Fu, al principio, una visione erbivora. Ma quando cade la sera, alle pendici
dell’Aspromonte, è come un sigillo che si spezza, come una trappola che si serra
– tutto è prono al frainteso; non esistono ombre – acronimi della luce, semmai.
E ciò che era preda, si svolge nel predatore.
Insomma, dovrei scrivere un trattato sulla dedizione e uno sull’abbandono.
Perché ogni forma di dedizione è autentica se procede dall’abbandono – se lo
precede. Che è poi: falconeria dello stare al mondo – abituarsi a scegliere con
chi accompagnarsi dalle mani, mai dai volti – mere, metodiche maschere.
Caterina Dufì – credo sia pugliese, credo viva a Bologna, credo sia a questo
mondo dal 1998 – si fa chiamare, quando musica, Vipera. È un nome strano,
sacrificale, nel caso suo: se la si vede dal vivo – senza la triangolazione
fotografica, senza quella genia di immagini – Caterina è quella che si fa
bersaglio della Vipera, creatura che dardeggia, che eccelle nello scatto e nel
veleno. Dedizione al feroce, allora, purché si abbandoni la ferocia. Si dirà:
Caterina è l’avvelenata, il balenio del veleno o l’antidoto? “Le vipere
strisciano ovunque, senza contare quelle che si hanno nel cuore”, dice una quasi
bambina a Don Miguel, tragico co-protagonista di Anna, soror…, il più perfetto
tra i racconti di Marguerite Yourcenar. La bimbetta, calabrese, figlia di un
incantatore di serpenti, dice un’altra cosa: “Ci sono molti nomi che è meglio
non conoscere”. Poi si dice di malattie meridiane, di amori panici e platonici,
e di “brodo di vipera”. Mi è venuto in mente questo racconto ascoltando Acerbo e
divorato, il primo album di Vipera, uscito un paio di anni fa. Chi conosce i
nomi, ne sussurra alcuni, ne fa scorta – altri, li modella all’urlo.
Soprattutto: di ogni nome va aperta la corazza, il carapace che ne inghiotte il
senso. Ogni nome è un paravento: nasconde serpi – o tigri azzurre.
Acerbo e divorato è un album molto bello, che spiazza l’ecumenico andito
dell’odierna musica. La ballata trobadorica si mescola all’elettronica, qui,
Franco Battiato è commisurato ad Antonin Artaud e a Claudia Ruggeri, la
poetessa, a cui è dedicato un pezzo, il primo, Il matto. Su tutto, aleggia lo
spettro di Amelia Rosselli, la Santa Caterina della poesia italiana. “Che di
alcune cose ti basti solo il nominarle. Guardare la lenta impollinazione di
questi fiori bianchi”, bisbiglia Vipera – ma è voce marziale, che s’impiglia
all’osso frontale – in un pezzo che s’intitola Il macedone. Allo stesso tempo:
un’ingenuità che fa inermi – e uno stare al gioco del pericolo. Dal corpo della
colomba si dirama la vipera, con andatura da pianta, da vivente che mette
radice.
Vipera, cover di Acerbo e divorato, photo Alessia Rollo
Poiché è alla ricerca di un’integrità infallibile – che significa: sapere i
punti d’acqua, i punti di flessione, dove la carne è debole – Vipera non ama
parlare di Acerbo e divorato, è già oltre. Non ha tempo di sanare ferite e di
curare l’alfiere di ritorno dalla crociata: a quell’addestramento non si
ritorna, non ha senso né sede. Altra autonomia richiede il durare, il duraturo.
Così, mi fa dono d’ascolto. Tra i nuovi brani, uno si chiama Angelo nero,
attacca così: “Adesso che sta a me farti una domanda lucida, arrivare fino in
fondo a dove forse poi ti trovo di mandorla o di niente”. C’è un decoro, una
indecorosa accuratezza nel modo in cui Vipera usa le parole che va per la
rettitudine dei rettili, è vero. Attacca, stana – e dunque: quel suo bisbiglio,
una voce con le squame, che ti dichiara da un andito del bosco dove per i più è
patria di ululati, di ungulati in schiera.
A vederla, dico, Caterina, fu visione erbivora. Un erbario di occhi ampi, la
figura di una cosa offerta, d’altura. È strano, si dirà, che una creatura
simile, un essere d’aria, abbia scelto a protezione lo stigma di una bestia di
terra, che striscia. Ma qui è il miracolo: l’innocente che s’incarica di tutti i
veleni, che se ne fa carico, ne fa arco. Anima, forse, è un regno senza più
porte: essere quel che si è e abbeverarsene; anima è un altro modo di dire sete.
L’anima bella sibila, come la vipera – per i falchi, non è che la bianca
circostanza della caccia.
Perché Vipera? Chi è vipera?
Suggerivano di non attraversare la macchia mediterranea a mezzogiorno, quando il
sole bacia i rettili.
L’insidia, l’allerta che evoca il serpente, insieme a un’idea marziale che in me
suscita (un rivestimento, una muta, un alfabeto sulla loro pelle che
cambia). Un’immagine così forte è protezione.
Sono elementi che hanno sempre destato in me un grande fascino, e mi sono fatta
ospite loro. Ho scelto questo nome anche (e soprattutto) per il suo suono. Mi
piace l’innesco di quelle consonanti aguzze e il fatto di avere la possibilità
di scegliersi un nome ulteriore, diverso da quello che ho ricevuto in dono.
Perché non usi il tuo nome nei dischi: necessità di scudo, di slancio, di
disastro? Che un nome esista per annientamento?
Quando vado in scena cerco di presentarmi in uno stato vigile, sincero,
inscalfibile. La scena è anche tipografica, comunicativa. Ho anche una grande
passione per gli pseudonimi, i nomignoli, le parole inventate. Per questo ho
scelto un altro nome, che non sia il mio, che mi aiuti nella ricerca di una
postura diversa dal quotidiano.
Che cos’è “Acerbo e divorato”, cosa significa, da dove nasce?
Uno slancio, un tuffo a candela. Un sogno sui rapporti di consanguineità, sui
legami come vincoli e come ramificazioni su cui arrampicare gli occhi.
Un bambino di sei anni scala l’ulivo e arriva in cima, la sua testa sbuca dai
rami e vede, in fondo alla campagna, il mare aperto. Poi una vela. Da lì sogna
di prendere il largo. Lo prende. È un’immagine di giovinezza feroce, che vuole
consumare tutto, avere tutto tra le mani. È un sentimento che mi sorge se penso
al fiore giovane prima della catastrofe. Un’asincronia.
Durante la scrittura di Tentativo di volo, l’EP che precede Acerbo e divorato,
mi è saltata in mente l’immagine del frutto staccato, acerbo. Il gusto che
lascia in bocca – il doppio strappo che crea, nel gesto e nel sapore. Questo
titolo è in realtà il verso di un brano che non ho mai pubblicato. Ho notato che
anche isolato restava denso. Acerbo e divorato lo vedo un po’ come un disco di
formazione, in cui la ricerca sonora e stilistica hanno avuto la meglio
sull’omogeneità di un album musicale.
Così mi sentivo nella mia camera, fumando sul tavolo e guardando al cielo, così
è sorta questa immagine.
Che cos’è per te il verbo, la parola, la poesia? Che cosa la musica?
La parola è una capienza, una misura di efficacia, nitore, brillantezza. È un
evento magico, dove materiale e effimero si scambiano i ruoli, danno vita a
figure, a proposte, progetti sul mondo. Penso a fenomeni fisici, al prisma che
scocca in raggi colorati. Al miraggio, o alle visioni annebbiate da qualche
incenso. Penso a come la parola che prefigura possa agire in misura bipolare nel
negativo e nel suo opposto. Domina, lenisce. La musica e la poesia sono un
luogo di rifugio, una lente felice, che mi tiene accesa e disarmata.
Spiegami “Anime (intermezzo due)”; dimmi cos’è “l’equivalente spirituale
dell’oro”.
A.A.! Le Momo!
Anime è un brano in cui le parole sono un’esortazione, un’auto-esortazione al
restare in vita, nel suo senso più elevato e brillante, oltre alle distorsioni
degli eventi.
“Il teatro alchimistico”, è da lì che deriva “l’equivalente spirituale
dell’oro”. Antonin Artaud ne parla cercando un punto di congiunzione tra
materiale e spirituale. Poter arrivare all’oro, nella mia metafora è una vetta,
che si raggiunge oltrepassando stadi brutali, “malandando”. E “l’anima bella”
nella canzone è esortata a malandare. Così questa vetta dorata può essere
raggiunta nel corpo, attraverso il corpo. È qui che si evolve una parentela
metallica, stavolta in un travaso organico. Qui una ricerca analoga può essere
condotta, dalle funzioni vitali ad un sopra, un’esistenza di spirito che
coesiste, nutre, alimenta quella materiale. Ecco l’equivalente.
In controluce, nel disco, leggo Hegel, Claudia Ruggeri, i provenzali, i
Mirmidoni… cosa te ne fai di queste più o meno occulte citazioni? Cosa te ne fai
della ‘cultura’?
Altre, ancora camuffate, ombrate, tradotte. Ci sono dei concetti che hanno
guidato la scrittura di Acerbo e divorato, immaginandolo ancora come un disco di
formazione. L’anima bella di Hegel, per esempio, è una figura che non scocca,
non cade, non urta, non vive. Ho preso questo ritratto e indossandolo ho cercato
di scardinarlo. Stessa cosa con la poesia della Ruggeri, nell’idea che una
metafora per la crescita possa essere l’andare, il numero zero, l’inizio. In
particolare nel primo brano del disco, Il Matto, avevo il desiderio di ridare
voce a quei versi meravigliosi che aprono la raccolta inferno minore di Claudia
Ruggeri.
Mi servo di strategie labirintiche per il lavoro sui testi, in maniera analoga a
come avviene nel sampling e nell’elaborazione dei frammenti audio. È un processo
simile, che porta alla composizione di significati attraverso un sistema di
citazioni che volendo si svela, indica un disegno nuovo sul tappeto.
Cosa leggi? Dimmi: il poeta che continua a folgorarti; la poesia che hai tatuata
nella cosa detta cuore.
Tornando da casa penso a una poesia di Carlo Bordini. Lui si guarda allo
specchio ed è sicuro che i suoi non lo abbandoneranno mai, ritrovandone i
lineamenti, i modi.
Ma quella che mi buca il cranio è “Se sinistramente ti vidi apparire…”
da Documento di Amelia Rosselli.
Esiste l’anima? Che cos’è?
A dodici anni mi è capitato di percepirne la sede: è come un’intercapedine sotto
pelle, che divide la cute dal resto, dall’interno organico del corpo.
Cosa c’è dopo la morte?
La ricombinazione dei miei vecchi atomi di carbonio.
Confidi in qualcosa, ti arrocchi in qualche fede?
No, ma credo molto nel lavoro su di sé, pensato come educazione all’equilibrio.
La gratitudine che provo in alcuni momenti della vita mi porta ad uno stato
simile alla fede, acceso e sincero.
Qual è la tua bestia araldica, a protezione? Da cosa, poi, bisogna proteggersi?
Proteggersi da quasi tutto, ma il mio trucco è giocare sulla velocità. La
creatura che mi accompagna è il colibrì, certe volte – all’apice – il falco.
Esseri leggeri, esseri record in velocità.
Stai scrivendo – cosa?
Ho passato l’estate a scrivere un disco nuovo, un insieme di brani che ho in
parte suonato a lungo dal vivo, ora cerco un modo di fermarli, per farne un
album. Vorrei assumesse la flessibilità di una lamina metallica che oscilla.
Saranno sistemi elettrici, arteriosi.
Sto lavorando anche a un progetto in duo, con un’amica performer e autrice,
Eugenia Delbue. Ci chiamiamo ETEREA NOISE e uscirà presto il nostro primo album,
versante sonoro dello spettacolo che ha nome Radio Tunnel, per Zoopalco-Zpl,
etichetta bolognese di spoken music.
**
I.Teatro Cava / Ferina
Lavo i denti allo specchio con gli occhi sgranati
come per prepararmi all’ammutinamento
senza sapere da che parte sto
senza pregarti a sangue di non cadere dalla trave.
Immagino una scena scavata dentro ad un grande pezzo di tufo
dove mi hanno promesso che ti potrò assalire
la tana è profonda.
*
ho mangiato l’uva raccolta ho guardato nel centro del sole e non vedendo ho
puntato il dito
per caso
di nuovo
contro di te
II.
C’è una grande quantità di cadaveri di rana sulla strada che porta da un paese a
un altro, attraversano l’asfalto e non sempre arrivano dove devono.
Descrivere è implicito capire.
Ore che ho contato, ora che – uno ad uno – i fili d’erba le attraversano, nel
disordine che sembra sempre senza rimedio, un pensiero oltrepassa queste parole:
sono questi i momenti in cui mi sento particolarmente piccola.
*
III. Reset
aspetto finché non cala
aspetto finché non cade
aspetto finché non cedo
finché non cala
finché non cedo
fino alla fine del fiato
al tuo tempo diverso – più veloce
a un certo punto coincide:
arrivo a parlarti per davvero
umidità tocca corrente.
Attraversando la macchia mediterranea vicino al mare e dalle parti di Torre
Chianca, raccogliamo asparagi selvatici e mi racconti che le centrali
telefoniche, ai tempi tuoi, erano grandi quanto edifici. Quando non sono più
servite, sono state vendute a venticinque lire al chilo e tu hai cambiato
lavoro.
I blocchi relè, pieni di contatti, sono stati smontati e fatti passare uno a uno
lungo un nastro.
Un magnete attraeva a sé i materiali preziosi: il rame, l’ottone, l’oro.
Si tratta di cercare un modo in cui la traccia continua e scava i segni:
pensieri-correnti, che a lungo frequenti: linee su linee nel cranio che prendono
e mantengono una consistenza: una stanza da abitare in piedi e così piena da non
chiedere agli arti di tenerti.
La traccia continua, descrive un comportamento probabile: un mondo piccolo,
personale, in cui la storia arriva come un sedimento: una ricerca dell’oro, per
equivalerlo.
Camminiamo, e non ti lamenti del caldo alla testa. Attraversando una rete si
accede alle zone in cui la costa scogliosa viene segnata in superficie da
piccole faglie continue: ogni goccia che cade disegna – graduale – le aree dove
tra un po’ lo scoglio cederà.
Ci facciamo sismografi, geologi, trekker, ma ci troviamo spesso a camminare lì
sopra, i nostri scogli li conosciamo. Tu una volta sei caduto, ti sei rotto il
naso e dici che da allora respiri meglio.
Non posso scappare se l’allerta arriva insieme al crollo,
cosa corro a fare con la caviglia che mi ritrovo?
Cosa corro a fare?
Aspetto
finché non cado,
fino alla fine del fiato,
al tuo tempo diverso, più veloce.
*In copertina: Vipera in un ritratto fotografico di Clarissa Lapolla
L'articolo “Finché non cado, fino alla fine del fiato”. Dialogo con Vipera
proviene da Pangea.
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Nato a Strasburgo nel luglio del 1856, Léon Wieger avrebbe dovuto percorrere la
stessa carriera del padre, insigne professore di medicina all’università. I
genitori lo avevano adornato di un paio di altri nomi – Georges e Frédéric –; il
ragazzo, per devozione, si iscrisse a medicina. Resistette per un biennio:
folgorato da Cristo, entrò come novizio nei ranghi della Compagnia di Gesù a
ventiquattro anni. Compì l’addestramento a Drongen – Tronchiennes in francese –,
nelle Fiandre, presso l’antica abbazia benedettina passata da poco, dopo alterni
disastri, ai Gesuiti. Ordinato sacerdote nel 1887, Wieger volle impiantare il
suo estro ‘scientifico’ nel cuore dell’ordine; ad ogni modo, preferiva
avventarsi: quello stesso anno, partì per la Cina, presso la diocesi di
Xianxian, nella provincia di Hebei, non lontano da Pechino. Non fece più ritorno
in Europa. La diocesi era stata eretta da papa Pio IX una trentina di anni
prima, affidandola ai missionari gesuiti. Lì Léon Wieger espresse il suo genio:
imparò il cinese, andò a caccia di testi perduti, tradusse in francese i libri
della tradizione taoista e buddista. Morì, dopo una vita di studi più che di
apostolato, nel marzo del 1933, in Cina.
“I suoi lavori, destinati ai missionarî, sono guide talvolta indispensabili, per
gli studiosi europei, per lo studio della scrittura, della lingua, della storia,
delle credenze religiose e delle opinioni filosofiche della Cina”. Così scriveva
Giovanni Vacca (1872-1953), che con Wieger condivideva la passione per la
scienza – era stato assistente di Giuseppe Peano – e per la sinologia – occupò
la cattedra di Storia dell’Asia a Firenze poi a Roma. A Wieger dobbiamo studi
su Les pères du système taoïste (Laozi, Liezi, Zhuangzi), stampato nel 1913, e
sul Folklore chinois moderne (1909); compilò uno studio sulla Histoire politique
de la Chine (1929). A dire – come diceva Ezra Pound – della necessità di
studiare la Cina; a dimostrazione che l’uomo ‘occidentale’ – brutto & cattivo
che sia –, nella sua essenza, più che piegare, comprende, più che piagare,
studia. Non si tratta di ‘illuminati’, per altro: era il buon senso ‘pratico’ a
fare di Léon Wieger un formidabile scopritore di testi perduti. I suoi libri
vengono ancora ciclicamente ristampati in Francia.
Erano anni, tra l’altro, in cui tutto un mondo era attratto verso Est, verso
quell’attraversamento, alla ricerca di una sapienza remota, definitiva. Penso
alla traduzione dell’I-Ching a cura del missionario tedesco Richard Wilhelm
(1929), agli studi sul Tao Te Ching di Arthur Waley (1934; ma la prima
traduzione inglese è del 1868, del missionario scozzese John Chalmers), alle
esplorazioni di Giuseppe Tucci in Tibet, negli anni Trenta, agli studi
dell’orientalista statunitense Ernest Fenollosa (morto a Londra nel 1908)
ereditati da Pound. Ma anche, ai ‘tentativi’ verso la Cina di Lev Tolstoj,
studioso di buddismo e taoismo. Un intero mondo intellettuale, per oltre un
secolo, si è mosso e ha studiato nell’estremo Oriente. La Chinoiserie si riversò
nel pensiero occidentale, conferendogli ‘leggerezza’: Mario Novaro, il poeta
ligure che si era specializzato sull’opera di Giordano Bruno, realizzò nel 1922,
per Carabba, una folgorante traduzione di Zhuāngzǐ con Acque d’autunno.
In particolare, qui, m’importano i volumi che Wieger ha dedicato al Bouddhisme
chinois (1910; 1913; poi pubblicati da Les Belles Lettres nella serie “Textes de
la Chine”), cioè sulle “Vie cinesi del Budda”.
> “Il Buddhismo primitivo, quello professato dal Buddha, non fu un sistema
> originale. Emerse, per reazione e per adattamento, da sistemi religiosi
> precedenti. Il Buddha fu il primo a proporre la liberazione a ‘uomini e donne
> dediti al bene’, a tutti gli uomini di buona volontà, fossero analfabeti,
> diseredati o gente comune. Questo rese il Buddhismo tanto celebre. La
> religione vedica, il Sạ̄mkhya, lo Yoga erano rivolti a una ristretta élite. La
> folla si precipitò entro la porta spalancata della nuova legge. Pur incerto
> nella dottrina, il Buddhismo fu accolto, il primo luogo, grazie all’influenza
> del suo fondatore, un uomo nobile e buono, dal fascino singolare. Si diffuse,
> poi, perché offriva ai declassati, agli emarginati, ai paria, tramite uno
> stile di vita semplice e immediato, una speranza di salvezza. In mancanza di
> meglio, il Buddhismo soddisfò per secoli molte anime elette, stanche dei vani
> sofismi della filosofia del tempo e innumerevoli uomini, desiderosi di pace e
> giustizia”.
>
> Léon Wieger, Bouddhisme chinois, tome I : Vinaya, Monachisme et Discipline.
> Hinayana, Véhicule inférieur, 1910
In particolare, abbiamo qui tradotto due brevi testi che riguardano
l’accoglienza di un adepto laico e di un novizio nella comunità monastica. Il
rito pertiene a due scuole buddhiste in particolare: quella Sarvāstivāda e
quella legata a Dharmagupta.
Al di là delle norme previste – comprensibili anche a un bimbo, da far
risuonare, proprio oggi, sì, ora, da urlare, a credito di secoli che altrimenti
non sono che sabbia e scolo, insieme alle parole del Nazareno redatte da Luca:
“amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro
che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male… non giudicate e non
sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete
perdonati” (6, 27-38) – è il linguaggio a persuadere. Parole che implicano una
pratica, un patto – parole che esigono di essere esaudite. Cosa vuol dire? Che
bisogna fare i conti con questi concetti: milizia, obbedienza, lotta. Parole che
alimentano la guerra interiore, non quella esteriore, che implicano il
perfezionamento personale – o quanto meno, l’equilibrio, la summa della propria
inquieta quiete. Già: l’uomo, di per sé, si sa, è malvagio, è agito da un senso
– più o meno violento – di sopraffazione. Questo scintillio d’ira, tuttavia, può
volgersi al bene se condotto nei ranghi della pratica interiore. Le parole non
domano l’uomo, lo rendono autenticamente indomabile – se ne svolgiamo il frutto.
Come un seme, la parola deve spezzarsi – la parola va sguainata. Messa a pratica
di scherma, senza schemi.
Eppure, prima di tutto, occorre votarsi. Invocare il voto. Non più vociferare
ma: essere voce. Vocalizzare il voto. Governare il tempo e lo spazio (cioè: il
corpo e la mente, io e mondo, mondo e immondo) per precisare il compito. Questo
significa: parola vivente, parola sigillo, farsi ingaggiare dalla promessa.
Rileggo ancora – ancora – le parole di Scipione, il grande pittore & poeta:
> “Bisogna cristallizzarsi, costringersi nel ritmo giusto… Vivo nel voto, più
> leggero, sicuro, quasi sereno… Fare un voto in assenza è aspettare… Quando si
> scioglierà il voto si scioglierà la mia commozione”.
Era il marzo del 1932; raso al suolo dalla tubercolosi, Scipione morirà l’anno
dopo, ad Arco, il paese di Giovanni Segantini. Enrico Falqui, raccogliendo i
fogli di Scipione per Vallecchi, scrisse di “parole che echeggiano dentro di
noi”, che “ce ne resta inibito ogni commento”.
È proprio questo, alienando confini geografici e cronologici: ambire
all’inibizione, non più commentare ma incamminarsi, e far grano di questo
echeggiante dire – fino all’annunciazione dei corvi: assai azzurri benché li si
continui a dire neri.
***
Accoglienza di un adepto laico a vita
I cinque precetti
[Testo tratto da un rituale di scuola Sarvāstivāda]
Quando un laico si presenta in monastero chiedendo di fare la professione di
fede e di abbracciare i Cinque precetti, viene prima indottrinato riguardo alla
vita del Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Gli viene poi insegnato a
flettere le ginocchia, a congiungere le mani e a pentirsi di tutti gli eccessi
commessi in pensieri parole azioni. Quindi, davanti al capitolo riunito, il
maestro di cerimonia gli fa pronunciare la professione di fede:
“Da questo giorno in poi, io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo
Ordine”.
Il candidato ripete questa formula per tre volte. Quindi, dopo che il rito ha
prodotto il suo effetto, continua:
“Io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Chiedo con gioia di
abbracciare i Cinque precetti dei laici, secondo la dottrina di Buddha
Sākyamuni. Lo dico perché tutti lo sappiano”.
Il candidato ripete questa formula per tre volte, finché il maestro di cerimonia
non dice:
“Ascolta attentamente! Questo capitolo di adepti del Virtuoso, il Buddha
Sākyamuni, il Tathagata, colui che è venuto, ti annuncia, per mio tramite, i
Cinque precetti che i seguaci sono tenuti a osservare per tutta la vita. Ecco i
Cinque precetti:
1 Non uccidere alcun essere vivente. Questo comprende molte conseguenze. Sarai
in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
2 Non appropriarsi di nulla che non ti sia donato. Questo comprende molte
conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
3 Vietarsi ogni immoralità. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado
di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
4 Astenersi dal mentire. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di
sopportarle? (Il candidato risponde: Posso)
5 Non bere liquori fermentati. Tutti i liquori rientrano in questo divieto, che
siano estratti dal grano, dalla canna da zucchero o dall’uva, poco importa. Ciò
che inebria è proibito. Riuscirai a osservare questo divieto? (Il candidato
risponde: Posso)
*
Accoglienza di un novizio
I Dieci precetti
[Testo tratto da un rituale di scuola Dharmagupta]
Rivolgendosi al capitolo, il maestro di cerimonia presenta il candidato e dice:
“Venerabile capitolo, vi chiedo di poter radere il capo alla persona che vi
presento. Se il capitolo lo ritiene opportuno, che i capelli del candidato
vengano tagliati”.
Dopo aver rasato la testa al candidato, il maestro di cerimonia continua:
“Venerabile capitolo, la persona che vi presento chiede di lasciare la sua casa
e la sua famiglia e di unirsi al monaco scelto come padrino. Se il capitolo lo
ritiene opportuno, conceda al candidato la possibilità di lasciare la sua
famiglia”.
Dopo il consenso del capitolo, il maestro designato a istruire il novizio gli fa
scoprire la spalla e il braccio destro, gli chiede di togliersi le scarpe, di
piegare il ginocchio destro e di alzare le mani giunte. In questa posizione il
candidato pronuncia questa formula per tre volte:
“Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha,
lascio la mia famiglia. Riconosco X. Come mio maestro. Il Tathagata, Colui che è
venuto, il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia
venerazione”.
Ritenendo che questa formula abbia prodotto il suo effetto, il postulante,
ancora in ginocchio e con le mani giunte, dice per tre volte:
“Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha,
lascio la mia famiglia. X. Sarà mio maestro. Il Tathagata, Colui che è venuto,
il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia venerazione”.
Il maestro recita dunque al novizio, articolo per articolo, i Dieci precetti.
1 Non uccidere, mai. Questo è il primo precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
2 Non rubare, mai. Questo è il secondo precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
3 Non fornicare, mai. Questo è il terzo precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
4 Non mentire, mai. Questo è il quarto precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
5 Non bere vino, mai. Questo è il quinto precetto. Ti senti abbastanza forte da
osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
6 Non adornarsi il capo di fiori, non ungere il corpo di profumi. Questo è il
sesto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante
risponde: Lo osserverò]
7 Non cantare né ballare, mai, come fanno attori e cortigiane. Non assistere mai
a spettacoli simili, non ascoltare canzoni simili. Questo è il settimo precetto.
Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò]
8 Non sedersi mai su un seggio elevato, su un divano spazioso. Questo è l’ottavo
precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo
osserverò]
9 Non mangiare mai oltre l’orario consentito, dall’alba al tramonto. Questo è il
nono precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde:
Lo osserverò]
10 Non toccare oro o argento, mai, né gioielli preziosi. Questo è il decimo
precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo
osserverò]
Questi sono i Dieci precetti dei novizi che non dovrete violare fino alla morte
corporale. Puoi osservarli? Li osserverò.
Così si conclude la regola:
“Poiché ti sei sottomesso ai Dieci precetti, osservali con rispetto, non
violarli mai. Onora il Buddha, la Legge il suo Ordine. Rispetta il tuo maestro e
tutti coloro che ti daranno degli insegnamenti secondo la regola. Non mancare
mai alla dovuta sottomissione. Rispetta i monaci, tutti, con tutto il cuore,
sforzati di imparare da loro, per il tuo bene, a meditare, a recitare, a
studiare. Ti aiuteranno a raggiungere la felicità, a evitare la via
dell’espiazione (l’inferno, la vita famelica, la reincarnazione animale). Ti
apriranno le porte del nirvana. Se pratichi le regole dei novizi poi quelle dei
monaci, otterrai i quattro frutti del tuo stato, i quattro gradi della
liberazione (il quarto dei quali, quello di arhan, assicura il nirvana dopo la
morte)”.
L'articolo “Non uccidere alcun essere vivente. Astenersi dal mentire” proviene
da Pangea.
Un passo lieve, la strada sfiora una suola in una mattina come le altre; un uomo
lascia il suo scrittoio per abbandonarsi al ritmo dei marciapiedi, alle
preghiere dei vicoli che urlano monotonia. Dove comincia il senso delle cose?
Nella vastità dei palazzi o nella piega di un fazzoletto?
A volte è difficile gestire una trama quando, nel senso tradizionale, è di fatto
inesistente: racconto senza intreccio, svolgimento o epilogo; solo un io
narrante che decide, in un giorno qualunque, di uscire a passeggiare. Come se
fosse un diario, una confessione, una divagazione, Robert Walser crea un cammino
che non porta da nessuna parte. La meta non conta, è il vagare stesso, il farsi
condurre dall’invisibile.
> “Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del
> genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti
> di passata librai e funzionari di banca […] Eppure ciò può avvenire, e io
> credo che in realtà sia avvvenuto.”
Il protagonista – che altri non è se non un alter ego dell’autore – si fa
minuscolo per poter ingigantire il mondo. L’estetica del dettaglio diviene
cosmologia: la cravatta osservata distrattamente, la tenda che ondeggia, la voce
ironica di un banchiere; l’atomo è cosmo, il dettaglio cattedrale.
La prima versione de La passeggiata, oggi edita nella versione italiana da
Adelphi, nasce nel 1917, tra le macerie di un’Europa ferita, destinata a
confondersi tra i rumori della storia e a brillare solo per chi sa fermarsi e
ascoltare la musica di sottofondo. Mentre i cannoni dettano il ritmo del
continente, Walser scrive il suo vangelo minore, trasformando l’ordinario in
epifania.
La vita di Walser è dello stesso tessuto fragile del suo libro. Nato nel 1878 a
Bienne, ultimo di una lunga schiera di fratelli, cresce in una Svizzera
periferica, discreta come lui. Lavora come impiegato, servitore, copista;
mestieri umili che lo avvicinano più ai margini che al centro. Pubblica racconti
e romanzi, alfabeti ridotti a pulviscolo, che incantano giganti come Kafka,
Musil, Canetti, Benjamin. Ma non cerca la ribalta. Walser preferisce dissolversi
nella sua lingua minuta, che un giorno diverrà davvero microscopica, nei
famosi microgrammi, fogli fittissimi di scrittura minuscola come polline. La sua
estetica definitiva è scomparire. Non lasciare monumenti, ma tracce. Non statue,
ma impronte di passi sulla neve.
> “Ero disperato. Sì, in realtà io non avevo più nulla da dire. […] Spento,
> estinto come una vecchia stufa. […] Andò a finire che mia sorella Lisa mi
> portò nella clinica Waldau. Ancora davanti alla porta d’ingresso le chiesi se
> quello che facevamo era giusto. Il silenzio di lei mi bastò. Che altro mi
> rimaneva se non entrare?”
Dal 1933, la sua esistenza si ritira nei sanatori con una prima diagnosi di
schizofrenia, poi mai riconfermata. Da quel momento inziano ventiquattro anni di
silenzio, trascorsi in istituti psichiatrici tra Berna e Appenzell, dove scrive
sempre meno fino a smettere. Walser muore il giorno di Natale del 1956, in un
campo di neve, riverso nel bianco durante una delle ultime passeggiate. Le
fotografie ne immortalano le orme e, più avanti, il corpo, avvolto in un
mantello nero, solo, pervaso dalla voglia di scomparire nel nulla.
> “L’inizio e la fine si stringono la mano sorridendo. Apparire e scomparire
> sono una cosa sola”.
Sappiamo bene che ogni autore ha la sua unità di misura; Walser con questo
racconto compone un’anti-epopea del quotidiano. Laddove i grandi romanzi
dell’Ottocento si dilatano in trame ciclopiche, lui restringe la lente fino a
cogliere il tremolio di una foglia o il sorriso sbiadito di un libraio. Non
dominare il mondo così da farsi sorprendere da esso.
> “Molte volte l’apparenza inganna, e l’esprimere un giudizio su qualcuno è
> meglio lasciarlo a lui stesso, giacchè un uomo che ne abbia vissute di tutte
> si conosce più a fondo di chiunque altro.”
È nel granello che si apre la più grande figura retorica che
governa La passeggiata: l’iperbole dell’infinitamente piccolo, dove un ciuffo
d’erba può valere più di un impero. Walser ricama la città, la miniaturizza,
come se ogni parola fosse un punto di ago su di un tessuto di brina. Lì dove
altri autori vedono un fondale, lui scorge un oceano.
C’è inoltre una retorica della leggerezza, in Walser, che tuttavia non scivola
mai nella frivolezza, anzi. La sua è una leggerezza gravosa, come un palloncino
che porta in sé il peso della malinconia. Le sue immagini e i suoi personaggi,
cesellati e ironici, sanno trasformare la passeggiata in un pellegrinaggio
laico, un atto di fede nell’insignificante.
> “Quando mai c’è stata un’anima che senza nulla sacrificare, abbia visto
> compirsi ogni sua ardita ispirazione, ogni dolce, sublime idea di felicità?”
Il narratore, pur occupando la scena, non è mai davvero protagonista. Walser
adotta una postura di auto-svanimento; egli parla, osserva, descrive, ma sempre
con una modestia che lo dissolve. È un io che si offre e si ritira, che si
mostra per rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe occulto. Le sue frasi
sono sentieri che non portano a lui, ma al paesaggio. Sono scale che salgono non
verso l’autore, ma verso la brezza che le attraversa.
Le frasi, lunghe, sinuose, sono esse stesse passeggiate; divagano, si perdono,
deviano, ritornano. Non sono mai rette, bensì curve, avvolgenti, labirintiche. È
la periodicità serpentina di una scrittura che preferisce l’ombra alla luce
diretta, l’allusione alla dichiarazione, il sorriso ironico al tono assertivo.
> “Sono pronto a riconoscere che la nautra e la vita umana mi appaiono come
> tutta una fuga non meno seria che affascinante di accostamenti, fenomeno che
> ritengo sia da giudicare bello e fecondo.”
Non a caso, Walter Benjamin trova in Walser l’esempio della teologia del
minuscolo. L’opera di Walser sembra manifestare una politica della riduzione che
Benjamin teorizza a suo modo nelle Passagen-Werk. Entrambi sono attenti al
frammento come luogo rivelatore della storia. Per Benjamin la vetrina, la
réclame, il frammento urbano custodiscono la storia materiale; per Walser ogni
frammento custodisce una cosmologia privata.
Benjamin e Walser convergono nell’idea che l’attenzione al marginale apre una
conoscenza antigerarchica; il particolare diventa lente per leggere il generale.
Tuttavia qui la prassi diverge – Benjamin indaga il politico e lo storico in
quelle fessure; Walser li trasforma in esperienza estetica e morale, in modo
meno teorico e più lirico. Il loro incontro è fecondo perché mostra come il
frammento funzioni come vettore critico e come sublime ridotto.
L’opera di Walser, però, incontra anche altre ombre discrete. Come nei Saggi
di Montaigne, anche qui la divagazione è forma di verità, metodo. Montaigne
scivola da un aneddoto a un ricordo, costruendo un io curioso, sfaccettato;
Walser, nei suoi passi, porta la stessa pratica al limite della sparizione. Dove
il francese si moltiplica, lo svizzero si riduce.
Inoltre, dietro la leggerezza, affiora il passo come terapia, il camminare come
rimedio contro l’angoscia. Søren Kierkegaard percorreva le vie di Copenaghen per
non soccombere alla disperazione; in Walser si ritrova la stessa intuizione: il
movimento fisico come salvezza esistenziale. Solo che qui la cura non nasce da
una scelta tragica, ma dalla sospensione stessa della scelta, dal balsamo del
piccolo. Non a caso, a Herisau, luogo della morte di Walser, è stato inaugurato
un sentiero dedicato a lui (Robert Walser-Pfad).
> “Non perdete il desiderio di camminare; ho camminato fino ai miei migliori
> pensieri, e non conosco pensiero così gravoso da cui non si possa camminare
> lontano. […] Più si sta seduti, più ci si avvicina a sentirsi male. Salute e
> salvezza si possono trovare solo nel movimento… se uno continua a camminare,
> andrà tutto bene.”
>
> Søren Kierkegaard
In un’epoca che idolatra velocità, risultato e rumore, Walser è il santo patrono
del rallentare. Il suo libro è un vero e proprio manuale di invisibilità; ci
mostra come svanire per poter finalmente vedere. Ci insegna a essere distratti
con cura, a perdere tempo come forma suprema di attenzione. È un inno alla
lentezza, al vagare, al lasciarsi trasportare. Un invito a guardare i dettagli
dimenticati, a riconoscere la grandezza nel piccolo, a vivere come perdersi.
Walser compone dunque un’elegia al dettaglio, una litania dell’insignificante.
Il suo libro è fragile come il vetro, e dunque incorruttibile come la verità.
Solo chi si fa piccolo può toccare l’infinito, ma allora chi tocca veramente la
realtà, chi guarda o ciò che viene guardato?
Tommaso Filippucci
L'articolo Per un’estetica della scomparsa. Su Robert Walser, il santo patrono
dell’insignificante proviene da Pangea.
La categoria del ‘politico’ è propria della poesia italiana, dal punto di vista
simbolico – le invettive di Dante che scandiscono la Commedia, i sonetti
‘babilonesi’ di Petrarca, ad esempio – come da quello esistenziale. I poeti
italiani, quando ancora l’Italia era un’idea, un pullulare di principi e di
principati, erano assunti a corte, esercitavano mansioni di funzionari nei
nascenti comuni. Così – per dire – Iacopo da Lentini, “il Notaro”, operava
presso la corte di Federico II e Ludovico Ariosto si dimostrò abile
amministratore in Garfagnana, per conto dagli Este.
Ciò non vuol dire che il poeta sia per forza un cortigiano. È vero, il potente
ha bisogno del suo eloquio, del poema encomiastico, per lo più didascalico,
esornativo – ma è pur vero che il poeta, se tale è, va a briglia sciolta,
impenna il senno; benché possa essere animato da scaltrezza (che significa:
giustezza d’intenti; figura dell’altro mondo che si adopera nel mondano) non si
fa maculare dai lacchè. Il Malatesta aveva bisogno di un aedo, Basinio da Parma,
che giustificasse le sue gesta; pur al soldo dei Medici, Angelo Poliziano
conserva un’eminenza intellettuale che lo obbligherà all’esilio – d’altronde, la
via ‘notturna’ della poesia italiana ha il suo zenit nel Tasso messo ai ceppi a
Sant’Anna. La “Raccolta aragonese” voluta da Lorenzo de’ Medici dimostra che
la poetica, la questione della lingua, è una branca della politica.
Certo, occorre non inquinare le fonti. Il rapporto tra poesia e politica non si
regola nella poesia declamatoria, né nella poesia ‘civile’ – al contrario, il
poeta è l’incivile del linguaggio, compie atti di brigantaggio linguistico
contro la lingua imposta dal potere. Secoli di ‘impegno’ – pensiamo alla poesia
risorgimentale italica – hanno prodotto una poesia esangue benché piena di urla,
capace di infiammare gli animi, semmai, ma il cui fuoco lirico si è presto
spento. Un conto è l’ardore di Ugo Foscolo o l’audacia di Vittorio Alfieri,
altro il rovistar per peana del garibaldino Francesco Dall’Ongaro o i pur sapidi
sketch di Vincenzo Riccardi di Lantosca (esempio, Dio, Patria, Famiglia:
“Patria, ossia quei pochetti sicuretti; Famiglia,/ quel tanto della propria
moglie, che uno si piglia;/ quanto a Dio ci s’intende che noi s’intende il
prete”). Il ‘disimpegno’ esibito, disinibito, d’altro canto, ha prodotto
tonnellate di bigiotteria lirica.
Eppure, ogni potere, per fondarsi – non ho detto celebrarsi –, ha bisogno del
poeta. Anche in questo caso, da un lato ci sono i bardi del bene comune, i
boiardi dell’opportunismo verbale, dall’altra il poeta, l’inafferrabile. Ogni
nazione si fonda sul poeta perché il suo linguaggio feconda il futuro, è motivo
di avvenire, è ragione di esistenza; altresì, si affida al burocrate. L’Italia è
Giacomo Leopardi più che Goffredo Mameli, giovane martire delle lotte
risorgimentali. La Russia fonda il suo essere su Aleksandr Puškin e su Boris
Pasternak, non certo su Nikolaj Tichonov, poeta tribunizio, più volte premio
Stalin, deputato dei Soviet.
È interessante perché al contempo il poeta fonda la natura politica della
propria nazione, e nello stesso tempo – in forza della sua assolutezza, della
sua incoercibile singolarità – la disintegra. L’uno e il tutto, la costruzione e
la distruzione si coagulano senza sintesi nel corpo lirico del poeta: che è per
questo offerto.
Il Novecento è stato un secolo di profeti inascoltati, di poeti dal potente
ardore ‘politico’ messi diversamente a tacere – penso a Ezra Pound, ovviamente,
ma anche a Iosif Brodskij e a Hugh MacDiarmid, il paladino dei nazionalisti
scozzesi, l’Omero dello scots. Soltanto in William Butler Yeats, magicamente,
misteriosamente, la figura del poeta coincide con quella del ‘padre della
patria’: l’Irlanda esiste perché un poeta mitografo e allampanato ha detto di
una small cabin sulle sponde del lago Innisfree. Per molto tempo, più di altri
poeti, Robert Frost ha incarnato l’identità autentica degli Stati Uniti
d’America: è ancora così? Attorno a quale poeta vivente, oggi, riconosciamo la
nostra identità? Quando una nazione perde memoria dei suoi poeti, perde se
stessa. Ad oggi, i poeti cantano di rose e di passeggere indignazioni, sono i
macchinisti di versi concettosi, sono troppo intelligenti, fanno del proprio
ombelico la sola patria.
Ricevendo il Nobel per la letteratura, era il 1959, Salvatore Quasimodo volle
affrontare la questione de “Il poeta e il politico”. Indipendentemente dalla
poesia di Quasimodo – espressa tra Saffo e il Pci – quel discorso, a tratti
enigmatico, ha ragione di fascino. Quasimodo distingue il poeta – che agisce il
‘politico’ alla greca, come una categoria della ribellione, ovvero
dell’indomabile – dal letterato, che è poi il retore, il portaborse del potere.
> “Il poeta è solo: il muro di odio si alza intorno a lui con le pietre lanciate
> dalle compagnie di ventura letterarie. Da questo muro il poeta considera il
> mondo, e senza andare per le piazze come gli aedi o nel mondo ‘mondano’ come i
> letterati, proprio da quella torre d’avorio, cosi cara ai seviziatori
> dell’anima romantica, arriva in mezzo al popolo, non solo nei desideri del suo
> sentimento, ma anche nei suoi gelosi pensieri politici”.
È nell’esplicita distanza – quando non: lotta – con il potere che si esprime la
‘poetica della politica’ del poeta. Di questa libertà – che è: liberarsi dal
giogo della lingua del potere, imponendo un verbo nuovo, nuovamente innocente –
il poeta è il terribile portavoce.
> “Il poeta è un irregolare e non penetra nella scorza della falsa civiltà
> letteraria piena di torri come al tempo dei Comuni; sembra distruggere le sue
> forme stesse e invece le continua; dalla lirica passa all’epica per cominciare
> a parlare del mondo e di ciò che nel mondo si tormenta attraverso l’uomo
> numero e sentimento. Il poeta comincia allora a diventare un pericolo. Il
> politico giudica con diffidenza la libertà della cultura e per mezzo della
> critica conformista tenta di rendere immobile lo stesso concetto di poesia,
> considerando il fatto creativo al di fuori del tempo e inoperante; come se il
> poeta, invece di un uomo, fosse un’astrazione… Nel mondo contemporaneo il
> politico assume vari aspetti, ma non sarà mai possibile un accordo col poeta,
> perché uno si occupa dell’ordine interno dell’uomo e l’altro dell’ordinamento
> dell’uomo… Oggi il poeta è libero? È libero, secondo le società che lo
> esprimono, o il continuatore di illuminazioni pseudo-esistenziali, il
> decoratore dei placidi sentimenti umani, o chi non scende profondamente nella
> dialettica del proprio tempo per timore politico o per inerzia”.
Cinquant’anni prima, in un saggio su Il poeta e il nostro tempo, Hugo von
Hofmannsthal scriveva che misteriosamente il poeta, l’inerme, l’assoluto
sconosciuto, il paria ai più, “è il luogo in cui le forze del tempo tendono ad
equilibrarsi”; scrive che “è come se i poeti lavorassero all’unisono alla
costruzione di una piramide, all’immensa dimora di un re defunto o di un dio non
nato”, capaci di “creare l’accordo accettabile di tutto quanto si manifesta”.
Ecco che il politico sfocia quasi nel teologico. Il Regno di questo mondo; “Il
mio regno non è di questo mondo”.
Poi, certo, il vero compito politico del poeta è creare uno spazio di grazia e
di bellezza quando tutto intorno è orrore, è morte. Confidare nella bellezza
nonostante l’orrore e la morte. Quando la morte – che non ha l’ultima parola –
avrà smesso di urlare, esisterà, per i sopravvissuti e i futuri, uno spazio di
grazia e di bellezza. Un fuoco. Non per forza gradevole né confortevole, ma
buono.
Per il resto, è prova dell’integralismo lirico del poeta la capacità di
imprecare in versi. Quando è troppo, bisogna sobillare le Sibille del
linguaggio, tramutare il verbo in Erinni. Al di là di isolati, alati esempi –
“Muore ignominiosamente la repubblica”, Mario Luzi – la poesia più violenta, in
questo senso, priva di orpelli poetici, quasi integralmente politica,
integerrima, è Show, di Giorgio Caproni, che apre la sezione “Anarchiche o fuori
tema” del libro postumo Res amissa (1991); libro in cui – scrive Giorgio Agamben
– “la disappropriata maniera di Caproni”, “ha raggiunto ormai una regione sempre
al di là del proprio e dell’improprio, della salvezza e della rovina”. È da
questo non chiedere approvazione, da questo inappropriato, da questa rovina in
cui tutto è salvo – cioè infinitamente finito – che si riparte – anzi, si
vagabonda, dacché è lo sciacallo e la libellula, ora, l’icona del poeta.
(Che Show stia anche per sciò è perfino ovvio marcarlo: sciò, sciò, fuori tutti,
galletti del potere).
**
Show
Guardateli bene in faccia.
Guardateli.
Alla televisione,
magari, in luogo
di guardar la partita.
Son loro, i “governanti”.
Le nostre “guide”.
I “tutori”
– eletti – della nostra vita.
Guardateli.
Ripugnanti.
Sordidi fautori
dell’“ordine”, il limo
del loro animo tinge
di pus la sicumera
dei lineamenti.
Sono
(ben messi!) i nostri
illibati Ministri.
Sono i Senatori.
I sinistri
– i provvidi! – Sindacalisti.
“Lottano” per il bene
del Paese.
Contro i Terroristi
e la Mafia.
Loro,
che dentro son più tristi
dei più tristi eversori.
Arrampichini.
Arrivisti.
In nome del Popolo (Avanti!
Sempre Avanti!), in perfetta
Unità arraffano
capitali – si fabbricano
ville.
Investono
all’estero, mentre “auspicano”
(Dio, quanto “auspicano”)
pace e giustizia.
Loro,
i veri seviziatori
della Giustizia in nome
(sempre, sempre in nome!)
del Dollaro e dell’Oro.
Guardateli, i grandi attori:
i guitti.
Degni
– tutti – dei loro elettori.
Proteggono i Valori
(in Borsa!) e le Istituzioni…
Ma cosa si nasconde
dietro le invereconde
Maschere?
Il Male
che dicono di combattere?…
Toglieteceli davanti.
Per sempre.
Tutti quanti.
Giorgio Caproni
Da G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1999
*In copertina e nel testo: opere di David Lynch
L'articolo “Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti”. Il poeta e il
politico proviene da Pangea.
È stato Mario Guaraldi, l’editore rivoluzionario, ad incarnare le fotografie di
Marco Pesaresi nelle parole di Pier Vittorio Tondelli. L’edizione di Rimini, “Il
romanzo vent’anni dopo”, a cura di Fulvio Panzeri, stampata da Guaraldi
nell’estate del 2005, alterna le fotografie di Davide Minghini e i ritratti
tondelliani di Fulvia Farassino, alle immagini, prepotentemente spudorate, di
Pesaresi. Un colpo di genio paradossale: Tondelli nasce nove anni prima di
Pesaresi e muore quando il fotografo riminese ha appena fatto il suo ingresso in
Contrasto. È una specie di passaggio del testimone tra generazioni affini e
inavvicinabili: Tondelli muore a metà dicembre del ’91, tre settimane dopo
Freddie Mercury. La sua morte segna la fine di un’era. La morte di Pesaresi,
invece, sempre in dicembre, dieci anni dopo Tondelli, inaugura una nuova era,
brutale: l’Undici settembre del 2001, il World Trade Center di New York viene
sbriciolato da due Boeing 767; alla guida, un manipolo di affiliati ad Al Qaida.
La Storia fa una brusca virata, indossa il sudario.
Da Pesaresi a Tondelli: una specie di inseguimento.
Non c’è sconcezza negli scatti di Pesaresi, ma l’arcana sensazione di vivere
nell’ultimo fuoco, un passo prima della cenere. Si passa, cioè, dal gioco al
rito: i corpi fotografati da Pesaresi sono corpi donati, sono corpi perdonati,
corpi sacramentali. Un rogo di corpi. A volte, ci si spoglia come si indossa un
saio – o uno chador. Al contrario, negli anni Ottanta eletti a idolo da
Tondelli, i corpi si rovesciano come acqua: uno scroscio di corpi di cui non
resta altro che il vuoto, l’eco, il coccio del coccige. Ci si sveste per
rivestire un vuoto, il nulla.
I corpi di Pesaresi, i corpi degli anni Novanta, sono corpi noir, sono corpi da
notte oscura, corpi che ci falciano come un’accetta. Poco dopo, la mania
turistica si sposterà dalle discoteche – Mecca bacchica, il tempio dove si
consuma l’estasi, l’uscita da sé, svaginando le Baccanti in ‘cubiste’ – alle
sagre, il culto di un amarcord da educande. Anche Tondelli si era accorto, poco
prima della dipartita, di questa mutazione dell’essere – la Storia non è
rettilinea: è un rettile. Nel 1990, per la mostra “Ricordando Fascinosa
Riccione”, PVT scrive un saggio esemplare, Cabine! Cabine!, che raccoglie le
“Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica”. In sostanza,
pressoché dal nulla, Tondelli fonda un immaginario della riviera, costruisce una
poetica della Romagna. In mezzo, ci sono Mussolini e Pasolini, Filippo De Pisis
e Raffaello Baldini, Giorgio Bassani e Sibilla Aleramo, ma anche Alberto
Arbasino, Mario Luzi, Dante Arfelli, Valerio Zurlini. Su tutto aleggia un senso
di disincantato incanto – uno schianto.
Ma torniamo a Rimini. Tondelli giurava di aver scritto “il mio libro più
ambizioso”; nelle pubblicità – plateali – Rimini era presentato come “Il romanzo
dell’estate”: ne parlarono tutti, non per forza bene. A Enrico Regazzoni, su
“Linus” (luglio, 1985), Tondelli disse di essersi ispirato a Raymond Chandler e
a Francis Scott Fitzgerald, a Vito Bruno (“Reporter”, 4 giugno 1985) di aver
“fatto solo del rock and roll”, a Michele Trecca (sulla “Gazzetta del
Mezzogiorno”, 28 giugno 1985) che “Esiste un establishment letterario (quello
dei premi, delle pagine culturali dei giornali, dei professori, degli
accademici) che, accecato dai propri fasti, da una cultura ottocentesca, non
riesce a vedere il nuovo, non è assolutamente in grado di vedere il nuovo”.
Il nuovo professato da Tondelli spaventò i vecchi mestieranti del verbo. Il 23
giugno del 1985 Pier Vittorio Tondelli avrebbe dovuto partecipare a “Domenica
in”, portando Rimini in tivù: l’incontro saltò all’ultimo minuto. I giornali
diguazzarono nel torbido (così la “Gazzetta di Reggio”: Tondelli censurato a
“Domenica in”. Sesso e politica fan paura alla Rai; e poi: Pippo Baudo censura
Tondelli); Tondelli denunciò l’infamia: “Nonostante uno degli autori di
«Domenica in» avesse accettato, dopo la solita trattativa, di ammettere il
romanzo alla presenza del faraone [Pippo Baudo; N.d.R.], nonostante un
capostruttura della Rete avesse per tre volte ribadito la presentazione in base
agli intrinseci valori del romanzo, all’ultimo momento pare che sia intervenuto
il direttore della rete, o chi per lui, per bloccare la presentazione. Motivo
ufficiale: come non presentiamo film vietati ai minori, così facciamo con i
romanzi. Più probabilmente, si dice, la storia della misteriosa morte del
senatore cattolico (la parola democristiano non viene mai fatta nel libro) e
alcune sequenze erotiche hanno turbato i dirigenti televisivi così come
nell’80 Altri libertini turbò l’allora magistrato de L’Aquila Bartolomei, fino a
spingerlo al sequestro”.
Qualche giorno dopo, l’ebbrezza toccò ineguagliate guglie. Il 5 luglio del
1985 Rimini viene presentato al Grand Hotel; l’atmosfera di ispirato edonismo è
ricordata con queste parole da Roberto ‘Dago’ D’Agostino, il mattatore della
festa: “Tondelli aveva magnetizzato i gay d’Italia… A un certo punto, tutto
pronto per la presentazione, invitati già accalcati, fui incaricato di andare a
chiamare Tondelli in camera. La porta era semi aperta e quello che vidi –
gang-bang di corpi maschili rovesciati sul letto – ha sempre rappresentato per
me un quadro-vivente di quegli anni, terribili e bellissimi. Un ‘sogno bagnato’
che Tondelli aveva svelato con i suoi libri”. Un paio di anni prima, il Grand
Hotel era stata la cornice della ‘prima’ di E la nave va, il più malinconico dei
film di Fellini: in prima fila, insieme al regista, lo Zeus di Cinecittà, c’era
Umberto Eco; Mario Guaraldi – ancora lui – dirigeva le danze.
Nella biblioteca di Marco Pesaresi – angusta, augustea – non ricordo libri di
Tondelli: ricordo Hermann Hesse, Dino Campana, Byron e Bakunin. La poesia come
anarchia, il viaggio come brigantaggio dell’io. Pesaresi aveva una Transiberiana
nel cuore; aveva cominciato a Londra, intuendo nel sottosuolo del tube il sole
dell’India, il volto di Indra. Per un’idea di “colonna sonora” di Rimini,
Tondelli scelse Leonard Cohen e i Duran Duran, I Wanna Be Loved di Elvis
Costello e Time After Time di Cyndi Lauper, Prince, gli Smiths e i Talkin Heads.
Probabilmente Pesaresi ascoltava gli stessi pezzi.
Il punto, tuttavia, è altro. Provo a dirlo così: la differenza tra nudità e
spoliazione. C’è chi si denuda mostrando una maschera; chi, nudo, ha più abiti
di quando è vestito. La nudità che non prevede spoliazione – cioè, un lento
disfarsi dell’io, la resa all’inverno della carne – è una menzogna. L’attuale
spaccio dei corpi – da YouPorn a OnlyFans – ha questa dimensione: la nudità non
svela, non rivela e non svilisce. È avvilente. È una nudità-maschera. Una nudità
travestita. Una nudità in vesti. Non c’è vestizione né spoliazione in quella
nudità.
Eppure: la carne è effimera, passa, ma il corpo è tutto. Corpo: crisalide dello
spirito.
Pesaresi fotografa la spoliazione. L’attimo in cui il corpo nudo, spoglio di
tutto, finalmente disinibito, finalmente fuori di sé, si fa pasto a chi lo
guarda. È un corpo a precipizio. Un corpo eucaristico, un corpo cibo – se vuoi,
puoi masticarlo. Tutto, ormai, è spezzato. Non osate ricomporre, ora, ciò che è
stato offerto per sempre.
Questo pensiero è dedicato a Mario Guaraldi, quasi un padre
*A Rimini, presso i Palazzi dell’Arte (Piazza Cavour), è in atto fino all’8
dicembre 2025 la mostra di Marco Pesaresi “Rimini proibita”. A cura di Jana
Liskova e Mario Beltrambini, la mostra mette in relazione gli scatti di Pesaresi
– di cui nel testo si pubblicano alcuni esemplari – al romanzo di Pier Vittorio
Tondelli, “Rimini” (1985). Il catalogo della mostra è edito da NFC edizioni.
L'articolo Pier Vittorio Tondelli e Marco Pesaresi. Tra nudità e spoliazione
proviene da Pangea.
Nel 1982, per la Faber del loro antico mentore, T.S. Eliot, Ted Hughes e Seamus
Heaney – che senza troppa imprecisione possiamo definire i più autorevoli poeti
in lingua inglese del secondo Novecento – curarono un’antologia folle fin dal
titolo. The Rattle Bag ha a che fare, nello stesso tempo, con una sacca piena di
cose che tintinnano, con un pasticcio – anzi, un pasticciaccio – e con i
serpenti a sonagli. C’è qualcosa, al contempo, cioè, di infantile e di
pericoloso, di carnevalesco e di carnale in quel titolo. Credo che l’antologia
venga venduta ancora oggi – l’ultima edizione risale a un ventennio fa.
Nella brevissima nota introduttiva, gli autori dissero di scelte arbitrarie, di
una estetica del capriccio, di poesie “dal fascino singolare che continuano a
trasmettere il proprio segnale vagabondando in questo vasto e volubile mondo”.
Bisogna sempre dubitare dei poeti: anche quando sorridono, celano coltelli. Per
descrivere un’antologia creata “per accumulo”, quasi per sbaglio e per caso, i
poeti usano la parola cairn. Un cumulo di pietre. Un tumulo. Un segnale d’alta
via di pietre impilate una sull’altra. Un idolo, insomma. Con la pietra si può
lapidare e si può edificare, si distrugge e si costruisce. Chi conosce la poesia
di Heaney e di Hughes, ancorata com’è alla vita a mani nude, al nomadismo
verbale, ai campi e ai boschi, ai primordi, a un andare a rapina, sa il peso
della parola cairn.
Due anni dopo l’uscita di The Rattle Bag, Ted Hughes sarebbe stato eletto “Poet
Laureate” del regno. Molti anni dopo, nel 2003, Seamus Heaney ritornò a
quell’impresa in un saggio che s’intitola Bags of enlightenment. Ritornò,
intendo, sul concetto di capriccio e di arbitrio: “Un’arbitraria ricchezza più
che lavoro istituzionale: questo cercavamo… Il nostro criterio era divertire
prima che educare”. Di qui le scelte – su cui arrivo tra un attimo – dettate dal
desiderio di stupire, orientate all’eccelso, sì, ma anche all’eccentrico. L’idea
era quella di creare una ‘scatola delle meraviglie’ per gli amanti della poesia
e per gli studenti.
> “Se alla fine di un anno scolastico anche soltanto una di queste poesie
> resterà impressa in uno studente, sarà stato un traguardo notevole. Una poesia
> del genere può essere percepita come un possesso prenatale, una garanzia di
> interiorità e di legame con le origini. Può diventare la cruna verbale
> attraverso cui un ragazzo può passare più e più volte, fino a quando non
> l’avrà imparata a memoria, fino a quando non diventerà un sentiero tra il
> cuore e la mente, un sentiero in cui quell’individuo potrà ripetutamente
> entrare, verso il regno della rettitudine e della gentilezza”.
È davvero un maestro, Seamus Heaney. Credeva nella letteratura – secondo gli
insegnamenti di Matthew Arnold – “come mezzo per la diffusione generale della
generosità e della luce”.
In sostanza, The Rattle Bag raduna le poesie preferite da Heaney e da Hughes –
non è un caso che l’ultima poesia della raccolta, You’re, sia di Sylvia Plath.
Tra gli autori antologizzati – tolti alcuni inni dei primordi e certe
filastrocche popolari – spiccano Auden e William Blake, Shakespeare e Emily
Dickinson, Lewis Carroll, Kavafis, Robert Frost. Appaiono, però, soprattutto,
autori per lo più ignoti (almeno a me) come Padraic Colum e Allen Curnow,
Kenneth Fearing, Dafydd Ap Gwilym e Hyam Plutzik. Ancora oggi l’antologia di
Heaney-Hughes è giudicata eclectic, instructive and inspiring.
Uno spazio consistente in The Rattle Bag è dedicato all’‘onda’ dei poeti
dell’Est Europa; tra costoro, uno dei più rappresentati è il poeta ceco Mirolav
Holub, con cinque testi. Nel 1988, con la consueta, violenta enfasi, Ted Hughes
dichiarò che Holub “è tra la mezza dozzina di poeti più importanti al mondo”.
Non l’avevo mai sentito prima di pochi giorni fa. Nato a Plzeň nel settembre del
1923, tradotto in inglese fin dagli anni Sessanta, Miroslav Holub, in realtà,
fece carriera come immunologo. Da qui, l’ispirata nitidezza dei versi, l’ironia
aspra, il fiabesco inchiodato a un ritmo geometrico, il lirismo che si fa
apodittico, ‘scientifico’. Anche Mirslav Holub – secondo i canoni degli
scrittori ‘a Est’ – recinta l’assurdo in una scrittura da stenografo. Fu
tradotto presto e con straordinario successo nel mondo inglese: nel 1967 la
Penguin editò un’antologia di Selected Poems, introdotta da Alfred Alvarez; fu
il primo di molti libri. La Faber radunò i suoi saggi – che oscillano tra
argomenti letterari a temi scientifici – come The Dimension of the Present
Moment (1990); Poems Before & After è uscito nel 2016. In Italia, Holub non ha
attecchito, marginalizzato in uscite sporadiche, di poco peso. Il poeta è morto
a Praga nell’estate del 1998.
Holub fa parte della lunga lista di poeti-scienziati che confortano il canone
della poesia europea. Più di altri – e con una certa dose di spavalderia – ha
ragionato su questi estremi della sua vita, spesso inconciliabili. “Negli
ambienti scientifici cerco di nascondere il fatto che scrivo versi. Gli
scienziati tendono a diffidare dei poeti: ritengono che siano delle persone con
uno scarso senso di responsabilità”. Allo stesso tempo, i poeti diffidavano di
Holub perché era uno scienziato… A Heaney le poesie di Holub piacevano perché
“mettono a nudo le cose, ci mostrano non tanto il cranio sotto la pelle, ma il
cervello che sta sotto il cranio”.
Nel 1967, a Spoleto, Holub incontrò Ezra Pound. Scrisse – lo sketch è tradotto
in calce all’articolo – di una figura statuaria, dei suoi occhi azzurri, di una
mano “gelida, di pietra”. Cesare Cavalleri incontrò Pound a Venezia, nel 1971.
Disse anche lui degli occhi azzurri – “due laghi d’azzurro” – e della “mano
gelata”; disse che Pound era “assorto, rannicchiato, vivo” (in: C.
Cavalleri, “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria. Una
conversazione con Jacopo Guerriero, ELS La Scuola, 2018). In un articolo uscito
sul “Corriere della Sera” l’11 aprile di quello stesso anno (ora in: E. Pound, È
inutile che io parli. Interviste e incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021)
anche Indro Montanelli scrisse degli occhi di Pound, “non ne avevo mai visti di
eguali, una cascata di luce blu”, della sua figura, “marmorea”, di una “bellezza
al di fuori di qualsiasi corrente archetipo”. In questa ricorrenza di ciò che
pietrificato pietrifica c’è il genio di Pound, ultimo della stirpe dei giganti.
Quando l’Unione degli scrittori della Cecoslovacchia propose a Holub uno
stipendio equivalente a quello che aveva come ricercatore scientifico per darsi
alla letteratura, il poeta si negò. “Amo la scienza. Se avessi tutto il tempo
del mondo per scrivere versi, non scriverei più nulla”. Scriveva nei ritagli, da
apolide alla poesia, in affanno, affascinato dal tutto.
***
Discorso sull’angelo canide
Lacrime di luce sull’asfalto: mentono.
Forse pensava a una cagna
o ricordava un osso –
coltelli negli occhi di ruote malvage
che afferrano spaccano schiacciano –
ha la mascella rotta
striscia, guaisce – no!
cade, mugola, geme
resta immobile.
La gente, intorno,
lo fissa:
un angelo cane
peloso e nero
con ali madide di fango
e quell’infinito dolore
che si moltiplica dalla sua aureola
sopra le pozzanghere.
L’oscurità
sfrega le mani
sul corpo e risuona
in colonnati verso il cielo.
Lo dragano via.
È solo una pezza
uno straccio per il cimitero
e nulla più.
L’angelo
delle tegole
annusa i camini
e rosicchia le ossa delle stelle cadenti.
*
Breve riflessione sull’identità
Giorno dopo giorno nulla è uguale a se stesso.
Né i fiumi né le capre né i profeti.
Se l’oggi è uguale a domani
non tutte le cose restano
uguali. Perché quando una cosa
cambia, cambiano anche le altre.
Le cose non sono sole: dipendono
in modo claustrale da altre cose,
per lo meno in parte. Dunque,
sai, non sai mai…
Anche i profeti appartengono a questo
sistema di relazioni fisse. Come le parole. Come
le capre e il latte. Come il sangue.
Per questo, è piuttosto difficile
riconoscere le proprie parole, il proprio
sangue, il proprio profeta e la propria capra.
Molto difficile. Ma ancora e ancora
ci tentiamo, in modo da non ricavare capre
dai profeti o sangue dal latte.
Pretendiamo che le cose abbiano un’identità
mentre ci trasformiamo nel nostro doppio
e marciamo lentamente nell’oscuro abisso del tempo.
*
Il giardino dei vecchi
È scaltra l’edera, cresce
ovunque e dell’erba
incolta nessuno fa più
caso. Sotto gli alberi
l’invasione di frutti gotici.
Crollò l’oscurità, mitologica
e senza denti.
Ma Minotauro l’ha sconfitta
grazie a un buco nella recinzione.
Da qualche parte, Icari
impigliati nella ragnatela.
Durante una luminosa mattina
i cespugli rivelarono
lo spudorato, grigio
osso frontale dei fatti.
Boccheggiava, senza più parole.
*
Breve riflessione sull’accuratezza
I pesci
sanno sempre con precisione dove e quando muoversi,
all’unisono
gli uccelli hanno un innato senso del tempo e
dell’orientamento.
L’umanità
è priva di tali istinti, per questo ricorre alla ricerca
scientifica. La sua natura è illustrata dal seguente esempio.
Un soldato
doveva far esplodere il cannone ogni giorno alle sei di sera.
Era un soldato, obbediva. La sua accuratezza fu spiegata così:
L’orologio
della vetrina, in città: mi baso su quello. Ogni giorno alle
diciassette
e quarantacinque, monto sulla collina dove è pronto il
cannone.
Alle diciassette e cinquantanove mi avvicino al cannone, alle
diciotto in punto sparo.
Ora era chiara
la ragione di quella accuratezza. Non restava
che controllare il cronometro. Fu dunque interrogato
l’orologiaio.
L’orologiaio
disse che quello era uno degli strumenti più precisi in
assoluto.
Immagini, ormai da molti anni un cannone spara ogni giorno
alle sei in punto.
Ogni giorno, nello stesso istante, il mio orologio segna
esattamente le sei.
Gli orologi becchettano, i cannoni esplodono.
*
Incontro con Ezra Pound
Non so se siano stati creati prima i poeti o i festival.
Tuttavia, è stato un festival a farmi incontrare Ezra Pound.
Era seduto su una sedia, in una piazza di Spoleto; mi spinsero verso di lui. Gli
porsi la mano, la afferrò, fissandomi con quegli occhi azzurri che varcarono la
testa, perdendosi, lontani. Non si mosse. Non lasciò la mano, dimenticò gli
occhi. Fu una lunga stretta, come quella di una statua. La sua mano era gelida,
di pietra. Impossibile liberarsi.
Dissi qualcosa. I passeri mi interruppero. Un ragno rampicava sul muro, tastava
la pietra con le zampe anteriori. Un ragno che capiva il linguaggio della
pietra.
Un treno merci si conficcò nel tunnel del mio cranio. Un controllore in blusa
blu mi salutava, cupo, dall’ultimo vagone.
È interessante il tempo che ci vuole perché un treno merci come quello passi.
Poi ci separarono.
Anche la mia mano era fredda: aveva toccato la Via Lattea.
Dunque i treni merci esistono. Un ragno sulla pietra esiste. Esiste la mano e la
mano in sé. Esiste anche un non incontro ed esiste un incontro con una non
persona. Esiste un tunnel – un intero reticolo di tunnel, vuoti e oscuri, che
mettono in contatto la materia vivente che si chiama poesia ai festival.
Potrei avere incontrato Ezra Pound – eppure, in quell’istante non esistevo.
*
Il giudizio finale
Una lavatrice automatica
è accesa – lava
strizza, asciuga.
Come un angelo che mastica
chewing gum. Come il granito
che perfora il quarzo.
Qualcuno maledice il mare
ma non lo senti.
Piume d’oca vagano in cucina.
Le tue piccole dita scompaiono
sotto la porta.
Mosche: piccole Icaro che
tappano le falle del labirinto.
Hai un bell’aspetto, figlio mio
dici mentre ti coglie l’infarto.
La lavatrice lavora.
Vi entrano banchetti luculliani
c’è anche la granola.
E i riflessi. Cadono lettere
bene ordinate. E balene
che nuotano e denti innumerevoli.
Entrano i ricordi, escono
i codici della strada.
Bianco. La lavatrice lavora.
Chi pagherà la banda?
Dov’è il ballo dei pompieri?
Dove suonerà il flauto stretto
dal gelo? Come superare
l’ombra di un libro?
Bianco di fuliggine dilavata.
La lavatrice gira
e tremano le mani di Discobolo.
L’eternità è misurata
con precisione al secondo.
Sì.
In un panorama di giochi
bisogna giocare fino alla fine.
In un panorama di fango
la via d’uscita è
la lavatrice.
Quando è il caos
le vie a senso unico
sono un sollievo.
Quando sei in via d’estinzione
la precisione vale più di un dio.
In questo rumore
bianco esco da una porta
che mi porta
in questa stessa stanza.
*
Una favola
Si costruì una casa
le fondamenta
di pietra
i muri
il tetto sopra la testa
il camino e il fumo
la vista dalla finestra.
Si fece un giardino
il recinto
il timo
il lombrico
la rugiada, a sera.
Si ritagliò un pezzo di cielo.
E avvolse il giardino nel cielo
e la casa nel giardino
e il tutto in un fazzoletto
poi se ne andò
solitario come una volpe artica
varcando il freddo
e quella infinita
pioggia
per il mondo.
Miroslav Holub
L'articolo Rosicchiando le ossa delle stelle cadenti. Sulla poesia di Miroslav
Holub proviene da Pangea.
In principio, forse, era il verbo. Ma non appena il verbo si fece maturo e
seminò le radici del discorso, ogni libro divenne una stagione da coltivare e
ogni frase una serra da proteggere. La cifra di questi tre libri, incastonati in
un blu marittimo, è l’eremitaggio: il panorama come il discorso che getta le
basi di una colonizzazione futura, e le frasi che recano l’unica traccia
affidabile del dettato.
La pantera delle nevi. Pare che Tesson sia salito agli onori della cronaca
francese per una forma culminante di mimetismo: se fosse possibile sintetizzare
l’esperienza di un uomo in poche stringhe, si dovrebbe dire: la soluzione finale
della ragione è la mimetizzazione, l’adattamento a quanto soggioga per eccesso
di eloquenza: leggi, la Siberia (tappa di un altro suo memorabile libro, Nelle
foreste siberiane), il Tibet, la Mongolia. In breve, il sogno di un uomo di
essere invisibile, e di come prese la strada dell’Asia per scomparire; lui, un
parigino incallito dalle critiche e sterilizzato dall’isteria della polemica che
si mette sulle tracce di un fotografo che insegue animali leggendari, un uomo il
cui sogno è “essere completamente invisibile”. Riflette Tesson:
> “la maggior parte dei miei simili – a cominciare da me – voleva il contrario:
> farsi vedere. Non avevamo nessuna speranza di avvicinarci a un animale”.
Fin dall’inizio, la piccola troupe si mette sulle tracce della pantera. Ma la
natura ama nascondersi, e la ricerca si trasforma in un percorso iniziatico. Il
luogo è inospitale – “venti gradi sotto zero. In luoghi come quelli noi uomini
non potevamo fare altro che passare” – ma la tempra è ben oliata. Fra le altre
cose, questo è un libro che ramificandosi, durante il percorso, si trasforma in
un erbario essenziale da cui estrarre un principio terreno di saggezza.
Sfogliando a caso: “L’uomo? Dio ha giocato a dadi e ha perso”, oppure,
metafisizzando il paesaggio: “i versanti sono striati di venature nere, gocce
cadute dal calamaio di un Dio che abbia posato la penna dopo aver scritto il
mondo”. Un linguaggio che imita la natura affilandosi. Nell’appello futuro dei
canoni Tesson risponderà: presente.
Terra sonnambula. Di Mia Couto, bisogna ripetersi nome e cognome sotto-labbra:
sembra una antica cantilena sulla soglia di un nuovo linguaggio. Riscoperto
dalla critica pochi anni fa, scrive in portoghese, ma di fatto appartiene a
un’altra lingua. Basta sfogliarne una manciata di pagine per accorgersi che
certi scrittori trovano asilo soltanto nel recinto delle lettere. In breve,
l’autore, mozambicano (“un paese disegnato con la geografia della nostalgia”),
per sedici anni è testimone di una violenta guerra civile. I numeri sono muti,
ma lasciamoli balbettare: alla fine del conflitto, nel 1992, un milione di
mozambicani, semplicemente, mancano all’appello. Deve essere da questa lacuna
che Couto ha sprigionato il suo oceano linguistico. L’incipit fa parte di quei
fulmini obliqui che ti precipitano alla cassa, con il libro in mano:
> “In quel posto, la guerra aveva ucciso la strada. Sui sentieri, solo le iene
> si trascinavano, grufolando tra cenere e polvere. Il paesaggio era un misto di
> tristezze mai viste, con colori che si appiccicavano alla bocca. Il cielo era
> diventato impossibile. I vivi si erano abituati alla terra, in un rassegnato
> apprendistato di morte”.
Dal sodalizio fra un giovane e un vecchio, Muidinga e Tuahir, fiorisce la storia
di questo libro: in mezzo, il ritrovamento di un manoscritto in un bus che tira
le fila della storia, aggiungendo scorie di incantamento all’assolo della
violenza. I due costruiscono un’oasi nel deserto della guerra. La fonte di
questa freschezza sono le storie che Muidinga legge dal manoscritto ritrovato:
anche il vecchio Tuahir, analfabeta, non tarda ad accorgersi che in quegli
strappi dalla realtà si nasconde la vera formula del mondo.
Da allora, tutto comincia ad essere in movimento, anche la strada che
percorrono. Il libro, stratificato come il dedalo di storie che ne costituisce
il centro, nasconde più piani di lettura: sradicamento, colonizzazione e
convivenza sono solo la punta dell’iceberg. L’andamento della trama, se può
essere talvolta oggetto a oscillazioni che sono il grafico del terremotare del
linguaggio, non lascia scampo ai tracciati di frase che qua e là ipnotizzano il
lettore, sorvegliandolo. Ne cito soltanto uno, ma tutto il libro è un terreno di
coltura: “i sogni sono lettere che mandiamo alle nostre altre vite, quelle che
ci restano”. Buon viaggio.
La stagione della migrazione a Nord. Se è vero che iniziò come canto, è
altrettanto certo che la letteratura finirà con una confessione. Alle origini
dell’intreccio fra due continenti c’è Tayeb Salih, nato in Sudan nel 1929 e
morto a Londra nel 2009, che si iscrive alla letteratura rovesciandola. Un altro
sabotatore di bussole, Milos Crnjanski, pubblicando proprio nel ’29 Migrazioni,
scolpiva l’ultima pietra della propria opera scrivendo che le migrazioni
esistono, mentre è la morte a non esistere. Con Conrad, ad ogni modo, l’uomo
europeo supera le colonne di Ercole del Sud arrivando al centro del mondo, nel
Congo. Più o meno nello stesso periodo – Conrad trapassa nel ’24 – un uomo
africano realizza il viaggio esattamente opposto. Se non è difficile immaginare
la trepidazione dell’europeo per il ritorno in patria da una semplice battuta
commerciale, lo stesso non si può dire a ruoli inversi, dato che solitamente
l’Europa è, per un giovane studente africano, terra dove mettere radici per le
future generazioni. Ma anche in questo caso il libro rappresenta un’eccezione:
dopo sette anni di brillante apprendistato londinese, il protagonista rientra
alla base, gettando nello scompiglio la piccola comunità d’origine. Dopo il
soggiorno all’estero, il narratore si rende conto di non essere “una pietra da
gettare nell’acqua, ma un seme da seminare nel campo”.
Percorre i luoghi della propria terra, avvicina l’orecchio alla terra, l’occhio
al cielo. Nasce così una strana creatura che fa della propria bivalenza etnica
un sottile strumento di manipolazione: rovescia le coordinate geografiche per
servirsi della geografia come ci si serve di una carta sfoderata all’ultima
mossa, trincerando nei tratti meridionali quella frazione di sud “che anela al
nord e al gelo”.
Al netto di tanti spaesamenti, la letteratura è l’unico luogo in cui nord e sud
possono convivere nella stessa pagina.
Andrea Muratore
*In copertina: Yves Klein, La grande Anthropométrie bleue, 1960 ca.
L'articolo Eremitaggio nel blu. Ovvero: tre libri per colonizzare il vostro
cuore proviene da Pangea.
Una biblioteca mi ha fatto da culla, mi è stata matrigna.
La madre di mio padre si era trasferita a Milano da Palermo a dodici anni; aveva
la quinta elementare; la scaltrezza della creatura viva, terrena. Mio nonno era
nato in Francia da immigrati siciliani: una volta, ricordo, mi parlò di Leonardo
Sciascia, amava ascoltare Charles Aznavour. Durante la Seconda guerra operò in
marina: arrestato in Grecia, fu detenuto ad Amburgo. Si vantava della sua
“Enciclopedia Motta” che, in un’altra era, prometteva “il sapere universale”.
Era fissato con la geografia.
Le strane accelerazioni della Storia – il Sessantotto, un viaggio in Pakistan,
l’idea di ‘essere se stessi’ (mentre a volte è bene apparire per ciò che non si
è) – portarono mio padre a diventare il bibliotecario di un piccolo paese in
provincia di Torino. I miei nonni – i suoi genitori – sono sepolti a Riccione:
il cimitero, in fondo, è una sorta di immensa biblioteca umana, un ossario di
memorie – è forse la vera “biblioteca infinita” ideata da Borges. Il figlio, mio
padre, che ha il nome del biblico “sognatore”, è sepolto in un microscopico
borgo della Val Grande, a cinquecento chilometri di distanza dai genitori. Spero
sia felice: nei turni di notte, lassù, lo strigide si combina al capriolo, la
chimera al lupo.
La biblioteca, comunque, fu il baratro: il luogo dell’amore e della perdizione,
l’alcova e la tagliola.
*
Qualche anno dopo la morte di mio padre, ‘liberai’ dalla biblioteca che aveva
diretto Il gioco del mondo di Julio Cortázar. Non che non lo possedessi: è che
quell’edizione – copertina rigida, Einaudi, incellofanata – mi pareva ‘biblica’,
perfetta al sogno. Per un po’, riposi in quel libro il mio destino. Mi piaceva
l’idea che si potesse leggere al contrario e di sbieco, che parlasse di molto e
di niente. Molti anni più tardi – per una di quelle strane accelerazioni della
vita – finii a Buenos Aires, incontrai chi aveva incontrato Julio Cortázar.
*
È assurda l’idea di possedere dei libri: sono loro che si impossessano di te. Ne
sei posseduto, tanto che liberandoli te ne devi liberare. Le parole aprono
squarci, finestre o stimmate che siano – ma possono anche recludere.
*
In una lettera particolarmente bella – in: V. Šalamov-B. Pasternak, Parole
salvate dalle fiamme, Archinto, 1993 – Varlam Šalamov rimproverava Boris
Pasternak, che con svezzato sussiego parlava con sufficienza delle sue poesie.
Nei campi, in Siberia, c’è gente che è sopravvissuta con le sue poesie; c’è
gente che si è ricordata cos’è un uomo (cioè: la creatura disposta a dare la
vita per un altro, sconosciuto) leggendo le sue poesie.
I libri non salvano la vita – ci danno la vita; non insegnano a vivere, creano
la vita. I libri sono un uovo cosmico (leggi sotto). Per questo ogni regime –
tirannico o democratico che sia – sottrae i libri ai propri elettori sudditi o
favorisce un ‘sistema’ culturale basato sul mero mercato: così si forgia un
popolo servile, un popolo reclino sul proprio misero io, un popolo immiserito
nel cuore, un popolo di paglia, logorato, già cenere.
*
A Lima soggiornavo all’Hotel Ariosto: nelle librerie i libri costavano più che
in Italia, ma lo stipendio medio di un peruviano non superava i trecento euro
italiani. Cercavo le poesie di César Vallejo; qualcuno, al mercato – così
sgargiante che lo chiamai Armida – intonò i frammenti di un’epopea andina.
Finché non recidono il suo canto, finché non lo sradicano dal linguaggio, l’uomo
è vivo, la sua stirpe prolifera.
*
Un tempo, quando i libri si compravano nelle librerie, s’intraprendevano folli
avventure per cercare il libro definito, quello della svolta. Vagabondai per
giorni, a Milano, prima di trovare la “Trilogia di Valis” di Philip K.
Dick. Edizione Oscar Mondadori, in cofanetto. Perché mi fossi ostinato a quel
libro – torbido, involuto, teologico – non lo so. A volte di un libro ci cattura
l’aura – basta quella.
Entrando in libreria – come si entra in una città perduta – era possibile fare
incontri inattesi. La vita digitalizzata – il demoniaco dominio del cellulare,
insomma – ha recluso le nostre esistenze in un tunnel. Viviamo nei bunker
dell’io. In spazi senza accesso, senza concessione. Prima, tutto era un bosco –
si era disposti alla scoperta, pronti allo straordinario, i prediletti
dell’insperato.
*
Intendo dire: la ricerca del libro assoluto. Il libro-tutto. Il libro che somma
cielo e terra, che abbraccia i vivi e i morti. Il libro che vivifica. Che fa
risorgere.
Ad esempio: purché sia escluso da quella rivelazione, possiedo – e sono stato
posseduto – da una serie di edizioni dell’I-Ching, l’arcano libro divinatorio
cinese. Preferisco l’edizione curata da Eranos; l’ho avuto nelle versioni
inglese, francese, spagnola.
Da ragazzo, conferivo le stesse facoltà – chiamatela taumaturgia del linguaggio
– ai libri di Thomas S. Eliot.Rapivo ogni possibile traduzione della Terra
desolata; mi confinai nei Quattro quartetti. Dal canonico viaggio in Inghilterra
– fatto in treno, dormendo dove capitava – tornai povero di tutto ma con
l’edizione Faber dei Selected Poems di Eliot. Più tardi, da adulto, provai una
simile coincidenza con l’opera di Saint-John Perse.
*
A volte un libro è il solo conforto: ma con i libri non si tratta, si lotta;
infine, finisci per odiarli. C’è differenza tra claustrale e claustrofobico.
*
Questo articolo voleva affrontare un argomento che può apparire assurdo ai più.
È questo: comprare più volte lo stesso libro. Preciso: non lo stesso libro in
altra traduzione o diversa edizione (pratica buona & giusta, a volte
necessaria), ma lo stesso libro nella stessa traduzione pubblicata dallo stesso
editore nello stesso anno. Una copia. Una copia di una copia di una copia. Che
assurdità. È come se ri-comprando lo stesso libro – o ri-rubandolo – potessi
azzerare l’esperienza di lettura precedente (dunque: potessi azzerarti). Come se
potessi ‘riverginare’ il libro. Oppure, come se quella innaturale fedeltà
potesse concederti un accesso privilegiato alle zone segrete, alle zone oscure
di quel libro.
Già, perché il principio di ogni libro è che abbia un unico lettore, un lettore
eletto: tu. Gli altri sono dei vili mestatori di opinioni, degli eresiarchi. Tu
sei il solo custode della verità appena sussurrata da quel libro che, pur tirato
in migliaia di copie, esiste perché proprio tu lo legga. È stato scritto per te,
incidentalmente gettato in pasto al vile mercato degli altri.
I libri esistono in un’unica copia, per un solo lettore. Tu.
*
(Diamoci il privilegio, in questo tempo brutale, in questo tempo funesto, di
parlare di cose frivole, di cose che ci tengono stretti all’umano. Anche questo
– come si accarezza un albero e si guardano le stelle – è un atto di grazia e di
esistenza).
*
Il primo libro che ho comprato almeno tre volte è l’Ulisse di Joyce. La sua
lettura mi folgorò, al liceo – avevo un’insegnante di inglese particolarmente
severa, che mi ha inoltrato nell’opera di Yeats e di Ezra Pound. Ho comprato tre
copie dell’Ulisse, a distanza di tre anni, perché non lo capivo. Più non lo
capivo, più mi incaponivo, mi incapronivo, mi incapricciavo. Quel libro
racchiudeva un mondo, quel mondo non mi piaceva, ma lo volevo capire. Lo
volevo.
*
Un giorno, spiazzandomi, l’insegnante di inglese mi disse di preferire la
letteratura mitteleuropea: il suo libro del cuore era La morte di Virgilio di
Hermann Broch. A casa, mio padre ne aveva una copia. Il volto di Broch, in
copertina, pareva quello di un alienato: a metà tra il Minotauro e il grifone.
Il libro mi parve infinitamente più vasto e vertiginoso dell’Ulisse: ne ho
ancora tre o quattro copie, da qualche parte.
*
I libri che, negli anni, senza che ve ne sia bisogno, senza ritegno, si comprano
più copie rientrano in un rango augusteo e angusto. Solo pochi vi appartengono.
E – questo l’ho capito negli anni – ad appartenervi non sono per forza i libri
più belli, quelli a cui siamo più affezionati. Di quelli, basta la copia
originaria, basta riaprire quella per rientrare nelle proprie origini. Faccio un
esempio che mi riguarda. Ho diverse copie del Libro della giungla di Rudyard
Kipling perché, senza che lo abbia scelto, è penetrato nella mia infanzia.
Ancora oggi, voglio essere Mowgli e Bagheera. “Non c’è chi non ne abbia sentito
il fascino”, è scritto, scagionando la mia ossessione, nella Nota introduttiva
dell’edizione Bur del 1951: l’ho trovata in un mercatino, qualche anno fa. La
traduttrice, Giuliana Pozzo Galeazzi, ha tradotto anche Jane Eyre e Bertrand
Russell. Il Libro della giungla non è il mio libro preferito – è il mio libro e
basta.
Lo stesso rapporto infantile, selvatico, mi lega a Moby Dick – ne avevo decine
di edizioni diverse, la prima apparteneva a mio padre: edizione
Frassinelli, total white, traduzione di Cesare Pavese.
*
Ai libri di cui ho comprato – o rubato – diverse copie mi lega un rapporto di
amore e odio. Ne amo la nomea, il portamento, l’apertura alare, per così dire –
eppure, continuo a sfidarli perché non sono riuscito a penetrarli. Ogni volta,
rinnovo la sfida. Tra questi libri così singolari, che mi visitano ogni eone di
mesi, ricordo La montagna incantata di Thomas Mann, La storia di Genji il
Principe Splendente di Murasaki Shikibu, Rigodon di Céline, Sotto il vulcano di
Malcolm Lowry. Sono libri che mi tormentano, di cui conosco alcune pagine a
memoria, che ogni volta rileggo e abbandono. Benché possa citarne altri a me più
cari – chessò, Cuore di tenebra di Conrad, L’urlo e il furore di
Faulkner, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, Come l’acqua che scorre di
Marguerite Yourcenar, Chadži-Murat di Tolstoj – sono quelli i libri che mi
accompagneranno, mordendomi il cranio, fino alla fine.
*
Di alcuni libri, è vero, ho acquistato più e più copie, per regalarli – non
rientrano nel lotto della lotta. Tra questi, sono affezionato, con rigore
totale, a Il colpo di grazia della Yourcenar e alla Casa delle belle
addormentate di Yasunari Kawabata. Allo stesso modo, i libri che ci sono stati
donati vivono in uno spazio tutto loro. Regalare un libro presuppone una
intimità che intimidisce. Chi ci regala un libro pensa che siamo in qualche modo
incardinati in quel libro, promessi a quel verbo: lo leggiamo, allora, per
scoprire chi siamo agli occhi di chi ce lo ha donato. Le scoperte – e i
fraintesi – sono spesso sorprendenti, a tratti agghiaccianti. Un libro che ci è
stato donato e che non ci riguarda – che mancanza di riguardo – può essere
donato a sua volta.
Valgono come autentici doni, però, soltanto i libri che abbiamo vissuto
intensamente, quando non sottolineato e appuntato e strappato. Ricordo
un’edizione delle lettere di Kafka a Milena – Mondadori, traduce Ferruccio
Masini – che mi è stata regalata molti anni fa: modesta, sbrindellata, piena di
note. Il regalo più bello – un patto.
*
Cito soltanto romanzi. I poeti non rientrano in queste viete classifiche: hanno
la pretesa di incendiare l’intera biblioteca e di resistere, frantumi di un
futuro ancora da costruire. La poesia vuole dedizione, solitudine, amore; le
poesie vanno imparate a memoria, il loro supporto non è un libro, ma l’intero
corpo di chi legge.
Quando mi hanno regalato Hugo von Hofmannsthal, ad esempio, ho fatto i salti di
gioia, fino a dire: è lui il più grande, è più grande di Rilke! Un’eresia, è
vero, ma come si fa a non amare assolutamente un poeta?
*
Ogni volta che vado in libreria – ci vado di rado, ridotto per lo più a un ebete
analfabetismo leggo soltanto i Vangeli, perimetrando la mia enorme inermità –
non posso non comprare un’edizione del Dottor Živago: credo che sia uno dei
libri decisivi del secolo, ma le poesie di Boris Pasternak siano infinitamente
più belle. In questo, seguo il giudizio di Varlam Šalamov. Eppure, ogni volta
torno a comprare Il dottor Živago – è una malattia la mia, lo
so, voglio che Il dottor Živago sia il libro totale, il libro che risponde a
ogni mio enigma, il libro che mi corrisponde. Ogni volta rileggo Il
dottor Živago, ogni volta lo mollo – c’è qualcosa di liquido, qualcosa di
paludoso che mi respinge.
In una delle ultime edizioni acquistate – Nuova Universale Einaudi, 44, 1968 –
la prefazione di Eugenio Montale non è d’aiuto. Il grande poeta, da poco
senatore a vita, scriveva prefazioni di solito gelide, attrezzate in
sprezzatura, a tratti ingenerose, alle Liriche cinesi come alla Coscienza di
Zeno; scrisse che “Il dottor Živagoè uno di quei libri che possono dar tempo al
tempo”, che è come dire tutto e nulla.
*
In ogni caso, ogni biblioteca privata esiste per essere spezzata. La biblioteca
non è una voliera, è come un rapace: deve prendere il volo. Non si possono
imprigionare i libri: hanno un destino vivente, di albero, di roccia. Eredità di
eresie. Giampiero Neri, antico sapiente della poesia italiana, citava nei suoi
libri innumeri altri libri, tra i tantissimi: Omero, Laozi, Melville, Tacito,
i Ricordi di un entomologo di Jean-Henri Fabre. Recitava a memoria Dino Campana
e Virgilio, amava la Vita di Milarepa. Eppure, la biblioteca di casa sua era
scarna, uno scaffale appena. Neri regalava i libri a chiunque andava a trovarlo:
io scelsi le Conversazioni con Kafka di Gustav Janouch in una vecchia edizione
Guanda.
Anche Nicola Crocetti, ogni volta che vado a trovarlo, si congeda dai suoi
libri, regalandomeli: l’ultimo, Kotik Letaev, è presentato come “il capolavoro
di Andrej Belyj, il Joyce russo”. Lo ha curato Serena Vitale per “La biblioteca
blu”, la formidabile collana di Franco Maria Ricci, era il 1973; il libro è
stato stampato “a Torino presso il signor Giovanni Zeppegno”.
*
Vagabondando di qui e di là, ho smarrito gran parte dei miei libri: che bello,
li rincorrerò per sempre. Eredità è una parola-cecchino. Kotik Letaev mi fissa,
mi squadra, è un libro sproporzionato: più che leggerlo, me lo immagino. Prima
di leggerli, i libri vanno immaginati – se non sono all’altezza della vostra
immaginazione, gettateli via.
La copertina di Kotik Letaev, bellissima, raffigura una serpe avvolta intorno a
un uovo. Secondo il mito pelasgico, Ofione, il serpente, si arrotola sette volte
intorno all’uovo cosmico deposto da Eurinome, “e ne uscirono tutte le cose
esistenti: il sole, la luna, i pianeti, le stelle, la terra con i suoi monti,
con i suoi fiumi, con i suoi alberi e con le erbe e le creature viventi” (così
Robert Graves nei Miti greci, libro più volte trafugato, più volte ricevuto in
dono).
Non servono più i libri, ma conformarsi alle stelle, stare nel verbo vivente.
L'articolo Sulla mania di comprare sempre gli stessi libri. Ovvero: conformarsi
alle stelle proviene da Pangea.
Quando ero ragazzo leggere Cesare Pavese veniva considerato quasi un rito di
passaggio per gli adolescenti di allora. Tutti lo leggevamo. Forse non lo
capivamo fino in fondo, ma comunque restavamo affascinati da questo scrittore
dalla perenne espressione di bambino triste destinato a non diventare mai
vecchio e dalle moltitudini che abitavano la sua anima. Confesso di frequentare
poco i giovani di oggi, ma l’impressione è che ci siano in giro troppe
chiacchiere inutili, troppe distrazioni, troppo rumore di fondo che impediscono
a un ragazzo di chiudersi nella propria stanzetta a leggere Pavese o
Hemingway; mi chiedo se c’è ancora qualche adolescente che durante gli anni del
liceo prende una cotta letteraria per uno scrittore come capitò a me con Vasco
Pratolini; irrazionale e assoluta come si conviene a ogni cotta degna di questo
nome, presa senza sapere bene perché.
Anche nel dibattito pubblico Pavese era una figura di riferimento nonostante
fosse morto ormai da parecchi anni. Poi lentamente, quasi senza che nessuno se
ne accorgesse, su di lui è calato il silenzio. Improvvisamente nessuno ne ha più
parlato, tutti hanno smesso di citarlo. Oggi è a tutti gli effetti
un desaparecido della letteratura e non solo. Va detto che non è l’unico e anzi
è in buona compagnia. Dove sono finiti Giovanni Arpino, Giuseppe Berto, Lucio
Mastronardi e tanti altri scrittori un tempo al centro del mondo letterario?
Basti pensare ad Alberto Moravia che per lungo tempo è stato la figura dominante
della vita culturale italiana; una presenza continua e per certi versi quasi
ossessiva con interviste e dichiarazioni su tutto, firme a ripetizione su
manifesti e appelli per le cause più svariate, reportage di viaggi, recensioni
cinematografiche, programmi televisivi, protagonista addirittura della vita
mondana e dei pettegolezzi per le varie compagne e mogli che si sono avvicendate
al suo fianco. Poi, dopo la morte, lentamente anche su di lui è calato il
silenzio.
Insomma, c’è una domanda che mi faccio spesso da un po’ di anni: dove è andato a
finire Cesare Pavese? Adesso per fortuna posso finalmente darmi una risposta.
Per venire a capo del mistero non ho dovuto fare nessuna ricerca o inchiesta né
tanto meno ricorrere all’intelligenza artificiale. È bastato leggere Chi ha
rapito Cesare Pavese?, un romanzo scritto da Francesco Bova e pubblicato
dall’editore calabrese Meligrana.
La trama è presto detta. Al centro del libro Lui, così viene chiamato il
protagonista, uno scrittore, e la sua Voce interiore, una fascinosa musa
ispiratrice dalle lunghe gambe. I due vanno a vivere in una stazioncina
ferroviaria abbandonata nelle campagne lombarde. Lo scopo di questa scelta di
vita isolata e fuori dal mondo è duplice. Lui è impegnato a scrivere un romanzo
con l’aiuto della sua Voce e poi vuole incontrare a ogni costo Cesare Pavese.
> «Regalerei la mia anima al diavolo o a quel dio che non conosco per poter
> scambiare qualche parola con lui.»
Il fatto però è che qui siamo negli anni Ottanta e, come è noto, lo scrittore
piemontese è morto nel 1950. Non è un problema. Lui e la Voce non hanno né un
orologio né un calendario, ma impariamo presto a capire che per loro il tempo è
relativo:
> «Il tempo, nella sua forma circolare, avvicinava di un nulla gli anni ’80 agli
> anni ’50 e gli avvenimenti si potevano toccare con un dito e forse pure
> travolgere.
>
> Il naso, il cuore, la forma di una nuvola, un sogno, uno stato d’animo, il
> soffio del vento e altre piccole cose erano la nostra misura del tempo.»
Così i due intraprendono una serie di viaggi attraverso il tempo e lo spazio per
raggiungere Santo Stefano Belbo. In questo modo Lui e Pavese riescono
“magicamente” a vedersi varie volte e durante i loro incontri si spostano tra le
colline delle Langhe e quelle della Liguria parlando un po’ di tutto: di libri,
di cinema, di politica, di donne. Non solo. Persino i personaggi dei loro libri
si incontrano e parlano tra di loro. Tra i due nasce un rapporto simbiotico, di
grande intensità che permette a Lui di portare a termine il proprio romanzo.
Intanto però i giorni corrono e quando siamo verso la fine di agosto si avvicina
anche la data fatale. Da tanti piccoli indizi, a volte appena percettibili, è
facile intuire che Pavese si sta muovendo sull’orlo della notte. Così nasce il
progetto di rapirlo per scongiurare il suo suicidio. Il finale lo lascio al
lettore.
> Nel primo pomeriggio di una giornata molto calda sbottò con una frase corta e
> incomprensibile e temetti che l’arsura e l’angoscia gli avessero dato alla
> testa.
> «Dobbiamo rapirlo!»
> «Chi?»
> «Cesare. Prima che finisca l’estate dobbiamo rapirlo.»
Chi ha rapito Cesare Pavese? è un libro bello e singolare, di sorprendente e
accattivante complessità, che si muove tra sogno e realtà, tra ossessioni e
magie dove ogni lettore deve trovare la propria strada. Arrivati al termine,
viene naturale una domanda: è veramente Pavese il rapito o invece siamo noi, i
suoi lettori, a essere rapiti da lui, dal suo mito, dal fascino dei suoi
romanzi, dalla malinconia incantatrice dei suoi personaggi, dal mistero della
sua tormentata esistenza, dal segreto della sua tragica fine? Ognuno risponderà
come meglio crede, di sicuro siamo di fronte a un romanzo necessario, rara
avis di questi tempi, e dobbiamo essere grati a Francesco Bova per averlo
scritto. Nel senso che c’era proprio bisogno che venisse sanata la ferita della
scomparsa di Pavese dalla nostra vita. Abbiamo bisogno di lui, forse oggi ancora
più di tanti anni fa quando lo abbiamo letto per la prima volta. Le domande che
nascevano dalla lettura dei suoi libri sono ancora tutte lì, non hanno perso
niente del loro valore e della loro profondità. Siamo noi e tutto il mondo vacuo
e inutile che ci circonda che abbiamo fatto finta di dimenticarle. I grandi
scrittori come Pavese invece restano sempre al loro posto, non passano mai di
moda.
Silvano Calzini
L'articolo Sul nostro irrefrenabile bisogno di leggere Cesare Pavese proviene da
Pangea.
Dylan Thomas accettò di fargli da testimone di nozze. Era il 4 ottobre del 1939,
non poteva rifiutare: conosceva Keidrych Rhys, gallese di Bethlehem, da una
vita; spesso lo aveva pubblicato sulla rivista che dirigeva, “Wales”. Keidrych
sguazzava con agio nell’editoria dell’epoca – nel ’44, per la Faber di Sir T.S.
Eliot, avrebbe pubblicato un’importante antologia di Modern Welsh Poetry – ed
era un gran bevitore. Nel ’39 Dylan Thomas, già superstar della letteratura
anglofona, aveva licenziato, per Dent, The Map of Love; Keidrych compiva
ventiquattro anni; la festa, a Llansteffan, annaffiata d’alti alcolici, si
protrasse fino a notte.
Più che per Keidrych, gli astanti andarono in visibilio per lei, la sposa.
Trentenne, di una bellezza estranea, Lynette Roberts – in verità: Evelyn
Beatrice Roberts – era alla sua terza vita. La prima l’aveva passata in
Argentina: nacque a Buenos Aires, negli agi; il papà, Cecil Arhur Roberts, era
un ingegnere ferroviario che dal Galles si era trasferito prima in Australia,
poi in Sud America. La prima lingua di Lynette era lo spagnolo: restò scolpito,
in lei, il vello bruno, taurino, del Rio della Plata; l’indolenza – e
l’equivalente violenza – dell’Argentina.
La seconda vita di Lynette ha per levatrice una ferita, uno squarcio: poco prima
di compiere quattordici anni, sua mamma muore di tifo. Lei e le sorelle –
Winifred e Rosemary – furono spedite a studiare in Inghilterra, alla Central
School of Arts and Crafts. Di quella vita, si ricordano i lunghi viaggi – in
Ungheria, Austria, Germania, al seguito di un’amica, Kathleen Bellamy, inviata
per “La Nacion” – e l’avventura di aprire un negozio di fiori, “Bruska”, a
Londra. Aveva cominciato a scrivere versi a Madeira, ispirata dal clima, da un
angelo interiore, spinato.
Keidrych l’aveva conosciuto da poco, durante una lettura pubblica. Si sposarono
all’improvviso, con inattesa furia: la terza vita di Lynette cominciò a
Llanybri, villaggio di campagna nel Carmarthenshire, dove si era trasferita con
il marito. Voleva riformulare le proprie origini gallesi. Voleva scriverne.
Voleva scrivere. Dylan Thomas la licenziò con poche, apodittiche parole: “che
ragazza curiosa, si dichiara poetessa a pieno titolo, in pieno petto… ha tutti i
crismi dell’isterica”.
L’amore con Keidrych durò un decennio – i due divorziarono nel ’49 – e un paio
di figli, Angharad e Preiden. Lentamente, Lynette deragliò nell’insania; aveva
un precedente, in famiglia: il fratello Dymock, schizofrenico, finì in un
ricovero di malati di mente appena sedicenne, a Salisbury, fino alla morte.
Negli anni gallesi – di povertà, certo, ma anche di una gioia frugale, informe,
di albatros e brughiere –, Lynette scrisse tanto – e magnificamente. Trovò in
Edith Sitwell – poetessa-pitone, dall’enigmatico, viscido genio – una mecenate e
una confidente; figura tra le figure di rilievo nella tabula gratulatoria de La
Dea Bianca, il capolavoro di Robert Graves. Erano amici, lei gli raccontava
diverse storie scardinandole dall’antica mitologia gallese, lui scrisse che
“Lynette Roberts è uno dei pochi autentici poeti viventi”.
I suoi versi entusiasmarono un lettore altrimenti raggelato come Eliot: nel 1944
pubblicò con la Faber i Poems, seguiti, nel 1951, dall’opera più ambiziosa, il
poemetto God with Stainless Ears, in cui il dato leggendario si fonde con il
contemporaneo, la “baia brulicante di uccelli” si commisura a “soldati e corpi
corazzati”. È poesia audace, quella di Lynette Roberts, a tratti involuta, con
invenzioni che la collocano nel più alto lignaggio della poesia inglese
dell’epoca. In un testo – a dire di un ardore –, Transgression – non certo il
più bello –, rifà la Genesi:
> “All’inizio Dio non volle altro che se stesso.
> E questa immensa emissione di luce eruttava orrore
> attraverso i cieli senza aver nulla da fare.
> Conosceva il bene e il male, e noia lo torturava.
> Sapeva la vita, e gli venne a noia”.
A leggerla, viene in mente Fernanda Romagnoli, avrebbero potuto essere amiche.
La stessa dinamica le anima: una poesia apparentemente cristallina, emanata da
un ematoma del cuore, che in un istante mette le unghie, azzanna. Lo stesso,
spaesante istinto nel percorrere l’insolito, l’insoluto. In una poesia –
tradotta in calce – Lynette Roberts scrive che i gabbiani le ricordano le
“lacrime dei turisti”.
Sfinì, in uno sfarfallio di inquietudini, Lynette. Nel 1956 le fu dichiarata
schizofrenica – due anni prima aveva pubblicato un libro, The Endeavour che
romanzava intorno al “primo viaggio di James Cook in Australia”. Una volta
radicata, volle sradicarsi. Vagò per diversi sanatori; morì il 25 settembre del
1995. Sepolta nel cimitero di Llanybri, che aveva celebrato più volte nei suoi
versi, chiese una lapide sobria, una scritta assolutoria: Lynette Roberts, poet.
Dylan Thomas aveva visto giusto.
I suoi versi – dalla potenza assurda, dissennata, estranea alle mode – furono
dimenticati presto; per quarant’anni, Lynette rifiutò di scrivere perché la vita
la rifiutava. Nel 2005 Carcanet pubblica, a cura di Patrick McGuinness,
un’edizione dei Collected Poems, seguita, nel 2008, da Diaries, Letters and
Recollections. Fu, decenni dopo, un’autentica scoperta, Lynette, d’insperata
freschezza. Quest’anno, come A Letter to the Dead, esce una nuova edizione
dei collected poems, arricchita da materiali d’archivio.
***
Premonizione
Quando angoli di ferro blu e
grumi di erba rada, a grottesche
recedono furtivamente da qui
e lasciamo una moltitudine allo spazio
mentre crolla dal tuo sorgere
un saluto, accetto l’impercettibile
pallida notte, il suo volto ciclope
in cui nascondere la mia paura, di ghiaccio.
*
Non è stato facile
Mentre brilla la legna e brucia
abbiamo spartito la nostra frugale
felicità; mentre sulla grata, fredda, colava
la cenere, ci siamo nutriti ai cancelli
della povertà; idioma dell’umiliazione
e del disastro. Non è stato facile.
Non lo è ora. Eppure, infuriava tempesta
sul quieto verde volto del pianeta.
*
L’ipnotista
Continuava a fissarmi, quella volpe
nel bosco – con un gesto di gioia
pitocca ho deriso la sua audacia:
e ora mi veglia, è lì, presso quell’albero.
*
Spina di sangue
C’è chi divora la piana fino alle anche della notte
chi slega gli uccelli al volo e dilaga
per leghe perché vuole vedere l’osso
del bisonte, fiero come una pietra,
c’è chi separa il mais e fa scempio
di questa luce sciroppo:
questa è la dura, mostruosa condizione
di chi nasce e piange in un’alba gialla
in un’alba gialla come il limone.
Un cuore rompe il ghiacciaio della notte
è lì e fa scoppiare un’aquila di carta
e c’è chi trascina il giorno in una cappa
di gioia di pianto di mania:
questo giorno è stato esaudito: un bimbo è nato
un bambino ci è nato.
*
Gabbiani
Planano lenti i gabbiani, senza paura
preferiscono perdersi come lacrime
di turisti: il molo e la nave cominciano
a muoversi e cominciamo
a piangere, così, senza motivo.
Gridano i gabbiani ricordando
l’oceano dell’incertezza
e la brutalità dei marinai, mere
mosche ai margini della nave.
I patti si stringono, si rompono
e il rimpianto ci muove immotivato:
lacrime crinite d’ira, cretine,
scavano solchi sulle guance.
*
Blu ellittico
È freddo e i gabbiani, le mucche del cielo,
muggiscono, cercano cibo e sorvolano
l’acqua blu: allora penso alla neve.
Quando penso sono sola.
Penso al mare, alle sue immense onde
onde piene di occhi che dicono
alle onde, cercate i morti perché
i morti non sono davvero morti.
Perché, è vero, il mare offre più di ciò che afferra
e stigma di morte non grava sull’uomo – il mare
concede ai morti una via di fuga: i gabbiani lo sanno
e scalpitano presso le stalle del cielo.
*
Madrigale verde
Vedi, il mio ospite è un albero:
cresce nonostante il dolore
le sfide e la difficoltà
di crescere.
È verde, è risoluto:
anche se respira angoscia
sprigiona pace, la pace della mente
e cresce e si muove
e cammina con verde tenerezza
lungo la terra:
cielo e sole sigillano il suo essere
come io vorrei fare con il tuo.
*
Coniglio accoppato
Sdraiato nel cristallino del crepuscolo
sono io il suo singolare difetto
e i suoi occhi, come stelle dimentiche,
si schiudono in una nebulosa distante anni luce.
Desiderano che il passato sia scuro come la notte
che il futuro sia piena luce e caritatevoli raggi.
Eppure so, per un sapere ancora arcano,
in qualche moto centrale del mio essere,
che tutto risorgerà, che tutto si volgerà
a me circondandomi, come gli anni luce
ruotano, invisibili, sul loro fuso di ghiaia.
Lynette Roberts
L'articolo “Un cuore rompe il ghiacciaio della notte”. Vita lirica di Lynette
Roberts proviene da Pangea.