Nel 1961 veniva pubblicato per interessamento di Linuccia Saba, figlia del
grande poeta Umberto, il romanzo Il segreto a firma di Anonimo
Triestino. All’epoca fu un piccolo caso letterario anche per l’alone di mistero
che lo circondava: dal nome dell’autore, al titolo, alla singolarità psicologica
del protagonista. Con il passare degli anni il velo di mistero si dissolse,
anche se solo in parte. In un primo tempo la paternità del romanzo venne
attribuita a Guido Voghera (1884-1959), un professore di matematica triestino,
che si sarebbe ispirato alle complesse vicende psicologiche del figlio Giorgio
(1908-1999), il quale poi nel corso degli anni è stato riconosciuto come il vero
autore, anche se lui, pur ammettendo di essere il protagonista, ha continuato a
negare fino alla fine dei suoi giorni con una cerimoniosa ritrosia che la dice
lunga sulla sua psicologia.
A tutt’oggi c’è ancora chi pensa a un libro scritto a quattro mani da padre e
figlio.
Al di là della querelle autoriale, quello che non si è mai dissolto è il fascino
del romanzo: una lunga struggente storia d’amore senza speranza. Il libro non è
altro che il racconto prima di un bambino, poi di un ragazzo e infine di un uomo
e della sua passione per Bianca, un amore mai dichiarato a causa di una
timidezza che diventa una nevrosi inibitoria. Nella parte iniziale del libro è
possibile rintracciare una possibile chiave di lettura quando Mino, il
protagonista, che ancora non ha incontrato Bianca, alle prese con sue prime
fantasie amorose fa una riflessione:
> “Il concetto che l’amore dovesse venir nascosto prese, col fantasticarci a
> lungo sopra, profonde radici nel mio animo, più profonde ancora di quanto io
> stesso non me ne rendessi conto. E da ciò fu determinato, forse in parte non
> piccola, il mio avvenire”.
Lo stesso concetto lo ritroviamo nel momento in cui Mino realizza per la prima
volta di essere innamorato di Bianca e al contempo che il loro amore è destinato
a rimanere una sua fantasia. Una sera i loro sguardi si incrociano per pochi
istanti lungo il Corso e tanto basta. I giochi sono fatti. Una passione appena
sbocciata e già inibita. La nascita e la fine di un amore intrecciate in modo
inestricabile.
> “Ecco, fra i molti visi che il mio sguardo sfiora e sorpassa, un viso che mi
> fa un’impressione del tutto diversa dagli altri: è un viso di bambina,
> delicato e serio, dolcemente pensieroso… Era proprio il destino che mi
> indicava che l’avrei dovuta amare; era l’espressione del suo volto che, solo
> fra mille, aveva parlato al mio cuore. Quella sera tornai a casa con la testa
> piena di sogni, e con la coscienza che la barriera che c’era fra noi era
> diventata ancora più alta, molto più alta”.
A mano a mano che si procede nella lettura del romanzo si viene presi da una
duplice sensazione. Da una parte si vorrebbe che Mino si liberasse delle sue
inibizioni e riuscisse a parlare con Bianca; dall’altra ci si rende conto di
essere di fronte a un amore perfetto così com’è, non macchiato dalla banalità
del quotidiano che finirebbe per incrinarne la purezza. Il protagonista non
nasconde i limiti di Bianca, bella ma non bellissima, non particolarmente
intelligente o colta, un po’ superficiale e capricciosa, ma il sentimento che
prova per lei vola più alto e non viene scalfito dalla realtà e dalle sue
miserie.
Uno scontro tra amore e desiderio nel quale il primo è troppo più forte e
finisce per soffocare il secondo senza pietà. Potremmo dire che quella di Mino è
una rinuncia all’amore per un eccesso di amore. E così la sua attrazione per
Bianca resta per sempre confinata negli sconfinati meandri della fantasia nel
cui filo Mino finisce per avvolgersi sempre di più finendo per chiudersi dentro
di sé come in un bozzolo protettivo. Nel corso del romanzo Mino segue, ma forse
è più giusto dire che osserva come un entomologo la vita di Bianca, prima da
vicino come compagni di classe, poi da lontano quando lei lascia da scuola per
fare la signorina di buona famiglia e lui si trasferisce a Roma per frequentare
l’università. Quando Bianca si fidanza con un altro uomo Mino soffre per la
gelosia ma ancora di più per i difetti e le debolezze che crede di cogliere
nella sua amata quando qualche volta la incontra nelle strade di Trieste sotto
braccio al fidanzato e continua a fantasticare di averla tutta per sé:
> “Da quell’immagine, da quel pensiero, nasceva in me un desiderio, tormentoso
> nella sua vanità, di proteggerla dalla volgarità del mondo, da tutto ciò che
> poteva offenderla, turbarla o inquietarla; di tenermela vicina, di
> accarezzarla come una bimba, di circondarla di tanto amore umile e puro, di
> tanta infinita adorazione”.
Di fatto Il segreto è un inno alla rinuncia. Mino è stretto parente dello
scrivano Bartleby di Melville e dell’Emilio Brentani, che Svevo ha messo al
centro di Senilità e sarebbe certamente piaciuto a Robert Walser, lo scrittore
svizzero che per tutta la sua esistenza non ha fatto altro che praticare la
rinuncia alla vita.
Coprotagonisti del libro sono la timidezza e il pudore che nelle pagine de Il
segreto vengono mostrati senza reticenze in tutta la loro meravigliosa e al
tempo stesso inquietante grandezza. Se il libro sessanta anni fa al momento
della sua pubblicazione poteva anche essere definito un pugno nello stomaco, non
oso pensare a come possa essere accolto in un tempo come quello di oggi in cui
sentimenti come timidezza e pudore sono banditi e messi al pubblico ludibrio e
nel quale, come giustamente ha osservato Claudio Magris: “Tutto deve essere
detto, tutti devono sapere, non c’è nulla che vada trattato con
discrezione”. Sempre a questo proposito, Milan Kundera ha detto parole scolpite
nella pietra:
> “La fine dell’intimità è la catastrofe del mondo contemporaneo”.
Nel libro non ci sono avvenimenti esterni significativi, tutto il romanzo è un
monologo del protagonista e anche Trieste, la città in cui è ambientata la
storia, resta sullo sfondo. Al centro della scena c’è solo e soltanto il
continuo ininterrotto rimuginare di Mino. Una volta arrivati alla fine del
romanzo, l’immagine che si spalanca davanti agli occhi del lettore è quella di
uno straordinario panorama interiore, lo spaccato di un’anima tormentata.
Silvano Calzini
*In copertina: Vanni Rossi, Autoritratto, 1922
L'articolo “Il segreto”: contro l’esibizionismo dei sentimenti, un inquieto
elogio della timidezza proviene da Pangea.
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Catcher in the rye, conosciuto in Italia come Il giovane Holden, esce in America
nel 1951 e la sua ambientazione, leggendone i riferimenti, è da collocarsi
probabilmente prima del Natale del 1949. È il romanzo che segna il successo,
nella sua invero esigua produzione letteraria (un romanzo, nove racconti e
quattro novelle), di J. D. Salinger; produzione nella quale ricorrono la
descrizione di pensieri e azioni di giovani non adattati, adolescenti perlopiù
laconici che non sanno o non possono esprimere ciò che provano realmente, la
capacità di sottrarre allo scacco dell’inautentico e alla perdita di un senso
verace che i bambini hanno su questi, e il rifiuto verso la società borghese e
convenzionale. Questo autore che ha anche ispirato la Beat Generation, consegna
con Catcher in the rye un capolavoro senza tempo che ha saputo parlare, in
diversi decenni, a tanti lettori, giovani e non, senza perdere di freschezza e
urgenza.
Il protagonista è uno strampalato, pensoso, a tratti taciturno e a tratti
verboso sedicenne, che eccelle in Inglese ed è carente nelle altre materie della
scuola di preparazione al college che frequenta in Pennsylvania. Viene espulso
dalla scuola e decide di andarsene da solo a intraprendere un viaggio che non ha
meta precisa se non il ganglio urbano di New York.
Quante volte nella letteratura di tutti i tempi il viaggio è tramite e veicolo
di scoperta e rinascita… Ma per Holden Caulfield non è niente di tutto questo:
il ragazzo, infatti, nella carrellata di incontri e esperienze che compie, reca
con sé e rivolge molte domande ma non riceve mai risposte, o ne riceve di
insoddisfacenti, finendo per inasprire il proprio senso di disorientamento e
insoddisfazione; il tragitto che descrive è dettato dall’impulso del momento e
risulta sconclusionato. Egli cerca forse non il senso della vita, ma se non
altro un senso possibile, che non si palesa mai, però, nel corso delle sue
picaresche vicissitudini.
Holden è una figura romantica in chiave neoterica e novecentesca, parla il gergo
dei giovani di allora, cosa che connota fortemente il romanzo per il verso di un
realismo, spesso minimale, che ha affascinato generazioni. Appare un perdente,
prende pugni, corteggia ragazze che non gli badano granché, sbatte contro muri
fatti di convenzioni e contro situazioni che si volgono spesso al peggio o a una
mancanza di esito.
Tanto per cominciare non ama il cinema, a differenza dei suoi coetanei, forse
perché foriero di sogni artefatti, vero corrispettivo di ciò che è mediato in
senso deteriore. ed ama, per contro, la schiettezza d’animo (con la quale si
esprime egli stesso) al di sopra di ogni altra cosa. Né adulto né bambino, ha
pensieri desueti e sconcertanti, ricorda spesso il fratello che ha perso per una
leucemia e, così si evince, non ama i propri genitori benestanti ma ha una
spiccata simpatia per la sorellina. In un mondo che sembra avere solo strade
ferrate, percorsi ordinari e ordinati, Holden si muove come un pipistrello in
una stanza.
Il suo ex insegnante di Inglese, il solo forse per cui prova simpatia, lo
accoglie una notte in cui si trova in difficoltà, nel corso della sua fuga, e
gli rivolge parole che parafrasiamo: “la differenza tra una persona immatura e
una matura, è che la prima vuole morire per un ideale, la seconda vivere per
esso”. Come negare che questo aneddoto che il professore rivolge affettuosamente
al protagonista, sia veridico? Vivere significa anche morire mille volte e mille
ancora dover risorgere, condurre una strenua battaglia per la verità e la
bellezza, in un mondo che le nega entrambe ed è anzi di per sé mortifico. È
questo un cimento cui Holden si avvia sprovveduto in ogni forma, sgangherato e
idiosincratico, con pensieri strani, autentici e veritativi, che tiene per sé o
deve dissimulare, e che fanno a cozzi con la sua sonnolenta, ordinaria
generazione che vuole sentirsi adulta anzitempo e si prepara a un ingresso
trionfale nella vita matura e che sogna coronato di certezze salde e successo
conformi a un “sogno americano” mai così deviante e falso. Perché il suo tempo,
il tempo intimo di Holden, fa a pugni con quello storico che vive, ed è una
sorta di zona franca dall’ottusità dei più, dalla loro refrattaria esistenza
così impermeabile al dubbio; un viatico, insomma, con cui cerca di tenersi lungi
da convenzioni e ruoli, e dal dover declinare il suo autentico essere attraverso
ogni sorta di possedere, dal doverlo smarrire goccia a goccia scivolando
dissanguato nell’alveo dell’età adulta (che mente o è irretita nella menzogna,
veste ruoli in cui si identifica totalmente, mette per propri idoli dei fini
assoluti e pressoché senza complemento: fini che non le guadagnano senso di
responsabilità, ma una pallida copia di esso assieme a un inventario di
privilegi).
Più propriamente egli non scimmiotta gli adulti né i propri coetanei, non gioca
a interpretare nessun ufficio che all’età matura afferisca, raramente pronostica
sul proprio futuro, perché tremendamente incombente ma lontano come un orizzonte
simile a un’evanescente stringa.
Holden non elude l’angoscia della libertà e non vuole entrare grufolante, con
decorrenza precoce, tra recinti di affanni e preoccupazioni. In fondo gli
basterebbe avere una ragazza a fianco, che sappia “tenerlo per mano”, perché a
quell’età si è fragili spighe e nessuna ragazza ci capisce davvero, nessun
genitore sa farsi carico, con risposte perspicue anziché cliché e morali
posticce, dei dubbi, delle istanze e delle stranezze che si affoltano nella
mente di un figlio in crescita… Si è soli in una folla di nomi, postazioni,
ruoli, nel mezzo di un mondo che ad esser capito non basta una vita e ad esser
sognato non basta una gioventù.
Lo slancio sorgivo e autentico di questo giovane si strozza nel finale in rivi
stenti di terapia psicanalitica, avverando paradossalmente le parole dell’amico
Carl Luce, che dopo un fugace incontro attraversato da disagio e indolenza, gli
consiglia di andare da uno psicanalista. Un luogo comune, certo, ma che traduce
in fatto tutta la distanza che separa il giovane Holden da quel ragazzo adulto e
già inquadrato.
Holden, a New York dove è fuggito, si imbarca persino in un incontro con una
prostituta senza riuscire a fare altro che parlarci e lasciar passare il suo
quarto d’ora per procura, chiedendole poi di rivestirsi.L’amore, nella sua
carnalità, è qualcosa a cui non è pronto, o forse semplicemente non a quel modo.
Sente, sì, la sua urgenza, ma lo spaventa. Così come ogni cosa che sopravvenga
dopo una lunga, smaniosa attesa, ma si riveli spogliata di ogni sogno, vera e
cruda, impellente e mai realmente conquistata: solo tale da accadere lasciandoci
“secchi”…
Prima di fuggire anche da New York, Holden passa una giornata con la sorellina
Phoebe, la sola che forse sappia accettarlo e capirlo, seppure in qualche
ingenuo modo; e alla sua domanda su cosa Holden voglia fare da grande, lui le
confida di voler fare
> “colui che salva i bambini, afferrandoli un attimo prima che cadano nel
> burrone, mentre giocano in un campo di segale”.
Pare una sciarada, ma a parte il richiamo a una poesia di Burns e al gioco del
baseball cui Holden è affezionato (conserva anche un guantone come ricordo di
suo fratello) egli non fa manifesto altro che di voler soccorrere i bimbi persi
in un mondo di giochi prima che la vita li getti a strapiombo in una età che si
palesa come una rovinosa caduta; o forse semplicemente salvarli dal vuoto della
vita, quando finiscono i sogni dell’infanzia e comincia la realtà di
un’esistenza che non è pari alla poiesis di nuovi sogni e nuove sfide, ma opaca
e priva di un vero senso se non quello artificioso e costrittivo del ruolo di
adattati.
Caulfield rimane un antieroe che ha affascinato intere generazioni, forse
proprio perché così vicino a noi in una straniante età di passaggio che
attraversiamo senza certezze e ripari, o nel ricordo di essa, che tanto può aver
deciso della nostra vita attuale come anche tanto poco da destare sconcerto ed
echi di una paura che perdura come una voce ormai inascoltata.
Massimo Triolo
L'articolo “Sogni d’oro, imbecilli!”. Intorno a Holden Caulfield, il pipistrello
della letteratura proviene da Pangea.
La poesia nasce dal clangore delle armi, sotto le possenti mura di Ilio, dove i
vortici di sabbia si levano falbi e alte risuonano le grida dei feriti.
La poesia nasce dal lucore marino del remo che sospinge Ulisse verso ignoti
approdi.
Non illudiamoci: alle origini del mito, è da scuro e caldo sangue che sgorga la
poesia. Il primo poeta deve essere stato un aruspice – le mani vermiglie tra
fumanti viscere, in cerca del celeste presagio.
Solo dopo verranno il Parnaso, le fonti dell’Elicona, lo sguardo celeste e
radioso di Apollo.
L’ispirazione delle Muse: il lusso di chi ha imparato ad addomesticare il furore
delle Erinni.
*
Come Joyce, Nabokov, Kiš e tanti altri, Sebald è stato prima poeta e poi
narratore. Per tutta la sua vita ha scritto poesie, nonostante dichiarasse che
il suo mezzo espressivo fosse la prosa. Con Calliope ha sempre colloquiato
sommessamente, con la discrezione che si riserva ai vizi più imperdonabili. Ora,
Adelphi pubblica per la prima volta in traduzione italiana un’antologia lirica
del tedesco, Sulla terra e sull’acqua, che raccoglie le poesie scritte tra il
1964 e il 2001, quando uno scontro frontale pose fine alla sua esistenza
terrena.
*
Se poesia vuol dire abbracciare la metamorfosi nel corpo e nel tempo della
storia, allora Sebald è stato valente poeta. Di sguincio, come a spiare i gesti
degli uomini, con un occhio teso verso la terra e l’altro rivolto al cielo,
registra il movimento delle costellazioni, le ampie distanze, il silenzio delle
stelle.
La rivelazione accade soltanto in modo fulmineo. Il testo è il tuono che segue e
rimbomba a lungo. Nelle poesie di Sebald, indovini il momento che precede la
scarica elettrica, la tensione che precede lo scioglimento. Senti l’ultima
raffica di vento prima della pioggia, l’imposta che si chiude su una piazza come
sul mondo intero, l’eco di un suono che si dissolve in lontananza.
“Dove vanno adesso i poeti?” – chiede il protagonista di Sindbad torna a
casa, breve romanzo di un malinconico Sándor Marai. La domanda è destinata a non
trovare risposta. I poeti sono ovunque e in nessun luogo: dimorano sulla
soglia.
> Tu resta sempre
> Sul piede di partenza
Essere poeti significa rivendicare la responsabilità di una scelta radicale.
Scrivere poesie vuol dire accogliere le infinite possibilità che l’orizzonte
dischiude.
Come Bashō, Rimbaud, Bouvier e Chatwin, Sebald viaggia nello spazio per spinta
di nervi e cuore. La letteratura viene dopo: prima bisogna aver guadato fiumi,
lasciato impronte sulla neve, incontrato il lampo negli occhi di una volpe. Di
tanto in tanto, aver osservato il tempo all’opera: muschio ed edera che
avvolgono colonne e capitelli, cenere di antichi incendi negli sguardi dei
vecchi.
*
Vertigini, Emigrazioni, Il passeggiatore solitario, Tessitura di sogno: con
Sebald si cammina sempre sul bordo di una scogliera, a sfioro di un precipizio.
Il poeta tedesco ha il passo del fondista: i valichi e le vette sono per altri,
gli astrali alpinisti del verso.
Sull’orlo di un crinale, a mezzacosta, al confine: tra veglia e sogno, memoria e
oblio, passato e presente. Immagino la poesia di Sebald come un faro: distante e
al tempo stesso intima, solitaria, fiero avamposto tra le tempeste marine.
Nelle sue poesie colpisce la naturale convivenza tra una dimensione fisica,
radicata nella storia e nel tempo, e un’altra che invece sembra trascenderla,
attraversandola come un raggio obliquo. Non si tratta di una vera e propria
metafisica, ma piuttosto della vigile contemplazione di un mistero che si annida
nell’esperienza stessa del vivere. Un mistero che si traduce in una sorta di
“straniamento”, in un radicale ribaltamento di prospettiva, in cui anche le cose
e la natura partecipano della natura umana. Così, nella prima poesia che
apre Latinetto, un treno che sfreccia diventa oggetto di studio da parte del
paesaggio circostante. Un mucchio di foglie e sterpaglie vive nell’attesa
angosciosa del fuoco che un uomo appiccherà. Gli alberi e le case tacciono: la
sera accerchia i colori del villaggio con la sua ombra. I castelli sembrano
abitati da incantesimi senza tempo. Così, nel sontuoso Nymphenburg, pare di
vedere un trovatore provenzale o una principessa poeta affacciarsi da una
finestra del palazzo:
> Siepi sono cresciute
> oltre la corte e il castello.
> Da tempo nell’oblio
> fontane e lumiere
> dietro le facciate,
> serenate e pizzicar di corse,
> le sfumature malvacee.
> Per sale in legno di sandalo,
> le guide bisbigliano
> del Tavolino magico
> nelle biblioteche
> dei defunti principi.
*
La poesia è ciò che resta della fosforescenza del vivere. I versi indugiano
sulla pelle di un ricordo.Sebald accoglie e ricombina strade percorse, volti,
città e luoghi dove il tempo si è fatto curva nella memoria. Passato e presente
si intrecciano senza soluzione di continuità: il poeta non conosce cronologia,
né il dolce balsamo dell’oblio. La tentazione dell’autobiografia: testimoniare
una perenne metamorfosi. Così, un viaggio nelle Fiandre diventa un inesauribile
nodo di ricordi, rivelazioni e immagini folgoranti. Il candore della neve
ammanta i vigneti e il giardino pensile di Ezra Pound, il campo di battaglia di
Waterloo biancheggia sul sangue dei caduti, i palazzi nobiliari diventano
istituti di ricerca e osservatori ornitologici. Personaggi bizzarri si alternano
a episodi di glossolalia, sfilano nomi di città come dal finestrino di un
treno.
Il presagio di un amore, infine, riporta un ordine apparente nel vortice del
caos: la premessa di nuove partenze, il richiamo di un altrove che sembra una
promessa di felicità.
> Parti per l’Egeo
> per Santorini
> terra di basalto
> fosforescenza sul remo
> trattieni l’acqua
> nella tua mano:
> luccica – di notte –
> davanti alla casa delle melanzane
> macchia d’ombra nel buio
> sul muro imbiancato a calce
> verde chiaro di giorno
> fili di rafia violetta
> nel sole.
Si avanza per interiori lampeggiamenti, in un’ipertrofia della memoria. Un
soggiorno a Marienbad diventa una dolente riflessione sulla transitorietà della
vita, sulla perdita del sacro, sul presentimento costante di qualcosa di
ineluttabile, antico quanto il respiro del mondo.
> Ma non rimane il mondo?
> così domandasti, una verde landa
> non si estende lungo il fiume
> in mezzo a cespugli e prati? Il raccolto
> non matura dunque? Sulle pareti
> rocciose l’ombra del sacro
> non aleggia più? E quello che
> di là sotto sta salendo non è forse
> il colore grigio della notte?
*
L’occhio di Sebald vaga nelle remote lontananze, ma osserva con lucida
attenzione le vicende umane. Chi ha letto le sue opere, sia narrative che
saggistiche, ritroverà in Sulla terra e sull’acqua personaggi familiari e,
soprattutto, quel tono inconfondibile del suo stile: un effetto di sospensione
temporale, un’accorata meditazione sulla dissoluzione, uno squarcio improvviso
su una realtà ulteriore, dove le tracce del passato continuano a vivere nei
dettagli del presente.
Nel caleidoscopio poetico di Sebald convivono persone comuni e familiari, grandi
scrittori e musicisti: nessuno è risparmiato dall’incessante trasformazione del
tempo. Di Kafka si evoca il viaggio verso il sanatorio di Matliary, nei monti
Tatra, con pochi effetti personali e qualche cartolina illustrata. Čechov viene
ricordato negli ultimi momenti della sua vita e dopo il trapasso, quando la
salma viene trasportata goffamente a Mosca: ne emerge un ritratto tra il
tragicomico e il grottesco. Elegia a Marienbad evoca invece la passione senile
di Goethe per la giovanissima Ulrike von Levetzow. Sempre a Marienbad si
infrange l’amore disperato di Chopin per la giovane boema Maria.
Gli emigranti, da sempre figure centrali nella produzione di Sebald, ritornano
in alcune poesie, al momento della partenza, e poi una volta giunti a
destinazione: spaesati, sradicati, rovesciati nel mezzo di una realtà che non
riescono linguisticamente e semanticamente a decifrare. Il contesto è quello dei
freddi luoghi del viaggio: piroscafi simili a grandi mostri acquatici, sale
d’attesa, aeroporti e vuote camere d’albergo.
In queste poesie, il respiro di Sebald è potentemente narrativo: sembra quasi
che i versi non possano sostenere il ritmo lento e sottilmente allucinato delle
immagini descritte. Lo scrittore dà il meglio di sé quando si affida a
un’ispirazione più vasta e misteriosa, che si traduce nell’esemplarità del
frammento e fa emergere, come in filigrana, un altrove presagito. Penso alla
semplicità di Poesia Invernale:
> Nella valle echeggia
> Il suono delle stelle e
> La vastità del silenzio
> Sopra la neve e i boschi.
>
> Il bestiame è nella stalla.
> Dio è in Cielo.
> Gesù Bambino nelle Fiandre.
> Chi crede sarà beato.
I tre Re Magi sono
in cammino sulla Terra.
E ai suggestivi versi finali di Trigonometria delle sfere:
> E non ti scordare disse una volta
> Che dalla costellazione dell’Ariete
> il vento del Nord porta la luce
> fin negli alberi di melo.
Ora sappiamo perché il Nord ci attira con la violenza di un ago magnetico, o
perché nella notte declinante siede un santo che ruggisce come un leone.
Abbiamo compreso il segreto del poeta, di ogni poeta: accendere il fuoco e nel
fumo leggere il futuro. Portare fuori la cenere e gettarsela alle spalle. Come
Orfeo, non guardarsi mai indietro nel farlo. Con il cinabro pitturarsi il volto
e tentare l’arte della metamorfosi.
Lorenzo Giacinto
*In copertina: Jan Peter Tripp, L’Oeil oder die weisse Zeit, 2003
L'articolo “Il suono delle stelle”. W.G. Sebald, poeta proviene da Pangea.
La prima volta s’incontrano nel settembre del 1953. Biagio Marin lo descrive
“magro, stempiato, molto riservato”. Poco più che trentenne, Pier Paolo Pasolini
abitava già a Roma, con la madre, era già stato processato per atti osceni in
luogo pubblico, sospeso dall’insegnamento, cacciato dal Pci, marcato con “il
segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde”. Era tutto dentro il dialetto,
allora, Pasolini, lingua autentica, del candore e della ferocia, della terra e
del rito, rispetto all’imbastito, bastardo, giudizioso, giudiziario ‘italiano’.
Per Guanda, nel ’52, aveva costruito un’antologia sulla Poesia dialettale del
Novecento, che, di fatto, scoprì un modo e un mondo, catalogò un genere, rivelò
una generazione. Tra i poeti raccolti lì dentro, da Salvatore Di Giacomo a
Trilussa, da Tonino Guerra a Giacomo Noventa, spiccava, appunto, Biagio Marin.
Nato a Grado nel 1891, austroungarico, studi a Vienna, a Firenze, a Roma,
pubblicava piccole placche, per amici.
“Io a Pasolini devo molto”, scrive Marin nei suoi diari, di getto, arcuato dal
dolore, qualche giorno dopo l’assassinio di PPP, “è stato lui a presentarmi come
poeta a una critica che era troppo distratta e diversamente intonata, per dare
bada a me”.
In effetti, da allora, Biagio Marin è stato eletto nell’empireo dei poeti – non
solo in dialetto –; ha scritto tanto. “Essendo nella sostanza fuori dalla storia
Marin, sempre eguale a se stesso, può tranquillamente continuare a scrivere i
suoi due-tre ‘pezzi’ giornalieri (un po’ come i Lieder che Schubert vergava sui
conti d’osteria), in una specie di rito e di quotidiana transazione con
l’Eterno”, scrive di lui Pier Vincenzo Mengaldo. A proposito di eterno: a tratti
Marin ha la saggezza di un presocratico, la sua poesia ha il valore di un
petroglifo. Questi sono versi da Niente no xe passao, in traduzione italiana:
> “E nulla mai muore
> nel mondo:
> uno solo, ma fondo,
> è il corso delle ore.
> La mutazione origina il canto;
> non aver paura di sparire;
> dura un attimo il giorno,
> ma è eterno l’incanto”.
L’ultimo distico vale la pena calcarlo in originale: dura un atimo el dì/ ma xe
eterno l’incanto. Il dialetto, forse, è lì dove è pianto e incanto, dove si
slaccia l’incantesimo per sedare il dolore. In ogni caso, a Marin, pur
riconoscente, la nota di Pasolini sulla sua poesia non piacque. “Minimo Pascoli
dialettale mi vuol definire il Pasolini. Quanto al minimo è forse troppo
spregiativo; quanto all’avvicinamento al Pascoli, è per lo meno discutibile”.
Nella sua speculazione, Pasolini accosta Marin a Machado; Marin lo sconfigge,
non ha mai letto Machado, e capisce di PPP una cosa autentica e sinistra, “ha
cercato se stesso nei miei versi”. Pasolini – è il rischio del tremendo –
vampirizza; scava con foia nei ‘suoi’ autori, vi si rispecchia, li esalta
massacrandoli, spaccando lo specchio. L’amore va infranto, d’altronde.
La distanza tra Marin e Pasolini – che rinforza, paradossalmente, la stima
reciproca – ha mistura d’abisso. Marin non sopporta l’ideologo marxista, il
poeta impelagato nell’impegno, il ‘maledetto’ in posa, il moralista a orologeria
(“PPP tu sei della stessa identica sostanza e non hai nessuna dignità morale per
denunciare gli altri”). E lo scrive, con cruda evidenza, nel 1969:
> “P.P. Pasolini si dice marxista, comunista e vive da borghese ed è avido di
> denaro, di benessere come ogni altro borghese. P.P. Pasolini vende al mercato
> dei borghesi il proprio ingegno. In lui non riscontro la vera grandezza… È la
> sua persona che a me sembra disarmonica, e, a volte, addirittura mi ripugna. È
> maledettamente italiano nel senso più antipatico. Non me lo sento affine”.
Marin non capisce la “mania sessuale” di Pasolini, non comprende neanche la sua
poesia (“ho letto parecchi versi di Pasolini; qualcuno bello, e anche molto
bello; del resto pezzi di bravura linguistica e retorica. Tanti sfoghi di
malumore ideologico, tante prediche”). Eppure, quando Pier Paolo Pasolini muore
e quel corpo dissolto, distrutto, desolato, notturno, nudo, deforme, indemoniato
dai lividi, lascia spazio al corpus, pura opera della vita, Marin ne è trafitto.
Al cospetto della canea dei giornali, del chiasso pubblico, delle grida degli
amici e dei sedicenti tali, di fronte agli avvoltoi che si avvolgono nel corpo
putrido del poeta, Marin ha un sussulto, “pensando a lui, ho scritto una decina
di liriche. Non so se valgono. Ho voluto onorare la sua memoria”, scrive sul suo
diario, l’8 novembre del 1975.
Marin vuole cospargere di candele il corpo di Pasolini, marcato dal piscio delle
iene, da chi lo ostenta come un santo, da chi lo dileggia come corruttore. Invia
quel grumo di poesie a Scheiwiller una settimana dopo. In gennaio l’editore
risponde: vuol farne un libro, marchiato All’Insegna del Pesce d’Oro, con un
titolo che tuona, El critoleo del corpo fracassao. Litanie a la memorie de Pier
Paolo Pasolini. Il titolo è tratto dall’ultimo verso di una delle poesie di
Marin, che in italiano suona così: “Poi, la rivolta:/ la notte cupa ancora
ascolta,/ nel deserto di un prato,/ lo scricchiolio/ del corpo fracassato”.
Biagio Marin aveva salutato Pasolini a Casarsa, il giorno del funerale, “la
giornata era bella, solare… in una cappelletta trecentesca era esposta la casa
chiusa che raccoglie i resti pietosi del grande poeta e del grande folle che è
stato il caro fine Pier Paolo”.
Il testo edito allora da Scheiwiller riemerse nel 2021 da Quodlibet, a cura di
Ivan Crico. In appendice, alcuni “estratti dai diari inediti” di Marin, per
merito di Pericle Camuffo: la zona dolente, alta, aspra del libro. Narrano il
patimento privato di Marin intorno alla morte di Pasolini, una specie di buco
nero che dilata le contraddizioni fino all’insopportabile, ferita che snatura in
scandalo, invalicato squarcio. “La sua pederastia è stata la ragione della sua
rovina”, scrive Marin, il 3 novembre del 1975. E poi: “La vita sua era preziosa
per tutti, era una ricchezza comune. L’abbiamo perduta. E in così malo modo”;
“Mi ha trattato sempre con rispetto e affetto, pur sapendo che io avevo limiti
da piccolo marginale, e che ero lontano dal suo marxismo e dalla sua pederastia,
che gli è costata la vita”; “A me sembra molto maggiore di un Montale, di un
Ungaretti. Era più vivo di loro. La sua pederastia gli è costata la vita, e ha
adombrato la sua opera”; “C’erano in lui due poli, molto contrastanti. La sua
tragica fine, ne è stata il risultato; ma anche la liberazione dal contrasto”.
Marin tende a un’armonia impossibile se misurata da sarto sull’‘anormale’
Pasolini: come si fa a invitare a festa il Minotauro intimandogli il rispetto
delle buone norme? “Ha scritto troppo, ha voluto troppo, è stato un
rivoluzionario che ha voluto abbattere e sostituire troppe cose del nostro
mondo. Molte sue opere non sosterranno l’usura del tempo; ma la sua azione
rivoluzionaria lascerà il segno in tutta la nostra così torbida vita”, scrive
l’11 dicembre del ’75, e infine, a mo’ di compendio, di epigrafe,
> “Pier Paolo Pasolini era un grande intellettuale; io sono solo una animucola
> di provincia. Pier Paolo Pasolini aveva in sé una vitalità, una forza di
> lavoro, una forza creativa, che io non saprei neanche sognare”.
Su la linea del canto semo nûi: sulla linea del canto siamo nudi. Pasolini muore
il 2 novembre; Biagio Marin conclude il suo canzoniere in tredici poesie il 12
novembre. Tutto va dedicato ai morti ed è il dialetto la lingua veritiera della
litania, pianto che non dissecca, che non piomba gli andati nel ricordo – grigi
spettri per lamenti da salotto, nel limbo degli album – ma ne vivifica il
lascito, a odore di pietra. Infine, ecco, nel canto conta la nudità, l’atto
impuro, lo spudorato per purezza, perfino al cospetto della morte e di chi vi fa
tenda, intorno.
*In copertina: Pier Paolo Pasolini ritratto da Mimmo Cattarinich a Roma nel 1969
(collezione privata)
L'articolo “E nulla mai muore nel mondo”. Compianto sul corpo di Pier Paolo
Pasolini proviene da Pangea.
“Non si può proibire a un uomo di farsi una grande bambola di cera e di
baciarla” è scritto in Anna Karenina. È scritto in un certo punto del libro,
ambientato in Italia, dove si discute di tecnica pittorica, spesso confusa col
talento vero. Questa frase di Lev Tolstoj, libratasi chissà come dal dedalo
della mia memoria, mi è posata tra le righe mentre leggevo un altro romanzo,
ambientato nella Germania del 1918, però fresco di stampa: La bambolaia di
Giuseppina Manin (La Nave di Teseo, 2025). Il pittore austriaco Oskar Kokoschka
è reduce di guerra, dove per ben due volte è stato ferito, ma non così a fondo
come ora, per la terza volta e da una bella donna. Rischierebbe forse di
gettarsi sotto un treno come Anna, o, peggio, di fare il contrario, per la
disperazione di avere perduto l’amore della donna amata, “la ragazza più bella
di Vienna”. Alma Schindler è il suo nome da ragazza, poi Alma Mahler o Alma
Grupius o Alma Werfel, secondo il marito di turno, a suo genio, a seconda del
genio a cui ha fatto girare la testa, quello che le orbita più vicino, secondo
il tempo, relativo come il sesso e l’amore carnale, irresistibilmente da lei
attratto, come stabilito dalla legge della gravidanza universale. E inoltre le
conquiste che le vengono attribuite, con ammirazione o per invidia, tante da far
concorrenza al catalogo sbrodolato dall’invidioso Leporello nel Don Giovanni;
una per tutte: il pittore dell’Angelus Novus, Paul Klee, che la ritrae come
Giuditta che decapitò l’Assiro, e come Salomè che volle la testa di Giovanni il
Battista. Quindi non fa meraviglia che anche Oskar Kokoschka abbia perduto la
testa.
L’esito di un’ossessione può essere tragico. Ricordo che in prigione conobbi uno
scultore – di cui per pietà e pudore non faccio il nome – che giunse al punto di
uccidere la giovane donna che voleva lasciarlo, forse con ciò credendo di
legarla a sé per l’eternità. Ma grazie al cielo (nel quale c’è da credere ben
più che alla psicanalisi o all’autoanalisi), Oskar Kokoschka riuscirà a
liberarsi dal delirio per la donna idolatrata con una folle idea che però si
rivelerà la sua salvezza: farsene creare un idolo per davvero. Per questo
ricorre a Hermine Moos, un’artigiana di Monaco, dietro suggerimento di un’altra
bambolaia, Lotte Pritzel. A lei il pittore si presenta, durante un’esposizione
in una prestigiosa galleria d’arte. Qui la bambolaia si trova a disagio, si
sente ed è un poco emarginata nello spazio meno in vista, con la sua “arte
minore”, fra tanti talenti e giovani promesse.
Oskar Kokoschka appare sulla scena con sguardo allucinato. Parrebbe solo un
maniaco feticista, poiché, ancor prima di presentarsi, si mette a palpare e
frugare sino nelle intimità più profonde le bambole esposte all’attenzione degli
amatori ma anche dei guardoni. Poi, finalmente, si accorge dell’esistenza
dell’artista o artigiana, che invece ha subito riconosciuto il giovane ma già
celebre pittore. Lui le chiede di incontrarla in altro luogo e in questo nuovo
incontro le proporrà di ricreare il simulacro del suo perduto amore. Benché
stupefatta e riluttante, Hermine Moss alla fine accetterà di dare forma e
materia al sogno o incubo dell’artista. Seguiranno dodici lettere maniacali di
Oskar Kokoschka, disegni su disegni, ordini, più che suggerimenti, sui materiali
da impiegare, e minuziose istruzioni per il montaggio della bambola con le quali
si conferma un po’ il feticista della prima impressione.
La sua ossessione rischia di contagiare la povera Hermine Moss che forse si sarà
sentita trattata lei stessa come una bambola, anzi come uno di quegli automi che
andavano di gran moda nel Settecento. Per salvarsi vorrebbe rinunciare alla
folle impresa in cui è stata coinvolta. Con questa intenzione si reca dal dottor
Gerhard Pagel, un neurologo amico di Oskar Kokoschka, sorta di messaggero delle
sue fantasie, come il mitico ‘messaggero d’amore’, ma che si rivelerà anche per
lei un vero amico. Egli la convince a non arrendersi e a continuare
nell’impresa. Sarà ancora lui a stimolarla, più avanti, accompagnandola a trarre
ispirazione da La sposa del vento, il capolavoro di Oskar Kokoschka e insieme il
quadro perfetto della sua disperazione. Ma il primo incontro con il dottor Pagel
ha luogo nella cornice storica della Germania nel 1918: un quadro clinico, un
ospedale, un ricovero dei pazzi, tra i gemiti e i resti di una generazione
sconfitta, smembrata dalla guerra, dalla fame, dall’umiliazione, sofferente
nell’anima come nella carne, ma dove già opera l’oscura forza malvagia che è già
intenta a rimetterne insieme i pezzi in un nuovo mostro da rianimare, riarmare e
indottrinare. Basterà una sola generazione e andrà in scena il secondo tempo
della ‘guerra civile europea’, guerra che ancora una volta incendierà il mondo.
A me viene in mente il Frankenstein militarista che si è risvegliato in Europa
ai giorni nostri e va cantando: “All’armi! All’armi! All’armi siam sinistri,
persino più dei destri terrore dei zaristi! A morte i pacifinti!” Un mostro di
bassa fantasia che va arruolando tutte le teste d’Europa in una “coalizione dei
volonterosi”, coniando uno slogan non certo originale, dal momento che l’ufficio
propaganda di Bush junior lo usò per l’accozzaglia di paesi partecipanti alla
seconda guerra del Golfo. Ma al di là della digressione (le digressioni del
resto non mancano nello stesso romanzo e ci stanno bene, come il richiamo al
mito, da Pigmalione al Prometeo moderno), ritorniamo al tema conduttore.
La gestazione della bambola richiederà nove mesi e per Hermine Moss sarà un
dolore non solo il parto ma la separazione, come può accadere in certi casi con
l’utero in affitto, la grande conquista progressista del secolo che per il
genere umano rischia di essere più breve e micidiale del precedente. “Cara
signorina Moss, mi raccomando la parrucca…”, le scrive il suo
tormentatore. Così, per soddisfarlo, la bambolaia sacrificherà anche i capelli,
i suoi stessi riccioli, non riuscendo a trovare di meglio. E per cosa? La
rivelazione, il gran finale, lasciamolo al lettore del bel romanzo di Giuseppina
Manin, scritto in un modo che si legge d’un fiato e ti rimane nel cuore.
Mi prendo però licenza di svelare almeno la fine di tre esistenze. Hermine Moss,
la bambolaia, morì suicida un decennio dopo. Così si risparmiò la tragedia dei
suoi cari e della famiglia ebraica cui apparteneva. Se pianse, fu dal “seno di
Abramo”. Alma la Bella ariana invece morì a New York da vecchia navigata però
nostalgica, più che del Kaiser, d’un aspirante pittore che per disgrazia era
stato respinto per ben due volte dall’Akademie der bildenden Künste Wien. Forse
trapassò sognando d’essere la prima donna ammessa e ammirata dai guerrieri nel
Walhalla. Oskar Kokoschka, il pittore de La sposa del vento, il tormentatore di
se stesso e della bambolaia ebrea, riprese a dipingere e morì in Svizzera,
“sazio di giorni”.
Enzo Fontana
*In copertina: Alma, l’idolo di Oskar Kokoschka, in forma di bambola
L'articolo Oskar Kokoschka e la bambolaia. Ovvero: sul folle amore per Alma
proviene da Pangea.
«Era molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte.
Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per
liquefarsi», così scrive Virginia Woolf in una lettera a Vita Sackville-West, il
7 ottobre 1928, e continua:
> «Il mio invece si strugge alla luce del gas, e sono solo le nove e devo andare
> a letto alle undici. Così non dirò niente, non una parola del balsamo che eri
> per la mia angoscia […] Come ti guardavo! Come mi sentivo – già, come
> descriverlo? Bè, da qualche parte ho visto una pallina che continuava a
> saltare su e giù sul getto di una fontana: tu sei la fontana, io la pallina. È
> una sensazione che mi dai solo tu».
Un secolo fa, Vita e Virginia si facevano immagine d’un amore unico: la pallina
che salta su e giù, sospinta dal mobile getto della fontana, esprime
un’attrazione irresistibile. Quella pallina, metafora del piacere che volteggia
sull’acqua, ci fa volare, come l’epistolario che ne deriva, tra i grandi
canzonieri d’amore del Novecento. Un carteggio di oltre cinquecento lettere,
scambiate dal primo incontro (1922) e fino alla morte di Virginia
(1941), antologizzate in Italia nel testo tradotto da Nadia Fusini e Sara De
Simone: Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena
Munafò.
Virginia e Vita si scrivono continuamente, per quasi vent’anni; si scrivono per
darsi un appuntamento, per scusarsi o rimproverarsi, ma soprattutto per capirsi,
essere vicine, una accanto all’altra, attraverso le parole, i soprannomi, le
metafore, i silenzi intermittenti in cui esplode la mancanza. Qui è Vita ad
urlare con passione:
> «Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te
> una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta
> sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano.
> Tu con tutte le tue lettere intelligenti, non scriveresti mai una frase così
> elementare […] mi manchi più di quanto potessi credere […] questa lettera è
> solo un grido di dolore. È incredibile quanto tu sia diventata essenziale per
> me. Immagino che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere dalle
> persone. […] Non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi fino a
> questo punto – ma tesoro mio, non posso essere furba e distaccata con te: ti
> amo troppo per farlo» (21 gennaio 1926).
Se Virginia nuota nelle acque dell’intelletto, in quel convento che è Monk’s
House, dove condivide un’austera intimità con Leonard, in un patto reciproco di
rispetto e solidarietà, Vita naviga nella vita a vele spiegate, è sgargiante nei
colori e nel temperamento, posseduta dal demone erotico. È moglie di un
ambasciatore, Harold Nicolson, lo segue nei suoi viaggi, con disinvoltura
organizza ricevimenti. Ed è anche madre. Detto altrimenti: è una donna reale,
vera, concreta, mentre Virginia è una creatura fantastica, che vive nei suoi
sogni e nei suoi scritti.
Virginia rappresenta per Vita l’ignoto: non ha mai incontrato una simile
bellezza spirituale, eterea, fragile, dolcissima, le mani affusolate e la mente
luminosa, trasparente, di cristallo. Una bambina, malgrado abbia dieci anni più
di lei (quando si incontrano, Vita costeggia la trentina, Virginia la
quarantina). Virginia scrive divinamente, vuole innovare il romanzo, lavora
nella sua casa editrice, la Hogarth Press, litiga con la mitologica Nelly, la
cameriera. La sua personalità, così ricca e geniale, affascina Vita e la turba
al contempo. In Virginia tutto è pallido e virgineo. Vita capisce che va
trattata con riguardo e, soprattutto, con riguardo materno, quello che Virginia
ha sempre cercato e che ora, con Vita, tocca fino alle stelle. Quella sarà la
chiave sublime del loro legame d’amore, di cui le lettere sono una preziosa
testimonianza.
L’abbraccio materno e virile con cui Vita la stringe a sé, fa volare Virginia,
libera la sua mente (non a caso, dopo il loro incontro, nasceranno i suoi
capolavori: Al faro, Orlando, Le onde), scioglie il suo corpo.
Quando incontra Vita, Virginia conosce per la prima volta nella sua vita la vera
passione e, dopo una certa resistenza – come scrive Quentin Bell, suo nipote e
biografo – se ne lascia attraversare, con meraviglia e gratitudine. Dal canto
suo, Vita tenta di contenere il fervore carnale, il marmo di cui è fatta la sua
sostanza, potremmo dire, temendo di spezzare il cristallo della donna che ama.
Le due si incontrano nella loro terra di mezzo, dove permangono, insieme, fino
alla morte di Virginia, in un amore eterno e poetico, un legame che, nelle
complessità della vita, si è fatto parola, lettera, letteratura.
Anche quando la relazione fisica finirà, non morirà il loro amore, eternizzato
nelle lettere e nelle pagine di Orlando, lo straordinario romanzo che Virginia
dedica a Vita, trasformandola in un personaggio immortale (che nasce maschio nel
Cinquecento e diventa femmina nel Settecento), trasportando l’esperienza dei
loro sentimenti in un’interrogazione profonda eppure ironica, sul senso ultimo
dell’amore. Quando Vita lo lesse, comprese che nessuno l’aveva mai posseduta,
cioè colta, così a fondo, nella sua più intima verità: «Tesoro, sono così
sopraffatta che non ho idea di come tu abbia potuto […] mettere una veste così
splendida su una stampella così modesta» le scrisse l’11 ottobre 1928.
Mentre cadono le bombe della Seconda guerra, dalle loro rispettive residenze di
campagna, Vita e Virginia si scrivono, si sostengono a vicenda, la loro candela
non si spegne: «Che dire – se non che ti amo e vivrò questa strana calma serata
pensando a te che sei lì da sola […] Mi hai dato tanta felicità» scrive Virginia
il 30 agosto 1940, e Vita risponde il primo settembre:
> «Tesoro, quanto mi ha commossa la tua lettera stamattina. Mi è quasi caduta
> una lacrima dentro l’uovo in camicia. Le tue rare dimostrazioni d’affetto
> hanno sempre avuto il potere di emozionarmi moltissimo e – siccome suppongo
> che in questi giorni siamo tutti un po’ tesi […] – oggi mi arrivano in
> picchiata, dritte al cuore, come un proiettile che sbatte sul tetto. Ti amo
> anch’io. Lo sai».
Dalle ultime lettere emerge in filigrana una certa nostalgia, il bisogno
continuo di ricordare e sottolineare quanto sia importante il filo che le lega,
come se sentissero la morsa del tempo che incalza sulle loro vite… «mi
sento sempre in contatto con Vita. […] non riuscirai mai a disfarti di me – mai.
Neppure per un secondo mi sono sentita meno legata a te» scrive Virginia il 12
marzo 1940. «Su che piolo sto, sulla tua scala?» le aveva chiesto tempo addietro
e la risposta di Vita non aveva lasciato spazio ad alcun dubbio: «Adorata
Virginia, sei su un piolo molto alto – sempre – (25 agosto 1939).
Vogliamo ricordarle così: in cima alla scala del loro amore, su quel piolo molto
alto, mano nella mano, verso quella luce che ancora oggi le fa risplendere – e
ci riscalda.
Marilena Garis
L'articolo “Il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi”. Virginia
& Vita, o dell’amore assoluto proviene da Pangea.
Flannery O’ Connor, fervente cattolica, divenne famosa a sei anni per aver
insegnato a un pollo a camminare all’indietro. Sofferente di una grave malattia
autoimmune a carattere ereditario, il lupus eritematoso sistemico, morì a soli
39 anni.
Nonostante le innumerevoli difficoltà che costellarono la sua vita, non si perse
d’animo.
Pregò Dio di farla diventare una brava scrittrice e Dio la esaudì.
La speranza non l’abbandonò mai nonostante fosse consapevole di dover porre fine
anzitempo al suo percorso terreno.
Ma è proprio la speranza a essere la grande assente nelle storie narrate nella
sua raccolta di racconti Everything That Rises Must Converge (1965), titolo
genialmente reso in italiano con Punto Omega (a volte il traduttore deve,
ossimoricamente, “tradire” la lettera per rimanere “fedele” alle intenzioni
dell’autore) da Gaja Cenciarelli.
Innanzi tutto, cos’è il Punto Omega? Wikipedia dice che «è un termine coniato
dallo scienziato gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin per descrivere il
massimo livello di complessità e di coscienza verso il quale sembra che
l’universo tenda nella sua evoluzione. Teilhard de Chardin postula la
somiglianza di Punto Omega con il Logos cristiano: Cristo che accoglie tutte le
cose in Sé».
Il titolo scelto da Gaja Cenciarelli per il libro della O’Connor è perfettamente
aderente alla tematica religiosa ricorrente nei racconti ivi inclusi nei quali
la speranza – una delle tre virtù teologali con la carità e la fede – è
sostituita dall’alienazione, dalla disperanza e dal pessimismo (in quarta di
copertina, Claudia Durastanti chiosasottolineando che le storie dell’autrice
americana sono pervase da «un senso di morte e condanna»). Tutti i racconti
della raccolta si concludono in modo drammatico, molto spesso con la morte di
uno o più personaggi. Il mondo o i mondi in cui sono ambientati sembrano trovare
la loro spiegazione o giustificazione più che nel cristianesimo nella gnosi.
Il racconto che dà il titolo alla silloge descrive il rapporto idiosincratico
tra un figlio e una madre, reso ancora più difficile dal razzismo strisciante
della donna. Nella scena finale, il figlio si dispera, chino sul corpo
agonizzante della genitrice, colta da un grave malore.
In Greenleaf, la signora May, proprietaria terriera, muore incornata dal toro
del figlio del suo infingardo fattore.
Ne La veduta del bosco, un nonno, dopo aver indispettito tutta la famiglia con
la sua arroganza, si inimica anche la sua nipotina preferita che finirà per
uccidere accidentalmente. E così non gli resta nient’altro da fare che togliersi
la vita annegando nelle acque di un lago.
Malattia mortale è un titolo ironico: alla fine della narrazione il protagonista
finisce per scoprire che la malattia di cui soffre non è altro che una volgare
brucellosi da cui potrà senza alcun dubbio guarire. Ma, nel momento in cui sta
per aprirsi alla nuova vita, sente «le prime avvisaglie di un brivido, un
brivido così particolare […], un’onda calda in un più profondo mare di freddo».
E la conclusione è questa:
> «Un grido debole, un’ultima, impossibile protesta gli sfuggì dalle labbra. Ma
> lo Spirito Santo, avvolto nel ghiaccio anziché nel fuoco, continuò,
> implacabile, la sua discesa».
Nel finale del racconto Gli agi della casa, Thomas uccide involontariamente la
propria madre che si interpone tra lui e l’ospite indesiderata venuta a
“contaminare” la loro abitazione e le loro esistenze e a cui era diretto il
colpo di pistola che ha esploso.
Ne Gli storpi entreranno per primi, Sheppard, un vedovo che lavora come
consulente in un riformatorio, trascura e ingiuria il proprio figlio per aiutare
un giovane disadattato, dal piede equino, che ritiene particolarmente
intelligente e promettente. Ma il suo protégé si rivelerà ben presto un
impenitente delinquentello. Pentito del grave errore di valutazione che ha
commesso, in fretta e furia, tenta allora di recuperare il rapporto con il
figlio e corre in camera sua per dirgli che lo ama. Ma lo ritrova a penzolare da
una trave «dalla quale si era lanciato per il suo volo nello spazio».
In Rivelazione, la signora Turpin, dopo essere stata aggredita da una ragazza
nella sala d’aspetto di uno studio medico, si chiede, con pulsione antinomica:
«“Come mai sono redenta ma vengo anche dall’inferno?”». Ferita nell’orgoglio e
in preda alla hybris, scossa da un empito gnostico, si infuria contro Dio
ruggendogli contro:
> «“Se preferisci i poveracci, vai a cercarti i poveracci,
> allora”, […]. “Avresti potuto farmi povera. O negra. Se volevi i poveracci,
> perché non mi hai fatto poveraccia?”».
E, infine, ha una visione: vede un’orda di anime in cammino verso il paradiso.
Ci sono i poveri, i negri (la traduttrice ci tiene a precisare: «la
parola negro: nelle mie traduzioni ho scelto di non sostituirla con nero, o di
colore, perché nel periodo storico e culturale in cui l’autrice viveva era così
che si parlava»), i mostri, i pazzi e «una tribù di persone che lei riconosce
subito come uguali a lei», composta da coloro «che avevano sempre avuto un po’
di tutto, e l’intelligenza, donata da Dio per farne buon uso […] riconoscibili,
come lo erano sempre stati, per aver fatto dell’ordine, del buon senso e della
rispettabilità la loro bandiera». Eppure «anche le loro virtù stavano divampando
nel fuoco».
Ne La schiena di Parker, il protagonista tenta di conquistare la propria moglie
– una fanatica della setta del Vangelo Corretto – facendosi tatuare sulla
schiena un Cristo bizantino ma viene travolto dall’accusa di idolatria che
quella gli rivolge con veemenza e così, basito e profondamente amareggiato,
non può far altro che mettersi a piangere come un bambino.
Ne Il giorno del giudizio, un anziano impiccione, bistrattato dalla figlia che
lo accudisce, muore dopo essere stato selvaggiamente picchiato da un vicino di
colore che non apprezza la sua eccessiva curiosità e che gli urla contro «“Non
ci credo, a quelle stronzate. Non esiste Gesù e non esiste neanche Dio!”», «“Non
c’è nessun Giorno del Giudizio, vecchio. Tranne questo. Forse questo è il Giorno
del Giudizio, per te”».
Come si può constatare, nei racconti della O’Connor non c’è spazio alcuno per la
redenzione, l’esistenza è un vicolo cieco. Più che di esistenza si potrebbe
parlare di desistenza, di un inevitabile capitolare di fronte all’inesorabile
incedere del destino, al suo oscuro dipanarsi, alle sue ineffabili, sorde e
sordide ragioni.
Gli esseri umani interagiscono fra di loro con fastidio, mal sopportandosi, in
un’incessante idiosincrasia. Più che instaurare relazioni, si pongono
vicendevolmente in un rapporto dialettico irrisolto che non giunge mai a
sintesi. Gli individui più che incontrarsi si scontrano come accade nella sala
d’attesa di Rivelazione. Covano tra di loro un cupo rancore che, a volte,
finisce per sfociare nella rabbia o in comportamenti aggressivi come ne La
veduta del bosco. Una costante delle storie è poi l’intolleranza dei bianchi
nei confronti dei “negri” (l’autrice registra fedelmente gli umori della società
americana), percepiti come creature estranee al corpo della nazione statunitense
e degni di considerazione solo in quanto forza lavoro da sfruttare.
Non c’è più un creatore amorevole che mette sì alla prova le sue creature ma poi
le riporta a sé, nel suo caldo e misericordioso abbraccio, bensì un cattivo
demiurgo, un artefice cieco, un malvagio eone – confinato nelle regioni
inferiori dell’emanazione divina – responsabile del male, che dà vita a un mondo
malvagio, fatto a sua immagine e somiglianza, proprio come nelle prospettazioni
eretiche degli gnostici. Un mondo in cui l’albero della vita della mistica
ebraica è monco: sembra sia stato spezzato il ramo dell’amore e della
misericordia (hesed) che non bilancia più quello opposto, quello della gevurah,
della giustizia inesorabile di Dio (in questo caso un cattivo demiurgo che si
erge a giudice implacabile, un creatore completamente privo di pietas nei
confronti delle sue creature).
Come ha spiegato Hans Jonas (cfr., del medesimo autore, Lo gnosticismo e Dalla
fede antica all’uomo tecnologico), lo gnosticismo è la matrice del moderno
nichilismo: all’acosmismo (ovvero la negazione dell’esistenza di una natura
indipendente da Dio, un dio che assume la veste di un cattivo demiurgo) del
primo si è sostituita l’assenza di Dio, l’indifferenza di Dio e a Dio (è questo,
per il filosofo tedesco, il «vero abisso»). Nel primo caso l’uomo si trova di
fronte una natura demoniaca contro cui deve lottare, nel secondo il gelido nulla
nei confronti del quale non può affatto lottare:
> «Alla natura indifferente della scienza moderna non è concessa nemmeno questa
> qualità antagonistica e da questa natura non ci si può aspettare nessuna
> direzione».
>
> (Hans Jonas, Lo gnosticismo, trad. di Margherita Riccati di Ceva)
Nel moderno nichilismo
> «Dio è stato lentamente relegato ai margini di un’impresa che si afferma come
> esclusivamente umana».
>
> (Alessandro Dal Lago, Introduzione all’edizione italiana, in Hans Jonas, Dalla
> fede antica all’uomo tecnologico)
In ogni caso, l’uomo – come nei racconti della O’ Connor – vive sotto un cielo
spietato, in un’assoluta e angosciante solitudine.
La scrittrice di Savannah colloca anche il lettore in una posizione antinomica –
ulteriore risvolto “gnostico” della sua arte –: il fruitore per conoscere il
bene deve passare attraverso il male, per apprezzare la benevolenza divina deve
esperire un mondo in cui Dio è assente o quanto meno absconditus o indifferente,
se non addirittura malvagio.
Una profonda scissione segnò dunque la vita della O’Connor: non perse mai la
speranza, chiese a Dio di diventare una brava scrittrice e fu accontentata, ma
il mondo che descrive nei suoi racconti è contrassegnato dalla disperazione,
dall’eresia e dal nichilismo. La sua postura è ancipite: da un lato il
cattolicesimo e il mondo reale, dall’altro la gnosi e il mondo narrato. Il Dio
cristiano, sempre presente nella sua vita spirituale, sembra essere latitante
nei suoi racconti.
È forse questo il Punto Omega?: la “Rivelazione” che nel “Giorno del giudizio”
“Gli storpi entreranno per primi” nel regno dei cieli (o nel regno del “gelo”?).
Angelo Guida
L'articolo Flannery O’Connor, il cattivo demiurgo proviene da Pangea.
È un romanzo? Forse. È un’autobiografia? Può essere. È una biografia
immaginaria? Probabile. Confesso che questa ricerca di una definizione non mi
appassiona più di tanto. Preferisco andare al sodo e dire, forte e chiaro, che è
un libro meraviglioso. Mi sto riferendo a La vita di Arsen’ev di Ivan Bunin
(1870-1953), primo scrittore russo a ricevere il Premio Nobel per la letteratura
nel 1933. Figlio di aristocratici decaduti, un’infanzia isolata vissuta in
campagna a contatto con la natura, nel 1920 abbandonò la Russia comunista
rifugiandosi in Francia dove visse fino alla fine dei suoi giorni. Leggendolo è
facile capire che la sua avversione alla Rivoluzione bolscevica e al comunismo
era pre-politica e aveva ben poco a che fare con l’ideologia; nasceva piuttosto
dal suo animo prima ancora che dal suo cervello. Per le stesse ragioni durante
gli anni del suo esilio in Francia fu uno strenuo oppositore del nazismo.
Autore di grande raffinatezza, ne La vita di Arsen’ev Bunin ha messo
osservazioni, sensazioni, riflessioni legate all’esistenza del
protagonista Arsen’ev, un cinquantenne di origini nobili cresciuto nella
profonda e sconfinata provincia russa, esperienza molto simile a quella di Bunin
stesso, che ricorda la propria infanzia e giovinezza.
Considerato un legittimo erede dei giganti della letteratura russa, da Turgenev
a Gončarov da Puškin a Tolstoj, fu amico e discepolo di Čechov al quale lo
accomuna un realismo scarno, preciso, alieno da ogni affettazione, Bunin è prima
di ogni cosa un cantore dell’anima russa:
> «Non v’è dubbio che proprio quella sera mi sfiorò per la prima volta la
> coscienza che ero russo e vivevo in Russia (…) e d’un tratto la sentii, questa
> Russia, sentii il suo passato e presente, le sue selvagge, terribili e
> tuttavia affascinanti caratteristiche e il mio legame di sangue con essa…».
La vita di Arsen’ev è un libro sostanzialmente di sentimenti profondi, di
atmosfere e psicologie più che di trama, inseriti in un tempo ormai perduto in
modo irrimediabile fatto di nostalgie e di passioni. Il protagonista ricorda gli
anni della sua infanzia e poi della sua giovinezza, esplorando i temi della
nostalgia, del passare del tempo e dell’inevitabile perdita che accompagna la
crescita personale. Splendidi i ritratti della natura che accompagnano il
viaggio interiore del giovane.
Acutamente Andrea Tarabbia nella Prefazione all’edizione pubblicata dalla casa
editrice Medhelan riferisce che per Bunin lo scrittore non è un narratore, un
raccontatore di storie, ma un osservatore e ricorda che l’autore amava definire
il proprio libro un “poema in prosa”. Non a caso in realtà Bunin nasce come
poeta e tale resta anche nei suoi lavori in prosa. In effetti leggendolo è
facile accorgersi, pagina dopo pagina, che a farla da padrona è la vena lirica
delle sensazioni e dei sentimenti che hanno toccato il suo animo. Il
protagonista Arsen’ev viene guidato dai suoni, dai colori, dagli odori che
arrivano dai suoi ricordi giovanili. Sono quegli istanti, magici e irripetibili,
che ci segnano una volta per tutte. Un imprinting emotivo indelebile destinato a
segnare la nostra vita e le nostre relazioni con gli altri per sempre. Andando
avanti con gli anni ci accorgeremo che è questo il tesoro più prezioso che ci
portiamo dentro, molto più importante degli avvenimenti che hanno costellato la
nostra esistenza o delle opinioni che abbiamo avuto.
> «In questo viale una bella signorina ci veniva incontro con le amiche… e lei,
> di sotto al bizzarro cappellino, si illuminò tutta di un sorriso sinceramente
> gioioso. Dinanzi al padiglione zampillava una fontana dal getto a ventaglio;
> mi sono rimasti impressi per sempre la sua freschezza e l’odore delizioso dei
> fiori che essa irrorava e che, come seppi dopo, si chiamavano semplicemente
> ‘tabacco’. Mi sono rimasti impressi perché quell’odore si associò per me a un
> sentimento di innamoramento, di cui per la prima volta in vita mia fui
> dolcemente malato per alcuni giorni. Grazie a lei, a quella signorina
> provinciale, non posso ancor oggi sentire senza emozione l’odore del tabacco,
> e lei non ha nemmeno mai saputo che io sia esistito e che sempre durante tutta
> la mia vita ricordavo lei e la freschezza della fontana non appena soltanto
> sentivo quell’odore…»
La vita di Arsen’ev è il capolavoro di queste epifanie emotive; posso
testimoniare che leggerlo significa scoprire un autentico libro del cuore da
tenere sempre a portata di mano, in modo particolare nei momenti difficili della
nostra vita. Un balsamo emotivo in grado di lenire le tante ferite che
l’esistenza ci inferisce. Quando descrive certe sensazioni Bunin ha lo
straordinario potere, per certi versi magico, di trasformare la percezione
dell’attimo, tramutando piccoli eventi personali quasi insignificanti in valori
universali capaci di superare ogni confine di tempo e di spazio. Per capirli,
farli propri e tenerseli stretti non è necessario avere vissuto nella sperduta
campagna russa di un secolo e mezzo fa come Arsen’ev, basta aprire il proprio
animo al senso più autentico dell’esistenza.
Silvano Calzini
L'articolo Su Ivan Bunin, il cantore della selvaggia e terribile Russia.
Leggerlo è un balsamo proviene da Pangea.
La crisi dei costumi, il triste scomparire del paesaggio, fisico innanzitutto,
ma anche umano, l’arte priva di qualunque riferimento storico o letterario, il
disagio rassegnato di far parte di una razza in estinzione: Mario Praz
(1896-1982), maestro solitario e indimenticato, di questo sentire fu campione,
eroe supremo. L’americano Edmund Wilson, che lo considerava artista unico, in
riferimento alla categoria del “prazzesco” – specifico macabro e bizzarro,
grottesco e incongruo della sua opera di grande saggista –, aveva trovato,
infine, le parole giuste per definirlo: the Genie of the Via Giulia (dal luogo
della residenza in cui aveva preso a dimorare molti anni prima). E Alberto
Arbasino, amico intimo, impegnato a sua volta nei Ritratti italiani a tracciarne
il profilo umano sotto la maschera del professore un po’ arcigno di Letteratura
inglese alla Sapienza, traduceva giustamente quel ‘genie’ in genietto,
spiritello demoniaco, con tutte le connotazioni del caso.
Del resto, sia detto con rispetto, un po’ mostruoso Mario Praz lo fu senza
dubbio, specie se si considera l’elegante e terrifica ‘Casa della Vita’ romana,
ubicata prima a Palazzo Ricci e poi a Palazzo Primoli, che ancora Arbasino, in
pagine di pura devozione, ricorderà come
> «un luogo di vertiginosa densità intellettuale che si sprigionava e protendeva
> da ogni quadro e lampadario e vetrina e ‘canefora’ e ‘poudreuse’ e
> ‘barcellonnette’ quando il tè era servito nel salone fra le due monumentali
> librerie, e il padrone di casa incominciava a guidare una indimenticabile
> visita in tutte le stanze, e dagli oggetti affioravano a catene e a grappoli i
> ricordi, e gli oggetti erano più vivi delle persone».
Ora, a ricordare ancora una volta di Praz i funambolismi e le scorribande del
pensiero, lo scintillio raro di tener assieme saperi disparati in un pugno
unitario di cultura enciclopedica – “Ho una mentalità simile a quella dei
secentisti: quanto maggiore è la lontananza fra due oggetti, purché vi sia un
punto di contatto, tanto più mi attrae il paragone”, diceva –, giungono questi
articoli usciti su “Paese Sera” tra il 1960 e il 1972, raccolti
in Alcibiade (Aragno, 2024, prefazione di Alvar Gonzalez-Palacios) dal solito
Giuseppe Balducci (dopo i precedenti Misteri d’Italia, Omelette soufflée à
l’antiquaire e Collezionare libri, sempre editi da Aragno) cui si deve tra
l’altro un’introduzione da leccarsi i baffi.
Da questi scritti, certo minori ma tutt’altro che trascurabili, nati da letture
che l’autore recensiva per il supplemento “Libri” (ideato da Gianfranco Corsini)
del quotidiano romano vicinissimo ai comunisti con il nome de plume di Alcibiade
(in onore del nonno materno che lo voleva, invece, impiegato nella professione
forense), affiorano comunque scampoli di bellezza e bizzarria. Lampi che
eccedono i ristretti confini della materia letteraria e che invadono l’arte, la
storia, il gusto, insomma la vita. Secondo il procedimento comparatistico che
gli era particolarmente caro («il mio guardaroba intellettuale contiene pochi
capi interi»), ovvero quello di andare a caccia di richiami, associazioni,
analogie, accostamenti, per poi mettere tutto in fila e capirne il senso solo
quando il gioco, soltanto allora, avesse assecondato i capricci della sua
immaginazione (si vedano i celebri lavori su Petrarca, Dante e T.S. Elliot, per
citare alcuni esempi). Un fare critico di cui Renè Wellek, comparatista
anch’egli di livello, tesserà le lodi in Storia della critica moderna, ponendolo
al pari della poesia perché come questa in grado di creare mondi, tracciare
itinerari. E gli articoli di Praz su “Paese Sera”, nel loro piccolo, fanno
proprio questo: spaziando dalle porcellane e maioliche italiane dell’Ottocento
all’arte romantica, dallo splendore ed erotismo nelle miniature persiane alla
Napoli settecentesca capitale della seta, dal teatro elisabettiano (passione
condivisa con l’amico Emilio Cecchi) all’eredità linguistica e culturale di
Gabriele D’Annunzio, dai teatri e le feste nel Cinquecento ai misteri della
cultura pagana. Sono elzeviri, com’è evidente, di una civiltà prossima alla
scomparsa, scritti dal suo ultimo testimone, che, da vero e grande scrittore – a
quando la ristampa de La casa della vita, cara Adelphi? Che non sarà Il
gattopardo, d’accordo, ma era pur sempre lì a contendergli lo Strega nella
finale del ’58 – non rinuncia, anzi vi indugia volentieri, a incursioni
autobiografiche, al giudizio morale nei confronti della modernità, alla più
completa identificazione con le cose del mondo, senza abbandonare mai l’ironia
insegnatagli dall’umorista inglese Charles Lamb – sua ‘scoperta’ e maestro.
Come nel caso di Roma, alla quale Praz dedica tra le pagine più ispirate e
malinconiche di tutta la raccolta, e dove gli obelischi, le piazze, il papa, il
barocco appartengono ad una città da lui stesso definita ‘perduta’. Quella ad
esempio delle Ventiquattro vedute di Roma dell’artista russo Andrej Beloborodoff
– preso in esame dall’autore, tra l’altro, già in un pezzo uscito sul “Tempo”
poco prima – e commentate da Henri de Règnier, «in cui l’incantato viandante
poteva, quando che volesse, appartarsi un poco dalle non molte vie battute da un
moderato traffico, e trovarsi nell’atmosfera ideale pei nobili sogni e le
esaltanti rievocazioni», tra «silenzi e rovine, in quell’inimitabile insieme di
culto e di rustico che Walter Pater tanto gustava nei luoghi che avevan visto
fiorire quell’antica civiltà».
Il dramma della Roma moderna, dice allora Praz, sta proprio nel colpo brutale e
consapevole inflitto dalla presenza umana, e della peggior specie come quella
politica, all’ideale di eternità di cui la capitale è stata a lungo
simbolo. Solo certe composizioni di Beloborodoff, ormai,
> «su Piazza San Pietro, su Piazza del Quirinale, sul Campidoglio, spirano un
> senso di sacra solitudine, quasi trasportano Roma, già così eccelsa di per sé
> […] in un’atmosfera ancora più alta, più serena, rabbrividente della presenza
> degli dèi».
Neanche Villa Falconieri, al centro di una di quelle splendide vedute, frattanto
acquisita da un Ministero, era stata risparmiata «dai moderni». Se è vero che
l’arredamento di questa bellissima villa è costituito da «resti di aste
pseudoantiquarie ed enormi tavoli dal piano di fòrmica; […] un falso tappeto
d’Oriente rosso accesso col centro verde pistacchio, un servizio di poltrone e
sofà dorati finto Luigi XVI, […] e due sgraziate torciere metalliche». Per
concludere, sconsolato, che
> «quando un Ministero, che ha tra le sue sezioni una particolarmente dedicata
> alle Belle Arti, dà tale esempio di gusto, che può più sperarsi per Roma?».
Be’, il coraggio di porsela una domanda del genere, di cui Mario Praz aveva già
a suo tempo intuito la risposta, noi non ce l’abbiamo davvero né vogliamo
darcelo. Forse per codardia. O forse perché i moderni, non solo a Roma, è da mo’
che procedono gaudenti alla distruzione di qualunque cosa ricordi loro il
concetto di eterno. Se non lo si è compreso, vuol dire che queste pagine,
ancorché tardivamente, aspettano solo di essere lette.
Alberto Scuderi
L'articolo Sia lode al “mostruoso” Mario Praz, un antidoto contro l’odierno
cattivo gusto proviene da Pangea.
Mi piace partire dal potere evocativo delle immagini. Forse è così che, in
fondo, è nata la letteratura: ecfrasi della meraviglia.
Una fotografia in bianco e nero raffigura lo studio di quello che sembra uno
scrittore. Un uomo, colto di profilo, sfoglia le pagine di un libro con aria
trasognata. Lo circondano manoscritti e cartelle dove sono raccolte pagine e
pagine scritte a Varsavia, a Parigi, a New York. Su un ripiano della libreria,
una menorah allarga i suoi sette bracci. Dalla finestra di fronte al tavolo pare
entrare un fascio di luce: si intravedono i grattacieli di Broadway. L’uomo è
Isaac Bashevis Singer. Nel mio bestiario affettivo è una sorta di vispo furetto
dagli occhi di ghiaccio, simili ai cieli della sua infanzia in Masovia.
La fotografia, scattata nel 1979, è sulla copertina del volume adelphiano appena
dato alle stampe, intitolato A che cosa serve la letteratura?, che raccoglie
alcuni saggi selezionati nel tempo da Singer, pubblicati soprattutto su giornali
e riviste di lingua Yiddish. Il progetto, che non vide mai la luce durante la
vita dello scrittore, prevedeva la creazione di un libro che rappresentasse il
miglior commento alla vasta e potente opera narrativa di Singer. I saggi che
compongono le tre parti del libro, pur variando per interesse e intensità, hanno
il merito di condurci per mano all’interno del laboratorio creativo del grande
scrittore.
> “Dentro di me alberga la convinzione che ogni essere umano sia posseduto, e
> per me i veri scrittori sono coloro che sanno praticare l’esorcismo”.
Così suona l’inizio, fulminante e incandescente, della prima sezione del
libro, Le arti letterarie. Lo scrittore si mette in contatto con entità
sovrannaturali: sia dato credito all’invisibile. Ponte tra il mondo fenomenico e
quello al di là della soglia, Singer scrive sotto l’impulso di un daimon: una
voce, o meglio un’energia che si rivela nel disegno dei destini individuali, nel
nitore della nostra presenza nel mondo. Scrivere per lento e oscuro svelamento,
come se si andasse in terra straniera: riconoscersi dapprima forestieri,
nominare le cose appena nate, andare alla ricerca di ciò che si verifica una
sola volta.
> “Se l’arte ha qualcosa da insegnarci è proprio il fatto che in principio ci fu
> l’eccezione”.
La letteratura spariglia le carte, corteggia il prodigioso, fiuta come un
mastino “la divinità del dettaglio”. Non si tratta però, come per Nabokov, di un
eburneo e algido dominio dell’arte: per Singer scrivere è fare i conti con Dio,
il creatore per eccellenza.
> “Il vero talento non lotta tanto con l’ordine sociale quanto con Dio. Le
> persone di talento sono spesso pessimiste o addirittura fataliste. Ma non
> possono essere atee per la semplice ragione che per la loro stessa natura
> devono litigare con i sommi poteri”.
Due rose bianche non saranno mai uguali: una è sfumata di pallido giallo,
l’altra è venata di rosa. Lo sguardo innamorato del creatore si posa sulla
differenza impercettibile, su ciò che separa più che unisce. L’irripetibile è la
preda dell’artista. Per questo motivo, la letteratura è libera di rotolarsi sui
verdi campi dell’immaginazione: priva di vincoli, aliena alle trappole tese
dalla psicologia e dalla sociologia. Il talento genuino è dotato di una forza
che nessuno può contrastare.
L’artista, con versatilità di camaleonte e ampiezza di falco, s’installa come un
rapace notturno nel cuore tenebroso dell’esistenza. Da qui si rivela il destino
di alcuni dei personaggi più emblematici nati dalla penna di Singer: Hertz Grein
in Ombre sull’Hudson, Yasha Mazur nel Mago di Lublino, Hertz Minsker
nel Ciarlatano. Grandi e piccole città, villaggi sperduti nella steppa polacca,
impronunciabili shtetl, diventano il palcoscenico su cui il sommo intrattenitore
proietta e fa rivivere il mondo della sua infanzia: quello della palpitante
Varsavia di inizio Novecento.
Il cammino della creazione segue un sentiero difficile. Lo scrittore nasce sotto
congiunzioni astrali avverse. La cartomanzia non gli predice vita facile.
> “La realizzazione di ogni artista è una tantum e si esaurisce nello sforzo.
> Gli artisti non possono imparare dal proprio passato. Come gli amanti, sono
> sempre esposti al rischio di fallire”.
Ma quando le Muse sorridono e mostrano il loro volto benigno agli artisti,
allora essi
> “creano qualcosa che al prossimo porta gioia, oblio, la sensazione di un
> piacere soprannaturale, e una visione degli enti superiori che hanno creato il
> mondo”.
L’errore più grave che uno scrittore possa fare è presumere che l’epoca del
godimento estetico sia finita e che gli artisti possano permettersi di annoiare
il pubblico in nome di uno scopo superiore.
> “Non esiste un paradiso che ripaghi i lettori annoiati. Nell’arte, come nel
> sesso, l’atto e il godimento vanno di pari passo”.
Gli scrittori più grandi sono intrattenitori nel senso più alto del termine.
Isaac B. Singer, novecentesco Omero della Vistola, è narratore d’altri tempi.
Come un bardo, un cantastorie medievale, girovaga di città in città, di paese in
paese, raccontando storie agli angoli di piazze colorate, davanti a cattedrali
fiammeggianti. Le sue parole evocano immagini plastiche, simili a quelle che
adornano i fregi dei templi e le svettanti colonne trionfali. C’è, nel periodare
calmo e ipnotico di Singer, una saggezza millenaria, un raccoglimento da
focolare, un finale ricomporsi in armonia attraverso le sfide dell’ignoto: un
non so che di dolceamara fiaba.
Leggere Singer richiede di andare oltre la sospensione dell’incredulità: bisogna
albergare in sé stessi semi di meraviglia, estendere l’ospitalità del pensiero
verso quello che si trova dall’altra parte della foresta incantata. Occorre
credere agli angeli, ai folletti e ai fantasmi; accettare virtù e nefandezze
delle forze magiche; accogliere i chiasmi e le antinomie della sempre mutevole
creazione divina. In questo senso, bisogna risvegliare il bambino che forse
ancora vive dentro di noi:
> “I bambini non hanno alcuna difficoltà ad accettare l’esistenza di Dio, degli
> angeli e dei demoni. Si potrebbe dire che abbiano un senso istintivo del
> soprannaturale”.
E allora, da quale lingua, se non dallo yiddish, può sgorgare la sorgente della
meraviglia? Idioma dell’esilio e dell’identità, lo yiddish si fa ponte tra
culture e modi di creare, diventando, nelle mani di Singer, una vera e propria
lingua-arca, che nomina le cose prima e dopo il diluvio, tra le ferite laceranti
della storia.
Il mare dell’immaginazione e della creazione è vastissimo: custodisce
innominabili meraviglie, ma nasconde perigliose insidie negli abissi, temibili
Scilla e Cariddi. Il compito degli scrittori in prosa
> “è quello di evitare le frasi abusate cercando allo stesso tempo di non
> ignorare l’essere umano vivente. Di sorvolare il più rapidamente possibile su
> ciò che è comune a tutti, e di sottolineare l’elemento che invece è unico. Di
> fare uso della conoscenza senza diventare pseudoscienziati, sociologi o
> psicologi da strapazzo, o peggio dei moralisti. Di cercare con ogni forza
> l’effetto simbolico senza cadere nel simbolismo”.
Al tempo stesso, lo scrittore di talento deve essere paladino della purezza in
letteratura, rivendicandone con forza la dirompente e libera creatività. In una
vibrante filippica che suona quanto mai attuale, Singer si scaglia contro la
banalità della nostra epoca, fatta di fatue mode letterarie, corsi di scrittura
creativa e capricci di editori. Viviamo in un tempo di
> “impazienza artistica che baratta l’amore con la pornografia e maschera la
> propria impotenza con una superpotenza meccanica”.
Come antidoto all’algoritmo, la nuova stella polare che orienta gusti e
tendenze, Singer sembra dirci che la nostra unica salvezza si trova nella
ricerca continua della bellezza.
“A thing of beauty is a joy forever”, recita il meraviglioso verso
nell’Endymion di Keats.
Infine, ci sia concessa un’ultima riflessione sul titolo scelto per la versione
italiana: A che cosa serve la letteratura? La letteratura non è serva né
ancella. I suoi unici servitori sono le schiere di lettori innamorati. Conosco
più di uno scrittore che si è già adombrato nei Campi Elisi.
Lorenzo Giacinto
L'articolo Lo scrittore è un amante, è il sommo esorcista. Isaac B. Singer: un
antidoto contro l’algocrazia proviene da Pangea.