Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di
quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di
Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille,
forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori
e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a
esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le
frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere
se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di
cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la
sua verità liberata dall’artificio della parola.
Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato
(come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia.
Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei
letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali
per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata:
l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la
mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare
conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a
salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo
che meriti di essere salvato.
È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi
tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo
una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come
tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne
un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa –
Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna
sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura,
affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi,
Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio,
Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt,
Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San
Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il
rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di
Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra
storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece
più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco
funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.
A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale
(siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona,
monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico,
giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono
Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una
professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della
manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da
Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto
di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della
raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si
legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo
apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che
quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto
giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare
il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del
tutto ostile.
I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche
Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma
che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione
metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo
come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro.
«Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel
racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e
tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero
entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un
quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i
personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente
con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel
quadro».
Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo,
l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o
almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa
ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente,
inadeguato:
> «Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti
> architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per
> scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma
> di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che
> arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si
> offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi
> riconsegnarla sotto altra forma».
Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e
arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque,
all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice
a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo
scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.
> «Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco
> –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E
> adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi».
Fabrizio Coscia
*In copertina: Camille Claudel (1864-1943)
L'articolo Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un
libro di Giovanna Di Marco proviene da Pangea.
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Suo padre le era molto affezionato: Dickens iniziò presto a chiamarla Kate, la
sua terzogenita, nata a Londra nel 1839, due anni dopo l’ascesa al trono della
regina Vittoria. Il nome completo della bambina era Catherine Elizabeth
Macready, quell’insolito “Macready” dato alla piccola per ricordare l’amicizia
paterna con il pittore e attore William Macready, tra le stelle della Royal
Opera House.
Kate non è l’unica, d’altronde, a ricevere dal bizzarro padre bizzarri nomi:
quello completo del primogenito, Charles Dickens jr, è Charles Culliford Boz
Dickens, Boz essendo il nomignolo-nom de plume con cui lo scrittore aveva
firmato gli Shetches by Boz. Il quarto figlio, Walter Savage Landor Dickens,
prenderà il nome intero da un altro amico e collega, Walter Savage Landor
Dickens. Alfred D’Orsay Tennyson Dickens sarà battezzato ispirandosi ai padrini,
Alfred, Lord Tennyson e Alfred, Conte d’Orsay. E infine il nome dell’ottavo
figlio, Henry Fielding Dickens, deriva da quello dell’omonimo scrittore amato da
Dickens.
Stravaganze dickensiane a parte, Kate assomiglia al padre, è bella e impulsiva:
fin da bambina lui le affibbia pure il soprannome di “Lucifer Box” perché, come
i noti fiammiferi, prende fuoco con facilità. Anche in questo Dickens non si
smentisce, e tutti i figli hanno soprannomi o diminutivi buffi. Ma per Kate lui
ha un debole: la bambina ha carattere e molto talento, in particolare nel
disegno. Vorrebbe studiare arte, imparare dai maestri. Il padre l’asseconda e le
accorda un’istruzione di prim’ordine, deviando così dalle norme sociali
vittoriane, per cui una ragazza era destinata al matrimonio o a rimanere in
famiglia. La iscrive a una scuola fuori dagli schemi: fin dai dodici anni Kate
frequenterà le lezioni d’arte al Bedford College di Londra, istituto non
confessionale e il primo in Inghilterra a condurre le ragazze all’istruzione
universitaria. Tra le sue studentesse, Florence Nightingale e Mary Anne Evans,
al secolo George Eliot.
John Everett Millais, Ritratto di Kate Dickens, 1880
L’ambiente artistico, culturalmente raffinato e cosmopolita in cui Kate cresce
con i fratelli, i viaggi in Europa, in Svizzera, Francia e Italia in cui
accompagna spesso il padre (indimenticabili sono le scene veneziane in Little
Dorrit), la frequentazione di sale da concerto e teatri la formano, le danno
un’educazione non prevista normalmente per le ragazze vittoriane. Lei decide
presto cosa vuol fare e cosa vorrà diventare.
Dal padre ha preso la passione per il teatro: adolescente, calca le assi del
palcoscenico. Nel 1857 recita persino davanti alla regina Vittoria nel
dramma The Frozen Deep, scritto da Dickens e diretto da Wilkie Collins, che con
l’amico collabora alla sua rivista settimanale «Household Words». I due a loro
volta si esibiscono insieme nella commedia di Edward Bulwer-Lytton, Not So Bad
As We Seem, sempre alla presenza della regina Vittoria e del principe Alberto.
*
A ventiquattro anni Kate s’innamora e sposa il fratello di Wilkie, Charles
Allston Collins, anche lui pittore, scrittore e illustratore affine alla cerchia
dei Preraffaelliti. È il 1860. Il matrimonio si basa su reciproca comprensione e
interessi comuni, ma non altro: Charles infatti è gay, e in ogni caso scompare
prematuramente nel 1873. Oltre alla copertina, non riuscirà a terminare nemmeno
le illustrazioni di The Mystery of Edwin Drood del suocero.
Il secondo marito di Kate sarà di nuovo un pittore: Carlo Perugini, di origini
napoletane naturalizzato inglese, noto nella cerchia preraffaellita come Charles
Edward Perugini. Kate lo incontra in casa di Sir Leighton, di cui Charles è
amico e assistente. Trasferitosi in Inghilterra bambino con la famiglia,
diventerà una figura ben nota nel mondo dell’arte londinese e britannica, il
nome quasi sempre anglicizzato in Charles Edward Perugini. Per amici e la
famiglia resta comunque Carlo.
Kate dipinta dal marito, Carlo Perugini
Kate sarà ritratta da lui, da altri, da John Everett Millais: l’unica donna a
posare dando le spalle al grande Millais, che è solito imporre alle proprie
modelle sedute estenuanti – celeberrimo il caso di Elizabet Siddal obbligata a
stare ore immersa in acqua per l’Ofelia, fino a prendersi la polmonite. Da poco
vedova del primo marito, in elegante abito nero, Kate è invece di spalle, lo
sguardo provocatoriamente rivolto di lato: L’idea dell’insolita posa è sua,
quasi voglia concedere poco di sé all’osservatore. Non sembra importarle molto,
il contatto con un osservatore esterno. Stranamente, Millais accetta l’idea,
regalerà il dipinto a Carlo Perugini in dono di nozze.
*
La prima volta in cui Millais la dipinge, Kate è una giovane studentessa d’arte
che gli fa da modella. Il pittore è amico di famiglia e intimo dell’allora
fidanzato Charles Collins. Nasce così un’opera tra le sue più note, The Black
Brunswicker (1860), completata lo stesso anno in cui Kate sposerà il suo
Charles: sulla tela, una giovane donna sta invano cercando di convincere il
fidanzato a non andare a combattere alla battaglia di Waterloo. Quando il
dipinto è esposto l’esaltazione del pubblico, desideroso di ammirare la figlia
di Charles Dickens, obbliga il museo di porre una barriera per impedire ai
visitatori di avvicinarsi troppo e danneggiarlo.
Nei circoli frequentati da Kate e dal marito s’incontrano anche molti scrittori:
lei è amica di Thackeray, di Barrie, futuro creatore di Peter Pan, di Shaw, a
cui concede varie interviste sulla vita privata del celebre padre, rivelandogli
anche la relazione con l’attrice Ellen Ternan, l’ultimo amore di Dickens.
Il secondo matrimonio porta a Kate il dolore di perdere il loro bambino,
Leonardo, a pochi mesi dalla nascita, e la notorietà come
ritrattista. Conseguito il diploma a pieni voti, adesso è una pittrice di
successo: in particolare, si è specializzata nei ritratti. Con pennelli e
cavalletto si è affrancata in breve tempo dal ruolo di figlia, pur talentuosa,
dello scrittore più celebre d’Inghilterra, per raggiungere a sua volta la fama
da professionista: i suoi quadri si liberano presto dell’influenza
preraffaellita, la sua pennellata risoluta anticipa tempi più moderni.
Kate Perugini, Ritratto di Dora, 1892
Cosa dipinge, Kate Perugini? Quasi sempre bambini, o donne dallo sguardo
malinconico, che sembrano vedere molto e trattenere a sé silenzi lunghi. Forse,
dipinge all’infinito una parte di sé. Esporrà ogni anno le sue opere alla Royal
Academy a Londra, all’Institute of Water Colour Painters, alla Society of Lady
Artists, alla Egyptian Hall a Piccadilly e poi oltre mare in America,
all’Esposizione Colombiana a Chicago nel 1893.
Donna capace di dirigere la propria vita e il proprio destino, è diventata
un’artista indipendente, molto lontana dallo stereotipo femminile angelicato
preteso dall’epoca. Si muove con scioltezza in un ambiente quasi tutto al
maschile – nel 1883 sarà tra i firmatari della petizione che chiede alla Royal
Academy di far frequentare alle studentesse gli stessi corsi dei colleghi
uomini. Lei e Carlo condividono un grande studio, ricavato in casa, dove
accolgono gli amici pittori e artisti in feste e mostre private. Lavora molto,
tutta la vita, Kate, quadro dopo quadro, guadagna in un’epoca in cui alle donne
non è spesso consentito lavorare. Con nonchalance, li firma spesso con due
cifre: “KP”. Semplicemente.
Come quella di altre sue contemporanee, la sua fama è stata oscurata dal tempo e
dall’oblio, inghiottita nell’enorme nebulosa Dickens e poi perduta di vista. E
le sue opere con lei. Kate Dickens o Kate Perugini – come ha voluto sempre farsi
chiamare l’artista – morirà a Londra nel 1929, lasciando dietro di sé una
costellazione di dipinti, testimonianza dell’epoca vittoriana e avvisaglia di
tempi nuovi.
Paola Tonussi
L'articolo “Lucifer Box”, la figlia prediletta di Dickens. Ovvero: storia di
Kate, pittrice indipendente proviene da Pangea.
“Nell’insidia della soglia” è il titolo di uno dei libri più potenti di Yves
Bonnefoy, poeta francese sensibile ai gesti d’arte (ha scritto, tra l’altro, di
Bernini, di Giacometti, di Hopper). Insidioso è perfino il titolo: “le leurre” è
l’inganno, l’esca, il tranello; in italiano possiamo giocare, per allucinazioni
e allusioni, con la parola errore, con la parola livrea. L’aura di un inganno.
La livrea che cela la natura terrifica e gloriosa delle cose. In quel testo, c’è
un monastero in rovina e una soglia da attraversare. “Tutto il visibile,
infermo,/ di sé si cancella”, scrive il poeta – la traduzione è di Diana Grange
Fiori. Scrive, il poeta, del fondaco di un’alba, del riflesso del fuoco. Quando
la forma si stinge e il sacro appare, si va per una nudità detta astrazione:
così fa Dante quando è al cospetto dell’Assoluto, l’informe che tutte le forme
riassume; dice di cerchi concentrici. In questo senso va assunto il nuovo corso
di Roberto Floreani, visibile nella mostra “Soglie”, presso il Museo Diocesano
di Vicenza, fino all’8 giugno. Una rassegna – a quarant’anni dalla prima
realizzata dall’artista, era il 1985, proprio nell’anno giubilare – che al
nitore spirituale affianca l’opera di sovversione: al dominio del mercato e del
materiale, all’etimo dei social, del putiferio degli idoli. A raccontare la
mostra, Floreani, in dialogo con Luigi Codemo, direttore della Galleria d’Arte
Sacra dei Contemporanei a Villa Clerici, Milano.
La tua quarantennale ricerca artistica che conta oltre 90 personali, passando
anche attraverso la sala personale Aurora occidentale allestita alla Biennale di
Venezia del 2009, segna un costante e rigoroso indagare i fondamenti
dell’Astrazione. Ora hai inaugurato questa mostra al Museo Diocesano di
Vicenza, Soglie. Tempo del prima – Tempo del poi. E fin dal titolo viene messo
in evidenza un aspetto distintivo di chi lavora tramite l’Astrazione:
l’attenzione analitica e riflessiva che esamina il proprio processo creativo.
Il mio nuovo progetto Soglie. Tempo del prima – Tempo del poi evoca la
tradizione dell’Astrazione votata allo spirituale, che si manifesta fin dai
tempi della sua nascita nel 1912 con le Compenetrazioni iridescenti di Giacomo
Balla e, pur da versanti differenti, con il saggio Lo Spirituale nell’arte di
Vasilij Kandinskij. La nuova declinazione della mia ricerca sulle Soglie evoca
l’esistenza di un passaggio tra il qui e l’altrove e il Tempo del prima –
Tempo del poi rende centrale la funzione dell’opera perchè rappresenta un
crinale tra le intenzioni progettuali e la sua esecuzione effettiva, in cui
l’attimo che le divide, il passaggio, è l’istante significativo della creazione
(forse unico ambito, quello artistico, che consente l’uso del termine).
Quindi anche l’unità e la coerenza formale assumono un valore morale?
Sono entrambi fondative e irrinunciabili: unità e coerenza formale sono
riconducibili anche a quello che Umberto Boccioni definiva lo stile, essenziale
per l’artista e la sua riconoscibilità.
Jean Baudrillard definisce l’Astrazione come l’unica forma attendibile del
contemporaneo perché dotata di una storia eroica. Assumendo uno sguardo ampio e
storico tu come inviteresti a vedere e a leggere questo eroismo?
L’eroismo penso possa assumere un duplice significato: da un lato riferito
all’importanza delle stesse istanze fondative dell’Astrazione, cui ogni
astrattista guarda come riferimento, più attento ad una sua nuova, originale
declinazione, che allo stravolgimento rispetto ad allora: dal Tutto si astrae di
Balla (’12), fino all’Astrazione come dominio sulle forme della natura di
Kazimir Malevič (’15) e ai ripetuti, precisi riferimenti nei testi di Piet
Mondrian (’17-’24): All’astratto come liberazione dell’umanità dal dominio della
materia e del fisico […] col trionfo dell’equivalenza Materia-Spirito.
Per questi e infiniti altri riferimenti, l’Astrazione rimane sempre attuale al
suo tempo.
Dall’altro, eroismo come resistenza dell’astrattista alla deriva materialista
del contemporaneo, iniziata, leggendo le dichiarazioni dell’epoca, ben prima di
quanto presagito dal fatidico Società dello spettacolo di Guy Debord, nel 1967.
In buona sostanza porsi sul versante della spiritualità comporta l’accettazione
di una sorta d’inattualità costruttiva, vissuta nella sua accezione positiva
come rifiuto della superficialità materialista.
Nel corso della pittura del Novecento vediamo l’Astrazione essere una modalità
longeva e rigorosa per ribadire uno statuto veritativo dell’arte, ovvero la sua
capacità conoscitiva contro chi la dichiarava ormai oltrepassata e relegata ad
una funzione ornamentale. Di fronte a un panorama artistico oggi così mutevole e
volubile, continuamente all’inseguimento di suggestioni e di parole d’ordine
estremamente variabili, è necessario un nuovo eroismo?
Penso possa essere rivelatoria la lettura dei Taccuini di Umberto Boccioni,
ordinatore teorico del Futurismo, prima Avanguardia storica del ‘900: i suoi
quattro manifesti (due sulla pittura, uno sulla scultura e uno
sull’architettura), oltre al suo saggio Pittura e scultura futuriste (1914),
possono considerarsi fondativi di buona parte delle istanze dell’intero
Novecento. Ebbene Boccioni affronta entrambi gli argomenti in modo del tutto
innovativo, considerando lo stile dell’artista come prioritario rispetto al
resto e la decorazione come perfettamente complementare alla ricerca, con una
sua rilevante legittimità nell’opera.
Credo che l’arte debba proseguire controcorrente rispetto alle tendenze del
mercato e della comunicazione globale e dei social, rispondendo ad una necessità
che superi la cronaca, le abitudini correnti, un’arte che guardi ad un futuro
prossimo più vicino alle urgenze interiori dell’uomo e meno a quelle materiali.
Accettare consapevolmente di operare controcorrente significa poter subire le
conseguenze anche dell’isolamento, della tensione esistenziale
dell’incomprensione: ma anche questo penso possa rientrare nella complicata
scelta di vita dell’artista.
Se l’arte ha capacità conoscitiva, se ha una forza di affermare la verità non
può essere relegata alla “domenica della vita”, non costituisce una pausa nel
divenire della storia, ma è chiamata a intervenire, a incidere sulla realtà,
sulla società. L’arte se ha a che fare con la verità, per quanto relativa e
molteplice, ha un potere, crea mondi di significati e itinerari di senso.
Una delle intenzioni della mia ricerca è orientata verso la possibilità che
l’opera possa veicolare un messaggio di natura spirituale, rivolgendo molta
attenzione alla componente legata all’ascolto. In questo senso quindi si pone in
posizione antitetica rispetto alla dittatura del materialismo, dove appare con
chiarezza disarmante la prevalenza del prezzo sul valore. In questa distanza
dalla consuetudine, l’astrattista svolge quindi un rilevante ruolo sociale,
riportando l’attenzione verso tematiche legate all’introspezione, invocando
quella dimensione ulteriore legata alle suggestioni interiori. Accedere ai
flussi di coscienza dell’introspezione, della riflessione individuale, aiuta a
comprendere e a comprendersi, limitando le motivazioni prime dello scontro che
sfociano nella violenza, finanche delle guerre. Laddove cessano le azioni per
convenienza, iniziano quelle della condivisione. Evocare tutto questo attraverso
l’arte accende una scintilla, conferisce delle ragioni.
Una felicità che non sia effimera non è là fuori nella materia.
L’Astrazione in pittura nasce con una vocazione analitica, ovvero non cerca di
essere una finestra sul mondo ma concentra innanzitutto la propria attenzione
sugli elementi costitutivi del proprio linguaggio, sul proprio funzionamento;
ma, se guardiamo ai più alti maestri dell’astrazione, anche se non cercano la
rappresentazione e negano perentoriamente la volontà di “uscire dal quadro”,
nelle loro opere si affacciano, come insopprimibili, risvolti spirituali,
riverberi psicologici, tensioni mistiche, nebulose prelinguistiche. A mio avviso
la tua ricerca artistica esplicita questa impossibilità che la pittura si chiuda
in un cerchio autoreferenziale, ovvero il tuo rigore e la tua fedeltà
all’astrazione portano alla luce come questa sia insopprimibilmente soglia su
altro.
Quando ci mettiamo nelle condizioni di connetterci con la profondità, quando non
pensiamo solo razionalmente, quando lasciamo che le domande fluiscano senza
peso, naturalmente, cercando stati di coscienza superiori, siamo sulla soglia di
una dimensione ulteriore, dove possiamo scegliere se restare lì, in ascolto,
oppure cercare di attraversare, di ascendere, raggiungendo quote più elevate,
evocando una dimensione spirituale. Nelle mie opere si confrontano due entità
principali: una base materica informe sottostante, il corpo della pittura, che
prima si accorpa nei Concentrici, sequenze di cerchi che sono divenute la mia
cifra stilistica dal 2003, per poi organizzarsi in forme geometriche con le
cromìe più accese degli arancioni, dei rossi sandalo, dei blu Klein: questo
percorso è stato definito dal caos al cosmo.
Nelle tue opere il riferimento al quadrato richiama il confronto con Josef
Albers, probabilmente il più estremo e rigoroso pittore astrattista. I suoi
“Omaggi al quadrato” mirano non solo ad azzerare ogni riferimento a ciò che sta
fuori dal quadro ma persino ogni richiamo che può annidarsi nella più asettica
forma geometrica: il risultato è lo stare innanzi all’assoluta fisicità e
singolarità della superfice pittorica. Ritengo emblematico questo passaggio: più
si affina il concetto e più emerge la fisicità, la ricerca spirituale non può
che affermare l’inderogabilità della materia. E qui veniamo al punto che anche
questo luogo interpella: l’Astrazione è chiamata nel suo stesso fondamento a
misurarsi con lo scandalo di un Dio che si fa corpo?
Le Soglie affrontano la tematica del quadrato ed era inevitabile riferirsi a chi
– come Albers – lo ha elevato a ad un valore assoluto. Ma la Soglia attraversa
quel rigore, lo rende umano, incerto, indeciso sul proseguire o restare, se
attraversare, o rimanere, o recedere. C’è la natura dell’uomo nell’incertezza,
nella fragilità della scelta, nel timore dell’errore, nell’indecisione se
attraversare verso lo sconosciuto dove ricostruire nuove certezze, dove
alimentare altre parti di sé.
Astrazione è Rivoluzione, la vera novità del Novecento che capovolge lo sguardo
per la prima volta verso se stessi, rendendo Arte le intuizioni relative al
subconscio, alla profondità dell’autoanalisi. L’Astrazione ha avuto e ha
tutt’oggi due anime opposte: una asettica, bastante a se stessa, aulica,
impenetrabile, atea; l’altra evocativa, profonda, vibratile, spirituale. Nel mio
caso l’Astrazione si misura prima col corpo, con il suo peso, il suo spessore:
le venti stratificazioni e più delle mie opere sono lì ad attendere di darsi un
ordine per dirigersi verso il passaggio, nel faticoso percorso dell’ascensione,
dove le certezze di prima svaniscono. Un attraversamento difficile, a volte
sofferto, dove difficoltà e sofferenza per ascendere possono evocare la Passione
e poi la luce oltre le tenebre.
Segno, soglia, passaggio: l’arte quindi è tale se testimonia grazia, ovvero la
possibilità di trasformazione.
Credo che la grazia sia un dono che gratifica se alimentata dal versante della
bellezza e della misura: difficile potervi accedere senza queste attenzioni. La
trasformazione include il passaggio da uno stato all’altro caratteristico
della Soglia, con la possibilità di accedervi o meno, di muoversi arricchendosi
delle esperienze più differenti, alimentati da una irrinunciabile curiosità.
Concetti molto distanti dall’asservimento sordo al materialismo e alla tecnica
che rischiano di trasformare Occidente e Oriente in contenitori vuoti a causa
dell’abbandono della poesia e dell’energia spirituale.
a cura di Luigi Codemo
L'articolo “Per un’arte eroica, controcorrente alle leggi del mercato e ai
social”. Dialogo con Roberto Floreani proviene da Pangea.
Speranza contro speranza non è il titolo di un libro – è un titolo d’onore.
Nella liturgia del 19 marzo scorso, che ruotava intorno a San Giuseppe, la
seconda lettura, dalla lettera ai Romani di Paolo, dice: “Egli credette, saldo
nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli”. Il
memorabile libro di memorie di Nadežda Mandel’štam, Speranza contro speranza –
ora in catalogo Medhelan – insegna che bisogna avere fede nella poesia. La
Storia potrà pure uccidere il poeta – deve ucciderlo, ai fini della sua riuscita
–, potrà ridurlo ai margini, a mendicare, ostaggio della propria fame – la
poesia resterà.
A Iosif Brodskij, Nadežda Mandel’štam fece l’effetto di “una minuscola brace che
brucia se la tocchi”. L’aveva incontrata nel 1972, prima di lasciare, per
sempre, l’Unione Sovietica. La brace divenne incendio – la donna martoriata e
senza parto fu la levatrice di migliaia e migliaia di poeti.
Non è inesatto chiamare Osip Mandel’štam, nelle notti a secchiate, con il tono
con cui si dice padre.
*
È curioso: i poeti seppelliscono il proprio cuore – un cuore, si dirà, capace in
radici o in tentacoli, a seconda della belva che anima quel rantolo – altrove.
Mandel’štam ha messo il cuore in Armenia, luogo che svasa in leggenda, dove il
cristianesimo primeggiò con forza di ribes, di mora selvatica. Boris Pasternak
preferiva la Georgia che nello stemma ha l’eroe che trafigge il drago. Anche in
questo si intuisce lo stigma di uno stile. A Tbilisi, Pasternak trova poeti
complici, amici – il più caro, Tician Tabidze, il Dylan Thomas georgiano, farà
la stessa fine di Osip: rapina stalinista, arresto, fucilazione, è il ’37 e come
da prassi nessuna notizia sulla sua fine allenta, per anni, la spossante attesa
dei cari. A Savan, a Suchum, “città di lutto, di tabacco e di aromatici olii
vegetali”, a B’hurakan, “celebre per la caccia ai galletti” che “rotolavano per
terra come palline gialle sacrificate al nostro cannibalesco appetito”,
Mandel’štam sta alla larga dai poeti. I suoi interlocutori sono geologi,
archeologi, chimici; scienziati, insomma. A Mandel’štam interessa
l’immaginazione ‘empirica’, il punto che congiunge poesia e scienza. Gli
interessa, per così dire, la zoologia del fraseggio, il modo in cui si sviluppa,
per gemmazione e potatura, quella boscaglia di versi. Così scrive in un
taccuino: “Fin da bambino sono stato abituato a considerare Darwin un ingegno
mediocre. La sua teoria mi sembrava sospettosamente stringata: selezione
naturale”. In Armenia – filo mancante a ricucire un cuore malmenato –
Mandel’štam trova il luogo di fusione tra letteratura e scienza:
> “Con Darwin ho concluso una tregua. Nella mia biblioteca immaginaria l’ho
> messo accanto a Dickens. Se pranzassero insieme, il terso della compagnia
> sarebbe Mister Pickwick. Non si può non lasciarsi incantare dalla bonomia di
> Darwin. È un umorista preterintenzionale”.
Anni dopo, in altro contesto, Italo Calvino scrisse che Galileo Galilei era “il
più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo” (rispondeva ad
Anna Maria Ortese dal trono del “Corriere della sera”, era il Natale del 1967).
In quel caso, era una opzione ‘letteraria’, di fatue ‘inclinazioni’; per
Mandel’štam è una questione di vita, di clinamen.
*
In Armenia, tra l’altro, Mandel’štam scansa le grandi città; preferisce i laghi,
le montagne, i borghi col broncio. Ad Aštarak “ho avuto la fortuna di vedere le
nuvole che celebravano sacre funzioni al dio Ararat”. In un passo del reportage,
il poeta cita Baloo, l’orso del Libro della giungla di Kipling. Nella mia
fragile mente, mi piace pensare al poeta come Mowgli: conosce la lingua di tutte
le bestie, è inaccettabile alla giungla come al mondo degli uomini – è scaltro e
innocente, canta e uccide.
Chissà quando Mandel’štam ha letto il Libro della giungla; chissà se imitava
Shere Khan, la tigre, o se preferiva i serafici silenzi di Bagheera, la pantera
nata dall’oscurità. Mandel’štam non è poeta abile nel ruggito; ha un passo
felpato, conosce l’arte dell’assalto, l’arte dell’indiarsi nelle attese.
Mentre è in Armenia, nella primavera del 1930, Mandel’štam è ammutolito dalla
“notizia oceanica” della morte di Majakovskij, il poeta leonino alla
Rivoluzione. Eccolo, un poeta che ruggisce! Capisce che con la morte di
Majakovskij qualcosa è morto per sempre – l’idea stessa, pur impaniata di
sangue, della Rivoluzione. Il viaggio in Armenia è pure questo, nel pudore:
compianto sul corpo morto di Majakovskij. I poeti sono come quelli che vanno in
battaglia sventolando il vessillo della Vergine: credono nelle milizie angeliche
più che nella forza dei droni. Che muoiano, seguaci dell’assurdo, è il loro
vanto.
*
Intendo dire: pur in viaggio ‘ufficiale’, Mandel’štam diffidava degli ufficiali
di partito, tramutò il compito in officio inaccettabile, in un’officina del
linguaggio che potremmo chiamare “Ufficio delle tenebre”.
Oh, sì, Mandel’štam sarà pur morto, come dicono, in un campo di transito presso
Vladivostok, nel dicembre del 1938; in realtà, egli si è creato un sepolcro in
Armenia. Egli è sepolto in quelle tombe che sembrano pietre che levitano: i
sepolcri dei santi e dei re, dove si rilassano i migratori tra un’Asia e
l’altra, perché il cielo è riposto lì, proprio lì, in quell’anfratto, piegato,
come un fazzoletto.
*
Prima di partire per l’Armenia, Mandel’štam lavorava al “Moskovskij komsomolec”,
un “giornaletto” che permetteva al poeta una “paga così basso che il denaro era
sufficiente solo per pochi giorni”. Nel secondo tomo delle sue memorie, Speranza
abbandonata – che è poi, un abbandonarsi alla speranza, anche se la speranza, a
volte, ha i tratti della iena; questo libro, in Italia, è in catalogo
Settecolori – Nadežda Mandel’štam scrive che “nella redazione tutti credevano
nel radioso avvenire e si sforzavano di accelerarne la venuta”.
A Mandel’štam l’Armenia pare il nuovo mondo: poco prima di partire, si licenzia.
“Ricevette un’attestazione di benevolenza in cui lo si diceva che apparteneva al
novero degli intellettuali a cui si poteva dare un lavoro, ma sotto la
supervisione dei capi del partito”. Per un poeta da tempo bandito dalle case
editrici statali – le uniche in azione – era un gesto di inattesa bontà.
Mandel’štam si infuriò, non accettava attestati, aiuti, pericopi di
partitocrazia ipocrita – i redattori di quel giornale, durante le purghe, furono
decimati.
*
Viaggio in Armenia – in Italia: edizione Adelphi, cura mirabile di Serena
Vitale – è un libro fantomatico, di araldica bellezza, che non si può
circoscrivere in generi. Varia dal reportage al bozzetto, dal poema in prosa al
trattato d’arte, dal dibattito scientifico al sulfureo lirismo. Il suo modello è
il folgorante Viaggio ad Arzrum di Puškin, il suo delfino è Bruce Chatwin.
Un libro del genere, va da sé, scontentò tutti, soprattutto chi aveva permesso
al poeta quel vagabondaggio. Incurante degli obblighi intellettuali verso la
patria, Mandel’štam comincia, dopo il Viaggio in Armenia, la propria catabasi
negli inferi del sistema sovietico. Vent’anni dopo, nel 1950, Marietta Šaginjan
firma il libro che avrebbe dovuto scrivere Osip: il suo Viaggio nell’Armenia
sovietica, affascinante resoconto delle sorti progressive dell’impero
stalinista, fu tradotto nel resto del mondo, le permise il Premio Stalin. Amica
di Sergej Rachmaninoff, armena d’origine, poetessa per vizio, si orientò a
Stalin, divenendone fedele – e feroce – scriba. Scrisse un romanzo su Lenin di
catastrofico successo.
Naturalmente, Nadežda ha per la Šaginjan, “minuscola e incartapecorita”, parole
violente: in un passo, descrive il suo “modo ripugnante di baciare la mano alla
Achmatova quando le capitava di incontrarla”.
*
Da tempo, Silvio Castiglioni lavora nell’opera di Osip Mandel’štam: Un po’ di
eternità è andato in scena la prima volta a Lucca, nel 2013 (regia di Giovanni
Guerrieri, storico sodale di Silvio). Improprio nominare “spettacolo” questo
atto sacro pensato “per Osip e Nadežda Mandel’štam”. Qualche giorno fa l’ho
rivisto, in un antro di Cattolica, un ostensorio di pietra, qualcosa come un
caravanserraglio, con i tappeti volanti intorno; metteva in scena Viaggio in
Armenia. Hanno ragione a chiamare quel libro “luminosissimo addio; un rito
d’addio”.
Per chi non lo ha mai visto, Silvio Castiglioni è sempre sbalorditivo. È l’unico
attore che conosco a farti capire che la mano è la mano – e la mano è in scena,
recita anche lei. Che il dito è un dito, l’unghia un’unghia, il naso è proprio
il naso. Castiglioni recita, ovvero: non dice delle parole scritte da altri in
uno spazio detto scena. Recinta il corpo nella recita. D’altronde: parola-corpo,
verbo che si fa carne; dunque: falange falena, mano lupo, gambe patriarca, gambe
binario morto, gambe Orient Express!
Castiglioni è all’oreficeria dell’arte attoriale. Castiglioni ha un corpo
soffiato nel vetro – pasta malleabile, sottoposta al fuoco dell’addestramento.
Un corpo che può farsi cigno e stoviglia, sfera e sfuriata.
Il rito dura, credo, quarantacinque minuti. Castiglioni interpreta il libro – un
libro piccino, indifeso, inaccettato – come lo sono le cose davvero
mastodontiche, regali. Castiglioni è Viaggio in Armenia; e dunque: è il
burocrate dall’“erudizione troppo chiassosa”, è la biblioteca di cactus e la
ragazza bionda, è Osip, il poeta – in fuga dallo stare in scena, troppo cristico
per inscenarsi – e le nuvole che flottano su Sevan; è la lama di rasoio sotto la
scarpa, per ogni evenienza; è l’uovo sodo – cotto nell’atto – che piaceva tanto
al poeta; è una teca di vetro che soffoca il poeta, farfalla sotto lo spillo
stalinista; è la poesia sul “montanaro del Cremlino” e il frutto rosso che
spergiura un Eden alle labbra. È il coccio, la cocciniglia, la coccinella. E
poi: Silvio che si leva brandelli plastici di faccia, lo sfacciato (ergo: una
Storia che ti soffia l’identità, la Storia avvolta di senza volto); Silvio che
sfila un lenzuolo, lo ondeggia, nostra signora Sherazade, mentre si proiettano
immagini dell’Armenia di allora; Silvio che si toglie le burocratiche calze, le
ufficiose scarpe, per svelare un piede dorato, spudorato riflesso di voluttuosa
regalità; Silvio che regola il viso sotto la panca, s’incapsula lì, e recita
quell’ultima, feroce pagina del Viaggio in Armenia, la leggenda del re recluso,
e “il sonno ti avvolge di pareti, ti mura”.
Silvio Castiglioni è Viaggio in Armenia
Ogni applauso è improprio – al rito segue: sprofondare nel sé – alcuni, al posto
dell’anima hanno giunchiglia, infinite stazioni di acquitrini, gli aironi a fare
la posta.
*
Ha qualcosa di simile al clown e al pope, Castiglioni. Occhi dalla scrittura
armena: divorano e possono piangere di ciò che hanno divorato. Se ha valore la
parola ‘invasato’, allora, poi, occorre rompere i vasi – che vuol dire, dare
rifugio all’acqua, concedere ai cocci di essere Micene, Mosca, kamen, la pietra-
Mandel’štam da cui, dopo la distruzione, ripartirà il respiro.
Lapidare, lapidazione di labbra.
*
Eccolo, lui:
> “Le mosche divorano i bambini, si attaccano a grappoli agli angoli degli
> occhi.
> Il sorriso di un’anziana contadina armena ha un’inesprimibile bellezza: è
> pieno di nobiltà, di sofferta dignità, e del particolare, solenne fascino
> della donna maritata.
>
> Vidi la tomba di un gigantesco curdo dalle dimensioni fiabesche e la presi
> come una cosa ovvia”.
Fiaba e calcolo, canicola e canini, Van Gogh e Linneo. Fu Adamo, in Armenia,
Mandel’štam.
I morti non urlano più, li abbiamo resi alla betulla, in corde, allievi del
merlo e della rupe cincia.
L'articolo “Al nostro cannibalesco appetito”. In Armenia con Mandel’štam
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