L’occupazione va avanti ormai da tre giorni e il liceo in cui insegno — un
edificio di fine anni Sessanta, grigio e rosso scuro, incastrato al limitare del
quartiere Isola, quello di Niguarda e viale Jenner — sembra quasi un animale che
muta umore al passare delle mezze giornate. Ogni piano ha una storia diversa: un
gruppo discute di diritti civili, due classi suonano senza sosta, qualcuno cerca
un proiettore introvabile mentre qualcun altro scrive slogan con pennarelli
colorati e mezzi scarichi; c’è poi sempre chi attraversa il corridoio a passo
svelto con la testa bassa sul telefono o chi, seduto sulle piastrelle
dell’atrio, gioca a carte per ingannare l’attesa bevendo un succo confezione
famiglia. Girando per la scuola capita che al brusio della vita in corridoio si
sostituisca un silenzio da edificio deserto carico dell’odore di sigarette e di
marijuana che aleggia lontano dalle finestre socchiuse; ma basta un niente, una
porta che sbatte, una cassa che riparte in lontananza, perché l’edificio torni a
vibrare con il suo ritmo insolito di questi giorni.
Da due mattine le giornate passano così. Oggi decido di salire ai piani non
coinvolti dalle attività degli studenti, nell’aula che mi spetta a quell’ora,
nella speranza — poco convinta — di trovare almeno uno spazio che somigli a un
riparo o un’isola dove potermi concentrare. Guardo l’orologio a muro in sala
docenti e deduco che devo andare in 2E. Non ne sono entusiasta, perché so che
quell’aula non è mai ben riscaldata: i termosifoni funzionano a singhiozzo e il
freddo si insinua sotto i pantaloni, tanto che a fine ora ci si ritrova spesso
intirizziti, tranne i pochi accalcati intorno all’unico calorifero che irradia
un caldo beffardo, inutile per tutti ma insopportabile e fastidioso per chi gli
è addosso. Sono vestito come mi pare di esserlo tutti i giorni: camicia, oggi
bianca, maglione, oggi verde scuro, sneakers, sempre bianche; ho con me lo zaino
con il laptop, la Moleskine chiusa dal suo elastico nero, qualche foglio per gli
appunti e un pacco di compiti da correggere, l’iPhone tra la tasca e la mano, in
continuazione.
Fuori, Milano è ingrigita da una pioggia non battente ma ostinata, una di quelle
che fanno sembrare tutto più pesante e fanno camminare i passanti in fretta, in
fuga; qualcuno dice che forse nevicherà, anche se in realtà non avrebbe dovuto
nemmeno piovere. Le auto sollevano schizzi passando sulle pozzanghere, e su
alcuni balconi si intravedono già delle luminare accese, destinate più a
rispettare una scadenza commerciale sempre anticipata che a evocare un
sentimento reale; sono luci che non aggiungono nulla e non scaldano. Il Natale
non è ancora nei pensieri di nessuno e non sono questi promemoria coercitivi a
regalare un anticipo di festa: a Milano lo spirito natalizio – come si misura
ormai? corsa ai regali? voglia di rallentare? – arriverà solo più tardi, con
Sant’Ambrogio, i mercatini, il vin brulé e la Prima della Scala, fino ai nuovi
riti più prosaici del Black Friday o della prima sciata di stagione.
Io sento ogni anno la stessa nostalgia: come se il Natale restasse sempre un po’
sfocato da adulti, come un’immagine che ricordavo più nitida, e invece
sfugge. Forse per questo, da anni, provo a scrivere un racconto di Natale, e
ogni volta fallisco, ma puntualmente ci riprovo, perché ho sempre amato leggere
storie ambientate a Natale, così come mi piace ora raccontarle agli studenti,
stupirli con la proposta di letture natalizie senza un compito allegato, senza
un riassunto cui pensare o un’analisi da studiare, sperando persino di poter
dare loro un argomento di conversazione per le feste, o una buona idea regalo:
un libro di un autore che è piaciuto, un guizzo letterario. Certo che conoscere
i racconti, leggerli e proporli è una cosa, scriverli è un altro mestiere, e il
paradosso è che non si possono scrivere a dicembre: i racconti di Natale nascono
altrove, in estate, o in un giorno qualunque, quando non ci pensi e forse non ne
senti nemmeno il bisogno. Poi, a dicembre improvvisamente vengono buoni. Tutti,
tranne quello mio che non c’è mai. Così, mentre salgo al secondo piano, penso
che forse questo venti novembre, in una scuola occupata, lontano da tutto ciò
che ricorda una festa, potrebbe essere il momento giusto per provarci di nuovo.
Apro la porta della 2E, contando di trovarla deserta. L’aula è immersa in una
penombra irregolare: la veneziana accanto alla cattedra è ancora rotta e lascia
intravedere un pezzo di Milano con i tetti bagnati, gli alberi ormai spogli e le
automobili che si confondono tra quelle parcheggiate e quelle intrappolate nel
traffico. Faccio un passo, accendo la luce cercando con le dita il pulsante alla
parete e mi blocco, colpito da una presenza che non so spiegare. Tra i banchi
più lontani dai vetri, alla mia sinistra, una donna minuta indossa un vestito
che sembra uscito da un ricordo troppo vivido perché sia immaginato, un vestito
semplice con un grembiule sottile, e tiene tra le mani una torta avvolta in un
panno, pronta per essere spedita “a qualche sconosciuto che ne ha bisogno” – mi
dice, terminando con parole sue un mio pensiero. La riconosco: è Sook, leggo
sempre di lei; è la cugina di Truman Capote, la protagonista del suo racconto di
Natale più bello. Mi sorride, e il suo sorriso sembra sciogliere un poco il
freddo dell’aula. Accanto a lei, seduto su un banco, Paul Auster fa girare una
moneta tra le dita, facendola brillare sotto il neon che tremola per un attimo
sopra di noi; mi osserva con la sua calma che sa di storie infinite e mormora
che «è tutto un trucco, ma a Natale i trucchi contano», come se stesse citando
il suo stesso racconto mentre lo vive. Dietro, quasi nascosto nell’ombra, un
vecchio con la barba sfoglia un registro di classe come fosse un libro mastro
capace di contenere ogni bilancio morale del mondo: non è Charles Dickens, ma il
suo Scrooge, il primo, quello rigido, il più umano e il meno redento,
semitrasparente come se l’aula stessa lo consumasse. E poi vedo oltre questi
tre: contro il muro, appoggiata senza custodia, c’è una chitarra acustica.
Accanto a essa, con le mani infilate nelle tasche del cappotto e una sigaretta
spenta tra le dita, c’è Francesco De Gregori. Porta degli occhiali con le lenti
sfumate, il volto è segnato da una barba bianco-rossiccia curata e se ne sta lì
con la naturalezza di chi stava aspettando di parlare. Si stacca dal muro e mi
saluta con un “Ohé professore” appena accennato, “stiamo provando un racconto di
Natale”, e aggiunge che siccome a me non riesce mai, sono venuti loro a darmi
una mano. Poi si volta verso la finestra e aggiunge, quasi tra sé e sé, che
certe storie non vogliono essere scritte nel momento giusto, ma compaiono quando
meno te lo aspetti. “Quello che non so, lo so cantare – ricordi?”
Ed è mentre lui si sposta che, dietro la sua figura, vedo un bambino: magro, gli
occhi scuri, le scarpe fradicie, la felpa troppo leggera per il gelo di quella
mattina, lo zaino che gli scivola dalla spalla. Non ha nulla del fantasma o del
personaggio inventato: è proprio un bambino, troppo giovane perché sia uno dei
miei studenti, ma allo stesso tempo sembra somigliare a tanti di loro. Per un
attimo mi sembra di riconoscere chi di solito siede dove sta lui ora, un attimo
dopo è un bambino di Gaza con gli arti mutilati, poi me stesso da piccolo, poi
mio figlio, poi mia figlia, e infine uno sconosciuto che potrei avere incrociato
per strada senza mai accorgermene. Questo bambino, penso, è tutti e nessuno, ed
è lì: è un prisma vivente che rimanda il volto del mondo attraverso le sue
sfaccettature e le sue crepe, e forse è proprio questo scorgerlo che rende il
Natale possibile. Lo guardo e lui mi dice soltanto “sto aspettando”, e quando
gli chiedo che cosa aspetti, risponde “tutto”, come se quel tutto comprendesse
anche la sua storia taciuta, il suo Natale mai raccontato. A quel punto De
Gregori, in piedi dietro di lui, gli appoggia una mano sulla spalla e mi indica
il bambino con un semplice cenno del mento e del viso, un gesto quasi
impercettibile e chiarissimo. È lui – sembra dirmi – è lui il tuo Natale. E in
quell’attimo mi torna in mente che proprio in quella stessa aula, un anno prima,
quando era la 5C, avevo letto e raccontato agli studenti Capote, Auster,
Dickens, Andersen e O. Henry, e dopo di loro avevo fatto ascoltare tre brani
natalizi di Francesco De Gregori, evocandoli tutti con l’entusiasmo che mi
prende sempre quando parlo dei racconti di Natale che amo, e che ogni anno provo
a scriverne uno senza riuscirci. Ora tutti gli autori e le loro storie sono
davanti a me, e a me tocca.
Dal corridoio arrivano voci, passi, il rumore di un banco trascinato: qualcuno
forse sta per entrare. Dentro di me cresce una certezza limpida, quasi
incontestabile, che ciò che sto vivendo non può svanire soltanto perché un
rumore interrompe la quiete. Chiudo la porta con naturalezza e decisione
insieme, difendendo questo istante fragile come si proteggerebbe il segreto di
Babbo Natale ai figli che, diventando grandi, iniziano a fare domande
difficili. Quando mi volto di nuovo, gli autori e i personaggi sembrano ancora
lì, ma più luminosi e più leggeri, come se stessero concedendo a me — e solo a
me — la possibilità di trattenere ciò che serve davvero per scrivere, mentre il
resto può dissolversi senza rumore. Il bambino, però, rimane immobile: è
presente come un banco, reale come una domanda cui non si può sfuggire.
«Lo scrivi?» chiede, e la sua voce ha qualcosa di gentile e insieme
irrevocabile, come se la domanda non fosse rivolta soltanto a me, ma anche a
tutte le versioni di lui che ho intravisto un istante prima.
Poso lo zaino, apro l’agenda, accendo il laptop, sento la penna tra le dita:
sembra tutto pronto, come se questo momento non fosse solo un incontro inatteso,
ma la soglia che cercavo da anni. Intuisco ora che il Natale, prima ancora di
essere una festa, è una ricerca ostinata di bellezza e di verità, un tentativo
di ritrovarsi in uno sguardo verso l’altro, un modo per tornare al punto in cui
tutto è nuovo e possibile.
Sì, lo scriverò: lo scriverò perché è già qui, perché è già accaduto, perché il
racconto nasce proprio adesso, in quest’aula fredda e in una scuola
occupata, dove un bambino che porta dentro di sé tutti i natali del mondo mi
guarda in attesa e mi concede la possibilità di trasformare questa attesa in
parole.
Il Natale, comprendo qui e ora, non è un luogo, né una data: il Natale è un
bambino da proteggere e che salva, da aiutare e che cura, da sfamare e che
nutre, da educare e che insegna.
Il Natale è bambino.
E allora sì: il racconto sta arrivando. Finalmente.
Marcello Bramati
*Marcello Bramati ha pubblicato, tra l’altro, “Leggere per piacere” (Sperling &
Kupfer, 2017) e “L’ultimo miglio. Motivi e modi per accogliere i cantautori
nella letteratura e in classe” (Mimesis, 2024). Insegna, ha due lauree.
**In copertina e nel testo: opere di Mervyn Peake (1911-1968)
L'articolo Classe II E. Un racconto di Natale (con Capote, Scrooge e De Gregori)
proviene da Pangea.
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Ho conosciuto Douglas Glover grazie a Eugene Marten. Nell’intervista realizzata
su questo foglio telematico, l’ottimo scrittore americano appena tradotto da
Playground cita The Life and Times of Captain N.; un libro, dice, più bello
di Meridiano di sangue. M’informo. Il romanzo, ambientato durante gli anni della
Rivoluzione americana, tra il 1779 e il 1781, alterna rovinosi tradimenti ad
affabili efferatezze. Il protagonista, Oskar, un ragazzino, scrive una lettera a
George Washington; il padre – arguto in violenza – ha scelto di stare col Regno
di Gran Bretagna; la madre è in piena isteria, i nativi imperversano, a fiotti,
elegantissimi nell’uccidere (“Verità è bellezza”, dice, a un certo punto, un
nano, mentre maneggia il Tristram Shandy e la Anatomy of Melancholy di Burton,
“Guarda i selvaggi: poesia che prende vita. Ogni loro gesto è retorico. Per loro
bellezza è verità. Per raccontare la loro verità devi dimenticare questo mondo e
parteggiare per il poetico”).
Del romanzo esiste anche una versione francese, dal titolo più incisivo: Le
Rédempteur. In origine, uscì per Knopf nel 1993, l’anno in cui Cormac McCarthy,
dopo decenni di grandi romanzi per lo più sconosciuti ai più, accede al grande
pubblico, con Cavalli selvaggi. L’anno prima, Richard B. Woodward lo aveva
intervistato per il “New York Times”, creando l’icona del the best unknown
novelist in America: lo scrittore assiso in una sua insonorizzata solitudine,
che parla poco, professa l’eremitaggio etico, conosce i serpenti a sonagli del
Mojave. Grosso modo con le stesse parole – the most eminent unknown Canadian
writer alive – è stato censito Douglas Glover. La nota che appare sul suo sito,
alimenta un’agiografia di smarrimenti e sottrazioni: “L’oscurità di Douglas
Glover è leggendaria; è noto soprattutto per essere sconosciuto”. Si citano i
due figli, “Jacob e Jonah, che senza dubbio diventeranno più bravi di lui”. I
suoi libri – così scrivono alcuni giornali come “Music & Literature” – “possono
essere paragonati ai romanzi di Cormac McCarthy, Donald Barthelme e William
Faulkner”.
In realtà, di Douglas Glover si sa molto – per lo meno, abbastanza. Nato nel
1948 a Simcoe, piccolo borgo canadese, in Ontario, dove aveva sede l’azienda di
tabacco della famiglia, ha studiato filosofia a Toronto, si è specializzato a
Edimburgo, ha praticato come giornalista, è stato “writer in residence” in
diverse università, più o meno note. Nel 2010 ha fondato la rivista letteraria
“Numéro Cinq”, che ha diretto per sette anni. Douglas Glover ha le stimmate del
guru, è messianico perfino nel viso: fronte ampia, occhi levati da uno spirito
lupo, impettita magrezza; lo straordinario nell’ordinario. Quando lo
fotografano, spesso si vela il volto con mani in mandria.
È un teorico della letteratura; meglio: è un profeta della scrittura, uno che
scava, uno che stana il verbo. Uno in caccia. Tra l’altro, ha scritto un saggio
su “Don Chisciotte”, The Enamoured Knight, ma i suoi interventi più sagaci sono
quelli brevi, predatori. Tra i tanti, preferisco The Novel as a Poem; attacca
così:
> “Il miglior insegnante di scrittura che abbia mai avuto era un cowboy del
> Kansas, si chiamava Robert Day, l’ho conosciuto all’Iowa Writer’s Workshop,
> era capitato all’ultimo minuto per sostituire un collega: sarebbe stato con
> noi un semestre, era il gennaio del 1981. Il primo giorno di lezione –
> indossava stivali, jeans, camicia a scacchi – non disse una parola, prese il
> gesso, segnò la lavagna con una scrittura a caratteri cubitali: Ricordati di
> ricordargli che il romanzo è una poesia”.
Robert Day, da giovane, aveva lavorato per G.P. Putnam’s, a New York, “ricordava
ancora l’entusiasmo per la pubblicazione di Lolita”, aveva pubblicato un solo
romanzo, The Last Cattle Drive, aveva un ranch nel Kansas occidentale, “gestito,
ai limiti della legalità, insieme ad alcuni amici”. Indottrinò Glover intorno
alla sapienza letteraria di Raymond Queneau, Robert Musil, Chinua Achebe, Amos
Tutuola, Vladimir Nabokov e Kobo Abe. Non potremmo immaginare scrittori più
diversi tra loro.
Douglas Glover esordisce alla letteratura proprio nel 1981, con The Mad River
and Other Stories, un libro pressoché introvabile. Il primo dei suoi cinque
romanzi, Precious, esce due anni dopo: è la parodia di un giallo; il
protagonista, “un giornalista alcolizzato ed esausto con la tendenza a cacciarsi
nei guai e tre matrimoni falliti alle spalle”, pare ritagliato sulla sagoma di
Hank Quinlain, il personaggio eternato da Orson Welles. Il romanzo più noto – e
più tradotto – di Glover s’intitola Elle: ambientato nel XVI secolo, romanza
l’epopea di Marguerite de La Rocque, giovane donna francese abbandonata da
Jacques Cartier presso la leggendaria “Isola dei Demoni”, Terranova. Si
susseguono, in rissa, orsi, spettri, inuit; dissero dell’“immaginazione
rabelaisiana di Glover”. Il romanzo, uscito nel 2003, dieci anni dopo The Life
and Times of Captain N., permise a Glover il Governor General’s Award, il premio
letterario più importante del Canada, superando Margaret Atwood.
L’ultimo libro pubblicato da Glover, The Erotics of Restraint, una raccolta di
saggi, è uscito nel 2019; l’ultimo pensiero on writing è uscito la scorsa
estate: Glover parla di Anna Karenina e più in particolare di Literary Suicide.
Avrebbe voluto scrivere un romanzo “sul suicidio del mio bisnonno, nel 1914.
Alla fine ho abbandonato l’impresa perché, immagino, non avrei saputo descrivere
un suicidio”.
The Life and Times of Captain N. – di cui in calce si offrono, in libera
traduzione, alcune pagine – è un libro docilmente torbido, molto bello. Rispetto
a Meridiano di sangue, la cui scrittura, biblica e ancestrale, procede per
gnostiche involuzioni, qui si va per folgori, per agnizioni improvvise, per
bruschi lampi. Meridiano di sangueè un romanzo-assedio; The Life and Times of
Captain N. è un romanzo razzia. Nello stesso anno in cui esce il romanzo – per
dire della pervicacia del ‘genere’ – Gli spietati, il cupo western di Clint
Eastwood, ottiene quattro Oscar.
Soprattutto, The Life and Times of Captain N. è una riflessione sul senso della
scrittura, se la scrittura possa davvero testimoniare la verità quando non il
suo idolo, la sua contraffazione. A un certo punto Oskar, il ragazzo che sta
scrivendo la sua storia, scrive:
> “Intendo dire la Verità, ma è difficile afferrarla. La Verità è una Maschera &
> il suo Stigma è la Divisione. Non è che il Nulla che giace tra le Cose.
> Vortica. Eppure credo che conoscerla sia una specie di Pazzia, di gioioso
> Conforto”.
Tracciare i punti di contatto tra Douglas Glover e Cormac McCarthy è infine
inutile: un gioco di apparenze, di eteree strategie letterarie, di fuochi in
fuga. Le grandi singolarità sono imparagonabili, la scrittura prevede un uomo
solo, qualcosa che scalfisce la parola pioniere e la parola primevo. È ora di
tradurre Douglas Glover.
***
Da The Life and Times of Captain N.
Il Patto sconfitto
Agosto-settembre 1779
Dio d’acqua
Il ragazzo arranca con la penna d’oca, schizza gocce d’inchiostro preparato in
casa sulla rude corteccia di betulla. La lingua lecca il labbro superiore: si
concentra. Sei pronto a scrivere? Pensa. Sei pronto a dire la verità? Sì.
Il ragazzo ha quindici anni. Il padre è scomparso nella foresta, è andato a
cercare il re. La madre è a letto. Le sue grida e i suoi miagolii allontanano
tutti dalla casa. Nella chiesa che il padre ha costruito in una porzione della
fattoria, la gente del villaggio recita preghiere per lei e per i suoi figli –
blatera bestemmie contro il padre del ragazzo. Gli zii e le zie del ragazzo sono
in fila sui banchi per denunciare il fratello. Quando pregano in silenzio, odono
le urla della madre del ragazzo.
Non si lava – non mangia. Lo spazio puzza, galoppano i gemiti. Ci sono altri sei
bambini oltre al ragazzo – lui è il più grande. Corrono, liberi, nel cortile
della fattoria, nel bosco. Venite, vicini, venite, servitevi degli animali della
fattoria, fottete gli attrezzi del padre. Cardi e bardana, senape selvatica e
erbe matte soffocano i filari di mais. I cervi “pascolano di notte dove le
recinzioni sono state sfondate.
Caro Gen. Washington, mio Padre ci ha picchiati tutti”, scrive il ragazzo. “Era
un terribile Uomo. Non dovremmo essere trattati male per quel che ci ha fatto.
Lui picchiava mia Madre & lei picchiava il bambino. Mio Padre picchiava me & io
picchiavo Ephas, Jonah, Sophronia, Cacophonia & Ella. Poi mi ha picchiato perché
li picchiavo e li ha picchiato perché si sono fatti picchiare. Per altri versi,
era un Uomo Buono, ma ora può capire perché è andato a combattere per il Re. Il
mio nome è Oskar Nellis. Sono per la Repubblica. Penso che ci debbano restituire
la Mucca. Goldie, il Nero, è andato via con Papà. Altri tre sono scappati nella
foresta. Ce li devono restituire”.
Il ragazzo smette di scrivere perché qualcuno cerca di forzare la serratura del
gabinetto. La porta si apre e rivela un ragazzo magro, sulla ventina, naso
lungo, verruca sul mento, cappello a tesa larga, sporco, pantaloni strappati
fino al ginocchio. È scalzo, come Oskar.
È un dio d’acqua, un Dunkard, un battista errante di nome Tobias Catchpole, che
venne a pregare circa tre anni prima con la madre di Oskar, grosso modo quando
il padre di Oskar è partito per la guerra. Lei disse che le aveva donato la
Luce. Una volta ricevuta la Luce, smise di parlare del padre di Oskar. Non fu
mai più menzionato il suo nome. Ora Tobias Catchpole ha il controllo totale
della casa dei Nellis. Ha buttato giù Oskar ed Ephas dal loro letto in soffitta.
Uccide polli e maiali per cena senza chiedere il permesso, senza condividerli
con i ragazzi. Ha venduto i vestiti del padre di Oskar ai passanti.
“Cosa fai?”, chiede il dio d’acqua: si abbassa i pantaloni, ha le anche pallide
e sporche, la scorreggia squittisce.
“Scrivo”, dice il ragazzo.
“Opera di Satana”, dice il dio d’acqua. “Chi ti ha insegnato?”. “Sir William
Johnson, signore, il nano”, dice Oskar. “I bambini andavano a scuola ma il nano
mi ha insegnato a scrivere prima che fossi abbastanza grande per la scuola”.
“Ti ha insegnato a scrivere col sangue?”, gli chiede il dio d’acqua.
“Nossignore. Non ho mai sentito parlare di quel metodo”.
“Probabilmente, ti stava fregando. Ti ha fatto firmare qualcosa?”.
“Mi ha addestrato a firmare con il mio nome”, risponde Oskar. “Ma solo sulla
corteccia di betulla”.
“Senza alcun dubbio hai firmato qualche patto diabolico con i selvaggi. C’erano
disegni sul rotolo?”
“A volte”.
“Dobbiamo portarti all’acqua. Dobbiamo lavarti e purificarti nell’acqua”, dice
il dio d’acqua.
*
Non c’era nessuno
Non c’era nessuno. Poi furono tutti. Silenti, come la luce del sole.
Nonna Hunsacker sedeva e canticchiava sulla sedia a dondolo, con i piedi sulla
padella. Giuro su Dio: continuò a canticchiare anche dopo che Dolce Vento le
spaccò il cranio, anche dopo che il cervello le sbocciò ovunque. Stava ancora
canticchiando e lui le sollevò i capelli e cominciò a scorticarle la fronte.
Mentre mio fratello Abiel tentava di sollevare un’obiezione, Tuono che Scalpita
gli segò lo stomaco con un coltello da caccia. Abiel si sedette sulla sedia
dallo schienale vertiginoso, quella che usava Papà, a capotavola, tenendosi le
budella nella camicia, tirando su col naso, a vaste zaffate. Philomela urlò agli
assassini, corse all’aperto, tenendosi la gonna. Uccello che Vola e Luce che si
Sbriciola, nient’altro che ragazzi, poco più grandi di Abiel, la fecero
inciampare nel porcile. Quando cercò di strisciare, le saltarono in groppa,
finché non le si spezzò la schiena.
Buttai Baby Orvis dalla finestra tuffandomi a capofitto dietro di lui, corremmo
verso il campo di grano dove mamma e zia Annie ammucchiavano i covoni. Gli unici
suoni che udivo erano la cantilena di nonna Hunsacker, i lamenti di Abiel, le
urla di Philomena. Mi voltai e vidi Tuono che Scalpita che mi fissava.
Tra me e la casa c’erano una mezza dozzina di alberi; mi diressi verso il covone
più vicino; mi rintanai lì con Baby Orvis. Philomena gemeva, mormorava “Mamma,
Mamma…”; Abiel rovesciò un urlo orribile. Non vedevo mamma e zia Annie,
probabilmente si erano date alla fuga.
Il piccolo Orvis cominciò a piangere. Dalla luce che filtrava dai covoni vidi
una specie di uovo d’oca, una specie di pugno blu che gli usciva dalla fronte,
dove aveva sbattuto, precipitando dalla finestra. Cercai di zittirlo – non servì
a nulla. Mi tirai giù la parte superiore della maglia e gli ficcai un capezzolo
in bocca, come avevo visto fare a mamma: anche se non avevo un petto degno di
nota, Orvis non se ne accorse, non lo voleva. La pula mi inceneriva le narici,
si insinuava sotto le vesti.
Caldo come febbre.
Sopra ogni cosa, là fuori – la fattoria e i campi, la natura selvaggia oltre le
recinzioni – era planato il silenzio.
“Ci farai uccidere”, sussurrai a Baby Orvis. Avevano ucciso il mio cane,
Romulus, pensai.
Baby Orvis lo hanno ucciso.
Uccello che Vola, indossando il grembiule di Philomena, lanciò Orvis in aria: lo
colpì con la baionetta otto o nove volte prima che Orvis smettesse di urlare.
Ero sdraiato tra le stoppie di grano, Dolce Vento mi teneva le mani. I capelli
di nonna Hunsacker pendevano dalla sua cintura, gocciolava sangue. il sangue di
Orvis piroettava verso il sole ogni volta che Uccello che Vola lo sollevava.
Rotolò su se stesso contro il cielo azzurro, torceva la testa, urlava, in un
groviglio di sangue e di azzurro. Benché non avesse ancora capelli degni di
nota, Uccello che Vola raspò il cranio di Orvis, infilò lo scalpo nella
cinghia.
Incrociammo mamma e zia Annie ai margini del bosco: erano sdraiate, le teste
mozze, mosche che si infilavano nei loro occhi sbarrati. Nonno Hunsacker era
appollaiato, illeso, su una roccia. Sedeva, le mani sulle ginocchia. Quando
Tuono che Scalpita lo chiamò, nonno Hunsacker si alzò, zoppicò verso di lui.
Tuono che Scalpita lo colpì con un moschetto. Poi si inginocchiò, cominciò a
fargli lo scalpo, tagliava come si raccolgono i cavoli.
Douglas Glover
*In copertina: Newell Convers Wyeth, Crows in Winter, 1941
L'articolo Sia lode a Douglas Glover, il Cormac McCarthy canadese proviene da
Pangea.
Morì nel 1492, secondo il calendario d’Occidente, Jami – un anno fatale.
Cristoforo Colombo aveva scoperto l’America; il Sultanato di Granada, ultimo
lembo musulmano in Spagna, veniva definitivamente corroso. A suo modo, anche la
figura di Jami è uno spartiacque tra il vecchio e il nuovo mondo della poesia
persiana – con lui, un pioniere, benché radicato nella tradizione, un’epoca
finisce. Mahmood Jamal, ideatore, per Penguin, della più nota antologia di
poesia Sufi, Islamic Mystical Poetry, lo definisce “l’ultimo grande poeta
sufista, l’ultimo grande interprete della lirica persiana”.
Mawlanā Nūr al-Dīn ’Abd al-Rahmān – questo il nome autentico, per esteso –
nacque a Torbat-e-Jam, nell’attuale Iran, al confine con l’Afghanistan, nel
1414. Fu il padre a introdurlo alla mistica Sufi, dopo averne saggiato i
‘segni’. Jami – il nome proviene dal luogo natio; così il poeta si celebra in un
distico: “Jam è il mio paese natale, del miele di Ahmad/ si è abbeverata la mia
profetica penna” – perfezionò gli studi a Samarcanda. Nel curriculum di un
sapiente dell’epoca, la conoscenza lirica – necessaria ad assurgere a Dio, ad
assaggiarne il nettare – si mescola a quella scientifica, terrena: all’uomo
compiuto è chiesto di unire cielo e terra nelle proprie mani, di divorarli. Di
Jami, tra i molteplici scritti – un’ottantina – resiste uno studio per
progettare strumenti idrici ancora efficaci. Conosceva i metodi per irrigare a
dovere i campi – i modi per dare acqua agli assetati di sapienza.
Per un po’, pensò di unirsi totalmente a Dio, mollando il mondo con radicalità
catacombale. Infine – sedotto da un sogno, certo di averne intuito i rivoli
simbolici – sposò la nipote del suo maestro, Kasgari. Ebbe quattro figli – tre
morirono poco più che neonati; il dolore, a fendenti, istruì Jami negli
impossibili meandri della perseveranza. Ebbe incarichi a Herat, dove edificò la
sua scuola; dominavano i Timuridi, gli eredi di Tamerlano. Fu attratto dalla
dissoluzione del sé – a tratti, disse di sentirsi “sparire” – e lo sentì
“spaventosamente”.
Nei suoi insegnamenti mistici, Jami enfatizzava la via dell’amore – “O Jami,
solo Amore è la via verso Dio:/ la pace ammanti chi segue la vera via” – l’unica
capace di scuotere l’uomo dal mondo. Credeva nella veglia incessante, nella
pratica del silenzio, nella meditazione che porta a confondere il proprio stato
terreno con quello celeste. Credeva che l’uomo può – scotennando la propria
crosta transeunte – sbocciare in creatura angelica. Uomo, crisalide di Dio.
Scrisse che Dio è ovunque, che si manifesta in ogni cosa, che il compito del
seguace Sufi è assurgere alla dimensione del ‘santo’, colui che supera l’etica
della differenza, le istituite distinzioni, al di là del bene e del male,
immerso nell’ardore.
Radunò una serie di celebri “Fiabe mistiche” che sfociano in una morale
spiazzante rispetto ai canoni mondani. È nella poesia, tuttavia, che si
consolidano le sue esperienze mistiche e sapienziali. È vero: Jami non è un
innovatore – sarebbe inesatto intenderlo come un ‘esecutore’. Egli porta a
compimento il ciclo della grande poesia persiana – di Rumi, di Hafez, per
intenderci – riutilizzandone codici e cliché; eppure, alcune sentenze trovano
nei suoi versi una freschezza arcana, immotivata, soltanto sua. Tentò di elevare
l’uomo dalle ganasce del pensiero, dai sofismi, le levatrici del maligno;
scrisse che “Ogni pensiero/ che non sia memoria di Dio è malvagio”.
Un’epigrafe irradiava, dalla tomba, il suo estremo sentire. “Quando il tuo viso
si nasconde, come la luna è nascosta dalle nuvole oscure, stillo lacrime
stellari: nonostante le stelle, a miriadi, rimane buia la mia notte”. È bello –
nei giochi delle corrispondenze – tracciare avidi legami, impossibili, con
Giovanni della Croce (uno spagnolo, non a caso). Anche in Jami, il rovesciamento
dei simboli è totale: ciascuno sperimenti la propria notte, fino alla cecità. In
sovrappiù, Jami identifica l’andare ‘lunatico’ dell’Amato, la necessità del
pianto – quasi che le stelle non siano che lacrime cristallizzate. Del sapiente,
svanì la tomba, il corpo, l’eremo del pianto.
Agli studenti che gli chiedevano di essere ammessi alla sua scuola, Jami
chiedeva, anzi tutto, se fossero mai stati innamorati. Di fronte a chi diceva,
con servile severità, di non aver mai amato, rispondeva, “Vai – ama – poi
ritorna: ti mostrerò la via”. A dire che non esiste ascesi senza l’abisso della
carne, la rovina del corpo – sfigurarsi sullo spigolo di questa terra.
***
Nel giardino
Nel giardino, sulla riva del fiume
con il calice in mano:
Sorgi, Saqi! Versami il vino!
L’astinenza qui è crimine!
Lo Sceicco è ubriaco di religione:
la paura affolla le moschee,
ma la vera estasi permane
nella bettola piena di ubriaconi.
Hai baciato il calice con le tue
labbra: ero così ubriaco che
non ho distinto il rosso della
tua bocca dal rosso del vino.
Non devi sguainare la spada
per spezzarmi il cuore:
trattieni le armi, il tuo sguardo
è un dardo sufficiente.
Agli uomini che confidano
nella ragione non spiegare
le pene d’amore; non svelare
tali segreti ai mediocri.
Jami è ubriaco del tuo Amore
e non ha ancora cominciato
a bere: in questo banchetto
nessuno ha bisogno di vino.
*
Il senso dell’insensato amore
Quando l’eternità sussurra “Amore”
Amore mette il fuoco nello stilo.
La penna sorge dall’eterno desco
e disegna ogni bellezza possibile.
I cieli sono i virgulti di Amore
gli elementi vengono al mondo grazie ad Amore.
Senza Amore non capisci il bene né il male;
ciò che orbita lontano da Amore è inesistente.
Il tetto azzurro del mondo
che ruota lungo le vie del giorno
è il Loto del giardino di Amore
è l’elsa del bastone di Amore.
Il magnete nel cuore della pietra
che costringe il ferro a scalpitare
è Amore dalla volontà ferrea
appare nell’abisso della roccia
contempla la pietra nel suo riposo
e ama chi lo ama. Da qui
proviene il dolore di chi è lapidato
dall’Amore per l’Amato.
È vero: Amore reca dolore
ma è anche il più puro conforto.
L’uomo non può sfuggire al ciclo
della vita e della morte senza la benedizione di Amore.
*
O Tu, la cui bellezza è in tutto ciò che è manifesto
possano mille venerabili spiriti essere il Tuo sacrificio!
Come un flauto canto il canto della separazione
da Te, anche se mi sei vicino in ogni istante.
L’Amore si rivela in tutto ciò che vediamo:
a volte ha le vesti di un re, altre volte
è un mendicante, vive per strada
ha la ciotola dell’elemosina in mano.
Issati, o Saqi, e versa il vino
che lenisce il dolore dai nostri cuori!
Quel vino ci libera dall’onnipotente io
gettandoci nella certezza del Potente.
O Jami, solo Amore è la via verso Dio:
la pace ammanti chi segue la vera via.
*
Sono così ubriaco che il vino mi esce dagli occhi;
il mio cuore è in fiamme: sento il suo odore mentre brucia!
Se l’Amato si presenta a mezzanotte senza veli
un anziano estremista scapperà dalla moschea.
Ti ho visto all’alba e ho dimenticato di pregare:
è inutile la supplica quando il sole sorge.
Su una goccia del dolore di Jami cadesse nel fiume,
i pesci, arsi dal dolore, balzerebbero a riva.
*
Ti attraggono le forme terrene:
il destino le incenerirà tra un attimo –
va’ e dona il tuo cuore a chi è sempre
stato con te e con te resterà sempre.
*
Ho vissuto rincorrendoti – ho lottato
per unirmi a Te: intuire il tuo sguardo
tra fraintesi d’ombra è preferibile, per me,
che assaggiare le più belle bellezze della terra.
*
Oh, mio cuore… quanto ancora cercherai
il perfetto nelle scuole, per quanto tempo
continuerai a perfezionarti con la filosofia
e le regole matematiche? Ogni pensiero
che non sia memoria di Dio è malvagio.
Inchinati davanti a Dio, slaccia da te
ogni pensiero, molla il mondo dei concetti
ai filosofi, agli stolti intellettuali!
*
Il mondo esiste grazie a Te
ma di Te non c’è traccia:
benché Tu non abbia bisogno
di me, io vivo per Te.
*
Il vicino e il parente, lo straniero e il vagabondo:
tutti sono Lui! – Lui è nell’abito del mendicante
e nella stola del re. Nelle assemblee e nelle alcove
nei tribunali e nei postriboli, Dio è in tutto, il tutto è Lui.
*
Senza velo non posso vederti
senza schermo non posso fissarti:
prima devo raggiungere l’illuminazione.
D’altronde, chi può scrutare le sorgenti del sole?
*
Se vuoi essere l’inquieto usignolo, diventa usignolo!
Tu sei una parte e la Realtà è il Tutto:
per qualche giorno medita sul Tutto, diventa Tutto!
Se nel tuo cuore appare una rosa, diventa quella rosa.
**
Fiabe mistiche
Un cammello e un asino marciavano assieme. Giunti alla riva di un fiume, il
cammello si immerse per primo in acqua. L’acqua gli arrivava poco oltre le
ginocchia, refrigerando appena il corpo. Così disse: “Vieni anche tu, il fiume
mi arriva soltanto ai fianchi!”. “Ti credo”, rispose il saggio amico dalle
lunghe orecchie, “ma noi siamo molto diversi: l’acqua che ti arriva ai fianchi
mi sommergerebbe la schiena…”.
Il saggio rifiuta di farsi condurre oltre le profondità che conosce.
*
Il cane e il pane
Un cane, straziato dalla fame, stava alle porte di un villaggio quando vide una
pagnotta rotolare fuori dalle mura e dirigersi verso il deserto. Il cane si
lanciò all’inseguimento, corse, gridando, “Oh Bastone della Vita, Potenza del
Viaggiatore, Oggetto del mio Desiderio, Consolazione dell’Anima! In quale
direzione volgi i tuoi passi, dove stai andando?”
“Nel deserto”, gli disse il pane, “a trovare i miei amici, il lupo e il
leopardo, per ricambiare la visita che mi hanno fatto, un tempo”.
“Il tuo discorso sprezzante non mi spaventa”, replicò il cane, “ti inseguirei
nella bocca di un coccodrillo, tra le fauci di un leone. Se rotolassi per tutto
il mondo, ti inseguirei comunque”.
Chi vive di solo pane si sottomette, per averlo, ai più vili abusi: è come un
cane famelico.
*
La vespa rossa e l’ape
Una vespa rossa, un giorno, attaccò un’ape, desiderosa di suggere della sua
dolcezza. L’ape iniziò a piangere dicendo: “Circondanti come siamo dal più puro
miele e dal dolce nettare dei fiori, perché insegui soltanto me, abbandonando
tutto il resto?”. La vespa rispose: “Se c’è del miele al mondo, tu ne sei la
fonte; se c’è dolce nettare, tu ne sei la sorgente”.
Felice l’uomo che distingue il vero dal falso e rifiuta di accettare il poco.
*In copertina: Y.Z. Kami, Endless Prayers XXVIII, 2009
L'articolo “Se nel tuo cuore appare una rosa, diventa quella rosa”. Jami, il
poeta sapiente proviene da Pangea.
Nel 1956 Alberto Arbasino intervistava Céline a Meudon, incontrando «un vecchio
sfinito, abbandonato dentro un maglione a pezzi, fra mobili e pavimenti che
gridano “ma non ce l’avete uno straccio per la polvere in questa casa? Piuttosto
ve lo porto io”, troppo stanco e confuso e al di là d’ogni possibile moto del
cuore perché sembrasse importargli di nulla».
Però, quest’uomo forse così sfinito non era, se diceva:
> «gli accademici e i gesuiti non hanno inteso i valori e il mistero delle
> letteratura classica, inafferrabili con strumenti ordinari, compresi soltanto
> dai mistici e dai romantici tedeschi».
Oltre l’apparente esaurimento delle forze, questo padrone di casa osava
coltivare formule e fiori per l’immortalità?
Le sue vere, disperate, prime preoccupazioni: cose molto difficili, come il
dolore, la vita, la morte, la grazia. In un mondo spesso ripugnante, la bellezza
vera dove si rifugerà? Ecco, le idee etiche ed estetiche più urgenti per Céline
sono la consistenza del trapezio (come in Verlaine) e lo stile:
> «ormai – spiega Céline ad Arbasino – i contatti umani sono così invadenti che
> l’insegnamento e l’informazione non hanno più niente in comune con la
> letteratura, e viceversa. E poi c’è troppa gente che gira in automobile, che
> vuole arrivare in fretta. Vivono tra il comunismo fittizio e le vendite a
> rate: sempre più fedeli ai dettati borghesi».
Per lui questi dettati (riassunti nella parola «fingere») sono un veleno che
irrigidisce il ritmo del cuore, sterilizza l’emozione del respiro, sacrifica
l’oralità e il corpo della frase.
È la grigia, piccola lingua senza musica degli uomini qualsiasi che tengono la
morte (e quindi la vita) a distanza, con la «sintassi perfetta» ed evitano il
rischio, mettendo in sordina la verità per restare presentabili e defunti.
«Finzione di sé» che Céline sabota col fraseggio scosso, i tre puntini come
sfiato, la radiosità intermittente (ironia della sorte, la sua insubordinazione
è diventata nuovo canone che i borghesi d’oggi fingono di desiderare e capire?).
Céline ribadisce fino alla morte la fiducia nelle sue invenzioni linguistiche,
nell’argot, nella tecnica della sua scrittura, con l’intento di proseguire la
sua vocazione estetica oltre la vita, quasi un debito morale verso sé stesso e
verso gli altri che vorrebbe diversi, migliori: «voglio continuare a fare il
vecchio clown su un trapezio, lassù, a quarantacinque metri». Ma è difficile
praticare quelle alture per la gente qualsiasi dove la vita è solo una rovina
tutta coltivata al suolo. Cosa che pure Pasolini (altro uomo del trapezio)
sapeva.
Che cos’hanno in comune due autori come Pasolini e Céline? Essere contesissimi
ostaggi per malati ideologici, fra destre e sinistre. Portati entrambi a forza
al commissariato per certificare adesioni totalizzanti e precise mai
avvenute. Tutti e due molto «amati», cioè svenduti, per incarnare la scrittura
schierata a esprimere un’impossibile e indesiderabile «letteratura politica». In
particolare c’è sempre molta attenta, ossessiva, filologia riguardo
inequivocabili intenzioni di Céline in materia di razzismi, nazismi, fanatismi.
Ma nessun amatore d’arte letteraria dovrebbe occuparsi di questi folklori,
figurarsi la critica. Non ci sono troppi dubbi: l’attuale ricezione di Céline è
storpia, distratta, patologica, impronta una telenovela. Per miracolo, a
proporre il farmaco a questa malattia insopportabile è già lo stesso
Céline in Céline, talentuoso patologo. Una comprensione ardita, ossia rovesciata
e paradossale della sua opera. Forse i lettori di Céline sono anche suoi
‘pazienti’? Se sì, lui è un medico severo. Riga dopo riga, chiede: “sei
stupido?”, “sei vivo”?, “quanta merda inghiotti?”.
Louis-Ferdinand Céline (1894-1961)
Fra le mentite spoglie del finto cameratismo, i libri di Céline negano ai
curiosi il diritto a mentire sulla loro eventuale condizione deprimente di
cadaveri. Non cercano nel lettore un complice ma un colpevole di morte in vita.
È il tranello perfetto di un medico-poeta del romanzo.
Travestito da guascone disilluso, chiede per tutto il tempo della sua
letteratura, serissimo: che cosa hai fatto della tua coscienza? Della tua vita?
Del tuo tempo storico? Sei il famigerato morto che cammina? Questo scrittore,
questo sciamano, cerca un colpevole che ha compiuto una specie di vilipendio di
verità e di desiderio. Involontario ospite dello sguardo filosofico di Cristo
sul mondo, pare Céline abbia osservato fino all’ultimo quella legge biblica che
già «Ferdinand» bambino aveva trascritta «nella carne del cuore»: la vita non ha
bisogno di essere redenta ma pronunciata, e per intero, senza esitazione o
pietà. Il «fico secco» è condannato.
Però, come si blinda una così alta idea dell’esistenza (e quindi anche della
morte) da sguaiate effrazioni dei superficialini e dei fans?
Infatti, Louis-Ferdinand Céline (un nome, un brand, un trend?), coincide
amaramente con tentativi multipli di sintesi maledettiste, perfette per
cacciatori di titoli e scandalini: “dissacrante”, “proibito”,
“ingovernabile”, “mostruoso”, “geniale”, “dissacrante”, “sconcertante”,
“realista, “osceno”, “pessimista”, “scorrettissimo”, “grottesco”, “visionario”,
“illeggibile”, “delirante”, “disturbante”, “innovativo”, “maledetto”,
“impopolare”, “innominabile”, “vietato”, “morboso”, “angosciante”, “crudo”,
“irascibile”, “collerico”, “arrabbiato”, “narratore dell’orrore di questo mondo”
(per tacere la targhetta “Nichilista”, e Disincanto&Cinismo, quasi in una sete
di naming). Tutto vero o tutto falso?
Forse solo banale, dunque osceno, qualunquistico.
Molestia alla sua intima irriducibilità. Etichette che suonano puerili, in
accumulo compulsivo di aggettivi, prova indiretta dell’incapacità critica nel
sostenere il passo della parola céliniana. Perché la sua scrittura, più che da
fotografare con termini veloci, è da guardare come vita che pulsa oltre il mito
mediatico del cantore della dissoluzione. Una vita piena, sovrabbondante,
eruttiva, verticale. Rigore mascherato da tenebroso caos, che invece è un sole e
una guida abbagliante?
In molte tradizioni filosofiche ciò che è più vivo non è evidente, ma nascosto.
L’Ātman indiano, quella «tenebra sovrabbondante» di luce inaccessibile alla
ragione discorsiva, coincide con quella dimensione che i greci chiamavano zoé,
il più di vita, la vita che rende viva la vita, e non è semplice sopravvivenza,
ma intensificazione irriducibile dell’esperienza. Céline conosce questa
dimensione intimamente. L’ha sperimentata nel solo modo possibile, con
l’attraversamento della morte, con la carne, il dolore, la rinascita. Da vero
artista, ha osato, manganellianamente, «abitare la soglia», fino a scoprire che
l’energia vitale, se mossa dal vero desiderio, sa crescere quando più viene
messa in pericolo dai tradimenti mortiferi che la vita rischia di infiggerle:
seppellire la propria verità la rivolterà contro il suo carnefice. Il pensiero
di Céline è un anatema a Thanatos, quasi un «chi conserva la propria vita la
perderà».
Da questo punto di vista, la sua opera somiglia a un’insolita epifania bardica
più che all’accessibile bestemmia moderna. «Io sono celtico, prima di tutto»,
confessava in lettera a Milton Hindus, «sognatore bardico… la mia musica è la
leggenda». Questa è la via per il forziere di Ferdinand/Céline? La leggenda come
patria dell’anima, custode dell’Essere? (altro che “anti-eroe”!). Quali elementi
Céline ci autorizza a bruciare come incensi e quali, invece, a «buttare nel
cesso»? Cosa fa, quando scrive? La sua scrittura non è nemmeno nel segno del
«realismo. C’è, in apparenza, seppure in forma di piccolo strumento, piegato
come un prigioniero alla vendetta contro la crudeltà del mondo; ma sotto la
superficie di una forsennata tendenza al «racconto» e al «fatto», come un
segreto canto di fondo vibra qualcosa di enorme: avranno le orecchie per
danzarlo, tutti questi veloci lettori céliniani?
Marina Alberghini annoda – nel suo saggio Céline magico – il segno metafisico a
questo vibrare. Céline si circonda di «Fiori dell’Essere» (mémoire des
fleurs)[1], mondo marittimo e celeste, d’altrove e d’oltre, extrasensoriale,
abitato da figure simboliche, nobili archetipi, forze mitiche, Onde, da cui
diceva gli arrivasse la voce che lo rendeva romanziere. Eppure a fiumi lo
chiamano nichilista.
L’idea che Céline sia notista letterario della morte è facile ma povera.
Il suo cruccio è lontano dal beatificare la fine, e sembra invece punire,
confinare, in ogni sua mossa (che sia letteraria, o di opinione critica, lungo
risposte inesorabili durante interviste), la morte e i suoi effetti, in un
carcere di massima sicurezza, e farla incapace di pronunciare l’ultima parola.
Questo carcere è quel tipo di opzione che una parte degli esseri umani sceglie
di attraversare nel modo più scemo possibile: suicidandosi da vivi. Céline
quindi non «celebra la morte», ma la comicità che vede nella scelta
maggioritaria di farne una ridicola, grottesca edificazione a stile e postura
nel vissuto (travestimento ipocrita, o alibi, della sopravvivenza).
Come i veri poeti, non conosceva il vuoto: l’assenza di pienezza è la vita non
poetica, non generativa, non trascendentale. Sapeva che l’unica «vittoria»
possibile è contro sé stessi – contro le miserie dell’ego rapace e materiale –,
è intensificare la vita fino a percepirla più forte della sua negazione (se il
dolore, come il bello, va udito e poi coltivato con l’anima, non estetizzato).
Leggere Céline, che insegue, minacciandolo, il suo lettore, puntandogli un
coltello alla schiena, richiede esperienza del profondo, o almeno il desiderio
di farne una, e non si può parlare della sua visione dell’Essere senza aver
misurato la propria, nelle scelte, nella rinascita vigorosa quotidiana di sé.
Chi scriverà su Céline senza essersi bruciato il cuore, senza aver accettato di
vedersi e da altri essere visto, di portare la ferita alla luce, resta un suo
grigio commentatore, esterno, inservibile. Va indossato, senza esitazione, il
piglio del bardo e dello sciamano, travestiti da uomini qualsiasi.
Morte a credito lo dimostra, con una grinta intellettiva che non ha bisogno di
interpretazioni astratte. Il libro scorre come sangue freschissimo, irruento, in
dono al lettore anemico. Céline incita, pagina dopo pagina, a uscire allo
scoperto, a correre il rischio di essere riconosciuti. Nascondersi significa
morire per gradi, vivere significa aprirsi al suono più vero dell’anima propria,
costi quel che costi. E Ferdinand, bambino-funambolo tra miseria, frustrazione e
pressioni familiari, fatte di malumori e ricatti morali, lo sa. Gli schiaffi del
padre, la durezza della madre, le aspettative schiaccianti della “Coccinella”,
il grigiore del Passage non producono in lui vittimismo ma visione. E Courtial
De Pereires, brillante imbroglione, non è solo un personaggio, è l’allegoria
esplosiva del sogno che insiste anche quando tutto lo contraddice. L’unico
credito che non si riscuote mai è quello che vale davvero?
Così pare dica il nostro Dottor Ferdinand.
Céline non permette alla realtà di diventare palude. Non negozia la vita al
ribasso, e anche quando odia, odia per amore della vita.
Il Passage des Bérésinas è tutto: geografia, teatro del mondo, destino. Céline
lo dipinge con un tocco pienissimo di realtà che mai risuona cinico. La miseria
per lui non è retorica impressionista, è dato compositivo con cui la scrittura
fa nascere una musica nuova. Pagine graveolenti, piene di gas, urine, catarri e
sputi, e di meraviglia divertita, come un film delle comiche girato dentro la
pellicola della tragedia.
Grandezza infante dell’occhio di Ferdinand, amorevolmente lì a tradurre e
sublimare la farsa in rivelazione e il dolore in beffa: la verità dei malnati è
tutta nel silenzio che segue il rospo quotidiano inghiottito senza batter
ciglio, e la violenza nasce esattamente e sempre là dove la parola è assente,
quando parlano solo i corpi con le loro acri smorfie di malessere. Il mondo dei
subalterni, e dei morti viventi, può parlare solo con una lingua ibrida,
spezzata, piena di ripetizioni, ricca di lessico basso. Il francese elegante non
rappresenta chi non ha le parole, chi non parla mai veramente, o non è nato
mai.
E infatti l’argot è la tattica designata a ritrarre e livellare «tutto quello
che fa schifo secondo Céline», i borghesi e i mascalzoni da strada funzionano,
nel mondo, allo stesso modo, sono malati dello stessa malattia. Argot che
viaggia sulla petite musique, canzone che è traduzione del parlato e del battito
sulla pagina, così come del pensato, del vissuto.
Possiamo dire su Céline solo quanto ci ha indicato di ereditare. Detesta la
felicità superficiale, quella che si ostenta per non sentire il dolore della
vita. Gli interessa la gioia vera, che nasce solo dal combattimento con la
realtà, ed è questo forse una prospettiva di Céline che oggi pochi critici hanno
curiosità di osservare, quella trascendentale. Non religiosa – in senso
tradizionale – ma radicata nella convinzione che esista una sfera dell’Essere
conosciuta solo da mistici, sensitivi, artisti.
Di certo, lui la abitava, per questo chi lo inquadra nel nichilismo è sordo al
bersaglio. Certo che si potrebbe accusare Céline di nichilismo. E sarebbe
corretto, se non fosse che il suo però è un nichilismo pieno, attivo, non
contemplativo. Non prolifera nel dire «niente ha senso!» ma nell’esporre
l’abominio dei meccanismi che triturano gli individui, e nonostante questo
continuano a «funzionare», indipendentemente dalle idee, dalle cadute in basso e
dalle speranze.
Il suo sguardo è quello del medico, che non può curare la malattia e deve però
descriverla con precisione, la sua etica è l’onestà nel referto.
Da qui la potenza rifrattiva della sua scrittura, Céline non consola,
diagnostica.
Ma la critica letteraria non serve per assolvere o condannare.
È compito del lettore adulto, non del pedagogo, confrontarsi con ciò che Céline
ha edificato, un monumento alla parte buia, un’opera che costringe a guardarci
senza abbellimenti.
La diagnosi poco accurata che gli viene rifilata — “nichilista”, “disincantato”
— nasce forse, nei più ingenui, cioè nei lettori sentimentali, dallo shock della
sua messa a nudo che da una reale pulsione a cancellare il mondo: il nichilista
prosciuga i significati, Céline invece comprime la vita per farne esplodere la
densità.
Questa lettura pànica di Céline (poco conforme alla moda attuale che lo vuole un
po’ instancabile becchino e un po’ distruttore sadico), trova appoggio nelle
ricerche che hanno indagato l’origine della sua voce letteraria: una “musica”
interna — la petite musique — e una fedeltà a immagini e archetipi (la leggenda,
la danza, le “Onde”) che sono lontani da un vuoto ontologico e vicini a una
esperienza trascendente della vita trasformativa. La stessa struttura testuale
di Céline – la sintassi schiacciata, la ripetizione ossessiva, l’oralità
scorticata – non è indizio di un desiderio di annientare senso. Persino le
interpretazioni, abbastanza retoriche, che collegano la prosa ai soliti dogmi
“trauma & memoria” (in particolare le analisi post-belliche e quelle sulla
ferita della Grande Guerra) non possono mentire più di tanto; la frammentazione
narrativa è spesso letta come modalità di rappresentare una vitalità scissa e
riportata alla pagina per resistere alla morte.
Il frammento, il balbettìo, la punteggiatura come sparatoria, sono il volto
della messa in forma dell’esclamazione vitalistica: quanto a chi ignora tale
profondità e preferisce leggere Céline come folklore di «torbidume e infimità»,
si può soltanto constatare un fatto elementare: certi lettori, davanti a un
immaginario che pretende coraggio scelgono la comodità del loro piccolo
orizzonte, e lo scambiano per giudizio. Ma non c’è nulla da spiegare a chi è
fiero della propria cecità – Céline avrebbe detto che per loro la letteratura è
già troppo lunga alla prima riga.
Secondo Marina Alberghini, ridurre Céline a semplice «catalogatore disperato»
della miseria indica ignorare l’intero impianto metafisico che attraversa la sua
opera. Alberghini insiste su un punto decisivo, ossia che il «delirio» di Céline
non è distrazione esoterica, né rifugio evasivo, una pratica semmai di
ostinazione contro la decomposizione del reale. La féerie – quella “realtà
fatata” che egli inseguiva – opera per scarti, folgorazioni, come un’antica
controfigura del mondo che permette allo scrittore di abitare con rigore il caos
senza farsene inghiottire.
Non c’è dunque fuga nel mito, ma una forma di vita nel mito.
Questa è la «perla metafisica» custodita dentro la sua scrittura e la sua
geografia, dove agiscono simboli anteriori alla storia, quelle Onde che
avvertiva come correnti arcaiche, autentiche pressioni del mito sul presente.
Céline ha generato questi incantevoli crateri a partire da una scia ricchissima
e lontana, ha iniziato una ricerca nuova dentro quella «tradizione illustre» che
si tenderebbe a ignorare, ma di cui lui era amante e studioso
consapevole. Una ricerca, quella celiniana, fiorita lungo esempi lontani,
letterari e pittorici: le lugubri ballate di Villon e del romanzo «carnevalesco»
e polifonico di Rabelais. Omaggi a El Greco, Goya, e a quelli che lo stesso
Céline indica come i suoi pittori prediletti, Bruegel e Bosch.
Attitudini letterarie di Céline che alcuni, insultandolo, leggono come
«rivoluzionarie» (ossia sradicate), sono parte della tradizione francese fino
all’Ottocento (la miglior letteratura francese!), dai racconti fantastici di
Gautier ai romanzi d’avventure di Verne, agli impianti immaginativi e alle
figure simboliche di Hugo, al gusto decadente di Baudelaire, agli itinerari
spirituali di Verlaine, Mallarmé, Rimbaud.
Rubina Mendola
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[1] In un’intervista, poco prima di morire, disse: «Je ne suis pas un artiste,
mais j’ai la mémoire des fleurs». È una frase che ci lascia nel dubbio: la
«memoria dei fiori» è ricordare i fiori, ma forse Céline vuole dirci che
possiede la memoria peculiare e misteriosa, inaccessibile, che può avere un
fiore?
L'articolo “Voglio continuare a fare il vecchio clown”. Perché è impossibile
ingabbiare Céline in didascalie museruole proviene da Pangea.
Cinquant’anni fa, per Einaudi, usciva un libro straordinario.
Titolo a caratteri cubitali, numero 70 della collana “Nuovo Politecnico”: era
l’8 febbraio del 1975 – la copertina ricordava Malevič (piccolo quadrato rosso
su fondo bianco), l’autore, Roman Jakobson, era noto per essere – così la
bertuccia Treccani – l’“iniziatore del metodo formalista” e “fra i fondatori…
dello strutturalismo in linguistica”; un tempo i suoi Saggi di linguistica
generale erano dati per naturale bagaglio nella ‘formazione’ di uno studente. Il
pamphlet – Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, trenta pagine uscite
in origine nel 1931 – tentava di analizzare “Il problema Majakovskij”: in
realtà, era il più sottile atto d’accusa mai scritto contro il dominio
sovietico. Più in generale, era il più potente atto d’accusa mai scritto contro
ogni potere che per giustificare e assolvere se stesso ha bisogno,
sistematicamente, di eliminare i suoi poeti. Per sussistere, un potere –
tirannico o ‘democratico’ che sia – ha bisogno di cantori; ha bisogno di
assassinare i poeti.
> “Noi viviamo nel cosiddetto periodo ricostruttivo e, probabilmente, produrremo
> ancora non poche locomotive d’ogni sorta e non poche ipotesi scientifiche. Ma
> alla nostra generazione è già predestinata la penosa impresa di una
> costruzione priva di canti”.
Che pena l’epoca – che è poi questa, la nostra – che si svolge “priva di canti”,
priva di incanto.
Nell’introduzione a quel libello che fu incendio, Vittorio Strada scriveva che
“La leggenda di Majakovskij non ha pari nella poesia del secolo”: oggi, della
“leggenda” resta l’infiorescenza bibliografica – Majakovskij si legge senza
scosse, si traduce al merletto, in lode della botticelliana madama Filologia,
non fa più legge, non ‘penetra’ più nelle nostre rivoluzioni domestiche. Roman
Jakobson aveva temprato le proprie scoperte studiando gli sconcertanti poemi di
Velimir Chlebnikov, il suo amico più caro, il più folle.
Poi verranno i Gulag, la “guerra patriottica”, la Guerra Fredda. Verranno
Solženicyn e Šalamov, Brodskij e Limonov. Verranno i reclusi, le accuse, gli
esodi e gli esordi. Roman Jakobson capì per primo l’origine indicibile del
problema: un’epoca “priva di canti” sfocia, con cruenta naturalezza, nella
società del controllo, nella società cannibale – questa. La lista dei
massacrati, degli annientati – che culmina con il proiettile che perfora il
cuore di Majakovskij, un proiettile che potremmo chiamare Zeus – è micidiale:
> “La fucilazione di Gumilëv (1886-1921), la lunga agonia spirituale, gli
> insopportabili tormenti fisici e la fine di Blok (1880-1921), le crudeli
> privazioni e la morte tra sofferenze inumane di Chlebnikov (1885-1922), i
> meditati suicidi di Esenin (1895-1925) e di Majakovskij (1894-1930). Così nel
> corso degli anni venti periscono in età dai trenta ai quarant’anni gli
> ispiratori di una generazione, e in ognuno di essi v’è la coscienza
> dell’ineluttabile condanna, intollerabile nella sua lentezza e precisione”.
Jakobson insegnava a Praga e a Brno; nel 1939, per scampare ai tedeschi, si era
rifugiato a Oslo, per poi trasferirsi negli Stati Uniti. Nel 1962 sarà candidato
al Nobel per la letteratura. Riteneva che i pur “splendidi libri” di Pasternak e
di Mandel’štam fossero “poesia da camera, che non accenderà una creazione
nuova”. Sbagliava. Mentre in Italia usciva – tardivamente – Una generazione che
dissipato i suoi poeti – in una collana che contava, a quei tempi, opere di
Roland Barthes e di Kate Millet, di Enrico Berlinguer e di Franco Basaglia –
Roman Jakobson incontrava, a Stoccolma, Bengt Jangfeldt, all’epoca trentenne,
che sarebbe diventato, come dicono le quarte, “uno dei massimi conoscitori al
mondo dell’opera di Majakovskij” (dida, alle mie orecchie, che sa di dedizione
borgesiana). Jangfeldt – i suoi libri majakovskijani sono editi in Italia da
Neri Pozza – tenne con sé le registrazioni di quegli incontri per un po’; nel
1992 le riunì in un libro, che esce oggi come Io, futurista per Feltrinelli
(nella traduzione di Serena Prina, la grande interprete di Dostoevskij,
Bulgakov, Pasternak).
I russi hanno il genio per l’autobiografia. Tutto ciò che vivono – per una
qualche complicità con l’apocalittica –, anche il più minuto fatto, splende con
la potenza di un’icona, di un annuncio. Scrittori e poeti altrimenti
incomparabili – chessò: Anna Achmatova e Vladislav Chodasevič, Vladimir Nabokov
e Iosif Brodskij – sono uniti dal genio della memoria, dal talento
autobiografico. Nella sua autobiografia più lucida, Uomini e posizioni– ma la
prima, Il salvacondotto, è ben più bella, per folleggiare del linguaggio – Boris
Pasternak scrive che degli anni che precedono e seguono la Rivoluzione, di quel
“mondo di fini e di aspirazioni, di problemi e di imprese prima sconosciuti”, di
quel “mondo unico e senza pari”, “bisogna scriverne in modo tale che il cuore si
stringa e i capelli si rizzino in testa”. Entrambe le sue autobiografie
terminano con il suicidio di Majakovskij – la seconda, l’ultima, accenna
all’altro, il più assurdo e dolente, quello di Marina Cvetaeva. Le memorie di
Jakobson parlano di quel mondo “senza pari” con il cuore spezzato.
Il tema fondamentale è ribadito con costanza senza ostacoli: la Rivoluzione
russa è stata, prima di tutto, una rivoluzione del linguaggio, è stata
una poetica. Come dar torto a Jakobson? Le radici di una nazione – di una
conversione – sono sempre, misteriosamente, liriche. Ogni sconvolgimento storico
ha alla sua base, misteriosamente, un poeta. Walt Whitman e Robert Frost hanno
fondato i momenti miliari della storia degli Stati Uniti d’America; Hugo,
Baudelaire, Valéry e René Char sono le fonti della storia moderna francese come
Wordsworth, Tennyson, Auden e Ted Hughes lo sono stati della storia moderna
inglese. William Butler Yeats ha ‘creato’ l’odierna Repubblica d’Irlanda come
Hugh MacDiarmid è all’origine delle rivendicazioni nazionaliste scozzesi; in
Italia abbiamo avuto, nelle ultime diverse fasi, Manzoni, D’Annunzio, Ungaretti
e Pasolini. Naturalmente, in questa considerazione non conta il ‘gusto’ o la
singola potenza lirica (potrei preferire Leopardi, Pascoli, Campana, Zanzotto),
ma la singolare possanza storica di un poeta. Quando un Paese ignora o tenta
sistematicamente di marginalizzare il poeta, di industriarlo all’indifferenza,
accade un sovvertimento radicale dei valori ‘politici’ – sorge una generazione
senza identità, serva, servile, benché cieca in ferocia.
Di Majakovskij – il protagonista, in fondo, di Io, futurista – si dice che “non
fu mai felice”, che “non amava i bambini” perché era un bambino all’eccesso, che
“amava molto i cani”. Majakovskij era “l’uomo del futuro”, il poeta-Adamo che
seminava versi per la nascita di un nuovo mondo. Quel mondo, se mai nacque,
nacque storpio, malvagio – l’albero della conoscenza svoltò in gogna e
ghigliottina. “Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro
perché ci potesse restare un passato”, scrive Jakobson, con sobria veggenza,
in Una generazione che ha dissipato i suoi poeti – di cui Io, futurista è, di
fatto, l’appendice. Nella straziante poesia “in morte di Vladimir Majakovskij”,
Pasternak scrive dell’eterno ragazzo che si getta “ancora una volta di colpo/
nella schiera delle leggende giovani”. Le poesie “in morte di Majakovskij”
diventarono una moda, un modo per costruire il futuro incenerendolo; Marina
Cvetaeva aveva riconosciuto in lui i caratteri dell’“arcangelo carrettiere”.
In Io, futurista il Futurismo c’entra poco. Jakobson ricorda la gita di
Marinetti a Mosca nel gennaio del 1914. Fu un incontro sballato, tra estranei.
> “Marinetti era un grande diplomatico e sapeva fare buona impressione su certi
> settori del pubblico. Parlava francese con un forte accento italiano, ma molto
> bene. Ebbi modo di ascoltare Marinetti due o tre volte. Era un uomo nel
> complesso limitato, con un grande temperamento, che sapeva leggere con grande
> effetto anche se in modo superficiale. Ma tutto questo non ci irretiva. Non
> capiva affatto i futuristi russi. Chlebnikov gli era profondamente avverso”.
Quando il futurismo russo decise di ergersi a soggetto politico chiamandosi
“Kom-Fut”(comunisti-futuristi), per iniziativa di Majakovskij, nel 1919, fu
presto sciolto – e cominciarono i guai. Per le sorti della Rivoluzione, i poeti,
che ne erano stati il propellente primo, diventarono un problema. Nel maggio del
1921, sul margine del poema 150.000.000, che gli era stato donato da
Majakovskij, Lenin scrive, “Una sciocchezza… una stupidità matricolata e
pretenziosa. Secondo me solo una su dieci di queste cose dovrebbe essere
pubblicata e in non più di 1500 esemplari per le biblioteche e per gli
eccentrici”. La politica comincia, clinicamente, cinicamente, a impedire l’opera
dei poeti – a limitare le pubblicazione, a censire censure.
In calce al libro, le lettere di Jakobson a Elsa Triolet. Nata Ella Kagan, donna
di inflessibile bellezza, fu l’imperterrita amata di Jakobson, monito della
perduta gioventù. Le lettere sono belle, svenevoli a tratti – “E adesso, mentre
ti scrivo, di nuovo non è questione di domande o di racconti, ma solo di labbra
che si contraggono e di un pensiero caparbio, caparbio: voglio Elsa. Adesso non
c’è altro pensiero” –; insegnano l’ovvio: dietro ogni grande rivoluzione –
poetica, scientifica, politica – c’è un grande amore. Elsa preferì, con
meteorologica precisione, sempre altri a Jakobson: l’ufficiale francese André
Triolet la portò a Tahiti e a Parigi, infine, dove conobbe tanti altri e, nel
’28, Louis Aragon, l’uomo della vita.
La sorella maggiore di Elsa, Lilja, fu la leggendaria amante di Majakovskij. A
tal proposito, la scena più bella di Io, futurista, a pagina 81, racconta di
quando Majakovskij, affittuario di “un borghese di medio livello”, tale Bal’šin,
sradicò il telefono di casa, inchiodato al muro, per portarselo in camera, “con
un pezzetto di parete”, e discutere, in intimità, “con la sua Lilicka”. Come
scriveva Pasternak, “Quando un poeta ama,/ è un dio smanioso che si innamora/ e
il caos di nuovo sbuca alla luce/ come ai tempi dei fossili”. Il poeta che
sradica con foia il telefono dalla parete per parlare con la donna che ama – per
urlare parole d’amore. Eccolo, l’emblema di un’epoca irripetibile – l’epoca
delle passioni forti.
L'articolo Per urlare ancora parole d’amore. Lamento su un’epoca che ha ucciso i
suoi poeti. (Ovvero: intorno a Majakovskij) proviene da Pangea.
Mi chiedo, da buon pisquano, che interesse dovrei avere di andare in libreria a
scegliere dei libri quando sul PlayStation Store posso comprarmi a 18,99 euro
videogiochi come Final Fantasy XV: ditelo a vostra madre e storcerà il naso –
invece, è sintomo d’intelligenza. Prodotti come questo hanno raggiunto livelli
di complessità e costruzione del mondo che la letteratura italiana ha smesso di
perseguire da tempo.
FFXV è uscito nel 2016 dopo dieci anni di sviluppo; ha richiesto, nel corso del
suo ciclo di produzione, tra le 200 e le 300 persone – nonché un budget fra i 50
e gli 80 milioni di dollari (escluso il marketing). Racconta la storia di
Noctis, un ragazzo privilegiato e irrisolto che esce di casa per sposarsi, sale
in macchina con tre amici, parte leggero e scopre che quello sarà il suo ultimo
viaggio da persona normale. Hajime Tabata, il creatore, ha dichiarato: il cuore
del gioco è il viaggio insieme agli amici, il rapporto padre-figlio rappresenta
uno dei pilastri della narrativa.
Nella prima scena non c’è nulla di epico: si spinge una macchina in panne
con Stand by me (appositamente interpretata da Florence + The Machine) in
sottofondo. Poco dopo, campeggio brandizzato Coleman, pasti preparati alla
griglia, foto cretine della giornata: un fantasy basato sulla realtà, un mondo
di dèi e demoni con pompe di benzina, noodle istantanei e cani che abbaiano
fuori dai motel. Narrativamente, concretizza in un gesto preciso: il lettore non
si affeziona alla trama, si lega alla complicità tra i personaggi. E quando la
storia virerà nel tragico saremo turbati dagli eventi in sé, certo, ma ancora di
più dal fatto che sia finita per loro quattro.
Si potrebbe riassumere FFXV così: un road trip americano applicato a un JRPG
giapponese, dove il viaggio in macchina è metafora dell’ingresso nell’età
adulta. Si attraversano una serie di riti di passaggio tra cui il primo grande
lutto: la morte di Regis, re di Insomnia, avviene off-screen per Noctis. Il
figlio la scoprirà infatti in televisione, come un qualsiasi ragazzo che assiste
al crollo del proprio mondo al telegiornale.
Allo stesso modo l’Anello di Lucis, ottenuto attraverso il sacrificio di uno dei
personaggi principali – qualcuno che brucia attraverso la sua assenza – è un
potere che consuma chi non è degno. Non offre nulla di miracoloso: non
conferisce a Noctis gloria, bensì morte. E quando nel finale il protagonista
accetta di morire sul trono completa la curva. Smette di essere il ragazzo ai
margini diventando suo padre, il re che si sacrifica per il mondo.
L’universo di FFXV concretizza tutta una serie di topoi dei JRPG. Un miscuglio
barocco di riferimenti (Roma imperiale, cattolicesimo, modernità occidentale,
mitologia targata Square Enix) per un risultato che genera un’atmosfera precisa:
una leggenda sporca, dove dèi ostili ti costringono a pagare il conto di un
passato mai vissuto. Se si esamina il lore di FFXV con l’occhio di chi tiene
corsi di scrittura creativa è un disastro: nomi, testi, divinità e profezie che
si accavallano, spiegazioni arrivate troppo tardi o di sbieco. Quando si smette
però di chiedergli la coerenza del manuale, e lo si inizia a leggere per ciò che
è, ne otteniamo un ritratto cristallino.
I libri della Cosmogonia sono fondamentali per capirlo: scritture sacre interne
all’universo di gioco, hanno il tono dell’Antico Testamento. Non spiegano per
rassicurare, proclamano per farti sentire piccolo davanti a una storia che
esisteva prima di te – e che continuerà dopo di te. Gli dèi non sono mai dalla
parte giusta: sono divinità lontane, indifferenti, quando non apertamente
ostili. Non ti aiutano perché sei il protagonista: ti mettono alla prova, ti
schiacciano, ti utilizzano come strumento. Nella Cosmogonia sono descritti come
esseri il cui pensiero trascende la comprensione umana: non cercano empatia, non
spiegano le loro scelte, non offrono misericordia. Siamo noi a dover dimostrare
qualcosa.
Noctis è una figura chiaramente cristologica, e priva di consolazione. Simbolo
della luce che si immola per scacciare l’oscurità e pagare il debito
dell’espiazione. L’iconografia è esplicita: il sacrificio del Re-Cristo, il
trono come Calvario, i Re del passato che lo trafiggono come una comunione
violenta di Santi. La tradizione non accoglie, uccide. E solo così riconosce. La
mitologia di FFXV promette solo che qualcuno dovrà farsi carico del male: ciò
che è divino non è buono, l’ordine cosmico non è giusto e il sacrificio non è
glorioso – è necessario.
Il ruolo del villain, Ardyn, mostra l’essenza della narrazione. Il villain
rappresenta una domanda in grado di farsi sentire anche dopo aver superato le
cento ore di gioco. Perché Ardyn, all’inizio, era il prescelto. Non un
usurpatore, né un mostro sfortunato: assorbiva il male del mondo su di sé per
purificarlo, caricandosi letteralmente addosso la sofferenza altrui. Eppure il
suo gesto non viene riconosciuto. Gli dèi e la dinastia dei re lo trasformano in
una discarica cosmica, sfruttandolo finché fa comodo, per poi cancellarlo dalla
storia.
Da qui nasce tutto. Ardyn non è immortale nel senso romantico del termine. La
sua è un’immortalità marcia, corrotta, tenuta in vita esclusivamente per
continuare a soffrire. E il rapporto con gli dèi si mostra emblematico: semplice
relazione di uso e scarto.
Ardyn è indirizzato, costretto e lasciato marcire. L’odio del villain non viene
davvero rivolto a Noctis, il bersaglio è il sistema: la monarchia sacralizzata,
la profezia, l’ordine divino che decide chi deve sacrificarsi e chi no. Ardyn
non contesta il sacrificio in astratto: contesta chi lo impone e con quale
diritto. La volontà implicita è devastante: perché io devo diventare un mostro
per assorbire il male del mondo, mentre voi restate puri, intatti, venerati?
Il villain di FFXV non vuole governare, non vuole vincere: non vuole sostituirsi
a Noctis. Il suo obiettivo è quello di far crollare l’impalcatura morale che
rende quel sacrificio accettabile. Per questo è vicino ai grandi personaggi
della tragedia: la persona giusta nel posto sbagliato, spezzata dal sistema, che
ora vuole trascinare tutto con sé. La sua presenza rende il finale di Final
Fantasy XV molto più amaro. Perché sì, il sacrificio di Noctis è necessario. Ma
Ardyn costringe il lettore a vedere che lo diventa a causa di un ordine cosmico
profondamente ingiusto. Non c’è armonia, né provvidenza, né equilibrio. Soltanto
qualcuno che paga il conto, ogni volta, al posto degli altri. FFXV fa una cosa
rara. Non ti consola. Ti lascia con l’idea che il mondo possa essere salvato
solo attraverso un sacrificio imposto da dèi – che non sono buoni – e da una
storia che non è mai pulita. Ardyn non è l’errore del sistema. Ardyn è la prova
che il sistema è sempre stato marcio.
La struttura stessa di FFXV è una di quelle cose che, sulla carta, sembrano un
errore. La prima metà aperta, dispersiva, svagata; la seconda parte che si fa
chiusa, lineare, soffocante. Un gioco che per ore ti lascia libero di perdere
tempo e poi, senza chiedere il permesso, ti toglie tutto. Eppure questa scelta
così sbilenca è una delle ragioni per cui la narrazione funziona. I grandi
eventi che avvengono fuori scena, il colpo di stato, la guerra, le decisioni
politiche, non vengono vissuti perché Noctis non li attraversa. Lo scopo della
narrazione non è quello di essere onnisciente: non ti informa, non si pone al
tuo servizio mettendoti al centro del mondo. Ti costringe ad abitare uno sguardo
limitato: quello di un ragazzo che all’inizio pensa solo a viaggiare, rimandando
tutto il resto. Nella prima metà si fa esattamente questo. Ci si perde in cacce
inutili, momenti fotografici, dungeon opzionali, battute di pesca, deviazioni
prive di senso. Insomnia e la guerra restano un rumore lontano, qualcosa che sai
esistere ma non ti riguarda davvero. Lunafreya, Ravus, la politica: conosci le
loro gesta per interposta persona, come notizie lette di sfuggita. Rappresenta
la fase della vita in cui il mondo va avanti e si è convinti di avere ancora del
tempo.
Poi, dal capitolo del treno in avanti, tutto cambia. La mappa si chiude, il
gioco smette di lasciarti respirare trasformandosi in un corridoio narrativo,
cupo, insistente. I toni si scuriscono: Niflheim, Gralea, Tenebrae in rovina.
Lo Starscourge avanza e il mondo diventa letteralmente buio. E il colpo finale
arriva con il salto temporale di dieci anni: torni a Eos e non la riconosci. Gli
amici sono invecchiati, segnati, stanchi. I luoghi che prima erano tappe del
viaggio ora sono infestati da demoni. Ciò che sembrava un ritorno è in realtà un
epilogo.
La struttura funziona perché è metanarrativa – facendoti sentire il rimpianto
del tempo buttato. Hai perso settimane cavalcando Chocoboco mentre il mondo
andava in rovina e ora ti si presenta il conto.E soprattutto rafforza il finale:
lo avverti, tutto è già successo, non resta che accompagnare la storia alla sua
ultima esalazione. Qui il respiro è millimetrico. L’ultima notte accampati
insieme. L’ultimo falò. Un momento in cui puoi parlare con Gladio, Ignis e
Prompto ma il messaggio è univoco: ti abbiamo portato fin qui, adesso sei
solo. E qualche ora dopo, la scelta dell’ultima fotografia prima di affrontare
Ardyn è il gesto narrativo più potente della narrazione. Una sola immagine da
portare con sé prima di morire. Nessuna spiegazione, nessuna enfasi. Soltanto
una meccanica, narrativa pura: ti costringe a ripercorrere tutta la tua
esperienza e decidere cosa rappresenta la tua vita.
Infine, sul trono, i Re del passato trafiggono Noctis e lui li invita a colpire
con maggiore forza. È la rappresentazione più brutale dell’eredità: per entrare
nella tradizione occorre lasciare che ti uccida. L’epilogo, con Noctis e
Lunafreya in uno spazio sospeso, gioca apertamente la carta del sentimentalismo.
Ma a quel punto hai addosso almeno cento ore di strada, di notti in tenda, di
silenzi in macchina. E colpisce. Forte.
FFXV fa ciò che chiediamo alla letteratura quando smette di essere un compitino.
Perché ti fa vivere la parte noiosa della vita, perché ti lega a quattro
persone, perché racconta la crescita come perdita: perderai il padre, perderai
la fidanzata, perderai la normalità e infine perderai te stesso. È un ibrido
instabile: road trip americano, purezza da anime, mitologia pseudo-cristiana,
estetica occidentale filtrata dallo sguardo giapponese. Non sempre coerente.
Emotivamente devastante.
Perché quando tutto finisce si pensa solo a una cosa. Molto semplice, molto
vera.
Vorresti ancora una giornata in macchina insieme a loro.
Il punto è imbarazzante nella sua semplicità: in un videogioco come Final
Fantasy XV puoi restarci dentro per più di cento ore senza annoiarti. Nessun
riempitivo, nessuna cortesia: strada, ritorni, scontri e routine che si
accumulano e producono senso. Questo mondo non ha fretta di lasciarti andare,
non ti accompagna educatamente verso l’uscita, non ti tratta come un consumatore
da rispettare. Anzi, devi restare.
La narrativa italiana contemporanea risulta sempre più spesso costruita come
opuscoletto a servizio del lettore: libri che chiudi nel tempo di fare Fano
Torrette-Forlimpopoli con il regionale. Scendi dal treno con addosso la
sensazione di aver letto qualcosa di scritto bene senza che nulla ti sia rimasto
addosso. I protagonisti si chiamano tutti Giampirla, fingono di soffrire e gli
riesce nel modo giusto: riconoscibile, contenuto, presentabile. La fruizione è
misurata, innocua, a prova di barbagianni. È una narrativa che raramente
richiede tempo, dedizione o rischio. Ti accompagna all’uscita, con un Grazie per
avere viaggiato con noi su questo treno e nessuna pretesa di essere
ricordata. Quando esci da mondi vasti come quello di FFXV e apri un romanzo
italiano contemporaneo la sproporzione è umiliante.
C’è poi una ragione materiale, che di solito si finge non esista: un autore
italiano pubblicato da una grande casa editrice riceve, nella maggior parte dei
casi, un anticipo fra i 1.500 e i 3.000 euro. Stipendio simbolico per un lavoro
che dovrebbe richiedere mesi, se non anni, di concentrazione totale. Per dare un
ordine di grandezza: un animatore junior in uno studio giapponese o americano
guadagna la stessa cifra in un paio di settimane.
Lo scrittore, invece, dovrebbe costruire un universo, inventare una voce,
reggere una struttura, lavorare sulla lingua, sul ritmo, sull’architettura
narrativa: scrivere diventa inevitabilmente un’attività da ritagli, notti
rubate, fine settimana deserti. È un miracolo che qualcuno ci riesca. Ed è in
questo vuoto che prosperano le operette a servizio del lettore. Fino a pochi
anni fa relegate agli Autogrill, oggi catene fondanti di molte collane di
narrativa: traumi minimi, famiglie raccontate sottovoce, autofiction così
controllate da perdere ogni ragion d’essere. Una letteratura fatta di banalità
che registra il vissuto senza filtrarlo, come se raccontare fosse diventato un
atto di buona educazione – qua e là camuffato da titoli sciocchi come La vita
sessuale di Guglielmo Sputacchiera. Narrativa che ha smesso di costruire mondi
per accontentarsi di descrivere stanze.
A questo punto la questione smette di essere teorica e diventa personale,
materiale, misurabile. Io vivo di scrittura. Vengo pagato – e pure bene – per
creare strategie SEO e scrivere articoli su pomodori, lucidalabbra, insetticidi,
piastrelle, vacanze a Riccione. Qualsiasi cosa le persone cerchino su Google.
Lavori apparentemente insignificanti, privi di aura, senza alcuna ambizione
simbolica. Li scrivo con metodo e responsabilità: producono valore e risultati,
ottengo stipendi regolari. Insegno alla Scuola Holden, vengo contattato dalle
agenzie di comunicazione, nel 2025 ho formato più di duecento persone su come si
scrive davvero oggi: come si struttura un testo, come si governa l’attenzione,
come si produce senso in un algoritmo che non regala nulla. Scrivo, tutti i
giorni. Solo che lo faccio dove ha ancora senso farlo.
L’alternativa sarebbe investire una manciata di mesi in un romanzo italiano
contemporaneo: sottopagato, destinato a una circolazione gentile quanto breve.
Un libro che deve stare sotto una certa soglia di rischio, che non può essere
troppo lungo, troppo strano, troppo ambizioso. Un libro che nasce già pensando a
dove verrà presentato, premiato, difeso. Un oggetto di consumo da chiudere in
poche ore e non pretende nulla.
Scrivere narrativa oggi è un gesto di adattamento: si scrive per stare dentro un
perimetro, mai per infrangerlo. Si limano le asperità, si riduce il mondo, si
abbassa il volume dell’immaginazione. Il risultato sono romanzi corretti, molto
spesso ben scritti, a volte sinceri, necessari a un’editoria fondata
sull’inflazione. Opere che descrivono stanze perché non hanno i mezzi per
costruire mondi. E allora la scelta diventa brutale e limpida. Da una parte
posso passare cento ore dentro Final Fantasy XV, attraversando un luogo che non
ha fretta di lasciarmi andare, che richiede tempo, attenzione, labirinti che mi
fanno perdere, tornare indietro, cercare il punto di noleggio dei Chocoboco,
sbagliare. Un’opera che non mi tratta come un consumatore da compiacere, ma come
qualcuno che deve trovare da sé la via.
Dall’altra posso leggere – o scrivere – un romanzo pensato per non disturbare,
non eccedere, non pretendere troppo: un prodotto che finisce in fretta, si
commenta educatamente su Instagram e viene sostituito dalla successiva notifica
di Tik Tok.
Tra le due cose, oggi, non c’è davvero gara.
Quando un videogioco da 18,99 euro riesce a offrire più tempo, spazio, memoria e
più perdita d’orientamento di gran parte della narrativa contemporanea, il
problema non è il medium. È l’ecosistema che ha disintegrato l’ambizione. È un
sistema editoriale che paga poco, isola gli autori, premia chi è moderato e
scambia la rinuncia per profondità. Scrivere oggi, in Italia, non è difficile
perché mancano le storie. È difficile perché manca la possibilità di prenderle
sul serio.
E finché sarà così, finché la letteratura continuerà a ridursi a oggetto di
consumo tranquillo, finché verrà chiesto agli autori di essere visionari senza
fornire loro spazio, tempo e denaro il lettore continuerà a cercare altrove – in
un gioco, in una serie, in un mondo digitale – quella sensazione di vastità che
i libri hanno smesso di promettere.
Quando rinunci ai mondi non perdi solo lettori. Perdi ambizione. Tempo. Senso.
Nicolò Locatelli
*In copertina e nel testo: immagini tratte da Final Fantasy XV
L'articolo Ai romanzi italiani preferisco Final Fantasy XV. Sulla narrativa che
ha smesso di costruire mondi proviene da Pangea.
In uno dei momenti più belli del libro, di primordiale bellezza, “Antonio
dell’isola delle Ghiandaie” fissa le stelle. Non riesce a dormire, eppure “su
tutta l’ampiezza del cielo e della terra regnavano una pace e una mitezza che
annunciavano il giorno”. Gli si fa al fianco un mandriano. Insieme, danno i nomi
alle costellazioni.
> “Quelle, disse Antonio, io le chiamerò ‘la ferita della donna’. Le chiamerò
> così perché fanno come un buco nella notte”.
Il mandriano offre ad Antonio il suo mantello; è freddo “per te che resti fermo
a guardare la notte”. Antonio continua a enumerare le stelle, a inventare i
nomi. Un grumo di luci, a est,
> “Le chiamerò ‘gli occhi’. Perché credo che siano come lo sguardo di colei che
> sta dormento e non ha ancora aperto le palpebre”.
È una scena straordinaria, potremmo trovarla nella Teogonia di Esiodo o
nell’Esodo, nei primi libri dell’uomo, epopee di stelle e di grandi cacce, di
duelli e di imperi d’erba, di genti selvagge e di domestiche bestie, di briglie
e di imbrogli. D’altronde, il compito di uno scrittore non è altro: assemblare i
nomi, assegnare miti alle stelle. Un libro è come una stele. Così, il cosmo
informe dà forma a una cronaca e dal caos si caglia armonia.
Jean Giono pubblica Le chant du monde nel 1934, per Gallimard. Diceva di aver
tratto quel titolo – che è poi un incanto, un incantesimo – da Walt Whitman;
amava Melville, di cui avrebbe tradotto Moby Dick; più che altro, l’incarnato
del romanzo, il più potente di Giono (ora, nella sgargiante traduzione di
Leopoldo Carra, per Settecolori come Il canto del mondo), è omerico. Ambientato
in un senza tempo da inizio e termine del mondo, tra età dell’oro e
apocalisse, Il canto del mondo parla di razzie e di vagabondaggi, di fuochi e di
fiumi, di patti d’amicizia e di atroci vendette, di terra e cielo, di amore e
morte.
La scrittura di Giono è armata di uno splendore petroglifico, si sente, in
sottofondo, un ritmo di tamburi (ascoltate: “All’alba le bestie vennero avanti.
Antonio vide uscire dalle ombre a occidente i tori con le corna a lira.
Spuntavano dai pascoli all’imbocco della valle, e subito il sole nascente si
posava sulle loro fronti”), una limpidezza nuova, che non ha lignaggio né trama
d’eredi. Mescolando Stendhal all’epopea di Gilgamesh, Jean Giono ha portato il
romanzo, creatura di città, nei boschi, a far leggenda tra gli acquitrini. In
questo libro – mai così sconfinato – appaiono le “uldre” e il “grongo”, “un
pesce che assomiglia al serpente”; c’è il sesso e l’assassinio; c’è un sentore
di sangue che rintrona la mente, che non dà pace.
Non bello ma volitivo, occhi grandi, di creatura d’acqua dolce, Jean Giono nel
’34 andava per i quaranta. Figlio di umile gente – il padre era un ciabattino,
anarchico, originario del Piemonte – era nato nel 1895 a Manosque, in Alta
Provenza, e fece di quel borgo – fondato dai Celti, abitato dai Romani,
saccheggiato dai Saraceni – il proprio eden, la scaturigine dei propri australi
romanzi. Avrebbe dovuto impiegarsi in banca, leggeva, nel tempo libero, Tacito,
Seneca, Virgilio, Eschilo; il successo del primo libro, Colline (edito da
Grasset nel 1929), gli permise di alienarsi dal mondo, di mollare la banca, di
allearsi alla scrittura. Mobilitato durante la Prima guerra, ne uscì sconvolto:
sperimentò l’imperio della macchina, il massacro privo di cavalierato, la
canaglieria degli Stati. Fu sui campi più duri – si fece Verdun, la Somme, lo
Chamin des Dames – assistendo alla morte degli amici. Sulla rivista “Europe”,
proprio nell’anno in cui pubblica Il canto del mondo, Giono scrive Refus
d’obéissance, uno degli inni più potenti contro il militarismo. Scrive “di non
aver ammazzato nessuno” durante la Prima guerra, di aver “partecipato agli
attacchi senza fucile o con un fucile inutilizzabile”. “Non ho avuto il coraggio
di disertare”, scrive. Poi l’onda d’urto di quello straziante j’accuse monta:
> “Ho annusato l’odore dei morti. Ho mostrato corpi in frantumi. Ho riempito le
> stanze di fantasmi lordi di fango, con le orbite succhiate dagli uccelli. I
> feriti gemevano sulle mie ginocchia. Quando ho detto ‘mai più’ tutti, in coro,
> hanno ripetuto ‘no, no, mai più’. Ma il giorno dopo riprendevano posto nel
> reggimento civile borghese. Ricominciavano a creare il capitale per il
> capitalista. Erano meri strumenti della società capitalista”.
Giono attacca l’ipocrisia del “regime borghese”, il sistema coercitivo del
lavoro cittadino, “ideato per assopirci, per instillare in noi uno spirito di
schiavitù”.
Agli albori della Seconda guerra, l’ardore pacifista di Giono fu preso per
tradimento: lo scrittore fu arrestato nel settembre del ’39; rilasciato, si
ritirò nella sua fattoria. Durante Vichy diede rifugio a transfughi ebrei e a
comunisti; le riviste di regime – il periodico nazista “Signal”, ad esempio –
parlarono con curiosità del suo “neoprimitivismo”. I resistenti non gli
perdonarono di aver pubblicato un paio di racconti su “La Gerbe”, il giornale
collaborazionista: prima cercarono di ucciderlo – piazzando una bomba, nel
gennaio del ’43, davanti a casa sua – poi lo arrestarono – dal settembre del ’44
al gennaio dell’anno dopo – infine lo processarono; il “Comité national des
écrivains”, con sarcastica pignoleria, gli impedì di pubblicare per un paio di
anni.
Poligrafo dallo stile vertiginoso, Giono scrisse L’ussaro sul tetto e L’uomo che
piantava gli alberi, i libri per cui è più noto, nei primi anni Cinquanta. Nel
1965 Marcel Camus trasse una versione cinematografica da Le chant du monde –
passata in Italia con il titolo, assurdamente hard, Ossessione nuda – con
Catherine Deneuve nel ruolo di Clara, la donna dai “grandi occhi di gesso e di
menta”, la tanto amata. Giono morì cinque anni dopo, nella sua dimora, a
Manosque, in pieno estro verbale (L’Iris de Suse era uscito da poco).
Per capire l’importanza di Jean Giono basta sfogliare il catalogo della
‘Pléiade’: otto tomi, di cui sei dedicati alle Œuvres romanesques complète. A
differenza degli “esistenzialisti”, Giono – il cui talento è d’altro conio, più
puro, di quello di Albert Camus – ha cantato la brutalità della gioia, le glorie
della carne. Amato da Henry Miller – che lo insediò tra i pochi, grandi
scrittori della sua vita – è l’esatto opposto di Céline – che lo sopportava a
tratti. Se uno è il cantore della notte e dell’oscurità, l’altro lo è della
luce. Jean Giono è lo scrittore dell’estate perpetua, dell’avventura totale,
dell’elemento primo, di preistorica eloquenza.
Non ammette lettori vili.
L'articolo Non ammette lettori vili. Vasto elogio di Jean Giono proviene da
Pangea.
“Perché non v’è punto qui/ che non ti veda. Devi cambiare la tua vita”. Fermo,
di fronte al torso arcaico di Apollo, Rilke formula un imperativo oracolo,
ascoltando ciò che muta come se parlasse. Non è la nebbia di una morale, bensì
l’esperienza di metamorfosi che ogni vivente, nel suo perire, impone allo
sguardo; un volto d’albero, un muro di spine, una foglia che cade, ogni cosa
diviene giudice muto e maestro metafisico.
È da questa soglia rilkeana, da questa “Schwere der Dinge”, che possiamo
avvicinarci a Christian Morgenstern e alla parte del suo animo nascosta tra le
fronde. Perché anche nel suo Blätterfall, in un quadro autunnale che raschia sul
bordo della meditazione morale, la natura non è sfondo, ma interlocutrice,
segno, terreno dove l’uomo impara la sua postura, la discrezione, il silenzio
assordante.
> “Nella vita ci sono grandi ore. Noi leviamo gli occhi verso di esse come verso
> le colossali figure del futuro e dell’antichità.”
>
> Friedrich Hölderlin, Iperione
Nato nel 1871 a Monaco di Baviera, Christian Morgenstern è solitamente ricordato
per le sue Galgenlieder, i suoi Fatti lunari (pubblicati in Italia da Guanda) e
per l’umorismo stralunato. Cresciuto fra pittori e febbri, fu poeta dalla salute
sempre inclinata, funambolo dell’assurdo prima che l’assurdo avesse una
capitale. Colpito da tubercolosi sin dalla giovinezza – malattia che lo portò
alla morte prematura nel 1914 – conobbe a lungo la stanza del malato; il luogo
in cui l’immaginazione impara a uscire prima del corpo. Da qui la doppia natura:
da un lato l’inventore di quei poemetti che sembrano nati in un teatro di
marionette composto da canneti metafisici; dall’altro, un autore capace di una
spiritualità calma, quasi orientale, nutrita di Steiner, di teosofie leggere e
antroposofia.
I frequenti spostamenti lo portarono a soggiornare alcuni mesi, tra il 1906 e il
1907, nel sanatorio per malattie polmonari di Birkenwerder. Qui lo studio del
Vangelo di Giovanni e degli scritti di Meister Eckhart gli procurò una sorta di
iniziazione spirituale che lo rese liminale. La poesia Blätterfall appartiene a
questa fase più meditativa e più “seria” della sua produzione; non trascende
l’ironia dei Galgenlieder, ma esplode una sorta di piccola filosofia in cui la
natura diventa maestra di saggezza tragica e di compostezza.
Caduta delle foglie
Il bosco autunnale fruscia intorno a me…
Un infinito mare di foglie
Si stacca dalla rete dei rami.
Ma tu, il cui cuore appesantito
Vuole condividere il grande dolore…
Sii forte, sii forte e taci!
Impara a sorridere quando le foglie,
Facili prede del vento leggero,
Ondeggiano e scompaiono.
Tu sai che proprio la caducità
È la spada con cui lo spirito del tempo
Supera se stesso.
Morgenstern dispone il “mare di foglie” come un teatro cosmico in cui l’uomo,
fragile spettatore, è chiamato a un’ascesi del silenzio: «Sii forte, sii forte e
taci!». Rilke avrebbe riconosciuto in questo comandamento la stessa disciplina
interiore che governa le Dinggedichte, dove il poeta non descrive la cosa, ma la
lascia farsi gesto, inclinazione, destino. Ciò che si perde si apre, ciò che
discende si libera. La poesia, nella sua apparente semplicità, si colloca così
accanto alla visione rilkeana del mondo che “stirbt und wird”, muore e diviene,
una visione che fa dell’effimero un’energia spirituale.
> “Cerchi che si tendono sempre più
> ampi sopra le cose è la mia vita.”
>
> Rainer Maria Rilke, Il libro d’ore
Se Rilke ci insegna a far parlare le cose, Hölderlin ci mostra il gesto opposto
e complementare. La natura non è soltanto scena ma compagna di redenzione,
cornice in cui si misura il rapporto umano con il divino. La malinconia
dignitosa e la tensione verso una forma di abitare il mondo si incontrano in
Hölderlin in una poetica del mediamento. L’estasi del poeta è sempre una
mediazione che tenta di ricollegare la frammentazione moderna. In relazione a
Morgenstern, Hölderlin ci permette di leggere l’esortazione al silenzio come
forma di abitare il tempo. Il suo “sii forte e taci” risuona come regola
heideggerianamente prescientifica dell’abitare che Hölderlin, prima di tutti,
aveva posto come questione poetica.
Christian Morgenstern (1871-1914)
Lo studio critico moderno conferma questo aggancio; la natura come mezzo per
oltrepassare la contingenza e riconsegnare all’uomo una misura dell’entusiasmo
poetico. “Non coerceri maximo, / contineri minimo / divinum est.”,riporta il
lungo epitaffio sulla tomba di Ignazio di Loyola citato da Hölderlin
nell’apertura dell’Iperione: “Non essere limitato da cos’è più grande, essere
contenuto da ciò che è minimo, questo è divino”. Così, quando Morgenstern invita
a “sorridere” davanti al fogliame che svanisce nel vento, chiede un atto di fede
nel ritmo dell’essere. Imparare dai cicli naturali a non opporsi alla perdita,
perché è proprio lì che l’anima comprende la misura del mondo.
> “Costruisco una tomba per il mio cuore, affinchè possa riposare; mi imbozzolo
> perchè ovunque è inverno; mi avvolgo nei miei ricordi contro la tempesta.”
>
> Friedrich Hölderlin, Iperione
A sorreggere questa interpretazione giunge Nietzsche, il vero “formatore” della
giovinezza di Morgenstern e colui che offrì un primo fondamento filosofico al
suo rifiuto emotivo dell’arida incultura guglielmina. Il vento leggero che
rapisce il fogliame non è, per Nietschze, minaccia, ma forza dionisiaca che
smuove la forma, afferma la potenza del divenire e spezza le catene della
malinconia reattiva. “Tutto va, e tutto torna”, scrive nello Zarathustra,
ricordando che la vita è un eterno ritorcersi di forme e di energie.
Il Blättermeer di Morgenstern, osservato nella sua fluttuante impermanenza,
diventa così una figura nietzscheana: la danza minima di ciò che continua a
vibrare mentre scompare. Il comando “sii forte” non è una severità morale, ma
una pedagogia del divenire; accogliere il mondo nella sua continua evaporazione,
senza cedere all’illusione di un centro stabile.
> “Voglio imparare sempre di più a vedere come bello ciò che è necessario nelle
> cose; allora io sarò uno di quelli che fanno le cose belle. Amor fati:
> lasciate che sia il mio amore d’ora in poi!”
>
> Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza
A fornirci l’ultimo nodo, però, è Bergson, che con la sua filosofia
della durée (durata) sembra quasi commentare direttamente i versi finali della
poesia: “Tu sai che proprio la caducità/ È la spada con cui lo spirito del
tempo/ Supera se stesso”. La temporalità bergsoniana non è una serie di istanti
che si consumano, ma un flusso qualitativo, una “élan vital” in cui vita e tempo
coincidono come movimento indivisibile.
Il testo di Morgenstern, nel suo insistere sulla caducità che «sovrasta» il
tempo, può essere letto come poesia della durata: il fogliame che cade non
interrompe l’esperienza, la intensifica; la caducità è l’atto che concentra la
memoria e l’anticipazione in un presente vivo. Bergson sostiene che il puro
presente è un inafferabile avanzare del passato che divora il futuro, e così, il
sorriso che l’io consiglia è gesto proprio, modalità del presente che incorpora
il passato e prepara il divenire. Nella sinergia di Bergson e Morgenstern il
tempo smette di essere nemico e diventa materia plastica dell’anima.
> “E tutto è unanime, nel silenzio su noi,
> metà vergogna, forse, e metà speranza ineffabile.”
>
> Rainer Maria Rilke, II Elegia Duinese
In questo modo, il bosco autunnale non è più soltanto un luogo della malinconia,
bensì il laboratorio dove Rilke vede la cosa dichiarare la propria anima, dove
Hölderlin riconosce la ferita sacra dell’esistenza, dove Nietzsche vi scorge il
gioco in cui l’essere si afferma contro la gravità della fine, e dove Bergson
ascolta il pulsare segreto del tempo che si rinnova.
Morgenstern, sotto questa luce, appare come un poeta che conosce la leggerezza
del pensiero profondo; parla alla quiete, ma soprattutto parla del mondo intero.
Nel suo invito a sorridere mentre tutto svanisce, si cela un gesto ontologico,
una teologia dell’imparare che la vita non ci appartiene per durare, ma per
trasformarsi, per transitare, per brillare un istante prima di dissolversi nel
respiro dell’universo. Morgenstern, con la sua voce più lieve e più
adulta, trasforma una visione in gesto etico, in assentire, e tacere. Un tacere
che non è resa, un tacere che non è condanna.
Il mondo vive nel suo cadere e l’uomo cresce nella misura in cui impara ad
accompagnarlo senza rumore.
Tommaso Filippucci
*In copertina: la “sfera dei colori” secondo Philipp Otto Runge (1777-1810)
L'articolo “Sii forte, sii forte e taci”. Christian Morgenstern o della legge
del mondo proviene da Pangea.
In copertina, un particolare dalla Santa Lucia di Francesco del Cossa: occhi che
germogliano da una piantina, stretta con malizioso garbo dalla santa. Era il
1994 e dell’autore – “nato nel 1941 a Rimini, dove vive” – si diceva, per lo
più, della biblioteca, la Gambalunghiana, di cui era, all’epoca, direttore,
“fondata al principio del Seicento, da un gentiluomo allampanato e funereo”. Il
romanzo – L’avvocata delle vertigini –, tra i più singolari e remoti del nostro
canone recente, nascondeva, tra l’altro, un altro libro, Ufficio del silenzio,
in cui si legge quanto segue: “Tacet. Come il colore bianco è la somma
misteriosa di tutti i colori, così quella lingua bianca che è il silenzio
accoglie paternamente tutte le parole”. Un monito, forse. Il protagonista,
Dominici, ricorda a sprazzi il Daniele Dominici de La prima notte di quiete,
l’eroe malinconico del film di Zurlini, ambientato a Rimini. Del libro si parlò
tanto, tanto fu tradotto: un autore italiano nel catalogo Adelphi era pura opera
di teurgia, quasi un’annunciazione; qualcuno paragonò L’avvocata delle
vertigini alla Variante di Lüneburg di Paolo Maurensig, noto romanzo uscito nel
1993: l’affinità è meramente editoriale.
Rispetto ad altri autori dal tardivo esordio – Francesco Biamonti e Gesualdo
Bufalino, ad esempio – Piero Meldini aveva già pubblicato tanto, per lo più
saggi, con l’amico editore di una vita, Guaraldi: tra gli altri,
ricordo Reazionaria, la prima “Antologia della cultura di destra in Italia”,
uscita nel 1973, Mussolini contro Freud (1976) e il ciclo “La cucina
dell’Itaglietta” (1977), che è poi una storia d’Italia, dall’età giolittiana al
fascismo alla “cucina del tempo di guerra”, attraverso la controcultura
culinaria.
Per lo più ostile alla cagnara letteraria, per lo più sulle sue, un isolato,
Piero Meldini ha pubblicato per Adelphi il suo libro più bello – L’antidoto
della malinconia, 1996, ambientato in un inquieto, coriaceo Seicento – e per
Mondadori quello che ritiene il più compiuto, La falce dell’ultimo quarto, nel
2004. L’ultimo libro, Italia. Una storia d’amore (la quinta: vigilia della Prima
guerra, tra Bologna e Rimini) è uscito per Mondadori poco meno di quindici anni
fa. Da allora, Meldini, senza dubbio uno dei grandi scrittori italiani di oggi,
vive in una veglia tutta sua: non ha più voglie letterarie, è quasi del tutto
refrattario al presente. I racconti radunati per Vallecchi come In disparte, in
silenzio (brutta la copertina “generata con AI”), così, fanno l’effetto di una
scoperta. Pochi – sedici – brevi – in tutto, compresa la Nota, il libro conta
centoquaranta pagine – sagaci, non scalfiscono il tema: il testo più recente è
del 2009. Eppure, per una sorta di sfrenata austerità, di spudorata sapienza, i
racconti di Meldini sembrano più moderni, freschi, scattanti, giovani di troppa
narrativa che infesta le librerie patrie.
Il racconto più bello – parere mio – è Dietro la grata: siamo nel Seicento, il
secolo narrativamente aureo e oracolare per Meldini, si parla di una giovane, di
fantomatica bellezza, confinata in monastero, di un diario mistico dalla
“scrittura insieme puerile e artificiosa”, di un donnaiolo attaccabrighe che
porterà al disfacimento la famiglia, non nobile ma capace in ricchezze. Il genio
dello scrittore, come sempre, si vede subito, fin dalla filigrana dell’incipit:
> “Sulla carta spessa, che crocchia e si accartoccia agli angoli, le righe
> corrono svelte. Le lettere pendono a destra, come investite da una corrente
> d’aria. Là dove la scrittura a un tratto si inalbera, graffiando il foglio, la
> porta avrà sbattuto”.
Si sente, cioè, in poche righe, il sapore di un mondo e il suo senso,
il suono dell’epoca. Lo scrittore gioca con gli astri, ha a cuore tutti gli
angoli della propria invenzione (soprattutto quelli invisibili al lettore). La
scrittura di Meldini rimanda – parere mio – ai racconti più riusciti di
Marguerite Yourcenar, quelli raccolti in Come l’acqua che scorre; lui cita, tra
i suoi lari, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Morselli, Buzzati. A Jorge Luis
Borges – autore che accompagna da sempre l’epopea letteraria di Meldini – è
dedicato uno ‘scherzo’ assai sugoso. In Pasticcio, il grande scrittore argentino
interpreta se stesso in vesti di cuoco: il suo piatto, naturalmente un
“capolavoro”, sortirà effetti mortali nella mente e nel corpo dei commensali. I
borgesiani di ferro riconosceranno nomi, temi, topografie, comunque esplicitati
dall’autore in nota.
Come ci si potrebbe attendere, Meldini – almeno in apparenza – guarda con
indocile sprezzatura ai suoi libri: nell’arco di un ventennio o poco più – mi
sono dimenticato di citare Lune, Adelphi, 1999 – ha pubblicato alcuni dei libri
indimenticabili della nostra tradizione recente, ma cosa gli importa… “Dubito
che qualche mio romanzo mi sopravviva e non è che la cosa mi turbi più di
tanto”, tende a ripetere. Lo scrittore forse fa proprio questo: scrive per
cancellarsi – delle cose che ha scritto, gli resta un riverbero, una breve
nudità, lo sbrego sul margine, un manoscritto pervertito dall’uso. Forse la sua
icona è la farfalla – o l’effimera; i libri, intanto, fanno la crisalide. Il
resto – far vivere un libro, dotarlo di eternità – è compito nostro, è la gioia
dei lettori.
Che cos’è il racconto per te: il disegno preparatorio di un romanzo, un romanzo
abortito, a mala pena abbozzato, un’occasione che avvampa, lasciando dello
scritto un pertugio di cenere – e poco altro. O è molto di più?
Il racconto non è né un embrione né un concentrato di romanzo. È un’alternativa.
La scelta, cioè, di raccontare in un numero limitato di pagine una storia con un
capo e una coda: un inizio che inviti alla lettura e un finale appagante,
sorprendente o perturbante. A differenza del romanzo, che lascia il lettore
libero di indugiare, sostare e fantasticare sulle sue pagine, il racconto lo
prende per mano e lo trascina fino alla conclusione. Un buon racconto è una
parabola nel duplice significato del termine: una traiettoria e un racconto con
una morale. Meglio – molto meglio – se indecifrabile.
La quarta recita: “Tutti i racconti di uno dei più originali narratori
italiani”. Ti domando. Sono davvero “tutti” i tuoi racconti qui raccolti; cosa
significa, appiccicato a te, l’aggettivo “originale”; e poi, ti senti davvero un
“narratore”?
Sì, i racconti sono più o meno tutti quelli che ho scritto; i pochi assenti non
meritavano di essere riesumati. Credo (spero) che con “originale” lo strillo –
di cui non sono responsabile – intendesse appartato e inclassificabile, perché
di fatto è così che mi vedo. E sì, mi considero un narratore. Se non ho in testa
una storia, anche semplice, e dei personaggi – chiamiamoli pure fantasmi – mi è
impossibile cominciare un racconto; non parliamo poi di un romanzo. Non credo
che la bella scrittura sia autosufficiente.
Secondo i canoni – idioti si dirà – della casistica narrativa italica, hai
esordito tardi, nel ’94, non pubblichi testi ‘nuovi’ dal 2012, un secolo fa. Il
racconto più recente raccolto in “In disparte, in silenzio” data 2009. Perché?
Non hai più niente da scrivere? La narrativa è stata una delle tante stanze
della tua vita, ora sigillata?
Scrivere è per me molto impegnativo. Il risultato, dopo una giornata di lavoro
(e se sono particolarmente in vena, s’intende), è una mezza cartella di
testo. Sulla quale tornare poi non so quante volte e più per togliere che per
aggiungere. Non è raro che dedichi a un singolo passo una settimana e più di
lavoro accanito. Non è nemmeno raro che poi lo cancelli senza una lacrima. Un
lavoro così lento e faticoso ha bisogno di un contesto favorevole: un’editoria
che si assuma qualche rischio, una critica attenta e autorevole, una comunità di
lettori sufficientemente ampia e curiosa. Nel ’94, quando ho esordito nella
narrativa, questo contesto esisteva; nel 2012 le cose erano già molto cambiate;
oggi mi attenderebbe una terra incognita, ma presumibilmente inospitale, e alla
mia veneranda età non si ipotecano due anni di vita per essere letti da dieci
amici.
In Italia non si legge – tanto meno, si leggono i racconti, antica leggenda.
Perché?
Non so se i lettori italiani non amino i racconti. Quel che so è che gli
editori, a torto o a ragione, li considerano poco commerciali e preferiscono a
una bella raccolta di racconti un romanzo mediocre.
Due domande in una. Che cosa stai leggendo? Qual è il tuo libro che – agli occhi
tuoi – ‘resterà’? (Ne aggiungo un’altra, in coda: il libro tuo che desideri
svanisca nell’oblio, c’è?, qual è?).
Sto leggendo Sotto una stella crudele, un libro del 2017 che avevo
temporaneamente accantonato. Non è un romanzo. Sono le memorie di una donna
ebrea di Praga, Heda Margolius Kovàly, che in meno di un decennio era passata
dagli orrori del nazismo a quelli dello stalinismo. È una lettura che prende
allo stomaco. Andrebbe imposta (no, mi correggo: consigliata) a tutti quei
giovani che si proclamano orgogliosamente fascisti o comunisti. Ma, temo, con
scarsi risultati.
Dubito che qualche mio romanzo mi sopravviva e non è che la cosa mi turbi più di
tanto. Potessi scegliere io, sarei indeciso tra L’antidoto della malinconia – il
romanzo a cui sono più legato – e La falce dell’ultimo quarto – quello che
considero il più maturo, per il suo equilibrio fra dramma e commedia. Tolto
qualche mio remoto saggio, che avrei potuto e forse dovuto lasciar perdere, ci
sono molti libri che oggi scriverei diversamente, ma nessuno di cui mi vergogni.
Anche i racconti – parere mio – confermano che ti trovi narrativamente più a tuo
agio in territori alieni ai più, a noi poveri scribi: il Seicento, l’Ottocento.
Lì, i tuoi tratti, mi pare, trovano una definitività indefettibile. È vero? Dico
sciocchezze?
È vero: ho con la contemporaneità un rapporto complicato, e non m’è del tutto
chiaro se non voglio o non so raccontarla. Mi domando, per altro, se i miei
siano davvero romanzi storici. Sì per la cura scrupolosa dell’ambientazione, a
prova di anacronismi; no per quel che riguarda l’intenzione di resuscitare
un’epoca. Ciò che a me interessava non era la ricostruzione filologica di un
determinato periodo storico, ma la trattazione di temi del tutto personali e
attuali, utilizzando però un “filtro” che mi consentisse di parlare di me stesso
senza compiacimenti e dell’attualità senza riferimenti alla cronaca. Lo
scrittore di romanzi storici finisce spesso, volente o nolente, per attualizzare
il passato. Io credo di aver fatto l’opposto: “storicizzare” il presente
proiettandolo in un’altra epoca.
Tra i racconti, spicca un tributo a Borges, che figura tra i tuoi lari – in
filigrana, vedo la grana della Yourcenar. Quali scrittori italiani tra i tuoi
maestri?
Gadda, innanzi tutto, al punto che avevo l’abitudine di rileggere ogni anno,
come un esercizio zen, La cognizione del dolore. Poi, in parte, Sciascia e
Calvino. Sicuramente Tomasi di Lampedusa. Landolfi, ma in modica quantità, e
Buzzati. Il Morselli di Contro-passato prossimo e Roma senza papa e il Soldati
dei racconti. E inoltre un bel po’ di scrittori ottocenteschi e del primo
Novecento, a cominciare da Svevo.
Pur nella scrittura spesso assertiva, serrata, severa, vedo l’ironia nera, un
piccolo Pan a disfare le sorti dei tuoi personaggi. Un gioco alchemico: il caos
che, in piccole dosi, rende dorata madama armonia. A tratti, la scrittura pare
un gioco – di specchi e di attese e di maschere. È così?
Sì, proprio così, e mi fa piacere che tu lo abbia còlto. I protagonisti dei miei
romanzi sono destinati a percorrere strade che li conducono fatalmente alla
catastrofe. Non ho deciso io di farli finir male, però: lo hanno in qualche modo
deciso loro. Nei racconti, invece, c’è lo zampino maligno dell’autore, che ha
scelto di collocare il veleno nella coda, non so bene se per far dispetto al
personaggio, al lettore o a se stesso.
L'articolo “Con la contemporaneità ho un rapporto complicato”. Dialogo con Piero
Meldini, lo scrittore più appartato e singolare d’Italia proviene da Pangea.
Riuscì a far ridere Thomas S. Eliot, il poeta cardinalizio, il poeta-papa, per
sempre serrato in una vaticana severità. Scrisse dell’“improvviso rimbombare
della risata di Eliot”. Scrisse di una risata che squarciava i cieli.
Nell’ufficio della Faber and Faber – in Russell Square, Londra – una fotografia
di Pio XII fronteggiava quella di Virginia Woolf, l’antica amica. La prima
grande intervista – di un ciclo mitico: “The Art of Poetry” – della “Paris
Review”, è firmata, nel 1959, da Donald Hall.
Trentenne – era nato a Hamden, Connecticut, nel settembre del 1928 –, Donald
Hall aveva il profilo del predestinato, dello straordinario genio. Licenza ad
Harvard, borsa di studio a Stanford, nel 1957 aveva curato, insieme a Robert
Pack e a Louis Simpson, una notissima antologia di New Poets of England and
America; Robert Frost – uno dei suoi lari: avevano giocato a softball insieme –
aveva accettato di firmare la compassata introduzione. Come poeta, Hall aveva
esordito, con Exile, nel 1952: il primo tomo di una bibliografia iliadica, che
finirà per accumulare una cinquantina di libri. Eliot era il suo mito.
Dodicenne, frequentava i ragazzi più grandi, che transitavano a Yale. Sentì
parlare di Eliot. “Con la paghetta che mi davano i miei, mi comprai l’edizione
delle poesie di Eliot. Costava due dollari e cinquanta centesimi. Decisi che
sarei stato un poeta per il resto della vita – decisi di dedicare almeno due ore
al giorno alla poesia, dopo la scuola. Continuo a farlo”. Un suo amico – “aveva
sedici anni, mi pareva un vegliardo” – gli aveva detto che “scrivere poesie è
come rapinare in banca. Pensai a Bonnie e Clyde. La cosa mi piacque da
impazzire”.
Figlio di buona famiglia – il padre era un uomo d’affari – Donald Hall, negli
anni, otterrà tutti i premi che possiamo immaginare. Un paio di Guggenheim
Fellowship – conquistati nel 1963 e nel 1972 – gli permisero di fare della
poesia la propria rendita. Nominato “Poeta laureato” degli Stati Uniti nel 2006
– un paio di anni prima a ricoprire l’incarico c’era Louise Glück, futuro Nobel
per la letteratura; lo sostituirà, nell’ambito ruolo, Charles Simic – quattro
anni dopo viene onorato da Barack Obama con la National Medal of Arts. Harold
Bloom lo ha inserito nel fatidico “Canone Occidentale”, insieme a Nabokov,
Raymond Carver, Cormac McCarthy, Philip Roth e Thomas Pynchon. In Italia, la sua
opera poetica è sistematicamente ignorata, chissà perché.
Ma torniamo ai primordi. Donald Hall aveva il culto della franchezza, la
capacità – rapace – di indentificare il ‘tono’ di un uomo attraverso uno sketch.
Eccelleva negli aneddoti, come se la parte – la briciola di un’esistenza –
racchiudesse in vitro il tutto. Dedicò la vita al racconto dei ‘maestri’,
all’incessante ricerca dei ‘padri’: all’assidua acquiescenza di troppi –
tradotto: l’estetica dei paraculo – preferì la sfacciataggine. Così, ad esempio,
rievocando l’antica intervista a Eliot:
> “Ci incontrammo preliminarmente a New York. Era tornato da una vacanza alle
> Bahamas, o da un posto del genere. Era abbronzato, snello, stupendo. Il che mi
> sorprese. Non lo incontravo da due o tre anni – nel frattempo, si era sposato
> con Valerie Fletcher. Che cambiamento! La prima volta che lo avevo visto, nel
> 1950, pareva un cadavere. Era pallido, curvo, rigido; tossiva
> ininterrottamente. Quell’uomo arcano, grave di antiche gentilezze, pareva
> adatto alla tomba. Fu così che lo rividi, più volte. Eppure, quel giorno era
> felice. Il secondo matrimonio lo aveva ringiovanito di vent’anni. Rideva,
> tenendo per mano la giovane moglie – era una persona totalmente diversa: più
> leggera, radiosa, disponibile”.
Eliot che ride – abbronzato – mentre impugna il braccio della seconda moglie.
Un’immagine capace di scardinare l’intero tempio di cattedratici pregiudizi
accademici. Memorabile – per stare in tema – l’aneddoto. Da Mr. Eliot – il vate
e il doge dell’editoria anglofona – si approssima un giovane poeta americano.
Chiede consiglio: vorrebbe iscriversi a Oxford, seguendo il sentiero di studi
percorso, quarant’anni prima, da Eliot. La risposta del poeta è spiazzante: “gli
disse di fornirsi di biancheria intima di lana, a causa della forte umidità che
trasuda dalle pietre di Oxford”.
Oltre all’intervista a Eliot – introduzione di Pasquale Panella, anno di grazia
2000 – l’unica altra cosa di Donald Hall tradotta in Italia è l’intervista a
Ezra Pound – introdotta da Mario Luzi, era il 1996, entrambi i tomi escono per
minimum fax, oggi veleggiano nel mercato secondario. In origine, l’intervista
esce nel 1962, sulla “Paris Review” – i poundologi la ritengono una delle
migliori mai realizzate da ‘Ez’. Hall incontra Pound a Roma, nel 1960 – “non era
ancora penetrato nel silenzio, ma il silenzio lo stava lentamente compenetrando”
– in un bar. “Il cameriere lo riconobbe, non ci aveva mai visti insieme, fece un
collegamento. Pronunciò alcune frasi in italiano. Non le capii. L’ultima parola
era ‘figlio’. Pound mi fissò, fissò il cameriere. Disse ‘Sì’”.
L’intervista a Pound va letta insieme a Fragments of Ezra Pound, formidabile
saggio biografico con cui Donald Hall chiude Old Poets. Reminiscences and
Opinions: uscito nel 1979, costantemente ristampato, è uno dei libri folgoranti
per comprendere la grande poesia americana del Novecento. Nella chiusa al lungo
testo dedicato a Pound, Hall parla di un “vecchio Odisseo senza Penelope né
Telemaco”, di un uomo che “non è salpato verso il Paradiso, ma ha scelto di
tornare nel proprio Inferno”, di “una navigazione che non ha trovato porto”, del
“vasto e nobile linguaggio di Ezra Pound”. Scrisse che “nessun uomo compie la
sua vita o i suoi Cantos, perché siamo tutti un cumulo di frammenti. Soltanto in
pochi solcano i mari”.
Nei ringraziamenti, Donald Hall cita Jane Kenyon, “che è dentro e oltre ogni mio
lavoro”. Si erano conosciuti ad Ann Arbor, Michigan, dove lui insegnava. Lei
aveva poco più di vent’anni, abitava lì, indossava una bellezza schiva e la
stola di un talento feroce, esatto, di quelli che per penuria di tempo terrestre
devono bruciare tutto. Donald Hall fu abbacinato da quella figura, al contempo
aggraziata e indocile. Si sposarono nel 1972 – vent’anni prima Donald si era
unito alla prima moglie, Kirby Thompson, da cui aveva avuto due figli. Nel ’75,
Jane e Donald mollano tutto – insegnamento, stabilità sociale, i fumi della fama
– per ritirarsi a “Eagle Pond Farm”, la casa avita degli Hall, presso Wilmot,
New Hampshire. Poco più di mille abitanti, campi, boschi, poco tempo per le
frivolezze, la dedizione dei monaci e dei pionieri. Fu un amore folle,
assertivo, confermato da una fede nella singolarità dell’altro che non può non
affascinare. Lavoravano la terra, cucinavano, cucivano poesia. Donald Hall –
poeta esuberante nel dominio della tavolozza lirica: capace di alternare la
forma ‘chiusa’ ai più arditi esperimenti modernisti – sapeva che era lei, Jane,
l’autentico genio: sapeva ascoltarla – sapevano litigare. Roso da un cancro al
colon, curato da lei, lui riuscì a venirne fuori, smagrito, smarrito, è vero, ma
coriaceo. Lei, curata da lui con la venerazione del pittore di icone, fu
stroncata dalla leucemia: morì nel 1995, dopo vent’anni di vita insieme, ai
confini di tutto il resto.
È difficile rassettare in altro modo la parola coniugale: una congiunzione che
trascende ogni altro essere, autenticamente terribile. Cosa che allea il cuore
all’astro. Donald Hall fu squarciato, la poesia pareva essersi disseccata in
Jane; la prima raccolta edita dopo la morte della Kenyon, Without, è una sorta
di mefistofelico requiem. The Painted Bed, a dire di molti, è la più bella
poesia di Donald Hall dedicata alla moglie: il letto coniugale è, al contempo,
zattera e tomba, ventre e arca. Il riferimento odisseico è implicito. Chiude
così:
“E ora giaccio sul letto dipinto
rimpicciolisco, concentrato
nel viaggio che inauguro
per dormire senza dolore
nella reggia dell’oscurità
il mio corpo accanto al tuo”.
Preferisco Weeds and Peonies – la leggete in calce all’articolo. È “la mia prima
poesia dettata dal lutto”: Donald Hall tenta di coniugare il proprio stile a
quello di Jane. Il risultato è forse una delle poesie più belle di Donald Hall
in assoluto. Non è un caso se l’edizione dei Selected Poems of Donald
Hall allestita per mano del poeta sia, in fondo, un gigantesco atto d’amore per
Jane Kenyon: è lei la vera protagonista delle poesie e del Postscriptum finale
(qui tradotto in parte). Siamo nel 2015 – Jane è morta vent’anni prima – Donald
muore nel 2018 – non pubblicherà più nulla.
Donald Hall e Jane Kenyon nel 1993
È raro scoprire delle ‘coppie’ letterarie; di solito, sono legate dal famelico
desiderio di agire sulla cultura del proprio tempo (penso al mostro bifronte
Sartre-de Beauvoir o Aragon-Triolet). L’unico legame analogo a quello tra Donald
Hall e Jane Kenyon è il rapporto Sylvia Plath/Ted Hughes. In questo caso, però,
le analogie sono per sovversione d’intenti e di stili: Sylvia & Ted raffigurano
– fino all’esasperazione, fino all’insopportabile – l’emblema della coppia col
cappio, della coppia cannibale. I due esistono per offrire materia da divorare
all’altro – inevitabile che uno soccomba. Passione che svasa in deliquio, in
lotta senza quartiere. Di entrambi, ricordiamo i calchi del rancore, la cagnara
lirica, gli omerici litigi, il sabba; un amore in forma di condor. Non credo sia
un caso che l’ultima opera di Hughes, la più nota (per frainteso), Lettere di
compleanno, sia quella meno efficace: per amare l’antica moglie, il poeta deve
farsi altro da sé, fino a modificare il proprio primigenio stile.
Diversi per genio umano e per nitore lirico, Donald Hall e Jane Kenyon si sono
fusi senza confondersi, si sono mangiati senza consumarsi – sono riusciti a
consuonare. Dando al matrimonio un’accezione bianca, in favore stellare, di
certo poco appetibile per i tabloid ma singolarmente eccezionale – per
l’eccezione che la accerchia – per la storia della letteratura; ancor più –
visto che la letteratura è cosa troppo piccola, infine futile – per il nostro
conforto.
Fu Peter A. Stitt a incaricarsi di intervistare Donald Hall per la “Paris
Review”. Era l’autunno del 1991 – “The Art of Poetry No. 43”. Trent’anni prima,
per quella stessa rivista, Donald Hall aveva intervistato Marianne Moore, la
gran dama della poesia americana, idolatrata da Pound, premio Pulitzer, adorava
Muhammad Ali e andava a vedere le partite di baseball con cappello a tricorno e
nero mantello. Anche Hall giocava a baseball: la copertina lo immortala con la
divisa dei “Pirates”, alacre in pinguèdine, nerobarbuto, savio incrocio tra un
personaggio dei Peanuts e un maestro sufi. All’intervistatore disse che da
ragazzino, dodicenne, adorava gli horror. “Qualcuno mi disse, se ti piace quella
roba, leggi Edgar Allan Poe. Lo lessi – me ne innamorai – da grande volevo
diventare Poe. La prima poesia che ho scritto, non è troppo macabra, ma imita
Poe”. La prima poesia di Donald Hall, serbata come un monito, fa così: “Hai mai
ragionato/ sulla prossimità della morte?/ Puzza in ogni angolo/ di notte
strilla/ ti insegue per tutto il giorno/ fino al momento in cui/ con voce ferma
e forte/ ripete il tuo nome./ Allora, allora, è la fine di tutto”. Il poeta
giocò con le parole. Tutto, all, suonava come il suo cognome, Hall. La fine di
Hall.
Chissà come si chiamano gli uomini che muoiono più volte. Per essere un poeta,
forse, un poeta deve morire le morti di tutti.
**
Donald Hall, Postscriptum
A dodici anni ho scritto la prima poesia – a quattordici ho deciso che avrei
scritto per tutta la vita. Non me ne pento. È strano, ma per me è una piacere
ripercorrere questa vita, fatta di così tanti altezze e così tanti abissi. Nasce
mio figlio, il mio carnefice; muore mio padre; sposo Jane Kenyon e ci
trasferiamo nel New Hampshire; Jane prospera e scriviamo poesie assieme; Jane
muore; io vivo, io invecchio.
Se leggo le mie poesie in ordine cronologico, mi accorgo del mutamento di toni e
di forme. Passo dalle strofe in metrica ai versi liberi; più tardi – per amore
del mio vecchio amore, Thomas Hardy – torno alle forme chiuse. Non tutti i poeti
cambiano stile come ho fatto io. La maggior parte si installa in uno stile. Come
accade per la maggior parte degli scultori e dei pittori: non potremmo
confondere un Cézanne con un Van Gogh.
Quando Jane e io ci siamo trasferiti qui da Ann Arbor, dove insegnavo, eravamo
felici del nuovo orizzonte. Amavamo stare da soli, in campagna, in compagnia
della poesia; trascorrevamo le estati a falciare il fieno con mio nonno.
Scrivevamo del luogo in cui stavamo vivendo. Scrivevamo l’uno dell’altra. Dopo
che Jane morì di leucemia, a quarantasette anni, nel letto dipinto della nostra
camera, per cinque anni non ho scritto che della sua morte. […]
Io e Jane lavoravamo assieme alle nostre poesie. Ignoravamo le prime bozze – è
una cattiva abitudine; occorre attendere che una poesia si solidifichi – quando
le poesie giungevano a una forma quasi definitiva, ciascuno si affidava
all’altro, il suo primo e fidato lettore. Quando ripetevo una parola –
un’abitudine acquistata da Yeats – Jane la cancellava. Quando usavo degli
ausiliari, li cassavo, così “stava piovendo” diventava “pioveva”. Jane liberava
i versi da metafore morte, sfinite dall’uso; sapeva la mia irascibilità
sull’argomento. Esultava quando ne rintracciava qualcuna, tra le mie bozze
“Perkins – Perkins ero io – ecco una metafora morta!”. Questi incontri erano
fondamentali, non sempre facili. A volte eravamo cortesi – nessuno dei due
faceva esattamente ciò che gli diceva l’altro. Ci aiutavamo moltissimo. Jane mi
ha salvato da mille errori: limava la mia connaturata esuberanza, correggeva la
sintassi. Di rado diceva che la poesia andava bene. A volte diceva “Ci sei
quasi”, altre volte “Perkins, hai lavorato bene”. Desideravo con ardore i suoi
elogi. Eppure, era essenziale essere privi di indulgenza. Ricordo una sera, era
il 1992, eravamo in soggiorno, lei leggeva il mio Museum of Clear Ideas, una
cosa del tutto diversa rispetto ai miei libri precedenti. Quando mi guardò,
piangeva. “Perkins, non mi piace!”. Mi fulminò, feci per piangere anche io, “Va
bene lo stesso, va bene lo stesso”, le dissi.
Quanto meglio scriveva, quanti più onori riceveva, tanto più mi preoccupavo di
non essere come Jane. Dopo la sua morte, non me ne preoccupai più. Scrissi per
due. La prima poesia dettata dal lutto, Weeds and Peonies, usa parola che
risuonano nell’opera di entrambi.
**
Erbacce e peonie
Sbocciano le tue peonie, bianche come squarci di neve
maculate di rosso nell’irsuto essere
nella tua cinta di prodigi, presso il portico.
Magnanimo fiore: lo porto a casa, lo metto
in una ciotola di vetro, a galleggiare – come facevi tu.
Piaceri ordinari, il contegno della memoria
soffiano come neve nel giardino disfatto
e soggiogano le margherite. Il tuo cappotto blu
svanisce verso Pond Road, diventa una tormenta
immaginaria: Gus ti è al fianco, la sua coda pinneggia,
ma tu non riappari, stanca e felice
e continui quarti di dolore appestano l’aria –
come la bestia che abbaia per tutta la notte
come il gatto che si stira, poi si accuccia
e sogna i lattiginosi capezzoli della madre.
Un procione ha decapitato il geranio nel vaso.
Fiori e radici sono uno strazio, a terra,
nel retro, dove i gigli cominciano
le loro escursioni quotidiane sul muro di pietra:
è la stagione delle rose. Cammino avanti e indietro
tra le erbacce – le peonie
fissano con esatto candore il Kearsarge:
l’hai vinto, una volta, indossavi scarponi viola.
“Torna presto e fai attenzione quando scendi”.
Le tue peonie inclinano l’enorme cranio
verso ovest. Vogliono cadere. Alcune, in effetti, cadono.
**
Gracida ghiaccio il Kearsarge; dai rami
la neve s’innerva sulla neve; nessuna fiumana, no:
si muove restando immobile. Stasera
portiamo legna a piene braccia
dalla legnaia di Glenwood e costruiamo un fuoco
per tenere lontana la notte dalla finestra.
Siediti vicino alla stufa Jane Kenyon
mentre porto il vino:
parleremo del tempo per passare il tempo
senza pretendere di poterlo mutare.
La tempesta esige di estinguersi
con macerie di betulle brillanti
in ginocchio sui sentieri coperti di brina.
Evita le previsioni meteo, che sorridono
felici per la tempesta
prendi il giorno così com’è
e il gelo non santificherà più queste vecchie vie
perché già urla la raganella, la primavera trotta
e il giorno è dato in dono proprio
a noi, i consoli di questo regno.
*
Pomeriggio in riva allo stagno
Fu luglio
e furono sedate le nere mosche primaverili
Furono pomeriggi verdi
sopra il muschio
presso l’oscurità di Eagle Pond: nei pertugi
delle forre sentiamo il richiamo delle strolaghe.
Quei giorni:
folli di fievole felicità e grida di falchi.
L’ambizione e la sua rabbia ci diede tregua
dimenticammo tutto
dimenticammo Jane Kenyon, non sapevamo chi fosse Donald Hall
sonnambuli, dardeggiavano sguardi su pagine dorate.
Un giorno
attraversammo i binari della ferrovia: tremavano
nell’obliquo sole di agosto –
chi dei due dormiva, chi leggeva
sotto la quercia, vicino allo stagno.
Poi caddero le ghiande – e quei giorni furono la nostra fine.
*
Ardore
Lei morì e urlai – il cane
era cupo e scappò via.
Ora non mi getto più
verso la parete
ricoperta di fotografie
non mi rivolgo più a lei
il mio “tu”, nelle poesie. Lei
è rientrata nel museo
di granito: JANE KENYON (1947-1995).
Ero vivo, al suo cospetto, ero
nel mio acme animale –
sentore di predatore.
La sua morte è la cosa peggiore
che mi potesse accadere –
prendermi cura di lei è stata
la mia benedizione.
Ma ora voglio chi non c’è
la donna dai volti volubili
e molteplici, che inventa metafore
e trita cipolle, che beve vino
mentre olia la pentola e canta
tra sé e sé perché cerca
di terminare una poesia.
Quando faccio l’amore, ora,
qualcosa non funziona.
L’autunno scorso una donna
mi ha detto: “Diffido del tuo ardore”.
Inverno, Florida:
odio le vecchie coppie
della mia età che passeggiano
tenendosi per mano, odio
la loro carne flaccida. Fisso
le giovani donne indignato
e lascivo: non sanno amare
né lavorare né morire.
Le ore scorrono lente, le settimane
vanno sulle rapide del nulla.
Sul greto di ogni giorno recito
i miei lamenti. Il dolore è illecito
e la lussuria, a letto, mi volta
le spalle: guarda da un’altra parte.
*
Orologio Luna
Come una zattera nella subacquea dimora
degli spettri, a mezzanotte, tra lumi e pozze
d’ombra, sotto la luce fumante della luna piena
che riempie di neve il soffitto, vado alla deriva
lungo la marea di gennaio, di stanza in stanza,
verso l’orologio a pendolo che batte come
un cuore: attendo la pausa in cui si apre lo stretto
spiraglio verso il riposo – lì le onde si bloccano
impennate, di pietra, come lunatici leoni di Micene.
*
Lupo coltello
dal diario di bordo di C.F. Hoyt, US Navy, 1826-1889
“Metà agosto, secondo anno
della mia prima spedizione polare, nevi e ghiaccio invernali
alle calcagna, Kantiuk e io
sfrecciammo con la slitta
lungo la Crispin Bay: cercavano i resti
della Spedizione Franklin. Ci abbatté la tempesta
e tornammo indietro e lottammo, cauti,
nella neve, per timore di mollare terra
avventurandoci su pianure di ghiaccio
alla deriva, abbandonati alla Provvidenza
dei mari.
Verso il tramonto
sentii ringhiare alle mie spalle.
Kantiuk disse
che due lupi, magri come le ossa
di una nave in naufragio,
ci seguivano da un’ora – ora
digrignavano i denti
preparandosi al banchetto.
Avevo poca carica per
il fucile: si approssimava il secondo
inverno, razionavamo le provviste.
Fu buio
non potemmo andare oltre
ci accampammo tra capanne
di ghiaccio – anche i lupi
si fermarono, ringhiando
appena oltre l’orizzonte
del nostro sguardo – sentivo
i loro artigli arpionare il suolo.
Kantiuk rise, disse che i lupi
erano rosi dalla fame. Alzai
il fucile, pronto a sparare al primo
sperando di spaventare l’altro.
Kantiuk mi tirò via il fucile
rideva ripetendo
che i lupi avevano fame.
Temevo che il mio vecchio
compagno di avventure fosse
folle, impazzito nella tempesta
tra cimase di ghiaccio
braccato dai lupi. Kantiuk
rovistò nello zaino, tirò fuori
due coltelli – turnok li dicono gli Inuit –
li affilò con fatica, da entrambi i lati:
avevano la violenza dei rasoi da barbiere –
si avvicinò ai cani, raspò con le lame
la bestia più giovane: zoppicava
da un paio di giorni.
Ricordo
che pensai di puntare il fucile
contro Kantiuk mentre mi passava
accanto, con i coltelli rossi
del sangue del nostro cane
che aveva mugolato e sofferto e ora
era lì, morto, mentre cugini
e zii, affamati pure loro, lo fissavano –
e conficcò i coltelli
nella neve.
Immediatamente
le vaghe grige forme dei lupi
si fecero solide, uscirono dall’oscurità
della neve, piombarono fameliche
figure simili a corvi
a leccare il sangue dell’acciaio affilato.
La lama lacerò a tal punto
la lingua di quegli esseri
che il loro sangue sgorgava
a profusione, e rimpiazzò quello
del cane e mangiarono furiosamente
più di prima, mentre Kantiuk rideva
tenendosi i fianchi
e rideva.
Risi anch’io
sollevato perché la Provvidenza
ci aveva concesso di vivere ancora
una volta – o forse perché trovavo ridicole –
così lontano dalla mia terra, il Connecticut
in condizioni così estreme – quelle
creature tanto avide
da ingozzarsi del proprio sangue.
Crollarono, esangui, prima
uno poi l’altro, nella neve:
Kantiuk recuperò
i suoi turnok
dopo aver tagliato
la carne più morbida
dalla coscia di uno dei lupi –
la mangiammo
grati, benedicendo il Creatore
che ci affama
e che ci sfama”.
Donald Hall
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