Ho avuto il piacere, qualche giorno fa, di avere una lunga conversazione
con Valentina Duca. Era da tempo che desideravo incontrarla, ma raramente fa
ritorno in Italia da Gerusalemme, dove ora si trova. Sono stati i suoi studi
nell’ambito della mistica cristiana, e in particolare lo studio sul mistico
siro-orientale Isacco di Ninive e dei suoi autori di riferimento, a condurla lì,
a lavorare come ricercatrice presso l’Università Ebraica.
Su Isacco ha recentemente pubblicato, per Peeters di Lovanio, uno studio, frutto
del suo lavoro di dottorato all’Università di Oxford: “Exploring Finitude”:
Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (per ora accessibile solo in
inglese). Degli scritti inediti di Isacco sta attualmente curando l’edizione
critica (testo siriaco e traduzione inglese). Oltre ad articoli prevalentemente
in inglese, si segnala, in italiano, il contributo “La grazia della debolezza e
il limite della morte”, all’interno degli atti del convegno
internazionale Isacco di Ninive e il suo insegnamento spirituale tenutosi al
monastero di Bose nel 2022, recentemente pubblicati da Qiqajon.
Un giorno, durante un incontro sul mondo siriaco a cui partecipavamo entrambe
presso il monastero di Bose, sono rimasta a lungo a osservarla: ho avuto la
sensazione che fosse una di quelle rare persone che si aggirano come “in punta
di piedi” nel mondo, i cui gesti sono segnati da una sorta di nobile discrezione
e di cura. Mi è parso che in lei la “dimensione spirituale” non fosse una
porzione dell’esistenza, bensì il fondamento. Nel leggere i suoi lavori, così
come nel sentirla parlare, insieme all’attenzione scientifica non si può non
notare questa sensibilità, che mi pare le abbia dato strumenti essenziali per
occuparsi di un autore come Isacco di Ninive.
Chi era Isacco di Ninive?
Isacco di Ninive era un solitario (termine usato qui per coloro che scelgono una
vita semi-eremitica) del VII secolo e dell’area siriaca. Quest’area non fa
riferimento solo a parte dell’attuale Siria, ma a un territorio più vasto:
Isacco, in particolare, era nato nella regione del Qatar, dove nella sua epoca
c’era una fiorente comunità cristiana, e visse in terra mesopotamica. Per breve
tempo divenne vescovo di Ninive: rinunciò a questo incarico per andare a vivere
sulle montagne, vicino a insediamenti monastici. Apparteneva a una chiesa,
quella siro-orientale che, guardata a partire dal mondo latino e greco, poteva
considerarsi marginale poiché “nestoriana” e quindi ritenuta eretica. E tuttavia
era una cultura nient’affatto marginale, che ebbe una grande espansione in
oriente, come in Asia Centrale e in Cina. Isacco è erede di una tradizione
monastica composita, dove ci sono sia autori siriaci, come Giovanni il
Solitario, sia della tradizione greca, con la quale intendiamo soprattutto
autori monastici e mistici di lingua greca, con una forte presenza del mondo dei
padri del deserto e di Evagrio Pontico.
Isacco poi non scrive trattati teologici, ma testi che intendono guidare i
discepoli nell’esperienza. Quando parliamo di lui come “solitario” non ci
riferiamo a una persona isolata, in tutto e per tutto solitaria: veniva da un
contesto di relazioni e letture comuni, apparteneva a una corrente, quella della
mistica siro-orientale, che include vari autori: alcuni a lui contemporanei,
come Simone di Ṭaybuteh e Dadišo‘ Qaṭraya, e altri del secolo successivo, come
Giuseppe Ḥazzaya e Giovanni di Dalyatha. Era un universo quindi, che impedisce
di pensare il solitario come una persona completamente slegata da un contesto di
riferimento.
Caravaggio, San Girolamo in meditazione, 1605 ca.
Nei suoi scritti, parla dell’analisi che Isacco dà della condizione umana: in
cosa consiste?
Isacco colpisce per come è in grado di tracciare una fenomenologia delle
dinamiche interiori: all’interno di queste – come l’incontro con le passioni,
con situazioni di tentazione, o di malattia – l’uomo incontra una condizione di
limitatezza, che Isacco chiama “debolezza” (mḥilutā). Isacco la interpreta come
una condizione ontologica: nei suoi scritti si riferisce ad essa come una
caratteristica della “debole schiera degli uomini” (III 7,6), condivisa con
Adamo, di cui, dice, “portiamo l’odore” (I 5). Questa condizione non è legata
solamente al peccato, quindi a una debolezza di tipo morale, ma è una condizione
di fragilità originaria, non trascendibile. Questa condizione di debolezza
ontologica include anche la soggezione alla morte, che è il problema principale
per le creature assieme alla sofferenza. C’è quindi una precedenza, in Isacco,
del problema ontologico su quello morale. Nella lettera ai Romani Paolo dice, in
riferimento ad Adamo, che il peccato entrò con lui nel mondo e con esso, di
conseguenza, la morte (Rom 5:12). Quindi in qualche modo per Paolo, e per la
maggior parte della tradizione cristiana, è dal peccato che deriva la morte. In
Isacco invece è il contrario: è dalla morte che deriva il problema del peccato
(questa concezione proviene da un autore importante per i siro-orientali,
Teodoro di Mopsuestia). E non si tratta per Isacco di un rapporto così diretto:
non è dalla morte che deriva, quasi necessariamente, l’essere peccatori, ma è
per paura di questa mortalità, di questo limite costitutivo, che avviene la
caduta, che porta a una condizione di limitazione anche morale.
Quindi, è come se il peccato sorgesse da un tentativo di fuga. Le stesse
passioni, in questa prospettiva, possono essere lette come meccanismi difensivi
ed elusivi dell’incontro con questa dimensione di limitatezza creaturale. Isacco
invece delinea un percorso in cui è possibile cercare di relazionarsi con questa
condizione mortale, senza cercare di superarla, perché è insuperabile così come
insuperabile è la nostra condizione creaturale. Nella stessa creazione per lui è
inscritto che l’uomo sia mortale. Se mai ci potrà essere un trascendimento di
questa condizione questo avverrà solo per grazia. Non si tratta di qualcosa di
originario a cui tornare, come se dovessimo ritrovare una condizione edenica, ma
di qualcosa che sta davanti a sé, come dono possibile.
Perché, secondo Isacco, l’uomo è stato creato con questa strutturale mancanza?
Isacco non parla tanto del perché, riflette più che altro su una condizione che
c’è. La sua scrittura è sempre innanzitutto esperienziale e parte dalla
necessità dell’altro, dalla domanda che pone il discepolo. Sul perché di questa
condizione, però, si possono chiamare in causa due elementi. In 2Cor 12 7-10
Paolo dice che “gli è stata data una spina nella carne”, e chiede che questa gli
sia tolta, ma “il Signore” gli risponde: no, “ti basta la mia grazia, la mia
forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Isacco riprende questo
passo paolino per esprimere l’idea che in qualche forma, e grazie a una certa
relazione con la debolezza, si può scoprire l’alterità della grazia.
Oltre a questo, però, c’è l’idea che tramite questa relazione con la debolezza,
non solo si scopre Dio, ma la propria condizione di uomini. Questo secondo
elemento è centrale: l’assunzione di sé come uomo. Il percorso non è: ho la
debolezza e quindi mi merito la grazia, che mi libera da questo problema; ma: ho
la debolezza e me ne faccio carico. Mi relaziono dunque con me stesso, con il
mondo delle passioni, con il mondo del dolore fisico. Ed è solo grazie a questo
scoprirsi uomini, e prendere in carico la propria condizione, che si può anche
entrare in relazione con l’alterità di Dio. Isacco ha un forte senso di questa
alterità, del mistero verticale di Dio. Io credo provenga proprio dalla
percezione di sé come creatura. Anche per questo Isacco può stupirsi della
venuta del Cristo, che discende fin qui. Se non si avesse il senso di questa
trascendenza di Dio non si potrebbe neppure percepire la meraviglia
dell’avvenimento della venuta del Cristo.
Hieronymus Bosch, San Girolamo in preghiera, 1482 ca.
È a questo relazionarsi che Isacco si riferisce quando dice che si deve
“portare” la propria debolezza?
“Portare” (sbal, ṭ‘en, saibar) è un termine che in Isacco indica il “permanere
dentro” a una situazione che può mettere alla prova, il “dimorarvi”. Può essere
una situazione di dubbio, di tensione, di negatività. E questo avviene
mettendosi “sotto” questo elemento negativo, portandolo appunto, nel senso del
sostenerne il peso. In questo sostenere “dimorando a contatto” si sviluppa una
relazione con l’elemento negativo, lo si abita, ed è in questo “abitare” che poi
è possibile una trasformazione. Anche se è vero che per Isacco questa
trasformazione avviene sempre per grazia. Quello che noi come uomini possiamo
fare è appunto abitare, permanere, anche nella contraddizione, nel dubbio. A
fronte di molte narrazioni che bonificano la realtà, credo che Isacco ci aiuti a
mettere al centro la questione del negativo. Come qualcosa che però stimola una
posizione attiva, e non succube, dell’umano. È da questa postazione e da questa
azione, che poi può scaturire una trasformazione.
Isacco dice che il fatto “che una persona possa rimanere nella calunnia senza
tristezza [è] perché il [suo] cuore inizia a vedere la verità” (I 5). In questo
“rimanere in”, “abitare” e “permanere sotto” qualcosa avviene, ed è qualcosa che
non ha a che fare con la nostra volontà: esso accade, si manifesta, “sorge”
(dnaḥ), come Isacco spesso scrive, e noi allora lo riconosciamo come verità, e
lo accogliamo. Per riferirsi a questo Isacco usa, in un passaggio, il termine
“germinare” (II 34,2), che non parla di un atto di volontà, o di possesso, ma di
un misterioso accadere. Quello che noi possiamo fare è portare, sostenere il
negativo, rimanendo aperti. Tanto è vero che Isacco nelle sue Centurie di
conoscenza (II 29) parla di un dolore che viene da Dio ed è per Dio, e un dolore
che invece non viene da lui, come quando ci si sente solo colpevoli del proprio
peccato, e chiusi al suo interno. Questo non è per lui un portare, ma un
soccombere. Il portare, già in sé, mantiene l’apertura alla possibilità di ciò
che con esso può venire.
Quindi attraverso questo “portare” il proprio limite si entra in relazione con
ciò che è altro da sé?
Non solo, anche con quella parte altra di sé, limitata e sofferente, con cui
normalmente non si vorrebbe avere nessuna relazione. Solo dopo che si è fatto
questo si entra in relazione con l’Altro di Dio, che si manifesta come grazia; e
anche con l’altro nel senso dell’altra creatura, anch’essa limitata e
sofferente. In Isacco è nota questa dimensione di amore radicale. In un
passaggio molto conosciuto, alla domanda “che cos’è un cuore misericordioso”,
risponde:
> “È l’ardere del cuore per l’intera creazione: per gli uomini, gli uccelli, gli
> animali selvatici, i demoni e per tutto ciò che esiste. […] Il cuore […] non
> può sopportare di sentire o vedere un danno o una piccola sofferenza di una
> qualche creatura. Per questo, [l’uomo] prega in ogni tempo con lacrime anche
> per gli animali irrazionali, per i nemici della verità, e pure per coloro che
> gli fanno del male, affinché siano protetti e rafforzati – [prega] addirittura
> per i rettili, a causa della grande compassione che si riversa nel suo cuore
> senza misura, a somiglianza di Dio” (I 74).
E come si può, nel concreto, relazionarsi con il limite senza fuggirlo?
In Isacco c’è un’intensa descrizione dell’incontro col negativo. Si può fare un
esempio, che si riferisce alla sua forma più estrema, che Isacco chiama
“tenebra” o “oscurità” (ḥeškā; ḥešōkā;‘amṭānā). Indica uno stato in cui ci si
sente completamente persi, e si perde anche la possibilità della fiducia in Dio.
È “un’ora”, scrive, “piena di disperazione e paura”, in cui “la speranza in Dio”
e “la consolazione della fede”, completamente nascoste all’uomo, vengono meno, e
si è avvolti dal dubbio (pligutā)” (I 48), una parola siriaca che significa
anche “divisione”. Davanti a questo venir meno della fede Isacco ha indicazioni
varie. La prima è gettarsi in ginocchio e pregare, per cercare relazione,
nell’umiltà dell’inginocchiarsi. Ma poi, se la preghiera non basta e viene meno,
scrive: “Se non hai la forza di controllare te stesso e di cadere sul tuo volto
in preghiera, avvolgi il tuo capo nel mantello e dormi, fino a quando l’ora
dell’oscurità non sia passata da te, ma non uscire dalla tua cella” (I 48).
Questo semplice gettarsi a terra ed attendere, questa “azione muta”, in cui non
è tematizzato ciò che si cerca e neppure più si è in grado di cercare, ma si
sceglie tuttavia di “stare”, può veicolare, misteriosamente, un’attesa, e la
speranza che qualcosa in esso possa manifestarsi. Ma in primo luogo è un
“permanere dentro”, un “abitare”, appunto uno “stare”. Si tratta di parole che
trovo interessanti per un contesto contemporaneo, che non necessariamente
include la fede, o la preghiera. L’analisi che dà Isacco è interessante per due
aspetti. Da un lato egli tenta di tenere aperto, nel lettore, un canale, dicendo
che lui stesso più volte ha sperimentato questi stati, e che quel momento
passerà. Ed è importante che il lettore ricordi questa cosa: che passerà.
D’altro canto però dice che, passargli in mezzo, è una “Gehenna noetica” (I 65).
Dunque non bonifica, riconosce il negativo come negativo: dire che passerà non
toglie nulla all’intensità e alla problematicità del passaggio, poiché per colui
che lo attraversa quella è l’unica realtà. In questo modo Isacco onora il
vissuto del sofferente.
Però la tradizione cristiana è stata spesso accusata di aver esaltato questa
dimensione della croce e del patimento. Che differenza c’è invece tra il portare
di cui parla Isacco e un servile sottomettersi al potere?
È vero che un certo tipo di discorso sul dolore può portare a una dimensione che
schiaccia e avvilisce. La differenza però la fa il soggetto che si confronta con
esso, e qui torniamo al tema della relazione, presente in Isacco, e che lo rende
così moderno. C’è una relazione che l’uomo può sviluppare con il proprio dolore.
Il portare in Isacco non è un essere schiacciato dal dolore e neppure solo un
“sopportare”, ma un cercare costantemente di sostenere la relazione con la
prova, e così questo portare forgia la forza del soggetto e veicola in lui
un’apertura e una trasformazione. C’è sicuramente una linea della tradizione
cristiana giustamente criticabile, ma c’è anche una linea che io credo essere
valida e vitale e che ha cercato una relazione con la sofferenza. Quella
posizione attiva e di ricerca di vita chiama l’elemento trasformativo. Molte
persone, non solo i mistici, hanno raccontato di questo: penso a quanto alcuni
hanno scritto di fronte ai drammi del Novecento. Non credo quindi che il
cristianesimo sia il problema, penso che il problema sia la rimozione del
soffrire. La croce, come il Getsemani, sono momenti fondamentali nella nostra
vita di tutti i giorni, centrali nella tradizione cristiana: non possono essere
rimossi. La resurrezione stessa, e la grazia, non sono comprensibili senza
quell’altro aspetto. La sofferenza ci interroga, e facendo ciò è qualcosa che ci
evoca come soggetti, perché se siamo messi alla prova ci chiediamo chi siamo,
cosa desideriamo, dove vogliamo andare.
Isacco, in proposito, riprendendo un passaggio di Macario sui mutamenti, dice
che è come il tempo atmosferico: c’è la pioggia e poi il sole, la grandine e poi
il sereno, così è la vita di noi umani (I 72). È impensabile che ci sia solo il
sole. Isacco è coerente con questo quando dice: “non pensare che io ti possa
nutrire solo di miele” (II 28). Il che non vuol dire che non si deve godere
della bellezza e del sereno, non è un’esaltazione del dolore. Isacco in
proposito ha delle pagine bellissime sull’amore di Dio, sull’amore radicale per
la creazione e per gli altri uomini. C’è in lui, come in molti altri mistici,
tutto un lato di positività e di luce. Ma insieme c’è il tenere conto che la
vita umana è complessa e contraddittoria: accanto alla luce ha il dubbio, ha
l’assenza di fede, ha la sofferenza, e noi non possiamo pensare che la vita
umana non abbia anche questo. O comunque se si tenta di pensare così si perde
tanto.
È in questo che consiste l’ascesi?
Sì, anche. Per Isacco in essa il percepire questa sofferenza e questa mancanza è
un elemento centrale. E questo percepire il dolore si deve sostenere, perché si
può essere feriti, ma poi ritrovarsi distrutti. Invece, si deve sostenere la
ferita. Quindi sì, percezione del dolore, ma anche forza. Il discorso di Isacco
sul portare la debolezza non elude mai il fatto che il soggetto debba esercitare
una forza per portare questa condizione ontologica, uno sforzo di tenuta. In
questo senso l’ascesi è una via, per Isacco, di formazione di sé. Si tratta
anche di tecniche, di modalità, che hanno lo scopo di insegnare a sostenere la
difficoltà, o di relazionarti con i pensieri. L’elemento della pratica, della
disciplina, dell’esercizio è importante, anche se non va sopravvalutato, perché
poi l’incontro con l’inatteso non può essere disciplinato.
Isacco traccia questa distinzione anche nella preghiera. Da un lato parla di
tecniche della preghiera, sia corporee, come le prostrazioni in ginocchio,
simili alle metanie ancora oggi praticate nella tradizione ortodossa, sia
mentali. C’è poi, però, un momento in cui tutto questo, queste tecniche, anche
quelle mentali, cessano, e si entra nella “non-preghiera”: è quando la grazia si
dà, e la tua tecnica finisce. Viene anzi interrotta, e Isacco dice più volte che
se in quel momento tu cerchi di applicarla fai un errore. La tecnica può quindi
sì, diventare una gabbia. Nel momento in cui accade il mistero, e vieni toccato
dal mistero, devi lasciarti andare ad esso.
Cosmè Tura, San Girolamo penitente, 1470 ca.
E in cosa consiste questa dimensione di “non-preghiera”?
Sul tema della “non-preghiera” hanno scritto molti studiosi di Isacco. Si tratta
di quell’oltre in cui l’agire umano si fa da parte, e subentra quello di Dio. In
quel momento si è, per citare il titolo di un articolo di Paolo Bettiolo,
“prigionieri dello Spirito”, cioè si è in un luogo dove l’azione umana, anche la
più nobile, il portare stesso di cui si diceva, cessa, e Dio si dà. Sono luoghi
misteriosi, che proviamo a nominare, ma di cui possiamo capire poco
cognitivamente, però sappiamo che è un oltre l’azione, un oltre il cognitivo, un
oltre il discorsivo, e sappiamo che lì si dà un bene. È interessante che il
pensiero e il comprendere abbiano un limite, oltre il quale si dà qualcosa che è
al di là del soggetto, e che però il soggetto ha preparato, ha cercato in modo
molto attivo. È un po’ la comunione contraddittoria di grazia e libero arbitrio.
L’interazione tra queste due dimensioni esiste ed è indagata da Isacco, nella
consapevolezza però che non c’è tra la grazia e l’esercizio di sé un rapporto
causa effetto: c’è sempre un aspetto di mistero e di non sapere nel venire
di Dio, non programmabile attraverso l’uso di tecniche. L’uomo rimane sempre su
un crinale, dove non sa, e con questo non sapere deve fare i conti. Questo è
anche parte della vita quotidiana: il capire che la vita ha dei ritmi, ha dei
misteri, ha degli arenarsi, delle cose che non si possono controllare.
Ma quando, e perché, questo rapporto col limite e con la morte è venuto meno?
Come studiosa delle fonti spirituali posso dire quello che vedo in questi testi.
C’è stata la perdita di un duplice rapporto: con sé come creatura, e poi con una
dimensione trascendente, altra da sé. Di sicuro nella modernità abbiamo perso il
rapporto col materico, col fisico, che di certo questi autori avevano.
Però, più che capire il come e il perché questa nozione di limite sia andata
perduta, mi pare interessante notare il fatto che, eludendola, essa torni
indietro di rimando nell’esperienza. Dovremmo interrogarla, e interrogare il
limite e noi stessi, ciascuno nel suo intimo. Io non mi sento attratta dai
discorsi ampi sulla società, mi viene invece da chiedere: nel momento in cui
incontro il limite, come individuo, nella mia vita, che ne faccio? Sarò pronto
ad ascoltarlo? A sostenerlo e farne qualcosa, e usare questa prova come
apertura? A usarla come via per vedere me stesso e l’altro? Credo che i percorsi
individuali che cominciano a ragionare così potranno trovare vie nuove di
attraversamento per le difficoltà di oggi. Oltre la pressione del collettivo e
le sue dinamiche di oblio.
Secondo me non è tramite il tentativo di ristabilire la centralità del
trascendente che si ritroverà il rapporto con esso e con il limite, sebbene
comprenda questo tentativo, ma è tramite l’attraversamento dell’esperienza del
limite che ci scontreremo con la necessità di interrogazione sul trascendente.
Lì ognuno di noi sarà solo di fronte al mistero, al cercare una via di fronte al
mistero. Credo, e grazie a Isacco, che solo portando il negativo si entra in
relazione con il proprio limite, con la propria condizione creaturale, e di
conseguenza anche con ciò che è altro da sé. Isacco usa spesso un
termine, argeš, che significa “percepire”. E lo usa in riferimento alla
debolezza, dicendo:
> “beato l’uomo che ha conosciuto la sua debolezza! Questa conoscenza sarà per
> lui fondamento e inizio di ogni cosa buona e bella. Quando un uomo ha
> conosciuto e percepito (argeš) che esattamente e in verità è debole, allora
> trattiene la sua anima dal divagare” (I 8).
C’è quindi un percepire e un conoscere, ed è solo percependo la propria
debolezza, stando dunque in contatto con sé, che è possibile una conoscenza, e
con essa una trasformazione. Credo che questo sia molto moderno, e trascende il
fatto che qualcuno sia un solitario, un monaco o altro; ciascuno nella sua
individualità è chiamato, credo, a fare questo, se gli interessa tentare di
vivere con verità, cercando la verità.
Bianca Cesari
*
Fonti
Prima Collezione
P. BETTIOLO, M. GALLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi ascetici 1, Roma:
Città Nuova, 1984.
S. CHIALÀ (trad.), Discorsi ascetici. Prima collezione, Magnano: Qiqajon, 2021.
Seconda Collezione
S. BROCK (ed.), Isaac of Nineveh (Isaac the Syrian).“The Second Part”, Chapters
IV-XLI (CSCO, 554-555; Scr. Syri, 224-225), Louvain: Peeters, 1995.
P. BETTIOLO (trad.), Isacco di Ninive. Discorsi spirituali: Capitoli sulla
conoscenza, Preghiere, Contemplazione sull’argomento della gehenna, altri
opuscoli, Magnano: Qiqajon, 1985 (ristampa 1990).
Terza Collezione
S. CHIALÀ (ed.), Isacco di Ninive. Terza Collezione (CSCO, 637-638; Scr. Syri,
246-247), Leuven: Peeters, 2011.
Studio principale:
V. DUCA, “Exploring Finitude”: Weakness and Integrity in Isaac of Nineveh (OLA,
309; Bibliothèque de Byzantion, 28), Leuven: Peeters, 2022.
*In copertina: Maestro dell’Emmaus di Pau, San Girolamo, XVII sec.
L'articolo “È l’ardere del cuore per l’intera creazione”. Dialoghi intorno a
Isacco di Ninive proviene da Pangea.
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Ne nacque un affare diplomatico. Nel 1968, per L’Herne di Dominque de Roux,
l’editore dei reprobi, Witold Gombrowicz aveva pubblicato un saggio Sur
Dante (uscito, in Italia, da Sugar nel 1969 e da Dante & Descartes nel 2017). In
direzione contraria ai pur formidabili libri del genere – chessò, i saggi
danteschi di Thomas S. Eliot e Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam –,
Gombrowicz scrive che Dante non gli pare granché; la Commedia, poi, è una boiata
pazzesca. Davanti a Piero Sanavio, indimenticato giornalista hemingwayano,
Gombrowicz rincarò la dose:
> “Se Dante mi annoia e se mi considero superiore a lui, lo affermo senza paura:
> è un mio diritto”.
(A proposito: vale la pena ristampare lo studio di Sanavio edito cinquant’anni
fa da Marsilio, Gombrowicz: la forma e il rito, è più brillante di troppi,
mortificanti saggi odierni, è fitto di frasi bellissime, come questa:
“Gombrowicz vivo l’ho sempre incontrato in giornate di pioggia”; il polacco,
d’altronde, scriveva con furia d’acquazzone).
Giuseppe Ungaretti s’incazzò e scrisse a De Roux una lettera piena di spine (“Il
libretto su Dante di quel polacco è vergognoso. È un fatto senza senso, idiota,
che questa calunnia sia stata stampata”); nel Diario, Gombrowicz annota:
“l’addetto dell’ambasciata italiana a Parigi ha annunciato una sua visita”.
Siamo nel 1969; Witold morirà poco dopo; per L’Herne era da poco apparso
un Cahier dedicato a Ungaretti, a cura di Sanavio.
La disfida – diciamo così – tra Gombrowicz e Dante durava da qualche anno. Già
nel 1966 Gombrowicz squartava il Poeta con caustica acribia:
> “La Divina Commedia non mi basta. Vi cerco Dante senza trovarlo… A scuola e a
> casa ci hanno insegnato solo a rispettarli e venerarli, mentre in realtà il
> nostro rapporto verso i Grandi è di due tipi: da un lato ci prosterniamo e li
> adoriamo, dall’altro li trattiamo con condiscendenza e disinvoltura”.
Comprendiamo l’euforica ira di Gombrowicz: l’anno prima, a Firenze, si era
celebrato il trionfo di Dante; scoccavano i settecento anni dalla sua nascita.
Saint-John Perse, il poeta e diplomatico francese, diplomato Nobel nel ’60,
tenne un discorso inaugurale, Pour Dante, prontamente stampato da Gallimard;
c’era anche Ungaretti, a rimarcare l’abissale grandezza dell’Alighieri. A
Gombrowicz irritava l’atteggiamento ossequioso – e ipocrita – dei poeti verso il
Poeta. Della Commedia, non salvava neanche l’Inferno:
> “I tormenti dei suoi dannati sono talmente rozzi, poveri, logorroici! E tutti
> quei predicozzi enunciati tra un tormento e l’altro…”.
Questo andazzo da Lucignolo – o, per restare in tema dantesco, da Cecco
Angiolieri – celebra, sotto la superficie, un’idea guerresca della letteratura,
mai assisa sugli allori – sui quali, invece, in perpetua acquiescenza, ronfano i
critici sornioni e i poeti in carriera. La stessa idea, in fondo, è professata
da Leopardi nelle Operette morali, dove si dice (siamo all’altezza del Parini o
della Gloria) che le opinioni dei critici e degli storici sono corrotte da
“consuetudine ciecamente abbracciata”. I lettori non mettono mai in discussione
ciò che le accademie e il pregiudizio impongono; eppure, i grandi scrittori,
proprio perché tali, devono essere interrogati e sfidati di continuo, fino a
sfrattarli dal trono. Così – è ancora Leopardi – “a me interviene non di rado di
ripigliare nelle mani Omero o Cicerone e il Petrarca e non sentirmi muovere da
quella lettura in alcun modo”.
Per continuare sulla scia del Gombrowicz “leopardiano”, bisogna
leggere il Diario (ora in unico tomo per il Saggiatore, nella traduzione di
allora, di Vera Verdiani, quando lo stampava Feltrinelli, in due tomi, usciti
nel 2004 e nel 2008; medesima anche l’introduzione di Francesco M. Cataluccio, a
parte lievi modifiche nel primo paragrafo) dal fondo, dalla formidabile
allocuzione Contro i poeti. Gombrowicz ridicoleggia lo statuto dei poeti che
“ormai non cantano più per la gente, ma per se stessi”, stigmatizza “il poeta
come un essere che non può esprimere se stesso perché è costretto a esprimere la
Poesia”. In sostanza, il Witold scatenato sbugiarda l’idolo della Letteratura,
la menzogna della Cultura. Scrivere, dice Gombrowicz, vuol dire azzerare tutto,
soprattutto se stessi, fare della penna il proprio plotone di esecuzione,
rifuggire dai riti dei letterati e dai premi, rifulgere nella rinuncia.
Contro i poeti era stato preparato per un discorso pubblico accaduto a Buenos
Aires nel 1947; trasferitosi nella capitale argentina dal 1939, Gombrowicz ha
scritto lì, da reietto, da “eremita sepolto vivo in Argentina”, le pagine più
violente del Diario. Malsopportava Victoria Ocampo, “un’anziana aristocratica
piena di milioni”, e i galoppini d’intelletto fino che ronzavano intorno a “Sur”
– Paul Valéry, Bernard Shaw, Keyserling – galvanizzati da “quell’insistente
sentore di soldi aleggiante attorno alla signora”. Impossibile per uno scrittore
“affascinato dagli strati inferiori del paese” entrare in contatto con Borges,
> “un artista che il caso aveva fatto nascere in Argentina, ma che avrebbe
> potuto altrettanto bene, e forse meglio, essere nato a Montparnasse”.
Il Diario di Gombrowicz è tutt’altro dai pur mirabili Journal che i francesi
hanno prodotto a frotte – quelli, ad esempio, di André Gide, di Marcel
Jouhandeau, di Julien Green. Lì la suprema raffinatezza rispecchia l’impero
dell’egotismo, l’energia di una schifiltosa interiorità; qui, invece, è
l’audacia dell’individuo che dilania se stesso, sono le dighe disintegrate, i
tombini bombardati, il dio del caos in casa. Gombrowicz disprezzava la
letteratura dello show, la letteratura “sfrattata dallo spirito individuale”,
che
> “diventa preda di fattori extra-spirituali e puramente sociali. Premi,
> concorsi. Celebrazioni. Associazioni professionali. Editori. Stampa. Politica.
> Cultura. Ambasciate. Convegni”.
Il Diario è un antidoto a quest’epoca esangue, retta dall’autocensura e dal
perbenismo della correttezza. In spiaggia, per dire, a Piriápolis, Uruguay, è il
1962, Gombrowicz inveisce contro le grasse, contro lo “svaccato stravaccamento
di quello schifo sfacciatamente sfrontato”, quel “donnesco baobab di donna dal
debordante didietro… e chi lo trova un macellaio capace di venirne a capo?”.
Terrorizzato dai grandi numeri – che annientano l’io allo sbadiglio, a uno
sbaglio, allo zero – Gombrowicz disorienta il mito della fedeltà coniugale: come
faccio ad amare un’unica donna se “non so chi sono io” e lei è
> “una delle tante femmine che abitano il globo terrestre, una delle tante
> vacche… un miliardo di vacche, un miliardo di femmine?”.
Ha scritto che “l’arte è aristocratica fino al midollo, come un principe di
sangue reale. È negazione dell’uguaglianza e culto della superiorità”. Resta il
fondatore di un’eresia letteraria senza seguaci – per chiunque scriva, Witold
Gombrowicz è un San Paolo: ci ha messo la croce addosso, aprendoci la via del
tormento e della gloria.
L'articolo “L’arte è aristocratica fino al midollo”. Witold Gombrowicz contro
tutti proviene da Pangea.
Come accostarsi a un paese, a una cultura, a una visione del mondo e della vita
radicalmente diversi dai nostri? Cosa si smuove, dentro di noi, quando il
confronto con l’alterità si fa profondo, inevitabile, trasformativo?
«Que devient-il un paysage lorsqu’il n’est plus contemplé?» – si chiedeva
Béatrice Commengé, rievocando l’infanzia mitica di Lawrence Durrell nelle valli
luminose dell’Himalaya.
Un paesaggio, una cultura, esistono anche senza il nostro sguardo? E cosa
diventano, quando vi posiamo sopra i nostri occhi inquieti?
Si può scegliere la via di Pierre Loti: proiettare sull’altrove il volto
inaccessibile e seducente di una donna, dare carne e sangue all’esotico,
trasfigurandolo in desiderio.
Oppure seguire le orme di un poeta come Odysseas Elytis: prendere la Grecia
millenaria e custodirla come in un sogno, sottrarla agli urti della storia,
popolarla di luce implacabile e di dèi che nuotano tra le onde dell’Egeo e i
dolori intimi dell’uomo. Si può anche fare come Roland Barthes: accogliere il
Giappone nella propria fantasia privata, lasciarsi attraversare da una
costellazione di segni e immagini fino alla lacerazione del senso.
E poi c’è chi si innamora perdutamente dell’Asia e, come in una favola zen, si
immagina abitante della luna in viaggio di studio sulla Terra. È il caso di
Fosco Maraini, che con Segreto Tibet ci consegna uno dei libri più belli e
inclassificabili del Novecento italiano: non solo una superba testimonianza di
viaggio, ma una meditazione profonda sulla bellezza, sul tempo, sulla
meraviglia.
*
Nel Tibet degli anni Trenta – chiuso al mondo, accessibile solo a pochi –
Maraini accompagna l’orientalista Giuseppe Tucci in due spedizioni memorabili,
nel 1937 e nel 1948. Ne nasce un’opera che è insieme diario, trattato
antropologico, poema in prosa e archivio della memoria. È allo stesso tempo
documento storico e fiaba senza tempo: ha la nitidezza di una cronaca e la
sospensione dell’archetipo. Racconta un mondo reale eppure mitico, in cui ogni
gesto, ogni volto, ogni oggetto sembra affiorare da un tempo remoto e arcano.
Segreto Tibet ci trasmette il senso della vertigine del nuovo – quella a cui non
siamo più abituati. Noi, generazioni satellitari, cresciute con Google Maps e
Street View, abbiamo addomesticato il mondo, anestetizzato l’ignoto. Maraini,
invece, ci restituisce lo stupore intatto del primo sguardo, la sensazione di
camminare davvero fuori mappa, come esploratori del proprio stesso sguardo. In
questo, egli è l’epigono di Marco Polo: colui che non solo narra ciò che ha
visto, ma lo ricrea. Un Ibn Battuta della parola, un Matteo Ricci
dell’immaginazione.
Seguiamo l’inizio della spedizione, quando Maraini descrive la partenza dal
porto di Napoli. È ancora l’epoca dei lunghi e avventurosi viaggi in piroscafo,
contenitori mobili di un’umanità cosmopolita e palpitante. Qualcuno dovrà pur
scrivere, prima o poi, l’epopea di questi pachidermi acquatici. Nella nave
avviene il primo incontro ufficiale del lettore con Tucci, al quale Maraini è
legato da una profonda riconoscenza.
Si levano le ancore, si salpa, i cari e i curiosi gesticolano dalle banchine:
l’anima vive già le promesse scintillanti del futuro. Maraini fa tappa in
Egitto, visita le Piramidi, poi Gibuti, lo Yemen, infine l’approdo in India. Qui
avviene il primo grande confronto con la monumentale civiltà asiatica. Con una
certa dose di temperata ironia, Maraini già esercita la sua fulminante capacità
di osservazione: quell’inseguire la divinità del dettaglio, senza però esaurirne
il mistero. Infine, la lenta ascesa verso il Tibet, attraverso l’Himalaya
Orientale: un lento e itinerante apprendistato all’incanto, una compiuta
pedagogia del vedere. Il nuovo scenario si svela in immagini da creazione del
mondo: coltri di nebbia, torrenti impetuosi, ghiacciai celesti, colossi di
pietra. Tutto – le forme, i suoni, i colori – parla un linguaggio aurorale, da
giorno-uno della Terra. E gli uomini che lo abitano – come i Lepcha, timidi e
silenziosi, piccoli Hobbit asiatici in simbiosi con la natura – sembrano venuti
da un altro ciclo cosmico. Anche il dettato di Maraini, allora, deve dar conto
di questa aria di prodigio. La sua lingua diventa a tratti espressionistica,
capace di evocare il brulicante e inesausto alternarsi e proliferare di vita e
di morte delle foreste. Poi, come osservando gli altopiani a volo d’uccello, la
prosa si apre ai monologhi del sole e del vento, “alle grandi cose di fronte a
cui è inutile mentire”. Talvolta, con brevi pennellate da artista cinese,
nascono quasi degli Haiku in prosa:
> “Gli ultimi alberi, le prime nevi in distanza. Stamattina ci siamo incamminati
> all’alba: dalle piante della foresta pendevano strani licheni che la rugiada
> imperlava di luce”.
Maraini è un narratore puro che dissemina qua e là schegge di poesia. La sua
scrittura svezza il lettore dall’ovvio, fruga nella materia viva, apre sentieri
nel bosco delle parole con la sicurezza di chi ha imparato a camminare nella
giungla, a colpi di machete. La sua lingua sa essere precisa e limpida, ma anche
lirica e visionaria: un equilibrio raro tra precisione e incanto.
Segreto Tibet è anche un libro di ritratti. Come quello di Giuseppe Tucci:
geniale, ombroso, carismatico, capace di passare con naturalezza dalla lettura
delle scritture tibetane al ricordo commosso delle colline marchigiane e dei
versi leopardiani. Attorno a lui, figure che sembrano uscite da un affresco:
maharaja postumi, europei convertiti al buddismo che si aggirano fra i templi
come pellegrini smarriti e devoti, nobili americani in cerca del proprio Gran
Tour interiore. E infine lei: Pemà Chöki, la principessa del Sikkim. Figura
femminile intensa, dolce e carismatica, colta e velata da un mistero
lieve. Simbolo di un paese che si rivela nei suoi contrasti, è quasi
l’incarnazione dell’anima tibetana: silenziosa, tenace, enigmatica. Io credo
che, a dispetto di una produzione che è per la maggior parte prosa, Maraini
abbia testa e cuore di poeta. E sono convinto che raggiunga l’apice del suo
lirismo proprio nell’evocazione di Pemà.
La incontriamo per la prima volta in un pranzo formale, a Gangtok, in un
contesto dove “tutto è favola, convegno di gnomi e di fate”. Pemà ha da poco
superato i venti anni, il suo nome significa Loto della Fede Gioiosa e vi è in
lei una bellezza altera, un po’ nervosa, brillante. I suoi occhi sono intensi e
penetranti, l’ovale del volto sottile, la bocca piccola e inquieta passa dal
sorriso al disappunto in maniera del tutto naturale. I capelli, di un nero pece,
sono molto lunghi e confluiscono in una treccia alla tibetana. È vestita secondo
gli usi locali che prediligono i colori accesi e fanno apparire gli europei,
stretti nei loro rigidi e scuri indumenti, come dei mesti pinguini. Pemà è
avvolta da una seta viola, con una sciarpa che le cinge la vita. Le unghie delle
mani sono smaltate in rosso: piccola, adorabile concessione alla moda
occidentale. Ai piedi calza dei sandali francesi in pelle nera. Una catena
tempestata di diamanti le adorna regalmente il collo. Pemà è un’abilissima e
profonda conversatrice. Ha ricevuto un’ottima educazione: conosce assai bene
l’inglese e i grandi autori della letteratura.
La principessa Pemá Chöki Namgyal. India. Sikkim. Passo Nāthū Lā. 27 febbraio-18
maggio 1948 Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024
Archivi Alinari.
C’è un passaggio del libro che mi è particolarmente caro. Maraini, di ritorno
alla corte di Gangtok dopo svariati mesi, rivede Pemà e trascorre con lei un
pomeriggio intero. La principessa, che nutre una profonda venerazione per
Milarepa, decide di leggere in lingua originale alcuni passi del grande poeta
tibetano. Maraini assiste, incredulo e incantato, alla scena che si svolge in
quel momento. Il canto di Pemà racconta le immagini di Milarepa e le sue
sensazioni di eremita durante le notti, nei deserti di ghiaccio. C’è forse un
modo più bello per avvicinarsi, pieni di ritegno e di un ammirato stupore, al
cuore stesso di una persona e di una civiltà a mille miglia lontana dalla
nostra?
Quando si trova a Chubitang, Maraini ricorda che proprio da là, un anno prima, è
passata Pemà, di ritorno da Lhasa. Immagina allora di avvistarla da lontano,
come per incanto:
> “Da lontanissimo avrei visto la carovana come dei puntini; poi camminando i
> puntini si sarebbero fatti uomini, cavalli e yak. Avrei sentito allora i
> campani degli animali e le voci dei servi. Infine ti avrei vista, Loto della
> Fede Gioiosa, per la prima volta, sul tuo cavallo, gli occhi fissi alle
> distanze, il capo nel sole; rara, forte, fragile come la giada. Poi saresti
> svanita nell’immenso della pianura. Da ultimo avrei soltanto inteso le voci
> degli uomini per cui tu eri la cosa delicata e preziosa da proteggere, da
> difendere, da condurre di là dall’Imàlaia”
*
Segreto Tibet ci scaraventa – senza indulgenze – in un mondo fatto di colori e
costumi che sembrano usciti da un sogno miniato. Un universo che ignora la
fretta, ma conosce l’attesa, il rito, la verticalità della preghiera e
l’orizzontalità delle stagioni. Un mondo che si rivela a poco a poco, per
squarci di meraviglia, sospensione dell’incredulità. Altopiani di orizzonti
vasti, di cieli limpidi, di terre ocra che risplendono alla luce solare,
dominate da vette leggendarie. Nei passi di montagna, al confine tra regioni e
nei luoghi di transito, svettano i chörten, la versione tibetana degli stupa
indiani, e i variopinti tarchö. Sono rettangoli di stoffa colorata, sui quali
sono stampate preghiere e formule sacre. Si pensa che le benedizioni vengano
portate dal vento, diffondendo buona volontà e compassione.
Tutto, in Segreto Tibet, parla di un tempo che non tornerà più. Non solo per i
mutamenti storici, politici, culturali che hanno trasformato – spesso
violentemente – il Tibet, ma perché è trascolorato anche, forse, un certo
atteggiamento di fronte alla vita. Un capitolo del libro si chiama L’ebbrezza di
scoprire. È il resoconto di una mente di fronte all’avventura spirituale della
scoperta. Guidato e illuminato dal genio di Tucci, Maraini arriva alla sorgente
pura della conoscenza, nel momento in cui essa non ha ancora vissuto lo
svilimento dell’analisi, dell’antologia e della classificazione.
Il libro si può anche leggere, in fin dei conti, come la testimonianza bruciante
di un evento irripetibile nella vita dello scrittore. Quel Tibet è forse, anche,
un Tibet interiore, una segreta geografia dell’anima. Un luogo dove forze
opposte convivono, come in uno yin e yang cosmico: luce e oscurità, violenza e
dolcezza, umorismo e compassione.
*
Fosco Maraini è sepolto nel piccolo cimitero dell’Alpe di Sant’Antonio, nella
regione della Garfagnana, uno dei suoi luoghi del cuore. Sulla lapide, alle due
estremità, sono incisi una croce di Cristo e un Buddha. Escursionisti,
pellegrini e amanti delle sue opere vi portano fiori e piccole bandiere di
stoffa tibetane.
Rifletto sulla biografia di Maraini. Certo, vi si può leggere una sintesi
perfetta di un uomo che ha dialogato sempre dal cuore dell’Occidente a quello
dell’Oriente. Maraini era innamorato dell’Asia, ma senza per questo dimenticare
da dove proveniva. Il suo sforzo di sintesi tra civiltà, in un periodo storico
drammatico, ha significato anche sacrificio, una dura prigionia, un dito
mozzato. Segreto Tibetresta, nella vita e nelle lettere, come un misterioso ed
irripetibile miracolo. Dalle porte del futuro, però, si intravedeva già quella
manciata di isole poste ancora più ad Est: il Giappone.
Lorenzo Giacinto
*In copertina: La lotta contro il nulla. Giappone. Tokyo. Parco di Ueno, 1963.
Fotografia di Fosco Maraini / Proprietà Gabinetto Vieusseux © 2024 Archivi
Alinari
L'articolo Il Tibet di Maraini è un antidoto a Google Maps, una sfida alla
generazione che ha anestetizzato l’ignoto proviene da Pangea.
Sarebbe impossibile, oggi, definire Suor Juana Inés de la Cruz “una delle
supreme figure simboliche in cui le donne moderne si sono riconosciute”. Eppure,
così attaccava la ‘quarta’ delle Poesie di questa singolare e ineffabile
personalità, tradotte da Roberto Paoli per la Bur nel 1983. Il libro –
naturalmente, verrebbe da dire – fa parte di un’eternità non più libraria, è
scomparso da cataloghi e scaffali; l’autrice è ormai un’innocua nota nei libri
di storia, una chiosa capretta, tanto che pare paradossale l’enfasi con cui
veniva presentata, allora:
> “Voleva vivere in perfetta solitudine, leggendo, studiando e scrivendo, senza
> essere disturbata dal tumulto della vita. ‘Il mio calamaio è il rogo nel quale
> devo bruciarmi’, scrisse stupendamente. Pochi uomini possono vantare una così
> adamantina, superba, disperata tensione intellettuale come questa suora
> messicana: sognava di essere androgina, di dimenticare il suo sesso e ogni
> sesso, il suo corpo e l’intero regno dei corpi, tutte le vicissitudini delle
> sensazioni e dei sentimenti”.
Anche il libro Einaudi che raccoglie i Versi d’amore e di circostanza di Juana –
uscito nella ‘bianca’ nel 1995, a cura di Angelo Morino – risulta “non
disponibile”. Peccato perché i versi di questa donna astrale, estranea al tempo,
che fu dama d’onore della viceregina, carmelitana scalza per una manciata di
mesi, poi affiliata all’ordine di San Gerolamo, temuta per spregiudicato
intelletto, di glaciale bellezza, sono tra i più alti dell’epoca, tra i più
belli mai scritti in lingua spagnola. Rimedieremo.
Chissà quali sono le “figure simboliche” in cui oggi si riconoscono le “donne
moderne”… Non credo che Suor Juana possa essere addomesticata in simboli e in
slogan: la sua mente, ferina, spaura; la sua libertà è violenta. Infine, si
liberò della biblioteca – che contava oltre 4mila volumi, spesso ‘proibiti’ se
non proibitivi – e degli strumenti musicali, che sapeva armeggiare. Chiuse anche
con gli strumenti scientifici con cui si lambiccava, giocando all’alchimia –
morì, troppo giovane, troppo altra, neppure cinquantenne, nel 1695, a causa di
un’epidemia (si dedicò a curare le inferme, subendone il contagio). Leggeva, tra
gli altri, Athanasius Kircher. A tratti, Suor Juana pare una delle donne dipinte
da Zurbarán: Sant’Agata o Santa Elisabetta del Portogallo, evanescenti e feroci,
con quel volto giaguaro. In lei, l’arguzia di Santa Teresa si svolge nell’aquila
di Tenochtitlán: un’intelligenza dagli artigli tesi. Per darle giustizia ci
vorrebbe la penna di Cristina Campo.
Perfino Samuel Beckett restò stordito dalla voracità linguistica di Suor Juana.
Su ispirazione di Octavio Paz – che a Suor Juana dedicò parte della sua vita da
studioso: Suor Juana o le insidie della fedecampeggiava, nel 1991, in catalogo
Garzanti, ora si trova nel mercato alternativo – cominciò a tradurla. L’esito
del suo lavoro – che contempla altri autori del Seicento come Bernardo de
Balbuena e Juan Ruíz de Alarcón – fu pubblicato nel 1958 dalla Indiana
University Press come An Anthology of Mexican Poetry transleted by Samuel
Beckett. Nel 1994 l’antologia è stata ripubblicata da Grove Press. Il libro è
smilzo, sobrio, ‘beckettiano’: nell’ala compare – guarda un po’ – Suor Juana,
nel ritratto di Miguel Cabrera: “Posseduta da un’ardente curiosità
intellettuale, ha difeso con forza il proprio diritto alla conoscenza, la
propria sete di sapere, scrivendo, tra l’altro, liriche di rara bellezza”.
Il 1958 è un anno importante per Beckett: traduce L’innominabile in inglese,
scrive Acte sans Paroles, L’ultimo nastro di Krapp, Finale di partita. L’anno
dopo il Trinity College lo investe del dottorato honoris causa. Credo che
Beckett, in quel lotto di anni, sia stato invaso dal linguaggio di Suor Juana:
esuberante, è vero, ma che esorbita fino ai confini dell’indicibile,
dell’annientamento, per eccesso, di ogni lemma. Come sfregare due pietre d’oro
perché accada una fiamma: è bianca, sa di acqua. Eppure – a dire
dell’insignificanza di Suor Juana nei perigli della cultura d’oggi – non c’è
cenno della Anthology of Mexican Poetry nel formidabile ‘Meridiano’ dedicato
a Romanzi, teatro e televisione di Beckett. Eppure, è opera in cui coincidono –
rarità al cubo – due futuri premi Nobel per la letteratura: Paz otterrà l’alloro
nel 1990, ventuno anni dopo Beckett. Il punto di giunzione tra l’irlandese e il
messicano è Antonin Artaud: credeva in misteriose analogie tra i Tarahumara,
“razza di uomini perduti” nei recessi del Messico, e la civiltà delle Aran, tra
il peyote e Bachall Isu, il mitico bastone di San Patrizio custodito – e poi
bruciato – a Dublino. Soprattutto, modellò il linguaggio fino a farne magia,
formula ipnotica.
Ad ogni modo, ecco come Samuel Beckett rende uno dei sonetti più noti di Suor
Juana, Éste que ves, engaño colorido:
Questo frainteso a colori che tanto ammiri,
vanagloria dell’eccellenza artistica
non è che una furba frode dei sensi
in fallaci sillogismi di pittura;
questo, dico, adulazione da becchino
che estenua l’odioso orrore degli anni,
vaniloquente sconfitta degli oltraggi del tempo
trionfo sull’oblio e sulla vecchiaia,
è vano artificio della dedizione
è fragile fiore al vento
è inutile santuario del fato
sordida inerte opera vana, conquista
che svanirà, ben fatta, certo, nient’altro
che carcassa e polvere, ombra e nulla.
Questa la traduzione, adesiva, di Paoli:
Questo, che vedi, colorato inganno
che dell’arte ostentando le bellezze
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dei sensi malizioso;
questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggendo del tempo i rigori
trionfare sugli anni e sull’oblio,
è un artificio vano della cura,
è un fiore molto gracile nel vento,
è un inutile scudo contro il fato:
è una sciocca pazienza delirante,
è un affanno fugace e, a ben guardare,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.
Un sapiente drammaturgo dovrebbe figurarsi il giorno in cui Samuel Beckett
incontrerà Suor Juana – le chiederà di ispezionare la sua calotta cranica,
riconoscendo gli stessi ghiacciai, un padre chiamato Antartide. Dopo averle
baciato le dita, è ovvio – rese al giglio e all’acciaio, fatte iena.
***
Da Primero sueño
Venere era, Venere
per prima della bella stella
del mattino adorna
brillò lungo l’alba
arcigna sposa del vecchio Titone.
Amazzone di ardore rivestita
armata contro la notte
fatata e fatale
pianto di malinconia pianta
e mostra l’amabile fronte
tra i ramificati bagliori del mattino
tenero ma ferino araldo
dell’astro feroce
che viene, che viene
schierando gli scherani
e gli arcieri bagliori
la retroguardia
di venerande veterane luci
contro di lei, tiranno usurpatore
dell’impero del giorno, mentre
cinghie di neri tuoni
trafiggono le ombre nottambule
fino ad atterrirla.
Ma lei è bella, lei è l’avanguardia
dell’araldo del sole
che sventola il palio a Oriente
e chiama alle armi le mere, bellicose
genie dei rapaci:
che sia ingenua la loro fede
sonora come quella delle trombe
quando il tiranno, in rotta, trema
sconvolto da cupi presentimenti
e si sforza di elencare la sua leggendaria
potenza e controbatte con il funebre
mantello le infallibili
falci di luce
ed è vano il valore
della disperazione, futile
ogni resistenza, così inclina
alla fuga, unica via di salvezza
e il rauco corno erutta
e i neri battaglioni
retrattili in geometrica ritirata.
Ma una più arcana pienezza
di raggi squarciò le più alte cime
le torri del mondo. Il sole
recluso nel suo girovagare
rende oro l’azzurro
raggi di luce virginea
incidono il ceruleo cranio del cielo
si abbattono su quella
funesta tirannia.
E lei fugge e lei inciampa
nei suoi stessi orrori
calpesta la sua ombra:
cieca fuga, luce che avanza
luce che incalza, che sfonda
il limite occidentale e la sfigura.
Ma la caduta la vivifica
la rovina la imbeve di una
rinnovata ribellione
e in quella parte di mondo
ignara del giorno
indossa ancora la corona
mentre nel nostro emisfero
il sole scuote la criniera
conferendo a ogni cosa
il suo degno colore
affidando agli ancoraggi
della luce il mondo – ora
tutto è luce e posso destarmi.
Versione di Samuel Beckett
L'articolo “Voleva vivere in perfetta solitudine”. L’incontro tra Samuel Beckett
e Suor Juana Inés de la Cruz proviene da Pangea.
Non occorre manomettere un testo tanto perentorio, ci si inoltri in un versetto,
si costruisca un cantuccio nei suoi meandri. Scelgo il primo versetto del
capitolo 5; questa è traduzione alla lettera:
> “Non affrettare la bocca, non precipitare il cuore a eruttare parola davanti a
> Dio, perché Dio è in cielo e tu in terra: perciò siano rade le tue parole”.
Intanto: si parla a Dio con la bocca (peh) e con il cuore (leb). Esteriore e
interiore debbono combaciare. Il cuore ha porte e ha bocche; la bocca sia la
brocca del cuore.
Il punto è per sempre quello: come si parla a Dio? Qual è la parola che permette
udienza da parte di Dio? Se è vero che ciò che chiediamo ci sarà dato, come
chiedere? Qual è il linguaggio di Dio?
Poche parole, dice Qoelet, scarsità di verbo, fare del vocabolo umano deserto.
Cosa scarsa, scarna: parola-ostia, parola-briciola.
Qoelet è libro dell’asserzione assoluta – è un libro all’assalto. Così breve
– siano rade le tue parole: parola rase al suolo, cioè: rare – da infuocare
l’intero Testo. La frustrante ripetizione di tutte le cose – stagioni; creature;
fatti – testimonia che l’uomo è poca cosa, ombra che fugge, erba che sorge al
mattino perché sia tagliata a sera. A tutti – saggi come stolti, potenti come
poveri – è assegnata la stessa sorte: morte. Per ogni creatura – uomo o cane che
sia – è apparecchiata la stessa meta: Sheol, il regno degli spettri. Dio ci ha
insufflato l’anima, a Lui va resa – rasa. Al ricco sarà tolto ciò che ha, il
povero sarà depredato perfino di ciò che manca. Con metodica crudeltà Qoelet
elimina ogni certezza: in fondo, Dio equivale al Caos.
Corroborante è questa certezza del nulla: ci permette tutto – l’antinomismo è a
un passo.
Eppure, esiste lo spiraglio. Poche parole bastano a sfigurare la distanza tra la
terra e il cielo, ad avvicinare il Dio mai così distante dall’uomo (ma lo è pure
il Cristo, a intendere le stimmate più abissali di ogni mai pensato Sheol, la
Croce più ineffabile di ogni Babele mai costruita).
Già. Ma… quali parole?
“Per te il silenzio è lode”, dice il Salmo 65. Dumiyyah: silenzio, attesa in
quiete. Veglia silente.
Che cos’è questa preghiera silenziosa, di rade parola, che non si affretta, che
è in perenne veglia?
Forse è la preghiera che ossessionava il pellegrino russo, sconvolto dall’invito
che Paolo fa ai Tessalonicesi: “pregate ininterrottamente” (5, 17). Quali sono
le “rade parole” che permettono la preghiera senza interruzioni? Secondo la
tradizione cristiana, in particolare ortodossa, tali parole sono raccolte, in
simbolo, nella cosiddetta “Preghiera del Cuore”, mutuata dal Vangelo di Luca
(18, 13): “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!”
(Κύριε ἸησοῦΧριστέ, Υἱὲ τοῦ Θεοῦ, ἐλέησόν με τὸν ἁμαρτωλόν).
Rade, rare parole che non costringono Dio all’ascolto, ma aprono il nostro corpo
– petto/orecchio; costato/occhio – ad ascoltare ciò che Dio ci dice. Preghiera
da sussurrare di continuo per conferire un’aura al nostro fare, per illuminare
l’opera. Parola che inchiavarda il cielo alla terra.
Il versetto di Qoelet, tuttavia, continua in questo modo:
> “…perché arriva il sogno dalla troppa attività, il dire del vile dalle troppe
> parole”.
Chi parla troppo è un cretino (kesil), uno stolto, un seguace del gregge. Si
ostina al discorso – il logos greco –, inutile a incatenare Dio. Il discorso,
vanto dei filosofi, rimarca Babele: il linguaggio che doveva unire Dio all’uomo
ha sancito irremovibile divario. La parola umana non sfiora l’Impronunciabile;
per giungere a Dio bisogna percorrere l’aldilà del linguaggio – le “lingue degli
angeli”, la “glossolalia”, lingua-fiamma – come fanno i poeti, o essere da Lui
invasati, invasi come accade ai profeti. Non si dà Dio in lingua umana, capace
di sondare l’evidente, inabile al cospetto dell’invisibile. Per dirla come Lev
Šestov,
> “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella storia. Egli è il
> ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia”.
Il sogno (chalom), qui, è agli antipodi della veglia, non impreziosisce la vita
ma la svia, la inselvatica in un roveto di sinistri segni. Il sogno – che pure
ha parte nella storia della salvezza: si guardi alla storia di Giuseppe, che i
sogni dissigilla – è da Qoèlet deprezzato a segno della vita australe a Dio:
nell’esatto dire, hahalowm consuona con haelohim, Dio, appunto, nella sua più
neutra accezione, il dio moltiplicato in dèi. I sogni creano dèi, ci
imbambolano, inibiscono la via a Dio, sono la controfigura dell’idolo. In questo
caso, il sogno è in contrasto con il detto (neum) e l’oracolo (massà) che Dio
concede al profeta: analoga differenza tra miraggio e miracolo, tra negromante
ed eletto, tra mistagogo e vagabondo del mistero.
Il pensiero è estremizzato nel versetto 6:
> “…nella folla dei sogni è vanità come nelle troppe parole: perciò ti
> impaurisca Dio”.
Troppe parole intrappolano, bocca che tarpa la levità del cuore (ormai sede del
male: “pieno di male il cuore dei figli dell’uomo”, dice Qoèlet, 9, 3, ripetendo
l’originaria asserzione di Dio: “ogni intento del cuore umano è incline al
male”, Gn8, 21). I sogni: meri preamboli di nebbia, come il discorso umano.
Desto o addormentato, l’uomo vaga tra vanità: la mania del calcolo –
circoscrivere in numeri la realtà – è pari al delirio di chi divina i segni
tratti dal sonno, declivio nelle inconsistenze dell’incubo. Sembra di udire
Eraclito: “È la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente, il
giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli, e quelli di nuovo
mutando son questi”.
Eppure, ancora. Come si parla a Dio, come parla il dio?
Il verbo umano fermenta idoli, eccelle nell’ideare miraggi. Ci è voluto il Verbo
– inchiodato come una falena, flagellato fino all’omega, franto e frainteso –
per distruggere il vocabolario. Vocabolario: ghigliottina dell’uomo – formulario
di inganni.
> “Nella parola si manifesta all’uomo la sapienza del dio, e la forma, l’ordine,
> il nesso in cui si presentano le parole rivela che non si tratta di parole
> umane, bensì di parole divine. Di qui il carattere esteriore dell’oracolo:
> l’ambiguità, l’oscurità, l’allusività ardua da decifrare, l’incertezza”.
>
> (Giorgio Colli, La nascita della filosofia).
Così, nel mondo greco classico: deragliare del linguaggio, delirare, singulti
sul bavero della bestia, lacerti quasi increati di verbo, diverbio, animosità
dell’amnio verbale. Da qui – come ai primordi dell’avventura cristiana – il
carisma del ‘traduttore’: uomo capace di interpretare, trasformandola in gergo
umano, la lingua divina.
Dunque, nel mondo greco, la divinizzazione dell’enigma, “la manifestazione nella
parola di ciò che è divino, nascosto, un’interiorità indicibile” (Colli), che si
sfa, nell’evo volgare, gioco di parole, rebus verbale, corazza retorica. Dalla
Pizia alla Sfinge, dall’oracolo di Delfi all’idolatria della Ragione – Edipo –
che sovrasta il Mostro – la Sfinge, che minaccia tramite indovinelli – ma infine
si acceca. A chi domina l’evidente sfugge la terribile evidenza della verità.
La mistica: tentativo di sobillare il linguaggio.
Da qui, l’incanutirsi del linguaggio in concetto, in bruma di bizantinismi, nei
principi, nell’essere/non-essere, nel vero vs. falso, nella ‘logica delle
cose’.
Beata filosofia che tutto insegna tranne il dio, che decide di recidere i
rapporti con il dio, per sempre.
Beata teologia: ragionare su Dio perché ci è sfuggito. Cingere in formule
l’informe.
Beata divinità logica: la legge ci insegna cosa è bene fare e cosa non bisogna
fare; linguaggio come corda, prigione, calcina della società.
Bisogna capirsi – da qui, gli azzeccagarbugli, gli irresponsabili, gli
esoteristi del linguaggio massonico, specifico, degli ‘esperti’, potere che
scimmiotta il dio; la sentenza: esigua, inerte, becera imitazione dell’oracolo.
Che cosa mi stai dicendo? Perché non mi capisci?
Linguaggio: solo scandaglio del cuore – ma non scendiamo nel nostro abisso con
la lanterna, a illuminare le beneamate oscurità. Spacchiamo il lume, che si
infervori in fuoco. Fuoco-volpe, fuoco muta di cani in corsa.
E la poesia? Ipotesi di linguaggio angelico, ci addestra a spezzare l’ordinaria
lingua. Ci addestra all’altro mondo del linguaggio – il solo.
Nel dire di Qoelet, che annienta evidenze e certezze, alla via dell’edonismo –
ebbrezza che raddoppia la vanità; cruenta ironia: consumiamo ciò che ci consuma
– segue quella dell’obbedienza. Imputridire nel timore di Dio. Lo ripete ancora
a sigillo del rotolo: “Paura di Dio, osservanza dei suoi comandi: tutto questo è
l’uomo” (12, 13). Yarè è proprio la paura, il terrore di Dio; è riconoscere la
propria vergogna, l’insuperabile distanza da Dio. “La tua voce ho udito nel
giardino e ho avuto paura perché ero nudo e mi sono nascosto”, dice Adamo a Dio
(Gn 3, 10). “Paura di Dio” significa: memoria della caduta. Dalla “paura di Dio”
comincia il percorso della salvezza, il rapporto tra Dio e l’uomo – “paura” è,
per paradosso, l’anello nuziale tra Dio e uomo – il punto in cui si è sciolto un
rapporto e si inaugura un nuovo patto. Mutilazione, massacro, frainteso, finché
il Verbo non fonderà un nuovo vocabolario, il Dio ineffabile si farà volto,
carne, corpo da abbracciare e deporre, da ungere con olio e fustigare.
Adamo ha paura di Dio perché è nudo – all’uomo è chiesto, fuori dal Giardino,
atto di più radicale denudamento, suprema spoliazione.
All’opposto equinozio di Babele: l’arca – Noè – e la culla – Mosè. Spazi in cui
rifugiarsi, oggetti che veleggiano sulle acque – ipotesi di nuova creazione.
Lingua-arca; lingua-culla. Le tavole dell’alleanza – verbo che si struttura in
legge per incapacità di intendere l’oracolo – custodite nell’arca: che
ringiovaniscano, che ritornino bimbe. In Eden non c’è legge: si parla come una
fioritura. Parole come foglie che sventagliano.
Tra Babele e arca/culla (arca: culla per tutti): il tempio. Il tempio non
racchiude Dio, non ne è la gabbia: è luogo d’incontro. Nel tempio posso trovare
Dio – o posso perderlo.
Nel tempio si risillabano le antiche parole per invitare Dio all’incontro.
Parole pari alla dipintura dell’icona. Parole-gesto, parole che ricalcano gli
stessi gesti, perché Dio appaia. Ma la ripetizione è ricreazione. Chi confida
nel ‘nuovo’ è un idolatra, un apostata.
Spogliarci del linguaggio.
L’estrema spoliazione è terribile. Defraudare il Nome per tentare il proprio
nome. Farsi arca perché l’altro in noi si sieda.
Dunque: imparare le lingue dei passeri, arcangelici, e quelle della formica,
della cimice, del capriolo.
Linguaggio: arte di trasalire – di travalicare.
Dunque: Vanitas vanitatum, farsi vanto della vanità. Vanità-vento. Incenerire
tutto perché da quella cenere Dio ci rifondi. Rifilare il vento – rifondare il
respiro.
**
Da “Qoelet”
9
Nel cuore ho sperimentato questo:
le opere dei giusti
l’estremismo dei santi
tutto è tra le dita di Dio
l’uomo non sa perché ama
ignora il raduno dell’odio
Stessa sorte per tutti
il giusto e il vile
il puro e l’impuro
chi fa sacrifici e chi dissacra
il buono e il peccatore
chi giura e chi scongiura
È male tutto
sotto il sole
stessa sorte
per tutti
nel cuore dell’uomo
alligna il male
follia nei suoi lembi
il fine è la morte
Speranza tra chi fluttua
nella flotta dei vivi:
un cane vivo è meglio
di un leone morto
I vivi sanno di dover morire
i morti non sanno nulla
privi di salario – memoria
tra i sali dell’oblio
Ciò che hanno amato
i motivi della lotta
e della gelosia: tutto
è cenere, pericope del lutto
per loro non c’è più posto
nel mondo arreso al sole
Allora:
godi e mangia
bevi il tuo vino
divora i cuori
Dio gratifica
le tue opere
Indossa bianche vesti
olio purifichi il tuo capo
La vita è vana: glorifica
i giorni con la donna che ami
unico sconto alla fatica
al dolore sigillato dal sole
Finché il corpo ti aiuta agisci
non c’è opera né sapienza
nello Sheol – tutto è insensato
tra le ombre dove andrai
Così è sotto il sole:
non va ai capaci la gara
la guerra non la vincono i forti
il pane non lo morde il santo
la ricchezza non sorride ai
geni
né agli scaltri la grazia –
su ogni cosa è il dominio del caso
L’uomo ignora la sua ora
come pesci presi tra perfide reti
come uccelli intrappolati dai lacci
il male migra sui figli dell’uomo – è ovunque
Verità sgravata dal sole:
Misera città
miseri uomini
la assedia un re
onnipossente
aureola di mura
Un santo di scarsi natali
salva la città ma nessuna
memoria lo onora –
E mi dico:
preferisci la sapienza
alla forza – eppure
il santo impoverito dal fato
è sfottuto – le sue
profezie negate
Deglutisci con cura
le parole del santo
ignora le urla
di chi alleva viltà
Anteponi la sapienza
alle armi – ma una
breve colpa avvelena
un grande bene
*Si pubblica per gentile concessione parte dei materiali editi in: “Qoelet.
Nella traduzione di S. Arduini, D. Brullo, M. Bontempelli”, De Piante, 2025
*In copertina: Kazimir Malevič, Quadrato rosso, 1915
L'articolo “Su ogni cosa è il dominio del caso”. Vagabondaggi intorno a Qoelet
proviene da Pangea.
Oggi sarebbe assurdo compilare una storia della letteratura francese senza
considerare Irène Némirovsky, scrittrice che, pur sorvolandone superficialmente
la biografia, porta in sé i traumi di sempre, di un allucinato oggi. Nata a
Kiev, educata in Russia, cresciuta in Francia, morì troppo giovane, troppo
brava, a trentanove anni, ad Auschwitz, nell’agosto del 1942. Ebrea accusata di
essere antisemita, amata da Paul Morand e da Robert Brasillach, pur notissima ai
suoi tempi è stata murata nell’oblio: oggi è notissima, soprattutto, per il
romanzo postumo, Suite francese, pubblicato da Denoël nel 2004, tradotto l’anno
dopo da Adelphi. Insomma: la sua storia – contraddizione topografica, salvezza e
dannazione, amore e morte, successo postumo – sembra assembrare anche la nostra.
Attaccando un pezzo pubblicato su “Avvenire” nell’aprile del 2014 (La folgorante
vendetta di Irène Némirovsky), Cesare Cavalleri – da sempre, lettore affascinato
e partecipe di I.N. – scrisse: “Non si finisce di domandarsi come mai una
scrittrice come Irène Némirovsky (1903-1942) notissima in Francia e conosciuta
anche in Italia negli anni ’20-’30 sia stata riscoperta solo nel 2004”.
Aveva, come sempre, ragione.
Per puro gioco, ho sfogliato i quattro tomi de “I contemporanei. Letteratura
francese” editi da Lucarini nel 1981. L’impresa – straordinariamente completa –
registra autori necessari, ma ormai pressoché scomparsi dal panorama editoriale
come Alain e Barrès, Paul Fort e René Ghil (il suo profilo è firmato da Daria
Galateria), Jules Romains e Francis Carco, Jean Giraudoux e Marcel Pagnol. Il
consesso è quasi integralmente di maschi, tranne le solite note (Colette, Duras,
Yourcenar, de Beauvoir…).
Oggi, appunto, sarebbe tutto diverso: Irène – assieme alle donne citate sopra –
sarebbe al centro del canone francese, in compagnia di Céline, Malraux, Camus &
Co. “Ristampata in tutto il mondo, il lettore rimane incantato dalla qualità pur
disomogenea, ma sempre alta, dei molti romanzi” (Cavalleri). Merito – questo è
ancora Cavalleri, in una aurorale recensione del 2010 – della “ossidianica
penetrazione psicologica” dell’autrice. Da tempo, i suoi libri sono trasmutati
in film. C’è dunque, in fondo all’oblio subito dalla Némirovsky – durato decenni
– non soltanto il torbido gioco della torre del fato (grandi di ieri sono oggi
misconosciuti; autori allora fraintesi sono finalmente celebrati), bensì il
sortilegio della malignità, qualcosa di pervicacemente enigmatico, come di
bicchieri spaccati in faccia al padrone di casa. Per questo, leggere la
biografia Irène Némirovsky. La scrittrice che visse due volte (Edizioni Ares,
2025, nell’ormai efficacissima collana ‘Profili’) è un esercizio di onestà: la
vita – votata agli incantesimi dell’arte, agli approdi di una solitudine
incessante – di Némirovsky è, infine, lo specchio rovesciato dei suoi romanzi,
ha i carati della tragedia europea. La biografia, poi, si legge come un romanzo
(anche le note riservano sorprese), in virtù della penna, felice, audace (che
bello, da pagina 108, scoprire analogie tra Philip Roth e Némirovsky in merito
alla ‘morale’ dello scrittore, a un’etica che coincide con l’estetica) di Cinzia
Bigliosi, francesista di spiccato talento – ha tradotto Stendhal, Maupassant,
Laclos – che ha lavorato a lungo nell’opera di Némirovsky (traducendo, per
Feltrinelli, Suite francese e per Ares, nel 2021, come Re di un’ora, alcuni
“testi inediti” e il “capitolo ritrovato di Suite francese”).
Tutto comincia dall’incontro di Cinzia Bigliosi con la figlia di Iréne, Denise
Epstein; non credo un caso, dunque, la dedica, in esergo alla biografia, ai
“miei genitori”. La storia della letteratura è anche un lavoro di scavo tra gli
scritti degli avi; è la suprema pubertà della reticenza e dell’inganno; l’uscita
dalla cerchia felice dei primi affetti; la febbre del verbo – comunque, una
questione di parentele, il ritorno al padre – o alla madre –, e così sia.
Qual è il romanzo della svolta della Némirovsky? Quale il romanzo tramite il
quale penetrare nel mondo della Némirovsky?
Penso che nella vita di scrittrice di Irène Némirovsky si possa parlare di due
romanzi, di conseguenza, di due svolte in momenti capitali precisi. Riprendendo
il sottotitolo del mio saggio, Irène visse almeno due vite editoriali ben
distinte: David Golder è il romanzo che determinò la prima svolta e che, nel
1929, le diede immediata notorietà tra pubblico e critica. Quello che in
assoluto resta il suo best seller non era la sua prima pubblicazione, ma ne
segnò la carriera con un successo fulminante. L’editore Bernard Grasset, che sei
anni prima aveva pubblicato il clamoroso Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet
e che il “New York Times” aveva battezzato come “il più grande tra gli editori”,
se ne innamorò e organizzò un eccezionale lancio pubblicitario. Da quel momento,
fino alla deportazione ad Auschwitz nel luglio 1942, Irène fu una prolifica
scrittrice. Corteggiata dalla stampa, dalla radio e dal cinema, non restò a
lungo estranea a polemiche che riguardarono, ad esempio, le accuse di
antisemitismo mossele dagli stessi ambienti ebraici. Oltre a David Golder, il
romanzo che permette di immergersi nel mondo némirovskyano è anche quello che ha
determinato la seconda vita di Irène, vale a dire Suite francese.Pubblicato nel
2004, esplose in un successo mondiale che tuttora perdura e che l’ha
definitivamente disseppellita dall’oblio in cui il suo nome era colpevolmente
finito. È un testo unico, non solo in quanto incompiuto e postumo, ma anche
perché le sole due parti che Irène ebbe tempo di concludere raccolgono in una
certa misura la summa della sua poetica più matura, in primis il tema
dell’esilio, rappresentato per esempio dalla polverosa confusione che avvolge
l’esodo di milioni di parigini, la gerarchia sociale che si scardina sotto
l’istintivo peso del più forte, il tutto governato con uno stile severo e un
tono lirico.
Come entra la ‘russità’ nei romanzi francesi di Irène?
Vi entra in modo molto naturale, prima di tutto perché, nonostante parlasse,
scrivesse e, come ricordava lei stessa, addirittura sognasse in francese, Irène
Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, vissuta a Mosca e Pietroburgo, era russa a
tutti gli effetti, così come lo era la sua cultura di formazione (che crebbe
insieme a lei parallelamente a quella francese incarnata dalla tata che la
affiancò fin dai primi giorni di vita). Nella sua opera il mondo russo, anche se
forse sarebbe più opportuno parlare di un mondo cosmopolita, è rappresentato da
personaggi molto affini alla famiglia d’appartenenza della scrittrice, legati
all’ambiente della finanza ebraica. Inoltre, Irène non dimenticò i poveri esuli,
gli spodestati, gli ultimi della terra e per rappresentarli si rifece per
cominciare alla figura della njanja, la vecchia balia russa, simbolo dell’esilio
direttamente mutuato dall’opera dell’amato Aleksandr Puškin e alla quale
dedicherà un omonimo racconto agli albori della carriera.
Quali sono i suoi scrittori prediletti, i suoi lari nella ricerca letteraria?
Le passioni letterarie di Irène si fondavano su un immenso repertorio
soprattutto classico di testi russi e francesi. Normalmente leggeva la domenica
pomeriggio, il solo momento della settimana in cui servitù e genitori la
lasciavano sola a casa. Gli autori più amati erano Stendhal, Balzac, Huysmans,
Maupassant, Jean e Jérôme Tharaud, Dostoevskij, Puškin – al quale aveva
intenzione di dedicare uno studio se non fosse stata uccisa prima, così come
avrebbe voluto lavorare intorno alla vecchiaia di Rimbaud. Altri amati erano
Byron, Wilde e Čechov al quale dedicò una biografia e all’origine di una grande
influenza soprattutto nello stile dei racconti. Da adulta restò una lettrice
famelica, scrisse anche recensioni di autori a lei contemporanei, con una
predilezione per gli americani, come James M. Cain. Gli scrittori che tornano
più di frequente negli ultimi mesi di vita, nella sua “nona ora”, quando era
ormai divorata da depressione e angoscia, furono Tolstoj, al quale si rifaceva
mentre scriveva Suite francese in un ipotetico parallelo con Guerra e pace, e
Baudelaire di cui per esempio poteva citare a memoria i drammatici versi
dedicati a Sisifo della poesia La scarogna.
…e i suoi amici? Intendo, di quale considerazione godeva Irène ai suoi tempi?
Avere amici veri nel mondo editoriale credo che fosse cosa rara allora come lo è
oggi. La considerazione di cui godeva Irène era sicuramente molto alta. Con il
successo di David Golder Irène Némirovsky mise piede in un ambiente culturale
che, tolta l’ingombrante presenza di Colette, era a impronta strettamente
maschile. L’Académie française, così come l’Académie Goncourt, riviste
importanti come “Toute l’édition” o “La NRF” erano tutte guidate da uomini.
L’editore Grasset, che aveva per vocazione dichiarata quella di scoprire nuovi
talenti (a spese dello stesso Proust fu il solo a raccogliere la sfida di
pubblicare per primo Dalla parte di Swann), permise a Irène di occupare uno
spazio inusuale per una giovane scrittrice fino a quel momento pressoché
sconosciuta. Cresciuta nel lusso e in un mondo lontano da quello culturale,
Irène coltivava l’ambizione di essere riconosciuta come scrittrice e quando, nel
gennaio 1930, Frédéric Lefèvre, redattore capo di “Les Nouvelles littéraires”,
le chiese di partecipare alla sua rubrica “Une heure avec… (Un’ora con…)”, ne
ebbe un’importante conferma. L’intervista aveva toni condiscendenti e a tratti
suonava piuttosto sospetta. Lefèvre vi definisce Irène “un bel tipo di
israelita”, presentandola come “un accordo raro e perfetto, l’intellettuale
slava, nota ai frequentatori della Sorbona, e donna di mondo”. Henri de Reigner
firmò un’importante recensione di David Golder per le pagine di “Le Figaro”, ma
la vera e propria consacrazione avvenne pochi anni dopo, nel 1936, quando
l’importante “Revue des Deux Mondes” pubblicò un approfondimento della sua
opera. Da quel momento Irène ne divenne collaboratrice, pubblicandovi racconti e
romanzi a puntate. In quegli anni si tenne lontana dagli ambienti
dell’avanguardia di sinistra dei surrealisti, così come dai circoli
internazionali con sede a Parigi ai quali afferivano personalità come James
Joyce, Gertrude Stein o Anaïs Nin, mentre i suoi libri venivano costantemente
recensiti da critici come Robert Brasillach che nutriva per l’opera di Irène una
passione costante anche se di intensità altalenante. Per concludere vorrei però
ricordare soprattutto quello che fu senz’altro un amico fedele e fidato di Irène
e che le restò vicino anche nei momenti più bui: l’editore Albin Michel che la
aiutò finanziandola regolarmente, anche nei difficili anni della guerra, e che
dopo la morte della scrittrice non abbandonò mai le due figlie.
Irène Némirovsky (1903-1942)
Qual è l’aspetto della vita di Irène a suo dire esemplare, un monito a designare
un destino?
L’essersi illusa fiduciosamente. Dopo essersi salvata dalla rivoluzione
bolscevica, Irène si convinse di aver trovato nella Francia una seconda patria,
una vera terra-madre. Fin da piccola parlò solo francese, conosceva a memoria
il Cyrano de Bergerac, le poesie di Baudelaire, passava le vacanze in Costa
Azzurra, si orientava per le vie di Parigi meglio che in quelle di Kiev o di
Mosca, aveva frequentato i salotti più chic, era stata corteggiata e celebrata
dal mondo culturale. Le figlie erano nate a Parigi, frequentavano le scuole
della capitale. Io credo che ad un certo punto, presa nelle maglie
dell’illusione di una perfetta integrazione, Irène smise di ricordarsi di essere
ebrea e di non essere francese. Pensava di essere semplicemente una scrittrice
di successo con una vita sufficientemente felice. Sconcerta lo sgomento che
traspare dalla lettera che indirizzò al generale Pétain il 13 settembre 1940,
incredula di fronte all’applicazione indistinta delle leggi razziali a tutti gli
stranieri, una cittadina seria e riguardosa, residente da tanti anni in Francia
come lei si sarebbe aspettata la presunzione di innocenza, con la distinzione
tra gli stranieri integrati – gente per bene, in regola con le tasse e dedita a
rispettare e a onorare lo Stato ospite – e quelli indesiderati, dei bassifondi,
malfamati e disonesti truffatori. Forse Irène ancora non aveva capito che per il
governo collaborazionista lei non era che una ebrea e perdipiù straniera.
Che idea di donna, del femminile proviene dai romanzi della Némirovsky?
Un’idea di donna molto complessa e conflittuale, spesso scissa tra due
tentazioni il più delle volte fallimentari: il vecchio modello borghese di madre
e moglie e la spinta delle più giovani a rovesciare tale paradigma, cadendo il
più delle volte sotto il peso della stessa atavica condanna. Le figure femminili
nell’opera di Irène Némirovsky si muovono a coppia, come le madri (o le balie) e
le figlie – dove il tema del tempo e dell’invecchiamento è preponderante,
insieme alla mancanza di amore materno così come di riconoscenza filiale. Le
donne descritte da Irène sono, con rare eccezioni, personaggi drammatici, ma di
grande soddisfazione per la scrittrice che quando riusciva finalmente a
inventarsi ad esempio una madre cattiva provava pura gioia.
La ‘morale’ dell’arte. Irène pare badare a una propria estetica più che a una
sorta di cautela ‘politica’. I romanzi devono essere belli, non ‘buoni’. È così?
Che conseguenze ha questa coerente sprezzatura nella vita di Irène?
Quando fin dalle prime pubblicazioni fu accusata di antisemitismo, Irène spiegò
che non si trattava di una posizione politica ma estetica e necessaria, e
continuò a descrivere gli ebrei così come li aveva conosciuti, fino a quando
poté farlo almeno. Si dichiarò antipolitica e si mosse senza troppo far caso al
mondo che le stava bruciando intorno, agli ebrei che sparivano né alle
recensioni nelle quali ci si riferiva a lei sempre più spesso dandole della
slava. Vivere per la propria arte è pericoloso. Irène restò assorta e immersa
nella scrittura fino alla fine. Anche quando era ormai certo che non avesse più
tempo, scelse di correggere e di riscrivere lunghe pagine di Suite francese,
investì le ultime ore di vita in quello che sarebbe rimasto il suo libro
incompiuto e postumo. Era incauto, così come lo era stato scrivere di ebrei con
nasi adunchi e un’inestinguibile brama di denaro, ma era ormai necessario morire
per e nell’opera, un’immagine quanto mai proustiana. Tra il salvarsi e lo
scrivere, Irène non ebbe dubbi e scrisse fino a poche ore prima di essere
deportata.
Perché i romanzi di Némirovsky continuano ad affascinare, secondo lei? Cosa c’è
in quella scrittura di allora che ci comprende, che ci prende, ora?
È la stessa Irène che può rispondere a questa domanda con l’ultimo appunto che
scrisse sul quaderno di lavoro l’11 luglio 1942, due giorni prima dell’arresto.
Riflettendo sul senso della scrittura e, in generale, sul rapporto tra destino
collettivo e destino individuale, annotò che la cosa più importante per lei era
quella di ricordarsi che
> “i fatti storici, rivoluzionari, ecc. devono essere solo sfiorati, mentre
> quella che viene approfondita è la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto
> la commedia che è specchio della realtà di tutti i giorni”.
Solo questo resiste nel corso dei secoli: la commedia di tutti i giorni, uguale
ed eterna per l’individuo, come per noi e come per il lettore di Apuleio o di
Rabelais. Un secolo prima di Irène Némirovsky Charles Baudelaire si rivolgeva al
lettore chiamandolo mon semblable, mon frère. Io credo che l’irresistibile senso
di familiarità che si prova leggendo Suite francese o Il ballo o Jezabel dipenda
dall’eco inconfondibile che risuona nell’animo di ogni lettore di emozioni e
sentimenti eterni, come la solitudine, l’estraneità, il tradimento, l’arrivismo,
le promesse mancate, l’opportunismo, il terrore del tempo che fugge. È in fondo
lo stesso motivo per il quale l’orrore di Amleto di fronte al letto paterno
spodestato è anche un po’ il nostro, così come tutti ci troviamo quotidianamente
posti di fronte a scelte etiche, dolorose e punitive, tra giusto e ingiusto,
interrogandoci su se sia meglio essere o non essere.
L'articolo Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo
con Cinzia Bigliosi proviene da Pangea.
Negli Venti, ventenne, gli accade tutto – i germi dei romanzi che saranno, il
futuro che ti cuce gli occhi.
Nel 1921 fa speleologia tra i documenti genealogici di famiglia; penetra nel
Seicento, entro scritture vaghe, in eccesso, caravaggesche (“un enorme romanzo
concepito e in parte febbrilmente compilato tra i miei diciotto e ventidue
anni”, scrive lei), che costituiscono il primo nucleo de L’opera al nero.
Una prima visita a Villa Adriana, nel 1924, la porteranno a concepire il suo
libro più importante, le memorie del grande imperatore romano, che uscirà quasi
trent’anni dopo, nel 1951.
*
Quasi a dire: maturità, per un artista, non è che confidare nelle apocalissi di
gioventù.
Il difficile è riconoscere di avere avuto una giovinezza – e a quale equatore.
Quella è l’alleluia, lo squillo. È in virtù di quelle aspirazioni che si è nel
sempre, negli elisi della scrittura. Il sommo peccato: eludere le passioni
diciottenni.
Certo: è lavoro, a strascico, di riscrittura, un cancellare che può dirsi
commiato. Raffinare vuol dire crocefiggersi – che l’antica colonna divenga,
finalmente, palmeto, prato.
*
Nouvelles orientales è il primo libro che Marguerite Yourcenar pubblica per
Gallimard. È un libro strano, voluto da Paul Morand per la collana ‘La
Renaissance de la nouvelle’, “atta a promuovere un genere, il racconto,
ingiustamente screditato”. Nel 1929 Yourcenar aveva esordito alla prosa
con Alexis ou le Traité du vain combat: quel libro – lieve, onirico, inaudito,
che parlava del “problema della libertà sensuale in tutte le sue forme” come
“problema di libertà d’espressione”, cioè della forma che il corpus scritto
prende in relazione al corpo fisico – era piaciuto a Morand. Nel ’35, propose a
Yourcenar un contratto.
*
Per Yourcenar è comune ritornare sullo stesso libro più volte, è per lei
importante patire il libro. Riverirlo fino alla dissacrazione.
Ritornare – senza levare un rigo – oppure: mai cheti, con la katana.
*
Nell’edizione del 1938, Novelle orientali è aperto con un racconto
d’ambientazione indiana, Kâli décapitée. È il primo del ciclo scritto da
Marguerite: in origine, è pubblico su “La Revue européenne”, nel 1928; sarà
drasticamente riscritto. Il testo è, a suo modo, bellissimo. Kali, ora “orribile
e bella”, è stata decapitata dagli dèi, incapaci di reggerne l’innocente
purezza: hanno assemblato il suo cranio sul corpo “di una prostituta condannata
a morte per aver tentato di turbare le meditazioni di un giovane Bramino”. Di
lì, l’irresoluta brama della dea, l’estro per l’abiezione, l’onnipotenza del
corpo:
> “Kali è abietta. Ha perduto la sua casta divina a forza di concedersi ai
> paria, ai condannati, e il suo viso baciato dai lebbrosi si è coperto di una
> crosta d’astri… Triste come un febbricitante che non riesca e procurarsi acqua
> fresca, va di villaggio in villaggio, di crocicchio in crocicchio alla ricerca
> delle solite squallide delizie”.
Il dialogo con un saggio, “Maestro della grande compassione”, le fa capire che
la lussuria nella miseria è già una parabola ascetica.
> “Forse, donna senza felicità, errando disonorata per le strade, sei più
> prossima ad accedere a ciò che è senza forma… Il desiderio ti ha insegnato la
> vanità del desiderio”.
Sembra la storia dell’idiota, la “vergine che simulava la follia e il demonio”,
narrata da Palladio nella Storia lausiaca e ripresa, con enfasi, da Michel de
Certeau in Fabula mistica. Quella donna, innominata, è “la spugna del
monastero”: svolge i servizi più miseri, mangia delle briciole, dei resti che le
sono offerti senza sedere a mensa, viene “battuta, ingiuriata, caricata di
maledizione e trattata con ripugnanza” dalle consorelle. In qualche modo, la
folle cerca questo tipo di trattamento, si erge capro d’espiazione. In realtà, è
lei, l’idiota, l’eletta, la “più religiosa”, secondo le parole dell’angelo. Un
monaco, allora, va a cercarla, ad obiettare all’ovvio.
Nel caso di Kali, l’offesa – l’impotenza nell’esercizio della potenza – è più
radicale. Presa da “vera furia contro tutto ciò che vive”, si dà a “uno scemo
che sbavava seduto sul ciglio di un letamaio”; svolta la propria connaturata
divinità in oscenità e orrore. Nessun dio può salvare quella perduta dea, nessun
angelo la addita, nessun uomo la addomestica.
Divinità che diviene nulla – divinità avvilita, avvolta nell’errare – “sono
stanca”, sussurra – che è poi dire, ho sete.
*
L’Oriente di Yourcenar ha poco a vedere con l’orientalismo di Pierre Loti o di
Nerval, con le poesie ‘cinesi’ di Victor Segalen, con le visioni indiane di
William B. Yeats; Marguerite non segue la via degli avventurieri anglofoni del
linguaggio: da Ezra Pound – che con Cathay fonda il ‘modernismo’ lirico – a T.S.
Eliot – affascinato dal buddismo –, da Arthur Waley a Amy Lowell. Assente, in
lei, il ‘gusto’ di Goethe per l’Islam, la ferocia di Kipling, gli incensi di
Edward FitzGerald, le audacie da neoconvertito (da colono o da pioniere che
sia). Yourcenar passeggia, apolide a ogni tempo, a ogni civiltà, e osserva:
questa esclusione – come nel caso della Roma antica, delle Fiandre
rinascimentali – le permette esclusività di sguardo. Non vuole ‘dare voce’, non
vuole dare una ‘visione del mondo’: registra istanti, riferisce chiacchiere,
rifiata leggende – c’è una dignità nuova in questo scrivere con la brocca,
mettendo acqua dove il muro è crepato. Questo, ha permesso a Marguerite di stare
da straniera tra le aule dell’Accademia di Francia: come alla corte di Praga,
trecento anni prima, ad Avignone nell’era dei contro-papi, tra le sibille
sillabiche di Erode quando fu promulgato di decollare Giovanni, a Micene, a
quell’epoca di maschere d’oro.
In sostanza, estranea perfino a una qualche storia della letteratura.
*
Antonia Arslan, scrivendo delle Novelle orientali, ha scritto che “è tutto
portento di stile”, ha scritto “di una scrittura corrusca e sfumata, capace di
realismi brutali e di languori sovrannaturali”. Dei dieci racconti, la Arslan
preferisce L’ultimo amore del Principe Genji, scritto per “colmare” una
reticenza lasciata lì, come un fazzoletto caduto, da Murasaki Shikibu, la
splendida narratrice del Genji Monogatari. In un passo di particolare potenza,
Genji, quel “don Giovanni asiatico di stile eccelso”, dice:
> “Sto per morire… Non mi lamento di un destino che condivido con i fiori, con
> gli insetti, con gli astri. In un universo dove tutto passa come un sogno, non
> ci perdoneremmo di durare per sempre. Non mi addolora sapere che le cose, gli
> esseri e i cuori siano perituri, dal momento che una parte della loro bellezza
> è fatta di questa sciagura. Ciò che mi affligge è che siano unici”.
Nel 1981 Yourcenar consolida il suo legame con il Giappone pubblicando un libro
affatto diverso, Mishima ou la Vision du vide. Yukio Mishima, quel tragico,
inafferrabile Genji… Di lui, tre anni dopo, Marguerite traduce Cinq nôs
modernes: “opera di un poeta autentico… che riguarda, in modo a tratti
sconvolgente, la nostra stessa vita”.
*
Nell’anno in cui pubblica Novelle orientali, traduce per Stock Le onde, il
romanzo di Virginia Woolf.
Sono anni fertili. A Capri, in poche aggraziate settimane, Marguerite scrive Il
colpo di grazia, uno dei suoi libri più belli e più inquieti. Ambientata durante
la Prima guerra, quella storia, residuo del ricordo di un ricordo che “si ispira
a un avvenimento autentico”, forse per quell’amore mutilo e muto, per il
risentito frainteso, per quella sprezzante atmosfera onirica, per il confidare
nell’impossibile, è così cruda da sembrare un diamante. Regge il confronto con i
romanzi più noti ed elaborati.
Soprattutto, nel ’36 pubblica, per Grasset, Fuochi, quel libro inattuale, “nato
da una crisi passionale”, di monologhi e feticci lirici, “una raccolta di poesie
d’amore o, se si preferisce, una serie di prose liriche collegate fra di loro
sulla base di una certa nozione dell’amore”. Il libro, dedicato A Hermes, viene
redatto nel 1935, a Costantinopoli, durante un viaggio compiuto con André
Embricos, poeta e psicoanalista a cui sono dedicate le Novelle orientali. È
vero: Fuochi è un libro a parte, è un libro per dipartiti, che Yourcenar tenta,
con levigata malizia, di disconoscere (“appartiene a quella maniera tesa e
ornata che fu la mia per un certo periodo”); è da quella stessa tempesta – per
rifrazioni e chiaroscuri e discordie – che nasce Novelle orientali. Tra i
testi-emblema, Nostra Signora delle Rondini. Yourcenar racconta la lotta tra il
monaco Terapione e un lotto di Ninfe superstiti, che confondono i contadini
neoconvertiti, che riportano l’uomo alle ragioni del fango e dell’umore terreno,
dell’amore e dell’ardore. Terapione riesce a murare le Ninfe in una grotta,
occlusa dalla sua cella; Maria, la madre del Nazareno, gli appare perché le
liberi.
> “Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e
> ai greggi delle capre?… Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di
> dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei
> boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan?… Non esaltare, come i
> pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno
> per la Sua opera”.
Tra le mani di Maria, le Ninfe sono mutate in rondini. Nella fiaba, si racconta
il punto di giunzione tra Atene e Gerusalemme, tra Cristo e Dioniso.
*
Nel perimetrare gli enigmi, nel decrittare i miraggi – secondo una strategia che
sarà anche di Pavese, nei Dialoghi con Leucò –, Yourcenar non scrive
propriamente ‘racconti’. In quell’arte, gli eccellenti sono Hemingway e Čechov,
Maupassant e la O’Connor, scrittori in grado di ‘dare la vita’. No, a Marguerite
non importa il vero, tanto meno il verosimile – si affratella ai fatti scorgendo
il prodigio. Imbraccia la fiaba, appunto, secondo i toni, ad esempio, di Hugo
von Hofmannsthal.
In Fuochi, incideva nella carne:
> “Non ho paura degli spettri. I vivi sono terribili soltanto perché hanno un
> corpo.
>
> Non esistono amori sterili. Le precauzioni non servono a niente. Quando ti
> lascio, il dolore sta a fondo del mio essere come una specie di orribile
> figlio”.
Nelle Novelle orientali: ombre sul paravento, sciacalli di tela, sagome in
ginocchio, apparizioni nel ghiaccio. Ci si libra, liberati, come su aquiloni.
*
La categoria del contemporaneo non si attaglia a Marguerite – in Adriano
ausculta i tremori di un’era; in Zenone il palpito dell’uomo totale; in Anna le
estasi della reclusa d’amore. Di anima in anima, va, come le api di fiore in
fiore – a noi resta il venefico miele, questo opale dolcissimo. Lei, la
scrittrice, inattingibile, lascia di sé una zuccherina traccia di cenere.
*
Le Novelle orientali sono ispirate, per lo più, da un viaggio in Grecia.
L’Oriente di Marguerite contempla Bisanzio e i Balcani, l’India, il Giappone,
Amsterdam.
In Italia, Novelle orientali esce nel 1983, per Rizzoli, tradotto da Maria Luisa
Spaziani, testimonianza di una ineffabile incomprensione. Nell’edizione
definitiva del libro, quella del 1963, Yourcenar incenerisce alcuni testi (Les
emmurés du Kremlin), muta alcuni titoli, cambia l’ordine delle apparizioni. Il
primo racconto non parla più di Kali, ma di Wang-Fô, il vecchio pittore taoista
che contemplava gli astri di notte e le libellule di giorno. Questo
straordinario pittore, che con il talento riesce a rendere straordinariamente
vivido il mondo, riesce a salvarsi dalla crudeltà dell’Imperatore prendendo il
largo, su una piccola barchetta, tra i meandri di una sua opera. L’Imperatore
pensò di ucciderlo: non accettava che il mondo non fosse bello come i dipinti
del vecchio Wang-Fô.
L’ultimo racconto, La tristezza di Cornelius Berg – nell’edizione del ’38: Les
tulipes de Cornélius Berg – parla di un “vecchio pittore di ritratti”, “oscuro
contemporaneo di Rembrandt”, ritratto mentre la malinconia, artigliata, lo
logora. Aveva fatto successo in Italia, Cornelius, aveva viaggiato per
“l’Oriente sordido” e dipinto il Sultano a Costantinopoli: non riesce ad
appassionarsi ai turgidi tulipani ostentati per lui dal Sindaco di Haarlem.
L’artista, il cui talento è ormai calcificato nell’abitudine, si rammarica che
Dio, “il pittore dell’universo”, non si sia limitato a creare paesaggi; gli
uomini gli sembrano orrendi. Wang-Fô, al contrario, riesce a penetrare la natura
delle cose, fino a sfatare le distanze tra verità e finzione, perché ogni
singolo elemento del cosmo – che siano i capelli di una donna, un ciottolo e un
insetto, la sciarpa che fluttua al collo di un impiccato e “il fiore esposto al
vento caldo e alle piogge d’estate” – gli sembra immenso, glorioso, degno. Anche
a lui, allora, è dato sparire in quella spaventosa magnificenza, felice.
In questo gioco di assennate asimmetrie, è bene intuire una poetica. Poi, anni
dopo, verrà Adriano, che è poi un modo per dire Occidente, i suoi valli, la
barbarie, la balbuzie, la bellezza.
L'articolo “Il desiderio ti ha insegnato la vanità del desiderio”. L’Oriente
secondo Marguerite Yourcenar proviene da Pangea.
In una fotografia scattata probabilmente nel 1932 – così dice la nota della casa
d’aste che l’ha venduta – René Daumal, sdraiato sopra un casotto, sembra
precipitare. Ha le braccia aperte, gli occhi e la bocca serrati, in estasi: lo
sorregge, da sotto, fiera della propria incertezza, Véra Milanova, che all’epoca
non è ancora sua moglie. René pare un angelo in volo contrario, ad arare il
cielo; siamo in un parco cittadino, gli alberi spettri; nel casotto, chissà, ci
sono degli attrezzi per il giardinaggio – forse è rinchiuso un centauro.
Dieci anni prima, al liceo di Reims, insieme a un paio di compagni, Roger
Gilbert-Lecomte e Roger Vailland, Daumal animava i “Phrères simplistes”, una
società iniziatica, una sorta di setta dei poeti estinti, che intendeva
dischiudere i mondi grazie al potere lisergico del linguaggio. Il padre di René,
Léon, era un professore, di fede socialista; il nonno, apicultore,
anticlericale, stregone alla bisogna. L’Alchimie du Verbe di Rimbaud fornì a
Daumal un ‘codice’ per stare al mondo:
> “Mi piacevano le pitture idiote… la letteratura fuori moda… racconti di fate,
> libretti per bambini… credevo a tutti gli incanti”.
Nel 1932 René Daumal ha già esperito tutto: non gli resta che espiare,
espatriare dal proprio tempo. Insieme agli amici del liceo, nel 1928, aveva
fondato “Le Grand Jeu”, una rivista, è scritto nel manifesto programmatico,
“alla ricerca dell’essenziale”. Già, ma cos’è questo essenziale? I redattori –
con le formule caotiche di chi vuole delegittimare il linguaggio – parlavano di
“vera morte” e di “vera follia” (quella “impotente come il sole… la follia senza
speranza di chi viene sgozzato come un cane”). Nell’introduzione al primo numero
– ne seguiranno altri due, fino al 1930 – Gilbert-Lecomte è laconico:
> “assorbiremo tutto, inghiottiremo Dio fino a diventare trasparenti, fino a
> sparire”.
Si scrive, d’altronde, per cancellarsi – esercizio di flagellazione.
Nelle fotografie di quegli anni, Daumal indossa strani occhiali, ha la posa del
santone, quella faccia sigillata, severa. Un fachiro a Parigi. Intanto, aveva
liquidato André Breton, il doge del Surrealismo, che voleva affiliare a sé quel
manipolo di affiatati ragazzi:
> “Curatevi di comparire nei manuali di storia della letteratura, Breton: per
> noi, sarà un onore essere ricordati dai posteri nella storia dei cataclismi”.
Così gli aveva scritto. Quello stesso anno – il 1930 – al Café Figon in St.
Germain, Daumal conosce Alexandre de Salzmann, artista georgiano di enigmatico
fascino, che lo introduce agli insegnamenti di Gurdjieff. Per Daumal è
l’incontro della vita.
Anni prima, aveva discusso con Simone Weil la necessità di imparare il
sanscrito, di ricongiungersi con l’antica sapienza indiana. Il suo professore,
Alain, “il più originale saggista e moralista della Terza Repubblica” – così la
nota ai Cento e un ragionamenti editi da Einaudi nel 1960, a cura di Sergio
Solmi – aveva scritto che
> “Tutti gli uomini che sono ora in vita non fanno che rivivere: sono tutti
> usciti da un vecchio involucro con un corpo ringiovanito; trascinano tutti con
> sé ricordi antichi almeno quanto il rosso fango quaternario nel quale
> sospingono l’aratro”.
Già: ma come coniugare la vita e la morte, i vivi e i morti, l’India, l’io, il
non-io, la parola che risana e quella che resuscita? Nel Vangelo di Marco è
scritto che “quelli che credono scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove…
imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (16, 17-18). Come attingere
alla parola che vince il male e sana i malati? Come raggiungere le “lingue
nuove”? Come credere nell’incredibile?
Daumal era disgustato dalla letteratura, dall’intrattenimento, dalla polluzione
delle avanguardie.
Erano anni, quelli, in cui un po’ tutti, pur assisi sulla tolda delle loro belle
scrivanie, si disorientavano a Oriente e in ogni dove. Ezra Pound aveva optato
per Confucio e il teatro No giapponese; Thomas S. Eliot alternava il buddismo
alla lettura di Dante e di John Donne; Saint-John Perse si era ritirato in un
tempio taoista in rovina, fuori Pechino, per scrivere il suo
capolavoro, Anabasi; Victor Segalen credeva negli oracoli cinesi, sfidava le
sacre formule dell’I-Ching. Nel giugno del 1933 la rivista “Minotaure”, stampata
a Parigi da Albert Skira, pubblicava gli esiti della “Mission Dakar-Djibouti”,
guidata da Marcel Griaule, con uno scrittore d’eccezione al seguito: Michel
Leiris. In Africa cercavano le Indie: la parola originaria, la parola
che agisce, un redivivo Orfeo.
René Daumal (1908-1944)
Con analogo spirito, Antonin Artaud viaggiava, disperatamente, tra il Messico e
l’Irlanda e William Butler Yeats, recluso a Maiorca con un guru indiano, Shri
Purohit Swami, traduceva le Upanishad, cercando il punto che accomuna “quei
Saggi della foresta che hanno pensato tutto” e Balzac, Goethe e i monaci del
deserto (le traduzioni di Yeats dalle Upanishad sono edite da Magog). Yeats era
ossessionato dalla figura dell’ollamh, il bardo irlandese che con le sue rime
garantiva la sopravvivenza del re e della quercia, della casa e della volpe; in
René Daumal agiva la potenza dei rishi, i poeti veggenti che hanno composto
i Veda. Negli anni Trenta, mentre Yeats favoleggiava di un viaggio in India con
una delle sue giovani amanti, Daumal seguiva il tour di Uday Shankar. In quello
straordinario ballerino indiano intuiva i “ritmi infantili” proclamati da
Rimbaud. “Né la danza né la musica dell’India hanno lo scopo di distrarre. Al
contrario; hanno il fine di ricondurre incessantemente lo sguardo di ciascuno
verso il centro insopportabile della propria solitudine”, scrive in un saggio di
nitida bellezza (ora in: René Daumal, Lanciato dal pensiero, Adelphi, 2019).
Seguiranno, a precipizio, anni sonnambuli, a bordeggiare il nulla.
Daumal aveva un volto messianico.
Nel Dialogo sullo stile trattenuto con Lanza del Vasto – raccolto ora in Il
rovescio della testa, a cura di Claudio Rugafiori, Adelphi, 2025 – Daumal
domanda:
> “Vivo in un’epoca senza stile. Dove troverò le regole del mio mestiere di
> scrittore – regole che non siano superstizioni o curiosità storiche, che
> abbiano realmente autorità?”.
Scriveva che “Il poeta danza posseduto da un pensiero”. Il suo capolavoro, Il
Monte analogo, termina, incompiuto, sulla soglia di una virgola, specie di
abisso che sta al lettore superare. Uscì postumo, per Gallimard, nel 1952; Roger
Nimier – lo strabiliante scrittore degli “Ussari”, morto di schianto sulla sua
velocissima Aston Martin – scrisse, in ‘quarta’, che “Ogni frase, qui, ha la
nitidezza dell’ascesa”.
Ascesa. Ascesi. Nella più nota delle fotografie – scattata dallo scrittore Luc
Dietrich nel maggio del 1944, pochi giorni prima della sua morte – Daumal ha la
barba, ma gli occhi sono sempre quelli, fissi, famelici, di bimbo eterno che sa
evocare giaguari in un glifo d’ombre. In lui, Patty Smith riconobbe “un
fratello… un punk”.
Nel testo più bello de Il rovescio della testa, Daumal racconta di un “potente
mago” che abita “in una mansarda” e “lavora in una succursale del Crédit
Mystique”. L’uomo che “avrebbe potuto essere pascià, alchimista, usignolo o
cedro del Libano”, sceglie la miseria. Confida nei “segreti disegni della
Provvidenza”, muore, e “nessuno aveva sospettato chi egli fosse”. Pare, in
vitro, la vita di Daumal – le cose più importanti vanno nascoste: non si
realizza la morte nel boato, ma in uno spiffero, tra le spire di un frainteso.
L'articolo “Inghiottiremo Dio”. René Daumal, storia di un angelo in picchiata
proviene da Pangea.
Dev’esserci, nella biografia di ogni poeta, un momento in cui la folgore cade
senza preavviso. L’istante in cui la poesia si incista nel destino: le stimmate
di una vocazione che è incontro fatale tra telos e contingenza.
Per Nicolas Bouvier, questo accade nella valle di Erzurum, quando l’alba si leva
verso il Caucaso, annunciata dagli occhi fosforescenti di una volpe:
> “in fin dei conti, ciò che costituisce l’ossatura dell’esistenza, non è né la
> famiglia, né la carriera, né ciò che gli altri diranno o penseranno di voi, ma
> alcuni istanti di questo tipo, sollevati da una levitazione ancora più serena
> di quella dell’amore, e che la vita ci distribuisce con parsimonia a misura
> del nostro debole cuore”.
*
La storia è nota, l’esordio ha quasi i contorni della leggenda. È il 1953.
Nicolas Bouvier, appena terminati gli studi universitari, parte dalla Svizzera a
bordo di una Topolino per raggiungere l’amico Thierry a Belgrado. Insieme, in
una sorta di sodalizio creativo e iniziatico, si mettono in viaggio verso est,
con l’intento di arrivare fino in India. Attraversano la Turchia, l’Iran, il
Pakistan e l’Afghanistan, spingendosi fino alle soglie del Passo Khyber.
Quando Thierry fa ritorno in Europa, Nicolas prosegue da solo. Si dirige in Sri
Lanka, dove – preda di un delirio febbrile e visionario – scrive Il Pesce
Scorpione. Raggiunge poi il Giappone, che agisce su di lui come un calmante
spirituale e gli ispira alcune delle pagine più intense e limpide della sua
opera. Il resto è un intreccio di ritorni e nuove partenze, un continuo
attraversamento delle stesse rotte e l’invenzione di itinerari futuri. Ma il
Passo Khyber, dove La polvere del mondo si arresta, rappresenta nell’itinerario
creativo di Nicolas Bouvier un confine simbolico. Oltre quell’imponente sistema
montuoso si apre un nuovo orizzonte: quello della creazione e della riflessione
poetica.
*
Bouvier si accosta al linguaggio della poesia relativamente tardi, a 35 anni.
Come racconta lui stesso in Routes et déroutes, la sua prima composizione risale
al soggiorno a Tabriz, benché la maggior parte dei versi venga scritta in
Giappone – il paese che, più di ogni altro, con la sua abbagliante sintesi di
ossimori, gli appare come una sorgente inesauribile di ispirazione. Non è un
caso, osserva, che proprio nel Sol Levante sia nata la forma dell’haiku, così
perfetta nella sua studiata semplicità. All’origine della poesia c’è il soffio
che riempie la cassa toracica, il daimon che piega i polsi e getta l’amo nei
fiumi della creazione. Scrivere è un atto da rabdomanti, misteriosa
trasmutazione alchemica. La poesia, dice,
> “era l’unico legame che mi restava con le parole, l’ultima passerella”.
Ma non basta. Il dettato poetico esige rigore: una lealtà da asceta, un lavoro
in sottrazione che può durare mesi, anni, persino decenni. A colpi d’ascia, fino
a raggiungere il cuore dorato del metallo – là dove si fronteggia la frontiera
del silenzio.
*
Nel 2012 esce la versione italiana delle poesie di Bouvier, curata da Luigi
Marfè, acuto indagatore del rapporto tra letteratura e viaggio. Il titolo della
raccolta – Il doppio sguardo. Le dehors et le dedans – sceglie con l’aggiunta
italiana una resa interpretativa, non letterale. Il doppio sguardo richiama
infatti l’idea di una visione sdoppiata. Eppure lo sguardo di Bouvier sulle cose
mi sembra piuttosto di natura “taoista”: non duplice, ma unitario nel suo
accogliere il dentro e il fuori, specchio e fiamma di estremi che si
compenetrano. Ecco che così dehors e dedans diventano due volti della stessa
medaglia. Il fuori: il mondo nel quale siamo immersi, colto nella sua energia
elementare, evocata da ciò che potremmo definire correlativi oggettivi. Il
dentro: un’esplorazione implacabile e dimessa di sé, alla ricerca di accorati
lampeggiamenti interiori.
*
Le poesie di Bouvier sono un irrimediabile ma necessario dissolvimento dell’io
nella pienezza nuda della natura. Voglio dire: come gettare l’io in pasto ai
lupi, seppellirlo sotto il candore della neve e trasfigurarlo nella notturna
luce delle costellazioni.
Piuttosto: viaggiare per addestrarsi alla solitudine ferale, al silenzio
astrale, agli esordi mai approfonditi. Apprendere a fare della mappa geografica
della propria vita il collo dell’imbuto dove smussare e levigare gli angoli
taglienti dell’autobiografia. Ritrovarsi sdraiati, come nel sogno di Kafka, alla
stessa altezza dello sguardo degli animali. Indagare i miti che da millenni
incendiano covoni di grano e spremono il succo dalle vigne.
Il viaggio è la forma più elegante e raffinata per congedarsi dalla tentazione
dell’io. Bisogna annientare l’idea del viaggio come carezza esotica, spogliarlo
di ogni orpello, liberarlo da ogni illusione di spensierata evasione. Tutto,
nelle poesie di Bouvier, parla il linguaggio di una scabra essenzialità, fatta
di elementi naturali primari, di superfici rocciose rastremate dalla salsedine,
di colori quasi chagalliani: luoghi e parole tra cui si avverta il passaggio
dell’aria, come all’inizio dei tempi.
*
La citazione di un anonimo cinese posta in esergo alla prima sezione della
raccolta conferisce a quest’ultima una tonalità poetica del tutto particolare.
> “Domani, se qualcuno si preoccupa del nostro amico d’oltremare,
> dite che, posati i sandali, è tornato a casa a piedi nudi”.
E in effetti i versi sono sospesi in una levità quasi aerea, dove la scelta
delle parole e l’evocazione delle immagini sono al tempo stesso un’aspirazione
alla leggerezza e un richiamo alla condizione terrestre. Nuvole che ammantano il
cielo, piogge che strizzano lembi di azzurro, fumi che si levano da spiagge
nere. E ancora: mormorii, cantilene, sussurri e bozzoli che volteggiano
nell’aria. Ma anche fieri cavalli di concreta carnalità, pozzanghere e campi
disertati, stazioni di treni e mercati orientali.
Personaggi, luoghi e scenari naturali costituiscono il serbatoio da cui il poeta
attinge per le sue composizioni poetiche. Molti degli episodi che danno vita
alle poesie si ritrovano anche nelle opere in prosa di Bouvier. A ben vedere, i
temi ricorrenti nello scrittore svizzero sono gli stessi: hanno a che fare con
la sciarada del viaggio, con la consapevolezza del tempo che passa, con
l’avvistamento dell’ultima dogana, la morte. Ciò che colpisce, nell’iterazione
di queste immagini, è che il dettato poetico di Bouvier, pur recalcitrante
all’io, si declina infine in una forma di poesia perfettamente classica, di
stampo lirico-elegiaco.
La poesia di Bouvier è pura epifania: un’improvvisa rivelazione suggerita da
un’immagine, una visione, un suono. Può accadere contemplando un tramonto
iraniano, osservando dei pellegrini in cammino dal Tibet verso l’India, o
ascoltando un motivo jazz suonato per strada a New York. Ciò che importa è che
sempre, a un certo momento, il tempo sembra raggrumarsi: quando il vasto e
misterioso respiro del mondo spira nel dettato poetico e l’animo vi aderisce
intimamente, in un attimo di agnizione -dissolvendosi completamente nello
sguardo muto dell’universo.
Nella seconda parte della raccolta, Le dedans, assistiamo all’irruzione
del tu, come se l’interiorità non potesse prescindere da un’intimità
relazionale, oltre che grammaticale. Le tre composizioni poetiche del ciclo Love
Song sembrano accendere schegge di lirismo. In realtà, ogni picco di emozione
viene trattenuto, smagato. Come il viaggio e la scrittura, anche l’amore spoglia
l’io da ogni scoria. Rimane sempre, a sigillare tutto, una sorta di misterioso
ritegno:
> “ma che la neve caduta questa notte
> sia come un dito sulla tua bocca”
*
Nicolas Bouvier aveva in mente di scrivere un ciclo di libri intitolato Livre
des Merveilles. Vi avrebbe dovuto appartenere anche Le vide et le plein, forse
l’opera più intensa del Bouvier prosatore, dove la scrittura aderisce con rara
levità alle asperità e ai declivi dell’anima. Livre des merveilles: un titolo
che richiama alla mente i libri di viaggio medievali, i mirabilia, popolati da
tempeste procellose, mostri marini e apparizioni miracolose; o che evoca le
peregrinazioni cartografate da celebri mercanti veneziani. Tuttavia, è bene non
divagare. Nei racconti cinesi, il pittore delle nuvole, dopo aver dato l’ultima
pennellata al suo capolavoro, avvolge i pennelli e li fissa alla cintura, prima
di mettersi in cammino. I manipolatori delle marionette Bunraku, presenti sulla
scena insieme alle loro figure, indossano un cappuccio quando sono ancora
novizi; i maestri, invece, agiscono a volto scoperto: sono diventati a tal punto
il personaggio che animano, da risultare, letteralmente, invisibili allo
sguardo.
Scrivere, come viaggiare, vuol dire scomparire. Scaraventare carta e inchiostro
e fuggire nel caldo ventre della terra.
Lorenzo Giacinto
**
Ulisse
A sud del parapetto,
non c’è più nulla fino alla Terra Antartica.
Leviatani e sirene solcano questi pascoli marini,
questo portolano increspato d’onde,
dove immense porzioni di cielo
si abbattono in scrosci spossati,
senza che Dio stesso
ne sia messo al corrente.
Ogni sera guardi il calice del sole
tuffarsi urlando nel mare a chiazze,
tra gli ammiccamenti dei grossi gatti di bordo
accovacciati tra le gomene.
I pescespada blu sfrecciano davanti alla prua,
come una banda di gioiellieri in fuga.
Sono mesi che non ricevi una lettera,
sei l’ultimo dei paria a bordo di questa nave,
il cuore sfatto, uno straccio di stoppa in mano,
già tutto nero di ricordi.
Ti annulli nel fremito delle eliche,
ascolti l’antico canto del sangue nelle orecchie –
coaguli di sole della memoria,
e l’inventario delle meraviglie,
quando sapevi vivere di poco,
e la vita ti seguiva come uno sciame d’api,
e pagavi, senza mercanteggiare,
il prezzo esorbitante della bellezza.
*
Hira – Mandi
Ultima bottega ancora aperta
nella notte della città –
ghirlande di peperoncini,
samovar e falene,
alone bianco dell’acetilene.
La barba del padrone è tinta
di un rosso birichino.
Tre uomini vestiti di cuoio
sorseggiano il tè versato nei piattini.
Alti zigomi,
che brillano nei volti color rame
sotto la frangia di cappelli informi.
Sono pellegrini del Tibet,
in cammino verso l’India del Gange
per appendere il loro mulinello da preghiera
ai rami del fico del Buddha,
prima di tornare alle loro terre
a fiato corto, a piccoli passi,
attraverso quei confini impraticabili
che passano sopra le nuvole.
Anch’io ho un appuntamento con un albero.
E in ogni caso non c’è più verso di dormire
quando la luna veleggia come una vela gonfia,
così brillante, così veloce,
che persino l’anima ne proietta un’ombra.
*
Love Song III
Quando attizzare le parole per un po’ di colore
non sarà più compito tuo,
quando il rosso del sorbo e le curve delle ragazze
non ti faranno più rimpiangere la tua giovinezza,
quando un nuovo volto, tutto scheggiato d’assenza,
non farà più tremare ciò che credevi solido,
quando il freddo avrà salutato il freddo
e l’oblio dirà addio all’oblio,
quando tutto avrà assunto la silenziosa opacità del
vischio –
quel giorno,
qualcuno ti aspetterà al margine della strada
per dirti che è stato giusto così,
che dovevi concludere il tuo viaggio
senza più nulla,
del tutto disarmato,
allora forse…
ma che la neve caduta questa notte
sia anche come un dito sulla tua bocca.
Nicolas Bouvier
Traduzione di Lorenzo Giacinto
L'articolo Per una poetica della sparizione. Sulla poesia di Nicolas Bouvier
proviene da Pangea.
Potremmo dire: didattica della sobillazione. Svergognare il linguaggio, potremmo
dire. Riverginarlo. Resurrexi.
Senza che ciò diventi prassi, però – lui, il poeta, Prassitele del caos. Gli
altri – i poetastri-poetini-impotenti – i parassiti del verbo, i cannibali del
vocabolario.
Al posto del vocabolario: esigere l’arca. E rompere tutte le alleanze.
Esigere, cioè, il diluvio. Le tante bestie. Le acque sigillate. Nessuna colomba
a imbottirci di false speranze.
Di Matthieu Messagier, per così dire, resta l’ombra, la figura corrotta e
miracolata – il poeta, a dirla tutta, ha delirato e disertato: è già – e sempre
– altrove.
Una fotografia, forse, lo centra: il ragazzo – viso da inquieto putto: capelli a
tiara, inesorabili baffi, paffuto – siede su un triciclo, una mano regge il
volto, in crollo; davanti, un cane. Il tutto, reso all’oscuro, tra vampe
bianche, diacce. “Le Figaro” scrisse di una lumière obscure; era il 2020,
Messagier sarebbe morto l’anno dopo, a ridosso dell’estate, doveva compiere 72
anni. Flammarion aveva pubblicato come Dernières poésies immédiates una raccolta
di “Sérénades”. È un libro tra le strettoie del rischio, quello, scritto nel
luglio del 2006, in ospedale: il poeta, “ricoverato per una grave ipercalcemia…
dopo ventiquattro ore chiede un quaderno e una matita, a redigere, dice, un
‘Ticino di parole’”. Un insetto campeggia in copertina; la quarta è felicemente
destabilizzante:
> “Il foyer della Poesia gode dei tentativi
> delle parole di trovare per lei
> una ragion d’essere
> (la poesia autorizza il conoscere
> non certo l’inverso)
>
> Riverso il capo tra le mani
> non rendo scaltre le poesie di agonie
> passate all’autopsia della notte:
> pratico alfabeti impropri
> estranei alla cappa del pensiero
> necessario a ordire le loro
> cronache contemporanee”
Figlio di artisti – il padre, Jean, praticò, tra l’altro, come discepolo di
Picasso – Messagier è stato messo nelle condizioni di esigere il meglio dal
proprio genio. Girò qualche corto con Michel Bulteau, girò per Parigi giocando
al flâneur flamboyant, scrisse disegnando. Praticò la parola fin da bimbo, con
lo scopo, più che di auscultarsi, di sgretolarsi, di farsi lo scalpo, di
scappare. L’esordio nel 1969, per Pauvert, con un ciclo di versi di implacabile
precocità. Scrisse disinteressandosi di un ‘pubblico’, disperso tra i rivoli di
pubblicazioni d’occasione, occipitali al tempo, presto introvabili.
In Le Dernier des immobiles (1989), uno dei tanti fascicoli stampati con Fata
Morgana, il poeta stila in distillato la propria poetica:
> “Si scrive perché nessuna parola è in grado di condurci al senso: lasciala lì,
> allora, prima dei bei sentieri dell’opera, incisi sul filo dell’evidenza. È
> l’elegante unicità piromane a renderti pari alla natura originaria”.
Sviluppando la teoria delle ‘corrispondenze’ abbozzata da Baudelaire, Messagier
scrive di voler “pervenire alla somiglianza/ per averne perso il senso”.
Schifò il Sessantotto; nel 1971 scrisse – insieme a un gruppo di accoliti – un
improbabile Manifeste Électrique aux paupières de jupes, edito da Le Soleil
Noir. Quando capì che il gruppo percorreva la via di William S. Burroughs e dei
surrealismi, mollò tutti, facendo capo a se stesso. Anche Messagier – secondo il
crisma rimbaudiano – aveva bisogno di significare la propria poesia
disintegrandola. Dal ’72, per sette anni, non scrive; viaggia per l’Europa come
un vagabondo, un senzatetto di sé, un pellegrino in sempiterna erranza.
Dell’esperienza parigina serba l’amicizia con Dominique de Roux. Il grande
editore anticonformista de “l’Herne”, gli aveva commissionato un improbabile
“libro a venire”; gli aveva chiesto di dirigere insieme a lui la rivista “Exil”.
Il primo numero, uscito nell’autunno del 1973, reca testi di Ezra Pound, Raymond
Abellio, Henry James e J.-J. Langendorf. Messagier è già altrove, permette che
sia pubblicato il suo Bestiaire.
Tornato in Francia, piagato da una malattia neuromuscolare, Messagier si
installa nel Doubs, nascosto ai più. Lì scrive l’immane poema in
prosa Orant (1990), per lo più un oratorio di quaderni, spunti, appunti, una
pestilenza linguistica di ottocento pagine, “un affronto alla ragione, un gesto
borderline, fitto di pura confusione emotiva ed epifanica vastità che non è
improprio paragonare al Finnegans Wake di Joyce” (Renaud Ego).
Nei suoi scritti – che chiedono a chi li attraversa una sorta di ermeneutica
all’arma bianca, il disarmo del sé – qualcuno riconosce la “teomania” di Henry
Michaux. Renaud Ego ha rintracciato un lignaggio che lega Messagier a Gerard
Manley Hopkins (“per l’audacia sintattica”), Giacomo Leopardi (“poesia come
trasposizione della natura in piena esuberanza”) e Velimir Chlebnikov (“gusto
per i neologismi e ricerca di una ‘cosmoglossa’, un linguaggio comune per dire
l’universo”). Secondo il poeta
> “Il significato originario delle parole è in totale contraddizione con l’uso
> che ne ha fatto il nostro tempo: attonito rapimento, dolore, erba tra le
> mani”.
Di questa sregolatezza – improponibile a latitudini italiche, dove il dire
incontrollato (chessò: Calogero, Fermini, Ceni) è messo ai margini, incompreso
per incompiutezza di chi lo soppesa – resta l’impeto, il talamo, il sepolcro
vuoto. Titanomachia. Semmai: venefico antidoto contro gli artifici dei bot,
contro gli artificiosi versi dei poeti al botulino.
Spesso è opera che resta nei quaderni, quella di Messagier, che non si può
restituire in trascrizione. Pena la perdita del corpo del reato, del corpo
mistico del verso.
Dunque, sì: documento-nocumento.
***
Crepita il crepuscolo e crolla la camera
sempre in quello stesso crollo
nell’atto della creatura randagia
finché Locarno non si serra
in una crisalide epica e crepa l’idea
Volto fisso
e freme la circolazione
nel particolare, oh, sì, l’unico
preso dal panorama, il convulso, il rovinoso
soprassalto della carne
la maestà che diviene sudore
e il più vile dei tratti:
il tutto rampogna la propria apoteosi
e
vivacità dell’ossessa pazienza
annaspa nel flusso perché lo stupore è un nodulo
*
Lugano, la forma lappa
la sostanza del faticare
l’oscurità appena lambita
dalla speranza angolare
in aria si dispiega il rifugio
dello stesso volume o quasi
perché di rado l’arborescente visione
compie dell’asse degli anni
la nota astratta, la sorpresa
al calendario delle sentinelle
solo l’esasperazione
di un paradiso in sussiego
e il broncio corrugato come una goccia
preso da una divinità larva
che lavora al vertice
di un’immaginazione esperita
con tanto di balsamo addosso
con tanta redenzione priva di pareti.
*
Amadriadi arroganti al sole di maggio
C’era una lunga seta poetica
che nuotava con serica dolcezza.
“Intanto
della resina degli occhi
della sentinella che sfianca il giorno
la miscela è chiara
e il bruto atomo la sua fragranza
vinto al concerto
dalla prima”.
Amadriadi arroganti al sole di maggio
e perfino la grammatica dell’assenzio
le nuvole dei primati aggiunte
a quelle trasparenze su sopiti prati…
…su stupiti prati si slanciano
classifiche di ore al miele
e noi passiamo tra i punti e le virgole
per perderci (quando il medico mi ha auscultato
il cuore, ho detto: “non si facciano prigionieri!”)
*
L’autunno non sa redimersi dall’estate
quando esplodono le lacrime
perché è troppo – è difficile
il vano appello all’oggetto e al fine
Ed è rosa, è opaco
porge la sua tristezza
di rari alcolici
Da qui puoi vedere tutto
lo stato del risveglio
appena importato
Un torrente di carta & matita
i sorrisi della mano sinistra
frantumi di regni sconfitti
al culmine di una illogica velocità
Ma la vita è altro, è altrove
Matthieu Messagier
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