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“Per un’arte eroica, controcorrente alle leggi del mercato e ai social”. Dialogo con Roberto Floreani
“Nell’insidia della soglia” è il titolo di uno dei libri più potenti di Yves Bonnefoy, poeta francese sensibile ai gesti d’arte (ha scritto, tra l’altro, di Bernini, di Giacometti, di Hopper). Insidioso è perfino il titolo: “le leurre” è l’inganno, l’esca, il tranello; in italiano possiamo giocare, per allucinazioni e allusioni, con la parola errore, con la parola livrea. L’aura di un inganno. La livrea che cela la natura terrifica e gloriosa delle cose. In quel testo, c’è un monastero in rovina e una soglia da attraversare. “Tutto il visibile, infermo,/ di sé si cancella”, scrive il poeta – la traduzione è di Diana Grange Fiori. Scrive, il poeta, del fondaco di un’alba, del riflesso del fuoco. Quando la forma si stinge e il sacro appare, si va per una nudità detta astrazione: così fa Dante quando è al cospetto dell’Assoluto, l’informe che tutte le forme riassume; dice di cerchi concentrici. In questo senso va assunto il nuovo corso di Roberto Floreani, visibile nella mostra “Soglie”, presso il Museo Diocesano di Vicenza, fino all’8 giugno. Una rassegna – a quarant’anni dalla prima realizzata dall’artista, era il 1985, proprio nell’anno giubilare – che al nitore spirituale affianca l’opera di sovversione: al dominio del mercato e del materiale, all’etimo dei social, del putiferio degli idoli. A raccontare la mostra, Floreani, in dialogo con Luigi Codemo, direttore della Galleria d’Arte Sacra dei Contemporanei a Villa Clerici, Milano.  La tua quarantennale ricerca artistica che conta oltre 90 personali, passando anche attraverso la sala personale Aurora occidentale allestita alla Biennale di Venezia del 2009, segna un costante e rigoroso indagare i fondamenti dell’Astrazione. Ora hai inaugurato questa mostra al Museo Diocesano di Vicenza, Soglie. Tempo del prima – Tempo del poi. E fin dal titolo viene messo in evidenza un aspetto distintivo di chi lavora tramite l’Astrazione: l’attenzione analitica e riflessiva che esamina il proprio processo creativo. Il mio nuovo progetto Soglie. Tempo del prima – Tempo del poi evoca la tradizione dell’Astrazione votata allo spirituale, che si manifesta fin dai tempi della sua nascita nel 1912 con le Compenetrazioni iridescenti di Giacomo Balla e, pur da versanti differenti, con il saggio Lo Spirituale nell’arte di Vasilij Kandinskij. La nuova declinazione della mia ricerca sulle Soglie evoca l’esistenza di un passaggio tra il qui e l’altrove e il Tempo del prima – Tempo del poi rende centrale la funzione dell’opera perchè rappresenta un crinale tra le intenzioni progettuali e la sua esecuzione effettiva, in cui l’attimo che le divide, il passaggio, è l’istante significativo della creazione (forse unico ambito, quello artistico, che consente l’uso del termine). Quindi anche l’unità e la coerenza formale assumono un valore morale?  Sono entrambi fondative e irrinunciabili: unità e coerenza formale sono riconducibili anche a quello che Umberto Boccioni definiva lo stile, essenziale per l’artista e la sua riconoscibilità. Jean Baudrillard definisce l’Astrazione come l’unica forma attendibile del contemporaneo perché dotata di una storia eroica. Assumendo uno sguardo ampio e storico tu come inviteresti a vedere e a leggere questo eroismo? L’eroismo penso possa assumere un duplice significato: da un lato riferito all’importanza delle stesse istanze fondative dell’Astrazione, cui ogni astrattista guarda come riferimento, più attento ad una sua nuova, originale declinazione, che allo stravolgimento rispetto ad allora: dal Tutto si astrae di Balla (’12), fino all’Astrazione come dominio sulle forme della natura di Kazimir Malevič (’15) e ai ripetuti, precisi riferimenti nei testi di Piet Mondrian (’17-’24): All’astratto come liberazione dell’umanità dal dominio della materia e del fisico […] col trionfo dell’equivalenza Materia-Spirito.  Per questi e infiniti altri riferimenti, l’Astrazione rimane sempre attuale al suo tempo. Dall’altro, eroismo come resistenza dell’astrattista alla deriva materialista del contemporaneo, iniziata, leggendo le dichiarazioni dell’epoca, ben prima di quanto presagito dal fatidico Società dello spettacolo di Guy Debord, nel 1967. In buona sostanza porsi sul versante della spiritualità comporta l’accettazione di una sorta d’inattualità costruttiva, vissuta nella sua accezione positiva come rifiuto della superficialità materialista. Nel corso della pittura del Novecento vediamo l’Astrazione essere una modalità longeva e rigorosa per ribadire uno statuto veritativo dell’arte, ovvero la sua capacità conoscitiva contro chi la dichiarava ormai oltrepassata e relegata ad una funzione ornamentale. Di fronte a un panorama artistico oggi così mutevole e volubile, continuamente all’inseguimento di suggestioni e di parole d’ordine estremamente variabili, è necessario un nuovo eroismo? Penso possa essere rivelatoria la lettura dei Taccuini di Umberto Boccioni, ordinatore teorico del Futurismo, prima Avanguardia storica del ‘900: i suoi quattro manifesti (due sulla pittura, uno sulla scultura e uno sull’architettura), oltre al suo saggio Pittura e scultura futuriste (1914), possono considerarsi fondativi di buona parte delle istanze dell’intero Novecento. Ebbene Boccioni affronta entrambi gli argomenti in modo del tutto innovativo, considerando lo stile dell’artista come prioritario rispetto al resto e la decorazione come perfettamente complementare alla ricerca, con una sua rilevante legittimità nell’opera. Credo che l’arte debba proseguire controcorrente rispetto alle tendenze del mercato e della comunicazione globale e dei social, rispondendo ad una necessità che superi la cronaca, le abitudini correnti, un’arte che guardi ad un futuro prossimo più vicino alle urgenze interiori dell’uomo e meno a quelle materiali. Accettare consapevolmente di operare controcorrente significa poter subire le conseguenze anche dell’isolamento, della tensione esistenziale dell’incomprensione: ma anche questo penso possa rientrare nella complicata scelta di vita dell’artista. Se l’arte ha capacità conoscitiva, se ha una forza di affermare la verità non può essere relegata alla “domenica della vita”, non costituisce una pausa nel divenire della storia, ma è chiamata a intervenire, a incidere sulla realtà, sulla società. L’arte se ha a che fare con la verità, per quanto relativa e molteplice, ha un potere, crea mondi di significati e itinerari di senso. Una delle intenzioni della mia ricerca è orientata verso la possibilità che l’opera possa veicolare un messaggio di natura spirituale, rivolgendo molta attenzione alla componente legata all’ascolto. In questo senso quindi si pone in posizione antitetica rispetto alla dittatura del materialismo, dove appare con chiarezza disarmante la prevalenza del prezzo sul valore. In questa distanza dalla consuetudine, l’astrattista svolge quindi un rilevante ruolo sociale, riportando l’attenzione verso tematiche legate all’introspezione, invocando quella dimensione ulteriore legata alle suggestioni interiori. Accedere ai flussi di coscienza dell’introspezione, della riflessione individuale, aiuta a comprendere e a comprendersi, limitando le motivazioni prime dello scontro che sfociano nella violenza, finanche delle guerre. Laddove cessano le azioni per convenienza, iniziano quelle della condivisione. Evocare tutto questo attraverso l’arte accende una scintilla, conferisce delle ragioni.  Una felicità che non sia effimera non è là fuori nella materia. L’Astrazione in pittura nasce con una vocazione analitica, ovvero non cerca di essere una finestra sul mondo ma concentra innanzitutto la propria attenzione sugli elementi costitutivi del proprio linguaggio, sul proprio funzionamento; ma, se guardiamo ai più alti maestri dell’astrazione, anche se non cercano la rappresentazione e negano perentoriamente la volontà di “uscire dal quadro”, nelle loro opere si affacciano, come insopprimibili, risvolti spirituali, riverberi psicologici, tensioni mistiche, nebulose prelinguistiche. A mio avviso la tua ricerca artistica esplicita questa impossibilità che la pittura si chiuda in un cerchio autoreferenziale, ovvero il tuo rigore e la tua fedeltà all’astrazione portano alla luce come questa sia insopprimibilmente soglia su altro.  Quando ci mettiamo nelle condizioni di connetterci con la profondità, quando non pensiamo solo razionalmente, quando lasciamo che le domande fluiscano senza peso, naturalmente, cercando stati di coscienza superiori, siamo sulla soglia di una dimensione ulteriore, dove possiamo scegliere se restare lì, in ascolto, oppure cercare di attraversare, di ascendere, raggiungendo quote più elevate, evocando una dimensione spirituale. Nelle mie opere si confrontano due entità principali: una base materica informe sottostante, il corpo della pittura, che prima si accorpa nei Concentrici, sequenze di cerchi che sono divenute la mia cifra stilistica dal 2003, per poi organizzarsi in forme geometriche con le cromìe più accese degli arancioni, dei rossi sandalo, dei blu Klein: questo percorso è stato definito dal caos al cosmo. Nelle tue opere il riferimento al quadrato richiama il confronto con Josef Albers, probabilmente il più estremo e rigoroso pittore astrattista. I suoi “Omaggi al quadrato” mirano non solo ad azzerare ogni riferimento a ciò che sta fuori dal quadro ma persino ogni richiamo che può annidarsi nella più asettica forma geometrica: il risultato è lo stare innanzi all’assoluta fisicità e singolarità della superfice pittorica. Ritengo emblematico questo passaggio: più si affina il concetto e più emerge la fisicità, la ricerca spirituale non può che affermare l’inderogabilità della materia. E qui veniamo al punto che anche questo luogo interpella: l’Astrazione è chiamata nel suo stesso fondamento a misurarsi con lo scandalo di un Dio che si fa corpo? Le Soglie affrontano la tematica del quadrato ed era inevitabile riferirsi a chi – come Albers – lo ha elevato a ad un valore assoluto. Ma la Soglia attraversa quel rigore, lo rende umano, incerto, indeciso sul proseguire o restare, se attraversare, o rimanere, o recedere. C’è la natura dell’uomo nell’incertezza, nella fragilità della scelta, nel timore dell’errore, nell’indecisione se attraversare verso lo sconosciuto dove ricostruire nuove certezze, dove alimentare altre parti di sé.  Astrazione è Rivoluzione, la vera novità del Novecento che capovolge lo sguardo per la prima volta verso se stessi, rendendo Arte le intuizioni relative al subconscio, alla profondità dell’autoanalisi. L’Astrazione ha avuto e ha tutt’oggi due anime opposte: una asettica, bastante a se stessa, aulica, impenetrabile, atea; l’altra evocativa, profonda, vibratile, spirituale. Nel mio caso l’Astrazione si misura prima col corpo, con il suo peso, il suo spessore: le venti stratificazioni e più delle mie opere sono lì ad attendere di darsi un ordine per dirigersi verso il passaggio, nel faticoso percorso dell’ascensione, dove le certezze di prima svaniscono. Un attraversamento difficile, a volte sofferto, dove difficoltà e sofferenza per ascendere possono evocare la Passione e poi la luce oltre le tenebre. Segno, soglia, passaggio: l’arte quindi è tale se testimonia grazia, ovvero la possibilità di trasformazione. Credo che la grazia sia un dono che gratifica se alimentata dal versante della bellezza e della misura: difficile potervi accedere senza queste attenzioni. La trasformazione include il passaggio da uno stato all’altro caratteristico della Soglia, con la possibilità di accedervi o meno, di muoversi arricchendosi delle esperienze più differenti, alimentati da una irrinunciabile curiosità. Concetti molto distanti dall’asservimento sordo al materialismo e alla tecnica che rischiano di trasformare Occidente e Oriente in contenitori vuoti a causa dell’abbandono della poesia e dell’energia spirituale.  a cura di Luigi Codemo L'articolo “Per un’arte eroica, controcorrente alle leggi del mercato e ai social”. Dialogo con Roberto Floreani proviene da Pangea.
April 4, 2025 / Pangea
“Al nostro cannibalesco appetito”. In Armenia con Mandel’štam
Speranza contro speranza non è il titolo di un libro – è un titolo d’onore.  Nella liturgia del 19 marzo scorso, che ruotava intorno a San Giuseppe, la seconda lettura, dalla lettera ai Romani di Paolo, dice: “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli”. Il memorabile libro di memorie di Nadežda Mandel’štam, Speranza contro speranza – ora in catalogo Medhelan – insegna che bisogna avere fede nella poesia. La Storia potrà pure uccidere il poeta – deve ucciderlo, ai fini della sua riuscita –, potrà ridurlo ai margini, a mendicare, ostaggio della propria fame – la poesia resterà.  A Iosif Brodskij, Nadežda Mandel’štam fece l’effetto di “una minuscola brace che brucia se la tocchi”. L’aveva incontrata nel 1972, prima di lasciare, per sempre, l’Unione Sovietica. La brace divenne incendio – la donna martoriata e senza parto fu la levatrice di migliaia e migliaia di poeti.  Non è inesatto chiamare Osip Mandel’štam, nelle notti a secchiate, con il tono con cui si dice padre.  * È curioso: i poeti seppelliscono il proprio cuore – un cuore, si dirà, capace in radici o in tentacoli, a seconda della belva che anima quel rantolo – altrove. Mandel’štam ha messo il cuore in Armenia, luogo che svasa in leggenda, dove il cristianesimo primeggiò con forza di ribes, di mora selvatica. Boris Pasternak preferiva la Georgia che nello stemma ha l’eroe che trafigge il drago. Anche in questo si intuisce lo stigma di uno stile. A Tbilisi, Pasternak trova poeti complici, amici – il più caro, Tician Tabidze, il Dylan Thomas georgiano, farà la stessa fine di Osip: rapina stalinista, arresto, fucilazione, è il ’37 e come da prassi nessuna notizia sulla sua fine allenta, per anni, la spossante attesa dei cari. A Savan, a Suchum, “città di lutto, di tabacco e di aromatici olii vegetali”, a B’hurakan, “celebre per la caccia ai galletti” che “rotolavano per terra come palline gialle sacrificate al nostro cannibalesco appetito”, Mandel’štam sta alla larga dai poeti. I suoi interlocutori sono geologi, archeologi, chimici; scienziati, insomma. A Mandel’štam interessa l’immaginazione ‘empirica’, il punto che congiunge poesia e scienza. Gli interessa, per così dire, la zoologia del fraseggio, il modo in cui si sviluppa, per gemmazione e potatura, quella boscaglia di versi. Così scrive in un taccuino: “Fin da bambino sono stato abituato a considerare Darwin un ingegno mediocre. La sua teoria mi sembrava sospettosamente stringata: selezione naturale”. In Armenia – filo mancante a ricucire un cuore malmenato – Mandel’štam trova il luogo di fusione tra letteratura e scienza: > “Con Darwin ho concluso una tregua. Nella mia biblioteca immaginaria l’ho > messo accanto a Dickens. Se pranzassero insieme, il terso della compagnia > sarebbe Mister Pickwick. Non si può non lasciarsi incantare dalla bonomia di > Darwin. È un umorista preterintenzionale”.  Anni dopo, in altro contesto, Italo Calvino scrisse che Galileo Galilei era “il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo” (rispondeva ad Anna Maria Ortese dal trono del “Corriere della sera”, era il Natale del 1967). In quel caso, era una opzione ‘letteraria’, di fatue ‘inclinazioni’; per Mandel’štam è una questione di vita, di clinamen.  * In Armenia, tra l’altro, Mandel’štam scansa le grandi città; preferisce i laghi, le montagne, i borghi col broncio. Ad Aštarak “ho avuto la fortuna di vedere le nuvole che celebravano sacre funzioni al dio Ararat”. In un passo del reportage, il poeta cita Baloo, l’orso del Libro della giungla di Kipling. Nella mia fragile mente, mi piace pensare al poeta come Mowgli: conosce la lingua di tutte le bestie, è inaccettabile alla giungla come al mondo degli uomini – è scaltro e innocente, canta e uccide.  Chissà quando Mandel’štam ha letto il Libro della giungla; chissà se imitava Shere Khan, la tigre, o se preferiva i serafici silenzi di Bagheera, la pantera nata dall’oscurità. Mandel’štam non è poeta abile nel ruggito; ha un passo felpato, conosce l’arte dell’assalto, l’arte dell’indiarsi nelle attese.  Mentre è in Armenia, nella primavera del 1930, Mandel’štam è ammutolito dalla “notizia oceanica” della morte di Majakovskij, il poeta leonino alla Rivoluzione. Eccolo, un poeta che ruggisce! Capisce che con la morte di Majakovskij qualcosa è morto per sempre – l’idea stessa, pur impaniata di sangue, della Rivoluzione. Il viaggio in Armenia è pure questo, nel pudore: compianto sul corpo morto di Majakovskij. I poeti sono come quelli che vanno in battaglia sventolando il vessillo della Vergine: credono nelle milizie angeliche più che nella forza dei droni. Che muoiano, seguaci dell’assurdo, è il loro vanto.  * Intendo dire: pur in viaggio ‘ufficiale’, Mandel’štam diffidava degli ufficiali di partito, tramutò il compito in officio inaccettabile, in un’officina del linguaggio che potremmo chiamare “Ufficio delle tenebre”.  Oh, sì, Mandel’štam sarà pur morto, come dicono, in un campo di transito presso Vladivostok, nel dicembre del 1938; in realtà, egli si è creato un sepolcro in Armenia. Egli è sepolto in quelle tombe che sembrano pietre che levitano: i sepolcri dei santi e dei re, dove si rilassano i migratori tra un’Asia e l’altra, perché il cielo è riposto lì, proprio lì, in quell’anfratto, piegato, come un fazzoletto.  * Prima di partire per l’Armenia, Mandel’štam lavorava al “Moskovskij komsomolec”, un “giornaletto” che permetteva al poeta una “paga così basso che il denaro era sufficiente solo per pochi giorni”. Nel secondo tomo delle sue memorie, Speranza abbandonata – che è poi, un abbandonarsi alla speranza, anche se la speranza, a volte, ha i tratti della iena; questo libro, in Italia, è in catalogo Settecolori – Nadežda Mandel’štam scrive che “nella redazione tutti credevano nel radioso avvenire e si sforzavano di accelerarne la venuta”.  A Mandel’štam l’Armenia pare il nuovo mondo: poco prima di partire, si licenzia. “Ricevette un’attestazione di benevolenza in cui lo si diceva che apparteneva al novero degli intellettuali a cui si poteva dare un lavoro, ma sotto la supervisione dei capi del partito”. Per un poeta da tempo bandito dalle case editrici statali – le uniche in azione – era un gesto di inattesa bontà. Mandel’štam si infuriò, non accettava attestati, aiuti, pericopi di partitocrazia ipocrita – i redattori di quel giornale, durante le purghe, furono decimati.  * Viaggio in Armenia – in Italia: edizione Adelphi, cura mirabile di Serena Vitale – è un libro fantomatico, di araldica bellezza, che non si può circoscrivere in generi. Varia dal reportage al bozzetto, dal poema in prosa al trattato d’arte, dal dibattito scientifico al sulfureo lirismo. Il suo modello è il folgorante Viaggio ad Arzrum di Puškin, il suo delfino è Bruce Chatwin.  Un libro del genere, va da sé, scontentò tutti, soprattutto chi aveva permesso al poeta quel vagabondaggio. Incurante degli obblighi intellettuali verso la patria, Mandel’štam comincia, dopo il Viaggio in Armenia, la propria catabasi negli inferi del sistema sovietico. Vent’anni dopo, nel 1950, Marietta Šaginjan firma il libro che avrebbe dovuto scrivere Osip: il suo Viaggio nell’Armenia sovietica, affascinante resoconto delle sorti progressive dell’impero stalinista, fu tradotto nel resto del mondo, le permise il Premio Stalin. Amica di Sergej Rachmaninoff, armena d’origine, poetessa per vizio, si orientò a Stalin, divenendone fedele – e feroce – scriba. Scrisse un romanzo su Lenin di catastrofico successo. Naturalmente, Nadežda ha per la Šaginjan, “minuscola e incartapecorita”, parole violente: in un passo, descrive il suo “modo ripugnante di baciare la mano alla Achmatova quando le capitava di incontrarla”.  * Da tempo, Silvio Castiglioni lavora nell’opera di Osip Mandel’štam: Un po’ di eternità è andato in scena la prima volta a Lucca, nel 2013 (regia di Giovanni Guerrieri, storico sodale di Silvio). Improprio nominare “spettacolo” questo atto sacro pensato “per Osip e Nadežda Mandel’štam”. Qualche giorno fa l’ho rivisto, in un antro di Cattolica, un ostensorio di pietra, qualcosa come un caravanserraglio, con i tappeti volanti intorno; metteva in scena Viaggio in Armenia. Hanno ragione a chiamare quel libro “luminosissimo addio; un rito d’addio”.  Per chi non lo ha mai visto, Silvio Castiglioni è sempre sbalorditivo. È l’unico attore che conosco a farti capire che la mano è la mano – e la mano è in scena, recita anche lei. Che il dito è un dito, l’unghia un’unghia, il naso è proprio il naso. Castiglioni recita, ovvero: non dice delle parole scritte da altri in uno spazio detto scena. Recinta il corpo nella recita. D’altronde: parola-corpo, verbo che si fa carne; dunque: falange falena, mano lupo, gambe patriarca, gambe binario morto, gambe Orient Express!  Castiglioni è all’oreficeria dell’arte attoriale. Castiglioni ha un corpo soffiato nel vetro – pasta malleabile, sottoposta al fuoco dell’addestramento. Un corpo che può farsi cigno e stoviglia, sfera e sfuriata.  Il rito dura, credo, quarantacinque minuti. Castiglioni interpreta il libro – un libro piccino, indifeso, inaccettato – come lo sono le cose davvero mastodontiche, regali. Castiglioni è Viaggio in Armenia; e dunque: è il burocrate dall’“erudizione troppo chiassosa”, è la biblioteca di cactus e la ragazza bionda, è Osip, il poeta – in fuga dallo stare in scena, troppo cristico per inscenarsi – e le nuvole che flottano su Sevan; è la lama di rasoio sotto la scarpa, per ogni evenienza; è l’uovo sodo – cotto nell’atto – che piaceva tanto al poeta; è una teca di vetro che soffoca il poeta, farfalla sotto lo spillo stalinista; è la poesia sul “montanaro del Cremlino” e il frutto rosso che spergiura un Eden alle labbra. È il coccio, la cocciniglia, la coccinella. E poi: Silvio che si leva brandelli plastici di faccia, lo sfacciato (ergo: una Storia che ti soffia l’identità, la Storia avvolta di senza volto); Silvio che sfila un lenzuolo, lo ondeggia, nostra signora Sherazade, mentre si proiettano immagini dell’Armenia di allora; Silvio che si toglie le burocratiche calze, le ufficiose scarpe, per svelare un piede dorato, spudorato riflesso di voluttuosa regalità; Silvio che regola il viso sotto la panca, s’incapsula lì, e recita quell’ultima, feroce pagina del Viaggio in Armenia, la leggenda del re recluso, e “il sonno ti avvolge di pareti, ti mura”.  Silvio Castiglioni è Viaggio in Armenia Ogni applauso è improprio – al rito segue: sprofondare nel sé – alcuni, al posto dell’anima hanno giunchiglia, infinite stazioni di acquitrini, gli aironi a fare la posta.  * Ha qualcosa di simile al clown e al pope, Castiglioni. Occhi dalla scrittura armena: divorano e possono piangere di ciò che hanno divorato. Se ha valore la parola ‘invasato’, allora, poi, occorre rompere i vasi – che vuol dire, dare rifugio all’acqua, concedere ai cocci di essere Micene, Mosca, kamen, la pietra- Mandel’štam da cui, dopo la distruzione, ripartirà il respiro.  Lapidare, lapidazione di labbra.  * Eccolo, lui: > “Le mosche divorano i bambini, si attaccano a grappoli agli angoli degli > occhi. > Il sorriso di un’anziana contadina armena ha un’inesprimibile bellezza: è > pieno di nobiltà, di sofferta dignità, e del particolare, solenne fascino > della donna maritata. > > Vidi la tomba di un gigantesco curdo dalle dimensioni fiabesche e la presi > come una cosa ovvia”.  Fiaba e calcolo, canicola e canini, Van Gogh e Linneo. Fu Adamo, in Armenia, Mandel’štam.  I morti non urlano più, li abbiamo resi alla betulla, in corde, allievi del merlo e della rupe cincia.  L'articolo “Al nostro cannibalesco appetito”. In Armenia con Mandel’štam proviene da Pangea.
March 21, 2025 / Pangea