La chiamavano Squirearchy: un nome per un sistema, ovvero un’egemonia culturale
in grado di dominare l’intero panorama letterario britannico. E se a dirlo erano
quelli di Bloomsbury (dando man forte all’amico T.S. Eliot) – state pur certi –
il commento poteva diventare legge, per ingiusta che fosse la fama.
Dagli scribacchini delle maggiori testate giornalistiche ai poeti e critici più
influenti del primo Novecento, gli “Squirearchisti” si configurano come gli
eredi di un conservatorismo che potremmo definire – con le giuste misure
– tipicamente “georgiano”, intriso di nostalgia per un passato nazionale
spazzato via dalla Grande Guerra.
Non era quello del resto il mondo dei garden parties, abbondante di latte e
miele, in cui il privilegio di classe si misurava, in primo luogo, sui campi da
cricket e nei collegi più prestigiosi, dove venivano formati i figli dell’Impero
destinati alle cime dell’establishment? Una sorta di età dell’oro che
l’Inghilterra avrebbe provato ciecamente a rianimare durante il «lungo week-end»
interbellico (descritto da Robert Graves in A Social History of Great Britain
1918-1939), nascondendo le sue ferite dietro il fascino della tradizione.
Eppure, era svanito da secoli il sogno edenico di una «England’s green e
pleasant land», eretta sulle colline dell’innocenza di William Blake (And did
those feet in ancient time), dal futuro rigoglioso di «fresh woods and pastures
new», memore della profezia di Milton (come detta la pastorale Lycidas), lontano
anni luce dalla desolazione novecentesca.
Al vertice di questa élite di intellettuali e scrittori controcorrente che,
asserviti a un ideale comune, esercitavano ancora piena autorità nel mondo delle
lettere, spicca il genio poliedrico di John Collings Squire. Poeta, giornalista
e editore di base al “London Statesman” (per cui scrisse recensioni sotto lo
pseudonimo di “Solomon Eagle”), all’inizio della sua carriera si distinse sulle
colonne della rivista fabiana per la dote eccezionale nella parodia.
Riconosciuto ben presto dalla critica come uno degli uomini più colti e
versatili del suo tempo, era pure un militante tradizionalista in campo poetico,
una vera e propria spina nel fianco per la controparte modernista che avrebbe
cambiato una volta per tutte gli orizzonti contemporanei.
J.C. Squire (1884-1958), l’ultimo leader georgiano
Fra gli studenti di spicco del St John’s College, il talento di Cambridge –
laureato in storia e traduttore di Baudelaire – si era fatto strada nella
capitale grazie alla serie di antologie curate da Sir Edward Marsh – cinque in
tutto e dalla vita breve – sotto il titolo solenne di Georgian
Poetry (1911-22). Insieme a Lascelles Abercrombie, Walter de La Mare e al
capofila Rupert Brooke, figura negli ultimi tre volumi, trovando posto accanto a
penne del calibro di John Masefield, Robert Nichols e John Drinkwater. Sulla
scia dei compagni – i quali si consideravano a loro modo moderni e progressisti
per l’epoca –, anche Squire, in quella fase, componeva versi ispirati dalla
bellezza della natura, profusi d’amor patrio (per ciò additati dai posteri di
non poco sentimentalismo) e devoti a un’agreste “Merry England”. Prendendo a
modello i classici – dal “Green World” di Shakespeare e l’Arcadia di Sidney alle
ballate romantiche –, i giovani Georgians intendevano estirpare dalla poesia
inglese la densità stilistica e la carica retorica di un vittorianesimo fuori
tempo, riportandola al lessico ordinario e alla purezza formale di un primo
Wordsworth.
Con la ripartenza postbellica, fu proprio Squire ad assumere il ruolo di tenace
oppositore delle tendenze radicali (Eliot e Pound erano già sulla
scena), difendendo l’esperienza georgiana fino agli ultimi fuochi. Per queste
ragioni, diede alle stampe la sua antologia di idoli poetici, Selections from
Modern Poets (1921; ristampata a più riprese lungo un decennio). La silloge
epocale non mancava di includere alcuni autori sfuggiti volutamente dall’indice
di Marsh come dal successivo Oxford Book of Modern Verse 1892–1935 (pubblicato
nel ’36 da W.B. Yeats), in specie i poeti di guerra Wilfred Owen e Charles
Sorley, per non tacere l’orrore del fronte. Infatti, se non lo si può annoverare
strettamente fra i poeti combattenti, il noto curatore (risparmiato dalla leva
per problemi alla vista) era comunque un war poet di protesta – a dire il vero,
uno dei primi, alla pari di Siegfried Sassoon – attivo sull’home front. In
quanto tale, non poté trascurare le pagine più terribili e toccanti della storia
umana, ora macchiate dalla descrizione di fetide trincee ora puntellate da
invettive di accesa satira politica.
A interrompere quel filone poetico dalle dimensioni utopiche, il 1922 –
ricordato come l’annus mirabilisdella letteratura anglofona – segnò la svolta
definitiva, una cesura dirimente sfociata in un dibattito critico tra tradizione
e modernità. In sostanza, lo schieramento vedeva l’autore della Waste Land e i
suoi fervidi seguaci contro la coterie formata da Robert Bridges (Poeta Laureato
fino al ’30) e georgiani: una lotta tra titani, non excludit alterum.
Inesorabilmente, dopo gli anni del conflitto, il lavoro monumentale di quei
poeti ragazzi precoci e brillanti, che si impegnarono con ardore nel progetto
sostenuto dal patrocinio di Marsh – al fianco di Harold Monro che li ospitava
presso il suo Poetry Bookshop –, poteva dirsi concluso e superato da istanze
sperimentali ritenute più adatte a rappresentare i rapidi mutamenti spirituali,
epistemici e culturali del nuovo secolo. Da qui, l’oblio – di cui purtroppo
siamo testimoni tutt’oggi – della poesia d’anteguerra, destinata a cadere nel
baratro dell’anacronismo perché sintomatica di quel “mondo di ieri” stravolto
dalle bombe, che il pubblico di lettori volle allontanare dalla vista e dal
cuore.
All’enorme interesse editoriale del tempo fece quindi seguito una sfortunata
ricezione, a cui contriburono i pareri di una critica insofferente a stilemi e
toni non più riproducibili nell’era moderna. Al netto delle singole esperienze
poetiche pressoché eterogenee (si pensi al camaleontico Brooke e ad altri che vi
entrarono di sguincio, come D.H. Lawrence), da una parte le forme metriche ormai
desuete apparivano troppo ancorate alla classicità, dall’altra la vena
nostalgica e il riparo bucolico entro il confine delle contee assimilavano il
profilo del Georgian poet a quello di un arcade moderno. Cantore della vita
semplice e abitante di una realtà rurale rimasta ai margini dello spaesamento
metropolitano, il timbro imperiale era capace di prestare le proprie corde a
un’armonia perduta nel caos contemporaneo, estraneo in definitiva all’apertura
trasnazionale del Modernismo.
In questo complesso scenario, J.C. Squire divenne, assieme ai “suoi”,
l’animatore di punta di una polemica incendiaria, arrivando a monopolizzare –
fino alla saturazione, secondo l’acuto Alec Waugh – le vette delle principali
riviste letterarie, dal “New Age” allo “Statesman”. Con alacrità, il portavoce
del gruppo investì tutte le sue energie, come scrittore prima ancora che come
editore, per tenere alto lo stendardo reale anche dopo la dispersione dei suoi
membri (alcuni dei quali morirono in servizio militare nel fiore dell’età).
A tarpargli le ali, nell’immediato dopoguerra, il giudizio poco lusinghiero
di Virginia Woolf, e con lei quello dissacrante di Lytton Strachey, saettava
nell’opinione pubblica come una sentenza che non gli rendeva affatto giustizia
come letterato. Per la regina di Bloomsbury, era solamente un tipo “volgare, […]
più ripugnante di quanto si possa esprimere a parole, e perfido nei suoi
malaffari”, mentre l’eminente Strachey lo definì “un lurido verme”. Molti, poi,
ne riconobbero l’enome potere persuasivo, tacciandolo di orientare il parere del
pubblico fino a dominare il mondo giornalistico con le sue frivolezze: “Se ce la
fa, sarà difficile vedere qualcosa di buono”, affermò l’acerrimo nemico T.S.
Eliot (nonché futuro direttore per i tipi Faber). Secondo Robert H. Ross (The
Georgian Revolt, 1967), intorno al 1920 Squire era sulla buona strada per creare
una cerchia letteraria right-wing tanto influente quanto i circoli di sinistra,
in diuturna competizione con l’Athenaeum presieduto da John Middleton Murry
(marito di Katherine Mansfield).
Per coloro che l’avevano conosciuto in amicizia e per contratto, invece, era un
modello di dissimulazione e simpatia affettata, dalla scusa sempre pronta, ma
anche un uomo generoso, infaticabile nel suo lavoro e, senza ombra di dubbio, un
vero intellettuale engagé. Di casa ai ricevimenti dell’aristocratica Lady
Ottoline Morrell, l’allegro personaggio mondano dalla parlantina accattivante –
espertissimo di formaggio Stilton come dell’ultima uscita editoriale – adunò una
larga schiera di giovani promesse (a esclusione dei rivali bloomsburiani). Nel
1927 fu perfino commentatore radiofonico nei tornei di Wimbledon e creò una
propria squadra di cricket, The Invalids, composta da reduci di guerra rimasti
feriti in azione, che avrebbe fatto invidia ai vecchi Allahakbarries (per
intenderci, Conan Doyle, J.K. Jerome, eccetera) capeggiati da James Barrie.
La scalata verso il successo lo aveva lanciato, dal 1919, negli uffici del
mensile “London Mercury”, una delle prime riviste a carattere esclusivamente
letterario, da lui riportata in auge con un’intensa attività di redattore (che
gli valse nel 1933 il titolo di cavaliere del Re, dunque fu eletto Sir).
Associato a un sostrato upper-middle class, il periodico diventò sotto la sua
ala l’avamposto georgiano per antonomasia. D.H. Lawrence vi contribuì con la
poesia Snake (1921) e più tardi tornò sul pezzo in Nettles:
> Quando Mercurio arrivò a Londra
> Lo fecero “sistemare”.
> Lo salvarono da tante associazioni indesiderate.
> A questo punto tutte le ziette lo adorarono
> Perché, vedi, non è “né carne né pesce, mia cara!”
I rapporti altalenanti con l’enfant terrible del romanzo inglese duravano da
quando, in una recensione del 1915 a The Rainbow, Squire lo aveva sì difeso
dalle accuse di indecenza ma senza nascondere il suo disappunto per lo scarso
valore letterario del libro. Così un furioso Lytton Strachey rispose: “Siano
dannati i suoi occhi!”.
A darne un’impietosa caricatura si precipitò anche il maestro della
satira Evelyn Waugh nel romanzo d’esordio Decline and Fall (1928). In queste
pagine, l’accanito georgiano incarna la figura di editor fazioso
dell’immaginario “London Hercules”, Mr Jack Spire, e certi suoi tratti si
nascondono dietro l’eccentrico Augustus Fagan, Esquire (Cavaliere), PhD in
filosofia e rettore presso il Castello di Llanabba (sede della peggiore public
school del Galles). O ancora, nel romanzo England, Their England (1933) è il
bersaglio comico di A. G. Macdonell, nei panni di Mr. William Hodge, il leader
sfacciato del “London Weekly”.
Come i suoi alter ego letterari, quella di Squire è a tutti gli effetti una
storia di trionfo e fallimento. Dal bel mondo di Londra alla consunzione fatale
per alcolismo, una volta caduto in disgrazia, si ritrovò isolato dal giro
dell’alta società conosciuta in gioventù. Dopo essere stato lettore per
Macmillan e tornato a recensire per il settimanale “Illustrated London
News”, col tempo la fiaschetta facile prese il posto della penna. Avversato
dagli augusti Sitwell e assalito da violente accuse di fascismo (per aver
incontrato il Duce in qualità di membro dell’esclusivo January Club) si ritirò
in un remoto cottage, che andò distrutto in un incendio, e da lì in una magione
del Weald. Ma il crollo finale giunse alla perdita del figlio Maurice, ucciso
nella Seconda guerra mondiale.
Tra successi e dispute letterarie, il vecchio Jack scomparve nel 1958 dopo una
lunga e mirabile carriera. Degli anni ruggenti che lo videro protagonista era
scomparso quasi tutto, compreso l’ideale per cui aveva combattuto.
Ciononostante, la sua apologia resta scritta, come una rivelazione, ne La legge
del più forte (1916):
“Questi erano i miei amici; Strachey, tu non li conoscevi,
Perché erano uomini semplici, senza pretese […]
Se solo avessero avuto il privilegio di radunarsi
Ai piedi di Gamaliele, avrebbero capito
Che anche l’odio e il massacro hanno il loro splendore,
E che l’uomo non può vivere di solo Amore […]
Davanti ai loro occhi si ergeva
L’Inghilterra, crociata immemoriale,
Una grande statua-sogno, assisa e serena,
Che molto sangue aveva versato, e figli traditori,
Ma ancora risplendeva con mani e vesti intatte […]
E Lei, pur significando un passaggio amaro e veloce,
Dovevano servire, poiché Lei serviva la Libertà,
Romanzo e retorica! Eppure, nutriti da tali sciocchezze,
Affrontarono i cannoni, i morti, i topi e la pioggia.
E tutti, in un mese, mentre l’estate svaniva, perirono;
Avevano occhi limpidi, corpi forti, e anche un po’ di cervello.
Strachey, questi sono morti. Che bisogno c’è di dire altro?”
*
Un canto
I teneri petali cadono e l’albero che ondeggia lieve
Ha conosciuto molte primavere e ha visto molti petali,
Anno dopo anno, spargersi sui verdi sentieri silenziosi,
Sulla statua, lo stagno e il basso muro pieno di crepe.
Sbiadito è il ricordo delle vecchie cose che furono,
La pace aleggia sulle rovine di antichi banchetti;
Esse giacciono e scoloriscono nel calore del sole,
E un cielo azzurro-argenteo si incurva su tutte loro.
Così dolcemente, teneramente, adesso il cuore si desta
Con desideri lievi e informi; e, senza cercare, trovo
Pensieri quieti che guizzano come martin pescatori azzurri
Sul placido specchio illuminato della mente.
*
Sonetto
C’era un indiano, rimasto sempre giovane,
Che vagava sereno lungo una spiaggia assolata
Raccogliendo conchiglie. D’improvviso udì uno strano
Rumore confuso: alzò lo sguardo; e restò senza fiato.
Perché nella baia, dove non c’era niente prima,
Avanzavano sul mare, come per magia, grandi canoe,
Con le vele gonfie sugli alberi, senza neanche un remo,
Le insegne colorate sventolavano e le ciurme si arrampicavano.
E lui, impaurito, quell’uomo solo e senza vesti,
Le mani cadute, dimentiche di tutte le conchiglie,
Le labbra impallidite, si inginocchiò dietro una roccia,
Fissava, vedeva, ma non comprendeva,
Le caravelle di Colombo, gravide di destino,
Inclinarsi verso la riva, e tutti i loro marinai pronti allo sbarco.
*
Paradiso perduto
Quali colori possedeva la luce del sole e quant’erano ricche le ombre,
Le ombre azzurre e intricate che cadevano dai rami incrostati
Di meli deformi sull’erba del frutteto.
Quale blu celestiale era il colore di due uova lisce e morbide
Immerse nel fango arrotondato che rivestiva il nido del tordo:
E quale profondo piacere davano le macchie che le punteggiavano.
E quel piccolo ruscello che correva da siepe a siepe,
Ombreggiato dagli alberi e scintillante nei raggi del sole,
Quant’era limpida l’acqua, i letti piatti di sabbia
Con bolle di riflessi vaghi, ciascuno un piccolo mondo dorato
Ai miei occhi incantati. Allora la terra mi appariva nuova.
Ma ora cammino su questa terra come fosse un ripostiglio,
E a volte vivo una settimana, vedendo solo semplici erbe,
Pietre e uccelli migratori: né guardo qualcosa
Per abbastanza tempo da sentirne l’assalto calmo e deliberato:
La sua forza, la sua parola, il suo cuore regale.
L’infanzia non tornerà; ma non ho forse la volontà
Di tendere la mia mente torbida, che fertilizza ogni cosa esteriore,
E, aperto di nuovo a tutti i miracoli della luce,
Vedere il mondo con gli occhi di un cieco che torna a vedere?
*
Luce stellare
Ieri notte giacevo in un campo solitario
E guardavo le stelle con le labbra sigillate;
Nessun rumore muoveva l’aria senza vento,
E guardavo le stelle con sguardo fisso.
Ce n’erano alcune che scintillavano e altre che brillavano
Con un bagliore morbido e uniforme, e una
Che regnava sul circolo sparso,
Oscillando la schiera con tacito suono.
“Calme creature,” pensai, “nella vostra caverna azzurra,
Imparerò a conoscervi, a trattenervi e a dominarvi;
Vi metterò al giogo e vi irriderò come posso,
Perché l’orgoglio del mio cuore è l’orgoglio di un uomo.”
Con l’erba sulla guancia nel campo rugiadoso,
Giacevo immobile, le labbra serrate
E l’orgoglio di un uomo dallo sguardo rigido
Che cavalcavano come spade i sentieri del cielo.
Attraverso un varco imprevedibile si insinuò
L’Universo, spargendosi sulla mia anima;
Veloci andarono il respiro e il cuore,
E guardai le stelle a labbra socchiuse.
*
La morte di un cane
La grossa zolla di terra cade nella fossa come un respiro tranquillo e regolare;
Troppo simile al suo, per un attimo il suono mi inganna:
Copre il mucchio di felci che il giardiniere ha posto sopra di lui;
Il badile oscilla silenzioso: eccola la sua tomba.
Una chiazza di terra fresca sul pavimento della camera fertile del bosco:
Tutto intorno l’erba, il muschio e i germogli verde scuro del giacinto;
E sopra gli alberi, querce già vecchie quando il suo cinquantesimo antenato era
un cucciolo;
E distanti, nel giardino, sento le grida dei bambini.
La loro gioia è lontana come un sogno. È strano come comperiamo il nostro dolore
Per toccare cose che periscono, oziosamente, con gli occhi aperti;
Come diamo i nostri cuori a bestie moribonde che durano poche stagioni,
Senza curarci di ciò che facciamo quando lo facciamo; né vorremmo altro.
*L’introduzione, la scelta e la traduzione dei testi sono di Pierluigi Piscopo.
*Per approfondire la vita e l’opera di J.C. Squire si consigliano i seguenti
volumi:
P. Howart, Squire. ‘Most generous of men’, Hutchinson, 1963.
J. Smart, Shores of Paradise. The Life of Sir John Squire: The Last Man of
Letters, Troubador, 2021.
T. Rogers, a cura di, Georgian Poetry 1911-22: The Critical Heritage, Routledge,
2013.
K. Hale, a cura di, A Compilation of Georgian Poetry 1911-22, Watersgreen House,
2016.
In copertina: John Mansbridge, Ritratto di Sir John Collings Squire, 1933-34.
L'articolo “Diamo i nostri cuori a bestie moribonde”. J. C. Squire, il critico
più odiato degli anni Venti proviene da Pangea.
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In un articolo pubblicato sulla “London Review of Books” nel marzo del
1993, Under the Sphinx, Alasdair Gray, l’istrionico scrittore scozzese che
l’anno prima aveva pubblicato Povere creature!, esalta, con il suo linguaggio di
fulmini e coltelli, un libro – o meglio, un poeta. Il libro s’intitola Places of
the Mind, lo ha scritto un ‘collega’ di Gray, Tom Leonard (1944-2018), noto, più
che altro, per le poesie – masticate nel dialetto di Glasgow – e gli studi
critici, tesi a dimostrare l’autentica autarchia della letteratura di Scozia. Un
paio di anni prima, aveva pubblicato un acceso poemetto contro la guerra in
Iraq, On the Mass Bombing of Iraq and Kuwait, commonly known as The Gulf War. In
quel libro – Places of the Mind –, “un’autentica opera d’arte più che uno studio
critico” (così Gray), Leonard racconta “The Life and Work of James Thomson”,
geniale, oscuro, misconosciuto poeta nato a Port Glasgow nel novembre del 1834 e
morto, quarantasettenne, a Londra. Abusava di oppio, fece della poesia –
drammaticamente – la propria ragione di vita; nelle rare fotografie ha la barba,
lo sguardo tra il rabbioso e il rassegnato. Secondo Gray, “la vita di Thomson
riflette lo stato della Gran Bretagna in modo più completo di altri autori della
propria epoca, ad eccezione di Gerard Manley Hopkins e di Thomas Hardy”.
L’opera più nota di Thomson, il poemetto The City of Dreadful Night (in Italia
ne esiste una versione a cura di Mili Romano, stampata da Panozzo nel 2000),
uscito in edizione definitiva a Londra, per Reeves and Turner, nel 1880, pare
abbia ispirato la “Unreal City” su cui si incardina La terra desolata di Thomas
S. Eliot, è dedicato To the memory of the younger brother of Dante, Giacomo
Leopardi, “Spirito vertiginoso, genio radicale, finito tragicamente”. A dire di
Gray, The City of Dreadful Night nasce sotto l’egida della Melancolia di
Albrecht Dürer:
> “L’Inferno secondo Thomson è la città moderna, dove il sole non sorge mai, la
> gente vaga insonne per le strade, priva di fede, speranza, amore… Shakespeare
> ha descritto un universo privo di senso ben prima di Thomson e con parole ben
> più memorabili, ma i suoi portavoce sono re folli, comunque, personaggi
> importanti, eroici. Gli abitanti della City di Thomson, invece, sono creature
> anonime, esseri cupamente stoici. Alcuni, rammemorano una vita in cui hanno
> cercato di fare del bene: risvegliatisi ‘in questa notte totale’ hanno capito
> che la memoria è un’illusione”.
Figlio di un maggiore della marina mercantile, madre profondamente religiosa,
sconfitta da un perpetuo senso di colpa, morta che lui aveva sette anni, Thomson
cresce al Caledonian Orphan Asylum, tenta la via del giornalismo, vive, in
sostanza, di stenti. Scrisse sul “Secolarist” e sul “National Reformer”, firmava
i suoi versi B.V., ovvero Bysshe Vanolis, in onore dei suoi miti, Shelley e
Novalis. George Eliot e Meredith riconobbero a Thomson le stimmate del genio;
l’autore non aveva modo – cioè: soldi – per farsi notare tra i club dei
letterati dell’epoca. Henry Stephens Salt – biografo di Shelley e di Thoreau –
nella nota su Thomson redatta per il Dictionary of National Biography, scrisse
di “uno spirito indomito congiunto a una nefasta malinconia”, di uno “zelo
ardente per la democrazia e il libero pensiero che si coagulava a un’ostinata
diffidenza nel progresso umano”. Disse che più che a De Quincey, la sua ricerca
lirica si legava a Heinrich Heine, che aveva tradotto.
James Thomson (1834-1882)
Di contrasto ai grigi orrori della vita ‘moderna’, Thomson si figurò un Egitto
dei sogni, proteso – come tutti gli esotisti dell’Ottocento, stretti tra Le
mille e una notte e le visioni degli antichi poeti persiani – verso un Oriente
che in lui, tuttavia, ha tinte dispotiche, cannibali (così almeno nella raccolta
postuma A Voice from the Nile, and Other Poems, 1882). Non si permise di avere
pace, tentò di credere, ma di Dio intravedeva soltanto le vertigini, le vette
feline di chi chiede tutto per quasi nulla, un refolo di quiete. A suo avviso, i
poeti dovevano sondare la disperazione – anche quando è rattenuta da muta
nostalgia – e i filosofi il mistero della morte.
La nota della Encyclopædia Britannica che lo riguarda mette in luce le debolezze
di questo ‘stile’: monotonia, palustri lungaggini, “mera retorica e verbosità”.
James Thomson – la cui forma eletta è il poema, un dire che sa di pilastro,
anacoresi da stilita –, in sostanza, è uno di quei poeti che riescono bene in
regesto antologico, in grado di riferirne l’eccezionalità: “Inutile classificare
questo poeta: la sua angusta ma solitaria altezza gli garantisce il ruolo di una
ben distinta originalità… Pur con i suoi limiti, il tempo dimostrerà che la sua
è un’opera straordinaria quanto unica”.
Anche in Italia era noto: Salvatore Rosati redige per la “Treccani” (edizione
1937) una nota tutto sommato esatta:
> “Temperamento ricco d’immaginazione ma con un vivo senso della realtà; mosso
> da elevate aspirazioni spirituali ma prostrato da una grave melanconia e dallo
> scetticismo verso ogni forma di umano progresso, il Thomson ha tratto da
> queste tendenze contrastanti una poesia cupa, fortemente drammatica,
> intimamente simbolica”.
Alasdair Gray ‘canonizza’ Thomson “Nel club delle rare anime capaci di
confrontarsi con il peggio, le anime depresse per cui la poesia agì come un
tonico. Se leggiamo Thomson con acume, scopriamo che del suo mondo fanno parte
Leopardi e Schopenhauer, Baudelaire, Melville, Thomas Hardy e l’autore
dell’Ecclesiaste”. Lo scozzese non ha sbagliato mira. Quanto a Leopardi, è stato
il nume totale di Thomson, che realizzò una traduzione mirabile – a detta dei
critici – delle Operette morali e dei Pensieri (gli Essays, dialogues and
thoughts di Leopardi a cura di Thomson uscirono soltanto nel 1905, per la cura
di Bertam Dobell).
Quanto a Melville, Thomson fu la bella lettura della sua vecchiaia. Era stato
l’oxfordiano Charles James Billson (1858-1932), altrimenti noto per una
scolastica traduzione dell’Eneide e per uno studio sulle tradizioni medioevali
di Leicester, a fargliene dono. Gli scrisse la prima volta nell’ottobre del
1884: Melville viveva ormai da semisconosciuto, sepolto nelle sue lugubri
riflessioni oceaniche – “Nessuno sembra sapere nulla del solo grande scrittore
di immaginazione che possa stare alla pari di Whitman su quel continente”, aveva
scritto Robert Buchanan –, i romanzi esauriti da anni. Chiedendogli notizie
“di altri miei libri” – White-Jacket, Clarel, Battle Pieces – gli fece dono dei
libri di Thomson. Il commento di Melville non si fece attendere:
> “Il vostro amico era un poeta genuino, se mai ve ne è stato. Quanto al suo
> pessimismo, per quanto io stesso non sia né pessimista né ottimista, tuttavia
> mi piace nei versi se non altro come risposta all’esorbitante fiducia,
> immatura e superficiale, che fa tanto chiasso ai nostri giorni, almeno in
> certi luoghi”.
Il rapporto epistolare tra i due durò qualche anno, concentrandosi quasi
maniacalmente sull’opera di Thomson. Nel poeta morto troppo giovane, spossessato
del successo, Melville riconobbe un altro se stesso:
> “Quanto al suo non aver ottenuto la ‘fama’, che significa? Non è per questo da
> meno, ma tanto maggiore. Deve esservi passato per la mente, come a me, che più
> la nostra civiltà avanza sulla linea attuale più a buon mercato diventa la
> ‘fama’, specie di tipo letterario. Questa specie di ‘fama’ una mia conoscenza
> burlona dice che può essere prodotta su ordinazione…”
>
> (H. Melville a J. Billson, New York, 20 dicembre 1885, in: H. Melville, Opere,
> a cura di M. Bacigalupo, Mondadori, 1991)
Da qualche tempo, anche come una reazione al ‘linguaggio’ del tempo, Melville
era tornato alla poesia. Pubblicava piccole placche, in tirature limitatissime
(venticinque copie): John Marr and Other Sailors esce dai torchi nel
1888; Timoleon, Etc. nel 1891. Forse la lettura di James Thomson, poeta
decentrato da una malia oscura, fiero della propria ricercata marginalità, lo
aveva rinvigorito, gli aveva conferito nuovo veleno lirico.
In cambio dei volumi di Thomson – compresa la raccolta di saggi al
vetriolo, Satires and profanities, anch’essa edita postuma – Billson avrebbe
voluto una fotografia di Melville. Il grande scrittore si scherma – “mi avete
chiesto una fotografia: non ne ho” –, poi parla di Blake – “Mi fa piacere
apprendere che Thomson era interessato a William Blake” – spalancando lo spazio
di un incontro. Gli altri si occupino pure di fotografie, meri calchi del
transitorio, Melville imbarcava una ciurma di poeti esagitati per cacciare la
Balena Bianca nell’altro mondo. Cosa può il tempo di fronte a questo sgarbo?
***
Da Una voce dal Nilo
Vengo da monti diversi, vivo sotto
stelle che non si riflettono su queste acque;
vago per vasti regni, per cieli capodoglio scorro
oltre dune arabe e libiche, per immergermi
nel grande Mare di Mezzo ed è mia
questa terra d’Egitto. Tutto è mio:
la palma e la colomba che la elegge a tana
i campi di grano e ogni fioritura
la pazienza del bue e il coccodrillo
l’ibis l’airone il falco
il loto e i papiri in falange
le barche dalle vele oblique
o le ripide che spezzano ogni ormeggio.
Perfino i volti possenti dei templi
con le colonne e le enormi effigi,
le piramidi e Memnone e la Sfinge
il Cairo e le città dei Greci
come Menfi e Tebe dalle cento porte
Sais e Dendera retta da Iside;
se sono cresciuti è perché li ho nutriti.
Se nego il mio flusso, carestia
devastante miete vittime tra gli uomini
che nulla hanno da mietere
e orrore e languore sgorgano ovunque;
quando, retrattile, ho deviato altrove
i miei eterni fiumi, gli antichi reami
si sono inariditi, fama infame li affligge,
ricoperti dalle sabbie del deserto:
scompaiono sepolti e dov’era oro
ora è silenzio solitudine morte.
L’esattezza del silenzio, mentre trottano
i venti sopra la desolazione, implacabile.
*
Da Despotismo temprato dalla dinamite
I miei schiavi, gente dei campi, lavorano
senza fine e dormono, da fatica sfiancati.
Non sperano in un mondo migliore
eppure, disperati, la morte non li avvinghia nell’incubo.
Si accontentano del loro scarso cibo, in pace –
con terrore guardo al giorno della mia incoronazione.
I palazzi sono la mia prigione;
in ogni cibo intravedo il veleno;
ovunque mi muovo, è timore
di esplosione, istantanea devastazione;
con terrore, ogni giorno, ogni notte, con
moltiplicata paura, guardo al giorno della mia incoronazione.
*
Da The City of Dreadful Night
A volte soltanto la rabbia, fredda
può mostrare gli sfregi della verità
nuda, spoglia di ogni inganno:
i falsi sogni, i falsi moniti,
le futili maschere della moina giovinezza
e in una specie di indocile innocenza
plasmare il dolore in vita, per quanto rozza.
Di certo, non scrivo per i ragazzi pieni
di speranze, per chi crede nella felicità
e pascola e ingrassa tra gli spettacoli dell’esistere
senza provare dubbio, senza sentire carenza e carestia
non scrivo per gli spiriti buoni, allattati
da un Dio che li santifica e li ama
né per i saggi che vedono il paradiso in terra.
Per costoro non scrivo: non potrebbero
neppure leggere questo scritto – continuino
pure a prosperare nella loro giustizia
su questa dolce terra, veleggino
pure nei loro appropriati cieli. Queste parole
appartate importano ai desolati, ai rosi
dal destino, a quelli che desiderano morte.
Qualche stremato vagabondo, forse,
in questa città di tremende notti
capirà il mio dire, franerà in un fremito
compagno nella disastrosa lotta:
“Soffro, muto e solo, eppure un altro
ulula comune dolore e mi fa sentire
fratello sugli stessi sentieri selvaggi”.
Triste fratellanza, rivelo forse
misteri imbavagliati dal tempo?
No, nessun segreto può essere
rivelato a chi non lo ha visto.
Chi non è iniziato ai presagi
non può comprendere il verbo
che continuo a urlare.
*
Da Nuda divinità
D’improvviso, le bestie si accucciano;
gemono, sopraffatte; i popoli
cadono in ginocchio davanti
alla dea feroce e splendida
offesa per incuria;
flebile preghiera mormorano
inarticolate disperazioni
finché il suo aspetto altero
non si svolge in gentilezza.
*
Confessione
La Chiesa si erge laggiù, oltre il frutteto:
con quanta nostalgia contemplo le sue guglie!
Mistero eletto dal crepuscolo che si dissolve
in un fuoco dorato, come tenue incenso
dilaga all’alba e scava i cieli.
Quando il cuore sprofonda nel baratro
più fondo, un sussurro mi rincuora: è bello
entrare in chiesa, inginocchiarsi, pregare
per le persone che amiamo.
Ogni incredulità svanisce, la pace
scorre in noi come la campana nel Sabato.
L’anima risponde: Il buon riposo accade
quando appoggi il capo sul petto della Verità.
*
Da Il filosofo
Come vendicare la propria alterità?
Occhi che mendicano approdo, sondano
la superficie della terra, ascendono ai cieli,
investigano e ogni cosa si arrende a questo
arrembaggio: vuoto avvolge tutto
un fuoco divampa e sembra un fiore.
Perfora la bellezza e vede ossa
reticolo di vene, l’orrore della carne
sotto la pelle perlacea, giovane:
varca lo Spazio, vaga nella nebbia che tutto
avvolge, nuota nelle acque del Tempo nel nero
abisso; capisce che la Vita è un sogno
nel sonno eterno della Morte.
James Thomson
*In copertina: un acquerello di Victor Hugo
L'articolo “Di certo, non scrivo per chi confida nella felicità”. Storia & versi
di James Thomson, il poeta malinconico proviene da Pangea.
Nel 1950, scrivendo una recensione di The Lost Traveller, il secondo romanzo di
Antonia White, Evelyn Waugh colse l’occasione per dire la sua sulla letteratura
cattolica:
> «Molti hanno iniziato a dubitare che esista una cosa del genere. Ebbene, qui
> si può trovare in una forma completa e splendida. […] I personaggi sono tutti
> permeati dalla fede. Dio è l’influenza suprema nelle loro vite, […] e quando
> vi è la minaccia di un disastro, tutti si rivolgono alla preghiera. La loro
> religione è la loro vita, sebbene superficialmente siano occupati con altro.
> Non si tratta di “trascinare il cattolicesimo dentro”. È sempre lì, al centro
> della storia».
Per quanto poco conosciuta in Italia, la White – pseudonimo di Eirene Botting –
è stata una delle personalità più rappresentative di quella letteratura di marca
“papista” che conobbe una certa diffusione nella Gran Bretagna del Novecento, in
particolare nella prima metà del secolo.
La sua fu un’esistenza travagliata, segnata non solo dalla cronica mancanza di
denaro, ma anche da tre matrimoni falliti, da un rapporto complicato con le
figlie e da una serie di frustranti impieghi d’ufficio che le toglievano tempo
ed energie per la scrittura. Persino la sua fede, abbracciata da bambina in
seguito alla conversione dei genitori, non fu sempre salda e per parecchi anni
smise di praticarla. Infine, dovette sopportare pure il peso di una grave
malattia psicologica, da lei ribattezzata «la bestia», che minò non poco le sue
potenzialità creative (la questione è stata recentemente analizzata nel
dettaglio da Patricia Moran nel volume Antonia White and Manic-Depressive
Illness). Come sottolinea Jane Dunn, autrice di Antonia White: A Life, quello
della inglese
> «è un dramma di vasta portata che abbraccia grandi questioni di fede, i
> bisogni dell’anima, la lotta per diventare sia scrittrice che donna;
> l’impossibilità di essere moglie e madre quando si combatte per la propria
> sanità mentale».
Da ciò deriva la scarsità della sua bibliografia, che comprende quattro romanzi
parzialmente autobiografici, un epistolario, una manciata di poesie, qualche
articolo, delle traduzioni dal francese e una smilza raccolta di racconti; a
questi lavori vanno aggiunti due libri per bambini con protagonista una coppia
di gatti – gli animali preferiti della White – il primo dei quali, Mila e Cuor
di Leone, è ad oggi l’unica sua opera ad essere stata tradotta in italiano.
Nata nel 1899, tutto o quasi del suo destino umano e letterario fu deciso
nell’infanzia, quando venne mandata a studiare presso la scuola femminile
annessa al Convento del Sacro Cuore, a Roehampton, dove le suore, il cui ordine
era stato fondato da una santa francese, erano famose per mantenere una
disciplina ferrea. Lì imparò ad amare i libri e volle provare, appena
quindicenne, a scrivere un romanzo. Nelle sue intenzioni doveva essere la
classica storia di un peccatore che cambia vita; peccato, però, che il
manoscritto, ancora fermo alla prima parte, quando il protagonista è immerso nel
vizio, venne scoperto e giudicato scandaloso. La conseguente espulsione fu un
duro colpo e da allora la White non fu più in grado di mettere nero su bianco
nulla che non fosse in qualche modo legato alla propria esperienza personale. A
questo si aggiungeva un perfezionismo esasperato che la portava a riempire le
pagine di così tante correzioni da renderle quasi illeggibili, causandole di
riflesso parentesi intermittenti di blocco della scrittura.
Terminati gli studi alla St Paul’s Girls’ School, dopo vari rovesci sentimentali
e un ricovero di nove mesi in un ospedale psichiatrico, nel 1933 vide la luce il
suo primo e più famoso romanzo, Frost in May, oggi considerato un classico della
narrativa a sfondo scolastico, sebbene privo del lieto fine che solitamente
caratterizza il genere. La storia vanta uno stile limpido, distaccato, e
racconta le giornate di Nanda Gray, un’alunna del collegio cattolico di
Lippington, da cui però è infine allontanata a causa di uno spiacevole
incidente. Il titolo, suggerito all’autrice da un articolo sulle rose trovato in
una rivista di giardinaggio, sottolinea l’infelice destino di Nanda, a cui si
accompagna una critica non tanto alla Chiesa quanto all’autoritarismo e alla
miopia di un’istituzione educativa al limite del sadismo.
Durante la Seconda guerra, segnata da un’esistenza che non le aveva risparmiato
nulla, tornò definitivamente al cattolicesimo, una decisione motivata per esteso
in un volume del 1965, The Hound and the Falcon, che contiene una serie di
missive scambiate tra il 1940 e il 1941 con il sessantenne giornalista Peter
Thorp, ex seminarista che come lei aveva da poco riscoperto la fede.
Anche se la scrittrice seguitò a non condividere alcuni aspetti della dottrina,
specie quelli legati al sesso, e le sue simpatie erano tutte per gli
intellettuali più divisivi, mosse diverse critiche alle riforme liturgiche
introdotte a seguito del Concilio Vaticano II, ritenute impoverenti:
> «Nella messa ormai non c’è più spazio per il silenzio. Quando sono andata alla
> messa solenne in latino, sono stata profondamente scossa da un moto di
> nostalgia, [ma] sono stata pure colpita da quanto la liturgia abbia perso
> nella versione scarna che abbiamo oggi. Tutto quel lento e riverente rituale
> dà il tempo di apprezzare il significato mistico della messa. E persino
> l’ammirevole preoccupazione per le ingiustizie della società e gli ardenti
> preti “rivoluzionari” sembrano dare troppa enfasi a quello che si potrebbe
> definire il lato “materiale” del cattolicesimo – o forse “l’amore per il
> prossimo” a danno dell’amore per Dio».
Nel frattempo, grazie anche al supporto di alcuni amici scrittori come David
Gascoyne, Dylan Thomas e Graham Greene, dopo anni di gestazione, la White era
finalmente riuscita a pubblicare l’attesissimo seguito di Frost in May,
intitolato The Lost Traveller, a cui erano seguiti The Sugar House (1952)
e Beyond the Glass (1954). La protagonista, ribattezzata Clara, ancora una volta
ripercorre più o meno le medesime tappe esistenziali della sua autrice, finendo
per essere ricoverata a causa di un crollo nervoso.
I romanzi, di impianto troppo tradizionale per colpire i critici alla moda,
vennero accolti tiepidamente, col risultato che la White, oltremodo delusa,
lasciò incompiute le bozze di un quinto libro della serie, conosciuto col titolo
provvisorio di Julian Tye o Clara IV, e preferì trasferirsi per un periodo negli
Stati Uniti, occupando la cattedra di scrittura creativa al Saint Mary’s
College, affiliato alla Notre Dame University.
A salvarla dall’oblio letterario ci pensò Carmen Callil, fondatrice della Virago
Press, incontrata alla fine degli anni Settanta. Quest’ultima fece
ripubblicare Frost in May e i suoi seguiti garantendo alla scrittrice, di cui
divenne anche agente, una fama mai goduta prima.
Dopo la morte della White, avvenuta nel 1980, videro la luce il frammento
autobiografico As Once in May – incentrato sui suoi primi anni di vita– e i
diari, raccolti in due volumi. Nel 1982 la BBC acquistò i diritti dei romanzi e
ne trasse una miniserie in quattro episodi.
Grazie alla Virago, ancora oggi in prima linea nella promozione di una
letteratura “al femminile”, la scrittrice in perenne crisi creativa continua,
almeno in Inghilterra, a essere letta e amata. C’è da esser certi che nulla
l’avrebbe resa più felice.
Luca Fumagalli
L'articolo “I bisogni dell’anima”. Antonia White, una scrittrice “papista”
contro il Concilio Vaticano II proviene da Pangea.
In Italia, come si sa, è Giuseppe Ungaretti il traduttore complice di Blake:
edite in prima battuta nel 1965, le sue Visioni di William Blake sono
recentemente tornate in catalogo Mondadori. In entrambi i poeti agisce la
pratica dell’illuminazione più che dell’occasione, della visione prima della
vista. Ungaretti sa che la semplicità del poeta può apparire ostica al lettore:
si tratta di costruire un alfabeto per l’invisibile.
> “Lavoro alle traduzioni di Blake da più di sette lustri. È un poeta difficile.
> Sempre, anche quando è semplice come l’acqua. Ma c’è poeta, o un qualsiasi
> uomo che parli, che sia nel suo dire interamente decifrabile?”
I poeti, per favorire vaghe classifiche, possono dividersi in due classi: quelli
che ci mostrano le cose nascoste – i riverberi di ciò che l’uomo comune
non vede – e quelli che svelano il nascosto. Tra questi ultimi, vanno impilati
poeti aurorali come Blake, Hölderlin, Rimbaud, Emily Dickinson, figure di luce,
che incendiano, non per caso quasi del tutto postume. La fama non può cogliere
la fame di questi cannibali del segreto.
Ad ogni modo. Per il grande Ungaretti – un genio che ha fatto cattedra della
poesia – William Blake è portentoso alchimista del linguaggio, un idolo nella
virtù immaginifica; eppure – per quanto appaia assurdo, ma il poeta è il primate
dell’assurdo – nei testi di Blake occorre credere come nei libri biblici.
> “La cultura in Blake è sempre e solo conflitto, mai trasmissione di consenso o
> legittimazione. Di qui il rifiuto e anche l’incapacità di mediare con la
> razionalità della filosofia, dell’arte, della religione illuministica, e la
> ricerca di una contrapposizione sintetica… Alla razionalità illuminista che si
> regola sull’astrazione, sulla quantificazione e sul controllo, Blake
> contrappone l’illuminismo della visione e dell’immaginazione”.
>
> (Stefano Zecchi, “Nelle foreste della notte”, in: W. Blake, Opere, Guanda,
> Milano 1984)
In Blake il mito, riedificato in legioni bibliche – Urizen, Urthona, Tharmas,
Thiriel, Los… – non è esornativo, tanto meno nostalgico (come l’epica della
fiaba recuperata dai Romantici) ma attivo. Il poeta scava oltre la crosta dei
culti odierni per giungere alla prima covata del cosmo: dissotterra la prima
parola per pronunciare l’ultima. Ne Il matrimonio del cielo e dell’inferno il
poeta spiega – ma ogni spiegazione ha un incastro di virtù contraddittorie – il
suo agire:
“Gli antichi Poeti pensavano tutti gli oggetti sensibili come animati da
Divinità o da Genii, chiamandoli con i nomi e adornandoli con le proprietà dei
boschi, dei fiumi, delle montagne, dei laghi, delle città, delle nazioni, e di
qualunque altra cosa i loro sensi dilatati e numerosi potessero percepire.
E particolarmente studiarono il Genio d’ogni città e regione, dislocandolo sotto
la sua Divinità Mentale;
Finché si venne formando un Sistema, da cui alcuni trassero vantaggio e resero
schiavo il popolo col tentativo di rendere reali o di astrarre le Divinità
Mentali dai loro oggetti – e così ebbe inizio il Clero;
Trascegliendo forme di culto da favole poetiche.
E infine dichiarando che tali cose erano state ordinate dagli Dei.
Fu così che gli uomini dimenticarono che Tutte le Divinità risiedono nel cuore
dell’Uomo”.
A questa ingenuità – oppure: originalità del dio – anela William Butler Yeats,
il grande poeta irlandese. Il suo inseguimento di Blake comincia da ragazzo; in
uno scritto del 1897, William Blake e l’immaginazione, attacca così:
> “Ci sono stati uomini che amavano il futuro come un’amante e il futuro
> mescolava il suo respiro con il loro e scuoteva i capelli intorno ad essi e li
> celava alla comprensione della loro epoca. Uno di questi uomini era William
> Blake e, se si espresse in modo confuso e oscuro, fu perché parlava di cose
> per le quali nel mondo a lui noto non trovava modelli atti a esprimerle”.
>
> (In: W.B. Yeats, Magia, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, Milano 2019)
A differenza di Blake, aedo di un mondo a lui solo noto, Yeats, però, è un
druido. In Yeats agisce l’invisibile non l’oscuro. D’altronde, Yeats comincia
sul sentiero degli antichi miti irlandesi, manovra gli “inni antichi”; Blake
parla da un mondo in cui gli dèi sono defunti e le pietre, lungi da ogni magia,
sbadigliano. Nel sistema mistico di Yeats, A Vision, Blake occupa la “Fase
sedici”, insieme a Paracelso e a “certe donne belle”, costituita da “una
eccitazione senza meta” e da “un sogno antitetico”: “C’è sempre una componente
di delirio, e quasi sempre il piacere di certe immagini splendenti o luminose di
forza concentrata: la fucina del fabbro; il cuore; la forma umana nella sua
massima vigoria; il disco solare; qualche rappresentazione simbolica degli
organi sessuali; perché l’essere non può fare a meno di vantarsi del suo trionfo
sulla propria incongruità”.
A differenza di Yeats, sintonizzato sul ‘profeta’, Thomas S. Eliot, preferiva il
poeta. In un saggio uscito in origine su “Athenaeum” nel febbraio del 1920
scrisse che “La poesia di Blake ha la sgradevolezza della grande poesia”,
scrisse che Blake, lungi dall’essere “un ingenuo, un selvaggio, una bestia sacra
ai supercolti” era un poeta i cui lacerti lirici “si ritrovano in Omero,
Eschilo, Dante e Villon e, nascostamente, nell’opera di Shakespeare”.
Ossessionato dal lignaggio, Eliot ha bisogno di un ‘canone’, di una
‘istituzione’: eppure, non erra quando dice che è “terrificante e spaventosa” la
“brutale onestà” di Blake – è il lavorio di chi strappa i veli, di chi denuda le
forme. Il bello abbaglia.
Blake morì d’estate, il 12 agosto del 1827, in stato d’estasi: “componendo e
cantando poesie al suo Creatore”. Pur sulla soglia dell’indigenza, era scortato
da radi allievi: la sua figura ardeva come un lume – mungitura di lingue
araldiche attorno a lui. Quasi subito, un po’ tutti cercarono di carpire le
ragioni di una mente eccentrica quale quella di Blake. Nel 1825 su “Urania; or,
the Astrologer’s Chronicle, and Mystical Magazine”, Merlinus Anglicus, The
Astrologer of the Nineteenth Century, pubblicò l’oroscopo di Blake. Era l’ultimo
‘servizio’ del primo e unico numero di “Urania”: la rivista, edita a Londra, al
24 di Fetter Lane, sotto gli auspici della “Metropolitan Society of Occult
Philosophers”, pubblicava, tra l’altro, un articolo sulla simbologia del drago e
un profilo dei “rimarchevoli eventi astronomici” accaduti quell’anno;
naturalmente non mancavano le Predictions for 1825.
Dietro la maschera di “Merlinus Anglicus” si celava Robert Cross Smith
(1795-1832), astrologo, nativo di Bristol, meglio noto con lo pseudonimo di
“Raphael”. Nell’era dei giornali e dei ‘fatti’ si occupava di geomanzia,
nell’epoca della ferrovia a vapore – la “Stockton & Darlington Railway” fu
inaugurata nel Regno Unito proprio nel 1825 – si dava all’antica arte di
divinare gli astri. Inventò riviste e almanacchi – “The Straggling Astrologer”;
“The Prophetic Messenger”; “Raphael’s Ephemeris” – di effimera durata.
Nativity of Mr. Blake è uno dei documenti più eccentrici sorti intorno alla
personalità inarginabile di Blake. Lo ha pubblicato Arthur Symons nel 1907
in William Blake, a biography and selection of contemporary sources; lo
replichiamo in appendice. Tra le varie testimonianze, affascina quella della
scrittrice inglese Charlotte Campbell, reperita nel suo diario. La signora –
sposa, in seconde nozze, al reverendo Edward Bury, dama di compagnia di Carolina
di Brunswick, principessa del Galles – incontrò Blake nel gennaio del 1820, “una
di quelle rare persone che praticano l’arte per la sola felicità che essa gli
reca”. La donna fu folgorata dalla “splendida immaginazione e genialità” di
Blake:
> “Il signor Blake ignora tutto ciò che riguarda questo mondo e, da ciò che
> dice, temo sia tra le anime rare i cui sentimenti sono di gran lunga superiori
> alla propria situazione sociale. Appare sfinito, disfatto; ma il suo volto si
> illumina quando parla della sua attività. Immagino che raramente incontri
> qualcuno che condivida le sue idee: sono così estreme da elevarsi sopra il
> comune livello delle opinioni apprese. Non ho potuto fare a meno di comparare
> il genio di questo umile artista con quello del potente Sir Thomas Lawrence:
> Blake è certamente più degno di fama, per distinzione, rispetto a
> quest’ultimo. Il signor Blake, tuttavia, manca di quella saggezza mondana e di
> quella scaltrezza nei modi che permettono a un uomo di raggiungere un qualche
> successo in società. Ogni sua parola esprime l’esterrefatta semplicità della
> sua mente, una totale ignoranza nelle questioni mondane”.
Che ‘quadro’ meraviglioso: nell’idiota si rivela l’errore del ‘sistema’, la
sfasatura, il punto in cui le cose si ricollocano nell’innocenza originaria. Nel
primato di Adamo. Più che essere stigmatizzato dagli astri, Blake, all’equinozio
del mondo, divora le stelle.
**
L’oroscopo di William Blake. L’artista mistico
L’oroscopo qui riportato si calcola secondo la stima dell’ora di nascita di
William Blake, soggetto ben noto tra gli esperti per la sua peculiare e
ineguagliata genialità, per la vivida immaginazione. Le sue illustrazioni del
libro di Giobbe gli hanno riservato diversi elogi; in effetti, nei modi che
adotta questo artista non ha pari ai giorni nostri. Blake non era meno
eccentrico e stravagante nelle proprie idee: pareva avere profonde relazioni con
il mondo invisibile e secondo i suoi racconti (nei quali si dimostra certamente
sincero) dice di essere stato sempre circondato dagli spiriti dei defunti di
ogni epoca, nazione e paese. Afferma di aver avuto conversazioni con
Michelangelo, Raffaello, Milton, Dryden oltre che con i protagonisti
dell’antichità. Il suo ultimo poema gli è stato sussurrato dallo spirito di
Milton; i disegni mistici di questo gentiluomo non sono meno curiosi e degni di
nota per chi si libra oltre le trappole dell’elemento terreno, a cui spesso
siamo fin troppo incatenati per poter comprendere la natura e le azioni del
mondo degli spiriti.
I dipinti del Giudizio Universale, i profili di Wallace, Edoardo VI, Aroldo,
Cleopatra e numerosi altri che abbiamo visto, sono davvero mirabili per lo
spirito che li ha generati. Spesso abbiamo avuto il privilegio di incontrare
Blake restando incantati dalla facoltà del suo dire, colmi di meraviglia per la
straordinaria potenza emanata della sua persona; le sue convinzioni non sono
frutto di superstizioni: egli vi crede con fermezza. I nostri limiti non ci
permettono di indagare troppo negli abissi del suo genio: ci limitiamo a
considerarlo uno straordinario esempio per gli studiosi di astrologia.
In particolare, è probabile che le mirabili qualità eccentriche del suo pensiero
siano gli effetti della Luna in Cancro nella dodicesima casa (segno e casa
entrambi legati alla mistica), del trigono di Urano (o Herschel) nel segno
mistico dei Pesci, della casa della scienza, e dal trigono mondano a Saturno nel
segno scientifico dell’Acquario; quest’ultimo pianeta è in quadratura a Mercurio
in Scorpione e in quintile al Sole e a Giove, nel mistico segno del Sagittario.
Anche il quadrato di Marte e Mercurio, proveniente da segni fissi, ha notevole
tendenza nell’acuire l’intelletto e getta le basi per idee fuori dall’ordinario.
Altre ragioni reggono le bizzarre peculiarità sopra menzionate: per lo studioso
sarà facile gioco scoprirle.
*In copertina: William Blake, Autoritratto, 1802 ca.
L'articolo “Ignora tutto ciò che riguarda questo mondo”. L’oroscopo di William
Blake proviene da Pangea.
Non era tornato a casa. I compagni di plotone non lo avevano trovato. Nemmeno le
squadre di cercatori inviate a Hulluch, nell’Alta Francia, riportarono notizie
certe su di lui. Disperso tra le ceneri della battaglia in qualche fossa comune,
il suo nome arrivò in tondo su un telegramma che i genitori, in Inghilterra,
lessero in lacrime. Il biglietto avvisava la dipartita del capitano Charles
Hamilton Sorley, colpito in testa da un cecchino durante i combattimenti a Loos,
nell’ottobre 1915. Ucciso all’istante, il loro ragazzo se ne era andato con la
promessa del congedo previsto di lì a qualche mese. Aveva appena vent’anni.
Così la sua scomparsa si univa alla fine di un’intera generazione di giovani
vittime in un massacro senza precedenti. Difatti, era da secoli che l’antica
menzogna del «dolce morire per la patria» – il dictum latino trapiantato nel
suolo d’Albione – aveva preparato schiere di figli devoti, mossi all’azione dai
valori dei padri ed allevati nel grembo delle public schools, da immolare al
momento opportuno sui campi di battaglia.
Che il capitano Sorley componesse versi è una storia altrettanto amara quanto
avventurosa. Annoverato fra i sedici war poets della Prima guerra onorati sulla
lapide di Westminster, ne è il più giovane rappresentante, forse uno dei meno
noti per l’opera rimasta incompiuta, benché prolifica, addirittura sorprendente
se si considera l’età anagrafica. La sua voce singolare è attestata in una vasta
messe di componimenti – quelli d’anteguerra i migliori – che rivelano un’esperta
caratura tecnica d’impronta tradizionale, una combinazione di perfezione
stilistica nel dettato e auscultazione del ritmo interno alla strofa, sempre
attento alla rima e sostenuto dalla profonda cultura classica. La lucidità di
visione e il rigore metrico ne fanno, in definitiva, uno dei lirici più dotati
nell’eterogeneo coro di talenti che sbocciarono – per essere infine soffocati –
sotto le bombe. Tuttavia, il suo profilo tende a sfuggire ad ogni etichetta
affibbiata nel tentativo di inquadrarne la posizione verso il conflitto in un
anello di congiunzione tra filone eroico-patriottico e svolta
realistico-satirica, di per sé fallace se si considera la risposta di ciascun
autore all’evolversi degli eventi, oltre la caratteristica linea d’azione.
Per circostanze storiche indubbie, i primi poeti-combattenti volontari cantavano
la guerra in versi idealistici e patriottici, celeri a scattare al segnale della
propaganda per partecipare al “gioco” o show (come incitava la sciovinista
Jessie Pope, Who’s for the Game?) tenuto sull’impietoso palcoscenico del mondo.
Se per un guerriero di razza come l’aristocratico Julian Grenfell era facile
osannare la morte onorevole dalle «soffici ali» (Into Battle), un immaturo
Rupert Brooke – non avendo conosciuto la vita di trincea – elogiava l’impresa
virtuosa che avrebbe restituito la gloria eterna al milite sepolto in un campo
straniero (The Soldier). Contro i grandi ideali dei suoi contemporanei, Charles
Sorley – scozzese di origini e inglese per elezione – scaglia con coraggio la
sua abiura, eppure non da subito. Agli inizi della campagna, aveva nutrito anche
lui vaghe fantasie cavalleresche rispetto al pericolo della caduta, tra canti
enfatici e ingenuità romantiche: «Ricoprite di gioia il letto della terra/ E
così morite, siate felici.» (All the Hills and Vales Along).
Sorley studente a Marlborough (fila inferiore al centro) © reserved Marlborough
College
Il testo più famoso e antologizzato, distante dai toni esultanti del 1914, sarà
l’ultimo vergato al fronte, rinvenuto dai commilitoni nel suo kit, che, assieme
ad altri frammenti e abbozzi di prose, lascia ai posteri un monito potente di
fronte a ogni mistificazione della carneficina reale. Crollata l’edulcorata
visione della guerra, la poesia apre uno slargo inaspettato nel panorama
dell’epoca, un bagliore di verità nella critica al sistema bellicista
dell’Impero, messa a segno in versi crudi e irriverenti, tesi a guardare la
morte dritta negli occhi:
> “Quando vedrai milioni di morti senza parole
> Che incedono nei tuoi sogni in pallidi battaglioni,
> Non dire loro cose dolci come hanno fatto altri uomini,
> Rammenta questo. Perché non è necessario.
> Non concedere lodi. Sordi ormai, come potrebbero capire
> Che soltanto le maledizioni si addensano sopra ogni testa squartata?
> Né lacrime. I loro occhi ciechi non vedono scorrere le tue lacrime.
> Né onore. È facile morire…”
Dinanzi al culto vittoriano degli eroi, il blasone di Scozia fa sentire senza
orpelli la sua natura indocile, rinunciando alla fedeltà dogmatica verso la
corona. Fuori dalle gesta eroiche del mito, l’orrore della strage si poteva
raccontare solamente nei resti umani risucchiati dentro la waste land della
Terra di Nessuno, ovvero l’altra faccia dell’epopea. Dopo gli eccidi della
Somme, la percezione del conflitto – e di conseguenza la sua rappresentazione
letteraria, specie in poesia – non sarebbe stata più la stessa. La tragedia che
aveva sperperato il fiore della gioventù britannica sui terreni delle Fiandre si
annunciava agli occhi dei conterranei al netto di tutte le possibili distorsioni
della memoria. Secondo Siegfried Sasson, il “sicuro” mondo d’anteguerra si era
ridotto a un «inferno dove finiscono risate e ragazzi», e lo stesso Rudyard
Kipling – il figlio John caduto anch’egli a Loos – avrebbe parlato, nei
suoi Epitaphs of War (1914-18), a nome dei «giovani arrabbiati e traditi» (A
Dead Statesman) nelle loro illusioni, derubati degli anni di innocenza con un
sacrificio ingiusto.
In questo solco di condanna dei mali inferti dal conflitto, il timbro di Sorley,
col suo grido all’internazionalismo (To Germany), spicca per drammaticità e
premonizione circa la futilità dell’impresa che vanifica ogni azione umana
(Such, Such is Death), ponendosi da antesignano: una vena sovversiva precedente
alla virata antimilitarista di un Siegfried Sassoon, degli epigoni Wilfred Owen
e Isaac Rosenberg. Per questo, nella sua autobiografia Good-Bye to All That,
Robert Graves lo pianse come la perdita più dolorosa di cui avesse sofferto la
moderna poesia inglese.
La raccolta che gli diede la fama – giunta postuma e limitata alle liriche a
tema bellico –, dal titolo Marlborough & Other Poems, venne pubblicata nel 1916
per volere della famiglia ed ebbe una tiratura altissima, con varie ristampe,
nel primo dopoguerra. Nonostante ciò, colui al quale non spettò una
canonizzazione simile all’apollineo Brooke merita di essere ricordato senza armi
e divisa.
Frontespizio della raccolta Marlborough and Other Poems con un ritratto in
gessetto di Cecil Jameson
Discendente di una stirpe illustre sorta tra i fiumi Tay e Tweed, conta fra i
suoi avi eminenti Scots del calibro di William Sorley, reverendo della Chiesa di
provincia, e George Smith, uomo di lettere edimburghese rinomato per il suo
“passaggio in India”. Il padre William Ritchie Sorley è professore emerito di
filosofia all’Università di Aberdeen, le cui idee rivoluzionarie nel campo della
morale gli valgono una cattedra a Cambridge nel 1900. Da questo momento, tutta
la famiglia, d’indole eclettica e apertura cosmopolita, decide di avvicinarsi
alla venerata città universitaria.
Fin dalla tenera età, i piccoli Sorley – la sorella Jean e i due gemelli Charles
e Kenneth – vengono allevati dalla madre con una buona dose di grammatica
francese e letteratura nazionale: passi di Shakespeare, brani di Scott e canti
di Blake sono di casa. Da ragazzino, Charles divora i classici greci e tutti i
drammi elisabettiani sugli scaffali, legge le odi di Keats come un salterio e
allena l’orecchio sulle note di A. E. Housman (A Shropshire Lad, fra i suoi
libri preferiti) fino a comporre versi propri. L’istruzione migliore a cui
poteva aspirare lo vede dapprima allievo diurno alla King’s College Choir School
di Cambridge e dal 1908 nel convitto privato di Marlborough, trampolino di
lancio per le cime oxbridge. Qui viene eletto ai principali club studenteschi,
conteso tra la Debating Society e la Junior Literary Society.
Il talento precoce nella scrittura lo condurrà ben presto alle prime
pubblicazioni sulle riviste collegiali, tra cui il Marlburian. Nello stesso
tempo, si distingue fuori dalle aule per l’eccezionale talento sportivo: nella
corsa è una meteora. Sembra inoltre non badare a premi, medaglie e
riconoscimenti poetico-letterari che si succedono sul suo cammino. Umile di
carattere, fa anche fatica a riconoscere il fascino che emana crescendo. Alla
soglia della maggiore età, è diventato un ragazzo bellissimo, dalla dizione
perfetta e magnetico nei modi. Alle prese con le nuove consapevolezze, si ritrae
come un privilegiato (come per gli estratti successivi, si fa riferimento al
volume a cura di W. R. Sorley, The letters of Charles Sorley, with a chapter of
biography, Cambridge University Press, 1919):
> “Mi sento terribilmente indegno e inesperto perché la vita non mi ha dato
> difficoltà in casa né grossi problemi da risolvere, soltanto quelli possono
> rafforzare davvero un uomo…”
Si rende conto, a quell’altezza, che la vita è stata fin troppo buona con lui. E
per restituire al mondo il dono ricevuto avrebbe fatto del suo meglio in tutto.
Il nervo resistente della sua personalità, temprato sulle prediche evangeliche e
addestrato al valore della disciplina, trovava in ogni cosa una prova da
affrontare, in ogni difficoltà una sfida, come ricorderà il padre orgoglioso:
> “Voleva sempre crescere. Ogni nuova esperienza, che fosse un gioco, un libro,
> un luogo o una persona da conoscere — era per lui un’avventura; dava la sua
> opinione con entusiasmo, mentre coglieva soltanto il meglio, nient’altro
> contava. Qualunque delusione, apprensione o senso di sconfitta, per qualsiasi
> fallimento, lo teneva per sé, andando incontro alle sue imprese, soprattutto
> la più grande di tutte – nell’agosto 1914 – con un’allegra prontezza e un
> umorismo che regalavano un senso di conforto e sicurezza a tutti quelli che lo
> vedevano. ‘Ecco Charlie, sempre brillante e coraggioso,’ diceva la nostra
> vecchia padrona di casa dello Yorkshire alla fine di ogni vacanza.”
Alla luce dei successi scolastici, i versi della fase Marlborough raccontano
slanci d’ebbrezza giovanile, l’abitudine alla camaraderie contratta dalla vita
di collegio e, più di tutto, un desiderio indomabile di libertà, il bisogno di
solitudine nella natura selvaggia e incontaminata, a contatto con burrasche e
temporali. Lungo i pendii delle vicine Downs o sulle native Highlands, Charles
ama ritirarsi, come un asceta, percorrendo ampie distese a lunghi passi,
attirato dai misteri dei glen, in maratone da cui torna rigenerato:
> “Era solito fare lunghe passeggiate, come quando spariva per correre in
> maglietta e pantaloncini sulle Downs. Aveva scelto di starsene per conto suo.”
Il cognome Sorley – in gaelico sta per pellegrino o viandante – lo aveva
predestinato, imprimendo nel suo spirito il desiderio di un riparo dell’anima,
l’istinto animale a fuggire “via dalla pazza folla”. A quell’atteggiamento
romantico verso l’esistenza si sarebbe aggrappato per capire sé stesso nel
profondo del cuore, ma soprattutto per scrivere. Corsa, pioggia, vento e poesia
sono per lui un tutt’uno.
> “[…] nello Yorkshire, dove le brughiere discendono verso il mare, oppure in
> qualche luogo delle sue origini – Selkirk, Dunbar o Aberdeen; […] attraverso
> la Francia, in bici, cavalcò la costa della Normandia e le sponde della Senna.
> Una volta, in un pomeriggio di tempesta, dopo aver percorso a fatica una
> scarpata, sul punto di attraversare le colline, ci imbattemmo improvvisamente
> in un campo coperto da grandi selci bianche. Ma Charlie, che in genere
> rispondeva prontamente, non disse una parola; fissava il campo come se ci
> vedesse scritto qualcosa.”
Più tardi, il talento di famiglia viene ammesso a Oxford con una borsa di studio
e grazie all’intervento paterno gli è concessa l’interruzione prematura degli
studi. Al giovane spettava la gioia di un Grand Tour, o almeno una breve
esperienza formativa all’estero, prima di precipitarsi nel mondo dei college.
Non perde tempo e all’inizio del 1914 è a Jena per frequentare i corsi di
filologia all’università locale. Dopo un tour mitteleuropeo, si cala appieno
nella vita della città. La lingua gli dà la fame della scoperta, trasmettendogli
la ricchezza di una cultura che non smetterà mai di affascinarlo. In questo
periodo, la visita del fratello e dei genitori, che coinvolge in passeggiate
campestri e giri turistici, viene a ricordargli il calore della patria, a
rinsaldare il rapporto sincero custodito per lettera. Una sera, in cima a un
colle, guarda insieme a loro una Jena luccicante sotto il crepuscolo, e in
quell’istante si sente al sicuro.
Basterà la notizia della dichiarazione di guerra a richiamarlo al di là della
Manica dopo una rocambolesca giornata di carcere a Treviri (nel frattempo Russia
e Germania sono diventate nemiche). Non appena tocca terra, firma convinto le
liste di coscrizione. L’invasione tedesca del Belgio è una mossa troppo
oltraggiosa per resistere alla tentazione. Arruolato come secondo tenente nei
reparti del Suffolk Regiment, viene da qui mobilitato in fretta sul Fronte
occidentale, a marcia indietro sul continente.
A sostenerlo durante l’addestramento militare sarà l’amicizia fraterna di Arthur
Watts (soldato del battaglione alleato ed ex lettore di inglese a Jena), più
dolce dei vecchi legami camerateschi, che riaccende in lui l’amore dei miti
greci. Uniti da comuni interessi letterari, i loro scambi epistolari celano, in
sordina, intense vibrazioni romantiche, scintille di intimità che tentano di
ricucire la distanza sulla scia dell’epica. Tra le righe cifrate in greco e
tedesco, come un appassionato codice segreto, un adorante Charles trasfigura il
compagno nei panni di Ulisse per sentirlo più vicino:
> “Dammi l’Odissea e restituirò il Nuovo Testamento. Indicami la strada, sia
> fisica che spirituale. Solo qualche volta l’orribile visione di pane e burro
> viene ad eclissare il mio sogno; […] In questi sogni mi appari come il
> sergente-pioniere. Forse sei tu l’Odisseo, mentre io non sono altro che uno di
> quei fedeli ἑταῖροι [compagni]… Ma comunque sia, le nostre vite saranno
> πολύπλαγκτοι [agitate dal Fato]. E noi verremo sepolti dal mare – […]
> Dall’inizio di questa lettera, sento un certo profumo di romanticismo durante
> la ronda notturna.”
Mentre si scrivono, i due amici separati dalla guerra guardano lo stesso cielo
inondato di malinconia, l’uno al lume di un fiammifero, l’altro proiettato verso
le stelle:
> “Tu, al telescopio, vedi la strada verso la stella nella sua vastità, senza
> l’ingombro degli atomi che soffiano negli occhi e riempiono i nostri pori di
> linfa vitale – metà strada verso quella stella – ad ogni curva. […] E così
> fino al nostro prossimo incontro!”
Negli ultimi mesi in trincea, Sorley non ha perso il suo umorismo né la
nostalgia degli affetti. Ciò che lo tiene sveglio di notte è il pensiero di aver
dimenticato a casa la sua copia di Omero – come detta il frammento Non ho
portato la mia Odissea con me sul mare [XXXVI] – e il desiderio di una colazione
rigorosamente inglese.
Irrequieto e in preda all’attesa spasmodica nelle retrovie, ha il tempo di
scrivere ai propri cari che la firma della pace sembra «un brutto scherzo» sulla
bocca di tutti. Il suo addio alle armi, del resto, lo ha già annotato nel
taccuino impolverato che porta in tasca. Esegue quindi l’ultimo comando, butta
giù una lettera per Arthur e a qualche giorno dall’azione saluta l’Inghilterra
con Auf Wiedersehen.
*
Per riscoprire la penna di Charles Sorley, si propone qui di seguito una
selezione di testi inediti e rappresentativi della sua opera poetica, tratti
ciascuno da una sezione della raccolta Marlborough e altre poesie:
Il canto dei corridori spogli
Agitiamo i fianchi discinti
Con la luce negli occhi,
La pioggia ci cade sulle labbra,
Non corriamo per vincere.
Non sappiamo di chi fidarci,
Ma non torniamo indietro,
Perché è nostro dovere correre
Attraverso l’immensità dell’aria.
Le acque dei mari
Si agitano come in tempesta.
La tempesta spezza gli alberi
E non li lascia al caldo.
Eppure, si ferma forse la lacerante tempesta?
Si chiedono perché le cime degli alberi?
Così, noi corriamo senza una ragione
Sotto la grandezza del cielo terso.
La pioggia ci cade sulle labbra,
Non corriamo per vincere.
La tempesta frusta l’acqua
E l’onda ulula ai cieli.
S’alzano i venti, che la colpiscono
E la infrangono come sabbia,
E noi corriamo perché ci dà piacere
Lungo la radiosa vastità della terra.
*
Pioggia (estratto)
C’è qualcosa nella pioggia
Che mi invita a rimanere:
C’è qualcosa nel vento
Che mi sussurra “Lasciati alle spalle
Questa terra di tempi e regole,
Terra di campane e lezioni mattutine.
Il latino, il greco e il cibo del collegio
Non ti servono a molto.
Lasciali: se vuoi essere libero
Seguimi, seguimi, vieni con me!”
Quando raggiungo i quattro chilometri,
Per guardare di nuovo là fuori
Sui cieli bianco opaco
E il velo di pioggia alla deriva,
E il mucchio di siepi sparse
Che ondeggia debole sul dirupo,
E l’infinita distesa di colline
Ricoperte di vesti verdi e d’argento;
C’è qualcosa nella loro foggia
Di desolante e sterile bruttezza,
Che mi sussurra “Hai letto
di una terra di luce e gloria:
Ma non credere a ciò che dicono.
È un regno tetro e desolato,
Dove i venti e le tempeste ti chiamano
E la pioggia spazza via ogni cosa.
Non dar retta ai predicatori
Che parlano di una terra dolce e remota.
Qui c’è una terra migliore e più gentile
E non si trova lontano”.
*
Due sonetti (Parte I)
I santi hanno adorato la nobiltà della tua anima.
I poeti sono diventati pallidi davanti alla tua gloria.
Noi siamo tra i milioni di anime che in ogni ora
Attendono di percorrere il tuo cammino.
Tu, così familiare, un tempo diverso: abbiamo tentato
Di vivere senza pensare alla tua presenza.
Ma in ogni strada, da ogni parte, adesso
Vediamo la tua insegna dritta e ferma.
La immagino come quel cartello nella mia terra,
Alto e canuto, che mi indicava di andare
In alto, sulle colline, a destra,
Dove nuotano le nebbie e i venti urlano e soffiano,
Una terra senza casa e senza amici, ma pur sempre
Una terra ignota che desideravo conoscere.
*
Smarrito
Sulle fantasie del mio passato
È calata una cecità grave e silente.
Adesso il mio sguardo si volge ad altre cose,
Non quelle che un tempo vide e conobbe.
Non posso pensare a quelle terre a me care
(O laggiù, i tempi andati!)
Dove il vecchio cartello malconcio resta in piedi
E le quattro strade vanno in silenzio
Verso est, ovest, sud e nord,
Dove spirano i freddi venti invernali.
E cosa porterà con sé la sera
Non spetta a me né a voi saperlo.
*Il servizio e la traduzione dei testi sono di Pierluigi Piscopo
Riferimenti bibliografici:
– C. H. Sorley, Marlborough: and other poems, a cura di W. R. Sorley, Cambridge
University Press, Cambridge 1916.
– C. H. Sorley, Collected Poems, a cura di J. Moorcroft Wilson, Cecil Woolf,
London 1985.
– J. Moorcroft Wilson, Charles Hamilton Sorley: A Biography, Cecil Woolf, London
1985.
– W. R. Sorley, a cura di, The letters of Charles Sorley, with a chapter of
biography, Cambridge University Press, Cambridge 1919.
– J. Moorcroft Wilson, a cura di, The Collected Letters of Charles Hamilton
Sorley, Cecil Woolf, London 1990.
– N. McPherson, It Is Easy to Be Dead, Oberon Books, 2016.
*In copertina: Charles Hamilton Sorley, fotografo sconosciuto, circa 1914.
L'articolo “Quando vedrai milioni di morti senza parole…” Vita & poesia di
Charles Hamilton Sorley proviene da Pangea.
Fu Arthur Symons, l’insigne studioso dei Simbolisti francesi, il traduttore di
D’Annunzio, l’oppiaceo biografo di William Blake, a foggiare il mito di Ernest
Dowson. I caratteri c’erano tutti, energici: il genio malinconico, una famiglia
sotto l’aura della tragedia, la dissipazione del sé, il disordine erotico e la
morte, troppo giovane, come da maledettismo all’ora del tè, a trentadue anni,
dopo aver abitato a lungo nelle lande del nulla, in una sorta di afasia del
cuore.
L’edizione dei Poems of Ernest Dowson, allestita da Symons a Londra, per John
Lane, pochi anni dopo la morte del poeta, nel 1905, aveva tutti i crismi del
libro ‘generazionale’; diventò la bibbia del decadentismo inglese. Nel
frontespizio campeggiava un ritratto di Dowson firmato da William Rothenstein:
lo sguardo del giovane, sempiterno e allarmato; il corpo spettrale, pronto a
svanire dallo spettacolo del tempo. Il libro era scortato da quattro
illustrazioni di Aubrey Beardsley, lo spiritato artista, il magnetico
illustratore delle opere di Oscar Wilde. Per altro, Wilde, pianse la morte di
Dowson, “povero, meraviglioso ragazzo ferito”: lo inseguì tra i plumbei meandri
della morte. Dowson era morto in febbraio, nel 1900, in circostanze poco chiare;
Wilde finì i suoi giorni, tristemente, quello stesso anno, a Parigi – sfioriva
novembre. Erano amici, Ernest ne idolatrava il prodigioso talento, osava
firmarsi “Dorian” – si era fatto obbligo di costringerlo ai più infimi bordelli
di Parigi. Per sopravvivere, traduceva in inglese Zola e Balzac.
A pagina sette dell’edizione dei Poems, l’apoteosi, la fotografia di Dowson:
abiti eleganti, di stampo eccentrico; lo sguardo fisso nel vuoto, chiuso,
atterrito, di chi è attratto dal vuoto. Abusava di hashish. Era nato in un
sobborgo di Londra nell’agosto del 1867; lo zio, Alfred Domett, poeta di alterno
talento, era stato Primo ministro della Nuova Zelanda. Si diceva della tragedia
familiare: il padre morto di tubercolosi che lui compiva ventisette anni; la
madre lo seguì poco dopo, suicida. Ernest soffriva di bipolarismo: a un
carattere schivo, tenue fino all’essere deciduo, coerente con la poetica,
alternava l’ira, irragionevole, frenata da cupe colpe. Con pochi tratti, Symons
ne intagliò il ‘carattere’, fino a farne il ‘tipo’ di un’epoca:
> “Sempre estraneo a se stesso, morbosamente timido, appesantito da una
> sensibilità anarchica, che lo allentava da ogni obbligo; si rifiutava di
> comunicare con i parenti, che lo avrebbero volentieri aiutato”.
Frequentò Oxford, senza mai laurearsi; amava il music hall, scrisse per il
teatro – The Pierrot of the Minute, ad esempio, “A Dramatic Phantasy” di un
unico atto –, fu amico di Lionel Johnson e di William Butler Yeats. Il grande
poeta irlandese ricordò a lungo “la lettura delle disperate poesie di Dowson in
una taverna di Londra”: nel 1936 antologizzò questo pioniere della “generazione
tragica” nell’Oxford Book of Modern Verse. In quel libro – decisivo per carpire
il crisma della poesia inglese del Novecento – i versi di Dowson seguono quelli
di Yeats.
Intorno alla morte e alla malia del male che attanagliò Dowson, Symons compie un
laccato esercizio di stile:
> “La malattia finì per debilitarlo, lui volle lasciarsi morire di fame. Fu
> trovato da un amico, anche lui indigente, in una bottega: riusciva a malapena
> a tenersi in piedi. Un muratore si prese generosamente cura di lui,
> ospitandolo in una povera casa alla periferia di Catford. Il poeta non sapeva
> che stava morendo, era pieno di progetti per il futuro. La vendita di una
> proprietà, diceva, gli avrebbe consentito 600 sterline e una nuova vita;
> iniziò a leggere Dickens con singolare entusiasmo. L’ultimo giorno della sua
> vita terrena, restò sveglio a chiacchierare fino alle cinque di mattina. Cercò
> di tossire, inutilmente; il cuore smise di battere… Fu artista privo di
> ambizioni, che scriveva per soddisfare i propri gusti esigenti, con un
> atteggiamento di altezzosa umiltà verso un pubblico da cui non si attendeva
> alcun riconoscimento. Morì nell’oscurità, incurante delle sue scritture. Morì
> giovane, sfinito da una vita che non fu mai davvero vita, lasciandoci questi
> pochi versi che hanno il pathos delle cose troppo giovani e troppo fragili per
> invecchiare”.
Poco più che ventenne, si era innamorato di “Missie”, la figlia di un
ristoratore polacco. Lei aveva undici anni, lui la elesse a musa. Quando la
chiese in sposa, cinque anni dopo, lei gli preferì un altro, un sarto. Ernest
Dowson, da allora, volle soltanto la compagnia di prostitute d’ogni sorta: non
aveva l’estro di un Baudelaire, piuttosto, quello di uno che sa ricamare tra
anfratti di nebbia, un pittore di paraventi.
Il volume dei Poems, adatto alle giornate di pioggia, alle brume interiori, da
nascondere dall’avidità di sguardi chiassosi, diventò leggenda. Margaret
Mitchell trasse il titolo del suo maggior libro, Gone with the Wind, da un verso
di Non sum qualis eram bonae sub regno Cynarae, una delle più note poesie di
Dowson. “Lawrence d’Arabia” citò una poesia di Dowson – Impenitentia Ultima –
nei Sette pilastri della saggezza; così fece Jack London, ammaliato da
quell’avventuriero dei mondi paralleli. Le poesie di Dowson hanno ispirato le
canzoni di Morrissey e dei Cure (Dregs, in particolare, è il contrafforte
di Alone).
Le stole della poesia decadente, che appesantiscono i versi, virandoli in
kitsch, in sniffata d’eroina, non ottenebrano la ricerca di Dowson. Il poeta –
forse perché incauto, incurante dell’esito del proprio lavoro – leva tutti i
trucchi, annienta gli orpelli. In lui, anche la disperazione è leggera, un colpo
d’ala l’inquietudine, l’estremo grido pare una falena. In Dowson, cioè, il
pallore di Poe si mescola all’armonia di Orazio – a leggerle troppo forti,
queste poesie rischiano di frantumarsi. Ha testimoniato il Nessundove, ha
mappato il respiro ultimo, l’ultima soglia, il punto in cui il sogno è la
primizia della realtà, il suo più puro bocciolo. Voleva sfracellarsi, Dowson, e
dare a questo umiliarsi una tempra solenne – si convertì al cattolicesimo perché
la sequela avesse il nitore di chi si pavoneggia tra rovine di volti appena
violati, di chi non ha nulla da restituire.
**
Ernest Dowson
(1867-1900)
Non sum qualis eram bonae sub regno Cynarae
Trascorse la notte tra le mie e le sue labbra:
lì tracce d’ombra, Cynara! Mesci il respiro
dalla mia anima, tra baci e vino;
disfatto, distrutto da un’antica passione
feci di me deserto e inclinai il capo:
a mio modo ti fui fedele, Cynara!
Per tutta la notte: il tuo cuore rimbomba sul mio
per tutta la notte: il sonno ti dileguò tra le mie braccia
dolci i baci della sua rossa bocca acquistata a buon prezzo;
disfatto, distrutto da un’ancestra passione
feci di me deserto e inclinai il capo:
a mio modo ti fui fedele, Cynara!
Tutto ho dimenticato, Cynara! Via col vento
le rose, le rose erose dalla folla,
e ballo, ballo per confinare all’oblio i tuoi pallidi gigli;
disfatto, distrutto da fatale passione
feci di me deserto e inclinai il capo:
a mio modo ti fui fedele, Cynara!
Più folle del vino, più forte fu la musica
ma a festa finita si spegne la lampa
e cala, nottola, a notte, la tua ombra, Cynara;
disfatto, distrutto da un’arcana passione
feci di me deserto e inclinai il capo:
a mio modo ti fui fedele, Cynara!
*
Epigramma
Sono un idolatra e ho implorato
con gravi suppliche, con preghiere a unghiate
l’immagine plasmata dai miei sogni
– il suo collo di cigno, i suoi scuri capelli –
ma gli dèi non tollerano culti stranieri: hanno
mutato in marmo il mio idolo, in pietra il suo cuore.
*
Notti in grigio
Vagammo, a tratti, attratti dal sogno,
lungo i sabbiosi greti del Nessundove –
papaveri sbocciano nella sabbia:
li abbiamo colti per gettarli
con noncuranza nel fiume segugio
mentre, mano nella mano, sotto
stelle indigene, vedevamo ogni cosa
su strade inaudite, sotto l’aura dell’ombra.
Poi le stelle si spensero e i papaveri
ci parvero rari – e i tuoi occhi, che erano
tutta la mia luce, si oscurarono: perché
nessuno sospetti che i giorni perduti
ancora mi perseguitano, li ho gettati nel nulla.
*
Crescere
Vidi la gloria della sua infanzia
mutare a mezzadria del dolore:
la bambina che conoscevo, amata
al tempo dei gigli, diventò una donna
enigmatica, dagli occhi chiari – occhi cari
ma diversi da quelli di allora.
Infine, nell’anima maculata di inquietudini
l’antico bene dell’amata infanzia
ritornò, in nuova foggia: adorai
la gloria della sua femminilità
ritrovando l’antica grazia in quegli occhi
abissali, educati al gesto gentile.
*
Spleen
Insonne, di deserto pianto
sonnambuli i ricordi
vidi il fiume farsi lebbra
perdere la pelle fino a sera
fino a sera vidi la pioggia
passeggiare sulle finestre
nessun dolore: mi sfianca
ciò che desidero
le sue labbra, gli occhi
sono l’ombra di un’ombra
finché mangiare il suo cuore
fu l’opera del nulla
pensai di poter piangere
ma i ricordi non mi danno tregua.
*
Vitae summa brevis spem nos vetat incohare longam
Non durano a lungo il pianto e la gioia
l’amore, il desiderio e l’ira:
una volta varcata la soglia
non faranno più parte di noi.
Non durano a lungo i giorni del vino
e delle rose, nebbie fugaci:
il nostro sentiero si scorge a mala pena
per svanire in un sogno.
*
Ruderi
Il fuoco si è spento, non scalda più
(così svanisce ogni umano canto).
Il bronzeo vino è finito, resta il sedimento
amaro come l’assenzio, salace come il dolore.
Il bene e la speranza, insieme all’amore,
sono ora nel tetro teatro delle cose perdute.
Gli spettri non ci danno tregua: questa
era un’amante, quella, forse, un’amica.
Con occhi bianchi, indifesi, sediamo, aspettiamo
che cali il sipario, che il cancello si chiuda:
così svanisce il rudere di ogni umano canto.
*
A una ragazza che fa sciocche domande
Perché ti chiedo scusa, Cloe? Perché la luna
è lontana e io sono costretto a questo angusto astro.
Perché il tuo viso è bello? E se non lo fosse?
Il viso più bello è quello che non ho mai visto.
Perché la terra è fredda e per quanto lo desideri
non trovo una nave che mi porti nella terra di nessuno?
Perché le tue labbra sono rosse e il tuo petto fa vergognare
le nevi? Dove sono diretto non esistono né rosso né neve.
Perché le tue labbra impallidiscono e il tuo petto crolla?
Vedo dove soffia il vento, Cloe, e non devo chiederti scusa.
*
Altrove
Le conseguenze dell’amore!
Credo sia ora, dobbiamo separarci
e razziare il più triste di tutti i raccolti
le conseguenze dell’amore.
Ieri eri dolce, poi cominciò il pianto
una piantagione che non puoi più arginare
ecco la nostra vigna! Baci che raggelano
il cuore, gelide labbra, sguardi in contorsione:
no, non possiamo separarci, eppure
muti, mietiamo ciò che abbiamo seminato,
le conseguenze dell’amore.
*
Impenitentia Ultima
Prima che la luce si spenga per sempre, non vorrei che Dio
mi conceda altri giorni, né che le cose risorgano nel ristagno;
così grido: “Un solo giorno tra i grandi perduti giorni, un solo
volto tra tutti i volti, ti chiedo di farmi vedere prima del nulla
perché, o Dio, sciolto dai Tuoi fiori ho scelto le tristi
rose del mondo: per questo ho i piedi laceri e gli occhi acini accecati
dal sudore, ma al Tuo terribile tribunale, quando questa vuota vita
si concluderà, salderò il mio debito, raccoglierà ciò che ho seminato.
Eppure, una volta che la sabbia è scorsa e il filo d’argento
spezzato, ti prego, concedimi una grazia, concedimi
un’ora tra tutte le ore, un’ora soltanto, e fammi vedere
pari a un sigillo, i suoi occhi sgargianti che piangono”.
Le sue mani mi acquietino, i suoi capelli mi crocefiggano
lontano dall’abisso della notte, fuori dalla porzione della paura,
che i suoi occhi siano la mia guida mentre il sole si spegne
che la sua voce sia l’estremo bocciolo nel cavo delle orecchie.
Prima che le acque trabocchino rovinose, che la vita sia vinta
e che la Tua ira mi fucili come un bimbo che recide un fiore
ti loderò, Signore, dagli Inferi, con le membra dilaniate
per l’ultima visione del suo viso, la breve grazia di un’ora, la garza.
L'articolo “Sono un idolatra. Vagammo, attratti dal sogno”. Ernest Dowson, il
poeta che fu leggenda (e che ha ispirato i Cure) proviene da Pangea.
Nel 1904, per “La Nuova Rassegna” di Firenze, Ettore Allodoli scrive un ispirato
profilo di Thomas Chatterton. Con l’acribia del critico, Allodoli tenta di
scindere il mito dall’uomo, la leggenda dall’opera. Impresa, per lo più,
vana. Thomas Chatterton, il poeta morto per scelta neppure diciottenne, aveva
finito per incarnare l’idolo del genio ribelle alle coercizioni della società,
l’artista incompreso, umiliato. Era una specie di Werther, rinnovava i caratteri
del puer virgiliano – parola che redime i mondi –, è stato il ragazzino giunto a
sconvolgere la scena lirica del proprio tempo, dominata da poeti ipocriti, da
piumati, spumeggianti lacchè.
Icona triste, notturna, già totalmente ‘romantica’, dalla giovinezza
lunare, Thomas Chatterton rischiò di essere il Rimbaud della poesia inglese – la
morte fu per lui una sorta di infernale Harar. Non ci riuscì perché l’epoca –
per usare una formula di Antonin Artaud – aveva scelto di suicidarlo. Così, il
giovane Allodoli – aveva poco più di vent’anni: amico di Giovanni Papini, sarà
Accademico d’Italia, critico infaticabile e biografo, tra i tanti, di
Michelangelo, Savonarola e Giovanni dalle Bande Nere – riporta il ragazzo al suo
vero, pionieristico ruolo: il precursore di Keats, Shelley e Byron, nei toni
poetici e nella postura del vivere (dissennata: per eccesso di vitalismo come
d’intimismo). Ce lo descrive “ambizioso e orgoglioso” fino alla mania –
“l’orgoglio gli ottenebrò la mente e lo fece sviare nei suoi ragionamenti e
nelle sue riflessioni” –, grave di “generosa baldanza” e “indipendenza di idee”.
Anche il critico, tuttavia, non può non impuntarsi nel mito, dalle oscurità
elisabettiane:
> “ritiratosi dalla vita brillante presso un fabbricante di manifatture in
> Brookstreet nelle vicinanze di Londra, visse alquanto in silenzio finché un
> giorno, dopo avere orgogliosamente rifiutato un pranzo che il padrone di casa
> gli offriva, la fame, le delusioni e la disperazione lo costrinsero ad
> uccidersi. Quasi nessuno parlò della sua morte e il suo corpo fu sepolto nella
> fossa comune”.
Alla dissipazione del corpo seguì la resurrezione del corpus: ci si accorse –
troppo tardi – di essere al cospetto di un talento selvatico, dall’opera
esondante, un Niagara, capace di passare, con aggressivo agio, dal poema
cavalleresco alla scena ‘da camera’, dall’idillio alla satira, violenta. Non so
se la solitudine ricercata, la sovrabbondante ira, la frustrazione abbiano
favorito o stravolto l’opera di Chatterton: ancora oggi egli è l’autentico
rivoluzionario della poesia inglese, ignifugo alle mode critiche e alle
stagionali rivalutazioni. Se William Blake, per dire – per effetto, è ovvio, di
una agghiacciante singolarità – è diventato un idolo, Chatterton resta nel volgo
dei vampiri, a ruminare tra le ombre: per sempre insoddisfatto, non ci dà pace,
ci dà di morso.
Luigi Berti – tra i rari che abbiano tentato di tradurre Chatterton nella nostra
lingua – credette di trovarsi al cospetto di un genio ingenuo, di un rebus, in
fondo (“Chatterton ci ha lasciato due volumi di versi e certi critici vi hanno
veduto anche un’evasione immaginativa di rara potenza, altri ancora uno stato
morboso che lo spingeva a crearsi un mondo d’immagini e di musica in cui la
morte era regina”, in: I preromantici inglesi, Guanda, 1964); scrisse che se
fosse vissuto di più, chissà, “sarebbe stato tra i più forti poeti preromantici
e forse anche tra i maggiori del suo tempo”. Al tempo di Allodoli – che costella
il suo saggio di qualche traduzione, qua e là –, i ragazzi mandavano a memoria
le poesie di Chatterton rimpinguandosi della sua leggenda: il poeta incompreso,
il poeta ribelle, l’uomo che ha scelto di vivere poeticamente, fino alla
tragedia. La frase con cui Allodoli chiude il saggio – “pensando al diciottenne
poeta, noi ci sentiamo turbati come dinanzi a qualcosa di straordinario” –
dichiara il destro di una poetica: il poeta è sempre fuori dall’ordinario, non
si lascia intimidire dalle norme stantie della storia dell’arte; il poeta è il
perturbante.
Henry Wallis, The Death of Chatterton, 1856
Fresca, d’altronde, era l’impressione di Chatterton, l’opera lirica di
Leoncavallo andata in scena al Teatro Drammatico Nazionale di Roma nel marzo del
1896. Il libretto era tratto dalla drammaturgia del 1835 di Alfred de Vigny, tra
le sue più grandi. L’introduzione dello scrittore – Dernière nuit de travail –,
di fatto, fa di Chatterton un monito e un mito ‘universale’.
> “La mia causa è il perpetuo martirio del poeta, la sua perpetua immolazione –
> La mia causa: il diritto che egli viva – La mia causa: il pane che non gli
> diamo – La mia causa: la morte che è costretto a darsi”.
A De Vigny non importava l’opera di Chatterton, poeta solare pur nella sua
disperazione, ma l’epopea del “criminale davanti a Dio e davanti agli uomini,
dacché il suicidio è un crimine religioso e sociale”. Ne fa il sovrano
dell’angoscia, il prototipo del suicidato dalla società – “Quando un uomo muore
in questo modo possiamo parlare di suicidio? È la società che lo ha gettato
negli inferi” –, l’erma di un sopruso che tutto mette in discussione:
> “Il Poeta era tutto per me; Chatterton non era che un nome; ho deliberatamente
> messo da parte gli esatti fatti della sua vita per prelevare da quel destino
> ciò che lo rendeva un esempio per sempre deplorevole di una nobile miseria. I
> tuoi compatrioti ti dissero bimbo meraviglioso! Giusto o meno che fosse, eri
> infelice; ne sono certo, e mi basta. Anima desolata, povera anima diciottenne!
> Perdonami se ho preso come un simbolo il nome che hai portato su questa terra,
> e in tuo nome aver tentato il bene”.
Il cadavere di Chatterton, pari a un burattino, si prestò a essere manovrato da
molti, travestito dai tanti. Il suicidio tramutò l’esistenza di un irregolare in
quella di un reietto dell’assoluto. Caso singolare in cui una vita, malridotta,
ha vampirizzato l’opera.
In realtà, scevra dalla gigantografia leggendaria, la burrascosa esistenza di
Thomas Chatterton si muove attorno ad alcuni, miliari, elementi. Nato a Bristol
il 20 novembre del 1752 – quasi un secolo dopo, il 20 ottobre del 1854, nasce,
pure lui in provincia, quell’altro “ragazzo meraviglia”, Arthur Rimbaud: nella
genuflessione del genetliaco, lievemente obliquo, c’è anche la sostanziale
differenza di statura lirica, ma non di carisma – Chatterton subisce, da subito,
lo stigma della perdita. Il padre, che si chiamava come il figlio – biblica
surplace, la saggezza del sangue – muore pochi mesi prima della sua nascita, in
agosto: musico mediocre, poeta per dire, per diletto praticava l’occultismo.
Thomas cresce con la madre, insegnante di cucito e di ‘ornato’: di suo, acuisce
un’indole alla solitudine, alla lettura disordinata. Da bambino, faticava ad
apprendere l’alfabeto, lo consideravano alla stregua di un idiota. La scuola –
frequentata a Bristol – lo infastidisce, come, in generale, le gerarchie
dell’ordine costituito e i fatui giochi dei suoi compagni. Mitizza, invece, i
meandri della chiesa di St Mary Redcliffe, in cui è sagrestano lo zio, per
tradizione legata al lignaggio dei Chatterton. Orfano di padre, Thomas
Chatterton trova una parentela tra affini nei cavalieri medioevali, nei vescovi
capaci nell’elargire le pene e nello sguainare la spada. Ama insinuarsi in un
altro modo: predilige l’epoca della Guerra delle Rose e quella di Enrico VIII,
s’inventa un XV secolo a suo uso, comincia a scovare vecchie pergamene negli
archivi di famiglia e in quelli della parrocchia, balocca con la lingua. La sua
precocità è inquietante: a otto anni l’idiota si rivela un lettore formidabile;
a undici si ritiene poeta compiuto. È l’era in cui vanno di moda i ‘notturni’ e
l’esotismo di un Medioevo ricostruito in vitro, con sapienza letteraria:
spopolano i canti di Ossian di James Macpherson – stampati dagli anni settanta
del Settecento, in Italia hanno un traduttore d’elezione in Melchiorre Cesarotti
– e le Reliques Of Ancient English Poetry di Thomas Percy; la caccia al
manoscritto perduto è lo sport più in voga tra i letterati del tempo.
All’accademismo, Thomas Chatterton preferisce l’energumena genuinità
dell’ispirazione; l’invenzione di Thomas Rowley, immaginario monaco vissuto nel
XV secolo, nei dintorni di Bristol, è la testimonianza di un talento senza
freni.
Abile nella mistificazione, nell’arte di produrre poemi in un middle english di
propria foggia, sagace nel gioco dei labirinti verbali, Thomas Chatterton
comincia a vendere i testi di Rowley, suo medioevale alter ego, come li avesse
tratti da un manoscritto fortunosamente ritrovato. Per un po’, nessuno sa
sbugiardarlo e il falso gli rende – ancora nel 1778, il poeta ‘laureato’ Thomas
Warton inserisce i poemi di Rowley nella sua History of English Poetry, tra John
Gower e Geoffrey Chaucer. Per contrasto, la stoffa di Chatterton – portata
all’esuberanza come all’esuberante depressione – non sopportava le falsità del
proprio tempo.
Talento burrascoso e inarginabile, il ragazzo sbarca, sedicenne, a Londra, certo
di poter sopravvivere del proprio talento. Le poesie gli rendono poco; in genere
– privo di appoggi e di sostanze – una specie di sovrumana indifferenza gli fa
da aura. Sono, in ogni caso, anni di prodigiosa scrittura: Chatterton tocca
tutti gli angoli della sensibilità lirica – dalla satira allo ieratico poema
medioevale, dall’imitazione alla poesia d’amore, dall’invettiva all’improvviso,
dalla pièce teatrale al ‘pezzo’ cosmico –, è famelico di fama. A differenza dei
poeti del suo tempo, vive ciò che scrive, incarna il proprio verbo, crede alla
parola con fanciullesca ingenuità – è questo, in lui, a spaventare, ad atterrire
chi lo incrocia, riconoscendo, nello spavaldo ragazzo, il marchio feroce del
prescelto. Il rapporto con Horace Walpole è emblematico. Chatterton inviò
all’autore del Castello di Otranto– che, nella finzione narrativa, è presentato
come un manoscritto stampato a Napoli nel XVI secolo – una silloge di testi di
Rowley. Walpole, dapprincipio, ne è entusiasta e propone una pubblicazione di
quei testi; poi, scoperto l’inganno, si nega a Chatterton, rifiutando di
restituirgli le poesie. Sembra – per sinistre preveggenze – la sorte subita dal
manoscritto dei Canti Orfici di Dino Campana, perduti, per incuranza, da Ardengo
Soffici. Sembra, cioè, che nelle retrovie di una grande opera ci sia sempre uno
smarrimento, un’irriconoscenza – foss’anche dell’autore, incapace di ‘fare i
conti’ con il proprio talento, di metterlo a profitto –, una perdita.
Per un carattere scheggiato come quello di Chatterton, la sconfitta è
irricevibile, irredimibile. Per un po’, il ragazzo tenta di conquistare il
Sindaco di Londra, William Beckford, che distrattamente lo stima; poi cerca di
concupire qualche possibile mecenate. I testi più languidi lasciano spazio alle
poesie corrosive; benché pubblichi, qua e là, sui giornali dell’epoca, il poeta,
letteralmente, fa la fame. Poco prima di morire, chiede a un amico, chirurgo, di
farlo assumere come suo assistente su un cargo che viaggia verso l’Africa –
anche in questo caso, la prossimità con le scelte di Rimbaud sfiora la vita
apocrifa.
Gli ultimi giorni della vita di Thomas Chatterton sono pura immersione
nell’amnio di una notte oscura del cuore. Nel cimitero della chiesa di St
Pancras, annebbiato dai pensieri, il poeta cade in un sepolcro vuoto, in attesa
della tomba; ne esce indenne, tra gli stornelli dell’amico che lo accompagna,
“Ho visto risorgere un genio”. La risposta di Chatterton ha il crisma della
nottola: “Da tempo, ormai, sono in combutta con le tombe”. Morì il 24 agosto del
1770, neppure diciottenne, nella scarna soffitta in cui abitava, in Brook
Street. Inghiottì arsenico, fece a pezzi i pochi quaderni che aveva con sé.
La sua morte passò praticamente inavvertita dai letterati dell’epoca; il suo
corpo fu gettato in una fosse comune, nel cimitero annesso alla parrocchia di St
Andrew a Holborn, presso la Shoe Lane Workhouse. Alcuni credono che lo zio abbia
disseppellito e recuperato il corpo di Chatterton, insediandolo nell’amata
chiesa di St Mary Redcliffe, dove un cenotafio ne fa memoria. Pochi giorni dopo
la sua morte, un certo Thomas Fry approdò a Londra con l’intento di scoprire chi
fosse l’autore – o lo scopritore – delle poesie ascritte a Thomas Rowley: voleva
fargli da mecenate.
Non si contano gli omaggi lirici e biografici destinati a Chatterton. Uno dei
più riusciti, tra i recenti, è il romanzo storico di Peter Ackroyd, Chatterton:
finalista al Booker Prize nel 1987, fu tradotto in Italia due anni dopo, nel
1989, come Il ragazzo meraviglioso (Chatterton). In copertina, come è ovvio,
spicca The Death of Chatterton, capolavoro del pittore preraffaellita Henry
Wallis. Il ragazzo, di cerea, incredula bellezza, apollinea, è sdraiato sul
letto, morto; ha i capelli rossa e al suo fianco, in un forziere, semiaperto, i
fogli con le sue poesie, a pezzi – quasi che le mani potessero imitare un rogo.
Il ragazzo ha i pantaloni blu; la finestra, spalancata sulla quinta londinese;
una pianta, umile, eroica, sul davanzale, insegna – chissà – che la morte
feconda la vita. Per il quadro, compiuto nel 1856 e che moltiplicò la fama
postuma di Chatterton, aveva posato un giovane George Meredith, l’autore
de L’egoista. Nella cerchia dei Preraffaelliti, Thomas Chatterton figurava come
uno degli eroi; Dante Gabriel Rossetti lo omaggiò con un sonetto dall’attacco
esagerato: “con la virilità di Shakespeare nel cuore selvaggio di un
ragazzo”. Fu William Wordsworth, tuttavia, molto tempo prima, a coniare per
Thomas Chatterton un’indelebile definizione: the marvellous Boy. La poesia
– Resolution and Independence, 1807 – parla di quell’“anima insonne che perì del
proprio orgoglio” e lega, in un dittico efficace, il poeta della gioia
(gladness) con quello della mania (madness), il sole e la sua eclissi, la luce e
la sua irredimibile ombra.
Da qui, è pressoché impossibile inseguire lo spettro di Chatterton nell’opera
dei più potenti poeti inglesi di ogni tempo. Coleridge scrive una Monody of the
Death of Chatterton che lo accompagna per tutta la vita: la prima versione è del
1790, nell’ultima, del 1834, il poeta della Ballata del vecchio marinaio si
rivolge al Poor Chatterton, “Il tuo destino mi riempie di dolore/ chi avrebbe
potuto amarti prima della fine?… ho gettato una corona di oscuri fiori/ sulla
tua tomba informe”. John Keats dedica Endymion “alla memoria di Thomas
Chatterton”; intorno al suo “triste destino” aveva già scritto un sonetto – To
Chatterton, appunto – di azzurra tenerezza: “La tua gemma per il gelo è
crollata./ Ma questo è il passato: ora sei tra le stelle/ nei più alti cieli,
alle sfere canti/ soavi inni, nulla ti turba/ dell’ingrato mondo, delle umane
paure”. Keats associava Chatterton “all’autunno”, lo riteneva “il più puro
scrittore in Lingua Inglese” (così a John Hamilton Reynolds, 21 settembre 1819).
In risposta, Percy Bysshe Shelley cita “la solenne agonia” di Chatterton
in Adonais, “An Elegy on the Death of John Keats”. Entrambi, introdotti alla
vita lirica dall’astro di Chatterton, morirono troppo giovani: la fatalità, al
calor bianco, pare insinuare una poetica.
La poesia ‘in memoria’ di Thomas Chatterton – sorta di amuleto per accedere
nell’empireo dei poeti – divenne un genere, una sorta di formula teurgica. Lo
praticò, tra i tanti, anche da Dylan Thomas, legato a Chatterton dal duro
lignaggio dei pionieri del verbo. O Chatterton, poesia del 1938, ha modi da musa
ubriaca: “O Chatterton e altri su in soffitta/ Congiunti in uno stesso lume a
gas/ A usare lysoformio per narcotico;/ Bevete alle tette della terra;/ Bevuta
liscia la vita/ È un veleno migliore che in bottiglia/ Nella saliva fermenta un
veleno migliore/ Di quello che uno caverebbe/ Dalle budella d’un serpente” (la
traduzione è di Ariodante Marianni). Serge Gainsbourg, invece, cantò la morte
di Chatterton nel 1967: “Chatterton suicida/ Annibale suicida/ Demostene
suicida/ Nietzsche/ in delirio/ Quanto a me/ non va poi meglio”.
Ogni letteratura ha bisogno, per trovare nuova nascita, nuova foggia
linguistica, di un capro espiatorio, di un agnello sacrificale. Il ragazzo di
belle speranze che s’incaglia nella sfortuna. Il pioniere che si perde nel
deserto, a un passo dalla terra promessa, appena intuita – la cui novità risiede
nell’annuncio, spericolato, incomprensibile. Thomas Chatterton è stato
l’agnus della poesia inglese moderna. È stato sconfitto, è vero – ma questa
sconfitta, ora, ci sovrasta.
*Si pubblica, in parte, l’introduzione al volume: Thomas Chatterton, “Nell’aura
del fulmine. Poesie scelte”, Feltrinelli, 2025, a cura di Davide Brullo
In copertina: Nicola Samorì, Arco della sete, 2020
L'articolo “Turbati, come dinanzi a qualcosa di straordinario”. Storia & versi
di Thomas Chatterton, il poeta maledetto proviene da Pangea.
Lawrence Durrell porterà sempre con sé l’impronta luminosa di un’infanzia
mitica, vissuta tra le valli immense ai piedi dell’Himalaya. Una nostalgia
scitica – fatta di cieli purissimi, del lampo negli occhi di una tigre, del
passo ieratico di uno yak – non lo abbandonò mai: forse il desiderio, mai
appagato, di ritrovare altrove quella prima, segreta armonia.
La sua esistenza, come la sua scrittura, fu tutta votata al nomadismo:
dall’India all’Inghilterra, dalla Grecia all’Africa, dal Sud America alla
Francia. Poeta, romanziere, spirito inquieto e cosmopolita, amico fraterno di
Henry Miller e di Giorgos Seferis, Durrell riposa oggi in un cimitero silenzioso
della Provenza.
Ma fu un luogo in particolare – oltre a Cipro, amata e dolorosa – a marchiare a
fuoco la sua immaginazione: Alessandria d’Egitto. Da quella città molteplice,
mitica e carnale, scaturì uno dei cicli romanzeschi più affascinanti del
Novecento, il “Quartetto di Alessandria”, vertigine di tempo, memoria e
desiderio.
*
Il libro si apre in un altro luogo del cuore di Lawrence Durrell: un’isola delle
Cicladi, che in realtà è Cipro, dove il poeta acquistò una casa e visse per anni
immerso nella vita della comunità locale, imparando anche la lingua greca. È tra
l’ocra delle case e della sabbia egiziana e l’azzurro profondo del Mediterraneo
che si dispiega lo sguardo interiore di Durrell. Nella solitudine assorta
dell’isola greca, la memoria delle vicende vissute ad Alessandria poco più di un
decennio prima riaffiora lenta, seguendo il ritmo delle onde che lambiscono il
bianco calce dei porticcioli.
A separarlo dalla città egiziana sono appena cento chilometri di mare – eppure
l’anima si tende come un ponte invisibile tra i due mondi: un cortile greco
ombreggiato da ulivi, il sorriso obliquo di una donna cipriota, un cielo che
esplode d’azzurro di giorno e si vela, la notte, di una costellazione di stelle
cerulee.
*
Il khamsin è un vento che nasce dalle profondità del Sahara. Soffia impetuoso
lungo tutta la fascia orientale del Nordafrica, investendo anche Alessandria
d’Egitto, che ne subisce la furia nei giorni sospesi della primavera. Irrompe
come presagio nella terza parte di Justine, primo movimento del “Quartetto di
Alessandria”. La città si ritrae sotto una coltre ocra di sabbia e silenzio. Le
imposte si chiudono in fretta; dietro le feritoie, occhi in allerta scrutano la
polvere che avanza. La luce si vela di bagliori apocalittici, il cielo si tinge
di una minacciosa oscurità. Le feluche ondeggiano lente, consapevoli del
pericolo imminente; a bordo, le ciurme si muovono come spettri d’acqua, presenze
furtive tra le ombre del porto.
Con la stessa violenza del khamsin, l’appello dei sensi e il desiderio di
piacere si abbattono sugli abitanti della città, trafiggendoli come una scarica
elettrica che li lascia storditi, spossati, annientati. I corpi, come le case,
restano inermi sotto la furia degli elementi, tra le rovine visibili e
invisibili che l’eros e il vento seminano nella polvere.
*
Alessandria, Alessandria! Quale altra città scegliere, che già non porti nel
nome come il presagio di un destino? In quale altro luogo, sulla terra, la
scomparsa delle meraviglie antiche diventa meravigliosa metafora del rovinoso
incedere del tempo? È qui che palpita una splendida e drammatica galleria di
personaggi – Justine, Nessim, Melissa, Darley – che attraversa tutto il libro e
continuerà poi a illuminare, in un raffinatissimo gioco di specchi e punti di
vista, le altre opere del Quartetto: Balthazar, Mountolive, Clea.
*
Nessim, ricco possidente egiziano e marito di Justine, dissimula, dietro una
cordiale esposizione pubblica, il disordinato viluppo dei suoi pensieri verso la
moglie. Ne seguiamo la parabola interiore, che lo conduce dapprima a
un’immaginazione venata di follia, dove i fantasmi della gelosia sfilano insieme
all’ossessione del sospetto. Dopo la partenza di Justine, la sua presunta
convalescenza non è che una maschera fragile: sotto di essa si spalanca un vuoto
silenzioso, irreparabile.
Melissa, la compagna del narratore, figlia dei bassifondi della città e
ballerina di cabaret, non priva di una sua grazia che leviga gli angoli di
un’aderenza tutta terrestre alla corporeità. Un candore di innocenza, unito alla
frequentazione del vizio per pura necessità e non per inclinazione, la rendono
quasi una martire. È forse l’unica figura del romanzo capace di com-passione, in
grado di intuire il tumulto che si dispiega nel cuore di Nessim. Con la morte di
Melissa – l’unica per cui l’amore non richiede gli eccessi dell’intelletto, ma
solo la purezza della natura – si spegne anche la speranza di una compiuta
dimensione sentimentale proiettata nel futuro.
Justine, la donna che dà il titolo al romanzo, è ispirata a Eve, che Durrell
conobbe proprio durante la sua parentesi in Egitto. Ebrea colta e aristocratica,
Justine sembra uscire da un libro surrealista. Simile a Nadja nel suo inesausto
peregrinare, con il suo enigmatico lampeggiamento interiore smentisce ogni
principio di causalità. Convivono in lei la Musa e la santa, la martire e la
cortigiana, l’amante e l’accanita fedifraga. Regna in Justine una fatale
impossibilità alla fedeltà, come se concedersi ai suoi pretendenti fortificasse
dentro di lei l’immagine del vero amato, rinchiuso come in una stiva
sballottolata dalla tempesta a largo. Donna aracnide, tesse una tela dove a
turno restano invischiati Arnauti – che su di lei scrive delle feroci
memorie, Moeurs –, Nessim, Darley, ma anche Clea, misteriosa pittrice che vive
in completa solitudine. Persone, storie, libri, lacrime e orgasmi conducono come
un vortice rapinoso, un ago magnetico, verso la loro sorgente creatrice e
disgregatrice. L’improvviso congedo di Justine sarà il nodo di scioglimento dei
personaggi che le gravitano attorno, ma anche dalla Palestina, dove si è
trasferita a vivere in un kibbutz, l’eco della sua memoria continua a risuonare
in Egitto. Divinità ferina metà ellenistica e metà egizia, Justine assurge a
simbolo di Alessandria.
Infine c’è Darley, alter-ego di Durrell e narratore del romanzo. Anche lui cade
vittima del fascino ipnotico di Justine e dell’atmosfera mollemente sensuale di
Alessandria, dove le persone sembrano pedine su una scacchiera manovrata da una
continua e sfrenata gratificazione della sensorialità. Svuotato da una ricerca
tanto effimera quanto estenuante, Darley sembra orientarsi infine verso il
tentativo di trovare un legame di sincera amicizia, capace di mettere in
comunicazione il cuore autentico di due individui. Ma la sua fuga verso l’isola
greca suona come una silenziosa resa: la conoscenza e lo schiudersi reciproco
delle anime paiono destinati allo scacco. Forse, solo la bambina che Darley
porta con sé accende un barlume di speranza: una promessa muta, rivolta a un
futuro che, almeno in potenza, si riappacifica con la parte migliore dell’uomo.
Dove si situano l’arte, la letteratura, all’interno di questa cornice? Può uno
scrittore, che ha fibra di poeta, trovare una scia luminosa nel tumulto dei
gesti e della memoria? Forse non si manca di molto il bersaglio affermando che
il tema principale del libro sia la trasfigurazione della realtà attraverso il
prisma dell’arte. Solamente sul piano della creazione letteraria, sembra dirci
Durrell, i confini della vita e dell’arte si allargano smisuratamente:
> “La ricompensa del lavoro che si compie con il cervello e con il cuore sta in
> questo – che solo lì, nei silenzi del pittore o dello scrittore, la realtà può
> ricevere un ordine nuovo, essere rielaborata e costretta a mostrare il suo
> senso. Le nostre azioni quotidiane nella realtà sono semplicemente il
> materiale grezzo che nasconde il filo aureo – il senso della composizione. Per
> noi artisti è lì che il compromesso gioioso dell’arte con tutto quello che ci
> ha ferito o sconfitto nel vivere quotidiano ci attende; in modo tale da non
> eludere il destino, come vorrebbero le persone comuni, ma per compierlo nella
> sua potenzialità reale – l’immaginario”.
Ma anche il groviglio di vicende e sentimenti è destinato a disfarsi sotto
l’opera sottile del tempo: i ricordi lentamente trascolorano, i volti si fanno
evanescenti. Solo Alessandria rimane, e nella memoria si erge come il suo Faro
perduto, sentinella immobile tra i flutti del mondo e quelli, più segreti, di
Mnemosine.
*
Alessandria, oh Alessandria! Città del mito, della storia che si fa archetipo,
patria del sogno e di un tempo disperso, quando i sensi guidavano cuore, mente e
mani; un tempo ormai sfocato all’orizzonte della vita, che solo il fulgore
dell’arte può riportare alla luce, in un lampo di miracolo. L’Alessandria del
passato si confonde con quella del presente: città subliminale, frontiera dello
spirito, atteggiamento unico e irripetibile nei confronti del vissuto. Ne è
cantore meraviglioso e insuperabile Kavafis, che alla città egizia ha dedicato
tanta parte della sua opera. Numerosi sono, nel romanzo, i rimandi – diretti e
sotterranei – a Kavafis: poeta della nostra Itaca interiore, della promessa
racchiusa nei porti fenici, di uno sguardo ionico innestato a una sensualità
asiatica; padre di un linguaggio che, come miele colato da un vaso attico,
scende nei cuori di chi ama la Poesia.
Il libro di Durrell è anche un omaggio straordinario – forse tra i più vibranti
mai tributati – al poeta greco:
> “L’equilibrio squisito tra ironia e tenerezza l’avrebbe fatto includere tra i
> santi, fosse stato religioso. Ma per volere divino era soltanto un poeta e
> spesso infelice, anche se con lui avevi l’impressione di essere con qualcuno
> capace di afferrare al volo ogni istante del tempo e di capovolgerlo per
> mostrarne l’aspetto felice. Consumò veramente sé stesso, il suo io interiore,
> vivendo. La maggior parte della gente si adagia e lascia che la vita giochi
> con loro, fermi sotto la vita come sotto i tiepidi scrosci d’una doccia. Alla
> proposizione cartesiana «Penso, dunque sono» contrapponeva la sua, che forse
> doveva suonare pressappoco così: «Immagino, dunque ho radici e sono libero»”.
Alessandria, presagio di un’epoca in cui estetica e creazione coincidevano;
nostalgia di un’armonia esplosa poi in mille frammenti. Solo di questi
frammenti, e di schegge di desiderio, possono accontentarsi i protagonisti
di Justine. Darley, il narratore, è come Rembrandt: ritrattista letterario della
carne e dei suoi fremiti. Città-labirinto nella quale si resta intrappolati,
alla quale si offre la propria interiorità senza riceverne nulla in cambio,
Alessandria è avvolta insieme dalla luce del meriggio e dall’ombra del
crepuscolo.
È possibile allora – parafrasando ancora Kavafis – andare per altre terre, per
altri mari, verso una più città più bella anche dei sogni?
La risposta, indimenticabile e luminosa, arriva dalle ultime righe di Clea, il
romanzo che chiude il Quartetto:
> “Sì, un giorno mi sorpresi a scrivere con mano tremante le quattro parole
> (quattro lettere! quattro volti!) sulle quali ogni narratore dall’inizio del
> mondo ha puntato il suo debole diritto all’attenzione dei suoi simili. Parole
> che presagiscono semplicemente la vecchia storia di un artista divenuto
> maggiorenne. Scrissi: C’era una volta…
>
> E mi parve che l’universo intero m’avesse fatto un cenno d’intesa!”
Lorenzo Giacinto
*In copertina: Anouk Aimée è stata “Justine” nell’omonimo film di George Cukor
del 1969, tratto dal romanzo di Lawrence Durrell
L'articolo “Immagino, dunque sono libero”. Lawrence Durrell o dell’ascetismo
della mente proviene da Pangea.
Nel 1952, per la Harvill Press, Roy Campbell, l’esagitato poeta di Durban,
Sudafrica, pubblica Poems of Baudelaire, la propria versione di Les Fleurs du
Mal. Il poeta – ascendenze scozzesi, studi distratti a Oxford, abile nella
caccia, “bellissimo, enorme, ingenuo, docile, selvaggio”, l’avrebbe detto, anni
dopo, Evelyn Waugh – compiva cinquantuno anni; sarebbe morto poco dopo,
nell’aprile del 1957, di schianto, in un incidente d’auto, nei pressi di
Setúbal, Portogallo, dove si era trasferito da tempo con la famiglia. Le sue
spoglie riposano a Sintra, nel cimitero di São Pedro, di fronte
all’oceanico: oceanica, in effetti, e senza ancoraggi, è l’opera di questo poeta
che fonde la facondia visionaria di Blake agli oratori irti di piume, lance e
danze degli Zulu, di cui si sentiva confratello.
Nella breve introduzione al ‘suo’ Baudelaire, Roy Campbell – con il solito tasso
di alcolica sbruffonaggine – si tesse l’agiografia:
> “Dopo l’intrepido successo delle mie versioni di Giovanni della Croce, ho
> deciso di tradurre un peccatore senza scrupoli, non meno credente, tuttavia,
> anche nei momenti di ribellione assoluta e di assoluta blasfemia, di quel
> Santo. Leggo Baudelaire da quando ho quindici anni, è stato nella mia bisaccia
> durante due guerre, l’ho amato più di qualsiasi altro poeta. Ho tradotto
> Giovanni della Croce perché mi ha salvato miracolosamente la vita, a Toledo.
> Traduco Baudelaire perché ha vissuto la mia stessa vita: i peccati, i rimorsi,
> gli ostracismi, la povertà, la stessa disperata speranza di una
> riconciliazione…”.
Secondo George Steiner, Roy Campbell, insieme a Ezra Pound, è il più folgorante
poeta-traduttore in lingua inglese del Novecento. Insieme a Ezra Pound, è anche
il poeta più ostracizzato, malmenato, minato di fraintesi. Thomas S. Eliot – il
più arguto lettore di Baudelaire di quella generazione – amava, con rispettoso
turbamento, Roy Campbell: nel 1930 gli aveva pubblicato, per la Faber &
Faber, Adamastor; nel 1946 fu la volta di Talking Bronco.
La prima delle due guerre menzionate da Campbell nell’intro al Baudelaire è la
guerra civile spagnola. Cattolico fervente, avventuriero imperiale, Roy Campbell
è l’unico tra gli intellettuali anglofoni a parteggiare per Franco: cerca di
arruolasti tra i Carlisti; di fatto, non prenderà parte attiva al conflitto. Nel
luglio del 1936, a Toledo, aveva assistito al massacro: le truppe comuniste
predano e uccidono diciassette monaci del Carmelo dov’era ospite il poeta, con
la moglie. Campbell riuscì a salvarsi, salvando dalla razzia alcuni codici di
Giovanni della Croce lì conservati. I Poems of St John of the Cross vengono
tradotti e pubblicati da Campbell nel 1951; piacquero molto a Jorge Luis Borges,
che cominciò ad apprezzare “quel grande poeta scozzese, incidentalmente
sudafricano”.
Durante la Seconda guerra, il ‘fascista’ Roy Campbell – ben più antifascista di
molti, tiepidi intellettuali ‘di sinistra’ – fu arruolato nell’Intelligence
Corps; poi inviato a Nairobi, incluso tra i King’s African Rifles. Un incidente
in moto lo mise fuori ruolo: passò l’ultima parte della guerra sulla costa
kenyota, in operazioni atte a smontare l’azione dei sommergibili nemici. A
Londra, durante il “Blitz”, conobbe Dylan Thomas: diventarono fraterni compagni
di colossali bevute. Ogni tanto, si univa agli ‘Inklings’: a Tolkien – che era
nato in Sudafrica come lui – stava simpatico quel poeta sopra le righe, dal
talento smodato, che da ragazzo sfotteva gli snob del Bloomsbury e ora faceva a
cazzotti contro tutti; C.S. Lewis, simpaticamente, malsopportava l’ego del
“poeta e soldato”. Nel 1949, durante un incontro pubblico, Campbell si scaglierà
contro Stephen Spender, che rappresentava, ai suoi occhi, il côté tipico degli
intellettuali della sinistra anglofona: pallidi, pavidi reggenti della poesia
contemporanea, assertori di un patetico nepotismo. Gli spaccò il naso. Spender –
comunque, un cavaliere – si rifiutò di denunciarlo: “è un grande poeta e i
grandi poeti devono essere capiti”. È vero: Flowering Rifle, “a poem from the
battlefield of Spain”, uscito nel 1939, grandguignolesco poema sulla guerra
civile spagnola, è ascrivibile, più che altro, a un documento letterario
‘dell’altra parte’ – letterariamente, è goffo, tonitruante, malrassettato. Più
che altro, garantì a Roy Campbell un pervicace ostracismo. Quanto a lui –
gioviale, ingenuo, sempre in cerca di battaglie – percorreva la provocazione.
Strenuo oppositore del sistema fratricida dell’apartheid, nel ’53 ricevette una
laura in onore dalla University of Natal. Denunciò il “suprematismo bianco” del
primo ministro sudafricano, D.F. Malan; nello stesso tempo, diede dello “zombie
ridacchiante” a Franklin Delano Roosevelt, reo di aver mollato a Stalin l’Europa
orientale. Churchill gli pareva un pachiderma.
Intrattabile, inarginabile Campbell: nel 1924 aveva esordito, per Jonathan Cape,
con The Flaming Terrapin, imponente poemetto dal genio ‘aggressivo’, fuori
classifica rispetto ai libri dell’epoca, al contempo, inno sciamanico, iliade
africana, leviatano lirico. In Italia, cominciamo a colmare la lacuna soltanto
ora: l’ultimo numero della rivista “Poesia” (n.31, maggio/giugno 2025, Crocetti
Editore) dedica la copertina a Roy Campbell, “Il poeta guerriero”, pubblicando
una porzione di The Flaming Terrapin tradotta da Andrea Temporelli (il poema
sarà edito, prossimamente, dalle edizioni Magog).
Nel 1952 – a testimonianza della mente multiforme del poeta – Campbell pubblica
un poderoso omaggio a Federico García Lorca, An Appreciation, With Selected
Translations of His Poetry. Campbell idolatrava il poeta repubblicano, vilmente
fucilato e oltraggiato dai nazionalisti nel ’36. Alcuni dicono che le sue
versioni di García Lorca siano tra le più belle uscite nel mondo inglese. Sul
“New York Times”, il 21 dicembre del ’52, Dudley Fitts firmò una partecipe
recensione:
> “Pare che Roy Campbell sia nato per scrivere questo piccolo, esplosivo
> libello. Egli stesso possiede quelle qualità ‘romantiche’ che rintraccia in
> Federico García Lorca – avventatezza e galanteria, un maquillage andaluso di
> cruda vita e misticismo, il genio della poesia, soprattutto –: difficilmente
> potremmo immaginare coincidenza più felice tra un autore e il suo soggetto”.
Già: l’erculeo Roy Campbell, autore di una lirica tra le più vertiginose e
inavvicinabili del secolo, possedeva un’energumena generosità. Lo hanno dipinto
come un Ciclope – per la cecità politica, per la cieca ira –, era un uomo buono,
un cavaliere medioevale. Sognava di essere un Centauro: lo fu – all’incirca.
**
Da Charles Baudelaire
Corrispondenze
La natura è un tempio, ogni pilastro
getta, a tratti, vaghi sussurri. L’Uomo avanza
nella foresta dei simboli, strani e solenni,
che lo mirano con sguardi familiari.
Dilaga l’eco, si mescola e trasfonde
finché nel profondo oscuro unisono si confonde
vasto come la notte, come la cupola del mezzogiorno –
così si embricano profumi, suoni, colori.
Profumi freschi come il vello dei bimbi
come i violini, dolci come i verdi tumidi prati.
Ricchi, complessi, trionfanti, altri rotolano
insieme alla vasta gamma delle infinite non rifinite
cose: ambra, muschio, incenso, resine, ciascuno
canta il trasporto dei sensi e dell’anima.
*
Il nemico
Fu tempesta oscura, selvaggia, il mio giovane
giaculìo: vi sfrecciava un sole abbagliante.
Tuono e pioggia hanno devastato tutto
il mio giardino è avaro di rosati frutti.
Ora è l’autunno della mente
e vanga e rastrello raspano la terra
per salvare frantumi dei miei campi
allagati, dove l’acqua insudicia una tomba.
Chissà se i fiori prefigurati dai miei sogni
troveranno, su questa dilavata terra, per una malizia
almeno, il nutrimento mistico che li farà germogliare.
Il tempo divora la nostra vita, è brutale!
L’oscuro nemico rode le radici del cuore
e cresce sempre più forte sulla nostra chioma.
*
Sopra il ritratto di Tasso in prigione di Delacroix
Il poeta è malato e mezzo nudo:
calpesta un manoscritto nell’oscura cella
e fissa con terrore la scala dove
il suo spirito, infine, crollerà.
Risate inebrianti sbracano quell’aia
lo invitano allo Strano e all’Assurdo.
Intorno a lui, sguainate le orribili figure
del Dubbio e del Terrore, le multiformi.
Questo genio recluso in sotterranei pestilenziali
queste grida, il ghignare di spettri che si contorcono
che si accalcano intorno a lui, beffardi,
questo sognatore destato dalle urla del proprio incubo
è il tuo emblema, Anima sorta dalla nebbia.
Attorno a te la Realtà erige il suo muro e la sua museruola.
*
Da Federico García Lorca
Vasto fantasma d’argento, il vento di mezzanotte
spira e spalanca la mia ferita antica
con la sua grigia mano: se ne andò
e svenni, preda di un triste desiderio.
Questa ferita mi darà la vita: da essa
germoglierà la luce, il sangue che senza
tema sgorga – uno spiraglio dove l’usignolo,
muto, troverà un bosco, un nido e un addio.
Oh, che dolce litania fa tintinnare la mente!
Sul fiore più modesto deporrò il mio dolore
dove fluttua, senz’anima, l’orgoglio della tua beltà.
Allora, il fiume mercenario si tingerà
di rosso, mentre il mio sangue scende
lungo le fragranti selve, nell’aura della rugiada.
*
Adamo
Presso l’albero del sangue, il mattino stilla
rugiada e il neonato urla.
La sua voce mette un vetro nella ferita
e cosparge le finestre con diagrammi di ossa.
Il giorno ha raggiunto a luce costante
i limiti della favola: evadi
dal tumulto del sangue e vola
verso la mela, verso la sua fioca ombra.
Adamo, con quella febbre d’argilla,
sogna che il bimbo galoppa verso di lui –
raddoppia il puledro sangue nelle sue guance.
Ma un altro oscuro Adamo sogna: anela
una luna di pietra, neutra, dove nulla germoglia
dove il figlio della gloria sarà bruciato.
*In copertina: Augustus John, The Poet: Roy Campbell, ca. 1925, Carnegie Museums
of Art, Pittsburgh
L'articolo “Un invito all’Assurdo”. Roy Campbell, poeta guerriero proviene da
Pangea.
«Era molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte.
Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per
liquefarsi», così scrive Virginia Woolf in una lettera a Vita Sackville-West, il
7 ottobre 1928, e continua:
> «Il mio invece si strugge alla luce del gas, e sono solo le nove e devo andare
> a letto alle undici. Così non dirò niente, non una parola del balsamo che eri
> per la mia angoscia […] Come ti guardavo! Come mi sentivo – già, come
> descriverlo? Bè, da qualche parte ho visto una pallina che continuava a
> saltare su e giù sul getto di una fontana: tu sei la fontana, io la pallina. È
> una sensazione che mi dai solo tu».
Un secolo fa, Vita e Virginia si facevano immagine d’un amore unico: la pallina
che salta su e giù, sospinta dal mobile getto della fontana, esprime
un’attrazione irresistibile. Quella pallina, metafora del piacere che volteggia
sull’acqua, ci fa volare, come l’epistolario che ne deriva, tra i grandi
canzonieri d’amore del Novecento. Un carteggio di oltre cinquecento lettere,
scambiate dal primo incontro (1922) e fino alla morte di Virginia
(1941), antologizzate in Italia nel testo tradotto da Nadia Fusini e Sara De
Simone: Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena
Munafò.
Virginia e Vita si scrivono continuamente, per quasi vent’anni; si scrivono per
darsi un appuntamento, per scusarsi o rimproverarsi, ma soprattutto per capirsi,
essere vicine, una accanto all’altra, attraverso le parole, i soprannomi, le
metafore, i silenzi intermittenti in cui esplode la mancanza. Qui è Vita ad
urlare con passione:
> «Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te
> una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta
> sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano.
> Tu con tutte le tue lettere intelligenti, non scriveresti mai una frase così
> elementare […] mi manchi più di quanto potessi credere […] questa lettera è
> solo un grido di dolore. È incredibile quanto tu sia diventata essenziale per
> me. Immagino che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere dalle
> persone. […] Non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi fino a
> questo punto – ma tesoro mio, non posso essere furba e distaccata con te: ti
> amo troppo per farlo» (21 gennaio 1926).
Se Virginia nuota nelle acque dell’intelletto, in quel convento che è Monk’s
House, dove condivide un’austera intimità con Leonard, in un patto reciproco di
rispetto e solidarietà, Vita naviga nella vita a vele spiegate, è sgargiante nei
colori e nel temperamento, posseduta dal demone erotico. È moglie di un
ambasciatore, Harold Nicolson, lo segue nei suoi viaggi, con disinvoltura
organizza ricevimenti. Ed è anche madre. Detto altrimenti: è una donna reale,
vera, concreta, mentre Virginia è una creatura fantastica, che vive nei suoi
sogni e nei suoi scritti.
Virginia rappresenta per Vita l’ignoto: non ha mai incontrato una simile
bellezza spirituale, eterea, fragile, dolcissima, le mani affusolate e la mente
luminosa, trasparente, di cristallo. Una bambina, malgrado abbia dieci anni più
di lei (quando si incontrano, Vita costeggia la trentina, Virginia la
quarantina). Virginia scrive divinamente, vuole innovare il romanzo, lavora
nella sua casa editrice, la Hogarth Press, litiga con la mitologica Nelly, la
cameriera. La sua personalità, così ricca e geniale, affascina Vita e la turba
al contempo. In Virginia tutto è pallido e virgineo. Vita capisce che va
trattata con riguardo e, soprattutto, con riguardo materno, quello che Virginia
ha sempre cercato e che ora, con Vita, tocca fino alle stelle. Quella sarà la
chiave sublime del loro legame d’amore, di cui le lettere sono una preziosa
testimonianza.
L’abbraccio materno e virile con cui Vita la stringe a sé, fa volare Virginia,
libera la sua mente (non a caso, dopo il loro incontro, nasceranno i suoi
capolavori: Al faro, Orlando, Le onde), scioglie il suo corpo.
Quando incontra Vita, Virginia conosce per la prima volta nella sua vita la vera
passione e, dopo una certa resistenza – come scrive Quentin Bell, suo nipote e
biografo – se ne lascia attraversare, con meraviglia e gratitudine. Dal canto
suo, Vita tenta di contenere il fervore carnale, il marmo di cui è fatta la sua
sostanza, potremmo dire, temendo di spezzare il cristallo della donna che ama.
Le due si incontrano nella loro terra di mezzo, dove permangono, insieme, fino
alla morte di Virginia, in un amore eterno e poetico, un legame che, nelle
complessità della vita, si è fatto parola, lettera, letteratura.
Anche quando la relazione fisica finirà, non morirà il loro amore, eternizzato
nelle lettere e nelle pagine di Orlando, lo straordinario romanzo che Virginia
dedica a Vita, trasformandola in un personaggio immortale (che nasce maschio nel
Cinquecento e diventa femmina nel Settecento), trasportando l’esperienza dei
loro sentimenti in un’interrogazione profonda eppure ironica, sul senso ultimo
dell’amore. Quando Vita lo lesse, comprese che nessuno l’aveva mai posseduta,
cioè colta, così a fondo, nella sua più intima verità: «Tesoro, sono così
sopraffatta che non ho idea di come tu abbia potuto […] mettere una veste così
splendida su una stampella così modesta» le scrisse l’11 ottobre 1928.
Mentre cadono le bombe della Seconda guerra, dalle loro rispettive residenze di
campagna, Vita e Virginia si scrivono, si sostengono a vicenda, la loro candela
non si spegne: «Che dire – se non che ti amo e vivrò questa strana calma serata
pensando a te che sei lì da sola […] Mi hai dato tanta felicità» scrive Virginia
il 30 agosto 1940, e Vita risponde il primo settembre:
> «Tesoro, quanto mi ha commossa la tua lettera stamattina. Mi è quasi caduta
> una lacrima dentro l’uovo in camicia. Le tue rare dimostrazioni d’affetto
> hanno sempre avuto il potere di emozionarmi moltissimo e – siccome suppongo
> che in questi giorni siamo tutti un po’ tesi […] – oggi mi arrivano in
> picchiata, dritte al cuore, come un proiettile che sbatte sul tetto. Ti amo
> anch’io. Lo sai».
Dalle ultime lettere emerge in filigrana una certa nostalgia, il bisogno
continuo di ricordare e sottolineare quanto sia importante il filo che le lega,
come se sentissero la morsa del tempo che incalza sulle loro vite… «mi
sento sempre in contatto con Vita. […] non riuscirai mai a disfarti di me – mai.
Neppure per un secondo mi sono sentita meno legata a te» scrive Virginia il 12
marzo 1940. «Su che piolo sto, sulla tua scala?» le aveva chiesto tempo addietro
e la risposta di Vita non aveva lasciato spazio ad alcun dubbio: «Adorata
Virginia, sei su un piolo molto alto – sempre – (25 agosto 1939).
Vogliamo ricordarle così: in cima alla scala del loro amore, su quel piolo molto
alto, mano nella mano, verso quella luce che ancora oggi le fa risplendere – e
ci riscalda.
Marilena Garis
L'articolo “Il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi”. Virginia
& Vita, o dell’amore assoluto proviene da Pangea.