Nel 1904, per “La Nuova Rassegna” di Firenze, Ettore Allodoli scrive un ispirato
profilo di Thomas Chatterton. Con l’acribia del critico, Allodoli tenta di
scindere il mito dall’uomo, la leggenda dall’opera. Impresa, per lo più,
vana. Thomas Chatterton, il poeta morto per scelta neppure diciottenne, aveva
finito per incarnare l’idolo del genio ribelle alle coercizioni della società,
l’artista incompreso, umiliato. Era una specie di Werther, rinnovava i caratteri
del puer virgiliano – parola che redime i mondi –, è stato il ragazzino giunto a
sconvolgere la scena lirica del proprio tempo, dominata da poeti ipocriti, da
piumati, spumeggianti lacchè.
Icona triste, notturna, già totalmente ‘romantica’, dalla giovinezza
lunare, Thomas Chatterton rischiò di essere il Rimbaud della poesia inglese – la
morte fu per lui una sorta di infernale Harar. Non ci riuscì perché l’epoca –
per usare una formula di Antonin Artaud – aveva scelto di suicidarlo. Così, il
giovane Allodoli – aveva poco più di vent’anni: amico di Giovanni Papini, sarà
Accademico d’Italia, critico infaticabile e biografo, tra i tanti, di
Michelangelo, Savonarola e Giovanni dalle Bande Nere – riporta il ragazzo al suo
vero, pionieristico ruolo: il precursore di Keats, Shelley e Byron, nei toni
poetici e nella postura del vivere (dissennata: per eccesso di vitalismo come
d’intimismo). Ce lo descrive “ambizioso e orgoglioso” fino alla mania –
“l’orgoglio gli ottenebrò la mente e lo fece sviare nei suoi ragionamenti e
nelle sue riflessioni” –, grave di “generosa baldanza” e “indipendenza di idee”.
Anche il critico, tuttavia, non può non impuntarsi nel mito, dalle oscurità
elisabettiane:
> “ritiratosi dalla vita brillante presso un fabbricante di manifatture in
> Brookstreet nelle vicinanze di Londra, visse alquanto in silenzio finché un
> giorno, dopo avere orgogliosamente rifiutato un pranzo che il padrone di casa
> gli offriva, la fame, le delusioni e la disperazione lo costrinsero ad
> uccidersi. Quasi nessuno parlò della sua morte e il suo corpo fu sepolto nella
> fossa comune”.
Alla dissipazione del corpo seguì la resurrezione del corpus: ci si accorse –
troppo tardi – di essere al cospetto di un talento selvatico, dall’opera
esondante, un Niagara, capace di passare, con aggressivo agio, dal poema
cavalleresco alla scena ‘da camera’, dall’idillio alla satira, violenta. Non so
se la solitudine ricercata, la sovrabbondante ira, la frustrazione abbiano
favorito o stravolto l’opera di Chatterton: ancora oggi egli è l’autentico
rivoluzionario della poesia inglese, ignifugo alle mode critiche e alle
stagionali rivalutazioni. Se William Blake, per dire – per effetto, è ovvio, di
una agghiacciante singolarità – è diventato un idolo, Chatterton resta nel volgo
dei vampiri, a ruminare tra le ombre: per sempre insoddisfatto, non ci dà pace,
ci dà di morso.
Luigi Berti – tra i rari che abbiano tentato di tradurre Chatterton nella nostra
lingua – credette di trovarsi al cospetto di un genio ingenuo, di un rebus, in
fondo (“Chatterton ci ha lasciato due volumi di versi e certi critici vi hanno
veduto anche un’evasione immaginativa di rara potenza, altri ancora uno stato
morboso che lo spingeva a crearsi un mondo d’immagini e di musica in cui la
morte era regina”, in: I preromantici inglesi, Guanda, 1964); scrisse che se
fosse vissuto di più, chissà, “sarebbe stato tra i più forti poeti preromantici
e forse anche tra i maggiori del suo tempo”. Al tempo di Allodoli – che costella
il suo saggio di qualche traduzione, qua e là –, i ragazzi mandavano a memoria
le poesie di Chatterton rimpinguandosi della sua leggenda: il poeta incompreso,
il poeta ribelle, l’uomo che ha scelto di vivere poeticamente, fino alla
tragedia. La frase con cui Allodoli chiude il saggio – “pensando al diciottenne
poeta, noi ci sentiamo turbati come dinanzi a qualcosa di straordinario” –
dichiara il destro di una poetica: il poeta è sempre fuori dall’ordinario, non
si lascia intimidire dalle norme stantie della storia dell’arte; il poeta è il
perturbante.
Henry Wallis, The Death of Chatterton, 1856
Fresca, d’altronde, era l’impressione di Chatterton, l’opera lirica di
Leoncavallo andata in scena al Teatro Drammatico Nazionale di Roma nel marzo del
1896. Il libretto era tratto dalla drammaturgia del 1835 di Alfred de Vigny, tra
le sue più grandi. L’introduzione dello scrittore – Dernière nuit de travail –,
di fatto, fa di Chatterton un monito e un mito ‘universale’.
> “La mia causa è il perpetuo martirio del poeta, la sua perpetua immolazione –
> La mia causa: il diritto che egli viva – La mia causa: il pane che non gli
> diamo – La mia causa: la morte che è costretto a darsi”.
A De Vigny non importava l’opera di Chatterton, poeta solare pur nella sua
disperazione, ma l’epopea del “criminale davanti a Dio e davanti agli uomini,
dacché il suicidio è un crimine religioso e sociale”. Ne fa il sovrano
dell’angoscia, il prototipo del suicidato dalla società – “Quando un uomo muore
in questo modo possiamo parlare di suicidio? È la società che lo ha gettato
negli inferi” –, l’erma di un sopruso che tutto mette in discussione:
> “Il Poeta era tutto per me; Chatterton non era che un nome; ho deliberatamente
> messo da parte gli esatti fatti della sua vita per prelevare da quel destino
> ciò che lo rendeva un esempio per sempre deplorevole di una nobile miseria. I
> tuoi compatrioti ti dissero bimbo meraviglioso! Giusto o meno che fosse, eri
> infelice; ne sono certo, e mi basta. Anima desolata, povera anima diciottenne!
> Perdonami se ho preso come un simbolo il nome che hai portato su questa terra,
> e in tuo nome aver tentato il bene”.
Il cadavere di Chatterton, pari a un burattino, si prestò a essere manovrato da
molti, travestito dai tanti. Il suicidio tramutò l’esistenza di un irregolare in
quella di un reietto dell’assoluto. Caso singolare in cui una vita, malridotta,
ha vampirizzato l’opera.
In realtà, scevra dalla gigantografia leggendaria, la burrascosa esistenza di
Thomas Chatterton si muove attorno ad alcuni, miliari, elementi. Nato a Bristol
il 20 novembre del 1752 – quasi un secolo dopo, il 20 ottobre del 1854, nasce,
pure lui in provincia, quell’altro “ragazzo meraviglia”, Arthur Rimbaud: nella
genuflessione del genetliaco, lievemente obliquo, c’è anche la sostanziale
differenza di statura lirica, ma non di carisma – Chatterton subisce, da subito,
lo stigma della perdita. Il padre, che si chiamava come il figlio – biblica
surplace, la saggezza del sangue – muore pochi mesi prima della sua nascita, in
agosto: musico mediocre, poeta per dire, per diletto praticava l’occultismo.
Thomas cresce con la madre, insegnante di cucito e di ‘ornato’: di suo, acuisce
un’indole alla solitudine, alla lettura disordinata. Da bambino, faticava ad
apprendere l’alfabeto, lo consideravano alla stregua di un idiota. La scuola –
frequentata a Bristol – lo infastidisce, come, in generale, le gerarchie
dell’ordine costituito e i fatui giochi dei suoi compagni. Mitizza, invece, i
meandri della chiesa di St Mary Redcliffe, in cui è sagrestano lo zio, per
tradizione legata al lignaggio dei Chatterton. Orfano di padre, Thomas
Chatterton trova una parentela tra affini nei cavalieri medioevali, nei vescovi
capaci nell’elargire le pene e nello sguainare la spada. Ama insinuarsi in un
altro modo: predilige l’epoca della Guerra delle Rose e quella di Enrico VIII,
s’inventa un XV secolo a suo uso, comincia a scovare vecchie pergamene negli
archivi di famiglia e in quelli della parrocchia, balocca con la lingua. La sua
precocità è inquietante: a otto anni l’idiota si rivela un lettore formidabile;
a undici si ritiene poeta compiuto. È l’era in cui vanno di moda i ‘notturni’ e
l’esotismo di un Medioevo ricostruito in vitro, con sapienza letteraria:
spopolano i canti di Ossian di James Macpherson – stampati dagli anni settanta
del Settecento, in Italia hanno un traduttore d’elezione in Melchiorre Cesarotti
– e le Reliques Of Ancient English Poetry di Thomas Percy; la caccia al
manoscritto perduto è lo sport più in voga tra i letterati del tempo.
All’accademismo, Thomas Chatterton preferisce l’energumena genuinità
dell’ispirazione; l’invenzione di Thomas Rowley, immaginario monaco vissuto nel
XV secolo, nei dintorni di Bristol, è la testimonianza di un talento senza
freni.
Abile nella mistificazione, nell’arte di produrre poemi in un middle english di
propria foggia, sagace nel gioco dei labirinti verbali, Thomas Chatterton
comincia a vendere i testi di Rowley, suo medioevale alter ego, come li avesse
tratti da un manoscritto fortunosamente ritrovato. Per un po’, nessuno sa
sbugiardarlo e il falso gli rende – ancora nel 1778, il poeta ‘laureato’ Thomas
Warton inserisce i poemi di Rowley nella sua History of English Poetry, tra John
Gower e Geoffrey Chaucer. Per contrasto, la stoffa di Chatterton – portata
all’esuberanza come all’esuberante depressione – non sopportava le falsità del
proprio tempo.
Talento burrascoso e inarginabile, il ragazzo sbarca, sedicenne, a Londra, certo
di poter sopravvivere del proprio talento. Le poesie gli rendono poco; in genere
– privo di appoggi e di sostanze – una specie di sovrumana indifferenza gli fa
da aura. Sono, in ogni caso, anni di prodigiosa scrittura: Chatterton tocca
tutti gli angoli della sensibilità lirica – dalla satira allo ieratico poema
medioevale, dall’imitazione alla poesia d’amore, dall’invettiva all’improvviso,
dalla pièce teatrale al ‘pezzo’ cosmico –, è famelico di fama. A differenza dei
poeti del suo tempo, vive ciò che scrive, incarna il proprio verbo, crede alla
parola con fanciullesca ingenuità – è questo, in lui, a spaventare, ad atterrire
chi lo incrocia, riconoscendo, nello spavaldo ragazzo, il marchio feroce del
prescelto. Il rapporto con Horace Walpole è emblematico. Chatterton inviò
all’autore del Castello di Otranto– che, nella finzione narrativa, è presentato
come un manoscritto stampato a Napoli nel XVI secolo – una silloge di testi di
Rowley. Walpole, dapprincipio, ne è entusiasta e propone una pubblicazione di
quei testi; poi, scoperto l’inganno, si nega a Chatterton, rifiutando di
restituirgli le poesie. Sembra – per sinistre preveggenze – la sorte subita dal
manoscritto dei Canti Orfici di Dino Campana, perduti, per incuranza, da Ardengo
Soffici. Sembra, cioè, che nelle retrovie di una grande opera ci sia sempre uno
smarrimento, un’irriconoscenza – foss’anche dell’autore, incapace di ‘fare i
conti’ con il proprio talento, di metterlo a profitto –, una perdita.
Per un carattere scheggiato come quello di Chatterton, la sconfitta è
irricevibile, irredimibile. Per un po’, il ragazzo tenta di conquistare il
Sindaco di Londra, William Beckford, che distrattamente lo stima; poi cerca di
concupire qualche possibile mecenate. I testi più languidi lasciano spazio alle
poesie corrosive; benché pubblichi, qua e là, sui giornali dell’epoca, il poeta,
letteralmente, fa la fame. Poco prima di morire, chiede a un amico, chirurgo, di
farlo assumere come suo assistente su un cargo che viaggia verso l’Africa –
anche in questo caso, la prossimità con le scelte di Rimbaud sfiora la vita
apocrifa.
Gli ultimi giorni della vita di Thomas Chatterton sono pura immersione
nell’amnio di una notte oscura del cuore. Nel cimitero della chiesa di St
Pancras, annebbiato dai pensieri, il poeta cade in un sepolcro vuoto, in attesa
della tomba; ne esce indenne, tra gli stornelli dell’amico che lo accompagna,
“Ho visto risorgere un genio”. La risposta di Chatterton ha il crisma della
nottola: “Da tempo, ormai, sono in combutta con le tombe”. Morì il 24 agosto del
1770, neppure diciottenne, nella scarna soffitta in cui abitava, in Brook
Street. Inghiottì arsenico, fece a pezzi i pochi quaderni che aveva con sé.
La sua morte passò praticamente inavvertita dai letterati dell’epoca; il suo
corpo fu gettato in una fosse comune, nel cimitero annesso alla parrocchia di St
Andrew a Holborn, presso la Shoe Lane Workhouse. Alcuni credono che lo zio abbia
disseppellito e recuperato il corpo di Chatterton, insediandolo nell’amata
chiesa di St Mary Redcliffe, dove un cenotafio ne fa memoria. Pochi giorni dopo
la sua morte, un certo Thomas Fry approdò a Londra con l’intento di scoprire chi
fosse l’autore – o lo scopritore – delle poesie ascritte a Thomas Rowley: voleva
fargli da mecenate.
Non si contano gli omaggi lirici e biografici destinati a Chatterton. Uno dei
più riusciti, tra i recenti, è il romanzo storico di Peter Ackroyd, Chatterton:
finalista al Booker Prize nel 1987, fu tradotto in Italia due anni dopo, nel
1989, come Il ragazzo meraviglioso (Chatterton). In copertina, come è ovvio,
spicca The Death of Chatterton, capolavoro del pittore preraffaellita Henry
Wallis. Il ragazzo, di cerea, incredula bellezza, apollinea, è sdraiato sul
letto, morto; ha i capelli rossa e al suo fianco, in un forziere, semiaperto, i
fogli con le sue poesie, a pezzi – quasi che le mani potessero imitare un rogo.
Il ragazzo ha i pantaloni blu; la finestra, spalancata sulla quinta londinese;
una pianta, umile, eroica, sul davanzale, insegna – chissà – che la morte
feconda la vita. Per il quadro, compiuto nel 1856 e che moltiplicò la fama
postuma di Chatterton, aveva posato un giovane George Meredith, l’autore
de L’egoista. Nella cerchia dei Preraffaelliti, Thomas Chatterton figurava come
uno degli eroi; Dante Gabriel Rossetti lo omaggiò con un sonetto dall’attacco
esagerato: “con la virilità di Shakespeare nel cuore selvaggio di un
ragazzo”. Fu William Wordsworth, tuttavia, molto tempo prima, a coniare per
Thomas Chatterton un’indelebile definizione: the marvellous Boy. La poesia
– Resolution and Independence, 1807 – parla di quell’“anima insonne che perì del
proprio orgoglio” e lega, in un dittico efficace, il poeta della gioia
(gladness) con quello della mania (madness), il sole e la sua eclissi, la luce e
la sua irredimibile ombra.
Da qui, è pressoché impossibile inseguire lo spettro di Chatterton nell’opera
dei più potenti poeti inglesi di ogni tempo. Coleridge scrive una Monody of the
Death of Chatterton che lo accompagna per tutta la vita: la prima versione è del
1790, nell’ultima, del 1834, il poeta della Ballata del vecchio marinaio si
rivolge al Poor Chatterton, “Il tuo destino mi riempie di dolore/ chi avrebbe
potuto amarti prima della fine?… ho gettato una corona di oscuri fiori/ sulla
tua tomba informe”. John Keats dedica Endymion “alla memoria di Thomas
Chatterton”; intorno al suo “triste destino” aveva già scritto un sonetto – To
Chatterton, appunto – di azzurra tenerezza: “La tua gemma per il gelo è
crollata./ Ma questo è il passato: ora sei tra le stelle/ nei più alti cieli,
alle sfere canti/ soavi inni, nulla ti turba/ dell’ingrato mondo, delle umane
paure”. Keats associava Chatterton “all’autunno”, lo riteneva “il più puro
scrittore in Lingua Inglese” (così a John Hamilton Reynolds, 21 settembre 1819).
In risposta, Percy Bysshe Shelley cita “la solenne agonia” di Chatterton
in Adonais, “An Elegy on the Death of John Keats”. Entrambi, introdotti alla
vita lirica dall’astro di Chatterton, morirono troppo giovani: la fatalità, al
calor bianco, pare insinuare una poetica.
La poesia ‘in memoria’ di Thomas Chatterton – sorta di amuleto per accedere
nell’empireo dei poeti – divenne un genere, una sorta di formula teurgica. Lo
praticò, tra i tanti, anche da Dylan Thomas, legato a Chatterton dal duro
lignaggio dei pionieri del verbo. O Chatterton, poesia del 1938, ha modi da musa
ubriaca: “O Chatterton e altri su in soffitta/ Congiunti in uno stesso lume a
gas/ A usare lysoformio per narcotico;/ Bevete alle tette della terra;/ Bevuta
liscia la vita/ È un veleno migliore che in bottiglia/ Nella saliva fermenta un
veleno migliore/ Di quello che uno caverebbe/ Dalle budella d’un serpente” (la
traduzione è di Ariodante Marianni). Serge Gainsbourg, invece, cantò la morte
di Chatterton nel 1967: “Chatterton suicida/ Annibale suicida/ Demostene
suicida/ Nietzsche/ in delirio/ Quanto a me/ non va poi meglio”.
Ogni letteratura ha bisogno, per trovare nuova nascita, nuova foggia
linguistica, di un capro espiatorio, di un agnello sacrificale. Il ragazzo di
belle speranze che s’incaglia nella sfortuna. Il pioniere che si perde nel
deserto, a un passo dalla terra promessa, appena intuita – la cui novità risiede
nell’annuncio, spericolato, incomprensibile. Thomas Chatterton è stato
l’agnus della poesia inglese moderna. È stato sconfitto, è vero – ma questa
sconfitta, ora, ci sovrasta.
*Si pubblica, in parte, l’introduzione al volume: Thomas Chatterton, “Nell’aura
del fulmine. Poesie scelte”, Feltrinelli, 2025, a cura di Davide Brullo
In copertina: Nicola Samorì, Arco della sete, 2020
L'articolo “Turbati, come dinanzi a qualcosa di straordinario”. Storia & versi
di Thomas Chatterton, il poeta maledetto proviene da Pangea.
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Lawrence Durrell porterà sempre con sé l’impronta luminosa di un’infanzia
mitica, vissuta tra le valli immense ai piedi dell’Himalaya. Una nostalgia
scitica – fatta di cieli purissimi, del lampo negli occhi di una tigre, del
passo ieratico di uno yak – non lo abbandonò mai: forse il desiderio, mai
appagato, di ritrovare altrove quella prima, segreta armonia.
La sua esistenza, come la sua scrittura, fu tutta votata al nomadismo:
dall’India all’Inghilterra, dalla Grecia all’Africa, dal Sud America alla
Francia. Poeta, romanziere, spirito inquieto e cosmopolita, amico fraterno di
Henry Miller e di Giorgos Seferis, Durrell riposa oggi in un cimitero silenzioso
della Provenza.
Ma fu un luogo in particolare – oltre a Cipro, amata e dolorosa – a marchiare a
fuoco la sua immaginazione: Alessandria d’Egitto. Da quella città molteplice,
mitica e carnale, scaturì uno dei cicli romanzeschi più affascinanti del
Novecento, il “Quartetto di Alessandria”, vertigine di tempo, memoria e
desiderio.
*
Il libro si apre in un altro luogo del cuore di Lawrence Durrell: un’isola delle
Cicladi, che in realtà è Cipro, dove il poeta acquistò una casa e visse per anni
immerso nella vita della comunità locale, imparando anche la lingua greca. È tra
l’ocra delle case e della sabbia egiziana e l’azzurro profondo del Mediterraneo
che si dispiega lo sguardo interiore di Durrell. Nella solitudine assorta
dell’isola greca, la memoria delle vicende vissute ad Alessandria poco più di un
decennio prima riaffiora lenta, seguendo il ritmo delle onde che lambiscono il
bianco calce dei porticcioli.
A separarlo dalla città egiziana sono appena cento chilometri di mare – eppure
l’anima si tende come un ponte invisibile tra i due mondi: un cortile greco
ombreggiato da ulivi, il sorriso obliquo di una donna cipriota, un cielo che
esplode d’azzurro di giorno e si vela, la notte, di una costellazione di stelle
cerulee.
*
Il khamsin è un vento che nasce dalle profondità del Sahara. Soffia impetuoso
lungo tutta la fascia orientale del Nordafrica, investendo anche Alessandria
d’Egitto, che ne subisce la furia nei giorni sospesi della primavera. Irrompe
come presagio nella terza parte di Justine, primo movimento del “Quartetto di
Alessandria”. La città si ritrae sotto una coltre ocra di sabbia e silenzio. Le
imposte si chiudono in fretta; dietro le feritoie, occhi in allerta scrutano la
polvere che avanza. La luce si vela di bagliori apocalittici, il cielo si tinge
di una minacciosa oscurità. Le feluche ondeggiano lente, consapevoli del
pericolo imminente; a bordo, le ciurme si muovono come spettri d’acqua, presenze
furtive tra le ombre del porto.
Con la stessa violenza del khamsin, l’appello dei sensi e il desiderio di
piacere si abbattono sugli abitanti della città, trafiggendoli come una scarica
elettrica che li lascia storditi, spossati, annientati. I corpi, come le case,
restano inermi sotto la furia degli elementi, tra le rovine visibili e
invisibili che l’eros e il vento seminano nella polvere.
*
Alessandria, Alessandria! Quale altra città scegliere, che già non porti nel
nome come il presagio di un destino? In quale altro luogo, sulla terra, la
scomparsa delle meraviglie antiche diventa meravigliosa metafora del rovinoso
incedere del tempo? È qui che palpita una splendida e drammatica galleria di
personaggi – Justine, Nessim, Melissa, Darley – che attraversa tutto il libro e
continuerà poi a illuminare, in un raffinatissimo gioco di specchi e punti di
vista, le altre opere del Quartetto: Balthazar, Mountolive, Clea.
*
Nessim, ricco possidente egiziano e marito di Justine, dissimula, dietro una
cordiale esposizione pubblica, il disordinato viluppo dei suoi pensieri verso la
moglie. Ne seguiamo la parabola interiore, che lo conduce dapprima a
un’immaginazione venata di follia, dove i fantasmi della gelosia sfilano insieme
all’ossessione del sospetto. Dopo la partenza di Justine, la sua presunta
convalescenza non è che una maschera fragile: sotto di essa si spalanca un vuoto
silenzioso, irreparabile.
Melissa, la compagna del narratore, figlia dei bassifondi della città e
ballerina di cabaret, non priva di una sua grazia che leviga gli angoli di
un’aderenza tutta terrestre alla corporeità. Un candore di innocenza, unito alla
frequentazione del vizio per pura necessità e non per inclinazione, la rendono
quasi una martire. È forse l’unica figura del romanzo capace di com-passione, in
grado di intuire il tumulto che si dispiega nel cuore di Nessim. Con la morte di
Melissa – l’unica per cui l’amore non richiede gli eccessi dell’intelletto, ma
solo la purezza della natura – si spegne anche la speranza di una compiuta
dimensione sentimentale proiettata nel futuro.
Justine, la donna che dà il titolo al romanzo, è ispirata a Eve, che Durrell
conobbe proprio durante la sua parentesi in Egitto. Ebrea colta e aristocratica,
Justine sembra uscire da un libro surrealista. Simile a Nadja nel suo inesausto
peregrinare, con il suo enigmatico lampeggiamento interiore smentisce ogni
principio di causalità. Convivono in lei la Musa e la santa, la martire e la
cortigiana, l’amante e l’accanita fedifraga. Regna in Justine una fatale
impossibilità alla fedeltà, come se concedersi ai suoi pretendenti fortificasse
dentro di lei l’immagine del vero amato, rinchiuso come in una stiva
sballottolata dalla tempesta a largo. Donna aracnide, tesse una tela dove a
turno restano invischiati Arnauti – che su di lei scrive delle feroci
memorie, Moeurs –, Nessim, Darley, ma anche Clea, misteriosa pittrice che vive
in completa solitudine. Persone, storie, libri, lacrime e orgasmi conducono come
un vortice rapinoso, un ago magnetico, verso la loro sorgente creatrice e
disgregatrice. L’improvviso congedo di Justine sarà il nodo di scioglimento dei
personaggi che le gravitano attorno, ma anche dalla Palestina, dove si è
trasferita a vivere in un kibbutz, l’eco della sua memoria continua a risuonare
in Egitto. Divinità ferina metà ellenistica e metà egizia, Justine assurge a
simbolo di Alessandria.
Infine c’è Darley, alter-ego di Durrell e narratore del romanzo. Anche lui cade
vittima del fascino ipnotico di Justine e dell’atmosfera mollemente sensuale di
Alessandria, dove le persone sembrano pedine su una scacchiera manovrata da una
continua e sfrenata gratificazione della sensorialità. Svuotato da una ricerca
tanto effimera quanto estenuante, Darley sembra orientarsi infine verso il
tentativo di trovare un legame di sincera amicizia, capace di mettere in
comunicazione il cuore autentico di due individui. Ma la sua fuga verso l’isola
greca suona come una silenziosa resa: la conoscenza e lo schiudersi reciproco
delle anime paiono destinati allo scacco. Forse, solo la bambina che Darley
porta con sé accende un barlume di speranza: una promessa muta, rivolta a un
futuro che, almeno in potenza, si riappacifica con la parte migliore dell’uomo.
Dove si situano l’arte, la letteratura, all’interno di questa cornice? Può uno
scrittore, che ha fibra di poeta, trovare una scia luminosa nel tumulto dei
gesti e della memoria? Forse non si manca di molto il bersaglio affermando che
il tema principale del libro sia la trasfigurazione della realtà attraverso il
prisma dell’arte. Solamente sul piano della creazione letteraria, sembra dirci
Durrell, i confini della vita e dell’arte si allargano smisuratamente:
> “La ricompensa del lavoro che si compie con il cervello e con il cuore sta in
> questo – che solo lì, nei silenzi del pittore o dello scrittore, la realtà può
> ricevere un ordine nuovo, essere rielaborata e costretta a mostrare il suo
> senso. Le nostre azioni quotidiane nella realtà sono semplicemente il
> materiale grezzo che nasconde il filo aureo – il senso della composizione. Per
> noi artisti è lì che il compromesso gioioso dell’arte con tutto quello che ci
> ha ferito o sconfitto nel vivere quotidiano ci attende; in modo tale da non
> eludere il destino, come vorrebbero le persone comuni, ma per compierlo nella
> sua potenzialità reale – l’immaginario”.
Ma anche il groviglio di vicende e sentimenti è destinato a disfarsi sotto
l’opera sottile del tempo: i ricordi lentamente trascolorano, i volti si fanno
evanescenti. Solo Alessandria rimane, e nella memoria si erge come il suo Faro
perduto, sentinella immobile tra i flutti del mondo e quelli, più segreti, di
Mnemosine.
*
Alessandria, oh Alessandria! Città del mito, della storia che si fa archetipo,
patria del sogno e di un tempo disperso, quando i sensi guidavano cuore, mente e
mani; un tempo ormai sfocato all’orizzonte della vita, che solo il fulgore
dell’arte può riportare alla luce, in un lampo di miracolo. L’Alessandria del
passato si confonde con quella del presente: città subliminale, frontiera dello
spirito, atteggiamento unico e irripetibile nei confronti del vissuto. Ne è
cantore meraviglioso e insuperabile Kavafis, che alla città egizia ha dedicato
tanta parte della sua opera. Numerosi sono, nel romanzo, i rimandi – diretti e
sotterranei – a Kavafis: poeta della nostra Itaca interiore, della promessa
racchiusa nei porti fenici, di uno sguardo ionico innestato a una sensualità
asiatica; padre di un linguaggio che, come miele colato da un vaso attico,
scende nei cuori di chi ama la Poesia.
Il libro di Durrell è anche un omaggio straordinario – forse tra i più vibranti
mai tributati – al poeta greco:
> “L’equilibrio squisito tra ironia e tenerezza l’avrebbe fatto includere tra i
> santi, fosse stato religioso. Ma per volere divino era soltanto un poeta e
> spesso infelice, anche se con lui avevi l’impressione di essere con qualcuno
> capace di afferrare al volo ogni istante del tempo e di capovolgerlo per
> mostrarne l’aspetto felice. Consumò veramente sé stesso, il suo io interiore,
> vivendo. La maggior parte della gente si adagia e lascia che la vita giochi
> con loro, fermi sotto la vita come sotto i tiepidi scrosci d’una doccia. Alla
> proposizione cartesiana «Penso, dunque sono» contrapponeva la sua, che forse
> doveva suonare pressappoco così: «Immagino, dunque ho radici e sono libero»”.
Alessandria, presagio di un’epoca in cui estetica e creazione coincidevano;
nostalgia di un’armonia esplosa poi in mille frammenti. Solo di questi
frammenti, e di schegge di desiderio, possono accontentarsi i protagonisti
di Justine. Darley, il narratore, è come Rembrandt: ritrattista letterario della
carne e dei suoi fremiti. Città-labirinto nella quale si resta intrappolati,
alla quale si offre la propria interiorità senza riceverne nulla in cambio,
Alessandria è avvolta insieme dalla luce del meriggio e dall’ombra del
crepuscolo.
È possibile allora – parafrasando ancora Kavafis – andare per altre terre, per
altri mari, verso una più città più bella anche dei sogni?
La risposta, indimenticabile e luminosa, arriva dalle ultime righe di Clea, il
romanzo che chiude il Quartetto:
> “Sì, un giorno mi sorpresi a scrivere con mano tremante le quattro parole
> (quattro lettere! quattro volti!) sulle quali ogni narratore dall’inizio del
> mondo ha puntato il suo debole diritto all’attenzione dei suoi simili. Parole
> che presagiscono semplicemente la vecchia storia di un artista divenuto
> maggiorenne. Scrissi: C’era una volta…
>
> E mi parve che l’universo intero m’avesse fatto un cenno d’intesa!”
Lorenzo Giacinto
*In copertina: Anouk Aimée è stata “Justine” nell’omonimo film di George Cukor
del 1969, tratto dal romanzo di Lawrence Durrell
L'articolo “Immagino, dunque sono libero”. Lawrence Durrell o dell’ascetismo
della mente proviene da Pangea.
Nel 1952, per la Harvill Press, Roy Campbell, l’esagitato poeta di Durban,
Sudafrica, pubblica Poems of Baudelaire, la propria versione di Les Fleurs du
Mal. Il poeta – ascendenze scozzesi, studi distratti a Oxford, abile nella
caccia, “bellissimo, enorme, ingenuo, docile, selvaggio”, l’avrebbe detto, anni
dopo, Evelyn Waugh – compiva cinquantuno anni; sarebbe morto poco dopo,
nell’aprile del 1957, di schianto, in un incidente d’auto, nei pressi di
Setúbal, Portogallo, dove si era trasferito da tempo con la famiglia. Le sue
spoglie riposano a Sintra, nel cimitero di São Pedro, di fronte
all’oceanico: oceanica, in effetti, e senza ancoraggi, è l’opera di questo poeta
che fonde la facondia visionaria di Blake agli oratori irti di piume, lance e
danze degli Zulu, di cui si sentiva confratello.
Nella breve introduzione al ‘suo’ Baudelaire, Roy Campbell – con il solito tasso
di alcolica sbruffonaggine – si tesse l’agiografia:
> “Dopo l’intrepido successo delle mie versioni di Giovanni della Croce, ho
> deciso di tradurre un peccatore senza scrupoli, non meno credente, tuttavia,
> anche nei momenti di ribellione assoluta e di assoluta blasfemia, di quel
> Santo. Leggo Baudelaire da quando ho quindici anni, è stato nella mia bisaccia
> durante due guerre, l’ho amato più di qualsiasi altro poeta. Ho tradotto
> Giovanni della Croce perché mi ha salvato miracolosamente la vita, a Toledo.
> Traduco Baudelaire perché ha vissuto la mia stessa vita: i peccati, i rimorsi,
> gli ostracismi, la povertà, la stessa disperata speranza di una
> riconciliazione…”.
Secondo George Steiner, Roy Campbell, insieme a Ezra Pound, è il più folgorante
poeta-traduttore in lingua inglese del Novecento. Insieme a Ezra Pound, è anche
il poeta più ostracizzato, malmenato, minato di fraintesi. Thomas S. Eliot – il
più arguto lettore di Baudelaire di quella generazione – amava, con rispettoso
turbamento, Roy Campbell: nel 1930 gli aveva pubblicato, per la Faber &
Faber, Adamastor; nel 1946 fu la volta di Talking Bronco.
La prima delle due guerre menzionate da Campbell nell’intro al Baudelaire è la
guerra civile spagnola. Cattolico fervente, avventuriero imperiale, Roy Campbell
è l’unico tra gli intellettuali anglofoni a parteggiare per Franco: cerca di
arruolasti tra i Carlisti; di fatto, non prenderà parte attiva al conflitto. Nel
luglio del 1936, a Toledo, aveva assistito al massacro: le truppe comuniste
predano e uccidono diciassette monaci del Carmelo dov’era ospite il poeta, con
la moglie. Campbell riuscì a salvarsi, salvando dalla razzia alcuni codici di
Giovanni della Croce lì conservati. I Poems of St John of the Cross vengono
tradotti e pubblicati da Campbell nel 1951; piacquero molto a Jorge Luis Borges,
che cominciò ad apprezzare “quel grande poeta scozzese, incidentalmente
sudafricano”.
Durante la Seconda guerra, il ‘fascista’ Roy Campbell – ben più antifascista di
molti, tiepidi intellettuali ‘di sinistra’ – fu arruolato nell’Intelligence
Corps; poi inviato a Nairobi, incluso tra i King’s African Rifles. Un incidente
in moto lo mise fuori ruolo: passò l’ultima parte della guerra sulla costa
kenyota, in operazioni atte a smontare l’azione dei sommergibili nemici. A
Londra, durante il “Blitz”, conobbe Dylan Thomas: diventarono fraterni compagni
di colossali bevute. Ogni tanto, si univa agli ‘Inklings’: a Tolkien – che era
nato in Sudafrica come lui – stava simpatico quel poeta sopra le righe, dal
talento smodato, che da ragazzo sfotteva gli snob del Bloomsbury e ora faceva a
cazzotti contro tutti; C.S. Lewis, simpaticamente, malsopportava l’ego del
“poeta e soldato”. Nel 1949, durante un incontro pubblico, Campbell si scaglierà
contro Stephen Spender, che rappresentava, ai suoi occhi, il côté tipico degli
intellettuali della sinistra anglofona: pallidi, pavidi reggenti della poesia
contemporanea, assertori di un patetico nepotismo. Gli spaccò il naso. Spender –
comunque, un cavaliere – si rifiutò di denunciarlo: “è un grande poeta e i
grandi poeti devono essere capiti”. È vero: Flowering Rifle, “a poem from the
battlefield of Spain”, uscito nel 1939, grandguignolesco poema sulla guerra
civile spagnola, è ascrivibile, più che altro, a un documento letterario
‘dell’altra parte’ – letterariamente, è goffo, tonitruante, malrassettato. Più
che altro, garantì a Roy Campbell un pervicace ostracismo. Quanto a lui –
gioviale, ingenuo, sempre in cerca di battaglie – percorreva la provocazione.
Strenuo oppositore del sistema fratricida dell’apartheid, nel ’53 ricevette una
laura in onore dalla University of Natal. Denunciò il “suprematismo bianco” del
primo ministro sudafricano, D.F. Malan; nello stesso tempo, diede dello “zombie
ridacchiante” a Franklin Delano Roosevelt, reo di aver mollato a Stalin l’Europa
orientale. Churchill gli pareva un pachiderma.
Intrattabile, inarginabile Campbell: nel 1924 aveva esordito, per Jonathan Cape,
con The Flaming Terrapin, imponente poemetto dal genio ‘aggressivo’, fuori
classifica rispetto ai libri dell’epoca, al contempo, inno sciamanico, iliade
africana, leviatano lirico. In Italia, cominciamo a colmare la lacuna soltanto
ora: l’ultimo numero della rivista “Poesia” (n.31, maggio/giugno 2025, Crocetti
Editore) dedica la copertina a Roy Campbell, “Il poeta guerriero”, pubblicando
una porzione di The Flaming Terrapin tradotta da Andrea Temporelli (il poema
sarà edito, prossimamente, dalle edizioni Magog).
Nel 1952 – a testimonianza della mente multiforme del poeta – Campbell pubblica
un poderoso omaggio a Federico García Lorca, An Appreciation, With Selected
Translations of His Poetry. Campbell idolatrava il poeta repubblicano, vilmente
fucilato e oltraggiato dai nazionalisti nel ’36. Alcuni dicono che le sue
versioni di García Lorca siano tra le più belle uscite nel mondo inglese. Sul
“New York Times”, il 21 dicembre del ’52, Dudley Fitts firmò una partecipe
recensione:
> “Pare che Roy Campbell sia nato per scrivere questo piccolo, esplosivo
> libello. Egli stesso possiede quelle qualità ‘romantiche’ che rintraccia in
> Federico García Lorca – avventatezza e galanteria, un maquillage andaluso di
> cruda vita e misticismo, il genio della poesia, soprattutto –: difficilmente
> potremmo immaginare coincidenza più felice tra un autore e il suo soggetto”.
Già: l’erculeo Roy Campbell, autore di una lirica tra le più vertiginose e
inavvicinabili del secolo, possedeva un’energumena generosità. Lo hanno dipinto
come un Ciclope – per la cecità politica, per la cieca ira –, era un uomo buono,
un cavaliere medioevale. Sognava di essere un Centauro: lo fu – all’incirca.
**
Da Charles Baudelaire
Corrispondenze
La natura è un tempio, ogni pilastro
getta, a tratti, vaghi sussurri. L’Uomo avanza
nella foresta dei simboli, strani e solenni,
che lo mirano con sguardi familiari.
Dilaga l’eco, si mescola e trasfonde
finché nel profondo oscuro unisono si confonde
vasto come la notte, come la cupola del mezzogiorno –
così si embricano profumi, suoni, colori.
Profumi freschi come il vello dei bimbi
come i violini, dolci come i verdi tumidi prati.
Ricchi, complessi, trionfanti, altri rotolano
insieme alla vasta gamma delle infinite non rifinite
cose: ambra, muschio, incenso, resine, ciascuno
canta il trasporto dei sensi e dell’anima.
*
Il nemico
Fu tempesta oscura, selvaggia, il mio giovane
giaculìo: vi sfrecciava un sole abbagliante.
Tuono e pioggia hanno devastato tutto
il mio giardino è avaro di rosati frutti.
Ora è l’autunno della mente
e vanga e rastrello raspano la terra
per salvare frantumi dei miei campi
allagati, dove l’acqua insudicia una tomba.
Chissà se i fiori prefigurati dai miei sogni
troveranno, su questa dilavata terra, per una malizia
almeno, il nutrimento mistico che li farà germogliare.
Il tempo divora la nostra vita, è brutale!
L’oscuro nemico rode le radici del cuore
e cresce sempre più forte sulla nostra chioma.
*
Sopra il ritratto di Tasso in prigione di Delacroix
Il poeta è malato e mezzo nudo:
calpesta un manoscritto nell’oscura cella
e fissa con terrore la scala dove
il suo spirito, infine, crollerà.
Risate inebrianti sbracano quell’aia
lo invitano allo Strano e all’Assurdo.
Intorno a lui, sguainate le orribili figure
del Dubbio e del Terrore, le multiformi.
Questo genio recluso in sotterranei pestilenziali
queste grida, il ghignare di spettri che si contorcono
che si accalcano intorno a lui, beffardi,
questo sognatore destato dalle urla del proprio incubo
è il tuo emblema, Anima sorta dalla nebbia.
Attorno a te la Realtà erige il suo muro e la sua museruola.
*
Da Federico García Lorca
Vasto fantasma d’argento, il vento di mezzanotte
spira e spalanca la mia ferita antica
con la sua grigia mano: se ne andò
e svenni, preda di un triste desiderio.
Questa ferita mi darà la vita: da essa
germoglierà la luce, il sangue che senza
tema sgorga – uno spiraglio dove l’usignolo,
muto, troverà un bosco, un nido e un addio.
Oh, che dolce litania fa tintinnare la mente!
Sul fiore più modesto deporrò il mio dolore
dove fluttua, senz’anima, l’orgoglio della tua beltà.
Allora, il fiume mercenario si tingerà
di rosso, mentre il mio sangue scende
lungo le fragranti selve, nell’aura della rugiada.
*
Adamo
Presso l’albero del sangue, il mattino stilla
rugiada e il neonato urla.
La sua voce mette un vetro nella ferita
e cosparge le finestre con diagrammi di ossa.
Il giorno ha raggiunto a luce costante
i limiti della favola: evadi
dal tumulto del sangue e vola
verso la mela, verso la sua fioca ombra.
Adamo, con quella febbre d’argilla,
sogna che il bimbo galoppa verso di lui –
raddoppia il puledro sangue nelle sue guance.
Ma un altro oscuro Adamo sogna: anela
una luna di pietra, neutra, dove nulla germoglia
dove il figlio della gloria sarà bruciato.
*In copertina: Augustus John, The Poet: Roy Campbell, ca. 1925, Carnegie Museums
of Art, Pittsburgh
L'articolo “Un invito all’Assurdo”. Roy Campbell, poeta guerriero proviene da
Pangea.
«Era molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte.
Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per
liquefarsi», così scrive Virginia Woolf in una lettera a Vita Sackville-West, il
7 ottobre 1928, e continua:
> «Il mio invece si strugge alla luce del gas, e sono solo le nove e devo andare
> a letto alle undici. Così non dirò niente, non una parola del balsamo che eri
> per la mia angoscia […] Come ti guardavo! Come mi sentivo – già, come
> descriverlo? Bè, da qualche parte ho visto una pallina che continuava a
> saltare su e giù sul getto di una fontana: tu sei la fontana, io la pallina. È
> una sensazione che mi dai solo tu».
Un secolo fa, Vita e Virginia si facevano immagine d’un amore unico: la pallina
che salta su e giù, sospinta dal mobile getto della fontana, esprime
un’attrazione irresistibile. Quella pallina, metafora del piacere che volteggia
sull’acqua, ci fa volare, come l’epistolario che ne deriva, tra i grandi
canzonieri d’amore del Novecento. Un carteggio di oltre cinquecento lettere,
scambiate dal primo incontro (1922) e fino alla morte di Virginia
(1941), antologizzate in Italia nel testo tradotto da Nadia Fusini e Sara De
Simone: Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena
Munafò.
Virginia e Vita si scrivono continuamente, per quasi vent’anni; si scrivono per
darsi un appuntamento, per scusarsi o rimproverarsi, ma soprattutto per capirsi,
essere vicine, una accanto all’altra, attraverso le parole, i soprannomi, le
metafore, i silenzi intermittenti in cui esplode la mancanza. Qui è Vita ad
urlare con passione:
> «Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te
> una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta
> sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano.
> Tu con tutte le tue lettere intelligenti, non scriveresti mai una frase così
> elementare […] mi manchi più di quanto potessi credere […] questa lettera è
> solo un grido di dolore. È incredibile quanto tu sia diventata essenziale per
> me. Immagino che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere dalle
> persone. […] Non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi fino a
> questo punto – ma tesoro mio, non posso essere furba e distaccata con te: ti
> amo troppo per farlo» (21 gennaio 1926).
Se Virginia nuota nelle acque dell’intelletto, in quel convento che è Monk’s
House, dove condivide un’austera intimità con Leonard, in un patto reciproco di
rispetto e solidarietà, Vita naviga nella vita a vele spiegate, è sgargiante nei
colori e nel temperamento, posseduta dal demone erotico. È moglie di un
ambasciatore, Harold Nicolson, lo segue nei suoi viaggi, con disinvoltura
organizza ricevimenti. Ed è anche madre. Detto altrimenti: è una donna reale,
vera, concreta, mentre Virginia è una creatura fantastica, che vive nei suoi
sogni e nei suoi scritti.
Virginia rappresenta per Vita l’ignoto: non ha mai incontrato una simile
bellezza spirituale, eterea, fragile, dolcissima, le mani affusolate e la mente
luminosa, trasparente, di cristallo. Una bambina, malgrado abbia dieci anni più
di lei (quando si incontrano, Vita costeggia la trentina, Virginia la
quarantina). Virginia scrive divinamente, vuole innovare il romanzo, lavora
nella sua casa editrice, la Hogarth Press, litiga con la mitologica Nelly, la
cameriera. La sua personalità, così ricca e geniale, affascina Vita e la turba
al contempo. In Virginia tutto è pallido e virgineo. Vita capisce che va
trattata con riguardo e, soprattutto, con riguardo materno, quello che Virginia
ha sempre cercato e che ora, con Vita, tocca fino alle stelle. Quella sarà la
chiave sublime del loro legame d’amore, di cui le lettere sono una preziosa
testimonianza.
L’abbraccio materno e virile con cui Vita la stringe a sé, fa volare Virginia,
libera la sua mente (non a caso, dopo il loro incontro, nasceranno i suoi
capolavori: Al faro, Orlando, Le onde), scioglie il suo corpo.
Quando incontra Vita, Virginia conosce per la prima volta nella sua vita la vera
passione e, dopo una certa resistenza – come scrive Quentin Bell, suo nipote e
biografo – se ne lascia attraversare, con meraviglia e gratitudine. Dal canto
suo, Vita tenta di contenere il fervore carnale, il marmo di cui è fatta la sua
sostanza, potremmo dire, temendo di spezzare il cristallo della donna che ama.
Le due si incontrano nella loro terra di mezzo, dove permangono, insieme, fino
alla morte di Virginia, in un amore eterno e poetico, un legame che, nelle
complessità della vita, si è fatto parola, lettera, letteratura.
Anche quando la relazione fisica finirà, non morirà il loro amore, eternizzato
nelle lettere e nelle pagine di Orlando, lo straordinario romanzo che Virginia
dedica a Vita, trasformandola in un personaggio immortale (che nasce maschio nel
Cinquecento e diventa femmina nel Settecento), trasportando l’esperienza dei
loro sentimenti in un’interrogazione profonda eppure ironica, sul senso ultimo
dell’amore. Quando Vita lo lesse, comprese che nessuno l’aveva mai posseduta,
cioè colta, così a fondo, nella sua più intima verità: «Tesoro, sono così
sopraffatta che non ho idea di come tu abbia potuto […] mettere una veste così
splendida su una stampella così modesta» le scrisse l’11 ottobre 1928.
Mentre cadono le bombe della Seconda guerra, dalle loro rispettive residenze di
campagna, Vita e Virginia si scrivono, si sostengono a vicenda, la loro candela
non si spegne: «Che dire – se non che ti amo e vivrò questa strana calma serata
pensando a te che sei lì da sola […] Mi hai dato tanta felicità» scrive Virginia
il 30 agosto 1940, e Vita risponde il primo settembre:
> «Tesoro, quanto mi ha commossa la tua lettera stamattina. Mi è quasi caduta
> una lacrima dentro l’uovo in camicia. Le tue rare dimostrazioni d’affetto
> hanno sempre avuto il potere di emozionarmi moltissimo e – siccome suppongo
> che in questi giorni siamo tutti un po’ tesi […] – oggi mi arrivano in
> picchiata, dritte al cuore, come un proiettile che sbatte sul tetto. Ti amo
> anch’io. Lo sai».
Dalle ultime lettere emerge in filigrana una certa nostalgia, il bisogno
continuo di ricordare e sottolineare quanto sia importante il filo che le lega,
come se sentissero la morsa del tempo che incalza sulle loro vite… «mi
sento sempre in contatto con Vita. […] non riuscirai mai a disfarti di me – mai.
Neppure per un secondo mi sono sentita meno legata a te» scrive Virginia il 12
marzo 1940. «Su che piolo sto, sulla tua scala?» le aveva chiesto tempo addietro
e la risposta di Vita non aveva lasciato spazio ad alcun dubbio: «Adorata
Virginia, sei su un piolo molto alto – sempre – (25 agosto 1939).
Vogliamo ricordarle così: in cima alla scala del loro amore, su quel piolo molto
alto, mano nella mano, verso quella luce che ancora oggi le fa risplendere – e
ci riscalda.
Marilena Garis
L'articolo “Il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi”. Virginia
& Vita, o dell’amore assoluto proviene da Pangea.
Non è un caso che gli ultimi due testi del canzoniere scespiriano, i sonetti
gemelli 153 e 154, siano dedicati a Cupido, variando un motivo tratto da un
epigramma di un poeta bizantino incluso nell’Antologia greca. “L’epigramma narra
di come Cupido si fosse addormentato e di come le ninfe avessero deciso di
spegnere in una pozza d’acqua la sua torcia infuocata (la più antica “arma” di
Cupido, con cui egli accende d’amore i cuori degli uomini, prima che gli
venissero attribuiti arco e frecce), ottenendo però il risultato di infuocare
per sempre quelle acque” (Camilla Caporicci). “La ninfa di Diana approfittò /
tuffando la sua torcia infiammacuori/ in una fredda fonte nella valle,/ così dal
sacro fuoco l’acqua attinse/ un eterno calore inesauribile,/ che fu bagno
bollente e che si dice/ sia la sovrana cura a malattie” (153).
Nel mito, dunque, uno spirito femminile è inviato dalla dea Diana a cercare un
rimedio alle fiamme accese dal dio scugnizzo e tenta di trasformare il fuoco che
brucia in acqua che plachi: “e così il Generale di passioni/ fu disarmato in
sonno da una donna./ Spense la torcia in una fredda fonte/ che divenne calore
con quel fuoco,/ bagno termale e cura per malati” (154). Questo racconta il
mito, ci dice Will, ma aggiunge che si tratta di un falso, di un estremo
inganno, che lui ha esperito sulla propria pelle: “Dolente, cercai aiuto in
quella fonte/ ma, triste, non ne ebbi cura alcuna”: a quel punto del canzoniere
l’unica cura sono, come da tradizione cortese e petrarchista, “gli occhi della
donna” (153).
Pubblicati nel 1609 molto probabilmente senza il consenso dell’autore,
i Sonetti di William Shakespeare hanno come si sa due dedicatari: un giovane di
grande bellezza, il fair youth, e una misteriosa (o)scura donna, la dark
lady. Il corpus principale del canzoniere ci offre la celebrazione della
giovinezza, poi il doloroso scarto tra bellezza e virtù, e da qui i tormenti del
cuore, la gelosia per altre/i amanti del giovane narcisista, quindi la
disperazione per l’impietoso avanzare dell’orologio e l’appressarsi della morte,
ma anche la sfida tra Will e la propria Musa e la più mondana rivalità con gli
scrittori suoi contemporanei. Lo scacco esistenziale è però compensato
dall’assoluta certezza di aver consegnato l’amato fair youthall’eternità, grazie
all’arte poetica.
Quando poi dal sonetto 127 fa la sua entrata in scena la dark lady, c’è un
deciso definitivo cambio di registro: le atmosfere si intorbidano, la lingua
s’infiamma, il lirismo estatico del corpus principale viene sommerso da una
materia infuocata, pietra lavica composta di lussuria, sfide, minacce,
maledizioni. Se poi l’innamoramento omosessuale per il fair youth era di natura
ideale, l’amore di carne e seme per la donna pare richiedere a Will una prova di
forza tale che le sue forze vitali ne risultano vinte, conquistate: “Ma se m’hai
quasi ucciso, tuttavia, / finiscimi di sguardi e così sia” (139).
Arresosi alla sua padrona e tiranna, conclude il magnifico canzoniere con una
dolente consapevolezza, che è anche un supremo inno all’amore: tra Cupido e
Diana non c’è partita, il vincitore è il bimbo capriccioso per le cui ferite non
c’è fonte d’acqua né bagno termale, né mai potrà esistere cura alcuna. E,
citando il Cantico dei Cantici, si congeda così: “Ma io, schiavo di lei, ci
andai e vi dico:/ fuoco d’amore all’acqua dà calore,/ invece l’acqua non
raffredda amore” (154). (Massimiliano Palmese)
**
129
È uno spreco di linfa, è una vergogna
quando in corpo s’accende la lussuria.
È spergiura e colpevole, è sanguigna,
è selvaggia e bugiarda quando infuria.
Non appena appagata è disprezzata.
È rincorsa in maniera animalesca
poi pazzamente odiata, come l’esca
che rende pazzo chi l’abbia ingoiata.
Pazzo sia nel possesso che al bisogno.
Prima, durante e dopo è sempre estrema:
buona la prima volta, poi gran pena.
Promette gioia, sì, ma è solo un sogno.
E tutto il mondo sa, e non sa evitare
un cielo che all’inferno può portare.
*
137
Tu cieco pazzo amore, che sai fare
all’occhio mio che guarda ma non vede!
Sa la bellezza, sa dove risiede,
però confonde il bene con il male.
Se occhio sviato da affrettati sguardi
s’àncora nella sua baia affollata,
perché, ingannati gli occhi, fai altri ganci
per raggirare un’anima assennata?
Penserà che sia pascolo privato
un terreno che sa che è aperto al mondo?
O dai miei occhi ciò sarà negato
per dare aspetto onesto a un viso immondo?
Il cuore e gli occhi hanno sbagliato via,
precipitando in questa malattia.
*
139
Non mi chiedere di scusare i danni
che la tua crudeltà infligge al mio cuore:
non con gli occhi, feriscimi a parole,
usa forza con forza, e non inganni.
Dimmi che hai amori altrove ma di giorno,
cuore caro, non ti guardare intorno:
perché ingannarmi quando puoi più offesa
di quanto può l’esausta mia difesa?
Ma io ti scuso: “L’amor mio lo sa
che i suoi sguardi mi furono fatali,
e dal mio viso li distoglierà,
perché lancino ad altri i propri strali”.
Ma se m’hai quasi ucciso, tuttavia,
finiscimi di sguardi e così sia.
*
147
Il mio amore è una febbre, cerca sempre
ciò che più a lungo ne alimenti il male,
nutrendosi di quel che lo conserva
per appagare una morbosa fame.
La ragione, che dell’amore è medico,
furiosa per ricette che non sèguito,
m’ha lasciato e ora scopro disperato
che desiderio è morte, e era vietato.
Sono incurabile, la mente è a un bivio,
pazzo furioso e sempre più in delirio.
Dei pazzi ho sia i discorsi che i pensieri,
tutti sconnessi, vani e poi non veri.
Ti pensai bella e ti ho giurato pura:
sei nero inferno, sei la notte oscura.
*
149
Dici, crudele, che Will non ti ama
se contro me sto sempre dalla tua?
Dici che non ti penso, mia sovrana,
quando per gioia tua scordo la mia?
Chi ti odia forse prendo per mio amico?
Lodo qualcuno di cui ti lamenti?
E se con me t’imbronci, io poi non grido
vendetta su me stesso tra i tormenti?
Quale merito vuoi mai che mi tocchi
da scordare che sono qui a servirti,
se tutto in me ancora ama i tuoi vizi
a comando di un cenno dei tuoi occhi?
Odiami, amore, ora che ho imparato:
vuoi chi ti ammiri, e io sono accecato.
Traduzione di Massimiliano Palmese
*I testi sono tratti da: William Shakespeare, Sonetti, trad. it. di
Massimilliano Palmese, Marcos y Marcos, 2025
*In copertina: John Henry Fuseli: Self-portrait (1790), Victoria and Albert
Museum, London
L'articolo “Sei nero inferno, sei la notte oscura”. Shakespeare: cinque sonetti
alla dark lady proviene da Pangea.
Rugby, dicembre 1905. Nella cappella della scuola locale, due ragazzi si
scrutano da lontano, in ginocchio sui banchi in posizione di preghiera. Gli
occhi, trepidi, seguono il luccichio delle candele, al ritmo dei salmi e degli
inni. Dalle ombre basse delle navate, sguardi di attesa e stupore si incrociano
per un istante, poi fuggono al primo brivido, tornando in orbita come magneti.
I loro nomi, da adulti, sarebbero diventati leggenda, ricordati come assoluti
protagonisti del mondo della cultura di inizio Novecento: erano Rupert
Brooke e Michael Sadleir. Da un lato, l’Adone anglosassone immortalato da
Leonard Woolf, e non solo “il ragazzo più bello d’Inghilterra” – a detta di W.
B. Yeats – ma anche lo scrittore georgiano annoverato fra i più amati war poets;
dall’altro, un’autorità nella storia della critica vittoriana, magnifico esperto
di Trollope e appassionato bibliofilo. Della fama nazionale del primo
testimonia, com’è noto, la lapide in ardesia posta nel Poets’ Corner a
Westminster; del compagno (distintosi per aggiunta di una lettera dal padre
Michael Sadler, eminente educatore) vanno quantomeno citati i romanzi di
successo Fanny by Gaslight (1940) e Forlorn Sunset (1947), ambientati nei
bassifondi della capitale, oltre alla sterminata collezione di volumi
ottocenteschi raccolti nella sua biblioteca, ancora un punto di riferimento
negli studi vittoriani.
Rupert Brooke fotografato da George Augustus Dean Jr, Rugby, 1905
Studenti nella scuola privata della cittadina del Warwickshire, nota dalla metà
del secolo precedente come il “tempio della mente e del corpo” di Thomas Arnold
e campo di formazione tout court dei più dotati figli dell’Impero, Brooke e
Sadler divennero ben presto amici affiatati, formando un branco inseparabile
insieme ad altri Rugbeians: Hugh Russell- Smith e Geoffrey Keynes (fratello
dell’economista Maynard). Le loro attività preferite comprendevano cricket,
riunioni di gruppo e letture raffinate.
Il legame più intimo che univa Rupert e Michael era nato nei primi giorni del
1906 e sin dall’inizio lasciò trasparire un’amicizia esclusiva. Tutto cominciò
quando Sadler chiese al fotografo G. A. Dean di acquistare uno scatto dello
studente più attraente di School Field stampato sull’annuario scolastico qualche
mese prima. Messo a conoscenza degli eventi dallo stesso Dean, la star della
scuola – atleta provetto e precoce talento letterario già insignito di premi e
riconoscimenti – esibì un’ansiosa curiosità verso la faccenda, sentendosi al
centro di un piccolo scandalo privato. Si trattenne comunque dall’esternare la
sorpresa per non sollevare commenti inopportuni, guardando con sospetto le mosse
dell’ammiratore segreto, venuto timidamente allo scoperto, e interrogandosi
sulle sue reali intenzioni.
Il resoconto dell’accaduto è in una lettera all’amico Keynes, dove Brooke
tratteggia una sognante descrizione del giovane:
> “Un tipo dall’aspetto di un dio greco, il volto di Giacinto, la bocca di
> Antinoo, occhi come il tramonto, un sorriso d’aurora… Sadler. Sembra che il
> folle mi adori a una pallida distanza.”
Da quel momento in poi gli incontri si fecero sempre più frequenti, nettamente
più calorosi dei sorrisi furtivi scambiati in fugaci incontri per strada e in
cappella, durati appena il tempo di un’affannosa corsa sui campi da gioco.
Appartenendo a due Case distinte, nell’ambiente serrato dal ritmo delle lezioni,
era infatti molto difficile – o quasi raro – interagire con studenti distanti
dalla propria divisione, se non durante le attività sportive, in occasione degli
eventi ufficiali e nelle ore di ricreazione. In ogni momento erano tenuti sotto
il controllo dei tutori, dietro l’occhio vigile degli insegnanti e dei prefetti,
anche in una posizione privilegiata come quella di Brooke, figlio del maestro a
capo della sua stessa Casa d’appartenenza.
Da parte sua, lo studente modello chiese a Sadler di ricambiarlo con una
fotografia, ottenuta senza troppe remore, seguitando l’azzardo osato dal più
coraggioso. Durante il loro ultimo anno a Rugby, i due compagni presero dunque
contatti più stretti e coltivarono un affettuoso scambio epistolare che
raggiunse intensi toni malinconici e candide venature romantiche. Sempre a
Keynes, Rupert attestava la paura che una simile intesa potesse finire come ogni
altra cosa bella e insieme rimpiangeva la gioia avvertita nell’istante al tempo
rubato:
> “Un giorno forse saremo vecchi e saggi, e dimenticheremo. Ma adesso siamo
> giovani e lui è bellissimo. Ed è primavera. Anche se fosse soltanto una
> commedia romantica, una fantasia, che importa? La Giovinezza è più strana
> della fantasia… Al momento lui – l’adorabile, cinto di rose – è a Roma, mentre
> io ricevo pallide e tenere lettere ogniqualvolta gli Dèi o le poste italiane
> lo permettono.”
L’adorazione aveva ormai superato il limite di pruderie concesso all’epoca in
qualsiasi legame tra coetanei maschi, con eccessi di tormento giovanile per la
distanza lancinante capace di sprofondarlo nell’abisso della solitudine, a
tratti colmato dall’esaltazione estatica provata in presenza dell’amico del
cuore. Ricusava, d’altro canto, i segni di un rapporto impossibile, negato nella
sua stessa essenza, spinto al confine dell’idillio romantico e mai veramente
compreso fino in fondo: un groviglio di emozioni contrastanti, assecondate fuori
ogni logica al risveglio dei sensi liberamente tesi sulla corda dell’amicizia.
Michael Sadleir (Oxford, 1888 – Londra, 1957)
Da fervido alunno di Rugby, Rupert Brooke non era estraneo ai clichés scolastici
e alle esperienze di molti conterranei del suo status. Per l’abitudine contratta
dalla vita di gruppo all’insegna dello spirito di camaraderie, la segregazione
nella fratria della scuola a frequenza esclusivamente maschile e il bisogno
d’affetto che ad essa si accompagnava sul piano individuale, il mondo
delle public schools inglesi ospitava e alimentava una forte componente di
tendenza omoerotica, in cui pure influiva l’allontanamento dall’altro sesso
durante un delicato momento della crescita. Numerose sono infatti le
testimonianze di intimi rapporti tra giovani convittori, designati per la loro
estensione nazionale come «amicizie romantiche degli inglesi» – secondo il
satirico Evelyn Waugh (Brideshead Revisited, 1945) – e simili a quelle «amicizie
particolari» osannate come le più perfette da Roger Peyrefitte in terra
francese. Immerse nel sogno di giovinezza dimentico dell’idea di un futuro ben
diverso, in larga misura fondamentalmente etero-normato, alcune amicizie
maschili potevano perlomeno assolvere altri ruoli possibili nella richiesta di
calore e di un tenero riparo dal mondo esterno, proveniente dal legame fraterno
con un ami de tout o offerto dal migliore bosom friend, ed essere quindi
“permesse”, talvolta finanche incoraggiate, purché – s’intende – non durassero
troppo a lungo. Va da sé che alcune di queste venivano percepite come primordi
di vere e proprie relazioni sentimentali, quindi osteggiate, finite in preda
alla sanzione del pervicace stigma morale, oggetto di punizioni corporali,
espulsioni per scandali messi immediatamente a tacere, o addirittura concluse in
tragedia come estrema conseguenza di complici patti suicidi orditi dai
rispettivi sodali.
Un sottomondo omosociale naturalmente esisteva dietro le porte strette delle
aule e dentro le barricate claustrali di quegli antichi collegi – chiamati in
inglese boarding schools – in maniera analoga, seppure più rigidamente
consolidata, rispetto agli istituti sparsi sul continente. Nascondendosi nelle
cucce dei dormitori e nelle cosiddette “camerate”, l’oltraggio alla regola era
da aspettarsi sia tra gli allievi che tra i membri del corpo insegnante, e il
più delle volte da violenti contatti forzati tra i due fronti. Dichiarati
punitori della corruzione del corpo e dell’animo infantile, fra gli attenti
tutori non mancavano casti custodi della lezione dei classici ed eletti
continuatori dell’arte paideutica, in mezzo ai quali si celavano rapaci
“pederasti” trafilati nel dominio dell’amore greco – ossia «l’indicibile vizio
dei greci» aggirato da E. M. Forster in Maurice (1914 – pubbl. 1971) e
condannato ancora a crimine contro natura nell’Inghilterra edoardiana – che nel
mondo chiuso della scuola ravvivava l’antica fiamma in nome dell’immacolato
amore per i ragazzi.
Della sotterranea etica omoerotica alla base dell’educazione standard dei
giovani inglesi, non sempre amorevole e lieta, Brooke era di fatto consapevole,
pur dipingendo la scuola come il suo personale Olimpo:
> “Finalmente ho capito dove sono finiti gli Dèi greci al giorno d’oggi. Si
> possono trovare nelle scuole private. Li vedo di continuo, immersi nel sole a
> primavera, velatamente camuffati, dai lombi morbidi e gli occhi vivi, mentre
> corrono sull’erba, giovani e belli. L’Olimpo è qui e ora. Mi nutro del nettare
> della vita, dalle mani di Ganimede, e in mezzo ai miei giovani Dèi ignari
> adesso ti scrivo estasiato.”
Avrebbe invece parodiato senza soggezione il vorticoso regime scolastico,
avvertendo in esso qualcosa di paradossale: un silenzio gravido di colpe che
racchiudeva rischi nefasti ammessi dai suoi stessi giudici obiettori.
Preoccupato di ricoprire, anni dopo, il posto di sostituto del padre appena
deceduto e così ripiombare nella vecchia scuola, questa volta in veste di
insegnante (quando fu perfino obbligato a fustigare un ragazzino colpevole,
finendo lui stesso in lacrime), riporterà in tono ironico e beffardo a James
Strachey, il confidente di sempre ed ex compagno di studi nella scuola
preparatoria di Hillbrow: “Questo mi renderà un bravo maestro di prep-school? Mi
farà tornare forse all’antica e ortodossa pratica della pederastia?”
Convinto della sua purezza di cuore, per preservare le sue emozioni
dall’ingiusto bollo di indecenza, il poeta in erba aveva scelto per il suo amico
adorato l’appellativo di “Antinoo”. Entrato in possesso di una stampa
dell’antico prototipo, conservava la fotografia della sua reincarnazione,
lontano da occhi indiscreti, all’interno del suo armadio. Per trasfigurare il
compagno in panni greci, come solo si poteva nello spazio immortale della
lirica, proprio a Sadler dedicò un inno votato al tragico bitinio, dopo aver
letto tutto d’un fiato e in segreto la struggente epistola De Profundis di Oscar
Wilde, fra le opere degli idoli decadenti alle cui fonti il neofita si
abbeverava negli anni di formazione. Il testo della poesia non ci è pervenuto,
almeno integralmente, ne resta però un frammento ritrovato nei suoi quaderni
giovanili, che detta nella chiusa: «Meglio che tu [Antinoo] rimanga sempre al
nostro fianco».
Una pletora di materiali inediti è tenuta, tra l’altro, ancora sotto chiave nei
cassetti degli archivi universitari del King’s College Cambridge e nei meandri
di fondi privati. Finito in mezzo a svariati componimenti, fogli d’appunti
sparsi, diari segreti e numerosissime lettere, comprendenti gli stessi scambi
con Michael, il manoscritto andò disperso alla morte dell’autore, probabilmente
bruciato per mano di Geoffrey Keynes. Zelante erede testamentario del Brooke
Trustee, l’amico premuroso assunse il ruolo di più accanito difensore delle sue
carte, preferendo occultare la presenza di materiale ritenuto altamente
compromettente circa la sessualità del nobile poeta-eroe, appena scomparso in
Grecia, per non macchiarne la reputazione creata, dal lato pubblico, sull’onda
della canonizzazione postuma.
Solamente a partire dagli anni Ottanta, importanti rivelazioni sui legami
maschili della fase Rugby di Brooke sono venute alla luce dallo spoglio
capillare dei suoi epistolari, da qui svelate nelle più accreditate biografie.
Le amicizie romantiche di quegli anni sono nutrite di tenerezza e pulsioni
ludiche, condivise con l’affascinante Charles Lascelles e il più giovane Denham
Russell-Smith. Con quest’ultimo, una notte d’autunno del 1909, il ragazzo ancora
immaturo avrebbe compiuto il decisivo passo iniziatico durante una leggera
«Danza delle lenzuola» nella libertà della sua casa di campagna a Grantchester.
Il racconto sincopato e catartico di quella esperienza irripetibile si può
leggere in una lunga confessione indirizzata per lettera a James Strachey,
datata al luglio 1912, nel carteggio tra i due (Friends and Apostles: The
Correspondence of Rupert Brooke and James Strachey, 1905-1914, a cura di Keith
Hale, 1998). Ma se la liaison con il fidato Denham bastò come attardato rito di
passaggio e di transizione al mondo adulto, dopo aver ripetuto a suo modo – al
di fuori della cappa scolastica – i vecchi e imprescindibili codici che
giustificavano una tale passione, l’affetto per Sadler sarebbe rimasto soffocato
negli abissi del tempo, relegato al ricordo di una forma d’amore puro e
inviolato.
Amici e Apostoli. Le lettere di Rupert Brooke e James Strachey
Queste relazioni maschili si limitano, tuttavia, alla sola fase giovanile degli
anni di scuola, inquadrate nell’ottica di un preciso sistema socio-culturale
permeato dal tipo di educazione d’impronta public school, perfettamente
riconoscibile nell’Inghilterra del tempo, con tutte le coercizioni etiche che
comportava, insieme alla messe di sentimenti inespressi dai giovani camerati.
Diverso è il caso delle amicizie intellettuali formate nei circoli a stampo
omoerotico di Cambridge, dove la tradizione classica continuava entro gruppi
elitari e confraternite segrete animate da cori autonomi, come i discepoli
Neo-platonici radunati attorno a G. M. Moore (il celebre filosofo autore
dei Principia Ethica) e Goldsworthy Lowes Dickinson (A Modern Symposium; A Greek
view of Life), o con le dolci attrazioni di George Mallory (maestro nella
sontuosa Charterhouse e primo scalatore dell’Everest), del matematico Harry
Norton e le file di ragazzi che il bellissimo studente del King’s attirava di
continuo con la sua avvenenza fuori dal comune. Eppure, per quanto se ne sappia,
il Brooke maturo non ebbe mai più il desiderio – per tacere dell’unica avventura
di Grantchester – di riportare quegli amori proibiti alla luce della fase
adulta. Il passato restava immerso in una crisalide dorata e il suo ricordo
rimaneva intatto nei versi, dove i compagni vengono proiettati nell’etere
poetico in visioni di arcangeli e dèi pagani dipinti come «angeli adoranti» o
«impassibili immortali» (In Examination, 1908).
Sebbene la cultura omosessuale abbia cercato ostinatamente di appropriarsi della
sua icona, sollevandolo a corifeo di un movimento di liberazione ante litteram e
accomunandolo ai più radicali Bloomsburiani come alle embrionali discussioni
intorno all’amore al maschile di Uraniani e Apostoli, Brooke sfugge ancora una
volta a ogni possibile definizione, superando fragili etichette, categorie
marcate e tendenze che non condivideva del tutto e in cui non si lascia
incasellare per sua natura. Com’è riuscito in vita a partecipare ad ogni
occasione di scambio intellettuale coi suoi contemporanei e ad oltrepassare ogni
cerchia racchiusa in un sistema univoco di pensiero e di condotta, conservando
sempre il suo spirito, la sua assoluta individualità e la forte abilità
mimetica, egli resta – in tutti i suoi aspetti, dubbi e conflitti irrisolti
– una creatura umana dal profilo del camaleonte, capace di essere – a suo dire –
«una cosa diversa con ognuno»: un outsidernascosto dietro il membro
dell’élite calato nel pieno del sistema. La sua raison d’être risiede invero nel
porsi al limite di tutte le contraddizioni, accettando di volta in volta le mute
naturali e le diverse maschere, giocando con esse in posa tipicamente byroniana,
consapevole della propria unicità. Rifiutando ogni ruolo imposto dall’esterno e
facendo sentire la sua posizione di taglio netto, comprensibile in parte per la
cornice storica in cui s’iscrive e per via delle sue complesse inclinazioni
personali, in una nota privata su “Shakespeare e il Puritanesimo” richiamava la
natura anfibia di altri personaggi di genio:
> “La verità è che certi grandi uomini sono sia sodomiti sia dongiovanni:
> Shakespeare, Michelangelo, e via dicendo. La pura sodomia è soltanto un dolce
> vezzo dei giovani […] Questa è la regola generale…”
Prima di trovare sé stesso, la propria forza poetica e voce d’artista sotto le
guglie di Cambridge, Rupert Brooke era stato davvero felice soltanto nella
casa-scuola di Rugby, dove incarnava l’enfant roi immerso in un’aura di
spensieratezza respirata a pieni polmoni, a cui invano avrebbe cercato di fare
ritorno dopo i vent’anni, rifugiandosi in un immaginario di fanciullezza eterna
e fantasticherie fiabesche à la Peter Pan: la sua ossessione fuori e dentro le
sale di teatro solcate innumerevoli volte. Mai più ci sarebbe stata per lui una
simile innocenza, un giardino delle delizie aperto a tutti i suoi sogni ad occhi
aperti.
> “Sono stato felice a Rugby più di quanto riesca a trovare parole per
> esprimerlo. Se ripenso a quei cinque anni, ogni ora mi appare dorata e
> raggiante, sempre più carica in bellezza man mano che me ne rendessi conto.
> Non riuscirei e non riesco a sperare, né a immaginare, così tanta felicità
> altrove.”
Terminato il puerile gioco con Sadler e dovendo adesso rinunciare all’«oro del
Paradiso di Rugby» da cui si sentiva bandito, l’allontanamento dalle amicizie
sorte tra i banchi di scuola si sommava alle perdite di quegli anni che gli
risuonavano come la caduta delle illusioni della prima giovinezza. Il dolore per
l’assenza e la separazione dagli amici – per primi Charles e Michael – contribuì
al senso di sperdimento emotivo reso più acuto dalla notizia della loro partenza
per l’altra prestigiosa università. “Sono fatto per Oxford”, dichiarerà Rupert
alla fine dell’estate. Ciononostante, il suo cammino era tracciato per
Cambridge, dov’è era diretto in ottobre al college frequentato dalle cime della
famiglia.
Avviluppato nell’importante passaggio tra due mondi, non era pronto a lasciarsi
alle spalle ciò che di più bello e puro aveva conosciuto e amato lì a Rugby.
Ormai tutto faceva parte del passato e del tempo trascorso con gli amici non
rimaneva che un tumulo di ricordi pronto a sommergerlo di tristezza, ma a questi
si aggrappava nei momenti di sconforto con un angoscioso rimorso per quello che
non era stato, intervallato dalla nostalgia per la felicità dei giorni di
scuola. Era il patto unico che aveva stretto con loro a rimanere, a consumarlo
nella memoria, a spingere ardore e desiderio nelle sue vene, offrendogli
sollievo quando più si sentiva solo nelle lunghe e fredde notti insonni,
tormentato dai fantasmi. Questa ondata di malinconia cedette presto il passo
all’arida consapevolezza che quegli istanti e tutti loro erano andati via per
sempre, prendendo ciascuno la propria strada, e neppure l’attesa più fedele
avrebbe colmato il vuoto dell’assenza che avvertiva dentro di sé, a scavargli il
cuore. Scomparsi uno ad uno come spettri, tramutati in strane ombre nel ricordo,
per tutta la vita li avrebbe portati nei suoi sogni di innocenza. Come se non
bastasse, la realizzazione precoce che il meglio della giovinezza fosse svanito
fra le sue «ore dorate» (Second Best, 1908) lo dilaniava con terribile
sconcerto, portandolo a descriversi nei periodi più bui come un ragazzo dal
cuore spezzato o “un pallido fantasma che ha vissuto un tempo e ora può
solamente sognare”.
Messi da parte i propri dolori, i due vecchi amici di Rugby ebbero l’occasione
di ritessere i rapporti negli anni a venire, riprendendo a scriversi con
disinvoltura e frequentando comuni circoli intellettuali nella Londra
d’anteguerra. Mentre Brooke vedeva pubblicati i suoi primi Poems (1911) e
parallelamente eccelleva nella vita accademica, concentrato nella sua tesi su
Webster (John Webster and the Elizabethan Drama, 1916), il geniale Sadleir
sfrecciava come una saetta sul trampolino di lancio di una brillante carriera
letteraria, cominciando la collaborazione con gli uffici della rinomata casa
editrice Constable, di cui prese le redini a soli ventiquattro anni. Interessati
non solo alle materie letterarie, entrambi aderirono con entusiasmo al progetto
promosso da John Middleton Murry (marito di Katherine Mansfield) nella rivista
d’avanguardia Rhythm, impegnandosi su più fronti nella ricezione delle opere di
artisti moderni come Vasilij Kandinskij: da Cambridge, Brooke informò il lontano
pittore russo del suo successo in Inghilterra, mentre Sadleir tradusse per lui
il saggio Concerning the Spiritual in Art (1912) sulle «vibrazioni dell’anima»
in pittura. Assieme parteciparono alle mostre più importanti dell’epoca, tra cui
l’oscena retrospettiva post-impressionista del 1910, organizzata da Roger Fry
alle Grafton Galleries (e recensita da Brooke sul Cambridge Magazine), che
cambiò il volto dell’arte moderna scuotendo gli occhi scettici degli inglesi con
un duro colpo.
Al termine dell’inverno 1913, nel pubblico finemente selezionato per la lettura
della prima e unica opera teatrale del poeta-drammaturgo, la sua
tetra Lithuania (pubblicata postuma; tr. Nora Menascé, 2004), siederà fra i vari
ospiti accorsi ad ascoltarlo nelle sue stanze – il musicista Denis Browne e il
pittore Duncan Grant, dietro Sir Edward Marsh e George Mallory – anche il
cresciuto Antinoo in prima fila.
New Paths: Verse, Prose, Pictures (1918), a cura di Michael Sadleir
Infine, dopo la scomparsa in guerra del giovane volontario nell’aprile 1915,
devastato dalla sua perdita, Sadleir stese di suo pugno un “In Memoriam” per
l’ammirato poeta, circolante per qualche tempo su un periodico indiano (di cui
purtroppo si è perduta ogni traccia) e accluso da lui in una tenera lettera di
condoglianze alla madre, Mrs. Brooke o, per gli amici, la “Rani”. D’altra parte,
il vecchio compagno di scuola, ormai famoso collezionista, editore e dichiarato
pacifista (assunto finanche al ruolo di delegato britannico al tavolo della
Conferenza di Parigi), tenne fede al compito di curare, sotto la sua firma e
quella di Cyril W. Beaumont, una maestosa raccolta che avrebbe riunito le opere
scelte fra i più influenti poeti, scrittori e artisti della modernità. New
Paths: Verse, Prose, Pictures 1917-1918 nasceva nel ’18 da un formidabile elenco
di personalità di spicco nel panorama artistico britannico: piume del calibro di
Harold Monro, Aldous Huxley e D. H. Lawrence, miste ai pennelli di Augustus
John, Walter Sickert, Mark Gertler e altri talenti pronti a bussare alle porte
del nuovo secolo, sempre ricordando il nome di coloro che avevano speso la vita
in difesa dell’arte prima di sacrificarla per amore della patria, i quali
certamente si sarebbero aggiunti agli ultimi «pionieri lungo nuove rotte in
campo di arti e letteratura». La prima pagina del volume riporta, in doveroso
tributo, l’iscrizione dedicata «Alla memoria di Rupert Brooke».
Pierluigi Piscopo
In copertina: Rupert Brooke (1887-1915)
*La scelta e la traduzione degli estratti dalle lettere sono di Pierluigi
Piscopo
L'articolo “Mi nutro del nettare della vita”. Rupert Brooke e il genio della
giovinezza proviene da Pangea.