Un tempo, Daphne du Maurier (1907-1989), la scrittrice inglese, era pubblicata
nella mitica ‘Medusa’ Mondadori. Era una colonna di quella collana. Il suo
romanzo più noto, Rebecca (1938) fu tradotto nel 1940 da Alessandro Scalero
come La prima moglie; ce ne ricordiamo per la versione di Hitchcock, che vinse
l’Oscar e che opera, nella versione italiana, una sintesi tra l’originale e il
tradotto: suona come Rebecca, la prima moglie. Daphne du Maurier indossava un
viso inquieto, da transfuga tra le ombre: amava i cani, morì in Cornovaglia,
reclina in una ricercata solitudine. Spesso ritenuta una scrittrice di seconda
fila, da un po’ di tempo la si è rivalutata a dovere: il Saggiatore ha in
catalogo le sue opere più importanti; questa estate sono usciti Rendez-vous e Il
capro espiatorio; l’anno scorso sono stati editi i racconti con il titolo
complessivo, Gli uccelli, che rimanda a uno dei film più noti di Hitchcock – che
però ha poco a che fare con l’originale. Nel regno anglofono, la casa editrice
Virago ha appena pubblicato come After Midnight “Thirteen Chilling Tales for the
Dark Hours by Daphne du Maurier”. L’introduzione – che qui riportiamo in parte –
è di uno dei più audaci ammiratori dell’opera di Daphne: Stephen King. Buona
lettura.
***
“La scorsa notta ho sognato di essere di nuovo a Manderley”. Questo, tratto
da Rebecca, è uno degli incipit più noti nella storia del romanzo. Di certo, è
il più memorabile: l’ho usato come esergo a uno dei miei libri, Mucchio d’ossa.
Daphne du Maurier ha scritto anche uno dei più riusciti incipit tra i racconti
del perturbante e dell’eccentrico. Gli uccelli si apre così: “Il tre dicembre,
di notte, il vento voltò – e fu inverno”. Breve, freddo, preciso. Potrebbe
sembrare un bollettino meteorologico.
Funziona bene fin dal principio, quel racconto in cui ogni specie di volatile
attacca senza motivo l’uomo: è diretto, realistico, privo di fronzoli. Du
Maurier può evocare l’orrore quando vuole – si leggano The Doll e The Blue
Lenses, come le ultime due pagine di Don’t Look Now – perché sa che a volte, per
infondere credibilità (e suspense) a quanto si racconta ci vuole un tono più
vicino al reportage che alla narrazione pura. La versione cinematografica de Gli
uccelli, appesantita da una storia d’amore tra belle persone hollywoodiane (Rod
Taylor nel ruolo di Mitch e Tippi Hedren in quello di Melanie), non somiglia
quasi per nulla al racconto di Du Maurier. È ambientata nella soleggiata Bodega
Bay invece che nella fredda Cornovaglia, con un numero di personaggi decisamente
in eccesso. L’unica vera somiglianza tra il racconto e il film è nel finale. Nel
film, Mitch e Melanie scappano mentre migliaia di uccelli, appollaiati ovunque,
riposano tra un attacco e l’altro. Cosa accadrà in seguito sarà lo spettatore a
indovinarlo.
La conclusione del racconto è ancora più agghiacciante. Dopo aver fumato
l’ultima sigaretta, Nat aziona la radio, che non funziona. “Gettò il pacchetto
nel fuoco, lo fissò mentre bruciava”. L’ultima frase è perentoriamente
terribile, cupa eppure concreta, come quella che apre la storia. Cosa succederà
a Nat, alla moglie, ai figli? Non lo sappiamo. A Daphne du Maurier non importa –
e ha ragione a non occuparsene. Resta sulla soglia. Ci offre soltanto
quell’ultima sigaretta, che ha il sentore di un plotone d’esecuzione, e un
pacchetto che brucia. Ci dice: decidete voi. Questa è la quintessenza del suo
genio inquietante.
Non sopporto il termine “spoilerare”, diventato di moda insieme ad altri
spiacevoli effetti collaterali di Internet in generale e dei social in
particolare. Trovo che “hai spoilerato!” sia il tipico modo di esprimersi delle
persone viziate. È difficile ‘spoilerare’ una bella storia, perché la gioia
della lettura è nel viaggio non certo nella conclusione. I racconti di Du
Maurier sono un’eccezione alla regola. Parlarne a lungo ne distruggerebbe
l’effetto. Siete nelle mani di un maestro della narrazione. Per giunta,
diabolico.
Lo ammetto: adoro i racconti di Du Maurier. Amo la loro chiarezza, la visione
sontuosamente sinistra che hanno della natura umana, il prodigioso talento
nell’arte narrativa. C’è una ragione per cui le raccolte di racconti, di norma,
sono meno popolari dei romanzi. Con un romanzo, ci si acclimata alla vita di un
gruppo di personaggi, con cui si abita per un paio di giorni (se si legge
voracemente, come mia moglie) o per una settimana e più (se si legge lentamente,
come me). Nei racconti, il lettore deve creare un mondo immaginario che si
smonta in poco tempo. Può essere difficile da accettare. Non è così per questi
racconti.
Entrare nei mondi ideati da Du Maurier è un piacere più che uno sforzo. Anche
quando le cose sembrano relativamente innocue, si percepisce un letale
addensarsi di ombre. È un dono concesso a pochi scrittori.
Non voglio dire altro. Prendete in mano Daphne du Maurier, lasciatevi guidare
nell’oscurità. Il suo talento è una torcia. Invidio le sue scoperte. Invidio il
vostro prossimo disagio.
Stephen King
L'articolo Sul suo genio inquietante. Stephen King parla di Daphne du Maurier
proviene da Pangea.
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Riccio o volpe? Era il 1953 quando il filosofo lettone Isaiah Berlin ideò uno
dei giochi più riusciti di critica letteraria, dividendo gli scrittori in due
tipi, sulla scia di un frammento del poeta greco Archiloco: “la volpe sa molte
cose, ma il riccio ne sa una grande”. Da una parte i proteiformi, dai fini
diversi, a volte contraddittori, mai unificati da un principio unico ispiratore;
dall’altra le visioni centrali, monistiche e monoteistiche; particolari contro
universali; la “volpe sublime” Puskin e il riccio purissimo Dostoevskij. In
mezzo, il caso Tolstoj, lo scrittore che “era per natura una volpe, ma credeva
fermamente di essere un riccio”. Bene, portando questo gioco di società fuori
dalla tavola dei grandi russi, potremmo azzardare il caso singolare di Seamus
Heaney, poeta-volpe, a cui per decenni hanno tirato la coda – e costretto a
tirar fuori gli aculei – per farlo sembrare un riccio.
L’evento centrale della sua biografia, che lo accompagna e tormenta lungo le
“dodici fatiche” del suo opus, (per i lettori italiani nell’ampia auto-antologia
predisposta dal poeta stesso in occasione del “Meridiano” Mondadori, uscito
postumo del 2016 poi totalmente riproposto nello “Specchio”, con la sola
dolorosa assenza delle Note – sarebbero bastati dei piccoli a margine per i
riferimenti più specialistici alla storia d’Irlanda) è lo scoppio
dei Troubles nel 1968, che si protraggono per decenni e hanno il loro culmine
nella “Bloody Sunday” del 1972, quando a Derry l’esercito inglese fa fuoco sui
manifestanti irlandesi e uccide quattordici persone. Inevitabile, per lui nato
nell’Ulster a minoranza cattolica, in una terra dominata e colonizzata da
secoli, non essere chiamato a prendere parte, a denunciare, ad essere tirato per
la giacchetta e rimproverato per ogni colpevole silenzio: “per un quarto di
secolo – scriverà – hanno obbligato i poeti a offrire, implicitamente o
esplicitamente, una apologia per la loro arte”. Operazione impossibile, tanto
già gravosa quanto più la sua fama di nuovo Yeats e massimo poeta non solo
irlandese ma britannico cresceva, grazie anche a una presunta accessibilità e
alla dolcezza formale di molte poesie.
Due i passaggi culminanti: il pamphlet poem “An Open Letter” del 1983 nel quale
si dissocia dall’aggettivo british (dopo essere stato incluso nel “Penguin Book
of Contemporary British Poetry”),chiarendo che “la felicità passa per il
prendere posizione, scontrarsi, chiarire di non essere per tutti”; e l’incontro
– di toni e ambientazioni che ricordano il Luzi purgatoriale – con un esponente
del Sinn Féinn in La livella e lo spirito (1996), risolto in un botta e
risposta:
> “Quando cazzo scriverai qualcosa
> per noi?” “Se scrivo qualcosa,
> qualunque cosa sia, la scriverò solo per me”.
Questo “me” non è certo chiusura individualistica o rivendicazione dei diritti
dell’arte per l’arte, quanto un ribadire un proprio modo di essere poeta
profondamente politico, impegnato – scriverà James Woods sulla “London Review of
Books” – a “costruire una nazione dal punto di vista storico, mitologico,
etimologico”.
Nella seminale prima poesia del primo libro, la pluri-antologizzata “Scavare”,
questa distanza e impossibilità di essere riccio è già affermata in una
premonizione non voluta della violenza intestina che sconvolgerà l’Irlanda –
intesa come distanza rispetto al suo essere poeta terreno, radicato, lui figlio
e nipote di contadini e allevatori, misurando come un lucidissimo agrimensore
quanto separa i primi due versi (“Tra il mio pollice e l’indice riposa/ la tozza
penna, comoda come una pistola”) dagli ultimi tre: “Tra il mio pollice e
l’indice riposa/ la tozza penna./ Scaverò con questa”.
È il 1966, la guerra civile è ancora solo nell’aria, ma il volume
programmatico Morte di un naturalista è già eversione e riconoscimento di
un’altra via. Prendiamo due esempi di dinnseanchas, genere tradizionale
irlandese di narrazioni di storie e leggende sulle origini dei nomi di luogo: in
“Anahorish” (un analogo gaelico delle nostre “chiare, fresche e dolci acque”) si
introduce una distinzione e uno scavare genealogico tra la morbidezza vocalica
dell’irlandese e la durezza consonantica dell’inglese colonialista nel quale è
costretto a scrivere e pensare; in “Broagh” quel suono finale, impossibile per
gli stranieri, fa leva sulla O centrale e la sua immagine tipicamente heaneyana
di un “acquazzone / che si raccoglieva nell’impronta del tuo calcagno”, per far
risuonare una circolarità acquatica e naturalistica da volpe ipersensibile, che
con un piccolo balzo ci riporta a un’altra O marina e post-colonialista, quella
dell’Omeros di Derek Walcott.
Descrizione è rivelazione, è stato detto: panorama e paesaggio – nella poesia
come negli ingenui ma non innocui atlanti delle elementari – implicano
rappresentazione cartografica e riscrittura politica di un territorio diviso e
spaccato tra nativi e conquistatori prima, cattolici e protestanti poi: ognuno
imponendo i propri nomi con la violenza che separa fratelli e amici, per cause
antichissime e per nessun motivo (si ripensi al recente film Gli spiriti
dell’isola di Martin McDonagh). Ma quella di Heaney è un’Arcadia senza innocenza
primigenia, nella quale la frattura sembra il destino originale e i nuovi
sacrifici riecheggiano i precedenti, i morti per i diritti civili sepolti sopra
le tombe della “gente delle torbiere” riemerse in quegli stessi anni nello
Jutland, con i corpi di vittime sacrificate alla dea della fertilità Nerthus
durante l’età del ferro.
Da qui le critiche: all’estetizzazione della violenza; a una visione mitica e
ciclica della storia, condannata a ripetere forme arcaiche e omicidi rituali; a
un immaginario maschilista che raffigura l’Irlanda come donna inerme da
possedere attraverso i secoli. A questi attacchi Heaney non risponde mai
direttamente, preferendo divincolarsi con fiuto visionario fino ad aprire una
seconda fase dalla fine degli anni Settanta, caratterizzata da un verso più
ampio e da toni che invecchiando si fanno più lievi, fino al paradosso di quel
Seamus Heaney poeta felice usato come estremo trucco per sfuggire alle trappole.
Il poeta-volpe si dedica alle poesie d’amore coniugale, ai viaggi (sarà
raggiunto dalla notizia del Nobel durante una vacanza in Grecia), alle
traduzioni, come quella del Beowulf finita nella classifica dei best seller del
“New York Times”. È il paradosso del Famous Seamus, la pop-star della poesia che
deve camuffarsi e trovare nuove formule di rivolta da ogni costrizione, come la
vanga del padre rivoltava la terra avara. Così nella luminosissima “Post
scriptum”, dove lo ritroviamo in uno stormo di cigni un po’ sinistri, le penne
arruffate e “il lungo capo dall’aria ostinata/ nascosto o increstato o
indaffarato sott’acqua”: il suo elemento, un altro tipo di ossigeno, via via
sempre più rarefatto. Lo stesso di una “Illuminazione” in Vedere le cose, nella
quale dei monaci in preghiera vedono comparire una nave, sospesa in alto e
incagliata all’altare: un marinaio, invertendo alto e basso – celeste e terreno
– si cala giù per liberarla e rischia di annegare prima di riuscire
nell’impresa, “uscendo dal meraviglioso/ come l’aveva conosciuto lui”.
Il materiale – una leggenda celtica del VI secolo – viene rielaborato
modificando involontariamente nel ricordo alcuni elementi, e scoperchiando il
tema finale della poesia di Heaney, quello della memoria.
Uno degli ultimi capolavori, “In soffitta”, raccontato magistralmente dai
successori Tom Sleigh e Paul Muldoon in un podcast, colma proprio quel “golfo
misterioso tra infanzia e vecchiaia” che è l’ultimo ponte teso sulla
multiformità irriducibile dell’esistenza. Il passo malcerto sulle scale e sui
ricordi di letture giovanili (L’isola del tesoro) diventa quello ebbro di un
mozzo per la prima volta a bordo di una nave. E in attesa di scoprire o
ritrovare un mondo, e “quanto v’è di memorabile tocca il fondo/ dentro
l’irrintracciabile”, la poesia è ancora quella “leggera e anomala infrazione e
pendenza del mondo/ mentre il vento si alzava e l’ancora veniva salpata”.
Fabrizio Angeli
**
BROAGH
Sponda di fiume, le lunghe porche
che sfociavano in distese di acetosa
e in un sentiero alberato
giù verso il guado.
Il terriccio del giardino
si illividiva facilmente, l’acquazzone
che si raccoglieva nell’impronta del tuo calcagno
era la nera O
di Broagh,
il suo basso rullio
tra i sambuchi battuti dal vento
e le foglie del rabarbaro
finiva quasi
all’improvviso, come quell’ultima
gh che gli stranieri faticavano
a pronunciare.
*
LIMBO
Nelle reti dei pescatori di Ballyshannon
la notte scorsa c’era un neonato
oltre ai salmoni,
Una figliazione illegittima,
un pescetto ributtato
nelle acque. Ma sono sicuro
che, quando lei stava nell’acqua bassa
e lo immergeva con tenerezza
finché i suoi polsi ossuti e gelati
furono insensibili come il ghiaietto,
lui era un pesciolino con ami
che le laceravano il ventre.
Lei entrò in acqua sotto
il segno della sua croce.
Lui fu tirato a riva con il pesce.
Ora il limbo sarà
un luccichio freddo di anime
oltre una lontana zona salmastra.
Là persino i palmi di Cristo, le piaghe ancora aperte,
bruciano e non riescono a pescare.
*
I BAMBINI DELLA FERROVIA
Quando risalivamo i pendii della scarpata
eravamo con gli occhi alla stessa altezza delle tazze
bianche dei pali telegrafici e dei fili sfrigolanti.
Come una bella calligrafia si curvavano per miglia
ad est e per miglia ad ovest oltre noi, cedendo
sotto il peso delle rondini.
Eravamo piccoli e pensavamo di non sapere niente
degno di esser noto. Pensavamo che le parole percorressero
i fili nei lucenti borselli delle gocce piovane,
ciascuna completamente inseminata dalla luce
del cielo, dal luccichio delle rotaie, e noi stessi
ridotti ad una scala così infinitesimale
da poter scorrere attraverso la cruna di un ago.
*
ILLUMINAZIONI VIII.
Dicono gli annali: mentre i monaci di Clonmacnoise
eran tutti in preghiera in oratorio
su di loro, in aria, comparve una nave.
L’ancora, dietro, pendeva tanto a fondo
che s’impigliò nella balaustra dell’altare.
Quando il grosso scafo si fermò oscillando
un marinaio si calò giù per la corda
e cercò di liberarla. Invano.
“Quest’uomo non può sopportare la nostra vita
e annegherà” disse l’abate, “a meno
che non gli si dia aiuto”. Il che fu fatto,
la nave, libera, ripartì e l’uomo
risalì, uscendo dal meraviglioso
come l’aveva conosciuto lui.
*
CATENA UMANA
A vedere in primo piano i sacchi di farina
passati di mano in mano tra i volontari, e i soldati
che sparavano alto oltre la folla, mi ritrovai
con la presa su due angoli di un sacco,
due rigonfi di granaglie di cui avevo fatto orecchie
per trovare un appiglio, pronto al sollevamento –
gli occhi negli occhi, l’uno due, uno due, hop
sul rimorchio, poi il peso e il salasso
del sollevamento successivo. Nulla ha superato
quel rapido sgravio, di fatica più vera ricompensa,
un lasciare andare che mai più tornerà.
Oppure sì, una volta sola. E per tutte.
*
IN SOFFITTA
I.
Come Jim Hawkins in alto sulle crocette
dell’Hispaniola, nulla sotto di lui
se non immobile acqua verde e sabbia chiara sul fondo,
la nave in secca, l’albero inclinato sporto
sopra un fondale dove pesci a strisce passano in banchi –
e quando sono passati, la faccia di Israel Hands
che si levò tra le sartie prima che Jim gli sparasse uccidendolo
sembra levarsi ancora… “Ma era ben morto”
dice la storia “centrato da un colpo e poi annegato”.
II.
Una betulla piantata vent’anni addietro
se ne sta tra me e il mare d’Irlanda
al lucernaio della soffitta, un uomo abbandonato
nell’isola della propria mansarda, un ragazzo
ben assettato nella coffa di una vita,
velature d’aria, ubriaco di vento, reso ben saldo
da quanto va riverberando da chiglia a albero maestro,
strofinandosi gli occhi per credere a loro e a questa
leggera, ondosa betulla di velaccio.
III.
A passo di fantasma su quella che allora era la terra firma
del linoleum dell’ingresso, appare il nonno,
la voce tremula come lo schermo sensibile alle correnti
tirato su prima nella sede del Club
per lo spettacolo pomeridiano da cui ho appena fatto ritorno.
“E Isaac Hands” chiede. “C’era Isaac?”
Il suo ricordo di quel nome anch’esso un tremolio,
il suo errore perpetuo, una volta e per sempre,
come il singolo tonfo quando cadde il corpo di Israel.
IV.
Mentre invecchio e dimentico i nomi,
mentre il mio passo incerto per le scale
è sempre più la sottile ebbrezza
di un mozzo per la prima volta sul sartiame,
mentre quanto v’è di memorabile tocca il fondo
dentro l’irrintracciabile,
non per questo non mi riesce più di immaginare
quella leggera e anomala infrazione e pendenza del mondo
mentre il vento si alzava e l’ancora veniva alzata.
Da Seamus Heaney, Poesie, Mondadori, Milano 2023, a cura di Marco Sonzogni
L'articolo “La felicità di non essere per tutti”. Su Seamus Heaney, il
poeta-volpe proviene da Pangea.
Dylan Thomas accettò di fargli da testimone di nozze. Era il 4 ottobre del 1939,
non poteva rifiutare: conosceva Keidrych Rhys, gallese di Bethlehem, da una
vita; spesso lo aveva pubblicato sulla rivista che dirigeva, “Wales”. Keidrych
sguazzava con agio nell’editoria dell’epoca – nel ’44, per la Faber di Sir T.S.
Eliot, avrebbe pubblicato un’importante antologia di Modern Welsh Poetry – ed
era un gran bevitore. Nel ’39 Dylan Thomas, già superstar della letteratura
anglofona, aveva licenziato, per Dent, The Map of Love; Keidrych compiva
ventiquattro anni; la festa, a Llansteffan, annaffiata d’alti alcolici, si
protrasse fino a notte.
Più che per Keidrych, gli astanti andarono in visibilio per lei, la sposa.
Trentenne, di una bellezza estranea, Lynette Roberts – in verità: Evelyn
Beatrice Roberts – era alla sua terza vita. La prima l’aveva passata in
Argentina: nacque a Buenos Aires, negli agi; il papà, Cecil Arhur Roberts, era
un ingegnere ferroviario che dal Galles si era trasferito prima in Australia,
poi in Sud America. La prima lingua di Lynette era lo spagnolo: restò scolpito,
in lei, il vello bruno, taurino, del Rio della Plata; l’indolenza – e
l’equivalente violenza – dell’Argentina.
La seconda vita di Lynette ha per levatrice una ferita, uno squarcio: poco prima
di compiere quattordici anni, sua mamma muore di tifo. Lei e le sorelle –
Winifred e Rosemary – furono spedite a studiare in Inghilterra, alla Central
School of Arts and Crafts. Di quella vita, si ricordano i lunghi viaggi – in
Ungheria, Austria, Germania, al seguito di un’amica, Kathleen Bellamy, inviata
per “La Nacion” – e l’avventura di aprire un negozio di fiori, “Bruska”, a
Londra. Aveva cominciato a scrivere versi a Madeira, ispirata dal clima, da un
angelo interiore, spinato.
Keidrych l’aveva conosciuto da poco, durante una lettura pubblica. Si sposarono
all’improvviso, con inattesa furia: la terza vita di Lynette cominciò a
Llanybri, villaggio di campagna nel Carmarthenshire, dove si era trasferita con
il marito. Voleva riformulare le proprie origini gallesi. Voleva scriverne.
Voleva scrivere. Dylan Thomas la licenziò con poche, apodittiche parole: “che
ragazza curiosa, si dichiara poetessa a pieno titolo, in pieno petto… ha tutti i
crismi dell’isterica”.
L’amore con Keidrych durò un decennio – i due divorziarono nel ’49 – e un paio
di figli, Angharad e Preiden. Lentamente, Lynette deragliò nell’insania; aveva
un precedente, in famiglia: il fratello Dymock, schizofrenico, finì in un
ricovero di malati di mente appena sedicenne, a Salisbury, fino alla morte.
Negli anni gallesi – di povertà, certo, ma anche di una gioia frugale, informe,
di albatros e brughiere –, Lynette scrisse tanto – e magnificamente. Trovò in
Edith Sitwell – poetessa-pitone, dall’enigmatico, viscido genio – una mecenate e
una confidente; figura tra le figure di rilievo nella tabula gratulatoria de La
Dea Bianca, il capolavoro di Robert Graves. Erano amici, lei gli raccontava
diverse storie scardinandole dall’antica mitologia gallese, lui scrisse che
“Lynette Roberts è uno dei pochi autentici poeti viventi”.
I suoi versi entusiasmarono un lettore altrimenti raggelato come Eliot: nel 1944
pubblicò con la Faber i Poems, seguiti, nel 1951, dall’opera più ambiziosa, il
poemetto God with Stainless Ears, in cui il dato leggendario si fonde con il
contemporaneo, la “baia brulicante di uccelli” si commisura a “soldati e corpi
corazzati”. È poesia audace, quella di Lynette Roberts, a tratti involuta, con
invenzioni che la collocano nel più alto lignaggio della poesia inglese
dell’epoca. In un testo – a dire di un ardore –, Transgression – non certo il
più bello –, rifà la Genesi:
> “All’inizio Dio non volle altro che se stesso.
> E questa immensa emissione di luce eruttava orrore
> attraverso i cieli senza aver nulla da fare.
> Conosceva il bene e il male, e noia lo torturava.
> Sapeva la vita, e gli venne a noia”.
A leggerla, viene in mente Fernanda Romagnoli, avrebbero potuto essere amiche.
La stessa dinamica le anima: una poesia apparentemente cristallina, emanata da
un ematoma del cuore, che in un istante mette le unghie, azzanna. Lo stesso,
spaesante istinto nel percorrere l’insolito, l’insoluto. In una poesia –
tradotta in calce – Lynette Roberts scrive che i gabbiani le ricordano le
“lacrime dei turisti”.
Sfinì, in uno sfarfallio di inquietudini, Lynette. Nel 1956 le fu dichiarata
schizofrenica – due anni prima aveva pubblicato un libro, The Endeavour che
romanzava intorno al “primo viaggio di James Cook in Australia”. Una volta
radicata, volle sradicarsi. Vagò per diversi sanatori; morì il 25 settembre del
1995. Sepolta nel cimitero di Llanybri, che aveva celebrato più volte nei suoi
versi, chiese una lapide sobria, una scritta assolutoria: Lynette Roberts, poet.
Dylan Thomas aveva visto giusto.
I suoi versi – dalla potenza assurda, dissennata, estranea alle mode – furono
dimenticati presto; per quarant’anni, Lynette rifiutò di scrivere perché la vita
la rifiutava. Nel 2005 Carcanet pubblica, a cura di Patrick McGuinness,
un’edizione dei Collected Poems, seguita, nel 2008, da Diaries, Letters and
Recollections. Fu, decenni dopo, un’autentica scoperta, Lynette, d’insperata
freschezza. Quest’anno, come A Letter to the Dead, esce una nuova edizione
dei collected poems, arricchita da materiali d’archivio.
***
Premonizione
Quando angoli di ferro blu e
grumi di erba rada, a grottesche
recedono furtivamente da qui
e lasciamo una moltitudine allo spazio
mentre crolla dal tuo sorgere
un saluto, accetto l’impercettibile
pallida notte, il suo volto ciclope
in cui nascondere la mia paura, di ghiaccio.
*
Non è stato facile
Mentre brilla la legna e brucia
abbiamo spartito la nostra frugale
felicità; mentre sulla grata, fredda, colava
la cenere, ci siamo nutriti ai cancelli
della povertà; idioma dell’umiliazione
e del disastro. Non è stato facile.
Non lo è ora. Eppure, infuriava tempesta
sul quieto verde volto del pianeta.
*
L’ipnotista
Continuava a fissarmi, quella volpe
nel bosco – con un gesto di gioia
pitocca ho deriso la sua audacia:
e ora mi veglia, è lì, presso quell’albero.
*
Spina di sangue
C’è chi divora la piana fino alle anche della notte
chi slega gli uccelli al volo e dilaga
per leghe perché vuole vedere l’osso
del bisonte, fiero come una pietra,
c’è chi separa il mais e fa scempio
di questa luce sciroppo:
questa è la dura, mostruosa condizione
di chi nasce e piange in un’alba gialla
in un’alba gialla come il limone.
Un cuore rompe il ghiacciaio della notte
è lì e fa scoppiare un’aquila di carta
e c’è chi trascina il giorno in una cappa
di gioia di pianto di mania:
questo giorno è stato esaudito: un bimbo è nato
un bambino ci è nato.
*
Gabbiani
Planano lenti i gabbiani, senza paura
preferiscono perdersi come lacrime
di turisti: il molo e la nave cominciano
a muoversi e cominciamo
a piangere, così, senza motivo.
Gridano i gabbiani ricordando
l’oceano dell’incertezza
e la brutalità dei marinai, mere
mosche ai margini della nave.
I patti si stringono, si rompono
e il rimpianto ci muove immotivato:
lacrime crinite d’ira, cretine,
scavano solchi sulle guance.
*
Blu ellittico
È freddo e i gabbiani, le mucche del cielo,
muggiscono, cercano cibo e sorvolano
l’acqua blu: allora penso alla neve.
Quando penso sono sola.
Penso al mare, alle sue immense onde
onde piene di occhi che dicono
alle onde, cercate i morti perché
i morti non sono davvero morti.
Perché, è vero, il mare offre più di ciò che afferra
e stigma di morte non grava sull’uomo – il mare
concede ai morti una via di fuga: i gabbiani lo sanno
e scalpitano presso le stalle del cielo.
*
Madrigale verde
Vedi, il mio ospite è un albero:
cresce nonostante il dolore
le sfide e la difficoltà
di crescere.
È verde, è risoluto:
anche se respira angoscia
sprigiona pace, la pace della mente
e cresce e si muove
e cammina con verde tenerezza
lungo la terra:
cielo e sole sigillano il suo essere
come io vorrei fare con il tuo.
*
Coniglio accoppato
Sdraiato nel cristallino del crepuscolo
sono io il suo singolare difetto
e i suoi occhi, come stelle dimentiche,
si schiudono in una nebulosa distante anni luce.
Desiderano che il passato sia scuro come la notte
che il futuro sia piena luce e caritatevoli raggi.
Eppure so, per un sapere ancora arcano,
in qualche moto centrale del mio essere,
che tutto risorgerà, che tutto si volgerà
a me circondandomi, come gli anni luce
ruotano, invisibili, sul loro fuso di ghiaia.
Lynette Roberts
L'articolo “Un cuore rompe il ghiacciaio della notte”. Vita lirica di Lynette
Roberts proviene da Pangea.
Nel 1919 era riuscito a comprarsi una villa a Oswalds, nei pressi di Canterbury.
Da poco, aveva raggiunto una certa sicurezza economica, non con i libri più
belli; poco incline ai crismi della vita sociale inglese, soffriva di gotta, il
viso irto di rughe e lo sguardo fermo, di chi ha valicato molte vite. Da
ragazzo, nelle rare fotografie, piuttosto, ha gli occhi accesi, terrorizzati.
Sarà che era rimasto orfano a undici anni e che un’insana fame, l’estro di chi è
solo al mondo, lo obbligava agli estremismi. Preferì viaggiare per il globo;
nato in una provincia dell’Ucraina russa, cresciuto tra Varsavia e Cracovia,
come seconda lingua preferiva il francese, l’inglese lo parlava in modo
involuto, lento, da straniero. Sulla terraferma, sempre, gli pareva di
affogare.
Fu Hugh Walpole, in ogni caso, a propiziare l’incontro tra Joseph Conrad e T. E.
Lawrence. Con Walpole, poligrafo, nato in Nuova Zelanda, affascinato dalla
Rivoluzione russa (che aveva seguito sul posto), uno zelante ammiratore, Conrad
si sentiva a suo agio. “Tu dici che ho subito l’influenza formativa di Madame
Bovary…”, gli scrive, nel 1918, per ribattere, “Flaubert… lo ritenni
meraviglioso. Non credo di aver imparato nulla da lui”.
L’incontro accadde in luglio, era il 1920: Conrad era già Conrad, il
rivoluzionario della letteratura inglese, Lawrence, per tutti, era “Lawrence
d’Arabia”; aveva scritto la prima, affrettata bozza dei Sette pilastri della
saggezza e Winston Churchill era pronto a offrirgli un posto di rilievo presso
il Colonial Office con il compito di risolvere la questione
mediorientale. Lawrence, dal canto suo, mirava solo a disintegrarsi. Amava
Conrad, quello sì, “ha reso la nostra prosa finalmente inquietante: ogni suo
paragrafo (dacché non scrive frasi, ma paragrafi) si sviluppa a ondate, come il
riverbero di una campana, dopo che si è bloccata”. L’incontro fu piacevole,
privo di fronzoli, intonato al blu: forse nel mare di Conrad, Lawrence
riconosceva il suo deserto. Il 18 agosto del 1922, da Oswalds, Conrad scrive “al
mio caro Mr. Lawrence”: gli invia una copia di The Mirror of the Sea, “emendata
da assurdi refusi”, con dedica, “A T.E. Lawrence con la massima stima da
Conrad”. Nel frattempo, contraffatto con il nome di John Hume Ross, Lawrence si
era appena arruolato nella RAF.
Dieci anni prima, piuttosto, Conrad aveva ricevuto gli omaggi di un altro uomo
eccezionale, diversamente eccentrico. Nel 1912, durante un viaggio di sei mesi
in Inghilterra, ad Ashford, nel Kent, Saint-John Perse incontra Conrad,
folgorato, pure lui, da Cuore di tenebra, Nostromo, Lord Jim. Era stata un’amica
comune, Agnès Tobin, americana, traduttrice di talento (anche di Petrarca), a
introdurre Saint-John Perse a Conrad. Il 26 febbraio del 1921, da Pechino,
all’apice di una brillante carriera diplomatica, il poeta, futuro Nobel per la
letteratura, invia a Conrad una lettera tanto bella da sembrare fittizia, pura
perla destinata ai posteri: “Una cosa misteriosa, che ho io stesso constatato, è
che sugli altipiani dell’Asia, nel cuore del deserto, cavallo e cavaliere si
girano ancora d’istinto verso Est, là dove giace la tavola invisibile del mare…
Negli occhi dei cammellieri incontrati nel deserto del Gobi mi è sembrato
qualche volta di sorprendere uno sguardo di uomo di mare”. La lettera è
raccolta, tra poche altre a rarissimi interlocutori – Paul Claudel, André Gide,
Thomas S. Eliot, un altro strenuo ammiratore di Conrad – nell’agiografico volume
delle Œuvres complètesche Saint-John Perse si cura per la Bibliothèque de la
Pléiade. Nato nelle Antille francesi, era uomo di mare pure lui, e al mare ha
dedicato un poema oceanico, Amers (1957; recentemente tradotto da Nicola
Muschitiello per le Edizioni Medhelan come Segni d’amaro approdo, 2024).
Queste testimonianze, necessarie per capire le intense passioni che Conrad
sapeva suscitare – scrittore altrimenti schivo, nella stiva di un’ispirazione
eclatante –, non sono raccolte nell’Epistolario (1885-1924) edito da Giometti &
Antonello (2021), che riproduce l’edizione curata da Alessandro Serpieri per
Bompiani nel 1966 (il libro, dunque, è anche un omaggio a quel grande anglista).
Conrad resta, sempre, un espatriato, uno ormeggiato tra le nebbie: inutile
cercare tra le sue lettere le vertigini di Rainer Maria Rilke, gli orpelli di
Pasternak, gli innamoramenti di Albert Camus. Nato Korzeniowski, frugale come
chi sa la fame, propenso al crollo, alieno al clima intellettuale dell’epoca,
Conrad procede per coltellate verbali (“La morte non è nulla – ed io sono
abituato alla sua rapidità. Ma quando la vita ti deruba d’un uomo su cui hai
riposto la tua fiducia per vent’anni, il torto sembra troppo mostruoso per
essere dimenticato”, scrive, il 5 dicembre 1897, a Edward Garnett, che per primo
riconobbe il suo talento letterario), sconvolto, spesso, dalla necessità di
scrivere e vendere racconti con estenuata continuità.
Nelle prime lettere – qui è da Calcutta, il 19 dicembre del 1885 – Conrad è
fieramente reazionario, si scaglia contro il “progresso sociale” propugnato da
“furfanti senza scrupoli e pochi lunatici, sinceri ma pericolosi” a discapito
dell’“idiota gregge umano”:
> “Io vivo soprattutto nel passato e nel futuro. Il presente ha poche attrattive
> per me… Separazione fra Stato e Chiesa, Riforma Agraria, Fratellanza
> Universale non sono che le pietre miliari sulla strada della rovina”.
Si adatterà alla temperie tribunizia anglofona, con una perpetua attrazione
verso i ribelli: “ogni estremista è rispettabile”, scrive il 7 ottobre del 1907,
sull’onda del romanzo anarcoide, L’agente segreto.
In una lettera a Garnett, il 20 gennaio del 1900, Conrad si lancia in un ricordo
del padre, Apollonius N. Korzeniowski, di plateale potenza:
> “Uomo di grande sensibilità, di temperamento esaltato e sognatore, con una
> terribile dote di ironia e di umor tetro… Il suo aspetto era nobile, la sua
> conversazione molto affascinante, la sua faccia triste quando era serio”.
Patriota, ribelle, giornalista sprezzante, personalità eccentrica, ipnotica,
cupa, letterato genialoide (ma “drammi, poesie, prose furono bruciati dopo la
sua morte secondo il suo ultimo desiderio”), Apollonius è il modello del Kurtz
di Cuore di tenebra, dove sono coinvolti tutti i tormenti e le nostalgie di
Conrad.
Secondo Alessandro Serpieri le lettere di Conrad sono “un’occasione unica per
seguirlo nel suo difficile cammino di uomo e di artista, per sorprenderlo”. In
verità, Conrad è refrattario a raccontarsi, si difende da ogni assalto, in una
celata di cristallo: avendo vissuto, non ha confessioni da sperperare, è come il
suo Marlow, a poppa, con le gambe incrociate, che “rassomiglia a un idolo” e
attende di salpare verso “uno dei luoghi tenebrosi della terra”. L’anima, in
certi uomini, è come un kraken incardinato negli abissi: non è materia per
chiacchiere o lussurie epistolari.
L'articolo “La morte non è nulla”. Joseph Conrad in forma di kraken proviene da
Pangea.
> Qui muore un altro giorno
> Durante il quale ho avuto occhi, orecchie, mani
> E il grande mondo tutto intorno; e domani
> Ne inizia uno nuovo.
> Possibile ne possa avere due?
>
> G. K. Chesterton, “Sera”, da The Notebook
Scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa nelle sue lezioni di Letteratura inglese,
in “Accenni ad alcuni contemporanei” (come ha spiegato Gioacchino Lanza Tomasi,
suo figlio adottivo, lezioni meno “collettive” di quanto si pensi – per lo più
scritte e “adoperate soltanto per [Francesco] Orlando, e lette clandestinamente
da me in blocchi che mi venivano forniti da Giuseppe sotto la consegna del
silenzio”):
> “Gli inglesi passano, a giusta ragione, per essere un popolo silenzioso. Però
> essi hanno prodotto, nel nostro secolo [ventesimo, ndr], quattro dei più
> grandi e inesauribili conversatori che siano esistiti: Chesterton, Wells,
> Huxley e Shaw, massimo fra tutti. E intendo dire conversatori non solamente
> verbali ma gente cui le chiacchiere chilometriche scambiate fra amici non
> bastano: gente che è stata costretta a scaricare in migliaia di pagine le
> chiacchiere ancora inevase. A questa favolosa possibilità di chiacchierare, in
> salotti e in libri, essi dovettero la immensa popolarità che li circondò
> perché essa dovette apparire come una dote magica a quel popolo taciturno,
> tanto più che erano chiacchiere di valore, nutrite di cognizioni vastissime e
> condite dell’humour più genuino. […] ‘Vi è un tempo per parlare e un tempo per
> tacere.’ Questo enunziato di saggezza salomonica restò loro incomprensibile
> sulla terra; speriamo che nei Campi Elisi abbiano trovato il tempo del
> silenzio; speriamolo, voglio dire, per gli altri ché per loro il dover tacere
> equivarrà all’inferno.”
Il principe di Lampedusa si soffermava sorprendentemente su uno di questi
“super-campioni della polemica”, Gilbert Keith Chesterton (1874 – 1936), il
“poeta che danza con cento gambe”:
> “Fra lo scrittore cattolico italiano e quello inglese (o per dire vero di
> qualsiasi altro paese) corre una grande differenza. Lo scrittore italiano che
> si professi chiaramente cattolico è sempre uno scrittore ‘moscio’. Lo
> scrittore inglese (o francese, o tedesco, o americano) che si batte per la
> Chiesa cattolica è sempre uno scrittore ‘duro’. Ciò dipende dal fatto che in
> Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti il cattolicesimo è una religione
> di minoranza di fronte ad altre confessioni e gli occorre decisione,
> aggressività e coraggio per affermarsi e mantenersi. In Francia il
> cattolicesimo è anch’esso in minoranza non già di fronte ad altre forme di
> religione ma di fronte alle varie sfumature della miscredenza.”
In Italia, invece, “il cattolicesimo, oltre ad essere la confessione del
novantasette per cento della popolazione, esce da un periodo di predominio che,
evidentemente, non era producente. Quindi il cattolico italiano è pieno di
rimorsi inconsci ed ha sempre l’aria di scusarsi di esserlo. In Inghilterra i
cattolici sono il cinque per cento ed escono da un lungo periodo di
persecuzione, sanguinosa in principio, patrimoniale e politica dopo, vessatoria
sempre, che li pone nella redditizia posizione di accusatori.”
Concludendo con l’usuale nota ironica: “E così si perpetua quella temperatura di
brodo tiepido che favorisce la germinazione dei microbi ma non dei polemisti”.
*
Se già allora (indicativamente tra il 1953 e il 1955 – Lampedusa sarebbe morto a
breve), la memoria di questi grandi autori tendeva “ad affievolirsi”, oggi GKC
non è ancora presente nel nostro panorama editoriale – Lindau ne traduce l’opera
narrativa e saggistica da una decina di anni (fra gli ultimi: L’uomo comune, La
mia fede, Il Napoleone di Notting Hill…), diverse opere sono state tradotte da
Leardini (con la Società Chestertoniana Italiana) e da Jouvence, nonché da
Adelphi, con il saggio L’età vittoriana nella letteratura(memorabile la quarta
di copertina: “Chesterton era incapace di introdurre anche solo una traccia di
moderazione in ciò che faceva…”). Presso le Edizioni Ares, a cura di Andrea
Monda, è uscita “un’appassionante miscellanea di saggi” scritti negli anni
Venti, Giovani idee. La felicità di pensare (della stessa casa editrice, si
segnala la biografia di Paolo Gulisano e Daniele De Rosa, Chesterton. La
sostanza della fede).
Come suggerisce quest’ultimo titolo, tra le caratteristiche più apprezzate di
questo “spirito paradossale” fu forse proprio l’ironia: le sue poesie, scriveva
ancora Lampedusa, sono “fra le più divertenti che esistano” – così come il suo
modo di presentare “le verità più trite con la testa in giù in modo che esse ci
appaiono inedite”. “Voi, naturalmente,” ammoniva “da buoni italiani che
desiderate la letteratura ‘seria’ per poter più serenamente condurre una vita
non seria, arriccerete il naso. Ma avete torto. Una buona serie di letture
chestertoniane vi farà gran bene.”
Mi viene in mente a proposito un aneddoto raccontato da un suo appassionato
lettore, Simon Leys:
> “Vidi una copia del Napoleone di Notting Hill di Chesterton; conoscevo il
> libro solamente dal titolo, e, per curiosità, l’ho preso e aperto alla prima
> pagina, leggendo l’inizio della prima frase nel Capitolo Uno: ‘La razza umana,
> della quale fanno parte tanti miei lettori…’ Ho comprato il libro seduta
> stante e lasciato di fretta la libreria. La vista di un anziano che ride
> chiassosamente fra sé in un luogo pubblico potrebbe essere piuttosto
> imbarazzante, e non avrei voluto disturbare gli altri avventori.”
Eppure, bisogna al contempo rilevare come già fece Borges – “qualcosa nella
creta del suo io inclinava all’incubo, qualcosa di segreto, e cieco e centrale”
– la sotterranea vena di nero pessimismo attraversante l’umorismo di Chesterton;
sempre Borges: “Poteva essere Kafka o Poe, ma coraggiosamente optò per la
felicità e sostenne di averla trovata.” Lo stesso Leys, citato poco sopra,
nel saggio che gli dedicò (si veda Le Studio de l’inutilité, Flammarion
2012; The Hall of Uselesness, The NYRB 2013), rifletteva a proposito:
> “Uno dei molti equivoci in cui spesso incappiamo intorno alla figura di
> Chesterton è di immaginarlo come un tizio grande, benigno e allegro, sempre
> preso da una inesauribile e innocente risata… Un uomo forse di un’altra epoca,
> il quale difficilmente avrebbe avuto un’idea dei terrori e degli orrori che
> hanno caratterizzato la nostra. Alla fine di questo orribile ventesimo secolo
> – indubbiamente il più selvaggio e disumano periodo della storia – potremmo a
> buona ragione chiederci: con il suo permanente e imperturbabile buonumore, non
> è forse, Chesterton, una sorta di monumento appartenente ad un’altra era – se
> non ad un’altra civiltà? Non dovrebbe forse apparire al lettore moderno come
> un toccante, ma in fondo irrilevante anacronismo? Dacché, dopo tutto, noi
> siamo figli di Kafka: come potrebbe allora Chesterton avere a che fare con le
> nostre ansie?”
Tuttavia – continuava Leys – “il fatto è che Kafka stesso trovò in Chesterton
uno specchio per le proprie ansie. Sappiamo dalla testimonianza di un suo
giovane amico e ammiratore, Gustav Janouch, che Kafka ammirava in modo
particolare L’uomo che fu Giovedì (che è per l’appunto, l’opera narrativa più
riuscita e affascinante di Chesterton). A proposito di questo libro, si dovrebbe
notare tra l’altro che Chesterton stesso si lamentò, una volta, che la maggior
parte dei suoi lettori sembravano non essersi resi mai pienamente conto della
seconda parte del titolo: L’uomo che fu Giovedì: UN INCUBO. Ma quest’ultima
parola, certamente non dovette scappare a Kafka.”
*
Anche Lampedusa aveva indicato tra i migliori libri di Chesterton, insieme
ad Ortodossia e ai racconti di Padre Brown, proprio L’uomo che fu
Giovedì (1908):
> “è un conte philosophique di Voltaire in ambiente mondano e soprattutto, col
> bersaglio mutato. In esso s’intende deridere la scienza moderna e la filosofia
> sulla quale essa si appoggia, che finisce con l’identificare il Male al Bene.
> […] Ma a parte l’estrema maliziosità comune ad entrambi, essi [Chesterton e
> Voltaire] hanno il segreto del movimento rapidissimo che non lascia riflettere
> e la facoltà di saper incarnare in personaggi viventi le più astratte opinioni
> filosofiche. Il buon umore continuo, l’attitudine caricaturale, le subitanee
> frasi rivelatrici d’inaspettate profondità teologiche fanno di questo
> romanzetto un capolavoro.”
Tra l’altro, già nel 1999, all’alba del nuovo millennio, Leys ne consigliava la
lettura accostando questo romanzo soltanto a L’agente segreto di Conrad (scritto
negli stessi anni, a cui anche dedicò un articolo intitolato “‘Je ne suis pas
d’ici’: Joseph Conrad e L’Agent secret”) includendolo nei “tesori dimenticati”
della letteratura del novecento, con la motivazione: “È l’unico romanzo
nell’intera storia della narrativa, nel quale si è potuto introdurre Dio come
plausibile personaggio!”
Sullo sfondo di questa cosmica detective story, con poliziotti e agenti segreti
che rincorrono anarchici e pessimisti (“L’investigatore comune va nelle bettole
ad arrestare i ladri, noi andiamo nei salotti culturali a scovare i
pessimisti”) occupato dall’ambigua figura del presidente del Consiglio anarchico
Europeo, soprannominato Domenica, si svolge un adrenalinico combattimento
metafisico – che, prestandosi a diversi livelli di interpretazione, lascia al
lettore anche dopo diverso tempo alcuni interrogativi esistenziali: come avere
la certezza che quel facciamo è giusto o sbagliato? Siamo davvero sicuri di
sapere contro chi stiamo combattendo? E sappiamo per davvero, nei nostri sforzi,
quando siamo nella direzione giusta?
Difficile rispondere, ad ogni nuova situazione concreta, ed è proprio questo
l’incubo che Chesterton qui inscena, mettendo i suoi personaggi sulla strada di
prove sempre più estreme (“si ricordava di come la paura per il Professore
assomigliasse a quella che generano gli eventi incontrollabili di un incubo e di
come la paura per il Dottore assomigliasse a quella del vuoto soffocante della
scienza”…) con un esito sempre inaspettato, senza che tuttavia si tirino mai
indietro di fronte ad esse. E cogliendo un aspetto profondo della sua – e della
nostra società.
Andrea Corsi
*
Da L’uomo che fu Giovedì
“In fondo, non era forse vero che tutto, come in quel bosco incantato,
consisteva in una danza tra il buio e la luce? Ogni cosa è solo un bagliore, un
bagliore che giunge sempre inaspettato e che sempre viene subito dimenticato.
Ecco che Gabriel Syme aveva trovato nel fitto di quel bosco punteggiato di luce
ciò che vi trovarono molti pittori moderni: era ciò che la gente moderna
definisce Impressionismo, un altro nome per identificare quello scetticismo
estremo, incapace di trovare le fondamenta dell’universo.”
“Syme balzò in piedi, fremendo dalla testa ai piedi: «Ora capisco, – gridò –
capisco tutto. Perché ogni singola cosa sulla Terra fa guerra a tutte le altre?
Perché ogni piccola cosa esistente al mondo deve combattere contro il mondo
intero? Perché una mosca deve combattere contro l’intero universo? Perché un
dente di leone deve combattere contro l’intero universo? Per lo stesso motivo
per cui io dovevo sentirmi da solo in mezzo al tremendo Consiglio dei Giorni: e
cioè, affinché ogni cosa che obbedisce alla legge possa avere la gloria e la
solitudine dell’anarchico, affinché ogni uomo che combatte in nome dell’ordine
possa essere tanto impavido e devoto quanto un terrorista. Solo così la bugia di
Satana può essere ritorta contro quella sua faccia da bugiardo, solo così noi
possiamo guadagnarci il diritto, attraverso le lacrime e il sangue versato, di
dirgli in faccia: ‘Tu menti!’. Nessuna sofferenza è troppo grande, se ci fa
guadagnare il diritto di dire in faccia a quest’accusatore: ‘Anche noi abbiamo
sofferto’.”
L'articolo Monumento a Chesterton, lo scrittore che poteva essere Kafka ma optò
per la felicità proviene da Pangea.
La chiamavano Squirearchy: un nome per un sistema, ovvero un’egemonia culturale
in grado di dominare l’intero panorama letterario britannico. E se a dirlo erano
quelli di Bloomsbury (dando man forte all’amico T.S. Eliot) – state pur certi –
il commento poteva diventare legge, per ingiusta che fosse la fama.
Dagli scribacchini delle maggiori testate giornalistiche ai poeti e critici più
influenti del primo Novecento, gli “Squirearchisti” si configurano come gli
eredi di un conservatorismo che potremmo definire – con le giuste misure
– tipicamente “georgiano”, intriso di nostalgia per un passato nazionale
spazzato via dalla Grande Guerra.
Non era quello del resto il mondo dei garden parties, abbondante di latte e
miele, in cui il privilegio di classe si misurava, in primo luogo, sui campi da
cricket e nei collegi più prestigiosi, dove venivano formati i figli dell’Impero
destinati alle cime dell’establishment? Una sorta di età dell’oro che
l’Inghilterra avrebbe provato ciecamente a rianimare durante il «lungo week-end»
interbellico (descritto da Robert Graves in A Social History of Great Britain
1918-1939), nascondendo le sue ferite dietro il fascino della tradizione.
Eppure, era svanito da secoli il sogno edenico di una «England’s green e
pleasant land», eretta sulle colline dell’innocenza di William Blake (And did
those feet in ancient time), dal futuro rigoglioso di «fresh woods and pastures
new», memore della profezia di Milton (come detta la pastorale Lycidas), lontano
anni luce dalla desolazione novecentesca.
Al vertice di questa élite di intellettuali e scrittori controcorrente che,
asserviti a un ideale comune, esercitavano ancora piena autorità nel mondo delle
lettere, spicca il genio poliedrico di John Collings Squire. Poeta, giornalista
e editore di base al “London Statesman” (per cui scrisse recensioni sotto lo
pseudonimo di “Solomon Eagle”), all’inizio della sua carriera si distinse sulle
colonne della rivista fabiana per la dote eccezionale nella parodia.
Riconosciuto ben presto dalla critica come uno degli uomini più colti e
versatili del suo tempo, era pure un militante tradizionalista in campo poetico,
una vera e propria spina nel fianco per la controparte modernista che avrebbe
cambiato una volta per tutte gli orizzonti contemporanei.
J.C. Squire (1884-1958), l’ultimo leader georgiano
Fra gli studenti di spicco del St John’s College, il talento di Cambridge –
laureato in storia e traduttore di Baudelaire – si era fatto strada nella
capitale grazie alla serie di antologie curate da Sir Edward Marsh – cinque in
tutto e dalla vita breve – sotto il titolo solenne di Georgian
Poetry (1911-22). Insieme a Lascelles Abercrombie, Walter de La Mare e al
capofila Rupert Brooke, figura negli ultimi tre volumi, trovando posto accanto a
penne del calibro di John Masefield, Robert Nichols e John Drinkwater. Sulla
scia dei compagni – i quali si consideravano a loro modo moderni e progressisti
per l’epoca –, anche Squire, in quella fase, componeva versi ispirati dalla
bellezza della natura, profusi d’amor patrio (per ciò additati dai posteri di
non poco sentimentalismo) e devoti a un’agreste “Merry England”. Prendendo a
modello i classici – dal “Green World” di Shakespeare e l’Arcadia di Sidney alle
ballate romantiche –, i giovani Georgians intendevano estirpare dalla poesia
inglese la densità stilistica e la carica retorica di un vittorianesimo fuori
tempo, riportandola al lessico ordinario e alla purezza formale di un primo
Wordsworth.
Con la ripartenza postbellica, fu proprio Squire ad assumere il ruolo di tenace
oppositore delle tendenze radicali (Eliot e Pound erano già sulla
scena), difendendo l’esperienza georgiana fino agli ultimi fuochi. Per queste
ragioni, diede alle stampe la sua antologia di idoli poetici, Selections from
Modern Poets (1921; ristampata a più riprese lungo un decennio). La silloge
epocale non mancava di includere alcuni autori sfuggiti volutamente dall’indice
di Marsh come dal successivo Oxford Book of Modern Verse 1892–1935 (pubblicato
nel ’36 da W.B. Yeats), in specie i poeti di guerra Wilfred Owen e Charles
Sorley, per non tacere l’orrore del fronte. Infatti, se non lo si può annoverare
strettamente fra i poeti combattenti, il noto curatore (risparmiato dalla leva
per problemi alla vista) era comunque un war poet di protesta – a dire il vero,
uno dei primi, alla pari di Siegfried Sassoon – attivo sull’home front. In
quanto tale, non poté trascurare le pagine più terribili e toccanti della storia
umana, ora macchiate dalla descrizione di fetide trincee ora puntellate da
invettive di accesa satira politica.
A interrompere quel filone poetico dalle dimensioni utopiche, il 1922 –
ricordato come l’annus mirabilisdella letteratura anglofona – segnò la svolta
definitiva, una cesura dirimente sfociata in un dibattito critico tra tradizione
e modernità. In sostanza, lo schieramento vedeva l’autore della Waste Land e i
suoi fervidi seguaci contro la coterie formata da Robert Bridges (Poeta Laureato
fino al ’30) e georgiani: una lotta tra titani, non excludit alterum.
Inesorabilmente, dopo gli anni del conflitto, il lavoro monumentale di quei
poeti ragazzi precoci e brillanti, che si impegnarono con ardore nel progetto
sostenuto dal patrocinio di Marsh – al fianco di Harold Monro che li ospitava
presso il suo Poetry Bookshop –, poteva dirsi concluso e superato da istanze
sperimentali ritenute più adatte a rappresentare i rapidi mutamenti spirituali,
epistemici e culturali del nuovo secolo. Da qui, l’oblio – di cui purtroppo
siamo testimoni tutt’oggi – della poesia d’anteguerra, destinata a cadere nel
baratro dell’anacronismo perché sintomatica di quel “mondo di ieri” stravolto
dalle bombe, che il pubblico di lettori volle allontanare dalla vista e dal
cuore.
All’enorme interesse editoriale del tempo fece quindi seguito una sfortunata
ricezione, a cui contriburono i pareri di una critica insofferente a stilemi e
toni non più riproducibili nell’era moderna. Al netto delle singole esperienze
poetiche pressoché eterogenee (si pensi al camaleontico Brooke e ad altri che vi
entrarono di sguincio, come D.H. Lawrence), da una parte le forme metriche ormai
desuete apparivano troppo ancorate alla classicità, dall’altra la vena
nostalgica e il riparo bucolico entro il confine delle contee assimilavano il
profilo del Georgian poet a quello di un arcade moderno. Cantore della vita
semplice e abitante di una realtà rurale rimasta ai margini dello spaesamento
metropolitano, il timbro imperiale era capace di prestare le proprie corde a
un’armonia perduta nel caos contemporaneo, estraneo in definitiva all’apertura
trasnazionale del Modernismo.
In questo complesso scenario, J.C. Squire divenne, assieme ai “suoi”,
l’animatore di punta di una polemica incendiaria, arrivando a monopolizzare –
fino alla saturazione, secondo l’acuto Alec Waugh – le vette delle principali
riviste letterarie, dal “New Age” allo “Statesman”. Con alacrità, il portavoce
del gruppo investì tutte le sue energie, come scrittore prima ancora che come
editore, per tenere alto lo stendardo reale anche dopo la dispersione dei suoi
membri (alcuni dei quali morirono in servizio militare nel fiore dell’età).
A tarpargli le ali, nell’immediato dopoguerra, il giudizio poco lusinghiero
di Virginia Woolf, e con lei quello dissacrante di Lytton Strachey, saettava
nell’opinione pubblica come una sentenza che non gli rendeva affatto giustizia
come letterato. Per la regina di Bloomsbury, era solamente un tipo “volgare, […]
più ripugnante di quanto si possa esprimere a parole, e perfido nei suoi
malaffari”, mentre l’eminente Strachey lo definì “un lurido verme”. Molti, poi,
ne riconobbero l’enome potere persuasivo, tacciandolo di orientare il parere del
pubblico fino a dominare il mondo giornalistico con le sue frivolezze: “Se ce la
fa, sarà difficile vedere qualcosa di buono”, affermò l’acerrimo nemico T.S.
Eliot (nonché futuro direttore per i tipi Faber). Secondo Robert H. Ross (The
Georgian Revolt, 1967), intorno al 1920 Squire era sulla buona strada per creare
una cerchia letteraria right-wing tanto influente quanto i circoli di sinistra,
in diuturna competizione con l’Athenaeum presieduto da John Middleton Murry
(marito di Katherine Mansfield).
Per coloro che l’avevano conosciuto in amicizia e per contratto, invece, era un
modello di dissimulazione e simpatia affettata, dalla scusa sempre pronta, ma
anche un uomo generoso, infaticabile nel suo lavoro e, senza ombra di dubbio, un
vero intellettuale engagé. Di casa ai ricevimenti dell’aristocratica Lady
Ottoline Morrell, l’allegro personaggio mondano dalla parlantina accattivante –
espertissimo di formaggio Stilton come dell’ultima uscita editoriale – adunò una
larga schiera di giovani promesse (a esclusione dei rivali bloomsburiani). Nel
1927 fu perfino commentatore radiofonico nei tornei di Wimbledon e creò una
propria squadra di cricket, The Invalids, composta da reduci di guerra rimasti
feriti in azione, che avrebbe fatto invidia ai vecchi Allahakbarries (per
intenderci, Conan Doyle, J.K. Jerome, eccetera) capeggiati da James Barrie.
La scalata verso il successo lo aveva lanciato, dal 1919, negli uffici del
mensile “London Mercury”, una delle prime riviste a carattere esclusivamente
letterario, da lui riportata in auge con un’intensa attività di redattore (che
gli valse nel 1933 il titolo di cavaliere del Re, dunque fu eletto Sir).
Associato a un sostrato upper-middle class, il periodico diventò sotto la sua
ala l’avamposto georgiano per antonomasia. D.H. Lawrence vi contribuì con la
poesia Snake (1921) e più tardi tornò sul pezzo in Nettles:
> Quando Mercurio arrivò a Londra
> Lo fecero “sistemare”.
> Lo salvarono da tante associazioni indesiderate.
> A questo punto tutte le ziette lo adorarono
> Perché, vedi, non è “né carne né pesce, mia cara!”
I rapporti altalenanti con l’enfant terrible del romanzo inglese duravano da
quando, in una recensione del 1915 a The Rainbow, Squire lo aveva sì difeso
dalle accuse di indecenza ma senza nascondere il suo disappunto per lo scarso
valore letterario del libro. Così un furioso Lytton Strachey rispose: “Siano
dannati i suoi occhi!”.
A darne un’impietosa caricatura si precipitò anche il maestro della
satira Evelyn Waugh nel romanzo d’esordio Decline and Fall (1928). In queste
pagine, l’accanito georgiano incarna la figura di editor fazioso
dell’immaginario “London Hercules”, Mr Jack Spire, e certi suoi tratti si
nascondono dietro l’eccentrico Augustus Fagan, Esquire (Cavaliere), PhD in
filosofia e rettore presso il Castello di Llanabba (sede della peggiore public
school del Galles). O ancora, nel romanzo England, Their England (1933) è il
bersaglio comico di A. G. Macdonell, nei panni di Mr. William Hodge, il leader
sfacciato del “London Weekly”.
Come i suoi alter ego letterari, quella di Squire è a tutti gli effetti una
storia di trionfo e fallimento. Dal bel mondo di Londra alla consunzione fatale
per alcolismo, una volta caduto in disgrazia, si ritrovò isolato dal giro
dell’alta società conosciuta in gioventù. Dopo essere stato lettore per
Macmillan e tornato a recensire per il settimanale “Illustrated London
News”, col tempo la fiaschetta facile prese il posto della penna. Avversato
dagli augusti Sitwell e assalito da violente accuse di fascismo (per aver
incontrato il Duce in qualità di membro dell’esclusivo January Club) si ritirò
in un remoto cottage, che andò distrutto in un incendio, e da lì in una magione
del Weald. Ma il crollo finale giunse alla perdita del figlio Maurice, ucciso
nella Seconda guerra mondiale.
Tra successi e dispute letterarie, il vecchio Jack scomparve nel 1958 dopo una
lunga e mirabile carriera. Degli anni ruggenti che lo videro protagonista era
scomparso quasi tutto, compreso l’ideale per cui aveva combattuto.
Ciononostante, la sua apologia resta scritta, come una rivelazione, ne La legge
del più forte (1916):
“Questi erano i miei amici; Strachey, tu non li conoscevi,
Perché erano uomini semplici, senza pretese […]
Se solo avessero avuto il privilegio di radunarsi
Ai piedi di Gamaliele, avrebbero capito
Che anche l’odio e il massacro hanno il loro splendore,
E che l’uomo non può vivere di solo Amore […]
Davanti ai loro occhi si ergeva
L’Inghilterra, crociata immemoriale,
Una grande statua-sogno, assisa e serena,
Che molto sangue aveva versato, e figli traditori,
Ma ancora risplendeva con mani e vesti intatte […]
E Lei, pur significando un passaggio amaro e veloce,
Dovevano servire, poiché Lei serviva la Libertà,
Romanzo e retorica! Eppure, nutriti da tali sciocchezze,
Affrontarono i cannoni, i morti, i topi e la pioggia.
E tutti, in un mese, mentre l’estate svaniva, perirono;
Avevano occhi limpidi, corpi forti, e anche un po’ di cervello.
Strachey, questi sono morti. Che bisogno c’è di dire altro?”
*
Un canto
I teneri petali cadono e l’albero che ondeggia lieve
Ha conosciuto molte primavere e ha visto molti petali,
Anno dopo anno, spargersi sui verdi sentieri silenziosi,
Sulla statua, lo stagno e il basso muro pieno di crepe.
Sbiadito è il ricordo delle vecchie cose che furono,
La pace aleggia sulle rovine di antichi banchetti;
Esse giacciono e scoloriscono nel calore del sole,
E un cielo azzurro-argenteo si incurva su tutte loro.
Così dolcemente, teneramente, adesso il cuore si desta
Con desideri lievi e informi; e, senza cercare, trovo
Pensieri quieti che guizzano come martin pescatori azzurri
Sul placido specchio illuminato della mente.
*
Sonetto
C’era un indiano, rimasto sempre giovane,
Che vagava sereno lungo una spiaggia assolata
Raccogliendo conchiglie. D’improvviso udì uno strano
Rumore confuso: alzò lo sguardo; e restò senza fiato.
Perché nella baia, dove non c’era niente prima,
Avanzavano sul mare, come per magia, grandi canoe,
Con le vele gonfie sugli alberi, senza neanche un remo,
Le insegne colorate sventolavano e le ciurme si arrampicavano.
E lui, impaurito, quell’uomo solo e senza vesti,
Le mani cadute, dimentiche di tutte le conchiglie,
Le labbra impallidite, si inginocchiò dietro una roccia,
Fissava, vedeva, ma non comprendeva,
Le caravelle di Colombo, gravide di destino,
Inclinarsi verso la riva, e tutti i loro marinai pronti allo sbarco.
*
Paradiso perduto
Quali colori possedeva la luce del sole e quant’erano ricche le ombre,
Le ombre azzurre e intricate che cadevano dai rami incrostati
Di meli deformi sull’erba del frutteto.
Quale blu celestiale era il colore di due uova lisce e morbide
Immerse nel fango arrotondato che rivestiva il nido del tordo:
E quale profondo piacere davano le macchie che le punteggiavano.
E quel piccolo ruscello che correva da siepe a siepe,
Ombreggiato dagli alberi e scintillante nei raggi del sole,
Quant’era limpida l’acqua, i letti piatti di sabbia
Con bolle di riflessi vaghi, ciascuno un piccolo mondo dorato
Ai miei occhi incantati. Allora la terra mi appariva nuova.
Ma ora cammino su questa terra come fosse un ripostiglio,
E a volte vivo una settimana, vedendo solo semplici erbe,
Pietre e uccelli migratori: né guardo qualcosa
Per abbastanza tempo da sentirne l’assalto calmo e deliberato:
La sua forza, la sua parola, il suo cuore regale.
L’infanzia non tornerà; ma non ho forse la volontà
Di tendere la mia mente torbida, che fertilizza ogni cosa esteriore,
E, aperto di nuovo a tutti i miracoli della luce,
Vedere il mondo con gli occhi di un cieco che torna a vedere?
*
Luce stellare
Ieri notte giacevo in un campo solitario
E guardavo le stelle con le labbra sigillate;
Nessun rumore muoveva l’aria senza vento,
E guardavo le stelle con sguardo fisso.
Ce n’erano alcune che scintillavano e altre che brillavano
Con un bagliore morbido e uniforme, e una
Che regnava sul circolo sparso,
Oscillando la schiera con tacito suono.
“Calme creature,” pensai, “nella vostra caverna azzurra,
Imparerò a conoscervi, a trattenervi e a dominarvi;
Vi metterò al giogo e vi irriderò come posso,
Perché l’orgoglio del mio cuore è l’orgoglio di un uomo.”
Con l’erba sulla guancia nel campo rugiadoso,
Giacevo immobile, le labbra serrate
E l’orgoglio di un uomo dallo sguardo rigido
Che cavalcavano come spade i sentieri del cielo.
Attraverso un varco imprevedibile si insinuò
L’Universo, spargendosi sulla mia anima;
Veloci andarono il respiro e il cuore,
E guardai le stelle a labbra socchiuse.
*
La morte di un cane
La grossa zolla di terra cade nella fossa come un respiro tranquillo e regolare;
Troppo simile al suo, per un attimo il suono mi inganna:
Copre il mucchio di felci che il giardiniere ha posto sopra di lui;
Il badile oscilla silenzioso: eccola la sua tomba.
Una chiazza di terra fresca sul pavimento della camera fertile del bosco:
Tutto intorno l’erba, il muschio e i germogli verde scuro del giacinto;
E sopra gli alberi, querce già vecchie quando il suo cinquantesimo antenato era
un cucciolo;
E distanti, nel giardino, sento le grida dei bambini.
La loro gioia è lontana come un sogno. È strano come comperiamo il nostro dolore
Per toccare cose che periscono, oziosamente, con gli occhi aperti;
Come diamo i nostri cuori a bestie moribonde che durano poche stagioni,
Senza curarci di ciò che facciamo quando lo facciamo; né vorremmo altro.
*L’introduzione, la scelta e la traduzione dei testi sono di Pierluigi Piscopo.
*Per approfondire la vita e l’opera di J.C. Squire si consigliano i seguenti
volumi:
P. Howart, Squire. ‘Most generous of men’, Hutchinson, 1963.
J. Smart, Shores of Paradise. The Life of Sir John Squire: The Last Man of
Letters, Troubador, 2021.
T. Rogers, a cura di, Georgian Poetry 1911-22: The Critical Heritage, Routledge,
2013.
K. Hale, a cura di, A Compilation of Georgian Poetry 1911-22, Watersgreen House,
2016.
In copertina: John Mansbridge, Ritratto di Sir John Collings Squire, 1933-34.
L'articolo “Diamo i nostri cuori a bestie moribonde”. J. C. Squire, il critico
più odiato degli anni Venti proviene da Pangea.
In un articolo pubblicato sulla “London Review of Books” nel marzo del
1993, Under the Sphinx, Alasdair Gray, l’istrionico scrittore scozzese che
l’anno prima aveva pubblicato Povere creature!, esalta, con il suo linguaggio di
fulmini e coltelli, un libro – o meglio, un poeta. Il libro s’intitola Places of
the Mind, lo ha scritto un ‘collega’ di Gray, Tom Leonard (1944-2018), noto, più
che altro, per le poesie – masticate nel dialetto di Glasgow – e gli studi
critici, tesi a dimostrare l’autentica autarchia della letteratura di Scozia. Un
paio di anni prima, aveva pubblicato un acceso poemetto contro la guerra in
Iraq, On the Mass Bombing of Iraq and Kuwait, commonly known as The Gulf War. In
quel libro – Places of the Mind –, “un’autentica opera d’arte più che uno studio
critico” (così Gray), Leonard racconta “The Life and Work of James Thomson”,
geniale, oscuro, misconosciuto poeta nato a Port Glasgow nel novembre del 1834 e
morto, quarantasettenne, a Londra. Abusava di oppio, fece della poesia –
drammaticamente – la propria ragione di vita; nelle rare fotografie ha la barba,
lo sguardo tra il rabbioso e il rassegnato. Secondo Gray, “la vita di Thomson
riflette lo stato della Gran Bretagna in modo più completo di altri autori della
propria epoca, ad eccezione di Gerard Manley Hopkins e di Thomas Hardy”.
L’opera più nota di Thomson, il poemetto The City of Dreadful Night (in Italia
ne esiste una versione a cura di Mili Romano, stampata da Panozzo nel 2000),
uscito in edizione definitiva a Londra, per Reeves and Turner, nel 1880, pare
abbia ispirato la “Unreal City” su cui si incardina La terra desolata di Thomas
S. Eliot, è dedicato To the memory of the younger brother of Dante, Giacomo
Leopardi, “Spirito vertiginoso, genio radicale, finito tragicamente”. A dire di
Gray, The City of Dreadful Night nasce sotto l’egida della Melancolia di
Albrecht Dürer:
> “L’Inferno secondo Thomson è la città moderna, dove il sole non sorge mai, la
> gente vaga insonne per le strade, priva di fede, speranza, amore… Shakespeare
> ha descritto un universo privo di senso ben prima di Thomson e con parole ben
> più memorabili, ma i suoi portavoce sono re folli, comunque, personaggi
> importanti, eroici. Gli abitanti della City di Thomson, invece, sono creature
> anonime, esseri cupamente stoici. Alcuni, rammemorano una vita in cui hanno
> cercato di fare del bene: risvegliatisi ‘in questa notte totale’ hanno capito
> che la memoria è un’illusione”.
Figlio di un maggiore della marina mercantile, madre profondamente religiosa,
sconfitta da un perpetuo senso di colpa, morta che lui aveva sette anni, Thomson
cresce al Caledonian Orphan Asylum, tenta la via del giornalismo, vive, in
sostanza, di stenti. Scrisse sul “Secolarist” e sul “National Reformer”, firmava
i suoi versi B.V., ovvero Bysshe Vanolis, in onore dei suoi miti, Shelley e
Novalis. George Eliot e Meredith riconobbero a Thomson le stimmate del genio;
l’autore non aveva modo – cioè: soldi – per farsi notare tra i club dei
letterati dell’epoca. Henry Stephens Salt – biografo di Shelley e di Thoreau –
nella nota su Thomson redatta per il Dictionary of National Biography, scrisse
di “uno spirito indomito congiunto a una nefasta malinconia”, di uno “zelo
ardente per la democrazia e il libero pensiero che si coagulava a un’ostinata
diffidenza nel progresso umano”. Disse che più che a De Quincey, la sua ricerca
lirica si legava a Heinrich Heine, che aveva tradotto.
James Thomson (1834-1882)
Di contrasto ai grigi orrori della vita ‘moderna’, Thomson si figurò un Egitto
dei sogni, proteso – come tutti gli esotisti dell’Ottocento, stretti tra Le
mille e una notte e le visioni degli antichi poeti persiani – verso un Oriente
che in lui, tuttavia, ha tinte dispotiche, cannibali (così almeno nella raccolta
postuma A Voice from the Nile, and Other Poems, 1882). Non si permise di avere
pace, tentò di credere, ma di Dio intravedeva soltanto le vertigini, le vette
feline di chi chiede tutto per quasi nulla, un refolo di quiete. A suo avviso, i
poeti dovevano sondare la disperazione – anche quando è rattenuta da muta
nostalgia – e i filosofi il mistero della morte.
La nota della Encyclopædia Britannica che lo riguarda mette in luce le debolezze
di questo ‘stile’: monotonia, palustri lungaggini, “mera retorica e verbosità”.
James Thomson – la cui forma eletta è il poema, un dire che sa di pilastro,
anacoresi da stilita –, in sostanza, è uno di quei poeti che riescono bene in
regesto antologico, in grado di riferirne l’eccezionalità: “Inutile classificare
questo poeta: la sua angusta ma solitaria altezza gli garantisce il ruolo di una
ben distinta originalità… Pur con i suoi limiti, il tempo dimostrerà che la sua
è un’opera straordinaria quanto unica”.
Anche in Italia era noto: Salvatore Rosati redige per la “Treccani” (edizione
1937) una nota tutto sommato esatta:
> “Temperamento ricco d’immaginazione ma con un vivo senso della realtà; mosso
> da elevate aspirazioni spirituali ma prostrato da una grave melanconia e dallo
> scetticismo verso ogni forma di umano progresso, il Thomson ha tratto da
> queste tendenze contrastanti una poesia cupa, fortemente drammatica,
> intimamente simbolica”.
Alasdair Gray ‘canonizza’ Thomson “Nel club delle rare anime capaci di
confrontarsi con il peggio, le anime depresse per cui la poesia agì come un
tonico. Se leggiamo Thomson con acume, scopriamo che del suo mondo fanno parte
Leopardi e Schopenhauer, Baudelaire, Melville, Thomas Hardy e l’autore
dell’Ecclesiaste”. Lo scozzese non ha sbagliato mira. Quanto a Leopardi, è stato
il nume totale di Thomson, che realizzò una traduzione mirabile – a detta dei
critici – delle Operette morali e dei Pensieri (gli Essays, dialogues and
thoughts di Leopardi a cura di Thomson uscirono soltanto nel 1905, per la cura
di Bertam Dobell).
Quanto a Melville, Thomson fu la bella lettura della sua vecchiaia. Era stato
l’oxfordiano Charles James Billson (1858-1932), altrimenti noto per una
scolastica traduzione dell’Eneide e per uno studio sulle tradizioni medioevali
di Leicester, a fargliene dono. Gli scrisse la prima volta nell’ottobre del
1884: Melville viveva ormai da semisconosciuto, sepolto nelle sue lugubri
riflessioni oceaniche – “Nessuno sembra sapere nulla del solo grande scrittore
di immaginazione che possa stare alla pari di Whitman su quel continente”, aveva
scritto Robert Buchanan –, i romanzi esauriti da anni. Chiedendogli notizie
“di altri miei libri” – White-Jacket, Clarel, Battle Pieces – gli fece dono dei
libri di Thomson. Il commento di Melville non si fece attendere:
> “Il vostro amico era un poeta genuino, se mai ve ne è stato. Quanto al suo
> pessimismo, per quanto io stesso non sia né pessimista né ottimista, tuttavia
> mi piace nei versi se non altro come risposta all’esorbitante fiducia,
> immatura e superficiale, che fa tanto chiasso ai nostri giorni, almeno in
> certi luoghi”.
Il rapporto epistolare tra i due durò qualche anno, concentrandosi quasi
maniacalmente sull’opera di Thomson. Nel poeta morto troppo giovane, spossessato
del successo, Melville riconobbe un altro se stesso:
> “Quanto al suo non aver ottenuto la ‘fama’, che significa? Non è per questo da
> meno, ma tanto maggiore. Deve esservi passato per la mente, come a me, che più
> la nostra civiltà avanza sulla linea attuale più a buon mercato diventa la
> ‘fama’, specie di tipo letterario. Questa specie di ‘fama’ una mia conoscenza
> burlona dice che può essere prodotta su ordinazione…”
>
> (H. Melville a J. Billson, New York, 20 dicembre 1885, in: H. Melville, Opere,
> a cura di M. Bacigalupo, Mondadori, 1991)
Da qualche tempo, anche come una reazione al ‘linguaggio’ del tempo, Melville
era tornato alla poesia. Pubblicava piccole placche, in tirature limitatissime
(venticinque copie): John Marr and Other Sailors esce dai torchi nel
1888; Timoleon, Etc. nel 1891. Forse la lettura di James Thomson, poeta
decentrato da una malia oscura, fiero della propria ricercata marginalità, lo
aveva rinvigorito, gli aveva conferito nuovo veleno lirico.
In cambio dei volumi di Thomson – compresa la raccolta di saggi al
vetriolo, Satires and profanities, anch’essa edita postuma – Billson avrebbe
voluto una fotografia di Melville. Il grande scrittore si scherma – “mi avete
chiesto una fotografia: non ne ho” –, poi parla di Blake – “Mi fa piacere
apprendere che Thomson era interessato a William Blake” – spalancando lo spazio
di un incontro. Gli altri si occupino pure di fotografie, meri calchi del
transitorio, Melville imbarcava una ciurma di poeti esagitati per cacciare la
Balena Bianca nell’altro mondo. Cosa può il tempo di fronte a questo sgarbo?
***
Da Una voce dal Nilo
Vengo da monti diversi, vivo sotto
stelle che non si riflettono su queste acque;
vago per vasti regni, per cieli capodoglio scorro
oltre dune arabe e libiche, per immergermi
nel grande Mare di Mezzo ed è mia
questa terra d’Egitto. Tutto è mio:
la palma e la colomba che la elegge a tana
i campi di grano e ogni fioritura
la pazienza del bue e il coccodrillo
l’ibis l’airone il falco
il loto e i papiri in falange
le barche dalle vele oblique
o le ripide che spezzano ogni ormeggio.
Perfino i volti possenti dei templi
con le colonne e le enormi effigi,
le piramidi e Memnone e la Sfinge
il Cairo e le città dei Greci
come Menfi e Tebe dalle cento porte
Sais e Dendera retta da Iside;
se sono cresciuti è perché li ho nutriti.
Se nego il mio flusso, carestia
devastante miete vittime tra gli uomini
che nulla hanno da mietere
e orrore e languore sgorgano ovunque;
quando, retrattile, ho deviato altrove
i miei eterni fiumi, gli antichi reami
si sono inariditi, fama infame li affligge,
ricoperti dalle sabbie del deserto:
scompaiono sepolti e dov’era oro
ora è silenzio solitudine morte.
L’esattezza del silenzio, mentre trottano
i venti sopra la desolazione, implacabile.
*
Da Despotismo temprato dalla dinamite
I miei schiavi, gente dei campi, lavorano
senza fine e dormono, da fatica sfiancati.
Non sperano in un mondo migliore
eppure, disperati, la morte non li avvinghia nell’incubo.
Si accontentano del loro scarso cibo, in pace –
con terrore guardo al giorno della mia incoronazione.
I palazzi sono la mia prigione;
in ogni cibo intravedo il veleno;
ovunque mi muovo, è timore
di esplosione, istantanea devastazione;
con terrore, ogni giorno, ogni notte, con
moltiplicata paura, guardo al giorno della mia incoronazione.
*
Da The City of Dreadful Night
A volte soltanto la rabbia, fredda
può mostrare gli sfregi della verità
nuda, spoglia di ogni inganno:
i falsi sogni, i falsi moniti,
le futili maschere della moina giovinezza
e in una specie di indocile innocenza
plasmare il dolore in vita, per quanto rozza.
Di certo, non scrivo per i ragazzi pieni
di speranze, per chi crede nella felicità
e pascola e ingrassa tra gli spettacoli dell’esistere
senza provare dubbio, senza sentire carenza e carestia
non scrivo per gli spiriti buoni, allattati
da un Dio che li santifica e li ama
né per i saggi che vedono il paradiso in terra.
Per costoro non scrivo: non potrebbero
neppure leggere questo scritto – continuino
pure a prosperare nella loro giustizia
su questa dolce terra, veleggino
pure nei loro appropriati cieli. Queste parole
appartate importano ai desolati, ai rosi
dal destino, a quelli che desiderano morte.
Qualche stremato vagabondo, forse,
in questa città di tremende notti
capirà il mio dire, franerà in un fremito
compagno nella disastrosa lotta:
“Soffro, muto e solo, eppure un altro
ulula comune dolore e mi fa sentire
fratello sugli stessi sentieri selvaggi”.
Triste fratellanza, rivelo forse
misteri imbavagliati dal tempo?
No, nessun segreto può essere
rivelato a chi non lo ha visto.
Chi non è iniziato ai presagi
non può comprendere il verbo
che continuo a urlare.
*
Da Nuda divinità
D’improvviso, le bestie si accucciano;
gemono, sopraffatte; i popoli
cadono in ginocchio davanti
alla dea feroce e splendida
offesa per incuria;
flebile preghiera mormorano
inarticolate disperazioni
finché il suo aspetto altero
non si svolge in gentilezza.
*
Confessione
La Chiesa si erge laggiù, oltre il frutteto:
con quanta nostalgia contemplo le sue guglie!
Mistero eletto dal crepuscolo che si dissolve
in un fuoco dorato, come tenue incenso
dilaga all’alba e scava i cieli.
Quando il cuore sprofonda nel baratro
più fondo, un sussurro mi rincuora: è bello
entrare in chiesa, inginocchiarsi, pregare
per le persone che amiamo.
Ogni incredulità svanisce, la pace
scorre in noi come la campana nel Sabato.
L’anima risponde: Il buon riposo accade
quando appoggi il capo sul petto della Verità.
*
Da Il filosofo
Come vendicare la propria alterità?
Occhi che mendicano approdo, sondano
la superficie della terra, ascendono ai cieli,
investigano e ogni cosa si arrende a questo
arrembaggio: vuoto avvolge tutto
un fuoco divampa e sembra un fiore.
Perfora la bellezza e vede ossa
reticolo di vene, l’orrore della carne
sotto la pelle perlacea, giovane:
varca lo Spazio, vaga nella nebbia che tutto
avvolge, nuota nelle acque del Tempo nel nero
abisso; capisce che la Vita è un sogno
nel sonno eterno della Morte.
James Thomson
*In copertina: un acquerello di Victor Hugo
L'articolo “Di certo, non scrivo per chi confida nella felicità”. Storia & versi
di James Thomson, il poeta malinconico proviene da Pangea.
Nel 1950, scrivendo una recensione di The Lost Traveller, il secondo romanzo di
Antonia White, Evelyn Waugh colse l’occasione per dire la sua sulla letteratura
cattolica:
> «Molti hanno iniziato a dubitare che esista una cosa del genere. Ebbene, qui
> si può trovare in una forma completa e splendida. […] I personaggi sono tutti
> permeati dalla fede. Dio è l’influenza suprema nelle loro vite, […] e quando
> vi è la minaccia di un disastro, tutti si rivolgono alla preghiera. La loro
> religione è la loro vita, sebbene superficialmente siano occupati con altro.
> Non si tratta di “trascinare il cattolicesimo dentro”. È sempre lì, al centro
> della storia».
Per quanto poco conosciuta in Italia, la White – pseudonimo di Eirene Botting –
è stata una delle personalità più rappresentative di quella letteratura di marca
“papista” che conobbe una certa diffusione nella Gran Bretagna del Novecento, in
particolare nella prima metà del secolo.
La sua fu un’esistenza travagliata, segnata non solo dalla cronica mancanza di
denaro, ma anche da tre matrimoni falliti, da un rapporto complicato con le
figlie e da una serie di frustranti impieghi d’ufficio che le toglievano tempo
ed energie per la scrittura. Persino la sua fede, abbracciata da bambina in
seguito alla conversione dei genitori, non fu sempre salda e per parecchi anni
smise di praticarla. Infine, dovette sopportare pure il peso di una grave
malattia psicologica, da lei ribattezzata «la bestia», che minò non poco le sue
potenzialità creative (la questione è stata recentemente analizzata nel
dettaglio da Patricia Moran nel volume Antonia White and Manic-Depressive
Illness). Come sottolinea Jane Dunn, autrice di Antonia White: A Life, quello
della inglese
> «è un dramma di vasta portata che abbraccia grandi questioni di fede, i
> bisogni dell’anima, la lotta per diventare sia scrittrice che donna;
> l’impossibilità di essere moglie e madre quando si combatte per la propria
> sanità mentale».
Da ciò deriva la scarsità della sua bibliografia, che comprende quattro romanzi
parzialmente autobiografici, un epistolario, una manciata di poesie, qualche
articolo, delle traduzioni dal francese e una smilza raccolta di racconti; a
questi lavori vanno aggiunti due libri per bambini con protagonista una coppia
di gatti – gli animali preferiti della White – il primo dei quali, Mila e Cuor
di Leone, è ad oggi l’unica sua opera ad essere stata tradotta in italiano.
Nata nel 1899, tutto o quasi del suo destino umano e letterario fu deciso
nell’infanzia, quando venne mandata a studiare presso la scuola femminile
annessa al Convento del Sacro Cuore, a Roehampton, dove le suore, il cui ordine
era stato fondato da una santa francese, erano famose per mantenere una
disciplina ferrea. Lì imparò ad amare i libri e volle provare, appena
quindicenne, a scrivere un romanzo. Nelle sue intenzioni doveva essere la
classica storia di un peccatore che cambia vita; peccato, però, che il
manoscritto, ancora fermo alla prima parte, quando il protagonista è immerso nel
vizio, venne scoperto e giudicato scandaloso. La conseguente espulsione fu un
duro colpo e da allora la White non fu più in grado di mettere nero su bianco
nulla che non fosse in qualche modo legato alla propria esperienza personale. A
questo si aggiungeva un perfezionismo esasperato che la portava a riempire le
pagine di così tante correzioni da renderle quasi illeggibili, causandole di
riflesso parentesi intermittenti di blocco della scrittura.
Terminati gli studi alla St Paul’s Girls’ School, dopo vari rovesci sentimentali
e un ricovero di nove mesi in un ospedale psichiatrico, nel 1933 vide la luce il
suo primo e più famoso romanzo, Frost in May, oggi considerato un classico della
narrativa a sfondo scolastico, sebbene privo del lieto fine che solitamente
caratterizza il genere. La storia vanta uno stile limpido, distaccato, e
racconta le giornate di Nanda Gray, un’alunna del collegio cattolico di
Lippington, da cui però è infine allontanata a causa di uno spiacevole
incidente. Il titolo, suggerito all’autrice da un articolo sulle rose trovato in
una rivista di giardinaggio, sottolinea l’infelice destino di Nanda, a cui si
accompagna una critica non tanto alla Chiesa quanto all’autoritarismo e alla
miopia di un’istituzione educativa al limite del sadismo.
Durante la Seconda guerra, segnata da un’esistenza che non le aveva risparmiato
nulla, tornò definitivamente al cattolicesimo, una decisione motivata per esteso
in un volume del 1965, The Hound and the Falcon, che contiene una serie di
missive scambiate tra il 1940 e il 1941 con il sessantenne giornalista Peter
Thorp, ex seminarista che come lei aveva da poco riscoperto la fede.
Anche se la scrittrice seguitò a non condividere alcuni aspetti della dottrina,
specie quelli legati al sesso, e le sue simpatie erano tutte per gli
intellettuali più divisivi, mosse diverse critiche alle riforme liturgiche
introdotte a seguito del Concilio Vaticano II, ritenute impoverenti:
> «Nella messa ormai non c’è più spazio per il silenzio. Quando sono andata alla
> messa solenne in latino, sono stata profondamente scossa da un moto di
> nostalgia, [ma] sono stata pure colpita da quanto la liturgia abbia perso
> nella versione scarna che abbiamo oggi. Tutto quel lento e riverente rituale
> dà il tempo di apprezzare il significato mistico della messa. E persino
> l’ammirevole preoccupazione per le ingiustizie della società e gli ardenti
> preti “rivoluzionari” sembrano dare troppa enfasi a quello che si potrebbe
> definire il lato “materiale” del cattolicesimo – o forse “l’amore per il
> prossimo” a danno dell’amore per Dio».
Nel frattempo, grazie anche al supporto di alcuni amici scrittori come David
Gascoyne, Dylan Thomas e Graham Greene, dopo anni di gestazione, la White era
finalmente riuscita a pubblicare l’attesissimo seguito di Frost in May,
intitolato The Lost Traveller, a cui erano seguiti The Sugar House (1952)
e Beyond the Glass (1954). La protagonista, ribattezzata Clara, ancora una volta
ripercorre più o meno le medesime tappe esistenziali della sua autrice, finendo
per essere ricoverata a causa di un crollo nervoso.
I romanzi, di impianto troppo tradizionale per colpire i critici alla moda,
vennero accolti tiepidamente, col risultato che la White, oltremodo delusa,
lasciò incompiute le bozze di un quinto libro della serie, conosciuto col titolo
provvisorio di Julian Tye o Clara IV, e preferì trasferirsi per un periodo negli
Stati Uniti, occupando la cattedra di scrittura creativa al Saint Mary’s
College, affiliato alla Notre Dame University.
A salvarla dall’oblio letterario ci pensò Carmen Callil, fondatrice della Virago
Press, incontrata alla fine degli anni Settanta. Quest’ultima fece
ripubblicare Frost in May e i suoi seguiti garantendo alla scrittrice, di cui
divenne anche agente, una fama mai goduta prima.
Dopo la morte della White, avvenuta nel 1980, videro la luce il frammento
autobiografico As Once in May – incentrato sui suoi primi anni di vita– e i
diari, raccolti in due volumi. Nel 1982 la BBC acquistò i diritti dei romanzi e
ne trasse una miniserie in quattro episodi.
Grazie alla Virago, ancora oggi in prima linea nella promozione di una
letteratura “al femminile”, la scrittrice in perenne crisi creativa continua,
almeno in Inghilterra, a essere letta e amata. C’è da esser certi che nulla
l’avrebbe resa più felice.
Luca Fumagalli
L'articolo “I bisogni dell’anima”. Antonia White, una scrittrice “papista”
contro il Concilio Vaticano II proviene da Pangea.
In Italia, come si sa, è Giuseppe Ungaretti il traduttore complice di Blake:
edite in prima battuta nel 1965, le sue Visioni di William Blake sono
recentemente tornate in catalogo Mondadori. In entrambi i poeti agisce la
pratica dell’illuminazione più che dell’occasione, della visione prima della
vista. Ungaretti sa che la semplicità del poeta può apparire ostica al lettore:
si tratta di costruire un alfabeto per l’invisibile.
> “Lavoro alle traduzioni di Blake da più di sette lustri. È un poeta difficile.
> Sempre, anche quando è semplice come l’acqua. Ma c’è poeta, o un qualsiasi
> uomo che parli, che sia nel suo dire interamente decifrabile?”
I poeti, per favorire vaghe classifiche, possono dividersi in due classi: quelli
che ci mostrano le cose nascoste – i riverberi di ciò che l’uomo comune
non vede – e quelli che svelano il nascosto. Tra questi ultimi, vanno impilati
poeti aurorali come Blake, Hölderlin, Rimbaud, Emily Dickinson, figure di luce,
che incendiano, non per caso quasi del tutto postume. La fama non può cogliere
la fame di questi cannibali del segreto.
Ad ogni modo. Per il grande Ungaretti – un genio che ha fatto cattedra della
poesia – William Blake è portentoso alchimista del linguaggio, un idolo nella
virtù immaginifica; eppure – per quanto appaia assurdo, ma il poeta è il primate
dell’assurdo – nei testi di Blake occorre credere come nei libri biblici.
> “La cultura in Blake è sempre e solo conflitto, mai trasmissione di consenso o
> legittimazione. Di qui il rifiuto e anche l’incapacità di mediare con la
> razionalità della filosofia, dell’arte, della religione illuministica, e la
> ricerca di una contrapposizione sintetica… Alla razionalità illuminista che si
> regola sull’astrazione, sulla quantificazione e sul controllo, Blake
> contrappone l’illuminismo della visione e dell’immaginazione”.
>
> (Stefano Zecchi, “Nelle foreste della notte”, in: W. Blake, Opere, Guanda,
> Milano 1984)
In Blake il mito, riedificato in legioni bibliche – Urizen, Urthona, Tharmas,
Thiriel, Los… – non è esornativo, tanto meno nostalgico (come l’epica della
fiaba recuperata dai Romantici) ma attivo. Il poeta scava oltre la crosta dei
culti odierni per giungere alla prima covata del cosmo: dissotterra la prima
parola per pronunciare l’ultima. Ne Il matrimonio del cielo e dell’inferno il
poeta spiega – ma ogni spiegazione ha un incastro di virtù contraddittorie – il
suo agire:
“Gli antichi Poeti pensavano tutti gli oggetti sensibili come animati da
Divinità o da Genii, chiamandoli con i nomi e adornandoli con le proprietà dei
boschi, dei fiumi, delle montagne, dei laghi, delle città, delle nazioni, e di
qualunque altra cosa i loro sensi dilatati e numerosi potessero percepire.
E particolarmente studiarono il Genio d’ogni città e regione, dislocandolo sotto
la sua Divinità Mentale;
Finché si venne formando un Sistema, da cui alcuni trassero vantaggio e resero
schiavo il popolo col tentativo di rendere reali o di astrarre le Divinità
Mentali dai loro oggetti – e così ebbe inizio il Clero;
Trascegliendo forme di culto da favole poetiche.
E infine dichiarando che tali cose erano state ordinate dagli Dei.
Fu così che gli uomini dimenticarono che Tutte le Divinità risiedono nel cuore
dell’Uomo”.
A questa ingenuità – oppure: originalità del dio – anela William Butler Yeats,
il grande poeta irlandese. Il suo inseguimento di Blake comincia da ragazzo; in
uno scritto del 1897, William Blake e l’immaginazione, attacca così:
> “Ci sono stati uomini che amavano il futuro come un’amante e il futuro
> mescolava il suo respiro con il loro e scuoteva i capelli intorno ad essi e li
> celava alla comprensione della loro epoca. Uno di questi uomini era William
> Blake e, se si espresse in modo confuso e oscuro, fu perché parlava di cose
> per le quali nel mondo a lui noto non trovava modelli atti a esprimerle”.
>
> (In: W.B. Yeats, Magia, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, Milano 2019)
A differenza di Blake, aedo di un mondo a lui solo noto, Yeats, però, è un
druido. In Yeats agisce l’invisibile non l’oscuro. D’altronde, Yeats comincia
sul sentiero degli antichi miti irlandesi, manovra gli “inni antichi”; Blake
parla da un mondo in cui gli dèi sono defunti e le pietre, lungi da ogni magia,
sbadigliano. Nel sistema mistico di Yeats, A Vision, Blake occupa la “Fase
sedici”, insieme a Paracelso e a “certe donne belle”, costituita da “una
eccitazione senza meta” e da “un sogno antitetico”: “C’è sempre una componente
di delirio, e quasi sempre il piacere di certe immagini splendenti o luminose di
forza concentrata: la fucina del fabbro; il cuore; la forma umana nella sua
massima vigoria; il disco solare; qualche rappresentazione simbolica degli
organi sessuali; perché l’essere non può fare a meno di vantarsi del suo trionfo
sulla propria incongruità”.
A differenza di Yeats, sintonizzato sul ‘profeta’, Thomas S. Eliot, preferiva il
poeta. In un saggio uscito in origine su “Athenaeum” nel febbraio del 1920
scrisse che “La poesia di Blake ha la sgradevolezza della grande poesia”,
scrisse che Blake, lungi dall’essere “un ingenuo, un selvaggio, una bestia sacra
ai supercolti” era un poeta i cui lacerti lirici “si ritrovano in Omero,
Eschilo, Dante e Villon e, nascostamente, nell’opera di Shakespeare”.
Ossessionato dal lignaggio, Eliot ha bisogno di un ‘canone’, di una
‘istituzione’: eppure, non erra quando dice che è “terrificante e spaventosa” la
“brutale onestà” di Blake – è il lavorio di chi strappa i veli, di chi denuda le
forme. Il bello abbaglia.
Blake morì d’estate, il 12 agosto del 1827, in stato d’estasi: “componendo e
cantando poesie al suo Creatore”. Pur sulla soglia dell’indigenza, era scortato
da radi allievi: la sua figura ardeva come un lume – mungitura di lingue
araldiche attorno a lui. Quasi subito, un po’ tutti cercarono di carpire le
ragioni di una mente eccentrica quale quella di Blake. Nel 1825 su “Urania; or,
the Astrologer’s Chronicle, and Mystical Magazine”, Merlinus Anglicus, The
Astrologer of the Nineteenth Century, pubblicò l’oroscopo di Blake. Era l’ultimo
‘servizio’ del primo e unico numero di “Urania”: la rivista, edita a Londra, al
24 di Fetter Lane, sotto gli auspici della “Metropolitan Society of Occult
Philosophers”, pubblicava, tra l’altro, un articolo sulla simbologia del drago e
un profilo dei “rimarchevoli eventi astronomici” accaduti quell’anno;
naturalmente non mancavano le Predictions for 1825.
Dietro la maschera di “Merlinus Anglicus” si celava Robert Cross Smith
(1795-1832), astrologo, nativo di Bristol, meglio noto con lo pseudonimo di
“Raphael”. Nell’era dei giornali e dei ‘fatti’ si occupava di geomanzia,
nell’epoca della ferrovia a vapore – la “Stockton & Darlington Railway” fu
inaugurata nel Regno Unito proprio nel 1825 – si dava all’antica arte di
divinare gli astri. Inventò riviste e almanacchi – “The Straggling Astrologer”;
“The Prophetic Messenger”; “Raphael’s Ephemeris” – di effimera durata.
Nativity of Mr. Blake è uno dei documenti più eccentrici sorti intorno alla
personalità inarginabile di Blake. Lo ha pubblicato Arthur Symons nel 1907
in William Blake, a biography and selection of contemporary sources; lo
replichiamo in appendice. Tra le varie testimonianze, affascina quella della
scrittrice inglese Charlotte Campbell, reperita nel suo diario. La signora –
sposa, in seconde nozze, al reverendo Edward Bury, dama di compagnia di Carolina
di Brunswick, principessa del Galles – incontrò Blake nel gennaio del 1820, “una
di quelle rare persone che praticano l’arte per la sola felicità che essa gli
reca”. La donna fu folgorata dalla “splendida immaginazione e genialità” di
Blake:
> “Il signor Blake ignora tutto ciò che riguarda questo mondo e, da ciò che
> dice, temo sia tra le anime rare i cui sentimenti sono di gran lunga superiori
> alla propria situazione sociale. Appare sfinito, disfatto; ma il suo volto si
> illumina quando parla della sua attività. Immagino che raramente incontri
> qualcuno che condivida le sue idee: sono così estreme da elevarsi sopra il
> comune livello delle opinioni apprese. Non ho potuto fare a meno di comparare
> il genio di questo umile artista con quello del potente Sir Thomas Lawrence:
> Blake è certamente più degno di fama, per distinzione, rispetto a
> quest’ultimo. Il signor Blake, tuttavia, manca di quella saggezza mondana e di
> quella scaltrezza nei modi che permettono a un uomo di raggiungere un qualche
> successo in società. Ogni sua parola esprime l’esterrefatta semplicità della
> sua mente, una totale ignoranza nelle questioni mondane”.
Che ‘quadro’ meraviglioso: nell’idiota si rivela l’errore del ‘sistema’, la
sfasatura, il punto in cui le cose si ricollocano nell’innocenza originaria. Nel
primato di Adamo. Più che essere stigmatizzato dagli astri, Blake, all’equinozio
del mondo, divora le stelle.
**
L’oroscopo di William Blake. L’artista mistico
L’oroscopo qui riportato si calcola secondo la stima dell’ora di nascita di
William Blake, soggetto ben noto tra gli esperti per la sua peculiare e
ineguagliata genialità, per la vivida immaginazione. Le sue illustrazioni del
libro di Giobbe gli hanno riservato diversi elogi; in effetti, nei modi che
adotta questo artista non ha pari ai giorni nostri. Blake non era meno
eccentrico e stravagante nelle proprie idee: pareva avere profonde relazioni con
il mondo invisibile e secondo i suoi racconti (nei quali si dimostra certamente
sincero) dice di essere stato sempre circondato dagli spiriti dei defunti di
ogni epoca, nazione e paese. Afferma di aver avuto conversazioni con
Michelangelo, Raffaello, Milton, Dryden oltre che con i protagonisti
dell’antichità. Il suo ultimo poema gli è stato sussurrato dallo spirito di
Milton; i disegni mistici di questo gentiluomo non sono meno curiosi e degni di
nota per chi si libra oltre le trappole dell’elemento terreno, a cui spesso
siamo fin troppo incatenati per poter comprendere la natura e le azioni del
mondo degli spiriti.
I dipinti del Giudizio Universale, i profili di Wallace, Edoardo VI, Aroldo,
Cleopatra e numerosi altri che abbiamo visto, sono davvero mirabili per lo
spirito che li ha generati. Spesso abbiamo avuto il privilegio di incontrare
Blake restando incantati dalla facoltà del suo dire, colmi di meraviglia per la
straordinaria potenza emanata della sua persona; le sue convinzioni non sono
frutto di superstizioni: egli vi crede con fermezza. I nostri limiti non ci
permettono di indagare troppo negli abissi del suo genio: ci limitiamo a
considerarlo uno straordinario esempio per gli studiosi di astrologia.
In particolare, è probabile che le mirabili qualità eccentriche del suo pensiero
siano gli effetti della Luna in Cancro nella dodicesima casa (segno e casa
entrambi legati alla mistica), del trigono di Urano (o Herschel) nel segno
mistico dei Pesci, della casa della scienza, e dal trigono mondano a Saturno nel
segno scientifico dell’Acquario; quest’ultimo pianeta è in quadratura a Mercurio
in Scorpione e in quintile al Sole e a Giove, nel mistico segno del Sagittario.
Anche il quadrato di Marte e Mercurio, proveniente da segni fissi, ha notevole
tendenza nell’acuire l’intelletto e getta le basi per idee fuori dall’ordinario.
Altre ragioni reggono le bizzarre peculiarità sopra menzionate: per lo studioso
sarà facile gioco scoprirle.
*In copertina: William Blake, Autoritratto, 1802 ca.
L'articolo “Ignora tutto ciò che riguarda questo mondo”. L’oroscopo di William
Blake proviene da Pangea.
Non era tornato a casa. I compagni di plotone non lo avevano trovato. Nemmeno le
squadre di cercatori inviate a Hulluch, nell’Alta Francia, riportarono notizie
certe su di lui. Disperso tra le ceneri della battaglia in qualche fossa comune,
il suo nome arrivò in tondo su un telegramma che i genitori, in Inghilterra,
lessero in lacrime. Il biglietto avvisava la dipartita del capitano Charles
Hamilton Sorley, colpito in testa da un cecchino durante i combattimenti a Loos,
nell’ottobre 1915. Ucciso all’istante, il loro ragazzo se ne era andato con la
promessa del congedo previsto di lì a qualche mese. Aveva appena vent’anni.
Così la sua scomparsa si univa alla fine di un’intera generazione di giovani
vittime in un massacro senza precedenti. Difatti, era da secoli che l’antica
menzogna del «dolce morire per la patria» – il dictum latino trapiantato nel
suolo d’Albione – aveva preparato schiere di figli devoti, mossi all’azione dai
valori dei padri ed allevati nel grembo delle public schools, da immolare al
momento opportuno sui campi di battaglia.
Che il capitano Sorley componesse versi è una storia altrettanto amara quanto
avventurosa. Annoverato fra i sedici war poets della Prima guerra onorati sulla
lapide di Westminster, ne è il più giovane rappresentante, forse uno dei meno
noti per l’opera rimasta incompiuta, benché prolifica, addirittura sorprendente
se si considera l’età anagrafica. La sua voce singolare è attestata in una vasta
messe di componimenti – quelli d’anteguerra i migliori – che rivelano un’esperta
caratura tecnica d’impronta tradizionale, una combinazione di perfezione
stilistica nel dettato e auscultazione del ritmo interno alla strofa, sempre
attento alla rima e sostenuto dalla profonda cultura classica. La lucidità di
visione e il rigore metrico ne fanno, in definitiva, uno dei lirici più dotati
nell’eterogeneo coro di talenti che sbocciarono – per essere infine soffocati –
sotto le bombe. Tuttavia, il suo profilo tende a sfuggire ad ogni etichetta
affibbiata nel tentativo di inquadrarne la posizione verso il conflitto in un
anello di congiunzione tra filone eroico-patriottico e svolta
realistico-satirica, di per sé fallace se si considera la risposta di ciascun
autore all’evolversi degli eventi, oltre la caratteristica linea d’azione.
Per circostanze storiche indubbie, i primi poeti-combattenti volontari cantavano
la guerra in versi idealistici e patriottici, celeri a scattare al segnale della
propaganda per partecipare al “gioco” o show (come incitava la sciovinista
Jessie Pope, Who’s for the Game?) tenuto sull’impietoso palcoscenico del mondo.
Se per un guerriero di razza come l’aristocratico Julian Grenfell era facile
osannare la morte onorevole dalle «soffici ali» (Into Battle), un immaturo
Rupert Brooke – non avendo conosciuto la vita di trincea – elogiava l’impresa
virtuosa che avrebbe restituito la gloria eterna al milite sepolto in un campo
straniero (The Soldier). Contro i grandi ideali dei suoi contemporanei, Charles
Sorley – scozzese di origini e inglese per elezione – scaglia con coraggio la
sua abiura, eppure non da subito. Agli inizi della campagna, aveva nutrito anche
lui vaghe fantasie cavalleresche rispetto al pericolo della caduta, tra canti
enfatici e ingenuità romantiche: «Ricoprite di gioia il letto della terra/ E
così morite, siate felici.» (All the Hills and Vales Along).
Sorley studente a Marlborough (fila inferiore al centro) © reserved Marlborough
College
Il testo più famoso e antologizzato, distante dai toni esultanti del 1914, sarà
l’ultimo vergato al fronte, rinvenuto dai commilitoni nel suo kit, che, assieme
ad altri frammenti e abbozzi di prose, lascia ai posteri un monito potente di
fronte a ogni mistificazione della carneficina reale. Crollata l’edulcorata
visione della guerra, la poesia apre uno slargo inaspettato nel panorama
dell’epoca, un bagliore di verità nella critica al sistema bellicista
dell’Impero, messa a segno in versi crudi e irriverenti, tesi a guardare la
morte dritta negli occhi:
> “Quando vedrai milioni di morti senza parole
> Che incedono nei tuoi sogni in pallidi battaglioni,
> Non dire loro cose dolci come hanno fatto altri uomini,
> Rammenta questo. Perché non è necessario.
> Non concedere lodi. Sordi ormai, come potrebbero capire
> Che soltanto le maledizioni si addensano sopra ogni testa squartata?
> Né lacrime. I loro occhi ciechi non vedono scorrere le tue lacrime.
> Né onore. È facile morire…”
Dinanzi al culto vittoriano degli eroi, il blasone di Scozia fa sentire senza
orpelli la sua natura indocile, rinunciando alla fedeltà dogmatica verso la
corona. Fuori dalle gesta eroiche del mito, l’orrore della strage si poteva
raccontare solamente nei resti umani risucchiati dentro la waste land della
Terra di Nessuno, ovvero l’altra faccia dell’epopea. Dopo gli eccidi della
Somme, la percezione del conflitto – e di conseguenza la sua rappresentazione
letteraria, specie in poesia – non sarebbe stata più la stessa. La tragedia che
aveva sperperato il fiore della gioventù britannica sui terreni delle Fiandre si
annunciava agli occhi dei conterranei al netto di tutte le possibili distorsioni
della memoria. Secondo Siegfried Sasson, il “sicuro” mondo d’anteguerra si era
ridotto a un «inferno dove finiscono risate e ragazzi», e lo stesso Rudyard
Kipling – il figlio John caduto anch’egli a Loos – avrebbe parlato, nei
suoi Epitaphs of War (1914-18), a nome dei «giovani arrabbiati e traditi» (A
Dead Statesman) nelle loro illusioni, derubati degli anni di innocenza con un
sacrificio ingiusto.
In questo solco di condanna dei mali inferti dal conflitto, il timbro di Sorley,
col suo grido all’internazionalismo (To Germany), spicca per drammaticità e
premonizione circa la futilità dell’impresa che vanifica ogni azione umana
(Such, Such is Death), ponendosi da antesignano: una vena sovversiva precedente
alla virata antimilitarista di un Siegfried Sassoon, degli epigoni Wilfred Owen
e Isaac Rosenberg. Per questo, nella sua autobiografia Good-Bye to All That,
Robert Graves lo pianse come la perdita più dolorosa di cui avesse sofferto la
moderna poesia inglese.
La raccolta che gli diede la fama – giunta postuma e limitata alle liriche a
tema bellico –, dal titolo Marlborough & Other Poems, venne pubblicata nel 1916
per volere della famiglia ed ebbe una tiratura altissima, con varie ristampe,
nel primo dopoguerra. Nonostante ciò, colui al quale non spettò una
canonizzazione simile all’apollineo Brooke merita di essere ricordato senza armi
e divisa.
Frontespizio della raccolta Marlborough and Other Poems con un ritratto in
gessetto di Cecil Jameson
Discendente di una stirpe illustre sorta tra i fiumi Tay e Tweed, conta fra i
suoi avi eminenti Scots del calibro di William Sorley, reverendo della Chiesa di
provincia, e George Smith, uomo di lettere edimburghese rinomato per il suo
“passaggio in India”. Il padre William Ritchie Sorley è professore emerito di
filosofia all’Università di Aberdeen, le cui idee rivoluzionarie nel campo della
morale gli valgono una cattedra a Cambridge nel 1900. Da questo momento, tutta
la famiglia, d’indole eclettica e apertura cosmopolita, decide di avvicinarsi
alla venerata città universitaria.
Fin dalla tenera età, i piccoli Sorley – la sorella Jean e i due gemelli Charles
e Kenneth – vengono allevati dalla madre con una buona dose di grammatica
francese e letteratura nazionale: passi di Shakespeare, brani di Scott e canti
di Blake sono di casa. Da ragazzino, Charles divora i classici greci e tutti i
drammi elisabettiani sugli scaffali, legge le odi di Keats come un salterio e
allena l’orecchio sulle note di A. E. Housman (A Shropshire Lad, fra i suoi
libri preferiti) fino a comporre versi propri. L’istruzione migliore a cui
poteva aspirare lo vede dapprima allievo diurno alla King’s College Choir School
di Cambridge e dal 1908 nel convitto privato di Marlborough, trampolino di
lancio per le cime oxbridge. Qui viene eletto ai principali club studenteschi,
conteso tra la Debating Society e la Junior Literary Society.
Il talento precoce nella scrittura lo condurrà ben presto alle prime
pubblicazioni sulle riviste collegiali, tra cui il Marlburian. Nello stesso
tempo, si distingue fuori dalle aule per l’eccezionale talento sportivo: nella
corsa è una meteora. Sembra inoltre non badare a premi, medaglie e
riconoscimenti poetico-letterari che si succedono sul suo cammino. Umile di
carattere, fa anche fatica a riconoscere il fascino che emana crescendo. Alla
soglia della maggiore età, è diventato un ragazzo bellissimo, dalla dizione
perfetta e magnetico nei modi. Alle prese con le nuove consapevolezze, si ritrae
come un privilegiato (come per gli estratti successivi, si fa riferimento al
volume a cura di W. R. Sorley, The letters of Charles Sorley, with a chapter of
biography, Cambridge University Press, 1919):
> “Mi sento terribilmente indegno e inesperto perché la vita non mi ha dato
> difficoltà in casa né grossi problemi da risolvere, soltanto quelli possono
> rafforzare davvero un uomo…”
Si rende conto, a quell’altezza, che la vita è stata fin troppo buona con lui. E
per restituire al mondo il dono ricevuto avrebbe fatto del suo meglio in tutto.
Il nervo resistente della sua personalità, temprato sulle prediche evangeliche e
addestrato al valore della disciplina, trovava in ogni cosa una prova da
affrontare, in ogni difficoltà una sfida, come ricorderà il padre orgoglioso:
> “Voleva sempre crescere. Ogni nuova esperienza, che fosse un gioco, un libro,
> un luogo o una persona da conoscere — era per lui un’avventura; dava la sua
> opinione con entusiasmo, mentre coglieva soltanto il meglio, nient’altro
> contava. Qualunque delusione, apprensione o senso di sconfitta, per qualsiasi
> fallimento, lo teneva per sé, andando incontro alle sue imprese, soprattutto
> la più grande di tutte – nell’agosto 1914 – con un’allegra prontezza e un
> umorismo che regalavano un senso di conforto e sicurezza a tutti quelli che lo
> vedevano. ‘Ecco Charlie, sempre brillante e coraggioso,’ diceva la nostra
> vecchia padrona di casa dello Yorkshire alla fine di ogni vacanza.”
Alla luce dei successi scolastici, i versi della fase Marlborough raccontano
slanci d’ebbrezza giovanile, l’abitudine alla camaraderie contratta dalla vita
di collegio e, più di tutto, un desiderio indomabile di libertà, il bisogno di
solitudine nella natura selvaggia e incontaminata, a contatto con burrasche e
temporali. Lungo i pendii delle vicine Downs o sulle native Highlands, Charles
ama ritirarsi, come un asceta, percorrendo ampie distese a lunghi passi,
attirato dai misteri dei glen, in maratone da cui torna rigenerato:
> “Era solito fare lunghe passeggiate, come quando spariva per correre in
> maglietta e pantaloncini sulle Downs. Aveva scelto di starsene per conto suo.”
Il cognome Sorley – in gaelico sta per pellegrino o viandante – lo aveva
predestinato, imprimendo nel suo spirito il desiderio di un riparo dell’anima,
l’istinto animale a fuggire “via dalla pazza folla”. A quell’atteggiamento
romantico verso l’esistenza si sarebbe aggrappato per capire sé stesso nel
profondo del cuore, ma soprattutto per scrivere. Corsa, pioggia, vento e poesia
sono per lui un tutt’uno.
> “[…] nello Yorkshire, dove le brughiere discendono verso il mare, oppure in
> qualche luogo delle sue origini – Selkirk, Dunbar o Aberdeen; […] attraverso
> la Francia, in bici, cavalcò la costa della Normandia e le sponde della Senna.
> Una volta, in un pomeriggio di tempesta, dopo aver percorso a fatica una
> scarpata, sul punto di attraversare le colline, ci imbattemmo improvvisamente
> in un campo coperto da grandi selci bianche. Ma Charlie, che in genere
> rispondeva prontamente, non disse una parola; fissava il campo come se ci
> vedesse scritto qualcosa.”
Più tardi, il talento di famiglia viene ammesso a Oxford con una borsa di studio
e grazie all’intervento paterno gli è concessa l’interruzione prematura degli
studi. Al giovane spettava la gioia di un Grand Tour, o almeno una breve
esperienza formativa all’estero, prima di precipitarsi nel mondo dei college.
Non perde tempo e all’inizio del 1914 è a Jena per frequentare i corsi di
filologia all’università locale. Dopo un tour mitteleuropeo, si cala appieno
nella vita della città. La lingua gli dà la fame della scoperta, trasmettendogli
la ricchezza di una cultura che non smetterà mai di affascinarlo. In questo
periodo, la visita del fratello e dei genitori, che coinvolge in passeggiate
campestri e giri turistici, viene a ricordargli il calore della patria, a
rinsaldare il rapporto sincero custodito per lettera. Una sera, in cima a un
colle, guarda insieme a loro una Jena luccicante sotto il crepuscolo, e in
quell’istante si sente al sicuro.
Basterà la notizia della dichiarazione di guerra a richiamarlo al di là della
Manica dopo una rocambolesca giornata di carcere a Treviri (nel frattempo Russia
e Germania sono diventate nemiche). Non appena tocca terra, firma convinto le
liste di coscrizione. L’invasione tedesca del Belgio è una mossa troppo
oltraggiosa per resistere alla tentazione. Arruolato come secondo tenente nei
reparti del Suffolk Regiment, viene da qui mobilitato in fretta sul Fronte
occidentale, a marcia indietro sul continente.
A sostenerlo durante l’addestramento militare sarà l’amicizia fraterna di Arthur
Watts (soldato del battaglione alleato ed ex lettore di inglese a Jena), più
dolce dei vecchi legami camerateschi, che riaccende in lui l’amore dei miti
greci. Uniti da comuni interessi letterari, i loro scambi epistolari celano, in
sordina, intense vibrazioni romantiche, scintille di intimità che tentano di
ricucire la distanza sulla scia dell’epica. Tra le righe cifrate in greco e
tedesco, come un appassionato codice segreto, un adorante Charles trasfigura il
compagno nei panni di Ulisse per sentirlo più vicino:
> “Dammi l’Odissea e restituirò il Nuovo Testamento. Indicami la strada, sia
> fisica che spirituale. Solo qualche volta l’orribile visione di pane e burro
> viene ad eclissare il mio sogno; […] In questi sogni mi appari come il
> sergente-pioniere. Forse sei tu l’Odisseo, mentre io non sono altro che uno di
> quei fedeli ἑταῖροι [compagni]… Ma comunque sia, le nostre vite saranno
> πολύπλαγκτοι [agitate dal Fato]. E noi verremo sepolti dal mare – […]
> Dall’inizio di questa lettera, sento un certo profumo di romanticismo durante
> la ronda notturna.”
Mentre si scrivono, i due amici separati dalla guerra guardano lo stesso cielo
inondato di malinconia, l’uno al lume di un fiammifero, l’altro proiettato verso
le stelle:
> “Tu, al telescopio, vedi la strada verso la stella nella sua vastità, senza
> l’ingombro degli atomi che soffiano negli occhi e riempiono i nostri pori di
> linfa vitale – metà strada verso quella stella – ad ogni curva. […] E così
> fino al nostro prossimo incontro!”
Negli ultimi mesi in trincea, Sorley non ha perso il suo umorismo né la
nostalgia degli affetti. Ciò che lo tiene sveglio di notte è il pensiero di aver
dimenticato a casa la sua copia di Omero – come detta il frammento Non ho
portato la mia Odissea con me sul mare [XXXVI] – e il desiderio di una colazione
rigorosamente inglese.
Irrequieto e in preda all’attesa spasmodica nelle retrovie, ha il tempo di
scrivere ai propri cari che la firma della pace sembra «un brutto scherzo» sulla
bocca di tutti. Il suo addio alle armi, del resto, lo ha già annotato nel
taccuino impolverato che porta in tasca. Esegue quindi l’ultimo comando, butta
giù una lettera per Arthur e a qualche giorno dall’azione saluta l’Inghilterra
con Auf Wiedersehen.
*
Per riscoprire la penna di Charles Sorley, si propone qui di seguito una
selezione di testi inediti e rappresentativi della sua opera poetica, tratti
ciascuno da una sezione della raccolta Marlborough e altre poesie:
Il canto dei corridori spogli
Agitiamo i fianchi discinti
Con la luce negli occhi,
La pioggia ci cade sulle labbra,
Non corriamo per vincere.
Non sappiamo di chi fidarci,
Ma non torniamo indietro,
Perché è nostro dovere correre
Attraverso l’immensità dell’aria.
Le acque dei mari
Si agitano come in tempesta.
La tempesta spezza gli alberi
E non li lascia al caldo.
Eppure, si ferma forse la lacerante tempesta?
Si chiedono perché le cime degli alberi?
Così, noi corriamo senza una ragione
Sotto la grandezza del cielo terso.
La pioggia ci cade sulle labbra,
Non corriamo per vincere.
La tempesta frusta l’acqua
E l’onda ulula ai cieli.
S’alzano i venti, che la colpiscono
E la infrangono come sabbia,
E noi corriamo perché ci dà piacere
Lungo la radiosa vastità della terra.
*
Pioggia (estratto)
C’è qualcosa nella pioggia
Che mi invita a rimanere:
C’è qualcosa nel vento
Che mi sussurra “Lasciati alle spalle
Questa terra di tempi e regole,
Terra di campane e lezioni mattutine.
Il latino, il greco e il cibo del collegio
Non ti servono a molto.
Lasciali: se vuoi essere libero
Seguimi, seguimi, vieni con me!”
Quando raggiungo i quattro chilometri,
Per guardare di nuovo là fuori
Sui cieli bianco opaco
E il velo di pioggia alla deriva,
E il mucchio di siepi sparse
Che ondeggia debole sul dirupo,
E l’infinita distesa di colline
Ricoperte di vesti verdi e d’argento;
C’è qualcosa nella loro foggia
Di desolante e sterile bruttezza,
Che mi sussurra “Hai letto
di una terra di luce e gloria:
Ma non credere a ciò che dicono.
È un regno tetro e desolato,
Dove i venti e le tempeste ti chiamano
E la pioggia spazza via ogni cosa.
Non dar retta ai predicatori
Che parlano di una terra dolce e remota.
Qui c’è una terra migliore e più gentile
E non si trova lontano”.
*
Due sonetti (Parte I)
I santi hanno adorato la nobiltà della tua anima.
I poeti sono diventati pallidi davanti alla tua gloria.
Noi siamo tra i milioni di anime che in ogni ora
Attendono di percorrere il tuo cammino.
Tu, così familiare, un tempo diverso: abbiamo tentato
Di vivere senza pensare alla tua presenza.
Ma in ogni strada, da ogni parte, adesso
Vediamo la tua insegna dritta e ferma.
La immagino come quel cartello nella mia terra,
Alto e canuto, che mi indicava di andare
In alto, sulle colline, a destra,
Dove nuotano le nebbie e i venti urlano e soffiano,
Una terra senza casa e senza amici, ma pur sempre
Una terra ignota che desideravo conoscere.
*
Smarrito
Sulle fantasie del mio passato
È calata una cecità grave e silente.
Adesso il mio sguardo si volge ad altre cose,
Non quelle che un tempo vide e conobbe.
Non posso pensare a quelle terre a me care
(O laggiù, i tempi andati!)
Dove il vecchio cartello malconcio resta in piedi
E le quattro strade vanno in silenzio
Verso est, ovest, sud e nord,
Dove spirano i freddi venti invernali.
E cosa porterà con sé la sera
Non spetta a me né a voi saperlo.
*Il servizio e la traduzione dei testi sono di Pierluigi Piscopo
Riferimenti bibliografici:
– C. H. Sorley, Marlborough: and other poems, a cura di W. R. Sorley, Cambridge
University Press, Cambridge 1916.
– C. H. Sorley, Collected Poems, a cura di J. Moorcroft Wilson, Cecil Woolf,
London 1985.
– J. Moorcroft Wilson, Charles Hamilton Sorley: A Biography, Cecil Woolf, London
1985.
– W. R. Sorley, a cura di, The letters of Charles Sorley, with a chapter of
biography, Cambridge University Press, Cambridge 1919.
– J. Moorcroft Wilson, a cura di, The Collected Letters of Charles Hamilton
Sorley, Cecil Woolf, London 1990.
– N. McPherson, It Is Easy to Be Dead, Oberon Books, 2016.
*In copertina: Charles Hamilton Sorley, fotografo sconosciuto, circa 1914.
L'articolo “Quando vedrai milioni di morti senza parole…” Vita & poesia di
Charles Hamilton Sorley proviene da Pangea.