Qualche giorno fa, il 5 agosto, sul “Corriere della Sera”, Luciano Canfora, lo
storico, ha firmato un lungo pezzo, s’intitola: “Il senso della storia, dono
divino”. Pretesto dell’articolo, la pubblicazione, per la “piccola e vivace casa
editrice lucchese Le Vele”, di Qoelet, il formidabile, corrosivo testo biblico.
Si tratta del libro che inaugura “una grande opera dissodatrice” (copy Canfora):
la pubblicazione, tomo per tomo, della Bibbia, per fini culturali (consentire la
lettura della Bibbia ai più) più che ecumenici. Non è esattamente una novità:
già Einaudi, a cavallo del millennio, aveva tentato un’operazione simile.
I Salmi, “ragguardevoli non solo sul piano religioso ma anche su quello
letterario” (dida di infantile inutilità) erano introdotti da Bono; il Vangelo
secondo Marco da Nick Cave; il Qohèlet da Doris Lessing. La traduzione d’uso,
allora, era di quella di Filippo Nardoni; l’iniziativa, eguale a quella proposta
da Le Vele (“La Bibbia pensata non come testo di fede per fedeli, ma come testo
di lettura per lettori”), durò poco, una manciata di anni. La collana inaugurata
dall’editore Le Vele – che s’intitola, va da sé, come quella Einaudi, “I libri
della Bibbia” – è curata da Sergio Valzania, giornalista, autore radiofonico
Rai, scrittore: tra l’altro, ha scritto “una nota” a un antico libro di
Canfora, 1914 (Sellerio, 2006).
L’articolo del “Corriere” – à la Canfora: vigoroso, ruvido, ma anche un po’
superficiale nelle sintesi – mi è stato mostrato da un amico, uno di quelli
sempre pronti a salvarti dal baratro, con un certo sconcerto. Negli stessi mesi,
infatti, per De Piante è uscita una versione di Qoelet, culmine di un progetto
editoriale di pubblicazione, libro per libro, del canone biblico. Il
progetto, inaugurato nel 2022 con Genesi, non riproduce il Testo secondo la
versione Cei che tutti hanno sul comodino (“accogliendone purtroppo anche i
difetti”, così Canfora): l’idea, titanica, è quella di affidare “i singoli libri
della Bibbia a narratori, poeti, pensatori di oggi”. In
particolare, Genesi e Isaia sono stati tradotti dall’artista e scrittore
polimorfico Gian Ruggero Manzoni e Apocalisse dal poeta e fine
grecista Giancarlo Pontiggia. L’idea di Qoelet – uscito dai torchi nel marzo del
’25 –, testo magnetico come pochi altri, è più complessa. Il testo è tradotto,
secondo una nuova ipotesi sul ritmo e sul suono, da Stefano Arduini, linguista,
teorico della traduzione (tra gli ultimi libri: Traduzioni in cerca di
originale. La Bibbia e i suoi traduttori, Jaca Book, 2021), traduttore, tra
l’altro, di Giovanni della Croce (per Città Nuova). A questa versione, si
affianca la mia – a dire della lotta tra i botri e i dogi del linguaggio – e
quella, storica, di Massimo Bontempelli. Quest’ultima, ha un’importanza storica
peculiare perché testimonia una sotterranea ma pur robusta ‘tradizione’ della
traduzione biblica da parte degli scrittori italiani: pensiamo ai Vangeli
tradotti da Diego Valeri, Corrado Alvaro, Nicola Lisi e Bontempelli,
alla Lettera ai Corinzi secondo Giovanni Testori, alle versioni di Ceronetti e
ai tentativi di Emilio Villa, all’innario di David Maria Turoldo, fino ai
reperti di Erri De Luca. Su questa scia, Roberta Rocelli, nella scorsa edizione
del “Festival Biblico”, ha ideato il Salterio dei Poeti, il primo germe della
traduzione dei Salmi ad opera dei poeti di oggi: tra gli altri, hanno
partecipato Mariangela Gualtieri e Andrea Ponso, Giuseppe Conte e Federico
Italiano, Francesca Serragnoli, Alessandro Rivali, Susan Stewart e John
Kinsella. Ne abbiamo scritto a lungo.
Insomma, è da tempo che si opera nel ring del testo biblico. Per chiudere con i
dati: nel 2010 proprio Stefano Arduini, insieme all’editore Walter Raffaelli,
hanno fondato la collana “La Bibbia” con gli stessi intenti – la pubblicazione,
libro per libro, del canone, in nuova traduzione. Erano libri deliziosi, in
formato minino, da tenere in una mano: ferine falene di carta. Sono usciti, in
quel contesto, il Cantico dei Cantici secondo Andrea Temporelli, l’Esodo secondo
Gian Ruggero Manzoni, Il libro di Giona secondo Giovanni Tuzet. Uno
scrittore-cantautore come Leonardo Bonetti avrebbe ‘musicato’ il libro di
Daniele; tra i protagonisti del progetto – di cui qualche giornale ha detto –
figurava il poeta Pier Luigi Cappello – io ho tradotto le Lamentazioni. Ma
queste sono minuzie.
Bisognerebbe, piuttosto, domandarsi se tradurre un libro biblico sia come
tradurne qualsiasi altro: se, per dire, tradurre Geremia o le lettere di
Giovanni sia come tradurre Emily Dickinson o Rimbaud. Come scriveva Edgard Wind
in Arte e anarchia, l’uso ha un suo peso: una Crocefissione appesa da secoli in
una cattedrale, che ha accolto le preghiere di migliaia di fedeli (divorandone
le intenzioni e il cuore), è diversa da una Crocefissione esposta in un museo,
sotto gli occhi di attenti – o disattenti – ‘fruitori’ d’arte. insomma: la
Bibbia ha un ‘peso’ diverso, la traduzione – come postula San Paolo – è un
carisma. Non si può tradurre senza precipitare. Il rischio di abbellimento
retorico – sempre presente nel lavorio degli artisti – è sacrilegio, è
idolatria: tradurre vuol dire scotennare, levare l’ultimo velo al Volto. Che se
ne torni inceneriti è norma.
Ma qui vado per erbe avvelenate.
Torniamo a noi. È evidente che esistano alcuni eventi culturali, alcune
avventure dello spirito, non marginali, tuttavia per sempre ignote alle ‘grandi
firme’, ostili ai ‘grandi palchi’. Sono invisibili. Rimangono paria. Frotte di
lebbrosi. Perché Luciano Canfora, parlando di una nuova, meritoria edizione
di Qoelet non ha fatto riferimento al Qoelet edito da De Piante negli stessi
mesi, rintracciabile in ogni repertorio digitale? Escludendo la malafede, resta
l’ignoranza. Se è così, è grave: è come se uno storico, organizzando i fatti,
non conoscesse una fonte autorevole.
Per il resto, basta Qoelet, cioè la beatitudine della vanità. “Non arrabbiarti:
l’ira/ alberga nel petto del vile”, dice il sapiente.
*In copertina: Memento mori, studio di cranio, XVII secolo
L'articolo La “qoeletica” ignoranza di Luciano Canfora. Vane riflessioni
proviene da Pangea.
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La chiamavano Squirearchy: un nome per un sistema, ovvero un’egemonia culturale
in grado di dominare l’intero panorama letterario britannico. E se a dirlo erano
quelli di Bloomsbury (dando man forte all’amico T.S. Eliot) – state pur certi –
il commento poteva diventare legge, per ingiusta che fosse la fama.
Dagli scribacchini delle maggiori testate giornalistiche ai poeti e critici più
influenti del primo Novecento, gli “Squirearchisti” si configurano come gli
eredi di un conservatorismo che potremmo definire – con le giuste misure
– tipicamente “georgiano”, intriso di nostalgia per un passato nazionale
spazzato via dalla Grande Guerra.
Non era quello del resto il mondo dei garden parties, abbondante di latte e
miele, in cui il privilegio di classe si misurava, in primo luogo, sui campi da
cricket e nei collegi più prestigiosi, dove venivano formati i figli dell’Impero
destinati alle cime dell’establishment? Una sorta di età dell’oro che
l’Inghilterra avrebbe provato ciecamente a rianimare durante il «lungo week-end»
interbellico (descritto da Robert Graves in A Social History of Great Britain
1918-1939), nascondendo le sue ferite dietro il fascino della tradizione.
Eppure, era svanito da secoli il sogno edenico di una «England’s green e
pleasant land», eretta sulle colline dell’innocenza di William Blake (And did
those feet in ancient time), dal futuro rigoglioso di «fresh woods and pastures
new», memore della profezia di Milton (come detta la pastorale Lycidas), lontano
anni luce dalla desolazione novecentesca.
Al vertice di questa élite di intellettuali e scrittori controcorrente che,
asserviti a un ideale comune, esercitavano ancora piena autorità nel mondo delle
lettere, spicca il genio poliedrico di John Collings Squire. Poeta, giornalista
e editore di base al “London Statesman” (per cui scrisse recensioni sotto lo
pseudonimo di “Solomon Eagle”), all’inizio della sua carriera si distinse sulle
colonne della rivista fabiana per la dote eccezionale nella parodia.
Riconosciuto ben presto dalla critica come uno degli uomini più colti e
versatili del suo tempo, era pure un militante tradizionalista in campo poetico,
una vera e propria spina nel fianco per la controparte modernista che avrebbe
cambiato una volta per tutte gli orizzonti contemporanei.
J.C. Squire (1884-1958), l’ultimo leader georgiano
Fra gli studenti di spicco del St John’s College, il talento di Cambridge –
laureato in storia e traduttore di Baudelaire – si era fatto strada nella
capitale grazie alla serie di antologie curate da Sir Edward Marsh – cinque in
tutto e dalla vita breve – sotto il titolo solenne di Georgian
Poetry (1911-22). Insieme a Lascelles Abercrombie, Walter de La Mare e al
capofila Rupert Brooke, figura negli ultimi tre volumi, trovando posto accanto a
penne del calibro di John Masefield, Robert Nichols e John Drinkwater. Sulla
scia dei compagni – i quali si consideravano a loro modo moderni e progressisti
per l’epoca –, anche Squire, in quella fase, componeva versi ispirati dalla
bellezza della natura, profusi d’amor patrio (per ciò additati dai posteri di
non poco sentimentalismo) e devoti a un’agreste “Merry England”. Prendendo a
modello i classici – dal “Green World” di Shakespeare e l’Arcadia di Sidney alle
ballate romantiche –, i giovani Georgians intendevano estirpare dalla poesia
inglese la densità stilistica e la carica retorica di un vittorianesimo fuori
tempo, riportandola al lessico ordinario e alla purezza formale di un primo
Wordsworth.
Con la ripartenza postbellica, fu proprio Squire ad assumere il ruolo di tenace
oppositore delle tendenze radicali (Eliot e Pound erano già sulla
scena), difendendo l’esperienza georgiana fino agli ultimi fuochi. Per queste
ragioni, diede alle stampe la sua antologia di idoli poetici, Selections from
Modern Poets (1921; ristampata a più riprese lungo un decennio). La silloge
epocale non mancava di includere alcuni autori sfuggiti volutamente dall’indice
di Marsh come dal successivo Oxford Book of Modern Verse 1892–1935 (pubblicato
nel ’36 da W.B. Yeats), in specie i poeti di guerra Wilfred Owen e Charles
Sorley, per non tacere l’orrore del fronte. Infatti, se non lo si può annoverare
strettamente fra i poeti combattenti, il noto curatore (risparmiato dalla leva
per problemi alla vista) era comunque un war poet di protesta – a dire il vero,
uno dei primi, alla pari di Siegfried Sassoon – attivo sull’home front. In
quanto tale, non poté trascurare le pagine più terribili e toccanti della storia
umana, ora macchiate dalla descrizione di fetide trincee ora puntellate da
invettive di accesa satira politica.
A interrompere quel filone poetico dalle dimensioni utopiche, il 1922 –
ricordato come l’annus mirabilisdella letteratura anglofona – segnò la svolta
definitiva, una cesura dirimente sfociata in un dibattito critico tra tradizione
e modernità. In sostanza, lo schieramento vedeva l’autore della Waste Land e i
suoi fervidi seguaci contro la coterie formata da Robert Bridges (Poeta Laureato
fino al ’30) e georgiani: una lotta tra titani, non excludit alterum.
Inesorabilmente, dopo gli anni del conflitto, il lavoro monumentale di quei
poeti ragazzi precoci e brillanti, che si impegnarono con ardore nel progetto
sostenuto dal patrocinio di Marsh – al fianco di Harold Monro che li ospitava
presso il suo Poetry Bookshop –, poteva dirsi concluso e superato da istanze
sperimentali ritenute più adatte a rappresentare i rapidi mutamenti spirituali,
epistemici e culturali del nuovo secolo. Da qui, l’oblio – di cui purtroppo
siamo testimoni tutt’oggi – della poesia d’anteguerra, destinata a cadere nel
baratro dell’anacronismo perché sintomatica di quel “mondo di ieri” stravolto
dalle bombe, che il pubblico di lettori volle allontanare dalla vista e dal
cuore.
All’enorme interesse editoriale del tempo fece quindi seguito una sfortunata
ricezione, a cui contriburono i pareri di una critica insofferente a stilemi e
toni non più riproducibili nell’era moderna. Al netto delle singole esperienze
poetiche pressoché eterogenee (si pensi al camaleontico Brooke e ad altri che vi
entrarono di sguincio, come D.H. Lawrence), da una parte le forme metriche ormai
desuete apparivano troppo ancorate alla classicità, dall’altra la vena
nostalgica e il riparo bucolico entro il confine delle contee assimilavano il
profilo del Georgian poet a quello di un arcade moderno. Cantore della vita
semplice e abitante di una realtà rurale rimasta ai margini dello spaesamento
metropolitano, il timbro imperiale era capace di prestare le proprie corde a
un’armonia perduta nel caos contemporaneo, estraneo in definitiva all’apertura
trasnazionale del Modernismo.
In questo complesso scenario, J.C. Squire divenne, assieme ai “suoi”,
l’animatore di punta di una polemica incendiaria, arrivando a monopolizzare –
fino alla saturazione, secondo l’acuto Alec Waugh – le vette delle principali
riviste letterarie, dal “New Age” allo “Statesman”. Con alacrità, il portavoce
del gruppo investì tutte le sue energie, come scrittore prima ancora che come
editore, per tenere alto lo stendardo reale anche dopo la dispersione dei suoi
membri (alcuni dei quali morirono in servizio militare nel fiore dell’età).
A tarpargli le ali, nell’immediato dopoguerra, il giudizio poco lusinghiero
di Virginia Woolf, e con lei quello dissacrante di Lytton Strachey, saettava
nell’opinione pubblica come una sentenza che non gli rendeva affatto giustizia
come letterato. Per la regina di Bloomsbury, era solamente un tipo “volgare, […]
più ripugnante di quanto si possa esprimere a parole, e perfido nei suoi
malaffari”, mentre l’eminente Strachey lo definì “un lurido verme”. Molti, poi,
ne riconobbero l’enome potere persuasivo, tacciandolo di orientare il parere del
pubblico fino a dominare il mondo giornalistico con le sue frivolezze: “Se ce la
fa, sarà difficile vedere qualcosa di buono”, affermò l’acerrimo nemico T.S.
Eliot (nonché futuro direttore per i tipi Faber). Secondo Robert H. Ross (The
Georgian Revolt, 1967), intorno al 1920 Squire era sulla buona strada per creare
una cerchia letteraria right-wing tanto influente quanto i circoli di sinistra,
in diuturna competizione con l’Athenaeum presieduto da John Middleton Murry
(marito di Katherine Mansfield).
Per coloro che l’avevano conosciuto in amicizia e per contratto, invece, era un
modello di dissimulazione e simpatia affettata, dalla scusa sempre pronta, ma
anche un uomo generoso, infaticabile nel suo lavoro e, senza ombra di dubbio, un
vero intellettuale engagé. Di casa ai ricevimenti dell’aristocratica Lady
Ottoline Morrell, l’allegro personaggio mondano dalla parlantina accattivante –
espertissimo di formaggio Stilton come dell’ultima uscita editoriale – adunò una
larga schiera di giovani promesse (a esclusione dei rivali bloomsburiani). Nel
1927 fu perfino commentatore radiofonico nei tornei di Wimbledon e creò una
propria squadra di cricket, The Invalids, composta da reduci di guerra rimasti
feriti in azione, che avrebbe fatto invidia ai vecchi Allahakbarries (per
intenderci, Conan Doyle, J.K. Jerome, eccetera) capeggiati da James Barrie.
La scalata verso il successo lo aveva lanciato, dal 1919, negli uffici del
mensile “London Mercury”, una delle prime riviste a carattere esclusivamente
letterario, da lui riportata in auge con un’intensa attività di redattore (che
gli valse nel 1933 il titolo di cavaliere del Re, dunque fu eletto Sir).
Associato a un sostrato upper-middle class, il periodico diventò sotto la sua
ala l’avamposto georgiano per antonomasia. D.H. Lawrence vi contribuì con la
poesia Snake (1921) e più tardi tornò sul pezzo in Nettles:
> Quando Mercurio arrivò a Londra
> Lo fecero “sistemare”.
> Lo salvarono da tante associazioni indesiderate.
> A questo punto tutte le ziette lo adorarono
> Perché, vedi, non è “né carne né pesce, mia cara!”
I rapporti altalenanti con l’enfant terrible del romanzo inglese duravano da
quando, in una recensione del 1915 a The Rainbow, Squire lo aveva sì difeso
dalle accuse di indecenza ma senza nascondere il suo disappunto per lo scarso
valore letterario del libro. Così un furioso Lytton Strachey rispose: “Siano
dannati i suoi occhi!”.
A darne un’impietosa caricatura si precipitò anche il maestro della
satira Evelyn Waugh nel romanzo d’esordio Decline and Fall (1928). In queste
pagine, l’accanito georgiano incarna la figura di editor fazioso
dell’immaginario “London Hercules”, Mr Jack Spire, e certi suoi tratti si
nascondono dietro l’eccentrico Augustus Fagan, Esquire (Cavaliere), PhD in
filosofia e rettore presso il Castello di Llanabba (sede della peggiore public
school del Galles). O ancora, nel romanzo England, Their England (1933) è il
bersaglio comico di A. G. Macdonell, nei panni di Mr. William Hodge, il leader
sfacciato del “London Weekly”.
Come i suoi alter ego letterari, quella di Squire è a tutti gli effetti una
storia di trionfo e fallimento. Dal bel mondo di Londra alla consunzione fatale
per alcolismo, una volta caduto in disgrazia, si ritrovò isolato dal giro
dell’alta società conosciuta in gioventù. Dopo essere stato lettore per
Macmillan e tornato a recensire per il settimanale “Illustrated London
News”, col tempo la fiaschetta facile prese il posto della penna. Avversato
dagli augusti Sitwell e assalito da violente accuse di fascismo (per aver
incontrato il Duce in qualità di membro dell’esclusivo January Club) si ritirò
in un remoto cottage, che andò distrutto in un incendio, e da lì in una magione
del Weald. Ma il crollo finale giunse alla perdita del figlio Maurice, ucciso
nella Seconda guerra mondiale.
Tra successi e dispute letterarie, il vecchio Jack scomparve nel 1958 dopo una
lunga e mirabile carriera. Degli anni ruggenti che lo videro protagonista era
scomparso quasi tutto, compreso l’ideale per cui aveva combattuto.
Ciononostante, la sua apologia resta scritta, come una rivelazione, ne La legge
del più forte (1916):
“Questi erano i miei amici; Strachey, tu non li conoscevi,
Perché erano uomini semplici, senza pretese […]
Se solo avessero avuto il privilegio di radunarsi
Ai piedi di Gamaliele, avrebbero capito
Che anche l’odio e il massacro hanno il loro splendore,
E che l’uomo non può vivere di solo Amore […]
Davanti ai loro occhi si ergeva
L’Inghilterra, crociata immemoriale,
Una grande statua-sogno, assisa e serena,
Che molto sangue aveva versato, e figli traditori,
Ma ancora risplendeva con mani e vesti intatte […]
E Lei, pur significando un passaggio amaro e veloce,
Dovevano servire, poiché Lei serviva la Libertà,
Romanzo e retorica! Eppure, nutriti da tali sciocchezze,
Affrontarono i cannoni, i morti, i topi e la pioggia.
E tutti, in un mese, mentre l’estate svaniva, perirono;
Avevano occhi limpidi, corpi forti, e anche un po’ di cervello.
Strachey, questi sono morti. Che bisogno c’è di dire altro?”
*
Un canto
I teneri petali cadono e l’albero che ondeggia lieve
Ha conosciuto molte primavere e ha visto molti petali,
Anno dopo anno, spargersi sui verdi sentieri silenziosi,
Sulla statua, lo stagno e il basso muro pieno di crepe.
Sbiadito è il ricordo delle vecchie cose che furono,
La pace aleggia sulle rovine di antichi banchetti;
Esse giacciono e scoloriscono nel calore del sole,
E un cielo azzurro-argenteo si incurva su tutte loro.
Così dolcemente, teneramente, adesso il cuore si desta
Con desideri lievi e informi; e, senza cercare, trovo
Pensieri quieti che guizzano come martin pescatori azzurri
Sul placido specchio illuminato della mente.
*
Sonetto
C’era un indiano, rimasto sempre giovane,
Che vagava sereno lungo una spiaggia assolata
Raccogliendo conchiglie. D’improvviso udì uno strano
Rumore confuso: alzò lo sguardo; e restò senza fiato.
Perché nella baia, dove non c’era niente prima,
Avanzavano sul mare, come per magia, grandi canoe,
Con le vele gonfie sugli alberi, senza neanche un remo,
Le insegne colorate sventolavano e le ciurme si arrampicavano.
E lui, impaurito, quell’uomo solo e senza vesti,
Le mani cadute, dimentiche di tutte le conchiglie,
Le labbra impallidite, si inginocchiò dietro una roccia,
Fissava, vedeva, ma non comprendeva,
Le caravelle di Colombo, gravide di destino,
Inclinarsi verso la riva, e tutti i loro marinai pronti allo sbarco.
*
Paradiso perduto
Quali colori possedeva la luce del sole e quant’erano ricche le ombre,
Le ombre azzurre e intricate che cadevano dai rami incrostati
Di meli deformi sull’erba del frutteto.
Quale blu celestiale era il colore di due uova lisce e morbide
Immerse nel fango arrotondato che rivestiva il nido del tordo:
E quale profondo piacere davano le macchie che le punteggiavano.
E quel piccolo ruscello che correva da siepe a siepe,
Ombreggiato dagli alberi e scintillante nei raggi del sole,
Quant’era limpida l’acqua, i letti piatti di sabbia
Con bolle di riflessi vaghi, ciascuno un piccolo mondo dorato
Ai miei occhi incantati. Allora la terra mi appariva nuova.
Ma ora cammino su questa terra come fosse un ripostiglio,
E a volte vivo una settimana, vedendo solo semplici erbe,
Pietre e uccelli migratori: né guardo qualcosa
Per abbastanza tempo da sentirne l’assalto calmo e deliberato:
La sua forza, la sua parola, il suo cuore regale.
L’infanzia non tornerà; ma non ho forse la volontà
Di tendere la mia mente torbida, che fertilizza ogni cosa esteriore,
E, aperto di nuovo a tutti i miracoli della luce,
Vedere il mondo con gli occhi di un cieco che torna a vedere?
*
Luce stellare
Ieri notte giacevo in un campo solitario
E guardavo le stelle con le labbra sigillate;
Nessun rumore muoveva l’aria senza vento,
E guardavo le stelle con sguardo fisso.
Ce n’erano alcune che scintillavano e altre che brillavano
Con un bagliore morbido e uniforme, e una
Che regnava sul circolo sparso,
Oscillando la schiera con tacito suono.
“Calme creature,” pensai, “nella vostra caverna azzurra,
Imparerò a conoscervi, a trattenervi e a dominarvi;
Vi metterò al giogo e vi irriderò come posso,
Perché l’orgoglio del mio cuore è l’orgoglio di un uomo.”
Con l’erba sulla guancia nel campo rugiadoso,
Giacevo immobile, le labbra serrate
E l’orgoglio di un uomo dallo sguardo rigido
Che cavalcavano come spade i sentieri del cielo.
Attraverso un varco imprevedibile si insinuò
L’Universo, spargendosi sulla mia anima;
Veloci andarono il respiro e il cuore,
E guardai le stelle a labbra socchiuse.
*
La morte di un cane
La grossa zolla di terra cade nella fossa come un respiro tranquillo e regolare;
Troppo simile al suo, per un attimo il suono mi inganna:
Copre il mucchio di felci che il giardiniere ha posto sopra di lui;
Il badile oscilla silenzioso: eccola la sua tomba.
Una chiazza di terra fresca sul pavimento della camera fertile del bosco:
Tutto intorno l’erba, il muschio e i germogli verde scuro del giacinto;
E sopra gli alberi, querce già vecchie quando il suo cinquantesimo antenato era
un cucciolo;
E distanti, nel giardino, sento le grida dei bambini.
La loro gioia è lontana come un sogno. È strano come comperiamo il nostro dolore
Per toccare cose che periscono, oziosamente, con gli occhi aperti;
Come diamo i nostri cuori a bestie moribonde che durano poche stagioni,
Senza curarci di ciò che facciamo quando lo facciamo; né vorremmo altro.
*L’introduzione, la scelta e la traduzione dei testi sono di Pierluigi Piscopo.
*Per approfondire la vita e l’opera di J.C. Squire si consigliano i seguenti
volumi:
P. Howart, Squire. ‘Most generous of men’, Hutchinson, 1963.
J. Smart, Shores of Paradise. The Life of Sir John Squire: The Last Man of
Letters, Troubador, 2021.
T. Rogers, a cura di, Georgian Poetry 1911-22: The Critical Heritage, Routledge,
2013.
K. Hale, a cura di, A Compilation of Georgian Poetry 1911-22, Watersgreen House,
2016.
In copertina: John Mansbridge, Ritratto di Sir John Collings Squire, 1933-34.
L'articolo “Diamo i nostri cuori a bestie moribonde”. J. C. Squire, il critico
più odiato degli anni Venti proviene da Pangea.
In un articolo pubblicato sulla “London Review of Books” nel marzo del
1993, Under the Sphinx, Alasdair Gray, l’istrionico scrittore scozzese che
l’anno prima aveva pubblicato Povere creature!, esalta, con il suo linguaggio di
fulmini e coltelli, un libro – o meglio, un poeta. Il libro s’intitola Places of
the Mind, lo ha scritto un ‘collega’ di Gray, Tom Leonard (1944-2018), noto, più
che altro, per le poesie – masticate nel dialetto di Glasgow – e gli studi
critici, tesi a dimostrare l’autentica autarchia della letteratura di Scozia. Un
paio di anni prima, aveva pubblicato un acceso poemetto contro la guerra in
Iraq, On the Mass Bombing of Iraq and Kuwait, commonly known as The Gulf War. In
quel libro – Places of the Mind –, “un’autentica opera d’arte più che uno studio
critico” (così Gray), Leonard racconta “The Life and Work of James Thomson”,
geniale, oscuro, misconosciuto poeta nato a Port Glasgow nel novembre del 1834 e
morto, quarantasettenne, a Londra. Abusava di oppio, fece della poesia –
drammaticamente – la propria ragione di vita; nelle rare fotografie ha la barba,
lo sguardo tra il rabbioso e il rassegnato. Secondo Gray, “la vita di Thomson
riflette lo stato della Gran Bretagna in modo più completo di altri autori della
propria epoca, ad eccezione di Gerard Manley Hopkins e di Thomas Hardy”.
L’opera più nota di Thomson, il poemetto The City of Dreadful Night (in Italia
ne esiste una versione a cura di Mili Romano, stampata da Panozzo nel 2000),
uscito in edizione definitiva a Londra, per Reeves and Turner, nel 1880, pare
abbia ispirato la “Unreal City” su cui si incardina La terra desolata di Thomas
S. Eliot, è dedicato To the memory of the younger brother of Dante, Giacomo
Leopardi, “Spirito vertiginoso, genio radicale, finito tragicamente”. A dire di
Gray, The City of Dreadful Night nasce sotto l’egida della Melancolia di
Albrecht Dürer:
> “L’Inferno secondo Thomson è la città moderna, dove il sole non sorge mai, la
> gente vaga insonne per le strade, priva di fede, speranza, amore… Shakespeare
> ha descritto un universo privo di senso ben prima di Thomson e con parole ben
> più memorabili, ma i suoi portavoce sono re folli, comunque, personaggi
> importanti, eroici. Gli abitanti della City di Thomson, invece, sono creature
> anonime, esseri cupamente stoici. Alcuni, rammemorano una vita in cui hanno
> cercato di fare del bene: risvegliatisi ‘in questa notte totale’ hanno capito
> che la memoria è un’illusione”.
Figlio di un maggiore della marina mercantile, madre profondamente religiosa,
sconfitta da un perpetuo senso di colpa, morta che lui aveva sette anni, Thomson
cresce al Caledonian Orphan Asylum, tenta la via del giornalismo, vive, in
sostanza, di stenti. Scrisse sul “Secolarist” e sul “National Reformer”, firmava
i suoi versi B.V., ovvero Bysshe Vanolis, in onore dei suoi miti, Shelley e
Novalis. George Eliot e Meredith riconobbero a Thomson le stimmate del genio;
l’autore non aveva modo – cioè: soldi – per farsi notare tra i club dei
letterati dell’epoca. Henry Stephens Salt – biografo di Shelley e di Thoreau –
nella nota su Thomson redatta per il Dictionary of National Biography, scrisse
di “uno spirito indomito congiunto a una nefasta malinconia”, di uno “zelo
ardente per la democrazia e il libero pensiero che si coagulava a un’ostinata
diffidenza nel progresso umano”. Disse che più che a De Quincey, la sua ricerca
lirica si legava a Heinrich Heine, che aveva tradotto.
James Thomson (1834-1882)
Di contrasto ai grigi orrori della vita ‘moderna’, Thomson si figurò un Egitto
dei sogni, proteso – come tutti gli esotisti dell’Ottocento, stretti tra Le
mille e una notte e le visioni degli antichi poeti persiani – verso un Oriente
che in lui, tuttavia, ha tinte dispotiche, cannibali (così almeno nella raccolta
postuma A Voice from the Nile, and Other Poems, 1882). Non si permise di avere
pace, tentò di credere, ma di Dio intravedeva soltanto le vertigini, le vette
feline di chi chiede tutto per quasi nulla, un refolo di quiete. A suo avviso, i
poeti dovevano sondare la disperazione – anche quando è rattenuta da muta
nostalgia – e i filosofi il mistero della morte.
La nota della Encyclopædia Britannica che lo riguarda mette in luce le debolezze
di questo ‘stile’: monotonia, palustri lungaggini, “mera retorica e verbosità”.
James Thomson – la cui forma eletta è il poema, un dire che sa di pilastro,
anacoresi da stilita –, in sostanza, è uno di quei poeti che riescono bene in
regesto antologico, in grado di riferirne l’eccezionalità: “Inutile classificare
questo poeta: la sua angusta ma solitaria altezza gli garantisce il ruolo di una
ben distinta originalità… Pur con i suoi limiti, il tempo dimostrerà che la sua
è un’opera straordinaria quanto unica”.
Anche in Italia era noto: Salvatore Rosati redige per la “Treccani” (edizione
1937) una nota tutto sommato esatta:
> “Temperamento ricco d’immaginazione ma con un vivo senso della realtà; mosso
> da elevate aspirazioni spirituali ma prostrato da una grave melanconia e dallo
> scetticismo verso ogni forma di umano progresso, il Thomson ha tratto da
> queste tendenze contrastanti una poesia cupa, fortemente drammatica,
> intimamente simbolica”.
Alasdair Gray ‘canonizza’ Thomson “Nel club delle rare anime capaci di
confrontarsi con il peggio, le anime depresse per cui la poesia agì come un
tonico. Se leggiamo Thomson con acume, scopriamo che del suo mondo fanno parte
Leopardi e Schopenhauer, Baudelaire, Melville, Thomas Hardy e l’autore
dell’Ecclesiaste”. Lo scozzese non ha sbagliato mira. Quanto a Leopardi, è stato
il nume totale di Thomson, che realizzò una traduzione mirabile – a detta dei
critici – delle Operette morali e dei Pensieri (gli Essays, dialogues and
thoughts di Leopardi a cura di Thomson uscirono soltanto nel 1905, per la cura
di Bertam Dobell).
Quanto a Melville, Thomson fu la bella lettura della sua vecchiaia. Era stato
l’oxfordiano Charles James Billson (1858-1932), altrimenti noto per una
scolastica traduzione dell’Eneide e per uno studio sulle tradizioni medioevali
di Leicester, a fargliene dono. Gli scrisse la prima volta nell’ottobre del
1884: Melville viveva ormai da semisconosciuto, sepolto nelle sue lugubri
riflessioni oceaniche – “Nessuno sembra sapere nulla del solo grande scrittore
di immaginazione che possa stare alla pari di Whitman su quel continente”, aveva
scritto Robert Buchanan –, i romanzi esauriti da anni. Chiedendogli notizie
“di altri miei libri” – White-Jacket, Clarel, Battle Pieces – gli fece dono dei
libri di Thomson. Il commento di Melville non si fece attendere:
> “Il vostro amico era un poeta genuino, se mai ve ne è stato. Quanto al suo
> pessimismo, per quanto io stesso non sia né pessimista né ottimista, tuttavia
> mi piace nei versi se non altro come risposta all’esorbitante fiducia,
> immatura e superficiale, che fa tanto chiasso ai nostri giorni, almeno in
> certi luoghi”.
Il rapporto epistolare tra i due durò qualche anno, concentrandosi quasi
maniacalmente sull’opera di Thomson. Nel poeta morto troppo giovane, spossessato
del successo, Melville riconobbe un altro se stesso:
> “Quanto al suo non aver ottenuto la ‘fama’, che significa? Non è per questo da
> meno, ma tanto maggiore. Deve esservi passato per la mente, come a me, che più
> la nostra civiltà avanza sulla linea attuale più a buon mercato diventa la
> ‘fama’, specie di tipo letterario. Questa specie di ‘fama’ una mia conoscenza
> burlona dice che può essere prodotta su ordinazione…”
>
> (H. Melville a J. Billson, New York, 20 dicembre 1885, in: H. Melville, Opere,
> a cura di M. Bacigalupo, Mondadori, 1991)
Da qualche tempo, anche come una reazione al ‘linguaggio’ del tempo, Melville
era tornato alla poesia. Pubblicava piccole placche, in tirature limitatissime
(venticinque copie): John Marr and Other Sailors esce dai torchi nel
1888; Timoleon, Etc. nel 1891. Forse la lettura di James Thomson, poeta
decentrato da una malia oscura, fiero della propria ricercata marginalità, lo
aveva rinvigorito, gli aveva conferito nuovo veleno lirico.
In cambio dei volumi di Thomson – compresa la raccolta di saggi al
vetriolo, Satires and profanities, anch’essa edita postuma – Billson avrebbe
voluto una fotografia di Melville. Il grande scrittore si scherma – “mi avete
chiesto una fotografia: non ne ho” –, poi parla di Blake – “Mi fa piacere
apprendere che Thomson era interessato a William Blake” – spalancando lo spazio
di un incontro. Gli altri si occupino pure di fotografie, meri calchi del
transitorio, Melville imbarcava una ciurma di poeti esagitati per cacciare la
Balena Bianca nell’altro mondo. Cosa può il tempo di fronte a questo sgarbo?
***
Da Una voce dal Nilo
Vengo da monti diversi, vivo sotto
stelle che non si riflettono su queste acque;
vago per vasti regni, per cieli capodoglio scorro
oltre dune arabe e libiche, per immergermi
nel grande Mare di Mezzo ed è mia
questa terra d’Egitto. Tutto è mio:
la palma e la colomba che la elegge a tana
i campi di grano e ogni fioritura
la pazienza del bue e il coccodrillo
l’ibis l’airone il falco
il loto e i papiri in falange
le barche dalle vele oblique
o le ripide che spezzano ogni ormeggio.
Perfino i volti possenti dei templi
con le colonne e le enormi effigi,
le piramidi e Memnone e la Sfinge
il Cairo e le città dei Greci
come Menfi e Tebe dalle cento porte
Sais e Dendera retta da Iside;
se sono cresciuti è perché li ho nutriti.
Se nego il mio flusso, carestia
devastante miete vittime tra gli uomini
che nulla hanno da mietere
e orrore e languore sgorgano ovunque;
quando, retrattile, ho deviato altrove
i miei eterni fiumi, gli antichi reami
si sono inariditi, fama infame li affligge,
ricoperti dalle sabbie del deserto:
scompaiono sepolti e dov’era oro
ora è silenzio solitudine morte.
L’esattezza del silenzio, mentre trottano
i venti sopra la desolazione, implacabile.
*
Da Despotismo temprato dalla dinamite
I miei schiavi, gente dei campi, lavorano
senza fine e dormono, da fatica sfiancati.
Non sperano in un mondo migliore
eppure, disperati, la morte non li avvinghia nell’incubo.
Si accontentano del loro scarso cibo, in pace –
con terrore guardo al giorno della mia incoronazione.
I palazzi sono la mia prigione;
in ogni cibo intravedo il veleno;
ovunque mi muovo, è timore
di esplosione, istantanea devastazione;
con terrore, ogni giorno, ogni notte, con
moltiplicata paura, guardo al giorno della mia incoronazione.
*
Da The City of Dreadful Night
A volte soltanto la rabbia, fredda
può mostrare gli sfregi della verità
nuda, spoglia di ogni inganno:
i falsi sogni, i falsi moniti,
le futili maschere della moina giovinezza
e in una specie di indocile innocenza
plasmare il dolore in vita, per quanto rozza.
Di certo, non scrivo per i ragazzi pieni
di speranze, per chi crede nella felicità
e pascola e ingrassa tra gli spettacoli dell’esistere
senza provare dubbio, senza sentire carenza e carestia
non scrivo per gli spiriti buoni, allattati
da un Dio che li santifica e li ama
né per i saggi che vedono il paradiso in terra.
Per costoro non scrivo: non potrebbero
neppure leggere questo scritto – continuino
pure a prosperare nella loro giustizia
su questa dolce terra, veleggino
pure nei loro appropriati cieli. Queste parole
appartate importano ai desolati, ai rosi
dal destino, a quelli che desiderano morte.
Qualche stremato vagabondo, forse,
in questa città di tremende notti
capirà il mio dire, franerà in un fremito
compagno nella disastrosa lotta:
“Soffro, muto e solo, eppure un altro
ulula comune dolore e mi fa sentire
fratello sugli stessi sentieri selvaggi”.
Triste fratellanza, rivelo forse
misteri imbavagliati dal tempo?
No, nessun segreto può essere
rivelato a chi non lo ha visto.
Chi non è iniziato ai presagi
non può comprendere il verbo
che continuo a urlare.
*
Da Nuda divinità
D’improvviso, le bestie si accucciano;
gemono, sopraffatte; i popoli
cadono in ginocchio davanti
alla dea feroce e splendida
offesa per incuria;
flebile preghiera mormorano
inarticolate disperazioni
finché il suo aspetto altero
non si svolge in gentilezza.
*
Confessione
La Chiesa si erge laggiù, oltre il frutteto:
con quanta nostalgia contemplo le sue guglie!
Mistero eletto dal crepuscolo che si dissolve
in un fuoco dorato, come tenue incenso
dilaga all’alba e scava i cieli.
Quando il cuore sprofonda nel baratro
più fondo, un sussurro mi rincuora: è bello
entrare in chiesa, inginocchiarsi, pregare
per le persone che amiamo.
Ogni incredulità svanisce, la pace
scorre in noi come la campana nel Sabato.
L’anima risponde: Il buon riposo accade
quando appoggi il capo sul petto della Verità.
*
Da Il filosofo
Come vendicare la propria alterità?
Occhi che mendicano approdo, sondano
la superficie della terra, ascendono ai cieli,
investigano e ogni cosa si arrende a questo
arrembaggio: vuoto avvolge tutto
un fuoco divampa e sembra un fiore.
Perfora la bellezza e vede ossa
reticolo di vene, l’orrore della carne
sotto la pelle perlacea, giovane:
varca lo Spazio, vaga nella nebbia che tutto
avvolge, nuota nelle acque del Tempo nel nero
abisso; capisce che la Vita è un sogno
nel sonno eterno della Morte.
James Thomson
*In copertina: un acquerello di Victor Hugo
L'articolo “Di certo, non scrivo per chi confida nella felicità”. Storia & versi
di James Thomson, il poeta malinconico proviene da Pangea.
Il libro fu presentato il 20 ottobre del 1882, al civico 128 della
trentaquattresima strada, New York. Era la casa di un dentista, John Ballou
Newbrough; il secondo nome, Ballou, gli era stato dato in memoria di Hosea
Ballou, il teologo della chiesa universalista. Newbrough era nato il 5 giugno
del 1828 in Ohio, nella fattoria di famiglia; il padre, William, era un uomo
duro: sfamava i sei figli con i frutti della sua terra. Abile coltivatore,
faceva scoccare la cinghia sul corpo di John per sedarne le ‘visioni’: il
ragazzino era dotato del dono della profezia. Si dice avesse fatto fortuna in
California, setacciando oro, poco più che ventenne. Aveva studiato al Cincinnati
Dental College: lo zio dirigeva un manicomio, la madre, di origine svizzera,
aveva un cuore trepidante, propenso al fervore mistico.
Ma torniamo all’ottobre del 1882. Il libro aveva un titolo-totem, allo stesso
tempo enigmatico e astruso, Oahspe: nel glossario annesso al tomo, l’autore
spiegava che il neologismo voleva dire “Cielo, terra (corpo) e spirito. Il
tutto; la somma della sapienza corporale e spirituale”. Il tutto – e il nulla.
Il sottotitolo dell’Oahspe amplificava le nebbie. Il libro era presentato come
“una Nuova Bibbia” che divulgava le “Parole di Jehovih e dei suoi Angeli
Ambasciatori”. Era lì squadernata – così sproloquiava il titolo –: “La sacra
storia del dominio degli esseri celesti e inferi sulla terra da ventiquattromila
anni con una sinossi della cosmogonia dell’universo, la creazione dei pianeti,
la creazione dell’uomo, parole inaudite intorno alla gloria e all’opera degli
dei e delle dee degli eterei cieli con i nuovi comandamenti di Jehovih
all’uomo…”. Il libro era stampato a New York e a Londra da una fantomatica
Oahspe Publishing Association.
Non era il primo libro pubblicato da John Newbrough. Nel 1855 aveva provato –
con poco successo – il romanzo: The Lady of the West, or the Gold
Seekers narrava una storia d’amore all’epoca della corsa all’ora. Era tornato
quell’anno negli States dopo aver viaggiato per il globo; l’amore con Rachel
Turnbull, la sorella del suo socio in affari, durò un ventennio, per l’arco di
tre figli. John, che aveva aperto uno studio dentistico e New York, finì per
invaghirsi della sua assistente, Frances, di trent’anni più giovane, da cui ebbe
una figlia, Jone ‘Justine’: la moglie lo cacciò di casa. Era un uomo di genio,
che deteneva diversi brevetti: uno di questi, per un fissante per denti molto
più economica di quello in vogo, lo fece scontrare con un colosso, la Goodyear
Rubber Co. Inventò un ventilatore, un attrezzo per esercizi ginnici, un mezzo
ferroviario, un metodo per costruire denti artificiali. Non è raro, negli
States, che una mente ‘scientifica’ si associ all’eccedenza mistica.
Quanto all’Oahspe, aveva cominciato a redigerlo nel 1880, ascoltando le ‘voci’,
secondo i criteri della scrittura automatica. Così, in una lettera spedita nel
1883 al direttore della rivista spiritualista “Banner of Light”, spiegò
l’evento:
> “Implorai la luce del Cielo. Non volevo più comunicare con amici o parenti,
> desideravo imparare qualcosa del mondo spirituale, cosa facessero gli angeli,
> quale fosse il destino dell’universo… Mi fu detto di procurarmi una macchina
> per scrivere, di scrivere come se suonassi un pianoforte. Mi applicai per
> imparare, con scarso successo… Una mattina, una luce colpì le mie mani, gli
> angeli che fino a quel momento avevano cercato di istruirmi si avvicinarono
> alla macchina scrivendo con grande vigore per circa quindici minuti. Mi fu
> imposto di non leggere ciò che era scritto, obbedii con riverenza. La mattina
> dopo, poco prima dell’alba, lo stesso potere tornò e scrisse, di nuovo… Per
> cinquanta settimane le cose accaddero in questo modo, ogni mattina, mezz’ora
> prima dell’alba. Poi tutto finì e mi fu detto di pubblicare il libro chiamato
> ‘Oahspe’”.
Il libro era costellato da geroglifici, opera dell’autore – o meglio, degli
autoritari autori del testo – ad amplificare l’astrale stranezza di quel
linguaggio ignoto. La “Nuova Bibbia” procedeva per novecento pagine, suddivisa
in diversi libri: in uno di questi, First Book of God, si parla di “una
generazione di Luce scaturita da Zarathustra”, che avrebbe dato vita all’impero
cinese, deviando dagli insegnamenti del creatore:
“Ad Han fu chiesto: Un uomo non deve adorare l’Invisibile? E lui rispose:
Adorare una pietra è meglio, perché la vedi.
Han disse: Non adorate con le parole, ma con le opere; la preghiera non è che il
grido della propria debolezza.
Se esiste una Luce invisibile, farà a suo modo: che senso ha pregare? Riti e
cerimonie in Suo favore sono mania di folli. Riti e cerimonie per i nostri
antenati sono scusabili. Le loro anime fluttuano, i riti le placano”.
Un giornalista del “New York Times” accorse all’evento. Scrisse che il “dottor
Newbrough è uno spiritualista da circa dodici anni. Nativo dell’Ohio, pratica
come dentista”. Scrisse di un uomo “dalla stazza imponente, con occhi scuri e
penetranti, che si muove con peculiare lentezza”. All’evento erano convenute
diverse persone. Il giornalista sfogliò una copia del libro: al Book of
Jehovih segue il Book of Sethantes, il Book of Ah’shong, Son of Jehovih, il Book
of Aph. La struttura dell’Oahspe è labirintica, spesso contraddittoria: al
creatore assoluto – Jehovih, che è poi un modo per dire Jahvè o Geova – seguono,
in gregarie dinastie, divinità minori, ‘cadute’, e cosmogonie in disastro. I
libri di dottrina morale – Book of Judgment; Book of Discipline – che predicano
un generico irenismo, una generica ‘ricerca interiore’, una super-religione che
superi secolari dissidi, una ‘forma’ che sovrasti i formalismi rei di scisma e
di guerre religiose, promuovendo una dieta ferrea, vegetariana, sono meno
interessanti dei libri ‘mitologici’. In uno di questi, il Book of Saphah, si
accenna a regni perduti – Pan, “un continente nell’Oceano Pacifico, sommerso
circa 25mila anni fa” – e a linguaggi smarriti. Nella lingua dell’Oahspe la
facoltà profetica, “la capacità di vedere o udire gli angeli”, si dice Su’is.
Il giornalista non virò dal vero: “A un osservatore, questa Bibbia pare una
rivisitazione di testi indiani e fedi semitiche. Lo stile è in parte moderno in
parte ancestrale, quasi che la Bibbia di Re Giacomo e quella cristiana si siano
fuse nell’inglese dei nostri giorni”. Il pezzo uscì sul “NY Times” tra i fatti
curiosi, in taglio basso; titolo: “Un volume ‘ispirato’ racconta 24mila anni di
storia”. Non è inutile ricordare che la Società Teosofica di Madame Blavatsky
era nata proprio a New York qualche anno prima, nel 1875. Con qualche talento,
John Newbrough aveva miniato il suo libro regolandosi sui testi gnostici, sui
dialoghi buddisti, sul rigore assertivo della rivelazione coranica.
La “Nuova Bibbia” ebbe un suo, pur modesto, esito. Nel 1884 Newbrough, insieme a
un facoltoso mecenate del New England, fondò una colonia a Las Cruces, nel New
Mexico; gli si fecero attorno una ventina di accoliti. Edificarono scuole per i
bambini orfani. Chi confida nell’Oahspe come testo chiave della propria ricerca
interiore – Newbrough in questo è chiaro: il libro che gli è stato ‘rivelato’
deve essere ‘superato’ dalla singolare capacità di ciascuno – si
chiama Faithist. Così è spiegato il neologismo nel glossario redatto da
Newbrough: “Faithist è colui che ha fede in Jehovih, l’essere che è al di sopra
e all’interno di ogni cosa; è colui che lavora per entrare in sintonia con
Jehovih, operando per il bene del prossimo, sforzandosi di abbandonare
l’egoismo”.
La comunità di Las Cruces, “Shalam Colony”, fu decimata da un’epidemia di
influenza, nel 1891. Anche il maestro, Newbrough, morì, era il 22 aprile.
Sporadici gruppi di Faithist nacquero nello Utah e in California, a Anaheim, in
Colorado e in Oregon; alcuni si coalizzarono in Olanda e in Australia. Un
“Circle of Jehovih’s Word” promuove ancora oggi l’Oahspe come testo per la
liberazione interiore, con parole di fatua intensità: “L’Oahspe instilla
insegnamenti che equilibrano il mondo visibile con quello invisibile, come la
sapienza dei Nativi sul rispetto degli spiriti della terra, del cielo e delle
acque. Insegna che la vita è interconnessa e che gli esseri umani hanno la
responsabilità di vivere in pace tra loro e con il mondo che li circonda”.
Dall’Oahspe hanno tratto un lezionario e un salterio che viene ‘pregato’ ogni
giorno.
L’aspetto ‘etico’, tuttavia, è infimo rispetto a quello ‘visionario’, il più
interessante dell’Oahspe. Più che alla Bibbia – di cui scimmiotta il ritmo –
l’Oahspe, nei sui lati fecondi, rimanda a William Blake, ai canti persiani
reinventati dagli orientalisti inglesi, è il preludio ai racconti magmatici di
H.P. Lovecraft. Allo stesso modo, l’Oahspe fonde il talento ‘commerciale’
statunitense all’esotismo europeo, la chiromanzia e il brevetto, l’estremo
razionalismo con l’assoluta irrazionalità, Edgar Allan Poe e l’esotismo di
Jean-Léon Gérôme. Per queste ragioni, l’Oahspe, testo che altrimenti fluttua tra
la dimenticanza e l’oblio, affascinò un poeta come David Gascoyne, che ne disse
come del “Libro più stupefacente mai scritto in inglese” (in: D.
Gascoyne, Selected Prose 1934-1996, Enitharmon, 1998). L’esagerazione era
appropriata al suo carattere ‘apocalittico’: sodale – per un po’ – dei
Surrealisti, seguace di Benjamin Fondane – a cui faceva filosofiche visite
notturne – era ritenuto un redivivo Rimbaud e aveva tradotto, a tradimento,
Friedrich Hölderlin. Usava l’Oahspe come oppiaceo lirico, per galvanizzare i
suoi versi, tra l’altro bellissimi – per un po’, si credette investito di un
compito messianico, per un po’ lo reclusero al Whitecroft Hospital, sull’Isola
di Wight, dopo l’ennesimo crollo mentale. Del dio, nel libro, il poeta riconobbe
la carcassa: squittiva il vento in quell’ossario, faceva bei suoni, che
inorgoglivano le orecchie, davano in sfoggio d’aquile. Era sufficiente.
***
Oahspe
1 Il Creatore, Jehovih, creò l’uomo e gli disse: Affinché tu sappia che opera
della Mia mano sei, sapienza ti ho concesso e potere e dominio. Questa fu la
prima era.
2 Ma l’uomo era fragile, camminava sul ventre e non capiva la voce
dell’Assoluto. E Jehovih chiamò i suoi angeli, gli antichi della terra, e disse
loro: Andate, sollevate l’uomo, che sia eretto, e consegnatelo al sapere.
3 E gli angeli discesero dal cielo alla terra e sollevarono l’uomo. E l’uomo
errò sulla terra. Questa è detta seconda era.
4 Jehovih disse agli angeli che scortavano l’uomo: Ecco, l’uomo si è
moltiplicato sulla terra. Radunate gli uomini, insegnate loro a vivere in città,
a forgiare nazioni.
5 E gli angeli di Jehovih insegnarono ai popoli della terra a vivere insieme in
città e nazioni. Questa è la terza era.
6 Fu in quel tempo che la Bestia (il sé) si impennò davanti all’uomo e gli parlò
dicendo: Possiedi ciò che vuoi perché tutto è tuo e ti obbedisce.
7 E l’uomo obbedì alla Bestia e la guerra dilagò nel mondo. Questa è la quarta
era.
8 Ma l’uomo ammaccato nel cuore si ammalò e reclamò la Bestia e gli disse: Tu
hai detto: Possiedi ciò che vuoi perché tutto è tuo e ti obbedisce. Ora, guerra
e morte mi accerchiano. Ti prego, insegnami la pace!
9 Ma la Bestia disse: Non a portare la pace sulla terra sono venuto, ma a
portare la spada. Sono venuto a mettere discordia tra il figlio e suo padre, tra
la figlia e sua madre. Qualunque cosa tu vuoi per cibo, prendila, sfamati, che
sia carne o pesce, non pensare al domani.
10 E l’uomo mangiò carne e fu carnivoro e l’oscurità lo avvolse: non udì più la
voce di Jehovih e smise di credere in Lui. Questa è la quinta era.
11 E la Bestia spalancò le sue quattro enormi teste e fu padrona della terra. E
l’uomo si prostrò, e l’uomo si mise in adorazione.
12 E i nomi delle quattro teste della Bestia erano: Bramino, Buddista,
Cristiano, Musulmano. E si divisero la terra, la spartirono fra loro e scelsero
eserciti per mantenere le proprie proprietà.
13 I Bramini avevano sette milioni di soldati, i Buddisti venti milioni, i
Cristiani sette milioni, i Musulmani due milioni – loro mestiere era uccidere
gli uomini. E l’uomo dedicò parte della vita alla guerra e alla proliferazione
di eserciti e l’altra parte alla dissolutezza – era schiavo della Bestia. Questa
fu la sesta era.
14 Jehovih disse all’uomo desisti dal male, ma l’uomo non lo ascoltava.
L’astuzia della Bestia aveva trasformato la carne dell’uomo e la sua anima si
era nascosta in una nube – l’uomo amava il peccato.
15 Jehovih allora chiamò i suoi angeli e disse: Scendete ancora sulla terra,
dall’uomo, che ho creato perché dalla sua terra traesse godimento e dite
all’uomo: Così dice Jehovih:
16 la settima era è prossima. Il tuo Creatore comanda la conversione: da uomo
carnivoro e violenta diventa erbivoro, vivi in pace. Le quattro teste della
Bestia saranno eliminate, la guerra sedata
17 i tuoi eserciti saranno sciolti e da quel momento non esisterà più la guerra
perché questo comanda il tuo Creatore.
18 Non avrai alcun Dio né Signore né Salvatore oltre a Jehovih, colui che ti ha
creato! Adorerai soltanto lui, di ora in ora, da ora e per sempre. Io precedo le
mie creazioni, sono autosufficiente
19 e a tutti quelli che si separano dal dominio della Bestia, stipulando patti
con me, darà il mio regno
20 e costoro saranno detti eletti: il patto e le opere li faranno miei sulla
terra, Fedeli saranno chiamati,
21 ma chi ha stipulato patti con la Bestia, sarà chiamato Uziano che significa
distruttore. E d’ora in poi ci saranno due categorie di genti sulla terra:
Fedeli e Uziani.
22 E gli angeli del cielo discesero sulla terra, apparvero all’uomo, a
centinaia, a centinaia di migliaia, e parlarono come parla un uomo, e scrissero
come scrive un uomo, insegnando le parole dette da Jehovih.
23 E nel trentesimo anno, gli Ambasciatori delle angeliche schiere rivelarono
all’uomo, nel nome di Jehovih, i Suoi regni celesti; resero note le Sue superbe
creazioni per la resurrezione dei popoli della terra.
24 Oahspe, immacolato libro, insegna ai mortali come ascoltare la voce del
Creatore e vedere i Suoi cieli, nella consapevolezza, mentre sono ancora vivi;
che conoscano il luogo e la condizione che li attende dopo la morte.
25 Né tali rivelazioni dell’Oahspe sono del tutto nuove ai mortali: le stesse
cose sono state rivelate a molti che vivono a grande distanza l’uno dall’altro,
privi di contatti tra loro.
26 Poiché questa luce è onnicomprensiva, abbraccia cose corporee e spirituali,
ed è chiamata era del Kosmon. Poiché si riferisce alla terra, al cielo e allo
spirito si chiama Oahspe.
*
Libro di Osiris, Figlio di Jehovih
1 E ora giunse Osiride, Figlio di Jehovih. A lui, sul suo trono a Lowtsin,
nell’etereo mondo, dove il suo regno per centomila anni aveva illuminato molte
stelle corporee, giunse la Voce, Jehovih il Grande, lo Spirito di ogni cosa, e
disse:
2 Osiride! Osiride: Figlio mio, lascia gli immortali mondi, artiglia la peritura
terra nel tuo volo obliquo; e proclama, con lo scettro levato, te stesso, l’Uno,
il Dio che comanda. Come un padre indulgente cammina accanto al figlio,
guardandolo con tenerezza e offrendogli i suoi consigli, così io, tramite i miei
Dèi e i miei Capi, ho persuaso la rossa stella per molte migliaia di anni. Ma
come un padre saggio si rivolge al figlio reietto, ormai in età, e gli ordina
cosa deve o non deve fare, così io, tramite te, devoto figlio, stendo la mano
sulla terra e sui suoi cieli.
3 Giace sepolta nell’abisso, resa all’anarchia, manovrata da falsi dèi e falsi
principi, che devastano con la guerra i suoi cieli e riversano sul suo suolo
milioni di spiriti della tenebra, che soltanto il crimine sazia. Come tronchi
alla deriva su un oceano che ribolle, così gli spiriti dei morti si levano dalla
terra al cielo per essere nuovamente precipitati.
[…]
9 Come una stella si nutre del mutare delle stagioni, così Jehovih guidò l’orda
dei suoi Serpenti per conferire agli eterei regni una vita infinita, che
sappiano la gioia del mutamento, la gloria dello spirito.
[…]
11 …Ecco, la razza dei Ghan, pianificata da Jehovih fin dalla fondazione del
mondo, ora si erge trionfante sulla terra.
12 Non come agnelli sono i Ghan, ma indomiti leoni, nati per la conquista, con
seme di sapienza che ragiona e disarticoli ogni cosa, che ha fede e potenza – ma
non pone fiducia in Jehovih. Come un uomo che ha due figli, il primo vuoto di
passioni, esangue, l’altro incessante in malizia, desideroso di delitti,
delirante in distruzione, così sono I’hin e Ghan. Quando muoiono, gli I’hin
vanno come agnelli là dove gli è ordinato; i Ghan, ancora pieni di ira, si
ostinano a deridere ogni potere. Anime ben forgiate, maestose a vedersi, tornano
sulla terra e fondano un regno celeste nell’oscurità – vendetta trama nei loro
atti.
13 Con fragore distruggono i deboli regni dei Signori, li spogliano dei loro
sudditi, proclamano il cielo in terra. Per questo, le sventurate anime dei cieli
inferiori, sedotte, fuggono la resurrezione per tornare dai mortali, e vengono
fissati in feri, chiusi a ogni luce.
14 E i mortali si abbandonarono a compiere la volontà degli spiriti delle
tenebre, facendo desolazione della festa.
*
Libro della Disciplina
Discorso di Dio sull’amore
1 E verranno a chiederti: Cosa ci dici di chi è sposato e ha figli? Ameranno
forse costoro così tanto la comunità e il regno di Jehovih da mettere da parte
il loro amore filiale, affidando i loro figli a qualcun altro, giorno e notte?
2 Tu risponderai loro: No, in pienezza il loro amore si manifesta nei piccoli. E
lo testimonia chi ha figli quando adotta un trovatello o un orfano, inglobandolo
nella famiglia, senza parzialità. Questo è il più alto carisma dell’uomo: essere
imparziale nell’amare.
3 Non per limitare l’amore ma per moltiplicarlo, come fa Dio, che abbraccia
tutte le genti; così i vari membri della fraternità lavoreranno con Dio e i suoi
santi angeli, per gloria di Jehovih.
*In copertina: uno dei disegni che costellano Oahspe
L'articolo “E gli angeli del cielo discesero sulla terra”. Esasperato
esoterismo: intorno all’“Oahspe”, una nuova bibbia proviene da Pangea.
La prima, autentica edizione italiana integrale di Foglie d’erba uscì nel 1950,
a cura di Enzo Giachino – Einaudi la pubblica ancora. L’edizione del 1907 era –
giustamente – definita “antiquata”: il traduttore, Luigi Gamberale, si era volto
allo studio di Whitman su consiglio di Pascoli. Il libro stampato da Einaudi, di
biblica consistenza – quasi mille pagine, comprensive di una selezione
di Prose whitmaniane –, ha un sovrappiù in commozione: quell’anno, a fine
agosto, era morto, per scelta, all’Hotel Roma di Torino, Cesare Pavese. Proprio
a lui, “che alle pagine del poeta americano fu legato da sensibile amore fin
dagli anni della giovinezza”, è dedicata quella traduzione. Pavese si era
laureato Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman nel 1930; in qualche
modo – basta leggere Lavorare stanca – voleva essere il Whitman delle Langhe. Il
più acuto lettore di Foglie d’erba in Italia resta tuttavia Dino Campana: il
formidabile poeta cita Whitman a sigillo dei Canti Orfici; “Leaves of Grass è
talmente importante da essere l’unico libro che porta con sé in Argentina”
(Gianni Turchetta, in: D. Campana, L’opera in versi e in prosa, Mondadori,
2024).
Enzo Giachino, nella sua succinta introduzione, registra i temi fondamentali
di Foglie d’erba: il rapporto consustanziale tra opera e autore, il canto del
corpo liberato e della libertà democratica, l’io lirico che impregna di sé ogni
singolo incanto del creato, dal più umile prato al presidente Lincoln; quella
scrittura dionisiaca. L’idea, soprattutto, del libro totale, del libro-tutto:
> “Il desiderio di dare finalmente al paese il suo poema nazionale, la sua
> Bibbia poetica fu certo uno dei motivi e delle illusioni che indussero il
> Whitman a comporre le Foglie d’erba”.
La prima edizione di Foglie d’erba – alquanto diversa dall’ultima, la
cosiddetta deathbed edition, allestita in punto di morte, nel 1892 – era uscita
quasi un secolo prima, nel 1855: nella tonante ouverture, il poeta lega
inscindibilmente il poema alla nazione,
> “L’anima della più grande, della più ricca, della più fiera nazione può ben
> avanzare a mezza strada per incontrare l’anima dei suoi poeti”.
Foglie d’erba – con quel titolo stagionale, di vita che viene e muore e rinasce
– è “l’America” e “gli Americani”; quanto a Whitman, egli è al contempo Omero,
Shakespeare e Mosè. Che paradosso: un secolo dopo la prima edizione di Foglie
d’erba, Thomas H. Johnson edita, in tre volumi, i Poems of Emily Dickinson;
Emily era morta nel 1886. Da allora, da settant’anni, gli Stati Uniti d’America
hanno i loro libri-titani, i tomi-totem, la loro Iliade e la loro Odissea, la
Teogonia e l’Edda.
Già Giachino aveva avvisato che “l’arte del Whitman è ardua”, che occorre
indagarne, oltre il “primo senso evidente… la segreta armonia che si cela e si
svela”. Sostanzialmente, è il concetto proposto da Alberto Cristofori, che ha
curato una nuova, colta versione del Canto di me stesso (Edizioni Low,
2025) insistendo sulla manicale consapevolezza di Whitman, tutt’altro che “poeta
ingenuo, spontaneo”. D’altronde, Harold Bloom, l’insigne critico americano,
strenuo difensore del Canone occidentale, insegnava a leggere Whitman come un
oracolo. A suo dire, “Whitman è l’alto sacerdote di quella che chiamo Religione
Americana, una bizzarra fusione di Entusiasmo e Gnosticismo”. Bloom ha scritto
che Foglie d’erba è il libro perfetto per l’isola deserta, quello da cui
rifondare un mondo; ha scritto che
> “Whitman è al tempo stesso Adamo e Cristo, il Vecchio Adamo e il Nuovo… un
> poeta universale che sopravvive alle traduzioni e alle revisioni radicali”.
In Italia, non si contano le traduzioni di Whitman, il poeta che si
diceva untranslatable; in parte le ha conteggiate Cristofori, che traduce i
versi più noti del poeta in questo modo: “Il falco maculato scende in picchiata
e mi accusa,/ si lamenta delle mie chiacchiere e dei miei indugi.// Anch’io non
sono affatto domato, anch’io sono intraducibile,/ Faccio risuonare il mio
barbarico yawp sopra i tetti del mondo”. Giachino, al di là di vetuste
variazioni ornitologiche (il “falco maculato”, the spotted hawk, è per lui una
mistica “aquila grigiolata”), traduce allo stesso modo; io continuo a preferire
la versione di Alessandro Ceni, il più autorevole poeta italiano vivente (è da
poco uscita per Crocetti la raccolta della sua opera intera, I bracciali dello
scudo), dotata di genio eccentrico. Yawp, ad esempio, viene reso con un
intrepido – e bellissimo – “graculio”: andate a stanarne il
significato (di Foglie d’erba Ceni sceglie “la prima edizione del 1855”,
Feltrinelli, 2012).
È impossibile misurare la presenza di Whitman nella letteratura occidentale:
il Song of Myself ha letteralmente mutato il modo di scrivere in versi, è come
passare dal Giurassico al Quaternario, è uno spostamento dei continenti
grammaticali. Nel 1909 Ezra Pound stringe “un patto” con Walt Whitman (“Fosti tu
ad abbattere il nuovo legno,/ Ora è tempo di intagliarlo”); nel 1955 Allen
Ginsberg vede l’ombra di Whitman, lonely old courage-teacher, in un supermarket
californiano. Jorge Luis Borges – che nel 1969 aveva curato un’edizione
di Foglie d’erba – fu afflitto da un’ossessione per Whitman. Lo affascinava –
come è ovvio – l’idea del “libro dei libri che li reclude tutti”, del “libro
assoluto”, ma soprattutto lo sdoppiamento di Whitman: a suo dire – lo scrive
nella Nota su Walt Whitman pubblicata in Altre inquisizioni – l’eroico
protagonista del Canto di me stesso non ha nulla a che fare con il suo autore,
“il modesto giornalista Walt Whitman, nativo di Long Island”, a tal punto che
“Passare dall’orbe paradisiaco dei suoi versi all’ispida cronaca dei suoi giorni
costituisce una transizione melanconica”. Gli dedicò una poesia, Camden, 1892:
il poeta è sul ciglio della morte, “quasi/ non sono, tuttavia i miei versi
ritmano/ la vita e il suo splendore”.
Atletico, carnale, sorridente, dal 1873 Whitman era stato falciato da paralisi:
a quegli anni risalgono le fotografie del vegliardo con la lunga barba bianca e
il mitico ritratto di Thomas Eakins, pittore esaltato dal nudo e dallo
scandalo. Durante il tour americano, anche Oscar Wilde fece visita al poeta,
rattrappito nel corpo ma non nell’animo, a Camden, New Jersey. “È l’uomo più
umile e più potente che abbia mai incontrato in tutta la mia vita”, dichiarò
all’“Evening Star”, era il gennaio del 1882 (insieme a una mole di documenti
whitmaniani, l’incontro tra Wilde e Whitman è raccolto in: W. Whitman, Non
esiste diavolo peggiore dell’uomo. Interviste, De Piante, 2022). “Mi consideravo
invulnerabile”, gli sussurrò il poeta, ormai crisalide di se stesso.
“Uomo: come erba i tuoi giorni”, dice il Salmo 103. “Io attraverso la morte con
chi muore/ e la nascita con i bambini appena lavati/… Sono l’amico e il compagno
della gente, immortale e insondabile come me” (traduzione di Cristofori), canta
Whitman, il poeta che fu Genesi. Già morto mille volte in mille uomini e
migliaia di volte rinato, dicono che il poeta morì il 26 marzo del 1892. Il
cielo era curvo, rade le nubi – seppellirlo fu inutile. Inutile rintracciare il
poeta tra feretri e lapidi e studi: bastava passeggiare nei prati per sentirne
l’odore. Ineludibile – eterno.
L'articolo “Io sono intraducibile”. Walt Whitman, il poeta titano proviene da
Pangea.
Di scienza, Rainer Maria Rilke parlò sia con Rudolf Kassner che con Paul Valéry.
Questi ultimi coltivarono un interesse profondo verso le rivoluzionarie teorie
comparse agli albori del ventesimo secolo. Relatività e meccanica quantistica,
dunque, pervennero al poeta nella forma di dialoghi evaporati nel tempo. Sul
livello di comprensione che ne ebbe, l’unica testimonianza diretta – quella di
Kassner – restituisce un responso severo:
> “non capì nulla degli aspetti concreti e del tutto discutibili della teoria di
> Einstein più di quanto non capissero la maggior parte dei lettori di giornali,
> riviste e opuscoli all’inizio degli anni Venti”.
Aggiunge poi, a conclusione di una serie di incontri:
> “Lo vidi per l’ultima volta per tre giorni; sicuramente la conversazione si
> rivolse anche alla teoria della relatività, e sicuramente mi sarei accorto se
> avesse fatto un’affermazione che tradisse qualcosa di più della semplice
> curiosità per qualcosa di curioso”.
Ma si lascia sfuggire, in ultimo, un:
> “solo che guardava l’incomprensibile con il suo occhio di poeta plastico.
> […]”.
Appesa a quella timida dubitazione, che cede il passo ad una remota ipotesi
contraria, sta il mistero della prova smarrita dalla storia. Bisogna, allora,
aprire un varco alle parole che, come gocce di pioggia, cadono dallo sconfinato
cielo della sua poesia e dei suoi epistolari. Lì, dove precipitano ed increspano
le pozzanghere delle nostre coscienze, un’introiezione profonda emerge e pare
replicare, nel verbo, le regole delle fisiche cui obbediscono l’infinitamente
grande e l’infinitamente piccolo. Non una mera somiglianza metaforica, ma
un’identità di strutture di base essenziali, che siritrovano in una insperata
unità d’intendimento.
*
Il 22 febbraio 1923, rivolgendosi a Ilse Jahr, Rilke scrive:
> “c’è un’incredibile discrezione tra noi, e dove un tempo era vicinanza e
> penetrazione, ora si tendono nuove distanze, come nell’atomo, che la nuova
> scienza anche comprende come un universo in piccolo. L’afferrabile se ne va,
> si trasforma, invece del possesso s’impara la relazione, e nasce un’anonimità,
> che deve cominciare a sua volta da Dio, per essere perfetta e senza scampo”.
Arcane consapevolezze rimuginano come
> “‘il moto continuo’ che accade spontaneamente e dappertutto, in ‘ogni vuoto’…
> attivo ‘centro di forze’ […]; la vivente forza del divenire è imperitura, è
> l’incomprensibile madre. L’incomprensibile madre è radice del tutto; tessendo
> continuamente non ha bisogno di impulso”.
Una concezione moderna, coerente con le più recenti teorie sulla nascita
dell’universo filtra, qui, e parla di origini tratte dalla perturbazione interna
di un vuoto-pieno, più che da una deflagrazione soprannaturale.
Prospettive avvedute dei fenomeni scientifici e delle loro componenti elementali
echeggiano nei versi della poesia Gong:
> “Risonanza, non più con l’udito
> misurabile. Come fosse il suono
> che tutt’intorno ci trascende
> una maturità dello spazio”
Risonanza – è campo perenne di forze interagenti e confliggenti, muro di suoni e
silenzi, nota e pausa di uno spartito, alternanza di vita e di morte che, in
perpetuo moto, genera mondo e lo precipita nel vuoto. Risonanza è – movimento
interiore, “suono della campana dell’essere”, spazio “vibrante”, in questa
vivida rappresentazione.
“Maturità dello spazio” – è pienezza della percezione, sforzo giunto a
compimento, pretesa di astrazione, che infine approda alla completa
comprensione. Ogni parola disloca la poesia nell’alveo della scienza e lì,
annullate le distanze tra fenomeno fisico e spirituale, si sperimenta una
prodigiosa unità animata da meccaniche gemelle.
*
Ancor più nella prosa, Rilke sorprende per ricchezza di messaggi. Paradigmatica
è l’elaborazione dell’immagine-suono, di cui fa esperienza in Egitto, al
cospetto della grande Sfinge. La racconta in una memorabile lettera scritta il
primo febbraio 1914 alla musicista Madga von Hattingberg:
> “…Quante volte, già, avevo tentato di cogliere quella vasta guancia in tutti i
> suoi dettagli: si arrotondava in alto con tanta lentezza, come se in quel
> luogo ci fosse spazio per più punti che quaggiù […] nella più grande pienezza
> del sentire, feci esperienza della sua rotondità. Solo un istante dopo
> compresi che cosa fosse accaduto. Pensi: dietro la sporgenza del copricapo
> regale, sulla testa della Sfinge, si era alzata in volo una Civetta e lenta,
> indescrivibilmente udibile nella pura profondità della notte, aveva sfiorato
> il volto col suo morbido volo; e in quel momento, nel mio udito, divenuto
> perfettamente chiaro per il lungo silenzio della notte, si era inciso, come
> per miracolo, il profilo della guancia”.
Dove “una costellazione e un Dio indugiavano (n.d.a.: da secoli immemori)
silenziosamente l’una di fronte all’altro”, si consuma l’involontario amplesso
tra fisica e letteratura. Nel silenzio e nell’immobilità di quel luogo della
mente, una perturbazione, un fattore chiarificante si palesa e perfeziona la
comprensione del contesto: la Civetta. Stupisce, ancora, l’assoluto
allineamento tra la realtà – che esiste e si manifesta quando viene osservata,
stimolata, messa alla prova, verificata – e la parola che fa esistere le cose
perché di esse se ne dice. Di questi poteri e potenze del verbo la vita stessa
di Rilke è dogma incarnato.
L’immagine-suono, che in se stessa sfugge alla fisicità dei cinque sensi –
invocandone un sesto – è trasposizione poetica dell’esperienza attonita che
l’uomo fa quando incontra, per la prima volta, la relatività einsteniana e la
meccanica quantistica; esse stesse invocano quarte e ulteriori dimensioni alle
tre a noi note: essenze non sperimentabili, di cui è concesso scoprire la misura
e la forma solo quando sono interrogate dagli eventi.
*
Le fotografie che l’universo proietta nei nostri occhi attraverso i telescopi
sono scatti, frammenti perduti e sparpagliati dappertutto. Osservandoli, consci
che il loro tempo è ormai annichilito – e pure vivo – assistiamo ad un eterno
nostro essere, contemporaneamente ovunque. La figura mistica dell’Angelo
rilkiano pare vivere in noi in omologo rapporto: una monade che scruta ogni cosa
con “sguardo laterale”, in cui tutto esiste e permane simultaneamente, a
dispetto di un tempo che svanisce quando perde la caratteristica principale che
ha per noi: il potere di scandire il prima, l’adesso e il dopo; l’essere e il
non essere; la morte e la vita.
Rainer Maria Rilke e Paul Valéry, 13 settembre 1926
*
La professione di fede che Rilke fa verso i traguardi della scienza viene a
galla – cristallina – nella lettera a von Hulewicz del 13 novembre 1925:
> “Tutti i mondi dell’universo precipitano nell’invisibile, nella realtà più
> profonda che abbiano accanto; alcune stelle si potenziano immediatamente e si
> spengono nell’infinita coscienza degli angeli; altre devono affidarsi ad
> esseri che le trasformano con lentezza e fatica, nei cui terrori ed estasi
> esse raggiungono la loro prossima invisibile realizzazione”.
Un superiore intendimento poetico lo attraversa quando dice che
> “La caducità precipita ovunque in un essere profondo; e così, tutte le
> figurazioni di ciò che è non vanno usate soltanto entro i confini temporali,
> ma, per quanto possiamo, sono da inserire in quelle superiori significazioni
> di cui partecipiamo”.
La coscienza della prevalente invisibilità del tutto traspare in controluce e fa
intuire ulteriori consapevolezze:
> “Le Elegie mostrano noi intenti a quest’opera, all’opera in queste incessanti
> trasposizioni dell’amato visibile e tangibile nell’invisibile vibrazione ed
> eccitamento della nostra natura, che introduce nuove cifre di vibrazione nelle
> sfere di vibrazione dell’universo. (Siccome le diverse materie dell’universo
> non sono che diversi esponenti di vibrazione, noi prepariamo in questo modo
> non soltanto intensità di natura spirituale, ma chissà, nuovi corpi, metalli,
> nebulose e costellazioni). E questa attività viene singolarmente sostenuta e
> spinta dal sempre più rapido sparire di tante cose visibili che non verranno
> sostituite”.
*
L’accesso all’infinitamente piccolo avviene con la stessa avidità poetica
mostrata verso l’infinitamente grande. Accade nel vertice del suo pensiero, nel
luogo di confine tra i due mondi, dove occhio di vivo e occhio di morto
osservano le cose che sono “l’una all’altra nascoste”.
Il linguaggio, che deve dare voce ad entrambi i punti di
osservazione, contemporaneamente, cela un intreccio che mostra più di una vaga
somiglianza con la complementarità e l’entanglement quantistico.
È nella Quinta Elegia, dove si incontrano i saltimbanchi parigini del Père
Rollin, che il poeta articola plasticamente il mistero di quella prodigiosa
meccanica:
> “Ma chi sono, dimmi, questi girovaghi;
> Ma dove, oh, dove è quel posto – io lo porto nel cuore –
> dov’erano ancora tanto lontani dal farcela
> dove ancora cadevano l’uno dall’altro”.
Il dove – luogo metafisico in cui accade un evento indicibile è il passaggio
dal puro troppo poco del non essere ancora in grado, al vuoto troppo dell’essere
in grado; e pare riguardare necessariamente ciò che, come vale per le
particelle, dispone le parti di un sistema in modo che le loro qualità siano
rilevabili solo singolarmente e mai tutte insieme.
La metà delle cose che si volge all’occhio del vivo è la prima – quella che può
(solo) notare l’assenza o la presenza dell’abilità secondo una logica causale e
temporale, mentre il quid che definisce la dote ora acquisita è visibile (solo)
ad un occhio dotato di “desertica lucidità”.
Se Einstein incarna l’immagine dello scienziato capace di sfatare i dogmi e
porre l’uomo in una definitiva ottica di probabilità – e mai di certezza – Rilke
ne rappresenta il corrispettivo letterario. A noi, fortunati beneficiari di
insperate consapevolezze, la presa d’atto che “a cavallo di un raggio di luce”,
entrambi avrebbero potuto apporre la firma a questo pensiero:
> “Noi, che siamo qui e oggi, non siamo appagati neppure per un istante nel
> mondo del tempo, né a esso legati. Trapassiamo senza sosta, trapassiamo verso
> gli avi, verso la nostra origine e verso coloro che in apparenza vengono dopo
> di noi. In tale mondo immenso e ‘aperto’ tutti sono, non si può dire
> ‘contemporaneamente’, perché è appunto il venir meno del tempo che fa sì che
> tutti siano”.
Riccardo Peratoner
L'articolo Rilke incontra Einstein. Ovvero: le “Elegie duinesi” e la teoria
della relatività proviene da Pangea.
Il testo che apre il ‘Meridiano’ che accoglie Tutte le liriche di Hölderlin, è
il punto più alto, riassuntivo, della ‘funzione Hölderlin’ nella poesia
italiana. In quel testo – Con Hölderlin, una leggenda –, Andrea Zanzotto dice di
una “insistenza”, di un “lasciarmi andare… all’apertura di libro quasi
magica”. Quando arriva, Hölderlin – il gran mago, colui che conosce i nomi per
dissipazione e sublimazione – spiazza, fa piazza pulita, costringe a partecipare
del suo precipitare.
“L’incontro con Hölderlin è stato tanto intenso quanto quello con Rimbaud”,
scrive Zanzotto. È vero: entrambi i poeti sembrano dei banditi dal linguaggio,
degli irredenti al verbo, ma il loro impeto – troppi anni li separano, quasi
millenni – è opposto. Rimbaud non tenta l’armonia, solletica il caos; non cerca
gli dèi celesti ma quelli inferi; non alla Grecia mira ma all’ebbrezza esotica;
la sua è una fuga verso l’altro mondo, l’Africa, verso una vita che metta a
tacere la vita; Hölderlin sprofonda in sé, come chi ritorna dopo aver toccato le
vette: che altro dire dell’empito di quel cielo se non il frastiono? Rimbaud
strega il linguaggio fino all’Adamo; Hölderlin lo dissoda perché accada, ancora,
un qualche rivelazione del ‘secondo Adamo’. Le Illuminazioni vanno lette insieme
alle cosiddette “Poesie della torre”.
“Sentiamo che in Hölderlin ci sono delle zone oracolari, piziache, quasi”,
scrive Zanzotto. A dire: Hölderlin non sfregia il linguaggio per inorgoglire
l’opera di gorgiere, tutto il contrario – sfrega fino all’ultimo brillio, al
verbo che precede ogni verbo. Cioè – e Zanzotto lo sapeva bene –: troppi poeti
più o meno ‘oracolari’ abbiamo letto in questi decenni, ma dov’è l’oracolo il
poeta, semplicemente, non è, scompare. Dunque: Hölderlin non è un’opera, ma
una pratica – l’esito, sconvolgente (come dopo l’attraversamento di ogni grande
poeta), potrebbe realizzarsi nel balbettio, nel brivido, nel silenzio.
Tornando a noi. Nel secolo della poesia che si esprime per negazioni, che dice
ciò che non è (Montale), il poeta dell’essere, della solarità che acceca, “come
una gigantesca figura di poeta-profeta, che attinge alla civiltà greca i grandi
ideali che egli propone – in metri accesi e pindarici – ad una umanità migliore,
che deve ancora venire e di cui egli canta presago” (Vincenzo Errante nel
poderoso “Tesoro della lirica universale”, Orfeo, da lui allestito per Sansoni
nel 1949).
Si diceva, appunto, di una ‘funzione Hölderlin’ nella poesia italiana. Hölderlin
è stato tradotto, tra i tantissimi, da Giosuè Carducci (“Perché tutto co’ morti
il mio cuor è”) e da Gianfranco Contini (“Un segno noi siamo, indecifrato,/ non
avvertiamo il dolore,/ lontano dalla patria la lingua abbiam quasi scordata”),
da Cristina Campo e da Leone Traverso; Zanzotto cita le versioni di Giorgio
Vigolo e quelle, in dialetto, di Giacomo Noventa. Ungaretti dichiara Hölderlin –
insieme a Blake, Leopardi e Lautréamont – il poeta-totem della propria ricerca
lirica. Luigi Reitani, nel ‘Meridiano’ del 2001, pare aver chiuso il discorso
sulla filologia hölderliniana: tra l’altro, ormai, di Hölderlin abbiamo
setacciato i cunicoli della vita, degli amori e degli ardori; le lettere ci
permettono di spiarne i tormenti. Eppure, Hölderlin è un sovrappiù del
linguaggio, ha tana nel bianco-banchisa dei suoi frammenti incompiuti: si
rinnova – e ci sfida – ad ogni lettura. Così, per alcuni – come all’autrice del
libro di cui parliamo – è sempre oro la versione delle Liriche di Hölderlin
realizzata da Enzo Mandruzzato – gran traduttore di Pindaro, per altro,
poeta-pilastro di Hölderlin – stampata da Adelphi nel 1977:
> “Ma a noi non è dato
> riposare in un luogo,
> dileguano precipitano
> i mortali dolenti, da una
> all’altra delle ore, ciecamente,
> come acqua di scoglio
> in scoglio negli anni
> già nell’Ignoto”
>
> da Canto di Iperione e del destino
In sostanza: in Hölderlin la poesia si compie superandosi – che il suo tempo lo
abbia rinnegato e il nostro lo fraintenda è naturale, dacché l’opera è il
fermento di un altrove. Così, Ladro di stelle – bellissimo titolo che indaga
“Hölderlin e il poeta come titano”, stampa Solfanelli, con una partecipe
“presentazione” di Giovanni Sessa – non è un’analisi della ‘poetica’ di
Hölderlin, ma uno studio sui suoi effetti, sulla sua efficacia. “Intendiamo
guardare all’esperienza estetica hölderliniana come a un’esperienza religiosa”,
scrive, quasi subito, arrischiando, l’autrice. Chi la conosce, sa che Livia Di
Vona – l’autrice – è gentile quanto coriacea; dietro l’apparenza docile nasconde
l’accetta e la sfacciataggine. Ha lavorato anni a questo libro – che come ogni
vero libro è infinito –, in esatta solitudine, libera dalle asfissianti
categorie dell’accademia. Il suo saggio sfiora a tratti il segreto di ogni dire
poetico, si inabissa negli indicibili. In alcune pagine, l’autrice lega, in
sintonia di vertigini, il dire di Hölderlin a quello di Marina Cvetaeva (Il
poeta a giudizio: capitolo pieno di folgorazioni). “Indugio ogni benedetto
giorno nel tormento della lingua. Da profana, da non poeta. Con Hölderlin le
cose sono drasticamente peggiorate, cioè migliorate perché come conduce lui nel
cuore della questione, nessuno”, mi scrive, un giorno, Livia. A dire di un libro
che è come un cuore messo a nudo – anzi, un cuore interrato: nascerà la bianca
betulla, libellula del bosco, oppure l’albero sacro alla civetta.
Intanto: perché “Ladro di stelle”? Cos’è questo ladrocinio, cosa sono queste
stelle?
Sono le lettere dell’alfabeto. Il titolo, indirettamente, mi è stato suggerito
da un libro di Giuseppe Sermonti sull’origine della scrittura: L’alfabeto scende
dalle stelle in cui si ripercorrono le antichissime teorie che volevano le
lettere dell’alfabeto greco corrispondenti alle costellazioni boreali. Sicché,
detto molto sinteticamente, “dire” significa ripetere i suoni della Creazione.
Il poeta, che ha l’altissima responsabilità di partecipare alla Creazione, nel
momento in cui titaneggia ruba, letteralmente, le stelle/lettere, che non crea
lui.
Ti faccio la domanda con cui inizi il tuo lavoro: “Perché il linguaggio è il più
pericoloso dei beni?”
Perché il nostro stare nel mondo dipende anche (se non soprattutto) dal modo in
cui abitiamo la parola. È nel linguaggio che per la prima volta sperimentiamo la
vertigine del titanismo. La tentazione fortissima di rinnegare la nostra radice
creaturale per competere con Dio. Per Hölderlin, la parola svolge soprattutto la
funzione di rendere testimonianza alla verità e ciò solo ed esclusivamente alla
condizione che la parola stessa sia un dono, qualcosa che l’uomo non crea
assolutamente da sé. Ma quando il poeta compete con Dio, quando pretende, cioè,
di versare da sé “la fiala della vita” (Inno alla Dea dell’Armonia), rinuncia
alla sua radice creaturale e provoca uno svuotamento della realtà. Realtà, per
Hölderlin, è sempre stare dentro una compagnia “verticale”; con lo svevo
penetriamo nel linguaggio come luogo di una compagnia meravigliosa che consente
al dire del poeta di fiorire in mondo, oppure come luogo di una solitudine
dolorosissima.
…ma poi, mi viene da dire, qual è questo logos che ci coinvolge e ci tortura:
quello di Eraclito o quello di Platone, quello di Gorgia o quello del prologo
del Vangelo di Giovanni? Tra ‘verbo’ e Verbo, tra ‘per verba’ e diverbio, dove
di pone Hölderlin?
Entriamo nel vivo dell’unità simbolica per Hölderlin, cioè l’armonia tra aorgico
(Dèi/natura) e organico (intelletto). Se lo seguiamo nella sua peregrinazione
dall’origine della Tradizione della poesia occidentale nella Grecia del mito
fino alla Germania tra il Settecento e l’Ottocento, tocchiamo lo zenith e il
nadir del linguaggio poetico: dal sorgere dell’armonia degli opposti in senso
eracliteo, fino alla sua disgregazione, passando dal momento fatale del
titanismo, in cui il linguaggio da luogo da abitare, si trasforma in strumento
di dominio sul mondo da parte del poeta. Quindi Hölderlin attraversa tutte le
sfaccettature che hai nominato fino a quando non si arresta dentro un’attesa. Il
suo qui ed ora (ovvero il periodo della torre), è senza il vivente. Scrive
infatti in una versione tarda di Patmos: “Ma è terribile come Dio dissipi
all’infinito, qua e là, ciò che è vivente”. E poco più avanti: “Nulla di
immortale si vedeva nella natura”. Hölderlin si trova in un vuoto di realtà (nel
senso spiegato prima), perché il vivente non c’è. Allora la parola, diversamente
dai tempi gloriosi del mito, non può celebrare “ciò che è”, ma necessariamente e
apofaticamente aggiungo, deve nominare ciò che non è. In questo modo prepara,
per i posteri, il ritorno dei celesti. Stare dentro un’attesa, significa nel
linguaggio che la nominazione si pone all’inseguimento di realtà, di una
pienezza di senso che senza una compagnia altra non si dà mai.
…e dunque: dal prodigioso – titanico – tentativo di sintesi tra ‘grecità’ e
cristianità, tra Dioniso e Cristo, tra Empedocle e Apocalisse, cosa viene fuori,
cosa ci resta in mano?
In Hölderlin, nell’innocenza del suo cuore, resta un’attesa indefinita. Io direi
che siamo sempre dentro una scelta di cui dobbiamo assumerci la responsabilità:
o vogliamo riconoscere una radice creaturale, oppure continuiamo ad espellere il
dio dal destino con una parola autosufficiente, cioè condannarci ad una infinita
solitudine.
Dichiara la poesia-emblema di H., e dimmi perché.
Direi Come quando il giorno di festa (Wie Wenn am Feiertage) in cui la frattura
nella Tradizione della poesia occidentale si consuma definitivamente. Questo
inno comincia descrivendo l’armonia tra aorgico e organico, come se nel qui ed
ora di Hölderlin fosse realtà. Poi però accade qualcosa di inaudito: l’irruzione
di un pianto al termine, che ci dice che non è più possibile, come dicevo prima,
“celebrare ciò che è”. Il poeta è sempre, per lo svevo, sacerdote della verità.
Se il vivente non c’è, non può dire che c’è, altrimenti dice il falso visto che
per lui la verità non è mai un prodotto del linguaggio. Questo è uno degli
indicatori, per quanto mi riguarda, per cui il poeta tedesco rinuncia alla
creazione di un linguaggio. Non si può riempire il vuoto di un’assenza con gli
artifici linguistici. Una delle tante tracce di ciò che accade qui, la si trova
in due poesiole giovanili, entrambe dal titolo indicativo: Il poeta
cieco e Palinodia. Lascio un suggerimento: poiché, per quanto mi riguarda, non
c’è affatto cesura tra fase giovanile e cosiddetta fase “della pazzia”,
potrebbero essere lette insieme proprio a Come quando il giorno di festa, inno
della maturità, in uno dei suoi versi più significativi: “Ciò che vidi, il
sacro, sia la mia parola”. Si potrebbe scoprire una sorprendente continuità tra
prima e dopo la “pazzia”.
Dichiara la poesia che più ami di H. – e perché.
Difficile dirne una sola, ma mi vengono in mente adesso Il viaggiatore,
l’elegia Lamento di Menone per Diotima o La veduta. Per quanto mi riguarda, è
difficile non fargli compagnia, non stare con lui lungo il sentiero scosceso di
una malinconia, mentre il Neckar solitario rinuncia ai suoi abissi misteriosi.
Era davvero folle H.? Meglio: come la sua ‘mania’ irrompe nel ‘logos’? E che
senso ha, nell’esistere, la necessità di ‘poetare’?
Sempre più spesso gli studiosi, negli ultimi anni, tendono a riconsiderare la
pazzia di Hölderlin. Cito come esempio l’importante studio di Giorgio
Agamben, La follia di Hölderlin, in cui si ipotizza una simulazione della pazzia
per sottrarsi alle conseguenze giudiziarie delle sue antiche simpatie per i
valori della Rivoluzione francese, ma personalmente credo che si possa
considerare anche la questione del pietismo, sempre – a mio avviso – troppo
trascurata quando si parla dello svevo. I pietisti più radicali sceglievano
volontariamente di abdicare dalla vita esteriore, ritirandosi preferibilmente in
luoghi appartati in campagna, e rinunciando anche alla volontà di esprimere una
propria individualità. Per il resto, più che un’irruzione della mania nel logos,
in Hölderlin irrompe un necessario balbettio, la constatazione amara di una
solitudine nel flutto, nella fiamma e nella parola. Che può dire il poeta “se
nulla di immortale si vede”?
Insomma: il poeta ha per fine esaudire la poesia incenerendola?
Dipende. Il poeta deve sempre scegliere da che parte stare. Il suo dire può
partecipare alla Creazione, come in origine, oppure – citando la chiosa di una
poesiola di Rilke dedicata a Baudelaire – “E perfino la furia che annienta si fa
mondo”, venirsi a trovare, cioè, nel punto esatto in cui la Creazione stessa si
disfa, per realizzare quella tiranna tentazione titanica. Dal punto di vista
meramente estetico, non c’è momento più alto, poeticamente, del competere con un
dio, e in ciò i geni come Baudelaire, come i simbolisti francesi, sono maestri.
Ma se platonicamente diciamo che la bellezza è splendore del vero, stando con
Hölderlin il poeta deve rinunciare alla signoria dell’ego.
*In copertina: Caspar David Friedrich, Luna che sorge su una spiaggia deserta,
1837/39
L'articolo “Già nell’Ignoto”. Dialoghi intorno a Hölderlin proviene da Pangea.
Non lontano dal tempio – d’intorno. René Char cela i suoi vangeli – come altro
chiamare quel vestibolo di versi, quel sudario? – presso l’aia, presso le
stalle. Così si consolidano i campi, chini al girasole, il fiore leonino.
Colossale nel corpo, René Char rimedita l’era dei Titani: in quella violenza,
l’assurdo della compassione. L’armonia contrapposta dagli olimpici è, invero,
una tirannia.
È il poeta a tal punto nel proprio tempo da scansarlo, da fargli lo scalpo.
Così, è toccato dal mondo restando intoccabile – i suoi fari: Rimbaud ed
Eraclito, Hölderlin e gli alchimisti del Rinascimento.
È un poeta, cioè, per indole, sempre in lotta. In lui, l’elemento primo – il
pane, il sole, l’acqua – è sempre l’esito di un sacrificio. La vera gioia:
sacrificarsi. Ospitare, cioè: partorire un patto.
Poiché il linguaggio è l’agone, è l’agonia, è il principio del malinteso,
l’arena dei malintenzionati, bisogna – come fa il fabbro, come fa l’alchimista –
fonderlo e rifondarlo. Con la stessa lega del verbo, nuove armi, nuove forme. In
René Char, allo stesso tempo, la severità del legiferante e la ribalderia del
bandito. Per questo va continuamente ‘scoperto’, come artiglieria di
contrabbando; va continuamente tradotto – sentieri sempre sotto assedio di
redini erbe, di irredente felci: non bastano le belle prove di Giorgio Caproni e
di Vittorio Sereni, di per sé poeti. Char apre la sua casa avita perché sia
messa sottosopra.
Diffidava degli scrittori ‘impegnati’, che spesso hanno di mira la carriera
quando non la convivenza con la convenienza, un convenire di pettegole. I suoi
scritti sono pienamente ‘politici’, nel senso arcano: orientare il corpo civico
a quello spirituale. Che è poi: consegnarsi all’assoluto.
Tra il 1966 e il 1969, a Le Thor, René Char invita Martin Heidegger a realizzare
un seminario su Eraclito. In quegli anni, il poeta si ribella all’installazione
di missili atomici presso il Plateau d’Albion, all’urlo di Non aux fusées
atomiques.
Eliminare ogni distanza tra atto e verbo, trasmutare la parola ferrosa nell’oro
della promessa mantenuta. L’estremo René Char – il recluso nei suoi luoghi,
l’anziano eroe di infinite guerriglie – è il più giovane, ragazzino il
linguaggio sempre a figliare ribellioni. Nel 1979, per Gallimard, esce Fenêtres
dormantes et porte sur le toit: come sempre, un libro definitivo. Così ne scrive
Char:
> “Tracciare un cammino tentando di ristabilire la speranza come atto che
> orienta, d’istinto, nel visibile e nell’invisibile. Ci sono compagni di
> vendette dai volti avvertiti e belli, pittori, viandanti della buona sorte,
> sconosciuti dalle mani glassate di schizzi abbandonati: mostrano che questo
> nostro mondo, tragico o comico, è diversamente abitabile, nella cerca
> dell’arte. Una compagnia che s’infittisce lungo obliati vagabondaggi, e
> ovunque, dunque, l’inimicizia delle nazioni, degli individui, delle cose e
> degli eventi che conduce all’estremo della voce che si impenna: ‘Al termine di
> questo turbine di marce, la porta senza chiuse di sicurezza: il tetto. Sono
> per mia gioia al cuore della cosa, il mio dolore è ormai inutile’. Tutte
> queste parti assemblando pietra su pietra, abusando della realtà per altri
> fini, come i gradini scolpiti del teatro di Epidauro”.
A teatro, si sa, la verità accade; infine, ne restano le spoglie, il sole in
carcassa, qualche briglia che chiameranno legge.
In Char: lapidare la letteratura, restare nell’allarme.
Il libro si apre con un testo, Faire du chemin avec…, qui tradotto.
All’ingresso, l’ultima poesia di Melville, The return of the Sire de Nesle, a
fare da faro in una vita che fu da bucaniere, che fu inseguimento e fuga, in
amore del bianco.
Il paese di Char, L’Isle-sur-la-Sorgue, sorge non lontano da
Fontaine-de-Vaucluse, Valchiusa, uno dei luoghi di Petrarca, quello delle
“Chiare, fresche et dolci acque”. Che di questa lotta – poesia è anche
energumena messe di vendette –, nel fiorire, sia l’amare, e sia innumerevole.
Si legge continuamente, René Char, per capire come onorare la vita: è palestra –
e mai rendere domestico il dire.
***
Mettersi in marcia
Infine, le mie torri! Che l’erranza si archivi
Che si plachi la sete della loro manchevolezza:
Se desideri l’infinito con troppa forza, si ritira
Perché è terribile la terra.
Hermann Melville
A monte, non fu commesso un crimine. Ci hanno espropriati del ghiacciaio; allo
stesso tempo, accusati, marchiati di incontinenza. Pochi fuggiaschi vagano, qua
e là, banditi di banlieu. La giovinezza dei nostri affetti li mostra intatti.
Così ci si estrae dall’inspessimento della sera, ci si inabissa sotto la
superficie dei libri perché la primavera migratoria possa crogiolarsi, ospite
che il nostro non molteplice corpo ferisce.
Avevano riscoperto con soave gioia l’istinto di strisciare nella boscaglia: a
vedere una trama di serpe sul sentiero chiamavamo quel passato “il perduto
rettile”. Con gelosia paludata.
Guarda la cannaiola sui giunchi scossi dal vento, ha gambe di mare!
La poesia che magnifica i suoi ingressi distruggendoli mentre si eleva
l’oggetto. Buona notte! Ancora buona sia questa notte, tastata dalla forza che
soccorre, tenuta sulle genitrici ginocchia del Tempo recidivo. Nessun interdetto
prima dell’inatteso rifugio, quando ci sei.
La poesia riversa, donna alla bisogna per la quale i minuti oggetti domestici
sono indispensabili. La ricchezza e la parsimonia.
Prima di polverizzarsi, tutto è pronto a incontrare i nostri sensi. Questo tempo
di preparativi è la nostra occasione senza rivali.
Montare, arrampicarsi… ma… issarsi? Oh, com’è difficile. La spinta luminosa
delle reni, la forza bassa che razzola nella tana, che irrompe e nonostante la
gravità delira in allegria.
Come liberare il rondone dai pidocchi? Resta il domandare dacché il rondone
sorvola la città.
Lunatico afillante. Il suo fiore sigillato. Ci ha visto. È di un blu
onnipotente. Afillante, nostra padrona!
Il suo sudario all’albero maestro del Vascello fantasma, fedele fino alla morte,
e bianca. Ah, ci ha in suo possesso. Veridica nei ranghi di una breve
giovinezza. E poi, pietrificata. Alcuni direbbero, mendace. Graffiandosi le
labbra murmuri…
Le sanguinose utopie del XX secolo.
Né il corno totalitario né il paralogismo si sono conficcati nelle nostre
fronti. La nozione di giusto e di ingiusto negli usuali fatti ha tenuto in
scacco la simpatia.
L’emofilia politica delle persone che si pensano emancipate. In troppi sono
innamorati dell’umanità disprezzando l’uomo! Per elevare la prima, degradano il
secondo. Uguaglianza che fa patti con l’aggressore. Questa è la maledizione. E
la nostra figura si accomoda.
Quanto vorremmo che la cronaca universale non si interrompa, se non una sola
notte, per l’obliquo impulso del faro d’amore! Così ci devia il desiderio.
Sovviene la parola, quel grande rifugio da tutti i venti.
L’esplosione atomica è la coscienza della materia e il segno dell’ilare uomo
quando si esprime. La sua permanenza spirituale ha cominciato a produrre.
Strappiamone svergognati l’ipogeo.
Non incitate le parole alla politica di massa. Il greto di questo oceano deriso
è lastricato dai cristalli del nostro sangue.
Dall’opera totalitaria non siamo più annodati al nostro io personale ma a un io
collettivo, assassino, assassinato. Il profitto della morte condanna a vivere
senza immaginazione, fuori dallo spazio tattile, in miscele avvilenti.
Ciò che sembrano tenere così risolutamente nelle loro mani gli sarà strappato
dagli occhi. È la legge, la paglia nella legge.
La poesia può riscattare il ricatto?
René Char
L'articolo “La poesia riscatta il ricatto”. René Char, o del poeta colossale
proviene da Pangea.
Nel 1910, a Copenaghen, esce un libro a suo modo decisivo. S’intitola Vita del
lappone, lo ha scritto Johan Turi in uno stile, al contempo, crudo e fiabesco,
come appena estratto dal fuoco, una specie di nordica Lascuax. Nelle fotografie,
Turi ha lo sguardo ad accetta, occhi che contengono boschi. Nato nel 1854,
faceva l’allevatore di renne; il suo libro, scritto in lingua sami con la
traduzione in danese, fu pubblicato in diverse lingue: in Italia è al 235 della
“Biblioteca Adelphi”. Il libro ha una leggiadria adamitica, la prontezza delle
cose prime e nude: si parla di bestie, di estati come coltelli, di segni nel
suolo e nel cielo e della “pietra del serpente”; le costellazioni si chiamano
“Alce”, “Branco di cani” e “Sciatori”; la Via Lattea è la “Scala degli
uccelli”.
La data in cui è pubblico il libro è importante: di lì a poco i Sami, etnia
indigena del Nord, verranno ripetutamente vessati dalle entità statali,
Norvegia, Finlandia, Svezia, a estirpare terre, a sradicare tradizioni. Non a
caso, intorno a quella data, nel 1913, attracca Ædnan, il poema epico di Linnea
Axelsson, poetessa svedese di origine Sami. Edito nel 2018, Ædnan – che in Sami
significa “terra”, “luogo natio” quando non “madre, matria” – racconta, in
versi, la saga di una famiglia Sami, tra enormità di panorami, apparizioni di
morti, vessazioni, dai primi del Novecento al nostro millennio. Il ritmo imposto
dalla Axelsson contrasta con il tambureggiare dell’epica tradizionale: i versi
sono brevi, a volte brevissimi; si procede per singulti e apocalissi in palmo di
mano; c’è molto bianco intorno, tanto che le parole paiono impronte di renna
sulla neve, rivoli di una danza antica e perduta, di uomini-pernice, di
uomini-gufo. Un esempio:
“Mi addentrai nella palude
dei lamponi gialli
–
Avanzai
finché potei
poi mi spogliai
sciolsi i nodi dei pantaloni
e li riempii di bacche
–
Annodai lo scialle con
della stoffa e ne feci
uno zaino
ricolmo di bacche
–
Una pozza nera
si aprì nel muschio
l’acqua era fredda
meravigliosa per la nuca
–
Allora spuntò
scura nel cielo
l’aquila reale
l’occhio giallo
e nero
–
Nell’occhio giallo
il mondo ebbe
un altro riflesso
–
Dischiuse gli artigli
e si gettò su Aslat
lasciai le bacche
e corsi gridando
con le braccia alzate
–
Vidi l’immenso
rapace volare via
–
Tutto era come sempre
ma c’era un’ombra”
Tradotto in inglese, da Knopf, nel 2024, Ædnan ha avuto un impatto importante:
il libro, tra l’altro, è stato finalista al National Book Award for Translated
Literature. Di questo “ambizioso romanzo in versi”, an Arctic epic from Sweden,
ha detto il “Guardian”, toccando il punto centrale del testo: “in ogni pagina,
distese di spazio bianco, a memoria di una narrazione fatta di assenze,
fratture, silenzi, oblio e mutilazione”. Una porzione di Ædnan è stata tradotta
da Maria Cristina Lombardi – già traduttrice, tra l’altro, del fenomenale poema
epico-cosmico Aniara del Nobel per la letteratura Harry Martinson – nel libro
libro collettivo Voci di donne dal Nord, edito da Crocetti (in cui sono
sintetizzati, per poesie-totem, i lavori, oltre che di Linnea Axelsson, di Eva
Ström e di Ann Jäderlund).
Lei è Linnea Axelsson
Ædnan, soprattutto, è il poema di una lingua defunta che risorge rifulgendo (“La
lingua sami dormiva/ da tempo nel corpo/ bloccata// dentro/ dalla vergogna…//
Come se mai/ noi e i nostri avi/ fossimo esistiti// mai avessimo/ costruito
nulla”). Di una lingua dissotterrata, di minime, esigenti tracce nella neve che
tornano artigli, il ruggito del profondo Nord. Certo, il poema s’infittisce
nella nostalgia: le parole descrivono ma non operano; la danza, non più
sciamanica, è sciamannata, dei fasti restano le vestigia, le braci – pigolano
gli astri. Su tutto, tuttavia, agisce lo straordinario.
Con l’aiuto della Lombardi, abbiamo contattato Linnea Axelsson, a dare ligneo
lignaggio a questa lingua.
Come è nata l’idea di scrivere un poema epico sui Sami? Come ha scelto di
strutturare il libro?
Più che un’idea iniziale, sono stati il lavoro e il materiale ad ispirarmi la
scrittura di un poema epico sui Sami: la poesia epica è stata una scoperta che
poi ho messo in pratica. Credo che un’opera si sviluppi da un’immagine interiore
che funge da orientamento verso un certo linguaggio, una data struttura, un
mondo che il lettore è chiamato ad immaginarsi. Nel caso di Ædnan, l’immagine,
almeno come come la ricordo, era un volto di donna, o meglio, il silenzio nel
suo volto. Fu lei che durante la stesura del testo haportato con sé lo spazio
(Sápmi, la terra dei Sami), gli eventi e gli altri personaggi. Pian piano
l’ampiezza e la natura del materiale – ad esempio, le relazioni interpersonali e
lo svolgimento della narrazione nel tempo – iniziarono a suggerirmi che forse il
racconto sarebbe stato più adatto alla prosa che alla poesia. Prosa e poesia
sono costituite dagli stessi elementi, ma si utilizzano in modi diversi e con
enfasi diversa. Non mi pareva giusto scrivere un romanzo, sarebbe stato come
assolvere a un compito inesatto. Così, a un certo punto, mi è venuta in mente la
tradizione epica, e allora mi sono presa una pausa necessaria. Non nel senso che
ho cominciato a leggere i poemi epici antichi; piuttosto, ho iniziato a
impostare alcuni principi formali di riferimento. Ho riflettuto a lungo intorno
alla tradizione degli joikar sami che sono contemporaneamente canto, tradizione
poetica più o meno narrativa, e strumento per ricordare e conservare le memorie.
Come è riuscita a trovare il ‘ritmo’ adatto al poema? Intendo dire: nel poema si
coagula una lingua arcana, arcaica, ma anche un tono proprio della poesia
contemporanea. Mi spieghi il suo processo linguistico.
Trovare il ritmo è stato decisivo ed è parte della forma stessa del poema: versi
brevi, scarsità di parole, silenzio. Questo mi ha ispirato un sensazione di
ampiezza e di movimento, nello spazio e nel tempo, che tenesse insieme e
caratterizzasse la narrazione. Ci è voluto molto a trovare il giusto ritmo: in
qualche modo, è scaturito durante la scrittura. Altre volte mi è accaduto di
sentire un ritmo senza nessuna parola, che solo dopo è divenuto poesia, ma non è
il caso di quest’opera.
Il ritmo è anche legato alla respirazione e allo svolgimento, nel senso che
nasce quando una poesia si muove tra qualcosa di quotidiano, che senti sulla
pelle, e qualcosa di cosmico, di esistenziale. Produce suono e realismo. Lo
stesso svolgimento si rispecchia nella parola: un termine della sfera quotidiana
o comunque della contemporaneità si incontra con una parola più solenne, più
carica di connotazioni o più antica, riuscendo nella poesia a essere avvertito
come semplice e naturale al pari della parola quotidiana.
Per molto tempo – oggi non è più così – sono stata attratta dall’arcaismo
facile, sia perché amo le profondità e le diverse fasi della lingua, sia perché
quello che devo costruire non è documentato, ma vive nella narrazione orale,
nelle fiabe, nel mito. In Ædnan ho cercato anche di cogliere un certo suono che
credo fosse tra i Sami nell’ambiente in cui sono cresciuta quando si parlava di
cose come lo stato e gli svedesi, o come quando si raccontavano aneddoti.
Quali sono le fonti di cui si è nutrita? In Italia è abbastanza noto il
resoconto di Johan Turi, ma per il resto il popolo dei Sami appare tra le brume
della leggenda. Quali sono i miti miliari, decisivi dei Sami?
Uso tutto quello che posso: ricordi, cose che ho sentito e ho visto, che ho
letto. Più importante di tutto è l’immaginazione, lo spazio per la capacità di
rappresentazione che dobbiamo conservare in noi stessi. Non faccio ricerca nel
senso giornalistico ma, al contrario, evito di leggere proprio di ciò su cui
scrivo.
Detto questo, sono sempre stata interessata e ho letto tanto sulla storia e
sulla mitologia dei Sami, ma la grande fonte, quando si tratta di questa storia,
è fatta di esperienza, cultura e narrazione orale, dunque, dalle conoscenze che
si tramandano in famiglia, tra parenti e amici. Molte culture, come quella sami,
si scontrano con due fattori essenziali: la propria storia scritta, quando non
sia stata resa del tutto invisibile e assimilata, è stata comunque a lungo
formulata da qualcun altro, e che ciò che si conserva ci si aspetta sia
autentico.
Nella mitologia sami ci sono divinità e miti della creazione. In realtà, non so
quanto delle fonti scritte sia influenzato e concepito dai colonizzatori che per
primi l’hanno scritta e tramandata. Ho riflettuto a lungo e non so se i
termini dèi e dèe funzionino veramente. Ad esempio, Sáráhkka[1], non è piuttosto
una forza che non una dèa nel senso occidentale del termine? Forza generatrice e
maternità sono presenti anche nelle acque di un lago.
Mi sembra che il suo poema epico abbia altresì un ruolo ‘politico’. Quali
reazioni ha risvegliato il libro dopo la pubblicazione?
Quando Ædnan è uscito in Svezia, credo abbia contribuito ad aprire gli occhi ai
lettori svedesi sulla loro storia e sulla situazione coloniale del paese: che la
Svezia non è mai stata un paese con un solo popolo. Tra i lettori Sami, se
parliamo da un punto di vista storico e politico-sociale, le reazioni sono state
ovviamente di altro tipo: riguardando soprattutto aspetti come rappresentazione,
riconoscimento, ecc. Io sono un po’ indecisa se considerare il
poema politico oppure no. Credo che tutto quel che scrivo abbia in sé un piano
politico. Ma sono assolutamente convinta che le eventuali verità sulla nostra
vita si possano scoprire solo attraverso l’immaginazione, liberandosi da ogni
dovere e impegno, e che qualsiasi riflessione su temi e aspetti politici emerga
molto tardi nella stesura di un’opera, se non addirittura mai.
Quali sono le letture che la hanno formata, i poeti che può appellare a maestri?
Sono molti e diversissimi tra loro. Nils Aslak Valkeapää, Birgitta Trotzig,
Robert Musil, Elizabeth Bishop, Ingeborg Bachmann. Mi piace moltissimo leggere
testi teatrali: Harold Pinter, Lars Norén, Brian Friel. Qualche volta leggere è
quasi come andare dal medico: è qualcosa di molto preciso quello che mi
prescrivo.
Oggi, nell’era dell’algocrazia, delle guerre continue e dell’intelligenza
artificiale, che senso ha la poesia? Che senso ha l’epica?
Mi viene voglia di rispondere che il senso della poesia oggi è lo stesso che è
sempre stato. La poesia sembra essere qualcosa cui si ricorre in situazioni
terribili. Lo vediamo oggi a Gaza: sia i palestinesi a Gaza che uomini e donne
in tutto il resto del mondo scrivono poesia che, in modi diversi, nasce
dall’attuale genocidio. Lo abbiamo visto nei campi di concentramento del Terzo
Reich, dove gli ebrei scrivevano poesie nonostante rischiassero la
vita. È un segno del significato della poesia, ma ilsignificato è difficile da
determinare. Per me, come lettrice e poeta, ha a che fare con il lavoro
linguistico, con la lingua come essere vivente, con l’immaginazione,
l’attenzione e la concentrazione. Ha a che fare con il piacere e la realtà.
Cioè, con un aspetto della realtà.
È come se poesia, letteratura e arte fossero un fiume che scorre accanto alla
vita, dalla stessa sorgente. Sono legate e si rispecchiano a vicenda, ma la
letteratura non può essere solo uno specchio, una rielaborazione o
un’esplorazione. È costruzione di se stessa. La poesia dovrebbe essere un
vortice ben definito, e i vortici portano ossigeno al fiume. Per me, poesia
epica non significa che il testo presenti una certa lunghezza, o si espanda in
un certo arco temporale o che sia narrativo allo stesso modo di un romanzo. Per
me la poesia epica è legata alla memoria e alle storie. Storie che possono
conservare il nostro contatto e la conoscenza delle nostre origini, e
testimoniare la qualità del nostro rapporto con tutto ciò che vive.
(Traduzione di Maria Cristina Lombardi)
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[1] Dèa dello sciamanesimo, protettrice del parto, venerata nelle regioni
abitate dai Sami in Svezia e Novegia.
L'articolo “La lingua sami dormiva, bloccata dalla vergogna”. Dialogo con Linnea
Axelsson proviene da Pangea.
Il poeta presiede all’identità di un luogo.
Potremmo dire che un luogo esiste in virtù del canto del poeta.
Quando quel canto si perde, da quei luoghi fuggono gli dèi e i negromanti; quei
luoghi tornano anonimi, legati, semmai, a qualche catena di parentele – che come
ogni altra cosa, prima o poi si slegherà – a qualche circostanza
‘paesaggistica’, fotografica. The nymphs are departed, cantava Eliot sulla sua
rovinosa arpa: il Tamigi scorre dolce, trascinando “bottiglie vuote, carte da
sandwich… cicche di sigarette”; al posto dei fauni corrono, fatui, i ben
agghindati banchieri della City, in brigata.
*
Soltanto il canto dispiega i nomi, ne dice – celandolo – il segreto. E quel nome
– cioè: quel fiume e quella valle, quel bosco e quella particolare rocca, quella
particola fonte – splende, imperituro, imperiale, nostro. Se perdiamo il canto,
siamo dispersi al mondo. L’arte, allora – o ciò che ne resta – non è che
implorazione e lamento, peana malinconico, reprimenda, semmai, inerte trama di
marce vocali. Gli artisti – non più poeti, non più aedi – si rinnovano nei
ricami del lacchè, dei mestieranti del sé. Diventano esperti,
sono professionisti – mentre l’incanto e l’inesprimibile cerca gli ingenui e i
dilettanti; chi, vuoto di sé, sappia davvero incaricarsi dell’altro, invasarsi
di altro. L’angelo, allora, non grida più dalle pareti delle più inerpicate
pievi; il dio non scende più dalla volta celeste, non scoscende come un
acquazzone, in corsa – i lupi, i licaoni e gli stambecchi non corrispondono più
al canto – il poeta ha smesso di essere falco e erba, cicala e serpe.
*
In un dialogo privato, Rosita Copioli, poetessa, studiosa di William Butler
Yeats e del misticismo irlandese, mi ha introdotto alla figura dell’ollam. Nella
cultura d’Irlanda, l’ollam ha un ruolo diverso dal bardo, dall’aedo, dal poeta
di corte: egli serba i canti che riformulano il mondo. L’ollam è il garante del
re, in quanto mediatore dei poteri superni. L’ollam somma in sé la statura del
bardo e la sapienza del druido: il suo addestramento è un destino, al ruolo si è
avviati per lignaggio. Quando un ollam sceglie di farsi morire perché un re gli
ha mancato di rispetto, si siede sulla soglia del castello e digiuna. Alla morte
dell’ollam segue, necessariamente, quella del re: la legge terrena è officiata
dal canto celeste.
Tutti conosciamo la storia di Eraclito, tramandata da Diogene Laerzio. Il
pensatore oscuro, artefice di enigmi, capace di penetrare nelle angustie del
linguaggio – avrà un eletto discepolo nel poeta francese René Char – è preteso
dagli abitanti di Efeso, la sua città. Alla richiesta di plasmare per loro la
costituzione, Eraclito si indigna, preferisce ritirarsi all’ombra del tempio di
Artemide e giocare a dadi con i bambini. Infine, sceglie l’ascesi tra i boschi,
si imbestia, dimentico di sé, a quattro zampe, seguace delle belve notturne.
*
Alla poesia incantatoria seguirà il poema cavalleresco, che reca diletto ai
principi in stanze corredate di orsi impagliati e impigliati falchi, contorno di
Titani alle pareti, di nubi e forre ricche di satiri. Nelle sale dei re rivive
il selvatico e la selva, ormai dragato dall’ingegno umano, che relega le ninfe a
ninfette, le sirene a pin up, i duelli all’arma bianca, sotto lo stemma del
fato, a stermini di massa. L’azione fine a se stessa si volge in azienda, il
‘bel gesto’, connaturato al cavaliere, stinge in spiccio utilitarismo. La fiaba
reca ancora, sigillato, il segreto di un mondo fatato e fatale; il motto e
l’adagio popolare serbano dell’antico poema cosmico la lisca, l’estrema esca.
Carlo Fornara, Da una leggenda alpina, 1902
*
Forse è per l’ancestrale potere degli ollamain che in Irlanda il poeta è tenuto
in alto onore: è ancora lui a onorare i nomi delle valli, dei fiumi, dei brutali
bastioni. Un’amicizia si stringe sotto il fuoco del poeta. In Inghilterra un
valore simile ha il “Poet Laureate”: l’incarico (mutuato dall’alloro poetico
conferito in Italia, tra l’altro, a Petrarca), di eminenza ‘politica’ (a
investire il poeta è il Primo ministro in carica e il sovrano, non una combine
di intellettuale né un club di letterati), dura dieci anni. Un tempo – fino al
1999 – era un compito da percorrere a vita, ora è qualcosa di simile al
‘servizio di Stato’. Il primo poeta laureato fu John Dryden, incoronato nel
1668. L’esercizio, dicevo, è ‘politico’: il poeta si fa – secondo il proprio
insindacabile, ingiustificabile estro – portavoce dell’identità della nazione.
Il poeta laureato inglese di maggior talento, Ted Hughes, trafficava con gli
oroscopi, ha dedicato il suo libro più bello al corvo, l’uccello psicopompo, si
ritirava nello Yorkshire a scrivere e a cacciare. Non è un caso che abbia
tradotto Eschilo, tra i tragici il più grave di sacro. In una intervista del
1971, rilasciata al “London Magazine”, Hughes anela al ritorno del
poeta-sciamano: “Il Bardo Thodol è un volo sciamanico, con ritorno. Il buddismo
tibetano è influenzato enormemente dallo sciamanesimo. Il potere occulto che
emana la cultura tibetana proviene dal substrato sciamanico più che dal
buddismo. Lo sciamanesimo si concentra sull’attività di uno stregone, un uomo di
medicina, presso le genti primordiali. L’individuo è evocato da certi sogni. Gli
stessi sogni in tutto il mondo. Uno spirito lo chiama… di solito un animale o
una donna. Se egli rifiuta la chiamata, muore… o muore uno che gli è accanto. Se
accetta, si predispone al lavoro, ci vogliono anni… Di solito si apprende l’arte
da un altro sciamano, ma lo spirito può dare insegnamenti diretti. Una volta
educato, può entrare in trance a suo piacimento e varcare il mondo degli
spiriti… Lo stesso schema lo troviamo in migliaia di racconti popolari e di
miti. L’Odissea, la Divina Commedia, Faust… Come può un poeta tornare stregone e
volare alla fonte, saper guarire e pronunciare oracoli?”.
*
Nella prima delle Leggende delle Alpi Lepontine catalogate e riscritte con garbo
da Aurelio Garobbio (ora stampate dall’Associazione culturale Terra Insubre per
tramite di De Piante Editore), Il drago di Sesto Calende, si dice di un
pescatore che d’improvviso partecipa ai misteri della terra e del cielo. “L’uomo
sentì dentro di sé un che di immenso nel quale gli parve naufragare”. Al di là
della eco leopardiana, è proprio questa, frugale, lignea, l’esperienza
sciamanica: cogliere i colloqui tra “acqua terra cielo”. Il poeta ascolta, si fa
da parte – inscrive se stesso e i suoi in un luogo. Digging, direbbe Seamus
Heaney, il grande poeta irlandese – scavando.
*
Nelle leggende registrate da Garobbio ci sono le ninfe di lago: sono nella Valle
Isorno, una delle valli dell’Ossola; sguazzano nel Matogno, a poco più di
duemila metri. Attraggono a sé i viandanti, il loro fare ricorda quello delle
Sirene:
> “Sono creature amorose ed attirano i giovani cantando. L’incauto che udendole
> s’avvicina alle rive, difficilmente riesce a sottrarsi a tanto fascino; esse
> lo invitano mostrandosi dalle ginocchia in su. Chi mette un piede nell’acqua
> più non si libera dall’incantesimo e le segue immergendosi pian piano, come
> esse si immergono, scomparendo nei flutti in un abbraccio che non ha fine”.
C’è qualcosa di liberty in queste donne che all’ardore omerico uniscono le
ambiguità dei ritratti di Klimt.
“Tra i ghiacciai del Rosa”, invece, si apre “una misteriosa isola verde”, specie
di Eden di ubertose terre, a contrasto con le gelide lande. Sembra di rileggere
il mito tibetano di Śambhala, di varcare la prodigiosa città di Shangri-la,
conficcata in un luogo segreto, a nord del Ladakh. In quel luogo – che è poi un
varco tra i mondi, è un luogo simbolico – il viandante accede a un’armonia
perduta, impara il linguaggio delle bestie:
> “Per tre settimane egli resta nella valle fatata, in mezzo agli animali che
> più non fuggono dinanzi a lui, e vive la loro vita imparando il loro
> linguaggio. Ode suoni mai uditi e vede cose che sempre sfuggirono al suo
> occhio acutissimo, apprende mille segreti penetrando nell’armonia del
> creato”.
È una sorta di quarantena al contrario, questa, di ventuno giorni: l’uomo
ritorna Adamo e Mowgli, puer eterno che doma le fiere e ascolta i sussurri degli
alberi.
Al ghiacciaio del Belvedere, presso Macugnaga, dimora invece la Fata Bianca:
naturalmente, è agli umani precluso il suo “volto fulgente”. Secondo il mito
classico – Atteone, mutato in cervo dopo aver scorto Artemide nuda – e il monito
biblico – “Mosè si coprì il volto, aveva paura di guardare verso Dio”, Es 3, 6 –
la vista del divino è vietata all’uomo, pena la cecità e la morte: “gli occhi
umani non resistono a quel celestiale splendore”.
D’altronde, se si è ciechi a se stessi è per eguale ragione: terrore provoca
sondare il mostro che si agita nel nostro cuore. Meglio ignorarlo – e che lui,
ingordo, ci divori da dentro. Rinnegare se stessi, cioè: disertarsi, essere di
sé il bandito, bandire razzia all’ego. Così, vuoti, potremo fare altare
dell’Altro.
*
Da bambino, volevo conquistare il monte Zeda. Forse per quel nome, definitivo.
Più tardi, avrei associato lo Zeda a Zembla, l’immaginaria regione dei ghiacci
inventata da Vladimir Nabokov in Fuoco pallido, romanzo impossibile che ruota
attorno a un poema, un’eredità, una filigrana di magie. Zembla è mutuato, credo,
da Novaja Zemlja, l’inaccessibile arcipelago russo che perfora il Mar Glaciale
Artico. Vi domina l’orso polare e la volpe bianca – fu un’importante base
nucleare sovietica.
Anselm Kiefer, Voglio vedere le mie montagne – für Giovanni Segantini, 2013
Lo Zeda svetta in Val Grande. Da bambino, si partiva verso il Rifugio Pian
Cavallone da Miazzina o da Comero. Si passava lì la notte – le stelle,
agnelline, belavano – i pascoli pieni di mirtilli. Lo Zeda – poco più di duemila
metri – mi fissava, come un selvaggio con l’arco a tracolla. L’ho sognato più
volte – come fosse il mio Himalaya personale, un Everest da taschino. Garobbio
scrive dello Zeda in un racconto che s’intitola Il pastore malvagio; come
sempre, è capace nel pennello, pare un Segantini:
> “In alto stanno i pascoli del monte Zeda, e da lontano sembrano velluto,
> soffici come sono all’occhio che riposato li percorre digradando lungo pendici
> e sostando su ripiani e pianori. L’aria risuona del martellante scampanio
> delle mandrie; in qualche anfratto gli ultimi rododendri segnano rosse
> pennellate”.
Nel sentiero che dal rifugio porta allo Zeda, si spalanca, dopo un po’, una
cella. Vi è dipinto, in modo rudimentale, un angelo che schiaccia la serpe, il
demonio. La serpe si diparte in un cespuglio di corpi che sibilano; l’angelo ha
il volto camuffato, ha un volto da lupo. Le ali, appese alla meglio, sembrano
chiese in prestito da un airone. Lo zio mi diceva che lì abitava il monaco dello
Zeda. Figura per lo più leggendaria, non apparteneva, nel suo appartarsi al
mondo, ad alcun ordine monastico costituito. Vagabondava con una Bibbia in mano,
come l’antico pellegrino russo, di tutto spoglio, di nulla manchevole. Dicono
sapesse mutarsi in cervo; dicono sapesse curare chi era preda, su quel suolo di
ingannevoli pietre, di un incidente; morso di vipera non ne intaccava il nerbo.
Dicono che le stelle lo seguissero, a notte, come cani. Sognavo di vivere quella
stessa vita – lo dicono altissimo, bianchissimo, purificato dal gelo – a metà
tra l’eremita e il licaone.
*
Quando racconta degli strani abitanti nei pressi di Dongio, in Canton Ticino,
Garobbio scrive che costoro “conoscevano i segreti delle erbe, delle piante,
degli animali, dei sassi, leggevano nelle stelle, adoravano il sole e la luna e
forse vedevano al di là delle cose visibili”. Dimoravano presso pareti
vertiginose, vivendo secondo la formula degli antichi cenacoli: dai pitagorici
ai Terapeuti, dai seguaci di Orfeo agli Esseni, agli pneumatici confitti nelle
meteore dell’Athos. A quello stadio, il canto non conta più: si vive
nell’incanto. Il poeta non ha più peso né senso perché si è tutti poeti e la
profezia è ormai realizzata. Non esiste legge né loggia, mio o tuo, bene o male
– tutto, semplicemente, è.
*In copertina: Giovanni Segantini, Il castigo delle lussuriose, 1891
L'articolo “Conoscevano i segreti delle erbe, delle piante, degli animali, dei
sassi, leggevano nelle stelle” proviene da Pangea.