Quando scrive Lapislazzuli – siamo nel 1936 – William B. Yeats avverte forse già
l’approssimarsi della fine. La poesia, tra le più alte mai composte dal bardo
irlandese, è un mirabile esempio di ecfrasi in versi. È dedicata all’amico Harry
Clifton, che gli aveva donato un cammeo di lapislazzuli di ispirazione
orientale. Nelle ultime due lasse, tre pellegrini cinesi attraversano terre
remote e valichi innevati. Sono in cammino verso una meta misteriosa, che
concederà loro una tregua dagli affanni del viaggio. Sospesi tra montagne e
fiumi – come nelle pitture classiche di Wu Daozi – le tre enigmatiche figure
giungono infine alla lora provvisoria destinazione, dove rami di susino e di
ciliegio conferiscono all’atmosfera un tono di calda, soffusa intimità. Nel
“piccolo rifugio”, i tre contemplano il maestoso paesaggio che si apre dinanzi a
loro. Avvolti da una coltre di acuta malinconia, chiedono che siano eseguite
struggenti melodie. I volti sono solcati da profonde rughe; e tuttavia, dai loro
occhi rimasti invulnerabili alle apocalissi della vita, balugina una luce di
splendente letizia.
*
Il gusto della ricerca biografica ci autorizza a evocare le coincidenze. W.B.
Yeats muore nel 1939 in Francia. In quello stesso anno, Auden finisce di
scrivere Another Time, una delle raccolte poetiche più belle e significative del
Novecento. La notizia della scomparsa di Yeats raggiunge Auden durante il suo
soggiorno a New York. Di getto, il poeta inglese scrive quella dolente elegia
che è In memoria di W.B. Yeats. Intanto, dall’altra parte dell’Atlantico, in un
piovoso giorno di primavera irlandese, nasce nello stesso fatidico anno Seamus
Heaney. Yeats si spegne alla vigilia della guerra: la sua morte, secondo Auden,
è un cupo presagio della strage che incombe. Il poeta inglese si rivela presto,
suo malgrado, buon profeta.
*
Nella notte del pensiero e degli allarmi aerei, vale come unico argine possibile
il poeta-palombaro: colui che sprofonda per raggiungere il cuore del male, fino
a neutralizzarlo e a redimerci dalla condanna della pena. Ci salva il verso, non
la bellezza: il verso che è coscienza ed espressione del dolore. Il dettato
poetico trasfigura la miseria in canto, apre vie d’uscita all’uomo prigioniero
dei suoi giorni, trasforma la terra devastata in vigna. Ecco la poesia che
sopravvive attraverso
> “un modo di accadere, una bocca”
*
Quanto equivale a dire che scrivere versi è assoggettarsi a una forma d’amore.
Lo spiega in modo folgorante Brodskij nella sua indimenticabile elegia in
prosa Per compiacere un’ombra, altissimo omaggio al suo amato poeta inglese.
L’incontro decisivo con Auden avviene mentre Brodskij sconta una condanna in uno
sperduto villaggio ai confini del Circolo Polare Artico. In quel luogo così
refrattario all’umano, dominato da paludi e cupe foreste, Brodskij riesce
fortunosamente a farsi spedire un’antologia in inglese. Per puro caso, il libro
si apre con una poesia di Auden – In memoria di W.B. Yeats. La lettura di
quell’elegia è, per il giovane russo, decisiva. Nel dettato lirico del poeta
inglese, si compie il miracolo del tempo piegato e asservito al linguaggio. Come
a dire: i versi sono come raffiche di vento che soffiano sui bastoncini dello
Shanghai – “il tempo:
> “Time worships language”
Nella poesia di Auden, si passa senza soluzione di continuità da versi che, da
orizzontali, diventano incredibilmente verticali, viaggiando dalla metafisica al
motto di spirito, dalla filastrocca alla scintilla lirica. Al di sopra di tutto,
al di là della voce inconfondibile di Auden, affiora l’immagine riflessa del suo
viso: le indimenticabili rughe della vecchiaia, le proporzioni un po’ sgraziate
del naso e delle orecchie – che ne avrebbero fatto un perfetto candidato per un
film di David Lynch –, l’amorevole saggezza ironica degli occhi che sembrano
perdonare le storture del mondo.
*
Un uomo – dice Brodskij – è la somma di ciò che legge. In parole più semplici:
si è trasformati da quello che si ama. In quel villaggio artico assente anche
dalle mappe geografiche, ciò che colpisce Brodskij, ciò che s’impone alla sua
immaginazione, è
> “amore dilatato e accelerato dal linguaggio, dalla necessità di esprimerlo”.
Il che conduce a un’altra rivelazione: i sentimenti di uno scrittore o di un
poeta si subordinano inevitabilmente alla lineare e incontenibile progressione
dell’arte. Certo, Auden aveva conosciuto la sofferenza sotto varie forme:
delusioni amorose, la coscienza di una sessualità tormentata, l’autoesilio
imposto per sfuggire all’opprimente establishment letterario britannico, la
disillusione politica. Eppure, i suoi versi sprigionano sempre amore, un amore
immemore, come la lingua inglese, del genere maschile e femminile. Forse, più
che di amore, sarebbe più giusto dire che la poesia di Auden è un acceleratore
formidabile di tenerezza, di umana morbida dolcezza.
*
Con un balzo nel tempo e nello spazio, passiamo il testimone a un altro grande
poeta irlandese: Seamus Heaney. Audenesque, una delle sue ultime poesie, è
dedicata all’amico russo da poco scomparso, Iosif Brodskij. Esiste un omaggio
più commovente, per un poeta, che accostare l’amico scomparso agli autori più
amati in vita? Perché, come i bambini che uniscono i puntini nei giochi
enigmistici, se tracciamo una linea immaginaria tra i versi che abbiamo più
amato, alla fine l’immagine che ne affiora è la nostra: riflessa, come
nell’ovale di uno specchio. Non è difficile, allora, confondere i ricordi di una
conversazione su un treno lanciato nella tundra finlandese con i versi di Auden,
e prima ancora con quelli di Yeats. Non è difficile ritrovarsi, nel freddo di un
aeroporto di Dublino, a pensare a tutti i versi scritti – e a quelli soltanto
sognati, che qualcun altro, forse, ha scritto al posto nostro. Anche nella
regione della morte, tuttavia, la poesia può accendere scintille di futuro.
*
Yeats. Auden. Brodskij. Heaney. Cosa unisce questi quattro grandi poeti? Quanto,
nel loro dettato, è riflesso e ombra dell’amore che li legava ad altri
maestri? La poesia è anche cavalleresca espressione di amicizia, segno di
profonda dedizione verso una “famiglia mentale”, per citare ancora una volta la
magnifica intuizione di Brodskij. Viene in mente il sonetto forse più bello mai
scritto sull’amicizia poetica: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, di Dante
Alighieri. Quale filo li lega? Forse il senso di una vocazione maturata tra i
rovesci della storia; la costante, sofferta oscillazione tra isolamento e
rielaborazione degli eventi sullo sfondo? Soprattutto, il tentativo di superare
l’autoreferenzialità attraverso l’incontro con altre vite – di spezzare il
cerchio della solitudine aprendo la porta al vento della generosità e
dell’altruismo. Ecco perché i viaggiatori cinesi della poesia di Yeats sembrano
sostare, come i nostri poeti alla fine di un lungo viaggio, presso la fonte
stessa della loro ispirazione.
*
In una poesia di Auden, una delle più belle, si dice che da qualche parte viva
un bambino atterrito e pieno d’immaginazione. Lui sa, contro tutto e tutti, di
essere il futuro; e comprende che solo i docili avranno in eredità la
terra. Quel bambino non attira l’attenzione, né è particolarmente fortunato. Nel
tumulto del mondo, tra leggi disumane e regole ingiuste, il suo pianto sale
verso la vita del poeta – e la nostra – come una vocazione.
Lorenzo Giacinto
L'articolo “Solo i docili avranno la terra in eredità”. Riflessioni su Yeats,
Auden, Brodskij e Heaney proviene da Pangea.
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Per qualche tempo abbiamo duellato a colpi di WhatsApp. La discussione,
impennata verso gli impossibili, deragliò quasi subito: gli domandai dell’anima,
dell’eternità, del senso dell’arte, di Dio e dell’addio. Cristiano Godano ha
pubblicato undici album con i Marlene Kuntz e quattro libri: il primo, I
vivi (Rizzoli, 2008) è una raccolta di racconti; l’ultimo, Il suono della
rabbia (il Saggiatore, 2024) è una raccolta di “Pensieri sulla musica e il
mondo”. Nel suo terzo libro, Nuotando nell’aria (La nave di Teseo, 2019), che
sviscera “35 canzoni dei Marlene Kuntz”, Godano racconta di aver scoperto
Vladimir Nabokov, il suo scrittore-idolo, “all’epoca di Catartica”, quell’album
memorabile – “generazionale” come dicono gli studiosi – uscito nel 1994. Godano
compiva ventotto anni, il disco era prodotto dal Consorzio Produttori
Indipendenti di Gianni Maroccolo, Zamboni+Ferretti etc. e io imparavo a giocare
a calcio guardando Roberto Baggio, il Bodhisattva del pallone, evangelizzare i
mondiali americani.
Da lì nasce il nostro incontro. Da Vladimir Nabokov – per me, il conte Vlad
della letteratura occidentale, il sommo vampiro: lo leggi e ti dissangua. Così,
con Godano ci inoltriamo nei meandri di Fuoco pallido, il libro più estremo,
estenuato di Nabokov; entrambi eleggiamo Intransigenze – la raccolta di
corrosive e corroboranti interviste nabokoviane – a libro-totem. Insomma, diamo
dimostrazione che anche WhatsApp, altrimenti umana camera degli orrori, di
sbandierate banalità, può essere qualcosa di non troppo dissimile dal Fedone o
da Macbeth. Entrambi – credo – crediamo che ogni verità vada temprata
distruggendola; che occorra il coraggio di spogliarsi di ogni convinzione. Fare
di sé il vento e il lupo, la pula e il pullulare di ululati.
Credo, piuttosto, che Cristiano Godano sia uno dei rari cantautori italiani –
per un sano senso della sprezzatura e dello snobismo – non inquadrabile in
schemi, non liquidabile in teoremi. Rifugge dai cliché della rockstar; ha in
odio le grige manie degli ‘alternativi’ che – ormai altro da sé – fanno reddito
con la malinconia, con l’epopea della giovinezza trascorsa. Gli album ‘in
solitaria’ – Mi ero perso il cuore, 2020; Stammi accanto, 2025 – dicono di un
artista che non si placa, inappagato, implacabile soprattutto verso se stesso,
che ha imparato la voluttà di non piacere ai più. Chi è cresciuto ascoltando i
Marlene Kuntz nella fetida periferia torinese, nei lividi Novanta – “Mi
piacerebbe sai, sentirti piangere/ anche una lacrima, per pochi attimi” – sa che
la sola speranza è spezzarsi, che la sola vita è precipitare.
Nel libro Nuotando nell’aria, Godano cita Borges e Rimbaud, Keats e Dostoevskij,
scrive per trenta volte la parola “poesia” (molte più volte della parola
“sesso”) e per ventisette volte la parola “poeta”; in venti circostanze appare
Nick Cave, il suo prediletto. A chi gli dà del poeta, però, Godano risponde,
perentorio, che “l’autore di testi per canzoni non è un poeta”, semmai “è
potenzialmente un poeta mancato”. Fine della discussione.
A volte, Godano sembra decorarsi con le pose da doge del nulla: gli piace
ripetere che deriviamo dai vermi e dai pesci, che l’uomo è un incidente di
percorso nell’esistenza terrena, che la vita è spietata, che l’intelligenza è un
sovrappiù di sfiga perché ci obbliga a indugiare sul dolore, che infine l’arte è
niente. Che tutto, in fondo, finirà e nessun dio ci attende a bocca aperta negli
altri mondi. Tutte cose che si sanno, che insaporiscono il discutere di
zuccherine oscurità. In fondo, si ascolta una canzone per liquefarsi in un regno
ulteriore della mente; in fondo, chi scrive una canzone è già al di là di questo
mondo – che si dica salvezza, che si dica disperazione, che importa.
Se ti dico la parola “poesia” cosa ti viene in mente?
La famosa definizione di Paul Valéry sulla poesia (“La poesia è una lunga
esitazione fra il suono e il significato”) mi è sempre piaciuta al punto da
lasciarmene condizionare irrimediabilmente. Ed è ciò che mi sovviene ora a
seguito della tua domanda. So che questo inizio di risposta è connesso alle
specifiche necessità del creatore di versi più che al lettore, e immagino che
solo un lettore molto allenato e consapevole possa avere una tale consapevolezza
raffinata comprendendo la complessità del fare poesia. Dunque il lettore attento
sa che la poesia ha un ritmo e ha un suono, e anche di questo gode leggendo,
mentre il lettore meno strutturato ed esperto basa il suo gradimento
principalmente sulle emozioni di natura sentimentale. Senza voler qua
demonizzare questo tipo di emozioni, penso che si collochino a un livello
inferiore nella scala del giudizio. Io, come lettore, dichiaro la mia non
robusta frequentazione del genere: le leggo principalmente quando sono nel
processo creativo per fare un disco nuovo, poiché in quel caso la contiguità del
mio far versi per canzone con le esigenze del poeta nel suo verseggiare mi aiuta
a connettermi con la specificità di ciò che sto per affrontare.
Penso che si è ottimi lettori di poesia quando si è dotati di immaginazione: a
volte a me sembra di non averne a sufficienza. Detto da un sedicente artista è
grave, lo so.
Nel tuo discutere e nei tuoi pezzi citi, tra i tanti, Borges (adoratissimo da
Mick Jagger, per altro…), Baudelaire, Rimbaud, Gozzano, Montale… Viene fuori una
specie di “Contro-Canone Godano” della letteratura. Proviamo a redigerlo una
volta per tutte? Citami dieci libri che in qualche modo hanno orientato la tua
vita – e perché.
Se la domanda è “i libri che hanno orientato la tua vita” sono spinto a nominare
anche le opere non di finzione che sono state per me importanti. Premettendo che
la più parte delle cose che ho letto è stata da me un po’ dimenticata, sto
guardando in questo momento i miei libri (una parte, per lo meno) per cercare la
risposta adatta; noto che molti di essi mi dicono “sì, mi leggesti tempo
addietro”, e posso nominare: Lolita di Nabokov (letto due
volte), Intransigenze di Nabokov (l’ho letto e riletto più volte), Fuoco
pallido di Nabokov (letto due volte), La cognizione del dolore di Carlo Emilio
Gadda (libro straziante), Fratello cicala di John Updike (una raccolta di
racconti: mi approcciai a lui con questo libro, non certo il suo più famoso:
rimasi incantato dalle qualità estetiche della sua scrittura), due o tre opere
di Shakespeare contenute nello stesso libro dei ‘Meridiani’ (non importa quali:
è la lettura di Shakespeare in sé che mi estasiò), Odile di Raymond Queneau (ero
catturato dalle stranezze dell’Oulipo e dai tentativi di commistione
matematica-letteratura), Scritti sull’artedi Paul Valéry (raccolta di
micro-saggi che influenzarono molto il mio pensiero in costruzione), Sulla
poesia di Eugenio Montale (raccolta di micro-saggi, idem come per Valéry),
alcuni racconti e le poesie di Borges (raccolti anch’essi nei ‘Meridiani’: mi
affascinavano i labirinti di Borges, ma anche le qualità riflessivo-filosofiche
della sua poesia), Nera schiena del tempo di Javier Marías (ricordo che mi
catturò molto: ero immerso in qualche processo creativo per un disco dei
Marlene).
C’è poi – lo abbiamo capito mentre compulsavi il tuo “canone” privato – la
conclamata passione per Nabokov. Da dove nasce e perché è per te fonte di
ispirazione?
La mia passione per lui nasce con la lettura di Lolita e, subito dopo, con
quella di Intransigenze, spassosa e serissima al contempo raccolta di interviste
che rilasciò soprattutto dopo il successo di Lolita. Intransigenze fu un
magnifico regalo che mi fece colei che sarebbe diventata la mamma di mio figlio:
se già Lolita mi aveva appassionato per via di uno stile che recepii
immediatamente e del tutto istintivamente come magnifico, con Intransigenze mi
addentrai nell’abbagliante personalità di Nabokov, innamorandomene. Penso che
Nabokov sia il classico caso di “o lo ami o lo odi”: non tutti amerebbero
sentire uno scrittore sbeffeggiare Dostoevskij o Faulkner o Thomas Mann o
Balzac, per dire… Ammetto di essere affascinato dalla forza tonitruante di certe
opinioni: ci vuole coraggio ad averle, e lui aveva coraggio da vendere. I libri
fondamentali per me, sottolineando che non ho letto Ada (lo temo!) e altri tre o
quattro, sono Lolita, Fuoco pallido, Invito a una decapitazione, Il dono, Parla
ricordo, La vera vita di Sebastian Knight. E Pnin, per ridere tanto.
Il mondo rigurgita di orrori. Un manipolo di vecchi si sta bombardando con una
violenza equiparata alla vile scaltrezza. Che senso ha fare arte, allora? Che
senso ha la ‘bellezza’?
Siamo in un momento esacerbato, e cieco, e sordo: polarizzati e sempre più
incazzati vediamo il bianco o il nero e non siamo più disposti a comprendere le
sfumature, quelle che la tanto vituperata democrazia ci aveva insegnato con la
sua inevitabile pazienza, che non c’è più. L’arte temo possa fare poco. O
perlomeno: a livello individuale può fare tantissimo (io ad esempio spero che
non manchi molto al mio rifugiarmi in essa per fuggire dallo schifo intorno), ma
a livello di possibilità di ergersi a barriera del deragliamento temo di no, che
non possa farcela. Rileggo meglio la tua domanda: “che senso ha fare arte?” Beh,
come minimo può aiutare chi la fa a sganciarsi da questo pessimo mondo: è una
condizione a cui, come ho detto qua sopra, idealmente ambisco. Non so se ci
riuscirò: è un auspicio.
Nel tuo ultimo album, Stammi accanto, intuisco, consapevole o meno, una qualche
ricerca del sacro, un andare verso l’altro, l’oltre. È così? Siamo solo pappa
per vermi? Cosa resta di ciò che abbiamo fatto, vissuto, scritto?
Ci dev’essere qualche contraddizione in me, perché spesso mi si fa notare che
nonostante tutte le mie tiritere pessimiste i miei testi palesano una
spiritualità di qualche tipo, o ricerca del sacro, come dici tu… Forse quando
solletico il mio afflato scateno qualcosa dentro di me che lotta in sottotraccia
per non farsi vessare dal raziocinio: una latenza pronta a farsi viva quando
ritiene utile… O è semplicemente la mia parte più vera, che non sa arrendersi
nonostante tutto alla dialettica stringente della ragione. Non so che dire:
in Stammi accantoc’è una canzone, peraltro la mia preferita, che si chiama Cerco
il nulla, dove mi pare di esprimere un non so che piuttosto lontano dal sacro.
Ho solo 59 anni, tempo per vederci meglio e capirmi meglio ne ho ancora…
*In copertina: Cristiano Godano nel ritratto fotografico di Antonio Viscido
L'articolo “Detto da un sedicente artista è grave…” Il Canone Godano della
letteratura universale proviene da Pangea.
Molte cose può la poesia: consolare, cullare ma – più delle altre – anche
comandare. Chi entra in un museo – in questo caso il Louvre, dove i capolavori
vanno in carcere e gli dèi all’obitorio – per cercare il sollievo borghese
dell’estetica in una placida contemplazione del “bello”, ha già tradito tutto.
Si muove orizzontalmente, come un turista dell’assoluto, e non verrà mai toccato
dalla lama. Perché l’arte che ispira davvero è padrona e non ancella, lo sa bene
chi in una statua o in un testo ieratico non ci ha visto un parere o
un’interpretazione ma un giudizio. Un giudizio divino che fissando dal suo
abisso marmoreo spoglia chi lo osserva.
Ecco Rainer Maria Rilke davanti il Torso arcaico di Apollo. Un pezzo di pietra a
cui la barbarie del tempo ha amputato la testa, le braccia e le gambe; è rimasto
il nucleo del torso, un blocco tellurico che ne contiene il cuore. Eppure, c’è
chi in questo più che una mancanza, ci ha visto una potenza accresciuta, una
folgore contenuta in quel petto mozzo di ogni arto. La critica si è arrovellata
per decenni, producendo biblioteche di esegesi flaccide, tentando di
addomesticare quella violenza finale traducendola in inoffensivo gergo
psicologico, in un invito a essere “più buoni”, “più consapevoli”. Non volevano
vedere nulla. Gli dèi dettano ordini, non suggerimenti, lo sa Rilke e
certamente, lo sa anche Apollo. L’imperativo che chiude il sonetto – “Devi
cambiare la tua vita” – è un decreto divino, non derubricabile ad un mite
consiglio amichevole.
La prima fondamentale operazione che questo torso compie è un atto di
iconoclastia sublime annientando il suo stesso volto. La testa, con la sua
mimica delle labbra e con i suoi occhi che si dice siano ponte per l’anima, è
stata decapitata. Ma non si tratta di una perdita, chiaramente è una
purificazione che emenda Apollo della maschera dell’Io e di ogni teatro emotivo
umano. Si tratta di emendare il corpo dal logos cerebrale, che tutto vuole
spiegare e ridurre a concetto. L’assenza della testa permette al corpo di
diventare esso stesso sguardo totale. Rilke osserva come il torso, anche
sprovvisto di occhi, ha uno sguardo simile a una stella che osserva da ogni
punto della sua superficie. Altrimenti, sarebbe una pietra deforme e monca, ma
non lo è; è intera metafisicamente, prima che anatomicamente.
Lo sguardo di Apollo non emana più da un centro, ma si irradia dall’intera
massa. È uno sguardo panottico-somatico di una divinità che non si esprime più
attraverso un volto umano, ma per mezzo della tensione pura della forma. Il
marmo trasuda luce e brilla come un candelabro sacro, la cui energia interna
preme contro i confini della pietra fino a farla esplodere di incandescenza.
Questo è un dio apocrifo, che non ha nulla della ragione apollinea e che invece
ha assorbito la potenza dionisiaca. Rilke legge il torso di Apollo in maniera
verticale. L’uomo orizzontale consuma arte come consuma cibo, la giudica
passivamente e la recensisce con aggettivi esausti senza lasciarsi ferire o
accettarne i comandi. Il torso che descrive Rilke, invece, irrompe su questo
piano e impone l’incontro con il sacro e con una bellezza che non ammette
neutralità. Si è costretti a prendere una posizione per elevarsi o annichilirsi,
ma il torso apollineo diviene in ogni caso un maestro di una ginnastica
spirituale. Il museo trae in inganno l’osservatore: il torso non è lì per essere
ammirato ma per essere imitato nel campo di battaglia della propria esistenza.
L’imperativo “Du mußt dein Leben ändern”, l’enfasi è sulla parola finale che –
in tedesco si lega ad andere, altro – chiede l’alterità, rendere la propria vita
altro. Cambiare la propria vita è il fondamento di ogni ascesi e disciplina, di
ogni aristocrazia dello spirito. È il comando che sente il monaco nella sua
cella e che l’atleta percepisce nello spasmo dei muscoli, un richiamo
all’ordine, alla forma e al rifiuto del caso informe della vita biologica.
Vivere orizzontalmente significa subire la propria esistenza, fluttuare secondo
le correnti delle passioni e delle mode. Vivere verticalmente significa imporre
una forma alla propria vita e farne un’opera, significa – in altre parole –
praticare.
Fu Sloterdijk a cogliere questo nucleo nella poesia. Rilke stava promulgando la
legge fondamentale dell’antropotecnica: l’uomo è l’animale che si auto-impone
discipline sovrumane per non restare semplicemente umano. La storia della
civiltà non è la storia del progresso sociale, ma la storia degli esercizi che
gli uomini hanno inventato per costringersi a diventare qualcosa di più. Dallo
yoga alla filosofia stoica, dalla maratona alla meditazione, la posta in gioco è
sempre la stessa: creare una tensione verticale, che distanzi ciò che si è da
ciò che si deve essere.
Il torso apollineo è latore di questa etica feroce, accusa con la sua bellezza,
ci guarda e ci vede flaccidi, informi e indulgenti con noi stessi. Ci vede
annegare e nella sua perfezione muta, ordina di smetterla di lamentarsi e di
opinare per iniziare, finalmente, a praticare. Scolpire la propria giornata come
uno scultore scolpisce la pietra. Imporsi un rigore affinché la morale non sia
volgarmente intesa come un catalogo di divieti, ma come un’estetica della
condotta. Il bene non è ciò che è giusto, ma ciò che ha forma. Rilke mette in
pratica una controrivoluzione spirituale riconoscendo nell’opera d’arte una
forma autocratica che esige obbedienza. Il suo messaggio è un imperativo
estetico: la propria vita, così com’è, è inaccettabile. È un’opera mancata,
insufficiente ed amorfa. Ora che si è stati visti, trafitti dalla luce del dio,
non ci sono più alibi.
Ciò a cui il poema chiama, in ultima istanza, è il superamento della sterile
dialettica tra Apollo e Dioniso, ordine e caos, una dicotomia che ha nutrito la
filosofia occidentale da Nietzsche in poi. Il Torsonon è semplicemente apollineo
nella sua perfezione formale. Al suo interno, come nota Rilke, la pietra
“flimmert… wie Raubtierfelle”, scintilla come pelle di belva, e il suo potere è
pronto a straripare da ogni suo contorno. Questa non è chiaramente la fredda
geometria del dio del rigore. È una forma che a stento contiene un’energia
selvaggia e primordiale. L’Apollo che osserva Rilke è un punto di fusione tra la
disciplina più rigorosa, la perfezione di quel torace sospeso, ed una vitalità
sfrenata contenuta al suo interno, un dio che non ha mai essenzialmente
abbandonato la statua che abitava. Questa è la tirannia benefica dell’Oggetto,
Rilke mette in atto una sovversione gerarchica: non è lo spettatore a guardare
l’opera, ma è l’opera che lo plasma. L’unica risposta degna a tale Epifania è la
scelta di un’ascesi. Il torso non ha più il volto perché ora il suo volto è il
nostro, e ci chiede cosa ne stiamo facendo. Tutto il resto è intellettualismo, e
l’intelletto oggi più che mai, non serve a nulla.
“Non conoscevamo il suo capo inaudito
in cui maturarono i pomi oculari. Ma
il suo torso ancora arde come un candelabro,
dove il suo sguardo, ormai scorciato,
si conserva e risplende. Non potrebbe sennò la curva
del suo petto abbagliarti, e scorrendo la torsione delicata
dei lombi non riuscirebbe un sorriso a posarsi
su quel luogo centrale cui spettava la procreazione.
Sarebbe sennò deforme questa pietra e corta
sotto lo spiovere invisibile delle spalle,
e non tremolerebbe come pelo di belva feroce;
e non irradierebbe da ogni suo contorno
come una stella: perché non v’è punto qui
che non ti veda. Devi cambiare la tua vita.”
Andrea Falco Profili
L'articolo “Devi cambiare la tua vita”. Rilke di fronte al torso arcaico di
Apollo proviene da Pangea.
Probabilmente, è bene cominciare dalla fine.
Il ragazzo decide di partecipare allo sbarco in Normandia. Mobilitato in Nord
Africa, chiede ai superiori di essere impiegato durante il “D-Day”. Il ragazzo
ha i grandi di capitano, l’ostinato desiderio di essere al ‘centro della
Storia’. Tre giorni dopo lo sbarco, è il 9 giugno del 1944, il suo reggimento si
impantana a Tilly-sur-Seulles, piccolo borgo del Calvados – ad oggi, supera di
poco i mille e cinquecento abitanti. Il ragazzo – abile nel disobbedire, desto
nel prendere l’iniziativa – sbarca dal suo tank, avanza in ricognizione
solitaria. Un colpo di mortaio lo ammazza. Il cappellano del reggimento, il
capitano Leslie Skinner, lo seppellisce alla buona, presso una siepe. Più tardi,
sedata la guerra, i resti del ragazzo vengono sepolti nel cimitero militare di
Tilly-sur-Seulles: lotto 1, fila E, tomba 2. Il ragazzo si chiamava Keith
Douglas. Poeta.
Destino infero quello dei poeti della Seconda guerra. Ce ne sono stati tanti,
eccellenti – pensiamo, alle nostre quote, al Diario d’Algeria di Vittorio
Sereni, oppure a Fogli d’Ipnos, la raccolta del poeta ‘resistente’ René Char,
tradotta guarda caso da Sereni – eppure è stato il reportage, il documentario
‘in diretta’; è stato il cinema a dire, con sicurezza definitiva, la Seconda
guerra. Al contrario, la Prima guerra è stata una sorta di ‘laboratorio’ per la
poetica del nuovo mondo, dei tempi nuovi: lo dimostra – in Italia – la quantità
eccezionale di repertori antologici (Vallecchi editava una straziante Antologia
degli scrittori morti in guerra; va visto, in particolare, l’“Antologia dei
poeti italiani nella Prima guerra mondiale”, Le notti chiare erano tutte
un’alba, ideata da Andrea Cortellessa per Bompiani nel 2018). La nostra poesia
‘moderna’ nasce in trincea, con Giuseppe Ungaretti.
È come se la Seconda guerra, per sovrabbondanza d’orrore, non possa essere
narrata: dev’essere subita, a operare nei recessi dell’anima, quando
non vista (tradotta in film, anatomizzata nei reperti documentari). Nel mondo
inglese, così, per “War Poets” s’intendono, in particolare, i Poets of the First
World War, quelli gloriosamente onorati nel “Poet’s Corner” a Westminster, tra
Shakespeare e Lord Byron, tra Chaucer e Dickens (tra gli altri, Rupert Brooke e
Isaac Rosenberg, Wilfred Owen e Robert Graves; per un approfondimento, si
veda l’antologia War Poets. Nelle trincee della Prima guerra mondiale, costruita
da Paola Tonussi per le Edizioni Ares nel 2022). Dei poeti della Seconda guerra
si fa memoria occasionale – spesso ci si dimentica di loro, sepolti da un
disastro incomparabile, tacito accordo sull’ineluttabile irresolutezza
dell’arte, della poesia di fronte alla morte.
Nato nel gennaio del 1920, Keith Douglas morì che aveva da poco compiuto
ventiquattro anni. Dalla sua poesia esala la facondia immaginativa, la
complessità della ‘scena’ e delle scelte lessicali, un certosino distacco nel
vegliare sui fatti di guerra, che al posto di idealizzarsi in muta indifferenza
esalta una tenuta, una postura poetica in grado di estrarre il dettaglio al
diamante dal nulla bellico. Nato nel Kent, Douglas studiò al Christ’s Hospital
mettendosi in luce sia per il talento, esagitato, che per l’animo, poco disposto
a subire i rigori dell’educazione britannica. Pubblicò le prime poesie
sedicenne; decise di arruolarsi perché pensava che la guerra fosse il ‘grande
argomento’ della letteratura del suo tempo. Fu disciplinato nel Derbyshire
Yeomanry, praticò al Cairo e in Palestina, partecipò – anche lì, per ardimento:
non voleva più servire per lavori d’ufficio – alla Seconda battaglia di El
Alamein: guidava un carro armato. Il suo superiore era il colonnello Edward O.
Kellett, che sarebbe stato ucciso l’anno dopo, in azione, in Tunisia. Di
quell’esperienza, Douglas ha lasciato un memoir, Alamein to Zem Zem, pubblicato
da Faber, introdotto da Lawrence Durrell.
Nella scelta di arruolarsi di Douglas agì anche la situazione familiare. Figlio
di un militare in congedo, con cui aveva pessimi rapporti, Douglas crebbe, in
sostanza, solo, in collegio. La madre collassò in un’encefalite letargica grave;
il padre mollò la famiglia, risposandosi, che Keith aveva dieci anni.
In molti riconoscono in Keith Douglas i prodromi del grande poeta, il cupo
carisma dell’inattuato, dell’inespresso. Fu Edmund Blunden, il poeta veterano di
guerra – per altro, ricordato nel “Corner” –, più volte nominato al Nobel per la
letteratura, a riconoscere in Keith Douglas la stazza del talento puro. Nel 1938
inviò una scelta di sue poesie a Thomas S. Eliot, che le apprezzò. Il ragazzo
era giovane, i fatti precipitarono. I Collected Poems di Keith Douglas vengono
stampati da Faber nel ’46, con un’introduzione di Blunden. A quella seguiranno
diverse altre edizioni: la più nota – Selected Poems, 1964 – è introdotta da Ted
Hughes, che ha sradicato Keith Douglas dalle malie del ‘poeta di guerra’, utile
a fini non soltanto estetici, “è la sua poesia, in generale, a serbare un valore
unico, che rende il poeta più vivo che mai”. Tese tra le stelle e il cadavere,
le poesie di Keith Douglas irrompono in noi con corvina tenerezza – come
incisioni sulle ossa.
***
La Bestia Meraviglia
Barone dei mari, il grande pesce
spada dei tropici, straziato sul famelico
ponte dove i marinai lo hanno ucciso
nel paradisiaco Pacifico: lama che indaga
occhio che fugge e stana la preda
nei regni oscuri dov’era re; arma
forgiata nella semi-tenebra, eppure,
strappata dal cadavere di questo estroso
viaggiatore, è una lente d’ingrandimento
che riflette l’inusuale zampillo del sole.
Con quella lama un marinaio incide sul legno
il nome di una prostituta abbordata
nell’ultimo porto. È uno degli strumenti
più strani custoditi dalle onde –
suppongo che la querula voce
dei marinai marciti in spettri
digeriti dalle ingorde maree
potrebbe descriverne molti.
Che siano i vostri ospiti, che vi conducano
negli abissi dove brucano i loro vascelli
dimenticati – che tutto risorga nell’occhio
che arde. Per incidere quel verbo, il sole
perfora la potenza del mare e urla
il suo nome, omaggia quella meraviglia.
Linney Head, Galles, 1941
*
Come si uccide
Sotto la parabola di una palla
un bambino diventato uomo
fissa l’aria troppo a lungo.
La palla mi è caduta in mano, canta
nel pugno chiuso: Usami Usami
sono un dono ideato per uccidere.
Ora nel mirino vedo
il soldato che sta per morire.
Sorride, si muove nei modi
che solo sua madre conosce.
Fili sul suo viso: è l’ora
in cui piango. La morte è il mio
più intimo familiare e muta
in polvere un uomo di carne.
Ma questa è la mia stregoneria.
Sono un dannato, amo ammirare
il centro dell’amore spalancarsi
e un’onda di amore vagare nel vuoto.
È così facile creare un fantasma.
La zanzara, leggerissima, tocca
la misera ombra sulla pietra:
con quanta, infinta tenerezza
l’uomo e la sua ombra si incontrano.
Si fondono. L’uomo è un’ombra
e le zanzare obbediscono alla morte.
*
Fioriture nel deserto
Soltanto i fiori proliferano nei paesaggi selvaggi –
ripeto soltanto ciò che stavi dicendo, Rosenberg –
la conchiglia e il falco ad ogni ora
uccidono uomini e gerboa, uccidono
la mente: ma i corpi possono soddisfare
gli affamati fiori e i cani che gridano come
uomini, di notte, la cosa più dura di tutte.
Ma questa non è una novità. Ogni volta che
la notte lancia stracci sugli occhi, lascia la mente
desta, guardo ai lati della porta del sonno
cerco la piccola moneta necessaria
per comprare il segreto che non saprò mantenere.
Vedo uomini che soffrono come alberi
confondono i dettagli e l’orizzonte.
Metti la moneta sulla mia lingua
canterò cose che nessuno ha mai visto.
*
Vergissmeinnicht
Tre settimane dopo i guerrieri
erano spariti: tornammo su quel
campo da incubo – il soldato era
ancora lì, disteso, incubato dal sole.
All’ombra della canna del suo fucile.
Avanzavamo quel giorno
e lui colpì il mio carro come
se fosse la mascella di un demone.
Guarda. Qui, nella trincea dirupo
la fotografia disfatta della sua donna:
ha scritto Steffi. Vergissmeinnicht
con una calligrafia gotica perfetta.
Ci sembra felice, ormai degradato,
deriso dalla sua stessa divisa
così dura e superba quando
il corpo è in decomposizione.
Ma lei piangerebbe, oggi, nel vedere
le mosche che si muovono oscure
sulla sua pelle, la polvere sull’iride
di carta, lo stomaco squarciato come una grotta.
Perché qui amante e assassino sono
lo stesso, hanno un solo corpo e un solo
cuore. La morte che ha eletto quel soldato
ha avvelenato con un male mortale l’amante.
*
Stelle
(Per Antoniette)
Le stelle marciano ancora, in ordine sparso
da nulla a nulla. Guardatele, sono immobili
sul campo notturno, autentica terra di nessuno.
Lì, lontana, con spada e cintura, dev’essere
Orione. Per i commissari di questa guerra
da esaltati è il Carro. Nessuno favoloso confine
può annientare il loro coraggio, nessuna banda
le sfiderà: soltanto la disciplina le ha
mobilitate e le mantiene vive. Così
le hanno viste il Tempo e i suoi avi. Così
combattere il disordine è il loro compito
e la vittoria persiste nelle loro mani.
Dal limite delle vecchie colline fino
a quelle pianure, laggiù, si estende
il loro accampamento. Gli eterei ufficiali
salutano, da tenda a tenda, i messaggeri
cometa. Guardiamo in alto, con dolore
a quei compagni lontani, quelle plaghe
che non possiamo calpestare.
1939
*
Canoa
Questa potrebbe essere la mia ultima
estate e non voglio perdermi nulla
del piacere che dona l’antica arte
dell’ozio. Non mi lascio terrorizzare
dal destino che aleggia sullo sfondo
mentre l’erba e le case e il fiume insonne
credono di poter durare per sempre
e si scambiano sussurri sommessi –
impera l’afa. Quale terribile fato potrà
impedire alla mia ombra di vagabondare
da queste parti il prossimo anno?
Fischia: ti sentirò e verrò, a sera, sulla
stessa barca con cui vai verso Iffley
mentre fissi il cielo in attesa del tuono
che come una campana preannuncia
pioggia – il mio spettro ti sfiorerà le labbra.
Keith Douglas
L'articolo “Canterò cose che nessuno ha mai visto”. Keith Douglas, un poeta in
guerra proviene da Pangea.
Qualcun altro per lui ha seminato bene crepuscoli. Sotto lo sguardo vigile di
Cerbero, vendemmia grappoli di tenebra nei suoi occhi prima ancora che nel
cielo. Al ritmo di un precipitare, dà coordinate esatte alla disperazione.
Grodek, 1914, novanta commilitoni squarciati nella carne e nell’anima che
chiedono sollievo e l’inutile perché di una guerra: troppo esili le sue spalle
per farsi carico di quel dolore, solo e senza farmaci – non resta che spingere
la prosodia fino alle porte dell’Orco per strapparla un’ultima volta alla sua
morsa. C’è Grete, “oscuro amore/ d’una selvaggia stirpe” e solo per questo casa
vuol dire ancora qualcosa. Compagna di sangue e di abisso; sorella di
un’innocenza che hanno perduto insieme, mano nella mano. Distilla bagliori
autunnali in punta di dita, come “oro di stelle cadute” (Al fanciullo Elis).
Si cammina in giorni bui come nei boschi fitti – che riparo c’è, dove –, nella
stagione signora del freddo e delle foglie ingiallite, non si capisce, nel tempo
che impiegano a cadere dondolando, se la musica muta che le muove è giuramento
di una prossima, lontana rifioritura o memoria volatile di un verde
irripetibile. L’eterno, ciclico incedere pare spezzarsi e le pupille inchiodano
un tramonto dove anche Dio, per un istante tutto umano, si raccoglie in
solitudine al termine della battaglia quotidiana col poeta. L’orlo di un
bicchiere di vino promette naufragi di porpora per domande troppo oscure, mentre
il sambuco tace e “presto s’annideranno stelle nelle ciglia dell’estenuato”
(L’autunno del solitario).
Georg Trakl, nato dipartito. Con perizia di aruspice indaga le viscere del
mondo, in un allucinato andare e tornare tra sogno e veglia ma sempre verso sé
stesso, come scrive in una lettera ad Irene Amtmann. L’amico fraterno Karl
Kraus, il bianco pontefice della Verità in una poesia a lui dedicata, non
comprende del tutto come Georg possa vivere. E infatti, come si vive quaggiù non
essendo di quaggiù? Sempre straniero in questa distesa sublunare che lacrima
sangue nel clamore delle armi, dentro il quale tutti gli orizzonti cortissimi
dell’eclissi del sacro cadono uno dopo l’altro, anche loro come soldati.
L’indigenza dell’arrischiato, scritta con la calma dei passi inesorabili, è la
frantumazione del centro. Schegge di uno specchio rotto, le immagini familiari
(la casa, un vecchio album di famiglia, il padre, la madre, etc…) sono ombre e
volti di pietra; tutte le cose, dice Trakl, tacciono mentre gli enigmi
dell’anima si sottraggono ad una chiarezza.
Nella poesia di Trakl – secondo Angelo Lumelli giocata tutta contro le
aspettative del discorso – il poeta raccoglie e accoglie come compagnia, lungo
la strada della parola, fantasmi, cioè silenzi che non redimono le domande più
ostinate, rinunciando a scioglierle in risposte comode ma fragili. Sacrifica la
tentazione di dire l’indicibile e per questo apre varchi ad azzurri diversi da
quelli del pensiero.
[…] Sotto cupi abeti
due lupi mescolavano il loro sangue
in abbraccio pietroso; d’oro
si perdeva la nuvola sul varco,
pazienza e silenzio dell’infanzia.
Di nuovo s’incontra il tenero cadavere
Sullo stagno del Tritone
Assopito nella sua chioma di giacinto.
Oh finalmente s’infrangesse il fresco capo!
Ché sempre segue, azzurra fiera,
un occhieggiare tra ombre crepuscolari d’alberi,
questi varchi più bui
vegliando e mossa da notturna armonia,
dolce delirio;
o suonava di oscura estasi
piena la musica
ai freschi piedi dell’espiatrice
nella città di pietra.
Cosa va distruggendo in poesia, mentre tocca ad una “fiera azzurra” la custodia
dell’”armonia degli anni spirituali” (Declino dell’estate)? Qui disperazione non
è semplicemente sprofondare; è il tentativo di recuperare la durata, di
strappare la vita alla marcescenza dell’epoca.
Ogni grande poeta va capito nel paradosso. Proprio perché si sottrae alle
allodole del discorso, Trakl non canta la morte, ma dice, sanguinando, dunque
proprio morendo, la vita. Al piano di sopra, noi che non siamo poeti e crediamo
di essere al riparo dei paradossi, dei loro agguati, chiamiamo vita
quest’andatura più o meno ordinata, regolare, ignari che c’è un poeta, proprio
dove non osiamo scendere, pronto ad ingaggiare per il troppo amore quel duello
decisivo contro il sole falso che abbiamo posto a misura dei nostri destini
traditi. Sui passi di quella fiera azzurra, torna il poeta verso la sua
infanzia, verso sé stesso con sfrontatezza da angelo caduto.
III
Voi grandi città
innalzate di pietra
Sulla pianura!
Così muto segue
chi non ha patria
con oscura fronte il vento,
alberi spogli sul colle.
Voi correnti che lontane albeggiate!
Potente affanna
orrore d’un tramonto
nei nembi della tempesta
Voi popoli morenti!
Pallida onda
che si rompe alla spiaggia della notte,
cadenti stelle.
(Occidente)
(I versi citati sono nella traduzione di Leone Traverso)
Livia Di Vona
L'articolo “Azzurra fiera”. Inseguire Georg Trakl nel suo allucinato andare tra
sogno e veglia proviene da Pangea.
Fino a poco tempo fa, tutto risplendeva – tutto aveva un senso visibile e
chiaro, come un fuoco: ogni fiamma, pur tentacolare, aveva un volto, contraeva
un patto. Il mondo era una famiglia. Il grano riguardava l’astro che ne
garantiva la crescita e la mano, a stella, che lo raccoglieva; l’albero era
imparentato al corvo che vi atterrava sopra, della specie di Saturno; il fiume,
a leggerne i sussurri, a strologare la cifra delle strolaghe, garantiva figli
dai capelli corvini, agilità nel corpo. Nutrirsi di alcune piante permetteva
certe qualità; necessario era apprendere i poteri della vasta famiglia dei
rettili e degli anfibi. Il volo degli uccelli, lassù, interferiva sulla nostra
sorte, quanto l’opera magnetica dei pianeti.
Anche la volpe che ieri notte ha attraversato la strada, trasfigurata dai fari
della mia macchina, cucendo bosco a bosco, quella volpe Mercurio, partecipa
della mia vita, ha un senso.
L’era della misura ha tolto lo spazio dello smisurato: la sapienza,
parcellizzata in saperi, è mutilata; all’osservazione e alla speculazione
astrologica si è sostituito l’osservatorio astronomico, il tempio è sottomesso
all’accademia. È vero: la chirurgia ha soppiantato le erbe curative, i maghi e i
mestatori di formulari – vivremo tutti, tiepidamente felici, grigi pingui
pinguini, fino a centocinquant’anni – sia gloria al dio della salute; la
salvezza resta altrove.
Fino a poco tempo fa, intendo, il mondo non era costellato di ‘corrispondenze’ o
di ‘segni’: il mondo aveva un significato. Interpretare i segni è già il sintomo
di un’era insignificante. L’era del simbolo teneva insieme l’uomo, la terra, il
cielo – corrispondenza significava corresponsabilità.
Di questo mondo – che è poi, autenticamente, il nostro, quello di Dante e di
Francesco – Rabano Mauro è l’enciclopedia vivente, l’esegeta sommo. Abate di
Fulda, arcivescovo di Magonza – dove muore nell’856, il 4 febbraio, il giorno in
cui la Chiesa fa memoria della sua santità – Rabanus Maurus Magnetius fu
istruito da Alcuino, visse gli incerti che seguirono agli anni di Ludovico il
Pio, scrisse tantissimo, investigò il tutto. Del suo libro ‘totale’, il De rerum
naturis, “una cosmologia… ovvero una descrizione della realtà nel quadro di una
visione unitaria del mondo”, in cui l’abate di Fulda “descrive ogni cosa che
riguarda il mondo conosciuto, dall’umile chicco di grano alla costellazione di
Boote, nel tentativo di abbracciare la totalità dello scibile in una
rappresentazione del micro e del macrocosmo coerente con la dottrina cristiana”,
Claudia Gualdana (da cui ho tratto le citazioni) traduce, con talento
sgargiante, devota al culto dei libri assoluti che ora passano per eccentrici
(va ricordato il suo Rosa. Storia culturale di un fiore, Marietti 1820,
2019), il libro IX come Il mondo e gli astri (La Vita Felice, 2025). Il libro –
che è poi un manuale, un tascabile che si snoda per centocinquanta pagine, un
universo in miniatura – è straordinario perché ci orienta agli elementi primi,
riporta – secondo sintesi mirabile – ‘il tutto nel frammento’, conduce dal caos
– di cui si nutre un certo cristianesimo esagitato, in adorazione del buio – al
cosmo. Così, scopriamo che
> “il cielo è stato chiamato così, proprio come se fosse un vaso caelatum, ossia
> cesellato, perché reca incise le luci delle stelle come se fossero sigilli”.
Della luna è detto che “rappresenta le avversità del mondo”, ma anche la Chiesa
(perché – intuite l’introibo da raffinato polemista di Rabano – “essendo stata
creata nella dimensione temporale, come la luna talora si fa più piccola,
talaltra cresce, ma sebbene essa sia soggetta a calare, diminuisce in modo tale
da essere sempre restituita alla sua integrità originaria”) e “l’era presente,
perché è in costante mutamento”. I corpi celesti non sono geroglifici: come ogni
corpo – compreso quello umano, che dell’universo è mappa vivente, in calligrafia
di vene, ossa, arterie –, hanno diversi sensi – letterale; allegorico; anagogico
– e sensibilità; l’abate sviscera tutti i significati con dovizia di citazioni
bibliche. Il compito di Rabano Mauro è titanico: egli va risignificando il mondo
alla luce della rivelazione di Cristo. Così, alle enciclopedie ‘pagane’ – il
mito classico, che armonizzava l’antico mondo – sostituisce il nuovo codice
cristiano. Rabano offre la chiave per interpretare ogni minuta cosa: il tuono –
“che è stato chiamato così perché il suo suono terreat, ovvero atterrisce” – e
le braci – “indicano le concupiscenze illecite dell’animo” – il vento “violento
e veemente” e le Pleiadi, “l’annuncio della comunità dei santi che, nella
tenebra della vita presente, ci illuminano con la luce della grazia dello
Spirito septiforme”. Di Lucifero, “la stella del mattino”, è detto che “può
alludere al Salvatore o alla luce della vera conoscenza”; nel suo “significato
malefico” marca il senso della “caduta dallo splendore eterno fino alle tenebre
infernali”.
L’opera di Rabano Mauro serve a sanare, tra l’altro, l’impropria affermazione di
Robert Graves, il geniale poeta de La Dea Bianca. A suo dire, una “frattura…
separa il cristianesimo dalla poesia”, tanto che “è ormai impossibile combinare
le funzioni un tempo identiche di sacerdote e di poeta senza fare violenza
all’una o all’altra vocazione”. Allo stesso modo, l’indole “crudele,
capricciosa, sfrenata” della Dea Bianca contrasta con il culto della Vergine.
Graves – che sognava di rifondare un ordine ‘bardico’ della poesia e di
ricondurre la parola poetica al suo ancestrale potere magico, teurgico, e che di
fatto ha avuto un unico, straordinario allievo: Ted Hughes – ha, come sempre,
ragione. Proviene, però, da un regno in cui la “rivoluzione puritana” ha
sistematicamente cacciato dal tempio i druidi e i bardi, ha disonorato i boschi
considerandoli mero ornamento quando non materia prima per imprese di
falegnameria. In realtà, al netto di un semplicistico ‘romanticismo’ – che fa
del poeta il ribelle, l’eresiarca costi quel che costi, mentre è da sempre il
custode dell’ordine, il suo cardine; e non mi riferisco certo all’ordine
mondano, alla viltà del potere terreno, infine impotente se non sostenuto da
armi di assassinio di massa –, il poeta, come gli apostoli, parla le lingue e
guarisce dal male; la sequela Christi è fonte di infinita opera.
“Decifrare il linguaggio sacro”, come scrive Rabano Mauro, è compito dello
studioso e dell’artista. Così, nel formidabile Liber de laudibus Sanctae Crucis,
lirico laudario costellato di calligrammi, la parola è la cosa, la forma è la
formula, ciò che è nominato, d’improvviso, vive, con ferina evidenza – ulula
l’io e l’Iddio. San Paolo insegna che si prega “in modo conveniente” dando in
“gemiti inesprimibili” (stenagmois alatetois; Rm 8, 26). Si prega verseggiando
come fanno le creature: secondo il ronzio della mosca, l’adulare dei lupi, il
fruscio degli astri.
*Le immagini in copertina e nel testo sono tratte dal “Liber de laudibus Sanctae
Crucis” di Rabano Mauro
L'articolo “Decifrare il linguaggio sacro”. Rabano Mauro: dal caos al cosmo
proviene da Pangea.
Paradosso, sospensione, spazio; all’interno dei microcosmi in cui impulso e
controllo, violenza e ironia convivono sotto la polvere, vige un luogo dove
fragilità e maestà si concedono al minimalista. In modo preciso e frammentario,
senza ridurre la complessità, si fa della poesia un laboratorio d’etica. Nel
panorama del materiale ci si confronta con la forza residua della parola, e gli
svizzeri rispondono audacemente con un equilibrio profondamente umano, fin
troppo.
Tra le voci più singolari della letteratura svizzera del secondo Novecento, Kuno
Raeber occupa un posto che sfugge a ogni definizione. Ex gesuita, visse la
scrittura come una forma di fede personale, e concepiva il suo lavoro “per sé
stesso, ‘L’art pour l’art’”, come confidò nel suo diario nel 1982. Questa
intransigenza lo rese un outsider, anche quando sembrava vicino al centro. Negli
anni del Gruppo 47 diventò amico di Ingeborg Bachmann e di Enzensberger, ma fu
presto respinto da quel mondo. L’insulto di Walter Jens in un convegno lo segnò
a fondo. La sua risposta fu radicale; fare della lingua il proprio rifugio
cosmico, un equilibrio di forze polari.
> “L’artista può solo essere identico a se stesso. Altrimenti non è nessuno”.
Dopo essere stato definito “un monomaniaco delle parole”, i suoi diari furono
paragonati a quelli di Kafka; entrambi scrivono come chi lotta per sopravvivere
alla parola stessa. Al cuore del suo pensiero, però, sta la teoria della memoria
artistica. Le cose cambiano con lo sguardo che le pensa. L’arte, per Raeber, non
inventa ma ricorda. Scava nella materia del mondo (Weltstoff) per far
riaffiorare significati nascosti. Da qui la sua avversione per l’astrazione e
per ogni forma di illusione mimetica. Il linguaggio, diceva, deve restare
“flessibile, chiaro e profondo”.
Nei suoi testi, mito e quotidiano si sovrappongono come in un palinsesto.
Influenzato da Ovidio e Borges, intreccia figure sacre e terrestri, corpi e
simboli, in una prosa densa e incantata. Negli anni Ottanta tornò alla poesia,
come se volesse chiudere il cerchio.
Morì di AIDS nel 1992, durante una visita a Basilea.
> “Tutto per me si riferisce sempre più decisamente ad esso. Per me non è altro
> che questo enorme poema, questa montagna di parole, questo libro totale che
> cerco di realizzare.”
Oggi Raeber è considerato un poeta di microcosmi lirici, capace di concentrare
in pochi versi la complessità dell’esperienza umana: violenza e ironia, presenza
e assenza, impulso e controllo. La sua poesia, tradotta in modo frammentario in
Italia, ha influenzato lettori e poeti contemporanei che cercano di esplorare la
fragilità della parola e la densità emotiva dei testi brevi. Raeber dà
importanza alla sonorità delle parole e al modo in cui esse possono diventare
esistenza autonoma. Tende a concentrare la sua attenzione sulla persistenza
della voce come residuo della presenza. In questa poesia, da me tradotta, si
trova l’immensità di una voce soavemente stridula.
Kuno Raeber (1922-1992)
Zikade (Cicala)
Einst bleibt (un giorno resterà)
von mir nur noch die Stimme. (di me soltanto la voce.)
Du wirst mich in allen (Tu mi cercherai)
Zimmern suchen, (in tutte le stanze,)
auf den Treppen, in den langen (sulle scale, nei lunghi)
Fluren, in den Gärten, (corridoi, nei giardini,)
du wirst mich suchen im Keller, (tu mi cercherai in cantina,)
du wirst mich suchen unter den Treppen. (tu mi cercherai sotto le scale.)
Einst wirst du mich suchen. (Un giorno mi cercherai.)
Und überall wirst du nur meine Stimme (E ovunque tu soltanto la mia voce)
hören, meine hoch monoton (sentirai, la mia alta, monotona,)
singende Stimme, überall wird (voce cantante,ovunque )
sie dich treffen, überall (ti troverà, ovunque)
wird sie dich foppen, in allen (ti prenderà in giro, in tutte)
Zimmern, auf den Treppen, in den langen (le stanze, sulle scale, nei lunghi)
Fluren, in den Gärten, im Keller, (corridoi, nei giardini, in cantina,)
unter den Treppen. Einst (sotto le scale. Un giorno)
wirst du mich suchen. Einst (tu mi cercherai. Un giorno)
bleibt von mir nur noch die Stimme. (resterà di me soltanto la voce
Già dall’incipit – “Einst bleibt von mir nur noch die Stimme” – Raeber rovescia
la concezione tradizionale della morte e della sopravvivenza poetica. Non è il
corpo a permanere, né l’opera in senso materiale, ma la voce; ciò che
dell’essere è destinato a risuonare oltre la fine. Il poeta non parla più come
un soggetto incarnato, ma come ciò che di lui continua a farsi udire nel mondo,
come pura vibrazione, come resto sonoro. L’idea di voce in Raeber non è dunque
fisica, bensì ontologica: essa è la traccia del passaggio dell’essere nella
parola. È la sopravvivenza del suono come forma di presenza, anche quando ogni
presenza concreta è scomparsa.
In questa prospettiva la poesia si avvicina a quella dimensione
che Heidegger definisce Stimme des Seins, la “voce dell’essere”. La voce, per
Heidegger, non è semplicemente il mezzo con cui l’uomo comunica, ma il luogo in
cui l’essere si apre all’ascolto. Essa richiama il Dasein, lo convoca nel mondo,
lo fa desto alla propria finitudine. La voce è ciò che resta dell’essere quando
il soggetto è venuto meno, il luogo in cui l’essere continua a dire se stesso.
Ma in Raeber questo è un gesto inquieto, quasi ossessivo. La voce che rimane è
“hoch monoton singende”, alta, monotona e cantante. Non consola, non lenisce,
ma perseguita chi ascolta. È una voce che non smette di ritornare, un suono che
non si placa mai.
Qui la riflessione di Raeber si avvicina a quella di Derrida, per il quale la
voce rappresenta la promessa e insieme l’impossibilità della presenza.
Nella trace, nella traccia, la voce si mostra come ciò che resta dell’assenza. È
presenza che non cessa di mancare, segno che rimanda sempre a un’origine
perduta. Così la voce di Zikade (Cicala) è ciò che resta del soggetto, ma anche
ciò che testimonia la sua dissoluzione; non è più “la mia voce”, bensì una voce
che parla al mio posto, che continua a risuonare quando il soggetto non è più.
Il tu lirico a cui la voce si rivolge – “du wirst mich in allen Zimmern suchen”
– rappresenta l’esperienza del lutto. È colui che cerca una presenza perduta,
che tenta di ricomporre la figura dell’altro attraverso ciò che di lui
rimane. Ma la voce di Raeber non conduce al ritrovamento. Essa sfugge e deride
chi la cerca. È una voce spettrale, che non si lascia afferrare né localizzare,
che risuona “überall”, dappertutto, nei giardini, nei corridoi, nella
cantina. Il suo essere ovunque è anche il suo essere in nessun luogo. Come lo
spettro descritto da Derrida in Spectres de Marx, la voce di Raeber non
appartiene né al regno dei vivi né a quello dei morti: è una presenza sospesa,
un’esistenza che insiste.
L’intera architettura del testo riflette questa condizione. Il poema è costruito
come una figura speculare, in cui la seconda metà ripete e varia la prima. Le
stesse parole (Zimmer, Treppen, Fluren, Gärten, Keller) ritornano, dispiegandosi
in un movimento di eco continuo. Questa ripetizione non è semplice insistenza
formale, ma incarnazione del tema stesso: la voce che ritorna, che si
rispecchia, che si ripete fino a svuotarsi. Il ritmo trocheo, con la sua caduta
regolare, e la predominanza dei suoni acuti e del dittongo ei, creano una
struttura sonora che traduce materialmente la “monotonia alta” evocata nel
testo. La poesia non parla della voce, È voce. Non rappresenta il suono, ma lo
produce; non descrive l’eco, ma lo diventa.
Il titolo Zikade chiarisce ulteriormente questa concezione. La cicala, nella
mitologia greca, è la creatura che ha rinunciato al corpo per vivere soltanto
nel canto. In Platone, nel Fedro, si racconta che le cicale erano un tempo
uomini, i quali, rapiti dal piacere del canto, dimenticarono di nutrirsi e
morirono. Le Muse li ricompensarono trasformandoli in esseri che non hanno più
bisogno di cibo né di riposo, e che possono cantare ininterrottamente fino alla
morte. Raeber recupera questa immagine, ma ne rovescia la valenza. Il suo canto
non è celebrazione, ma condanna; la cicala di Zikade è una voce che non sa
tacere, un suono che non trova pace, un canto che osa continuare dopo la vita.
> “L’opera d’arte, intesa non solo come espressione momentanea, ma come mondo
> completo, come progetto di un mondo alternativo, ha preso il posto della
> Chiesa.”
In questo senso la poesia di Raeber si colloca in uno spazio di confine tra voce
e scrittura. La voce di Zikade vive soltanto nella pagina, nella ripetizione
tipografica delle parole, e tuttavia quella scrittura si comporta come suono. La
poesia tiene insieme i due poli che la filosofia occidentale ha spesso
contrapposto; la voce come immediatezza della presenza e la scrittura come
distanza e rinvio. Raeber, invece, mostra che la voce poetica è possibile solo
dentro la scrittura, e che la scrittura è viva solo in quanto risuona.
La ripetizione, il minimalismo, gli enjambements e l’uso dello spazio fisico e
mentale creano una densità lirica che invita a sostare, a confrontarsi con la
complessità dell’altro e con le tensioni morali e psicologiche della vita. Tra
muse, cicale, scale e cantine, la sua voce, alta, monotona, ossessiva, continua
a vibrare oltre la morte. Come se alla fine non l’uomo, ma la lingua, fosse la
vera sopravvissuta.
Tommaso Filippucci
*In copertina: un’opera di Alfred Kubin (1877-1959)
L'articolo “Questo libro totale che cerco di realizzare”. Kuno Raeber,
monomaniaco delle parole proviene da Pangea.
Il Vangelo di Marco, come si sa, finisce con un colpo di ghigliottina, con una
immedicabile cesura. Giunte al sepolcro vuoto, le tre donne – “Maria di Màgdala,
Maria madre di Giacomo e Salome” – scappano, “fuggirono via dal sepolcro, perché
erano piene di spavento e di stupore”. Paura le ammutolisce, “e non dissero
niente a nessuno”.
Se investighiamo il greco le cose assumono un’altra sfumatura. Le donne scappano
perché tremano (tromos) colte da estasi (ekstasis). Sono come in trance, sono
fuori di sé, rapite da dionisiaca ebbrezza: anch’esse un sepolcro vuoto. Uno
degli epiteti del “Dio vivente” è il terrore: è “terribile (phoberos) cadere
nelle mani del Dio che vive”, scrive Paolo. Un terrore che impone riguardo,
devozione.
Alle estatiche donne un misterioso “giovane… vestito d’una veste bianca”, assiso
di fianco al sepolcro, dice che “Gesù Nazareno, il crocefisso, è risorto, non è
qui… Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete”. Il timore delle donne davanti
al giovane (“ed ebbero paura”) ricorda il turbamento di Maria di fronte
all’angelo: lì si annunciava una nascita miracolosa, qui una ancor più
miracolosa seconda nascita. È più facile credere all’invisibile che si annuncia
in nuce d’angelo che alla verità di un corpo disfatto, maciullato, sviscerato,
disossato di sé, grave di sangue.
Chissà se poi le donne sono andate, in Galilea.
La Sapienza di Gesù Cristo comincia da lì: dal dubbio, dal timore, dall’estasi.
Il testo gnostico, databile tra il II e il III secolo, è conservato nel Papiro
di Berlino (1896), tra i papiri di Ossirinco e nella vasta messe di testi
scoperti a Nag Hammadi. Era dunque testo noto, importante, fin nella
sovrabbondanza del titolo. In lingua inglese esiste la traduzione completa di
Douglas M. Parrott; Mauro Pesce ne ha inglobato alcune lasse in Le parole
dimenticate di Gesù (Fondazione Lorenzo Valla, 2004).
In questa Sophia, il Cristo appare trasfigurato, irriconoscibile (“non nella
forma che ricordavano”): il dialogo con i discepoli – la prima domanda, che
implica una gerarchia, è di Filippo; poi prendono la parola Matteo, Tommaso,
Maria e Bartolomeo – permette al Salvatore di spiegare la creazione del mondo e
del tempo, il fine del creato, il destino dei discepoli. Secondo la cosmogonia
gnostica, esiste un Padre originario, un pre-Padre, che inaugura la lenta opera
di autoconoscenza; Sophia è l’elemento femminile del divino. Alle origini, è un
proliferare di legioni angeliche, di celesti esseri, di abnormi creature in una
continua dinamica di azione e distruzione (d’altronde, “C’erano sulla terra i
giganti”, si dice in Gn 6, 4). Il Salvatore, per così dire, è eccedenza –
finanche, difetto, benefico veleno – nell’ordine delle cose: rompe lo schema di
vita-e-morte, si disgrega dall’immobilismo divino, porta la luce “vengo per
estirparvi dall’oblio”. Il Salvatore è una figura prometeica.
La Sophia Jesu Christi fonde la rivelazione evangelica ai misteri greci; ciò che
anima il testo è ossessione per la salvezza, per la purificazione; centrale è la
domanda sul senso del male, centrale è il corpo corrotto che tenta riparo,
ristoro. Il sistema gnostico prevede un’aristocrazia dell’intelletto: si ascende
tramite strenuo percorso conoscitivo. Ciò che svanisce, è la cuspide
dell’evangelo: il Crocefisso, l’Iddio dei corrotti, l’Iddio dal corpo rotto e in
rovina. Tale carnalità latra – incute terrore. Il non avere altro che quello –
sangue che stilla dalle stimmate – confonde, confina nel dubbio.
Nella Sophia, secondo lo schema della sapienza greca, il Padre forgia il creato
dopo essersi osservato in uno specchio (“Vide se stesso in uno specchio”). Ma lo
specchio è il demoniaco – la copia che divora l’origine, l’originario. A dire di
Proclo, fu Efesto a “fabbricare uno specchio per Dioniso” e “il dio guardando
dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla fabbricazione
di tutta la pluralità”. Figura ambigua, lo specchio: fa dell’apparente
un’apparizione; chi cerca di riconoscersi in esso si trova disconosciuto,
contraffatto. Cosa deve vedere di sé il Padre in uno specchio – cosa che già non
sappia? Nella Sapienza di Gesù Cristo lo specchio è abisso, buco nero, vortice –
è la grande vulva, il dio per sempre gravido che crea copie di copie di copie di
sé. Dio-feto, dio-incesto.
Nel Vangelo, piuttosto, il Padre si rispecchia nel Figlio; Gesù si rispecchia
nei volti sbigottiti dei discepoli – fino a che punto il Risorto è diverso dal
Nazareno?
In questo gioco di specchi – che, contrapposti, sfoggiano l’infinito – cosa
resta, quale l’arenaria che possiamo dire ‘immagine’? Quale l’originale?
San Paolo – in 1 Cor 13, 12 – lega lo specchio all’enigma: lo specchio-Sfinge ci
fissa divinandoci, divorandoci. Lo specchio-Polifemo, lo specchio-Sauron: nostro
compito è sfuggire all’onnipotente fame dello specchio per ridiventare noi, per
ricondurci nel greto della vera forma.
Galilea – il luogo dell’appuntamento con il Risorto, che è il luogo dove tutto
ha avuto inizio (Mc 1, 14) – è il lemma di una geografia sapienziale, è nome al
di là del nome. Come fu Israele per gli ebrei, Galilea sia il nuovo nome dei
cristiani: Galilea è il luogo in cui tutto si sprigiona, in cui tutto si
sbriciola.
Il proliferare dei detti gnostici null’altro dice se non che la conoscenza è il
solo peccato, è l’ambone da cui professa il demone della separazione e della
confusione. Gesù non si apprende perché è lui il predatore, è lui che ti prende.
Gesù, il sommo analfabeta – secondo la spiazzante intuizione di José Bergamín –
non si installa in codici, in grammatiche, in enciclopedie. La sola sapienza,
qui, è l’insipienza, l’uscita da sé, la santa insania dei folli e degli
ispirati. Il regno di questo mondo – dei filosofi e degli esperti, degli scaltri
e dei letterati – mostra la sua indecente indegnità: tutto è disperso, ora –
chiamateci disperati, è sconveniente, ai vostri occhi, perfino questa gioia che
ha dote di lacrime.
**
Sapienza di Gesù Cristo
(II secolo)
Dopo essere risorto dai morti, i dodici e sette donne lo seguirono, si diressero
in Galilea nel monte detto ‘Divinazione e Gioia’. Uniti, erano, e dubbio li
avvelenava sulla realtà dell’universo, sui piani della santa provvidenza, sul
potere delle potenze e su tutto ciò che il Salvatore compiva nel segreto. Allora
apparve il Salvatore – non nella forma che ricordavano ma in invisibile spirito.
Somigliava al grande angelo della luce. Ma non mi è dato descrivere il suo
aspetto. Nessuna carne mortale può contenerlo, ma solo la carne pura e perfetto
che egli ci ha mostrato sul monte detto ‘Degli Ulivi’.
E disse: “Pace a voi, a voi do la mia pace”. Spavento li confuse. Rise il
Salvatore dicendo, “Cosa pensate? Che dubbio vi divina? Di cosa siete in
cerca?”.
*
Disse Matteo: “Signore, a verità nessuno può accedere se non tramite te.
Inoltraci alla verità”.
Disse il Salvatore: “Colui che È è ineffabile. Nessuno principio lo preda né
autorità né obbedienza a creatura alcuna dalla fondazione del mondo – proviene
dalla Prima Luce e soltanto a chi vuole si rivela. Da ora io sono il Grande
Salvatore. Immortale, eterno egli è. Non ha nascita perché ogni cosa che nasce
muore. Ingenerato, non ha inizio – chiunque ha inizio, infatti, finisce. Nessuno
lo governa e non ha nome – chiunque ha nome, è la creazione di un altro…
È infinito, dunque è incomprensibile. È imperituro e non somiglia a nulla. È
immutabile nel bene. È senza difetto. È eterno. È il benedetto. Da tutti
sconosciuto, è la conoscenza in sé. Incommensurabile – irraggiungibile –
perfetto – immortale. Ditelo: ‘Padre dell’Universo’”.
*
Maria gli chiese: “Signore, come possiamo conoscerlo allora?”
Il Salvatore, il perfetto, disse: “Giungi alle cose invisibili, oltrepassa la
soglia del visibile. Il Pensiero ti rivelerà che la fede nell’invisibile si
trova setacciando le cose visibili, investigandole. Chi ha orecchie per udire,
ascolti!
Non ‘Padre’ si chiama il Signore dell’Universo, ma ‘Pre-Padre’, principio di chi
apparirà, antenato che non ha inizio. Vide se stesso in uno specchio – si vide
somigliante a se stesso – apparizione pari al Divino Padre di Sé, confronto di
ogni confronto, il Primo Esistente Ingenerato Padre. Pari in antichità della
Luce che lo precede ma non lo eguaglia in potenza.
In seguito apparve moltitudine di esseri autogenerati, eguali in età e potenza,
in gloria, innumeri, la cui stirpe è detta ‘Generazione Senza Regno’. Quella
moltitudine non soggetta a regno è detta ‘Figli del Padre Ingenerato, Dio,
Salvatore, Figlio di Dio’, e con voi ha somiglianza. Ma ora lui è lo
Sconosciuto, l’inconoscibile grave di inalterabile gloria, di ineffabile gioia.
Tutti riposano in lui, esultano in lui, giubilo che non ha misura; questo non è
mai stato udito finora negli eoni e nei mondi”.
Matteo gli chiese: “Signore, Salvatore, come si è rivelato l’Uomo?”
Il perfetto Salvatore disse. “Voglio che tu sappia che colui che apparve
all’universo nella sua infinità, l’Auto-eletto, l’Innato, il gravido di luce, al
principio, quando decise di dare la sua immagine a una potenza, quella Luce
apparve come l’Immortale Uomo Androgino, affinché attraverso di lui potessero
giungere a salvezza e risvegliarsi dall’oblio, attraverso l’inviato, il solo
interprete che è con voi fino alla fine della povertà e della razzia.
Sua consorte è Sophia, fin dal principio destinata a unirsi a lui tramite il
Padre Auto-generato e l’Uomo Immortale, che apparve come Primo in divinità e
regno, come concesso dal Padre. E creò un grande eone, ‘Ogdoade’ è il suo nome,
in onore alla sua maestà. Autorità gli fu data e nel suo governo creò povertà.
Creò dèi e angeli, arcangeli a miriadi, da quella Luce e tripartito Spirito che
è Sophia, sua consorte. Da questo, Dio originò divinità e regno. Da allora è
‘Dio degli dèi’, è detto ‘Re dei re’.
Da ciò che fu creato apparve ciò che fu plasmato; da ciò che fu plasmato ciò che
fu formato; da ciò che fu formato ciò che fu nome. Così nasce la differenza tra
gli ingenerati, dal principio al termine”.
*
“Chi viene al mondo è una goccia di Luce: viene al mondo per ricondursi nella
Sua custodia. Vincolo di dimenticanza volle Sophia, perché attraverso di lei
l’Onnipotente possa rivelarsi in questo modo povero nonostante la cecità
l’arroganza l’ignoranza con cui lo riempiono di nomi. Ma io sono giunto dai
luoghi superiori per volontà della Luce, io sono slegato da ogni vincolo; ho
spezzato l’opera dei ladri e dei bugiardi; ho trafugato la goccia di luce di
Sophia perché portasse frutto attraverso di me, perché la gloria si diffonda e i
suoi figli, non più imperfetti, possano ritornare al Padre. Io vengo per
estirparvi dall’oblio, perché l’impuro non si manifesti più: calpesto ogni
malvagio intento”.
*In copertina: William Blake, The Angel Michael Binding Satan, 1805 ca.
L'articolo “Oltrepassa la soglia del visibile”. Sulla Sapienza di Gesù Cristo
proviene da Pangea.
Il card. José Tolentino de Mendonça (Machico, Madeira, 1965) è prefetto
del Dicastero per la cultura e l’educazione dal 2022. Ha alle spalle una lunga e
riconosciuta attività di scrittore. La sua prima raccolta di poesie, Os Dias
Contados, è uscita nel 1990, lo stesso anno in cui è stato ordinato sacerdote.
Nel 2018 fu invitato da papa Francesco a predicare il ritiro di Quaresima per la
Curia romana e nello stesso anno quelle meditazioni sono state raccolte
in Elogio della sete (Vita e pensiero). Tra i suoi titoli più recenti in lingua
italiana ricordiamo: Una grammatica semplice dell’umano (Vita e Pensiero,
2021), Il papavero e il monaco (Qiqajon 2022), Estranei alla terra, (Crocetti
2023), Amicizia. Un incontro che riempie la vita(Piemme 2023). Il prossimo anno
l’editore Crocetti pubblicherà la sua ultima raccolta di poesie, Il centro della
terra.
Quali sono i suoi primi ricordi da bambino?
La prima parte della mia infanzia è stata africana e se dovessi riassumerla in
una parola, sceglierei la parola “vastità”. I miei primi ricordi riguardano
proprio la consapevolezza di quella vastità, del territorio come del
mare. Abitavo in una casa sulla spiaggia davanti al mare, nella località di
Lobito in Angola: quell’esperienza mi ha segnato profondamente, perché era
un’iniziazione allo stupore. Se penso ai primi anni di vita, da quando ho
coscienza e memoria, è questo lo stupore che poi mi ha sempre accompagnato.
Mi ricordo per esempio la scena dell’arrivo dei pescatori al mattino, dopo una
notte passata in mare, e le donne, le donne nere del popolo, che aspettavano
senza scarpe vicino all’acqua l’arrivo di quel pesce che sarebbe poi stato loro
compito distribuire. Era una scena di grande intensità, era l’immagine di un
mondo puro. Una volta ho letto che Omero usa circa trenta espressioni per
descrivere l’azzurro del mare senza ricorrere al termine “azzurro”. Lo descrive
in tante forme, lo descrive parlando del bianco, parlando delle voci, del sole,
delle navi, della fame umana, della bellezza delle grandi ricerche. Quando
ripenso a quegli anni penso a queste immagini, che il mare era azzurro, io l’ho
visto azzurro, ma l’ho visto azzurro nel bianco, nel verde, nel giallo, nel
marrone, nel nero. E tutto questo mi ha offerto l’inizio di una visione.
Queste suggestioni mi riportano a due poeti come Derek Walcott, al
suo Omeros ambientato ai Caraibi e al premio Nobel Saint John-Perse…
Sono due voci straordinarie per raccontare l’umanità, sono grandi testimoni
dell’umano.
Saint John-Perse in Italia non è molto conosciuto, nonostante il Nobel.
In Portogallo lo abbiamo tradotto di nuovo.
Anche in Italia, è uscita una bellissima versione di Amers a cura di Nicola
Muschitiello per le Edizioni Medhelan.
Mi interessa molto.
José Tolentino è stato creato cardinale nel 2019 da Papa Francesco
Ritorniamo alla sua infanzia, cosa accadde dopo l’esperienza africana?
Dopo i primi anni in Angola, con la decolonizzazione, tornai a Madeira, in
Portogallo, nell’isola “magica” dei miei genitori, di mia nonna che era una
grande raccontatrice di storie. Per me fu interessante passare dalla vastità
dell’Africa al microcosmo dell’isola perché fu un esercizio di
“concentrazione”. Anche se sicuramente non furono anni facili per i miei
genitori, perché in quel cambiamento persero la stabilità che avevano
conquistato, la casa, la vita di prima. Non erano sicuramente anni facili per
loro, ma io vissi l’arrivo nell’isola come un’esperienza nuova. Per esempio, in
Angola conoscevo soltanto due stagioni, l’inverno e l’estate. Lì non ci sono le
stagioni intermedie. E invece arrivato nell’isola ricordo una gita scolastica
per “incontrare l’autunno”, così la professoressa chiamò quell’esperienza.
Ricordo che raccolsi una foglia di un albero e rimasi fermo a guardarla… cercavo
l’autunno… Più tardi sperimentai l’esperienza di Rilke secondo cui il poeta è
una “conseguenza dell’autunno…”.
In Ares abbiamo preparato una biografia di Rilke per il 150° anniversario della
nascita. Quali sono i suoi autori di riferimento?
Per me Rilke è una memoria importante. Tra i miei primi punti di riferimento,
c’è stata la Bibbia, che mi ha sempre incuriosito molto, per la forza, la
bellezza e la densità della parola. In una famiglia cattolica come la nostra la
Bibbia era una compagnia e per anni fu praticamente l’unico libro che vidi nella
stanza dei miei genitori. Ma ci furono altre suggestioni di natura biblica.
All’inizio dell’adolescenza avevo un quaderno, una sorta di diario, dove cercavo
di copiare gli Spirituals afro-americani, non ero interessato tanto alla musica
o alla possibilità di cantare, quanto alla forza della parola. Mi piacevano
anche i Salmi e dopo di essi, piano piano, sono passato alla poesia, alla poesia
moderna e contemporanea. Prima con i poeti portoghesi e devo dire che il
Novecento è un secolo d’oro per la poesia portoghese, perché abbiamo una decina
di nomi assolutamente illuminati.
Quali autori consiglierebbe ai lettori italiani?
Uno non ha bisogno di essere consigliato, perché è già ben conosciuto ed è
Pessoa. Un altro è Herberto Helder, che è stato tradotto anche in Italia. Helder
è un poeta orfico nato nella mia stessa isola, anche se ha vissuto tutta la vita
a Lisbona. La prima poesia che ho scritto aveva come titolo “L’infanzia di
Herberto Helder” perché il mondo che ho trovato leggendo le sue poesie era per
me come uno specchio o una polla d’acqua, emersa dopo aver scavato, dove vedere
riflesso il mio volto.
Un’altra poesia che mi ha dato molto è quella Sophia de Mello Breyner Andresen,
una grande poetessa portoghese che aveva il fascino della Grecia e di tutta la
poesia greca. Nella sua poesia sono molto importanti gli odori, la visione, i
rumori. Penso di aver fatto il primo viaggio in Grecia grazie ai suoi versi.
E poi vorrei ricordare Eugénio de Andrade che è il nostro Quasimodo, la sua
lirica è di grande purezza e trasparenza e allo stesso tempo è come il suono di
un flauto che ha qualcosa di orientale. Infatti, il poeta preferito di Andrade è
Li Bai (Li Po) che è anche uno dei miei poeti preferiti. E mi ha iniziato anche
nell’ascolto a una poesia che viene da più lontano, non soltanto della Grecia o
dal mondo biblico, ma anche di un Oriente lontano dove, inoltre, la poesia
portoghese ha radici forti, penso a Camões o un altro poeta importantissimo
della nostra tradizione come Camilo Pessanha che ha vissuto a Macao e che era
molto stimato da Pessoa.
Quasimodo è poco considerato in Italia adesso e invece è un poeta importante.
È un poeta che ha detto molto e che “ha scritto nell’acqua” perché la sua è una
poesia “liquida”; dopo la “società liquida” di Baumann il termine sembrerebbe
negativo, invece, nella tradizione lirica “liquido” vuol dire vicino alla
musica, ha una dolcezza che non è ingenua, ma che è un tocco sapienziale,
profondo. Alla fine, penso che Quasimodo sia un grande erede di una luce, di un
fulgore che si trova in alcuni poeti latini.
Sulla tomba di Keats è scritto «qui giace uno il cui nome fu scritto
nell’acqua».
Keats è un autore che ha costruito un’opera straordinaria scrivendo le sue
poesie sull’acqua. Mi piace molto il concetto che Keats sviluppa di “capacità
negativa”, concetto che possiamo avvicinare all’esperienza negativa di cui parla
la mistica, e che alla fine è quel ritrovamento fondamentale che viene più dalla
passività di quando ci lasciamo incontrare, ci lasciamo trovare da una verità
più grande di quella che noi potevamo immaginare. È una visione analoga a quella
di san Giovanni della Croce che è uno dei miei riferimenti spirituali, un autore
a cui torno molte volte; so a memoria alcune delle sue poesie e a loro ricorro
come preghiera… lì c’è tutto.
Lei ha pubblicato il suo primo libro di poesia nel 1990 che è anche l’anno della
sua ordinazione sacerdotale, sembra che queste due vocazioni siano state
parallele; quali sono stati i primi segni della chiamata?
I primi segni arrivarono molto presto nella mia vita perché sono entrato nel
seminario minore a 11 anni. Forse a quell’età non si può ancora parlare di una
vocazione matura, ma si può dire che si ha una tensione a quel mondo, a quella
“voce”, a quello speciale rapporto con Dio e con l’esperienza religiosa. Vedevo
che l’esperienza religiosa era concomitante con il processo di coscienza di me
stesso. Era come un’“apparizione” a me stesso. Avere coscienza di noi stessi
significa che siamo una vita, una storia, che abbiamo un nome, un modo di
essere. La religione è sempre stata una chiave della mia vita. Da questo punto
di vista, non fu una sorpresa, sicuramente anche per l’ambiente familiare, il
mondo dove sono cresciuto che era profondamente religioso, ma fu una scelta, un
viaggio, un “nomadismo” al quale mi sentii chiamato molto presto.
Quali sono le sue preghiere preferite?
Vorrei richiamare i miei incontri con Mario Cesarini, il poeta surrealista più
importante del Portogallo, autore di alcune delle più belle poesie del Novecento
portoghese. Era un uomo profondamente credente, ma il suo rapporto con il
cristianesimo era molto conflittuale, aveva però una passione assoluta per
la Salve Regina e quando mi incontrava mi faceva recitare la Salve Regina, una
preghiera che prima recitavo in modo ordinario… ma vedendo la profonda emozione
di quest’uomo senza pratica religiosa nei confronti della Salve Regina, ho
cambiato il mio atteggiamento di fronte a questa preghiera che è diventata
presenza quotidiana nella mia vita. Non solo perché la ripeto ogni giorno ma
perché corrisponde a una sorta di illuminazione, mi piace ripeterla in latino
come l’ho ascoltata da questo poeta. È una preghiera di straordinaria bellezza.
Ho fatto questo esempio per ribadire che i poeti, anche quelli più inaspettati,
sono dei veri maestri spirituali. Un poeta prepara sempre la nostra anima per
una grande esperienza spirituale. Sono le “levatrici” della nostra anima.
Mario Cesarini ha rivelato la Salve Regina a me che ero seminarista… Vorrei poi
ricordare un’altra poetessa, la già citata Sophia de Mello Breyner Andresen,
persona, come dicevo, affascinata dal mondo greco e senz’altro più vicina a
Atene che a Gerusalemme: lei considerava il Magnificat come la poesia più
straordinaria che lei conoscesse. Diceva che le grandi poesie, anche quelle di
Omero sono così, non hanno un autore, è come se fossero sospese nel tempo da
sempre e le possiamo cogliere e fare nostre in un modo molto più radicale di
tutti gli altri testi. Devo dire che il Magnificat è sempre una preghiera che mi
fa tremare di gioia. Perché forse ritrovo quella vastità che mi ha stupito nel
mio primo sguardo al mondo. “Entusiasmo” è una parola che descrive bene
il Magnificat, mi piace l’entusiasmo con cui Maria pronunciò quelle parole. Un
altro mio riferimento per la preghiera è il Cantico dei Cantici, un testo
bellissimo che ho anche tradotto in portoghese.
Del Cantico è uscita una bella edizione di Giuseppe Conte per Il cenacolo delle
Arti, le raffinate edizioni di Lamberto Fabbri.
Mi piacerebbe vederla, io conosco la traduzione di Guido Ceronetti, che è anche
molto interessante. Sono molto interessato a tutto quello che riguarda la
traduzione.
Ceronetti è l’uomo della parola scorticata.
Ma quella ferita che resta dopo la lettura è un dono che rimane.
Il Qoelet di Ceronetti è straordinario…
È straordinario. A me interessa molto la poesia tradotta da poeti, da scrittori,
perché c’è un corpo a corpo con la parola, che ti introduce in un’esperienza
nuova.
Tra i miei salmi preferiti c’è l’87/88 che è forse il più disperato del
Salterio… quasi un viaggio nella terra dei morti…
…Che alla fine è anche il mondo dove abitiamo. In fondo quella disperazione è un
modo di rivelarsi dell’umano nella sua verità più profonda. E questi sentimenti
estremi, sia quelli provocati da una disperazione sia da una grande gioia,
colgono l’umano nel suo stato flagrante. Per questo dobbiamo ascoltare i
disperati e gli entusiasti, tutti e due, dobbiamo in una mano accarezzare il
dolore e nell’altra sostenere la gioia.
Mi ha colpito lo splendido commento del card. Ravasi al Qoelet, quando
suggerisce l’idea che la Sacra Scrittura racconti l’abisso per dire che Dio è
consapevole di quanto profondo possa essere il dolore umano.
E quella è un’umanità vera, senza risposte facili e banali, è un’umanità davanti
al Mistero, alla notte del mondo, all’enigma di sé stesso, al senso non soltanto
penultimo che tante volte sembra esaurire la realtà, ma il senso ultimo, il
“perché”. Il perché alla fine è la nostra “sala parto” perché, quando
affrontiamo il “perché” diamo al verbo nascere un’opportunità di coniugarsi nel
presente.
C’è tanta disperazione tra i giovani e io credo che quella che Benedetto XVI una
volta chiamava via pulchritudinis può essere una via per avvicinarli a un senso
di stupore, alla vita, per non cadere nella disperazione, perché hanno bisogno
di autenticità e di fronte alla bellezza c’è autenticità.
La bellezza cambia la temperatura: è un brivido, una ferita, ci offre, anche se
in un modo limitato, un’esperienza di verità, di assoluto, che allo stesso tempo
appartiene e non appartiene a questo mondo. Nell’arte noi sperimentiamo questo.
Una vicinanza a una perfezione, che tante volte solo un’imperfezione rende
visibile, ma una vicinanza a una perfezione che è come una piccola tremula luce
che ci fa vedere il fondo della strada.
Alessandro Rivali
*L’intervista realizzata da Alessandro Rivali sarà pubblica sul prossimo numero
di “Studi Cattolici”
In copertina: Gaetano Previati, Notturno o Il silenzio, 1908
L'articolo “Un’iniziazione allo stupore”. Dialogo con José Tolentino de Mendonça
proviene da Pangea.
> «“Ningen Sabaku”, deserto di umanità, è il termine che i giapponesi usano per
> indicare Tôkyô. Questa spaventosa e affascinante megalopoli inghiotte ogni
> anno molte migliaia di persone che svaniscono nel nulla come ombre».
>
> Dall’introduzione di Gian Carlo Calza(Longanesi & C., “La gaia scienza”,
> Milano, 1972)
Non potrò più né nominarla né pensala impunemente; né, sedendo su una spiaggia o
tra le dune di un ipotetico deserto, considerarla inerte – stupido! – e priva di
un vago senso di minaccia, latente o sopito. Dopo essere scivolato come in un
cratere terrestre dentro alle pagine de La donna di sabbia di Kōbō Abe, la
sabbia mi risuonerà negli orecchi per sempre come sinonimo di lavoro, di
schiavitù e di morte. D’ora in poi, non dimenticherò più d’annoverarla come il
quinto elemento naturale, di rilevanza mitica ai miei occhi, al pari dell’acqua
e del fuoco, dell’aria e della terra.
Considerata statica e arida, alla luce di questo romanzo, insignito del Premio
Unesco quale “opera rappresentativa” del patrimonio letterario universale, la
sabbia diventa agente dalla volontà autonoma, penetrante, umida e corrosiva;
un’entità bifronte con cui è meglio non averci niente a che fare. Capace di
spingersi fin dentro ai reconditi anfratti dell’animo umano, in grado di
impossessarsi della dimensione materiale e immateriale del mondo, essa è in
perenne movimento, e si sposta, e muta d’assetto, pur preservandosi, nella sua
primitiva e spietata essenza, uguale a sé.
Questo eterno nomadismo la rende cosa assolutamente viva e, allo stesso tempo,
ne decreta un carattere ostile verso qualsiasi altra forma di vita che presso di
essa tenti di insediarsi.
> “La sabbia non si riposa mai. Senza rumore, ma con certezza, invade la
> superficie della terra distruggendola a poco a poco… L’immagine della sabbia
> che continua a spostarsi dette all’uomo uno choc indicibile e lo eccitò.
> Pareva che la sterilità della sabbia non fosse semplicemente dovuta alla
> siccità, come viene interpretata in genere, ma alla sua mobilità perenne che
> rifiuta la presenza di ogni forma di vita dentro di sé. Quale sollievo se si
> pensa al senso opprimente che comporta ogni realtà di questo mondo, che ci
> costringe persistentemente a rimanerle aggrappati! Certo, la sabbia non crea
> un ambiente adatto per la vita. Ma è davvero assolutamente indispensabile
> stabilirsi in un luogo per vivere? Non è forse il desiderio di stabilirsi in
> un luogo che dà il via a quella concorrenza obbrobriosa tra gli esseri
> viventi? Se uno rifiutasse di stabilirsi in un luogo e si lasciasse andare
> insieme ai movimenti della sabbia, non ci sarebbe più la possibilità di
> concorrenza.”
L’insegnante Junpei Niki, entomologo amatoriale, decide di trascorre le ferie
andandosene a caccia di nuove specie di insetti. In particolare, spera di
scoprire un inedito esemplare di cicindela che, secondo le sue supposizioni,
sopravvive negli habitat sabbiosi e di poter così iscrivere il proprio nome, a
futura memoria, negli elenchi delle enciclopedie specializzate. Approda perciò
in uno sperduto villaggio di campagna, in un’ampia zona desertica del Giappone.
Al calar del sole, su una delle centinaia di dune che assolvono al compito di
omologare visivamente il paesaggio circostante, l’uomo viene avvicinato da un
vecchio che, malgrado un primo approccio brusco e diffidente, gli offre poi
ospitalità notturna presso una delle case del villaggio. Ingannato
dall’apparente buona fede del vecchio, l’uomo (definito genericamente “uomo” per
l’intero arco del romanzo e quindi, privato dell’identità nominale, già relegato
in qualche misura allo status di persona scomparsa) si lascia guidare presso la
dimora promessa.
La casa è costruita sul «basso ventre» di una buca enorme, scavata per decine di
metri nella sabbia. A sporgersi dal bordo, della casa in basso s’intravedono
soltanto il tetto e il porticato pencolante. Nient’altro. Il vecchio lo invita
allora a calarsi tramite una scaletta di corda, prontamente allestita, e,
nonostante le perplessità iniziali che nutre, l’uomo decide di dargli ascolto.
Cosa mai potrà succedermi, sembra pensare lui mentre affonda volontariamente
nella buca, sono Junpei Niki, nato il 7 marzo 1927, ho una compagna, amici e
colleghi, ho regolare contratto di lavoro con l’istituto scolastico, faccio
parte di cerchie rispettabili e di una più ampia, e anch’essa assai
rispettabile, società civile; sono oggetto di tutele da parte del sistema
sanitario nazionale e protetto dai codici giuridici di molti tribunali, ai quali
posso fare appello in caso di controversie o, dio non voglia, di atti di
violenza.
Ma non appena mette piede sul fondo della buca, il vecchio ritira su la
scaletta. Con essa non svanisce soltanto la possibilità fisica di tornare
al conforme mondo di fuori, ma scompaiono le ferree convinzioni su cui quel
mondo si ergeva, tanto inamovibile e sicuro. È l’innesco dell’incubo.
> “Alla vista della donna, l’uomo rimase senza fiato dimentico del dolore negli
> occhi. La donna era completamente nuda. Nella visione offuscata dalle lacrime
> la donna sembrava galleggiare nell’aria come ombra. Supina sul pavimento di
> giunco intrecciato, era distesa con l’intero corpo completamente nudo, salvo
> il viso, una mano leggermente appoggiata sul basso ventre, gonfio sotto la
> vita ben tornita. Le parti che rimanevano abitualmente nascoste erano esposte,
> mentre il viso, la parte che nessuno ha paura di mostrare agli altri, era
> accuratamente nascosto sotto un asciugamano. Comprensibilmente, era per
> difendere dalla sabbia gli occhi e l’apparato respiratorio, ma il contrasto
> parve far risaltare la nudità del corpo. Per di più, tutta la superficie del
> corpo era ricoperta da un velo finissimo di sabbia dai granuli minuscoli. La
> sabbia celava i particolari del corpo mettendo però in rilievo le curve
> tipicamente femminili; tutto sembrava una statua argentata di sabbia.”
Nella casa in fondo alla buca, abita una donna anonima, tanto remissiva nel
privato quanto assoggettata alle logiche sistemiche perverse del villaggio che
sopravvive anche grazie al suo faticoso e insensato lavoro di spalare la sabbia,
in cambio della razione giornaliera d’acqua e di cibo. La donna accoglie l’uomo
con sospetto. Rifà il letto, in silenzio. Prepara l’acqua calda in bollitori
infestati di sabbia, in silenzio. Il suo mutismo è un’omissione volontaria della
verità. Non sa quanto, se e come aprirsi con il nuovo venuto. E tra i due
s’insinua una tensione prima verbale, fatta di continue richieste da parte
dell’uomo – perché, come mai, che succede – che la donna, evasiva, lascia
inesaudite. Poi questa stessa tensione si gonfia e si ramifica in una necessaria
attrazione sessuale – magnifica qui l’associazione di Kōbō Abe tra la copula e
una fredda redazione d’incartamenti, di atti notarili e di certificati, immagine
che desublima l’attività “scandalosa” a mero scambio di liquidi
corporei, burocratizzato e su cui, conclusa la transazione, apporre un timbro di
visura. I due esseri umani, come ologrammi, appaiono a un tempo naufraghi e
reduci, esiliati e proscritti da un mondo tentacolare che non ne contempla la
morte, e li alimenta, soltanto per ragioni d’opportunismo.
Il vecchio, infatti, cala nella buca una pala per «il nuovo arrivato». Quella
pala è il contrassegno che suggerisce all’uomo d’integrarsi bonariamente, senza
scalpitare; è l’utensile attraverso cui siglare un accordo di lavoro che lo
renderà utile agli occhi della comunità del villaggio e perciò degno d’essere
mantenuto in vita. La cosa appare all’uomo del tutto assurda ed è qui, ai primi
vagiti della sua disperazione, che inizia a franare il muro tra la realtà
finzionale e la realtà del lettore, che patisce la deriva del protagonista in
queste infinite onde – di sabbia. La sprezzante, delicata e ultra-nichilista
metafora intessuta dall’autore ha come obiettivo, mai dichiarato, di accorciare
le distanze tra i due piani, di far sì che quella sabbia onnipresente possa
strisciare fuori dalle pagine e mettersi lentamente a consumare, a logorare e
infine a sgretolare le certezze, i pilastri santi e intoccabili su cui un
individuo strutturato del nostro tempo crede di fondarsi.
> “Nessuna notizia indispensabile. Una torre di illusioni costruita con mattoni
> inesistenti, messi su da mani disordinate. Se, tuttavia, le notizie fossero
> state tutte indispensabili, la realtà sarebbe stata come un oggetto di vetro
> soffiato, così fragile da non poterlo toccare con le mani. In fin dei conti,
> la vita quotidiana è piena zeppa di cose illusorie. Per questo, tutti,
> consapevoli del non senso delle proprie azioni, fissano il centro del compasso
> nella propria casa.”
Chissà com’è il mondo quando non ci siamo. Le cose distanti si ammantano di un
fascino inaudito, allattando desideri e fantasmagorie, e quelle vicine, facili
da afferrare o di cui si è già in possesso, vengono ricacciate nella vasta cesta
della noia e declassate d’ufficio tra i fumi dell’abiura. È così che all’uomo,
di fronte alla tanto agognata possibilità di fuggire concretamente dalla buca,
si spegne in gola, tra le irritazioni causate dalla sabbia ingerita, anche
l’ultimo desiderio.
> “Guardando in su verso l’orlo della buca, messo in rilievo dal chiaro della
> luna, l’uomo pensò che quel sentimento bruciante si chiamava forse gelosia.
> Geloso delle vie cittadine, dei treni che trasportavano i lavoratori, dei
> semafori agl’incroci delle vie, della pubblicità sui pali della corrente,
> delle carogne dei gatti, delle farmacie dove vendevano anche le sigarette,
> geloso di tutto ciò che esprimeva la densità della vita sulla terra. Come la
> sabbia aveva intaccato le pareti interne di legno e i pilastri, la gelosia
> l’aveva trafitto lasciandogli un buco nel corpo, rendendolo vulnerabile come
> una pentola vuota messa sul fornello. […] Benché si trovasse tuttora in fondo
> alla buca, l’uomo si sentiva ormai come in cima a una torre altissima. Forse
> il mondo era stato capovolto e le sue vette e le sue valli erano state
> rovesciate.”
La donna di sabbia è una violenta e dolorosa presa di coscienza dell’infamante
condizione umana, dibattuta tra il giogo della fame e quello del lavoro. Uno
spettacolo di marionette in cui si intuiscono chiaramente sia i fili di
controllo sia le dita del burattinaio. E l’aspetto più desolante è che tutto,
all’interno e all’esterno della narrazione, risulta strettamente normale,
normato.
Uomini e donne che, oggi ancor più che nel 1962 (anno della prima edizione
giapponese), vengono filati su un telaio dalle trame geometriche, ripetitive e
conformiste. Colui che fu insegnante e ossequioso contribuente all’erario, è
adesso, per sempre e soltanto, un uomo che aderisce, suo malgrado, all’utero di
terra a cui non sapeva di appartenere. Qui, non c’è un viaggio di ritorno. Qui,
non esiste caverna platonica che regga. Ogni azione porta al seppellimento
della precedente fino a che non si avrà più nemmeno voglia di muovere un
muscolo. Dentro o fuori la buca, fa lo stesso. Misurati sulla bilancia gli
esisti della propria esistenza, è semmai il fuori a risultare posticcio e
inflazionato. Presso quale illusoria idolatria decideremo di sacrificare
interamente i nostri giorni? Con quali scuse, per esserci lasciati traviare
dalla nostra natura, ci accosteremo all’estremo respiro? Con quante e quali
convinzioni, giuste o sbagliate, ma necessariamente indotte dall’esterno,
moriremo infine? Da dèi invincibili e onnipotenti, a umilissimi insetti che in
sé non sono capaci di covare altro che il germe di un servilismo degno del più
belante ovile.
P.S. Questo libro è sconsigliato ai convinti sostenitori della propria univoca
postura nel mondo, ai patrocinatori delle campagne per l’installazione di nuove
piante sulle scrivanie al fine di abbellire le forche impiegatizie dette
uffici, agli zelanti conferenzieri della logica usuraia del lavoro che dà il
pane ed esige la vita, ai trombettieri del «bisogna immaginare Sisifo felice»,
puah!, ai carcerieri inconsapevoli di quelle gabbie, mentali e non, che mai
risultano dorate abbastanza e che pure elargiscono soddisfazioni a iosa,
mascherando la prigionia con l’autoaffermazione, la schiavitù con la libertà; e,
va da sé, scoraggio dalla lettura gli entomologi principianti.
A ciascuno la propria pala, che di sabbia, e di buche in cui rintanarsi, ne è
pieno il mondo. Le manovre per scavarci la tomba sono iniziate da un pezzo.
Siamo in ritardo. Non demordiamo!
Vincenzo Montisano
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