Tag - letteratura inglese

“Il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi”. Virginia & Vita, o dell’amore assoluto
«Era molto bella la lettera che hai scritto alla luce delle stelle a mezzanotte. Scrivi sempre a quell’ora, perché il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi», così scrive Virginia Woolf in una lettera a Vita Sackville-West, il 7 ottobre 1928, e continua:  > «Il mio invece si strugge alla luce del gas, e sono solo le nove e devo andare > a letto alle undici. Così non dirò niente, non una parola del balsamo che eri > per la mia angoscia […] Come ti guardavo! Come mi sentivo – già, come > descriverlo? Bè, da qualche parte ho visto una pallina che continuava a > saltare su e giù sul getto di una fontana: tu sei la fontana, io la pallina. È > una sensazione che mi dai solo tu».  Un secolo fa, Vita e Virginia si facevano immagine d’un amore unico: la pallina che salta su e giù, sospinta dal mobile getto della fontana, esprime un’attrazione irresistibile. Quella pallina, metafora del piacere che volteggia sull’acqua, ci fa volare, come l’epistolario che ne deriva, tra i grandi canzonieri d’amore del Novecento. Un carteggio di oltre cinquecento lettere, scambiate dal primo incontro (1922) e fino alla morte di Virginia (1941), antologizzate in Italia nel testo tradotto da Nadia Fusini e Sara De Simone: Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a cura di Elena Munafò. Virginia e Vita si scrivono continuamente, per quasi vent’anni; si scrivono per darsi un appuntamento, per scusarsi o rimproverarsi, ma soprattutto per capirsi, essere vicine, una accanto all’altra, attraverso le parole, i soprannomi, le metafore, i silenzi intermittenti in cui esplode la mancanza. Qui è Vita ad urlare con passione:  > «Sono ridotta a una cosa che desidera Virginia. Stanotte avevo composto per te > una lettera bellissima, nelle ore insonni, piene di incubi, ma è tutta > sparita: mi manchi e basta, in un modo piuttosto semplice, disperato, umano. > Tu con tutte le tue lettere intelligenti, non scriveresti mai una frase così > elementare […] mi manchi più di quanto potessi credere […] questa lettera è > solo un grido di dolore. È incredibile quanto tu sia diventata essenziale per > me. Immagino che tu sia abituata a sentirti dire cose del genere dalle > persone. […] Non riuscirò a farmi amare di più da te, scoprendomi fino a > questo punto – ma tesoro mio, non posso essere furba e distaccata con te: ti > amo troppo per farlo» (21 gennaio 1926). Se Virginia nuota nelle acque dell’intelletto, in quel convento che è Monk’s House, dove condivide un’austera intimità con Leonard, in un patto reciproco di rispetto e solidarietà, Vita naviga nella vita a vele spiegate, è sgargiante nei colori e nel temperamento, posseduta dal demone erotico. È moglie di un ambasciatore, Harold Nicolson, lo segue nei suoi viaggi, con disinvoltura organizza ricevimenti. Ed è anche madre. Detto altrimenti: è una donna reale, vera, concreta, mentre Virginia è una creatura fantastica, che vive nei suoi sogni e nei suoi scritti. Virginia rappresenta per Vita l’ignoto: non ha mai incontrato una simile bellezza spirituale, eterea, fragile, dolcissima, le mani affusolate e la mente luminosa, trasparente, di cristallo. Una bambina, malgrado abbia dieci anni più di lei (quando si incontrano, Vita costeggia la trentina, Virginia la quarantina). Virginia scrive divinamente, vuole innovare il romanzo, lavora nella sua casa editrice, la Hogarth Press, litiga con la mitologica Nelly, la cameriera. La sua personalità, così ricca e geniale, affascina Vita e la turba al contempo. In Virginia tutto è pallido e virgineo. Vita capisce che va trattata con riguardo e, soprattutto, con riguardo materno, quello che Virginia ha sempre cercato e che ora, con Vita, tocca fino alle stelle. Quella sarà la chiave sublime del loro legame d’amore, di cui le lettere sono una preziosa testimonianza.  L’abbraccio materno e virile con cui Vita la stringe a sé, fa volare Virginia, libera la sua mente (non a caso, dopo il loro incontro, nasceranno i suoi capolavori: Al faro, Orlando, Le onde), scioglie il suo corpo.  Quando incontra Vita, Virginia conosce per la prima volta nella sua vita la vera passione e, dopo una certa resistenza – come scrive Quentin Bell, suo nipote e biografo – se ne lascia attraversare, con meraviglia e gratitudine. Dal canto suo, Vita tenta di contenere il fervore carnale, il marmo di cui è fatta la sua sostanza, potremmo dire, temendo di spezzare il cristallo della donna che ama. Le due si incontrano nella loro terra di mezzo, dove permangono, insieme, fino alla morte di Virginia, in un amore eterno e poetico, un legame che, nelle complessità della vita, si è fatto parola, lettera, letteratura. Anche quando la relazione fisica finirà, non morirà il loro amore, eternizzato nelle lettere e nelle pagine di Orlando, lo straordinario romanzo che Virginia dedica a Vita, trasformandola in un personaggio immortale (che nasce maschio nel Cinquecento e diventa femmina nel Settecento), trasportando l’esperienza dei loro sentimenti in un’interrogazione profonda eppure ironica, sul senso ultimo dell’amore. Quando Vita lo lesse, comprese che nessuno l’aveva mai posseduta, cioè colta, così a fondo, nella sua più intima verità: «Tesoro, sono così sopraffatta che non ho idea di come tu abbia potuto […] mettere una veste così splendida su una stampella così modesta» le scrisse l’11 ottobre 1928. Mentre cadono le bombe della Seconda guerra, dalle loro rispettive residenze di campagna, Vita e Virginia si scrivono, si sostengono a vicenda, la loro candela non si spegne: «Che dire – se non che ti amo e vivrò questa strana calma serata pensando a te che sei lì da sola […] Mi hai dato tanta felicità» scrive Virginia il 30 agosto 1940, e Vita risponde il primo settembre:  > «Tesoro, quanto mi ha commossa la tua lettera stamattina. Mi è quasi caduta > una lacrima dentro l’uovo in camicia. Le tue rare dimostrazioni d’affetto > hanno sempre avuto il potere di emozionarmi moltissimo e – siccome suppongo > che in questi giorni siamo tutti un po’ tesi […] – oggi mi arrivano in > picchiata, dritte al cuore, come un proiettile che sbatte sul tetto. Ti amo > anch’io. Lo sai». Dalle ultime lettere emerge in filigrana una certa nostalgia, il bisogno continuo di ricordare e sottolineare quanto sia importante il filo che le lega, come se sentissero la morsa del tempo che incalza sulle loro vite… «mi sento sempre in contatto con Vita. […] non riuscirai mai a disfarti di me – mai. Neppure per un secondo mi sono sentita meno legata a te» scrive Virginia il 12 marzo 1940. «Su che piolo sto, sulla tua scala?» le aveva chiesto tempo addietro e la risposta di Vita non aveva lasciato spazio ad alcun dubbio: «Adorata Virginia, sei su un piolo molto alto – sempre – (25 agosto 1939).  Vogliamo ricordarle così: in cima alla scala del loro amore, su quel piolo molto alto, mano nella mano, verso quella luce che ancora oggi le fa risplendere – e ci riscalda. Marilena Garis L'articolo “Il tuo cuore ha bisogno del chiaro di luna per liquefarsi”. Virginia & Vita, o dell’amore assoluto proviene da Pangea.
March 26, 2025 / Pangea
“Sei nero inferno, sei la notte oscura”. Shakespeare: cinque sonetti alla dark lady
Non è un caso che gli ultimi due testi del canzoniere scespiriano, i sonetti gemelli 153 e 154, siano dedicati a Cupido, variando un motivo tratto da un epigramma di un poeta bizantino incluso nell’Antologia greca. “L’epigramma narra di come Cupido si fosse addormentato e di come le ninfe avessero deciso di spegnere in una pozza d’acqua la sua torcia infuocata (la più antica “arma” di Cupido, con cui egli accende d’amore i cuori degli uomini, prima che gli venissero attribuiti arco e frecce), ottenendo però il risultato di infuocare per sempre quelle acque” (Camilla Caporicci). “La ninfa di Diana approfittò / tuffando la sua torcia infiammacuori/ in una fredda fonte nella valle,/ così dal sacro fuoco l’acqua attinse/ un eterno calore inesauribile,/ che fu bagno bollente e che si dice/ sia la sovrana cura a malattie” (153).  Nel mito, dunque, uno spirito femminile è inviato dalla dea Diana a cercare un rimedio alle fiamme accese dal dio scugnizzo e tenta di trasformare il fuoco che brucia in acqua che plachi: “e così il Generale di passioni/ fu disarmato in sonno da una donna./ Spense la torcia in una fredda fonte/ che divenne calore con quel fuoco,/ bagno termale e cura per malati” (154). Questo racconta il mito, ci dice Will, ma aggiunge che si tratta di un falso, di un estremo inganno, che lui ha esperito sulla propria pelle: “Dolente, cercai aiuto in quella fonte/ ma, triste, non ne ebbi cura alcuna”: a quel punto del canzoniere l’unica cura sono, come da tradizione cortese e petrarchista, “gli occhi della donna” (153). Pubblicati nel 1609 molto probabilmente senza il consenso dell’autore, i Sonetti di William Shakespeare hanno come si sa due dedicatari: un giovane di grande bellezza, il fair youth, e una misteriosa (o)scura donna, la dark lady. Il corpus principale del canzoniere ci offre la celebrazione della giovinezza, poi il doloroso scarto tra bellezza e virtù, e da qui i tormenti del cuore, la gelosia per altre/i amanti del giovane narcisista, quindi la disperazione per l’impietoso avanzare dell’orologio e l’appressarsi della morte, ma anche la sfida tra Will e la propria Musa e la più mondana rivalità con gli scrittori suoi contemporanei. Lo scacco esistenziale è però compensato dall’assoluta certezza di aver consegnato l’amato fair youthall’eternità, grazie all’arte poetica.  Quando poi dal sonetto 127 fa la sua entrata in scena la dark lady, c’è un deciso definitivo cambio di registro: le atmosfere si intorbidano, la lingua s’infiamma, il lirismo estatico del corpus principale viene sommerso da una materia infuocata, pietra lavica composta di lussuria, sfide, minacce, maledizioni. Se poi l’innamoramento omosessuale per il fair youth era di natura ideale, l’amore di carne e seme per la donna pare richiedere a Will una prova di forza tale che le sue forze vitali ne risultano vinte, conquistate: “Ma se m’hai quasi ucciso, tuttavia, / finiscimi di sguardi e così sia” (139). Arresosi alla sua padrona e tiranna, conclude il magnifico canzoniere con una dolente consapevolezza, che è anche un supremo inno all’amore: tra Cupido e Diana non c’è partita, il vincitore è il bimbo capriccioso per le cui ferite non c’è fonte d’acqua né bagno termale, né mai potrà esistere cura alcuna. E, citando il Cantico dei Cantici, si congeda così: “Ma io, schiavo di lei, ci andai e vi dico:/ fuoco d’amore all’acqua dà calore,/ invece l’acqua non raffredda amore” (154). (Massimiliano Palmese) ** 129 È uno spreco di linfa, è una vergogna  quando in corpo s’accende la lussuria. È spergiura e colpevole, è sanguigna, è selvaggia e bugiarda quando infuria. Non appena appagata è disprezzata. È rincorsa in maniera animalesca poi pazzamente odiata, come l’esca  che rende pazzo chi l’abbia ingoiata. Pazzo sia nel possesso che al bisogno. Prima, durante e dopo è sempre estrema:  buona la prima volta, poi gran pena.  Promette gioia, sì, ma è solo un sogno.    E tutto il mondo sa, e non sa evitare     un cielo che all’inferno può portare. * 137 Tu cieco pazzo amore, che sai fare all’occhio mio che guarda ma non vede!  Sa la bellezza, sa dove risiede,  però confonde il bene con il male. Se occhio sviato da affrettati sguardi  s’àncora nella sua baia affollata,  perché, ingannati gli occhi, fai altri ganci per raggirare un’anima assennata? Penserà che sia pascolo privato un terreno che sa che è aperto al mondo?  O dai miei occhi ciò sarà negato per dare aspetto onesto a un viso immondo?      Il cuore e gli occhi hanno sbagliato via,     precipitando in questa malattia. * 139 Non mi chiedere di scusare i danni che la tua crudeltà infligge al mio cuore:  non con gli occhi, feriscimi a parole,  usa forza con forza, e non inganni. Dimmi che hai amori altrove ma di giorno,  cuore caro, non ti guardare intorno: perché ingannarmi quando puoi più offesa  di quanto può l’esausta mia difesa? Ma io ti scuso: “L’amor mio lo sa  che i suoi sguardi mi furono fatali,  e dal mio viso li distoglierà, perché lancino ad altri i propri strali”.    Ma se m’hai quasi ucciso, tuttavia,     finiscimi di sguardi e così sia. * 147 Il mio amore è una febbre, cerca sempre ciò che più a lungo ne alimenti il male,  nutrendosi di quel che lo conserva per appagare una morbosa fame. La ragione, che dell’amore è medico,  furiosa per ricette che non sèguito, m’ha lasciato e ora scopro disperato  che desiderio è morte, e era vietato.  Sono incurabile, la mente è a un bivio,  pazzo furioso e sempre più in delirio. Dei pazzi ho sia i discorsi che i pensieri,  tutti sconnessi, vani e poi non veri.    Ti pensai bella e ti ho giurato pura:     sei nero inferno, sei la notte oscura. * 149 Dici, crudele, che Will non ti ama  se contro me sto sempre dalla tua? Dici che non ti penso, mia sovrana, quando per gioia tua scordo la mia?  Chi ti odia forse prendo per mio amico? Lodo qualcuno di cui ti lamenti? E se con me t’imbronci, io poi non grido  vendetta su me stesso tra i tormenti?  Quale merito vuoi mai che mi tocchi da scordare che sono qui a servirti, se tutto in me ancora ama i tuoi vizi  a comando di un cenno dei tuoi occhi?     Odiami, amore, ora che ho imparato:    vuoi chi ti ammiri, e io sono accecato. Traduzione di Massimiliano Palmese *I testi sono tratti da: William Shakespeare, Sonetti, trad. it. di Massimilliano Palmese, Marcos y Marcos, 2025 *In copertina: John Henry Fuseli: Self-portrait (1790), Victoria and Albert Museum, London L'articolo “Sei nero inferno, sei la notte oscura”. Shakespeare: cinque sonetti alla dark lady proviene da Pangea.
March 21, 2025 / Pangea
“Mi nutro del nettare della vita”. Rupert Brooke e il genio della giovinezza
Rugby, dicembre 1905. Nella cappella della scuola locale, due ragazzi si scrutano da lontano, in ginocchio sui banchi in posizione di preghiera. Gli occhi, trepidi, seguono il luccichio delle candele, al ritmo dei salmi e degli inni. Dalle ombre basse delle navate, sguardi di attesa e stupore si incrociano per un istante, poi fuggono al primo brivido, tornando in orbita come magneti. I loro nomi, da adulti, sarebbero diventati leggenda, ricordati come assoluti protagonisti del mondo della cultura di inizio Novecento: erano Rupert Brooke e Michael Sadleir. Da un lato, l’Adone anglosassone immortalato da Leonard Woolf, e non solo “il ragazzo più bello d’Inghilterra” – a detta di W. B. Yeats – ma anche lo scrittore georgiano annoverato fra i più amati war poets; dall’altro, un’autorità nella storia della critica vittoriana, magnifico esperto di Trollope e appassionato bibliofilo. Della fama nazionale del primo testimonia, com’è noto, la lapide in ardesia posta nel Poets’ Corner a Westminster; del compagno (distintosi per aggiunta di una lettera dal padre Michael Sadler, eminente educatore) vanno quantomeno citati i romanzi di successo Fanny by Gaslight (1940) e Forlorn Sunset (1947), ambientati nei bassifondi della capitale, oltre alla sterminata collezione di volumi ottocenteschi raccolti nella sua biblioteca, ancora un punto di riferimento negli studi vittoriani.  Rupert Brooke fotografato da George Augustus Dean Jr, Rugby, 1905 Studenti nella scuola privata della cittadina del Warwickshire, nota dalla metà del secolo precedente come il “tempio della mente e del corpo” di Thomas Arnold e campo di formazione tout court dei più dotati figli dell’Impero, Brooke e Sadler divennero ben presto amici affiatati, formando un branco inseparabile insieme ad altri Rugbeians: Hugh Russell- Smith e Geoffrey Keynes (fratello dell’economista Maynard). Le loro attività preferite comprendevano cricket, riunioni di gruppo e letture raffinate. Il legame più intimo che univa Rupert e Michael era nato nei primi giorni del 1906 e sin dall’inizio lasciò trasparire un’amicizia esclusiva. Tutto cominciò quando Sadler chiese al fotografo G. A. Dean di acquistare uno scatto dello studente più attraente di School Field stampato sull’annuario scolastico qualche mese prima. Messo a conoscenza degli eventi dallo stesso Dean, la star della scuola – atleta provetto e precoce talento letterario già insignito di premi e riconoscimenti – esibì un’ansiosa curiosità verso la faccenda, sentendosi al centro di un piccolo scandalo privato. Si trattenne comunque dall’esternare la sorpresa per non sollevare commenti inopportuni, guardando con sospetto le mosse dell’ammiratore segreto, venuto timidamente allo scoperto, e interrogandosi sulle sue reali intenzioni.  Il resoconto dell’accaduto è in una lettera all’amico Keynes, dove Brooke tratteggia una sognante descrizione del giovane: > “Un tipo dall’aspetto di un dio greco, il volto di Giacinto, la bocca di > Antinoo, occhi come il tramonto, un sorriso d’aurora… Sadler. Sembra che il > folle mi adori a una pallida distanza.” Da quel momento in poi gli incontri si fecero sempre più frequenti, nettamente più calorosi dei sorrisi furtivi scambiati in fugaci incontri per strada e in cappella, durati appena il tempo di un’affannosa corsa sui campi da gioco. Appartenendo a due Case distinte, nell’ambiente serrato dal ritmo delle lezioni, era infatti molto difficile – o quasi raro – interagire con studenti distanti dalla propria divisione, se non durante le attività sportive, in occasione degli eventi ufficiali e nelle ore di ricreazione. In ogni momento erano tenuti sotto il controllo dei tutori, dietro l’occhio vigile degli insegnanti e dei prefetti, anche in una posizione privilegiata come quella di Brooke, figlio del maestro a capo della sua stessa Casa d’appartenenza.  Da parte sua, lo studente modello chiese a Sadler di ricambiarlo con una fotografia, ottenuta senza troppe remore, seguitando l’azzardo osato dal più coraggioso. Durante il loro ultimo anno a Rugby, i due compagni presero dunque contatti più stretti e coltivarono un affettuoso scambio epistolare che raggiunse intensi toni malinconici e candide venature romantiche. Sempre a Keynes, Rupert attestava la paura che una simile intesa potesse finire come ogni altra cosa bella e insieme rimpiangeva la gioia avvertita nell’istante al tempo rubato: > “Un giorno forse saremo vecchi e saggi, e dimenticheremo. Ma adesso siamo > giovani e lui è bellissimo. Ed è primavera. Anche se fosse soltanto una > commedia romantica, una fantasia, che importa? La Giovinezza è più strana > della fantasia… Al momento lui – l’adorabile, cinto di rose – è a Roma, mentre > io ricevo pallide e tenere lettere ogniqualvolta gli Dèi o le poste italiane > lo permettono.” L’adorazione aveva ormai superato il limite di pruderie concesso all’epoca in qualsiasi legame tra coetanei maschi, con eccessi di tormento giovanile per la distanza lancinante capace di sprofondarlo nell’abisso della solitudine, a tratti colmato dall’esaltazione estatica provata in presenza dell’amico del cuore. Ricusava, d’altro canto, i segni di un rapporto impossibile, negato nella sua stessa essenza, spinto al confine dell’idillio romantico e mai veramente compreso fino in fondo: un groviglio di emozioni contrastanti, assecondate fuori ogni logica al risveglio dei sensi liberamente tesi sulla corda dell’amicizia. Michael Sadleir (Oxford, 1888 – Londra, 1957) Da fervido alunno di Rugby, Rupert Brooke non era estraneo ai clichés scolastici e alle esperienze di molti conterranei del suo status. Per l’abitudine contratta dalla vita di gruppo all’insegna dello spirito di camaraderie, la segregazione nella fratria della scuola a frequenza esclusivamente maschile e il bisogno d’affetto che ad essa si accompagnava sul piano individuale, il mondo delle public schools inglesi ospitava e alimentava una forte componente di tendenza omoerotica, in cui pure influiva l’allontanamento dall’altro sesso durante un delicato momento della crescita. Numerose sono infatti le testimonianze di intimi rapporti tra giovani convittori, designati per la loro estensione nazionale come «amicizie romantiche degli inglesi» – secondo il satirico Evelyn Waugh (Brideshead Revisited, 1945) – e simili a quelle «amicizie particolari» osannate come le più perfette da Roger Peyrefitte in terra francese. Immerse nel sogno di giovinezza dimentico dell’idea di un futuro ben diverso, in larga misura fondamentalmente etero-normato, alcune amicizie maschili potevano perlomeno assolvere altri ruoli possibili nella richiesta di calore e di un tenero riparo dal mondo esterno, proveniente dal legame fraterno con un ami de tout o offerto dal migliore bosom friend, ed essere quindi “permesse”, talvolta finanche incoraggiate, purché – s’intende – non durassero troppo a lungo. Va da sé che alcune di queste venivano percepite come primordi di vere e proprie relazioni sentimentali, quindi osteggiate, finite in preda alla sanzione del pervicace stigma morale, oggetto di punizioni corporali, espulsioni per scandali messi immediatamente a tacere, o addirittura concluse in tragedia come estrema conseguenza di complici patti suicidi orditi dai rispettivi sodali. Un sottomondo omosociale naturalmente esisteva dietro le porte strette delle aule e dentro le barricate claustrali di quegli antichi collegi – chiamati in inglese boarding schools – in maniera analoga, seppure più rigidamente consolidata, rispetto agli istituti sparsi sul continente. Nascondendosi nelle cucce dei dormitori e nelle cosiddette “camerate”, l’oltraggio alla regola era da aspettarsi sia tra gli allievi che tra i membri del corpo insegnante, e il più delle volte da violenti contatti forzati tra i due fronti. Dichiarati punitori della corruzione del corpo e dell’animo infantile, fra gli attenti tutori non mancavano casti custodi della lezione dei classici ed eletti continuatori dell’arte paideutica, in mezzo ai quali si celavano rapaci “pederasti” trafilati nel dominio dell’amore greco – ossia «l’indicibile vizio dei greci» aggirato da E. M. Forster in Maurice (1914 – pubbl. 1971) e condannato ancora a crimine contro natura nell’Inghilterra edoardiana – che nel mondo chiuso della scuola ravvivava l’antica fiamma in nome dell’immacolato amore per i ragazzi. Della sotterranea etica omoerotica alla base dell’educazione standard dei giovani inglesi, non sempre amorevole e lieta, Brooke era di fatto consapevole, pur dipingendo la scuola come il suo personale Olimpo: > “Finalmente ho capito dove sono finiti gli Dèi greci al giorno d’oggi. Si > possono trovare nelle scuole private. Li vedo di continuo, immersi nel sole a > primavera, velatamente camuffati, dai lombi morbidi e gli occhi vivi, mentre > corrono sull’erba, giovani e belli. L’Olimpo è qui e ora. Mi nutro del nettare > della vita, dalle mani di Ganimede, e in mezzo ai miei giovani Dèi ignari > adesso ti scrivo estasiato.” Avrebbe invece parodiato senza soggezione il vorticoso regime scolastico, avvertendo in esso qualcosa di paradossale: un silenzio gravido di colpe che racchiudeva rischi nefasti ammessi dai suoi stessi giudici obiettori. Preoccupato di ricoprire, anni dopo, il posto di sostituto del padre appena deceduto e così ripiombare nella vecchia scuola, questa volta in veste di insegnante (quando fu perfino obbligato a fustigare un ragazzino colpevole, finendo lui stesso in lacrime), riporterà in tono ironico e beffardo a James Strachey, il confidente di sempre ed ex compagno di studi nella scuola preparatoria di Hillbrow: “Questo mi renderà un bravo maestro di prep-school? Mi farà tornare forse all’antica e ortodossa pratica della pederastia?” Convinto della sua purezza di cuore, per preservare le sue emozioni dall’ingiusto bollo di indecenza, il poeta in erba aveva scelto per il suo amico adorato l’appellativo di “Antinoo”. Entrato in possesso di una stampa dell’antico prototipo, conservava la fotografia della sua reincarnazione, lontano da occhi indiscreti, all’interno del suo armadio. Per trasfigurare il compagno in panni greci, come solo si poteva nello spazio immortale della lirica, proprio a Sadler dedicò un inno votato al tragico bitinio, dopo aver letto tutto d’un fiato e in segreto la struggente epistola De Profundis di Oscar Wilde, fra le opere degli idoli decadenti alle cui fonti il neofita si abbeverava negli anni di formazione. Il testo della poesia non ci è pervenuto, almeno integralmente, ne resta però un frammento ritrovato nei suoi quaderni giovanili, che detta nella chiusa: «Meglio che tu [Antinoo] rimanga sempre al nostro fianco». Una pletora di materiali inediti è tenuta, tra l’altro, ancora sotto chiave nei cassetti degli archivi universitari del King’s College Cambridge e nei meandri di fondi privati. Finito in mezzo a svariati componimenti, fogli d’appunti sparsi, diari segreti e numerosissime lettere, comprendenti gli stessi scambi con Michael, il manoscritto andò disperso alla morte dell’autore, probabilmente bruciato per mano di Geoffrey Keynes. Zelante erede testamentario del Brooke Trustee, l’amico premuroso assunse il ruolo di più accanito difensore delle sue carte, preferendo occultare la presenza di materiale ritenuto altamente compromettente circa la sessualità del nobile poeta-eroe, appena scomparso in Grecia, per non macchiarne la reputazione creata, dal lato pubblico, sull’onda della canonizzazione postuma. Solamente a partire dagli anni Ottanta, importanti rivelazioni sui legami maschili della fase Rugby di Brooke sono venute alla luce dallo spoglio capillare dei suoi epistolari, da qui svelate nelle più accreditate biografie. Le amicizie romantiche di quegli anni sono nutrite di tenerezza e pulsioni ludiche, condivise con l’affascinante Charles Lascelles e il più giovane Denham Russell-Smith. Con quest’ultimo, una notte d’autunno del 1909, il ragazzo ancora immaturo avrebbe compiuto il decisivo passo iniziatico durante una leggera «Danza delle lenzuola» nella libertà della sua casa di campagna a Grantchester. Il racconto sincopato e catartico di quella esperienza irripetibile si può leggere in una lunga confessione indirizzata per lettera a James Strachey, datata al luglio 1912, nel carteggio tra i due (Friends and Apostles: The Correspondence of Rupert Brooke and James Strachey, 1905-1914, a cura di Keith Hale, 1998). Ma se la liaison con il fidato Denham bastò come attardato rito di passaggio e di transizione al mondo adulto, dopo aver ripetuto a suo modo – al di fuori della cappa scolastica – i vecchi e imprescindibili codici che giustificavano una tale passione, l’affetto per Sadler sarebbe rimasto soffocato negli abissi del tempo, relegato al ricordo di una forma d’amore puro e inviolato. Amici e Apostoli. Le lettere di Rupert Brooke e James Strachey Queste relazioni maschili si limitano, tuttavia, alla sola fase giovanile degli anni di scuola, inquadrate nell’ottica di un preciso sistema socio-culturale permeato dal tipo di educazione d’impronta public school, perfettamente riconoscibile nell’Inghilterra del tempo, con tutte le coercizioni etiche che comportava, insieme alla messe di sentimenti inespressi dai giovani camerati. Diverso è il caso delle amicizie intellettuali formate nei circoli a stampo omoerotico di Cambridge, dove la tradizione classica continuava entro gruppi elitari e confraternite segrete animate da cori autonomi, come i discepoli Neo-platonici radunati attorno a G. M. Moore (il celebre filosofo autore dei Principia Ethica) e Goldsworthy Lowes Dickinson (A Modern Symposium; A Greek view of Life), o con le dolci attrazioni di George Mallory (maestro nella sontuosa Charterhouse e primo scalatore dell’Everest), del matematico Harry Norton e le file di ragazzi che il bellissimo studente del King’s attirava di continuo con la sua avvenenza fuori dal comune. Eppure, per quanto se ne sappia, il Brooke maturo non ebbe mai più il desiderio – per tacere dell’unica avventura di Grantchester – di riportare quegli amori proibiti alla luce della fase adulta. Il passato restava immerso in una crisalide dorata e il suo ricordo rimaneva intatto nei versi, dove i compagni vengono proiettati nell’etere poetico in visioni di arcangeli e dèi pagani dipinti come «angeli adoranti» o «impassibili immortali» (In Examination, 1908). Sebbene la cultura omosessuale abbia cercato ostinatamente di appropriarsi della sua icona, sollevandolo a corifeo di un movimento di liberazione ante litteram e accomunandolo ai più radicali Bloomsburiani come alle embrionali discussioni intorno all’amore al maschile di Uraniani e Apostoli, Brooke sfugge ancora una volta a ogni possibile definizione, superando fragili etichette, categorie marcate e tendenze che non condivideva del tutto e in cui non si lascia incasellare per sua natura. Com’è riuscito in vita a partecipare ad ogni occasione di scambio intellettuale coi suoi contemporanei e ad oltrepassare ogni cerchia racchiusa in un sistema univoco di pensiero e di condotta, conservando sempre il suo spirito, la sua assoluta individualità e la forte abilità mimetica, egli resta – in tutti i suoi aspetti, dubbi e conflitti irrisolti – una creatura umana dal profilo del camaleonte, capace di essere – a suo dire – «una cosa diversa con ognuno»: un outsidernascosto dietro il membro dell’élite calato nel pieno del sistema. La sua raison d’être risiede invero nel porsi al limite di tutte le contraddizioni, accettando di volta in volta le mute naturali e le diverse maschere, giocando con esse in posa tipicamente byroniana, consapevole della propria unicità. Rifiutando ogni ruolo imposto dall’esterno e facendo sentire la sua posizione di taglio netto, comprensibile in parte per la cornice storica in cui s’iscrive e per via delle sue complesse inclinazioni personali, in una nota privata su “Shakespeare e il Puritanesimo” richiamava la natura anfibia di altri personaggi di genio: > “La verità è che certi grandi uomini sono sia sodomiti sia dongiovanni: > Shakespeare, Michelangelo, e via dicendo. La pura sodomia è soltanto un dolce > vezzo dei giovani […] Questa è la regola generale…” Prima di trovare sé stesso, la propria forza poetica e voce d’artista sotto le guglie di Cambridge, Rupert Brooke era stato davvero felice soltanto nella casa-scuola di Rugby, dove incarnava l’enfant roi immerso in un’aura di spensieratezza respirata a pieni polmoni, a cui invano avrebbe cercato di fare ritorno dopo i vent’anni, rifugiandosi in un immaginario di fanciullezza eterna e fantasticherie fiabesche à la Peter Pan: la sua ossessione fuori e dentro le sale di teatro solcate innumerevoli volte. Mai più ci sarebbe stata per lui una simile innocenza, un giardino delle delizie aperto a tutti i suoi sogni ad occhi aperti. > “Sono stato felice a Rugby più di quanto riesca a trovare parole per > esprimerlo. Se ripenso a quei cinque anni, ogni ora mi appare dorata e > raggiante, sempre più carica in bellezza man mano che me ne rendessi conto. > Non riuscirei e non riesco a sperare, né a immaginare, così tanta felicità > altrove.” Terminato il puerile gioco con Sadler e dovendo adesso rinunciare all’«oro del Paradiso di Rugby» da cui si sentiva bandito, l’allontanamento dalle amicizie sorte tra i banchi di scuola si sommava alle perdite di quegli anni che gli risuonavano come la caduta delle illusioni della prima giovinezza. Il dolore per l’assenza e la separazione dagli amici – per primi Charles e Michael – contribuì al senso di sperdimento emotivo reso più acuto dalla notizia della loro partenza per l’altra prestigiosa università. “Sono fatto per Oxford”, dichiarerà Rupert alla fine dell’estate. Ciononostante, il suo cammino era tracciato per Cambridge, dov’è era diretto in ottobre al college frequentato dalle cime della famiglia.  Avviluppato nell’importante passaggio tra due mondi, non era pronto a lasciarsi alle spalle ciò che di più bello e puro aveva conosciuto e amato lì a Rugby. Ormai tutto faceva parte del passato e del tempo trascorso con gli amici non rimaneva che un tumulo di ricordi pronto a sommergerlo di tristezza, ma a questi si aggrappava nei momenti di sconforto con un angoscioso rimorso per quello che non era stato, intervallato dalla nostalgia per la felicità dei giorni di scuola. Era il patto unico che aveva stretto con loro a rimanere, a consumarlo nella memoria, a spingere ardore e desiderio nelle sue vene, offrendogli sollievo quando più si sentiva solo nelle lunghe e fredde notti insonni, tormentato dai fantasmi. Questa ondata di malinconia cedette presto il passo all’arida consapevolezza che quegli istanti e tutti loro erano andati via per sempre, prendendo ciascuno la propria strada, e neppure l’attesa più fedele avrebbe colmato il vuoto dell’assenza che avvertiva dentro di sé, a scavargli il cuore. Scomparsi uno ad uno come spettri, tramutati in strane ombre nel ricordo, per tutta la vita li avrebbe portati nei suoi sogni di innocenza. Come se non bastasse, la realizzazione precoce che il meglio della giovinezza fosse svanito fra le sue «ore dorate» (Second Best, 1908) lo dilaniava con terribile sconcerto, portandolo a descriversi nei periodi più bui come un ragazzo dal cuore spezzato o “un pallido fantasma che ha vissuto un tempo e ora può solamente sognare”. Messi da parte i propri dolori, i due vecchi amici di Rugby ebbero l’occasione di ritessere i rapporti negli anni a venire, riprendendo a scriversi con disinvoltura e frequentando comuni circoli intellettuali nella Londra d’anteguerra. Mentre Brooke vedeva pubblicati i suoi primi Poems (1911) e parallelamente eccelleva nella vita accademica, concentrato nella sua tesi su Webster (John Webster and the Elizabethan Drama, 1916), il geniale Sadleir sfrecciava come una saetta sul trampolino di lancio di una brillante carriera letteraria, cominciando la collaborazione con gli uffici della rinomata casa editrice Constable, di cui prese le redini a soli ventiquattro anni. Interessati non solo alle materie letterarie, entrambi aderirono con entusiasmo al progetto promosso da John Middleton Murry (marito di Katherine Mansfield) nella rivista d’avanguardia Rhythm, impegnandosi su più fronti nella ricezione delle opere di artisti moderni come Vasilij Kandinskij: da Cambridge, Brooke informò il lontano pittore russo del suo successo in Inghilterra, mentre Sadleir tradusse per lui il saggio Concerning the Spiritual in Art (1912) sulle «vibrazioni dell’anima» in pittura. Assieme parteciparono alle mostre più importanti dell’epoca, tra cui l’oscena retrospettiva post-impressionista del 1910, organizzata da Roger Fry alle Grafton Galleries (e recensita da Brooke sul Cambridge Magazine), che cambiò il volto dell’arte moderna scuotendo gli occhi scettici degli inglesi con un duro colpo. Al termine dell’inverno 1913, nel pubblico finemente selezionato per la lettura della prima e unica opera teatrale del poeta-drammaturgo, la sua tetra Lithuania (pubblicata postuma; tr. Nora Menascé, 2004), siederà fra i vari ospiti accorsi ad ascoltarlo nelle sue stanze – il musicista Denis Browne e il pittore Duncan Grant, dietro Sir Edward Marsh e George Mallory – anche il cresciuto Antinoo in prima fila. New Paths: Verse, Prose, Pictures (1918), a cura di Michael Sadleir Infine, dopo la scomparsa in guerra del giovane volontario nell’aprile 1915, devastato dalla sua perdita, Sadleir stese di suo pugno un “In Memoriam” per l’ammirato poeta, circolante per qualche tempo su un periodico indiano (di cui purtroppo si è perduta ogni traccia) e accluso da lui in una tenera lettera di condoglianze alla madre, Mrs. Brooke o, per gli amici, la “Rani”. D’altra parte, il vecchio compagno di scuola, ormai famoso collezionista, editore e dichiarato pacifista (assunto finanche al ruolo di delegato britannico al tavolo della Conferenza di Parigi), tenne fede al compito di curare, sotto la sua firma e quella di Cyril W. Beaumont, una maestosa raccolta che avrebbe riunito le opere scelte fra i più influenti poeti, scrittori e artisti della modernità. New Paths: Verse, Prose, Pictures 1917-1918 nasceva nel ’18 da un formidabile elenco di personalità di spicco nel panorama artistico britannico: piume del calibro di Harold Monro, Aldous Huxley e D. H. Lawrence, miste ai pennelli di Augustus John, Walter Sickert, Mark Gertler e altri talenti pronti a bussare alle porte del nuovo secolo, sempre ricordando il nome di coloro che avevano speso la vita in difesa dell’arte prima di sacrificarla per amore della patria, i quali certamente si sarebbero aggiunti agli ultimi «pionieri lungo nuove rotte in campo di arti e letteratura». La prima pagina del volume riporta, in doveroso tributo, l’iscrizione dedicata «Alla memoria di Rupert Brooke». Pierluigi Piscopo In copertina: Rupert Brooke (1887-1915) *La scelta e la traduzione degli estratti dalle lettere sono di Pierluigi Piscopo L'articolo “Mi nutro del nettare della vita”. Rupert Brooke e il genio della giovinezza proviene da Pangea.
March 20, 2025 / Pangea