> E quando ha unito l’anima con ciascuna parte del tutto e con le divine potenze
> universe che le pervadono, allora la teurgia la conduce al demiurgo
> universale, la pone accanto a lui, e al di fuori della materia l’unisce alla
> sola ed eterna ragione.
>
> (Giamblico, I Misteri egiziani)
“Gli Egizi, che fanno risalire l’antichità delle loro origini a tempi anteriori
alla stessa storia, raccontano che i loro primi sovrani furono dèi: sette,
precisamente – Vulcano, il Sole, Agathodemon, Saturno, Osiride, Iside e Tifone”.
Così prende avvio il libro dell’abate Jean Terrasson, pubblicato anonimo nel
1731 a Parigi: Sethos, histoire ou vie tirée des monuments et anecdotes de
l’ancienne Égypte, presentato come traduzione da un immaginario manoscritto
greco. Terrasson, docente di filosofia greca e latina al Collège de France,
traduttore di un’edizione di Diodoro Siculo in sette volumi, non esitò a
costruire con astuzia un falso storico che ebbe enorme fortuna nei circoli
massonici dell’epoca. Sethos venne a lungo considerato una fonte credibile sulle
tradizioni e i misteri dell’antico Egitto: raccontava dell’iniziazione di un
principe egiziano, della sua opera di legislatore e infine del ritiro in
solitaria contemplazione.
Il romanzo fu tradotto due volte in tedesco nel 1732 e nel 1777 e raggiunse il
teatro auf der Wieden nei sobborghi di Vienna:
> “Tra quelle mura di legno, Mozart e Schikaneder fecero il loro viaggio in
> Egitto, così come mezzo secolo più tardi Flaubert discese il corso del Nilo.
> Avevano appreso quasi tutte le notizie che il loro tempo conosceva intorno
> all’Egitto ellenistico: mentre l’altro Egitto, quello di Cheope, di Micerino e
> di Ramsete II, giaceva ancora sotto le sabbie protettrici del deserto. Libri
> antichi e moderni stavano aperti davanti ai loro occhi. Probabilmente
> sfogliarono la Biblioteca di Diodoro Siculo e il saggio di Plutarco sopra
> Iside e Osiride: non è escluso che guardassero le grandi raccolte di
> Athanasius Kircher, dello Jablonski, di Montfaucon e del Caylus: consultarono
> il romanzo Sethos dell’abate Terrasson, il saggio di Ignaz von Born sopra i
> misteri degli egiziani; e certo si entusiasmarono leggendo l’ultimo libro
> delle Metamorfosi di Apuleio”.
>
> Pietro Citati
L’entusiasmo di Mozart e Schikaneder, di questi due audaci “egittomani”, non era
di certo isolato. Il Settecento vibrava dal desiderio irrefrenabile di svelare e
ammirare il volto di Iside. Mentre Mozart e Schikaneder attingevano alle fonti
libresche, l’immagine dell’Egitto antico si propagava ben oltre le sale teatrali
e i circoli letterari: dilagava nelle logge, nei riti segreti, nelle
reinvenzioni simboliche dell’esoterismo. Fu in questo clima di febbrile
fascinazione, dove l’arcaico si mescolava al fantastico, che l’Egitto divenne
modello di un nuovo immaginario rituale. Il celebre alchimista Cagliostro tentò
infatti di riformare la massoneria francese introducendo nuovi riti, simboli e
segni mutuati dall’immagine favolosa della terra dei faraoni:
> “Nel 1784 il conte di Cagliostro fondava a Parigi, in Rue de la Sourdière, la
> sua «Loggia Madre dell’Adattamento dell’alta Massoneria egizia.» Il Gran
> Copto, suo spirito tutelare, gli avrebbe ordinato di procedere a una
> riorganizzazione delle confraternite introducendovi un rito nuovo.! La loggia
> possedeva un tempio di Iside in cui officiava Cagliostro in persona, nelle
> vesti di gran sacerdote; l’attività durò fino a che l’animatore fu arrestato e
> condannato per eresia a Roma, nel 1789. L’episodio è comunemente citato dagli
> storici della massoneria. Se uno dei più noti impostori ricorse a quei temi,
> fu perché sapeva quale presa avesse allora l’Egitto sulla fantasia del
> pubblico; anche Ignaz von Born, che in quello stesso anno aveva fondato a
> Vienna il «Journal für Freimaurer»pubblicò nel primo numero un lungo articolo
> sui misteri egizi”.
>
> Jurgis Baltrušaitis
Il sigillo di Cagliostro, abbeveratosi fra i rettili del Nilo, mostrava un
sinuoso serpente con una mela trafitta da una freccia nella bocca. Nessun
animale più del serpente è la sapienza proibita; figura primordiale, è colui che
arriva sempre appena dopo lo schiudersi del sipario.
Nell’opera di Terrasson, l’eroe Sethos cattura un enorme rettile, misurandolo
prima con calcoli trigonometrico-sperimentali, e lo porta vivo a Menfi. Nella
prima scena del Flauto Magico, Tamino sfugge al serpente soltanto grazie
all’intervento delle tre Dame della Regina della Notte:
> “Aiuto! Aiuto! Altrimenti, io sono perduto, vittima scelta dell’astuto
> serpente.
> Già si avvicina, o dèi pietosi! Ahimè, salvatemi! Ahimè, soccorretemi!”
L’astuto serpente è la forza cieca dell’istinto, la sessualità bruta, il viscido
impulso nemico di ogni progresso fondato su ragione e disciplina. Uccidere il
proprio serpente interiore è il compito di ogni iniziazione e di ogni civiltà.
Sethos fu una delle fonti principali del Flauto Magico. Prima di Schikaneder,
anche il barone Tobias-Philipp von Gebler, consigliere di Stato a Vienna e
massone, si lasciò sedurre dall’Egitto immaginario di Terrasson. A lui si
deve Thamos, König in Ägypten, l’unica sua opera ricordata. Nel 1773 il giovane
Mozart, diciassettenne e in soggiorno viennese, conobbe Gebler tramite Franz
Anton Mesmer, inventore del “magnetismo animale”. Gebler commissionò a Mozart
una musica di scena per Thamos, composta da due cori e cinque intermezzi
sinfonici. L’opera non ebbe successo, ma Mozart tornò su quella partitura sei
anni dopo, ampliandola.
Thamos costituì così un’importante preparazione al Flauto Magico: medesimo è il
contesto simbolico. Gli stessi nomi dei personaggi rivelano la continuità: la
Regina della Notte si chiamava Mirza, Pamina Säis, Tamino Thamos, e Sarastro
Sethos – proprio dal romanzo di Terrasson. Persino il tema del “dolce suono del
flauto” si trova già in uno dei cori di Thamos. Gli stessi intrecci storici e
massonici che portarono alla composizione di questa opera-prototipo, confermano
l’importanza di Thamos nella vita del compositore: nel 1785, quando l’imperatore
Giuseppe II ridusse le Logge viennesi a due, Mozart entrò nella Zur Gekrönten
Hoffnung, la loggia della Nuova Speranza Coronata, guidata proprio da Gebler,
mentre l’altra Loggia, Zur Wahren Eintrachtla, della Vera Concordia era
presieduta da Ignaz von Born, probabilmente colui che gli servì come modello per
il personaggio di Sarastro.
Nel saggio di Furio Jesi, Rilke e l’Egitto, Considerazioni sulla X elegia di
Duino (in: Letteratura e mito, Einaudi, 2025, nuova edizione), l’Egitto è la
“terra della morte”, simbolo della memoria e del visibile che si trasforma
nell’invisibile. Se per Foscolo e Winckelmann il canto greco è già un canto
funebre e lontano, Rilke, nelle Elegie duinesi, riconosce proprio nell’Egitto la
più rivelatrice icona del passato e la patria del nostro inconscio.
Dopo la Rivoluzione francese, di cui Mozart è una precoce infiorescenza, proprio
l’Egitto sostituisce la Grecia come repertorio simbolico dell’oltre-vita: non
più l’idealizzato e razionale classicismo greco, ma l’Oriente del mistero
iniziatico, più vicino all’immaginario moderno e ai suoi turbamenti. Dai primi
tre accordi dell’overture del Flauto Magico sino alla parola poetica di
Rilke, l’Egitto emerge come luogo metafisico: spazio di iniziazione, enigma
della morte, passato estremo e radiosa utopia. Un regno dove l’uomo si annulla,
ma non l’umano, dove rimane la speranza dell’assoluta Armonia e le dolci note di
un flauto:
> “Intanto, sulla scena del Flauto magico, accade l’evento che da migliaia di
> anni la terra attendeva. L’antica scissione è conclusa. Il principe venuto dai
> paesi del sole abbraccia la figlia della regina delle tenebre: la luce e la
> notte, il principio maschile e quello femminile si incontrano
> nell’amore. L’harmonia mundi vive finalmente tra noi. Tutto il teatro è un
> sole, Sarastro sta in alto e la gioia delle trombe celebra il trionfo della
> luce celeste. Ma che significa questo trionfo? […] Se l’uomo e la donna si
> amano, se la virtù e la giustizia cospargono il sentiero della nostra
> esistenza, se la dolce calma scende nel nostro cuore, «allora la terra è un
> regno celeste e i mortali sono pari agli dèi». […] Tamino suona, le belve
> corrono ad ascoltarlo o arrestano il loro slancio: i sentimenti tristi
> diventano lieti, gli uomini aridi si innamorano; e la furia degli elementi si
> placa. Soltanto la musica nata dal cuore della notte prepara l’armonia del
> mondo, che tanti uomini hanno invano sognato di contemplare.
>
> Pietro Citati
Tony Vero
*Gli estratti del libretto, della prefazione di Pietro Citati e del saggio di
Jurgis Baltrušaitis provengono dal volume: E. Schikaneder, “Il Flauto Magico”,
Adelphi, 2025.
In copertina: una immagine dal “Papageno” di Lotte Reiniger (1935)
L'articolo Uccidere il serpente interiore. Il mito esoterico dell’Egitto tra
Mozart e Rilke proviene da Pangea.
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In un breve racconto di quella sorta di compendio di saggezza popolare orientale
che è La preghiera della rana di Anthony De Mello, è scritto che un uomo decise
un giorno di lasciare tutto per andare alla ricerca della verità. Dopo molti
anni, non potendo fare altro che registrare il fallimento della sua impresa,
tornò a casa. Con suo grande stupore, appena aperta la porta vide che la verità
era sempre rimasta lì ad aspettarlo.
Rivelazione è, dunque, l’esito di uno sguardo educato da una mancanza, a
riconoscere la verità; dove e quando meno ce lo si aspetta, dopo esserci
riempiti gli occhi di cose che invece di svelarla, la nascondono. Perseguire la
verità, richiede un apprendistato che necessariamente passa da quella trama di
illusioni che chiamiamo con una certa sicurezza realtà e dove l’essere fedeli
alla domanda significa liberarsi proprio dal viluppo di questa trama. La parola,
che è forma, deve subire lo stesso percorso di purificazione per riuscire a dire
quel che deve, toccando di sfuggita ciò che rimane mistero e con il quale
occorre misurarsi. Almeno, sembra questa la direttrice sottintesa nell’ultima
silloge poetica di Alessandro Camilletti, Breviario antalgico (con le
illustrazioni di Gian Ruggero Manzoni per Pequod, 2025). La raccolta
precedente, Vivo e invisibile (Pequod, 2023) si apriva recando in epigrafe μηδὲν
ἄγαν, niente di troppo, motto antichissimo scolpito sul Tempio di Apollo a
Delfi. Nello specifico, la poesia di Camilletti, estremamente sobria nel ricorso
alle parole, invocava già allora nella brevità dei componimenti non un
moralistico senso della misura ma, piuttosto, lo scardinamento della misura
stessa quando sia imposta da un uso – perché no, anche cialtronesco o
falsificatore – della parola, che volendo abbellire si fa padrona di qualcosa
che non crea lei.
Nella bellissima postfazione a Breviario antalgico, Adriana Gloria Amerigo
scrive: «[…] poiché il raccontare non è pertinente all’assetto semantico: a
poesia, al suo mistero che mai si svela totalmente, è consono […] far percepire
l’incantamento della parola poetica non nell’immediata vibrazione dell’emozione,
ma nella lucentezza della parte misterica che lavora di rivelazione nello spazio
del pensiero, del cuore e della ragione». Jean Luc Nancy, parlando di necessità
e resistenza della poesia, dice che si accede ad una soglia di senso sempre e
soltanto poeticamente. Il filosofo francese, peraltro, ci avvisa subito che non
attraverso tutta la poesia è possibile questo accesso, ma che la poesia non ha
luogo senza che questo accesso avvenga. Poesia è sì l’accesso ad un senso però,
ogni volta mancante o posticipato. È stare continuamente dentro una domanda,
dentro una vertigine; probabilmente nel punto esatto in cui afferrare vuol dire
subito lasciare andare per sentieri sconosciuti.
Una parola chiave per frequentare la poesia di Camilletti è senz’altro rinuncia.
In tempi in cui orge di parole e immagini attestano la disfatta del significato,
in cui la velocità le ingoia e al sostare abbiamo preferito la rimozione, nella
sua poesia si procede in senso contrario e la parola si fa orlo lungo il quale
si osserva la dissoluzione di ogni ordine formale costituito e ciò anche
nell’uso, quasi assente, della punteggiatura. Non per cercare un caos fine a sé
stesso, ma per denunciarlo nei suoi borghesi travestimenti: «Tutto è a buon
mercato/ Qui, nell’indifferenziato». E ancora: «Prendendo coscienza/ finimmo nel
provvisorio// Un susseguirsi di guasti/ il nostro trionfo». Eco eliotiana
dei Cori da “La Rocca”, dove nella sua umanità esausta il poeta finalmente si
chiede: «Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che
abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto
nell’informazione»? Affermare qualcosa, in Camilletti, significa naufragare
negli interrogativi; la nettezza del dire espone al rasoio di una resa di conti
ciò che abbiamo perduto e che dobbiamo recuperare. «Per dolore o per moda/
assumiamo posture/ lontane dal centro// Ogni primavera/ prendiamo atto/ del
nostro fallimento».
C’è da dire che il poeta, nei suoi gesti, cioè appunto nei suoi versi, non è
affatto solo. Alcuni spiriti benevolmente tengono a battesimo questa raccolta e
tengono il punto del cammino a partire dalle tre citazioni poste in epigrafe, di
Zhuang-zi, Arthur Schopenhauer e Andrea Emo. Ma ci sono anche Nietzsche e
Nicolás Gómez Dávila e se stiamo dentro il significato del titolo, Breviario
antalgico, ci è certamente chiaro che qui non si tratta di togliere il dolore
come se fosse il poeta a risparmiarci la fatica ma, proprio perché egli stesso
non si sottrae ad essa, ci invita a seguire senza altri indugi quella tensione
veritativa che costituisce la cifra della nostra umanità e che esige il rogo
della maschera. (Livia Di Vona)
L’alto
Il basso
Vicino e lontano
Un tempo per tutto
Divora e spinge
la volontà
Apre un baratro
Sempre più profondo
La conoscenza
Scoprendo
Copre
_____________
Ho atteso a lungo
Gli occhi e il cuore
Le assenze hanno reso
La schiena un cimitero
Ma devo essere
Un buon soldato
*In copertina: Eugène Carriére, Dormire, 1897
L'articolo “Del cuore e della ragione”. Poesia, ovvero: stare continuamente
nella vertigine proviene da Pangea.
Lo ammetto, per chi come me nel tempo ha frequentato prose e versi in odor di
dannazione, ergendoli a protesi del proprio animo turbato, allestire scaffali e
vetrine con l’ennesimo libro in cui campeggia l’ennesimo volto femminile è pura
mortificazione. Abbiamo veramente bisogno di un’ulteriore storia con
protagonista femminile, alle prese col suo personale riscatto, su di uno sfondo
storico predeterminato? Saluto perciò con un senso di felicità e rivalsa ogni
libro che del tanfo del politicamente corretto, o dei trend del momento, non
emana neanche un vago sentore. Ed eccolo Inaugura stanotte il secolo del bene,
romanzo d’esordio di Vincenzo Montisano edito da Wojtek. È con opere di tale
fattura che certi lettori si riscoprono esteticamente bipolari. Come spiegare
altrimenti il senso di claustrofobia che si condensa nelle pagine, ma che sfocia
in una capillare ossigenazione dei tessuti post lettura?
> O quando Marcel Boll mi disse: «Esistono infiniti modi di morire, ragazzo, e
> uno soltanto per vivere: il mio». Di giorno delirava d’onnipotenza. A sera
> invece si lasciava assassinare dal piatto freddo della cena. Sai Karl, era
> così mio padre. Un uomo dalla postura sociale invidiabile, diresti tu. Se ne
> stava nella nostra villa di famiglia dentro alla cassa di legno dolce, a mani
> giunte. Beato, un ciarlatano in attesa di santificazione. L’abito aveva le
> tasche cucite. Le bare devono essere pulite, le tasche dei morti sempre
> chiuse. A guardarlo faceva un po’ specie e un po’ ridere. Gonfio di gas
> intestinali, livido di rabbia perché la caducità non l’aveva risparmiato. Che
> decadenza nelle cose di questo mondo. Ché morendo sfoggiano il meglio di sé. E
> infatti un dio minore doveva avergli aperto quel ghigno in bocca. Era il
> ghigno della vita che lotta più forte prima di perdere. La smorfia di chi non
> s’è reso conto d’essere all’ultimo giro di bevute.
Hugo Boll, figlio inquieto di un’aristocrazia decadente, si rivolta contro tutto
ciò che abbiamo eretto a presidio della nostra normalità. Una furia iconoclasta
che investe famiglia, affetti, società. Una tensione forse scomposta, ma
necessaria, che lo porta a inciampare sull’autorità, a covare dissapore, a
esercitare il diritto all’ostilità. E come se ciò non bastasse, un’insolita
febbre incombe sulla città di ***, un turbamento collettivo che spinge sempre
più individui all’auto-mutilazione. Nel dilagante caos che serpeggia tra le vie,
un oscuro luogo sembra emanciparsi dall’architettura generale; un coacervo
d’incubi, fisiologia elementare e teatralità dell’assurdo.
Un romanzo che abdica all’istinto di vita, che reca con sé la rinuncia al
consolatorio. Ciò che sentiamo sulla nostra epidermide a lettura conclusa è la
perdita dell’interezza.
> L’amore è una gabbia d’aspettative. Un attimo prima me la cavavo niente male,
> passeggiando per i parchi, acquistando questo o quel capo nelle boutique
> d’alta sartoria, e l’attimo dopo rincasavo vittima di uno sconforto
> inconsolabile, preda delle batterie di interrogativi che proliferavano sulla
> superficie opaca delle cose. E Leda invece patteggiava senza rimorsi con la
> commedia umana. Se le chiedevo quale fosse il senso delle sue settimane, lei
> rispondeva che svegliarsi la domenica, al mio fianco, senza l’impiccio del
> lavoro, la faceva scoppiare di senso; se discutevamo dell’infinito,
> candidamente affermava che una spiegazione della vita ne avrebbe di sicuro
> ucciso la poesia. Dove trovava l’energia per tenere accesa quella luce sul
> viso? Nessuno ci guarda, le dissi quella notte. Nessun dio avrebbe permesso
> tanta mediocrità.
L’infittirsi delle tenebre potrebbe conferire al libro un’aurea di maledizione
impenetrabile, ma come ogni opera d’arte che si rispetti ecco il risvolto
estetico della medaglia: il ghigno mutare in riso. Vincenzo Montisano, che già
si era fatto notare per la sua novella Logica degli incendi, si conferma voyeur
ispirato. L’inquadratura è sì condotta in primo piano, ma più che motore unico
dei fatti, l’autore assegna al suo protagonista un ruolo atipico, quello di
osservatore-osservato.
Nonostante la portata degli eventi che propizia e subisce, Hugo continua a
manifestarsi come riverbero di se stesso. Un difetto congenito rovista nelle sue
volontà, declassandone le azioni da volute a subite. Niente in lui osa
cristallizzarsi in fede, un distacco algido che lo pone a debita distanza dalla
Storia. E quando il tutto sembra impattare nel vicolo cieco dell’opprimente,
ecco il guizzo, il godimento del voyeur che ci viene in soccorso. La
fascinazione germoglia dal fonema, si radica poco dietro la pupilla e saetta
scialata oltre la corteccia prefrontale. Signori: la grazia dalle cose a
dispetto delle cose.
> Da qui in poi, Karl, non ci fu ritorno. Avevo spiato da una crepa l’esistenza
> denudarsi. Mi dissi no, l’intera faccenda è una pura idiozia. Noi, uomini
> pratici, branchie del vecchio continente, che avevamo licenziato i demoni e le
> acquasantiere, per cui non c’era stato altro che mangiare e bere, scopare e
> dormire, macchinare, consumare e morire, stavamo per essere travolti da un
> flagello dalle inesauribili e perverse riserve immaginifiche.
Gianluca Pìtari
*In copertina: un collage di Max Ernst (1891-1976)
L'articolo “Il ghigno della vita che lotta”. Vincenzo Montisano o della rinuncia
al consolatorio. proviene da Pangea.
Di rado gli scrittori con delle grandi specificità stilistiche sono dei grandi
scrittori. Non sono nemmeno degli scrittori minori, solitamente. Sono piuttosto
dei casi a parte: degli scrittori per scrittori, degli scrittori di culto. Si
nascondono nelle ombre delle nostre librerie e il grande pubblico non è il loro
destino né il loro auspicio. Rifuggono le classifiche e le onorificenze e di ciò
gli siamo grati. D’altronde uno scrittore di culto può essere perfino più
prezioso di un grande scrittore, perché è irripetibile. Credo che questo sia il
caso di Michele Mari.
L’ultimo romanzo di Mari, I convitati di pietra, edito come gli altri da
Einaudi, è uno dei suoi libri più personali e felici, nel senso che per la prima
volta Mari immagina per un personaggio a lui prossimo una possibilità di amore
riuscito, “felice”, sia pure in extremis e racchiuso in una sola notte. La trama
del romanzo è un congegno complesso ma manipolato con efficacia: una classe, la
III A, dopo l’esame di maturità si accorda di versare ogni anno una somma in un
fondo che sarà poi destinato agli ultimi tre ex alunni rimasti in vita. Si
tratta di una scommessa che è anche uno spietato gioco con la morte di ognuno di
loro.
Seguiranno assassinii, suicidi, frustrazioni, invidie, malattie, malignità,
magie nere e via di seguito. La III A, i superstiti della classe, si riuniscono
ogni ventidue di luglio per una cena. Così I convitati di pietra diventa un
grande romanzo sul tempo, perché cos’altro sono le nostre vite e le nostre morti
(ma anche i nostri amori) se non il suggello del tempo che passa e che ci
devasta?
In uno dei racconti più belli di Michele Mari, Laggiù, contenuto
in Tu, sanguinosa infanzia (1997), due vecchi parlano dei loro ricordi
d’infanzia. Il dialogo si svolge durante una malinconica sera d’estate del
2030, e si conclude con due battute che suonano come dei versi: “Non c’è stato
molt’altro, nella vita. / No, è quasi tutto laggiù.” Il laggiù è l’infanzia, il
bambino che ognuno di noi è stato e che spesso vorremmo tornare a essere, ma
in I convitati di pietra Mari lo tramuta negli anni del liceo, che sono ben più
spietati dell’infanzia. I personaggi del libro, fra i quali spiccano l’onanista
Luca Brodo e il cinefilo nerd Lothar Semprini, si imprigionano nel tempo perduto
delle loro giovinezze mancate (meglio: fallite) e nelle ossessioni che
definiscono le loro età adulte.
Per gran parte del romanzo sembra non esserci speranza per nessuno; tuttavia,
come scrivevo poc’anzi, e a differenza di Cento poesie d’amore a Ladyhawke o
di Rondini sul filo o anche del recente Locus desperatus, qui Michele Mari ha
compassione per la vita sentimentale di un personaggio adulto che gli somiglia.
Credo sia la prima volta.
A un certo punto infatti accade questo:
> “Al mattino lui le spiegò che quella notte, resosi conto di non averlo mai
> fatto, si era detto che non poteva morire senza aver dormito una volta insieme
> a lei, s’intende castissimamente.”
E viene alla mente Ladyhawke, perché sarebbe bello che lei, Ladyhawke, posto che
esista e che sia ancora in vita, e qui mi rivolgo ai veri cultori di Mari, legga
questo libro e soprattutto questa frase, questa scena, la piccola rivincita
sentimentale di un personaggio dal “tragico destino”, per citare – in onore al
fumettologo Lothar Semprini – il barone Ungern Kharn di Hugo Pratt: “Ricordate
al mondo che avevo un tragico destino.”
Chi non vorrebbe abbracciare, sia pure “castissimamente”, per un’ultima
indimenticabile notte, la donna o l’uomo che ci è stato negato? Gli amori
mancati della nostra giovinezza sono quelli che ci perseguitano per tutta la
vita ma che forse ci salveranno nel momento ultimo. Questo pensiero è nato
leggendo il libro di Mari. Chi ama invano non muore invano, credo, perché
comunque ama.
I temi di I convitati di pietra sono tanti e gli estimatori di Michele Mari
possono dilettarsi a enumerarli. C’è la morte, certo, e c’è la malattia, ma ci
sono anche i fumetti, sua grande passione, e poi il cinema. C’è qualche battuta
sul calcio e si sente che il cuore di Mari è rossonero. C’è l’amore, come sempre
frustratissimo. Ci sono le macumbe che già ci divertivano nel delirante Rondini
sul filo, un libro che Einaudi dovrebbe riportare nelle librerie (su eBay lo
vendono a 75 euro). Infine c’è il sesso, o per meglio dire un onanismo feroce e
compulsivo, perché Mari rifugge sempre le scopate “normali”, come respinge la
scrittura “normale”, e anche l’unica vera scena di sesso del romanzo, a pagina
122, è una parodia del film La bestia, di Walerian Borowiwczyk, una pagina
spassosissima. I cinefili ameranno molto I convitati di pietra.
Chissà cosa scriverebbe Michele Mari delle proprie opere. In I demoni e la pasta
sfoglia (Cavallo di Ferro, 2010), una ricca raccolta dei suoi saggi letterari,
suddivide gli scrittori che più ama in diverse sezioni: dagli ossessionati ai
feticisti, dai furenti misantropi ai sadici e voyeur, e così via. La cosa
divertente è che lui potrebbe appartenere a tutte queste categorie
contemporaneamente, pur traboccando da ognuna di esse. Ma occorre
ripeterlo: Mari non è un grande scrittore, non vuole e non deve esserlo. È
invece (per fortuna) ben altro, qualcosa di più indefinibile e prezioso. È però
un grande stilista, ossia un autore capace di scegliere un
peculiarissimo stile e di restargli fedele per centinaia di pagine, anche
trattenendo il fiato. Ciò a volte può renderlo difficile, o scorbutico. Michele
Mari è uno scrittore che non si lascia mai addomesticare dai propri lettori. È
uno scrittore che talvolta tiene il broncio.
La trama di I convitati di pietra dunque prende il volo man mano che gli alunni
della III A muoiono, perché più scorre il tempo – il romanzo si svolge in gran
parte nel futuro, come il racconto Laggiù – più Mari si concentra sui tipi umani
che davvero gli stanno a cuore e che gli somigliano. La trovata di Gene Hackman,
da aggiungere alle tante ossessioni dei personaggi mariani, è a un tempo buffa e
commovente, come e anche più delle macumbe e delle perversioni onaniste del
terribile Luca Brodo. Non nasconderò di aver concluso il romanzo con il
rimpianto di non essere stato uno dei compagni di classe di Michele Mari, anche
il peggiore di loro. O uno dei suoi personaggi.
Degli scrittori ossessivi è bene ossessionarsi. I convitati di pietra è uno dei
migliori libri di Mari, con (è il mio personalissimo podio) La stiva e
l’abisso e Locus desperatus. Ma amo anche il suo Leopardi licantropo, cioè Io
venía pien d’angoscia a rimirarti, e poi Tutto il ferro della torre Eiffel. E i
suoi racconti migliori, certo. E Di bestia in bestia, di cui cerco da anni la
rara edizione Longanesi: mi piacerebbe leggerla e confrontarla alla nuova
versione Einaudi, che è una riscrittura. In realtà, ogni sua opera è un caso a
sé, perché Michele Mari è uno scrittore che non si ripete mai e che sorprende
sempre. Anche per questo ci affascina. È uno scrittore unico. Non lo
dimenticheremo.
Edoardo Pisani
*In copertina: un’opera di Max Klinger dal ciclo “Ein Handschuh”, 1881
L'articolo Del mio culto ossessivo per Michele Mari. Ovvero: leggendo “I
convitati di pietra” proviene da Pangea.
Ho letto La ballerina di Patrick Modiano, Einaudi, mentre sto leggendo Il
ritorno del barone Wenckheim, Bompiani, di László Krasznahorkai (hai voglia a
riascoltare online come andrebbe pronunciato, bisognerebbe allenarsi a lungo per
pronunciarlo bene, occorrerebbe una disciplina da ballerini), e io non leggo mai
due romanzi assieme, al massimo un romanzo e un saggio, ma due romanzi di due
scrittori-scrittori assieme no, diventa un’esperienza schizofrenica, però
Modiano – l’idea era dare un’occhiata alla prima pagina, sentirne giusto
l’incipit – ha prevalso su Krasznahorkai.
Modiano sa che Krasznahorkai prevede una lettura lunga e avvolta come lo è il
suo stile, suo di Krasznahorkai, mentre il suo di Modiano ha una fretta, una
urgenza, cui tra l’altro non corrisponde nulla, contenutisticamente, Modiano
racconta, inventa, storie sospese e sfrondate che resteranno lì nella debole
eternità della mente che si spegnerà assieme a chi avrà brevemente immaginato
che esista un’eternità possibile, un sempre-presente magari confermato in campo
quantistico ma che in nulla modifica la nostra esperienza mortale e
macromolecolare del tempo, dunque del mondo.
Di Modiano ammiro tutto ciò che inizialmente di Modiano detestavo: un
annebbiamento diradato a sprazzi, la liceità sbruffona di deciderlo lui quale
pezzetto raccontare e quale no, un minimalismo che definivo depressivo prima di
riconoscerlo per una seria e asciutta malinconia assai sensata.
In La ballerina c’è una giovane donna che grazie alla disciplina dalla danza
riesce dare un corso a una vita sbalestrata dall’età degli incontri, c’è un
giovane uomo che non sa ancora cosa farsene di sé e che perciò ammira la
disciplina a cui sa sottoporsi la giovane ballerina che ha un figlio, un padre
del figlio che è dovuto scomparire, un molestatore che viene dal passato, come
pure un protettore e una professoressa che le fece leggere le mistiche a suo
tempo e una donna che la accoglie in casa e nel proprio letto, e per un periodo
prevedibilmente precario una relazione con il compagno di danza che le fa
finalmente sentire la mistica dell’incandescenza.
Ci sono bar, boulevard, le stazioni parigine, Repetto – il negozio – e
appartamenti umili di salvataggio, sormontati dalla città indescrivibile se non
per precisi indirizzi, per precisi tragitti, per arrivare a dire almeno qualcosa
della Città che attira tutti col miraggio dell’anonimato possibile,
dell’occasione data di poter fare “un po’ di ordine”.
Modiano racconta l’ordalia della gioventù, è la consapevolezza ultima di molti
suoi romanzi. Scrive in La ballerina:
> “Che cos’è di preciso un errore di gioventù? si chiese. La maggior parte delle
> volte, quasi nulla. A quell’età tutto si cicatrizza molto più in fretta, e
> presto non rimane nemmeno traccia della cicatrice. Più nessun testimone. Più
> nessuna traccia di niente. Di nuovo l’innocenza.”
Una menzogna, sia, non è dato a nessuno il sollievo dell’oblio totale, resta
tutto del dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani, accompagnato però a
una stanchezza, finanche a una noia di te stesso quando la ripercorri,
smarrendoti ogni volta, abbinata a un segreto vergognoso: la nostalgia di quel
tempo non perché ci fosse qualcosa di desiderabile, una bellezza percepita col
senno di poi. Soltanto la nostalgia della giovinezza capace alle volte di
vincere l’amarezza per averla dovuta vivere proprio così, per averla sprecata,
perduta, neanche fossa mai possibile il viceversa, come se il modo migliore per
mancare la gioventù non fosse il non smarrirvisi dentro, lasciando a te che le
sopravvivi, se le sopravvivi, l’alibi per mettersi in cerca dello sconosciuto
che siamo stati.
Chi non si è mai dato la necessità di cercarsi, lui sì che è perduto.
antonio coda
*In copertina: opera di Edgar Degas (1834-1927)
L'articolo “Più nessuna traccia di niente. Di nuovo l’innocenza”. Su un libro di
Modiano proviene da Pangea.
Un romanzo a prima vista poco italiano, ma in realtà uno spaccato formidabile
dell’Italia in bianco e nero. Quella del boom, delle prime corse lungo
l’autostrada, delle spider, delle ragazze con il tubino, delle estati dei primi
anni Sessanta.
Se state pensando a Il sorpasso di Dino Risi vi state sbagliando, però ci siete
andati vicino. Già, perché La bella di Lodi di Alberto Arbasino, il libro di cui
sto parlando, nasce prima come racconto nel 1961 e poi come soggetto
cinematografico per un film realizzato due anni più tardi con la regia di Mario
Missiroli e una splendida Stefania Sandrelli allora sedicenne come
protagonista. Solo nel 1972 diventerà un romanzo.
L’ho definito all’inizio poco italiano in quanto è una storia tutta on the road.
Un’ambientazione insolita per noi che non abbiamo i grandi spazi degli Stati
Uniti dove correre senza meta. E invece La bella di Lodi è un susseguirsi di
grandi corse in macchina tra la Bassa Padana e la Versilia, passando dalle
spiagge delle prime vacanze di massa ai fiammanti autogrill appena inaugurati
lungo l’Autostrada del Sole. Poche righe bastano ad Arbasino per ricreare
ambienti e atmosfere e dare il sapore di quella stagione irripetibile in cui
Italia si affacciava al benessere e al consumismo:
> «Come sfondo, una nuovissima stazione di servizio appena inaugurata.
> Distributori Supercortemaggiore con pennoni gialli sventolanti e bandierine
> dure di plastica, cani a sei zampe da tutte le parti, neon lampeggiante
> Alemagna, camion arancione del soccorso stradale lì fermo, e automobile di lei
> con una portiera ancora aperta… Vaste prospettive d’Autostrada del Sole da
> tutte le parti, con ponti, viadotti, Pavesini, raccordi, svincoli, cartelli di
> coupons. Macchine che passano velocissime. Anche camion: tutto uno sfrecciare.
> Rimorchi, polizia stradale, famigliacce euforiche, lettori del “Giorno” e di
> “Tempo”, turisti esteri in shorts.»
Al centro del libro c’è la storia d’amore tra Roberta, ricca imprenditrice
lombarda, bella, con il fiuto per gli affari, e Franco, un giovane meccanico,
molto sexy e molto squattrinato. I due si incontrano per caso su una spiaggia,
si piacciono, si fanno dei dispetti, si perdono e poi si ritrovano.
Diversissimi, sono attratti uno dall’altro in modo irresistibile e fanno sesso a
volontà passando da un motel e una pineta. Senza troppi svolazzi, da buoni
lombardi pragmatici i due protagonisti hanno sempre i piedi ben piantati per
terra e quindi tra un amplesso e l’altro non disdegnano di dare un occhio anche
agli affari. Roberta è una figura di donna modernissima per l’Italia di allora:
giovane, indipendente, amante della bella vita, è lei a tenere le briglie del
comando nel rapporto di coppia con Franco.
Lo stile del romanzo è semplice e naturalistico, con dialoghi in presa diretta,
secchi e di grande efficacia. Per restare in ambito cinematografico, in alcuni
punti c’è anche qualcosa che ricorda Ossessionedi Visconti, ma la penna di
Arbasino rifugge dal melò e si muove leggera come una macchina da presa. Così le
zummate sulla love story di Roberta e Franco si alternano a campi lunghi che
sono il ritratto di un ambiente sociale, di un’epoca e di una stagione uniche,
nel bene e nel male, della società italiana.
Una splendida prova di Alberto Arbasino, una delle menti più fini che siano
circolate in Italia. Uno scrittore fintamente leggero, con uno stile raffinato e
beffardo. Snob e irriverente, perfettamente a suo agio in qualsiasi parte del
mondo, considerava quella italiana una “cultura da tinello” piccina e
provinciale, da “piccole vacanze”. Un intellettuale vero e soprattutto
indipendente, una voce fuori dal coro nell’opaca realtà della letteratura e del
giornalismo italiano. Uno dei pochi che ha sempre continuato a pensare con la
propria testa, senza salire sull’affollatissimo carrozzone del luogo comune e
del politically correct. Originale per stile e formazione, allergico ai birignao
degli eterni sopracciò dell’intellighenzia italiana, Arbasino ha sempre girato
alla larga da quel conformismo dell’anticonformismo che ha fatto danni
inenarrabili nel nostro Paese. Leggere La bella di Lodi è come respirare una
boccata di aria fresca e significa scoprire, o riscoprire per chi già lo
conosce, uno scrittore con una marcia in più.
Silvano Calzini
*In copertina: Alberto Arbasino (1930-2020)
L'articolo Snob e irriverente, perfettamente a suo agio in qualsiasi parte del
mondo: sia lode ora ad Alberto Arbasino proviene da Pangea.
In Lacrimae rerum (Einaudi, 2025) Patrizia Valduga scrive alcune strofe di
sfinitezza e altre di battaglia. Battaglia civile, e poetica. “Ma ho scritto
tutto. Ho chiuso la partita” dice uno dei suoi versi, perché Valduga sembra
davvero prepararsi non soltanto al silenzio ma anche alla propria fine, alla
morte, fino a fantasticare sulla bara che conterrà il suo cadavere:
> “Ma dentro la mia scatola di legno
> avrò sostegno? avrò qualche sostegno?”
Nei versi iniziali della raccolta però la sua rabbia civile e poetica si fa
fuoco e nerbo e combatte lo “stermino che non trova fine,/ tra terra e cielo
senza più confine,/ tra terra e corpi e corpi tra rovine,/ tra cielo e corpi
fusi senza fine”. Patrizia Valduga si riferisce allo scempio di Gaza.
Nelle pagine finali del libriccino, in una serie di note intitolate Quasi
un’appendice, riporta un articolo del 2002 e uno del 2003, apparsi entrambi su
“la Repubblica”; nel primo scriveva che “di tutti gli appelli alla ragione, al
buon senso, all’umanità e alla giustizia, Sharon e il suo esercito se ne fotte
[…]. Si edificherà la pace sui campi concimati dalla carne umana e dalla
cenere?”; nel secondo attaccava Bush e la guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq
di Saddam Hussein:
> “L’ho visto Bush che inneggia alla vittoria, che aizza in una perfetta
> scenografia hollywoodiana gli spiriti marziali dei suoi guerrieri, fieri di
> essere arruolati sotto le insegne della morte.”
Erano tempi di tenebra. Lo sono ancora, in misura anche maggiore. Patrizia
Valduga ha capito o sentito di non poter tacere e per lei non tacere significa
scrivere. Scrivere versi.
La poesia può poco contro il male, ma ciò che può non è vano. La poesia può
gridare nel presente ciò che il presente – l’attualità, la politica – stenta a
capire o ad ammettere. Il poeta può farsi non soltanto testimone del proprio
tempo ma anche difensore e giustiziere di ciò che in noi permane di umano di
fronte all’orrore tracotante dei potenti e ai loro soprusi. In questo senso il
poeta è davvero un essere sacro, e anarchico. Il poeta deve parlare ai cuori dei
puri e dei ribelli che in futuro – nel mondo prossimo che verrà, se verrà –
malediranno il male. Che non vorranno assolverlo o ripeterlo.
“Il governo di Israele ha assassinato più di sessantamila palestinesi” scrive
Patrizia Valduga nella nota alla parola sterminio, parola che tanto ha fatto
discutere i maîtres à penser dei salotti occidentali. “È uno sterminio”,
esordisce infatti il suo Lacrimae rerum, e il titolo riprende un’espressione
dell’Eneide, “lacrime delle cose”, o, nella traduzione che riporta Valduga
(Einaudi, 2012), dei “fatti”. Enea – annota Valduga – guarda le pitture che
hanno per oggetto la guerra di Troia e si commuove, scoppia in lacrime. L’eroe
piange e il poeta piange con lui. Anche la storia umana si dispera, e noi con
essa.
Patrizia Valduga può essere definita una poetessa sia erotica che civile. Molti
versi di Lacrimae rerum sono personali, d’amore, di solitudine, di sfinitezza,
di vecchiaia, mentre altri ricordano il suo amato Giovanni Raboni. Il suo
verseggiare è sempre chirurgicamente preciso e energico. Anche per questa
ragione le sue sono spesso strofe di battaglia e di passione.
“Ma adesso servono resurrezioni” urla la poetessa, “non me, non più me: leggete
Raboni!” E già qualche anno fa, in Belluno (Einaudi, 2019), Valduga chiedeva in
versi al sindaco di Milano e al presidente della Repubblica Mattarella di
intitolare una via al poeta che era stato il suo compagno di vita e di poesia.
“Raboni” ribadiva “è fra i più grandi in ogni aspetto:/ è un patrimonio
dell’umanità./ Intitolategli il suo Lazzaretto/ in nome di giustizia e verità!”
Tuttavia la migliore Valduga civile è quella di Corsia degli incurabili, un atto
unico del 1996 ora raccolto in Prima antologia. Ecco due terzine esemplari e
ancora attualissime:
“Ahi! serva Italia ancora coi fascisti,
e con quell’imbroglione da operetta,
ladruncolo lacchè dei tangentisti!
Le tivù ci hanno fatto l’incantesimo…
Se non scarica il cielo una saetta,
tutti servi del secolo ventesimo!”
In Lacrimae rerum – a tratti – il suo orrore e il suo sdegno per le carneficine
in Palestina hanno la stessa forza indoma dei suoi versi migliori.
Il poeta può poco contro il male, ma ciò che può è sacro. Anche di fronte
all’orrore, anche di fronte alla sua stessa morte.
Edoardo Pisani
*In copertina: Patrizia Valduga in un ritratto fotografico di Renzo Chiesa
L'articolo Ai cuori dei puri e dei ribelli. Leggendo le ultime poesie di
Patrizia Valduga proviene da Pangea.
Ogni struttura umana si rivela per incrinatura. Per Vladimir
Jankélévitch l’instant è una cesura generativa: il tempo, nel suo spezzarsi,
diviene occasione di creazione ermeneutica, morale e artistica. È nel cedimento
del simulacro che l’annuncio trova il suo varco: la fragilità è una categoria
dello spirito, una condizione del vero.
L’anello debole di Angelica Grivel Serra si muove in questo territorio sottile,
dove la fenditura diventa passaggio. Come nei Claros del bosque di María
Zambrano, l’oscuramento prelude al barlume. Ogni bemolle, ogni sincope, ogni
flessione emotiva concorre a questo discernimento: s’acquisisce nozione nel
lasciar cedere, nel contemplare la disgregazione.
Se l’instabilità è il principio che lascia affiorare il sostrato dell’essere,
ebbene ciò che declina, dischiude. René Char: “L’essentiel est sans cesse menacé
par l’insignifiant”[1]; e ancora: “Nous habitons un éclat de temps qui a refusé
de servir”[2]: è il suono fecondo di ciò che si spezza.
Nell’anello debole di Angelica Grivel Serra, lo screzio frange la forma e
l’attraversa, rendendola significante. Il testo di Grivel Serra riconosce nella
vulnerabilità il luogo del disvelamento: quell’istante del quasi nulla,
le presque-rien di Jankélévitch, che rifonda il reale. Ciò che sembra marginale
o inconsistente – un cenno, un’intonazione, un silenzio – denuda strutture
profonde, sin lì trattenute nell’implicito.
Tra luci e ombre parentali, L’anello debole racconta un brusco cambio di
direzione nella storia della famiglia Raccis: ne decifra l’invisibile anatomia
morale, i nodi di sangue, che stringono e reggono la trama del vivere; poi ne
dice gli eventi, unendo l’eco del mito domestico a una coscienza lucida,
dissettiva; pure, con un linguaggio sinfonico, vibrante; soffice come un
broccato.
La morte di Piera Raccis costituisce il fulcro da cui si irradia la tensione del
narrato: un centro di rifrazione da cui potenze elementari – disamore, denaro,
colpa, potere – trapelano nella loro essenza corrosiva. L’opera si configura
come una progressione di cerchi concentrici: il male vorace di Piera, la crisi
relazionale tra Claudio e la sorella, il degrado del ceppo familiare principe,
lo smarrimento del senso intrinseco del legame. L’anello che si spezza è, in
quest’ottica, la metafora di una catena più ampia — biologica, genealogica,
etica — che non regge più il peso della propria storia.
La figura di Claudio – anello debole – incarna un destino cagionevole che è
insieme reo e incolpevole: segnato, come nei tragici. Nella genealogia dei
Raccis, è lui il punto di frattura, la fiacchezza che tutto dissesta; e, nel
bilico, distende e dipana. Il disegno narrativo si muove attorno a questo
paradosso morale, restituendo il dramma di un mondo che freme tra lealtà e
diserzione, tra origine ed estraneità.
La dinastia Raccis, col suo ordito di rancori, omissioni e piccoli tradimenti,
si fa teatro del sospetto e del disamore. In essa si riflettono i meccanismi
segreganti e inquisitori della società contemporanea: la competizione travestita
da affetto, la gerarchia dei ruoli, l’eclissi del perdono.
A fronte di questo, c’è la piccola famiglia, nucleo-diamante di sopravvissuti:
coronata di faticosi valori, ma senza sublimazione: c’è l’inciampo, l’imbarazzo;
il turbamento, il dissidio, la criticità del denaro. L’esitazione, il
disinganno, il coraggio. Il coraggio, sopra ogni cosa, e l’umiltà e la dignità.
Cecilia, la Madre: amazzone del rigore, a districare l’entropia in ogni minimo
gesto quotidiano, a svelare i fulgori, uno a uno, dei propri figli, scartandoli
“dall’involucro dell’inespresso”, modulando sproni e consolazioni. Maieutica
accurata di custode. E poi, la scelta dell’uomo semplice: Claudio, anello
debole, pare inidoneo, incompiuto, eppure leale oltre il pensabile: lignaggio
d’uomo che si rivela nella durata, nel compito apparentemente basso: fischietta
nel mondare, nel depurare, brilla di devozione. C’è una mistica sottile nel
racconto di Grivel Serra, una filigrana valoriale di adorabile ascendenza:
quella propensione al voto fidato, alla speranza.
Letto in profondità, il testo si schiude come un’allegoria di cedimento
collettivo: reso manifesto nella cellula allargata della famiglia apparente,
sconfessato nel nucleo minimo. La stirpe dei Raccis incarna l’agonia di
un’equità più vasta, comunitaria. L’hospice iniziale, dove Piera si spegne,
spazio tra vita e dissoluzione, è dove la durata cede; allo stesso modo, il
tavolo domestico di una fatidica cena è il punto in cui un’illusoria quiete muta
in contesa e rancore. Come in Moravia, la scena domestica è per Grivel Serra un
teatro di conflitto e di discernimento, di prova e di resa dei conti, e tuttavia
il suo linguaggio conserva un’armonia lirica, paradossale e pacificata.
L’autrice dosa con intelligenza le forze del tempo narrativo. L’alternanza tra
il tempo interno – i pensieri, i flashback, le risacche della memoria – e quello
esterno – le azioni, i gesti, gli scarti dialogici – si compone in un equilibrio
mirabile. I personaggi, anziché banalmente enunciati, affiorano piuttosto per
micro-rivelazioni: uno sguardo, uno scambio verbale, un atteggiamento corporeo.
Il dialogo descrive e determina, mentre il sottaciuto rifonda continuamente il
senso.
La voce narrante di Grivel Serra è diafana ma vigile, pare concedersi
all’ascolto più che alla direzione: un sismografo dell’anima collettiva, che per
ogni inflessione crea asilo e risonanza. La struttura del libro, di notevole
coesione formale, alterna l’evento e il ricordo, la voce interiore e la
restituzione scenica, con una piena padronanza degl’impianti narrativi. La
gestione del ritmo – con aperture dilatate e improvvise concentrazioni
drammatiche – consente all’artefice di far emergere il non detto come nucleo
tellurico di verità ulteriore del romanzo. In sintonia con i grandi moralisti
del Novecento, il narrato assume il dolore come via di conoscenza: la narrazione
sostiene sino alla fine un’alta densità normativa e simbolica, in cui la realtà
parentale è laboratorio di riflessione: sull’umano, sul vincolo; su colpa e
riscatto.
In questa ricerca gli ambienti sono determinanti: spazi intimi, segnati da cura
e rimembranza, parimenti ad angosce e amarezze: l’hospice come limen di congedo,
la casa come ventre originario, il giardino come apertura all’aria e alla luce;
e i luoghi mentali del ricordo: stanze morali – per avvicinarsi a concetti cari
a Thomas Mann[3] – che raccolgono le forze contrapposte degli eventi: la
dedizione e il risentimento, l’impulso e la misura, la tenuta e la resa.
Il dialogo tra piani temporali e voci interiori rimanda, per coerenza interna,
progettualità testuale e afflato etico, a certi modelli del romanzo novecentesco
europeo: l’intensità morale di Bernanos, la coralità di Faulkner, la limpidezza
di Ginzburg nell’elevare la cosa familiare a paradigma del destino collettivo.
Di fatto, la pagina attraversa la molteplicità, per usare la terminologia di
Calvino – enciclopedismo gaddiano incluso, come nel gentile edonismo della
pratica culinaria, così cromatico, lussureggiante[4] – per approdare
all’esattezza: dal groviglio delle presenze e azioni umane traspare una
razionalità, una sorta di geometria delle essenze che arriva a delineare un
messaggio cifrato, progressivo. In tal modo, l’opera si colloca in quella “zona
d’ordine” evocata dallo stesso Calvino[5], dove la scrittura si fa forma viva
dell’esistente, capace di sottrarre frammenti di significato al vortice
entropico del reale.
La lingua di Grivel Serra costituisce uno dei nuclei di maggior rilievo del suo
lavoro, perché unisce l’ardore armonioso e pulsante della parola poetica a una
disciplina sintattica di grande eleganza. Si tratta di una prosa levigata e,
insieme, sontuosa, in cui la densità semantica non compromette la leggibilità.
La scelta di un registro alto, mai retorico – talvolta accarezzato da un’ironia
appena percepibile – permette di rappresentare la complessità dei sentimenti
senza patetismi. La qualità musicale della frase, il ritmo modulato tra piani e
accelerazioni, il gusto per la precisione sensoriale e per il brillio delle cose
quotidiane – una finestra, un tessuto, un piatto di frutta – sono indizi di un
controllo stilistico che colloca l’autrice in una linea di grande
consapevolezza.
Rispetto alle attuali tendenze al minimalismo e all’omologazione stilistica, il
linguaggio di Grivel Serra, pur sorvegliatissimo, ha un impulso eversivo: a
cesellare e vivificare. Vi sono personaggi-simulacro, come la nonna Armida, così
intagliata e fatale; o il cugino Riccardo, sovrano di candida dolcezza, volto
maestro, garante di pace: il quale, sebbene nell’esile misura della senilità,
genera, in chi gli gravita accanto, un “improvviso decollo spirituale, cumuli di
tenerezza, sorprendenti rive di conforto”.
Le descrizioni sanno essere fosche, rugginose, intrise di un medievo del male –
“un cancro le aveva retroflesso, illividito, divorato la mammella che copriva il
cuore” –, i cui cupi grappoli sinestesici preludono sovente a improvvise,
cordiali schiarite; similmente, a latere dei tragici accadimenti dati
nell’intreccio, la scrittura si consacra, intarsiata e generosa, sino a una
dorsale dove eros, materia e pietas si sfiorano in un bagliore originario.
Il cibo è certamente la manifestazione più immediata di vitalismo sensuale:
l’azione dell’approntare, del preparare, mostra, a corollario della precisione,
un brio erotico sfolgorante: “Sin dalle sette della sera, l’inconfondibile
profumo balsamico dell’abete di Natale si alternava con la fragrante, croccante
e aulentissima menta della sfogliata di pecorino, a pervadere in sintonia tutta
la casa. Le lamelle di carasau, base della sfogliata, rispondevano alle attese
dei morsi, ben umettate già dalla sera prima con tre mestoli del brodo di pollo
impreziosito da tre cuori di carciofo, quattro carote, due piccole cipolle, una
rossa, una bianca, un mazzo di prezzemolo e sei rosseggianti pomodorini secchi.
Quei tre mestoli avevano la provvidenziale mansione d’imbibire l’alternanza di
strati a comporre il sapore corposo e allegro della sfogliata, nell’avvicendarsi
di fette del fresco, dolce e filante pecorino giovane di venti giorni di
maturazione a quelle del veterano pecorino mezzo stagionato, dalla bionda pasta
occhiellata. Strato dopo strato, si raggiungeva la cima, e lì la sfogliata
esibiva la menta, a catinelle, assisa in tripudio.”
Nondimeno, l’anello debole è percorso da una sensualità diffusa, che investe i
chiarori, gli elementi, i corpi e la lingua stessa. Ciò che vive trasfonde
un’energia primaria, un’intenzione: è la resistenza del sensibile, alla cui
chiamata il gesto percettivo accorre: è antidoto alla desolazione il seguitare a
toccare il mondo.
C’è luce carnale, tattile, non mistica: una sostanza che investe i corpi e li
definisce: palmare e densa, corteggia gli oggetti, li innamora. E c’è una grande
attenzione olfattiva e tattile: l’aroma di ricotta, limone e arancia
delle pardulette, il profumo acerbo delle giovani albicocche, il riso basmati e
il suo “sentore gioioso di popcorn e sala buia di cinema”; o l’odore sacro
d’incenso, il vapore buono della doccia; i tessuti, la polvere, le stoviglie, la
pelle: tutto vive e odora come un organismo.
Questa sensualità diffusa trasforma la sostanza in linguaggio affettivo: il
cosmo reagisce, ha temperatura, spessore, attrito. Gli oggetti sono investiti di
un calore percettivo che li sottrae all’inerzia. In accezione bachelardiana,
potremmo dire che Grivel Serra ridesta le fibre del visibile.
E così la cura, che è diligenza, assiduità; ma creativa, sempre sorretta da
soave tepore sensoriale: la casa che, da “scatola da scarpe, umida come una
fungaia”, diviene dimora incantata per “radicale correzione”. Tutto parla di un
ordine magnifico del cuore, in specie nell’asse femminile, in splendida
dialettica con quello maschile, così teneramente imbibito di bellezza fragile,
se pur fisicamente poderosa: Rocco, il fratello di avvenenza alessandrina, le
sue nitidezze statuarie, a rilievo. Claudio, padre ritrovato, intento tra
“bulloni”, “nastri isolanti, rondelle, grasso, salviette da pulizia”, che
ritorna il venerdì ancora in tenuta da operaio, “con quel furore segnaletico di
rosso e grigio” avvolto nella nobiltà della stanchezza. Nell’anello debole di
Grivel Serra maschile e femminile sono tesi nel cercarsi, talora oltraggiarsi, e
ridarsi alla luce: la morbidezza tutta muliebre che, nascostamente, sostiene e
consola; il fare, nativamente materico, intensamente virile, che riporta al
dinamismo dell’utilità, fino al culmine del riorientamento nello Spirito, che
sia piano e limpido il saper attuarsi. “Perché il retaggio di un uomo si
determina dal modo in cui finisce la sua storia”.
Angelica Grivel Serra con L’anello debole, nell’equilibrare linearità diegetica
e profondità psicologica, intensità materica e sottigliezze spirituali,
circolarità del tempo assise in riverberi e proiezioni, sembra raccogliere
l’eredità di un Novecento ancora sospeso, col suo portato d’incanti e policrome
risonanze; nondimeno mettendo a fuoco, con incisivo acume, la condizione umana
presente: scissa tra vincolo e spaesamento, tra anelito al casato e tensione
alla libertà. Un racconto dall’aura quasi esemplare, di parabola, che rinviene
nella lacuna, nella pecca – con moto quietamente metafisico – possibili
redenzioni e inedite lealtà.
Isabella Bignozzi
*In copertina e nel testo: disegni di Georges Seurat (1859-1891)
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[1] Feuillet 62, in Feuillets d’Hypnos, Gallimard 1946; poi in Œuvres complètes,
coll. “Bibliothèque de la Pléiade”, Gallimard, 1983 e successive ristampe, p.
189
[2] Feuillet 150, ivi, p. 208
[3] Thomas Mann, Considerazioni di un impolitico, a cura di Marianello
Marianelli e Marlis Ingenmey, Adelphi 1997
[4] Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio.
Con uno scritto di Giorgio Manganelli, Mondadori 2019, p. 106
[5] ivi, p. 70
L'articolo “Ridestare le fibre del visibile”: su “L’anello debole” di Angelica
Grivel Serra proviene da Pangea.
Sulle orme del fremdling, cioè dello straniero. Questa la chiave di lettura
privilegiata per il viaggio lungo due secoli nella letteratura e nella filosofia
compiuto da Mario Bosincu, germanista dell’Università di Sassari, in Stranieri
in terra straniera. Dal romanticismo a Nietzsche (Le Lettere, 2024). Si tratta
di un’indagine attraverso la quale Bosincu entra, con una straordinaria perizia
filologica, dentro il mondo di alcune “figure esemplari dell’alterità” che hanno
caratterizzato in particolare – ma non soltanto – la cultura tedesca in un ampio
periodo che comprende la fine del Settecento e la Seconda guerra
mondiale. Novalis e poi Nietzsche, Chateaubriand e Friedrich Georg Jünger, e poi
Schopenhauer, Byron, Thoreau, etc… Tutti accomunati nello sguardo da viandante
(wanderer) con cui attraversano il loro tempo cogliendone con doloroso acume la
decadenza e il quale, chiaramente, non ha saputo guardare fino in fondo, a volte
neppure in superficie, al genio veggente di questi figli outsider.
Nel capitolo che apre l’opera Bosincu, citando Polanyi, ci introduce all’epoca
moderna come ad un paesaggio funestato da crolli e scissioni. La modernità
capitalista ha operato un ribaltamento totalmente nuovo nella Storia, con il
sopravvento della sfera economica – prima assorbita dalla società, sotto il
vigile controllo di istituzioni e tradizioni – sulla vita comunitaria che ha
finito con il farsi assoggettare al mercato e la comunità stessa è diventata un
mero aggregato di individui in perenne competizione tra loro. Una nuova
soggettività, rileva Sombart, è derivata da questo ribaltamento valoriale in
cui l’homo capitalisticus è anzitutto dominato da un oscuro caos interiore. Lo
diciamo con Hans Sedlmayr: la modernità è il tempo dominato dalla drammatica
perdita del centro, quel punto cioè in cui l’uomo si percepisce come unità. Una
catastrofe che precipita questo uomo nuovo, ormai reificato come una qualsiasi
“cosa” oggetto di transazione economica, in una condizione in cui la perdita di
una dimensione spirituale e trascendente non gli restituisce alcuna libertà.
Tutt’altro. In queste tragiche circostanze, la vita non si è arricchita; al
contrario ha subìto un impoverimento che gli antimoderni passati in rassegna da
Bosincu hanno sempre avversato, pagando il prezzo dell’emarginazione e forse, in
qualche caso, anche del dileggio.
Certo, dobbiamo pur chiarire una volta per tutte che cosa significhi essere
antimoderni. Una sorta di banalizzazione vuole questi scrittori e filosofi
inchiodati ad un passato idealizzato dalla loro fantasia, nemici acerrimi di ciò
che è, appunto, “nuovo”. Ma qui la questione è la durata. Recuperare, cioè,
tutto quello che con ostinato spirito di autodistruzione, l’epoca moderna
avversa come obiettivo primario, come ragione della sua esistenza. Durata,
ovvero ciò che rimane oltre l’inganno del molteplice. Spiritualmente e
culturalmente anestetizzato, quest’uomo moderno non sa cogliere gli agguati che
i dolenti stranieri gli tendono all’unico scopo di restituirgli una dignità,
fuori dalla prigione borghese capitalista. Che lo ha isolato innanzitutto da sé
stesso. La reductio ad unum della frammentarietà, per l’appunto, è questo
isolamento radicale, vagheggiato come forma di liberazione anche per l’uomo
postmoderno, che doveva restituire la libertà assoluta di autodeterminarsi
all’infinito. Spacciata per capax universi, in realtà sembra esserne proprio
l’opposto; un continuo far assurgere ad unità la mera parte. Ma l’homo
capitalisticus è proiettato in un infinito orizzontale per cui questa continua
rinnovazione, questo reinventarsi in qualcosa sempre altro da sé dura un istante
brevissimo, per essere liquidato in quello successivo, senza più valore di
mercato. Proprio perché parliamo di durata, la scrittura di Bosincu lambisce
anche la poesia – l’unica in grado di riaffermare d’imperio ciò che rimane – in
una serie di continui rimandi tra concetto filosofico e immagine poetica.
La modernità inaugurata dall’Illuminismo, con quella che Bosincu chiama
“colonizzazione dell’immaginario”, contiene però in sé i germi di una rivolta
antimoderna: infatti, proprio gli antimoderni scoprono che l’uomo moderno,
totalmente contingente, può essere superato, obiettivo nietzschiano di
grandezza. Gli “stranieri”, che si sono sempre sottratti al cappio dell’epoca
che li ha ospitati immeritatamente, ci offrono una via di “resistenza
ethopoietica alla modernità”, che recuperi “l’uomo totale” contro l’uomo ad una
dimensione, ostaggio di una storia minuscola, nonostante il suo titanismo. Del
resto, ci viene di aggiungere, quale onore nel titaneggiare se non si riconosce
un Dio cui contendere il mondo? Gli antimoderni sono stranieri in terra
straniera perché vanno verso una casa che non è ancora. Quale tempo abitiamo,
noi che ripercorriamo, per dirla con Schopenhauer, il loro martirio? Ancora
meglio: quale tempo vogliamo abitare?
Livia Di Vona
*In copertina: acquarello preparatorio di Caspar David Friedrich (1774-1840)
L'articolo Lo sguardo del viandante. Il genio degli outsider contro il delirio
della modernità capitalista proviene da Pangea.
Caro Vincenzo Frungillo,
è teatro perenne il tuo, scavo nella terra della parola. Non so se più Dante o
Vico, se più Artaud o Eluard. Si assiste a questo: da quello scavo avviene un
moto in risalita, insieme al crescere dei testi, uno sull’altro, impalcature,
all’inizio, poi si vede sfoggiare la facciata intera dell’edificio, mentre sotto
rimane la brace “[…] una torre di Resia sospesa nel lago,/ con un filo a piombo/
nella madre terra” (pag. 13). Parlo de La luce dell’eclissi (La vita felice,
2025). E come si spande l’eterno!, niente lo trattiene “[…] così si allunga la
linea della vita/ oltre il palmo di una mano,/ a segnare la riserva di carne
[…]” (pag. 14).
La scena è quella di un teatro del tempo, che annulla e riflette l’uomo, lo
moltiplica e lo esalta. Quante mortificazioni stanno sulla soglia,
imperversanti, fin dalla prima azione. Un fantasma sembra non mentire, in realtà
è falso.
“Cade verso un letto, cade di nuovo,
non smette di cadere, cade verso un letto,
si rialza, cade di nuovo, s’addormenta,
si sveglia, la prima immagine che vede
è ciò che spera, affila l’idea, ci lavora,
approssima la forma, l’avvicina all’orizzonte
– deve sopravvivere agli eventi –
gioca di fino, assottiglia il simulacro,
ora è un riparo, un recinto, mette a fuoco,
la prima immagine che vede è un cerchio,
con dentro un altro cerchio,
una macchia scura che diventa figura,
poi scena, habitat naturale, maniera.
Ci pensa, e ci ripensa, tra sé e il nulla.”
Tutto è falso, la verità sta in una particolare predisposizione dello sguardo:
osservare come s’inverte il passato, come si sdoppia. Una direzione procede
verso il futuro, apparentemente in avanti, un’altra rielabora ciò che è stato e
non cede, grida la sua sconfitta. “Si ripara in una piega che non è sua,/ si
abitua ad un’idea fino a darle forma,/ si difende dall’incedere delle ombre,/
dall’estraneo che bussa alla porta […]” (pag. 22). Puoi chiuderti dentro un
armadio, ma non c’è spazio, ogni cosa è più grande, grida la sua remota
immagine, immobile, significativa, che chiede conferma. Ma come?, ancora?, non è
bastato quello che abbiamo subito?
“Se dovessi indicare un inizio,
direi che è questo, lo spettro,
un fantasma che arriva,
e sai che arriva quando è già dentro”
Teatro della crudeltà, dove per crudeltà s’intende il lavoro che lo sguardo fa
sulle cose, offrendole, trasmettendole nella loro concezione carnale, sul punto
di svanire, su quel punto di… Cosa sta accadendo? “È sempre ripetere negando/ il
buco nero che ci sta accanto […]” (pag. 25). Eppure una rosa si protende e
parla. Figurati, una rosa! “[…] un salto temporale,/ che annulla la resistenza/
della quarta parete” (p. 39). Il poeta l’ascolta dalla parola che viene a
rivelarsi.
“La vita” ora ripete “non ha fine,
anche se resta in uno spazio chiuso,
è una rosa che si apre nel buio,
quando si stringono gli occhi e la luce
è catturata in una forma scura;
è la corolla della chiesa all’imbrunire,
quando il marmo perde le sue venature;
è la ferita che aumenta di volume
quando sussurro la parola padre,
mentre divento l’oggetto del suo male.”
Il teatro fatto di versi diventa scena metafisica, per dire in che cosa consiste
la poesia, l’umano, il vero, la natura. Capovolgiamo il mondo, specchiamolo. Non
so riportare in grafica le liriche della sezione intitolata Atto terzo, ma posso
descrivere la loro forma a triangolo, anzi, due triangoli uniti al vertice da
una parola o una lettera. Appena una parola o una lettera, al centro, che
ribalta la base del triangolo alto giù in basso, facendo assomigliare l’immagine
a una clessidra.
Se il disegno, o la parola che incarna è “una rosa bianca”, qui Artaud esce di
scena, lui che ha prospettato l’uscita di scena dell’autore, ora resta
sottoforma di fantasma; il corpo sofferente continua a gemere il martire che è
stato, precipita in sé stesso, anima che piomba nella propria carne devastata,
che grida facendo stridere la sua voce, attraverso i microfoni di una diretta
lontana nel tempo, al limite e senza più voce, in quanto anch’egli suicidato
dalla società. È per questo, caro amico, che puoi dire: “[…] l’incavo d’un
padre/ colpito alla schiena dal male […]” (pag. 53), oppure: “[…] l’istante
della rosa,/ il principio in cui tutto torna” (pag. 54), o ancora: “[…] Sono/
parola che illumina/ l’increato che mi sta intorno./ Faccio da specchio al vuoto
dell’universo” (pag. 57).
Come posso continuare, amico mio? La rosa è citata non so quante volte, diventa
il progetto per una messa in scena che riguarda Hans e Sophie Scholl, fondatori
e membri dell’organizzazione di resistenza al nazismo, La Rosa Bianca, appunto.
A questo s’intreccia il tema di Napoli. Napoli è un apice del bisogno nazionale,
ma il tragico è rimandato, sembra protetto dall’abisso che non arriva mai.
Lo sterminator Vesevo dorme, grazia la terra. Le forze in campo, i personaggi
che difendono dall’ecatombe (la madre e il padre, in particolare), salvano dalla
disfatta la città, che è la luce dell’eclissi, in grado di proporre una catarsi
millenaria, forse effetto di un più vero sterminatore dominante, fatto di un
intreccio indissolubile: il tempo, la storia, che paradossalmente risparmiano,
pazientano, rimandano a una maggiore radicalità dell’umano, che ogni volta
devia, trova il suo sviluppo in fantasmi primordiali, balenanti sulla scena
afflitta, di pensiero che tradisce la speranza. Scena eterna, antica, subito
scomposta in una sorta di assurdo cerimoniale presente. Non sarà possibile
evitare tanto dolore alla città, sembra testimoniare il libro, attraverso le
voci dei protagonisti, tra sconfitta e nuova visione. Di seguito, una delle
ultime poesie, a pagina 84.
“Mi credi un principe barocco,
una sposa del mezzogiorno,
ma sono la sorgente
che scopristi da ragazzo
in una serra, tra i palmeti;
era a Napoli, un luogo benedetto.
Quella visione ti ha reso vedovo,
vesti di nero, da allora.
Parlo a chi non ascolta,
alle parole della tradizione,
vergini invecchiate in fretta,
girano microfonate,
non hanno una regia,
esigono una vittima.”
Vincenzo Gambardella
L'articolo “Parola che illumina l’increato che mi sta intorno”. Una lettera a
Vincenzo Frungillo proviene da Pangea.