In una calda domenica di giugno sono arrivato un’ora prima davanti al Museo San
Domenico di Imola per visitare la mostra di Germano Sartelli “L’incanto della
materia” (in corso, fino all’undici luglio p.v.) chiedendomi che livello di
“oggetti estetici” avrei visto di li a poco. Quando in fondo al corridoio mi è
apparsa la grande “paglia” nel cellophan ho sentito l’emozione di ET quando
diceva: “…caaasaaaa”, ero nel tempio della curiosità, davanti ai lavori degli
anni ’60, ’70, ’80 di un artista che aveva sempre cercato; mi ronzava in testa
quella parola ripetuta tre volte che nel documentario “La forma delle
cose”, Sartelli ripeteva con stupore: “…cercavo, cercavo, cercavo…” (se mai
esporrò le mie duemila creazioni, così titolerò la mostra in onore di Germano
Sartelli) nella consapevolezza che chi cerca non necessariamente deve trovare,
che “cercare” è il prezzo da pagare della nostra curiosità e che la natura ci
offre tutti gli stimoli per il nostro “fare”.
Le “ragnatele” del ’59 sono delle accurate ecografie del pensiero; le “cicche e
carte di sigarette” del ’70 anticipano di due anni le splendide fotografie di
mozziconi di Irving Penn, confermando l’intercontinentalità del vedere creativo;
i lacerti di ferro arrugginito consacrano la missione visuale della ruggine, non
soltanto “lacrima del tempo del ferro” ma vera e propria istantanea del nostro
inevitabile incontro con la morte.
Osservando i lavori di Sartelli, fatti con poverissimi scarti, si potrebbe
pensare ad opere realizzate insieme al dolore, alla solitudine, alla
sofferenza, visto che, tra l’altro, ebbe a che fare con gli internati
dell’ospedale psichiatrico di Imola; invece, percorrere i corridoi di questa
esposizione regala una grande serenità, appese ci sono le radiografie delle
nostra anima, tra “bianchi e neri”, tra “luci ed ombre” vedi il tuo essere
vivente non come “sommatoria di organi”, ma come “altissima frequenza di
pensiero”, senti di attraversare un campo di 174 hz con persistenti sentori di
gioia.
Germano Sartelli (1925-2014)
Concludo queste note descrivendo il posto (delle fragole) da cui vengono
scritte, il Rugginarium: “…un luogo fisico, uno spazio senza coperture dove si
raccolgono i raggi del sole, le gocce di pioggia, le folate di vento, i
cristalli di ghiaccio, i fiocchi di neve… dove il tempo delle stagioni regola la
quantità dell’estetica e dove manca solo una cosa: la colonna sonora della
perdita di funzione degli oggetti ed il loro rinascere nella valenza estetica di
specchi dei nostri pensieri”.
Silvano Tognacci
*In copertina: Germano Sartelli, Paesaggio di terra, 1982; foto Orselli
L'articolo “…cercavo, cercavo, cercavo”. Per Germano Sartelli (o di persistenti
sentori di gioia) proviene da Pangea.
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I nuovi “vasi” di Marcovinicio approfondiscono e portano alle estreme
conseguenze tutta la recente fase della produzione del pittore, la cui ricerca è
tesa all’esigenza di spalancare, con differenti mezzi, orizzonti ulteriori
rispetto a quelli della semplice “realtà fisica”, facendosi al tempo stesso
sempre più rarefatta. Ci troviamo in questo caso di fronte ad una vera e propria
“prova di sottrazione”, in cui l’artista attinge a poco a poco una dimensione
inedita mediante piccole variazioni ed eliminazioni da un suo modulo classico:
il vaso di fiori, più o meno stilizzato e semplificato. Non un modulo, peraltro,
soltanto autoreferenziale e legato alla sua precedente produzione (in cui,
comunque, aveva assunto una funzione essenziale, sul piano delle tavolequanto su
quello dei disegni), ma universalmente riferito alla cultura occidentale, ove il
fiore assume una valenza ideale, intesa in senso letterale, vale a dire riferita
ad una tradizione che ha inizio con l’idealismo platonico. Le tensioni estetiche
dell’assenza-presenza e i riferimenti alla valenza paradigmatica, ideale (e
perduta) dei fiori ricordano in modo fortissimo le meditazioni di tutto un
filone letterario della fine dell’Ottocento in Francia, in cui – sulla ovvia
scia dei baudelairiani Les Fleurs du mal – il fiore viene utilizzato in senso
allegorico o fortemente simbolico, evocato, nascosto e improvvisamente
presentificato in tutta la sua icasticità espressiva.
Se il giovanissimo Arthur Rimbaud – in Ce qu’on dit au poète à propos de
fleurs – scriveva sul tema una sarcastica ode a metà tra il dileggio e l’invito
a scavare oltre le soglie della poesia comune e triviale, è Stéphane Mallarmé a
trattare il tema nel modo più ispirato e affine a quello di Marcovinicio, nella
criptica e difficilissima Prose dedicata a Des Esseintes, l’estetizzante e
raffinatissimo protagonista in À reboursdi J. K. Huysmans. Il fiore che veniva
da Baudelaire pervertito e da Rimbaud ironizzato viene riportato da Mallarmé al
suo pristino splendore, ma come allusione e tensione anziché pieno possesso; il
che non sarebbe più possibile nel mondo moderno. La Prose è proprio la
rappresentazione estetica della frustrazione provata dal poeta-filosofo nel
tentativo di attingere l’assoluto, “da troppo gladiolo celato”. Oltre le forme
ideali allegorizzate nei fiori, si celerebbe una dimensione compiuta e
definitiva, che l’artista deve limitarsi ad evocare per assenza.
Marcovinicio, Quadro con paesaggio, 2025
Meno profonda filosoficamente ma non dissimile da quella della Prose era già
stata in Mallarmé la meta-riflessione poetica condotta in una lirica
come L’Azur, in cui il paradigmatico colore del cielo fungeva nella sua
insensibilità da monito dell’impossibilità di raggiungere l’ideale. I fiori
stessi erano, peraltro, già stati protagonisti di un’omonima lirica (Les Fleurs)
del poeta francese, che sin dagli anni ’70ne tratteggiava l’allegorizzante
valenza di idee platoniche: fissità trascendenti da anelare in un disperato (e
inappagato) spasmo. La condizione nella quale Marcovinicio immette la
riflessione sui fiori è differente, perché figlia del Novecento pittorico
italiano e di tutto un concettualismo dell’arte contemporanea dal quale il
consapevole distacco è in queste tavole evidente. Il giallo e nero viene qui
nuovamente utilizzato, più che nella valenza “pittorica” e materica degli anni
’90, sfruttando la dialettica tra luce e abisso (e, pertanto, nero smaltato) che
caratterizza tutte le recenti Vanitas dell’artista, incluse quelle dell’ultima
mostra torinese. Una delle parole essenziali della produzione poetica
mallarmeana è però cifra stilistica anche di questa fase di
Marcovinicio: aboli-abolito.
L’abolizione/cancellazione di qualcosa rimanda immediatamente alla sua presenza,
così come avviene ora per i fiori che trascendono l’orlo della tavola, rimanendo
idealmente un’estrema propaggine del vaso ma venendo esclusi dalla sua
rappresentazione: aboliti secondo i canoni classici dell’arte occidentale,
tipicamente conclusa ed esaurita nella singola opera a livello espressivo. Il
contrasto, nei vasi di Marcovinicio, è ulteriormente accentuato dalla nettezza
definitoria tipica dei gialli e neri di questo periodo, che affermano (e in
questo caso, contemporaneamente, negano) con una durezza ed una incisività
inedite.
Esercizio di forte concettualità senza per questo essere concettuali in senso
astratto, i vasi di fiori sono – come spesso nel pittore – al tempo stesso
richiamo alla tradizione, autocitazione e intrapresa di un percorso inedito,
avviato tuttavia secondo uno scavo. Come nella più profonda filosofia
heideggeriana, ci viene presentificato un “andare avanti” che è sempre un
“tornare all’origine”, in un movimento di avvicinamento e allontanamento
rispetto ad una struttura in apparenza onni-pervasiva, ma in fondo inesprimibile
nella sua essenziale ed eterna configurazione. Se in Marcovinicio l’espressione
è rigida e netta, le sue opere disegnano sempre nuovi scenari, additano un
altrove, talvolta permeandosi di fortissime istanze metafisiche. Il fiore-non
fiore è compendio di questa cifra stilistica e in un certo senso
meta-riflessione su di essa: un orizzonte non-presente al quale si tende e si
anela con struggente Sehnsucht.
*
Sulla ripetizione
Le ultime fasi della pittura di Marcovinicio, caratterizzata in passato da una
variazione più libera su tematiche molto definite, sono improntate da una
ripetizione frenetica, a prima vista ossessiva, disposta secondo fili conduttori
di una chiarezza assertiva che non ne pregiudica la valenza evocativa. Se,
nelle Vanitas, la ripetizione della medesima “alzata” in giallo e nero ha avuto
come esito di maggiore impatto espressivo l’enorme parete allestita a Torino per
la mostra “Altri mondi”, nelle fasi ancor più recenti essa si è declinata in
forme ad un tempo antiche e nuove, riprendendo sia il tema del paesaggio
(classico per il pittore) che quello dei vasi di fiori precedentemente evocato.
Il “punto di riferimento” visivo ed espressivo è un concetto-chiave per
comprendere le modalità in cui Marcovinicio utilizza in modo ripetuto
immagini-simbolo-paradigma quali la montagna, la mucca, il lago, le quali non
vanno mai prese come simulacri astratti di un concettualismo diretto, del tipo
ingenuo “questo significa quello”, “questo allude a quello”. Diversamente, esse
si leggono come si guardano, si presentano come si offrono: in totale crudezza e
durezza allo sguardo dell’unico osservatore possibile, come una sorta di ponte
tra la modernità sterile della tecnica, in cui siamo immersi, ed un orizzonte
ulteriore fatto di senso, di pregnanza, di motivi immediati e pure duraturi.
La ripetizione, in questo senso, è anche “eterno ritorno”: il procrastinarsi di
situazioni dalle quali, nonostante le contingenze dei tempi e delle epoche
storiche, delle decadenze e delle sfioriture, non si può mai veramente evadere,
perché ontologicamente connaturate alla realtà. Vale a dire: la pura asserzione
come messa in evidenza di ciò che è stabile, permanente, duraturo, immutabile,
come l’essere stesso. Ben lungi dal volere attribuire alla pittura di
Marcovinicio uno statuto “filosofico” in senso tradizionale (giacché mai il
pittore può essere direttamente filosofo, così come il filosofo non può mai
avvalersi direttamente dell’estatica espressività dell’artista visionario),
senza dubbio le tematiche in essa presenti rimandano ad una sfera concettuale
risalente ai primordi, alla grecità, a quell’essere parmenideo “velato” dai
residuati moderni della soggettività e da quelli ancor più moderni della
tecnica, che soltanto un’operazione paziente di scavo può mettere nuovamente in
evidenza nella sua struttura intangibile. Trascendenza e immanenza: trascendenza
da una realtà empirica e strumentalizzata che – come una sorta di feticcio – ha
costituito una incrostazione empirica sulle strutture permanenti del reale;
immanenza come affermazione netta e perentoria di queste stesse strutture,
ri-consegnate in qualche misura all’eternità dalla quale provengono.
Marcovinicio, Quadro con mucca. Silenziosa disciplina, 1990; esposto ora in
mostra
La stessa operazione portata avanti da Marcovinicio nei confronti del proprio
lavoro precedente assume questa connotazione di “scavo archeologico”: riportare
alla luce delle strutture di pensiero e di espressione apparentemente obliate
per ribadirle nelle linee nettissime e dure di un disegno del passato che
diventa un giallo e nero, di un paesaggio metafisico che diviene rigido e
scheletrico, di uno specchio che veicola simboli arcaici – già utilizzati in
altra forma – e li ripresenta come paradigma del duraturo, senza mai sconfinare
nel puro divertissement, ma muovendo le proprie carte con la sapienza di un
alchimista che rimescola il vecchio per attingere nuove forme. Nel pittore vi è
fondamentalmente l’implicita convinzione che nell’arte non esista la creatio ex
nihilo, ma si dia la rimbaudiana illuminazione, il contatto con la vocazione, la
risposta ad una sorta di appello che riattiva strutture da sempre esistenti e
gli chiede di riportarle alla luce in maniera apparentemente inedita, di
asserire il reale con tutta la forza disponibile. Una forza che in Marcovinicio
assume la connotazione di una giovinezza perenne, ben al di là del contingente
dato anagrafico; di asserire quello che non può non essere reso presente perché
si dà allo sguardo nel proprio valore permanente. Alchimia, mediazione,
vocazione: un riposizionare le pedine dell’espressione estetica per fungere da
tramite tra questa realtà e un mondo dimenticato ma sempre presente: questa, in
qualche modo, la vocazione dell’artista vero; questa, in qualche modo, la
chiamata di Marcovinicio.
Jonathan Salina
*Il lavoro di Marcovinicio, nella sua scontrosa inattualità, è attualmente in
scena all’interno della collettiva “Awakening (1988-1993)”, a cura di Tiziana
Conti, Angelo Candiano e Federico Piccari, presso la Fondazione 107 a Torino
**In copertina: Marcovinicio, Quadro con vaso, 2024, olio su faesite
L'articolo Assenza e presenza del fiore. Ovvero: sulla vocazione di
Marcovinicio, il pittore inafferrabile proviene da Pangea.
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata
in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto
Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci
anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, “per l’insistenza di ciò
che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo
scopo”. Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di
un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare
istitutrice; voleva fare l’artista.
I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica
di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901.
Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare
indemoniato, “barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante”. Aveva da
poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era
trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento
selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva
tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi,
soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai
tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà
“degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la
sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo
aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per
lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: “Vieni qui al lume della candela. Non
ho paura/ di contemplare i morti”, scrive il poeta, abissale, come sempre –
riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate
da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.
A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq,
l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina
potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e
Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque,
tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di
un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita
votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e
del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze
artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani:
è tratto dal “verso 38 della Quinta elegia di Rilke”, mi dice l’autrice.
Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il
lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.
Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale,
con lento candore, sembra un po’ ‘cannibalizzare’ la pittrice. Che idea si è
fatta di Rilke?
Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante
quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un
buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la
migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi
scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha
descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I
nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio
libro.
Paula Becker, Rainer Maria Rilke, 1906
Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.
Libera, energica, interrotta.
Che cos’è la ‘libertà’ per Paula; che cos’è la ‘libertà’ per Marie, una
scrittrice che vive nel 2025?
Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che
diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione
concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me
libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e
di amare, liberamente.
Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il
titolo del libro?
Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di
Joseph-François Angelloz.
Quali sono stati i ‘lari’, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella
scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma
mai ‘confessionale’, precisa fino al diamante?
Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg.
Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale
quello che ha scelto di tenere in ombra?
Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra,
oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera…
Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula.
Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho
voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto
nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire
perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se
questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la
maternità è ambiguo, affascinante.
Marie Darrieussecq; photo Charles Freger
Esiste a suo avviso una diversità ‘genetica’ tra opere d’arte femminili e
maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio ‘di genere’?
Nulla di ‘genetico’, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia,
sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli.
Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento
e dell’emarginazione, e una certa centralità – domestica. Lo sguardo di Paula
sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che
conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza
imposti da uno sguardo patriarcale.
Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: “Ci siamo guardati, con un
brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una
porta dietro la quale c’è Dio”. I quadri di Paula emanano una sacralità frugale,
che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto
con il ‘sacro’, con l’invisibile?
Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte.
L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di
sacralizzarlo.
La ‘carne’ è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker:
un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo
nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico,
palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del ‘toccare’
come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni…
Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho
ancora finito…
Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo
sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo
le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno
splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le
strade di Parigi, città che adorava, si sentiva ‘nuda’ sotto lo sguardo
insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale,
come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e
non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano
state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di
cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca,
gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere,
accettavano di posare nude per pochi spiccioli.
Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale.
Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi
consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e ‘morali’, si
fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere
all’IA?
Spesso pongo delle domande a Chatgpt (beh, non troppo spesso, visto che ogni
volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i
brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico,
non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il
suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.
Paula Becker, Autoritratto per il sesto anniversario di matrimonio, 1906
Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare
un gesto ‘politico’?
Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho
iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un
movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera
obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo
in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista”
possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di
molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di
fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una
Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non
apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il
sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in
posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della
Vergine Maria!
*In copertina: Paula Becker (1876-1907)
L'articolo Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke.
Dialogo con Marie Darrieussecq proviene da Pangea.
Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di
quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di
Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille,
forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori
e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a
esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le
frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere
se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di
cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la
sua verità liberata dall’artificio della parola.
Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato
(come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia.
Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei
letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali
per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata:
l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la
mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare
conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a
salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo
che meriti di essere salvato.
È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi
tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo
una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come
tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne
un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa –
Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna
sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura,
affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi,
Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio,
Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt,
Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San
Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il
rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di
Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra
storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece
più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco
funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.
A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale
(siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona,
monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico,
giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono
Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una
professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della
manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da
Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto
di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della
raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si
legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo
apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che
quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto
giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare
il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del
tutto ostile.
I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche
Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma
che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione
metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo
come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro.
«Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel
racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e
tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero
entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un
quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i
personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente
con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel
quadro».
Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo,
l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o
almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa
ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente,
inadeguato:
> «Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti
> architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per
> scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma
> di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che
> arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si
> offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi
> riconsegnarla sotto altra forma».
Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e
arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque,
all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice
a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo
scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.
> «Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco
> –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E
> adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi».
Fabrizio Coscia
*In copertina: Camille Claudel (1864-1943)
L'articolo Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un
libro di Giovanna Di Marco proviene da Pangea.
Suo padre le era molto affezionato: Dickens iniziò presto a chiamarla Kate, la
sua terzogenita, nata a Londra nel 1839, due anni dopo l’ascesa al trono della
regina Vittoria. Il nome completo della bambina era Catherine Elizabeth
Macready, quell’insolito “Macready” dato alla piccola per ricordare l’amicizia
paterna con il pittore e attore William Macready, tra le stelle della Royal
Opera House.
Kate non è l’unica, d’altronde, a ricevere dal bizzarro padre bizzarri nomi:
quello completo del primogenito, Charles Dickens jr, è Charles Culliford Boz
Dickens, Boz essendo il nomignolo-nom de plume con cui lo scrittore aveva
firmato gli Shetches by Boz. Il quarto figlio, Walter Savage Landor Dickens,
prenderà il nome intero da un altro amico e collega, Walter Savage Landor
Dickens. Alfred D’Orsay Tennyson Dickens sarà battezzato ispirandosi ai padrini,
Alfred, Lord Tennyson e Alfred, Conte d’Orsay. E infine il nome dell’ottavo
figlio, Henry Fielding Dickens, deriva da quello dell’omonimo scrittore amato da
Dickens.
Stravaganze dickensiane a parte, Kate assomiglia al padre, è bella e impulsiva:
fin da bambina lui le affibbia pure il soprannome di “Lucifer Box” perché, come
i noti fiammiferi, prende fuoco con facilità. Anche in questo Dickens non si
smentisce, e tutti i figli hanno soprannomi o diminutivi buffi. Ma per Kate lui
ha un debole: la bambina ha carattere e molto talento, in particolare nel
disegno. Vorrebbe studiare arte, imparare dai maestri. Il padre l’asseconda e le
accorda un’istruzione di prim’ordine, deviando così dalle norme sociali
vittoriane, per cui una ragazza era destinata al matrimonio o a rimanere in
famiglia. La iscrive a una scuola fuori dagli schemi: fin dai dodici anni Kate
frequenterà le lezioni d’arte al Bedford College di Londra, istituto non
confessionale e il primo in Inghilterra a condurre le ragazze all’istruzione
universitaria. Tra le sue studentesse, Florence Nightingale e Mary Anne Evans,
al secolo George Eliot.
John Everett Millais, Ritratto di Kate Dickens, 1880
L’ambiente artistico, culturalmente raffinato e cosmopolita in cui Kate cresce
con i fratelli, i viaggi in Europa, in Svizzera, Francia e Italia in cui
accompagna spesso il padre (indimenticabili sono le scene veneziane in Little
Dorrit), la frequentazione di sale da concerto e teatri la formano, le danno
un’educazione non prevista normalmente per le ragazze vittoriane. Lei decide
presto cosa vuol fare e cosa vorrà diventare.
Dal padre ha preso la passione per il teatro: adolescente, calca le assi del
palcoscenico. Nel 1857 recita persino davanti alla regina Vittoria nel
dramma The Frozen Deep, scritto da Dickens e diretto da Wilkie Collins, che con
l’amico collabora alla sua rivista settimanale «Household Words». I due a loro
volta si esibiscono insieme nella commedia di Edward Bulwer-Lytton, Not So Bad
As We Seem, sempre alla presenza della regina Vittoria e del principe Alberto.
*
A ventiquattro anni Kate s’innamora e sposa il fratello di Wilkie, Charles
Allston Collins, anche lui pittore, scrittore e illustratore affine alla cerchia
dei Preraffaelliti. È il 1860. Il matrimonio si basa su reciproca comprensione e
interessi comuni, ma non altro: Charles infatti è gay, e in ogni caso scompare
prematuramente nel 1873. Oltre alla copertina, non riuscirà a terminare nemmeno
le illustrazioni di The Mystery of Edwin Drood del suocero.
Il secondo marito di Kate sarà di nuovo un pittore: Carlo Perugini, di origini
napoletane naturalizzato inglese, noto nella cerchia preraffaellita come Charles
Edward Perugini. Kate lo incontra in casa di Sir Leighton, di cui Charles è
amico e assistente. Trasferitosi in Inghilterra bambino con la famiglia,
diventerà una figura ben nota nel mondo dell’arte londinese e britannica, il
nome quasi sempre anglicizzato in Charles Edward Perugini. Per amici e la
famiglia resta comunque Carlo.
Kate dipinta dal marito, Carlo Perugini
Kate sarà ritratta da lui, da altri, da John Everett Millais: l’unica donna a
posare dando le spalle al grande Millais, che è solito imporre alle proprie
modelle sedute estenuanti – celeberrimo il caso di Elizabet Siddal obbligata a
stare ore immersa in acqua per l’Ofelia, fino a prendersi la polmonite. Da poco
vedova del primo marito, in elegante abito nero, Kate è invece di spalle, lo
sguardo provocatoriamente rivolto di lato: L’idea dell’insolita posa è sua,
quasi voglia concedere poco di sé all’osservatore. Non sembra importarle molto,
il contatto con un osservatore esterno. Stranamente, Millais accetta l’idea,
regalerà il dipinto a Carlo Perugini in dono di nozze.
*
La prima volta in cui Millais la dipinge, Kate è una giovane studentessa d’arte
che gli fa da modella. Il pittore è amico di famiglia e intimo dell’allora
fidanzato Charles Collins. Nasce così un’opera tra le sue più note, The Black
Brunswicker (1860), completata lo stesso anno in cui Kate sposerà il suo
Charles: sulla tela, una giovane donna sta invano cercando di convincere il
fidanzato a non andare a combattere alla battaglia di Waterloo. Quando il
dipinto è esposto l’esaltazione del pubblico, desideroso di ammirare la figlia
di Charles Dickens, obbliga il museo di porre una barriera per impedire ai
visitatori di avvicinarsi troppo e danneggiarlo.
Nei circoli frequentati da Kate e dal marito s’incontrano anche molti scrittori:
lei è amica di Thackeray, di Barrie, futuro creatore di Peter Pan, di Shaw, a
cui concede varie interviste sulla vita privata del celebre padre, rivelandogli
anche la relazione con l’attrice Ellen Ternan, l’ultimo amore di Dickens.
Il secondo matrimonio porta a Kate il dolore di perdere il loro bambino,
Leonardo, a pochi mesi dalla nascita, e la notorietà come
ritrattista. Conseguito il diploma a pieni voti, adesso è una pittrice di
successo: in particolare, si è specializzata nei ritratti. Con pennelli e
cavalletto si è affrancata in breve tempo dal ruolo di figlia, pur talentuosa,
dello scrittore più celebre d’Inghilterra, per raggiungere a sua volta la fama
da professionista: i suoi quadri si liberano presto dell’influenza
preraffaellita, la sua pennellata risoluta anticipa tempi più moderni.
Kate Perugini, Ritratto di Dora, 1892
Cosa dipinge, Kate Perugini? Quasi sempre bambini, o donne dallo sguardo
malinconico, che sembrano vedere molto e trattenere a sé silenzi lunghi. Forse,
dipinge all’infinito una parte di sé. Esporrà ogni anno le sue opere alla Royal
Academy a Londra, all’Institute of Water Colour Painters, alla Society of Lady
Artists, alla Egyptian Hall a Piccadilly e poi oltre mare in America,
all’Esposizione Colombiana a Chicago nel 1893.
Donna capace di dirigere la propria vita e il proprio destino, è diventata
un’artista indipendente, molto lontana dallo stereotipo femminile angelicato
preteso dall’epoca. Si muove con scioltezza in un ambiente quasi tutto al
maschile – nel 1883 sarà tra i firmatari della petizione che chiede alla Royal
Academy di far frequentare alle studentesse gli stessi corsi dei colleghi
uomini. Lei e Carlo condividono un grande studio, ricavato in casa, dove
accolgono gli amici pittori e artisti in feste e mostre private. Lavora molto,
tutta la vita, Kate, quadro dopo quadro, guadagna in un’epoca in cui alle donne
non è spesso consentito lavorare. Con nonchalance, li firma spesso con due
cifre: “KP”. Semplicemente.
Come quella di altre sue contemporanee, la sua fama è stata oscurata dal tempo e
dall’oblio, inghiottita nell’enorme nebulosa Dickens e poi perduta di vista. E
le sue opere con lei. Kate Dickens o Kate Perugini – come ha voluto sempre farsi
chiamare l’artista – morirà a Londra nel 1929, lasciando dietro di sé una
costellazione di dipinti, testimonianza dell’epoca vittoriana e avvisaglia di
tempi nuovi.
Paola Tonussi
L'articolo “Lucifer Box”, la figlia prediletta di Dickens. Ovvero: storia di
Kate, pittrice indipendente proviene da Pangea.
“Nell’insidia della soglia” è il titolo di uno dei libri più potenti di Yves
Bonnefoy, poeta francese sensibile ai gesti d’arte (ha scritto, tra l’altro, di
Bernini, di Giacometti, di Hopper). Insidioso è perfino il titolo: “le leurre” è
l’inganno, l’esca, il tranello; in italiano possiamo giocare, per allucinazioni
e allusioni, con la parola errore, con la parola livrea. L’aura di un inganno.
La livrea che cela la natura terrifica e gloriosa delle cose. In quel testo, c’è
un monastero in rovina e una soglia da attraversare. “Tutto il visibile,
infermo,/ di sé si cancella”, scrive il poeta – la traduzione è di Diana Grange
Fiori. Scrive, il poeta, del fondaco di un’alba, del riflesso del fuoco. Quando
la forma si stinge e il sacro appare, si va per una nudità detta astrazione:
così fa Dante quando è al cospetto dell’Assoluto, l’informe che tutte le forme
riassume; dice di cerchi concentrici. In questo senso va assunto il nuovo corso
di Roberto Floreani, visibile nella mostra “Soglie”, presso il Museo Diocesano
di Vicenza, fino all’8 giugno. Una rassegna – a quarant’anni dalla prima
realizzata dall’artista, era il 1985, proprio nell’anno giubilare – che al
nitore spirituale affianca l’opera di sovversione: al dominio del mercato e del
materiale, all’etimo dei social, del putiferio degli idoli. A raccontare la
mostra, Floreani, in dialogo con Luigi Codemo, direttore della Galleria d’Arte
Sacra dei Contemporanei a Villa Clerici, Milano.
La tua quarantennale ricerca artistica che conta oltre 90 personali, passando
anche attraverso la sala personale Aurora occidentale allestita alla Biennale di
Venezia del 2009, segna un costante e rigoroso indagare i fondamenti
dell’Astrazione. Ora hai inaugurato questa mostra al Museo Diocesano di
Vicenza, Soglie. Tempo del prima – Tempo del poi. E fin dal titolo viene messo
in evidenza un aspetto distintivo di chi lavora tramite l’Astrazione:
l’attenzione analitica e riflessiva che esamina il proprio processo creativo.
Il mio nuovo progetto Soglie. Tempo del prima – Tempo del poi evoca la
tradizione dell’Astrazione votata allo spirituale, che si manifesta fin dai
tempi della sua nascita nel 1912 con le Compenetrazioni iridescenti di Giacomo
Balla e, pur da versanti differenti, con il saggio Lo Spirituale nell’arte di
Vasilij Kandinskij. La nuova declinazione della mia ricerca sulle Soglie evoca
l’esistenza di un passaggio tra il qui e l’altrove e il Tempo del prima –
Tempo del poi rende centrale la funzione dell’opera perchè rappresenta un
crinale tra le intenzioni progettuali e la sua esecuzione effettiva, in cui
l’attimo che le divide, il passaggio, è l’istante significativo della creazione
(forse unico ambito, quello artistico, che consente l’uso del termine).
Quindi anche l’unità e la coerenza formale assumono un valore morale?
Sono entrambi fondative e irrinunciabili: unità e coerenza formale sono
riconducibili anche a quello che Umberto Boccioni definiva lo stile, essenziale
per l’artista e la sua riconoscibilità.
Jean Baudrillard definisce l’Astrazione come l’unica forma attendibile del
contemporaneo perché dotata di una storia eroica. Assumendo uno sguardo ampio e
storico tu come inviteresti a vedere e a leggere questo eroismo?
L’eroismo penso possa assumere un duplice significato: da un lato riferito
all’importanza delle stesse istanze fondative dell’Astrazione, cui ogni
astrattista guarda come riferimento, più attento ad una sua nuova, originale
declinazione, che allo stravolgimento rispetto ad allora: dal Tutto si astrae di
Balla (’12), fino all’Astrazione come dominio sulle forme della natura di
Kazimir Malevič (’15) e ai ripetuti, precisi riferimenti nei testi di Piet
Mondrian (’17-’24): All’astratto come liberazione dell’umanità dal dominio della
materia e del fisico […] col trionfo dell’equivalenza Materia-Spirito.
Per questi e infiniti altri riferimenti, l’Astrazione rimane sempre attuale al
suo tempo.
Dall’altro, eroismo come resistenza dell’astrattista alla deriva materialista
del contemporaneo, iniziata, leggendo le dichiarazioni dell’epoca, ben prima di
quanto presagito dal fatidico Società dello spettacolo di Guy Debord, nel 1967.
In buona sostanza porsi sul versante della spiritualità comporta l’accettazione
di una sorta d’inattualità costruttiva, vissuta nella sua accezione positiva
come rifiuto della superficialità materialista.
Nel corso della pittura del Novecento vediamo l’Astrazione essere una modalità
longeva e rigorosa per ribadire uno statuto veritativo dell’arte, ovvero la sua
capacità conoscitiva contro chi la dichiarava ormai oltrepassata e relegata ad
una funzione ornamentale. Di fronte a un panorama artistico oggi così mutevole e
volubile, continuamente all’inseguimento di suggestioni e di parole d’ordine
estremamente variabili, è necessario un nuovo eroismo?
Penso possa essere rivelatoria la lettura dei Taccuini di Umberto Boccioni,
ordinatore teorico del Futurismo, prima Avanguardia storica del ‘900: i suoi
quattro manifesti (due sulla pittura, uno sulla scultura e uno
sull’architettura), oltre al suo saggio Pittura e scultura futuriste (1914),
possono considerarsi fondativi di buona parte delle istanze dell’intero
Novecento. Ebbene Boccioni affronta entrambi gli argomenti in modo del tutto
innovativo, considerando lo stile dell’artista come prioritario rispetto al
resto e la decorazione come perfettamente complementare alla ricerca, con una
sua rilevante legittimità nell’opera.
Credo che l’arte debba proseguire controcorrente rispetto alle tendenze del
mercato e della comunicazione globale e dei social, rispondendo ad una necessità
che superi la cronaca, le abitudini correnti, un’arte che guardi ad un futuro
prossimo più vicino alle urgenze interiori dell’uomo e meno a quelle materiali.
Accettare consapevolmente di operare controcorrente significa poter subire le
conseguenze anche dell’isolamento, della tensione esistenziale
dell’incomprensione: ma anche questo penso possa rientrare nella complicata
scelta di vita dell’artista.
Se l’arte ha capacità conoscitiva, se ha una forza di affermare la verità non
può essere relegata alla “domenica della vita”, non costituisce una pausa nel
divenire della storia, ma è chiamata a intervenire, a incidere sulla realtà,
sulla società. L’arte se ha a che fare con la verità, per quanto relativa e
molteplice, ha un potere, crea mondi di significati e itinerari di senso.
Una delle intenzioni della mia ricerca è orientata verso la possibilità che
l’opera possa veicolare un messaggio di natura spirituale, rivolgendo molta
attenzione alla componente legata all’ascolto. In questo senso quindi si pone in
posizione antitetica rispetto alla dittatura del materialismo, dove appare con
chiarezza disarmante la prevalenza del prezzo sul valore. In questa distanza
dalla consuetudine, l’astrattista svolge quindi un rilevante ruolo sociale,
riportando l’attenzione verso tematiche legate all’introspezione, invocando
quella dimensione ulteriore legata alle suggestioni interiori. Accedere ai
flussi di coscienza dell’introspezione, della riflessione individuale, aiuta a
comprendere e a comprendersi, limitando le motivazioni prime dello scontro che
sfociano nella violenza, finanche delle guerre. Laddove cessano le azioni per
convenienza, iniziano quelle della condivisione. Evocare tutto questo attraverso
l’arte accende una scintilla, conferisce delle ragioni.
Una felicità che non sia effimera non è là fuori nella materia.
L’Astrazione in pittura nasce con una vocazione analitica, ovvero non cerca di
essere una finestra sul mondo ma concentra innanzitutto la propria attenzione
sugli elementi costitutivi del proprio linguaggio, sul proprio funzionamento;
ma, se guardiamo ai più alti maestri dell’astrazione, anche se non cercano la
rappresentazione e negano perentoriamente la volontà di “uscire dal quadro”,
nelle loro opere si affacciano, come insopprimibili, risvolti spirituali,
riverberi psicologici, tensioni mistiche, nebulose prelinguistiche. A mio avviso
la tua ricerca artistica esplicita questa impossibilità che la pittura si chiuda
in un cerchio autoreferenziale, ovvero il tuo rigore e la tua fedeltà
all’astrazione portano alla luce come questa sia insopprimibilmente soglia su
altro.
Quando ci mettiamo nelle condizioni di connetterci con la profondità, quando non
pensiamo solo razionalmente, quando lasciamo che le domande fluiscano senza
peso, naturalmente, cercando stati di coscienza superiori, siamo sulla soglia di
una dimensione ulteriore, dove possiamo scegliere se restare lì, in ascolto,
oppure cercare di attraversare, di ascendere, raggiungendo quote più elevate,
evocando una dimensione spirituale. Nelle mie opere si confrontano due entità
principali: una base materica informe sottostante, il corpo della pittura, che
prima si accorpa nei Concentrici, sequenze di cerchi che sono divenute la mia
cifra stilistica dal 2003, per poi organizzarsi in forme geometriche con le
cromìe più accese degli arancioni, dei rossi sandalo, dei blu Klein: questo
percorso è stato definito dal caos al cosmo.
Nelle tue opere il riferimento al quadrato richiama il confronto con Josef
Albers, probabilmente il più estremo e rigoroso pittore astrattista. I suoi
“Omaggi al quadrato” mirano non solo ad azzerare ogni riferimento a ciò che sta
fuori dal quadro ma persino ogni richiamo che può annidarsi nella più asettica
forma geometrica: il risultato è lo stare innanzi all’assoluta fisicità e
singolarità della superfice pittorica. Ritengo emblematico questo passaggio: più
si affina il concetto e più emerge la fisicità, la ricerca spirituale non può
che affermare l’inderogabilità della materia. E qui veniamo al punto che anche
questo luogo interpella: l’Astrazione è chiamata nel suo stesso fondamento a
misurarsi con lo scandalo di un Dio che si fa corpo?
Le Soglie affrontano la tematica del quadrato ed era inevitabile riferirsi a chi
– come Albers – lo ha elevato a ad un valore assoluto. Ma la Soglia attraversa
quel rigore, lo rende umano, incerto, indeciso sul proseguire o restare, se
attraversare, o rimanere, o recedere. C’è la natura dell’uomo nell’incertezza,
nella fragilità della scelta, nel timore dell’errore, nell’indecisione se
attraversare verso lo sconosciuto dove ricostruire nuove certezze, dove
alimentare altre parti di sé.
Astrazione è Rivoluzione, la vera novità del Novecento che capovolge lo sguardo
per la prima volta verso se stessi, rendendo Arte le intuizioni relative al
subconscio, alla profondità dell’autoanalisi. L’Astrazione ha avuto e ha
tutt’oggi due anime opposte: una asettica, bastante a se stessa, aulica,
impenetrabile, atea; l’altra evocativa, profonda, vibratile, spirituale. Nel mio
caso l’Astrazione si misura prima col corpo, con il suo peso, il suo spessore:
le venti stratificazioni e più delle mie opere sono lì ad attendere di darsi un
ordine per dirigersi verso il passaggio, nel faticoso percorso dell’ascensione,
dove le certezze di prima svaniscono. Un attraversamento difficile, a volte
sofferto, dove difficoltà e sofferenza per ascendere possono evocare la Passione
e poi la luce oltre le tenebre.
Segno, soglia, passaggio: l’arte quindi è tale se testimonia grazia, ovvero la
possibilità di trasformazione.
Credo che la grazia sia un dono che gratifica se alimentata dal versante della
bellezza e della misura: difficile potervi accedere senza queste attenzioni. La
trasformazione include il passaggio da uno stato all’altro caratteristico
della Soglia, con la possibilità di accedervi o meno, di muoversi arricchendosi
delle esperienze più differenti, alimentati da una irrinunciabile curiosità.
Concetti molto distanti dall’asservimento sordo al materialismo e alla tecnica
che rischiano di trasformare Occidente e Oriente in contenitori vuoti a causa
dell’abbandono della poesia e dell’energia spirituale.
a cura di Luigi Codemo
L'articolo “Per un’arte eroica, controcorrente alle leggi del mercato e ai
social”. Dialogo con Roberto Floreani proviene da Pangea.
Speranza contro speranza non è il titolo di un libro – è un titolo d’onore.
Nella liturgia del 19 marzo scorso, che ruotava intorno a San Giuseppe, la
seconda lettura, dalla lettera ai Romani di Paolo, dice: “Egli credette, saldo
nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli”. Il
memorabile libro di memorie di Nadežda Mandel’štam, Speranza contro speranza –
ora in catalogo Medhelan – insegna che bisogna avere fede nella poesia. La
Storia potrà pure uccidere il poeta – deve ucciderlo, ai fini della sua riuscita
–, potrà ridurlo ai margini, a mendicare, ostaggio della propria fame – la
poesia resterà.
A Iosif Brodskij, Nadežda Mandel’štam fece l’effetto di “una minuscola brace che
brucia se la tocchi”. L’aveva incontrata nel 1972, prima di lasciare, per
sempre, l’Unione Sovietica. La brace divenne incendio – la donna martoriata e
senza parto fu la levatrice di migliaia e migliaia di poeti.
Non è inesatto chiamare Osip Mandel’štam, nelle notti a secchiate, con il tono
con cui si dice padre.
*
È curioso: i poeti seppelliscono il proprio cuore – un cuore, si dirà, capace in
radici o in tentacoli, a seconda della belva che anima quel rantolo – altrove.
Mandel’štam ha messo il cuore in Armenia, luogo che svasa in leggenda, dove il
cristianesimo primeggiò con forza di ribes, di mora selvatica. Boris Pasternak
preferiva la Georgia che nello stemma ha l’eroe che trafigge il drago. Anche in
questo si intuisce lo stigma di uno stile. A Tbilisi, Pasternak trova poeti
complici, amici – il più caro, Tician Tabidze, il Dylan Thomas georgiano, farà
la stessa fine di Osip: rapina stalinista, arresto, fucilazione, è il ’37 e come
da prassi nessuna notizia sulla sua fine allenta, per anni, la spossante attesa
dei cari. A Savan, a Suchum, “città di lutto, di tabacco e di aromatici olii
vegetali”, a B’hurakan, “celebre per la caccia ai galletti” che “rotolavano per
terra come palline gialle sacrificate al nostro cannibalesco appetito”,
Mandel’štam sta alla larga dai poeti. I suoi interlocutori sono geologi,
archeologi, chimici; scienziati, insomma. A Mandel’štam interessa
l’immaginazione ‘empirica’, il punto che congiunge poesia e scienza. Gli
interessa, per così dire, la zoologia del fraseggio, il modo in cui si sviluppa,
per gemmazione e potatura, quella boscaglia di versi. Così scrive in un
taccuino: “Fin da bambino sono stato abituato a considerare Darwin un ingegno
mediocre. La sua teoria mi sembrava sospettosamente stringata: selezione
naturale”. In Armenia – filo mancante a ricucire un cuore malmenato –
Mandel’štam trova il luogo di fusione tra letteratura e scienza:
> “Con Darwin ho concluso una tregua. Nella mia biblioteca immaginaria l’ho
> messo accanto a Dickens. Se pranzassero insieme, il terso della compagnia
> sarebbe Mister Pickwick. Non si può non lasciarsi incantare dalla bonomia di
> Darwin. È un umorista preterintenzionale”.
Anni dopo, in altro contesto, Italo Calvino scrisse che Galileo Galilei era “il
più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo” (rispondeva ad
Anna Maria Ortese dal trono del “Corriere della sera”, era il Natale del 1967).
In quel caso, era una opzione ‘letteraria’, di fatue ‘inclinazioni’; per
Mandel’štam è una questione di vita, di clinamen.
*
In Armenia, tra l’altro, Mandel’štam scansa le grandi città; preferisce i laghi,
le montagne, i borghi col broncio. Ad Aštarak “ho avuto la fortuna di vedere le
nuvole che celebravano sacre funzioni al dio Ararat”. In un passo del reportage,
il poeta cita Baloo, l’orso del Libro della giungla di Kipling. Nella mia
fragile mente, mi piace pensare al poeta come Mowgli: conosce la lingua di tutte
le bestie, è inaccettabile alla giungla come al mondo degli uomini – è scaltro e
innocente, canta e uccide.
Chissà quando Mandel’štam ha letto il Libro della giungla; chissà se imitava
Shere Khan, la tigre, o se preferiva i serafici silenzi di Bagheera, la pantera
nata dall’oscurità. Mandel’štam non è poeta abile nel ruggito; ha un passo
felpato, conosce l’arte dell’assalto, l’arte dell’indiarsi nelle attese.
Mentre è in Armenia, nella primavera del 1930, Mandel’štam è ammutolito dalla
“notizia oceanica” della morte di Majakovskij, il poeta leonino alla
Rivoluzione. Eccolo, un poeta che ruggisce! Capisce che con la morte di
Majakovskij qualcosa è morto per sempre – l’idea stessa, pur impaniata di
sangue, della Rivoluzione. Il viaggio in Armenia è pure questo, nel pudore:
compianto sul corpo morto di Majakovskij. I poeti sono come quelli che vanno in
battaglia sventolando il vessillo della Vergine: credono nelle milizie angeliche
più che nella forza dei droni. Che muoiano, seguaci dell’assurdo, è il loro
vanto.
*
Intendo dire: pur in viaggio ‘ufficiale’, Mandel’štam diffidava degli ufficiali
di partito, tramutò il compito in officio inaccettabile, in un’officina del
linguaggio che potremmo chiamare “Ufficio delle tenebre”.
Oh, sì, Mandel’štam sarà pur morto, come dicono, in un campo di transito presso
Vladivostok, nel dicembre del 1938; in realtà, egli si è creato un sepolcro in
Armenia. Egli è sepolto in quelle tombe che sembrano pietre che levitano: i
sepolcri dei santi e dei re, dove si rilassano i migratori tra un’Asia e
l’altra, perché il cielo è riposto lì, proprio lì, in quell’anfratto, piegato,
come un fazzoletto.
*
Prima di partire per l’Armenia, Mandel’štam lavorava al “Moskovskij komsomolec”,
un “giornaletto” che permetteva al poeta una “paga così basso che il denaro era
sufficiente solo per pochi giorni”. Nel secondo tomo delle sue memorie, Speranza
abbandonata – che è poi, un abbandonarsi alla speranza, anche se la speranza, a
volte, ha i tratti della iena; questo libro, in Italia, è in catalogo
Settecolori – Nadežda Mandel’štam scrive che “nella redazione tutti credevano
nel radioso avvenire e si sforzavano di accelerarne la venuta”.
A Mandel’štam l’Armenia pare il nuovo mondo: poco prima di partire, si licenzia.
“Ricevette un’attestazione di benevolenza in cui lo si diceva che apparteneva al
novero degli intellettuali a cui si poteva dare un lavoro, ma sotto la
supervisione dei capi del partito”. Per un poeta da tempo bandito dalle case
editrici statali – le uniche in azione – era un gesto di inattesa bontà.
Mandel’štam si infuriò, non accettava attestati, aiuti, pericopi di
partitocrazia ipocrita – i redattori di quel giornale, durante le purghe, furono
decimati.
*
Viaggio in Armenia – in Italia: edizione Adelphi, cura mirabile di Serena
Vitale – è un libro fantomatico, di araldica bellezza, che non si può
circoscrivere in generi. Varia dal reportage al bozzetto, dal poema in prosa al
trattato d’arte, dal dibattito scientifico al sulfureo lirismo. Il suo modello è
il folgorante Viaggio ad Arzrum di Puškin, il suo delfino è Bruce Chatwin.
Un libro del genere, va da sé, scontentò tutti, soprattutto chi aveva permesso
al poeta quel vagabondaggio. Incurante degli obblighi intellettuali verso la
patria, Mandel’štam comincia, dopo il Viaggio in Armenia, la propria catabasi
negli inferi del sistema sovietico. Vent’anni dopo, nel 1950, Marietta Šaginjan
firma il libro che avrebbe dovuto scrivere Osip: il suo Viaggio nell’Armenia
sovietica, affascinante resoconto delle sorti progressive dell’impero
stalinista, fu tradotto nel resto del mondo, le permise il Premio Stalin. Amica
di Sergej Rachmaninoff, armena d’origine, poetessa per vizio, si orientò a
Stalin, divenendone fedele – e feroce – scriba. Scrisse un romanzo su Lenin di
catastrofico successo.
Naturalmente, Nadežda ha per la Šaginjan, “minuscola e incartapecorita”, parole
violente: in un passo, descrive il suo “modo ripugnante di baciare la mano alla
Achmatova quando le capitava di incontrarla”.
*
Da tempo, Silvio Castiglioni lavora nell’opera di Osip Mandel’štam: Un po’ di
eternità è andato in scena la prima volta a Lucca, nel 2013 (regia di Giovanni
Guerrieri, storico sodale di Silvio). Improprio nominare “spettacolo” questo
atto sacro pensato “per Osip e Nadežda Mandel’štam”. Qualche giorno fa l’ho
rivisto, in un antro di Cattolica, un ostensorio di pietra, qualcosa come un
caravanserraglio, con i tappeti volanti intorno; metteva in scena Viaggio in
Armenia. Hanno ragione a chiamare quel libro “luminosissimo addio; un rito
d’addio”.
Per chi non lo ha mai visto, Silvio Castiglioni è sempre sbalorditivo. È l’unico
attore che conosco a farti capire che la mano è la mano – e la mano è in scena,
recita anche lei. Che il dito è un dito, l’unghia un’unghia, il naso è proprio
il naso. Castiglioni recita, ovvero: non dice delle parole scritte da altri in
uno spazio detto scena. Recinta il corpo nella recita. D’altronde: parola-corpo,
verbo che si fa carne; dunque: falange falena, mano lupo, gambe patriarca, gambe
binario morto, gambe Orient Express!
Castiglioni è all’oreficeria dell’arte attoriale. Castiglioni ha un corpo
soffiato nel vetro – pasta malleabile, sottoposta al fuoco dell’addestramento.
Un corpo che può farsi cigno e stoviglia, sfera e sfuriata.
Il rito dura, credo, quarantacinque minuti. Castiglioni interpreta il libro – un
libro piccino, indifeso, inaccettato – come lo sono le cose davvero
mastodontiche, regali. Castiglioni è Viaggio in Armenia; e dunque: è il
burocrate dall’“erudizione troppo chiassosa”, è la biblioteca di cactus e la
ragazza bionda, è Osip, il poeta – in fuga dallo stare in scena, troppo cristico
per inscenarsi – e le nuvole che flottano su Sevan; è la lama di rasoio sotto la
scarpa, per ogni evenienza; è l’uovo sodo – cotto nell’atto – che piaceva tanto
al poeta; è una teca di vetro che soffoca il poeta, farfalla sotto lo spillo
stalinista; è la poesia sul “montanaro del Cremlino” e il frutto rosso che
spergiura un Eden alle labbra. È il coccio, la cocciniglia, la coccinella. E
poi: Silvio che si leva brandelli plastici di faccia, lo sfacciato (ergo: una
Storia che ti soffia l’identità, la Storia avvolta di senza volto); Silvio che
sfila un lenzuolo, lo ondeggia, nostra signora Sherazade, mentre si proiettano
immagini dell’Armenia di allora; Silvio che si toglie le burocratiche calze, le
ufficiose scarpe, per svelare un piede dorato, spudorato riflesso di voluttuosa
regalità; Silvio che regola il viso sotto la panca, s’incapsula lì, e recita
quell’ultima, feroce pagina del Viaggio in Armenia, la leggenda del re recluso,
e “il sonno ti avvolge di pareti, ti mura”.
Silvio Castiglioni è Viaggio in Armenia
Ogni applauso è improprio – al rito segue: sprofondare nel sé – alcuni, al posto
dell’anima hanno giunchiglia, infinite stazioni di acquitrini, gli aironi a fare
la posta.
*
Ha qualcosa di simile al clown e al pope, Castiglioni. Occhi dalla scrittura
armena: divorano e possono piangere di ciò che hanno divorato. Se ha valore la
parola ‘invasato’, allora, poi, occorre rompere i vasi – che vuol dire, dare
rifugio all’acqua, concedere ai cocci di essere Micene, Mosca, kamen, la pietra-
Mandel’štam da cui, dopo la distruzione, ripartirà il respiro.
Lapidare, lapidazione di labbra.
*
Eccolo, lui:
> “Le mosche divorano i bambini, si attaccano a grappoli agli angoli degli
> occhi.
> Il sorriso di un’anziana contadina armena ha un’inesprimibile bellezza: è
> pieno di nobiltà, di sofferta dignità, e del particolare, solenne fascino
> della donna maritata.
>
> Vidi la tomba di un gigantesco curdo dalle dimensioni fiabesche e la presi
> come una cosa ovvia”.
Fiaba e calcolo, canicola e canini, Van Gogh e Linneo. Fu Adamo, in Armenia,
Mandel’štam.
I morti non urlano più, li abbiamo resi alla betulla, in corde, allievi del
merlo e della rupe cincia.
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