Djuna Barnes è da annoverarsi nella folta schiera di artisti americani expat che
negli anni ’20 trovarono rifugio a Parigi. Tra questi, è sicuramente una delle
figure meno note al grande pubblico, soprattutto se paragonata a personaggi del
calibro di Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald. Ritornata negli Stati
Uniti scelse di vivere, anche a causa dell’alcolismo, in quasi totale isolamento
per il resto dell’esistenza. Terminò la sua vita da reclusa in un modesto
appartamento in Patchin Place, nel Greenwich Village.
Eccentrica e sessualmente polimorfa, femminista ante litteram, generò uno dei
capolavori “minori”della letteratura americana degli anni
’30, Nightwood (1936); Bosco di notte secondo la traduzione di Filippo Donini
(1968), La foresta della notte secondo quella di Giulia Arborio Mella (1983). Se
l’autrice non appartenesse al côté modernista, il libro potrebbe anche essere
dantescamente intitolato La selva oscura. Non è superfluo ricordare che il
volume gode del raro privilegio di aver ricevuto in dono un’introduzione firmata
niente meno che da Thomas Stearns Eliot.
A tutta prima, si direbbe un romanzo senza trama che consiste più che altro di
una galleria di personaggi giustapposti fra di loro e tenuti insieme da un
personaggio-amalgama che fa da collante, il dottor Matthew O’Connor. Senonché –
prima di confermare perentoriamente la correttezza di quest’impressione – per
timore reverenziale non si può non tener conto di quello che scrive Eliot:
> «Questo libro non è una semplice raccolta di tratti isolati; i personaggi sono
> tutti strettamente legati l’uno all’altro, come accade nella vita reale, più
> che dalla scelta volontaria della reciproca compagnia, da ciò che possiamo
> chiamare caso o destino; è il disegno complessivo di questi rapporti,
> piuttosto che ciascuna componente individuale, a costituire il fulcro
> dell’interesse».
Anche se l’autore della Terra desolata, nella sua introduzione, dopo aver
asserito che «Quando descrissi La foresta della notte per invogliare i lettori
all’edizione inglese, dissi che “sarebbe piaciuto innanzi tutto ai lettori di
poesia”», predispone immediatamente una palinodìa («[…] non intendo dire che lo
stile di Miss Barnes sia “prosa poetica”»), non si può negare che lo stile
adottato dalla Barnes nella Foresta della notte sia molto vicino a quello della
prosa lirica. D’altronde, è stato uno dei massimi poeti del Novecento, Dylan
Thomas, ad aver sostenuto che quello della Barnes è «uno dei tre grandi libri di
prosa scritti da una donna» e il suo è senza ombra di dubbio un elogio da
collega a collega (la Barnes era anche poetessa). E, comunque, Eliot precisa:
> «Dire che La foresta della notte piacerà innanzi tutto ai lettori di poesia
> non significa che esso non sia un romanzo, significa che è un romanzo così
> bello che soltanto una sensibilità formatasi sulla poesia può apprezzarlo fino
> in fondo».
È difficile, però, riuscire a comprendere quanto ci sia di esornativo nello
stile della scrittrice e quanto di effettivamente necessario e conforme al
contenuto dell’opera dal punto di vista espressivo. Eliot mette subito le mani
avanti, insinua nel lettore il dubbio che il romanzo sia inconsistente ma, al
tempo stesso, con un trucco da illusionista, lo dissolve: «Non voglio dar
l’impressione che i meriti di questo libro siano soprattutto verbali, e ancor
meno che questo stupefacente linguaggio nasconda una vacuità di contenuto. Se il
termine “romanzo” non si è troppo svilito, e se sta a indicare un libro nel
quale si creino personaggi vivi e li si mostri in rapporti non gratuiti, questo
libro è un romanzo». Certo, le frasi che potrebbero essere considerate “ad
effetto” si sprecano e, a dire il vero, riescono di frequente a blandire e a
incantare il lettore: «[…] il riso è il denaro del povero»; «Rendere omaggio al
nostro passato è il solo gesto che includa anche il futuro»; «Chi ama tutto
viene disprezzato da tutto»; «L’amore è la prima menzogna; la saggezza
l’ultima». Qualcuna di queste frasi si dibatte tra l’aporia e l’ossimòro:
«L’uomo è nato dannato e innocente fin dall’inizio». Qualche altra ha un sapore
nichilista: «Il vero bene che incontra il vero male (Santa Madre di
Misericordia! ma esistono?)». Qualche altra ancora è a più stretto contatto con
l’essenza stessa della storia: «[…] la notte fa qualcosa alla tua identità,
anche mentre dormi»; «La vita non si lascia comandare».
Un tentativo di ricostruire la trama del libro (i cui temi portanti sono
l’identità, il desiderio, la sessualità e il dolore per la perdita della persona
amata), per quanto esile e incerta questa possa essere, bisogna pur farlo.
La location della storia è Parigi. In particolare, i luoghi più citati sono
situati nei dintorni di Saint-Sulpice e nel quartiere di Montparnasse. Felix
Volkbein – un ebreo non tradizionalista che si sente «attirato verso la
chiesa», di nazionalità austriaca e «ascendenza italiana», sedicente barone con
la fissa dei nobili natali – ha il desiderio di procurare una discendenza al
proprio “casato”. Sposa Robin Vote – conosciuta in circostanze fortuite
nell’Hôtel Récamier, in cui entrambi soggiornano – che gli dà un figlio maschio,
il quale in seguito si rivelerà per lui una profonda delusione (il dottor
O’Connor lo aveva avvertito: «l’ultimo figlio dell’aristocrazia è talvolta un
idiota»). Prima di decidersi ad avere il bambino, Robin si fa cattolica ed esce
spesso di casa, prendendo treni per chissà dove, mettendosi a vagare assorta in
misteriose meditazioni, elaborando «pensieri spopolati» e muovendosi con una
«calma ostinata, catalettica».
Difficile sostenere che tra i due coniugi ci sia vero amore. Il marito dà più
che altro l’impressione di aver voluto prendere un “utero in affitto”. Dopo la
nascita del figlio, la moglie non è quasi mai a casa, riprende a viaggiare, si
mette a frequentare i caffè e a bere. Finché un giorno sbotta, riferendosi al
bambino: «Io non lo volevo!». E abbandona la famiglia, facendo perdere le sue
tracce per tre o quattro mesi. Quando ricompare è in compagnia di Nora Flood,
con la quale ha una relazione sentimentale. Sonnambula, in preda alla
dromomania, raccolta in «una meditazione informe», Robin esce di casa sempre più
di frequente, soprattutto di notte, inseguita da Nora che la osserva andare «di
tavolo in tavolo, di bicchiere in bicchiere, di persona in persona». Vaga per
le strade della capitale francese, spostandosi da un caffè all’altro, a caccia
di fugaci incontri, irrimediabilmente persa tra i fumi dell’alcol.
Per quanto le storie possano essere frutto della fantasia dello scrittore, c’è
spesso un aggancio con la realtà: se la figura di Felix Volkbein è modellata su
quella di Guido Bruno, editore della Barnes per un certo periodo di tempo, i
personaggi di Nora e Robin sono ispirati rispettivamente all’autrice stessa e a
una delle sue amanti, Thelma Wood (che Djuna pedinava e inseguiva nei suoi
continui cruising notturni). Alla fine, anche Nora subisce il tradimento di
Robin che si trova un’altra compagna, Jenny Petherbridge (una tizia che vive
un’esistenza di seconda mano; la cui vita è vissuta attraverso quelle altrui,
sottraendo affetti e oggetti e prendendo in prestito le parole; come Robin un
personaggio beckettiano che meriterebbe una trattazione a parte proprio a causa
della sua significativa insignificanza), con cui poi va via da Parigi per
stabilirsi in America. Il finale è melodrammatico e, per non togliere ai
potenziali lettori il gusto della sorpresa, non è opportuno svelarlo in
anticipo.
Come già detto, tra i vari personaggi del racconto fa da collante il dottor
Matthew O’Connor, nordamericano di origini irlandesi, confidente privilegiato di
Felix e Nora. Quest’ultima si rivolge a lui per chiedergli di dirle tutto quello
che sa a proposito della notte e implicitamente di sapere cos’è di per sé la
notte. Il dottore, «che indossava una veste da notte di flanella, da donna […]
pesantemente imbellettato, le ciglia dipinte», glielo spiega in maniera criptica
in una lunga tirata, con ampie digressioni, che occupa un intero capitolo
(«Guardiano, com’è la notte?»), di cui si riportano di seguito alcune delle
frasi chiave: «vi dirò come il giorno e la notte siano collegati dalla loro
divisione»; «La struttura stessa del crepuscolo è una favolosa ricostruzione
della paura»; «la notte non si premedita»; «la notte è una pelle tesa sulla
testa del giorno perché il giorno sia tormentato»; «Il dormiente è proprietario
di una terra sconosciuta»; «Il sonno esige da noi una colpevole impunità»; «Dice
Donne: ‘Tutti siamo concepiti in un cieco carcere, tutti, nel grembo di nostra
madre, siamo prigionieri isolati in una cella buia. Quando nasciamo, nasciamo
solo alla libertà della casa – tutta la nostra vita non è che un camminare verso
l’uscita, dove sono il patibolo e la morte’». E, infine, una delle frasi già
citate: «[…] la notte fa qualcosa alla tua identità, anche mentre dormi».
Sciamano e sacerdote dell’inconscio, una sorta di novello Tiresia, considerato
da Felix «un gran bugiardo, ma un bugiardo prezioso», secondo alcuni il primo
personaggio en travesti della letteratura moderna, il dottor O’Connor, che di
notte si cambia d’abito e indossa vesti femminili, si lascia invasare
dall’Es, esibendosi in un profluvio di parole incontrollate e incontrollabili e,
in parte, apparentemente senza senso. Il suo eloquio è una manifestazione
dell’inconscio stesso che sembra incarnarsi in lui. La casa in cui vive è una
palpabile epifania della sua essenza e della sua esistenza. Più che
un’abitazione è un tetro abitacolo, un antro angusto in cui O’Connor mette in
scena se stesso, svelando la propria natura “femminea” attraverso gli oggetti
che ha disseminato al suo interno, in primis lo chiffonier da cui traboccano
abiti, biancheria e ornamenti mulìebri. Se nelle oscure foreste la luce spiove
filtrando attraverso i folti rami degli alberi, nella stanza del dottore essa
penetra da «un finestrino a grata», unica apertura verso l’esterno di cui
l’abitazione è dotata.
La foresta della notte che O’Connor descrive a Nora, è una
metafora dell’inconscio, degli istinti primordiali, di quella parte buia e
misteriosa della mente umana che – percorrendo sentieri tortuosi – finisce per
far perdere all’individuo la propria identità e che – conducendolo in luoghi
inesplorati – genera in lui terrore e angoscia. Il dottore, pur assumendo
un’aria professorale si guarda bene, com’è uso dei veggenti, dal
propinare all’amica una soluzione chiara ai problemi e agli interrogativi che
gli pone. Egli stesso – in quanto animale uomo – è in preda a istinti
bestiali, inconfessabili e, in una certa misura, ineffabili. È ossessionato
dall’inconscio.
È una tendenza comune a tutti gli esseri umani quella di cercare di sottrarsi,
di tanto in tanto, al dominio dell’Io e del Super-io e a far ritorno, anche se
per breve tempo, alla propria “animalità”. Djuna dà conto di questo anche in una
sua poesia in cui compare nuovamente il motivo del bosco o foresta («woods»).
Nei versi che seguono, i bambini si svezzano («be un-parented») dai genitori (il
Super-io) per far ritorno alla natura (l’Es), simboleggiata dalle foglie degli
alberi («the leaves») e dall’intera foresta:
All children, at some time, and hand in hand,
Go to the woods to be un-parented
And ministered in the leaves.
(“The Bo Tree”)
I personaggi della storia narrata dalla Barnes non sono affatto a tutto tondo.
Sono appena abbozzati e, in qualche caso, quasi completamente privi di
personalità. E, da quel che sembra di capire, molto probabilmente questa è una
scelta deliberata dell’autrice.
Nel leggere la storia, il lettore si trascina da una pagina all’altra incantato,
stupefatto e costernato, proprio come fosse in transfert con il personaggio più
misterioso di tutta La foresta della notte, Robin Vote, la sonnambula «consunta
dal sonno», anche lei personificazione dell’inconscio in quanto creatura
notturna, in preda a impulsi irrazionali che non riesce a dominare. Robin Vote,
il personaggio che ha la personalità meno delineata di tutti gli altri
personaggi del libro (il dottor O’Connor confessa al barone di non aver mai
avuto «un’idea veramente chiara di lei») proprio in quanto individuo perduto
nell’indistinto magma della notte, «essere in letargo», che pur essendo in
apparenza qui e ora è, in realtà, altrove («Non voglio essere qui» confessa a
Nora, senza spiegare dove vorrebbe essere), in una dimensione – quella onirica –
per sua natura precaria, situata sull’incerto confine tra essere e non
essere, perennemente in bilico e – dunque – sempre prossima alla dissoluzione.
E questa eterna transience non è forse la condizione stessa della poesia?
Angelo Guida
*In copertina: ritratto fotografico di Djuna Barnes (1892-1982) di Berenice
Abbott
L'articolo “La notte fa qualcosa alla tua identità”. Intorno al romanzo insonne
di Djuna Barnes proviene da Pangea.
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Probabilmente, è bene cominciare dalla fine.
Il ragazzo decide di partecipare allo sbarco in Normandia. Mobilitato in Nord
Africa, chiede ai superiori di essere impiegato durante il “D-Day”. Il ragazzo
ha i grandi di capitano, l’ostinato desiderio di essere al ‘centro della
Storia’. Tre giorni dopo lo sbarco, è il 9 giugno del 1944, il suo reggimento si
impantana a Tilly-sur-Seulles, piccolo borgo del Calvados – ad oggi, supera di
poco i mille e cinquecento abitanti. Il ragazzo – abile nel disobbedire, desto
nel prendere l’iniziativa – sbarca dal suo tank, avanza in ricognizione
solitaria. Un colpo di mortaio lo ammazza. Il cappellano del reggimento, il
capitano Leslie Skinner, lo seppellisce alla buona, presso una siepe. Più tardi,
sedata la guerra, i resti del ragazzo vengono sepolti nel cimitero militare di
Tilly-sur-Seulles: lotto 1, fila E, tomba 2. Il ragazzo si chiamava Keith
Douglas. Poeta.
Destino infero quello dei poeti della Seconda guerra. Ce ne sono stati tanti,
eccellenti – pensiamo, alle nostre quote, al Diario d’Algeria di Vittorio
Sereni, oppure a Fogli d’Ipnos, la raccolta del poeta ‘resistente’ René Char,
tradotta guarda caso da Sereni – eppure è stato il reportage, il documentario
‘in diretta’; è stato il cinema a dire, con sicurezza definitiva, la Seconda
guerra. Al contrario, la Prima guerra è stata una sorta di ‘laboratorio’ per la
poetica del nuovo mondo, dei tempi nuovi: lo dimostra – in Italia – la quantità
eccezionale di repertori antologici (Vallecchi editava una straziante Antologia
degli scrittori morti in guerra; va visto, in particolare, l’“Antologia dei
poeti italiani nella Prima guerra mondiale”, Le notti chiare erano tutte
un’alba, ideata da Andrea Cortellessa per Bompiani nel 2018). La nostra poesia
‘moderna’ nasce in trincea, con Giuseppe Ungaretti.
È come se la Seconda guerra, per sovrabbondanza d’orrore, non possa essere
narrata: dev’essere subita, a operare nei recessi dell’anima, quando
non vista (tradotta in film, anatomizzata nei reperti documentari). Nel mondo
inglese, così, per “War Poets” s’intendono, in particolare, i Poets of the First
World War, quelli gloriosamente onorati nel “Poet’s Corner” a Westminster, tra
Shakespeare e Lord Byron, tra Chaucer e Dickens (tra gli altri, Rupert Brooke e
Isaac Rosenberg, Wilfred Owen e Robert Graves; per un approfondimento, si
veda l’antologia War Poets. Nelle trincee della Prima guerra mondiale, costruita
da Paola Tonussi per le Edizioni Ares nel 2022). Dei poeti della Seconda guerra
si fa memoria occasionale – spesso ci si dimentica di loro, sepolti da un
disastro incomparabile, tacito accordo sull’ineluttabile irresolutezza
dell’arte, della poesia di fronte alla morte.
Nato nel gennaio del 1920, Keith Douglas morì che aveva da poco compiuto
ventiquattro anni. Dalla sua poesia esala la facondia immaginativa, la
complessità della ‘scena’ e delle scelte lessicali, un certosino distacco nel
vegliare sui fatti di guerra, che al posto di idealizzarsi in muta indifferenza
esalta una tenuta, una postura poetica in grado di estrarre il dettaglio al
diamante dal nulla bellico. Nato nel Kent, Douglas studiò al Christ’s Hospital
mettendosi in luce sia per il talento, esagitato, che per l’animo, poco disposto
a subire i rigori dell’educazione britannica. Pubblicò le prime poesie
sedicenne; decise di arruolarsi perché pensava che la guerra fosse il ‘grande
argomento’ della letteratura del suo tempo. Fu disciplinato nel Derbyshire
Yeomanry, praticò al Cairo e in Palestina, partecipò – anche lì, per ardimento:
non voleva più servire per lavori d’ufficio – alla Seconda battaglia di El
Alamein: guidava un carro armato. Il suo superiore era il colonnello Edward O.
Kellett, che sarebbe stato ucciso l’anno dopo, in azione, in Tunisia. Di
quell’esperienza, Douglas ha lasciato un memoir, Alamein to Zem Zem, pubblicato
da Faber, introdotto da Lawrence Durrell.
Nella scelta di arruolarsi di Douglas agì anche la situazione familiare. Figlio
di un militare in congedo, con cui aveva pessimi rapporti, Douglas crebbe, in
sostanza, solo, in collegio. La madre collassò in un’encefalite letargica grave;
il padre mollò la famiglia, risposandosi, che Keith aveva dieci anni.
In molti riconoscono in Keith Douglas i prodromi del grande poeta, il cupo
carisma dell’inattuato, dell’inespresso. Fu Edmund Blunden, il poeta veterano di
guerra – per altro, ricordato nel “Corner” –, più volte nominato al Nobel per la
letteratura, a riconoscere in Keith Douglas la stazza del talento puro. Nel 1938
inviò una scelta di sue poesie a Thomas S. Eliot, che le apprezzò. Il ragazzo
era giovane, i fatti precipitarono. I Collected Poems di Keith Douglas vengono
stampati da Faber nel ’46, con un’introduzione di Blunden. A quella seguiranno
diverse altre edizioni: la più nota – Selected Poems, 1964 – è introdotta da Ted
Hughes, che ha sradicato Keith Douglas dalle malie del ‘poeta di guerra’, utile
a fini non soltanto estetici, “è la sua poesia, in generale, a serbare un valore
unico, che rende il poeta più vivo che mai”. Tese tra le stelle e il cadavere,
le poesie di Keith Douglas irrompono in noi con corvina tenerezza – come
incisioni sulle ossa.
***
La Bestia Meraviglia
Barone dei mari, il grande pesce
spada dei tropici, straziato sul famelico
ponte dove i marinai lo hanno ucciso
nel paradisiaco Pacifico: lama che indaga
occhio che fugge e stana la preda
nei regni oscuri dov’era re; arma
forgiata nella semi-tenebra, eppure,
strappata dal cadavere di questo estroso
viaggiatore, è una lente d’ingrandimento
che riflette l’inusuale zampillo del sole.
Con quella lama un marinaio incide sul legno
il nome di una prostituta abbordata
nell’ultimo porto. È uno degli strumenti
più strani custoditi dalle onde –
suppongo che la querula voce
dei marinai marciti in spettri
digeriti dalle ingorde maree
potrebbe descriverne molti.
Che siano i vostri ospiti, che vi conducano
negli abissi dove brucano i loro vascelli
dimenticati – che tutto risorga nell’occhio
che arde. Per incidere quel verbo, il sole
perfora la potenza del mare e urla
il suo nome, omaggia quella meraviglia.
Linney Head, Galles, 1941
*
Come si uccide
Sotto la parabola di una palla
un bambino diventato uomo
fissa l’aria troppo a lungo.
La palla mi è caduta in mano, canta
nel pugno chiuso: Usami Usami
sono un dono ideato per uccidere.
Ora nel mirino vedo
il soldato che sta per morire.
Sorride, si muove nei modi
che solo sua madre conosce.
Fili sul suo viso: è l’ora
in cui piango. La morte è il mio
più intimo familiare e muta
in polvere un uomo di carne.
Ma questa è la mia stregoneria.
Sono un dannato, amo ammirare
il centro dell’amore spalancarsi
e un’onda di amore vagare nel vuoto.
È così facile creare un fantasma.
La zanzara, leggerissima, tocca
la misera ombra sulla pietra:
con quanta, infinta tenerezza
l’uomo e la sua ombra si incontrano.
Si fondono. L’uomo è un’ombra
e le zanzare obbediscono alla morte.
*
Fioriture nel deserto
Soltanto i fiori proliferano nei paesaggi selvaggi –
ripeto soltanto ciò che stavi dicendo, Rosenberg –
la conchiglia e il falco ad ogni ora
uccidono uomini e gerboa, uccidono
la mente: ma i corpi possono soddisfare
gli affamati fiori e i cani che gridano come
uomini, di notte, la cosa più dura di tutte.
Ma questa non è una novità. Ogni volta che
la notte lancia stracci sugli occhi, lascia la mente
desta, guardo ai lati della porta del sonno
cerco la piccola moneta necessaria
per comprare il segreto che non saprò mantenere.
Vedo uomini che soffrono come alberi
confondono i dettagli e l’orizzonte.
Metti la moneta sulla mia lingua
canterò cose che nessuno ha mai visto.
*
Vergissmeinnicht
Tre settimane dopo i guerrieri
erano spariti: tornammo su quel
campo da incubo – il soldato era
ancora lì, disteso, incubato dal sole.
All’ombra della canna del suo fucile.
Avanzavamo quel giorno
e lui colpì il mio carro come
se fosse la mascella di un demone.
Guarda. Qui, nella trincea dirupo
la fotografia disfatta della sua donna:
ha scritto Steffi. Vergissmeinnicht
con una calligrafia gotica perfetta.
Ci sembra felice, ormai degradato,
deriso dalla sua stessa divisa
così dura e superba quando
il corpo è in decomposizione.
Ma lei piangerebbe, oggi, nel vedere
le mosche che si muovono oscure
sulla sua pelle, la polvere sull’iride
di carta, lo stomaco squarciato come una grotta.
Perché qui amante e assassino sono
lo stesso, hanno un solo corpo e un solo
cuore. La morte che ha eletto quel soldato
ha avvelenato con un male mortale l’amante.
*
Stelle
(Per Antoniette)
Le stelle marciano ancora, in ordine sparso
da nulla a nulla. Guardatele, sono immobili
sul campo notturno, autentica terra di nessuno.
Lì, lontana, con spada e cintura, dev’essere
Orione. Per i commissari di questa guerra
da esaltati è il Carro. Nessuno favoloso confine
può annientare il loro coraggio, nessuna banda
le sfiderà: soltanto la disciplina le ha
mobilitate e le mantiene vive. Così
le hanno viste il Tempo e i suoi avi. Così
combattere il disordine è il loro compito
e la vittoria persiste nelle loro mani.
Dal limite delle vecchie colline fino
a quelle pianure, laggiù, si estende
il loro accampamento. Gli eterei ufficiali
salutano, da tenda a tenda, i messaggeri
cometa. Guardiamo in alto, con dolore
a quei compagni lontani, quelle plaghe
che non possiamo calpestare.
1939
*
Canoa
Questa potrebbe essere la mia ultima
estate e non voglio perdermi nulla
del piacere che dona l’antica arte
dell’ozio. Non mi lascio terrorizzare
dal destino che aleggia sullo sfondo
mentre l’erba e le case e il fiume insonne
credono di poter durare per sempre
e si scambiano sussurri sommessi –
impera l’afa. Quale terribile fato potrà
impedire alla mia ombra di vagabondare
da queste parti il prossimo anno?
Fischia: ti sentirò e verrò, a sera, sulla
stessa barca con cui vai verso Iffley
mentre fissi il cielo in attesa del tuono
che come una campana preannuncia
pioggia – il mio spettro ti sfiorerà le labbra.
Keith Douglas
L'articolo “Canterò cose che nessuno ha mai visto”. Keith Douglas, un poeta in
guerra proviene da Pangea.
Dentro la materia “il mare è senza fine, dolorante”, ed è necessario che questo
dolore sia focalizzato, parossisticamente pro-vocato e registrato, perché solo
vivendone persino la proiezione è possibile sentire ciò che vive, ri-sentire
nella provocazione la relazione:
La pellicola
Il sole splendeva mentre noi
andavamo in giro per il campus
a fermare ragazzi e uomini
chiedendo che mi colpissero
in pieno viso.
Si rifiutavano tutti
all’inizio, ma noi spiegavamo
che era arte ed era necessario
così mi hanno schiaffeggiata, uno
dopo l’altro.
Ho capito che per farglielo
fare dovevo indurire gli occhi,
provocare. Lo schiaffo dei ragazzi era
comico – palmo sul viso, con scuse prima
e dopo. Era caldo e luminoso.
Abbiamo flirtato con un geografo
dallo schiaffo leggero, con le dita
a sfiorarmi la guancia come
girandomi il viso di lato per vedermi
di profilo. Avevamo circa venti
uomini su pellicola.
È arrivato il ragazzo della mia amica
e gli abbiamo chiesto se volesse farlo.
Lui l’ha baciata e si è piazzato di fronte a me.
La mia amica ha premuto record, e ha detto
‘vai’ e io ridevo,
mi ero dimenticata di preparare il viso,
con la guancia sinistra un po’ rosa dopo
una giornata di schiaffi. Non ero preparata
al suo rovescio. Rapido
e forte, un rumore strano
come se mi avesse schiaffato via
la risata, un dolore più spesso
di una puntura, un’immediata perdita
di respiro. Siamo rimaste in silenzio
un attimo, e io ho guardato
la mia amica e la sua mano portata
alla guancia automaticamente,
la luce rossa della telecamera che ancora
lampeggiava e ho saputo
che non avremmo mai guardato
la pellicola, che avrei sentito la nausea
e la colpa finché il livido
durava – più a lungo – avendo chiesto
ciò che non era mio.
Il linguaggio di Frears è materia ustoria che sbracia e riaccende il percorso da
metafora a dato, rinnova il senso della referenza, iniziando da un contesto
umile e concreto. È una tensione ipercinetica a svolgere e riavvolgere il
cammino della parola, i cui passi e salti manifestano una nudità d’intenti che è
anche desiderio di stabilire un contatto. Altezze delle cadute ma più intimità
nel dolore, in questa operosità slabbrata si muove il verso narrativo in tante
zone di Risplendi, cara (Taut, 2023), il piccolo corpo del vivente (così come il
corpo testuale) si aggrotta pudico per espandersi subito dopo e arrivare a
toccare vertigini celesti:
Mito lunare
Dato che abbiamo donato i nostri gioielli per il tabernacolo
(e con noi intendo le donne e con donne intendo le allegorie)
ci è stata assegnata la luna.
Non una luna, la nostra luna, la nostra piccola luna litigiosa.
Il mare delle crisi e quant’altro – la vecchia ‘pietra dell’oh issa’
che trascina le onde ai ciottoli fin dall’alba dei tempi.
Il 58% delle donne dice ‘prendi quello che ti danno, prima che ci
assegnino un corpo celeste ancora più piccolo.’
Ad ogni modo, tutti sanno che la tuba di Falloppio è un germoglio di luna.
Tutti sanno che il sole è una stella-ragazzo, buono e caldo e
luminoso e piuttosto semplice se ti ricordi di portare
la crema solare. Certo che ha un cazzo.
Quando mi metto una torcia in bocca le guance mi si accendono di rosso
come una lanterna carnosa – niente argento, né crescente
né calante; sono accesa o sono spenta. Non proprio da luna.
oh Satellite, oh Artemide, oh Orbe della notte.
Domanda: posso dare la colpa alla luna perché dormo poco?
Il 73% delle donne si è detto ‘a disagio’ con il nuovo
rito lunare testato settimana scorsa, che prevede un melograno,
un frutto stella (e del simbolismo di mela ben calcato).
Ora di un altro gruppo di discussione. Magari possiamo
bruciare cose, oppure il fuoco è solo roba da sole?
Hanno versato del vino nuovo in una vecchia brocca,
e ci hanno detto che i miti si fanno così.
Abbiamo bevuto tutto il vino e ci siamo esposte al
plenilunio, quindi dovevano aver ragione.
Luce e carne costruiscono il mito, arte di raccontare il minimo, che confonde
perché include piccolo e grande, abbattendo il confine dell’ambivalenza. Frears
è certa del malessere di dire ma lo espone, è consapevole dell’impossibilità
della permanenza per questo apre al lettore la sua intimità, offrendola come in
una parabola:
Scopare in Cornovaglia
La pioggia è spessa e c’è un mezzo arcobaleno
sulla spiaggia umida; mettimi la mano fin sopra.
Ho camminato per quel museo di paese centinaia di volte
e ho deciso che il cagnolino imbalsamato,
etichettato: il cane più piccolo del mondo, è un falso.
Baciami in un panificio di pasty con tutti i forni accesi.
Ho stretto un uovo fresco e caldo in una fattoria e ho pensato a
scopare. Ho stretto un piccolo granchio verde nel palmo della mano.
Ho teso la manica fin sopra le dita e ho raccolto un’ortica
e l’ho stretta contro la gola di un ragazzo come una spada.
Slacciami le scarpe in quel vicolo e sollevami delicata sui cassonetti.
Il sole luminoso del mattino viene e viene
e i bambini vacanzieri sono pronti con i loro secchi gialli.
Ti ricordi cosa si provava a scavare un buco tutto il giorno
con una paletta solo per vederlo riempirsi di mare?
Lo voglio così – come l’acqua che indovina un percorso al di
sopra del bordo. Come due anemoni rosso acceso in una pozza
di marea, i tentacoli in onde estatiche.
Come se la ginestra si è incendiata attraverso la brughiera e tu
sei il fantasma di un pescatore, che ha sempre odiato la terra.
Umiltà e fede, praticamente agostiniane, non sono eluse ma reindirizzate a nuove
“apparizioni”, come fossero l’ossessione scaturente da un rapporto in perdita.
La poesia si fa strumento, allora, che avvicina distanziando, che aspira e solo
per poco accompagna:
> Per favore capisci che non è addosso a te, è con te.
Co-ire è sfiorare il rapporto mistico, l’assoluto nella dissolutezza dell’amore,
è il tentativo che la carnalità si superi in un oltre desiderante e
iper-percettivo. Ma cosa può l’essere umano esplorare l’infinito impraticabile
della vita? Forse solo attraversandola facendosene infaticabile ricognitore,
forse. Non cacciamo Giovanna, non cacciamo l’ossessione di sentire sempre e
sempre più a fondo:
Giovanna d’Arco ci perseguita
Lei sa come trema il vetro prima che venga scagliata la pietra,
come le tubature sibilano le une alle altre a mo’ di serpenti
attraverso la casa. Ha sentito la prima spinta del fungo
verso l’alto, ha mappato l’incedere furtivo della propria ombra
sul terreno variabile. Cerca di ascoltare
il tonfo minuto del cuore di un coniglio; ha sempre amato
il calore del sangue anche mentre se ne va dal corpo, affonda
nel fango. Ha sentito lo schiaffo rapido di uno sparo,
la lenta leccata della lingua di un cervo, sa che il dolore
si modella nella mente come la brina. Il sole le cuoce il corpo,
le sue orecchie bacinelle di piccole pozze d’ombra nel fulgore,
il rumore di un aereo nel cielo le ronza dentro.
Nelle giornate storte lega i vestiti in complicati
nodi, invita i passanti a fare lo stesso.
Zitta, Giovanna, diciamo noi. Vai a contare i crochi.
Et lux in tenebris lucet, afferrare o perdere la luce è la posta in gioco
dell’incontro e della poesia che lo cerca. Frears dice di aver “sentito dire che
il nemico che indossa le scarpe/ o troverà Dio o Lo perderà”, il che può essere
tradotto nel desiderio e nella ricerca costante del bene nel male, in una
spoliazione di sé e delle proprie acquisizioni. Frears spalanca la lingua della
poesia e accoglie il mondo, prendendo e tremando:
A una festa un ragazzo mi segue nel bagno
sostenendo che quando ho lasciato la stanza
gli ho fatto cenno di seguirmi.
Davvero?
Sapeva che non lo avevo fatto?
Lo lascio entrare, perché
quasi quasi mi prendo quello che mi dicono che desidero –
chissà, magari ha ragione.
*
Mi chiama per controllare
che non gli abbia dato un numero falso,
mi lascia un messaggio in segreteria con il mio capezzolo
nella sua bocca.
Il mattino seguente, da sola, ascolto la sua voce –
un bambino che parla con la bocca piena
e poi
io,
come una madre noiosa, distante:
piano, piano, piano.
Nella compravendita che l’esistenza diventa quando lo slancio e il trasporto
all’altro si interrompono, occorre confrontarsi con “l’agonia del deserto” e
provarsi in un altro attraversamento. Nonostante “il mare imbestialito” sarebbe
necessario accostarsi e sentire “l’orecchio bagnato del diavolo”, lasciarsi
scorticare nella fuga continua che immagina una meta, in una tensione mai
soddisfatta:
Sulla cordatura della forma
Esse sono la raffica di vento marino che ti tormenta
mentre scendi in spiaggia; l’ambiguità sessuale
dell’amico del tuo amico con cui ci stai provando in un bar.
Guidi in una galleria;
trattieni il respiro.
Sono sette solide frasi spezzettate
lungo un’idea; un singolo filo di ragnatela
teso tra due corpi che dormono; i punti di sutura
nella tua ferita sullo stomaco mentre ti allunghi verso il telecomando;
una macchina in bilico su una scogliera per sessant’anni.
Sono la suspense mentre ti lavi il viso, sapendo
che le probabilità di trovarti un assassino in casa
sono aumentate mentre avevi gli occhi chiusi;
il picco febbrile che questa paura raggiunge mentre
chiudi l’armadietto a specchio del bagno.
Non sono la tua autocoscienza, spalmata finemente
sul tuo toast mattutino; non possono sedurre
tua madre nella hall di un hotel. Ma sono
un aeroplano di carta lanciato attraverso una stanza fumosa,
e sono esattamente come svegliarsi
per gli occhi di un insonne.
Stai tornando a casa a piedi da un incontro / uno spettacolo /
negozi, hai con te gli ingredienti per la cena
che hai deciso di fare – facendo dondolare un po’ il sacchetto
semplicemente sentendo il peso di ciò che sarà.
La sera è di un blu smorzato / arancio, l’aria
non è né fredda, né calda. Di punto in bianco
ti senti insignificante in un modo molto lussuoso
e proprio in quell’istante il lampione
sotto cui stai camminando si accende, tipo illuminazione.
Attorno non c’è nessuno.
Senti solo quella sensazione e continui verso casa.
Corde – infilate e fisse:
una sensazione enorme, contenuta all’interno
di un piccolo corpo, sotto un cielo enorme.
Enorme come ogni parola che s’inoltra e perde l’orientamento, come la luce che
investe la strada mentre ad attraversarla il vivente vaga e prova. Sente?
> Ci hai mai provato tu? È la luce più simile
> all’acqua, a pozzanghera sulle tue palpebre, fresca
> e senza parola sulla tua lingua.
L’enorme si nientifica perché risgorghi lo slancio e ridiventi inondazione,
pensiero lungo, racconto. La vita di ogni giorno è epica e metafisica, e solo
così vivifica l’esperienza.
La scrittura in versi di Frears e soltanto esperienza nell’urlo e
nell’abbraccio, nell’alto come nel basso che comunicano, puro sentire:
Elegia per la sonda Cassini
1997-2017
Pensavo alla tua morte. Cercavo di immaginare l’istante in cui la pressione
diventa troppo forte o il calore troppo elevato.
E poi verso le quattro del pomeriggio ho sentito delle urla tremende.
I suoni si diffondono in modo strano nel nostro vicolo cieco e non riuscivo a
capire se fosse lontano o appena sotto la mia finestra.
Parte dell’orrore è non sapere da cosa proviene il suono. E infatti
nei film fatti bene, la cosa brutta si intravede appena o non si vede per nulla.
Ho sostato sulla porta cercando di capire: un cane abbaiava, un uomo gridava,
una donna urlava.
E poi sentito un corpo che veniva colpito con un oggetto. Sapevo che
era un corpo e non una cosa dal modo in cui gli altri suoni gli si piegavano
attorno. Il traffico, le urla, gli alberi e il vento distorti da queste percosse
sorde, irregolari. Gli sono corsa incontro.
Dietro una piccola staccionata, un uomo picchiava un cane con un
badile. C’erano vicini alle finestre e per strada, guardavano. C’è stato il
suono distante di sirene e l’uomo si è fermato ed è tornato dentro.
Il cane non faceva rumore, guardava nel vuoto verso il cielo. Ci
siamo raccolti attorno alla staccionata. Respirava, poi non più.
Cassini, oggi, mentre ti tuffavi tra gli anelli di Saturno
raccogliendo dati, ho visto un cane morire – una tristezza distaccata ma molto
reale. Un ohh interiore, sfinito, come un palloncino che si sgonfia.
Gli altri cani nel vicolo cieco non hanno mai smesso di abbaiare fino
al mattino. Sapevano. Dubito che sarà così anche per te. Non me li vedo i corvi
che si levano improvvisamente dagli alberi, o un’anziana sulla strada di casa
che di colpo inspira: se n’è andato!
Ieri notte i miei sogni erano pieni di quel suono – badile contro
cane. Un miliardo di chilometri sono troppi per sentire la violenza della tua
perdita, mi spiace. Invece mi immaginerò le lune, che sbirciano oltre gli anelli
di Saturno come vicine di casa silenziose che guardano impotenti mentre tu inizi
a tremare, bruciare e distruggerti.
Gianluca D’Andrea
*In copertina: Ella Frears, photo Etienne Gilfilla
L'articolo “L’assoluto nella dissolutezza”. Sulla poesia di Ella Frears proviene
da Pangea.
Un tempo, Daphne du Maurier (1907-1989), la scrittrice inglese, era pubblicata
nella mitica ‘Medusa’ Mondadori. Era una colonna di quella collana. Il suo
romanzo più noto, Rebecca (1938) fu tradotto nel 1940 da Alessandro Scalero
come La prima moglie; ce ne ricordiamo per la versione di Hitchcock, che vinse
l’Oscar e che opera, nella versione italiana, una sintesi tra l’originale e il
tradotto: suona come Rebecca, la prima moglie. Daphne du Maurier indossava un
viso inquieto, da transfuga tra le ombre: amava i cani, morì in Cornovaglia,
reclina in una ricercata solitudine. Spesso ritenuta una scrittrice di seconda
fila, da un po’ di tempo la si è rivalutata a dovere: il Saggiatore ha in
catalogo le sue opere più importanti; questa estate sono usciti Rendez-vous e Il
capro espiatorio; l’anno scorso sono stati editi i racconti con il titolo
complessivo, Gli uccelli, che rimanda a uno dei film più noti di Hitchcock – che
però ha poco a che fare con l’originale. Nel regno anglofono, la casa editrice
Virago ha appena pubblicato come After Midnight “Thirteen Chilling Tales for the
Dark Hours by Daphne du Maurier”. L’introduzione – che qui riportiamo in parte –
è di uno dei più audaci ammiratori dell’opera di Daphne: Stephen King. Buona
lettura.
***
“La scorsa notta ho sognato di essere di nuovo a Manderley”. Questo, tratto
da Rebecca, è uno degli incipit più noti nella storia del romanzo. Di certo, è
il più memorabile: l’ho usato come esergo a uno dei miei libri, Mucchio d’ossa.
Daphne du Maurier ha scritto anche uno dei più riusciti incipit tra i racconti
del perturbante e dell’eccentrico. Gli uccelli si apre così: “Il tre dicembre,
di notte, il vento voltò – e fu inverno”. Breve, freddo, preciso. Potrebbe
sembrare un bollettino meteorologico.
Funziona bene fin dal principio, quel racconto in cui ogni specie di volatile
attacca senza motivo l’uomo: è diretto, realistico, privo di fronzoli. Du
Maurier può evocare l’orrore quando vuole – si leggano The Doll e The Blue
Lenses, come le ultime due pagine di Don’t Look Now – perché sa che a volte, per
infondere credibilità (e suspense) a quanto si racconta ci vuole un tono più
vicino al reportage che alla narrazione pura. La versione cinematografica de Gli
uccelli, appesantita da una storia d’amore tra belle persone hollywoodiane (Rod
Taylor nel ruolo di Mitch e Tippi Hedren in quello di Melanie), non somiglia
quasi per nulla al racconto di Du Maurier. È ambientata nella soleggiata Bodega
Bay invece che nella fredda Cornovaglia, con un numero di personaggi decisamente
in eccesso. L’unica vera somiglianza tra il racconto e il film è nel finale. Nel
film, Mitch e Melanie scappano mentre migliaia di uccelli, appollaiati ovunque,
riposano tra un attacco e l’altro. Cosa accadrà in seguito sarà lo spettatore a
indovinarlo.
La conclusione del racconto è ancora più agghiacciante. Dopo aver fumato
l’ultima sigaretta, Nat aziona la radio, che non funziona. “Gettò il pacchetto
nel fuoco, lo fissò mentre bruciava”. L’ultima frase è perentoriamente
terribile, cupa eppure concreta, come quella che apre la storia. Cosa succederà
a Nat, alla moglie, ai figli? Non lo sappiamo. A Daphne du Maurier non importa –
e ha ragione a non occuparsene. Resta sulla soglia. Ci offre soltanto
quell’ultima sigaretta, che ha il sentore di un plotone d’esecuzione, e un
pacchetto che brucia. Ci dice: decidete voi. Questa è la quintessenza del suo
genio inquietante.
Non sopporto il termine “spoilerare”, diventato di moda insieme ad altri
spiacevoli effetti collaterali di Internet in generale e dei social in
particolare. Trovo che “hai spoilerato!” sia il tipico modo di esprimersi delle
persone viziate. È difficile ‘spoilerare’ una bella storia, perché la gioia
della lettura è nel viaggio non certo nella conclusione. I racconti di Du
Maurier sono un’eccezione alla regola. Parlarne a lungo ne distruggerebbe
l’effetto. Siete nelle mani di un maestro della narrazione. Per giunta,
diabolico.
Lo ammetto: adoro i racconti di Du Maurier. Amo la loro chiarezza, la visione
sontuosamente sinistra che hanno della natura umana, il prodigioso talento
nell’arte narrativa. C’è una ragione per cui le raccolte di racconti, di norma,
sono meno popolari dei romanzi. Con un romanzo, ci si acclimata alla vita di un
gruppo di personaggi, con cui si abita per un paio di giorni (se si legge
voracemente, come mia moglie) o per una settimana e più (se si legge lentamente,
come me). Nei racconti, il lettore deve creare un mondo immaginario che si
smonta in poco tempo. Può essere difficile da accettare. Non è così per questi
racconti.
Entrare nei mondi ideati da Du Maurier è un piacere più che uno sforzo. Anche
quando le cose sembrano relativamente innocue, si percepisce un letale
addensarsi di ombre. È un dono concesso a pochi scrittori.
Non voglio dire altro. Prendete in mano Daphne du Maurier, lasciatevi guidare
nell’oscurità. Il suo talento è una torcia. Invidio le sue scoperte. Invidio il
vostro prossimo disagio.
Stephen King
L'articolo Sul suo genio inquietante. Stephen King parla di Daphne du Maurier
proviene da Pangea.
Riccio o volpe? Era il 1953 quando il filosofo lettone Isaiah Berlin ideò uno
dei giochi più riusciti di critica letteraria, dividendo gli scrittori in due
tipi, sulla scia di un frammento del poeta greco Archiloco: “la volpe sa molte
cose, ma il riccio ne sa una grande”. Da una parte i proteiformi, dai fini
diversi, a volte contraddittori, mai unificati da un principio unico ispiratore;
dall’altra le visioni centrali, monistiche e monoteistiche; particolari contro
universali; la “volpe sublime” Puskin e il riccio purissimo Dostoevskij. In
mezzo, il caso Tolstoj, lo scrittore che “era per natura una volpe, ma credeva
fermamente di essere un riccio”. Bene, portando questo gioco di società fuori
dalla tavola dei grandi russi, potremmo azzardare il caso singolare di Seamus
Heaney, poeta-volpe, a cui per decenni hanno tirato la coda – e costretto a
tirar fuori gli aculei – per farlo sembrare un riccio.
L’evento centrale della sua biografia, che lo accompagna e tormenta lungo le
“dodici fatiche” del suo opus, (per i lettori italiani nell’ampia auto-antologia
predisposta dal poeta stesso in occasione del “Meridiano” Mondadori, uscito
postumo del 2016 poi totalmente riproposto nello “Specchio”, con la sola
dolorosa assenza delle Note – sarebbero bastati dei piccoli a margine per i
riferimenti più specialistici alla storia d’Irlanda) è lo scoppio
dei Troubles nel 1968, che si protraggono per decenni e hanno il loro culmine
nella “Bloody Sunday” del 1972, quando a Derry l’esercito inglese fa fuoco sui
manifestanti irlandesi e uccide quattordici persone. Inevitabile, per lui nato
nell’Ulster a minoranza cattolica, in una terra dominata e colonizzata da
secoli, non essere chiamato a prendere parte, a denunciare, ad essere tirato per
la giacchetta e rimproverato per ogni colpevole silenzio: “per un quarto di
secolo – scriverà – hanno obbligato i poeti a offrire, implicitamente o
esplicitamente, una apologia per la loro arte”. Operazione impossibile, tanto
già gravosa quanto più la sua fama di nuovo Yeats e massimo poeta non solo
irlandese ma britannico cresceva, grazie anche a una presunta accessibilità e
alla dolcezza formale di molte poesie.
Due i passaggi culminanti: il pamphlet poem “An Open Letter” del 1983 nel quale
si dissocia dall’aggettivo british (dopo essere stato incluso nel “Penguin Book
of Contemporary British Poetry”),chiarendo che “la felicità passa per il
prendere posizione, scontrarsi, chiarire di non essere per tutti”; e l’incontro
– di toni e ambientazioni che ricordano il Luzi purgatoriale – con un esponente
del Sinn Féinn in La livella e lo spirito (1996), risolto in un botta e
risposta:
> “Quando cazzo scriverai qualcosa
> per noi?” “Se scrivo qualcosa,
> qualunque cosa sia, la scriverò solo per me”.
Questo “me” non è certo chiusura individualistica o rivendicazione dei diritti
dell’arte per l’arte, quanto un ribadire un proprio modo di essere poeta
profondamente politico, impegnato – scriverà James Woods sulla “London Review of
Books” – a “costruire una nazione dal punto di vista storico, mitologico,
etimologico”.
Nella seminale prima poesia del primo libro, la pluri-antologizzata “Scavare”,
questa distanza e impossibilità di essere riccio è già affermata in una
premonizione non voluta della violenza intestina che sconvolgerà l’Irlanda –
intesa come distanza rispetto al suo essere poeta terreno, radicato, lui figlio
e nipote di contadini e allevatori, misurando come un lucidissimo agrimensore
quanto separa i primi due versi (“Tra il mio pollice e l’indice riposa/ la tozza
penna, comoda come una pistola”) dagli ultimi tre: “Tra il mio pollice e
l’indice riposa/ la tozza penna./ Scaverò con questa”.
È il 1966, la guerra civile è ancora solo nell’aria, ma il volume
programmatico Morte di un naturalista è già eversione e riconoscimento di
un’altra via. Prendiamo due esempi di dinnseanchas, genere tradizionale
irlandese di narrazioni di storie e leggende sulle origini dei nomi di luogo: in
“Anahorish” (un analogo gaelico delle nostre “chiare, fresche e dolci acque”) si
introduce una distinzione e uno scavare genealogico tra la morbidezza vocalica
dell’irlandese e la durezza consonantica dell’inglese colonialista nel quale è
costretto a scrivere e pensare; in “Broagh” quel suono finale, impossibile per
gli stranieri, fa leva sulla O centrale e la sua immagine tipicamente heaneyana
di un “acquazzone / che si raccoglieva nell’impronta del tuo calcagno”, per far
risuonare una circolarità acquatica e naturalistica da volpe ipersensibile, che
con un piccolo balzo ci riporta a un’altra O marina e post-colonialista, quella
dell’Omeros di Derek Walcott.
Descrizione è rivelazione, è stato detto: panorama e paesaggio – nella poesia
come negli ingenui ma non innocui atlanti delle elementari – implicano
rappresentazione cartografica e riscrittura politica di un territorio diviso e
spaccato tra nativi e conquistatori prima, cattolici e protestanti poi: ognuno
imponendo i propri nomi con la violenza che separa fratelli e amici, per cause
antichissime e per nessun motivo (si ripensi al recente film Gli spiriti
dell’isola di Martin McDonagh). Ma quella di Heaney è un’Arcadia senza innocenza
primigenia, nella quale la frattura sembra il destino originale e i nuovi
sacrifici riecheggiano i precedenti, i morti per i diritti civili sepolti sopra
le tombe della “gente delle torbiere” riemerse in quegli stessi anni nello
Jutland, con i corpi di vittime sacrificate alla dea della fertilità Nerthus
durante l’età del ferro.
Da qui le critiche: all’estetizzazione della violenza; a una visione mitica e
ciclica della storia, condannata a ripetere forme arcaiche e omicidi rituali; a
un immaginario maschilista che raffigura l’Irlanda come donna inerme da
possedere attraverso i secoli. A questi attacchi Heaney non risponde mai
direttamente, preferendo divincolarsi con fiuto visionario fino ad aprire una
seconda fase dalla fine degli anni Settanta, caratterizzata da un verso più
ampio e da toni che invecchiando si fanno più lievi, fino al paradosso di quel
Seamus Heaney poeta felice usato come estremo trucco per sfuggire alle trappole.
Il poeta-volpe si dedica alle poesie d’amore coniugale, ai viaggi (sarà
raggiunto dalla notizia del Nobel durante una vacanza in Grecia), alle
traduzioni, come quella del Beowulf finita nella classifica dei best seller del
“New York Times”. È il paradosso del Famous Seamus, la pop-star della poesia che
deve camuffarsi e trovare nuove formule di rivolta da ogni costrizione, come la
vanga del padre rivoltava la terra avara. Così nella luminosissima “Post
scriptum”, dove lo ritroviamo in uno stormo di cigni un po’ sinistri, le penne
arruffate e “il lungo capo dall’aria ostinata/ nascosto o increstato o
indaffarato sott’acqua”: il suo elemento, un altro tipo di ossigeno, via via
sempre più rarefatto. Lo stesso di una “Illuminazione” in Vedere le cose, nella
quale dei monaci in preghiera vedono comparire una nave, sospesa in alto e
incagliata all’altare: un marinaio, invertendo alto e basso – celeste e terreno
– si cala giù per liberarla e rischia di annegare prima di riuscire
nell’impresa, “uscendo dal meraviglioso/ come l’aveva conosciuto lui”.
Il materiale – una leggenda celtica del VI secolo – viene rielaborato
modificando involontariamente nel ricordo alcuni elementi, e scoperchiando il
tema finale della poesia di Heaney, quello della memoria.
Uno degli ultimi capolavori, “In soffitta”, raccontato magistralmente dai
successori Tom Sleigh e Paul Muldoon in un podcast, colma proprio quel “golfo
misterioso tra infanzia e vecchiaia” che è l’ultimo ponte teso sulla
multiformità irriducibile dell’esistenza. Il passo malcerto sulle scale e sui
ricordi di letture giovanili (L’isola del tesoro) diventa quello ebbro di un
mozzo per la prima volta a bordo di una nave. E in attesa di scoprire o
ritrovare un mondo, e “quanto v’è di memorabile tocca il fondo/ dentro
l’irrintracciabile”, la poesia è ancora quella “leggera e anomala infrazione e
pendenza del mondo/ mentre il vento si alzava e l’ancora veniva salpata”.
Fabrizio Angeli
**
BROAGH
Sponda di fiume, le lunghe porche
che sfociavano in distese di acetosa
e in un sentiero alberato
giù verso il guado.
Il terriccio del giardino
si illividiva facilmente, l’acquazzone
che si raccoglieva nell’impronta del tuo calcagno
era la nera O
di Broagh,
il suo basso rullio
tra i sambuchi battuti dal vento
e le foglie del rabarbaro
finiva quasi
all’improvviso, come quell’ultima
gh che gli stranieri faticavano
a pronunciare.
*
LIMBO
Nelle reti dei pescatori di Ballyshannon
la notte scorsa c’era un neonato
oltre ai salmoni,
Una figliazione illegittima,
un pescetto ributtato
nelle acque. Ma sono sicuro
che, quando lei stava nell’acqua bassa
e lo immergeva con tenerezza
finché i suoi polsi ossuti e gelati
furono insensibili come il ghiaietto,
lui era un pesciolino con ami
che le laceravano il ventre.
Lei entrò in acqua sotto
il segno della sua croce.
Lui fu tirato a riva con il pesce.
Ora il limbo sarà
un luccichio freddo di anime
oltre una lontana zona salmastra.
Là persino i palmi di Cristo, le piaghe ancora aperte,
bruciano e non riescono a pescare.
*
I BAMBINI DELLA FERROVIA
Quando risalivamo i pendii della scarpata
eravamo con gli occhi alla stessa altezza delle tazze
bianche dei pali telegrafici e dei fili sfrigolanti.
Come una bella calligrafia si curvavano per miglia
ad est e per miglia ad ovest oltre noi, cedendo
sotto il peso delle rondini.
Eravamo piccoli e pensavamo di non sapere niente
degno di esser noto. Pensavamo che le parole percorressero
i fili nei lucenti borselli delle gocce piovane,
ciascuna completamente inseminata dalla luce
del cielo, dal luccichio delle rotaie, e noi stessi
ridotti ad una scala così infinitesimale
da poter scorrere attraverso la cruna di un ago.
*
ILLUMINAZIONI VIII.
Dicono gli annali: mentre i monaci di Clonmacnoise
eran tutti in preghiera in oratorio
su di loro, in aria, comparve una nave.
L’ancora, dietro, pendeva tanto a fondo
che s’impigliò nella balaustra dell’altare.
Quando il grosso scafo si fermò oscillando
un marinaio si calò giù per la corda
e cercò di liberarla. Invano.
“Quest’uomo non può sopportare la nostra vita
e annegherà” disse l’abate, “a meno
che non gli si dia aiuto”. Il che fu fatto,
la nave, libera, ripartì e l’uomo
risalì, uscendo dal meraviglioso
come l’aveva conosciuto lui.
*
CATENA UMANA
A vedere in primo piano i sacchi di farina
passati di mano in mano tra i volontari, e i soldati
che sparavano alto oltre la folla, mi ritrovai
con la presa su due angoli di un sacco,
due rigonfi di granaglie di cui avevo fatto orecchie
per trovare un appiglio, pronto al sollevamento –
gli occhi negli occhi, l’uno due, uno due, hop
sul rimorchio, poi il peso e il salasso
del sollevamento successivo. Nulla ha superato
quel rapido sgravio, di fatica più vera ricompensa,
un lasciare andare che mai più tornerà.
Oppure sì, una volta sola. E per tutte.
*
IN SOFFITTA
I.
Come Jim Hawkins in alto sulle crocette
dell’Hispaniola, nulla sotto di lui
se non immobile acqua verde e sabbia chiara sul fondo,
la nave in secca, l’albero inclinato sporto
sopra un fondale dove pesci a strisce passano in banchi –
e quando sono passati, la faccia di Israel Hands
che si levò tra le sartie prima che Jim gli sparasse uccidendolo
sembra levarsi ancora… “Ma era ben morto”
dice la storia “centrato da un colpo e poi annegato”.
II.
Una betulla piantata vent’anni addietro
se ne sta tra me e il mare d’Irlanda
al lucernaio della soffitta, un uomo abbandonato
nell’isola della propria mansarda, un ragazzo
ben assettato nella coffa di una vita,
velature d’aria, ubriaco di vento, reso ben saldo
da quanto va riverberando da chiglia a albero maestro,
strofinandosi gli occhi per credere a loro e a questa
leggera, ondosa betulla di velaccio.
III.
A passo di fantasma su quella che allora era la terra firma
del linoleum dell’ingresso, appare il nonno,
la voce tremula come lo schermo sensibile alle correnti
tirato su prima nella sede del Club
per lo spettacolo pomeridiano da cui ho appena fatto ritorno.
“E Isaac Hands” chiede. “C’era Isaac?”
Il suo ricordo di quel nome anch’esso un tremolio,
il suo errore perpetuo, una volta e per sempre,
come il singolo tonfo quando cadde il corpo di Israel.
IV.
Mentre invecchio e dimentico i nomi,
mentre il mio passo incerto per le scale
è sempre più la sottile ebbrezza
di un mozzo per la prima volta sul sartiame,
mentre quanto v’è di memorabile tocca il fondo
dentro l’irrintracciabile,
non per questo non mi riesce più di immaginare
quella leggera e anomala infrazione e pendenza del mondo
mentre il vento si alzava e l’ancora veniva alzata.
Da Seamus Heaney, Poesie, Mondadori, Milano 2023, a cura di Marco Sonzogni
L'articolo “La felicità di non essere per tutti”. Su Seamus Heaney, il
poeta-volpe proviene da Pangea.
Dylan Thomas accettò di fargli da testimone di nozze. Era il 4 ottobre del 1939,
non poteva rifiutare: conosceva Keidrych Rhys, gallese di Bethlehem, da una
vita; spesso lo aveva pubblicato sulla rivista che dirigeva, “Wales”. Keidrych
sguazzava con agio nell’editoria dell’epoca – nel ’44, per la Faber di Sir T.S.
Eliot, avrebbe pubblicato un’importante antologia di Modern Welsh Poetry – ed
era un gran bevitore. Nel ’39 Dylan Thomas, già superstar della letteratura
anglofona, aveva licenziato, per Dent, The Map of Love; Keidrych compiva
ventiquattro anni; la festa, a Llansteffan, annaffiata d’alti alcolici, si
protrasse fino a notte.
Più che per Keidrych, gli astanti andarono in visibilio per lei, la sposa.
Trentenne, di una bellezza estranea, Lynette Roberts – in verità: Evelyn
Beatrice Roberts – era alla sua terza vita. La prima l’aveva passata in
Argentina: nacque a Buenos Aires, negli agi; il papà, Cecil Arhur Roberts, era
un ingegnere ferroviario che dal Galles si era trasferito prima in Australia,
poi in Sud America. La prima lingua di Lynette era lo spagnolo: restò scolpito,
in lei, il vello bruno, taurino, del Rio della Plata; l’indolenza – e
l’equivalente violenza – dell’Argentina.
La seconda vita di Lynette ha per levatrice una ferita, uno squarcio: poco prima
di compiere quattordici anni, sua mamma muore di tifo. Lei e le sorelle –
Winifred e Rosemary – furono spedite a studiare in Inghilterra, alla Central
School of Arts and Crafts. Di quella vita, si ricordano i lunghi viaggi – in
Ungheria, Austria, Germania, al seguito di un’amica, Kathleen Bellamy, inviata
per “La Nacion” – e l’avventura di aprire un negozio di fiori, “Bruska”, a
Londra. Aveva cominciato a scrivere versi a Madeira, ispirata dal clima, da un
angelo interiore, spinato.
Keidrych l’aveva conosciuto da poco, durante una lettura pubblica. Si sposarono
all’improvviso, con inattesa furia: la terza vita di Lynette cominciò a
Llanybri, villaggio di campagna nel Carmarthenshire, dove si era trasferita con
il marito. Voleva riformulare le proprie origini gallesi. Voleva scriverne.
Voleva scrivere. Dylan Thomas la licenziò con poche, apodittiche parole: “che
ragazza curiosa, si dichiara poetessa a pieno titolo, in pieno petto… ha tutti i
crismi dell’isterica”.
L’amore con Keidrych durò un decennio – i due divorziarono nel ’49 – e un paio
di figli, Angharad e Preiden. Lentamente, Lynette deragliò nell’insania; aveva
un precedente, in famiglia: il fratello Dymock, schizofrenico, finì in un
ricovero di malati di mente appena sedicenne, a Salisbury, fino alla morte.
Negli anni gallesi – di povertà, certo, ma anche di una gioia frugale, informe,
di albatros e brughiere –, Lynette scrisse tanto – e magnificamente. Trovò in
Edith Sitwell – poetessa-pitone, dall’enigmatico, viscido genio – una mecenate e
una confidente; figura tra le figure di rilievo nella tabula gratulatoria de La
Dea Bianca, il capolavoro di Robert Graves. Erano amici, lei gli raccontava
diverse storie scardinandole dall’antica mitologia gallese, lui scrisse che
“Lynette Roberts è uno dei pochi autentici poeti viventi”.
I suoi versi entusiasmarono un lettore altrimenti raggelato come Eliot: nel 1944
pubblicò con la Faber i Poems, seguiti, nel 1951, dall’opera più ambiziosa, il
poemetto God with Stainless Ears, in cui il dato leggendario si fonde con il
contemporaneo, la “baia brulicante di uccelli” si commisura a “soldati e corpi
corazzati”. È poesia audace, quella di Lynette Roberts, a tratti involuta, con
invenzioni che la collocano nel più alto lignaggio della poesia inglese
dell’epoca. In un testo – a dire di un ardore –, Transgression – non certo il
più bello –, rifà la Genesi:
> “All’inizio Dio non volle altro che se stesso.
> E questa immensa emissione di luce eruttava orrore
> attraverso i cieli senza aver nulla da fare.
> Conosceva il bene e il male, e noia lo torturava.
> Sapeva la vita, e gli venne a noia”.
A leggerla, viene in mente Fernanda Romagnoli, avrebbero potuto essere amiche.
La stessa dinamica le anima: una poesia apparentemente cristallina, emanata da
un ematoma del cuore, che in un istante mette le unghie, azzanna. Lo stesso,
spaesante istinto nel percorrere l’insolito, l’insoluto. In una poesia –
tradotta in calce – Lynette Roberts scrive che i gabbiani le ricordano le
“lacrime dei turisti”.
Sfinì, in uno sfarfallio di inquietudini, Lynette. Nel 1956 le fu dichiarata
schizofrenica – due anni prima aveva pubblicato un libro, The Endeavour che
romanzava intorno al “primo viaggio di James Cook in Australia”. Una volta
radicata, volle sradicarsi. Vagò per diversi sanatori; morì il 25 settembre del
1995. Sepolta nel cimitero di Llanybri, che aveva celebrato più volte nei suoi
versi, chiese una lapide sobria, una scritta assolutoria: Lynette Roberts, poet.
Dylan Thomas aveva visto giusto.
I suoi versi – dalla potenza assurda, dissennata, estranea alle mode – furono
dimenticati presto; per quarant’anni, Lynette rifiutò di scrivere perché la vita
la rifiutava. Nel 2005 Carcanet pubblica, a cura di Patrick McGuinness,
un’edizione dei Collected Poems, seguita, nel 2008, da Diaries, Letters and
Recollections. Fu, decenni dopo, un’autentica scoperta, Lynette, d’insperata
freschezza. Quest’anno, come A Letter to the Dead, esce una nuova edizione
dei collected poems, arricchita da materiali d’archivio.
***
Premonizione
Quando angoli di ferro blu e
grumi di erba rada, a grottesche
recedono furtivamente da qui
e lasciamo una moltitudine allo spazio
mentre crolla dal tuo sorgere
un saluto, accetto l’impercettibile
pallida notte, il suo volto ciclope
in cui nascondere la mia paura, di ghiaccio.
*
Non è stato facile
Mentre brilla la legna e brucia
abbiamo spartito la nostra frugale
felicità; mentre sulla grata, fredda, colava
la cenere, ci siamo nutriti ai cancelli
della povertà; idioma dell’umiliazione
e del disastro. Non è stato facile.
Non lo è ora. Eppure, infuriava tempesta
sul quieto verde volto del pianeta.
*
L’ipnotista
Continuava a fissarmi, quella volpe
nel bosco – con un gesto di gioia
pitocca ho deriso la sua audacia:
e ora mi veglia, è lì, presso quell’albero.
*
Spina di sangue
C’è chi divora la piana fino alle anche della notte
chi slega gli uccelli al volo e dilaga
per leghe perché vuole vedere l’osso
del bisonte, fiero come una pietra,
c’è chi separa il mais e fa scempio
di questa luce sciroppo:
questa è la dura, mostruosa condizione
di chi nasce e piange in un’alba gialla
in un’alba gialla come il limone.
Un cuore rompe il ghiacciaio della notte
è lì e fa scoppiare un’aquila di carta
e c’è chi trascina il giorno in una cappa
di gioia di pianto di mania:
questo giorno è stato esaudito: un bimbo è nato
un bambino ci è nato.
*
Gabbiani
Planano lenti i gabbiani, senza paura
preferiscono perdersi come lacrime
di turisti: il molo e la nave cominciano
a muoversi e cominciamo
a piangere, così, senza motivo.
Gridano i gabbiani ricordando
l’oceano dell’incertezza
e la brutalità dei marinai, mere
mosche ai margini della nave.
I patti si stringono, si rompono
e il rimpianto ci muove immotivato:
lacrime crinite d’ira, cretine,
scavano solchi sulle guance.
*
Blu ellittico
È freddo e i gabbiani, le mucche del cielo,
muggiscono, cercano cibo e sorvolano
l’acqua blu: allora penso alla neve.
Quando penso sono sola.
Penso al mare, alle sue immense onde
onde piene di occhi che dicono
alle onde, cercate i morti perché
i morti non sono davvero morti.
Perché, è vero, il mare offre più di ciò che afferra
e stigma di morte non grava sull’uomo – il mare
concede ai morti una via di fuga: i gabbiani lo sanno
e scalpitano presso le stalle del cielo.
*
Madrigale verde
Vedi, il mio ospite è un albero:
cresce nonostante il dolore
le sfide e la difficoltà
di crescere.
È verde, è risoluto:
anche se respira angoscia
sprigiona pace, la pace della mente
e cresce e si muove
e cammina con verde tenerezza
lungo la terra:
cielo e sole sigillano il suo essere
come io vorrei fare con il tuo.
*
Coniglio accoppato
Sdraiato nel cristallino del crepuscolo
sono io il suo singolare difetto
e i suoi occhi, come stelle dimentiche,
si schiudono in una nebulosa distante anni luce.
Desiderano che il passato sia scuro come la notte
che il futuro sia piena luce e caritatevoli raggi.
Eppure so, per un sapere ancora arcano,
in qualche moto centrale del mio essere,
che tutto risorgerà, che tutto si volgerà
a me circondandomi, come gli anni luce
ruotano, invisibili, sul loro fuso di ghiaia.
Lynette Roberts
L'articolo “Un cuore rompe il ghiacciaio della notte”. Vita lirica di Lynette
Roberts proviene da Pangea.
Nel 1919 era riuscito a comprarsi una villa a Oswalds, nei pressi di Canterbury.
Da poco, aveva raggiunto una certa sicurezza economica, non con i libri più
belli; poco incline ai crismi della vita sociale inglese, soffriva di gotta, il
viso irto di rughe e lo sguardo fermo, di chi ha valicato molte vite. Da
ragazzo, nelle rare fotografie, piuttosto, ha gli occhi accesi, terrorizzati.
Sarà che era rimasto orfano a undici anni e che un’insana fame, l’estro di chi è
solo al mondo, lo obbligava agli estremismi. Preferì viaggiare per il globo;
nato in una provincia dell’Ucraina russa, cresciuto tra Varsavia e Cracovia,
come seconda lingua preferiva il francese, l’inglese lo parlava in modo
involuto, lento, da straniero. Sulla terraferma, sempre, gli pareva di
affogare.
Fu Hugh Walpole, in ogni caso, a propiziare l’incontro tra Joseph Conrad e T. E.
Lawrence. Con Walpole, poligrafo, nato in Nuova Zelanda, affascinato dalla
Rivoluzione russa (che aveva seguito sul posto), uno zelante ammiratore, Conrad
si sentiva a suo agio. “Tu dici che ho subito l’influenza formativa di Madame
Bovary…”, gli scrive, nel 1918, per ribattere, “Flaubert… lo ritenni
meraviglioso. Non credo di aver imparato nulla da lui”.
L’incontro accadde in luglio, era il 1920: Conrad era già Conrad, il
rivoluzionario della letteratura inglese, Lawrence, per tutti, era “Lawrence
d’Arabia”; aveva scritto la prima, affrettata bozza dei Sette pilastri della
saggezza e Winston Churchill era pronto a offrirgli un posto di rilievo presso
il Colonial Office con il compito di risolvere la questione
mediorientale. Lawrence, dal canto suo, mirava solo a disintegrarsi. Amava
Conrad, quello sì, “ha reso la nostra prosa finalmente inquietante: ogni suo
paragrafo (dacché non scrive frasi, ma paragrafi) si sviluppa a ondate, come il
riverbero di una campana, dopo che si è bloccata”. L’incontro fu piacevole,
privo di fronzoli, intonato al blu: forse nel mare di Conrad, Lawrence
riconosceva il suo deserto. Il 18 agosto del 1922, da Oswalds, Conrad scrive “al
mio caro Mr. Lawrence”: gli invia una copia di The Mirror of the Sea, “emendata
da assurdi refusi”, con dedica, “A T.E. Lawrence con la massima stima da
Conrad”. Nel frattempo, contraffatto con il nome di John Hume Ross, Lawrence si
era appena arruolato nella RAF.
Dieci anni prima, piuttosto, Conrad aveva ricevuto gli omaggi di un altro uomo
eccezionale, diversamente eccentrico. Nel 1912, durante un viaggio di sei mesi
in Inghilterra, ad Ashford, nel Kent, Saint-John Perse incontra Conrad,
folgorato, pure lui, da Cuore di tenebra, Nostromo, Lord Jim. Era stata un’amica
comune, Agnès Tobin, americana, traduttrice di talento (anche di Petrarca), a
introdurre Saint-John Perse a Conrad. Il 26 febbraio del 1921, da Pechino,
all’apice di una brillante carriera diplomatica, il poeta, futuro Nobel per la
letteratura, invia a Conrad una lettera tanto bella da sembrare fittizia, pura
perla destinata ai posteri: “Una cosa misteriosa, che ho io stesso constatato, è
che sugli altipiani dell’Asia, nel cuore del deserto, cavallo e cavaliere si
girano ancora d’istinto verso Est, là dove giace la tavola invisibile del mare…
Negli occhi dei cammellieri incontrati nel deserto del Gobi mi è sembrato
qualche volta di sorprendere uno sguardo di uomo di mare”. La lettera è
raccolta, tra poche altre a rarissimi interlocutori – Paul Claudel, André Gide,
Thomas S. Eliot, un altro strenuo ammiratore di Conrad – nell’agiografico volume
delle Œuvres complètesche Saint-John Perse si cura per la Bibliothèque de la
Pléiade. Nato nelle Antille francesi, era uomo di mare pure lui, e al mare ha
dedicato un poema oceanico, Amers (1957; recentemente tradotto da Nicola
Muschitiello per le Edizioni Medhelan come Segni d’amaro approdo, 2024).
Queste testimonianze, necessarie per capire le intense passioni che Conrad
sapeva suscitare – scrittore altrimenti schivo, nella stiva di un’ispirazione
eclatante –, non sono raccolte nell’Epistolario (1885-1924) edito da Giometti &
Antonello (2021), che riproduce l’edizione curata da Alessandro Serpieri per
Bompiani nel 1966 (il libro, dunque, è anche un omaggio a quel grande anglista).
Conrad resta, sempre, un espatriato, uno ormeggiato tra le nebbie: inutile
cercare tra le sue lettere le vertigini di Rainer Maria Rilke, gli orpelli di
Pasternak, gli innamoramenti di Albert Camus. Nato Korzeniowski, frugale come
chi sa la fame, propenso al crollo, alieno al clima intellettuale dell’epoca,
Conrad procede per coltellate verbali (“La morte non è nulla – ed io sono
abituato alla sua rapidità. Ma quando la vita ti deruba d’un uomo su cui hai
riposto la tua fiducia per vent’anni, il torto sembra troppo mostruoso per
essere dimenticato”, scrive, il 5 dicembre 1897, a Edward Garnett, che per primo
riconobbe il suo talento letterario), sconvolto, spesso, dalla necessità di
scrivere e vendere racconti con estenuata continuità.
Nelle prime lettere – qui è da Calcutta, il 19 dicembre del 1885 – Conrad è
fieramente reazionario, si scaglia contro il “progresso sociale” propugnato da
“furfanti senza scrupoli e pochi lunatici, sinceri ma pericolosi” a discapito
dell’“idiota gregge umano”:
> “Io vivo soprattutto nel passato e nel futuro. Il presente ha poche attrattive
> per me… Separazione fra Stato e Chiesa, Riforma Agraria, Fratellanza
> Universale non sono che le pietre miliari sulla strada della rovina”.
Si adatterà alla temperie tribunizia anglofona, con una perpetua attrazione
verso i ribelli: “ogni estremista è rispettabile”, scrive il 7 ottobre del 1907,
sull’onda del romanzo anarcoide, L’agente segreto.
In una lettera a Garnett, il 20 gennaio del 1900, Conrad si lancia in un ricordo
del padre, Apollonius N. Korzeniowski, di plateale potenza:
> “Uomo di grande sensibilità, di temperamento esaltato e sognatore, con una
> terribile dote di ironia e di umor tetro… Il suo aspetto era nobile, la sua
> conversazione molto affascinante, la sua faccia triste quando era serio”.
Patriota, ribelle, giornalista sprezzante, personalità eccentrica, ipnotica,
cupa, letterato genialoide (ma “drammi, poesie, prose furono bruciati dopo la
sua morte secondo il suo ultimo desiderio”), Apollonius è il modello del Kurtz
di Cuore di tenebra, dove sono coinvolti tutti i tormenti e le nostalgie di
Conrad.
Secondo Alessandro Serpieri le lettere di Conrad sono “un’occasione unica per
seguirlo nel suo difficile cammino di uomo e di artista, per sorprenderlo”. In
verità, Conrad è refrattario a raccontarsi, si difende da ogni assalto, in una
celata di cristallo: avendo vissuto, non ha confessioni da sperperare, è come il
suo Marlow, a poppa, con le gambe incrociate, che “rassomiglia a un idolo” e
attende di salpare verso “uno dei luoghi tenebrosi della terra”. L’anima, in
certi uomini, è come un kraken incardinato negli abissi: non è materia per
chiacchiere o lussurie epistolari.
L'articolo “La morte non è nulla”. Joseph Conrad in forma di kraken proviene da
Pangea.
> Qui muore un altro giorno
> Durante il quale ho avuto occhi, orecchie, mani
> E il grande mondo tutto intorno; e domani
> Ne inizia uno nuovo.
> Possibile ne possa avere due?
>
> G. K. Chesterton, “Sera”, da The Notebook
Scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa nelle sue lezioni di Letteratura inglese,
in “Accenni ad alcuni contemporanei” (come ha spiegato Gioacchino Lanza Tomasi,
suo figlio adottivo, lezioni meno “collettive” di quanto si pensi – per lo più
scritte e “adoperate soltanto per [Francesco] Orlando, e lette clandestinamente
da me in blocchi che mi venivano forniti da Giuseppe sotto la consegna del
silenzio”):
> “Gli inglesi passano, a giusta ragione, per essere un popolo silenzioso. Però
> essi hanno prodotto, nel nostro secolo [ventesimo, ndr], quattro dei più
> grandi e inesauribili conversatori che siano esistiti: Chesterton, Wells,
> Huxley e Shaw, massimo fra tutti. E intendo dire conversatori non solamente
> verbali ma gente cui le chiacchiere chilometriche scambiate fra amici non
> bastano: gente che è stata costretta a scaricare in migliaia di pagine le
> chiacchiere ancora inevase. A questa favolosa possibilità di chiacchierare, in
> salotti e in libri, essi dovettero la immensa popolarità che li circondò
> perché essa dovette apparire come una dote magica a quel popolo taciturno,
> tanto più che erano chiacchiere di valore, nutrite di cognizioni vastissime e
> condite dell’humour più genuino. […] ‘Vi è un tempo per parlare e un tempo per
> tacere.’ Questo enunziato di saggezza salomonica restò loro incomprensibile
> sulla terra; speriamo che nei Campi Elisi abbiano trovato il tempo del
> silenzio; speriamolo, voglio dire, per gli altri ché per loro il dover tacere
> equivarrà all’inferno.”
Il principe di Lampedusa si soffermava sorprendentemente su uno di questi
“super-campioni della polemica”, Gilbert Keith Chesterton (1874 – 1936), il
“poeta che danza con cento gambe”:
> “Fra lo scrittore cattolico italiano e quello inglese (o per dire vero di
> qualsiasi altro paese) corre una grande differenza. Lo scrittore italiano che
> si professi chiaramente cattolico è sempre uno scrittore ‘moscio’. Lo
> scrittore inglese (o francese, o tedesco, o americano) che si batte per la
> Chiesa cattolica è sempre uno scrittore ‘duro’. Ciò dipende dal fatto che in
> Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti il cattolicesimo è una religione
> di minoranza di fronte ad altre confessioni e gli occorre decisione,
> aggressività e coraggio per affermarsi e mantenersi. In Francia il
> cattolicesimo è anch’esso in minoranza non già di fronte ad altre forme di
> religione ma di fronte alle varie sfumature della miscredenza.”
In Italia, invece, “il cattolicesimo, oltre ad essere la confessione del
novantasette per cento della popolazione, esce da un periodo di predominio che,
evidentemente, non era producente. Quindi il cattolico italiano è pieno di
rimorsi inconsci ed ha sempre l’aria di scusarsi di esserlo. In Inghilterra i
cattolici sono il cinque per cento ed escono da un lungo periodo di
persecuzione, sanguinosa in principio, patrimoniale e politica dopo, vessatoria
sempre, che li pone nella redditizia posizione di accusatori.”
Concludendo con l’usuale nota ironica: “E così si perpetua quella temperatura di
brodo tiepido che favorisce la germinazione dei microbi ma non dei polemisti”.
*
Se già allora (indicativamente tra il 1953 e il 1955 – Lampedusa sarebbe morto a
breve), la memoria di questi grandi autori tendeva “ad affievolirsi”, oggi GKC
non è ancora presente nel nostro panorama editoriale – Lindau ne traduce l’opera
narrativa e saggistica da una decina di anni (fra gli ultimi: L’uomo comune, La
mia fede, Il Napoleone di Notting Hill…), diverse opere sono state tradotte da
Leardini (con la Società Chestertoniana Italiana) e da Jouvence, nonché da
Adelphi, con il saggio L’età vittoriana nella letteratura(memorabile la quarta
di copertina: “Chesterton era incapace di introdurre anche solo una traccia di
moderazione in ciò che faceva…”). Presso le Edizioni Ares, a cura di Andrea
Monda, è uscita “un’appassionante miscellanea di saggi” scritti negli anni
Venti, Giovani idee. La felicità di pensare (della stessa casa editrice, si
segnala la biografia di Paolo Gulisano e Daniele De Rosa, Chesterton. La
sostanza della fede).
Come suggerisce quest’ultimo titolo, tra le caratteristiche più apprezzate di
questo “spirito paradossale” fu forse proprio l’ironia: le sue poesie, scriveva
ancora Lampedusa, sono “fra le più divertenti che esistano” – così come il suo
modo di presentare “le verità più trite con la testa in giù in modo che esse ci
appaiono inedite”. “Voi, naturalmente,” ammoniva “da buoni italiani che
desiderate la letteratura ‘seria’ per poter più serenamente condurre una vita
non seria, arriccerete il naso. Ma avete torto. Una buona serie di letture
chestertoniane vi farà gran bene.”
Mi viene in mente a proposito un aneddoto raccontato da un suo appassionato
lettore, Simon Leys:
> “Vidi una copia del Napoleone di Notting Hill di Chesterton; conoscevo il
> libro solamente dal titolo, e, per curiosità, l’ho preso e aperto alla prima
> pagina, leggendo l’inizio della prima frase nel Capitolo Uno: ‘La razza umana,
> della quale fanno parte tanti miei lettori…’ Ho comprato il libro seduta
> stante e lasciato di fretta la libreria. La vista di un anziano che ride
> chiassosamente fra sé in un luogo pubblico potrebbe essere piuttosto
> imbarazzante, e non avrei voluto disturbare gli altri avventori.”
Eppure, bisogna al contempo rilevare come già fece Borges – “qualcosa nella
creta del suo io inclinava all’incubo, qualcosa di segreto, e cieco e centrale”
– la sotterranea vena di nero pessimismo attraversante l’umorismo di Chesterton;
sempre Borges: “Poteva essere Kafka o Poe, ma coraggiosamente optò per la
felicità e sostenne di averla trovata.” Lo stesso Leys, citato poco sopra,
nel saggio che gli dedicò (si veda Le Studio de l’inutilité, Flammarion
2012; The Hall of Uselesness, The NYRB 2013), rifletteva a proposito:
> “Uno dei molti equivoci in cui spesso incappiamo intorno alla figura di
> Chesterton è di immaginarlo come un tizio grande, benigno e allegro, sempre
> preso da una inesauribile e innocente risata… Un uomo forse di un’altra epoca,
> il quale difficilmente avrebbe avuto un’idea dei terrori e degli orrori che
> hanno caratterizzato la nostra. Alla fine di questo orribile ventesimo secolo
> – indubbiamente il più selvaggio e disumano periodo della storia – potremmo a
> buona ragione chiederci: con il suo permanente e imperturbabile buonumore, non
> è forse, Chesterton, una sorta di monumento appartenente ad un’altra era – se
> non ad un’altra civiltà? Non dovrebbe forse apparire al lettore moderno come
> un toccante, ma in fondo irrilevante anacronismo? Dacché, dopo tutto, noi
> siamo figli di Kafka: come potrebbe allora Chesterton avere a che fare con le
> nostre ansie?”
Tuttavia – continuava Leys – “il fatto è che Kafka stesso trovò in Chesterton
uno specchio per le proprie ansie. Sappiamo dalla testimonianza di un suo
giovane amico e ammiratore, Gustav Janouch, che Kafka ammirava in modo
particolare L’uomo che fu Giovedì (che è per l’appunto, l’opera narrativa più
riuscita e affascinante di Chesterton). A proposito di questo libro, si dovrebbe
notare tra l’altro che Chesterton stesso si lamentò, una volta, che la maggior
parte dei suoi lettori sembravano non essersi resi mai pienamente conto della
seconda parte del titolo: L’uomo che fu Giovedì: UN INCUBO. Ma quest’ultima
parola, certamente non dovette scappare a Kafka.”
*
Anche Lampedusa aveva indicato tra i migliori libri di Chesterton, insieme
ad Ortodossia e ai racconti di Padre Brown, proprio L’uomo che fu
Giovedì (1908):
> “è un conte philosophique di Voltaire in ambiente mondano e soprattutto, col
> bersaglio mutato. In esso s’intende deridere la scienza moderna e la filosofia
> sulla quale essa si appoggia, che finisce con l’identificare il Male al Bene.
> […] Ma a parte l’estrema maliziosità comune ad entrambi, essi [Chesterton e
> Voltaire] hanno il segreto del movimento rapidissimo che non lascia riflettere
> e la facoltà di saper incarnare in personaggi viventi le più astratte opinioni
> filosofiche. Il buon umore continuo, l’attitudine caricaturale, le subitanee
> frasi rivelatrici d’inaspettate profondità teologiche fanno di questo
> romanzetto un capolavoro.”
Tra l’altro, già nel 1999, all’alba del nuovo millennio, Leys ne consigliava la
lettura accostando questo romanzo soltanto a L’agente segreto di Conrad (scritto
negli stessi anni, a cui anche dedicò un articolo intitolato “‘Je ne suis pas
d’ici’: Joseph Conrad e L’Agent secret”) includendolo nei “tesori dimenticati”
della letteratura del novecento, con la motivazione: “È l’unico romanzo
nell’intera storia della narrativa, nel quale si è potuto introdurre Dio come
plausibile personaggio!”
Sullo sfondo di questa cosmica detective story, con poliziotti e agenti segreti
che rincorrono anarchici e pessimisti (“L’investigatore comune va nelle bettole
ad arrestare i ladri, noi andiamo nei salotti culturali a scovare i
pessimisti”) occupato dall’ambigua figura del presidente del Consiglio anarchico
Europeo, soprannominato Domenica, si svolge un adrenalinico combattimento
metafisico – che, prestandosi a diversi livelli di interpretazione, lascia al
lettore anche dopo diverso tempo alcuni interrogativi esistenziali: come avere
la certezza che quel facciamo è giusto o sbagliato? Siamo davvero sicuri di
sapere contro chi stiamo combattendo? E sappiamo per davvero, nei nostri sforzi,
quando siamo nella direzione giusta?
Difficile rispondere, ad ogni nuova situazione concreta, ed è proprio questo
l’incubo che Chesterton qui inscena, mettendo i suoi personaggi sulla strada di
prove sempre più estreme (“si ricordava di come la paura per il Professore
assomigliasse a quella che generano gli eventi incontrollabili di un incubo e di
come la paura per il Dottore assomigliasse a quella del vuoto soffocante della
scienza”…) con un esito sempre inaspettato, senza che tuttavia si tirino mai
indietro di fronte ad esse. E cogliendo un aspetto profondo della sua – e della
nostra società.
Andrea Corsi
*
Da L’uomo che fu Giovedì
“In fondo, non era forse vero che tutto, come in quel bosco incantato,
consisteva in una danza tra il buio e la luce? Ogni cosa è solo un bagliore, un
bagliore che giunge sempre inaspettato e che sempre viene subito dimenticato.
Ecco che Gabriel Syme aveva trovato nel fitto di quel bosco punteggiato di luce
ciò che vi trovarono molti pittori moderni: era ciò che la gente moderna
definisce Impressionismo, un altro nome per identificare quello scetticismo
estremo, incapace di trovare le fondamenta dell’universo.”
“Syme balzò in piedi, fremendo dalla testa ai piedi: «Ora capisco, – gridò –
capisco tutto. Perché ogni singola cosa sulla Terra fa guerra a tutte le altre?
Perché ogni piccola cosa esistente al mondo deve combattere contro il mondo
intero? Perché una mosca deve combattere contro l’intero universo? Perché un
dente di leone deve combattere contro l’intero universo? Per lo stesso motivo
per cui io dovevo sentirmi da solo in mezzo al tremendo Consiglio dei Giorni: e
cioè, affinché ogni cosa che obbedisce alla legge possa avere la gloria e la
solitudine dell’anarchico, affinché ogni uomo che combatte in nome dell’ordine
possa essere tanto impavido e devoto quanto un terrorista. Solo così la bugia di
Satana può essere ritorta contro quella sua faccia da bugiardo, solo così noi
possiamo guadagnarci il diritto, attraverso le lacrime e il sangue versato, di
dirgli in faccia: ‘Tu menti!’. Nessuna sofferenza è troppo grande, se ci fa
guadagnare il diritto di dire in faccia a quest’accusatore: ‘Anche noi abbiamo
sofferto’.”
L'articolo Monumento a Chesterton, lo scrittore che poteva essere Kafka ma optò
per la felicità proviene da Pangea.
La chiamavano Squirearchy: un nome per un sistema, ovvero un’egemonia culturale
in grado di dominare l’intero panorama letterario britannico. E se a dirlo erano
quelli di Bloomsbury (dando man forte all’amico T.S. Eliot) – state pur certi –
il commento poteva diventare legge, per ingiusta che fosse la fama.
Dagli scribacchini delle maggiori testate giornalistiche ai poeti e critici più
influenti del primo Novecento, gli “Squirearchisti” si configurano come gli
eredi di un conservatorismo che potremmo definire – con le giuste misure
– tipicamente “georgiano”, intriso di nostalgia per un passato nazionale
spazzato via dalla Grande Guerra.
Non era quello del resto il mondo dei garden parties, abbondante di latte e
miele, in cui il privilegio di classe si misurava, in primo luogo, sui campi da
cricket e nei collegi più prestigiosi, dove venivano formati i figli dell’Impero
destinati alle cime dell’establishment? Una sorta di età dell’oro che
l’Inghilterra avrebbe provato ciecamente a rianimare durante il «lungo week-end»
interbellico (descritto da Robert Graves in A Social History of Great Britain
1918-1939), nascondendo le sue ferite dietro il fascino della tradizione.
Eppure, era svanito da secoli il sogno edenico di una «England’s green e
pleasant land», eretta sulle colline dell’innocenza di William Blake (And did
those feet in ancient time), dal futuro rigoglioso di «fresh woods and pastures
new», memore della profezia di Milton (come detta la pastorale Lycidas), lontano
anni luce dalla desolazione novecentesca.
Al vertice di questa élite di intellettuali e scrittori controcorrente che,
asserviti a un ideale comune, esercitavano ancora piena autorità nel mondo delle
lettere, spicca il genio poliedrico di John Collings Squire. Poeta, giornalista
e editore di base al “London Statesman” (per cui scrisse recensioni sotto lo
pseudonimo di “Solomon Eagle”), all’inizio della sua carriera si distinse sulle
colonne della rivista fabiana per la dote eccezionale nella parodia.
Riconosciuto ben presto dalla critica come uno degli uomini più colti e
versatili del suo tempo, era pure un militante tradizionalista in campo poetico,
una vera e propria spina nel fianco per la controparte modernista che avrebbe
cambiato una volta per tutte gli orizzonti contemporanei.
J.C. Squire (1884-1958), l’ultimo leader georgiano
Fra gli studenti di spicco del St John’s College, il talento di Cambridge –
laureato in storia e traduttore di Baudelaire – si era fatto strada nella
capitale grazie alla serie di antologie curate da Sir Edward Marsh – cinque in
tutto e dalla vita breve – sotto il titolo solenne di Georgian
Poetry (1911-22). Insieme a Lascelles Abercrombie, Walter de La Mare e al
capofila Rupert Brooke, figura negli ultimi tre volumi, trovando posto accanto a
penne del calibro di John Masefield, Robert Nichols e John Drinkwater. Sulla
scia dei compagni – i quali si consideravano a loro modo moderni e progressisti
per l’epoca –, anche Squire, in quella fase, componeva versi ispirati dalla
bellezza della natura, profusi d’amor patrio (per ciò additati dai posteri di
non poco sentimentalismo) e devoti a un’agreste “Merry England”. Prendendo a
modello i classici – dal “Green World” di Shakespeare e l’Arcadia di Sidney alle
ballate romantiche –, i giovani Georgians intendevano estirpare dalla poesia
inglese la densità stilistica e la carica retorica di un vittorianesimo fuori
tempo, riportandola al lessico ordinario e alla purezza formale di un primo
Wordsworth.
Con la ripartenza postbellica, fu proprio Squire ad assumere il ruolo di tenace
oppositore delle tendenze radicali (Eliot e Pound erano già sulla
scena), difendendo l’esperienza georgiana fino agli ultimi fuochi. Per queste
ragioni, diede alle stampe la sua antologia di idoli poetici, Selections from
Modern Poets (1921; ristampata a più riprese lungo un decennio). La silloge
epocale non mancava di includere alcuni autori sfuggiti volutamente dall’indice
di Marsh come dal successivo Oxford Book of Modern Verse 1892–1935 (pubblicato
nel ’36 da W.B. Yeats), in specie i poeti di guerra Wilfred Owen e Charles
Sorley, per non tacere l’orrore del fronte. Infatti, se non lo si può annoverare
strettamente fra i poeti combattenti, il noto curatore (risparmiato dalla leva
per problemi alla vista) era comunque un war poet di protesta – a dire il vero,
uno dei primi, alla pari di Siegfried Sassoon – attivo sull’home front. In
quanto tale, non poté trascurare le pagine più terribili e toccanti della storia
umana, ora macchiate dalla descrizione di fetide trincee ora puntellate da
invettive di accesa satira politica.
A interrompere quel filone poetico dalle dimensioni utopiche, il 1922 –
ricordato come l’annus mirabilisdella letteratura anglofona – segnò la svolta
definitiva, una cesura dirimente sfociata in un dibattito critico tra tradizione
e modernità. In sostanza, lo schieramento vedeva l’autore della Waste Land e i
suoi fervidi seguaci contro la coterie formata da Robert Bridges (Poeta Laureato
fino al ’30) e georgiani: una lotta tra titani, non excludit alterum.
Inesorabilmente, dopo gli anni del conflitto, il lavoro monumentale di quei
poeti ragazzi precoci e brillanti, che si impegnarono con ardore nel progetto
sostenuto dal patrocinio di Marsh – al fianco di Harold Monro che li ospitava
presso il suo Poetry Bookshop –, poteva dirsi concluso e superato da istanze
sperimentali ritenute più adatte a rappresentare i rapidi mutamenti spirituali,
epistemici e culturali del nuovo secolo. Da qui, l’oblio – di cui purtroppo
siamo testimoni tutt’oggi – della poesia d’anteguerra, destinata a cadere nel
baratro dell’anacronismo perché sintomatica di quel “mondo di ieri” stravolto
dalle bombe, che il pubblico di lettori volle allontanare dalla vista e dal
cuore.
All’enorme interesse editoriale del tempo fece quindi seguito una sfortunata
ricezione, a cui contriburono i pareri di una critica insofferente a stilemi e
toni non più riproducibili nell’era moderna. Al netto delle singole esperienze
poetiche pressoché eterogenee (si pensi al camaleontico Brooke e ad altri che vi
entrarono di sguincio, come D.H. Lawrence), da una parte le forme metriche ormai
desuete apparivano troppo ancorate alla classicità, dall’altra la vena
nostalgica e il riparo bucolico entro il confine delle contee assimilavano il
profilo del Georgian poet a quello di un arcade moderno. Cantore della vita
semplice e abitante di una realtà rurale rimasta ai margini dello spaesamento
metropolitano, il timbro imperiale era capace di prestare le proprie corde a
un’armonia perduta nel caos contemporaneo, estraneo in definitiva all’apertura
trasnazionale del Modernismo.
In questo complesso scenario, J.C. Squire divenne, assieme ai “suoi”,
l’animatore di punta di una polemica incendiaria, arrivando a monopolizzare –
fino alla saturazione, secondo l’acuto Alec Waugh – le vette delle principali
riviste letterarie, dal “New Age” allo “Statesman”. Con alacrità, il portavoce
del gruppo investì tutte le sue energie, come scrittore prima ancora che come
editore, per tenere alto lo stendardo reale anche dopo la dispersione dei suoi
membri (alcuni dei quali morirono in servizio militare nel fiore dell’età).
A tarpargli le ali, nell’immediato dopoguerra, il giudizio poco lusinghiero
di Virginia Woolf, e con lei quello dissacrante di Lytton Strachey, saettava
nell’opinione pubblica come una sentenza che non gli rendeva affatto giustizia
come letterato. Per la regina di Bloomsbury, era solamente un tipo “volgare, […]
più ripugnante di quanto si possa esprimere a parole, e perfido nei suoi
malaffari”, mentre l’eminente Strachey lo definì “un lurido verme”. Molti, poi,
ne riconobbero l’enome potere persuasivo, tacciandolo di orientare il parere del
pubblico fino a dominare il mondo giornalistico con le sue frivolezze: “Se ce la
fa, sarà difficile vedere qualcosa di buono”, affermò l’acerrimo nemico T.S.
Eliot (nonché futuro direttore per i tipi Faber). Secondo Robert H. Ross (The
Georgian Revolt, 1967), intorno al 1920 Squire era sulla buona strada per creare
una cerchia letteraria right-wing tanto influente quanto i circoli di sinistra,
in diuturna competizione con l’Athenaeum presieduto da John Middleton Murry
(marito di Katherine Mansfield).
Per coloro che l’avevano conosciuto in amicizia e per contratto, invece, era un
modello di dissimulazione e simpatia affettata, dalla scusa sempre pronta, ma
anche un uomo generoso, infaticabile nel suo lavoro e, senza ombra di dubbio, un
vero intellettuale engagé. Di casa ai ricevimenti dell’aristocratica Lady
Ottoline Morrell, l’allegro personaggio mondano dalla parlantina accattivante –
espertissimo di formaggio Stilton come dell’ultima uscita editoriale – adunò una
larga schiera di giovani promesse (a esclusione dei rivali bloomsburiani). Nel
1927 fu perfino commentatore radiofonico nei tornei di Wimbledon e creò una
propria squadra di cricket, The Invalids, composta da reduci di guerra rimasti
feriti in azione, che avrebbe fatto invidia ai vecchi Allahakbarries (per
intenderci, Conan Doyle, J.K. Jerome, eccetera) capeggiati da James Barrie.
La scalata verso il successo lo aveva lanciato, dal 1919, negli uffici del
mensile “London Mercury”, una delle prime riviste a carattere esclusivamente
letterario, da lui riportata in auge con un’intensa attività di redattore (che
gli valse nel 1933 il titolo di cavaliere del Re, dunque fu eletto Sir).
Associato a un sostrato upper-middle class, il periodico diventò sotto la sua
ala l’avamposto georgiano per antonomasia. D.H. Lawrence vi contribuì con la
poesia Snake (1921) e più tardi tornò sul pezzo in Nettles:
> Quando Mercurio arrivò a Londra
> Lo fecero “sistemare”.
> Lo salvarono da tante associazioni indesiderate.
> A questo punto tutte le ziette lo adorarono
> Perché, vedi, non è “né carne né pesce, mia cara!”
I rapporti altalenanti con l’enfant terrible del romanzo inglese duravano da
quando, in una recensione del 1915 a The Rainbow, Squire lo aveva sì difeso
dalle accuse di indecenza ma senza nascondere il suo disappunto per lo scarso
valore letterario del libro. Così un furioso Lytton Strachey rispose: “Siano
dannati i suoi occhi!”.
A darne un’impietosa caricatura si precipitò anche il maestro della
satira Evelyn Waugh nel romanzo d’esordio Decline and Fall (1928). In queste
pagine, l’accanito georgiano incarna la figura di editor fazioso
dell’immaginario “London Hercules”, Mr Jack Spire, e certi suoi tratti si
nascondono dietro l’eccentrico Augustus Fagan, Esquire (Cavaliere), PhD in
filosofia e rettore presso il Castello di Llanabba (sede della peggiore public
school del Galles). O ancora, nel romanzo England, Their England (1933) è il
bersaglio comico di A. G. Macdonell, nei panni di Mr. William Hodge, il leader
sfacciato del “London Weekly”.
Come i suoi alter ego letterari, quella di Squire è a tutti gli effetti una
storia di trionfo e fallimento. Dal bel mondo di Londra alla consunzione fatale
per alcolismo, una volta caduto in disgrazia, si ritrovò isolato dal giro
dell’alta società conosciuta in gioventù. Dopo essere stato lettore per
Macmillan e tornato a recensire per il settimanale “Illustrated London
News”, col tempo la fiaschetta facile prese il posto della penna. Avversato
dagli augusti Sitwell e assalito da violente accuse di fascismo (per aver
incontrato il Duce in qualità di membro dell’esclusivo January Club) si ritirò
in un remoto cottage, che andò distrutto in un incendio, e da lì in una magione
del Weald. Ma il crollo finale giunse alla perdita del figlio Maurice, ucciso
nella Seconda guerra mondiale.
Tra successi e dispute letterarie, il vecchio Jack scomparve nel 1958 dopo una
lunga e mirabile carriera. Degli anni ruggenti che lo videro protagonista era
scomparso quasi tutto, compreso l’ideale per cui aveva combattuto.
Ciononostante, la sua apologia resta scritta, come una rivelazione, ne La legge
del più forte (1916):
“Questi erano i miei amici; Strachey, tu non li conoscevi,
Perché erano uomini semplici, senza pretese […]
Se solo avessero avuto il privilegio di radunarsi
Ai piedi di Gamaliele, avrebbero capito
Che anche l’odio e il massacro hanno il loro splendore,
E che l’uomo non può vivere di solo Amore […]
Davanti ai loro occhi si ergeva
L’Inghilterra, crociata immemoriale,
Una grande statua-sogno, assisa e serena,
Che molto sangue aveva versato, e figli traditori,
Ma ancora risplendeva con mani e vesti intatte […]
E Lei, pur significando un passaggio amaro e veloce,
Dovevano servire, poiché Lei serviva la Libertà,
Romanzo e retorica! Eppure, nutriti da tali sciocchezze,
Affrontarono i cannoni, i morti, i topi e la pioggia.
E tutti, in un mese, mentre l’estate svaniva, perirono;
Avevano occhi limpidi, corpi forti, e anche un po’ di cervello.
Strachey, questi sono morti. Che bisogno c’è di dire altro?”
*
Un canto
I teneri petali cadono e l’albero che ondeggia lieve
Ha conosciuto molte primavere e ha visto molti petali,
Anno dopo anno, spargersi sui verdi sentieri silenziosi,
Sulla statua, lo stagno e il basso muro pieno di crepe.
Sbiadito è il ricordo delle vecchie cose che furono,
La pace aleggia sulle rovine di antichi banchetti;
Esse giacciono e scoloriscono nel calore del sole,
E un cielo azzurro-argenteo si incurva su tutte loro.
Così dolcemente, teneramente, adesso il cuore si desta
Con desideri lievi e informi; e, senza cercare, trovo
Pensieri quieti che guizzano come martin pescatori azzurri
Sul placido specchio illuminato della mente.
*
Sonetto
C’era un indiano, rimasto sempre giovane,
Che vagava sereno lungo una spiaggia assolata
Raccogliendo conchiglie. D’improvviso udì uno strano
Rumore confuso: alzò lo sguardo; e restò senza fiato.
Perché nella baia, dove non c’era niente prima,
Avanzavano sul mare, come per magia, grandi canoe,
Con le vele gonfie sugli alberi, senza neanche un remo,
Le insegne colorate sventolavano e le ciurme si arrampicavano.
E lui, impaurito, quell’uomo solo e senza vesti,
Le mani cadute, dimentiche di tutte le conchiglie,
Le labbra impallidite, si inginocchiò dietro una roccia,
Fissava, vedeva, ma non comprendeva,
Le caravelle di Colombo, gravide di destino,
Inclinarsi verso la riva, e tutti i loro marinai pronti allo sbarco.
*
Paradiso perduto
Quali colori possedeva la luce del sole e quant’erano ricche le ombre,
Le ombre azzurre e intricate che cadevano dai rami incrostati
Di meli deformi sull’erba del frutteto.
Quale blu celestiale era il colore di due uova lisce e morbide
Immerse nel fango arrotondato che rivestiva il nido del tordo:
E quale profondo piacere davano le macchie che le punteggiavano.
E quel piccolo ruscello che correva da siepe a siepe,
Ombreggiato dagli alberi e scintillante nei raggi del sole,
Quant’era limpida l’acqua, i letti piatti di sabbia
Con bolle di riflessi vaghi, ciascuno un piccolo mondo dorato
Ai miei occhi incantati. Allora la terra mi appariva nuova.
Ma ora cammino su questa terra come fosse un ripostiglio,
E a volte vivo una settimana, vedendo solo semplici erbe,
Pietre e uccelli migratori: né guardo qualcosa
Per abbastanza tempo da sentirne l’assalto calmo e deliberato:
La sua forza, la sua parola, il suo cuore regale.
L’infanzia non tornerà; ma non ho forse la volontà
Di tendere la mia mente torbida, che fertilizza ogni cosa esteriore,
E, aperto di nuovo a tutti i miracoli della luce,
Vedere il mondo con gli occhi di un cieco che torna a vedere?
*
Luce stellare
Ieri notte giacevo in un campo solitario
E guardavo le stelle con le labbra sigillate;
Nessun rumore muoveva l’aria senza vento,
E guardavo le stelle con sguardo fisso.
Ce n’erano alcune che scintillavano e altre che brillavano
Con un bagliore morbido e uniforme, e una
Che regnava sul circolo sparso,
Oscillando la schiera con tacito suono.
“Calme creature,” pensai, “nella vostra caverna azzurra,
Imparerò a conoscervi, a trattenervi e a dominarvi;
Vi metterò al giogo e vi irriderò come posso,
Perché l’orgoglio del mio cuore è l’orgoglio di un uomo.”
Con l’erba sulla guancia nel campo rugiadoso,
Giacevo immobile, le labbra serrate
E l’orgoglio di un uomo dallo sguardo rigido
Che cavalcavano come spade i sentieri del cielo.
Attraverso un varco imprevedibile si insinuò
L’Universo, spargendosi sulla mia anima;
Veloci andarono il respiro e il cuore,
E guardai le stelle a labbra socchiuse.
*
La morte di un cane
La grossa zolla di terra cade nella fossa come un respiro tranquillo e regolare;
Troppo simile al suo, per un attimo il suono mi inganna:
Copre il mucchio di felci che il giardiniere ha posto sopra di lui;
Il badile oscilla silenzioso: eccola la sua tomba.
Una chiazza di terra fresca sul pavimento della camera fertile del bosco:
Tutto intorno l’erba, il muschio e i germogli verde scuro del giacinto;
E sopra gli alberi, querce già vecchie quando il suo cinquantesimo antenato era
un cucciolo;
E distanti, nel giardino, sento le grida dei bambini.
La loro gioia è lontana come un sogno. È strano come comperiamo il nostro dolore
Per toccare cose che periscono, oziosamente, con gli occhi aperti;
Come diamo i nostri cuori a bestie moribonde che durano poche stagioni,
Senza curarci di ciò che facciamo quando lo facciamo; né vorremmo altro.
*L’introduzione, la scelta e la traduzione dei testi sono di Pierluigi Piscopo.
*Per approfondire la vita e l’opera di J.C. Squire si consigliano i seguenti
volumi:
P. Howart, Squire. ‘Most generous of men’, Hutchinson, 1963.
J. Smart, Shores of Paradise. The Life of Sir John Squire: The Last Man of
Letters, Troubador, 2021.
T. Rogers, a cura di, Georgian Poetry 1911-22: The Critical Heritage, Routledge,
2013.
K. Hale, a cura di, A Compilation of Georgian Poetry 1911-22, Watersgreen House,
2016.
In copertina: John Mansbridge, Ritratto di Sir John Collings Squire, 1933-34.
L'articolo “Diamo i nostri cuori a bestie moribonde”. J. C. Squire, il critico
più odiato degli anni Venti proviene da Pangea.
In un articolo pubblicato sulla “London Review of Books” nel marzo del
1993, Under the Sphinx, Alasdair Gray, l’istrionico scrittore scozzese che
l’anno prima aveva pubblicato Povere creature!, esalta, con il suo linguaggio di
fulmini e coltelli, un libro – o meglio, un poeta. Il libro s’intitola Places of
the Mind, lo ha scritto un ‘collega’ di Gray, Tom Leonard (1944-2018), noto, più
che altro, per le poesie – masticate nel dialetto di Glasgow – e gli studi
critici, tesi a dimostrare l’autentica autarchia della letteratura di Scozia. Un
paio di anni prima, aveva pubblicato un acceso poemetto contro la guerra in
Iraq, On the Mass Bombing of Iraq and Kuwait, commonly known as The Gulf War. In
quel libro – Places of the Mind –, “un’autentica opera d’arte più che uno studio
critico” (così Gray), Leonard racconta “The Life and Work of James Thomson”,
geniale, oscuro, misconosciuto poeta nato a Port Glasgow nel novembre del 1834 e
morto, quarantasettenne, a Londra. Abusava di oppio, fece della poesia –
drammaticamente – la propria ragione di vita; nelle rare fotografie ha la barba,
lo sguardo tra il rabbioso e il rassegnato. Secondo Gray, “la vita di Thomson
riflette lo stato della Gran Bretagna in modo più completo di altri autori della
propria epoca, ad eccezione di Gerard Manley Hopkins e di Thomas Hardy”.
L’opera più nota di Thomson, il poemetto The City of Dreadful Night (in Italia
ne esiste una versione a cura di Mili Romano, stampata da Panozzo nel 2000),
uscito in edizione definitiva a Londra, per Reeves and Turner, nel 1880, pare
abbia ispirato la “Unreal City” su cui si incardina La terra desolata di Thomas
S. Eliot, è dedicato To the memory of the younger brother of Dante, Giacomo
Leopardi, “Spirito vertiginoso, genio radicale, finito tragicamente”. A dire di
Gray, The City of Dreadful Night nasce sotto l’egida della Melancolia di
Albrecht Dürer:
> “L’Inferno secondo Thomson è la città moderna, dove il sole non sorge mai, la
> gente vaga insonne per le strade, priva di fede, speranza, amore… Shakespeare
> ha descritto un universo privo di senso ben prima di Thomson e con parole ben
> più memorabili, ma i suoi portavoce sono re folli, comunque, personaggi
> importanti, eroici. Gli abitanti della City di Thomson, invece, sono creature
> anonime, esseri cupamente stoici. Alcuni, rammemorano una vita in cui hanno
> cercato di fare del bene: risvegliatisi ‘in questa notte totale’ hanno capito
> che la memoria è un’illusione”.
Figlio di un maggiore della marina mercantile, madre profondamente religiosa,
sconfitta da un perpetuo senso di colpa, morta che lui aveva sette anni, Thomson
cresce al Caledonian Orphan Asylum, tenta la via del giornalismo, vive, in
sostanza, di stenti. Scrisse sul “Secolarist” e sul “National Reformer”, firmava
i suoi versi B.V., ovvero Bysshe Vanolis, in onore dei suoi miti, Shelley e
Novalis. George Eliot e Meredith riconobbero a Thomson le stimmate del genio;
l’autore non aveva modo – cioè: soldi – per farsi notare tra i club dei
letterati dell’epoca. Henry Stephens Salt – biografo di Shelley e di Thoreau –
nella nota su Thomson redatta per il Dictionary of National Biography, scrisse
di “uno spirito indomito congiunto a una nefasta malinconia”, di uno “zelo
ardente per la democrazia e il libero pensiero che si coagulava a un’ostinata
diffidenza nel progresso umano”. Disse che più che a De Quincey, la sua ricerca
lirica si legava a Heinrich Heine, che aveva tradotto.
James Thomson (1834-1882)
Di contrasto ai grigi orrori della vita ‘moderna’, Thomson si figurò un Egitto
dei sogni, proteso – come tutti gli esotisti dell’Ottocento, stretti tra Le
mille e una notte e le visioni degli antichi poeti persiani – verso un Oriente
che in lui, tuttavia, ha tinte dispotiche, cannibali (così almeno nella raccolta
postuma A Voice from the Nile, and Other Poems, 1882). Non si permise di avere
pace, tentò di credere, ma di Dio intravedeva soltanto le vertigini, le vette
feline di chi chiede tutto per quasi nulla, un refolo di quiete. A suo avviso, i
poeti dovevano sondare la disperazione – anche quando è rattenuta da muta
nostalgia – e i filosofi il mistero della morte.
La nota della Encyclopædia Britannica che lo riguarda mette in luce le debolezze
di questo ‘stile’: monotonia, palustri lungaggini, “mera retorica e verbosità”.
James Thomson – la cui forma eletta è il poema, un dire che sa di pilastro,
anacoresi da stilita –, in sostanza, è uno di quei poeti che riescono bene in
regesto antologico, in grado di riferirne l’eccezionalità: “Inutile classificare
questo poeta: la sua angusta ma solitaria altezza gli garantisce il ruolo di una
ben distinta originalità… Pur con i suoi limiti, il tempo dimostrerà che la sua
è un’opera straordinaria quanto unica”.
Anche in Italia era noto: Salvatore Rosati redige per la “Treccani” (edizione
1937) una nota tutto sommato esatta:
> “Temperamento ricco d’immaginazione ma con un vivo senso della realtà; mosso
> da elevate aspirazioni spirituali ma prostrato da una grave melanconia e dallo
> scetticismo verso ogni forma di umano progresso, il Thomson ha tratto da
> queste tendenze contrastanti una poesia cupa, fortemente drammatica,
> intimamente simbolica”.
Alasdair Gray ‘canonizza’ Thomson “Nel club delle rare anime capaci di
confrontarsi con il peggio, le anime depresse per cui la poesia agì come un
tonico. Se leggiamo Thomson con acume, scopriamo che del suo mondo fanno parte
Leopardi e Schopenhauer, Baudelaire, Melville, Thomas Hardy e l’autore
dell’Ecclesiaste”. Lo scozzese non ha sbagliato mira. Quanto a Leopardi, è stato
il nume totale di Thomson, che realizzò una traduzione mirabile – a detta dei
critici – delle Operette morali e dei Pensieri (gli Essays, dialogues and
thoughts di Leopardi a cura di Thomson uscirono soltanto nel 1905, per la cura
di Bertam Dobell).
Quanto a Melville, Thomson fu la bella lettura della sua vecchiaia. Era stato
l’oxfordiano Charles James Billson (1858-1932), altrimenti noto per una
scolastica traduzione dell’Eneide e per uno studio sulle tradizioni medioevali
di Leicester, a fargliene dono. Gli scrisse la prima volta nell’ottobre del
1884: Melville viveva ormai da semisconosciuto, sepolto nelle sue lugubri
riflessioni oceaniche – “Nessuno sembra sapere nulla del solo grande scrittore
di immaginazione che possa stare alla pari di Whitman su quel continente”, aveva
scritto Robert Buchanan –, i romanzi esauriti da anni. Chiedendogli notizie
“di altri miei libri” – White-Jacket, Clarel, Battle Pieces – gli fece dono dei
libri di Thomson. Il commento di Melville non si fece attendere:
> “Il vostro amico era un poeta genuino, se mai ve ne è stato. Quanto al suo
> pessimismo, per quanto io stesso non sia né pessimista né ottimista, tuttavia
> mi piace nei versi se non altro come risposta all’esorbitante fiducia,
> immatura e superficiale, che fa tanto chiasso ai nostri giorni, almeno in
> certi luoghi”.
Il rapporto epistolare tra i due durò qualche anno, concentrandosi quasi
maniacalmente sull’opera di Thomson. Nel poeta morto troppo giovane, spossessato
del successo, Melville riconobbe un altro se stesso:
> “Quanto al suo non aver ottenuto la ‘fama’, che significa? Non è per questo da
> meno, ma tanto maggiore. Deve esservi passato per la mente, come a me, che più
> la nostra civiltà avanza sulla linea attuale più a buon mercato diventa la
> ‘fama’, specie di tipo letterario. Questa specie di ‘fama’ una mia conoscenza
> burlona dice che può essere prodotta su ordinazione…”
>
> (H. Melville a J. Billson, New York, 20 dicembre 1885, in: H. Melville, Opere,
> a cura di M. Bacigalupo, Mondadori, 1991)
Da qualche tempo, anche come una reazione al ‘linguaggio’ del tempo, Melville
era tornato alla poesia. Pubblicava piccole placche, in tirature limitatissime
(venticinque copie): John Marr and Other Sailors esce dai torchi nel
1888; Timoleon, Etc. nel 1891. Forse la lettura di James Thomson, poeta
decentrato da una malia oscura, fiero della propria ricercata marginalità, lo
aveva rinvigorito, gli aveva conferito nuovo veleno lirico.
In cambio dei volumi di Thomson – compresa la raccolta di saggi al
vetriolo, Satires and profanities, anch’essa edita postuma – Billson avrebbe
voluto una fotografia di Melville. Il grande scrittore si scherma – “mi avete
chiesto una fotografia: non ne ho” –, poi parla di Blake – “Mi fa piacere
apprendere che Thomson era interessato a William Blake” – spalancando lo spazio
di un incontro. Gli altri si occupino pure di fotografie, meri calchi del
transitorio, Melville imbarcava una ciurma di poeti esagitati per cacciare la
Balena Bianca nell’altro mondo. Cosa può il tempo di fronte a questo sgarbo?
***
Da Una voce dal Nilo
Vengo da monti diversi, vivo sotto
stelle che non si riflettono su queste acque;
vago per vasti regni, per cieli capodoglio scorro
oltre dune arabe e libiche, per immergermi
nel grande Mare di Mezzo ed è mia
questa terra d’Egitto. Tutto è mio:
la palma e la colomba che la elegge a tana
i campi di grano e ogni fioritura
la pazienza del bue e il coccodrillo
l’ibis l’airone il falco
il loto e i papiri in falange
le barche dalle vele oblique
o le ripide che spezzano ogni ormeggio.
Perfino i volti possenti dei templi
con le colonne e le enormi effigi,
le piramidi e Memnone e la Sfinge
il Cairo e le città dei Greci
come Menfi e Tebe dalle cento porte
Sais e Dendera retta da Iside;
se sono cresciuti è perché li ho nutriti.
Se nego il mio flusso, carestia
devastante miete vittime tra gli uomini
che nulla hanno da mietere
e orrore e languore sgorgano ovunque;
quando, retrattile, ho deviato altrove
i miei eterni fiumi, gli antichi reami
si sono inariditi, fama infame li affligge,
ricoperti dalle sabbie del deserto:
scompaiono sepolti e dov’era oro
ora è silenzio solitudine morte.
L’esattezza del silenzio, mentre trottano
i venti sopra la desolazione, implacabile.
*
Da Despotismo temprato dalla dinamite
I miei schiavi, gente dei campi, lavorano
senza fine e dormono, da fatica sfiancati.
Non sperano in un mondo migliore
eppure, disperati, la morte non li avvinghia nell’incubo.
Si accontentano del loro scarso cibo, in pace –
con terrore guardo al giorno della mia incoronazione.
I palazzi sono la mia prigione;
in ogni cibo intravedo il veleno;
ovunque mi muovo, è timore
di esplosione, istantanea devastazione;
con terrore, ogni giorno, ogni notte, con
moltiplicata paura, guardo al giorno della mia incoronazione.
*
Da The City of Dreadful Night
A volte soltanto la rabbia, fredda
può mostrare gli sfregi della verità
nuda, spoglia di ogni inganno:
i falsi sogni, i falsi moniti,
le futili maschere della moina giovinezza
e in una specie di indocile innocenza
plasmare il dolore in vita, per quanto rozza.
Di certo, non scrivo per i ragazzi pieni
di speranze, per chi crede nella felicità
e pascola e ingrassa tra gli spettacoli dell’esistere
senza provare dubbio, senza sentire carenza e carestia
non scrivo per gli spiriti buoni, allattati
da un Dio che li santifica e li ama
né per i saggi che vedono il paradiso in terra.
Per costoro non scrivo: non potrebbero
neppure leggere questo scritto – continuino
pure a prosperare nella loro giustizia
su questa dolce terra, veleggino
pure nei loro appropriati cieli. Queste parole
appartate importano ai desolati, ai rosi
dal destino, a quelli che desiderano morte.
Qualche stremato vagabondo, forse,
in questa città di tremende notti
capirà il mio dire, franerà in un fremito
compagno nella disastrosa lotta:
“Soffro, muto e solo, eppure un altro
ulula comune dolore e mi fa sentire
fratello sugli stessi sentieri selvaggi”.
Triste fratellanza, rivelo forse
misteri imbavagliati dal tempo?
No, nessun segreto può essere
rivelato a chi non lo ha visto.
Chi non è iniziato ai presagi
non può comprendere il verbo
che continuo a urlare.
*
Da Nuda divinità
D’improvviso, le bestie si accucciano;
gemono, sopraffatte; i popoli
cadono in ginocchio davanti
alla dea feroce e splendida
offesa per incuria;
flebile preghiera mormorano
inarticolate disperazioni
finché il suo aspetto altero
non si svolge in gentilezza.
*
Confessione
La Chiesa si erge laggiù, oltre il frutteto:
con quanta nostalgia contemplo le sue guglie!
Mistero eletto dal crepuscolo che si dissolve
in un fuoco dorato, come tenue incenso
dilaga all’alba e scava i cieli.
Quando il cuore sprofonda nel baratro
più fondo, un sussurro mi rincuora: è bello
entrare in chiesa, inginocchiarsi, pregare
per le persone che amiamo.
Ogni incredulità svanisce, la pace
scorre in noi come la campana nel Sabato.
L’anima risponde: Il buon riposo accade
quando appoggi il capo sul petto della Verità.
*
Da Il filosofo
Come vendicare la propria alterità?
Occhi che mendicano approdo, sondano
la superficie della terra, ascendono ai cieli,
investigano e ogni cosa si arrende a questo
arrembaggio: vuoto avvolge tutto
un fuoco divampa e sembra un fiore.
Perfora la bellezza e vede ossa
reticolo di vene, l’orrore della carne
sotto la pelle perlacea, giovane:
varca lo Spazio, vaga nella nebbia che tutto
avvolge, nuota nelle acque del Tempo nel nero
abisso; capisce che la Vita è un sogno
nel sonno eterno della Morte.
James Thomson
*In copertina: un acquerello di Victor Hugo
L'articolo “Di certo, non scrivo per chi confida nella felicità”. Storia & versi
di James Thomson, il poeta malinconico proviene da Pangea.