È un sublime omaggio all’immaginario anglosassone quello che Ignacio Peyró –
direttore dell’Istituto Cervantes, saggista e giornalista per “El Pais” – regala
al lettore con il suo ultimo Anglofilia. Piccolo glossario sentimentale della
cultura inglese (Graphe.it edizioni). Un libro-miniera (versione breve di quella
spagnola che supera le mille pagine) che attraverso uno stile intrigante e
raffinato compone un elegante ed eccentrico mosaico della englishness mischiando
umorismo ed erudizione, profondità ed acume per raccontare il grande mito di
un’Inghilterra eterna capace di essere icona di stile, riferimento letterario e
santuario estetico. Definendo un personalissimo e luccicante alfabeto della Gran
Bretagna: dalla A di Alcol alla B di Big Ben, passando per la R di Rolls Royce,
fino alla P di Pub. Ne emerge un gioiello letterario che regala a chi legge il
fascino di quella Gran Bretagna dello spirito, paradiso perduto di tutti gli
anglofili. Un immaginario sentimentale ed estetico (prima che politico e morale)
che nelle pagine di Peyró viene immortalato senza nostalgia o pedanteria, ma con
grande cultura, eleganza e fantasia.
Che cos’è per lei l’anglofilia? E come la ha vissuta?
È più un’esperienza accumulata da generazioni che un’esperienza personale.
Probabilmente è qualcosa che ormai si è andata perdendo con il tempo. In tutta
Europa c’è stato un innamoramento per la politica, le istituzioni e le abitudini
britanniche dal Settecento al Novecento. Da loro abbiamo copiato in gran parte
la stampa, il parlamentarismo… e perfino lo snobismo e l’imperialismo. Ma c’è
stata anche una grande seduzione britannica attraverso i costumi: la moda, i
giochi – pensiamo al calcio. Così, l’Inghilterra è riuscita a far sì che
“inglese” per molto tempo fosse una sorta di titolo di prestigio oltre che
un’origine. Il paradosso è che molte cose che sembrano al cento per cento
britanniche hanno in realtà origini continentali. La mia generazione – sono del
1980 – è tra le ultime ad aver vissuto quella che è stata un’abitudine molto
europea e poco contestata all’anglofilia.
Come nasce questo libro(sia nella versione spagnola che in quella italiana)?
Ero un giovane giornalista spagnolo che voleva scrivere. Ho sempre voluto
scrivere, è la mia vocazione. Ho scritto libri per altri, non ce n’era ancora
nessuno in libreria che portasse il mio nome. Così sono andato da un editore con
varie proposte: scelse questa. Mi ci concentrai per diversi anni e gli consegnai
un libro di 1100 pagine: dovevo fare qualcosa per attirare l’attenzione. La
selezione italiana è di poco più di 400. La genesi, diciamo, spirituale è più
semplice: sui giornali finivo sempre per scrivere di cose britanniche, il tema
giunse da sé.
Quali lemmi della versione originale avrebbe voluto aggiungere?
Non aggiungerei nulla. Così come è fatta, la selezione è ottima.
Che ruolo hanno avuto nobiltà e aristocrazia, a cui dedica uno splendido
paragrafo nella sua opera, nella formazione dell’anglofilia e di una certa idea
delle englishness?
L’importante, più che la nobiltà e l’aristocrazia, è la capacità dei britannici,
nel corso della storia, di generare élite sociali positive. Lo fanno a partire
dall’ideale del gentleman – che ha molto a che vedere con il gentiluomo del
Rinascimento italiano – e dalla scuola. Così, si può essere un gentleman, con un
ideale aristocratico, indipendentemente dalle proprie origini.
Leggendo le voci “Alcol”, “Cabine telefoniche” e “Big Ben”, tra le altre, in
pochi dettagli emerge la capacità di dare vita ad un immaginario anglosassone
affascinante che oltre a raccontare sa anche “intrattenere”. A quali dei lemmi
della sua opera è più legato e quali la hanno più divertita nella loro
scrittura? E perché?
Una delle peculiarità del mondo britannico è che può essere, oltre che molto
iconico, particolarmente narrativo; all’interno di questa narrazione c’è sempre
un forte umorismo, ricco di aneddoti e ironia. Questo è un libro di libri, di
erudizione festosa, e mi sono divertito moltissimo a scriverlo quasi quindici
anni fa. In effetti, vorrei ampliarlo nell’edizione spagnola da 1100 pagine…
Secondo lei come è cambiato il mito anglofilo con la Brexit? O è iniziato a
decadere ben prima?
C’è sempre stato un rapporto conflittuale tra Regno Unito e continente. Questo
non vuol dire che non sia stato ricco: pensiamo al Grand Tour, ad Agincourt, a
Verdun… La Brexit è un passo in più in questa storia di incontri e scontri.
L’anglofilia ha una sua età dell’oro, che va dalla fine del XVIII secolo fino
alla metà del XX, con Churchill e la Seconda guerra. Poi ci sarà un’altra
anglofilia, pop. Esiste ancora un’anglofilia, per così dire, d’immagine:
automobili, arredamento, abbigliamento. L’anglofilia come libertà, istituzioni e
letteratura è meno presente, in parte per il successo che hanno avuto alcune sue
esportazioni come la monarchia parlamentare, la tolleranza, la stampa o i
romanzi leggibili.
Ignacio Peyró è l’attuale direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, dopo aver
diretto quello di Londra
Come valuta la narrazione del finis britanniae che è propria di questi anni?
È una narrazione che non esiste solo all’esterno, ma soprattutto all’interno del
Regno Unito, e che proviene dal dopo-sbornia post-imperiale. In effetti, gran
parte di questa cattiva assimilazione è alla base della Brexit. Lo disse un
Segretario di Stato degli Stati Uniti: si tratta di trovare un nuovo ruolo nel
mondo.
La visita di Re Carlo in Italia ha suscitato molto clamore. Sta ritornando una
marcata anglofilia in Italia e in Europa?
L’Italia è stata un paese molto anglofilo, così come la Gran Bretagna ha preso
molto dall’Italia con il Grand Tour: idee di arredamento e arte (classicismo e
neoclassicismo), modi e urbanità, il gusto per il passato… Ma la Brexit è stata
una cattiva scelta che ha allontanato le simpatie anglofile dal mondo.
Come si sono declinate in letteratura e in estetica questa anglofilia e
anglofobia?
L’anglofobia ha a che fare (cibo e clima a parte) con la critica a ciò che viene
percepito come materialismo inglese. È una critica in realtà più filosofica.
L’antiliberale tende a essere antibritannico. L’anglofilia, invece, può essere
molto alta o molto bassa: ha a che vedere con le istituzioni, la politica, la
libertà e la tolleranza… e anche con abitudini come la caccia o le giacche.
Dal “Telegraph” a personalità come Macmillan e Disraeli poche cose hanno
rappresentato la britishness come i Tory e il mondo conservatore. Come vede oggi
lo stato del mito di questa antichissima classe dirigente che ha incarnato
l’anima più autentica del potere britannico?
Il partito Tory era la cosa più solida della Gran Bretagna. Ed era, in effetti,
il grande partito politico del mondo britannico, almeno il modello per gli
altri, soprattutto nell’ambito della destra. Era “il partito della nazione”,
benché sappiamo che in una democrazia una cosa del genere non è possibile né
auspicabile. Ma era un partito capace di integrare numerose sensibilità. Ora ha
avuto un’eresia postmoderna con Nigel Farage.
Da spagnolo di cultura europea come ha vissuto il confronto con il mondo e la
cultura britannica come direttore del Cervantes di Londra?
La storiografia classica britannica, quella whig, contempla la creazione
dell’Inghilterra moderna in lotta contro la Spagna e il Papato. Così, siamo
stati nemici metafisici, nonostante Castiglia e Inghilterra avessero molto in
comune e, come sottolinea Sir John Elliott, l’impero britannico si sia ispirato
a quello spagnolo. Dal XIX secolo esiste una certa visione un po’ folkloristica
della Spagna, coerente con uno sguardo anglosassone che guardava con
condiscendenza il resto del mondo. Questo è cambiato progressivamente nelle
ultime generazioni.
Quali sono gli scrittori e registi contemporanei in cui ritrova ancora oggi il
mito (o l’ethos se vogliamo) britannico?
Oh, beh, ce ne sono molti. Cito gli appena scomparsi Roger Scruton, Auberon
Waugh… ma anche John Le Carré. È una cultura di grande prosa e narrazione.
Oggi è direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, è in lavorazione un dizionario
sentimentale se non italiano almeno romano?
Josep Pla, grande scrittore catalano, osò affrontare tutta l’Italia – è
sorprendente che le sue Lettere dall’Italia non siano tradotte – tranne Roma. Mi
sembra una scelta saggia. Invece di scrivere un libro molto grande e pieno di
altri libri come quello che ho fatto sulla Gran Bretagna, vorrei farne uno molto
breve, un arabesco, con una bibliografia minima – cosa quasi impossibile – su
questo paese meraviglioso.
Francesco Subiaco
L'articolo Anglofilia. Perché amiamo gli inglesi (tanto quanto li odiamo).
Dialogo con Ignacio Peyró proviene da Pangea.
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Di Mota, avevo sentito parlare. Del suo ventennio trascorso in solitudine sulle
montagne piemontesi, del suo alter ego che ha calcato le scene del rap,
dell’argomento spinoso su cui si impernia il suo testo. Ho provato a immaginare
quale difficoltà debba fronteggiare un autore nello sporgersi, e nell’esporsi
personalmente, sul ciglio di un abisso che in potenza è senza fondo, armato
soltanto delle proprie parole e del proprio coraggio. Quando la narrativa di
finzione arriva così vicina al punto di fusione con l’autobiografia, non c’è
niente da fare: la sfida la vinci o la perdi.
Conosco Mota nel caos di piazza Garibaldi, a Napoli, insieme al suo editor
Emiliano Peguiron, in una tarda mattinata di maggio, col sole che scalda e non
scalda. Pantaloni cargo, maglietta basica, berretto militare con visiera. Al
volo, ci imbarchiamo su un autobus sgangherato in direzione Pomigliano D’Arco. A
destinazione, ci attende l’ormai storica libreria Wojtek, roccaforte di lettori
preparati ed esigenti – una rarità, purtroppo, per lo stivale. In tangenziale,
col vento che rumoreggia attraverso i finestrini abbassati, saltano fuori
Houellebecq, Bergman e Vollmann, conveniamo che gli scrittori possano essere
“pugili o ex-pugili” e l’atmosfera subito si distende, prendendo inevitabilmente
corpo.
> “Di aguzzini e torturatori noi, in fondo, è come se ne avessimo bisogno. Non
> appena questi vengono meno, dileguandosi per forza di cose nel nostro passato,
> siamo pronti a sostituirli, a prendere il loro posto; assumiamo il loro ruolo,
> contro di noi. Continuiamo a ferirci, negandoci ogni diritto a una tregua,
> continuiamo a far del male a noi stessi, come se il virus con cui ci hanno
> infettati non potesse smettere di operare, richiedendo per sua natura una
> continua proliferazione, una mutazione inarrestabile. Il virus che sopravvive
> perché debellarlo sembrerebbe impossibile. E così, incrementando la nostra
> dipendenza, ci trasforma in molestatori e carnefici di noi stessi; non
> dobbiamo permettere che la familiare dose di mutilazione e castigo e
> sabotaggio vada perduta, e in mancanza di fonti esterne, dobbiamo
> somministrarcela da soli.”
Quella sera, nella tana dell’orso, nell’aria sulle teste della platea si
condensa un sottile stato di elettricità. I volti dei partecipanti, molti dei
quali hanno già affrontato il calvario della lettura, sono contratti, come
anneriti da un velo. Si avverte ciascuno mettere mano agli scaffali più oscuri
dell’anima e scavare, in segreto, nell’intimità delle proprie angosce
chiedendosi: cosa avrei fatto, se fosse successo a me? La risposta è una mano
fredda sulla fronte, gelida come il cadavere del buonsenso che quella domanda ha
appena ucciso.
L’incontro ha un carico emotivo a tratti insostenibile. Alcuni dettagli che Mota
decide di condividere da sotto la visiera del suo berretto, pescati direttamente
dalla sua esperienza, deflagrano come mine antiuomo all’interno della sala,
dando un peso specifico a un terrore che poteva vantare, fino a quel momento,
una certa dose di incorporeità. L’aberrante condotta del nonno. La disperazione
furibonda del padre. L’istantaneo omicidio di un’intera famiglia, il giorno in
cui, a molti anni distanza, Mota decide di confessare la verità dei fatti.
Squarciando il velo. Gettando la maschera. Le conseguenze sulla platea sono
evidenti.
> “Mi sto inoltrando verso il dormitorio in un’ombra più estesa e più fitta. A
> chi vuoi dirlo?, bisbiglia la voce piena di sangue, con quelle innumerevoli e
> minuscole gocce di sangue sulle corde vocali. Non voglio dirlo a nessuno,
> perché non c’è niente di sbagliato, forse lui ha davvero rischiato di morire
> ma io non ho fatto nulla di male. Non vuoi dirlo a nessuno? Neanche a te
> stesso? No. E allora lui ha vinto.
>
> Davvero? Domani farò colazione. E sì che racconterò tutto, ma solamente a
> Martin e a Vanessa. Domani, quando ci sveglieremo, faremo colazione. Con i
> biscotti e il latte freddo, in modo che i biscotti inzuppati solo per un
> attimo non diventino molli e restino comunque croccanti e piacevoli da
> mordere, e non vadano a formare quella poltiglia sul fondo della tazza.”
Di rado capita, specie nel nostro anemico panorama letterario, di trovarsi di
fronte a un’opera che obblighi a un tour nell’abiezione prima dell’uscita, che
sia in grado di far sanguinare il lettore anziché leccargli l’ego; un’opera il
cui tema risulti tanto scomodo, scivoloso, inospitale, e solitamente relegato a
semi-taciuti o presto insabbiati scandali ecclesiastici, da poter essere
ritenuto respingente. Anzi, si potrebbe affermare che l’abuso minorile sia una
di quelle dispute in cui è meglio non immischiarsi (non giova agli affari) o su
cui soprassedere, facendo finta di niente.
La Luce Inversa rifiuta categoricamente di volgere altrove lo sguardo, di
schierarsi a favore di un glissato troppo spesso in voga nei corridoi delle sedi
istituzionali. I suoi contenuti non risparmiano niente al lettore. I dettagli
anatomici. Le pratiche di adescamento e stupro. Le secrezioni. Le cantine
maleodoranti. La necrosi dei rapporti di forza relazionali su cui un individuo
può, in condizioni, per così dire, sane, fondare la propria identità. Nessuna
edulcorazione. Nessuna salvezza.
Vanessa, Siddiq e Martin sono gli incolpevoli protagonisti delle storie di
violenza infantile che raccontano e nella così detta “camera a luce inversa”
partecipano all’esperimento terapeutico di regressione della dott.ssa
Hollis. Con uno stile lirico ad alto contenuto immaginifico (si odono gli echi
dei Canti di Maldoror, di Lautréamont), Mota ci costringe a guardare laddove è
più buio. Laddove in eterno muore ogni possibile redenzione. Pur non rinunciando
al montaggio e a un certo gusto dickiano per la science–fiction, la lingua si
dispiega sulle pagine, alta, agile e ricca, dilatandosi, dagli abusi al mare,
dalla “casa tra le nuvole” alle remote galassie interstellari, come gas da
inalare d’un fiato, fino in fondo, fino a imparare, anche noi, per interposta
persona, la tecnica maestra per scarnificare le pareti organiche dei nostri
inferni privati.
> “ […] gli disse che tutto questo era capitato anche a lui molto tempo prima e
> che un altro vecchio ormai morto aveva fatto con lui le stesse cose che adesso
> lui stava facendo con il bambino che erano le cose più normali che potessero
> accadere tra due come loro due così legati e analoghi e necessari e obbligati
> lì a esserci l’uno per l’altro che tutto si ripeteva allo stesso modo da
> generazioni che era una specie di insegnamento e di trasmissione e non
> bisognava averne paura e allora il bambino disse va bene nonno e smise di
> singhiozzare e più tardi disse al vecchio che aveva freddo ma proprio attorno
> allo zero assoluto il vecchio continuava a cantilenare delle cose più normali
> che potessero accadere e poi di colpo il vecchio cambiò modalità strisciò
> sulle ginocchia ripercorrendo il materasso in direzione del muro trafficando
> con la cintura dei pantaloni al centro del contagio di luce sospesa si slacciò
> i pantaloni e poi slacciò la bocca del bambino spingendo con un dito sul mento
> e con l’altro sul labbro superiore mentre con una spalla appoggiata al muro
> […]”
Per quanto abbiamo disimparato a sentirci coinvolti negli orrori e nei genocidi
che, nel silenzio complice dell’Occidente, il nostro tempo pubblicamente
sbandiera, se esiste un modo di “superare” la lettura de La luce inversa è
quello di prendere sulle nostre spalle un pezzo di abominio. Farci carico di un
brandello di questo dolore e smettere di sentirci intoccabili davanti all’altare
del trauma. Consideralo un neo comunitario.
Quando usciamo dalla tana dell’orso, dopo due lunghe ore di indagini del
baratro, restiamo per un attimo fermi, sotto a un cielo che nel frattempo si è
fatto scuro. Il libro, sul ring della lotta per la sopravvivenza dell’individuo,
vince la sfida per knock-out. Chissà se, come consorzio umano, riusciremo a
vincere mai, almeno ai punti.
Vincenzo Montisano
*In copertina: Anselm Kiefer, Schnee, 1995-2012
L'articolo Il nostro bisogno di torturatori. “La Luce Inversa”: storia di un
libro devastante proviene da Pangea.
> “Stranamente ho conosciuto Glenn sul Mönchsberg, il monte della mia infanzia.
> Veramente lo avevo già visto al Mozarteum, ma con lui non ho scambiato una
> sola parola prima di quell’incontro sul Mönchsberg, chiamato altresì monte del
> suicidio perché si presta al suicidio come null’altro al mondo, e infatti
> tutte le settimane si scagliano da quel monte nell’abisso almeno tre o quattro
> persone. I suicidi salgono fino in cima con l’ascensore scavato nel cuore
> della montagna, fanno un paio di passi e poi si scagliano giù nella città”.
>
> (Thomas Berhard, Il soccombente, Adelphi 1985, pag. 15)
La mattina del 10 giugno, martedì, dieci persone sono state ammazzate e una
trentina ferite a colpi d’arma da fuoco all’interno dell’istituto scolastico
Borg di Graz, in Austria. A sparare, un ex studente di 21 anni che dopo la
mattanza è andato a uccidersi in uno dei bagni. Il motivo di questa furia
omicida è stato ascritto a una vendetta definitiva contro gli atti di bullismo
subiti in quella scuola, che non gli avrebbero permesso di concludere gli studi:
il giovane si sarebbe trasformato in una sorta di «collettore di ingiustizie»,
che assolutizza le angherie subite e le pone come termine finale di un’esistenza
completamente sfigurata.
In questi giorni, dunque, si è tornati a parlare di Austria, un universo poco
frequentato dalle nostre cronache, che raramente offre spunti per osservazioni e
discussioni di qualche spessore, tendendo a relegarsi in un grigio identitarismo
di stampo turistico; in genere, chi anela a suggestioni cultural-sentimentali da
cercare nel corpo del nostro continente guarda ad altre capitali: dire “vado a
Parigi”, “vado a Berlino” o “vado a Praga” non può suonare come “vado a
Vienna”. Vienna può rappresentare soprattutto il crogiolo di nostalgie
letterarie riferite a più di un secolo fa, in tempi che non torneranno, quando
la Felix Austria viveva l’epoca incantata di movimenti artistici e letterari che
guidavano l’evoluzione culturale europea – il bellissimo Il mondo di ieri di
Stefan Zweig ne è testimonianza commossa –, prima che la grande carneficina
moderna annientasse il sogno mitteleuropeo facendone palinsesto.
Quindi oggi, andando al brano riportato in epigrafe – pianamente foriero di
suicidi –, facciamo conoscenza con il Mönchsberg, uno dei cinque monti di
Salisburgo, la città che, prima di significare Wolfgang Amadeus Mozart,
significa Austria, della quale il grande Thomas Bernhard ha dato ritratti così
politicamente scorretti da rasentare il sublime. Come ha fatto ne Il
soccombente – di cui Pangea si è già occupata –, quel romanzo stupefacente e
feroce che, dopo i primi tre capoversi, si lancia per centottantasei pagine
senza più andare a capo, senza guardarsi indietro se non per riagganciare i fili
portanti, senza discriminare la storia in sezioni o digressioni, mantenendo quel
blocco granitico di dura eloquenza martellante senza fare sconti, in un
susseguirsi pressoché ininterrotto di “pensai”:
> “Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del
> pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai
> mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer,
> ma è morto, come si suol dire, di morte naturale.
>
> Quattro mesi e mezzo a New York suonando e risuonando le Variazioni
> Goldberg e L’arte della fuga, quattro mesi e mezzo di Klavierexerzitien, come
> Glenn Gould ripeteva di continuo e solo in tedesco, pensai”.
Tutto comincia quando il narratore e il suo amico Wertheimer si iscrivono al
corso tenuto a Salisburgo dal gigante Vladimir Horowitz, dal quale imparano “più
che negli otto anni precedenti al Mozarteum e alla Wiener Akademie”. Lì
stringono amicizia con il canadese Glenn Gould: l’incontro fatale che devierà
definitivamente le loro vite. Mentre loro due sono pianisti brillanti e
promettenti, Glenn Gould è la musica, è il pianoforte, èl’invasamento per
l’arte. L’improvvisa e brutale consapevolezza di non essere capaci, né ora né
mai, di suonare come Glenn Gould spinge entrambi ad abbandonare il loro
strumento: “Wertheimer mise all’asta al Dorotheum il suo pianoforte a
coda Bösendorfer, mentre io un giorno, per evitare che il mio Steinwayseguitasse
a tormentarmi, lo regalai alla figlia di nove anni di un maestro originario di
Neukirchen presso Altmünster”. Il modo in cui il narratore si libera del suo
prezioso pianoforte è perfidamente perverso:
> “Nemmeno per un attimo avevo creduto al talento di sua figlia; di tutti i
> bambini che vivono in campagna i maestri dicono che hanno del talento, talento
> per la musica soprattutto, e in realtà invece non hanno il minimo talento,
> sono tutti bambini assolutamente privi di qualsiasi talento, e il fatto che
> uno di loro soffi in un flauto o pizzichi una chitarra o strimpelli su un
> pianoforte non dimostra ancora che abbia del talento. Sapevo di consegnare il
> mio prezioso strumento a una persona totalmente inetta, proprio a questo scopo
> lo avevo fatto portare nella casa di quel maestro. In brevissimo tempo la
> figlia del maestro ha mandato in rovina e reso inservibile il mio prezioso
> strumento, uno dei migliori strumenti in assoluto, uno dei più rari e dunque
> dei più ricercati e dunque anche dei più costosi strumenti che ci siano”.
Ma volevamo dire dell’Austria. In una narrazione fluida e incontenibile,
Bernhard ci racconta che esporsi al clima prealpino di Salisburgo rende
semplicemente psicopatici, e se non ci se ne allontana per tempo si finisce per
diventare ottusi come gli indigeni, che con la loro bruta ottusità annientano
tutto ciò che è diverso da loro. Il flusso di ragionamenti del protagonista
s’incardina nel suo fare ingresso nella locanda dove intende fermarsi per
partecipare al funerale dell’amico che si è suicidato, Wertheimer: mentre entra
nel locale inanella una ridda di considerazioni concatenanti che durano pagine e
pagine, lungo i momenti in cui oltrepassa la soglia e si ferma a guardarsi
intorno. “In Austria le locande sono tutte sporche, luride e davvero disgustose,
pensai, è raro che in una di queste locande si riesca ad avere sul tavolo una
tovaglia pulita, per non parlare di un tovagliolo di stoffa, che in Svizzera è
dovunque assolutamente usuale”. Perfino gli alberghi austriaci sono sozzi e
disgustosi, dove spesso si limitano a stirare lenzuola già usate, e nemmeno
tolgono i ciuffi di capelli lasciati nel lavandino; neppure le stoviglie e le
posate sono pulite. La padrona della locanda, ovviamente, è sciatta, lurida e
trasandata; quando il narratore, nell’attesa, si avvicina alla finestra della
cucina sa già che non vedrà un bel niente, perché la finestra è incrostata da
cima a fondo. “Tutte le finestre delle cucine austriache sono sporchissime e
attraverso di esse non si vede niente, e questo, pensai, è naturalmente un
grandissimo vantaggio, perché in caso contrario si guarderebbe direttamente
dentro la catastrofe, nel lurido caos delle cucine austriache”. E pare che
Wertheimer abbia dormito più di una volta con la padrona della locanda,
“naturalmente, a quanto si racconta, nella locanda di lei e non nel casino di
caccia di lui”.
Wertheimer, il suicida, viene letteralmente travolto dalla dinamica feroce
dell’emulazione verso l’inarrivabilità di Glenn Gould, il genio compagno di
studi che un giorno, con noncurante plasticità, lo ha definito “il soccombente”
– ovvero un uomo “da vicolo cieco”, come preferisce qualificarlo il narratore,
perché ogni volta che Wertheimer usciva da un vicolo cieco entrava in un altro
vicolo cieco, dalla casa di Traich a Vienna, da Vienna a Salisburgo, e anche il
Mozarteum era stato un vicolo cieco, e così pure la Wiener Akademie, e infine
tutti gli anni di studio del pianoforte. “Il nostro soccombente è un esaltato”,
aveva detto Glenn una volta, “quasi ininterrottamente è lì che muore di
autocommiserazione”. Glenn, praticamente, ha capito Wertheimer dal primo
istante, così come ha capito a fondo fin dalla prima volta tutte le persone che
ha conosciuto.
> “Non c’è niente di più tremendo che vedere un essere umano il quale è talmente
> grandioso che la sua grandiosità ci annienta, e mentre noi questo processo lo
> osserviamo e lo sopportiamo e alla fin fine non possiamo far altro che
> accettarlo, in realtà non crediamo affatto a questo processo, e rimaniamo
> increduli ancora per molto tempo, fino a quando, pensai, esso si trasforma ai
> nostri occhi in un fatto incontrovertibile, ma allora non c’è più niente da
> fare, per noi è finita”.
Come recita la quarta di copertina, il soccombere di Wertheimer “è un processo
sotterraneo, sottile, che lo distrugge, ma tende a distruggere anche gli altri.
Nella sua debolezza, ha il fascino pernicioso di chi attira gli altri nella
propria rovina”. Alla fine il soccombente ha fabbricato “una sorta di doppio
beffardo, un’ombra sfigurata della perfezione di Gould, quale ultima vendetta
della debolezza contro la grazia”. Tutto questo fluisce nella prosa di Bernhard
senza pause, in un monologo interiore vivace e iterativo, da flusso di coscienza
frenetico, chiarissimo e dettagliato, con le espressioni impeccabilmente
scolpite in modo quasi ossessivo, in una costruzione scenica sapiente che non
conosce pause, piena di rievocazioni considerazioni ricostruzioni dei fatti per
andare a ricercarne la genesi e le cause. Vediamo Wertheimer che recrimina
contro i genitori per averlo gettato nell’orribile ingranaggio dell’esistenza
che lo stritola, e spietatamente tiene la quarantaseienne sorella legata a sé
impedendole di crearsi una vita, proibendole ogni uscita dal guscio, e maledice
la fuga definitiva di lei che va sposare un magnate svizzero ricco sfondato –
che significa molto più ricco di un austriaco ricco: “mai avrei dovuto lasciarla
andare da quell’orrido internista Horch”, recrimina, perché era lì, dal medico,
che aveva conosciuto quell’abietto parvenu dello svizzero. In Svizzera, poi, c’è
dissoluzione dappertutto, rincara Wertheimer, fra i paesi d’Europa è il più
privo di carattere, e quando ci si trova lì sembra di essere in un bordello. Va
da sé che a Vienna Wertheimer non può che restare soffocato, divorato a poco a
poco da quei mostri dei viennesi, e l’Austria non può che annientarlo
definitivamente: da qui i vagabondaggi nelle proprietà di famiglia, la dimora di
campagna, nell’inutile ricerca di sé nelle scienze dello spirito, di frammenti
esistenziali, di implicazioni familiari, di stanze piene di solitudine e di
lontananza che rafforzano la sua convinzione dell’infelicità come condizione
esistenziale dell’uomo che non si può eludere.
Rievocazioni, testimonianze, visite, colloqui, scampoli di vita, ipotesi ed
elucubrazioni: un flusso di coscienza che dà impeto al racconto e si fa
ossessione da basso continuo su molti fronti. Vogliamo parlare dei cosiddetti
tribunali distrettuali austriaci? Ogni anno sfornano sentenze basate su errori
giudiziari, in modo da avere sulla coscienza una moltitudine di uomini innocenti
che scontano dure pene detentive, senza alcuna speranza di essere riabilitati, e
questo perché l’Austria è piena di giudici senza scrupoli e di giurati che
odiano l’umanità e che, per la propria infelicità e abiezione, si vendicano
sulle persone che cadono in loro balìa per qualche circostanza sciagurata.
Un’attività diabolica, quella dei tribunali austriaci, che quasi sempre resta
impunita.
Bene dice Clery Celeste quando definisce Il soccombente “un capolavoro
vertiginoso che vi spiega passo per passo come si scende nella scalinata della
mediocrità, dove sta la rinuncia, dove abita il tutto e il niente di un
musicista”. Con le esitazioni di Wertheimer e del narratore verso tutto e tutti,
abbiamo Glenn Gould che affronta ogni cosa con la semplicità della
sfacciataggine innata e diretta di chi semplicemente è, senza dover dimostrare
nulla. “Wertheimer aveva sempre paura che le forze non gli bastassero, Glenn non
immaginava neppure che qualcosa potesse essere superiore alle sue forze”. Quando
Wertheimer vede Glenn al primo piano del Mozarteum e lo sente suonare, rimane
bloccato davanti alla porta, e quella è la sua fine come pianista, anche se lo
capirà dopo anni. Una meta che viene scardinata appena Glenn siede al pianoforte
a suonare le prime note delle Variazioni Goldberg. Il genio Glenn che
vuole essere pianoforte, che per tutta la vita “aveva avuto il desiderio di
essere lo Steinway in sé, gli era odiosa l’idea di porsi solamente come
intermediario musicale tra Bach e lo Steinway e di essere un giorno stritolato
fra Bach e lo Steinway”. Riuscire a essere il pianoforte lo avrebbe esentato
dall’essere Glenn Gould, lo avrebbe reso felicemente superfluo, in un rapporto
finalmente assoluto con Bach.
> “Perfino Horowitz in mancanza di Glenn non sarebbe stato lo stesso Horowitz,
> quei due si condizionavano a vicenda. Fu un corso che Horowitz fece apposta
> per Glenn, pensai in piedi nella locanda, nient’altro che questo. Fu Glenn che
> fece di Horowitz il proprio maestro, non Horowitz che fece di Glenn il genio,
> pensai”.
La corrente narrativa di Bernhard, il suo stile, mantiene la linea diritta del
discorso fluviale che procede senza fermarsi e allo stesso tempo la rete
complessa del rizoma, quella formazione multidimensionale che può estendersi per
aggiunta e accrescimento oltre misura, con una struttura dinamica che spesso
itera le espressioni per ribadirne il peso, con connessioni continue e continue
correzioni di queste connessioni, che portano a conoscere gli aspetti parziali
di un tutto che va costruendosi in modo clamorosamente naturale. Una prosa che
tiene lontano quel senso di straniamento che, in altre condizioni, si potrebbe
innescare, lasciando libera e chiarissima la corsa naturale del racconto.
La prima edizione Adelphi de Il soccombente, del 1985, porta in copertina Donne
con teste floreali che trovano la pelle d’un piano a coda sulla spiaggia,
dipinto da Salvador Dalí nel 1936. Un pianoforte semi-liquefatto viene innalzato
a trofeo da enigmatiche muse che sembrano portatrici di annientamento, in un
fondale che richiama la celebre Monument Valley in Arizona. Ma l’immagine più
inquietante la troviamo nella successiva edizione economica, dove campeggia lo
sguardo allucinato di uno degli autoritratti spettrali di Léon Spilliaert, del
1907, conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique. L’atmosfera cupa,
che va dall’opprimente all’onirico, con la sua abbondanza di nero, ben
rappresenta la parabola autodistruttiva dell’antieroe Wertheimer, votato da
sempre all’infelicità e per questo affascinato dagli esseri umani nella loro
infelicità, avido di persone perché sapeva cogliere l’infelicità ovunque ci
fossero persone.
> “Nessuno sa più che sono stato un fanatico allievo del conservatorio, un
> fanatico virtuoso del pianoforte che si è misurato da pari a pari con Glenn
> Gould su Brahms e Bach e Schönberg. Ma se l’occultamento di questi fatti,
> pensai, è sempre stato per me soltanto un vantaggio in quanto si è sempre
> rivelato della massima utilità, questo medesimo occultamento ha danneggiato
> assai profondamente il mio amico Wertheimer (…). Tutto sommato, il fatto di
> aver studiato il pianoforte per me è sempre stato utile, e anzi direi
> decisivo, proprio perché nessuno ne è più al corrente, perché è un fatto
> dimenticato e perché io stesso lo tengo nascosto. Per Wertheimer, invece,
> questo stesso fatto è sempre stato motivo di infelicità, ininterrotto pretesto
> per la sua depressione esistenziale, pensai. Io suonavo molto meglio di quasi
> tutti gli altri allievi del conservatorio di musica, pensai, e il fatto di
> aver smesso da un momento all’altro mi ha reso forte, più forte di quelli,
> pensai, che non hanno smesso e che non suonavano meglio di me e che, da
> dilettanti quali erano, hanno trovato una via di scampo per tutta la vita nel
> farsi chiamare professori e lasciarsi insignire di decorazioni e onorificenze,
> pensai. Il mondo è pieno di imbecilli musicali che finiti gli studi accademici
> hanno per così dire intrapreso l’attività concertistica, pensai”.
Paolo Ferrucci
L'articolo Felix Austria, ovvero: sul talento cannibale di Thomas Bernhard (e di
Glenn Gould) proviene da Pangea.
In metropolitana ho letto Le scimmie di José Revueltas, un cognome che è un
programma di vita fin dalla nascita, nella traduzione della ei fu Alessandra
Riccio: c’è Polonio il detenuto tossico che fuma in cella d’isolamento: “E
allora il movimento trasferiva le proprie forme nell’ondulata scrittura di altri
ritmi e le lentissime spirali si conservavano lungamente nella loro istantanea
condizione di idoli ubriachi e di statue sorprese”. Leggendolo, ammirandolo, mi
chiedevo cosa si scrive e si legge a fare se la scrittura, e la lettura pure,
non sono anche forme di protesta per le cose-così-come-sono che passano per un
uso importunante e emancipato della lingua? Purché sia una lingua che sappia
ancora della saliva e delle labbra di chi la parla, altrimenti è una lingua
laboratoriale e basta, la lingua senza voce di una bocca castrata.
Il passaggio mentale successivo e obbligato è stato verso il romanzo Il sesso
degli alberi di Alessio Arena, per Fandango, libro letto prima di Revueltas: nel
romanzo di Arena si sta come nella bocca di chi parla, ogni parola assume di
volta in volta il sapore o il saporaccio di chi la pronuncia facendola risalire
dalle viscere in subbuglio.
Alessio Arena è al sesto romanzo, in passato per Pangea ci ho conversato in
merito a Ninna nanna delle mosche e a La notte non vuole venire, non me la sarei
sentito di importunarlo ancora, eppoi io – che di norma non sono sospettoso –
sospetto molto di me: come faccio a essere sicuro un libro che mi ha conquistato
per come è stato scritto sia bello di per sé e non perché è piaciuto a me e
allora capirai? Che sia un romanzo-romanzo al di là dei miei criteri che alla
lunga possono diventare stantii e ripetitivi quindi inadatti a riconoscere la
qualità di un romanzo, specie se è il romanzo di uno scrittore che si è già
guadagnato la mia stima?
Da lettore per tante prime volte delle opere di Aldo Busi è una domanda che sto
attento a pormi di continuo: come si evita di -ismizzare uno scrittore, andando
a detrimento della recezione della sua opera? Dimenticandosene. Leggendo ogni
libro come si stia leggendo per la prima volta un’opera di chi l’ha scritto. Uno
scrittore o esordisce ogni volta o è uno scrittore di mestiere, di carriera,
ovvero uno che è stato scrittore una volta eppoi un impiegato della scrittura
tutte le volte successive. Lo stesso se si tratta di un libro in rilettura: per
leggerlo onestamente, ovvero per leggerlo in modo sensato, bisogna dimenticare
tutto quello che si è letto fin lì, a partire dal libro in questione e poi tutti
gli altri. Lo stesso, pare, vale per la scrittura.
Dunque, de Il sesso degli alberi di Alessio Arena mi è piaciuto il romanzo, che
per me significa sempre il come è stato scritto, o mi è piaciuto che sia stato
scritto da Alessio Arena?
L’incipit:
> “Alansorrenti lasciava dietro di sé una coda di odore detersivo. Dove stava
> lei c’era sempre chi si tappava il naso, chi metteva le mani a ventaglio per
> pulire l’aria, chi cacciava la lingua con una smorfia di iguana. Se poi
> qualcuno se la trovava di fronte e non faceva in tempo a scansarsi, la
> salutava veloce per paura di intossicarsi dentro all’abbraccio suo.”
La scrittura di Alessio Arena è da subito come l’Alansorrenti che apre il
romanzo: lascia dietro di sé una traccia olfattiva. Si sta come in Il profumo di
Patrick Süskind ma in maniera ancora più radicale, sfacciata, inclemente: è una
lingua che tocca e fa toccare ciò che racconta, non privilegiando il dato visivo
o uditivo, per quanto sia strabordante di musica e canto e visioni,
allucinazioni comprese.
È una lingua che mette in contatto, che avvicina, che sprofonda e fa sprofondare
nella materia che plasma, che fa diventare racconto. Chi legge che voglia o no
diventa lingua a sua volta, le parole arrivano alla mente passando dalla bocca.
O così mi sono sentito io, leggendo: un uomo trasformato in una lingua dalla
lingua scritta del romanzo.
Letto il primo capitolo ho scritto a Alessio Arena un messaggio privato, tramite
il contatto mail ottenuto per le precedenti conversazioni. Ho scritto: “Alessio
Arena, ho appena letto il primo capitolo de Il sesso degli alberi, le prime
quattro pagine, e se le pagine appresso filano così per me è finita, ovvero è
ricominciato tutto, è come ci fosse un nuovo grande salto in avanti e in lungo e
in alto e in largo nella tua scrittura, che prende il meglio dai romanzi prima e
ne fa qualcosa di bello di grande di nuovo. Da lettore, che grande entusiasmo
quando nel romanzo di uno romanziere di cui ho letto gli altri romanzi sento il
balzo in avanti dello scrittore che mi fa marameo, che mi fa “Credevi di
conoscermi e invece devi imparare ancora tutto”, che scrive con la
consapevolezza di quanto ha già scritto ma comunque scrivendo con l’audacia
degli esordi. Uno scrittore, o così mi pare, scrive ogni libro come non dovesse
scrivere altro che proprio quello, pure se di libri prima ne ha scritti a decine
e altre decine ne scriverà dopo. Scrive ogni volta come fosse l’indubitabile
scrittore di proprio-quel-romanzo. Tutto questo commentare per le prime quattro
pagine del libro? Sì, perché in quattro pagine c’è tantissimo: ci sono due
paesi, Italia e Spagna, un figlio e un padre morto e un femminello astratto che
si candida come zia aggiuntiva per quel figlio senza più un padre e in pratica
senza mai una madre, pur avendola ancora in vita, quell’Alansorrenti che si
propone quale zia adottiva che non fa vita da reclusa come le altre due
di-sangue dell’orfano a metà ma praticamente del tutto, una zia che la vita la
fa proprio e propria e che al primo incontro all’orfano di fatto rivolge “una
tenerezza dentro agli occhi che io non sapevo ancora che esisteva”. C’è la
frattaglieria, il Festival Eurovisione, una partitura del compositore Domenico
Sarrio, il rossetto rubato a una bambina durante una gita di classe nella Sierra
de Armantes. Dunque: la vita, ovvero la letteratura quando ti fa desiderare di
viverne altrettanta. Un saluto da lettore felice e ammirato.”
A messaggio inviato mi sono chiesto che senso avesse avuto inviarglielo. I
complimenti in privato, quando non invadenti, al meglio sono del tutto inutili,
specie quando riguardano un atto che più pubblico non si può, la pubblicazione
di un romanzo che una volta scritto ha a che fare con chi l’ha scritto tanto
quanto con chi lo legge. Il problema è che a un libro non si può scrivere quello
che ti ha smosso, leggendolo, e allora pur di liberarsi dal peso della
gratitudine si scrive a chi l’ha scritto, compiendo una reiterata fallacia
logica.
Infatti, recidivo, lette altre cento pagine e più del romanzo ho scritto un
secondo messaggio privato ad Alessio Arena, dal quale non avevo ricevuto
risposta e che per quanto ne sapevo poteva non aver ricevuto il primo o se sì
poteva non aver nessuna voglia di leggerlo. Il secondo messaggio in privato è
stato: “Da ieri sera a ora le pagine sono diventate 140, e non mi diminuisce il
piacere di leggere di questi personaggi meravigliosamente non conformi e mai
deodorati calati in una dimensione tra l’incubo e l’immaginazione, e questa
lingua inventata e monoica che li racconta fondendo il maschile dell’italiano e
il femminile del dialetto, e questa Napoli Anni Ottanta attraversata con “lo
sparpetuo del profugo troiano”. Un paragrafo esemplare in cui sento come la
scrittura è diventata padrona della materia al punto da farla stare assieme a
suo piacimento per me è questo: “C’erano anche partiture di oratori in cui le
note sembravano piccoli insetti intrappolati nella resina, come quelli che avevo
visto nella corteccia degli alberi di piazzetta Salazar, due cornioli separati
da una cabina telefonica.” Mi sono andato a cercare su Google il corniolo,
perché di alberi so nulla, figurati che sesso hanno.”
Sentendomi a un passo dalla molestia, o peggio ancora della maleducazione, e
valutando la sensatezza dei miei gesti, ho cominciato a valutare se non fosse il
caso di proporre ad Alessio Arena una intervista su Pangeache avesse per oggetto
appunto Il sesso degli alberi. Pertanto era importante finissi di leggere il
romanzo, anche per scacciare un timore che mi stava sorgendo: a conti fatti ero
soltanto al primo terzo del romanzo. E se continuando a leggere avesse smesso di
piacermi ovvero mi avesse convinto di meno? Se la scrittura non fosse riuscita a
mantenere il ritmo e il registro? Se la mia si fosse poi rivelata una sindrome
da lettore precoce, poi come avrei giustificato un mio eventuale passo indietro?
Come pure: se le mie impressioni da lettore le avessi concluse sulla
centoquarantesima pagina, un mio silenzio successivo, una interruzione delle
comunicazioni non richieste, non avrebbe potuto essere interpretata come una
tacita stroncatura, un reticente rimprovero da lettore che poi si sarebbe
sentito imprevedibilmente deluso?
Sono state le domande di cui sopra la ragione del terzo messaggio privato:
“Alessio Arena, le pagine sono diventate 265, ora sono nel bar di Marisa la
Torera, a calle San Rafael, nel Barrio Chino dove coi primi calori “Ogni angolo
del quartiere, in quel giugno così caldo, sembrava nascondere il cadavere di
qualche zoccola“. Mi rendo conto ci sia qualcosa di offensivo nello sperticarsi
per il sesto romanzo di uno scrittore, gli altri cinque potrebbero risentirsi,
ma Il sesso degli alberi è scritto proprio come secondo me un romanzo deve
essere scritto per poter essere reputato tale, con la personalità sconvolgente
incontrata in L’infanzia delle cose incrementata, espansa. Pagina dopo pagina
scopro perché mi piace il registro misteriosamente in equilibrio tra candore e
decadenza, innocenza e squallore, con i personaggi a raffica tutti ben stondati,
la trama che si sposta, e la sfida che pone nello stabilire cosa è più
incredibile: i giardini domestici di Palazzo Sassano, gli alberi parlanti o
l’epopea dei femminelli napoletani nell’Europa di fine Novecento o quella dei
castrati dal Seicento in avanti? È un romanzo ricco, generoso, odoroso, e
sfacciatamente politico come lo devono essere i romanzi: raccontando storie
inclinate, trascinando nelle situazioni, ribadendo che il pensiero è sempre e
soltanto un’essudazione della carne. Un romanzo con una lingua sua solo sua,
oltre che di chi la parla nel romanzo stesso: Alansorrenti, Gennaro Crisantemo,
Bacioterracino che non violenta perché non sa come si fa, e tutti gli altri.”
Decido allora che non proporrò ad Alessio Arena un’intervista per Pangea,
sarebbe stucchevole dopo tutto quello che già gl’ho scritto sul suo romanzo.
D’altronde non sarei stato neanche sicuro della sua reazione: ricevere pareri a
raffica da un lettore che in sostanza resta uno sconosciuto non deve mettere
nessuno a proprio agio. Ancora una volta, è per la mia esclusiva esigenza
personale di chiudere un cerchio aperto da me che mando ad Alessio Arena un
quarto messaggio: “Ecco l’ultimo pezzetto della cronaca del lettore che ha
appena finito il tuo romanzo ambizioso, déraciné, screanzato, adulto, di quelli
che mandano l’algoritmo a chiedersi dov’ha sbagliato con te. Ora che l’ho finito
posso complimentarmi oltre che con chi l’ha scritto con l’editore che ha saputo
seguire la bussola della letteratura, che non è detto non conduca a fasti
commerciali ma che non è direttamente lì che punta, punta a rendere la scrittura
esperienza ludica e profana, intima e collettiva, tenera e spregiudicata. Nel
romanzo c’è tutto quello che uno scrittore può desiderare ci avvenga dentro
quando ne scrive uno, qualcosa che secondo me sfugge di mano allo scrittore
stesso, che decide linee narrative che prendono il sopravvento, che
disobbediscono alla camorra dei plot assodati, che non hanno bisogno
dell’explicit per arrivare a compimento poiché si compiono all’interno dei
singoli capitoli, dei singoli periodi, delle frasi andate a segno che mettono a
punto una rappresentazione del mondo sensibile, nella sua parte visibile e in
quella che non lo è – non che “O forse si abbracciò a lui stesso, ma con me
dentro” non sia stato un explicit coi fiocchi, qui al termine di una storia di
assenze che vogliono diventare presenza, reclamando cittadinanza in una società
pigra fin nell’immaginario marcio e patinato assieme, che non li prevede, che
non vuole riconoscergli voce. “La voce era sempre quello che mi faceva più paura
di me, era la parte più cruda. La voce mi spogliava nuda. O meglio: il centro
della mia nudezza era sempre la voce.” Per dirlo con zia Serena, patita per la
smorfia napoletana: che quarantotto questo romanzo che parla! Che ha e dà
voce. Il sesso degli alberi è un romanzo bellissimo.”
Soltanto ora, a stalking completato, mi accorgo il romanzo si concluda così come
si è aperto, in un abbraccio, al cui interno si rischia di intossicarsi, così
all’inizio, e che nel finale lascia il sospetto sulla possibilità stessa di un
abbraccio: cosa sente chi abbraccia, l’altro a cui fare spazio in
quell’abbraccio o la propria volontà di annientarlo annettendolo a sé, al
proprio sentire? Il sesso degli alberi, tra le altre cose, è anche la storia
della fatica inutile perché gli altri ti guardino per come tu desideri essere
guardato, una fatica accettata con “una tenerezza […] che io non sapevo ancora
che esisteva”. Basta fare come gli alberi: stare lì dove si sta, e al limite
lasciare che gli altri ci sbattano contro. Questo però me lo tengo per me, ad
Alessio Arena ho già scritto troppo.
antonio coda
*In copertina: una fotografia di Mario Giacomelli
L'articolo Basta fare come gli alberi. Ovvero: storia di un lettore che ha
importunato Alessio Arena proviene da Pangea.
Di solito, indossa ampi cappelli: il sigaro e la camicia larga conferiscono al
profilo un ardore à la Indiana Jones; l’entusiasmo, a vertigine, un certo
titanismo negli occhi, lo rendono, piuttosto, un soggetto degno di Friedrich, il
protagonista di un romanzo inglese dei primi del Novecento, di ampi porti in
luoghi esotici, arricchito da esoterici vagabondi. Di solito, alle spalle
di Guido Mina di Sospiro appaiono paesaggi suggestivi: liane amazzoniche, templi
minoici, canyon. Nato in Argentina da famiglia di alto lignaggio, studi a
Milano, vita negli Stati Uniti, una volta mi ha scritto dal Giappone – o dalla
Patagonia, non ricordo. Ha una casa a Todi, a cui approda, di tanto in tanto. Ha
praticato come musicista – tra l’altro, con l’ungherese Miklós Rózsa, tre volte
Oscar “alla migliore colonna sonora” – e come cineasta – Heroes and Villains,
cercatelo in rete, è stato realizzato con un gruppo di amici nel 1978 –; ha
scritto tanto. La sua vita furibonda nella California degli anni Ottanta rimanda
ai romanzi di Bret Easton Ellis: Guido non lo ha letto, e con rabbiosa
schiettezza mi dice di preferire Borges. Lo vedrei bene come allevatore di
centauri.
Guido Mina di Sospiro, uomo in direzione contraria all’editoria dominante, ha
scritto tanto, è stato tradotto ovunque. Il suo libro di maggior successo,
forse, è The Metaphysics Of Ping-Pong: uscito nel 2013 nel mondo inglese, è
stato recepito da Ponte alle Grazie tre anni dopo; lo stesso editore, nel 2017,
ha pubblicato Sottovento e sopravvento, una specie di “romanzo filosofico
d’azione” (così Maurizio Ferraris), che sovverte il candore del ‘genere’. Da
allora – Rizzoli, tra 2002 e 2003, ha pubblicato L’albero e Il fiume –
dell’autore, in Italia, si sono perse le tracce. Incessante è tuttavia la sua
attività letteraria negli altri mondi; scrive, tra l’altro, sulla “New English
Review”.
Quest’anno le reticenze – Mina di Sospiro è ostile al mainstream narrativo che
va per la maggiore – si sono dissigillate: Bietti ha tradotto Il libro proibito,
un noir teosofico scritto dall’autore insieme Joscelyn Godwin, studioso di
occultismo, esoterista, autore, tra l’altro, di testi su Robert Fludd, Fabre
d’Olivet, René Guenon e Julius Evola. Quest’anno, Lindau ha invece
pubblicato Terrore e musica, libro in cui, in sostanza, Mina di Sospiro parla
della sua Milano dilaniata dagli Anni di Piombo, tra i Talking Heads (in
appendice, l’autore impila una “lista di compositori, composizioni, musicisti,
gruppi, brani e dischi a cui si fa riferimento nel testo”, tutta da ascoltare) e
le Brigate Rosse. “Questo libro tratta della città in cui sono cresciuto,
Milano, nella quale rischiavo la vita quotidianamente pur senza mai volerlo. Né
intendevo, in quel luogo e in quel periodo… intorno a me tutto era diventato
improvvisamente così strano, era come se io vivessi in un altro mondo, da
straniero nella propria città”, confessa l’autore. L’attacco del libro parte in
contropiede – con David Byrne in sottofondo:
> “È la settimana di orientamento per le matricole straniere alla University of
> Southern California, o USC, a Los Angeles, verso la fine di agosto del 1980.
> Mi viene assegnata una stanza in un dormitorio da condividere con un compagno
> di studi internazionale, un palestinese di centocinquanta chili il cui padre è
> «non potente come il presidente Carter,ma quasi». Più tardi, lo stesso giorno,
> aggiunge che come membro dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della
> Palestina, «ho ucciso tre ebrei». Oddio, penso, il mio compagno di stanza è un
> assassino!”.
Stenio Solinas, che ha scritto di Terrore e musica su “il Giornale”, sintetizza
il ‘clima’ dell’epoca con parole statuarie: “La gran parte dei rivoluzionari
ventenni dell’epoca, dieci anni dopo li avresti ritrovati nei giornali borghesi
che avrebbero voluto bruciare, nelle aziende paterne che avrebbero voluto
bruciare, nelle multinazionali, negli uffici pubblici, dietro quelle cattedre
scolastiche e universitarie che avrebbero voluto bruciare. Tutti
pompieri”. Detto tutto.
Quanto a me, di Guido Mina di Sospiro piace il moto sciamanico, l’ansia del
viaggiatore, il suo essere estraneo – anzi, australe – al mondano. Così, l’ho
cercato. Pare che questa intervista si sia svolta tra Todi e Villa O’Higgins, in
Cile; ma forse è sempre un altro mondo quello a cui tendiamo.
Lui è Guido Mina di Sospiro
Parto da “Terrore e musica”, che è poi un libro autobiografico. A un certo punto
parli del mitico Miklós Rózsa. Ecco, che ruolo ha avuto la musica nella tua
scrittura, nella tua vita?
Un ruolo enorme che ora, però, non c’è più (surfeit). Miklós Rózsa fu uno dei
miei mentori. Quando ero diciassettenne e lui settantenne avevo la beata
incoscienza di mostrargli le mie composizioni, che fra l’altro non gli
dispiacevano. Discutevamo di musica e musicisti, armonia e composizione per ore.
Mi cambiò la vita: fu lui stesso a dirmi della University of Southern
California, dove aveva insegnato composizione succedendo a Schönberg, che era
andato alla UCLA, e dove c’era una famosa scuola di cinematografia. Fu così che
scelsi di lasciare l’Italia incasinatissima e insanguinatissima di allora e, nel
1980, cominciare a frequentare la USC (non fu affatto facile, con esami di
ammissione e complicazioni a non finire, ma ci riuscii).
Nel libro esprimi il tuo giudizio sugli “Anni di Piombo”. Riassumilo per chi ci
legge.
La vulgata che ci è tanto assiduamente propinata, e cioè che la eversione era
per metà di estrema destra e per metà di estrema sinistra, non corrisponde alla
realtà. Ma mi fermo qui. Preferirei che il lettore, leggendo il mio libro che va
dal 1974 al 1980, si rendesse conto, anno per anno, mese per mese, settimana per
settimana, di che cos’erano le grandi città italiane di allora, specialmente
Milano, in cui vivevo.
Non mi pare che parli del “terrorismo nero”. Come mai?
Ne parlo, invece, mettendo nel loro contesto le “stragi di stato” e la
“strategia della tensione”, inizialmente ispirate da gruppi eversivi quali
Ordine Nuovo, ma in seguito adottate da stay-away-governments, dall’Operazione
Gladius, dalla CIA, dalla Masad, dai vari servizi segreti italiani (spesso in
conflitto fra loro), dalla P2, e così via. Ma nelle strade la sopraffazione e le
intimidazioni, la violenza cronica, quotidiana e sempre in crescendo, erano
rosse. Le Brigate Rosse, solo per limitarmi a loro, hanno compiuto 14.000 atti
di violenza nei primi dieci anni di attività, dal 1970 al 1980, quasi 4 al
giorno. Nessuna organizzazione clandestina di estrema destra si avvicina nemmeno
lontanamente a tale media da mattanza.
Come nasce “Il libro proibito” e qual è il suo nucleo incandescente, il cuore
esoterico? Insomma, come dobbiamo leggerlo?
Anni fa c’era la moda del romanzo cosiddetto “esoterico”, che in certi casi
diventava molto essoterico, con vendite di milioni di copie. Joscelyn Godwin –
una delle menti più geniali al mondo, autore, traduttore ed editor di oltre
quaranta libri – ed io pensammo che, come scherzo o jocus severus, avremmo
potuto scrivere un romanzo veramente esoterico. Nel senso che quelli in voga
allora partivano invariabilmente da un mistero “magico” che però poi veniva
risolto dal solito ispettore con i soliti mezzi razionali. Noi invece, avendo la
formazione esoterica necessaria, che nessuno di tali scrittori ha, ci
ripromettemmo di partire da un mistero magico e risolverlo… con la magia, nel
mentre prendendo in giro il classico ispettore. L’approccio ha funzionato: a
oggi, oltre all’originale inglese, sono state pubblicate dieci edizioni
straniere.
Le ideologie saranno pure defunte, non certo le idee di mondo: qual è la tua?
Intendo: che senso ha vivere, cosa c’è dopo questa vita?
Dovresti darmi un milione di euro per ciascuna risposta, ammesso che io le
azzecchi. Cominciamo dallo stato di cose di questo mondo occidentale
despiritualizzato: oltre un secolo fa Wittgenstein ha dichiarato senza ombra di
dubbio che la metafisica era morta, e da allora la filosofia s’è tramutata in
sofismi. Pertanto se un povero cristo in buona fede si pone domande quali le due
che mi hai posto tu, non troverà risposta nella filosofia dell’ultimo secolo,
che si è persa in stupidaggini, Sprachspiele e logorrea. Se per “idea di mondo”
intendi, come credo, Weltanschauung, la mia si rifà all’opera di Alfred North
Whitehead, il quale, mentre Wittgenstein e poi la Scuola di Vienna davano per
morta e sepolta la metafisica, scrisse uno dei libri di metafisica più
importanti di sempre: Process and Reality. A mio avviso, l’unica ragione per cui
la riflessione metafisica rimane necessaria, forse più che mai, è che la nostra
coscienza moderna ha perso contatto con la propria esistenza cosmica e quindi
necessita di una giustificazione intellettuale. Prima che Omero mettesse la
penna sulla pergamena e parodiasse gli dei, l’anima umana non sperimentava
alcuna separazione tra il Logos del mondo (significato) e la sua esistenza
(fattualità), e quindi non aveva bisogno di credenze religiose. La divinità
viveva e respirava in mezzo alle creature della terra e del cielo. Lo shintoismo
dice lo stesso, incidentalmente.
La cosmologia panteistica di Whitehead intende correggere la tradizionale
visione religiosa di Dio come sovrano e onnipotente. La sua cosmologia dotata di
un’anima intende correggere la visione filosofica moderna secondo cui l’uomo è
separabile dalla natura, o la mente separabile dalla materia. Il potere, per
Whitehead, diventa persuasivo poiché estetico, piuttosto che coercitivo poiché
meccanico. Dio non arriva dall’aldilà per progettare il mondo a suo piacimento,
né lo fa la coscienza umana. Per Whitehead la “concrescenza” è il nome del
processo in cui “l’universo delle molte cose acquisisce un’unità individuale in
una determinata relegazione di ogni elemento dei molti alla sua subordinazione
nella costituzione del nuovo ‘uno’”. La concrescenza, in altre parole, è
semplicemente il processo di diventare “concreto”, nel senso di pienamente
attuale come occasione reale compiuta. La concrescenza è l’atto del divenire di
entità reali. Dal latino “concrescere”, crescere insieme, è l’atto produttivo,
l’atto del divenire di un atto produttivo, l’atto del divenire di un essere che
è l’insieme. Nella concrescenza, il nuovo essere passa dai suoi componenti nella
loro diversità disgiuntiva ideale agli stessi componenti nella loro
realizzazione. La metafisica di Whitehead, nota anche come filosofia del
processo, definisce la realtà come una rete dinamica di eventi interconnessi o
“occasioni reali” (actual occasions) piuttosto che di sostanze statiche. Mette
in risalto il divenire rispetto all’essere, il cambiamento e il processo
rispetto alla permanenza e le relazioni rispetto alle entità isolate; capovolge
il mito della caverna di Platone. Questa visione considera tutta l’esperienza,
compresa la realtà soggettiva e oggettiva, come unificata all’interno di un
unico cosmo interconnesso.
Chi di voi cercasse di leggere Whitehead senza capirci nulla si troverebbe in
buona compagnia e sarebbe sulla via maestra: l’universo, infatti, non è un
manuale d’istruzioni.
Mi domandi inoltre: cosa c’è dopo questa vita? Ho letto e studiato innumerevoli
testi esoterici di tante tradizioni molto distanti tra loro nello spazio e nel
tempo, e ne ho discusso con tanti pensatori, nessuno dei quali appartiene alla
mainstream. In nuce: oltre cinquant’anni fa David Conway, un magus gallese,
diede alle stampe Magic: An Occult Primer. Maxine Sanders ne scrive come segue:
“Al giorno d’oggi ci sono innumerevoli libri sulla magia. Questo è diverso.
Diverso come quando è apparso per la prima volta nel 1972. Ciò che lo rende
diverso è che spiega al lettore – esperto o principiante, scettico o credente –
che cos’è la Magia, perché la Magia funziona e, soprattutto, come si può
lavorare con la Magia. Pochi libri fanno tutte e tre le cose, certamente non con
tanto stile, erudizione e umorismo.” L’ultimo capitolo s’intitola: Death and the
Meaning of Life (La morte e il significato della vita), e spiega
dettagliatamente che cosa succede all’anima quando si stacca dal corpo che l’ha
ospitata. Confesso di avere smesso di leggere tale capitolo verso la fine perché
mi sembrava fin troppo veritiero, e a me non va che le cose finiscano in quel
modo. Inoltre, esorto i lettori che leggessero Magic: An Occult Primer a NON
cimentarsi nelle arti magiche; non conosco nessun magus che, praticandole, non
abbia subito contraccolpi o ripercussioni, anche molto pesanti, cioè la propria
morte, o quella di un caro. Leggere, sì, e con deferenza; praticare, altamente
sconsigliato.
Che cosa tiene insieme il tuo interesse per i manoscritti alchemici, la musica
colta, il cinema, il “clima” degli anni Settanta italiani?
Sono patologicamente curioso, non mi fido affatto del canone e delle vulgate che
ci propinano e sono allergico al pensiero mainstream. La curiosità non è
necessariamente un dono, però, e spesso invidio i nostri gatti, quattro, uno più
contento e pigro dell’altro. E sin da piccino sono stato abituato all’alta
cultura. Casa nostra era frequentata da personaggi di alto livello, direttori
d’orchestra, cantanti lirici, musicisti, scrittori, poeti, pittori, registi e
così via. In campagna da mio nonno apparivano spesso Mario Soldati e Renzo
Pasolini, entrambi intenti a baciare l’anello. Lo ricordo perché, pur piccino,
mi sembravano comicamente ossequianti. Quindi ho sempre avuto accesso al meglio
nel campo delle arti, e non solo. Più tardi la profonda amicizia con Joscelyn
Godwin (con il quale ho scritto due romanzi), Rupert Sheldrake, Christopher
Sinclair-Stevenson, Gillian Prance e diversi altri pensatori inglesi mi ha
ulteriormente ampliato gli orizzonti.
Negli ultimi vent’anni ho (ri)scoperto la letteratura spagnola e
ispano-americana e leggo principalmente in quella lingua. Gli anni Settanta in
Italia erano sconvolgentemente violenti, ma qua e là, soprattutto nella musica,
anche molto creativi. Secondo Andrea Kerbaker, con il quale fondai il
giornalino La nuova scapigliatura milanese al liceo Leonardo a Milano mi sembra
nel 1977, fra la violenza e la creatività di quegli anni c’è un nesso; io, non
saprei.
Perché non ci siamo riconciliati con gli “Anni di Piombo”? Perché in Italia
parliamo ancora di “fascismo” e di “resistenza” in toni che provocano divisione
più che comprensione?
Perché, e te lo dico con candore, gli Anni di Piombo sono stati il terzo
tentativo nel XX secolo in Italia di imporre il comunismo con la lotta armata:
dopo il Bienno Rosso del 1919-20; dopo la Resistenza, che resistenza non era
bensì guerra civile, del 1943-49 (vedi gli scritti di Claudio Pavone); infine
gli Anni di Piombo. È sempre la stessa matrice. Ad esempio, le P38 che nel 1975
apparvero d’improvviso nelle mani dei militanti di ultra sinistra (“Poliziotto
fai fagotto/ è arrivata la P38!”) altro non erano che le Walther P38, le pistole
d’ordinanza dell’esercito tedesco, sottratte e nascoste dai partigiani che,
trent’anni dopo, le consegnavano ai figli con l’esortazione di “finire la guerra
contro il fascismo”. Ma il fascismo era morto e sepolto, non c’era più, e i
neofascisti erano un po’ come i tartari nel romanzo di Buzzati (che scrisse
nell’Africa Orientale, dov’era amico di mio padre: ne discutevano di sera). Ce
n’erano davvero pochi (alcuni dei quali mortiferi), e quei pochi non si facevano
certo vedere. Essendo la storiografia in Italia saldamente nelle mani della
sinistra, la vera storia del ventesimo secolo non è mai stata raccontata, né
tanto meno assimilata.
Cosa sono stati per te – cosa sono – gli Stati Uniti?
Meriterebbe una risposta fiume, essendoci approdato nel 1980. In nuce, negli
States ho fatto cinema, suonato in un gruppo, trovato moglie alla fine del
Sunset Boulevard in un contesto squisitamente romanzesco, mi sono laureato, ho
fatto il corrispondente per riviste europee di musica e cinema come membro della
Hollywood Foreign Press, fatto figli e messo su famiglia, vissuto in California,
Florida, Virginia, Maryland, conosciuto tutti e più di tutti e fatto amicizia
con grandi menti, scritto libri, libri e poi ancora libri, girato in lungo e in
largo, fatto e perso amici. Una vita. Gli USA mi sono sempre piaciuti per il
loro pragmatismo yankee; ora non li riconosco più perché quasi metà della
popolazione si è lasciata sedurre e indottrinare da un marxismo/globalismo
postmoderno che può portare solo alla fine dell’impero, e che, a parte essere
distruttivo, è, come gli si conviene, riduttivo, roba da duri di comprendonio,
vedi la suprema modestia di Marcuse, quindi intellettualmente tutt’altro che
stimolante, anzi, la morte cerebrale. Degli USA a tutt’oggi mi piacciono gli
spazi; sono appassionato di fuoristrada, e spesso vado nel South-West,
soprattutto a Moab, nello Utah, a cimentarmi nel rock-crawling, disciplina che
consiste nel superare a passo d’uomo ostacoli apparentemente insuperabili con lo
sfondo di una natura selvaggia e meravigliosa. In quanto a cultura, con qualche
eccezione (americani old money, MAI accademici, che sono marxisti e banalissimi)
preferisco frequentare pensatori europei o ispano-americani che risiedono in
America. Gli americani tipici sono bravi a inventare marchingegni straordinari e
a fare soldi. Ma a nessuno dei miliardari della tech interessa l’arte. I
Vanderbilt, Morgan, Rockfeller, Carnagie sono stati rimpiazzati dai Gates,
Bezos, Zuckemberg, Musk, ai quali arte e letteratura interessa meno di zero.
C’è poi un altro Paese che ha avuto un’enorme influenza su di me, specialmente
come scrittore: l’Inghilterra. Ma ne parlerò un’altra volta.
Quali sono i tuoi “maestri” di scrittura, i tuoi lari? In “Terrore e musica”, a
tratti, ho visto l’ombra di Bret Easton Ellis… Insomma, cosa ti piace leggere?
Mai letto Bret Easton Ellis. Casomai c’è l’influenza di George MacDonald Fraser
e della sua serie con Flashman come protagonista. Sono diciassette romanzi che
ho letto e riletto, e i primi libri che ho avuto la necessità di duplicare:
i diciassette tomi nelle casa in America, gli stessi diciassette tomi in quella
in Italia. Figurati che quando abbiamo avuto Rupert Sheldrake ospite da noi,
l’ho convinto a leggere Flash for Freedom!
I maestri di scrittura? Le influenze ormai sono infinite, e spesso insolite,
come ti puoi immaginare. Per esempio nei seguenti versi dell’umile canzonettista
Alvaro Carrillo, tratti dalla sua canzone Sabor a mí trovo più (disarmante,
cruda) poesia che nell’opera omnia di Pablo Neruda:
> “No pretendo ser tu dueño
> No soy nada, yo no tengo vanidad
> De mi vida doy lo bueno
> Soy tan pobre, ¿qué otra cosa puedo dar?”
Non frequento più librerie tradizionali da anni, ma spesso quelle che vendono
libri usati, e ce ne sono molte di più nel mondo anglofono. Entri senza sapere
che cosa stai cercando ed esci, quando la cerca va a buon fine, con una o due o
più gemme la cui esistenza ignoravi fino a poco prima. Mi divertono tutti i
libri della Adventure Unlimited Press, capitanata da quel mattoide di David
Hatcher Childress. Ciascuno di voi lettori dovrebbe leggere almeno un libro di
Graham Hancock, il quale fra l’altro ha inventato un nuovo genere: la narrative
non-fiction, che sembra un ossimoro, ma non lo è. Cominciate da Impronte degli
dei. Alla ricerca dell’inizio e della fine. Non posso non citare almeno qualche
autore di lingua spagnola al di là di Cervantes, Lope de Vega, Leopoldo Lugones,
César Vallejo, Xul Solar e Jorge Luis Borges: mi piacciono molto José Javier
Esparza e Pío Moa. Ce ne sono così tanti altri che l’intervista diverrebbe una
lista, il che non è di grande intrattenimento.
E ora… cosa scrivi? Cosa vorresti scrivere?
Ho appena terminato A Drive Down the Carretera Austral in Chilean Patagonia. Ho
guidato, cioè, fra andata, divagazioni e parziale ritorno, per 2600 chilometri,
da Puerto Montt a Villa O’Higgins, tutti esclusivamente in Cile e per la maggior
parte su sterrato. Le Ande bloccano le nuvole che vengono dal Pacifico, cosicché
la Patagonia cilena è una verdissima foresta pluviale temperata, mentre quella
argentina, un deserto. La Carretera Austral è stata costruita per volere di
Pinochet per poter mobilitare l’esercito contro le incursioni argentine, ma è
diventata un viatico per la natura più bella al mondo, fra vulcani, ghiacciai,
foreste zeppe di maestosi alberi a noi sconosciuti, laghi, fiumi, cascate,
fiordi, isole e isolotti. Il libro l’ho scritto di getto; vado a giorni a Londra
a parlarne con il mio agente letterario. Speriamo che per una volta esca entro
breve. Di solito gli editori, spesso duri di comprendonio, ci mettono anni ad
arrivarci…
*In copertina: David Byrne indossa “The Big Suite”; Stop Making Sense esce nel
1984
L'articolo “Sono patologicamente curioso”. Da Gladio alla Patagonia,
dall’occulto ai Talking Heads: dialogo con Guido Mina di Sospiro proviene da
Pangea.
Che cosa sta accadendo? Niente, semplicemente niente. O meglio, è niente in
quanto accade in me, solo in me. Non è che gli altri non se ne accorgano, anzi.
Eppure è qualcosa di più grande che non riesco a dire. Proviamo! È un’idea della
maschera, ma trasparente. Un diorama. Un vetro posto davanti a un paesaggio, per
descriverlo, per tenerlo sotto lo sguardo. Appena lo spessore di un vetro, che
non mente, non permette di mentire, posto di fronte alla profondità dello
spazio, per dire il mio sentimento… Sentimento, sì, è questo! Quello che si
scambiano Hatem e Suleika, un canto intenso per loro, misurato, come un universo
corale, maturo a tal punto da essere in grado di raggiungere una sorta di
fenomenologia interna, poetica dello stare in equilibrio, costretti dalla
necessità di questo e del pensarsi in questo. Quasi una metafisica dell’essere e
del rimandare all’indicazione montaliana di un più in là, sempre in cerca, per
trovare pace nello spettacolo del mare, dove l’uomo non c’è, se non in
superficie, o in contemplazione, distante/vicino, manifestandosi la necessità
umana dell’abbandono.
Come posso esistere ancora, se non per te. Oh, che cos’è tutta questa vita? Ore
incerte, la risposta, che è il titolo dell’ultimo libro di Silvio Perrella (Il
Saggiatore, 2024). È ricorrente, durante la lettura del volume, la parola
diorama, vuole riflettere, è il paesaggio descritto che viene avanti, insieme
alle immagini dei quadri di Redon, che percorrono il libro. E si potrebbe dire
che paradossalmente non hanno la funzione di illustrare, giacché sono parte del
testo, cercano l’identificazione perfetta che avvenga fra la parola e
l’immagine. Non stanno lì solo per un fatto decorativo, vogliono suscitare
un’identità fra parola e cosa. La parola deve essere quella, lirica, rotonda,
incisiva, tronca su un finale, azzurra di cieli e di attesa ad incipit di
racconto. Si apre un prodigio sotto i nostri occhi. La letteratura ancora dice,
può dire, può aiutare a capire (ci meravigliamo, ma se è fatta per questo!). E
pensare che si parlava di niente, all’inizio. Un bel salto!
Così come accade qualcosa nel nostro spirito, scorrendo le immagini da una
pagina all’altra, le riproduzioni dei quadri di Odilon Redon (dipinte fra
Ottocento e Novecento). Sono nello spazio alto e cerchiato di un oblò, spiccate
sul bianco, oppure a pagina intera, o di fianco, o a marcare un angolo basso.
Hanno il colore del gesso, e allo stesso tempo si approssimano alla cenere, in
quanto evento avvenuto. Intendono quell’universo che si va sbriciolando in tardo
neoclassicismo, estenuato, stremato, e perciò cupo, ma impregnato di sentimento,
di bellezza. Rappresentano la follia del mondo dopo la fine, o all’inizio della
creazione, che è quasi un ritorno all’essere, hanno inscritto sul proprio corpo
la pietà. Sembrano questo, e aleggiano a un teatro antico, risalente al tempo
delle maschere, maschere nude, ma indossate al momento che non servono più, in
atto di dissolversi. E senza maschera che sono? Ecco l’incerto, ma cosa si vede?
A volte una creatura redenta, aureolata, a volte statuaria, o arresa,
inginocchiata sul paiolo di una barca, il mare sanguigno. A volte un particolare
mostra in primissimo piano un effetto materico della pittura. Ma ancora ci
sfugge tutto, il libro è profondo, non si riesce mai a dire completamente, anche
se siamo attratti, allietati, la parola ci conferma, ci accompagna a un sicuro
divenire, ci porta a stare dentro le cose, la loro natura. L’amore di Hatem e
Suleika, i due personaggi in giro per la terra, che lo scrittore incontra nei
pressi della Zisa di Palermo. Noi seguiamo, ci lasciamo guidare, perché sentiamo
lo spessore dei maestri.
Il corpo della scrittura, che cerca e registra, assorbe e si fa reale. È un
libro di spostamenti, di viaggi. E nell’andare dice il punto in cui cade il
sipario, crolla letteralmente, e finisce l’epoca della rappresentazione.
Prospero, nel finale de La tempesta di Shakespeare, spezza la sua bacchetta
magica, non ha più poteri. Non si può più continuare. Che cosa resta? Tutto,
niente, il mondo, la sua immagine, il dover morire, l’io, il non-io. Mi viene in
mente un racconto di Daniele Del Giudice, di un naufrago che trova come unico
sostegno in mare un quadro, egli ci si aggrappa con tutte le sue energie e si
salva, prosegue la sua navigazione fantastica, da Venezia a Buenos Aires, per
raggiungere il luogo dove avverrà la sua mostra. In realtà egli è un pittore, il
quadro è suo, galleggia, ce la fa a sopravvivere. La soggettività ci soccorre.
Piccola cosa, incerta, appunto, ma nell’esperienza dell’eterno si compie. Natura
che si compie in un frammento, stiamo su quello, guardiamo da lì. Ripeto,
insisto: cosa si vede? Viaggi e viaggi per il mondo, irrequietezza, si cerca
dov’è morto il poeta, dov’è vissuto, dove ha sperato, e si va all’origine della
propria nascita, della vita. Un quadro che improvvisamente si svela (ancora
quadri, quadri), ma è sempre un particolare. Non ce la facciamo a dire
l’interezza che comunque ci riguarda. Eppure, nel dire questo, si apre il mondo,
si spalanca la conoscenza. Il diorama senza anima, senza Dio, è un mistero
assoluto. Come si fa a vivere?, si chiede Silvio Perrella, in giro per il mondo,
come si fa ad amare? Il quadro davanti a cui sostiamo ce lo dice, perché anche
il pittore si è posto le stesse domande, e una domanda dietro l’altra fa un
infinito.
Attualmente, dove c’è il vuoto si sovrappone il mito, e il mito permane ad
avvalorare la sua inconsistenza. Che mito è?, insensatezza di spirito, moda,
gestualità che si sostituisce alla parola, blablabla. Si potrebbe interpretare
come teatro dell’assurdo, ma non lo è. Qui la nascita non avviene. Ci troviamo a
fare i conti con questo. Estremismo dell’inutilità, ma forse è sempre esistito.
Oggi è più grave?
La radice del libro consiste nel fatto che si può dire ancora l’umanità. Dunque
cercare in lungo e in largo il senso. È ricerca di bellezza, di vocazione, è, in
una parola, la fiamma, il nucleo abbagliante della fiamma, lisergico ed
esegetico. Quel farsi luce nella luce che è il libro, la parola. Fare della
parola ricerca. Colpisce la forza del movimento; la motivazione a dire chiede
forma. Si potrebbe pensare che non basta, occorre trovare il punto di verità
della parola, che è un vissuto, il mistero e il tragico che si compiono, ma
senza strepiti, solo uno svanire, che è lo sguardo incerto sull’orizzonte, la
pupilla tremante. Chiedere: se non siamo lì dove siamo? Tutto sta in questa
riflessione, in questo inizio, che allo stesso tempo stabilisce una rotta,
un’attitudine. Chiunque verrà a distrarci non otterrà quello che vuole. La
parola infatti è strumento, modella il nostro pensiero. Siamo una relazione. Al
chiudersi del libro se ne apre un altro, e un altro ancora. Libro che è
personaggio e lettore. Stai sognando?, mi correggono: ma se la morte è lì, e ci
sorprende.
Mi ricordo un filmato-intervista su Calvino, un giornalista e lo scrittore
insieme a Parigi, visitano una zona nuova, un cantiere. A un certo punto, fra
gli scavi, uno strano uomo con la pipa, chinato, ha trovato dei resti umani,
risalenti a chissà quando, e li spolvera servendosi di un pennello. Stupisce la
sorpresa di quell’evento, e poi in diretta! Tutto fa contrasto, una nuova Pompei
si apre… Ma come?, a Parigi? Sui visi di quei tre uomini (perché del cameraman
non sappiamo niente) un’umanità rinnovata si rivela, quasi una gratitudine, la
vita conferma la sua forza, non siamo venuti qui per niente, siamo vivi, che è
persino un andare oltre la pietà, per via di quello che abbiamo di fronte, ed è
capitato a loro, che sono uomini qualunque nel mezzo di un evento inatteso.
Incredibile! A questo serve la letteratura, io penso.
Ma cosa c’è all’origine di questo libro? Vedrete che alla fine lo capiremo.
Ricominciamo, leggiamo l’inizio:
> “Entra pure, lettore; attraversa la soglia: dai una prima occhiata; posiziona
> gli occhi; metti il corpo in condizione di essere veicolo; preparati al
> viaggio”.
L’autore vive attraverso noi che lo leggiamo, è una scelta consapevole,
realistica e percettiva, forse più che percettiva, di verità, oltre Calvino, a
cui sembra riferirsi come modello. La lingua è invitante fin dalle prime righe,
si accosta all’antico, s’incarica di dire l’ampiezza che ossigena il respiro. Di
seguito si legge:
> “Non si tratta di un viaggio consequenziale; un andare rettilineo; un portare
> il passo da un luogo all’altro seguendo la disposizione giudiziosa di una
> mappa”.
Ed entriamo subito nel cuore della scrittura:
> “Si tratta piuttosto di un’altalena tra Oriente e Occidente, tra albe e
> tramonti, con soste su mezzogiorni allucinati scarni meridiani”.
Ci appaiono Hatem e Suleika, qui è quando l’autore li vede per la prima volta, e
così pure il lettore:
> “Nel Divano occidentale-orientale di Goethe ho incontrato Hatem e Suleika. Ed
> ero a Palermo, nelle vicinanze della Zisa, maniero arabo-normanno; e lì,
> rifacendo nuovo lo sguardo, m’è parso rivederli vivere come clandestini
> dell’esistenza, amanti per i quali Baghdad non è mai lontana, intenti a
> svernare i giorni tra diorami meridiane caleidoscopi jukebox in disuso e
> capelli così arricciolati da spezzare i denti dei pettini. M’è sembrato che
> dalla loro posizione ambigua seguissero i miei movimenti; e mi veniva voglia e
> desiderio di ricambiare per sottrarre attimi di meraviglia amorosa dai loro
> corpi avvinti”.
Il nostro universo, la nostra memoria, sono un affastellarsi di tavole
sovrapposte, ma non per formare barricate, bensì per costruire il nostro vissuto
inestricabile, che si struttura inizialmente come un accumulo e poi distingue,
allinea, va a rintracciare un solco che dai nostri piedi corre lontano. Lingua
immersa nella lingua-mondo, lingua geometrica per dire il mondo-prisma. Che
gesto è?… pur dicendo il frammento, aspira a collocarsi nel tutto. Siamo
nell’Ora denominata occidentale orientale:
> “Epoche, quasi ere: prima Bisanzio, poi Costantinopoli; sempre crogiolo e
> arzigogolo, necessità di contatti, Occidente di qua, Oriente di là. Sempre
> ponti da costruire, visibili invisibili fragili spezzati ricostruiti slanciati
> nella notte illuminati ad arcobaleno con campate sempre più ardite e
> slanciate. Il ponte di Galata sta rintanato nel Corno d’oro; le sue ambizioni
> si restringono a un contatto stretto tra due parti della città”.
Passando per l’Ora baltica (“Arcipelago bosco soprattutto acqua. Lieve è lo
sciabordio del mare, fa suono come un’eco lontana. Ma c’è, basta avvicinarsi ai
contorni terracquei e agisce. Ninnananna ipnotica”), in grande arco di tempo e
di spazio, arriviamo all’Ora americana (“New York, la baia lampo
nell’oblò-diorama, la sua disarmante acquaticità. Il taxi lo lascia sul margine
di un marciapiede; l’albergo non è lontano; il trolley lo segue. Su su fino al
piano della camera; dalla finestra i passanti nella lontananza verticale
sembrano disegnati da Saul Steinberg; il fuso orario fa girare i pensieri
all’incontrario”).
Tuttavia è a metà del libro che avviene una ricomposizione con il mondo che
siamo, è venuto il momento di un ricongiungimento, il Mediterraneo, nostos, non
a caso il capitolo s’intitola Ora di battesimo:
> “Essenzialità di Punta Licosa, terraferma a forma di isola che si accompagna a
> un’isolina. Vasta pineta sul mare, punteggiata di carrubi e soprattutto di
> fichi. Tempo frammisto a pietre scanalate, arenarie in scivolo obliquo su
> materie intermedie. Se la raggiungi quando è il suo turno nella scansione
> delle ore ti dà misura di te”.
Il discorso si fa universale, non è nostalgico, aspira a divenire tutto, perciò
anche nostalgia. Oriente e Occidente segnano il cammino, il flusso della parola
che è in andirivieni, avamposto al sentimento dell’unire. Non è Silvio Perrella
che ha scritto Da qui a lì (Italo Svevo, 2018)?, una riflessione sul ponte.
L’abbiamo detto, adesso però si accenna all’infinito, insieme a percorsi che
uniscono, aspirazione ad andare di là, e sposarla quell’altra riva,
attraversando le strade sospese, carreggiate aeree che ci stanno sulla testa.
> “Ogni ponte ne richiama un altro e tutti i ponti, mentre Hatem cammina su
> quello di Cordova, si danno a convegno di pietre, fanno che si guardi
> dall’altra parte senza chiedersi cosa davvero ci aspetti, quale nuovo
> quartiere, quale pezzo ancorato di città si disegni nell’aria. Hatem si
> avvicina al ponte vecchio e osserva la sua curvatura che per un attimo lancia
> gli occhi nell’infinito. Non si vede altro che cielo andaluso, quasi al
> tramonto, le luci dei lampioni ancora spenti ma in procinto d’infiammarsi per
> dare chiarore alla notte”.
Ma la luce, che per tutto il tempo della narrazione ha prevalso, ora si spegne.
“La luce declina”, “facendoci ciechi di noi stessi”, in Ora oceanica si legge:
> “A Porto si arriva per desiderio di finisterre, all’indomani di molte cume
> senz’oracolo, di ore abbandonate, di minuti spersi nel buio, di brilli e
> capoversi”.
Alla fine dello spettacolo luminoso che è la vita, non corrisponde un
indebolirsi della parola, anzi, aumenta la suggestione: “Sono morto senza
saperlo”. Ci affidiamo all’enigma che siamo.
Vincenzo Gambardella
*In copertina e nell’articolo: opere di Odilon Redon (1840-1916)
L'articolo “Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di
Silvio Perrella proviene da Pangea.
C’è chi scrive, e poi ci sono le voci. La prima condizione non presuppone la
seconda. Difficile per il lettore districarsi e distinguere, nonostante la
differenza sia sostanziale. Una voce ogni quanti? Nel mare magnum dato alle
stampe il rapporto potrebbe essere di 1:100, ma non voglio azzardare una stima.
Mi perdo in queste considerazioni durante la lettura di Donnaregina, l’ultima
fatica di Teresa Ciabatti appena uscita per Mondadori con Antonio Franchini in
veste di editor – lo stesso Franchini che, con Il fuoco che ti porti
dentro (Marsilio), mi ha fatto passare l’estate scorsa a chiedermi se in realtà
sua madre non fossi io. Ma torniamo a Teresa Ciabatti. Al di là di cosa
racconti, la sua voce è sempre la stessa, mi sembra di sentirla sin dalle prime
pagine e mi riporta indietro – la voce di Teresa Ciabatti è come una madeleine –
a quella che ero quasi dieci anni fa, quando leggevo La più amata – il suo libro
più conosciuto, quasi vincitore del Premio Strega – e sognavo di diventare una
scrittrice. Le nostre storie si sfiorano senza incontrarsi come quella di Teresa
Ciabatti e Giuseppe Misso – il super boss e personaggio chiave nella storia
della camorra – la cui vita decide di raccontarci. Vado avanti nelle pagine
mossa non tanto dalla curiosità della vicenda ma dalla narrazione dell’autrice
che compare fra le righe, perché è lei che cerco.
Quando comincio a leggerla lei è un’autrice affermata, io non sono nessuno. Ma
sogno di diventare un’autrice affermata anch’io e inseguo la sua voce. O forse
non sono io a inseguirla: è quella voce che mi cattura, la stessa che parla dei
genitori entrambi morti (fortune?), dei traffici del padre massone, della madre
depressa ma, soprattutto, che parla di sé.
Una voce smodata, eccessiva, mitomane. Che non risparmia nulla, in primis a se
stessa.
Come la Madonna vergine e madre, come l’Uomo che è sempre buono e cattivo, anche
Misso ha una natura duplice, e in Donnaregina ci sono due protagonisti, i cui
destini s’intrecciano pur proseguendo su binari paralleli, ciascuno con le sue
cadute, con le sue finte risalite, con le speranze e gli intenti. Mi lascio
trasportare dagli incisi che alludono e dalle digressioni – artifici di Ciabatti
– sono un po’ la sua firma – nonché resi possibili dal suo guardarsi
dall’esterno: un vezzo che si chiama dissociazione ed è un sintomo psichiatrico.
E allora Teresa Ciabatti – Nostra Signora di Orbetello, anzi, Nostra Signora
della Liberatoria, compie il miracolo: non si limita a intervistare il boss,
addirittura ad affezionarvisi, consegnandoci un ritratto fra il folkloristico e
l’umano.
Nel suo racconto non si distingue più cosa è vero da cosa è falso, chi è figlio
di chi, la trans dall’autolesionista, perché tutti i figli so’ piezz’ e
core. Donnaregina è infatti un libro che indaga il confine sottilissimo – tanto
sottile da diventare impercettibile – fra fiction e non fiction, ciò che si
ispira al vero e diventa falso, mentre il falso è come se fosse vero e allora,
mi chiedo, in questo punto esatto in cui Ciabatti ci porta, siamo davvero sicuri
che ci serva il permesso di qualcuno per scrivere? A quanto pare sì. Lo spettro
della liberatoria aleggia infatti in tutto il libro, è come un coro greco che
sul più bello della narrazione torna col suo lamento.
Ormai mi sembra di sentirla anche se smetto di leggere, mi ossessiona tanto da
parlarne al dottore: dobbiamo forse aumentare il litio? Lui mi rassicura:
personalmente non l’ha mai letta ma ha sentito dire che può fare questo effetto.
Andiamo avanti così.
Se nessuno scrittore è capace di deprimermi più di Michel Houellebecq, l’unica
scrittrice italiana da cui sono ossessionata è lei, e a prescindere da cosa
scriva. Forse perché le sue protagoniste, nonostante i numerosi privilegi di cui
godono e che ci mostrano – la piscina a Orbetello, la casa in centro a Roma, la
tomba del padre messa in sicurezza prima di tutte le altre – sono disperate. Una
disperazione che non smettono di ostentare, e che le rende ridicole, a tratti, e
così tragicamente umane. La stessa Ciabatti lascia trasparire la sua
disperazione: è alle prese con la crisi della figlia adolescente alla quale non
impedisce di fare la ricostruzione delle unghie perché è pur sempre uno slancio
vitale – e la sua amica Michela Murgia sta morendo. Quando cerca di rassicurare
se stessa mentre il mondo va in pezzi, illudendosi che andrà tutto bene durante
la cena in giardino, diventa tutte e tutti quando proviamo ad andare avanti,
anche leggendo storie che ci aiutino a vivere.
Ma veniamo alle assonanze che giustificano in parte la mia ossessione. Anche io
sono una donna di mezza età con una figlia adolescente, anche io saluto
l’intrepida ragazza che sono stata e in più il mio culo sta franando come il
cimitero di Orbetello. Lavori in corso. E ancora: anch’io vorrei dare una svolta
alla mia carriera – non sono più un’aspirante scrittrice, ma per scrivere dovrò
senz’altro procurarmi la liberatoria di qualcuno. Bei tempi quando bastava
l’avvertenza “ogni riferimento è puramente casuale”, oggi senza liberatoria non
sei nessuno, non si va da nessuna parte, si è dovuto rassegnare anche Emmanuel
Carrère. Come avverte lei nel disclaimer però il cimitero non è mai crollato,
quindi c’è ancora speranza.
Così, mentre leggo aneddoti ai limiti del trash sono commossa, faccio un post su
instagram, poi mando un messaggio a Ciabatti con le mie impressioni. Su wapp
Ciabatti commenta: Solo tu noti i dettagli marginali, sei la mia lettrice
ideale. E invece no. Io registro le informazioni a margine perché in realtà a me
della storia di Misso – della storia del boss che sto leggendo da duecento
pagine – pur nascendo napoletana, non me ne frega un cazzo. Delle rapine, del
carcere e dei morti ammazzati, del rione Sanità e della sua passione per i
colombi.
Mi chiedo allora cosa mi tenga incollata alle pagine. E adesso finalmente lo so.
In questi duri tempi in cui per scrivere prima ancora della penna serve la
liberatoria, a decretare la grandezza di un libro non saranno la trama,
l’editing o la strategia. Sarà la voce. Una voce che catturi nella prima pagina
e che conduca all’ultima, al di là dell’argomento. Che si parli di crociate,
della caduta del regno delle due Sicilie o di una Fortezza in mezzo al nulla,
non importa, a fare il libro sarà la voce che (e se) vi è contenuta. Una stessa
voce che compaia in libri diversi della stessa autrice, come una chimera, una
promessa mantenuta, un balsamo che invece di lenire ossessiona.
Non so dire allora se Donnaregina sia o no un grande libro, ma quello che so per
certo – da scrittrice e da lettrice – è che quella di Teresa Ciabatti è
inequivocabilmente una grande voce.
Fuani Marino
*Fuani Marino ha pubblicato con Einaudi “Svegliami a mezzanotte” (2019) e
“Vecchiaccia” (2023)
In copertina: John Singer Sargent, Lady with a Blue Veil, 1890
L'articolo Inseguire la voce, ovvero: sulla mia ossessione per Teresa Ciabatti
proviene da Pangea.
Scriveva Nietzsche nel 1881, che la filologia – arte di oreficeria verbale – ci
consente di sottrarci alla fretta, alla “precipitazione indecorosa e sudaticcia,
che vuol ‘sbrigare’ immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo”.
La lentezza del procedere filologico diventa così un modo di aprire fenditure
nella superficie per prendersi tutto il tempo, raccogliere tutto il silenzio
necessario, per andare dentro le cose “con dita e occhi delicati”. Il
volume Aneddoti letterari da Petrarca a Scheiwiller (Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma 2024), a cura di Antonio Ciaralli e Carlo Pulsoni,
rispettivamente docenti di Paleografia latina e Filologia romanza all’Università
di Perugia, restituisce lo sguardo paziente degli studiosi.
Nella presentazione del volume, gli autori non mancano di sottolineare come il
richiamo nel titolo a Benedetto Croce, non possa far dimenticare la ben nota
avversione nei confronti della filologia, “incompatibile col proprio sistema”;
segno, per quanto ci riguarda, della serietà con cui sono disposti a considerare
perfino i limiti del procedere filologico, reo, secondo alcuni, di raffreddare
la potenza di un’opera letteraria, pur di ricostruirne le vicende che l’hanno
generata. Ma andare in profondità vuol dire entrare senza remore dentro l’epoca,
ricostruendo la storia della letteratura e della filologia in modo tale da far
irrompere questo passato, che soltanto, appunto, in superficie pare
archeologizzato, quindi morto, nelle espressioni di storia della letteratura e/o
della filologia, come fuoco vivo dentro il presente, sempre impegnato con
dannata fretta a liquidare sé stesso per inseguire un domani che si fa
contenitore vuoto.
I cinque capitoli che compongono il libro consentono salti temporali che vanno
dal Petrarca – con il riconoscimento della parziale autografia del manoscritto
Vaticano latino 3195, testimone dei Rerum vulgarium fragmenta del poeta, vero e
proprio punto di svolta nella storia della filologia petrarchesca – a Vanni
Scheiwiller, al mondo dell’editore milanese, al ruolo cruciale svolto nella
“riconciliazione ideologica” tra Pasolini e Ezra Pound. Il capitolo si apre
infatti con la fatidica data del 26 ottobre 1967 – specificando pure che si
trattava di un giovedì, sicché, al lettore, pare quasi di essere trasportato
personalmente indietro, dentro un incontro così carico di significati, non fosse
altro che soltanto la Poesia è in grado di superare gli steccati di vedute
ideologiche e politiche così diverse. Ma le coordinate di questo straordinario
incontro sono anche geografiche: Venezia, Calle Querini Dorsoduro 252, luogo di
riconciliazione.
26 ottobre 1967, giovedì
Senza tacere della relazione tra lo stesso Scheiwiller, Pasolini e il poeta
Biagio Marin, di cui il secondo fu sincero e vivace promotore e amico. In mezzo,
ci sono Leopardi, Montale, Ungaretti e Mario Praz. Lo spirito che anima questi
scritti e che illumina il senso profondo dello studio filologico è evidenziato
nella stessa introduzione, in cui Ciaralli e Pulsoni scrivono, a proposito del
ritrovamento del manoscritto su Petrarca, scoperto per la prima volta nel 1886
da Arthur Pakscher e Pierre de Nolhac, che la storia di un manoscritto finisce
con il riflettere lo spirito inquieto di un’epoca. Non a caso, proprio il
ritrovamento di questo manoscritto ebbe dei veri e propri risvolti politici, in
tempi in cui certamente filologia e storia concorrevano a ricostruire,
determinandola, l’identità nazionale degli Stati in Europa, in modo tale che la
supremazia negli studi storici e filologici garantisse in qualche modo
(blindandola, aggiunge chi scrive) quella sul piano politico. Perciò, guardando
dentro l’epoca e i suoi fermenti, possiamo osservare come le pretese
imperialistiche degli stati europei esondassero i piani meramente politici e
militari coinvolgendo, appunto, anche la filologia. Il capitolo su Ungaretti –
in particolare sulle varianti di Gridasti: soffoco – nella premessa sottolinea
la “difficoltà oggettiva” nel ricostruire origine ed evoluzione del testo. Come
giustamente rilevato da Marco Grimaldi, ciò è favorito anche dall’epoca digitale
in cui viviamo che, se da un lato consente una maggiore facilità nell’offerta
documentale al pubblico, dall’altro pare indurre surrettiziamente gli studiosi a
rinunciare alla ricostruzione (resa stratigrafica) del cammino di un’opera nel
tempo. Il volume, dunque, esprime fin troppo bene la cura da “sacerdoti della
memoria” che gli studiosi come Ciaralli e Pulsoni profondono in queste
discipline, che risalendo dentro la polvere del tempo sedimentata sulle opere,
le restituisce al loro ambiente, vive.
Livia Di Vona
L'articolo Sia lode a Madama Filologia, ovvero: sul manoscritto di Petrarca e il
leggendario incontro tra Pasolini & Pound proviene da Pangea.
Uno sguardo profetico: “Altrove dichiara che nella storia degli uomini vi è
certamente un progresso, che ‘l’uomo è sensibilmente migliore di quanto non era
[in passato]’, ma che tutte le civiltà, ognuna a sua volta, ‘tengono nella
storia per un momento la fiaccola del progresso’, poi sono fatalmente colte
dalla decadenza e non sono più rappresentate che da ‘cari vecchi popoli’,
costretti ormai a rimettere ad altri la direzione dell’evoluzione”.
Appunti di stile: “La pittura accademica e i libri scritti nella lingua
letteraria sono incapaci di provocare l’emozione. La pittura presenta la realtà
sotto una falsa luce, la ‘luce dello studio’. E i libri utilizzano una ‘lingua
morta’, che è una falsa lingua, quella dei mandarini. Gli scrittori devono
dunque fare quel che hanno fatto i pittori della scuola impressionista. Devono
ritrovare la lingua vera, creatrice di emozione, così come i pittori hanno
ritrovato la vera luce. Ebbene, Céline è l’unico scrittore a cui sia riuscita
questa traslazione. Egli è tornato allo stile parlato e l’ha reso emotivo. La
nuova lingua della quale è l’inventore è lo stile emotivo parlato: ‘L’emozione
non si lascia captare che nel parlato… Il compito dello scrittore è quindi
semplice: si tratta di captare l’emozione del parlato e di «riprodurla»
attraverso lo scritto, al prezzo di mille sofferenze, mille pazienze che nemmeno
s’immaginano! Chiaro, eh?’”.
È in libreria Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche (ITALIA Storica
Edizioni, 2025, a cura di Andrea Lombardi, con traduzione di Moreno Marchi). A
un primo sguardo Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche parrebbe solo
l’ennesima voce in un coro già affollatissimo di biografie dedicate all’autore
di Viaggio al termine della notte: un mattone in più accatastato accanto a una
decina, forse venti, Céline che già gremiscono gli scaffali. E invece c’è un
carburante segreto che lo fa scattare avanti: una vera “complicità” – quasi una
dipendenza reciproca – fra biografo e biografato, entrambi forgiati da uno
stesso sguardo ferocemente disincantato sul mondo.
Scrivere di Céline resta un terreno minato: senti alle spalle il suo ghigno
pronto a sconfessare ogni aggettivo. È il pedaggio che ogni céliniano paga. Per
decenni lo scrittore ha incassato le interpretazioni più disparate,
dall’acrobaticamente dotto al ridicolmente balzano. Bardèche, però, non si fa
cogliere impreparato. Sa che la biografia è impastata di storia, così come la
storia scolpisce i destini individuali e collettivi. E lui, insieme a Céline,
quelle tempeste le ha attraversate in prima linea, talora fianco a fianco,
talora su fronti divergenti ma sempre dentro lo stesso turbine.
Il risultato è un corpo a corpo fra titani: da una parte uno dei narratori più
dirompenti del Novecento; dall’altra un critico-saggista tra i più acuminati,
prolifici e irrequieti della sua epoca. Ne esce un ritratto che, più che
aggiungere un altro Céline agli scaffali, costringe a riconsiderarli tutti.
Carlo Tortarolo
**
Da “Louis-Ferdinand Céline”
Non avevo intenzione di scrivere un libro su Céline. Il mio progetto consisteva
nel ricercare perché, come la letteratura di narrativa avesse cessato di essere
una creazione artigianale umilmente presentata agli acquirenti, e come, perché
essa sia divenuta, per la maggioranza degli scrittori, un modo di presentarsi,
di affermarsi, insomma un esibizionismo. A ciò contribuiscono molti fattori. Non
pretendo di esporli tutti. Volevo soltanto individuare degli itinerari, cercare
di capire da qualche tipico caso, come alcuni autori fossero stati indotti a
sostituire i loro studi con un one man show, come avessero abbandonato la stessa
idea di avere uno studio, una fucina e perché, come avessero sostituito al loro
dovere professionale uno strip-tease inteso sia quale esibizione muscolare sia
quale apologia e sovente entrambe assieme. La trasformazione dello scrittore in
divo dello show-business esigeva uno studio sociologico che trovavo al di sopra
delle mie forze. Volevo limitarmi ad analizzarne tre esempi: quelli di
Jean-Jacques Rousseau, di Léon Bloy e di Céline.
Tale modesta inchiesta era quanto potevo fare.
Non conosco molto bene l’opera di Céline. Da lontano trovavo nella sua carriera
di scrittore una soddisfacente risposta alla questione postami. Egli venne
indotto all’esibizionismo dalla persecuzione. Il suo esempio fu edificante:
s’era lanciata contro di lui una muta, che lo aveva costretto a far fronte e a
difendersi, che aveva distrutto in lui lo scrittore, facendone un animale di
bosco non potendo far altro che emettere grida, malgrado lui, esibizioniste. Era
divenuto un esibizionista perché aveva dovuto giustificarsi: come Jean-Jacques,
come Léon Bloy.
Mi accorsi allora che la sua opera non era, come credevo, come molta gente
crede, un’opera autobiografica, ma che Céline era un affabulatore, il quale
aveva usato come canovaccio il proprio itinerario biografico. Più m’informavo,
più verificavo e più constatavo l’estensione dell’affabulazione. Capii che di
questa sistematica deformazione egli aveva fatto uno dei principi della sua
tecnica narrativa. Dovetti anche ammettere che era stato quell’artigiano che
speravo ritrovare nello scrittore: il suo coraggio, gli scrupoli, le infinite
correzioni, il suo accanito lavoro corrispondevano alla perfezione con la
probità da me opposta all’attrazione dell’esibizione.
Le cose non erano dunque così semplici come immaginavo. Céline era al contempo
un artigiano e una rockstar, non perché traeva i racconti dalla sua esistenza,
ma perché gridava, misurava il palco, suonando la sua selvaggia musica,
impegnando in simile denuncia della realtà ciò che di più profondo e vero era in
lui, mettendo “sul tavolo”, come diceva, “la sua pelle e le sue trippe”. Era la
definizione stessa del poeta lirico: secondo Musset, così come secondo Rimbaud o
Baudelaire. Céline finì per confessarlo.
Presentò il chiarimento scenico sullo scrittore quale un diritto, un privilegio
ed addirittura una necessità.
Mi trovai quindi davanti ad uno sconosciuto che metteva a soqquadro la mia
arbitraria classificazione. Avevo cominciato, decisi di continuare.
Davanti a questo sconosciuto provai disparati sentimenti. Era stato esaltato e
violentemente attaccato. Era stato ammirato e odiato. Tali contrasti non mi
dispiacquero. Ma più ne avevo conoscenza, più li trovavo estranei alle qualità
che amo trovare in un uomo. Mi apparve fanfarone, bugiardo, arrogante,
chiacchierone, tonitruante prima e lagnone poi. Ammirai il suo coraggio
allorquando si fece tribuno. Vedevo un intrepido volontario affrontare l’odio,
rischiare la vita. L’impetuosa carica mi fece dimenticare quanto di lui sapessi.
Mi apprestai ad ammirarlo nelle tribolazioni. Quelle da lui attraversate
rinnovarono la mia simpatia: pensai alla prigione di Tasso, alle infermità di
Cervantes. L’incontro mi deluse: lo scoprii egocentrico, ingiusto, stridulo,
vanitoso come un uccello di cortile. Cos’è uno scrittore che non accetta la
responsabilità di quel che ha scritto, quando quel che ha scritto è stato per
altri mortale? Capii che egli fu al contempo un eroe ed il suo contrario: un
irresponsabile.
Irresponsabile perché in lui è tutto contraddizione. Mescola tutto, il cinismo
che ostenta, la bontà che nasconde. È un utopista, sogna per gli uomini un
inaccessibile benessere, ma allo stesso tempo, non si fa su di loro alcuna
illusione. Il suo amore, la sua pietà vengono contraddetti ogni istante da ciò
che vede e descrive. Bugiardo quando parla, quando inventa, detesta la menzogna
degli uomini e denuncia la perpetua commedia che recitano tra loro, come
scrittore egli persegue aspramente la verità: quanto sa degli uomini, la
cattiveria, il sadismo, l’isteria, la vanità della loro vita. Tale verità, così
crudele, concreta, brutale, imbarazza, offende. E quando la si estende a tutto,
ai regimi come agli uomini, più non si vede cos’abbia di generoso: essa provoca
l’odio. Si trattava di un compito troppo arduo per lui, di un fardello che non
ha saputo portare.
A causa di questo cinismo, non solo professato, ma per così dire statutario,
tutta una parte di lui stesso non riesce a esprimersi e va indovinata. E per
attimi la s’indovina quando il suo linguaggio, quel famoso linguaggio così
osceno, così sconcio, si flette. All’improvviso la voce diviene musicale e
triste. Dietro al teppistello si avverte un’ombra, come nei Campi Elisi degli
Antichi, tendente delle braccia translucide verso i vivi in visita ai morti. È
un’apparizione, quella di un altro, di un prigioniero di colui che scriveva,
un’anima intravista che chiede di essere liberata e che vuole si sappia.
Quest’ombra è il Céline incompreso, terminante una delle sue prime interviste
con il dir degli uomini: “Ah! avessero potuto amarsi!”, esclamazione incongrua
ed enigmatica; senza commenti. Pertanto sono le parole che riprende alla fine
della sua esistenza, quando scoraggiato scrive: “La gente dice è un bruto, non è
vero, io sono tutto cuore”. Ci aveva messo vent’anni a scoprire ciò che chiamava
“il terribile pericolo dell’aver buon cuore”.
Ho voluto conservare, presentare come conclusione del mio ritratto di Céline la
sua immagine custodita da coloro che gli furono vicini, Pierre Monnier, Arletty,
Robert Poulet ed anche Barjavel: una buona fata sotto le sembianze della fata
Carabosse.
Per riconciliare i due Céline, quello che si mostrava in primo piano occupando
l’intera scena e quell’ombra che domandava giustizia sulle sponde del fiume
della morte, immaginai una spiegazione che si ponesse al centro della mia
presentazione. Punto di partenza è l’immagine che lo scrittore si fa di se
stesso e che in ogni sua opera del dopoguerra appare come un’idea fissa: tale
panoplia comprende la ferita durante il combattimento nelle Fiandre, la sua
anima di “sottuff.” effettivo, la medaglia militare, indispensabile accessorio
sovente ricordante lo sconosciuto Céline posto sotto i travestimenti di Bardamu
e di Ferdinand. Cardine di simile spiegazione è la maggiore e più determinante
crisi della sua vita, gli anni di prigione e di esilio in Danimarca e l’ingiusta
persecuzione di cui fu vittima. Questo “eroico” Céline da anni camuffato in un
Céline chiacchierone ed ingombrante è quello che un giorno ebbe l’idea di
caricarsi di una supposta missione di sacrificio al servizio degli uomini. Tale
suo periodo di vita, che i biografi attraversano in punta di piedi, è molto
interessante. Se ne scorge il vero carattere. Innanzitutto, l’ingenuità. Il
cinico, l’insubordinato si toglie la maschera: si vede comparire uno zelante, un
“fanà”, dicono i militari, un maresciallo agli alloggi che si dà volontario per
una missione pericolosa. Al contempo, l’irriflessione: “Cos’andava a fare in
quella galera?”. Al contempo, l’inesperienza. L’odio lo sorprenderà: cosa
aspettava dunque? “Forza, piccolo!”, come a undici anni quando accompagnava il
padre con un fagotto sulle spalle. Infine ne veniva fuori tutto quel che fa il
conservatore, compresa l’intransigenza, il semplicismo, la perentorietà.
Insomma, secondo me sull’autore di Viaggio al termine della notte si erano
sbagliati tutti.
In seguito, nel pericolo e nella sofferenza che sondano reni e cuori, appare un
altro uomo: quello che la sua immaginazione trasporta così come lo aveva
trasportato nella galoppata dei pamphlet. Giustamente egli ha paura, fugge, ne
ha ben ragione. Ma nel momento in cui non teme più niente, è ancora prigioniero
del panico. L’illusione della persecuzione muta le forme di ciò che lo circonda:
geme, grida, accusa in un incubo. Per giustificarsi si ripiega allora sull’idea
di essersi sacrificato, volontariamente sacrificato, che era stato l’unico ad
averlo fatto. Quindi si costruisce una propria maschera, o piuttosto si ritrova
tale era davvero, ravvivando con ostinazione l’immagine tutelare, ispiratrice
che si era fatta di sé all’epoca dei suoi pamphlet, i quali, diceva, io avevano
guidato: il valoroso combattente del 1914, glorioso ferito di guerra,
irreprensibile patriota, perseguitato da un’odiosa cospirazione, fuorviato in
un’abominevole avventura che lo altera e da cui non riesce ad estrarre la storia
di sé che vorrebbe imporre: quella di un resistente alla guerra,
all’Occupazione, che è stato deportato in Prussia e che sotto il terribile
stivale danese ha subito sofferenze sfidanti l’immaginazione.
Simile cambiamento a vista fu un po’ brutale. Céline trovava il percorso assai
semplice, logico, evidente. Nessuno condivise tale convinzione. Egli vi si
rifugiò, la mantenne per sé, senza riuscire ad imporla. Ma, per difendersi dagli
uomini, si costruì un’altra maschera, opposta alla prima. Non più il cinico, ma
il vinto, il relitto. Ha scoperto l’odio e vi risponde con l’odio, è lui ad
usare il termine. “Io sono tutto cuore”, specifica a volte l’epilogo… Non
dimentica niente. Non ha però il diritto di esprimere la sua rabbia. Si
protegge, come può, sotto il suo ultimo mascheramento, una canadese da esiliato
nel fango di baroni: diffidente, sornione, prudente, “in guardia”, come dice,
traduzione della frase di Descartes: “Larvatus prodeo”. Ed a questo punto la
trasparenza non lascia passare altro che un’immagine, la più sorprendente di
tutte, quella di un uomo che, non credendo a nulla, crede ancora al premio Nobel
e alla Pléiade.
L’immagine che Céline si faceva di sé io la credevo vera. Noi non siamo quel che
siamo, ma quel che crediamo di essere. L’ha detto Pirandello e prima di lui
Pascal. Perché non spiegarlo attraverso l’immagine che si faceva di sé? Come
ognuno di noi. Egli ha diritto ad un giusto processo. È uno da rimettersi
all’immagine che il Partito si fa obiettivamente della nostra condotta?
Si può allora dire che Céline fu uno scrittore “fascista”? Non si è
necessariamente fascisti perché si è portato un plico sotto le palle, non di più
perché si è antisemiti, in qualunque partito vi sono gli antisemiti, né perché
si è desiderata un’alleanza franco-tedesca onde assicurare un avvenire di pace.
Non è nemmeno “razzista”, in quanto la sua angoscia davanti al declino della
razza bianca non ha niente in comune con il dogma della superiorità degli
ariani, essa esprime l’ansietà dell’igienista che egli sempre fu. Con la sua
condotta, con la sua attitudine Céline è profondamente estraneo all’energia, al
rigore, alla determinazione rivendicate dai “fascisti”: ed ancor più ad una
rigidezza da loro ostentata. Lo si crede fascista a causa dei suoi pamphlet: non
lo è più di quanto non fosse comunista quando scrisse il Viaggio. Egli non è né
coerente né sistematico. Vi è in lui qualcosa di molle, a volte di debole: in
alcuni momenti fa pensare ad un ubriaco incontrato per caso e che tra i
singhiozzi ci racconta la sua storia. Essa può interessare, l’ubriaco la
sviolina abbastanza bene. Lo si può amare, ma senza illusioni. Ad ogni modo è
inclassificabile e ci s’inganna quando si pretende di appropriarsene.
Maurice Bardèche
*Per gentile concessione si pubblica un passaggio dal “Louise-Ferdinand Céline”
di Maurice Bardèche, edito da Italia Storica Edizioni, pubblicato in origine da
La Table Ronde nel 1986
L'articolo “Io sono tutto cuore”. Artigiano e rockstar, osceno e candido:
Maurice Bardèche sfida Céline proviene da Pangea.
Il flagello: così s’intitola una poesia de Il conte di Kevenhüller,
straordinaria raccolta di Giorgio Caproni – uscì per Garzanti, era il 1986.
L’esergo recita: “Su un’Invenzione di Ginevra Bompiani”; la nota chiosa: “Chiedo
perdono a Ginevra Bompiani per la mia quasi delittuosa distorsione del suo
splendido racconto intitolato La cerva cornuta”. In effetti, la poesia pare
quasi un calco dello “splendido racconto”.
“In perpetua corsa.
Nessuno era mai riuscito
a osservarla vicina.
Di lei, si sapeva soltanto
che razziava nei campi
Ma chi, chi non razziava
– ogni giorno – nei campi?
E quale voracità
poteva avere, una cerva,
per creare un flagello”.
Così Caproni; così Ginevra Bompiani: “…è difficile che qualcuno l’abbia guardata
da vicino. Di lei si sapeva che razziava nei campi. Ma chi non razziava nei
campi? E che appetito poteva mai avere una cerva da costituire un flagello?”.
Il racconto, tutto un precipizio, rilegge la terza fatica di Eracle, la cattura
della cerva di Cerinea. Alcuni passi sono molto belli:
> “La cerva non rappresentava altro pericolo che quello del desiderio. Il
> desiderio di andarsene. Anche per sempre. Quello era il desiderio che lui
> doveva spegnere, accollandoselo; una vertigine, lo spasimo di buttarsi nel
> vuoto precipizio; bisognava che lui ci scendesse vertiginosamente, rischiando
> di ruzzolare fino in fondo, sollevando sterpi sassi e radici sotto ogni passo,
> perché la loro saggezza si risolvesse un’altra volta a star ferma, ad
> accontentarsi, a non desiderare più”.
A un certo punto si dice che Eracle insegue la cerva “come un aspirante suicida,
non come un eroe guerriero”.
Il racconto è estratto dalla seconda parte (La stanchezza) di un libro che
s’intitola Le specie del sonno. Uscì nel 1975, per “La biblioteca blu” di Franco
Maria Ricci, tirato in tremila copie. In copertina: un cammeo in cui Eracle
tiene per il collare Cerbero, il cane infero. Ripreso nel 1998 da Quodlibet,
Giorgio Agamben – che, tra l’altro, ha curato la raccolta postuma di
Caproni, Res amissa – ne ha scritto come di “un classico ritrovato nella
letteratura italiana del Novecento”. All’epoca – nel ’75 – Italo Calvino firmò
un’introduzione accuratamente algida, in cui diceva che “L’occhio di Ginevra
Bompiani fissa gli emblemi mitologici come macchie di Rorschach, con la
differenza che il suo sguardo non può essere ingenuo e che il potere di
fascinazione di queste figure non può essere quello di ciò che è visto per la
prima volta”. La quarta parlava – in forma più brillante – di “un libro
assolutamente unico nella letteratura italiana, che riunisce in esemplare
equilibrio la grazia un po’ improbabile di un bestiario medioevale e il rigore
quasi scientifico di un trattato di mitologia”.
Sono troppi gli autori del Novecento che hanno usato la maschera del mito, fino
all’usura – da Camus a Pavese, da Rilke a Broch, da Marguerite Yourcenar a
Ghiannis Ritsos, da Julio Cortázar a Borges a Robert Graves –: la Bompiani
arriva ultima, sorprendendo “le creature del mito nei loro gesti più quotidiani
e immediati, cioè nel loro assoluto ignorare di essere mitiche” (Agamben). Più
di recente, in ambito anglofono – Anne Carson, Alice Oswald, Susan Stewart, Pat
Barker – il mito ha dato misura di sempiterna inesauribilità. Ma questo è un
altro discorso.
Cinquant’anni dopo, Le specie del sonno mantiene il ritmo di una sagace
inattualità, è testimone di una immaginazione perturbante. Nel racconto che dà
il titolo alla raccolta, ad esempio, si dice degli ermafroditi:
> “Fatti per l’amore, e incapaci di provarlo, a loro non resta che la
> malinconia, il sonno infantile e il dispetto”.
Insonni, invece, sono i Centauri. Vivono il doppio degli uomini, di cui
afferrano, in razzia, le donne. Una ferina inquietudine li rende, al contempo,
avidi di ogni sapere ma incapaci di trasmetterlo, di farne uso:
> “A che scopo infatti costruire casa focolare giardino se non ci si può dormire
> in mezzo? A che scopo fabbricare utensili se l’irrequietezza propria agli
> eterni vigilanti li costringe a cambiare continuamente quartiere, a
> trascorrere in solitudine da una collina all’altra, da una grotta a un fiume
> montano?”.
Creature dell’istante, pari a rapaci, la sapienza dei Centauri è equivalente
alla pura insipienza: la loro vita, un pozzo.
Riguardo agli angeli, è scritto che “guardano altrove”, intimoriti dal loro
annuncio, che spartiscono per obbedienza, senza prendervi parte, come il pane
sbriciolato per i piccioni, a orde. Tra tutte, una lassa è di folgorante
bellezza:
> “Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli. E quando sarà caduto
> nel vostro giardino, col petto insanguinato e le ali che sbattono debolmente
> sul terreno, avvolgetegli il capo e posatelo sulle vostre ginocchia, facendo
> da cuscino alla sua agonia; e guardando la vostra casa, respirate di sollievo,
> vedendola uscire con la consueta lentezza dalla penombra mattutina”.
Che raffinatezza intrisa di sangue. In questo gioco di specchi e di venefiche
pozioni, a volte, vorremmo la bestia in disastro, che balzi dalle pagine per
fracassarci il corpo – per farlo infine fruttificare. Ma sono dettagli, perché è
proprio il rigore da entomologo – ardore geometrico che precipita nella pazzia –
a rendere un libro tanto improbabile, autentico. Il talento per la sprezzatura
non sempre è eccidio, a volte finisce per essere incendio. A volte, intendo, la
limpidezza non è austera: è come mettere una sedia di fianco al muro di una
casa: sali, lettore, entra di soppiatto nella camera da letto.
Max Klinger, Centauro inseguito, 1881
Ne Il calore animale, ad esempio, si dice che la donnola è la nemica del
basilisco, ma soprattutto che
> “Contro l’inumano non è mai stata un’arma la verità, ma sempre la finzione o
> l’inganno: l’astuzia delle catene di Ulisse mutila il canto delle sirene, un
> falso nome deride il furore del ciclope, la testa di Medusa riflessa nel
> bronzo devia il suo sguardo pietrificante e accorda la vittoria a Perseo; il
> raggiro sottrae il mondo umano alla legge della coincidenza che lo fa
> scomparire”.
Un racconto s’intitola Consigli a un cacciatore; tacitamente, sarà piaciuto a
Caproni, il cui libro – quello citato in cima –, in fondo, è un lirico trattato
di caccia. All’amico appostato il poeta indirizza un metafisico avvertimento:
“Presta bene orecchio,
amico, a quel che ti dico.
Tu miri contro uno specchio.
Sparerai a te stesso, amico”.
Per attingere al meraviglioso, bisogna conoscere la tessitura della trappola,
avere occhi a filo d’ascia, approvati dalla nottola, annottare ogni pensiero.
Caccia, cioè: non avere scusanti, otturare le scappatoie.
*In copertina: Giambattista Tiepolo, Centauro e Satiro, s.d.
L'articolo “Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli”. Intorno a
un libro inattuale proviene da Pangea.