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“Finché non cado, fino alla fine del fiato”. Dialogo con Vipera
Fu, al principio, una visione erbivora. Ma quando cade la sera, alle pendici dell’Aspromonte, è come un sigillo che si spezza, come una trappola che si serra – tutto è prono al frainteso; non esistono ombre – acronimi della luce, semmai. E ciò che era preda, si svolge nel predatore.  Insomma, dovrei scrivere un trattato sulla dedizione e uno sull’abbandono. Perché ogni forma di dedizione è autentica se procede dall’abbandono – se lo precede. Che è poi: falconeria dello stare al mondo – abituarsi a scegliere con chi accompagnarsi dalle mani, mai dai volti – mere, metodiche maschere.  Caterina Dufì – credo sia pugliese, credo viva a Bologna, credo sia a questo mondo dal 1998 – si fa chiamare, quando musica, Vipera. È un nome strano, sacrificale, nel caso suo: se la si vede dal vivo – senza la triangolazione fotografica, senza quella genia di immagini – Caterina è quella che si fa bersaglio della Vipera, creatura che dardeggia, che eccelle nello scatto e nel veleno. Dedizione al feroce, allora, purché si abbandoni la ferocia. Si dirà: Caterina è l’avvelenata, il balenio del veleno o l’antidoto? “Le vipere strisciano ovunque, senza contare quelle che si hanno nel cuore”, dice una quasi bambina a Don Miguel, tragico co-protagonista di Anna, soror…, il più perfetto tra i racconti di Marguerite Yourcenar. La bimbetta, calabrese, figlia di un incantatore di serpenti, dice un’altra cosa: “Ci sono molti nomi che è meglio non conoscere”. Poi si dice di malattie meridiane, di amori panici e platonici, e di “brodo di vipera”. Mi è venuto in mente questo racconto ascoltando Acerbo e divorato, il primo album di Vipera, uscito un paio di anni fa. Chi conosce i nomi, ne sussurra alcuni, ne fa scorta – altri, li modella all’urlo. Soprattutto: di ogni nome va aperta la corazza, il carapace che ne inghiotte il senso. Ogni nome è un paravento: nasconde serpi – o tigri azzurre.  Acerbo e divorato è un album molto bello, che spiazza l’ecumenico andito dell’odierna musica. La ballata trobadorica si mescola all’elettronica, qui, Franco Battiato è commisurato ad Antonin Artaud e a Claudia Ruggeri, la poetessa, a cui è dedicato un pezzo, il primo, Il matto. Su tutto, aleggia lo spettro di Amelia Rosselli, la Santa Caterina della poesia italiana. “Che di alcune cose ti basti solo il nominarle. Guardare la lenta impollinazione di questi fiori bianchi”, bisbiglia Vipera – ma è voce marziale, che s’impiglia all’osso frontale – in un pezzo che s’intitola Il macedone. Allo stesso tempo: un’ingenuità che fa inermi – e uno stare al gioco del pericolo. Dal corpo della colomba si dirama la vipera, con andatura da pianta, da vivente che mette radice.  Vipera, cover di Acerbo e divorato, photo Alessia Rollo Poiché è alla ricerca di un’integrità infallibile – che significa: sapere i punti d’acqua, i punti di flessione, dove la carne è debole – Vipera non ama parlare di Acerbo e divorato, è già oltre. Non ha tempo di sanare ferite e di curare l’alfiere di ritorno dalla crociata: a quell’addestramento non si ritorna, non ha senso né sede. Altra autonomia richiede il durare, il duraturo. Così, mi fa dono d’ascolto. Tra i nuovi brani, uno si chiama Angelo nero, attacca così: “Adesso che sta a me farti una domanda lucida, arrivare fino in fondo a dove forse poi ti trovo di mandorla o di niente”. C’è un decoro, una indecorosa accuratezza nel modo in cui Vipera usa le parole che va per la rettitudine dei rettili, è vero. Attacca, stana – e dunque: quel suo bisbiglio, una voce con le squame, che ti dichiara da un andito del bosco dove per i più è patria di ululati, di ungulati in schiera.  A vederla, dico, Caterina, fu visione erbivora. Un erbario di occhi ampi, la figura di una cosa offerta, d’altura. È strano, si dirà, che una creatura simile, un essere d’aria, abbia scelto a protezione lo stigma di una bestia di terra, che striscia. Ma qui è il miracolo: l’innocente che s’incarica di tutti i veleni, che se ne fa carico, ne fa arco. Anima, forse, è un regno senza più porte: essere quel che si è e abbeverarsene; anima è un altro modo di dire sete. L’anima bella sibila, come la vipera – per i falchi, non è che la bianca circostanza della caccia.   Perché Vipera? Chi è vipera?  Suggerivano di non attraversare la macchia mediterranea a mezzogiorno, quando il sole bacia i rettili.  L’insidia, l’allerta che evoca il serpente, insieme a un’idea marziale che in me suscita (un rivestimento, una muta, un alfabeto sulla loro pelle che cambia). Un’immagine così forte è protezione. Sono elementi che hanno sempre destato in me un grande fascino, e mi sono fatta ospite loro. Ho scelto questo nome anche (e soprattutto) per il suo suono. Mi piace l’innesco di quelle consonanti aguzze e il fatto di avere la possibilità di scegliersi un nome ulteriore, diverso da quello che ho ricevuto in dono. Perché non usi il tuo nome nei dischi: necessità di scudo, di slancio, di disastro? Che un nome esista per annientamento?  Quando vado in scena cerco di presentarmi in uno stato vigile, sincero, inscalfibile. La scena è anche tipografica, comunicativa. Ho anche una grande passione per gli pseudonimi, i nomignoli, le parole inventate. Per questo ho scelto un altro nome, che non sia il mio, che mi aiuti nella ricerca di una postura diversa dal quotidiano.  Che cos’è “Acerbo e divorato”, cosa significa, da dove nasce? Uno slancio, un tuffo a candela. Un sogno sui rapporti di consanguineità, sui legami come vincoli e come ramificazioni su cui arrampicare gli occhi.  Un bambino di sei anni scala l’ulivo e arriva in cima, la sua testa sbuca dai rami e vede, in fondo alla campagna, il mare aperto. Poi una vela. Da lì sogna di prendere il largo. Lo prende. È un’immagine di giovinezza feroce, che vuole consumare tutto, avere tutto tra le mani. È un sentimento che mi sorge se penso al fiore giovane prima della catastrofe. Un’asincronia. Durante la scrittura di Tentativo di volo, l’EP che precede Acerbo e divorato, mi è saltata in mente l’immagine del frutto staccato, acerbo. Il gusto che lascia in bocca – il doppio strappo che crea, nel gesto e nel sapore. Questo titolo è in realtà il verso di un brano che non ho mai pubblicato. Ho notato che anche isolato restava denso. Acerbo e divorato lo vedo un po’ come un disco di formazione, in cui la ricerca sonora e stilistica hanno avuto la meglio sull’omogeneità di un album musicale. Così mi sentivo nella mia camera, fumando sul tavolo e guardando al cielo, così è sorta questa immagine. Che cos’è per te il verbo, la parola, la poesia? Che cosa la musica?  La parola è una capienza, una misura di efficacia, nitore, brillantezza. È un evento magico, dove materiale e effimero si scambiano i ruoli, danno vita a figure, a proposte, progetti sul mondo. Penso a fenomeni fisici, al prisma che scocca in raggi colorati. Al miraggio, o alle visioni annebbiate da qualche incenso. Penso a come la parola che prefigura possa agire in misura bipolare nel negativo e nel suo opposto.  Domina, lenisce. La musica e la poesia sono un luogo di rifugio, una lente felice, che mi tiene accesa e disarmata. Spiegami “Anime (intermezzo due)”; dimmi cos’è “l’equivalente spirituale dell’oro”. A.A.! Le Momo! Anime è un brano in cui le parole sono un’esortazione, un’auto-esortazione al restare in vita, nel suo senso più elevato e brillante, oltre alle distorsioni degli eventi.  “Il teatro alchimistico”, è da lì che deriva “l’equivalente spirituale dell’oro”. Antonin Artaud ne parla cercando un punto di congiunzione tra materiale e spirituale. Poter arrivare all’oro, nella mia metafora è una vetta, che si raggiunge oltrepassando stadi brutali, “malandando”. E “l’anima bella” nella canzone è esortata a malandare. Così questa vetta dorata può essere raggiunta nel corpo, attraverso il corpo. È qui che si evolve una parentela metallica, stavolta in un travaso organico. Qui una ricerca analoga può essere condotta, dalle funzioni vitali ad un sopra, un’esistenza di spirito che coesiste, nutre, alimenta quella materiale. Ecco l’equivalente. In controluce, nel disco, leggo Hegel, Claudia Ruggeri, i provenzali, i Mirmidoni… cosa te ne fai di queste più o meno occulte citazioni? Cosa te ne fai della ‘cultura’? Altre, ancora camuffate, ombrate, tradotte. Ci sono dei concetti che hanno guidato la scrittura di Acerbo e divorato, immaginandolo ancora come un disco di formazione. L’anima bella di Hegel, per esempio, è una figura che non scocca, non cade, non urta, non vive. Ho preso questo ritratto e indossandolo ho cercato di scardinarlo. Stessa cosa con la poesia della Ruggeri, nell’idea che una metafora per la crescita possa essere l’andare, il numero zero, l’inizio. In particolare nel primo brano del disco, Il Matto, avevo il desiderio di ridare voce a quei versi meravigliosi che aprono la raccolta inferno minore di Claudia Ruggeri.  Mi servo di strategie labirintiche per il lavoro sui testi, in maniera analoga a come avviene nel sampling e nell’elaborazione dei frammenti audio. È un processo simile, che porta alla composizione di significati attraverso un sistema di citazioni che volendo si svela, indica un disegno nuovo sul tappeto.  Cosa leggi? Dimmi: il poeta che continua a folgorarti; la poesia che hai tatuata nella cosa detta cuore.  Tornando da casa penso a una poesia di Carlo Bordini. Lui si guarda allo specchio ed è sicuro che i suoi non lo abbandoneranno mai, ritrovandone i lineamenti, i modi.  Ma quella che mi buca il cranio è “Se sinistramente ti vidi apparire…” da Documento di Amelia Rosselli.  Esiste l’anima? Che cos’è? A dodici anni mi è capitato di percepirne la sede: è come un’intercapedine sotto pelle, che divide la cute dal resto, dall’interno organico del corpo.  Cosa c’è dopo la morte? La ricombinazione dei miei vecchi atomi di carbonio. Confidi in qualcosa, ti arrocchi in qualche fede? No, ma credo molto nel lavoro su di sé, pensato come educazione all’equilibrio. La gratitudine che provo in alcuni momenti della vita mi porta ad uno stato simile alla fede, acceso e sincero. Qual è la tua bestia araldica, a protezione? Da cosa, poi, bisogna proteggersi? Proteggersi da quasi tutto, ma il mio trucco è giocare sulla velocità. La creatura che mi accompagna è il colibrì, certe volte – all’apice – il falco. Esseri leggeri, esseri record in velocità. Stai scrivendo – cosa? Ho passato l’estate a scrivere un disco nuovo, un insieme di brani che ho in parte suonato a lungo dal vivo, ora cerco un modo di fermarli, per farne un album. Vorrei assumesse la flessibilità di una lamina metallica che oscilla. Saranno sistemi elettrici, arteriosi. Sto lavorando anche a un progetto in duo, con un’amica performer e autrice, Eugenia Delbue. Ci chiamiamo ETEREA NOISE e uscirà presto il nostro primo album, versante sonoro dello spettacolo che ha nome Radio Tunnel, per Zoopalco-Zpl, etichetta bolognese di spoken music. ** I.Teatro Cava / Ferina Lavo i denti allo specchio con gli occhi sgranati come per prepararmi all’ammutinamento senza sapere da che parte sto senza pregarti a sangue di non cadere dalla trave. Immagino una scena scavata dentro ad un grande pezzo di tufo dove mi hanno promesso che ti potrò assalire la tana è profonda. * ho mangiato l’uva raccolta ho guardato nel centro del sole e non vedendo ho puntato il dito per caso di nuovo contro di te II. C’è una grande quantità di cadaveri di rana sulla strada che porta da un paese a un altro, attraversano l’asfalto e non sempre arrivano dove devono. Descrivere è implicito capire. Ore che ho contato, ora che – uno ad uno – i fili d’erba le attraversano, nel disordine che sembra sempre senza rimedio, un pensiero oltrepassa queste parole: sono questi i momenti in cui mi sento particolarmente piccola.  * III. Reset aspetto finché non cala aspetto finché non cade aspetto finché non cedo finché non cala finché non cedo  fino alla fine del fiato al tuo tempo diverso – più veloce a un certo punto coincide: arrivo a parlarti per davvero umidità tocca corrente. Attraversando la macchia mediterranea vicino al mare e dalle parti di Torre Chianca, raccogliamo asparagi selvatici e mi racconti che le centrali telefoniche, ai tempi tuoi, erano grandi quanto edifici. Quando non sono più servite, sono state vendute a venticinque lire al chilo e tu hai cambiato lavoro.  I blocchi relè, pieni di contatti, sono stati smontati e fatti passare uno a uno lungo un nastro.  Un magnete attraeva a sé i materiali preziosi: il rame, l’ottone, l’oro. Si tratta di cercare un modo in cui la traccia continua e scava i segni: pensieri-correnti, che a lungo frequenti: linee su linee nel cranio che prendono e mantengono una consistenza: una stanza da abitare in piedi e così piena da non chiedere agli arti di tenerti. La traccia continua, descrive un comportamento probabile: un mondo piccolo, personale, in cui la storia arriva come un sedimento: una ricerca dell’oro, per equivalerlo. Camminiamo, e non ti lamenti del caldo alla testa. Attraversando una rete si accede alle zone in cui la costa scogliosa viene segnata in superficie da piccole faglie continue: ogni goccia che cade disegna – graduale – le aree dove tra un po’ lo scoglio cederà.  Ci facciamo sismografi, geologi, trekker, ma ci troviamo spesso a camminare lì sopra, i nostri scogli li conosciamo. Tu una volta sei caduto, ti sei rotto il naso e dici che da allora respiri meglio.  Non posso scappare se l’allerta arriva insieme al crollo,  cosa corro a fare con la caviglia che mi ritrovo? Cosa corro a fare? Aspetto finché non cado, fino alla fine del fiato, al tuo tempo diverso, più veloce. *In copertina: Vipera in un ritratto fotografico di Clarissa Lapolla L'articolo “Finché non cado, fino alla fine del fiato”. Dialogo con Vipera proviene da Pangea.
September 22, 2025 / Pangea
“Non uccidere alcun essere vivente. Astenersi dal mentire”
Nato a Strasburgo nel luglio del 1856, Léon Wieger avrebbe dovuto percorrere la stessa carriera del padre, insigne professore di medicina all’università. I genitori lo avevano adornato di un paio di altri nomi – Georges e Frédéric –; il ragazzo, per devozione, si iscrisse a medicina. Resistette per un biennio: folgorato da Cristo, entrò come novizio nei ranghi della Compagnia di Gesù a ventiquattro anni. Compì l’addestramento a Drongen – Tronchiennes in francese –, nelle Fiandre, presso l’antica abbazia benedettina passata da poco, dopo alterni disastri, ai Gesuiti. Ordinato sacerdote nel 1887, Wieger volle impiantare il suo estro ‘scientifico’ nel cuore dell’ordine; ad ogni modo, preferiva avventarsi: quello stesso anno, partì per la Cina, presso la diocesi di Xianxian, nella provincia di Hebei, non lontano da Pechino. Non fece più ritorno in Europa. La diocesi era stata eretta da papa Pio IX una trentina di anni prima, affidandola ai missionari gesuiti. Lì Léon Wieger espresse il suo genio: imparò il cinese, andò a caccia di testi perduti, tradusse in francese i libri della tradizione taoista e buddista. Morì, dopo una vita di studi più che di apostolato, nel marzo del 1933, in Cina.  “I suoi lavori, destinati ai missionarî, sono guide talvolta indispensabili, per gli studiosi europei, per lo studio della scrittura, della lingua, della storia, delle credenze religiose e delle opinioni filosofiche della Cina”. Così scriveva Giovanni Vacca (1872-1953), che con Wieger condivideva la passione per la scienza – era stato assistente di Giuseppe Peano – e per la sinologia – occupò la cattedra di Storia dell’Asia a Firenze poi a Roma. A Wieger dobbiamo studi su Les pères du système taoïste (Laozi, Liezi, Zhuangzi), stampato nel 1913, e sul Folklore chinois moderne (1909); compilò uno studio sulla Histoire politique de la Chine (1929). A dire – come diceva Ezra Pound – della necessità di studiare la Cina; a dimostrazione che l’uomo ‘occidentale’ – brutto & cattivo che sia –, nella sua essenza, più che piegare, comprende, più che piagare, studia. Non si tratta di ‘illuminati’, per altro: era il buon senso ‘pratico’ a fare di Léon Wieger un formidabile scopritore di testi perduti. I suoi libri vengono ancora ciclicamente ristampati in Francia.  Erano anni, tra l’altro, in cui tutto un mondo era attratto verso Est, verso quell’attraversamento, alla ricerca di una sapienza remota, definitiva. Penso alla traduzione dell’I-Ching a cura del missionario tedesco Richard Wilhelm (1929), agli studi sul Tao Te Ching di Arthur Waley (1934; ma la prima traduzione inglese è del 1868, del missionario scozzese John Chalmers), alle esplorazioni di Giuseppe Tucci in Tibet, negli anni Trenta, agli studi dell’orientalista statunitense Ernest Fenollosa (morto a Londra nel 1908) ereditati da Pound. Ma anche, ai ‘tentativi’ verso la Cina di Lev Tolstoj, studioso di buddismo e taoismo. Un intero mondo intellettuale, per oltre un secolo, si è mosso e ha studiato nell’estremo Oriente. La Chinoiserie si riversò nel pensiero occidentale, conferendogli ‘leggerezza’: Mario Novaro, il poeta ligure che si era specializzato sull’opera di Giordano Bruno, realizzò nel 1922, per Carabba, una folgorante traduzione di Zhuāngzǐ con Acque d’autunno.  In particolare, qui, m’importano i volumi che Wieger ha dedicato al Bouddhisme chinois (1910; 1913; poi pubblicati da Les Belles Lettres nella serie “Textes de la Chine”), cioè sulle “Vie cinesi del Budda”.  > “Il Buddhismo primitivo, quello professato dal Buddha, non fu un sistema > originale. Emerse, per reazione e per adattamento, da sistemi religiosi > precedenti. Il Buddha fu il primo a proporre la liberazione a ‘uomini e donne > dediti al bene’, a tutti gli uomini di buona volontà, fossero analfabeti, > diseredati o gente comune. Questo rese il Buddhismo tanto celebre. La > religione vedica, il Sạ̄mkhya, lo Yoga erano rivolti a una ristretta élite. La > folla si precipitò entro la porta spalancata della nuova legge. Pur incerto > nella dottrina, il Buddhismo fu accolto, il primo luogo, grazie all’influenza > del suo fondatore, un uomo nobile e buono, dal fascino singolare. Si diffuse, > poi, perché offriva ai declassati, agli emarginati, ai paria, tramite uno > stile di vita semplice e immediato, una speranza di salvezza. In mancanza di > meglio, il Buddhismo soddisfò per secoli molte anime elette, stanche dei vani > sofismi della filosofia del tempo e innumerevoli uomini, desiderosi di pace e > giustizia”. > > Léon Wieger, Bouddhisme chinois, tome I : Vinaya, Monachisme et Discipline. > Hinayana, Véhicule inférieur, 1910 In particolare, abbiamo qui tradotto due brevi testi che riguardano l’accoglienza di un adepto laico e di un novizio nella comunità monastica. Il rito pertiene a due scuole buddhiste in particolare: quella Sarvāstivāda e quella legata a Dharmagupta.  Al di là delle norme previste – comprensibili anche a un bimbo, da far risuonare, proprio oggi, sì, ora, da urlare, a credito di secoli che altrimenti non sono che sabbia e scolo, insieme alle parole del Nazareno redatte da Luca: “amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male… non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati” (6, 27-38) – è il linguaggio a persuadere. Parole che implicano una pratica, un patto – parole che esigono di essere esaudite. Cosa vuol dire? Che bisogna fare i conti con questi concetti: milizia, obbedienza, lotta. Parole che alimentano la guerra interiore, non quella esteriore, che implicano il perfezionamento personale – o quanto meno, l’equilibrio, la summa della propria inquieta quiete. Già: l’uomo, di per sé, si sa, è malvagio, è agito da un senso – più o meno violento – di sopraffazione. Questo scintillio d’ira, tuttavia, può volgersi al bene se condotto nei ranghi della pratica interiore. Le parole non domano l’uomo, lo rendono autenticamente indomabile – se ne svolgiamo il frutto. Come un seme, la parola deve spezzarsi – la parola va sguainata. Messa a pratica di scherma, senza schemi.   Eppure, prima di tutto, occorre votarsi. Invocare il voto. Non più vociferare ma: essere voce. Vocalizzare il voto. Governare il tempo e lo spazio (cioè: il corpo e la mente, io e mondo, mondo e immondo) per precisare il compito. Questo significa: parola vivente, parola sigillo, farsi ingaggiare dalla promessa.  Rileggo ancora – ancora – le parole di Scipione, il grande pittore & poeta: > “Bisogna cristallizzarsi, costringersi nel ritmo giusto… Vivo nel voto, più > leggero, sicuro, quasi sereno… Fare un voto in assenza è aspettare… Quando si > scioglierà il voto si scioglierà la mia commozione”. Era il marzo del 1932; raso al suolo dalla tubercolosi, Scipione morirà l’anno dopo, ad Arco, il paese di Giovanni Segantini. Enrico Falqui, raccogliendo i fogli di Scipione per Vallecchi, scrisse di “parole che echeggiano dentro di noi”, che “ce ne resta inibito ogni commento”.  È proprio questo, alienando confini geografici e cronologici: ambire all’inibizione, non più commentare ma incamminarsi, e far grano di questo echeggiante dire – fino all’annunciazione dei corvi: assai azzurri benché li si continui a dire neri.  *** Accoglienza di un adepto laico a vita I cinque precetti  [Testo tratto da un rituale di scuola Sarvāstivāda] Quando un laico si presenta in monastero chiedendo di fare la professione di fede e di abbracciare i Cinque precetti, viene prima indottrinato riguardo alla vita del Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Gli viene poi insegnato a flettere le ginocchia, a congiungere le mani e a pentirsi di tutti gli eccessi commessi in pensieri parole azioni. Quindi, davanti al capitolo riunito, il maestro di cerimonia gli fa pronunciare la professione di fede: “Da questo giorno in poi, io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine”.  Il candidato ripete questa formula per tre volte. Quindi, dopo che il rito ha prodotto il suo effetto, continua: “Io, X., mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. Chiedo con gioia di abbracciare i Cinque precetti dei laici, secondo la dottrina di Buddha Sākyamuni. Lo dico perché tutti lo sappiano”.  Il candidato ripete questa formula per tre volte, finché il maestro di cerimonia non dice: “Ascolta attentamente! Questo capitolo di adepti del Virtuoso, il Buddha Sākyamuni, il Tathagata, colui che è venuto, ti annuncia, per mio tramite, i Cinque precetti che i seguaci sono tenuti a osservare per tutta la vita. Ecco i Cinque precetti: 1 Non uccidere alcun essere vivente. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso) 2 Non appropriarsi di nulla che non ti sia donato. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso) 3 Vietarsi ogni immoralità. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso) 4 Astenersi dal mentire. Questo comprende molte conseguenze. Sarai in grado di sopportarle? (Il candidato risponde: Posso) 5 Non bere liquori fermentati. Tutti i liquori rientrano in questo divieto, che siano estratti dal grano, dalla canna da zucchero o dall’uva, poco importa. Ciò che inebria è proibito. Riuscirai a osservare questo divieto? (Il candidato risponde: Posso) * Accoglienza di un novizio I Dieci precetti  [Testo tratto da un rituale di scuola Dharmagupta] Rivolgendosi al capitolo, il maestro di cerimonia presenta il candidato e dice: “Venerabile capitolo, vi chiedo di poter radere il capo alla persona che vi presento. Se il capitolo lo ritiene opportuno, che i capelli del candidato vengano tagliati”. Dopo aver rasato la testa al candidato, il maestro di cerimonia continua: “Venerabile capitolo, la persona che vi presento chiede di lasciare la sua casa e la sua famiglia e di unirsi al monaco scelto come padrino. Se il capitolo lo ritiene opportuno, conceda al candidato la possibilità di lasciare la sua famiglia”.  Dopo il consenso del capitolo, il maestro designato a istruire il novizio gli fa scoprire la spalla e il braccio destro, gli chiede di togliersi le scarpe, di piegare il ginocchio destro e di alzare le mani giunte. In questa posizione il candidato pronuncia questa formula per tre volte: “Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha, lascio la mia famiglia. Riconosco X. Come mio maestro. Il Tathagata, Colui che è venuto, il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia venerazione”. Ritenendo che questa formula abbia prodotto il suo effetto, il postulante, ancora in ginocchio e con le mani giunte, dice per tre volte: “Mi affido al Buddha, alla sua Legge, al suo Ordine. A imitazione del Buddha, lascio la mia famiglia. X. Sarà mio maestro. Il Tathagata, Colui che è venuto, il Veritiero, e tutti gli Illuminati sono oggetto della mia venerazione”. Il maestro recita dunque al novizio, articolo per articolo, i Dieci precetti. 1 Non uccidere, mai. Questo è il primo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 2 Non rubare, mai. Questo è il secondo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 3 Non fornicare, mai. Questo è il terzo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 4 Non mentire, mai. Questo è il quarto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 5 Non bere vino, mai. Questo è il quinto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 6 Non adornarsi il capo di fiori, non ungere il corpo di profumi. Questo è il sesto precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 7 Non cantare né ballare, mai, come fanno attori e cortigiane. Non assistere mai a spettacoli simili, non ascoltare canzoni simili. Questo è il settimo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 8 Non sedersi mai su un seggio elevato, su un divano spazioso. Questo è l’ottavo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 9 Non mangiare mai oltre l’orario consentito, dall’alba al tramonto. Questo è il nono precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] 10 Non toccare oro o argento, mai, né gioielli preziosi. Questo è il decimo precetto. Ti senti abbastanza forte da osservarlo? [Il postulante risponde: Lo osserverò] Questi sono i Dieci precetti dei novizi che non dovrete violare fino alla morte corporale. Puoi osservarli? Li osserverò.  Così si conclude la regola: “Poiché ti sei sottomesso ai Dieci precetti, osservali con rispetto, non violarli mai. Onora il Buddha, la Legge il suo Ordine. Rispetta il tuo maestro e tutti coloro che ti daranno degli insegnamenti secondo la regola. Non mancare mai alla dovuta sottomissione. Rispetta i monaci, tutti, con tutto il cuore, sforzati di imparare da loro, per il tuo bene, a meditare, a recitare, a studiare. Ti aiuteranno a raggiungere la felicità, a evitare la via dell’espiazione (l’inferno, la vita famelica, la reincarnazione animale). Ti apriranno le porte del nirvana. Se pratichi le regole dei novizi poi quelle dei monaci, otterrai i quattro frutti del tuo stato, i quattro gradi della liberazione (il quarto dei quali, quello di arhan, assicura il nirvana dopo la morte)”.  L'articolo “Non uccidere alcun essere vivente. Astenersi dal mentire” proviene da Pangea.
September 20, 2025 / Pangea
Per un’estetica della scomparsa. Su Robert Walser, il santo patrono dell’insignificante
Un passo lieve, la strada sfiora una suola in una mattina come le altre; un uomo lascia il suo scrittoio per abbandonarsi al ritmo dei marciapiedi, alle preghiere dei vicoli che urlano monotonia. Dove comincia il senso delle cose? Nella vastità dei palazzi o nella piega di un fazzoletto? A volte è difficile gestire una trama quando, nel senso tradizionale, è di fatto inesistente: racconto senza intreccio, svolgimento o epilogo; solo un io narrante che decide, in un giorno qualunque, di uscire a passeggiare. Come se fosse un diario, una confessione, una divagazione, Robert Walser crea un cammino che non porta da nessuna parte. La meta non conta, è il vagare stesso, il farsi condurre dall’invisibile. > “Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del > genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti > di passata librai e funzionari di banca […] Eppure ciò può avvenire, e io > credo che in realtà sia avvvenuto.” Il protagonista – che altri non è se non un alter ego dell’autore – si fa minuscolo per poter ingigantire il mondo. L’estetica del dettaglio diviene cosmologia: la cravatta osservata distrattamente, la tenda che ondeggia, la voce ironica di un banchiere; l’atomo è cosmo, il dettaglio cattedrale. La prima versione de La passeggiata, oggi edita nella versione italiana da Adelphi, nasce nel 1917, tra le macerie di un’Europa ferita, destinata a confondersi tra i rumori della storia e a brillare solo per chi sa fermarsi e ascoltare la musica di sottofondo. Mentre i cannoni dettano il ritmo del continente, Walser scrive il suo vangelo minore, trasformando l’ordinario in epifania. La vita di Walser è dello stesso tessuto fragile del suo libro. Nato nel 1878 a Bienne, ultimo di una lunga schiera di fratelli, cresce in una Svizzera periferica, discreta come lui. Lavora come impiegato, servitore, copista; mestieri umili che lo avvicinano più ai margini che al centro. Pubblica racconti e romanzi, alfabeti ridotti a pulviscolo, che incantano giganti come Kafka, Musil, Canetti, Benjamin. Ma non cerca la ribalta. Walser preferisce dissolversi nella sua lingua minuta, che un giorno diverrà davvero microscopica, nei famosi microgrammi, fogli fittissimi di scrittura minuscola come polline. La sua estetica definitiva è scomparire. Non lasciare monumenti, ma tracce. Non statue, ma impronte di passi sulla neve. > “Ero disperato. Sì, in realtà io non avevo più nulla da dire. […] Spento, > estinto come una vecchia stufa. […] Andò a finire che mia sorella Lisa mi > portò nella clinica Waldau. Ancora davanti alla porta d’ingresso le chiesi se > quello che facevamo era giusto. Il silenzio di lei mi bastò. Che altro mi > rimaneva se non entrare?” Dal 1933, la sua esistenza si ritira nei sanatori con una prima diagnosi di schizofrenia, poi mai riconfermata. Da quel momento inziano ventiquattro anni di silenzio, trascorsi in istituti psichiatrici tra Berna e Appenzell, dove scrive sempre meno fino a smettere. Walser muore il giorno di Natale del 1956, in un campo di neve, riverso nel bianco durante una delle ultime passeggiate. Le fotografie ne immortalano le orme e, più avanti, il corpo, avvolto in un mantello nero, solo, pervaso dalla voglia di scomparire nel nulla. > “L’inizio e la fine si stringono la mano sorridendo. Apparire e scomparire > sono una cosa sola”. Sappiamo bene che ogni autore ha la sua unità di misura; Walser con questo racconto compone un’anti-epopea del quotidiano. Laddove i grandi romanzi dell’Ottocento si dilatano in trame ciclopiche, lui restringe la lente fino a cogliere il tremolio di una foglia o il sorriso sbiadito di un libraio. Non dominare il mondo così da farsi sorprendere da esso. > “Molte volte l’apparenza inganna, e l’esprimere un giudizio su qualcuno è > meglio lasciarlo a lui stesso, giacchè un uomo che ne abbia vissute di tutte > si conosce più a fondo di chiunque altro.” È nel granello che si apre la più grande figura retorica che governa La passeggiata: l’iperbole dell’infinitamente piccolo, dove un ciuffo d’erba può valere più di un impero. Walser ricama la città, la miniaturizza, come se ogni parola fosse un punto di ago su di un tessuto di brina. Lì dove altri autori vedono un fondale, lui scorge un oceano. C’è inoltre una retorica della leggerezza, in Walser, che tuttavia non scivola mai nella frivolezza, anzi. La sua è una leggerezza gravosa, come un palloncino che porta in sé il peso della malinconia. Le sue immagini e i suoi personaggi, cesellati e ironici, sanno trasformare la passeggiata in un pellegrinaggio laico, un atto di fede nell’insignificante. > “Quando mai c’è stata un’anima che senza nulla sacrificare, abbia visto > compirsi ogni sua ardita ispirazione, ogni dolce, sublime idea di felicità?” Il narratore, pur occupando la scena, non è mai davvero protagonista. Walser adotta una postura di auto-svanimento; egli parla, osserva, descrive, ma sempre con una modestia che lo dissolve. È un io che si offre e si ritira, che si mostra per rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe occulto. Le sue frasi sono sentieri che non portano a lui, ma al paesaggio. Sono scale che salgono non verso l’autore, ma verso la brezza che le attraversa. Le frasi, lunghe, sinuose, sono esse stesse passeggiate; divagano, si perdono, deviano, ritornano. Non sono mai rette, bensì curve, avvolgenti, labirintiche. È la periodicità serpentina di una scrittura che preferisce l’ombra alla luce diretta, l’allusione alla dichiarazione, il sorriso ironico al tono assertivo. > “Sono pronto a riconoscere che la nautra e la vita umana mi appaiono come > tutta una fuga non meno seria che affascinante di accostamenti, fenomeno che > ritengo sia da giudicare bello e fecondo.” Non a caso, Walter Benjamin trova in Walser l’esempio della teologia del minuscolo. L’opera di Walser sembra manifestare una politica della riduzione che Benjamin teorizza a suo modo nelle Passagen-Werk. Entrambi sono attenti al frammento come luogo rivelatore della storia. Per Benjamin la vetrina, la réclame, il frammento urbano custodiscono la storia materiale; per Walser ogni frammento custodisce una cosmologia privata. Benjamin e Walser convergono nell’idea che l’attenzione al marginale apre una conoscenza antigerarchica; il particolare diventa lente per leggere il generale. Tuttavia qui la prassi diverge – Benjamin indaga il politico e lo storico in quelle fessure; Walser li trasforma in esperienza estetica e morale, in modo meno teorico e più lirico. Il loro incontro è fecondo perché mostra come il frammento funzioni come vettore critico e come sublime ridotto. L’opera di Walser, però, incontra anche altre ombre discrete. Come nei Saggi di Montaigne, anche qui la divagazione è forma di verità, metodo. Montaigne scivola da un aneddoto a un ricordo, costruendo un io curioso, sfaccettato; Walser, nei suoi passi, porta la stessa pratica al limite della sparizione. Dove il francese si moltiplica, lo svizzero si riduce.  Inoltre, dietro la leggerezza, affiora il passo come terapia, il camminare come rimedio contro l’angoscia. Søren Kierkegaard percorreva le vie di Copenaghen per non soccombere alla disperazione; in Walser si ritrova la stessa intuizione: il movimento fisico come salvezza esistenziale. Solo che qui la cura non nasce da una scelta tragica, ma dalla sospensione stessa della scelta, dal balsamo del piccolo. Non a caso, a Herisau, luogo della morte di Walser, è stato inaugurato un sentiero dedicato a lui (Robert Walser-Pfad). > “Non perdete il desiderio di camminare; ho camminato fino ai miei migliori > pensieri, e non conosco pensiero così gravoso da cui non si possa camminare > lontano. […] Più si sta seduti, più ci si avvicina a sentirsi male. Salute e > salvezza si possono trovare solo nel movimento… se uno continua a camminare, > andrà tutto bene.”  > > Søren Kierkegaard In un’epoca che idolatra velocità, risultato e rumore, Walser è il santo patrono del rallentare. Il suo libro è un vero e proprio manuale di invisibilità; ci mostra come svanire per poter finalmente vedere. Ci insegna a essere distratti con cura, a perdere tempo come forma suprema di attenzione. È un inno alla lentezza, al vagare, al lasciarsi trasportare. Un invito a guardare i dettagli dimenticati, a riconoscere la grandezza nel piccolo, a vivere come perdersi. Walser compone dunque un’elegia al dettaglio, una litania dell’insignificante. Il suo libro è fragile come il vetro, e dunque incorruttibile come la verità. Solo chi si fa piccolo può toccare l’infinito, ma allora chi tocca veramente la realtà, chi guarda o ciò che viene guardato? Tommaso Filippucci L'articolo Per un’estetica della scomparsa. Su Robert Walser, il santo patrono dell’insignificante proviene da Pangea.
September 19, 2025 / Pangea
“Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti”. Il poeta e il politico
La categoria del ‘politico’ è propria della poesia italiana, dal punto di vista simbolico – le invettive di Dante che scandiscono la Commedia, i sonetti ‘babilonesi’ di Petrarca, ad esempio – come da quello esistenziale. I poeti italiani, quando ancora l’Italia era un’idea, un pullulare di principi e di principati, erano assunti a corte, esercitavano mansioni di funzionari nei nascenti comuni. Così – per dire – Iacopo da Lentini, “il Notaro”, operava presso la corte di Federico II e Ludovico Ariosto si dimostrò abile amministratore in Garfagnana, per conto dagli Este.  Ciò non vuol dire che il poeta sia per forza un cortigiano. È vero, il potente ha bisogno del suo eloquio, del poema encomiastico, per lo più didascalico, esornativo – ma è pur vero che il poeta, se tale è, va a briglia sciolta, impenna il senno; benché possa essere animato da scaltrezza (che significa: giustezza d’intenti; figura dell’altro mondo che si adopera nel mondano) non si fa maculare dai lacchè. Il Malatesta aveva bisogno di un aedo, Basinio da Parma, che giustificasse le sue gesta; pur al soldo dei Medici, Angelo Poliziano conserva un’eminenza intellettuale che lo obbligherà all’esilio – d’altronde, la via ‘notturna’ della poesia italiana ha il suo zenit nel Tasso messo ai ceppi a Sant’Anna. La “Raccolta aragonese” voluta da Lorenzo de’ Medici dimostra che la poetica, la questione della lingua, è una branca della politica.  Certo, occorre non inquinare le fonti. Il rapporto tra poesia e politica non si regola nella poesia declamatoria, né nella poesia ‘civile’ – al contrario, il poeta è l’incivile del linguaggio, compie atti di brigantaggio linguistico contro la lingua imposta dal potere. Secoli di ‘impegno’ – pensiamo alla poesia risorgimentale italica – hanno prodotto una poesia esangue benché piena di urla, capace di infiammare gli animi, semmai, ma il cui fuoco lirico si è presto spento. Un conto è l’ardore di Ugo Foscolo o l’audacia di Vittorio Alfieri, altro il rovistar per peana del garibaldino Francesco Dall’Ongaro o i pur sapidi sketch di Vincenzo Riccardi di Lantosca (esempio, Dio, Patria, Famiglia: “Patria, ossia quei pochetti sicuretti; Famiglia,/ quel tanto della propria moglie, che uno si piglia;/ quanto a Dio ci s’intende che noi s’intende il prete”). Il ‘disimpegno’ esibito, disinibito, d’altro canto, ha prodotto tonnellate di bigiotteria lirica. Eppure, ogni potere, per fondarsi – non ho detto celebrarsi –, ha bisogno del poeta. Anche in questo caso, da un lato ci sono i bardi del bene comune, i boiardi dell’opportunismo verbale, dall’altra il poeta, l’inafferrabile. Ogni nazione si fonda sul poeta perché il suo linguaggio feconda il futuro, è motivo di avvenire, è ragione di esistenza; altresì, si affida al burocrate. L’Italia è Giacomo Leopardi più che Goffredo Mameli, giovane martire delle lotte risorgimentali. La Russia fonda il suo essere su Aleksandr Puškin e su Boris Pasternak, non certo su Nikolaj Tichonov, poeta tribunizio, più volte premio Stalin, deputato dei Soviet.  È interessante perché al contempo il poeta fonda la natura politica della propria nazione, e nello stesso tempo – in forza della sua assolutezza, della sua incoercibile singolarità – la disintegra. L’uno e il tutto, la costruzione e la distruzione si coagulano senza sintesi nel corpo lirico del poeta: che è per questo offerto.  Il Novecento è stato un secolo di profeti inascoltati, di poeti dal potente ardore ‘politico’ messi diversamente a tacere – penso a Ezra Pound, ovviamente, ma anche a Iosif Brodskij e a Hugh MacDiarmid, il paladino dei nazionalisti scozzesi, l’Omero dello scots. Soltanto in William Butler Yeats, magicamente, misteriosamente, la figura del poeta coincide con quella del ‘padre della patria’: l’Irlanda esiste perché un poeta mitografo e allampanato ha detto di una small cabin sulle sponde del lago Innisfree. Per molto tempo, più di altri poeti, Robert Frost ha incarnato l’identità autentica degli Stati Uniti d’America: è ancora così? Attorno a quale poeta vivente, oggi, riconosciamo la nostra identità? Quando una nazione perde memoria dei suoi poeti, perde se stessa. Ad oggi, i poeti cantano di rose e di passeggere indignazioni, sono i macchinisti di versi concettosi, sono troppo intelligenti, fanno del proprio ombelico la sola patria.  Ricevendo il Nobel per la letteratura, era il 1959, Salvatore Quasimodo volle affrontare la questione de “Il poeta e il politico”. Indipendentemente dalla poesia di Quasimodo – espressa tra Saffo e il Pci – quel discorso, a tratti enigmatico, ha ragione di fascino. Quasimodo distingue il poeta – che agisce il ‘politico’ alla greca, come una categoria della ribellione, ovvero dell’indomabile – dal letterato, che è poi il retore, il portaborse del potere.  > “Il poeta è solo: il muro di odio si alza intorno a lui con le pietre lanciate > dalle compagnie di ventura letterarie. Da questo muro il poeta considera il > mondo, e senza andare per le piazze come gli aedi o nel mondo ‘mondano’ come i > letterati, proprio da quella torre d’avorio, cosi cara ai seviziatori > dell’anima romantica, arriva in mezzo al popolo, non solo nei desideri del suo > sentimento, ma anche nei suoi gelosi pensieri politici”. È nell’esplicita distanza – quando non: lotta – con il potere che si esprime la ‘poetica della politica’ del poeta. Di questa libertà – che è: liberarsi dal giogo della lingua del potere, imponendo un verbo nuovo, nuovamente innocente – il poeta è il terribile portavoce.  > “Il poeta è un irregolare e non penetra nella scorza della falsa civiltà > letteraria piena di torri come al tempo dei Comuni; sembra distruggere le sue > forme stesse e invece le continua; dalla lirica passa all’epica per cominciare > a parlare del mondo e di ciò che nel mondo si tormenta attraverso l’uomo > numero e sentimento. Il poeta comincia allora a diventare un pericolo. Il > politico giudica con diffidenza la libertà della cultura e per mezzo della > critica conformista tenta di rendere immobile lo stesso concetto di poesia, > considerando il fatto creativo al di fuori del tempo e inoperante; come se il > poeta, invece di un uomo, fosse un’astrazione… Nel mondo contemporaneo il > politico assume vari aspetti, ma non sarà mai possibile un accordo col poeta, > perché uno si occupa dell’ordine interno dell’uomo e l’altro dell’ordinamento > dell’uomo… Oggi il poeta è libero? È libero, secondo le società che lo > esprimono, o il continuatore di illuminazioni pseudo-esistenziali, il > decoratore dei placidi sentimenti umani, o chi non scende profondamente nella > dialettica del proprio tempo per timore politico o per inerzia”. Cinquant’anni prima, in un saggio su Il poeta e il nostro tempo, Hugo von Hofmannsthal scriveva che misteriosamente il poeta, l’inerme, l’assoluto sconosciuto, il paria ai più, “è il luogo in cui le forze del tempo tendono ad equilibrarsi”; scrive che “è come se i poeti lavorassero all’unisono alla costruzione di una piramide, all’immensa dimora di un re defunto o di un dio non nato”, capaci di “creare l’accordo accettabile di tutto quanto si manifesta”. Ecco che il politico sfocia quasi nel teologico. Il Regno di questo mondo; “Il mio regno non è di questo mondo”.  Poi, certo, il vero compito politico del poeta è creare uno spazio di grazia e di bellezza quando tutto intorno è orrore, è morte. Confidare nella bellezza nonostante l’orrore e la morte. Quando la morte – che non ha l’ultima parola – avrà smesso di urlare, esisterà, per i sopravvissuti e i futuri, uno spazio di grazia e di bellezza. Un fuoco. Non per forza gradevole né confortevole, ma buono.  Per il resto, è prova dell’integralismo lirico del poeta la capacità di imprecare in versi. Quando è troppo, bisogna sobillare le Sibille del linguaggio, tramutare il verbo in Erinni. Al di là di isolati, alati esempi – “Muore ignominiosamente la repubblica”, Mario Luzi – la poesia più violenta, in questo senso, priva di orpelli poetici, quasi integralmente politica, integerrima, è Show, di Giorgio Caproni, che apre la sezione “Anarchiche o fuori tema” del libro postumo Res amissa (1991); libro in cui – scrive Giorgio Agamben – “la disappropriata maniera di Caproni”, “ha raggiunto ormai una regione sempre al di là del proprio e dell’improprio, della salvezza e della rovina”. È da questo non chiedere approvazione, da questo inappropriato, da questa rovina in cui tutto è salvo – cioè infinitamente finito – che si riparte – anzi, si vagabonda, dacché è lo sciacallo e la libellula, ora, l’icona del poeta. (Che Show stia anche per sciò è perfino ovvio marcarlo: sciò, sciò, fuori tutti, galletti del potere). ** Show Guardateli bene in faccia. Guardateli. Alla televisione, magari, in luogo di guardar la partita. Son loro, i “governanti”. Le nostre “guide”. I “tutori”  – eletti – della nostra vita. Guardateli. Ripugnanti. Sordidi fautori dell’“ordine”, il limo del loro animo tinge di pus la sicumera dei lineamenti. Sono (ben messi!) i nostri illibati Ministri. Sono i Senatori. I sinistri – i provvidi! – Sindacalisti. “Lottano” per il bene del Paese. Contro i Terroristi e la Mafia. Loro, che dentro son più tristi dei più tristi eversori. Arrampichini. Arrivisti. In nome del Popolo (Avanti! Sempre Avanti!), in perfetta Unità arraffano capitali – si fabbricano ville. Investono all’estero, mentre “auspicano” (Dio, quanto “auspicano”) pace e giustizia. Loro, i veri seviziatori della Giustizia in nome (sempre, sempre in nome!) del Dollaro e dell’Oro. Guardateli, i grandi attori: i guitti. Degni  – tutti – dei loro elettori. Proteggono i Valori (in Borsa!) e le Istituzioni… Ma cosa si nasconde dietro le invereconde Maschere? Il Male che dicono di combattere?… Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti. Giorgio Caproni Da G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1999 *In copertina e nel testo: opere di David Lynch L'articolo “Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti”. Il poeta e il politico proviene da Pangea.
September 18, 2025 / Pangea
Pier Vittorio Tondelli e Marco Pesaresi. Tra nudità e spoliazione
È stato Mario Guaraldi, l’editore rivoluzionario, ad incarnare le fotografie di Marco Pesaresi nelle parole di Pier Vittorio Tondelli. L’edizione di Rimini, “Il romanzo vent’anni dopo”, a cura di Fulvio Panzeri, stampata da Guaraldi nell’estate del 2005, alterna le fotografie di Davide Minghini e i ritratti tondelliani di Fulvia Farassino, alle immagini, prepotentemente spudorate, di Pesaresi. Un colpo di genio paradossale: Tondelli nasce nove anni prima di Pesaresi e muore quando il fotografo riminese ha appena fatto il suo ingresso in Contrasto. È una specie di passaggio del testimone tra generazioni affini e inavvicinabili: Tondelli muore a metà dicembre del ’91, tre settimane dopo Freddie Mercury. La sua morte segna la fine di un’era. La morte di Pesaresi, invece, sempre in dicembre, dieci anni dopo Tondelli, inaugura una nuova era, brutale: l’Undici settembre del 2001, il World Trade Center di New York viene sbriciolato da due Boeing 767; alla guida, un manipolo di affiliati ad Al Qaida. La Storia fa una brusca virata, indossa il sudario.  Da Pesaresi a Tondelli: una specie di inseguimento.  Non c’è sconcezza negli scatti di Pesaresi, ma l’arcana sensazione di vivere nell’ultimo fuoco, un passo prima della cenere. Si passa, cioè, dal gioco al rito: i corpi fotografati da Pesaresi sono corpi donati, sono corpi perdonati, corpi sacramentali. Un rogo di corpi. A volte, ci si spoglia come si indossa un saio – o uno chador. Al contrario, negli anni Ottanta eletti a idolo da Tondelli, i corpi si rovesciano come acqua: uno scroscio di corpi di cui non resta altro che il vuoto, l’eco, il coccio del coccige. Ci si sveste per rivestire un vuoto, il nulla.  I corpi di Pesaresi, i corpi degli anni Novanta, sono corpi noir, sono corpi da notte oscura, corpi che ci falciano come un’accetta. Poco dopo, la mania turistica si sposterà dalle discoteche – Mecca bacchica, il tempio dove si consuma l’estasi, l’uscita da sé, svaginando le Baccanti in ‘cubiste’ – alle sagre, il culto di un amarcord da educande. Anche Tondelli si era accorto, poco prima della dipartita, di questa mutazione dell’essere – la Storia non è rettilinea: è un rettile. Nel 1990, per la mostra “Ricordando Fascinosa Riccione”, PVT scrive un saggio esemplare, Cabine! Cabine!, che raccoglie le “Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica”. In sostanza, pressoché dal nulla, Tondelli fonda un immaginario della riviera, costruisce una poetica della Romagna. In mezzo, ci sono Mussolini e Pasolini, Filippo De Pisis e Raffaello Baldini, Giorgio Bassani e Sibilla Aleramo, ma anche Alberto Arbasino, Mario Luzi, Dante Arfelli, Valerio Zurlini. Su tutto aleggia un senso di disincantato incanto – uno schianto.  Ma torniamo a Rimini. Tondelli giurava di aver scritto “il mio libro più ambizioso”; nelle pubblicità – plateali – Rimini era presentato come “Il romanzo dell’estate”: ne parlarono tutti, non per forza bene. A Enrico Regazzoni, su “Linus” (luglio, 1985), Tondelli disse di essersi ispirato a Raymond Chandler e a Francis Scott Fitzgerald, a Vito Bruno (“Reporter”, 4 giugno 1985) di aver “fatto solo del rock and roll”, a Michele Trecca (sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 28 giugno 1985) che “Esiste un establishment letterario (quello dei premi, delle pagine culturali dei giornali, dei professori, degli accademici) che, accecato dai propri fasti, da una cultura ottocentesca, non riesce a vedere il nuovo, non è assolutamente in grado di vedere il nuovo”. Il nuovo professato da Tondelli spaventò i vecchi mestieranti del verbo. Il 23 giugno del 1985 Pier Vittorio Tondelli avrebbe dovuto partecipare a “Domenica in”, portando Rimini in tivù: l’incontro saltò all’ultimo minuto. I giornali diguazzarono nel torbido (così la “Gazzetta di Reggio”: Tondelli censurato a “Domenica in”. Sesso e politica fan paura alla Rai; e poi: Pippo Baudo censura Tondelli); Tondelli denunciò l’infamia: “Nonostante uno degli autori di «Domenica in» avesse accettato, dopo la solita trattativa, di ammettere il romanzo alla presenza del faraone [Pippo Baudo; N.d.R.], nonostante un capostruttura della Rete avesse per tre volte ribadito la presentazione in base agli intrinseci valori del romanzo, all’ultimo momento pare che sia intervenuto il direttore della rete, o chi per lui, per bloccare la presentazione. Motivo ufficiale: come non presentiamo film vietati ai minori, così facciamo con i romanzi. Più probabilmente, si dice, la storia della misteriosa morte del senatore cattolico (la parola democristiano non viene mai fatta nel libro) e alcune sequenze erotiche hanno turbato i dirigenti televisivi così come nell’80 Altri libertini turbò l’allora magistrato de L’Aquila Bartolomei, fino a spingerlo al sequestro”. Qualche giorno dopo, l’ebbrezza toccò ineguagliate guglie. Il 5 luglio del 1985 Rimini viene presentato al Grand Hotel; l’atmosfera di ispirato edonismo è ricordata con queste parole da Roberto ‘Dago’ D’Agostino, il mattatore della festa: “Tondelli aveva magnetizzato i gay d’Italia… A un certo punto, tutto pronto per la presentazione, invitati già accalcati, fui incaricato di andare a chiamare Tondelli in camera. La porta era semi aperta e quello che vidi – gang-bang di corpi maschili rovesciati sul letto – ha sempre rappresentato per me un quadro-vivente di quegli anni, terribili e bellissimi. Un ‘sogno bagnato’ che Tondelli aveva svelato con i suoi libri”. Un paio di anni prima, il Grand Hotel era stata la cornice della ‘prima’ di E la nave va, il più malinconico dei film di Fellini: in prima fila, insieme al regista, lo Zeus di Cinecittà, c’era Umberto Eco; Mario Guaraldi – ancora lui – dirigeva le danze.  Nella biblioteca di Marco Pesaresi – angusta, augustea – non ricordo libri di Tondelli: ricordo Hermann Hesse, Dino Campana, Byron e Bakunin. La poesia come anarchia, il viaggio come brigantaggio dell’io. Pesaresi aveva una Transiberiana nel cuore; aveva cominciato a Londra, intuendo nel sottosuolo del tube il sole dell’India, il volto di Indra. Per un’idea di “colonna sonora” di Rimini, Tondelli scelse Leonard Cohen e i Duran Duran, I Wanna Be Loved di Elvis Costello e Time After Time di Cyndi Lauper, Prince, gli Smiths e i Talkin Heads. Probabilmente Pesaresi ascoltava gli stessi pezzi.  Il punto, tuttavia, è altro. Provo a dirlo così: la differenza tra nudità e spoliazione. C’è chi si denuda mostrando una maschera; chi, nudo, ha più abiti di quando è vestito. La nudità che non prevede spoliazione – cioè, un lento disfarsi dell’io, la resa all’inverno della carne – è una menzogna. L’attuale spaccio dei corpi – da YouPorn a OnlyFans – ha questa dimensione: la nudità non svela, non rivela e non svilisce. È avvilente. È una nudità-maschera. Una nudità travestita. Una nudità in vesti. Non c’è vestizione né spoliazione in quella nudità.  Eppure: la carne è effimera, passa, ma il corpo è tutto. Corpo: crisalide dello spirito.  Pesaresi fotografa la spoliazione. L’attimo in cui il corpo nudo, spoglio di tutto, finalmente disinibito, finalmente fuori di sé, si fa pasto a chi lo guarda. È un corpo a precipizio. Un corpo eucaristico, un corpo cibo – se vuoi, puoi masticarlo. Tutto, ormai, è spezzato. Non osate ricomporre, ora, ciò che è stato offerto per sempre.  Questo pensiero è dedicato a Mario Guaraldi, quasi un padre *A Rimini, presso i Palazzi dell’Arte (Piazza Cavour), è in atto fino all’8 dicembre 2025 la mostra di Marco Pesaresi “Rimini proibita”. A cura di Jana Liskova e Mario Beltrambini, la mostra mette in relazione gli scatti di Pesaresi – di cui nel testo si pubblicano alcuni esemplari – al romanzo di Pier Vittorio Tondelli, “Rimini” (1985). Il catalogo della mostra è edito da NFC edizioni. L'articolo Pier Vittorio Tondelli e Marco Pesaresi. Tra nudità e spoliazione proviene da Pangea.
September 17, 2025 / Pangea
Rosicchiando le ossa delle stelle cadenti. Sulla poesia di Miroslav Holub
Nel 1982, per la Faber del loro antico mentore, T.S. Eliot, Ted Hughes e Seamus Heaney – che senza troppa imprecisione possiamo definire i più autorevoli poeti in lingua inglese del secondo Novecento – curarono un’antologia folle fin dal titolo. The Rattle Bag ha a che fare, nello stesso tempo, con una sacca piena di cose che tintinnano, con un pasticcio – anzi, un pasticciaccio – e con i serpenti a sonagli. C’è qualcosa, al contempo, cioè, di infantile e di pericoloso, di carnevalesco e di carnale in quel titolo. Credo che l’antologia venga venduta ancora oggi – l’ultima edizione risale a un ventennio fa. Nella brevissima nota introduttiva, gli autori dissero di scelte arbitrarie, di una estetica del capriccio, di poesie “dal fascino singolare che continuano a trasmettere il proprio segnale vagabondando in questo vasto e volubile mondo”. Bisogna sempre dubitare dei poeti: anche quando sorridono, celano coltelli. Per descrivere un’antologia creata “per accumulo”, quasi per sbaglio e per caso, i poeti usano la parola cairn. Un cumulo di pietre. Un tumulo. Un segnale d’alta via di pietre impilate una sull’altra. Un idolo, insomma. Con la pietra si può lapidare e si può edificare, si distrugge e si costruisce. Chi conosce la poesia di Heaney e di Hughes, ancorata com’è alla vita a mani nude, al nomadismo verbale, ai campi e ai boschi, ai primordi, a un andare a rapina, sa il peso della parola cairn.  Due anni dopo l’uscita di The Rattle Bag, Ted Hughes sarebbe stato eletto “Poet Laureate” del regno. Molti anni dopo, nel 2003, Seamus Heaney ritornò a quell’impresa in un saggio che s’intitola Bags of enlightenment. Ritornò, intendo, sul concetto di capriccio e di arbitrio: “Un’arbitraria ricchezza più che lavoro istituzionale: questo cercavamo… Il nostro criterio era divertire prima che educare”. Di qui le scelte – su cui arrivo tra un attimo – dettate dal desiderio di stupire, orientate all’eccelso, sì, ma anche all’eccentrico. L’idea era quella di creare una ‘scatola delle meraviglie’ per gli amanti della poesia e per gli studenti.  > “Se alla fine di un anno scolastico anche soltanto una di queste poesie > resterà impressa in uno studente, sarà stato un traguardo notevole. Una poesia > del genere può essere percepita come un possesso prenatale, una garanzia di > interiorità e di legame con le origini. Può diventare la cruna verbale > attraverso cui un ragazzo può passare più e più volte, fino a quando non > l’avrà imparata a memoria, fino a quando non diventerà un sentiero tra il > cuore e la mente, un sentiero in cui quell’individuo potrà ripetutamente > entrare, verso il regno della rettitudine e della gentilezza”.  È davvero un maestro, Seamus Heaney. Credeva nella letteratura – secondo gli insegnamenti di Matthew Arnold – “come mezzo per la diffusione generale della generosità e della luce”.  In sostanza, The Rattle Bag raduna le poesie preferite da Heaney e da Hughes – non è un caso che l’ultima poesia della raccolta, You’re, sia di Sylvia Plath. Tra gli autori antologizzati – tolti alcuni inni dei primordi e certe filastrocche popolari – spiccano Auden e William Blake, Shakespeare e Emily Dickinson, Lewis Carroll, Kavafis, Robert Frost. Appaiono, però, soprattutto, autori per lo più ignoti (almeno a me) come Padraic Colum e Allen Curnow, Kenneth Fearing, Dafydd Ap Gwilym e Hyam Plutzik. Ancora oggi l’antologia di Heaney-Hughes è giudicata eclectic, instructive and inspiring.  Uno spazio consistente in The Rattle Bag è dedicato all’‘onda’ dei poeti dell’Est Europa; tra costoro, uno dei più rappresentati è il poeta ceco Mirolav Holub, con cinque testi. Nel 1988, con la consueta, violenta enfasi, Ted Hughes dichiarò che Holub “è tra la mezza dozzina di poeti più importanti al mondo”. Non l’avevo mai sentito prima di pochi giorni fa. Nato a Plzeň nel settembre del 1923, tradotto in inglese fin dagli anni Sessanta, Miroslav Holub, in realtà, fece carriera come immunologo. Da qui, l’ispirata nitidezza dei versi, l’ironia aspra, il fiabesco inchiodato a un ritmo geometrico, il lirismo che si fa apodittico, ‘scientifico’. Anche Mirslav Holub – secondo i canoni degli scrittori ‘a Est’ – recinta l’assurdo in una scrittura da stenografo. Fu tradotto presto e con straordinario successo nel mondo inglese: nel 1967 la Penguin editò un’antologia di Selected Poems, introdotta da Alfred Alvarez; fu il primo di molti libri. La Faber radunò i suoi saggi – che oscillano tra argomenti letterari a temi scientifici – come The Dimension of the Present Moment (1990); Poems Before & After è uscito nel 2016. In Italia, Holub non ha attecchito, marginalizzato in uscite sporadiche, di poco peso. Il poeta è morto a Praga nell’estate del 1998.  Holub fa parte della lunga lista di poeti-scienziati che confortano il canone della poesia europea. Più di altri – e con una certa dose di spavalderia – ha ragionato su questi estremi della sua vita, spesso inconciliabili. “Negli ambienti scientifici cerco di nascondere il fatto che scrivo versi. Gli scienziati tendono a diffidare dei poeti: ritengono che siano delle persone con uno scarso senso di responsabilità”. Allo stesso tempo, i poeti diffidavano di Holub perché era uno scienziato… A Heaney le poesie di Holub piacevano perché “mettono a nudo le cose, ci mostrano non tanto il cranio sotto la pelle, ma il cervello che sta sotto il cranio”.  Nel 1967, a Spoleto, Holub incontrò Ezra Pound. Scrisse – lo sketch è tradotto in calce all’articolo – di una figura statuaria, dei suoi occhi azzurri, di una mano “gelida, di pietra”. Cesare Cavalleri incontrò Pound a Venezia, nel 1971. Disse anche lui degli occhi azzurri – “due laghi d’azzurro” – e della “mano gelata”; disse che Pound era “assorto, rannicchiato, vivo” (in: C. Cavalleri, “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria. Una conversazione con Jacopo Guerriero, ELS La Scuola, 2018). In un articolo uscito sul “Corriere della Sera” l’11 aprile di quello stesso anno (ora in: E. Pound, È inutile che io parli. Interviste e incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021) anche Indro Montanelli scrisse degli occhi di Pound, “non ne avevo mai visti di eguali, una cascata di luce blu”, della sua figura, “marmorea”, di una “bellezza al di fuori di qualsiasi corrente archetipo”. In questa ricorrenza di ciò che pietrificato pietrifica c’è il genio di Pound, ultimo della stirpe dei giganti.  Quando l’Unione degli scrittori della Cecoslovacchia propose a Holub uno stipendio equivalente a quello che aveva come ricercatore scientifico per darsi alla letteratura, il poeta si negò. “Amo la scienza. Se avessi tutto il tempo del mondo per scrivere versi, non scriverei più nulla”. Scriveva nei ritagli, da apolide alla poesia, in affanno, affascinato dal tutto.  *** Discorso sull’angelo canide Lacrime di luce sull’asfalto: mentono.  Forse pensava a una cagna o ricordava un osso –  coltelli negli occhi di ruote malvage  che afferrano spaccano schiacciano –  ha la mascella rotta striscia, guaisce – no!  cade, mugola, geme resta immobile.  La gente, intorno, lo fissa: un angelo cane peloso e nero con ali madide di fango e quell’infinito dolore che si moltiplica dalla sua aureola sopra le pozzanghere.  L’oscurità sfrega le mani sul corpo e risuona in colonnati verso il cielo. Lo dragano via.  È solo una pezza uno straccio per il cimitero e nulla più. L’angelo delle tegole annusa i camini e rosicchia le ossa delle stelle cadenti.  * Breve riflessione sull’identità Giorno dopo giorno nulla è uguale a se stesso. Né i fiumi né le capre né i profeti. Se l’oggi è uguale a domani non tutte le cose restano uguali. Perché quando una cosa cambia, cambiano anche le altre. Le cose non sono sole: dipendono in modo claustrale da altre cose, per lo meno in parte. Dunque,  sai, non sai mai… Anche i profeti appartengono a questo sistema di relazioni fisse. Come le parole. Come  le capre e il latte. Come il sangue. Per questo, è piuttosto difficile riconoscere le proprie parole, il proprio sangue, il proprio profeta e la propria capra.  Molto difficile. Ma ancora e ancora ci tentiamo, in modo da non ricavare capre dai profeti o sangue dal latte.  Pretendiamo che le cose abbiano un’identità mentre ci trasformiamo nel nostro doppio e marciamo lentamente nell’oscuro abisso del tempo.  * Il giardino dei vecchi È scaltra l’edera, cresce ovunque e dell’erba  incolta nessuno fa più caso. Sotto gli alberi l’invasione di frutti gotici. Crollò l’oscurità, mitologica e senza denti.  Ma Minotauro l’ha sconfitta grazie a un buco nella recinzione. Da qualche parte, Icari impigliati nella ragnatela.  Durante una luminosa mattina i cespugli rivelarono lo spudorato, grigio osso frontale dei fatti. Boccheggiava, senza più parole.  * Breve riflessione sull’accuratezza I pesci                   sanno sempre con precisione dove e quando muoversi, all’unisono                   gli uccelli hanno un innato senso del tempo e dell’orientamento. L’umanità                    è priva di tali istinti, per questo ricorre alla ricerca                   scientifica. La sua natura è illustrata dal seguente esempio. Un soldato                   doveva far esplodere il cannone ogni giorno alle sei di sera.                   Era un soldato, obbediva. La sua accuratezza fu spiegata così: L’orologio                   della vetrina, in città: mi baso su quello. Ogni giorno alle diciassette                   e quarantacinque, monto sulla collina dove è pronto il cannone.                   Alle diciassette e cinquantanove mi avvicino al cannone, alle diciotto in punto sparo.  Ora era chiara                   la ragione di quella accuratezza. Non restava                   che controllare il cronometro. Fu dunque interrogato l’orologiaio. L’orologiaio                   disse che quello era uno degli strumenti più precisi in assoluto.                   Immagini, ormai da molti anni un cannone spara ogni giorno alle sei in punto.                Ogni giorno, nello stesso istante, il mio orologio segna esattamente le sei. Gli orologi becchettano, i cannoni esplodono.  * Incontro con Ezra Pound Non so se siano stati creati prima i poeti o i festival.  Tuttavia, è stato un festival a farmi incontrare Ezra Pound. Era seduto su una sedia, in una piazza di Spoleto; mi spinsero verso di lui. Gli porsi la mano, la afferrò, fissandomi con quegli occhi azzurri che varcarono la testa, perdendosi, lontani. Non si mosse. Non lasciò la mano, dimenticò gli occhi. Fu una lunga stretta, come quella di una statua. La sua mano era gelida, di pietra. Impossibile liberarsi.  Dissi qualcosa. I passeri mi interruppero. Un ragno rampicava sul muro, tastava la pietra con le zampe anteriori. Un ragno che capiva il linguaggio della pietra.  Un treno merci si conficcò nel tunnel del mio cranio. Un controllore in blusa blu mi salutava, cupo, dall’ultimo vagone.  È interessante il tempo che ci vuole perché un treno merci come quello passi.  Poi ci separarono.  Anche la mia mano era fredda: aveva toccato la Via Lattea.  Dunque i treni merci esistono. Un ragno sulla pietra esiste. Esiste la mano e la mano in sé. Esiste anche un non incontro ed esiste un incontro con una non persona. Esiste un tunnel – un intero reticolo di tunnel, vuoti e oscuri, che mettono in contatto la materia vivente che si chiama poesia ai festival.  Potrei avere incontrato Ezra Pound – eppure, in quell’istante non esistevo.  * Il giudizio finale Una lavatrice automatica è accesa – lava  strizza, asciuga.  Come un angelo che mastica chewing gum. Come il granito che perfora il quarzo. Qualcuno maledice il mare ma non lo senti. Piume d’oca vagano in cucina.  Le tue piccole dita scompaiono sotto la porta.  Mosche: piccole Icaro che  tappano le falle del labirinto. Hai un bell’aspetto, figlio mio dici mentre ti coglie l’infarto.  La lavatrice lavora.  Vi entrano banchetti luculliani  c’è anche la granola.  E i riflessi. Cadono lettere bene ordinate. E balene  che nuotano e denti innumerevoli.  Entrano i ricordi, escono  i codici della strada. Bianco. La lavatrice lavora.  Chi pagherà la banda?  Dov’è il ballo dei pompieri? Dove suonerà il flauto stretto dal gelo? Come superare l’ombra di un libro? Bianco di fuliggine dilavata.  La lavatrice gira e tremano le mani di Discobolo. L’eternità è misurata con precisione al secondo. Sì.  In un panorama di giochi bisogna giocare fino alla fine.  In un panorama di fango la via d’uscita è la lavatrice.  Quando è il caos le vie a senso unico sono un sollievo.  Quando sei in via d’estinzione la precisione vale più di un dio.  In questo rumore bianco esco da una porta che mi porta  in questa stessa stanza.  * Una favola Si costruì una casa                   le fondamenta                   di pietra                   i muri                   il tetto sopra la testa                   il camino e il fumo                   la vista dalla finestra. Si fece un giardino                   il recinto                   il timo                   il lombrico                   la rugiada, a sera. Si ritagliò un pezzo di cielo.  E avvolse il giardino nel cielo e la casa nel giardino e il tutto in un fazzoletto poi se ne andò solitario come una volpe artica varcando il freddo e quella infinita pioggia per il mondo.  Miroslav Holub L'articolo Rosicchiando le ossa delle stelle cadenti. Sulla poesia di Miroslav Holub proviene da Pangea.
September 16, 2025 / Pangea
Eremitaggio nel blu. Ovvero: tre libri per colonizzare il vostro cuore
In principio, forse, era il verbo. Ma non appena il verbo si fece maturo e seminò le radici del discorso, ogni libro divenne una stagione da coltivare e ogni frase una serra da proteggere. La cifra di questi tre libri, incastonati in un blu marittimo, è l’eremitaggio: il panorama come il discorso che getta le basi di una colonizzazione futura, e le frasi che recano l’unica traccia affidabile del dettato. La pantera delle nevi. Pare che Tesson sia salito agli onori della cronaca francese per una forma culminante di mimetismo: se fosse possibile sintetizzare l’esperienza di un uomo in poche stringhe, si dovrebbe dire: la soluzione finale della ragione è la mimetizzazione, l’adattamento a quanto soggioga per eccesso di eloquenza: leggi, la Siberia (tappa di un altro suo memorabile libro, Nelle foreste siberiane), il Tibet, la Mongolia. In breve, il sogno di un uomo di essere invisibile, e di come prese la strada dell’Asia per scomparire; lui, un parigino incallito dalle critiche e sterilizzato dall’isteria della polemica che si mette sulle tracce di un fotografo che insegue animali leggendari, un uomo il cui sogno è “essere completamente invisibile”. Riflette Tesson: > “la maggior parte dei miei simili – a cominciare da me – voleva il contrario: > farsi vedere. Non avevamo nessuna speranza di avvicinarci a un animale”.  Fin dall’inizio, la piccola troupe si mette sulle tracce della pantera. Ma la natura ama nascondersi, e la ricerca si trasforma in un percorso iniziatico. Il luogo è inospitale – “venti gradi sotto zero. In luoghi come quelli noi uomini non potevamo fare altro che passare” – ma la tempra è ben oliata. Fra le altre cose, questo è un libro che ramificandosi, durante il percorso, si trasforma in un erbario essenziale da cui estrarre un principio terreno di saggezza. Sfogliando a caso: “L’uomo? Dio ha giocato a dadi e ha perso”, oppure, metafisizzando il paesaggio: “i versanti sono striati di venature nere, gocce cadute dal calamaio di un Dio che abbia posato la penna dopo aver scritto il mondo”. Un linguaggio che imita la natura affilandosi. Nell’appello futuro dei canoni Tesson risponderà: presente.  Terra sonnambula. Di Mia Couto, bisogna ripetersi nome e cognome sotto-labbra: sembra una antica cantilena sulla soglia di un nuovo linguaggio. Riscoperto dalla critica pochi anni fa, scrive in portoghese, ma di fatto appartiene a un’altra lingua. Basta sfogliarne una manciata di pagine per accorgersi che certi scrittori trovano asilo soltanto nel recinto delle lettere. In breve, l’autore, mozambicano (“un paese disegnato con la geografia della nostalgia”), per sedici anni è testimone di una violenta guerra civile. I numeri sono muti, ma lasciamoli balbettare: alla fine del conflitto, nel 1992, un milione di mozambicani, semplicemente, mancano all’appello. Deve essere da questa lacuna che Couto ha sprigionato il suo oceano linguistico. L’incipit fa parte di quei fulmini obliqui che ti precipitano alla cassa, con il libro in mano:  > “In quel posto, la guerra aveva ucciso la strada. Sui sentieri, solo le iene > si trascinavano, grufolando tra cenere e polvere. Il paesaggio era un misto di > tristezze mai viste, con colori che si appiccicavano alla bocca. Il cielo era > diventato impossibile. I vivi si erano abituati alla terra, in un rassegnato > apprendistato di morte”.  Dal sodalizio fra un giovane e un vecchio, Muidinga e Tuahir, fiorisce la storia di questo libro: in mezzo, il ritrovamento di un manoscritto in un bus che tira le fila della storia, aggiungendo scorie di incantamento all’assolo della violenza. I due costruiscono un’oasi nel deserto della guerra. La fonte di questa freschezza sono le storie che Muidinga legge dal manoscritto ritrovato: anche il vecchio Tuahir, analfabeta, non tarda ad accorgersi che in quegli strappi dalla realtà si nasconde la vera formula del mondo. Da allora, tutto comincia ad essere in movimento, anche la strada che percorrono. Il libro, stratificato come il dedalo di storie che ne costituisce il centro, nasconde più piani di lettura: sradicamento, colonizzazione e convivenza sono solo la punta dell’iceberg. L’andamento della trama, se può essere talvolta oggetto a oscillazioni che sono il grafico del terremotare del linguaggio, non lascia scampo ai tracciati di frase che qua e là ipnotizzano il lettore, sorvegliandolo. Ne cito soltanto uno, ma tutto il libro è un terreno di coltura: “i sogni sono lettere che mandiamo alle nostre altre vite, quelle che ci restano”. Buon viaggio.  La stagione della migrazione a Nord. Se è vero che iniziò come canto, è altrettanto certo che la letteratura finirà con una confessione. Alle origini dell’intreccio fra due continenti c’è Tayeb Salih, nato in Sudan nel 1929 e morto a Londra nel 2009, che si iscrive alla letteratura rovesciandola. Un altro sabotatore di bussole, Milos Crnjanski, pubblicando proprio nel ’29 Migrazioni, scolpiva l’ultima pietra della propria opera scrivendo che le migrazioni esistono, mentre è la morte a non esistere. Con Conrad, ad ogni modo, l’uomo europeo supera le colonne di Ercole del Sud arrivando al centro del mondo, nel Congo. Più o meno nello stesso periodo – Conrad trapassa nel ’24 – un uomo africano realizza il viaggio esattamente opposto. Se non è difficile immaginare la trepidazione dell’europeo per il ritorno in patria da una semplice battuta commerciale, lo stesso non si può dire a ruoli inversi, dato che solitamente l’Europa è, per un giovane studente africano, terra dove mettere radici per le future generazioni. Ma anche in questo caso il libro rappresenta un’eccezione: dopo sette anni di brillante apprendistato londinese, il protagonista rientra alla base, gettando nello scompiglio la piccola comunità d’origine. Dopo il soggiorno all’estero, il narratore si rende conto di non essere “una pietra da gettare nell’acqua, ma un seme da seminare nel campo”. Percorre i luoghi della propria terra, avvicina l’orecchio alla terra, l’occhio al cielo. Nasce così una strana creatura che fa della propria bivalenza etnica un sottile strumento di manipolazione: rovescia le coordinate geografiche per servirsi della geografia come ci si serve di una carta sfoderata all’ultima mossa, trincerando nei tratti meridionali quella frazione di sud “che anela al nord e al gelo”.  Al netto di tanti spaesamenti, la letteratura è l’unico luogo in cui nord e sud possono convivere nella stessa pagina. Andrea Muratore *In copertina: Yves Klein, La grande Anthropométrie bleue, 1960 ca. L'articolo Eremitaggio nel blu. Ovvero: tre libri per colonizzare il vostro cuore proviene da Pangea.
September 15, 2025 / Pangea
Sulla mania di comprare sempre gli stessi libri. Ovvero: conformarsi alle stelle
Una biblioteca mi ha fatto da culla, mi è stata matrigna.  La madre di mio padre si era trasferita a Milano da Palermo a dodici anni; aveva la quinta elementare; la scaltrezza della creatura viva, terrena. Mio nonno era nato in Francia da immigrati siciliani: una volta, ricordo, mi parlò di Leonardo Sciascia, amava ascoltare Charles Aznavour. Durante la Seconda guerra operò in marina: arrestato in Grecia, fu detenuto ad Amburgo. Si vantava della sua “Enciclopedia Motta” che, in un’altra era, prometteva “il sapere universale”. Era fissato con la geografia.  Le strane accelerazioni della Storia – il Sessantotto, un viaggio in Pakistan, l’idea di ‘essere se stessi’ (mentre a volte è bene apparire per ciò che non si è) – portarono mio padre a diventare il bibliotecario di un piccolo paese in provincia di Torino. I miei nonni – i suoi genitori – sono sepolti a Riccione: il cimitero, in fondo, è una sorta di immensa biblioteca umana, un ossario di memorie – è forse la vera “biblioteca infinita” ideata da Borges. Il figlio, mio padre, che ha il nome del biblico “sognatore”, è sepolto in un microscopico borgo della Val Grande, a cinquecento chilometri di distanza dai genitori. Spero sia felice: nei turni di notte, lassù, lo strigide si combina al capriolo, la chimera al lupo.  La biblioteca, comunque, fu il baratro: il luogo dell’amore e della perdizione, l’alcova e la tagliola.  * Qualche anno dopo la morte di mio padre, ‘liberai’ dalla biblioteca che aveva diretto Il gioco del mondo di Julio Cortázar. Non che non lo possedessi: è che quell’edizione – copertina rigida, Einaudi, incellofanata – mi pareva ‘biblica’, perfetta al sogno. Per un po’, riposi in quel libro il mio destino. Mi piaceva l’idea che si potesse leggere al contrario e di sbieco, che parlasse di molto e di niente. Molti anni più tardi – per una di quelle strane accelerazioni della vita – finii a Buenos Aires, incontrai chi aveva incontrato Julio Cortázar.  * È assurda l’idea di possedere dei libri: sono loro che si impossessano di te. Ne sei posseduto, tanto che liberandoli te ne devi liberare. Le parole aprono squarci, finestre o stimmate che siano – ma possono anche recludere.  * In una lettera particolarmente bella – in: V. Šalamov-B. Pasternak, Parole salvate dalle fiamme, Archinto, 1993 – Varlam Šalamov rimproverava Boris Pasternak, che con svezzato sussiego parlava con sufficienza delle sue poesie. Nei campi, in Siberia, c’è gente che è sopravvissuta con le sue poesie; c’è gente che si è ricordata cos’è un uomo (cioè: la creatura disposta a dare la vita per un altro, sconosciuto) leggendo le sue poesie.  I libri non salvano la vita – ci danno la vita; non insegnano a vivere, creano la vita. I libri sono un uovo cosmico (leggi sotto). Per questo ogni regime – tirannico o democratico che sia – sottrae i libri ai propri elettori sudditi o favorisce un ‘sistema’ culturale basato sul mero mercato: così si forgia un popolo servile, un popolo reclino sul proprio misero io, un popolo immiserito nel cuore, un popolo di paglia, logorato, già cenere.  * A Lima soggiornavo all’Hotel Ariosto: nelle librerie i libri costavano più che in Italia, ma lo stipendio medio di un peruviano non superava i trecento euro italiani. Cercavo le poesie di César Vallejo; qualcuno, al mercato – così sgargiante che lo chiamai Armida – intonò i frammenti di un’epopea andina. Finché non recidono il suo canto, finché non lo sradicano dal linguaggio, l’uomo è vivo, la sua stirpe prolifera.  * Un tempo, quando i libri si compravano nelle librerie, s’intraprendevano folli avventure per cercare il libro definito, quello della svolta. Vagabondai per giorni, a Milano, prima di trovare la “Trilogia di Valis” di Philip K. Dick. Edizione Oscar Mondadori, in cofanetto. Perché mi fossi ostinato a quel libro – torbido, involuto, teologico – non lo so. A volte di un libro ci cattura l’aura – basta quella.  Entrando in libreria – come si entra in una città perduta – era possibile fare incontri inattesi. La vita digitalizzata – il demoniaco dominio del cellulare, insomma – ha recluso le nostre esistenze in un tunnel. Viviamo nei bunker dell’io. In spazi senza accesso, senza concessione. Prima, tutto era un bosco – si era disposti alla scoperta, pronti allo straordinario, i prediletti dell’insperato.  * Intendo dire: la ricerca del libro assoluto. Il libro-tutto. Il libro che somma cielo e terra, che abbraccia i vivi e i morti. Il libro che vivifica. Che fa risorgere.  Ad esempio: purché sia escluso da quella rivelazione, possiedo – e sono stato posseduto – da una serie di edizioni dell’I-Ching, l’arcano libro divinatorio cinese. Preferisco l’edizione curata da Eranos; l’ho avuto nelle versioni inglese, francese, spagnola.  Da ragazzo, conferivo le stesse facoltà – chiamatela taumaturgia del linguaggio – ai libri di Thomas S. Eliot.Rapivo ogni possibile traduzione della Terra desolata; mi confinai nei Quattro quartetti. Dal canonico viaggio in Inghilterra – fatto in treno, dormendo dove capitava – tornai povero di tutto ma con l’edizione Faber dei Selected Poems di Eliot. Più tardi, da adulto, provai una simile coincidenza con l’opera di Saint-John Perse. * A volte un libro è il solo conforto: ma con i libri non si tratta, si lotta; infine, finisci per odiarli. C’è differenza tra claustrale e claustrofobico.  * Questo articolo voleva affrontare un argomento che può apparire assurdo ai più. È questo: comprare più volte lo stesso libro. Preciso: non lo stesso libro in altra traduzione o diversa edizione (pratica buona & giusta, a volte necessaria), ma lo stesso libro nella stessa traduzione pubblicata dallo stesso editore nello stesso anno. Una copia. Una copia di una copia di una copia. Che assurdità. È come se ri-comprando lo stesso libro – o ri-rubandolo – potessi azzerare l’esperienza di lettura precedente (dunque: potessi azzerarti). Come se potessi ‘riverginare’ il libro. Oppure, come se quella innaturale fedeltà potesse concederti un accesso privilegiato alle zone segrete, alle zone oscure di quel libro.  Già, perché il principio di ogni libro è che abbia un unico lettore, un lettore eletto: tu. Gli altri sono dei vili mestatori di opinioni, degli eresiarchi. Tu sei il solo custode della verità appena sussurrata da quel libro che, pur tirato in migliaia di copie, esiste perché proprio tu lo legga. È stato scritto per te, incidentalmente gettato in pasto al vile mercato degli altri.  I libri esistono in un’unica copia, per un solo lettore. Tu. * (Diamoci il privilegio, in questo tempo brutale, in questo tempo funesto, di parlare di cose frivole, di cose che ci tengono stretti all’umano. Anche questo – come si accarezza un albero e si guardano le stelle – è un atto di grazia e di esistenza).  * Il primo libro che ho comprato almeno tre volte è l’Ulisse di Joyce. La sua lettura mi folgorò, al liceo – avevo un’insegnante di inglese particolarmente severa, che mi ha inoltrato nell’opera di Yeats e di Ezra Pound. Ho comprato tre copie dell’Ulisse, a distanza di tre anni, perché non lo capivo. Più non lo capivo, più mi incaponivo, mi incapronivo, mi incapricciavo. Quel libro racchiudeva un mondo, quel mondo non mi piaceva, ma lo volevo capire. Lo volevo.  * Un giorno, spiazzandomi, l’insegnante di inglese mi disse di preferire la letteratura mitteleuropea: il suo libro del cuore era La morte di Virgilio di Hermann Broch. A casa, mio padre ne aveva una copia. Il volto di Broch, in copertina, pareva quello di un alienato: a metà tra il Minotauro e il grifone. Il libro mi parve infinitamente più vasto e vertiginoso dell’Ulisse: ne ho ancora tre o quattro copie, da qualche parte.  * I libri che, negli anni, senza che ve ne sia bisogno, senza ritegno, si comprano più copie rientrano in un rango augusteo e angusto. Solo pochi vi appartengono. E – questo l’ho capito negli anni – ad appartenervi non sono per forza i libri più belli, quelli a cui siamo più affezionati. Di quelli, basta la copia originaria, basta riaprire quella per rientrare nelle proprie origini. Faccio un esempio che mi riguarda. Ho diverse copie del Libro della giungla di Rudyard Kipling perché, senza che lo abbia scelto, è penetrato nella mia infanzia. Ancora oggi, voglio essere Mowgli e Bagheera. “Non c’è chi non ne abbia sentito il fascino”, è scritto, scagionando la mia ossessione, nella Nota introduttiva dell’edizione Bur del 1951: l’ho trovata in un mercatino, qualche anno fa. La traduttrice, Giuliana Pozzo Galeazzi, ha tradotto anche Jane Eyre e Bertrand Russell. Il Libro della giungla non è il mio libro preferito – è il mio libro e basta.   Lo stesso rapporto infantile, selvatico, mi lega a Moby Dick – ne avevo decine di edizioni diverse, la prima apparteneva a mio padre: edizione Frassinelli, total white, traduzione di Cesare Pavese.  * Ai libri di cui ho comprato – o rubato – diverse copie mi lega un rapporto di amore e odio. Ne amo la nomea, il portamento, l’apertura alare, per così dire – eppure, continuo a sfidarli perché non sono riuscito a penetrarli. Ogni volta, rinnovo la sfida. Tra questi libri così singolari, che mi visitano ogni eone di mesi, ricordo La montagna incantata di Thomas Mann, La storia di Genji il Principe Splendente di Murasaki Shikibu, Rigodon di Céline, Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. Sono libri che mi tormentano, di cui conosco alcune pagine a memoria, che ogni volta rileggo e abbandono. Benché possa citarne altri a me più cari – chessò, Cuore di tenebra di Conrad, L’urlo e il furore di Faulkner, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, Come l’acqua che scorre di Marguerite Yourcenar, Chadži-Murat di Tolstoj – sono quelli i libri che mi accompagneranno, mordendomi il cranio, fino alla fine. * Di alcuni libri, è vero, ho acquistato più e più copie, per regalarli – non rientrano nel lotto della lotta. Tra questi, sono affezionato, con rigore totale, a Il colpo di grazia della Yourcenar e alla Casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata. Allo stesso modo, i libri che ci sono stati donati vivono in uno spazio tutto loro. Regalare un libro presuppone una intimità che intimidisce. Chi ci regala un libro pensa che siamo in qualche modo incardinati in quel libro, promessi a quel verbo: lo leggiamo, allora, per scoprire chi siamo agli occhi di chi ce lo ha donato. Le scoperte – e i fraintesi – sono spesso sorprendenti, a tratti agghiaccianti. Un libro che ci è stato donato e che non ci riguarda – che mancanza di riguardo – può essere donato a sua volta.  Valgono come autentici doni, però, soltanto i libri che abbiamo vissuto intensamente, quando non sottolineato e appuntato e strappato. Ricordo un’edizione delle lettere di Kafka a Milena – Mondadori, traduce Ferruccio Masini – che mi è stata regalata molti anni fa: modesta, sbrindellata, piena di note. Il regalo più bello – un patto.   * Cito soltanto romanzi. I poeti non rientrano in queste viete classifiche: hanno la pretesa di incendiare l’intera biblioteca e di resistere, frantumi di un futuro ancora da costruire. La poesia vuole dedizione, solitudine, amore; le poesie vanno imparate a memoria, il loro supporto non è un libro, ma l’intero corpo di chi legge.  Quando mi hanno regalato Hugo von Hofmannsthal, ad esempio, ho fatto i salti di gioia, fino a dire: è lui il più grande, è più grande di Rilke! Un’eresia, è vero, ma come si fa a non amare assolutamente un poeta? * Ogni volta che vado in libreria – ci vado di rado, ridotto per lo più a un ebete analfabetismo leggo soltanto i Vangeli, perimetrando la mia enorme inermità – non posso non comprare un’edizione del Dottor Živago: credo che sia uno dei libri decisivi del secolo, ma le poesie di Boris Pasternak siano infinitamente più belle. In questo, seguo il giudizio di Varlam Šalamov. Eppure, ogni volta torno a comprare Il dottor Živago – è una malattia la mia, lo so, voglio che Il dottor Živago sia il libro totale, il libro che risponde a ogni mio enigma, il libro che mi corrisponde. Ogni volta rileggo Il dottor Živago, ogni volta lo mollo – c’è qualcosa di liquido, qualcosa di paludoso che mi respinge.  In una delle ultime edizioni acquistate – Nuova Universale Einaudi, 44, 1968 – la prefazione di Eugenio Montale non è d’aiuto. Il grande poeta, da poco senatore a vita, scriveva prefazioni di solito gelide, attrezzate in sprezzatura, a tratti ingenerose, alle Liriche cinesi come alla Coscienza di Zeno; scrisse che “Il dottor Živagoè uno di quei libri che possono dar tempo al tempo”, che è come dire tutto e nulla.  * In ogni caso, ogni biblioteca privata esiste per essere spezzata. La biblioteca non è una voliera, è come un rapace: deve prendere il volo. Non si possono imprigionare i libri: hanno un destino vivente, di albero, di roccia. Eredità di eresie. Giampiero Neri, antico sapiente della poesia italiana, citava nei suoi libri innumeri altri libri, tra i tantissimi: Omero, Laozi, Melville, Tacito, i Ricordi di un entomologo di Jean-Henri Fabre. Recitava a memoria Dino Campana e Virgilio, amava la Vita di Milarepa. Eppure, la biblioteca di casa sua era scarna, uno scaffale appena. Neri regalava i libri a chiunque andava a trovarlo: io scelsi le Conversazioni con Kafka di Gustav Janouch in una vecchia edizione Guanda.  Anche Nicola Crocetti, ogni volta che vado a trovarlo, si congeda dai suoi libri, regalandomeli: l’ultimo, Kotik Letaev, è presentato come “il capolavoro di Andrej Belyj, il Joyce russo”. Lo ha curato Serena Vitale per “La biblioteca blu”, la formidabile collana di Franco Maria Ricci, era il 1973; il libro è stato stampato “a Torino presso il signor Giovanni Zeppegno”.  * Vagabondando di qui e di là, ho smarrito gran parte dei miei libri: che bello, li rincorrerò per sempre. Eredità è una parola-cecchino. Kotik Letaev mi fissa, mi squadra, è un libro sproporzionato: più che leggerlo, me lo immagino. Prima di leggerli, i libri vanno immaginati – se non sono all’altezza della vostra immaginazione, gettateli via.  La copertina di Kotik Letaev, bellissima, raffigura una serpe avvolta intorno a un uovo. Secondo il mito pelasgico, Ofione, il serpente, si arrotola sette volte intorno all’uovo cosmico deposto da Eurinome, “e ne uscirono tutte le cose esistenti: il sole, la luna, i pianeti, le stelle, la terra con i suoi monti, con i suoi fiumi, con i suoi alberi e con le erbe e le creature viventi” (così Robert Graves nei Miti greci, libro più volte trafugato, più volte ricevuto in dono).  Non servono più i libri, ma conformarsi alle stelle, stare nel verbo vivente.  L'articolo Sulla mania di comprare sempre gli stessi libri. Ovvero: conformarsi alle stelle proviene da Pangea.
September 13, 2025 / Pangea
Sul nostro irrefrenabile bisogno di leggere Cesare Pavese
Quando ero ragazzo leggere Cesare Pavese veniva considerato quasi un rito di passaggio per gli adolescenti di allora. Tutti lo leggevamo. Forse non lo capivamo fino in fondo, ma comunque restavamo affascinati da questo scrittore dalla perenne espressione di bambino triste destinato a non diventare mai vecchio e dalle moltitudini che abitavano la sua anima. Confesso di frequentare poco i giovani di oggi, ma l’impressione è che ci siano in giro troppe chiacchiere inutili, troppe distrazioni, troppo rumore di fondo che impediscono a un ragazzo di chiudersi nella propria stanzetta a leggere Pavese o Hemingway; mi chiedo se c’è ancora qualche adolescente che durante gli anni del liceo prende una cotta letteraria per uno scrittore come capitò a me con Vasco Pratolini; irrazionale e assoluta come si conviene a ogni cotta degna di questo nome, presa senza sapere bene perché. Anche nel dibattito pubblico Pavese era una figura di riferimento nonostante fosse morto ormai da parecchi anni. Poi lentamente, quasi senza che nessuno se ne accorgesse, su di lui è calato il silenzio. Improvvisamente nessuno ne ha più parlato, tutti hanno smesso di citarlo. Oggi è a tutti gli effetti un desaparecido della letteratura e non solo. Va detto che non è l’unico e anzi è in buona compagnia. Dove sono finiti Giovanni Arpino, Giuseppe Berto, Lucio Mastronardi e tanti altri scrittori un tempo al centro del mondo letterario? Basti pensare ad Alberto Moravia che per lungo tempo è stato la figura dominante della vita culturale italiana; una presenza continua e per certi versi quasi ossessiva con interviste e dichiarazioni su tutto, firme a ripetizione su manifesti e appelli per le cause più svariate, reportage di viaggi, recensioni cinematografiche, programmi televisivi, protagonista addirittura della vita mondana e dei pettegolezzi per le varie compagne e mogli che si sono avvicendate al suo fianco. Poi, dopo la morte, lentamente anche su di lui è calato il silenzio. Insomma, c’è una domanda che mi faccio spesso da un po’ di anni: dove è andato a finire Cesare Pavese? Adesso per fortuna posso finalmente darmi una risposta. Per venire a capo del mistero non ho dovuto fare nessuna ricerca o inchiesta né tanto meno ricorrere all’intelligenza artificiale. È bastato leggere Chi ha rapito Cesare Pavese?, un romanzo scritto da Francesco Bova e pubblicato dall’editore calabrese Meligrana. La trama è presto detta. Al centro del libro Lui, così viene chiamato il protagonista, uno scrittore, e la sua Voce interiore, una fascinosa musa ispiratrice dalle lunghe gambe. I due vanno a vivere in una stazioncina ferroviaria abbandonata nelle campagne lombarde. Lo scopo di questa scelta di vita isolata e fuori dal mondo è duplice. Lui è impegnato a scrivere un romanzo con l’aiuto della sua Voce e poi vuole incontrare a ogni costo Cesare Pavese. > «Regalerei la mia anima al diavolo o a quel dio che non conosco per poter > scambiare qualche parola con lui.» Il fatto però è che qui siamo negli anni Ottanta e, come è noto, lo scrittore piemontese è morto nel 1950. Non è un problema. Lui e la Voce non hanno né un orologio né un calendario, ma impariamo presto a capire che per loro il tempo è relativo: > «Il tempo, nella sua forma circolare, avvicinava di un nulla gli anni ’80 agli > anni ’50 e gli avvenimenti si potevano toccare con un dito e forse pure > travolgere. > > Il naso, il cuore, la forma di una nuvola, un sogno, uno stato d’animo, il > soffio del vento e altre piccole cose erano la nostra misura del tempo.» Così i due intraprendono una serie di viaggi attraverso il tempo e lo spazio per raggiungere Santo Stefano Belbo. In questo modo Lui e Pavese riescono “magicamente” a vedersi varie volte e durante i loro incontri si spostano tra le colline delle Langhe e quelle della Liguria parlando un po’ di tutto: di libri, di cinema, di politica, di donne. Non solo. Persino i personaggi dei loro libri si incontrano e parlano tra di loro. Tra i due nasce un rapporto simbiotico, di grande intensità che permette a Lui di portare a termine il proprio romanzo. Intanto però i giorni corrono e quando siamo verso la fine di agosto si avvicina anche la data fatale. Da tanti piccoli indizi, a volte appena percettibili, è facile intuire che Pavese si sta muovendo sull’orlo della notte. Così nasce il progetto di rapirlo per scongiurare il suo suicidio. Il finale lo lascio al lettore.  > Nel primo pomeriggio di una giornata molto calda sbottò con una frase corta e > incomprensibile e temetti che l’arsura e l’angoscia gli avessero dato alla > testa. > «Dobbiamo rapirlo!» > «Chi?» > «Cesare. Prima che finisca l’estate dobbiamo rapirlo.» Chi ha rapito Cesare Pavese? è un libro bello e singolare, di sorprendente e accattivante complessità, che si muove tra sogno e realtà, tra ossessioni e magie dove ogni lettore deve trovare la propria strada. Arrivati al termine, viene naturale una domanda: è veramente Pavese il rapito o invece siamo noi, i suoi lettori, a essere rapiti da lui, dal suo mito, dal fascino dei suoi romanzi, dalla malinconia incantatrice dei suoi personaggi, dal mistero della sua tormentata esistenza, dal segreto della sua tragica fine? Ognuno risponderà come meglio crede, di sicuro siamo di fronte a un romanzo necessario, rara avis di questi tempi, e dobbiamo essere grati a Francesco Bova per averlo scritto. Nel senso che c’era proprio bisogno che venisse sanata la ferita della scomparsa di Pavese dalla nostra vita. Abbiamo bisogno di lui, forse oggi ancora più di tanti anni fa quando lo abbiamo letto per la prima volta. Le domande che nascevano dalla lettura dei suoi libri sono ancora tutte lì, non hanno perso niente del loro valore e della loro profondità. Siamo noi e tutto il mondo vacuo e inutile che ci circonda che abbiamo fatto finta di dimenticarle. I grandi scrittori come Pavese invece restano sempre al loro posto, non passano mai di moda. Silvano Calzini L'articolo Sul nostro irrefrenabile bisogno di leggere Cesare Pavese proviene da Pangea.
September 12, 2025 / Pangea
“Un cuore rompe il ghiacciaio della notte”. Vita lirica di Lynette Roberts
Dylan Thomas accettò di fargli da testimone di nozze. Era il 4 ottobre del 1939, non poteva rifiutare: conosceva Keidrych Rhys, gallese di Bethlehem, da una vita; spesso lo aveva pubblicato sulla rivista che dirigeva, “Wales”. Keidrych sguazzava con agio nell’editoria dell’epoca – nel ’44, per la Faber di Sir T.S. Eliot, avrebbe pubblicato un’importante antologia di Modern Welsh Poetry – ed era un gran bevitore. Nel ’39 Dylan Thomas, già superstar della letteratura anglofona, aveva licenziato, per Dent, The Map of Love; Keidrych compiva ventiquattro anni; la festa, a Llansteffan, annaffiata d’alti alcolici, si protrasse fino a notte.  Più che per Keidrych, gli astanti andarono in visibilio per lei, la sposa. Trentenne, di una bellezza estranea, Lynette Roberts – in verità: Evelyn Beatrice Roberts – era alla sua terza vita. La prima l’aveva passata in Argentina: nacque a Buenos Aires, negli agi; il papà, Cecil Arhur Roberts, era un ingegnere ferroviario che dal Galles si era trasferito prima in Australia, poi in Sud America. La prima lingua di Lynette era lo spagnolo: restò scolpito, in lei, il vello bruno, taurino, del Rio della Plata; l’indolenza – e l’equivalente violenza – dell’Argentina.  La seconda vita di Lynette ha per levatrice una ferita, uno squarcio: poco prima di compiere quattordici anni, sua mamma muore di tifo. Lei e le sorelle – Winifred e Rosemary – furono spedite a studiare in Inghilterra, alla Central School of Arts and Crafts. Di quella vita, si ricordano i lunghi viaggi – in Ungheria, Austria, Germania, al seguito di un’amica, Kathleen Bellamy, inviata per “La Nacion” – e l’avventura di aprire un negozio di fiori, “Bruska”, a Londra. Aveva cominciato a scrivere versi a Madeira, ispirata dal clima, da un angelo interiore, spinato.  Keidrych l’aveva conosciuto da poco, durante una lettura pubblica. Si sposarono all’improvviso, con inattesa furia: la terza vita di Lynette cominciò a Llanybri, villaggio di campagna nel Carmarthenshire, dove si era trasferita con il marito. Voleva riformulare le proprie origini gallesi. Voleva scriverne. Voleva scrivere. Dylan Thomas la licenziò con poche, apodittiche parole: “che ragazza curiosa, si dichiara poetessa a pieno titolo, in pieno petto… ha tutti i crismi dell’isterica”.  L’amore con Keidrych durò un decennio – i due divorziarono nel ’49 – e un paio di figli, Angharad e Preiden. Lentamente, Lynette deragliò nell’insania; aveva un precedente, in famiglia: il fratello Dymock, schizofrenico, finì in un ricovero di malati di mente appena sedicenne, a Salisbury, fino alla morte. Negli anni gallesi – di povertà, certo, ma anche di una gioia frugale, informe, di albatros e brughiere –, Lynette scrisse tanto – e magnificamente. Trovò in Edith Sitwell – poetessa-pitone, dall’enigmatico, viscido genio – una mecenate e una confidente; figura tra le figure di rilievo nella tabula gratulatoria de La Dea Bianca, il capolavoro di Robert Graves. Erano amici, lei gli raccontava diverse storie scardinandole dall’antica mitologia gallese, lui scrisse che “Lynette Roberts è uno dei pochi autentici poeti viventi”.  I suoi versi entusiasmarono un lettore altrimenti raggelato come Eliot: nel 1944 pubblicò con la Faber i Poems, seguiti, nel 1951, dall’opera più ambiziosa, il poemetto God with Stainless Ears, in cui il dato leggendario si fonde con il contemporaneo, la “baia brulicante di uccelli” si commisura a “soldati e corpi corazzati”. È poesia audace, quella di Lynette Roberts, a tratti involuta, con invenzioni che la collocano nel più alto lignaggio della poesia inglese dell’epoca. In un testo – a dire di un ardore –, Transgression – non certo il più bello –, rifà la Genesi:  > “All’inizio Dio non volle altro che se stesso. > E questa immensa emissione di luce eruttava orrore > attraverso i cieli senza aver nulla da fare.  > Conosceva il bene e il male, e noia lo torturava. > Sapeva la vita, e gli venne a noia”.  A leggerla, viene in mente Fernanda Romagnoli, avrebbero potuto essere amiche. La stessa dinamica le anima: una poesia apparentemente cristallina, emanata da un ematoma del cuore, che in un istante mette le unghie, azzanna. Lo stesso, spaesante istinto nel percorrere l’insolito, l’insoluto. In una poesia – tradotta in calce – Lynette Roberts scrive che i gabbiani le ricordano le “lacrime dei turisti”.  Sfinì, in uno sfarfallio di inquietudini, Lynette. Nel 1956 le fu dichiarata schizofrenica – due anni prima aveva pubblicato un libro, The Endeavour che romanzava intorno al “primo viaggio di James Cook in Australia”. Una volta radicata, volle sradicarsi. Vagò per diversi sanatori; morì il 25 settembre del 1995. Sepolta nel cimitero di Llanybri, che aveva celebrato più volte nei suoi versi, chiese una lapide sobria, una scritta assolutoria: Lynette Roberts, poet. Dylan Thomas aveva visto giusto.  I suoi versi – dalla potenza assurda, dissennata, estranea alle mode – furono dimenticati presto; per quarant’anni, Lynette rifiutò di scrivere perché la vita la rifiutava. Nel 2005 Carcanet pubblica, a cura di Patrick McGuinness, un’edizione dei Collected Poems, seguita, nel 2008, da Diaries, Letters and Recollections. Fu, decenni dopo, un’autentica scoperta, Lynette, d’insperata freschezza. Quest’anno, come A Letter to the Dead, esce una nuova edizione dei collected poems, arricchita da materiali d’archivio. *** Premonizione  Quando angoli di ferro blu e grumi di erba rada, a grottesche recedono furtivamente da qui e lasciamo una moltitudine allo spazio mentre crolla dal tuo sorgere un saluto, accetto l’impercettibile pallida notte, il suo volto ciclope in cui nascondere la mia paura, di ghiaccio.  * Non è stato facile  Mentre brilla la legna e brucia abbiamo spartito la nostra frugale felicità; mentre sulla grata, fredda, colava la cenere, ci siamo nutriti ai cancelli della povertà; idioma dell’umiliazione e del disastro. Non è stato facile.  Non lo è ora. Eppure, infuriava tempesta sul quieto verde volto del pianeta.  * L’ipnotista Continuava a fissarmi, quella volpe nel bosco – con un gesto di gioia pitocca ho deriso la sua audacia: e ora mi veglia, è lì, presso quell’albero.  * Spina di sangue C’è chi divora la piana fino alle anche della notte chi slega gli uccelli al volo e dilaga per leghe perché vuole vedere l’osso del bisonte, fiero come una pietra, c’è chi separa il mais e fa scempio  di questa luce sciroppo: questa è la dura, mostruosa condizione di chi nasce e piange in un’alba gialla in un’alba gialla come il limone. Un cuore rompe il ghiacciaio della notte è lì e fa scoppiare un’aquila di carta e c’è chi trascina il giorno in una cappa di gioia di pianto di mania: questo giorno è stato esaudito: un bimbo è nato                                     un bambino ci è nato.  * Gabbiani  Planano lenti i gabbiani, senza paura preferiscono perdersi come lacrime di turisti: il molo e la nave cominciano a muoversi e cominciamo  a piangere, così, senza motivo. Gridano i gabbiani ricordando l’oceano dell’incertezza e la brutalità dei marinai, mere  mosche ai margini della nave. I patti si stringono, si rompono e il rimpianto ci muove immotivato:  lacrime crinite d’ira, cretine, scavano solchi sulle guance.  * Blu ellittico È freddo e i gabbiani, le mucche del cielo, muggiscono, cercano cibo e sorvolano l’acqua blu: allora penso alla neve.                   Quando penso sono sola.  Penso al mare, alle sue immense onde onde piene di occhi che dicono alle onde, cercate i morti perché                   i morti non sono davvero morti.  Perché, è vero, il mare offre più di ciò che afferra e stigma di morte non grava sull’uomo – il mare concede ai morti una via di fuga: i gabbiani lo sanno                   e scalpitano presso le stalle del cielo. * Madrigale verde Vedi, il mio ospite è un albero: cresce nonostante il dolore le sfide e la difficoltà di crescere.  È verde, è risoluto: anche se respira angoscia sprigiona pace, la pace della mente e cresce e si muove  e cammina con verde tenerezza lungo la terra: cielo e sole sigillano il suo essere come io vorrei fare con il tuo.  * Coniglio accoppato Sdraiato nel cristallino del crepuscolo sono io il suo singolare difetto e i suoi occhi, come stelle dimentiche, si schiudono in una nebulosa distante anni luce. Desiderano che il passato sia scuro come la notte che il futuro sia piena luce e caritatevoli raggi. Eppure so, per un sapere ancora arcano, in qualche moto centrale del mio essere, che tutto risorgerà, che tutto si volgerà a me circondandomi, come gli anni luce  ruotano, invisibili, sul loro fuso di ghiaia.  Lynette Roberts L'articolo “Un cuore rompe il ghiacciaio della notte”. Vita lirica di Lynette Roberts proviene da Pangea.
September 10, 2025 / Pangea