Che cosa sta accadendo? Niente, semplicemente niente. O meglio, è niente in
quanto accade in me, solo in me. Non è che gli altri non se ne accorgano, anzi.
Eppure è qualcosa di più grande che non riesco a dire. Proviamo! È un’idea della
maschera, ma trasparente. Un diorama. Un vetro posto davanti a un paesaggio, per
descriverlo, per tenerlo sotto lo sguardo. Appena lo spessore di un vetro, che
non mente, non permette di mentire, posto di fronte alla profondità dello
spazio, per dire il mio sentimento… Sentimento, sì, è questo! Quello che si
scambiano Hatem e Suleika, un canto intenso per loro, misurato, come un universo
corale, maturo a tal punto da essere in grado di raggiungere una sorta di
fenomenologia interna, poetica dello stare in equilibrio, costretti dalla
necessità di questo e del pensarsi in questo. Quasi una metafisica dell’essere e
del rimandare all’indicazione montaliana di un più in là, sempre in cerca, per
trovare pace nello spettacolo del mare, dove l’uomo non c’è, se non in
superficie, o in contemplazione, distante/vicino, manifestandosi la necessità
umana dell’abbandono.
Come posso esistere ancora, se non per te. Oh, che cos’è tutta questa vita? Ore
incerte, la risposta, che è il titolo dell’ultimo libro di Silvio Perrella (Il
Saggiatore, 2024). È ricorrente, durante la lettura del volume, la parola
diorama, vuole riflettere, è il paesaggio descritto che viene avanti, insieme
alle immagini dei quadri di Redon, che percorrono il libro. E si potrebbe dire
che paradossalmente non hanno la funzione di illustrare, giacché sono parte del
testo, cercano l’identificazione perfetta che avvenga fra la parola e
l’immagine. Non stanno lì solo per un fatto decorativo, vogliono suscitare
un’identità fra parola e cosa. La parola deve essere quella, lirica, rotonda,
incisiva, tronca su un finale, azzurra di cieli e di attesa ad incipit di
racconto. Si apre un prodigio sotto i nostri occhi. La letteratura ancora dice,
può dire, può aiutare a capire (ci meravigliamo, ma se è fatta per questo!). E
pensare che si parlava di niente, all’inizio. Un bel salto!
Così come accade qualcosa nel nostro spirito, scorrendo le immagini da una
pagina all’altra, le riproduzioni dei quadri di Odilon Redon (dipinte fra
Ottocento e Novecento). Sono nello spazio alto e cerchiato di un oblò, spiccate
sul bianco, oppure a pagina intera, o di fianco, o a marcare un angolo basso.
Hanno il colore del gesso, e allo stesso tempo si approssimano alla cenere, in
quanto evento avvenuto. Intendono quell’universo che si va sbriciolando in tardo
neoclassicismo, estenuato, stremato, e perciò cupo, ma impregnato di sentimento,
di bellezza. Rappresentano la follia del mondo dopo la fine, o all’inizio della
creazione, che è quasi un ritorno all’essere, hanno inscritto sul proprio corpo
la pietà. Sembrano questo, e aleggiano a un teatro antico, risalente al tempo
delle maschere, maschere nude, ma indossate al momento che non servono più, in
atto di dissolversi. E senza maschera che sono? Ecco l’incerto, ma cosa si vede?
A volte una creatura redenta, aureolata, a volte statuaria, o arresa,
inginocchiata sul paiolo di una barca, il mare sanguigno. A volte un particolare
mostra in primissimo piano un effetto materico della pittura. Ma ancora ci
sfugge tutto, il libro è profondo, non si riesce mai a dire completamente, anche
se siamo attratti, allietati, la parola ci conferma, ci accompagna a un sicuro
divenire, ci porta a stare dentro le cose, la loro natura. L’amore di Hatem e
Suleika, i due personaggi in giro per la terra, che lo scrittore incontra nei
pressi della Zisa di Palermo. Noi seguiamo, ci lasciamo guidare, perché sentiamo
lo spessore dei maestri.
Il corpo della scrittura, che cerca e registra, assorbe e si fa reale. È un
libro di spostamenti, di viaggi. E nell’andare dice il punto in cui cade il
sipario, crolla letteralmente, e finisce l’epoca della rappresentazione.
Prospero, nel finale de La tempesta di Shakespeare, spezza la sua bacchetta
magica, non ha più poteri. Non si può più continuare. Che cosa resta? Tutto,
niente, il mondo, la sua immagine, il dover morire, l’io, il non-io. Mi viene in
mente un racconto di Daniele Del Giudice, di un naufrago che trova come unico
sostegno in mare un quadro, egli ci si aggrappa con tutte le sue energie e si
salva, prosegue la sua navigazione fantastica, da Venezia a Buenos Aires, per
raggiungere il luogo dove avverrà la sua mostra. In realtà egli è un pittore, il
quadro è suo, galleggia, ce la fa a sopravvivere. La soggettività ci soccorre.
Piccola cosa, incerta, appunto, ma nell’esperienza dell’eterno si compie. Natura
che si compie in un frammento, stiamo su quello, guardiamo da lì. Ripeto,
insisto: cosa si vede? Viaggi e viaggi per il mondo, irrequietezza, si cerca
dov’è morto il poeta, dov’è vissuto, dove ha sperato, e si va all’origine della
propria nascita, della vita. Un quadro che improvvisamente si svela (ancora
quadri, quadri), ma è sempre un particolare. Non ce la facciamo a dire
l’interezza che comunque ci riguarda. Eppure, nel dire questo, si apre il mondo,
si spalanca la conoscenza. Il diorama senza anima, senza Dio, è un mistero
assoluto. Come si fa a vivere?, si chiede Silvio Perrella, in giro per il mondo,
come si fa ad amare? Il quadro davanti a cui sostiamo ce lo dice, perché anche
il pittore si è posto le stesse domande, e una domanda dietro l’altra fa un
infinito.
Attualmente, dove c’è il vuoto si sovrappone il mito, e il mito permane ad
avvalorare la sua inconsistenza. Che mito è?, insensatezza di spirito, moda,
gestualità che si sostituisce alla parola, blablabla. Si potrebbe interpretare
come teatro dell’assurdo, ma non lo è. Qui la nascita non avviene. Ci troviamo a
fare i conti con questo. Estremismo dell’inutilità, ma forse è sempre esistito.
Oggi è più grave?
La radice del libro consiste nel fatto che si può dire ancora l’umanità. Dunque
cercare in lungo e in largo il senso. È ricerca di bellezza, di vocazione, è, in
una parola, la fiamma, il nucleo abbagliante della fiamma, lisergico ed
esegetico. Quel farsi luce nella luce che è il libro, la parola. Fare della
parola ricerca. Colpisce la forza del movimento; la motivazione a dire chiede
forma. Si potrebbe pensare che non basta, occorre trovare il punto di verità
della parola, che è un vissuto, il mistero e il tragico che si compiono, ma
senza strepiti, solo uno svanire, che è lo sguardo incerto sull’orizzonte, la
pupilla tremante. Chiedere: se non siamo lì dove siamo? Tutto sta in questa
riflessione, in questo inizio, che allo stesso tempo stabilisce una rotta,
un’attitudine. Chiunque verrà a distrarci non otterrà quello che vuole. La
parola infatti è strumento, modella il nostro pensiero. Siamo una relazione. Al
chiudersi del libro se ne apre un altro, e un altro ancora. Libro che è
personaggio e lettore. Stai sognando?, mi correggono: ma se la morte è lì, e ci
sorprende.
Mi ricordo un filmato-intervista su Calvino, un giornalista e lo scrittore
insieme a Parigi, visitano una zona nuova, un cantiere. A un certo punto, fra
gli scavi, uno strano uomo con la pipa, chinato, ha trovato dei resti umani,
risalenti a chissà quando, e li spolvera servendosi di un pennello. Stupisce la
sorpresa di quell’evento, e poi in diretta! Tutto fa contrasto, una nuova Pompei
si apre… Ma come?, a Parigi? Sui visi di quei tre uomini (perché del cameraman
non sappiamo niente) un’umanità rinnovata si rivela, quasi una gratitudine, la
vita conferma la sua forza, non siamo venuti qui per niente, siamo vivi, che è
persino un andare oltre la pietà, per via di quello che abbiamo di fronte, ed è
capitato a loro, che sono uomini qualunque nel mezzo di un evento inatteso.
Incredibile! A questo serve la letteratura, io penso.
Ma cosa c’è all’origine di questo libro? Vedrete che alla fine lo capiremo.
Ricominciamo, leggiamo l’inizio:
> “Entra pure, lettore; attraversa la soglia: dai una prima occhiata; posiziona
> gli occhi; metti il corpo in condizione di essere veicolo; preparati al
> viaggio”.
L’autore vive attraverso noi che lo leggiamo, è una scelta consapevole,
realistica e percettiva, forse più che percettiva, di verità, oltre Calvino, a
cui sembra riferirsi come modello. La lingua è invitante fin dalle prime righe,
si accosta all’antico, s’incarica di dire l’ampiezza che ossigena il respiro. Di
seguito si legge:
> “Non si tratta di un viaggio consequenziale; un andare rettilineo; un portare
> il passo da un luogo all’altro seguendo la disposizione giudiziosa di una
> mappa”.
Ed entriamo subito nel cuore della scrittura:
> “Si tratta piuttosto di un’altalena tra Oriente e Occidente, tra albe e
> tramonti, con soste su mezzogiorni allucinati scarni meridiani”.
Ci appaiono Hatem e Suleika, qui è quando l’autore li vede per la prima volta, e
così pure il lettore:
> “Nel Divano occidentale-orientale di Goethe ho incontrato Hatem e Suleika. Ed
> ero a Palermo, nelle vicinanze della Zisa, maniero arabo-normanno; e lì,
> rifacendo nuovo lo sguardo, m’è parso rivederli vivere come clandestini
> dell’esistenza, amanti per i quali Baghdad non è mai lontana, intenti a
> svernare i giorni tra diorami meridiane caleidoscopi jukebox in disuso e
> capelli così arricciolati da spezzare i denti dei pettini. M’è sembrato che
> dalla loro posizione ambigua seguissero i miei movimenti; e mi veniva voglia e
> desiderio di ricambiare per sottrarre attimi di meraviglia amorosa dai loro
> corpi avvinti”.
Il nostro universo, la nostra memoria, sono un affastellarsi di tavole
sovrapposte, ma non per formare barricate, bensì per costruire il nostro vissuto
inestricabile, che si struttura inizialmente come un accumulo e poi distingue,
allinea, va a rintracciare un solco che dai nostri piedi corre lontano. Lingua
immersa nella lingua-mondo, lingua geometrica per dire il mondo-prisma. Che
gesto è?… pur dicendo il frammento, aspira a collocarsi nel tutto. Siamo
nell’Ora denominata occidentale orientale:
> “Epoche, quasi ere: prima Bisanzio, poi Costantinopoli; sempre crogiolo e
> arzigogolo, necessità di contatti, Occidente di qua, Oriente di là. Sempre
> ponti da costruire, visibili invisibili fragili spezzati ricostruiti slanciati
> nella notte illuminati ad arcobaleno con campate sempre più ardite e
> slanciate. Il ponte di Galata sta rintanato nel Corno d’oro; le sue ambizioni
> si restringono a un contatto stretto tra due parti della città”.
Passando per l’Ora baltica (“Arcipelago bosco soprattutto acqua. Lieve è lo
sciabordio del mare, fa suono come un’eco lontana. Ma c’è, basta avvicinarsi ai
contorni terracquei e agisce. Ninnananna ipnotica”), in grande arco di tempo e
di spazio, arriviamo all’Ora americana (“New York, la baia lampo
nell’oblò-diorama, la sua disarmante acquaticità. Il taxi lo lascia sul margine
di un marciapiede; l’albergo non è lontano; il trolley lo segue. Su su fino al
piano della camera; dalla finestra i passanti nella lontananza verticale
sembrano disegnati da Saul Steinberg; il fuso orario fa girare i pensieri
all’incontrario”).
Tuttavia è a metà del libro che avviene una ricomposizione con il mondo che
siamo, è venuto il momento di un ricongiungimento, il Mediterraneo, nostos, non
a caso il capitolo s’intitola Ora di battesimo:
> “Essenzialità di Punta Licosa, terraferma a forma di isola che si accompagna a
> un’isolina. Vasta pineta sul mare, punteggiata di carrubi e soprattutto di
> fichi. Tempo frammisto a pietre scanalate, arenarie in scivolo obliquo su
> materie intermedie. Se la raggiungi quando è il suo turno nella scansione
> delle ore ti dà misura di te”.
Il discorso si fa universale, non è nostalgico, aspira a divenire tutto, perciò
anche nostalgia. Oriente e Occidente segnano il cammino, il flusso della parola
che è in andirivieni, avamposto al sentimento dell’unire. Non è Silvio Perrella
che ha scritto Da qui a lì (Italo Svevo, 2018)?, una riflessione sul ponte.
L’abbiamo detto, adesso però si accenna all’infinito, insieme a percorsi che
uniscono, aspirazione ad andare di là, e sposarla quell’altra riva,
attraversando le strade sospese, carreggiate aeree che ci stanno sulla testa.
> “Ogni ponte ne richiama un altro e tutti i ponti, mentre Hatem cammina su
> quello di Cordova, si danno a convegno di pietre, fanno che si guardi
> dall’altra parte senza chiedersi cosa davvero ci aspetti, quale nuovo
> quartiere, quale pezzo ancorato di città si disegni nell’aria. Hatem si
> avvicina al ponte vecchio e osserva la sua curvatura che per un attimo lancia
> gli occhi nell’infinito. Non si vede altro che cielo andaluso, quasi al
> tramonto, le luci dei lampioni ancora spenti ma in procinto d’infiammarsi per
> dare chiarore alla notte”.
Ma la luce, che per tutto il tempo della narrazione ha prevalso, ora si spegne.
“La luce declina”, “facendoci ciechi di noi stessi”, in Ora oceanica si legge:
> “A Porto si arriva per desiderio di finisterre, all’indomani di molte cume
> senz’oracolo, di ore abbandonate, di minuti spersi nel buio, di brilli e
> capoversi”.
Alla fine dello spettacolo luminoso che è la vita, non corrisponde un
indebolirsi della parola, anzi, aumenta la suggestione: “Sono morto senza
saperlo”. Ci affidiamo all’enigma che siamo.
Vincenzo Gambardella
*In copertina e nell’articolo: opere di Odilon Redon (1840-1916)
L'articolo “Su mezzogiorni allucinati”. Intorno a “Ore incerte”, il libro di
Silvio Perrella proviene da Pangea.
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C’è chi scrive, e poi ci sono le voci. La prima condizione non presuppone la
seconda. Difficile per il lettore districarsi e distinguere, nonostante la
differenza sia sostanziale. Una voce ogni quanti? Nel mare magnum dato alle
stampe il rapporto potrebbe essere di 1:100, ma non voglio azzardare una stima.
Mi perdo in queste considerazioni durante la lettura di Donnaregina, l’ultima
fatica di Teresa Ciabatti appena uscita per Mondadori con Antonio Franchini in
veste di editor – lo stesso Franchini che, con Il fuoco che ti porti
dentro (Marsilio), mi ha fatto passare l’estate scorsa a chiedermi se in realtà
sua madre non fossi io. Ma torniamo a Teresa Ciabatti. Al di là di cosa
racconti, la sua voce è sempre la stessa, mi sembra di sentirla sin dalle prime
pagine e mi riporta indietro – la voce di Teresa Ciabatti è come una madeleine –
a quella che ero quasi dieci anni fa, quando leggevo La più amata – il suo libro
più conosciuto, quasi vincitore del Premio Strega – e sognavo di diventare una
scrittrice. Le nostre storie si sfiorano senza incontrarsi come quella di Teresa
Ciabatti e Giuseppe Misso – il super boss e personaggio chiave nella storia
della camorra – la cui vita decide di raccontarci. Vado avanti nelle pagine
mossa non tanto dalla curiosità della vicenda ma dalla narrazione dell’autrice
che compare fra le righe, perché è lei che cerco.
Quando comincio a leggerla lei è un’autrice affermata, io non sono nessuno. Ma
sogno di diventare un’autrice affermata anch’io e inseguo la sua voce. O forse
non sono io a inseguirla: è quella voce che mi cattura, la stessa che parla dei
genitori entrambi morti (fortune?), dei traffici del padre massone, della madre
depressa ma, soprattutto, che parla di sé.
Una voce smodata, eccessiva, mitomane. Che non risparmia nulla, in primis a se
stessa.
Come la Madonna vergine e madre, come l’Uomo che è sempre buono e cattivo, anche
Misso ha una natura duplice, e in Donnaregina ci sono due protagonisti, i cui
destini s’intrecciano pur proseguendo su binari paralleli, ciascuno con le sue
cadute, con le sue finte risalite, con le speranze e gli intenti. Mi lascio
trasportare dagli incisi che alludono e dalle digressioni – artifici di Ciabatti
– sono un po’ la sua firma – nonché resi possibili dal suo guardarsi
dall’esterno: un vezzo che si chiama dissociazione ed è un sintomo psichiatrico.
E allora Teresa Ciabatti – Nostra Signora di Orbetello, anzi, Nostra Signora
della Liberatoria, compie il miracolo: non si limita a intervistare il boss,
addirittura ad affezionarvisi, consegnandoci un ritratto fra il folkloristico e
l’umano.
Nel suo racconto non si distingue più cosa è vero da cosa è falso, chi è figlio
di chi, la trans dall’autolesionista, perché tutti i figli so’ piezz’ e
core. Donnaregina è infatti un libro che indaga il confine sottilissimo – tanto
sottile da diventare impercettibile – fra fiction e non fiction, ciò che si
ispira al vero e diventa falso, mentre il falso è come se fosse vero e allora,
mi chiedo, in questo punto esatto in cui Ciabatti ci porta, siamo davvero sicuri
che ci serva il permesso di qualcuno per scrivere? A quanto pare sì. Lo spettro
della liberatoria aleggia infatti in tutto il libro, è come un coro greco che
sul più bello della narrazione torna col suo lamento.
Ormai mi sembra di sentirla anche se smetto di leggere, mi ossessiona tanto da
parlarne al dottore: dobbiamo forse aumentare il litio? Lui mi rassicura:
personalmente non l’ha mai letta ma ha sentito dire che può fare questo effetto.
Andiamo avanti così.
Se nessuno scrittore è capace di deprimermi più di Michel Houellebecq, l’unica
scrittrice italiana da cui sono ossessionata è lei, e a prescindere da cosa
scriva. Forse perché le sue protagoniste, nonostante i numerosi privilegi di cui
godono e che ci mostrano – la piscina a Orbetello, la casa in centro a Roma, la
tomba del padre messa in sicurezza prima di tutte le altre – sono disperate. Una
disperazione che non smettono di ostentare, e che le rende ridicole, a tratti, e
così tragicamente umane. La stessa Ciabatti lascia trasparire la sua
disperazione: è alle prese con la crisi della figlia adolescente alla quale non
impedisce di fare la ricostruzione delle unghie perché è pur sempre uno slancio
vitale – e la sua amica Michela Murgia sta morendo. Quando cerca di rassicurare
se stessa mentre il mondo va in pezzi, illudendosi che andrà tutto bene durante
la cena in giardino, diventa tutte e tutti quando proviamo ad andare avanti,
anche leggendo storie che ci aiutino a vivere.
Ma veniamo alle assonanze che giustificano in parte la mia ossessione. Anche io
sono una donna di mezza età con una figlia adolescente, anche io saluto
l’intrepida ragazza che sono stata e in più il mio culo sta franando come il
cimitero di Orbetello. Lavori in corso. E ancora: anch’io vorrei dare una svolta
alla mia carriera – non sono più un’aspirante scrittrice, ma per scrivere dovrò
senz’altro procurarmi la liberatoria di qualcuno. Bei tempi quando bastava
l’avvertenza “ogni riferimento è puramente casuale”, oggi senza liberatoria non
sei nessuno, non si va da nessuna parte, si è dovuto rassegnare anche Emmanuel
Carrère. Come avverte lei nel disclaimer però il cimitero non è mai crollato,
quindi c’è ancora speranza.
Così, mentre leggo aneddoti ai limiti del trash sono commossa, faccio un post su
instagram, poi mando un messaggio a Ciabatti con le mie impressioni. Su wapp
Ciabatti commenta: Solo tu noti i dettagli marginali, sei la mia lettrice
ideale. E invece no. Io registro le informazioni a margine perché in realtà a me
della storia di Misso – della storia del boss che sto leggendo da duecento
pagine – pur nascendo napoletana, non me ne frega un cazzo. Delle rapine, del
carcere e dei morti ammazzati, del rione Sanità e della sua passione per i
colombi.
Mi chiedo allora cosa mi tenga incollata alle pagine. E adesso finalmente lo so.
In questi duri tempi in cui per scrivere prima ancora della penna serve la
liberatoria, a decretare la grandezza di un libro non saranno la trama,
l’editing o la strategia. Sarà la voce. Una voce che catturi nella prima pagina
e che conduca all’ultima, al di là dell’argomento. Che si parli di crociate,
della caduta del regno delle due Sicilie o di una Fortezza in mezzo al nulla,
non importa, a fare il libro sarà la voce che (e se) vi è contenuta. Una stessa
voce che compaia in libri diversi della stessa autrice, come una chimera, una
promessa mantenuta, un balsamo che invece di lenire ossessiona.
Non so dire allora se Donnaregina sia o no un grande libro, ma quello che so per
certo – da scrittrice e da lettrice – è che quella di Teresa Ciabatti è
inequivocabilmente una grande voce.
Fuani Marino
*Fuani Marino ha pubblicato con Einaudi “Svegliami a mezzanotte” (2019) e
“Vecchiaccia” (2023)
In copertina: John Singer Sargent, Lady with a Blue Veil, 1890
L'articolo Inseguire la voce, ovvero: sulla mia ossessione per Teresa Ciabatti
proviene da Pangea.
Scriveva Nietzsche nel 1881, che la filologia – arte di oreficeria verbale – ci
consente di sottrarci alla fretta, alla “precipitazione indecorosa e sudaticcia,
che vuol ‘sbrigare’ immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo”.
La lentezza del procedere filologico diventa così un modo di aprire fenditure
nella superficie per prendersi tutto il tempo, raccogliere tutto il silenzio
necessario, per andare dentro le cose “con dita e occhi delicati”. Il
volume Aneddoti letterari da Petrarca a Scheiwiller (Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma 2024), a cura di Antonio Ciaralli e Carlo Pulsoni,
rispettivamente docenti di Paleografia latina e Filologia romanza all’Università
di Perugia, restituisce lo sguardo paziente degli studiosi.
Nella presentazione del volume, gli autori non mancano di sottolineare come il
richiamo nel titolo a Benedetto Croce, non possa far dimenticare la ben nota
avversione nei confronti della filologia, “incompatibile col proprio sistema”;
segno, per quanto ci riguarda, della serietà con cui sono disposti a considerare
perfino i limiti del procedere filologico, reo, secondo alcuni, di raffreddare
la potenza di un’opera letteraria, pur di ricostruirne le vicende che l’hanno
generata. Ma andare in profondità vuol dire entrare senza remore dentro l’epoca,
ricostruendo la storia della letteratura e della filologia in modo tale da far
irrompere questo passato, che soltanto, appunto, in superficie pare
archeologizzato, quindi morto, nelle espressioni di storia della letteratura e/o
della filologia, come fuoco vivo dentro il presente, sempre impegnato con
dannata fretta a liquidare sé stesso per inseguire un domani che si fa
contenitore vuoto.
I cinque capitoli che compongono il libro consentono salti temporali che vanno
dal Petrarca – con il riconoscimento della parziale autografia del manoscritto
Vaticano latino 3195, testimone dei Rerum vulgarium fragmenta del poeta, vero e
proprio punto di svolta nella storia della filologia petrarchesca – a Vanni
Scheiwiller, al mondo dell’editore milanese, al ruolo cruciale svolto nella
“riconciliazione ideologica” tra Pasolini e Ezra Pound. Il capitolo si apre
infatti con la fatidica data del 26 ottobre 1967 – specificando pure che si
trattava di un giovedì, sicché, al lettore, pare quasi di essere trasportato
personalmente indietro, dentro un incontro così carico di significati, non fosse
altro che soltanto la Poesia è in grado di superare gli steccati di vedute
ideologiche e politiche così diverse. Ma le coordinate di questo straordinario
incontro sono anche geografiche: Venezia, Calle Querini Dorsoduro 252, luogo di
riconciliazione.
26 ottobre 1967, giovedì
Senza tacere della relazione tra lo stesso Scheiwiller, Pasolini e il poeta
Biagio Marin, di cui il secondo fu sincero e vivace promotore e amico. In mezzo,
ci sono Leopardi, Montale, Ungaretti e Mario Praz. Lo spirito che anima questi
scritti e che illumina il senso profondo dello studio filologico è evidenziato
nella stessa introduzione, in cui Ciaralli e Pulsoni scrivono, a proposito del
ritrovamento del manoscritto su Petrarca, scoperto per la prima volta nel 1886
da Arthur Pakscher e Pierre de Nolhac, che la storia di un manoscritto finisce
con il riflettere lo spirito inquieto di un’epoca. Non a caso, proprio il
ritrovamento di questo manoscritto ebbe dei veri e propri risvolti politici, in
tempi in cui certamente filologia e storia concorrevano a ricostruire,
determinandola, l’identità nazionale degli Stati in Europa, in modo tale che la
supremazia negli studi storici e filologici garantisse in qualche modo
(blindandola, aggiunge chi scrive) quella sul piano politico. Perciò, guardando
dentro l’epoca e i suoi fermenti, possiamo osservare come le pretese
imperialistiche degli stati europei esondassero i piani meramente politici e
militari coinvolgendo, appunto, anche la filologia. Il capitolo su Ungaretti –
in particolare sulle varianti di Gridasti: soffoco – nella premessa sottolinea
la “difficoltà oggettiva” nel ricostruire origine ed evoluzione del testo. Come
giustamente rilevato da Marco Grimaldi, ciò è favorito anche dall’epoca digitale
in cui viviamo che, se da un lato consente una maggiore facilità nell’offerta
documentale al pubblico, dall’altro pare indurre surrettiziamente gli studiosi a
rinunciare alla ricostruzione (resa stratigrafica) del cammino di un’opera nel
tempo. Il volume, dunque, esprime fin troppo bene la cura da “sacerdoti della
memoria” che gli studiosi come Ciaralli e Pulsoni profondono in queste
discipline, che risalendo dentro la polvere del tempo sedimentata sulle opere,
le restituisce al loro ambiente, vive.
Livia Di Vona
L'articolo Sia lode a Madama Filologia, ovvero: sul manoscritto di Petrarca e il
leggendario incontro tra Pasolini & Pound proviene da Pangea.
Uno sguardo profetico: “Altrove dichiara che nella storia degli uomini vi è
certamente un progresso, che ‘l’uomo è sensibilmente migliore di quanto non era
[in passato]’, ma che tutte le civiltà, ognuna a sua volta, ‘tengono nella
storia per un momento la fiaccola del progresso’, poi sono fatalmente colte
dalla decadenza e non sono più rappresentate che da ‘cari vecchi popoli’,
costretti ormai a rimettere ad altri la direzione dell’evoluzione”.
Appunti di stile: “La pittura accademica e i libri scritti nella lingua
letteraria sono incapaci di provocare l’emozione. La pittura presenta la realtà
sotto una falsa luce, la ‘luce dello studio’. E i libri utilizzano una ‘lingua
morta’, che è una falsa lingua, quella dei mandarini. Gli scrittori devono
dunque fare quel che hanno fatto i pittori della scuola impressionista. Devono
ritrovare la lingua vera, creatrice di emozione, così come i pittori hanno
ritrovato la vera luce. Ebbene, Céline è l’unico scrittore a cui sia riuscita
questa traslazione. Egli è tornato allo stile parlato e l’ha reso emotivo. La
nuova lingua della quale è l’inventore è lo stile emotivo parlato: ‘L’emozione
non si lascia captare che nel parlato… Il compito dello scrittore è quindi
semplice: si tratta di captare l’emozione del parlato e di «riprodurla»
attraverso lo scritto, al prezzo di mille sofferenze, mille pazienze che nemmeno
s’immaginano! Chiaro, eh?’”.
È in libreria Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche (ITALIA Storica
Edizioni, 2025, a cura di Andrea Lombardi, con traduzione di Moreno Marchi). A
un primo sguardo Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche parrebbe solo
l’ennesima voce in un coro già affollatissimo di biografie dedicate all’autore
di Viaggio al termine della notte: un mattone in più accatastato accanto a una
decina, forse venti, Céline che già gremiscono gli scaffali. E invece c’è un
carburante segreto che lo fa scattare avanti: una vera “complicità” – quasi una
dipendenza reciproca – fra biografo e biografato, entrambi forgiati da uno
stesso sguardo ferocemente disincantato sul mondo.
Scrivere di Céline resta un terreno minato: senti alle spalle il suo ghigno
pronto a sconfessare ogni aggettivo. È il pedaggio che ogni céliniano paga. Per
decenni lo scrittore ha incassato le interpretazioni più disparate,
dall’acrobaticamente dotto al ridicolmente balzano. Bardèche, però, non si fa
cogliere impreparato. Sa che la biografia è impastata di storia, così come la
storia scolpisce i destini individuali e collettivi. E lui, insieme a Céline,
quelle tempeste le ha attraversate in prima linea, talora fianco a fianco,
talora su fronti divergenti ma sempre dentro lo stesso turbine.
Il risultato è un corpo a corpo fra titani: da una parte uno dei narratori più
dirompenti del Novecento; dall’altra un critico-saggista tra i più acuminati,
prolifici e irrequieti della sua epoca. Ne esce un ritratto che, più che
aggiungere un altro Céline agli scaffali, costringe a riconsiderarli tutti.
Carlo Tortarolo
**
Da “Louis-Ferdinand Céline”
Non avevo intenzione di scrivere un libro su Céline. Il mio progetto consisteva
nel ricercare perché, come la letteratura di narrativa avesse cessato di essere
una creazione artigianale umilmente presentata agli acquirenti, e come, perché
essa sia divenuta, per la maggioranza degli scrittori, un modo di presentarsi,
di affermarsi, insomma un esibizionismo. A ciò contribuiscono molti fattori. Non
pretendo di esporli tutti. Volevo soltanto individuare degli itinerari, cercare
di capire da qualche tipico caso, come alcuni autori fossero stati indotti a
sostituire i loro studi con un one man show, come avessero abbandonato la stessa
idea di avere uno studio, una fucina e perché, come avessero sostituito al loro
dovere professionale uno strip-tease inteso sia quale esibizione muscolare sia
quale apologia e sovente entrambe assieme. La trasformazione dello scrittore in
divo dello show-business esigeva uno studio sociologico che trovavo al di sopra
delle mie forze. Volevo limitarmi ad analizzarne tre esempi: quelli di
Jean-Jacques Rousseau, di Léon Bloy e di Céline.
Tale modesta inchiesta era quanto potevo fare.
Non conosco molto bene l’opera di Céline. Da lontano trovavo nella sua carriera
di scrittore una soddisfacente risposta alla questione postami. Egli venne
indotto all’esibizionismo dalla persecuzione. Il suo esempio fu edificante:
s’era lanciata contro di lui una muta, che lo aveva costretto a far fronte e a
difendersi, che aveva distrutto in lui lo scrittore, facendone un animale di
bosco non potendo far altro che emettere grida, malgrado lui, esibizioniste. Era
divenuto un esibizionista perché aveva dovuto giustificarsi: come Jean-Jacques,
come Léon Bloy.
Mi accorsi allora che la sua opera non era, come credevo, come molta gente
crede, un’opera autobiografica, ma che Céline era un affabulatore, il quale
aveva usato come canovaccio il proprio itinerario biografico. Più m’informavo,
più verificavo e più constatavo l’estensione dell’affabulazione. Capii che di
questa sistematica deformazione egli aveva fatto uno dei principi della sua
tecnica narrativa. Dovetti anche ammettere che era stato quell’artigiano che
speravo ritrovare nello scrittore: il suo coraggio, gli scrupoli, le infinite
correzioni, il suo accanito lavoro corrispondevano alla perfezione con la
probità da me opposta all’attrazione dell’esibizione.
Le cose non erano dunque così semplici come immaginavo. Céline era al contempo
un artigiano e una rockstar, non perché traeva i racconti dalla sua esistenza,
ma perché gridava, misurava il palco, suonando la sua selvaggia musica,
impegnando in simile denuncia della realtà ciò che di più profondo e vero era in
lui, mettendo “sul tavolo”, come diceva, “la sua pelle e le sue trippe”. Era la
definizione stessa del poeta lirico: secondo Musset, così come secondo Rimbaud o
Baudelaire. Céline finì per confessarlo.
Presentò il chiarimento scenico sullo scrittore quale un diritto, un privilegio
ed addirittura una necessità.
Mi trovai quindi davanti ad uno sconosciuto che metteva a soqquadro la mia
arbitraria classificazione. Avevo cominciato, decisi di continuare.
Davanti a questo sconosciuto provai disparati sentimenti. Era stato esaltato e
violentemente attaccato. Era stato ammirato e odiato. Tali contrasti non mi
dispiacquero. Ma più ne avevo conoscenza, più li trovavo estranei alle qualità
che amo trovare in un uomo. Mi apparve fanfarone, bugiardo, arrogante,
chiacchierone, tonitruante prima e lagnone poi. Ammirai il suo coraggio
allorquando si fece tribuno. Vedevo un intrepido volontario affrontare l’odio,
rischiare la vita. L’impetuosa carica mi fece dimenticare quanto di lui sapessi.
Mi apprestai ad ammirarlo nelle tribolazioni. Quelle da lui attraversate
rinnovarono la mia simpatia: pensai alla prigione di Tasso, alle infermità di
Cervantes. L’incontro mi deluse: lo scoprii egocentrico, ingiusto, stridulo,
vanitoso come un uccello di cortile. Cos’è uno scrittore che non accetta la
responsabilità di quel che ha scritto, quando quel che ha scritto è stato per
altri mortale? Capii che egli fu al contempo un eroe ed il suo contrario: un
irresponsabile.
Irresponsabile perché in lui è tutto contraddizione. Mescola tutto, il cinismo
che ostenta, la bontà che nasconde. È un utopista, sogna per gli uomini un
inaccessibile benessere, ma allo stesso tempo, non si fa su di loro alcuna
illusione. Il suo amore, la sua pietà vengono contraddetti ogni istante da ciò
che vede e descrive. Bugiardo quando parla, quando inventa, detesta la menzogna
degli uomini e denuncia la perpetua commedia che recitano tra loro, come
scrittore egli persegue aspramente la verità: quanto sa degli uomini, la
cattiveria, il sadismo, l’isteria, la vanità della loro vita. Tale verità, così
crudele, concreta, brutale, imbarazza, offende. E quando la si estende a tutto,
ai regimi come agli uomini, più non si vede cos’abbia di generoso: essa provoca
l’odio. Si trattava di un compito troppo arduo per lui, di un fardello che non
ha saputo portare.
A causa di questo cinismo, non solo professato, ma per così dire statutario,
tutta una parte di lui stesso non riesce a esprimersi e va indovinata. E per
attimi la s’indovina quando il suo linguaggio, quel famoso linguaggio così
osceno, così sconcio, si flette. All’improvviso la voce diviene musicale e
triste. Dietro al teppistello si avverte un’ombra, come nei Campi Elisi degli
Antichi, tendente delle braccia translucide verso i vivi in visita ai morti. È
un’apparizione, quella di un altro, di un prigioniero di colui che scriveva,
un’anima intravista che chiede di essere liberata e che vuole si sappia.
Quest’ombra è il Céline incompreso, terminante una delle sue prime interviste
con il dir degli uomini: “Ah! avessero potuto amarsi!”, esclamazione incongrua
ed enigmatica; senza commenti. Pertanto sono le parole che riprende alla fine
della sua esistenza, quando scoraggiato scrive: “La gente dice è un bruto, non è
vero, io sono tutto cuore”. Ci aveva messo vent’anni a scoprire ciò che chiamava
“il terribile pericolo dell’aver buon cuore”.
Ho voluto conservare, presentare come conclusione del mio ritratto di Céline la
sua immagine custodita da coloro che gli furono vicini, Pierre Monnier, Arletty,
Robert Poulet ed anche Barjavel: una buona fata sotto le sembianze della fata
Carabosse.
Per riconciliare i due Céline, quello che si mostrava in primo piano occupando
l’intera scena e quell’ombra che domandava giustizia sulle sponde del fiume
della morte, immaginai una spiegazione che si ponesse al centro della mia
presentazione. Punto di partenza è l’immagine che lo scrittore si fa di se
stesso e che in ogni sua opera del dopoguerra appare come un’idea fissa: tale
panoplia comprende la ferita durante il combattimento nelle Fiandre, la sua
anima di “sottuff.” effettivo, la medaglia militare, indispensabile accessorio
sovente ricordante lo sconosciuto Céline posto sotto i travestimenti di Bardamu
e di Ferdinand. Cardine di simile spiegazione è la maggiore e più determinante
crisi della sua vita, gli anni di prigione e di esilio in Danimarca e l’ingiusta
persecuzione di cui fu vittima. Questo “eroico” Céline da anni camuffato in un
Céline chiacchierone ed ingombrante è quello che un giorno ebbe l’idea di
caricarsi di una supposta missione di sacrificio al servizio degli uomini. Tale
suo periodo di vita, che i biografi attraversano in punta di piedi, è molto
interessante. Se ne scorge il vero carattere. Innanzitutto, l’ingenuità. Il
cinico, l’insubordinato si toglie la maschera: si vede comparire uno zelante, un
“fanà”, dicono i militari, un maresciallo agli alloggi che si dà volontario per
una missione pericolosa. Al contempo, l’irriflessione: “Cos’andava a fare in
quella galera?”. Al contempo, l’inesperienza. L’odio lo sorprenderà: cosa
aspettava dunque? “Forza, piccolo!”, come a undici anni quando accompagnava il
padre con un fagotto sulle spalle. Infine ne veniva fuori tutto quel che fa il
conservatore, compresa l’intransigenza, il semplicismo, la perentorietà.
Insomma, secondo me sull’autore di Viaggio al termine della notte si erano
sbagliati tutti.
In seguito, nel pericolo e nella sofferenza che sondano reni e cuori, appare un
altro uomo: quello che la sua immaginazione trasporta così come lo aveva
trasportato nella galoppata dei pamphlet. Giustamente egli ha paura, fugge, ne
ha ben ragione. Ma nel momento in cui non teme più niente, è ancora prigioniero
del panico. L’illusione della persecuzione muta le forme di ciò che lo circonda:
geme, grida, accusa in un incubo. Per giustificarsi si ripiega allora sull’idea
di essersi sacrificato, volontariamente sacrificato, che era stato l’unico ad
averlo fatto. Quindi si costruisce una propria maschera, o piuttosto si ritrova
tale era davvero, ravvivando con ostinazione l’immagine tutelare, ispiratrice
che si era fatta di sé all’epoca dei suoi pamphlet, i quali, diceva, io avevano
guidato: il valoroso combattente del 1914, glorioso ferito di guerra,
irreprensibile patriota, perseguitato da un’odiosa cospirazione, fuorviato in
un’abominevole avventura che lo altera e da cui non riesce ad estrarre la storia
di sé che vorrebbe imporre: quella di un resistente alla guerra,
all’Occupazione, che è stato deportato in Prussia e che sotto il terribile
stivale danese ha subito sofferenze sfidanti l’immaginazione.
Simile cambiamento a vista fu un po’ brutale. Céline trovava il percorso assai
semplice, logico, evidente. Nessuno condivise tale convinzione. Egli vi si
rifugiò, la mantenne per sé, senza riuscire ad imporla. Ma, per difendersi dagli
uomini, si costruì un’altra maschera, opposta alla prima. Non più il cinico, ma
il vinto, il relitto. Ha scoperto l’odio e vi risponde con l’odio, è lui ad
usare il termine. “Io sono tutto cuore”, specifica a volte l’epilogo… Non
dimentica niente. Non ha però il diritto di esprimere la sua rabbia. Si
protegge, come può, sotto il suo ultimo mascheramento, una canadese da esiliato
nel fango di baroni: diffidente, sornione, prudente, “in guardia”, come dice,
traduzione della frase di Descartes: “Larvatus prodeo”. Ed a questo punto la
trasparenza non lascia passare altro che un’immagine, la più sorprendente di
tutte, quella di un uomo che, non credendo a nulla, crede ancora al premio Nobel
e alla Pléiade.
L’immagine che Céline si faceva di sé io la credevo vera. Noi non siamo quel che
siamo, ma quel che crediamo di essere. L’ha detto Pirandello e prima di lui
Pascal. Perché non spiegarlo attraverso l’immagine che si faceva di sé? Come
ognuno di noi. Egli ha diritto ad un giusto processo. È uno da rimettersi
all’immagine che il Partito si fa obiettivamente della nostra condotta?
Si può allora dire che Céline fu uno scrittore “fascista”? Non si è
necessariamente fascisti perché si è portato un plico sotto le palle, non di più
perché si è antisemiti, in qualunque partito vi sono gli antisemiti, né perché
si è desiderata un’alleanza franco-tedesca onde assicurare un avvenire di pace.
Non è nemmeno “razzista”, in quanto la sua angoscia davanti al declino della
razza bianca non ha niente in comune con il dogma della superiorità degli
ariani, essa esprime l’ansietà dell’igienista che egli sempre fu. Con la sua
condotta, con la sua attitudine Céline è profondamente estraneo all’energia, al
rigore, alla determinazione rivendicate dai “fascisti”: ed ancor più ad una
rigidezza da loro ostentata. Lo si crede fascista a causa dei suoi pamphlet: non
lo è più di quanto non fosse comunista quando scrisse il Viaggio. Egli non è né
coerente né sistematico. Vi è in lui qualcosa di molle, a volte di debole: in
alcuni momenti fa pensare ad un ubriaco incontrato per caso e che tra i
singhiozzi ci racconta la sua storia. Essa può interessare, l’ubriaco la
sviolina abbastanza bene. Lo si può amare, ma senza illusioni. Ad ogni modo è
inclassificabile e ci s’inganna quando si pretende di appropriarsene.
Maurice Bardèche
*Per gentile concessione si pubblica un passaggio dal “Louise-Ferdinand Céline”
di Maurice Bardèche, edito da Italia Storica Edizioni, pubblicato in origine da
La Table Ronde nel 1986
L'articolo “Io sono tutto cuore”. Artigiano e rockstar, osceno e candido:
Maurice Bardèche sfida Céline proviene da Pangea.
Il flagello: così s’intitola una poesia de Il conte di Kevenhüller,
straordinaria raccolta di Giorgio Caproni – uscì per Garzanti, era il 1986.
L’esergo recita: “Su un’Invenzione di Ginevra Bompiani”; la nota chiosa: “Chiedo
perdono a Ginevra Bompiani per la mia quasi delittuosa distorsione del suo
splendido racconto intitolato La cerva cornuta”. In effetti, la poesia pare
quasi un calco dello “splendido racconto”.
“In perpetua corsa.
Nessuno era mai riuscito
a osservarla vicina.
Di lei, si sapeva soltanto
che razziava nei campi
Ma chi, chi non razziava
– ogni giorno – nei campi?
E quale voracità
poteva avere, una cerva,
per creare un flagello”.
Così Caproni; così Ginevra Bompiani: “…è difficile che qualcuno l’abbia guardata
da vicino. Di lei si sapeva che razziava nei campi. Ma chi non razziava nei
campi? E che appetito poteva mai avere una cerva da costituire un flagello?”.
Il racconto, tutto un precipizio, rilegge la terza fatica di Eracle, la cattura
della cerva di Cerinea. Alcuni passi sono molto belli:
> “La cerva non rappresentava altro pericolo che quello del desiderio. Il
> desiderio di andarsene. Anche per sempre. Quello era il desiderio che lui
> doveva spegnere, accollandoselo; una vertigine, lo spasimo di buttarsi nel
> vuoto precipizio; bisognava che lui ci scendesse vertiginosamente, rischiando
> di ruzzolare fino in fondo, sollevando sterpi sassi e radici sotto ogni passo,
> perché la loro saggezza si risolvesse un’altra volta a star ferma, ad
> accontentarsi, a non desiderare più”.
A un certo punto si dice che Eracle insegue la cerva “come un aspirante suicida,
non come un eroe guerriero”.
Il racconto è estratto dalla seconda parte (La stanchezza) di un libro che
s’intitola Le specie del sonno. Uscì nel 1975, per “La biblioteca blu” di Franco
Maria Ricci, tirato in tremila copie. In copertina: un cammeo in cui Eracle
tiene per il collare Cerbero, il cane infero. Ripreso nel 1998 da Quodlibet,
Giorgio Agamben – che, tra l’altro, ha curato la raccolta postuma di
Caproni, Res amissa – ne ha scritto come di “un classico ritrovato nella
letteratura italiana del Novecento”. All’epoca – nel ’75 – Italo Calvino firmò
un’introduzione accuratamente algida, in cui diceva che “L’occhio di Ginevra
Bompiani fissa gli emblemi mitologici come macchie di Rorschach, con la
differenza che il suo sguardo non può essere ingenuo e che il potere di
fascinazione di queste figure non può essere quello di ciò che è visto per la
prima volta”. La quarta parlava – in forma più brillante – di “un libro
assolutamente unico nella letteratura italiana, che riunisce in esemplare
equilibrio la grazia un po’ improbabile di un bestiario medioevale e il rigore
quasi scientifico di un trattato di mitologia”.
Sono troppi gli autori del Novecento che hanno usato la maschera del mito, fino
all’usura – da Camus a Pavese, da Rilke a Broch, da Marguerite Yourcenar a
Ghiannis Ritsos, da Julio Cortázar a Borges a Robert Graves –: la Bompiani
arriva ultima, sorprendendo “le creature del mito nei loro gesti più quotidiani
e immediati, cioè nel loro assoluto ignorare di essere mitiche” (Agamben). Più
di recente, in ambito anglofono – Anne Carson, Alice Oswald, Susan Stewart, Pat
Barker – il mito ha dato misura di sempiterna inesauribilità. Ma questo è un
altro discorso.
Cinquant’anni dopo, Le specie del sonno mantiene il ritmo di una sagace
inattualità, è testimone di una immaginazione perturbante. Nel racconto che dà
il titolo alla raccolta, ad esempio, si dice degli ermafroditi:
> “Fatti per l’amore, e incapaci di provarlo, a loro non resta che la
> malinconia, il sonno infantile e il dispetto”.
Insonni, invece, sono i Centauri. Vivono il doppio degli uomini, di cui
afferrano, in razzia, le donne. Una ferina inquietudine li rende, al contempo,
avidi di ogni sapere ma incapaci di trasmetterlo, di farne uso:
> “A che scopo infatti costruire casa focolare giardino se non ci si può dormire
> in mezzo? A che scopo fabbricare utensili se l’irrequietezza propria agli
> eterni vigilanti li costringe a cambiare continuamente quartiere, a
> trascorrere in solitudine da una collina all’altra, da una grotta a un fiume
> montano?”.
Creature dell’istante, pari a rapaci, la sapienza dei Centauri è equivalente
alla pura insipienza: la loro vita, un pozzo.
Riguardo agli angeli, è scritto che “guardano altrove”, intimoriti dal loro
annuncio, che spartiscono per obbedienza, senza prendervi parte, come il pane
sbriciolato per i piccioni, a orde. Tra tutte, una lassa è di folgorante
bellezza:
> “Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli. E quando sarà caduto
> nel vostro giardino, col petto insanguinato e le ali che sbattono debolmente
> sul terreno, avvolgetegli il capo e posatelo sulle vostre ginocchia, facendo
> da cuscino alla sua agonia; e guardando la vostra casa, respirate di sollievo,
> vedendola uscire con la consueta lentezza dalla penombra mattutina”.
Che raffinatezza intrisa di sangue. In questo gioco di specchi e di venefiche
pozioni, a volte, vorremmo la bestia in disastro, che balzi dalle pagine per
fracassarci il corpo – per farlo infine fruttificare. Ma sono dettagli, perché è
proprio il rigore da entomologo – ardore geometrico che precipita nella pazzia –
a rendere un libro tanto improbabile, autentico. Il talento per la sprezzatura
non sempre è eccidio, a volte finisce per essere incendio. A volte, intendo, la
limpidezza non è austera: è come mettere una sedia di fianco al muro di una
casa: sali, lettore, entra di soppiatto nella camera da letto.
Max Klinger, Centauro inseguito, 1881
Ne Il calore animale, ad esempio, si dice che la donnola è la nemica del
basilisco, ma soprattutto che
> “Contro l’inumano non è mai stata un’arma la verità, ma sempre la finzione o
> l’inganno: l’astuzia delle catene di Ulisse mutila il canto delle sirene, un
> falso nome deride il furore del ciclope, la testa di Medusa riflessa nel
> bronzo devia il suo sguardo pietrificante e accorda la vittoria a Perseo; il
> raggiro sottrae il mondo umano alla legge della coincidenza che lo fa
> scomparire”.
Un racconto s’intitola Consigli a un cacciatore; tacitamente, sarà piaciuto a
Caproni, il cui libro – quello citato in cima –, in fondo, è un lirico trattato
di caccia. All’amico appostato il poeta indirizza un metafisico avvertimento:
“Presta bene orecchio,
amico, a quel che ti dico.
Tu miri contro uno specchio.
Sparerai a te stesso, amico”.
Per attingere al meraviglioso, bisogna conoscere la tessitura della trappola,
avere occhi a filo d’ascia, approvati dalla nottola, annottare ogni pensiero.
Caccia, cioè: non avere scusanti, otturare le scappatoie.
*In copertina: Giambattista Tiepolo, Centauro e Satiro, s.d.
L'articolo “Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli”. Intorno a
un libro inattuale proviene da Pangea.
> 2010. Samuel Paty, Simone Veil, Miloš Forman ed Elisabetta II erano ancora di
> questo mondo, Barack Obama era presidente degli Stati Uniti e, quattro anni
> prima, Vladimir Putin aveva fatto assassinare Anna Politkovskaja. Il 2010 è
> stato dichiarato l’anno Francia-Russia. Non so cosa significhi.I talebani non
> avevano ancora riconquistato il potere in Afghanistan. Kathryn Bigelow è
> diventata la prima donna a vincere l’Oscar per la miglior regia con il
> film The Hurt Locker. (…) Il presidente della Francia era Nicolas Sarkozy.
> TikTok non esisteva. Adele non cantava ancora Someone Like You né Clara
> Luciani cantava La grenade. Il 2010 è l’anno di J’accuse di Damien Saez.
>
> Il 2010 è l’anno in cui mia zia è morta per la seconda volta.
>
> (incipit di Tatà di Valérie Perrin, edizioni E/O, 2024)
Tatà, questo lungo romanzo edito da E/O, l’abbiamo trovato nel cestino della
carta da buttare un giorno in cui eravamo in visita qui alla redazione. Poiché
non mastichiamo granché la letteraturina francese in voga oggi, un amico ci ha
ragguagliati sull’autrice, spiegando che Valérie Perrin è la quarta moglie – di
trent’anni più giovane – del quasi novantenne regista francese Claude Lelouch. È
lei ad avergli scritto le sceneggiature degli ultimi sette film, e gli ha fatto
anche da fotografa di scena; poi ha pubblicato alcuni romanzi di successo che
qui in Italia sono stati propagandati in pompa magna, a suon di bla-bla-mila
copie vendute in una settimana, in un mese, in un anno e via dicendo.
Incuriositi, l’abbiamo esaminato per cercare il motivo di quella cestinatura:
magari ci era finito per sbaglio.
Innanzitutto, il riferimento puntiglioso all’anno 2010 nell’incipit riportato in
epigrafe – per inciso, non abbiamo idea di cosa sia il J’accuse e nemmeno chi
siano Damien Saez e Clara Luciani – serve a far partire la storia, in cui
Colette, la zia della narratrice, “muore per la seconda volta” perché le avevano
già fatto il funerale tre anni prima:
> «Pronto?».«Buongiorno, qui è la gendarmeria di Gueugnon».«Buongiorno».«Parlo
> con la nipote di Colette Septembre?».«Sì».«Sono il capitano Cyril Rampin. Devo
> darle una brutta notizia, signora».«…».«Sua zia è deceduta».«Mia zia?».«Sì,
> Colette Septembre. Sono qui con l’ambulanza. L’abbiamo trovata priva di vita
> al numero 19 di rue des Fredins. A prima vista sembrerebbe che sia morta nel
> sonno, ma stiamo portando le spoglie all’istituto medico legale per le
> verifiche del caso».«Guardi che mia zia Colette è sepolta da tre anni nel
> cimitero di Gueugnon. E abitava in rue Pasteur».«Ho la carta d’identità sotto
> gli occhi: Colette Septembre, nata a Curdin il 7 febbraio 1946. Sulla foto è
> più giovane, ma le somiglia».«Dev’esserci un errore. Probabilmente è un caso
> di omonimia».«Nel suo portafoglio c’è un biglietto su cui è scritto: Persona
> da contattare in caso di emergenza: mia nipote Agnès, 01 42 21 77 47».«…».«C’è
> anche scritto che vuole essere cremata e riposare accanto a Jean
> Septembre».«Jean?».«Sì. Lo conosce?».«Era mio padre».
Già in questo primo scorcio, purtroppo, qualcosa non va. A parte la banalità di
certe battute che si sarebbe potuta evitare («Buongiorno», «Buongiorno», «Sua
zia», «Mia zia?»), a esser fuori luogo sono i tre puntini messi tra virgolette,
tipici di un’ingenuità espressiva da andamento fumettistico del dialogo, dove si
crede che il silenzio dello spiazzamento debba per forza essere rappresentato
con un capoverso muto, per aiutare il lettore debole a immedesimarsi. Il guaio è
che questa formula semplificante non è un incidente, ma viene riproposta in vari
punti, come un vezzo stilistico:
> «A cosa ti riferisci?».«A Charpie, te lo ricordi?».«No. Chi è Charpie?».«Un
> dirigente, uno che non c’entrava niente con gli spogliatoi, ma ti giuro che ha
> passato un bel po’ di tempo nelle docce dei ragazzi, si è rifatto gli occhi
> con tre generazioni senza la minima discrezione. Per non parlare dei muscoli e
> dei coglioni che palpeggiava i mercoledì pomeriggio».«…».
Non vogliamo annoiarvi con citazioni inutili, ma vi assicuriamo che il silenzio
espresso coi puntini fra le virgolette continua a comparire anche in seguito,
come se fosse l’unico modo per esplicitare quel tipo di situazione. Questa
dissonanza ci ha fatto insospettire un po’, spingendoci a cercare qualche
notizia in più sull’autrice. In Wikipedia – la fonte principe dei nostri tempi –
viene innanzitutto specificato che Valérie Perrin è “scrittrice, sceneggiatrice
e fotografa”. Dunque, immaginiamo che lavori innanzitutto per il cinema: quali
film ha sceneggiato? Oltre agli ultimi sette del marito, null’altro viene
segnalato. Se non esistono altre collaborazioni al di fuori della cerchia
familiare (qualora esistessero, qualcuno le menzioni) non sappiamo fino a che
punto si possa parlare di sceneggiatrice come “professione”, nel senso di
attività che si sia sviluppata e misurata col mondo professionale esterno.
Inoltre, l’autrice viene definita fotografa. Bene, per chi ha lavorato? Quali
riviste, quali eventuali campagne, o servizi su internet? Ha fatto qualche
mostra, pubblicato qualche libro fotografico? Non si sa, perché l’unica cosa che
risulta aver fatto è la “fotografa di scena” per i film del marito. Se non è
così, suggeriamo di rimpolpare il curriculum con qualche notizia in più che
possa chiarire le cose.
Rilevate queste criticità, asteniamoci da ogni illazione o elucubrazione sul
personaggio e su come viene presentato al pubblico, e restiamo invece
sull’argomento libro. Sempre Wikipedia dice che il primo romanzo della
Perrin, Les Oubliés du dimanche (Il quaderno dell’amore perduto), ha ricevuto
ben tredici premi, ma nell’elenco lì dedicato ne compaiono solo sette. E gli
altri sei dove sarebbero? Si tratta forse di piccole manifestazioni di paese non
degne di menzione? Poi leggiamo che il suo secondo romanzo Changer l’eau des
fleurs (Cambiare l’acqua ai fiori), “ha ricevuto diversi premi tra cui il prix
Maison de la Presse che premia un’opera scritta in francese per il vasto
pubblico”: ecco dunque un indizio che ci aiuta a inquadrare questo genere di
romanzi. Il Vasto Pubblico diventa la parola chiave, la formula magica del parco
lettori da nutrire con ciò che chiede.
Confermiamo comunque che questo romanzo procede in modo disinvolto e scorrevole,
con quel genere di scrittura che piace tanto a chi usa dire “si legge d’un
fiato!”, con la differenza che Tatà è un volume di seicento pagine, quindi di un
fiato non si può certo leggere: al contrario è un macigno che fa penare
parecchio chi si metta in testa – per principio o per cocciutaggine – di
leggerlo fino in fondo. Secondo la vulgata di Wikipedia, i romanzi di Valérie
Perrin “raccontano ‘storie di vita’, mettendo in scena dei personaggi
accattivanti e dal percorso di vita atipico. Con uno stile semplice, vivace e a
tutto tondo, l’autrice costruisce i suoi romanzi in corti capitoli al fine di
dare un ritmo al suo racconto; Changer l’eau des fleurs, per esempio, comprende
più di un centinaio di capitoli, riassunti ogni volta da un epitaffio poetico”.
Ora qualcuno dovrebbe spiegarci cosa significa “uno stile a tutto tondo”.
Essendo effettivamente semplice, lo stile in questo libro non decolla mai, resta
rigorosamente sotto un’asticella definita, e rimane a galleggiare sulla
superficie di un chiacchiericcio da consorteria che si riunisce in soggiorno o
nella sala da tè: un chiacchiericcio che appartiene alla vita quotidiana di
moltissimi, che sia declinato in seno alle classi medio-popolari oppure negli
ambienti privilegiati della gauche intellectuelle a cui l’autrice sembra
appartenere. Ma cerchiamo di essere più specifici. Il blocco narrativo che la
Perrin cerca di dipanare per far stare in piedi la storia vorrebbe intrecciare
“segreti familiari, memorie sepolte e il peso insondabile del passato, lasciando
il lettore intrappolato in una ragnatela di emozioni e misteri” (citiamo formule
elogiative raccolte in Rete). La protagonista Agnès è – ovviamente – una regista
di successo che deve affrontare la (seconda) morte della zia Colette, detta
affettuosamente Tatà, che furbescamente aveva finto di defungere tre anni prima.
“Perché Colette ha fatto credere di essere morta? Questo enigma, oscuro e
spiazzante, conduce Agnès in un viaggio a ritroso nel tempo, tra frammenti di
memoria e segreti sepolti. Una valigia piena di audiocassette lasciata dalla zia
si rivela il filo conduttore che lega voci dimenticate, vecchi amici e verità
sommerse. Emergono storie che si intrecciano in un mosaico di destini e di
personaggi”.
E qui arrivano i dolori: purtroppo non c’è nessuna “esperienza emotiva che
trascende le pagine”, nessuna “riflessione sulla memoria e sui legami familiari
che invita il lettore a guardarsi dentro” (guardarsi dentro è un’espressione che
andrebbe abolita); e i classici “fantasmi del passato” non portano nessun
fardello che cerca redenzione, ma restano evanescenti e pretestuosi, senza nerbo
come la girandola di personaggi che interagiscono come se si trovassero in un
film commedia, ovviamente francese. Lo stile è quello lì, coi toni disinvolti e
sbrigativi da sceneggiatura interpretata da Catherine Deneuve, con la spocchia
velata della gauche intellectuelle che abbiamo citato, quella che finge
spontaneità lasciando trasparire la consapevolezza di essere due gradini sopra,
di poter trascurare quella che si chiama onestà artistica perché, comunque, il
“vasto pubblico” ci cascherà e verserà i soldi in cassa. È l’espressione chiara
di quella sorta di cripto-disprezzo che rimane tra le righe, che si omologa alla
decadenza culturale del nostro tempo rinunciando a impegnarsi, cavalcando
scorciatoie, gettando brioche al popolo per restare in sella. In Tatà la trama
non esiste, ovvero si attorciglia in una sorta di labirinto che fa vagolare il
lettore senza risolversi in una narrazione. I personaggi, così inconcludenti,
fanno venire i nervi al pari di quei dannati tre puntini messi fra virgolette
che ogni tanto spuntano senza motivo:
> «Sono lì dentro?».«Sì» mormora.«Tutte?».«Sì».«Mi stai dicendo che zia Colette,
> la persona più taciturna che abbia conosciuto in vita mia, ha registrato…
> quanti minuti, Cornélia?».«Dodicimila».«…dodicimila minuti di nastro
> magnetico?».«Sì, anche un po’ di più».«Un po’ di più?».«Sì».«Perché l’ha
> fatto?».«Per te».«…».
Le battute che ripetono, i famigerati tre puntini virgolettati, il
chiacchiericcio sofisticato da Comédie Française, fino alla nemesi delle
audiocassette registrate dalla zia con gli spezzoni di una storia incoerente,
frammentata, che non riesce a formarsi in una narrazione logica. Una sarabanda
di ricordi che sembra l’espediente per riempire le pagine senza una vera
direzione, solo per inserire quegli elementi-chiave che simulano sostanza e
vogliono dare il necessario appeal alla vicenda, per blandire il pubblico: la
sopravvissuta di una famiglia ebrea deportata e sterminata dai nazisti, un
celebre pianista, un assassino senza scrupoli, un insospettabile pedofilo, e il
tifo sfegatato e pittoresco della zia per la squadra locale di calcio.
Segnaliamo che Agnés è ossessionata dall’ex marito Pierre, che l’ha lasciata per
una donna più giovane: va da sé che la donna in questione è – a seconda dei
momenti – stronza, baldracca, troia, oppure pasticcino. Talvolta le
elucubrazioni della protagonista sono enfaticamente spiattellate, a effetto,
come se ci si trovasse in una scena comica di Louis De Funès:
> “Sono Agnès”.Come avrebbe reagito? Non gli avrei dato il tempo di dire
> “Agnès?” o “Agnès!” o “Perché mi chiami, è successo qualcosa?”.Gli avrei
> detto: “Pensa, mi ha appena chiamato la gendarmeria di Gueugnon. È morta
> Colette”.No, non avrei detto “pensa”, avrei detto: “Mi ha telefonato la
> gendarmeria di Gueugnon. Hanno trovato il cadavere di una donna e sostengono
> caparbiamente che si tratti di Colette”.No, caparbiamente non va bene, non
> dico mai “caparbiamente”.Mi avrebbe risposto: “Ma è già morta… Hai bevuto?
> Dimmi la verità, hai bevuto?”.Avrei replicato: “Ti piacerebbe, eh? Così tu e
> la tua baldracca potreste avere la custodia esclusiva di Ana”. E avrei
> riattaccato.Non ho mai detto la parola “baldracca”. Quando sono arrabbiata
> grido “stronza” o “troia”. Chi dei due avrebbe riattaccato per primo? In quale
> momento la conversazione si sarebbe inasprita?
Che dubbi amletici, talmente drammatici da accorciare il respiro. Più si procede
nella lettura più la protagonista Agnès diventa insopportabile, al punto da
farci solidarizzare col marito fedifrago Pierre. E certe riflessioni sembrano
rivelatrici dei problemi di questo libro:
> “E io ero stanca. È il prezzo da pagare per la gloria: la paura, sempre più
> presente e opprimente, di non avere più niente da dire, la sensazione di
> rifilare sempre la stessa minestra. Cosa raccontare nel prossimo film? Tra le
> altre donne che mio marito non guardava ce n’è stata una che ha fatto più che
> guardarlo, gli è saltata addosso. Aveva un buon odore, era carina e
> zuccherosa, aveva voglia e faceva venire voglia. E lui, senza opporsi, l’ha
> lasciata fare, in un primo momento per sapere, per capire, per assaggiare
> qualcosa di diverso”.
In conclusione, possiamo dire che uno degli scopi occulti di questo libro pare
essere quello di trasudare mondanità. Effettivamente, è una vocazione che viene
da lontano, da quell’aristocrazia Ancien Régimeanteriore alla Rivoluzione del
1789, dove una piccola schiera di privilegiati, splendidamente condannati
all’ozio, si creava una realtà circoscritta in cui autocelebrarsi. Era lì la
Civiltà della conversazione, raccontata nel magnifico libro di Benedetta Craveri
edito da Adelphi: fare della vita mondana un’arte e un fine in sé, come tratto
distintivo di un’identità aristocratica che dal Sei-Settecento è riuscita a
proiettare la sua eredità fino alla gauche intellectuelle francese novecentesca,
l’estremo baluardo culturale che potesse arginare la deriva inevitabile,
compiutasi nell’ultimo quarto di secolo per estinzione generazionale.
L’autocelebrazione occulta, ben percepibile nella prosa pretestuosa della
Perrin, discende proprio da quel bisogno irrefrenabile di mondanità, da
quell’esprit de société che nel tempo si è sfilacciato fino ad annientarsi nel
chiacchiericcio stolido che oggi macina tutto, che dice senza costrutto, che
parte per tornare al punto di partenza, che celebra la propria inutilità in
pagine che – siamo desolati – torneranno nel cestino.
Paolo Ferrucci
*In copertina: un’opera di Roland Topor
L'articolo Valérie Perrin, scrittrice del Vasto Pubblico (ovvero: quel bisogno
irrefrenabile di mondanità) proviene da Pangea.
Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di
quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di
Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille,
forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori
e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a
esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le
frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere
se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di
cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la
sua verità liberata dall’artificio della parola.
Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato
(come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia.
Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei
letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali
per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata:
l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la
mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare
conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a
salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo
che meriti di essere salvato.
È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi
tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo
una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come
tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne
un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa –
Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna
sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura,
affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi,
Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio,
Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt,
Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San
Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il
rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di
Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra
storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece
più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco
funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.
A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale
(siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona,
monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico,
giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono
Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una
professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della
manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da
Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto
di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della
raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si
legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo
apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che
quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto
giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare
il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del
tutto ostile.
I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche
Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma
che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione
metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo
come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro.
«Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel
racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e
tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero
entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un
quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i
personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente
con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel
quadro».
Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo,
l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o
almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa
ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente,
inadeguato:
> «Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti
> architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per
> scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma
> di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che
> arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si
> offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi
> riconsegnarla sotto altra forma».
Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e
arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque,
all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice
a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo
scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.
> «Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco
> –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E
> adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi».
Fabrizio Coscia
*In copertina: Camille Claudel (1864-1943)
L'articolo Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un
libro di Giovanna Di Marco proviene da Pangea.
In coda al suo primo romanzo Alessandro Piperno ringraziava il proprio maestro,
Enrico Guaraldo, per avergli insegnato “a leggere e a scrivere”. Allora ero
molto giovane e ricordo che in un primo momento pensai che Guaraldo fosse il suo
maestro delle elementari; devo dire che oggi quel mio errore mi diverte.
Soltanto in seguito capii che leggere e scrivere sono due attività in continua
evoluzione e che non si finisce mai di impratichirvisi, nemmeno da adulti.
Piperno infatti ringraziava il suo professore universitario, e chissà se oggi –
a vent’anni dall’esordio – ritiene di avere del tutto imparato a leggere e a
scrivere. Di certo sa tenere interessanti discorsi al riguardo.
Con le peggiori intenzioni, il suo primo romanzo, usciva nel 2005. Allora avevo
sedici anni ed era il libro di cui parlavano tutti; volli leggerlo anch’io e mi
divertii, mi piacque. Ancora adesso, riprendendolo in mano, alcuni episodi mi
paiono molto riusciti e talvolta riesce perfino a farmi ridere. Tuttavia non è
all’opera romanzesca di Piperno – ai suoi alti e ai suoi bassi – che penso ora
bensì ad alcune tracce per così dire “divulgative” che nel corso degli anni
hanno accompagnato la sua scrittura e dunque la vita dei suoi lettori più
attenti. Le coglievo su YouTube, sporadicamente: ogni tanto spuntava il filmato
di una sua conferenza o di una sua lezione universitaria o anche soltanto di una
sua intervista, e Piperno se la cavava sempre in modo egregio, da ottimo oratore
qual è. Parlava di molti autori che amo – fra gli altri Proust, Flaubert,
Nabokov, Bellow, Philip Roth, Capote, Baudelaire, Dickens, Kafka – e non era mai
banale o noioso. Il fatto è che Piperno è uno di quegli scrittori che sono
innanzitutto dei lettori forti e che perciò hanno stipulato una sorta di patto
implicito con il proprio pubblico, ubbidendo sempre o quasi ai dettami della
passione e della sincerità. Certe volte ha un occhio un po’ troppo benevolo per
gli autori cresciuti (come lui) du côté de chez Siciliano, tuttavia i suoi
consigli letterari non mi hanno quasi mai deluso: come suggeritore di libri
Piperno inciampa di rado, specie se non parla dei suoi contemporanei italiani.
Il titolo del suo ultimo lavoro è Ogni maledetta mattina, il sottotitolo cinque
lezioni sul vizio di scrivere. Se ho voluto accennare alle sue conferenze e
lezioni che girano online è perché in questo libro esse vengono spesso riprese e
arricchite. Piperno comincia raccontando della sua passione per la scrittura e
poi elenca cinque ragioni (che saranno i cinque capitoli del libro) per mettersi
a scrivere: ambizione, odio, senso di responsabilità, piacere, conoscenza. È un
saggio a tratti divagante ma sempre ben strutturato. A un certo punto Piperno
riprende una frase di John Cheever:
> “Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre
> all’eccellenza.”
Qualche anno fa l’aveva posta in epigrafe a Il manifesto del libero lettore, un
suo libro che potrebbe essere appaiato a Ogni maledetta mattina; ora ce la
ripropone come “una delle definizioni dell’arte di scrivere più persuasive” in
cui ci si possa imbattere. Difficile dargli torto, specie in tempi in cui alla
letteratura si collegano ogni sorta di doveri politici e sociali o addirittura
didattici.
Piperno, ripeto, è un ottimo lettore e le pagine illuminanti o comunque
dilettevoli del saggio sono parecchie. Mi sono rimasti impressi, per esempio, i
brani sulla stupidità contemporanea (partendo da Bouvard e Pécuchet), o un
originale e credo inedito accostamento fra Céline e Salinger, o la seguente
frase: “È bene ribadirlo: non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a
costo di tanti sacrifici”, o questa: “Attribuire un significato simbolico ai
racconti di Kafka non è solo un esercizio infruttuoso, ma anche un oltraggio
alla sua divina arte narrativa” (una chiosa che Kundera avrebbe apprezzato),
oppure: “Ah, se ne ho conosciuti di scrittori talentuosi che, stritolati dalla
fame di riconoscimenti, hanno finito per perdersi!”, o ancora un difficile ma
riuscito trait d’union fra Proust e Kafka che suggella il finale del saggio e
dunque il bel ricordo che ne conserviamo.
Insomma, Ogni maledetta domenica è un libro onesto e riuscito, che potrebbe
avere come antenati o fratelli maggiori la prefazione di Musica per
camaleonti di Truman Capote o L’arte del romanzo di Milan Kundera. Scrivere,
come leggere, è divertente, può esserlo: Piperno in fondo non vuole dirci altro
che questo, senza ergersi a gran maestro della sua arte. D’altro canto il suo
amato Proust fa dire a Elstir, in All’ombra delle fanciulle in fiore:
> “La saggezza non la si riceve, bisogna scoprirla da soli al termine di un
> itinerario che nessuno può compiere per noi, nessuno può risparmiarci, perché
> è un modo di vedere le cose. Le vite che ammirate, gli atteggiamenti che vi
> sembrano nobili non sono stati stabiliti dal padre o dal precettore, sono
> stati preceduti da esordi ben diversi, influenzati dal male o dalla banalità
> che regnavano tutt’intorno. Rappresentano una lotta e una vittoria.”
Chissà se Piperno, allievo di Guaraldo, concorderebbe. Di certo in Ogni
maledetta domenica non ci sono pompose lezioni “tecniche” sull’arte del narrare,
come ormai è d’uso negli sciagurati manuali di scrittura creativa che infestano
le librerie. No, Piperno non fa questo, non lucra sugli aspiranti scrittori come
sogliono fare in tanti, e di ciò gli siamo grati. Aspettiamo quindi con
interesse il suo prossimo romanzo, perché – dopotutto – è lì che si e ci diverte
davvero.
Edoardo Pisani
*In copertina: un’opera di Honoré Daumier
L'articolo “Non si nasce scrittori, lo si diventa per scelta e a costo di tanti
sacrifici”. A lezione da Piperno proviene da Pangea.
Come accostarsi a un paese, a una cultura, a una visione del mondo e della vita
radicalmente diversi dai nostri? Cosa si smuove, dentro di noi, quando il
confronto con l’alterità si fa profondo, inevitabile, trasformativo?
«Que devient-il un paysage lorsqu’il n’est plus contemplé?» – si chiedeva
Béatrice Commengé, rievocando l’infanzia mitica di Lawrence Durrell nelle valli
luminose dell’Himalaya.
Un paesaggio, una cultura, esistono anche senza il nostro sguardo? E cosa
diventano, quando vi posiamo sopra i nostri occhi inquieti?
Si può scegliere la via di Pierre Loti: proiettare sull’altrove il volto
inaccessibile e seducente di una donna, dare carne e sangue all’esotico,
trasfigurandolo in desiderio.
Oppure seguire le orme di un poeta come Odysseas Elytis: prendere la Grecia
millenaria e custodirla come in un sogno, sottrarla agli urti della storia,
popolarla di luce implacabile e di dèi che nuotano tra le onde dell’Egeo e i
dolori intimi dell’uomo. Si può anche fare come Roland Barthes: accogliere il
Giappone nella propria fantasia privata, lasciarsi attraversare da una
costellazione di segni e immagini fino alla lacerazione del senso.
E poi c’è chi si innamora perdutamente dell’Asia e, come in una favola zen, si
immagina abitante della luna in viaggio di studio sulla Terra. È il caso di
Fosco Maraini, che con Segreto Tibet ci consegna uno dei libri più belli e
inclassificabili del Novecento italiano: non solo una superba testimonianza di
viaggio, ma una meditazione profonda sulla bellezza, sul tempo, sulla
meraviglia.
*
Nel Tibet degli anni Trenta – chiuso al mondo, accessibile solo a pochi –
Maraini accompagna l’orientalista Giuseppe Tucci in due spedizioni memorabili,
nel 1937 e nel 1948. Ne nasce un’opera che è insieme diario, trattato
antropologico, poema in prosa e archivio della memoria. È allo stesso tempo
documento storico e fiaba senza tempo: ha la nitidezza di una cronaca e la
sospensione dell’archetipo. Racconta un mondo reale eppure mitico, in cui ogni
gesto, ogni volto, ogni oggetto sembra affiorare da un tempo remoto e arcano.
Segreto Tibet ci trasmette il senso della vertigine del nuovo – quella a cui non
siamo più abituati. Noi, generazioni satellitari, cresciute con Google Maps e
Street View, abbiamo addomesticato il mondo, anestetizzato l’ignoto. Maraini,
invece, ci restituisce lo stupore intatto del primo sguardo, la sensazione di
camminare davvero fuori mappa, come esploratori del proprio stesso sguardo. In
questo, egli è l’epigono di Marco Polo: colui che non solo narra ciò che ha
visto, ma lo ricrea. Un Ibn Battuta della parola, un Matteo Ricci
dell’immaginazione.
Seguiamo l’inizio della spedizione, quando Maraini descrive la partenza dal
porto di Napoli. È ancora l’epoca dei lunghi e avventurosi viaggi in piroscafo,
contenitori mobili di un’umanità cosmopolita e palpitante. Qualcuno dovrà pur
scrivere, prima o poi, l’epopea di questi pachidermi acquatici. Nella nave
avviene il primo incontro ufficiale del lettore con Tucci, al quale Maraini è
legato da una profonda riconoscenza.
Si levano le ancore, si salpa, i cari e i curiosi gesticolano dalle banchine:
l’anima vive già le promesse scintillanti del futuro. Maraini fa tappa in
Egitto, visita le Piramidi, poi Gibuti, lo Yemen, infine l’approdo in India. Qui
avviene il primo grande confronto con la monumentale civiltà asiatica. Con una
certa dose di temperata ironia, Maraini già esercita la sua fulminante capacità
di osservazione: quell’inseguire la divinità del dettaglio, senza però esaurirne
il mistero. Infine, la lenta ascesa verso il Tibet, attraverso l’Himalaya
Orientale: un lento e itinerante apprendistato all’incanto, una compiuta
pedagogia del vedere. Il nuovo scenario si svela in immagini da creazione del
mondo: coltri di nebbia, torrenti impetuosi, ghiacciai celesti, colossi di
pietra. Tutto – le forme, i suoni, i colori – parla un linguaggio aurorale, da
giorno-uno della Terra. E gli uomini che lo abitano – come i Lepcha, timidi e
silenziosi, piccoli Hobbit asiatici in simbiosi con la natura – sembrano venuti
da un altro ciclo cosmico. Anche il dettato di Maraini, allora, deve dar conto
di questa aria di prodigio. La sua lingua diventa a tratti espressionistica,
capace di evocare il brulicante e inesausto alternarsi e proliferare di vita e
di morte delle foreste. Poi, come osservando gli altopiani a volo d’uccello, la
prosa si apre ai monologhi del sole e del vento, “alle grandi cose di fronte a
cui è inutile mentire”. Talvolta, con brevi pennellate da artista cinese,
nascono quasi degli Haiku in prosa:
> “Gli ultimi alberi, le prime nevi in distanza. Stamattina ci siamo incamminati
> all’alba: dalle piante della foresta pendevano strani licheni che la rugiada
> imperlava di luce”.
Maraini è un narratore puro che dissemina qua e là schegge di poesia. La sua
scrittura svezza il lettore dall’ovvio, fruga nella materia viva, apre sentieri
nel bosco delle parole con la sicurezza di chi ha imparato a camminare nella
giungla, a colpi di machete. La sua lingua sa essere precisa e limpida, ma anche
lirica e visionaria: un equilibrio raro tra precisione e incanto.
Segreto Tibet è anche un libro di ritratti. Come quello di Giuseppe Tucci:
geniale, ombroso, carismatico, capace di passare con naturalezza dalla lettura
delle scritture tibetane al ricordo commosso delle colline marchigiane e dei
versi leopardiani. Attorno a lui, figure che sembrano uscite da un affresco:
maharaja postumi, europei convertiti al buddismo che si aggirano fra i templi
come pellegrini smarriti e devoti, nobili americani in cerca del proprio Gran
Tour interiore. E infine lei: Pemà Chöki, la principessa del Sikkim. Figura
femminile intensa, dolce e carismatica, colta e velata da un mistero
lieve. Simbolo di un paese che si rivela nei suoi contrasti, è quasi
l’incarnazione dell’anima tibetana: silenziosa, tenace, enigmatica. Io credo
che, a dispetto di una produzione che è per la maggior parte prosa, Maraini
abbia testa e cuore di poeta. E sono convinto che raggiunga l’apice del suo
lirismo proprio nell’evocazione di Pemà.
La incontriamo per la prima volta in un pranzo formale, a Gangtok, in un
contesto dove “tutto è favola, convegno di gnomi e di fate”. Pemà ha da poco
superato i venti anni, il suo nome significa Loto della Fede Gioiosa e vi è in
lei una bellezza altera, un po’ nervosa, brillante. I suoi occhi sono intensi e
penetranti, l’ovale del volto sottile, la bocca piccola e inquieta passa dal
sorriso al disappunto in maniera del tutto naturale. I capelli, di un nero pece,
sono molto lunghi e confluiscono in una treccia alla tibetana. È vestita secondo
gli usi locali che prediligono i colori accesi e fanno apparire gli europei,
stretti nei loro rigidi e scuri indumenti, come dei mesti pinguini. Pemà è
avvolta da una seta viola, con una sciarpa che le cinge la vita. Le unghie delle
mani sono smaltate in rosso: piccola, adorabile concessione alla moda
occidentale. Ai piedi calza dei sandali francesi in pelle nera. Una catena
tempestata di diamanti le adorna regalmente il collo. Pemà è un’abilissima e
profonda conversatrice. Ha ricevuto un’ottima educazione: conosce assai bene
l’inglese e i grandi autori della letteratura.
La principessa Pemá Chöki Namgyal. India. Sikkim. Passo Nāthū Lā. 27 febbraio-18
maggio 1948 Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024
Archivi Alinari.
C’è un passaggio del libro che mi è particolarmente caro. Maraini, di ritorno
alla corte di Gangtok dopo svariati mesi, rivede Pemà e trascorre con lei un
pomeriggio intero. La principessa, che nutre una profonda venerazione per
Milarepa, decide di leggere in lingua originale alcuni passi del grande poeta
tibetano. Maraini assiste, incredulo e incantato, alla scena che si svolge in
quel momento. Il canto di Pemà racconta le immagini di Milarepa e le sue
sensazioni di eremita durante le notti, nei deserti di ghiaccio. C’è forse un
modo più bello per avvicinarsi, pieni di ritegno e di un ammirato stupore, al
cuore stesso di una persona e di una civiltà a mille miglia lontana dalla
nostra?
Quando si trova a Chubitang, Maraini ricorda che proprio da là, un anno prima, è
passata Pemà, di ritorno da Lhasa. Immagina allora di avvistarla da lontano,
come per incanto:
> “Da lontanissimo avrei visto la carovana come dei puntini; poi camminando i
> puntini si sarebbero fatti uomini, cavalli e yak. Avrei sentito allora i
> campani degli animali e le voci dei servi. Infine ti avrei vista, Loto della
> Fede Gioiosa, per la prima volta, sul tuo cavallo, gli occhi fissi alle
> distanze, il capo nel sole; rara, forte, fragile come la giada. Poi saresti
> svanita nell’immenso della pianura. Da ultimo avrei soltanto inteso le voci
> degli uomini per cui tu eri la cosa delicata e preziosa da proteggere, da
> difendere, da condurre di là dall’Imàlaia”
*
Segreto Tibet ci scaraventa – senza indulgenze – in un mondo fatto di colori e
costumi che sembrano usciti da un sogno miniato. Un universo che ignora la
fretta, ma conosce l’attesa, il rito, la verticalità della preghiera e
l’orizzontalità delle stagioni. Un mondo che si rivela a poco a poco, per
squarci di meraviglia, sospensione dell’incredulità. Altopiani di orizzonti
vasti, di cieli limpidi, di terre ocra che risplendono alla luce solare,
dominate da vette leggendarie. Nei passi di montagna, al confine tra regioni e
nei luoghi di transito, svettano i chörten, la versione tibetana degli stupa
indiani, e i variopinti tarchö. Sono rettangoli di stoffa colorata, sui quali
sono stampate preghiere e formule sacre. Si pensa che le benedizioni vengano
portate dal vento, diffondendo buona volontà e compassione.
Tutto, in Segreto Tibet, parla di un tempo che non tornerà più. Non solo per i
mutamenti storici, politici, culturali che hanno trasformato – spesso
violentemente – il Tibet, ma perché è trascolorato anche, forse, un certo
atteggiamento di fronte alla vita. Un capitolo del libro si chiama L’ebbrezza di
scoprire. È il resoconto di una mente di fronte all’avventura spirituale della
scoperta. Guidato e illuminato dal genio di Tucci, Maraini arriva alla sorgente
pura della conoscenza, nel momento in cui essa non ha ancora vissuto lo
svilimento dell’analisi, dell’antologia e della classificazione.
Il libro si può anche leggere, in fin dei conti, come la testimonianza bruciante
di un evento irripetibile nella vita dello scrittore. Quel Tibet è forse, anche,
un Tibet interiore, una segreta geografia dell’anima. Un luogo dove forze
opposte convivono, come in uno yin e yang cosmico: luce e oscurità, violenza e
dolcezza, umorismo e compassione.
*
Fosco Maraini è sepolto nel piccolo cimitero dell’Alpe di Sant’Antonio, nella
regione della Garfagnana, uno dei suoi luoghi del cuore. Sulla lapide, alle due
estremità, sono incisi una croce di Cristo e un Buddha. Escursionisti,
pellegrini e amanti delle sue opere vi portano fiori e piccole bandiere di
stoffa tibetane.
Rifletto sulla biografia di Maraini. Certo, vi si può leggere una sintesi
perfetta di un uomo che ha dialogato sempre dal cuore dell’Occidente a quello
dell’Oriente. Maraini era innamorato dell’Asia, ma senza per questo dimenticare
da dove proveniva. Il suo sforzo di sintesi tra civiltà, in un periodo storico
drammatico, ha significato anche sacrificio, una dura prigionia, un dito
mozzato. Segreto Tibetresta, nella vita e nelle lettere, come un misterioso ed
irripetibile miracolo. Dalle porte del futuro, però, si intravedeva già quella
manciata di isole poste ancora più ad Est: il Giappone.
Lorenzo Giacinto
*In copertina: La lotta contro il nulla. Giappone. Tokyo. Parco di Ueno, 1963.
Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi
Alinari
L'articolo Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla
generazione che ha anestetizzato l’ignoto proviene da Pangea.
Ho amici cattolici. Domenica delle Palme ero in piazza, per i saluti, e in
piazza si diceva messa. Una piazza mesta come lo sono i luoghi inutilmente
pubblici il più delle volte, quando non ci sono i leader delle ragioni superiori
a organizzare i torpedoni. Quando ci sono gli stand della Coldiretti è un’altra
storia, è quasi festa, per quanto anche lì a tener banco è l’illusione di poter
comprare al miglior prezzo qualcosa di meno industrialmente nocivo.
Si chiacchierava tutti ma quando è stata la volta della lettura del vangelo
liturgico del giorno, recitato dal pulpito allestito al vento, cala un silenzio
di attenzione dovuta, di ossequiosa osservanza delle circostanze cui s’adegua
pure chi in piazza c’era per tutt’altra ragione, e taccio anch’io per colmo di
stupore di fronte a tante persone, comunemente refrattarie a ogni letterarietà,
che azzittiscono e mimano concentrazione per qualcuno che legge.
I Vangeli, così come le Bibbia al completo, li ho letti nell’edizione concordata
della Mondadori, perciò per me è sempre una novità ri-leggerli ascoltandoli
nella versione approvata dalla CEI: troppi interessi di troppe parti
difficilmente possono conciliarsi con quello principale della lealtà verso il
testo, perché giunga a chi lo legge nella sua forma più aggiornata e il meno
faziosa possibile.
«Ogni civiltà nasce da una traduzione», così Gianfranco Folena, citazione letta
in un libro di Aldo Busi, per cui: dimmi a che traduzione t’affidi e ci capirò
immediatamente qualcosa in più della civiltà che aspetta entrambi, se quella a
cui t’affidi tu è la stessa a cui s’affidano in maggioranza.
Ascolto. I vangeli nei secoli hanno avuto lettori sagaci, mica tanti, e sequele
sterminate di pigri recettori di artate interpretazioni altrui, ma questo non
dispensa nessuno dal farsene una lettura e un parere propri, se gli va, così
come niente vieta che li si ignori come viene ignorata tanta parte della
letteratura mondiale, al netto di quella che viene propinata nei programmi
ministeriali, tante volte perché possa essere disprezzata subito e in blocco.
Dal Vangelo di Luca:
> “…ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola… Io sto in
> mezzo a voi come colui che serve… il suo sudore diventò come gocce di sangue
> che cadono a terra… con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?… E molte
> altre cose dicevano contro di lui, insultandolo… Togli di mezzo costui!
> Rimettici in libertà Barabba!… Detto questo, spirò.”
Ascolto e mentre ascolto non sono più in piazza, non è più la Domenica delle
Palme. È la notte di qualche mese fa, in gruppo rientriamo in albergo, siamo a
Ischia per il matrimonio di una coppia di amici, è stato ufficializzato al
comune di Forio la mattina stessa. Gli altri vanno ciascuno nella stanza
assegnata, io resto a zonzo nella hall sottosopra dell’albergo. Siamo fuori
stagione, nell’albergo sono in corso opere grosse di manutenzione: le porte
delle camere non hanno gli stipiti, lungo i corridoi ammassano le biancherie da
sostituire, le scaffalature stanno accatastate negli angoli. Ci si sente come in
una delle narrazioni di Antonio Moresco, alla fine di un tempo e di uno spazio
che ha perso memoria del suo prima e del suo dopo.
Nella hall ci sono libri disposti in pile senza ordine bibliografico alcuno, le
scruto a una a una, come resti di colonne di una cattedrale ipotetica, mentale.
Scelgo quale pietra svellere: Barabba, di Lagerkvist, nell’edizione 1965
della Gherardo Casini Edizioni Periodiche, traduzione di Alois Baumgarthner,
collana “I libri del sabato”. Lo scelgo perché è sottile, ideale per me che
stanco come sono non mi aspetto di riuscire a leggere a lungo, in camera. Perché
di Lagerkvist ho letto Il nano, e mi piacque. Lo scelgo perché di Saramago ho
letto Il vangelo secondo Gesù Cristo, scrivendolo da scrittore quindi né
noiosamente da apologista né facilmente da polemista.
Come ha scritto Lagerkvist di Barabba?, mi chiedo, scegliendolo per questo, non
sapendo io se Lagerkvist sia stato di qualche fede dichiarata o se no e se sì
quale fosse e se no se si fosse sentito poi in dovere di dichiarare perché aveva
preferito di no. Se a lettura del romanzo ultimato avessi continuato a non
saperlo, a non poterlo sapere, Barabba sarebbe potuta dirsi l’opera di uno
scrittore.
La letteratura non può essere confessionale perché le religioni sono il
contrario della letteratura. La religione si fonda sull’assunto che c’è una
verità e che le narrazioni non possono che provare ad avvicinarsi a quella
verità che le precede e che tutt’al più le ispira. Per la religione la
narrazione viene dopo la verità. La letteratura sa che scoprirà una verità solo
dopo averla raccontata e che quando racconta due volte una storia non avrà
raccontato in due modi diversi la stessa verità ma avrà raccontato due verità,
perché la verità e il racconto vanno assieme, si scoprono assieme, è impossibile
stabilire chi venga prima, chi fondi chi, chi inventi chi, se la letteratura la
verità o se la verità la letteratura. Certo, se non ci fossero verità da dire
non ci sarebbe niente da raccontare. Ma se non ci fossero i racconti non ci
sarebbe mai stata nessuna verità da dire.
La letteratura sa che per esserlo non può e non deve essere suddita della
verità. Le religioni, quali che siano gli espedienti retorici perché non lo si
noti, scelgono una verità rispetto alla quale rendere suddita la letteratura, e
dunque l’umanità che quella letteratura informa.
Per le religioni la verità è stata detta e non resta che dirla meglio,
comprenderla meglio, purché non-la-si-travisi, quindi decidendolo comunque loro
qual è la lettura-corretta, la lettura-consentita. La letteratura sa che la
verità sta nell’avventura del linguaggio, di quello che tramite la scrittura è
possibile scoprire inventandolo, inventare scoprendolo. La letteratura non la si
sa né la si può mai definire ben bene ma una cosa è certa: se chiede di essere
autorizzata, se si preoccupa di non-travisare le narrazioni che l’hanno
preceduta e che le succederanno, non è letteratura. Sarà pubblicistica e morta
lì.
Lagerkvist sceglie di raccontare di Barabba. Aggiungere un pezzo di racconto al
racconto-ufficiale, al racconto-raccontato-già-tutto, è di per sé atto inventivo
audace, necessario, ma non basta scegliere un soggetto non autorizzato per fare
letteratura ovvero qualcosa di non autorizzabile per eccellenza. Leggo Barabba
di notte in un albergo dalle pastosità moreschiane per scoprire se l’opera di
Lagerkvist è letteratura o un lavoretto di mano religiosa.
Il romanzo si apre sulla cloaca del Golgotha,
> “teschi e ossa giacevano sparsi ovunque insieme a croci stese a terra, mezze
> marcite, che non servivano più ma che nessuno portava via, perché nessuno
> avrebbe toccato le cose di quel luogo.”
A osservare il rabbino crocifisso agonizzante c’è Barabba il liberato, che lo
osserva dubbioso, inquietato. Corrisponde il corpo “magro e gracile” di
quell’uomo dal “petto senza peli, come quello di un adolescente” a colui che nel
pretorio “aveva visto circondato di uno splendore abbagliante”? Come si può
avere rispetto di un uomo le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai
lavorato”?
Nel romanzo di Lagerkvist l’interlocutore – mentale – di Barabba il liberato non
è il maestro dei cristiani che da lui prenderanno il nome. Non ha nemmeno un
nome suo. L’interlocutore di Barabba maledetto nel seno di sua madre è il
crocifisso benedetto nel seno della sua di madre, con la differenza che il
crocifisso una madre che l’ha amato fino alla croce e prima e dopo la croce l’ha
avuta, mentre Barabba no, una madre non l’ha avuta, non ha saputo chi fosse. E
il padre? Anche in questo son diversi, il maledetto e il benedetto alla nascita:
uno ha dovuto uccidere suo padre, per sopravvivere, sopravvivere per modo di
dire, l’altro perché fosse fatta la volontà del suo di padre ha dovuto morire e
morire in croce: per la vita eterna sua e di tutti, così dice il padre del
benedetto nel seno di sua madre. Il padre di Barabba, di nessuna parola e a
prima impressione assai più brutale, non è stato così terribile. O semplicemente
non altrettanto potente, onnipotente addirittura.
Il romanzo è appena iniziato, è iniziato da poco, e già siamo da tutt’altra
parte rispetto al racconto e all’atmosfera dai Vangeli. Intanto il protagonista
è un altro e lo è per davvero, è altro rispetto al Gesù dei Vangeli, è altro
rispetto ai fatti e ai luoghi della narrazione perché ha tutt’altra origine chi
ne è al centro. Non un uomo che comunque sia si è messo al centro di una scena,
non è la storia di un predicatore che va incontro alle folle e dunque alla loro
volubilità. È la storia di un marginale, un solitario, un omicida. Sono due
fuorilegge, certo, ma rappresentano due modi ben distinti di fuoriuscirne. Il
crocifisso non intende infrangerla quanto rifondarla, vuol istituire una nuova
legge alla quale inchinarsi con gioia, sollievo, consolazione. Barabba desidera
restare al di fuori dalla legge quale che sia. Per Barabba o sei tu a
crocifiggere la legge o sarà lei a crocifiggere te se non vorrai vivere da
inchinato ai suoi piedi.
Stando al presunto messaggio canonizzato dei Vangeli, Gesù è venuto per Barabba,
per i Barabba. Il benedetto è venuto per i maledetti: ma un maledetto fin dal
seno di sua madre cosa può voler spartire da un benedetto fin dal seno di sua
madre?
Barabba e Gesù sono coetanei, per Lagerkvist. Barabba era
> “un uomo di una trentina d’anni, di corporatura robusta, dal colorito terreo,
> aveva la barba rossa e i capelli neri. Anche le sopracciglia erano nere e i
> suoi occhi infossati nelle orbite, come se lo sguardo avesse voluto
> nascondersi. Sotto un occhio cominciava una profonda cicatrice che spariva tra
> la barba. Ma l’aspetto fisico di una persona non dice molto.”
Ah, com’è bravo qui Lagerkvist a negare l’evidenza che lui stesso pone: cosa può
avere in comune un uomo già scavato e scalfito e lapidato dalla vita come
Barabba con quel crocifisso gracile, magrolino, adolescenziale, con quel Cristo
che a me pare dostoevskiano, le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai
lavorato”?
Ma il crocifisso prima di essere crocifisso, prima di iniziare a predicare tra
le genti eleggendo i suoi apostoli, non era stato a bottega di falegname?
Possibile che un giovane falegname sulla trentina potesse essere magrolino,
esile, con le braccia sottili, il petto glabro, il corpo adolescenziale? Io, se
devo immaginarmi il crocifisso stando ai Vangeli e non alla sterminatezza delle
raffigurazioni che ne sono state fatte poi, costringendo l’immaginario,
viziandolo, snaturandolo, certo non me lo raffiguro nelle sembianze del Raz
Degan ai suoi bei tempi né nelle sembianze di Ernesto Che Guevara bello anche da
morto come un Cristo-da-canone-vivo, e meno ancora come un uomo smilzo,
sottopeso, insomma debole nel corpo perché meglio risultasse forte nello
spirito. Nonostante le torture e le vessazioni io sulla cloaca del Golgotha, in
mezzo agli altri crocifissi torturati, m’immagino un pezzo d’uomo crocifisso, un
ex-falegname che avrà saputo conquistarsi la fiducia e poi la venerazione dei
suoi simili perché appunto simili a lui come lui deve essere stato simile a sua
madre, che secondo Lagerkvist “aveva l’aria di una contadina semplice e rozza”.
Una contadina semplice e rozza avrebbe mai potuto generare un uomo sottile come
il crocifisso? Stando a come la descrive Lagerkvist la madre del crocifisso
sarebbe stata invece perfetta come madre di Barabba il liberato, solo che
“Barabba non aveva una madre”. Perché il Barabba di Lagerkvist fosse
proprio quel Barabba è stato necessario che il crocifisso fosse
proprio quel crocifisso. Gli antipodi.
La tensione, l’invenzione, l’occasione del racconto di diventare letteratura in
Lagerkvist sta tutto in questa separazione iniziale: come può la vita e il sogno
di un’altra vita oltre la morte di un benedetto fin dal seno di sua madre poter
coincidere con la vita e l’incubo di un’altra vita oltre la morte di un
maledetto fin dal seno di sua madre?
Il crocefisso di Lagerkvist viene per liberare un Barabba che vivrebbe come
un’offesa insanabile essere salvato da lui, lui salvato all’origine perché amato
da sua madre, a differenza sua, di Barabba, non amato da sua madre e non amato
da suo padre e quindi mai amato e quindi inamabile.
Che beffa per il Barabba di Lagerkvist essere salvato da qualcuno a cui per
salvarsi basta essere sé stesso, il figlio di suo padre, il figlio di Dio che è
Dio lui per primo, insomma essere salvato da colui al quale per salvarsi da solo
e per salvare tutti basta essere nato così com’è nato: da un padre terribile,
sia, un padre la cui benedizione verso il proprio figlio non è meno terribile
della maledizione che il padre di Barabba ha avuto verso di lui, ma pure da una
madre che l’ha amato e che amandolo l’ha seguito fino alla croce, disapprovando
chissà quanto le scelte mano a mano più suicida di quel figlio predicatore,
andato verso le folle invece di starsene nel proprio particolare, lo stesso
seguendolo fino ai piedi della croce, conservandolo della benedizione del suo
seno di madre che ama suo figlio nonostante suo figlio, poiché secondo
Lagerkvist
> “Essa non soffriva come gli altri, non lo guardava come lo guardavano loro,
> era ben sua madre. Certamente provava una pietà più grande di chiunque altro;
> eppure sembrava rimproverargli di aver fatto tutto per farsi crocifiggere.
> Aveva proprio dovuto cercarselo, lui, così puro e innocente, ed essa non
> poteva approvare una cosa simile. Essendo sua madre essa aveva la certezza
> della sua innocenza. Qualunque cosa avesse fatto, l’avrebbe considerato
> innocente”.
Che ingiustizia per uno ingiustamente nato maledetto essere salvato da un giusto
benedetto fin dalla nascita.
Il trauma insanabile del Barabba di Lagerkvist, che si autodiagnostica a sua
insaputa, è di non aver avuto una madre come a lui, a Barabba, sarebbe piaciuto
che fosse: una madre che te le perdona tutte, una madre che avrebbe fatto di te
il criminale che poi sarebbe diventato lo stesso se cresciuto da una madre
disposta a reputarti innocente a prescindere.
Il miracolo del crocifisso, nella scrittura che ne fa Lagerkvist, a questo
punto sta invece proprio nell’essersi saputo condurre innocentemente nonostante
la madre che ha avuto, rabbiosamente determinata a perdonargli tutto, incapace
come deve essere stata di saper amare di un amore che non avesse bisogno di
trovarti qualcosa da poterti perdonare prima di amarti.
Barabba non ha avuto una una madre e chi non ha madre non può mai avere certezza
di essere innocente, per cui qualunque cosa farà non potrà considerarsi
innocente, così Barabba in Lagerkvist.
Per meglio dire, Barabba spiega così a sé stesso il corso della sua vita: un
maledetto dagli altri non potrà che maledire sé stesso, non ci sarà salvatore
che tenga in questi casi, e d’altronde come vuoi salvarti se la madre del figlio
che ti avrebbe salvato non ha nessuna intenzione di salvarti a sua volta, di
perdonarti, se anzi anche lei ti maledice, raddoppiando il carico?
> “Essa si fermò e lo fissò con uno sguardo così disperato e accusatore, che
> Barabba non potrà mai sperare di dimenticare”.
Stando ai fatti, nei Vangeli e nel romanzo di Lagerkvist, il crocifisso non ha
salvato nessuno dalla sua condizione terrena, al più dalla morte ma giusto per
rinfilarlo nella vita dalla quale continua a cercare scampo – vedi Lazzaro o la
donna col labbro leporino o il compagno di miniera di Barabba – e comunque non
certamente lui, non Barabba.
È stato il popolaccio di leopardiana memoria a venire a condannare il
crocifisso, che pur di condannarlo ha fatto liberare Barabba, continuando a
ignorare Barabba, è stato il popolaccio a condannare il più debole di lui per
fare la volontà dei più prepotenti di lui, illudendosi così che i prepotenti
possano diventarlo di meno verso di lui, rendendolo un po’ meno debole, o
comunque prendendosi la soddisfazione di essere lui per una volta, lui
popolaccio, il più prepotente e non il più debole come al solito.
Condannando il debole di turno per ottenere il favore del prepotente di turno il
popolaccio condanna sé stesso, quando alla elezioni ci va con questo spirito il
popolaccio condanna sempre sé stesso, il prepotente lo sa, anche per questo ogni
tanto lascia per un po’ a piede libero un debole che cerca di raccontare agli
altri deboli quanto non siano deboli, quale sia la loro forza: per crocifiggerlo
poi meglio e con più gusto, per la gioia dei prepotenti e ancor di più per
quella di chi non saprebbe rinunciare allo stato di schiavitù che almeno ci
pensa lei a spiegargli tutto del perché la sua vita gli faccia orrore.
La differenza tra il Barabba di Lagerkvist e gli altri personaggi del romanzo
che scelgono di convertirsi, di voler credere, è che quegli altri sono disposti
a farsi a salvare e questa condizione di per sé basta a salvarli, al di là di
chi sia poi il presunto Salvatore, meritevole soltanto di avergli dato
l’occasione di credere che un Salvatore esista, occasione non da poco e non da
tutti.
Barabba no. Barabba non vuole essere salvato, non vuole la vita eterna o stare
all’interno di una comunità che creda che una vita eterna sia possibile, che lo
sia essere salvati, che sia possibile essere amati per sé stessi e amarsi gli
uni gli altri. Barabba ormai può fare anche a meno della madre che non ha mai
avuto. Barabba vuole delle scuse. A scuse ricevute magari potrà prendere
seriamente in considerazione l’idea di accettare un dio, ma niente scuse niente
dio, no, non se ne parla. Su un dio, sulla possibilità di un amore, ci mette la
croce sopra chi sulla croce è stato messo da ben prima che ce lo inchiodassero
di fatto. Specie se ai piedi di quella croce non c’è nessuno, non c’è mai stato
nessuno, nessuno s’è mai fatto ri-conoscere per dirti: Non sei solo, ai piedi di
questa croce ci sono io. Almeno questo.
Barabba è troppo offeso – e ogni volta che ha offeso gli altri, nell’implicita
speranza di riparare così all’offesa subita, si è offeso ulteriormente, al punto
che l’offesa ha ricoperto tutto, non lasciando spazio per nient’altro, per
nessun altro.
Ero all’inizio del romanzo e senza accorgermene sono quasi alla fine, sono alla
fine, o sono ancora all’inizio? Sono a Barabba che ha fatto il giro largo per
tornare al punto di partenza, alla crocifissione soltanto rimandata.
Ma: secondo Lagerkvist chi è il crocifisso? Il crocifisso di prima o il
crocifisso di dopo? Chi crede di poter salvare tutti compreso sé stesso o chi
crede che non si salva nessuno? Chi è più crocifisso, il benedetto o il
maledetto? Quando c’è la religione c’è la risposta, la risposta diventa talmente
invadente che non c’è più spazio per la domanda, neppure per il ricordo di quale
fosse la domanda. Quando c’è letteratura la risposta tocca a te che leggi – e
con ogni probabilità non sarà mai la stessa risposta molto a lungo.
Detto questo, chi è che spira adesso? La messa della domenica, il romanzo del
1965, io, tu?
antonio coda
*In copertina: un’opera di Honoré Daumier
L'articolo Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al
“Barabba” di Lagerkvist proviene da Pangea.