La solerzia con cui spesso si attribuiscono alla musica virtù che naturalmente
le sono estranee, induce molte menti deboli a produrre lavori o a esprimere
giudizi di una scandalosa e sconcertante vacuità. Il brusio molesto di certe
considerazioni fatte a piena voce o il grafismo isterico di anonimi e sedicenti
teorici, sovente dimenticano l’aspetto più importante della faccenda: la musica
non ama le parole.
Dopotutto è la smania interpretativa ad alimentare la fastidiosa chiacchiera che
di volta in volta nasce intorno a un’opera d’arte o a un concerto. Senza un così
chiassoso stimolo, questa imbarazzante pratica finirebbe motu proprio. Ma per
fortuna, l’opera è chiusa, serrata su sé stessa, fortemente protetta da
un’impenetrabile solitudine.
Così, tra la musica e la parola agisce una considerevole distanza. Piedi,
miglia, incalcolabili chilometri le separano. Come per le Vite parallele di
Plutarco, è solo la circostanza artistico-letteraria a renderle affini,
null’altro le lega, niente le tiene insieme. E una solenne estraneità ne celebra
il mistero.
La musica non ama le parole se non sono canto. Non ama l’insolenza del parlato o
di qualsiasi discorso che intenda sottrarle lo scettro regale col quale essa
impone le sue diaboliche leggi. La musica tollera soltanto il verso misurato di
un refrain, la sillaba pronunciata in accordo con i suoni, il soffio sottile di
un’ugola leggera. Come un violento sbuffo di maestrale essa ci rammenta i suoi
severi comandamenti dinanzi ai quali timidamente chiniamo il capo. La parola le
si affida con lo stesso candore con cui il discepolo segue il maestro. E come
gli antichi pitagorici, spesso non fa domande.
La musica non ama le parole se non sono canto. Non ama le inutili ciance, il
chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero. Come ogni spasimo d’amore
è flatus vocis, così l’introduzione al concerto, la didascalia o il programma di
sala non sono che ridicoli esercizi di stile, vuoti accademismi, ékphrasis.
Tuttavia qui la parola non accampa pretese, fa quello che deve e ritorna in
silenzio da dov’era venuta.
Si dice che Beethoven componesse a parole, che sul suo taccuino, anziché note,
scrivesse frasi. Così qualcuno chiedeva perplesso: «Cosa fa?», e mentre il
maestro continuava i suoi nervosi appunti, un altro rispondeva: «Compone
musica». Ma Beethoven amava un solitario grafismo. Scriveva parole di canti
immaginari o per una musica che soltanto lui ormai sentiva. I taccuini erano il
suo nervo acustico e sostituivano le sue orecchie malate. Con la scrittura
cercava di rievocare suoni che aveva perso per sempre. Adesso ascoltava soltanto
con gli occhi.
Antonio Donghi, Strumenti musicali, 1935
Dicendo che il poeta – un musico in potenza – conosce il segreto della parola e
il suo insondabile mistero, non si afferma nulla di nuovo. La rima,
l’enjambement, l’anafora, l’ossimoro assecondano lo stupore e annullano la
frustrazione che il parlato quotidianamente imprime alla voce ma, bisogna dirlo,
la poesia non è ancora musica in senso assoluto. I sussulti del tenace Rousseau
per le opere di Pergolesi sono certo legati ai melodiosi accenti della lingua
italiana, eppure qualcosa gli sfuggì. Ciò che egli non comprese mai è
che parlare è tutt’altro che scrivere, tutt’altro che cantare. Il suo agognato
ritorno alle meravigliose sonorità di una lingua primitiva si sfasciò proprio
dinanzi all’impossibilità che il segno linguistico o la parola scritta
assomigliassero, una volta per tutte, al canto. Insomma, la sua sfrenata
convinzione che il linguaggio fosse nato esclusivamente per esprimere i
sentimenti, gli fece trascurare tutto il resto. Cosicché un Da Ponte non compose
arie o cavatine semplicemente mettendo insieme endecasillabi o alessandrini. Non
intrecciò scene o sgranò versi distillando dello stupido sentimentalismo. Egli,
invece, cesellò preziosi monili che il solito Mozart mise in musica divinamente.
Ci sono ancora troppe parole sulla musica o nell’amalgama di suoni che proviene
da quest’Occidente malato e ormai alla fine. (E non si ricorra al solito
Spengler per darmi ragione ma si leggano i nostri Ceronetti o Sgalambro e poi ne
riparliamo).
Che la musica debba essere spiegata, commentata o discussa, mi annoia. Che
qualcuno debba dirmi questo o quello su un quartetto di Haydn o su una sinfonia
di Mahler m’immusonisce. È come se dinanzi a L’origine del mondo di Gustave
Courbet, dinanzi, cioè, a quella fica pelosa d’altri tempi, dovessimo dire
chissà che, invece di rimanere in silenzio o in voluttuosa contemplazione.
Non so come dire, ma il commento al Cinque maggio manzoniano o la parafrasi
de L’infinito di Leopardi si muovono ancora nel campo dell’adaequatio rei et
intellectus. Lo spiegone sul significato delle quattro celebri note all’inizio
della Quinta di Beethoven, invece, appartiene alla categoria delle cose vana et
futilia o, per così dire, a quella delle chiacchiere da bar. Fintanto che la
parola commenta sé stessa, rende un servizio all’umanità. L’esegesi di un testo
antico, il commento rabbinico alla Scrittura, la recensione di un romanzo e
finanche la postilla giornalistica a un articolo uscito qualche giorno prima
rendono il loro apostolato. Ma quando la parola prende il sopravvento e sgomita
in ambiti che non le competono o in cui è addirittura esclusa, non si può che
subirne l’irritazione.
Evaristo Baschenis, Accademia musicale, 1665 ca.
In un saggio del 1838, con una sola frase, Robert Schumann dà un’idea della
musica e dello stile di Chopin come chiunque dotato di senso della misura
dovrebbe fare in questi casi:
> «Chopin – dice costui – ormai non può più scrivere nulla, che alla settima od
> ottava battuta non debba farci esclamare: è suo!».
Anteponendo l’ammirazione agli inutili e superflui tentativi di analisi, alle
congetture fasulle o addirittura alle chiacchiere, Schumann evita di parlare
della musica di Chopin lasciando intendere che quella musica parla già da sé.
Un tempo la musica dovette sopportare l’affronto della notazione. In un attimo
il suono si trasformò in segno e, come si è detto, in un grafismo isterico.
Così, da un giorno all’altro, dall’orecchio la musica passò all’occhio. Il suo
mondo di fluttuanti vibrazioni, alieno dalla scrittura e dalla parola,
improvvisamente inciampò nella grossolana ovvietà della grafia. Una mole di
ruvida carta stampata oggi sopravanza alla delicata vita dei suoni.
Senza tener conto che ogni parola è un fenomeno extramusicale, Mauricio Kagel si
lascia andare a questa dichiarazione che mette i brividi per la sua poca
lucidità:
> «L’errore del passato fu credere che la musica non avesse, in quanto arte
> autonoma, bisogno di un commento esemplificativo, un’illusione che non
> corrispondeva ai fatti. Entrambe, sia l’arte che la musica, non possono fare a
> meno della parola per coinvolgere in un costante processo educativo quanti
> siano pronti ad accoglierle e percepirle».
>
> (Sulla consapevolezza e i compiti dell’artista, 1979)
Qui siamo nell’ambito della pedagogia o in quella che, meno sprezzante del
solito, Adorno chiamava «musica pedagogica». Si vuole che la musica diletti, che
intrattenga e, quando non lo fa o non ci riesce, quando cioè il pubblico si
annoia o, come spesso accade, “non capisce”, si ricorre alla parola «in un
costante processo educativo». Educare è compito della scuola (quando ci riesce),
delle parrocchie e, in extremis, di quelli che una volta si chiamavano Istituti
di correzione e pena. All’arte sia lasciato il piacere di stupire, di
meravigliare e infine di sabotare il mondo. Alla musica, invece, sia ridato ciò
che le spetta: l’acustica delle cattedrali e il silenzio memorabile
dell’ascolto.
È vero, si è detto che la musica non ama le parole se non sono canto. Ma del
resto, per il canto, non ci sono già gli usignoli?
Vincenzo Liguori
*In copertina: Hendrick ter Brugghen, Donna che suona il liuto, 1624 ca.
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chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero proviene da Pangea.
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Se mi trovassi nella sala di un museo con cento quadri appesi alle pareti, sono
certo che l’occhio mi cadrebbe sull’unico Cézanne esposto tra tutti gli altri.
Non ho nessuna particolare qualità di sguardo, ma da quando, ai tempi
dell’università, ho cominciato ad accompagnare agli studi letterari quelli
sull’arte, ma senza segnarmi a nessun corso, seguendo percorsi assolutamente
personali, a Cézanne sono sempre tornato. E quando capitavo a una mostra o in un
museo che conteneva una sua opera, era sempre lì che mi sentivo spinto – come
attratto da un mistero. Così, venendo a sapere di una grande esposizione a lui
dedicata a Aix-en-Provence, ho deciso di approfittare dell’occasione e
raggiungere quella cittadina provenzale che gli aveva dato i natali e che
sognavo di visitare da molti anni.
La Aix odierna non è certamente quella vissuta da Cézanne. Oggi il nome del
pittore ricopre le strade in ogni dove. Cézanne è il nome di una strada, di un
cinema, di un caffè, di un negozio qualunque: Cézanne come logo di un enorme
merchandising. Lo stemma stesso della città, che si trova incastonato in ogni
marciapiede del centro storico, è accompagnato dal suo nome. Ma pronunciare
Cézanne ad Aix nella seconda metà dell’Ottocento, voleva dire nominare una
specie di pazzo che nessuno comprendeva né voleva comprendere. Dobbiamo togliere
alla provincia un po’ del romanticismo che siamo abituati ad attribuirgli. La
provincia può essere anche chiusa, feroce, spietata. Spietata specialmente con
le diversità, con le anomalie. E Cézanne, in quella cittadina, doveva sembrare
addirittura un clochard. La domenica era solito andare da casa alla cattedrale
gotica a pochi passi, coi pantaloni e la giacca imbrattati di pittura, e si
fermava lì a pregare, ma evitava di incontrare il prete, perché temeva che gli
rubasse la libertà. Era schivo, irascibile, poteva esplodere di rabbia se
qualcuno lo toccava, come colto di sorpresa, come volessero derubarlo di un
segreto. Non sorprende quindi che giovanissimo, animato da uno spirito artistico
che la comunità non capiva, volesse evadere da quel luogo, raggiungere Parigi,
la capitale dell’arte, perché la provincia, per chi appartiene solo a se stesso,
per chi sogna qualcosa di diverso, per chi sente che il mondo gli esplode
dentro, può diventare una prigione. E nella capitale, dopo i numerosi scontri
con suo padre, che lo credeva un inconcludente – pure se gli garantirà una
rendita a vita che gli permetterà di dipingere sempre –, riesce alla fine ad
arrivare, legandosi a un gruppo di pittori.
Capitava che Paul raggiungesse al caffè gli amici, tra cui Zola, suo amico fin
dall’infanzia e che sarà pure colui che lo stimolerà nella carriera di pittore
anche contro il volere del padre, che lo spingeva verso studi giuridici: «una
cosa o l’altra», lo esorterà lo scrittore, «sii davvero un avvocato, o sii
veramente un artista; ma non restare un essere senza nome, portante una toga
sporca di pittura». Tra quegli amici che incontrava a un caffè parigino c’erano,
tra gli altri, Monet, Pissarro, Degas, Renoir e Manet. Quest’ultimo era
considerato il padre indiscusso di tutti loro; girava per Parigi vestito di
tutto punto, portando, per vezzo, un bastone da passeggio. Monet racconta che
quando arrivava Cézanne, con la sua barba da semidio, burbero e sciatto, tirasse
sopra la vita i pantaloni calati e facesse il giro del tavolo stringendo la mano
ai compagni. Arrivato davanti a Manet, si toglieva il cappello in forma di
ironica reverenza e gli diceva: “Non mi permetto di stringerle la mano, signor
Manet, perché non la lavo da una settimana”.
È solo uno dei tanti episodi di vita che bene mettono in evidenza il carattere
del più importante pittore francese a cavallo tra Ottocento e Novecento. Si deve
a John Rewald, tra i maggiori storici dell’Impressionismo e biografo di Cézanne,
una riscoperta mondiale dell’artista, quando ancora larga parte della critica ne
diffidava, e pure nel suo paese d’origine, Aix-en-Provence, lo consideravano
appena un uomo stravagante. Solamente gli artisti a lui posteriori ne avevano
compreso l’importanza e raccolto l’eredità; artisti che, attraverso i suoi studi
sulla natura e la sua tecnica pittorica, arrivarono a pensare a forme d’arte
come il Cubismo (non sarà un caso che Picasso lo considerasse un maestro
indiscusso, addirittura un Dio). Se Cézanne abbracciò la novità impressionista,
immediatamente dopo comprese pure che occorreva superarla, perché, come scrive
al più giovane Émile Bernard, che lo sollecitava a teorizzare il suo lavoro,
> «per noi uomini la natura è più in profondità che in superficie, di qui la
> necessità di introdurre nelle nostre vibrazioni di luce, rappresentate dai
> rossi e dai gialli, una quantità sufficiente di azzurri, per far sentire la
> presenza dell’aria».
Ma nonostante le teorizzazioni estorte da Bernard, Cézanne non sarà mai
pienamente soddisfatto della sua arte. Sognava di giungere, con la pittura, a
una Terra promessa; diceva di aver fallito, ma non come credeva Zola, che gli
rimproverava di non essere riuscito a realizzare quanto aveva compreso, ma
perché niente in arte è finito. La Terra promessa è una visione, una
resurrezione nella mente. «Nel pittore esistono due cose», aveva
scritto, «l’occhio e il cervello, ambedue devono aiutarsi a vicenda; bisogna
lavorare al loro mutuo sviluppo». Il cervello organizza ciò che l’occhio vede.
Ma quello che si vede non è un dato oggettivo, pure se oggettuale, bensì già una
sensazione, già, pure, un’interpretazione. Ed è per questo che Cézanne si
stancherà anche di Parigi, nonostante fosse ormai divenuto il più importante
pittore sconosciuto di Francia – mai la gioia di un successo pubblico. Dopo aver
provato a risiedere in più occasioni nella capitale, dove passava il più del
tempo a dipingere o a osservare i capolavori del Louvre, capisce che
Aix-en-Provence è la sua vera patria. Proprio la città di provincia che pure lo
aveva spinto lontano, ora tornava a essere un luogo ideale e fuori da ogni posa,
dove in campagna incontrava contadini che spesso ritraeva. Contadini, diceva al
più giovane amico Gasquet, che gli pareva non avessero alcuna percezione del
paesaggio in cui abitavano: per loro un campo, un albero, un frutto erano reali
soltanto per il loro utilizzo. Ma era esattamente di questo spirito semplice che
Cézanne aveva bisogno, perché quello spirito era privo di sovrastrutture e
poneva l’essere umano davvero nel tutto, parte del paesaggio che abitava, pieno
dentro la pienezza della vita. Per questo è a Aix-en-Provence che trova
l’isolamento necessario, la calma e i “motivi” di cui si nutre la sua visione.
Così Cézanne in una lettera spiega il suo desiderio di solitudine:
> «Il dubbio di apparire inferiore a quanto ci si attende da una persona che si
> presume all’altezza di ogni situazione è senza dubbio la scusa che mi fa
> vivere in disparte».
*
Lo dicevamo, nessuno come Zola aveva stimolato l’estro artistico di Cézanne, fin
da quando adolescenti passavano i pomeriggi nella campagna di Aix-en-Provence,
leggendo poesie ad alta voce, immaginando un nuovo modo di scrivere e di
dipingere la natura. Nessuno come Zola credeva al genio artistico di Cézanne,
convinto fosse la migliore mente della sua generazione. Ed era stato sempre Zola
il portavoce di quella nuova pittura che nella seconda metà dell’Ottocento stava
nascendo a Parigi; lui che scriveva violenti articoli contro la vecchia pittura
da Salon in difesa di un’arte dal vero che esprimesse, sulle tele, tutta la
natura – una natura che esplodeva di vita: Manet, il capostipite, e poi Monet,
Pissarro, Renoir, e ovviamente Cézanne. Ma Paul già guardava altrove, i suoi
accostamenti cromatici («Il colore è il luogo in cui il nostro cervello e
l’universo si incontrano», diceva), la volumetria, l’uso del pennello e della
spatola erano già distanti da quell’impressione di realtà che avevano i suoi
compagni e lo stesso Zola capiva e non capiva quale fosse la sua ricerca.
Paul Cézanne, Le cabanon de Jourdan, 1906
Quando nel 1885 pubblicò il romanzo L’Opera, Zola e Cézanne si erano già
allontanati. Il primo aveva in una certa misura chiuso il suo rapporto con i
pittori, dedicandosi interamente alla letteratura. I vecchi amici, letto il
romanzo, si sentirono delusi nel non trovare in quelle pagine la vitalità di
quel momento rivoluzionario che avevano attraversato insieme. Credettero poi che
il protagonista del romanzo, il pittore Claude Lantier, si ispirasse a Manet,
che Zola aveva contribuito, anni prima, a decretarne il successo. Ma solo uno di
quei pittori si riconobbe davvero dietro quelle pagine, ed era proprio l’amico
d’infanzia, Cézanne. Ora Paul finalmente sapeva cosa Emile pensava della sua
arte. Lo credeva un pittore “abortito”. Uno che non era riuscito a realizzare
quanto di grande la sua mente riusciva a cogliere. Se il loro rapporto si era
già frantumato, con L’Opera non sarebbe stato più recuperabile. Quei due vecchi
amici, che avevano condiviso sogni e speranze, che si erano raccontati tutto,
che si conoscevano tanto a fondo, non si sarebbero mai più rivisti.
Eppure, a leggere il romanzo, si comprende pure quanto Zola avesse compreso la
natura irrequieta di Cézanne, la sua perenne insoddisfazione, quella lotta con
la natura che poteva torturarlo, e quale sforzo l’amico dovesse compiere per
sentire sullo spazio bianco della tela la potenza della vita. Ed è questa lotta,
questo corpo a corpo con la realtà che Zola descrive così bene in certe pagine e
che molto rivelano di Cézanne:
> «Ah! lo sforzo creativo dell’opera d’arte, quello sforzo di sangue e lacrime
> di cui agonizzava per creare corpi, animarli di vita! Sempre in lotta con il
> reale e sempre vinto, la lotta contro l’Angelo! Si distruggeva nella
> impossibile impresa di fare entrare tutta la natura in una sola tela, spossato
> alla lunga dai perpetui dolori che gli tendevano i muscoli, senza che gli
> riuscisse mai di produrre l’opera del suo genio. Quello di cui altri si
> appagavano, l’approvazione della resa, la necessaria abilità, lo squassava di
> rimorsi, lo indignava come debole vigliaccheria: e ricominciava, e sciupava il
> buono in cerca di meglio, trovando che non ‘parlava’ (…). Ma che gli mancava
> per creare la vita? Un niente, di sicuro. Forse ne restava un poco al di qua,
> o andava un poco al di là. Un giorno, la parola “genio incompleto”, udita
> dietro le sue spalle, l’aveva lusingato e spaventato. Sì, doveva essere
> questo, il salto troppo corto o troppo lungo, lo squilibrio di nervi di cui
> soffriva, il guasto ereditario che, per qualche grammo di sostanza in più o in
> meno, produceva un pazzo invece che un uomo geniale. Quando la disperazione lo
> cacciava dallo studio, e fuggiva la sua opera, si portava sempre dietro questa
> idea di una fatale impotenza, l’udiva picchiare contro il suo cranio, come un
> rintocco di campana a morto».
A leggere certe pagine di L’Opera si ha l’impressione che nessuno si sia
avvicinato al moto creativo di Cézanne quanto Zola; che nessuno abbia capito
meglio di lui cosa significasse vivere dentro l’atto creativo, e quale fosse il
senso di insoddisfazione che il pittore sentisse non riuscendo mai a vedere
realizzato quanto la mente gli suggeriva. Ma Zola sembra pure, di contro, non
comprendere esattamente cosa sia quell’insoddisfazione, quasi rimproverasse
l’artigiano e non l’artista, cioè individuasse un difetto di senso pratico, di
realizzazione, e non d’ingegno. In realtà lo stesso Cézanne era consapevole che
nessuna “opera” potesse dirsi finita; che lo stesso principio di realtà aveva
una falla, un’assenza, una mancanza che l’occhio pure percepiva. Perché cercando
quella Terra promessa sapeva pure che questa in un’opera poteva essere suggerita
senza mai poterla affermare completamente.
*
Ogni mattina usciva dalla casa al centro di Aix, molto presto, per raggiungere
l’atelier che si era fatto costruire comprando un terreno in campagna, su
colline coltivate a ulivi. L’enorme vetrata dello stanzone faceva entrare molta
luce, assorbita dal grigio delle pareti, tinta scelta volontariamente per non
alterare la percezione dei colori sulla tela. A mezzogiorno, quando la luce
cambiava, usciva dallo studio con cavalletto, colori, pennelli e la tela che
stava realizzando, mettendosi di nuovo in cammino sulla collina per una ripida
salita. Raggiungeva così un punto panoramico dove in prospettiva l’azzurro
costone della montagna Sainte-Victoire dominava l’orizzonte. Passava tutto il
resto della giornata lì, ragionando su ogni pennellata, cercando in profondità
il contrasto tra i colori, misurando con l’occhio il rapporto tra la mente e il
paesaggio, non calcolando geometricamente la prospettiva, perché la matematica è
nemica della sensazione, e quello che l’occhio vede in prospettiva non è un
fascio di linee perpendicolari verso un punto all’orizzonte, ma un insieme di
colori che riempie ogni spazio, che è un tutto. Per questo nei suoi paesaggi le
prospettive sono tecnicamente sbagliate, eppure vere per come l’occhio
percepisce la profondità.
Non c’è niente di più teorico di un paesaggio. E Cézanne, per quanto non amasse
sprecare parole sulla pittura, preferendo il lavoro alla filosofia, immaginava
davvero la sua pittura come un atto critico, lavorando sulla percezione più che
sull’imitazione – ed è esattamente per questo che i suoi studi aprono al
pensiero del Novecento. Sapeva che lo sguardo, mentre osserva, interpreta, e
interpretando aggiunge le proprie sensazioni; sensazioni che si esprimevano
soprattutto con i colori. Se si trovano i giusti contrasti e le giuste relazioni
tra i colori che gli oggetti osservati esprimono – pensava –, il disegno sarebbe
emerso in conseguenza. È dal colore (dalla “sensazione coloristica” che si
riceve dagli oggetti osservati) che le forme emergono. E le forme sono presenze
con un loro volume, con un loro peso oggettivo. Si capisce così perché fosse
tanto lontano ormai da quell’impressione di realtà sperimentata dai suoi vecchi
compagni Monet, Renoir, e anche da Pissarro (a cui rimase però sempre legato).
La sua tavolozza non mischiava una tinta con l’altra. Ogni tono di blu, di ocra,
di rosso, di verde aveva un suo posto specifico. Cézanne lavorava per
sovrapposizione, anche per questo era lentissimo (gli ci volevano cento sedute
per un paesaggio così come per una natura morta o un ritratto, ed era
impossibile avere dei modelli che non fossero parenti e amici, che pure portava
allo sfinimento). E quelle che, avvicinandosi ai suoi quadri, sembrano macchie
di colore – macchie che di colori ne contengono molti –, sono il risultato di
una “sensazione coloristica” a cui chiedeva di perpetrarsi in quello spazio che,
solo, avrebbe restituito verità a quanto aveva visto.
Cézanne è un pittore della realtà nella misura in cui la realtà è qualcosa di
sacro, perché contiene il segreto delle cose nel loro stato nascente. La realtà,
nei quadri di Cézanne, sembra nascere in quel momento. Tutta la sua pittura è
qualcosa che torna alle origini del mondo per sprigionarne la natura
primordiale.
> «Per dipingere bene un paesaggio», dirà a Joachim Gasquet, «devo prima
> scoprire le forme geologiche. Rifletta che la storia del mondo ha inizio dal
> giorno in cui due atomi si incontrarono o due vortici, due danze chimiche si
> composero insieme. Quei grandi arcobaleni, quei prismi cosmici, quell’alba di
> noi stessi al di sopra del nulla, io li vedo crescere, io me ne sazio leggendo
> Lucrezio. Sotto quella pioggia sottile respiro la verginità del mondo. Un
> senso acuto delle sfumature mi tormenta. Mi sento colorato da tutte le
> sfumature dell’infinito».
Nel mio viaggio ad Aix, dopo aver visitato il suo atelier sono salito anche io
nel punto panoramico dove Cézanne si fermava a dipingere, e mano a mano che
facevo quella salita, immaginavo quanto fosse potente nella vita del pittore
compiere quel percorso ogni giorno. Si trattava di un rito, più che di un atto
di volontà o d’abitudine. Raggiungere il “motivo”, prima ancora che dipingere
quel “motivo”, era un gesto che doveva sentire come sacro. Mi sono fermato su
una panchina, ho fissato per molto tempo il paesaggio che avevo davanti,
puntando all’orizzonte la montagna Sainte-Victoire, il suo costone brullo, la
sua pietra calcarea che si colora di una luce calda che solo in Provenza ho
incontrato, una luce che emerge dagli stessi colori del paesaggio, che è dentro
ai colori stessi del paesaggio – quella montagna che si colora dell’azzurro del
cielo e di quello del mare alle sue spalle. Mi chiedevo cosa vedesse lui in
quella montagna per ritrarla così tante volte, farla divenire addirittura
un’ossessione, o il suo paesaggio ideale. Attraversando con lo sguardo l’intera
vallata, vedeva come la luce colorasse il volto della montagna, quel volto che
non si confondeva al cielo, ma ne era il suo riflesso speculare, come dire ciò
che del cielo restava solido allo sguardo, che acquistava colore e forma. E
la Sainte-Victoire non è ritratta più volte negli anni per vedere come sul suo
costone cambi di volta in volta la luce del giorno, come aveva fatto Monet con
la Cattedrale di Rouen. Per Cézanne quella montagna ha il volto azzurro di una
visione perpetrata – la visione di qualcosa che prendendo forma con gli anni
addirittura si scompone senza mai sgretolarsi. È quella visione che dà forma
allo sguardo, che ne sostanzia la sensazione che ne prova. La montagna è azzurra
e l’aria e le ombre causate dalla distanza tra l’occhio e l’oggetto osservato la
sfumano di rosa e di bianco. La montagna è già dentro lo sguardo. La
Sainte-Victoire, negli occhi e nella testa di Cézanne, è quel Paradiso che la
realtà ha perduto e che solo la pittura può farci definitivamente rivedere.
Paul Cézanne, Bagnanti, 1899-1904
*
Credo che la mia attrazione per Cézanne sia però nata da un quadro specifico che
sono andato a osservate molte volte, perché è conservato nella Galleria
Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Un quadro del 1906, Le Cabanon
de Jourdan, su cui mi sono interrogato spesso, non sapendo se sia mai riuscito a
capirlo davvero. Del resto a Cézanne si può arrivare armati di un’infinita
bibliografia e non sfiorare neppure per un attimo il suo segreto. Cézanne deve
risuonarti dentro, i suoi quadri vanno più sentiti che capiti, vissuti più che
spiegati.
Le Cabanon de Jourdan è un paesaggio con una casa in primo piano, a sinistra
della tela. Guardandolo siamo portati a riflettere su cosa significhi, nella
casa, l’azzurro della porta, quella porta che ha lo stesso colore del cielo, che
è una pennellata di cielo in uno spazio sbagliato, come un inciampo del
pennello, un errore, un attimo di cecità. Deve pure significare qualcosa, mi
sono sempre detto, se questo è uno degli ultimi dipinti a olio, realizzato pochi
mesi prima di morire. Cosa vuol dire quella casa, se quella porta è uno sbaglio
del cielo, o una distrazione dello sguardo. Quell’errore del pennello, quella
casa che è una casa che non può finire, perché la luce gli esplode dentro,
accende le pareti, è già colore, contiene tutto il cielo che solo lui, Cézanne,
vedeva – il cielo che è già qui: reale, materico, eterno.
Joachim Gasquet riporta una conversazione tra lui e Cézanne in cui quest’ultimo
afferma:
> «Tutto, più o meno, esseri e cose, non siamo altro che un po’ di calore solare
> immagazzinato, organizzato, un ricordo di sole, un po’ di fosforo che brucia
> nelle meningi del mondo (…). Ecco, io vorrei liberare questa essenza. La
> morale frammentata del mondo è forse lo sforzo ch’egli compie per ridiventare
> sole. Là si trova il suo concetto, il suo sentimento, il suo sogno di Dio.
> Dovunque, un raggio colpisce una porta oscura. Una linea, ovunque,
> circoscrive, tiene prigioniera una tonalità. I voglio liberarle».
*
Eppure paesaggi non sono solamente la campagna provenzale, o la visione
della Saint-Victoire così tante volte dipinta. Paesaggi sono anche la serie di
bagnanti, che forse meglio di ogni altro “motivo” restituisce l’immaginario di
Cézanne. Negli anni ne ho viste molte di sue opere con questo soggetto; e la
stessa mostra allestita ad Aix ne esponeva più di qualcuna. Quelle donne e
quegli uomini – quei volumi di donne e di uomini – sono in una relazione tanto
stretta con la natura che abitano che paiono i primi esseri a calpestare la
terra.
Mi sono fermato davanti a una in particolare che mi aveva
attratto, Bagnanti dipinte tra il 1899 e il 1905, conservata ora in un museo di
Chicago. In una figura umana un piede disteso a terra si confonde al verde
dell’erba, e un braccio si assorbe al tronco di un albero – e non stupisce che
il rosa di un incarnato sfumi in azzurro e che l’azzurro del cielo e dell’acqua
del fiume abbiano dato colore all’albero e alla stessa figura umana. I colori
delle cose non si mischiano impressionisticamente, contengono invece una luce
intrinseca che contamina. La realtà è per Cézanne una forma di coabitazione
armonica degli elementi; una coabitazione primordiale, originaria, in cui ogni
forma di vita è stata appena creata.
Ma sono convinto che questo “motivo” sia anche ciò che abbia ispirato Zola per
il romanzo L’Opera. Nella storia del romanzo il pittore Claude Lantier passa gli
ultimi anni della sua vita ossessionato da un solo quadro, che continuamente
corregge e disfa, sentendo di non arrivare mai a raggiungere quanto sente di
poter esprimere da quel soggetto. Il quadro è una veduta della Senna, ma in
primo piano un nudo di donna occupa gran parte dello spazio. La moglie del
pittore ne è addirittura gelosa, perché sente quanto Lantier ami più quel corpo
dipinto che il suo, che pure gli offre per interminabili sedute da modella; che
con quel corpo dipinto Lantier passi la gran parte del suo tempo, che occupi
ogni suo pensiero, che ci faccia addirittura l’amore, che lo osservi e lo studi
come fosse carne viva, come avesse un’anima e un nome. Ma nonostante l’amore,
nonostante l’ossessione, nonostante lo sforzo di finire quel soggetto, di
lasciarlo vivere di vita propria, Lantier non ne sarà mai totalmente
soddisfatto. Una notte, la stessa notte in cui sua moglie è riuscita finalmente
a strapparlo al suo lavoro, a farlo tornare da lei, alla vita reale, facendosi
possedere e illudendosi di possedere a propria volta suo marito, Lantier torna
di nuovo davanti al suo enorme quadro e riconosce il suo inesorabile fallimento,
compiendo il gesto estremo di impiccarsi davanti a quella donna che non ha mai
preso vita se non nella sua mente. Per Cézanne il “motivo” dei/delle bagnanti si
esprime fin dagli anni Settanta dell’Ottocento, si può addirittura dire che sia
sempre esistito, e forse proprio per questo Zola immagina quel particolare
soggetto per il quadro abortito che porta al suicidio il suo personaggio. Ma è
come se i due, uno attraverso il romanzo l’altro attraverso i quadri, stessero
dialogando attraverso l’arte senza riuscire a incontrarsi.
> «Claude, in maniche di camicia nonostante la rigida temperatura, nella fretta
> s’era infilato soltanto pantaloni e pantofole, era dritto sulla grande scala
> davanti al suo quadro. La tavolozza giaceva ai suoi piedi e con una mano
> reggeva la candela, mentre con l’altra dipingeva. Aveva gli occhi dilatati del
> sonnambulo, gesti precisi e rigidi, chinandosi ogni minuto per prendere il
> colore, rialzandosi, proiettando contro il muro una grande ombra fantastica,
> dai movimenti taglienti d’automa. E non un sospiro, niente altro, nell’immenso
> ambiente oscuro, che un tremendo silenzio. Rabbrividendo, Christine
> indovinava. Era l’ossessione, l’ora passata laggiù, sul ponte del
> Saints-Péres, che gli rendeva il sonno impossibile e che l’aveva riportato di
> fronte alla sua tela, divorato dal bisogno di rivederla, malgrado la notte.
> Senza dubbio, era salito sulla scala solo per empirsene gli occhi più da
> vicino. Poi, torturato da qualche nota falsa, malato di quella ossessione al
> punto di non poter attendere il giorno, aveva afferrato un pennello, dapprima
> nel desiderio di un semplice ritocco, poco a poco trascinato di correzione in
> correzione fino ad arrivare a dipingere come un allucinato, la candela in
> mano, in quella debole luce che i suoi gesti facevano oscillare. La sua smania
> impotente di creare lo aveva riafferrato, si macerava fuori del tempo, fuori
> del mondo, voleva soffiare la vita nella sua opera, subito!».
Zola non fa che battere il chiodo su quell’ossessione, su quel rapimento, su
quella vertigine da cui il suo personaggio è posseduto. Insiste appunto su
quell’atto creativo che non trova mai una capacità realizzativa, che mai si
concretizza. Ed è un’ossessione, un assedio che certamente Cézanne sentiva, ma
non era sufficiente a spiegare tutto.
Forse una risposta a Zola è un piccolo racconto di Balzac, Il capolavoro
sconosciuto, il cui protagonista, il pittore Frenhofer, è a sua volta un artista
che vuole svelare, attraverso l’osservazione della natura, il segreto della
vita. Lo stesso Cézanne, interrogato su quale fosse il personaggio letterario
che amasse di più, è proprio il protagonista del Capolavoro sconosciuto che
nomina. E a leggere alcune affermazioni sulla pittura di Frenhofer,
effettivamente sembra di ascoltare la voce stessa di Cézanne:
> «La missione dell’arte non è copiare la natura, ma esprimerla! Non sei un vile
> copista, ma un poeta! (…) Noi dobbiamo cogliere lo spirito, l’anima, la
> fisionomia degli oggetti e delle creature. Gli effetti, gli effetti! Ma gli
> effetti sono le casualità della vita, non sono la vita! Una mano, dato che ho
> fatto questo esempio, non è solo attaccata al corpo, ma esprime e continua un
> pensiero che bisogna cogliere e rendere. Né il pittore, né il poeta, né lo
> scultore devono separare l’effetto dalla causa, che sono indissolubilmente
> concatenati. (…) Voi disegnate una donna, ma non la vedete! Non è così che si
> svela il mistero della natura. La vostra mano riproduce, senza che voi vi
> accorgiate, il modello che avete copiato dal vostro maestro. Non penetrate
> abbastanza a fondo nell’intimo della forma, non la inseguite con sufficiente
> amore e perseveranza nei suoi sbandamenti e nelle sue fughe. La bellezza è
> qualcosa di severo e difficile che non si lascia conquistare senza sforzi:
> bisogna attendere il momento giusto, spiarla, starle alle costole e legarla
> bene per costringerla ad arrendersi. La forma è un Proteo ben più sfuggente e
> ingannevole del Proteo della storia. Solamente dopo un lungo combattimento la
> si può costringere a mostrarsi col suo vero aspetto. (…) Ogni figura è un
> mondo, un ritratto il cui modello è apparso in una visione sublime, inondato
> di luce, su indicazione di una voce interiore, spogliato da un dito celeste
> che ha mostrato, nel corso della sua vita, le fonti dell’espressione. (…) La
> natura comporta una serie di rotondità che si avvolgono le une nelle altre.
> Propriamente parlando, il disegno non esiste. (…) La linea è il mezzo con cui
> l’uomo comprende l’effetto della luce sugli oggetti, ma in natura non vi sono
> linee, tutto è pieno. È modellando che disegniamo, che stacchiamo gli oggetti
> dallo sfondo; solo la distribuzione della luce dà al corpo il suo vero
> aspetto».
Mettendo a confronto Zola e Balzac si ha come l’impressione che svelino il verso
e il recto di uno stesso personaggio. Balzac non poteva avere Cézanne come
modello per il suo Frenhofer, la prima apparizione di Il capolavoro
sconosciuto è infatti del 1831 – Cézanne era nato da appena otto anni. Ma lo
stesso quelle pagine ci raccontano di un sentimento creativo, una necessità di
coabitazione con il soggetto osservato, che è possibile attribuire allo stesso
Cézanne, il quale avrebbe potuto sottoscrivere frasi come:
> «La natura comporta una serie di rotondità che si avvolgono le une nelle
> altre. Propriamente parlando, il disegno non esiste. (…) La linea è il mezzo
> con cui l’uomo comprende l’effetto della luce sugli oggetti, ma in natura non
> vi sono linee, tutto è pieno».
È quel tutto pieno che desidera esprimere Cézanne. Far vivere insieme,
attraverso i colori, tutta la natura – esseri e cose. È quella la Terra
promessa. È quello il Paradiso tanto agognato, perché nell’espressione di quella
coabitazione è possibile rivivere il primo atto creativo, la nascita della prima
forma di vita sulla terra, il mistero raccontato in Genesi.
Si rilegga invece l’ultima frase di Zola:
> «La sua smania impotente di creare lo aveva riafferrato, si macerava fuori del
> tempo, fuori del mondo, voleva soffiare la vita nella sua opera, subito!».
Forse è realmente questo che ha ferito Cézanne di quel romanzo. Certo,
l’impotenza, l’incapacità di realizzazione, il fallimento. Ma a scapito di cosa?
Zola aveva colto qualcosa di più profondo che riguardava la persona di Cézanne.
Zola aveva capito quanto Paul, per esprimere la vita, avesse dovuto rinunciare
alla vita. Aveva capito che l’ossessione di esprimere la natura, l’ossessione di
cogliere, della natura, il fuoco che la rende viva, avesse di conseguenza reciso
ogni suo legame; che l’arte, in Cézanne, aveva inghiottito tutto: l’amore,
l’amicizia, i legami di sangue – si racconta che non partecipò neppure al
funerale di sua madre (la donna che per tutta la vita incoraggiò la sua
vocazione) per correre al suo “motivo”. Ma sarebbe un errore troppo grave
ridurre Cézanne a un’interpretazione psicologica carpita da qualche aneddoto.
Da una parte (la lezione di Balzac) il mistero della creazione. Dall’altra
(l’interpretazione di Zola) l’ossessione creativa che distrugge la vita. In
Cézanne convivono questi poli che non possono essere separati, che pur
collimando sono necessari l’uno all’altro.
> «È certo», scrive Merleau-Ponty in un saggio che dedica a Cézanne, «che la
> vita non spiega l’opera, ma è altrettanto certo che esse comunicano. La verità
> è che quell’opera da fare esigeva quella vita. Sin dall’inizio, la vita di
> Cézanne non trovava equilibrio se non appoggiandosi all’opera ancora futura,
> di cui era il progetto, e l’opera si annunciava mediante segni premonitori che
> avremmo torto a ritenere cause, ma che rendono vita e opera una sola
> avventura. Non ci sono più qui cause ed effetti, le une e gli altri si
> raccolgono nella simultaneità d’un Cézanne eterno che è la formula di quel che
> ha voluto essere e, ad un tempo, di quel che ha voluto fare».
*
Lasciando l’elegante e affollata via principale di Aix, una cittadina di
provincia oggi vitalissima, piena di giovani universitari, di locali, di turisti
da ogni parte del mondo, mi sono infilato in alcuni vicoli più stretti, cercando
la salita che mi avrebbe fatto raggiungere il cimitero di Saint-Pierre. Amo la
pace dei cimiteri di provincia, non vi è città che visiti in cui non cerchi il
luogo in cui la memoria è seppellita. Eppure mi stupiva accorgermi che via via
che mi avvicinavo al cimitero, quella folla che avevo visto in città, la stessa
che aveva riempito anche le sale della grande mostra dedicata a Cézanne e
addirittura la sua casa e il suo atelier, fosse improvvisamente scomparsa. Tra
le tombe più nessuno, soltanto un gatto rosso dormiva al sole sdraiato su una
lastra di marmo.
Presso la tomba di Cézanne; photo Andrea Caterini
La tomba di Cézanne, il cui nome inciso sulla pietra viva si era un poco
levigato, era a pochi passi dall’ingresso. Ecco, diventare una lapide da cui si
è cancellato anche il nome, soffiato via dal tempo; scomparire diventando
pietra, elemento, memoria organica di un luogo, non essere niente stando nel
tutto. È il pensiero che ho avuto salutando Cézanne un’ultima volta prima di
partire. «Ho giurato a me stesso di morire dipingendo», aveva scritto in una
lettera a Émile Bernard nel settembre del 1906. Sarebbe morto un mese dopo.
Alzando lo sguardo dopo una preghiera, scorgevo in lontananza, tra le punte di
due cipressi che facevano da cornice, il volto impenetrabile della
Sainte-Victoire, ancora lì davanti a lui: eternamente.
Andrea Caterini
*In copertina: Paul Cézanne, Portrait de l’artiste au chapeau de paille, 1875
ca.
L'articolo “Mi sento colorato da tutte le sfumature dell’infinito”. La Terra
promessa di Cézanne proviene da Pangea.
> “L’artista non crea nulla, non imita nulla, non inventa […] estrae gemme
> nascoste dal tessuto della vita.”
>
> Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, 1978
Da circa un decennio l’arte della ceramica sta vivendo un momento di rivalsa e
attenzione. I brand più impensabili hanno le loro homewear di stoviglie
infiocchettate e i personaggi più inaspettati sembra abbiano scoperto la nobiltà
del fango. ll revival in corso viene cavalcato dalle principali gallerie. Dagli
USA al Giappone, passando per Africa e Asia: Carwan Gallery, Moma, Officine
Saffi, varie Biennali tra Italia, Francia e Corea dedicano interi cicli
monotematici al mondo della ceramica. Emblematica la personale del 2020 che la
Gagosian di Londra dedica alle bianchissime porcellane del ceramista e scrittore
Edmund De Waal.
Ovviamente si scopre il già scoperto, in quanto questa disciplina artistica
affianca l’uomo dal Paleolitico superiore e, con uno storico di ventimila anni,
quest’arte lascia margini nulli o quasi alla novità.
Ma è a dispetto del rumore e dei trend, lontano dai circuiti ufficiali e
ufficiosi dell’arte che a Pavia, nella piccola e raffinata boutique di Marina
Danova, si è svolta un’intima esposizione degli ultimi lavori ceramici di Sergio
Maria Calatroni. A indicare l’evento solo pochi e tondeggianti sassi di fiume
sul gradino d’ingresso. Fermacarte d’inciampo per i coloratissimi manifesti che
in italiano e giapponese davano due indicazioni su ciò che avveniva all’interno.
Gres e piccole porcellane sono poggiate senza fronzoli su nudi tavoli in resina.
La monocromia lattiginosa dei sostegni isola ed esalta questi piccoli oggetti
catalizzatori di un’energia che ha i suoi natali nel lontano Giappone, luogo
dove ormai da decenni Calatroni risiede e opera. Un auto esilio dorato che dalla
scena culturale europea di fine Novecento in cui con la ciurma del Gruppo
Memphis di Ettore Sottssas chiodava di colore la Milano degli anni Ottanta, l’ha
visto ritirarsi sempre più tra gli antichi templi nei boschi di Kamakura. Qui la
sua ricerca artistica ha trovato l’humus più fecondo e gioioso attraverso un
dialogo profondo con la natura, la storia e la società del Sol Levante.
L’esule – ancora di più se è un artista – penetra il senso nascosto delle sue
esperienze e delle sue peregrinazioni intendendole come una lunga serie di prove
iniziatiche. Esse saranno l’ossatura della sua ricerca artistica. Ciò significa
vedere segni, significati nascosti, simboli, nel ciclo delle stagioni, nel
traffico della metropoli, nello sciabordio del mare, nella grazia del croco che
per primo sfonda la neve invernale. È solo sublimando le esperienze empiriche
che egli può costruire una struttura. Leggere un messaggio nel trascorrere
amorfo delle cose e nel flusso monotono dei tempi in cui vive. Cavare fuori
grammatiche estetiche dalle sofferenze, dalle depressioni, dagli inaridimenti di
tutti i giorni.
Il lavoro di Sergio mantiene e conserva quel dono difficilissimo della
spontaneità. Privilegio di chi si pone costantemente in gioco nel cercare di
vedere il mondo sempre per la prima volta. Un eterno rimettersi in discussione,
lontano dai mestieranti del sé; quelli che poi diventano esperti,
professionisti, specializzati. Sergio continua a rimanere nel territorio della
meraviglia, dell’adorazione per le piccole grandi cose che la natura offre. Il
bocciolo di un fiore, la corteccia di un frassino, la tela del ragno, la linea
di un sasso di fiume.
Vedere e leggere questi segni per poi convertirli in oggetti è la sua missione
più nobile. Egli lavora su un territorio di fragilità estreme, di linee
traballanti. Fenomeni quasi impercettibili fatti di accenni, tensioni e
propensioni trovano voce attraverso la lirica del suo lavoro. Una ricerca che
nasce da una scrupolosa riflessione sul mistero, sulla magia dell’imprevisto,
sull’evento inatteso matrice di vita e morte. Armonia e distruzione sono le
sentinelle di un percorso iniziatico-creativo di cui l’artista è un mero
servitore. Uno strumento operativo prestato a chissà chi e chissà cosa: “La
forza che nella verde miccia spinge il fiore/ spinge la mia verde età; quella
che fa esplodere le radici degli alberi/è la mia distruttrice […]” scriveva
Dylan Thomas. Non è un caso se questo tipo di ricerca dell’essenziale si trova a
suo agio con la scrittura poetica. Un modus operandi che per sua natura si sposa
con la potenza della parola, fa da esempio la mostra a Tokyo del 2018 in cui i
lavori di Calatroni hanno accompagnato Il Porto Sepolto di Ungaretti, tradotto
in inglese per la prima volta in maniera completa da Andrew Fitzsimons.
Innumerevoli sono i suoi lavori ispirati, presentati o dedicati ai lampi
degli haiku. Mentre ANIMALIA è il prezioso libro a leporello edito dalla
raffinata Fiorina Edizioni in cui minimali disegni di Calatroni accompagnano una
selezione di waka, una tipologia di componimento poetico risalente al VII
secolo.
Obbligatorio il punto di contatto con la filosofia e l’estetica Zen. Una
disciplina inevitabile specialmente per chi come lui vive e opera in Giappone da
decenni. Ricordo personalmente numerosi volumi e preziosi cataloghi stipati
nella libreria della sua casa. Un’abitazione tradizionale in
perfetto stile shoin da lui ristrutturata e integrata di orto e laboratorio di
pittura e scultura. È l’incanto a fare la differenza, a squarciare il consueto
per ricordarci la multiforme essenza del creato. Le sue ceramiche si offrono
allo spettatore come oggetti generati con naturalezza, un lavorio costante e
silenzioso, un impercettibile agire in cui non trapela alcun segno di volontà o
sforzo nel plasmare e domare la materia, come insegna la lezione orientale
dell’anti-mimesis in cui il grande artista non imita la natura ma ha come
obiettivo quello di porsi nelle condizioni di generare spontaneamente come la
natura. Porcellane che stanno bene tra le pietre di un torrente, piatti che
sembrano ciocchi di legno, ciotole e tazze senza età si possono confondere tra i
fiori o la ghiaia di un campo. Questo è il mondo ceramico di Calatroni.
Strati di colore si sovrappongono e dialogano in contrasti che non stonano e in
armonie che non annoiano, secondo gusti ed equilibri affinati dall’esperienza
di grande osservatore baudelairiano. L’opera è sempre il risultato di una
cristallizzazione di attimi più o meno vicini a un qualche immediato che per sua
natura sfugge imprendibile. Un flash, un’intuizione che l’artista insegue e
blocca. O per lo meno ci prova, perché il fallimento è il miglior compagno
d’impresa. Il tutto avviene con il benestare del dio del fuoco. Un dio
oracolare, capriccioso ed esigente. Impossibile da domare del tutto e
imprevedibile a tal punto che in Grecia, secondo Pausania, il protettore dei
vasai era Ceramo figlio di Dioniso, il dio dell’ebbrezza e delle contraddizioni.
Mentre in Giappone il kami del fuoco è legato indissolubilmente alla luce e alla
terra: Kagutsuchi, ossia, il fuoco che brilla sulla terra.
È curioso notare come ciò che fa breccia creando un punto di divergenza con il
famoso “andazzo generale” avviene sempre in una dimensione altra. Nel silenzio,
all’ombra dei grandi riflettori, al riparo da tendenze e hype gonfiati e
sfruttati dal regime culturale. È sempre fuori dal tracciato canonico che
avviene il punto di riflessione o di rottura. L’inatteso fa visita con tutta la
sua dirompenza laddove meno lo si aspetta, offrendo preziose occasioni per una
meditazione più pacata e profonda su ciò che lavora per imporsi.
È necessario inciampare sui sassi per aprire gli occhi.
Martino Cappai
L'articolo “Sublime tenera luce” o delle ceramiche di Sergio Maria Calatroni
proviene da Pangea.
Adolf Wölfli viene interrogato dal dottor Schärer, il medico del carcere dove è
stato condotto in seguito al suo terzo tentativo di violenza sessuale. Ne ha
fatto le spese una bambina di circa tre anni che di cognome fa Dilger. Secondo
il rapporto del gendarme Zimmermann, al momento dell’arresto Wölfli si dichiara
colpevole, confessa di aver avuto l’intenzione di commettere atti osceni e di
essere stato interrotto dall’arrivo della madre.
> No dottore, non avevo ancora bevuto. Andavo verso il Dählhölzli per riposarmi,
> era un bel pomeriggio. Il fatto è che sono molto debole sia fisicamente che
> mentalmente. L’ho veduta sulla Schauplatzgasse, davanti all’ingresso di un
> palazzo, ero confuso. Sono stati loro che mi hanno messo in testa l’idea che
> avrei potuto farle qualcosa. Sono anni che non mi lasciano in pace, mi
> perseguitano in tutti i modi, gridano cose che non voglio sentire, hanno anche
> infettato il mio sangue con morbi venerei della peggior specie. Avevo una
> fidanzata, si chiamava Marie Egger, ma l’ho lasciata dopo che mi ha attaccato
> la malattia. Ha fatto marcire il mio sangue, ha rovinato per sempre la mia
> virilità.
«Le assise del Mittelland», il quadro che Wölfli dipingerà al Waldau una decina
di anni più tardi, può essere considerato il racconto trasfigurato della vicenda
giudiziaria che ne ha determinato l’arresto e il successivo internamento in
manicomio. In alto, sulla destra, probabilmente nel punto dove ha iniziato a
disegnare, è raffigurata una giovane donna che solleva l’abitino fantasia che
indossa esibendo i genitali. È con invitante malizia che sembra offrire allo
sguardo dell’osservatore la sua vulva, appesa come un oscuro frutto al fusto
candido delle gambe. La ragazza indossa stivaletti con il tacco e la sua testa
di luna piena è circondata da un turbante di aureole.
> Glielo assicuro dottore, non avevo cattive intenzioni, ho pensato che mi
> sarebbe piaciuto passeggiare con lei come due innamorati, offrirle un gelato,
> portarla alle giostre. Slacciale i pantaloncini, mi dicevano invece loro
> nell’orecchio, mettile una mano lì sotto, che uomo sei? Non vedi come ti ha
> guardato? È per questo, per i pensieri che mi mettono in testa, che ho dovuto
> premere il membro tra le cosce e soddisfare la mia voluttà.
Nell’angolo opposto del foglio Wölfli rappresenta se stesso sotto forma di una
specie di diavoletto nero con occhi sbarrati, dentini aguzzi, grandi corna
ritorte e un piccolo pene eretto. L’impressione è quella di un mostriciattolo
generato dalla fantasia di un bambino, una specie di teddy bear che la luna
piena ha trasformato in una bestia tanto famelica quanto inoffensiva.
> Sono loro che mi fanno fare questi brutti pensieri. Mi vengono dietro giorno e
> notte e non la smettono di parlarmi entrandomi nella testa. Che uomo sei, mi
> dicono, non vedi che tutti ridono di te. Sono molto debole dottore, è il vizio
> a causare la mia debolezza. Ogni volta provo a resistere, ma poi li sento
> sghignazzare. Loro vedono i miei pensieri. La bambina non l’ho toccata. Non do
> fastidio a nessuno io. Sì, in passato, ma è da tanto che rigo dritto. Quando è
> arrivata la madre sono scappato e mi sono nascosto dentro un portone. In amore
> ho avuto solo delusioni, non mi fido più delle promesse delle donne. Mi hanno
> solo preso in giro.
Sì è vero, ho il vizio del bere, ma non mi ero ancora fermato all’osteria,
ripete al dottor Schärer prima di essere congedato e riportato in cella. Quella
stessa sera il medico andrà a cena da Frau Weber, una ricca signora che da poco
si è trasferita nella capitale e che, a quanto sembra, ama sentirsi raccontare
di certe stranezze che albergano nell’animo umano. Adolf Wölfli verrà invece
trasferito dal carcere alla clinica psichiatrica Waldau dove rimarrà per il
resto della vita. È il 3 giugno 1895, da qualche mese Wölfli ha compiuto trentun
anni.
*
Al momento dell’ingresso in manicomio viene assegnata a Wölfli la sigla 4224 D
3. Ragioni di pubblica decenza prevedono infatti che il nome dei pazienti venga
sostituito da uno pseudonimo o più semplicemente da un numero. Sulla prima
pagina della cartella clinica, alla voce domicilio, si può leggere: Carcere
giudiziario, Bühlstrasse 27, Berna; a quella indirizzo dei familiari: Ufficio
del Giudice Istruttore II, Berna. La diagnosi definitiva, stilata dopo qualche
settimana, è di dementia paranoides, al giorno d’oggi si direbbe schizofrenia.
> Mi spiano, mi osservano, i loro occhi mi seguono dappertutto. Appoggiano
> strumenti infernali alle pareti della camera per ascoltare i miei pensieri.
> Intossicano il mio corpo con i vapori malefici che fanno passare dalle fessure
> della porta. Tutta la notte li sento parlare, guardatelo il pover’uomo, si
> dicono, di niente è capace, mi indicano col dito e ridono, nessuna donna si
> alzerebbe la gonna per lui – scrollano la testa e ridono – guardatelo, può
> solo strizzarsi l’affarino che ha tra le gambe.
Al Waldau Wölfli trascorre la maggior parte del tempo in regime di isolamento a
causa del suo comportamento violento e aggressivo. Ha crisi di rabbia esplosive
nel corso delle quali se la prende con le cose – distrugge tavoli, sedie, porte
– e con gli altri pazienti che, dice, fanno rumore e parlano male di lui alle
sue spalle. Ne hanno già fatto le spese il paziente Amsler e il paziente Wernli
che sono stati scaraventati a terra e presi a calci. Ha colpito pesantemente
anche il paziente Weibel pur essendo quest’ultimo paralitico. In conseguenza
della caduta provocata da un suo violento attacco il paziente Bill è caduto
fratturandosi il collo del femore. Recentemente al paziente Zang ha staccato con
un morso un lembo del labbro superiore. È molto nervoso, pallido in volto, suda
copiosamente, sente voci a contenuto sessuale, annota il medico in cartella, ma
non manifesta l’intenzione di fuggire come ci si potrebbe aspettare da lui. In
un’ultima crisi di rabbia Wölfli ha fatto a pezzi la seggetta presente nella
cella e con la gamba che ha staccato dalla sedia ha sfondato la porta e
distrutto tutte le formelle di una grande finestra del corridoio. Dopo tali
intemperanze non gli viene concesso il permesso di lasciare la cella. Il
paziente inganna il tempo disegnando, scrive il medico prima di rimettere la
cartella di Wölfli nello schedario.
*
Tutto sembra cominciare grazie ad un intervento magico, un mondo compiuto e
perfettamente definito emerge d’un tratto dal nulla senza che prima ci fossero
state avvisaglie della sua comparsa sotto forma di abbozzi, prove, tentativi non
portati a termine. Pare davvero una creazione divina, l’estrazione di un
universo di grande complessità e bellezza dalla mente di un uomo brutale,
miserabile, grossolano, insomma una specie di idiota sgraziato e fallimentare
anche nei suoi tentativi criminali.
Nella sua foto più celebre Adolf Wölfli è ritratto in piedi mentre con il
braccio alzato e l’indice proteso indica una sua opera appesa al muro. Ha il
corpo tozzo, segnato da una certa pinguedine, i pantaloni arrotolati fino al
ginocchio e tirati su dalle bretelle ben oltre la vita, i baffi cespugliosi, un
basco nero in testa. Quanti l’hanno conosciuto lo descrivono come astioso,
violento, tendente all’enfasi e all’autoesaltazione. È difficile che susciti
simpatia o compassione.
Inganna il tempo disegnando, l’osservazione del tutto banale che il medico
annota coglie, seppur involontariamente, un aspetto centrale di ciò che
fa Wölfli nella sua cella del Waldau. I suoi scritti, i suoi celebri disegni
spiraliformi, l’ossessiva ripetizione di pochi gesti sembrano essere davvero
modi per immobilizzare il tempo ingannandolo. Il tempo viene fatto ruotare su se
stesso come una trottola e ruotando viene tenuto fermo in un punto del suo
corso. La trottola per rimanere in piedi deve però continuare a girare. Se il
suo movimento si ferma la trottola crolla a terra assieme a tutto il resto.
Un’ininterrotta poiesis è ciò a cui Wölfli è condannato, altrimenti c’è
l’abisso, l’angoscia incontrollabile delle voci che additano, insultano, rendono
la vita impossibile.
Wölfli chiamerà le sue prime opere Composizioni musicali. Si tratta di disegni a
matita, in bianco e nero, su carta da giornale, in cui fanno la loro comparsa
anche i righi con i quali decorerà fino alla fine le immagini come festoni
appesi sopra una piazza affollata. I pentagrammi sono sostituiti da esagrammi,
ma l’impressione è comunque quella di essere di fronte ad uno spartito
variopinto, un antifonario riccamente miniato. Non a caso sono firmati
da Adolf Wölfli, compositore di Schangnau.
*
> Sono nato il 29 febbraio 1864 a Nütchern vicino a Bowyl. Mio padre girava la
> regione lavorando come scalpellino. Se sobrio e di luna buona era capace di
> finire il lavoro che gli veniva affidato, ma appena intascata la paga, invece
> di tornare a casa dai suoi infelici bambini e dalla loro madre, se la beveva
> in qualche bettola tra gentaglia come lui. Era considerato un poco di buono,
> entrava e usciva di prigione.
I medici del Waldau erano soliti chiedere ai nuovi internati, o almeno a quelli
in grado di farlo, di redigere una loro memoria autobiografica. Wölfli, che si
trova nella condizione di detenuto in attesa di giudizio, la scrive anche al
fine di giustificare il suo comportamento alla luce della tormentata e
miserabile condizione che fin dalla nascita ha patito. Con ogni probabilità si
tratta del primo scritto che Wölfli porta a compimento.
> Sono il più giovane di sette fratelli, due dei quali sono morti da piccoli.
> Non ho sorelle. Mia madre, che per quanto ne so era una lavandaia, non
> riusciva a sfamarci e siamo stati tirati su grazie al sostegno della
> parrocchia. Quando avevo otto anni ci hanno divisi. Mi madre non godeva di
> buona salute e presto Nostro Signore la liberò dalle sue sofferenze. Io venni
> mandato a Oberei a lavorare da un falegname. Sarebbe stato un valido artigiano
> se non fosse stato per il bere. Sua moglie, che era una donna rigida e dura,
> faceva la sarta e spesso andata a cucire in casa di altri. Quando tornavo da
> scuola non c’era nessuno ad aspettarmi e in cucina non trovavo niente per
> mettere a tacere la fame tranne che tre o quattro patate e raramente anche una
> crosta di pane che bagnavo nell’acqua fredda. Il resto del cibo era tenuto
> sottochiave. Quando facevano baldoria offrivano da bere anche a me. All’inizio
> la grappa mi disgustava, ma alla fine non mi tiravo indietro e ne ingurgitavo
> in quantità. È stato così che nel giro di un anno sono diventato un giovane
> ubriacone.
L’autobiografia che Wölfli scrive è ricca di dettagli e umori, il tono è spesso
enfatico e lascia largo spazio all’autocommiserazione, ma non manca di una certa
forza narrativa soprattutto se si tiene conto che l’autore è un semianalfabeta.
Wölfli racconta di sé per una decina di pagine, più di quante sarebbero state
necessarie per esaudire la richiesta dei medici, ma che non sono niente se
paragonate alla biografia allucinata e interminabile che inizierà a scrivere
tredici anni più tardi, il folle viaggio di parole con cui abbandonerà la sua
condizione di internato soggetto a rigide misure restrittive per inventarsi
nuove vite e nuovi mondi in cui viverle.
*
Passano gli anni al Waldau, così come passano nel resto della Svizzera e
dell’intero mondo. È il 1908 quando Wölfli comincia la sua seconda autobiografia
dopo quella scritta su richiesta dei medici all’ingresso in manicomio. La camera
dove è obbligato a stare è sporca e in disordine. Appoggiata a una parete c’è
una soggetta che emana un forte odore di escrementi. Wölfli è in piedi davanti a
un piccolo tavolo dove sono posati alcuni grandi fogli. Ha le maniche della
camicia arrotolate e in testa il basco nero che non si leva quasi mai. Tra le
dita stringe una matita quasi nuova. Gliene danno due all’inizio di ogni
settimana. Osserva il filo di grafite dipanarsi nitido sul pallore della carta,
passa poi il palmo della mano sul foglio come per stirarne le impercettibili
pieghe e ammira quanto ha scritto compiacendosi per la sua bella calligrafia,
così chiara e musicale. Più guardo il movimento della mano più mi pare la
delicata danza di una giovane ballerina, si dice piegando di lato la testa per
cambiare la prospettiva. Ricomincia a scrivere.
> Voll Wehmuht, Reue, Schmerzen, Angst und Grahm, pieno di tristezza, rimorso,
> dolore, paura e nostalgia di casa, ho già trascorso quattordici interi anni
> della mia misera esistenza dietro alla porta chiusa di una cella e ciò a causa
> di un errore commesso in passato. Sono stato costretto ad abbandonare i miei
> parenti ed anche l’infelice persona amata per lasciarli in balia di estranei.
> Il mio buon sangue è stato versato, la pace divina se n’è andata e con un
> cuore bruciato io adesso affondo morendo sopra un cuscino che non è il mio.
Wölfli intitolerà il fantasioso racconto della sua vita Von der Wiege bis zum
Graab, Dalla culla alla tomba.Aggiungerà poi una seconda frase, forse per
rimediare a quello che probabilmente gli era sembrato un titolo troppo modesto:
O, attraverso il lavoro e il sudore, il dolore e il tormento, pregando alla
maledizione. Comincia il racconto in modo convenzionale, ripetendo l’incipit già
utilizzato in passato, ma quasi subito la scrittura slitta, devia, rimbalza,
viene catturata dalla fantasia più sfrenata, dal sogno o dal delirio. Il
protagonista della storia è un bambino di nome Doufi – il diminutivo di Adolf –
che con la sua famiglia lascia la Svizzera per cercare fortuna in America. Da
qui partirà per un viaggio intorno al mondo e fuori dal mondo, tra pianeti e
stelle. Sarà pieno di avventure e peripezie, di catastrofi naturali e incidenti,
di scontri e lotte dai quali il piccolo Doufi ogni volta si salverà per
miracolo. Concluderà scrivendo il testamento in cui nomina il nipote Rudolf
erede delle ricchezze che ha accumulato durante il viaggio.
Bisogna continuare e Wölfli continuerà, continuerà fino alla fine. Riempirà
duemilanovecentosettanta pagine che raccoglierà in nove volumi illustrati da
settecentocinquantadue disegni. A questa prima opera ne seguiranno altre per un
totale di circa venticinquemila pagine che andranno a formare quarantacinque
grandi libri che lo stesso Wölfli provvederà a rilegare, contenenti, oltre al
testo, milleseicento disegni e millecinquecento illustrazioni ottenute con la
tecnica del collage. In aggiunta utilizzerà anche sedici quaderni. I
quarantacinque ingombranti volumi che raccolgano i suoi scritti, messi l’uno
sopra l’altro, avrebbero raggiunto e superato l’altezza della stanza. Per
questo, quando si trattò di fotografarli, si optò per disporli su due pile,
l’una alta fino quasi al soffitto, l’altra poco più alta di un tavolo.
La data di dimissione di Wölfli dal Waldau coincide con la data della morte,
il 6 novembre 1930. L’ultima nota della cartella clinica dice: il paziente è
deceduto questa mattina alle ore 8 e 10 minuti.Solo alcuni giorni prima, con le
lacrime agli occhi, Wölfli aveva detto che a causa degli intensi dolori causati
dal tumore allo stomaco non ce la faceva più a disegnare. Il medico annota in
cartella che il paziente non mangia, beve solo acqua e non ha più forze; scrive
anche che è molto amareggiato perché ha capito che non ce la farà a terminare in
tempo la Marcia funebre, l’opera alla quale sta lavorando da almeno un paio di
anni e che gli sarebbe piaciuto portare a termine per l’imminente Natale.
> Era buio fino a dove il loro sguardo poteva arrivare. Tutti gli spiriti si
> librarono sopra le acque e giunsero sulla terra ferma. Orfeo disse, che sia
> luce, e luce fu. Allora il sole inviò sulla terra i suoi raggi luminosi. Non
> passarono che poche ore prima che l’ultimo raggio di sole cadde sulla terra.
> Una parola divina accese allora la luna e una moltitudine di stelle
> scintillanti disegnarono un cerchio nel blu del firmamento.
*
A partire dal 1907 e fino al 1920 lavora al Waldau in qualità di assistente
medico il dottor Walter Morgenthaler, lo stesso che firmerà l’internamento di
Robert Walser. Decide di raccontare la storia di quel suo strano paziente
costantemente dedito al disegno e alla scrittura, ma, essendo lo psichiatra di
natura più contenuta, si limita a centotrentaquattro pagine, sufficienti però a
risvegliare l’interesse per i lavori di Wölfli tra gli amatori di quel genere di
bizzarrie – la cosiddetta arte dei pazzi – e a non far disperdere nell’oblio del
tempo il nome dello psichiatra.
Paolo Miorandi
L'articolo “Con un cuore bruciato”. Marcia funebre per Adolf Wölfli proviene da
Pangea.
È stato Mario Guaraldi, l’editore rivoluzionario, ad incarnare le fotografie di
Marco Pesaresi nelle parole di Pier Vittorio Tondelli. L’edizione di Rimini, “Il
romanzo vent’anni dopo”, a cura di Fulvio Panzeri, stampata da Guaraldi
nell’estate del 2005, alterna le fotografie di Davide Minghini e i ritratti
tondelliani di Fulvia Farassino, alle immagini, prepotentemente spudorate, di
Pesaresi. Un colpo di genio paradossale: Tondelli nasce nove anni prima di
Pesaresi e muore quando il fotografo riminese ha appena fatto il suo ingresso in
Contrasto. È una specie di passaggio del testimone tra generazioni affini e
inavvicinabili: Tondelli muore a metà dicembre del ’91, tre settimane dopo
Freddie Mercury. La sua morte segna la fine di un’era. La morte di Pesaresi,
invece, sempre in dicembre, dieci anni dopo Tondelli, inaugura una nuova era,
brutale: l’Undici settembre del 2001, il World Trade Center di New York viene
sbriciolato da due Boeing 767; alla guida, un manipolo di affiliati ad Al Qaida.
La Storia fa una brusca virata, indossa il sudario.
Da Pesaresi a Tondelli: una specie di inseguimento.
Non c’è sconcezza negli scatti di Pesaresi, ma l’arcana sensazione di vivere
nell’ultimo fuoco, un passo prima della cenere. Si passa, cioè, dal gioco al
rito: i corpi fotografati da Pesaresi sono corpi donati, sono corpi perdonati,
corpi sacramentali. Un rogo di corpi. A volte, ci si spoglia come si indossa un
saio – o uno chador. Al contrario, negli anni Ottanta eletti a idolo da
Tondelli, i corpi si rovesciano come acqua: uno scroscio di corpi di cui non
resta altro che il vuoto, l’eco, il coccio del coccige. Ci si sveste per
rivestire un vuoto, il nulla.
I corpi di Pesaresi, i corpi degli anni Novanta, sono corpi noir, sono corpi da
notte oscura, corpi che ci falciano come un’accetta. Poco dopo, la mania
turistica si sposterà dalle discoteche – Mecca bacchica, il tempio dove si
consuma l’estasi, l’uscita da sé, svaginando le Baccanti in ‘cubiste’ – alle
sagre, il culto di un amarcord da educande. Anche Tondelli si era accorto, poco
prima della dipartita, di questa mutazione dell’essere – la Storia non è
rettilinea: è un rettile. Nel 1990, per la mostra “Ricordando Fascinosa
Riccione”, PVT scrive un saggio esemplare, Cabine! Cabine!, che raccoglie le
“Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica”. In sostanza,
pressoché dal nulla, Tondelli fonda un immaginario della riviera, costruisce una
poetica della Romagna. In mezzo, ci sono Mussolini e Pasolini, Filippo De Pisis
e Raffaello Baldini, Giorgio Bassani e Sibilla Aleramo, ma anche Alberto
Arbasino, Mario Luzi, Dante Arfelli, Valerio Zurlini. Su tutto aleggia un senso
di disincantato incanto – uno schianto.
Ma torniamo a Rimini. Tondelli giurava di aver scritto “il mio libro più
ambizioso”; nelle pubblicità – plateali – Rimini era presentato come “Il romanzo
dell’estate”: ne parlarono tutti, non per forza bene. A Enrico Regazzoni, su
“Linus” (luglio, 1985), Tondelli disse di essersi ispirato a Raymond Chandler e
a Francis Scott Fitzgerald, a Vito Bruno (“Reporter”, 4 giugno 1985) di aver
“fatto solo del rock and roll”, a Michele Trecca (sulla “Gazzetta del
Mezzogiorno”, 28 giugno 1985) che “Esiste un establishment letterario (quello
dei premi, delle pagine culturali dei giornali, dei professori, degli
accademici) che, accecato dai propri fasti, da una cultura ottocentesca, non
riesce a vedere il nuovo, non è assolutamente in grado di vedere il nuovo”.
Il nuovo professato da Tondelli spaventò i vecchi mestieranti del verbo. Il 23
giugno del 1985 Pier Vittorio Tondelli avrebbe dovuto partecipare a “Domenica
in”, portando Rimini in tivù: l’incontro saltò all’ultimo minuto. I giornali
diguazzarono nel torbido (così la “Gazzetta di Reggio”: Tondelli censurato a
“Domenica in”. Sesso e politica fan paura alla Rai; e poi: Pippo Baudo censura
Tondelli); Tondelli denunciò l’infamia: “Nonostante uno degli autori di
«Domenica in» avesse accettato, dopo la solita trattativa, di ammettere il
romanzo alla presenza del faraone [Pippo Baudo; N.d.R.], nonostante un
capostruttura della Rete avesse per tre volte ribadito la presentazione in base
agli intrinseci valori del romanzo, all’ultimo momento pare che sia intervenuto
il direttore della rete, o chi per lui, per bloccare la presentazione. Motivo
ufficiale: come non presentiamo film vietati ai minori, così facciamo con i
romanzi. Più probabilmente, si dice, la storia della misteriosa morte del
senatore cattolico (la parola democristiano non viene mai fatta nel libro) e
alcune sequenze erotiche hanno turbato i dirigenti televisivi così come
nell’80 Altri libertini turbò l’allora magistrato de L’Aquila Bartolomei, fino a
spingerlo al sequestro”.
Qualche giorno dopo, l’ebbrezza toccò ineguagliate guglie. Il 5 luglio del
1985 Rimini viene presentato al Grand Hotel; l’atmosfera di ispirato edonismo è
ricordata con queste parole da Roberto ‘Dago’ D’Agostino, il mattatore della
festa: “Tondelli aveva magnetizzato i gay d’Italia… A un certo punto, tutto
pronto per la presentazione, invitati già accalcati, fui incaricato di andare a
chiamare Tondelli in camera. La porta era semi aperta e quello che vidi –
gang-bang di corpi maschili rovesciati sul letto – ha sempre rappresentato per
me un quadro-vivente di quegli anni, terribili e bellissimi. Un ‘sogno bagnato’
che Tondelli aveva svelato con i suoi libri”. Un paio di anni prima, il Grand
Hotel era stata la cornice della ‘prima’ di E la nave va, il più malinconico dei
film di Fellini: in prima fila, insieme al regista, lo Zeus di Cinecittà, c’era
Umberto Eco; Mario Guaraldi – ancora lui – dirigeva le danze.
Nella biblioteca di Marco Pesaresi – angusta, augustea – non ricordo libri di
Tondelli: ricordo Hermann Hesse, Dino Campana, Byron e Bakunin. La poesia come
anarchia, il viaggio come brigantaggio dell’io. Pesaresi aveva una Transiberiana
nel cuore; aveva cominciato a Londra, intuendo nel sottosuolo del tube il sole
dell’India, il volto di Indra. Per un’idea di “colonna sonora” di Rimini,
Tondelli scelse Leonard Cohen e i Duran Duran, I Wanna Be Loved di Elvis
Costello e Time After Time di Cyndi Lauper, Prince, gli Smiths e i Talkin Heads.
Probabilmente Pesaresi ascoltava gli stessi pezzi.
Il punto, tuttavia, è altro. Provo a dirlo così: la differenza tra nudità e
spoliazione. C’è chi si denuda mostrando una maschera; chi, nudo, ha più abiti
di quando è vestito. La nudità che non prevede spoliazione – cioè, un lento
disfarsi dell’io, la resa all’inverno della carne – è una menzogna. L’attuale
spaccio dei corpi – da YouPorn a OnlyFans – ha questa dimensione: la nudità non
svela, non rivela e non svilisce. È avvilente. È una nudità-maschera. Una nudità
travestita. Una nudità in vesti. Non c’è vestizione né spoliazione in quella
nudità.
Eppure: la carne è effimera, passa, ma il corpo è tutto. Corpo: crisalide dello
spirito.
Pesaresi fotografa la spoliazione. L’attimo in cui il corpo nudo, spoglio di
tutto, finalmente disinibito, finalmente fuori di sé, si fa pasto a chi lo
guarda. È un corpo a precipizio. Un corpo eucaristico, un corpo cibo – se vuoi,
puoi masticarlo. Tutto, ormai, è spezzato. Non osate ricomporre, ora, ciò che è
stato offerto per sempre.
Questo pensiero è dedicato a Mario Guaraldi, quasi un padre
*A Rimini, presso i Palazzi dell’Arte (Piazza Cavour), è in atto fino all’8
dicembre 2025 la mostra di Marco Pesaresi “Rimini proibita”. A cura di Jana
Liskova e Mario Beltrambini, la mostra mette in relazione gli scatti di Pesaresi
– di cui nel testo si pubblicano alcuni esemplari – al romanzo di Pier Vittorio
Tondelli, “Rimini” (1985). Il catalogo della mostra è edito da NFC edizioni.
L'articolo Pier Vittorio Tondelli e Marco Pesaresi. Tra nudità e spoliazione
proviene da Pangea.
Don McCullin nasce a Londra nel 1935, crescendo durante la guerra, fra case
diroccate e bombardamenti, nel quartiere popolare di Finsbury Park, dove
scatterà le prime fotografie, a vent’anni, dopo aver svolto il servizio militare
per la Royal Air Force, ritraendo una banda di Teddy Boy, i Guvnors. La sua
prima fotografia pubblicata mostra i Guvnors in un palazzetto distrutto dalla
guerra. Gliela compra l’“Observer”, stampandola a mezza pagina e chiedendogliene
altre. Don McCullin diventa così un fotografo freelance, lavorando per
l’“Observer” e il “News Chronicle” e la rivista “Town”, viaggiando per
l’Inghilterra in cerca di scatti e abbandonando Finsbury Park, il suo quartiere
d’infanzia.
Nel 1961 la Repubblica Democratica Tedesca comincia la costruzione del muro di
Berlino, e lui decide di andarci a proprie spese, realizzando un portfolio che
sarà premiato dalla British PressAward e che gli frutterà il primo contratto da
professionista, sempre con l’“Observer”. Intanto si è sposato, e di lì a poco
diventerà padre. Ma non rimarrà molto in famiglia, troppo irrequieto per vivere
a lungo nello stesso posto. Nel 1964 parte per Cipro, dove copre l’invasione
turca; qui farà i suoi primi, grandi scatti di guerra, che l’anno successivo
saranno premiati dal World Press Photo. È il suo primo incontro con l’orrore
della guerra. In uno scatto un miliziano turco esce da una casa, di corsa, con
il fucile fra le mani: un’immagine oggi famosa. In un altro una donna piange due
uomini morti, riversi in una pozza di sangue, il marito e il fratello. Don
McCullin scoppia in lacrime, muovendosi a fatica intorno ai cadaveri, componendo
le fotografie “nella stessa maniera in cui Goya dipingeva o abbozzava i suoi
disegni di guerra”, come racconterà anni dopo nella sua
autobiografia, Unreasonable Behaviour, Un comportamento irragionevole, scritta
con Lewis Chester.
Lui è Don McCullin
Le immagini si susseguono. Una donna piange il marito morto, con il figlio
accanto, stringendo le mani ossute; degli uomini trascinano il cadavere di un
vecchio lungo una strada, di fianco a un carro armato; una ragazza turca cammina
imbracciata a un fucile, decisa a vendicare la morte del fratello. Sono scatti
in bianco e nero, istantanee della morte e del dolore che testimoniano la
ferocia e l’insensatezza della guerra, di ogni guerra. È lo sguardo delle
vittime, la loro disperazione e la loro forza, il loro urlo contro gli
assassini.
> “Speravo di aver catturato nelle mie fotografie un’immagine duratura che si
> sarebbe impressa nella memoria della gente” ha detto Don McCullin. “Cercavo un
> simbolo – anche se allora non mi sarei espresso in questi termini – che
> potesse rappresentare l’intera vicenda e avesse la forza d’impatto dei riti e
> delle icone religiose.”
Negli anni successivi Don McCullin continua a viaggiare, di guerra in guerra:
Vietnam, Congo, la Guerra dei sei giorni a Gerusalemme, ancora Vietnam, dove
tornerà oltre quindici volte, Nigeria, per la guerra di secessione del Biafra,
di nuovo Vietnam, nella cittadina di Hue, dove scatterà la sua fotografia forse
più conosciuta, quella del marine traumatizzato, con le mani strette intorno
alla canna del fucile.
Ogni sua immagine è una storia, un momento che si racconta attraverso gli
sguardi o i gesti, le posizioni delle mani e delle braccia e le smorfie sui
volti. Viene in mente la poesia Torture, di WisławaSzimborska:
> “Il corpo si torce, si dimena e divincola,
> fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,
> illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.”
Gli uomini piangono e si disperano o fissano semplicemente l’obiettivo, cioè Don
McCullin che fotografa, oppure sono morti, come il soldato vietnamita riverso al
suolo, nella cittadina di Hue, con le sue fotografie di famiglia sparse accanto
a sé.
Fra una guerra e l’altra, di viaggio in viaggio, Don McCullin trova il tempo di
fotografare anche i Beatles, a Londra, e di passare per la Cuba di Fidel
Castro, dove conosce la scrittrice Edna O’Brien, che diviene sua amica e gli
dedica una poesia, First the lions, then the vultures, Prima i leoni, poi gli
avvoltoi. È il 1968. Don McCullin è ormai un fotografo rinomato, fra i migliori
fotografi di guerra al mondo, anche se odia quest’espressione, “fotografo di
guerra”, dicendo che suona come un’accusa di comportamento mercenario. Le sue
immagini, in un chiaroscuro fatto di ombre e luci, sempre composite, ritraggono
la miseria, la disperazione, la fame, la malattia, la guerra, ma non solo:
alcuni suoi scatti sono momenti di rara bellezza, come il ritratto di Patience,
nel Biafra, una ragazza sedicenne denutrita eppure bella, che guarda il
fotografo con uno sguardo pieno di dignità e dolcezza.
Nel 1970, in Cambogia, Don McCullin viene ferito alle gambe, da una raffica di
mitra. Cerca di salvarsi, trascinandosi con le braccia fra cumuli di cadaveri e
soldati in fuga, strisciando nel fango.Finalmente lo caricano su un camion,
portandolo via. Riuscirà a tornare in Inghilterra, anche se non vi resterà a
lungo, nonostante le ferite, ripartendo quasi subito per il Bangladesh, in
India, dove farà un reportage su un’epidemia di colera. Qui le fotografie sono
terribili, come nelle guerre. Una famiglia piange la madre morta, in un campo
deserto. Dei malati di colera si rigirano sul pavimento, in preda al dolore,
come insetti schiacciati. “Nessuna salvezza, in quegli scatti” ha scritto Guido
Ceronetti, in Ti saluto mio secolo crudele, “l’uomo è privo di ali, l’uomo è
senza il soccorso divino, l’uomo è solo.”
L’uomo è solo anche nella guerra. Don McCullin torna in Vietnam e in Cambogia,
poi in Medio Oriente, per la guerra del Kippur. È come una droga, dice in
un’intervista: non può fare altro che partire, di guerra in guerra, accumulando
orrori.
“Quando tornavo in redazione con le mie fotografie” racconta, “il caporedattore
esclamava: ‘Che orrore! Sarà una buona doppia pagina!’, o: ‘Povera gente! Che
grande copertina!’. E io accettavo il loro gioco, non chiedevo altro che di
ripartire per la prossima guerra, era diventata la mia droga.” E poi:
> “Non è finita, non lo sarà mai. Non ci sarà un giorno senza questi flashback
> nella mia testa. Non posso attraversare una via di Belgrado, o entrare da
> Harrods, o passeggiare sulle colline del Somerset, senza che queste immagini
> ritornino, come gli spot alla televisione. Delle persone nell’ingresso di un
> palazzo di Beirut, in lacrime, mentre i miliziani ricaricano le loro
> mitragliatrici. Li hanno massacrati qualche minuto dopo, davanti a Gilles
> Caron e a me. Ci siamo scambiati uno sguardo, stringendo le palpebre, e non
> abbiamo detto una parola per il resto della giornata.”
Gilles Caron era uno dei più cari amici di McCullin, anch’egli fotografo di
guerra, scomparso in Cambogia nel 1970, probabilmente ucciso dai Khmer rossi.
Nel 1972, in Uganda, Don McCullin viene arrestato dai soldati del dittatore Idi
Amin Dada. Lo rinchiudono in prigione, lo picchiano, lo torturano, per poi
espellerlo a vita dal paese. Più tardi, prefaendo un suo libro di
fotografie, Hearts of Darkness, John Le Carré scriverà:
> “Don McCullin ha conosciuto tutte le forme di paura e ne è diventato un
> esperto. È tornato indietro Dio sa da quanti precipizi, e nessuno assomigliava
> all’altro. Le sue esperienze in una prigione ugandese basterebbero a far
> perdere per sempre il senno a un uomo, di certo a un uomo come me. Dice di
> essersi giocato la vita più volte di quante riesca a ricordare, ma non se ne
> vanta.”
Seguono altri orrori, specie il massacro dei palestinesi a Beirut, in Libano, a
Sabra e Chatila, nel 1982, o la guerra civile in Salvador, dove sarà ferito
ancora, cadendo da un tetto. Ma ormai Don McCullin è stanco. Ha visto troppe
guerre, troppo dolore, e poi sente che la sua fortuna sta per esaurirsi e non
vuole finire come il suo amico Gilles Caron o come Dana Stone o Sean Flynn o il
giapponese Kyoichi Sawada, tutti morti o scomparsi; non vuole morire.
Nel 1985 fotografa i riti religiosi dei pellegrini lungo le sponde del fiume
Gange, in India, dove si reca da anni, uno scenario di quiete; poi comincia a
ritrarre paesaggi e nature morte, in Inghilterra, nel Somerset, nei dintorni di
casa sua. “La mia ora preferita è il crepuscolo” spiega, “non posso non
desiderare che tutto divenga sempre più scuro.” Passa ore intere nel suo
laboratorio, sviluppando immagini. Sono paesaggi cupi, come scattati alla fine
del mondo, nei confini dell’animo umano, fatti di silenzio e oscurità. Sembrano
un epilogo a tutte le guerre che ha vissuto.
> “Immagina di guardare negli occhi di una persona che sta per essere
> giustiziata davanti a te e che ti implora di aiutarla” dice Don McCullin, “ma
> tutto quello che puoi fare è scattare una fotografia e andartene. Quando te ne
> vai, se hai ancora un briciolo di umanità, il tuo cuore è pesante come una
> pietra. Non stiamo parlando di fotografia, ma di una responsabilità molto più
> grande. Io mi porto dietro il peso di quel senso di responsabilità, e di
> colpa. Per questo cerco di alleggerirmi da quel carico facendo fotografie di
> nature morte e di paesaggi. Fotografando i campi allagati, gli alberi spogli,
> il paesaggio antico come le leggende di re Artù ai margini del mio villaggio
> nel Somerset, ho la sensazione di purificarmi da quella colpa.”
Non andrà più in guerra, Don McCullin, con l’eccezione di un breve viaggio in
Iraq, nel 1992, a quasi sessant’anni. Le sue fotografie ormai sono esposte nelle
gallerie di tutto il mondo, a Londra, a Parigi, a Berlino, a New York; nel 1993
la regina Elisabetta lo nomina commendatore dell’Impero britannico e dottore
honoris causa dell’Università di Bradford: una bella rivincita, per uno che non
poteva pagarsi gli studi e che è stato bocciato all’esame di fotografia della
Royal Air Force.
Nei suoi libri di fotografie (The Destruction Business, Hearths of
Darkness, Open Skies, Sleeping With Ghosts, Don McCullin in Africa, Don McCullin
in England) si vedono cadaveri trucidati e divelti e volti sfigurati, figli
mutilati e deformi e madri in lacrime e manicomi deserti e bambini legati ai
letti, a Sabra, sotto i bombardamenti israeliani, oppure la sua Inghilterra – il
cimitero della famiglia Brontë avvolto dalla foschia, un collezionista di teschi
londinese, un gruppo di skinhead adolescenti che prendono il sole, dei pescatori
che giocano a calcio su una spiaggia, un gregge di pecore che si avvia al
macello, all’alba, immagine di finitudine, un barbone malinconico e selvaggio,
simile a Nettuno, che fissa l’obiettivo con grande dignità.
Don McCullin è uno dei grandi testimoni del nostro tempo, non solo per le
fotografie di guerra, immagini dell’orrore e della miseria umana, ma anche per i
suoi scatti dell’Inghilterra e per i suoi paesaggi, le terre deserte e cupe del
Somerset o i campi di battaglia della Somme, in Francia, una delle sue prime
fotografie del nuovo secolo, quasi un monito a ogni guerra presente e futura. Il
suo percorso di fotografo, dai sobborghi di Londra al Vietnam al Biafra a
Gerusalemme fino alle tribù primitive delle isole Mentawai, esplora le
profondità umane e disumane del Novecento, il cuore di tenebra del secolo
ventesimo e forse, da ultimo, la nostra colpevolezza, nelle lande desolate di
una terra ormai priva dell’uomo, senza più guerre, nel silenzio di ogni cosa,
fin dove si spinge lo sguardo – cioè l’obiettivo – di Don McCullin, e forse
ancora più oltre.
Edoardo Pisani
*In copertina e nel testo: fotografie di Don McCullin
L'articolo Don McCullin, l’uomo che ha fotografato il cuore di tenebra del
secolo proviene da Pangea.
Milano, fine luglio. Cielo altero, immacolato. Piazza Duomo è sommersa, more
solito, da policromi sciami umani, torme di piccioni quasi addomesticati,
esagitazioni vocali e sorrisi posticci a beneficio di autoscatto.
Noi scegliamo Palazzo Reale, una retrospettiva di oltre trecento opere dedicata,
in occasione del primo centenario dalla sua nascita, a Mario Giacomelli
(Senigallia, 1 agosto 1923 – Senigallia, 25 novembre 2000), fotografo radicale
fra i più influenti del Novecento. Il titolo della mostra è emblematico: Mario
Giacomelli. Il fotografo e il poeta.
Ci immergiamo senza esitazione nella nera carena della prima sala. Le luci al
soffitto sono cecchini discreti puntati sulle immagini incorniciate. Immagini o
illusioni, non si sa ancora. E non si sa nemmeno se avvicinarsi o scegliere la
visione d’insieme, a distanza, lo sguardo che erra, si confonde, naufraga in uno
smarrimento in bianco e nero.
Quante saranno le raffigurazioni che tracciano ogni parete in un’avvicendarsi di
chiazze d’oscuro e di lume?
Ci fermiamo, al centro della sala, socchiudiamo gli occhi e poi li riapriamo,
accostandoci ai segni di materia che promanano dalle cornici: sembianze vaghe,
talora invece nettamente profilate, in ogni caso, sempre definite soltanto dal
nostro sguardo. Non dal Suo, che è già oltre, nel movimento che tende
all’infinito, all’indistinto.
Lo sguardo di Mario Giacomelli è sempre oltre, anche prima di scattare, anche
dopo, nella camera oscura, quando la materia diventa irreale, il visibile
tracima nell’invisibile, nel sembiante della trascendenza. Lui cerca
quella. Cerca di afferrare la trascendenza, senza fermarla, respinge il tempo,
rifiuta l’idea di sospensione radicata in un certo concettualismo fotografico;
attualizza, semmai, il passato, riesuma ciò che è finito, restituendogli nuova
vita: “le mie foto” – scrive in un appunto – “sono il presente e il passato: lo
spazio ed il tempo ridotti ad un segno unico”[1].
E che sia buio, luce, cranio brulicante di farfalle-stelle o campo arato, che
siano preti, gatti, uccelli, bocche sdentate o scheletri arborei, che siano case
a mucchi o semplici macchie, che sia vita o morte, nulla cambia. Il fermento, il
moto sulla soglia – fra ciò che è e ciò che non è più, ma in altro modo comunque
sarà – è il sigillo con cui Mario Giacomelli lavora sull’immagine, e prima
ancora sui luoghi, sugli oggetti, sui volti, predisponendoli, arruffandoli,
spostandoli, inventandoli, per valicare l’implacabile leopardiano “orizzonte che
lo sguardo esclude”, e tendere all’ἄπειρον (ápeiron), riconciliando così materia
ed evanescenza, presente e passato, memoria e immaginazione.
Mario Giacomelli riesce, nell’epoca della fotografia analogica, a penetrare e
oltrepassare la materia, dunque il reale, indegno della complessità della vita,
e riesce a farlo partendo – fra l’altro – dalla poesia, il gesto che, forse più
di tutti, ha accesso all’invisibile e che, in ogni caso, accompagna tutta la sua
vita.
Non è un poeta stricto sensu, Giacomelli, anche se si cimenta nella scrittura di
versi, ma di certo incorpora lo spirito dei poeti a lui cari (Leopardi,
Cardarelli, Dikinson, Masters, Montale, Corazzini, Luzi, Borges, Caproni,
Permunian) e impara, col tempo, a tradurlo in immagini, sperimentando le più
svariate tecniche fotografiche: “lo sfocato, il mosso, la grana, il bianco
mangiato, il nero chiuso, sono come esplosione del pensiero che dà durata
all’immagine, affinché si spiritualizzi in armonia con la materia”[2].
È nel cenacolo di Giuseppe Cavalli, fotografo e intellettuale raffinato, che il
giovane Mario – costretto al lavoro in una tipografia da quando ha tredici anni,
dopo aver perso il padre a nove – riceve l’iniziazione, si accosta alle più
svariate forme d’arte, ascolta Bach, legge Eliot e Croce, orienta la propria
indole romantica e decadente verso l’apprendimento, da autididatta, della
fotografia artistica. Fa propri i dogmi dei maestri per domarli, sconcertando
sin da subito l’ambiente fotoamatoriale: i suoi primi lavori (come la serie Vita
d’ospizio, cui si dedica a partire dal 1956, e che è ispirata all’ospizio di
Senigallia dove lavora la madre) vengono puntualmente scartati ai concorsi,
poiché Giacomelli infrange i dictat dell’epoca, le regole
del reportage bressoniano, intervenendo nella realtà e alterandola, prima e dopo
la cattura (si pensi ai bianchi e ai neri bruciati dal flash, alle cesure, alle
sovraimpressioni). Interventi che allontanano il Nostro dal realismo in voga in
quegli anni e dalla ricerca della purezza stilistica dello scatto. Nel
parallelismo fra animato e inanimato, l’ospizio ritratto da Giacomelli svela i
volti e i corpi dei vecchi, ripresi in posture oblique e traballanti, la
pelle-corteccia fessurata dalle stesse crepe dei campi arsi dal sole, il buio
delle cavità oculari che mangia lo sguardo predisponendolo alla mèta ctonia, e
somiglia a quello delle fosche finestre dei casolari diroccati ritratti in altre
fotografie della serie.
Quel lavoro segna l’inizio del viaggio nella fotografia metafisica, anzi
poetica, di Mario Giacomelli, che insegue l’uomo, pencolante tra forze
contrapposte, con la sua tragica fragilità, e lo ritrova sulla soglia di una
perenne metamorfosi, lo trova fra ruderi isolati, annidato fra gli anni di un
tronco, in suggestioni di caligine, fra contorsioni di ferri neri e pezzi di
cemento, o ancora issato a cieli consunti, accecanti. L’uomo di Mario Giacomelli
pulsa nei controluce, nei profili di un masso strangolato dal buio, o ancora in
una folla di teste illuminate come cerini accesi nel nero.
Nello sguardo di Giacomelli, come in quello del poeta, il paesaggio (legato, nel
suo caso, al mondo contadino dal quale proviene) si fa esperienza interiore,
attraverso l’uso del simbolo, ed è, come annota lui stesso:
> “atto di espressione totale dove sento lievitare la natura, il flusso
> traumatico del tempo. È la dimensione dello spazio ridotto a una emozione
> unica, ad una estensione della mia esistenza dove il quotidiano, il ripetitivo
> viene come filtrato dal fluente dell’immaginazione”[3].
Non si può dire che Giacomelli ritragga il paesaggio; semmai, come sostiene
sempre lui, raffigura “i segni, le memorie della esistenza di un ‘mio’
paesaggio. Non voglio che sia subito identificato, preferisco che si pensi a
certi segni, alle pieghe che l’uomo ha nelle sue mani.”[4]
È una fotografia meditativa, immaginifica, quella di Mario Giacomelli, fatta di
lacerti figurativi, di tensioni fra luci e ombre, di audaci frammenti e
composizioni radicali, in cui anime e oggetti si accordano per proiettare i
segni dell’inconscio. “…segni”, osserva sempre il Nostro, che “vengono come
vivificati per una loro architettura e costruzione visiva, come a sfidare le
cose reali.”[5]
Ce ne accorgiamo subito, sin dalle prime sale dedicate alla retrospettiva. Qui
proveremo a soffermarci su alcune di esse e a dare una lettura (istintiva,
dunque, senz’altro inadeguata) di alcuni dei lavori esposti, invitando il
lettore a regalarsi un’esperienza immersiva di formidabile intensità nell’arte
di Mario Giacomelli.
*
La serie L’infinito (1986-1988), ispirata all’omonima lirica leopardiana[6],
viene realizzata in seguito all’incontro di Giacomelli con Luigi Crocenzi
(1923-1984), eclettico fotografo e intellettuale con cui il Nostro intrattiene
un epistolario negli anni Sessanta e da cui apprende le teorie del fotoracconto
e del montaggio per immagini, cominciando a praticare la fotografia come
concatenazione di immagini destinate alla narrazione.
La lettura del celeberrimo componimento è innesco potente, un ponte verso la
trasposizione metamorfica della parola in immagine. L’infinito, per Leopardi, è
una percezione che scaturisce dall’incontro con un’area tangibile e circoscritta
(il colle di Recanati, la siepe), oltre la quale si staglia la
sconfinata ouverture dell’immaginazione, della memoria. Ecco, Giacomelli traduce
tale percezione poetica in una precisa tensione fotografica, combinando, da un
lato, materie solide e impenetrabili (strade asfaltate, muri, finestre profilate
di luce, campi geometricamente arati, linee lignee), dall’altro, suggestioni
evanescenti (ombre di solitudini, paesaggi sui quali piovono aghi di luce o
bagliori simili a stelle, volti sfocati, stormi di uccelli su sfondi nuvolosi in
dissoluzione), queste ultime ottenute grazie all’effetto del mosso o delle
doppie esposizioni.
L’astrazione è la cifra della serie, che si apre con il bianco assoluto e si
chiude con il nero assoluto (per usare le espressioni di Alessandro Giampaoli,
uno dei curatori del catalogo uscito, proprio sul lavoro fotografico in
commento, per Silvana Editoriale[7]); ma ciascuna delle tinte si definisce
attraverso il suo opposto, a testimoniare quella circolarità e quella ciclicità
che Giacomelli individua come caratteristiche precipue dell’infinito. Una parete
ci stordisce: su di essa campeggiano sedici catture incorniciate, una visione
d’insieme lisergica, fatta di righe e geometrie inusuali che si confondono in
un’unica figura: il confine. Ma poco più in là, la materia perde peso, il bianco
e nero si sfuma, e lo sguardo può tornare, infine, al dolce naufragare. Prima di
lasciare la sala, sussurriamo ripetutamente l’ultimo verso della lirica, nella
suadente traduzione di Philippe Jacottet: Et m’abîmer m’est doux en cette mer.
*
Bando è il titolo di una lirica[8] di Sergio Corazzini, poeta amato in gioventù
da Giacomelli per la sua tragica vulnerabilità, e alla cui opera complessiva si
ispira l’omonima serie in esposizione a Milano. Il lavoro, realizzato fra il
1997 e il 1999, omaggia i temi cari al poeta romano, che hanno a che fare coi
tessuti costitutivi dell’essere, come l’innocenza profanata, la malattia, la
morte, la fragilità, la preghiera monca al cospetto dell’inaccessibilità di
Dio.
La serie (composta da gruppi di quattro opere, lo spazio fra le quali delinea il
segno di una croce) ci permette di intravedere nella cattura dei singoli istanti
le tracce del rituale cui si consacrava il fotografo prima dello scatto, ossia
la fabbricazione concettuale e materiale dell’immagine. Giacomelli, si è
poc’anzi osservato, trascorreva ore ad apparecchiare lo spazio, raccimolando
materiali e detriti, operando spostamenti, inventando installazioni; tutto allo
scopo di aprire un varco che favorisse la connessione fra il mondo esterno e
quello intimo che passa attraverso lo spirito, dunque lo sguardo. Uno sguardo
visionario, il suo, come si evince dalle immagini astratte e potenti che
declinano questa serie; immagini che raffigurano l’ingrandimento del caos della
materia, appositamente allestita per la cattura, e successivamente disintegrata,
smarginata, e finanche scarabocchiata, in ogni caso sempre manipolata nel
rituale postumo della camera oscura, attraverso le tecniche più svariate e
l’utilizzo di particolari carte fotografiche.
In un appunto vergato a mano da Giacomelli ed esposto in bacheca, leggiamo:
> “Credo che la stabilità di una immagine sia nello smarrimento del fotografo di
> fronte all’oggetto”.
Ma ora, nell’assenza dell’artista, è tutto nostro lo smarrimento al cospetto di
immagini che somigliano a lacerti di sogno rappezzati, specchi di un inconscio
arreso alla luce.
*
La serie forse più conosciuta di Giacomelli mutua, invece, il titolo da un verso
di Padre David Maria Turoldo, Io non ho mani che accarezzino il volto[9], e ci
presenta un simposio di giovani seminaristi ripresi nella loro quotidianità, in
attimi di gioco e di danza; da un certa distanza, girotondi di nere talari
spiccano a contrasto con la terra innevata ed evocano nugoli di uccelli librati
nel cielo. Netta è l’intenzione di Giacomelli di dissacrare la sacralità in
favore dell’uomo, denudato sino all’incoscienza del bambino balordo di gioia,
facendo a pezzi il simbolo, fotografando l’altro, l’oltre. L’installazione
restituisce una dinamica potente, e la circolarità di certi movimenti traccia
suggestioni sospese fra il sacro e il profano. L’azione risiede, com’è ovvio,
nel movimento dei corpi, ma noi la avvertiamo anche nelle parole, forse persino
nelle grida di diletto, che immaginiamo squarciare il silenzio claustrale di una
nevicata inattesa, mentre un poeta, “salvatore di ore perdute”[10], da qualche
parte si fa silenzioso custode delle solitudini del mondo.
*
Nella stessa sala dei seminaristi, troviamo il celeberrimo Bambino di Scanno,
scatto che appartiene a una collezione esposta al MOMA di New York. Scanno è un
borgo abruzzese, fiabesca colonia di case di pietra, scale e angiporti, e meta
di artisti del calibro di Henri Cartier-Bresson e Gianni Berengo Gardin (da poco
scomparso). Il celebre scatto di Giacomelli raffigura, fra due donne-sentinelle
a capo chino, in abiti neri come da usanza, e che sembrano avanzare verso
l’esterno dell’inquadratura, un fanciullo con le mani nelle tasche, che si
staglia netto nella sfocatura pervasiva dell’immagine. Il colletto della camicia
abbacina, creando attorno al corpicino un’aura che si sparge sino ad altre due
figure femminili sullo sfondo. E noi che lo guardiamo sappiamo che la solitudine
non si confonde mai, salta agli occhi, e illumina i suoi impotenti testimoni.
*
C’è poi l’amore, un tema che percorre trasversalmente qualsiasi meditazione.
Giacomelli ne fa quasi una composizione teatrale nella serie intitolata A
Caroline Branson da Spoon River (1967-1973)[11], ispirata, appunto, all’omonimo
componimento di Egard Lee Masters. Il lavoro trae origine da una sceneggiatura
di foto-racconto a cura di Luigi Crocenzi, destinata alla televisione.
Giacomelli, tuttavia, rifiuta la trasposizione fedele del testo lirico in
immagini e, in un secondo momento, riprende le fotografie scattate per il
progetto (dal 1971 al 1973), sovvertendole – in particolare, attraverso la
tecnica della sovrimpressione – in modo da esprimere un universo emotivo non già
supino al testo poetico, ma traslato.
La serie rappresenta una passione amorosa che affonda nei corpi degli amanti e
nell’immenso assoluto corpo della Natura. In un sogno di spighe in controluce,
oppure al riparo di fronde nerastre, sotto nivee nubi, nella danza fluttuante
dei capelli dell’amata[12] e nel moltiplicarsi dei volti, lì pulsano le bocche,
gli occhi e gli abbracci degli amanti; pulsano sino alla tragica consapevolezza
che “la rapita estasi della carne”[13] un giorno sarà alle loro spalle, “come un
cantico finito”[14]. Per questo i duei cuori che un tempo avevano passeggiato
“come stelle alla deriva”[15], scelgono il patto mortale: “Uno stelo della sfera
terrestre, / fragile come luce stellare, / in attesa di esser di nuovo gettato /
nel flusso della creazione”[16].
Una passione, quella narrata in questa serie, che rifiuta le monotone mura di
una stanza e la distratta condivisione di un caffè, anche a costo della morte. E
di questa passione Giacomelli ci offre, fra le altre, una cattura dall’alto,
nella quale campeggiano due vaste bianche stratificazioni, come due morbide
onde, cremose, che si inseguono, allo stesso modo in cui, in altri scatti, gli
amanti si rincorrono, verso la terra nera, che sembra voler fuoriuscire
dall’inquadratura; e, al di sopra, come spesso accade nell’immaginazione del
fotografo, al di sopra di ogni delimitazione spaziale, si libra, in un cielo
smangiato dai contrasti, un nugolo di uccelli neri, punteggiatura di un confine
che si scompagina, come accade talvolta anche all’amore.
*
Il teatro della neve è il titolo di un componimento di Francesco Permunian[17],
due esili terzine che dicono di una solitudine senza sogni, di una rassegnazione
e di un “vento malsano [che] “sbatte / e ribatte” giorni che sono “bandiere di
sconfitta”. Il poeta ci offre di quei giorni arresi un’immagine icastica, li
paragona a “bianchi lenzuoli in un labirinto di specchi”. Giacomelli traduce
questi versi in una serie di raffigurazioni il cui l’astrattismo è fatto di
rimandi, di richiami simbolici: ci troviamo infatti immersi in un avvicendarsi
di paesaggi, spigolosi, geometrici, le cui sembianze sembrano voler suggerire
proprio quel gioco di specchi che viene evocato nella lirica. L’uomo è assente,
o forse lo si può immaginare come una figura in filigrana sovrapposta a quegli
scenari naturali desolati, testimonianza della sua irrimediabile solitudine.
Iconico, su tutti, è lo scatto che raffigura alcuni teli così sottili da
sembrare garze, appesi a una siepe di rovi, sventolanti in uno squarcio di nubi
che abbacinano, e trafitti come da una luce sovrannaturale che ne evidenzia
spettrali trasparenze. È lì, al cospetto di quella immagine, che sentiamo anche
noi sfilare i giorni, ripetitivi nell’assenza di sogni, e per questo
disorientanti, è lì che ci sentiamo in balia, così fragili da poter essere
trapassati e lacerati persino da una scheggia di luce.
*
Muore la madre nel 1986, e la matrice del senso della vita si disfa, i
sentimenti e lo sguardo s’interrano. La fotografia di Mario Giacomelli si
orienta verso una dimensione ancora più intima, amoreggia con la biografia,
s’intrama sempre più nella poesia.
Intorno al 1924, Eugenio Montale scrive una lirica intitolata Felicità
raggiunta…[18]; in due sole strofe (composte da cinque versi ciascuna), il poeta
restituisce l’essenza del mistero della vita, racchiuso nella perenne
inconciliabilità fra la pienezza della felicità, così difficile da raggiungere,
e l’inesorabilità di certi dolori, capaci di annientarla, di farne desiderio
dimidiato anche nell’istante dell’appagamento. Montale ci offre l’immagine di
una disperazione infantile, quella del bambino che vede fuggire il pallone fra
le case, e sa di non poterlo più riavere. Giacomelli rovescia la prospettiva e
cattura il momento della felicità infantile: il volo indimenticabile
dell’altalena, promessa di cielo. Tutto, nello scatto che stiamo osservando,
prospetticamente si abbassa, al cospetto della felicità raggiunta: le montagne,
la linea spezzata dei tetti di un paese in controluce. Ma occorre il
contraltare, poiché la felicità è manichea, la felicità non è senza il suo lato
antinomico: intorno all’altalena, altre immagini traducono il peso e la frattura
del dolore. E allora ecco che osserviamo un esterno in cui domina la sfumatura
di un nero lugubre e lì in mezzo notiamo l’immota e consapevole solitudine di
due uccelli appollaitai su rami filiformi, o forse inspiegabilmente sospesi in
un nulla. Poi gli occhi deviano sopra un terreno innevato di un bianco arso e
abbacinante, crepato e bucherellato, dal quale sorgono vecchie griglie
ornamentali abbandonate, in mezzo a tronchi d’alberi. E infine scorgiamo il peso
sfumato della pena nell’ombra di una trilogia arborea che sembra tremare su di
uno sfondo, ça va sans dire, bianco, ancorché sporcato da un fumo che non ne
intacca il dramma.
La felicità spicca nel contrappeso, nella sostanza palingenetica del dolore.
*
L’ultima serie di cui vogliamo lasciar qui traccia riguarda lo sradicamento, la
perdita delle origini che si fa esiziale, come è accaduto, fra gli altri, a
Franco Costabile (Sambiase, 27 agosto 1924 – Roma, 14 aprile 1965), poeta
meridiano assoluto, “disperato di Sud”, morto suicida a soli quarant’anni.
Costabile, calabrese, è il trauma stesso della sua Calabria, il trauma
dell’allontanamento forzato. Poesia rabbiosa e tragica, la sua, connotata da uno
sguardo sul e nel dramma, che ben si apparenta a quello di Giacomelli.
L’incontro fra i due, in effetti, è fatale: Il canto dei nuovi
emigranti[19], inno fluviale e spietato scritto da Costabile nel 1964, narra,
attraverso una versificazione convulsa, e l’uso di una lingua scabra ed esatta,
la diaspora del grande esodo calabrese del secondo dopoguerra; un esodo che,
come è noto, si fece cogente per sfuggire al suicidio di una terra incapace di
redenzione, nell’indifferenza barbarica delle istituzioni. Ebbene, quel poema
struggente e furioso marchia lo spirito di Giacomelli che decide di visitare i
borghi in esso sceneggiati.
Giacomelli s’inerpica così nel buio di un annichilimento apparente, dove
l’assenza dell’uomo non è soltanto partenza definitiva, ma sfondo nel quale si
vive ancora contro la sgretolazione di una terra misteriosamente ossimorica. Fra
segni d’attaccamento e diserzione, fra miseria e generosità, la Calabria di
Costabile sfila, implacabile, davanti agli occhi del fotografo, straniato e
sospeso nell’immobilità di un tempo quasi morto.
> “Pentedattilo mi ha colpito, perché vedi un paese – dove gente ha vissuto, è
> nata, ha sofferto, ha goduto – ora abbandonato. E ricordo di essere stato per
> il corso, sembrava tutto abbandonato. Poi sono arrivato in cima a questa
> strada, guardo sotto da un belvedere e vedo che avevano piantato
> dell’insalatina, cipolle… e allora qualcuno sicuramente era a un passo da me.
> Sembrava un posto abbandonato, come chiuso al mondo, e invece ho trovato
> inaspettatamente la vita. […] Poi ho voluto passare per il cimitero. Qui ho
> trovato ogni loculo d’argento lucido, pulito. Poi i fiori, ho pensato “saranno
> di plastica” e invece mi sono avvicinato, li ho toccati, ed erano freschi. E
> ho pensato: c’abbiamo messo mezza giornata per arrivare qui e non abbiamo
> incontrato una persona, sembrava tutto fermo, tutto morto, e invece c’è vita.
> E allora sentivo che c’era qualcosa di strano. Queste montagne con questi
> buchi enormi… io cominciavo a vedere nei buchi le persone, nell’immaginazione,
> perché: dove erano queste persone? E allora è nato dentro di me qualcosa come
> di misterioso, come magico, come tragico, come qualcosa che non sapevo
> decifrare. Attraverso le foto vedi queste case che stanno già perdendo
> qualcosa, ti accorgi che la muratura e le case stesse stanno quasi per
> divenire pietra, cioè divenire montagna, sopraffatte. Il paese si sta
> sgretolando. Anche questa luce che ho messo in questa immagine, dà l’idea del
> sole che sta corrodendo i buchi delle case, e invece c’è la luna nella notte,
> e hanno il sapore della morte.”[20]
In queste parole scorgiamo già le immagini ricavate dal vissuto di una
quotidianità quasi irreale, in cui l’uomo gravita attorno a un centro di vita
fatto di pensieri lenti e desolazione, di costernazione e sorrisi, un centro che
è, in realtà, un crinale sul quale la vita lentamente scivola verso una
vecchiaia consumata, dove la crudeltà non sopisce il bene della pietra calda cui
poggiarsi quando le gambe tremano e negli occhi si annida il buio.
Ecco, allora che, nella sala, si susseguono immagini in cui è ritratto,
attraverso inquadrature strette e ravvicinate, un mondo contadino, di cui si
intuisce il mormorio affaticato, un mondo in cui si è complici nella miseria e
nel dramma. I personaggi che incontriamo – vecchi o bambini, poco importa –
abitano spazi decontestualizzati dalla marchiatura abbagliante del flash, sono
sagome arrese a un interludio perenne di vita.
Ci soffermiamo davanti al ritratto di Pentedattilo, mucchio di case fortemente
inclinate che sembrano collassare verso il centro della terra. Ma forse, ci
piace pensare, la rupe sulla quale il borgo sorge è davvero la gigantesca mano a
cinque dita di un ciclope, che misericordiosamente sostiene, e proietta verso la
sfolgorante promessa del cielo.
*
Ci fermiamo qui con questa lettura parziale della retrospettiva dedicata a Mario
Giacomelli, ospitata nelle sale di Palazzo Reale fino al 7 settembre, sperando
di non averne tradito lo spirito.
In ogni caso, noi ne siamo emersi con una convinzione: Mario Giacomelli è come
un demone scapigliato che ti viene a cercare in sogno, e ti lascia lì, fra le
coperte e la notte, a tremare nel dramma del bianco, e a desiderare
paradossalmente l’eterna vedovanza del nero. Non sappiamo se davvero nasca un
solo poeta al secolo, come disse quel tale. Quel che è certo è che cent’anni fa
ne è nato uno.
Maura Baldini
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[1] Da appunti autografi di poetica, anni Ottanta-Novanta, Archvio Mario
Giacomelli, Senigallia, in “Mario Giacomelli – Giacomo Leopardi, l’Infinito, A
Silvia”, a cura di Alessandro Giampaoli e Marco Andreni, Silvana Editoriale,
pag. 56, figura 62.
[2] Ibidem, pag. 56, figura 63.
[3] Da un appunto del fotografo inserito fra i lavori fotografici della
retrospettiva a Palazzo Reale (Milano).
[4] Ibidem (nota 3).
[5] Ibidem (nota 3).
[6] Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / E questa siepe, che da tanta
parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma sedendo e mirando,
interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima
quiete / Io nel pensier mi fingo; ove per poco / Il cor non si spaura. E come il
vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa
voce / Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / E le morte stagioni, e la
presente / E viva, e il suon di lei. Così tra questa. / Immensità s’annega il
pensier mio: / E il naufragar m’è dolce in questo mare. (Giacomo
Leopardi, L’Infinito, da Gli Idilli, 1826)
[7] Si cfr. nota 1.
[8] Avanti! Si accendano i lumi / nelle sale della mia reggia! / Signori! Ha
principio la vendita delle mie idee. /Avanti! Chi le vuole? / Idee originali / a
prezzi normali. / Io vendo perché voglio /raggomitolarmi al sole /come un gatto
a dormire /fino alla consumazione / de’ secoli! Avanti! L’occasione / è
favorevole. Signori, /non ve ne andate, non ve ne andate; vendo a così poco
prezzo! / Diventerete celebri / con pochi denari. /Pensate: l’occasione è /
favorevole! / Non si ripeterà. Oh! non abbiate timore di offendermi / con
un’offerta irrisoria! / Che m’importa della gloria! E non badate, Dio mio, non
badate / troppo alla mia voce / piangevole! (Sergio Corazzini, Bando, da Libro
per la sera della domenica, 1906)
[9] Io non ho mani / che mi accarezzino il volto / (duro è l’ufficio / di queste
parole / che non conoscono amori) / non so le dolcezze / dei vostri abbandoni: /
ho dovuto essere / custode / della vostra solitudine: / sono salvatore di ore
perdute. David Maria Turoldo, Io non ho mani, dalla raccolta Io non ho mani,
Bompiani, 1948.
[10] Estratto dell’ultimo verso della lirica di David Maria Turoldo, trascritta
nella nota precedente.
[11] Caroline Branson è il titolo di uno dei componimenti inclusi nella raccolta
di Edgard Lee Masters, Antologia di Spoon River, i cui estratti sono qui
riportati nella traduzione di Fernanda Pivano (che ha curato l’edizione Einaudi
da ultimo ristampata nel 2014). Di seguito il testo integrale: Oh i nostri cuori
come stelle alla deriva – se noi avessimo soltanto passeggiato / come un tempo,
nei campi d’aprile, finché la luce stellare / con garza invisibile rendesse
serico il buio / sotto la balza, nostro luogo di convegno nel bosco, dove il
ruscello svolta! dalle carezze passando, / come note di musica che fluiscono
insieme, al possesso / nella ispirata improvvisazione d’amore! / per lasciarci
alle spalle come un cantico finito / la rapita estasi della carne, / nella quale
i nostri spiriti piombassero / dove non c’era il tempo, né lo spazio, né noi – /
annientati dall’amore! / Ma lasciare queste cose per una stanza illuminata: / e
starcene con il nostro Segreto, beffardo / e nascosto tra fiori e chitarre, /
che tutti fissavano fra l’insalata e il caffè. / E vedere lui tremante, e
sentire me / presaga, come uno che firma un contratto – / non avvampante di doni
e di pegni accumulati / con rosee mani sopra la sua fronte. / E poi, la notte!
prefissata! villana! / Ogni nostra carezza cancellata dal possesso, / in una
stanza stbilita, in un’ora a tutti nota! / L’indomani sedeva così smarrito,
quasi freddo, / così stranamente mutato, chiedendosi perché io piangessi, /
finché, presi da nausea disperata e voluttuosa follia, stringemmo il patto
mortale. // Uno stelo della sfera terrestre, / fragile come luce stellare, / in
attesa di esser di nuovo gettato / nel flusso della creazione. Ma la prossima
volta esser creato / assistito da Raffaele e san Francesco / nel momento che
passano. / Poiché io sono il loro fratellino, / riconoscibile a viso / dopo un
ciclo di nascite a venire. / Potete conoscere la semente e il terreno; / potete
sentire la pioggia fredda cadere, / ma soltanto la sfera terrrestre, soltanto il
cielo / conoscono il segreto del seme / nella camera nuziale sotto terra. /
Gettatemi di nuovo nel flusso, / datemi un’altra prova – / salvami, oh Shelley!
[12] I capelli sono quelli della figlia Rita, sovrapposti ad altre immagini.
[13] Ibidem (nota 8).
[14] Ibidem (nota 8).
[15] Ibidem (nota 8).
[16] Ibidem (nota 8).
[17] Luna vedova per strade di mare / io non ho più sogni da dormire / nel
bianco mattatoio di casa mia. // Bianchi lenzuoli in un labirinto di specchi /
sono i giorni che un vento malsano sbatte / e ribatte quali bandiere di
sconfitta. (Francesco Permunian, Il teatro della neve, da Il teatro della neve.
Poesie per Mario Giacomelli 1983-1986, L’Obliquo, 2006)
[18] Felicità raggiunta, si cammina / per te sul fil di lama. / Agli occhi sei
barlume che vacilla, / al piede, teso ghiaccio che s’incrina; / e dunque non ti
tocchi chi più t’ama. // Se giungi sulle anime invase / di tristezza e le
schiari, il tuo mattino / è dolce e turbatore come i nidi delle cimase. / Ma
nulla paga il pianto del bambino / a cui fugge il pallone tra le case. (Eugenio
Montale, Felicità raggiunta… da Ossi di seppia, edizione a cura di Pietro
Cataldi e Floriana d’Amely, Mondadori, 2003)
[19] Ce ne andiamo. / Ce ne andiamo via. // Dal torrente Aron / Dalla pianura di
Simeri. // Ce ne andiamo / con dieci centimetri / di terra secca sotto le scarpe
/ con mani dure con rabbia con niente. // Vigna vigna / fiumare fiumare /
Doppiando capo Schiavonea. // Ce ne andiamo / dai campi d’erba / tra il grido /
delle quaglie e i bastioni. // Dai fichi / più maledetti / a limite / con
l’autunno e con l’Italia. // Dai paesi / più vecchi più stanchi / in cima / al
levante delle disgrazie. // Cropani / Longobucco / Cerchiara Polistena /
Diamante / Nao / Ionadi Cessaniti / Mammola / Filandari… / Tufi. / Calcarei /
immobili / massi eterni / sotto pena di scomunica. // Ce ne andiamo / rompendo
Petrace / con l’ultima dinamite. / Senza / sentire più / il nome Calabria / il
nome disperazione. // Troppo tempo / siamo stati nei monti / con un trombone fra
le gambe. / Adesso / ce ne scendiamo / muti per le scorciatoie. // Dai Conflenti
/ dalle Pietre Nere da Ardore. // Dal sole di Cutro / pazzo sulla pianura /
dalla sua notte, brace di ucccelli. // Troppo tempo / a gridarci nella bettola /
il sette di spade / a buttare il re e l’asso. / Troppo tempo / a raccontarci
storie / chiamando onore una coltellata / e disgrazia non avere padrone. //
Troppo / troppo tempo / a restarcene zitti / quando bisognava parlare, basta. //
Noi / vivi / e battezzati / dannati. // Noi / violenti / sanguinari / con
l’accetta / conficcata / nella scorza / dei mesi degli anni. / Noi / morti / ce
ne andiamo / in piedi / sulla carretta. / Avanzano le ruote / cantano i sonagli
verso i confini. // Via! / Via / dai feudi / dagli stivali dai cani / dai larghi
mantelli. // Ussahè… / Via / Via! / Via / dai baroni. / I Lucifero / I conti
Capialbi / I Sòlima gli Spada / I Ruffo / I Gallucci. // Usciamo / dai bassi
terranei / dal sudario / dei loro trappeti / dai parmenti / della vendemmia /
profondi / a lume di candela / e senza respirazione. // Via / dai Pretori /
dalla Polizia / dagli uomini d’onore. / Non chiamateci. / non richiamateci. // È
scritto / nei comprensori / È scritto / nei fossi nei canali /È scritto / in
centomila rettangoli / alto / su due pali / Cassa del Mezzogiorno / ma io non so
/ che cosa / si stia costruendo / se la notte / o il giorno. // Ci sono raffiche
/ su vecchie facciate / che nessuno leva: l’occhio / del Mitra / è più preciso /
del filo a piombo della Rinascita. // Addio, / terra. / Terra mia / lunga /
silenziosa. // Un nome / non lo ebbe / la gioventù / non stanchiamoci / adesso /
che ci chiamano col proprio cognome. // Noi // Noi / ce ne siamo / già andati. /
Dai Catoi / dagli sterchi orizzonti. // Da Seminara / dalle civette di
Cropalati. // Dai figli / appena nati / inchiodati nella madia / calati / dalle
frane / dall’Aspromonte / dei nostri pensieri. / Spegnete / le lampadine della
piazza. // Scordiamoci / delle scappellate / dei sorrisi / dei nomi segnati /e
pronunciati per trentasei ore. // Cassiani / Cassiani / Cassiani // Cassiani /
Foderaro Galati / Foderaro / Antoniozzi / Antoniozzi / Cassiani / Cassiani / La
croce / sulla croce, /diceva l’arciprete. / E una croce / sulla croce, /
segnavano le donne. / andavano / e venivano. /Foderaro / Antoniozzi / Antoniozzi
// È stato / sempre silenzio. // Silenzio / duro / della Sila /delle sue
nevicate a lutto. // È stato /il pane a credenza / portato /sotto lo scialle
/all’altezza del cuore. / Sono stati / i nostri occhi stanchi / guardando / le
finestre illuminate / della prefettura. // Carabinieri, / fermatevi. / Guardate,
/ giratevi / non c’è nemmeno un cane. / Siamo / tutti lontani / latitanti. //
Fermatevi. / Restano / gli zapponi / dietro la porta, / i cieli, / i vigneti. /
La pietra / di sale sulla tavola. // I vecchi / che non si muovono / dalla
sedia, soli / con la peronospera nei polmoni. // Le capre / la voce lunga /
degli ultimi maiali scannati. / L’argento / a forma di cuore, nella chiesa. //
Le ragnatele / dietro i vetri, le madonne. / La ragnatela del Carmine /la
ragnatela di Portosalvo / la ragnatela della Quercia. / Restano le donne
/consumate da nove a nove mesi / con le macchie / della denutrizione / della
fame. / Le addolorate / Le pietà di tutti gli ulivi. // Lavando / rattoppando /
cucinando su due mattoni / raccogliendo / spine e cicoria. // Cancellateci /
dall’esattoria. / Dai municipi / dai registri / dai calamai / della nascita. //
Levateci // Scioglieteci / dai limoni / dai salti / del pescespada. /
Allontanateci / da Palmi e da Gioia. // Noi / vivi / Noi / morti / presi e
impiccati / cento volte / ce ne siamo già andati / staccandosi dai rami / dai
manifesti della repubblica. // Di notte / come lupi / come contrabbandieri /
come ladri. // Senza un’idea dei giorni/ delle ciminiere degli altiforni. //
Siamo / in 700 mila / su appena due milioni. / Siamo / i marciapiedi / più
affollati. / Siamo / i treni più lunghi. / Siamo / le braccia / le unghie
d’Europa. / Il sudore Diesel. / Siamo / il disonore / la vergogna dei governi.
// Il Tronco / di quercia bruciata / il munumento al Minatore Ignoto. // Siamo /
l’odore / di cipolla / che rinnova / le viscere d’Europa. / Siamo /un’altra
volta / la fantasia / il 1° giorno di scuola / senza matita / senza quaderno /
senza la camicia nuova. // Toglieteci / dalle galere. / Non ubriacateci. //
Liberateci / dai coltelli di Gizzeria / dal sangue dei portoni. / Non chiamateci
/ da Scilla / con la leggenda del sole / del cielo / e del mare. // Siamo / bene
legati / a una vita / a una catena di montaggio / degli dei. // Milioni di
macchine / escono targate Magna Grecia. / Noi siamo / le giacche appese / nelle
baracche nei pollai d’Europa. // Addio / terra. / Salutiamoci, / è ora. (Franco
Costabile, Il canto dei nuovi emigranti, Jaka Book, 1989)
[20] Mario Giacomelli, in una video-intervista di E. Castagna, tratta dal sito
internet archiviomariogiacomelli.it
*Nel testo: fotografie di Mario Giacomelli tratte dalla mostra in atto a Palazzo
Reale, Milano; in copertina: Mario Giacomelli a Senigallia, photo Giovanna
Calvenzi, Archivio Mario Giacomelli
L'articolo “Nello smarrimento”. Mario Giacomelli, il demone scapigliato che ti
viene a cercare in sogno proviene da Pangea.
Robert Bob Wilson è mancato il 31 luglio scorso a 83 anni nella sua casa di
Water Mill a New York e non ci voleva certo la celebrazione della sua morte per
parlarne. Se lo si ricorda oggi è per un indispensabile tributo alla sua
straordinaria carriera, ma anche per il timore che la sua vastissima lezione
artistico-teatrale non abbia – almeno per il momento – un’eredità attendibile e
originale. In oltre sessant’anni di creatività, Wilson ha realizzato più di
duecento produzioni, collaborando con molti dei protagonisti di questi ultimi
cinquant’anni: da Philip Glass ad Arvӧ Part e David Byrne, da Tom Waits a Lou
Reed, dalla performer Marina Abramović al drammaturgo Heiner Müller, usufruendo
anche dello spirito anarchico e dissacratorio di William Burroughs per comporre
un universo polifonico declinato nelle rispettive peculiarità. Una moderna,
insolita, geniale Gesamtkunstwerk – opera d’arte totale – coniata illo
tempore dal filosofo tedesco K.F.E Trahndorff nel 1827 e teorizzata dal
compositore Richard Wagner più di un ventennio dopo, corroborata dalle moderne,
esplosive sensibilità delle Avanguardie Storiche. Dalla multidisciplinarietà del
Futurismo e del Suprematismo – nei suoni, nella danza, nell’impiego radente
delle luci – alla dissacrazione sistematica del Dadaismo, dalle deformazioni
grottesche del Surrealismo alla controcultura alternativa della Beat/Pop dei
suoi anni. Wilson è stato un attento coagulatore di avanguardie, mixate
sapientemente facendo attenzione allo spirito del tempo, combinate in modo che
il risultato finale non fosse dirompente – come per loro natura – ma bensì
permeato dalla distanza, da una lontananza spaesante, da una lentezza
penetrante, quasi proveniente da altri mondi, là dov’è l’attenzione a dominare
il fare dell’uomo. Un mondo contrastato, fragoroso e violento, nella riduzione
pacificatoria del silenzio e della lentezza.
Lentezza quasi cerimoniale che domina la scena nei suoi progetti teatrali,
pressoché in assenza di testo, immersa in un silenzio diffuso, arricchita da
un’illuminazione sapiente – si potrebbe dire “mentale” – evocando una sequenza
di tempi vuoti, di attimi dilatati da riempire di gesti, di allusioni
rallentate, di movimenti sapienti. Un teatro che vuol raccontare per sensazioni,
pur senza dire, senza esporsi, quasi nell’ombra o – al contrario – percorrendo
l’aura luminosa del suo contorno, così padroneggiando entrambe le zone
estreme: Dove non potevo parlare, ho cominciato a costruire immagini. Il teatro
di Wilson è ipnotico, senza regole prestabilite quasi fosse d’improvvisazione,
ma in realtà messo in scena seguendo sensazioni rabdomantiche dominate dalla
lentezza, dove ogni attimo, ogni piccola variazione appare intenzionale, ogni
dettaglio si carica di significato, trasformando le difficoltà in risorsa
scenica, in guizzo creativo spontaneo, generativo.
La vocazione per il teatro si manifesta negli anni Sessanta al Pratt Institute,
dopo una formazione come architetto, retroterra che manterrà soprattutto nelle
scenografie: “Non ho mai pensato all’allestimento teatrale come ad una
decorazione, ma come a qualcosa di architettonico”; avvicinandosi allo stesso
tempo al mondo della danza ispirato da Merce Cunningham, Marta Graham e George
Balanchine. Ma Wilson coltiverà la sua specificità con l’impegno nel reintegro
di ragazzi disabili, sensibile all’esperienza personale del recupero della sua
balbuzie. Fonderà quindi la Byrd Hoffman School of Byrds, dedicata
affettuosamente a Miss Hoffman, la danzatrice che aveva risolto il suo problema.
Sarà questa peculiarità a procurare la svolta nella sua carriera nel 1970 con
l’opera Deafman Glance, con Raymond come protagonista, ragazzo orfano e
sordomuto che poi adotterà. Sette ore di silenzio osservando Raymond e le sue
movenze minimali cariche di significato: opera muta in uno spazio rarefatto
dominato dal silenzio e da un’architettura luminosa, dove ogni gesto diviene
rituale, ogni dissolvenza significativa. Un quinquennio intensissimo che
evolverà nell’opera Einstein on the beach con la collaborazione di Christopher
Knowles – afflitto da rilevanti danni cerebrali – e con lo sperimentatore sonoro
Philip Glass. È anche la stagione di The Life and Times of Joseph Stalin (1973)
opera epica di dodici ore in sette atti che si dipana in sette giornate con il
coinvolgimento di centinaia di artisti:
> “Avevo l’idea di fare un’opera teatrale che sarebbe stata messa in scena per
> sette giorni, una specie di finestra sul mondo in cui eventi ordinari e
> straordinari potessero essere visti insieme. Si poteva vedere alle 8 del
> mattino, alle 3 del pomeriggio o a mezzanotte e l’opera sarebbe sempre stata
> lì, un orologio di 24 ore composto da tempo naturale interrotto da tempo
> soprannaturale”.
Faraonico e minimale.
Ma Robert Bob Wilson è artista multidisciplinare e fin dal ’76 espone i
suoi storyboard anche alla prestigiosa Paula Cooper Gallery, con una carriera
che culminerà con l’attribuzione del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel
1993 grazie alla sua installazione Memory/Loss.
Nel 1991, seguendo la sua indole generosa e altruista, fonderà il campus The
Watermill Center, laboratorio creativo – ancora attivo – che raduna anche la sua
sconfinata collezione di oggetti reperiti in tutto il mondo e le sue opere
d’arte, con l’intento di formare nuovi talenti all’insegna della massima libertà
espressiva, seppur con il rischio concreto di dare troppi spunti personali
ottenendo alla fine giovani controfigure. Espone al Louvre anche il ritratto
della cantante Lady Gaga, frutto di un lavoro durato tre giorni con sessioni di
prova estenuanti anche di 15 ore, frequentando il versante artistico fino al
2023 con l’installazione al Museo LAC di Lugano trasformato in una foresta
virtuale, anno in cui viene insignito del Praemium Imperiale per il teatro dalla
Japan Art Association. È di pochi mesi fa la sua partecipazione al Salone del
Mobile di Milano con l’installazione dedicata alla Pietà Rondanini di
Michelangelo e la serata inaugurale alla Scala di Milano, tenuta dall’orchestra
del Teatro.
Quello di Wilson è un teatro senza paura, totalizzante, che può divenire
esplicitamente elitario quando richiede il massimo sforzo allo spettatore
impegnandolo per ore, se non per intere giornate. È anche il caso delle tre ore
di rappresentazione di Odissey (2013), poema omerico divenuto fiaba recitato
interamente in greco, simmetricamente incomprensibile ai più, ma immediatamente
ricevibile se ci si pone in ascesi verso il globo di luce che attanaglia la
scena fin dal primo minuto, trasformando una pièce teatrale nella possibilità di
un’esperienza elettiva.
Attraversando la temperatura novecentesca dell’Occidente e delle sue
avanguardie, nel teatro di Wilson è la lezione dell’Oriente – parco nelle parole
ed estremo nel controllo – che si afferma nel movimento. Avanzare e retrocedere
bilanciandosi con un procedere misurato, affondando il peso sulle leve,
ascoltando senza sussulto il traslocare felpato della propria massa con mani,
braccia, gambe, spalle, gomiti, piante dei piedi, bacino, controllati, mentre lo
sguardo si direziona secondo intenzione e mai casualmente, con gli occhi puntati
come il taglio di una lama, tracciando le geometrie della scena. In silenzio,
dove il respiro detta la sequenza del battito cardiaco e non viceversa. È con
questa attenzione al corpo (“Coltivare il proprio corpo come un orto”: Yukio
Mishima) che la sua balbuzie, anziché limite, diverrà risorsa, che il disagio
fisico dei suoi protagonisti consentirà l’apertura verso nuovi linguaggi, nuove
sensibilità, ampliando le possibilità d’interpretazione.
Bob Wilson alimenterà con intelligenza collaborazioni con i talenti più
distintivi del suo tempo, arricchendosi dei loro contributi e considerando il
suo teatro come un corpo vivo, pulsante e mai definitivo, modificandolo di
continuo nel corso delle prove, per carpire le sensazioni scaturite in tempo
reale dalle luci, dai corpi, dagli sguardi, dai respiri, come testimoniato dai
suoi collaboratori. Il suo teatro ha quindi catalizzato in un nuovo universo
multiforme le esperienze estreme dell’avanguardia, servendosi dei suoni
disarmonici e metallici coniati dall’Arte dei Rumori del Futurismo di Russolo,
del silenzio prolungato e allusivo di John Cage, con i suoi 4’e 33’’ (1952,
Maverick Concert Hall di New York), delle illuminazioni sghembe e dei tagli di
luce laterali dei Suprematisti, suggestioni innescate dall’irripetibile
capolavoro del 1913 Il Trionfo sul Sole, andato in scena al teatro Luna Park di
San Pietroburgo nel 1913, con prologo di Chlebnikov, “il poeta dei poeti”,
libretto scritto in Zaum, linguaggio transmentale elaborato da Kručënych con
pause dopo ogni sillaba, scene e costumi di Kazimir Malević asimmetrici e
sghembi, luci di Majakovskij a taglio di lama e musiche rumoriste di Matjušin,
completati da un coro inetto di sette persone assunto due giorni prima e da un
piano scordato.
Dovendo riassumere oggi il lascito di Wilson, non credo che “rivoluzionario” sia
il termine più corretto – come molti dei tributi in suo onore affermano oggi –
semmai riferibile alle prime esperienze permeate della protesta
anticonvenzionale del periodo Beat e Pop. Wilson è sicuramente un innovatore, un
“combinatore” straordinario di quanto più alto possa essere espresso nelle varie
discipline, riuscendo in questo modo ad essere realmente unico nei risultati
raggiunti, frutto anche dell’altrettanto straordinario talento dei celebri
partner che lo hanno affiancato nel corso della sua incredibile carriera. Non
attribuendo al termine “combinatore”, alcuna accezione limitativa, nel tentativo
di conferire alla sua ricerca artistica il termine più calzante, più
significativo.
Assistere ad uno spettacolo di Robert Wilson si può considerare un’esperienza
immersiva, come capitatomi nel 2003 a Roma, nella Nuvola di Fuksas, dove Wilson
dialogò con la musica totale di Arvo Pärt. Sodalizio nato nel 2009 – grazie
all’evento voluto da papa Benedetto XVI riunendo duecentosessanta artisti da
tutto il mondo nella Cappella Sistina – che farà scaturire Adam’s Passion, pièce
dedicata al primo uomo, che vive per primo la tragedia della proliferazione dei
popoli nelle differenze, anziché nelle radici comuni.Un’idea teologica di
riunificazione delle anime profonde dei popoli, un’evocazione dell’opera d’arte
come messaggio spirituale che prende corpo in un’atmosfera blu diffusa, avvolti
nella Musica come Luce di Part che evoca una verità assoluta, inevitabile,
votiva. Wilson diviene con le sue presenze eteree e silenziose, con
gl’inconsueti oggetti sospesi della scenografia che evocano la precarietà della
situazione umana, la parte complementare perfetta ad un suono celestiale, la
pietra angolare che sostiene in silenzio l’arco del messaggio sonoro,
partecipando attivamente ad una compenetrazione scenica minimale che rasenta la
perfezione, semmai questa possa realizzarsi su questa Terra.
Talmente vasta e articolata la produzione di Robert Bob Wilson che sono di gran
lunga più le opere non citate che quelle raccontate, anche se vale ricordare a
chiusura la motivazione dell’attribuzione del premio Europa per il Teatro nel
1997: “Per la sua capacità di reinventare il teatro come arte globale”, cui mi
preme aggiungere il non detto: Attento alle sensibilità più acute e dirompenti
delle Avanguardie Storiche del Novecento. Pur pacificate.
Roberto Floreani
*Nel testo: immagini dalle creazioni di Bob Wilson; in copertina: photo Lucie
Jansch
L'articolo Bob Wilson, il pacificatore di Avanguardie proviene da Pangea.
Nel settembre del 1906 il poeta René Bichet, vicino a Jacques Rivière e André
Gide, scrive all’amico Alain-Fournier rievocando un ritratto di Infanta di Juana
Romani. In esso proietta la nostalgia per Parigi: una città «necessaria»[1]che
la figura della pittrice incarna simbolicamente. Dieci anni dopo, nel racconto
di Fritz-René Vanderpyl pubblicato sul Mercure de France, un quadro firmato
«Juanita Romani» diviene l’emblema di uno «charme simil-orientale»[2] di cattivo
gusto, che solo gli americani potrebbero appendere sopra i propri caminetti: in
entrambi i casi, Romani è immaginata come simbolo ibrido e ambivalente, legata
visceralmente alla capitale francese. La sua molteplice identità fu oggetto di
un’elaborazione retorica: il poeta Armand Silvestre la presenta come erede di
Tiziano e Correggio, mentre lei stessa si definisce «figlia di Benozzo Gozzoli»
e della solida tradizione artistica italiana. Nel 1901, Vittorio Pica la
descrive, accostandola a Giovanni Boldini, come «una giovane pittrice di non
comune bravura, destinata a piacere sempre più al gran pubblico e sempre meno
agli austeri amatori d’arte»[3].
Ma chi era questa artista vivacemente presente nella cultura
europea fin-de-siècle, eppure oggi così poco conosciuta?
All’origine c’è una realtà sociale dura: Juana nasce come Carolina Carlesimo nel
1867 a Velletri, da un brigante e da una bracciante del Lazio meridionale.
Emigra a Parigi nel 1877 con la madre e il patrigno musicista, Temistocle
Romani, membro di una famiglia di ricchi proprietari terrieri. In Francia inizia
la carriera di modella per artisti, per poi divenire pittrice. Espone
regolarmente ai Salon, alle esposizioni universali, in Italia alla IV Biennale
di Venezia (1901) e alla II Esposizione internazionale femminile di belle arti
di Torino (1913). La sua attività è segnata dalla vincita della medaglia
d’argento (1889), acquisti di Stato e da un’intensa attività di ritrattista.
Celebrata all’inizio del XX secolo, Juana fu inclusa come artista tra le più
note della sua generazione in Women in the Fine Arts di Clara Clement (1904)
e Women Painters of the World di Walter Sparrow (1905). Amata dal pubblico, ma
anche da insospettabili personaggi come Josephin Péladan, nel 1901 il dandy
Jacques d’Adelswärd-Fersen la rievoca nel romanzo Notre-Dame des Mers
Mortes[4] accostandola a da Vinci e Raffaello. Assiste da vicino alla nascita
del cinematografo grazie all’amicizia con Antoine Lumière e nello stesso periodo
la sua immagine circola tra profumi, colori, vini, affiche e riviste
come Fémina, assieme a Camille Claudel, e Le Figaro-Modes.
Tuttavia, già dagli anni Dieci la sua fama declina: Francis Carco la liquida con
pittrice “accademica” di un secolo passato e Henri Matisse la cita ironicamente
tra i pittori ancora “vendibili” ma superati. Il manifesto letterario Les
Somptuaires (1903) di Fleischmann e Levengard la nomina invece come esempio di
un’arte sontuosa e passionale da trasporre nel mondo cangiante delle parole e
della poesia, mentre Guillaume Apollinaire la confonde nel 1912 con il futurista
Romolo Romani, segno della sua ormai appannata notorietà. La sua carriera
s’interrompe bruscamente per una grave malattia mentale nel 1903. Internata a
Ivry-sur-Seine dal 1906, poi a Sainte-Anne e infine a Suresnes, morirà nel
1923.
Juana Romani, Rosina, 1892, collezione privata
*
Juana è da sempre stata lievemente strabica – come lo era Charcot, fatto che gli
procurava un certo disagio – e il suo occhio sinistro tendeva verso l’esterno:
lo sguardo che ne scaturiva attraeva per quella sottile incongruenza che
coinvolgeva l’osservatore. Chi la incontra rimane stordito dalla sua «bellezza
strana» fondata sull’«attrazione profonda e dispotica dei suoi occhi».
Nel 1884 Prouvé invia a Nancy due disegni a china, che saranno esposti nella
vetrina del laboratorio del rilegatore René Wiener: ad ottobre espone
una Magicienne e a novembre Une japonerie. L’italiana posa per entrambe
impersonando una sorta di geisha e un’incantatrice che, nel pieno di un’oscura
liturgia, con una bacchetta indica un grande occhio dal quale si irradia un
fascio elettrico.
Prouvé fa esperienza dell’incoscienza dell’occhio della sua modella che, più che
ritorcersi in sé stesso, viene riconsegnato al pittore restituendogli il segno
di uno sconcertante ribaltamento dei ruoli. Il disegno, dalla «fantasia
debordante», è conosciuto anche come Jettatura e nasce forse dall’assimilazione
che Juana può aver fatto del magnetismo degli atelier a ciò che era rapportabile
alla cultura ereditata dalla madre e dalla nonna. Diffusa al pubblico grazie
alla letteratura romantica francese, la jettatura è una credenza nata nel
Settecento e connaturata nel Regno di Napoli di cui Juana raccoglie il nucleo
più incandescente: lo sguardo come tecnologia, mezzo di azione, mano armata
dell’invidia che può uccidere.
L’occhio del disegno di Prouvé è comunque un pezzo staccato, esso si dà a vedere
come a volersi porre come problema e di sicuro lo sarà nel Novecento quando
artisti e filosofi francesi ne ripenseranno il valore disgiungendolo dallo
sguardo, accoppiandolo all’ano o all’alluce, lacerandolo, perfino, con una lama
da rasoio. Fluidità dello sguardo, elettricità del gesto, incoerenza della
rappresentazione sono le facce di un prisma al cui cuore ci sono nuove
significazioni. Questa instabilità nervosa è il costo da pagare per un mondo in
risemantizzazione. Non a caso Prouvé condivide con Juana la passione per il
poeta Maurice Rollinat che sarà ricoverato nella stessa casa di cura per malati
mentali dove alloggerà la pittrice per quasi venti anni: in cura dal dottor Paul
Grellety, Rollinat aveva assistito agli spettacoli del magnetizzatore Donato e,
per circa due anni, alle lezioni settimanali di Charcot, dando vita a
performance musicali che generano nel pubblico profondi stati d’inquietudine.
Membro degli Hydropathes e poi cantante di punta dello Chat Noir, nel 1883
pubblica la raccolta poetica Les Névrosesche gli conferisce una grande notorietà
e che, a più riprese, sarà ispirazione delle opere di Prouvé. In una poesia
Rollinat si dichiara la vittima della persecuzione di un occhio che non solo lo
fissa come un condannato a morte, ma lo accompagna in ogni suo spostamento:
«Dovunque io vada, ovunque il mio piede inciampi,/ Il mal-occhio!».
Un’inquietudine simile provata da August Strindberg che, come racconta
in Inferno (1897), si sente perseguitato dalla folla parigina.
Juana Romani, Primavera, 1894, Courbevoie, musée Roybet Fould
C’è un presentimento nell’aria e la paranoia si respira lungo le strade della
capitale: quella sensazione traduce il sospetto di una possibile animazione
dell’inorganico che diviene il principio stilistico stesso dell’art nouveau che
si afferma in quegli anni. L’interesse di Prouvé per la grafica e le arti minori
– collabora con Émile Gallé con cui è membro dell’École de Nancy – rivelano la
volontà trasversale di esplorare il mondo degli oggetti attraverso una loro
vitalizzazione per mezzo delle rappresentazioni vegetali. Ne impone a tutti gli
effetti uno stato di fatto: le cose, tra cui le modelle (e le donne) guardano,
sono in moto, fioriscono e hanno una loro esistenza a cui l’uomo inevitabilmente
partecipa.
Questa ruminazione artistica sullo sguardo porta Prouvé a coniugare ancora la
poesia di Rollinat con Juana che posa per Les visions roses (Rollinat), opera
che verrà esposta al Salon (SAF, n. 1988) del 1884: la modella è reclinata
all’indietro facendo mostra del proprio corpo nudo. È il seno di Juana il punto
di congiunzione tra l’opera di Prouvé e la poesia di Rollinat: «Vedo le tue
carni tutte rosa,/ I dardi aguzzi dei tuoi seni freddi,/ E poi le tue labbra!
quando vedo/ nelle loro così languide pose/ Corolle e boccioli di rose!».
Non solo il corpo diviene il territorio di metamorfosi floreali – ecco l’art
nouveau! – ma i seni si allineano simmetricamente allo sguardo, come nei corpi
femminili del Mediterraneo antico. Tiresia viene accecato dalla nudità e dal
seno nudo di Atena, così come Atteone che, trasformato in cervo e sbranato dai
cani, aveva posato lo sguardo sul corpo nudo di Artemide.
Il gesto intimidatorio dell’esposizione del seno «transiterà senza soluzione di
continuità dal mondo antico ai repertori folkloristici contemporanei, a indicare
un potenziale di altissimo rischio, che può formalizzarsi nella maledizione più
terribile» come rappresentato in Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci dove
una madre espone il petto come arma temibile contro i fascisti. Il potere
tagliente, castrante dello sguardo tornerà a essere indagato ancora nel 1884 con
la rappresentazione di Juana come Salomè che porge allo spettatore la testa del
San Giovanni per la quale Prouvé prende a modello sé stesso: è dunque Juana a
offrire al pittore la sua stessa testa. Si potrebbe dire: è Juana a offrire al
pittore il suo stesso sguardo.
Gabriele Romani
*La vicenda artistica e biografica di Juana Romani è l’oggetto dell’ultimo libro
di Gabriele Romani: Confini d’identità. Juana Romani: modella e pittrice, edito
Castelvecchi (Roma, 2024).
*In copertina: Edmond Bénard, Juana Romani nell’atelier di rue du Mont-Thabor,
1893, Parigi, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris.
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[1] René Bichet, Les poèmes du Petit B, Parigi, Éditions Émile-Paul Frères,
1938, p. 142.
[2] Fritz-René Vanderpyl, «Marsden Stanton a Paris» in Mercure de France,
vol. CXVII, settembre-ottobre 1916, p. 461.
[3] Vittorio Pica, «La pittura all’esposizione di Parigi» in Emporium,
vol. XIII, n.76, aprile 1901, p. 260.
[4] Jacques d’Adelswärd-Fersen, Notre-Dame des Mers Mortes (Venise), P. Sevin et
E. Rey, Paris 1901, pp. 25-26.
L'articolo Storia tragica di Juana Romani, la pittrice di successo che fu
internata e rosa dall’oblio proviene da Pangea.
In una calda domenica di giugno sono arrivato un’ora prima davanti al Museo San
Domenico di Imola per visitare la mostra di Germano Sartelli “L’incanto della
materia” (in corso, fino all’undici luglio p.v.) chiedendomi che livello di
“oggetti estetici” avrei visto di li a poco. Quando in fondo al corridoio mi è
apparsa la grande “paglia” nel cellophan ho sentito l’emozione di ET quando
diceva: “…caaasaaaa”, ero nel tempio della curiosità, davanti ai lavori degli
anni ’60, ’70, ’80 di un artista che aveva sempre cercato; mi ronzava in testa
quella parola ripetuta tre volte che nel documentario “La forma delle
cose”, Sartelli ripeteva con stupore: “…cercavo, cercavo, cercavo…” (se mai
esporrò le mie duemila creazioni, così titolerò la mostra in onore di Germano
Sartelli) nella consapevolezza che chi cerca non necessariamente deve trovare,
che “cercare” è il prezzo da pagare della nostra curiosità e che la natura ci
offre tutti gli stimoli per il nostro “fare”.
Le “ragnatele” del ’59 sono delle accurate ecografie del pensiero; le “cicche e
carte di sigarette” del ’70 anticipano di due anni le splendide fotografie di
mozziconi di Irving Penn, confermando l’intercontinentalità del vedere creativo;
i lacerti di ferro arrugginito consacrano la missione visuale della ruggine, non
soltanto “lacrima del tempo del ferro” ma vera e propria istantanea del nostro
inevitabile incontro con la morte.
Osservando i lavori di Sartelli, fatti con poverissimi scarti, si potrebbe
pensare ad opere realizzate insieme al dolore, alla solitudine, alla
sofferenza, visto che, tra l’altro, ebbe a che fare con gli internati
dell’ospedale psichiatrico di Imola; invece, percorrere i corridoi di questa
esposizione regala una grande serenità, appese ci sono le radiografie delle
nostra anima, tra “bianchi e neri”, tra “luci ed ombre” vedi il tuo essere
vivente non come “sommatoria di organi”, ma come “altissima frequenza di
pensiero”, senti di attraversare un campo di 174 hz con persistenti sentori di
gioia.
Germano Sartelli (1925-2014)
Concludo queste note descrivendo il posto (delle fragole) da cui vengono
scritte, il Rugginarium: “…un luogo fisico, uno spazio senza coperture dove si
raccolgono i raggi del sole, le gocce di pioggia, le folate di vento, i
cristalli di ghiaccio, i fiocchi di neve… dove il tempo delle stagioni regola la
quantità dell’estetica e dove manca solo una cosa: la colonna sonora della
perdita di funzione degli oggetti ed il loro rinascere nella valenza estetica di
specchi dei nostri pensieri”.
Silvano Tognacci
*In copertina: Germano Sartelli, Paesaggio di terra, 1982; foto Orselli
L'articolo “…cercavo, cercavo, cercavo”. Per Germano Sartelli (o di persistenti
sentori di gioia) proviene da Pangea.