> “L’artista non crea nulla, non imita nulla, non inventa […] estrae gemme
> nascoste dal tessuto della vita.”
>
> Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, 1978
Da circa un decennio l’arte della ceramica sta vivendo un momento di rivalsa e
attenzione. I brand più impensabili hanno le loro homewear di stoviglie
infiocchettate e i personaggi più inaspettati sembra abbiano scoperto la nobiltà
del fango. ll revival in corso viene cavalcato dalle principali gallerie. Dagli
USA al Giappone, passando per Africa e Asia: Carwan Gallery, Moma, Officine
Saffi, varie Biennali tra Italia, Francia e Corea dedicano interi cicli
monotematici al mondo della ceramica. Emblematica la personale del 2020 che la
Gagosian di Londra dedica alle bianchissime porcellane del ceramista e scrittore
Edmund De Waal.
Ovviamente si scopre il già scoperto, in quanto questa disciplina artistica
affianca l’uomo dal Paleolitico superiore e, con uno storico di ventimila anni,
quest’arte lascia margini nulli o quasi alla novità.
Ma è a dispetto del rumore e dei trend, lontano dai circuiti ufficiali e
ufficiosi dell’arte che a Pavia, nella piccola e raffinata boutique di Marina
Danova, si è svolta un’intima esposizione degli ultimi lavori ceramici di Sergio
Maria Calatroni. A indicare l’evento solo pochi e tondeggianti sassi di fiume
sul gradino d’ingresso. Fermacarte d’inciampo per i coloratissimi manifesti che
in italiano e giapponese davano due indicazioni su ciò che avveniva all’interno.
Gres e piccole porcellane sono poggiate senza fronzoli su nudi tavoli in resina.
La monocromia lattiginosa dei sostegni isola ed esalta questi piccoli oggetti
catalizzatori di un’energia che ha i suoi natali nel lontano Giappone, luogo
dove ormai da decenni Calatroni risiede e opera. Un auto esilio dorato che dalla
scena culturale europea di fine Novecento in cui con la ciurma del Gruppo
Memphis di Ettore Sottssas chiodava di colore la Milano degli anni Ottanta, l’ha
visto ritirarsi sempre più tra gli antichi templi nei boschi di Kamakura. Qui la
sua ricerca artistica ha trovato l’humus più fecondo e gioioso attraverso un
dialogo profondo con la natura, la storia e la società del Sol Levante.
L’esule – ancora di più se è un artista – penetra il senso nascosto delle sue
esperienze e delle sue peregrinazioni intendendole come una lunga serie di prove
iniziatiche. Esse saranno l’ossatura della sua ricerca artistica. Ciò significa
vedere segni, significati nascosti, simboli, nel ciclo delle stagioni, nel
traffico della metropoli, nello sciabordio del mare, nella grazia del croco che
per primo sfonda la neve invernale. È solo sublimando le esperienze empiriche
che egli può costruire una struttura. Leggere un messaggio nel trascorrere
amorfo delle cose e nel flusso monotono dei tempi in cui vive. Cavare fuori
grammatiche estetiche dalle sofferenze, dalle depressioni, dagli inaridimenti di
tutti i giorni.
Il lavoro di Sergio mantiene e conserva quel dono difficilissimo della
spontaneità. Privilegio di chi si pone costantemente in gioco nel cercare di
vedere il mondo sempre per la prima volta. Un eterno rimettersi in discussione,
lontano dai mestieranti del sé; quelli che poi diventano esperti,
professionisti, specializzati. Sergio continua a rimanere nel territorio della
meraviglia, dell’adorazione per le piccole grandi cose che la natura offre. Il
bocciolo di un fiore, la corteccia di un frassino, la tela del ragno, la linea
di un sasso di fiume.
Vedere e leggere questi segni per poi convertirli in oggetti è la sua missione
più nobile. Egli lavora su un territorio di fragilità estreme, di linee
traballanti. Fenomeni quasi impercettibili fatti di accenni, tensioni e
propensioni trovano voce attraverso la lirica del suo lavoro. Una ricerca che
nasce da una scrupolosa riflessione sul mistero, sulla magia dell’imprevisto,
sull’evento inatteso matrice di vita e morte. Armonia e distruzione sono le
sentinelle di un percorso iniziatico-creativo di cui l’artista è un mero
servitore. Uno strumento operativo prestato a chissà chi e chissà cosa: “La
forza che nella verde miccia spinge il fiore/ spinge la mia verde età; quella
che fa esplodere le radici degli alberi/è la mia distruttrice […]” scriveva
Dylan Thomas. Non è un caso se questo tipo di ricerca dell’essenziale si trova a
suo agio con la scrittura poetica. Un modus operandi che per sua natura si sposa
con la potenza della parola, fa da esempio la mostra a Tokyo del 2018 in cui i
lavori di Calatroni hanno accompagnato Il Porto Sepolto di Ungaretti, tradotto
in inglese per la prima volta in maniera completa da Andrew Fitzsimons.
Innumerevoli sono i suoi lavori ispirati, presentati o dedicati ai lampi
degli haiku. Mentre ANIMALIA è il prezioso libro a leporello edito dalla
raffinata Fiorina Edizioni in cui minimali disegni di Calatroni accompagnano una
selezione di waka, una tipologia di componimento poetico risalente al VII
secolo.
Obbligatorio il punto di contatto con la filosofia e l’estetica Zen. Una
disciplina inevitabile specialmente per chi come lui vive e opera in Giappone da
decenni. Ricordo personalmente numerosi volumi e preziosi cataloghi stipati
nella libreria della sua casa. Un’abitazione tradizionale in
perfetto stile shoin da lui ristrutturata e integrata di orto e laboratorio di
pittura e scultura. È l’incanto a fare la differenza, a squarciare il consueto
per ricordarci la multiforme essenza del creato. Le sue ceramiche si offrono
allo spettatore come oggetti generati con naturalezza, un lavorio costante e
silenzioso, un impercettibile agire in cui non trapela alcun segno di volontà o
sforzo nel plasmare e domare la materia, come insegna la lezione orientale
dell’anti-mimesis in cui il grande artista non imita la natura ma ha come
obiettivo quello di porsi nelle condizioni di generare spontaneamente come la
natura. Porcellane che stanno bene tra le pietre di un torrente, piatti che
sembrano ciocchi di legno, ciotole e tazze senza età si possono confondere tra i
fiori o la ghiaia di un campo. Questo è il mondo ceramico di Calatroni.
Strati di colore si sovrappongono e dialogano in contrasti che non stonano e in
armonie che non annoiano, secondo gusti ed equilibri affinati dall’esperienza
di grande osservatore baudelairiano. L’opera è sempre il risultato di una
cristallizzazione di attimi più o meno vicini a un qualche immediato che per sua
natura sfugge imprendibile. Un flash, un’intuizione che l’artista insegue e
blocca. O per lo meno ci prova, perché il fallimento è il miglior compagno
d’impresa. Il tutto avviene con il benestare del dio del fuoco. Un dio
oracolare, capriccioso ed esigente. Impossibile da domare del tutto e
imprevedibile a tal punto che in Grecia, secondo Pausania, il protettore dei
vasai era Ceramo figlio di Dioniso, il dio dell’ebbrezza e delle contraddizioni.
Mentre in Giappone il kami del fuoco è legato indissolubilmente alla luce e alla
terra: Kagutsuchi, ossia, il fuoco che brilla sulla terra.
È curioso notare come ciò che fa breccia creando un punto di divergenza con il
famoso “andazzo generale” avviene sempre in una dimensione altra. Nel silenzio,
all’ombra dei grandi riflettori, al riparo da tendenze e hype gonfiati e
sfruttati dal regime culturale. È sempre fuori dal tracciato canonico che
avviene il punto di riflessione o di rottura. L’inatteso fa visita con tutta la
sua dirompenza laddove meno lo si aspetta, offrendo preziose occasioni per una
meditazione più pacata e profonda su ciò che lavora per imporsi.
È necessario inciampare sui sassi per aprire gli occhi.
Martino Cappai
L'articolo “Sublime tenera luce” o delle ceramiche di Sergio Maria Calatroni
proviene da Pangea.