Fino a poco tempo fa, tutto risplendeva – tutto aveva un senso visibile e
chiaro, come un fuoco: ogni fiamma, pur tentacolare, aveva un volto, contraeva
un patto. Il mondo era una famiglia. Il grano riguardava l’astro che ne
garantiva la crescita e la mano, a stella, che lo raccoglieva; l’albero era
imparentato al corvo che vi atterrava sopra, della specie di Saturno; il fiume,
a leggerne i sussurri, a strologare la cifra delle strolaghe, garantiva figli
dai capelli corvini, agilità nel corpo. Nutrirsi di alcune piante permetteva
certe qualità; necessario era apprendere i poteri della vasta famiglia dei
rettili e degli anfibi. Il volo degli uccelli, lassù, interferiva sulla nostra
sorte, quanto l’opera magnetica dei pianeti.
Anche la volpe che ieri notte ha attraversato la strada, trasfigurata dai fari
della mia macchina, cucendo bosco a bosco, quella volpe Mercurio, partecipa
della mia vita, ha un senso.
L’era della misura ha tolto lo spazio dello smisurato: la sapienza,
parcellizzata in saperi, è mutilata; all’osservazione e alla speculazione
astrologica si è sostituito l’osservatorio astronomico, il tempio è sottomesso
all’accademia. È vero: la chirurgia ha soppiantato le erbe curative, i maghi e i
mestatori di formulari – vivremo tutti, tiepidamente felici, grigi pingui
pinguini, fino a centocinquant’anni – sia gloria al dio della salute; la
salvezza resta altrove.
Fino a poco tempo fa, intendo, il mondo non era costellato di ‘corrispondenze’ o
di ‘segni’: il mondo aveva un significato. Interpretare i segni è già il sintomo
di un’era insignificante. L’era del simbolo teneva insieme l’uomo, la terra, il
cielo – corrispondenza significava corresponsabilità.
Di questo mondo – che è poi, autenticamente, il nostro, quello di Dante e di
Francesco – Rabano Mauro è l’enciclopedia vivente, l’esegeta sommo. Abate di
Fulda, arcivescovo di Magonza – dove muore nell’856, il 4 febbraio, il giorno in
cui la Chiesa fa memoria della sua santità – Rabanus Maurus Magnetius fu
istruito da Alcuino, visse gli incerti che seguirono agli anni di Ludovico il
Pio, scrisse tantissimo, investigò il tutto. Del suo libro ‘totale’, il De rerum
naturis, “una cosmologia… ovvero una descrizione della realtà nel quadro di una
visione unitaria del mondo”, in cui l’abate di Fulda “descrive ogni cosa che
riguarda il mondo conosciuto, dall’umile chicco di grano alla costellazione di
Boote, nel tentativo di abbracciare la totalità dello scibile in una
rappresentazione del micro e del macrocosmo coerente con la dottrina cristiana”,
Claudia Gualdana (da cui ho tratto le citazioni) traduce, con talento
sgargiante, devota al culto dei libri assoluti che ora passano per eccentrici
(va ricordato il suo Rosa. Storia culturale di un fiore, Marietti 1820,
2019), il libro IX come Il mondo e gli astri (La Vita Felice, 2025). Il libro –
che è poi un manuale, un tascabile che si snoda per centocinquanta pagine, un
universo in miniatura – è straordinario perché ci orienta agli elementi primi,
riporta – secondo sintesi mirabile – ‘il tutto nel frammento’, conduce dal caos
– di cui si nutre un certo cristianesimo esagitato, in adorazione del buio – al
cosmo. Così, scopriamo che
> “il cielo è stato chiamato così, proprio come se fosse un vaso caelatum, ossia
> cesellato, perché reca incise le luci delle stelle come se fossero sigilli”.
Della luna è detto che “rappresenta le avversità del mondo”, ma anche la Chiesa
(perché – intuite l’introibo da raffinato polemista di Rabano – “essendo stata
creata nella dimensione temporale, come la luna talora si fa più piccola,
talaltra cresce, ma sebbene essa sia soggetta a calare, diminuisce in modo tale
da essere sempre restituita alla sua integrità originaria”) e “l’era presente,
perché è in costante mutamento”. I corpi celesti non sono geroglifici: come ogni
corpo – compreso quello umano, che dell’universo è mappa vivente, in calligrafia
di vene, ossa, arterie –, hanno diversi sensi – letterale; allegorico; anagogico
– e sensibilità; l’abate sviscera tutti i significati con dovizia di citazioni
bibliche. Il compito di Rabano Mauro è titanico: egli va risignificando il mondo
alla luce della rivelazione di Cristo. Così, alle enciclopedie ‘pagane’ – il
mito classico, che armonizzava l’antico mondo – sostituisce il nuovo codice
cristiano. Rabano offre la chiave per interpretare ogni minuta cosa: il tuono –
“che è stato chiamato così perché il suo suono terreat, ovvero atterrisce” – e
le braci – “indicano le concupiscenze illecite dell’animo” – il vento “violento
e veemente” e le Pleiadi, “l’annuncio della comunità dei santi che, nella
tenebra della vita presente, ci illuminano con la luce della grazia dello
Spirito septiforme”. Di Lucifero, “la stella del mattino”, è detto che “può
alludere al Salvatore o alla luce della vera conoscenza”; nel suo “significato
malefico” marca il senso della “caduta dallo splendore eterno fino alle tenebre
infernali”.
L’opera di Rabano Mauro serve a sanare, tra l’altro, l’impropria affermazione di
Robert Graves, il geniale poeta de La Dea Bianca. A suo dire, una “frattura…
separa il cristianesimo dalla poesia”, tanto che “è ormai impossibile combinare
le funzioni un tempo identiche di sacerdote e di poeta senza fare violenza
all’una o all’altra vocazione”. Allo stesso modo, l’indole “crudele,
capricciosa, sfrenata” della Dea Bianca contrasta con il culto della Vergine.
Graves – che sognava di rifondare un ordine ‘bardico’ della poesia e di
ricondurre la parola poetica al suo ancestrale potere magico, teurgico, e che di
fatto ha avuto un unico, straordinario allievo: Ted Hughes – ha, come sempre,
ragione. Proviene, però, da un regno in cui la “rivoluzione puritana” ha
sistematicamente cacciato dal tempio i druidi e i bardi, ha disonorato i boschi
considerandoli mero ornamento quando non materia prima per imprese di
falegnameria. In realtà, al netto di un semplicistico ‘romanticismo’ – che fa
del poeta il ribelle, l’eresiarca costi quel che costi, mentre è da sempre il
custode dell’ordine, il suo cardine; e non mi riferisco certo all’ordine
mondano, alla viltà del potere terreno, infine impotente se non sostenuto da
armi di assassinio di massa –, il poeta, come gli apostoli, parla le lingue e
guarisce dal male; la sequela Christi è fonte di infinita opera.
“Decifrare il linguaggio sacro”, come scrive Rabano Mauro, è compito dello
studioso e dell’artista. Così, nel formidabile Liber de laudibus Sanctae Crucis,
lirico laudario costellato di calligrammi, la parola è la cosa, la forma è la
formula, ciò che è nominato, d’improvviso, vive, con ferina evidenza – ulula
l’io e l’Iddio. San Paolo insegna che si prega “in modo conveniente” dando in
“gemiti inesprimibili” (stenagmois alatetois; Rm 8, 26). Si prega verseggiando
come fanno le creature: secondo il ronzio della mosca, l’adulare dei lupi, il
fruscio degli astri.
*Le immagini in copertina e nel testo sono tratte dal “Liber de laudibus Sanctae
Crucis” di Rabano Mauro
L'articolo “Decifrare il linguaggio sacro”. Rabano Mauro: dal caos al cosmo
proviene da Pangea.
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Quando lungo il vespro del 1926 Joseph Roth fu inviato in Russia per conto
della Frankfurter Zeitung una cosa lo colpì più di tutte, tanto da ribaltarne
radicalmente l’opinione su quel mondo in rivolta che lo aveva entusiasmato negli
anni dell’Ottobre: il rapidissimo imborghesimento subito dalla società civile
russa.
In una incendiaria decade, il popolo russo era passato dall’impostazione
pressocché feudale dell’epoca zarista – socialmente in ritardo di un secolo
rispetto agli europei – e dal furore guerresco, dostoevskianamente demoniaco,
dei socialrivoluzionari al sistema conformista della vita piccolo-borghese,
propedeutica alla stritolante burocrazia, germe che contaminò ogni buco della
vita pubblica, della politica, del lavoro e delle arti.
In pochi anni la Rivoluzione bolscevica, madre del primo governo proletario
della storia, e la politica economica del voennij kommunizm, il comunismo di
guerra vigente durante la fase passionale della guerra civile, avevano, col
“fuoco tranquillo che si diffonde a consumare tutto”, attingendo dalla poesia di
Aleksandr Blok, di fatto cancellato lo spirito russo, la sua anima più
autentica, mutato antropologicamente il Paese. Era stato rifatto “l’uomo dalle
budella”, per dirla con Viktor Šklovskij.
> > > > “Dopo il terrore rosso esaltante, sanguinoso della rivoluzione attiva,
> > > > venne in Russia il terrore ottuso, silenzioso, nero della burocrazia, il
> > > > terrore della penna e del calamaio.” (J. Roth, Viaggio in Russia,
> > > > Adelphi 1981)
La penna e il calamaio che, abilmente, lungi dalle luci della ribalta, causarono
repressione, paura e morte, in maniera affine al più manifesto, lampante terrore
della guerra civile. Non è calcolabile il numero di scrittori, accademici,
religiosi, scienziati e intellettuali che, fra arresti, esili ed esecuzioni,
furono colpiti dalla mannaia del terrore bolscevico prima e, con ancora più
vigore e perizia, della dittatura staliniana poi. Lungo i decenni, tanti
esponenti illustri dell’intelligencijatradita hanno raccontato – diversi finché
ne hanno avuto il tempo… – i drammi del bolscevismo e del susseguente nuovo
ordine sovietico. Da Nikolaj Gumilëv ad Aleksandr Blok, da Andrej Belyj a Marina
Cvetaeva, passando per Sergej Esenin, Vladimir Majakovskij, Boris Pil’njak,
Michail Bulgakov e Osip Mandel’štam, il poeta acmeista che in un verso della
primavera del ’18 celebrava sommessamente “il crepuscolo della libertà”.
In pochi, però, hanno descritto tali orrori dal di dentro, dalle fauci del
mostro, dall’epicentro del diluvio, ché in ogni tempo e a ogni latitudine la
memorialistica è fatta quasi esclusivamente dalle vittime, dai reduci, dai
sopravvissuti alla tirannia, anziché dagli oppressori. Eccezione in tal senso è
il carnefice della Rivoluzione leninista e trockista Andrej Srubov, il
personaggio uscito dalla penna di Vladimir Zazubrin, giornalista e scrittore
nato nel 1895 a Penza, città rurale sulle alture del Volga, e rivoluzionario
bolscevico della prima ora.
Antizarista, nel 1914 Zazubrin – al secolo Vladimir Jakovlevič Zubcov – entrò
nelle fila dei rivoluzionari comunisti per infiltrarsi nella Ochrana, la polizia
segreta di Nicola II. Ai primi bagliori della Rivoluzione d’ottobre partecipò
nel comitato rivoluzionario della scuola militare di Pietrogrado. Negli anni
della lotta fratricida fra Rossi e Bianchi, Zazubrin si ammalò di tifo e durante
il periodo di convalescenza iniziò la stesura del suo Dva mira – Due mondi –,
pubblicato nel ’21 e apprezzato da Gor’kij e financo da Lenin. Il testo è da
molti studiosi indicato come il primo romanzo sovietico. La sua biografia non si
prolunga di molto, ché dopo l’espulsione, nel 1928, dall’Unione degli scrittori
siberiani e dal Pcus per essersi opposto alla linea sempre più rigida del
partito, il nome di Vladimir Zazubrin comincerà gradualmente a liquefarsi, fino
a sparire completamente nel 1938, risucchiato nella voragine delle Grandi purghe
di Stalin.
“Così nel nostro secolo nascevano, creavano e morivano gli scrittori russi,
anche quelli che avevano consacrato le loro opere e i loro giorni a Lei e solo a
Lei” scrive l’insigne slavista Serena Vitale nel suo commento conclusivo a La
scheggia, titolo tagliente di un breve romanzo che Zazubrin non riuscì a
pubblicare in vita, respinto da Sibirskie ogni – Luci siberiane –, il giornale
di Novosibirsk per il quale lo scrittore era segretario di redazione. Il
racconto scomparì per oltre sessant’anni, fino a quando nel 1989, con l’Unione
Sovietica agli estremi palpiti, una ricercatrice lo rinvenne in qualche scaffale
polveroso della Leninka, la Biblioteca di stato di Mosca.
“Lei e solo Lei.” Chi era Lei?
Lei è la vera protagonista della povest’ di Zazubrin: la Rivoluzione. È per Lei
che Andrej Srubov, voce narrante del racconto, lavora. È Lei la ragione ultima
della sua vita.
Figlio dell’Ottobre di Lenin e Trockij e responsabile della Commissione
straordinaria di tutte le Russie per combattere la controrivoluzione e il
sabotaggio – ovvero la famigerata Čeka –, il compagno Srubov organizza la
distruzione dei nemici di Lei, il loro abbattimento, come una foresta di
“bianche betulle”. Srubov è un taglialegna – il suo cognome è plasmato dal
verbo srubit’, tagliare –, ma percepisce costituirsi attorno a sé anche la
funzione del “vuotacessi della Rivoluzione”, giacché è suo compito punire gli
uomini che provano a insozzare dove lui è chiamato a fare pulizia. Suo dovere è
“prevenire l’inquinamento” delle pure fonti di Lei, “crudele e bellissima”,
l’ideale superiore per il quale “anche uccidere è una gioia”.
La voce della Scheggia – Ščepka in russo – assiste alle regolari esecuzioni
compiute dai cekisti all’interno dei sotterranei di un palazzo dalle mura
biancosporche. I controrivoluzionari vengono raccolti a gruppi di cinque, fatti
spogliare e giustiziati con un colpo di revolver alla nuca. Nudi, perché “coi
vestiti addosso ammazzano solo gli assassini”. Avanti i prossimi: cinque uomini
vestiti sostituiscono cinque uomini nudi, cinque “parassiti” al momento vivi
danno il cambio a cinque carcasse. E Srubov sovrintende ai lavori della
“fabbrica”. Una fabbrica di smaltimento.
Nei sotterranei gelidi del palazzone – “un pozzo di pietra a tre piani” – si
respira un’aria pesante, di sudore, di feci, di carne sanguinolenta, di
poltiglia fumante, mitigata dal clima di euforia collettiva e da un traviato
senso di giustizia. Per la Revoljutsija si uccide, per Lei si muore.
Quel che colpisce del romanzo breve di Zazubrin è – e lo ravvisò già Valerian
Pravduchin nella prima prefazione del testo – il numero di mostruosità presenti
in un insieme così ristretto di pagine, “una quantità di orrori assolutamente
inconcepibile su una così piccola tela”.
> “Un doloroso colpo alle orecchie. Bianche carcasse di umida carne si
> afflosciarono sul pavimento. I cekisti corsero rapidamente indietro con i
> revolver fumanti in mano, e subito fecero schioccare di nuovo i grilletti. Le
> gambe dei giustiziati ebbero una contrazione. L’uomo grasso tirò l’ultimo
> respiro con un sibilo stridente. Srubov pensò: «Esiste l’anima, o no? È forse
> l’anima che esce sibilando?».”
È così che il perfetto cekista Srubov crolla. Segue il processo di introspezione
del taglialegna della Rivoluzione – e con lui dello scrittore. Fuori dal
sottosuolo del terrore, nel boia si insinua il sospetto devastante che il
bolscevismo sia soltanto un “fenomeno patologico temporaneo” che ha colpito il
popolo russo e ne ha drogato orientamento e identità; che il comunismo
universale sia una utopia degenerante e che in futuro l’umanità non
approverà “questa «felicità» costruita sul sangue umano” e presenterà il suo
conto.
> “La rivoluzione non è mica filosofia.”
D’altra parte, lo avrebbe riconosciuto senza addolcimenti Mao Tse-tung, il
dittatore della Cina comunista, che
> “la rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un
> disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità
> e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e
> magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il
> quale una classe ne rovescia un’altra”.
Anche a costo di abbattere tutto il bosco, far schizzare le schegge dovunque e
condannare un popolo intero a un processo morale senza fine. Tutto per Lei e
solo Lei.
Antonio Pagliuso
L'articolo “La Rivoluzione non è un pranzo di gala”. Il romanzo del terrore
bolscevico proviene da Pangea.
Dentro la materia “il mare è senza fine, dolorante”, ed è necessario che questo
dolore sia focalizzato, parossisticamente pro-vocato e registrato, perché solo
vivendone persino la proiezione è possibile sentire ciò che vive, ri-sentire
nella provocazione la relazione:
La pellicola
Il sole splendeva mentre noi
andavamo in giro per il campus
a fermare ragazzi e uomini
chiedendo che mi colpissero
in pieno viso.
Si rifiutavano tutti
all’inizio, ma noi spiegavamo
che era arte ed era necessario
così mi hanno schiaffeggiata, uno
dopo l’altro.
Ho capito che per farglielo
fare dovevo indurire gli occhi,
provocare. Lo schiaffo dei ragazzi era
comico – palmo sul viso, con scuse prima
e dopo. Era caldo e luminoso.
Abbiamo flirtato con un geografo
dallo schiaffo leggero, con le dita
a sfiorarmi la guancia come
girandomi il viso di lato per vedermi
di profilo. Avevamo circa venti
uomini su pellicola.
È arrivato il ragazzo della mia amica
e gli abbiamo chiesto se volesse farlo.
Lui l’ha baciata e si è piazzato di fronte a me.
La mia amica ha premuto record, e ha detto
‘vai’ e io ridevo,
mi ero dimenticata di preparare il viso,
con la guancia sinistra un po’ rosa dopo
una giornata di schiaffi. Non ero preparata
al suo rovescio. Rapido
e forte, un rumore strano
come se mi avesse schiaffato via
la risata, un dolore più spesso
di una puntura, un’immediata perdita
di respiro. Siamo rimaste in silenzio
un attimo, e io ho guardato
la mia amica e la sua mano portata
alla guancia automaticamente,
la luce rossa della telecamera che ancora
lampeggiava e ho saputo
che non avremmo mai guardato
la pellicola, che avrei sentito la nausea
e la colpa finché il livido
durava – più a lungo – avendo chiesto
ciò che non era mio.
Il linguaggio di Frears è materia ustoria che sbracia e riaccende il percorso da
metafora a dato, rinnova il senso della referenza, iniziando da un contesto
umile e concreto. È una tensione ipercinetica a svolgere e riavvolgere il
cammino della parola, i cui passi e salti manifestano una nudità d’intenti che è
anche desiderio di stabilire un contatto. Altezze delle cadute ma più intimità
nel dolore, in questa operosità slabbrata si muove il verso narrativo in tante
zone di Risplendi, cara (Taut, 2023), il piccolo corpo del vivente (così come il
corpo testuale) si aggrotta pudico per espandersi subito dopo e arrivare a
toccare vertigini celesti:
Mito lunare
Dato che abbiamo donato i nostri gioielli per il tabernacolo
(e con noi intendo le donne e con donne intendo le allegorie)
ci è stata assegnata la luna.
Non una luna, la nostra luna, la nostra piccola luna litigiosa.
Il mare delle crisi e quant’altro – la vecchia ‘pietra dell’oh issa’
che trascina le onde ai ciottoli fin dall’alba dei tempi.
Il 58% delle donne dice ‘prendi quello che ti danno, prima che ci
assegnino un corpo celeste ancora più piccolo.’
Ad ogni modo, tutti sanno che la tuba di Falloppio è un germoglio di luna.
Tutti sanno che il sole è una stella-ragazzo, buono e caldo e
luminoso e piuttosto semplice se ti ricordi di portare
la crema solare. Certo che ha un cazzo.
Quando mi metto una torcia in bocca le guance mi si accendono di rosso
come una lanterna carnosa – niente argento, né crescente
né calante; sono accesa o sono spenta. Non proprio da luna.
oh Satellite, oh Artemide, oh Orbe della notte.
Domanda: posso dare la colpa alla luna perché dormo poco?
Il 73% delle donne si è detto ‘a disagio’ con il nuovo
rito lunare testato settimana scorsa, che prevede un melograno,
un frutto stella (e del simbolismo di mela ben calcato).
Ora di un altro gruppo di discussione. Magari possiamo
bruciare cose, oppure il fuoco è solo roba da sole?
Hanno versato del vino nuovo in una vecchia brocca,
e ci hanno detto che i miti si fanno così.
Abbiamo bevuto tutto il vino e ci siamo esposte al
plenilunio, quindi dovevano aver ragione.
Luce e carne costruiscono il mito, arte di raccontare il minimo, che confonde
perché include piccolo e grande, abbattendo il confine dell’ambivalenza. Frears
è certa del malessere di dire ma lo espone, è consapevole dell’impossibilità
della permanenza per questo apre al lettore la sua intimità, offrendola come in
una parabola:
Scopare in Cornovaglia
La pioggia è spessa e c’è un mezzo arcobaleno
sulla spiaggia umida; mettimi la mano fin sopra.
Ho camminato per quel museo di paese centinaia di volte
e ho deciso che il cagnolino imbalsamato,
etichettato: il cane più piccolo del mondo, è un falso.
Baciami in un panificio di pasty con tutti i forni accesi.
Ho stretto un uovo fresco e caldo in una fattoria e ho pensato a
scopare. Ho stretto un piccolo granchio verde nel palmo della mano.
Ho teso la manica fin sopra le dita e ho raccolto un’ortica
e l’ho stretta contro la gola di un ragazzo come una spada.
Slacciami le scarpe in quel vicolo e sollevami delicata sui cassonetti.
Il sole luminoso del mattino viene e viene
e i bambini vacanzieri sono pronti con i loro secchi gialli.
Ti ricordi cosa si provava a scavare un buco tutto il giorno
con una paletta solo per vederlo riempirsi di mare?
Lo voglio così – come l’acqua che indovina un percorso al di
sopra del bordo. Come due anemoni rosso acceso in una pozza
di marea, i tentacoli in onde estatiche.
Come se la ginestra si è incendiata attraverso la brughiera e tu
sei il fantasma di un pescatore, che ha sempre odiato la terra.
Umiltà e fede, praticamente agostiniane, non sono eluse ma reindirizzate a nuove
“apparizioni”, come fossero l’ossessione scaturente da un rapporto in perdita.
La poesia si fa strumento, allora, che avvicina distanziando, che aspira e solo
per poco accompagna:
> Per favore capisci che non è addosso a te, è con te.
Co-ire è sfiorare il rapporto mistico, l’assoluto nella dissolutezza dell’amore,
è il tentativo che la carnalità si superi in un oltre desiderante e
iper-percettivo. Ma cosa può l’essere umano esplorare l’infinito impraticabile
della vita? Forse solo attraversandola facendosene infaticabile ricognitore,
forse. Non cacciamo Giovanna, non cacciamo l’ossessione di sentire sempre e
sempre più a fondo:
Giovanna d’Arco ci perseguita
Lei sa come trema il vetro prima che venga scagliata la pietra,
come le tubature sibilano le une alle altre a mo’ di serpenti
attraverso la casa. Ha sentito la prima spinta del fungo
verso l’alto, ha mappato l’incedere furtivo della propria ombra
sul terreno variabile. Cerca di ascoltare
il tonfo minuto del cuore di un coniglio; ha sempre amato
il calore del sangue anche mentre se ne va dal corpo, affonda
nel fango. Ha sentito lo schiaffo rapido di uno sparo,
la lenta leccata della lingua di un cervo, sa che il dolore
si modella nella mente come la brina. Il sole le cuoce il corpo,
le sue orecchie bacinelle di piccole pozze d’ombra nel fulgore,
il rumore di un aereo nel cielo le ronza dentro.
Nelle giornate storte lega i vestiti in complicati
nodi, invita i passanti a fare lo stesso.
Zitta, Giovanna, diciamo noi. Vai a contare i crochi.
Et lux in tenebris lucet, afferrare o perdere la luce è la posta in gioco
dell’incontro e della poesia che lo cerca. Frears dice di aver “sentito dire che
il nemico che indossa le scarpe/ o troverà Dio o Lo perderà”, il che può essere
tradotto nel desiderio e nella ricerca costante del bene nel male, in una
spoliazione di sé e delle proprie acquisizioni. Frears spalanca la lingua della
poesia e accoglie il mondo, prendendo e tremando:
A una festa un ragazzo mi segue nel bagno
sostenendo che quando ho lasciato la stanza
gli ho fatto cenno di seguirmi.
Davvero?
Sapeva che non lo avevo fatto?
Lo lascio entrare, perché
quasi quasi mi prendo quello che mi dicono che desidero –
chissà, magari ha ragione.
*
Mi chiama per controllare
che non gli abbia dato un numero falso,
mi lascia un messaggio in segreteria con il mio capezzolo
nella sua bocca.
Il mattino seguente, da sola, ascolto la sua voce –
un bambino che parla con la bocca piena
e poi
io,
come una madre noiosa, distante:
piano, piano, piano.
Nella compravendita che l’esistenza diventa quando lo slancio e il trasporto
all’altro si interrompono, occorre confrontarsi con “l’agonia del deserto” e
provarsi in un altro attraversamento. Nonostante “il mare imbestialito” sarebbe
necessario accostarsi e sentire “l’orecchio bagnato del diavolo”, lasciarsi
scorticare nella fuga continua che immagina una meta, in una tensione mai
soddisfatta:
Sulla cordatura della forma
Esse sono la raffica di vento marino che ti tormenta
mentre scendi in spiaggia; l’ambiguità sessuale
dell’amico del tuo amico con cui ci stai provando in un bar.
Guidi in una galleria;
trattieni il respiro.
Sono sette solide frasi spezzettate
lungo un’idea; un singolo filo di ragnatela
teso tra due corpi che dormono; i punti di sutura
nella tua ferita sullo stomaco mentre ti allunghi verso il telecomando;
una macchina in bilico su una scogliera per sessant’anni.
Sono la suspense mentre ti lavi il viso, sapendo
che le probabilità di trovarti un assassino in casa
sono aumentate mentre avevi gli occhi chiusi;
il picco febbrile che questa paura raggiunge mentre
chiudi l’armadietto a specchio del bagno.
Non sono la tua autocoscienza, spalmata finemente
sul tuo toast mattutino; non possono sedurre
tua madre nella hall di un hotel. Ma sono
un aeroplano di carta lanciato attraverso una stanza fumosa,
e sono esattamente come svegliarsi
per gli occhi di un insonne.
Stai tornando a casa a piedi da un incontro / uno spettacolo /
negozi, hai con te gli ingredienti per la cena
che hai deciso di fare – facendo dondolare un po’ il sacchetto
semplicemente sentendo il peso di ciò che sarà.
La sera è di un blu smorzato / arancio, l’aria
non è né fredda, né calda. Di punto in bianco
ti senti insignificante in un modo molto lussuoso
e proprio in quell’istante il lampione
sotto cui stai camminando si accende, tipo illuminazione.
Attorno non c’è nessuno.
Senti solo quella sensazione e continui verso casa.
Corde – infilate e fisse:
una sensazione enorme, contenuta all’interno
di un piccolo corpo, sotto un cielo enorme.
Enorme come ogni parola che s’inoltra e perde l’orientamento, come la luce che
investe la strada mentre ad attraversarla il vivente vaga e prova. Sente?
> Ci hai mai provato tu? È la luce più simile
> all’acqua, a pozzanghera sulle tue palpebre, fresca
> e senza parola sulla tua lingua.
L’enorme si nientifica perché risgorghi lo slancio e ridiventi inondazione,
pensiero lungo, racconto. La vita di ogni giorno è epica e metafisica, e solo
così vivifica l’esperienza.
La scrittura in versi di Frears e soltanto esperienza nell’urlo e
nell’abbraccio, nell’alto come nel basso che comunicano, puro sentire:
Elegia per la sonda Cassini
1997-2017
Pensavo alla tua morte. Cercavo di immaginare l’istante in cui la pressione
diventa troppo forte o il calore troppo elevato.
E poi verso le quattro del pomeriggio ho sentito delle urla tremende.
I suoni si diffondono in modo strano nel nostro vicolo cieco e non riuscivo a
capire se fosse lontano o appena sotto la mia finestra.
Parte dell’orrore è non sapere da cosa proviene il suono. E infatti
nei film fatti bene, la cosa brutta si intravede appena o non si vede per nulla.
Ho sostato sulla porta cercando di capire: un cane abbaiava, un uomo gridava,
una donna urlava.
E poi sentito un corpo che veniva colpito con un oggetto. Sapevo che
era un corpo e non una cosa dal modo in cui gli altri suoni gli si piegavano
attorno. Il traffico, le urla, gli alberi e il vento distorti da queste percosse
sorde, irregolari. Gli sono corsa incontro.
Dietro una piccola staccionata, un uomo picchiava un cane con un
badile. C’erano vicini alle finestre e per strada, guardavano. C’è stato il
suono distante di sirene e l’uomo si è fermato ed è tornato dentro.
Il cane non faceva rumore, guardava nel vuoto verso il cielo. Ci
siamo raccolti attorno alla staccionata. Respirava, poi non più.
Cassini, oggi, mentre ti tuffavi tra gli anelli di Saturno
raccogliendo dati, ho visto un cane morire – una tristezza distaccata ma molto
reale. Un ohh interiore, sfinito, come un palloncino che si sgonfia.
Gli altri cani nel vicolo cieco non hanno mai smesso di abbaiare fino
al mattino. Sapevano. Dubito che sarà così anche per te. Non me li vedo i corvi
che si levano improvvisamente dagli alberi, o un’anziana sulla strada di casa
che di colpo inspira: se n’è andato!
Ieri notte i miei sogni erano pieni di quel suono – badile contro
cane. Un miliardo di chilometri sono troppi per sentire la violenza della tua
perdita, mi spiace. Invece mi immaginerò le lune, che sbirciano oltre gli anelli
di Saturno come vicine di casa silenziose che guardano impotenti mentre tu inizi
a tremare, bruciare e distruggerti.
Gianluca D’Andrea
*In copertina: Ella Frears, photo Etienne Gilfilla
L'articolo “L’assoluto nella dissolutezza”. Sulla poesia di Ella Frears proviene
da Pangea.
> «“Ningen Sabaku”, deserto di umanità, è il termine che i giapponesi usano per
> indicare Tôkyô. Questa spaventosa e affascinante megalopoli inghiotte ogni
> anno molte migliaia di persone che svaniscono nel nulla come ombre».
>
> Dall’introduzione di Gian Carlo Calza(Longanesi & C., “La gaia scienza”,
> Milano, 1972)
Non potrò più né nominarla né pensala impunemente; né, sedendo su una spiaggia o
tra le dune di un ipotetico deserto, considerarla inerte – stupido! – e priva di
un vago senso di minaccia, latente o sopito. Dopo essere scivolato come in un
cratere terrestre dentro alle pagine de La donna di sabbia di Kōbō Abe, la
sabbia mi risuonerà negli orecchi per sempre come sinonimo di lavoro, di
schiavitù e di morte. D’ora in poi, non dimenticherò più d’annoverarla come il
quinto elemento naturale, di rilevanza mitica ai miei occhi, al pari dell’acqua
e del fuoco, dell’aria e della terra.
Considerata statica e arida, alla luce di questo romanzo, insignito del Premio
Unesco quale “opera rappresentativa” del patrimonio letterario universale, la
sabbia diventa agente dalla volontà autonoma, penetrante, umida e corrosiva;
un’entità bifronte con cui è meglio non averci niente a che fare. Capace di
spingersi fin dentro ai reconditi anfratti dell’animo umano, in grado di
impossessarsi della dimensione materiale e immateriale del mondo, essa è in
perenne movimento, e si sposta, e muta d’assetto, pur preservandosi, nella sua
primitiva e spietata essenza, uguale a sé.
Questo eterno nomadismo la rende cosa assolutamente viva e, allo stesso tempo,
ne decreta un carattere ostile verso qualsiasi altra forma di vita che presso di
essa tenti di insediarsi.
> “La sabbia non si riposa mai. Senza rumore, ma con certezza, invade la
> superficie della terra distruggendola a poco a poco… L’immagine della sabbia
> che continua a spostarsi dette all’uomo uno choc indicibile e lo eccitò.
> Pareva che la sterilità della sabbia non fosse semplicemente dovuta alla
> siccità, come viene interpretata in genere, ma alla sua mobilità perenne che
> rifiuta la presenza di ogni forma di vita dentro di sé. Quale sollievo se si
> pensa al senso opprimente che comporta ogni realtà di questo mondo, che ci
> costringe persistentemente a rimanerle aggrappati! Certo, la sabbia non crea
> un ambiente adatto per la vita. Ma è davvero assolutamente indispensabile
> stabilirsi in un luogo per vivere? Non è forse il desiderio di stabilirsi in
> un luogo che dà il via a quella concorrenza obbrobriosa tra gli esseri
> viventi? Se uno rifiutasse di stabilirsi in un luogo e si lasciasse andare
> insieme ai movimenti della sabbia, non ci sarebbe più la possibilità di
> concorrenza.”
L’insegnante Junpei Niki, entomologo amatoriale, decide di trascorre le ferie
andandosene a caccia di nuove specie di insetti. In particolare, spera di
scoprire un inedito esemplare di cicindela che, secondo le sue supposizioni,
sopravvive negli habitat sabbiosi e di poter così iscrivere il proprio nome, a
futura memoria, negli elenchi delle enciclopedie specializzate. Approda perciò
in uno sperduto villaggio di campagna, in un’ampia zona desertica del Giappone.
Al calar del sole, su una delle centinaia di dune che assolvono al compito di
omologare visivamente il paesaggio circostante, l’uomo viene avvicinato da un
vecchio che, malgrado un primo approccio brusco e diffidente, gli offre poi
ospitalità notturna presso una delle case del villaggio. Ingannato
dall’apparente buona fede del vecchio, l’uomo (definito genericamente “uomo” per
l’intero arco del romanzo e quindi, privato dell’identità nominale, già relegato
in qualche misura allo status di persona scomparsa) si lascia guidare presso la
dimora promessa.
La casa è costruita sul «basso ventre» di una buca enorme, scavata per decine di
metri nella sabbia. A sporgersi dal bordo, della casa in basso s’intravedono
soltanto il tetto e il porticato pencolante. Nient’altro. Il vecchio lo invita
allora a calarsi tramite una scaletta di corda, prontamente allestita, e,
nonostante le perplessità iniziali che nutre, l’uomo decide di dargli ascolto.
Cosa mai potrà succedermi, sembra pensare lui mentre affonda volontariamente
nella buca, sono Junpei Niki, nato il 7 marzo 1927, ho una compagna, amici e
colleghi, ho regolare contratto di lavoro con l’istituto scolastico, faccio
parte di cerchie rispettabili e di una più ampia, e anch’essa assai
rispettabile, società civile; sono oggetto di tutele da parte del sistema
sanitario nazionale e protetto dai codici giuridici di molti tribunali, ai quali
posso fare appello in caso di controversie o, dio non voglia, di atti di
violenza.
Ma non appena mette piede sul fondo della buca, il vecchio ritira su la
scaletta. Con essa non svanisce soltanto la possibilità fisica di tornare
al conforme mondo di fuori, ma scompaiono le ferree convinzioni su cui quel
mondo si ergeva, tanto inamovibile e sicuro. È l’innesco dell’incubo.
> “Alla vista della donna, l’uomo rimase senza fiato dimentico del dolore negli
> occhi. La donna era completamente nuda. Nella visione offuscata dalle lacrime
> la donna sembrava galleggiare nell’aria come ombra. Supina sul pavimento di
> giunco intrecciato, era distesa con l’intero corpo completamente nudo, salvo
> il viso, una mano leggermente appoggiata sul basso ventre, gonfio sotto la
> vita ben tornita. Le parti che rimanevano abitualmente nascoste erano esposte,
> mentre il viso, la parte che nessuno ha paura di mostrare agli altri, era
> accuratamente nascosto sotto un asciugamano. Comprensibilmente, era per
> difendere dalla sabbia gli occhi e l’apparato respiratorio, ma il contrasto
> parve far risaltare la nudità del corpo. Per di più, tutta la superficie del
> corpo era ricoperta da un velo finissimo di sabbia dai granuli minuscoli. La
> sabbia celava i particolari del corpo mettendo però in rilievo le curve
> tipicamente femminili; tutto sembrava una statua argentata di sabbia.”
Nella casa in fondo alla buca, abita una donna anonima, tanto remissiva nel
privato quanto assoggettata alle logiche sistemiche perverse del villaggio che
sopravvive anche grazie al suo faticoso e insensato lavoro di spalare la sabbia,
in cambio della razione giornaliera d’acqua e di cibo. La donna accoglie l’uomo
con sospetto. Rifà il letto, in silenzio. Prepara l’acqua calda in bollitori
infestati di sabbia, in silenzio. Il suo mutismo è un’omissione volontaria della
verità. Non sa quanto, se e come aprirsi con il nuovo venuto. E tra i due
s’insinua una tensione prima verbale, fatta di continue richieste da parte
dell’uomo – perché, come mai, che succede – che la donna, evasiva, lascia
inesaudite. Poi questa stessa tensione si gonfia e si ramifica in una necessaria
attrazione sessuale – magnifica qui l’associazione di Kōbō Abe tra la copula e
una fredda redazione d’incartamenti, di atti notarili e di certificati, immagine
che desublima l’attività “scandalosa” a mero scambio di liquidi
corporei, burocratizzato e su cui, conclusa la transazione, apporre un timbro di
visura. I due esseri umani, come ologrammi, appaiono a un tempo naufraghi e
reduci, esiliati e proscritti da un mondo tentacolare che non ne contempla la
morte, e li alimenta, soltanto per ragioni d’opportunismo.
Il vecchio, infatti, cala nella buca una pala per «il nuovo arrivato». Quella
pala è il contrassegno che suggerisce all’uomo d’integrarsi bonariamente, senza
scalpitare; è l’utensile attraverso cui siglare un accordo di lavoro che lo
renderà utile agli occhi della comunità del villaggio e perciò degno d’essere
mantenuto in vita. La cosa appare all’uomo del tutto assurda ed è qui, ai primi
vagiti della sua disperazione, che inizia a franare il muro tra la realtà
finzionale e la realtà del lettore, che patisce la deriva del protagonista in
queste infinite onde – di sabbia. La sprezzante, delicata e ultra-nichilista
metafora intessuta dall’autore ha come obiettivo, mai dichiarato, di accorciare
le distanze tra i due piani, di far sì che quella sabbia onnipresente possa
strisciare fuori dalle pagine e mettersi lentamente a consumare, a logorare e
infine a sgretolare le certezze, i pilastri santi e intoccabili su cui un
individuo strutturato del nostro tempo crede di fondarsi.
> “Nessuna notizia indispensabile. Una torre di illusioni costruita con mattoni
> inesistenti, messi su da mani disordinate. Se, tuttavia, le notizie fossero
> state tutte indispensabili, la realtà sarebbe stata come un oggetto di vetro
> soffiato, così fragile da non poterlo toccare con le mani. In fin dei conti,
> la vita quotidiana è piena zeppa di cose illusorie. Per questo, tutti,
> consapevoli del non senso delle proprie azioni, fissano il centro del compasso
> nella propria casa.”
Chissà com’è il mondo quando non ci siamo. Le cose distanti si ammantano di un
fascino inaudito, allattando desideri e fantasmagorie, e quelle vicine, facili
da afferrare o di cui si è già in possesso, vengono ricacciate nella vasta cesta
della noia e declassate d’ufficio tra i fumi dell’abiura. È così che all’uomo,
di fronte alla tanto agognata possibilità di fuggire concretamente dalla buca,
si spegne in gola, tra le irritazioni causate dalla sabbia ingerita, anche
l’ultimo desiderio.
> “Guardando in su verso l’orlo della buca, messo in rilievo dal chiaro della
> luna, l’uomo pensò che quel sentimento bruciante si chiamava forse gelosia.
> Geloso delle vie cittadine, dei treni che trasportavano i lavoratori, dei
> semafori agl’incroci delle vie, della pubblicità sui pali della corrente,
> delle carogne dei gatti, delle farmacie dove vendevano anche le sigarette,
> geloso di tutto ciò che esprimeva la densità della vita sulla terra. Come la
> sabbia aveva intaccato le pareti interne di legno e i pilastri, la gelosia
> l’aveva trafitto lasciandogli un buco nel corpo, rendendolo vulnerabile come
> una pentola vuota messa sul fornello. […] Benché si trovasse tuttora in fondo
> alla buca, l’uomo si sentiva ormai come in cima a una torre altissima. Forse
> il mondo era stato capovolto e le sue vette e le sue valli erano state
> rovesciate.”
La donna di sabbia è una violenta e dolorosa presa di coscienza dell’infamante
condizione umana, dibattuta tra il giogo della fame e quello del lavoro. Uno
spettacolo di marionette in cui si intuiscono chiaramente sia i fili di
controllo sia le dita del burattinaio. E l’aspetto più desolante è che tutto,
all’interno e all’esterno della narrazione, risulta strettamente normale,
normato.
Uomini e donne che, oggi ancor più che nel 1962 (anno della prima edizione
giapponese), vengono filati su un telaio dalle trame geometriche, ripetitive e
conformiste. Colui che fu insegnante e ossequioso contribuente all’erario, è
adesso, per sempre e soltanto, un uomo che aderisce, suo malgrado, all’utero di
terra a cui non sapeva di appartenere. Qui, non c’è un viaggio di ritorno. Qui,
non esiste caverna platonica che regga. Ogni azione porta al seppellimento
della precedente fino a che non si avrà più nemmeno voglia di muovere un
muscolo. Dentro o fuori la buca, fa lo stesso. Misurati sulla bilancia gli
esisti della propria esistenza, è semmai il fuori a risultare posticcio e
inflazionato. Presso quale illusoria idolatria decideremo di sacrificare
interamente i nostri giorni? Con quali scuse, per esserci lasciati traviare
dalla nostra natura, ci accosteremo all’estremo respiro? Con quante e quali
convinzioni, giuste o sbagliate, ma necessariamente indotte dall’esterno,
moriremo infine? Da dèi invincibili e onnipotenti, a umilissimi insetti che in
sé non sono capaci di covare altro che il germe di un servilismo degno del più
belante ovile.
P.S. Questo libro è sconsigliato ai convinti sostenitori della propria univoca
postura nel mondo, ai patrocinatori delle campagne per l’installazione di nuove
piante sulle scrivanie al fine di abbellire le forche impiegatizie dette
uffici, agli zelanti conferenzieri della logica usuraia del lavoro che dà il
pane ed esige la vita, ai trombettieri del «bisogna immaginare Sisifo felice»,
puah!, ai carcerieri inconsapevoli di quelle gabbie, mentali e non, che mai
risultano dorate abbastanza e che pure elargiscono soddisfazioni a iosa,
mascherando la prigionia con l’autoaffermazione, la schiavitù con la libertà; e,
va da sé, scoraggio dalla lettura gli entomologi principianti.
A ciascuno la propria pala, che di sabbia, e di buche in cui rintanarsi, ne è
pieno il mondo. Le manovre per scavarci la tomba sono iniziate da un pezzo.
Siamo in ritardo. Non demordiamo!
Vincenzo Montisano
L'articolo Manovre per scavarci la tomba. Kōbō Abe o del deserto della nostra
umanità proviene da Pangea.
È ormai difficile capire cosa intendesse José Bergamín per analfabetismo.
L’analfabeta è stato sostituito dall’ignorante, l’alfabetizzato dal regime del
logaritmo, dalle ragioni del risultato, dai legionari dell’io. Fiero di non
leggere, leggiadro in ipocrisia, l’ignorante ostenta la gioia di essere mondano
– non certo di essere al mondo, di questo mondo –, il genio pratico – l’opposto
del dotarsi di una pratica – il corrispondere ai desideri del proprio intestino,
l’unico interiore che contempli. Né anima né animale, l’ignorante di oggi è come
l’intellettuale di ieri: l’uomo alfabetico, che costringe ogni fatto in dimora
di misura, si diletta in statistiche, celebra il proprio status, bieco figlio
dell’istituzione – sentendosi, naturalmente, libero, bonificato dallo Stato,
anarca nel proprio ano, anodino.
L’analfabeta – cioè: il bambino, il popolo, l’apostolo, dunque il poeta – pare
scomparso. La logica algoritmica, che crea umani-manovali, umani-replicanti,
umanoidi mercenari dell’ego, in fondo, un’appendice del proprio portafogli,
sembra aver finalmente ucciso l’analfabeta, l’uomo lordo di vita, lordo di Dio,
in pieno possesso dell’essere mondo, dell’essere qui.
L’analfabeta non classifica le piante, le conosce; l’analfabeta non entra in
contatto con gli animali ma con le anime; sa la pericolosità della bestia e la
sua salvezza, e la riproduce in sé, nelle fattezze del viso e dell’agire. Così,
l’uomo analfabeta, ostile ai nomi e alle definizioni, è corvo e volpe, è larice
e airone, è luccio e luce, è acero e acerrimo nemico di chi alla persona
sostituisce la personalità, l’ennesima menzogna.
L’analfabeta non comprende – apprende per apprensione, per trasalimento e
assalto. Apprende per tradimento. L’analfabeta non conosce il linguaggio dacché
è verbo.
Allo stesso modo, l’analfabeta assoluto, il poeta, non stuzzica la retorica, la
stravolge; non sta al gioco del retore ma alla ferocia del re; non è al passo
coi tempi e coi poseur, autentico passeur, trapper tra i regni; è incauto, fuori
tono, scurrile, scomodo, senz’arte né parte, idiota ai più. È l’inosservato
assoluto, perché non ha niente da dire e nulla da dare – è il dato di fatto, il
dono, il detto e la contraddizione. Tutt’altro che incolto, il poeta legge
divorando, legge sottraendosi – mentre l’intelligenza algoritmica procede per
accumulo (norma bulimica, in cui non è contemplato l’eccedente, l’eccezionale,
l’eccesso che non offre via di accesso), il poeta opera per sottrazione: toglie
toglie toglie fino alla parola suprema, alla parola-stalattite, alla
parola-stilita. Parola che non dice ma agisce.
L’analfabeta, il mago. L’analfabeta, il perpetuo orante. Analfabeta: altro modo
di dire, vocazione. Essere chiamati; dunque: invasione di voci. Non vocalizzo,
non vocalità. Restare veritieri alla voce. Il che implica: impunità da serpe,
impurità, putridume nel dire. Allora: la vocale diventa angelo e a noi resta
l’eccomi, il sì come si assiste alla cosa sgozzata, alla cosa benedetta, alla
cosa cosmica.
Tommaso Scarponi, che figura tra i sapienti – leggete Distruzione e analogia,
Castelvecchi, 2025 – mi volta un brano tratto dal memorabile scritto di José
Bergamín. Eccolo:
> Quando Gesù era fanciullo analfabeta o analfabeta come un fanciullo (ché
> analfabeta fu sempre: come fanciullo, come uomo e come Dio), quando era
> fanciullo, Gesù si smarrì e fu trovato nel tempio. Lì insegnava ai dottori
> della legge, dottori della legge scritta, della lettera legale (gli stessi che
> poi lo avrebbero crocifisso per questo: perché era analfabeta); lì insegnò
> loro la dottrina spirituale dell’ignoranza, che essi non ascoltarono e non
> intesero. Perciò, quando poi lo condannarono a morte come analfabeta, lo
> crocifissero letteralmente, cioè a piè della lettera o delle lettere,
> collocando sulla sua testa un cartello o insegna su cui il letterato Pilato
> fece scrivere appositamente: Io sono il Re dei Giudei; fece scrivere ciò per
> mostrare a tutti che avevano preso alla lettera le parole di Cristo e che lo
> avevano crocifisso prendendolo così, letteralmente. Sotto questo INRI
> letterale, Cristo rese lo spirito a Dio; “dando un gran grido”, dice
> l’apostolo: divinamente e umanamente analfabeta. Lo spirito muore sempre
> crocifisso a piè della lettera. Ma muore per resuscitare.
José Bergamín scrive La decadencia del analfabetismo nel 1933, pubblicando sulla
rivista appena fondata, “Cruz y Raya”. Si premurava di far conoscere al mondo
l’opera di Federico García Lorca, uno dei rari ‘analfabeti’; quattro anni dopo
avrebbe guidato la delegazione spagnola del “II Congreso Internacional de
Escritores para la Defensa de la Cultura” (tra i tanti, erano convenuti André
Malraux e Wystan H. Auden, Pablo Neruda e Octavio Paz). Tradotto in italiano nel
1972, da Rusconi, riprodotto da Bompiani nel 2000, Decadenza
dell’analfabetismo è un libro uscito dai ranghi del consesso editoriale come
altri testi di José Bergamín. Nel 2003, Marco Dotti usò brandelli di Decadenza
dell’analfabetismo – insieme a testi di Céline e di Artaud – come ‘manifesto’
per il “Primo festival della letteratura resistente dedicato agli scrittori
analfabeti”, in atto a Pitigliano. Si reagiva – as usual – al “nuovo regime
culturale, blindato ed escludente, intento solo a perpetuare se stesso a
discapito di ogni scampolo di novità e impulso al rinnovamento” (così Marcello
Baraghini autore della deliziosa antologia, La vita si scrive, per Stampa
Alternativa).
Alla dinamica natura vs. cultura, José Bergamín ne pone un’altra, a vertigine,
sacro vs. letterale. La lettera uccide il sacro, la legge fa massacro del cuore.
Al linguaggio babelico – algoritmico – che fermenta burocrazia, si oppone il
brigantaggio del linguaggio, il verbo nel roveto, l’annuncio, il miracolo. Al
poeta cortigiano si preferisce il poeta ladro, il poeta in caccia aperta. Al
poeta impegnato si sostituisca il poeta impari, il paria assoluto. Al linguaggio
dell’istituzione, costituito dai vocabolari, il vocabolo onnivoro, parola che
vive tra le piante e le pietre, vivo dire dei mari, parola vespertina che si
sorseggia a colpo d’ala, insoluto sole.
L’attacco di Decadenza dell’analfabetismo – “Tutti i bambini, finché sono tali,
sono analfabeti” – pare memore del Fanciullino di Pascoli: “È dentro noi un
fanciullino… ma noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi
un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia”.
Pascoli mirava all’anonimato, al sovvertimento dei nomi (“Quando fioriva la vera
poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s’inventa;
si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane,
bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto,
quando morto”); scriveva che il poeta “non deve avere, non ha altro fine… che
quello di riconfondersi nella natura, donde uscì”. Ma noi temiamo il selvaggio,
la via senza ancoraggio di gloria o di nomea, così i poeti vengono stivati nelle
storie della letteratura, inermi, come strane bestie in formaldeide, per lo più
innocue. Parole sotto vuoto, parole disinnescate. E dei grandi autori che hanno
operato verso il ritorno all’analfabetismo, cioè verso i modi della mania
lirica, l’unica – chessò, Benjamin Fondane, Ted Hughes, Robinson Jeffers… – non
si dice, si traduce a sprazzi, li si imbraga tra criteri accademici, tra erbari
e mostre di lepidotteri.
Tra l’incolto che si bea della propria arrogante ignoranza e l’elegante istrione
che si muove tra cadaverici tomi, non c’è differenza: entrambi sono i sacerdoti
di un mondo morto; entrambi, alieni da un’eccezionalità individuale, erigono
santuari intorno al proprio io, si credono i migliori, gli scaltri, i pronti a
tutto. Di tutto privo, detto depravato dai doge di questo tempo, il poeta – se è
tale e non la sua maschera, l’infame implume – è l’unica creatura libera,
liberata: ripete le sue parole al vento – e se ne ritrae, perché nulla è invano
e tutto opera secondo la scia dell’angelo e dell’agnello.
***
Da Decadenza dell’analfabetismo
Ciò che un popolo serba del bambino, e ciò che l’uomo serba del popolo, ovvero
ciò che in lui è ancora bambino, è l’analfabetismo. Analfabetismo è la
denominazione poetica di uno stato autenticamente spirituale. Possiamo assistere
al processo di decadenza dell’analfabetismo nelle nostre vite come in quelle dei
popoli più colti, i più letterati. Guai a noi – guai a loro – se accettassimo
superstiziosamente come ineluttabile il monopolio del letterale, del letterario,
della cultura!
Esiste una cultura letterale. Esiste una cultura spirituale.
La prima perseguita l’analfabetismo, il suo nemico. Ed è oggi – non ieri né
domani – la più diffusa. È quella che ha disordinato il mondo: quella che ha
disordinato le cose e ha soppresso le gerarchie. Quando il senso delle gerarchie
è razionalmente perduto, tutto deve essere disposto in ordine alfabetico.
L’ordine alfabetico, però, è un ordine falso. L’ordine alfabetico è il disordine
spirituale: quello dei dizionari, dei vocaboli letterali, più o meno
enciclopedico, in cui la cultura letterale tenta di ridurre l’universo.
Il monopolio letterale della cultura ha disordinato le cose disorganizzando le
parole, che sono anch’esse cose, non lettere; e poiché sono cose (cose di idee o
idee di cose, cose della ragione, cose del gioco) sono pura realtà razionale o
poetica, realtà autenticamente spirituale o analfabeta.
*
C’è stata una sistematica esibizione stilistica della poesia. Attraverso questi
sottili lambicchi, la poesia viene sterilizzata: sterilizzazione immaginativa
del pensiero. La poesia distillata, lambiccata, sterilizzata, non è pura poesia:
è poesia letterata, letteralizzata. La poesia diventa letterata, alfabetica,
cercando la musica in una vocalizzazione esclusivamente letterale. Esiste
un’intera letteratura lirica che ha testi e musicalità, ma è priva di poesia.
*
La poesia pura è semplicemente la più impura: poesia analfabeta. La poesia è
analfabetismo integrale perché integra spiritualmente ogni cosa. La poesia è il
campo analfabeta della gravitazione universale di tutte le costruzioni
spirituali dell’uomo.
*
Lo stato poetico è uno stato del desiderio infantile o popolare: un desiderio di
analfabetismo; desiderio paradisiaco dello stato dell’uomo puro. Il poeta anela
all’ignoranza, all’infanzia, all’innocenza, all’ignoranza analfabeta che ha
perduto; anela all’analfabetismo perduto: pura ragione spirituale della sua
opera.
*
La parola, la viva parola, non si conforma nell’ordine alfabetico: perché la
vita accade tramite la parola, non la parola tramite la vita; così come la
verità è tramite la parola e non viceversa: tramite la parola divina. (In
principio era il Verbo e il Verbo era Dio e il Verbo era in Dio… così attacca
Giovanni nel suo Vangelo poetico, che è il Vangelo dell’analfabetismo spirituale
più puro).
*
Al termine del primo libro sulla Dotta ignoranza, che è dottrina spirituale
dell’analfabetismo, Nicola Cusano scrive che la verità risplende
incomprensibilmente nell’oscurità della nostra ignoranza. Il potere
dell’oscurità della nostra ignoranza, il potere spirituale dell’analfabetismo, è
quello di far risplendere incomprensibilmente in noi la precisione della verità.
Non esiste poesia che non richieda tale lucidità spirituale, rintracciabile
soltanto nell’oscurità della nostra ignoranza, approfondendo, direbbe Giordano
Bruno, la profondità della nostra ombra.
*
Il declino dell’analfabetismo è la decadenza della cultura spirituale quando la
cultura letterale la perseguita e la distrugge. Tutti i valori spirituali si
sbriciolano quando la lettera o le morte lettere sostituiscono la parola, che si
esprime tramite vive voci. Il valore spirituale di un popolo è inversamente
proporzionale al declino del suo analfabetismo pensante e parlante. Perseguitare
l’analfabetismo significa proseguire strisciando nel retro del pensare:
perseguire le tracce luminose e poetiche della parola. Le conseguenze letterali
di questa persecuzione è la morte del pensiero.
Chiunque si allontani dal gioco poetico del pensare è perduto, irrimediabilmente
perduto, perché abbandona la verità della vita, che è l’unica vera vita – quella
della fede, della poesia – per la menzogna della morte. Prendere tutto alla
lettera, confidando in essa: ma ciò che è letterale è morto.
Il declino dell’analfabetismo è, semplicemente, il declino della poesia. È il
declino del nostro pensiero da quando abbiamo perso la fede nella poesia, da
quando siamo diventati alfabetizzati: non abbiamo fede quando siamo orfani della
vera ragione, la ragione pura, quando sradichiamo dal nostro pensare la poesia.
*
La ragione poetica del pensare dell’uomo è la fede. La poesia appartiene sempre
agli uomini di fede, mai a quelli di lettere, ai letterati. Gli apostoli, in
quanto uomini di fede e dunque analfabeti, hanno dato la più perfetta
espressione poetica alla vita di Cristo. Confrontate i loro testi, poeticamente
puri, con una qualsiasi delle innumerevoli vite letterarie o da letterati di
Gesù Cristo: quella di Renan, di Strauss, di Papini… o qualsiasi altra (tranne
le visioni analfabete ed extra-letterarie dei mistici come Anna Katharina
Emmerick). Quelle vite letterate di Cristo contengono pagine e pagine di
letteratura vaga, amena, senza una parola di verità: non una sola parola di
verità né di menzogna perché ciò che pronunciano non sono parole ma lettere; la
parola può essere pronunciata soltanto come l’hanno pronunciata gli apostoli e i
santi: poeticamente. Non tutti gli analfabeti sono santi, ma tutti i santi
devono essere analfabeti.
*
Per apprendere il vero timore di Dio bisogna varcare la soglia poetica
dell’analfabetismo; l’altro, il timore letterale della morte – o della vita –,
il timore alfabetico del vuoto, non è timore di Dio: è terror panico.
Terror panico, cioè panteismo letterario, cioè letteralità del divino: la
confusione di Dio con il Demonio non è, letteralmente, altro che confusione
infernale, confusione di tutti i demoni; pandemonio, come lo fu la confusione
letterale di Babele, ma senza un dono illetterato delle lingue a succedergli:
senza Pentecoste spirituale redentrice.
*
L’ordine alfabetico internazionale della cultura, nato dagli enciclopedisti –
specie di mortale anticipazione dell’Inferno – è giunto, come logica e naturale
conseguenza, a trasformare per noi la rappresentazione totale del mondo e del
cosmo in un enorme Dizionario Enciclopedico Generale, alfabeticamente
organizzato. La progressiva alfabetizzazione della cultura ha agito sulla vita
umana come una progressiva paralisi del pensiero.
*
La lettera uccide lo spirito.
L’analfabeta ha dei diritti spirituali da difendere contro la dominazione
alfabetica di qualsiasi cultura, più o meno letterale o alfabetizzata. Se
parliamo dei diritti del bambino come possiamo ignorare i diritti
dell’analfabeta che sono, in origine, quelli del bambino, i più puri interessi
spirituali dell’infanzia? Diritti sacri perché esprimono l’unica indiscutibile
libertà sociale: quella dello spirito, quella del linguaggio creativo, quella
del pensiero immaginativo. L’analfabetismo spirituale e creativo dei popoli è
ciò che i popoli hanno in comune con i bambini, la loro infanzia permanente.
*
Se i bambini e i popoli cessano di essere analfabeti, cosa diventeranno? Se i
bambini e i popoli vengono privati dell’analfabetismo – quella vita spirituale
immaginativa del loro pensiero che chiamiamo analfabetismo – cosa resta di loro?
Un bambino e un popolo si snaturano quando vengono alfabetizzati, cominciano a
corrompersi, a cessare di essere; a cessare di essere ciò che sono: bambini,
popoli.
*
L’alfabetizzazione, o alfabetizzazione culturale è il nemico mortale del
linguaggio in quanto tale, nella misura in cui il linguaggio è spirito, è
parola. L’alfabetizzazione è il nemico giurato di ogni linguaggio spirituale,
cioè, in ultima analisi, della poesia.
José Bergamín
*Traduzione di Compiuta Donzella
In copertina: José Bergamín (1895-1983)
L'articolo Elogio dell’analfabetismo, o della poesia pura. Contro i legionari
dell’algoritmo proviene da Pangea.
Sembra che l’esistenza dello scrittore sia legata a un mercimonio col
demone. Che gli scrittori siano indemoniati, pare cosa evidente: invischiati col
male, cercano di adescare le trombe del mondo basso. Farlo in poesia è più
semplice: la brevità del verso rende fuggevole l’incontro. Esclusi Omero,
Virgilio, Dante e Baudelaire, l’inferno è una sala d’attesa per epigoni. Quanto
al romanzo, il vertice luciferino lo ha toccato Thomas Mann: misurarsi con la
perfezione significa saggiare tutte le spigolature del caso. Basta leggere
il Doctor Faustus per accorgersi di quanto uno scrittore, prima ancora di
forgiare, deve essere forgiato dalla materia del libro.
Divagazioni a parte, rendere letterario il male è sempre stato il cesello
preferito di molti artisti: si disinnesca un morbo che scalpita a suon di
metafore e aggettivi. Wallace Stevens, quel presocratico della poesia che
talvolta s’improvvisava Eraclito, scriveva che “la realtà è un cliché da cui
fuggiamo con la metafora”.
Per lo più, la letteratura è una forma di adattamento al male subito, in attesa
che il miracolo dell’opera si compia.
Per una sorta di scherzo del diavolo, Il vescovo e il ciarlatano di Manganelli,
impressionante per intelligenza, uscito per Sellerio poco più di un anno fa, è
passato inosservato.
Letteratura e psicoanalisi, nonostante nobili tentativi di risanamento,
continuano a pungolarsi in un senso e nell’altro, con esiti più terapeutici che
letterari. Eppure, non capita spesso di trovare uno scrittore, perlopiù
umbratile e refrattario alla luce, che si reca spontaneamente da uno
psicoanalista, come a seguire l’ultimo dettato del labirinto.
Ma con Manganelli andò esattamente così: consigliato da Cristina Campo, che era
rimasta colpita da Bernhard perché iniziava le sue sedute chiedendo “a che punto
è della sua tradizione?”, Manganelli decise infine di recarsi da un analista. Ma
siccome era Manganelli, si recò, se non dal migliore, almeno dal più primitivo
degli psicoanalisti: Ernst Bernhard.
Nell’intervista che apre il libro, un incendio di arguzia, Manganelli spiega
sinteticamente cosa significa avere a che fare con un uomo come Bernhard.
Incalzato dall’intervistatrice, argomenta che «la letteratura trattata come
centrale diventa molesta, perché tutto ciò che è centrale è intollerabile. La
letteratura è centrale solo quando si capisce che è periferica». Poi, senza
soluzione di continuità, passa in rassegna la figura di Bernhard, l’uomo che gli
ha insegnato a mentire. Dice che Bernhard amava le cartografie, che iniziava le
sedute con la lettura delle linee delle mani e con lo studio del quadro
astrologico del paziente. Tutto quello che il mondo offriva era una chiave di
lettura della realtà, priva di gerarchia: «una completa psicologizzazione del
materiale che maneggiava». Non ultimo: la lettura e consultazione continua
dell’I Ching. Non è un caso che fin dai primi incontri Manganelli si rende conto
di «avere a che fare con una impostazione topograficamente anomala dello spazio
psicologico. Improvvisamente ci si accorgeva che non si viveva in due dimensioni
ma si viveva in una quantità di dimensioni impressionanti».
La soluzione di questa terapia, come non tardò a scoprire, era innovativa, e
spalancava scenari mentali – e quindi letterari – fino ad allora impensati. Se
prima Manganelli credeva di dover affrontare un problema per risolverlo, con
Bernhard si accorse che la mossa più astuta era «portare la convivenza mentale
in luoghi imprevedibili e imprevisti». Iniziò così un colloquio in cui era in
gioco la salvezza di tutto ciò per cui esiste un individuo: il suo retaggio
simbolico, il precipitato delle sue credenze. Infine – ed è forse la cosa più
interessante, considerando la cifra stilistica di Manganelli – il suo
linguaggio. Con Bernhard l’esistenza diventava una carta geografica in cui
l’inesattezza era il criterio di interpretazione. La malattia fungeva solamente
come coordinata della nostra salute:
> «il pericolo non è di essere malati, perché credo che, in un certo senso,
> esistere sia essere malati, ma di avere una malattia non pertinente,
> incongrua. Il problema è di sostituirla con una malattia pertinente. La
> malattia giusta è ciò che noi possiamo chiamare qualche volta in un momento di
> distrazione anche “salute”».
Quando gli chiedono cosa sia rimasto di quell’incontro con Bernhard, Manganelli
non ha dubbi: il gusto della casualità. E poi: «la capacità di sostituire
sistematicamente la fede con la superstizione». Per lo scrittore la letteratura
è una sorta di superstizione, perché sa rinunciare alla verità quando serve,
«cosa che la fede non sa mai fare». Da questo punto di vista, la letteratura è
un patto con la menzogna. Come scrittore, Manganelli, che aveva già
pubblicato La letteratura come menzogna, sceglie di essere estraneo alla verità:
«la verità non ci riguarda, questa è una mia personale convinzione. La
superstizione, invece, è fatta a nostra misura».
Il vescovo e il ciarlatano è proprio questo: una mescolanza tra sacro e profano,
tra psicoanalista e scrittore, una spudorata inclinazione alla menzogna che
trasforma la verità in racconto, perché «il mentitore è il proprietario di tutte
le favole possibili» e la Storia non nacque «dall’ira di Dio, ma dalla menzogna
di Caino».
Da qui, da questo incontro pericoloso nasce quell’incrocio di possibilità che è
la letteratura. Nonostante il libro raccolga materiali eterogenei – articoli,
recensioni, interviste – il punto focale è “Jung e la letteratura”. Siamo nel
centro di convergenza di tutti i mascheramenti possibili: nel 1973 Manganelli,
invitato come professore universitario ad un convegno su psicologia e
letteratura, lancia un guanto di sfida ai relatori e persino a sé stesso,
sostenendo che la cultura distrugge la letteratura, e che la psicologia,
esplorata nelle sue ramificazioni, è l’ultima ancora di salvezza per chi vuole
ancora fondare la propria opera sul mercimonio col demone.
> «Se io trovo nella letteratura qualche cosa di vitale, di inquieto, di
> violento, appunto di eversivo perché ha a che fare con delle forze inconsce
> estremamente forti, la cultura cerca di spiegarmi che tutto questo non è
> assolutamente vero».
Questa requisitoria, lunga appena ventisei pagine, è il vero capolavoro del
Manganelli libellista: tutti i generi danzano una sarabanda infernale, tutte le
parole indossano una maschera. Potrebbe essere la trascrizione di una semplice
conferenza o l’appunto preliminare, ma anche una versione teatrale della
reazione degli ascoltatori o una confessione schizofrenica di quello che si
vorrebbe sempre dire in pubblico. Ma fondamentalmente è questo: l’atto d’accusa
della letteratura verso chi vorrebbe addomesticarla.
Andrea Muratore
L'articolo La malattia giusta. Ovvero: ecco perché leggere continuamente
Manganelli fa bene proviene da Pangea.
Vergogna, modestia, umiliazione o persino narcisismo; dissolversi per durare è
un gesto antico e modernissimo che cela un desiderio paradossale. D’altronde, se
anche l’autore del creato è l’innominato per eccellenza, allora tacere il
proprio nome è, in fondo, un atto teologico; una restituzione al divino
dell’atto di creare.
> “Là dove il nome tace, parla lo spirito.”
>
> Meister Eckhart
Tutto comincia quando l’autore si ritira. È allora che la voce dell’opera
diventa più nitida, che tutto si distrugge e resta soltanto la parola, sospesa,
come un respiro senza volto. Lungi dall’essere una semplice mancanza di firma,
l’anonimato letterario è stato un dispositivo di libertà, censura e
sopravvivenza, e, nonostante possa apparire come un mero residuo arcaico, forse
è l’ultimo atto di libertà possibile.
Nel Settecento europeo, di fatto epoca di censura e illuminazione, si fece
dell’anonimato una pratica necessaria e quasi stilistica. In Italia, il nome
poteva divenire condanna. La firma, un azzardo politico. Nel mondo editoriale
del tempo, la scelta di non apparire non era sempre dettata da modestia, ma da
una prudenza colta, da un senso di difesa intellettuale.
Michel Foucault ha scritto – in Che cos’è un autore?,1969 – che
> “L’autore non è più che una funzione del discorso.”
Eppure, proprio quando il nome scompare, la voce si amplifica. Molti dei
repertori bibliografici nati tra Sette e Ottocento sono, infatti, tentativi
di restaurare il nome perduto, di restituire una biografia all’ombra. Lì dove il
frontespizio tace, i filologi cercano indizi, sigle, dediche, scaglie di
calligrafia; una sorta di archeologia del soggetto.
Inizialmente, le opere anonime appartenevano a generi precisi. Le grammatiche,
gli abbecedari, i manuali di divulgazione scientifici; testi utili, collettivi,
spesso di larga circolazione. Ancora più importanti però sono i viaggi, i
romanzi, i testi satirici e teatrali; generi più insidiosi, dove l’io autoriale
poteva essere compromettente.
> “L’uomo raggiunge la sua vera grandezza quando scompare dietro ciò che crea.”
>
> Antoine de Saint-Exupéry, Terra degli uomini
Soprattutto nella frammentata Italia pre-unità, tra censura, inquisizione e
gelosie accademiche, il nome poteva essere una ghigliottina. Il monaco Norberto
Caimo, ad esempio, nel 1761 pubblica le Lettere d’un vago italiano ad un suo
amiconascondendo il proprio nome e perfino il luogo di stampa, indicando
l’inesistente città di Pittburgo. Qui si descrivevano i viaggi dell’autore in
Spagna, Portogallo, Inghilterra, Belgio e Francia tra il 1755 e il 1756 in
un anonimato etico, figlio della vocazione religiosa ma anche di una sensibilità
politica; il religioso che scrive, osserva, giudica, ma che non può esporsi.
Una sorte ben diversa tocca a Saverio Bettinelli: gesuita e critico fu
richiamato all’ordine dopo aver firmato le Lettere virgiliane. Quando pubblica
le Lettere inglesi, è costretto a scegliere il buio; una rinuncia al nome per
salvare la voce.
Vi sono poi i casi in cui l’anonimato diventa maschera politica, come
per Ludovico Bianconi, medico bolognese che nel 1764 pubblica a Lucca, in un
contesto di scontro feroce tra censura ecclesiastica e libertà ducale,
le Lettere al marchese Filippo Hercolani. Qui, osservando la vita tedesca, egli
annota con finezza i contrasti tra protestanti e cattolici, e l’omissione
tipografica diventa, così, una scappatoia etica e politica; pubblicare altrove,
fingere.
> “Il nome è la più antica catena dell’uomo.”
>
> Elias Canetti, Massa e potere
Ci fu anche, però, chi il proprio nome lo volle difendere. Carlo Goldoni, nella
Venezia delle tipografie e dei plagi, capì che la vera censura non era quella
del doge, ma quella degli stampatori e direttori di teatro (in questo caso
Giuseppe Bettinelli e Girolamo Medebach). Le sue commedie – “sfigurate,
scorrette, ad onta mia” – gli sfuggivano di mano. Così la firma divenne per lui
un’arma, un atto di proprietà, quasi un testamento.
Ogni prefazione, ogni ritratto inciso in frontespizio erano un modo per dire “io
sono questo volto, questa voce”. Nel suo teatro la lotta per la verità non è
solo drammatica, è editoriale.
Scrivere significava difendersi dal furto, dal silenzio, dall’oblio. Il suo
teatro è un tribunale dove l’autore, l’editore e lo spettatore si contendono il
diritto alla verità.
> “Chi avrà coraggio di por mano nelle opere mie?”
>
> Carlo Goldoni
Goldoni è il primo autore italiano moderno, perché intuisce che il nome, in
fondo, è già una maschera. E che ogni maschera, prima o poi, diventa
necessaria. Il nome proprio, diceva, non designa un uomo, ma una certa modalità
dell’esistenza dei discorsi. Eppure, siamo certi che comunicare non significa
per forza trasmettere; un nome vende, un concetto insegna.
Naturalmente, però, la società evolve, il tempo scorre, e nel XX secolo,
l’anonimato non è più soltanto difesa o prudenza, bensì esperimento, gioco,
filosofia. Samuel Beckett, durante una conferenza nel 1969:
> “Cosa importa chi parla?”
La voce, non il volto, è ciò che conta. L’opera deve bastare a se stessa. Lo
stesso Foucault, citandolo, immaginava una cultura “in cui i discorsi
circolerebbero nell’anonimato del mormorio”, come se la letteratura potesse
finalmente liberarsi dal peso dell’identità.
A questa dissoluzione partecipano anche gli autori che scelgono di
moltiplicarsi: Italo Calvino, ad esempio, gioca con la maschera dell’autore, con
l’idea di un io che si disgrega e si ricompone nella pagina, fino a farsi pura
voce narrativa. Ancora più radicale è stato il portoghese Fernando Pessoa, che
ha fatto della scissione il proprio metodo creativo:Ricardo Reis, Álvaro de
Campos, Bernardo Soares, Alberto Caeiro – quattro volti, tra le miriadi, per un
solo silenzio.
L’anonimato moderno, dunque, non nega il sé, lo moltiplica. È un paradosso
produttivo, una dissimulazione che genera nuove voci, nuovi corpi testuali.
Barthes, nella sua celebre formula, ne sancisce la fine apparente – la morte
dell’autore – ma in realtà ne proclama la trasfigurazione. L’autore che si
dissolve nel testo, nel lettore, nel linguaggio stesso.
E cosa resta oggi di quel gesto antico, nell’epoca dei profili e degli
algoritmi?
Nel mondo digitale, l’anonimato non è più un atto di modestia né di difesa,
bensì un campo di tensione. Da un lato, è la maschera libertaria dell’individuo
che sfugge al controllo, dall’altro, è lo strumento della dissimulazione, del
falso, del moltiplicarsi dei sé. L’anonimato come simulacro.
Ogni commento senza firma, ogni voce che si dissolve nella rete, ripete in forma
tecnologica l’antico gesto del monaco o del filosofo. Ma oggi la sottrazione non
coincide più con la purezza. Si tratta di un rumore di fondo, un eccesso di
presenza spacciato per assenza.
Eppure, anche qui, in questo nuovo paesaggio, sopravvive il nucleo originario
del gesto anonimo, la sua nostalgia di non appartenere a nessuno.
> “I miei libri, la mia opera […] Il lato grottesco di questi possessivi. Tutto
> si è guastato da quando la letteratura ha smesso di essere anonima. La
> decadenza risale al primo autore.”
>
> Emil Cioran, Confessioni e anatemi, 1987
Forse solo chi tace il proprio nome può ancora pronunciare parole vere. Forse
ogni opera, anche la più firmata, tende segretamente all’anonimato, a quel punto
in cui il linguaggio non ha più bisogno di padrone. Scrivere senza nome
significa non dover più difendere nulla, né un’identità, né una carriera, né una
vanità. È l’esperimento più radicale di sincerità; in fondo, non si puo’ morire
se non si ha un corpo da seppellire.
Tommaso Filippucci
*In copertina: gli “sfregi” di Nicola Samorì
L'articolo Sfigurare il nome. Solo chi è nessuno può dire la verità: discorso
sull’immortalità dell’anonimato proviene da Pangea.
Ricorsivamente ci poniamo le solite domande. Come si diventa scrittori? C’è una
formula segreta? C’è una chiave che bisogna portarsi appresso? Si deve conoscere
qualcuno che conta?
Ecco le domande che spesso sento fare a qualche aitante e giovane erudito.
Mentre da parte mia, a questo punto della storia, la domanda è piuttosto
un’altra: perché sto passando la mia vita a scrivere? Ma questa è un’altra
storia.
*
Editoria in crisi, proposte in rialzo
Le vendite dei libri sono in calo; il numero degli scrittori aumenta. È
difficile spiegare come possa reggersi in piedi un sistema del genere. Il
settore editoriale è forse l’unico in cui mentre la barca affonda tutti vogliono
salirci sopra.
La categoria che prendo in esame è nell’accezione più larga possibile. Quindi
per scrittori intendo scriventi, poeti, poetastri, narratori, prosivendoli,
saggisti, ghost writer, ecc. Questo perché tanto, nella migliore delle ipotesi,
il 99% di noi scomparirà dall’orizzonte letterario nazionale nel giro di qualche
decennio dalla propria dipartita da questa terra. Alcuni resteranno per aver
invaso le pagine dei giornali dei loro tempi, altri perché saranno precipitati
nei manuali scolastici e altri perché qualche erede compiacente (che avrà gusto
o necessità di ricevere ancora i diritti sulle opere) si darà un sacco da fare
per mantenere viva l’attenzione sullo scalpo del proprio familiare – ed è una
delle cose migliori che possano capitare a un autore. Ma forse questo è una
maniera arcaica di vedere la cosa.
*
Social e AI
Potrebbe essere che qualcuno resterà sui social, con la sua pagina che sarà
riempita di contenuti pure dopo la sua morte, dalla moglie che conosceva la
password, da un amico, da una figlia, da un parente, da un’associazione di fans
sfegatati. Resteranno solo tre frasi espunte da un romanzo e per quelle tre
frasi resterà il nome dello sventurato. Una vita passata a scrivere centinaia di
pagine, quando bastava aver scritto tre trite frasi a effetto et voilà, era
bell’e fatto!
Oppure, qualcuno scopre online dei testi di un bravo scrittore, non assurto alla
fama modesta del mondo letterario, indica una traccia romanzesca e inserisce in
un programma di AI generativa grandi brani di quello scrittore, creando una
nuova opera.
Insomma, chissà come andrà a finire? E solitamente è proprio questo che
interessa tutti: come andrà a finire. Ma per sapere come andrà a finire, c’è da
vedere prima come si può cominciare, cioè qualche maniera di diventare
scrittori. Ecco allora sette modi per pubblicare, in cui qualcuno di voi
potrebbe riconoscersi. Con sorpresa finale (non andate a leggere subito la
fine).
*
Censo Sei ricco, hai beni e risorse da spendere: puoi ottenere, più o meno, ciò
che desideri. Quindi anche una pubblicazione presso un editore, più o meno noto.
Se poi il tuo testo non ha qualcosa di buono da utilizzare per un libro, pace.
Resta il fatto che se le doti letterarie non bastano, con i soldi potrai pagare
un ghost writer e il gioco è fatto.
Amicizia Se conosci l’editor di un grande editore e ce l’hai in pugno sei a buon
punto. Sei proprio amico, puoi chiedergli di pubblicare il tuo libro. Questa
modalità resta la più sanguigna e improbabile perché – sia detto senza remore –
gli editor non hanno amici, non tengono famiglia e sono tutelati nella privacy
più delle spie di Sua Maestà britannica… Meglio conoscere il proprietario della
casa editrice. A lui oggi raramente dicono di no (ti accontenterai di un “fuori
collana”).
Sesso Sei giovane. Uomo o donna non fa differenza. Sei giovane e vuoi diventare
scritt*. Qua conta un po’ la bellezza, ma soprattutto le armi classiche della
seduzione, che sono sempre un incrocio tra santità e puttanaio. Aprire le porte
dell’editoria col sesso è un modo banale di entrarci.
Tenacia Puoi occupare l’atrio della casa editrice. Piazzarti per giorni,
settimane, mesi accampato là dentro, con sottobraccio i fogli del tuo romanzo
che tu ritieni indispensabile all’umanità. Soprattutto deve essere questo il tuo
convincimento, non di meno: un libro indispensabile. Forse, stremato dalla tua
costanza, ci sarà qualche impiegato che trova la maniera di portarti di fronte
al giudice supremo della casa editrice.
Fortuna Ci sono vari livelli di fortuna. C’è chi vince un concorso solo perché,
un po’ come l’allineamento positivo dei pianeti in astrologia, la giuria ha
letto quel testo in un momento favorevole per ciascun giurato. Della serie:
questo testo non è un capolavoro, ma è quello che mi ha meno disturbato, o più
divertito, o meno addormentato, o più interrogato, o… ad libitum. C’è chi ha
inviato un dattiloscritto per posta e ora quel testo staziona da mesi in una
busta sotto una pila di altre buste, accanto a pile di altre buste, sulle
scrivanie addossate al muro di un ufficio editoriale. L’editore incontra il suo
consigliere alla pubblicazione, alza una pila, toglie delle buste e ne prende
una a caso, la tua. Ecco, al lettore il testo piace. Si va in stampa.
Bravura Sei bravo. Lo sai. Te lo hanno detto scrittori affermati e agenti
letterari svogliati. Prendi il libro e lo porti alla casa editrice della tua
città che lo pubblica. L’editore è piccolo, il mondo editoriale non si accorge
di nulla. Sei bravo. Te l’hanno detto. Pubblichi, non si sa come, con un editore
importante, il libro non è spinto sulla stampa, il mondo editoriale non si
accorge di nulla. Sei bravo. Pubblichi con un editore conosciuto che segue il
libro e lo pubblicizza. Vendi poco più di mille copie, il mondo editoriale non
si accorge di nulla.
Circostanze Un agente letterario accetta di curare i tuoi interessi editoriali.
Proponi due libri. Il primo non se lo fila nessuno e tu ritenevi fosse il
migliore. Quello che invece avevi scritto controvoglia viene pubblicato perché –
dice l’agente – era proprio l’argomento che l’editore stava cercando…
*
Post Scriptum
Questi modi di pubblicare corrispondono a storie vere di alcuni scrittori in
carne e ossa, di cui qui non menzionerò nemmeno il soprannome.
Alessandro Agostinelli
*In copertina: Ernest Hemingway, uno scrittore
L'articolo La vita agrissima. Sette modi per diventare scrittori proviene da
Pangea.
C’è un momento, nel poema Il preludio di William Wordsworth, in cui l’esperienza
più semplice – una passeggiata intorno a un laghetto – diventa rivelazione
assoluta: «Se mai felicità ha visitato l’uomo,/ quel giorno una perfetta
felicità fu mia,/ distesa, continua, calma, contemplativa». È la registrazione
poetica di una calma che nasce dal contatto con il presente, dalla pura adesione
al fluire dell’esistenza. Questi versi sono citati in Elogio della vita
ordinaria. Contro un’idea di falsa grandezza (il Saggiatore, 2025), il nuovo
libro di Filippo La Porta, che ricorre a Wordsworth (il Wordsworth letto dal
grande critico americano Lionel Trilling) per intessere un elaborato, fascinoso
percorso culturale e letterario sulla felicità da rintracciare nelle forme
minime, nella passività elementare, contro la smania competitiva e l’ossessione
dell’eccezionale che contagia i nostri tempi.
Se a proposito di Wordsworth, infatti, Trilling stila un elenco di personaggi
letterari «di umile status e di umile cuore» imparentati con il grande poeta
inglese, collocandoli in una costellazione che va dai camerieri di Hemingway ai
neri di Faulkner, La Porta si collega a sua volta idealmente a questa
genealogia, proponendo un suo atlante dell’ordinario che è anche una
contro-narrazione alla mitologia della grandezza. La parola-chiave di questo
percorso è «quiete», intesa non come inerzia, bensì come forma della misura,
ostinazione a sottrarsi alla logica binaria della grandezza e del fallimento,
del successo e della rovina.Quiete, dunque, come categoria etica ed estetica
dell’amabilità, della mediocritas, parola che originariamente, in latino, non
aveva nulla di dispregiativo. Anzi. Orazio la definiva aurea, alludendo a un
ideale di equilibrio e saggezza; Aristotele, in greco, parlava di mesótes, il
giusto mezzo, ovvero il principio che permette di esaltare ciò che di più umano
esiste nell’uomo, la sua capacità di controllo delle passioni, la sua facoltà di
evitare gli estremi. Ma con l’età moderna qualcosa si incrina: da un lato il
Romanticismo con l’invenzione del genio e del sublime, la figura titanica che si
oppone al mondo, il culto del dolore trasformato in gloria; dall’altro il
capitalismo industriale, che innalza il mito dell’efficienza, della
produttività, del successo come imperativo categorico.
L’aurea mediocritas diventa, allora, la prerogativa per nulla attraente e
invidiabile di chi si accontenta miseramente. Eppure la misura consisteva,
originariamente, nel resistere all’eccesso, nel difendere l’umano
dalla hybris. Oggi, invece, la parola «mediocre» è stata sostituita da un
termine ancora più feroce e odioso: «sfigato». È l’epiteto che equivale alla
condanna sociale per chi non si adegua, non contribuisce al ritmo produttivo e
spettacolare che la società dei consumi pretende. Lo «sfigato» è colui che non
corre e non concorre. Ma proprio per questo è – anche – il granello di sabbia
che inceppa l’ingranaggio. La Porta ribalta pertanto, con la sua attenzione
all’umiltà e al quotidiano, una weltanschauung radicata nella nostra «civiltà»,
svelandone la fallacia, l’illusoria connessione tra tragicità e valore, che è
sempre a rischio di sfociare nel kitsch del sublime. Un ribaltamento che nasce
anche dalla sua esperienza biografica. Nei suoi ricordi del Sessantotto e degli
anni Settanta, la politica appare come un universo totalizzante: la scuola
trasformata in campo di battaglia, le assemblee interminabili, la convinzione
giovanile che chi rifiutava l’impegno politico fosse «inutile». In quella
stagione «calda», tutto sembrava dover passare dalla militanza, ogni gesto
misurato sulla scala della Storia. Ma è proprio dalla memoria di
quell’assolutismo morale che matura, col tempo, una presa di distanza. L’autore
riconosce in quell’atteggiamento il germe di una prepotenza etica, di una
visione che, basata sull’idea astratta di Rivoluzione, rischia di rendere
invisibili le persone concrete. Un caso emblematico – citato nel libro – è
Rossana Rossanda, figura alta e rispettabile, eppure esemplare di una politica
che sapeva guardare alla Storia rischiando di ignorare i singoli individui.
Il percorso biografico, dunque, funziona qui come un rovesciamento di sguardo,
che permette all’autore di passare dall’ossessione per l’azione all’elogio della
discrezione, dall’eroico al quotidiano. È in questo passaggio che La Porta
riconosce il valore sapienziale della mediocritas come modo di abitare il mondo
senza schiacciarlo sotto il peso di un’idea. E lo fa attraverso la letteratura,
costruendo un canone personale di personaggi della «vita ordinaria», a partire
da Lady Bertram sdraiata sul sofà in Mansfield Park di Jane Austen – vera icona
anti-eroica – e nello stesso romanzo, dalla protagonista Fanny Price con la sua
ostinata riservatezza, per proseguire con Oblomov nella sua vestaglia lisa,
quasi una sindone dell’inazione, nel capolavoro di Gončarov, i «ragazzini sempre
sconfitti» di Elsa Morante, i «non illustri» di Pontiggia, il dantesco Belacqua
che affascinò Beckett, e molti altri (perfino organismi come i licheni nelle
poesie di Camillo Sbarbaro, simbolo delle forme neglette della vita). Tutti
marginali, tutti apparentemente votati a un orizzonte ridotto, «del soprasuolo»
verrebbe da dire, contrapposti ai «profondi» Amleto e Raskolnikov. Eppure,
questi personaggi sono latori di una conoscenza, di un’acquisizione altrettanto
epifanica, se solo riuscissimo a concepire come valori cruciali – come viatico
di sopravvivenza – la loro disponibilità, la capacità di adattamento, di
comprensione, di relativismo.
Si tratta di una sapienza umile basata sull’attitudine ad apprendere la non
giudicabilità della vita – la sua irriducibilità a qualsiasi formula definitoria
– e a cercare gli interstizi per abitarla. Una sapienza che si traduce nella
pratica della mediazione, come ricorda Camus ne L’uomo in rivolta, opponendo la
«misura» alla «dismisura» che conduce al nichilismo. L’intreccio di riferimenti
che il libro propone è ricco e mai ornamentale: si va dalla citata Austen a
Manzoni, da Kafka a Orwell, da Chesterton a Hannah Arendt. Non manca la memoria
ebraica: la schiera invisibile dei «giusti nascosti» del Talmud, coloro che con
la sola esistenza impediscono la catastrofe. È un’idea che dialoga con l’elogio
della vita ordinaria: figure senza clamore, ma necessarie al mondo.
La Porta dunque smaschera il mito performativo che alimenta il presente, diffida
della retorica del «merito», denuncia l’ossessione per il successo da
talent-show. E al tempo stesso rivendica la giustizia minima di chi vive senza
clamore, la dignità di chi non si separa dalla comunità, la possibilità di amare
le creature – per riprendere il rabbino Hillel – proprio nella loro fragilità e
limitatezza.
La conclusione del libro è affidata a un ricordo personale: il suocero discreto,
amante dell’opera lirica e dei viaggi, che seppe seguire il suo ritmo senza
farsi sedurre dalle fanfare della Storia. È il volto concreto di quell’elogio:
la vita che non aspira all’eccezionalità, ma che custodisce nel suo stesso passo
la verità di un’esistenza riuscita. In fondo, nonostante il suo tono allocutorio
e affabile, la domanda che ci consegna questo libro è molto più radicale della
tesi che vuole sostenere: siamo ancora capaci di vedere, di riconoscere, di
amare l’invisibile che ci vive accanto?
Fabrizio Coscia
*In copertina: una scultura di Franz Xaver Messerschmidt
L'articolo Sia lode al mediocre, l’uomo che non si adegua alla società dei
consumi proviene da Pangea.
Un tempo, Daphne du Maurier (1907-1989), la scrittrice inglese, era pubblicata
nella mitica ‘Medusa’ Mondadori. Era una colonna di quella collana. Il suo
romanzo più noto, Rebecca (1938) fu tradotto nel 1940 da Alessandro Scalero
come La prima moglie; ce ne ricordiamo per la versione di Hitchcock, che vinse
l’Oscar e che opera, nella versione italiana, una sintesi tra l’originale e il
tradotto: suona come Rebecca, la prima moglie. Daphne du Maurier indossava un
viso inquieto, da transfuga tra le ombre: amava i cani, morì in Cornovaglia,
reclina in una ricercata solitudine. Spesso ritenuta una scrittrice di seconda
fila, da un po’ di tempo la si è rivalutata a dovere: il Saggiatore ha in
catalogo le sue opere più importanti; questa estate sono usciti Rendez-vous e Il
capro espiatorio; l’anno scorso sono stati editi i racconti con il titolo
complessivo, Gli uccelli, che rimanda a uno dei film più noti di Hitchcock – che
però ha poco a che fare con l’originale. Nel regno anglofono, la casa editrice
Virago ha appena pubblicato come After Midnight “Thirteen Chilling Tales for the
Dark Hours by Daphne du Maurier”. L’introduzione – che qui riportiamo in parte –
è di uno dei più audaci ammiratori dell’opera di Daphne: Stephen King. Buona
lettura.
***
“La scorsa notta ho sognato di essere di nuovo a Manderley”. Questo, tratto
da Rebecca, è uno degli incipit più noti nella storia del romanzo. Di certo, è
il più memorabile: l’ho usato come esergo a uno dei miei libri, Mucchio d’ossa.
Daphne du Maurier ha scritto anche uno dei più riusciti incipit tra i racconti
del perturbante e dell’eccentrico. Gli uccelli si apre così: “Il tre dicembre,
di notte, il vento voltò – e fu inverno”. Breve, freddo, preciso. Potrebbe
sembrare un bollettino meteorologico.
Funziona bene fin dal principio, quel racconto in cui ogni specie di volatile
attacca senza motivo l’uomo: è diretto, realistico, privo di fronzoli. Du
Maurier può evocare l’orrore quando vuole – si leggano The Doll e The Blue
Lenses, come le ultime due pagine di Don’t Look Now – perché sa che a volte, per
infondere credibilità (e suspense) a quanto si racconta ci vuole un tono più
vicino al reportage che alla narrazione pura. La versione cinematografica de Gli
uccelli, appesantita da una storia d’amore tra belle persone hollywoodiane (Rod
Taylor nel ruolo di Mitch e Tippi Hedren in quello di Melanie), non somiglia
quasi per nulla al racconto di Du Maurier. È ambientata nella soleggiata Bodega
Bay invece che nella fredda Cornovaglia, con un numero di personaggi decisamente
in eccesso. L’unica vera somiglianza tra il racconto e il film è nel finale. Nel
film, Mitch e Melanie scappano mentre migliaia di uccelli, appollaiati ovunque,
riposano tra un attacco e l’altro. Cosa accadrà in seguito sarà lo spettatore a
indovinarlo.
La conclusione del racconto è ancora più agghiacciante. Dopo aver fumato
l’ultima sigaretta, Nat aziona la radio, che non funziona. “Gettò il pacchetto
nel fuoco, lo fissò mentre bruciava”. L’ultima frase è perentoriamente
terribile, cupa eppure concreta, come quella che apre la storia. Cosa succederà
a Nat, alla moglie, ai figli? Non lo sappiamo. A Daphne du Maurier non importa –
e ha ragione a non occuparsene. Resta sulla soglia. Ci offre soltanto
quell’ultima sigaretta, che ha il sentore di un plotone d’esecuzione, e un
pacchetto che brucia. Ci dice: decidete voi. Questa è la quintessenza del suo
genio inquietante.
Non sopporto il termine “spoilerare”, diventato di moda insieme ad altri
spiacevoli effetti collaterali di Internet in generale e dei social in
particolare. Trovo che “hai spoilerato!” sia il tipico modo di esprimersi delle
persone viziate. È difficile ‘spoilerare’ una bella storia, perché la gioia
della lettura è nel viaggio non certo nella conclusione. I racconti di Du
Maurier sono un’eccezione alla regola. Parlarne a lungo ne distruggerebbe
l’effetto. Siete nelle mani di un maestro della narrazione. Per giunta,
diabolico.
Lo ammetto: adoro i racconti di Du Maurier. Amo la loro chiarezza, la visione
sontuosamente sinistra che hanno della natura umana, il prodigioso talento
nell’arte narrativa. C’è una ragione per cui le raccolte di racconti, di norma,
sono meno popolari dei romanzi. Con un romanzo, ci si acclimata alla vita di un
gruppo di personaggi, con cui si abita per un paio di giorni (se si legge
voracemente, come mia moglie) o per una settimana e più (se si legge lentamente,
come me). Nei racconti, il lettore deve creare un mondo immaginario che si
smonta in poco tempo. Può essere difficile da accettare. Non è così per questi
racconti.
Entrare nei mondi ideati da Du Maurier è un piacere più che uno sforzo. Anche
quando le cose sembrano relativamente innocue, si percepisce un letale
addensarsi di ombre. È un dono concesso a pochi scrittori.
Non voglio dire altro. Prendete in mano Daphne du Maurier, lasciatevi guidare
nell’oscurità. Il suo talento è una torcia. Invidio le sue scoperte. Invidio il
vostro prossimo disagio.
Stephen King
L'articolo Sul suo genio inquietante. Stephen King parla di Daphne du Maurier
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