Incidere paradossi, artigliare l’altrove. I curatori di Awakening insistono
sulla Storia, sulla percussione dei ‘fatti’ e sulle loro ripercussioni – la
parola che hanno scelto, tuttavia, ha l’arcano addosso, trascenda la mera
cronaca.
In scena alla Fondazione 107 di Torino – da anni, ormai, spazio di riflessione
indipendente sul ‘contemporaneo’ e sulle evanescenti sfaccettature che ha questo
termine – Awakening intende testimoniare, attraverso trentadue artisti, l’arte
italiana tra il 1988 e il 1993. Un momento, scrive Federico Piccari, in cui “il
mondo ha vissuto un’accelerazione storica senza precedenti”. In trio – insieme a
Piccari, Tiziana Conti e Angelo Candiano – i curatori hanno buon gioco a
disseminare dati: la caduta del muro di Berlino, piazza Tienanmen, Solidarność;
“l’inizio del mandato presidenziale di George H. W. Bush sfocia nella prima
Guerra del Golfo, avvisaglia di una situazione che si trasformerà in conflitto
permanente” (Conti); e poi Tangentopoli, la “discesa in campo” di Silvio
Berlusconi, I segreti di Twin Peaks in tivù, Il silenzio degli innocenti agli
Oscar, Pulp Fiction, i Radiohead. Michail Gorbačëv è onorato con il Nobel per la
pace nel ’90, l’anno in cui Salvatore ‘Totò’ Schillaci infiamma – fatuo fuoco –
le ‘notti magiche’.
Non so se l’artista sia il frutto delle mere forze della Storia o non ne sia,
piuttosto, il propagatore, l’agitatore, il folle. Il disturbatore. L’arte ha a
che fare con l’alchimia e l’astrologia più che con la geopolitica: forse –
direbbero i saggi – la Storia è un sogno (un incubo, ha detto Joyce); l’artista
lavora tra gli impossibili, in una sorta di incunabolo – è l’incubatrice
dell’aldilà.
Di certo, la fine degli anni Ottanta e il principio dei Novanta hanno chiuso un
secolo – sclerotizzato nelle forme, egualmente grate e feroci – mettendo a
coltura ciò che ci esplode tra le mani oggi. Un oggi annientato da eccesso di
analisi – tutto si può leggere in tutti i modi, tutti esatti, ma vivere è altro
affare, vivere è annullare l’analisi. Per certi versi gli Stati esasperano
un’identità muscolare, ottocentesca, coloniale; dall’altra, gli uomini sono
espulsi dall’azione, dal ‘trovare soddisfazione’ in questa vita. Le macchine
fanno la guerra, gli uomini si rimpinguano: cannibalismo. Bismarck sullo
shuttle.
Awakening, però, è parola piena di risonanze – “tra Rivoluzioni e Rivelazioni”,
secondo la bella formula di Piccari. Per chi ha pratica con il
buddismo, Awakening è il risveglio, il processo – previa disciplina o improvvisa
illuminazione – che porta dall’illusione alla verità, alla liberazione dalla
sofferenza. Il termine è fecondo anche nella tradizione cristiana: nel quinto
capitolo della lettera agli Efesini – che attacca con monito memorabile: “Fatevi
dunque imitatori di Dio” – Paolo distilla un detto: “Destati dai dormienti e
sorgi dai morti: Cristo ti illuminerà”. Se volete – pur con valore diverso,
quando non opposto – sono presenti in questo versetto tutte le parole
dell’iniziazione buddista. Il risveglio; la realizzazione; l’illuminazione. Per
risveglio, Paolo usa il greco egeiró che è proprio il destarsi dal sonno. È
vero, il risveglio è legato alla resurrezione, ma prima ancora a un ‘aprire gli
occhi’ di fronte al mistero di Cristo – senza questa apertura, questo
dissigillarsi del corpo, è improprio il risorgere. Si tratta di farsi destri,
casti alla corsa.
Awakening, allora – così intuisco io – è parola che dice la natura profonda
dell’artista, il ‘risvegliato’, l’uomo che si adopera per vanificare le
illusioni. Sommo illusionista – quando non: mago. La rassegna torinese non è
rassegnata all’amarcord, ai vieti eventi di una memoria messa a maggese.
L’obsolescenza della ‘tecnica’, così, trasfigura alcuni lavori: il Circuito n.
1 realizzato da Paolo Brenzini nel 1989 sembra, oggi, l’esoscheletro di una
creatura degli abissi, il prototipo di un capodoglio elettrificato; il Progetto
segreto di Maurizio Camerini – era il 1988, si osservano, messi in tensione tra
aste e compassi, due televisori; l’atmosfera ricorda un po’ Brazil, il
catatonico film di Terry Gilliam – pare un totem, un oracolo catodico, la Pizia
in periferia; i Computer sigillati di Maurizio Bolognini (era il 1992) sono
dissigillati angeli, crollati al verbo algoritmico, con bocche-floppy disk.
È, in fondo, questa, una grande mostra sul linguaggio. Come dire il mondo di cui
non sentiamo che eco, riverbero, pigolio d’acque, poltiglia verbosa?
Soprattutto: cos’è il mondo, cos’è la storia? L’andare da viandanti tra i
pensieri religiosi insegna che la storia non è quella che si fa nei palazzi, è
quella realizzata dai pazzi – la schifiltosa veemenza della volpe, il ronzio
dell’ape, la rovina delle dune è più pertinente di annali, cronologie,
radiografie. La storia è la storia di chi va verso l’assoluto – il rito, allora,
diversamente dai ‘riti’ della politica e della giustizia, adempie un altro
tempo, che non si installa in eventi, in canoni della notorietà. Quale storia
abita l’artista?
Provo a trovare analogie con un linguaggio che mi tenaglia, la poesia. Tra il
1987 e il 1996 – grosso modo, le maglie cronologiche in cui si sviluppa la
mostra torinese – il Nobel premia una serie di poeti diversamente centrali nella
storia dei loro paesi: Iosif Brodskij (1987; transfuga dalla Russia comunista);
Octavio Paz (1990; l’intellettuale ostinato, il messicano ambasciatore in India
e in Giappone); Derek Walcott (1992; il genio di Saint Lucia, cantore della
migrazione, dei tanti Ulisse caraibici); Seamus Heaney (1995; il bardo
d’Irlanda); Wislawa Szymborska (1996; l’ironica sibilla polacca). Terminata
questa generazione, è come se si fosse lacerato il rapporto tra il poeta e la
Storia – la possibilità, cioè, che la Storia sappia disporsi in una poetica, in
cui il poeta abbia voce in capitolo, abbia il primato del perdono. Per
l’incoronazione di Carlo III – per dire delle gerarchie tra poesia e Storia – il
poeta ‘laureato’ Simon Armitage ha scritto un testo in cui dice lo stupore di
una signora della classe media e, soprattutto, la regale libertà di un “piccolo
passero… sui tetti dell’abbazia”. Del re, appena un accenno di luci.
Un’opera di Franco Rasma da Mehr Licht, 1990-92
Alcune opere – la Mano di Monica Carocci, i volti di Markus Döhne, ad esempio –
posseggono una cupa potenza che si realizza proprio oggi, a decenni di distanza.
D’altronde, l’unica contemporaneità possibile per un artista è il senza tempo:
ingannare l’inganno della Storia.
Basti guardare alla bulimia di buio di Franco Rasma: Mehr Licht, invoca, come
Goethe, l’artista, più luce. Ma tutto è ambra d’ombra, è albume di luce,
scurezza che potresti dire anima. “È l’universo del possibile”, ha detto
l’artista, era il ’93 – o meglio, era un tempo veniente, a venire – “l’istante
della rivelazione, quello che i Sufi chiamano Zikr, la rimembranza di Dio”.
Potremo dire: la rimanenza di Dio, l’impuro resto, la purissima impunità – “è
come se tutto ciò avvenga indipendentemente da te…”, sussurra, preda di
magnetiche ossessioni, Rasma. Essere guidati, cioè: preferire l’insonnia al
risveglio. L’artista illumina, non è illuminato – sua è la tratta senza
trattative, l’andare tra mansioni di oscurità, cucire questo mondo all’altro,
introdursi nel tempo – ladrocinio nobile, il suo.
Per non dire di Marcovinicio, che nell’epoca del capovolgimento storico, della
computerizzazione di massa, della messe del ‘progresso’, guarda ai monti, ai
sentieri, alle vacche. Rivolge la sua attenzione – con violenza ‘d’avanguardia’
– ai pittori del Duecento, agli scultori dell’anno Mille, ai maniscalchi della
Cappadocia, agli artisti-contadini delle sue valli, che salpavano con la falce e
il pennello. Che brutale dolcezza! Che selvatica eternità! La baita è l’arca
dell’alleanza, la mucca al pascolo l’agnus sacrificale, l’albero – arcaico nel
torcersi, spoglio – adombra la Croce, quella abbacinante nudità, i monti, a
distanza, sono il Tabor e la Gerusalemme celeste. Qui c’è una fede che fende
come il fiume; un pane da tenere in bocca nei giorni di magra. Silenziosa
disciplina è il titolo dell’opera: come si entra nel tempio – che è poi stalla e
alcova – e si snocciola, con labbra di corda, in cordata, una preghiera. Prima
del risveglio, il sonno dei giusti.
Quando incrocio Marcovinicio a Domodossola, è il consueto ardore, la parola più
ampia di un continente, l’incontinenza del dire e del fare. Un fraseggio
all’arma bianca. “Gli uomini sono tutti demoni. Siamo demoni. Non tutti operano
il male, per carità, ma c’è qualcosa in ciascuno, qualcosa, in me, in te, che va
sarchiato”. Che va sancito con l’oltraggio – con l’amore a oltranza.
*In copertina: Marcovinicio, Silenziosa disciplina, 1990
L'articolo “L’istante della rivelazione”. Dell’artista in lotta con la Storia
proviene da Pangea.