Così appunta Elias Canetti, è il 30 luglio del 1966:
> “Leggo poesie in tutte le lingue che conosco, e in traduzione, quando sono
> scritte in lingue che non conosco, ma cerco di farmi almeno un’idea di quelle
> lingue… Sfoglio libri su tutti i possibili animali. Torno ad ascoltare, cosa
> che da moltissimi anni non facevo più, le mie care voci degli animali”.
Canetti associa la lettura della poesia alla voce animale – imparare lingue
sconosciute, cioè: imparare la parola del lupo, l’urlo dell’ungulato, il cigolio
della gazza. Il brano è in un libro, Processi. Su Franz Kafka (Adelphi, 2024),
di inclassificabile bellezza. Inutile ricordare la presenza ‘animale’, da
strenuo classificatore, nei libri di Kafka: florilegio di sciacalli e ratti, di
cani e di pantere, di cavalli e scimmie. L’opera di Kafka è un bestiario;
valicare il simbolo a cui sottende quella singola bestia vuol dire franare nella
follia.
Ad ogni modo, che scena magnifica. Uno dei più potenti intelletti del secolo,
Canetti, che, nel suo studio, ascolta le voci degli animali, per liberarsi dal
linguaggio umano (si legge poesia anche per questo: per sobillare il linguaggio,
per liberarsi da umana lingua). Per chi fosse interessato, Canetti fa
riferimento ad Animal Language, libro fotografico del 1938, con due dischi “che
riproducevano i versi degli animali africani di giorno e di notte”, ideato da
Julian Huxley, il fratello di Aldous, che è stato, tra l’altro, il fondatore del
WWF, l’uomo che ha inventato la parola Transhumanism, transumanesimo.
Incapace di ‘contattare’ gli animali, Canetti li ascolta, nel suo studio gonfio
di libri, fiero della propria interiore ‘animalità’.
Sono quasi certo che i libri sciorinati da Canetti tra quelli “che più contano
per me”, facciano parte della biblioteca ideale di Gian Ruggero Manzoni. Pascal
e i Presocratici, Sofocle e William Blake, Georg Trakl e Zhuang-zi, Confucio,
Lao-Tzu ed Erodoto, Atlantis, soprattutto, la formidabile enciclopedia di miti e
fiabe africane collezionata da Leo Frobenius negli anni Venti. Manzoni ha lo
stesso physique intellettuale di Canetti: è uno ramingo tra più mondi culturali;
un vagabondaggio – è chiaro – che opera in orizzontale (libri) e in verticale
(pratica; ascesi/ascesa). A Canetti manca l’estremismo dell’azione, dell’esteta
armato; possedeva, tuttavia, il dono dell’ira e dell’eros. Ma non è questo il
punto.
Nel suo ultimo libro – se è poi l’ultimo: GRM pratica la giusta liturgia della
dissipazione, ogni libro è sempre l’ultimo –, Nel lento movimento dei
ghiacci (stampa puntoacapo), Manzoni dichiara i punti di giunzione tra il verbo
e l’animale, tra il poeta e lo sciamano (“Sciamano del Delta del Po, sempre
scopro ogni notte che vago nell’immutata sostanza della natura umana”: sua serpe
e suo scettro sia l’angusta anguilla). Sciamino, a questo punto, gli scettici:
al netto del consueto, cospicuo proliferare di ‘cultura’ (Leopold Zunz, Pascal,
Aristotele, i canti dei nativi d’America), Manzoni si dà alla ‘natura’ del gesto
lirico, inaugura la danza con gambe tese ad arco:
> “Nel lento movimento dei ghiacci, la porta spalancata è alla cometa, quella
> recante vita nel suo strascico… recante l’essenza di un altro mondo, che mai
> vedremo, se non ipotizzando un oltre alla tenebra, in piena luce”.
In un brano – che ricorda gli incantesimi orditi da Álvaro Mutis – GRM parla
dello “sciamano Ainu” che balla con l’orso dell’Hokkaido; parla delle “maghe del
Rio delle Amazzoni”, parla dell’“angelo di carne”. Ossidati all’oggi, i poeti
scontano la latitanza dal linguaggio che ‘agisce’, che si fa atto: espulsi dalla
natura e dalla storia – il poeta non ‘serve’ più, se non in civiltà più
raffinate, a cementare il senso d’appartenenza a una nazione, di servizio a una
terra, a una lingua/seme, lingua-seminagione –, i poeti, servili, sono utili,
semmai, a stimolare le anime belle, a far leva sui ‘sentimenti’; mai che
trafiggano e trasformino le anime. Così, sono i falsi poeti a proliferare, oggi,
a primeggiare, come sono i falsi profeti a guidare le adunate dei fedeli. Ma al
poeta nulla importa dell’applauso o del consenso – necessario, invece, al
romanziere, a chi lavora per ‘comunicare’ –: attende che la sua parola
sia efficace, e non mero guscio, vocabolo inerte, vocabolo-carcassa.
Manzoni riassomiglia la poesia al suo dire originario, ne fa nenia, sacra
cantilena – dunque, sacrilegio – in assenza di opera sacra. E allora:
> “Oggi sono la lince del fiume Amur, ieri fui il daino preso in trappola,
> domani sarò l’orso polare che, ai cacciatori, parlerà del sonno che t’invade,
> quando il freddo ti prende l’anima e le carni… quando i liquami umani via via
> si solidificano e l’alito vaporoso si trasforma in neve sulla barba”.
Chi vede in questi brani mere figure esornative, ‘immagini’, pittogrammi del
fallimento, è un idolatra del vocabolario. Chi conosce Manzoni sa che
la pratica è tale da sempre, da Il mercante di allodole (era il 1977, primo
verso che testimonia un’indole indocile: “Chi comprende i simboli con le mani è
l’unico uomo libero”), a Le battane di bronzo (uscì per la Stamperia
dell’Arancio, trent’anni fa, ne riproduco le cifre finali: “Per conquistare il
cielo occorrono macchine di luce, un modello che convinca e che riempia ognuno;
e una religione, votata all’essenza, o alla più feroce risposta”), in qua. Oggi
– nell’era della simulazione, che chiede di dissimularsi nell’altro – tale
pratica è semplicemente più esplicita.
Dunque, la congiunzione tra il poeta e l’animale. L’anima dello sciamano – così
ne dice Klaus E. Müller in Sciamanismo. Guaritori. Spiriti. Rituali, Bollati
Boringhieri, 2001 – veniva ruminata per tre anni dalla “Madre animale” (sia
alce, cervo o renna), era “l’anima di un essere dalla duplice natura, animale e
umana”, riconoscibile fin da bambino per eccezionalità fisica, ‘mostruosa’ (“gli
individui destinati a diventare grandi sciamani nascevano con i denti, oppure
‘con la camicia’ e con un numero eccedente di dita per mano (o per piede), o con
un neo vistoso sul corpo”), e psichica (“tendevano a cadere in deliquio e
avevano un carattere chiuso; di indole pensosa, passavano il tempo a rimuginare,
soli”). Ne seguiva, l’addestramento, la vita riparata dal convegno umano, in
luoghi spesso inaccessi; il corredo sonoro e lirico, che riproduceva le voci
degli animali-guida. Parola che sana, quello dello sciamano, che piega, che
piaga. L’amorfo repertorio che leggiamo, preziosità etnografica (ad esempio,
in: Testi dello sciamanesimo siberiano e centroasiatico, Utet, 1984), non va
letto come si leggerebbero Yeats o Blake (due poeti-sciamani, tra l’altro, che
sciamanizzano) ma come canto che anima, che opera, che in assenza di compito
resta esteticamente inerme. Lo sciamano presiede alla vita – il parto – e alla
morte – la sepoltura – e al pasto – la caccia. Eleva a suo grado gli elementi.
Ora: che può il poeta se non riferire un deciduo dire, la caducità della parola?
Il libro di Manzoni non è la cronaca di uno sciamano infame, senza futuro, ma
l’indizio iniziale di chi torna a manovrare il fuoco, di chi, con la timida
tenerezza del nudo uomo, che ascolta l’erba, i fiumi, lo scalciare del sole,
leva le briglie alle parole, leva ogni paramento, a trafittura d’ululato.
Compito del poeta: liberarsi della poesia. Scatenarla.
Per altro, il riferimento – GRM ha tradotto Genesi, Esodo, Isaia, una manciata
di Salmi per il “Salterio dei Poeti” e altro ancora va traducendo dal Testo – ha
pertinenza biblica. Iubal, figlio di Lamec, della genia di Caino, è “il padre di
tutti i suonatori di cetra (kinnor) e di flauto (ugab)”. Iubal non è il
primogenito – non lo era neanche Abele; a sottendere: destino di sacrificio – e
gli strumenti che crea indicano un opposto approccio all’arte mantica della
musica. Ugab, lo strumento a fiato, ruba il ‘soffio’ di chi lo suona: appare
poche volte nel testo biblico. Kinnor, invece, partecipa di ogni luogo del Testo
(42 occorrenze): lo strumento a corda pretende maneggevolezza nella voce,
accordo con il canto. Ogni strumento musicale è trasmutazione di uno strumento
di guerra: il flauto fu cerbottana; la cetra fu arco e fionda. Il flauto adombra
la tattica dell’uccello, la cetra quella del felide. Anche il più alto atto
d’arte reca un pervicace sentore di sangue.
Chi lamenta assenza di animali nei Vangeli ha lo sguardo fuori asse. Al dialogo
umano, frutto di sacri fraintesi, il Nazareno preferisce quello con le bestie e
con gli angeli (così insegna l’evangelista Marco). Il suo stesso corpo è arca,
nella sua voce la voce delle miriadi di bestie. Per altro, gli apostoli
operavano guarigioni, andavano in estasi, afferravano la serpe senza che gliene
incorresse danno. Di ciò, non restano neppure le vestigia – se non negli
esorcismi –, ma il sottile fastidio di un tempo andato.
Manzoni, intanto, continua la sua danza – a me ricorda, di spalle, il Giudice
Holden, istoriata creatura uscita dalle fucine di Cormac McCarthy, un poco Pan
un poco Astaroth, che sganghera la luce nel suo noccioleto. A noi, succhiare di
quel fiele.
*In copertina: strumento sciamanico esposto in “Shamans. Communicating the
invisible”, al Muse di Trento; nel testo: opere di Gian Ruggero Manzoni
L'articolo “Per conquistare il cielo”. La poetica dello sciamano. (Qualcosa,
ancora, su GRM) proviene da Pangea.
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> «Ciò che non viene detto, ha la vita più forte, perché ogni dire ed ogni
> accennare toglie qualcosa all’oggetto, lo intacca, e così lo diminuisce».
Riflessioni del genere non possono venire che da un grande silenzioso come lo
scrittore svizzero Robert Walser (1878-1956). Il più silenzioso dei
silenziosi. Un antidoto a un mondo come quello di oggi dominato dal
presenzialismo a tutti i costi, dalla facile indignazione, dalla protesta a buon
mercato, dallo spasmodico bisogno di apparire e di parlare anche quando non si
ha niente da dire. Leggerlo e conoscerlo vuol dire disintossicarsi dalla
stupidità dilagante per entrare in regioni dello spirito dove soffia un vento
sicuramente gelido, ma tonificante e salutare, che ci può aiutare a conservare
un minimo di dignità.
Sto parlando di uno scrittore unico e di una personalità originalissima, non
classificabile in nessun gruppo, in nessuna categoria o comunità. Un isolato
cultore della riservatezza e della povertà che non ha mai alzato la voce o
protestato; un uomo che ha fatto dell’assenza la sua religione e che si è
nascosto nelle pieghe della vita per salvarsi l’anima.
Se stiamo ai canoni esistenziali dominanti Walser è uno sconfitto dalla vita, un
perdente, ma se si impara a conoscerlo un po’ si capisce che in realtà è un
vincente. Sì, perché quest’uomo mite e inerme ha combattuto una lotta titanica e
probabilmente è uno dei pochi esseri umani che sia riuscito a non farsi
inghiottire da quell’ingranaggio infernale che ci stritola tutti, giorno per
giorno, ora per ora.
> «Non è forse bello che nella nostra esistenza rimanga qualcosa d’ignoto, di
> strano, come dietro un muro coperto d’edera? Questo le conferisce un fascino
> indicibile che sempre più si va perdendo. Oggi si ha voglia di tutto, ci
> s’impossessa di tutto con brutalità».
I protagonisti dei suoi romanzi e delle sue prose brevi sono sempre dei
perdigiorno o dei servitori che conducono un’esistenza insignificante, costretta
nei limiti imposti da qualche entità superiore. Ma è proprio in questa
subalternità il segreto. Solo mimetizzandosi in un ruolo anonimo è possibile
salvaguardare il proprio io, non essere identificati dal potere e non cadere
nella macina sociale.
Walser vede con grande lucidità il vuoto e il non senso della realtà ed è
convinto che per preservare un minimo di identità sia necessario abdicare alla
vita. L’unica via di salvezza è in un’apparente sconfitta. Da qui la sua
ossessione del “servire”. Dipendere da qualcuno o da qualcosa vuol dire
rinunciare a un’effimera affermazione della propria personalità, ma anche essere
esentati dal partecipare all’orrore del mondo.
Robert Walser (1878-1956)
La stessa biografia di Walser è una testimonianza di questa sofisticata e
silente tecnica di sopravvivenza. Prima si è dato a mille mestieri:
dall’apprendista in banca nella natia Biel al commesso di libreria, dal copista
al domestico in un continuo peregrinare tra la Svizzera e la Germania, quasi
sempre a piedi perché Robert Walser era un formidabile camminatore, nel senso
più nobile del termine come afferma Piero Citati:
> «Passeggiare era il ritmo interiore della sua mente: accresceva e placava la
> sua inquietudine, era la gioia, l’estasi. Dove poteva abitare, se la vita lo
> teneva fuori dalla porta? Solo sulle strade interminabili, bagnate dalla
> pioggia e dalla neve, dove vagava da quando la rugiada era ancora lucida
> sull’erba sino alla discesa delle tenebre».
Poi, in seguito a certi suoi comportamenti e a crisi di ansia, nel gennaio del
1929, quando Walser ha cinquant’anni, viene ricoverato in una clinica per
malattie nervose vicino a Berna. Da allora, per ventisette anni, vivrà sempre in
case di cura, in un’assoluta solitudine, rinunciando anche a scrivere per
coltivare solo e soltanto il silenzio. Almeno ufficialmente. In realtà molti
anni dopo la sua morte si è scoperto che anche nei lunghi anni di ricovero
Walser aveva continuato a scrivere, ma lo aveva fatto alla sua maniera, in modo
nascosto; a matita, utilizzando fogli riciclati che trovava qua e là, e con una
grafia talmente minuta da risultare illeggibile a occhio nudo. Sono i suoi
cosiddetti microgrammi. Un altro modo per celarsi agli occhi del mondo.
Nei lunghi anni di ricovero l’unico contatto con l’esterno saranno le lunghe
passeggiate fatte in compagnia dell’amico Carl Seelig, che ci ha lasciato una
toccante e preziosa testimonianza con il libro Passeggiate con Robert Walser di
cui consiglio vivamente la lettura. Per il resto Walser passava le giornate
nella grande camerata con gli altri malati intento a piegare sacchetti di carta,
osservando in modo scrupoloso tutte le regole dell’istituto, anche le più
stupide e insensate, e quando l’amico Seelig gli propose un trasferimento che
migliorasse la sua situazione rifiutò in modo deciso. Non voleva avere privilegi
né tanto meno rientrare in contatto con il mondo e si proponeva soltanto di
soddisfare quella che una volta definì come la sua massima
aspirazione: «diventare uno zero assoluto».
> «Preferisco sparire, adesso. Certo, potevo scegliere un convento per
> chiudermici dentro e pregare, rispettato dalla chiesa e dai potenti. Ma forse
> è meglio il manicomio. Ci sono meno idee su Dio qui dentro, meno preghiere
> incomprensibili, meno riti da accettare. Qui si sopravvive calmi. Qui si è
> sicuramente malati. Certificazioni, esami, firme, diagnosi. Perché bisogna
> avere sempre la testa inquieta? Il mondo non è già abbastanza agitato? Almeno
> opponiamoci al furore. Qui deve esserci la quiete».
La mattina di Natale del 1956 Robert Walser uscì dall’istituto psichiatrico di
Herisau per una delle sue solite passeggiate. Da solo, nel silenzio più
assoluto. Qualche ora più tardi venne ritrovato morto in un pendio coperto di
neve. Giaceva disteso con la testa un po’ piegata, la bocca aperta e sul volto
aveva un’espressione che assomigliava a un lieve sorriso.
Silvano Calzini
L'articolo “Preferisco sparire, adesso”. Vita di Robert Walser, lo scrittore che
divenne uno zero assoluto proviene da Pangea.
Per spiegare se un testo sia traducibile sono stati scritti centinaia di libri e
di saggi di traduttologia, sono state spese milioni parole in decine di lingue,
tradotte a loro volta in altre decine di lingue. Quello che resta, di questo
profluvio verbale, di questo scialo teoretico, sono alcune affermazioni
apodittiche e contraddittorie, che spesso sconfinano nel paradosso o nella
boutade, e che fanno il giro del mondo nei convegni sulla traduzione. Il
repertorio è infinito: dal precetto di Cicerone di non tradurre verbum pro
verbo alle polemiche di San Gerolamo, dalle considerazioni di Lutero alle
argomentazioni di Du Bellay, Montaigne e Chapman, a quelle di Ben Jonson
sull’imitazione, fino alle considerazioni filosofiche di Von Humboldt e ai
resoconti di Goethe, Schopenhauer, Arnold, Valéry, alle teorizzazioni di Pound,
Benjamin e Ortega y Gasset.
In Italia domina la battuta, citatissima e un po’ misogina – attribuita a Croce
ma in realtà di Carl Bertrand, il traduttore tedesco di Dante, che riprese una
definizione di Gilles Ménage –, secondo cui le traduzioni sarebbero come le
donne, “brutte e fedeli o belle e infedeli”. Come anche quella, attribuita a
Robert Frost, secondo cui “poesia è ciò che si perde nella traduzione”. Per
Ortega y Gasset, la traduzione, semplicemente, “non è possibile”; per Jakobson
“la poesia è intraducibile per definizione”. Walter Benjamin, pur nel suo
pessimismo, sostiene che “la traduzione è necessaria”. Secondo Novalis e
Humboldt, tutta la comunicazione è traduzione. C’è poi la celebre quartina di
Nabokov:
> “Cos’è la traduzione? Su un vassoio
> La testa pallida e fiammante di un poeta,
> Uno stridìo di pappagallo, una ciancia di scimmia,
> E una profanazione dei morti”.
Come afferma George Steiner in Dopo Babele, “per circa duemila anni di
discussioni e di precetti, le convinzioni e i contrasti manifestati sulla natura
della traduzione sono stati quasi gli stessi. Tesi identiche, mosse e
confutazioni familiari ricorrono nelle dispute, quasi senza eccezioni, da
Cicerone e Quintiliano ai giorni nostri”. Il postulato dell’intraducibilità
“poggia sulla convinzione, formale e pragmatica, che non vi possa essere
autentica simmetria, rispecchiamento adeguato, tra due sistemi semantici
differenti”. Il punto, conclude ancora Steiner, è sempre il medesimo: la cenere
non è la traduzione del fuoco.
Scuola spagnola, Testa di Giovanni il Battista, XVII secolo
Se, come sostiene Croce, “l’intraducibilità è la vita della parola”, resta
nondimeno il dato incontrovertibile che centinaia di migliaia di biblioteche
straripano di libri tradotti. E restano i milioni di libri tradotti da
un’infinità di lingue: molti egregiamente, altri mediocremente, altri ancora
pessimamente. Perché è vero che in nome della traduzione – della sua necessità,
e del suo culto – sono stati commessi i delitti più infami e i più gloriosi atti
di eroismo. Sepolti negli scaffali delle biblioteche, esposti sui banconi dei
librai di tutto il mondo, giacciono crimini linguistici efferati, compiuti
spesso da persone, come si dice, al di sopra di ogni sospetto, che le logiche
editoriali impongono, o tollerano o incoraggiano, che spesso i lettori subiscono
impotenti, e che nessuno punisce mai.
In questa necessaria, indispensabile quanto spesso inutile attività dell’ingegno
umano, si sono esercitate schiere di inetti, ignari spesso della lingua di
partenza come di quella d’arrivo, consegnando agli editori o alle stampe aborti
mostruosi; e imperano legioni di scrittori mancati e di scribacchini frustrati
che cercano, come uccelli usurpatori, confortevole riparo in nidi altrui. Ma a
tale attività offrono il loro contributo anche legioni di onesti mestieranti,
che pur dietro compensi offensivi nobilitano la professione; per non dire dei
non pochi geni che la elevano da attività funambolica a sublime forma d’arte.
Con ciò non si vuole infierire sulle traduzioni letterarie malfatte, ma
semplicemente porre l’accento su quanto sia arduo riuscire a fare una buona
traduzione. Com’è noto, una delle attività preferite di moltissimi critici e
traduttori è la caccia all’errore nelle traduzioni altrui: sport che ha prodotto
qualche libro divertente e molte gogne umilianti, come l’americano Glorious
Mistakes. Il che equivale, comunque, a sparare ai passeri. I francesi hanno
un’espressione deliziosa per definire questi perditempo frustrati che cercano un
po’ di gloria dando la caccia all’errore in traduzioni di onesti professionisti
che per pochi soldi si sono consumati gli occhi su testi a volte difficilissimi
al limite dell’intraducibilità: li chiamano (excuse my French) le enculeurs des
mouches, i sodomizzatori delle mosche.
Giovanni Bellini, Testa di Giovanni il Battista, 1470 ca.
Come diceva Pound, i critici dovrebbero ricordarsi che scopo della traduzione
poetica è appunto la “poesia”, non le definizioni verbali dei dizionari; e che a
volte una traduzione è brutta proprio perché non sbaglia mai. Il fondamento
della traduzione poetica, infatti, è la trasposizione, non il rispecchiamento,
vale a dire la restituzione fedele del senso poetico, e la necessità di
compiere, nella lingua d’arrivo, lo stesso percorso creativo che ha condotto
l’autore originale a dare al suo testo, tra tutte le forme possibili, quella
storicamente proposta e non altre. In questo senso, allora, ogni testo diventa
traducibile, con buona pace di Croce (che del resto non era poeta) e di tutti i
pudichi glottologi che con reverenza quasi superstiziosa ritengono sacro e
inviolabile il testo originale.
Prendiamo il caso del greco-alessandrino Costantino Kavafis, che mentre in
Grecia (dove lui non è mai vissuto) infuriava asperrima la questione della
lingua, se cioè si dovesse usare la lingua popolare (dimotikì) o quella
riformata (l’aulica katharèvusa), lui, “alla periferia dell’impero”, ad
Alessandria d’Egitto, usava nella sua poesia un amalgama delle due lingue,
creando uno stile personalissimo, unico e inimitabile. Se il neogreco è dunque
l’unico caso di diglossia praticata in un Paese moderno, com’è possibile
tradurre un poeta, che tra l’altro occasionalmente usa metrica e rima, e una
lingua “schizofrenica”, in qualsiasi altra lingua a cui sia estraneo il fenomeno
della diglossia? Eppure lo hanno fatto in moltissimi. Secondo una recente
ricerca dell’Università di Salonicco, Kavafis è in assoluto il poeta moderno più
tradotto e imitato al mondo (seguito a diverse lunghezze da Pessoa). Che cosa
sarà mai rimasto della “intraducibile” poesia di Kavafis nelle innumerevoli
versioni fatte nelle lingue più ignote, compresa la lingua dei maori? Di certo,
come nel caso di molti altri poeti, qualche inevitabile scempio metafrastico. Ma
forse non solo. Io credo che resti dell’altro, che se si perde molta “filologia”
rimanga però anche un po’ di buona “poesia”. Diversamente non si spiegherebbe il
paradosso che uno dei poeti moderni “più intraducibili” come Kavafis abbia
influenzato forse più di chiunque altro buona parte della poesia contemporanea
moderna.
Personalmente credo che la traduzione vada intesa secondo il principio
dell’equivalenza, e che il traduttore dovrebbe sforzarsi di pensare a come
sarebbe l’opera originale se fosse stata scritta nella propria lingua. E mi
torna alla mente Novalis, secondo cui la traduzione è “poesia della poesia”,
giacché il traduttore, nel suo sforzo di dare una nuova veste linguistica
all’originale, deve prima enuclearne la “poeticità”. Questo è il principio di
equivalenza su cui dovrebbe fondarsi l’atto del tradurre. Atto che è garantito
solo se il traduttore è un poeta o ha alle spalle una solida cultura poetica. Se
poi il traduttore-poeta condivide con l’autore che traduce principî estetici e
artistici comuni, e ha con quest’ultimo affinità ideali, allora il testo tradotto
riuscirà davvero a costituirsi come un’opera nuova e originale. Credo che
l’obiettivo finale di ogni traduzione, infatti, sia quello di trascendere
l’originale, in un certo senso ucciderlo per trasformarlo in un nuovo originale.
Giovan Francesco Maineri, Testa di Giovanni il Battista, 1502
Ma questa è una situazione ideale, quasi sempre difficile da verificarsi. Le
necessità dell’editoria moderna sembrano far prevalere le esigenze delle
traduzioni di servizio su quelle artistiche, e d’altro canto non sempre i buoni
traduttori sono anche poeti, e viceversa. Ma anche quando una stessa persona
riesca a coniugare in sé le qualità del poeta e del traduttore, i pericoli non
mancano. Il testo originale rischia di essere dimenticato e sostituito
completamente da un altro testo (a volte persino migliore, come per esempio è
capitato al Cinque maggio di Alessandro Manzoni tradotto da Goethe), che reca in
sé le tracce dell’ideologia e delle esperienze di colui che pertanto dovrà
considerarsi il nuovo autore, e le specificità proprie dell’ambito linguistico e
culturale d’arrivo.
Tradurre, dunque, non è né possibile né impossibile: è semplicemente
necessario. Per dirla con Benjamin, la traduzione è un luogo d’incontro tra
lingue e culture diverse, un luogo utopico di raccordo tra le divergenze. È un
mezzo di circolazione, di crescita e di arricchimento culturale prezioso e
indispensabile.
Forse la miglior traduzione letteraria possibile è quella della poesia tradotta
dai poeti, cioè la poesia tradotta in “poesia”.
Nicola Crocetti
*Questo testo è stato scritto per una conferenza sulla traduzione tenutasi a
Parigi nel 2000. Fortunosamente ritrovato dall’autore, ci è parso bello
pubblicarlo, non come l’ennesimo documento su un tema per sua natura infinito –
come lo è il linguaggio, come lo è il suo umile tedoforo: l’uomo – ma per la sua
smaliziata ‘luccicanza’, per la sua inesausta fede nel ‘fatto’ poetico. Al
poeta, in effetti, non interessano gli applausi del pubblico pagante (o
fraudolento), ma che la sua poesia ‘agisca’ davvero: che faccia piovere sul
deserto, che faccia muovere le montagne, che muova a compassione gli induriti
cuori.
In copertina: Albrecht Bouts, Testa di Giovanni il Battista, XV secolo
L'articolo “Su un vassoio, la testa pallida del poeta”. Tradurre poesia, un
crimine linguistico proviene da Pangea.
Poco importa che si riferisse alle bianche montagne che spiccano alle spalle
della cittadina: quel nome, attribuito con razionalità da irragionevoli, ha un
sapore di Egitto, di gesti che adombrano, con severità, la rivoluzione degli
astri, di un mistero ispido, felino, del sangue che nutre l’oltre, un aldilà di
angeli sciacalli, lo sciacallaggio dell’io, e quell’arrischiata geometria –
Pyramiden-Piramida-piramide – che incombe, come se si potesse armonizzare il
pasto, favoleggiare su una dottrina dell’assalto, approvvigionare il cuore di
memorie passeriformi.
E poi, sì, il ghiacciaio – il Nordenskjøldbree – che pare una Sfinge, gonfio di
leonini, femminei enigmi; il fiordo che fende una liceale idea di fede; l’idea
che lassù, alle Svalbard, esista il Messia paria, l’impari, in forma orsina,
l’irsuto, nonostante l’impero dei Soviet che manda a pascolare i sudditi negli
inaccessibili luoghi. Uomini che, per incuria e per purezza del luogo, divengono
torce, uomini-fuoco. Già. La Terza Roma, Mosca, che fa proseliti al Polo;
Cirillo trapiantato in una baia. Pyramiden come Gerusalemme, allora: forse è lì,
nella fantomatica città – dismessa dagli anni Novanta, oggi meta degli
estremismi del turismo –, che avverrà il Giorno.
Lascia una stimmate nel cuore la vista di Pyramiden, se non altro per quella
sproporzione di un Eden all’estremo Nord. E poi: la sovranità dell’uomo che
vuole costruire città in luoghi a lui sigillati. In scala, Pyramiden mi ricorda
l’utopia di Cosimo I de’ Medici, Granduca di Toscana: ribattezzò “Città del
Sole” – già nei ventricoli del nome, l’idra dell’utopia, una solarità nera, la
nigredo di Adamo – un borgo costruito sul Sasso Simone, impervia rocca nei
pressi di Carpegna, poco lontano da Urbino. Della città – col mastio, la chiesa,
il tribunale e le botteghe –, ideata tra astrazioni, nel laboratorio fiorentino
del Granduca, restano tracce di vie, rudi cisterne: sfiorì in un secolo,
falciata da cupi inverni, dalle intemerate dei lupi, dal dilagare di delittuose
malattie; nel XVII secolo era già spirata. Dicono di un ebrietà di orsi.
Pyramiden, però – ecco, il miracolo (e la condanna) del gelo –, non è sparita; è
lì, l’espianto dei volti, le vite confitte, la confettura dei ricordi.
Inossidabile memoria del Nord. Così, intorno a Pyramiden. Una città
fantasma (Bertoni, 2025), Linda Terziroli ha costruito un romanzo di ferma
ferocia – che è poi, anche, un modo per dire: sono sopravvissuta, sono qui, a
tempio disfatto, con la piccola reliquia tra le palpebre mani.
Ma un libro, soprattutto, non è la cronaca dei fatti, bensì carrellata di
immagini. Ne scelgo due, indelebili, che vanno incapsulate l’una nell’altra a
dire della ricerca dell’assoluto, di una innocenza che giunge dai primordi della
pena. La prima:
> “Le altalene davanti alla scuola danzano, oggi, scricchiolando, al gelido
> fiato del vento polare… I bambini, che non erano numerosi quanto gli adulti,
> si divertivano per ore su quelle magre altalene azzurre di acciaio verniciato.
> Nonostante il freddo, nonostante la penuria di luce. I bambini sanno giocare
> ovunque. Anche sul prato della fine del mondo”.
L’altra riguarda l’animale:
> “Dietro il nuovo capanno di legno si muoveva un orso bianco di almeno duecento
> chili… Era ormai da un paio d’anni che non mi capitava di vedere un orso da
> così vicino. Potevo sentire il suo fiato caldo. E, soprattutto, il suo odore
> acre. Ho visto la sua bocca spalancata, i denti piuttosto gialli. Il giallo
> della pelliccia vicino alle fauci. E soprattutto i suoi occhi che mi
> guardavano. Forse non mi avrebbe fatto del male. Gli animali di varie specie
> hanno un rispetto quasi religioso nei confronti di una donna incinta. L’avevo
> letto da qualche parte. Ero sorprendentemente tranquilla. Intercettare il suo
> sguardo, tuttavia, mi ha dato una scossa violentissima. Era il suo sguardo a
> graffiarmi con potenza”.
Più che a Guido Morselli – autore-totem di Terizoroli – si va a volte nei
dintorni di Karen Blixen. Quando incontrano un orso, gli Iacuti lanciano
un’invocazione:
> “Modera la tua ira!
> Se tu volessi ritirarti nel profondo della foresta,
> come una crepa nel legno,
> diverresti simile a una soffice piuma di zibellino”.
Nel romanzo, alla protagonista, ignara del sistro e del tamburo, insegnano a
maneggiare il Mosin-Nagant “in caso di necessità”: un fucile a ripetizione tra i
più usati nel regno sovietico. Ma qui è accaduto qualcos’altro. Il nascituro,
forse, avrà la statura di un compiuto essere, non sarà più mero strumento
dell’uomo.
Ad ogni modo, ho interpellato Linda.
Preliminare: perché l’ossessione del Nord?
Che cosa si prova quando ci si accorge, improvvisamente, di non aver scampo? Mi
hanno sempre affascinato le storie ambientate al Polo. La tragica fine tra i
ghiacci del celebre esploratore Roald Amundsen, scomparso per salvare il vecchio
rivale Umberto Nobile. La celebre “tenda rossa”. Ma anche la spedizione
scientifica di Salomon August Andrée nel 1882. La storia della casa svedese a
Kapp Thorsen, nell’Isfjorden, a Spitsbergen, il cuore dell’arcipelago delle
Svalbard dove diciassette cacciatori di foca trovarono la morte nell’inverno
1872 – 1873. Tanto per citare alcune storie artiche che mi appassionano molto.
Il Polo Nord è aspro e senza speranza, inospitale e sublime. Con una luce
abbagliante e una tenebra feroce: è terra dai forti contrasti. Terra di
conquista e terra di morte, dove si distilla l’umanità perché la natura prende
il sopravvento, perché l’uomo di fronte alla natura è destinato a soccombere. Le
storie polari sono dense di eroismi e di tragedie. L’odore di morte è sepolto da
una coltre di mistero e non riesci a cogliere il segreto del suo mistero, ma ne
sei catturato, soggiogato come da una malia. Sono terre affascinanti che serbano
in grembo molte storie affascinanti che devono essere ancora portate alla luce.
Poi: Pyramiden. Che cosa ti affascina di quella città-fantasma, erede geologica
di un tempo perduto, non so quanto da rimpiangere?
Pyramiden è il nome di questa città mineraria sovietica, ormai un fantasma nel
cuore dell’isola di Spitsbergen, alle Svalbard, che si trovano appunto in
Norvegia. Fondata da minatori svedesi nei primi anni del Novecento, la città fu
venduta ai russi nel 1927. E ancora oggi è un avamposto russo in terra
norvegese. Ma al di là del dato, del riferimento storico, un tempo sovietico che
non esiste più, un sogno di grandezza piuttosto assurdo nel cuore del fiordo,
l’idea di piramide che evoca il suo nome certo fa riferimento alle montagne
piramidali o se vogliamo triangolari che qui si vedono, ma ancor di più mi fa
pensare alla morte. Ad una pace (come è scritto sulla montagna della città in
cirillico “Miru Mir”) che è una riduzione al silenzio, un riposo fatale, una
istigazione al suicidio, un calice di veleno. Un luogo, insomma, in cui il
passato si congela e si squaderna placido davanti al tuo sguardo, come un freddo
cadavere. Un luogo in cui la notte artica allunga una coperta di tenebra e la
luce illumina un mistero che non sei in grado, razionalmente, di interpretare.
In esergo: Ezra Pound – perché? Poi, Pascoli. C’è forse un refrain, un
sottofondo lirico che anima il romanzo?
Ciò che ami veramente rimarrà, ciò che ami veramente non ti sarà portato via, è
la tua vera eredità, scrive Ezra Pound. L’oggetto del nostro amore non è quindi
un luogo, non è un qualcosa che ci può essere strappato, è invece qualcosa che
rimane per sempre, come un ricordo ancorato al cuore. Ecco il senso del ritorno
della protagonista – a distanza di tanti anni – nei luoghi in cui ha vissuto
come insegnante, ormai ridotti a relitti, a fotografie ingiallite e perdute sul
fondo di un cassetto. Si accorge, insomma, Anna, la protagonista, che non serve
ritornare dove era stata una giovane insegnante innamorata, da ragazza, ormai
che è donna. Tutto quello che le serve è ricordare. Ricordare tuttavia non
significa ricostruire il passato e le sue verità. La verità è opaca e il male
che in questa strana terra perduta si consumava non si legge chiaramente ad
occhio nudo. La verità è che le radici del male sono spesso ben nascoste e sono
piuttosto aggrovigliate.
Da dove ti è arrivata questa storia, come l’hai elaborata?
Sono certa che la potenza di un luogo misterioso come Pyramiden può essere in
grado di stregare anche il più razionale e indifferente degli uomini. Dopo aver
visitato Pyramiden, ormai diversi anni fa, ho iniziato a visitarla dal punto di
vista narrativo e mi sono spesso domandata come inserire una vicenda inventata
tra le pagine di un luogo così particolare e seducente e inquietante. Ho quindi
pensato che certo doveva essere un luogo di morte ma anche la culla di un amore
tragico e tormentato. Una mia amica mi ha detto che è un romanzo da leggere nel
cuore dell’inverno.
Che cosa hai scelto di omettere, di velare nel pudore? Qual è ‘l’indicibile’ del
tuo romanzo?
Ho scelto di omettere e quindi di non rivelare alcuni particolari che potrebbero
spiegare il comportamento enigmatico di un paio di personaggi. Perché mi
sembrava molto interessante non dare troppe spiegazioni. Non mettere le mani
avanti. Non tenere per mano il lettore. Ma nella vita non è forse così? Quello
che vediamo è sempre vero? La spiegazione che ci danno di alcune vicende del
passato è vera del tutto? La voce che sentiamo nel bel mezzo della notte è il
grido d’aiuto o una raffica di vento gelido? Inoltre, mi piaceva l’idea che la
protagonista, un poco per volta, arrivasse a capire di essere ascoltata,
controllata e spiata. Del resto, a Pyramden, con l’ufficio con le finestre
sbarrate del KGB più a nord della Terra, potrebbe essere piuttosto qualcosa di
corrispondente alla verità.
Ritaglia un nugolo di frasi dal libro, quelle che ritieni importanti.
Ad esempio questa che ha a che fare con l’insondabilità della verità e del male.
> “C’è sempre un giorno in cui uno dei veli che copre la verità scende e puoi
> contemplare una parte della realtà in tutta la sua crudezza e la sua
> integrità, ma solo una parte minima e alquanto stropicciata. La vedi e senti
> come un’ustione sulla pelle. Per me quello è stato un giorno particolarmente
> freddo, era marzo, ma la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero e,
> nonostante questo, si iniziava a intravedere il risveglio della primavera. Il
> fiordo ghiacciato cominciava a mostrare le prime crepe, i primi cedimenti,
> sotto il respiro della stagione più mite. Si sentivano dei rumori provenire
> dai ghiacciai. Improvvisamente si staccavano pezzi di ghiaccio con il fragore
> improvviso, spaventoso come di un colpo di fucile”.
Oppure penso alla descrizione di una donna bellissima, ricoverata nel grembo
dell’ospedale inaccessibile che è prigioniera della sua pazzia e delle
conseguenti, drammatiche cure della sua stessa malattia mentale.
> “Congiungeva le mani, sembrava pregasse. Ho pronunciato il suo nome, prima con
> un sussurro poi con la voce più alta. “Nastas’ya, Nastas’ya!”. Lei che ha
> capito di essere chiamata, ha diretto lo sguardo nella mia direzione e ha
> sorriso. Ma nella sua bocca c’erano solo saliva e gengive spoglie. Sorrideva,
> ma non aveva nessun dente in bocca. Glieli avevano strappati tutti”.
Questa frase che segue penso invece racchiuda, in uno sguardo, il significato
che ho tentato di dare alla mia storia ambientata nella città fantasma di
Pyramiden:
> “Quando muore, il passato continua a sopravvivere in una stanza piena di
> polvere, dentro il nostro cuore. Camminando tra queste pietre, ci sono
> migliaia di occhi che ci scrutano”.
E ora? Cosa scrivi, cosa studi?
Ho presentato pochi giorni fa il saggio La nascita nella letteratura (Oligo
editore) che è uscito dopo il romanzo Pyramiden. Un itinerario nel cuore
dell’ossessione della maternità, un viaggio tra le pagine letterarie dedicate al
parto e all’aborto. Cerco sempre di trovare nuovi terreni di riflessione accanto
alla passione per gli autori che amo, come certamente Guido Morselli. In questo
momento, sto studiando le scrittrici del Novecento, cerco di ascoltare la loro
voce, di distinguere e distillare insomma la voce femminile che è, di per sé,
più bassa, più misteriosa e, per certi versi, fioca rispetto a quella maschile.
Ma talvolta è necessariamente più potente e audace.
*In copertina e nel testo: immagini da Pyramiden
L'articolo “Anche sul prato della fine del mondo”. Storia di Pyramiden, la città
fantasma. Dialogo con Linda Terziroli proviene da Pangea.
Dotato di quella rabbiosa precocità che soltanto il dolore rende esatta –
endocardite reumatica, dissero: faceva le elementari – e di uno sguardo
mesmerico, da mari del Nord, Massimo Ferretti inviò la plaquette che s’era
stampato a sue spese, presso una tipografia di Jesi, a una decina di riviste
letterarie. Doveva ancora diplomarsi, compiva vent’anni: eccelleva nei temi,
restio al resto lo bocciarono in seconda. Nato a Chiaravalle, figlio di un
geometra e di una maestra elementare, fu snobbato da quasi tutti i papaveri
dell’editoria di allora. Gli rispose, entusiasta, Pier Paolo Pasolini; di lui
scrisse, entusiasta, su “Officina”. Ferretti si rivolgeva al “caro professore”
con deferenza non priva di ferocia; Pasolini, che alternava generosità e
tirannia (due monete della stessa zecca), tentò di fare di quel ceruleo
marchigiano uno dei suoi adepti. Quando gli intimò di non pubblicare per Schwarz
– “ha stampato un pacco di inutili libri vanitosi e superficialmente
sperimentali” – Ferretti obbedì; quando gli propose di scrivere per la Rai,
Ferretti ci si mise (senza successo). Quando, desolato dall’università – a
Perugia, “un labirinto di vicoli; profumi claustrali; manie cosmopolite” –,
Ferretti gioca all’uomo in rivolta, carpito di una rivoltante depressione, e gli
chiede “tu frequenti l’ambiente del cinematografo: e io porto dentro di me un
attore”, Pasolini lo blocca, bacchetta il suo “maleodorante romanticismo”, gli
dice di tornare a studiare.
> “Altrimenti sei il solito mandolinista italiano, il solito poetastro
> rompicoglioni, dilettante e presuntuoso”.
Siamo agli inizi del ’57: Pasolini sta acconciando Le ceneri di Gramsci; ha da
poco pubblicato Ragazzi di vita. Grazie ai suoi auspici, Ferretti pubblicherà
per Garzanti, nel 1963, Allergia: pochi ne parlano, pochi lo comprano, alcuni se
ne entusiasmano (Ferretti giura di aver visto, a Roma, “Sul bus 37, Giorgio
Manganelli… con un libro sotto il braccio: Allergia”). Ad ogni modo, il libro è
onorato con il “Premio Viareggio” opera prima; negli anni, s’inabissa
nell’oblio, diventando – per sparuti poeti che ormeggiano le proprie aspirazioni
verso l’inattuale – un testo ‘di culto’: all’edizione Marcos y Marcos del 1994
seguirà, nel 2019, quella definitiva, edita da Giometti & Antonello.
Aveva ragione Pasolini – che leggeva il giovane Ferretti “con le lacrime agli
occhi, come in sogno” –: quella poesia, di un Leopardi passato sotto i torchi di
Marx, reca una spaventosa innocenza, un delirare che viene dai primordi, lo
stigma dell’“adolescente segnato dalla malattia e da un’inquietudine perpetua
come un personaggio di Thomas Mann” (così Massimo Raffaeli). L’attacco
di Polemica per un’epopea tascabile, per dire, è bellissimo:
> “Sono un animale ferito.
> Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere
> definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda.
> Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il
> cuore m’avrebbe solo bagnato”.
Successe, poi, il disastro.
Pasolini intendeva il magistero nelle forme di un’arte predatoria; Ferretti –
creatura dagli insondabili umori, da erbivoro con zanne da tigre – gli sfuggì. A
metà dicembre del 1957 i due – il maestro e il pupillo – s’incontrano, a Roma.
Ferretti si ritrae, rientra a casa inquieto, inquietato: “Avevo 20 anni e t’ho
fatto diventare un eroe… questa è stata la mia grande colpa”. Pasolini gli
risponde con un autoritratto:
> “io mi innamoro esclusivamente dei ragazzi sotto i vent’anni, e molto ingenui,
> direi quasi soltanto del popolo (ingenui dal punto di vista culturale, non
> erotico)… Una vita estremamente libera e dissipata non ha scalfito la mia
> innocenza nemmeno di un millimetro: sono veramente vergine e ragazzo, da
> questo punto di vista”.
Da lì, il rapporto si corrode: Ferretti segue l’armata del Gruppo 63, frequenta
Nanni Balestrini, si scrive con Antonio Porta; pubblica con Feltrinelli, nel
1965, Il gazzarra. Nonostante il romanzo sia esaltato, in copertina, come
“Divertentissimo: un Zazie nel metrò italiano, un nuovo Pian della Tortilla”,
Ferretti non è Queneau né Steinbeck; la critica lo snobba e Il gazzarra – come
il romanzo precedente, Rodrigo, edito da Garzanti nel 1963 – resta tra le
retrovie dell’epoca.
Nel 1959 Ferretti si era “consegnato”, per l’ennesima volta, a Pasolini; gli
racconta del cugino suicida, “aveva un anno più di me e non era un giovane
bruciato: era disperato”. Il maestro gli risponde, trafelato, tra “il trasloco”
e “il Premio Strega, con le sue mille telefonate”. È una risposta sbrindellata,
da bovina madama ideologia in imperio: “Quello che non capisco – e che ti
minaccia – che minaccia te, la tua poesia, il tuo equilibrio – è quella voglia a
essere ciò che non vuoi essere: borghese, reazionario, fascista”. Ferretti lo
malmena: “Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente… sei
diventato vecchio o non hai più niente da dirmi?”.
Da qui in poi, il carteggio – che si legge in un libro violento e
istruttivo edito da Giometti & Antonello: Massimo Ferretti, Lettere a Pier Paolo
Pasolini e altri inediti, a cura di Massimo Raffaeli – segue l’atroce trama di
un tema capitale: il maestro che diventa aguzzino; o meglio: l’angelo che si
tramuta, per infatuata furia, in vampiro. Pasolini, creatura angelica, sapeva
azzannare al collo.
Per un po’, Ferretti lavora in Longanesi, scrive saltuariamente su “Il Giorno”;
per Feltrinelli traduce Tra, romanzo sperimentale (mai più ripubblicato) di
Christine Brooke-Rose; per Astrolabio traduce Hilda Doolittle (I segno sul muro,
1973), primordiale musa di Pound, e l’antropologa Margaret Murray (Il dio delle
streghe, 1972). Nel 1968 aveva sposato, a Roma, Nilvia, una compagna del liceo:
chiedendo a Pasolini di fargli da testimone gli scrisse di aver
visto Teorema, “è proprio avvilente (per uno che ti ha stimato come me)
assistere allo spettacolo di come degradi il tuo talento”. Pasolini replica da
chioccia in estro (“Teorema è un bellissimo film, quasi assoluto”) e accetta di
fargli da testimone, “disumanamente”. Le date, tuttavia, non collimano: al
fianco di Ferretti ci sarà Balestrini. Qualche tempo prima, Pasolini lo aveva
bollato così: “Rimbaud integrato in una società di imbecilli”.
Schifato dall’odierno mondo della cultura italiana, Ferretti si isola, scrive
nascostamente, guarda il calcio in tivù, gioca a scacchi. Non attende altro e
nel novembre del 1974 muore, nel sonno. Qualche mese prima aveva scritto
l’ultima, allucinata lettera-invettiva a “Pierpaolo mio”:
> “Decaduta si insabbia nella tua religiosa mondanità la mia vispa teresa per
> niente sorpresa che Pasolini faccia rima soprattutto con quattrini”.
Era arrivato l’astio, infine, il cupo gemello della pietà.
Pasolini sarebbe morto, nei modi che sappiamo, esattamente un anno dopo.
*In copertina: Pier Paolo Pasolini nel 1966, ritratto da Richard Avedon
L'articolo “Altrimenti sei il solito poetastro rompicoglioni”. Pasolini &
Ferretti, l’allievo eretico proviene da Pangea.
Massimo Bontempelli è lo scrittore italiano che con maggiore intensità ha
lavorato nel canone biblico, rielaborandolo secondo le mire della propria
ispirazione. Tra i grandi autori del Novecento – vanno citati, almeno, La vita
intensa, Vita e morte di Adria e dei suoi figli, Gente nel tempo e L’amante
fedele; sia lode all’editore Utopia che va rieditando tutto –, Bontempelli fondò
riviste – “900”, ad esempio, insieme a Curzio Malaparte: ai “Cahiers d’Italie et
d’Europe” collaborarono, tra gli altri, Joyce e Pierre Mac Orlan, Virginia Woolf
e Alberto Moravia –, fu futurista per noia, fascista per dovere e per passione,
espulso dal partito nel 1936, perché rifiutò di occupare la cattedra di
letteratura italiana a Firenze al posto di Attilio Momigliano, sollevato dopo le
leggi razziali. Eletto senatore nel 1948, nei ranghi del Fronte Democratico
Popolare, fu espulso anche dal Parlamento, poco dopo; al “compagno Bontempelli
di oggi” non fu perdonato “il camerata Bontempelli di ieri”; un’autentica
porcata politica, come ha riconosciuto un critico ‘di parte’ (comunista),
Alberto Asor Rosa: “la sua elezione, con un rigore che non fu usato nel
confronto di altri, venne invalidata per il suo passato fascista e la sua
appartenenza alla Accademia d’Italia”.
Musicista nel tempo libero, Bontempelli ha tradotto Stendhal, Chateaubriand,
Apuleio. Il suo Vangelo secondo Giovannifu incorporato in un’edizione dei
Vangeli edita da Neri Pozza nel 1947, a cura degli scrittori: a Nicola Lisi fu
affidato il Vangelo di Matteo, a Corrado Alvaro quello di Marco, a Diego Valeri
quello di Luca. Il volume uscì con l’introduzione di don Giuseppe De Luca e
l’imprimatur dell’allora cardinale Roncalli. Dal Nuovo Testamento, Bontempelli
ha tradotto anche le Lettere di Giovanni e – con particolare partecipazione –
l’Apocalisse: nel poeta “relegato in una menoma isola dell’Egeo di Pan, sotto le
stesse stelle che Saffo aveva vedute tramontare, [che] nel giorno del Signore ha
e scrive il rapimento dell’angoscia e della speranza”, intravedeva,
probabilmente, il simbolo vivente della scrittura. Cioè: isolarsi dalle tempeste
della Storia, vigilare sulle proprie visioni, darsi alle altezze.
Bontempelli è un pioniere della traduzione biblica ‘autoriale’: entra nel
deserto ebraico da predestinato, con iliadica corazza retorica e tutti gli
araldi attorno. Alcune proposte, così, suonano un po’ rétro, molte altre
resistono, sgargianti (ad esempio, è bello passarsi sulle labbra questo dire,
corroborante: “Dolce cosa è la luce, e diletto agli occhi il sole”).
Nell’editoriale di “900”, era il 1926, Bontempelli scrive: “La vita più
quotidiana e normale, vogliamo vederla come un avventuroso miracolo: rischio
continuo, e continuo sforzo di eroismi o di trappolerie per scamparne.
L’esercizio stesso dell’arte diviene un rischio d’ogni momento”. Il senso del
rischio e dell’avventura si avvertono nelle sue traduzioni, brillanti, a briglia
sciolta.
Tradurre il testo sacro – dunque: dissacrarlo – vuol dire aprire i recinti e
liberare le bestie. Spesso, ciò che hai creduto domestico, domesticato, ti si
rivolta contro, si rivela il tuo totale nemico. La Bibbia, cioè, è un testo
‘vivente’, un testo-zoé, parola che dà la vita: ogni traduzione, allora, è come
il gesto del picador che conficca la lancia sul collo taurino, fiacca e fa
esplodere il corpo dell’offerta. Bontempelli ne era consapevole: aveva sintonia
con Giovanni, in particolare, e così scrive dell’Apocalisse, testo che è
inesatto tacitare come attuale, perché è grazie al suo attuarsi che esiste
l’attualità:
> “La caduta degli angeli è il primo capitolo della storia umana. Di là comincia
> l’inquietudine dei tentativi perennemente rinnovati dell’uomo per ritrovare il
> volo e il cielo: ma di continuo li combattono le potenze della terra, quasi
> essa non voglia essere riabbandonata alla vuota solitudine ora che ha sentito
> il caldo della vita e dell’intelligenza.
>
> Poesia, filosofia, religione, forme vive della contemplazione, tentano
> resistere alla storia, che è fatta di prepotenza e avidità. Disperata
> resistenza. La spiritualità dell’uomo è continuamente sopraffatta dalla sua
> zoologia… Ogni periodo di tempo presenta in pieno il decorso di questa lotta,
> nella quale la malizia storica finisce sempre per avere il sopravvento
> sull’innocenza primordiale: le epoche che la storia ci tramanda con vanto come
> le più splendide, sono quelle in cui l’uomo più s’allontanava dalla Sapienza e
> da Dio: i cosiddetti Rinascimenti. Il poema di Giovanni è tra l’altro una
> vivace rappresentazione del travaglio della storia, della lotta tra
> contemplazione e azione, tra cielo e terra”.
Nel 1971 Mondadori ha raccolto come Traduzioni dalla Bibbia gli esperimenti
esegetici di Bontempelli. L’autore era morto undici anni prima; aveva lo stigma
del visionario. Dal Primo Testamento aveva tradotto Il libro di Giobbe, Cantico
dei Cantici, Sapienza. La casa editrice De Piante ha riesumato le sua versione
di Qoelet (2025), il rotolo biblico che ricapitola la promessa in un pozzo,
l’esodo in una spartizione di sparizioni. Qoelet: basso rogo di fiamme locuste;
buco nero in cui l’iddio degli eserciti è vanitas, insieme a tutto il resto,
insieme al tutto.
Non difetta in lirismo, il genio del grande scrittore. Bontempelli, in effetti,
scrisse poesie: raccolte, nel 1919, da Facchi, come Il purosangue. L’ubriaco,
recano i crismi di una ferina singolarità, da disastro imminente. Piacquero a
Gozzano, Mengaldo le incorpora nei Poeti italiani del Novecento, andrebbero
rilette, eccone una, Prigioni, 1:
Un lucernario nell’alto taglia un quadrato di cielo.
Stridi di rondini neri nei mattini passano
si sgombra la scena canta l’azzurro –
passano aquile grandi grandi con le ali
tra le trombe dorate del sole alto –
angeli a stormi al tramonto appaiono fuggono
candidi profilati di bagliori rosei –
nel prato delle stelle che sventolano veli
scivolano sciami lunghi d’anime scompaiono.
A notte fonda si spengono tutte le stelle
nulla si muove sulla scena nera –
tutti i pensieri profondi degli uomini s’addensano
nell’immenso quadrato del cielo
sfumava la cornice nel nero dell’infinità
cadono le pareti e la prigione è scomparsa –
tutti i canti gravi e acuti del mondo
accolgono l’anima libera signora.
Girandole cifrate della storia. Nel 1955 – “credo” – Guido Ceronetti comincia a
praticare, da alchimista, il testo biblico: si scontra con Ecclesiaste, impara
da un rabbino “a dirne i versetti autentici, le ripetizioni martellanti in
specie, facendo smorfie di rabbia e di disgusto”. Compiva ventotto anni. A mo’
di risarcimento, due anni prima, il Premio Strega aveva onorato Bontempelli,
ormai un paria delle patrie lettere: L’amante fedele – una raccolta di antichi
racconti – primeggiò sul Sergente nella neve di Rigoni Stern, sulle Novelle del
ducato in fiamme di Gadda e Le libere donne di Magliano di Tobino, un
capolavoro.
La prima traduzione di Ceronetti di Qohélet o L’Ecclesiaste esce da Einaudi nel
1970, nella ‘Collezione di poesia’. Bontempelli era morto dieci anni prima – di
“qoheletite”, verrebbe da dire, parafrasando Ceronetti –; l’anno dopo Mondadori
sarebbe uscita con il volume – presto scomparso – delle Traduzioni dalla Bibbia.
Bontempelli si rifaceva alla “Clementina”, la versione della Biblia
Sacra vulgata, edita nel 1927. Le varie versioni di Qohélet ordite da Ceronetti
trovano un luogo riassuntivo nell’edizione Adelphi del 2001. Ceronetti era
sintonizzato su quel roco dire di “colui che prende la parola”: uno che ghigna
tra cumuli di carcasse. Amava l’“incurabile incoerenza” del testo ebraico, la
funebre giga di quel “Disitengratore che come tesori di sapienza nient’altro ha
da offrire che pentole e sveglie rotte di assurdo, figure di sconnessione,
figure del titanico, indecente Assurdo che è la vita”. Se ne rallegrava,
perfino, di quel Qohélet-Céline, orchestrale di disastri. Franco Fortini lo
criticò. Nei suoi bagliori verbali si intravedeva troppo Novecento, troppa danza
macabra dei pupazzi e degli scheletri, troppo gnosticismo da letterati.
> “Quanto a Ceronetti, sembra di leggere una parafrasi da Ungaretti; non priva
> di efficacia; ma che introna e distrae. Di fronte a questa violenta
> elettricità da esposizione, dove risultano domati e quasi resi inoffensivi
> anche potenti e terribili reperti di antiche civiltà, quasi si rimpiangono
> certi musei polverosi dove la luce è solo quella delle finestre”.
Più in generale, Fortini – in urticante intelligenza – si scagliava contro le
traduzioni esagitate più che esegetiche, da scrittori in lotta con la Scrittura,
nel tempo in cui “tutti ambiscono alla irrepetibilità e alla firma”. Introduceva
una “lettura” – non traduzione – di Ecclesiaste approntata da Attilio Lolini in
un libro di petroglifica bellezza, edito dalle edizioni di Barbablù nel 1984,
tirato in quattrocento copie numerate (poi: Edizioni L’obliquo, 1993, con cinque
tavole di Salvo). “Lolini adotta, col coraggio di una calcolata innocenza, un
atteggiamento post-diluviano o post-atomico, come di chi stia leggendo in una
carta mezza abbruciata, in un libro squinternato dall’apocalisse. L’oltranza fa
presto dimenticare l’origine biblica”, scrive Fortini.
L’esito ha finiture a volte sgargianti, da moloch sumero, da profilo macedone;
così dal quarto capitolo del libro:
“Le violenze
tutte
ho veduto
sotto il sole
le lacrime degli oppressi
non saranno premiate
ma anche gli oppressori
non verranno consolati
Ai morti dico:
felici voi
più felici certo
di coloro che si dicono
vivi
Ma più felice
chi non è stato
chi non sarà
che non ha visto
che non vedrà
il male che l’uomo
compie sotto il sole
La pena che dà
il fare
gli sforzi
l’invidia che l’uno
prova per l’altro
miseria
un vortice di vento
Perché
ti agiti
così
lo stolto
che ha le mani
legate
pur si divora
le carni”
Rimane sempre lo scarto, un vocabolario che potremmo dire afasia: sguainare un
linguaggio è ridurre a guaito il dire di Dio. Reclinare in tazzina l’infinità
teurgica, tellurica del testo. Eppure, occorre il latte, occorre la briciola, la
particola di pietà per far crescere i poppanti, noi. A noi non resta che slegare
i sigilli, insistere su quella gioventù di scatenati riti, di scriteriato amare
– meditare l’ingiuria per gustare il giusto. Cos’è tradurre? Scoprire se stessi
o scoperchiarsi?
Entrare nel testo: abbandonare i paramenti retorici, abbandonare sé. Una
spoliazione – una rapina. Cosa resta? Il frumento e il trafugato, il transfuga e
la trattativa, il rifiuto, il fiato.
L'articolo Malati di “qoheletite”: Massimo Bontempelli, Guido Ceronetti, Attilio
Lolini proviene da Pangea.
Alla guerra seguì la seduzione del deserto, la sedizione dal mondo.
Nel ’39, è rogo bellico, vuole arruolarsi nell’esercito – gli è impedito, a
causa di una frattura al bacino, lì dalla giovinezza. Nato a Morges, Svizzera,
nel 1911, Armel Guerne cresce con il padre, direttore di una azienda di pezzi di
ricambio affiliata alla Renault, a Parigi; rifiuta gli studi in economia, si
ribella al giogo familiare. Cacciato di casa, sedicenne, coltiverà la propria
preparazione grazie alla famiglia del migliore amico, Mounir Hafez, futuro
orientalista, esperto in mistica islamica, egiziano d’origine.
Fin da allora la vita di Guerne si svolge in direzione contraria. Studia in
Siria, lavora come insegnante di ginnastica, viaggia in nave prestando servizio
come mozzo. Ritornato in Francia, approfondisce le discipline psicologiche alla
Sorbona; intanto, comincia a tradurre Novalis, primo atto d’amore verso gli
amatissimi poeti tedeschi. L’incontro con Paul Éluard, Georges Bataille e Breton
lo lascia indifferente, “la frivolezza dell’intelletto” – così giudica il ménage
dei club parigini – non lo tocca.
Nell’anno in cui anela alle armi, sceglie l’amore: sposa ‘Pérégrine’ – cioè
Jeanne-Gabrielle Berruet – con cui vive da anni. Armel Guerne è un uomo
‘elementare’, è un uomo che modella l’elemento: che dall’argilla sa trarre il
fuoco, che legge le pietre. È un uomo nudo – concretezza è il sale del suo
carisma. Lo si vede dai testi – Oraux, l’esordio, è del 1934; seguiranno libri
disancorati alle leggi dell’oggi, di dissacrante libertà: Mythologie de
l’homme (1945), Testament de la perdition (1961), Les Jours de
l’Apocalypse (1967), Le Jardin colérique(1977), ad esempio – primevi nel dire,
di primordiale avventatezza, una ventata di nevi.
Si schierò contro Pétain, contro Vichy. A Parigi, con inguaribile spirito
avventuriero – una specie di didattica dell’innocenza –, compie alcuni atti di
sabotaggio contro i tedeschi; l’anno dopo viene ingaggiato da Francis Suttill,
agente segreto britannico, tra i ranghi della resistenza. Armel prende il nome
di “Gaspard”, dedicandosi completamente alla lotta. La rete, tuttavia, viene
smobilitata già nel giugno del ’43: Armel e la moglie vengono arrestati dalla
Gestapo e internati, per quattro mesi, in una cella di massima sicurezza, a
Fresnes. Deportato a Royallieu, Guerne è destinato a Buchenwald in quanto
“affiliato agli inglesi”. Nelle Ardenne francesi, presso la stazione di Amagne,
il poeta riesce rocambolescamente a scappare. Forza con le pinze il filo spinato
che serra i finestrini del convoglio; i tedeschi lo vedono, fanno fuoco. “Mi
gettai nel Sulces, un ruscello poco profondo, blindato dal ghiaccio. L’acqua,
gelida, non superava i trenta centimetri. Mi sdraiai sul greto – gli fui grato –
restai lì quasi un’ora – le SS sparavano, di tanto in tanto – il treno ripartì,
infine”. Il poeta rientra a Parigi travestito da ferroviere, da lì va a Pamplona
poi a Londra. Anche gli inglesi lo tengono in arresto: credono sia una spia –
subisce l’ignominia di essere considerato, per eccesso di candore, un traditore.
L’ambasciata svizzera gli presterà soccorso. “Ho vissuto tutti gli orrori
dell’occupazione: la prigione, la minaccia, il tradimento – infine, è stato
Novalis a salvarmi”, dirà.
Seguiranno, a Parigi, anni di lavoro incessante come traduttore. Guerne
traduce Moby Dick e Shakespeare, Stevenson e Virginia Woolf; traduce – con
l’aiuto di uno iamatologo – Kawabata e alcuni racconti giapponesi d’era
medioevale. Soprattutto, volge in francese i tedeschi: Rilke (Elegie duinesi e
i Sonetti a Orfeo), Hölderlin – per Mercure de France e Flammarion –, Kleist e
Dürrenmatt, Martin Buber e von Balthasar. Traduce per necessità, estraniandosi
dal tempo, operando una sorta di romitorio interiore. Fa poco per divulgare
la propriaopera, lasciata brada. La sua versione del Daodejing, uscita nel 1963,
sorprende Emil Cioran:
> “Credo davvero nell’effetto benefico di questo libro su di te, nella misura in
> cui è contrario ai tuoi più profondi istinti. Tu sei più prossimo alla
> preghiera e alla blasfemia, che all’indifferenza e all’annientamento. Per
> questo è così ammirevole lo spettacolo della tua lotta sul Non-agire!”.
Armel Guerne e Cioran si conoscono nei primi anni Cinquanta. A Cioran piacque
quell’uomo privo di orpelli intellettuali, che durante la Seconda guerra non era
stato viziato dagli obbrobri né dagli onori. Pareva uno spettro sano – un santo
spurio.
L’amicizia si consolidò dal 1960: Guerne acquista un mulino a vento a Tourtrès,
in Lot-et-Garonne; un centinaio di abitanti, tanto vento, solitudine acerrima,
d’acciaio. Invita alcuni amici, rielabora, con incessante amore, per Gallimard,
le Œuvres complètes di Novalis, da estraneo ai culti della cultura francese.
Cioran apprezzava l’ascetismo di quel suo singolare amico. Nei Quaderni – che
sono poi la cartina di tornasole della sua vita; in Italia li stampa Adelphi –
Cioran torna spesso al poeta, con augustea angoscia e falcate di ironia:
> “Armel Guerne mi ha mandato la sua traduzione delle novelle di Stevenson. Ieri
> sera, verso mezzanotte, mentre mi cambiavo d’abito per la passeggiata
> notturna, ho avuto la sensazione di essere il dottor Jekyll che si travestiva
> per andare a fare qualche nefandezza…”
A volte, appunta alcune frasi dall’epistolario con Guerne. Come questo frammento
da una lettera di Guerne del 28 maggio 1969: “L’umanità contemporanea al di
sotto dei trent’anni appartenente alle nazioni cosiddette civilizzate non sa che
cosa sia il sorriso o il riso e ha l’occhio senza sguardo…”.
L’amicizia epistolare tra Cioran e Guerne è testimoniata dalle Lettres de Guerne
à Cioran, 1955-1978 (Éditions Le Capucin, 2001) e da E.M. Cioran-A.
Guerne, Lettres 1961-1978, ed. Vincent Piednoir, L’Herne, 2011 (da cui abbiamo
estratto un paio di lettere di Cioran). Erano nati nello stesso mese, nello
stesso anno, a una settimana di distanza; Armel Guerne morirà nel 1980, era la
fine di settembre, è sepolto a pochi passi dal suo mulino. L’ultima lettera di
Cioran è di due anni prima: il pensatore selvatico parla di febbri, di mali,
dell’incubo di essere in balia dei medici.
> “Sai bene il dramma di avere un corpo, ma ciò che di te ammiro sono i momenti
> in cui non ti tocca alcun problema: il mirabile distacco che annienta la
> morte, ridotta a fare la parte di un insulso intruso. Tuttavia, una frase
> della tua lettera mi ha davvero sbriciolato il cuore: ‘Il tempo si stende
> intorno a me e assume proporzioni inimmaginabili, con tutti quei frammenti
> infiniti’. So cosa intendi e non ho nessun consiglio da darti, nessuna bugia
> per aiutarti. È puro orrore. Per tutta la vita sono stato afflitto da momenti
> di noia e di inedia, impossibili da superare, che mi hanno impedito di
> compiere qualcosa di concreto e di coerente. Devo loro il privilegio di aver
> saputo catturare il delirio degli altri, immaginandoli nel dettaglio,
> soprattutto quando si tratta della percezione del tempo, il più grande nemico
> che l’uomo deve affrontare”.
In pochi scrissero della sua morte; aveva scritto che “i poeti si sporgono dove
gli uomini non vogliono andare”. Sulla rivista “Sud-Ovest”, J.-F. Mézergues
ricordò che il poeta del mulino gli aveva descritto la sua morte: “è un’isola
persa nel mare; su di lei il mattino leva la sua bandiera bianca; in lontananza,
un orlo di fulmini neri”. Disse che “le parole chiave della poesia sono:
profezia, annuncio, presentimento, promessa… termini vuoti nella vita spettrale
che ci è imposta oggi, dove non c’è posto per l’individuo ma soltanto per il
denaro, un falso”.
Qualcuno ha registrato la sua ultima parola, prima di spirare. “No”. Che è poi
un sì alla vita nuova, che è poi uno sparo. Inutile parlare di memoria quando è
stato un cenacolo, di ricordo quando ce ne siamo abbeverati.
***
Lettere di Emil Cioran ad Armel Guerne
Mio caro Guerne,
se l’insoddisfazione fosse un carisma della santità, sarei santo da tempo. La
mia è davvero una forma di santità! Passo la vita al telefono, altrimenti nelle
biblioteche, alla ricerca di un libro che mi riconcili con me stesso e con le
cose del mondo. Quando non spreco tempo in conversazioni, lo perdo leggendo:
leggo, leggo, inutilmente, per non pensare, per non vedere fino a che punto sono
infossato nel nonsenso.
L’altro giorno mi è stato chiesto di scrivere un articolo per una rivista. Ho
risposto: più avanti. Mi è stato chiesto un titolo per annunciare la futura
collaborazione. Non riesco a trovare nulla di cui scrivere, ho risposto. Nel
frattempo, continuerò a scrivere un testo sulla rabbia.
Il mio dramma è semplice: tutti i miei antenati hanno vissuto nelle montagne, a
contatto con l’elemento, io vivo da trent’anni in una metropoli. Mi fermo, per
paura di compatirmi (cosa che in effetti non smetto di fare).
I miei migliori auguri,
E.M. Cioran
Parigi, 30 novembre 1963
*
Mio caro Guerne…
La questione del lavoro ha messo da parte quella del freddo – che mi
intimidisce. Sulle alture dove abiti l’aria non deve essere docile. Come potrei
affrontarla quando spendo i miei giorni in una stanza surriscaldata, dove
prospera la mia anemia?
Confesso di non saper immaginare la vita che conduci lì, ora, in questo periodo
dell’anno. Come trascorri le lunghe sere che cominciano tanto presto?
Questa mattina, contemplando gli alberi del Luxembourg (mi arrangio con ciò che
ho sottomano), mi dicevo che la sola stagione assolutamente poetica è l’inverno,
perché non c’è traccia di concessione all’umano. Sogno che il paesaggio intorno
al Moulin sia meravigliosamente desolato come lo immagino. L’idea che da qualche
parte rintocchi una risata mi fa venire voglia di vomitare. Per rassicurarmi che
la serenità regna nei tuoi campi, raccontami di raffiche di vento, terre cupe e
cieli tersi… Ti ho mai detto che il solo paesaggio a cui non ho nulla da
obiettare è quello delle brughiere descritte dalle sorelle Brontë? È senza
dubbio per uno strano fenomeno di contaminazione che vedo in questo istante il
tuo mulino nel bel mezzo dello Yorkshire.
A voi la mia amicizia e i miei migliori auguri
E.M.
23 dicembre 1963
*
Mio caro Guerne,
le “sacrosante” vacanze, come giustamente le chiami, sono infine arrivate. È un
rito o una prova che non si può eludere. Tentare di fuggire e scansarle è
un’impresa di tale originalità che pochi ne sarebbero capaci. Presto arriveremo
a dire che l’uomo più che un animale mortale è una bestia da vacanza.
Quindi: tra un’ora parto per la Loira Atlantica, per far visita ad alcuni amici
che hanno una bella casa con giardino. Ci resterò per circa dieci giorni, poi
andrò con Simone a Dieppe, dove ci hanno prestato un appartamento. Insomma,
vacanze da parassita. Invidio il fatto che dovrai tradurre Novalis. Vieni pagato
cifre irrisorie, ma questo è il regime incredibile in cui siamo costretti. Cosa
aspetti? Unisciti a una falange anarchica del movimento studentesco! Una
bandiera nera affissa in cima al tuo Moulin mi farebbe felice, per non parlare
del boom turistico che tale spettacolo comporterebbe…
Nella tua ultima lettera mi scrivi che in fondo pensiamo sempre di essere più
giovani di quanto siamo. Questo è vero come regola generale: non lo è per me,
che continuo a vedere da venti o trent’anni le stesse persone. Dico vedere e
non rivedere perché a malapena le riconosco. Questa macabra sfilata mi ha
provocato un vero e proprio “complesso” da invecchiamento: anche se a tratti mi
sento ancora giovane, non lo sono, non lo sarò più, e non posso dimenticare la
mia età perché i fantasmi che mi fanno visita mi costringono a ricordarmela, a
pensarci di continuo. A volte mi sembro come una vecchia civetta che non osa
guardarsi allo specchio. Come è deplorevole tutto questo!
Tutta la mia amicizia,
E.M. Cioran
Parigi, 5 agosto 1968
***
Freddo
La luce è troppo dura per questo tempo,
ha gli aculei ed è dolce la sua crudeltà:
troppo scaltro il lucore, troppo nudo
troppo sottile nel filo e liscio nella grana
e il cielo è troppo blu, di un azzurro grezzo
per un sole tanto alto, radioso e felice.
Nuda come l’acciaio, bianca come un’arma
illuminata e illuminante, non sappiamo
se il suo invisibile canto trapassi le ombre
se monta o se cala, se è avanguardia o resa;
ma quando il vero novembre crolla su di noi
questa musica ci rende radiosi e leggeri
lascia una magia, un lento profumo d’estate
che ci ripara dai venti umidi, dai giorni grigi.
*
Il vivo peso della parola
Puoi scrivere – e scrivi;
puoi tacere – e taci.
Ma è sapere il silenzio
l’unica, la grande chiave:
devi perforare i simboli
e divorare le immagini
udire per non intendere
soffrire fino alla morte –
lascia che il vivo peso
della parola ti frantumi.
*
L’albero e il muro
Un albero non è mai dritto:
è al debutto. S’impenna
potente, fin dal fondo delle radici
verso quel punto nel cielo che lo attende,
quell’ambone nel cielo che esiste solo per lui.
Il muro è dritto, eretto dalla base
non nasce che da se stesso. È pur sempre
l’erede diretto di Babele.
L’albero tace: quando muore
la sua preghiera resta impressa
in noi e il suo nome è la luce.
*
Ouverture
Sotto il velo di un aprile che impreca e ride
più verde che vivo, turbato dall’insonnia dei sognatori
il giorno minaccia il giorno che viene: non reca
annunci perché le sentinelle hanno munto la notte.
Un uccello piange. Per paura o per istinto d’amore?
L’erba si piega. È l’angoscia o il peso della pioggia?
Un rischio si apre in ogni istante che passa
e il pericolo è come una corona altera
che mostra il cranio, si inebria di gioielli
ed è quasi un miracolo perché illumina il giorno.
*
Il temporale
Drago che governi su nebbia e nibbi
monarca oscuro e onnipossente
dei frantumi che ti offriamo:
principe del torpore e dell’ira crestata
salute! Ti eleggiamo maestro dei nostri
istanti perché vogliamo essere come te.
Ciò che temiamo è il momento che si biforca
che lascia essudare tutto, il momento
in cui ci alziamo nudi, senza vesti né maschere
in piedi, nella nostra singolarità.
*
Il giardino in collera
Nel crudo oscuro giardino in collera
della carne e del sangue, sui neri meridiani
di questa anatomia strappata dalla mente
e rubata all’anima a cui è annodata
grazie a cui spirava la vita
prima di spirare, come sappiamo:
cosa fa il viandante? cosa può il giardiniere?
La lettera è morta: ci resta il grido
l’urlo dell’essere, un’onomatopea
e l’appello scheggiato di un gesto senza
speranza. Gli uomini delle grotte, rispetto a noi
possedevano il genio della grazia e della conversazione.
Armel Guerne
L'articolo “Ci resta il grido”. Armel Guerne: il poeta dei mulini a vento,
l’amico di Cioran proviene da Pangea.
Anche se continuiamo a chiamarla «la banalità del male», il male non è mai
banale. Il male è complicato, tortuoso, tende a negare sé stesso e ha una sua
diabolica intelligenza. Del resto, la parola diábolos in greco vuol dire
«dividere», o «colui che divide». E andrebbe inteso non tanto come calunniatore
o seminatore di zizzania, quanto piuttosto come colui che scinde sé stesso in
una doppia personalità: quella che commette il male e quella che rimuove il male
commesso, oppure tende a cercare alibi, o più semplicemente a nasconderlo.
Quando la filosofa Hannah Arendt sottotitolò La banalità del male il suo celebre
reportage sul processo al criminale nazista Adolf Eichmann, per spiegare come le
persone più ordinarie possano trasformarsi in carnefici e partecipi di un
sistema totalitario, possano cioè diventare funzionali a un ingranaggio
mostruoso di sopraffazione e sterminio, non poteva immaginare né che quella sua
definizione sarebbe stata così inflazionata in seguito, né che essa nasceva da
un clamoroso equivoco. Seguendo in veste di giornalista per il “New Yorker” il
processo contro Eichmann, l’ex tenente colonnello delle SS, nel 1961, Arendt si
trovò di fronte un grigio burocrate, inetto e poco intelligente. O almeno così
le sembrò. Eichmann, il pianificatore della Shoah, colui che aveva organizzato
il traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei nei Lager, era
caratterizzato, agli occhi della filosofa, da un’«assenza di pensiero». Eichmann
non aveva nulla di demoniaco, né possedeva il carisma del male. Era un impiegato
incolore, il prototipo del burocrate, incapace di «mettersi nei panni degli
altri». Le sue frasi interminabili al processo suonavano terribilmente noiose e
il suo ritornello di aver agito su ordine e prestato giuramento di fedeltà lo
facevano apparire come un uomo «spaventosamente normale».
Ma Arendt era caduta nella trappola tesa da Eichmann.
All’epoca non si conoscevano, infatti, tutti i documenti che sono emersi
successivamente sul gerarca nazista. In particolare, le cosiddette «carte
argentine», ovvero gli appunti dell’esilio, e i dialoghi e le interviste
integrali di Willem Sassen registrate sui nastri, da cui emerge un Eichmann ben
diverso: uno spietato, perverso criminale che al processo si finse «banale»,
mise in atto cioè una interpretazione, con notevoli doti da attore, per tentare
di sfuggire alla condanna a morte (tentativo, peraltro, che si rivelò inutile,
poiché i giudici israeliani non gli credettero). Quella «banalità» era, in altre
parole, una maschera.
Quando Eichmann afferma al processo di «aver obbedito a precisi ordini
superiori»; quando insiste nel dire di «non aver nutrito alcun odio personale
per le vittime», anzi, di aver addirittura dovuto mettere a tacere la propria
«sofferenza», sta solo recitando. Rimase, infatti, fino all’ultimo suo giorno
fanaticamente fedele all’ideologia nazista e antisemita. Eichmann era presente
alla Conferenza di Wansee, nel gennaio 1942, quando si decise, a tavolino, che
la questione ebraica dovesse essere risolta con lo sterminio totale. La
organizzò, quella Conferenza, e ne stese i verbali. Ne approvò le conclusioni.
Non è vero che non aveva fatto altro che «temperare le matite a un tavolo in
disparte». Eichmann era un uomo assetato di potere, che in Argentina, dove si
era rifugiato per eludere il processo di Norimberga, si vantava con i suoi
sodali nazisti superstiti, e il suo pubblico di affezionati, di aver mandato al
gas sei milioni di ebrei, cifra che lui stesso aveva ricavato tenendo la
contabilità dei trasporti. Totale era la sua abnegazione al genocidio, sadici i
suoi festeggiamenti per i progressi della Shoah (sorseggiava cognac davanti al
camino in compagnia dei suoi superiori), diffuso il terrore che seminava tra i
prigionieri dei Lager.
La capacità di Eichmann di calarsi in un ruolo dimesso e anonimo, la sua abilità
di manipolatore sociale ingannò, dunque, anche una mente sopraffina come quella
di Arendt, che, basandosi sui verbali del processo, sugli interrogatori,
raccontò a milioni di lettori un Eichmann fasullo. E, soprattutto, con quella
sua nozione di «banalità del male», ha provocato interpretazioni riduttive e
fuorvianti sulla natura stessa del nazismo e dei suoi crimini, soprattutto se si
confronta con quella che emerse invece dieci anni dopo da un altro libro, uno
sconvolgente libro, forse il più importante sulla Shoah, In quelle tenebre di
Gitta Sereny. La giornalista e storica austriaca-britannica, di origini ebree
ungheresi, raccolse i colloqui avuti nel 1971 – più di sessanta ore – nel
carcere di Düsseldorf, con Franz Stangl, il boia austriaco comandante del campo
di sterminio di Treblinka, dove più di un milione di persone trovò la
morte. Sereny, a differenza di Arendt, non si ferma all’apparente «banalità del
male» dell’ex comandante, ai suoi racconti spesso vittimistici – per quanto
Stangl fosse un individuo molto più ordinario di quello che volle dar mostra di
essere Eichmann –, ma sceglie di stanarlo e sondarlo, quel male, di guardarlo in
faccia, di confrontarsi con esso.
Sereny registra ore e ore di conversazione con Stangl, intervista a lungo anche
la moglie, e le figlie, conquistandosi la loro fiducia, e altre SS che lo hanno
conosciuto, e i sopravvissuti al Lager. Ci sono pagine insostenibili in questo
libro – alcuni racconti dei carnefici e delle vittime – perché ci immettono
dentro la macchina della morte al lavoro, senza risparmiarci nulla di
quell’orrore. Eppure, Sereny, che non deroga mai dal suo giudizio morale, che a
volte vacilla di fronte ad alcune rivelazioni sconcertanti, che non smette di
incalzare e pungolare il suo interlocutore, si lascia andare ad alcune
considerazioni inaspettate, tipo questa: riferendosi al legame di Stangl con la
moglie e al suo affetto incondizionato per le figlie, scrive: «non c’è dubbio,
qualunque cosa egli sia divenuto, ch’egli sia stato capace di amore». E a
conferma di questa intuizione, Frau Stangl, molte pagine dopo afferma:
> «Paul era un padre incredibilmente buono e amoroso. Giocava sempre con le
> bambine. Gli faceva delle bambole, e poi le aiutava a vestirle. Lavorava con
> loro; gli insegnava una quantità di cose. Loro lo adoravano tutt’e tre. Era
> sacro, per loro…».
Come spiegare questa assurda dicotomia? Stangl ha iniziato la sua carriera nel
nazismo occupandosi del “Programma Eutanasia” varato dal regime (detto anche
Aktion T4), che sperimentò pionieristicamente le prime morti per gas sui
disabili, come ampliamento di una legge del 1933 sulla sterilizzazione coatta;
poi fu nominato alla direzione del campo di sterminio di Sobibór e infine a
Treblinka. Una vita dedita allo sterminio di esseri umani, compresi centinaia di
migliaia di bambini. Eppure, era un padre amorevole, un marito premuroso. E le
sue figlie lo adoravano, e hanno continuato ad amarlo anche quando hanno
scoperto chi era e che cosa aveva fatto.
Stangl è irritante nelle sue reticenze: per tutti gli incontri si ostina a
negare le sue responsabilità, sostiene che non poteva fare altrimenti, che fu
costretto dalle circostanze, scende continuamente a patti con la sua coscienza,
svelando a Sereny il meccanismo psichico schizofrenico di difesa, «i due uomini
che era diventato» per sopravvivere, evidente in maniera agghiacciante quando si
compiace a un certo punto di aver reso Treblinka un posto «veramente bello», con
uno zoo, le panchine, i fiori. Anche la moglie, che per tanto tempo ha preferito
non sapere, rimuovere la verità, ci appare intollerabile. Eppure il metodo
perseguito da Sereny – la strategia del ragno che tesse paziente la sua tela per
bloccare la sua preda – alla fine del libro risulta vincente.
L’ultimo giorno in cui ha intervistato Stangl riesce finalmente a ottenere
un’ammissione da lui. O almeno il massimo dell’ammissione che un uomo del genere
poteva fare. «La mia colpa è di essere ancora qui. Questa è la mia colpa» dice,
dopo un’estenuante pausa in cui ha riconosciuto per la prima volta la sua
responsabilità nello sterminio. Il giorno dopo, il 28 giugno 1971, Stangl muore
in prigione per un attacco di cuore. Come se l’ammissione della sua colpa lo
avesse letteralmente schiantato.
Questo malore mi ha fatto venire in mente una scena di un recente film, La zona
d’interesse, di Jonathan Glazer, che racconta Auschwitz dall’altro lato,
letteralmente, concentrandosi cioè sui carnefici, non sulle vittime: quello che
vediamo non è il Lager, ma ciò che succede nei suoi paraggi, accanto, a ridosso,
ai margini, ovvero la vita del comandante del campo Rudolf Höß e di sua moglie
Hedwig che insieme ai loro cinque figli e il cane (oltre a una numerosa servitù
locale) abitano in una casa e in un grande giardino in un terreno adiacente al
muro del Lager. Un idillio ai confini dell’inferno. Lui va a pesca con i figli,
racconta loro le fiabe per farli addormentare, lei cura le aiuole, riceve le
amiche. Insieme organizzano feste con rinfreschi e bagni in piscina. Dall’altra
parte del muro, intanto, rigorosamente fuori scena, proviene un paesaggio sonoro
attutito, ma che non si interrompe mai: grida, pianti, lamenti, colpi di mitra,
latrati di cani, ordini urlati, e soprattutto un rumore di fondo, continuo,
incessante, un borbottio metallico che si presuppone provenga dai crematori,
accompagnato da alcuni dettagli visivi che emergono dalla quotidianità della
«famigliola» tedesca: il fumo delle ciminiere e quello dei treni in arrivo che
si scorgono ai margini superiori di certe inquadrature, i bagliori notturni dei
forni che si intravedono di notte alle finestre velate dalle tende della casa
del comandante.
Il comandante ricorda molto Stangl, anche lui realizza il male con spietata
freddezza, separando il suo ruolo di criminale da quello piccolo-borghese di
padre di famiglia benevolo e marito premuroso, che persegue la sua piccola dose
di felicità, fatta di benessere, status, sicurezza, carriera, rivalsa, una
felicità molto kitsch, che si regge su un baratro di colpe, omissioni,
indifferenza, omertà. Ma mentre la moglie è inamovibile nel non voler sapere e
vedere (al punto che nasconde il muro del campo con gli alberi del suo
giardino), tutta concentrata a mantenere ciò che possiede, lui a un certo punto
del film ha un crollo fisico. Dopo aver ricevuto l’incarico di dirigere
l’“Aktion Höß”, un’operazione a lui intitolata che consiste nel trasporto di
800.000 ebrei ungheresi nei diversi Lager, partecipa a una festa con le alte
sfere del nazismo. Alla fine della serata è colto da conati di vomito sulla
scalinata interna del palazzo, ed è costretto a sostare nel buio, nascosto,
preoccupato che qualcuno possa vederlo.
A differenza di Stangl, Höß non prende consapevolezza di nulla, né si pente di
nulla, ma quel vomito indica la verità del corpo contro una mente che tacita le
sue colpe. È una verità fisica, che si ribella ai mascheramenti della coscienza.
Quando ha riassunto il suo tempo passato con Stangl, Sereny non ha avuto dubbi
nel dire che sentiva di «essere in presenza del male». Eppure Stangl era morto
ammettendo una sua colpa, o forse a causa di quello, mentre in Eichmann non ci
furono pentimento né ammissione alcuna. Ancora poco prima di essere processato
si augurava che gli egiziani e gli arabi continuassero con Israele il lavoro
iniziato da lui, sperava che i musulmani completassero lo sterminio totale che a
lui era stato impedito. Sereny non ci offre una soluzione alla «divisione»
diabolica che il male attua in chi lo compie: il male per lei resta un mistero.
Come se calasse sull’umanità dall’alto.
> «Io non credo che tutti gli uomini siano uguali, poiché la nostra
> caratteristica essenziale è proprio di essere individuali e diversi – scrive
> nell’epilogo del libro –. Ma l’individualità e la differenza non sono dovute
> soltanto alle qualità che ci capita di avere alla nascita. Dipendono
> altrettanto dalla misura nella quale abbiamo potuto liberamente svilupparci.
> V’è un nucleo essenziale del nostro essere, ancora mal definito e mal
> compreso, che, godendo di questa libertà, sorge e si sviluppa, quasi come il
> nascere, e che ci libera e ci separa da influenze intrinseche, e in seguito
> determina la nostra condotta e il nostro sviluppo morale. Io credo che un
> mostro morale non sia tale dalla nascita, ma sia prodotto da interferenze nel
> suo sviluppo. Io non so che cosa sia questo nucleo».
L’umiltà di Sereny nel non voler definire quel «nucleo» fa la differenza con
l’approccio di Arendt. Sereny rifiuta i documenti – quelli su cui invece si
concentra la filosofa – o almeno rifiuta di farne il centro della sua ricerca,
per affidarsi invece all’ascolto della parola. In questo il suo metodo è simile
a quello che Claude Lanzmann avrebbe utilizzato per il suo documentario Shoah,
uscito nel 1985. Anche Lanzmann non crede nei documenti, in particolare – da
regista – nelle immagini d’archivio. Nel suo documentario radicale, estremo,
lungo quasi dieci ore, parte da un assunto etico rigorosissimo, da cui deriva
anche un’estetica altrettanto rigorosa, ovvero quello dell’irrappresentabilità
della Shoah, dell’impossibilità di restituirne l’immagine. Da qui la polemica
con Steven Spielberg per Schindler’s List e il giudizio severo su La vita è
bella di Benigni, film che considerava entrambi detestabili perché
menzogneri. Per Lanzmann, in effetti, non c’è nulla da vedere nella Shoah – in
particolare nei campi di sterminio di Chelmno, Belzec, Sobibór, Treblinka,
Birkenau – nessuna immagine può riprodurre l’evento della «catastrofe». Un bel
paradosso per un’opera filmica, che sceglie di rinunciare al materiale di
repertorio.
Lanzmann lavora undici anni per raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti
(soprattutto dei pochissimi Sonderkommando scampati alla morte), ma anche dei
testimoni, più o meno indifferenti (i contadini di Treblinka, gli abitanti di
Chelmno), i collaboratori-complici, più o meno forzati (i conduttori dei treni,
i ferrovieri, gli autisti delle SS), i carnefici stessi, e lo fa affidando alla
parola l’unica forma di restituzione possibile, proprio come aveva fatto Sereny,
spesso intervistando le stesse persone che abbiamo incontrato nel libro In
quelle tenebre (come il notevole Richard Glazer, superstite di Treblinka). Pur
sapendo che i «salvati» non hanno potuto fare realmente esperienza del Lager,
non essendo entrati nelle camere a gas, come sosteneva anche Primo Levi, e
nemmeno gli stessi «sommersi» (poiché sono morti appena arrivati, per la
stragrande maggioranza), la parola, all’interno di un simile paradosso, mantiene
la funzione fondamentale di ricostruzione della memoria. È una parola – quella
della testimonianza dei sopravvissuti – sacralizzata attraverso la sua
dissacrazione. Una parola che bisogna ascoltare insieme ai silenzi, alle
incertezze, alle interruzioni provocati dagli improvvisi crolli emotivi, con il
regista-intervistatore che incalza, incoraggia a continuare, a dire
l’indicibile; una parola accompagnata dalle lente zoomate della cinepresa su
quei volti segnati dall’inferno vissuto, quei volti che portano impresse,
indelebili, le cicatrici dell’esperienza, volti di chi è sopravvissuto, sì, ma
in qualche modo è anche morto dentro, nonostante una vita che è proseguita.
Le interviste avvengono spesso sui luoghi stessi dello sterminio, oppure, quando
il testimone si trova altrove, sono montate con le immagini di quei luoghi, così
che parola, volti e luoghi sono continuamente in dialogo tra loro. I luoghi,
però, sono come appaiono adesso (ovvero al momento della realizzazione del film,
nel 1985) e sono ripresi senza voci fuori campo, senza colonna sonora, senza
commenti aggiuntivi: le lunghe, estenuanti carrellate che riprendono i prati, i
boschi, le radure, le stazioni di Auschwitz, Treblinka, Sobibór, non
testimoniano ciò che è stato, ma ciò che è rimasto. Anche quando la macchina da
presa si inoltra all’interno dei Lager, e riprende i forni crematori, le docce,
i cortili, è il vuoto che riprende. Ma indagando quel vuoto, che fa da
contrappunto alla parola del ricordo, alla parola-testimonianza, certificando
cioè quella irrappresentabilità dell’evento raccontato (quello che è successo
non puoi vederlo, oggi non ci sono più in queste radure le montagne dei
cadaveri, il fumo dei crematori, i nazisti, gli ebrei, non c’è più niente di ciò
che stai ascoltando in quello che vedi), se ne evoca la verità con ancora più
forza.
In fondo è questa la potenza del cinema di Lanzmann: quel montaggio così
ipnotico, quei piani-sequenza, quegli indugi sugli spazi vuoti sono un racconto
a parte, il vero nucleo di quel racconto, capace di farci percepire la memoria
che i luoghi, ancor prima che le persone, conservano di ciò che è stato, con
tutto il dolore e l’orrore della Storia di un intero popolo e dei suoi singoli
individui. Ed è, forse, l’unica forma possibile di memoria su cui oggi – oggi
che i sopravvissuti stanno scomparendo – possiamo contare. Ma se il metodo di
Sereny sembra simile a quello di Lanzmann, le prospettive sono opposte. Basti
confrontare, ad esempio, le interviste alla SS Franz Suchomel, detenuto nel 1963
e processato insieme ad altre dieci guardie di Treblinka. Lanzmann e Sereny
attivano una diversa focalizzazione sulla stessa persona: mentre Lanzmann
mantiene sempre un gelido distacco, un inflessibile rifiuto morale nei confronti
dei carnefici («Signor Suchomel, non parliamo di lei, ma soltanto di Treblinka»
gli dice a un certo punto, bloccando i suoi tentativi di giustificare il fatto
che al momento della destinazione nessuno gli avesse detto che si trattava di un
campo di sterminio), Sereny mostra invece sempre il tentativo intellettuale di
accedere al cuore dei carnefici attraverso la ragione («La posizione che
Suchomel ha adottato come ammiratore degli ebrei è altrettanto notevole della
sua memoria, e psicologicamente interessante»). Proprio la ragione, così come la
misura, e lo sforzo di comprendere l’incomprensibile, e la considerazione
terenziana dell’«homo sum», rendono il libro di Sereny una degna risposta etica
all’orrore, l’unica possibile forse, per evitare, come avvertiva Nietzsche, che
lottare contro i mostri possa trasformare anche noi in un mostro.
Fabrizio Coscia
*Nota: dobbiamo allo straordinario lavoro documentale della filosofa e storica
tedesca Bettina Stangneth, raccolto nel volume La verità del male. Eichmann
prima di Gerusalemme (pubblicato nel 2011 e tradotto in Italia nel 2017 dalla
Luiss University Press), la demolizione del ritratto di Eichmann compiuto da
Hannah Arendt.
L'articolo Il mostro morale. Perché è sbagliato parlare di “banalità del male”
proviene da Pangea.
C’è chi scrive, e poi ci sono le voci. La prima condizione non presuppone la
seconda. Difficile per il lettore districarsi e distinguere, nonostante la
differenza sia sostanziale. Una voce ogni quanti? Nel mare magnum dato alle
stampe il rapporto potrebbe essere di 1:100, ma non voglio azzardare una stima.
Mi perdo in queste considerazioni durante la lettura di Donnaregina, l’ultima
fatica di Teresa Ciabatti appena uscita per Mondadori con Antonio Franchini in
veste di editor – lo stesso Franchini che, con Il fuoco che ti porti
dentro (Marsilio), mi ha fatto passare l’estate scorsa a chiedermi se in realtà
sua madre non fossi io. Ma torniamo a Teresa Ciabatti. Al di là di cosa
racconti, la sua voce è sempre la stessa, mi sembra di sentirla sin dalle prime
pagine e mi riporta indietro – la voce di Teresa Ciabatti è come una madeleine –
a quella che ero quasi dieci anni fa, quando leggevo La più amata – il suo libro
più conosciuto, quasi vincitore del Premio Strega – e sognavo di diventare una
scrittrice. Le nostre storie si sfiorano senza incontrarsi come quella di Teresa
Ciabatti e Giuseppe Misso – il super boss e personaggio chiave nella storia
della camorra – la cui vita decide di raccontarci. Vado avanti nelle pagine
mossa non tanto dalla curiosità della vicenda ma dalla narrazione dell’autrice
che compare fra le righe, perché è lei che cerco.
Quando comincio a leggerla lei è un’autrice affermata, io non sono nessuno. Ma
sogno di diventare un’autrice affermata anch’io e inseguo la sua voce. O forse
non sono io a inseguirla: è quella voce che mi cattura, la stessa che parla dei
genitori entrambi morti (fortune?), dei traffici del padre massone, della madre
depressa ma, soprattutto, che parla di sé.
Una voce smodata, eccessiva, mitomane. Che non risparmia nulla, in primis a se
stessa.
Come la Madonna vergine e madre, come l’Uomo che è sempre buono e cattivo, anche
Misso ha una natura duplice, e in Donnaregina ci sono due protagonisti, i cui
destini s’intrecciano pur proseguendo su binari paralleli, ciascuno con le sue
cadute, con le sue finte risalite, con le speranze e gli intenti. Mi lascio
trasportare dagli incisi che alludono e dalle digressioni – artifici di Ciabatti
– sono un po’ la sua firma – nonché resi possibili dal suo guardarsi
dall’esterno: un vezzo che si chiama dissociazione ed è un sintomo psichiatrico.
E allora Teresa Ciabatti – Nostra Signora di Orbetello, anzi, Nostra Signora
della Liberatoria, compie il miracolo: non si limita a intervistare il boss,
addirittura ad affezionarvisi, consegnandoci un ritratto fra il folkloristico e
l’umano.
Nel suo racconto non si distingue più cosa è vero da cosa è falso, chi è figlio
di chi, la trans dall’autolesionista, perché tutti i figli so’ piezz’ e
core. Donnaregina è infatti un libro che indaga il confine sottilissimo – tanto
sottile da diventare impercettibile – fra fiction e non fiction, ciò che si
ispira al vero e diventa falso, mentre il falso è come se fosse vero e allora,
mi chiedo, in questo punto esatto in cui Ciabatti ci porta, siamo davvero sicuri
che ci serva il permesso di qualcuno per scrivere? A quanto pare sì. Lo spettro
della liberatoria aleggia infatti in tutto il libro, è come un coro greco che
sul più bello della narrazione torna col suo lamento.
Ormai mi sembra di sentirla anche se smetto di leggere, mi ossessiona tanto da
parlarne al dottore: dobbiamo forse aumentare il litio? Lui mi rassicura:
personalmente non l’ha mai letta ma ha sentito dire che può fare questo effetto.
Andiamo avanti così.
Se nessuno scrittore è capace di deprimermi più di Michel Houellebecq, l’unica
scrittrice italiana da cui sono ossessionata è lei, e a prescindere da cosa
scriva. Forse perché le sue protagoniste, nonostante i numerosi privilegi di cui
godono e che ci mostrano – la piscina a Orbetello, la casa in centro a Roma, la
tomba del padre messa in sicurezza prima di tutte le altre – sono disperate. Una
disperazione che non smettono di ostentare, e che le rende ridicole, a tratti, e
così tragicamente umane. La stessa Ciabatti lascia trasparire la sua
disperazione: è alle prese con la crisi della figlia adolescente alla quale non
impedisce di fare la ricostruzione delle unghie perché è pur sempre uno slancio
vitale – e la sua amica Michela Murgia sta morendo. Quando cerca di rassicurare
se stessa mentre il mondo va in pezzi, illudendosi che andrà tutto bene durante
la cena in giardino, diventa tutte e tutti quando proviamo ad andare avanti,
anche leggendo storie che ci aiutino a vivere.
Ma veniamo alle assonanze che giustificano in parte la mia ossessione. Anche io
sono una donna di mezza età con una figlia adolescente, anche io saluto
l’intrepida ragazza che sono stata e in più il mio culo sta franando come il
cimitero di Orbetello. Lavori in corso. E ancora: anch’io vorrei dare una svolta
alla mia carriera – non sono più un’aspirante scrittrice, ma per scrivere dovrò
senz’altro procurarmi la liberatoria di qualcuno. Bei tempi quando bastava
l’avvertenza “ogni riferimento è puramente casuale”, oggi senza liberatoria non
sei nessuno, non si va da nessuna parte, si è dovuto rassegnare anche Emmanuel
Carrère. Come avverte lei nel disclaimer però il cimitero non è mai crollato,
quindi c’è ancora speranza.
Così, mentre leggo aneddoti ai limiti del trash sono commossa, faccio un post su
instagram, poi mando un messaggio a Ciabatti con le mie impressioni. Su wapp
Ciabatti commenta: Solo tu noti i dettagli marginali, sei la mia lettrice
ideale. E invece no. Io registro le informazioni a margine perché in realtà a me
della storia di Misso – della storia del boss che sto leggendo da duecento
pagine – pur nascendo napoletana, non me ne frega un cazzo. Delle rapine, del
carcere e dei morti ammazzati, del rione Sanità e della sua passione per i
colombi.
Mi chiedo allora cosa mi tenga incollata alle pagine. E adesso finalmente lo so.
In questi duri tempi in cui per scrivere prima ancora della penna serve la
liberatoria, a decretare la grandezza di un libro non saranno la trama,
l’editing o la strategia. Sarà la voce. Una voce che catturi nella prima pagina
e che conduca all’ultima, al di là dell’argomento. Che si parli di crociate,
della caduta del regno delle due Sicilie o di una Fortezza in mezzo al nulla,
non importa, a fare il libro sarà la voce che (e se) vi è contenuta. Una stessa
voce che compaia in libri diversi della stessa autrice, come una chimera, una
promessa mantenuta, un balsamo che invece di lenire ossessiona.
Non so dire allora se Donnaregina sia o no un grande libro, ma quello che so per
certo – da scrittrice e da lettrice – è che quella di Teresa Ciabatti è
inequivocabilmente una grande voce.
Fuani Marino
*Fuani Marino ha pubblicato con Einaudi “Svegliami a mezzanotte” (2019) e
“Vecchiaccia” (2023)
In copertina: John Singer Sargent, Lady with a Blue Veil, 1890
L'articolo Inseguire la voce, ovvero: sulla mia ossessione per Teresa Ciabatti
proviene da Pangea.
«Sono nato in un grande possente impero, nella monarchia degli Absburgo, ma non
si vada a cercarla sulla carta geografica essa è sparita senza traccia. Sono
cresciuto a Vienna, metropoli supernazionale bimillenaria, e l’ho dovuta
lasciare come un delinquente prima che essa venisse degradata a città
provinciale tedesca. Io ora non appartengo ad alcun luogo, sono dovunque uno
straniero e tutt’al più un ospite; anche la vera patria che il mio cuore si era
eletta, l’Europa, è perduta per me da quando per la seconda volta, con furia
suicida, si dilania in una guerra fraterna.»
In queste parole tratte dall’introduzione alla sua autobiografia, Il mondo di
ieri, c’è il ritratto completo della vita e del dramma di Stefan Zweig
(1881-1942). Nato in una famiglia della grande borghesia ebraica di Vienna,
cosmopolita per spirito e formazione, trascorse buona parte della sua vita
viaggiando tra Vienna, Berlino, Zurigo, Parigi, Londra, e poi la Russia,
l’Italia, l’America, sempre in contatto con i maggiori intellettuali dell’epoca.
Autore soprattutto di racconti e biografie, fu uno scrittore popolarissimo tra
le due guerre, ma resta un “minore” rispetto ai tanti giganti suoi
contemporanei, da Thomas Mann a Robert Musil, solo per citare due scrittori
della sua stessa epoca.
Con il passare degli anni la sua fama è sempre più rimasta legata all’immagine
dell’ultimo cantore di un’epoca e di un’Europa ormai scomparse, un mondo dove ai
suoi occhi regnavano l’amore per l’intelligenza e la cultura, il gusto per la
poesia e la musica, un mondo nel quale:
> «ognuno sapeva quanto possedeva e quanto gli era dovuto, quel che era permesso
> e quel che era proibito in cui tutto aveva una sua norma, un peso e una misura
> precisi».
L’Europa di Zweig era quella dove non esistevano frontiere e passaporti,
accomunata da una spiritualità comune, che credeva nella funzione storica della
cultura, strumento di comunicazione e di dialogo tra i popoli e tra le
società. L’avvento della modernità, così arrogante e volgare, il culto
dell’efficientismo e l’esplosione dei nazionalismi che porteranno l’Europa a
“suicidarsi” con le due guerre mondiali, furono qualcosa di sconvolgente e
incomprensibile per Zweig, del tutto incapace di accettare la nuova realtà. Per
restare fedele al suo personaggio, Zweig diede alla sua autobiografia, Il mondo
di ieri, scritta quando era già in esilio, il sottotitolo “Ricordi di un
europeo”.
La sua era senza dubbio una visione aristocratica, di chi era cresciuto e si era
formato nel privilegio, e la critica ha spesso colto nella sua nostalgia un
sapore dolciastro, un che di troppo caramelloso. Facile immaginare che un tipo
del genere poteva dare sui nervi a uno scrittore come Carlo Emilio Gadda, che
infatti dopo avere letto Il mondo di ieri diede uno dei suoi giudizi al
vetriolo:
> «Un trufolone europeo che va in cerca di tutti, è amico e ospite di tutti, è
> stato a balia con tutti (…) Tutto ciò non gli impedisce di ‘nutrire degli
> ideali’. Il più alto, il più generoso, e ad un tempo il più facile, è la
> comunione delle anime universe nella civiltà della supernazione. Auspicio
> supremo la scomparsa dei passaporti».
Con il passare degli anni però, aldilà dell’alone nostalgico, resta un punto
fermo incontestabile che Zweig aveva colto a pieno: il grande ciclo storico
dell’Europa si è chiuso per sempre. Tutto quello che è successo dal 1945 a oggi
lo testimonia senza ombra di dubbio.
Per capire meglio quella che era la sua visione del mondo, vecchio e nuovo, il
consiglio migliore resta quello di leggere La novella degli scacchi, forse il
racconto più famoso e sicuramente, almeno a mio parere, il più bello di Stefan
Zweig, scritto negli ultimi mesi di vita. Il tema è quello di una sfida tra due
personaggi che rappresentano due opposte umanità: uno, il dottor B, sensibile e
tormentato, è arrivato agli scacchi attraverso un percorso drammatico, l’altro,
Mirko Czentović, un gelido professionista, arido, rozzo e del tutto ignorante,
“specializzato” solo nel gioco degli scacchi.
> «Il contrasto spirituale dell’habitus dei due avversari divenne, nel corso
> della partita, sempre più plastico, più concreto. Czentović, il praticone,
> rimase per tutto il tempo immobile come un masso, gli occhi strenuamente fissi
> sulla scacchiera… Il dottor B. invece si muoveva del tutto disteso e
> disinvolto. Come il vero dilettante nel senso migliore del termine, che nel
> gioco vede solo il gioco che procura “diletto”».
Una sfida che alla fine vede inesorabilmente soccombere il “mondo di ieri”,
rappresentato dall’anima aristocratica e sensibile del dottor B., di fronte al
“mondo nuovo”, sotto le sembianze della forza brutale e ottusa di Czentović.
Questo racconto va considerato come il testamento spirituale di Zweig, che lo
scrisse negli ultimi mesi del 1941 a Petropolis, la cittadina vicino a Rio de
Janeiro dove era andato a vivere, lontano, il più lontano possibile, dalla sua
Europa che non riconosceva più. Ormai era un uomo stanco, deluso, che vedeva
finire in cenere tutto ciò in cui aveva sempre creduto.
Allo stesso modo dei vecchi elefanti che quando sentono avvicinarsi la fine
abbandonano il branco, anche Zweig, preso atto della sua sconfitta definitiva,
se ne andò in fondo al buco del culo del mondo dove il 23 febbraio del 1942 si
suicidò insieme alla seconda moglie.
Silvano Calzini
*In copertina: Samuel Reshevsky (1911-1992), scacchista di genio e bambino
prodigio, il 6 aprile del 1922, sfida alcuni maestri a Washington DC
L'articolo Il suicidio di un’epoca. Elogio di Zweig, l’ultimo cantore di
un’Europa scomparsa proviene da Pangea.