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Classe II E. Un racconto di Natale (con Capote, Scrooge e De Gregori)
L’occupazione va avanti ormai da tre giorni e il liceo in cui insegno — un edificio di fine anni Sessanta, grigio e rosso scuro, incastrato al limitare del quartiere Isola, quello di Niguarda e viale Jenner — sembra quasi un animale che muta umore al passare delle mezze giornate. Ogni piano ha una storia diversa: un gruppo discute di diritti civili, due classi suonano senza sosta, qualcuno cerca un proiettore introvabile mentre qualcun altro scrive slogan con pennarelli colorati e mezzi scarichi; c’è poi sempre chi attraversa il corridoio a passo svelto con la testa bassa sul telefono o chi, seduto sulle piastrelle dell’atrio, gioca a carte per ingannare l’attesa bevendo un succo confezione famiglia. Girando per la scuola capita che al brusio della vita in corridoio si sostituisca un silenzio da edificio deserto carico dell’odore di sigarette e di marijuana che aleggia lontano dalle finestre socchiuse; ma basta un niente, una porta che sbatte, una cassa che riparte in lontananza, perché l’edificio torni a vibrare con il suo ritmo insolito di questi giorni. Da due mattine le giornate passano così. Oggi decido di salire ai piani non coinvolti dalle attività degli studenti, nell’aula che mi spetta a quell’ora, nella speranza — poco convinta — di trovare almeno uno spazio che somigli a un riparo o un’isola dove potermi concentrare. Guardo l’orologio a muro in sala docenti e deduco che devo andare in 2E. Non ne sono entusiasta, perché so che quell’aula non è mai ben riscaldata: i termosifoni funzionano a singhiozzo e il freddo si insinua sotto i pantaloni, tanto che a fine ora ci si ritrova spesso intirizziti, tranne i pochi accalcati intorno all’unico calorifero che irradia un caldo beffardo, inutile per tutti ma insopportabile e fastidioso per chi gli è addosso. Sono vestito come mi pare di esserlo tutti i giorni: camicia, oggi bianca, maglione, oggi verde scuro, sneakers, sempre bianche; ho con me lo zaino con il laptop, la Moleskine chiusa dal suo elastico nero, qualche foglio per gli appunti e un pacco di compiti da correggere, l’iPhone tra la tasca e la mano, in continuazione. Fuori, Milano è ingrigita da una pioggia non battente ma ostinata, una di quelle che fanno sembrare tutto più pesante e fanno camminare i passanti in fretta, in fuga; qualcuno dice che forse nevicherà, anche se in realtà non avrebbe dovuto nemmeno piovere. Le auto sollevano schizzi passando sulle pozzanghere, e su alcuni balconi si intravedono già delle luminare accese, destinate più a rispettare una scadenza commerciale sempre anticipata che a evocare un sentimento reale; sono luci che non aggiungono nulla e non scaldano. Il Natale non è ancora nei pensieri di nessuno e non sono questi promemoria coercitivi a regalare un anticipo di festa: a Milano lo spirito natalizio – come si misura ormai? corsa ai regali? voglia di rallentare? – arriverà solo più tardi, con Sant’Ambrogio, i mercatini, il vin brulé e la Prima della Scala, fino ai nuovi riti più prosaici del Black Friday o della prima sciata di stagione.  Io sento ogni anno la stessa nostalgia: come se il Natale restasse sempre un po’ sfocato da adulti, come un’immagine che ricordavo più nitida, e invece sfugge. Forse per questo, da anni, provo a scrivere un racconto di Natale, e ogni volta fallisco, ma puntualmente ci riprovo, perché ho sempre amato leggere storie ambientate a Natale, così come mi piace ora raccontarle agli studenti, stupirli con la proposta di letture natalizie senza un compito allegato, senza un riassunto cui pensare o un’analisi da studiare, sperando persino di poter dare loro un argomento di conversazione per le feste, o una buona idea regalo: un libro di un autore che è piaciuto, un guizzo letterario. Certo che conoscere i racconti, leggerli e proporli è una cosa, scriverli è un altro mestiere, e il paradosso è che non si possono scrivere a dicembre: i racconti di Natale nascono altrove, in estate, o in un giorno qualunque, quando non ci pensi e forse non ne senti nemmeno il bisogno. Poi, a dicembre improvvisamente vengono buoni. Tutti, tranne quello mio che non c’è mai. Così, mentre salgo al secondo piano, penso che forse questo venti novembre, in una scuola occupata, lontano da tutto ciò che ricorda una festa, potrebbe essere il momento giusto per provarci di nuovo.  Apro la porta della 2E, contando di trovarla deserta. L’aula è immersa in una penombra irregolare: la veneziana accanto alla cattedra è ancora rotta e lascia intravedere un pezzo di Milano con i tetti bagnati, gli alberi ormai spogli e le automobili che si confondono tra quelle parcheggiate e quelle intrappolate nel traffico. Faccio un passo, accendo la luce cercando con le dita il pulsante alla parete e mi blocco, colpito da una presenza che non so spiegare. Tra i banchi più lontani dai vetri, alla mia sinistra, una donna minuta indossa un vestito che sembra uscito da un ricordo troppo vivido perché sia immaginato, un vestito semplice con un grembiule sottile, e tiene tra le mani una torta avvolta in un panno, pronta per essere spedita “a qualche sconosciuto che ne ha bisogno” – mi dice, terminando con parole sue un mio pensiero. La riconosco: è Sook, leggo sempre di lei; è la cugina di Truman Capote, la protagonista del suo racconto di Natale più bello. Mi sorride, e il suo sorriso sembra sciogliere un poco il freddo dell’aula. Accanto a lei, seduto su un banco, Paul Auster fa girare una moneta tra le dita, facendola brillare sotto il neon che tremola per un attimo sopra di noi; mi osserva con la sua calma che sa di storie infinite e mormora che «è tutto un trucco, ma a Natale i trucchi contano», come se stesse citando il suo stesso racconto mentre lo vive. Dietro, quasi nascosto nell’ombra, un vecchio con la barba sfoglia un registro di classe come fosse un libro mastro capace di contenere ogni bilancio morale del mondo: non è Charles Dickens, ma il suo Scrooge, il primo, quello rigido, il più umano e il meno redento, semitrasparente come se l’aula stessa lo consumasse. E poi vedo oltre questi tre: contro il muro, appoggiata senza custodia, c’è una chitarra acustica. Accanto a essa, con le mani infilate nelle tasche del cappotto e una sigaretta spenta tra le dita, c’è Francesco De Gregori. Porta degli occhiali con le lenti sfumate, il volto è segnato da una barba bianco-rossiccia curata e se ne sta lì con la naturalezza di chi stava aspettando di parlare. Si stacca dal muro e mi saluta con un “Ohé professore” appena accennato, “stiamo provando un racconto di Natale”, e aggiunge che siccome a me non riesce mai, sono venuti loro a darmi una mano. Poi si volta verso la finestra e aggiunge, quasi tra sé e sé, che certe storie non vogliono essere scritte nel momento giusto, ma compaiono quando meno te lo aspetti. “Quello che non so, lo so cantare – ricordi?” Ed è mentre lui si sposta che, dietro la sua figura, vedo un bambino: magro, gli occhi scuri, le scarpe fradicie, la felpa troppo leggera per il gelo di quella mattina, lo zaino che gli scivola dalla spalla. Non ha nulla del fantasma o del personaggio inventato: è proprio un bambino, troppo giovane perché sia uno dei miei studenti, ma allo stesso tempo sembra somigliare a tanti di loro. Per un attimo mi sembra di riconoscere chi di solito siede dove sta lui ora, un attimo dopo è un bambino di Gaza con gli arti mutilati, poi me stesso da piccolo, poi mio figlio, poi mia figlia, e infine uno sconosciuto che potrei avere incrociato per strada senza mai accorgermene. Questo bambino, penso, è tutti e nessuno, ed è lì: è un prisma vivente che rimanda il volto del mondo attraverso le sue sfaccettature e le sue crepe, e forse è proprio questo scorgerlo che rende il Natale possibile. Lo guardo e lui mi dice soltanto “sto aspettando”, e quando gli chiedo che cosa aspetti, risponde “tutto”, come se quel tutto comprendesse anche la sua storia taciuta, il suo Natale mai raccontato. A quel punto De Gregori, in piedi dietro di lui, gli appoggia una mano sulla spalla e mi indica il bambino con un semplice cenno del mento e del viso, un gesto quasi impercettibile e chiarissimo. È lui – sembra dirmi – è lui il tuo Natale. E in quell’attimo mi torna in mente che proprio in quella stessa aula, un anno prima, quando era la 5C, avevo letto e raccontato agli studenti Capote, Auster, Dickens, Andersen e O. Henry, e dopo di loro avevo fatto ascoltare tre brani natalizi di Francesco De Gregori, evocandoli tutti con l’entusiasmo che mi prende sempre quando parlo dei racconti di Natale che amo, e che ogni anno provo a scriverne uno senza riuscirci. Ora tutti gli autori e le loro storie sono davanti a me, e a me tocca. Dal corridoio arrivano voci, passi, il rumore di un banco trascinato: qualcuno forse sta per entrare. Dentro di me cresce una certezza limpida, quasi incontestabile, che ciò che sto vivendo non può svanire soltanto perché un rumore interrompe la quiete. Chiudo la porta con naturalezza e decisione insieme, difendendo questo istante fragile come si proteggerebbe il segreto di Babbo Natale ai figli che, diventando grandi, iniziano a fare domande difficili. Quando mi volto di nuovo, gli autori e i personaggi sembrano ancora lì, ma più luminosi e più leggeri, come se stessero concedendo a me — e solo a me — la possibilità di trattenere ciò che serve davvero per scrivere, mentre il resto può dissolversi senza rumore. Il bambino, però, rimane immobile: è presente come un banco, reale come una domanda cui non si può sfuggire. «Lo scrivi?» chiede, e la sua voce ha qualcosa di gentile e insieme irrevocabile, come se la domanda non fosse rivolta soltanto a me, ma anche a tutte le versioni di lui che ho intravisto un istante prima. Poso lo zaino, apro l’agenda, accendo il laptop, sento la penna tra le dita: sembra tutto pronto, come se questo momento non fosse solo un incontro inatteso, ma la soglia che cercavo da anni. Intuisco ora che il Natale, prima ancora di essere una festa, è una ricerca ostinata di bellezza e di verità, un tentativo di ritrovarsi in uno sguardo verso l’altro, un modo per tornare al punto in cui tutto è nuovo e possibile.  Sì, lo scriverò: lo scriverò perché è già qui, perché è già accaduto, perché il racconto nasce proprio adesso, in quest’aula fredda e in una scuola occupata, dove un bambino che porta dentro di sé tutti i natali del mondo mi guarda in attesa e mi concede la possibilità di trasformare questa attesa in parole. Il Natale, comprendo qui e ora, non è un luogo, né una data: il Natale è un bambino da proteggere e che salva, da aiutare e che cura, da sfamare e che nutre, da educare e che insegna.   Il Natale è bambino. E allora sì: il racconto sta arrivando. Finalmente. Marcello Bramati *Marcello Bramati ha pubblicato, tra l’altro, “Leggere per piacere” (Sperling & Kupfer, 2017) e “L’ultimo miglio. Motivi e modi per accogliere i cantautori nella letteratura e in classe” (Mimesis, 2024). Insegna, ha due lauree.  **In copertina e nel testo: opere di Mervyn Peake (1911-1968) L'articolo Classe II E. Un racconto di Natale (con Capote, Scrooge e De Gregori) proviene da Pangea.
December 23, 2025 / Pangea
Sia lode a Douglas Glover, il Cormac McCarthy canadese
Ho conosciuto Douglas Glover grazie a Eugene Marten. Nell’intervista realizzata su questo foglio telematico, l’ottimo scrittore americano appena tradotto da Playground cita The Life and Times of Captain N.; un libro, dice, più bello di Meridiano di sangue. M’informo. Il romanzo, ambientato durante gli anni della Rivoluzione americana, tra il 1779 e il 1781, alterna rovinosi tradimenti ad affabili efferatezze. Il protagonista, Oskar, un ragazzino, scrive una lettera a George Washington; il padre – arguto in violenza – ha scelto di stare col Regno di Gran Bretagna; la madre è in piena isteria, i nativi imperversano, a fiotti, elegantissimi nell’uccidere (“Verità è bellezza”, dice, a un certo punto, un nano, mentre maneggia il Tristram Shandy e la Anatomy of Melancholy di Burton, “Guarda i selvaggi: poesia che prende vita. Ogni loro gesto è retorico. Per loro bellezza è verità. Per raccontare la loro verità devi dimenticare questo mondo e parteggiare per il poetico”).  Del romanzo esiste anche una versione francese, dal titolo più incisivo: Le Rédempteur. In origine, uscì per Knopf nel 1993, l’anno in cui Cormac McCarthy, dopo decenni di grandi romanzi per lo più sconosciuti ai più, accede al grande pubblico, con Cavalli selvaggi. L’anno prima, Richard B. Woodward lo aveva intervistato per il “New York Times”, creando l’icona del the best unknown novelist in America: lo scrittore assiso in una sua insonorizzata solitudine, che parla poco, professa l’eremitaggio etico, conosce i serpenti a sonagli del Mojave. Grosso modo con le stesse parole – the most eminent unknown Canadian writer alive – è stato censito Douglas Glover. La nota che appare sul suo sito, alimenta un’agiografia di smarrimenti e sottrazioni: “L’oscurità di Douglas Glover è leggendaria; è noto soprattutto per essere sconosciuto”. Si citano i due figli, “Jacob e Jonah, che senza dubbio diventeranno più bravi di lui”. I suoi libri – così scrivono alcuni giornali come “Music & Literature” – “possono essere paragonati ai romanzi di Cormac McCarthy, Donald Barthelme e William Faulkner”.  In realtà, di Douglas Glover si sa molto – per lo meno, abbastanza. Nato nel 1948 a Simcoe, piccolo borgo canadese, in Ontario, dove aveva sede l’azienda di tabacco della famiglia, ha studiato filosofia a Toronto, si è specializzato a Edimburgo, ha praticato come giornalista, è stato “writer in residence” in diverse università, più o meno note. Nel 2010 ha fondato la rivista letteraria “Numéro Cinq”, che ha diretto per sette anni. Douglas Glover ha le stimmate del guru, è messianico perfino nel viso: fronte ampia, occhi levati da uno spirito lupo, impettita magrezza; lo straordinario nell’ordinario. Quando lo fotografano, spesso si vela il volto con mani in mandria. È un teorico della letteratura; meglio: è un profeta della scrittura, uno che scava, uno che stana il verbo. Uno in caccia. Tra l’altro, ha scritto un saggio su “Don Chisciotte”, The Enamoured Knight, ma i suoi interventi più sagaci sono quelli brevi, predatori. Tra i tanti, preferisco The Novel as a Poem; attacca così: > “Il miglior insegnante di scrittura che abbia mai avuto era un cowboy del > Kansas, si chiamava Robert Day, l’ho conosciuto all’Iowa Writer’s Workshop, > era capitato all’ultimo minuto per sostituire un collega: sarebbe stato con > noi un semestre, era il gennaio del 1981. Il primo giorno di lezione – > indossava stivali, jeans, camicia a scacchi – non disse una parola, prese il > gesso, segnò la lavagna con una scrittura a caratteri cubitali: Ricordati di > ricordargli che il romanzo è una poesia”.   Robert Day, da giovane, aveva lavorato per G.P. Putnam’s, a New York, “ricordava ancora l’entusiasmo per la pubblicazione di Lolita”, aveva pubblicato un solo romanzo, The Last Cattle Drive, aveva un ranch nel Kansas occidentale, “gestito, ai limiti della legalità, insieme ad alcuni amici”. Indottrinò Glover intorno alla sapienza letteraria di Raymond Queneau, Robert Musil, Chinua Achebe, Amos Tutuola, Vladimir Nabokov e Kobo Abe. Non potremmo immaginare scrittori più diversi tra loro.  Douglas Glover esordisce alla letteratura proprio nel 1981, con The Mad River and Other Stories, un libro pressoché introvabile. Il primo dei suoi cinque romanzi, Precious, esce due anni dopo: è la parodia di un giallo; il protagonista, “un giornalista alcolizzato ed esausto con la tendenza a cacciarsi nei guai e tre matrimoni falliti alle spalle”, pare ritagliato sulla sagoma di Hank Quinlain, il personaggio eternato da Orson Welles. Il romanzo più noto – e più tradotto – di Glover s’intitola Elle: ambientato nel XVI secolo, romanza l’epopea di Marguerite de La Rocque, giovane donna francese abbandonata da Jacques Cartier presso la leggendaria “Isola dei Demoni”, Terranova. Si susseguono, in rissa, orsi, spettri, inuit; dissero dell’“immaginazione rabelaisiana di Glover”. Il romanzo, uscito nel 2003, dieci anni dopo The Life and Times of Captain N., permise a Glover il Governor General’s Award, il premio letterario più importante del Canada, superando Margaret Atwood.  L’ultimo libro pubblicato da Glover, The Erotics of Restraint, una raccolta di saggi, è uscito nel 2019; l’ultimo pensiero on writing è uscito la scorsa estate: Glover parla di Anna Karenina e più in particolare di Literary Suicide. Avrebbe voluto scrivere un romanzo “sul suicidio del mio bisnonno, nel 1914. Alla fine ho abbandonato l’impresa perché, immagino, non avrei saputo descrivere un suicidio”.  The Life and Times of Captain N. – di cui in calce si offrono, in libera traduzione, alcune pagine – è un libro docilmente torbido, molto bello. Rispetto a Meridiano di sangue, la cui scrittura, biblica e ancestrale, procede per gnostiche involuzioni, qui si va per folgori, per agnizioni improvvise, per bruschi lampi. Meridiano di sangueè un romanzo-assedio; The Life and Times of Captain N. è un romanzo razzia. Nello stesso anno in cui esce il romanzo – per dire della pervicacia del ‘genere’ – Gli spietati, il cupo western di Clint Eastwood, ottiene quattro Oscar.   Soprattutto, The Life and Times of Captain N. è una riflessione sul senso della scrittura, se la scrittura possa davvero testimoniare la verità quando non il suo idolo, la sua contraffazione. A un certo punto Oskar, il ragazzo che sta scrivendo la sua storia, scrive:  > “Intendo dire la Verità, ma è difficile afferrarla. La Verità è una Maschera & > il suo Stigma è la Divisione. Non è che il Nulla che giace tra le Cose. > Vortica. Eppure credo che conoscerla sia una specie di Pazzia, di gioioso > Conforto”.  Tracciare i punti di contatto tra Douglas Glover e Cormac McCarthy è infine inutile: un gioco di apparenze, di eteree strategie letterarie, di fuochi in fuga. Le grandi singolarità sono imparagonabili, la scrittura prevede un uomo solo, qualcosa che scalfisce la parola pioniere e la parola primevo. È ora di tradurre Douglas Glover. *** Da The Life and Times of Captain N. Il Patto sconfitto Agosto-settembre 1779 Dio d’acqua Il ragazzo arranca con la penna d’oca, schizza gocce d’inchiostro preparato in casa sulla rude corteccia di betulla. La lingua lecca il labbro superiore: si concentra. Sei pronto a scrivere? Pensa. Sei pronto a dire la verità? Sì.  Il ragazzo ha quindici anni. Il padre è scomparso nella foresta, è andato a cercare il re. La madre è a letto. Le sue grida e i suoi miagolii allontanano tutti dalla casa. Nella chiesa che il padre ha costruito in una porzione della fattoria, la gente del villaggio recita preghiere per lei e per i suoi figli – blatera bestemmie contro il padre del ragazzo. Gli zii e le zie del ragazzo sono in fila sui banchi per denunciare il fratello. Quando pregano in silenzio, odono le urla della madre del ragazzo.  Non si lava – non mangia. Lo spazio puzza, galoppano i gemiti. Ci sono altri sei bambini oltre al ragazzo – lui è il più grande. Corrono, liberi, nel cortile della fattoria, nel bosco. Venite, vicini, venite, servitevi degli animali della fattoria, fottete gli attrezzi del padre. Cardi e bardana, senape selvatica e erbe matte soffocano i filari di mais. I cervi “pascolano di notte dove le recinzioni sono state sfondate.  Caro Gen. Washington, mio Padre ci ha picchiati tutti”, scrive il ragazzo. “Era un terribile Uomo. Non dovremmo essere trattati male per quel che ci ha fatto. Lui picchiava mia Madre & lei picchiava il bambino. Mio Padre picchiava me & io picchiavo Ephas, Jonah, Sophronia, Cacophonia & Ella. Poi mi ha picchiato perché li picchiavo e li ha picchiato perché si sono fatti picchiare. Per altri versi, era un Uomo Buono, ma ora può capire perché è andato a combattere per il Re. Il mio nome è Oskar Nellis. Sono per la Repubblica. Penso che ci debbano restituire la Mucca. Goldie, il Nero, è andato via con Papà. Altri tre sono scappati nella foresta. Ce li devono restituire”.  Il ragazzo smette di scrivere perché qualcuno cerca di forzare la serratura del gabinetto. La porta si apre e rivela un ragazzo magro, sulla ventina, naso lungo, verruca sul mento, cappello a tesa larga, sporco, pantaloni strappati fino al ginocchio. È scalzo, come Oskar.  È un dio d’acqua, un Dunkard, un battista errante di nome Tobias Catchpole, che venne a pregare circa tre anni prima con la madre di Oskar, grosso modo quando il padre di Oskar è partito per la guerra. Lei disse che le aveva donato la Luce. Una volta ricevuta la Luce, smise di parlare del padre di Oskar. Non fu mai più menzionato il suo nome. Ora Tobias Catchpole ha il controllo totale della casa dei Nellis. Ha buttato giù Oskar ed Ephas dal loro letto in soffitta. Uccide polli e maiali per cena senza chiedere il permesso, senza condividerli con i ragazzi. Ha venduto i vestiti del padre di Oskar ai passanti.  “Cosa fai?”, chiede il dio d’acqua: si abbassa i pantaloni, ha le anche pallide e sporche, la scorreggia squittisce.  “Scrivo”, dice il ragazzo.  “Opera di Satana”, dice il dio d’acqua. “Chi ti ha insegnato?”. “Sir William Johnson, signore, il nano”, dice Oskar. “I bambini andavano a scuola ma il nano mi ha insegnato a scrivere prima che fossi abbastanza grande per la scuola”. “Ti ha insegnato a scrivere col sangue?”, gli chiede il dio d’acqua.  “Nossignore. Non ho mai sentito parlare di quel metodo”.  “Probabilmente, ti stava fregando. Ti ha fatto firmare qualcosa?”.  “Mi ha addestrato a firmare con il mio nome”, risponde Oskar. “Ma solo sulla corteccia di betulla”.  “Senza alcun dubbio hai firmato qualche patto diabolico con i selvaggi. C’erano disegni sul rotolo?” “A volte”.  “Dobbiamo portarti all’acqua. Dobbiamo lavarti e purificarti nell’acqua”, dice il dio d’acqua.  * Non c’era nessuno Non c’era nessuno. Poi furono tutti. Silenti, come la luce del sole.  Nonna Hunsacker sedeva e canticchiava sulla sedia a dondolo, con i piedi sulla padella. Giuro su Dio: continuò a canticchiare anche dopo che Dolce Vento le spaccò il cranio, anche dopo che il cervello le sbocciò ovunque. Stava ancora canticchiando e lui le sollevò i capelli e cominciò a scorticarle la fronte. Mentre mio fratello Abiel tentava di sollevare un’obiezione, Tuono che Scalpita gli segò lo stomaco con un coltello da caccia. Abiel si sedette sulla sedia dallo schienale vertiginoso, quella che usava Papà, a capotavola, tenendosi le budella nella camicia, tirando su col naso, a vaste zaffate. Philomela urlò agli assassini, corse all’aperto, tenendosi la gonna. Uccello che Vola e Luce che si Sbriciola, nient’altro che ragazzi, poco più grandi di Abiel, la fecero inciampare nel porcile. Quando cercò di strisciare, le saltarono in groppa, finché non le si spezzò la schiena.  Buttai Baby Orvis dalla finestra tuffandomi a capofitto dietro di lui, corremmo verso il campo di grano dove mamma e zia Annie ammucchiavano i covoni. Gli unici suoni che udivo erano la cantilena di nonna Hunsacker, i lamenti di Abiel, le urla di Philomena. Mi voltai e vidi Tuono che Scalpita che mi fissava.  Tra me e la casa c’erano una mezza dozzina di alberi; mi diressi verso il covone più vicino; mi rintanai lì con Baby Orvis. Philomena gemeva, mormorava “Mamma, Mamma…”; Abiel rovesciò un urlo orribile. Non vedevo mamma e zia Annie, probabilmente si erano date alla fuga.  Il piccolo Orvis cominciò a piangere. Dalla luce che filtrava dai covoni vidi una specie di uovo d’oca, una specie di pugno blu che gli usciva dalla fronte, dove aveva sbattuto, precipitando dalla finestra. Cercai di zittirlo – non servì a nulla. Mi tirai giù la parte superiore della maglia e gli ficcai un capezzolo in bocca, come avevo visto fare a mamma: anche se non avevo un petto degno di nota, Orvis non se ne accorse, non lo voleva. La pula mi inceneriva le narici, si insinuava sotto le vesti.  Caldo come febbre.  Sopra ogni cosa, là fuori – la fattoria e i campi, la natura selvaggia oltre le recinzioni – era planato il silenzio.  “Ci farai uccidere”, sussurrai a Baby Orvis. Avevano ucciso il mio cane, Romulus, pensai.  Baby Orvis lo hanno ucciso.  Uccello che Vola, indossando il grembiule di Philomena, lanciò Orvis in aria: lo colpì con la baionetta otto o nove volte prima che Orvis smettesse di urlare. Ero sdraiato tra le stoppie di grano, Dolce Vento mi teneva le mani. I capelli di nonna Hunsacker pendevano dalla sua cintura, gocciolava sangue. il sangue di Orvis piroettava verso il sole ogni volta che Uccello che Vola lo sollevava. Rotolò su se stesso contro il cielo azzurro, torceva la testa, urlava, in un groviglio di sangue e di azzurro. Benché non avesse ancora capelli degni di nota, Uccello che Vola raspò il cranio di Orvis, infilò lo scalpo nella cinghia.  Incrociammo mamma e zia Annie ai margini del bosco: erano sdraiate, le teste mozze, mosche che si infilavano nei loro occhi sbarrati. Nonno Hunsacker era appollaiato, illeso, su una roccia. Sedeva, le mani sulle ginocchia. Quando Tuono che Scalpita lo chiamò, nonno Hunsacker si alzò, zoppicò verso di lui. Tuono che Scalpita lo colpì con un moschetto. Poi si inginocchiò, cominciò a fargli lo scalpo, tagliava come si raccolgono i cavoli. Douglas Glover *In copertina: Newell Convers Wyeth, Crows in Winter, 1941 L'articolo Sia lode a Douglas Glover, il Cormac McCarthy canadese proviene da Pangea.
December 22, 2025 / Pangea
“Se nel tuo cuore appare una rosa, diventa quella rosa”. Jami, il poeta sapiente
Morì nel 1492, secondo il calendario d’Occidente, Jami – un anno fatale. Cristoforo Colombo aveva scoperto l’America; il Sultanato di Granada, ultimo lembo musulmano in Spagna, veniva definitivamente corroso. A suo modo, anche la figura di Jami è uno spartiacque tra il vecchio e il nuovo mondo della poesia persiana – con lui, un pioniere, benché radicato nella tradizione, un’epoca finisce. Mahmood Jamal, ideatore, per Penguin, della più nota antologia di poesia Sufi, Islamic Mystical Poetry, lo definisce “l’ultimo grande poeta sufista, l’ultimo grande interprete della lirica persiana”.  Mawlanā Nūr al-Dīn ’Abd al-Rahmān – questo il nome autentico, per esteso – nacque a Torbat-e-Jam, nell’attuale Iran, al confine con l’Afghanistan, nel 1414. Fu il padre a introdurlo alla mistica Sufi, dopo averne saggiato i ‘segni’. Jami – il nome proviene dal luogo natio; così il poeta si celebra in un distico: “Jam è il mio paese natale, del miele di Ahmad/ si è abbeverata la mia profetica penna” – perfezionò gli studi a Samarcanda. Nel curriculum di un sapiente dell’epoca, la conoscenza lirica – necessaria ad assurgere a Dio, ad assaggiarne il nettare – si mescola a quella scientifica, terrena: all’uomo compiuto è chiesto di unire cielo e terra nelle proprie mani, di divorarli. Di Jami, tra i molteplici scritti – un’ottantina – resiste uno studio per progettare strumenti idrici ancora efficaci. Conosceva i metodi per irrigare a dovere i campi – i modi per dare acqua agli assetati di sapienza.  Per un po’, pensò di unirsi totalmente a Dio, mollando il mondo con radicalità catacombale. Infine – sedotto da un sogno, certo di averne intuito i rivoli simbolici – sposò la nipote del suo maestro, Kasgari. Ebbe quattro figli – tre morirono poco più che neonati; il dolore, a fendenti, istruì Jami negli impossibili meandri della perseveranza. Ebbe incarichi a Herat, dove edificò la sua scuola; dominavano i Timuridi, gli eredi di Tamerlano. Fu attratto dalla dissoluzione del sé – a tratti, disse di sentirsi “sparire” – e lo sentì “spaventosamente”. Nei suoi insegnamenti mistici, Jami enfatizzava la via dell’amore – “O Jami, solo Amore è la via verso Dio:/ la pace ammanti chi segue la vera via” – l’unica capace di scuotere l’uomo dal mondo. Credeva nella veglia incessante, nella pratica del silenzio, nella meditazione che porta a confondere il proprio stato terreno con quello celeste. Credeva che l’uomo può – scotennando la propria crosta transeunte – sbocciare in creatura angelica. Uomo, crisalide di Dio. Scrisse che Dio è ovunque, che si manifesta in ogni cosa, che il compito del seguace Sufi è assurgere alla dimensione del ‘santo’, colui che supera l’etica della differenza, le istituite distinzioni, al di là del bene e del male, immerso nell’ardore.  Radunò una serie di celebri “Fiabe mistiche” che sfociano in una morale spiazzante rispetto ai canoni mondani. È nella poesia, tuttavia, che si consolidano le sue esperienze mistiche e sapienziali. È vero: Jami non è un innovatore – sarebbe inesatto intenderlo come un ‘esecutore’. Egli porta a compimento il ciclo della grande poesia persiana – di Rumi, di Hafez, per intenderci – riutilizzandone codici e cliché; eppure, alcune sentenze trovano nei suoi versi una freschezza arcana, immotivata, soltanto sua. Tentò di elevare l’uomo dalle ganasce del pensiero, dai sofismi, le levatrici del maligno; scrisse che “Ogni pensiero/ che non sia memoria di Dio è malvagio”. Un’epigrafe irradiava, dalla tomba, il suo estremo sentire. “Quando il tuo viso si nasconde, come la luna è nascosta dalle nuvole oscure, stillo lacrime stellari: nonostante le stelle, a miriadi, rimane buia la mia notte”. È bello – nei giochi delle corrispondenze – tracciare avidi legami, impossibili, con Giovanni della Croce (uno spagnolo, non a caso). Anche in Jami, il rovesciamento dei simboli è totale: ciascuno sperimenti la propria notte, fino alla cecità. In sovrappiù, Jami identifica l’andare ‘lunatico’ dell’Amato, la necessità del pianto – quasi che le stelle non siano che lacrime cristallizzate. Del sapiente, svanì la tomba, il corpo, l’eremo del pianto.  Agli studenti che gli chiedevano di essere ammessi alla sua scuola, Jami chiedeva, anzi tutto, se fossero mai stati innamorati. Di fronte a chi diceva, con servile severità, di non aver mai amato, rispondeva, “Vai – ama – poi ritorna: ti mostrerò la via”. A dire che non esiste ascesi senza l’abisso della carne, la rovina del corpo – sfigurarsi sullo spigolo di questa terra.  *** Nel giardino Nel giardino, sulla riva del fiume con il calice in mano: Sorgi, Saqi! Versami il vino! L’astinenza qui è crimine! Lo Sceicco è ubriaco di religione: la paura affolla le moschee, ma la vera estasi permane nella bettola piena di ubriaconi.  Hai baciato il calice con le tue labbra: ero così ubriaco che  non ho distinto il rosso della tua bocca dal rosso del vino.  Non devi sguainare la spada per spezzarmi il cuore: trattieni le armi, il tuo sguardo è un dardo sufficiente.  Agli uomini che confidano nella ragione non spiegare  le pene d’amore; non svelare tali segreti ai mediocri.  Jami è ubriaco del tuo Amore e non ha ancora cominciato a bere: in questo banchetto nessuno ha bisogno di vino. * Il senso dell’insensato amore  Quando l’eternità sussurra “Amore” Amore mette il fuoco nello stilo.  La penna sorge dall’eterno desco e disegna ogni bellezza possibile.  I cieli sono i virgulti di Amore gli elementi vengono al mondo grazie ad Amore. Senza Amore non capisci il bene né il male; ciò che orbita lontano da Amore è inesistente.  Il tetto azzurro del mondo che ruota lungo le vie del giorno è il Loto del giardino di Amore è l’elsa del bastone di Amore.  Il magnete nel cuore della pietra che costringe il ferro a scalpitare è Amore dalla volontà ferrea appare nell’abisso della roccia contempla la pietra nel suo riposo e ama chi lo ama. Da qui proviene il dolore di chi è lapidato dall’Amore per l’Amato.  È vero: Amore reca dolore ma è anche il più puro conforto.  L’uomo non può sfuggire al ciclo della vita e della morte senza la benedizione di Amore. * O Tu, la cui bellezza è in tutto ciò che è manifesto possano mille venerabili spiriti essere il Tuo sacrificio! Come un flauto canto il canto della separazione da Te, anche se mi sei vicino in ogni istante.  L’Amore si rivela in tutto ciò che vediamo: a volte ha le vesti di un re, altre volte è un mendicante, vive per strada ha la ciotola dell’elemosina in mano.  Issati, o Saqi, e versa il vino che lenisce il dolore dai nostri cuori! Quel vino ci libera dall’onnipotente io gettandoci nella certezza del Potente.  O Jami, solo Amore è la via verso Dio: la pace ammanti chi segue la vera via.  * Sono così ubriaco che il vino mi esce dagli occhi; il mio cuore è in fiamme: sento il suo odore mentre brucia!  Se l’Amato si presenta a mezzanotte senza veli un anziano estremista scapperà dalla moschea.  Ti ho visto all’alba e ho dimenticato di pregare: è inutile la supplica quando il sole sorge.  Su una goccia del dolore di Jami cadesse nel fiume,  i pesci, arsi dal dolore, balzerebbero a riva. * Ti attraggono le forme terrene:  il destino le incenerirà tra un attimo –  va’ e dona il tuo cuore a chi è sempre  stato con te e con te resterà sempre. * Ho vissuto rincorrendoti – ho lottato per unirmi a Te: intuire il tuo sguardo tra fraintesi d’ombra è preferibile, per me,  che assaggiare le più belle bellezze della terra.  * Oh, mio cuore… quanto ancora cercherai il perfetto nelle scuole, per quanto tempo continuerai a perfezionarti con la filosofia e le regole matematiche? Ogni pensiero che non sia memoria di Dio è malvagio. Inchinati davanti a Dio, slaccia da te ogni pensiero, molla il mondo dei concetti ai filosofi, agli stolti intellettuali! * Il mondo esiste grazie a Te ma di Te non c’è traccia: benché Tu non abbia bisogno di me, io vivo per Te.  * Il vicino e il parente, lo straniero e il vagabondo: tutti sono Lui! – Lui è nell’abito del mendicante e nella stola del re. Nelle assemblee e nelle alcove nei tribunali e nei postriboli, Dio è in tutto, il tutto è Lui.  * Senza velo non posso vederti senza schermo non posso fissarti: prima devo raggiungere l’illuminazione. D’altronde, chi può scrutare le sorgenti del sole? * Se vuoi essere l’inquieto usignolo, diventa usignolo! Tu sei una parte e la Realtà è il Tutto: per qualche giorno medita sul Tutto, diventa Tutto! Se nel tuo cuore appare una rosa, diventa quella rosa.  ** Fiabe mistiche Un cammello e un asino marciavano assieme. Giunti alla riva di un fiume, il cammello si immerse per primo in acqua. L’acqua gli arrivava poco oltre le ginocchia, refrigerando appena il corpo. Così disse: “Vieni anche tu, il fiume mi arriva soltanto ai fianchi!”. “Ti credo”, rispose il saggio amico dalle lunghe orecchie, “ma noi siamo molto diversi: l’acqua che ti arriva ai fianchi mi sommergerebbe la schiena…”. Il saggio rifiuta di farsi condurre oltre le profondità che conosce.  * Il cane e il pane Un cane, straziato dalla fame, stava alle porte di un villaggio quando vide una pagnotta rotolare fuori dalle mura e dirigersi verso il deserto. Il cane si lanciò all’inseguimento, corse, gridando, “Oh Bastone della Vita, Potenza del Viaggiatore, Oggetto del mio Desiderio, Consolazione dell’Anima! In quale direzione volgi i tuoi passi, dove stai andando?” “Nel deserto”, gli disse il pane, “a trovare i miei amici, il lupo e il leopardo, per ricambiare la visita che mi hanno fatto, un tempo”.  “Il tuo discorso sprezzante non mi spaventa”, replicò il cane, “ti inseguirei nella bocca di un coccodrillo, tra le fauci di un leone. Se rotolassi per tutto il mondo, ti inseguirei comunque”.  Chi vive di solo pane si sottomette, per averlo, ai più vili abusi: è come un cane famelico.  * La vespa rossa e l’ape Una vespa rossa, un giorno, attaccò un’ape, desiderosa di suggere della sua dolcezza. L’ape iniziò a piangere dicendo: “Circondanti come siamo dal più puro miele e dal dolce nettare dei fiori, perché insegui soltanto me, abbandonando tutto il resto?”. La vespa rispose: “Se c’è del miele al mondo, tu ne sei la fonte; se c’è dolce nettare, tu ne sei la sorgente”.  Felice l’uomo che distingue il vero dal falso e rifiuta di accettare il poco.   *In copertina: Y.Z. Kami, Endless Prayers XXVIII, 2009 L'articolo “Se nel tuo cuore appare una rosa, diventa quella rosa”. Jami, il poeta sapiente proviene da Pangea.
December 20, 2025 / Pangea
“Voglio continuare a fare il vecchio clown”. Perché è impossibile ingabbiare Céline in didascalie museruole
Nel 1956 Alberto Arbasino intervistava Céline a Meudon, incontrando «un vecchio sfinito, abbandonato dentro un maglione a pezzi, fra mobili e pavimenti che gridano “ma non ce l’avete uno straccio per la polvere in questa casa? Piuttosto ve lo porto io”, troppo stanco e confuso e al di là d’ogni possibile moto del cuore perché sembrasse importargli di nulla».  Però, quest’uomo forse così sfinito non era, se diceva:  > «gli accademici e i gesuiti non hanno inteso i valori e il mistero delle > letteratura classica, inafferrabili con strumenti ordinari, compresi soltanto > dai mistici e dai romantici tedeschi».  Oltre l’apparente esaurimento delle forze, questo padrone di casa osava coltivare formule e fiori per l’immortalità?  Le sue vere, disperate, prime preoccupazioni: cose molto difficili, come il dolore, la vita, la morte, la grazia. In un mondo spesso ripugnante, la bellezza vera dove si rifugerà? Ecco, le idee etiche ed estetiche più urgenti per Céline sono la consistenza del trapezio (come in Verlaine) e lo stile:  > «ormai – spiega Céline ad Arbasino – i contatti umani sono così invadenti che > l’insegnamento e l’informazione non hanno più niente in comune con la > letteratura, e viceversa. E poi c’è troppa gente che gira in automobile, che > vuole arrivare in fretta. Vivono tra il comunismo fittizio e le vendite a > rate: sempre più fedeli ai dettati borghesi».  Per lui questi dettati (riassunti nella parola «fingere») sono un veleno che irrigidisce il ritmo del cuore, sterilizza l’emozione del respiro, sacrifica l’oralità e il corpo della frase.  È la grigia, piccola lingua senza musica degli uomini qualsiasi che tengono la morte (e quindi la vita) a distanza, con la «sintassi perfetta» ed evitano il rischio, mettendo in sordina la verità per restare presentabili e defunti. «Finzione di sé» che Céline sabota col fraseggio scosso, i tre puntini come sfiato, la radiosità intermittente (ironia della sorte, la sua insubordinazione è diventata nuovo canone che i borghesi d’oggi fingono di desiderare e capire?). Céline ribadisce fino alla morte la fiducia nelle sue invenzioni linguistiche, nell’argot, nella tecnica della sua scrittura, con l’intento di proseguire la sua vocazione estetica oltre la vita, quasi un debito morale verso sé stesso e verso gli altri che vorrebbe diversi, migliori: «voglio continuare a fare il vecchio clown su un trapezio, lassù, a quarantacinque metri». Ma è difficile praticare quelle alture per la gente qualsiasi dove la vita è solo una rovina tutta coltivata al suolo. Cosa che pure Pasolini (altro uomo del trapezio) sapeva. Che cos’hanno in comune due autori come Pasolini e Céline? Essere contesissimi ostaggi per malati ideologici, fra destre e sinistre. Portati entrambi a forza al commissariato per certificare adesioni totalizzanti e precise mai avvenute. Tutti e due molto «amati», cioè svenduti, per incarnare la scrittura schierata a esprimere un’impossibile e indesiderabile «letteratura politica». In particolare c’è sempre molta attenta, ossessiva, filologia riguardo inequivocabili intenzioni di Céline in materia di razzismi, nazismi, fanatismi. Ma nessun amatore d’arte letteraria dovrebbe occuparsi di questi folklori, figurarsi la critica. Non ci sono troppi dubbi: l’attuale ricezione di Céline è storpia, distratta, patologica, impronta una telenovela. Per miracolo, a proporre il farmaco a questa malattia insopportabile è già lo stesso Céline in Céline, talentuoso patologo. Una comprensione ardita, ossia rovesciata e paradossale della sua opera. Forse i lettori di Céline sono anche suoi ‘pazienti’? Se sì, lui è un medico severo. Riga dopo riga, chiede: “sei stupido?”, “sei vivo”?, “quanta merda inghiotti?”.  Louis-Ferdinand Céline (1894-1961)  Fra le mentite spoglie del finto cameratismo, i libri di Céline negano ai curiosi il diritto a mentire sulla loro eventuale condizione deprimente di cadaveri. Non cercano nel lettore un complice ma un colpevole di morte in vita. È il tranello perfetto di un medico-poeta del romanzo.  Travestito da guascone disilluso, chiede per tutto il tempo della sua letteratura, serissimo: che cosa hai fatto della tua coscienza? Della tua vita? Del tuo tempo storico? Sei il famigerato morto che cammina? Questo scrittore, questo sciamano, cerca un colpevole che ha compiuto una specie di vilipendio di verità e di desiderio. Involontario ospite dello sguardo filosofico di Cristo sul mondo, pare Céline abbia osservato fino all’ultimo quella legge biblica che già «Ferdinand» bambino aveva trascritta «nella carne del cuore»: la vita non ha bisogno di essere redenta ma pronunciata, e per intero, senza esitazione o pietà. Il «fico secco» è condannato. Però, come si blinda una così alta idea dell’esistenza (e quindi anche della morte) da sguaiate effrazioni dei superficialini e dei fans?  Infatti, Louis-Ferdinand Céline (un nome, un brand, un trend?), coincide amaramente con tentativi multipli di sintesi maledettiste, perfette per cacciatori di titoli e scandalini: “dissacrante”, “proibito”, “ingovernabile”,  “mostruoso”, “geniale”, “dissacrante”, “sconcertante”, “realista, “osceno”, “pessimista”, “scorrettissimo”, “grottesco”, “visionario”, “illeggibile”, “delirante”, “disturbante”, “innovativo”, “maledetto”, “impopolare”, “innominabile”, “vietato”, “morboso”, “angosciante”, “crudo”, “irascibile”, “collerico”, “arrabbiato”, “narratore dell’orrore di questo mondo” (per tacere la targhetta “Nichilista”, e Disincanto&Cinismo, quasi in una sete di naming). Tutto vero o tutto falso?  Forse solo banale, dunque osceno, qualunquistico.  Molestia alla sua intima irriducibilità. Etichette che suonano puerili, in accumulo compulsivo di aggettivi, prova indiretta dell’incapacità critica nel sostenere il passo della parola céliniana. Perché la sua scrittura, più che da fotografare con termini veloci, è da guardare come vita che pulsa oltre il mito mediatico del cantore della dissoluzione. Una vita piena, sovrabbondante, eruttiva, verticale. Rigore mascherato da tenebroso caos, che invece è un sole e una guida abbagliante? In molte tradizioni filosofiche ciò che è più vivo non è evidente, ma nascosto.  L’Ātman indiano, quella «tenebra sovrabbondante» di luce inaccessibile alla ragione discorsiva, coincide con quella dimensione che i greci chiamavano zoé, il più di vita, la vita che rende viva la vita, e non è semplice sopravvivenza, ma intensificazione irriducibile dell’esperienza. Céline conosce questa dimensione intimamente. L’ha sperimentata nel solo modo possibile, con l’attraversamento della morte, con la carne, il dolore, la rinascita. Da vero artista, ha osato, manganellianamente, «abitare la soglia», fino a scoprire che l’energia vitale, se mossa dal vero desiderio, sa crescere quando più viene messa in pericolo dai tradimenti mortiferi che la vita rischia di infiggerle: seppellire la propria verità la rivolterà contro il suo carnefice. Il pensiero di Céline è un anatema a Thanatos, quasi un «chi conserva la propria vita la perderà».  Da questo punto di vista, la sua opera somiglia a un’insolita epifania bardica più che all’accessibile bestemmia moderna. «Io sono celtico, prima di tutto», confessava in lettera a Milton Hindus, «sognatore bardico… la mia musica è la leggenda». Questa è la via per il forziere di Ferdinand/Céline? La leggenda come patria dell’anima, custode dell’Essere? (altro che “anti-eroe”!). Quali elementi Céline ci autorizza a bruciare come incensi e quali, invece, a «buttare nel cesso»? Cosa fa, quando scrive? La sua scrittura non è nemmeno nel segno del «realismo. C’è, in apparenza, seppure in forma di piccolo strumento, piegato come un prigioniero alla vendetta contro la crudeltà del mondo; ma sotto la superficie di una forsennata tendenza al «racconto» e al «fatto», come un segreto canto di fondo vibra qualcosa di enorme: avranno le orecchie per danzarlo, tutti questi veloci lettori céliniani? Marina Alberghini annoda – nel suo saggio Céline magico – il segno metafisico a questo vibrare. Céline si circonda di «Fiori dell’Essere» (mémoire des fleurs)[1], mondo marittimo e celeste, d’altrove e d’oltre, extrasensoriale, abitato da figure simboliche, nobili archetipi, forze mitiche, Onde, da cui diceva gli arrivasse la voce che lo rendeva romanziere. Eppure a fiumi lo chiamano nichilista.  L’idea che Céline sia notista letterario della morte è facile ma povera. Il suo cruccio è lontano dal beatificare la fine, e sembra invece punire, confinare, in ogni sua mossa (che sia letteraria, o di opinione critica, lungo risposte inesorabili durante interviste), la morte e i suoi effetti, in un carcere di massima sicurezza, e farla incapace di pronunciare l’ultima parola. Questo carcere è quel tipo di opzione che una parte degli esseri umani sceglie di attraversare nel modo più scemo possibile: suicidandosi da vivi. Céline quindi non «celebra la morte», ma la comicità che vede nella scelta maggioritaria di farne una ridicola, grottesca edificazione a stile e postura nel vissuto (travestimento ipocrita, o alibi, della sopravvivenza).  Come i veri poeti, non conosceva il vuoto: l’assenza di pienezza è la vita non poetica, non generativa, non trascendentale. Sapeva che l’unica «vittoria» possibile è contro sé stessi – contro le miserie dell’ego rapace e materiale –, è intensificare la vita fino a percepirla più forte della sua negazione (se il dolore, come il bello, va udito e poi coltivato con l’anima, non estetizzato).  Leggere Céline, che insegue, minacciandolo, il suo lettore, puntandogli un coltello alla schiena, richiede esperienza del profondo, o almeno il desiderio di farne una, e non si può parlare della sua visione dell’Essere senza aver misurato la propria, nelle scelte, nella rinascita vigorosa quotidiana di sé.  Chi scriverà su Céline senza essersi bruciato il cuore, senza aver accettato di vedersi e da altri essere visto, di portare la ferita alla luce, resta un suo grigio commentatore, esterno, inservibile. Va indossato, senza esitazione, il piglio del bardo e dello sciamano, travestiti da uomini qualsiasi.  Morte a credito lo dimostra, con una grinta intellettiva che non ha bisogno di interpretazioni astratte. Il libro scorre come sangue freschissimo, irruento, in dono al lettore anemico. Céline incita, pagina dopo pagina, a uscire allo scoperto, a correre il rischio di essere riconosciuti. Nascondersi significa morire per gradi, vivere significa aprirsi al suono più vero dell’anima propria, costi quel che costi. E Ferdinand, bambino-funambolo tra miseria, frustrazione e pressioni familiari, fatte di malumori e ricatti morali, lo sa. Gli schiaffi del padre, la durezza della madre, le aspettative schiaccianti della “Coccinella”, il grigiore del Passage non producono in lui vittimismo ma visione. E Courtial De Pereires, brillante imbroglione, non è solo un personaggio, è l’allegoria esplosiva del sogno che insiste anche quando tutto lo contraddice. L’unico credito che non si riscuote mai è quello che vale davvero?  Così pare dica il nostro Dottor Ferdinand.  Céline non permette alla realtà di diventare palude. Non negozia la vita al ribasso, e anche quando odia, odia per amore della vita. Il Passage des Bérésinas è tutto: geografia, teatro del mondo, destino. Céline lo dipinge con un tocco pienissimo di realtà che mai risuona cinico. La miseria per lui non è retorica impressionista, è dato compositivo con cui la scrittura fa nascere una musica nuova. Pagine graveolenti, piene di gas, urine, catarri e sputi, e di meraviglia divertita, come un film delle comiche girato dentro la pellicola della tragedia. Grandezza infante dell’occhio di Ferdinand, amorevolmente lì a tradurre e sublimare la farsa in rivelazione e il dolore in beffa: la verità dei malnati è tutta nel silenzio che segue il rospo quotidiano inghiottito senza batter ciglio, e la violenza nasce esattamente e sempre là dove la parola è assente, quando parlano solo i corpi con le loro acri smorfie di malessere. Il mondo dei subalterni, e dei morti viventi, può parlare solo con una lingua ibrida, spezzata, piena di ripetizioni, ricca di lessico basso. Il francese elegante non rappresenta chi non ha le parole, chi non parla mai veramente, o non è nato mai.  E infatti l’argot è la tattica designata a ritrarre e livellare «tutto quello che fa schifo secondo Céline», i borghesi e i mascalzoni da strada funzionano, nel mondo, allo stesso modo, sono malati dello stessa malattia. Argot che viaggia sulla petite musique, canzone che è traduzione del parlato e del battito sulla pagina, così come del pensato, del vissuto. Possiamo dire su Céline solo quanto ci ha indicato di ereditare. Detesta la felicità superficiale, quella che si ostenta per non sentire il dolore della vita. Gli interessa la gioia vera, che nasce solo dal combattimento con la realtà, ed è questo forse una prospettiva di Céline che oggi pochi critici hanno curiosità di osservare, quella trascendentale. Non religiosa – in senso tradizionale – ma radicata nella convinzione che esista una sfera dell’Essere conosciuta solo da mistici, sensitivi, artisti.  Di certo, lui la abitava, per questo chi lo inquadra nel nichilismo è sordo al bersaglio. Certo che si potrebbe accusare Céline di nichilismo. E sarebbe corretto, se non fosse che il suo però è un nichilismo pieno, attivo, non contemplativo. Non prolifera nel dire «niente ha senso!» ma nell’esporre l’abominio dei meccanismi che triturano gli individui, e nonostante questo continuano a «funzionare», indipendentemente dalle idee, dalle cadute in basso e dalle speranze.  Il suo sguardo è quello del medico, che non può curare la malattia e deve però descriverla con precisione, la sua etica è l’onestà nel referto.  Da qui la potenza rifrattiva della sua scrittura, Céline non consola, diagnostica. Ma la critica letteraria non serve per assolvere o condannare. È compito del lettore adulto, non del pedagogo, confrontarsi con ciò che Céline ha edificato, un monumento alla parte buia, un’opera che costringe a guardarci senza abbellimenti. La diagnosi poco accurata che gli viene rifilata — “nichilista”, “disincantato” — nasce forse, nei più ingenui, cioè nei lettori sentimentali, dallo shock della sua messa a nudo che da una reale pulsione a cancellare il mondo: il nichilista prosciuga i significati, Céline invece comprime la vita per farne esplodere la densità.  Questa lettura pànica di Céline (poco conforme alla moda attuale che lo vuole un po’ instancabile becchino e un po’ distruttore sadico), trova appoggio nelle ricerche che hanno indagato l’origine della sua voce letteraria: una “musica” interna — la petite musique — e una fedeltà a immagini e archetipi (la leggenda, la danza, le “Onde”) che sono lontani da un vuoto ontologico e vicini a una esperienza trascendente della vita trasformativa. La stessa struttura testuale di Céline – la sintassi schiacciata, la ripetizione ossessiva, l’oralità scorticata – non è indizio di un desiderio di annientare senso. Persino le interpretazioni, abbastanza retoriche, che collegano la prosa ai soliti dogmi “trauma & memoria” (in particolare le analisi post-belliche e quelle sulla ferita della Grande Guerra) non possono mentire più di tanto; la frammentazione narrativa è spesso letta come modalità di rappresentare una vitalità scissa e riportata alla pagina per resistere alla morte.  Il frammento, il balbettìo, la punteggiatura come sparatoria, sono il volto della messa in forma dell’esclamazione vitalistica: quanto a chi ignora tale profondità e preferisce leggere Céline come folklore di «torbidume e infimità», si può soltanto constatare un fatto elementare: certi lettori, davanti a un immaginario che pretende coraggio scelgono la comodità del loro piccolo orizzonte, e lo scambiano per giudizio. Ma non c’è nulla da spiegare a chi è fiero della propria cecità – Céline avrebbe detto che per loro la letteratura è già troppo lunga alla prima riga.  Secondo Marina Alberghini, ridurre Céline a semplice «catalogatore disperato» della miseria indica ignorare l’intero impianto metafisico che attraversa la sua opera. Alberghini insiste su un punto decisivo, ossia che il «delirio» di Céline non è distrazione esoterica, né rifugio evasivo, una pratica semmai di ostinazione contro la decomposizione del reale. La féerie – quella “realtà fatata” che egli inseguiva – opera per scarti, folgorazioni, come un’antica controfigura del mondo che permette allo scrittore di abitare con rigore il caos senza farsene inghiottire.  Non c’è dunque fuga nel mito, ma una forma di vita nel mito. Questa è la «perla metafisica» custodita dentro la sua scrittura e la sua geografia, dove agiscono simboli anteriori alla storia, quelle Onde che avvertiva come correnti arcaiche, autentiche pressioni del mito sul presente.  Céline ha generato questi incantevoli crateri a partire da una scia ricchissima e lontana, ha iniziato una ricerca nuova dentro quella «tradizione illustre» che si tenderebbe a ignorare, ma di cui lui era amante e studioso consapevole. Una ricerca, quella celiniana, fiorita lungo esempi lontani, letterari e pittorici: le lugubri ballate di Villon e del romanzo «carnevalesco» e polifonico di Rabelais. Omaggi a El Greco, Goya, e a quelli che lo stesso Céline indica come i suoi pittori prediletti, Bruegel e Bosch.  Attitudini letterarie di Céline che alcuni, insultandolo, leggono come «rivoluzionarie» (ossia sradicate), sono parte della tradizione francese fino all’Ottocento (la miglior letteratura francese!), dai racconti fantastici di Gautier ai romanzi d’avventure di Verne, agli impianti immaginativi e alle figure simboliche di Hugo, al gusto decadente di Baudelaire, agli itinerari spirituali di Verlaine, Mallarmé, Rimbaud. Rubina Mendola -------------------------------------------------------------------------------- [1] In un’intervista, poco prima di morire, disse: «Je ne suis pas un artiste, mais j’ai la mémoire des fleurs». È una frase che ci lascia nel dubbio: la «memoria dei fiori» è ricordare i fiori, ma forse Céline vuole dirci che possiede la memoria peculiare e misteriosa, inaccessibile, che può avere un fiore? L'articolo “Voglio continuare a fare il vecchio clown”. Perché è impossibile ingabbiare Céline in didascalie museruole proviene da Pangea.
December 19, 2025 / Pangea
Per urlare ancora parole d’amore. Lamento su un’epoca che ha ucciso i suoi poeti. (Ovvero: intorno a Majakovskij)
Cinquant’anni fa, per Einaudi, usciva un libro straordinario. Titolo a caratteri cubitali, numero 70 della collana “Nuovo Politecnico”: era l’8 febbraio del 1975 – la copertina ricordava Malevič (piccolo quadrato rosso su fondo bianco), l’autore, Roman Jakobson, era noto per essere – così la bertuccia Treccani – l’“iniziatore del metodo formalista” e “fra i fondatori… dello strutturalismo in linguistica”; un tempo i suoi Saggi di linguistica generale erano dati per naturale bagaglio nella ‘formazione’ di uno studente. Il pamphlet – Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, trenta pagine uscite in origine nel 1931 – tentava di analizzare “Il problema Majakovskij”: in realtà, era il più sottile atto d’accusa mai scritto contro il dominio sovietico. Più in generale, era il più potente atto d’accusa mai scritto contro ogni potere che per giustificare e assolvere se stesso ha bisogno, sistematicamente, di eliminare i suoi poeti. Per sussistere, un potere – tirannico o ‘democratico’ che sia – ha bisogno di cantori; ha bisogno di assassinare i poeti.  > “Noi viviamo nel cosiddetto periodo ricostruttivo e, probabilmente, produrremo > ancora non poche locomotive d’ogni sorta e non poche ipotesi scientifiche. Ma > alla nostra generazione è già predestinata la penosa impresa di una > costruzione priva di canti”.  Che pena l’epoca – che è poi questa, la nostra – che si svolge “priva di canti”, priva di incanto. Nell’introduzione a quel libello che fu incendio, Vittorio Strada scriveva che “La leggenda di Majakovskij non ha pari nella poesia del secolo”: oggi, della “leggenda” resta l’infiorescenza bibliografica – Majakovskij si legge senza scosse, si traduce al merletto, in lode della botticelliana madama Filologia, non fa più legge, non ‘penetra’ più nelle nostre rivoluzioni domestiche. Roman Jakobson aveva temprato le proprie scoperte studiando gli sconcertanti poemi di Velimir Chlebnikov, il suo amico più caro, il più folle.  Poi verranno i Gulag, la “guerra patriottica”, la Guerra Fredda. Verranno Solženicyn e Šalamov, Brodskij e Limonov. Verranno i reclusi, le accuse, gli esodi e gli esordi. Roman Jakobson capì per primo l’origine indicibile del problema: un’epoca “priva di canti” sfocia, con cruenta naturalezza, nella società del controllo, nella società cannibale – questa. La lista dei massacrati, degli annientati – che culmina con il proiettile che perfora il cuore di Majakovskij, un proiettile che potremmo chiamare Zeus – è micidiale: > “La fucilazione di Gumilëv (1886-1921), la lunga agonia spirituale, gli > insopportabili tormenti fisici e la fine di Blok (1880-1921), le crudeli > privazioni e la morte tra sofferenze inumane di Chlebnikov (1885-1922), i > meditati suicidi di Esenin (1895-1925) e di Majakovskij (1894-1930). Così nel > corso degli anni venti periscono in età dai trenta ai quarant’anni gli > ispiratori di una generazione, e in ognuno di essi v’è la coscienza > dell’ineluttabile condanna, intollerabile nella sua lentezza e precisione”.  Jakobson insegnava a Praga e a Brno; nel 1939, per scampare ai tedeschi, si era rifugiato a Oslo, per poi trasferirsi negli Stati Uniti. Nel 1962 sarà candidato al Nobel per la letteratura. Riteneva che i pur “splendidi libri” di Pasternak e di Mandel’štam fossero “poesia da camera, che non accenderà una creazione nuova”. Sbagliava. Mentre in Italia usciva – tardivamente – Una generazione che dissipato i suoi poeti – in una collana che contava, a quei tempi, opere di Roland Barthes e di Kate Millet, di Enrico Berlinguer e di Franco Basaglia – Roman Jakobson incontrava, a Stoccolma, Bengt Jangfeldt, all’epoca trentenne, che sarebbe diventato, come dicono le quarte, “uno dei massimi conoscitori al mondo dell’opera di Majakovskij” (dida, alle mie orecchie, che sa di dedizione borgesiana). Jangfeldt – i suoi libri majakovskijani sono editi in Italia da Neri Pozza – tenne con sé le registrazioni di quegli incontri per un po’; nel 1992 le riunì in un libro, che esce oggi come Io, futurista per Feltrinelli (nella traduzione di Serena Prina, la grande interprete di Dostoevskij, Bulgakov, Pasternak).  I russi hanno il genio per l’autobiografia. Tutto ciò che vivono – per una qualche complicità con l’apocalittica –, anche il più minuto fatto, splende con la potenza di un’icona, di un annuncio. Scrittori e poeti altrimenti incomparabili – chessò: Anna Achmatova e Vladislav Chodasevič, Vladimir Nabokov e Iosif Brodskij – sono uniti dal genio della memoria, dal talento autobiografico. Nella sua autobiografia più lucida, Uomini e posizioni– ma la prima, Il salvacondotto, è ben più bella, per folleggiare del linguaggio – Boris Pasternak scrive che degli anni che precedono e seguono la Rivoluzione, di quel “mondo di fini e di aspirazioni, di problemi e di imprese prima sconosciuti”, di quel “mondo unico e senza pari”, “bisogna scriverne in modo tale che il cuore si stringa e i capelli si rizzino in testa”. Entrambe le sue autobiografie terminano con il suicidio di Majakovskij – la seconda, l’ultima, accenna all’altro, il più assurdo e dolente, quello di Marina Cvetaeva. Le memorie di Jakobson parlano di quel mondo “senza pari” con il cuore spezzato.  Il tema fondamentale è ribadito con costanza senza ostacoli: la Rivoluzione russa è stata, prima di tutto, una rivoluzione del linguaggio, è stata una poetica. Come dar torto a Jakobson? Le radici di una nazione – di una conversione – sono sempre, misteriosamente, liriche. Ogni sconvolgimento storico ha alla sua base, misteriosamente, un poeta. Walt Whitman e Robert Frost hanno fondato i momenti miliari della storia degli Stati Uniti d’America; Hugo, Baudelaire, Valéry e René Char sono le fonti della storia moderna francese come Wordsworth, Tennyson, Auden e Ted Hughes lo sono stati della storia moderna inglese. William Butler Yeats ha ‘creato’ l’odierna Repubblica d’Irlanda come Hugh MacDiarmid è all’origine delle rivendicazioni nazionaliste scozzesi; in Italia abbiamo avuto, nelle ultime diverse fasi, Manzoni, D’Annunzio, Ungaretti e Pasolini. Naturalmente, in questa considerazione non conta il ‘gusto’ o la singola potenza lirica (potrei preferire Leopardi, Pascoli, Campana, Zanzotto), ma la singolare possanza storica di un poeta. Quando un Paese ignora o tenta sistematicamente di marginalizzare il poeta, di industriarlo all’indifferenza, accade un sovvertimento radicale dei valori ‘politici’ – sorge una generazione senza identità, serva, servile, benché cieca in ferocia.  Di Majakovskij – il protagonista, in fondo, di Io, futurista – si dice che “non fu mai felice”, che “non amava i bambini” perché era un bambino all’eccesso, che “amava molto i cani”. Majakovskij era “l’uomo del futuro”, il poeta-Adamo che seminava versi per la nascita di un nuovo mondo. Quel mondo, se mai nacque, nacque storpio, malvagio – l’albero della conoscenza svoltò in gogna e ghigliottina. “Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato”, scrive Jakobson, con sobria veggenza, in Una generazione che ha dissipato i suoi poeti – di cui Io, futurista è, di fatto, l’appendice. Nella straziante poesia “in morte di Vladimir Majakovskij”, Pasternak scrive dell’eterno ragazzo che si getta “ancora una volta di colpo/ nella schiera delle leggende giovani”. Le poesie “in morte di Majakovskij” diventarono una moda, un modo per costruire il futuro incenerendolo; Marina Cvetaeva aveva riconosciuto in lui i caratteri dell’“arcangelo carrettiere”.  In Io, futurista il Futurismo c’entra poco. Jakobson ricorda la gita di Marinetti a Mosca nel gennaio del 1914. Fu un incontro sballato, tra estranei.  > “Marinetti era un grande diplomatico e sapeva fare buona impressione su certi > settori del pubblico. Parlava francese con un forte accento italiano, ma molto > bene. Ebbi modo di ascoltare Marinetti due o tre volte. Era un uomo nel > complesso limitato, con un grande temperamento, che sapeva leggere con grande > effetto anche se in modo superficiale. Ma tutto questo non ci irretiva. Non > capiva affatto i futuristi russi. Chlebnikov gli era profondamente avverso”. Quando il futurismo russo decise di ergersi a soggetto politico chiamandosi “Kom-Fut”(comunisti-futuristi), per iniziativa di Majakovskij, nel 1919, fu presto sciolto – e cominciarono i guai. Per le sorti della Rivoluzione, i poeti, che ne erano stati il propellente primo, diventarono un problema. Nel maggio del 1921, sul margine del poema 150.000.000, che gli era stato donato da Majakovskij, Lenin scrive, “Una sciocchezza… una stupidità matricolata e pretenziosa. Secondo me solo una su dieci di queste cose dovrebbe essere pubblicata e in non più di 1500 esemplari per le biblioteche e per gli eccentrici”. La politica comincia, clinicamente, cinicamente, a impedire l’opera dei poeti – a limitare le pubblicazione, a censire censure.  In calce al libro, le lettere di Jakobson a Elsa Triolet. Nata Ella Kagan, donna di inflessibile bellezza, fu l’imperterrita amata di Jakobson, monito della perduta gioventù. Le lettere sono belle, svenevoli a tratti – “E adesso, mentre ti scrivo, di nuovo non è questione di domande o di racconti, ma solo di labbra che si contraggono e di un pensiero caparbio, caparbio: voglio Elsa. Adesso non c’è altro pensiero” –; insegnano l’ovvio: dietro ogni grande rivoluzione – poetica, scientifica, politica – c’è un grande amore. Elsa preferì, con meteorologica precisione, sempre altri a Jakobson: l’ufficiale francese André Triolet la portò a Tahiti e a Parigi, infine, dove conobbe tanti altri e, nel ’28, Louis Aragon, l’uomo della vita.   La sorella maggiore di Elsa, Lilja, fu la leggendaria amante di Majakovskij. A tal proposito, la scena più bella di Io, futurista, a pagina 81, racconta di quando Majakovskij, affittuario di “un borghese di medio livello”, tale Bal’šin, sradicò il telefono di casa, inchiodato al muro, per portarselo in camera, “con un pezzetto di parete”, e discutere, in intimità, “con la sua Lilicka”. Come scriveva Pasternak, “Quando un poeta ama,/ è un dio smanioso che si innamora/ e il caos di nuovo sbuca alla luce/ come ai tempi dei fossili”. Il poeta che sradica con foia il telefono dalla parete per parlare con la donna che ama – per urlare parole d’amore. Eccolo, l’emblema di un’epoca irripetibile – l’epoca delle passioni forti.  L'articolo Per urlare ancora parole d’amore. Lamento su un’epoca che ha ucciso i suoi poeti. (Ovvero: intorno a Majakovskij) proviene da Pangea.
December 18, 2025 / Pangea
Ai romanzi italiani preferisco Final Fantasy XV. Sulla narrativa che ha smesso di costruire mondi
Mi chiedo, da buon pisquano, che interesse dovrei avere di andare in libreria a scegliere dei libri quando sul PlayStation Store posso comprarmi a 18,99 euro videogiochi come Final Fantasy XV: ditelo a vostra madre e storcerà il naso – invece, è sintomo d’intelligenza. Prodotti come questo hanno raggiunto livelli di complessità e costruzione del mondo che la letteratura italiana ha smesso di perseguire da tempo. FFXV è uscito nel 2016 dopo dieci anni di sviluppo; ha richiesto, nel corso del suo ciclo di produzione, tra le 200 e le 300 persone – nonché un budget fra i 50 e gli 80 milioni di dollari (escluso il marketing). Racconta la storia di Noctis, un ragazzo privilegiato e irrisolto che esce di casa per sposarsi, sale in macchina con tre amici, parte leggero e scopre che quello sarà il suo ultimo viaggio da persona normale. Hajime Tabata, il creatore, ha dichiarato: il cuore del gioco è il viaggio insieme agli amici,  il rapporto padre-figlio rappresenta uno dei pilastri della narrativa. Nella prima scena non c’è nulla di epico: si spinge una macchina in panne con Stand by me (appositamente interpretata da Florence + The Machine) in sottofondo. Poco dopo, campeggio brandizzato Coleman, pasti preparati alla griglia, foto cretine della giornata: un fantasy basato sulla realtà, un mondo di dèi e demoni con pompe di benzina, noodle istantanei e cani che abbaiano fuori dai motel. Narrativamente, concretizza in un gesto preciso: il lettore non si affeziona alla trama, si lega alla complicità tra i personaggi. E quando la storia virerà nel tragico saremo turbati dagli eventi in sé, certo, ma ancora di più dal fatto che sia finita per loro quattro. Si potrebbe riassumere FFXV così: un road trip americano applicato a un JRPG giapponese, dove il viaggio in macchina è metafora dell’ingresso nell’età adulta. Si attraversano una serie di riti di passaggio tra cui il primo grande lutto: la morte di Regis, re di Insomnia, avviene off-screen per Noctis. Il figlio la scoprirà infatti in televisione, come un qualsiasi ragazzo che assiste al crollo del proprio mondo al telegiornale.  Allo stesso modo l’Anello di Lucis, ottenuto attraverso il sacrificio di uno dei personaggi principali – qualcuno che brucia attraverso la sua assenza – è un potere che consuma chi non è degno. Non offre nulla di miracoloso: non conferisce a Noctis gloria, bensì morte. E quando nel finale il protagonista accetta di morire sul trono completa la curva. Smette di essere il ragazzo ai margini diventando suo padre, il re che si sacrifica per il mondo. L’universo di FFXV concretizza tutta una serie di topoi dei JRPG. Un miscuglio barocco di riferimenti (Roma imperiale, cattolicesimo, modernità occidentale, mitologia targata Square Enix) per un risultato che genera un’atmosfera precisa: una leggenda sporca, dove dèi ostili ti costringono a pagare il conto di un passato mai vissuto. Se si esamina il lore di FFXV con l’occhio di chi tiene corsi di scrittura creativa è un disastro: nomi, testi, divinità e profezie che si accavallano, spiegazioni arrivate troppo tardi o di sbieco. Quando si smette però di chiedergli la coerenza del manuale, e lo si inizia a leggere per ciò che è, ne otteniamo un ritratto cristallino. I libri della Cosmogonia sono fondamentali per capirlo: scritture sacre interne all’universo di gioco, hanno il tono dell’Antico Testamento. Non spiegano per rassicurare, proclamano per farti sentire piccolo davanti a una storia che esisteva prima di te – e che continuerà dopo di te. Gli dèi non sono mai dalla parte giusta: sono divinità lontane, indifferenti, quando non apertamente ostili. Non ti aiutano perché sei il protagonista: ti mettono alla prova, ti schiacciano, ti utilizzano come strumento. Nella Cosmogonia sono descritti come esseri il cui pensiero trascende la comprensione umana: non cercano empatia, non spiegano le loro scelte, non offrono misericordia. Siamo noi a dover dimostrare qualcosa.  Noctis è una figura chiaramente cristologica, e priva di consolazione. Simbolo della luce che si immola per scacciare l’oscurità e pagare il debito dell’espiazione. L’iconografia è esplicita: il sacrificio del Re-Cristo, il trono come Calvario, i Re del passato che lo trafiggono come una comunione violenta di Santi. La tradizione non accoglie, uccide. E solo così riconosce. La mitologia di FFXV promette solo che qualcuno dovrà farsi carico del male: ciò che è divino non è buono, l’ordine cosmico non è giusto e il sacrificio non è glorioso – è necessario. Il ruolo del villain, Ardyn, mostra l’essenza della narrazione. Il villain rappresenta una domanda in grado di farsi sentire anche dopo aver superato le cento ore di gioco. Perché Ardyn, all’inizio, era il prescelto. Non un usurpatore, né un mostro sfortunato: assorbiva il male del mondo su di sé per purificarlo, caricandosi letteralmente addosso la sofferenza altrui. Eppure il suo gesto non viene riconosciuto. Gli dèi e la dinastia dei re lo trasformano in una discarica cosmica, sfruttandolo finché fa comodo, per poi cancellarlo dalla storia.  Da qui nasce tutto. Ardyn non è immortale nel senso romantico del termine. La sua è un’immortalità marcia, corrotta, tenuta in vita esclusivamente per continuare a soffrire. E il rapporto con gli dèi si mostra emblematico: semplice relazione di uso e scarto. Ardyn è indirizzato, costretto e lasciato marcire. L’odio del villain non viene davvero rivolto a Noctis, il bersaglio è il sistema: la monarchia sacralizzata, la profezia, l’ordine divino che decide chi deve sacrificarsi e chi no. Ardyn non contesta il sacrificio in astratto: contesta chi lo impone e con quale diritto. La volontà implicita è devastante: perché io devo diventare un mostro per assorbire il male del mondo, mentre voi restate puri, intatti, venerati? Il villain di FFXV non vuole governare, non vuole vincere: non vuole sostituirsi a Noctis. Il suo obiettivo è quello di far crollare l’impalcatura morale che rende quel sacrificio accettabile. Per questo è vicino ai grandi personaggi della tragedia: la persona giusta nel posto sbagliato, spezzata dal sistema, che ora vuole trascinare tutto con sé. La sua presenza rende il finale di Final Fantasy XV molto più amaro. Perché sì, il sacrificio di Noctis è necessario. Ma Ardyn costringe il lettore a vedere che lo diventa a causa di un ordine cosmico profondamente ingiusto. Non c’è armonia, né provvidenza, né equilibrio. Soltanto qualcuno che paga il conto, ogni volta, al posto degli altri. FFXV fa una cosa rara. Non ti consola. Ti lascia con l’idea che il mondo possa essere salvato solo attraverso un sacrificio imposto da dèi – che non sono buoni – e da una storia che non è mai pulita. Ardyn non è l’errore del sistema. Ardyn è la prova che il sistema è sempre stato marcio. La struttura stessa di FFXV è una di quelle cose che, sulla carta, sembrano un errore. La prima metà aperta, dispersiva, svagata; la seconda parte che si fa chiusa, lineare, soffocante. Un gioco che per ore ti lascia libero di perdere tempo e poi, senza chiedere il permesso, ti toglie tutto. Eppure questa scelta così sbilenca è una delle ragioni per cui la narrazione funziona. I grandi eventi che avvengono fuori scena, il colpo di stato, la guerra, le decisioni politiche, non vengono vissuti perché Noctis non li attraversa. Lo scopo della narrazione non è quello di essere onnisciente: non ti informa, non si pone al tuo servizio mettendoti al centro del mondo. Ti costringe ad abitare uno sguardo limitato: quello di un ragazzo che all’inizio pensa solo a viaggiare, rimandando tutto il resto. Nella prima metà si fa esattamente questo. Ci si perde in cacce inutili, momenti fotografici, dungeon opzionali, battute di pesca, deviazioni prive di senso. Insomnia e la guerra restano un rumore lontano, qualcosa che sai esistere ma non ti riguarda davvero. Lunafreya, Ravus, la politica: conosci le loro gesta per interposta persona, come notizie lette di sfuggita. Rappresenta la fase della vita in cui il mondo va avanti e si è convinti di avere ancora del tempo. Poi, dal capitolo del treno in avanti, tutto cambia. La mappa si chiude, il gioco smette di lasciarti respirare trasformandosi in un corridoio narrativo, cupo, insistente. I toni si scuriscono: Niflheim, Gralea, Tenebrae in rovina. Lo Starscourge avanza e il mondo diventa letteralmente buio. E il colpo finale arriva con il salto temporale di dieci anni: torni a Eos e non la riconosci. Gli amici sono invecchiati, segnati, stanchi. I luoghi che prima erano tappe del viaggio ora sono infestati da demoni. Ciò che sembrava un ritorno è in realtà un epilogo. La struttura funziona perché è metanarrativa – facendoti sentire il rimpianto del tempo buttato. Hai perso settimane cavalcando Chocoboco mentre il mondo andava in rovina e ora ti si presenta il conto.E soprattutto rafforza il finale: lo avverti, tutto è già successo, non resta che accompagnare la storia alla sua ultima esalazione. Qui il respiro è millimetrico. L’ultima notte accampati insieme. L’ultimo falò. Un momento in cui puoi parlare con Gladio, Ignis e Prompto ma il messaggio è univoco: ti abbiamo portato fin qui, adesso sei solo. E qualche ora dopo, la scelta dell’ultima fotografia prima di affrontare Ardyn è il gesto narrativo più potente della narrazione. Una sola immagine da portare con sé prima di morire. Nessuna spiegazione, nessuna enfasi. Soltanto una meccanica, narrativa pura: ti costringe a ripercorrere tutta la tua esperienza e decidere cosa rappresenta la tua vita. Infine, sul trono, i Re del passato trafiggono Noctis e lui li invita a colpire con maggiore forza. È la rappresentazione più brutale dell’eredità: per entrare nella tradizione occorre lasciare che ti uccida. L’epilogo, con Noctis e Lunafreya in uno spazio sospeso, gioca apertamente la carta del sentimentalismo. Ma a quel punto hai addosso almeno cento ore di strada, di notti in tenda, di silenzi in macchina. E colpisce. Forte. FFXV fa ciò che chiediamo alla letteratura quando smette di essere un compitino. Perché ti fa vivere la parte noiosa della vita, perché ti lega a quattro persone, perché racconta la crescita come perdita: perderai il padre, perderai la fidanzata, perderai la normalità e infine perderai te stesso. È un ibrido instabile: road trip americano, purezza da anime, mitologia pseudo-cristiana, estetica occidentale filtrata dallo sguardo giapponese. Non sempre coerente. Emotivamente devastante. Perché quando tutto finisce si pensa solo a una cosa. Molto semplice, molto vera.  Vorresti ancora una giornata in macchina insieme a loro. Il punto è imbarazzante nella sua semplicità: in un videogioco come Final Fantasy XV puoi restarci dentro per più di cento ore senza annoiarti. Nessun riempitivo, nessuna cortesia: strada, ritorni, scontri e routine che si accumulano e producono senso. Questo mondo non ha fretta di lasciarti andare, non ti accompagna educatamente verso l’uscita, non ti tratta come un consumatore da rispettare. Anzi, devi restare. La narrativa italiana contemporanea risulta sempre più spesso costruita come opuscoletto a servizio del lettore: libri che chiudi nel tempo di fare Fano Torrette-Forlimpopoli con il regionale. Scendi dal treno con addosso la sensazione di aver letto qualcosa di scritto bene senza che nulla ti sia rimasto addosso. I protagonisti si chiamano tutti Giampirla, fingono di soffrire e gli riesce nel modo giusto: riconoscibile, contenuto, presentabile. La fruizione è misurata, innocua, a prova di barbagianni. È una narrativa che raramente richiede tempo, dedizione o rischio. Ti accompagna all’uscita, con un Grazie per avere viaggiato con noi su questo treno e nessuna pretesa di essere ricordata. Quando esci da mondi vasti come quello di FFXV e apri un romanzo italiano contemporaneo la sproporzione è umiliante. C’è poi una ragione materiale, che di solito si finge non esista: un autore italiano pubblicato da una grande casa editrice riceve, nella maggior parte dei casi, un anticipo fra i 1.500 e i 3.000 euro. Stipendio simbolico per un lavoro che dovrebbe richiedere mesi, se non anni, di concentrazione totale. Per dare un ordine di grandezza: un animatore junior in uno studio giapponese o americano guadagna la stessa cifra in un paio di settimane. Lo scrittore, invece, dovrebbe costruire un universo, inventare una voce, reggere una struttura, lavorare sulla lingua, sul ritmo, sull’architettura narrativa: scrivere diventa inevitabilmente un’attività da ritagli, notti rubate, fine settimana deserti. È un miracolo che qualcuno ci riesca. Ed è in questo vuoto che prosperano le operette a servizio del lettore. Fino a pochi anni fa relegate agli Autogrill, oggi catene fondanti di molte collane di narrativa: traumi minimi, famiglie raccontate sottovoce, autofiction così controllate da perdere ogni ragion d’essere. Una letteratura fatta di banalità che registra il vissuto senza filtrarlo, come se raccontare fosse diventato un atto di buona educazione – qua e là camuffato da titoli sciocchi come La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera. Narrativa che ha smesso di costruire mondi per accontentarsi di descrivere stanze. A questo punto la questione smette di essere teorica e diventa personale, materiale,  misurabile. Io vivo di scrittura. Vengo pagato – e pure bene – per creare strategie SEO e scrivere articoli su pomodori, lucidalabbra, insetticidi, piastrelle, vacanze a Riccione. Qualsiasi cosa le persone cerchino su Google. Lavori apparentemente insignificanti, privi di aura, senza alcuna ambizione simbolica. Li scrivo con metodo e responsabilità: producono valore e risultati, ottengo stipendi regolari. Insegno alla Scuola Holden, vengo contattato dalle agenzie di comunicazione, nel 2025 ho formato più di duecento persone su come si scrive davvero oggi: come si struttura un testo, come si governa l’attenzione, come si produce senso in un algoritmo che non regala nulla. Scrivo, tutti i giorni. Solo che lo faccio dove ha ancora senso farlo. L’alternativa sarebbe investire una manciata di mesi in un romanzo italiano contemporaneo: sottopagato, destinato a una circolazione gentile quanto breve. Un libro che deve stare sotto una certa soglia di rischio, che non può essere troppo lungo, troppo strano, troppo ambizioso. Un libro che nasce già pensando a dove verrà presentato, premiato, difeso. Un oggetto di consumo da chiudere in poche ore e non pretende nulla. Scrivere narrativa oggi è un gesto di adattamento: si scrive per stare dentro un perimetro, mai per infrangerlo. Si limano le asperità, si riduce il mondo, si abbassa il volume dell’immaginazione. Il risultato sono romanzi corretti, molto spesso ben scritti, a volte sinceri, necessari a un’editoria fondata sull’inflazione. Opere che descrivono stanze perché non hanno i mezzi per costruire mondi. E allora la scelta diventa brutale e limpida. Da una parte posso passare cento ore dentro Final Fantasy XV, attraversando un luogo che non ha fretta di lasciarmi andare, che richiede tempo, attenzione, labirinti che mi fanno perdere, tornare indietro, cercare il punto di noleggio dei Chocoboco, sbagliare. Un’opera che non mi tratta come un consumatore da compiacere, ma come qualcuno che deve trovare da sé la via. Dall’altra posso leggere – o scrivere – un romanzo pensato per non disturbare, non eccedere, non pretendere troppo: un prodotto che finisce in fretta, si commenta educatamente su Instagram e viene sostituito dalla successiva notifica di Tik Tok. Tra le due cose, oggi, non c’è davvero gara. Quando un videogioco da 18,99 euro riesce a offrire più tempo, spazio, memoria e più perdita d’orientamento di gran parte della narrativa contemporanea, il problema non è il medium. È l’ecosistema che ha disintegrato l’ambizione. È un sistema editoriale che paga poco, isola gli autori, premia chi è moderato e scambia la rinuncia per profondità. Scrivere oggi, in Italia, non è difficile perché mancano le storie. È difficile perché manca la possibilità di prenderle sul serio. E finché sarà così, finché la letteratura continuerà a ridursi a oggetto di consumo tranquillo, finché verrà chiesto agli autori di essere visionari senza fornire loro spazio, tempo e denaro il lettore continuerà a cercare altrove – in un gioco, in una serie, in un mondo digitale – quella sensazione di vastità che i libri hanno smesso di promettere. Quando rinunci ai mondi non perdi solo lettori. Perdi ambizione. Tempo. Senso. Nicolò Locatelli *In copertina e nel testo: immagini tratte da Final Fantasy XV L'articolo Ai romanzi italiani preferisco Final Fantasy XV. Sulla narrativa che ha smesso di costruire mondi proviene da Pangea.
December 17, 2025 / Pangea
Non ammette lettori vili. Vasto elogio di Jean Giono
In uno dei momenti più belli del libro, di primordiale bellezza, “Antonio dell’isola delle Ghiandaie” fissa le stelle. Non riesce a dormire, eppure “su tutta l’ampiezza del cielo e della terra regnavano una pace e una mitezza che annunciavano il giorno”. Gli si fa al fianco un mandriano. Insieme, danno i nomi alle costellazioni.  > “Quelle, disse Antonio, io le chiamerò ‘la ferita della donna’. Le chiamerò > così perché fanno come un buco nella notte”.  Il mandriano offre ad Antonio il suo mantello; è freddo “per te che resti fermo a guardare la notte”. Antonio continua a enumerare le stelle, a inventare i nomi. Un grumo di luci, a est,  > “Le chiamerò ‘gli occhi’. Perché credo che siano come lo sguardo di colei che > sta dormento e non ha ancora aperto le palpebre”.  È una scena straordinaria, potremmo trovarla nella Teogonia di Esiodo o nell’Esodo, nei primi libri dell’uomo, epopee di stelle e di grandi cacce, di duelli e di imperi d’erba, di genti selvagge e di domestiche bestie, di briglie e di imbrogli. D’altronde, il compito di uno scrittore non è altro: assemblare i nomi, assegnare miti alle stelle. Un libro è come una stele. Così, il cosmo informe dà forma a una cronaca e dal caos si caglia armonia.  Jean Giono pubblica Le chant du monde nel 1934, per Gallimard. Diceva di aver tratto quel titolo – che è poi un incanto, un incantesimo – da Walt Whitman; amava Melville, di cui avrebbe tradotto Moby Dick; più che altro, l’incarnato del romanzo, il più potente di Giono (ora, nella sgargiante traduzione di Leopoldo Carra, per Settecolori come Il canto del mondo), è omerico. Ambientato in un senza tempo da inizio e termine del mondo, tra età dell’oro e apocalisse, Il canto del mondo parla di razzie e di vagabondaggi, di fuochi e di fiumi, di patti d’amicizia e di atroci vendette, di terra e cielo, di amore e morte.  La scrittura di Giono è armata di uno splendore petroglifico, si sente, in sottofondo, un ritmo di tamburi (ascoltate: “All’alba le bestie vennero avanti. Antonio vide uscire dalle ombre a occidente i tori con le corna a lira. Spuntavano dai pascoli all’imbocco della valle, e subito il sole nascente si posava sulle loro fronti”), una limpidezza nuova, che non ha lignaggio né trama d’eredi. Mescolando Stendhal all’epopea di Gilgamesh, Jean Giono ha portato il romanzo, creatura di città, nei boschi, a far leggenda tra gli acquitrini. In questo libro – mai così sconfinato – appaiono le “uldre” e il “grongo”, “un pesce che assomiglia al serpente”; c’è il sesso e l’assassinio; c’è un sentore di sangue che rintrona la mente, che non dà pace.  Non bello ma volitivo, occhi grandi, di creatura d’acqua dolce, Jean Giono nel ’34 andava per i quaranta. Figlio di umile gente – il padre era un ciabattino, anarchico, originario del Piemonte – era nato nel 1895 a Manosque, in Alta Provenza, e fece di quel borgo – fondato dai Celti, abitato dai Romani, saccheggiato dai Saraceni – il proprio eden, la scaturigine dei propri australi romanzi. Avrebbe dovuto impiegarsi in banca, leggeva, nel tempo libero, Tacito, Seneca, Virgilio, Eschilo; il successo del primo libro, Colline (edito da Grasset nel 1929), gli permise di alienarsi dal mondo, di mollare la banca, di allearsi alla scrittura. Mobilitato durante la Prima guerra, ne uscì sconvolto: sperimentò l’imperio della macchina, il massacro privo di cavalierato, la canaglieria degli Stati. Fu sui campi più duri – si fece Verdun, la Somme, lo Chamin des Dames – assistendo alla morte degli amici. Sulla rivista “Europe”, proprio nell’anno in cui pubblica Il canto del mondo, Giono scrive Refus d’obéissance, uno degli inni più potenti contro il militarismo. Scrive “di non aver ammazzato nessuno” durante la Prima guerra, di aver “partecipato agli attacchi senza fucile o con un fucile inutilizzabile”. “Non ho avuto il coraggio di disertare”, scrive. Poi l’onda d’urto di quello straziante j’accuse monta:  > “Ho annusato l’odore dei morti. Ho mostrato corpi in frantumi. Ho riempito le > stanze di fantasmi lordi di fango, con le orbite succhiate dagli uccelli. I > feriti gemevano sulle mie ginocchia. Quando ho detto ‘mai più’ tutti, in coro, > hanno ripetuto ‘no, no, mai più’. Ma il giorno dopo riprendevano posto nel > reggimento civile borghese. Ricominciavano a creare il capitale per il > capitalista. Erano meri strumenti della società capitalista”.  Giono attacca l’ipocrisia del “regime borghese”, il sistema coercitivo del lavoro cittadino, “ideato per assopirci, per instillare in noi uno spirito di schiavitù”.  Agli albori della Seconda guerra, l’ardore pacifista di Giono fu preso per tradimento: lo scrittore fu arrestato nel settembre del ’39; rilasciato, si ritirò nella sua fattoria. Durante Vichy diede rifugio a transfughi ebrei e a comunisti; le riviste di regime – il periodico nazista “Signal”, ad esempio – parlarono con curiosità del suo “neoprimitivismo”. I resistenti non gli perdonarono di aver pubblicato un paio di racconti su “La Gerbe”, il giornale collaborazionista: prima cercarono di ucciderlo – piazzando una bomba, nel gennaio del ’43, davanti a casa sua – poi lo arrestarono – dal settembre del ’44 al gennaio dell’anno dopo – infine lo processarono; il “Comité national des écrivains”, con sarcastica pignoleria, gli impedì di pubblicare per un paio di anni.  Poligrafo dallo stile vertiginoso, Giono scrisse L’ussaro sul tetto e L’uomo che piantava gli alberi, i libri per cui è più noto, nei primi anni Cinquanta. Nel 1965 Marcel Camus trasse una versione cinematografica da Le chant du monde – passata in Italia con il titolo, assurdamente hard, Ossessione nuda – con Catherine Deneuve nel ruolo di Clara, la donna dai “grandi occhi di gesso e di menta”, la tanto amata. Giono morì cinque anni dopo, nella sua dimora, a Manosque, in pieno estro verbale (L’Iris de Suse era uscito da poco).  Per capire l’importanza di Jean Giono basta sfogliare il catalogo della ‘Pléiade’: otto tomi, di cui sei dedicati alle Œuvres romanesques complète. A differenza degli “esistenzialisti”, Giono – il cui talento è d’altro conio, più puro, di quello di Albert Camus – ha cantato la brutalità della gioia, le glorie della carne. Amato da Henry Miller – che lo insediò tra i pochi, grandi scrittori della sua vita – è l’esatto opposto di Céline – che lo sopportava a tratti. Se uno è il cantore della notte e dell’oscurità, l’altro lo è della luce. Jean Giono è lo scrittore dell’estate perpetua, dell’avventura totale, dell’elemento primo, di preistorica eloquenza. Non ammette lettori vili.  L'articolo Non ammette lettori vili. Vasto elogio di Jean Giono proviene da Pangea.
December 16, 2025 / Pangea
“Sii forte, sii forte e taci”. Christian Morgenstern o della legge del mondo
“Perché non v’è punto qui/ che non ti veda. Devi cambiare la tua vita”. Fermo, di fronte al torso arcaico di Apollo, Rilke formula un imperativo oracolo, ascoltando ciò che muta come se parlasse. Non è la nebbia di una morale, bensì l’esperienza di metamorfosi che ogni vivente, nel suo perire, impone allo sguardo; un volto d’albero, un muro di spine, una foglia che cade, ogni cosa diviene giudice muto e maestro metafisico. È da questa soglia rilkeana, da questa “Schwere der Dinge”, che possiamo avvicinarci a Christian Morgenstern e alla parte del suo animo nascosta tra le fronde. Perché anche nel suo Blätterfall, in un quadro autunnale che raschia sul bordo della meditazione morale, la natura non è sfondo, ma interlocutrice, segno, terreno dove l’uomo impara la sua postura, la discrezione, il silenzio assordante. > “Nella vita ci sono grandi ore. Noi leviamo gli occhi verso di esse come verso > le colossali figure del futuro e dell’antichità.” > > Friedrich Hölderlin, Iperione Nato nel 1871 a Monaco di Baviera, Christian Morgenstern è solitamente ricordato per le sue Galgenlieder, i suoi Fatti lunari (pubblicati in Italia da Guanda) e per l’umorismo stralunato. Cresciuto fra pittori e febbri, fu poeta dalla salute sempre inclinata, funambolo dell’assurdo prima che l’assurdo avesse una capitale. Colpito da tubercolosi sin dalla giovinezza – malattia che lo portò alla morte prematura nel 1914 – conobbe a lungo la stanza del malato; il luogo in cui l’immaginazione impara a uscire prima del corpo. Da qui la doppia natura: da un lato l’inventore di quei poemetti che sembrano nati in un teatro di marionette composto da canneti metafisici; dall’altro, un autore capace di una spiritualità calma, quasi orientale, nutrita di Steiner, di teosofie leggere e antroposofia. I frequenti spostamenti lo portarono a soggiornare alcuni mesi, tra il 1906 e il 1907, nel sanatorio per malattie polmonari di Birkenwerder. Qui lo studio del Vangelo di Giovanni e degli scritti di Meister Eckhart gli procurò una sorta di iniziazione spirituale che lo rese liminale. La poesia Blätterfall appartiene a questa fase più meditativa e più “seria” della sua produzione; non trascende l’ironia dei Galgenlieder, ma esplode una sorta di piccola filosofia in cui la natura diventa maestra di saggezza tragica e di compostezza. Caduta delle foglie Il bosco autunnale fruscia intorno a me… Un infinito mare di foglie Si stacca dalla rete dei rami. Ma tu, il cui cuore appesantito Vuole condividere il grande dolore… Sii forte, sii forte e taci! Impara a sorridere quando le foglie, Facili prede del vento leggero, Ondeggiano e scompaiono. Tu sai che proprio la caducità È la spada con cui lo spirito del tempo Supera se stesso. Morgenstern dispone il “mare di foglie” come un teatro cosmico in cui l’uomo, fragile spettatore, è chiamato a un’ascesi del silenzio: «Sii forte, sii forte e taci!». Rilke avrebbe riconosciuto in questo comandamento la stessa disciplina interiore che governa le Dinggedichte, dove il poeta non descrive la cosa, ma la lascia farsi gesto, inclinazione, destino. Ciò che si perde si apre, ciò che discende si libera. La poesia, nella sua apparente semplicità, si colloca così accanto alla visione rilkeana del mondo che “stirbt und wird”, muore e diviene, una visione che fa dell’effimero un’energia spirituale. > “Cerchi che si tendono sempre più > ampi sopra le cose è la mia vita.” > > Rainer Maria Rilke, Il libro d’ore Se Rilke ci insegna a far parlare le cose, Hölderlin ci mostra il gesto opposto e complementare. La natura non è soltanto scena ma compagna di redenzione, cornice in cui si misura il rapporto umano con il divino. La malinconia dignitosa e la tensione verso una forma di abitare il mondo si incontrano in Hölderlin in una poetica del mediamento. L’estasi del poeta è sempre una mediazione che tenta di ricollegare la frammentazione moderna. In relazione a Morgenstern, Hölderlin ci permette di leggere l’esortazione al silenzio come forma di abitare il tempo. Il suo “sii forte e taci” risuona come regola heideggerianamente prescientifica dell’abitare che Hölderlin, prima di tutti, aveva posto come questione poetica. Christian Morgenstern (1871-1914) Lo studio critico moderno conferma questo aggancio; la natura come mezzo per oltrepassare la contingenza e riconsegnare all’uomo una misura dell’entusiasmo poetico. “Non coerceri maximo, / contineri minimo / divinum est.”,riporta il lungo epitaffio sulla tomba di Ignazio di Loyola citato da Hölderlin nell’apertura dell’Iperione: “Non essere limitato da cos’è più grande, essere contenuto da ciò che è minimo, questo è divino”. Così, quando Morgenstern invita a “sorridere” davanti al fogliame che svanisce nel vento, chiede un atto di fede nel ritmo dell’essere. Imparare dai cicli naturali a non opporsi alla perdita, perché è proprio lì che l’anima comprende la misura del mondo. > “Costruisco una tomba per il mio cuore, affinchè possa riposare; mi imbozzolo > perchè ovunque è inverno; mi avvolgo nei miei ricordi contro la tempesta.” > > Friedrich Hölderlin, Iperione A sorreggere questa interpretazione giunge Nietzsche, il vero “formatore” della giovinezza di Morgenstern e colui che offrì un primo fondamento filosofico al suo rifiuto emotivo dell’arida incultura guglielmina. Il vento leggero che rapisce il fogliame non è, per Nietschze, minaccia, ma forza dionisiaca che smuove la forma, afferma la potenza del divenire e spezza le catene della malinconia reattiva. “Tutto va, e tutto torna”, scrive nello Zarathustra, ricordando che la vita è un eterno ritorcersi di forme e di energie. Il Blättermeer di Morgenstern, osservato nella sua fluttuante impermanenza, diventa così una figura nietzscheana: la danza minima di ciò che continua a vibrare mentre scompare. Il comando “sii forte” non è una severità morale, ma una pedagogia del divenire; accogliere il mondo nella sua continua evaporazione, senza cedere all’illusione di un centro stabile. > “Voglio imparare sempre di più a vedere come bello ciò che è necessario nelle > cose; allora io sarò uno di quelli che fanno le cose belle. Amor fati: > lasciate che sia il mio amore d’ora in poi!” > > Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza A fornirci l’ultimo nodo, però, è Bergson, che con la sua filosofia della durée (durata) sembra quasi commentare direttamente i versi finali della poesia: “Tu sai che proprio la caducità/ È la spada con cui lo spirito del tempo/ Supera se stesso”. La temporalità bergsoniana non è una serie di istanti che si consumano, ma un flusso qualitativo, una “élan vital” in cui vita e tempo coincidono come movimento indivisibile.  Il testo di Morgenstern, nel suo insistere sulla caducità che «sovrasta» il tempo, può essere letto come poesia della durata: il fogliame che cade non interrompe l’esperienza, la intensifica; la caducità è l’atto che concentra la memoria e l’anticipazione in un presente vivo. Bergson sostiene che il puro presente è un inafferabile avanzare del passato che divora il futuro, e così, il sorriso che l’io consiglia è gesto proprio, modalità del presente che incorpora il passato e prepara il divenire. Nella sinergia di Bergson e Morgenstern il tempo smette di essere nemico e diventa materia plastica dell’anima.  > “E tutto è unanime, nel silenzio su noi, > metà vergogna, forse, e metà speranza ineffabile.” > > Rainer Maria Rilke, II Elegia Duinese In questo modo, il bosco autunnale non è più soltanto un luogo della malinconia, bensì il laboratorio dove Rilke vede la cosa dichiarare la propria anima, dove Hölderlin riconosce la ferita sacra dell’esistenza, dove Nietzsche vi scorge il gioco in cui l’essere si afferma contro la gravità della fine, e dove Bergson ascolta il pulsare segreto del tempo che si rinnova.  Morgenstern, sotto questa luce, appare come un poeta che conosce la leggerezza del pensiero profondo; parla alla quiete, ma soprattutto parla del mondo intero. Nel suo invito a sorridere mentre tutto svanisce, si cela un gesto ontologico, una teologia dell’imparare che la vita non ci appartiene per durare, ma per trasformarsi, per transitare, per brillare un istante prima di dissolversi nel respiro dell’universo. Morgenstern, con la sua voce più lieve e più adulta, trasforma una visione in gesto etico, in assentire, e tacere. Un tacere che non è resa, un tacere che non è condanna.  Il mondo vive nel suo cadere e l’uomo cresce nella misura in cui impara ad accompagnarlo senza rumore. Tommaso Filippucci *In copertina: la “sfera dei colori” secondo Philipp Otto Runge (1777-1810) L'articolo “Sii forte, sii forte e taci”. Christian Morgenstern o della legge del mondo proviene da Pangea.
December 15, 2025 / Pangea
“Con la contemporaneità ho un rapporto complicato”. Dialogo con Piero Meldini, lo scrittore più appartato e singolare d’Italia
In copertina, un particolare dalla Santa Lucia di Francesco del Cossa: occhi che germogliano da una piantina, stretta con malizioso garbo dalla santa. Era il 1994 e dell’autore – “nato nel 1941 a Rimini, dove vive” – si diceva, per lo più, della biblioteca, la Gambalunghiana, di cui era, all’epoca, direttore, “fondata al principio del Seicento, da un gentiluomo allampanato e funereo”. Il romanzo – L’avvocata delle vertigini –, tra i più singolari e remoti del nostro canone recente, nascondeva, tra l’altro, un altro libro, Ufficio del silenzio, in cui si legge quanto segue: “Tacet. Come il colore bianco è la somma misteriosa di tutti i colori, così quella lingua bianca che è il silenzio accoglie paternamente tutte le parole”. Un monito, forse. Il protagonista, Dominici, ricorda a sprazzi il Daniele Dominici de La prima notte di quiete, l’eroe malinconico del film di Zurlini, ambientato a Rimini. Del libro si parlò tanto, tanto fu tradotto: un autore italiano nel catalogo Adelphi era pura opera di teurgia, quasi un’annunciazione; qualcuno paragonò L’avvocata delle vertigini alla Variante di Lüneburg di Paolo Maurensig, noto romanzo uscito nel 1993: l’affinità è meramente editoriale.  Rispetto ad altri autori dal tardivo esordio – Francesco Biamonti e Gesualdo Bufalino, ad esempio – Piero Meldini aveva già pubblicato tanto, per lo più saggi, con l’amico editore di una vita, Guaraldi: tra gli altri, ricordo Reazionaria, la prima “Antologia della cultura di destra in Italia”, uscita nel 1973, Mussolini contro Freud (1976) e il ciclo “La cucina dell’Itaglietta” (1977), che è poi una storia d’Italia, dall’età giolittiana al fascismo alla “cucina del tempo di guerra”, attraverso la controcultura culinaria.  Per lo più ostile alla cagnara letteraria, per lo più sulle sue, un isolato, Piero Meldini ha pubblicato per Adelphi il suo libro più bello – L’antidoto della malinconia, 1996, ambientato in un inquieto, coriaceo Seicento – e per Mondadori quello che ritiene il più compiuto, La falce dell’ultimo quarto, nel 2004. L’ultimo libro, Italia. Una storia d’amore (la quinta: vigilia della Prima guerra, tra Bologna e Rimini) è uscito per Mondadori poco meno di quindici anni fa. Da allora, Meldini, senza dubbio uno dei grandi scrittori italiani di oggi, vive in una veglia tutta sua: non ha più voglie letterarie, è quasi del tutto refrattario al presente. I racconti radunati per Vallecchi come In disparte, in silenzio (brutta la copertina “generata con AI”), così, fanno l’effetto di una scoperta. Pochi – sedici – brevi – in tutto, compresa la Nota, il libro conta centoquaranta pagine – sagaci, non scalfiscono il tema: il testo più recente è del 2009. Eppure, per una sorta di sfrenata austerità, di spudorata sapienza, i racconti di Meldini sembrano più moderni, freschi, scattanti, giovani di troppa narrativa che infesta le librerie patrie.  Il racconto più bello – parere mio – è Dietro la grata: siamo nel Seicento, il secolo narrativamente aureo e oracolare per Meldini, si parla di una giovane, di fantomatica bellezza, confinata in monastero, di un diario mistico dalla “scrittura insieme puerile e artificiosa”, di un donnaiolo attaccabrighe che porterà al disfacimento la famiglia, non nobile ma capace in ricchezze. Il genio dello scrittore, come sempre, si vede subito, fin dalla filigrana dell’incipit: > “Sulla carta spessa, che crocchia e si accartoccia agli angoli, le righe > corrono svelte. Le lettere pendono a destra, come investite da una corrente > d’aria. Là dove la scrittura a un tratto si inalbera, graffiando il foglio, la > porta avrà sbattuto”.   Si sente, cioè, in poche righe, il sapore di un mondo e il suo senso, il suono dell’epoca. Lo scrittore gioca con gli astri, ha a cuore tutti gli angoli della propria invenzione (soprattutto quelli invisibili al lettore). La scrittura di Meldini rimanda – parere mio – ai racconti più riusciti di Marguerite Yourcenar, quelli raccolti in Come l’acqua che scorre; lui cita, tra i suoi lari, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Morselli, Buzzati. A Jorge Luis Borges – autore che accompagna da sempre l’epopea letteraria di Meldini – è dedicato uno ‘scherzo’ assai sugoso. In Pasticcio, il grande scrittore argentino interpreta se stesso in vesti di cuoco: il suo piatto, naturalmente un “capolavoro”, sortirà effetti mortali nella mente e nel corpo dei commensali. I borgesiani di ferro riconosceranno nomi, temi, topografie, comunque esplicitati dall’autore in nota.  Come ci si potrebbe attendere, Meldini – almeno in apparenza – guarda con indocile sprezzatura ai suoi libri: nell’arco di un ventennio o poco più – mi sono dimenticato di citare Lune, Adelphi, 1999 – ha pubblicato alcuni dei libri indimenticabili della nostra tradizione recente, ma cosa gli importa… “Dubito che qualche mio romanzo mi sopravviva e non è che la cosa mi turbi più di tanto”, tende a ripetere. Lo scrittore forse fa proprio questo: scrive per cancellarsi – delle cose che ha scritto, gli resta un riverbero, una breve nudità, lo sbrego sul margine, un manoscritto pervertito dall’uso. Forse la sua icona è la farfalla – o l’effimera; i libri, intanto, fanno la crisalide. Il resto – far vivere un libro, dotarlo di eternità – è compito nostro, è la gioia dei lettori.  Che cos’è il racconto per te: il disegno preparatorio di un romanzo, un romanzo abortito, a mala pena abbozzato, un’occasione che avvampa, lasciando dello scritto un pertugio di cenere – e poco altro. O è molto di più? Il racconto non è né un embrione né un concentrato di romanzo. È un’alternativa. La scelta, cioè, di raccontare in un numero limitato di pagine una storia con un capo e una coda: un inizio che inviti alla lettura e un finale appagante, sorprendente o perturbante. A differenza del romanzo, che lascia il lettore libero di indugiare, sostare e fantasticare sulle sue pagine, il racconto lo prende per mano e lo trascina fino alla conclusione. Un buon racconto è una parabola nel duplice significato del termine: una traiettoria e un racconto con una morale. Meglio – molto meglio – se indecifrabile. La quarta recita: “Tutti i racconti di uno dei più originali narratori italiani”. Ti domando. Sono davvero “tutti” i tuoi racconti qui raccolti; cosa significa, appiccicato a te, l’aggettivo “originale”; e poi, ti senti davvero un “narratore”? Sì, i racconti sono più o meno tutti quelli che ho scritto; i pochi assenti non meritavano di essere riesumati. Credo (spero) che con “originale” lo strillo – di cui non sono responsabile – intendesse appartato e inclassificabile, perché di fatto è così che mi vedo. E sì, mi considero un narratore. Se non ho in testa una storia, anche semplice, e dei personaggi – chiamiamoli pure fantasmi – mi è impossibile cominciare un racconto; non parliamo poi di un romanzo. Non credo che la bella scrittura sia autosufficiente. Secondo i canoni – idioti si dirà – della casistica narrativa italica, hai esordito tardi, nel ’94, non pubblichi testi ‘nuovi’ dal 2012, un secolo fa. Il racconto più recente raccolto in “In disparte, in silenzio” data 2009. Perché? Non hai più niente da scrivere? La narrativa è stata una delle tante stanze della tua vita, ora sigillata? Scrivere è per me molto impegnativo. Il risultato, dopo una giornata di lavoro (e se sono particolarmente in vena, s’intende), è una mezza cartella di testo. Sulla quale tornare poi non so quante volte e più per togliere che per aggiungere. Non è raro che dedichi a un singolo passo una settimana e più di lavoro accanito. Non è nemmeno raro che poi lo cancelli senza una lacrima. Un lavoro così lento e faticoso ha bisogno di un contesto favorevole: un’editoria che si assuma qualche rischio, una critica attenta e autorevole, una comunità di lettori sufficientemente ampia e curiosa. Nel ’94, quando ho esordito nella narrativa, questo contesto esisteva; nel 2012 le cose erano già molto cambiate; oggi mi attenderebbe una terra incognita, ma presumibilmente inospitale, e alla mia veneranda età non si ipotecano due anni di vita per essere letti da dieci amici. In Italia non si legge – tanto meno, si leggono i racconti, antica leggenda. Perché? Non so se i lettori italiani non amino i racconti. Quel che so è che gli editori, a torto o a ragione, li considerano poco commerciali e preferiscono a una bella raccolta di racconti un romanzo mediocre. Due domande in una. Che cosa stai leggendo? Qual è il tuo libro che – agli occhi tuoi – ‘resterà’? (Ne aggiungo un’altra, in coda: il libro tuo che desideri svanisca nell’oblio, c’è?, qual è?). Sto leggendo Sotto una stella crudele, un libro del 2017 che avevo temporaneamente accantonato. Non è un romanzo. Sono le memorie di una donna ebrea di Praga, Heda Margolius Kovàly, che in meno di un decennio era passata dagli orrori del nazismo a quelli dello stalinismo. È una lettura che prende allo stomaco. Andrebbe imposta (no, mi correggo: consigliata) a tutti quei giovani che si proclamano orgogliosamente fascisti o comunisti. Ma, temo, con scarsi risultati. Dubito che qualche mio romanzo mi sopravviva e non è che la cosa mi turbi più di tanto. Potessi scegliere io, sarei indeciso tra L’antidoto della malinconia – il romanzo a cui sono più legato – e La falce dell’ultimo quarto – quello che considero il più maturo, per il suo equilibrio fra dramma e commedia. Tolto qualche mio remoto saggio, che avrei potuto e forse dovuto lasciar perdere, ci sono molti libri che oggi scriverei diversamente, ma nessuno di cui mi vergogni. Anche i racconti – parere mio – confermano che ti trovi narrativamente più a tuo agio in territori alieni ai più, a noi poveri scribi: il Seicento, l’Ottocento. Lì, i tuoi tratti, mi pare, trovano una definitività indefettibile. È vero? Dico sciocchezze? È vero: ho con la contemporaneità un rapporto complicato, e non m’è del tutto chiaro se non voglio o non so raccontarla. Mi domando, per altro, se i miei siano davvero romanzi storici. Sì per la cura scrupolosa dell’ambientazione, a prova di anacronismi; no per quel che riguarda l’intenzione di resuscitare un’epoca. Ciò che a me interessava non era la ricostruzione filologica di un determinato periodo storico, ma la trattazione di temi del tutto personali e attuali, utilizzando però un “filtro” che mi consentisse di parlare di me stesso senza compiacimenti e dell’attualità senza riferimenti alla cronaca. Lo scrittore di romanzi storici finisce spesso, volente o nolente, per attualizzare il passato. Io credo di aver fatto l’opposto: “storicizzare” il presente proiettandolo in un’altra epoca. Tra i racconti, spicca un tributo a Borges, che figura tra i tuoi lari – in filigrana, vedo la grana della Yourcenar. Quali scrittori italiani tra i tuoi maestri? Gadda, innanzi tutto, al punto che avevo l’abitudine di rileggere ogni anno, come un esercizio zen, La cognizione del dolore. Poi, in parte, Sciascia e Calvino. Sicuramente Tomasi di Lampedusa. Landolfi, ma in modica quantità, e Buzzati. Il Morselli di Contro-passato prossimo e Roma senza papa e il Soldati dei racconti. E inoltre un bel po’ di scrittori ottocenteschi e del primo Novecento, a cominciare da Svevo. Pur nella scrittura spesso assertiva, serrata, severa, vedo l’ironia nera, un piccolo Pan a disfare le sorti dei tuoi personaggi. Un gioco alchemico: il caos che, in piccole dosi, rende dorata madama armonia. A tratti, la scrittura pare un gioco – di specchi e di attese e di maschere. È così? Sì, proprio così, e mi fa piacere che tu lo abbia còlto. I protagonisti dei miei romanzi sono destinati a percorrere strade che li conducono fatalmente alla catastrofe. Non ho deciso io di farli finir male, però: lo hanno in qualche modo deciso loro. Nei racconti, invece, c’è lo zampino maligno dell’autore, che ha scelto di collocare il veleno nella coda, non so bene se per far dispetto al personaggio, al lettore o a se stesso. 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December 13, 2025 / Pangea
“Scrivere poesie è come rapinare in banca”. Donald Hall o dell’ardore coniugale
Riuscì a far ridere Thomas S. Eliot, il poeta cardinalizio, il poeta-papa, per sempre serrato in una vaticana severità. Scrisse dell’“improvviso rimbombare della risata di Eliot”. Scrisse di una risata che squarciava i cieli. Nell’ufficio della Faber and Faber – in Russell Square, Londra – una fotografia di Pio XII fronteggiava quella di Virginia Woolf, l’antica amica. La prima grande intervista – di un ciclo mitico: “The Art of Poetry” – della “Paris Review”, è firmata, nel 1959, da Donald Hall.  Trentenne – era nato a Hamden, Connecticut, nel settembre del 1928 –, Donald Hall aveva il profilo del predestinato, dello straordinario genio. Licenza ad Harvard, borsa di studio a Stanford, nel 1957 aveva curato, insieme a Robert Pack e a Louis Simpson, una notissima antologia di New Poets of England and America; Robert Frost – uno dei suoi lari: avevano giocato a softball insieme – aveva accettato di firmare la compassata introduzione. Come poeta, Hall aveva esordito, con Exile, nel 1952: il primo tomo di una bibliografia iliadica, che finirà per accumulare una cinquantina di libri. Eliot era il suo mito. Dodicenne, frequentava i ragazzi più grandi, che transitavano a Yale. Sentì parlare di Eliot. “Con la paghetta che mi davano i miei, mi comprai l’edizione delle poesie di Eliot. Costava due dollari e cinquanta centesimi. Decisi che sarei stato un poeta per il resto della vita – decisi di dedicare almeno due ore al giorno alla poesia, dopo la scuola. Continuo a farlo”. Un suo amico – “aveva sedici anni, mi pareva un vegliardo” – gli aveva detto che “scrivere poesie è come rapinare in banca. Pensai a Bonnie e Clyde. La cosa mi piacque da impazzire”.  Figlio di buona famiglia – il padre era un uomo d’affari – Donald Hall, negli anni, otterrà tutti i premi che possiamo immaginare. Un paio di Guggenheim Fellowship – conquistati nel 1963 e nel 1972 – gli permisero di fare della poesia la propria rendita. Nominato “Poeta laureato” degli Stati Uniti nel 2006 – un paio di anni prima a ricoprire l’incarico c’era Louise Glück, futuro Nobel per la letteratura; lo sostituirà, nell’ambito ruolo, Charles Simic – quattro anni dopo viene onorato da Barack Obama con la National Medal of Arts. Harold Bloom lo ha inserito nel fatidico “Canone Occidentale”, insieme a Nabokov, Raymond Carver, Cormac McCarthy, Philip Roth e Thomas Pynchon. In Italia, la sua opera poetica è sistematicamente ignorata, chissà perché.  Ma torniamo ai primordi. Donald Hall aveva il culto della franchezza, la capacità – rapace – di indentificare il ‘tono’ di un uomo attraverso uno sketch. Eccelleva negli aneddoti, come se la parte – la briciola di un’esistenza – racchiudesse in vitro il tutto. Dedicò la vita al racconto dei ‘maestri’, all’incessante ricerca dei ‘padri’: all’assidua acquiescenza di troppi – tradotto: l’estetica dei paraculo – preferì la sfacciataggine. Così, ad esempio, rievocando l’antica intervista a Eliot: > “Ci incontrammo preliminarmente a New York. Era tornato da una vacanza alle > Bahamas, o da un posto del genere. Era abbronzato, snello, stupendo. Il che mi > sorprese. Non lo incontravo da due o tre anni – nel frattempo, si era sposato > con Valerie Fletcher. Che cambiamento! La prima volta che lo avevo visto, nel > 1950, pareva un cadavere. Era pallido, curvo, rigido; tossiva > ininterrottamente. Quell’uomo arcano, grave di antiche gentilezze, pareva > adatto alla tomba. Fu così che lo rividi, più volte. Eppure, quel giorno era > felice. Il secondo matrimonio lo aveva ringiovanito di vent’anni. Rideva, > tenendo per mano la giovane moglie – era una persona totalmente diversa: più > leggera, radiosa, disponibile”.  Eliot che ride – abbronzato – mentre impugna il braccio della seconda moglie. Un’immagine capace di scardinare l’intero tempio di cattedratici pregiudizi accademici. Memorabile – per stare in tema – l’aneddoto. Da Mr. Eliot – il vate e il doge dell’editoria anglofona – si approssima un giovane poeta americano. Chiede consiglio: vorrebbe iscriversi a Oxford, seguendo il sentiero di studi percorso, quarant’anni prima, da Eliot. La risposta del poeta è spiazzante: “gli disse di fornirsi di biancheria intima di lana, a causa della forte umidità che trasuda dalle pietre di Oxford”.  Oltre all’intervista a Eliot – introduzione di Pasquale Panella, anno di grazia 2000 – l’unica altra cosa di Donald Hall tradotta in Italia è l’intervista a Ezra Pound – introdotta da Mario Luzi, era il 1996, entrambi i tomi escono per minimum fax, oggi veleggiano nel mercato secondario. In origine, l’intervista esce nel 1962, sulla “Paris Review” – i poundologi la ritengono una delle migliori mai realizzate da ‘Ez’. Hall incontra Pound a Roma, nel 1960 – “non era ancora penetrato nel silenzio, ma il silenzio lo stava lentamente compenetrando” – in un bar. “Il cameriere lo riconobbe, non ci aveva mai visti insieme, fece un collegamento. Pronunciò alcune frasi in italiano. Non le capii. L’ultima parola era ‘figlio’. Pound mi fissò, fissò il cameriere. Disse ‘Sì’”. L’intervista a Pound va letta insieme a Fragments of Ezra Pound, formidabile saggio biografico con cui Donald Hall chiude Old Poets. Reminiscences and Opinions: uscito nel 1979, costantemente ristampato, è uno dei libri folgoranti per comprendere la grande poesia americana del Novecento. Nella chiusa al lungo testo dedicato a Pound, Hall parla di un “vecchio Odisseo senza Penelope né Telemaco”, di un uomo che “non è salpato verso il Paradiso, ma ha scelto di tornare nel proprio Inferno”, di “una navigazione che non ha trovato porto”, del “vasto e nobile linguaggio di Ezra Pound”. Scrisse che “nessun uomo compie la sua vita o i suoi Cantos, perché siamo tutti un cumulo di frammenti. Soltanto in pochi solcano i mari”.  Nei ringraziamenti, Donald Hall cita Jane Kenyon, “che è dentro e oltre ogni mio lavoro”. Si erano conosciuti ad Ann Arbor, Michigan, dove lui insegnava. Lei aveva poco più di vent’anni, abitava lì, indossava una bellezza schiva e la stola di un talento feroce, esatto, di quelli che per penuria di tempo terrestre devono bruciare tutto. Donald Hall fu abbacinato da quella figura, al contempo aggraziata e indocile. Si sposarono nel 1972 – vent’anni prima Donald si era unito alla prima moglie, Kirby Thompson, da cui aveva avuto due figli. Nel ’75, Jane e Donald mollano tutto – insegnamento, stabilità sociale, i fumi della fama – per ritirarsi a “Eagle Pond Farm”, la casa avita degli Hall, presso Wilmot, New Hampshire. Poco più di mille abitanti, campi, boschi, poco tempo per le frivolezze, la dedizione dei monaci e dei pionieri. Fu un amore folle, assertivo, confermato da una fede nella singolarità dell’altro che non può non affascinare. Lavoravano la terra, cucinavano, cucivano poesia. Donald Hall – poeta esuberante nel dominio della tavolozza lirica: capace di alternare la forma ‘chiusa’ ai più arditi esperimenti modernisti – sapeva che era lei, Jane, l’autentico genio: sapeva ascoltarla – sapevano litigare. Roso da un cancro al colon, curato da lei, lui riuscì a venirne fuori, smagrito, smarrito, è vero, ma coriaceo. Lei, curata da lui con la venerazione del pittore di icone, fu stroncata dalla leucemia: morì nel 1995, dopo vent’anni di vita insieme, ai confini di tutto il resto.  È difficile rassettare in altro modo la parola coniugale: una congiunzione che trascende ogni altro essere, autenticamente terribile. Cosa che allea il cuore all’astro. Donald Hall fu squarciato, la poesia pareva essersi disseccata in Jane; la prima raccolta edita dopo la morte della Kenyon, Without, è una sorta di mefistofelico requiem. The Painted Bed, a dire di molti, è la più bella poesia di Donald Hall dedicata alla moglie: il letto coniugale è, al contempo, zattera e tomba, ventre e arca. Il riferimento odisseico è implicito. Chiude così: “E ora giaccio sul letto dipinto rimpicciolisco, concentrato nel viaggio che inauguro  per dormire senza dolore nella reggia dell’oscurità il mio corpo accanto al tuo”.  Preferisco Weeds and Peonies – la leggete in calce all’articolo. È “la mia prima poesia dettata dal lutto”: Donald Hall tenta di coniugare il proprio stile a quello di Jane. Il risultato è forse una delle poesie più belle di Donald Hall in assoluto. Non è un caso se l’edizione dei Selected Poems of Donald Hall allestita per mano del poeta sia, in fondo, un gigantesco atto d’amore per Jane Kenyon: è lei la vera protagonista delle poesie e del Postscriptum finale (qui tradotto in parte). Siamo nel 2015 – Jane è morta vent’anni prima – Donald muore nel 2018 – non pubblicherà più nulla.  Donald Hall e Jane Kenyon nel 1993 È raro scoprire delle ‘coppie’ letterarie; di solito, sono legate dal famelico desiderio di agire sulla cultura del proprio tempo (penso al mostro bifronte Sartre-de Beauvoir o Aragon-Triolet). L’unico legame analogo a quello tra Donald Hall e Jane Kenyon è il rapporto Sylvia Plath/Ted Hughes. In questo caso, però, le analogie sono per sovversione d’intenti e di stili: Sylvia & Ted raffigurano – fino all’esasperazione, fino all’insopportabile – l’emblema della coppia col cappio, della coppia cannibale. I due esistono per offrire materia da divorare all’altro – inevitabile che uno soccomba. Passione che svasa in deliquio, in lotta senza quartiere. Di entrambi, ricordiamo i calchi del rancore, la cagnara lirica, gli omerici litigi, il sabba; un amore in forma di condor. Non credo sia un caso che l’ultima opera di Hughes, la più nota (per frainteso), Lettere di compleanno, sia quella meno efficace: per amare l’antica moglie, il poeta deve farsi altro da sé, fino a modificare il proprio primigenio stile.  Diversi per genio umano e per nitore lirico, Donald Hall e Jane Kenyon si sono fusi senza confondersi, si sono mangiati senza consumarsi – sono riusciti a consuonare. Dando al matrimonio un’accezione bianca, in favore stellare, di certo poco appetibile per i tabloid ma singolarmente eccezionale – per l’eccezione che la accerchia – per la storia della letteratura; ancor più – visto che la letteratura è cosa troppo piccola, infine futile – per il nostro conforto.  Fu Peter A. Stitt a incaricarsi di intervistare Donald Hall per la “Paris Review”. Era l’autunno del 1991 – “The Art of Poetry No. 43”. Trent’anni prima, per quella stessa rivista, Donald Hall aveva intervistato Marianne Moore, la gran dama della poesia americana, idolatrata da Pound, premio Pulitzer, adorava Muhammad Ali e andava a vedere le partite di baseball con cappello a tricorno e nero mantello. Anche Hall giocava a baseball: la copertina lo immortala con la divisa dei “Pirates”, alacre in pinguèdine, nerobarbuto, savio incrocio tra un personaggio dei Peanuts e un maestro sufi. All’intervistatore disse che da ragazzino, dodicenne, adorava gli horror. “Qualcuno mi disse, se ti piace quella roba, leggi Edgar Allan Poe. Lo lessi – me ne innamorai – da grande volevo diventare Poe. La prima poesia che ho scritto, non è troppo macabra, ma imita Poe”. La prima poesia di Donald Hall, serbata come un monito, fa così: “Hai mai ragionato/ sulla prossimità della morte?/ Puzza in ogni angolo/ di notte strilla/ ti insegue per tutto il giorno/ fino al momento in cui/ con voce ferma e forte/ ripete il tuo nome./ Allora, allora, è la fine di tutto”. Il poeta giocò con le parole. Tutto, all, suonava come il suo cognome, Hall. La fine di Hall.  Chissà come si chiamano gli uomini che muoiono più volte. Per essere un poeta, forse, un poeta deve morire le morti di tutti.  ** Donald Hall, Postscriptum A dodici anni ho scritto la prima poesia – a quattordici ho deciso che avrei scritto per tutta la vita. Non me ne pento. È strano, ma per me è una piacere ripercorrere questa vita, fatta di così tanti altezze e così tanti abissi. Nasce mio figlio, il mio carnefice; muore mio padre; sposo Jane Kenyon e ci trasferiamo nel New Hampshire; Jane prospera e scriviamo poesie assieme; Jane muore; io vivo, io invecchio.  Se leggo le mie poesie in ordine cronologico, mi accorgo del mutamento di toni e di forme. Passo dalle strofe in metrica ai versi liberi; più tardi – per amore del mio vecchio amore, Thomas Hardy – torno alle forme chiuse. Non tutti i poeti cambiano stile come ho fatto io. La maggior parte si installa in uno stile. Come accade per la maggior parte degli scultori e dei pittori: non potremmo confondere un Cézanne con un Van Gogh.  Quando Jane e io ci siamo trasferiti qui da Ann Arbor, dove insegnavo, eravamo felici del nuovo orizzonte. Amavamo stare da soli, in campagna, in compagnia della poesia; trascorrevamo le estati a falciare il fieno con mio nonno. Scrivevamo del luogo in cui stavamo vivendo. Scrivevamo l’uno dell’altra. Dopo che Jane morì di leucemia, a quarantasette anni, nel letto dipinto della nostra camera, per cinque anni non ho scritto che della sua morte. […] Io e Jane lavoravamo assieme alle nostre poesie. Ignoravamo le prime bozze – è una cattiva abitudine; occorre attendere che una poesia si solidifichi – quando le poesie giungevano a una forma quasi definitiva, ciascuno si affidava all’altro, il suo primo e fidato lettore. Quando ripetevo una parola – un’abitudine acquistata da Yeats – Jane la cancellava. Quando usavo degli ausiliari, li cassavo, così “stava piovendo” diventava “pioveva”. Jane liberava i versi da metafore morte, sfinite dall’uso; sapeva la mia irascibilità sull’argomento. Esultava quando ne rintracciava qualcuna, tra le mie bozze “Perkins – Perkins ero io – ecco una metafora morta!”. Questi incontri erano fondamentali, non sempre facili. A volte eravamo cortesi – nessuno dei due faceva esattamente ciò che gli diceva l’altro. Ci aiutavamo moltissimo. Jane mi ha salvato da mille errori: limava la mia connaturata esuberanza, correggeva la sintassi. Di rado diceva che la poesia andava bene. A volte diceva “Ci sei quasi”, altre volte “Perkins, hai lavorato bene”. Desideravo con ardore i suoi elogi. Eppure, era essenziale essere privi di indulgenza. Ricordo una sera, era il 1992, eravamo in soggiorno, lei leggeva il mio Museum of Clear Ideas, una cosa del tutto diversa rispetto ai miei libri precedenti. Quando mi guardò, piangeva. “Perkins, non mi piace!”. Mi fulminò, feci per piangere anche io, “Va bene lo stesso, va bene lo stesso”, le dissi.  Quanto meglio scriveva, quanti più onori riceveva, tanto più mi preoccupavo di non essere come Jane. Dopo la sua morte, non me ne preoccupai più. Scrissi per due. La prima poesia dettata dal lutto, Weeds and Peonies, usa parola che risuonano nell’opera di entrambi.  ** Erbacce e peonie Sbocciano le tue peonie, bianche come squarci di neve maculate di rosso nell’irsuto essere nella tua cinta di prodigi, presso il portico.  Magnanimo fiore: lo porto a casa, lo metto in una ciotola di vetro, a galleggiare – come facevi tu. Piaceri ordinari, il contegno della memoria soffiano come neve nel giardino disfatto e soggiogano le margherite. Il tuo cappotto blu svanisce verso Pond Road, diventa una tormenta  immaginaria: Gus ti è al fianco, la sua coda pinneggia,  ma tu non riappari, stanca e felice e continui quarti di dolore appestano l’aria –  come la bestia che abbaia per tutta la notte come il gatto che si stira, poi si accuccia e sogna i lattiginosi capezzoli della madre.  Un procione ha decapitato il geranio nel vaso. Fiori e radici sono uno strazio, a terra,  nel retro, dove i gigli cominciano le loro escursioni quotidiane sul muro di pietra: è la stagione delle rose. Cammino avanti e indietro tra le erbacce – le peonie fissano con esatto candore il Kearsarge: l’hai vinto, una volta, indossavi scarponi viola.  “Torna presto e fai attenzione quando scendi”. Le tue peonie inclinano l’enorme cranio verso ovest. Vogliono cadere. Alcune, in effetti, cadono.  ** Gracida ghiaccio il Kearsarge; dai rami la neve s’innerva sulla neve; nessuna fiumana, no:                         si muove restando immobile. Stasera                                     portiamo legna a piene braccia dalla legnaia di Glenwood e costruiamo un fuoco per tenere lontana la notte dalla finestra.                         Siediti vicino alla stufa Jane Kenyon                                    mentre porto il vino: parleremo del tempo per passare il tempo senza pretendere di poterlo mutare.                         La tempesta esige di estinguersi                                     con macerie di betulle brillanti in ginocchio sui sentieri coperti di brina. Evita le previsioni meteo, che sorridono                         felici per la tempesta                                    prendi il giorno così com’è e il gelo non santificherà più queste vecchie vie perché già urla la raganella, la primavera trotta                          e il giorno è dato in dono proprio                                     a noi, i consoli di questo regno.  * Pomeriggio in riva allo stagno                         Fu luglio e furono sedate le nere mosche primaverili             Furono pomeriggi verdi                         sopra il muschio presso l’oscurità di Eagle Pond: nei pertugi delle forre sentiamo il richiamo delle strolaghe.                          Quei giorni: folli di fievole felicità e grida di falchi.             L’ambizione e la sua rabbia ci diede tregua                         dimenticammo tutto dimenticammo Jane Kenyon, non sapevamo chi fosse Donald Hall sonnambuli, dardeggiavano sguardi su pagine dorate.                         Un giorno attraversammo i binari della ferrovia: tremavano             nell’obliquo sole di agosto –                          chi dei due dormiva, chi leggeva sotto la quercia, vicino allo stagno.  Poi caddero le ghiande – e quei giorni furono la nostra fine.  * Ardore Lei morì e urlai – il cane era cupo e scappò via. Ora non mi getto più verso la parete ricoperta di fotografie non mi rivolgo più a lei il mio “tu”, nelle poesie. Lei è rientrata nel museo di granito: JANE KENYON (1947-1995). Ero vivo, al suo cospetto, ero nel mio acme animale –  sentore di predatore.  La sua morte è la cosa peggiore che mi potesse accadere –  prendermi cura di lei è stata la mia benedizione.  Ma ora voglio chi non c’è la donna dai volti volubili e molteplici, che inventa metafore e trita cipolle, che beve vino mentre olia la pentola e canta tra sé e sé perché cerca di terminare una poesia. Quando faccio l’amore, ora,  qualcosa non funziona. L’autunno scorso una donna mi ha detto: “Diffido del tuo ardore”. Inverno, Florida: odio le vecchie coppie della mia età che passeggiano tenendosi per mano, odio la loro carne flaccida. Fisso  le giovani donne indignato e lascivo: non sanno amare né lavorare né morire.  Le ore scorrono lente, le settimane vanno sulle rapide del nulla.  Sul greto di ogni giorno recito i miei lamenti. Il dolore è illecito e la lussuria, a letto, mi volta le spalle: guarda da un’altra parte.  * Orologio Luna Come una zattera nella subacquea dimora degli spettri, a mezzanotte, tra lumi e pozze d’ombra, sotto la luce fumante della luna piena che riempie di neve il soffitto, vado alla deriva lungo la marea di gennaio, di stanza in stanza,  verso l’orologio a pendolo che batte come  un cuore: attendo la pausa in cui si apre lo stretto spiraglio verso il riposo – lì le onde si bloccano impennate, di pietra, come lunatici leoni di Micene.  * Lupo coltello dal diario di bordo di C.F. Hoyt, US Navy, 1826-1889 “Metà agosto, secondo anno della mia prima spedizione polare, nevi e ghiaccio invernali alle calcagna, Kantiuk e io sfrecciammo con la slitta lungo la Crispin Bay: cercavano i resti della Spedizione Franklin. Ci abbatté la tempesta e tornammo indietro e lottammo, cauti, nella neve, per timore di mollare terra avventurandoci su pianure di ghiaccio alla deriva, abbandonati alla Provvidenza dei mari.  Verso il tramonto sentii ringhiare alle mie spalle. Kantiuk disse  che due lupi, magri come le ossa di una nave in naufragio,  ci seguivano da un’ora – ora  digrignavano i denti preparandosi al banchetto. Avevo poca carica per  il fucile: si approssimava il secondo inverno, razionavamo le provviste.  Fu buio non potemmo andare oltre ci accampammo tra capanne  di ghiaccio – anche i lupi si fermarono, ringhiando  appena oltre l’orizzonte del nostro sguardo – sentivo  i loro artigli arpionare il suolo.  Kantiuk rise, disse che i lupi erano rosi dalla fame. Alzai  il fucile, pronto a sparare al primo sperando di spaventare l’altro. Kantiuk mi tirò via il fucile rideva ripetendo che i lupi avevano fame.  Temevo che il mio vecchio compagno di avventure fosse folle, impazzito nella tempesta tra cimase di ghiaccio braccato dai lupi. Kantiuk  rovistò nello zaino, tirò fuori due coltelli – turnok li dicono gli Inuit –  li affilò con fatica, da entrambi i lati: avevano la violenza dei rasoi da barbiere –  si avvicinò ai cani, raspò con le lame la bestia più giovane: zoppicava da un paio di giorni.  Ricordo  che pensai di puntare il fucile contro Kantiuk mentre mi passava accanto, con i coltelli rossi  del sangue del nostro cane  che aveva mugolato e sofferto e ora era lì, morto, mentre cugini e zii, affamati pure loro, lo fissavano –  e conficcò i coltelli nella neve.  Immediatamente  le vaghe grige forme dei lupi si fecero solide, uscirono dall’oscurità della neve, piombarono fameliche  figure simili a corvi a leccare il sangue dell’acciaio affilato. La lama lacerò a tal punto la lingua di quegli esseri che il loro sangue sgorgava  a profusione, e rimpiazzò quello  del cane e mangiarono furiosamente più di prima, mentre Kantiuk rideva tenendosi i fianchi e rideva.  Risi anch’io sollevato perché la Provvidenza ci aveva concesso di vivere ancora una volta – o forse perché trovavo ridicole –  così lontano dalla mia terra, il Connecticut in condizioni così estreme – quelle creature tanto avide da ingozzarsi del proprio sangue. Crollarono, esangui, prima uno poi l’altro, nella neve:  Kantiuk recuperò  i suoi turnok dopo aver tagliato la carne più morbida dalla coscia di uno dei lupi –  la mangiammo grati, benedicendo il Creatore che ci affama  e che ci sfama”.  Donald Hall L'articolo “Scrivere poesie è come rapinare in banca”. Donald Hall o dell’ardore coniugale proviene da Pangea.
December 11, 2025 / Pangea