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“Manifest Destiny”: il progresso come missione, o del carisma degli Stati Uniti. Dialogo con Andrea Laquidara
> “Nel quadro, una figura femminile, bianca e luminosa, procede da est a ovest, > tenendo tra le mani un libro e i fili del telegrafo (…); alle sue spalle, e > nella stessa direzione, procedono i vagoni di un treno, mentre alla sua > sinistra, più in primo piano nel dipinto, uomini armati di aratro camminano > con calma su una strada dritta. I tre personaggi, la donna, il treno e i > farmers, avanzano lungo tracciati paralleli e ordinati. La parte sinistra del > quadro, quella a ovest, è invece occupata da figure disposte in modo > decisamente più irregolare: si tratta di nativi e animali che fuggono > incivilmente, spinti fuori campo dall’incedere rassicurante del progresso”.  > > (Andrea Laquidara, John Ford e il cinema americano, Mimesis 2019, pp.29-30) Nel dipinto del 1872 American Progress di John Gast, artista statunitense dalle venature naïf nato a Berlino, specializzato in litografie, la donna splendente con la stella sulla fronte che procede levitando verso Ovest (a cui si ispira il personaggio della DC Comics Wonder Woman) incarna la famosa dottrina ottocentesca del Manifest Destiny: il progresso inarrestabile visto come una missione divina, affidata agli Stati Uniti, i quali avevano il dovere di espandersi sul continente per portare la luce della civiltà verso la natura oscura e selvaggia – e ostile – da colonizzare. Una civiltà che ha costruito la sua identità in modo cruento, nell’inevitabile confronto/conflitto con il selvaggio, che andava allontanato, piegato, addomesticato, e nelle fasi estreme di guerra andava sterminato, proprio in nome del Destino Manifesto. Il termine, coniato dal giornalista-editore John L. O’Sullivan, divenne popolare nel 1845 nella disputa territoriale per l’Oregon e nell’annessione del Texas: una rivendicazione per «il diritto del nostro destino manifesto di diffonderci per l’intero continente, che la Provvidenza ci ha dato per lo sviluppo di un grande esperimento di libertà e di autogoverno federato». Termine che venne usato per la prima volta in un discorso al Congresso da Robert Winthrop nel 1846: «I mean that new revelation of right which has been designated as the right of our manifest destiny to spread over this whole continent. (…) The right of our manifest destiny! There is a right for a new chapter in the law of nations; or rather, in the special laws of our own country; for I suppose the right of a manifest destiny to spread will not be admitted to exist in any nation except the universal Yankee nation!». Per riprendere questo tema vogliamo tornare al saggio di Andrea Laquidara John Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di Dioniso (Mimesis 2019), di cui già abbiamo parlato a proposito della Diligenza per Lordsburg, trasposta al cinema con il celeberrimo Stagecoach, ovvero Ombre rosse. Abbiamo visto che John Ford ha segnato la storia del cinema per aver costantemente tematizzato il confronto con il selvaggio, proprio attingendo alla tradizione dell’immaginario statunitense ottocentesco. E il suo primo film di grande successo, quello che gli diede notorietà e peso, risale al 1924, in pieno cinema muto: The Iron Horse, una grande epopea che racconta la costruzione della prima linea ferroviaria transcontinentale americana negli anni successivi alla Guerra Civile. La pellicola venne girata in gran parte negli altopiani desertici vicino a Reno, Nevada, e impiegò centinaia di comparse, che comprendevano operai cinesi, irlandesi e indiani Paiute. Il racconto prende episodi fondamentali della storia americana: la Guerra Civile, la presidenza di Lincoln, l’espansione verso Ovest e gli scontri con gli indiani, e mostra come la costruzione della ferrovia transcontinentale si sposava indefettibilmente con l’ideologia del Manifest Destiny, sostenuta come necessaria e inevitabile. Il progetto della ferrovia transcontinentale venne elaborato per la prima volta nel 1845, ma il Congresso non riuscì a dargli una fisionomia definitiva a causa dei contrasti sul percorso da scegliere. In seguito, la secessione degli stati del Sud e la guerra conseguente favorirono la scelta, appoggiata dai nordisti, di un percorso che tagliasse le regioni centrali degli Stati Uniti, e nel 1862 il Congresso approvò il Pacific Railway Act, che autorizzava la compagnia Union Pacific Railroad a costruire in direzione ovest a partire da Omaha, mentre la Central Pacific Railroad of California ottenne il permesso di costruire la linea in direzione est, partendo da Sacramento. Era un’impresa di enorme difficoltà, trattandosi di regioni isolate e quasi disabitate: tutto quanto, le traversine, il pietrisco, i binari di ferro, il materiale rotabile, i macchinari dovevano essere trasportati sui luoghi del cantiere da molto lontano, insieme alle provviste e ai rifornimenti per migliaia di operai – in buona parte immigrati e veterani dell’esercito dell’Unione smobilitati – che, spesso, erano costretti a lasciare i picconi e a imbracciare i fucili per respingere gli immancabili attacchi degli indiani. In John Ford e il cinema americano, Andrea Laquidara si spinge ancora più indietro rispetto al periodo canonico anni ’30 – anni ’60, considerato il più significativo nella maggioranza delle monografie sul regista, per analizzare proprio The Iron Horse del 1924, Il cavallo d’acciaio, la maestosa ricostruzione dell’impresa ferroviaria ottocentesca. Abbiamo il topografo David Brandon Sr che porta con sé il figlio David Jr in un viaggio esplorativo, nel sogno di realizzare un giorno la grande ferrovia transcontinentale; ma i due vengono assaliti da una banda di Cheyenne, il cui capo – un bianco travestito da selvaggio – uccide il padre lasciando il figlio solo e abbandonato a sé stesso. Anni dopo, l’imprenditore Marsh, padre di Miriam, la ragazzina che il piccolo David Brandon aveva dovuto lasciare per seguire il padre, presiede la Union Pacific, incaricata di costruire il tratto fra il Nebraska e lo Utah; Miriam è fidanzata con Jesson, ingegnere al servizio del padre. Il ricco possidente Deroux, il villain della storia, fa di tutto per impedire che la ferrovia segua un percorso lineare, cercando di convincere l’imprenditore Marsh a farla deviare nelle sue terre. Ma il provvidenziale rientro in scena di David Brandon, ora impiegato come pony express, manda all’aria il suo intento: il giovane suggerisce a Marsh una scorciatoia, lo shorter pass che aveva individuato col padre in quel tragico viaggio. Va da sé che il malvagio Deroux cerchi di eliminare David, con la complicità dell’ingegnere Jesson, geloso per l’amore che sta rifiorendo fra i ritrovati David e Miriam, ma l’intento non riesce: “dunque a Deroux non rimane che scatenare un gruppo di agguerriti Cheyenne: questi aggrediscono i lavoratori, li accerchiano, e rischiano di interrompere definitivamente il progredire della ‘civiltà’, se non fosse che l’intera cittadina di Cheyenne City, costituita da immigrati irlandesi, cinesi, italiani (un po’ riluttanti questi ultimi), si anima e corre in aiuto degli operai”.  Ora fermiamo il riassunto, lasciando il finale a chi voglia guardare la pellicola, e partendo da qui dialoghiamo con l’autore, studioso, regista e insegnante di Cinema all’Università di Urbino, per ragionare su alcuni aspetti – anche sorprendenti – di questo film. Dopo alcune scaramucce con gli indiani, risolte dalla determinazione degli operai che si difendono a fucilate, il grande assalto alla ferrovia da parte dei Cheyenne arriva dopo circa due ore: Ford filma l’aggressione, che si sviluppa “at the end of the track”, con i lavoratori guidati da David Brandon che “imbracciano le armi e si rifugiano sotto i vagoni, tra i binari, immediatamente trasformati in trincea”. È interessante vedere la coreografia dell’assedio dei Cheyenne: la provenienza da sinistra, ovvero da Ovest – che ricorda gli avispici eseguiti dagli àuguri nella nostra antichità – e il senso antiorario della corsa: tutti elementi carichi di significato. Nel cinema – nel buon cinema – vi è sempre una compresenza di esplicito e implicito, di non detto e dichiarato: significati, valori, visioni del mondo arrivano allo sguardo dello spettatore tramite elementi evidenti del contenuto, ma soprattutto grazie a scelte stilistiche insieme sottili e clamorose. Nella scena della battaglia di The Iron Horse vi sono dettagli di regia densissimi di richiami alla filosofia che pervade l’immaginario statunitense dai tempi della Rivoluzione americana – probabilmente anche da prima. I Cheyenne attaccano dalla sinistra dello schermo, dal West, da una terra non ancora civilized, muovendosi in direzione opposta al simbolo più esemplare della marcia del progresso, la ferrovia. Il percorso dei nativi (i “selvaggi”) confluisce in un cerchio, e Ford ce lo mostra con chiarezza in una serie di campi lunghissimi alternati con perizia a piani più stretti: il cerchio (antiorario, perdipiù) contraddice la linea, la stasi selvaggia si oppone al progresso razionale. Progresso borghese, potremmo aggiungere. C’è poi un aspetto di grande rilevanza legato al taglio delle inquadrature e al meccanismo di identificazione che esso determina nello spettatore. Per tutta la sequenza della battaglia, i primi piani o le mezze figure sono riservati esclusivamente ai lavoratori vittime dell’attacco, mentre i Cheyenne sono inquadrati sempre con totali, pienamente assorbiti nella grigia e ostile wilderness. Il pubblico è dunque indotto a empatizzare con le vittime, mentre i nativi assumono il solo ruolo di mere e anonime minacce – inseriti nel paesaggio, come le rocce e gli animali, ci dice Sandro Bernardi in una riflessione interessantissima sul cinema di Ford. Si tratta di un espediente retorico largamente presente nel cinema hollywoodiano, anche in tempi più recenti. Mi viene in mente American Sniper, di Clint Eastwood, un western “mediorientale”: la scena iniziale (il cecchino Chris ha appena ucciso una donna intenta a lanciare una bomba contro un carro armato statunitense; un bambino la raccoglie e prosegue la corsa verso l’obiettivo; Chris prende la mira, ma esita per qualche istante) viene lasciata in sospeso per consentire agli spettatori un approfondimento del contesto e dei personaggi. Per quasi mezz’ora, un flashback ci accompagna nella memoria del cecchino, alla ricerca di risposte ai nostri interrogativi: perché è qui con un fucile in mano? Perché punta un bambino? Che educazione ha avuto? Cos’è accaduto agli Stati Uniti negli ultimi trent’anni? A ben vedere, tuttavia, si tratta di un trucco, anche piuttosto scorretto: per quale motivo Eastwood non dedica altrettanto tempo ai due aggressori? Perché non approfondisce anche la loro storia? Come mai sono lì con una bomba in mano? Che educazione hanno avuto? In che condizioni si trova il Medio Oriente da almeno cinquant’anni? No, mamma e figlio sono solo due pericolosi terroristi anonimi, e dunque il duplice omicidio messo in atto da Chris (uno dei tanti difensori della civiltà hollywoodiana) è presentato sì come terribile, ma necessario. Il fatto che il cerchio contraddica la linea diritta del progresso ci rimanda al simbolo del tempo per gli indiani d’America: per loro il tempo diurno, il tempo notturno e le fasi della luna sarebbero posti sopra il mondo, e il tempo dell’anno sarebbe un cerchio intorno al bordo del mondo. E questa circolarità, come lei osserva, si imparenta con l’Ewige Wiederkunft del Gleichen, l’eterno ritorno dell’uguale teorizzato da Friedrich Nietzsche. Il discorso sul tempo, sulla filosofia del tempo che fonda le nostre identità, è trattato spesso con frettolosità, o addirittura trascurato, mentre si tratta di un tema urgente, che richiederebbe una riflessione molto ampia. A proposito della teoria dell’Eterno ritorno di Nietzsche, credo si tratti di un’intuizione sfuggente ed enigmatica, a volte fraintesa. Ho sentito opinioni (di semplici amatori e di addetti ai lavori) che interpretano il ritorno nietzschiano come ripetitività routinaria, da cui il filosofo ci inviterebbe a liberarci, come un fiume smuove e ripulisce l’acqua torbida di uno stagno. In realtà la circolarità del tempo di cui parla Nietzsche è tanto insopportabile quanto gioiosa: è una potente affermazione della vita che divincola dalla perenne attesa di un mondo altro. “Quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più nient’altro!”, ci dice il demone ne La gaia scienza. Se osserviamo con attenzione, dobbiamo constatare che la configurazione del tempo lineare, inteso come una freccia tesa verso altrove, getta l’uomo in una condizione di attesa speranzosa e pessimistica, che svaluta la vita presente, la vita terrena tangibile. Una simile configurazione si colloca a fondamento tanto della metafisica cristiana, quanto della società capitalista contemporanea, che comanda il sacrificio del presente, in vista del conseguimento futuro di un guadagno infinito. Un fantasma di guadagno, in realtà, ma efficacissimo come punto di fuga per l’esistenza umana. Nel puritanesimo in cui affonda le radici la cultura statunitense sono presenti entrambe le istanze, quella cristiana e quella capitalista. È chiaro che, osservato dalla locomotiva che galoppa lineare sui binari d’acciaio del progresso, il tempo ciclico dei nativi – proprio di tante altre culture, antiche e contemporanee – non è altro che una torbida fase di ristagno, l’avaria del motore, l’interruzione della linea: “The line went dead”, afferma un soldato in Stagecoach, comunicando al comandante che il selvaggio Geronimo ha tagliato la linea del telegrafo. Vediamo come si arriva a quella specie di suprematismo che informava la dottrina ottocentesca del Destino Manifesto, il motore dell’intera macchina colonizzatrice dell’Uomo Bianco. Si parte da J. Hector St. John de Crèvecœur con il suo Letters from an American Farmer del 1782, dove si definisce una distinzione netta fra le due sponde dell’Atlantico: la vecchia Europa come terreno ormai sterile e il suolo americano che può offrire una rigenerazione e dar vita a una nuova umanità. Poi abbiamo Thomas Hart “Old Bullion” Benton, primo senatore del Missouri che a partire dal 1820 teorizza l’espansione verso il Pacifico come simbolo della libertà e della grandezza dell’America. Ora, dopo duecento anni, sembra che questa dottrina stia trovando echi inquietanti anche nell’America di oggi, in questa pirotecnica seconda presidenza di Donald Trump con il suo Make America Great Again, con le dichiarate velleità espansionistiche – ai limiti del grottesco – verso il confinante Canada e verso la Groenlandia, definite “necessarie” per lo sviluppo americano e il progresso verso la felicità, e le improvvise azioni guerresche che incendiano definitivamente il Medio Oriente. Siamo di nuovo di fronte a un “tempo che ritorna”? Non si tratta del ritorno nietzschiano come affermazione coraggiosa della vita, tutt’altro: le narrazioni statunitensi sono piuttosto pervase di paura dell’Altro, una forza centripeta che genera inevitabilmente chiusura e conflitto. A proposito di questa immaginifica rigenerazione che avrebbe prodotto l’uomo nuovo, l’americano, oltre ai personaggi già citati, de Crèvecœur, Benton, vale la pena ricordare Frederick Turner e la sua interpretazione della frontiera americana, proposta sul finire dell’Ottocento. Lo storico distingue le frontiere europee (plurali), che separano una cultura da un’altra cultura, dalla frontiera americana (singolare), che distingue cultura da wilderness. Questo confronto arcaico, originario col grado zero della civiltà avrebbe rigenerato lo svigorito uomo europeo, dando vita all’americano, l’uomo nuovo di frontiera, in grado di riaffermare le leggi eterne che Dio ha dato alla Natura. Sembra la storia di Superman… Noi sappiamo che si tratta di una gran bella menzogna: l’Europa non era popolata da fiacchi individui occhialuti, malati di civiltà, e di là dal recinto americano non c’era affatto una terra caotica in cui portare la razionalità divina, ma una miriade di culture antiche e complesse che popolavano un paesaggio ricco e vario. Tuttavia questa narrazione è stata efficacissima per giustificare la chiusura verso le proprie origini e lo sterminio attuato ai danni dei nativi. Il metodo è stato mantenuto nei decenni successivi, sempre più evoluto, divincolato dalla dimensione esclusivamente territoriale: si legga al riguardo il bel saggio di Ilaria Moschini Il grande cerchio. Theodore Roosevelt, già nel 1904, investe gli Stati Uniti del ruolo di polizia internazionale, chiamata a intervenire “elsewhere”, ovunque l’ordine e la stabilità sia messa in pericolo; noi tutti ricordiamo l’“esportazione della democrazia” proposta generosamente al mondo da George W. Bush, a inizio millennio, giustificata dall’attentato alle Twin Towers. Per arrivare ai giorni nostri, ritengo che i capricci e le pagliacciate di Trump siano l’ultimo aggiornamento di queste narrazioni: armi di distrazione di massa che, al pari delle storie e dei miti westerndi cento anni fa, servono a occultare un piano ben ordinato, razionale, lineare di assimilazione, di appiattimento, di omologazione dell’altro ai propri fantasmi ideali. Un’identità fragile difficilmente si apre all’alterità. Chissà se alla Casa Bianca stanno già lavorando a un video che prefiguri le meraviglie dell’Iran futuro… Tornando a The Iron Horse, lei ha fatto riferimento alla frammentazione etnica del corpo lavoratori, che con scavi e martellate posavano binari e traversine con grande lena – anche in una specie di “gara” fra le due compagnie per riuscire a completare il proprio tratto per prima. Nel film questa molteplicità culturale, di indole e di espressioni verbali si vede anche nei pannelli delle didascalie, dove a volte i dialoghi degli operai sono espressi in un americano allegramente deformato, forse dalla spensieratezza lessicale degli sradicati.  Sì, in The Iron Horse è presentato quest’aspetto costitutivo della società statunitense, punto d’incontro di traiettorie provenienti da origini molteplici. Anche in questo fenomeno troviamo una interessante ambivalenza, una compresenza di apertura e chiusura. Per lungo tempo si è parlato degli Stati Uniti come di un Melting Pot, un calderone che raccoglie ingredienti di provenienza varia e li compone insieme, formando una nuova, laboriosa società cosmopolita. Il termine è ripreso dall’opera teatrale omonima di Israel Zangwill, che nel 1908 immaginava l’America come il crogiuolo di Dio, in cui si entra italiani, cinesi, tedeschi, irlandesi, e miracolosamente si esce americani. Vi è naturalmente il rischio concreto di vivere un processo di omologazione, di assimilazione. Nel film di Ford, la battaglia difensiva contro i nativi è in qualche modo il calderone che impasta e compatta i lavoratori immigrati, trasformandoli in orgogliosi statunitensi. Mi viene in mente Jacques Feyder, grande regista francese, precursore del Realismo poetico, e la gustosa descrizione che egli ci offre della sua esperienza hollywoodiana, avuta negli anni Venti e Trenta. La riassumo in poche righe. Stanchi dei loro prodotti piuttosto ripetitivi, gli americani decidono di dare nuova linfa alla propria estetica chiamando qualche regista europeo alla propria corte. E così Feyder approda a Hollywood, ci racconta i numerosi incontri con i produttori, il confronto sul soggetto giusto, la sceneggiatura appropriata, i compromessi, le incomprensioni, le strette di mano; e ancora l’inizio della lavorazione, straordinariamente efficace e lineare: tutto funziona alla perfezione, “tutto viaggia sul velluto”. Finché il film è concluso, e ci si incontra per l’anteprima. È lì che il regista, seguendo sullo schermo il fluire di un film che viaggia senza alcun intoppo, deve confessare a se stesso: “E’ venuto molto bene, ma non è il mio film”. Non sono io. E a conclusione della proiezione, sui volti di tutti i membri della produzione, legge lo stesso pensiero: “Ma perché abbiamo chiamato dall’Europa uno che ha girato un film che qualsiasi nostro regista avrebbe potuto dirigere?”. I pochi cineasti che, chiamati a lavorare negli Stati Uniti, sono riusciti in qualche modo a conservare la propria identità professionale – Stroheim, Renoir, Antonioni – sono stati fortemente osteggiati da Hollywood. Anche in questo caso, il cinema è metafora di una dinamica sociale fortemente radicata nella cultura occidentale.  John Ford si è grandemente impegnato a inquadrare il Caos, ovvero la wilderness, in diverse prospettive e da diverse angolazioni, dedicandosi all’epopea del West quasi come un adepto alla sua religione. E lo ha fatto da uomo del suo tempo e della sua cultura, in un orizzonte – come lei dice – denso di richiami agli ideali illuministi, alla concezione borghese del viaggio, alla tecnologia come strumento di dominio. In cosa credeva e come si gratificava John Ford nello sviluppo della sua carriera, e in cosa smise di credere verso la conclusione della sua parabola artistica? John Ford era considerato il più affidabile dei registi hollywoodiani. E questa affidabilità io ritengo sia dovuta anche al suo modo di inquadrare la wilderness, allo sguardo che gettava – o credeva di gettare – al di là della frontiera, in linea con lo sguardo di Hollywood. Prendendo a prestito il lessico lacaniano, si può dire che sin dalle sue origini, il cinema americano abbia collocato un’immagine della wilderness davanti alla wilderness stessa, per rimuovere l’angoscia che essa può provocare, per evitare di esserne bewildered, disorientato. Ho già citato Jean Renoir, grande regista francese, coevo di Ford. Non è un caso che, nel suo periodo americano (gli anni Quaranta), fu fortemente osteggiato dai produttori hollywoodiani proprio perché adoperava la macchina da presa come strumento di apertura, di esplorazione, come espressione di curiosità verso un territorio sconosciuto e inquieto. La visione fordiana della wilderness, proprio per il suo carattere di chiusura, era destinata a un’inesorabile decomposizione, destrutturata dall’interno dall’autoreferenzialità che la fonda. Il che, lo ribadisco, la rende rappresentativa dell’intera cultura occidentale dominante. Lindsay Anderson, nel suo volume sul cineasta americano, registra negli ultimi anni della vita e della filmografia di Ford un progressivo incupimento, un nichilismo ruvido che impregna alcune delle ultime pellicole fordiane. Ce ne sono due, a mio parere, significative, entrambe dirette negli anni ’60, quando il mondo e il cinema erano ormai mutati e reclamavano un cambiamento di prospettiva dai cineasti. La prima è Cheyenne Autumn: dopo decenni di demonizzazione degli “indiani”, il regista western per eccellenza sembra fare ammenda e riconoscere valore alla cultura dei nativi. Viene tuttavia mantenuta l’antipatica abitudine hollywoodiana di far interpretare Comanche, Cheyenne, Sioux da attori che di nativo non hanno nulla: messicani, italiani, spagnoli, etc, solo perché rispondono al cliché del volto esotico. In più, leggendo le interviste rilasciate in quegli anni dal regista, può lasciare perplessi il carattere assimilazionista nascosto in alcune affermazioni: “Ho un enorme affetto per gli Indiani. È un popolo molto morale […] hanno una letteratura […] amano i bambini e gli animali”. Il valore dell’altro cresce proporzionalmente alla somiglianza con l’identico. L’altra pellicola è The Man Who Shot Liberty Valance. In questo film si avverte la necessità di Ford di prestare orecchio alle istanze del nascente cinema moderno, e, nello specifico, la forte influenza di quel capolavoro che è Rashomon di Kurosawa. Ricorderete che nel film del regista giapponese, con una serie di flashback, si cerca di definire cosa sia davvero accaduto nelle ore precedenti al processo, e chi sia l’assassino dell’uomo ritrovato per caso da un contadino di passaggio. Ciascuna delle testimonianze offre una prospettiva diversa e ridisegna i personaggi, le azioni, le relazioni. Anche Ford costruisce una narrazione prevalentemente orientata al passato, inquadrando un evento cruciale accaduto decenni prima, sulla frontiera, l’uccisione del bandito Liberty Valance, e, attraverso una duplicazione del flashback, si chiede chi lo abbia ucciso davvero: il senatore Ransom (James Stewart), come la storia ufficiale racconta, o il rude Tom (John Wayne)? Se però a conclusione di Rashomon dobbiamo constatare che il regista ha inquadrato da tante angolazioni un’oggettività sfuggente, invitandoci ad accettare l’assenza di una verità unica, Ford adopera una tecnica simile ma con uno scopo diverso: svelare la menzogna ufficiale e affermare la verità nascosta. È Tom – un americano vero, direbbe Turner – che ha liberato la città dal bestiale Valance, è a lui che si deve la fondazione della civiltà, anche se la storia lo ha voluto dimenticare. C’è una fatica, una resistenza caparbia a rinunciare alla prospettiva certa, al pensiero unico, alla Verità, una pericolosa fede nel proprio punto di vista che non limita solo l’estetica cinematografica, ma la visione stessa della realtà, fuori dalla finestra.  Paolo Ferrucci *In copertina: John Gast, American Progress, 1872, rappresentazione allegorica del “Destino manifesto” degli Stati Uniti L'articolo “Manifest Destiny”: il progresso come missione, o del carisma degli Stati Uniti. Dialogo con Andrea Laquidara proviene da Pangea.
July 4, 2025 / Pangea
Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford
> “In quella regione non ancora riconosciuta come Stato dell’Unione, era uno > degli anni in cui i segnali di fumo apache si alzavano dalle cime delle > montagne rocciose, e più di un ranch era ridotto ormai a un quadrato di cenere > annerita che si stendeva sul terreno. La partenza della diligenza da Tonto > segnava l’inizio di un’avventura dall’incerto lieto fine…” > > (incipit di La diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox, Sellerio editore, > 1992) Cronista giudiziario di Portland, Oregon, Ernest Haycox (1899-1950) è stato autore di una ventina di romanzi e qualche centinaio di racconti di ambientazione western, storie cominciate ad apparire nei pulp magazines americani negli anni Venti, in cui si celebrano i grandi temi della Frontiera, dalla vastità delle praterie al mistero minaccioso dell’altro, dall’asprezza del deserto al silenzio che pervade anche l’animo dei personaggi, solidamente sagomati su stereotipi ben collaudati. Le sue strutture narrative essenziali, rese con una lingua asciutta e meccanismi elementari che sfruttano topoi e figure retoriche ricorrenti, si rendevano buoni canovacci adatti a ulteriori sviluppi, alcuni dei quali sono stati trasposti al cinema hollywoodiano. Fra i suoi estimatori c’erano Gertrude Stein e Ernest Hemingway, il quale – secondo la vulgata – ebbe a scrivere “I read The Saturday Evening Post whenever it has a serial by Ernest Haycox”.  Il racconto Stagecoach to Lordsburg, uscito sul Collier’s Magazine di Springfield, Ohio, nel 1937, è il più famoso perché vanta un’ascendenza e una discendenza illustri. Il suo “prima” è la celebre novella di Guy de Maupassant Boule de suif, mentre il suo “dopo” viene dal cineasta John Ford e dal suo sceneggiatore Dudley Nichols, che lo giudicò un’ottima trama: «Cercammo subito di tirarne fuori un film creando i personaggi, visto che quelli che offriva non erano che abbozzi. Quindi li mettemmo da parte cercandone dei nuovi che ci apparissero più interessanti». Fu così che Stagecoach to Lordsburg divenne il celeberrimo film Stagecoach – reso in italiano come Ombre rosse –, che nel 1939 (anno dell’epocale Via col vento) segnò il punto cardine della filmografia western, definito come il momento in cui il genere “diventa maggiorenne” e s’impone come “il cinema americano per eccellenza”. In Boule de suif di Maupassant una prostituta francese estroversa e grassottella, passeggera della carrozza in fuga da Rouen durante la guerra franco-prussiana del 1870, è decisa a rifiutare per senso patriottico le avances di un ufficiale prussiano che ha fermato la comitiva, ma alla fine si vede costretta a cedergli per le pressioni dei suoi compagni di viaggio, persone per bene e rispettabili – commercianti, nobili, due suore, un pericoloso democratico – che non vogliono ritrovarsi bloccate dalla sfrontata prepotenza dell’ufficiale e dalla caparbietà della ragazza. L’esito lo conosciamo, con la cinica ipocrisia della buona società francese che apre e chiude la partita nel modo più classico. In Stagecoach to Lordsburg, rifacendosi a quel racconto, Haycox prende il riscontro storico della fuga nel 1885 del capo apache Geronimo dalla riserva di San Carlos in cui era stato confinato, nell’ultimo sanguinoso tentativo di ribellione attraverso scorrerie e devastazioni degli insediamenti dei Bianchi. Come per Boule de suif, i passeggeri della diligenza per Lordsburg compongono un microcosmo sociale, e qui sono proiettati verso una Frontiera in progressivo e inarrestabile movimento verso ovest: sono quelli che colonizzeranno le terre sottratte agli indiani, quelli che vivono di espedienti professionali, e anche gli emarginati come la prostituta Henriette, schiva e gentile, e il bel pistolero “smilzo e biondo” Malpais Bill, diretto verso la sua vendetta contro chi gli ha ucciso il padre e il fratello. Come osserva Attilio Brilli nell’introduzione, i personaggi hanno un carattere bozzettistico efficace, con un gusto fra l’arcaico e l’ingenuo che risponde alla mitologia popolare in cui si muovono; ognuno porta i segni del suo status sociale, dai dettagli del vestire ai tratti somatici rappresentativi, fino ai gesti e agli atteggiamenti che tradiscono i loro umori e le loro storie. Malpais Bill – che nel film di John Ford diventa Ringo interpretato da John Wayne – ha “negli angoli degli occhi e nella lunga piega della bocca” il segno di una natura selvaggia, quella del mezzosangue inevitabilmente reietto. Nel racconto abbiamo una ragazza – Miss Robertson – che va a sposarsi con un ufficiale di fanteria, un piazzista di whisky di Kansas City, un inglese alto e ossuto con un enorme fucile da caccia, un elegante giocatore d’azzardo, un robusto mercante di bestiame con una grossa pepita d’oro appesa alla catena dell’orologio, lo smilzo Malpais Bill con le pistole che gli pendono ai fianchi e la prostituta Henriette – queste ultime le due figure centrali. Con questo materiale, John Ford e Dudley Nichols plasmarono e “riformarono” la tipologia dei personaggi di Haycox per caricarla dei significati simbolici più adatti alla narrativa hollywoodiana. La evanescente “ragazza dell’ufficiale” si trasforma nella volitiva Lucy Mallory, moglie incinta di un ufficiale dell’esercito che vuole raggiungere il marito; l’inglese col fucile e il mercante di bestiame vengono rimpiazzati da un banchiere avido che è fuggito con la cassa e dal medico ubriacone Doc Boone, figura divenuta classica nella mitologia cinematografica western; Malpais Bill diventa Ringo Kind, che è ricercato e per questo scortato nella diligenza dalla nuova figura dello sceriffo, e Henriette diventa Dallas Douglas, la reietta che viene fatta salire sulla carrozza da un drappello di signore arcigne e avvizzite della Lega per la moralità. Nel film lo sgangherato Doc Boone, costretto a fuggire da un luogo all’altro, è il contrappeso speculare del giocatore d’azzardo Hartfield, virginiano dai modi fini e l’aspetto nobile, entrambi figure che si redimono nel corso del viaggio. L’opposizione più netta nel microcosmo della diligenza è fra la donna pubblica Henriette/Dallas e Miss Mallory, ovvero la prostituta e la rispettabile dama che deve raggiungere il marito, e si esplica in un percorso di sguardi, di espressioni e di inquadrature soggettive – è la donna civilizzata a osservare la prostituta, avvertendo una curiosità partecipativa – che nel film prepara la riconciliazione solidale che avverrà in uno degli eventi centrali, la nascita della bambina nella stazione  lungo il deserto. Qui abbiamo lo svelamento dei ruoli e la redenzione dei reietti, uno dei grandi marchi del cinema “etico” di John Ford.  Uno sguardo analitico e complessivo sul suo cinema lo troviamo nel bel saggio di Andrea Laquidara John Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di Dioniso (Mimesis, 2019), che passa in esame la filmografia fordiana concentrandosi sulle pietre miliari della sua sterminata produzione e traendone quelle implicazioni storico-filosofiche che ci riportano anche all’America di oggi. Vediamo innanzitutto che tutti i film di John Martin Feeney, figlio di un irlandese giunto in America nel 1872, sono girati – anche quelli non squisitamente western – sulla Frontiera, cioè sul limite, sulla soglia, quella linea che difende la civiltà dalla wilderness: un cinema che rappresenta nel modo più compiuto il mito di fondazione degli Stati Uniti d’America. Prendiamo le sequenze che aprono Stagecoach: in una piccola cittadina dell’Arizona giunge la notizia che gli Apache sono sul piede di guerra. Dopo qualche inquadratura in esterni, che riprende due figure a cavallo che corrono negli spazi del deserto, finiamo all’interno di una caserma, dove una delle due figure spiega a un ufficiale seduto alla scrivania che gli Apache infestano le colline circostanti. L’ufficiale chiede al telegrafista di predisporre la linea di comunicazione con Lordsburg, più a ovest nel New Mexico, ma proprio da quella città sta arrivando un messaggio urgente. L’inquadratura si stringe, l’attesa si fa preoccupata, ma la comunicazione non arriva: «The line went dead, sir» dice il telegrafista, la linea è interrotta. Da Lordsburg arriva solo la prima ferale parola: “Geronimo”. Come osserva Laquidara: > “Tutti i presenti restano in un lugubre silenzio, e la frattura che Geronimo > ha provocato nella linea del telegrafo è riempita solo dalla colonna sonora, > improvvisa, grave, piena di semitoni e sinistre dissonanze: un chiaro invito > lanciato allo spettatore di preoccuparsi seriamente. (…) La linea di > comunicazione si è improvvisamente trasformata in un binario morto. Si è > fratturata. L’unione si è fatta divisione. E in questa frattura si è inserito > il nome di Geronimo, il selvaggio, l’irrazionale, accompagnato da un accordo > musicale disarmonico. Ecco dunque cosa determina il carattere tragico, > agonistico del percorso della storia, la possibile frattura del binario > provocata dall’imboscata tesa dal selvaggio. La dinamica e ottimistica > mobilità del progresso muta improvvisamente in stasi. Nel Caos della stasi”. A metà della storia la diligenza attraversa il tratto in cui Geronimo avrebbe tagliato il filo del telegrafo, nel territorio denso di ostili premonizioni rappresentato dalla Monument Valley, divenuta il più mitico dei paesaggi americani: qui è evidente che il gruppo racchiuso nella carrozza – la piccola comunità – è esposto al passaggio nel mondo spaventevole dell’irrazionale. E l’irrazionale arriva: > “Tutta la celebre sequenza della fuga della diligenza, inseguita dagli Apache, > e della battaglia realizzata in frenetica corsa, è tra le più studiate nei > corsi di Storia del cinema. Una delle ragioni sta nel fatto che John Ford > compone insieme magistralmente un materiale molto eterogeneo. Nella pazza > corsa di carrozza e uomini a cavallo si susseguono: velocissimi carrelli > girati in esterni; inquadrature più ravvicinate dei passeggeri che si > difendono (girate evidentemente in studio); riprese dall’alto che mostrano la > diligenza fendere un territorio bianco come un lago asciutto, inseguite dalle > ombre minacciose dei selvaggi; citazioni da Griffith (raccordi in asse e sullo > sguardo); citazioni dal cinema sovietico (la spettacolarità di angolazioni > inusuali, con prospettiva dal basso); passaggi di azione pura che si alternano > a primi piani fortemente espressivi, che definiscono la psicologia dei > passeggeri”. L’attacco degli Apache dura ben sei minuti, con una dinamica forsennata in cui non v’è un minimo cedimento o dispersione della tensione narrativa, fino al momento in cui gli squilli di tromba annunciano il soccorso salvifico del battaglione di cavalleria al galoppo e lo scioglimento del dramma. I selvaggi sono rappresentati come figure omogenee, anonime, accomunate dall’impersonare il pericolo, il caos e la violenza, sia quando sono invisibili sia quando irrompono sulla scena come incubi. E in effetti gli Apache Chiricahua, a cui apparteneva Geronimo, rientravano nel gruppo di popoli aggressivi e di mentalità guerriera per i quali le scorrerie erano l’impresa tribale più importante e legittima, e la guerra di vendetta era l’inevitabile conseguenza della dinamica delle scorrerie. I giovani maschi venivano allevati per essere corridori forti, rapidi e rapaci, per diventare ladri di bestiame e razziatori di carovane, abili nel nascondersi e nello schivare, e implacabili odiatori dei vicini di altre tribù. È lo stesso Geronimo a narrare il mito chiricahua della creazione, in cui uno dei due eroi tradizionali è chiamato “uccisore di nemici”. Poiché vivono razziando, devono affinare le arti dell’inseguimento, dell’imboscata, della morte, in quanto la morte dei nemici è la loro vita. Per la mente indiana l’attaccamento al paese nativo era una necessità vitale, e non potere farvi ritorno equivaleva alla separazione dalla sorgente di vita della terra. Gli Apache Chiricahua fondevano questo attaccamento alla propria terra con la pratica tradizionale della guerra di razzia, e ciò rese possibile a Geronimo di evitare la resa definitiva per più di un decennio, periodo fatto di menzogne e promesse non mantenute da entrambe parti in conflitto. Per i Bianchi Geronimo era il peggiore fra tutti, perché era il migliore sotto l’aspetto della civiltà chiricahua: il più diffidente, intransigente, selvaggio, crudele.Quando lo stile di vita dei Chiricahua fu minacciato come mai prima, egli divenne una sorta di capo supremo, e nulla lo convinceva che il suo predecessore Cochise avesse fatto bene a portare le sue bande nella riserva loro assegnata. I Chiricahua non erano mai stati agricoltori, perché si spostavano di continuo, ed era impensabile che si convertissero in contadini all’interno di una riserva; senza contare che non avrebbero più avuto la libertà di picchiare la moglie per le sue malefatte e nemmeno di tagliarle la punta del naso quando la scoprivano infedele, oltre a non potersi più fare il tiswin, la birra tradizionale a base di granturco. In breve, sarebbero dovuti somigliare agli uomini bianchi che erano devoti alla terra solo nella misura in cui potevano impossessarsene per sfruttarla a scapito di tutto il resto, mentre per i Bianchi il fatto che gli Apache non riuscissero a concepire la nozione della mobilità verso l’alto mediante l’accumulo di ricchezze era la dimostrazione della loro natura sub-umana. Tornando a Stagecoach e al saggio di Andrea Laquidara, abbiamo Ringo e Dallas, lui ricercato – prigioniero dello sceriffo che viaggia in cassetta – e lei prostituta: due figure emblematicamente collocate ai margini del sistema sociale, che in una delle pause del viaggio vengono a trovarsi all’aperto, in un esterno notte. Dallas cammina lungo uno steccato di tronchi, in un paesaggio spettrale “alla Murnau” che però è stemperato dalla colonna sonora delicata e sentimentale. > “Lo steccato è il vero protagonista del quadro: il legno robusto e livido > taglia l’immagine in diagonale e ne attraversa il centro. Dallas, prima in > ombra, poi investita da una luce dolorosa, si ferma sul bordo destro dello > schermo. Ringo, una nera silhouette, le si avvicina, ma, senza evidente > motivo, decide di orientarsi verso la parte ovest dell’inquadratura, e dunque > restare al di là del recinto di legno cui Dallas sta appoggiata. L’intero > dialogo si svolgerà con la presenza triste e ingombrante dello steccato che > separa i due interlocutori”. Pur divisi, i due sono accomunati dallo stato di marginalità:  > “entrambi sono esclusi da una società ipocrita e formale; entrambi hanno > vissuto un trauma che li ha privati della famiglia; entrambi sono soli, alla > ricerca di qualcosa, un ricordo o un’attesa che custodiscono sotto la scorza > dura che li corazza. L’identificazione, man mano che il dialogo procede, si fa > più viva ed evidente: le inquadrature si stringono e si intensificano nei bei > primi piani con cui John Ford rende palese la predilezione e l’affetto che ha > per simili personaggi. Il gioco di campo e controcampo, che alterna il volto > fiero e intenerito di Wayne a quello di Claire Trevor, pieno di dolcezza > dimenticata, grazie all’ambivalenza naturale del montaggio, congiunge e > contemporaneamente mantiene separati i due amanti virtuali”. Dal West, Ringo si decide a dirle che al di là della frontiera possiede una casa dove un uomo e una donna potrebbero vivere felici. Dallas, dall’East, è sorpresa e intimidita, perché la crudeltà del mondo l’ha disabituata all’idea della felicità. A questo punto avanza nell’oscurità lo sceriffo, che accarezzando lo steccato ricorda a Ringo che non può allontanarsi, essendo un ricercato sotto la sua custodia, mentre sullo sfondo la figura di Dallas si allontana profondamente turbata. Come un rasoio, la legge della Frontiera è intervenuta a dividere il corpo unico della felicità. Perché sappiamo come “il lavoro di costruzione narrativa si esprima proprio nella selezione che distingue il necessario dal superfluo, l’utile dall’inutile, il civile dal selvaggio, il buono dal cattivo. È in quella linea di demarcazione che risiede il senso profondo del narrare; ed è nella capacità di operare col rasoio, distinguendo l’identità dall’alterità, che affonda le radici il montaggio, e dunque la costruzione di una particolare visione della realtà”. Mentre in Boule de suif la visione negativa di Maupassant si estende all’intera fisionomia della società in viaggio, nella micro-società di Stagecoach il medico ubriacone, lo sceriffo, Ringo e anche Mrs. Mallory (nella sua solidarietà finale verso Dallas, che nel pericolo le ha protetto la neonata) rappresentano l’aspetto migliore della civiltà, quello che giustifica il procedere verso la via del progresso; l’unica figura negativa resta il banchiere Gatewood, esponente di un capitalismo cinico, vorace ed esasperato. E la valorizzazione della prostituta Dallas viene proprio dalla “sterilizzazione” della sua femminilità e del suo eros, che viene normalizzato e ricondotto nel sistema, promosso alla funzione procreativa, di costruzione della famiglia e della società. È la cinepresa di Ford e lo sguardo tenero di Ringo che la sollevano dalla sua condizione misera, incorniciandola nell’icona familiare della donna-madre – della Madonna, secondo l’interpretazione di Laquidara – che tiene in braccio la bambina appena partorita da Mrs. Mallory. Un lavoro strategico che “risulta efficacissimo, giacché riesce a esorcizzare l’aspetto più spaventevole della donna, la sua carica erotica e sensuale”. Ma non solo: il viaggio che Mrs. Mallory e Dallas hanno fatto attraverso l’inferno le ha condotte insieme a una maturazione, la prima al superamento dei propri atteggiamenti misurati e rigidi di signora dell’Est, con la presa di coscienza che restituisce dignità alla reietta, la seconda alla consapevolezza del proprio valore – riconosciuto dalla comunità che torna ad accettarla – e della reale possibilità di amare ed essere ricambiata. Paolo Ferrucci *In copertina: Adolph F. Muhr, Ritratto di Geronimo, 1898 L'articolo Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford proviene da Pangea.
March 25, 2025 / Pangea