Underground Railroad (la ferrovia sotterranea) era una rete clandestina – alla
quale si unì anche la famiglia di Louisa May Alcott, l’autrice di Piccole
donne – che, nel secolo XIX, negli Stati Uniti, aiutava gli afroamericani a
fuggire dagli stati schiavisti del sud in quelli abolizionisti del nord oppure
in Canada.
Il treno occupava un ruolo centrale nell’immaginario dei neri. Era il mezzo con
cui sognavano di scappare per potersi finalmente liberare dalle catene della
schiavitù o della prigionia, e non essere più condannati a sacrificare le
proprie vite nelle piantagioni o nei penitenziari, ai lavori forzati: «Il treno
che passa sbuffando e fischiando, che viene da lontano e che va chissà dove, che
porta con sé gli uomini liberi e che potrebbe un giorno portare il poveraccio
che soffre (un lavoratore dei campi, o un forzato: in quegli anni non faceva
molta differenza) lontano dai luoghi della sua pena, è stato […] per molto tempo
uno dei motivi dominanti della letteratura folklorica negro-americana, nei blues
e anche nel primo jazz. L’“espresso di mezzanotte” passa vicino alla prigione ed
è il simbolo di un mondo migliore, remoto, irraggiungibile». Il brano citato è
tratto da un commento di Arrigo Polillo alla ballata Midnight Special di
Leadbelly (Arrigo Polillo, Jazz, 1975-1997, p. 28).
Nel suo romanzo, La ferrovia sotterranea, Colson Whitehead immagina che
l’underground railroad non sia soltanto un’organizzazione ma una struttura
realmente esistente nel sottosuolo della federazione americana, e che attraversa
gli stati del sud fino ad arrivare in quelli del nord per portare in salvo i
neri fuggitivi. Il libro è per alcuni un’ucronia (l’esempio più famoso del
genere è il romanzo di Philip K. Dick The Man in the High Castle) in quanto
descrizione di quello che sarebbe accaduto se la ferrovia in parola fosse
letteralmente esistita. In verità, viene facile immaginare che né la storia
degli afroamericani né quella degli Stati Uniti sarebbe cambiata granché se ci
fosse veramente stato qualcosa del genere. Ed in effetti, a differenza di quello
di Dick, il testo di Whitehead non delinea sconvolgimenti storici di rilievo. Se
non fosse per la sua ambientazione nel passato, si potrebbe piuttosto parlare
di discronia, ovvero di una narrazione che si dispiega all’interno di una
cornice “fantastica” con connotazioni sostanzialmente “realistiche”.
Il libro è una summa abbastanza armonica di vari generi: il romanzo realista,
quello postmoderno, il romanzo d’appendice, il romanzo storico,
il Bildungsroman, il romanzo familiare e, infine, la slave narrative (i cui
prototipi sono The Interesting Narrative of the Life of Olaudah Equiano, The
Narrative of Frederick Douglass, an American Slave, Written by
Himself e Incidents in the Life of a Slave Girl, Written by Herself di
Harriet Jacobs, già emulati in passato da svariate opere tra cui la
celeberrima Uncle Tom’s Cabin di Harriet Beecher Stowe). Ma, come La capanna
dello zio Tom, non è un’opera di slave narrative perché l’argomento trattato non
è la storia autobiografica di un ex schiavo o di una ex schiava. Si può, però,
senza dubbio dire, che affonda, fra l’altro, le proprie radici anche in quel
genere.
Il romanzo, ambientato negli anni ’30 del XIX secolo, narra la storia della
schiava Cora che decide di fuggire, in compagnia di Caesar, dalla piantagione –
ubicata in Georgia – dei loro padroni, i Randall.Nel corso della fuga i due
s’imbattono in un gruppo di cacciatori bianchi e, nello scontro che ne consegue,
la donna uccide uno degli inseguitori, un ragazzo. Prima di lei, l’unica che era
riuscita a sfuggire con successo alle grinfie dei Randall – così almeno sembra,
fino al colpo di scena finale qui prudenzialmente omesso per evitare il tanto
temuto spoiler – era stata sua madre Mabel. Nei confronti della genitrice la
figlia nutre un profondo risentimento per essere stata abbandonata e lasciata da
sola nella piantagione, a patire angherie. E anche perché, essendo rimasta priva
di protezione, ha dovuto subire una violenza di gruppo ad opera di alcuni suoi
compagni di sventura. I due fuggitivi, grazie all’aiuto di un certo signor
Fletcher (che «odiava la schiavitù, la vedeva come un insulto agli occhi di
Dio»), giungono in una stazione della fantomatica ferrovia sotterranea, prendono
il primo treno disponibile e arrivano così nella Carolina del Sud. Nel
frattempo, Terrance, ormai unico sopravvissuto della famiglia Randall, affida a
un cacciatore di schiavi, Arnold Ridgeway, l’incarico di catturare e riportare
indietro i due fuggiaschi.
Per far capire meglio chi è questo macabro personaggio, impregnato di “sano”
spirito americano, che sembra uscito da un film di Quentin Tarantino, è bene
tener presente la sua “radicale” interpretazione della dottrina del “destino
manifesto” (Manifest Destiny) degli Stati Uniti:
> «“Significa prenderti ciò che è tuo, quello che ti appartiene, qualunque cosa
> pensi che sia. E tutti gli altri se ne stanno ai loro posti assegnati per
> permettertelo. Che siano i pellerossa o gli africani, devono arrendersi,
> sacrificarsi, in modo che noi possiamo ottenere ciò che ci spetta di
> diritto”».
Nella città in cui sono arrivati, tutto sembra andare per il meglio a Cora e
Caesar. Entrambi, sotto mentite spoglie, hanno un lavoro retribuito e un tetto
sopra la testa (vivono in dormitori, separati per i maschi e per le femmine,
creati appositamente per la popolazione di colore). Qui Cora scopre l’esistenza
della parola «ottimisti» e decide che significa «ci stiamo provando». Ma la
donna – che nel frattempo sta imparando a leggere e a scrivere – un po’ alla
volta prende coscienza di tutta una serie di cose che non vanno affatto bene: i
dottori e i dipendenti delle strutture sanitarie (ubicate in un grattacielo,
edificio non ancora esistente all’epoca in cui si svolgono i fatti e, dunque,
frutto di un deliberato anacronismo da parte dell’autore) e di accoglienza
cercano di persuadere i neri a sterilizzarsi, alle madri di colore vengono
sottratti i figli, sono in corso strani esperimenti sulle malattie sanguigne
della popolazione afroamericana che ricordano il famigerato Tuskegee Experiment
(uno studio sugli effetti della sifilide sulla popolazione maschile nera della
cittadina dell’Alabama, iniziato nel 1932 e proseguito fino al 1972 nonostante
la scoperta, nel 1940, che la malattia era curabile con la penicillina, con la
conseguente morte ingiustificata di numerosi individui). Si accorge che, così
facendo, i bianchi rubano il futuro ai neri e che, in Carolina del Sud, questi
pur non essendo «pura merce come prima», sono trattati come «bestiame: da
allevare, da sterilizzare. Da chiudere in dormitori» che sembrano «stie per i
polli o conigliere». Ed ecco che, a dissolvere il sogno del loro illusorio
benessere, sul posto giunge all’improvviso Ridgeway che, in base alla legge
federale sugli schiavi fuggiaschi (Fugitive Slave Act), è autorizzato a
catturare Caesar e Cora anche al di fuori dei confini della Georgia. Per Caesar
non c’è scampo: viene squartato dai “civili” abitanti della città in cui era
stato accolto, dopo essere stata sparsa la voce che era ricercato per
«“l’omicidio di un bambino”». Cora riesce a fuggire con un treno della ferrovia
sotterranea. Giunge così nella Carolina del Nord. Qui trova rifugio nella casa
di una coppia di persone mature, Martin ed Ethel Wells, ed è costretta a vivere
nascosta per alcuni mesi nella soffitta della loro casa che il caldo trasforma
«in una tremenda fornace». E qui l’autore si ispira alla vita della già citata
Harriet Jacobs che fu costretta a nascondersi per ben sette anni sotto il tetto
della casa della nonna, una ex schiava diventata libera. In quello stato Cora è
costretta ad assistere all’atroce spettacolo di innumerevoli cadaveri che
penzolano dagli alberi «come decorazioni marce» lungo una strada beffardamente
chiamata – ironia dell’autore! – il Sentiero della Libertà. Proprio come nella
canzone di Lewis Allan (pseudonimo di Abel Meeropol), resa celebre da Billie
Holiday, Strange Fruit:
> «Gli alberi del sud hanno strani frutti
> C’è del sangue sulle loro foglie e sangue nelle loro radici
> Neri corpi penzolano nella brezza del sud
> Strani frutti pendono dagli alberi di pioppo».
Il capitalismo americano dell’epoca ha come motore la produzione e il commercio
del cotone e come carburante i corpi dei neri. Il profitto generato dal cotone
porta con sé un male necessario: la popolazione afroamericana e la sua crescita
incessante. A causa dell’eccesso di quest’ultima rispetto a quella bianca,
nell’“immaginaria” Carolina del Nord è in atto un vero e proprio genocidio. I
bianchi non vogliono abolire la schiavitù, vogliono tout court “abolire i neri”.
Durante la sua permanenza nel sottotetto, Cora continua a imparare a leggere e
scrivere, e si appassiona agli almanacchi.
Tra parentesi, pur non essendo slave narrative, La ferrovia sotterranea possiede
due delle caratteristiche fondamentali del genere: il movimento (la fuga dello
schiavo) e la trasformazione (Sonia Di Loreto, “La slave narrative e
l’abolizionismo atlantico” in La letteratura degli Stati Uniti, a cura di
Cristina Iuli e Paola Loreto, 2017-2024, pp. 73 e 75). Al di fuori della
piantagione, Cora acquista una nuova consapevolezza, acuisce il suo senso
critico. La trasformazione della sua personalità si attua man mano che acquista
esperienza e si istruisce. L’incontro con la parola scritta è momento fondante
del suo rapporto con la cultura dei bianchi. Il processo di costruzione
dell’identità (una caratteristica del Bildungsroman) e quello di acquisizione
della libertà passano anche attraverso il processo di alfabetizzazione. Nel
saggio citato, Sonia Di Loreto – a proposito di The Narrative of Frederick
Douglass – scrive: «Seguendo una traiettoria di autocreazione, il testo di
Douglas stabilisce […] una netta relazione fra libertà e alfabetizzazione, e una
delle costanti del testo è il desiderio da parte di Douglass bambino prima, e
Douglass adulto poi, di imparare a leggere e a scrivere, secondo quello che lo
stesso autore definisce come la strada dalla schiavitù alla libertà. Tutti gli
episodi di apprendimento sono momenti di furti, sotterfugi, menzogne, a voler
rimarcare che il percorso verso l’alfabetizzazione e la liberazione per lo
schiavo non poteva essere mai lineare o privo di ostacoli» (Sonia Di Loreto,
“La slave narrative e l’abolizionismo atlantico”, cit., p. 81). Questo arduo
processo di istruzione e presa di coscienza è brillantemente sintetizzato da
Whitehead nel breve capitolo dedicato a Caesar in cui il protagonista rischia la
vita leggendo, di nascosto, I viaggi di Gulliver (la morte è la punizione che
spetta agli schiavi sorpresi in possesso di libri) perché sa che se non legge
non potrà mai sfuggire alla sua condizione di emarginazione e sottomissione.
Tornando alla trama principale, inutile dire che Ridgeway non tarda a scoprire
dove si è rifugiata Cora, vittima della delazione di Fiona, la donna di servizio
irlandese dei coniugi Wells. Martin ed Ethel vengono barbaramente trucidati dai
loro concittadini mentre il cacciatore di schiavi – in compagnia di un grottesco
personaggio, Homer, un ragazzino di colore di dieci anni che indossa un abito e
un cappello a cilindro – cattura la protagonista e la porta via con sé
attraverso il Tennesee infestato dagli incendi appiccati dai coloni che vogliono
avere a disposizione sempre più terra da coltivare. «Per la prima volta Cora era
passata da uno stato a un altro senza usare la ferrovia sotterranea». Con lei
c’è un altro nero, Jasper, di cui Ridgeway ben presto si sbarazza,
assassinandolo, perché ritiene antieconomica l’impresa di riportare la “merce”
al suo padrone, nel lontano Missouri. La protagonista tenta più volte,
inutilmente, la fuga. Finché – in un accampamento provvisorio del cacciatore di
schiavi e della sua compagnia – non sopraggiungono, come dei ex machina, tre
uomini di colore armati (uno di loro è Royal, di cui poi Cora si innamorerà) che
sottraggono a Ridgeway la preda portandosela con loro in Indiana. E per farlo si
servono della strada ferrata sotterranea. Per la protagonista è il terzo viaggio
nell’underground railroad.
Cora si ritrova in uno scenario idilliaco. La sua nuova vita è nella fattoria
dei Valentine, una coppia di colore che dà alloggio e lavoro sia agli
afroamericani liberi sia ai fuggitivi. Qui la manodopera è retribuita, i diritti
delle persone sono riconosciuti e rispettati, i bambini e gli adulti hanno
accesso all’istruzione. E qui la protagonista ha finalmente a disposizione «una
stanza tutta sua», secondo quanto auspicato da Virginia Woolf. È anche in
procinto di iniziare una relazione sentimentale con Royal ma è trattenuta dai
cattivi ricordi della violenza subita nella piantagione, in Georgia. Nella
fattoria è in atto una disputa tra il proprietario, John Valentine, che vorrebbe
trasferire tutto e tutti verso ovest, lontano dagli stati schiavisti, e il
viscido Mingo che vorrebbe invece lasciare l’attività produttiva in Indiana
mantenendo in servizio solo i neri liberi e lasciando i fuggiaschi in balìa del
loro destino. Royal fa giusto in tempo a mostrare a Cora l’ingresso della
stazione sotterranea esistente nei paraggi della fattoria ed ecco che si rifanno
vivi Ridgeway e Homer, in compagnia di una folla inferocita venuta a sapere
(probabilmente perché Mingo ha fatto la spia) che nella tenuta si nascondono dei
fuggiaschi e che alcuni di loro hanno ucciso dei bianchi. È inevitabile che si
compia una vera e propria carneficina. Royal viene ammazzato. Cora, è nuovamente
catturata dal cacciatore di schiavi che la costringe a condurlo al tunnel
fantasma della ferrovia sotterranea. Nel corso di una colluttazione, mentre
stanno scendendo nella galleria, la donna ferisce e neutralizza Ridgeway.
Approfittando della distrazione di Homer, impegnato a prestare assistenza al suo
padrone, Cora salta a bordo di un carello ferroviario a mano (handcar) con il
quale raggiunge un’altra stazione della struttura sotterranea segreta. Uscita
all’aperto, si imbatte in una carovana. Un nero di mezza età, con «un marchio a
ferro di cavallo sul collo» (lei si chiede da dove è scappato lui), la fa salire
sul suo carro e la porta con sé verso ovest, verso la libertà.
Il romanzo finisce così. Il finale aperto è sempre ben accetto ma in questo caso
lascia la bocca asciutta. Ai lettori sarebbe piaciuto sapere cosa ne sarebbe
stato di Cora una volta stabilitasi in uno stato abolizionista. La sua vita
sarebbe stata veramente tutta rose e fiori? Avrebbe scoperto altre magagne?
Sarebbe andata incontro ad altri orrori? Si teme un sequel.
Come già detto, la Ferrovia sotterranea è un romanzo eclettico riconducibile a
vari generi. Da alcuni è classificato come un romanzo fantastico. È vero, ci
sono l’invenzione della strada ferrata segreta e l’inserto anacronistico del
grattacielo che non hanno alcun riscontro nella realtà storica. Ma non c’è
l’intervento della magia, non ci sono fenomeni inspiegabili e irreali. In linea
generale, la narrazione procede seguendo i criteri del vero e della
verosimiglianza (tecnicamente sarebbe stato possibile costruire una ferrovia
sotterranea) ed è dunque tendenzialmente realistica, contaminata qua e là con
l’introduzione di diversi elementi “spuri”. Nonostante ciò, lo stile è piuttosto
uniforme e asciutto.
Gli argomenti della schiavitù e della persecuzione razziale sono trattati
con ineludibile durezza. L’autore tuttavia non sconfina mai – nelle scene più
truci, sempre necessarie e nient’affatto gratuite – nei parossismi
iperrealistici del Meridiano di sangue di McCarthy. Un esempio in questo senso,
tanto per dare al lettore un’idea del cinismo degli schiavisti e della brutalità
dello schiavismo, è la descrizione della scena seguente:
> «Mentre gli ospiti di Randall sorseggiavano rum speziato, Big Anthony venne
> cosparso di petrolio e arrostito. Ai testimoni vennero risparmiate le sue
> grida, perché il primo giorno gli era stato tagliato il membro virile […]. La
> gogna fumò, comincio a bruciacchiare e prese fuoco, con le figure sul legno
> che si contorcevano tra le fiamme come fossero vive».
Tra tutto il male prodotto dagli uomini e le indicibili sofferenze che ne
derivano, nel racconto c’è comunque spazio per la solidarietà e l’umana
comprensione.
La storia è inframezzata da ricorrenti digressioni e
continui flashback e flashforward che rendono complicata la ricostruzione della
fabula (ossia la sequenza degli eventi secondo l’ordine cronologico) da parte
del lettore. Tra i vari additivi “spuri” inseriti all’interno
del background realistico, fa capolino un elemento tipico della letteratura
postmoderna di ascendenza sterniana (cfr. La vita e le opinioni di Tristram
Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne) e cioè il gusto per la digressione fine a
se stessa, non strettamente funzionale al dipanarsi della trama principale. Ne
sono esempi il tranche de vie dedicato al dottor Stevens (uno dei medici della
struttura sanitaria ubicata nel grattacielo della Carolina del Sud) e la storia
in breve della vita di Ethel Wells (che, insieme al marito, ospita Cora nel
sottotetto della propria casa).
Nel 2017 La ferrovia sotterranea ha vinto due prestigiosi premi: il Pulitzer e
il National Book Award per la narrativa. Nel 2021 il regista Barry Jenkins ha
tratto dall’opera una miniserie televisiva con lo stesso titolo. Per Luca
Briasco il libro è un best seller di qualità «che accetta anche di sconfinare
nel romanzo d’appendice pur di non disperdere e anzi esaltare il messaggio
antirazzista e la riflessione sui mali più antichi della società
americana» (Luca Briasco, “Colson Whitehead, John Henry Festival-La ferrovia
sotterranea” in Americana, 2016-2020, pp. 367 e 370).
Ozioso chiedersi se questo sia un capolavoro oppure no o se sia, quanto meno,
un’opera fondamentale della letteratura americana contemporanea. È sicuramente
un libro “necessario”. E difatti Claudia Durastanti, nel risvolto anteriore
della copertina, lo cataloga come «Il tipo di romanzo che ci ricorda perché
siamo lettori».
Uno dei motivi che ne rendono indispensabile la lettura è il richiamo implicito
alle recenti e reiterate violenze perpetrate dalla polizia americana ai danni
della popolazione di colore e al movimento Black Lives Matter che da quegli
eventi è scaturito. Allo stesso Colson Whitehead – pur proveniente da una
rispettabile famiglia borghese, benestante, e pur essendo scrittore di successo
e insegnante in prestigiose università americane –, come a tutti i neri, sono
riservate le “attenzioni particolari” della polizia americana. Lo riferisce
l’autore nell’intervista rilasciata a John Freeman e riportata in coda al volume
delle Edizioni Sur: «le energie razziste che descrivo nella Ferrovia
sotterranea fanno ancora molto parte della nostra vita. E se prendiamo un brano
su Ridgeway e i suoi pattugliatori… essere fermato e perquisito e dover avere
sempre in tasca i documenti fa ancora molto parte della mia esistenza. Non so
mai quando la mia interazione con un poliziotto potrà prendere una brutta piega,
finire male».
La storia non insegna niente. L’orrore non ha mai fine.
Angelo Guida
*In copertina: Thuso Mbedu, protagonista di “The Underground Railroad” (2016)
L'articolo La Storia non insegna niente. Intorno a “La ferrovia sotterranea” di
Colson Whitehead proviene da Pangea.
Tag - letteratura americana
Qualche giorno prima che fosse pubblicato uno dei più importanti romanzi
americani del Novecento, Il grande Gatsby, il 10 aprile 1925, il suo autore,
Francis Scott Fitzgerald, già famoso e intento a sperperare la sua vita e i suoi
guadagni in una sfrenatissima e alcolica mondanità, scrive da Capri una curiosa
lettera alla scrittrice Willa Cather: professandosi uno dei suoi più grandi
ammiratori, Fitzgerald si autodenuncia alla collega per un «caso di apparente
plagio» che gli era saltato agli occhi in una frase leggendo «con immensa
delizia» il suo romanzo, uscito due anni prima, Una signora perduta. Benché
abbia a lungo meditato di cancellarla dal proprio romanzo, Fitzgerald comunica
alla Cather che alla fine ha deciso di mantenere la frase incriminata, e per
provarle che si è trattato solo di una coincidenza e non di un «furto», allega
alla lettera due pagine del primo abbozzo del suo libro in uscita, scritte prima
della pubblicazione di Una signora perduta, cerchiando la frase (Cather, da
parte sua, risponderà al più giovane collega, con una rassicurante e amichevole
lettera che è anche un capolavoro di finezza). Ma chi era questa venerata
scrittrice che metteva in soggezione lo spavaldo Fitzgerald, protagonista dei
«roaring twenties»?
Nata in Virginia nel 1873 da una famiglia di origini irlandesi e alsaziane, e
cresciuta nel Nebraska, Cather è autrice di almeno due capolavori: La mia
Ántonia (1918) e, per l’appunto, Una signora perduta (1923).Ma va ricordato
anche, almeno, il trittico pubblicato dal 1925 al ’27: La casa del
professore, Il mio nemico mortale e La morte viene per l’arcivescovo; e quel
gioiello che è la raccolta di saggi Not Under Forty (tradotto da Adelphi con il
titolo La nipote di Flaubert). Fu amata anche da Truman Capote, che le dedicò il
suo ultimo scritto raccolto in Musica per camaleonti (dove racconta il suo
incontro, lui diciannovenne, in una gelida notte d’inverno a New York, con la
«blue-eyed lady», la donna dagli occhi che «erano l’azzurro pallido di una
prateria all’alba in una giornata limpida»), e dal poeta Wallace Stevens, che la
considerava la più grande di tutti, e dal critico Harold Bloom, per il quale
solo William Faulkner tra i suoi contemporanei le è superiore.
Cantora del tramonto dell’epopea del West e della dura vita dei pionieri
emigrati (boemi, francesi, tedeschi), è stata una discepola di Henry James, ma
lontana dalla scena sociale del suo maestro, che trasportò dai salotti europei
alle sterminate praterie del Nebraska. La potremmo definire una scrittrice del
rimpianto (rimpianto dell’amore perduto, soprattutto, ma anche di un’età
perduta, e dei luoghi, delle stagioni, dell’innocenza perdute), ma in questo
rimpianto non c’è nulla di sentimentale, piuttosto vi si trova la consapevolezza
dolorosa che la vita è sempre perdita secca, e che la sua unica fonte di
felicità può essere trovata nell’elegia di un passato irrimediabilmente andato.
In Italia di lei si sa e si legge ancora troppo poco: tradotta da diverse case
editrici (con un lungo intervallo di oblio tra gli anni Cinquanta e Ottanta, e
una ripresa all’inizio del Duemila, grazie alle ristampe di Adelphi, Giano e
Neri Pozza), ma sempre in maniera occasionale e dispersiva, l’opera di Cather
meriterebbe un’attenzione maggiore, perché i suoi libri sono capaci di regalarci
una bellezza di rara intensità e una esemplare essenzialità stilistica (in un
suo celebre saggio, The Novel Démeublé, lei stessa teorizzò un romanzo sgombrato
da ogni inutile orpello e ripetizione, da ogni eccesso descrittivo o
psicologistico). Pochi scrittori, infatti, riescono come lei a farci percepire
l’effimera e struggente e crudele bellezza della vita. Basta leggere, per
capirlo, i due capolavori già citati, e in particolare La mia Ántonia, un
romanzo che può accompagnarci per una vita intera, essere letto e riletto con un
piacere sempre rinnovato. Lo ripropone adesso la casa editrice Feltrinelli
(nella collana Comete), nella nuova traduzione di Monica Pareschi e con
postfazione di Sara Antonelli, ed è decisamente un’occasione da non perdere, sia
per gli appassionati della scrittrice americana, sia per chi non l’ha mai
letta.
La mia Ántonia è una narrazione memoriale, affidata a Jim Burden, ragazzo orfano
della Virginia e amico d’infanzia che diventa il custode elegiaco della figura
di Ántonia Shimerda. La dimensione memoriale inserisce immediatamente il romanzo
nell’aura della perdita: ciò che leggiamo non è mai «la vita stessa», ma una
rievocazione già trasfigurata, un canto del tempo che scorre. Il cuore pulsante
del romanzo è lei, la boema Ántonia, che incarna la terra, la fatica, la
fertilità, ma anche l’irriducibilità della vita di fronte al desiderio
frustrato. Jim la ama e non la possiede; la contempla perdendola. Cather sceglie
di fare di lei una figura tellurica, in contrapposizione al narratore che è
spettatore colto, cittadino, destinato a un’altra vita. Il libro è, da questo
punto di vista, anche una riflessione sulla condizione dell’emigrazione e
sull’epopea americana vista dalla parte degli sradicati, non dei vincitori. La
struttura del romanzo, che dissolve la trama in senso tradizionale, è episodica,
fatta di quadri, di stagioni, di ritorni.
Nella scrittura di Cather, di una straordinaria sensibilità pittorica, il
paesaggio diventa protagonista, e ogni descrizione di un campo innevato, di una
mietitura o di un tramonto sulle praterie diventa immagine del destino umano.
Cather inventa una prosa che è allo stesso tempo precisa ed evocativa, capace di
essere concreta come un documento e sospesa come un ricordo. E in questo senso
la nuova traduzione di Monica Pareschi restituisce precisione e naturalezza alla
scrittura, ma anche l’elasticità delle frasi, il tono colloquiale, concreto e
insieme lirico (a volte nello stesso giro di frase) della voce narrante.
Il romanzo, come molti altri libri di Cather, è anche attraversato da un
erotismo sotterraneo: la forza vitale di Ántonia, la sua corporeità, hanno
un’intensità sensuale che Jim registra e sublima. Per un’autrice che non
dichiarò mai apertamente la propria omosessualità, ma la visse in relazioni
durature e silenziose, questo gioco di allusioni e di traslati diventa cifra
stilistica: il desiderio resta non detto, ma impregna ogni pagina, ed è tanto
più pervasivo. C’è poi il tema del rimpianto, che fa di La mia Ántonia un libro
ancora profondamente moderno. Jim, adulto, rievoca l’adolescenza e sa che nulla
può tornare. L’elegia (che Bloom ha definito «virgiliana») diventa allora una
forma di resistenza etica: dire ciò che è stato per non lasciarlo dissolvere. In
questo senso Cather si mostra lontanissima dal sentimentalismo e vicinissima a
una sorta di stoicismo. Se in Ántonia c’è la forza della vita che resiste alla
perdita, e in Jim la coscienza che tutto è nostalgia, tra i due si apre quello
spazio che è il vero luogo della letteratura: l’impossibile riconciliazione tra
ciò che si vive e ciò che si ricorda.
Fabrizio Coscia
*In copertina: Willa Cather, il suo triciclo, 1910 ca.
L'articolo Rileggiamo Willa Cather, venerabile scrittrice: ha trascinato Henry
James nel West… proviene da Pangea.
…è per Simone Cattaneo (1974-2009)
Diciamo che il 2012 è il nostro Cape Canaveral. In questo viaggio interstellare
– che significa: lacrimare tutte le costellazioni, una per una, fino al vuoto,
fino al cosmo in una tazza – cominciamo dal 2012. Settembre 2012, numero 67 di
“Atelier”, “La fine dell’opera comune”. Il numero è dedicato a Simone
Cattaneo, poeta di lirica violenza, che ha scelto di farla finita nel settembre
del 2009. Aveva trentacinque anni, Simone; Atelier aveva pubblicato i suoi
libri, di carnivora luce, Nome e soprannome (2001) e Made in Italy (2008).
Quell’anno – il 2012 – Il Ponte del Sale pubblica tutte le poesie di Cattaneo,
compresa l’ultima raccolta, Peace & Love. Simone mi era amico, fraterno.
Compivamo gli anni lo stesso mese, a quattro giorni di distanza: un giorno, in
febbraio, mi regalò un concerto di Lou Reed, a Milano. Posti in prima fila. Gli
rubarono la macchina. Restò a dormire da me. Scrisse della sua morte sul
“Giornale”; il titolo, pur viscerale – “Per essere notati dalla critica bisogna
buttarsi dalla finestra” – non sortì alcun effetto: al sistema clientelare e
nepotistico della cultura italica, si è sommata, oggi, una generica, sonnambula
melassa lirica. Il condono servile di ogni crimine estetico.
Torno in me. Nel numero di “Atelier” del settembre 2012, Riccardo Ielmini scrive
una memoria, Simone, Dejan Stankovic, Walter Zenga (e anche io), di commossa
bellezza. Ielmini rievoca un incontro con Simone. È venerdì, mezzogiorno, “sei
giorni prima che tutto finisca, maledizione”. Simone sale al lago, a Laveno, per
un gelato – è sera. A un certo punto, Simone parla di Denis Johnson. “Senti, e
quell’idea su Denis Johnson?”. L’idea. “Provare a tradurre le sue poesie inedite
in Italia”. Simone adorava Denis Johnson. Amava le sue poesie. Me ne parlava da
anni – da quando abbiamo preso a vederci – dal 2001, dall’inizio di questo
millennio Cerbero. “Sai che la traduttrice di Johnson è una mia concittadina?”,
fa Simone a Riccardo. Silvia Pareschi. Diversi anni dopo, qualche anno fa, nel
2019, ho intervistato Silvia Pareschi.
Denis Johnson ha scritto alcuni dei romanzi più potenti degli ultimi decenni di
letteratura americana. Ne cito due. Albero di fumo (2007) e Mostri che
ridono (2014). In Italia, Denis Johnson è stato tradotto per la prima volta da
Delfina Vezzoli, per Feltrinelli: Angeli (1983) e Fiskadoro (1985) sono ormai
dei reperti editoriali. Il libro che più lo rappresenta, però, è Jesus’
Son (1992), allucinata raccolta di racconti che narra di un mondo virgineo
all’apocalisse, di lisergica crudeltà. Era il libro preferito da Simone. Silvia
Pareschi lo ha ritradotto per Einaudi nel 2018. Per questo l’ho intervistata.
> “È il libro di culto della letteratura americana contemporanea – è scritto in
> una lingua spoglia e luminosa che ricorda per certi versi Hemingway e Carver
> (il quale era stato insegnante di Denis Johnson all’Iowa Writer’s Workshop). È
> proprio grazie a questa lingua che Johnson riesce a trasformare una serie di
> personaggi falliti e marginali in angeli dannati di proporzioni mitiche. Le
> loro disavventure sono raccontate con una prosa diretta e disadorna, il
> prodotto di una mente annebbiata che attribuisce la medesima importanza a ogni
> cosa, che sia una nuvola o un cadavere. E ogni tanto, in questa prosa
> imperturbabile, spuntano senza preavviso momenti di intensa poesia”.
Ecco. Denis Johnson nasce alla letteratura come poeta: esordisce a vent’anni,
nel 1969, con The Man Among the Seals. Nel 1982 Mark Strand sceglie The
Incognito Lounge (raccolta di Johnson edita da Random House) come miglior libro
per i “National Poetry Series”. A differenza di altri romanzieri americani – da
Hemingway a Faulkner a una quantità di altri – per cui la poesia è un gioco
secondario, un modo per sgranchire la scrittura, Denis Johnson
è sostanzialmente un poeta – e il poeta, giudizio mio, è a tratti più grande del
romanziere. L’ultima sostanziosa raccolta, The Throne of the Third Heaven of the
Nations Millennium General Assembly, è del 1995; pur continuando a tosare il
giardino lirico, Johnson ha trasferito la propria natura poetica nel romanzo. È
trasmigrato dalla poesia al romanzo. Dai suoi libri hanno tratto dei film. È
morto nel 2017, Johnson, per un cancro al fegato. Si è sposato tre volte. A suo
tempo, gli cucii il ‘coccodrillo’; attaccava così:
> “Prendi Joseph Conrad, drogalo a dovere, e fagli fare un giro a Las Vegas. Il
> risultato ti darà Denis Johnson, il Lord Jim della letteratura contemporanea,
> duce nel sottosuolo del romanzo americano. Nato incidentalmente in Germania,
> nel 1949, incidentalmente è stato un alunno di Raymond Carver. Faccia da
> colosso hollywoodiano, un po’ Michael Madsen un po’ Jeff Bridges, Denis,
> speleologo delle ambiguità, comincia – e continua – come poeta… ha fatto
> letteratura interrogando le tenebre”.
Alcuni suoi pionieristici reportage – pubblicati su “Esquire”, “Salon”, “Paris
Review” – come The Militia in Me, prefigurano con micidiale lungimiranza gli
Stati Uniti di oggi (in Italia, li ha raccolti & pubblicati, nel 2004, Alet
come Cronache anarchiche, ennesimo libro fuori orbita da tempo). Raymond Carver,
poeta ben più modesto di lui, era un fan della poesia di Denis Johnson, “La sua
materia lirica, dolorosamente efficace, non è altro che un’analisi nelle zone
oscure della condotta umana”.
In università, ogni anno, leggo un racconto di Denis Johnson.
S’intitola Incidente durante l’autostop, è il racconto che apre Jesus’ Son. Il
protagonista è un tossico. A un certo punto, il tossico è in ospedale, reduce –
senza un graffio – dell’incidente che dà il titolo al racconto. Una donna,
“magnifica, ardente”, varca la soglia dell’ospedale. Il marito è morto. Lei non
lo sa ancora.
> “Il medico l’ha portata in una stanza con una scrivania in fondo al corridoio,
> e da sotto la porta chiusa si è sprigionata una lastra di fulgore, come se,
> grazie a qualche stupefacente processo, lì dentro stessero incenerendo dei
> diamanti. Che polmoni! Strillava come avrebbe potuto strillare un’aquila. Che
> meraviglia essere vivo per poterla sentire! Da allora non ho più smesso di
> cercare quella sensazione”.
All’immagine abbagliante – incenerire i diamanti – si lega la contorsione morale
di un infermo nell’anima che sugge i capezzoli del dolore altrui, li strappa a
morsi. L’aula, di solito, a lettura terminata, si trasforma in una ghiacciaia.
La grandezza cuce le labbra – l’abnorme umano ci fa lo scalpo.
Ogni volta che leggo le poesie di Denis Johnson mi ricordo una poesia di Simone
Cattaneo, quel frantume di versi che detta un codice, una sorta di regola di
vita:
> “ho scavato la mia carne
> come fosse una vela
> e ho gettato sabbia sopra il pianto
> ho creduto nella pena del silenzio,
> nella domanda liscia della fame”.
Mi pare che le poesie di Denis Johnson, extracanoniche, apocrife alle mode
imperanti, siano tra le più belle della poesia americana di oggi. Mi ricordano i
film di David Lynch, gli esseri piumati che appaiono nei sogni dei nativi e che
impaniano le visioni dei deliranti. Gli animali aurorali – il corvo, ad esempio,
bestia-guida nella poesia di Ted Hughes – hanno perso i poteri ctoni, la mente è
un reclusorio, al poeta non basta più costruire una propria mitologia da
comodino, un proprio alcolico aldilà. I segni sono sconnessi e questo
disequilibrio da cancelli dissigillati e soffitte senza sottana è il regno di
parole cannibale, di frasi mercenarie.
In fondo, Denis Johnson è l’ultimo degli sciamani – fa la sua solitaria danza e
le stelle si approssimano alla finestra con musi da cerbiatto.
**
Corvo
Balugina il corvo sul morto ramo
sotto cui siamo passati, forse, tempo fa.
Il nostro pastore era un demone e un falsario:
ha cosparso sul nostro matrimonio una ghirlanda
di pioggia, quella stessa fredda pioggia adolescente
nelle cui raffiche si avvolgono i sempreverdi
tra memoria e memorabile.
Oh, certo, nessuno ha assistito a quel triste spettacolo
durato notte e giorno – il suo treno fu un treno di anni.
Da quel momento, secondo
i miei calcoli, ho vissuto tre vite,
una nella magia, l’altra nel potere, infine
nella pace – e ancora
la piccola ferita pari a un pozzo
nel truce buio e chi
dovrebbe respirare vede sogni
diventa pallido, contagiato da una musica.
Ma il corvo non è Dio e il vento
non è Dio e niente è Dio
e questo non ci fa desistere
dalle trasgressioni commesse per ignoranza.
*
Poesia che mette in discussione l’esistenza del mar
nello stesso, esatto modo
in cui gli animali sono gettati
sulla sabbia, terrorizzati
dopo tanti eoni, all’improvviso
dall’oscurità del mare
un elevato numero
di bambini si tuffa ogni giorno nel grande
spasmo evolutivo dell’utero
di pallide, disarticolate donne. è ampio
e vuoto il luogo dove sono
ora, anni dopo, e flottano
drasticamente ai fianchi
contro il flipper. fuori
il gemito detective di quell’
impossibile bimbo che ribalta le strade
mentre manovra l’odiosa macchina
come una grande nave
tra le onde della vita. un po’
confuso, come sempre, osservo
le costruzioni crescere sotto il cielo
sapendo che presto dovrò
diventare lui, eludere
i miei figli e schiaffeggiare le onde
nella sapiente ebbrezza. tremo
come un vecchio indiano, elemosino
un po’ di pioggia su questo deserto.
*
In una stanza d’affitto
questo è un buon sogno, anche se svanisce
non è meno reale, anche se i miei piedi si
sbricioleranno sul pavimento in agguato. la gola
è arsa e mi sveglio in una stanza vuota quanto
la mia presenza: assenza di aspirine. lì
l’asfittica sorpresa del sole, l’alba. là
macchine e strade che si snodano secondo
il solito criterio. la stanza non vuole vomitarmi. deve
aprire il cuore, comunicare con le altre subacquee
stanze in cui ho massacrato il mio corpo nel nimbo
delle lenzuola e sbando verso le vie per placare l’arsura.
che cosa impari, stanza? che cosa hai detto, perché le macchie
gli occhiali accusatori puntati verso il mio
ritorno? c’era una ragazza un tempo. vorrebbe
sapere da dove viene la colpa che ronza
sul letto e crolla come una mano indifferente
che mi annienta. vorrebbe aiutarmi mentre l’universo
mi ha mentito ancora, lo sberleffo è andato troppo oltre
l’arsura, rampicante, profonda, resta dopo bottiglie
e bottiglie e sono a un dito dalla morte e devo
conficcare il mio corpo in migliaia di vuote
oscurità prima di assurgere al sonno, prima di sognare.
*
Elogio della distanza
è difficile restare poeta
quando l’inverno ti scivola
dal palmo della mano: questi
sono guai. la macchina scompare
inabile al dolore, nel parcheggio. si
accartoccia su un ginocchio come
un elefante, stupefatta
dai proiettili famelici dell’inverno.
il cimitero vacilla
lontano. la macchina non starà
ancora a lungo tra me e i debiti
che mi attendono davanti a casa. non me
ne andrò più a sfinire le miglia come
se la distanza fosse la sola sicurezza
come se si potesse sbattere
una portiera in faccia alla pena.
mia moglie dice: trovati un
lavoro. ma una volta avevo un cane
i cui organi vitali divennero
un caos sotto il vello, e ne morì;
non lascerò il regno animale
finché non diventerà un albero.
tenderò le narici
verso la solitaria giaculatoria
del suo collare che crollava sugli edifici:
qualche segno mi informerà del suo
ritorno. le mie mani non
sono quelle di un indovino; l’inverno
le gonfia di difficoltà. se si è perso
lo troveranno gli agricoltori che sperano
nella primavera, scorgeranno la sua voce
tra gli oceanici campi di mais,
mentre cerca un posto dove
riposare. intanto, lo attendo
alla finestra:
ho il sospetto che il senso delle cose
resterà irrisolvibile.
Traduzione di Federico Scardanelli
*Si pubblica per gentile concessione l’articolo che apre l’ultimo numero di
“Poesia” (Crocetti Editore, n. 33, settembre-ottobre, 2025), in memoria di
Simone Cattaneo
L'articolo Interrogando le tenebre. Denis Johnson, il poeta proviene da Pangea.
> “Tutto ciò che ho lasciato da fare, che qualcuno ne faccia buon uso
> in questa vita o nella prossima,
> quella che viene per prima. O per seconda.
>
> (Da Littlefoot, FSG 2007, Crocetti 2023)
Charles Wright, premio Pulitzer nel 1998 e Poeta Laureato degli Stati Uniti dal
2014 al 2015, compie quest’anno 90 anni, oltre sessanta dei quali dedicati alla
poesia da quando, poco più che ventenne e militare nell’esercito americano a
Verona, scoprì la sua vocazione di cantore di paesaggi metafisici tracciando uno
straordinario percorso poetico che dall’Italia del nordest, fra Sirmione e
Venezia, si dirama nella sua regione degli Appalachi, fra Tennessee, North
Caroline e Virginia, dove tuttora vive con Holly, la moglie fotografa, e
nell’immenso spazio del Montana, la residenza estiva di molti anni. È nato il 25
agosto del 1935 a Pickwick Dam, un luogo che ora non esiste più sulla carta
geografica dove il padre ingegnere aveva trasferito temporaneamente la famiglia
per la costruzione della diga che adesso porta il nome del paese. La scelta di
Wright di ritirarsi a vita privata da quando, nel 2019, ha raccolto e pubblicato
tutta la sua poesia in un unico immenso volume di oltre settecento
pagine, Oblivion Banjo, in qualche modo corre parallela alla storia di quel
luogo scomparso: come la diga della sua infanzia che ora attraversa il fiume
Tennessee e produce energia, così questo suo ultimo libro è una grandiosa
costruzione in versi che testimonia l’opera di un grande poeta, il flusso
pausato delle sue meditazioni sulla vita e sulla morte da consegnare ai posteri
, un grande testo potente come i corsi d’acqua della sua terra resi
luoghi sacri nei suoi paesaggi mitopoietici.
Ho conosciuto Charles Wright a New York intorno alla metà degli anni Ottanta
tramite il suo editore, Jonathan Galassi, mentre preparavo la tesi di dottorato
su Montale tradotto dai poeti americani. Wright aveva tradotto i Mottetti e La
Bufera e altro all’inizio della sua carriera e traducendo, come ha detto più
volte, aveva imparato a comporre e a dare forma alla sua poetica. Mi feci
prestare da un amico giornalista il suo appartamento per l’incontro, più
accogliente del mio alloggio da studentessa, e acquistai una bottiglia di Pinot
Grigio delle terre venete visto che quelle zone facevano parte della topografia
poetica di Wright. Ma Charles era di ritorno da un lauto pranzo con l’editore e
aveva mal di schiena, perciò si sedette di sghembo sulla sedia più scomoda della
stanza nel suo leggero cappotto invernale. È questa la prima immagine che ho di
Wright, rimasta intatta nella memoria: un cordiale ed elegante signore,
espansivo e riservato allo stesso tempo, dalla parlata strascicata del sud,
affabile e generoso, arguto e pronto alla battuta, lo sguardo intenso e attento
a ogni dettaglio, uno sguardo addestrato a indagare oltre il visibile e la
parola. Quello fu il primo incontro di molti che sarebbero seguiti nel tempo,
una conversazione sul suo rapporto con la cultura italiana poi confluita in
un’intervista allegata alla mia tesi e ora inclusa nella sua raccolta di saggi
del 1988.
Rientrata in Italia, iniziai a tradurre la poesia di Wright e a recensirne i
libri via via che uscivano, prima sulla rivista di poesia comparata
“Semicerchio”, poi su “Poesia” di Crocetti, che gli dedicò una copertina quando
ancora non aveva vinto il Pulitzer. Ma solo nel 2001 riuscii a pubblicare
un’antologia delle sue maggiori opere, Crepuscolo americano e altre poesie
(1980-2000), grazie alla lungimiranza di Roberto Mussapi, allora direttore della
collana di poesia di Jaca Book, che intravide nei versi di Wright una grandezza
insolita nella poesia contemporanea. Il volume, ormai fuori stampa, rimane
ancora oggi il Wright italiano per i suoi estimatori, un piccolo gioiello
redatto da un’inesperta traduttrice, il quale, tuttavia, fece conoscere in
Italia i grandi poemi degli anni Ottanta e Novanta di Wright, straordinari Song
of Myself della poesia statunitense di fine secolo animati dalla ricerca di una
“metafisica del quotidiano”.
Da non credente ero rimasta colpita dall’ostinata ricerca di spiritualità di cui
trattava la poesia di Wright in un mondo dominato da materialistiche contingenze
e prevaricazioni dei limiti umani. Vestendo i panni di un pellegrino medievale
in viaggio verso ‘l’altra riva del fiume’ (come chiama l’aldilà), Wright
venerava un dio in cui non credeva lanciando una sfida all’inconoscibile che,
talvolta, sembra manifestarsi, ad esempio, nella luce che filtra fra gli alberi
o nel frusciare del vento. Nell’epoca della comunicazione globale e
dell’accelerazione, la poesia di Wright mi appariva rivoluzionaria perché
costringeva a rallentare il passo e a gioire del mondo creato: un percorso umano
e poetico rigoroso che insegnava a leggere il paesaggio, ogni elemento della
natura e ogni evento quotidiano come parte di un tutt’uno inscindibile, fisico e
metafisico, che si trattasse di un notturno stellato o di un uccello, dell’erba
del prato o di ognuno di noi. La poesia di Wright insegnava a guardare le cose
con occhi nuovi ricordandoci che l’assoluto non è che la misteriosa bellezza
della natura umana e non umana a cui lui cantava i suoi inni.
Charles Wright con Nicola Crocetti, nel 2007; Wright, tra l’altro, è parte del
‘Comitato di redazione’ della rivista “Poesia”, fondata e diretta da Crocetti
Senza il suo aiuto, come avrei potuto tradurre quei lussureggianti paesaggi
mobili, i sofisticati dettagli di una lingua sempre più raffinata e rarefatta
nel rappresentare le sagome visibili di un immaginario infinito, o avvicinarmi
almeno un po’ alla musica di quella lingua? Nei nostri incontri in Italia e a
New York, Wright mi aiutava ad entrare in questa sua fiction metafisica, a
decodificare il suo inconfondibile vocabolario fatto di immagini originali,
lunghe catene nominali, colloquialismi, inserti della parlata del sud,
neologismi, espressioni provenienti dalla musica country, dal blues, da
tradizioni poetiche diverse e dallo slang. Gli sono ancora grata per la
generosità e la pazienza con cui rispondeva alle mie molte domande, facendo
addirittura la parafrasi di alcuni passi, tentando di trovare l’equivalente
italiano anche quando non c’era, come toccasse a lui, e non a me, tradurre. Così
è stato anche per la seconda antologia nel 2006, Breve storia dell’ombra, voluta
da Nicola Crocetti per la sua collana di poesia dove, più tardi, nel 2023, è
entrato anche Littlefoot, il libro più bello di Wright degli anni 2000 che ho
tradotto senza il consueto aiuto di Charles, ormai lontano da questioni
editoriali benché sempre disponibile a chiarire i pochi passi che gli ho
sottoposto.
Della nostra collaborazione rimangono anche tre faldoni nel mio studio dove ho
raccolto i moltissimi fax che Wright mi inviava in risposta alle mie domande,
scritti con una vecchia macchina da scrivere, oltre a lettere, saggi e
manoscritti che spesso mi anticipava. Riprendendo ora in mano queste carte
riconosco subito il suo modo cortese di guidarmi nelle traduzioni, un modo che è
diventato la mia maniera di tradurre: dare alla musica dei versi il ruolo
primario perché, davvero, come si legge in una sua poesia, “It’s all music…”. In
uno dei suoi celebri autoritratti si definisce “A shallow thinker […] tuned to
the music of things” e in Littlefoot, come altrove nella sua opera, si dichiara
cantore della storia millenaria della sua terra affinché nulla vada perduto, una
terra così ricca di folklore e leggende, un tempo abitata dai nativi e poi dai
bianchi poveri degli Appalachi che lui riporta in vita, rievocando strambi
personaggi che potremmo trovare nei romanzi di Chris Offutt o Corman McCarthy.
Ho imparato da lui, grande traduttore di Montale, Campana e Dante, quel che so
del tradurre versi. Nelle sue risposte alle mie domande sembrava che davvero si
mettesse al mio posto cercando di sbrogliare i punti più ostici. Mentre ora
sfoglio queste carte mi saltano agli occhi le frasi con cui spesso chiudeva le
sue risposte: “Hum, this is a bit tricky”. E ancora: “Pretty impossible stuff to
translate”; “probably untranslatable”; “very fanciful, I know,
but…”; “Impossible in English, impossible to translate”; “This is difficult,
but there it is. Just leave it as it is”, e così via. A volte ho tradotto la sua
spiegazione, bella come il verso da tradurre; altre volte ho accolto il suo
suggerimento, la parola italiana che gli veniva in mente alla fine delle sue
precise delucidazioni. Ed ecco qui, su un altro foglio: un invito – “That’s what
I had in mind” – a tentare di ritrovare l’origine nella mia mente di un’immagine
in un percorso a ritroso verso il non verbale, un metodo che da allora ho fatto
mio. Talvolta bisognava cambiare tutto e decidere, ad esempio, come
tradurre mockingbird, quell’uccellino tutto americano così presente nella sua
poesia, ma inesistente in Europa: tordo beffardo? mimo? oppure farlo diventare
un merlo? Ancora più difficile trovare la soluzione se, come accade in una
poesia, il suo mockingbird got his chop, frase ripresa dal mondo del jazz con
nessun riscontro nella nostra lingua.
Mi passano davanti agli occhi anche note personali, mie e sue, che ci
scambiavamo nella corrispondenza – sui suoi viaggi in Italia, sul convegno
montaliano organizzato da “Semicerchio” nel 1996 a cui Wright partecipò, sui
nostri incontri a New York, sugli amici comuni, su questioni editoriali, ecc.
Mentre rileggo queste carte ritrovo l’affetto sincero che Charles e Holly mi
hanno mostrato nel tempo. Quanto tempo ha dedicato alle mie traduzioni! A quelle
pubblicate e a quelle ancora inedite, come il bellissimo poemetto A Journal of
the Year of the Ox, che lesse con me, quasi verso per verso, un pomeriggio
estivo sulla terrazza di mia sorella in una casa torre del centro fiorentino con
la cupola del Brunelleschi che si stagliava a pochi metri da noi come fosse la
suggestiva replica della montagna purgatoriale che il poemetto disegna mentre il
pellegrino, alter ego di Wright, ascende e discende dalle sue pendici
incontrando lungo la via Poe, Emily Dickinson, Dante e Petrarca. Ricordo anche
momenti conviviali a casa mia, con gli amici di “Semicerchio”, lui fra noi come
uno di noi. E ricordo Holly che, durante la presentazione a Firenze
di Crepuscolo americano nel 2001, mi indicava sorpresa e divertita Charles che,
per la prima volta, parlava a un telefono cellulare: era il mio primo cellulare
e all’altro capo c’era Nicola Gardini che avendo letto di lui e i suoi versi su
“Poesia” voleva conoscerlo e incontrarlo. Nel 2008, a Roma, per ricevere il
premio Luzi, andammo a cena con Mark Strand, suo compagno di college. Felici di
vedersi esprimevano il loro affetto prendendosi in giro, intonando canzoni dei
loro anni passati. Dietro di noi la Fontana di Trevi dava un tocco magico a
quell’incontro romano tra due vecchi amici, due geni della poesia americana
contemporanea. Quando gli è arrivata una copia di Littlefoot nel 2023, Holly mi
ha scritto che lo stava leggendo da capo a fondo e che mi avrebbe scritto appena
finita la lettura. E così è stato: brevi messaggi, affettuosi e sinceri. E la
gradita notizia che il puledro Littlefoot che titola il libro è ora un bel
cavallo adulto, vivo e vegeto in Montana!
Buon compleanno, Charles! E grazie di tutto! Grazie di aver scritto il testo che
mancava sui nostri scaffali: una grandiosa biografia spirituale della nostra
epoca. Grazie di aver dipinto in versi un paesaggio interiore assai più umano di
quello che la comunicazione globale ci mostra ogni giorno. A leggere oggi questa
poesia a distanza di decenni dalla sua nascita, mi appare ancora più che mai
rivoluzionaria e attuale perché ci ricorda quello che l’umanità sembra aver
dimenticato: che la vita è in fondo “un lungo cammino su un molo corto”, che la
confusa realtà materiale non cancella i nostri dubbi, le nostre paure al fondo
della coscienza, che il paradiso è qui nel mondo creato, nella piccola
metafisica quotidiana e nella misteriosa bellezza della natura. Grazie di averci
ricordato che la strada della conoscenza è tutt’altro che dritta e pianeggiante:
ci sono molte deviazioni e continue soste che interrompono lo scorrere del tempo
e impongono di fermarci a guardare dentro e fuori di noi, riflettere su passato
e presente, sulla vita e sulla morte, propria e altrui.
Happy birthday to you, Charles!
Antonella Francini
L'articolo “Impossible to translate”. Per i 90 anni di Charles Wright: un
ricordo di Antonella Francini proviene da Pangea.
Charles Wright è uno dei poeti più potenti del pianeta. Oblivion Banjo, uscito
nel 2019, è il suo ultimo libro: un immane repertorio antologico (quasi
ottocento pagine) in cui il poeta orienta la lettura della propria opera. È una
specie di torcia: fuoco che illumina qualcosa – e incenerisce tutto il resto.
L’importanza di Charles Wright – come quella di ogni poeta – si misura non certo
in copie vendute o premi conquistati, ma in ritrosia, in altitudine, nella
capacità di creare un cosmo allo stesso tempo sigillato e disarmato – compiuto.
L’opera di Charles Wright – come quella di ogni grande poeta – si legge come un
unico poema; un poema ipnotico.
Wright comincia a pubblicare negli anni Sessanta, il primo libro esce nel
1970, The Grave of the Right Hand. Agiografia vuole che Wright sia nato poeta
nel 1959, a Sirmione, presso la grotta di Catullo, leggendo Blandula, Tenulla,
Vagula di Ezra Pound. Il poeta lavorava per l’esercito americano, era di stanza
a Verona; compiva ventiquattro anni. L’ultima raccolta di Wright, Caribou, è
uscita nel 2014; il 25 agosto del 2025 il poeta ha compiuto novant’anni. Da
tempo, Wright ha optato per il silenzio: non rilascia interviste, ha una casa
vittoriana a Charlottesville, la moglie, Holly, fa la fotografa; ha chiamato il
figlio Luca, come l’evangelista. Tenta di credere nell’aldilà. Di sera, siede in
giardino – è ancora siderale la sua ispirazione.
Wright è stato “Poet Laureate” degli Stati Uniti dieci anni fa, è stato
finalista diverse volte al “Pulitzer for Poetry” (vincendolo, nel 1998); alcuni
suoi libri – The Southern Cross, 1981; The Other Side of the River,
1984; Chickamauga, 1995; Black Zodiac, 1997, Buffalo Yoga, 2004 – hanno segnato
indelebilmente la poesia contemporanea. Poeta colto come pochi altri, Wright
sembrerebbe essere la quintessenza del poeta nordamericano: Emily Dickinson è la
sua paladina e Walt Whitman il suo profeta; è sintonizzato sui toni lirici di
Wallace Stevens e di Robert Frost; ama Hart Crane. Nel suo pantheon, spiccano
George Herbert e Gerard Manley Hopkins; non smette di ricordare – dobbiamo
ricordarcelo di continuo – l’importanza del “Book of Common Prayer” per la
poesia anglofona (che è sempre ‘liturgica’, procede per innologie). Ha tradotto
Eugenio Montale e Dino Campana, legge di continuo Dante – forse per questo la
poesia di Wright è ‘passata’ con agio in Italia, pubblicata da Jaca Book
(Crepuscolo americano), da Crocetti (il formidabile Breve storia dell’ombra), da
Donzelli (Italia). L’immane poema Littlefoot (Crocetti, 2023) è uscito in
origine nel 2007; Antonella Francini è la devota traduttrice di Wright nel
nostro paese.
A differenza di altri grandi poeti statunitensi – esempi sparsi: John Ashbery,
Mark Strand, Charles Simic, Robert Pinsky –, eccellenti in stile, Charles Wright
tenta di portarci altrove, di mettere tenda nell’antinferno, di scardinare le
cifre del mistero, di slegare la tela di ragno dei fenomeni, la museruola ordita
da dio.
A mio giudizio, l’unico autore a cui Charles Wright può essere paragonato è
Cormac McCarthy. Quasi coscritti – McCarthy, classe 1933, è più grande di due
anni – sono cresciuti entrambi in Tennessee: i genitori lavoravano per la
“Tennessee Valley Authority”; il padre di McCarthy come avvocato, quello di
Wright come ingegnere. Forse si conoscevano. In entrambi, la fama – o meglio,
l’autorevolezza letteraria – ha agito amplificando l’indole all’isolamento, a
una scrittura come ‘pratica’, per cui pubblicare è esito meditato a lungo, mai
immediato – ci si immedesima nella roccia e nel puma, nella radice e nel vento.
Il più, sempre, è sapere cosa tenere nei cassetti, cosa lasciare per i pochi a
cui consegnarsi, a cui confidare un credito, un dono. Per entrambi, la
letteratura non è la vita, ma la ‘via’: i libri di Wright e di McCarthy non si
esauriscono alla lettura, impongono una scelta spirituale, una preferenza. Li
conserveremo per sempre.
Cormac McCarthy amava i lupi – chi non ricorda la fantomatica lupa di Oltre il
confine? – ma il suo animale-totem era il cavallo, la bestia cosmica dei Veda,
l’antichissimo innario indiano; Charles Wright ama i cavalli, ma il suo
animale-totem – come racconta nel dialogo intrattenuto con “Image”, a cura di
Lisa Russ Spaar, calcato, in parte, in calce – è l’orso. North American Bear è
il titolo di una sua raccolta del 1999; alcune lasse del poemetto omonimo (nella
versione della Francini) recitano così:
“Casuale geometria delle stelle,
casuali
stringhe di parole
belle come l’alfabeto.
O così le ricordo,
Orsa nordamericana,
Orione, Cassiopea e le Pleiadi
che cuciono la loro sintassi sul cielo profondo del North Carolina
mezzo secolo fa,
la lingua perduta di notti estive, la pergamena muta del tempo,
trafitta sul suo scuro
cilindro celestiale.
___________________________
Cosa c’è per noi d’imperturbabile nelle stelle?
Quale
impulso, quale bassa marea
ci attrae lassù come vertigine, quale
inversione di quota ci spinge verso i loro abissi chiari?
Stanotte, per esempio,
qualcosa ruota dentro i miei occhi,
qualcosa d’illacrimato, qualcosa d’innominabile,
filando veloce la sua tela.
Chi dirà che il cuore dirottato non è tornato alla sua gabbia?
Chi dirà che il respiro d’un angelo non m’ha
sfiorato
l’orecchio?”
Poeta coltissimo – dicevo – Charles Wright ha letto facendo falò. Si legge per
esacerbare la ferita, per lacerare l’acerbo essere e arrivare a quel luogo che
nessuno ha detto, per circoscriverlo con verbi-mirtilli, con verbi-ortica, senza
alcuna cautela. Come un fico cresce in una chiesa sfondata da una bomba, a
nirvana del gufo reale. Si legge per esaurire; si impara per dimenticare. Poi,
dal pentametro giambico si passa all’artigliata. Questa è la poesia come
‘pratica’: ci si impratichisce, ci si perfeziona, perché abbia spazio il
perfetto, ciò che non è perfettibile, ciò che supera il concetto, la
riflessione, il riflesso culturale. Al pentametro giambico segue l’assalto
dell’assoluto.
Per capire Charles Wright, forse, è più utile leggere L’orso, supremo racconto
di William Faulkner, che minuziosi, smaliziati referti critici. Charles Wright
ha detto di aver ‘incontrato’ l’orso a undici anni; una leggenda degli indiani
Montagnais-Naskapi narra di un orso che “trovò un bambino e lo tenne come un
figlio per diversi anni” (in: Riti e misteri degli Indiani d’America, a cura di
E. Comba, Utet, 2003). Quando il padre del bimbo andò a cercarlo, l’orso operò
magie: si distese sul cielo, evocando tempesta. Nulla da fare. Il canto
dell’uomo – dacché un orso si fa incantare dal canto – riuscì a vincere l’orso,
che affidò al bambino una delle sue zampe. Crescendo, il bambino allevato
dall’orso diventò “un cacciatore di orsi straordinariamente abile”. Per
tradizione, soltanto le donne sposate dei Montagnas-Naskapi possono scuoiare un
orso, “le giovani donne non sposate si coprono il volto”. Le donne sono gelose
dell’abilità di quel ragazzo nell’uccidere gli orsi – un’abilità virginea, da
creatura di altri mondi. Abilità sciamanica, altra dalla copula e dal rito
filiale. Quando una di queste donne scopre la magia del ragazzo, riposta nella
zampa dell’orso, egli scompare, “senza lasciare alcuna traccia – si disse che
era diventato un orso”. Chi ha capacità nell’irretire il mito, scorgerà
brandelli di Orione e di Atteone in tale dire.
In questa leggenda ci sono diversi elementi che riguardano la poesia di Charles
Wright. Il linguaggio che tiene insieme uomini e bestie (ma anche alberi e
stelle); la potenza del canto; il patto concluso con le forze del mondo; la
dedizione al compito; la sparizione. C’è la caccia – e dunque il sangue: ciò che
il poeta elargisce perché ne beva il lettore, famelico. Il poeta non si augura
altro: esumare la tua esanime anima.
***
In cosa credo. “Credo nel mistero delle cose. Credo che il compito del poeta sia
ingabbiare quel mistero. Non credo che occorra far fruttare il mistero, ma
circoscriverlo: fissarlo, ascoltarlo, capire se ti parla – cosa che, di norma,
non accade.
Credo nella musica. Credo nell’amore”.
La lotta incessante. “Nella religione, da un lato ci sono le chiese-supermarket,
che propongono un modo per stare bene, per sentirsi appagati – dall’altra, la
dura, incessante lotta che comporta il confronto con Dio. In poesia è lo stesso:
da un lato c’è la poesia light. Sappiamo cos’è: non chiede troppa fatica.
Dall’altra, ci sono i poeti della lotta: John Donne, Gerard Manley Hopkins,
Emily Dickinson. Poeti che si donano ma che non regalano nulla. Che pongono
limiti da oltrepassare”.
Il giardino interiore. “Una volta, quando ero nel pieno della vita, la magia
vibrava ovunque. Guardavo le cose, cominciavo a scrivere. Ora, guardo il mio
giardino. Ne ho bisogno perché la mia immaginazione non sgorga da sola. Ho
bisogno di guardare qualcosa per metterla in moto. Così, verso le nove di sera
mi siedo in giardino e lui irradia il mio giardino interiore”.
Emily Dickinson sulla ‘Whitman Road’. “Emily Dickinson aveva l’immaginazione di
una alienata, era un’aliena. Era ultraterrena. Ho sempre cercato di giungere a
quello stadio ultraterreno. Pur non avendo direttamente influenzato il mio
stile, la Dickinson è una delle mie eroine – sono ispirato dalla sua natura
ultraterrena. Ho cercato di scrivere con l’intensità della Dickinson, ma… volevo
uscire di casa! Così, nelle poesie più lunghe penso a Walt Whitman, in quelle
più brevi vivo come Emily. O meglio: cerco di essere Emily Dickinson sulla
‘Whitman Road’”.
Non sono un poeta. “Non mi piace definirmi poeta. Non credo in chi si dichiara
poeta. Robert Frost ha detto che sono gli altri, eventualmente, a dirti poeta.
Ho una forte tendenza al religioso, alla ricerca spirituale, ma non sono un
poeta religioso. È vero, mi hanno incluso in diverse antologie di poesia
religiosa: che sia utile alla fine del mio viaggio?”.
Un lignaggio: da Virgilio alla Bibbia. “La mia tradizione proviene dal ritmo
biblico, da quel linguaggio, in particolare dalla King James Bible. Sono
cresciuto come cristiano e amo quella meravigliosa favola; da adulto, sono stato
attratto dal Buddismo. Sento il desiderio di andare oltre le angosce e le
angustie di gran parte del cristianesimo. Eppure, angoscia e tormento possono
essere fonte di grande poesia. Penso alla traduzione del sesto libro dell’Eneide
di Seamus Heaney. Che testo memorabile: è precristiano eppure prevede Dante. Non
c’è da stupirsi che Dante scelga Virgilio come guida nel suo viaggio. Così si
fonda un lignaggio, un albero genealogico. Non voglio rinunciare alle cose del
mondo, non voglio rinunciare alla King James né al Book of Common Prayer. Quando
morirò voglio che mi sia letto il rito per la sepoltura dei morti (Rite One for
the Burial of the Dead)”.
Non mi convertirò. “Amo l’Apocalisse e il libro di Giobbe, ma è il Book of
Common Prayer di Cranmer a echeggiare ancora nella mia testa. Dai sei ai sedici
anni è stato il centro di tutto. A sedici anni ho fatto ingresso in una chiesa
episcopale. In me risuonano ancora i gesti e i ritmi di quella educazione
cristiana, episcopale. Insieme alla musica gospel del Sud. Ho consegnato tutto
questo a mio figlio, che è un vero credente, un teologo. Quanto a me, non credo
che mi convertirò in punto di morte. Ma non si sa mai”.
Amore, amore. “In realtà, tutte le mie poesie sono poesie d’amore. E sono
preghiere. C’è un meraviglioso passaggio nei drafts and fragments di Pound,
quando parla di Olga Rudge, la violinista con cui viveva:
> ______ma bellezza non è follia
> benché errori e naufragi mi accerchino.
> E io non sono un semidio
> non riesco a fare ordine.
> Se amore non è in casa, è il nulla.
Amo molto la poesia di George Herbert, Love III, con quell’attacco superbo:
‘L’amore mi dà il benvenuto, ma l’anima è refrattaria/ colpevole di polvere,
intrisa di peccato…’
E poi c’è Emily Dickinson. Non so a chi siano rivolte, ma le sue sono tutte
poesie d’amore – e preghiere”.
Il mio piatto preferito. “Amo il pesce e le quaglie. Tra le verdure, preferisco
gli asparagi. Non voglio dolci. Passiamo subito alla grappa”.
Illuminati. “Aspiro all’illuminazione. Come il Buddha. ‘Ricordami come uno che
si è risvegliato’, dice il Buddha. Ecco. È tutto. Sono attratto da quel vuoto
che non saprò mai raggiungere, che apre alle cose autentiche e non alle
cianfrusaglie di questo mondo. Ho trovato diverse vie di accesso al mistero
attraverso il Cristianesimo, poi mi ha affascinato il Buddismo. Qualcosa nel
Nirvana e nella via negativa mi stimola come poeta: riempio il pozzo
svuotandolo”.
Il sonnambulo e l’orso. “Da ragazzino ero sonnambulo. Mi svegliavo, correvo
all’altro lato della stanza, verso il letto di mio fratello. A undici o dodici
anni ero in campeggio, in Carolina del Nord. Sono uscito dal sacco a pelo, ho
iniziato ad allontanarmi dalle tende, lungo il sentiero. Stavo camminando verso
un dirupo, una specie di scogliera, sul limite del bosco, ma non lo sapevo. Poi
ho sbattuto contro qualcosa, mi pareva un orso. Sono convinto che un orso mi
abbia impedito di cadere nel dirupo. Ad ogni modo, mi sono voltato e sono
tornato nel mio sacco a pelo. L’orso è il mio animale totem dall’età di undici
anni. Ho sempre indossato come fibbia per la cintura l’artiglio di orso. Si è
rotto, poco tempo fa: ora, come farò?”.
Trinità. “Inferno, Purgatorio, Paradiso. Tutto per me si esprime in carattere
trinitario, in trinità. In poesia: poeta, lettore, poesia. Oppure: poeta,
soggetto, ispirazione. Una volta ero a cena con mia moglie e un amico; lui aveva
ordinato un secondo Martini. La cameriera disse qualcosa del tipo: ‘I Martini
sono come i seni di una donna: uno non basta, tre sono troppi’. Per quel che mi
riguarda è proprio quel ‘troppo’, ciò che fa instabile l’equilibrio, a rendere
le cose interessanti: ti obbliga a ritornare indietro, a tentare di capire”.
Preferisco arrendermi. “Non voglio ripetermi. Non so se scriverò ancora.
Nell’estate di qualche anno fa ho scarabocchiato alcuni testi: così brutti che
mi sono rifiutato di batterli a macchina. Ho alcune poesie, ma mi rifiuto di
pubblicarle, le tengo per me. Forse è davvero questa la poesia: una tratta tra
fede e mistero. Forse la diga si scioglierà, si spaccherà. Ma non credo.
Preferisco arrendermi”.
Charles Wright
L'articolo “Amo l’Apocalisse, aspiro all’illuminazione”. Per Charles Wright
proviene da Pangea.
La prima, autentica edizione italiana integrale di Foglie d’erba uscì nel 1950,
a cura di Enzo Giachino – Einaudi la pubblica ancora. L’edizione del 1907 era –
giustamente – definita “antiquata”: il traduttore, Luigi Gamberale, si era volto
allo studio di Whitman su consiglio di Pascoli. Il libro stampato da Einaudi, di
biblica consistenza – quasi mille pagine, comprensive di una selezione
di Prose whitmaniane –, ha un sovrappiù in commozione: quell’anno, a fine
agosto, era morto, per scelta, all’Hotel Roma di Torino, Cesare Pavese. Proprio
a lui, “che alle pagine del poeta americano fu legato da sensibile amore fin
dagli anni della giovinezza”, è dedicata quella traduzione. Pavese si era
laureato Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman nel 1930; in qualche
modo – basta leggere Lavorare stanca – voleva essere il Whitman delle Langhe. Il
più acuto lettore di Foglie d’erba in Italia resta tuttavia Dino Campana: il
formidabile poeta cita Whitman a sigillo dei Canti Orfici; “Leaves of Grass è
talmente importante da essere l’unico libro che porta con sé in Argentina”
(Gianni Turchetta, in: D. Campana, L’opera in versi e in prosa, Mondadori,
2024).
Enzo Giachino, nella sua succinta introduzione, registra i temi fondamentali
di Foglie d’erba: il rapporto consustanziale tra opera e autore, il canto del
corpo liberato e della libertà democratica, l’io lirico che impregna di sé ogni
singolo incanto del creato, dal più umile prato al presidente Lincoln; quella
scrittura dionisiaca. L’idea, soprattutto, del libro totale, del libro-tutto:
> “Il desiderio di dare finalmente al paese il suo poema nazionale, la sua
> Bibbia poetica fu certo uno dei motivi e delle illusioni che indussero il
> Whitman a comporre le Foglie d’erba”.
La prima edizione di Foglie d’erba – alquanto diversa dall’ultima, la
cosiddetta deathbed edition, allestita in punto di morte, nel 1892 – era uscita
quasi un secolo prima, nel 1855: nella tonante ouverture, il poeta lega
inscindibilmente il poema alla nazione,
> “L’anima della più grande, della più ricca, della più fiera nazione può ben
> avanzare a mezza strada per incontrare l’anima dei suoi poeti”.
Foglie d’erba – con quel titolo stagionale, di vita che viene e muore e rinasce
– è “l’America” e “gli Americani”; quanto a Whitman, egli è al contempo Omero,
Shakespeare e Mosè. Che paradosso: un secolo dopo la prima edizione di Foglie
d’erba, Thomas H. Johnson edita, in tre volumi, i Poems of Emily Dickinson;
Emily era morta nel 1886. Da allora, da settant’anni, gli Stati Uniti d’America
hanno i loro libri-titani, i tomi-totem, la loro Iliade e la loro Odissea, la
Teogonia e l’Edda.
Già Giachino aveva avvisato che “l’arte del Whitman è ardua”, che occorre
indagarne, oltre il “primo senso evidente… la segreta armonia che si cela e si
svela”. Sostanzialmente, è il concetto proposto da Alberto Cristofori, che ha
curato una nuova, colta versione del Canto di me stesso (Edizioni Low,
2025) insistendo sulla manicale consapevolezza di Whitman, tutt’altro che “poeta
ingenuo, spontaneo”. D’altronde, Harold Bloom, l’insigne critico americano,
strenuo difensore del Canone occidentale, insegnava a leggere Whitman come un
oracolo. A suo dire, “Whitman è l’alto sacerdote di quella che chiamo Religione
Americana, una bizzarra fusione di Entusiasmo e Gnosticismo”. Bloom ha scritto
che Foglie d’erba è il libro perfetto per l’isola deserta, quello da cui
rifondare un mondo; ha scritto che
> “Whitman è al tempo stesso Adamo e Cristo, il Vecchio Adamo e il Nuovo… un
> poeta universale che sopravvive alle traduzioni e alle revisioni radicali”.
In Italia, non si contano le traduzioni di Whitman, il poeta che si
diceva untranslatable; in parte le ha conteggiate Cristofori, che traduce i
versi più noti del poeta in questo modo: “Il falco maculato scende in picchiata
e mi accusa,/ si lamenta delle mie chiacchiere e dei miei indugi.// Anch’io non
sono affatto domato, anch’io sono intraducibile,/ Faccio risuonare il mio
barbarico yawp sopra i tetti del mondo”. Giachino, al di là di vetuste
variazioni ornitologiche (il “falco maculato”, the spotted hawk, è per lui una
mistica “aquila grigiolata”), traduce allo stesso modo; io continuo a preferire
la versione di Alessandro Ceni, il più autorevole poeta italiano vivente (è da
poco uscita per Crocetti la raccolta della sua opera intera, I bracciali dello
scudo), dotata di genio eccentrico. Yawp, ad esempio, viene reso con un
intrepido – e bellissimo – “graculio”: andate a stanarne il
significato (di Foglie d’erba Ceni sceglie “la prima edizione del 1855”,
Feltrinelli, 2012).
È impossibile misurare la presenza di Whitman nella letteratura occidentale:
il Song of Myself ha letteralmente mutato il modo di scrivere in versi, è come
passare dal Giurassico al Quaternario, è uno spostamento dei continenti
grammaticali. Nel 1909 Ezra Pound stringe “un patto” con Walt Whitman (“Fosti tu
ad abbattere il nuovo legno,/ Ora è tempo di intagliarlo”); nel 1955 Allen
Ginsberg vede l’ombra di Whitman, lonely old courage-teacher, in un supermarket
californiano. Jorge Luis Borges – che nel 1969 aveva curato un’edizione
di Foglie d’erba – fu afflitto da un’ossessione per Whitman. Lo affascinava –
come è ovvio – l’idea del “libro dei libri che li reclude tutti”, del “libro
assoluto”, ma soprattutto lo sdoppiamento di Whitman: a suo dire – lo scrive
nella Nota su Walt Whitman pubblicata in Altre inquisizioni – l’eroico
protagonista del Canto di me stesso non ha nulla a che fare con il suo autore,
“il modesto giornalista Walt Whitman, nativo di Long Island”, a tal punto che
“Passare dall’orbe paradisiaco dei suoi versi all’ispida cronaca dei suoi giorni
costituisce una transizione melanconica”. Gli dedicò una poesia, Camden, 1892:
il poeta è sul ciglio della morte, “quasi/ non sono, tuttavia i miei versi
ritmano/ la vita e il suo splendore”.
Atletico, carnale, sorridente, dal 1873 Whitman era stato falciato da paralisi:
a quegli anni risalgono le fotografie del vegliardo con la lunga barba bianca e
il mitico ritratto di Thomas Eakins, pittore esaltato dal nudo e dallo
scandalo. Durante il tour americano, anche Oscar Wilde fece visita al poeta,
rattrappito nel corpo ma non nell’animo, a Camden, New Jersey. “È l’uomo più
umile e più potente che abbia mai incontrato in tutta la mia vita”, dichiarò
all’“Evening Star”, era il gennaio del 1882 (insieme a una mole di documenti
whitmaniani, l’incontro tra Wilde e Whitman è raccolto in: W. Whitman, Non
esiste diavolo peggiore dell’uomo. Interviste, De Piante, 2022). “Mi consideravo
invulnerabile”, gli sussurrò il poeta, ormai crisalide di se stesso.
“Uomo: come erba i tuoi giorni”, dice il Salmo 103. “Io attraverso la morte con
chi muore/ e la nascita con i bambini appena lavati/… Sono l’amico e il compagno
della gente, immortale e insondabile come me” (traduzione di Cristofori), canta
Whitman, il poeta che fu Genesi. Già morto mille volte in mille uomini e
migliaia di volte rinato, dicono che il poeta morì il 26 marzo del 1892. Il
cielo era curvo, rade le nubi – seppellirlo fu inutile. Inutile rintracciare il
poeta tra feretri e lapidi e studi: bastava passeggiare nei prati per sentirne
l’odore. Ineludibile – eterno.
L'articolo “Io sono intraducibile”. Walt Whitman, il poeta titano proviene da
Pangea.
Di solito – secondo un cliché gerarchico o un climax d’ascetica ascesa – Daniel
Berrigan è definito Priest, Poet, Prophet & Peacemaker. Al poker di sostantivi,
fa seguito l’aggettivo, tonante, legendary. Nato a Virginia, Minnesota, nel
maggio del 1921, Berrigan esprime i voti nel 1952, diventa gesuita. Nel
pluripremiato film di Roland Joffé, The Mission (1986), interpreta un altro sé
stesso vissuto nel Settecento, padre Sebastian, al fianco di Robert De Niro e
Jeremy Irons.
Quanto al profeta, Berrigan intendeva il termine secondo biblico eccedere: il
profeta fonde contemplazione ad azione, è la voce di Dio che irrompe nella
Storia, che irride i potenti, che stride rispetto al pensiero comune. “L’idea
che si debba raggiungere la pace interiore prima di tendere la mano al prossimo
è una distorsione dell’esperienza umana, è un modo di sottrarsi alla nostra
responsabilità, è un pensiero totalmente estraneo a quello dei profeti della
Bibbia. La vita è un ottovolante: allacciate le cinture e partite… Questo
focalizzarsi verso la mera ricerca e l’equanimità nasconde un approccio
egoistico mascherato con un linguaggio spirituale”.
Il 25 gennaio del 1971, la rivista “Time” dedicò la copertina a Daniel e al
fratello Philip, sacerdote anche lui. Il titolo invitava allo scalpore: “Rebel
Priests: The Curious Case of the Berrigans”. L’evento clamoroso era accaduto il
17 maggio del 1968, poche settimane dopo l’assassinio di Martin Luther King.
Daniel e Philip Berrigan, insieme a una manciata di attivisti cattolici, fanno
irruzione in un edificio di Catonsville, dove aveva sede la commissione locale
per il servizio di leva. Davanti agli impiegati, attoniti, i due sacerdoti
sottraggono centinaia di documenti di leva, che incendiano con del napalm nel
parcheggio lì vicino. Siamo nel pieno della guerra in Vietnam e l’evento, pur
simbolico, ha un effetto eclatante. Ai giornalisti accorsi Barrigan dichiara:
“Distruggiamo questi documenti perché testimoniano lo sfruttamento dei nostri
giovani e rappresentano un potere coercitivo nelle mani della classe dirigente
americana. Contrastiamo la Chiesa cattolica, le organizzazioni cristiane e le
sinagoghe d’America per il loro silenzio e la loro codardia di fronte ai crimini
del nostro Paese”. La polizia arrestò, nell’imbarazzo generale, i sacerdoti,
chini in preghiera, davanti al fuoco. Condannato a tre anni, Daniel Berrigan
riuscì a darsi alla macchia; fu inserito dall’FBI nella lista delle persone più
ricercate degli Stati Uniti: il prete verrà fermato nell’estate del 1970.
Sodale di Thomas Merton, insieme al reverendo Richard Neuhaus e al rabbino
Abraham Joshua Heschel, Berrigan aveva fondato, nel 1965, la “Clergy and Laymen
Concerned About Vietnam”. Continuò, strenuamente, a lottare contro ogni guerra –
“L’unico messaggio che ho per il mondo è questo: non ci è permesso uccidere
innocenti. Non ci è permesso essere complici di un omicidio. Non ci è permesso
tacere mentre vengono predisposte armi per un omicidio di massa, con i nostri
soldi” –; brandiva il Vangelo come una spada.
Negli anni Ottanta agì contro gli armamenti nucleari; negli anni Novanta lottò
per i diritti dei malati di Aids. L’ultima volta, fu arrestato nel 2006. Morì
dieci anni dopo, quasi centenario, indomito, pressoché inascoltato, a New York.
Scrisse moltissimo, il prete pacifista; secondo l’amico Kurt Vonnegut, “Per me
Daniel Berrigan è Gesù poeta”. Al netto delle esagerazioni – consustanziali alla
vita attiva di Berrigan – la sua è una poesia pienamente americana, di immagini
– più che di immaginari – di narrazioni prima che di visioni; più prossima a
Thomas Merton che al gesuita Gerard Manley Hopkins. Il suo libro di “selected
poems”, Time without Numer, fu finalista ai National Book Awards, era il 1958:
insieme a lui gareggiavano Hilda Doolittle e Wallace Stevens; vinse Robert Penn
Warren, però, con Promises. Ritornò tra i finalisti del maggior riconoscimento
americano nel 1970 con False Gods, Real Men: quell’anno fu Elizabeth Bishop a
sovrastare tutti (tra gli altri: Lawrence Ferlinghetti e Robert Lowell).
Secondo la rivista “Poetry”, “La poesia in versi liberi di Berrigan esprime la
fede cattolica e il pacifismo con uno stile lucido, esatto e immagini di
inflessibile potenza”. In realtà, Berrigan riesce quando la poesia abbandona i
temi strettamente ‘sociali’, inarcandosi verso l’indagine della vita marginale,
l’ascolto delle foglie, il bisbiglio dei morti, rivelando la presenza
dell’invisibile nei più umili segni, nei rigagnoli dell’oggi. Quando la poesia,
cioè, non è ancella di un’idea, ma torna nuda, adamitica, nell’eccomi che
corrisponde al suo solo compito: inneggiare al creato.
Diceva, “Abbiamo scelto di essere criminali impotenti in un’epoca in cui i
potenti commettono crimini” – che è poi lo stigma di una poetica.
***
Il compito
Vorrei che fosse possibile con rade
parole dichiarare il mio compito: pura
al di là di ogni indagine, la quercia offre
le sue foglie, ed è grata. In inverno decreta
il proprio magnifico ordine fondamentale, afferma
con solennità chi è: si libra, enorme, e ogni parte
è finalmente Uno – un ritorno, il permanere della marea.
Così la rosa dimostra la propria identità nella forma
irraggiungibile, raggiunta senza sforzo: indossa il suo
visibile cuore e ce lo mostra – sboccia, è perfetta, cade.
*
Exaltavit Humiles
Tutte le cose disprezzate, capricciose
evanescenti hanno il loro culmine al mattino. Il sommacco
spintonato dalle querce verso la vetta del bosco, brucia
più chiaro di ogni essere. E la ragnatela, non più che un rimorso,
trema all’alba come argento appena battuto.
Qualcuno ha ammantato le cupe pietre
con un merletto di brina: i piedi inciampano
su così tanta superbia.
Le brune erbe selvagge si muovono
e intonano un inno alle porte del sole:
benedici il Signore, fai rimare l’alba con la rugiada e il gelo!
Perfino le radici, legate mani e piedi, odono, si impennano
cruciformi e attendono che l’incantesimo si spezzi.
Per un attimo, nulla è vano, nulla è effimero:
al banchetto chiama la grazia, la grazia riveste le indesiderate cose.
*
Il mio nome
Se fossi Pablo Neruda
o William Blake, potrei
urlare e essere eloquente
ma ho un nome americano
e gli uomini muoiono
tra le nostre mani assassine
ahimè Barrigan
devi aprire le tue mani
e vedere come una stimmate
i volti spezzati
a cui aspiri
non puoi offrire
l’impotenza di una donna
alla pioggia di fuoco –
la vita vuole il tuo corpo.
Solo gli innocenti muoiono.
Afferra la mappa
di questo secolo in sangue.
Inizia il tuo viaggio verso casa
nella terra dell’ignoto.
*
Visione
(leggendo Giuliana di Norwich)
poi mi mostrò
la mano destra in cui
è tutto ciò che è
mano creata da donna
genuina e potente
mite uovo di uccello
che nidifica in attesa
della sua parola – che udii
nascituro ti creo
cullandoti ti amo
custodendoti ti proteggo
*
se senti i morti
bisbigliare come cenere
e sussultare come sedie
a dondolo nei portici
ascoltali
ti daranno gioia
come il vento tra i rami
spogli, come la stella
tra gli alberi d’inverno
così lontana
così bella
imparerai infine
la loro lingua barbara
*
La zia
Ha occhi come candele
consunte, mia zia, e alla finestra
racconta i suoi anni storpi
conta le stagioni – falci
d’uccello o aria di neve
e foglie rosse nel cielo crudo.
Ottantuno anni hanno scolpito
le sue mani, cubi bianchi in bocca:
Cristo zampilla nei suoi occhi
e le ha accartocciato il viso fino
alla siccità: mazzi di pioggia e aridità
quando Lui entra non esce più.
C’erano soltanto giardini, un tempo:
il vento adolescente che trascina
nuvole in virgulto. Di notte la Sua
quiete ribolliva nella quiete
e nessun uccello dava in urla:
alla mercé della Sua parola
il corpo annuisce e si inchina.
E ciò che dici amore, ciò che
chiamiamo amore fa un nodo
nel volto, dove fuochi in marcia lasciano
rovina e dolcezza: l’hanno strappata da se
stessa, e quello che resta è il suo Sé –
Cristo che ci fissa, viso nel viso.
Daniel Berrigan
L'articolo Vita ribelle di Daniel Berrigan, il poeta-prete, profeta del
pacifismo proviene da Pangea.
Qualcuno ricordò che era “la badessa della poesia cattolica”; il “New York
Times” che eccelleva nell’arte del ‘coccodrillo’ – ergo: rigore, esattezza, sana
sobrietà, gusto per le sottigliezze – scrisse che “Sister Madeleva” era,
nell’ordine, cattolica, insegnante, poetessa. Dei circa “settanta libri” che le
sono ascritti, d’ogni sorta, quasi nessuno è stato più ripubblicato. “La sua
reputazione come educatrice ha spesso offuscato la vasta produzione poetica”.
“Sister Madeleva” morì nel luglio del 1964, a settantasette anni; eccelleva
nell’inno, aveva studiato, con alto profitto, letteratura medioevale,
specializzandosi in Chaucer. Nel 1942 era stata eletta presidente della
“Catholic Poetry Society of America”.
Nata Mary Evaline Wolff a Cumberland, Wisconsin, nel 1887, da padre luterano e
madre cattolica, diventò “Madeleva” nel 1905, dopo aver pronunciato i voti
perpetui: scelse l’ordine delle Sisters of the Holy Cross. Aveva studiato al
Saint Mary’s College di Notre Dame, Indiana, di cui diventò uno dei presidi più
brillanti e audaci, dal 1934 al ’61. Ideò il primo corso di teologia aperto alle
donne; “trasformò la piccola, severa, tradizionale scuola femminile in una
istituzione moderna, che arrivò a contare oltre mille studentesse”. Quando
accolse la prima allieva di colore, accerchiata dalle critiche, rispose a suo
modo: “dite che diminuiranno le iscrizioni? Non vedo il problema: farò del Saint
Mary’s College una scuola per donne nere”. Sapeva spiazzare, aveva il dono –
apocalittico – delle frasi apodittiche; spesso diceva che “gli incidenti sono il
modo in cui Dio si dimostra doppiamente buono con noi”.
Nella sua biblioteca privata, il “Beowulf” e William Langland dialogavano con
Thomas S. Eliot, i versi del gesuita anarchico Daniel Berrigan erano al fianco
dei mistici inglesi. Diceva che i libri della sua vita erano la Bibbia e un
manuale di sementi. Da ragazza, Madeleva maneggiava pinze e martelli, amava il
lavoro manuale, si arrampicava sugli alberi – sapeva pattinare sui laghi
ghiacciati. Da adulta, si scriveva con R.H. Benson e Jacques Maritain, con Edith
Warthon e John F. Kennedy. Dopo il dottorato a Berkeley, si perfezionò a Oxford:
conobbe Tolkien, Martin D’Arcy e soprattutto C.S. Lewis.
> “Quel semestre al Trinity College significò per me soprattutto C.S. Lewis.
> Dopo aver assistito alla prima lezione sulla poesia medioevale inglese, dissi
> ad alcuni compagni che avrei voluto lui Lewis come tutor. ‘Il Signor Lewis
> rifiuta di fare da tutor a una donna’, mi dissero. Risposi che non ciò non
> mutava minimamente la mia affermazione”.
Cominciarono un rapporto epistolare; Lewis apprezzava i versi di Madeleva – “ha
dissotterrato le radici della poesia medioevale piantandola nelle nostre menti
contemporanee, dove può fiorire a suo piacere” – ma restava schivo, fino
all’ironia nera, di fronte agli entusiasmi di lei. Così le scrive nel 1934: “Se
mai dovessi trovarmi dalle sue parti (il che è alquanto improbabile), sfiderò il
‘terrore dei conventi’ per accettare la vostra gentile offerta di ospitalità”.
Si scrissero fino alla morte di lui, scambiandosi idee sui reciproci libri, su
vertiginose questioni di fede.
Un tempo, l’autobiografia di Suor Madeleva, My First Seventy Years (pubblicata
da Macmillan nel 1959) era considerato una specie di classico; in un recente
repertorio uscito su “America. The Jesuit Review” Madeleva è detta Poet,
feminist and nun. Le poche volte che la portavano in un centro commerciale era
felice di ripetere quanto “è bello sapere che al mondo ci sono così tante cose
che non desidero”. Thomas Merton, il poeta trappista, temeva il suo giudizio:
era tra le rare persone a cui inviava i manoscritti prima della pubblicazione.
Quanto alla sua poesia, Madeleva, più che altro, resta, con sapienza, nei rioni
dell’innografia, perché dell’incanto biblico si nutre. L’edizione dei Collected
Poems edita nel ’47 da Macmillan fu recensita da Marya Zaturenska, già premio
Pulitzer ‘for Poetry’, sul “New York Times”; nell’articolo – “Music That Is
Peace” – ne scaturisce un’analisi che vale ancora oggi.
> “Suor Madeleva non è San Giovanni della Croce né Gerard Manley Hopkins; il suo
> talento è nella direzione delle poetesse del XIX secolo, che affollavano le
> antologie con verbi sinceri e pieni di pietà, non privi di fascino, eppure
> monocordi. Il suo dono è facile e felice, dotato di un’allegria disarmante, di
> una leggerezza rara in questi tempi. Suor Madeleva non vuole essere originale
> e i terrori dell’esperienza religiosa non la riguardano. Lo spirito che
> traspare da questi versi è così puro e genuino che in un’epoca brutale come la
> nostra, di uomini inariditi, non può che lenire e consolare. […] I più grandi
> poeti devozionali contemporanei, Thomas Merton e Robert Lowell, sembrano
> muoversi in una direzione più complessa, scrivono per un loro pubblico
> speciale, specializzato. I versi di Suor Madeleva, con cadenze prive di
> artifici, una compassione ortodossa, una naturale compostezza, attraggono
> devoti di ogni credo: il loro è un fascino popolare”.
Verrebbe da dire: esiste un’ispirazione che esige la falce, un’ispirazione
rettilinea, che fa a meno degli illusionismi lirici. Un verbo d’erba, che non ha
rivestimenti né finiture – la storia della letteratura, a questo punto, è poco
interessante, ha scarsa presa.
***
Nei deserti luoghi
Dio ha un suo modo di far crescere
i fiori: è audace e diretto allo stesso tempo.
Se conoscessi i fiori
come me, non avresti dubbi.
Sceglie una pietra grigia, austera, impervia
per farne giardino; munge il sole
strema le intemperie – poi fende
il cielo con una penna, per metà
fiamma per metà piuma.
Negli impervi luoghi opera così:
dissotterra un piumaggio di petali
divina con sicurezza finché
un bocciolo, troppo fragile
per dargli nome, non esplode
furtivo.
Osa seminare nel deserto
ara le rocce. Sebbene Eden abbia
sperimentato il Suo potere e la Sua
bellezza, non sa come può
nascere il fiore del cactus.
*
Nel vento, uno spettro
Si vergognava, lo spettro:
uscì dalle ante del vento, trottava
all’alba e benché non potessi
vederlo né sentirlo, le sue labbra
mi sfiorarono la guancia, le sue
dita mi toccarono i capelli.
*
Ha modi semplici Dio:
preferisce la stalla
gli agnelli al pascolo
con i pastori. È così
umile che a mala pena
diresti che è un re.
Guardalo: fragile, puro
nella mangiatoia, sorride
in forma di bambino
mentre guarda la madre.
Non poi temere un Dio
dai modi così docili.
Eppure, ardono i cieli
e gli angeli urlano
scuotono i cembali. Davvero
egli è un Re e nella sua
semplicità ha i modi di un Dio.
*
Ultimatum
Lo sai: non puoi fermare la mia ricerca
non puoi esaudire il mio desiderio;
brucerei nel divino fuoco
il divino riposo mi empirebbe
per sollevarmi, viva, al vivo petto di Dio.
Non oso osare né aspirare tanto
non chiedo altro che il supremo amore:
il posseduto che di noi si impossessa.
Tu che sei tutto e non sei questo
resta il suo sogno, la sua dolce
e assoluta profezia che il risveglio
rende più vera e di te la più
audace malinconia; mie siano
le profondità dei tuoi occhi paghi
le pazienti mani, il bacio, silente.
*
Quieti umani
saggia gente che sa
i cieli e il loro amore
voi che ideate aerei e satelliti
con formule adatte a orientarvi
create per me la più grande stella.
Nella sua stiva mettete
ciò che vi dico – mettete
il truce verbo di un misero
locandiere, il letto di paglia
che sfida l’inverno
e il bastone del mandriano –
un tempo anche voi
eravate bambini: mettete
l’agnello, tre corone per tre
re e tutte le cose che chiamiamo
domestiche, i giocattoli per i bambini
del nostro misero mondo.
Non avete mai forgiato
una simile stella, ma null’altro
cercano gli umani. Voi che
conoscete i cieli e l’amore
impastate una stella
per il bene del Bimbo.
*
Considera i fiori del campo
il loro muto vestire
e sgargiante: ciascuno
ha una cella murata dal vento.
Pensa agli uccelli del cielo
alle cose illetterate e salvagge
alle cose che vivono nell’argento
del canto, libere, a cui basta
una briglia d’aria.
Considera la sapienza delle ali.
Ho visto la pace nei petali
l’ascesa feroce verso il sole.
Perché fiorire? Perché
intraprendere l’empireo?
So chi ha creato i rapaci
e i fiori: nelle sue mani
si schiude il bocciolo
e prende il volo ogni
alato essere.
*
Gorgoglio del corpo
la bocca balbetta di uno
splendore nuziale
in attesa dello Sposo.
Nulla può eguagliare l’innocente
rifugio che offro al Re. Beato
nulla, arredo per il mio Unico
una misera stanza:
il letto, la sedia, il tavolo
l’alone di una candela che lacera
l’oscurità. Dovrebbero esserci
fiori per allietare il Suo riposo
ma io dispongo di bianchi gigli
e dispiego il mio io su di Lui.
*
Perenne
L’ultimo canto selvaggio
della tua notte non può
essere scritto, l’ultima
parola non può essere
detta. Pastori troppo
fiacchi corrono da sempre
dietro gli angeli, di grotta
in grotta, seguaci della stella.
Sovrasti la schiavitù dei tempi
sei senza inizio né fine
e ti svegli tra le braccia
di una ragazza nell’infinita
notte. Parola di carne
puro sibilo, sei la nostra
accessibile luce.
Stanotte la notte è tua
e la costelli di canti.
Oltre la piana di Betlemme
i pastori attendono e dilaga
il gregge. Dio racconta ancora
la sua storia ai figli.
Madeleva Wolff
L'articolo “Dio ha un suo modo di far crescere i fiori”. Madeleva Wolff,
poetessa & badessa proviene da Pangea.
Due anniversari poundiani ci ‘obbligano’ a rileggere il poeta-totem del secolo.
Il primo è sul bivio della tragedia: ottant’anni fa – era il maggio del 1945 –
Pound viene arrestato con l’accusa di alto tradimento, recluso in un campo, a
Pisa, in durissime condizioni. In giugno subisce diverse visite psichiatriche;
sarà poi scortato nel reclusorio militare di St. Elizabeths, Washington DC.
D’altro stampo il secondo anniversario: il 9 luglio Mary de Rachewiltz compie
cento anni. La figlia – nata dall’unione di Pound con la violinista Olga Rudge –
ha dedicato la vita alla divulgazione e alla traduzione delle opere del padre,
custodendone il carisma. Una mostra, allestita presso il Palais Mamming di
Merano, “Mary’s Dream. Portrait of a Lady”, ne riassume l’esistere, a suo modo
rude – e regale. In memoria di Ezra Pound, l’ultimo numero di “Studi Cattolici”,
la rivista di Ares – tra i rari, integerrimi editori ‘poundiani’ in Italia –
dedica un “Quaderno” speciale da cui abbiamo estratto lo studio di Alessandro
Rivali, già autore del libro-intervista “Ho cercato di scrivere Paradiso. Ezra
Pound nelle parole della figlia” (Mondadori, 2018). Il fascicolo è arricchito da
materiali poundiani inediti tratti dall’archivio di Cesare Cavalleri; è
trascritta inoltre una lettera di Pound alla figlia dalla prigione di Pisa il 19
ottobre del 1945, di particolare bellezza, a liceità di un ‘compito’: “sei
autorizzata a curare il mio ms [manoscritto] ma non voglio che tu venga
sommersa, preferirei piuttosto che tu scriva dieci pagine per conto tuo invece
di curarne un centinaio. Ok per un lavoro di dieci anni nel tuo tempo libero, ma
attenta a non affondare in un lavoro accademico”.
**
Ottant’anni fa – era il 3 maggio del 1945 – iniziò la prigionia del poeta Ezra
Pound (1887-1972). Sulle sue spalle pesava la gravissima accusa di tradimento,
per aver parlato – da cittadino statunitense – ai microfoni della Radio
Fascista1. Dopo i primi interrogatori, relativamente tranquilli, a Genova,
presso il Centro del controspionaggio americano distaccato presso la 92ª
Divisione Usa, il 25 maggio il poeta fu portato al campo di reclusione e
rieducazione per soldati americani costruito nel comune di Metato, a nord di
Pisa. Qui, Pound fu rinchiuso in una gabbia non troppo diversa da quelle che
abbiamo visto nei servizi tv dedicati alla prigione di Guantanamo. Esposto al
sole cocente di giorno e alla luce dei riflettori di notte, in uno spazio
ristrettissimo e senza ripari, incerto sulla sua condizione futura, che avrebbe
potuto anche condurlo sulla sedia elettrica, il poeta pensò – come mi confidò la
figlia Mary – al suicidio, forse tagliandosi i polsi con il reticolato con cui
era stata rinforzata la sua gabbia. Il 18 giugno Pound patì un collasso nervoso
dovuto all’asprezza della detenzione, e di conseguenza gli furono concesse
condizioni mitigate nell’infermeria del campo.
In queste circostanze così drammatiche il poeta continuò a scrivere
quei Cantos che nel suo intento dovevano essere il Grande poema americano e a
cui si era dedicato anima e corpo dagli anni della Prima guerra mondiale (i
primi tre canti, poi completamente rivisti, uscirono su Poetry nel 1917).
I canti nati dalla prigionia di Pisa – i famosi Pisan Cantos, vincitori del
prestigioso Premio Bollingen del 1949 – sono forse il momento più alto e
commosso della multiforme avventura poetica di Pound. Sono il personalissimo
“Purgatorio” di un uomo su cui «il sole è tramontato», che scopre che «la carità
più profonda / si trova fra chi ha infranto / le regole», che si sente un «cane
bastonato sotto la grandine» e che comprende che «chi ha trascorso un mese nelle
celle della morte / non crede più alla pena capitale / Dopo un mese nelle celle
della morte un uomo / non ammetterà gabbie per belve». Nel suo Commento
ai Cantos, in appendice all’edizione del ‘Meridiano’ Mondadori, la figlia Mary
scriverà dei Pisani: «Si possono considerare anche un testamento, un addio agli
amici e un’autobiografia degli affetti».
Pound nel campo di Pisa scrive sull’improvvisato materiale che ha a
disposizione, fosse pure un lembo di carta igienica (se ne può vedere uno in
foto nell’edizione New Directions dei Pisan Cantos curata da Richard Sieburth2).
Pound diventa uno scriba che ha per appiglio lo scrigno della memoria e per
ispirazione la realtà osservabile dalla gabbia. È «sostenuto» dall’apparizione
di una lucertola, nota «gli uccelli selvatici [che] mangiavano pane bianco»,
come «un grillino verde / smeraldo più pallido» a cui «manca la zampina destra»,
suggerisce perfino a un felino intruso di cambiare le sue abitudini: «Gatto
ladro nottambulo lascia stare i miei duri tomi / non è cibo per gatti / se tu
fossi più furbo / verresti all’ora dei pasti / quando la carne abbonda / non
puoi mangiare i manoscritti né il Confucio / e neppure la Bibbia / fuori da
questa scatola di lardo / timbrata W, 11 o o 9 o / che mi fa da guardaroba». E
ancora, Pound benedice il vento che «sa di mare» e lo «toglie all’inferno, alla
fossa / alla polvere e alla luce accecante».
Nei Pisani Pound è la «formica solitaria da un formicaio distrutto» e «dalle
rovine dell’Europa» si chiede se rivedrà «le antiche strade», inoltre riavvolge
il nastro della memoria fino al giorno in cui lasciò l’America per l’Europa con
80 dollari in tasca e il sogno di diventare poeta. Nel suo “diario di un dolore”
dietro i reticolati scriverà alcuni dei più toccanti versi del Novecento, tra
cui quelli indimenticabili del Canto 81: «Quello che veramente ami rimane, / il
resto è scorie / Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che
veramente ami è la tua vera eredità».
Il primo traduttore dei Pisani fu Alfredo Rizzardi che compendiò bene i motivi
portanti dell’opera:
> “Nei Canti pisani la fantasia scopre la memoria, e il suo calore non è più
> fuoco fatuo, ma giunge a bruciare. Costante in ogni pagina è la scoperta della
> propria vita passata, per cui le figure evocate nel cerchio infiammato della
> propria vita passata paiono ancora più reali, più vive di quelle sbiadite, che
> lo circondano. Amici. Compagni di giovinezza, figure care: evocate dalla terra
> dei morti quasi il Poeta vi avesse posato il piede e a essi parlasse”3.
*
I Drafts and Fragments
Se i Pisani sono felicemente noti, non si può dire lo stesso per l’ultimo
tassello del grande poema incompiuto (o “infinito” secondo la suggestione della
figlia Mary) dei Cantos. Quei Drafts and Fragments che in Italia conosciamo in
tre edizioni: Scheiwiller (1973, a cura di Mary de Rachewiltz), Guanda (1981, a
cura di Carlo Alberto Corsi e Michelangelo Coviello) e quella del ‘Meridiano’
Mondadori preparato sempre da Mary de Rachewiltz nel 1985 per il centenario
della nascita di Pound.
Questi ultimi frammenti sono di una bellezza lacerante. Schegge purissime.
Bagliori carichi di pietasche segnano il tempo di un uomo al tramonto della
vita. Di un uomo che aveva scontato senza processo tredici anni di manicomio
criminale a Washington e che, una volta tornato in Italia, correva l’estate del
1958, sognava di dare un “Paradiso” al suo poema. La realtà fu ben diversa,
senz’altro più cruda.
Gli anni del “ritorno” non furono facili. Pound era invecchiato, era stato
privato della personalità giuridica e affidato alla moglie Dorothy, nominata suo
tutore legale, da tanti era considerato un “nemico” dal passato ingombrante,
sentiva la mancanza di troppi amici. Eppure, in quel tempo difficile, iniziò gli
appunti per l’ultimo tratto del suo lungo viaggio. Iniziò a scrivere a
Brunnenburg, il castello di Mary e Boris de Rachewiltz a Tirolo, pochi
chilometri sopra Merano, cercando di combattere i demoni che di volta in volta
lo tentavano: i rigori del clima, l’isolamento del luogo, la solitudine, lo
spaesamento e persino la gelosia delle donne intorno a lui, come avrebbe
annotato nel Canto 113. Per il poeta Brunnenburg sarebbe dovuta essere la
personale Ezuversity dove accogliere discepoli e amici e continuare a scrivere
(come aveva fatto negli anni di reclusione in cui aveva lavorato alle
sezioni Rock Drill e Thrones dei Cantos). Invece iniziò il sofferto periodo
del tempus tacendi. Resta magnifico il ritratto di Grazia Livi
per Epoca tracciato a cinque anni di distanza dal rientro in Italia:
> “La prima cosa che colpisce, in Ezra Pound, è la sua genialità ormai vinta e
> naufragante oltre gli illusori confini del mondo. È ancora diritto e solenne
> d’aspetto, con la faccia asciutta ornata da una bianca barbetta appuntita, le
> mani magre e agili, il gesto da gentiluomo che subito si alza in piedi e offre
> la sua poltrona, ma nello stesso tempo si ha la chiara impressione che egli
> non appartenga più a sé stesso e che tutti gli elementi della sua persona
> siano coordinati fra di loro in maniera puramente fisica, funzionale. L’occhio
> è come vitreo e contempla le facce, gli oggetti con una fissità dolorante; la
> voce emerge a fatica dal torace stanco a comporre lentissime frasi meditanti;
> i piedi immobili sul tappeto, sono calzati di pantofole. Non c’è un libro,
> attorno a lui, che testimoni della sua gloria trascorsa: solo un’edizione
> parigina dei primi sedici Cantos, pubblicata nel 1925 […]. Questo, infatti, è
> Ezra Pound al giorno d’oggi: non un uomo ma un simbolo, che mantiene rapporti
> soltanto formali con la vita; non un personaggio, ma una presenza che guarda
> alle vicende di questo mondo con animo già liberato, già lontano, già
> naufragante nella tragica e illuminata saggezza che precede la fine”4.
Il Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano è una miniera di
informazioni per gli amanti di Pound, in primis perché custodisce l’archivio
Scheiwiller, l’intrepido editore che sostenne sempre il poeta americano,
pubblicando nel 1955, tra l’altro, in anteprima mondiale, Section: Rock-Drill
85-95 de los cantares.
Nell’archivio è custodita un’interessante lettera di Ugo Dadone (1886-1963),
amico di Boris e poliedrica figura di giornalista, viaggiatore e “agente
segreto”, che ospitò Pound a Roma nel 1961. Dadone raccontava con preoccupazione
a Scheiwiller le difficilissime condizioni del poeta. A suo dire, Pound si
sentiva in colpa per aver combinato “guai” a Brunnenburg, era depresso perché
non aveva più amici, il suo conto in banca era in passivo e non voleva più
pubblicare perché non sarebbe stato comunque pagato; infine, non si sentiva in
grado di fare nulla di buono perché non aveva più idee da svolgere.
Era il Pound che l’anno prima aveva scritto a Eliot (15 aprile 1960) dicendo che
si sentiva seduto sulle proprie “rovine”: a tale missiva l’autore di The Waste
Land rispose con un telegramma: «Tu sei il più grande poeta di sempre. E io devo
tutto a te».
*
L’iter della pubblicazione degli ultimi Cantos
In questo contesto delicato iniziò l’iter che avrebbe rocambolescamente portato
alla pubblicazione dei meravigliosi Drafts and Fragments. La figlia Mary parlò
di «un crepuscolo con tenerezza e rimpianto e un’affermazione della propria
innocenza», mentre Massimo Bacigalupo nel suo indispensabile L’ultimo Poundparlò
di «una nuova, sofferta, temperie psicologica»:
> “Il Poeta che s’era lasciato allegramente alle spalle la pietra miliare del
> Canto 100 senza quasi farci caso e che emerge indenne, “aloof”, cinquanta
> pagine innanzi dalle “onde scure” che hanno più d’una volta minacciato di
> sommergerlo, sente ora che la sua poesia – e la sua vita – ha i giorni
> contati, che il “nemico” – non più l’ossessivo “they” ma l’oscurità, la morte,
> e anche un mondo di cultura dal quale egli è escluso – sta guadagnando terreno
> da tutte le parti, al punto di invertire le posizioni mantenute nonostante
> tutto – in quanto conditio sine qua non dello scrivere – sino a ora”.
Nel ricco saggio Hall of Mirrors6 Peter Stoicheff ha ricostruito un periodo di
vicenda della pubblicazione di questi ultimi Cantos, pubblicazione che avvenne
con un Pound riluttante che non si sentiva pronto per l’ultima revisione e che
fin dal 17 ottobre 1959 aveva annotato «la bellezza perduta per mancanza di
energia nella mano che scrive»7.
Tutto nacque dall’intervista che Donald Hall chiese a Pound per la Paris Review,
rivista di cui Hall era allora poetry editor. Si incontrarono per tre giorni a
Roma, in via Poliziano, nel tempo in cui Pound era ospite di Dadone. Pound
voleva essere pagato per l’intervista e in risposta si sentì dire che si sarebbe
potuto fare, ma che l’intervista sarebbe dovuta essere corredata da poesie
inedite. Pound propose gli inediti Versi prosaici e alcune lettere inedite a
Basil Bunting, ma la proposta venne respinta; la rivista rilanciò per avere
un’anteprima di nuovi Cantos. Pound mandò le bozze di sette Canti acconsentendo
poi alla pubblicazione dei Canti 115 e 116. Quando James Laughlin, lo storico
editore di Pound con le sue New Directions, vide il materiale, scrisse al poeta
che aveva letto qualcosa di veramente meraviglioso, erano versi semplicemente
«magnifici». Non fu però Laughlin a pubblicare l’ultimo tassello dei Cantos. Fu
“bruciato” nel 1967 dall’edizione pirata di Fuck You Press (un nome un
programma…) di Ed Sanders, che aveva avuto il materiale “incandescente” da Tom
Clark, un ragazzo che stava preparando una tesi sulla struttura dei Cantos e che
a sua volta aveva ricevuto i dattiloscritti da Hall. La Fuck Press stampò (o
disse di aver stampato…) 300 copie dei Drafts and Fragments che andarono subito
a ruba. Per Laughlin si trattò di un’edizione disgustosa, ma fu il volano perché
New Directions desse il via all’edizione autorizzata che noi conosciamo. Una
curiosità: c’è stato anche uno studioso come Joshua Kotin che si è messo sulle
tracce delle 300 copie per cercare di “mapparle” (finora è riuscito a
rintracciare il destino di 152 esemplari)8.
Una nota a margine. L’intervista di Pound con Hall fu pubblicata nel
prezioso Per conoscere Pound9 e offre molti spunti sugli ultimi pensieri del
poeta. Pound ricordava come un poeta dovesse avere «una curiosità continua»,
come l’artista «dovesse continuare a muoversi». Non dissimile il suo consiglio
per i giovani. A suo parere andavano incoraggiati a “migliorare la loro
curiosità” senza fingere,
> “ma ciò non basta. La pura registrazione del mal di pancia, il solo svuotare
> il cestino non basta. Infatti la coppa di ponce degli studenti dell’Università
> di Pennsylvania aveva come motto: «Qualsiasi cretino può essere spontaneo»”.
Nel corso della conversazione Pound ammetteva le sue difficoltà a concludere
i Cantos con un paradiso:
> “È difficile scrivere il paradiso quando tutti i segni superficiali dicono
> che dovresti scrivere un’apocalisse. È più facile trovare abitanti per
> l’inferno o anche per il purgatorio. Sto cercando di riunire e fissare i più
> alti voli della mente…”
*
La verità sta nella tenerezza
Pur con queste drammatiche premesse, gli ultimi frammenti di Pound restano tra i
momenti più alti della sua poesia. Sono l’esame di coscienza di un grande
dolente all’epilogo della vita. Sono le illuminazioni piene di tenerezza di un
uomo che ha inseguito l’arte (rinnovandola) in ogni istante della sua vita. Che
ha visto da vicino la bellezza, la morte e la disperazione. È un poeta in cerca
di «una quieta dimora», di «un amato e quieto paradiso» e che, come scrive
nel Canto 110, riesce a vedere con occhi di «corallo o turchese». È una
scrittura difficile, ma allo stesso tempo carica di accensioni ed epifanie.
Ritornano i luoghi cari, dalla Liguria a Venezia, gli affetti, gli eletti da
inserire nel paradiso (Mozart, Agassiz e Linneo), i versi perfetti segnati dalla
lunga confidenza con l’Estremo Oriente: «Il mare oltre i tetti, ma sempre mare e
promontorio. / E in ogni donna, pur fra l’acredine c’è una tenerezza, / Una luce
azzurra sotto le stelle».
È un poeta che, come tutti i grandi poeti, dona sentenze memorabili che
racchiudono un mondo: «La verità sta nella tenerezza». Ritorna il tema
dell’umiltà, così presente nei Pisani, perché è «un uomo che cerca il bene, / e
fa il male», ed è consapevole che «la bellezza non sta nella pazzia / Anche se
cocci ed errori miei mi circondano. / E non sono un semidio, / Non riesco a
dargli un nesso. / Se in casa l’amore manca, manca tutto».
E, ancora, «Ammettere l’errore e tenere al giusto: / Carità talvolta io l’ebbi,
/ non riesco a farla fluire. / Un po’ di luce, come un barlume / ci riconduca
allo splendore ora».
Un poeta della sensibilità di Giovanni Raboni colse al volo la grandezza di
questi frammenti. Nell’introduzione alla bellissima edizione Guanda preparò una
memorabile pagina di accompagnamento, in cui tra l’altro affermava:
> “Col passare del tempo, la grandezza della poesia di Pound mi appare sempre
> più evidente, solitaria e indimostrabile. A volte ho l’impressione di trovarmi
> solo a contemplarla, e mi prende il timore che, a chi me ne chiedesse conto,
> non saprei rispondere che con un gesto di rinuncia o una parola di sgomento.
> Altre volte, è come se questa grandezza mi fosse stata rivelata in sogno, e il
> suo segreto, la sua prova scomparissero, si dissolvessero ogni mattina con
> l’avvento della luce… […] Ma ecco, intanto, una buona occasione per rileggere,
> e ripensare, Pound: questi stupendi Drafts & Fragments, che… hanno il grande
> merito o vantaggio di mostrarci un Pound anche praticamente in bilico e
> tensione fra “poema” e “frammento”, fra la drammatica, impossibile ricerca
> dell’unità e della compiutezza e l’esaltante vitalità della dispersione,
> dell’esplosione, del molteplice. Insomma, un Pound ancora più fortemente e
> visibilmente “potenziale” – sino al puro abbozzo, al puro appunto stenografico
> –, ancora più vicino del solito a quello stato di energia pura, non incarnata
> né incarnabile una volta per tutte, che costituisce la verità più profonda (il
> segno – il sogno – più vero) della sua grandezza”.
Il parere di Raboni si accorda perfettamente a quanto scrisse Ford Madox Ford
per l’opuscolo che accompagnò la pubblicazione americana di XXX Cantos nel
1933:
> “La prima parola da dire sui Cantos è bellezza. E l’ultima sarà bellezza. La
> loro straordinaria incomparabile bellezza. Formano una storia del mondo senza
> eguali vista da queste coste che sono la culla della nostra civiltà… E una
> sola cosa è necessaria alla nostra società più della Storia. Ed è che ci sia
> da qualche parte un’opera d’arte o qualcuno che produce un’opera d’arte che
> ogni volta che la visiti susciterà infallibilmente in te delle emozioni.
> Questo è quanto fanno i Cantos”.
E per avere la misura di questa tersa grandezza forse non c’è modo migliore che
riportare alcuni luminosi frammenti della versione finale dei Cantos scelta da
Mary de Rachewiltz:
“Ho provato a scrivere il Paradiso
non ti muovere,
lascia parlare il vento
così è Paradiso
Lascia che gli Dei perdonino quel che
ho costruito
Chi ho amato cerchi di perdonare
quello che ho costruito
[…]
Uomini siate non distruttori”.
Alessandro Rivali
1 Sulla vicenda si veda il recente Luca Gallesi, Ezra Pound a Pisa – Un poeta in
prigione, Ares, Milano 2024. Per un inquadramento a tutto tondo degli ultimi
anni di Pound: A. David Moody, Ezra Pound: poet, vol. III, The Tragic Years
1939-1972, Oxford University Press, Oxford 2015.
2 New Directions, New York 2003.
3 A. Rizzardi, La maschera e la poesia in Ezra Pound, in Canti Pisani di Ezra
Pound, Guanda, Parma 1953, p. XXIII.
4 G. Livi, “Vi parla Ezra Pound: Io so di non sapere nulla”, intervista con Ezra
Pound, Epoca, n. 652, 24 marzo 1963, pp. 90-93.
5 M. Bacigalupo, L’ultimo Pound, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1981, p.
525.
6 P. Stoicheff, The Hall of Mirrors: “Drafts & Fragments” and the End of Ezra
Pound’s “Cantos”, University of Michigan Press, Michigan 1995.
7 Commento a Stesure e frammenti dei Cantos CX-CXVII, in E. Pound, I Cantos, a
cura di Mary de Rachewiltz, Meridiani Mondadori, Milano 1985, p. 1629.
8 Sulla vicenda, l’articolo dello stesso J. Kotin “The Fuck You Press Cantos: A
Census”, realitystudio.org/bibliographic-bunker/fuck-you-press-archive/the-fuck-you-press-cantos-a-census/
9 A cura di Mary de Rachewiltz, con un saggio introduttivo di M.L. Ardizzone,
Mondadori, Milano 1989.
L'articolo “La verità sta nella tenerezza”. Gli ultimi Cantos: il testamento di
Ezra Pound proviene da Pangea.
Forse, fra i lettori, proprio coloro che provano una certa inquietudine al
pensiero di ritrovarsi su un aereo e dover volare, spesso loro malgrado,
finiscono per apprezzare maggiormente i racconti e i romanzi dedicati a questo
strano desiderio umano di “staccare l’ombra da terra”. Siamo, o siamo stati,
tutti lettori appassionati di Saint-Exupéry nonché, in tempi più recenti, di
quel notevolissimo e sfortunato scrittore – sfortunato come uomo, ma fortunato e
talentuosissimo come scrittore – che è stato Daniele Del Giudice.
Il mondo degli aerei e dei piloti torna prepotentemente in primo piano
nell’opera di un altro grande scrittore del Novecento, lo statunitense James
Salter, ancora troppo poco conosciuto da noi, benché Guanda ne abbia pubblicato
quasi tutta l’opera. Di Salter ricorre ora un doppio anniversario: cent’anni
dalla nascita, avvenuta il 10 giugno 1925 e dieci dalla morte, il 19 giugno
2015, subito dopo il compimento dei novant’anni. Una vita lunga e, come vedremo,
anche complessa, a cui non corrisponde la mole di pubblicazioni che ci si
potrebbe forse aspettare. In termini quantitativi l’output è stato nell’insieme
modesto, insomma, ma se si passa, come si dovrebbe, a una valutazione
qualitativa, il discorso cambia radicalmente, perché Salter è da considerarsi
una figura di assoluto spicco nella letteratura statunitense del secondo
dopoguerra. La sua scrittura, scrive John Irving nella postfazione all’edizione
italiana di A Sport and a Pastime(Un gioco e un passatempo, edito da Rizzoli nel
2006 e riproposto da Guanda nel 2015) – un titolo, sia detto per inciso, tratto
curiosamente da una sura del Corano – “trasforma i suoi libri, romanzi o memorie
che siano, in risultati letterari eccezionali”, tanto che qualunque scrittore
contemporaneo “si sentirà umiliato dalla sua lingua”.
Nato nel New Jersey, all’età di appena due anni Salter, che in realtà si
chiamava James Arnold Horowitz, segue la famiglia a Manhattan, e New York
diventa la sua città, la città in cui frequenta anzitutto le scuole superiori
(fra i compagni di scuola si annoverano fra gli altri Julian Beck e Jack
Kerouac), pubblicando le prime poesie, a suo dire terribili, sul giornalino
scolastico. È uno studente brillante e molto portato per le materie
scientifiche, e al momento della scelta dell’università, indeciso fra il MIT e
Stanford, si lascerà convincere dal padre, un ex militare, a entrare – siamo nel
1942 – all’Accademia militare di West Point. Si arruola poi nell’aviazione, ma
nel frattempo si laurea e ottiene anche un master alla Georgetown University, e,
dopo alcuni incarichi nelle Filippine, in Giappone e alle Hawaii, partecipa alla
guerra di Corea eseguendo un centinaio di missioni di combattimento nei cieli
coreani. Da questa esperienza ricava nel 1956 il suo primo romanzo, The
Hunters (Per la gloria, Guanda, 2016), che per non dare nell’occhio fra i
commilitoni pubblica con lo pseudonimo di James Salter, nome che in seguito
deciderà di adottare anche nella vita civile. Da The Huntersverrà anche tratto
nel 1958 un fortunato film con Robert Mitchum.
Segue nel 1961 The Arm of Flesh, ripubblicato quasi quarant’anni dopo con varie
modifiche e con il nuovo titolo di Cassada, un altro romanzo incentrato sulle
sue esperienze di pilota, ma ambientato stavolta alla base aerea di Bitburg, in
Germania. Nel frattempo, tuttavia, Salter ha capito che, se davvero vuole
dedicarsi alla letteratura, deve cambiare vita. Un segnale di una possibile
crisi esistenziale, a ben vedere, si coglie già in alcune pagine di Per la
gloria (cito qui dalla traduzione di Katia Bagnoli) che sembrano attagliarsi a
chiunque vada in pensione o smetta un’attività:
> “Fare parte di una squadriglia era una sintesi dell’esistenza. Quando arrivavi
> eri un bambino. C’erano opportunità infinite, e tutto era nuovo. Gradualmente,
> quasi senza rendertene conto, i giorni degli studi faticosi e del piacere
> erano finiti, avevi raggiunto la maturità; e poi all’improvviso eri vecchio, e
> volti e persone nuove che faticavi a riconoscere ti spuntavano intorno in
> fretta, fin quando scoprivi di non essere più il benvenuto fra loro perché
> tutti quelli che avevi conosciuto e con cui avevi vissuto se ne erano andati e
> la guerra non era diventata altro che una serie di ricordi incondivisibili di
> eventi avvenuti tanto tempo prima.”
Salter lascia quindi l’aeronautica e per guadagnare qualcosa si dà alle
sceneggiature di film e documentari, vincendo anche un premio alla Mostra di
Venezia del 1962, scrivendo nel 1969 la sceneggiatura di un film ambientato a
Roma, L’appuntamento, diretto da Sidney Lumet e interpretato da Anouk Aimée e
Omar Sharif, e collaborando, fra gli altri, con Robert Redford, per il quale
scrisse la sceneggiatura di Downhill Racer(Gli spericolati). Quest’ultimo
tuttavia infine rifiutò, perché il protagonista gli sembrava troppo riservato e
inadatto a lui, la sceneggiatura per un altro film, Solo Faces, incentrato sul
mondo degli scalatori, che lo scrittore decise in seguito di trasformare in un
romanzo, uscito nel 1979. Romanzo che diventerà un libro di culto nell’ambiente
appunto degli appassionati di quello sport.
Ma la strada di Salter è decisamente quella della narrativa pura, e se sarà
ricordato, come credo e spero, ciò avverrà grazie a una manciata di romanzi e
volumi di racconti che hanno rappresentato un’alternativa forse minoritaria, ma
non per questo meno presente e proficua, rispetto alla tradizione prevalente
nella recente letteratura statunitense, quella delle narrazioni fluviali, da
Bellow a Roth, da Updike a Mailer, da Ford allo stesso Irving, e oggi da De
Lillo a Franzen. Tanto divergente è potuto sembrare a molti critici il suo
cammino che Salter è stato presto bollato come atipico ed “eurocentrico”, il che
forse non è del tutto errato, se si pensa ai forti legami da lui intrattenuti
con diverse letterature europee, e in particolare con quella francese (per un
periodo ha anche vissuto a Parigi). Dagli scrittori europei Salter mutua forse
la riflessione sulla letteratura come modalità di vita, e la sua forza sta nel
far sì che, grazie a un instancabile lavoro di cesello, ogni sua opera, dal
romanzo più corposo al più breve dei racconti, sia un piccolo o grande
capolavoro. Nei suoi quasi sessant’anni di attività come scrittore, da The
Hunters all’ultimo romanzo uscito nel 2013, All That Is (Tutto quel che è la
vita, Guanda, 2015), Salter ha saputo mantenere inalterata nel tempo la tensione
e la profonda meditazione che si avverte dietro ogni sua pagina, ogni paragrafo,
persino ogni frase da lui formulata – quella che considerava, cioè, la vera
unità di misura della narrativa. A proposito della sua frase, appunto, e di
quanto sia ben tornita, Richard Ford ha scritto una volta che “It is an article
of faith among readers of fiction that James Salter writes American sentences
better than anyone writing today” (“È articolo di fede tra i lettori di
narrativa che James Salter scrive oggi frasi americane meglio di chiunque
altro”).
Grande estimatore delle metafore, Salter riesce quasi sempre a stupire, a
coniarne di nuovissime. Per farmi capire meglio prendo, praticamente a caso, un
suo paragrafo, uno dei tanti che potrei citare, l’inizio del secondo capitolo
di Una perfetta felicità (nella traduzione di Katia Bagnoli). Ecco cosa scrive:
> “Era l’autunno del 1958. Le bambine avevano sette e cinque anni. Sul fiume,
> del colore dell’ardesia, si riversava la luce. Una luce morbida, un’indolenza
> divina. In lontananza il ponte nuovo scintillava come una dichiarazione
> d’intenti, come un’affermazione che in una lettera costringe chi legge a
> soffermarsi.”
Un paragrafo praticamente perfetto.
Scrivere, cancellare e riscrivere continuamente, questa la sua tecnica,
acquisita quando i computer non esistevano ancora, ma mantenuta poi anche in
seguito, a garanzia di una ricerca incessante e faticosa dell’espressione
migliore, più calzante. Diceva di odiare quanto sgorgava direttamente dalla
mente, e che l’unico piacere dello scrivere consisteva in realtà nel correggere
e riscrivere. A questa inclinazione artigianale Salter univa una grande
curiosità per gli altri e per il mondo, che gli consentiva di archiviare prima
nella sua mente e riutilizzare poi nelle sue storie impressioni e frammenti di
discorsi accumulati nei decenni, giungendo il più delle volte, come ha
confessato, a creare personaggi che sono spesso un originale collage di diverse
persone reali, colte in una battuta o in un singolo atteggiamento. Sebbene
qualche critico abbia definito il suo stile impressionistico, o addirittura
affine al pointillisme in pittura, Salter ha regolarmente sottolineato di aver
voluto solo e sempre ricercare la massima chiarezza, insistendo non tanto sulle
grandi teorie, quanto sulle gioie e sulle asperità della vita quotidiana.
La sua abilità nel descrivere la passione sentimentale e sessuale – ne è un
esempio evidente A Sport and a Pastime –, così come la pulsione di ciascuno di
noi verso le novità e il cambiamento, palesa uno studio appassionato di diversi
antecedenti letterari, fra cui Salter stesso ha sempre annoverato un altro
militare, Isaac Babel’, ma anche Gogol’, Gide, Kawabata, Nabokov, Karen Blixen,
Thomas Wolfe e Marguerite Duras. Uno studio, peraltro, ravvicinato e intenso,
senza limitazioni o timori reverenziali, fondata sull’augusta e oggi troppo
frettolosamente abbandonata pratica della mimesi.
Con Light Years, del 1975 (tradotto in italiano da Guanda nel 2015 con il
titolo Una perfetta felicità),Salter riesce a raccontare con un’ispirazione
felicissima e uno stile ellittico e obliquo una storia, d’amore prima e di
bruciante separazione poi, basandosi sulla convinzione più volte espressa che
nella vita non conti tanto la realtà oggettiva, quanto la memoria, i ricordi che
riusciamo a strappare all’oblio. Scriverne e descriverli è anzi l’unico modo per
farli e farci vivere ancora. “There is no complete life,” sostiene. “There are
only fragments” (“Non esiste la vita completa, ci sono solo frammenti”). Ma la
forza del libro sta anche nella sua capacità di descrivere le conseguenze della
dissoluzione di una famiglia per tutti i suoi componenti e di farci entrare con
discrezione, ma anche con consumata maestria, nella mente dei protagonisti: la
bella, sofisticata e confusa Nedra, avvinta dalla lettura della biografia di
Alma Mahler, e il marito Viri, un architetto ebreo elegante e a suo modo
romantico – ebreo proprio come quel Salter il cui matrimonio andrà in pezzi poco
dopo la stesura del libro. Ma d’altra parte in Salter l’autobiografia, seppur
ben dissimulata, è sempre in agguato: la storia d’amore torrida con la ragazza
francese di A Sport and a Pastime è tratta di peso dalle sue esperienze
personali, e la vita, fra il divorzio, la morte improvvisa di una figlia in
circostanze drammatiche e le malattie che contrappuntano l’avanzare dell’età,
non lo ha certo risparmiato. Ma nelle sue opere ha saputo sempre evitare
qualsiasi tentazione di ripiegamento su sé stesso e di sentimentalismo.
Sulla fine di un amore tornerà anche con il bellissimo racconto che dà il titolo
alla raccolta Dusk and Other Stories, uscita nel 1988 (Crepuscolo e altre
storie, Guanda, 2022), racconto seguito da una serie di altre piccole gemme. Il
libro otterrà il PEN/Faulkner Award, un premio di grande prestigio. Lo stesso
livello qualitativo si riscontra senz’ombra di dubbio nella seconda raccolta,
dal titolo Last Night, che esce nel 2005 (L’ultima notte, Guanda, 2018).
In Burning the Days, del 1997 (Bruciare i giorni, Guanda, 2018), che è invece
una specie di memoir o autobiografia per frammenti, in cui si muove senza alcuna
remora da un periodo all’altro della propria vita, lo scrittore spinge ancora
oltre l’idea della reminiscenza come (unica) base della narrazione. Anche in
questo caso Salter sfugge all’assillo, secondo lui deleterio, di dover evocare
tutto e ribadisce invece il proprio diritto al parziale silenzio, alla cernita,
alla scelta, che oltre tutto ha il potere di stimolare la collaborazione del
lettore, la cui curiosità a volte inappagata diventa un asse trainante del
libro.
James Salter (1925-2015)
Una curiosità per chiudere. Come il nostro Filippo Tuena, che ha voluto dedicare
al cocktail Martini un libro collettaneo uscito qualche anno fa per Nutrimenti,
anche Salter ne è stato per tutta la vita un adepto. Una volta calcolò quanti
Martini aveva bevuto in vita sua, e giunse alla conclusione che dovevano essere
all’incirca ottomilasettecento. Dev’essere, questa predilezione per il cocktail
Martini, un’altra caratteristica degli scrittori di oggi, almeno dei più
interessanti: qualcuno, prima o poi, potrebbe farne magari l’argomento di una
tesi di laurea.
Raoul Precht
*In copertina: poster di Downhill Racer (“Gli spericolati”), 1969, film di
Michael Ritchie, scritto da James Salter, con Robert Redford e Gene Hackman
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