Un passo lieve, la strada sfiora una suola in una mattina come le altre; un uomo
lascia il suo scrittoio per abbandonarsi al ritmo dei marciapiedi, alle
preghiere dei vicoli che urlano monotonia. Dove comincia il senso delle cose?
Nella vastità dei palazzi o nella piega di un fazzoletto?
A volte è difficile gestire una trama quando, nel senso tradizionale, è di fatto
inesistente: racconto senza intreccio, svolgimento o epilogo; solo un io
narrante che decide, in un giorno qualunque, di uscire a passeggiare. Come se
fosse un diario, una confessione, una divagazione, Robert Walser crea un cammino
che non porta da nessuna parte. La meta non conta, è il vagare stesso, il farsi
condurre dall’invisibile.
> “Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del
> genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti
> di passata librai e funzionari di banca […] Eppure ciò può avvenire, e io
> credo che in realtà sia avvvenuto.”
Il protagonista – che altri non è se non un alter ego dell’autore – si fa
minuscolo per poter ingigantire il mondo. L’estetica del dettaglio diviene
cosmologia: la cravatta osservata distrattamente, la tenda che ondeggia, la voce
ironica di un banchiere; l’atomo è cosmo, il dettaglio cattedrale.
La prima versione de La passeggiata, oggi edita nella versione italiana da
Adelphi, nasce nel 1917, tra le macerie di un’Europa ferita, destinata a
confondersi tra i rumori della storia e a brillare solo per chi sa fermarsi e
ascoltare la musica di sottofondo. Mentre i cannoni dettano il ritmo del
continente, Walser scrive il suo vangelo minore, trasformando l’ordinario in
epifania.
La vita di Walser è dello stesso tessuto fragile del suo libro. Nato nel 1878 a
Bienne, ultimo di una lunga schiera di fratelli, cresce in una Svizzera
periferica, discreta come lui. Lavora come impiegato, servitore, copista;
mestieri umili che lo avvicinano più ai margini che al centro. Pubblica racconti
e romanzi, alfabeti ridotti a pulviscolo, che incantano giganti come Kafka,
Musil, Canetti, Benjamin. Ma non cerca la ribalta. Walser preferisce dissolversi
nella sua lingua minuta, che un giorno diverrà davvero microscopica, nei
famosi microgrammi, fogli fittissimi di scrittura minuscola come polline. La sua
estetica definitiva è scomparire. Non lasciare monumenti, ma tracce. Non statue,
ma impronte di passi sulla neve.
> “Ero disperato. Sì, in realtà io non avevo più nulla da dire. […] Spento,
> estinto come una vecchia stufa. […] Andò a finire che mia sorella Lisa mi
> portò nella clinica Waldau. Ancora davanti alla porta d’ingresso le chiesi se
> quello che facevamo era giusto. Il silenzio di lei mi bastò. Che altro mi
> rimaneva se non entrare?”
Dal 1933, la sua esistenza si ritira nei sanatori con una prima diagnosi di
schizofrenia, poi mai riconfermata. Da quel momento inziano ventiquattro anni di
silenzio, trascorsi in istituti psichiatrici tra Berna e Appenzell, dove scrive
sempre meno fino a smettere. Walser muore il giorno di Natale del 1956, in un
campo di neve, riverso nel bianco durante una delle ultime passeggiate. Le
fotografie ne immortalano le orme e, più avanti, il corpo, avvolto in un
mantello nero, solo, pervaso dalla voglia di scomparire nel nulla.
> “L’inizio e la fine si stringono la mano sorridendo. Apparire e scomparire
> sono una cosa sola”.
Sappiamo bene che ogni autore ha la sua unità di misura; Walser con questo
racconto compone un’anti-epopea del quotidiano. Laddove i grandi romanzi
dell’Ottocento si dilatano in trame ciclopiche, lui restringe la lente fino a
cogliere il tremolio di una foglia o il sorriso sbiadito di un libraio. Non
dominare il mondo così da farsi sorprendere da esso.
> “Molte volte l’apparenza inganna, e l’esprimere un giudizio su qualcuno è
> meglio lasciarlo a lui stesso, giacchè un uomo che ne abbia vissute di tutte
> si conosce più a fondo di chiunque altro.”
È nel granello che si apre la più grande figura retorica che
governa La passeggiata: l’iperbole dell’infinitamente piccolo, dove un ciuffo
d’erba può valere più di un impero. Walser ricama la città, la miniaturizza,
come se ogni parola fosse un punto di ago su di un tessuto di brina. Lì dove
altri autori vedono un fondale, lui scorge un oceano.
C’è inoltre una retorica della leggerezza, in Walser, che tuttavia non scivola
mai nella frivolezza, anzi. La sua è una leggerezza gravosa, come un palloncino
che porta in sé il peso della malinconia. Le sue immagini e i suoi personaggi,
cesellati e ironici, sanno trasformare la passeggiata in un pellegrinaggio
laico, un atto di fede nell’insignificante.
> “Quando mai c’è stata un’anima che senza nulla sacrificare, abbia visto
> compirsi ogni sua ardita ispirazione, ogni dolce, sublime idea di felicità?”
Il narratore, pur occupando la scena, non è mai davvero protagonista. Walser
adotta una postura di auto-svanimento; egli parla, osserva, descrive, ma sempre
con una modestia che lo dissolve. È un io che si offre e si ritira, che si
mostra per rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe occulto. Le sue frasi
sono sentieri che non portano a lui, ma al paesaggio. Sono scale che salgono non
verso l’autore, ma verso la brezza che le attraversa.
Le frasi, lunghe, sinuose, sono esse stesse passeggiate; divagano, si perdono,
deviano, ritornano. Non sono mai rette, bensì curve, avvolgenti, labirintiche. È
la periodicità serpentina di una scrittura che preferisce l’ombra alla luce
diretta, l’allusione alla dichiarazione, il sorriso ironico al tono assertivo.
> “Sono pronto a riconoscere che la nautra e la vita umana mi appaiono come
> tutta una fuga non meno seria che affascinante di accostamenti, fenomeno che
> ritengo sia da giudicare bello e fecondo.”
Non a caso, Walter Benjamin trova in Walser l’esempio della teologia del
minuscolo. L’opera di Walser sembra manifestare una politica della riduzione che
Benjamin teorizza a suo modo nelle Passagen-Werk. Entrambi sono attenti al
frammento come luogo rivelatore della storia. Per Benjamin la vetrina, la
réclame, il frammento urbano custodiscono la storia materiale; per Walser ogni
frammento custodisce una cosmologia privata.
Benjamin e Walser convergono nell’idea che l’attenzione al marginale apre una
conoscenza antigerarchica; il particolare diventa lente per leggere il generale.
Tuttavia qui la prassi diverge – Benjamin indaga il politico e lo storico in
quelle fessure; Walser li trasforma in esperienza estetica e morale, in modo
meno teorico e più lirico. Il loro incontro è fecondo perché mostra come il
frammento funzioni come vettore critico e come sublime ridotto.
L’opera di Walser, però, incontra anche altre ombre discrete. Come nei Saggi
di Montaigne, anche qui la divagazione è forma di verità, metodo. Montaigne
scivola da un aneddoto a un ricordo, costruendo un io curioso, sfaccettato;
Walser, nei suoi passi, porta la stessa pratica al limite della sparizione. Dove
il francese si moltiplica, lo svizzero si riduce.
Inoltre, dietro la leggerezza, affiora il passo come terapia, il camminare come
rimedio contro l’angoscia. Søren Kierkegaard percorreva le vie di Copenaghen per
non soccombere alla disperazione; in Walser si ritrova la stessa intuizione: il
movimento fisico come salvezza esistenziale. Solo che qui la cura non nasce da
una scelta tragica, ma dalla sospensione stessa della scelta, dal balsamo del
piccolo. Non a caso, a Herisau, luogo della morte di Walser, è stato inaugurato
un sentiero dedicato a lui (Robert Walser-Pfad).
> “Non perdete il desiderio di camminare; ho camminato fino ai miei migliori
> pensieri, e non conosco pensiero così gravoso da cui non si possa camminare
> lontano. […] Più si sta seduti, più ci si avvicina a sentirsi male. Salute e
> salvezza si possono trovare solo nel movimento… se uno continua a camminare,
> andrà tutto bene.”
>
> Søren Kierkegaard
In un’epoca che idolatra velocità, risultato e rumore, Walser è il santo patrono
del rallentare. Il suo libro è un vero e proprio manuale di invisibilità; ci
mostra come svanire per poter finalmente vedere. Ci insegna a essere distratti
con cura, a perdere tempo come forma suprema di attenzione. È un inno alla
lentezza, al vagare, al lasciarsi trasportare. Un invito a guardare i dettagli
dimenticati, a riconoscere la grandezza nel piccolo, a vivere come perdersi.
Walser compone dunque un’elegia al dettaglio, una litania dell’insignificante.
Il suo libro è fragile come il vetro, e dunque incorruttibile come la verità.
Solo chi si fa piccolo può toccare l’infinito, ma allora chi tocca veramente la
realtà, chi guarda o ciò che viene guardato?
Tommaso Filippucci
L'articolo Per un’estetica della scomparsa. Su Robert Walser, il santo patrono
dell’insignificante proviene da Pangea.
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In questo momento storico esagitato, ora che il mondo che credevamo di conoscere
si sta rivelando non essere affatto come credevamo che fosse, svincolatosi dalle
leggi che credevamo lo governasse, in questo momento storico forsennato in cui
si svela che il mondo ha smesso da così tanto tempo di essere regolato dalle
leggi che credevamo lo governassero da rivelarsi praticamente a tutti così com’è
diventato, come sta diventando, per tutti intendo anche me che sono uno tra i
tutti, tutti tranne quei relativamente pochi che lo sanno da chissà quanto tempo
che le regole del mondo sono cambiate, che il mondo ha infranto le regole
precedenti e ne sta rodando delle nuove, che io non so affatto quali siano ma
che spero ci siano, senza regole quali che siano il gioco del mondo
semplicemente si fermerebbe invece il mondo gioca eccome, in questo momento
storico prepotente e angosciante, apocalittico, omicida a livelli più che
novecenteschi, ma progresso ormai non significa altro che aumento
dell’intensità, del profitto e del danno, in questo momento storico che sarà
storico anche lui come lo sono stati tutti quelli primi e che a me,
personalmente, non piace lungo i suoi sommi capi, io leggo Ludwig
Hohl, Note, Marcos y Marcos, e grazie a Ludwig Hohl – che nel 1980 curò una
nuova edizione delle note “scritte nei tre anni che vanno dal 1934 al 1936,
durante i quali vissi in Olanda in uno stato di assoluto isolamento
spirituale” – ora so che la lettera tedesca ß, cioè la doppia S tedesca, si
chiama Eszett o scharfes S (fonte: Wiki), lo so perché Hohl nella Nota
3 della Parte VI – Scrivere scrive: “Quanti leggono oggi Lichtenberg o
Kaßner?”.
Io non ho mai letto né l’uno né l’altro ma se cercare Lichtenberg su Google è
stato semplice non lo è stato per Kaßner: intanto dovevo capire come si
inserisse il carattere ß, non ho mai usato il carattere ß, e anche una volta
copiato online il carattere, una volta inserito sul motore di ricerca Kaßner,
niente, nessun responso, perché l’occorrenza vale per Kassner, Rudolf Kassner:
che piacque molto a Rilke oltre che a Hohl, si scopre navigando navigando, e
Hohl su Rilke? Da una nota alla Nota 4 sempre della Parte VI – Scrivere: “Mi
riferisco qui al tardo Rilke. E anche costui, allorché scrissi questo testo,
venne da me sopravvalutato.”
In questo momento storico allarmato, valicato, sbeffeggiato, trucidato e molto
molto molto commentato posso ancora addormentarmi la notte contento di aver
imparato la lettera nuova di una lingua che non parlo, la ß che si pronuncia
come una doppia esse in italiano e che allora potremmo ereditare, in questi
tempi di scrittura stringata, raccorciata, stritolata, politicamente pudibonda,
reticente, vieppiù omertosa, potremmo scrivere taßo e rifleßo e aßaßinio o, per
bypaßare la censura delle piattaforme così perbenino a modo loro, per non temere
di eßere derankizzati potremmo scrivere seßo quando avremo voglia di parlare di
seßo – siccome parlare è già un po’ un fare e siccome è indubbio che qualcosa
aßolutamente dobbiamo fare in questo momento storico demenziale, oßeßionato,
impanicato, frustrato, esploso.
Che fare? Leggere Hohl, per esempio.
antonio coda
L'articolo Che fare? Leggere Hohl in faccia a questo mondo assassino. Ovvero,
sul senso della lettera ß proviene da Pangea.
Una biblioteca mi ha fatto da culla, mi è stata matrigna.
La madre di mio padre si era trasferita a Milano da Palermo a dodici anni; aveva
la quinta elementare; la scaltrezza della creatura viva, terrena. Mio nonno era
nato in Francia da immigrati siciliani: una volta, ricordo, mi parlò di Leonardo
Sciascia, amava ascoltare Charles Aznavour. Durante la Seconda guerra operò in
marina: arrestato in Grecia, fu detenuto ad Amburgo. Si vantava della sua
“Enciclopedia Motta” che, in un’altra era, prometteva “il sapere universale”.
Era fissato con la geografia.
Le strane accelerazioni della Storia – il Sessantotto, un viaggio in Pakistan,
l’idea di ‘essere se stessi’ (mentre a volte è bene apparire per ciò che non si
è) – portarono mio padre a diventare il bibliotecario di un piccolo paese in
provincia di Torino. I miei nonni – i suoi genitori – sono sepolti a Riccione:
il cimitero, in fondo, è una sorta di immensa biblioteca umana, un ossario di
memorie – è forse la vera “biblioteca infinita” ideata da Borges. Il figlio, mio
padre, che ha il nome del biblico “sognatore”, è sepolto in un microscopico
borgo della Val Grande, a cinquecento chilometri di distanza dai genitori. Spero
sia felice: nei turni di notte, lassù, lo strigide si combina al capriolo, la
chimera al lupo.
La biblioteca, comunque, fu il baratro: il luogo dell’amore e della perdizione,
l’alcova e la tagliola.
*
Qualche anno dopo la morte di mio padre, ‘liberai’ dalla biblioteca che aveva
diretto Il gioco del mondo di Julio Cortázar. Non che non lo possedessi: è che
quell’edizione – copertina rigida, Einaudi, incellofanata – mi pareva ‘biblica’,
perfetta al sogno. Per un po’, riposi in quel libro il mio destino. Mi piaceva
l’idea che si potesse leggere al contrario e di sbieco, che parlasse di molto e
di niente. Molti anni più tardi – per una di quelle strane accelerazioni della
vita – finii a Buenos Aires, incontrai chi aveva incontrato Julio Cortázar.
*
È assurda l’idea di possedere dei libri: sono loro che si impossessano di te. Ne
sei posseduto, tanto che liberandoli te ne devi liberare. Le parole aprono
squarci, finestre o stimmate che siano – ma possono anche recludere.
*
In una lettera particolarmente bella – in: V. Šalamov-B. Pasternak, Parole
salvate dalle fiamme, Archinto, 1993 – Varlam Šalamov rimproverava Boris
Pasternak, che con svezzato sussiego parlava con sufficienza delle sue poesie.
Nei campi, in Siberia, c’è gente che è sopravvissuta con le sue poesie; c’è
gente che si è ricordata cos’è un uomo (cioè: la creatura disposta a dare la
vita per un altro, sconosciuto) leggendo le sue poesie.
I libri non salvano la vita – ci danno la vita; non insegnano a vivere, creano
la vita. I libri sono un uovo cosmico (leggi sotto). Per questo ogni regime –
tirannico o democratico che sia – sottrae i libri ai propri elettori sudditi o
favorisce un ‘sistema’ culturale basato sul mero mercato: così si forgia un
popolo servile, un popolo reclino sul proprio misero io, un popolo immiserito
nel cuore, un popolo di paglia, logorato, già cenere.
*
A Lima soggiornavo all’Hotel Ariosto: nelle librerie i libri costavano più che
in Italia, ma lo stipendio medio di un peruviano non superava i trecento euro
italiani. Cercavo le poesie di César Vallejo; qualcuno, al mercato – così
sgargiante che lo chiamai Armida – intonò i frammenti di un’epopea andina.
Finché non recidono il suo canto, finché non lo sradicano dal linguaggio, l’uomo
è vivo, la sua stirpe prolifera.
*
Un tempo, quando i libri si compravano nelle librerie, s’intraprendevano folli
avventure per cercare il libro definito, quello della svolta. Vagabondai per
giorni, a Milano, prima di trovare la “Trilogia di Valis” di Philip K.
Dick. Edizione Oscar Mondadori, in cofanetto. Perché mi fossi ostinato a quel
libro – torbido, involuto, teologico – non lo so. A volte di un libro ci cattura
l’aura – basta quella.
Entrando in libreria – come si entra in una città perduta – era possibile fare
incontri inattesi. La vita digitalizzata – il demoniaco dominio del cellulare,
insomma – ha recluso le nostre esistenze in un tunnel. Viviamo nei bunker
dell’io. In spazi senza accesso, senza concessione. Prima, tutto era un bosco –
si era disposti alla scoperta, pronti allo straordinario, i prediletti
dell’insperato.
*
Intendo dire: la ricerca del libro assoluto. Il libro-tutto. Il libro che somma
cielo e terra, che abbraccia i vivi e i morti. Il libro che vivifica. Che fa
risorgere.
Ad esempio: purché sia escluso da quella rivelazione, possiedo – e sono stato
posseduto – da una serie di edizioni dell’I-Ching, l’arcano libro divinatorio
cinese. Preferisco l’edizione curata da Eranos; l’ho avuto nelle versioni
inglese, francese, spagnola.
Da ragazzo, conferivo le stesse facoltà – chiamatela taumaturgia del linguaggio
– ai libri di Thomas S. Eliot.Rapivo ogni possibile traduzione della Terra
desolata; mi confinai nei Quattro quartetti. Dal canonico viaggio in Inghilterra
– fatto in treno, dormendo dove capitava – tornai povero di tutto ma con
l’edizione Faber dei Selected Poems di Eliot. Più tardi, da adulto, provai una
simile coincidenza con l’opera di Saint-John Perse.
*
A volte un libro è il solo conforto: ma con i libri non si tratta, si lotta;
infine, finisci per odiarli. C’è differenza tra claustrale e claustrofobico.
*
Questo articolo voleva affrontare un argomento che può apparire assurdo ai più.
È questo: comprare più volte lo stesso libro. Preciso: non lo stesso libro in
altra traduzione o diversa edizione (pratica buona & giusta, a volte
necessaria), ma lo stesso libro nella stessa traduzione pubblicata dallo stesso
editore nello stesso anno. Una copia. Una copia di una copia di una copia. Che
assurdità. È come se ri-comprando lo stesso libro – o ri-rubandolo – potessi
azzerare l’esperienza di lettura precedente (dunque: potessi azzerarti). Come se
potessi ‘riverginare’ il libro. Oppure, come se quella innaturale fedeltà
potesse concederti un accesso privilegiato alle zone segrete, alle zone oscure
di quel libro.
Già, perché il principio di ogni libro è che abbia un unico lettore, un lettore
eletto: tu. Gli altri sono dei vili mestatori di opinioni, degli eresiarchi. Tu
sei il solo custode della verità appena sussurrata da quel libro che, pur tirato
in migliaia di copie, esiste perché proprio tu lo legga. È stato scritto per te,
incidentalmente gettato in pasto al vile mercato degli altri.
I libri esistono in un’unica copia, per un solo lettore. Tu.
*
(Diamoci il privilegio, in questo tempo brutale, in questo tempo funesto, di
parlare di cose frivole, di cose che ci tengono stretti all’umano. Anche questo
– come si accarezza un albero e si guardano le stelle – è un atto di grazia e di
esistenza).
*
Il primo libro che ho comprato almeno tre volte è l’Ulisse di Joyce. La sua
lettura mi folgorò, al liceo – avevo un’insegnante di inglese particolarmente
severa, che mi ha inoltrato nell’opera di Yeats e di Ezra Pound. Ho comprato tre
copie dell’Ulisse, a distanza di tre anni, perché non lo capivo. Più non lo
capivo, più mi incaponivo, mi incapronivo, mi incapricciavo. Quel libro
racchiudeva un mondo, quel mondo non mi piaceva, ma lo volevo capire. Lo
volevo.
*
Un giorno, spiazzandomi, l’insegnante di inglese mi disse di preferire la
letteratura mitteleuropea: il suo libro del cuore era La morte di Virgilio di
Hermann Broch. A casa, mio padre ne aveva una copia. Il volto di Broch, in
copertina, pareva quello di un alienato: a metà tra il Minotauro e il grifone.
Il libro mi parve infinitamente più vasto e vertiginoso dell’Ulisse: ne ho
ancora tre o quattro copie, da qualche parte.
*
I libri che, negli anni, senza che ve ne sia bisogno, senza ritegno, si comprano
più copie rientrano in un rango augusteo e angusto. Solo pochi vi appartengono.
E – questo l’ho capito negli anni – ad appartenervi non sono per forza i libri
più belli, quelli a cui siamo più affezionati. Di quelli, basta la copia
originaria, basta riaprire quella per rientrare nelle proprie origini. Faccio un
esempio che mi riguarda. Ho diverse copie del Libro della giungla di Rudyard
Kipling perché, senza che lo abbia scelto, è penetrato nella mia infanzia.
Ancora oggi, voglio essere Mowgli e Bagheera. “Non c’è chi non ne abbia sentito
il fascino”, è scritto, scagionando la mia ossessione, nella Nota introduttiva
dell’edizione Bur del 1951: l’ho trovata in un mercatino, qualche anno fa. La
traduttrice, Giuliana Pozzo Galeazzi, ha tradotto anche Jane Eyre e Bertrand
Russell. Il Libro della giungla non è il mio libro preferito – è il mio libro e
basta.
Lo stesso rapporto infantile, selvatico, mi lega a Moby Dick – ne avevo decine
di edizioni diverse, la prima apparteneva a mio padre: edizione
Frassinelli, total white, traduzione di Cesare Pavese.
*
Ai libri di cui ho comprato – o rubato – diverse copie mi lega un rapporto di
amore e odio. Ne amo la nomea, il portamento, l’apertura alare, per così dire –
eppure, continuo a sfidarli perché non sono riuscito a penetrarli. Ogni volta,
rinnovo la sfida. Tra questi libri così singolari, che mi visitano ogni eone di
mesi, ricordo La montagna incantata di Thomas Mann, La storia di Genji il
Principe Splendente di Murasaki Shikibu, Rigodon di Céline, Sotto il vulcano di
Malcolm Lowry. Sono libri che mi tormentano, di cui conosco alcune pagine a
memoria, che ogni volta rileggo e abbandono. Benché possa citarne altri a me più
cari – chessò, Cuore di tenebra di Conrad, L’urlo e il furore di
Faulkner, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, Come l’acqua che scorre di
Marguerite Yourcenar, Chadži-Murat di Tolstoj – sono quelli i libri che mi
accompagneranno, mordendomi il cranio, fino alla fine.
*
Di alcuni libri, è vero, ho acquistato più e più copie, per regalarli – non
rientrano nel lotto della lotta. Tra questi, sono affezionato, con rigore
totale, a Il colpo di grazia della Yourcenar e alla Casa delle belle
addormentate di Yasunari Kawabata. Allo stesso modo, i libri che ci sono stati
donati vivono in uno spazio tutto loro. Regalare un libro presuppone una
intimità che intimidisce. Chi ci regala un libro pensa che siamo in qualche modo
incardinati in quel libro, promessi a quel verbo: lo leggiamo, allora, per
scoprire chi siamo agli occhi di chi ce lo ha donato. Le scoperte – e i
fraintesi – sono spesso sorprendenti, a tratti agghiaccianti. Un libro che ci è
stato donato e che non ci riguarda – che mancanza di riguardo – può essere
donato a sua volta.
Valgono come autentici doni, però, soltanto i libri che abbiamo vissuto
intensamente, quando non sottolineato e appuntato e strappato. Ricordo
un’edizione delle lettere di Kafka a Milena – Mondadori, traduce Ferruccio
Masini – che mi è stata regalata molti anni fa: modesta, sbrindellata, piena di
note. Il regalo più bello – un patto.
*
Cito soltanto romanzi. I poeti non rientrano in queste viete classifiche: hanno
la pretesa di incendiare l’intera biblioteca e di resistere, frantumi di un
futuro ancora da costruire. La poesia vuole dedizione, solitudine, amore; le
poesie vanno imparate a memoria, il loro supporto non è un libro, ma l’intero
corpo di chi legge.
Quando mi hanno regalato Hugo von Hofmannsthal, ad esempio, ho fatto i salti di
gioia, fino a dire: è lui il più grande, è più grande di Rilke! Un’eresia, è
vero, ma come si fa a non amare assolutamente un poeta?
*
Ogni volta che vado in libreria – ci vado di rado, ridotto per lo più a un ebete
analfabetismo leggo soltanto i Vangeli, perimetrando la mia enorme inermità –
non posso non comprare un’edizione del Dottor Živago: credo che sia uno dei
libri decisivi del secolo, ma le poesie di Boris Pasternak siano infinitamente
più belle. In questo, seguo il giudizio di Varlam Šalamov. Eppure, ogni volta
torno a comprare Il dottor Živago – è una malattia la mia, lo
so, voglio che Il dottor Živago sia il libro totale, il libro che risponde a
ogni mio enigma, il libro che mi corrisponde. Ogni volta rileggo Il
dottor Živago, ogni volta lo mollo – c’è qualcosa di liquido, qualcosa di
paludoso che mi respinge.
In una delle ultime edizioni acquistate – Nuova Universale Einaudi, 44, 1968 –
la prefazione di Eugenio Montale non è d’aiuto. Il grande poeta, da poco
senatore a vita, scriveva prefazioni di solito gelide, attrezzate in
sprezzatura, a tratti ingenerose, alle Liriche cinesi come alla Coscienza di
Zeno; scrisse che “Il dottor Živagoè uno di quei libri che possono dar tempo al
tempo”, che è come dire tutto e nulla.
*
In ogni caso, ogni biblioteca privata esiste per essere spezzata. La biblioteca
non è una voliera, è come un rapace: deve prendere il volo. Non si possono
imprigionare i libri: hanno un destino vivente, di albero, di roccia. Eredità di
eresie. Giampiero Neri, antico sapiente della poesia italiana, citava nei suoi
libri innumeri altri libri, tra i tantissimi: Omero, Laozi, Melville, Tacito,
i Ricordi di un entomologo di Jean-Henri Fabre. Recitava a memoria Dino Campana
e Virgilio, amava la Vita di Milarepa. Eppure, la biblioteca di casa sua era
scarna, uno scaffale appena. Neri regalava i libri a chiunque andava a trovarlo:
io scelsi le Conversazioni con Kafka di Gustav Janouch in una vecchia edizione
Guanda.
Anche Nicola Crocetti, ogni volta che vado a trovarlo, si congeda dai suoi
libri, regalandomeli: l’ultimo, Kotik Letaev, è presentato come “il capolavoro
di Andrej Belyj, il Joyce russo”. Lo ha curato Serena Vitale per “La biblioteca
blu”, la formidabile collana di Franco Maria Ricci, era il 1973; il libro è
stato stampato “a Torino presso il signor Giovanni Zeppegno”.
*
Vagabondando di qui e di là, ho smarrito gran parte dei miei libri: che bello,
li rincorrerò per sempre. Eredità è una parola-cecchino. Kotik Letaev mi fissa,
mi squadra, è un libro sproporzionato: più che leggerlo, me lo immagino. Prima
di leggerli, i libri vanno immaginati – se non sono all’altezza della vostra
immaginazione, gettateli via.
La copertina di Kotik Letaev, bellissima, raffigura una serpe avvolta intorno a
un uovo. Secondo il mito pelasgico, Ofione, il serpente, si arrotola sette volte
intorno all’uovo cosmico deposto da Eurinome, “e ne uscirono tutte le cose
esistenti: il sole, la luna, i pianeti, le stelle, la terra con i suoi monti,
con i suoi fiumi, con i suoi alberi e con le erbe e le creature viventi” (così
Robert Graves nei Miti greci, libro più volte trafugato, più volte ricevuto in
dono).
Non servono più i libri, ma conformarsi alle stelle, stare nel verbo vivente.
L'articolo Sulla mania di comprare sempre gli stessi libri. Ovvero: conformarsi
alle stelle proviene da Pangea.
Quando ero ragazzo leggere Cesare Pavese veniva considerato quasi un rito di
passaggio per gli adolescenti di allora. Tutti lo leggevamo. Forse non lo
capivamo fino in fondo, ma comunque restavamo affascinati da questo scrittore
dalla perenne espressione di bambino triste destinato a non diventare mai
vecchio e dalle moltitudini che abitavano la sua anima. Confesso di frequentare
poco i giovani di oggi, ma l’impressione è che ci siano in giro troppe
chiacchiere inutili, troppe distrazioni, troppo rumore di fondo che impediscono
a un ragazzo di chiudersi nella propria stanzetta a leggere Pavese o
Hemingway; mi chiedo se c’è ancora qualche adolescente che durante gli anni del
liceo prende una cotta letteraria per uno scrittore come capitò a me con Vasco
Pratolini; irrazionale e assoluta come si conviene a ogni cotta degna di questo
nome, presa senza sapere bene perché.
Anche nel dibattito pubblico Pavese era una figura di riferimento nonostante
fosse morto ormai da parecchi anni. Poi lentamente, quasi senza che nessuno se
ne accorgesse, su di lui è calato il silenzio. Improvvisamente nessuno ne ha più
parlato, tutti hanno smesso di citarlo. Oggi è a tutti gli effetti
un desaparecido della letteratura e non solo. Va detto che non è l’unico e anzi
è in buona compagnia. Dove sono finiti Giovanni Arpino, Giuseppe Berto, Lucio
Mastronardi e tanti altri scrittori un tempo al centro del mondo letterario?
Basti pensare ad Alberto Moravia che per lungo tempo è stato la figura dominante
della vita culturale italiana; una presenza continua e per certi versi quasi
ossessiva con interviste e dichiarazioni su tutto, firme a ripetizione su
manifesti e appelli per le cause più svariate, reportage di viaggi, recensioni
cinematografiche, programmi televisivi, protagonista addirittura della vita
mondana e dei pettegolezzi per le varie compagne e mogli che si sono avvicendate
al suo fianco. Poi, dopo la morte, lentamente anche su di lui è calato il
silenzio.
Insomma, c’è una domanda che mi faccio spesso da un po’ di anni: dove è andato a
finire Cesare Pavese? Adesso per fortuna posso finalmente darmi una risposta.
Per venire a capo del mistero non ho dovuto fare nessuna ricerca o inchiesta né
tanto meno ricorrere all’intelligenza artificiale. È bastato leggere Chi ha
rapito Cesare Pavese?, un romanzo scritto da Francesco Bova e pubblicato
dall’editore calabrese Meligrana.
La trama è presto detta. Al centro del libro Lui, così viene chiamato il
protagonista, uno scrittore, e la sua Voce interiore, una fascinosa musa
ispiratrice dalle lunghe gambe. I due vanno a vivere in una stazioncina
ferroviaria abbandonata nelle campagne lombarde. Lo scopo di questa scelta di
vita isolata e fuori dal mondo è duplice. Lui è impegnato a scrivere un romanzo
con l’aiuto della sua Voce e poi vuole incontrare a ogni costo Cesare Pavese.
> «Regalerei la mia anima al diavolo o a quel dio che non conosco per poter
> scambiare qualche parola con lui.»
Il fatto però è che qui siamo negli anni Ottanta e, come è noto, lo scrittore
piemontese è morto nel 1950. Non è un problema. Lui e la Voce non hanno né un
orologio né un calendario, ma impariamo presto a capire che per loro il tempo è
relativo:
> «Il tempo, nella sua forma circolare, avvicinava di un nulla gli anni ’80 agli
> anni ’50 e gli avvenimenti si potevano toccare con un dito e forse pure
> travolgere.
>
> Il naso, il cuore, la forma di una nuvola, un sogno, uno stato d’animo, il
> soffio del vento e altre piccole cose erano la nostra misura del tempo.»
Così i due intraprendono una serie di viaggi attraverso il tempo e lo spazio per
raggiungere Santo Stefano Belbo. In questo modo Lui e Pavese riescono
“magicamente” a vedersi varie volte e durante i loro incontri si spostano tra le
colline delle Langhe e quelle della Liguria parlando un po’ di tutto: di libri,
di cinema, di politica, di donne. Non solo. Persino i personaggi dei loro libri
si incontrano e parlano tra di loro. Tra i due nasce un rapporto simbiotico, di
grande intensità che permette a Lui di portare a termine il proprio romanzo.
Intanto però i giorni corrono e quando siamo verso la fine di agosto si avvicina
anche la data fatale. Da tanti piccoli indizi, a volte appena percettibili, è
facile intuire che Pavese si sta muovendo sull’orlo della notte. Così nasce il
progetto di rapirlo per scongiurare il suo suicidio. Il finale lo lascio al
lettore.
> Nel primo pomeriggio di una giornata molto calda sbottò con una frase corta e
> incomprensibile e temetti che l’arsura e l’angoscia gli avessero dato alla
> testa.
> «Dobbiamo rapirlo!»
> «Chi?»
> «Cesare. Prima che finisca l’estate dobbiamo rapirlo.»
Chi ha rapito Cesare Pavese? è un libro bello e singolare, di sorprendente e
accattivante complessità, che si muove tra sogno e realtà, tra ossessioni e
magie dove ogni lettore deve trovare la propria strada. Arrivati al termine,
viene naturale una domanda: è veramente Pavese il rapito o invece siamo noi, i
suoi lettori, a essere rapiti da lui, dal suo mito, dal fascino dei suoi
romanzi, dalla malinconia incantatrice dei suoi personaggi, dal mistero della
sua tormentata esistenza, dal segreto della sua tragica fine? Ognuno risponderà
come meglio crede, di sicuro siamo di fronte a un romanzo necessario, rara
avis di questi tempi, e dobbiamo essere grati a Francesco Bova per averlo
scritto. Nel senso che c’era proprio bisogno che venisse sanata la ferita della
scomparsa di Pavese dalla nostra vita. Abbiamo bisogno di lui, forse oggi ancora
più di tanti anni fa quando lo abbiamo letto per la prima volta. Le domande che
nascevano dalla lettura dei suoi libri sono ancora tutte lì, non hanno perso
niente del loro valore e della loro profondità. Siamo noi e tutto il mondo vacuo
e inutile che ci circonda che abbiamo fatto finta di dimenticarle. I grandi
scrittori come Pavese invece restano sempre al loro posto, non passano mai di
moda.
Silvano Calzini
L'articolo Sul nostro irrefrenabile bisogno di leggere Cesare Pavese proviene da
Pangea.
> E, d’improvviso intatta
> Sarai risorta, mi farà da guida
> Di nuovo la tua voce,
> Per sempre ti risento.
>
> Giuseppe Ungaretti, Per sempre
Grazie alla mia professione di insegnante, vivo a contatto con i giovani. Non mi
accontento di insegnare, cerco di ascoltarli, di coglierne gli interessi, le
letture, i turbamenti che li attraversano.
Questa primavera, a Ca’ Foscari, ho presentato assieme a Massimo Iiritano il suo
ultimo libro, dedicato alle inquietudini religiose del nostro tempo. L’aula era
gremita di studenti, attenti, curiosi, forse intuendo che si sarebbe parlato di
loro.
Il libro si apre infatti con una riflessione originale sull’inquietudine
religiosa dei giovani, prendendo spunto dalle canzoni di un gruppo musicale
italiano, i Baustelle. Scrive Iiritano: “alla ricerca delle inquietudini
religiose del nostro tempo, incontriamo subito tanta musica, cinema, serie tv,
podcast, youtuber… Sarebbe utile e interessante, credo, iniziare da qui”.
Sì, è utile parlare dei giovani e ai giovani nella loro lingua e iniziare
proprio da qui, dalle canzoni che spesso ascoltano con le cuffie dai loro
cellulari, mentre camminano per strada o viaggiano in autobus; nei momenti di
pausa dal lavoro o all’università tra una lezione e l’altra…
Le parole delle canzoni dei Baustelle fanno immediatamente breccia, sono
significanti: parlano di spaesamento, di inquietudine, di vuoto, di nulla.
Solo qualche esempio:
> “Fra le mute tombe del monumentale,
> Non c’è Dio e non c’è male, solo vaga oscurità”.
E un’altra canzone intitolata Il nulla recita:
> “Tutto è niente, l’essere è
> Sotto il sole colpevole
> I segnali spesso non significano mai
> È meglio di lunedì
> Accorgersi
> Nel caos dell’ipermercato
> o in un beato megastore
> Della bugia
> Che sta alla base del mondo
> in un secondo coglierlo
> Spogliato e crudo il nulla”
Commenta Iiritano: “Verità metafisica, sentimento poetico che attraversa
millenni di culture e letterature, e che diviene rivelazione imprevista della
quotidianità. Laddove echeggia ancora il leopardiano “solido Nulla” e
l’insuperata visione di Eugenio Montale”.
È vero della vanità della vita, del senso di vuoto e del nulla, la filosofia, la
poesia e le tradizioni religiose e sapienziali ci parlano da secoli. Basti qui
ricordare il “Vanitas vanitatum et omnia vanitas” con cui si apre l’Ecclesiaste,
il libro della Bibbia forse più citato dai poeti. Si pensi, come suggerisce
Iiritano, a Leopardi, con il suo “solido nulla”, ma anche a Petrarca che nelle
sue Rime sparse annota con amarezza “che quanto piace al mondo è breve sogno”.
Dunque, si potrebbe dire, citando ancora il Qohelet, “niente di nuovo sotto il
sole”. Tuttavia, a mio avviso, non è proprio così. È il moderno che scopre,
rimanendone atterrito, pietrificato, quello che da Nietzsche in poi verrà
definito “l’ospite inquietante”: il nichilismo. E questo perché, come hanno
intuito Nietzsche e, ancor prima di lui, Kierkegaard e Dostoevskij, il
nichilismo è un fenomeno religioso, strettamente legato alla morte di Dio.
A partire dalla constatazione di questa crisi epocale, dalla morte di Dio, il
volume di Iiritano si sviluppa lungo un percorso articolato, in cui i diversi
capitoli, pur affrontando temi eterogenei, convergono verso un preciso obiettivo
comune: recuperare un rapporto diverso con il Cristianesimo e con il Dio della
tradizione giudaico-cristiana. Un Dio, la cui luce, come si legge nel suggestivo
capitolo Lux in tenebris, le tenebre non hanno potuto né afferrare né vincere.
Una luce, dunque, che può ancora illuminarci oggi.
Al centro del libro vi è dunque la ricerca di una fede cristiana che sceglie di
confrontarsi con il proprio tempo e con la storia, proponendosi come risposta al
nichilismo e alla disperazione. Una disperazione che si manifesta in due forme,
che potremmo definire, avendo riguardo alla loro origine, teologica e
metafisica.
La prima nasce dal senso di abbandono e di desolazione lasciato da un Dio
fragile che appare assente dalla scena del mondo e della storia, tema centrale
del capitolo sulla teologia dell’ora nona. In queste pagine riecheggiano le
riflessioni tragiche del maestro di Iiritano, Sergio Quinzio, sulla sconfitta di
Dio, sul suo silenzio, sulla sua fragilità, sul fallimento della promessa di
redenzione e di salvezza.
La seconda è una disperazione metafisica, che accomuna credenti e non credenti e
scaturisce dalla consapevolezza della precarietà dell’esistenza. Questo tema
trova la sua massima espressione nel capitolo Angeli caduti. Un dialogo sulla
caducità tra Freud, Rilke e Wenders, che occupa nel libro una posizione centrale
sia dal punto di vista strutturale sia concettuale, suggerendo la chiave di
lettura dell’intero volume.
In questo capitolo, Iiritano commenta il celebre saggio di Freud Caducità.
La riflessione freudiana sulla caducità nasce da un episodio, raccontato dallo
stesso fondatore della psicanalisi e rievocato da Iiritano. Nell’estate del
1913, durante una vacanza sulle Dolomiti, Freud passeggia in compagnia di due
amici per una contrada in piena fioritura. Uno dei due amici è Lou
Andreas-Salomé, l’altro un poeta “già famoso nonostante la sua giovane età”,
Rainer Maria Rilke. La bellezza della natura, anziché rallegrare l’animo del
poeta, lo turba. Tutto quello splendore che non durerà più di una breve stagione
evoca nella sua mente quel destino di morte che accomuna tutto ciò che ha vita e
dunque anche tutto ciò che ammiriamo e amiamo. A incupire il suo animo è la
percezione della caducità, di quel nulla che minaccia e insidia il vivente, che
toglie valore a quanto ci appare prezioso, bello e perfetto, che fiacca ogni
sforzo teso alla costruzione e creazione, che vanifica ogni lavoro e progetto.
Invano Freud osserva che la transitorietà di una cosa non ne inficia la
bellezza, che, anzi, “la limitazione della possibilità di godimento ne aumenta
il pregio”: quelle che a lui paiono considerazioni “incontestabili” non
producono alcun effetto sui suoi due amici, non scuotono la malinconia
metafisica del poeta, una reazione alla frustrazione dell’“esigenza di eternità”
intrinseca al desiderio umano.
Come spiega Iiritano:
> “Ecco la lotta dell’angelo, che è in noi. Lotta impossibile per l’eterno che
> ci sfugge, che disperatamente non ci appartiene, e che pure non possiamo che
> necessariamente volere. Verità di un de-siderare che ci costituisce in quanto
> umani: mancanza delle stelle, da cui in qualche misterioso modo, pure sentiamo
> di provenire.”
La malinconia si configura dunque come una reazione affettiva al dolore per il
contrasto tra il desiderio umano di eternità e stabilità e le leggi della realtà
che lo frustrano. L’argomento di Freud, secondo cui “Se un fiore fiorisce una
sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida”, non convince
i suoi compagni.
Il lutto, per Freud, è un “grande enigma”: il padre della psicanalisi non
capisce perché causi tanta sofferenza e richieda tanto tempo per ripristinare la
capacità dell’Io di investire la libido, dato che si estingue “spontaneamente”.
Ancora più in radice, Freud si stupisce del dolore che proviamo per la caducità,
un dato di fatto di cui siamo da sempre consapevoli. Ancora più assurda del
lutto stesso è poi la malinconia che anticipa la perdita. Freud intuisce che è
il presentimento del dolore futuro a turbare i suoi amici:
> “Poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso –
> scrive – essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza
> perturbatrice del pensiero della caducità”.
In sintesi, era “la ribellione psichica contro il lutto” a svilire “il godimento
del bello” in loro: “L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera – conclude
lo psicologo – faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la
sua fine”.
Per Freud, invece, “il valore di caducità è un valore di rarità nel tempo”. Egli
rimprovera al poeta di non saper cogliere l’attimo e di non accettare la legge
della realtà, considerando la sua malinconia una reazione “malata”
all’inevitabile scorrere del tempo, così come inadeguata gli appare la risposta
dell’uomo religioso, anch’essa una “rivolta” contro questo dato di fatto. Di
fronte alla consapevolezza della “precipitare nella transitorietà di tutto ciò
che è bello e perfetto”, si possono avere due reazioni: “l’uno porta al doloroso
tedio universale” del poeta”, “l’altro alla rivolta contro il presunto dato di
fatto” del credente. Nonostante entrambi rifiutino il tempo e il divenire, essi,
infatti, lo fanno in modi diversi: il poeta passivamente, con un’accidia
paralizzante; il credente attivamente, con una fede che ritiene “insensato e
nefando” che le gioie e il mondo esterno “debbano veramente finire nel nulla”,
credendo che “in un modo o nell’altro devono riuscire a perdurare, sottraendosi
a ogni forza distruttiva”.
Contro questa rivolta – ci ricorda Iiritano alla fine del capitolo – Freud
invita a “sopportare la vita” virilmente senza rifugiarsi in illusioni che la
impoveriscono ed è a questo punto che poesia e fede, da una parte, e scienza,
dall’altra, divorziano. Non possono non divorziare, perché poesia e fede si
nutrono proprio di questa rivolta, dando credito a quelle che a Freud appaiono
solo illusioni.
Iiritano ricorda le parole di un altro autore da lui molto amato, Albert Camus:
> “Lo spirito rivoluzionario è tutto nella protesta dell’uomo contro la
> condizione d’uomo.
> In questo senso, sotto forme diverse, il solo tema eterno dell’arte e della
> religione.”
È questa rivolta che Iiritano definisce la lotta dell’angelo in noi. Ed è su
questa lotta che poggia la fede alla quale Iiritano, a mio parere, cerca di
rendere attenti i lettori, utilizzando, come osserva Sergio Givone nel dialogo
che intesse con lui nel volume, due linguaggi complementari, ovvero le parole
della fede e della poesia.
Le parole della fede per rintracciare quelli che definisce i “presupposti
teologici della storia”, attingendo a pensatori come Gioacchino da Fiore,
Benjamin e Bloch.
Le parole della poesia, invece, per scavare nei recessi dell’anima, riportando
alla luce ciò che è riposto nel segreto del nostro intimo, ciò che
silenziosamente aneliamo e speriamo.
Nella prospettiva appena sopra delineata, chiude il volume un capitolo: Ossi di
seppia. Scenari apocalittici per il nostro tempo, in cui Iiritano medita i
celebri versi di Eugenio Montale Forse un mattino andando in un’aria di vetro.
Li ricordo per chi non li avesse presenti:
> “Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
> arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
> il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
> di me, con un terrore di ubriaco.
> Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
> alberi case colli per l’inganno consueto.
> Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
> tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”
Questi versi, notissimi, aprono nell’interpretazione proposta da Iiritano a
“scenari apocalittici per il nostro tempo”. Vediamo come questo sia da
intendere.
Avevo dato una interpretazione più semplice a questi noti versi montaliani che
tanto mi colpirono quando ad essi mi accostai per la prima volta. Per me
parlavano della rivelazione improvvisa dell’impermanenza, della morte, del
niente. Una simile rivelazione isola, rende estranei agli altri, che vogliono
continuare a vivere in superficie, che sono alla spasmodica ricerca di evasione
e non vogliono neppure sentire parlare di queste cose. Una simile rivelazione
rende quindi eterogenei all’umano generale, per cui da quel momento in poi ogni
comunicazione o finisce o si risolve in un fraintendimento. Meglio allora, come
scrive Montale, andare “zitto” tra gli uomini che non si voltano, chiuso nel
proprio “segreto”.
Leggendo queste parole, come non pensare all’amarezza di Leopardi nelle Operette
morali, alla solitudine del poeta dei Diapsalmata kierkegaardiani? All’esteta
riflesso e al suo contrapporsi all’uomo immediato?
Non bisogna voltarsi indietro, avverte chi continua a camminare guardando sempre
avanti, senza mai fermarsi a pensare. Spontaneo è l’accostamento a Orfeo, che si
volge indietro e così perde per sempre Euridice, e alla moglie di Lot che rimane
pietrificata. La visio del niente pietrifica.
Nella mia interpretazione non avevo fatto caso che Montale definisce la
rivelazione del nulla “miracolo”.
Penso quindi che l’ultimo capitolo del libro di Iiritano in cui si lascia
intendere che la rivelazione del nulla potrebbe avere carattere religioso,
potrebbe, cioè, renderci attenti alla fede e aprirci alla speranza di un
compimento della storia, all’attesa che essa abbia non solo fine, ma una
direzione e un fine, mi sembra un’interpretazione più profonda e complessa di
quella che avevo dato quando per la prima volta avevo letto Ossi di seppia.
Parlando della canzone Finirà di un gruppo musicale, I cani, canzone che recita:
> “Con un’apocalisse
> Come stelle e galassie
> O in punta di piedi
> Come l’umanità e la terra
> Il sistema planetario
> Saturno contro Urano
> Plutone è troppo piccolo
> E non ce la fa più
> È stanco di lottare
> Di questo mondo cane
> Ma non ti preoccupare
> Tanto finirà la guerra
> L’orrore, il sacrificio
> Il sangue, il genocidio
> Finiranno presto
> Come il sale, il dentifricio
> Come l’acqua, il cioccolato
> La benzina nell’auto
> Il petrolio sotto terra
> In Arabia Saudita
> Nelle viscere del cosmo
> Si leverà un silenzio”
Commentando le parole della canzone, Iiritano così scrive:
> “Scenari catastrofici appunto, mai “apocalittici”: poiché nel loro dispiegarsi
> non vi è traccia alcuna di senso e direzione ultima, di verità che si disvela
> (apò-kalupto). Ciò che manca è, appunto, proprio la speranza. Sarà allora
> proprio il tragico realizzarsi, dinanzi ai nostri occhi, di quegli scenari fin
> qui solo virtualmente immaginati, a rompere questo guscio e ridestare in noi
> quella Speranza più audace? Potremo di nuovo temere e sperare, come un tempo
> dinanzi a tali catastrofi, che la fine possa rivelarsi paradossalmente anche
> un “fine”?
Desiderio, esigenza di eternità, protesta, rivolta, e infine speranza di un
compimento della storia, sono per Iiritano i segnavia che conducono alla fede e
la sostanziano. In tal senso, mi pare particolarmente opportuna la citazione –
tratta da Ernst Bloch, Marx, la morte e l’apocalisse (in Religione ed eredità) –
che recita:
> “La nostra futura beatitudine, l’esistenza del regno dei cieli, la chiara
> realizzazione del sogno dell’anima a cui corrisponde la sfera di una realtà
> comunque determinata, non sono solo pensabili, cioè formalmente possibili, ma
> assolutamente necessari, al di là di ogni giustificazione, prova, consenso e
> premessa formale o reale della loro esistenza. Essi sono postulati dalla
> natura dell’oggetto apriori e dunque anche dall’intensa tendenza utopica di
> una realtà essenziale e stabilita esattamente”.
Vorrei però concludere questa recensione con una riflessione sul rapporto tra
filosofia e poesia, filosofia e fede, ovvero sulla prospettiva filosofica che
sta alla base del volume di Iiritano, tornando brevemente al caso Rilke.
Freud, come abbiamo visto, in Caducità parla di un’“esigenza di eternità”, che
sostanzierebbe non solo il desiderio del poeta, ma anche quello del credente e,
più in generale, di ogni uomo. Ebbene, questa esigenza del nostro desiderio,
secondo il fondatore della psicanalisi, è in stridente contrasto con la nostra
esperienza – per la quale la caducità è un’innegabile evidenza.
Iiritano ci ricorda nel suo libro questa considerazione di Freud:
> “Ma questa esigenza di eternità è troppo chiaramente un risultato del nostro
> desiderio per poter pretendere a un valore di realtà: ciò che è doloroso può
> pur essere vero”.
Freud non riconosce dunque alcun valore di verità a quel desiderio, che, pure,
non esita a definire nostro, cioè appartenente non solo al poeta, ma a ogni
uomo. A negarlo, a confutarlo, è quell’evidenza dei sensi e della ragione che
per lo scienziato rappresenta l’unico criterio del vero. La tristezza del poeta
Rilke, la sua malinconia, nasce dunque, si ribadisce, dalla frustrazione,
conseguente all’esame di realtà, della sua e nostra esigenza di eternità.
Dell’eternità, di questo oggetto del nostro desiderio, ci parlano infatti i
magnifici versi di numerosi poeti, non solo Rilke.
All’eternità, o meglio all’immortalità, aspira il poeta ateo Vladimir
Majakowskij, che non la chiede a Dio, ma alla scienza, al compagno chimico
dall’ampia fronte, a cui indirizza la sua richiesta di resurrezione:
“Resuscitami.
Almeno perché,
da poeta,
ti ho atteso,
rifiutando le balle d’ogni giorno.
Risuscitami,
almeno per questo!
Risuscitami:
voglio finire di vivere il mio”.
Oppure alla fama, alla gloria, come nei bei versi in memoria di Lenin, in cui si
dice dello statista deceduto:
“E la morte non oserà toccarlo:
Egli sta nel bilancio del futuro!.
I giovani ascoltano le strofe sulla morte,
e col cuore intendono: immortalità”.
E questa salvezza dal tempo, dalla morte, dall’oblio famelico che tutto
inghiotte egli non la vuole solo per sé, ma per l’intera umanità:
“Lascia. Non occorrono né parole, né preghiere
Che senso ha se tu solo ti salvi?!
Voglio salvezza per tutta la terra priva d’amore,
per tutta la folla umana del mondo”.
Di eternità ci parlano sommessamente le Elegie duinesi. Rilke parte sempre
dall’esperienza della caducità. Nel suo libro Iiritano ricorda i notissimi
versi:
> “Ma per noi sentire è svanire
> noi ci esaliamo, sfumiamo… sul volto la
> sembianza sorge e spare senza posa. Come
> rugiada dall’erba novella quel che è nostro
> svapora da noi,
> come il calore da vivanda calda.”
Ma si badi bene, l’esperienza del trapassare e dello svanire, nelle Elegie
duinesi, a differenza che in Caducità, sembra essere non più sofferta, bensì
accettata dal poeta. Composte tra il 1912 e il 1922, le Elegie
duinesi accompagnano infatti un decennio di profonda crisi del Rilke poeta, al
cui interno si consuma un mutamento, una “svolta”, una conversione dello sguardo
attraverso cui la poesia da lamento per l’inconsistenza delle cose diviene
canto, accettazione gioiosa e persino celebrazione del loro trascorrere,
passare, fluire.
Eppure, anche il Rilke posteriore alla svolta, si spinge oltre tale accettazione
e celebrazione del divenire, con lo slancio del cuore, nel momento in cui parla
degli amanti. Il loro amore, destinato a rimanere incompiuto nel tempo, può
trovare il suo compimento solo altrove, nell’eternità.
Leggiamo:
> “Angelo: ma ci sarà una piazza, che noi non conosciamo dove, su un tappeto
> indicibile, gli innamorati
> che qui non arrivano mai all’adempimento,
> potranno mostrare le alte, ardite figure
> dello slancio del cuore, le loro torri di gioia
> le scale che da tanto, dove sempre mancava terreno, s’appoggiavano soltanto
> l’una all’altra, tremanti. Oh, poterlo,
> dinanzi a innumerevoli taciti morti spettatori d’intorno: le getterebbero
> allora, le loro ultime monete, sempre risparmiate,
> sempre nascoste, che noi non conosciamo,
> le monete sempre valide della felicità, alla coppia
> che sorride finalmente davvero, su tappeto placato?”
>
> (V, 94-106)
Questo slancio del cuore, questa speranza del compimento, come si accennava, è
il principio su cui il pensiero religioso edifica la propria filosofia. Non a
caso uso il termine “filosofia”. È qui che la via si biforca. O seguiamo una
filosofia che è sostanzialmente sapere scientifico, ragione raziocinante, oppure
una filosofia che, riconosciuti i limiti di questo sapere, si spinge oltre e
intrattiene con la poesia e con la fede un “colloquio pensante”. In questo
secondo caso “Poesia, filosofia e fede si incontrano nello stesso luogo, si
danno convegno nella stessa stellare agorà”, sostanziandosi di una parola di
soglia, chiaroscurale, impregnata d’ombra, abitando il luogo fuori luogo. Questo
colloquio pensante è fatto di attraversamenti, transiti, sconfinamenti,
eccedenze, contaminazione dei saperi (Si veda, a questo riguardo, la riflessione
di Roberto Celada Ballanti sul rapporto tra filosofia e letteratura nel
volume Poetiche all’ombra del nichilismo. Montale, Mann, Borges, Brescia,
Morcelliana, 2023).
L’immagine più bella del filosofo che intrattiene questo dialogo stellare,
ritratto in cui scorgo la fisonomia del volto speculativo di Massimo Iiritano,
ci è offerta da Ludwig Wittgenstein in Pensieri diversi:
> “Il pensatore religioso onesto è come un funambolo. Si direbbe che cammini
> quasi soltanto sull’aria. Il suo terreno è il più stretto che si possa
> immaginare. Eppure rimane possibile camminarvi sopra davvero”.
>
> (L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980)
Isabella Adinolfi
*In copertina: Eugène Delacroix, Giacobbe lotta con l’angelo, studio, 1850 ca.
L'articolo “La lotta dell’angelo che è in noi”. Inquietudini religiose del
nostro tempo, tra Rilke e i Baustelle proviene da Pangea.
Caro Marco Maraldi,
le scrivo col cuore in mano per ringraziarla della parola di cui si è fatto
carico, parola nuova che ha avuto animo di scrivere, quasi pronunciare, e che
dilaga a fiotti, incessantemente, dalle pagine del suo libro Assalti (Fallone
Editore, 2025).
> “senza scendere non troverai nel temporale
> delle ustioni un’impronta solo tua”
>
> Tutto è morto
> qui – le galassie
> hanno preso anche la neve.
> Tutto è morto
> e insepolto tutto è
> morto perché non fa
> silenzio,
> qualcosa ancora tace.
> Sulle reni scucite il vestito
> batte piano
> il calendario di un’ascesa infinita.
> Non hanno trovato impronte
> nell’inverno della cenere.
Parola escatologica, cercata lontano, dopo la fine. Prima della parola sfinita,
appena un attimo prima della sua manifestazione ultima, insomma all’origine e
prima… diciamo prima di Hopkins, prima di Ungaretti, prima di Péguy, prima di
Rebora, prima di Eliot, prima di Turoldo, prima di Testori, prima di Luzi.
> “Baciami che io… ti segno dammi il pane… del collo, i milligrammi del respiro…
> la sostanza… non sono vergine… sono grande e ho una potenza che gli altri… non
> mi credono… ti voglio mostrare… baciami che io… ti segno che ti marchio a…
> febbre… non lo nascondere così… ti riconosco ci sarà… tempo… ci sarà un segno
> per ammazzarci nella polvere”.
Più che una preghiera è una confessione, o quello che resta, imploso nel
sentimento di verità raggiunto. Sentire come evento, come fulmine, o saetta che
avverte l’effetto impareggiabile del mistero. Arrivo perfetto e imprevisto,
temuto. Luce che sbianca nella luce altra e incandescente del dire. “[…]
custodisci il fiore dell’origine […]” (pag. 48). Spirito di ferro fuso, o rosa
pura scossa dal vento, sul ciglio di una voragine. L’impeto dell’essere,
investiti da questo, del sentirsi destinati a questo. Ogni fulminazione sembra
l’ultima e invece rappresenta un avvento, in quanto parola che si sta
significando nell’attimo stesso del dire, dello stare sul limite e toccarlo: Dio
è frantumato, invocato, attraversato, abbracciato, scandito, immaginato.
Nella prospettiva del mondo attuale “che risponde al progressivo cancellarsi di
Dio come Unico oggetto d’amore” (Michel de Certeau). Perciò esporsi significa
testimoniare (malgrado tutto!), raggiungere uno sconfinamento, affinché il
vissuto possa vivere negli altri, non gli ipocriti lettori (sebbene fratelli),
ma voce rivolta a buone volontà incarnate nel sapere, o della visione alimentata
dal sapere; spalancate, comunque, sul petto di Dio battente al suolo: voce
offerta con slancio.
> “Sei solo un’eco della divinazione. Non essere riconsegnato alla volgarità di
> avere un nome. Nessuno in te all’infuori di me – i fiori della grazia sono
> brace in bocca. Hanno cieli negli occhi e chiodo notturno. Tu rinasci
> nel senzanome. Dormi adesso, dormi – le parole sono piene di punte”.
Risuonano l’argento e l’azzurro dei Salmi (l’argento che riflette e l’azzurro
che assorbe il lampo della luce perenne). Che forza! Riecheggia tutto in sillabe
di sonagli che scoprono un canto scavato, scoperto laggiù, nel tempo (il prima
che dicevo, il prima che indica una radice mistica), e ora raggiunto. Poesia che
nasce per essere Lui, non come Lui. Insomma chiedere l’impossibile, perché è Lui
che fa.
> “C’è una lingua che non vuol parlare,
> infatti vuole solo accadere”.
Questi i due versi in esergo. Poi, a stringere i tempi, o l’intero spazio
poetico, che ha ansia di anticipare, ecco che si annuncia il riconsegnato.
All’elenco delle parole redatte dal profondo prefatore del libro, Lorenzo
Chiuchiù, e cioè esilio, rivolta, sacrificio, verginità, aggiungo un’altra
parola-chiave: riconsegna. Chi è il riconsegnato? Etimologicamente: ri è il
prefisso che restituisce e ripete il segno che sigilla, e l’azione del donare.
La riconsegna è all’amore, e la parola è un’offerta. Adesso c’è un nuovo
pensiero da fermare sulla carta, che equivale a un’immersione. Non è poesia
comune, sta piantata nel cuore, ed è strumento di ricerca e di strazio. Che sia
desiderio?, che si voglia dar fibra, adoperandosi così a un desiderio
d’infinito? Giacché c’è un grido dopo ogni segno d’interpunzione, come a dire:
finché ho fiato io ti cerco, io ti nomino. Il suo bussare batte e ribatte alla
porta senza tregua, per conoscere, ecco il perché, l’esigenza, della parola, del
discorso poetico.
Discorso impervio, eppure proprio da qui viene la spinta a capire, a cercare
d’interpretare una forma che pur nel suo espressionismo appare calibrata ad
alzare arcate su arcate architettoniche di pietre e fango, capaci di stare
contro il cielo, in rigoroso e innamorato disegno. Confesso: di fronte a questo,
io avverto la mia povertà, la mia miseria, ho paura di violare tutta questa
bellezza, tutta questa grazia!
> “Stelle del digiuno latte
> del firmamento, c’è
> l’ignoto a penetrare l’universo
> della fronte, quando anche il pane della terra riceve la sostanza
>
> sei solo e questa sete è già un miracolo. Sei nato riconsegnato, ed ecco: un
> non-pensiero si annida lì, colpevole nel sangue ascetico. Sei nato
> riconsegnato: con le sillabe in lotta e una lama che divora. Non hai chiuso
> gli occhi, poi ti abbiamo medicato le mani, ferite d’inchiostro… non ci hai
> avvertito (– bevi: questo è il destino; – bevi: è vino che ustiona; – benedici
> il flagello: questa è la carezza”.
P. S. Il nascere, ovvero: l’uomo e la parola si rinnovano. Ce n’è bisogno, ché
senza la poesia ogni cosa è spenta, ogni cosa è inutile. Alla riconsegna si lega
il tema dell’evento, va sottolineato. Sempre citando de Certeau, si può dire che
“il libro preserva un segreto che non possiede”. Il che è il massimo della
relazione. Splendido!
Vincenzo Gambardella
*In copertina: Giorgio Morandi, Vasi su un tavolo, 1931
L'articolo “Custodisci il fiore dell’origine”. Lettera di Vincenzo Gambardella a
Marco Maraldi proviene da Pangea.
Il lutto confonde, agita, scuote. La fine di tutto genera inevitabilmente un
nuovo inizio, almeno per chi resta. Paradossalmente, il lutto crea sempre vita
nuova.
> “Non ho potuto e in piedi
> sono rimasta. Difficile
> è cadere”.
Ci sono opere che trovano un posto nel panorama letterario non appena vengono
concepite, altre invece devono aspettare decenni. Ogni libro ha il suo tempo.
Quello di Ancestrale è stato lungo: composto nel 1953 da Goliarda Sapienza,
all’epoca trentenne, vide la luce soltanto dopo più di mezzo secolo, nel 2013,
grazie alla cura di Angelo Pellegrino per La vita felice. Nel 2025 Einaudi lo
ripropone in un’edizione più aggiornata ed estesa, arricchita con nuovi apparati
critici – sempre a cura di Pellegrino, con Postfazione di Maria Grazia
Calandrone.
Si tratta “dell’atto di nascita dell’esistenza letteraria” della scrittrice
siciliana. La sua prima raccolta poetica, primo grido della sua anima, febbrile
e forte germoglio della sua voce nel mondo. Un atto fondativo, laboratorio di
immagini e ossessioni che annuncia la sua futura scrittura, e che esploderà poi
nell’Arte della gioia.
Quest’opera, pur meritando attenzione fin dagli anni Cinquanta, ricevette
opinioni contrastanti dalla critica. Inizialmente annegata dall’indifferenza e
dal rigetto di alcuni, come Mario Alicata e Cesare Garboli, venne in seguito
apprezzata da altri come Anna Banti e Roberto Longhi. Goliarda aveva ben
compreso che la disapprovazione di Alicata – detentore dell’egemonia culturale
del partito – significava l’esclusione da case editrici, riviste e giornali e da
tutto un ambiente di sinistra di cui faceva parte, se non altro per origine
familiare, anche se, già a quel tempo, con posizioni fortemente critiche. I
tentativi editoriali dunque cessarono in fretta, com’era tipico per la
scrittrice, la quale, stanca di lanciarsi all’inseguimento degli editori,
cominciava un nuovo lavoro.
Nell’Introduzione al volume di Einaudi, Angelo Pellegrino racconta di come
Goliarda avrebbe potuto, a quel tempo, farsi fare una plaquette per far
circolare il testo tra amici e conoscenti, e invece non lo fece: “il suo pudore
non poteva superare certi scogli. E questa raccolta era tutto il suo
pudore”. L’intera raccolta rimase nascosta, e le poesie diventarono così una
forma di comunicazione destinata a rivelarsi soltanto agli amici. A lui,
infatti, le offrì come un segreto, da custodire nell’intimità. E lo erano: erano
il segreto del suo lutto, quello primario, quello che annienta e distrugge,
apparentemente tutto, per portare alla luce qualcosa di nuovo. Gli inizi
letterari di Goliarda Sapienza presero le prime forme dall’esigenza di
esprimersi dopo la morte della madre.
Voleva fare l’attrice; non la scrittrice. Ma, si sa, le emozioni più forti
cedono il passo all’inconfessabile, e spesso è il trauma della perdita a
spalancare le porte dell’arte, a far fiorire ciò che resta inespresso quando le
ossa si spezzano. La madre di Goliarda, Maria Giudice, morì nel freddo e corto
mese di febbraio del ’53. Fu accudita dalla figlia, che rinunciò a molte tournée
teatrali per starle vicino, e che quando scoprì che alla donna, gravemente
diabetica, non rimanevano più di sei mesi di vita, le aprì un conto nella
pasticceria più vicina. Questo il loro rapporto.
> “Mi muore il giorno
> e il gesto s’è perduto
> fra il fumo e il lampadario
> Un segno nero
> già traccia intorno a me
> cupo abbandono”
Ancestrale si compone di una natura così intima che fa quasi paura. Durò un
decennio l’elaborazione di questo grave lutto, al quale si aggiunsero nuove
perdite, altre mancanze. L’abbandono di molte idee e speranze trasmesse dai
genitori, il distacco dalla Sicilia, l’impossibilità di fare teatro o di
recitare nel cinema, e la crisi del suo rapporto affettivo, nata
dall’incomprensione, dalla percezione di non essere vista. Si tratta di una
delle raccolte poetiche più personali che si possano leggere, un viaggio
all’interno delle emozioni, che prendono contatto con ogni parte dell’autrice,
svelandone drammi, sofferenze, contraddizioni, desideri e bugie.
Questa silloge diventa una storia, una fiaba dove si racconta che i morti e i
vivi danzano in cerchio, dove la luna mente, e si ha paura di ricordare. In
questo “fare disfare ancora rifare”, “[…] un lutto stretto/ avvolge i tetti del
mare”, scava tra i tendini, come un verme, si nutre del sangue nelle vene e
raggela i sentimenti. Il dolore annulla ogni certezza, tutto ciò che resta è la
consapevolezza di soffrire, di vedere l’irrefrenabile sgretolarsi della vita
attorno a noi: “Non c’è niente che possa rallentare / questo certo dissolversi
di medusa/ aggrappata alla sabbia/ lontana dal mare”.
“Verrà a me e non può mancare”: scrivere poesia è esigenza, non si arresta.
Goliarda Sapienza lo fa con un linguaggio essenziale, puro e a tratti crudo.
Sono versi spogli, privi di aggettivi, senza fronzoli, che prediligono i verbi
all’infinito:
> “Separare congiungere
> spargere all’aria
> racchiudere nel pugno
> trattenere
> fra le labbra il sapore
> dividere
> i secondi dai minuti
> discernere nel cadere
> della sera
> questa sera da ieri
> da domani”.
Una scrittura primordiale, nascente, che arriva nel punto più profondo: è questo
che impone il lutto, il dolore – il niente. Non chiede altro, le priorità si
ristabiliscono, tutto ciò che prima era necessario pare superfluo, il sole e le
stelle si spengono, e ci si sente vuoti. È una scrittura ridotta all’osso,
quella di Sapienza, e allo stesso tempo è precisa come un bisturi – emozionale,
magmatica, sembra seguire i battiti del cuore.
> “È compiuto. È concluso. È terminato.
> È consumato l’incendio. S’è fermato.
> S’è chiuso il cerchio pietrificato.
> Il tempo s’è fermato. È consumato
> il delitto. S’è bruciato
> il ricordo. L’ansia è cessata.
> Una coltre di lava ha sigillato
> ogni cranio ogni orbita svuotata.
>
> S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare
> il silenzio di lava. Le formiche
> girano intorno al rogo spento impazzite”.
Sono versi taglienti, ricchi di sangue, immagini contraddittorie, alimentati dal
paradosso. Perché è paradossale vivere un sentimento che non si riesce a
esprimere (“[…] Non sapevo il dolore d’esser muta/ il dolore di piangere e
gridare/ senza voce/ contro un muro danzante di sorrisi”), per cui non si
trovano parole (“Ascolta non c’è parola per questo/ non c’è parola per
seppellire una voce/già fredda nel suo sudario/ di raso e gelsomino”). È
paradossale continuare a cercare chi non può più rispondere – chi non riesce a
sentire, chi è troppo lontano: “Vedi non ho parole eppure resto/ a te accanto.
Non ho voce eppure/ muovo le labbra. Non ho fiato eppure/ vivo e ti guardo. E
forse è questo/ che volevo da te, muta restare/ al tuo fianco ascoltando la tua
voce/ il tuo passo scandire le mie ore”. Restare fedeli a un recinto sacro,
eppure vuoto.
L’intimità di questa raccolta è disarmante: un continuo dialogo tra un “io” e un
“tu” inconciliabili, eppure indistinguibili, per questo indivisibili. La prima
persona singolare contraddistingue la maggior parte dei componimenti, e in molti
di essi è proprio presente in funzione di quel “tu”. È questo che accade quando
il dolore arriva senza bussare: la nostra vita ci pare impossibile da
affrontare. Così l’assenza diviene viva presenza, il vuoto è insostenibile:
strenuamente, con le unghie e con i denti lottiamo per riempirlo con la
nostalgia per qualcosa che non c’è più, abbandonandoci totalmente all’altro – a
chi non ci può più guidare, sostenere, accarezzare.
> “Vorrei all’ombra del tuo
> sguardo
> sostare e con la
> mano disegnare
> la tua voce
> che cala verso
> me a raccontare.
>
> Vorrei al ritmo
> del verso
> abbandonarmi ma
> il tempo stringe
> e devo correre
> ancora”.
Quando perdiamo un amore – una madre, un padre, un compagno, un cane – perdiamo
una parte di noi, per sempre. Bisogna ricostruire: si sente, in sottofondo, una
grande consapevolezza di sé nei versi di Sapienza. Del proprio corpo, delle
proprie contraddizioni, dei propri sentimenti. Della nuova direzione che occorre
prendere, anche se ancora non la si conosce: “Ho camminato sul ciglio/ dei miei
sogni. Sbattuta/ dall’onda nera delle tue occhiaie./ Risucchiata/ dal gorgo del
tuo fiato/ Non posso tornare”.
Il titolo di questa raccolta è la chiave della sua intera lettura, secondo
Pellegrino. Inizialmente doveva essere Informazione biologica, poi I luoghi
ancestrali della memoria. Certo, è evidente la volontà, per Goliarda, di un
ritorno all’ancestralità attraverso le proprie origini come i genitori e la
terra, ma anche la necessità di costruire un nuovo mondo a partire da queste
origini. Un mondo solo suo, composto in dieci anni, con sofferenza, memoria,
distacco e sentimento.
C’è tanto mare, in questo mondo. Ci sono alghe, meduse, ci sono gli scogli, il
sole e la luna. C’è la Sicilia, quella terra per lei madre: alla fine del libro
è presente una raccolta intitolata Siciliane – pubblicata per la prima volta da
Il Girasole edizioni nel 2012 –, in cui troviamo poesie composte soltanto nel
dialetto isolano. Sono, a coronare il tutto, l’espressione di un’anima pura,
libera dai pregiudizi, sola nel suo vibrante coraggio. Con Ancestrale, Goliarda
Sapienza non recita solo un dolore, ma fonda una voce che ancora oggi non smette
di bruciare.
> “E va beni. Facemu cuntu
> ca’ un ni canuscemu.
> Comu si’ un avissimu jucatu
> nsemmula nna rina.
> Eppuru lu sai ca m’aiutasti
> a scavari na fossa
> finu a quannu tuccammu
> l’acqua nnu funnu.
> L’acqua du mari”.
Anna Taravella
***
A mia madre
Quando tornerò
sarà notte fonda
Quando tornerò
saranno mute le cose
Nessuno m’aspetterà
in quel letto di terra
Nessuno m’accoglierà
in quel silenzio di terra
Nessuno mi consolerà
per tutte le parti già morte
che porto in me
con rassegnata impotenza
Nessuno mi consolerà
per quegli attimi perduti
per quei suoni scordati
che da tempo
viaggiano al mio fianco e fanno denso
il respiro, melmosa la lingua
Quando verrò
solo una fessura
basterà a contenermi e nessuna mano
spianerà la terra
sotto le guance gelide e nessuna
mano si opporrà alla fretta
della vanga al suo ritmo indifferente
per quella fine estranea, ripugnante
Potessi in quella notte
vuota posare la mia fronte
sul tuo seno grande di sempre
Potessi rivestirmi
del tuo braccio e tenendo
nelle mani il tuo polso affilato
da pensieri acuminati
da terrori taglienti
potessi in quella notte
risentire
il mio corpo lungo il tuo possente
materno
spossato da parti tremendi
schiantato da lunghi congiungimenti
Ma troppo tarda
la mia notte e tu
non puoi aspettare oltre
E nessuno spianerà la terra
sotto il mio fianco
nessuno si opporrà alla fretta
che prende gli uomini
davanti a una bara.
Goliarda Sapienza
L'articolo “Tutto il suo pudore”. Cedere all’inconfessabile: la poesia di
Goliarda Sapienza proviene da Pangea.
Filologia spettrale. Qualche mese fa mi è capitato di imbattermi nel fantasma di
Ennio Flaiano in una pagina di Philip Roth, e volli scriverne un breve articolo
su questo stesso sito. Da allora – ma in realtà da parecchio tempo – nei momenti
di svago mi intestardisco a cercare delle tracce del sovrannaturale nei libri
che più amo.
C’è una pagina di Roberto Bolaño in cui si accenna agli “inferni che si
nascondono sotto le putride o immacolate pagine della letteratura”, e io credo
di essere in cerca proprio di questi candidi o spaventosi inferni, di questi
buchi neri. Tuttavia occorre muoversi con circospezione, stando attenti a non
scambiare la nostra brama di un altrove per qualcosa di fattuale. D’altronde,
come scriveva Claudio Magris in Danubio, “un vero critico letterario è un
detective, e forse il fascino di questa opinabile attività non consiste nelle
interpretazioni sofisticate, bensì nel fiuto da segugio che conduce a un
cassetto, a una biblioteca, al segreto di una vita”. Penso che ciò che vale per
il critico valga anche per il lettore comune. Questo articolo è dunque un
collage di citazioni che intende portare il lettore-detective sulle tracce di un
autentico fantasma.
Torniamo a Bolaño. È risaputo che amasse definirsi più un poeta che un
romanziere, e infatti uno dei suoi libri a cui teneva di più è L’università
sconosciuta, che comprende gran parte del suo travaglio poetico. Si tratta di un
libro postumo ma compiuto, che Bolaño sperava di pubblicare in futuro, se vi
fosse riuscito. Vi sono incluse anche le due raccolte poetiche che pubblicò in
vita, I cani romantici e Tre. Uscì in Spagna nel 2007, con Editorial Anagrama.
Nel 2020 arriva invece l’edizione italiana, pubblicata da Sur. Ci sarebbe molto
da dire sulla poesia di Bolaño, ma voglio che il pezzo sia breve e quindi
passerò subito a ciò che mi sta più a cuore – al fantasma, al sovrannaturale.
Vi prego di seguirmi con attenzione. Una delle sezioni del libro di Bolaño si
intitola La mia vita nei tubi di sopravvivenza, e si apre con due versi di W. H.
Auden: “Follow poet, follow right/ To the bottom of the night.” La versione
italiana, come il libro in spagnolo, lascia il distico in originale. In Italia
Auden è pubblicato da Adelphi, e al momento la sola maniera di procurarsi la
maggior parte delle sue poesie è comprare il volume delle Opere scelte nella
collana La Nave Argo, che è piuttosto costoso; nelle nostre librerie manca
un’edizione economica delle poesie di Auden. Spero che prima o poi Adelphi
provveda, come ha fatto recentemente con Autobiografia, di Thomas Bernhard,
pubblicata nel 2011 ne La Nave Argo e poi – l’anno scorso, a un prezzo più
accessibile – nella collana Gli Adelphi.
Io in ogni caso ho deciso di investire nel volume delle poesie di Auden, e
naturalmente appena l’ho avuto fra le mani ho cercato i versi citati da Bolaño
ne L’università sconosciuta. Provengono da un poema diviso in tre parti e
dedicato a Yeats, In memoria di W. B. Yeats.
L’intera strofa fa così: “Follow poet, follow right/ To the bottom of the night,
/With your uncostraining voice/ Still persuade us to rejoice.” Massimo Bocchiola
e Ottavio Fatica traducono:
> “Tu poeta, tu sprofonda,
> Nella notte più profonda,
> Con la voce tua suadente,
> Dacci gioia immantinente.”
In un libriccino sulla traduzione, Lost in translation, proprio Ottavo Fatica
scrive che “la traduzione di una poesia è una poesia che ha in un’altra poesia
la sua ragione d’essere”, perciò – pur apprezzando la versione italiana – direi
di tornare all’originale.
“Follow poet, follow right/ To the bottom of the night.” Così si apre dunque la
sezione La mia vita nei tubi di sopravvivenza, di Roberto Bolaño,
ne L’università sconosciuta. Mi si dirà: e allora? Dov’è il fantasma che ci hai
promesso?
Bene, nell’edizione Adelphi delle poesie di Auden questi versi sono a pagina
266, proprio sopra al numero della pagina. Accludo la fotografia. Mi sembra
molto più di una coincidenza, perché come tutti sanno 2666 è il grande libro
postumo di Bolaño e proprio a pagina 266 sono posti i versi che lo stesso Bolaño
ha lasciato in epigrafe a La mia vita nei tubi di sopravvivenza. Perciò il
fantasma sarebbe Bolaño? Ma cosa ci fa nell’edizione italiana delle poesie di
Auden? No, possiamo scavare più a fondo.
Mi è venuta in mente un’altra presenza spettrale del catalogo di Adelphi, Guido
Ceronetti. Anche i suoi libri sono disseminati di fantasmi, soprattutto quando
cita o traduce. Così mi sono rivolto a Tra pensieri, uno smilzo volumetto che
comprende tutti i pensieri e le citazioni che andava pubblicando su La Stampa
nei primi anni Novanta. La citazione numero 266 (ancora, e i numeri significano
sempre qualcosa per i morti) è una domanda in latino: “Usque adeone mori miserum
est?” Si tratta della risposta che un ufficiale del Pretorio diede a Nerone.
Ceronetti la trovò in Vita di dodici Cesari, di Svetonio. La traduce così: “È
poi tanto terribile morire?”
È poi tanto terribile la morte? La domanda può far accapponare la pelle, se a
porcela è un fantasma. Ma di quale fantasma si tratta? La volta scorsa trovavo
una traccia di Flaiano in un romanzo di Philip Roth: possibile che anche ora lo
stesso Flaiano…? Dopotutto Ceronetti era un suo grande amico, e Bolaño ha
scritto e detto cose che probabilmente lui avrebbe apprezzato, come questa
affermazione, a pochi mesi dalla morte:
> “Il mondo è vivo e niente di quel che è vivo si salverà e questa è la nostra
> fortuna.”
Forse mi sbaglio. Forse collegare il paragrafo 266 di Ceronetti alla pagina 266
di Auden e infine al romanzo 2666 di Bolaño è una forzatura. Forse voglio solo
salvare gli autori che amo e perciò mi ostino a seguire le loro tracce fra un
libro e l’altro.
Sono cresciuto a pochi passi dalla casa in cui visse Ennio Flaiano, nel
quartiere di Monte Sacro, a Roma, ed è probabile che la sua vicinanza mi
suggestioni. Tuttavia un buon lettore deve essere un segugio, come scriveva
Claudio Magris, e d’altra parte l’Humboldt di Saul Bellow, autore molto amato da
Flaiano, si accomiatava dai suoi amici con queste parole:
> “E da ultimo, ricorda: non siamo esseri naturali, siamo esseri
> sovrannaturali.”
Credo di essere d’accordo.
Edoardo Pisani
L'articolo “Siamo esseri sovrannaturali”. Ritrovare “2666” di Bolaño a pagina
266 del canzoniere di Auden proviene da Pangea.
È l’estate del 1922 quando un giovane artista, che diverrà un celebre storico,
Jacques Benoist-Méchin, si trova di fronte a uno dei più grandi scrittori della
letteratura francese: Marcel Proust. Dopo un breve scambio epistolare, i due si
incontrano all’Hôtel Ritz di Parigi, la seconda casa di Proust, nei suoi ultimi
anni.
Accompagnato dal Signor Olivier, celebre maître d’hotel e confidente personale
di Proust, il giovane Jacques giunge in una sala dove regnava un’oscurità simile
a quella di una grotta marina, appena illuminata da una piccola lampada con un
paralume di taffettà rosa. Disteso su un lettuccio, Proust indossava
uno smoking impeccabile, le gambe avvolte da una coperta, le mani rivestite da
guanti di cotone grigio. Benché rasate, le sue guance parevano essere state
sfiorate da un carboncino. “Un mago assiro dalle palpebre cascanti e dalla voce
sommessa”, così lo descrive Jacques. Ma, sopra a tutto, furono gli occhi dello
scrittore ad incantarlo “due occhi di velluto, scuri, profondi, penetranti (due
occhi proprio da nictalopo, come diceva Marthe Bibesco). Luminosi, vellutati,
splendenti intelligenza…”.
In quella sala del Ritz, tra Proust e Jacques vi fu un momento di profonda
condivisione, una di quelle rarissime occasioni della vita in cui “l’essenza di
ciò che si vuole trasmettere all’altro è situata ben al di là delle parole”.
Le pagine che Jacques Benoist-Méchin ci tramanda sul suo leggendario incontro
con Marcel Proust al Ritz contengono preziosi frammenti sui segreti dell’opera e
sulla sua vita interiore di Proust, sulla sua percezione della reincarnazione
delle anime, sulla contemplazione del mondo (in Italia: Jacques
Benoist-Méchin, Un incontro con Proust, Morcelliana, 2021).
Pochi mesi prima della morte (che lo coglierà alle cinque del pomeriggio del 18
novembre 1922), Proust guarda al mondo già “dall’altro lato”: è attraversato da
un’estasi onirica incontenibile, dove il tempo e la vita sono già ultraterreni.
Appare come un elegante moribondo che vaga per altre dimensioni. Ha parole da
mistico:
> “La mia Ricerca del tempo perduto è…una lunga esplorazione, un viaggio, non
> attraverso lo spazio, ma attraverso l’anima umana. Uno sforzo per accedere in
> quella regione dove tutto sarà comunicabile, dove noi potremo vedere non
> un altro mondo – non sono certo infatti che esista – ma questo mondo qui con
> gli occhi di un altro, di cento altri, di vedere i cento altri universi che
> ognuno è.”
Si tratta del viaggio esistenziale che Proust ha mirabilmente descritto
nella Prigioniera:
> “L’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza sarebbe non andare verso
> nuovi paesaggi, ma avere altri occhi.”
Occhi nuovi, dunque, per ricordare e trasformare il tempo perduto in tempo
ritrovato, non solo per sé, ma per tutti: questo era il sogno di Marcel Proust.
I suoi ambiziosi progetti sul destino della memoria dell’umanità e sulla
“comunione universale degli spiriti” lo conducono nondimeno a constatare
l’inevitabile fallimento di quell’eterna adorazione della vita con cui voleva
terminare la sua Recherche. Non dimentichiamo che Proust aveva esitato a lungo
sul titolo dell’ultimo volume della sua opera, che voleva nominare L’adorazione
perpetua. Poi, convinto che non sarebbe riuscito a raggiungere “il segreto della
verità e della bellezza”, si era rassegnato a titolarlo Il tempo ritrovato, con
la consapevolezza di dover rinunciare al più intimo desiderio del suo spirito.
Voler penetrare in quella regione privilegiata dove le anime comunicheranno tra
di loro e dove l’uomo sfuggirà alla categoria del tempo era un’impresa temeraria
e Proust deve constatare di non esserci riuscito. Forse, si chiede, solo la
musica può consentire la resurrezione della vita… Ancora una volta, Marcel
pensava alla “piccola frase” di Vinteuil. Ancora una volta, riviveva
quell’attimo di pura, estatica, felicità che anni prima essa aveva recato a
Swann:
> “Cominciava a rendersi conto di quanto ci fosse di doloroso, fors’anche di
> segretamente inappagato in fondo alla dolcezza di quella frase, ma non poteva
> soffrirne. Che importava se gli diceva che l’amore è fragile, il suo era così
> forte! Scherzava con la tristezza che ne fluiva, la sentiva passare su di sé,
> ma come una carezza che rendeva più profonda e più dolce la sensazione ch’egli
> aveva della propria felicità. La faceva suonare dieci, venti volte di seguito
> a Odette, esigendo che intanto non smettesse di baciarlo.”
Ora, nella Prigioniera (che doveva ancora uscire all’epoca), la piccola frase
ricompariva in forma più ricca e solenne: non si trattava più solo una sonata
per violino e pianoforte, ma addirittura di un settimino. Sempre presente
nell’animo di Proust, la piccola frase era ancora lì, come un arcobaleno di onde
colorate, come un delizioso e fragile gioco di prestigio da ascoltare immobili
per non correre il rischio di vederlo svanire.
Come Swann, quello che Proust chiedeva alla musica non era il piacere o la
gioia, ma l’essere ammesso all’eterno ed universale stato d’ascolto, in
quell’arcano luogo interiore in cui il suono, superata la parola, varca le porte
dell’Io ed esprime l’indicibile.
Gravemente malato da anni, chiuso nella sua camera, circondato dai suoi
manoscritti e dalla nebbia delle fumigazioni, Proust viveva immerso nella sua
musica interiore, al cui ritmo andava componendo quell’immensa sinfonia di
parole che è la Recherche.
Marilena Garis
L'articolo “Avere altri occhi”. Incontro con Marcel Proust, “un mago assiro”
proviene da Pangea.
Secondo la celebre battuta di Orson Welles, gli svizzeri, instupiditi da “amore
fraterno, democrazia e pace”, non hanno prodotto altro che “l’orologio a cucù” –
e, al limite, il cioccolato. Al contrario, l’Italia, rotta da “omicidio e
strage”, ha creato “Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento”. Se il
film in cui Welles interpreta l’enigmatico Harry Lime, Il terzo uomo (1949),
merita ancora di essere visto, la sentenza va del tutto rivista. Terra –
probabilmente – di sanguinari dell’interiorità, la Svizzera ha dato i natali a
scrittori d’eccezione come Robert Walser e Friedrich Dürrenmatt; sono svizzeri
poeti di talento come Maurice Chappaz – per altro, dotatissimo prosatore –
e Philippe Jaccottet; da tempo, l’italosvizzero Piero Scanziani è stato
rivalutato come uno dei più audaci scrittori degli ultimi decenni: lo dimostra
la pubblicazione, in pompa, dei suoi libri per Utopia. Non è un caso che Borges
e Nabokov siano morti in Svizzera: il primo a Ginevra, dove ha vissuto gli anni
dell’adolescenza, l’altro a Montreaux, suo estremo, aristocratico rifugio. Non è
un caso che l’ungherese Ágota Kristóf abbia scelto il francese di Neuchâtel per
forgiare la propria folgorante opera.
Di questo vasto consesso, fa parte – pur con acerrima eccentricità – Hermann
Burger. Nato a Menziken, nel Canton Argovia, di lingua tedesca, nel luglio del
1942, Burger è stato paragonato – per il nero nitore di cui sono intrisi i suoi
libri – a Thomas Bernhard; i suoi libri – in Italia sono usciti: Servo
d’orchestra, per Marcos y Marcos, nel 1996, poi, per L’Orma, L’illettore nel
2017 e Il mago e la morte qualche mese fa – piacciono a tutti, a Peter
Sloterdijk e a Marcel Reich-Ranicki, tra gli altri. Giornalista, insegnante di
letteratura tedesca, Burger si è laureato sull’opera di Paul Celan e ha vinto
diversi premi, tra cui l’Ingeborg Bachmann Preis; ha rielaborato nei suoi lavori
testi e intuizioni di Dostoevskij, Kafka e Thomas Mann; suonava il jazz.
Il libro più folle di Hermann Burger s’intitola Tractatus logico-suicidalis (ora
tradotto da Anna Ruchat, che ha in custodia l’opera intera di Burger, per
Portatori d’Acqua): l’autore, un genio nel trasformismo letterario, inventa
dottrine macabre (la “suicidologia” e la “totologia, la filosofia della totale
predominanza della morte sulla vita”, ad esempio), ci rimpinza di aforismi
spesso di afrodisiaca potenza (come questo: “Per tutta la vita Robert Walser si
è così ‘abbattuto’, come si usa dire continuamente per annientato, che alla fine
era troppo piccolo persino per annientare sé stesso”). L’effetto, in sostanza, è
quello di un horror picture showpittato da Roland Topor, di una carnevalesca
visita al museo delle torture: al terrore segue il sorriso, molato da alta
malizia. Burger chiama a raccolta tutti i fedelissimi della ‘via negativa’ – da
Kafka a Trakl, da Cioran a Celan – ma su tutto aleggia un clima da ironia con la
cerbottana. Eppure, al cinico fa specchio il disperato, alla sprezzatura il
disprezzo di sé, alla torre d’avorio il cappio al collo.
I frammenti più belli sono dedicati a Harry Houdini, “il più grande
parasuicidario di tutti i tempi, l’uomo delle mille vite, il re delle manette…
il freak dello svincolamento”. In un aforisma, Burger immagina che se Kafka
avesse incontrato Houdini “molti dei suoi racconti sarebbero usciti in modo
diverso”. Ci sarebbe da scriverne un racconto. Houdini è la formula che
dissigilla i libri concentrazionari di Kafka; d’altronde, Houdini era “l’uomo
dalle estremità di serpente”, Kafka aveva il volto di un’angelica cornacchia:
una lotta da fine dei tempi li accomuna.
Hermann Burger sapeva che lo scrittore è un illusionista e che l’illusione
sfiora l’illuminazione quando l’illusionista rischia la vita per autenticare la
propria opera. Il Tractatus logico-suicidalis uscì nel 1988; con ferrea logica
suicidale Burger si uccise poco dopo, nel febbraio del 1989, presso il mastio di
Brunneg, con i farmaci. L’ultimo frammento del Tractatus, il numero 1046, recita
“Finis”; il 1044 “Muoio dunque sono”. A mia memoria, soltanto un altro
scrittore, Ryunosuke Akutagawa, fu altrettanto definitivo. Si uccise a Tokyo,
nel luglio del 1927, ingerendo una dose letale di Veronal, pochi giorni dopo
aver terminato l’ultimo racconto,Memorandum per un vecchio amico. “Nessun
aspirante suicida ha prima d’ora descritto fedelmente le proprie condizioni
psichiche”, attacca, con compassata violenza. Dopo aver catalogato diversi
metodi per uccidersi, Akutagawa scocca frasi come queste: “La natura mi appare
così splendida perché sono gli estremi sguardi che le rivolgo”. Il Memorandum di
Akutagawa, privo di ironia e di cupezza, sembra, per paradosso, un inno alla
vita.
Uno dei romanzi italiani più belli degli ultimi anni – forse per questo mai
apparso nelle cronache dei premi e sulle labbra dei cronisti culturali, avvezzi
al culto del noto –, Tutte le voci di questo aldilà, edito da Guaraldi nel
2015, scritto da Andrea Temporelli, comincia con un greve elenco di poeti morti
suicidi o finiti in follia, da Amelia Rosselli a Carlo Michelstaedter, da Cesare
Pavese ad Antonia Pozzi, da Sylvia Plath ad Antonin Artaud, “il suicidato dalla
società”. A che pro dunque “tante persone ancora oggi si dannano l’anima pur di
diventare poeti famosi, cioè squinternati-morti-di-fame”? La domanda tiene conto
del mistero dei misteri: chi scrive tenta, sempre, il verbo (Verbum/Logos) in
grado di vincere la morte – fino a morirne.
L’ultima sezione dell’ultimo libro (I bracciali dello scudo, Crocetti, 2025) del
più importante poeta italiano vivente, Alessandro Ceni, s’intitola Felo de se,
che significa: essere felloni a se stessi, cioè uccidersi. Il suicida, come si
sa, non godeva di degna sepoltura, né di aura di sacramento. Resta apolide tra i
morti, maldestro all’altro mondo.
Ogni scrittore degno di lettura ha per tema la morte e l’uscita da se stessi –
alcuni, come Burger, ne sono sopraffatti: per illuminare il lettore, si fanno
incendio.
*In copertina: Harry Houdini (1874-1926), occulto protagonista del libro di
Hermann Burger
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