Lagerkvist “aveva l’aria di una contadina semplice e rozza”.  Una contadina semplice e rozza avrebbe mai potuto generare un uomo sottile come il crocifisso? Stando a come la descrive Lagerkvist la madre del crocifisso sarebbe stata invece perfetta come madre di Barabba il liberato, solo che “Barabba non aveva una madre”. Perché il Barabba di Lagerkvist fosse proprio quel Barabba è stato necessario che il crocifisso fosse proprio quel crocifisso. Gli antipodi. La tensione, l’invenzione, l’occasione del racconto di diventare letteratura in Lagerkvist sta tutto in questa separazione iniziale: come può la vita e il sogno di un’altra vita oltre la morte di un benedetto fin dal seno di sua madre poter coincidere con la vita e l’incubo di un’altra vita oltre la morte di un maledetto fin dal seno di sua madre? Il crocefisso di Lagerkvist viene per liberare un Barabba che vivrebbe come un’offesa insanabile essere salvato da lui, lui salvato all’origine perché amato da sua madre, a differenza sua, di Barabba, non amato da sua madre e non amato da suo padre e quindi mai amato e quindi inamabile.  Che beffa per il Barabba di Lagerkvist essere salvato da qualcuno a cui per salvarsi basta essere sé stesso, il figlio di suo padre, il figlio di Dio che è Dio lui per primo, insomma essere salvato da colui al quale per salvarsi da solo e per salvare tutti basta essere nato così com’è nato: da un padre terribile, sia, un padre la cui benedizione verso il proprio figlio non è meno terribile della maledizione che il padre di Barabba ha avuto verso di lui, ma pure da una madre che l’ha amato e che amandolo l’ha seguito fino alla croce, disapprovando chissà quanto le scelte mano a mano più suicida di quel figlio predicatore, andato verso le folle invece di starsene nel proprio particolare, lo stesso seguendolo fino ai piedi della croce, conservandolo della benedizione del suo seno di madre che ama suo figlio nonostante suo figlio, poiché secondo Lagerkvist > “Essa non soffriva come gli altri, non lo guardava come lo guardavano loro, > era ben sua madre. Certamente provava una pietà più grande di chiunque altro; > eppure sembrava rimproverargli di aver fatto tutto per farsi crocifiggere. > Aveva proprio dovuto cercarselo, lui, così puro e innocente, ed essa non > poteva approvare una cosa simile. Essendo sua madre essa aveva la certezza > della sua innocenza. Qualunque cosa avesse fatto, l’avrebbe considerato > innocente”.  Che ingiustizia per uno ingiustamente nato maledetto essere salvato da un giusto benedetto fin dalla nascita.  Il trauma insanabile del Barabba di Lagerkvist, che si autodiagnostica a sua insaputa, è di non aver avuto una madre come a lui, a Barabba, sarebbe piaciuto che fosse: una madre che te le perdona tutte, una madre che avrebbe fatto di te il criminale che poi sarebbe diventato lo stesso se cresciuto da una madre disposta a reputarti innocente a prescindere.  Il miracolo del crocifisso, nella scrittura che ne fa Lagerkvist, a questo punto sta invece proprio nell’essersi saputo condurre innocentemente nonostante la madre che ha avuto, rabbiosamente determinata a perdonargli tutto, incapace come deve essere stata di saper amare di un amore che non avesse bisogno di trovarti qualcosa da poterti perdonare prima di amarti. Barabba non ha avuto una una madre e chi non ha madre non può mai avere certezza di essere innocente, per cui qualunque cosa farà non potrà considerarsi innocente, così Barabba in Lagerkvist.  Per meglio dire, Barabba spiega così a sé stesso il corso della sua vita: un maledetto dagli altri non potrà che maledire sé stesso, non ci sarà salvatore che tenga in questi casi, e d’altronde come vuoi salvarti se la madre del figlio che ti avrebbe salvato non ha nessuna intenzione di salvarti a sua volta, di perdonarti, se anzi anche lei ti maledice, raddoppiando il carico?  > “Essa si fermò e lo fissò con uno sguardo così disperato e accusatore, che > Barabba non potrà mai sperare di dimenticare”. Stando ai fatti, nei Vangeli e nel romanzo di Lagerkvist, il crocifisso non ha salvato nessuno dalla sua condizione terrena, al più dalla morte ma giusto per rinfilarlo nella vita dalla quale continua a cercare scampo – vedi Lazzaro o la donna col labbro leporino o il compagno di miniera di Barabba – e comunque non certamente lui, non Barabba.  È stato il popolaccio di leopardiana memoria a venire a condannare il crocifisso, che pur di condannarlo ha fatto liberare Barabba, continuando a ignorare Barabba, è stato il popolaccio a condannare il più debole di lui per fare la volontà dei più prepotenti di lui, illudendosi così che i prepotenti possano diventarlo di meno verso di lui,  rendendolo un po’ meno debole, o comunque  prendendosi la soddisfazione di essere lui per una volta, lui popolaccio, il più prepotente e non il più debole come al solito.  Condannando il debole di turno per ottenere il favore del prepotente di turno il popolaccio condanna sé stesso, quando alla elezioni ci va con questo spirito il popolaccio condanna sempre sé stesso, il prepotente lo sa, anche per questo ogni tanto lascia per un po’ a piede libero un debole che cerca di raccontare agli altri deboli quanto non siano deboli, quale sia la loro forza: per crocifiggerlo poi meglio e con più gusto, per la gioia dei prepotenti e ancor di più per quella di chi non saprebbe rinunciare allo stato di schiavitù che almeno ci pensa lei a spiegargli tutto del perché la sua vita gli faccia orrore. La differenza tra il Barabba di Lagerkvist e gli altri personaggi del romanzo che scelgono di convertirsi, di voler credere, è che quegli altri sono disposti a farsi a salvare e questa condizione di per sé basta a salvarli, al di là di chi sia poi il presunto Salvatore, meritevole soltanto di avergli dato l’occasione di credere che un Salvatore esista, occasione non da poco e non da tutti.  Barabba no. Barabba non vuole essere salvato, non vuole la vita eterna o stare all’interno di una comunità che creda che una vita eterna sia possibile, che lo sia essere salvati, che sia possibile essere amati per sé stessi e amarsi gli uni gli altri. Barabba ormai può fare anche a meno della madre che non ha mai avuto. Barabba vuole delle scuse. A scuse ricevute magari potrà prendere seriamente in considerazione l’idea di accettare un dio, ma niente scuse niente dio, no, non se ne parla. Su un dio, sulla possibilità di un amore, ci mette la croce sopra chi sulla croce è stato messo da ben prima che ce lo inchiodassero di fatto. Specie se ai piedi di quella croce non c’è nessuno, non c’è mai stato nessuno, nessuno s’è mai fatto ri-conoscere per dirti: Non sei solo, ai piedi di questa croce ci sono io. Almeno questo. Barabba è troppo offeso – e ogni volta che ha offeso gli altri, nell’implicita speranza di riparare così all’offesa subita, si è offeso ulteriormente, al punto che l’offesa ha ricoperto tutto, non lasciando spazio per nient’altro, per nessun altro. Ero all’inizio del romanzo e senza accorgermene sono quasi alla fine, sono alla fine, o sono ancora all’inizio? Sono a Barabba che ha fatto il giro largo per tornare al punto di partenza, alla crocifissione soltanto rimandata.  Ma: secondo Lagerkvist chi è il crocifisso? Il crocifisso di prima o il crocifisso di dopo? Chi crede di poter salvare tutti compreso sé stesso o chi crede che non si salva nessuno? Chi è più crocifisso, il benedetto o il maledetto? Quando c’è la religione c’è la risposta, la risposta diventa talmente invadente che non c’è più spazio per la domanda, neppure per il ricordo di quale fosse la domanda. Quando c’è letteratura la risposta tocca a te che leggi – e con ogni probabilità non sarà mai la stessa risposta molto a lungo.  Detto questo, chi è che spira adesso? La messa della domenica, il romanzo del 1965, io, tu? antonio coda     *In copertina: un’opera di Honoré Daumier L'articolo Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al “Barabba” di Lagerkvist proviene da Pangea.
May 6, 2025 / Pangea
“Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge”. Nella magia di Ingmar Bergman
Cento soldatini potevano certo bastare per un sogno. Cento soldatini di stagno a suo fratello Dag in cambio del proiettore ricevuto a Natale. Un baratto che vale l’essenza di una vita intera.  Dal guardaroba della camera, un giovanissimo, magrolino e inesperto Ingmar Bergman sistema il proiettore su una scatola di zucchero e accende la lampada a petrolio. Orienta la luce verso la parete dipinta di bianco e inserisce la pellicola di un film romantico.  Un aneddoto, insieme alla torcia che illuminava il buio della punizione nello sgabuzzino e la paura del mostro che mangia le dita dei piedini, tatuato nella memoria che Ingmar Bergman registra per sempre, in quello straordinario romanzo autobiografico, concluso a fine settembre 1986, dall’evocativo titolo Lanterna magica (Garzanti, traduzione di Fulvio Ferrari). Un guazzabuglio di incontri e scontri, gozzoviglie, solitudini, sceneggiature e opere per il teatro e la tivù e pellicole, manoscritti tragicamente perduti come la fiaba della stanca torre Eiffel (Joakim Naken), passioni travolgenti e sensuali, drammi e immani sensi di colpa, disastri economici e rovesci familiari, rinascite e ricadute. “Fantasmi, demoni e altri esseri senza nome e senza dimora” sembra che lo abbiano cinto d’assedio sin dalla più tenera età. Secondo figlio di un pastore protestante della corte reale, Bergman esordisce come regista teatrale e proprio il teatro, prima che il cinema, ha caratterizzato la sua esistenza, come si legge in questo romanzo fiume. Al cinema dedica luminose pagine:  > “un’illusione progettata fin nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà > che quanto più vivo tanto più mi appare illusoria”.  Il più grande maestro, secondo il grande Bergman, è Tarkovskij che non spiega mai, ma rappresenta le sue visioni, poi Fellini, Kurosawa e Buñuel e quel mago di Méliès. Le sue parole calano nitide e sognanti sulla pagina:  > “Film come sogno, film come musica. Nessun’altra arte come il cinema va > direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della > nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna”.  Il cinema è rivelazione:  > “Le ombre, mute o parlanti, si rivolgono direttamente alle regioni più segrete > del mio animo. Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante, > scintillante, il fruscìo della croce di Malta, la mano sulla manovella”.  Il cinema è come l’amore, in tutti i sensi.  > “Girare un film è un’operazione intensamente erotica. La vicinanza con gli > attori non conosce riserve, ognuno si affida totalmente all’altro. L’intimità, > l’affetto, la dipendenza, la tenerezza, la fiducia, la disinvoltura davanti al > magico occhio della macchina da presa danno un caldo e forse illusorio senso > di sicurezza”.  In questa autobiografia, Bergman parla senza riserve e senza censure della fisicità, che spesso lo metteva a dura prova e lo divorava, quanto dei malesseri interiori che lo costringevano a un doloroso conflitto interiore. Sensibilissimo al fascino femminile, ogni storia d’amore che iniziava sembra il canovaccio di una nuova opera da trasporre sul palcoscenico. > “L’innamoramento, che ebbe modo e tempo di svilupparsi liberamente, aprì > stanza chiuse, muri crollarono, io respirai. Il tradimento nei confronti di > Ellen e dei bambini era avvolto nella nebbia, sempre presente ma stranamente > stimolante. Per alcuni mesi visse e respirò un’audace messinscena, > incorruttibile, autentica e quindi indispensabile. Si dimostrò spaventosamente > cara quando arrivò il conto”.  Conti e debiti, difficoltà economiche e rovesci di fortuna che non sono mancati lungo il corso di una vita. Ad un certo punto, il regista comprò persino il primo cappello della sua vita per dare l’impressione di una solidità che proprio non possedeva.  Le descrizioni dei teatri sono deliziosamente struggenti e nostalgiche:  > “A teatro c’erano le pulci. La vecchia compagnia era probabilmente immune, la > nuova arrivò con sangue giovane e venimmo crudelmente morsicati. Il tubo di > scarico del ristorante passava per i camerini degli uomini e gocciolava > continuamente urina sul calorifero vicino alla parete”.  Una situazione drammatica che Bergman non esita a definire “il paradiso fatto realtà”. Il maestro a teatro continuamente citato e preso come modello: Strindberg.  La famiglia d’origine, l’infanzia in canonica, un pensiero ricorrente e intrecciato alle pagine della maturità. Una vita, quella dei genitori, vissuta come “su un vassoio”, sempre davanti al pubblico.  > “Papà era un predicatore popolare, la chiesa era sempre piena quando parlava > lui. Era un premuroso pastore d’anime e possedeva un talento inestimabile: la > sua capacità di ricordare le persone era illimitata. Durante tutti quegli anni > aveva battezzato, confermato, unito in matrimonio e sepolto molti dei suoi > quarantamila parrocchiani. Di tutti ricordava il volto, il nome e le > condizioni”.  Del fratello, invece, mette a fuoco l’odio verso il padre e il tentativo di suicidio, un’antipatia reciproca e fraterna che lasciò il posto al vuoto, anche dopo tantissimi anni, quando Dag andò a trovarlo nell’isola rifugio di Fårö con la moglie greca. I genitori, per il fratello, continuavano ad essere  > “mitici, capricciosi, imprevedibili, giganteschi. Cercammo di ripercorrere con > la mente sentieri abbandonati e ci guardammo stupiti l’un l’altro: due vecchi > signori, usciti dallo stesso grembo, separati da una distanza incolmabile”.  Sulla sorella più piccola si accende una timida tenerezza sullo sfondo della pagina. > “I miei ricordi d’infanzia riguardo a Margareta sono pallidi e sfuggenti. > Costruimmo un teatro delle marionette, lei cucì i costumi e io dipinsi le > scene. La mamma era una spettatrice paziente e interessata, e ci regalò anche > un sipario di velluto dai bei ricami”.  Nonostante avventurose e innumerevoli esperienze, quel gettarsi “a capofitto nell’abisso della vita”, lo sguardo del regista svedese ritorna, anche alla fine del suo memoir, all’album delle foto di famiglia, al piccolo cerotto sull’indice, al disegno di una coperta, al profumo d’aringa fritta, al volto di sua madre, che appare e scompare, nella brulicante folla elegante delle foto.  Riprende tra le mani il diario segreto della madre, le pagine che inquadrano il momento della sua nascita, la sua venuta al mondo, correva il luglio 1918.  > “Nostro figlio è nato domenica mattina, quattordici luglio. (…) Sembra un > piccolo scheletro con un nasone rosso fuoco. Rifiuta con ostinazione di aprire > gli occhi. Dopo qualche giorno mi è venuto a mancare il latte per via della > malattia. Allora è stato battezzato in tutta fretta in ospedale. Si chiama > Ernst Ingmar”.  Questa ostinazione a non aprire gli occhi sembra intrecciata al sogno di rimanere a vivere nelle segrete stanza dell’infanzia perduta, tra i morti che sono “costretti a tormentare i vivi”.  > “In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti > nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti > alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la > velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio > una piccola visita alla realtà”.  In breve, anche nella sua Lanterna magica, Bergman riesce a mettersi a nudo: “illusionista e reo confesso di questa illusione – secondo la netta definizione di Olivier Assayas e Stig Björkman in Conversazione con Ingmar Bergman(Lindau) – vulnerabile e inaccessibile, umano e insondabile”.  L’invito da cogliere è, quindi, quello di ascoltare la voce incoerente e illogica delle emozioni:  > “Ma voi vi renderete certamente conto che quando si è artisti, quando si > creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. > Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Dal punto di > vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è proibito non esserlo. Ma se > si ha fiducia nelle proprie emozioni, allora si può essere del tutto > incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze > delle emozioni che hai suscitato. Per sempre”. Linda Terziroli L'articolo “Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge”. Nella magia di Ingmar Bergman proviene da Pangea.
April 30, 2025 / Pangea
“Il segreto”: contro l’esibizionismo dei sentimenti, un inquieto elogio della timidezza
Nel 1961 veniva pubblicato per interessamento di Linuccia Saba, figlia del grande poeta Umberto, il romanzo Il segreto a firma di Anonimo Triestino. All’epoca fu un piccolo caso letterario anche per l’alone di mistero che lo circondava: dal nome dell’autore, al titolo, alla singolarità psicologica del protagonista. Con il passare degli anni il velo di mistero si dissolse, anche se solo in parte. In un primo tempo la paternità del romanzo venne attribuita a Guido Voghera (1884-1959), un professore di matematica triestino, che si sarebbe ispirato alle complesse vicende psicologiche del figlio Giorgio (1908-1999), il quale poi nel corso degli anni è stato riconosciuto come il vero autore, anche se lui, pur ammettendo di essere il protagonista, ha continuato a negare fino alla fine dei suoi giorni con una cerimoniosa ritrosia che la dice lunga sulla sua psicologia.  A tutt’oggi c’è ancora chi pensa a un libro scritto a quattro mani da padre e figlio.  Al di là della querelle autoriale, quello che non si è mai dissolto è il fascino del romanzo: una lunga struggente storia d’amore senza speranza. Il libro non è altro che il racconto prima di un bambino, poi di un ragazzo e infine di un uomo e della sua passione per Bianca, un amore mai dichiarato a causa di una timidezza che diventa una nevrosi inibitoria. Nella parte iniziale del libro è possibile rintracciare una possibile chiave di lettura quando Mino, il protagonista, che ancora non ha incontrato Bianca, alle prese con sue prime fantasie amorose fa una riflessione: > “Il concetto che l’amore dovesse venir nascosto prese, col fantasticarci a > lungo sopra, profonde radici nel mio animo, più profonde ancora di quanto io > stesso non me ne rendessi conto. E da ciò fu determinato, forse in parte non > piccola, il mio avvenire”. Lo stesso concetto lo ritroviamo nel momento in cui Mino realizza per la prima volta di essere innamorato di Bianca e al contempo che il loro amore è destinato a rimanere una sua fantasia. Una sera i loro sguardi si incrociano per pochi istanti lungo il Corso e tanto basta. I giochi sono fatti. Una passione appena sbocciata e già inibita. La nascita e la fine di un amore intrecciate in modo inestricabile.  > “Ecco, fra i molti visi che il mio sguardo sfiora e sorpassa, un viso che mi > fa un’impressione del tutto diversa dagli altri: è un viso di bambina, > delicato e serio, dolcemente pensieroso… Era proprio il destino che mi > indicava che l’avrei dovuta amare; era l’espressione del suo volto che, solo > fra mille, aveva parlato al mio cuore. Quella sera tornai a casa con la testa > piena di sogni, e con la coscienza che la barriera che c’era fra noi era > diventata ancora più alta, molto più alta”.  A mano a mano che si procede nella lettura del romanzo si viene presi da una duplice sensazione. Da una parte si vorrebbe che Mino si liberasse delle sue inibizioni e riuscisse a parlare con Bianca; dall’altra ci si rende conto di essere di fronte a un amore perfetto così com’è, non macchiato dalla banalità del quotidiano che finirebbe per incrinarne la purezza. Il protagonista non nasconde i limiti di Bianca, bella ma non bellissima, non particolarmente intelligente o colta, un po’ superficiale e capricciosa, ma il sentimento che prova per lei vola più alto e non viene scalfito dalla realtà e dalle sue miserie.  Uno scontro tra amore e desiderio nel quale il primo è troppo più forte e finisce per soffocare il secondo senza pietà. Potremmo dire che quella di Mino è una rinuncia all’amore per un eccesso di amore. E così la sua attrazione per Bianca resta per sempre confinata negli sconfinati meandri della fantasia nel cui filo Mino finisce per avvolgersi sempre di più finendo per chiudersi dentro di sé come in un bozzolo protettivo. Nel corso del romanzo Mino segue, ma forse è più giusto dire che osserva come un entomologo la vita di Bianca, prima da vicino come compagni di classe, poi da lontano quando lei lascia da scuola per fare la signorina di buona famiglia e lui si trasferisce a Roma per frequentare l’università. Quando Bianca si fidanza con un altro uomo Mino soffre per la gelosia ma ancora di più per i difetti e le debolezze che crede di cogliere nella sua amata quando qualche volta la incontra nelle strade di Trieste sotto braccio al fidanzato e continua a fantasticare di averla tutta per sé: > “Da quell’immagine, da quel pensiero, nasceva in me un desiderio, tormentoso > nella sua vanità, di proteggerla dalla volgarità del mondo, da tutto ciò che > poteva offenderla, turbarla o inquietarla; di tenermela vicina, di > accarezzarla come una bimba, di circondarla di tanto amore umile e puro, di > tanta infinita adorazione”. Di fatto Il segreto è un inno alla rinuncia. Mino è stretto parente dello scrivano Bartleby di Melville e dell’Emilio Brentani, che Svevo ha messo al centro di Senilità e sarebbe certamente piaciuto a Robert Walser, lo scrittore svizzero che per tutta la sua esistenza non ha fatto altro che praticare la rinuncia alla vita.  Coprotagonisti del libro sono la timidezza e il pudore che nelle pagine de Il segreto vengono mostrati senza reticenze in tutta la loro meravigliosa e al tempo stesso inquietante grandezza. Se il libro sessanta anni fa al momento della sua pubblicazione poteva anche essere definito un pugno nello stomaco, non oso pensare a come possa essere accolto in un tempo come quello di oggi in cui sentimenti come timidezza e pudore sono banditi e messi al pubblico ludibrio e nel quale, come giustamente ha osservato Claudio Magris: “Tutto deve essere detto, tutti devono sapere, non c’è nulla che vada trattato con discrezione”. Sempre a questo proposito, Milan Kundera ha detto parole scolpite nella pietra:  > “La fine dell’intimità è la catastrofe del mondo contemporaneo”. Nel libro non ci sono avvenimenti esterni significativi, tutto il romanzo è un monologo del protagonista e anche Trieste, la città in cui è ambientata la storia, resta sullo sfondo. Al centro della scena c’è solo e soltanto il continuo ininterrotto rimuginare di Mino. Una volta arrivati alla fine del romanzo, l’immagine che si spalanca davanti agli occhi del lettore è quella di uno straordinario panorama interiore, lo spaccato di un’anima tormentata. Silvano Calzini *In copertina: Vanni Rossi, Autoritratto, 1922 L'articolo “Il segreto”: contro l’esibizionismo dei sentimenti, un inquieto elogio della timidezza proviene da Pangea.
April 17, 2025 / Pangea
“Sogni d’oro, imbecilli!”. Intorno a Holden Caulfield, il pipistrello della letteratura
Catcher in the rye, conosciuto in Italia come Il giovane Holden, esce in America nel 1951 e la sua ambientazione, leggendone i riferimenti, è da collocarsi probabilmente prima del Natale del 1949. È il romanzo che segna il successo, nella sua invero esigua produzione letteraria (un romanzo, nove racconti e quattro novelle), di J. D. Salinger; produzione nella quale ricorrono la descrizione di pensieri e azioni di giovani non adattati, adolescenti perlopiù laconici che non sanno o non possono esprimere ciò che provano realmente, la capacità di sottrarre allo scacco dell’inautentico e alla perdita di un senso verace che i bambini hanno su questi, e il rifiuto verso la società borghese e convenzionale. Questo autore che ha anche ispirato la Beat Generation, consegna con Catcher in the rye un capolavoro senza tempo che ha saputo parlare, in diversi decenni, a tanti lettori, giovani e non, senza perdere di freschezza e urgenza. Il protagonista è uno strampalato, pensoso, a tratti taciturno e a tratti verboso sedicenne, che eccelle in Inglese ed è carente nelle altre materie della scuola di preparazione al college che frequenta in Pennsylvania. Viene espulso dalla scuola e decide di andarsene da solo a intraprendere un viaggio che non ha meta precisa se non il ganglio urbano di New York. Quante volte nella letteratura di tutti i tempi il viaggio è tramite e veicolo di scoperta e rinascita… Ma per Holden Caulfield non è niente di tutto questo: il ragazzo, infatti, nella carrellata di incontri e esperienze che compie, reca con sé e rivolge molte domande ma non riceve mai risposte, o ne riceve di insoddisfacenti, finendo per inasprire il proprio senso di disorientamento e insoddisfazione; il tragitto che descrive è dettato dall’impulso del momento e risulta sconclusionato. Egli cerca forse non il senso della vita, ma se non altro un senso possibile, che non si palesa mai, però, nel corso delle sue picaresche vicissitudini. Holden è una figura romantica in chiave neoterica e novecentesca, parla il gergo dei giovani di allora, cosa che connota fortemente il romanzo per il verso di un realismo, spesso minimale, che ha affascinato generazioni. Appare un perdente, prende pugni, corteggia ragazze che non gli badano granché, sbatte contro muri fatti di convenzioni e contro situazioni che si volgono spesso al peggio o a una mancanza di esito. Tanto per cominciare non ama il cinema, a differenza dei suoi coetanei, forse perché foriero di sogni artefatti, vero corrispettivo di ciò che è mediato in senso deteriore. ed ama, per contro, la schiettezza d’animo (con la quale si esprime egli stesso) al di sopra di ogni altra cosa. Né adulto né bambino, ha pensieri desueti e sconcertanti, ricorda spesso il fratello che ha perso per una leucemia e, così si evince, non ama i propri genitori benestanti ma ha una spiccata simpatia per la sorellina. In un mondo che sembra avere solo strade ferrate, percorsi ordinari e ordinati, Holden si muove come un pipistrello in una stanza. Il suo ex insegnante di Inglese, il solo forse per cui prova simpatia, lo accoglie una notte in cui si trova in difficoltà, nel corso della sua fuga, e gli rivolge parole che parafrasiamo: “la differenza tra una persona immatura e una matura, è che la prima vuole morire per un ideale, la seconda vivere per esso”. Come negare che questo aneddoto che il professore rivolge affettuosamente al protagonista, sia veridico? Vivere significa anche morire mille volte e mille ancora dover risorgere, condurre una strenua battaglia per la verità e la bellezza, in un mondo che le nega entrambe ed è anzi di per sé mortifico. È questo un cimento cui Holden si avvia sprovveduto in ogni forma, sgangherato e idiosincratico, con pensieri strani, autentici e veritativi, che tiene per sé o deve dissimulare, e che fanno a cozzi con la sua sonnolenta, ordinaria generazione che vuole sentirsi adulta anzitempo e si prepara a un ingresso trionfale nella vita matura e che sogna coronato di certezze salde e successo conformi a un “sogno americano” mai così deviante e falso. Perché il suo tempo, il tempo intimo di Holden, fa a pugni con quello storico che vive, ed è una sorta di zona franca dall’ottusità dei più, dalla loro refrattaria esistenza così impermeabile al dubbio; un viatico, insomma, con cui cerca di tenersi lungi da convenzioni e ruoli, e dal dover declinare il suo autentico essere attraverso ogni sorta di possedere, dal doverlo smarrire goccia a goccia scivolando dissanguato nell’alveo dell’età adulta (che mente o è irretita nella menzogna, veste ruoli in cui si identifica totalmente, mette per propri idoli dei fini assoluti e pressoché senza complemento: fini che non le guadagnano senso di responsabilità, ma una pallida copia di esso assieme a un inventario di privilegi). Più propriamente egli non scimmiotta gli adulti né i propri coetanei, non gioca a interpretare nessun ufficio che all’età matura afferisca, raramente pronostica sul proprio futuro, perché tremendamente incombente ma lontano come un orizzonte simile a un’evanescente stringa. Holden non elude l’angoscia della libertà e non vuole entrare grufolante, con decorrenza precoce, tra recinti di affanni e preoccupazioni. In fondo gli basterebbe avere una ragazza a fianco, che sappia “tenerlo per mano”, perché a quell’età si è fragili spighe e nessuna ragazza ci capisce davvero, nessun genitore sa farsi carico, con risposte perspicue anziché cliché e morali posticce, dei dubbi, delle istanze e delle stranezze che si affoltano nella mente di un figlio in crescita… Si è soli in una folla di nomi, postazioni, ruoli, nel mezzo di un mondo che ad esser capito non basta una vita e ad esser sognato non basta una gioventù. Lo slancio sorgivo e autentico di questo giovane si strozza nel finale in rivi stenti di terapia psicanalitica, avverando paradossalmente le parole dell’amico Carl Luce, che dopo un fugace incontro attraversato da disagio e indolenza, gli consiglia di andare da uno psicanalista. Un luogo comune, certo, ma che traduce in fatto tutta la distanza che separa il giovane Holden da quel ragazzo adulto e già inquadrato. Holden, a New York dove è fuggito, si imbarca persino in un incontro con una prostituta senza riuscire a fare altro che parlarci e lasciar passare il suo quarto d’ora per procura, chiedendole poi di rivestirsi.L’amore, nella sua carnalità, è qualcosa a cui non è pronto, o forse semplicemente non a quel modo. Sente, sì, la sua urgenza, ma lo spaventa. Così come ogni cosa che sopravvenga dopo una lunga, smaniosa attesa, ma si riveli spogliata di ogni sogno, vera e cruda, impellente e mai realmente conquistata: solo tale da accadere lasciandoci “secchi”… Prima di fuggire anche da New York, Holden passa una giornata con la sorellina Phoebe, la sola che forse sappia accettarlo e capirlo, seppure in qualche ingenuo modo; e alla sua domanda su cosa Holden voglia fare da grande, lui le confida di voler fare  > “colui che salva i bambini, afferrandoli un attimo prima che cadano nel > burrone, mentre giocano in un campo di segale”.  Pare una sciarada, ma a parte il richiamo a una poesia di Burns e al gioco del baseball cui Holden è affezionato (conserva anche un guantone come ricordo di suo fratello) egli non fa manifesto altro che di voler soccorrere i bimbi persi in un mondo di giochi prima che la vita li getti a strapiombo in una età che si palesa come una rovinosa caduta; o forse semplicemente salvarli dal vuoto della vita, quando finiscono i sogni dell’infanzia e comincia la realtà di un’esistenza che non è pari alla poiesis di nuovi sogni e nuove sfide, ma opaca e priva di un vero senso se non quello artificioso e costrittivo del ruolo di adattati. Caulfield rimane un antieroe che ha affascinato intere generazioni, forse proprio perché così vicino a noi in una straniante età di passaggio che attraversiamo senza certezze e ripari, o nel ricordo di essa, che tanto può aver deciso della nostra vita attuale come anche tanto poco da destare sconcerto ed echi di una paura che perdura come una voce ormai inascoltata. Massimo Triolo L'articolo “Sogni d’oro, imbecilli!”. Intorno a Holden Caulfield, il pipistrello della letteratura  proviene da Pangea.
April 14, 2025 / Pangea
“Il suono delle stelle”. W.G. Sebald, poeta
La poesia nasce dal clangore delle armi, sotto le possenti mura di Ilio, dove i vortici di sabbia si levano falbi e alte risuonano le grida dei feriti.  La poesia nasce dal lucore marino del remo che sospinge Ulisse verso ignoti approdi.  Non illudiamoci: alle origini del mito, è da scuro e caldo sangue che sgorga la poesia. Il primo poeta deve essere stato un aruspice – le mani vermiglie tra fumanti viscere, in cerca del celeste presagio. Solo dopo verranno il Parnaso, le fonti dell’Elicona, lo sguardo celeste e radioso di Apollo.  L’ispirazione delle Muse: il lusso di chi ha imparato ad addomesticare il furore delle Erinni. * Come Joyce, Nabokov, Kiš e tanti altri, Sebald è stato prima poeta e poi narratore. Per tutta la sua vita ha scritto poesie, nonostante dichiarasse che il suo mezzo espressivo fosse la prosa. Con Calliope ha sempre colloquiato sommessamente, con la discrezione che si riserva ai vizi più imperdonabili. Ora, Adelphi pubblica per la prima volta in traduzione italiana un’antologia lirica del tedesco, Sulla terra e sull’acqua, che raccoglie le poesie scritte tra il 1964 e il 2001, quando uno scontro frontale pose fine alla sua esistenza terrena. * Se poesia vuol dire abbracciare la metamorfosi nel corpo e nel tempo della storia, allora Sebald è stato valente poeta. Di sguincio, come a spiare i gesti degli uomini, con un occhio teso verso la terra e l’altro rivolto al cielo, registra il movimento delle costellazioni, le ampie distanze, il silenzio delle stelle. La rivelazione accade soltanto in modo fulmineo. Il testo è il tuono che segue e rimbomba a lungo. Nelle poesie di Sebald, indovini il momento che precede la scarica elettrica, la tensione che precede lo scioglimento. Senti l’ultima raffica di vento prima della pioggia, l’imposta che si chiude su una piazza come sul mondo intero, l’eco di un suono che si dissolve in lontananza. “Dove vanno adesso i poeti?” – chiede il protagonista di Sindbad torna a casa, breve romanzo di un malinconico Sándor Marai. La domanda è destinata a non trovare risposta. I poeti sono ovunque e in nessun luogo: dimorano sulla soglia.  > Tu resta sempre  > Sul piede di partenza Essere poeti significa rivendicare la responsabilità di una scelta radicale. Scrivere poesie vuol dire accogliere le infinite possibilità che l’orizzonte dischiude. Come Bashō, Rimbaud, Bouvier e Chatwin, Sebald viaggia nello spazio per spinta di nervi e cuore. La letteratura viene dopo: prima bisogna aver guadato fiumi, lasciato impronte sulla neve, incontrato il lampo negli occhi di una volpe. Di tanto in tanto, aver osservato il tempo all’opera: muschio ed edera che avvolgono colonne e capitelli, cenere di antichi incendi negli sguardi dei vecchi. * Vertigini, Emigrazioni, Il passeggiatore solitario, Tessitura di sogno: con Sebald si cammina sempre sul bordo di una scogliera, a sfioro di un precipizio. Il poeta tedesco ha il passo del fondista: i valichi e le vette sono per altri, gli astrali alpinisti del verso. Sull’orlo di un crinale, a mezzacosta, al confine: tra veglia e sogno, memoria e oblio, passato e presente. Immagino la poesia di Sebald come un faro: distante e al tempo stesso intima, solitaria, fiero avamposto tra le tempeste marine.   Nelle sue poesie colpisce la naturale convivenza tra una dimensione fisica, radicata nella storia e nel tempo, e un’altra che invece sembra trascenderla, attraversandola come un raggio obliquo. Non si tratta di una vera e propria metafisica, ma piuttosto della vigile contemplazione di un mistero che si annida nell’esperienza stessa del vivere. Un mistero che si traduce in una sorta di “straniamento”, in un radicale ribaltamento di prospettiva, in cui anche le cose e la natura partecipano della natura umana. Così, nella prima poesia che apre Latinetto, un treno che sfreccia diventa oggetto di studio da parte del paesaggio circostante. Un mucchio di foglie e sterpaglie vive nell’attesa angosciosa del fuoco che un uomo appiccherà. Gli alberi e le case tacciono: la sera accerchia i colori del villaggio con la sua ombra. I castelli sembrano abitati da incantesimi senza tempo. Così, nel sontuoso Nymphenburg, pare di vedere un trovatore provenzale o una principessa poeta affacciarsi da una finestra del palazzo: > Siepi sono cresciute > oltre la corte e il castello. > Da tempo nell’oblio > fontane e lumiere > dietro le facciate, > serenate e pizzicar di corse, > le sfumature malvacee. > Per sale in legno di sandalo, > le guide bisbigliano > del Tavolino magico > nelle biblioteche > dei defunti principi. * La poesia è ciò che resta della fosforescenza del vivere. I versi indugiano sulla pelle di un ricordo.Sebald accoglie e ricombina strade percorse, volti, città e luoghi dove il tempo si è fatto curva nella memoria. Passato e presente si intrecciano senza soluzione di continuità: il poeta non conosce cronologia, né il dolce balsamo dell’oblio. La tentazione dell’autobiografia: testimoniare una perenne metamorfosi. Così, un viaggio nelle Fiandre diventa un inesauribile nodo di ricordi, rivelazioni e immagini folgoranti. Il candore della neve ammanta i vigneti e il giardino pensile di Ezra Pound, il campo di battaglia di Waterloo biancheggia sul sangue dei caduti, i palazzi nobiliari diventano istituti di ricerca e osservatori ornitologici. Personaggi bizzarri si alternano a episodi di glossolalia, sfilano nomi di città come dal finestrino di un treno.  Il presagio di un amore, infine, riporta un ordine apparente nel vortice del caos: la premessa di nuove partenze, il richiamo di un altrove che sembra una promessa di felicità. > Parti per l’Egeo > per Santorini > terra di basalto > fosforescenza sul remo > trattieni l’acqua > nella tua mano: > luccica – di notte –  > davanti alla casa delle melanzane > macchia d’ombra nel buio > sul muro imbiancato a calce > verde chiaro di giorno > fili di rafia violetta > nel sole. Si avanza per interiori lampeggiamenti, in un’ipertrofia della memoria. Un soggiorno a Marienbad diventa una dolente riflessione sulla transitorietà della vita, sulla perdita del sacro, sul presentimento costante di qualcosa di ineluttabile, antico quanto il respiro del mondo. > Ma non rimane il mondo? > così domandasti, una verde landa > non si estende lungo il fiume > in mezzo a cespugli e prati? Il raccolto  > non matura dunque? Sulle pareti > rocciose l’ombra del sacro > non aleggia più? E quello che > di là sotto sta salendo non è forse > il colore grigio della notte? * L’occhio di Sebald vaga nelle remote lontananze, ma osserva con lucida attenzione le vicende umane. Chi ha letto le sue opere, sia narrative che saggistiche, ritroverà in Sulla terra e sull’acqua personaggi familiari e, soprattutto, quel tono inconfondibile del suo stile: un effetto di sospensione temporale, un’accorata meditazione sulla dissoluzione, uno squarcio improvviso su una realtà ulteriore, dove le tracce del passato continuano a vivere nei dettagli del presente. Nel caleidoscopio poetico di Sebald convivono persone comuni e familiari, grandi scrittori e musicisti: nessuno è risparmiato dall’incessante trasformazione del tempo. Di Kafka si evoca il viaggio verso il sanatorio di Matliary, nei monti Tatra, con pochi effetti personali e qualche cartolina illustrata. Čechov viene ricordato negli ultimi momenti della sua vita e dopo il trapasso, quando la salma viene trasportata goffamente a Mosca: ne emerge un ritratto tra il tragicomico e il grottesco. Elegia a Marienbad evoca invece la passione senile di Goethe per la giovanissima Ulrike von Levetzow. Sempre a Marienbad si infrange l’amore disperato di Chopin per la giovane boema Maria.  Gli emigranti, da sempre figure centrali nella produzione di Sebald, ritornano in alcune poesie, al momento della partenza, e poi una volta giunti a destinazione: spaesati, sradicati, rovesciati nel mezzo di una realtà che non riescono linguisticamente e semanticamente a decifrare. Il contesto è quello dei freddi luoghi del viaggio: piroscafi simili a grandi mostri acquatici, sale d’attesa, aeroporti e vuote camere d’albergo.  In queste poesie, il respiro di Sebald è potentemente narrativo: sembra quasi che i versi non possano sostenere il ritmo lento e sottilmente allucinato delle immagini descritte. Lo scrittore dà il meglio di sé quando si affida a un’ispirazione più vasta e misteriosa, che si traduce nell’esemplarità del frammento e fa emergere, come in filigrana, un altrove presagito. Penso alla semplicità di Poesia Invernale: > Nella valle echeggia > Il suono delle stelle e > La vastità del silenzio > Sopra la neve e i boschi. > > Il bestiame è nella stalla. > Dio è in Cielo. > Gesù Bambino nelle Fiandre. > Chi crede sarà beato. I tre Re Magi sono in cammino sulla Terra. E ai suggestivi versi finali di Trigonometria delle sfere: > E non ti scordare disse una volta > Che dalla costellazione dell’Ariete > il vento del Nord porta la luce > fin negli alberi di melo. Ora sappiamo perché il Nord ci attira con la violenza di un ago magnetico, o perché nella notte declinante siede un santo che ruggisce come un leone. Abbiamo compreso il segreto del poeta, di ogni poeta: accendere il fuoco e nel fumo leggere il futuro. Portare fuori la cenere e gettarsela alle spalle. Come Orfeo, non guardarsi mai indietro nel farlo. Con il cinabro pitturarsi il volto e tentare l’arte della metamorfosi. Lorenzo Giacinto *In copertina: Jan Peter Tripp, L’Oeil oder die weisse Zeit, 2003 L'articolo “Il suono delle stelle”. W.G. Sebald, poeta proviene da Pangea.
April 7, 2025 / Pangea