È stato Mario Guaraldi, l’editore rivoluzionario, ad incarnare le fotografie di
Marco Pesaresi nelle parole di Pier Vittorio Tondelli. L’edizione di Rimini, “Il
romanzo vent’anni dopo”, a cura di Fulvio Panzeri, stampata da Guaraldi
nell’estate del 2005, alterna le fotografie di Davide Minghini e i ritratti
tondelliani di Fulvia Farassino, alle immagini, prepotentemente spudorate, di
Pesaresi. Un colpo di genio paradossale: Tondelli nasce nove anni prima di
Pesaresi e muore quando il fotografo riminese ha appena fatto il suo ingresso in
Contrasto. È una specie di passaggio del testimone tra generazioni affini e
inavvicinabili: Tondelli muore a metà dicembre del ’91, tre settimane dopo
Freddie Mercury. La sua morte segna la fine di un’era. La morte di Pesaresi,
invece, sempre in dicembre, dieci anni dopo Tondelli, inaugura una nuova era,
brutale: l’Undici settembre del 2001, il World Trade Center di New York viene
sbriciolato da due Boeing 767; alla guida, un manipolo di affiliati ad Al Qaida.
La Storia fa una brusca virata, indossa il sudario.
Da Pesaresi a Tondelli: una specie di inseguimento.
Non c’è sconcezza negli scatti di Pesaresi, ma l’arcana sensazione di vivere
nell’ultimo fuoco, un passo prima della cenere. Si passa, cioè, dal gioco al
rito: i corpi fotografati da Pesaresi sono corpi donati, sono corpi perdonati,
corpi sacramentali. Un rogo di corpi. A volte, ci si spoglia come si indossa un
saio – o uno chador. Al contrario, negli anni Ottanta eletti a idolo da
Tondelli, i corpi si rovesciano come acqua: uno scroscio di corpi di cui non
resta altro che il vuoto, l’eco, il coccio del coccige. Ci si sveste per
rivestire un vuoto, il nulla.
I corpi di Pesaresi, i corpi degli anni Novanta, sono corpi noir, sono corpi da
notte oscura, corpi che ci falciano come un’accetta. Poco dopo, la mania
turistica si sposterà dalle discoteche – Mecca bacchica, il tempio dove si
consuma l’estasi, l’uscita da sé, svaginando le Baccanti in ‘cubiste’ – alle
sagre, il culto di un amarcord da educande. Anche Tondelli si era accorto, poco
prima della dipartita, di questa mutazione dell’essere – la Storia non è
rettilinea: è un rettile. Nel 1990, per la mostra “Ricordando Fascinosa
Riccione”, PVT scrive un saggio esemplare, Cabine! Cabine!, che raccoglie le
“Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica”. In sostanza,
pressoché dal nulla, Tondelli fonda un immaginario della riviera, costruisce una
poetica della Romagna. In mezzo, ci sono Mussolini e Pasolini, Filippo De Pisis
e Raffaello Baldini, Giorgio Bassani e Sibilla Aleramo, ma anche Alberto
Arbasino, Mario Luzi, Dante Arfelli, Valerio Zurlini. Su tutto aleggia un senso
di disincantato incanto – uno schianto.
Ma torniamo a Rimini. Tondelli giurava di aver scritto “il mio libro più
ambizioso”; nelle pubblicità – plateali – Rimini era presentato come “Il romanzo
dell’estate”: ne parlarono tutti, non per forza bene. A Enrico Regazzoni, su
“Linus” (luglio, 1985), Tondelli disse di essersi ispirato a Raymond Chandler e
a Francis Scott Fitzgerald, a Vito Bruno (“Reporter”, 4 giugno 1985) di aver
“fatto solo del rock and roll”, a Michele Trecca (sulla “Gazzetta del
Mezzogiorno”, 28 giugno 1985) che “Esiste un establishment letterario (quello
dei premi, delle pagine culturali dei giornali, dei professori, degli
accademici) che, accecato dai propri fasti, da una cultura ottocentesca, non
riesce a vedere il nuovo, non è assolutamente in grado di vedere il nuovo”.
Il nuovo professato da Tondelli spaventò i vecchi mestieranti del verbo. Il 23
giugno del 1985 Pier Vittorio Tondelli avrebbe dovuto partecipare a “Domenica
in”, portando Rimini in tivù: l’incontro saltò all’ultimo minuto. I giornali
diguazzarono nel torbido (così la “Gazzetta di Reggio”: Tondelli censurato a
“Domenica in”. Sesso e politica fan paura alla Rai; e poi: Pippo Baudo censura
Tondelli); Tondelli denunciò l’infamia: “Nonostante uno degli autori di
«Domenica in» avesse accettato, dopo la solita trattativa, di ammettere il
romanzo alla presenza del faraone [Pippo Baudo; N.d.R.], nonostante un
capostruttura della Rete avesse per tre volte ribadito la presentazione in base
agli intrinseci valori del romanzo, all’ultimo momento pare che sia intervenuto
il direttore della rete, o chi per lui, per bloccare la presentazione. Motivo
ufficiale: come non presentiamo film vietati ai minori, così facciamo con i
romanzi. Più probabilmente, si dice, la storia della misteriosa morte del
senatore cattolico (la parola democristiano non viene mai fatta nel libro) e
alcune sequenze erotiche hanno turbato i dirigenti televisivi così come
nell’80 Altri libertini turbò l’allora magistrato de L’Aquila Bartolomei, fino a
spingerlo al sequestro”.
Qualche giorno dopo, l’ebbrezza toccò ineguagliate guglie. Il 5 luglio del
1985 Rimini viene presentato al Grand Hotel; l’atmosfera di ispirato edonismo è
ricordata con queste parole da Roberto ‘Dago’ D’Agostino, il mattatore della
festa: “Tondelli aveva magnetizzato i gay d’Italia… A un certo punto, tutto
pronto per la presentazione, invitati già accalcati, fui incaricato di andare a
chiamare Tondelli in camera. La porta era semi aperta e quello che vidi –
gang-bang di corpi maschili rovesciati sul letto – ha sempre rappresentato per
me un quadro-vivente di quegli anni, terribili e bellissimi. Un ‘sogno bagnato’
che Tondelli aveva svelato con i suoi libri”. Un paio di anni prima, il Grand
Hotel era stata la cornice della ‘prima’ di E la nave va, il più malinconico dei
film di Fellini: in prima fila, insieme al regista, lo Zeus di Cinecittà, c’era
Umberto Eco; Mario Guaraldi – ancora lui – dirigeva le danze.
Nella biblioteca di Marco Pesaresi – angusta, augustea – non ricordo libri di
Tondelli: ricordo Hermann Hesse, Dino Campana, Byron e Bakunin. La poesia come
anarchia, il viaggio come brigantaggio dell’io. Pesaresi aveva una Transiberiana
nel cuore; aveva cominciato a Londra, intuendo nel sottosuolo del tube il sole
dell’India, il volto di Indra. Per un’idea di “colonna sonora” di Rimini,
Tondelli scelse Leonard Cohen e i Duran Duran, I Wanna Be Loved di Elvis
Costello e Time After Time di Cyndi Lauper, Prince, gli Smiths e i Talkin Heads.
Probabilmente Pesaresi ascoltava gli stessi pezzi.
Il punto, tuttavia, è altro. Provo a dirlo così: la differenza tra nudità e
spoliazione. C’è chi si denuda mostrando una maschera; chi, nudo, ha più abiti
di quando è vestito. La nudità che non prevede spoliazione – cioè, un lento
disfarsi dell’io, la resa all’inverno della carne – è una menzogna. L’attuale
spaccio dei corpi – da YouPorn a OnlyFans – ha questa dimensione: la nudità non
svela, non rivela e non svilisce. È avvilente. È una nudità-maschera. Una nudità
travestita. Una nudità in vesti. Non c’è vestizione né spoliazione in quella
nudità.
Eppure: la carne è effimera, passa, ma il corpo è tutto. Corpo: crisalide dello
spirito.
Pesaresi fotografa la spoliazione. L’attimo in cui il corpo nudo, spoglio di
tutto, finalmente disinibito, finalmente fuori di sé, si fa pasto a chi lo
guarda. È un corpo a precipizio. Un corpo eucaristico, un corpo cibo – se vuoi,
puoi masticarlo. Tutto, ormai, è spezzato. Non osate ricomporre, ora, ciò che è
stato offerto per sempre.
Questo pensiero è dedicato a Mario Guaraldi, quasi un padre
*A Rimini, presso i Palazzi dell’Arte (Piazza Cavour), è in atto fino all’8
dicembre 2025 la mostra di Marco Pesaresi “Rimini proibita”. A cura di Jana
Liskova e Mario Beltrambini, la mostra mette in relazione gli scatti di Pesaresi
– di cui nel testo si pubblicano alcuni esemplari – al romanzo di Pier Vittorio
Tondelli, “Rimini” (1985). Il catalogo della mostra è edito da NFC edizioni.
L'articolo Pier Vittorio Tondelli e Marco Pesaresi. Tra nudità e spoliazione
proviene da Pangea.
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Don McCullin nasce a Londra nel 1935, crescendo durante la guerra, fra case
diroccate e bombardamenti, nel quartiere popolare di Finsbury Park, dove
scatterà le prime fotografie, a vent’anni, dopo aver svolto il servizio militare
per la Royal Air Force, ritraendo una banda di Teddy Boy, i Guvnors. La sua
prima fotografia pubblicata mostra i Guvnors in un palazzetto distrutto dalla
guerra. Gliela compra l’“Observer”, stampandola a mezza pagina e chiedendogliene
altre. Don McCullin diventa così un fotografo freelance, lavorando per
l’“Observer” e il “News Chronicle” e la rivista “Town”, viaggiando per
l’Inghilterra in cerca di scatti e abbandonando Finsbury Park, il suo quartiere
d’infanzia.
Nel 1961 la Repubblica Democratica Tedesca comincia la costruzione del muro di
Berlino, e lui decide di andarci a proprie spese, realizzando un portfolio che
sarà premiato dalla British PressAward e che gli frutterà il primo contratto da
professionista, sempre con l’“Observer”. Intanto si è sposato, e di lì a poco
diventerà padre. Ma non rimarrà molto in famiglia, troppo irrequieto per vivere
a lungo nello stesso posto. Nel 1964 parte per Cipro, dove copre l’invasione
turca; qui farà i suoi primi, grandi scatti di guerra, che l’anno successivo
saranno premiati dal World Press Photo. È il suo primo incontro con l’orrore
della guerra. In uno scatto un miliziano turco esce da una casa, di corsa, con
il fucile fra le mani: un’immagine oggi famosa. In un altro una donna piange due
uomini morti, riversi in una pozza di sangue, il marito e il fratello. Don
McCullin scoppia in lacrime, muovendosi a fatica intorno ai cadaveri, componendo
le fotografie “nella stessa maniera in cui Goya dipingeva o abbozzava i suoi
disegni di guerra”, come racconterà anni dopo nella sua
autobiografia, Unreasonable Behaviour, Un comportamento irragionevole, scritta
con Lewis Chester.
Lui è Don McCullin
Le immagini si susseguono. Una donna piange il marito morto, con il figlio
accanto, stringendo le mani ossute; degli uomini trascinano il cadavere di un
vecchio lungo una strada, di fianco a un carro armato; una ragazza turca cammina
imbracciata a un fucile, decisa a vendicare la morte del fratello. Sono scatti
in bianco e nero, istantanee della morte e del dolore che testimoniano la
ferocia e l’insensatezza della guerra, di ogni guerra. È lo sguardo delle
vittime, la loro disperazione e la loro forza, il loro urlo contro gli
assassini.
> “Speravo di aver catturato nelle mie fotografie un’immagine duratura che si
> sarebbe impressa nella memoria della gente” ha detto Don McCullin. “Cercavo un
> simbolo – anche se allora non mi sarei espresso in questi termini – che
> potesse rappresentare l’intera vicenda e avesse la forza d’impatto dei riti e
> delle icone religiose.”
Negli anni successivi Don McCullin continua a viaggiare, di guerra in guerra:
Vietnam, Congo, la Guerra dei sei giorni a Gerusalemme, ancora Vietnam, dove
tornerà oltre quindici volte, Nigeria, per la guerra di secessione del Biafra,
di nuovo Vietnam, nella cittadina di Hue, dove scatterà la sua fotografia forse
più conosciuta, quella del marine traumatizzato, con le mani strette intorno
alla canna del fucile.
Ogni sua immagine è una storia, un momento che si racconta attraverso gli
sguardi o i gesti, le posizioni delle mani e delle braccia e le smorfie sui
volti. Viene in mente la poesia Torture, di WisławaSzimborska:
> “Il corpo si torce, si dimena e divincola,
> fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,
> illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.”
Gli uomini piangono e si disperano o fissano semplicemente l’obiettivo, cioè Don
McCullin che fotografa, oppure sono morti, come il soldato vietnamita riverso al
suolo, nella cittadina di Hue, con le sue fotografie di famiglia sparse accanto
a sé.
Fra una guerra e l’altra, di viaggio in viaggio, Don McCullin trova il tempo di
fotografare anche i Beatles, a Londra, e di passare per la Cuba di Fidel
Castro, dove conosce la scrittrice Edna O’Brien, che diviene sua amica e gli
dedica una poesia, First the lions, then the vultures, Prima i leoni, poi gli
avvoltoi. È il 1968. Don McCullin è ormai un fotografo rinomato, fra i migliori
fotografi di guerra al mondo, anche se odia quest’espressione, “fotografo di
guerra”, dicendo che suona come un’accusa di comportamento mercenario. Le sue
immagini, in un chiaroscuro fatto di ombre e luci, sempre composite, ritraggono
la miseria, la disperazione, la fame, la malattia, la guerra, ma non solo:
alcuni suoi scatti sono momenti di rara bellezza, come il ritratto di Patience,
nel Biafra, una ragazza sedicenne denutrita eppure bella, che guarda il
fotografo con uno sguardo pieno di dignità e dolcezza.
Nel 1970, in Cambogia, Don McCullin viene ferito alle gambe, da una raffica di
mitra. Cerca di salvarsi, trascinandosi con le braccia fra cumuli di cadaveri e
soldati in fuga, strisciando nel fango.Finalmente lo caricano su un camion,
portandolo via. Riuscirà a tornare in Inghilterra, anche se non vi resterà a
lungo, nonostante le ferite, ripartendo quasi subito per il Bangladesh, in
India, dove farà un reportage su un’epidemia di colera. Qui le fotografie sono
terribili, come nelle guerre. Una famiglia piange la madre morta, in un campo
deserto. Dei malati di colera si rigirano sul pavimento, in preda al dolore,
come insetti schiacciati. “Nessuna salvezza, in quegli scatti” ha scritto Guido
Ceronetti, in Ti saluto mio secolo crudele, “l’uomo è privo di ali, l’uomo è
senza il soccorso divino, l’uomo è solo.”
L’uomo è solo anche nella guerra. Don McCullin torna in Vietnam e in Cambogia,
poi in Medio Oriente, per la guerra del Kippur. È come una droga, dice in
un’intervista: non può fare altro che partire, di guerra in guerra, accumulando
orrori.
“Quando tornavo in redazione con le mie fotografie” racconta, “il caporedattore
esclamava: ‘Che orrore! Sarà una buona doppia pagina!’, o: ‘Povera gente! Che
grande copertina!’. E io accettavo il loro gioco, non chiedevo altro che di
ripartire per la prossima guerra, era diventata la mia droga.” E poi:
> “Non è finita, non lo sarà mai. Non ci sarà un giorno senza questi flashback
> nella mia testa. Non posso attraversare una via di Belgrado, o entrare da
> Harrods, o passeggiare sulle colline del Somerset, senza che queste immagini
> ritornino, come gli spot alla televisione. Delle persone nell’ingresso di un
> palazzo di Beirut, in lacrime, mentre i miliziani ricaricano le loro
> mitragliatrici. Li hanno massacrati qualche minuto dopo, davanti a Gilles
> Caron e a me. Ci siamo scambiati uno sguardo, stringendo le palpebre, e non
> abbiamo detto una parola per il resto della giornata.”
Gilles Caron era uno dei più cari amici di McCullin, anch’egli fotografo di
guerra, scomparso in Cambogia nel 1970, probabilmente ucciso dai Khmer rossi.
Nel 1972, in Uganda, Don McCullin viene arrestato dai soldati del dittatore Idi
Amin Dada. Lo rinchiudono in prigione, lo picchiano, lo torturano, per poi
espellerlo a vita dal paese. Più tardi, prefaendo un suo libro di
fotografie, Hearts of Darkness, John Le Carré scriverà:
> “Don McCullin ha conosciuto tutte le forme di paura e ne è diventato un
> esperto. È tornato indietro Dio sa da quanti precipizi, e nessuno assomigliava
> all’altro. Le sue esperienze in una prigione ugandese basterebbero a far
> perdere per sempre il senno a un uomo, di certo a un uomo come me. Dice di
> essersi giocato la vita più volte di quante riesca a ricordare, ma non se ne
> vanta.”
Seguono altri orrori, specie il massacro dei palestinesi a Beirut, in Libano, a
Sabra e Chatila, nel 1982, o la guerra civile in Salvador, dove sarà ferito
ancora, cadendo da un tetto. Ma ormai Don McCullin è stanco. Ha visto troppe
guerre, troppo dolore, e poi sente che la sua fortuna sta per esaurirsi e non
vuole finire come il suo amico Gilles Caron o come Dana Stone o Sean Flynn o il
giapponese Kyoichi Sawada, tutti morti o scomparsi; non vuole morire.
Nel 1985 fotografa i riti religiosi dei pellegrini lungo le sponde del fiume
Gange, in India, dove si reca da anni, uno scenario di quiete; poi comincia a
ritrarre paesaggi e nature morte, in Inghilterra, nel Somerset, nei dintorni di
casa sua. “La mia ora preferita è il crepuscolo” spiega, “non posso non
desiderare che tutto divenga sempre più scuro.” Passa ore intere nel suo
laboratorio, sviluppando immagini. Sono paesaggi cupi, come scattati alla fine
del mondo, nei confini dell’animo umano, fatti di silenzio e oscurità. Sembrano
un epilogo a tutte le guerre che ha vissuto.
> “Immagina di guardare negli occhi di una persona che sta per essere
> giustiziata davanti a te e che ti implora di aiutarla” dice Don McCullin, “ma
> tutto quello che puoi fare è scattare una fotografia e andartene. Quando te ne
> vai, se hai ancora un briciolo di umanità, il tuo cuore è pesante come una
> pietra. Non stiamo parlando di fotografia, ma di una responsabilità molto più
> grande. Io mi porto dietro il peso di quel senso di responsabilità, e di
> colpa. Per questo cerco di alleggerirmi da quel carico facendo fotografie di
> nature morte e di paesaggi. Fotografando i campi allagati, gli alberi spogli,
> il paesaggio antico come le leggende di re Artù ai margini del mio villaggio
> nel Somerset, ho la sensazione di purificarmi da quella colpa.”
Non andrà più in guerra, Don McCullin, con l’eccezione di un breve viaggio in
Iraq, nel 1992, a quasi sessant’anni. Le sue fotografie ormai sono esposte nelle
gallerie di tutto il mondo, a Londra, a Parigi, a Berlino, a New York; nel 1993
la regina Elisabetta lo nomina commendatore dell’Impero britannico e dottore
honoris causa dell’Università di Bradford: una bella rivincita, per uno che non
poteva pagarsi gli studi e che è stato bocciato all’esame di fotografia della
Royal Air Force.
Nei suoi libri di fotografie (The Destruction Business, Hearths of
Darkness, Open Skies, Sleeping With Ghosts, Don McCullin in Africa, Don McCullin
in England) si vedono cadaveri trucidati e divelti e volti sfigurati, figli
mutilati e deformi e madri in lacrime e manicomi deserti e bambini legati ai
letti, a Sabra, sotto i bombardamenti israeliani, oppure la sua Inghilterra – il
cimitero della famiglia Brontë avvolto dalla foschia, un collezionista di teschi
londinese, un gruppo di skinhead adolescenti che prendono il sole, dei pescatori
che giocano a calcio su una spiaggia, un gregge di pecore che si avvia al
macello, all’alba, immagine di finitudine, un barbone malinconico e selvaggio,
simile a Nettuno, che fissa l’obiettivo con grande dignità.
Don McCullin è uno dei grandi testimoni del nostro tempo, non solo per le
fotografie di guerra, immagini dell’orrore e della miseria umana, ma anche per i
suoi scatti dell’Inghilterra e per i suoi paesaggi, le terre deserte e cupe del
Somerset o i campi di battaglia della Somme, in Francia, una delle sue prime
fotografie del nuovo secolo, quasi un monito a ogni guerra presente e futura. Il
suo percorso di fotografo, dai sobborghi di Londra al Vietnam al Biafra a
Gerusalemme fino alle tribù primitive delle isole Mentawai, esplora le
profondità umane e disumane del Novecento, il cuore di tenebra del secolo
ventesimo e forse, da ultimo, la nostra colpevolezza, nelle lande desolate di
una terra ormai priva dell’uomo, senza più guerre, nel silenzio di ogni cosa,
fin dove si spinge lo sguardo – cioè l’obiettivo – di Don McCullin, e forse
ancora più oltre.
Edoardo Pisani
*In copertina e nel testo: fotografie di Don McCullin
L'articolo Don McCullin, l’uomo che ha fotografato il cuore di tenebra del
secolo proviene da Pangea.
Milano, fine luglio. Cielo altero, immacolato. Piazza Duomo è sommersa, more
solito, da policromi sciami umani, torme di piccioni quasi addomesticati,
esagitazioni vocali e sorrisi posticci a beneficio di autoscatto.
Noi scegliamo Palazzo Reale, una retrospettiva di oltre trecento opere dedicata,
in occasione del primo centenario dalla sua nascita, a Mario Giacomelli
(Senigallia, 1 agosto 1923 – Senigallia, 25 novembre 2000), fotografo radicale
fra i più influenti del Novecento. Il titolo della mostra è emblematico: Mario
Giacomelli. Il fotografo e il poeta.
Ci immergiamo senza esitazione nella nera carena della prima sala. Le luci al
soffitto sono cecchini discreti puntati sulle immagini incorniciate. Immagini o
illusioni, non si sa ancora. E non si sa nemmeno se avvicinarsi o scegliere la
visione d’insieme, a distanza, lo sguardo che erra, si confonde, naufraga in uno
smarrimento in bianco e nero.
Quante saranno le raffigurazioni che tracciano ogni parete in un’avvicendarsi di
chiazze d’oscuro e di lume?
Ci fermiamo, al centro della sala, socchiudiamo gli occhi e poi li riapriamo,
accostandoci ai segni di materia che promanano dalle cornici: sembianze vaghe,
talora invece nettamente profilate, in ogni caso, sempre definite soltanto dal
nostro sguardo. Non dal Suo, che è già oltre, nel movimento che tende
all’infinito, all’indistinto.
Lo sguardo di Mario Giacomelli è sempre oltre, anche prima di scattare, anche
dopo, nella camera oscura, quando la materia diventa irreale, il visibile
tracima nell’invisibile, nel sembiante della trascendenza. Lui cerca
quella. Cerca di afferrare la trascendenza, senza fermarla, respinge il tempo,
rifiuta l’idea di sospensione radicata in un certo concettualismo fotografico;
attualizza, semmai, il passato, riesuma ciò che è finito, restituendogli nuova
vita: “le mie foto” – scrive in un appunto – “sono il presente e il passato: lo
spazio ed il tempo ridotti ad un segno unico”[1].
E che sia buio, luce, cranio brulicante di farfalle-stelle o campo arato, che
siano preti, gatti, uccelli, bocche sdentate o scheletri arborei, che siano case
a mucchi o semplici macchie, che sia vita o morte, nulla cambia. Il fermento, il
moto sulla soglia – fra ciò che è e ciò che non è più, ma in altro modo comunque
sarà – è il sigillo con cui Mario Giacomelli lavora sull’immagine, e prima
ancora sui luoghi, sugli oggetti, sui volti, predisponendoli, arruffandoli,
spostandoli, inventandoli, per valicare l’implacabile leopardiano “orizzonte che
lo sguardo esclude”, e tendere all’ἄπειρον (ápeiron), riconciliando così materia
ed evanescenza, presente e passato, memoria e immaginazione.
Mario Giacomelli riesce, nell’epoca della fotografia analogica, a penetrare e
oltrepassare la materia, dunque il reale, indegno della complessità della vita,
e riesce a farlo partendo – fra l’altro – dalla poesia, il gesto che, forse più
di tutti, ha accesso all’invisibile e che, in ogni caso, accompagna tutta la sua
vita.
Non è un poeta stricto sensu, Giacomelli, anche se si cimenta nella scrittura di
versi, ma di certo incorpora lo spirito dei poeti a lui cari (Leopardi,
Cardarelli, Dikinson, Masters, Montale, Corazzini, Luzi, Borges, Caproni,
Permunian) e impara, col tempo, a tradurlo in immagini, sperimentando le più
svariate tecniche fotografiche: “lo sfocato, il mosso, la grana, il bianco
mangiato, il nero chiuso, sono come esplosione del pensiero che dà durata
all’immagine, affinché si spiritualizzi in armonia con la materia”[2].
È nel cenacolo di Giuseppe Cavalli, fotografo e intellettuale raffinato, che il
giovane Mario – costretto al lavoro in una tipografia da quando ha tredici anni,
dopo aver perso il padre a nove – riceve l’iniziazione, si accosta alle più
svariate forme d’arte, ascolta Bach, legge Eliot e Croce, orienta la propria
indole romantica e decadente verso l’apprendimento, da autididatta, della
fotografia artistica. Fa propri i dogmi dei maestri per domarli, sconcertando
sin da subito l’ambiente fotoamatoriale: i suoi primi lavori (come la serie Vita
d’ospizio, cui si dedica a partire dal 1956, e che è ispirata all’ospizio di
Senigallia dove lavora la madre) vengono puntualmente scartati ai concorsi,
poiché Giacomelli infrange i dictat dell’epoca, le regole
del reportage bressoniano, intervenendo nella realtà e alterandola, prima e dopo
la cattura (si pensi ai bianchi e ai neri bruciati dal flash, alle cesure, alle
sovraimpressioni). Interventi che allontanano il Nostro dal realismo in voga in
quegli anni e dalla ricerca della purezza stilistica dello scatto. Nel
parallelismo fra animato e inanimato, l’ospizio ritratto da Giacomelli svela i
volti e i corpi dei vecchi, ripresi in posture oblique e traballanti, la
pelle-corteccia fessurata dalle stesse crepe dei campi arsi dal sole, il buio
delle cavità oculari che mangia lo sguardo predisponendolo alla mèta ctonia, e
somiglia a quello delle fosche finestre dei casolari diroccati ritratti in altre
fotografie della serie.
Quel lavoro segna l’inizio del viaggio nella fotografia metafisica, anzi
poetica, di Mario Giacomelli, che insegue l’uomo, pencolante tra forze
contrapposte, con la sua tragica fragilità, e lo ritrova sulla soglia di una
perenne metamorfosi, lo trova fra ruderi isolati, annidato fra gli anni di un
tronco, in suggestioni di caligine, fra contorsioni di ferri neri e pezzi di
cemento, o ancora issato a cieli consunti, accecanti. L’uomo di Mario Giacomelli
pulsa nei controluce, nei profili di un masso strangolato dal buio, o ancora in
una folla di teste illuminate come cerini accesi nel nero.
Nello sguardo di Giacomelli, come in quello del poeta, il paesaggio (legato, nel
suo caso, al mondo contadino dal quale proviene) si fa esperienza interiore,
attraverso l’uso del simbolo, ed è, come annota lui stesso:
> “atto di espressione totale dove sento lievitare la natura, il flusso
> traumatico del tempo. È la dimensione dello spazio ridotto a una emozione
> unica, ad una estensione della mia esistenza dove il quotidiano, il ripetitivo
> viene come filtrato dal fluente dell’immaginazione”[3].
Non si può dire che Giacomelli ritragga il paesaggio; semmai, come sostiene
sempre lui, raffigura “i segni, le memorie della esistenza di un ‘mio’
paesaggio. Non voglio che sia subito identificato, preferisco che si pensi a
certi segni, alle pieghe che l’uomo ha nelle sue mani.”[4]
È una fotografia meditativa, immaginifica, quella di Mario Giacomelli, fatta di
lacerti figurativi, di tensioni fra luci e ombre, di audaci frammenti e
composizioni radicali, in cui anime e oggetti si accordano per proiettare i
segni dell’inconscio. “…segni”, osserva sempre il Nostro, che “vengono come
vivificati per una loro architettura e costruzione visiva, come a sfidare le
cose reali.”[5]
Ce ne accorgiamo subito, sin dalle prime sale dedicate alla retrospettiva. Qui
proveremo a soffermarci su alcune di esse e a dare una lettura (istintiva,
dunque, senz’altro inadeguata) di alcuni dei lavori esposti, invitando il
lettore a regalarsi un’esperienza immersiva di formidabile intensità nell’arte
di Mario Giacomelli.
*
La serie L’infinito (1986-1988), ispirata all’omonima lirica leopardiana[6],
viene realizzata in seguito all’incontro di Giacomelli con Luigi Crocenzi
(1923-1984), eclettico fotografo e intellettuale con cui il Nostro intrattiene
un epistolario negli anni Sessanta e da cui apprende le teorie del fotoracconto
e del montaggio per immagini, cominciando a praticare la fotografia come
concatenazione di immagini destinate alla narrazione.
La lettura del celeberrimo componimento è innesco potente, un ponte verso la
trasposizione metamorfica della parola in immagine. L’infinito, per Leopardi, è
una percezione che scaturisce dall’incontro con un’area tangibile e circoscritta
(il colle di Recanati, la siepe), oltre la quale si staglia la
sconfinata ouverture dell’immaginazione, della memoria. Ecco, Giacomelli traduce
tale percezione poetica in una precisa tensione fotografica, combinando, da un
lato, materie solide e impenetrabili (strade asfaltate, muri, finestre profilate
di luce, campi geometricamente arati, linee lignee), dall’altro, suggestioni
evanescenti (ombre di solitudini, paesaggi sui quali piovono aghi di luce o
bagliori simili a stelle, volti sfocati, stormi di uccelli su sfondi nuvolosi in
dissoluzione), queste ultime ottenute grazie all’effetto del mosso o delle
doppie esposizioni.
L’astrazione è la cifra della serie, che si apre con il bianco assoluto e si
chiude con il nero assoluto (per usare le espressioni di Alessandro Giampaoli,
uno dei curatori del catalogo uscito, proprio sul lavoro fotografico in
commento, per Silvana Editoriale[7]); ma ciascuna delle tinte si definisce
attraverso il suo opposto, a testimoniare quella circolarità e quella ciclicità
che Giacomelli individua come caratteristiche precipue dell’infinito. Una parete
ci stordisce: su di essa campeggiano sedici catture incorniciate, una visione
d’insieme lisergica, fatta di righe e geometrie inusuali che si confondono in
un’unica figura: il confine. Ma poco più in là, la materia perde peso, il bianco
e nero si sfuma, e lo sguardo può tornare, infine, al dolce naufragare. Prima di
lasciare la sala, sussurriamo ripetutamente l’ultimo verso della lirica, nella
suadente traduzione di Philippe Jacottet: Et m’abîmer m’est doux en cette mer.
*
Bando è il titolo di una lirica[8] di Sergio Corazzini, poeta amato in gioventù
da Giacomelli per la sua tragica vulnerabilità, e alla cui opera complessiva si
ispira l’omonima serie in esposizione a Milano. Il lavoro, realizzato fra il
1997 e il 1999, omaggia i temi cari al poeta romano, che hanno a che fare coi
tessuti costitutivi dell’essere, come l’innocenza profanata, la malattia, la
morte, la fragilità, la preghiera monca al cospetto dell’inaccessibilità di
Dio.
La serie (composta da gruppi di quattro opere, lo spazio fra le quali delinea il
segno di una croce) ci permette di intravedere nella cattura dei singoli istanti
le tracce del rituale cui si consacrava il fotografo prima dello scatto, ossia
la fabbricazione concettuale e materiale dell’immagine. Giacomelli, si è
poc’anzi osservato, trascorreva ore ad apparecchiare lo spazio, raccimolando
materiali e detriti, operando spostamenti, inventando installazioni; tutto allo
scopo di aprire un varco che favorisse la connessione fra il mondo esterno e
quello intimo che passa attraverso lo spirito, dunque lo sguardo. Uno sguardo
visionario, il suo, come si evince dalle immagini astratte e potenti che
declinano questa serie; immagini che raffigurano l’ingrandimento del caos della
materia, appositamente allestita per la cattura, e successivamente disintegrata,
smarginata, e finanche scarabocchiata, in ogni caso sempre manipolata nel
rituale postumo della camera oscura, attraverso le tecniche più svariate e
l’utilizzo di particolari carte fotografiche.
In un appunto vergato a mano da Giacomelli ed esposto in bacheca, leggiamo:
> “Credo che la stabilità di una immagine sia nello smarrimento del fotografo di
> fronte all’oggetto”.
Ma ora, nell’assenza dell’artista, è tutto nostro lo smarrimento al cospetto di
immagini che somigliano a lacerti di sogno rappezzati, specchi di un inconscio
arreso alla luce.
*
La serie forse più conosciuta di Giacomelli mutua, invece, il titolo da un verso
di Padre David Maria Turoldo, Io non ho mani che accarezzino il volto[9], e ci
presenta un simposio di giovani seminaristi ripresi nella loro quotidianità, in
attimi di gioco e di danza; da un certa distanza, girotondi di nere talari
spiccano a contrasto con la terra innevata ed evocano nugoli di uccelli librati
nel cielo. Netta è l’intenzione di Giacomelli di dissacrare la sacralità in
favore dell’uomo, denudato sino all’incoscienza del bambino balordo di gioia,
facendo a pezzi il simbolo, fotografando l’altro, l’oltre. L’installazione
restituisce una dinamica potente, e la circolarità di certi movimenti traccia
suggestioni sospese fra il sacro e il profano. L’azione risiede, com’è ovvio,
nel movimento dei corpi, ma noi la avvertiamo anche nelle parole, forse persino
nelle grida di diletto, che immaginiamo squarciare il silenzio claustrale di una
nevicata inattesa, mentre un poeta, “salvatore di ore perdute”[10], da qualche
parte si fa silenzioso custode delle solitudini del mondo.
*
Nella stessa sala dei seminaristi, troviamo il celeberrimo Bambino di Scanno,
scatto che appartiene a una collezione esposta al MOMA di New York. Scanno è un
borgo abruzzese, fiabesca colonia di case di pietra, scale e angiporti, e meta
di artisti del calibro di Henri Cartier-Bresson e Gianni Berengo Gardin (da poco
scomparso). Il celebre scatto di Giacomelli raffigura, fra due donne-sentinelle
a capo chino, in abiti neri come da usanza, e che sembrano avanzare verso
l’esterno dell’inquadratura, un fanciullo con le mani nelle tasche, che si
staglia netto nella sfocatura pervasiva dell’immagine. Il colletto della camicia
abbacina, creando attorno al corpicino un’aura che si sparge sino ad altre due
figure femminili sullo sfondo. E noi che lo guardiamo sappiamo che la solitudine
non si confonde mai, salta agli occhi, e illumina i suoi impotenti testimoni.
*
C’è poi l’amore, un tema che percorre trasversalmente qualsiasi meditazione.
Giacomelli ne fa quasi una composizione teatrale nella serie intitolata A
Caroline Branson da Spoon River (1967-1973)[11], ispirata, appunto, all’omonimo
componimento di Egard Lee Masters. Il lavoro trae origine da una sceneggiatura
di foto-racconto a cura di Luigi Crocenzi, destinata alla televisione.
Giacomelli, tuttavia, rifiuta la trasposizione fedele del testo lirico in
immagini e, in un secondo momento, riprende le fotografie scattate per il
progetto (dal 1971 al 1973), sovvertendole – in particolare, attraverso la
tecnica della sovrimpressione – in modo da esprimere un universo emotivo non già
supino al testo poetico, ma traslato.
La serie rappresenta una passione amorosa che affonda nei corpi degli amanti e
nell’immenso assoluto corpo della Natura. In un sogno di spighe in controluce,
oppure al riparo di fronde nerastre, sotto nivee nubi, nella danza fluttuante
dei capelli dell’amata[12] e nel moltiplicarsi dei volti, lì pulsano le bocche,
gli occhi e gli abbracci degli amanti; pulsano sino alla tragica consapevolezza
che “la rapita estasi della carne”[13] un giorno sarà alle loro spalle, “come un
cantico finito”[14]. Per questo i duei cuori che un tempo avevano passeggiato
“come stelle alla deriva”[15], scelgono il patto mortale: “Uno stelo della sfera
terrestre, / fragile come luce stellare, / in attesa di esser di nuovo gettato /
nel flusso della creazione”[16].
Una passione, quella narrata in questa serie, che rifiuta le monotone mura di
una stanza e la distratta condivisione di un caffè, anche a costo della morte. E
di questa passione Giacomelli ci offre, fra le altre, una cattura dall’alto,
nella quale campeggiano due vaste bianche stratificazioni, come due morbide
onde, cremose, che si inseguono, allo stesso modo in cui, in altri scatti, gli
amanti si rincorrono, verso la terra nera, che sembra voler fuoriuscire
dall’inquadratura; e, al di sopra, come spesso accade nell’immaginazione del
fotografo, al di sopra di ogni delimitazione spaziale, si libra, in un cielo
smangiato dai contrasti, un nugolo di uccelli neri, punteggiatura di un confine
che si scompagina, come accade talvolta anche all’amore.
*
Il teatro della neve è il titolo di un componimento di Francesco Permunian[17],
due esili terzine che dicono di una solitudine senza sogni, di una rassegnazione
e di un “vento malsano [che] “sbatte / e ribatte” giorni che sono “bandiere di
sconfitta”. Il poeta ci offre di quei giorni arresi un’immagine icastica, li
paragona a “bianchi lenzuoli in un labirinto di specchi”. Giacomelli traduce
questi versi in una serie di raffigurazioni il cui l’astrattismo è fatto di
rimandi, di richiami simbolici: ci troviamo infatti immersi in un avvicendarsi
di paesaggi, spigolosi, geometrici, le cui sembianze sembrano voler suggerire
proprio quel gioco di specchi che viene evocato nella lirica. L’uomo è assente,
o forse lo si può immaginare come una figura in filigrana sovrapposta a quegli
scenari naturali desolati, testimonianza della sua irrimediabile solitudine.
Iconico, su tutti, è lo scatto che raffigura alcuni teli così sottili da
sembrare garze, appesi a una siepe di rovi, sventolanti in uno squarcio di nubi
che abbacinano, e trafitti come da una luce sovrannaturale che ne evidenzia
spettrali trasparenze. È lì, al cospetto di quella immagine, che sentiamo anche
noi sfilare i giorni, ripetitivi nell’assenza di sogni, e per questo
disorientanti, è lì che ci sentiamo in balia, così fragili da poter essere
trapassati e lacerati persino da una scheggia di luce.
*
Muore la madre nel 1986, e la matrice del senso della vita si disfa, i
sentimenti e lo sguardo s’interrano. La fotografia di Mario Giacomelli si
orienta verso una dimensione ancora più intima, amoreggia con la biografia,
s’intrama sempre più nella poesia.
Intorno al 1924, Eugenio Montale scrive una lirica intitolata Felicità
raggiunta…[18]; in due sole strofe (composte da cinque versi ciascuna), il poeta
restituisce l’essenza del mistero della vita, racchiuso nella perenne
inconciliabilità fra la pienezza della felicità, così difficile da raggiungere,
e l’inesorabilità di certi dolori, capaci di annientarla, di farne desiderio
dimidiato anche nell’istante dell’appagamento. Montale ci offre l’immagine di
una disperazione infantile, quella del bambino che vede fuggire il pallone fra
le case, e sa di non poterlo più riavere. Giacomelli rovescia la prospettiva e
cattura il momento della felicità infantile: il volo indimenticabile
dell’altalena, promessa di cielo. Tutto, nello scatto che stiamo osservando,
prospetticamente si abbassa, al cospetto della felicità raggiunta: le montagne,
la linea spezzata dei tetti di un paese in controluce. Ma occorre il
contraltare, poiché la felicità è manichea, la felicità non è senza il suo lato
antinomico: intorno all’altalena, altre immagini traducono il peso e la frattura
del dolore. E allora ecco che osserviamo un esterno in cui domina la sfumatura
di un nero lugubre e lì in mezzo notiamo l’immota e consapevole solitudine di
due uccelli appollaitai su rami filiformi, o forse inspiegabilmente sospesi in
un nulla. Poi gli occhi deviano sopra un terreno innevato di un bianco arso e
abbacinante, crepato e bucherellato, dal quale sorgono vecchie griglie
ornamentali abbandonate, in mezzo a tronchi d’alberi. E infine scorgiamo il peso
sfumato della pena nell’ombra di una trilogia arborea che sembra tremare su di
uno sfondo, ça va sans dire, bianco, ancorché sporcato da un fumo che non ne
intacca il dramma.
La felicità spicca nel contrappeso, nella sostanza palingenetica del dolore.
*
L’ultima serie di cui vogliamo lasciar qui traccia riguarda lo sradicamento, la
perdita delle origini che si fa esiziale, come è accaduto, fra gli altri, a
Franco Costabile (Sambiase, 27 agosto 1924 – Roma, 14 aprile 1965), poeta
meridiano assoluto, “disperato di Sud”, morto suicida a soli quarant’anni.
Costabile, calabrese, è il trauma stesso della sua Calabria, il trauma
dell’allontanamento forzato. Poesia rabbiosa e tragica, la sua, connotata da uno
sguardo sul e nel dramma, che ben si apparenta a quello di Giacomelli.
L’incontro fra i due, in effetti, è fatale: Il canto dei nuovi
emigranti[19], inno fluviale e spietato scritto da Costabile nel 1964, narra,
attraverso una versificazione convulsa, e l’uso di una lingua scabra ed esatta,
la diaspora del grande esodo calabrese del secondo dopoguerra; un esodo che,
come è noto, si fece cogente per sfuggire al suicidio di una terra incapace di
redenzione, nell’indifferenza barbarica delle istituzioni. Ebbene, quel poema
struggente e furioso marchia lo spirito di Giacomelli che decide di visitare i
borghi in esso sceneggiati.
Giacomelli s’inerpica così nel buio di un annichilimento apparente, dove
l’assenza dell’uomo non è soltanto partenza definitiva, ma sfondo nel quale si
vive ancora contro la sgretolazione di una terra misteriosamente ossimorica. Fra
segni d’attaccamento e diserzione, fra miseria e generosità, la Calabria di
Costabile sfila, implacabile, davanti agli occhi del fotografo, straniato e
sospeso nell’immobilità di un tempo quasi morto.
> “Pentedattilo mi ha colpito, perché vedi un paese – dove gente ha vissuto, è
> nata, ha sofferto, ha goduto – ora abbandonato. E ricordo di essere stato per
> il corso, sembrava tutto abbandonato. Poi sono arrivato in cima a questa
> strada, guardo sotto da un belvedere e vedo che avevano piantato
> dell’insalatina, cipolle… e allora qualcuno sicuramente era a un passo da me.
> Sembrava un posto abbandonato, come chiuso al mondo, e invece ho trovato
> inaspettatamente la vita. […] Poi ho voluto passare per il cimitero. Qui ho
> trovato ogni loculo d’argento lucido, pulito. Poi i fiori, ho pensato “saranno
> di plastica” e invece mi sono avvicinato, li ho toccati, ed erano freschi. E
> ho pensato: c’abbiamo messo mezza giornata per arrivare qui e non abbiamo
> incontrato una persona, sembrava tutto fermo, tutto morto, e invece c’è vita.
> E allora sentivo che c’era qualcosa di strano. Queste montagne con questi
> buchi enormi… io cominciavo a vedere nei buchi le persone, nell’immaginazione,
> perché: dove erano queste persone? E allora è nato dentro di me qualcosa come
> di misterioso, come magico, come tragico, come qualcosa che non sapevo
> decifrare. Attraverso le foto vedi queste case che stanno già perdendo
> qualcosa, ti accorgi che la muratura e le case stesse stanno quasi per
> divenire pietra, cioè divenire montagna, sopraffatte. Il paese si sta
> sgretolando. Anche questa luce che ho messo in questa immagine, dà l’idea del
> sole che sta corrodendo i buchi delle case, e invece c’è la luna nella notte,
> e hanno il sapore della morte.”[20]
In queste parole scorgiamo già le immagini ricavate dal vissuto di una
quotidianità quasi irreale, in cui l’uomo gravita attorno a un centro di vita
fatto di pensieri lenti e desolazione, di costernazione e sorrisi, un centro che
è, in realtà, un crinale sul quale la vita lentamente scivola verso una
vecchiaia consumata, dove la crudeltà non sopisce il bene della pietra calda cui
poggiarsi quando le gambe tremano e negli occhi si annida il buio.
Ecco, allora che, nella sala, si susseguono immagini in cui è ritratto,
attraverso inquadrature strette e ravvicinate, un mondo contadino, di cui si
intuisce il mormorio affaticato, un mondo in cui si è complici nella miseria e
nel dramma. I personaggi che incontriamo – vecchi o bambini, poco importa –
abitano spazi decontestualizzati dalla marchiatura abbagliante del flash, sono
sagome arrese a un interludio perenne di vita.
Ci soffermiamo davanti al ritratto di Pentedattilo, mucchio di case fortemente
inclinate che sembrano collassare verso il centro della terra. Ma forse, ci
piace pensare, la rupe sulla quale il borgo sorge è davvero la gigantesca mano a
cinque dita di un ciclope, che misericordiosamente sostiene, e proietta verso la
sfolgorante promessa del cielo.
*
Ci fermiamo qui con questa lettura parziale della retrospettiva dedicata a Mario
Giacomelli, ospitata nelle sale di Palazzo Reale fino al 7 settembre, sperando
di non averne tradito lo spirito.
In ogni caso, noi ne siamo emersi con una convinzione: Mario Giacomelli è come
un demone scapigliato che ti viene a cercare in sogno, e ti lascia lì, fra le
coperte e la notte, a tremare nel dramma del bianco, e a desiderare
paradossalmente l’eterna vedovanza del nero. Non sappiamo se davvero nasca un
solo poeta al secolo, come disse quel tale. Quel che è certo è che cent’anni fa
ne è nato uno.
Maura Baldini
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[1] Da appunti autografi di poetica, anni Ottanta-Novanta, Archvio Mario
Giacomelli, Senigallia, in “Mario Giacomelli – Giacomo Leopardi, l’Infinito, A
Silvia”, a cura di Alessandro Giampaoli e Marco Andreni, Silvana Editoriale,
pag. 56, figura 62.
[2] Ibidem, pag. 56, figura 63.
[3] Da un appunto del fotografo inserito fra i lavori fotografici della
retrospettiva a Palazzo Reale (Milano).
[4] Ibidem (nota 3).
[5] Ibidem (nota 3).
[6] Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / E questa siepe, che da tanta
parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma sedendo e mirando,
interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima
quiete / Io nel pensier mi fingo; ove per poco / Il cor non si spaura. E come il
vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa
voce / Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / E le morte stagioni, e la
presente / E viva, e il suon di lei. Così tra questa. / Immensità s’annega il
pensier mio: / E il naufragar m’è dolce in questo mare. (Giacomo
Leopardi, L’Infinito, da Gli Idilli, 1826)
[7] Si cfr. nota 1.
[8] Avanti! Si accendano i lumi / nelle sale della mia reggia! / Signori! Ha
principio la vendita delle mie idee. /Avanti! Chi le vuole? / Idee originali / a
prezzi normali. / Io vendo perché voglio /raggomitolarmi al sole /come un gatto
a dormire /fino alla consumazione / de’ secoli! Avanti! L’occasione / è
favorevole. Signori, /non ve ne andate, non ve ne andate; vendo a così poco
prezzo! / Diventerete celebri / con pochi denari. /Pensate: l’occasione è /
favorevole! / Non si ripeterà. Oh! non abbiate timore di offendermi / con
un’offerta irrisoria! / Che m’importa della gloria! E non badate, Dio mio, non
badate / troppo alla mia voce / piangevole! (Sergio Corazzini, Bando, da Libro
per la sera della domenica, 1906)
[9] Io non ho mani / che mi accarezzino il volto / (duro è l’ufficio / di queste
parole / che non conoscono amori) / non so le dolcezze / dei vostri abbandoni: /
ho dovuto essere / custode / della vostra solitudine: / sono salvatore di ore
perdute. David Maria Turoldo, Io non ho mani, dalla raccolta Io non ho mani,
Bompiani, 1948.
[10] Estratto dell’ultimo verso della lirica di David Maria Turoldo, trascritta
nella nota precedente.
[11] Caroline Branson è il titolo di uno dei componimenti inclusi nella raccolta
di Edgard Lee Masters, Antologia di Spoon River, i cui estratti sono qui
riportati nella traduzione di Fernanda Pivano (che ha curato l’edizione Einaudi
da ultimo ristampata nel 2014). Di seguito il testo integrale: Oh i nostri cuori
come stelle alla deriva – se noi avessimo soltanto passeggiato / come un tempo,
nei campi d’aprile, finché la luce stellare / con garza invisibile rendesse
serico il buio / sotto la balza, nostro luogo di convegno nel bosco, dove il
ruscello svolta! dalle carezze passando, / come note di musica che fluiscono
insieme, al possesso / nella ispirata improvvisazione d’amore! / per lasciarci
alle spalle come un cantico finito / la rapita estasi della carne, / nella quale
i nostri spiriti piombassero / dove non c’era il tempo, né lo spazio, né noi – /
annientati dall’amore! / Ma lasciare queste cose per una stanza illuminata: / e
starcene con il nostro Segreto, beffardo / e nascosto tra fiori e chitarre, /
che tutti fissavano fra l’insalata e il caffè. / E vedere lui tremante, e
sentire me / presaga, come uno che firma un contratto – / non avvampante di doni
e di pegni accumulati / con rosee mani sopra la sua fronte. / E poi, la notte!
prefissata! villana! / Ogni nostra carezza cancellata dal possesso, / in una
stanza stbilita, in un’ora a tutti nota! / L’indomani sedeva così smarrito,
quasi freddo, / così stranamente mutato, chiedendosi perché io piangessi, /
finché, presi da nausea disperata e voluttuosa follia, stringemmo il patto
mortale. // Uno stelo della sfera terrestre, / fragile come luce stellare, / in
attesa di esser di nuovo gettato / nel flusso della creazione. Ma la prossima
volta esser creato / assistito da Raffaele e san Francesco / nel momento che
passano. / Poiché io sono il loro fratellino, / riconoscibile a viso / dopo un
ciclo di nascite a venire. / Potete conoscere la semente e il terreno; / potete
sentire la pioggia fredda cadere, / ma soltanto la sfera terrrestre, soltanto il
cielo / conoscono il segreto del seme / nella camera nuziale sotto terra. /
Gettatemi di nuovo nel flusso, / datemi un’altra prova – / salvami, oh Shelley!
[12] I capelli sono quelli della figlia Rita, sovrapposti ad altre immagini.
[13] Ibidem (nota 8).
[14] Ibidem (nota 8).
[15] Ibidem (nota 8).
[16] Ibidem (nota 8).
[17] Luna vedova per strade di mare / io non ho più sogni da dormire / nel
bianco mattatoio di casa mia. // Bianchi lenzuoli in un labirinto di specchi /
sono i giorni che un vento malsano sbatte / e ribatte quali bandiere di
sconfitta. (Francesco Permunian, Il teatro della neve, da Il teatro della neve.
Poesie per Mario Giacomelli 1983-1986, L’Obliquo, 2006)
[18] Felicità raggiunta, si cammina / per te sul fil di lama. / Agli occhi sei
barlume che vacilla, / al piede, teso ghiaccio che s’incrina; / e dunque non ti
tocchi chi più t’ama. // Se giungi sulle anime invase / di tristezza e le
schiari, il tuo mattino / è dolce e turbatore come i nidi delle cimase. / Ma
nulla paga il pianto del bambino / a cui fugge il pallone tra le case. (Eugenio
Montale, Felicità raggiunta… da Ossi di seppia, edizione a cura di Pietro
Cataldi e Floriana d’Amely, Mondadori, 2003)
[19] Ce ne andiamo. / Ce ne andiamo via. // Dal torrente Aron / Dalla pianura di
Simeri. // Ce ne andiamo / con dieci centimetri / di terra secca sotto le scarpe
/ con mani dure con rabbia con niente. // Vigna vigna / fiumare fiumare /
Doppiando capo Schiavonea. // Ce ne andiamo / dai campi d’erba / tra il grido /
delle quaglie e i bastioni. // Dai fichi / più maledetti / a limite / con
l’autunno e con l’Italia. // Dai paesi / più vecchi più stanchi / in cima / al
levante delle disgrazie. // Cropani / Longobucco / Cerchiara Polistena /
Diamante / Nao / Ionadi Cessaniti / Mammola / Filandari… / Tufi. / Calcarei /
immobili / massi eterni / sotto pena di scomunica. // Ce ne andiamo / rompendo
Petrace / con l’ultima dinamite. / Senza / sentire più / il nome Calabria / il
nome disperazione. // Troppo tempo / siamo stati nei monti / con un trombone fra
le gambe. / Adesso / ce ne scendiamo / muti per le scorciatoie. // Dai Conflenti
/ dalle Pietre Nere da Ardore. // Dal sole di Cutro / pazzo sulla pianura /
dalla sua notte, brace di ucccelli. // Troppo tempo / a gridarci nella bettola /
il sette di spade / a buttare il re e l’asso. / Troppo tempo / a raccontarci
storie / chiamando onore una coltellata / e disgrazia non avere padrone. //
Troppo / troppo tempo / a restarcene zitti / quando bisognava parlare, basta. //
Noi / vivi / e battezzati / dannati. // Noi / violenti / sanguinari / con
l’accetta / conficcata / nella scorza / dei mesi degli anni. / Noi / morti / ce
ne andiamo / in piedi / sulla carretta. / Avanzano le ruote / cantano i sonagli
verso i confini. // Via! / Via / dai feudi / dagli stivali dai cani / dai larghi
mantelli. // Ussahè… / Via / Via! / Via / dai baroni. / I Lucifero / I conti
Capialbi / I Sòlima gli Spada / I Ruffo / I Gallucci. // Usciamo / dai bassi
terranei / dal sudario / dei loro trappeti / dai parmenti / della vendemmia /
profondi / a lume di candela / e senza respirazione. // Via / dai Pretori /
dalla Polizia / dagli uomini d’onore. / Non chiamateci. / non richiamateci. // È
scritto / nei comprensori / È scritto / nei fossi nei canali /È scritto / in
centomila rettangoli / alto / su due pali / Cassa del Mezzogiorno / ma io non so
/ che cosa / si stia costruendo / se la notte / o il giorno. // Ci sono raffiche
/ su vecchie facciate / che nessuno leva: l’occhio / del Mitra / è più preciso /
del filo a piombo della Rinascita. // Addio, / terra. / Terra mia / lunga /
silenziosa. // Un nome / non lo ebbe / la gioventù / non stanchiamoci / adesso /
che ci chiamano col proprio cognome. // Noi // Noi / ce ne siamo / già andati. /
Dai Catoi / dagli sterchi orizzonti. // Da Seminara / dalle civette di
Cropalati. // Dai figli / appena nati / inchiodati nella madia / calati / dalle
frane / dall’Aspromonte / dei nostri pensieri. / Spegnete / le lampadine della
piazza. // Scordiamoci / delle scappellate / dei sorrisi / dei nomi segnati /e
pronunciati per trentasei ore. // Cassiani / Cassiani / Cassiani // Cassiani /
Foderaro Galati / Foderaro / Antoniozzi / Antoniozzi / Cassiani / Cassiani / La
croce / sulla croce, /diceva l’arciprete. / E una croce / sulla croce, /
segnavano le donne. / andavano / e venivano. /Foderaro / Antoniozzi / Antoniozzi
// È stato / sempre silenzio. // Silenzio / duro / della Sila /delle sue
nevicate a lutto. // È stato /il pane a credenza / portato /sotto lo scialle
/all’altezza del cuore. / Sono stati / i nostri occhi stanchi / guardando / le
finestre illuminate / della prefettura. // Carabinieri, / fermatevi. / Guardate,
/ giratevi / non c’è nemmeno un cane. / Siamo / tutti lontani / latitanti. //
Fermatevi. / Restano / gli zapponi / dietro la porta, / i cieli, / i vigneti. /
La pietra / di sale sulla tavola. // I vecchi / che non si muovono / dalla
sedia, soli / con la peronospera nei polmoni. // Le capre / la voce lunga /
degli ultimi maiali scannati. / L’argento / a forma di cuore, nella chiesa. //
Le ragnatele / dietro i vetri, le madonne. / La ragnatela del Carmine /la
ragnatela di Portosalvo / la ragnatela della Quercia. / Restano le donne
/consumate da nove a nove mesi / con le macchie / della denutrizione / della
fame. / Le addolorate / Le pietà di tutti gli ulivi. // Lavando / rattoppando /
cucinando su due mattoni / raccogliendo / spine e cicoria. // Cancellateci /
dall’esattoria. / Dai municipi / dai registri / dai calamai / della nascita. //
Levateci // Scioglieteci / dai limoni / dai salti / del pescespada. /
Allontanateci / da Palmi e da Gioia. // Noi / vivi / Noi / morti / presi e
impiccati / cento volte / ce ne siamo già andati / staccandosi dai rami / dai
manifesti della repubblica. // Di notte / come lupi / come contrabbandieri /
come ladri. // Senza un’idea dei giorni/ delle ciminiere degli altiforni. //
Siamo / in 700 mila / su appena due milioni. / Siamo / i marciapiedi / più
affollati. / Siamo / i treni più lunghi. / Siamo / le braccia / le unghie
d’Europa. / Il sudore Diesel. / Siamo / il disonore / la vergogna dei governi.
// Il Tronco / di quercia bruciata / il munumento al Minatore Ignoto. // Siamo /
l’odore / di cipolla / che rinnova / le viscere d’Europa. / Siamo /un’altra
volta / la fantasia / il 1° giorno di scuola / senza matita / senza quaderno /
senza la camicia nuova. // Toglieteci / dalle galere. / Non ubriacateci. //
Liberateci / dai coltelli di Gizzeria / dal sangue dei portoni. / Non chiamateci
/ da Scilla / con la leggenda del sole / del cielo / e del mare. // Siamo / bene
legati / a una vita / a una catena di montaggio / degli dei. // Milioni di
macchine / escono targate Magna Grecia. / Noi siamo / le giacche appese / nelle
baracche nei pollai d’Europa. // Addio / terra. / Salutiamoci, / è ora. (Franco
Costabile, Il canto dei nuovi emigranti, Jaka Book, 1989)
[20] Mario Giacomelli, in una video-intervista di E. Castagna, tratta dal sito
internet archiviomariogiacomelli.it
*Nel testo: fotografie di Mario Giacomelli tratte dalla mostra in atto a Palazzo
Reale, Milano; in copertina: Mario Giacomelli a Senigallia, photo Giovanna
Calvenzi, Archivio Mario Giacomelli
L'articolo “Nello smarrimento”. Mario Giacomelli, il demone scapigliato che ti
viene a cercare in sogno proviene da Pangea.
Robert Bob Wilson è mancato il 31 luglio scorso a 83 anni nella sua casa di
Water Mill a New York e non ci voleva certo la celebrazione della sua morte per
parlarne. Se lo si ricorda oggi è per un indispensabile tributo alla sua
straordinaria carriera, ma anche per il timore che la sua vastissima lezione
artistico-teatrale non abbia – almeno per il momento – un’eredità attendibile e
originale. In oltre sessant’anni di creatività, Wilson ha realizzato più di
duecento produzioni, collaborando con molti dei protagonisti di questi ultimi
cinquant’anni: da Philip Glass ad Arvӧ Part e David Byrne, da Tom Waits a Lou
Reed, dalla performer Marina Abramović al drammaturgo Heiner Müller, usufruendo
anche dello spirito anarchico e dissacratorio di William Burroughs per comporre
un universo polifonico declinato nelle rispettive peculiarità. Una moderna,
insolita, geniale Gesamtkunstwerk – opera d’arte totale – coniata illo
tempore dal filosofo tedesco K.F.E Trahndorff nel 1827 e teorizzata dal
compositore Richard Wagner più di un ventennio dopo, corroborata dalle moderne,
esplosive sensibilità delle Avanguardie Storiche. Dalla multidisciplinarietà del
Futurismo e del Suprematismo – nei suoni, nella danza, nell’impiego radente
delle luci – alla dissacrazione sistematica del Dadaismo, dalle deformazioni
grottesche del Surrealismo alla controcultura alternativa della Beat/Pop dei
suoi anni. Wilson è stato un attento coagulatore di avanguardie, mixate
sapientemente facendo attenzione allo spirito del tempo, combinate in modo che
il risultato finale non fosse dirompente – come per loro natura – ma bensì
permeato dalla distanza, da una lontananza spaesante, da una lentezza
penetrante, quasi proveniente da altri mondi, là dov’è l’attenzione a dominare
il fare dell’uomo. Un mondo contrastato, fragoroso e violento, nella riduzione
pacificatoria del silenzio e della lentezza.
Lentezza quasi cerimoniale che domina la scena nei suoi progetti teatrali,
pressoché in assenza di testo, immersa in un silenzio diffuso, arricchita da
un’illuminazione sapiente – si potrebbe dire “mentale” – evocando una sequenza
di tempi vuoti, di attimi dilatati da riempire di gesti, di allusioni
rallentate, di movimenti sapienti. Un teatro che vuol raccontare per sensazioni,
pur senza dire, senza esporsi, quasi nell’ombra o – al contrario – percorrendo
l’aura luminosa del suo contorno, così padroneggiando entrambe le zone
estreme: Dove non potevo parlare, ho cominciato a costruire immagini. Il teatro
di Wilson è ipnotico, senza regole prestabilite quasi fosse d’improvvisazione,
ma in realtà messo in scena seguendo sensazioni rabdomantiche dominate dalla
lentezza, dove ogni attimo, ogni piccola variazione appare intenzionale, ogni
dettaglio si carica di significato, trasformando le difficoltà in risorsa
scenica, in guizzo creativo spontaneo, generativo.
La vocazione per il teatro si manifesta negli anni Sessanta al Pratt Institute,
dopo una formazione come architetto, retroterra che manterrà soprattutto nelle
scenografie: “Non ho mai pensato all’allestimento teatrale come ad una
decorazione, ma come a qualcosa di architettonico”; avvicinandosi allo stesso
tempo al mondo della danza ispirato da Merce Cunningham, Marta Graham e George
Balanchine. Ma Wilson coltiverà la sua specificità con l’impegno nel reintegro
di ragazzi disabili, sensibile all’esperienza personale del recupero della sua
balbuzie. Fonderà quindi la Byrd Hoffman School of Byrds, dedicata
affettuosamente a Miss Hoffman, la danzatrice che aveva risolto il suo problema.
Sarà questa peculiarità a procurare la svolta nella sua carriera nel 1970 con
l’opera Deafman Glance, con Raymond come protagonista, ragazzo orfano e
sordomuto che poi adotterà. Sette ore di silenzio osservando Raymond e le sue
movenze minimali cariche di significato: opera muta in uno spazio rarefatto
dominato dal silenzio e da un’architettura luminosa, dove ogni gesto diviene
rituale, ogni dissolvenza significativa. Un quinquennio intensissimo che
evolverà nell’opera Einstein on the beach con la collaborazione di Christopher
Knowles – afflitto da rilevanti danni cerebrali – e con lo sperimentatore sonoro
Philip Glass. È anche la stagione di The Life and Times of Joseph Stalin (1973)
opera epica di dodici ore in sette atti che si dipana in sette giornate con il
coinvolgimento di centinaia di artisti:
> “Avevo l’idea di fare un’opera teatrale che sarebbe stata messa in scena per
> sette giorni, una specie di finestra sul mondo in cui eventi ordinari e
> straordinari potessero essere visti insieme. Si poteva vedere alle 8 del
> mattino, alle 3 del pomeriggio o a mezzanotte e l’opera sarebbe sempre stata
> lì, un orologio di 24 ore composto da tempo naturale interrotto da tempo
> soprannaturale”.
Faraonico e minimale.
Ma Robert Bob Wilson è artista multidisciplinare e fin dal ’76 espone i
suoi storyboard anche alla prestigiosa Paula Cooper Gallery, con una carriera
che culminerà con l’attribuzione del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel
1993 grazie alla sua installazione Memory/Loss.
Nel 1991, seguendo la sua indole generosa e altruista, fonderà il campus The
Watermill Center, laboratorio creativo – ancora attivo – che raduna anche la sua
sconfinata collezione di oggetti reperiti in tutto il mondo e le sue opere
d’arte, con l’intento di formare nuovi talenti all’insegna della massima libertà
espressiva, seppur con il rischio concreto di dare troppi spunti personali
ottenendo alla fine giovani controfigure. Espone al Louvre anche il ritratto
della cantante Lady Gaga, frutto di un lavoro durato tre giorni con sessioni di
prova estenuanti anche di 15 ore, frequentando il versante artistico fino al
2023 con l’installazione al Museo LAC di Lugano trasformato in una foresta
virtuale, anno in cui viene insignito del Praemium Imperiale per il teatro dalla
Japan Art Association. È di pochi mesi fa la sua partecipazione al Salone del
Mobile di Milano con l’installazione dedicata alla Pietà Rondanini di
Michelangelo e la serata inaugurale alla Scala di Milano, tenuta dall’orchestra
del Teatro.
Quello di Wilson è un teatro senza paura, totalizzante, che può divenire
esplicitamente elitario quando richiede il massimo sforzo allo spettatore
impegnandolo per ore, se non per intere giornate. È anche il caso delle tre ore
di rappresentazione di Odissey (2013), poema omerico divenuto fiaba recitato
interamente in greco, simmetricamente incomprensibile ai più, ma immediatamente
ricevibile se ci si pone in ascesi verso il globo di luce che attanaglia la
scena fin dal primo minuto, trasformando una pièce teatrale nella possibilità di
un’esperienza elettiva.
Attraversando la temperatura novecentesca dell’Occidente e delle sue
avanguardie, nel teatro di Wilson è la lezione dell’Oriente – parco nelle parole
ed estremo nel controllo – che si afferma nel movimento. Avanzare e retrocedere
bilanciandosi con un procedere misurato, affondando il peso sulle leve,
ascoltando senza sussulto il traslocare felpato della propria massa con mani,
braccia, gambe, spalle, gomiti, piante dei piedi, bacino, controllati, mentre lo
sguardo si direziona secondo intenzione e mai casualmente, con gli occhi puntati
come il taglio di una lama, tracciando le geometrie della scena. In silenzio,
dove il respiro detta la sequenza del battito cardiaco e non viceversa. È con
questa attenzione al corpo (“Coltivare il proprio corpo come un orto”: Yukio
Mishima) che la sua balbuzie, anziché limite, diverrà risorsa, che il disagio
fisico dei suoi protagonisti consentirà l’apertura verso nuovi linguaggi, nuove
sensibilità, ampliando le possibilità d’interpretazione.
Bob Wilson alimenterà con intelligenza collaborazioni con i talenti più
distintivi del suo tempo, arricchendosi dei loro contributi e considerando il
suo teatro come un corpo vivo, pulsante e mai definitivo, modificandolo di
continuo nel corso delle prove, per carpire le sensazioni scaturite in tempo
reale dalle luci, dai corpi, dagli sguardi, dai respiri, come testimoniato dai
suoi collaboratori. Il suo teatro ha quindi catalizzato in un nuovo universo
multiforme le esperienze estreme dell’avanguardia, servendosi dei suoni
disarmonici e metallici coniati dall’Arte dei Rumori del Futurismo di Russolo,
del silenzio prolungato e allusivo di John Cage, con i suoi 4’e 33’’ (1952,
Maverick Concert Hall di New York), delle illuminazioni sghembe e dei tagli di
luce laterali dei Suprematisti, suggestioni innescate dall’irripetibile
capolavoro del 1913 Il Trionfo sul Sole, andato in scena al teatro Luna Park di
San Pietroburgo nel 1913, con prologo di Chlebnikov, “il poeta dei poeti”,
libretto scritto in Zaum, linguaggio transmentale elaborato da Kručënych con
pause dopo ogni sillaba, scene e costumi di Kazimir Malević asimmetrici e
sghembi, luci di Majakovskij a taglio di lama e musiche rumoriste di Matjušin,
completati da un coro inetto di sette persone assunto due giorni prima e da un
piano scordato.
Dovendo riassumere oggi il lascito di Wilson, non credo che “rivoluzionario” sia
il termine più corretto – come molti dei tributi in suo onore affermano oggi –
semmai riferibile alle prime esperienze permeate della protesta
anticonvenzionale del periodo Beat e Pop. Wilson è sicuramente un innovatore, un
“combinatore” straordinario di quanto più alto possa essere espresso nelle varie
discipline, riuscendo in questo modo ad essere realmente unico nei risultati
raggiunti, frutto anche dell’altrettanto straordinario talento dei celebri
partner che lo hanno affiancato nel corso della sua incredibile carriera. Non
attribuendo al termine “combinatore”, alcuna accezione limitativa, nel tentativo
di conferire alla sua ricerca artistica il termine più calzante, più
significativo.
Assistere ad uno spettacolo di Robert Wilson si può considerare un’esperienza
immersiva, come capitatomi nel 2003 a Roma, nella Nuvola di Fuksas, dove Wilson
dialogò con la musica totale di Arvo Pärt. Sodalizio nato nel 2009 – grazie
all’evento voluto da papa Benedetto XVI riunendo duecentosessanta artisti da
tutto il mondo nella Cappella Sistina – che farà scaturire Adam’s Passion, pièce
dedicata al primo uomo, che vive per primo la tragedia della proliferazione dei
popoli nelle differenze, anziché nelle radici comuni.Un’idea teologica di
riunificazione delle anime profonde dei popoli, un’evocazione dell’opera d’arte
come messaggio spirituale che prende corpo in un’atmosfera blu diffusa, avvolti
nella Musica come Luce di Part che evoca una verità assoluta, inevitabile,
votiva. Wilson diviene con le sue presenze eteree e silenziose, con
gl’inconsueti oggetti sospesi della scenografia che evocano la precarietà della
situazione umana, la parte complementare perfetta ad un suono celestiale, la
pietra angolare che sostiene in silenzio l’arco del messaggio sonoro,
partecipando attivamente ad una compenetrazione scenica minimale che rasenta la
perfezione, semmai questa possa realizzarsi su questa Terra.
Talmente vasta e articolata la produzione di Robert Bob Wilson che sono di gran
lunga più le opere non citate che quelle raccontate, anche se vale ricordare a
chiusura la motivazione dell’attribuzione del premio Europa per il Teatro nel
1997: “Per la sua capacità di reinventare il teatro come arte globale”, cui mi
preme aggiungere il non detto: Attento alle sensibilità più acute e dirompenti
delle Avanguardie Storiche del Novecento. Pur pacificate.
Roberto Floreani
*Nel testo: immagini dalle creazioni di Bob Wilson; in copertina: photo Lucie
Jansch
L'articolo Bob Wilson, il pacificatore di Avanguardie proviene da Pangea.
Nel settembre del 1906 il poeta René Bichet, vicino a Jacques Rivière e André
Gide, scrive all’amico Alain-Fournier rievocando un ritratto di Infanta di Juana
Romani. In esso proietta la nostalgia per Parigi: una città «necessaria»[1]che
la figura della pittrice incarna simbolicamente. Dieci anni dopo, nel racconto
di Fritz-René Vanderpyl pubblicato sul Mercure de France, un quadro firmato
«Juanita Romani» diviene l’emblema di uno «charme simil-orientale»[2] di cattivo
gusto, che solo gli americani potrebbero appendere sopra i propri caminetti: in
entrambi i casi, Romani è immaginata come simbolo ibrido e ambivalente, legata
visceralmente alla capitale francese. La sua molteplice identità fu oggetto di
un’elaborazione retorica: il poeta Armand Silvestre la presenta come erede di
Tiziano e Correggio, mentre lei stessa si definisce «figlia di Benozzo Gozzoli»
e della solida tradizione artistica italiana. Nel 1901, Vittorio Pica la
descrive, accostandola a Giovanni Boldini, come «una giovane pittrice di non
comune bravura, destinata a piacere sempre più al gran pubblico e sempre meno
agli austeri amatori d’arte»[3].
Ma chi era questa artista vivacemente presente nella cultura
europea fin-de-siècle, eppure oggi così poco conosciuta?
All’origine c’è una realtà sociale dura: Juana nasce come Carolina Carlesimo nel
1867 a Velletri, da un brigante e da una bracciante del Lazio meridionale.
Emigra a Parigi nel 1877 con la madre e il patrigno musicista, Temistocle
Romani, membro di una famiglia di ricchi proprietari terrieri. In Francia inizia
la carriera di modella per artisti, per poi divenire pittrice. Espone
regolarmente ai Salon, alle esposizioni universali, in Italia alla IV Biennale
di Venezia (1901) e alla II Esposizione internazionale femminile di belle arti
di Torino (1913). La sua attività è segnata dalla vincita della medaglia
d’argento (1889), acquisti di Stato e da un’intensa attività di ritrattista.
Celebrata all’inizio del XX secolo, Juana fu inclusa come artista tra le più
note della sua generazione in Women in the Fine Arts di Clara Clement (1904)
e Women Painters of the World di Walter Sparrow (1905). Amata dal pubblico, ma
anche da insospettabili personaggi come Josephin Péladan, nel 1901 il dandy
Jacques d’Adelswärd-Fersen la rievoca nel romanzo Notre-Dame des Mers
Mortes[4] accostandola a da Vinci e Raffaello. Assiste da vicino alla nascita
del cinematografo grazie all’amicizia con Antoine Lumière e nello stesso periodo
la sua immagine circola tra profumi, colori, vini, affiche e riviste
come Fémina, assieme a Camille Claudel, e Le Figaro-Modes.
Tuttavia, già dagli anni Dieci la sua fama declina: Francis Carco la liquida con
pittrice “accademica” di un secolo passato e Henri Matisse la cita ironicamente
tra i pittori ancora “vendibili” ma superati. Il manifesto letterario Les
Somptuaires (1903) di Fleischmann e Levengard la nomina invece come esempio di
un’arte sontuosa e passionale da trasporre nel mondo cangiante delle parole e
della poesia, mentre Guillaume Apollinaire la confonde nel 1912 con il futurista
Romolo Romani, segno della sua ormai appannata notorietà. La sua carriera
s’interrompe bruscamente per una grave malattia mentale nel 1903. Internata a
Ivry-sur-Seine dal 1906, poi a Sainte-Anne e infine a Suresnes, morirà nel
1923.
Juana Romani, Rosina, 1892, collezione privata
*
Juana è da sempre stata lievemente strabica – come lo era Charcot, fatto che gli
procurava un certo disagio – e il suo occhio sinistro tendeva verso l’esterno:
lo sguardo che ne scaturiva attraeva per quella sottile incongruenza che
coinvolgeva l’osservatore. Chi la incontra rimane stordito dalla sua «bellezza
strana» fondata sull’«attrazione profonda e dispotica dei suoi occhi».
Nel 1884 Prouvé invia a Nancy due disegni a china, che saranno esposti nella
vetrina del laboratorio del rilegatore René Wiener: ad ottobre espone
una Magicienne e a novembre Une japonerie. L’italiana posa per entrambe
impersonando una sorta di geisha e un’incantatrice che, nel pieno di un’oscura
liturgia, con una bacchetta indica un grande occhio dal quale si irradia un
fascio elettrico.
Prouvé fa esperienza dell’incoscienza dell’occhio della sua modella che, più che
ritorcersi in sé stesso, viene riconsegnato al pittore restituendogli il segno
di uno sconcertante ribaltamento dei ruoli. Il disegno, dalla «fantasia
debordante», è conosciuto anche come Jettatura e nasce forse dall’assimilazione
che Juana può aver fatto del magnetismo degli atelier a ciò che era rapportabile
alla cultura ereditata dalla madre e dalla nonna. Diffusa al pubblico grazie
alla letteratura romantica francese, la jettatura è una credenza nata nel
Settecento e connaturata nel Regno di Napoli di cui Juana raccoglie il nucleo
più incandescente: lo sguardo come tecnologia, mezzo di azione, mano armata
dell’invidia che può uccidere.
L’occhio del disegno di Prouvé è comunque un pezzo staccato, esso si dà a vedere
come a volersi porre come problema e di sicuro lo sarà nel Novecento quando
artisti e filosofi francesi ne ripenseranno il valore disgiungendolo dallo
sguardo, accoppiandolo all’ano o all’alluce, lacerandolo, perfino, con una lama
da rasoio. Fluidità dello sguardo, elettricità del gesto, incoerenza della
rappresentazione sono le facce di un prisma al cui cuore ci sono nuove
significazioni. Questa instabilità nervosa è il costo da pagare per un mondo in
risemantizzazione. Non a caso Prouvé condivide con Juana la passione per il
poeta Maurice Rollinat che sarà ricoverato nella stessa casa di cura per malati
mentali dove alloggerà la pittrice per quasi venti anni: in cura dal dottor Paul
Grellety, Rollinat aveva assistito agli spettacoli del magnetizzatore Donato e,
per circa due anni, alle lezioni settimanali di Charcot, dando vita a
performance musicali che generano nel pubblico profondi stati d’inquietudine.
Membro degli Hydropathes e poi cantante di punta dello Chat Noir, nel 1883
pubblica la raccolta poetica Les Névrosesche gli conferisce una grande notorietà
e che, a più riprese, sarà ispirazione delle opere di Prouvé. In una poesia
Rollinat si dichiara la vittima della persecuzione di un occhio che non solo lo
fissa come un condannato a morte, ma lo accompagna in ogni suo spostamento:
«Dovunque io vada, ovunque il mio piede inciampi,/ Il mal-occhio!».
Un’inquietudine simile provata da August Strindberg che, come racconta
in Inferno (1897), si sente perseguitato dalla folla parigina.
Juana Romani, Primavera, 1894, Courbevoie, musée Roybet Fould
C’è un presentimento nell’aria e la paranoia si respira lungo le strade della
capitale: quella sensazione traduce il sospetto di una possibile animazione
dell’inorganico che diviene il principio stilistico stesso dell’art nouveau che
si afferma in quegli anni. L’interesse di Prouvé per la grafica e le arti minori
– collabora con Émile Gallé con cui è membro dell’École de Nancy – rivelano la
volontà trasversale di esplorare il mondo degli oggetti attraverso una loro
vitalizzazione per mezzo delle rappresentazioni vegetali. Ne impone a tutti gli
effetti uno stato di fatto: le cose, tra cui le modelle (e le donne) guardano,
sono in moto, fioriscono e hanno una loro esistenza a cui l’uomo inevitabilmente
partecipa.
Questa ruminazione artistica sullo sguardo porta Prouvé a coniugare ancora la
poesia di Rollinat con Juana che posa per Les visions roses (Rollinat), opera
che verrà esposta al Salon (SAF, n. 1988) del 1884: la modella è reclinata
all’indietro facendo mostra del proprio corpo nudo. È il seno di Juana il punto
di congiunzione tra l’opera di Prouvé e la poesia di Rollinat: «Vedo le tue
carni tutte rosa,/ I dardi aguzzi dei tuoi seni freddi,/ E poi le tue labbra!
quando vedo/ nelle loro così languide pose/ Corolle e boccioli di rose!».
Non solo il corpo diviene il territorio di metamorfosi floreali – ecco l’art
nouveau! – ma i seni si allineano simmetricamente allo sguardo, come nei corpi
femminili del Mediterraneo antico. Tiresia viene accecato dalla nudità e dal
seno nudo di Atena, così come Atteone che, trasformato in cervo e sbranato dai
cani, aveva posato lo sguardo sul corpo nudo di Artemide.
Il gesto intimidatorio dell’esposizione del seno «transiterà senza soluzione di
continuità dal mondo antico ai repertori folkloristici contemporanei, a indicare
un potenziale di altissimo rischio, che può formalizzarsi nella maledizione più
terribile» come rappresentato in Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci dove
una madre espone il petto come arma temibile contro i fascisti. Il potere
tagliente, castrante dello sguardo tornerà a essere indagato ancora nel 1884 con
la rappresentazione di Juana come Salomè che porge allo spettatore la testa del
San Giovanni per la quale Prouvé prende a modello sé stesso: è dunque Juana a
offrire al pittore la sua stessa testa. Si potrebbe dire: è Juana a offrire al
pittore il suo stesso sguardo.
Gabriele Romani
*La vicenda artistica e biografica di Juana Romani è l’oggetto dell’ultimo libro
di Gabriele Romani: Confini d’identità. Juana Romani: modella e pittrice, edito
Castelvecchi (Roma, 2024).
*In copertina: Edmond Bénard, Juana Romani nell’atelier di rue du Mont-Thabor,
1893, Parigi, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris.
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[1] René Bichet, Les poèmes du Petit B, Parigi, Éditions Émile-Paul Frères,
1938, p. 142.
[2] Fritz-René Vanderpyl, «Marsden Stanton a Paris» in Mercure de France,
vol. CXVII, settembre-ottobre 1916, p. 461.
[3] Vittorio Pica, «La pittura all’esposizione di Parigi» in Emporium,
vol. XIII, n.76, aprile 1901, p. 260.
[4] Jacques d’Adelswärd-Fersen, Notre-Dame des Mers Mortes (Venise), P. Sevin et
E. Rey, Paris 1901, pp. 25-26.
L'articolo Storia tragica di Juana Romani, la pittrice di successo che fu
internata e rosa dall’oblio proviene da Pangea.
In una calda domenica di giugno sono arrivato un’ora prima davanti al Museo San
Domenico di Imola per visitare la mostra di Germano Sartelli “L’incanto della
materia” (in corso, fino all’undici luglio p.v.) chiedendomi che livello di
“oggetti estetici” avrei visto di li a poco. Quando in fondo al corridoio mi è
apparsa la grande “paglia” nel cellophan ho sentito l’emozione di ET quando
diceva: “…caaasaaaa”, ero nel tempio della curiosità, davanti ai lavori degli
anni ’60, ’70, ’80 di un artista che aveva sempre cercato; mi ronzava in testa
quella parola ripetuta tre volte che nel documentario “La forma delle
cose”, Sartelli ripeteva con stupore: “…cercavo, cercavo, cercavo…” (se mai
esporrò le mie duemila creazioni, così titolerò la mostra in onore di Germano
Sartelli) nella consapevolezza che chi cerca non necessariamente deve trovare,
che “cercare” è il prezzo da pagare della nostra curiosità e che la natura ci
offre tutti gli stimoli per il nostro “fare”.
Le “ragnatele” del ’59 sono delle accurate ecografie del pensiero; le “cicche e
carte di sigarette” del ’70 anticipano di due anni le splendide fotografie di
mozziconi di Irving Penn, confermando l’intercontinentalità del vedere creativo;
i lacerti di ferro arrugginito consacrano la missione visuale della ruggine, non
soltanto “lacrima del tempo del ferro” ma vera e propria istantanea del nostro
inevitabile incontro con la morte.
Osservando i lavori di Sartelli, fatti con poverissimi scarti, si potrebbe
pensare ad opere realizzate insieme al dolore, alla solitudine, alla
sofferenza, visto che, tra l’altro, ebbe a che fare con gli internati
dell’ospedale psichiatrico di Imola; invece, percorrere i corridoi di questa
esposizione regala una grande serenità, appese ci sono le radiografie delle
nostra anima, tra “bianchi e neri”, tra “luci ed ombre” vedi il tuo essere
vivente non come “sommatoria di organi”, ma come “altissima frequenza di
pensiero”, senti di attraversare un campo di 174 hz con persistenti sentori di
gioia.
Germano Sartelli (1925-2014)
Concludo queste note descrivendo il posto (delle fragole) da cui vengono
scritte, il Rugginarium: “…un luogo fisico, uno spazio senza coperture dove si
raccolgono i raggi del sole, le gocce di pioggia, le folate di vento, i
cristalli di ghiaccio, i fiocchi di neve… dove il tempo delle stagioni regola la
quantità dell’estetica e dove manca solo una cosa: la colonna sonora della
perdita di funzione degli oggetti ed il loro rinascere nella valenza estetica di
specchi dei nostri pensieri”.
Silvano Tognacci
*In copertina: Germano Sartelli, Paesaggio di terra, 1982; foto Orselli
L'articolo “…cercavo, cercavo, cercavo”. Per Germano Sartelli (o di persistenti
sentori di gioia) proviene da Pangea.
I nuovi “vasi” di Marcovinicio approfondiscono e portano alle estreme
conseguenze tutta la recente fase della produzione del pittore, la cui ricerca è
tesa all’esigenza di spalancare, con differenti mezzi, orizzonti ulteriori
rispetto a quelli della semplice “realtà fisica”, facendosi al tempo stesso
sempre più rarefatta. Ci troviamo in questo caso di fronte ad una vera e propria
“prova di sottrazione”, in cui l’artista attinge a poco a poco una dimensione
inedita mediante piccole variazioni ed eliminazioni da un suo modulo classico:
il vaso di fiori, più o meno stilizzato e semplificato. Non un modulo, peraltro,
soltanto autoreferenziale e legato alla sua precedente produzione (in cui,
comunque, aveva assunto una funzione essenziale, sul piano delle tavolequanto su
quello dei disegni), ma universalmente riferito alla cultura occidentale, ove il
fiore assume una valenza ideale, intesa in senso letterale, vale a dire riferita
ad una tradizione che ha inizio con l’idealismo platonico. Le tensioni estetiche
dell’assenza-presenza e i riferimenti alla valenza paradigmatica, ideale (e
perduta) dei fiori ricordano in modo fortissimo le meditazioni di tutto un
filone letterario della fine dell’Ottocento in Francia, in cui – sulla ovvia
scia dei baudelairiani Les Fleurs du mal – il fiore viene utilizzato in senso
allegorico o fortemente simbolico, evocato, nascosto e improvvisamente
presentificato in tutta la sua icasticità espressiva.
Se il giovanissimo Arthur Rimbaud – in Ce qu’on dit au poète à propos de
fleurs – scriveva sul tema una sarcastica ode a metà tra il dileggio e l’invito
a scavare oltre le soglie della poesia comune e triviale, è Stéphane Mallarmé a
trattare il tema nel modo più ispirato e affine a quello di Marcovinicio, nella
criptica e difficilissima Prose dedicata a Des Esseintes, l’estetizzante e
raffinatissimo protagonista in À reboursdi J. K. Huysmans. Il fiore che veniva
da Baudelaire pervertito e da Rimbaud ironizzato viene riportato da Mallarmé al
suo pristino splendore, ma come allusione e tensione anziché pieno possesso; il
che non sarebbe più possibile nel mondo moderno. La Prose è proprio la
rappresentazione estetica della frustrazione provata dal poeta-filosofo nel
tentativo di attingere l’assoluto, “da troppo gladiolo celato”. Oltre le forme
ideali allegorizzate nei fiori, si celerebbe una dimensione compiuta e
definitiva, che l’artista deve limitarsi ad evocare per assenza.
Marcovinicio, Quadro con paesaggio, 2025
Meno profonda filosoficamente ma non dissimile da quella della Prose era già
stata in Mallarmé la meta-riflessione poetica condotta in una lirica
come L’Azur, in cui il paradigmatico colore del cielo fungeva nella sua
insensibilità da monito dell’impossibilità di raggiungere l’ideale. I fiori
stessi erano, peraltro, già stati protagonisti di un’omonima lirica (Les Fleurs)
del poeta francese, che sin dagli anni ’70ne tratteggiava l’allegorizzante
valenza di idee platoniche: fissità trascendenti da anelare in un disperato (e
inappagato) spasmo. La condizione nella quale Marcovinicio immette la
riflessione sui fiori è differente, perché figlia del Novecento pittorico
italiano e di tutto un concettualismo dell’arte contemporanea dal quale il
consapevole distacco è in queste tavole evidente. Il giallo e nero viene qui
nuovamente utilizzato, più che nella valenza “pittorica” e materica degli anni
’90, sfruttando la dialettica tra luce e abisso (e, pertanto, nero smaltato) che
caratterizza tutte le recenti Vanitas dell’artista, incluse quelle dell’ultima
mostra torinese. Una delle parole essenziali della produzione poetica
mallarmeana è però cifra stilistica anche di questa fase di
Marcovinicio: aboli-abolito.
L’abolizione/cancellazione di qualcosa rimanda immediatamente alla sua presenza,
così come avviene ora per i fiori che trascendono l’orlo della tavola, rimanendo
idealmente un’estrema propaggine del vaso ma venendo esclusi dalla sua
rappresentazione: aboliti secondo i canoni classici dell’arte occidentale,
tipicamente conclusa ed esaurita nella singola opera a livello espressivo. Il
contrasto, nei vasi di Marcovinicio, è ulteriormente accentuato dalla nettezza
definitoria tipica dei gialli e neri di questo periodo, che affermano (e in
questo caso, contemporaneamente, negano) con una durezza ed una incisività
inedite.
Esercizio di forte concettualità senza per questo essere concettuali in senso
astratto, i vasi di fiori sono – come spesso nel pittore – al tempo stesso
richiamo alla tradizione, autocitazione e intrapresa di un percorso inedito,
avviato tuttavia secondo uno scavo. Come nella più profonda filosofia
heideggeriana, ci viene presentificato un “andare avanti” che è sempre un
“tornare all’origine”, in un movimento di avvicinamento e allontanamento
rispetto ad una struttura in apparenza onni-pervasiva, ma in fondo inesprimibile
nella sua essenziale ed eterna configurazione. Se in Marcovinicio l’espressione
è rigida e netta, le sue opere disegnano sempre nuovi scenari, additano un
altrove, talvolta permeandosi di fortissime istanze metafisiche. Il fiore-non
fiore è compendio di questa cifra stilistica e in un certo senso
meta-riflessione su di essa: un orizzonte non-presente al quale si tende e si
anela con struggente Sehnsucht.
*
Sulla ripetizione
Le ultime fasi della pittura di Marcovinicio, caratterizzata in passato da una
variazione più libera su tematiche molto definite, sono improntate da una
ripetizione frenetica, a prima vista ossessiva, disposta secondo fili conduttori
di una chiarezza assertiva che non ne pregiudica la valenza evocativa. Se,
nelle Vanitas, la ripetizione della medesima “alzata” in giallo e nero ha avuto
come esito di maggiore impatto espressivo l’enorme parete allestita a Torino per
la mostra “Altri mondi”, nelle fasi ancor più recenti essa si è declinata in
forme ad un tempo antiche e nuove, riprendendo sia il tema del paesaggio
(classico per il pittore) che quello dei vasi di fiori precedentemente evocato.
Il “punto di riferimento” visivo ed espressivo è un concetto-chiave per
comprendere le modalità in cui Marcovinicio utilizza in modo ripetuto
immagini-simbolo-paradigma quali la montagna, la mucca, il lago, le quali non
vanno mai prese come simulacri astratti di un concettualismo diretto, del tipo
ingenuo “questo significa quello”, “questo allude a quello”. Diversamente, esse
si leggono come si guardano, si presentano come si offrono: in totale crudezza e
durezza allo sguardo dell’unico osservatore possibile, come una sorta di ponte
tra la modernità sterile della tecnica, in cui siamo immersi, ed un orizzonte
ulteriore fatto di senso, di pregnanza, di motivi immediati e pure duraturi.
La ripetizione, in questo senso, è anche “eterno ritorno”: il procrastinarsi di
situazioni dalle quali, nonostante le contingenze dei tempi e delle epoche
storiche, delle decadenze e delle sfioriture, non si può mai veramente evadere,
perché ontologicamente connaturate alla realtà. Vale a dire: la pura asserzione
come messa in evidenza di ciò che è stabile, permanente, duraturo, immutabile,
come l’essere stesso. Ben lungi dal volere attribuire alla pittura di
Marcovinicio uno statuto “filosofico” in senso tradizionale (giacché mai il
pittore può essere direttamente filosofo, così come il filosofo non può mai
avvalersi direttamente dell’estatica espressività dell’artista visionario),
senza dubbio le tematiche in essa presenti rimandano ad una sfera concettuale
risalente ai primordi, alla grecità, a quell’essere parmenideo “velato” dai
residuati moderni della soggettività e da quelli ancor più moderni della
tecnica, che soltanto un’operazione paziente di scavo può mettere nuovamente in
evidenza nella sua struttura intangibile. Trascendenza e immanenza: trascendenza
da una realtà empirica e strumentalizzata che – come una sorta di feticcio – ha
costituito una incrostazione empirica sulle strutture permanenti del reale;
immanenza come affermazione netta e perentoria di queste stesse strutture,
ri-consegnate in qualche misura all’eternità dalla quale provengono.
Marcovinicio, Quadro con mucca. Silenziosa disciplina, 1990; esposto ora in
mostra
La stessa operazione portata avanti da Marcovinicio nei confronti del proprio
lavoro precedente assume questa connotazione di “scavo archeologico”: riportare
alla luce delle strutture di pensiero e di espressione apparentemente obliate
per ribadirle nelle linee nettissime e dure di un disegno del passato che
diventa un giallo e nero, di un paesaggio metafisico che diviene rigido e
scheletrico, di uno specchio che veicola simboli arcaici – già utilizzati in
altra forma – e li ripresenta come paradigma del duraturo, senza mai sconfinare
nel puro divertissement, ma muovendo le proprie carte con la sapienza di un
alchimista che rimescola il vecchio per attingere nuove forme. Nel pittore vi è
fondamentalmente l’implicita convinzione che nell’arte non esista la creatio ex
nihilo, ma si dia la rimbaudiana illuminazione, il contatto con la vocazione, la
risposta ad una sorta di appello che riattiva strutture da sempre esistenti e
gli chiede di riportarle alla luce in maniera apparentemente inedita, di
asserire il reale con tutta la forza disponibile. Una forza che in Marcovinicio
assume la connotazione di una giovinezza perenne, ben al di là del contingente
dato anagrafico; di asserire quello che non può non essere reso presente perché
si dà allo sguardo nel proprio valore permanente. Alchimia, mediazione,
vocazione: un riposizionare le pedine dell’espressione estetica per fungere da
tramite tra questa realtà e un mondo dimenticato ma sempre presente: questa, in
qualche modo, la vocazione dell’artista vero; questa, in qualche modo, la
chiamata di Marcovinicio.
Jonathan Salina
*Il lavoro di Marcovinicio, nella sua scontrosa inattualità, è attualmente in
scena all’interno della collettiva “Awakening (1988-1993)”, a cura di Tiziana
Conti, Angelo Candiano e Federico Piccari, presso la Fondazione 107 a Torino
**In copertina: Marcovinicio, Quadro con vaso, 2024, olio su faesite
L'articolo Assenza e presenza del fiore. Ovvero: sulla vocazione di
Marcovinicio, il pittore inafferrabile proviene da Pangea.
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata
in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto
Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci
anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, “per l’insistenza di ciò
che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo
scopo”. Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di
un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare
istitutrice; voleva fare l’artista.
I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica
di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901.
Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare
indemoniato, “barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante”. Aveva da
poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era
trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento
selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva
tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi,
soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai
tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà
“degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la
sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo
aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per
lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: “Vieni qui al lume della candela. Non
ho paura/ di contemplare i morti”, scrive il poeta, abissale, come sempre –
riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate
da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.
A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq,
l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina
potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e
Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque,
tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di
un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita
votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e
del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze
artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani:
è tratto dal “verso 38 della Quinta elegia di Rilke”, mi dice l’autrice.
Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il
lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.
Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale,
con lento candore, sembra un po’ ‘cannibalizzare’ la pittrice. Che idea si è
fatta di Rilke?
Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante
quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un
buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la
migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi
scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha
descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I
nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio
libro.
Paula Becker, Rainer Maria Rilke, 1906
Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.
Libera, energica, interrotta.
Che cos’è la ‘libertà’ per Paula; che cos’è la ‘libertà’ per Marie, una
scrittrice che vive nel 2025?
Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che
diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione
concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me
libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e
di amare, liberamente.
Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il
titolo del libro?
Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di
Joseph-François Angelloz.
Quali sono stati i ‘lari’, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella
scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma
mai ‘confessionale’, precisa fino al diamante?
Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg.
Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale
quello che ha scelto di tenere in ombra?
Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra,
oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera…
Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula.
Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho
voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto
nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire
perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se
questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la
maternità è ambiguo, affascinante.
Marie Darrieussecq; photo Charles Freger
Esiste a suo avviso una diversità ‘genetica’ tra opere d’arte femminili e
maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio ‘di genere’?
Nulla di ‘genetico’, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia,
sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli.
Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento
e dell’emarginazione, e una certa centralità – domestica. Lo sguardo di Paula
sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che
conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza
imposti da uno sguardo patriarcale.
Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: “Ci siamo guardati, con un
brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una
porta dietro la quale c’è Dio”. I quadri di Paula emanano una sacralità frugale,
che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto
con il ‘sacro’, con l’invisibile?
Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte.
L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di
sacralizzarlo.
La ‘carne’ è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker:
un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo
nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico,
palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del ‘toccare’
come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni…
Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho
ancora finito…
Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo
sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo
le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno
splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le
strade di Parigi, città che adorava, si sentiva ‘nuda’ sotto lo sguardo
insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale,
come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e
non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano
state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di
cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca,
gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere,
accettavano di posare nude per pochi spiccioli.
Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale.
Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi
consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e ‘morali’, si
fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere
all’IA?
Spesso pongo delle domande a Chatgpt (beh, non troppo spesso, visto che ogni
volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i
brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico,
non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il
suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.
Paula Becker, Autoritratto per il sesto anniversario di matrimonio, 1906
Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare
un gesto ‘politico’?
Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho
iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un
movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera
obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo
in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista”
possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di
molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di
fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una
Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non
apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il
sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in
posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della
Vergine Maria!
*In copertina: Paula Becker (1876-1907)
L'articolo Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke.
Dialogo con Marie Darrieussecq proviene da Pangea.
Gli antichi greci la chiamavano «ecfrasi», ovvero una descrizione a parole di
quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di
Omero nel XVIII canto dell’Iliade, dove viene descritto lo scudo di Achille,
forgiato dal dio Efesto. Non si tratta solo di invidia nei confronti dei pittori
e degli scultori, o di un complesso d’inferiorità che spinge lo scrittore a
esprimere con le parole elementi visivi, ma anche del desiderio di creare con le
frasi un universo di immagini a favore di chi quelle immagini non le può vedere
se non attraverso le sue parole. E anche, o soprattutto, del tentativo di
cogliere il mistero che quasi sempre un’immagine custodisce, di decifrarne la
sua verità liberata dall’artificio della parola.
Sull’ecfrasi è costruito un libro appena uscito, un libro che arriva inaspettato
(come in fondo tutti i libri dovrebbero arrivare). Si intitola Museo di sabbia.
Scorciatoie narrative, di Giovanna Di Marco (Del Vecchio editore). Non lo avrei
letto se non mi fosse stato consigliato. E questo è uno dei motivi principali
per cui la critica militante oggi può dirsi morta, o perlomeno disperata:
l’impossibilità materiale di seguire tutte le uscite editoriali, considerata la
mole spropositata di pubblicazioni; l’impossibilità cioè di tener conto e dare
conto dell’esistente. Ben vengano, dunque, i consigli, e qualsiasi cosa aiuti a
salvare dal naufragio inevitabile nel mare magnum dell’editoria odierna un testo
che meriti di essere salvato.
È il caso di questo Museo di sabbia, titolo borgesiano (Borges è uno dei numi
tutelari del testo, insieme a Gesualdo Bufalino, e non a caso in esergo troviamo
una citazione da entrambi), per una originale raccolta di racconti che ha come
tema e struttura, appunto, l’ecfrasi. Basta scorrere l’indice per averne
un’idea: il libro è diviso in tre «sale», ciascuna dedicata a un’epoca diversa –
Medioevo, Età moderna, Età contemporanea – proprio come un museo, e in ciascuna
sala ogni racconto porta il titolo di un’opera d’arte – quadro, scultura,
affresco, altare, monumento funebre, statua – alcune celebri (di Brunelleschi,
Piero della Francesca, Antonello da Messina, Bellini, Botticelli, Caravaggio,
Giulio Romano, Bernini, Velázquez, Cézanne, Pellizza da Volpedo, Klimt,
Kokoschka, Picasso, Guttuso), altre meno (tesori nascosti come la chiesa di San
Giovanni in Sinis, la Madonna assisa in trono del Maestro di Castelsardo, il
rinascimentale monumento funebre di Adelasia del Vasto nella cattedrale di
Patti). Tutte però capaci di diventare motore narrativo. A volte il rapporto tra
storia raccontata e opera d’arte è esplicito, predominante, altre volte invece
più sfumato, più marginale, ma sempre l’ecfrasi nella scrittura di Di Marco
funziona come «mise en abîme» tematica, spesso rivelatrice.
A colpire è la varietà dei registri stilistici adottata – medio, dialettale
(siciliana), alto – così come le tecniche narrative – in prima o terza persona,
monologante, epistolare, metanarrativa, «pastiche» – e i generi – storico,
giallo, realistico, fantastico, di formazione. I protagonisti dei racconti sono
Sandro Botticelli, Shakespeare o Camille Claudel in persona, ma anche una
professoressa alle prese con alunni difficili, un giovane balordo della
manovalanza mafiosa nella Vuccirìa, o uno sconosciuto mosaicista venuto da
Costantinopoli a Palermo per eseguire nella Chiesa della Martorana il ritratto
di Ruggero II che riceve l’incoronazione da Cristo (il racconto più bello della
raccolta, insieme a quello su La sposa del vento di Oskar Kokoschka, dove si
legge una frase lapidaria e sapienziale come questa, di una semplicità solo
apparente: «Lui infatti non lo sa che sì, il nostro è un amore felice, ma che
quella stessa felicità non può essere mai del tutto piena»). Ma sono soprattutto
giovani donne comuni in cerca di sé stesse e della maniera più giusta di abitare
il mondo, un mondo spesso asfittico, o insoddisfacente, o inospitale, se non del
tutto ostile.
I luoghi sono molto spesso la Sicilia, la odiata-amata Palermo, ma anche
Firenze, la Sardegna, Venezia, la Londra elisabettiana e la Madrid barocca. Ma
che cosa si cela dietro questa irrequietudine stilistica, questa tensione
metamorfica? Certo, la shahrazādiana lotta contro la morte, l’atto narrativo
come divagazione vitale, come viene accennato nell’epilogo. Ma c’è anche altro.
«Se un racconto fosse un quadro delimitato dalla cornice – si legge nel
racconto Allegoria sacra di Giovanni Bellini – lo spazio sarebbe il tempo e
tutte le vicende un aggregarsi didascalico degli avvenimenti. Ma non potrebbero
entrarci tutti, gli avvenimenti, in un piccolo dipinto. Se un racconto fosse un
quadro, i colori sarebbero le impressioni. Se un racconto fosse quel quadro, i
personaggi sarebbero quei santi con la loro storia, che collima perfettamente
con la mia. Perché quel quadro è un’allegoria. E io sapevo di essere dentro quel
quadro».
Essere dentro quel quadro, facendo dello spazio il tempo, è, in fondo,
l’espressione di un’ambizione: cancellare i confini tra l’arte e la vita, o
almeno trovare il modo di rendere viva l’arte. Ma per realizzare questa
ambizione il romanzo come genere non basta più, si rivela insufficiente,
inadeguato:
> «Erano tutti potenziali romanzi, i quadri e le sculture, financo i manufatti
> architettonici con cui mi raffrontavo e non mi sarebbe bastata una vita per
> scriverli – si legge nelle Note alla Sala I –. Perciò volevo avessero la forma
> di narrazioni concise: delle scorciatoie, delle piccole frecce infuocate che
> arrivassero al cuore dell’immagine, a rendere l’immediatezza di quanto si
> offriva allo sguardo per espugnarne il mistero, per conquistarla e poi
> riconsegnarla sotto altra forma».
Le sabiane «scorciatoie» rappresentano così un modo per eludere il romanzesco e
arrivare al cuore dell’immagine, decifrarne il mistero. Torniamo, dunque,
all’ecfrasi, a ciò che si cela dietro l’ecfrasi. Del resto, è la stessa autrice
a confessarlo, sempre nell’epilogo, dove si ritorna al punto di partenza, allo
scrittore Bufalino venuto in sogno all’autrice.
> «Ho parlato tanto di Sicilia nelle mie scorciatoie narrative – scrive Di Marco
> –. Volevo che l’arte si facesse, in qualche modo, vita grazie ai racconti. E
> adesso, attraverso l’affresco, siamo arrivati a noi».
Fabrizio Coscia
*In copertina: Camille Claudel (1864-1943)
L'articolo Eludere il romanzesco, ovvero: sull’arte dell’ecfrasi. Intorno a un
libro di Giovanna Di Marco proviene da Pangea.
Suo padre le era molto affezionato: Dickens iniziò presto a chiamarla Kate, la
sua terzogenita, nata a Londra nel 1839, due anni dopo l’ascesa al trono della
regina Vittoria. Il nome completo della bambina era Catherine Elizabeth
Macready, quell’insolito “Macready” dato alla piccola per ricordare l’amicizia
paterna con il pittore e attore William Macready, tra le stelle della Royal
Opera House.
Kate non è l’unica, d’altronde, a ricevere dal bizzarro padre bizzarri nomi:
quello completo del primogenito, Charles Dickens jr, è Charles Culliford Boz
Dickens, Boz essendo il nomignolo-nom de plume con cui lo scrittore aveva
firmato gli Shetches by Boz. Il quarto figlio, Walter Savage Landor Dickens,
prenderà il nome intero da un altro amico e collega, Walter Savage Landor
Dickens. Alfred D’Orsay Tennyson Dickens sarà battezzato ispirandosi ai padrini,
Alfred, Lord Tennyson e Alfred, Conte d’Orsay. E infine il nome dell’ottavo
figlio, Henry Fielding Dickens, deriva da quello dell’omonimo scrittore amato da
Dickens.
Stravaganze dickensiane a parte, Kate assomiglia al padre, è bella e impulsiva:
fin da bambina lui le affibbia pure il soprannome di “Lucifer Box” perché, come
i noti fiammiferi, prende fuoco con facilità. Anche in questo Dickens non si
smentisce, e tutti i figli hanno soprannomi o diminutivi buffi. Ma per Kate lui
ha un debole: la bambina ha carattere e molto talento, in particolare nel
disegno. Vorrebbe studiare arte, imparare dai maestri. Il padre l’asseconda e le
accorda un’istruzione di prim’ordine, deviando così dalle norme sociali
vittoriane, per cui una ragazza era destinata al matrimonio o a rimanere in
famiglia. La iscrive a una scuola fuori dagli schemi: fin dai dodici anni Kate
frequenterà le lezioni d’arte al Bedford College di Londra, istituto non
confessionale e il primo in Inghilterra a condurre le ragazze all’istruzione
universitaria. Tra le sue studentesse, Florence Nightingale e Mary Anne Evans,
al secolo George Eliot.
John Everett Millais, Ritratto di Kate Dickens, 1880
L’ambiente artistico, culturalmente raffinato e cosmopolita in cui Kate cresce
con i fratelli, i viaggi in Europa, in Svizzera, Francia e Italia in cui
accompagna spesso il padre (indimenticabili sono le scene veneziane in Little
Dorrit), la frequentazione di sale da concerto e teatri la formano, le danno
un’educazione non prevista normalmente per le ragazze vittoriane. Lei decide
presto cosa vuol fare e cosa vorrà diventare.
Dal padre ha preso la passione per il teatro: adolescente, calca le assi del
palcoscenico. Nel 1857 recita persino davanti alla regina Vittoria nel
dramma The Frozen Deep, scritto da Dickens e diretto da Wilkie Collins, che con
l’amico collabora alla sua rivista settimanale «Household Words». I due a loro
volta si esibiscono insieme nella commedia di Edward Bulwer-Lytton, Not So Bad
As We Seem, sempre alla presenza della regina Vittoria e del principe Alberto.
*
A ventiquattro anni Kate s’innamora e sposa il fratello di Wilkie, Charles
Allston Collins, anche lui pittore, scrittore e illustratore affine alla cerchia
dei Preraffaelliti. È il 1860. Il matrimonio si basa su reciproca comprensione e
interessi comuni, ma non altro: Charles infatti è gay, e in ogni caso scompare
prematuramente nel 1873. Oltre alla copertina, non riuscirà a terminare nemmeno
le illustrazioni di The Mystery of Edwin Drood del suocero.
Il secondo marito di Kate sarà di nuovo un pittore: Carlo Perugini, di origini
napoletane naturalizzato inglese, noto nella cerchia preraffaellita come Charles
Edward Perugini. Kate lo incontra in casa di Sir Leighton, di cui Charles è
amico e assistente. Trasferitosi in Inghilterra bambino con la famiglia,
diventerà una figura ben nota nel mondo dell’arte londinese e britannica, il
nome quasi sempre anglicizzato in Charles Edward Perugini. Per amici e la
famiglia resta comunque Carlo.
Kate dipinta dal marito, Carlo Perugini
Kate sarà ritratta da lui, da altri, da John Everett Millais: l’unica donna a
posare dando le spalle al grande Millais, che è solito imporre alle proprie
modelle sedute estenuanti – celeberrimo il caso di Elizabet Siddal obbligata a
stare ore immersa in acqua per l’Ofelia, fino a prendersi la polmonite. Da poco
vedova del primo marito, in elegante abito nero, Kate è invece di spalle, lo
sguardo provocatoriamente rivolto di lato: L’idea dell’insolita posa è sua,
quasi voglia concedere poco di sé all’osservatore. Non sembra importarle molto,
il contatto con un osservatore esterno. Stranamente, Millais accetta l’idea,
regalerà il dipinto a Carlo Perugini in dono di nozze.
*
La prima volta in cui Millais la dipinge, Kate è una giovane studentessa d’arte
che gli fa da modella. Il pittore è amico di famiglia e intimo dell’allora
fidanzato Charles Collins. Nasce così un’opera tra le sue più note, The Black
Brunswicker (1860), completata lo stesso anno in cui Kate sposerà il suo
Charles: sulla tela, una giovane donna sta invano cercando di convincere il
fidanzato a non andare a combattere alla battaglia di Waterloo. Quando il
dipinto è esposto l’esaltazione del pubblico, desideroso di ammirare la figlia
di Charles Dickens, obbliga il museo di porre una barriera per impedire ai
visitatori di avvicinarsi troppo e danneggiarlo.
Nei circoli frequentati da Kate e dal marito s’incontrano anche molti scrittori:
lei è amica di Thackeray, di Barrie, futuro creatore di Peter Pan, di Shaw, a
cui concede varie interviste sulla vita privata del celebre padre, rivelandogli
anche la relazione con l’attrice Ellen Ternan, l’ultimo amore di Dickens.
Il secondo matrimonio porta a Kate il dolore di perdere il loro bambino,
Leonardo, a pochi mesi dalla nascita, e la notorietà come
ritrattista. Conseguito il diploma a pieni voti, adesso è una pittrice di
successo: in particolare, si è specializzata nei ritratti. Con pennelli e
cavalletto si è affrancata in breve tempo dal ruolo di figlia, pur talentuosa,
dello scrittore più celebre d’Inghilterra, per raggiungere a sua volta la fama
da professionista: i suoi quadri si liberano presto dell’influenza
preraffaellita, la sua pennellata risoluta anticipa tempi più moderni.
Kate Perugini, Ritratto di Dora, 1892
Cosa dipinge, Kate Perugini? Quasi sempre bambini, o donne dallo sguardo
malinconico, che sembrano vedere molto e trattenere a sé silenzi lunghi. Forse,
dipinge all’infinito una parte di sé. Esporrà ogni anno le sue opere alla Royal
Academy a Londra, all’Institute of Water Colour Painters, alla Society of Lady
Artists, alla Egyptian Hall a Piccadilly e poi oltre mare in America,
all’Esposizione Colombiana a Chicago nel 1893.
Donna capace di dirigere la propria vita e il proprio destino, è diventata
un’artista indipendente, molto lontana dallo stereotipo femminile angelicato
preteso dall’epoca. Si muove con scioltezza in un ambiente quasi tutto al
maschile – nel 1883 sarà tra i firmatari della petizione che chiede alla Royal
Academy di far frequentare alle studentesse gli stessi corsi dei colleghi
uomini. Lei e Carlo condividono un grande studio, ricavato in casa, dove
accolgono gli amici pittori e artisti in feste e mostre private. Lavora molto,
tutta la vita, Kate, quadro dopo quadro, guadagna in un’epoca in cui alle donne
non è spesso consentito lavorare. Con nonchalance, li firma spesso con due
cifre: “KP”. Semplicemente.
Come quella di altre sue contemporanee, la sua fama è stata oscurata dal tempo e
dall’oblio, inghiottita nell’enorme nebulosa Dickens e poi perduta di vista. E
le sue opere con lei. Kate Dickens o Kate Perugini – come ha voluto sempre farsi
chiamare l’artista – morirà a Londra nel 1929, lasciando dietro di sé una
costellazione di dipinti, testimonianza dell’epoca vittoriana e avvisaglia di
tempi nuovi.
Paola Tonussi
L'articolo “Lucifer Box”, la figlia prediletta di Dickens. Ovvero: storia di
Kate, pittrice indipendente proviene da Pangea.