Per alcuni artisti l’arte è un campo di battaglia. È certamente il caso
dell’eclettico e sorprendente Pablo Echaurren, pittore romano nato nel 1951 che
da più di mezzo secolo sovverte il mondo della pittura contemporanea. Io però
non lo scoprii come pittore bensì come fumettista. C’è infatti un suo libro
edito da Bollati Boringhieri nel 2000 che si intitola Vite di
poeti: Campana, Majakovskij, Pound. È un fumetto, e per molti pittori-parrucconi
quella del fumetto è un’arte minore o nient’affatto un’arte. Non per Pablo
Echaurren.
Quando trovai quel libro cercavo una visione di Campana che non fosse artefatta
o legnosa o viceversa troppo roboante ma in fondo vacua, simile più a un fuoco
d’artificio che alla vera fiamma dei poeti. Cercavo qualcuno che amasse
veramente Campana e che capisse la portata a un tempo rivoluzionaria e classica
della sua poesia e della sua avventura poetica. In una vignetta Echaurren
scrive:
> “Il suo cuore goccia stilla a stilla quel senso dei colori che intende portare
> nella poesia italiana.”
Ma ancora più conta il disegno: una mano, la mano di Campana, stringe un cuore
pulsante e delle stilografiche e dei pastelli, in un’esplosione di colori e
sentimento, di sangue e inchiostro. La poesia non deve essere separata dai
sentimenti del poeta, sembra dirci Echaurren. L’arte deve saper celebrare la
vividezza e l’unicità della vita dell’artista.
L’arte di Pablo Echaurren è uno stato d’animo in rivolta. È figlia per l’appunto
di Campana, di Pound, di Majakovskij, di Marinetti. È un’arte che sa vedere dove
altri non vedono, sentire e creare dove altri non sentono o non creano o creano
male e controvoglia, seguendo la moda o i dettami della noia. I suoi quadri sono
disseminati di vortici e sequenze coloratissime e ipnotizzanti che trovano anche
un ordine nel caos. I suoi collage usano il punk (penso a Ex-pistols, dai Sex
Pistols) e il futurismo e i fumetti e le sagome dei cartoni più conosciuti, però
con uno stile composito e personale che non è mai azzardato ma porta alla
felicità di chi osserva e – ripeto – alla rivolta. Perché l’arte di Pablo
Echaurren non è mai innocua né accondiscendente. Non è un’arte per ricconi in
cerca di facili brividi fintamente rivoluzionari.
C’è un altro volumetto che ho a cuore quasi quanto i suoi quadri più
sovversivi, Controstoria dell’arte, pubblicato da Gallucci nel 2012. Il
sottotitolo suona come un verso surrealista: Breviario di un bastiancontrario.
Qui Echaurren indossa le vesti di scrittore e affronta a proprio modo la storia
dell’arte nel corso dei secoli, dalla preistoria alla street art. Il libro è un
diletto sovversivo che a tratti dissacra i miti intoccabili del mondo dell’arte,
perché da esso – dal mondo artistico, dal mondo culturale – nasce “l’artista
d’avanguardia che nessuno capisce ma ciascuno ambisce a mostrare ai propri
ospiti quale fiore all’occhiello, quale belva trasformata in agnello, quale
orpello per abbellire il tinello”, scrive Echaurren nel capitolo L’artista. Come
a dire che la sua non sarà mai un’arte da salotto. Che Pablo Echaurren, in vita
e in vecchiaia e quindi in morte, non si lascerà addomesticare dalla brama di
denaro o dal demi-monde dei nobili tirchi o spendaccioni.
L’opera pittorica (e non solo) di Echaurren è ancora in parte inesplorata. Pablo
Echaurren è un rivoluzionario incallito che fa della propria arte una
rivoluzione permanente, e le vere rivoluzioni finiscono spesso sconfitte dal
mercato o dagli stolti. Quest’anno sono usciti due suoi libri in
sordina: L’eterna periferia (Bordeaux Edizioni) e Il mio Baruchello (Mauvais
livres). Seguire le sue tracce non è semplice, perché si muove fra piccoli
editori e vecchi cataloghi di mostre che conservano però intatta la loro aura
eccentrica e contestataria. Vale la pena di scoprirlo e sorprendersi. Vale la
pena di aggregarsi alle insurrezioni indomite di Pablo Echaurren.
Edoardo Pisani
L'articolo La rivoluzione permanente di Pablo Echaurren, l’arista “bastian
contrario” proviene da Pangea.
Tag - Arte
> La vera via passa per una corda che non è tesa in alto, ma appena al di sopra
> del suolo. Sembra destinata a far inciampare più che a essere percorsa.
>
> Franz Kafka
> Non intendo dire mai più che ho finito un’opera: tutto è opera.
>
> Ludwig Hohl
Il Nuovo Mondo
Come ha potuto, Francesco Toris, chiuso nel manicomio di Collegno, scolpire dal
1899 al 1904 il Nuovo Mondo – quell’opera indefinita, portale o soglia che sia?
La storia ci racconta che salvava, da ogni pasto, frugando nella spazzatura,
ossa e ossicine, sue e altrui, e poi le levigava a lungo, per ore, a notte
fonda. La scultura è un portale: devi subirlo, esserne ipnotizzato, lo varchi
mentre lo vedi. L’equilibrio delle ossa assemblate insieme e sempre in
equilibrio, benché non siano stati usati né chiodi né colla, è un mistero non
risolvibile. Puoi descrivere le figure diaboliche che appaiono, puoi
descriverle, sì, ma a ogni sguardo non sono mai uguali.
È la vittoria di un vinto che non tace ma continua a scolpire, senza sapere in
che direzione andrà.
La psiche è dissolta in deliri, chissà quali, ma la scultura, a un secolo di
distanza, dritta come un totem, equilibrata e perfetta. Cinque anni di lavoro,
iniziati tre secoli fa. La scultura. Il portale. Le figure. Gli animali. Gli
idoli. Quelle ossa non tacciono come reliquie ma dicono, dicono sempre, in un
bisbiglio accorato, allucinatorio. Per Toris sarebbe anormale guardare il
celeste paesaggio di un lago e non le ossa appena levigate nell’atto segreto
della scultura.
Nessuno insegnava a Toris come e cosa fare. Nessuno gli insegnò a scolpire o a
disegnare. Inventò tutto da solo, come accade spesso, per chi è fuori di mente e
non sopporta le infelicità della ragioni. E, se l’opera non si è scomposta e
frantumata per oltre un secolo, lo dobbiamo a qualche genio segreto che, dalle
tenebre, inventa le architetture, a qualche equilibrio demonico.
Noi non vediamo un libro di pietra scavato nel muro di un manicomio come quello
di Fernando Nannetti, ma un portale, una soglia, fatta solo di ossa e che, come
la favola di un idiota, non significa nulla. Significa solo se stessa. Manca a
Toris una popolazione, minuscola e sterminata, che abiti la sua piccola e
immensa opera. Il mistero della sua scultura non è che sia esoterica o mistica o
paranoica: è nel fatto che il materiale che la compone provenga solo dalle ossa
dei pasti di tutti i pazzi del manicomio, giorno dopo giorno, pulite, affilate,
levigate fino formare uno scheletro nuovo, fatto con il resto dei pasti: quello
scheletro è le fondamenta del Mondo Nuovo, le voci segrete da cui lo scultore
reclama resurrezioni. E se Toris volesse, con le ossa che salva dall’immondizia,
narrare di un Invisibile che è necessario custodire nel visibile?
Quando scoprì che ella sua scultura si parlava pubblicamente, Toris si offese
con lo psichiatra che aveva svelato il suo nome e la sua opera, urlò, smise di
parlargli, cessò di scolpire.
Il “Nuovo Mondo” di Francesco Toris
*
Ritrovare le strade
L’artista vaga nei suoi personali deserti. Prende fogli per tracciare segni
disegnare parole e fogli per disegnare parole: ne nasce una scrittura
involontaria, elastica, poetica, un frammentario diario di bordo, un disforme
appunto di viaggio.
L’arte è sempre miniera di un pensiero eretico, complesso, che feconda strade
nuove e rifiuta facili soluzioni scegliendo le anomale bellezze della
complessità.Ogni artista, dal celebre Mirò al segreto Nedjar, lavora a un suo
libro favoloso e interminabile che incide nel segreto della mente, nella
superficie della tela, nelle pagine del libro, nei muri del manicomio, per
provare la massima gioia dalla sua capricciosa o aspra bellezza. Ha ragione
Artaud (che ha infittito di disegni demonici e glossolalie le pagine dei suoi
interminabili taccuini, l’ultimo finisce con la parola “etcetera”), quando, nel
suo Van Gogh. Il suicidato della società, enuncia questo semplice auspicio:
«Che la vita diventi un giorno bella quanto una semplice tela di Van Gogh e per
me basterà. Non penso si possa avere niente di più da augurarsi».
La follia di Vincent è il seme di una diversità inarrestabile e felice, dove
segni nomadi e parole in cammino ci faranno sempre perdere la strada per
ritrovare le strade.
*
Il comune principio di creazione
«Nessuna scultura ne detronizza un’altra. Una scultura non è un oggetto, è un
interrogativo, un problema, una risposta. Non può essere né finita né perfetta.
La questione non si pone nemmeno. Per Michelangelo, con la Pietà Rondanini, la
sua ultima scultura, ricomincia tutto. E per mille anni Michelangelo avrebbe
potuto continuare a scolpire delle Pietà senza ripetersi, senza tornare
indietro, senza finire nulla, andando sempre più lontano. E anche Rodin».
Giacometti ha un bisogno compulsivo di parlare della sua arte. La parola gli
serve da monologo per rinforzare le sue idee, come conversazione a voce alta in
cui definire e ri-definire una immensa incertezza. Scritture, appunti,
interviste: la sua “opera aperta”, una grande cassa di risonanza dove non c’è
una prima o un’ultima parola, ma tutte le parole sono come i Giganti incompiuti
di Michelangelo: si ripetono all’infinito. L’artista ha due o tre idee, e ripete
quelle per sempre. E, in un processo reversibile di metamorfosi, anche lo
scrittore può avere bisognodell’artista, come l’artista dello
scrittore. La ribellione è il comune principio di creazione : tracciare una
seconda linea, mettere in discussione la prima senza cancellarla, in
un palinsesto di sensi e di suoni che forse è davvero un Nuovo Mondo.
*
I Regni dell’Irreale
Henry Darger inizia il suo diario-libro occultandosi al mondo e cominciando
prima a scrivere, poi a disegnare. Dedica centinaia di pagine alla descrizione
puntigliosa dei tormenti e delle uccisioni di bambini e bambine strangolati,
impiccati, decapitati, smembrati, arsi vivi, crocefissi, sventrati.
Lavapiatti in un ospedale, cattolico fervente e praticante (onora la messa alle
sei di ogni mattina), vive in una casa stretta, poco lontana dalla foce
maleodorante di un fiume. Quando di giorno lava i pavimenti imbrattati, lo
chiamano «idiota» ma lui tace. Da sessant’anni scrive e dipinge bambini e
bambine nelle sue quindicimila pagine dedicate ai Regni Irreali. Nel suo libro
traccia le cronache sia dei bimbi massacrati sia delle loro improvvise
resurrezioni in campi fioriti. Tutto si compie nelle grandi pagine del suo
libro, a notte alta. Lì tutto muore e rinasce. Dio non esiste a caso. Lui lo
prega tutti i giorni. Scruta la carta bianca con pietà, perché fra qualche ora
sarà colma dei cadaveri che disegnerà, e delle minuziose parole di pietà con cui
descriverà ogni dettaglio.
Un’opera di Henry Darger
Le oltre diecimila pagine di Nei Regni dell’irreale intimoriscono il
lettore/spettatore. Henri dipinge con imperscrutabile gentilezza e ogni ragazza
uccisa nella carta è destinata a risorgere. Darger addensa la carta di immagini
fittissime (riproduzioni e disegni), si concentra sul soggetto della percezione
rappresentandolo in tutta la sua interezza, reale e irreale, come sul punto di
esplodere, un attimo prima della morte. Nel suo scantinato di custode-voyeur,
dove lascerà inedite le quindicimila pagine del suo libro, scritto e dipinto,
Darger pensa alle oscure maree del fiume Hudson, ove l’acqua è un’immagine
rifranta e minacciosa che sprigiona migliaia di apparenze, scompone i riflessi,
increspa, agita, è flusso che trascina, portando verso l’evanescenza. Il
solitario custode, che morrà ottantunenne, consuma il suo mondo in una
pittura-parola frastagliata e ininterrotta, piena di fogli disegnati e scritti.
Potrebbe uccidere, le vittime che disegna. Ma dopo? Il finale previsto.
L’irruzione della polizia, la rimozione dei cadaveri, l’incarcerazione
dell’assassino, la fine dell’enigma, le pareti di una cella. A cosa serve
disseppellire il brutale desiderio? A generare morti crudeli, a determinare
l’ergastolo di un miserabile.
Da pittore di forme e di parole Henry può mostrare nei suoi fogli migliaia di
ragazze uccise e risorte nelle sue fantasie pittoriche, in un combattimento
mitico fra crudeli schiavisti e salvatori gentili. La fantasia delirante rende
lui non il miserabile assassino di ragazze che avrebbe potuto essere ma il
pittore-salvatore che mostra, dentro i suoi “Regni dell’irreale”, la realtà di
una psiche che si redime con le sagome dei fantasmi, che sempre risorgono, e non
con i cadaveri delle vittime. L’assassino si traduce e si tradisce nel pittore.
Tanti artisti, anche sani di mente, oltrepassano la superficie visibile per
cercare e trovare il Nuovo, Invisibile Mondo.
Marco Ercolani
*In copertina: Henry Darger, The Vivian girls nuded like child slaves, n.d.
L'articolo Il Nuovo Mondo, ovvero: l’arte come miniera di un pensiero eretico
proviene da Pangea.
Nel discorso critico su Yves Klein torna spesso il riferimento alla sua
frequentazione della cultura orientale, sviluppata anche attraverso la sua
passione per il judo e da un viaggio in Giappone iniziato nel 1952 e durato
circa 15 mesi. L’influenza di una metafisica d’Oriente – definita dal concetto
di vacuità, il Śūnyatā del buddismo – portò Klein a considerare l’esistenza
dalla parte del vuoto e, talvolta, la sua arte espresse l’impossibile tentativo
di rappresentare un’assenza. Questa fatale attrazione spiegherebbe anche la
predilezione per il blu, almeno nella sua personale concezione: «prima c’è il
nulla, poi c’è un nulla profondo, poi una profondità blu». Il suo cammino verso
il nulla lo porterà a cedere «zone di sensibilità pittorica immateriale»: puro
niente, il cui commercio richiedeva un complesso rito esoterico, dove la
ricevuta d’acquisto della cessione veniva bruciata e dispersa nelle acque di un
fiume insieme all’oro puro con cui era stata corrisposta. Due testimoni, meglio
se due critici d’arte, presenziavano alla cerimonia. La cenere della ricevuta si
disperdeva e, per un istante, le sottili lamine d’oro facevano brillare tutto il
resto.
Arrivati a questo punto, ora che sembrerebbe difficile immaginare qualcosa di
più inconsistente, una testimonianza di Dino Buzzati ci descrive l’ultima
impossibile opera di Klein: il sommo capolavoro di una certa linea dello
sviluppo dell’arte contemporanea, da Duchamp in poi. Buzzati racconta che
l’artista, prima di congedarlo da Parigi dove i due si erano incontrati per il
rito di cessione di una zona di sensibilità pittorica immateriale, gli consegnò
un foglietto che egli avrebbe dovuto leggere solo al suo rientro a Milano:
> «[…] Prima del commiato [Yves Klein] tenne a darmi un foglio sul quale aveva
> scritto d’urgenza qualche cosa. Disse che era molto importante. Lo leggessi
> poi a Milano. Il foglio ce l’ho qui sotto gli occhi. C’è scritto: “A parte il
> rito della cessione delle zone di sensibilità pittorica immateriale, Yves
> Klein ha partecipato a numerosi salons ed esposizioni in Europa e negli Stati
> Uniti nell’anonimato più assoluto. Questo a partire dal 1956, soprattutto,
> Yves Klein ha pure venduto degli ‘immateriali pittorici’ senza alcun rito, e
> il nome degli acquirenti non può essere rivelato”».
In questa indeterminatezza, per cui Klein avrebbe potuto realizzare queste opere
o avrebbe potuto anche non averle realizzate, ritroviamo, almeno parzialmente,
l’interpretazione che Giorgio Agamben propone del Bartleby di Herman Melville.
Per il filosofo, Bartleby è una potenza che, in senso aristotelico, in quanto
tale si rifiuta di depotenziarsi nel passaggio all’atto. Bartleby è una potenza
che ha possibilità di fare o di non fare, di essere o di non essere; perché, se
avesse soltanto facoltà di fare o di essere, non sarebbe più una potenza ma un
atto compiuto.
Yves Klein e Dino Buzzati durante il rituale di cessione di una Zone de
sensibilité picturale immatérielle. Parigi, 26 gennaio 1962.
Nel «preferirei di no» c’è l’impedimento del raggiungimento dell’atto che
depotenzierebbe la potenza originaria, togliendole la possibilità di non essere.
Le lettere smarrite descritte nella parte conclusiva del racconto
rappresenterebbero le svariate possibilità di ciò che poteva essere: le tante
potenze che potevano verificarsi in atto, ma che non sono state: le tracce di
varie occasioni che ci sarebbero state se le potenze si fossero affermate
divenendo atti. Per questo Bartleby, suggerisce Agamben, sarebbe un Cristo
venuto per redimere non ciò che è stato, ma ciò che non è stato.
Anche Klein, nell’indeterminatezza del foglio consegnato a Buzzati, si
costituisce come potenza: un’energia che, in quanto tale, ha potere di aver
fatto o di non aver fatto e, dunque, di fare e di non fare. Nell’impossibilità
di riscontrare questi atti realizzati, ossia queste opere immateriali vendute
nell’anonimato in luoghi e tempi sconosciuti, Klein non depotenzia la sua
energia artistica, lasciando aperta la possibilità che non abbia realmente
realizzato la sua potenza in un atto.
Yves Klein, ex-voto di Santa Rita da Cascia (1961)
Certo, esiste la possibilità che questo foglietto sia l’invenzione della fervida
fantasia di Buzzati. Se così fosse saremmo comunque perfettamente in linea con
una funzione-Klein: ci muoveremmo dentro quello spazio a cui si giunge quando un
autore tenta di sviluppare quel che nell’opera di un altro autore è rimasto non
detto (o non fatto). Quello spazio in cui – lo stesso Agamben lo ha più volte
indicato – non si sa più se quello che si trova appartiene a un autore o
all’altro. Che questa del biglietto sia un’invenzione di Buzzati o di Klein
importa relativamente. Qui, in questo foglietto di fatale nichilismo, troviamo
il punto estremo di una tendenza di attacco all’opera d’arte come ente, il punto
oltre al quale non è possibile procedere. Si trattava, come scrisse Buzzati, del
massimo capolavoro di Klein, «fatto esclusivamente di vuoto, il vuoto di cui
egli era signore». Oltre questo punto, la morte: improvvisa e misteriosa,
all’età di 34 anni.
Antonio Soldi
*In copertina: Yves Klein fotografato da John Hammond nel 1961
L'articolo Yves Klein, il niente e la potenza. Piccolo discorso sul Bartleby
della storia dell’arte contemporanea proviene da Pangea.
In poesia accade come in pittura. Potremmo dire: il privilegio del volto, il
principio del ritratto – o dell’autoritratto –, bracconiera priorità dell’io.
L’arte europea eccelle nell’investigare l’uomo. Negli sguardi smaliziati di
Antonello, nei corpi-molosso di Michelangelo, nei volti regali e atterriti di
Tiziano intuiamo il ribollio dell’anima, i labirinti dell’interiore. La resa dei
volti, pur perfetta, non è mai realistica – o encomiastica – ma arresa. Il corpo
è ritratto, in realtà, per ritrarre l’interiorità: il corpo ritratto è un
corpo rivelato, identifica un’indole – che sia: ferina e ambiziosa o umile e
benevola, sottomessa al fato o fatale.
Il ritratto reca un meccanismo opposto a quello dello specchio, oggetto
demoniaco perché riduce il corpo alla sua superficie corruttibile – alla sua
disonestà. Il ritratto ambisce ad essere la riproduzione di un corpo già
risorto, eletto ai cieli.
La ragione del predominio dell’umano nell’arte europea è ovvia: da un lato
l’armonia greca – l’universo è proporzionato alla sproporzione del corpo umano;
il tutto è commisurato all’uomo – dall’altro lo schianto del
Dio-fatto-a-somiglianza-d’uomo (ribaltamento della prospettiva ebraica espressa
in Genesi). Tutto è lì, in quel Dio-corpo appeso alla Croce. Le innumerevoli
raffigurazioni del trafitto, dell’innocente ucciso, hanno per scopo lo
spiraglio, la stimmate di luce, uno stillare d’altro mondo. Non si ritrae il
Cristo: gli si fa, devotamente, lo scalpo – che mi attraversi, mentre lo
dipingo, che mi folgori mentre prego Lui attraverso la Sua raffigurazione.
Dalla pittura europea l’animale è bandito.
Certo, l’animale c’è. Di solito, a decorazione – la stessa funzione che ha il
paesaggio. I cani – cagnetti o levrieri che siano – fanno parte
dell’oggettistica di un principe, ne costituiscono il paesaggio domestico: come
la sua pelliccia, l’anello, il bastone – indicano uno status.
Altrimenti, l’animale assurge a simbolo. Il pavone, lo scorpione, il pellicano,
il serpente – per non dire gli emblemi cristici o evangelici, dal leone al toro
– non sono raffigurati per ciò che sono ma per ciò che rappresentano in uno
zodiaco dei sensi, in un bestiario umano, troppo umano. È una dinamica tipica,
di cui abbiamo dimestichezza leggendo Dante, ad esempio, quando appaiono, quasi
bave d’oltremondo, la lonza e la pantera, l’aquila e il veltro. I bestiari, in
effetti, non sono un repertorio zoologico di bestie: l’animale, spesso ferino,
spesso immaginario, s’insinua in un senso, in un sentire, umani, come la pietra
incastonata nella chioma di ferro di un anello.
Esempi sparsi – chessò, la lepre e il rinoceronte di Dürer – afferiscono a
un’area del singolare che riguarda la sapienza zoologica, il primo vagire della
‘scienza’ – ma l’animale, come l’animale uomo, non è semplicemente la sua pur
perfetta raffigurazione fisica. Le scene di caccia del Settecento, i leoni di
Delacroix o le vacche di Segantini – pur nella diversità di intenti e di talenti
– non deviano dalle schema: la bestia è co-protagonista, è lì a illuminare certi
aspetti della vita umana. La bestia esiste perché c’è un uomo che la agisce.
Anche i pittori statunitensi, storditi dalla vastità dello sconosciuto
continente in cui sono atterrati, restano alieni all’animale: i loro quadri
– pompier più che pionieristici – raffigurano, alla meglio, vaste vallate, monti
abissali, un verdeggiare infinito (quando non inquietante); l’uomo, in scala,
ridotto, è pur sempre lì, frastornato Adamo pronto a modellare il mondo secondo
il suo spirito.
Allo stesso modo, l’aquila di Hölderlin, il passero solitario di Leopardi,
il nightingale di Keats, l’albatros di Baudelaire e l’upupa di Montale sono
funzioni – geniali – dello stato d’animo del poeta: sono simboli. La pratica è
antichissima: già Efrem il Siro, nel IV secolo, in uno dei suoni inni, celebra
la familiarità tra uomo e bestia (“noi siamo loro”), pur nella differenza:
“attraverso gli animali/ l’uomo scoprì se stesso”. Gli animali in elenco
rappresentano, appunto, dei ‘caratteri’ umani: il lupo è vorace, la iena
assassina, la serpe infida, lo scorpione traditore, il cane fedele; la volpe è
figura di Erode, il sovrano ingordo e codardo che “profana la tana altrui” e
“per vanità” uccide il Battista. L’animale, in sé – troppo attonito al terreno
–, è niente. La ‘continuità’ con l’uomo ne annienta l’irriducibile alterità,
l’irriducibile nobiltà.
Altre culture, al contrario – quella estremo orientale, quella dei nativi
americani o degli sciamani dell’area uralica e siberiana, ad esempio – fanno
dell’animale il centro della loro attività rituale e artistica. La tigre e
l’airone, la gru e il granchio, il pesce e la scimmia riempiono le opere dei
pittori giapponesi e cinesi: il loro intento non è realistico né simbolico;
semmai anagogico. Come il pittore occidentale tenta, attraverso il ritratto, di
avverare l’anima di colui che ritrae, così il pittore orientale vuole
conquistare la ‘forza’, l’energia della bestia che dipinge. Il corvo e il
coyote, la volpe e l’orso, nelle culture sciamane, non sono bestie simboliche,
bensì autentiche; sono figure regali che aiutano il sapiente nell’operazione di
guarigione, nell’operare il viaggio negli altri mondi.
Tranne rari casi, la poesia italiana è embricare l’ombelico: sprofondare in sé,
specchiarsi nel mondo; ambire – o aderire – alla belva in quanto araldica
lirica. Naturalmente, le eccezioni sono diverse, diversamente singolari –
dal Bove di Pascoli agli aironi di Alessandro Ceni e di Antonio Porta,
dalla Capra di Saba (nel cui “viso semita”, però, scorgiamo lo scalpitio
dell’emblema, di una fraternità che va al di là dell’animale, di cui l’animale
non è parte) ai bestiari di Bellintani – io preferisco Il cervo di D’Annunzio,
che rimane il solo poeta ‘panico’ della nostra tradizione:
Non odi cupi bràmiti interrotti
di là del Serchio? Il cervo d’unghia nera
si sépara dal branco delle femmine
e si rinselva. Dormirà fra breve
nel letto verde, entro la macchia folta,
soffiando dalle crespe froge il fiato
violento che di mentastro odora.
Le vestigia ch’ei lascia hanno la forma,
sai tu?, del cor purpureo balzante.
Ei di tal forma stampa il terren grasso;
e la stampata zolla, ch’ei solleva
con ciascun piede, lascia poi cadere.
Ben questa chiama “gran sigillo” il cauto
cacciatore che lèggevi per entro
i segni; e mai giudizio non gli falla,
oh beato che capo di gran sangue
persegue al tramontare delle stelle,
e l’uccide in sul nascere del sole,
e vede palpitare il vasto corpo
azzannato dai cani e gli alti palchi
della fronte agitar l’estrema lite!
Ma invano invano udiamo i cupi bràmiti
noi tra le canne fluviali assisi.
Tu non ti scaglierai nel Serchio a nuoto
per seguitar la pesta, o Derbe; e il freddo
fiume non solcherà suplice solco
del tuo braccio e del tuo predace riso,
fieri guizzando i muscoli nel gelo.
Inermi siamo e sazii di bellezza,
chini a spiare il cuor nostro ove rugge,
più lontano che il bràmito del cervo,
l’antico desiderio delle prede.
Or lascia quello il branco e si rinselva.
Forse è d’insigni lombi, e assai ramoso.
Ei più non vessa col nascente corno
le scorze. Già la sua corona è dura;
e il suo collo s’infosca e mette barba,
e fra breve sarà gonfio dal molto
bramire. Udremo a notte le sue lunghe
muglia, udremo la voce sua di toro;
sorgere il grido della sua lussuria
udremo nei silenzii della Luna.
È vero: nel mondo anglofono – complici, soprattutto, le novelle mitologie dei
preromantici, Blake su tutti, le vertigini di Gerard Manley Hopkins, la forza
concettuale di Yeats – la bestia ritrova il suo estro-cuspide, il posto che le
spetta. Eppure, anche qui – il libro germinale è La Dea Bianca di Robert Graves
– si tratta, per lo più, di un regesto di simboli, di dissotterrare antiche,
druidiche immagini – malinconia di un tempo trascorso. Il solo poeta che
sistematicamente abbia messo al centro l’animale nel suo discorrere lirico è Ted
Hughes; fin da subito, fin dal primo libro, The Hawk in the Rain, fin da quelle
prime poesie-fossili, giunte da un mondo ulteriore, The Jaguar, The Thought-Fox,
The Horses. Non è un caso se una delle antologie postume più belle di Hughes – a
cura di Alice Oswald – s’intitoli Bestiary. Il bestiario, però, contempla
l’inganno: il termine rimanda, ancora, all’animale-effigie, alla bestia come
gioiello nell’immaginario umano – alla bestia spoglia di sé, mero alambicco
d’intelletto.
Il punto più profondo del legame tra Ted Hughes e l’animale, tra il poeta e
l’anima animalesca accade in libro considerato secondario nell’opera di quel
grande poeta. Under the North Star viene pubblicato da Faber nel 1981 in
edizione di pregio, con gli acquerelli di Leonard Baskin, già compagno di
imprese poetico-pittoriche di Hughes. Il libro dà voce a diversi animali: il
gufo delle nevi e l’orso, la lince e l’airone, la volpe artica, l’aquila e il
puma. Dedicato To Lucretia, la figlia di Baskin, il libro ha il ritmo di una
filastrocca: in realtà, Hughes – lo consegna alla prima, straniante,
poesia, Amulet – impone un rito. Il poeta indossa la stola lirica – dunque: gli
attributi sciamanici –, industria la danza e diventa civetta e airone, grizzly e
puma, lince e luccio e bue. Guarda con i loro occhi, tenta di registrare il loro
linguaggio; non è fratello né artefice della bestia, ma scriba. Poesia, qui,
allora, è verbo di neve: bianco testimone di tracce, aneliti, sangue. Non conta
tanto – non conta più – che la poesia sia bella (categoria astratta, che
pertiene al mondo, per lo più ingannevole, del letterario, dunque
dell’illetterato quanto a mondo), ma autentica; l’autorialità del poeta, qui, è
nel suo sacrificio: l’io, ora, vola, galoppa, fluttua e sgrana arti e artigli.
Che siano poesie ‘per bambini’, queste – così dicono gli adulti, decrepiti nella
loro origine – rientra nella pratica dell’autore. Va addestrato alla bestia, il
bimbo, che sappia – piccolo Mowgli espropriato del primigenio bosco – i suoni e
le voci animali, che riconosca il punto di parentela e quello dell’intoccabile.
A tale distanza occorre ascendere – il resto, non ormeggia più, è gioco di
ombreggiatura; e, certo, la poesia è piena di straordinari caratteristi, i
caricaturisti della realtà.
***
Da Under the North Star
Amuleto
Nelle fauci del Lupo, una montagna di erica.
Nella montagna di erica, la pelle del Lupo.
Nella pelle del Lupo, la frantumata foresta.
Nella frantumata foresta, la zampa del Lupo.
Nella zampa del Lupo, l’orizzonte pietrificato.
Nell’orizzonte pietrificato, la lingua del Lupo.
Nella lingua del Lupo, le lacrime della Cerva.
Nelle lacrime della Cerva, la palude di ghiaccio.
Nella palude di ghiaccio, il sangue del Lupo.
Nel sangue del Lupo, vento di neve.
Nel vento di neve, l’occhio del Lupo.
Nell’occhio del Lupo, la Stella Polare.
Nella Stella Polare, le fauci del Lupo.
*
Civetta delle nevi
Occhio Giallo, Occhio Giallo
giallo perché è gialla la Luna.
Esce dal Buco Nero del Nord
un’Era Glaciale in volo!
La Luna vola bassa –
la Luna incombe, caccia la sua Lepre –
La Luna cala, grossa di brina
affamata come la fine del mondo.
Il Polo Nord ha la gola roca
ruggisce e ne trema il globo –
Gli occhi del pianeta serrati di paura
eppure le stelle tremano di gioia.
Guarda!
Lepre ha il suo splendido monumento!
Si impenna una bufera Ciclope
su zampe di ferro nero!
Gioiamo insieme alla Lepre!
Civetta delle nevi, Civetta delle nevi
sei immobile e fissi l’immobile globo.
La Luna vola alto.
La bianca montagna è in volo.
Lepre diventa un angelo!
*
Airone
Sole è un iceberg
nel cielo.
In un’alcova di gelo
giacciono i pesci.
Il fiume è condannato
Morte si muove su di lui.
Ma l’Airone
in posa di caccia
è diventato di ferro
e non può muoversi.
*
Volpe artica
Nessuna traccia. Neve.
Orecchio – resto stellare.
Cristalli di silenzio.
Il mondo ti fissa, attonito.
Fauci fradice di ghiaccio
perforano la brina:
qualcosa di impalpabile –
nevischio di piume.
La foresta sussurra.
Respiro furetto
vuoto come il chiarore lunare
ha un’ombra blu.
Il sogno smuove
il muso addormentato
della terra folgorata dalla neve.
Quando verrà il giorno
sarà impossibile per il sole
rintracciare ciò che la notte
ha registrato di nascosto.
*
Lince
Le zampe silenti della foresta,
delle nuvole, delle montagne
hanno il loro meritato riposo
sotto l’orecchio di Lince.
Dormono del suo sonno – come
in un profondo – profondo – lago.
Non disturbare la belva
o le nuvole apriranno gli occhi,
la foresta, in silenzio,
sposterà tutti i boschi
e le montagne, arse di nebbia,
svaniranno tra le loro pietre.
*
Puma
Dio mise il Puma sulla Montagna:
sarai l’organista
degli echi cattedrale.
Delle sue urla risuona la cava rupe
la soglia e l’abisso.
La sua musica sorprende per vastità.
Sul pinnacolo del suo gridare
solleva la gelida vetta
e ascende, alla ricerca del Creatore.
Sacerdotessa delle caverne dall’occhio folle –
per tutta la notte cerca di assalire il cielo:
il suo canto è come un missile e la Luna gli gela il muso.
Il giorno dopo, esausta
dorme al sole.
A volte – spezzata
da un silenzio che fiammeggia –
indossa un gioiello.
Ted Hughes
*In copertina: Leonard Baskin, Frightened Boy and His Dog, 1955; nel testo,
disegni di Leonard Baskin
L'articolo “Nelle fauci del Lupo”. Sulla dimensione animalesca della poesia
proviene da Pangea.
Eccoci qui, ancora soli. Queste parole, con cui Céline apriva il suo romanzo più
intimo e sofferto, riempiono l’ideale esergo di ogni fotografia di ritratto. Ci
guardiamo in queste foto come in strani specchi, incuriositi da un’immagine che,
pur appartenendoci, sembra sempre un po’ troppo estranea. Il volto si staglia
nella fotografia, intorno non c’è rumore e lì, inappellabili, restiamo soli con
noi stessi. Con indifferenza o curiosità, oppure non senza una certa amarezza,
ci rendiamo conto di come, nonostante tutto, siamo ancora soli.
*
Guardarsi nelle proprie fotografie può essere un’esperienza spaesante e
malinconica. Le righe che seguono costituiscono un commentario a due foto che mi
ritraggono e, soprattutto, alla produzione dei fotografi che le hanno scattate.
Sono ritratti contingenti, frutto di assolute accidentalità. Mai cercati e mai
voluti, eppure, poi, accettati senza riserve, apprezzati come ineludibili
attestazioni di me. Divertente l’episodio in cui Ray Banhoff scattò la
fotografia: era la prima volta che lo incontravo, una mattina in uno squallido
bar di periferia nei pressi del casello di Chiesina Uzzanese – uno di quei
luoghi che lui ama tanto (li amo anche io). Mentre ci scambiavamo parole di
circostanza Banhoff si interruppe bruscamente. Fattomi cenno di aspettare, tornò
dall’auto con la macchina fotografica e mi immortalò davanti a un androgino
bersaglio per freccette. Con Gianluca Vitelli fu diverso. La sua foto giunse al
termine di una preziosissima estate del 2019, in un verde prato fiorentino,
all’imbrunire. La sua foto sigilla un’amicizia che vale un tesoro. Un
commentario dunque: un commentario personalissimo e piuttosto incongruo (ma, del
resto, potrebbe essere altrimenti?).
G. Vitelli, Ritratto di anziana signora ricoverata presso un centro per disturbi
cognitivi e demenze di Toronto, 2013. Courtesy: Gianluca Vitelli
Nelle fotografie la nostra immagine è mediata dal modo in cui il fotografo ci
vede: da come egli pensa che siamo, oppure da come egli vuole che siamo. Ci
vediamo attraverso di loro, osservando il prodotto della loro sensibilità che, a
sua volta, riflette la nostra più o meno consapevole forza di azione sull’altro.
Se non fosse già abbastanza, ci sarebbe anche da considerare la parte di mistero
che attiene allo strumento. Esso, nel suo imponderabile inconscio macchinale, ha
delle ragioni che non possiamo comprendere. Prima di continuare un’avvertenza:
sarebbe facile pensare a queste righe, con cui un autore commenta le foto di cui
è ritratto, come a un esercizio di narcisismo. Il narcisismo, almeno qui, non
c’entra: Montaigne lo indicava limpidamente scrivendo che l’uomo che conosceva
meglio era sé stesso e, pertanto, di sé stesso si sarebbe spesso occupato. In un
perverso classico del post-strutturalismo francese si legge che non serve
arrivare al punto in cui non si deve più dire “io”, ma bisogna raggiungere
quello spazio in cui non ha più nessuna importanza dire o non dire “io”. A volte
questo sì che sarebbe il massimo.
*
Dei due ritratti, quello scattato da Gianluca Vitelli è il più datato anche se,
in fondo, non si tratta che di pochi anni. Il cambiamento fisico non riflette
che una minima parte di quello interiore occorso dal giorno della fotografia a
oggi. Vitelli è un fotografo sensibile e raffinatissimo che nel 2013, appena
diciottenne, presentò un servizio su un gruppo di pazienti malati di
Alzheimer. Sono foto meravigliose di cui nel genere non si trova l’eguale:
un’anziana signora, una delle pazienti ritratte, ci guarda rigorosa e profonda,
in tutta l’irriducibile dignità del suo essere donna. Su questa autorevolezza la
malattia non può niente. Nel volto di un uomo, invece, ci commuove uno sguardo
ingenuo e vago, e nasce il sospetto che lì ci sia una quiete che la condizione
di normalità preclude.
G. Vitelli, Panoramica realizzata per Ellen Allien al Galactica Festival di
Bologna, 2019. Courtesy: Gianluca Vitelli
Quando Vitelli fotografa la città la rende tenera o spietata, felice o
malinconica, luminosa od oscura – sempre silenziosa, però. Talvolta ce ne
presenta il lato più autentico: un’essenza urbana pura, lo spirito di cosa una
città dovrebbe essere se non fosse quello che è costretta a diventare. In queste
fotografie Vitelli prende il mistero celato nella quotidianità più spontanea,
dove le persone immortalate hanno il fascino di magnetici divi dello schermo (è
sempre così per chi sa guardare veramente). Talaltra, invece, la città diventa
un luogo affascinante e lievemente sinistro: è l’altra faccia della realtà
urbana, quando cala il buio e le strade si popolano di spettri. In queste
fotografie il tempo è sospeso e non è difficile ritrovare l’atmosfera della
pittura di Hopper. Negli scatti ai grandi eventi musicali, invece, Vitelli
restituisce un mondo fantasmagorico e febbrile dove effetti di luce, giochi di
fumo e scenografie tecno-barocche creano un futuro capriccioso e ipnotico. Qui,
dove saremmo portati a credere che essa fosse più trattenuta, la fantasia del
fotografo esplode, immortalando mondi impossibili di luce e di
sogno. Diversamente dal caso di Banhoff, con Vitelli ci conosciamo profondamente
e siamo uniti da un’amicizia che dura da circa venticinque anni. Anche in forza
di questo legame non è un caso che nella sua foto mi riconosca come poche altre
volte mi è capitato. Nel ritratto di Vitelli mi vedo giovane e soddisfatto. Non
indosso gli occhiali: gli occhiali ti separano dal mondo, ti costringono a
guardare tutto da un oblò e finisci per sentirti un po’ più solo. La foto di
Vitelli mi fa pensare che sarebbe bello essere giovani per sempre.
G. Vitelli, Ritratto di bimba a Cascia, 2015. Courtesy: Gianluca Vitelli
*
Per quanto la parola possa oggi sembrare insignificante, Ray Banhoff è un vero
artista. Lo è in un senso concettuale per cui di artistico, più che le foto in
sé, è l’operazione che lui fa con i suoi scatti. Banhoff si interessa al
margine, a ciò che è periferico. Luogo di provincia o grande città, è
consapevole che, prima di un dato meramente territoriale, la periferia è una
condizione dello spirito. In un certo senso la sua è un’operazione di recupero:
il tentativo di far resistere ciò che è minimo, bizzarro, anacronistico,
inclassificabile e inassimilabile. Dare magistero a ciò che la società esclude,
relega ai margini e rifiuta; oppure a ciò che fagocita e, vergognandosene, tenta
di nascondere. Si tratta di un’operazione epidermica, condotta senza retorica o
compiacimenti nostalgici. Inoltre, pur riconoscendo quanto l’estetica dei
Novanta lo abbia segnato, gli faremmo un torto a considerarlo perso in uno
sguardo esclusivamente retrò e predigitale. Banhoff è perfettamente ricettivo
rispetto alla cultura pop più contemporanea. Capisce il presente come pochi
altri e, perciò, talvolta lo rifiuta disgustato.
Per uno strano transfert Banhoff diventa egli stesso il perfetto soggetto di una
foto alla Banhoff. Del resto, anche fisicamente è un po’ un’opera d’arte, con
quell’assurda Facies Christi che si ritrova e di cui è perfettamente
consapevole, tanto che in un suo progetto sui sosia si è ritratto come doppio di
Gesù. Di vero artista, oltre al talento, ha anche la personalità: mercuriale,
egocentrico, eccentrico per snobismo e snob per eccentrismo, irresistibile e
insopportabile. Insopportabile: come quando a Cremona, interrompendomi
continuamente, ha impedito la mia relazione su Spengler, mancando di rispetto a
me, a Spengler, e alla memoria di mio nonno Guido che negli anni Trenta si
laureò con una tesi sul Tramonto dell’Occidente.
Ray Banhoff, DJ Franchino con canino, 2020. Courtesy: Ray Banhoff
Le sue foto sono importanti per la vita che custodiscono. In ogni suo ritratto
il miracolo dell’uomo, nelle sue bassezze e nelle sue ferite, ma anche nella sua
impensabile e assurda unicità. Dietro a ogni foto un pezzo di quell’anima
incompresa, commossa, consumata, derisa, ma sempre grandiosa, grandiosa e
definitiva come soltanto l’anima dell’uomo può essere. Banhoff ha ritratto molte
celebrità. Celebrità di un tipo particolare però e, anche in questo caso, si è
spesso rivolto alla periferia del mondo dello spettacolo, con i suoi freaks più
discussi e vilipesi. Lo scatto a Fabrizio Corona è kitsch fino al sublime, in un
ribaltamento per cui la volgarità viene trasfigurata. Corona, a petto nudo e con
l’espressione di una carpa giapponese, si punta, languido, un cafonissimo
pugnale alla gola. Il fotoritratto di Franchino è commovente, con il vecchio
vocalist, fragile e remoto, con la faccia malsanamente scavata e il suo amato
cagnolino in braccio. Dietro si intravedono cuffie e consolle, i ferri del
mestiere. Morgan, invece, lascia che la sigaretta che tiene in mano si consumi
lentamente, e ci guarda con due occhi come quarzi marroni, occhi buoni e
vagamente tristi. Ma Banhoff non si interessa solo a personalità ampiamente
riconosciute, e il meglio lo dà quando sceglie i suoi soggetti tra la gente
comune, come nel progetto sui sosia dei divi dello spettacolo, stanati in
improbabili locali di frontiera o in paesini sperduti nella Toscana più
squallida. Sono sosia speciali che, come precisa Banhoff, devono incarnare il
loro archetipo e non semplicemente somigliarci. Ma è sbagliato parlare di gente
comune: i modelli di Banhoff mostrano sempre una loro bizzarria, una fascinosa
singolarità, e di comune non hanno niente. Sono vip al contrario: sovrani senza
regni, divi in un mondo che non possiamo capire.
Banhoff sa benissimo che, come scrive il suo amato Bukowski, «il miglior
spettacolo sono le persone e non devi neanche pagare il biglietto». Per molti
aspetti la sua ricerca potrebbe essere avvicinata a quella di Juergen Teller, ma
con un senso di verità nettamente più profondo, una verità che non lascia
scampo. Compiaciuto di essere stato scelto, vengo alla mia fotografia dove,
suscitando lo sguardo spiritato, alzando il colletto della camicia e
costringendomi a una tensione particolare, Banhoff mi ha nietzschianamente
costretto a diventare ciò che sono, estraendo una componente aggressiva ed
elettrica. Il bersaglio alle spalle mi fa martire e carnefice. Qui mi vedo
pronto all’annientamento; risoluto fino allo schianto, con l’amaro nodo in gola
che precede il silenzio.
Ray Banhoff, Cacciatore con fucile Browning, 2015. Courtesy: Ray Banhoff
*
Non c’è due senza tre, e qualche giorno fa un terzo ritratto fotografico si è
aggiunto agli altri. È ancora presto per parlarne, e ancora devo capirlo. Ha
scattato Marco Onofri, un grande fotografo di ritratti. Ha fatto leva sulla mia
naturale vanità, lusingandomi con un’offerta che sarebbe stato sciocco
rifiutare: si è detto incuriosito dal mio collo molto lungo, cosa di cui non mi
ero mai accorto prima. E poi alcuni suoi ritratti fotografici appesi alla parete
erano troppo belli per sprecare un’occasione simile. Un grande fotografo come
lui è capace di far brillare qualsiasi soggetto.
Se la fotografia di Vitelli potrebbe rappresentare uno stadio di tesi, quella di
Banhoff, nella contrazione dell’istante prima di un’esplosione, ne sarebbe
l’antitesi. La fotografia di Onofri, almeno per ora, sarebbe la sintesi tra le
due fasi, nella determinazione di una maturità raggiunta e precaria.
Antonio Soldi
*In copertina: Ray Banhoff, “Antonio Soldi come bersaglio umano”, 2024.
Courtesy: Ray Banhoff
L'articolo Eccoci qui, ancora soli. Sul ritratto fotografico, rito violento e
inappellabile proviene da Pangea.
Incidere paradossi, artigliare l’altrove. I curatori di Awakening insistono
sulla Storia, sulla percussione dei ‘fatti’ e sulle loro ripercussioni – la
parola che hanno scelto, tuttavia, ha l’arcano addosso, trascenda la mera
cronaca.
In scena alla Fondazione 107 di Torino – da anni, ormai, spazio di riflessione
indipendente sul ‘contemporaneo’ e sulle evanescenti sfaccettature che ha questo
termine – Awakening intende testimoniare, attraverso trentadue artisti, l’arte
italiana tra il 1988 e il 1993. Un momento, scrive Federico Piccari, in cui “il
mondo ha vissuto un’accelerazione storica senza precedenti”. In trio – insieme a
Piccari, Tiziana Conti e Angelo Candiano – i curatori hanno buon gioco a
disseminare dati: la caduta del muro di Berlino, piazza Tienanmen, Solidarność;
“l’inizio del mandato presidenziale di George H. W. Bush sfocia nella prima
Guerra del Golfo, avvisaglia di una situazione che si trasformerà in conflitto
permanente” (Conti); e poi Tangentopoli, la “discesa in campo” di Silvio
Berlusconi, I segreti di Twin Peaks in tivù, Il silenzio degli innocenti agli
Oscar, Pulp Fiction, i Radiohead. Michail Gorbačëv è onorato con il Nobel per la
pace nel ’90, l’anno in cui Salvatore ‘Totò’ Schillaci infiamma – fatuo fuoco –
le ‘notti magiche’.
Non so se l’artista sia il frutto delle mere forze della Storia o non ne sia,
piuttosto, il propagatore, l’agitatore, il folle. Il disturbatore. L’arte ha a
che fare con l’alchimia e l’astrologia più che con la geopolitica: forse –
direbbero i saggi – la Storia è un sogno (un incubo, ha detto Joyce); l’artista
lavora tra gli impossibili, in una sorta di incunabolo – è l’incubatrice
dell’aldilà.
Di certo, la fine degli anni Ottanta e il principio dei Novanta hanno chiuso un
secolo – sclerotizzato nelle forme, egualmente grate e feroci – mettendo a
coltura ciò che ci esplode tra le mani oggi. Un oggi annientato da eccesso di
analisi – tutto si può leggere in tutti i modi, tutti esatti, ma vivere è altro
affare, vivere è annullare l’analisi. Per certi versi gli Stati esasperano
un’identità muscolare, ottocentesca, coloniale; dall’altra, gli uomini sono
espulsi dall’azione, dal ‘trovare soddisfazione’ in questa vita. Le macchine
fanno la guerra, gli uomini si rimpinguano: cannibalismo. Bismarck sullo
shuttle.
Awakening, però, è parola piena di risonanze – “tra Rivoluzioni e Rivelazioni”,
secondo la bella formula di Piccari. Per chi ha pratica con il
buddismo, Awakening è il risveglio, il processo – previa disciplina o improvvisa
illuminazione – che porta dall’illusione alla verità, alla liberazione dalla
sofferenza. Il termine è fecondo anche nella tradizione cristiana: nel quinto
capitolo della lettera agli Efesini – che attacca con monito memorabile: “Fatevi
dunque imitatori di Dio” – Paolo distilla un detto: “Destati dai dormienti e
sorgi dai morti: Cristo ti illuminerà”. Se volete – pur con valore diverso,
quando non opposto – sono presenti in questo versetto tutte le parole
dell’iniziazione buddista. Il risveglio; la realizzazione; l’illuminazione. Per
risveglio, Paolo usa il greco egeiró che è proprio il destarsi dal sonno. È
vero, il risveglio è legato alla resurrezione, ma prima ancora a un ‘aprire gli
occhi’ di fronte al mistero di Cristo – senza questa apertura, questo
dissigillarsi del corpo, è improprio il risorgere. Si tratta di farsi destri,
casti alla corsa.
Awakening, allora – così intuisco io – è parola che dice la natura profonda
dell’artista, il ‘risvegliato’, l’uomo che si adopera per vanificare le
illusioni. Sommo illusionista – quando non: mago. La rassegna torinese non è
rassegnata all’amarcord, ai vieti eventi di una memoria messa a maggese.
L’obsolescenza della ‘tecnica’, così, trasfigura alcuni lavori: il Circuito n.
1 realizzato da Paolo Brenzini nel 1989 sembra, oggi, l’esoscheletro di una
creatura degli abissi, il prototipo di un capodoglio elettrificato; il Progetto
segreto di Maurizio Camerini – era il 1988, si osservano, messi in tensione tra
aste e compassi, due televisori; l’atmosfera ricorda un po’ Brazil, il
catatonico film di Terry Gilliam – pare un totem, un oracolo catodico, la Pizia
in periferia; i Computer sigillati di Maurizio Bolognini (era il 1992) sono
dissigillati angeli, crollati al verbo algoritmico, con bocche-floppy disk.
È, in fondo, questa, una grande mostra sul linguaggio. Come dire il mondo di cui
non sentiamo che eco, riverbero, pigolio d’acque, poltiglia verbosa?
Soprattutto: cos’è il mondo, cos’è la storia? L’andare da viandanti tra i
pensieri religiosi insegna che la storia non è quella che si fa nei palazzi, è
quella realizzata dai pazzi – la schifiltosa veemenza della volpe, il ronzio
dell’ape, la rovina delle dune è più pertinente di annali, cronologie,
radiografie. La storia è la storia di chi va verso l’assoluto – il rito, allora,
diversamente dai ‘riti’ della politica e della giustizia, adempie un altro
tempo, che non si installa in eventi, in canoni della notorietà. Quale storia
abita l’artista?
Provo a trovare analogie con un linguaggio che mi tenaglia, la poesia. Tra il
1987 e il 1996 – grosso modo, le maglie cronologiche in cui si sviluppa la
mostra torinese – il Nobel premia una serie di poeti diversamente centrali nella
storia dei loro paesi: Iosif Brodskij (1987; transfuga dalla Russia comunista);
Octavio Paz (1990; l’intellettuale ostinato, il messicano ambasciatore in India
e in Giappone); Derek Walcott (1992; il genio di Saint Lucia, cantore della
migrazione, dei tanti Ulisse caraibici); Seamus Heaney (1995; il bardo
d’Irlanda); Wislawa Szymborska (1996; l’ironica sibilla polacca). Terminata
questa generazione, è come se si fosse lacerato il rapporto tra il poeta e la
Storia – la possibilità, cioè, che la Storia sappia disporsi in una poetica, in
cui il poeta abbia voce in capitolo, abbia il primato del perdono. Per
l’incoronazione di Carlo III – per dire delle gerarchie tra poesia e Storia – il
poeta ‘laureato’ Simon Armitage ha scritto un testo in cui dice lo stupore di
una signora della classe media e, soprattutto, la regale libertà di un “piccolo
passero… sui tetti dell’abbazia”. Del re, appena un accenno di luci.
Un’opera di Franco Rasma da Mehr Licht, 1990-92
Alcune opere – la Mano di Monica Carocci, i volti di Markus Döhne, ad esempio –
posseggono una cupa potenza che si realizza proprio oggi, a decenni di distanza.
D’altronde, l’unica contemporaneità possibile per un artista è il senza tempo:
ingannare l’inganno della Storia.
Basti guardare alla bulimia di buio di Franco Rasma: Mehr Licht, invoca, come
Goethe, l’artista, più luce. Ma tutto è ambra d’ombra, è albume di luce,
scurezza che potresti dire anima. “È l’universo del possibile”, ha detto
l’artista, era il ’93 – o meglio, era un tempo veniente, a venire – “l’istante
della rivelazione, quello che i Sufi chiamano Zikr, la rimembranza di Dio”.
Potremo dire: la rimanenza di Dio, l’impuro resto, la purissima impunità – “è
come se tutto ciò avvenga indipendentemente da te…”, sussurra, preda di
magnetiche ossessioni, Rasma. Essere guidati, cioè: preferire l’insonnia al
risveglio. L’artista illumina, non è illuminato – sua è la tratta senza
trattative, l’andare tra mansioni di oscurità, cucire questo mondo all’altro,
introdursi nel tempo – ladrocinio nobile, il suo.
Per non dire di Marcovinicio, che nell’epoca del capovolgimento storico, della
computerizzazione di massa, della messe del ‘progresso’, guarda ai monti, ai
sentieri, alle vacche. Rivolge la sua attenzione – con violenza ‘d’avanguardia’
– ai pittori del Duecento, agli scultori dell’anno Mille, ai maniscalchi della
Cappadocia, agli artisti-contadini delle sue valli, che salpavano con la falce e
il pennello. Che brutale dolcezza! Che selvatica eternità! La baita è l’arca
dell’alleanza, la mucca al pascolo l’agnus sacrificale, l’albero – arcaico nel
torcersi, spoglio – adombra la Croce, quella abbacinante nudità, i monti, a
distanza, sono il Tabor e la Gerusalemme celeste. Qui c’è una fede che fende
come il fiume; un pane da tenere in bocca nei giorni di magra. Silenziosa
disciplina è il titolo dell’opera: come si entra nel tempio – che è poi stalla e
alcova – e si snocciola, con labbra di corda, in cordata, una preghiera. Prima
del risveglio, il sonno dei giusti.
Quando incrocio Marcovinicio a Domodossola, è il consueto ardore, la parola più
ampia di un continente, l’incontinenza del dire e del fare. Un fraseggio
all’arma bianca. “Gli uomini sono tutti demoni. Siamo demoni. Non tutti operano
il male, per carità, ma c’è qualcosa in ciascuno, qualcosa, in me, in te, che va
sarchiato”. Che va sancito con l’oltraggio – con l’amore a oltranza.
*In copertina: Marcovinicio, Silenziosa disciplina, 1990
L'articolo “L’istante della rivelazione”. Dell’artista in lotta con la Storia
proviene da Pangea.
La solerzia con cui spesso si attribuiscono alla musica virtù che naturalmente
le sono estranee, induce molte menti deboli a produrre lavori o a esprimere
giudizi di una scandalosa e sconcertante vacuità. Il brusio molesto di certe
considerazioni fatte a piena voce o il grafismo isterico di anonimi e sedicenti
teorici, sovente dimenticano l’aspetto più importante della faccenda: la musica
non ama le parole.
Dopotutto è la smania interpretativa ad alimentare la fastidiosa chiacchiera che
di volta in volta nasce intorno a un’opera d’arte o a un concerto. Senza un così
chiassoso stimolo, questa imbarazzante pratica finirebbe motu proprio. Ma per
fortuna, l’opera è chiusa, serrata su sé stessa, fortemente protetta da
un’impenetrabile solitudine.
Così, tra la musica e la parola agisce una considerevole distanza. Piedi,
miglia, incalcolabili chilometri le separano. Come per le Vite parallele di
Plutarco, è solo la circostanza artistico-letteraria a renderle affini,
null’altro le lega, niente le tiene insieme. E una solenne estraneità ne celebra
il mistero.
La musica non ama le parole se non sono canto. Non ama l’insolenza del parlato o
di qualsiasi discorso che intenda sottrarle lo scettro regale col quale essa
impone le sue diaboliche leggi. La musica tollera soltanto il verso misurato di
un refrain, la sillaba pronunciata in accordo con i suoni, il soffio sottile di
un’ugola leggera. Come un violento sbuffo di maestrale essa ci rammenta i suoi
severi comandamenti dinanzi ai quali timidamente chiniamo il capo. La parola le
si affida con lo stesso candore con cui il discepolo segue il maestro. E come
gli antichi pitagorici, spesso non fa domande.
La musica non ama le parole se non sono canto. Non ama le inutili ciance, il
chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero. Come ogni spasimo d’amore
è flatus vocis, così l’introduzione al concerto, la didascalia o il programma di
sala non sono che ridicoli esercizi di stile, vuoti accademismi, ékphrasis.
Tuttavia qui la parola non accampa pretese, fa quello che deve e ritorna in
silenzio da dov’era venuta.
Si dice che Beethoven componesse a parole, che sul suo taccuino, anziché note,
scrivesse frasi. Così qualcuno chiedeva perplesso: «Cosa fa?», e mentre il
maestro continuava i suoi nervosi appunti, un altro rispondeva: «Compone
musica». Ma Beethoven amava un solitario grafismo. Scriveva parole di canti
immaginari o per una musica che soltanto lui ormai sentiva. I taccuini erano il
suo nervo acustico e sostituivano le sue orecchie malate. Con la scrittura
cercava di rievocare suoni che aveva perso per sempre. Adesso ascoltava soltanto
con gli occhi.
Antonio Donghi, Strumenti musicali, 1935
Dicendo che il poeta – un musico in potenza – conosce il segreto della parola e
il suo insondabile mistero, non si afferma nulla di nuovo. La rima,
l’enjambement, l’anafora, l’ossimoro assecondano lo stupore e annullano la
frustrazione che il parlato quotidianamente imprime alla voce ma, bisogna dirlo,
la poesia non è ancora musica in senso assoluto. I sussulti del tenace Rousseau
per le opere di Pergolesi sono certo legati ai melodiosi accenti della lingua
italiana, eppure qualcosa gli sfuggì. Ciò che egli non comprese mai è
che parlare è tutt’altro che scrivere, tutt’altro che cantare. Il suo agognato
ritorno alle meravigliose sonorità di una lingua primitiva si sfasciò proprio
dinanzi all’impossibilità che il segno linguistico o la parola scritta
assomigliassero, una volta per tutte, al canto. Insomma, la sua sfrenata
convinzione che il linguaggio fosse nato esclusivamente per esprimere i
sentimenti, gli fece trascurare tutto il resto. Cosicché un Da Ponte non compose
arie o cavatine semplicemente mettendo insieme endecasillabi o alessandrini. Non
intrecciò scene o sgranò versi distillando dello stupido sentimentalismo. Egli,
invece, cesellò preziosi monili che il solito Mozart mise in musica divinamente.
Ci sono ancora troppe parole sulla musica o nell’amalgama di suoni che proviene
da quest’Occidente malato e ormai alla fine. (E non si ricorra al solito
Spengler per darmi ragione ma si leggano i nostri Ceronetti o Sgalambro e poi ne
riparliamo).
Che la musica debba essere spiegata, commentata o discussa, mi annoia. Che
qualcuno debba dirmi questo o quello su un quartetto di Haydn o su una sinfonia
di Mahler m’immusonisce. È come se dinanzi a L’origine del mondo di Gustave
Courbet, dinanzi, cioè, a quella fica pelosa d’altri tempi, dovessimo dire
chissà che, invece di rimanere in silenzio o in voluttuosa contemplazione.
Non so come dire, ma il commento al Cinque maggio manzoniano o la parafrasi
de L’infinito di Leopardi si muovono ancora nel campo dell’adaequatio rei et
intellectus. Lo spiegone sul significato delle quattro celebri note all’inizio
della Quinta di Beethoven, invece, appartiene alla categoria delle cose vana et
futilia o, per così dire, a quella delle chiacchiere da bar. Fintanto che la
parola commenta sé stessa, rende un servizio all’umanità. L’esegesi di un testo
antico, il commento rabbinico alla Scrittura, la recensione di un romanzo e
finanche la postilla giornalistica a un articolo uscito qualche giorno prima
rendono il loro apostolato. Ma quando la parola prende il sopravvento e sgomita
in ambiti che non le competono o in cui è addirittura esclusa, non si può che
subirne l’irritazione.
Evaristo Baschenis, Accademia musicale, 1665 ca.
In un saggio del 1838, con una sola frase, Robert Schumann dà un’idea della
musica e dello stile di Chopin come chiunque dotato di senso della misura
dovrebbe fare in questi casi:
> «Chopin – dice costui – ormai non può più scrivere nulla, che alla settima od
> ottava battuta non debba farci esclamare: è suo!».
Anteponendo l’ammirazione agli inutili e superflui tentativi di analisi, alle
congetture fasulle o addirittura alle chiacchiere, Schumann evita di parlare
della musica di Chopin lasciando intendere che quella musica parla già da sé.
Un tempo la musica dovette sopportare l’affronto della notazione. In un attimo
il suono si trasformò in segno e, come si è detto, in un grafismo isterico.
Così, da un giorno all’altro, dall’orecchio la musica passò all’occhio. Il suo
mondo di fluttuanti vibrazioni, alieno dalla scrittura e dalla parola,
improvvisamente inciampò nella grossolana ovvietà della grafia. Una mole di
ruvida carta stampata oggi sopravanza alla delicata vita dei suoni.
Senza tener conto che ogni parola è un fenomeno extramusicale, Mauricio Kagel si
lascia andare a questa dichiarazione che mette i brividi per la sua poca
lucidità:
> «L’errore del passato fu credere che la musica non avesse, in quanto arte
> autonoma, bisogno di un commento esemplificativo, un’illusione che non
> corrispondeva ai fatti. Entrambe, sia l’arte che la musica, non possono fare a
> meno della parola per coinvolgere in un costante processo educativo quanti
> siano pronti ad accoglierle e percepirle».
>
> (Sulla consapevolezza e i compiti dell’artista, 1979)
Qui siamo nell’ambito della pedagogia o in quella che, meno sprezzante del
solito, Adorno chiamava «musica pedagogica». Si vuole che la musica diletti, che
intrattenga e, quando non lo fa o non ci riesce, quando cioè il pubblico si
annoia o, come spesso accade, “non capisce”, si ricorre alla parola «in un
costante processo educativo». Educare è compito della scuola (quando ci riesce),
delle parrocchie e, in extremis, di quelli che una volta si chiamavano Istituti
di correzione e pena. All’arte sia lasciato il piacere di stupire, di
meravigliare e infine di sabotare il mondo. Alla musica, invece, sia ridato ciò
che le spetta: l’acustica delle cattedrali e il silenzio memorabile
dell’ascolto.
È vero, si è detto che la musica non ama le parole se non sono canto. Ma del
resto, per il canto, non ci sono già gli usignoli?
Vincenzo Liguori
*In copertina: Hendrick ter Brugghen, Donna che suona il liuto, 1624 ca.
L'articolo La musica non ama le parole, non ama le inutili ciance, il
chiacchiericcio, il futile trastullo salottiero proviene da Pangea.
Se mi trovassi nella sala di un museo con cento quadri appesi alle pareti, sono
certo che l’occhio mi cadrebbe sull’unico Cézanne esposto tra tutti gli altri.
Non ho nessuna particolare qualità di sguardo, ma da quando, ai tempi
dell’università, ho cominciato ad accompagnare agli studi letterari quelli
sull’arte, ma senza segnarmi a nessun corso, seguendo percorsi assolutamente
personali, a Cézanne sono sempre tornato. E quando capitavo a una mostra o in un
museo che conteneva una sua opera, era sempre lì che mi sentivo spinto – come
attratto da un mistero. Così, venendo a sapere di una grande esposizione a lui
dedicata a Aix-en-Provence, ho deciso di approfittare dell’occasione e
raggiungere quella cittadina provenzale che gli aveva dato i natali e che
sognavo di visitare da molti anni.
La Aix odierna non è certamente quella vissuta da Cézanne. Oggi il nome del
pittore ricopre le strade in ogni dove. Cézanne è il nome di una strada, di un
cinema, di un caffè, di un negozio qualunque: Cézanne come logo di un enorme
merchandising. Lo stemma stesso della città, che si trova incastonato in ogni
marciapiede del centro storico, è accompagnato dal suo nome. Ma pronunciare
Cézanne ad Aix nella seconda metà dell’Ottocento, voleva dire nominare una
specie di pazzo che nessuno comprendeva né voleva comprendere. Dobbiamo togliere
alla provincia un po’ del romanticismo che siamo abituati ad attribuirgli. La
provincia può essere anche chiusa, feroce, spietata. Spietata specialmente con
le diversità, con le anomalie. E Cézanne, in quella cittadina, doveva sembrare
addirittura un clochard. La domenica era solito andare da casa alla cattedrale
gotica a pochi passi, coi pantaloni e la giacca imbrattati di pittura, e si
fermava lì a pregare, ma evitava di incontrare il prete, perché temeva che gli
rubasse la libertà. Era schivo, irascibile, poteva esplodere di rabbia se
qualcuno lo toccava, come colto di sorpresa, come volessero derubarlo di un
segreto. Non sorprende quindi che giovanissimo, animato da uno spirito artistico
che la comunità non capiva, volesse evadere da quel luogo, raggiungere Parigi,
la capitale dell’arte, perché la provincia, per chi appartiene solo a se stesso,
per chi sogna qualcosa di diverso, per chi sente che il mondo gli esplode
dentro, può diventare una prigione. E nella capitale, dopo i numerosi scontri
con suo padre, che lo credeva un inconcludente – pure se gli garantirà una
rendita a vita che gli permetterà di dipingere sempre –, riesce alla fine ad
arrivare, legandosi a un gruppo di pittori.
Capitava che Paul raggiungesse al caffè gli amici, tra cui Zola, suo amico fin
dall’infanzia e che sarà pure colui che lo stimolerà nella carriera di pittore
anche contro il volere del padre, che lo spingeva verso studi giuridici: «una
cosa o l’altra», lo esorterà lo scrittore, «sii davvero un avvocato, o sii
veramente un artista; ma non restare un essere senza nome, portante una toga
sporca di pittura». Tra quegli amici che incontrava a un caffè parigino c’erano,
tra gli altri, Monet, Pissarro, Degas, Renoir e Manet. Quest’ultimo era
considerato il padre indiscusso di tutti loro; girava per Parigi vestito di
tutto punto, portando, per vezzo, un bastone da passeggio. Monet racconta che
quando arrivava Cézanne, con la sua barba da semidio, burbero e sciatto, tirasse
sopra la vita i pantaloni calati e facesse il giro del tavolo stringendo la mano
ai compagni. Arrivato davanti a Manet, si toglieva il cappello in forma di
ironica reverenza e gli diceva: “Non mi permetto di stringerle la mano, signor
Manet, perché non la lavo da una settimana”.
È solo uno dei tanti episodi di vita che bene mettono in evidenza il carattere
del più importante pittore francese a cavallo tra Ottocento e Novecento. Si deve
a John Rewald, tra i maggiori storici dell’Impressionismo e biografo di Cézanne,
una riscoperta mondiale dell’artista, quando ancora larga parte della critica ne
diffidava, e pure nel suo paese d’origine, Aix-en-Provence, lo consideravano
appena un uomo stravagante. Solamente gli artisti a lui posteriori ne avevano
compreso l’importanza e raccolto l’eredità; artisti che, attraverso i suoi studi
sulla natura e la sua tecnica pittorica, arrivarono a pensare a forme d’arte
come il Cubismo (non sarà un caso che Picasso lo considerasse un maestro
indiscusso, addirittura un Dio). Se Cézanne abbracciò la novità impressionista,
immediatamente dopo comprese pure che occorreva superarla, perché, come scrive
al più giovane Émile Bernard, che lo sollecitava a teorizzare il suo lavoro,
> «per noi uomini la natura è più in profondità che in superficie, di qui la
> necessità di introdurre nelle nostre vibrazioni di luce, rappresentate dai
> rossi e dai gialli, una quantità sufficiente di azzurri, per far sentire la
> presenza dell’aria».
Ma nonostante le teorizzazioni estorte da Bernard, Cézanne non sarà mai
pienamente soddisfatto della sua arte. Sognava di giungere, con la pittura, a
una Terra promessa; diceva di aver fallito, ma non come credeva Zola, che gli
rimproverava di non essere riuscito a realizzare quanto aveva compreso, ma
perché niente in arte è finito. La Terra promessa è una visione, una
resurrezione nella mente. «Nel pittore esistono due cose», aveva
scritto, «l’occhio e il cervello, ambedue devono aiutarsi a vicenda; bisogna
lavorare al loro mutuo sviluppo». Il cervello organizza ciò che l’occhio vede.
Ma quello che si vede non è un dato oggettivo, pure se oggettuale, bensì già una
sensazione, già, pure, un’interpretazione. Ed è per questo che Cézanne si
stancherà anche di Parigi, nonostante fosse ormai divenuto il più importante
pittore sconosciuto di Francia – mai la gioia di un successo pubblico. Dopo aver
provato a risiedere in più occasioni nella capitale, dove passava il più del
tempo a dipingere o a osservare i capolavori del Louvre, capisce che
Aix-en-Provence è la sua vera patria. Proprio la città di provincia che pure lo
aveva spinto lontano, ora tornava a essere un luogo ideale e fuori da ogni posa,
dove in campagna incontrava contadini che spesso ritraeva. Contadini, diceva al
più giovane amico Gasquet, che gli pareva non avessero alcuna percezione del
paesaggio in cui abitavano: per loro un campo, un albero, un frutto erano reali
soltanto per il loro utilizzo. Ma era esattamente di questo spirito semplice che
Cézanne aveva bisogno, perché quello spirito era privo di sovrastrutture e
poneva l’essere umano davvero nel tutto, parte del paesaggio che abitava, pieno
dentro la pienezza della vita. Per questo è a Aix-en-Provence che trova
l’isolamento necessario, la calma e i “motivi” di cui si nutre la sua visione.
Così Cézanne in una lettera spiega il suo desiderio di solitudine:
> «Il dubbio di apparire inferiore a quanto ci si attende da una persona che si
> presume all’altezza di ogni situazione è senza dubbio la scusa che mi fa
> vivere in disparte».
*
Lo dicevamo, nessuno come Zola aveva stimolato l’estro artistico di Cézanne, fin
da quando adolescenti passavano i pomeriggi nella campagna di Aix-en-Provence,
leggendo poesie ad alta voce, immaginando un nuovo modo di scrivere e di
dipingere la natura. Nessuno come Zola credeva al genio artistico di Cézanne,
convinto fosse la migliore mente della sua generazione. Ed era stato sempre Zola
il portavoce di quella nuova pittura che nella seconda metà dell’Ottocento stava
nascendo a Parigi; lui che scriveva violenti articoli contro la vecchia pittura
da Salon in difesa di un’arte dal vero che esprimesse, sulle tele, tutta la
natura – una natura che esplodeva di vita: Manet, il capostipite, e poi Monet,
Pissarro, Renoir, e ovviamente Cézanne. Ma Paul già guardava altrove, i suoi
accostamenti cromatici («Il colore è il luogo in cui il nostro cervello e
l’universo si incontrano», diceva), la volumetria, l’uso del pennello e della
spatola erano già distanti da quell’impressione di realtà che avevano i suoi
compagni e lo stesso Zola capiva e non capiva quale fosse la sua ricerca.
Paul Cézanne, Le cabanon de Jourdan, 1906
Quando nel 1885 pubblicò il romanzo L’Opera, Zola e Cézanne si erano già
allontanati. Il primo aveva in una certa misura chiuso il suo rapporto con i
pittori, dedicandosi interamente alla letteratura. I vecchi amici, letto il
romanzo, si sentirono delusi nel non trovare in quelle pagine la vitalità di
quel momento rivoluzionario che avevano attraversato insieme. Credettero poi che
il protagonista del romanzo, il pittore Claude Lantier, si ispirasse a Manet,
che Zola aveva contribuito, anni prima, a decretarne il successo. Ma solo uno di
quei pittori si riconobbe davvero dietro quelle pagine, ed era proprio l’amico
d’infanzia, Cézanne. Ora Paul finalmente sapeva cosa Emile pensava della sua
arte. Lo credeva un pittore “abortito”. Uno che non era riuscito a realizzare
quanto di grande la sua mente riusciva a cogliere. Se il loro rapporto si era
già frantumato, con L’Opera non sarebbe stato più recuperabile. Quei due vecchi
amici, che avevano condiviso sogni e speranze, che si erano raccontati tutto,
che si conoscevano tanto a fondo, non si sarebbero mai più rivisti.
Eppure, a leggere il romanzo, si comprende pure quanto Zola avesse compreso la
natura irrequieta di Cézanne, la sua perenne insoddisfazione, quella lotta con
la natura che poteva torturarlo, e quale sforzo l’amico dovesse compiere per
sentire sullo spazio bianco della tela la potenza della vita. Ed è questa lotta,
questo corpo a corpo con la realtà che Zola descrive così bene in certe pagine e
che molto rivelano di Cézanne:
> «Ah! lo sforzo creativo dell’opera d’arte, quello sforzo di sangue e lacrime
> di cui agonizzava per creare corpi, animarli di vita! Sempre in lotta con il
> reale e sempre vinto, la lotta contro l’Angelo! Si distruggeva nella
> impossibile impresa di fare entrare tutta la natura in una sola tela, spossato
> alla lunga dai perpetui dolori che gli tendevano i muscoli, senza che gli
> riuscisse mai di produrre l’opera del suo genio. Quello di cui altri si
> appagavano, l’approvazione della resa, la necessaria abilità, lo squassava di
> rimorsi, lo indignava come debole vigliaccheria: e ricominciava, e sciupava il
> buono in cerca di meglio, trovando che non ‘parlava’ (…). Ma che gli mancava
> per creare la vita? Un niente, di sicuro. Forse ne restava un poco al di qua,
> o andava un poco al di là. Un giorno, la parola “genio incompleto”, udita
> dietro le sue spalle, l’aveva lusingato e spaventato. Sì, doveva essere
> questo, il salto troppo corto o troppo lungo, lo squilibrio di nervi di cui
> soffriva, il guasto ereditario che, per qualche grammo di sostanza in più o in
> meno, produceva un pazzo invece che un uomo geniale. Quando la disperazione lo
> cacciava dallo studio, e fuggiva la sua opera, si portava sempre dietro questa
> idea di una fatale impotenza, l’udiva picchiare contro il suo cranio, come un
> rintocco di campana a morto».
A leggere certe pagine di L’Opera si ha l’impressione che nessuno si sia
avvicinato al moto creativo di Cézanne quanto Zola; che nessuno abbia capito
meglio di lui cosa significasse vivere dentro l’atto creativo, e quale fosse il
senso di insoddisfazione che il pittore sentisse non riuscendo mai a vedere
realizzato quanto la mente gli suggeriva. Ma Zola sembra pure, di contro, non
comprendere esattamente cosa sia quell’insoddisfazione, quasi rimproverasse
l’artigiano e non l’artista, cioè individuasse un difetto di senso pratico, di
realizzazione, e non d’ingegno. In realtà lo stesso Cézanne era consapevole che
nessuna “opera” potesse dirsi finita; che lo stesso principio di realtà aveva
una falla, un’assenza, una mancanza che l’occhio pure percepiva. Perché cercando
quella Terra promessa sapeva pure che questa in un’opera poteva essere suggerita
senza mai poterla affermare completamente.
*
Ogni mattina usciva dalla casa al centro di Aix, molto presto, per raggiungere
l’atelier che si era fatto costruire comprando un terreno in campagna, su
colline coltivate a ulivi. L’enorme vetrata dello stanzone faceva entrare molta
luce, assorbita dal grigio delle pareti, tinta scelta volontariamente per non
alterare la percezione dei colori sulla tela. A mezzogiorno, quando la luce
cambiava, usciva dallo studio con cavalletto, colori, pennelli e la tela che
stava realizzando, mettendosi di nuovo in cammino sulla collina per una ripida
salita. Raggiungeva così un punto panoramico dove in prospettiva l’azzurro
costone della montagna Sainte-Victoire dominava l’orizzonte. Passava tutto il
resto della giornata lì, ragionando su ogni pennellata, cercando in profondità
il contrasto tra i colori, misurando con l’occhio il rapporto tra la mente e il
paesaggio, non calcolando geometricamente la prospettiva, perché la matematica è
nemica della sensazione, e quello che l’occhio vede in prospettiva non è un
fascio di linee perpendicolari verso un punto all’orizzonte, ma un insieme di
colori che riempie ogni spazio, che è un tutto. Per questo nei suoi paesaggi le
prospettive sono tecnicamente sbagliate, eppure vere per come l’occhio
percepisce la profondità.
Non c’è niente di più teorico di un paesaggio. E Cézanne, per quanto non amasse
sprecare parole sulla pittura, preferendo il lavoro alla filosofia, immaginava
davvero la sua pittura come un atto critico, lavorando sulla percezione più che
sull’imitazione – ed è esattamente per questo che i suoi studi aprono al
pensiero del Novecento. Sapeva che lo sguardo, mentre osserva, interpreta, e
interpretando aggiunge le proprie sensazioni; sensazioni che si esprimevano
soprattutto con i colori. Se si trovano i giusti contrasti e le giuste relazioni
tra i colori che gli oggetti osservati esprimono – pensava –, il disegno sarebbe
emerso in conseguenza. È dal colore (dalla “sensazione coloristica” che si
riceve dagli oggetti osservati) che le forme emergono. E le forme sono presenze
con un loro volume, con un loro peso oggettivo. Si capisce così perché fosse
tanto lontano ormai da quell’impressione di realtà sperimentata dai suoi vecchi
compagni Monet, Renoir, e anche da Pissarro (a cui rimase però sempre legato).
La sua tavolozza non mischiava una tinta con l’altra. Ogni tono di blu, di ocra,
di rosso, di verde aveva un suo posto specifico. Cézanne lavorava per
sovrapposizione, anche per questo era lentissimo (gli ci volevano cento sedute
per un paesaggio così come per una natura morta o un ritratto, ed era
impossibile avere dei modelli che non fossero parenti e amici, che pure portava
allo sfinimento). E quelle che, avvicinandosi ai suoi quadri, sembrano macchie
di colore – macchie che di colori ne contengono molti –, sono il risultato di
una “sensazione coloristica” a cui chiedeva di perpetrarsi in quello spazio che,
solo, avrebbe restituito verità a quanto aveva visto.
Cézanne è un pittore della realtà nella misura in cui la realtà è qualcosa di
sacro, perché contiene il segreto delle cose nel loro stato nascente. La realtà,
nei quadri di Cézanne, sembra nascere in quel momento. Tutta la sua pittura è
qualcosa che torna alle origini del mondo per sprigionarne la natura
primordiale.
> «Per dipingere bene un paesaggio», dirà a Joachim Gasquet, «devo prima
> scoprire le forme geologiche. Rifletta che la storia del mondo ha inizio dal
> giorno in cui due atomi si incontrarono o due vortici, due danze chimiche si
> composero insieme. Quei grandi arcobaleni, quei prismi cosmici, quell’alba di
> noi stessi al di sopra del nulla, io li vedo crescere, io me ne sazio leggendo
> Lucrezio. Sotto quella pioggia sottile respiro la verginità del mondo. Un
> senso acuto delle sfumature mi tormenta. Mi sento colorato da tutte le
> sfumature dell’infinito».
Nel mio viaggio ad Aix, dopo aver visitato il suo atelier sono salito anche io
nel punto panoramico dove Cézanne si fermava a dipingere, e mano a mano che
facevo quella salita, immaginavo quanto fosse potente nella vita del pittore
compiere quel percorso ogni giorno. Si trattava di un rito, più che di un atto
di volontà o d’abitudine. Raggiungere il “motivo”, prima ancora che dipingere
quel “motivo”, era un gesto che doveva sentire come sacro. Mi sono fermato su
una panchina, ho fissato per molto tempo il paesaggio che avevo davanti,
puntando all’orizzonte la montagna Sainte-Victoire, il suo costone brullo, la
sua pietra calcarea che si colora di una luce calda che solo in Provenza ho
incontrato, una luce che emerge dagli stessi colori del paesaggio, che è dentro
ai colori stessi del paesaggio – quella montagna che si colora dell’azzurro del
cielo e di quello del mare alle sue spalle. Mi chiedevo cosa vedesse lui in
quella montagna per ritrarla così tante volte, farla divenire addirittura
un’ossessione, o il suo paesaggio ideale. Attraversando con lo sguardo l’intera
vallata, vedeva come la luce colorasse il volto della montagna, quel volto che
non si confondeva al cielo, ma ne era il suo riflesso speculare, come dire ciò
che del cielo restava solido allo sguardo, che acquistava colore e forma. E
la Sainte-Victoire non è ritratta più volte negli anni per vedere come sul suo
costone cambi di volta in volta la luce del giorno, come aveva fatto Monet con
la Cattedrale di Rouen. Per Cézanne quella montagna ha il volto azzurro di una
visione perpetrata – la visione di qualcosa che prendendo forma con gli anni
addirittura si scompone senza mai sgretolarsi. È quella visione che dà forma
allo sguardo, che ne sostanzia la sensazione che ne prova. La montagna è azzurra
e l’aria e le ombre causate dalla distanza tra l’occhio e l’oggetto osservato la
sfumano di rosa e di bianco. La montagna è già dentro lo sguardo. La
Sainte-Victoire, negli occhi e nella testa di Cézanne, è quel Paradiso che la
realtà ha perduto e che solo la pittura può farci definitivamente rivedere.
Paul Cézanne, Bagnanti, 1899-1904
*
Credo che la mia attrazione per Cézanne sia però nata da un quadro specifico che
sono andato a osservate molte volte, perché è conservato nella Galleria
Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Un quadro del 1906, Le Cabanon
de Jourdan, su cui mi sono interrogato spesso, non sapendo se sia mai riuscito a
capirlo davvero. Del resto a Cézanne si può arrivare armati di un’infinita
bibliografia e non sfiorare neppure per un attimo il suo segreto. Cézanne deve
risuonarti dentro, i suoi quadri vanno più sentiti che capiti, vissuti più che
spiegati.
Le Cabanon de Jourdan è un paesaggio con una casa in primo piano, a sinistra
della tela. Guardandolo siamo portati a riflettere su cosa significhi, nella
casa, l’azzurro della porta, quella porta che ha lo stesso colore del cielo, che
è una pennellata di cielo in uno spazio sbagliato, come un inciampo del
pennello, un errore, un attimo di cecità. Deve pure significare qualcosa, mi
sono sempre detto, se questo è uno degli ultimi dipinti a olio, realizzato pochi
mesi prima di morire. Cosa vuol dire quella casa, se quella porta è uno sbaglio
del cielo, o una distrazione dello sguardo. Quell’errore del pennello, quella
casa che è una casa che non può finire, perché la luce gli esplode dentro,
accende le pareti, è già colore, contiene tutto il cielo che solo lui, Cézanne,
vedeva – il cielo che è già qui: reale, materico, eterno.
Joachim Gasquet riporta una conversazione tra lui e Cézanne in cui quest’ultimo
afferma:
> «Tutto, più o meno, esseri e cose, non siamo altro che un po’ di calore solare
> immagazzinato, organizzato, un ricordo di sole, un po’ di fosforo che brucia
> nelle meningi del mondo (…). Ecco, io vorrei liberare questa essenza. La
> morale frammentata del mondo è forse lo sforzo ch’egli compie per ridiventare
> sole. Là si trova il suo concetto, il suo sentimento, il suo sogno di Dio.
> Dovunque, un raggio colpisce una porta oscura. Una linea, ovunque,
> circoscrive, tiene prigioniera una tonalità. I voglio liberarle».
*
Eppure paesaggi non sono solamente la campagna provenzale, o la visione
della Saint-Victoire così tante volte dipinta. Paesaggi sono anche la serie di
bagnanti, che forse meglio di ogni altro “motivo” restituisce l’immaginario di
Cézanne. Negli anni ne ho viste molte di sue opere con questo soggetto; e la
stessa mostra allestita ad Aix ne esponeva più di qualcuna. Quelle donne e
quegli uomini – quei volumi di donne e di uomini – sono in una relazione tanto
stretta con la natura che abitano che paiono i primi esseri a calpestare la
terra.
Mi sono fermato davanti a una in particolare che mi aveva
attratto, Bagnanti dipinte tra il 1899 e il 1905, conservata ora in un museo di
Chicago. In una figura umana un piede disteso a terra si confonde al verde
dell’erba, e un braccio si assorbe al tronco di un albero – e non stupisce che
il rosa di un incarnato sfumi in azzurro e che l’azzurro del cielo e dell’acqua
del fiume abbiano dato colore all’albero e alla stessa figura umana. I colori
delle cose non si mischiano impressionisticamente, contengono invece una luce
intrinseca che contamina. La realtà è per Cézanne una forma di coabitazione
armonica degli elementi; una coabitazione primordiale, originaria, in cui ogni
forma di vita è stata appena creata.
Ma sono convinto che questo “motivo” sia anche ciò che abbia ispirato Zola per
il romanzo L’Opera. Nella storia del romanzo il pittore Claude Lantier passa gli
ultimi anni della sua vita ossessionato da un solo quadro, che continuamente
corregge e disfa, sentendo di non arrivare mai a raggiungere quanto sente di
poter esprimere da quel soggetto. Il quadro è una veduta della Senna, ma in
primo piano un nudo di donna occupa gran parte dello spazio. La moglie del
pittore ne è addirittura gelosa, perché sente quanto Lantier ami più quel corpo
dipinto che il suo, che pure gli offre per interminabili sedute da modella; che
con quel corpo dipinto Lantier passi la gran parte del suo tempo, che occupi
ogni suo pensiero, che ci faccia addirittura l’amore, che lo osservi e lo studi
come fosse carne viva, come avesse un’anima e un nome. Ma nonostante l’amore,
nonostante l’ossessione, nonostante lo sforzo di finire quel soggetto, di
lasciarlo vivere di vita propria, Lantier non ne sarà mai totalmente
soddisfatto. Una notte, la stessa notte in cui sua moglie è riuscita finalmente
a strapparlo al suo lavoro, a farlo tornare da lei, alla vita reale, facendosi
possedere e illudendosi di possedere a propria volta suo marito, Lantier torna
di nuovo davanti al suo enorme quadro e riconosce il suo inesorabile fallimento,
compiendo il gesto estremo di impiccarsi davanti a quella donna che non ha mai
preso vita se non nella sua mente. Per Cézanne il “motivo” dei/delle bagnanti si
esprime fin dagli anni Settanta dell’Ottocento, si può addirittura dire che sia
sempre esistito, e forse proprio per questo Zola immagina quel particolare
soggetto per il quadro abortito che porta al suicidio il suo personaggio. Ma è
come se i due, uno attraverso il romanzo l’altro attraverso i quadri, stessero
dialogando attraverso l’arte senza riuscire a incontrarsi.
> «Claude, in maniche di camicia nonostante la rigida temperatura, nella fretta
> s’era infilato soltanto pantaloni e pantofole, era dritto sulla grande scala
> davanti al suo quadro. La tavolozza giaceva ai suoi piedi e con una mano
> reggeva la candela, mentre con l’altra dipingeva. Aveva gli occhi dilatati del
> sonnambulo, gesti precisi e rigidi, chinandosi ogni minuto per prendere il
> colore, rialzandosi, proiettando contro il muro una grande ombra fantastica,
> dai movimenti taglienti d’automa. E non un sospiro, niente altro, nell’immenso
> ambiente oscuro, che un tremendo silenzio. Rabbrividendo, Christine
> indovinava. Era l’ossessione, l’ora passata laggiù, sul ponte del
> Saints-Péres, che gli rendeva il sonno impossibile e che l’aveva riportato di
> fronte alla sua tela, divorato dal bisogno di rivederla, malgrado la notte.
> Senza dubbio, era salito sulla scala solo per empirsene gli occhi più da
> vicino. Poi, torturato da qualche nota falsa, malato di quella ossessione al
> punto di non poter attendere il giorno, aveva afferrato un pennello, dapprima
> nel desiderio di un semplice ritocco, poco a poco trascinato di correzione in
> correzione fino ad arrivare a dipingere come un allucinato, la candela in
> mano, in quella debole luce che i suoi gesti facevano oscillare. La sua smania
> impotente di creare lo aveva riafferrato, si macerava fuori del tempo, fuori
> del mondo, voleva soffiare la vita nella sua opera, subito!».
Zola non fa che battere il chiodo su quell’ossessione, su quel rapimento, su
quella vertigine da cui il suo personaggio è posseduto. Insiste appunto su
quell’atto creativo che non trova mai una capacità realizzativa, che mai si
concretizza. Ed è un’ossessione, un assedio che certamente Cézanne sentiva, ma
non era sufficiente a spiegare tutto.
Forse una risposta a Zola è un piccolo racconto di Balzac, Il capolavoro
sconosciuto, il cui protagonista, il pittore Frenhofer, è a sua volta un artista
che vuole svelare, attraverso l’osservazione della natura, il segreto della
vita. Lo stesso Cézanne, interrogato su quale fosse il personaggio letterario
che amasse di più, è proprio il protagonista del Capolavoro sconosciuto che
nomina. E a leggere alcune affermazioni sulla pittura di Frenhofer,
effettivamente sembra di ascoltare la voce stessa di Cézanne:
> «La missione dell’arte non è copiare la natura, ma esprimerla! Non sei un vile
> copista, ma un poeta! (…) Noi dobbiamo cogliere lo spirito, l’anima, la
> fisionomia degli oggetti e delle creature. Gli effetti, gli effetti! Ma gli
> effetti sono le casualità della vita, non sono la vita! Una mano, dato che ho
> fatto questo esempio, non è solo attaccata al corpo, ma esprime e continua un
> pensiero che bisogna cogliere e rendere. Né il pittore, né il poeta, né lo
> scultore devono separare l’effetto dalla causa, che sono indissolubilmente
> concatenati. (…) Voi disegnate una donna, ma non la vedete! Non è così che si
> svela il mistero della natura. La vostra mano riproduce, senza che voi vi
> accorgiate, il modello che avete copiato dal vostro maestro. Non penetrate
> abbastanza a fondo nell’intimo della forma, non la inseguite con sufficiente
> amore e perseveranza nei suoi sbandamenti e nelle sue fughe. La bellezza è
> qualcosa di severo e difficile che non si lascia conquistare senza sforzi:
> bisogna attendere il momento giusto, spiarla, starle alle costole e legarla
> bene per costringerla ad arrendersi. La forma è un Proteo ben più sfuggente e
> ingannevole del Proteo della storia. Solamente dopo un lungo combattimento la
> si può costringere a mostrarsi col suo vero aspetto. (…) Ogni figura è un
> mondo, un ritratto il cui modello è apparso in una visione sublime, inondato
> di luce, su indicazione di una voce interiore, spogliato da un dito celeste
> che ha mostrato, nel corso della sua vita, le fonti dell’espressione. (…) La
> natura comporta una serie di rotondità che si avvolgono le une nelle altre.
> Propriamente parlando, il disegno non esiste. (…) La linea è il mezzo con cui
> l’uomo comprende l’effetto della luce sugli oggetti, ma in natura non vi sono
> linee, tutto è pieno. È modellando che disegniamo, che stacchiamo gli oggetti
> dallo sfondo; solo la distribuzione della luce dà al corpo il suo vero
> aspetto».
Mettendo a confronto Zola e Balzac si ha come l’impressione che svelino il verso
e il recto di uno stesso personaggio. Balzac non poteva avere Cézanne come
modello per il suo Frenhofer, la prima apparizione di Il capolavoro
sconosciuto è infatti del 1831 – Cézanne era nato da appena otto anni. Ma lo
stesso quelle pagine ci raccontano di un sentimento creativo, una necessità di
coabitazione con il soggetto osservato, che è possibile attribuire allo stesso
Cézanne, il quale avrebbe potuto sottoscrivere frasi come:
> «La natura comporta una serie di rotondità che si avvolgono le une nelle
> altre. Propriamente parlando, il disegno non esiste. (…) La linea è il mezzo
> con cui l’uomo comprende l’effetto della luce sugli oggetti, ma in natura non
> vi sono linee, tutto è pieno».
È quel tutto pieno che desidera esprimere Cézanne. Far vivere insieme,
attraverso i colori, tutta la natura – esseri e cose. È quella la Terra
promessa. È quello il Paradiso tanto agognato, perché nell’espressione di quella
coabitazione è possibile rivivere il primo atto creativo, la nascita della prima
forma di vita sulla terra, il mistero raccontato in Genesi.
Si rilegga invece l’ultima frase di Zola:
> «La sua smania impotente di creare lo aveva riafferrato, si macerava fuori del
> tempo, fuori del mondo, voleva soffiare la vita nella sua opera, subito!».
Forse è realmente questo che ha ferito Cézanne di quel romanzo. Certo,
l’impotenza, l’incapacità di realizzazione, il fallimento. Ma a scapito di cosa?
Zola aveva colto qualcosa di più profondo che riguardava la persona di Cézanne.
Zola aveva capito quanto Paul, per esprimere la vita, avesse dovuto rinunciare
alla vita. Aveva capito che l’ossessione di esprimere la natura, l’ossessione di
cogliere, della natura, il fuoco che la rende viva, avesse di conseguenza reciso
ogni suo legame; che l’arte, in Cézanne, aveva inghiottito tutto: l’amore,
l’amicizia, i legami di sangue – si racconta che non partecipò neppure al
funerale di sua madre (la donna che per tutta la vita incoraggiò la sua
vocazione) per correre al suo “motivo”. Ma sarebbe un errore troppo grave
ridurre Cézanne a un’interpretazione psicologica carpita da qualche aneddoto.
Da una parte (la lezione di Balzac) il mistero della creazione. Dall’altra
(l’interpretazione di Zola) l’ossessione creativa che distrugge la vita. In
Cézanne convivono questi poli che non possono essere separati, che pur
collimando sono necessari l’uno all’altro.
> «È certo», scrive Merleau-Ponty in un saggio che dedica a Cézanne, «che la
> vita non spiega l’opera, ma è altrettanto certo che esse comunicano. La verità
> è che quell’opera da fare esigeva quella vita. Sin dall’inizio, la vita di
> Cézanne non trovava equilibrio se non appoggiandosi all’opera ancora futura,
> di cui era il progetto, e l’opera si annunciava mediante segni premonitori che
> avremmo torto a ritenere cause, ma che rendono vita e opera una sola
> avventura. Non ci sono più qui cause ed effetti, le une e gli altri si
> raccolgono nella simultaneità d’un Cézanne eterno che è la formula di quel che
> ha voluto essere e, ad un tempo, di quel che ha voluto fare».
*
Lasciando l’elegante e affollata via principale di Aix, una cittadina di
provincia oggi vitalissima, piena di giovani universitari, di locali, di turisti
da ogni parte del mondo, mi sono infilato in alcuni vicoli più stretti, cercando
la salita che mi avrebbe fatto raggiungere il cimitero di Saint-Pierre. Amo la
pace dei cimiteri di provincia, non vi è città che visiti in cui non cerchi il
luogo in cui la memoria è seppellita. Eppure mi stupiva accorgermi che via via
che mi avvicinavo al cimitero, quella folla che avevo visto in città, la stessa
che aveva riempito anche le sale della grande mostra dedicata a Cézanne e
addirittura la sua casa e il suo atelier, fosse improvvisamente scomparsa. Tra
le tombe più nessuno, soltanto un gatto rosso dormiva al sole sdraiato su una
lastra di marmo.
Presso la tomba di Cézanne; photo Andrea Caterini
La tomba di Cézanne, il cui nome inciso sulla pietra viva si era un poco
levigato, era a pochi passi dall’ingresso. Ecco, diventare una lapide da cui si
è cancellato anche il nome, soffiato via dal tempo; scomparire diventando
pietra, elemento, memoria organica di un luogo, non essere niente stando nel
tutto. È il pensiero che ho avuto salutando Cézanne un’ultima volta prima di
partire. «Ho giurato a me stesso di morire dipingendo», aveva scritto in una
lettera a Émile Bernard nel settembre del 1906. Sarebbe morto un mese dopo.
Alzando lo sguardo dopo una preghiera, scorgevo in lontananza, tra le punte di
due cipressi che facevano da cornice, il volto impenetrabile della
Sainte-Victoire, ancora lì davanti a lui: eternamente.
Andrea Caterini
*In copertina: Paul Cézanne, Portrait de l’artiste au chapeau de paille, 1875
ca.
L'articolo “Mi sento colorato da tutte le sfumature dell’infinito”. La Terra
promessa di Cézanne proviene da Pangea.
> “L’artista non crea nulla, non imita nulla, non inventa […] estrae gemme
> nascoste dal tessuto della vita.”
>
> Giorgio Colli, Dopo Nietzsche, 1978
Da circa un decennio l’arte della ceramica sta vivendo un momento di rivalsa e
attenzione. I brand più impensabili hanno le loro homewear di stoviglie
infiocchettate e i personaggi più inaspettati sembra abbiano scoperto la nobiltà
del fango. ll revival in corso viene cavalcato dalle principali gallerie. Dagli
USA al Giappone, passando per Africa e Asia: Carwan Gallery, Moma, Officine
Saffi, varie Biennali tra Italia, Francia e Corea dedicano interi cicli
monotematici al mondo della ceramica. Emblematica la personale del 2020 che la
Gagosian di Londra dedica alle bianchissime porcellane del ceramista e scrittore
Edmund De Waal.
Ovviamente si scopre il già scoperto, in quanto questa disciplina artistica
affianca l’uomo dal Paleolitico superiore e, con uno storico di ventimila anni,
quest’arte lascia margini nulli o quasi alla novità.
Ma è a dispetto del rumore e dei trend, lontano dai circuiti ufficiali e
ufficiosi dell’arte che a Pavia, nella piccola e raffinata boutique di Marina
Danova, si è svolta un’intima esposizione degli ultimi lavori ceramici di Sergio
Maria Calatroni. A indicare l’evento solo pochi e tondeggianti sassi di fiume
sul gradino d’ingresso. Fermacarte d’inciampo per i coloratissimi manifesti che
in italiano e giapponese davano due indicazioni su ciò che avveniva all’interno.
Gres e piccole porcellane sono poggiate senza fronzoli su nudi tavoli in resina.
La monocromia lattiginosa dei sostegni isola ed esalta questi piccoli oggetti
catalizzatori di un’energia che ha i suoi natali nel lontano Giappone, luogo
dove ormai da decenni Calatroni risiede e opera. Un auto esilio dorato che dalla
scena culturale europea di fine Novecento in cui con la ciurma del Gruppo
Memphis di Ettore Sottssas chiodava di colore la Milano degli anni Ottanta, l’ha
visto ritirarsi sempre più tra gli antichi templi nei boschi di Kamakura. Qui la
sua ricerca artistica ha trovato l’humus più fecondo e gioioso attraverso un
dialogo profondo con la natura, la storia e la società del Sol Levante.
L’esule – ancora di più se è un artista – penetra il senso nascosto delle sue
esperienze e delle sue peregrinazioni intendendole come una lunga serie di prove
iniziatiche. Esse saranno l’ossatura della sua ricerca artistica. Ciò significa
vedere segni, significati nascosti, simboli, nel ciclo delle stagioni, nel
traffico della metropoli, nello sciabordio del mare, nella grazia del croco che
per primo sfonda la neve invernale. È solo sublimando le esperienze empiriche
che egli può costruire una struttura. Leggere un messaggio nel trascorrere
amorfo delle cose e nel flusso monotono dei tempi in cui vive. Cavare fuori
grammatiche estetiche dalle sofferenze, dalle depressioni, dagli inaridimenti di
tutti i giorni.
Il lavoro di Sergio mantiene e conserva quel dono difficilissimo della
spontaneità. Privilegio di chi si pone costantemente in gioco nel cercare di
vedere il mondo sempre per la prima volta. Un eterno rimettersi in discussione,
lontano dai mestieranti del sé; quelli che poi diventano esperti,
professionisti, specializzati. Sergio continua a rimanere nel territorio della
meraviglia, dell’adorazione per le piccole grandi cose che la natura offre. Il
bocciolo di un fiore, la corteccia di un frassino, la tela del ragno, la linea
di un sasso di fiume.
Vedere e leggere questi segni per poi convertirli in oggetti è la sua missione
più nobile. Egli lavora su un territorio di fragilità estreme, di linee
traballanti. Fenomeni quasi impercettibili fatti di accenni, tensioni e
propensioni trovano voce attraverso la lirica del suo lavoro. Una ricerca che
nasce da una scrupolosa riflessione sul mistero, sulla magia dell’imprevisto,
sull’evento inatteso matrice di vita e morte. Armonia e distruzione sono le
sentinelle di un percorso iniziatico-creativo di cui l’artista è un mero
servitore. Uno strumento operativo prestato a chissà chi e chissà cosa: “La
forza che nella verde miccia spinge il fiore/ spinge la mia verde età; quella
che fa esplodere le radici degli alberi/è la mia distruttrice […]” scriveva
Dylan Thomas. Non è un caso se questo tipo di ricerca dell’essenziale si trova a
suo agio con la scrittura poetica. Un modus operandi che per sua natura si sposa
con la potenza della parola, fa da esempio la mostra a Tokyo del 2018 in cui i
lavori di Calatroni hanno accompagnato Il Porto Sepolto di Ungaretti, tradotto
in inglese per la prima volta in maniera completa da Andrew Fitzsimons.
Innumerevoli sono i suoi lavori ispirati, presentati o dedicati ai lampi
degli haiku. Mentre ANIMALIA è il prezioso libro a leporello edito dalla
raffinata Fiorina Edizioni in cui minimali disegni di Calatroni accompagnano una
selezione di waka, una tipologia di componimento poetico risalente al VII
secolo.
Obbligatorio il punto di contatto con la filosofia e l’estetica Zen. Una
disciplina inevitabile specialmente per chi come lui vive e opera in Giappone da
decenni. Ricordo personalmente numerosi volumi e preziosi cataloghi stipati
nella libreria della sua casa. Un’abitazione tradizionale in
perfetto stile shoin da lui ristrutturata e integrata di orto e laboratorio di
pittura e scultura. È l’incanto a fare la differenza, a squarciare il consueto
per ricordarci la multiforme essenza del creato. Le sue ceramiche si offrono
allo spettatore come oggetti generati con naturalezza, un lavorio costante e
silenzioso, un impercettibile agire in cui non trapela alcun segno di volontà o
sforzo nel plasmare e domare la materia, come insegna la lezione orientale
dell’anti-mimesis in cui il grande artista non imita la natura ma ha come
obiettivo quello di porsi nelle condizioni di generare spontaneamente come la
natura. Porcellane che stanno bene tra le pietre di un torrente, piatti che
sembrano ciocchi di legno, ciotole e tazze senza età si possono confondere tra i
fiori o la ghiaia di un campo. Questo è il mondo ceramico di Calatroni.
Strati di colore si sovrappongono e dialogano in contrasti che non stonano e in
armonie che non annoiano, secondo gusti ed equilibri affinati dall’esperienza
di grande osservatore baudelairiano. L’opera è sempre il risultato di una
cristallizzazione di attimi più o meno vicini a un qualche immediato che per sua
natura sfugge imprendibile. Un flash, un’intuizione che l’artista insegue e
blocca. O per lo meno ci prova, perché il fallimento è il miglior compagno
d’impresa. Il tutto avviene con il benestare del dio del fuoco. Un dio
oracolare, capriccioso ed esigente. Impossibile da domare del tutto e
imprevedibile a tal punto che in Grecia, secondo Pausania, il protettore dei
vasai era Ceramo figlio di Dioniso, il dio dell’ebbrezza e delle contraddizioni.
Mentre in Giappone il kami del fuoco è legato indissolubilmente alla luce e alla
terra: Kagutsuchi, ossia, il fuoco che brilla sulla terra.
È curioso notare come ciò che fa breccia creando un punto di divergenza con il
famoso “andazzo generale” avviene sempre in una dimensione altra. Nel silenzio,
all’ombra dei grandi riflettori, al riparo da tendenze e hype gonfiati e
sfruttati dal regime culturale. È sempre fuori dal tracciato canonico che
avviene il punto di riflessione o di rottura. L’inatteso fa visita con tutta la
sua dirompenza laddove meno lo si aspetta, offrendo preziose occasioni per una
meditazione più pacata e profonda su ciò che lavora per imporsi.
È necessario inciampare sui sassi per aprire gli occhi.
Martino Cappai
L'articolo “Sublime tenera luce” o delle ceramiche di Sergio Maria Calatroni
proviene da Pangea.
Adolf Wölfli viene interrogato dal dottor Schärer, il medico del carcere dove è
stato condotto in seguito al suo terzo tentativo di violenza sessuale. Ne ha
fatto le spese una bambina di circa tre anni che di cognome fa Dilger. Secondo
il rapporto del gendarme Zimmermann, al momento dell’arresto Wölfli si dichiara
colpevole, confessa di aver avuto l’intenzione di commettere atti osceni e di
essere stato interrotto dall’arrivo della madre.
> No dottore, non avevo ancora bevuto. Andavo verso il Dählhölzli per riposarmi,
> era un bel pomeriggio. Il fatto è che sono molto debole sia fisicamente che
> mentalmente. L’ho veduta sulla Schauplatzgasse, davanti all’ingresso di un
> palazzo, ero confuso. Sono stati loro che mi hanno messo in testa l’idea che
> avrei potuto farle qualcosa. Sono anni che non mi lasciano in pace, mi
> perseguitano in tutti i modi, gridano cose che non voglio sentire, hanno anche
> infettato il mio sangue con morbi venerei della peggior specie. Avevo una
> fidanzata, si chiamava Marie Egger, ma l’ho lasciata dopo che mi ha attaccato
> la malattia. Ha fatto marcire il mio sangue, ha rovinato per sempre la mia
> virilità.
«Le assise del Mittelland», il quadro che Wölfli dipingerà al Waldau una decina
di anni più tardi, può essere considerato il racconto trasfigurato della vicenda
giudiziaria che ne ha determinato l’arresto e il successivo internamento in
manicomio. In alto, sulla destra, probabilmente nel punto dove ha iniziato a
disegnare, è raffigurata una giovane donna che solleva l’abitino fantasia che
indossa esibendo i genitali. È con invitante malizia che sembra offrire allo
sguardo dell’osservatore la sua vulva, appesa come un oscuro frutto al fusto
candido delle gambe. La ragazza indossa stivaletti con il tacco e la sua testa
di luna piena è circondata da un turbante di aureole.
> Glielo assicuro dottore, non avevo cattive intenzioni, ho pensato che mi
> sarebbe piaciuto passeggiare con lei come due innamorati, offrirle un gelato,
> portarla alle giostre. Slacciale i pantaloncini, mi dicevano invece loro
> nell’orecchio, mettile una mano lì sotto, che uomo sei? Non vedi come ti ha
> guardato? È per questo, per i pensieri che mi mettono in testa, che ho dovuto
> premere il membro tra le cosce e soddisfare la mia voluttà.
Nell’angolo opposto del foglio Wölfli rappresenta se stesso sotto forma di una
specie di diavoletto nero con occhi sbarrati, dentini aguzzi, grandi corna
ritorte e un piccolo pene eretto. L’impressione è quella di un mostriciattolo
generato dalla fantasia di un bambino, una specie di teddy bear che la luna
piena ha trasformato in una bestia tanto famelica quanto inoffensiva.
> Sono loro che mi fanno fare questi brutti pensieri. Mi vengono dietro giorno e
> notte e non la smettono di parlarmi entrandomi nella testa. Che uomo sei, mi
> dicono, non vedi che tutti ridono di te. Sono molto debole dottore, è il vizio
> a causare la mia debolezza. Ogni volta provo a resistere, ma poi li sento
> sghignazzare. Loro vedono i miei pensieri. La bambina non l’ho toccata. Non do
> fastidio a nessuno io. Sì, in passato, ma è da tanto che rigo dritto. Quando è
> arrivata la madre sono scappato e mi sono nascosto dentro un portone. In amore
> ho avuto solo delusioni, non mi fido più delle promesse delle donne. Mi hanno
> solo preso in giro.
Sì è vero, ho il vizio del bere, ma non mi ero ancora fermato all’osteria,
ripete al dottor Schärer prima di essere congedato e riportato in cella. Quella
stessa sera il medico andrà a cena da Frau Weber, una ricca signora che da poco
si è trasferita nella capitale e che, a quanto sembra, ama sentirsi raccontare
di certe stranezze che albergano nell’animo umano. Adolf Wölfli verrà invece
trasferito dal carcere alla clinica psichiatrica Waldau dove rimarrà per il
resto della vita. È il 3 giugno 1895, da qualche mese Wölfli ha compiuto trentun
anni.
*
Al momento dell’ingresso in manicomio viene assegnata a Wölfli la sigla 4224 D
3. Ragioni di pubblica decenza prevedono infatti che il nome dei pazienti venga
sostituito da uno pseudonimo o più semplicemente da un numero. Sulla prima
pagina della cartella clinica, alla voce domicilio, si può leggere: Carcere
giudiziario, Bühlstrasse 27, Berna; a quella indirizzo dei familiari: Ufficio
del Giudice Istruttore II, Berna. La diagnosi definitiva, stilata dopo qualche
settimana, è di dementia paranoides, al giorno d’oggi si direbbe schizofrenia.
> Mi spiano, mi osservano, i loro occhi mi seguono dappertutto. Appoggiano
> strumenti infernali alle pareti della camera per ascoltare i miei pensieri.
> Intossicano il mio corpo con i vapori malefici che fanno passare dalle fessure
> della porta. Tutta la notte li sento parlare, guardatelo il pover’uomo, si
> dicono, di niente è capace, mi indicano col dito e ridono, nessuna donna si
> alzerebbe la gonna per lui – scrollano la testa e ridono – guardatelo, può
> solo strizzarsi l’affarino che ha tra le gambe.
Al Waldau Wölfli trascorre la maggior parte del tempo in regime di isolamento a
causa del suo comportamento violento e aggressivo. Ha crisi di rabbia esplosive
nel corso delle quali se la prende con le cose – distrugge tavoli, sedie, porte
– e con gli altri pazienti che, dice, fanno rumore e parlano male di lui alle
sue spalle. Ne hanno già fatto le spese il paziente Amsler e il paziente Wernli
che sono stati scaraventati a terra e presi a calci. Ha colpito pesantemente
anche il paziente Weibel pur essendo quest’ultimo paralitico. In conseguenza
della caduta provocata da un suo violento attacco il paziente Bill è caduto
fratturandosi il collo del femore. Recentemente al paziente Zang ha staccato con
un morso un lembo del labbro superiore. È molto nervoso, pallido in volto, suda
copiosamente, sente voci a contenuto sessuale, annota il medico in cartella, ma
non manifesta l’intenzione di fuggire come ci si potrebbe aspettare da lui. In
un’ultima crisi di rabbia Wölfli ha fatto a pezzi la seggetta presente nella
cella e con la gamba che ha staccato dalla sedia ha sfondato la porta e
distrutto tutte le formelle di una grande finestra del corridoio. Dopo tali
intemperanze non gli viene concesso il permesso di lasciare la cella. Il
paziente inganna il tempo disegnando, scrive il medico prima di rimettere la
cartella di Wölfli nello schedario.
*
Tutto sembra cominciare grazie ad un intervento magico, un mondo compiuto e
perfettamente definito emerge d’un tratto dal nulla senza che prima ci fossero
state avvisaglie della sua comparsa sotto forma di abbozzi, prove, tentativi non
portati a termine. Pare davvero una creazione divina, l’estrazione di un
universo di grande complessità e bellezza dalla mente di un uomo brutale,
miserabile, grossolano, insomma una specie di idiota sgraziato e fallimentare
anche nei suoi tentativi criminali.
Nella sua foto più celebre Adolf Wölfli è ritratto in piedi mentre con il
braccio alzato e l’indice proteso indica una sua opera appesa al muro. Ha il
corpo tozzo, segnato da una certa pinguedine, i pantaloni arrotolati fino al
ginocchio e tirati su dalle bretelle ben oltre la vita, i baffi cespugliosi, un
basco nero in testa. Quanti l’hanno conosciuto lo descrivono come astioso,
violento, tendente all’enfasi e all’autoesaltazione. È difficile che susciti
simpatia o compassione.
Inganna il tempo disegnando, l’osservazione del tutto banale che il medico
annota coglie, seppur involontariamente, un aspetto centrale di ciò che
fa Wölfli nella sua cella del Waldau. I suoi scritti, i suoi celebri disegni
spiraliformi, l’ossessiva ripetizione di pochi gesti sembrano essere davvero
modi per immobilizzare il tempo ingannandolo. Il tempo viene fatto ruotare su se
stesso come una trottola e ruotando viene tenuto fermo in un punto del suo
corso. La trottola per rimanere in piedi deve però continuare a girare. Se il
suo movimento si ferma la trottola crolla a terra assieme a tutto il resto.
Un’ininterrotta poiesis è ciò a cui Wölfli è condannato, altrimenti c’è
l’abisso, l’angoscia incontrollabile delle voci che additano, insultano, rendono
la vita impossibile.
Wölfli chiamerà le sue prime opere Composizioni musicali. Si tratta di disegni a
matita, in bianco e nero, su carta da giornale, in cui fanno la loro comparsa
anche i righi con i quali decorerà fino alla fine le immagini come festoni
appesi sopra una piazza affollata. I pentagrammi sono sostituiti da esagrammi,
ma l’impressione è comunque quella di essere di fronte ad uno spartito
variopinto, un antifonario riccamente miniato. Non a caso sono firmati
da Adolf Wölfli, compositore di Schangnau.
*
> Sono nato il 29 febbraio 1864 a Nütchern vicino a Bowyl. Mio padre girava la
> regione lavorando come scalpellino. Se sobrio e di luna buona era capace di
> finire il lavoro che gli veniva affidato, ma appena intascata la paga, invece
> di tornare a casa dai suoi infelici bambini e dalla loro madre, se la beveva
> in qualche bettola tra gentaglia come lui. Era considerato un poco di buono,
> entrava e usciva di prigione.
I medici del Waldau erano soliti chiedere ai nuovi internati, o almeno a quelli
in grado di farlo, di redigere una loro memoria autobiografica. Wölfli, che si
trova nella condizione di detenuto in attesa di giudizio, la scrive anche al
fine di giustificare il suo comportamento alla luce della tormentata e
miserabile condizione che fin dalla nascita ha patito. Con ogni probabilità si
tratta del primo scritto che Wölfli porta a compimento.
> Sono il più giovane di sette fratelli, due dei quali sono morti da piccoli.
> Non ho sorelle. Mia madre, che per quanto ne so era una lavandaia, non
> riusciva a sfamarci e siamo stati tirati su grazie al sostegno della
> parrocchia. Quando avevo otto anni ci hanno divisi. Mi madre non godeva di
> buona salute e presto Nostro Signore la liberò dalle sue sofferenze. Io venni
> mandato a Oberei a lavorare da un falegname. Sarebbe stato un valido artigiano
> se non fosse stato per il bere. Sua moglie, che era una donna rigida e dura,
> faceva la sarta e spesso andata a cucire in casa di altri. Quando tornavo da
> scuola non c’era nessuno ad aspettarmi e in cucina non trovavo niente per
> mettere a tacere la fame tranne che tre o quattro patate e raramente anche una
> crosta di pane che bagnavo nell’acqua fredda. Il resto del cibo era tenuto
> sottochiave. Quando facevano baldoria offrivano da bere anche a me. All’inizio
> la grappa mi disgustava, ma alla fine non mi tiravo indietro e ne ingurgitavo
> in quantità. È stato così che nel giro di un anno sono diventato un giovane
> ubriacone.
L’autobiografia che Wölfli scrive è ricca di dettagli e umori, il tono è spesso
enfatico e lascia largo spazio all’autocommiserazione, ma non manca di una certa
forza narrativa soprattutto se si tiene conto che l’autore è un semianalfabeta.
Wölfli racconta di sé per una decina di pagine, più di quante sarebbero state
necessarie per esaudire la richiesta dei medici, ma che non sono niente se
paragonate alla biografia allucinata e interminabile che inizierà a scrivere
tredici anni più tardi, il folle viaggio di parole con cui abbandonerà la sua
condizione di internato soggetto a rigide misure restrittive per inventarsi
nuove vite e nuovi mondi in cui viverle.
*
Passano gli anni al Waldau, così come passano nel resto della Svizzera e
dell’intero mondo. È il 1908 quando Wölfli comincia la sua seconda autobiografia
dopo quella scritta su richiesta dei medici all’ingresso in manicomio. La camera
dove è obbligato a stare è sporca e in disordine. Appoggiata a una parete c’è
una soggetta che emana un forte odore di escrementi. Wölfli è in piedi davanti a
un piccolo tavolo dove sono posati alcuni grandi fogli. Ha le maniche della
camicia arrotolate e in testa il basco nero che non si leva quasi mai. Tra le
dita stringe una matita quasi nuova. Gliene danno due all’inizio di ogni
settimana. Osserva il filo di grafite dipanarsi nitido sul pallore della carta,
passa poi il palmo della mano sul foglio come per stirarne le impercettibili
pieghe e ammira quanto ha scritto compiacendosi per la sua bella calligrafia,
così chiara e musicale. Più guardo il movimento della mano più mi pare la
delicata danza di una giovane ballerina, si dice piegando di lato la testa per
cambiare la prospettiva. Ricomincia a scrivere.
> Voll Wehmuht, Reue, Schmerzen, Angst und Grahm, pieno di tristezza, rimorso,
> dolore, paura e nostalgia di casa, ho già trascorso quattordici interi anni
> della mia misera esistenza dietro alla porta chiusa di una cella e ciò a causa
> di un errore commesso in passato. Sono stato costretto ad abbandonare i miei
> parenti ed anche l’infelice persona amata per lasciarli in balia di estranei.
> Il mio buon sangue è stato versato, la pace divina se n’è andata e con un
> cuore bruciato io adesso affondo morendo sopra un cuscino che non è il mio.
Wölfli intitolerà il fantasioso racconto della sua vita Von der Wiege bis zum
Graab, Dalla culla alla tomba.Aggiungerà poi una seconda frase, forse per
rimediare a quello che probabilmente gli era sembrato un titolo troppo modesto:
O, attraverso il lavoro e il sudore, il dolore e il tormento, pregando alla
maledizione. Comincia il racconto in modo convenzionale, ripetendo l’incipit già
utilizzato in passato, ma quasi subito la scrittura slitta, devia, rimbalza,
viene catturata dalla fantasia più sfrenata, dal sogno o dal delirio. Il
protagonista della storia è un bambino di nome Doufi – il diminutivo di Adolf –
che con la sua famiglia lascia la Svizzera per cercare fortuna in America. Da
qui partirà per un viaggio intorno al mondo e fuori dal mondo, tra pianeti e
stelle. Sarà pieno di avventure e peripezie, di catastrofi naturali e incidenti,
di scontri e lotte dai quali il piccolo Doufi ogni volta si salverà per
miracolo. Concluderà scrivendo il testamento in cui nomina il nipote Rudolf
erede delle ricchezze che ha accumulato durante il viaggio.
Bisogna continuare e Wölfli continuerà, continuerà fino alla fine. Riempirà
duemilanovecentosettanta pagine che raccoglierà in nove volumi illustrati da
settecentocinquantadue disegni. A questa prima opera ne seguiranno altre per un
totale di circa venticinquemila pagine che andranno a formare quarantacinque
grandi libri che lo stesso Wölfli provvederà a rilegare, contenenti, oltre al
testo, milleseicento disegni e millecinquecento illustrazioni ottenute con la
tecnica del collage. In aggiunta utilizzerà anche sedici quaderni. I
quarantacinque ingombranti volumi che raccolgano i suoi scritti, messi l’uno
sopra l’altro, avrebbero raggiunto e superato l’altezza della stanza. Per
questo, quando si trattò di fotografarli, si optò per disporli su due pile,
l’una alta fino quasi al soffitto, l’altra poco più alta di un tavolo.
La data di dimissione di Wölfli dal Waldau coincide con la data della morte,
il 6 novembre 1930. L’ultima nota della cartella clinica dice: il paziente è
deceduto questa mattina alle ore 8 e 10 minuti.Solo alcuni giorni prima, con le
lacrime agli occhi, Wölfli aveva detto che a causa degli intensi dolori causati
dal tumore allo stomaco non ce la faceva più a disegnare. Il medico annota in
cartella che il paziente non mangia, beve solo acqua e non ha più forze; scrive
anche che è molto amareggiato perché ha capito che non ce la farà a terminare in
tempo la Marcia funebre, l’opera alla quale sta lavorando da almeno un paio di
anni e che gli sarebbe piaciuto portare a termine per l’imminente Natale.
> Era buio fino a dove il loro sguardo poteva arrivare. Tutti gli spiriti si
> librarono sopra le acque e giunsero sulla terra ferma. Orfeo disse, che sia
> luce, e luce fu. Allora il sole inviò sulla terra i suoi raggi luminosi. Non
> passarono che poche ore prima che l’ultimo raggio di sole cadde sulla terra.
> Una parola divina accese allora la luna e una moltitudine di stelle
> scintillanti disegnarono un cerchio nel blu del firmamento.
*
A partire dal 1907 e fino al 1920 lavora al Waldau in qualità di assistente
medico il dottor Walter Morgenthaler, lo stesso che firmerà l’internamento di
Robert Walser. Decide di raccontare la storia di quel suo strano paziente
costantemente dedito al disegno e alla scrittura, ma, essendo lo psichiatra di
natura più contenuta, si limita a centotrentaquattro pagine, sufficienti però a
risvegliare l’interesse per i lavori di Wölfli tra gli amatori di quel genere di
bizzarrie – la cosiddetta arte dei pazzi – e a non far disperdere nell’oblio del
tempo il nome dello psichiatra.
Paolo Miorandi
L'articolo “Con un cuore bruciato”. Marcia funebre per Adolf Wölfli proviene da
Pangea.