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Il libro come essere vivente. Su “Gli istrici”, un romanzo di Valentina Di Cesare
Cos’è che mi fa scrivere?, s’impone?, a me che non sono nessuno. Il mistero s’insinua e prevale. La trance, lucida, precisa, è generativa. Ma si potrebbe continuare all’infinito. Anche questa mia abitudine a ripetere la parola tutto. L’ho notato, c’infilo sempre la parola tutto da qualche parte, prima o poi, e devo negarla per evitare il condizionamento. Il tutto ha totalità di emergenza, richiama a dire l’abbraccio grande che mi circonda, perché dev’essere grande, in grado di comprendere l’uomo intero, di accoglierlo. Ma quale uomo? Quello che si affida alla parola, all’ascolto, che non tende a dire se stesso, lui e basta. Kafka, in un suo racconto intitolato Descrizione di una battaglia, scritto col suo amico Max Brod, fa dire a un pazzo: “Io vivo affinché gli altri mi guardino”. Credo che Kafka si opponesse a questo. Non giudica, è attratto dall’estremo, è sorpreso e ne ha pietà. Egli prefigura il mondo di oggi. Farsi notare a ogni costo. Ecco la stortura, il malanno, e senza sapere che malattia è. Godere di quel minuto di fama che è il niente, il mio niente. L’apoteosi che non sono. Se penso a come scriveva Ungaretti nelle trincee della Prima guerra mondiale, piantato dentro il fango, utilizzando quello che trovava, scarti di giornali, pezzi di cartone che racimolava. Quei frammenti stabilivano già il respiro della lirica, l’impaginazione era in quel formato esile. Possiamo dire ritagli di sangue, il corpo delle cose martoriate, mutilate, resistere con la poesia alla paura, alla morte vicina, al fatto che domani potrei non esserci più. Che lezione! Si scrive sul confine, nel tempo che c’incastra e decide chi siamo. A questo punto dico: chi è Valentina Di Cesare se non una scrittrice, e insieme una madre, una moglie, un’insegnante di Lettere nella scuola secondaria di primo grado, e lingua italiana per gli studenti stranieri. Non la stessa trincea di Ungaretti, certo, ma se ci penso mi vengono i brividi. L’amore per la Letteratura, per la scrittura sono quelli, si dichiarano nel cuore, si consumano e si esprimono lì, nascono come un figlio nel chiuso di un abisso, e più va scurendosi il desiderio, più aumenta l’assillo di vederlo nascere, di voler essere con lui… Più il seme si fa luce, sotterrato nella carne, più scoppia di vita, esplode la sua natura. Gli istrici (Caffèorchidea Edizioni, 2025) sono questo, l’ha scritto Valentina Di Cesare. Potrebbe continuare in avanti e oltre la fine per chissà quante pagine, in quanto trasborda e suggerisce ancora altra vita. La vitalità, l’energia che trasmette, risiede nel suo io, un cuore che a ogni pagina si apre, e verso cui corre come in faccia al vento, o nel solco di una strada che si rinvigorisce e si delinea sempre di nuovo, a mano a mano che prosegue, nelle sue vicende e nei suoi personaggi, che ne rappresentano la voce, l’io in cui abitano e s’intessono i discorsi, i pensieri, le parole. Quattro nature, quattro protagonisti, come le nostre stagioni, per dire quanto è grande il tempo, quanto è grande la vita, e densa, umile, impareggiabile, spettacolare, ricca. Gli istrici è un libro che vuole essere amato, per la sua quieta vitalità, ancora in essere quando il romanzo è compiuto, che non pare finito allo scoccare dell’ultima parola. Perché Gli istrici non tende a contrarsi, ad avvitarsi in iperbolici avvitamenti, tende bensì a fiorire, a immaginare. > “Più di una nuvola aveva confuso le stelle quella notte e i bagliori si > vedevano appena […] Quasi che si trattasse di un accordo con la luce […] > Iniziava di nuovo il mondo […] e gli sterrati storti […] qualche baracca > sbieca […] tutti gli usci erano serrati”. È l’inizio del romanzo, ma come l’ho letto io, con un’invenzione mia, arbitraria direi, si vede dalle parentesi quadre che ho innestato dove manca il testo, agendo in levare al fine di far procedere a salti la scrittura, che non si deforma, non si decompone, non si sgualcisce, nonostante il mio personale intervento, anzi, il miracolo è lì, resta unitario il dettato, per dare risalto al pensiero, la sua natura, la forma che procede per punti nodali, quasi inavvertiti dal lettore, per cui si può dire che il mio esperimento è riuscito: riportare la caratura del linguaggio (significativa, intatta, unitaria) alla luce, anche se sottratta di alcune parti. La luce, questo il sugo dell’incipit! Così ho deciso: dimostrare il sunto di una prosa fatta di contrasti, che rimanda alla sua complessità. L’autrice non me ne voglia. Più avanti, a pagina 53, il passo del racconto si fa elegante, pur restando descrittivo, ma ora nell’obiettivo di un chiaroscuro che lo distingua (stavolta la pagina è rimasta integra):  > “Certi giorni di novembre, alcuni vicoli deserti davano l’impressione di > essere più stretti, quando si sentiva scalpitare l’acqua dalle grondaie già di > prima mattina, e i tronchi degli alberi sulle montagne intorno si ergevano > come grigie lame di ferro incolonnate”. E le cose, a pagina 77, gli ambienti, sono il correlativo oggettivo del personaggio, particolarmente vissuti, esperienza che si compie, mistero, passato, memoria che non svanisce, nella scoperta che si presenta col suo carico umano di stupore.  > “Era scalza. Iniziò silenziosamente a gironzolare per la casa, andando prima > nel bagno a piano terra, quello con la piccola finestra che l’aveva sempre > incuriosita da fuori e poi in salotto, la stanza che Francesca teneva sempre > chiusa. Cercandone a tentoni l’interruttore, Carla sentì già infilando la > mano, che quella stanza era più fredda rispetto alle altre. Annusò l’aria e > subito intese che lì non v’era l’odore delle altre camere, nonostante > campeggiasse in mezzo al grande tavolo un contenitore di fiori secchi e foglie > colorate che emanavano un vecchio profumo. Con le labbra semiaperte e gli > occhi attenti, Carla visitò quella stanza dalle finestre sbarrate, mentre > lasciava correre la piccola mano sul ripiano del mobile a muro”. Ed ecco il tema principale del libro, che appare all’improvviso, a pagina 144. “Sapete che per paesi come il nostro vanno bene solo le lacrime di nostalgia?”. La solitudine. È il motivo per cui Valentina Di Cesare ha scritto il romanzo, per esorcizzarla, penso io, per conoscerla profondamente, e così combatterla.  Il valore de Gli istrici risiede in questo corpo a corpo. Ne è valsa la pena. Tutti i personaggi sono soli. Qui il libro resta nudo. La scrittura si avvolge intorno alle cose per vestirle di compassione, sebbene circospetta, perché occorre descrivere, la scrittura ha le sue regole. E poi la nudità ferisce, si pensi al Cristo in croce, e non si vuole. C’è orgoglio, distanza, le montagne dell’Abruzzo sono giganti impossibili. Da un lato assistiamo alla fuga, dall’altro si afferma la resistenza degli uomini, la fedeltà a quell’isolamento, in fondo così amato. Se c’è un destino è l’amore. L’amore cristiano, quando è nudo e celestiale di risurrezione, non chiede di soffrire, è consapevolezza di ciò che saremo. La dualità porta scontento. Il desiderio si abbassa fino a terra, è simile a qualche animale che scorrazza libero. Eppure, è proprio la natura che ricompensa, in quanto la natura predomina nel romanzo, fa impressione vedere com’è piccolo l’uomo in quegli scenari.  Mi sono appuntato una frase (o me la sono sognata?): “Le piccole salvezze gliele offrivano gli animali”. Piccole per pudore o per diffidenza?, mi chiedo. Il corpo s’impone e gli sbarriamo la strada, ci dice dove andare, ma noi preferiamo la sconfitta dei pensieri, il rimuginare sempre e ancora. Ma anche l’uomo è natura. Noi non lo capiamo. Pensiamo che la promessa sia stata negata, invece è ancora lì, nel fatto che siamo vivi. E se moriamo (quando moriamo!), resta un chiodo infisso nel cuore degli altri che grida non dimenticarmi, non dimenticare, a questo sono servito, per questo ho vissuto. Supremo atto d’amore, sacrificio, valore umano. Dai grattacieli di Manhattan alle altitudini del nostro Abruzzo. “Settembre, andiamo. È tempo di migrare”, recita il grande D’Annunzio, nel 1903. Possibile?, la vita non si muove? Che scandalo è questo? Allora la mia pena continuerà anche dopo? Mi pare che da queste domande, da questi tormenti si sviluppano le storie moderne dei personaggi de Gli istrici. Istrici proprio in quanto corazzati di aculei, contro chi ci vuole cambiare. Sbuca una mezza luna per contrasto, sulla bella copertina del libro, s’imbianca fra le punte ritorte e graffianti di una selva oscura, terribile e respingente. Nessuno impedirà la nostra salvezza, nonostante tutto. “Noi non possiamo mai nascere abbastanza”, dice la citazione di E.E. Cummings ad apertura del libro. Il che vuol dire che quando una voce viene dall’esterno, ed è vera, profonda, come il mite Doì (il giapponese protagonista di un capitolo, che decide di stabilirsi in quelle terre), allora qualcosa si realizza anche in noi. Il nostro libro è scritto, è umano come un essere vivente. Vincenzo Gambardella L'articolo Il libro come essere vivente. Su “Gli istrici”, un romanzo di Valentina Di Cesare proviene da Pangea.
July 9, 2025 / Pangea
“Tra le mie mani nasce il deserto”. Leopoldo María Panero, l’hidalgo della beffa, il martire dell’erranza
> “Il manicomio, quel monastero psichico dove il muro che divide la medicina > dalla religione si apre, e dove arrendersi alla degradazione”. > > (J. Hillman, La vana fuga degli dèi) È grazie ad una sollecita curatela, aliena dalle deadline-codice-a-barre degli editori convenzionali, del coraggioso samizdat Nessuno Editore di Antonio Curcetti, nella traduzione di Antonio Bux e arricchito di una testimonianza di Ianus Pravo, che il lettore italiano (esiste? o, reductio ad unum, si perita di scrivere soltanto?) può godere di una raccolta o, preferibile scelta lessicale, di un ingemmato ed inedito ‘poema’ – ‘poema’ sia detto e ciò basti, non per svogliatezza di traduttore ma poiché, come scrive Bux nella sua nota di gestazione, nella concezione paneriana del dire poesia non meno che nel far(si) poesia tutto l’opus del castigliano è un poema ininterrotto alla Éluard, tanto per tematiche, crimini commessi o presunti ed ossessioni quanto per circolarità del verso del poeta madrileno, repubblicano, alcolista, dalla sessualità feroce e promiscua. Un vademecum per l’internamento nella Spagna franchista.  La raccolta si apre con un epitaffio che è distillato di provocazione: All’Esercito Popolare Repubblicano e di verso in verso de-costruisce i miti fondanti della Monarchia iberica, Patria e Religione: > “Un giorno le mosche mangeranno dalla mia mano > e umiliato io sarò solo uno spettro da marciapiede.” > > (Edgar Allan Poe, o il volto del fascismo) o ancora:  > “(…) il nulla, > un’entità che fatalmente rompe > con l’amore e la vita, chiede un’ascesa, > per questo una croce negli occhi > e uno scorpione sul fallo raffigurano il poeta > tra le braccia del nulla, del nulla rigonfio, > quando dice che neanche Dio è superiore al poema.” > > (Quello che Stéphane Mallarmé volle dire nelle sue poesie) o ancora:  > “(…) e tra le mie mani nasce il deserto, > la paura tra i miei occhi è Gesù Cristo > come una stella che giace nel nulla.” > > (Nascita di Gesù) In Panero coincide la profezia di Tiresia (la follia distorce lo spazio-tempo dell’umanità meccanica) non meno che il furore anticattolico in un qui ed ora dove la religione non può che farsi pre-colombiana o non essere: > “E il mondo dice, Dio non esiste > è immaginare il Papa > mentre gli atei piangono, > piangono la sua bellezza perduta, > e Dio non esiste più, > sta piangendo all’Inferno. > È tutta qui la statua del nulla.” > > (La monaca atea) Panero è il più nobile e decaduto rappresentante della vita per l’arte e dell’arte per e nella vita degli ultimi decenni di poesia europea. La sua vicenda biografica non può in alcun modo essere disgiunta dai suoi scritti tale è la compenetrazione, la trasfusione che sanguina sulla pagina. Non vi è nulla in Panero che non appaia necessario e fatale, pur nella sua attitudine picaresca che si burla della tradizione ‘alta’ (siamo tutti figli di Cervantes quando incontriamo un mulino a vento) del cavaliere errante; proprio il tòpos del cavaliere armato o goffeggiante è ricorrente nei versi del poeta di Madrid come incessanti sono i richiami alla crassa materia che ci fece nati “a viver come bruti”: escrementi, sperma, urina sono elementi organici su cui Panero indugia non (solo) per il compiacimento d’un maledettismo ducassiano/laforguiano che lo de-finisce ma per l’autenticità della sua visione. Se pretendiamo di cantare, novelli Blake, l’Innocenza non possiamo esimerci dal menzionare la merda dalla quale nasciamo e nella quale finiremo: > “(…) guarda, uomo caduto, guarda il mattino > che di nuovo si solleva per continuare la tortura, > anche quando la tua anima che sa d’escremento > finge d’essere una rosa e la vita > tra le pareti crudeli di questa camera, > uguali alla cella di un condannato a morte > e coi giorni che rinnovano la sentenza, > ti fa dire: appartieni all’uomo o al nulla?” > > (Apparizione) o ancora:  > “(…) vivere voglio, assediato da nessuno > e con un marchio di merda sulla fronte.” > > (Tangeri) Panero possiede gli occhi del visionario, del folle in Cristo direbbero i russi, ma la cifra che esprime è sovente giullaresca, donchisciottesca appunto, con aperture all’osceno dissacratorio – quello di Bataille, di Genet e di Buñuel – e imbardate di macabra goticità:  > “Io sono solo un maiale che invoca la protezione del silenzio.” > > (***) e tuttavia, del folle conserva la saturnina meraviglia dinnanzi al mondo, chiave che schiude paradisi d’infanzie a colui che sa udire il pianto dell’alba: > “Il rito della morte chiama a sé la vita > e Dio si nasconde tra le mie cosce > e i miei genitori chiedono perdono per avermi consegnato > nudo agli uomini nella pianura buia.” > > (Regalo di un uomo) Lettore onnivoro, enciclopedico, nato poeta in una famiglia di poeti e tocchi, Panero è muscolare nella sua espressione della violenza e soave nella sua lunare melanconia, fabbro di schegge di esistenzialismo selvaggio e di chirurgica precisione nell’oltraggio. Il suo senhal è il ‘Nulla’:  > “(…) il fiore che cercavamo nel poema > significava la tomba.” > > (Segreti del poema) Da ultimo, alcune considerazioni sull’operazione editoriale: la versione di Bux, colata di cemento a fondare la travatura del ‘poema’, è sorretta dall’intervento a posteriori di riletture tentacolari ad opera di castigliani madre-lingua che traducono senza tradire l’argot paneriano, quel vomitare analogie del gergo carcerario e/o psichiatrico che nella piena euforica buxiana sarebbero andati irrimediabilmente smarriti. L’apparato di note è adeguato e corrobora i passi incerti di chi scelga di avventurarsi lungo i supplizi di Panero. Come per la raccolta di Kinski (Febbre. Diario di un lebbroso), la passione e l’urgenza rapace di Curcetti meriterebbero platee strepitanti e non semi-clandestine. Meglio essere pubblicato in Unione Sovietica come clandestino, avrebbe detto Limonov, che adorato da traditore ed esule come Brodskij? Postilla e gran finale per la testimonianza di prima mano di Ianus Pravo che di Panero è stato confidente presso l’ultimo asilo a Las Palmas: l’uomo Panero, acquarellato nel suo rigagnolo di urina, emerge ammonitorio come un hidalgo della beffa, sodale dei reietti nella inesausta lotta contro le miserie dell’Esserci: > “Uscire dalla cloaca è solo un ripiego, > vivere tra i topi il nostro destino.” > > (Poveraccio) Luca Ormelli Il libro: Leopoldo María Panero, Contro la Spagna e altri poemi non d’amore, Nessuno Editore, 2024 (f.c.); traduzione di Antonio Bux, a cura di Antonio Curcetti. L'articolo “Tra le mie mani nasce il deserto”. Leopoldo María Panero, l’hidalgo della beffa, il martire dell’erranza proviene da Pangea.
July 4, 2025 / Pangea
Sul doppio “Meridiano” di Philip Dick. Ovvero: come si neutralizza un grande scrittore
Sebbene con due anni e mezzo di ritardo a petto del trionfale annunzio sui giornali, che lo prometteva in libreria per la fine del 2022, è finalmente escito il doppio ‘Meridiano’ delle Opere scelte di Philip Kindred Dick, curato da Emanuele Trevi. L’attesa, carica di promesse, si è però rivelata, a esser generosi, una mezza buggeratura e un attacco, se bene dissimulato, contro lo scrittore americano. In queste tremila pagine s’adunano in fatti fesserie e sfondoni, qualche imbroglio non involontario, e parecchi arbitrii. Qui passeremo in rassegna solo un’infima parte di tutto ciò: se dovessimo rintuzzare ogni guasto e carognata, occorrerebbe un intiero terzo tomo. * Liberiamoci anzi tutto della «Cronologia», affidata a Emmanuel Carrère. Come si sa, le cronologie dei ‘Meridiani’, negli ultimi anni, sono vere e proprie piccole biografie, che occupano lunghe fitte e talora critiche pagine, quindi non soltanto un elenco di date ed eventi.Poiché Carrère è l’autore di una così detta “biografia” dickiana, forse ahinoi la maggiormente letta in Italia dacché stampata da Adelphi, Trevi e Alessandro Piperno, l’attuale direttore della collana, hanno ritenuto ovvio di assegnare a colui codesta preziosa parte del ‘Meridiano’. Una scelta disgraziata quant’altre mai come potrà constatare il lettore leggendo un mio lungo intervento, pubblicato su questa rivista. Siccome là dico già tutto ciò che di essenziale si deve sapere, qui non mi ripeterò. Rilevo solo che ancòra una volta è dimostrato quanto a signoreggiare la più parte delle logiche culturali italiane sono criterii familistici e ideologici. La seconda scelleratezza è il «Profilo di Philip K. Dick», firmato da Trevi. Pur assai informato e non del tutto disutile, esso nondimeno porta un guasto irremeabile, cioè a dire il radicale rifiuto di attribuire a Dick il duplice statuto di filosofo e di veggente, l’unico cui egli tenesse e che dimostrò sempre di meritare, e di rilevare i connotati religiosi dello scrittore. Dick è per Trevi un buon autore ma gravato da tabe psichiche. Frusta e stracca robaccia di magliari (la medesima di Carrère, ça va sans dire), fondata su periclitanti congetture gabellate per verità. Nel mio succitato articolo indugio anche su questa delicata faccenda. Proseguiamo. Il ‘Meridiano’ offre, nell’ordine, i seguenti titoli di Philip Dick: Occhio nel cielo; Tempo fuori luogo; L’uomo nell’alto castello; Le tre stigmate di Palmer Eldritch; Gli androidi sognano pecore elettriche?; Ubick; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; Un oscuro scrutare; Valis; L’invasione divina e La trasmigrazione di Timothy Archer. Per motivi di spazio non indugerò oltremodo sull’Occhio nel cielo, Tempo fuori luogo e Un oscuro scrutare. Mi limito soltanto a rilevare che: il primo non necessitava di una nuova traduzione, sarebbe in fatti stato sufficiente ripulire una delle pregresse; mentre il secondo e il terzo sono la riproposizione delle versioni già da anni a disposizione e, al contrario di altre versioni miserabili, tra le poche salvabili. Di poi Occhio nel cielo – in vero più un racconto lungo che romanzo – è opera bensì gradevole e abbastanza importante nell’arsenale dickiano, ma non tra le maggiori. La scelta ha natura politica, non certo letteraria, dacché lì Philip Dick… strizza l’occhio ai comunisti. A oltre trentacinque anni dal fatale biennio 1989-1991 certi intellettuali (sit iniuria verbo) sembrano quei soldati giapponesi che decenni dopo la Seconda guerra mondiale li trovavi ancòra appostati in attesa di un contrordine dell’imperatore. Peraltro lor signori confondono i sinistri di quegli anni ormai remoti, bensì funzionalissimi ai regimi, ma ogni tanto capaci di qualche utile manovra critica. Oggi si sono sostituiti al potere un tempo avversato e ne sono diventati i degnissimi eredi. I cinque più noti romanzi dello scrittore americano: Ma gli androidi sognano pecore elettriche?; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; L’uomo nell’alto castello; Ubick; Le tre stigmate di Palmer Eldritch sono in verità un’ottima scelta, ma si tratta delle stesse versioni già escite dal 2021 in avanti negli Oscar. In somma: sette titoli su undici di questa lussuosa e pretenziosa edizione ricicla testi già in circolazione. Ci sono tuttavia due differenze: aver abbandonate le orrende prefazioni di Carrère annesse agli Oscar e la presenza di un apparato critico, com’è nelle prerogative della collana. Ma è certo che lo scambio sia stato svantaggiosissimo, per Dick e per il lettore. Prendiamo a solo titolo d’esempio il paragrafo «Gnosi» (pp. 3012 e sgg) che accompagna Valis e da cui trascelgo in modo aleatorio. È firmato, come tutti gli accompagnamenti alla lettura, da Emanuele Trevi e Paol Parisi Presicce. Leggiamo sùbito questa fesseria: «Non è mai esistita una chiesa gnostica paragonabile alla chiesa cattolica, con le sue ferree gerarchie (vescovi, diaconi, laici…) intese a salvaguardare le verità della dottrina garantendo la successione apostolica» (pp. 3012-3013). Negare l’esistenza d’una chiesa gnostica organizzativamente paragonabile alla cattolica significa aver studiato poco e parlare a vanvera: basti in fatti pensare al manicheismo, a cui aderì per nove anni niente meno che Agostino d’Ippona. Esso fu la più grande eresia cristiana della storia, una vera e propria chiesa, con tutte le caratteristiche di una qualsiasi chiesa universale: dottrina, gerarchia, liturgie, riti, etcoetera. Durò per circa mille anni e si estendeva all’attuale Cina insino all’attuale Marocco. Andiamo avanti. Trevi & Presicce definiscono Ireneo di Lione e Tertulliano «grandi polemisti ortodossi» (p. 3014). Niente da dire, giusta la teologia tradizionale, sull’ortodossia di Ireneo, ch’è pure stato elevato agli altari. Tertulliano fu in vece pressoché da sempre considerato ai limiti dell’ortodossia e per certi versi incompatibile con la dottrina, sia della Chiesa occidentale, sia della Chiesa orientale. Nessuna di queste, in fatti, gli attribuisce alcun titolo ed entrambe ne sconsigliano la lettura. Poco dopo, un altro sfondone: Ireneo e Tertulliano «detestavano gli gnostici, li consideravano pericolosi eretici e vedevano nelle loro idee diaboliche minacce alle verità e alla nascente dottrina del cattolicesimo» (p. 3014). Trascuriamo la sciatta disinvoltura con cui i nostri beniamini maneggiano il concetto di «eretico», e limitiamoci a constatare che negli anni di Ireneo e Tertulliano, cioè a cavaliere tra II e III secolo, non esisteva alcuna «nascente dottrina del cattolicesimo». I commentatori confondono cattolicesimo con cattolicità, due concetti assai ben distinti, sia nella storia delle religioni, sia nella lingua italiana. È lecito parlare di «cattolicesimo» soltanto a partire, come minimo, dal 1054, data dello scisma cristiano tra Oriente e Occidente. Evocare una dottrina ovvero una Chiesa cattolica avanti di quello svolto è indice di crassa ignoranza. Non è finita. La premiata ditta Trevi & Presicce, alla pagina 3013, spara: «In primo luogo la gnosis, com’è evidente fin dal nome, è un percorso salvifico basato sulla conoscenza, una sorta di risveglio che riconnette l’individuo alla sua vera natura». Spiacenti, ma dal nome «gnosis» è evidente soltanto il nome, e non un percorso: men che meno se descritto come si provano a fare T&P. Trascuro di commentare l’evidente loro incapacità di distinguere «gnosi» e «gnosticismo». * Trascorrendo dal fronte religioso al letterario, la caccastrofe è inarrestabile. Nelle «Notizie sui testi» viene citato due volte C. S. Lewis. Nella prima occorrenza (p. 3007) T&P ne evocano l’opera Out of the Silent Planet, modello per Radio Libera Albemuth, una delle ultime pagine dickiane, dicendo dello scrittore irlandese soltanto che fu amico di Tolkien. Nella seconda (p. 3029) invece si parla «dello scrittore inglese C. S. Lewis, che fu grande studioso di letteratura medievale, saggista di fede cattolica e autore di testi fantastici e fantascientifici». Ora, dare informazioni circa Lewis solo alla seconda occorrenza del nome, è già di per sé sintomo di severa distrazione. E ciò senza contare che, in un libro ambizioso per lettori ambiziosi, non è davvero necessario spiegare chi sia Lewis. Così come è esornativo, in quel contesto, sottolineare l’amicizia con Tolkien, come se ciò fosse issofatto titolo di merito. Ma le maggiori cannonate sono anzitutto d’aver limitato le competenze di Lewis alla sola letteratura medievale, quando è noto che egli fu un conoscitore a tutto tondo del così detto Medio Evo; e in secondo luogo, sopra tutto, d’aver definito Lewis «di fede cattolica». C.S. Lewis fu per una certa parte della sua vita un teista. Poi, grazie ad alcune esperienze (che si possono leggere sia nell’autobiografico Sorpreso dalla gioia, sia nella bella biografia di Alister McGrath), si convertì al cristianesimo ma non già al cattolicesimo, bensì alla fede anglicana.Sarebbe stato utile rilevare a questo preciso proposito l’amicizia tra Lewis e Tolkien, e non a casaccio. Fu in fatti il futuro autore del Signore degli Anelli a imprimere una svolta decisiva al percorso dell’amico. Ma mentre Tolkien, comprensibilmente, si attendeva da parte di Lewis un’adesione al cattolicesimo, questi optò altrimenti. Sia bene inteso che tutti questi sfondoni di storia delle religioni e di letteratura sarebbero stati evitabili consultando anche solo wikipedia. L’ultimo studente fuori corso dell’università di Roccacannuccia non li avrebbe commessi.  Ciò che non voglio commentare poiché anche di questo parlo nel mio già evocato articolo, sono le note all’Uomo nell’alto castello, forse l’opera più politica di Philip Dick e, per la mentalità dominante da ottant’anni, la più inaccettabile e quindi la più falsificata. Prendo solo atto che il mondo culturale italiano è zeppo di lupi travestiti da agnelli: proprio il concetto che lo scrittore americano esprime nel romanzo declinandolo alla politica mondiale. Voglio invece evidenziare con favore le molte note ai romanzi che rimandano a esempio a precisi passaggi della Sacra Scrittura citati o suggeriti da Dick. Il lavoro, se non ho straveduto, è svolto con perizia, sì che possiamo ammettere che, almeno come bibliotecarii o impiegati di redazione, certi intellettuali non sfigurerebbero. Perché non pensarci e cambiare lavoro? * Scopo ufficiale del ‘Meridiano’ sarebbe di restituire dignità letteraria a Philip Dick, considerato, come tutti gli autori di fantascienza, alla stregua di un dilettante nel senso peggiore, indegno di prendere dimora sul Parnaso. Un’iniziativa dunque lodevole per chi abbia saputo riconoscere nello scrittore americano non soltanto un fantasioso facitore di mondi e trame relegato al dominio della fantascienza – tenuto, con grave sbaglio, in gran dispregio dagli intellettuali e da certi lettori colti –, ma un classico, se bene sui generis, meritevole di ben altra considerazione. Il resultato però è sviante. Piperno e Trevi, col contributo di Carrère, hanno voluto istituzionalizzare Philip Dick, ciò è a dire neutralizzarlo, renderlo maneggevole, addomesticarlo, anzi tutto tacendone le propensioni filosofiche e religiose: nella fattispecie, gnostico-cristiane. Lo si capisce pure dalla scelta di escludere, anche solo in forma antologica, L’esegesi, opera cruciale per capire sia il Philip Dick uomo, sia il Philip Dick scrittore. Una delle visioni-simbolo di Dick è riassunta in una frase, famosa tra i lettori: «L’Impero non è mai cessato». L’Impero è quello romano, persecutore dei cristiani, che ancòra negli anni Settanta Dick vedeva, more suo, all’opera, anche sulla propria persona, con resultati esiziali per la società, gli individui, le anime. A mezzo secolo di distanza Dick è ancòra perseguitato. A mezzo secolo di distanza noi possiamo unirci alla voce di Philip Kindred Dick. * Poscritto A maggior benefizio dei lettori più curiosi e di quelli che ancor credono alle chiacchiere dei nostri intellettuali, riferisco per sommi capi un episodio occorso diversi anni fa a un mio amico, superbo germanista italiano, uomo altresì di raffinatissimo gusto linguistico, quando volle – e anche dové – avere un confronto con chi presiedeva alla direzione dei ‘Meridiani’. Tacerò per ragionevoli motivi i nomi sia dell’uno, sia dell’altro protagonista di questa eloquente e istruttiva storiella e così il sesso dell’allora capo della collana. All’uscita della raccolta completa, con originale, dell’opera poetica di un grande tedesco, il nostro germanista si avvide, non appena schiuso il volume, d’una seria di svarioni sciatterie e talune bestialità nella traduzione, firmata da uno dei mostri sacri della germanistica italiana. Per ciò che possa valere io stesso, indipendentemente dall’amico germanista, avevo sùbito notato lo stato pietoso di quel volume, sì che posso assicurare che questo germanista aveva veduto assai bene. Il nostro amico, pel solito schivo, fu còlto da un tal moto di fastidio, da non poter evitare di scrivere una lettera al direttore (si potrebbe adoperare il maschile anche se la persona fosse di sesso femminile), una lettera in che egli, con toni garbati ma fermi, snocciolava solo alcune delle minchiate eternate nel prezioso volume. Attese diverse settimane senza ricevere risposta. Ma siccome la gravità era così spaventosa da impedirgli di soprassedere, e altresì non volendo accettare di essere ignorato, il germanista tentò di raggiungere al telefono il direttore, ciò che, con sua grande sorpresa, gli riuscì. Il direttore avrebbe dovuto conoscere il germanista dall’altro capo del filo, ché questi era la firma di numerose preziose e note versioni italiane di grandi classici tedeschi, e della letteratura, e della filosofia, per marchi editoriali di diversa levatura. Ma o era all’oscuro, o finse di non sapere. Nondimeno stette ad ascoltare. Il germanista aprì con un breve preludio di gentilezze e scuse per aver “disturbata” l’attività di quel membro senatorio della repubblica letteraria italiana. Ma, precisò, siccome non aveva ricevuta risposta alla lettera, non aveva avuta altra strada che il telefono. Il direttore negò di aver mai ricevuta la missiva, ma pur lo invitò a esporgli la sua intenzione, annunziandogli di avere davanti al naso il volume incriminato. Nemmeno a dirlo, con tono tra il condiscendente e l’irritato. Il germanista iniziò, aprendo davvero a caso il volume, a evidenziare i punti critici. Si attendeva qualche reazione, ma l’altra persona non dava segno di apprezzare, in alcun senso, le osservazioni di quell’oscuro molestatore. L’elencazione delle magagne fu alquanto breve, ma a qualsiasi onesto e competente e in tedesco e in italiano, sarebbe stata sufficiente per cospargersi il capo di cenere ed eventualmente ritirare il volume dal mercato, licenziare l’autore della traduzione e incaricare altrui più attento – magari lo stesso germanista della nostra storiella – per ripassare da cima a fondo il non esile tomo. Andò invece diversamente. Il direttore del Meridiano, in fatti, si limitò a dire queste testuali parole, glaciali: «Dottor …, mi stupiscono molto le sue osservazioni. Tutte le recensioni al volume non parlano di errori e sono state tutte molto favorevoli». Ma il germanista di rimando: «Lei sa bene, caro direttore, che le recensioni, a certi livelli sopra tutto, sono, anzi che spontanee, sono spintanee. E poi non è sempre detto che i recensori, quali ch’essi si siano, abbiano le competenze per giudicare un lavoro così importante. Mi stupisce invece che Lei, alla sua volta germanista, non abbia fatto caso a questa legione di errori, di morti….». «Guardi, dottore», lo interruppe l’alto impiegato ora sensibilmente irritato, «Le ho detto che le recensioni sono state tutte favorevoli e quindi non occorre dire altro». Il nostro amico non ebbe quasi il tempo di replicare, ché, dopo uno sbrigativo saluto, la comunicazione si interruppe. E non certo per un mal funzionamento della linea telefonica. Luca Bistolfi L'articolo Sul doppio “Meridiano” di Philip Dick. Ovvero: come si neutralizza un grande scrittore proviene da Pangea.
July 2, 2025 / Pangea
“Che si può fare se il destino è morire?” Qualcosa sulla poesia iraniana contemporanea
Che sia un solo verso, a volte, a colpirci, lo sappiamo. La potenza di alcune parole irretisce retina e cuore. L’intelletto gode, l’emozione si fa scossa. Brivido è la colonna vertebrale. Così è quando leggo: Dovrò prepararmi a fiorire, e subito la fantasia immagina poesie che si estendono da questa gemma primordiale. Ho con me in mano un libro, che di quel verso ne ha fatto il titolo. Si tratta di un’antologia, curata e tradotta da Faezeh Mardani e Francesco Occhetto, che dà voce a Forugh Farrokhzād, Bitā Malakuti, Leila Kordbacheh, Parvin Salājeghe, Fereshteh Sāri e Grānāz Moussavi. È la prima rassegna italiana della poesia femminile di un Paese quale l’Iran da sempre abituato ad affidare al canto poetico tutte le componenti della propria vitalità esistenziale e spirituale. > Ardue prove mi offrì il giardiniere del firmamento > ma che si può dire al predatore dei tempi? > Che si può fare se il destino è morire? > Sei giunto al giardino e noi ce ne andammo, > colui che qui ti condusse ci prese e ci portò via. > In questo libro di vittoria il cielo > conteggiò per noi l’incalcolabile. > Il fiore, appena vide acqua e aria, > ignaro di dover presto appassire sbocciò. > Il coppiere della taverna del mondo è Destino, > tutti beviamo il vino dalla sua coppa. > > Parvin Eʻtesāmi (1907-1941) Che sia la poesia a farsi bandiera universale è bene ricordarlo sempre. Poesia che si dimentica ai più, ma che ci costituisce. Poesia cellula, atomo, big-bang del mondo. Poesia che garrisce. Poesia che sta nel vento, fa frusciare l’erba, inventa rivoluzioni. Poesia che è voce e protesta ‒ bellezza incontinente. Fruscia essa stessa nell’esondazione del peccato. È bene ricordare, quindi, come ci ricorda il libro stesso, che in Iran è ancora centrale la figura del poeta quale profetico testimone della storia di un intero popolo cui è stata privata la libertà ma non il sentimento di profonda appartenenza a una millenaria tradizione artistica e letteraria. Perché in occidente ‒ forse, maldestramente ‒ ce lo siamo dimenticato? La poesia è del popolo, e sta tra il popolo, ne dà voce. Senza poesia, il terrore prevarica su tutto. E anche un giardino ‒ che sia pieno di rose, o di parole, o di pesci e sorgenti ‒ come ci insegna Forugh Farrokhzād nella prossima poesia, va coltivato e curato finché si è in vita, prima che esso diventi immortale o moribondo, e ci abbandoni al nostro, forse vuoto, forse triste, destino. E anche un cortile va curato, affinché la memoria si perpetui, e la parola continui a raccontare e a raccontarsi nel cuore dell’uomo attraverso la tradizione. Mi fa pena il giardino Nessuno pensa ai fiori, nessuno pensa ai pesci, nessuno vuole credere che il giardino sta morendo, che il suo cuore si gonfia sotto il sole e la sua memoria si svuota lentamente del ricordo del verde e il suo sentire astratto si consuma in solitudine. Il cortile di casa nostra è solo, il cortile di casa nostra sbadiglia in attesa di una pioggia sconosciuta. Vuota la vasca nel cortile, dagli alberi cadono per terra piccole ingenue stelle. La notte dalle pallide finestre si sentono colpi di tosse nella casa dei pesci. Il cortile di casa nostra è solo. Dice mio padre: «È troppo tardi, è troppo tardi per me. Ho portato il mio peso e ho fatto tutto quel che potevo». Da mattina a sera, nella sua stanza legge il Libro dei re o il Compendio delle storie. Mio padre dice a mia madre: «Al diavolo i pesci e gli uccelli. Quando sarò morto, che differenza farà se ancora ci sarà il giardino oppure no. Mi basta la pensione». L’intera vita di mia madre è un tappeto da preghiera steso sulla spaventosa soglia dell’inferno. Mia madre in fondo a ogni cosa cerca le orme del peccato, e pensa che la bestemmia di una pianta abbia contaminato il giardino. Mia madre prega tutto il giorno. Mia madre è peccatrice per natura e per esorcizzare ogni peccato soffia sui fiori e sui pesci, soffia su sé stessa. Mia madre aspetta la venuta del Promesso e le grazie che ne discenderanno. Mio fratello chiama il giardino cimitero. Conta i cadaveri dei pesci imputriditi sotto l’acqua infetta e si beffa dei confusi grovigli dell’erba. Mio fratello è malato di filosofia. Per lui la cura del giardino consiste nella sua distruzione. Si ubriaca. Dà pugni sui muri, sulle porte e prova a mostrare quanto è triste, stanco e disperato. Porta in strada e al bazar la sua disperazione come se fosse una carta d’identità, un’agenda, un fazzoletto, un accendino, una penna. Ma la sua disperazione è così piccola che svanisce nella calca dell’osteria tutte le sere. Mia sorella, che era amica dei fiori e quando mia madre la picchiava raccontava le pene del cuore a quei fiori gentili e silenziosi e invitava ogni tanto la famiglia dei pesci a una festa di dolcetti e sole, ora abita dall’altra parte della città. Lei, nella sua casa finta,  con pesciolini rossi finti, protetta da un marito finto, sotto i rami di un melo finto, canta canzoni finte ma partorisce figli veri. Mia sorella, ogni volta che viene a trovarci e si sporca l’orlo della gonna con la miseria del giardino, fa un bagno nell’acqua di colonia. Lei, ogni volta che viene a trovarci, è incinta. Il cortile di casa nostra è solo, il cortile di casa nostra è solo. Tutto il giorno, dietro la porta, si sente il frastuono di scoppi e crolli. I nostri vicini nei loro giardini al posto dei fiori piantano granate e mitragliatrici. I nostri vicini ricoprono le vasche di maiolica del cortile che controvoglia diventano depositi di polvere da sparo e i ragazzi del nostro quartiere riempiono le borse di piccole bombe. Il cortile di casa nostra è stordito. Ho paura di questo tempo che ha perduto il suo cuore ho paura dell’immagine di queste mani vuote di questi volti sconosciuti. Io, come una scolaretta che ama follemente le lezioni di geometria, sono sola e penso che si possa portare il giardino all’ospedale penso… penso… penso… e il cuore del giardino si gonfia sotto il sole e la sua memoria si svuota lentamente del ricordo del verde. (Giorgio Anelli) *In copertina: Forough Farrokhzad (1934-1967) L'articolo “Che si può fare se il destino è morire?” Qualcosa sulla poesia iraniana contemporanea proviene da Pangea.
June 30, 2025 / Pangea
Le rassegne letterarie ai tempi del narcisismo della mediocrità
Il ridicolo spettacolo che in questi giorni di torrido caldo estivo va in scena dal teatro sempre attivo dei social con l’amletico dubbio (si fa per dire!) “presentazione dei libri, sì o no?” fa lo stesso effetto della mosca che molesta la pennichella pomeridiana. A leggere questi messaggi parrebbe che da un giorno all’altro le presentazioni dei libri siano diventate inutili e soprattutto improduttive: per i librai che devono mettere a disposizione e allestire i loro ambienti ricavandoci poco o nulla, per le case editrici che già da tempo investono pochissimi denari in queste iniziative e, infine, anche per gli stessi scrittori che si sono accorti (sempre con maggiore lentezza degli altri, sia chiaro) dell’ininfluenza – sulle vendite e sulla auspicata notorietà – di queste futili sagre dell’ovvio e della banalità. Il bello, però, è che ad aggiungersi alla compagnia dei tristi teatranti siano proprio gli stessi protagonisti della cosiddetta scena culturale che fino a qualche giorno fa smaniavano per esporsi, per presentarsi, per far parlare di sé… per coprirsi di ridicolo, insomma. Gli stessi che, pur di mostrare la copertina del proprio libro, erano disposti a macinare chilometri viaggiando dalla Pro Loco di Cuneo alla Società Bocciofila di Gioia Tauro anche nella stessa giornata; i medesimi che avrebbero fatto carte false pur di esporre i loro modesti prodotti artistici nel primo tinello disponibile a quel cenacolo di amici e di parenti che (non lo dicono, ma è così!) non ne possono più di avere nel proprio giro “uno che scrive”. Nella mia città, una piccola libreria che programma almeno un paio di presentazioni alla settimana occupa lo spazio di una piazzetta a essa antistante e là, tra il via vai di chi porta a casa la spesa, tra l’insolenza di chi urla parlando al cellulare e il bivacco scomposto di chi occupa le gradinate pubbliche che collegano quella piazza alla strada che vi passa sopra, lo scrittore di turno prova a interessare qualcuno parlandogli da un microfono con amplificazione, come i Cristiani Evangelici che testimoniano ai passanti la loro conversione religiosa e il cammino di fede, della sua ultima fatica che con ogni probabilità nessuno degli astanti acquisterà e mai leggerà. Recentemente, poi, ho preso parte alla presentazione del saggio di un filosofo nostrano che si è tenuta in un bistrot di trenta metri quadri dopo la quale è stato servito, con la formula della “consumazione obbligatoria”, un aperitivo rigorosamente “a pagamento”. Ho dovuto inventare uno stratagemma per trovare una via di fuga e sottrarmi a questa laida estorsione. Allora, alla luce di tutto ciò, chiedo a voi, scrittori della vanagloria, poeti da diporto, artisti della fanfaluca: davvero trovate utile e vantaggioso ciarlare dei vostri raccontini a un pubblico di persone che nella maggior parte dei casi vi è seduto davanti perché non aveva di meglio da fare o perché in libreria, al bar, nella saletta parrocchiale in cui vi esibite c’è l’aria condizionata? Veramente vi piace stordirvi e mostrare le vostre miserie letterarie alla ridda dei saloni del libro o ai Barnum dell’arte in cui tutto è soltanto siparietti, convenevoli, spettacolo, caciara e marketing? Ma davvero trovate divertente e soddisfacente scrivere frasi di circostanza e dediche fasulle, sotto le quali mettete pure la vostra firma (un’aggravante!), a persone che non conoscete e che voi, invece di identificare come mitomani, chiamate impunemente “lettori”? Quante foto che vi ritraggono mostrare giulivi e soddisfatti la copertina del vostro libro appagheranno il vostro patologico narcisismo? E quante sedie vuote dovrete ancora contare alle vostre presentazioni prima di capire, una volta per tutte, che la giostra si è fermata e che il giostraio è morto? È vero, lo so, le cose non vanno meglio neppure alle rassegne letterarie e ai festival del libro. Soprattutto quelli estivi che ora ci attendono, dove purtroppo al ridicolo si aggiunge inesorabile anche il malcostume. L’inarrestabile décadence di quest’epoca svaligiata, avvilita e colpevolmente traviata si manifesta con preoccupazione quando, ahimè, i suoi segni giungono proprio dagli ambiti artistico-culturali. Se un tempo lo hippie era la reazione al pettinato conformismo borghese, oggi la sciatteria dei costumi (altro che la kantiana metafisica!) è essa stessa il conformismo, la regola più che l’eccezione. Il capellone, il figlio dei fiori, il punk, costituivano il fenomeno culturale che investiva polemicamente una società chiamata, in un modo o nell’altro, a farsene carico con confronti e analisi. Oggi, invece, pare che la parola d’ordine sia soltanto la pigra strafottenza che livella tutto ai propri confortevoli bisogni, alle proprie trasandate necessità, ai propri infantili capricci.  E così, non è insolito assistere a festival letterari in cui i travet della scrittura presentano i loro improbabili capolavori in pantaloncini, bermuda, camicie hawaiane sbottonate fino all’ombelico, scarponcini da spiaggia e infradito. Poi, collassati come dei Proust di periferia su poltroncine e cuscini d’ogni foggia, si avvicendano nel resoconto balbettante del valore artistico del loro nuovo romanzo (leggasi “esposizione della trama”, “sintesi o riassunto del racconto”) a un pubblico che, in giornate di arsura estiva, forse meriterebbe di più per coraggio e resistenza.  Ma tant’è, la conventicola delle nostrane lettere si riconosce anche da questo glamourstraccione, da questa apparente nonchalance da artista incompreso che alla fine si riduce allo smercio (magari!) di qualche altra copia del proprio libriccino, a uno stravagante selfie per Instagram e a poche altre ridicole bramosie. Che tristezza! È in questi casi di esasperazione che, maledicendo l’attimo in cui ho deciso di uscire di casa e di assistere a quest’inesorabile débacle, mi sovviene il titolo, bizzarro ma implacabile, di quell’anomalo libro di Peter Bichsel: Al mondo ci sono più zie che lettori, libro che i nostri scrittori e organizzatori di rassegne letterarie un giorno dovranno leggere e tenere a mente come viatico. Ahimé, «La vita o è stile o è errore» ebbe a dire un tempo Giovanni Arpino. Già, un tempo!  Vincenzo Liguori *In copertina: Giacomo Balla, Autosmorfia, 1900, Collezione privata L'articolo Le rassegne letterarie ai tempi del narcisismo della mediocrità proviene da Pangea.
June 28, 2025 / Pangea
“Flettimi, spezzami, raschiami”. Qualcosa sui poeti e la traduzione dei Salmi
Nella tradizione cristiana i testi biblici sono ritenuti «ispirati». A onore del vero non sono tanto i testi, ma i loro autori, i cosiddetti agiografi, ad essere ispirati, cioè assistiti dallo Spirito santo allorché hanno composto quelle pagine che non smettono di generare la fede. Lo Spirito non cancella l’umanità dello scrittore, anzi la lascia intatta: le asperità e le goffaggini del greco di Marco emergono in modo evidente, eppure in quella lingua è scritto un Vangelo fra i più vivaci, capace di farci toccare con mano il mistero di Gesù, Cristo e Figlio di Dio. Analoga alla tradizione teologica è la tradizione poetica. Anche il poeta è ispirato allorché riesce a trovare le parole giuste per dire quanto alberga nel suo cuore. Indubbiamente il poeta non è assistito dallo Spirito santo, né quanto fissa sulla carta appartiene ai testi generatori della fede, eppure la sua opera ha una stretta parentela con testi biblici, i testi ispirati per eccellenza. In occasione del XXI Festival Biblico di Vicenza del 2025, Roberta Rocelli e Davide Brullo hanno affidato a trentatré poeti l’arduo compito di rielaborare altrettanti Salmi. È nato così un piccolo volume (Salterio dei Poeti) che propone le riappropriazioni dei testi ispirati e poetici della Bibbia, i Salmi. Non si tratta di nuove traduzioni della grande raccolta dell’Antico Testamento, ma piuttosto di trentatré personalissime riscritture di quei poemi. Brullo propone all’inizio non tanto un’introduzione, ma una serie di aforismi graffianti che dicono bene il senso della raccolta: «Agli “esperti” preferiamo gli untori del linguaggio» (13); «Salmeggiare non da salomonici, ma come i salmoni, a ritroso, verso il ghiacciaio, il celestiale» (14).  Chi scrive di professione è biblista, sicché da tempo mi dedico allo studio dei testi sacri, prediligendo proprio i Salmi. Chi scrive è pure, per grazia di Dio, un credente che da più di quaranta anni prega ogni giorno con le parole dei Salmi e dal 2000 recita il Salterio come libro, cioè rispettando l’ordine delle composizioni: inizio con il Salmo 1 ai primi vespri della domenica e termino con il Salmo 151 (sì, il Salmo «fuori dal numero», attestato solo in greco ma, guarda caso, ritrovato anche a Qumran) all’ora media del sabato della seconda settimana, per ricominciare da capo, quella stessa sera. Ma chi scrive è anche un prete cattolico che durante l’ordinazione ha promesso al vescovo di essere fedele alla preghiera della liturgia delle ore, interamente costruita sui Salmi; in quei versetti ritrovo quanto nella vita quotidiana sperimento e soprattutto le molte persone che incontro con le loro vicende, le loro gioie e le loro angosce, i loro slanci e le loro frenate; pregando il Salterio porto quelle persone davanti al Signore, il Dio misterioso che non smette di affascinare e di coinvolgere uomini e donne: «La liturgia delle ore si articola intorno al salterio – parola che, letteralmente, salva il mondo – lo innesta al primo giorno, gli dà il sollievo dell’ultimo» (14).  Per questi complessi intrecci la raccolta Salterio dei Poeti mi ha catturato. Vorrei semplicemente dare parola a tre impressioni sgorgate nel mio cuore durante la lettura di queste poesie. Ho apprezzato, in primo luogo, il fine lavorio di traduzione. Qualcuno ha inteso offrire una versione personale. E lo ha fatto in maniera magistrale, filologicamente impeccabile, aggiungendo un «di più», il di più della sensibilità poetica, l’«unzione del linguaggio». È il caso di Davide Brullo che ha riscritto il Salmo 151. L’inizio è folgorante: «Minuscolo ero tra i miei fratelli/ il più giovane nella casa di mio padre/ di mio padre le pecore portavo ai pascoli». “Minuscolo” è molto più di “piccolo” e apparenta l’ultimo Salmo della Settanta (la versione greca dell’Antico Testamento) alla scrittura minuscola, cioè quotidiana, meno solenne dell’onciale, ma veicolo prezioso per la diffusione della Parola. Più avanti il poeta rende così l’affermazione del Salmo: «il Dio che tutto ode ed esaudisce». Brullo introduce uno sdoppiamento adeguato; un unico verbo greco è riproposto in uno splendido allargamento che ne esalta l’intensità: non solo “esaudire”, ma “tutto udire” (la totalità dell’ascolto in enfatica posizione iniziale non sfugge) e per questo “esaudire”. E ancora, Brullo sceglie di tradurre sempre “Dio” il termine greco kyrios: un’opzione che radica nella confidenza con il mistero dell’Altissimo, ma insieme ne esprime il timore che nemmeno osa il più familiare “Signore”.  L’intensità della relazione con Dio osa parole forti e concise, concentra i discorsi in domande dirette, accumula i verbi dentro una tensione nervosa, lascia sempre le frasi aperte, senza punto finale. È la riscrittura del Salmo 22 di Giancarlo Pontiggia: «Io grido,/ e non mi ascolti: grido/ il giorno e la notte,/e non per mia rancura» (v. 2). «Non andartene/ da questo lenguaio di assillo:/ non un cagnazzo che mi aiuti» (v. 11). E poi rivolta a sé: «Vivrai in lui,/ mia anima:/ e tu servilo,/mio legno,/ seme» (v. 30). Anche la relazione con sé è quasi violenta in rapporto a Dio, come dice Tiziana Cera Rosco, riscrivendo il Salmo 51: «Annegami/ Fammi sbranare dal centro di questo petto/ L’iniquità che mi protegge offendendoti/ Flettimi, spezzami, raschiami/ Scorzami da questa pelle». E di nuovo invocando l’Altissimo: «Riconoscimi bianco, spezza ogni osso/ Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me». Anche Valentino Fossati rende la parola rarefatta: un rigo e poi il bianco, un altro rigo con due parole e ancora il bianco; in questo modo ridisegna il Salmo 79: «Entrarono o Dio// genti estranee// come discendenti del tuo Regno». E nella presentazione degli oranti: «E i tuoi servi/ abbandonati// (brandelli)//…/…// dov’è il dio vostro?// perché?».  Giambattista Tiepolo, Davide con la testa di Golia, 1717 ca. Nella preghiera non si può fingere, perché ci si pone davanti a Dio in verità, anche con espressioni forti. Con parole decise Giuliano Ladolfi riscrive il Salmo 143: «Comprendimi e rispondi alla mia supplica./ Puoi forse giudicare/ la mia fragilità?». Lo scavo interiore giunge alle profondità dell’angoscia: «Dentro di me si agita un nemico,/ mi tortura, mi sgomenta e mi distrugge;/ io vivo nelle tenebre/ quasi fossi già morto». La radicalità del male non toglie, tuttavia, la fiducia nella potenza del Signore. Così conclude il poeta: «I miei fantasmi si dilegueranno/ a un semplice tuo cenno/ e io riprenderò a servirti/con l’infinita gioia del mio spirito».  Insomma, ancora una volta l’ispirazione accomuna il testo biblico e il testo poetico e dice la verità dell’uomo: un’apertura all’esterno, verso l’altro da sé, verso il reale e la sua trascendenza a cui si accorda credito e a cui, soprattutto, si concede di fare irruzione presso di sé.  Un fecondo dialogo, una contaminazione necessaria. Matteo Crimella *Matteo Crimella è dottore della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano e professore straordinario di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano; insegna anche presso lo Studio Teologico del Pontificio Istituto Missioni Estere di Monza. **In copertina: Pietro Novelli, Davide con la testa di Golia, 1630 ca. L'articolo “Flettimi, spezzami, raschiami”. Qualcosa sui poeti e la traduzione dei Salmi proviene da Pangea.
June 24, 2025 / Pangea
Anglofilia. Perché amiamo gli inglesi (tanto quanto li odiamo). Dialogo con Ignacio Peyró
È un sublime omaggio all’immaginario anglosassone quello che Ignacio Peyró – direttore dell’Istituto Cervantes, saggista e giornalista per “El Pais” – regala al lettore con il suo ultimo Anglofilia. Piccolo glossario sentimentale della cultura inglese (Graphe.it edizioni). Un libro-miniera (versione breve di quella spagnola che supera le mille pagine) che attraverso uno stile intrigante e raffinato compone un elegante ed eccentrico mosaico della englishness mischiando umorismo ed erudizione, profondità ed acume per raccontare il grande mito di un’Inghilterra eterna capace di essere icona di stile, riferimento letterario e santuario estetico. Definendo un personalissimo e luccicante alfabeto della Gran Bretagna: dalla A di Alcol alla B di Big Ben, passando per la R di Rolls Royce, fino alla P di Pub. Ne emerge un gioiello letterario che regala a chi legge il fascino di quella Gran Bretagna dello spirito, paradiso perduto di tutti gli anglofili. Un immaginario sentimentale ed estetico (prima che politico e morale) che nelle pagine di Peyró viene immortalato senza nostalgia o pedanteria, ma con grande cultura, eleganza e fantasia.  Che cos’è per lei l’anglofilia? E come la ha vissuta? È più un’esperienza accumulata da generazioni che un’esperienza personale. Probabilmente è qualcosa che ormai si è andata perdendo con il tempo. In tutta Europa c’è stato un innamoramento per la politica, le istituzioni e le abitudini britanniche dal Settecento al Novecento. Da loro abbiamo copiato in gran parte la stampa, il parlamentarismo… e perfino lo snobismo e l’imperialismo. Ma c’è stata anche una grande seduzione britannica attraverso i costumi: la moda, i giochi – pensiamo al calcio. Così, l’Inghilterra è riuscita a far sì che “inglese” per molto tempo fosse una sorta di titolo di prestigio oltre che un’origine. Il paradosso è che molte cose che sembrano al cento per cento britanniche hanno in realtà origini continentali. La mia generazione – sono del 1980 – è tra le ultime ad aver vissuto quella che è stata un’abitudine molto europea e poco contestata all’anglofilia. Come nasce questo libro(sia nella versione spagnola che in quella italiana)? Ero un giovane giornalista spagnolo che voleva scrivere. Ho sempre voluto scrivere, è la mia vocazione. Ho scritto libri per altri, non ce n’era ancora nessuno in libreria che portasse il mio nome. Così sono andato da un editore con varie proposte: scelse questa. Mi ci concentrai per diversi anni e gli consegnai un libro di 1100 pagine: dovevo fare qualcosa per attirare l’attenzione. La selezione italiana è di poco più di 400. La genesi, diciamo, spirituale è più semplice: sui giornali finivo sempre per scrivere di cose britanniche, il tema giunse da sé. Quali lemmi della versione originale avrebbe voluto aggiungere? Non aggiungerei nulla. Così come è fatta, la selezione è ottima. Che ruolo hanno avuto nobiltà e aristocrazia, a cui dedica uno splendido paragrafo nella sua opera, nella formazione dell’anglofilia e di una certa idea delle englishness? L’importante, più che la nobiltà e l’aristocrazia, è la capacità dei britannici, nel corso della storia, di generare élite sociali positive. Lo fanno a partire dall’ideale del gentleman – che ha molto a che vedere con il gentiluomo del Rinascimento italiano – e dalla scuola. Così, si può essere un gentleman, con un ideale aristocratico, indipendentemente dalle proprie origini.  Leggendo le voci “Alcol”, “Cabine telefoniche” e “Big Ben”, tra le altre, in pochi dettagli emerge la capacità di dare vita ad un immaginario anglosassone affascinante che oltre a raccontare sa anche “intrattenere”. A quali dei lemmi della sua opera è più legato e quali la hanno più divertita nella loro scrittura? E perché? Una delle peculiarità del mondo britannico è che può essere, oltre che molto iconico, particolarmente narrativo; all’interno di questa narrazione c’è sempre un forte umorismo, ricco di aneddoti e ironia. Questo è un libro di libri, di erudizione festosa, e mi sono divertito moltissimo a scriverlo quasi quindici anni fa. In effetti, vorrei ampliarlo nell’edizione spagnola da 1100 pagine… Secondo lei come è cambiato il mito anglofilo con la Brexit? O è iniziato a decadere ben prima? C’è sempre stato un rapporto conflittuale tra Regno Unito e continente. Questo non vuol dire che non sia stato ricco: pensiamo al Grand Tour, ad Agincourt, a Verdun… La Brexit è un passo in più in questa storia di incontri e scontri. L’anglofilia ha una sua età dell’oro, che va dalla fine del XVIII secolo fino alla metà del XX, con Churchill e la Seconda guerra. Poi ci sarà un’altra anglofilia, pop. Esiste ancora un’anglofilia, per così dire, d’immagine: automobili, arredamento, abbigliamento. L’anglofilia come libertà, istituzioni e letteratura è meno presente, in parte per il successo che hanno avuto alcune sue esportazioni come la monarchia parlamentare, la tolleranza, la stampa o i romanzi leggibili. Ignacio Peyró è l’attuale direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, dopo aver diretto quello di Londra Come valuta la narrazione del finis britanniae che è propria di questi anni?  È una narrazione che non esiste solo all’esterno, ma soprattutto all’interno del Regno Unito, e che proviene dal dopo-sbornia post-imperiale. In effetti, gran parte di questa cattiva assimilazione è alla base della Brexit. Lo disse un Segretario di Stato degli Stati Uniti: si tratta di trovare un nuovo ruolo nel mondo. La visita di Re Carlo in Italia ha suscitato molto clamore. Sta ritornando una marcata anglofilia in Italia e in Europa? L’Italia è stata un paese molto anglofilo, così come la Gran Bretagna ha preso molto dall’Italia con il Grand Tour: idee di arredamento e arte (classicismo e neoclassicismo), modi e urbanità, il gusto per il passato… Ma la Brexit è stata una cattiva scelta che ha allontanato le simpatie anglofile dal mondo.  Come si sono declinate in letteratura e in estetica questa anglofilia e anglofobia? L’anglofobia ha a che fare (cibo e clima a parte) con la critica a ciò che viene percepito come materialismo inglese. È una critica in realtà più filosofica. L’antiliberale tende a essere antibritannico. L’anglofilia, invece, può essere molto alta o molto bassa: ha a che vedere con le istituzioni, la politica, la libertà e la tolleranza… e anche con abitudini come la caccia o le giacche. Dal “Telegraph” a personalità come Macmillan e Disraeli poche cose hanno rappresentato la britishness come i Tory e il mondo conservatore. Come vede oggi lo stato del mito di questa antichissima classe dirigente che ha incarnato l’anima più autentica del potere britannico? Il partito Tory era la cosa più solida della Gran Bretagna. Ed era, in effetti, il grande partito politico del mondo britannico, almeno il modello per gli altri, soprattutto nell’ambito della destra. Era “il partito della nazione”, benché sappiamo che in una democrazia una cosa del genere non è possibile né auspicabile. Ma era un partito capace di integrare numerose sensibilità. Ora ha avuto un’eresia postmoderna con Nigel Farage. Da spagnolo di cultura europea come ha vissuto il confronto con il mondo e la cultura britannica come direttore del Cervantes di Londra? La storiografia classica britannica, quella whig, contempla la creazione dell’Inghilterra moderna in lotta contro la Spagna e il Papato. Così, siamo stati nemici metafisici, nonostante Castiglia e Inghilterra avessero molto in comune e, come sottolinea Sir John Elliott, l’impero britannico si sia ispirato a quello spagnolo. Dal XIX secolo esiste una certa visione un po’ folkloristica della Spagna, coerente con uno sguardo anglosassone che guardava con condiscendenza il resto del mondo. Questo è cambiato progressivamente nelle ultime generazioni. Quali sono gli scrittori e registi contemporanei in cui ritrova ancora oggi il mito (o l’ethos se vogliamo) britannico?  Oh, beh, ce ne sono molti. Cito gli appena scomparsi Roger Scruton, Auberon Waugh… ma anche John Le Carré. È una cultura di grande prosa e narrazione.  Oggi è direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, è in lavorazione un dizionario sentimentale se non italiano almeno romano? Josep Pla, grande scrittore catalano, osò affrontare tutta l’Italia – è sorprendente che le sue Lettere dall’Italia non siano tradotte – tranne Roma. Mi sembra una scelta saggia. Invece di scrivere un libro molto grande e pieno di altri libri come quello che ho fatto sulla Gran Bretagna, vorrei farne uno molto breve, un arabesco, con una bibliografia minima – cosa quasi impossibile – su questo paese meraviglioso. Francesco Subiaco L'articolo Anglofilia. Perché amiamo gli inglesi (tanto quanto li odiamo). Dialogo con Ignacio Peyró proviene da Pangea.
June 19, 2025 / Pangea
Il nostro bisogno di torturatori. “La Luce Inversa”: storia di un libro devastante
Di Mota, avevo sentito parlare. Del suo ventennio trascorso in solitudine sulle montagne piemontesi, del suo alter ego che ha calcato le scene del rap, dell’argomento spinoso su cui si impernia il suo testo. Ho provato a immaginare quale difficoltà debba fronteggiare un autore nello sporgersi, e nell’esporsi personalmente, sul ciglio di un abisso che in potenza è senza fondo, armato soltanto delle proprie parole e del proprio coraggio. Quando la narrativa di finzione arriva così vicina al punto di fusione con l’autobiografia, non c’è niente da fare: la sfida la vinci o la perdi. Conosco Mota nel caos di piazza Garibaldi, a Napoli, insieme al suo editor Emiliano Peguiron, in una tarda mattinata di maggio, col sole che scalda e non scalda. Pantaloni cargo, maglietta basica, berretto militare con visiera. Al volo, ci imbarchiamo su un autobus sgangherato in direzione Pomigliano D’Arco. A destinazione, ci attende l’ormai storica libreria Wojtek, roccaforte di lettori preparati ed esigenti – una rarità, purtroppo, per lo stivale. In tangenziale, col vento che rumoreggia attraverso i finestrini abbassati, saltano fuori Houellebecq, Bergman e Vollmann, conveniamo che gli scrittori possano essere “pugili o ex-pugili” e l’atmosfera subito si distende, prendendo inevitabilmente corpo.  > “Di aguzzini e torturatori noi, in fondo, è come se ne avessimo bisogno. Non > appena questi vengono meno, dileguandosi per forza di cose nel nostro passato, > siamo pronti a sostituirli, a prendere il loro posto; assumiamo il loro ruolo, > contro di noi. Continuiamo a ferirci, negandoci ogni diritto a una tregua, > continuiamo a far del male a noi stessi, come se il virus con cui ci hanno > infettati non potesse smettere di operare, richiedendo per sua natura una > continua proliferazione, una mutazione inarrestabile. Il virus che sopravvive > perché debellarlo sembrerebbe impossibile. E così, incrementando la nostra > dipendenza, ci trasforma in molestatori e carnefici di noi stessi; non > dobbiamo permettere che la familiare dose di mutilazione e castigo e > sabotaggio vada perduta, e in mancanza di fonti esterne, dobbiamo > somministrarcela da soli.” Quella sera, nella tana dell’orso, nell’aria sulle teste della platea si condensa un sottile stato di elettricità. I volti dei partecipanti, molti dei quali hanno già affrontato il calvario della lettura, sono contratti, come anneriti da un velo. Si avverte ciascuno mettere mano agli scaffali più oscuri dell’anima e scavare, in segreto, nell’intimità delle proprie angosce chiedendosi: cosa avrei fatto, se fosse successo a me? La risposta è una mano fredda sulla fronte, gelida come il cadavere del buonsenso che quella domanda ha appena ucciso.  L’incontro ha un carico emotivo a tratti insostenibile. Alcuni dettagli che Mota decide di condividere da sotto la visiera del suo berretto, pescati direttamente dalla sua esperienza, deflagrano come mine antiuomo all’interno della sala, dando un peso specifico a un terrore che poteva vantare, fino a quel momento, una certa dose di incorporeità. L’aberrante condotta del nonno. La disperazione furibonda del padre. L’istantaneo omicidio di un’intera famiglia, il giorno in cui, a molti anni distanza, Mota decide di confessare la verità dei fatti. Squarciando il velo. Gettando la maschera. Le conseguenze sulla platea sono evidenti. > “Mi sto inoltrando verso il dormitorio in un’ombra più estesa e più fitta. A > chi vuoi dirlo?, bisbiglia la voce piena di sangue, con quelle innumerevoli e > minuscole gocce di sangue sulle corde vocali. Non voglio dirlo a nessuno, > perché non c’è niente di sbagliato, forse lui ha davvero rischiato di morire > ma io non ho fatto nulla di male. Non vuoi dirlo a nessuno? Neanche a te > stesso? No. E allora lui ha vinto. > > Davvero? Domani farò colazione. E sì che racconterò tutto, ma solamente a > Martin e a Vanessa. Domani, quando ci sveglieremo, faremo colazione. Con i > biscotti e il latte freddo, in modo che i biscotti inzuppati solo per un > attimo non diventino molli e restino comunque croccanti e piacevoli da > mordere, e non vadano a formare quella poltiglia sul fondo della tazza.” Di rado capita, specie nel nostro anemico panorama letterario, di trovarsi di fronte a un’opera che obblighi a un tour nell’abiezione prima dell’uscita, che sia in grado di far sanguinare il lettore anziché leccargli l’ego; un’opera il cui tema risulti tanto scomodo, scivoloso, inospitale, e solitamente relegato a semi-taciuti o presto insabbiati scandali ecclesiastici, da poter essere ritenuto respingente. Anzi, si potrebbe affermare che l’abuso minorile sia una di quelle dispute in cui è meglio non immischiarsi (non giova agli affari) o su cui soprassedere, facendo finta di niente.  La Luce Inversa rifiuta categoricamente di volgere altrove lo sguardo, di schierarsi a favore di un glissato troppo spesso in voga nei corridoi delle sedi istituzionali. I suoi contenuti non risparmiano niente al lettore. I dettagli anatomici. Le pratiche di adescamento e stupro. Le secrezioni. Le cantine maleodoranti. La necrosi dei rapporti di forza relazionali su cui un individuo può, in condizioni, per così dire, sane, fondare la propria identità. Nessuna edulcorazione. Nessuna salvezza.  Vanessa, Siddiq e Martin sono gli incolpevoli protagonisti delle storie di violenza infantile che raccontano e nella così detta “camera a luce inversa” partecipano all’esperimento terapeutico di regressione della dott.ssa Hollis. Con uno stile lirico ad alto contenuto immaginifico (si odono gli echi dei Canti di Maldoror, di Lautréamont), Mota ci costringe a guardare laddove è più buio. Laddove in eterno muore ogni possibile redenzione. Pur non rinunciando al montaggio e a un certo gusto dickiano per la science–fiction, la lingua si dispiega sulle pagine, alta, agile e ricca, dilatandosi, dagli abusi al mare, dalla “casa tra le nuvole” alle remote galassie interstellari, come gas da inalare d’un fiato, fino in fondo, fino a imparare, anche noi, per interposta persona, la tecnica maestra per scarnificare le pareti organiche dei nostri inferni privati. > “ […] gli disse che tutto questo era capitato anche a lui molto tempo prima e > che un altro vecchio ormai morto aveva fatto con lui le stesse cose che adesso > lui stava facendo con il bambino che erano le cose più normali che potessero > accadere tra due come loro due così legati e analoghi e necessari e obbligati > lì a esserci l’uno per l’altro che tutto si ripeteva allo stesso modo da > generazioni che era una specie di insegnamento e di trasmissione e non > bisognava averne paura e allora il bambino disse va bene nonno e smise di > singhiozzare e più tardi disse al vecchio che aveva freddo ma proprio attorno > allo zero assoluto il vecchio continuava a cantilenare delle cose più normali > che potessero accadere e poi di colpo il vecchio cambiò modalità strisciò > sulle ginocchia ripercorrendo il materasso in direzione del muro trafficando > con la cintura dei pantaloni al centro del contagio di luce sospesa si slacciò > i pantaloni e poi slacciò la bocca del bambino spingendo con un dito sul mento > e con l’altro sul labbro superiore mentre con una spalla appoggiata al muro > […]” Per quanto abbiamo disimparato a sentirci coinvolti negli orrori e nei genocidi che, nel silenzio complice dell’Occidente, il nostro tempo pubblicamente sbandiera, se esiste un modo di “superare” la lettura de La luce inversa è quello di prendere sulle nostre spalle un pezzo di abominio. Farci carico di un brandello di questo dolore e smettere di sentirci intoccabili davanti all’altare del trauma. Consideralo un neo comunitario. Quando usciamo dalla tana dell’orso, dopo due lunghe ore di indagini del baratro, restiamo per un attimo fermi, sotto a un cielo che nel frattempo si è fatto scuro. Il libro, sul ring della lotta per la sopravvivenza dell’individuo, vince la sfida per knock-out. Chissà se, come consorzio umano, riusciremo a vincere mai, almeno ai punti.     Vincenzo Montisano *In copertina: Anselm Kiefer, Schnee, 1995-2012 L'articolo Il nostro bisogno di torturatori. “La Luce Inversa”: storia di un libro devastante proviene da Pangea.
June 17, 2025 / Pangea
Felix Austria, ovvero: sul talento cannibale di Thomas Bernhard (e di Glenn Gould)
> “Stranamente ho conosciuto Glenn sul Mönchsberg, il monte della mia infanzia. > Veramente lo avevo già visto al Mozarteum, ma con lui non ho scambiato una > sola parola prima di quell’incontro sul Mönchsberg, chiamato altresì monte del > suicidio perché si presta al suicidio come null’altro al mondo, e infatti > tutte le settimane si scagliano da quel monte nell’abisso almeno tre o quattro > persone. I suicidi salgono fino in cima con l’ascensore scavato nel cuore > della montagna, fanno un paio di passi e poi si scagliano giù nella città”. > > (Thomas Berhard, Il soccombente, Adelphi 1985, pag. 15) La mattina del 10 giugno, martedì, dieci persone sono state ammazzate e una trentina ferite a colpi d’arma da fuoco all’interno dell’istituto scolastico Borg di Graz, in Austria. A sparare, un ex studente di 21 anni che dopo la mattanza è andato a uccidersi in uno dei bagni. Il motivo di questa furia omicida è stato ascritto a una vendetta definitiva contro gli atti di bullismo subiti in quella scuola, che non gli avrebbero permesso di concludere gli studi: il giovane si sarebbe trasformato in una sorta di «collettore di ingiustizie», che assolutizza le angherie subite e le pone come termine finale di un’esistenza completamente sfigurata.  In questi giorni, dunque, si è tornati a parlare di Austria, un universo poco frequentato dalle nostre cronache, che raramente offre spunti per osservazioni e discussioni di qualche spessore, tendendo a relegarsi in un grigio identitarismo di stampo turistico; in genere, chi anela a suggestioni cultural-sentimentali da cercare nel corpo del nostro continente guarda ad altre capitali: dire “vado a Parigi”, “vado a Berlino” o “vado a Praga” non può suonare come “vado a Vienna”. Vienna può rappresentare soprattutto il crogiolo di nostalgie letterarie riferite a più di un secolo fa, in tempi che non torneranno, quando la Felix Austria viveva l’epoca incantata di movimenti artistici e letterari che guidavano l’evoluzione culturale europea – il bellissimo Il mondo di ieri di Stefan Zweig ne è testimonianza commossa –, prima che la grande carneficina moderna annientasse il sogno mitteleuropeo facendone palinsesto. Quindi oggi, andando al brano riportato in epigrafe – pianamente foriero di suicidi –, facciamo conoscenza con il Mönchsberg, uno dei cinque monti di Salisburgo, la città che, prima di significare Wolfgang Amadeus Mozart, significa Austria, della quale il grande Thomas Bernhard ha dato ritratti così politicamente scorretti da rasentare il sublime. Come ha fatto ne Il soccombente – di cui Pangea si è già occupata –, quel romanzo stupefacente e feroce che, dopo i primi tre capoversi, si lancia per centottantasei pagine senza più andare a capo, senza guardarsi indietro se non per riagganciare i fili portanti, senza discriminare la storia in sezioni o digressioni, mantenendo quel blocco granitico di dura eloquenza martellante senza fare sconti, in un susseguirsi pressoché ininterrotto di “pensai”: > “Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del > pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai > mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer, > ma è morto, come si suol dire, di morte naturale.  > > Quattro mesi e mezzo a New York suonando e risuonando le Variazioni > Goldberg e L’arte della fuga, quattro mesi e mezzo di Klavierexerzitien, come > Glenn Gould ripeteva di continuo e solo in tedesco, pensai”. Tutto comincia quando il narratore e il suo amico Wertheimer si iscrivono al corso tenuto a Salisburgo dal gigante Vladimir Horowitz, dal quale imparano “più che negli otto anni precedenti al Mozarteum e alla Wiener Akademie”. Lì stringono amicizia con il canadese Glenn Gould: l’incontro fatale che devierà definitivamente le loro vite. Mentre loro due sono pianisti brillanti e promettenti, Glenn Gould è la musica, è il pianoforte, èl’invasamento per l’arte. L’improvvisa e brutale consapevolezza di non essere capaci, né ora né mai, di suonare come Glenn Gould spinge entrambi ad abbandonare il loro strumento: “Wertheimer mise all’asta al Dorotheum il suo pianoforte a coda Bösendorfer, mentre io un giorno, per evitare che il mio Steinwayseguitasse a tormentarmi, lo regalai alla figlia di nove anni di un maestro originario di Neukirchen presso Altmünster”. Il modo in cui il narratore si libera del suo prezioso pianoforte è perfidamente perverso: > “Nemmeno per un attimo avevo creduto al talento di sua figlia; di tutti i > bambini che vivono in campagna i maestri dicono che hanno del talento, talento > per la musica soprattutto, e in realtà invece non hanno il minimo talento, > sono tutti bambini assolutamente privi di qualsiasi talento, e il fatto che > uno di loro soffi in un flauto o pizzichi una chitarra o strimpelli su un > pianoforte non dimostra ancora che abbia del talento. Sapevo di consegnare il > mio prezioso strumento a una persona totalmente inetta, proprio a questo scopo > lo avevo fatto portare nella casa di quel maestro. In brevissimo tempo la > figlia del maestro ha mandato in rovina e reso inservibile il mio prezioso > strumento, uno dei migliori strumenti in assoluto, uno dei più rari e dunque > dei più ricercati e dunque anche dei più costosi strumenti che ci siano”. Ma volevamo dire dell’Austria. In una narrazione fluida e incontenibile, Bernhard ci racconta che esporsi al clima prealpino di Salisburgo rende semplicemente psicopatici, e se non ci se ne allontana per tempo si finisce per diventare ottusi come gli indigeni, che con la loro bruta ottusità annientano tutto ciò che è diverso da loro. Il flusso di ragionamenti del protagonista s’incardina nel suo fare ingresso nella locanda dove intende fermarsi per partecipare al funerale dell’amico che si è suicidato, Wertheimer: mentre entra nel locale inanella una ridda di considerazioni concatenanti che durano pagine e pagine, lungo i momenti in cui oltrepassa la soglia e si ferma a guardarsi intorno. “In Austria le locande sono tutte sporche, luride e davvero disgustose, pensai, è raro che in una di queste locande si riesca ad avere sul tavolo una tovaglia pulita, per non parlare di un tovagliolo di stoffa, che in Svizzera è dovunque assolutamente usuale”. Perfino gli alberghi austriaci sono sozzi e disgustosi, dove spesso si limitano a stirare lenzuola già usate, e nemmeno tolgono i ciuffi di capelli lasciati nel lavandino; neppure le stoviglie e le posate sono pulite. La padrona della locanda, ovviamente, è sciatta, lurida e trasandata; quando il narratore, nell’attesa, si avvicina alla finestra della cucina sa già che non vedrà un bel niente, perché la finestra è incrostata da cima a fondo. “Tutte le finestre delle cucine austriache sono sporchissime e attraverso di esse non si vede niente, e questo, pensai, è naturalmente un grandissimo vantaggio, perché in caso contrario si guarderebbe direttamente dentro la catastrofe, nel lurido caos delle cucine austriache”. E pare che Wertheimer abbia dormito più di una volta con la padrona della locanda, “naturalmente, a quanto si racconta, nella locanda di lei e non nel casino di caccia di lui”. Wertheimer, il suicida, viene letteralmente travolto dalla dinamica feroce dell’emulazione verso l’inarrivabilità di Glenn Gould, il genio compagno di studi che un giorno, con noncurante plasticità, lo ha definito “il soccombente” – ovvero un uomo “da vicolo cieco”, come preferisce qualificarlo il narratore, perché ogni volta che Wertheimer usciva da un vicolo cieco entrava in un altro vicolo cieco, dalla casa di Traich a Vienna, da Vienna a Salisburgo, e anche il Mozarteum era stato un vicolo cieco, e così pure la Wiener Akademie, e infine tutti gli anni di studio del pianoforte. “Il nostro soccombente è un esaltato”, aveva detto Glenn una volta, “quasi ininterrottamente è lì che muore di autocommiserazione”. Glenn, praticamente, ha capito Wertheimer dal primo istante, così come ha capito a fondo fin dalla prima volta tutte le persone che ha conosciuto.  > “Non c’è niente di più tremendo che vedere un essere umano il quale è talmente > grandioso che la sua grandiosità ci annienta, e mentre noi questo processo lo > osserviamo e lo sopportiamo e alla fin fine non possiamo far altro che > accettarlo, in realtà non crediamo affatto a questo processo, e rimaniamo > increduli ancora per molto tempo, fino a quando, pensai, esso si trasforma ai > nostri occhi in un fatto incontrovertibile, ma allora non c’è più niente da > fare, per noi è finita”. Come recita la quarta di copertina, il soccombere di Wertheimer “è un processo sotterraneo, sottile, che lo distrugge, ma tende a distruggere anche gli altri. Nella sua debolezza, ha il fascino pernicioso di chi attira gli altri nella propria rovina”. Alla fine il soccombente ha fabbricato “una sorta di doppio beffardo, un’ombra sfigurata della perfezione di Gould, quale ultima vendetta della debolezza contro la grazia”. Tutto questo fluisce nella prosa di Bernhard senza pause, in un monologo interiore vivace e iterativo, da flusso di coscienza frenetico, chiarissimo e dettagliato, con le espressioni impeccabilmente scolpite in modo quasi ossessivo, in una costruzione scenica sapiente che non conosce pause, piena di rievocazioni considerazioni ricostruzioni dei fatti per andare a ricercarne la genesi e le cause. Vediamo Wertheimer che recrimina contro i genitori per averlo gettato nell’orribile ingranaggio dell’esistenza che lo stritola, e spietatamente tiene la quarantaseienne sorella legata a sé impedendole di crearsi una vita, proibendole ogni uscita dal guscio, e maledice la fuga definitiva di lei che va sposare un magnate svizzero ricco sfondato – che significa molto più ricco di un austriaco ricco: “mai avrei dovuto lasciarla andare da quell’orrido internista Horch”, recrimina, perché era lì, dal medico, che aveva conosciuto quell’abietto parvenu dello svizzero. In Svizzera, poi, c’è dissoluzione dappertutto, rincara Wertheimer, fra i paesi d’Europa è il più privo di carattere, e quando ci si trova lì sembra di essere in un bordello. Va da sé che a Vienna Wertheimer non può che restare soffocato, divorato a poco a poco da quei mostri dei viennesi, e l’Austria non può che annientarlo definitivamente: da qui i vagabondaggi nelle proprietà di famiglia, la dimora di campagna, nell’inutile ricerca di sé nelle scienze dello spirito, di frammenti esistenziali, di implicazioni familiari, di stanze piene di solitudine e di lontananza che rafforzano la sua convinzione dell’infelicità come condizione esistenziale dell’uomo che non si può eludere.  Rievocazioni, testimonianze, visite, colloqui, scampoli di vita, ipotesi ed elucubrazioni: un flusso di coscienza che dà impeto al racconto e si fa ossessione da basso continuo su molti fronti. Vogliamo parlare dei cosiddetti tribunali distrettuali austriaci? Ogni anno sfornano sentenze basate su errori giudiziari, in modo da avere sulla coscienza una moltitudine di uomini innocenti che scontano dure pene detentive, senza alcuna speranza di essere riabilitati, e questo perché l’Austria è piena di giudici senza scrupoli e di giurati che odiano l’umanità e che, per la propria infelicità e abiezione, si vendicano sulle persone che cadono in loro balìa per qualche circostanza sciagurata. Un’attività diabolica, quella dei tribunali austriaci, che quasi sempre resta impunita. Bene dice Clery Celeste quando definisce Il soccombente “un capolavoro vertiginoso che vi spiega passo per passo come si scende nella scalinata della mediocrità, dove sta la rinuncia, dove abita il tutto e il niente di un musicista”. Con le esitazioni di Wertheimer e del narratore verso tutto e tutti, abbiamo Glenn Gould che affronta ogni cosa con la semplicità della sfacciataggine innata e diretta di chi semplicemente è, senza dover dimostrare nulla. “Wertheimer aveva sempre paura che le forze non gli bastassero, Glenn non immaginava neppure che qualcosa potesse essere superiore alle sue forze”. Quando Wertheimer vede Glenn al primo piano del Mozarteum e lo sente suonare, rimane bloccato davanti alla porta, e quella è la sua fine come pianista, anche se lo capirà dopo anni. Una meta che viene scardinata appena Glenn siede al pianoforte a suonare le prime note delle Variazioni Goldberg. Il genio Glenn che vuole essere pianoforte, che per tutta la vita “aveva avuto il desiderio di essere lo Steinway in sé, gli era odiosa l’idea di porsi solamente come intermediario musicale tra Bach e lo Steinway e di essere un giorno stritolato fra Bach e lo Steinway”. Riuscire a essere il pianoforte lo avrebbe esentato dall’essere Glenn Gould, lo avrebbe reso felicemente superfluo, in un rapporto finalmente assoluto con Bach.  > “Perfino Horowitz in mancanza di Glenn non sarebbe stato lo stesso Horowitz, > quei due si condizionavano a vicenda. Fu un corso che Horowitz fece apposta > per Glenn, pensai in piedi nella locanda, nient’altro che questo. Fu Glenn che > fece di Horowitz il proprio maestro, non Horowitz che fece di Glenn il genio, > pensai”. La corrente narrativa di Bernhard, il suo stile, mantiene la linea diritta del discorso fluviale che procede senza fermarsi e allo stesso tempo la rete complessa del rizoma, quella formazione multidimensionale che può estendersi per aggiunta e accrescimento oltre misura, con una struttura dinamica che spesso itera le espressioni per ribadirne il peso, con connessioni continue e continue correzioni di queste connessioni, che portano a conoscere gli aspetti parziali di un tutto che va costruendosi in modo clamorosamente naturale. Una prosa che tiene lontano quel senso di straniamento che, in altre condizioni, si potrebbe innescare, lasciando libera e chiarissima la corsa naturale del racconto.  La prima edizione Adelphi de Il soccombente, del 1985, porta in copertina Donne con teste floreali che trovano la pelle d’un piano a coda sulla spiaggia, dipinto da Salvador Dalí nel 1936. Un pianoforte semi-liquefatto viene innalzato a trofeo da enigmatiche muse che sembrano portatrici di annientamento, in un fondale che richiama la celebre Monument Valley in Arizona. Ma l’immagine più inquietante la troviamo nella successiva edizione economica, dove campeggia lo sguardo allucinato di uno degli autoritratti spettrali di Léon Spilliaert, del 1907, conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique. L’atmosfera cupa, che va dall’opprimente all’onirico, con la sua abbondanza di nero, ben rappresenta la parabola autodistruttiva dell’antieroe Wertheimer, votato da sempre all’infelicità e per questo affascinato dagli esseri umani nella loro infelicità, avido di persone perché sapeva cogliere l’infelicità ovunque ci fossero persone.  > “Nessuno sa più che sono stato un fanatico allievo del conservatorio, un > fanatico virtuoso del pianoforte che si è misurato da pari a pari con Glenn > Gould su Brahms e Bach e Schönberg. Ma se l’occultamento di questi fatti, > pensai, è sempre stato per me soltanto un vantaggio in quanto si è sempre > rivelato della massima utilità, questo medesimo occultamento ha danneggiato > assai profondamente il mio amico Wertheimer (…). Tutto sommato, il fatto di > aver studiato il pianoforte per me è sempre stato utile, e anzi direi > decisivo, proprio perché nessuno ne è più al corrente, perché è un fatto > dimenticato e perché io stesso lo tengo nascosto. Per Wertheimer, invece, > questo stesso fatto è sempre stato motivo di infelicità, ininterrotto pretesto > per la sua depressione esistenziale, pensai. Io suonavo molto meglio di quasi > tutti gli altri allievi del conservatorio di musica, pensai, e il fatto di > aver smesso da un momento all’altro mi ha reso forte, più forte di quelli, > pensai, che non hanno smesso e che non suonavano meglio di me e che, da > dilettanti quali erano, hanno trovato una via di scampo per tutta la vita nel > farsi chiamare professori e lasciarsi insignire di decorazioni e onorificenze, > pensai. Il mondo è pieno di imbecilli musicali che finiti gli studi accademici > hanno per così dire intrapreso l’attività concertistica, pensai”. Paolo Ferrucci L'articolo Felix Austria, ovvero: sul talento cannibale di Thomas Bernhard (e di Glenn Gould) proviene da Pangea.
June 12, 2025 / Pangea
Basta fare come gli alberi. Ovvero: storia di un lettore che ha importunato Alessio Arena
In metropolitana ho letto Le scimmie di José Revueltas, un cognome che è un programma di vita fin dalla nascita, nella traduzione della ei fu Alessandra Riccio: c’è Polonio il detenuto tossico che fuma in cella d’isolamento: “E allora il movimento trasferiva le proprie forme nell’ondulata scrittura di altri ritmi e le lentissime spirali si conservavano lungamente nella loro istantanea condizione di idoli ubriachi e di statue sorprese”. Leggendolo, ammirandolo, mi chiedevo cosa si scrive e si legge a fare se la scrittura, e la lettura pure, non sono anche forme di protesta per le cose-così-come-sono che passano per un uso importunante e emancipato della lingua? Purché sia una lingua che sappia ancora della saliva e delle labbra di chi la parla, altrimenti è una lingua laboratoriale e basta, la lingua senza voce di una bocca castrata. Il passaggio mentale successivo e obbligato è stato verso il romanzo Il sesso degli alberi di Alessio Arena, per Fandango, libro letto prima di Revueltas: nel romanzo di Arena si sta come nella bocca di chi parla, ogni parola assume di volta in volta il sapore o il saporaccio di chi la pronuncia facendola risalire dalle viscere in subbuglio. Alessio Arena è al sesto romanzo, in passato per Pangea ci ho conversato in merito a Ninna nanna delle mosche e a La notte non vuole venire, non me la sarei sentito di importunarlo ancora, eppoi io – che di norma non sono sospettoso – sospetto molto di me: come faccio a essere sicuro un libro che mi ha conquistato per come è stato scritto sia bello di per sé e non perché è piaciuto a me e allora capirai? Che sia un romanzo-romanzo al di là dei miei criteri che alla lunga possono diventare stantii e ripetitivi quindi inadatti a riconoscere la qualità di un romanzo, specie se è il romanzo di uno scrittore che si è già guadagnato la mia stima?   Da lettore per tante prime volte delle opere di Aldo Busi è una domanda che sto attento a pormi di continuo: come si evita di -ismizzare uno scrittore, andando a detrimento della recezione della sua opera? Dimenticandosene. Leggendo ogni libro come si stia leggendo per la prima volta un’opera di chi l’ha scritto. Uno scrittore o esordisce ogni volta o è uno scrittore di mestiere, di carriera, ovvero uno che è stato scrittore una volta eppoi un impiegato della scrittura tutte le volte successive. Lo stesso se si tratta di un libro in rilettura: per leggerlo onestamente, ovvero per leggerlo in modo sensato, bisogna dimenticare tutto quello che si è letto fin lì, a partire dal libro in questione e poi tutti gli altri. Lo stesso, pare, vale per la scrittura. Dunque, de Il sesso degli alberi di Alessio Arena mi è piaciuto il romanzo, che per me significa sempre il come è stato scritto, o mi è piaciuto che sia stato scritto da Alessio Arena?  L’incipit:  > “Alansorrenti lasciava dietro di sé una coda di odore detersivo. Dove stava > lei c’era sempre chi si tappava il naso, chi metteva le mani a ventaglio per > pulire l’aria, chi cacciava la lingua con una smorfia di iguana. Se poi > qualcuno se la trovava di fronte e non faceva in tempo a scansarsi, la > salutava veloce per paura di intossicarsi dentro all’abbraccio suo.”  La scrittura di Alessio Arena è da subito come l’Alansorrenti che apre il romanzo: lascia dietro di sé una traccia olfattiva. Si sta come in Il profumo di Patrick Süskind ma in maniera ancora più radicale, sfacciata, inclemente: è una lingua che tocca e fa toccare ciò che racconta, non privilegiando il dato visivo o uditivo, per quanto sia strabordante di musica e canto e visioni, allucinazioni comprese.  È una lingua che mette in contatto, che avvicina, che sprofonda e fa sprofondare nella materia che plasma, che fa diventare racconto. Chi legge che voglia o no diventa lingua a sua volta, le parole arrivano alla mente passando dalla bocca. O così mi sono sentito io, leggendo: un uomo trasformato in una lingua dalla lingua scritta del romanzo. Letto il primo capitolo ho scritto a Alessio Arena un messaggio privato, tramite il contatto mail ottenuto per le precedenti conversazioni. Ho scritto: “Alessio Arena, ho appena letto il primo capitolo de Il sesso degli alberi, le prime quattro pagine, e se le pagine appresso filano così per me è finita, ovvero è ricominciato tutto, è come ci fosse un nuovo grande salto in avanti e in lungo e in alto e in largo nella tua scrittura, che prende il meglio dai romanzi prima e ne fa qualcosa di bello di grande di nuovo. Da lettore, che grande entusiasmo quando nel romanzo di uno romanziere di cui ho letto gli altri romanzi sento il balzo in avanti dello scrittore che mi fa marameo, che mi fa “Credevi di conoscermi e invece devi imparare ancora tutto”, che scrive con la consapevolezza di quanto ha già scritto ma comunque scrivendo con l’audacia degli esordi. Uno scrittore, o così mi pare, scrive ogni libro come non dovesse scrivere altro che proprio quello, pure se di libri prima ne ha scritti a decine e altre decine ne scriverà dopo. Scrive ogni volta come fosse l’indubitabile scrittore di proprio-quel-romanzo. Tutto questo commentare per le prime quattro pagine del libro? Sì, perché in quattro pagine c’è tantissimo: ci sono due paesi, Italia e Spagna, un figlio e un padre morto e un femminello astratto che si candida come zia aggiuntiva per quel figlio senza più un padre e in pratica senza mai una madre, pur avendola ancora in vita, quell’Alansorrenti che si propone quale zia adottiva che non fa vita da reclusa come le altre due di-sangue dell’orfano a metà ma praticamente del tutto, una zia che la vita la fa proprio e propria e che al primo incontro all’orfano di fatto rivolge “una tenerezza dentro agli occhi che io non sapevo ancora che esisteva”. C’è la frattaglieria, il Festival Eurovisione, una partitura del compositore Domenico Sarrio, il rossetto rubato a una bambina durante una gita di classe nella Sierra de Armantes. Dunque: la vita, ovvero la letteratura quando ti fa desiderare di viverne altrettanta. Un saluto da lettore felice e ammirato.” A messaggio inviato mi sono chiesto che senso avesse avuto inviarglielo. I complimenti in privato, quando non invadenti, al meglio sono del tutto inutili, specie quando riguardano un atto che più pubblico non si può, la pubblicazione di un romanzo che una volta scritto ha a che fare con chi l’ha scritto tanto quanto con chi lo legge. Il problema è che a un libro non si può scrivere quello che ti ha smosso, leggendolo, e allora pur di liberarsi dal peso della gratitudine si scrive a chi l’ha scritto, compiendo una reiterata fallacia logica. Infatti, recidivo, lette altre cento pagine e più del romanzo ho scritto un secondo messaggio privato ad Alessio Arena, dal quale non avevo ricevuto risposta e che per quanto ne sapevo poteva non aver ricevuto il primo o se sì poteva non aver nessuna voglia di leggerlo. Il secondo messaggio in privato è stato: “Da ieri sera a ora le pagine sono diventate 140, e non mi diminuisce il piacere di leggere di questi personaggi meravigliosamente non conformi e mai deodorati calati in una dimensione tra l’incubo e l’immaginazione, e questa lingua inventata e monoica che li racconta fondendo il maschile dell’italiano e il femminile del dialetto, e questa Napoli Anni Ottanta attraversata con “lo sparpetuo del profugo troiano”. Un paragrafo esemplare in cui sento come la scrittura è diventata padrona della materia al punto da farla stare assieme a suo piacimento per me è questo: “C’erano anche partiture di oratori in cui le note sembravano piccoli insetti intrappolati nella resina, come quelli che avevo visto nella corteccia degli alberi di piazzetta Salazar, due cornioli separati da una cabina telefonica.” Mi sono andato a cercare su Google il corniolo, perché di alberi so nulla, figurati che sesso hanno.” Sentendomi a un passo dalla molestia, o peggio ancora della maleducazione, e valutando la sensatezza dei miei gesti, ho cominciato a valutare se non fosse il caso di proporre ad Alessio Arena una intervista su Pangeache avesse per oggetto appunto Il sesso degli alberi. Pertanto era importante finissi di leggere il romanzo, anche per scacciare un timore che mi stava sorgendo: a conti fatti ero soltanto al primo terzo del romanzo. E se continuando a leggere avesse smesso di piacermi ovvero mi avesse convinto di meno? Se la scrittura non fosse riuscita a mantenere il ritmo e il registro? Se la mia si fosse poi rivelata una sindrome da lettore precoce, poi come avrei giustificato un mio eventuale passo indietro? Come pure: se le mie impressioni da lettore le avessi concluse sulla centoquarantesima pagina, un mio silenzio successivo, una interruzione delle comunicazioni non richieste, non avrebbe potuto essere interpretata come una tacita stroncatura, un reticente rimprovero da lettore che poi si sarebbe sentito imprevedibilmente deluso? Sono state le domande di cui sopra la ragione del terzo messaggio privato: “Alessio Arena, le pagine sono diventate 265, ora sono nel bar di Marisa la Torera, a calle San Rafael, nel Barrio Chino dove coi primi calori “Ogni angolo del quartiere, in quel giugno così caldo, sembrava nascondere il cadavere di qualche zoccola“. Mi rendo conto ci sia qualcosa di offensivo nello sperticarsi per il sesto romanzo di uno scrittore, gli altri cinque potrebbero risentirsi, ma Il sesso degli alberi è scritto proprio come secondo me un romanzo deve essere scritto per poter essere reputato tale, con la personalità sconvolgente incontrata in L’infanzia delle cose incrementata, espansa. Pagina dopo pagina scopro perché mi piace il registro misteriosamente in equilibrio tra candore e decadenza, innocenza e squallore, con i personaggi a raffica tutti ben stondati, la trama che si sposta, e la sfida che pone nello stabilire cosa è più incredibile: i giardini domestici di Palazzo Sassano, gli alberi parlanti o l’epopea dei femminelli napoletani nell’Europa di fine Novecento o quella dei castrati dal Seicento in avanti? È un romanzo ricco, generoso, odoroso, e sfacciatamente politico come lo devono essere i romanzi: raccontando storie inclinate, trascinando nelle situazioni, ribadendo che il pensiero è sempre e soltanto un’essudazione della carne. Un romanzo con una lingua sua solo sua, oltre che di chi la parla nel romanzo stesso: Alansorrenti, Gennaro Crisantemo, Bacioterracino che non violenta perché non sa come si fa, e tutti gli altri.” Decido allora che non proporrò ad Alessio Arena un’intervista per Pangea, sarebbe stucchevole dopo tutto quello che già gl’ho scritto sul suo romanzo. D’altronde non sarei stato neanche sicuro della sua reazione: ricevere pareri a raffica da un lettore che in sostanza resta uno sconosciuto non deve mettere nessuno a proprio agio. Ancora una volta, è per la mia esclusiva esigenza personale di chiudere un cerchio aperto da me che mando ad Alessio Arena un quarto messaggio: “Ecco l’ultimo pezzetto della cronaca del lettore che ha appena finito il tuo romanzo ambizioso, déraciné, screanzato, adulto, di quelli che mandano l’algoritmo a chiedersi dov’ha sbagliato con te. Ora che l’ho finito posso complimentarmi oltre che con chi l’ha scritto con l’editore che ha saputo seguire la bussola della letteratura, che non è detto non conduca a fasti commerciali ma che non è direttamente lì che punta, punta a rendere la scrittura esperienza ludica e profana, intima e collettiva, tenera e spregiudicata. Nel romanzo c’è tutto quello che uno scrittore può desiderare ci avvenga dentro quando ne scrive uno, qualcosa che secondo me sfugge di mano allo scrittore stesso, che decide linee narrative che prendono il sopravvento, che disobbediscono alla camorra dei plot assodati, che non hanno bisogno dell’explicit per arrivare a compimento poiché si compiono all’interno dei singoli capitoli, dei singoli periodi, delle frasi andate a segno che mettono a punto una rappresentazione del mondo sensibile, nella sua parte visibile e in quella che non lo è – non che “O forse si abbracciò a lui stesso, ma con me dentro” non sia stato un explicit coi fiocchi, qui al termine di una storia di assenze che vogliono diventare presenza, reclamando cittadinanza in una società pigra fin nell’immaginario marcio e patinato assieme, che non li prevede, che non vuole riconoscergli voce. “La voce era sempre quello che mi faceva più paura di me, era la parte più cruda. La voce mi spogliava nuda. O meglio: il centro della mia nudezza era sempre la voce.” Per dirlo con zia Serena, patita per la smorfia napoletana: che quarantotto questo romanzo che parla! Che ha e dà voce. Il sesso degli alberi è un romanzo bellissimo.” Soltanto ora, a stalking completato, mi accorgo il romanzo si concluda così come si è aperto, in un abbraccio, al cui interno si rischia di intossicarsi, così all’inizio, e che nel finale lascia il sospetto sulla possibilità stessa di un abbraccio: cosa sente chi abbraccia, l’altro a cui fare spazio in quell’abbraccio o la propria volontà di annientarlo annettendolo a sé, al proprio sentire? Il sesso degli alberi, tra le altre cose, è anche la storia della fatica inutile perché gli altri ti guardino per come tu desideri essere guardato, una fatica accettata con “una tenerezza […] che io non sapevo ancora che esisteva”. Basta fare come gli alberi: stare lì dove si sta, e al limite lasciare che gli altri ci sbattano contro. Questo però me lo tengo per me, ad Alessio Arena ho già scritto troppo.    antonio coda *In copertina: una fotografia di Mario Giacomelli L'articolo Basta fare come gli alberi. Ovvero: storia di un lettore che ha importunato Alessio Arena proviene da Pangea.
June 11, 2025 / Pangea