> “Io non sono un uomo, sono dinamite”
>
> Friedrich Nietzsche
Ci vuole coraggio a leggere Valerio Zecchini, onestà intellettuale, capacità di
ragionare trasversalmente, di confrontarsi criticamente e in solitudine con se
stessi, consapevolezza della provvisorietà di certi giudizi e della
insussistenza della “nera scienza catalogale”, avanguardistica brama
demolitoria, voluttà di cieli e di fango, vocazione per la provocazione e per la
tradizione vivente, che trascende i suoi stessi dogmi, i luoghi comuni.
Con questo spirito e rassegnati financo a non condividere affatto alcune delle
sue tesi, è possibile esperire l’essenza di un libro che è molto più di un
reportage sulle orme di un poco noto fondatore di Stati quale è stato il
carismatico James Brooke. La silloge di articoli, interviste e poesie James
Brooke e altre storie dall’Oriente estremo, edito da Pendragon nel 2025 e
introdotto da Gabriele Marconi, sulla carta prende difatti le mosse dalla
enigmatica, succitata figura per poi discostarsene conservandone per così dire
la tendenza alla esplorazione, a tratti sonnambolica, labirintica e surreale, di
luoghi fisici e metafisici, delle emozioni, delle culture, delle arti, del
pensiero. L’idea di partire da James Brooke, ovvero dal cattivo della saga
salgariana di Sandokan e ispiratore di Lord Jim di Conrad, ha qualcosa di
libertario. Brooke, ancora oggi celebre nel mondo anglosassone e pressoché
sconosciuto in Italia, non fu infatti soltanto un individuo benestante di sangue
inglese nato in India da un funzionario della Compagnia delle Indie Orientali e
un ufficiale della marina britannica, ma un rajah bianco che governò in
autonomia ed estese lo Stato del Sarawak fondando nella città dei gatti
(Kuching) una vera propria dinastia (1841-1946). Brooke realizzò anche un
originale esperimento politico che non si ridusse alla guerra contro i pirati
malesi e i cercatori di teste avendo invece come principio fondamentale il
coinvolgimento dei nativi (“ideologia dell’imperialismo umanitario”); dotato di
“semangat” (“coraggio fisico, carisma, forza spirituale”), fu pure un elegante
libertino; un omosessuale amante come Pasolini di giovani in un tempo in cui
l’adolescenza, scrive Zecchini, non era stata ancora inventata; un artista, se
accettiamo di annoverare tra le arti quella della vita. E in fondo l’idea
secondo cui l’arte e la vita siano una sola cosa e che dunque, sprofondando
talvolta nell’abisso di abbandonate strade e parole, si debba forgiare
l’esistenza come un’opera, è il retroterra di molte delle riflessioni di
Zecchini, il quale è primariamente – potremmo dire alla Wagner “totalmente” – un
artista (non a caso fondatore, col compianto Dario Parisini e Luca Oleastri, del
post-avanguardistico progetto poetico-sonoro Post Contemporaney
Corporation nonché artefice nel 2024 dell’evocativo, visionario, corrosivo,
esoterico e a dir poco provocatorio album Patriottismo psichedelico).
Certo, la parola “artista” potrebbe fuorviare laddove si intendesse alludere a
un certo tipo di “sentimentalismo abietto” che, potendo sfociare in un cieco e
vuoto individualismo edonistico, potrebbe ingenerare cedevolezza interiore,
debolezza di carattere e di pensiero. L’arte di Zecchini non ha infatti nulla di
cedevole ma molto di eroico, marziale, immaginifico, “futuristico”, potentemente
dadaistico – come mostra lo stesso incedere dei suoi irriverenti versi declamati
e delle poesie presenti nella stessa raccolta. E, in effetti, ciò che attrae di
più di questo libro e in parte della stessa produzione musicale di Zecchini, non
ha a che fare soltanto con le seppur stimolanti informazioni di prima mano sulla
situazione di vari Stati dell’Estremo Oriente e con la vivida capacità di
scandagliarne l’anima al di là dei fenomeni politici transeunti. Ciò che
coinvolge e apre maggiormente alla riflessione è piuttosto la weltanschauung da
cui tutto, esperienze e viaggi compresi, si anima. Ci si riferisce all’idea
secondo cui la stessa Tradizione resta viva e non scade in “stolida adorazione
della consuetudine” nel momento in cui la si interroga e violenta tutti i
giorni; ci si riferisce inoltre alla volontà di decostruire con spirito
iconoclasta l’uomo contemporaneo e i suoi “troppo umani” ideali per dischiudere
una via che conduca alla formazione dell’individuo assoluto – tipo umano
diametralmente opposto all’ultimo uomo che solca con esibizionistica spavalderia
e sconfortante superficialità le lande di questa età oscura.
Per realizzare questo compito dalla portata metafisica si dovrebbe procedere
oltre le de-terminazioni incasellanti, praticare se stessi al di là del bene e
del male, sprigionare le energie ataviche e avvicinarsi a una dimensione
di coincidentia oppositorum da cui diventare dinamicamente “ciò che si è”.
Considerando questi principi che, pur discostandosene parecchio, sembrano qua e
là rievocare per quel che concerne gli argomenti la metafisica del sesso di
Julius Evola, è possibile – ma non facilissimo né necessariamente condivisibile!
– interpretare la pratica del travestitismo come un modo per trascendere i
propri limiti e identificarsi, mediante una esistenza estetica e controcorrente,
con un essere androgino. In questo senso viene analizzata la figura
dell’Onnagata del teatro giapponese che, pur essendo di sesso maschile e non
profanando il proprio sacro corpo, si veste e vive come una donna non soltanto
quando recita, ma anche quotidianamente. Egli ha così modo di immedesimarsi
integralmente con la figura primordiale che rappresenta “facendo della sua
esistenza un sublime esercizio di stile”, realizzandosi hic et nunc, “come se si
fosse sempre in punto di morte”. Per evitare che il discorso tracimi nella
celebrazione del mondo LGBT e dunque del mondo moderno che lo incornicia,
Zecchini, pur non scadendo in una acritica e banale demolizione di questo
universo ma ricordando comunque “l’edonismo pezzente che domina il mondo drag
queen e transgender”, sottolinea come nell’età classica l’omosessualità fosse
vista alla stregua di un potenziamento della virilità e assumesse in certe
culture orientali una funzione sacrale, essendo l’omosessuale considerato una
sorta di tramite tra il mondo fenomenico e quello sovrannaturale, degli dèi.
Nella misura in cui non degenerino in forme di individualismo materialistico e
di nichilismo passivo ma siano pura epifania di un’“etica della gioia”, di un
“militarismo che danza”, certe esperienze erotiche e la relativa estetica
assumerebbero perciò un valore esistenziale, filosofico, finanche morale. Non si
tratterebbe infatti di rivendicare semplicemente i propri diritti e di
combattere per l’esaudimento dei propri desideri, ma di esperire quasi
cristologicamente il proprio dolore minando con grazia, artisticità e colore i
duri involucri che imprigionano e irretiscono le energie primigenie per farle
eruttare in una sorta di amoralistica volontà di potenza oltre ogni limite
imposto:
> “dare precedenza a un ideale estetico e non alla solita, obbligatoria logica
> del profitto è un atteggiamento che oggi già di per sé assume una valenza
> quasi eroica”.
In questo senso si comprende quanto l’autore scrive di Mishima:
> “nella sua vita e nella sua opera le virtù virili archetipiche (audacia e
> determinazione, senso dell’onore, controllo delle passioni, resistenza al
> dolore) incontrano finalmente la grazia e l’eleganza”.
Nella intervista contenuta nel libro il poliedrico artista spiega tra l’altro la
teoria del quarto sesso – “quarto” rispetto a maschile, femminile, omosessuale.
Zecchini rispolvera a tal proposito il Manifesto della donna futurista e
il Manifesto futurista della lussuria di Valentine de Saint-Point e cita il
“femminismo differenzialista” di Luce Irigaray pensando che ritenere nulle le
differenze tra i sessi costringa infine il femminile ad adeguarsi al modello del
“maschio integro”; Zecchini afferma che le differenze tra i sessi vadano
sviluppate ma che allo stesso tempo alcuni possano sperimentare “le pluralità
contenute in quelle differenze” per “vivere negli stati molteplici dell’essere”
puntando “all’inveramento dell’individuo unico e assoluto” e trovando nel
travestimento stesso la modalità per esplorare la vera essenza dell’uomo:
l’angelo, “entità androgina per antonomasia”. Il poeta ci tiene altresì a
sottolineare che il quarto sesso non è altro che lo stesso Zekkiny:
> “l’altissima qualità della sua vita interiore, la sua sovrabbondanza ormonale
> e il modo in cui reagiscono la sua opera e il suo mondo relazionale a tale
> sovrabbondanza”.
Di conseguenza pare che, pur essendo rispettate e sviluppate le differenze di
genere, queste si possano evidentemente celare financo in uno stesso individuo e
solo pochi avrebbero la capacità estetica di attuarle tutte e di coagularle
alchemicamente in un unico plurivalente modo di essere tramite la via della
“sperimentazione dinamica”. È così che, oltre al sottofondo antiumanistico che
ricorda per certi versi l’analisi heideggeriana e ai riferimenti alla
riflessione filosofica e artistica post-contemporanea, si colgono i richiami
nietzscheani che tra l’altro indirizzano a rivalutare in positivo
l’estetizzazione della esistenza, la quale, però, non deve innescare recessivi
fenomeni di infiacchimento, ma al contrario autodisciplina, lavoro incessante su
se stessi, spasmodica cura dei particolari e dello stile, spirito guerriero,
forza plastica, a un tempo dionisiaca e apollinea, femminile e maschile. Nella
esperienza di alcuni individui straordinari, ovviamente non necessariamente
omosessuali, l’uomo sarebbe destinato a essere superato o, a seconda di come si
interpreta la stessa nozione di Übermensch, potenziato a tal punto da
oltrepassare la mera individualità egoica e le sue rigide conformazioni per
essere come le onde del mare altro dal mare e lo stesso mare, la sua indomita,
sempiterna, multiforme, elementare energia creatrice. Questa trasfigurazione che
assume valenze esoteriche e dopo la morte di Dio sfocia in una sorta di estetica
pratica dell’estasi, coinvolge l’esistenza integralmente facendo dell’arte un
modo religioso della vita e della vita un modo religioso dell’arte. Siffatta
sacrale estetizzazione non può rinnegare i materiali che utilizza per conferire
bella forma al mondo.
Affiora perciò non solo la propensione a considerare il nichilismo in senso
attivo ma a cavalcare senza remore moralistiche la tigre della modernità
servendosi dei suoi stessi strumenti tecnologici e virtuali; per questo ad
esempio sono valutate positivamente la “poetica del pixel” di Yayoi Kusama e la
connessa filosofia della “self-obliteration” che intende “annullare l’io di
superfice e farlo uscire dal gioco dei ruoli e delle funzioni” per “percepire
noi stessi in modo tale da pervenire ad un’inscindibile armonia tra intimo ed
estrinseco”. Epperò, se da un lato è necessario decostruire per ricreare e
redimere il mondo nella bellezza, dall’altro bisogna essere inattuali e, al di
là della stessa avanguardia, indossare “la lucente corazza della Tradizione”
facendone propri i valori essenziali: coraggio iconoclasta, aristocratico senso
della irriverenza, ardore e senso della sfida, dignità e “capacità di sapersi
accontentare” contro la morbosa etica del profitto, “autentico cameratismo” ,
“amore per la natura” e non per l’efficienza, “amore di patria” e non
“sciovinismo”, saper essere all’occorrenza semplici e frugali, capacità di
comandare e di avere fede, ad esempio nell’Imperatore. I nomi che in un modo o
nell’altro e ognuno in modo originale hanno costruito delle vie in un certo
senso estetizzanti e assai critiche rispetto al mondo moderno sono tanti, tra
questi Pound, D’Annunzio, Keller, Miller, Marinetti, Carmelo Bene, Dino Campana
e vari altri artisti come Andy Warhol o Takashi Murakami, musicisti come
Battiato e scrittrici come Wei Hui.
Il superamento estatico della morale borghese e del moralismo nonché la stessa
sublimazione estetica e la capacità di disfare l’individualità “per approdare
all’oceano della pura coscienza” ed “essere tutto senza tentare di essere
qualcosa”, possono concretarsi anche nella via dello zen (“raccoglimento e
silenzio”) o nella via del rumorismo elettronico (“pulsare ossessivo del ritmo”)
e possono produrre a seconda dei casi anche l’auto-annientamento – di cui è
emblema moderno il sacrificio catartico di Mishima.
Il libro di cui si discute è denso di informazioni sugli Stati asiatici dei
quali Zecchini ha vissuto con poetico slancio dionisiaco strade, uomini e numi.
Non ci troviamo perciò davanti a una esegesi che pecchi di astratto accademismo,
ma di fronte a una interpretazione assai personale della civiltà orientale che
si incontra con la corruttiva occidentalizzazione, con la globalizzazione e che,
in alcuni casi, fa i conti col devastante passaggio del comunismo. E se con
perfetta, a tratti spietata sincerità l’autore osserva come buona parte degli
Stati in questione siano assai diversi dall’idea rarefatta che di solito se ne
ha in Occidente, ci fa percepire pure che qualcosa di originario è rimasto.
L’originario, però, è tale se è in grado di reinventarsi illimitatamente, come
fanno alcuni leader orientali armonizzando consumismo ed ecologismo, libertà e
senso della comunità, crescita economica e solidarietà, modernità e tradizione,
io e noi. Con Zecchini si ha l’impressione che l’Occidente possa essere letto a
partire dall’Oriente e l’Oriente a partire dall’Occidente per approdare forse a
una nuova, viva sintesi che, pur rispettando le reciproche differenze, parimenti
le distilli e potenzi in una originale concezione del mondo e
dell’uomo. Leggendo Zecchini si ha infine l’impressione che nella autentica
ricerca di se stessi gli schemi debbano per forza saltare in aria e i luccicanti
frantumi barbagliare nel caotico ordine di un etere rinnovellato. Si tratta del
cielo di un falco inattuale, intimo dei demoni e intero nel frammento, che come
un terribile, altro viandante agisce rapsodicamente
> “contro il tempo, e in tal modo sul tempo, e, speriamolo, a favore di un tempo
> venturo”.
Luca Caddeo
*In copertina: una fotografia dal Giappone di Felice Beato (1832-1909)
L'articolo Contro il tempo. Il manuale marziale di Valerio Zecchini proviene da
Pangea.
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Sui passi di un imperdonabile, le gambe percorrono a piedi i chilometri di
strade smemorate per strapparlo ancora una volta via dai recessi della Storia,
dove i parigini hanno lasciato il suo nome sotto una coltre di polvere e
ignominia. Marco Spada, dottorando presso l’Istituto Italiano di Cultura di
Parigi, saggista e traduttore, ci porta dentro Le Parigi di Drieu (Bietti, 2025;
s’intende: La Rochelle), tracciando una mappa geografica e sentimentale della
capitale, in cui il tempo di ieri si sovrappone a quello caotico e strafottente
di oggi, nell’intreccio di vita e opera. “Non vi è nulla a Parigi che lo
ricordi”, scrive Spada.
> “Di lui non è rimasto neppure l’edificio nel quale ha deciso di mantenere la
> sua parola. Demolito, è stato rimpiazzato da un altro palazzo. La casa dov’è
> nato è ancora lì, così come il Parc Monceau o l’Hôtel d’Orsay. Tuttavia,
> bisogna immaginarselo, prendere con sé i suoi testi e camminare a piedi lungo
> le strade di Parigi, riscoprendo il gusto mediterraneo dell’estetismo armato
> tra i boulevard ghiacciati, quando a gennaio il termometro segna -12, e
> degustando, irrimediabilmente, una degna polibibita al Maxim’s.”
Aggiungendo che forse è meglio così, troppo spesso l’onorificenza coincide con
un oltraggio. Seguendolo in queste estenuanti passeggiate, in cui il racconto
coinvolgente a volte non solo fa dimenticare dove finisce Marco Spada e comincia
Drieu, ma ci trascina direttamente su quei boulevard, cominciando il viaggio da
una libreria di rue de Médicis, dove scaffali ricolmi di esistenzialismo e
poesia contemporanea accolgono con diffidenza lo studioso in cerca di “un suo
consanguineo”. Scopre così dalle parole del libraio, che di La Rochelle non si
parla mai se non in relazione ad un altro reietto geniale, Robert Brasillach e
all’occupazione tedesca. Del resto, a Parigi l’abbraccio mortale e
moralisteggiante di Letteratura e Storia, inaugurato dalle parole di De Gaulle
sugli Champs-Élysées, in una città appena liberata nella tarda estate del 1944,
“Il talento impone l’obbligo di una superiore responsabilità”, diede il via alla
stagione dell’epurazione sulla scia dell’art. 75 del codice francese, massima
punizione per gli scrittori colpevoli di intelligenza col nemico.
Impossibile ricomporre gli strappi sul piano dell’arte, che trascende i limiti
degli artisti in nome dell’opera conducendo invece ad una loro esacerbazione,
selezionando con malevola acribia i nomi meritevoli di memoria.
Eppure, l’opera in qualche modo resta e ci interroga.
Interroga la nostra libertà e il nostro spirito critico, che fioriscono proprio
dentro le contraddizioni, perfino quelle più odiose e per questo dolorose, del
cuore dell’uomo. Nomi che non sta bene pronunciare, dunque, altrimenti cade su
di sé la mannaia del sospetto. Marco Spada, profondo conoscitore e amante
dell’opera di questo dandy pessimista, dando fondo alle lettere e soprattutto
agli scritti più autobiografici, come Il diario, recupera con una scrittura
coinvolgente e padrona dell’argomento, sia letterariamente che storicamente, le
Parigi dell’infanzia e dell’adolescenza di Drieu, in cui “diventa oggetto della
cupidigia e della rivalsa dei genitori, sentimenti che lo accompagneranno
funestamente per tutto l’arco della vita, sfociando negli scritti al vetriolo
di Stato civile e nel romanzo Piccoli borghesi”.
Scrive Stenio Solinas nell’introduzione che inaugura il volumetto, che se si
guarda alla biografia di Drieu La Rochelle a partire dagli anni Venti, si scopre
un parigino poco stanziale, per cui è difficile trovare traccia di un
radicamento o “una corrispondenza di amorosi sensi” con la città. Ma l’accurato
e appassionato lavoro filologico di Spada ricostruisce le strade e i quartieri
restituendoci un’immedesimazione tra Drieu e Parigi che non emerge dai suoi
romanzi. Un viaggio che non si esaurisce in un solo volto della città, ma ne
racconta tre, perché lo sguardo di Drieu che la accarezza – con amore-odio –
conosce diverse fasi.
Due date e due indirizzi, alfa e omega della vita dello scrittore nella capitale
francese: 3 gennaio 1893, decimo arrondissement; 14 marzo 1945, 23 di rue Saint
Ferdinand. A cinquantadue anni, Pierre Drieu La Rochelle, ormai braccato
dal redde rationem imposto dal nuovo corso, con una dose massiccia di Gardenal
porrà termine ai suoi giorni, alle sue Parigi e ai suoi amori con le donne – tra
tutte, Colette, Olesia e Victoria Ocampo – le uniche creature ad avergli dato
per istanti mai abbastanza lunghi, la sensazione di potersi radicare nella
vita.
E una raccomandazione: al termine di questo viaggio metafisico, posare cinque
rose sulla tomba di Drieu a Neuilly, dove c’è ancora la bianca pietra tombale
con la sigla B. à H. fatta incidere da Christiane Renault, le iniziali dei due
protagonisti-amanti di Beloukia, omaggio di La Rochelle al suo amore per lei.
Livia Di Vona
L'articolo Cinque rose sulla tomba di Drieu. Viaggio nel cuore di un genio
tragico proviene da Pangea.
Si alza un fumo denso da una biblioteca addormentata, tra scaffali muti e
finestre sigillate. Una lingua di fuoco percorre costole di volumi, lambisce
l’inchiostro, accarezza le idee fino a consumarle e trasformarle in alveo
perturbante. L’aria è immobile, ma qualcosa brucia, lentamente, silenziosamente,
nel cuore stesso del pensiero. Là dove la mente si fa tempio e prigione e il
sapere incanta, inabissa, devasta.
L’incontro tra follia e cultura ha un nome, un volto, un ordine narrativo. Esso
nasce come visione, febbre, vertigine. Il delirio e l’erudizione di Auto da
fè sono incisioni su lastre di vetro: ogni parola taglia, rifrange,
moltiplica. E ciò che prende forma è il ritratto di un’intelligenza assoluta e
assolutista, che cerca nella purezza intellettuale la salvezza, trovandovi
invece la più irreversibile delle solitudini.
> “La nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità”.
Il romanzo-mondo di Elias Canetti, apparso nel 1935 sotto il titolo tedesco Die
Blendung è un’opera unica, per certi versi indecifrabile, e si offre al globo
come labirinto, rogo in cui la parola si consuma nel falò della conoscenza.
Il protagonista, Peter Kien, sinologo di fama internazionale, vive immerso in un
culto libresco che sconfina nella più feroce misantropia. La sua esistenza
ascetica si svolge interamente tra gli scaffali della sterminata biblioteca
privata: ottantamila volumi, che Kien definisce “le uniche creature degne di
rispetto”. La realtà esterna, per Kien, è un’interferenza da cui difendersi; la
lingua un’arma da perfezionare sino alla lacerazione. Ma come ogni sistema
autoreferenziale, anche la sua torre di Babele è destinata a crollare. Il
matrimonio con la sua governante Therese, figura grottesca e carnale, antitesi
vivente della purezza intellettuale, innesca una vertiginosa discesa
nell’abisso.
> “Poco mancava che Kien cedesse alla tentazione di credere nella felicità,
> questa spregevole meta degli analfabeti”.
Canetti, ebreo sefardita nato il 25 luglio del 1905 a Ruse e cresciuto fra
Vienna, Zurigo e Francoforte, scrive questo romanzo negli anni in cui l’Europa
si inabissa nel culto della forza e della massa, su cui Canetti inciderà con il
celebre Massa e potere. In contrasto, Auto da Fé, a lungo ignorato, ha trovato
un nuovo eco nel secondo dopoguerra, anche grazie al riconoscimento tardivo
conferito a Canetti con il Nobel per la Letteratura nel 1981. Il titolo
originario, Die Blendung, evoca l’accecamento, tanto fisico quanto metaforico: è
la cecità dell’intellettuale isolato, incapace di leggere i segni del tempo; ma
è anche la cecità della cultura quando si chiude in sé stessa, quando diventa
autorità dogmatica, repressione del corpo, negazione del mondo. Non a caso, il
titolo inglese, scelto da Canetti stesso, Auto da Fé, richiama i roghi
inquisitoriali, in cui i libri, e le idee, venivano ridotti in cenere. Il sapere
che brucia se stesso.
A livello stilistico, Auto da fé è un’opera straniante, costruita su un
linguaggio ossessivo, talora volutamente meccanico, che restituisce la rigidità
mentale dei personaggi. Ogni figura è iperbolica, caricaturale, come se uscisse
da un incubo kafkiano o da una pièce espressionista: Therese, massa informe e
famelica; il portinaio Fischerle, gobbo paranoico e megalomane; Georges, il
fratello psichiatra, emblema della razionalità normalizzante. Tutti i personaggi
orbitano attorno a Kien come satelliti impazziti, e insieme compongono una
satira amara della società moderna, in cui la cultura non salva, ma isola,
ossifica, disumanizza.
> “Si potrebbe quasi credere che sia un morto. A che scopo vive un essere di
> quella specie […] Una persona simile non serve a nulla.”
In questo senso, Auto da fé è una critica radicale alla fiducia illuminista
nella ragione. Kien non è un umanista, ma un feticista del sapere; la sua
cultura è ritiro solitario, la sua mente una camera stagna. Lungi dall’essere
salvifica, la conoscenza diventa un assoluto che divora colui che la persegue.
“Chi non ha libri è perduto,” dice Kien. Ma Canetti ci mostra, con feroce
lucidità, che chi ha solo libri lo è altrettanto.
Proprio per questo, pochi giorni fa, ho deciso di incidere Kien sulla mia pelle;
il suo volto baffuto che si fascia gli occhi per isolarsi nel suo mondo, per
essere come quei ciechi che lui stesso ama e detesta; Kien sta lì, completamente
perso, cieco volontario tra i ciechi inconsapevoli, a ricordarmi che oggi, in
un’epoca segnata dal sovraccarico informativo, dall’inflazione dei saperi e
dalla crisi dell’autorità intellettuale, la sua storia risuona con un’attualità
inquietante. È un monito contro ogni forma di idolatria del sapere, contro la
tentazione di annientarsi, di nascondersi dentro un cervello inanime, di
rinchiudersi nella torre d’avorio della propria persona.
> “Al mondo, dice, ci sono troppi libri e troppi stomaci affamati.”
Elias Canetti ci considera impotenti, non vuole e non può proporci soluzioni o
redenzioni. Ci offre solamente un ritratto impietoso della mente contemporanea,
colta nel momento della sua combustione. Un cervello in fiamme, come la
biblioteca di Kien. Un’auto da fé, appunto, in cui si brucia non solo il corpo
dell’intellettuale, ma anche la sua illusione di dominio.
E in questo luglio che si arroventa, non possiamo non ricordare che il 25
saranno trascorsi 120 anni dalla nascita di Elias Canetti. 120 anni dalla
comparsa di uno spirito lucido e profetico, che ha saputo guardare nell’occhio
della follia collettiva senza arretrare, e che ancora oggi ci parla con una voce
che arde come brace sotto la cenere della storia.
Auto da fé è un’opera al limite tra sapere e psicosi, tra parola e silenzio, tra
individuo e massa. Canetti ci costringe a interrogarci non solo su ciò che
sappiamo, ma su come e perché lo sappiamo. L’anima di Kien è rovina nobile,
cattedrale gotica che crolla su chi la abita troppo a lungo. Il pensiero, se
assoluto, si chiude con catene d’oro, lucide e serrate.
E allora, cosa ci resta? Il crepitio, l’eco. Resta la figura dell’intellettuale
come incendiario e superstite, come martire di un sapere che abbaglia e
consuma. Canetti ci insegna che la mente è un campo di battaglia e solo
l’incendio può redimerci; nel buio della catarsi, l’abisso sa leggere anche noi.
Tommaso Filippucci
*In copertina: Francisco Goya, Capricho No. 23: Aquellos polvos
L'articolo La mente è un campo di battaglia. “Auto da fé”: storia di un libro
necessario proviene da Pangea.
Il modo migliore per festeggiare la nascita di una nuova casa editrice, che fin
dai primi titoli appare più che promettente, consiste a mio parere nel dedicarle
almeno una recensione, scegliendo, in un catalogo ancora smilzo ma in rapido
sviluppo, un titolo che sembra davvero interpellarci. Mi riferisco a Palingenia,
una nuova realtà editoriale sospesa fra Milano e Venezia – che delle due città
dovrebbe riunire l’efficacia, da una parte, e il fascino, dall’altra –, e qui in
particolare alle memorie della scrittrice austriaca Hertha Pauli intitolate Lo
strappo del tempo nel mio cuore, pubblicate in edizione originale nel 1970,
riedite più volte (l’ultima da Zsolnay tre anni fa) e tradotto oggi con vivace
fedeltà, appunto per Palingenia, da Enrico Arosio.
Il bellissimo titolo, così drammatico e suggestivo, è la variante di alcuni
versi di Heinrich Heine, come la stessa Pauli debitamente riconosce nel prologo;
e se il cuore è quello della narratrice-protagonista, il tempo è l’oscuro e
tormentato periodo che porterà allo scoppio della Seconda guerra mondiale,
mentre lo strappo è quello a cui ciascun individuo e dunque l’intera
collettività furono sottoposti e costretti dalla follia di pochi, da un lato, e
dall’altro anche da un concorso di circostanze inopinate e inarrestabili che ci
sembra oggi così prossimo forse perché – pur riconoscendo che la storia non si
ripete mai del tutto – in quell’epoca troviamo tante sfortunate analogie con la
nostra. A corroborare quest’ipotesi e a suscitare allarme nel lettore di oggi
basta un breve passo in cui la scrittrice racconta quali furono le reazioni
popolari, da parte quindi della gente comune, alle prime decisioni prese per
contrastare la politica hitleriana: “L’Inghilterra aveva dichiarato guerra ad
Adolf Hitler. E la Francia? – che cosa faceva la Francia? Per ora neppure una
parola… Le signore al tavolo accanto si misero a strepitare. L’Inghilterra,
sentii, ci trascinerà di nuovo in guerra… Ma chi ce lo fa fare di combattere per
la Polonia?” Sostituite Ucraina a Polonia e l’equazione diventa quasi
imbarazzante.
Ma chi era Hertha Pauli, anzitutto? Nata nel 1906 in una famiglia della
borghesia intellettuale viennese, ebrea, come molti, a metà, in quanto il padre,
Wolfgang Josef Pauli, medico e biochimico, benché nato ebreo si era convertito
da tempo al cristianesimo, Hertha è anche la sorella minore del fisico e futuro
premio Nobel Wolfgang Pauli. A diciassette anni interrompe gli studi liceali per
darsi al teatro e va a recitare prima a Breslavia, poi con Max Reinhardt a
Berlino. Quando di anni ne ha ventuno, la madre, giornalista e fra le prime
esponenti del movimento femminista, si toglie la vita. Nel 1929 Hertha sposa
l’attore Carl Behr, ma divorzia tre anni dopo, essendosi nel frattempo
innamorata di Ödön von Horváth. Quando questi le annuncia l’intenzione di
sposare un’altra donna, anche Hertha tenterà il suicidio, ma sarà salvata e
manterrà anche in futuro una stretta amicizia con il drammaturgo.
Nel 1933, vista l’atmosfera che si respirava in Germania, se ne torna a Vienna,
dove apre un’agenzia letteraria che rappresenta autori di lingua tedesca e
stranieri. Cinque anni dopo, con gli amici Karl Frucht (Carli) e Walter Mehring,
che compariranno spesso nel libro, decide di trasferirsi a Parigi, passando per
Zurigo (dove dovrebbe incontrare il fratello, che però si trova già a
Cambridge), prima che l’Anschluβ di un paese umiliato, ridotto a
insignificante Ostmark (marca orientale) del Reich tedesco, finisca per rendere
impossibile qualunque fuga. Non le manca anche qualche ragione personale: la sua
biografia della pacifista Bertha von Suttner, Nur eine Frau, non era affatto
piaciuta ai nazisti, che l’avevano messa in cima ai libri vietati. In ogni caso,
l’intuizione di Hertha è giusta: altri intellettuali della sua cerchia, che si
muovono leggermente in ritardo, non sfuggiranno più alle truppe tedesche.
Neanche Parigi, tuttavia, è sicura, lo diventa anzi sempre meno con il passare
dei giorni e dei mesi, tanto che nel 1940 Hertha dovrà lasciarla per raggiungere
la parte ancora libera della Francia, con la speranza di trovare, a Marsiglia,
in Spagna o in Portogallo, un passaggio per gli Stati Uniti.
Per farla molto breve e lasciare al lettore il piacere di scoprire, leggendo il
libro, i dettagli della fuga, assieme a Franz Werfel e alla moglie Alma, Hertha
figurerà – nel suo caso specifico grazie alla segnalazione di Thomas Mann, al
quale aveva cercato di rivolgersi per un aiuto all’inizio delle ostilità – fra i
numerosi intellettuali salvati da Varian Fry con la lodevole e a lungo
misconosciuta iniziativa dell’Emergency Rescue Committee, per il quale Fry era
riuscito ad avere il sostegno (discreto ma tenace) della First Lady, Eleanor
Roosevelt. (A proposito di storia che non si ripete, direi che a distanza di
generazioni non si ripetono nemmeno il valore, la sensibilità e la cultura delle
First Ladies.)
Venendo ora al libro, la scrittura di Hertha Pauli è una scrittura asciutta e
funzionale, perfettamente adatta a un memoir, senza voli pindarici ma fresca e
avvincente. Non v’è dubbio che abbia il dono della sintesi e idee chiare su come
raccontare e sviluppare una storia. Al contempo, sa benissimo di non possedere
né la stoffa né il talento dei grandi scrittori che ha incontrato e che fanno
capolino da queste pagine, da Ödön von Horváth, di cui racconta l’assurda morte
e il funerale, a Joseph Roth, da Franz Werfel a Walter Mehring. Non è forse un
caso che anche in seguito, durante la lunga permanenza negli Stati Uniti, e fino
alla morte nel 1973, Pauli si sia dedicata prevalentemente alla letteratura di
genere, e in particolare a quella per ragazzi. Non le manca però – e per
un memoir come questo è fondamentale – la capacità di cogliere il dettaglio
significativo, finendo per regalarci quasi inavvertitamente qualche piccola
perla descrittiva ed evocativa come il passaggio seguente, posto a metà libro,
proprio all’inizio dell’ottavo capitolo:
> “Arrivammo a Étampes al sorgere del sole. Trovammo un paese in macerie. Ecco
> spiegati i lampi dell’ultima notte. Appoggiata alla porta mezza sfondata di
> una casa c’era una donna. Impietrita dallo spavento, con gli occhi sbarrati
> scrutava il cielo, ritornato azzurro e vuoto. Ci avvicinammo e le chiedemmo
> indicazioni sulla strada. Non si mosse. Solo allora notammo l’azzurro e il
> vuoto anche nei suoi occhi.”
Molto incalzanti e precise anche le pagine iniziali, in cui racconta come,
attraverso quale insieme di sotterfugi e di umiliazioni, si arrivò all’Anschluβ:
la convocazione di Schuschnigg nel “covo dell’aquila” di Hitler a Berchtesgaden,
le manovre di Seiβ-Inquart, l’imposizione dell’amnistia per gli assassini di
Dollfuss, lo scippo del referendum popolare. Un prologo da cui si dipana poi, in
un drammatico crescendo, una vicenda umana individuale che acquista però subito
una valenza simbolica e collettiva.
Uno degli elementi che ci accompagnano lungo tutta la lettura è l’ardua
gestione, da parte della protagonista, delle coordinate di tempo e spazio. La
sua fuga avviene infatti sotto il segno (e la maledizione) di entrambi; è
costretta non solo a continue dislocazioni logistiche, ma anche ad accelerazioni
repentine e rallentamenti che le permettano di sfuggire quanto più a lungo
possibile fra le maglie tanto dell’esercito invasore (i tedeschi ormai penetrati
capillarmente in Francia), quanto della stessa gendarmeria francese a caccia di
stranieri e presunte spie, da deportare in campi d’internamento come quello di
Gurs. (Fu questo del resto il destino di chi come Thea Sternheim, tanto per fare
un solo esempio, era rimasto a Parigi; anche in questo caso, Hertha capì subito
i rischi ai quali si esponeva.) Una riuscita descrizione di questa percezione
del tempo la si trova in uno dei passaggi dedicati, sempre con estremo pudore,
alla storia d’amore che riuscirà a vivere anche in frangenti così drammatici:
> “Insieme alla schiuma della risacca anche i minuti si dissolsero nella sabbia.
> Corremmo in acqua. Mi dimenticai di togliere l’orologio che avevo al polso. Le
> lancette si fermarono, ma non le onde. Ingannammo il tempo per tutta la durata
> della marea.”
Ingannare il tempo, e con esso la soldataglia che la bracca per tutta la
Francia: questo, il compito principale della fuggiasca che, a volte sola, a
volte in compagnia di amici e conoscenti quasi miracolosamente ritrovati nei
vari spostamenti, finisce per raggiungere Marsiglia e infine per salvarsi,
approdando a Hoboken, nel New Jersey, il 12 settembre 1940. Just in time…
Un’altra immagine o elemento simbolico che ricorre più volte nel libro è quella
del ponte: la presenza discreta di quello del paesino di Clairac, dove Hertha
sosta in contemplazione ogni qualvolta riesce a ritagliarsi un attimo di
serenità, rimanda irresistibilmente alla sua stessa concezione della vita,
all’immagine di sé come ponte fra due mondi e due culture. Prima, a Vienna, in
quanto agente letteraria che si occupa della traduzione e della pubblicazione di
opere straniere, poi – una volta trasferitasi negli Stati Uniti – come trait
d’union fra la cultura europea e quella americana.
Hertha Pauli (1906-1973)
Molti, dicevo, gli accenni ai colleghi e amici lasciati per strada o ritrovati
il più delle volte in modo fortunoso. Senza voler mai apparire didascalico o
emblematico, in qualche modo il libro è (anche) un inno all’amicizia,
all’inseparabilità di certi destini. Colpisce inoltre sempre la lucidità e
insieme la delicatezza con cui la scrittrice affronta temi tragici come quello
del suicidio. Si vedano le poche ma intense righe dedicate a Weiss, scrittore
ceco in fuga e povertà perpetua, sostenuto finanziariamente, con la sua
proverbiale generosità, da un altro grande suicida di quegli anni, Stefan
Zweig:
> “Ernst Weiss, invece, fu scovato dai tedeschi lì a Parigi – morto. Nel suo
> albergo si era tagliato le vene dei polsi. Per andare sul sicuro, essendo
> anche medico, prima aveva pure assunto del veleno. Lo avevamo lasciato solo. È
> una cosa, questa, che non mi sono mai perdonata.”
Come per Hasenclever, anche per Weiss gli americani avevano predisposto un visto
d’espatrio, ma essi non ne erano al corrente. Ed ecco allora che i due si
aggiungono all’elenco degli altri suicidi eccellenti di quegli anni, che
comprende anche Benjamin, Toller, Stefan Zweig e Joseph Roth (sia pure, in
questo caso, per interposto alcol). L’elenco degli scrittori tedeschi e
austriaci morti suicidi in quel breve e drammatico episodio della storia è
davvero lungo e impressionante, e terribilmente denso in termini di qualità.
Ma saranno molti, gli errori, il più delle volte forzati e attribuibili alle
circostanze, che Hertha Pauli non riuscirà a perdonarsi. Eppure, in frangenti
come quelli, nel caos di una fuga disperata, certe sottovalutazioni e ingenuità
sembrano a tutti noi, lettori avvinti da questo testo, dei peccati del tutto
veniali; e viene davvero da chiedersi se al posto dei malcapitati protagonisti
di questo libro saremmo stati capaci di maggiore lucidità, di maggiore
disinvoltura. In realtà, sappiamo bene che il comportamento di ciascuno dinanzi
al male assoluto non è prevedibile, e che in questi casi la sorpresa (positiva o
negativa) è a ogni angolo di strada.
Raoul Precht
In copertina: Otto Dix e la moglie Martha fotografati da August Sander nel 1925
L'articolo “Corremmo in acqua”. Hertha Pauli, memorie dal cuore del secolo
proviene da Pangea.
Cos’è che mi fa scrivere?, s’impone?, a me che non sono nessuno. Il mistero
s’insinua e prevale. La trance, lucida, precisa, è generativa. Ma si potrebbe
continuare all’infinito. Anche questa mia abitudine a ripetere la parola tutto.
L’ho notato, c’infilo sempre la parola tutto da qualche parte, prima o poi, e
devo negarla per evitare il condizionamento. Il tutto ha totalità di emergenza,
richiama a dire l’abbraccio grande che mi circonda, perché dev’essere grande, in
grado di comprendere l’uomo intero, di accoglierlo. Ma quale uomo? Quello che si
affida alla parola, all’ascolto, che non tende a dire se stesso, lui e basta.
Kafka, in un suo racconto intitolato Descrizione di una battaglia, scritto col
suo amico Max Brod, fa dire a un pazzo: “Io vivo affinché gli altri mi
guardino”. Credo che Kafka si opponesse a questo. Non giudica, è attratto
dall’estremo, è sorpreso e ne ha pietà. Egli prefigura il mondo di oggi. Farsi
notare a ogni costo. Ecco la stortura, il malanno, e senza sapere che malattia
è. Godere di quel minuto di fama che è il niente, il mio niente. L’apoteosi che
non sono. Se penso a come scriveva Ungaretti nelle trincee della Prima guerra
mondiale, piantato dentro il fango, utilizzando quello che trovava, scarti di
giornali, pezzi di cartone che racimolava. Quei frammenti stabilivano già il
respiro della lirica, l’impaginazione era in quel formato esile.
Possiamo dire ritagli di sangue, il corpo delle cose martoriate, mutilate,
resistere con la poesia alla paura, alla morte vicina, al fatto che domani
potrei non esserci più. Che lezione! Si scrive sul confine, nel tempo che
c’incastra e decide chi siamo. A questo punto dico: chi è Valentina Di Cesare se
non una scrittrice, e insieme una madre, una moglie, un’insegnante di Lettere
nella scuola secondaria di primo grado, e lingua italiana per gli studenti
stranieri. Non la stessa trincea di Ungaretti, certo, ma se ci penso mi vengono
i brividi. L’amore per la Letteratura, per la scrittura sono quelli, si
dichiarano nel cuore, si consumano e si esprimono lì, nascono come un figlio nel
chiuso di un abisso, e più va scurendosi il desiderio, più aumenta l’assillo di
vederlo nascere, di voler essere con lui… Più il seme si fa luce, sotterrato
nella carne, più scoppia di vita, esplode la sua natura.
Gli istrici (Caffèorchidea Edizioni, 2025) sono questo, l’ha scritto Valentina
Di Cesare. Potrebbe continuare in avanti e oltre la fine per chissà quante
pagine, in quanto trasborda e suggerisce ancora altra vita. La vitalità,
l’energia che trasmette, risiede nel suo io, un cuore che a ogni pagina si apre,
e verso cui corre come in faccia al vento, o nel solco di una strada che si
rinvigorisce e si delinea sempre di nuovo, a mano a mano che prosegue, nelle sue
vicende e nei suoi personaggi, che ne rappresentano la voce, l’io in cui abitano
e s’intessono i discorsi, i pensieri, le parole. Quattro nature, quattro
protagonisti, come le nostre stagioni, per dire quanto è grande il tempo, quanto
è grande la vita, e densa, umile, impareggiabile, spettacolare, ricca. Gli
istrici è un libro che vuole essere amato, per la sua quieta vitalità, ancora in
essere quando il romanzo è compiuto, che non pare finito allo scoccare
dell’ultima parola. Perché Gli istrici non tende a contrarsi, ad avvitarsi in
iperbolici avvitamenti, tende bensì a fiorire, a immaginare.
> “Più di una nuvola aveva confuso le stelle quella notte e i bagliori si
> vedevano appena […] Quasi che si trattasse di un accordo con la luce […]
> Iniziava di nuovo il mondo […] e gli sterrati storti […] qualche baracca
> sbieca […] tutti gli usci erano serrati”.
È l’inizio del romanzo, ma come l’ho letto io, con un’invenzione mia, arbitraria
direi, si vede dalle parentesi quadre che ho innestato dove manca il testo,
agendo in levare al fine di far procedere a salti la scrittura, che non si
deforma, non si decompone, non si sgualcisce, nonostante il mio personale
intervento, anzi, il miracolo è lì, resta unitario il dettato, per dare risalto
al pensiero, la sua natura, la forma che procede per punti nodali, quasi
inavvertiti dal lettore, per cui si può dire che il mio esperimento è riuscito:
riportare la caratura del linguaggio (significativa, intatta, unitaria) alla
luce, anche se sottratta di alcune parti. La luce, questo il sugo dell’incipit!
Così ho deciso: dimostrare il sunto di una prosa fatta di contrasti, che rimanda
alla sua complessità. L’autrice non me ne voglia.
Più avanti, a pagina 53, il passo del racconto si fa elegante, pur restando
descrittivo, ma ora nell’obiettivo di un chiaroscuro che lo distingua (stavolta
la pagina è rimasta integra):
> “Certi giorni di novembre, alcuni vicoli deserti davano l’impressione di
> essere più stretti, quando si sentiva scalpitare l’acqua dalle grondaie già di
> prima mattina, e i tronchi degli alberi sulle montagne intorno si ergevano
> come grigie lame di ferro incolonnate”.
E le cose, a pagina 77, gli ambienti, sono il correlativo oggettivo del
personaggio, particolarmente vissuti, esperienza che si compie, mistero,
passato, memoria che non svanisce, nella scoperta che si presenta col suo carico
umano di stupore.
> “Era scalza. Iniziò silenziosamente a gironzolare per la casa, andando prima
> nel bagno a piano terra, quello con la piccola finestra che l’aveva sempre
> incuriosita da fuori e poi in salotto, la stanza che Francesca teneva sempre
> chiusa. Cercandone a tentoni l’interruttore, Carla sentì già infilando la
> mano, che quella stanza era più fredda rispetto alle altre. Annusò l’aria e
> subito intese che lì non v’era l’odore delle altre camere, nonostante
> campeggiasse in mezzo al grande tavolo un contenitore di fiori secchi e foglie
> colorate che emanavano un vecchio profumo. Con le labbra semiaperte e gli
> occhi attenti, Carla visitò quella stanza dalle finestre sbarrate, mentre
> lasciava correre la piccola mano sul ripiano del mobile a muro”.
Ed ecco il tema principale del libro, che appare all’improvviso, a pagina 144.
“Sapete che per paesi come il nostro vanno bene solo le lacrime di nostalgia?”.
La solitudine. È il motivo per cui Valentina Di Cesare ha scritto il romanzo,
per esorcizzarla, penso io, per conoscerla profondamente, e così combatterla.
Il valore de Gli istrici risiede in questo corpo a corpo. Ne è valsa la pena.
Tutti i personaggi sono soli. Qui il libro resta nudo. La scrittura si avvolge
intorno alle cose per vestirle di compassione, sebbene circospetta, perché
occorre descrivere, la scrittura ha le sue regole. E poi la nudità ferisce, si
pensi al Cristo in croce, e non si vuole. C’è orgoglio, distanza, le montagne
dell’Abruzzo sono giganti impossibili. Da un lato assistiamo alla fuga,
dall’altro si afferma la resistenza degli uomini, la fedeltà a quell’isolamento,
in fondo così amato. Se c’è un destino è l’amore. L’amore cristiano, quando è
nudo e celestiale di risurrezione, non chiede di soffrire, è consapevolezza di
ciò che saremo. La dualità porta scontento. Il desiderio si abbassa fino a
terra, è simile a qualche animale che scorrazza libero. Eppure, è proprio la
natura che ricompensa, in quanto la natura predomina nel romanzo, fa impressione
vedere com’è piccolo l’uomo in quegli scenari.
Mi sono appuntato una frase (o me la sono sognata?): “Le piccole salvezze gliele
offrivano gli animali”. Piccole per pudore o per diffidenza?, mi chiedo. Il
corpo s’impone e gli sbarriamo la strada, ci dice dove andare, ma noi preferiamo
la sconfitta dei pensieri, il rimuginare sempre e ancora. Ma anche l’uomo è
natura. Noi non lo capiamo. Pensiamo che la promessa sia stata negata, invece è
ancora lì, nel fatto che siamo vivi. E se moriamo (quando moriamo!), resta un
chiodo infisso nel cuore degli altri che grida non dimenticarmi, non
dimenticare, a questo sono servito, per questo ho vissuto. Supremo atto d’amore,
sacrificio, valore umano. Dai grattacieli di Manhattan alle altitudini del
nostro Abruzzo. “Settembre, andiamo. È tempo di migrare”, recita il grande
D’Annunzio, nel 1903. Possibile?, la vita non si muove? Che scandalo è questo?
Allora la mia pena continuerà anche dopo?
Mi pare che da queste domande, da questi tormenti si sviluppano le storie
moderne dei personaggi de Gli istrici. Istrici proprio in quanto corazzati di
aculei, contro chi ci vuole cambiare. Sbuca una mezza luna per contrasto, sulla
bella copertina del libro, s’imbianca fra le punte ritorte e graffianti di una
selva oscura, terribile e respingente. Nessuno impedirà la nostra salvezza,
nonostante tutto. “Noi non possiamo mai nascere abbastanza”, dice la citazione
di E.E. Cummings ad apertura del libro. Il che vuol dire che quando una voce
viene dall’esterno, ed è vera, profonda, come il mite Doì (il giapponese
protagonista di un capitolo, che decide di stabilirsi in quelle terre), allora
qualcosa si realizza anche in noi. Il nostro libro è scritto, è umano come un
essere vivente.
Vincenzo Gambardella
L'articolo Il libro come essere vivente. Su “Gli istrici”, un romanzo di
Valentina Di Cesare proviene da Pangea.
> “Il manicomio, quel monastero psichico dove il muro che divide la medicina
> dalla religione si apre, e dove arrendersi alla degradazione”.
>
> (J. Hillman, La vana fuga degli dèi)
È grazie ad una sollecita curatela, aliena dalle deadline-codice-a-barre degli
editori convenzionali, del coraggioso samizdat Nessuno Editore di Antonio
Curcetti, nella traduzione di Antonio Bux e arricchito di una testimonianza di
Ianus Pravo, che il lettore italiano (esiste? o, reductio ad unum, si perita di
scrivere soltanto?) può godere di una raccolta o, preferibile scelta lessicale,
di un ingemmato ed inedito ‘poema’ – ‘poema’ sia detto e ciò basti, non per
svogliatezza di traduttore ma poiché, come scrive Bux nella sua nota di
gestazione, nella concezione paneriana del dire poesia non meno che nel far(si)
poesia tutto l’opus del castigliano è un poema ininterrotto alla Éluard, tanto
per tematiche, crimini commessi o presunti ed ossessioni quanto per circolarità
del verso del poeta madrileno, repubblicano, alcolista, dalla sessualità feroce
e promiscua. Un vademecum per l’internamento nella Spagna franchista.
La raccolta si apre con un epitaffio che è distillato di provocazione:
All’Esercito Popolare Repubblicano e di verso in verso de-costruisce i miti
fondanti della Monarchia iberica, Patria e Religione:
> “Un giorno le mosche mangeranno dalla mia mano
> e umiliato io sarò solo uno spettro da marciapiede.”
>
> (Edgar Allan Poe, o il volto del fascismo)
o ancora:
> “(…) il nulla,
> un’entità che fatalmente rompe
> con l’amore e la vita, chiede un’ascesa,
> per questo una croce negli occhi
> e uno scorpione sul fallo raffigurano il poeta
> tra le braccia del nulla, del nulla rigonfio,
> quando dice che neanche Dio è superiore al poema.”
>
> (Quello che Stéphane Mallarmé volle dire nelle sue poesie)
o ancora:
> “(…) e tra le mie mani nasce il deserto,
> la paura tra i miei occhi è Gesù Cristo
> come una stella che giace nel nulla.”
>
> (Nascita di Gesù)
In Panero coincide la profezia di Tiresia (la follia distorce lo spazio-tempo
dell’umanità meccanica) non meno che il furore anticattolico in un qui ed ora
dove la religione non può che farsi pre-colombiana o non essere:
> “E il mondo dice, Dio non esiste
> è immaginare il Papa
> mentre gli atei piangono,
> piangono la sua bellezza perduta,
> e Dio non esiste più,
> sta piangendo all’Inferno.
> È tutta qui la statua del nulla.”
>
> (La monaca atea)
Panero è il più nobile e decaduto rappresentante della vita per l’arte e
dell’arte per e nella vita degli ultimi decenni di poesia europea. La sua
vicenda biografica non può in alcun modo essere disgiunta dai suoi scritti tale
è la compenetrazione, la trasfusione che sanguina sulla pagina. Non vi è nulla
in Panero che non appaia necessario e fatale, pur nella sua attitudine picaresca
che si burla della tradizione ‘alta’ (siamo tutti figli di Cervantes quando
incontriamo un mulino a vento) del cavaliere errante; proprio il tòpos del
cavaliere armato o goffeggiante è ricorrente nei versi del poeta di Madrid come
incessanti sono i richiami alla crassa materia che ci fece nati “a viver come
bruti”: escrementi, sperma, urina sono elementi organici su cui Panero indugia
non (solo) per il compiacimento d’un maledettismo ducassiano/laforguiano che lo
de-finisce ma per l’autenticità della sua visione. Se pretendiamo di cantare,
novelli Blake, l’Innocenza non possiamo esimerci dal menzionare la merda dalla
quale nasciamo e nella quale finiremo:
> “(…) guarda, uomo caduto, guarda il mattino
> che di nuovo si solleva per continuare la tortura,
> anche quando la tua anima che sa d’escremento
> finge d’essere una rosa e la vita
> tra le pareti crudeli di questa camera,
> uguali alla cella di un condannato a morte
> e coi giorni che rinnovano la sentenza,
> ti fa dire: appartieni all’uomo o al nulla?”
>
> (Apparizione)
o ancora:
> “(…) vivere voglio, assediato da nessuno
> e con un marchio di merda sulla fronte.”
>
> (Tangeri)
Panero possiede gli occhi del visionario, del folle in Cristo direbbero i russi,
ma la cifra che esprime è sovente giullaresca, donchisciottesca appunto, con
aperture all’osceno dissacratorio – quello di Bataille, di Genet e di Buñuel – e
imbardate di macabra goticità:
> “Io sono solo un maiale che invoca la protezione del silenzio.”
>
> (***)
e tuttavia, del folle conserva la saturnina meraviglia dinnanzi al mondo, chiave
che schiude paradisi d’infanzie a colui che sa udire il pianto dell’alba:
> “Il rito della morte chiama a sé la vita
> e Dio si nasconde tra le mie cosce
> e i miei genitori chiedono perdono per avermi consegnato
> nudo agli uomini nella pianura buia.”
>
> (Regalo di un uomo)
Lettore onnivoro, enciclopedico, nato poeta in una famiglia di poeti e tocchi,
Panero è muscolare nella sua espressione della violenza e soave nella sua lunare
melanconia, fabbro di schegge di esistenzialismo selvaggio e di chirurgica
precisione nell’oltraggio. Il suo senhal è il ‘Nulla’:
> “(…) il fiore che cercavamo nel poema
> significava la tomba.”
>
> (Segreti del poema)
Da ultimo, alcune considerazioni sull’operazione editoriale: la versione di Bux,
colata di cemento a fondare la travatura del ‘poema’, è sorretta
dall’intervento a posteriori di riletture tentacolari ad opera di castigliani
madre-lingua che traducono senza tradire l’argot paneriano, quel vomitare
analogie del gergo carcerario e/o psichiatrico che nella piena euforica buxiana
sarebbero andati irrimediabilmente smarriti. L’apparato di note è adeguato e
corrobora i passi incerti di chi scelga di avventurarsi lungo i supplizi di
Panero.
Come per la raccolta di Kinski (Febbre. Diario di un lebbroso), la passione e
l’urgenza rapace di Curcetti meriterebbero platee strepitanti e non
semi-clandestine. Meglio essere pubblicato in Unione Sovietica come clandestino,
avrebbe detto Limonov, che adorato da traditore ed esule come Brodskij? Postilla
e gran finale per la testimonianza di prima mano di Ianus Pravo che di Panero è
stato confidente presso l’ultimo asilo a Las Palmas: l’uomo Panero, acquarellato
nel suo rigagnolo di urina, emerge ammonitorio come un hidalgo della beffa,
sodale dei reietti nella inesausta lotta contro le miserie dell’Esserci:
> “Uscire dalla cloaca è solo un ripiego,
> vivere tra i topi il nostro destino.”
>
> (Poveraccio)
Luca Ormelli
Il libro: Leopoldo María Panero, Contro la Spagna e altri poemi non d’amore,
Nessuno Editore, 2024 (f.c.); traduzione di Antonio Bux, a cura di Antonio
Curcetti.
L'articolo “Tra le mie mani nasce il deserto”. Leopoldo María Panero, l’hidalgo
della beffa, il martire dell’erranza proviene da Pangea.
Sebbene con due anni e mezzo di ritardo a petto del trionfale annunzio sui
giornali, che lo prometteva in libreria per la fine del 2022, è finalmente
escito il doppio ‘Meridiano’ delle Opere scelte di Philip Kindred Dick, curato
da Emanuele Trevi. L’attesa, carica di promesse, si è però rivelata, a esser
generosi, una mezza buggeratura e un attacco, se bene dissimulato, contro lo
scrittore americano. In queste tremila pagine s’adunano in fatti fesserie e
sfondoni, qualche imbroglio non involontario, e parecchi arbitrii. Qui passeremo
in rassegna solo un’infima parte di tutto ciò: se dovessimo rintuzzare ogni
guasto e carognata, occorrerebbe un intiero terzo tomo.
*
Liberiamoci anzi tutto della «Cronologia», affidata a Emmanuel Carrère.
Come si sa, le cronologie dei ‘Meridiani’, negli ultimi anni, sono vere e
proprie piccole biografie, che occupano lunghe fitte e talora critiche pagine,
quindi non soltanto un elenco di date ed eventi.Poiché Carrère è l’autore di una
così detta “biografia” dickiana, forse ahinoi la maggiormente letta in Italia
dacché stampata da Adelphi, Trevi e Alessandro Piperno, l’attuale direttore
della collana, hanno ritenuto ovvio di assegnare a colui codesta preziosa parte
del ‘Meridiano’. Una scelta disgraziata quant’altre mai come potrà constatare il
lettore leggendo un mio lungo intervento, pubblicato su questa rivista.
Siccome là dico già tutto ciò che di essenziale si deve sapere, qui non mi
ripeterò. Rilevo solo che ancòra una volta è dimostrato quanto a signoreggiare
la più parte delle logiche culturali italiane sono criterii familistici e
ideologici.
La seconda scelleratezza è il «Profilo di Philip K. Dick», firmato da Trevi.
Pur assai informato e non del tutto disutile, esso nondimeno porta un guasto
irremeabile, cioè a dire il radicale rifiuto di attribuire a Dick il duplice
statuto di filosofo e di veggente, l’unico cui egli tenesse e che dimostrò
sempre di meritare, e di rilevare i connotati religiosi dello scrittore.
Dick è per Trevi un buon autore ma gravato da tabe psichiche. Frusta e stracca
robaccia di magliari (la medesima di Carrère, ça va sans dire), fondata su
periclitanti congetture gabellate per verità. Nel mio succitato articolo indugio
anche su questa delicata faccenda. Proseguiamo.
Il ‘Meridiano’ offre, nell’ordine, i seguenti titoli di Philip Dick: Occhio nel
cielo; Tempo fuori luogo; L’uomo nell’alto castello; Le tre stigmate di Palmer
Eldritch; Gli androidi sognano pecore elettriche?; Ubick; Scorrete lacrime,
disse il poliziotto; Un oscuro scrutare; Valis; L’invasione divina e La
trasmigrazione di Timothy Archer.
Per motivi di spazio non indugerò oltremodo sull’Occhio nel cielo, Tempo fuori
luogo e Un oscuro scrutare. Mi limito soltanto a rilevare che: il primo non
necessitava di una nuova traduzione, sarebbe in fatti stato sufficiente ripulire
una delle pregresse; mentre il secondo e il terzo sono la riproposizione delle
versioni già da anni a disposizione e, al contrario di altre versioni
miserabili, tra le poche salvabili. Di poi Occhio nel cielo – in vero più un
racconto lungo che romanzo – è opera bensì gradevole e abbastanza importante
nell’arsenale dickiano, ma non tra le maggiori.
La scelta ha natura politica, non certo letteraria, dacché lì Philip Dick…
strizza l’occhio ai comunisti. A oltre trentacinque anni dal fatale biennio
1989-1991 certi intellettuali (sit iniuria verbo) sembrano quei soldati
giapponesi che decenni dopo la Seconda guerra mondiale li trovavi ancòra
appostati in attesa di un contrordine dell’imperatore. Peraltro lor signori
confondono i sinistri di quegli anni ormai remoti, bensì funzionalissimi ai
regimi, ma ogni tanto capaci di qualche utile manovra critica. Oggi si sono
sostituiti al potere un tempo avversato e ne sono diventati i degnissimi eredi.
I cinque più noti romanzi dello scrittore americano: Ma gli androidi sognano
pecore elettriche?; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; L’uomo nell’alto
castello; Ubick; Le tre stigmate di Palmer Eldritch sono in verità un’ottima
scelta, ma si tratta delle stesse versioni già escite dal 2021 in avanti negli
Oscar.
In somma: sette titoli su undici di questa lussuosa e pretenziosa edizione
ricicla testi già in circolazione.
Ci sono tuttavia due differenze: aver abbandonate le orrende prefazioni di
Carrère annesse agli Oscar e la presenza di un apparato critico, com’è nelle
prerogative della collana. Ma è certo che lo scambio sia stato
svantaggiosissimo, per Dick e per il lettore.
Prendiamo a solo titolo d’esempio il paragrafo «Gnosi» (pp. 3012 e sgg) che
accompagna Valis e da cui trascelgo in modo aleatorio. È firmato, come tutti gli
accompagnamenti alla lettura, da Emanuele Trevi e Paol Parisi Presicce.
Leggiamo sùbito questa fesseria: «Non è mai esistita una chiesa gnostica
paragonabile alla chiesa cattolica, con le sue ferree gerarchie (vescovi,
diaconi, laici…) intese a salvaguardare le verità della dottrina garantendo la
successione apostolica» (pp. 3012-3013).
Negare l’esistenza d’una chiesa gnostica organizzativamente paragonabile alla
cattolica significa aver studiato poco e parlare a vanvera: basti in fatti
pensare al manicheismo, a cui aderì per nove anni niente meno che Agostino
d’Ippona. Esso fu la più grande eresia cristiana della storia, una vera e
propria chiesa, con tutte le caratteristiche di una qualsiasi chiesa universale:
dottrina, gerarchia, liturgie, riti, etcoetera. Durò per circa mille anni e si
estendeva all’attuale Cina insino all’attuale Marocco.
Andiamo avanti.
Trevi & Presicce definiscono Ireneo di Lione e Tertulliano «grandi polemisti
ortodossi» (p. 3014). Niente da dire, giusta la teologia tradizionale,
sull’ortodossia di Ireneo, ch’è pure stato elevato agli altari. Tertulliano fu
in vece pressoché da sempre considerato ai limiti dell’ortodossia e per certi
versi incompatibile con la dottrina, sia della Chiesa occidentale, sia della
Chiesa orientale. Nessuna di queste, in fatti, gli attribuisce alcun titolo ed
entrambe ne sconsigliano la lettura.
Poco dopo, un altro sfondone: Ireneo e Tertulliano «detestavano gli gnostici, li
consideravano pericolosi eretici e vedevano nelle loro idee diaboliche minacce
alle verità e alla nascente dottrina del cattolicesimo» (p. 3014). Trascuriamo
la sciatta disinvoltura con cui i nostri beniamini maneggiano il concetto di
«eretico», e limitiamoci a constatare che negli anni di Ireneo e Tertulliano,
cioè a cavaliere tra II e III secolo, non esisteva alcuna «nascente dottrina del
cattolicesimo». I commentatori confondono cattolicesimo con cattolicità, due
concetti assai ben distinti, sia nella storia delle religioni, sia nella lingua
italiana. È lecito parlare di «cattolicesimo» soltanto a partire, come minimo,
dal 1054, data dello scisma cristiano tra Oriente e Occidente. Evocare una
dottrina ovvero una Chiesa cattolica avanti di quello svolto è indice di crassa
ignoranza.
Non è finita.
La premiata ditta Trevi & Presicce, alla pagina 3013, spara: «In primo luogo
la gnosis, com’è evidente fin dal nome, è un percorso salvifico basato sulla
conoscenza, una sorta di risveglio che riconnette l’individuo alla sua vera
natura». Spiacenti, ma dal nome «gnosis» è evidente soltanto il nome, e non un
percorso: men che meno se descritto come si provano a fare T&P.
Trascuro di commentare l’evidente loro incapacità di distinguere «gnosi» e
«gnosticismo».
*
Trascorrendo dal fronte religioso al letterario, la caccastrofe è inarrestabile.
Nelle «Notizie sui testi» viene citato due volte C. S. Lewis. Nella prima
occorrenza (p. 3007) T&P ne evocano l’opera Out of the Silent Planet, modello
per Radio Libera Albemuth, una delle ultime pagine dickiane, dicendo dello
scrittore irlandese soltanto che fu amico di Tolkien. Nella seconda (p. 3029)
invece si parla «dello scrittore inglese C. S. Lewis, che fu grande studioso di
letteratura medievale, saggista di fede cattolica e autore di testi fantastici e
fantascientifici».
Ora, dare informazioni circa Lewis solo alla seconda occorrenza del nome, è già
di per sé sintomo di severa distrazione. E ciò senza contare che, in un libro
ambizioso per lettori ambiziosi, non è davvero necessario spiegare chi sia
Lewis. Così come è esornativo, in quel contesto, sottolineare l’amicizia con
Tolkien, come se ciò fosse issofatto titolo di merito. Ma le maggiori cannonate
sono anzitutto d’aver limitato le competenze di Lewis alla sola letteratura
medievale, quando è noto che egli fu un conoscitore a tutto tondo del così detto
Medio Evo; e in secondo luogo, sopra tutto, d’aver definito Lewis «di fede
cattolica».
C.S. Lewis fu per una certa parte della sua vita un teista. Poi, grazie ad
alcune esperienze (che si possono leggere sia nell’autobiografico Sorpreso dalla
gioia, sia nella bella biografia di Alister McGrath), si convertì al
cristianesimo ma non già al cattolicesimo, bensì alla fede anglicana.Sarebbe
stato utile rilevare a questo preciso proposito l’amicizia tra Lewis e Tolkien,
e non a casaccio. Fu in fatti il futuro autore del Signore degli Anelli a
imprimere una svolta decisiva al percorso dell’amico. Ma mentre Tolkien,
comprensibilmente, si attendeva da parte di Lewis un’adesione al cattolicesimo,
questi optò altrimenti.
Sia bene inteso che tutti questi sfondoni di storia delle religioni e di
letteratura sarebbero stati evitabili consultando anche solo wikipedia. L’ultimo
studente fuori corso dell’università di Roccacannuccia non li avrebbe commessi.
Ciò che non voglio commentare poiché anche di questo parlo nel mio già evocato
articolo, sono le note all’Uomo nell’alto castello, forse l’opera più politica
di Philip Dick e, per la mentalità dominante da ottant’anni, la più
inaccettabile e quindi la più falsificata. Prendo solo atto che il mondo
culturale italiano è zeppo di lupi travestiti da agnelli: proprio il concetto
che lo scrittore americano esprime nel romanzo declinandolo alla politica
mondiale.
Voglio invece evidenziare con favore le molte note ai romanzi che rimandano a
esempio a precisi passaggi della Sacra Scrittura citati o suggeriti da Dick. Il
lavoro, se non ho straveduto, è svolto con perizia, sì che possiamo ammettere
che, almeno come bibliotecarii o impiegati di redazione, certi intellettuali non
sfigurerebbero. Perché non pensarci e cambiare lavoro?
*
Scopo ufficiale del ‘Meridiano’ sarebbe di restituire dignità letteraria a
Philip Dick, considerato, come tutti gli autori di fantascienza, alla stregua di
un dilettante nel senso peggiore, indegno di prendere dimora sul Parnaso.
Un’iniziativa dunque lodevole per chi abbia saputo riconoscere nello scrittore
americano non soltanto un fantasioso facitore di mondi e trame relegato al
dominio della fantascienza – tenuto, con grave sbaglio, in gran dispregio dagli
intellettuali e da certi lettori colti –, ma un classico, se bene sui generis,
meritevole di ben altra considerazione.
Il resultato però è sviante.
Piperno e Trevi, col contributo di Carrère, hanno
voluto istituzionalizzare Philip Dick, ciò è a dire neutralizzarlo, renderlo
maneggevole, addomesticarlo, anzi tutto tacendone le propensioni filosofiche e
religiose: nella fattispecie, gnostico-cristiane. Lo si capisce pure dalla
scelta di escludere, anche solo in forma antologica, L’esegesi, opera cruciale
per capire sia il Philip Dick uomo, sia il Philip Dick scrittore. Una delle
visioni-simbolo di Dick è riassunta in una frase, famosa tra i lettori:
«L’Impero non è mai cessato».
L’Impero è quello romano, persecutore dei cristiani, che ancòra negli anni
Settanta Dick vedeva, more suo, all’opera, anche sulla propria persona, con
resultati esiziali per la società, gli individui, le anime. A mezzo secolo di
distanza Dick è ancòra perseguitato. A mezzo secolo di distanza noi possiamo
unirci alla voce di Philip Kindred Dick.
*
Poscritto
A maggior benefizio dei lettori più curiosi e di quelli che ancor credono alle
chiacchiere dei nostri intellettuali, riferisco per sommi capi un episodio
occorso diversi anni fa a un mio amico, superbo germanista italiano, uomo
altresì di raffinatissimo gusto linguistico, quando volle – e anche dové – avere
un confronto con chi presiedeva alla direzione dei ‘Meridiani’. Tacerò per
ragionevoli motivi i nomi sia dell’uno, sia dell’altro protagonista di questa
eloquente e istruttiva storiella e così il sesso dell’allora capo della collana.
All’uscita della raccolta completa, con originale, dell’opera poetica di un
grande tedesco, il nostro germanista si avvide, non appena schiuso il volume,
d’una seria di svarioni sciatterie e talune bestialità nella traduzione, firmata
da uno dei mostri sacri della germanistica italiana. Per ciò che possa valere io
stesso, indipendentemente dall’amico germanista, avevo sùbito notato lo stato
pietoso di quel volume, sì che posso assicurare che questo germanista aveva
veduto assai bene. Il nostro amico, pel solito schivo, fu còlto da un tal moto
di fastidio, da non poter evitare di scrivere una lettera al direttore (si
potrebbe adoperare il maschile anche se la persona fosse di sesso femminile),
una lettera in che egli, con toni garbati ma fermi, snocciolava solo alcune
delle minchiate eternate nel prezioso volume.
Attese diverse settimane senza ricevere risposta. Ma siccome la gravità era così
spaventosa da impedirgli di soprassedere, e altresì non volendo accettare di
essere ignorato, il germanista tentò di raggiungere al telefono il direttore,
ciò che, con sua grande sorpresa, gli riuscì. Il direttore avrebbe dovuto
conoscere il germanista dall’altro capo del filo, ché questi era la firma di
numerose preziose e note versioni italiane di grandi classici tedeschi, e della
letteratura, e della filosofia, per marchi editoriali di diversa levatura. Ma o
era all’oscuro, o finse di non sapere. Nondimeno stette ad ascoltare. Il
germanista aprì con un breve preludio di gentilezze e scuse per aver
“disturbata” l’attività di quel membro senatorio della repubblica letteraria
italiana. Ma, precisò, siccome non aveva ricevuta risposta alla lettera, non
aveva avuta altra strada che il telefono. Il direttore negò di aver mai ricevuta
la missiva, ma pur lo invitò a esporgli la sua intenzione, annunziandogli di
avere davanti al naso il volume incriminato. Nemmeno a dirlo, con tono tra il
condiscendente e l’irritato. Il germanista iniziò, aprendo davvero a caso il
volume, a evidenziare i punti critici. Si attendeva qualche reazione, ma l’altra
persona non dava segno di apprezzare, in alcun senso, le osservazioni di
quell’oscuro molestatore.
L’elencazione delle magagne fu alquanto breve, ma a qualsiasi onesto e
competente e in tedesco e in italiano, sarebbe stata sufficiente per cospargersi
il capo di cenere ed eventualmente ritirare il volume dal mercato, licenziare
l’autore della traduzione e incaricare altrui più attento – magari lo stesso
germanista della nostra storiella – per ripassare da cima a fondo il non esile
tomo.
Andò invece diversamente.
Il direttore del Meridiano, in fatti, si limitò a dire queste testuali parole,
glaciali: «Dottor …, mi stupiscono molto le sue osservazioni. Tutte le
recensioni al volume non parlano di errori e sono state tutte molto favorevoli».
Ma il germanista di rimando: «Lei sa bene, caro direttore, che le recensioni, a
certi livelli sopra tutto, sono, anzi che spontanee, sono spintanee. E poi non è
sempre detto che i recensori, quali ch’essi si siano, abbiano le competenze per
giudicare un lavoro così importante. Mi stupisce invece che Lei, alla sua volta
germanista, non abbia fatto caso a questa legione di errori, di morti….».
«Guardi, dottore», lo interruppe l’alto impiegato ora sensibilmente irritato,
«Le ho detto che le recensioni sono state tutte favorevoli e quindi non occorre
dire altro».
Il nostro amico non ebbe quasi il tempo di replicare, ché, dopo uno sbrigativo
saluto, la comunicazione si interruppe. E non certo per un mal funzionamento
della linea telefonica.
Luca Bistolfi
L'articolo Sul doppio “Meridiano” di Philip Dick. Ovvero: come si neutralizza un
grande scrittore proviene da Pangea.
Che sia un solo verso, a volte, a colpirci, lo sappiamo. La potenza di alcune
parole irretisce retina e cuore. L’intelletto gode, l’emozione si fa scossa.
Brivido è la colonna vertebrale. Così è quando leggo: Dovrò prepararmi a
fiorire, e subito la fantasia immagina poesie che si estendono da questa gemma
primordiale.
Ho con me in mano un libro, che di quel verso ne ha fatto il titolo. Si tratta
di un’antologia, curata e tradotta da Faezeh Mardani e Francesco Occhetto, che
dà voce a Forugh Farrokhzād, Bitā Malakuti, Leila Kordbacheh, Parvin Salājeghe,
Fereshteh Sāri e Grānāz Moussavi. È la prima rassegna italiana della poesia
femminile di un Paese quale l’Iran da sempre abituato ad affidare al canto
poetico tutte le componenti della propria vitalità esistenziale e spirituale.
> Ardue prove mi offrì il giardiniere del firmamento
> ma che si può dire al predatore dei tempi?
> Che si può fare se il destino è morire?
> Sei giunto al giardino e noi ce ne andammo,
> colui che qui ti condusse ci prese e ci portò via.
> In questo libro di vittoria il cielo
> conteggiò per noi l’incalcolabile.
> Il fiore, appena vide acqua e aria,
> ignaro di dover presto appassire sbocciò.
> Il coppiere della taverna del mondo è Destino,
> tutti beviamo il vino dalla sua coppa.
>
> Parvin Eʻtesāmi (1907-1941)
Che sia la poesia a farsi bandiera universale è bene ricordarlo sempre. Poesia
che si dimentica ai più, ma che ci costituisce. Poesia cellula, atomo, big-bang
del mondo. Poesia che garrisce. Poesia che sta nel vento, fa frusciare l’erba,
inventa rivoluzioni. Poesia che è voce e protesta ‒ bellezza incontinente.
Fruscia essa stessa nell’esondazione del peccato.
È bene ricordare, quindi, come ci ricorda il libro stesso, che in Iran è ancora
centrale la figura del poeta quale profetico testimone della storia di un intero
popolo cui è stata privata la libertà ma non il sentimento di profonda
appartenenza a una millenaria tradizione artistica e letteraria.
Perché in occidente ‒ forse, maldestramente ‒ ce lo siamo dimenticato? La poesia
è del popolo, e sta tra il popolo, ne dà voce. Senza poesia, il terrore
prevarica su tutto.
E anche un giardino ‒ che sia pieno di rose, o di parole, o di pesci e sorgenti
‒ come ci insegna Forugh Farrokhzād nella prossima poesia, va coltivato e curato
finché si è in vita, prima che esso diventi immortale o moribondo, e ci
abbandoni al nostro, forse vuoto, forse triste, destino. E anche un cortile va
curato, affinché la memoria si perpetui, e la parola continui a raccontare e a
raccontarsi nel cuore dell’uomo attraverso la tradizione.
Mi fa pena il giardino
Nessuno pensa ai fiori,
nessuno pensa ai pesci,
nessuno vuole credere
che il giardino sta morendo,
che il suo cuore si gonfia sotto il sole
e la sua memoria si svuota lentamente
del ricordo del verde
e il suo sentire astratto
si consuma in solitudine.
Il cortile di casa nostra è solo,
il cortile di casa nostra
sbadiglia in attesa di una pioggia sconosciuta.
Vuota la vasca nel cortile,
dagli alberi cadono per terra
piccole ingenue stelle.
La notte dalle pallide finestre
si sentono colpi di tosse
nella casa dei pesci.
Il cortile di casa nostra è solo.
Dice mio padre:
«È troppo tardi,
è troppo tardi per me.
Ho portato il mio peso
e ho fatto tutto quel che potevo».
Da mattina a sera, nella sua stanza
legge il Libro dei re o il Compendio delle storie.
Mio padre dice a mia madre:
«Al diavolo i pesci e gli uccelli.
Quando sarò morto,
che differenza farà
se ancora ci sarà
il giardino oppure no.
Mi basta la pensione».
L’intera vita di mia madre
è un tappeto da preghiera
steso sulla spaventosa soglia dell’inferno.
Mia madre in fondo a ogni cosa
cerca le orme del peccato,
e pensa che la bestemmia di una pianta
abbia contaminato il giardino.
Mia madre prega tutto il giorno.
Mia madre è peccatrice per natura
e per esorcizzare ogni peccato
soffia sui fiori e sui pesci,
soffia su sé stessa.
Mia madre aspetta la venuta del Promesso
e le grazie che ne discenderanno.
Mio fratello chiama il giardino cimitero.
Conta i cadaveri dei pesci imputriditi
sotto l’acqua infetta
e si beffa dei confusi grovigli dell’erba.
Mio fratello è malato di filosofia.
Per lui la cura del giardino
consiste nella sua distruzione.
Si ubriaca.
Dà pugni sui muri, sulle porte
e prova a mostrare
quanto è triste, stanco e disperato.
Porta in strada e al bazar
la sua disperazione
come se fosse una carta d’identità,
un’agenda, un fazzoletto, un accendino, una penna.
Ma la sua disperazione
è così piccola che svanisce
nella calca dell’osteria tutte le sere.
Mia sorella, che era amica dei fiori
e quando mia madre la picchiava
raccontava le pene del cuore
a quei fiori gentili e silenziosi
e invitava ogni tanto la famiglia dei pesci
a una festa di dolcetti e sole,
ora abita dall’altra parte della città.
Lei, nella sua casa finta,
con pesciolini rossi finti,
protetta da un marito finto,
sotto i rami di un melo finto,
canta canzoni finte
ma partorisce figli veri.
Mia sorella,
ogni volta che viene a trovarci
e si sporca l’orlo della gonna
con la miseria del giardino,
fa un bagno nell’acqua di colonia.
Lei,
ogni volta che viene a trovarci,
è incinta.
Il cortile di casa nostra è solo,
il cortile di casa nostra è solo.
Tutto il giorno, dietro la porta,
si sente il frastuono
di scoppi e crolli.
I nostri vicini
nei loro giardini
al posto dei fiori
piantano granate e mitragliatrici.
I nostri vicini ricoprono
le vasche di maiolica del cortile
che controvoglia diventano
depositi di polvere da sparo
e i ragazzi del nostro quartiere
riempiono le borse
di piccole bombe.
Il cortile di casa nostra è stordito.
Ho paura
di questo tempo che ha perduto il suo cuore
ho paura
dell’immagine di queste mani vuote
di questi volti sconosciuti.
Io, come una scolaretta
che ama follemente
le lezioni di geometria, sono sola
e penso che si possa portare il giardino all’ospedale
penso…
penso…
penso…
e il cuore del giardino si gonfia sotto il sole
e la sua memoria si svuota lentamente
del ricordo del verde.
(Giorgio Anelli)
*In copertina: Forough Farrokhzad (1934-1967)
L'articolo “Che si può fare se il destino è morire?” Qualcosa sulla poesia
iraniana contemporanea proviene da Pangea.
Il ridicolo spettacolo che in questi giorni di torrido caldo estivo va in scena
dal teatro sempre attivo dei social con l’amletico dubbio (si fa per
dire!) “presentazione dei libri, sì o no?” fa lo stesso effetto della mosca che
molesta la pennichella pomeridiana.
A leggere questi messaggi parrebbe che da un giorno all’altro le presentazioni
dei libri siano diventate inutili e soprattutto improduttive: per i librai che
devono mettere a disposizione e allestire i loro ambienti ricavandoci poco o
nulla, per le case editrici che già da tempo investono pochissimi denari in
queste iniziative e, infine, anche per gli stessi scrittori che si sono accorti
(sempre con maggiore lentezza degli altri, sia chiaro) dell’ininfluenza – sulle
vendite e sulla auspicata notorietà – di queste futili sagre dell’ovvio e della
banalità.
Il bello, però, è che ad aggiungersi alla compagnia dei tristi teatranti siano
proprio gli stessi protagonisti della cosiddetta scena culturale che fino a
qualche giorno fa smaniavano per esporsi, per presentarsi, per far parlare di
sé… per coprirsi di ridicolo, insomma. Gli stessi che, pur di mostrare la
copertina del proprio libro, erano disposti a macinare chilometri viaggiando
dalla Pro Loco di Cuneo alla Società Bocciofila di Gioia Tauro anche nella
stessa giornata; i medesimi che avrebbero fatto carte false pur di esporre i
loro modesti prodotti artistici nel primo tinello disponibile a quel cenacolo di
amici e di parenti che (non lo dicono, ma è così!) non ne possono più di avere
nel proprio giro “uno che scrive”.
Nella mia città, una piccola libreria che programma almeno un paio di
presentazioni alla settimana occupa lo spazio di una piazzetta a essa antistante
e là, tra il via vai di chi porta a casa la spesa, tra l’insolenza di chi urla
parlando al cellulare e il bivacco scomposto di chi occupa le gradinate
pubbliche che collegano quella piazza alla strada che vi passa sopra, lo
scrittore di turno prova a interessare qualcuno parlandogli da un microfono con
amplificazione, come i Cristiani Evangelici che testimoniano ai passanti la loro
conversione religiosa e il cammino di fede, della sua ultima fatica che con ogni
probabilità nessuno degli astanti acquisterà e mai leggerà. Recentemente, poi,
ho preso parte alla presentazione del saggio di un filosofo nostrano che si è
tenuta in un bistrot di trenta metri quadri dopo la quale è stato servito, con
la formula della “consumazione obbligatoria”, un aperitivo rigorosamente “a
pagamento”. Ho dovuto inventare uno stratagemma per trovare una via di fuga e
sottrarmi a questa laida estorsione.
Allora, alla luce di tutto ciò, chiedo a voi, scrittori della vanagloria, poeti
da diporto, artisti della fanfaluca: davvero trovate utile e vantaggioso
ciarlare dei vostri raccontini a un pubblico di persone che nella maggior parte
dei casi vi è seduto davanti perché non aveva di meglio da fare o perché in
libreria, al bar, nella saletta parrocchiale in cui vi esibite c’è l’aria
condizionata? Veramente vi piace stordirvi e mostrare le vostre miserie
letterarie alla ridda dei saloni del libro o ai Barnum dell’arte in cui tutto è
soltanto siparietti, convenevoli, spettacolo, caciara e marketing? Ma davvero
trovate divertente e soddisfacente scrivere frasi di circostanza e dediche
fasulle, sotto le quali mettete pure la vostra firma (un’aggravante!), a persone
che non conoscete e che voi, invece di identificare come mitomani, chiamate
impunemente “lettori”? Quante foto che vi ritraggono mostrare giulivi e
soddisfatti la copertina del vostro libro appagheranno il vostro patologico
narcisismo? E quante sedie vuote dovrete ancora contare alle vostre
presentazioni prima di capire, una volta per tutte, che la giostra si è fermata
e che il giostraio è morto?
È vero, lo so, le cose non vanno meglio neppure alle rassegne letterarie e ai
festival del libro. Soprattutto quelli estivi che ora ci attendono, dove
purtroppo al ridicolo si aggiunge inesorabile anche il malcostume.
L’inarrestabile décadence di quest’epoca svaligiata, avvilita e colpevolmente
traviata si manifesta con preoccupazione quando, ahimè, i suoi segni giungono
proprio dagli ambiti artistico-culturali. Se un tempo lo hippie era la reazione
al pettinato conformismo borghese, oggi la sciatteria dei costumi (altro che la
kantiana metafisica!) è essa stessa il conformismo, la regola più che
l’eccezione. Il capellone, il figlio dei fiori, il punk, costituivano il
fenomeno culturale che investiva polemicamente una società chiamata, in un modo
o nell’altro, a farsene carico con confronti e analisi. Oggi, invece, pare che
la parola d’ordine sia soltanto la pigra strafottenza che livella tutto ai
propri confortevoli bisogni, alle proprie trasandate necessità, ai propri
infantili capricci.
E così, non è insolito assistere a festival letterari in cui i travet della
scrittura presentano i loro improbabili capolavori in pantaloncini, bermuda,
camicie hawaiane sbottonate fino all’ombelico, scarponcini da spiaggia e
infradito. Poi, collassati come dei Proust di periferia su poltroncine e cuscini
d’ogni foggia, si avvicendano nel resoconto balbettante del valore artistico del
loro nuovo romanzo (leggasi “esposizione della trama”, “sintesi o riassunto del
racconto”) a un pubblico che, in giornate di arsura estiva, forse meriterebbe di
più per coraggio e resistenza.
Ma tant’è, la conventicola delle nostrane lettere si riconosce anche da
questo glamourstraccione, da questa apparente nonchalance da artista incompreso
che alla fine si riduce allo smercio (magari!) di qualche altra copia del
proprio libriccino, a uno stravagante selfie per Instagram e a poche altre
ridicole bramosie. Che tristezza!
È in questi casi di esasperazione che, maledicendo l’attimo in cui ho deciso di
uscire di casa e di assistere a quest’inesorabile débacle, mi sovviene il
titolo, bizzarro ma implacabile, di quell’anomalo libro di Peter Bichsel: Al
mondo ci sono più zie che lettori, libro che i nostri scrittori e organizzatori
di rassegne letterarie un giorno dovranno leggere e tenere a mente come viatico.
Ahimé, «La vita o è stile o è errore» ebbe a dire un tempo Giovanni Arpino.
Già, un tempo!
Vincenzo Liguori
*In copertina: Giacomo Balla, Autosmorfia, 1900, Collezione privata
L'articolo Le rassegne letterarie ai tempi del narcisismo della mediocrità
proviene da Pangea.
Nella tradizione cristiana i testi biblici sono ritenuti «ispirati». A onore del
vero non sono tanto i testi, ma i loro autori, i cosiddetti agiografi, ad essere
ispirati, cioè assistiti dallo Spirito santo allorché hanno composto quelle
pagine che non smettono di generare la fede. Lo Spirito non cancella l’umanità
dello scrittore, anzi la lascia intatta: le asperità e le goffaggini del greco
di Marco emergono in modo evidente, eppure in quella lingua è scritto un Vangelo
fra i più vivaci, capace di farci toccare con mano il mistero di Gesù, Cristo e
Figlio di Dio.
Analoga alla tradizione teologica è la tradizione poetica. Anche il poeta è
ispirato allorché riesce a trovare le parole giuste per dire quanto alberga nel
suo cuore. Indubbiamente il poeta non è assistito dallo Spirito santo, né quanto
fissa sulla carta appartiene ai testi generatori della fede, eppure la sua opera
ha una stretta parentela con testi biblici, i testi ispirati per eccellenza.
In occasione del XXI Festival Biblico di Vicenza del 2025, Roberta Rocelli e
Davide Brullo hanno affidato a trentatré poeti l’arduo compito di rielaborare
altrettanti Salmi. È nato così un piccolo volume (Salterio dei Poeti) che
propone le riappropriazioni dei testi ispirati e poetici della Bibbia, i Salmi.
Non si tratta di nuove traduzioni della grande raccolta dell’Antico Testamento,
ma piuttosto di trentatré personalissime riscritture di quei poemi. Brullo
propone all’inizio non tanto un’introduzione, ma una serie di aforismi
graffianti che dicono bene il senso della raccolta: «Agli “esperti” preferiamo
gli untori del linguaggio» (13); «Salmeggiare non da salomonici, ma come i
salmoni, a ritroso, verso il ghiacciaio, il celestiale» (14).
Chi scrive di professione è biblista, sicché da tempo mi dedico allo studio dei
testi sacri, prediligendo proprio i Salmi. Chi scrive è pure, per grazia di Dio,
un credente che da più di quaranta anni prega ogni giorno con le parole dei
Salmi e dal 2000 recita il Salterio come libro, cioè rispettando l’ordine delle
composizioni: inizio con il Salmo 1 ai primi vespri della domenica e termino con
il Salmo 151 (sì, il Salmo «fuori dal numero», attestato solo in greco ma,
guarda caso, ritrovato anche a Qumran) all’ora media del sabato della seconda
settimana, per ricominciare da capo, quella stessa sera. Ma chi scrive è anche
un prete cattolico che durante l’ordinazione ha promesso al vescovo di essere
fedele alla preghiera della liturgia delle ore, interamente costruita sui Salmi;
in quei versetti ritrovo quanto nella vita quotidiana sperimento e soprattutto
le molte persone che incontro con le loro vicende, le loro gioie e le loro
angosce, i loro slanci e le loro frenate; pregando il Salterio porto quelle
persone davanti al Signore, il Dio misterioso che non smette di affascinare e di
coinvolgere uomini e donne: «La liturgia delle ore si articola intorno al
salterio – parola che, letteralmente, salva il mondo – lo innesta al primo
giorno, gli dà il sollievo dell’ultimo» (14).
Per questi complessi intrecci la raccolta Salterio dei Poeti mi ha catturato.
Vorrei semplicemente dare parola a tre impressioni sgorgate nel mio cuore
durante la lettura di queste poesie.
Ho apprezzato, in primo luogo, il fine lavorio di traduzione. Qualcuno ha inteso
offrire una versione personale. E lo ha fatto in maniera magistrale,
filologicamente impeccabile, aggiungendo un «di più», il di più della
sensibilità poetica, l’«unzione del linguaggio». È il caso di Davide Brullo che
ha riscritto il Salmo 151. L’inizio è folgorante: «Minuscolo ero tra i miei
fratelli/ il più giovane nella casa di mio padre/ di mio padre le pecore portavo
ai pascoli». “Minuscolo” è molto più di “piccolo” e apparenta l’ultimo Salmo
della Settanta (la versione greca dell’Antico Testamento) alla scrittura
minuscola, cioè quotidiana, meno solenne dell’onciale, ma veicolo prezioso per
la diffusione della Parola. Più avanti il poeta rende così l’affermazione del
Salmo: «il Dio che tutto ode ed esaudisce». Brullo introduce uno sdoppiamento
adeguato; un unico verbo greco è riproposto in uno splendido allargamento che ne
esalta l’intensità: non solo “esaudire”, ma “tutto udire” (la totalità
dell’ascolto in enfatica posizione iniziale non sfugge) e per questo “esaudire”.
E ancora, Brullo sceglie di tradurre sempre “Dio” il termine greco kyrios:
un’opzione che radica nella confidenza con il mistero dell’Altissimo, ma insieme
ne esprime il timore che nemmeno osa il più familiare “Signore”.
L’intensità della relazione con Dio osa parole forti e concise, concentra i
discorsi in domande dirette, accumula i verbi dentro una tensione nervosa,
lascia sempre le frasi aperte, senza punto finale. È la riscrittura del Salmo 22
di Giancarlo Pontiggia: «Io grido,/ e non mi ascolti: grido/ il giorno e la
notte,/e non per mia rancura» (v. 2). «Non andartene/ da questo lenguaio di
assillo:/ non un cagnazzo che mi aiuti» (v. 11). E poi rivolta a sé: «Vivrai in
lui,/ mia anima:/ e tu servilo,/mio legno,/ seme» (v. 30). Anche la relazione
con sé è quasi violenta in rapporto a Dio, come dice Tiziana Cera Rosco,
riscrivendo il Salmo 51: «Annegami/ Fammi sbranare dal centro di questo petto/
L’iniquità che mi protegge offendendoti/ Flettimi, spezzami, raschiami/ Scorzami
da questa pelle». E di nuovo invocando l’Altissimo: «Riconoscimi bianco, spezza
ogni osso/ Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me». Anche Valentino Fossati
rende la parola rarefatta: un rigo e poi il bianco, un altro rigo con due parole
e ancora il bianco; in questo modo ridisegna il Salmo 79: «Entrarono o Dio//
genti estranee// come discendenti del tuo Regno». E nella presentazione degli
oranti: «E i tuoi servi/ abbandonati// (brandelli)//…/…// dov’è il dio vostro?//
perché?».
Giambattista Tiepolo, Davide con la testa di Golia, 1717 ca.
Nella preghiera non si può fingere, perché ci si pone davanti a Dio in verità,
anche con espressioni forti. Con parole decise Giuliano Ladolfi riscrive il
Salmo 143: «Comprendimi e rispondi alla mia supplica./ Puoi forse giudicare/ la
mia fragilità?». Lo scavo interiore giunge alle profondità dell’angoscia:
«Dentro di me si agita un nemico,/ mi tortura, mi sgomenta e mi distrugge;/ io
vivo nelle tenebre/ quasi fossi già morto». La radicalità del male non toglie,
tuttavia, la fiducia nella potenza del Signore. Così conclude il poeta: «I miei
fantasmi si dilegueranno/ a un semplice tuo cenno/ e io riprenderò a
servirti/con l’infinita gioia del mio spirito».
Insomma, ancora una volta l’ispirazione accomuna il testo biblico e il testo
poetico e dice la verità dell’uomo: un’apertura all’esterno, verso l’altro da
sé, verso il reale e la sua trascendenza a cui si accorda credito e a cui,
soprattutto, si concede di fare irruzione presso di sé.
Un fecondo dialogo, una contaminazione necessaria.
Matteo Crimella
*Matteo Crimella è dottore della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano e
professore straordinario di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica
dell’Italia Settentrionale di Milano; insegna anche presso lo Studio Teologico
del Pontificio Istituto Missioni Estere di Monza.
**In copertina: Pietro Novelli, Davide con la testa di Golia, 1630 ca.
L'articolo “Flettimi, spezzami, raschiami”. Qualcosa sui poeti e la traduzione
dei Salmi proviene da Pangea.