Catcher in the rye, conosciuto in Italia come Il giovane Holden, esce in America
nel 1951 e la sua ambientazione, leggendone i riferimenti, è da collocarsi
probabilmente prima del Natale del 1949. È il romanzo che segna il successo,
nella sua invero esigua produzione letteraria (un romanzo, nove racconti e
quattro novelle), di J. D. Salinger; produzione nella quale ricorrono la
descrizione di pensieri e azioni di giovani non adattati, adolescenti perlopiù
laconici che non sanno o non possono esprimere ciò che provano realmente, la
capacità di sottrarre allo scacco dell’inautentico e alla perdita di un senso
verace che i bambini hanno su questi, e il rifiuto verso la società borghese e
convenzionale. Questo autore che ha anche ispirato la Beat Generation, consegna
con Catcher in the rye un capolavoro senza tempo che ha saputo parlare, in
diversi decenni, a tanti lettori, giovani e non, senza perdere di freschezza e
urgenza.
Il protagonista è uno strampalato, pensoso, a tratti taciturno e a tratti
verboso sedicenne, che eccelle in Inglese ed è carente nelle altre materie della
scuola di preparazione al college che frequenta in Pennsylvania. Viene espulso
dalla scuola e decide di andarsene da solo a intraprendere un viaggio che non ha
meta precisa se non il ganglio urbano di New York.
Quante volte nella letteratura di tutti i tempi il viaggio è tramite e veicolo
di scoperta e rinascita… Ma per Holden Caulfield non è niente di tutto questo:
il ragazzo, infatti, nella carrellata di incontri e esperienze che compie, reca
con sé e rivolge molte domande ma non riceve mai risposte, o ne riceve di
insoddisfacenti, finendo per inasprire il proprio senso di disorientamento e
insoddisfazione; il tragitto che descrive è dettato dall’impulso del momento e
risulta sconclusionato. Egli cerca forse non il senso della vita, ma se non
altro un senso possibile, che non si palesa mai, però, nel corso delle sue
picaresche vicissitudini.
Holden è una figura romantica in chiave neoterica e novecentesca, parla il gergo
dei giovani di allora, cosa che connota fortemente il romanzo per il verso di un
realismo, spesso minimale, che ha affascinato generazioni. Appare un perdente,
prende pugni, corteggia ragazze che non gli badano granché, sbatte contro muri
fatti di convenzioni e contro situazioni che si volgono spesso al peggio o a una
mancanza di esito.
Tanto per cominciare non ama il cinema, a differenza dei suoi coetanei, forse
perché foriero di sogni artefatti, vero corrispettivo di ciò che è mediato in
senso deteriore. ed ama, per contro, la schiettezza d’animo (con la quale si
esprime egli stesso) al di sopra di ogni altra cosa. Né adulto né bambino, ha
pensieri desueti e sconcertanti, ricorda spesso il fratello che ha perso per una
leucemia e, così si evince, non ama i propri genitori benestanti ma ha una
spiccata simpatia per la sorellina. In un mondo che sembra avere solo strade
ferrate, percorsi ordinari e ordinati, Holden si muove come un pipistrello in
una stanza.
Il suo ex insegnante di Inglese, il solo forse per cui prova simpatia, lo
accoglie una notte in cui si trova in difficoltà, nel corso della sua fuga, e
gli rivolge parole che parafrasiamo: “la differenza tra una persona immatura e
una matura, è che la prima vuole morire per un ideale, la seconda vivere per
esso”. Come negare che questo aneddoto che il professore rivolge affettuosamente
al protagonista, sia veridico? Vivere significa anche morire mille volte e mille
ancora dover risorgere, condurre una strenua battaglia per la verità e la
bellezza, in un mondo che le nega entrambe ed è anzi di per sé mortifico. È
questo un cimento cui Holden si avvia sprovveduto in ogni forma, sgangherato e
idiosincratico, con pensieri strani, autentici e veritativi, che tiene per sé o
deve dissimulare, e che fanno a cozzi con la sua sonnolenta, ordinaria
generazione che vuole sentirsi adulta anzitempo e si prepara a un ingresso
trionfale nella vita matura e che sogna coronato di certezze salde e successo
conformi a un “sogno americano” mai così deviante e falso. Perché il suo tempo,
il tempo intimo di Holden, fa a pugni con quello storico che vive, ed è una
sorta di zona franca dall’ottusità dei più, dalla loro refrattaria esistenza
così impermeabile al dubbio; un viatico, insomma, con cui cerca di tenersi lungi
da convenzioni e ruoli, e dal dover declinare il suo autentico essere attraverso
ogni sorta di possedere, dal doverlo smarrire goccia a goccia scivolando
dissanguato nell’alveo dell’età adulta (che mente o è irretita nella menzogna,
veste ruoli in cui si identifica totalmente, mette per propri idoli dei fini
assoluti e pressoché senza complemento: fini che non le guadagnano senso di
responsabilità, ma una pallida copia di esso assieme a un inventario di
privilegi).
Più propriamente egli non scimmiotta gli adulti né i propri coetanei, non gioca
a interpretare nessun ufficio che all’età matura afferisca, raramente pronostica
sul proprio futuro, perché tremendamente incombente ma lontano come un orizzonte
simile a un’evanescente stringa.
Holden non elude l’angoscia della libertà e non vuole entrare grufolante, con
decorrenza precoce, tra recinti di affanni e preoccupazioni. In fondo gli
basterebbe avere una ragazza a fianco, che sappia “tenerlo per mano”, perché a
quell’età si è fragili spighe e nessuna ragazza ci capisce davvero, nessun
genitore sa farsi carico, con risposte perspicue anziché cliché e morali
posticce, dei dubbi, delle istanze e delle stranezze che si affoltano nella
mente di un figlio in crescita… Si è soli in una folla di nomi, postazioni,
ruoli, nel mezzo di un mondo che ad esser capito non basta una vita e ad esser
sognato non basta una gioventù.
Lo slancio sorgivo e autentico di questo giovane si strozza nel finale in rivi
stenti di terapia psicanalitica, avverando paradossalmente le parole dell’amico
Carl Luce, che dopo un fugace incontro attraversato da disagio e indolenza, gli
consiglia di andare da uno psicanalista. Un luogo comune, certo, ma che traduce
in fatto tutta la distanza che separa il giovane Holden da quel ragazzo adulto e
già inquadrato.
Holden, a New York dove è fuggito, si imbarca persino in un incontro con una
prostituta senza riuscire a fare altro che parlarci e lasciar passare il suo
quarto d’ora per procura, chiedendole poi di rivestirsi.L’amore, nella sua
carnalità, è qualcosa a cui non è pronto, o forse semplicemente non a quel modo.
Sente, sì, la sua urgenza, ma lo spaventa. Così come ogni cosa che sopravvenga
dopo una lunga, smaniosa attesa, ma si riveli spogliata di ogni sogno, vera e
cruda, impellente e mai realmente conquistata: solo tale da accadere lasciandoci
“secchi”…
Prima di fuggire anche da New York, Holden passa una giornata con la sorellina
Phoebe, la sola che forse sappia accettarlo e capirlo, seppure in qualche
ingenuo modo; e alla sua domanda su cosa Holden voglia fare da grande, lui le
confida di voler fare
> “colui che salva i bambini, afferrandoli un attimo prima che cadano nel
> burrone, mentre giocano in un campo di segale”.
Pare una sciarada, ma a parte il richiamo a una poesia di Burns e al gioco del
baseball cui Holden è affezionato (conserva anche un guantone come ricordo di
suo fratello) egli non fa manifesto altro che di voler soccorrere i bimbi persi
in un mondo di giochi prima che la vita li getti a strapiombo in una età che si
palesa come una rovinosa caduta; o forse semplicemente salvarli dal vuoto della
vita, quando finiscono i sogni dell’infanzia e comincia la realtà di
un’esistenza che non è pari alla poiesis di nuovi sogni e nuove sfide, ma opaca
e priva di un vero senso se non quello artificioso e costrittivo del ruolo di
adattati.
Caulfield rimane un antieroe che ha affascinato intere generazioni, forse
proprio perché così vicino a noi in una straniante età di passaggio che
attraversiamo senza certezze e ripari, o nel ricordo di essa, che tanto può aver
deciso della nostra vita attuale come anche tanto poco da destare sconcerto ed
echi di una paura che perdura come una voce ormai inascoltata.
Massimo Triolo
L'articolo “Sogni d’oro, imbecilli!”. Intorno a Holden Caulfield, il pipistrello
della letteratura proviene da Pangea.
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Nel 1978, per la Christopher’s Books di Santa Barbara, piccola editrice eletta
all’anticonformismo, esce un libro di spregiudicata bellezza. S’intitola The
Love Poems of Marichiko; in copertina spiccano aerei, ermetici calligrammi.
Kenneth Rexroth, il traduttore, ha settantatré anni, è nato tre giorni prima del
Natale del 1905, a South Bend, Indiana. Il padre, venditore di farmaci,
alcolizzato, muore che Kenneth è un ragazzino, nel 1919; la madre se n’era
andata tre anni prima. Cresciuto con gli zii, a Chicago, reso spregiudicato
dalla solitudine, Kenneth a diciannove anni prende la strada, gira il paese in
autostop, si dà a diversi lavori – quello più proficuo sembra essere stato la
guardia forestale. “Trovai lavoro a Marblemount. Zaino in spalla, mi presentai
presso il Forest Service. Mi aprì Tommy Thompson, un tipo meraviglioso. ‘Vieni a
cena con noi. Forse ho qualcosa’. Era uno dei paesaggi più selvaggi degli Stati
Uniti: non sapevo nulla di scienze forestali, non conoscevo le ruvide vertigini
delle montagne. Da bambino, ero stato nelle Alpi. Tommy mi disse di aprire un
sentiero, oltre il bosco, verso il ghiacciaio. Partii con una sega, un’ascia,
cibo nello zaino per una settimana”. Così scrive Kenneth in uno dei suoi reperti
autobiografici; che sono, poi, l’autobiografia di un paese, tra vendemmia di
vento e metropoli nell’urlo.
Fronte ampia, baffi geroglifici, occhi pieni di pietà. Kenneth Rexroth pubblica
il primo libro importante nel 1940, s’intitola In What Hour. Introdotto alla
poesia da Louis Zukofsky, diventerà amico di Lawrence Ferlinghetti. A San
Francisco, il 7 ottobre del 1955, è Rexroth il gran cerimoniere del leggendario
“Six Gallery reading”, quello in cui Allen Ginsberg legge Howl, specie di
Pentecoste dei Beat. Quando qualcuno gli dice di essere stato il profeta dei
Beat, il Giovanni Battista di quella generazione di imbestiati e ‘battuti’,
Rexroth si ribella – li credeva, Kerouac, Ginsberg & Co., tumefatti dalla fama,
affratellati ai santi, in fondo, dei traditori. Lui era rimasto ciò che era: un
uomo docilmente ribelle ai canoni imposti, un anarchico, un ulisside cercatore.
Più prossimo al medianico Ezra Pound che al mediatico ribellismo di
quella generation, Rexroth aveva tracciato da tempo la sua via verso Oriente:
autodidatta, avventuriero dalla mente Bucefalo, per la New Directions aveva
tradotto One Hundred Poems from the Japanese (1955) e One Hundred Poems from the
Chinese (1956).
Implacabile poligrafo, animato da una curiosità, si direbbe, animalesca, Rexroth
ha tradotto García Lorca e Machado, Pierre Reverdy e Antonin Artaud, Basho e
Wang Wei, Saffo e Leopardi (L’infinito attacca così: “This lonely hill has
always/ Been dear to me, and this thicket / Which shuts out most of the final/
Horizon from view…”). Nella prefazione a The Phoenix and the Tortoise (1944)
dichiarò di rifarsi “a fonti ellenistiche, bizantine e tardo romane – e a
Marziale”. La poesia si sviluppava secondo “un più o meno sistematico, più o
meno preciso punto di vista”; il poeta dichiarava il proprio “senso di
disperazione e di abbandono di fronte al collasso di un intero sistema di valori
culturali”. La raccolta era dedicata a David Herbert Lawrence – “morto nel
tentativo di rifondare una famiglia spirituale” – e ad Albert Schweitzer,
“l’uomo che, in questi tempi, ha realizzato il sogno di Leonardo da Vinci –
Leonardo, che morì impotente, lasciando i suoi progetti a metà, che ha
dimostrato che la volontà umana è una porta troppo stretta perché una persona
possa forzarla verso l’universale”.
Infaticabile ‘molestatore’ culturale, nel 1949 Rexroth firma un’antologia che
raduna il meglio dei New British Poets, dedicata, in parti uguali, a James
Laughlin, il suo editore, e, “come sempre”, alla moglie, Marie. Lì, senza tema
di discepoli, sono stivati i poeti che seguono il dominio di Eliot e di W.H.
Auden: George Barker e Hugh Macdiarmid, Lawrence Durrell e David Gascoyne,
Stephen Spender e Denise Levertov. Il cuore dell’antologia è Dylan Thomas (“Non
c’è dubbio che sia lui il giovane poeta più influente che scriva oggi in
Inghilterra. L’unanimità con cui tutti, tranne gli irriducibili stalinisti e i
versificatori domestici, da rivista, lo indicano come il più formidabile
fenomeno della poesia contemporanea è semplicemente sbalorditiva”); mirabili le
pagini introduttive:
> “Dylan Thomas è sfacciato. Non si mostra mai a cuore aperto. Ti prende per il
> collo. Ti incunea il cuore in gola. Ti colpisce il muso con un cuore
> sanguinante e odoroso, un cuore pieno di vermi e di aghi, di nerosangue,
> spinato, il cuore di un lupo mannaro… Dylan Thomas scrive come se non avesse
> mai incontrato essere umano, come se non conoscesse lo spazzolino da denti.
> Non c’è nulla di male in questo. Egli è un capo selvaggio che guida la sua
> spedizione di cacciatori, per fare lo scalpo ai visi pallidi. Appartiene a una
> stirpe di eroi”.
In fondo estraneo ai patronimici della fama, ai club, alle combine dei premi,
spesso disperso in piccole edizioni d’arte, Rexroth ha scritto di William Blake
e di Rimbaud, dei canti dei nativi americani e del jazz, di Isaac B. Singer e
della controcultura americana, dell’Ecclesiaste e della Cabbala. Un suo saggio
sonda i legami tra Coleridge e lo Zen; un articolo pubblicato sul “San Francisco
Examiner” – di cui era editorialista – s’intitola The Tao of Fishing, esce
nell’agosto del 1960: il mese prima si era occupato del teatro Kabuki e di
Samuel Beckett. È difficile, intendo, trovare un poeta dagli interessi tanto
poliedrici ed eterogenei: leggere Rexroth è una gioia del cervello, obbliga a
una perpetua gimkana tra comodità e convenzioni, è un poeta sempre in allarme,
Rexroth, è un poeta-sentinella, alle pendici di un evo appena intuito. Ha
scritto, con la stesso assiduo, generoso genio, con l’audacia del perpetuo
dilettante, del bambino eterno, di Simone Weil e degli haiku, di Matteo Ricci,
il gesuita nato a Macerata che partì nel Cinquecento ad evangelizzare la Cina, e
delle lettere di Van Gogh.
In Italia, tuttavia, Rexroth è per lo più un paria. L’ho conosciuto grazie a
Flavio Santi: nel 1999, per Marcos y Marcos, ha curato l’antologia Su quale
pianeta; esiste, ormai, nel mercato secondario. InternoPoesia, per la cura di
Francesco Dalessandro, pubblicherà un mannello di “poesie scelte” come Lasciati
celebrare.La celebreremo.
Cristina Giorcelli ha scritto che Rexroth, “Tenace oppositore del materialismo
contemporaneo, nutrì palingenetiche speranze nelle filosofie orientali e nella
poesia. Nella sua visione, mistica e sensuale a un tempo, la poesia costituisce
l’atto comunicativo, ‘sacramentale’, per eccellenza: in poesia, infatti, il
suono, il ritmo, l’attenzione alla calligrafia (quale si rivela nella resa
grafica delle traduzioni di Rexroth di poesia cinese e giapponese), la cura
tipografica del testo, devono partecipare all’‘estasi del senso’”.
In appendice, diamo minimo conto dell’affinità tra Rexroth e il mondo orientale:
le sue traduzioni dicono – poundianamente – di un’armonia da lotofago,
l’ingordigia della bellezza. Il poeta che traduce divorando.
Rexroth morì a Santa Barbara nel giugno del 1982. Poco prima, si era convertito
al cattolicesimo; nel 1978 aveva pubblicato come The Burning Heart una selezione
di “poetesse giapponesi”. Fu una raccolta di successo, poi ripresa da New
Directions: per la prima volta, si squarciavano i paraventi di un’era remota, di
una femminilità irredenta. The Love Poems of Marichiko pareva un’appendice a
quell’assiduo lavoro di ricerca. Le poesie sono delicatissime, scritte su veli
di carta, da mollare ai venti:
> “Fare l’amore con te
> è come bere acqua di mare.
> Più bevo
> più sete mi setaccia
> niente può placarla, se non:
> bere il mare per intero”
> “E un giorno, sei pollici di
> cenere sarà ciò
> che resta del nostro incendio
> mentale, di tutto il mondo creato,
> di questo amore, l’origine
> la dissipazione”
Dietro il volto della giovane poetessa contemporanea Marichiko, si nascondeva
Kenneth Rexroth. Estremo gioco d’ombre di un cannibale del linguaggio. Rexroth
eccelleva nella poesia d’amore; l’arte dei famelici.
**
GIAPPONE
Yosano Akiko
(1878-1942)
Neri i capelli
in mille rivoli annodati
annodati i capelli annosi
annodati nodosi ricordi
delle nostre infinite notti d’amore.
*
L’autunno sfiorisce:
nulla dura per sempre.
Il fato sfata le nostre vite.
Accarezza i miei capezzoli
con le tue mani da manovale.
*
Cogli i miei seni
squarcia ogni mistero
un fiore esplode
è cremisi e profuma.
*
Fukao Sumako
(1895-1974)
Casa luminosa
Che casa luminosa:
nessuna stanza è resa al buio.
La casa si erge alta
sulle scogliere, scandita
come un faro.
Quando arriva la notte
depongo una luce
una luce più grande del sole e della luna.
Pensa
al mio cuore che si flette
quando con dita tremanti
accendo un fiammifero nella sera.
Sollevo il petto
inspiro ed espiro al rumore dell’amore
come la figlia del guardiano del faro.
Questa è una casa luminosa.
Voglio creare un mondo
che nessun uomo può costruire.
*
Noriko Ibaragi
(1926-2006)
La mente di una bambina
Ecco cosa aveva in mente una bambina:
perché la schiena delle mogli
odora così forte di magnolia
o di gardenia?
Cos’è
quel futile velo di nebbia
sulle spalle delle mogli?
Ne voleva avere
quella meravigliosa cosa
che alle vergini è vietata.
La bambina crebbe
divenne moglie – fu madre.
Un giorno capì:
la tenerezza
che si ammucchia sulle spalle delle mogli
non è che fatica
di amare – amare giorno dopo giorno.
*
CINA
Huang O
(1498-1569)
Sopra la melodia “Nuvole imbizzarrite”
Hai tenuto il mio fiore di loto
tra le labbra, hai slabbrato
il pistillo. Abbiamo rubato
un frammento del magico corno
del rinoceronte: insonni
per tutta la notte – per tutta
la notte la cresta leonina del gallo
si è fermata. Per tutta la notte l’ape
si è incuneata tremando tra gli stami
del fiore. Oh mio dolce gioiello!
Soltanto il mio signore domina
sul sacro stagno di loto:
ogni notte fa esplodere in me
i suoi fiori di fuoco.
*
Sun Yün-Feng
(1764-1814)
Sulla strada, attraversando Chang-te
L’anno scorso ho attraversato questo luogo:
mi è piaciuto e sono felice di esserci ancora.
Il mercato del pesce si inabissa tra ombre blu.
Da una locanda con il tetto di paglia
si snoda il fumo del tè.
Le sabbie, a riva, interrano
la bianca luna: il fiume sussurra.
I salici attendono il verde
della ventura primavera.
I versi di una poesia mi lacerano.
L’ho preteso: fermi per un po’, destriero.
*
Viaggio tra le montagne
Il vento occidentale invita alla nostalgia:
la polvere del carro sale fino alle nubi – è sera.
Le cicale fischiano tra le foglie ingiallite.
Al tramonto l’ombra di un uomo è spaventosa
come una montagna – gli uccelli si ritirano tra i greti del sonno.
Vago senza fermarmi – ho perso la via di casa.
Mentre ammiro il fiume, un brivido
d’invidia per il pescatore che siede
in solitudine: pensa pensieri eleganti, senza peso.
*
Qiu Jin
(1875-1907)
Una lettera alla Signora T’ao Ch’iu
Sono sola con la mia ombra
mormoro e scrivo strani
caratteri nell’aria, come Yin Hao.
Vino e malanni non mi spezzano
non soffro per chi non c’è più:
per avere ragione del mio cuore
Li Ch’ing-chao ha messo sotto
torchio una città intera.
Nessuno può capirmi:
le mie visioni superano quelle
degli uomini che mi stanno al fianco –
ma sopravvivere è impossibile.
A cosa serve il cuore di un eroe
in abiti femminili?
Il mio destino è il rischio:
imploro il Cielo – le eroine
del passato hanno mai
conosciuto l’invidia?
L'articolo “Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth
proviene da Pangea.
Ancora Emily Dickinson? Questo ho pensato – devo ammettere – quando mi sono
ritrovata davanti un altro libro della più famosa poetessa statunitense. “Più
famosa” oggi, si intende. Negli ultimi anni abbiamo infatti assistito a una
proliferazione di testi su o della “reclusa di Amherst” che in vita pubblicò
pochissimo, e non fu quasi mai compresa – basti pensare che la prima edizione
critica delle sue 1.775 poesie, a cura di Thomas H. Johnson, risale al 1955,
sessantanove anni dopo la sua morte.
Tutti pazzi per Emily, dunque: nuove traduzioni, nuove biografie, romanzi che la
vedono protagonista, diversi film, fino ad arrivare a una (terribile) serie
televisiva. Brucia un grande fuoco attorno alla sua figura. In tale contesto,
c’è chi potrebbe domandarsi, con malinconia, se tutta questa attenzione avrebbe
fatto piacere alla scrittrice solitaria, che si “auto-isolava” dal mondo
esterno. Qualcun altro, invece, con ferina curiosità, si chiede perché proprio
Dickinson sembra essere stata eretta a diventare il santino della poesia
femminile – se non addirittura femminista.
Sono domande a cui non so rispondere – non è compito mio –, ma posso dire che
questo libro (Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, Crocetti Editore,
2025) mette in risalto alcune caratteristiche della poetessa che sono passate in
secondo piano rispetto ad altre più decantate dalla critica. Prima di tutto, è
interessante il progetto che si cela dietro al libro: i componimenti sono stati
scelti da Jorie Graham, una delle voci poetiche più importanti e significative
dei nostri giorni. Nata a New York nel 1951, è cresciuta in Italia, a Roma.
Vincitrice del Premio Pulitzer per la poesia nel 1996, dal ’99 insegna scrittura
creativa all’Università di Harvard – ricoprendo il ruolo che fu del poeta
irlandese (e Premio Nobel) Seamus Heaney. Con i suoi versi traccia una lotta
contro la decadenza del mondo, il caos e lo smarrimento. Si è confrontata con le
poesie di Dickinson. Quelle qui raccolte rappresentano un campionario esemplare
dei motivi più rilevanti e degli aspetti stilistici principali della sua
produzione.
La cura del volume è affidata a Maria Borio, come la traduzione – affrontata
insieme a Jacob Blakesley. L’obiettivo principale: quello di “presentare una
versione quanto più autentica della scrittura poetica di Dickinson e del suo
carattere di autrice […]. Lo stile e la lingua di questa poesia testimoniano,
infatti, che D. si confrontava acutamente con le questioni intellettuali e
sociali più rilevanti della sua epoca, anzi che era all‘avanguardia, anticipando
fenomeni artistici e di pensiero del Novecento”.
Maria Borio è poeta e saggista. Dottore di ricerca in letteratura italiana
contemporanea, cura la sezione poesia di «Nuovi Argomenti». La sua ultima
silloge, Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni,
Interlinea 2019) è stata tradotta negli USA. Ha scritto le monografie Satura. Da
Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La
poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).
Ha gli occhi profondi e la voce gentile. Alla presentazione del libro di
Crocetti, a Milano – in dialogo con Benedetta Centovalli e Tommaso Di Dio –, ha
affascinato gli uditori parlando della “luce oscura” di Emily, della percezione
fisica nelle sue poesie, della rivoluzione che ha creato a partire dal suo
limite. Mi sono avvicinata, mi ha permesso di porle qualche domanda.
Cinquantacinque poesie, scritte da Emily Dickinson, selezionate da Jorie Graham,
tradotte da Maria Borio e Jacob Blakesley. Credi che la poetessa statunitense
contemporanea abbia fatto da “mediatore”, attraverso la sua sensibilità, nella
selezione dei testi che più rappresentano Emily? Ritieni che la cooperazione tra
diversi attori (e tra più poeti) abbia arricchito queste traduzioni, offrendo
nuove prospettive rispetto alle versioni precedenti?
Jorie Graham ha offerto un campione di poesie che restituisce una fisionomia
autentica della poetica di Emily Dickinson, a lungo miscompresa. Non si tratta
di una poetessa vagamente misticheggiante, vergine sacrificale confinata
nella Homestead, ma di una scrittrice e intellettuale al passo con il proprio
tempo, fine osservatrice delle questioni politiche, filosofiche, teologiche e
letterarie del Rinascimento Americano, cioè quel giro di decenni in cui emergono
le voci di Emerson con Self-Reliance e Thoreau con Walden, fino a Leaves of
grass di Whitman. Lo sguardo di Emily si innerva anche di scienza, dalla
botanica alla geologia; non dimentichiamo che condivideva le teorie di Darwin e
leggeva l’«Atlantic Monthly». La sua poesia realizza una rivoluzione percettiva,
esistenziale ed ontologica. La cooperazione che è alla base della raccolta cerca
di restituire il carattere acuto e polivalente di questa rivoluzione.
Tu stessa hai sottolineato la grande attenzione che si è posta nella resa del
ritmo e nel rispetto della punteggiatura di Emily. Com’è stato adattarsi al suo
“andamento meditativo anticonvenzionale”, e all’impossibilità di riportare
sempre la rima?
La metrica degli originali reinterpreta soprattutto la tradizione dei versetti
cantati nella liturgia protestante, estranea alla poesia italiana. Ma perdere le
corrispondenze della rima non comporta la rinuncia a quelle delle assonanze e
delle consonanze e delle allitterazioni: non impedisce, cioè, di ricomporre una
specie di tessuto ritmico sinottico parallelo a quello delle versioni inglesi.
La punteggiatura, soprattutto i trattini, è il punto d’unione tra l’inglese di
Dickinson e l’italiano, grazie a cui è stato ricucito il ritmo sincopato nelle
traduzioni. Questa poesia si snoda come un discorso della coscienza, in anticipo
rispetto allo stream of consciousness del Novecento, con avanzamenti e
indietreggiamenti, in presa diretta, nel suo farsi. È il ritmo, prima che ogni
altro aspetto stilistico, che rende questi testi come fotografie di una mente in
movimento, nel suo tempo storico contingente, eppure percepita vicina,
contemporanea, anche da chi legge oggi. Il ritmo dà a questa poesia una
tangibile universalità.
Quali sono, secondo te, gli aspetti linguistici di Dickinson più difficili da
rendere in italiano?
Le espressioni ironiche. Due esempi: l’uso di “Gentlemen”, quando Emily si
rivolge a un ipotetico consesso di filosofi e scienziati che cercano di
stabilire che cosa sia la fede, e che è stato tradotto con “Lor Signori”
in “Faith” is a fine invention…; oppure, in I’m Nobody! Who are you?…,
l’espressione “the livelong June”, tradotto “tutto il santo Giugno”, che
descrive il tempo stagionale dell’assordante gracidare delle rane.
Qual è la forza di Emily Dickinson, la sua modernità? Ciò che le permette di
essere nel tempo, di resistere, anche quando i suoi versi non vengono compresi –
addirittura rovinati, storpiati?
Il ritmo, come dicevo prima, di una mente inquieta e totalmente vera – per
questo è Brain, reale e pulsante, e non l’astratta Mind –, che non scrive
soltanto per esprimere se stessa, ma per cercare di capire il mondo. La poesia
come forma di intelligenza.
L’ironia che accompagna la lirica di Emily Dickinson potrebbe essere intesa come
elemento di innovazione rispetto alla tradizione poetica a lei contemporanea?
C’è un componimento in particolare dove questi due elementi sono inseparabili, a
tuo parere?
L’ironia di Dickinson non è un espediente comico o una semplice tecnica di
straniamento. Si tratta di un modo per inclinare e affinare la visione:
un’angolatura diversa, che ci raggiunge all’improvviso, un’inversione di marcia
rispetto all’abitudine e all’ipocrisia, un’intensificazione dell’intelligenza
che cerca il fondo autentico dell’esperienza umana. Tell all the Truth, but tell
it slant…, cioè “Dì tutta la Verità, ma dilla obliqua”: non esiste un’unità di
senso, logica o scientifica, che fornisce soluzioni o regola le nostre vite in
schemi e leggi; la verità è fatta di possibilità e di domande, e spesso sta
proprio in quest’ultime, non nelle risposte. L’ironia serve a Dickinson per
interrogare.
“Sgretolarsi non è l’Atto di un istante/ […] Scivolare – è la legge del Signor
Crollo –”. Commenteresti questi versi?
Uno dei temi su cui Dickinson ritorna in modo ossessivo è la morte, il
decadimento della materia, lo sgretolarsi del qui e ora. Il pungolo
dell’esistenza che si scompone è controbilanciato da quello per l’eternità. Se
la condizione delle creature mortali è transeunte, qual è quella opposta?
L’eternità è plausibile, o è solo un’illusione che consola, come le promesse
della fede possono essere un palliativo alle ingiustizie reali? Banalmente,
Emily aveva una consuetudine quotidiana con la morte: la sua casa era vicina a
un camposanto, come in moltissime cittadine americane dell’epoca, e i lutti si
verificavano non di rado! Il tendere inevitabile della vita verso la morte, con
l’ipoteca dell’eternità che attende al varco, la attira e la snerva: abituata a
interrogare qualsiasi fenomeno, lo sgretolamento fisiologico e processuale (“non
è l’Atto di un istante”) del corpo coincide, per lei, con la terribile
dissoluzione della capacità di pensare, di avere una coscienza, che spera invece
possa perpetuarsi. Il nostro decadimento è irreversibile, perciò è una “legge”,
ma Dickinson sa affrontarlo con ironia e, infatti, “Crashe’s law” è stato
tradotto con “legge del Signor Crollo”. Anche il tremendo decadimento è posto al
vaglio di un’interrogazione.
Possiamo dire che la poesia, per Emily Dickinson, è lo strumento che occorre per
interrogare i rapporti tra le cose – e se stessa. Da poeta, tu condividi questa
visione?
Sì. La poesia è una forma di pensiero che, interrogando, esprime una creazione e
decreazione continua di rapporti.
Ti sei occupata, tra i tuoi studi, di Eugenio Montale. Nell’Introduzione al
volume di Crocetti scrivi che “se Montale avesse dato meno peso alla religione
nell’opera di Dickinson, forse si sarebbe accorto che alcuni aspetti della
propria poetica lo accomunavano a quest’autrice”. Dove hai individuato
maggiormente questi aspetti?
Montale aveva una visione del mondo atea ed esistenzialista. Ma la sua poesia è
anche una poesia di pensiero, come quella di Valéry. Spesso ha un tono
filosofico. Non chiederci la parola…, negli Ossi di seppia, termina in questo
modo: “questo solo possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”,
cioè condensa in una chiusa quasi epigrammatica una dichiarazione sull’esistenza
umana, una dichiarazione che è metafisica, asserisce una verità. La prospettiva
metafisica non è, però, astratta, incorporea, ma radicata nelle dinamiche
complesse della coscienza. Per il legame viscerale e sensuoso tra coscienza e
metafisica, Montale è vicino a Dickinson.
Credo che tradurre un poeta comporti il fatto di passarci insieme molto tempo.
“Abitare” il suo linguaggio – verbo a Emily tanto caro. Posso chiederti quali
sensazioni o emozioni sono sorte in te durante, o dopo, questa esperienza? Emily
Dickinson ha in qualche misura influenzato anche il tuo modo di guardare alla
realtà?
Ho imparato qualcosa di paradossale: l’arte di non prendersi sul serio. Non si
tratta di irresponsabilità o superficialità, anzi, proprio l’opposto. Fino a
quando ci ostiniamo a prendere estremamente sul serio quello che facciamo, con
caparbietà, per quanto genuina, restiamo confinati in noi stessi, chiusi
nell’ego. Allentando la tensione, con una curvatura ironica e un’accettazione
del perdono, anche scegliendo di affrontare le cose con un impeto tragico, forse
potremo riuscire a vederci come ci può vedere un altro, ad abitare lo spazio
dell’altro, ad essere più autentici. Il tuo peggior nemico è te stesso.
Anna Taravella
**
657
Io abito nella Possibilità –
Una Casa più bella della Prosa –
Più abbondante di Finestre –
Più ricca di Porte –
Di Camere come Cedri –
Inespugnabili dall’Occhio –
E come Tetto Eterno
Le volte del Cielo –
Di Visitatori – i più belli –
Per il Lavorìo – Questo –
Dispiegare ampio delle mie strette Mani
A raccogliere il Paradiso –
*
1129
Di’ tutta la Verità ma dilla obliqua –
Il successo sta in un Circuito
Troppo brillante per la nostra debole Delizia
La sorpresa stupenda della Verità
Come il Fulmine che per i Bambini si attenua
Con spiegazioni soavi
La Verità deve abbagliare gradualmente
O tutti sarebbero ciechi –
*
599
C’è un dolore – così totale –
Che ingoia l’Essere –
Poi copre l’Abisso con lo Stordimento –
Così la Memoria può passarci
Intorno – Attraverso – Sopra –
Come chi in un Delirio –
Vada sicuro – un occhio aperto –
Lo farebbe cadere – Osso dopo Osso –
*
997
Sgretolarsi non è l’Atto di un istante
Una pausa fondamentale,
I processi di Disgregazione
Sono Decadimenti organizzati –
Prima c’è una Ragnatela sull’Anima
Una Pellicina di Polvere
Un Tarlo nell’Asse
Una Ruggine Primaria –
La Rovina è accurata – il lavorio del Diavolo
Consequenziale e lento –
Perdersi in un istante, nessun uomo l’ha fatto
Scivolare – è la legge del Signor Crollo –
*
258
C’è un certo Taglio di luce,
Pomeriggi d’Inverno –
Che opprime, come la Gravità
Delle Melodie da Cattedrali –
Una Ferita celeste, ci procura –
Noi non troviamo la cicatrice,
Ma un’intima differenza,
Dove è ciò che conta –
Nessuno può insegnarla – Nessuno –
È il Sigillo della Disperazione –
Un’afflizione imperiale
Mandata a noi dall’Aria –
Quando arriva, il Paesaggio ascolta –
Le Ombre – trattengono il respiro –
Quando se ne va, è come la Distanza
Negli occhi della Morte –
*
642
Bandire – Me da Me stessa –
Ne avessi l’Arte –
La mia Fortezza invincibile
Da Ogni Cuore –
Ma poiché Io stessa – Mi assalto –
Come potrei aver pace
Se non soggiogando
La Coscienza?
E poiché Noi due siamo Re l’una per l’altra
Come potrebbe essere
Se non Abdicando –
Me – da Me?
Da Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, tr. it. di Maria Borio e Jacob
Blakesley, Crocetti, 2025
L'articolo “Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con
Maria Borio proviene da Pangea.
Nella ben documentata biografia dedicatagli da Blake Bailey (Cheever. A Life),
si racconta a un certo punto di come John Cheever s’imbatta in un romanzo di
Saul Bellow e sia, da quel momento in poi, soggiogato, anzi quasi ossessionato
dal collega. Già gli erano piaciuti i primi due romanzi di Bellow, e in
particolare The Dangling Man (L’uomo in bilico), ma la sua reazione alla lettura
del terzo romanzo bellowiano, The Adventures of Augie March (Le avventure di
Augie March), che esce nel 1953, sarà tale da stordirlo. Una vera e propria
rivelazione, tanto da spingerlo a scrivere al suo quasi coetaneo che, se avesse
continuato su quella strada, per lui, cioè per il povero Cheever, non ci sarebbe
stato altro destino possibile se non quello di tornarsene a casa e “andare a
lavorare a una pompa di benzina a fare il pieno agli automobilisti in transito
per Cape Cod”. Un modo indubbiamente immaginifico e autoironico di esprimere la
propria ammirazione, ma anche un segnale di quanto la prosa di Bellow l’avesse
colpito; anche se in seguito, moderando leggermente gli entusiasmi, dirà (ma
sempre con riferimento all’esempio di Bellow, che quindi continuava a
bruciargli) che in fondo la scrittura non è un’attività competitiva.
Non è questo che uno dei tanti esempi possibili per descrivere l’impatto avuto
da Bellow sugli scrittori della sua generazione, come per esempio Malamud, per
non parlare naturalmente di quelle successive (Philip Roth in primis), che ne
hanno magari criticato il progressivo scivolamento verso posizioni
neoconservative, ma hanno fatto comunque pienamente tesoro delle sue conquiste
espressive. A vent’anni dalla morte, avvenuta il 5 aprile 2005, cerchiamo allora
di verificare quanto di Bellow e della sua opera sia rimasto. Da The
Victim(1947) a Henderson the Rain King (1957) – l’unico dei romanzi bellowiani
il cui protagonista non sia ebreo –, da Herzog (1964) a Mr Sammler’s
Planet (1970), da Humboldt’s Gift (1975) a The Dean’s December (1982), da More
Die of Heartbreak (1987) a Ravelstein (2000): anche se ci limitiamo ai titoli
dei soli romanzi principali, riscontriamo sempre almeno due doti, una prodigiosa
ispirazione e un’inesauribile creatività. Perché una cosa è certa:
il corpus prodotto in mezzo secolo di attività da Bellow è impressionante per
qualità e continuità d’ispirazione, per il sottile intreccio tra profondità di
contenuti e padronanza delle tecniche narrative.
Non gli sono mancati i riconoscimenti, fra cui il premio Nobel, che gli venne
conferito nel 1976, mentre l’anno precedente gli era stato preferito Montale, in
quell’alternanza prosa/poesia che ne contrassegnò diverse edizioni. E va detto
che di rado premio Nobel fu più meritato, né mai fu al tempo stesso più
ortodosso, legato cioè non a questioni extraletterarie (ossia, spesso,
politiche) o all’esigenza di ampliare la portata del concetto di letteratura, ma
intrinseco, volto cioè a premiare davvero l’eccellenza nella scrittura. E a
proposito di Nobel: diversamente da altri scrittori, che nei confronti del
premio furono molto critici (Beckett) o addirittura lo rifiutarono (Sartre), pur
non essendo del tutto convinto dell’utilità né degli aspetti pubblicitari ad
esso connessi, Bellow si limitò a ringraziare, da persona discreta e gentile
qual era. In passato, aveva detto dei propri libri e dei propri lettori che, se
di un suo romanzo riusciva a venderne cinquantamila copie, l’avrebbero poi letto
forse in cinquemila, ma avrebbero reagito ad esso al massimo in trecento, e il
Nobel gli sembrò quindi semplicemente uno dei possibili strumenti per far
aumentare queste cifre (e magari in particolare l’ultima).
Una volta tanto, l’occasione del conferimento del Nobel risulta interessante
anche per i contenuti della lecture tenuta da Bellow, in cui, polemizzando con
le posizioni di Alain Robbe-Grillet e altri, esalta la vitalità del romanzo (e
dei suoi personaggi) e mostra di perseguire l’ideale di una narrativa eclettica,
che non si lasci limitare o coartare dall’esterno, che non tema le grandi
dimensioni e le scommesse creative e perfino che non sia necessariamente
equilibrata, e anzi contenga al proprio interno elementi alieni
al plot principale e magari centrifughi. Menziona a un certo punto una frase di
Joseph Conrad, il quale, nella prefazione al Negro del “Narciso”, diceva che
l’arte è il tentativo di rendere la massima giustizia possibile all’universo
visibile. Ben lungi dall’accettare l’idea di una crisi strisciante o di
un’implosione del romanzo quale genere letterario, Bellow rivendica al contrario
l’importanza di continuare a svilupparlo senza confini prestabiliti, aprendosi
all’influenza di quelli che tre anni dopo, in un’altra intervista (a Maggie
Simmons per “Quest”), chiamerà “deeper motives” (“motivi più profondi”), che
spesso sgorgano direttamente dall’inconscio e dall’emotività dello scrittore
configurandosi come onesti elementi morali (non moralistici), scaturenti cioè
dall’approccio etico di ciascuno scrittore con la realtà e dalla sua
rielaborazione mentale della stessa.
Da tutto questo derivava un rifiuto del postmodernismo e delle tendenze più in
voga negli anni Settanta e Ottanta, il suo orgoglio di essere uno scrittore
“unfashionable”, ovvero non alla moda, il suo amore e piacere per la lingua di
cui si serviva, un inglese ricchissimo e duttile. E ne derivava anche una certa
intransigenza, che non lo farà arretrare dinanzi alle accuse di conservatorismo,
soprattutto a partire da Il pianeta di Mr Sammler, dovute anche al suo graduale
avvicinarsi a posizioni neoliberali e a figure come quella del filosofo Allan
Bloom. Per Bloom, che sarà insieme a Mircea Eliade uno dei protagonisti del
romanzo a chiave Ravelstein, e per il suo The Closing of the American Mind – una
specie di trattato in cui, considerato il nichilismo delle più giovani
generazioni, si preconizzava un imminente trionfo della barbarie – l’elettore
democratico Bellow scrive infatti un criticatissimo prologo. Un conservatorismo
peraltro non politico, il suo, ma morale, dovuto al disagio provato nel vedere
tante promesse svanire nel nulla e la società americana incapace di assorbire le
pulsioni verso una maggiore giustizia civile e razziale, verso un superamento
della povertà estrema, verso un maggiore rispetto dei diritti
civili. Conservatore controcorrente in un’America che a suo parere andava verso
un liberalismo ingenuo, confuso e velleitario, oggi Bellow sarebbe probabilmente
all’estrema sinistra dello spettro politico, a burlarsi di questo nuovo ceto
politico sciatto e pasticcione, se non decisamente fascista, emerso dalle ultime
elezioni.
Qualche altra caratteristica di Bellow da mettere rapidamente in luce, anche se
in maniera non sistematica (proprio come forse avrebbe amato): anzitutto, la
capacità di essere ironico e autoironico. Tanto per fare un solo esempio, nel
rispondere alle domande di Joseph Epstein per la “New York Times Book Review”,
il 5 dicembre 1976, Bellow esordisce così: “Well, you are not Eckermann, I am
not Goethe, and this, our City of Chicago, is most distinctly not Weimar. But
let’s go ahead anyway. Shoot.” (“Lei non è Eckermann, io non sono Goethe, e
questa nostra città di Chicago di certo non è Weimar. Ma procediamo pure.
Spari.”)
Poi, la capacità di cogliere nel segno, che caratterizza in pratica ciascuno dei
suoi quattrodici romanzi. Bellow lo spiegava senza davvero spiegarselo: a lui
sembrava semplicemente di dar voce a paure e confusioni che erano sue proprie e
a cui solo a posteriori riconosceva un carattere di universalità. Diceva che, in
quanto romanziere, era parte del suo lavoro quotidiano cercare di dare
espressione, nel modo più preciso e circostanziato possibile, ai dubbi e alle
angosce che serpeggiano in una società di per sé sempre più impaziente e
incerta. E questo, nella maggior parte dei casi, gli è senza alcun dubbio
riuscito: certe profonde e strampalate lettere di Moses Herzog ai suoi
impossibili interlocutori, da Eisenhower a Nietzsche a Spinoza, fanno già parte
della storia della letteratura. “Se sono matto, per me va benissimo”, come
recita l’incipit del libro; e a quanto pare, nel creare il prototipo
dell’intellettuale ebreo metropolitano, ironico e fortemente nevrotico, sempre
sospeso fra riflessione e azione (il più delle volte mancata) – prototipo che al
cinema farà poi la fortuna di un Woody Allen – Bellow tocca davvero un tasto
sensibile, dà vita letteraria a qualcosa che cominciava a esistere e a
propagarsi in natura.
E ancora, il legame indissolubile con Chicago. Nato a Lachine, nel Quebec, nel
1915 – il vero nome è Salomon Byelo, è l’ultimo di quattro figli e il primo a
vedere la luce nel Nuovo Mondo –, Bellow trascorre l’infanzia a Montreal e a
Chicago si trasferisce con la famiglia (emigrata in origine da San Pietroburgo)
all’età di nove anni. Vivranno da emigrati canadesi nel West Side, una delle
zone più problematiche della città in termini di piccola criminalità e
d’insicurezza. Nella magmatica e caotica Chicago, Bellow avrebbe poi seguito gli
studi liceali, si sarebbe anche iscritto, in una prima fase, alla locale
università, dove avrebbe però subito toccato con mano lo strisciante
antisemitismo che imperava anche negli Stati Uniti e che gli ispirerà il secondo
romanzo, La vittima, prima di spostarsi alla Northwestern per laurearsi in
sociologia e antropologia (non in lettere, e forse è significativo anche
questo). A Chicago, lavora in seguito al Federal Writer’s Project – un centro
studi che era diventato anche una specie di sinecura per scrittori progressisti
e che Trump oggi si affretterebbe a chiudere –, stringendo con la città un
legame indissolubile, che resta in essere anche quando la lascerà
temporaneamente. Viaggerà infatti in Europa grazie a una borsa Guggenheim – è a
Parigi che comincia a scrivere, a suo dire soprattutto in treno e nei cafés, il
brillante e picaresco Augie March – e per determinati periodi vorrà o dovrà
trasferirsi a Minneapolis e a Boston. Ma nella maggior parte dei suoi romanzi
Chicago è onnipresente; il richiamo e il fascino che la città esercita su di lui
ben si rispecchiano nella convinzione di alcuni tra i suoi personaggi principali
di non poter vivere altrove, in un’accettazione totale anche delle brutture e
delle manchevolezze della vita cittadina che non si riscontra nelle opere di
altri scrittori, come Theodore Dreiser, Nelson Algren o Richard Wright, i quali
a Chicago hanno trascorso quasi tutta, se non tutta la vita. In alcuni libri di
Bellow, come per esempio Il dono di Humboldt – romanzo davvero pirotecnico su un
intellettuale in crisi, in cui fra le righe prende a modello l’amico poeta
Delmore Schwartz, morto una decina d’anni prima –, la Chicago dei grattacieli,
dei mattatoi, della polizia corrotta, della criminalità organizzata per bande,
del business che primeggia su tutto è ritratta con rara maestria e ricchezza di
sfumature.
Bellow è stato amatissimo dalle donne (cinque mogli, quattro divorzi, avrà
l’ultima figlia all’età di ottantaquattro anni) e naturalmente dal suo pubblico,
sempre più vasto, ma anche da molti colleghi scrittori, che in qualche caso
potrebbero passare, sia pure entro certi limiti, per suoi discepoli. È ancora
Blake Bailey, ma stavolta nella biografia dedicata a Philip Roth, a raccontare
del bellissimo rapporto fra i due, che insieme a Malamud, a Mailer e ai fratelli
Singer, erano uniti anche dal fatto di far parte di quella che Truman Capote
aveva voluto sprezzantemente definire nel 1968 su “Playboy” la “Jewish literary
Mafia”. (Di sicuro, assieme a tutti questi altri autori Bellow è riuscito se non
altro a creare un genere letterario, quello dell’immigrato alle prese con
l’incomprensibile realtà urbana, e a far emergere nelle lettere americane
moderne la presenza ebraica, soprattutto quella degli ebrei ormai integrati o in
via di sempre maggiore integrazione.) Roth, che con le sue battute e barzellette
riusciva invariabilmente a divertirlo, continuerà a telefonare a Bellow anche
quando quest’ultimo, ormai novantenne, era troppo confuso persino per sapere chi
fosse, e parteciperà al suo funerale, nella remota Brattleboro, in Vermont,
benché soffrisse di una patologia alla schiena che lo aveva quasi immobilizzato.
Ma il rispetto e l’ossequio al maestro, a volte, permette di superare qualunque
avversità; e Bellow era stato per lui e molti altri indiscutibilmente un vero
maestro.
Raoul Precht
L'articolo “Se sono matto, per me va benissimo”. Saul Bellow, un maestro
proviene da Pangea.
Giacca giusta, cravatta, viso affilato e aristocratico, cappello costoso,
William S. Burroughs sembrava un Lord. Il Lord della disperazione; il Baronetto
del sottosuolo; il Principe della morfina.
La letteratura, si sa, nasce dal disastro, dalla morte.
E da una leggenda bugiarda.
Settembre 1951, Messico. Bisognerebbe scrivere una storia della letteratura
sugli scrittori che hanno sentito il bisogno di perdersi in Messico, in quei
meandri del delirio, che infernale ubriacatura, ce ne sono un mucchio, da
Antonin Artaud a Malcolm Lowry, da Carlo Coccioli a Hart Crane e Cormac
McCarthy.
Burroughs in delirio lisergico.
Piglia la pistola.
Mette il flûte in testa alla moglie, Joan Vollmer. 28 anni, viso da bambola.
William è più grande di un paio di lustri, ha studiato ad Harvard, rampollo
sregolato di una famiglia di ricchi; afferra l’arma, gioca a fare l’eroe, le
spara in faccia.
> “Poi ci fu quel terribile incidente con Joan Vollmer, mia moglie. Avevo un
> revolver che volevo vendere a un amico. Lo stavo controllando ed è partito un
> colpo: lei è rimasta uccisa. Qualcuno ha messo in giro la voce che stessi
> cercando di centrare un bicchiere di champagne sulla sua testa, alla Guglielmo
> Tell. Una cosa assurda e falsa”.
Verità, memoria e menzogna sono il fango mistico da cui esala l’esaltante
narrativa di Burroughs. Di certo c’è che Joan dà a William un figlio, nel 1947,
e che lui, scampando il processo, se ne scappa a casa di Paul Bowles, quello
del Tè nel deserto, a Tangeri. Lì, sgangherato dalla colpa, colto nel folto del
tremendo, Burroughs scrive il libro di culto, Pasto nudo, l’epos di un Ulisse
cocainomane, il regesto visionario di un malato (“La Malattia è la
tossicodipendenza e io per quindici anni sono stato un tossicomane”), la
stagionatura agli inferi di un cervello rimbaudiano in mescalina.
Pasto nudo diventò il Corano dei Beat, Burroughs l’Allah dei beatnik, Jack
Kerouac il suo profeta.
> “Jack Kerouac è stato fondamentale nell’alimentare il mio interesse per la
> scrittura. Tra l’altro, il titolo Pasto nudo si deve a lui: è stato un caso,
> naturalmente. Continuava a dirmi che dovevo fare lo scrittore, e io gli
> rispondevo che non sapevo niente di letteratura. Così ho davvero cominciato
> piuttosto tardi”.
Raffinato, viziato, vizioso, nessuno ha mai saputo descrivere adeguatamente
Burroughs. “Era un Raskol’nikov in cerca di tutte le cose che non si dovrebbero
fare. Voleva semplicemente provare tutto”, ha detto Allen Ginsberg. Certo. C’è
il delitto, l’immolazione nel castigo, la baraonda catartica, l’alchimia della
droga.
Nel 1963, a Parigi, prima di intervistarlo, Joseph Barry lo vede così,
> “Un tizio un po’ curvo, alto circa uno e ottanta; magro; un volto scarno che
> sembra un misto di Ralph Richardson e Buster Keaton”.
Insomma, un attore dell’assurdo. Su Village Voice, a declamarne il talento, uscì
questa didascalia:
> “Tossico e assassino formatosi ad Harvard, William S. Burroughs è stato un
> illustre decano della feccia… In misura maggiore di quanto non lo rendesse
> possibile la sua leggenda, era anche un uomo dal pensiero complesso,
> inquietante e visionario, profondamente paranoico e profondamente morale”.
Lui, teorico della letteratura come sprofondamento nella notte oscura dei sensi
e dei pensieri, era più sbrigativo, “sono robaccia – e sarò per sempre un
drogato”.
L’ennesimo paradosso di questo inafferrabile surfer dell’Lsd è che “odiava
rilasciare interviste” (così Sylvère Lotringer), solo che il tomo che
raccoglie tutte le sue Interviste, stampato da il Saggiatore, una specie di
monumento e di monolite, va avanti per 1200 pagine e passa (2018). Burroughs
stava meglio nel suo mondo immaginario, macerato a dovere dalla coca, più che in
quello reale. Lo intervistavano e lui balbettava, eludeva, rispondeva a
monosillabi, si perdeva in una amazzonia di metafore. A Londra, nel 1974, il
Duca della Beat generation dialoga con il Duca Bianco, David Bowie, e tartaglia,
farfuglia, William tratta la superstar come uno scrittore vero (“È piuttosto
sorprendente che siano testi così complessi, e che possano conquistare un
pubblico di massa…”), e Bowie fa spallucce, fa il falso modesto, come di fronte
al frontman dei fan (“Sono abbastanza sicuro che alla gente che ascolta le mie
cose non interessano i testi”).
Dunque, a cosa serve questa mole micidiale di interviste, colloqui,
registrazioni (un centinaio)? A fare l’elenco dei – rari – scrittori che
piacciono al guru dei fulminati, ad esempio. Sintesi magnetica:
> “C’è Joyce. Shakespeare, Rimbaud, alcuni scrittori di cui la gente non ha mai
> sentito parlare… Genet, naturalmente, ma la sua è una prosa francese classica.
> Non è un innovatore linguistico. Poi ci sono Kafka, Eliot e Conrad, che è uno
> dei miei preferiti”.
Legge con gusto Graham Greene, legge Le Carré (“proprio un bravo scrittore”),
non gli parlate di 1984 (“sembra quasi naif, alquanto obsoleto”), è lucidamente
crudele riguardo a Hemingway (“Le nevi del Kilimangiaro penso che sia un grande
racconto. Se prendi invece cose come Verdi colline d’Africa e Di là dal fiume e
tra gli alberi, la sua immagine ha preso il sopravvento. L’eccesso di immagine è
molto pericoloso per uno scrittore”), ama H.G. Wells (“mi è sempre sembrato uno
dei migliori”) e C.S. Lewis (“Un altro che mi piace moltissimo.
In Quell’orribile forza e Lontano dal pianeta silenzioso ho trovato molte
analogie con le mie idee”), offre una fulminante esegesi di Céline:
> “Mi pare che i fraintendimenti dei critici rispetto alla sua opera siano
> simili a quelli che investono anche i miei lavori: dicevano che fosse un
> diario della disperazione ecc. Io la trovavo invece molto divertente. Penso
> che sia in primo luogo uno scrittore umoristico”.
Quanto al resto, Burroughs, dal suo Nirvana nitido come un urlo, ha capito, già
allora, che la frustrazione è la molla del capitalismo (“La celebrazione totale
del piacere assoluto significherebbe la fine del sistema. Se davvero fossimo
tutti appagati sessualmente, il bisogno di automobili e televisioni
diminuirebbe”), disprezza indolentemente i politici (“Trovo insulso il loro modo
di pensare, così rivolto all’esterno, orientato sull’immagine, sul potere. Mi
annoiano; non li odio”), vorrebbe fare la rivoluzione con i Rolling Stones (“I
Rolling Stones si considerano dei rivoluzionari? Certo che sì, baby. Cercano di
aiutare in tutti i modi, e sono dalla nostra parte, completamente”), inaugura un
ambientalismo radiosamente radicale (“L’uomo è un cattivo animale. Prima
distrugge la razza umana, poi gli animali, infine l’ambiente”).
Quando gli chiedono che razza di vita selvaggia abbia vissuto, Burroughs, con
educazione, blocca chi lo interpella, “La maggior parte del tempo l’ho passata
alla macchina da scrivere e non a tenermi impegnato con chissà quali
spumeggianti accadimenti”, dice. E se uno pensa che William sia un contorto
nichilista, mostrificato dal nulla, sbaglia, “Se non fossi sorpreso della tua
vita, non saresti vivo. La vita è una sorpresa!”, grida.
Così il decano degli sballati decanta l’esistenza, compila il suo folle inno
all’ottimismo.
L'articolo Ulisse cocainomane, Raskol’nikov dei Beat. Vita eccentrica di William
S. Burroughs, un ottimista proviene da Pangea.
> “In quella regione non ancora riconosciuta come Stato dell’Unione, era uno
> degli anni in cui i segnali di fumo apache si alzavano dalle cime delle
> montagne rocciose, e più di un ranch era ridotto ormai a un quadrato di cenere
> annerita che si stendeva sul terreno. La partenza della diligenza da Tonto
> segnava l’inizio di un’avventura dall’incerto lieto fine…”
>
> (incipit di La diligenza per Lordsburg di Ernest Haycox, Sellerio editore,
> 1992)
Cronista giudiziario di Portland, Oregon, Ernest Haycox (1899-1950) è stato
autore di una ventina di romanzi e qualche centinaio di racconti di
ambientazione western, storie cominciate ad apparire nei pulp
magazines americani negli anni Venti, in cui si celebrano i grandi temi della
Frontiera, dalla vastità delle praterie al mistero minaccioso dell’altro,
dall’asprezza del deserto al silenzio che pervade anche l’animo dei personaggi,
solidamente sagomati su stereotipi ben collaudati. Le sue strutture narrative
essenziali, rese con una lingua asciutta e meccanismi elementari che
sfruttano topoi e figure retoriche ricorrenti, si rendevano buoni canovacci
adatti a ulteriori sviluppi, alcuni dei quali sono stati trasposti al cinema
hollywoodiano. Fra i suoi estimatori c’erano Gertrude Stein e Ernest Hemingway,
il quale – secondo la vulgata – ebbe a scrivere “I read The Saturday Evening
Post whenever it has a serial by Ernest Haycox”.
Il racconto Stagecoach to Lordsburg, uscito sul Collier’s Magazine di
Springfield, Ohio, nel 1937, è il più famoso perché vanta un’ascendenza e una
discendenza illustri. Il suo “prima” è la celebre novella di Guy de
Maupassant Boule de suif, mentre il suo “dopo” viene dal cineasta John Ford e
dal suo sceneggiatore Dudley Nichols, che lo giudicò un’ottima trama: «Cercammo
subito di tirarne fuori un film creando i personaggi, visto che quelli che
offriva non erano che abbozzi. Quindi li mettemmo da parte cercandone dei nuovi
che ci apparissero più interessanti». Fu così che Stagecoach to
Lordsburg divenne il celeberrimo film Stagecoach – reso in italiano come Ombre
rosse –, che nel 1939 (anno dell’epocale Via col vento) segnò il punto cardine
della filmografia western, definito come il momento in cui il genere “diventa
maggiorenne” e s’impone come “il cinema americano per eccellenza”.
In Boule de suif di Maupassant una prostituta francese estroversa e
grassottella, passeggera della carrozza in fuga da Rouen durante la guerra
franco-prussiana del 1870, è decisa a rifiutare per senso patriottico
le avances di un ufficiale prussiano che ha fermato la comitiva, ma alla fine si
vede costretta a cedergli per le pressioni dei suoi compagni di viaggio, persone
per bene e rispettabili – commercianti, nobili, due suore, un pericoloso
democratico – che non vogliono ritrovarsi bloccate dalla sfrontata prepotenza
dell’ufficiale e dalla caparbietà della ragazza. L’esito lo conosciamo, con la
cinica ipocrisia della buona società francese che apre e chiude la partita nel
modo più classico. In Stagecoach to Lordsburg, rifacendosi a quel racconto,
Haycox prende il riscontro storico della fuga nel 1885 del capo apache Geronimo
dalla riserva di San Carlos in cui era stato confinato, nell’ultimo sanguinoso
tentativo di ribellione attraverso scorrerie e devastazioni degli insediamenti
dei Bianchi. Come per Boule de suif, i passeggeri della diligenza per Lordsburg
compongono un microcosmo sociale, e qui sono proiettati verso una Frontiera in
progressivo e inarrestabile movimento verso ovest: sono quelli che
colonizzeranno le terre sottratte agli indiani, quelli che vivono di espedienti
professionali, e anche gli emarginati come la prostituta Henriette, schiva e
gentile, e il bel pistolero “smilzo e biondo” Malpais Bill, diretto verso la sua
vendetta contro chi gli ha ucciso il padre e il fratello. Come osserva Attilio
Brilli nell’introduzione, i personaggi hanno un carattere bozzettistico
efficace, con un gusto fra l’arcaico e l’ingenuo che risponde alla mitologia
popolare in cui si muovono; ognuno porta i segni del suo status sociale, dai
dettagli del vestire ai tratti somatici rappresentativi, fino ai gesti e agli
atteggiamenti che tradiscono i loro umori e le loro storie. Malpais Bill – che
nel film di John Ford diventa Ringo interpretato da John Wayne – ha “negli
angoli degli occhi e nella lunga piega della bocca” il segno di una natura
selvaggia, quella del mezzosangue inevitabilmente reietto.
Nel racconto abbiamo una ragazza – Miss Robertson – che va a sposarsi con un
ufficiale di fanteria, un piazzista di whisky di Kansas City, un inglese alto e
ossuto con un enorme fucile da caccia, un elegante giocatore d’azzardo, un
robusto mercante di bestiame con una grossa pepita d’oro appesa alla catena
dell’orologio, lo smilzo Malpais Bill con le pistole che gli pendono ai fianchi
e la prostituta Henriette – queste ultime le due figure centrali. Con questo
materiale, John Ford e Dudley Nichols plasmarono e “riformarono” la tipologia
dei personaggi di Haycox per caricarla dei significati simbolici più adatti alla
narrativa hollywoodiana. La evanescente “ragazza dell’ufficiale” si trasforma
nella volitiva Lucy Mallory, moglie incinta di un ufficiale dell’esercito che
vuole raggiungere il marito; l’inglese col fucile e il mercante di bestiame
vengono rimpiazzati da un banchiere avido che è fuggito con la cassa e dal
medico ubriacone Doc Boone, figura divenuta classica nella mitologia
cinematografica western; Malpais Bill diventa Ringo Kind, che è ricercato e per
questo scortato nella diligenza dalla nuova figura dello sceriffo, e Henriette
diventa Dallas Douglas, la reietta che viene fatta salire sulla carrozza da un
drappello di signore arcigne e avvizzite della Lega per la moralità. Nel film lo
sgangherato Doc Boone, costretto a fuggire da un luogo all’altro, è il
contrappeso speculare del giocatore d’azzardo Hartfield, virginiano dai modi
fini e l’aspetto nobile, entrambi figure che si redimono nel corso del viaggio.
L’opposizione più netta nel microcosmo della diligenza è fra la donna pubblica
Henriette/Dallas e Miss Mallory, ovvero la prostituta e la rispettabile dama che
deve raggiungere il marito, e si esplica in un percorso di sguardi, di
espressioni e di inquadrature soggettive – è la donna civilizzata a osservare la
prostituta, avvertendo una curiosità partecipativa – che nel film prepara la
riconciliazione solidale che avverrà in uno degli eventi centrali, la nascita
della bambina nella stazione lungo il deserto. Qui abbiamo lo svelamento dei
ruoli e la redenzione dei reietti, uno dei grandi marchi del cinema “etico” di
John Ford.
Uno sguardo analitico e complessivo sul suo cinema lo troviamo nel bel saggio di
Andrea Laquidara John Ford e il cinema americano, ovvero la rimozione di
Dioniso (Mimesis, 2019), che passa in esame la filmografia fordiana
concentrandosi sulle pietre miliari della sua sterminata produzione e traendone
quelle implicazioni storico-filosofiche che ci riportano anche all’America di
oggi. Vediamo innanzitutto che tutti i film di John Martin Feeney, figlio di un
irlandese giunto in America nel 1872, sono girati – anche quelli non
squisitamente western – sulla Frontiera, cioè sul limite, sulla soglia, quella
linea che difende la civiltà dalla wilderness: un cinema che rappresenta nel
modo più compiuto il mito di fondazione degli Stati Uniti d’America. Prendiamo
le sequenze che aprono Stagecoach: in una piccola cittadina dell’Arizona giunge
la notizia che gli Apache sono sul piede di guerra. Dopo qualche inquadratura in
esterni, che riprende due figure a cavallo che corrono negli spazi del deserto,
finiamo all’interno di una caserma, dove una delle due figure spiega a un
ufficiale seduto alla scrivania che gli Apache infestano le colline circostanti.
L’ufficiale chiede al telegrafista di predisporre la linea di comunicazione con
Lordsburg, più a ovest nel New Mexico, ma proprio da quella città sta arrivando
un messaggio urgente. L’inquadratura si stringe, l’attesa si fa preoccupata, ma
la comunicazione non arriva: «The line went dead, sir» dice il telegrafista, la
linea è interrotta. Da Lordsburg arriva solo la prima ferale parola: “Geronimo”.
Come osserva Laquidara:
> “Tutti i presenti restano in un lugubre silenzio, e la frattura che Geronimo
> ha provocato nella linea del telegrafo è riempita solo dalla colonna sonora,
> improvvisa, grave, piena di semitoni e sinistre dissonanze: un chiaro invito
> lanciato allo spettatore di preoccuparsi seriamente. (…) La linea di
> comunicazione si è improvvisamente trasformata in un binario morto. Si è
> fratturata. L’unione si è fatta divisione. E in questa frattura si è inserito
> il nome di Geronimo, il selvaggio, l’irrazionale, accompagnato da un accordo
> musicale disarmonico. Ecco dunque cosa determina il carattere tragico,
> agonistico del percorso della storia, la possibile frattura del binario
> provocata dall’imboscata tesa dal selvaggio. La dinamica e ottimistica
> mobilità del progresso muta improvvisamente in stasi. Nel Caos della stasi”.
A metà della storia la diligenza attraversa il tratto in cui Geronimo avrebbe
tagliato il filo del telegrafo, nel territorio denso di ostili premonizioni
rappresentato dalla Monument Valley, divenuta il più mitico dei paesaggi
americani: qui è evidente che il gruppo racchiuso nella carrozza – la piccola
comunità – è esposto al passaggio nel mondo spaventevole dell’irrazionale. E
l’irrazionale arriva:
> “Tutta la celebre sequenza della fuga della diligenza, inseguita dagli Apache,
> e della battaglia realizzata in frenetica corsa, è tra le più studiate nei
> corsi di Storia del cinema. Una delle ragioni sta nel fatto che John Ford
> compone insieme magistralmente un materiale molto eterogeneo. Nella pazza
> corsa di carrozza e uomini a cavallo si susseguono: velocissimi carrelli
> girati in esterni; inquadrature più ravvicinate dei passeggeri che si
> difendono (girate evidentemente in studio); riprese dall’alto che mostrano la
> diligenza fendere un territorio bianco come un lago asciutto, inseguite dalle
> ombre minacciose dei selvaggi; citazioni da Griffith (raccordi in asse e sullo
> sguardo); citazioni dal cinema sovietico (la spettacolarità di angolazioni
> inusuali, con prospettiva dal basso); passaggi di azione pura che si alternano
> a primi piani fortemente espressivi, che definiscono la psicologia dei
> passeggeri”.
L’attacco degli Apache dura ben sei minuti, con una dinamica forsennata in cui
non v’è un minimo cedimento o dispersione della tensione narrativa, fino al
momento in cui gli squilli di tromba annunciano il soccorso salvifico del
battaglione di cavalleria al galoppo e lo scioglimento del dramma. I selvaggi
sono rappresentati come figure omogenee, anonime, accomunate dall’impersonare il
pericolo, il caos e la violenza, sia quando sono invisibili sia quando irrompono
sulla scena come incubi. E in effetti gli Apache Chiricahua, a cui apparteneva
Geronimo, rientravano nel gruppo di popoli aggressivi e di mentalità guerriera
per i quali le scorrerie erano l’impresa tribale più importante e legittima, e
la guerra di vendetta era l’inevitabile conseguenza della dinamica delle
scorrerie. I giovani maschi venivano allevati per essere corridori forti, rapidi
e rapaci, per diventare ladri di bestiame e razziatori di carovane, abili nel
nascondersi e nello schivare, e implacabili odiatori dei vicini di altre
tribù. È lo stesso Geronimo a narrare il mito chiricahua della creazione, in cui
uno dei due eroi tradizionali è chiamato “uccisore di nemici”. Poiché vivono
razziando, devono affinare le arti dell’inseguimento, dell’imboscata, della
morte, in quanto la morte dei nemici è la loro vita.
Per la mente indiana l’attaccamento al paese nativo era una necessità vitale, e
non potere farvi ritorno equivaleva alla separazione dalla sorgente di vita
della terra. Gli Apache Chiricahua fondevano questo attaccamento alla propria
terra con la pratica tradizionale della guerra di razzia, e ciò rese possibile a
Geronimo di evitare la resa definitiva per più di un decennio, periodo fatto di
menzogne e promesse non mantenute da entrambe parti in conflitto. Per i Bianchi
Geronimo era il peggiore fra tutti, perché era il migliore sotto l’aspetto della
civiltà chiricahua: il più diffidente, intransigente, selvaggio, crudele.Quando
lo stile di vita dei Chiricahua fu minacciato come mai prima, egli divenne una
sorta di capo supremo, e nulla lo convinceva che il suo predecessore Cochise
avesse fatto bene a portare le sue bande nella riserva loro assegnata. I
Chiricahua non erano mai stati agricoltori, perché si spostavano di continuo, ed
era impensabile che si convertissero in contadini all’interno di una riserva;
senza contare che non avrebbero più avuto la libertà di picchiare la moglie per
le sue malefatte e nemmeno di tagliarle la punta del naso quando la scoprivano
infedele, oltre a non potersi più fare il tiswin, la birra tradizionale a base
di granturco. In breve, sarebbero dovuti somigliare agli uomini bianchi che
erano devoti alla terra solo nella misura in cui potevano impossessarsene per
sfruttarla a scapito di tutto il resto, mentre per i Bianchi il fatto che gli
Apache non riuscissero a concepire la nozione della mobilità verso l’alto
mediante l’accumulo di ricchezze era la dimostrazione della loro natura
sub-umana.
Tornando a Stagecoach e al saggio di Andrea Laquidara, abbiamo Ringo e Dallas,
lui ricercato – prigioniero dello sceriffo che viaggia in cassetta – e lei
prostituta: due figure emblematicamente collocate ai margini del sistema
sociale, che in una delle pause del viaggio vengono a trovarsi all’aperto, in un
esterno notte. Dallas cammina lungo uno steccato di tronchi, in un paesaggio
spettrale “alla Murnau” che però è stemperato dalla colonna sonora delicata e
sentimentale.
> “Lo steccato è il vero protagonista del quadro: il legno robusto e livido
> taglia l’immagine in diagonale e ne attraversa il centro. Dallas, prima in
> ombra, poi investita da una luce dolorosa, si ferma sul bordo destro dello
> schermo. Ringo, una nera silhouette, le si avvicina, ma, senza evidente
> motivo, decide di orientarsi verso la parte ovest dell’inquadratura, e dunque
> restare al di là del recinto di legno cui Dallas sta appoggiata. L’intero
> dialogo si svolgerà con la presenza triste e ingombrante dello steccato che
> separa i due interlocutori”.
Pur divisi, i due sono accomunati dallo stato di marginalità:
> “entrambi sono esclusi da una società ipocrita e formale; entrambi hanno
> vissuto un trauma che li ha privati della famiglia; entrambi sono soli, alla
> ricerca di qualcosa, un ricordo o un’attesa che custodiscono sotto la scorza
> dura che li corazza. L’identificazione, man mano che il dialogo procede, si fa
> più viva ed evidente: le inquadrature si stringono e si intensificano nei bei
> primi piani con cui John Ford rende palese la predilezione e l’affetto che ha
> per simili personaggi. Il gioco di campo e controcampo, che alterna il volto
> fiero e intenerito di Wayne a quello di Claire Trevor, pieno di dolcezza
> dimenticata, grazie all’ambivalenza naturale del montaggio, congiunge e
> contemporaneamente mantiene separati i due amanti virtuali”.
Dal West, Ringo si decide a dirle che al di là della frontiera possiede una casa
dove un uomo e una donna potrebbero vivere felici. Dallas, dall’East, è sorpresa
e intimidita, perché la crudeltà del mondo l’ha disabituata all’idea della
felicità. A questo punto avanza nell’oscurità lo sceriffo, che accarezzando lo
steccato ricorda a Ringo che non può allontanarsi, essendo un ricercato sotto la
sua custodia, mentre sullo sfondo la figura di Dallas si allontana profondamente
turbata. Come un rasoio, la legge della Frontiera è intervenuta a dividere il
corpo unico della felicità. Perché sappiamo come “il lavoro di costruzione
narrativa si esprima proprio nella selezione che distingue il necessario dal
superfluo, l’utile dall’inutile, il civile dal selvaggio, il buono dal cattivo.
È in quella linea di demarcazione che risiede il senso profondo del narrare; ed
è nella capacità di operare col rasoio, distinguendo l’identità dall’alterità,
che affonda le radici il montaggio, e dunque la costruzione di una particolare
visione della realtà”.
Mentre in Boule de suif la visione negativa di Maupassant si estende all’intera
fisionomia della società in viaggio, nella micro-società di Stagecoach il medico
ubriacone, lo sceriffo, Ringo e anche Mrs. Mallory (nella sua solidarietà finale
verso Dallas, che nel pericolo le ha protetto la neonata) rappresentano
l’aspetto migliore della civiltà, quello che giustifica il procedere verso la
via del progresso; l’unica figura negativa resta il banchiere Gatewood,
esponente di un capitalismo cinico, vorace ed esasperato. E la valorizzazione
della prostituta Dallas viene proprio dalla “sterilizzazione” della sua
femminilità e del suo eros, che viene normalizzato e ricondotto nel sistema,
promosso alla funzione procreativa, di costruzione della famiglia e della
società. È la cinepresa di Ford e lo sguardo tenero di Ringo che la sollevano
dalla sua condizione misera, incorniciandola nell’icona familiare della
donna-madre – della Madonna, secondo l’interpretazione di Laquidara – che tiene
in braccio la bambina appena partorita da Mrs. Mallory. Un lavoro strategico che
“risulta efficacissimo, giacché riesce a esorcizzare l’aspetto più spaventevole
della donna, la sua carica erotica e sensuale”. Ma non solo: il viaggio che Mrs.
Mallory e Dallas hanno fatto attraverso l’inferno le ha condotte insieme a una
maturazione, la prima al superamento dei propri atteggiamenti misurati e rigidi
di signora dell’Est, con la presa di coscienza che restituisce dignità alla
reietta, la seconda alla consapevolezza del proprio valore – riconosciuto dalla
comunità che torna ad accettarla – e della reale possibilità di amare ed essere
ricambiata.
Paolo Ferrucci
*In copertina: Adolph F. Muhr, Ritratto di Geronimo, 1898
L'articolo Go West! L’epopea della frontiera, da Geronimo a John Ford proviene
da Pangea.
Flannery O’ Connor, fervente cattolica, divenne famosa a sei anni per aver
insegnato a un pollo a camminare all’indietro. Sofferente di una grave malattia
autoimmune a carattere ereditario, il lupus eritematoso sistemico, morì a soli
39 anni.
Nonostante le innumerevoli difficoltà che costellarono la sua vita, non si perse
d’animo.
Pregò Dio di farla diventare una brava scrittrice e Dio la esaudì.
La speranza non l’abbandonò mai nonostante fosse consapevole di dover porre fine
anzitempo al suo percorso terreno.
Ma è proprio la speranza a essere la grande assente nelle storie narrate nella
sua raccolta di racconti Everything That Rises Must Converge (1965), titolo
genialmente reso in italiano con Punto Omega (a volte il traduttore deve,
ossimoricamente, “tradire” la lettera per rimanere “fedele” alle intenzioni
dell’autore) da Gaja Cenciarelli.
Innanzi tutto, cos’è il Punto Omega? Wikipedia dice che «è un termine coniato
dallo scienziato gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin per descrivere il
massimo livello di complessità e di coscienza verso il quale sembra che
l’universo tenda nella sua evoluzione. Teilhard de Chardin postula la
somiglianza di Punto Omega con il Logos cristiano: Cristo che accoglie tutte le
cose in Sé».
Il titolo scelto da Gaja Cenciarelli per il libro della O’Connor è perfettamente
aderente alla tematica religiosa ricorrente nei racconti ivi inclusi nei quali
la speranza – una delle tre virtù teologali con la carità e la fede – è
sostituita dall’alienazione, dalla disperanza e dal pessimismo (in quarta di
copertina, Claudia Durastanti chiosasottolineando che le storie dell’autrice
americana sono pervase da «un senso di morte e condanna»). Tutti i racconti
della raccolta si concludono in modo drammatico, molto spesso con la morte di
uno o più personaggi. Il mondo o i mondi in cui sono ambientati sembrano trovare
la loro spiegazione o giustificazione più che nel cristianesimo nella gnosi.
Il racconto che dà il titolo alla silloge descrive il rapporto idiosincratico
tra un figlio e una madre, reso ancora più difficile dal razzismo strisciante
della donna. Nella scena finale, il figlio si dispera, chino sul corpo
agonizzante della genitrice, colta da un grave malore.
In Greenleaf, la signora May, proprietaria terriera, muore incornata dal toro
del figlio del suo infingardo fattore.
Ne La veduta del bosco, un nonno, dopo aver indispettito tutta la famiglia con
la sua arroganza, si inimica anche la sua nipotina preferita che finirà per
uccidere accidentalmente. E così non gli resta nient’altro da fare che togliersi
la vita annegando nelle acque di un lago.
Malattia mortale è un titolo ironico: alla fine della narrazione il protagonista
finisce per scoprire che la malattia di cui soffre non è altro che una volgare
brucellosi da cui potrà senza alcun dubbio guarire. Ma, nel momento in cui sta
per aprirsi alla nuova vita, sente «le prime avvisaglie di un brivido, un
brivido così particolare […], un’onda calda in un più profondo mare di freddo».
E la conclusione è questa:
> «Un grido debole, un’ultima, impossibile protesta gli sfuggì dalle labbra. Ma
> lo Spirito Santo, avvolto nel ghiaccio anziché nel fuoco, continuò,
> implacabile, la sua discesa».
Nel finale del racconto Gli agi della casa, Thomas uccide involontariamente la
propria madre che si interpone tra lui e l’ospite indesiderata venuta a
“contaminare” la loro abitazione e le loro esistenze e a cui era diretto il
colpo di pistola che ha esploso.
Ne Gli storpi entreranno per primi, Sheppard, un vedovo che lavora come
consulente in un riformatorio, trascura e ingiuria il proprio figlio per aiutare
un giovane disadattato, dal piede equino, che ritiene particolarmente
intelligente e promettente. Ma il suo protégé si rivelerà ben presto un
impenitente delinquentello. Pentito del grave errore di valutazione che ha
commesso, in fretta e furia, tenta allora di recuperare il rapporto con il
figlio e corre in camera sua per dirgli che lo ama. Ma lo ritrova a penzolare da
una trave «dalla quale si era lanciato per il suo volo nello spazio».
In Rivelazione, la signora Turpin, dopo essere stata aggredita da una ragazza
nella sala d’aspetto di uno studio medico, si chiede, con pulsione antinomica:
«“Come mai sono redenta ma vengo anche dall’inferno?”». Ferita nell’orgoglio e
in preda alla hybris, scossa da un empito gnostico, si infuria contro Dio
ruggendogli contro:
> «“Se preferisci i poveracci, vai a cercarti i poveracci,
> allora”, […]. “Avresti potuto farmi povera. O negra. Se volevi i poveracci,
> perché non mi hai fatto poveraccia?”».
E, infine, ha una visione: vede un’orda di anime in cammino verso il paradiso.
Ci sono i poveri, i negri (la traduttrice ci tiene a precisare: «la
parola negro: nelle mie traduzioni ho scelto di non sostituirla con nero, o di
colore, perché nel periodo storico e culturale in cui l’autrice viveva era così
che si parlava»), i mostri, i pazzi e «una tribù di persone che lei riconosce
subito come uguali a lei», composta da coloro «che avevano sempre avuto un po’
di tutto, e l’intelligenza, donata da Dio per farne buon uso […] riconoscibili,
come lo erano sempre stati, per aver fatto dell’ordine, del buon senso e della
rispettabilità la loro bandiera». Eppure «anche le loro virtù stavano divampando
nel fuoco».
Ne La schiena di Parker, il protagonista tenta di conquistare la propria moglie
– una fanatica della setta del Vangelo Corretto – facendosi tatuare sulla
schiena un Cristo bizantino ma viene travolto dall’accusa di idolatria che
quella gli rivolge con veemenza e così, basito e profondamente amareggiato,
non può far altro che mettersi a piangere come un bambino.
Ne Il giorno del giudizio, un anziano impiccione, bistrattato dalla figlia che
lo accudisce, muore dopo essere stato selvaggiamente picchiato da un vicino di
colore che non apprezza la sua eccessiva curiosità e che gli urla contro «“Non
ci credo, a quelle stronzate. Non esiste Gesù e non esiste neanche Dio!”», «“Non
c’è nessun Giorno del Giudizio, vecchio. Tranne questo. Forse questo è il Giorno
del Giudizio, per te”».
Come si può constatare, nei racconti della O’Connor non c’è spazio alcuno per la
redenzione, l’esistenza è un vicolo cieco. Più che di esistenza si potrebbe
parlare di desistenza, di un inevitabile capitolare di fronte all’inesorabile
incedere del destino, al suo oscuro dipanarsi, alle sue ineffabili, sorde e
sordide ragioni.
Gli esseri umani interagiscono fra di loro con fastidio, mal sopportandosi, in
un’incessante idiosincrasia. Più che instaurare relazioni, si pongono
vicendevolmente in un rapporto dialettico irrisolto che non giunge mai a
sintesi. Gli individui più che incontrarsi si scontrano come accade nella sala
d’attesa di Rivelazione. Covano tra di loro un cupo rancore che, a volte,
finisce per sfociare nella rabbia o in comportamenti aggressivi come ne La
veduta del bosco. Una costante delle storie è poi l’intolleranza dei bianchi
nei confronti dei “negri” (l’autrice registra fedelmente gli umori della società
americana), percepiti come creature estranee al corpo della nazione statunitense
e degni di considerazione solo in quanto forza lavoro da sfruttare.
Non c’è più un creatore amorevole che mette sì alla prova le sue creature ma poi
le riporta a sé, nel suo caldo e misericordioso abbraccio, bensì un cattivo
demiurgo, un artefice cieco, un malvagio eone – confinato nelle regioni
inferiori dell’emanazione divina – responsabile del male, che dà vita a un mondo
malvagio, fatto a sua immagine e somiglianza, proprio come nelle prospettazioni
eretiche degli gnostici. Un mondo in cui l’albero della vita della mistica
ebraica è monco: sembra sia stato spezzato il ramo dell’amore e della
misericordia (hesed) che non bilancia più quello opposto, quello della gevurah,
della giustizia inesorabile di Dio (in questo caso un cattivo demiurgo che si
erge a giudice implacabile, un creatore completamente privo di pietas nei
confronti delle sue creature).
Come ha spiegato Hans Jonas (cfr., del medesimo autore, Lo gnosticismo e Dalla
fede antica all’uomo tecnologico), lo gnosticismo è la matrice del moderno
nichilismo: all’acosmismo (ovvero la negazione dell’esistenza di una natura
indipendente da Dio, un dio che assume la veste di un cattivo demiurgo) del
primo si è sostituita l’assenza di Dio, l’indifferenza di Dio e a Dio (è questo,
per il filosofo tedesco, il «vero abisso»). Nel primo caso l’uomo si trova di
fronte una natura demoniaca contro cui deve lottare, nel secondo il gelido nulla
nei confronti del quale non può affatto lottare:
> «Alla natura indifferente della scienza moderna non è concessa nemmeno questa
> qualità antagonistica e da questa natura non ci si può aspettare nessuna
> direzione».
>
> (Hans Jonas, Lo gnosticismo, trad. di Margherita Riccati di Ceva)
Nel moderno nichilismo
> «Dio è stato lentamente relegato ai margini di un’impresa che si afferma come
> esclusivamente umana».
>
> (Alessandro Dal Lago, Introduzione all’edizione italiana, in Hans Jonas, Dalla
> fede antica all’uomo tecnologico)
In ogni caso, l’uomo – come nei racconti della O’ Connor – vive sotto un cielo
spietato, in un’assoluta e angosciante solitudine.
La scrittrice di Savannah colloca anche il lettore in una posizione antinomica –
ulteriore risvolto “gnostico” della sua arte –: il fruitore per conoscere il
bene deve passare attraverso il male, per apprezzare la benevolenza divina deve
esperire un mondo in cui Dio è assente o quanto meno absconditus o indifferente,
se non addirittura malvagio.
Una profonda scissione segnò dunque la vita della O’Connor: non perse mai la
speranza, chiese a Dio di diventare una brava scrittrice e fu accontentata, ma
il mondo che descrive nei suoi racconti è contrassegnato dalla disperazione,
dall’eresia e dal nichilismo. La sua postura è ancipite: da un lato il
cattolicesimo e il mondo reale, dall’altro la gnosi e il mondo narrato. Il Dio
cristiano, sempre presente nella sua vita spirituale, sembra essere latitante
nei suoi racconti.
È forse questo il Punto Omega?: la “Rivelazione” che nel “Giorno del giudizio”
“Gli storpi entreranno per primi” nel regno dei cieli (o nel regno del “gelo”?).
Angelo Guida
L'articolo Flannery O’Connor, il cattivo demiurgo proviene da Pangea.
Infine, scelsero Stonington, Connecticut. Diciottomila abitanti, a perpendicolo
sull’oceano, l’ancora e il cannocchiale come emblemi sullo stemma civico. Questo
gli permetteva, al contempo, vastità e vacuità; ampi orizzonti e vita nascosta.
Era il 1955, James Merrill doveva compiere trent’anni, aveva il volto di un
fauno, la serafica bellezza di un Milarepa di cristallo. Nato a New York, figlio
di ricchissimi – suo padre era il fondatore dell’agenzia di investimenti
finanziari Merrill Lynch –, odiava, va da sé, la vita dei genitori.
> “Non confidavo nella vita dei miei – sempre così integralmente presi da
> impegni, obblighi sociali, cerimonie. La mia accelerazione emotiva, per così
> dire, era data dagli animali, dai miei istanti nella natura; oppure, dal mio
> rapporto con i vari inservienti della casa… le loro vite, al contrario di
> quelle dei miei genitori, sembravano avere un senso compiuto, perfetto. I
> giardinieri avevano le mani nella terra. I cuochi dragavano la farina,
> preparavano il pane e le torte. Mio padre, semplicemente, faceva soldi; mia
> madre vergava nomi sui segnaposto, pianificava i menù, ricamava”.
I Merrill divorziarono che James aveva tredici anni; il poeta – già autore di
una prodigiosa raccolta d’esordio, The Black Swan, tirata dal suo professore, in
forma privata, ad Atene – scelse una via spartana: abitò in quello sperduto
borgo del Connecticut con il compagno, David Jackson. Si era laureato su Marcel
Proust, d’inverno si trasferiva in Grecia. Andrea Mariani, in un antico studio
su Merrill – tra i pochi in Italia – scrive che Stonington fu “il luogo di una
concentrazione psichica ed emotiva senza eguali, nella storia della poesia
americana contemporanea: un ubi consistam che, restando miracolosamente intatto
in mezzo ai più violenti e volgari pericoli del mondo, permettesse al poeta nel
contempo la visione chiara e distinta del turbine circostante… Stonington è
l’assenza che permette di aprire gli occhi verso il di fuori”.
Secondo Harold Bloom – tra i suoi più importanti esegeti – James Merrill
> “è un artista in versi indiscutibile, al pari di Milton, Tennyson e Pope. Di
> certo, sarà ricordato come il Mozart della poesia americana, classico prima
> che manierista o barocco, un maestro nel modellare la luce, nella perfezione
> che consola”.
Scrisse libri di sigillata complessità in cui i dati autobiografici si coagulano
a una congerie di riferimenti culturali che svariano tra William Blake e il
melodramma, tra Dante e Henry James, Pound e il sufismo. Per alimentare la
propria ispirazione maneggiava la tavola oujia: comunicava con gli spiriti,
mediava tra gli altri mondi, si applicava nella scrittura automatica. Come Yeats
e come Rilke, credeva nello schianto angelico del poeta, in una sorta di
medianico ermetismo. La pratica diventò ossessione: Merrill ne uscì con ciclo
onirico, “The Changing Light at Sandover”, stampato da Scribner’s nel 1982. Il
libro, di quasi seicento pagine, tra i più folli tentativi della lirica
americana, raduna tre tomi, pubblicati separatamente in otto anni di traffico
spirituale; il più importante, Mirabell: Books of Number, permise al poeta, nel
1979, il National Book Award – che per altro aveva già ottenuto nel 1967,
con Nights and Days.
Scrittore centauro, di violenta intelligenza, nel 1976 aveva pubblicato Divine
Comedies, una specie di picaresco viaggio nell’aldilà. Tra gli spiriti “lari”
del narratore, J.M., appare Wystan H. Auden, il grande poeta; tra i
protagonisti, Ephraim che fu ebreo greco in Asia Minore poi sibarita, favorito
dell’imperatore Tiberio, “morto/ strozzato nel 36 d.C. a Capri/ per aver AMATO/
IL NIPOTE DEL MOSTRO/ CALIGOLA”, poi altro, in perpetue rinascite.
Non sono estranei dal clima i viaggi a Istanbul e quelli in Giappone, l’etica
cristiana, il buddismo. Il libro sconcertò critica e pubblico; sul “NY Times”
Louis Simpson – era il 21 marzo del 1976, Merrill aveva compiuto cinquant’anni
due settimane prima – ribadì ciò che tutti sappiamo, cioè che “esistono due tipi
di poeti: quelli che credono che le poesie siano una costruzione verbale, in cui
poco importano le emozioni, per cui la poesia è un vertiginoso gioco di parole,
e quelli che ritengono che la poesia sia un prodotto del sentimento più che
dell’arguzia”. Merril, va da sé, fa parte del primo gruppo, “è brillante,
esotico, pittoresco, opera a latitudini superiori. Non è colpa sua se pochi
lettori resistono a questo tipo di poesia”. Forse è questa la ragione per cui la
poesia di Merrill in Italia, a parte gli sporadici interessi di Andrea Mariani,
Flavio Santi e Damiano Abeni, è pressoché assente in Italia. Ad ogni modo,
con Divine Comedies, Merrill ottenne il Pulitzer.
Amico dei poeti che come lui avevano a cuore il linguaggio e non il cuore messo
a mercato su un libro – Elizabeth Bishop su tutti –, Merrill tentò di far
convergere la vita nel verbo, fu uno dei rari lirici votati integralmente alla
poesia. Scrisse alcune delle poesie più studiate nei college americani, Lost in
Translation, ma è pur vero che l’oggi non ritiene più la poesia una prassi, cioè
un’arte che richiede dedizione, amore, le generalità dell’ingegno, bensì
l’istantanea di un sentire, le bave dell’io, una polluzione irrichiesta, spesso
in ciance.
Morì nel febbraio del 1995, svernava in Florida, dopo aver vissuto molte vite,
in vagabondaggio tra miriadi di ere. In fondo, ardeva.
*
Voci dall’altro mondo
Al nostro tocco, la tazza da tè scalciò
svoltò, pigra, in cerchio
dalla A alla Z. La prima voce
(se puoi dire voce questo muto
soffiare) fu di un ingegnere.
Originario di Colonia
morto a ventidue anni
di colera al Cairo, non aveva CONOSCIUTO
ALCUNA FELICITÀ. Eppure, aveva incontrato Goethe.
Goethe gli aveva detto: PERSEVERA.
Il nostro grigio segugio uggiolò. Poi, un’orda
di voci si impilò sopra la tavola ouija
alcune di infanti, alcune camuffate
dal sonno; un ragazzino
di nome Will, riluttante alla gorgiera
come un grande quadro di El Greco, svoltò
l’arazzo della sua voce verso l’altra
fredda, portentosa: TUTTO È PERDUTO.
LASCIATE LA CASA. OTTO VON THURN UND TAXIS.
OBBEDITE. NON AVETE SCELTA.
Terrorizzati, ci fermammo; confusi
finché l’alba maculò d’oro le lenzuola.
Ogni notte, da allora, la luna si gonfia,
piccoli insetti sbattono sulla torcia
che sguainiamo per orientarli oltre il portico…
Ma nessun Segno. Nuovi voci arrivano
dettano indirizzi, mendicano scritti;
alcune ci mettono in guardia da una vita vana
con un tono che ci pare esilarante.
Di questi tempi, dormiamo profondamente.
L’altra notte, la tazza da tè si è rotta di rabbia.
In effetti, siamo ormai indifferenti
all’altro mondo. Nella penombra
i gomiti sul tavolino
glabro, parliamo, fumiamo, lieti di essere
disturbati dal ronzio del gelsomino, dal pigolio
delle nostre voci, dai sibili del povero, cieco Rover,
più che da quelli che strepitano a mezz’aria
ossessionati o misericordiosi, per un compito
che siamo riusciti con arguzia a posticipare:
da quando i freddi riflessi dei morti
ci fissano, estinti risorti
irresistibili, le nostre vite non sono
mai state così piene, così reali
e la luna piena tarda ad assottigliarsi.
*
Giorni nel 1964
Case, un’ambasciata, l’ospedale
i dintorni sarchiati dal sole, ancora tremano
nelle pozze spalancate dalla notturna pioggia…
Dall’altra parte della strada che va verso il centro
una ripida collina ci è amica
puoi scalarla in venti minuti
per avere viste mozzafiato,
frantumate da pini marittimi, urbani e di mare.
Sotto i piedi, ciclamini, crochi d’autunno
che ambrano come bava sottile le reliquie
dei bei tempi di noi tutti. Se non è l’Olimpo
è una baldoria al di là dei rumori, tutto l’anno.
Ho portato a casa i fiori del mio scalare.
Kyria Kleo che pulisce per noi
li ha messi nell’acqua, Vergine, mugola, Vergine.
Aveva sempre male alle gambe. Vestiva di scuro, grassa,
ultracinquantenne, pareva una matrona di Palmira
estratta dal lardo e dal crine di sauro. Quanto ci amava,
me, te, amava tutti, l’uccello, il gatto!
Ora so che era lei l’amore. Amore tutto il giorno
la faceva sospirare e splendere e soffrire.
(Non comunicavamo con parsimonia).
Viveva vicino a noi con la pia madre
e il figlio nullafacente. Mi chiamava figlio, il mio vero figlio, diceva.
Dovrei dire che la pagavo generosamente.
L’amore rende generosi. Guardaci. Ci conoscevamo
così poco che al posto di dormire
stavamo notti intere alla luce della lampa
a guardarci, a spartirci storie.
Un’ora tra tutte ritorna – tu che annaspi tra le mie braccia
e ami o ridi o entrambi – ho appena
ricordato e ti dico che ho alzato lo sguardo
era mezzogiorno: la povera vecchia Kleo
le gambe doloranti, arranca tra i pini. La chiamo.
Chiamo tre volte prima che si giri.
Sopra il maglione azzurro aveva il volto dipinto.
Sì. La sua faccia. Dipinta. Bianca
da clown, bianca come la luna di giorno,
con le palpebre perlacee, la bocca a foglia.
Mangiami, pagami – la maschera erotica
che il mondo indossa con l’illusione
di unirsi a se stesso in nozze – con una necessità.
Sorpresi, muti – l’amore è illusione? – siamo
andati per la nostra via. Poi ho attraversato una piazza
dov’era il mercato: verdure, polli, ceramiche
continuavano a materializzarsi grazie all’arte
onirica dei mercanti; attento a non essere gabbato
ho colto il fiore di quella dolcezza di novembre,
perduto su sentieri di morbida argilla,
dove il bocciolo palpita desto per essere
strappato, in ginocchio, nel fango –
mi fermai, freddo, per il nostro bene:
di ritorno, calmo, sulla via di casa, comprai un po’ di frutta.
Perdona se leggi questo. (E possa Kuria Kleo,
se qualcuno tradurrà mai in greco, leggendole
ad alta voce questa poesia, perdonarmi).
Ero stato troppo a lungo senza amore,
non sapevo nulla dei miei pensieri,
e dove nascondere il viso quando il tuo tocco,
rapido, misericordioso, mi ha fatto da benda.
Un dio respira alle mie labbra. Forse è illusione
che allora duri a lungo; che abiti elemosinando
ogni giorno, qui, con noi, a pulire e ad annaffiare
a sospirare sempre d’amore e di dolore.
Speravo di poter ascendere a quelle altezze
che si chiamano degradazione; in quei giorni
mi parve di scalare un mondo
di fiori selvaggi, pasti, lacrime – ma forse cadevo
le gambe curve, da ascesi a catabasi
nelle pozze create da quei tomi di pioggia notturna…
Ma tu eri ovunque, accanto a me, mascherata
e smascherata, mentre ridi, soffri, ami.
*
Stanza a infrarossi
mente ultravioletta
organismi più strani
allucinati sulla scia, fluorescenti:
catene di gingilli dorati, bolle di fuoco verde
lungo le arteriose branche –
qui a Microcosmics Illustrated
Natale è tutto l’anno!
Indifese, le patrizie cellule attendono
l’invasione barbarica dei virus
un altro sacco di Roma.
Una nuova era. Ci terrorizza.
Terrore? Grida di gioia nella mangiatoia.
Gioia? L’albero su cui morirà ora scintilla.
*
L’altro aprile
I vetri dardeggiano, tremano al tuo passaggio spettrale:
una trasparenza a raggi X ondeggia, mi alzo
ma non so dire, ricordo solo che uno soltanto
è quello che si alza e non sa dire. Fanciullo acquazzone
questa è la tua casa. Lascia che il nostro occhio si oscuri
che crolli la pioggia, che la candela barcolli –
nel profondo del suo vocalizzo ci siamo solo io e lei.
Le iridi grige venate di ruggine, dell’alba sono umili
e fiere: lungo il tuo andare adagiano il cranio, nella polvere.
*
Urbana convalescenza
Passeggio dopo una settimana a letto
stanno demolendo parte dell’isolato:
freddo, stordito, solo, mi affranco dalla dozzina
in mansueti atti e guardo l’enorme gru
che armeggia voluttuosa nella sporcizia di anni.
Le sue fauci sbavano macerie. Un vecchio
ride, impreca il suo cervello e ricordo
la fine de La Dea Bianca.
Come al solito, a New York abbattono tutto
prima che tu abbia iniziato a prendertene cura.
A testa bassa, nel tempio del frastuono, fammi ricordare
quale edificio sorgeva qui. C’era davvero un edificio?
Vivo in questa strada da un decennio.
[…]
*
Misteriosa epigrafe
Questi giorni, come te,
sembrano vuoti e vacui
hanno avide radici che scavano
per arpionare in profondità la desolazione.
*
Ceppo
Poi la fiamma si biforcò in un sentiero inatteso
ansimai, caddi, svanii.
Densità che pulsava verso l’alto, bande di cenere,
cara luce che vaga verso il nulla,
cosa potresti essere se non luce, e nient’altro?
*
Presso la Monument Valley
Crepuscolo di primavera, durante un permesso
di guerra, presso la fattoria Shoup, a sud di Troy,
ho cavalcato per l’ultima volta. Il silenzio sgorga dalle
stelle della sera, l’acetosella cinguetta
forse non le dispiace essere calpestata.
I prati ci abbracciarono, inebriati da invisibili lillà.
Vite rapide, polifoniche abbondavano ovunque.
Di comune accordo, costeggiammo il piccolo lago.
E ora eccomi seduto tra le forme folli che prendono
le cose. Vita fasulla da colono bianco, maculata
da lunga colpa. Le Tre Sorelle ululano. La Porta
degli Inferi sbadiglia. Mangio qualcosa nella Hertz
mentre cala l’ombra. Giunse alla mia soglia
come la morte, questa smagrita creatura
dagli occhi cinerini, incerta se confidare nell’uomo –
Mio caro dio, un cavallo. Gli offro un torsolo di mela
ma fame non lo fagocita e lo lascia cadere
nella sabbia. Alzo il finestrino e proseguo.
Riguardo all’antico legame tra la sua specie
e la mia c’è poco altro da dire.
L'articolo James Merrill, il poeta dell’altro mondo, il Mozart della poesia
americana proviene da Pangea.
Nel marzo del 1963, con il cuore di vetro, “quando bastano tre note di musica
per scoppiare a piangere”, Cristina Campo scrive a “Mita” – cioè Margherita
Pieracci Harwell – che “è morto, giorni fa, William Carlos Williams. Ora non c’è
più nessuno da amare, nella poesia”.
Per la precisione, William Carlos Williams era morto il 4 marzo, a Rutherford,
New Jersey, dove era nato, 79 anni prima. Si sbaglierebbe, tuttavia, a crederlo
un poeta sedentario, seduto. Nei tratti del viso, aperti, solari, primaverili –
“la primavera, il caldo tempo che torna malgrado tutto”, è, secondo la Campo, il
carisma della poesia di Williams – s’intravede la geologia familiare: papà di
origini inglesi cresciuto nella Repubblica Dominicana, madre di Porto Rico con
ascendenze francesi, basche, e finiture ebraiche. In Ritratto dell’autore, il
poeta parla di sé parlando della betulla – “Le betulle sono una follia di
puntolini verdi/ il limitare del bosco brucia del loro verde” –, che per gli
sciamani siberiani è l’albero cosmico, “un albero di luce… simbolo di saggezza”
(così Alfredo Cattabiani, Florario, Mondadori, 1996).
Il poeta aveva studiato a Ginevra, a Parigi, a Filadelfia. Si era perfezionato
in Germania. Tornato a Rutherford, Williams esercitò come medico pediatra: “nel
corso di mezzo secolo aiutò a venire al mondo più di duemila bambini nella sua
piccola città” (Luigi Sampietro). Il dettaglio, al di là dei rilievi
superficiali – il poeta s’installa nella schiera dei medici-scrittori, Čechov,
Bulgakov, Céline, Benn… –, è sostanziale: Williams, pur tra i maestri del
“modernismo”, è poeta della vita, della luce, di una poesia coerente e concreta,
di cui si fa pasto; è un poeta della primavera. Per questo, non gradì La terra
desolata di Thomas S. Eliot, quei versi ingegnosi, disarticolati, meccanici: una
“bomba atomica”, la diceva, una catastrofe. In fondo, pensava che Ezra Pound lo
avesse tradito. Si conoscevano dagli anni dell’università, in Pennsylvania, “è
un bravo ragazzo, icona dell’ottimismo, dai modi eccentrici”: così l’aveva
descritto alla madre. Pound, come sempre, si era dato da fare per aiutare
quell’amico di genio: a Londra lo aveva presentato a Yeats; lo aveva introdotto
nell’alcova di “Poetry”, l’autorevole rivista guidata da Harriet Monroe; ne
aveva fatto uno dei suoi scudieri, inserendolo nell’antologia “Des Imagistes”
(1914). Nell’Autobiography (1951), William Carlos Williams ricorda una recita
universitaria, Pound interpreta una donna, “aveva una parrucca stravagante,
gesticolava selvaggiamente, brandiva i seni enormi in un’estasi di estrema
emozione”.
Per farla breve, William Carlos Williams ha scritto alcune delle poesie in
lingua inglese più belle del secolo scorso. “Vivono/ secondo la Sacra luce
dell’amore/ che governa,/ osteggiando la disperazione,/ questo giardino”, scrive
il poeta in The Mental Hospital Garden. C’è sempre una gioia barbara e imberbe,
antimoderna, inebriata e infantile nelle poesie di William Carlos Williams,
degno figlio di Walt Whitman: ci vuole il coraggio della gioia a scrivere di un
cacciatore che ride mentre conficca “un pugnale da caccia… nelle parti intime
dell’animale”, e comprendere, nonostante tutto, che “tu sei un poeta che crede/
nel potere della bellezza/ capace di sanare ogni malattia” (To a Dog Injured in
the Street).
Più passa il tempo, più sembra che la diarchia che ha dominato la poesia del
secolo debba essere sostituita. Non sono più Thomas S. Eliot e Ezra Pound i
reggenti della poesia in lingua inglese, ma William Carlos Williams e Wallace
Stevens. Entrambi poeti nottambuli, di traverso, impiegati in professioni aliene
alla letteratura (Stevens lavorava per una grande compagnia di assicurazioni).
Ma questo è poco importante, ora, chiederebbe troppe spiegazioni.
Piuttosto, William Carlos Williams è tra i rari poeti che migliorano
invecchiando. Nel 1953 fu premiato con il Bollingen Prize – quattro anni prima
era andato all’amico Pound –, dieci anni dopo ottenne il Pulitzer per Pictures
from Brueghel and Other Poems. Nel 1952 era stato eletto “Consultants in
Poetry”, massima onorificenza lirica per il mondo americano: gli fu sottratta
perché aveva osato scrivere una poesia, Russia, che gli attirò un’accusa di
comunismo. Allen Ginsberg lo implorò di introdurre il suo poema
psichedelico, Howl. Secondo Cristina Campo, i beat, “quel patetico gruppo
inarticolato, che urla a pieni polmoni un’estasi troppo simile al pianto”, non
avevano capito nulla di Williams, che pareva, per sapienza rarefatta, un poeta
dell’antica Cina, un sapiente alla stregua di Chuang-tzu, “il più solitario
della poesia americana contemporanea”. Fu proprio la Campo a tradurre Williams
in Italia, insieme a Vittorio Sereni, in due libri di pregio (Il fiore è il
nostro segno, nel 1958, per Scheiwiller, e Poesie, Einaudi, 1961).Eppure, la
poesia di Williams non ha attecchito nel nostro paese, editorialmente prono a
mode più fittizie: per questo, l’antologia curata da Luigi Sampietro e tradotta
da Damiano Abeni per Bompiani nel 2023, A un discepolo solitario,colma a tratti
un vuoto imbarazzante. Stupisce, piuttosto, che non si faccia cenno al lavoro
miliare della Campo: le sue versioni spesso prevalgono, per bellezza di
linguaggio, su quelle di Abeni.
Gli ultimi anni della sua vita – dal 1946 al 1958 – Williams li passò
scrivendo Paterson, poema epico in cinque libri, una Iliade urbana. Si proponeva
di raccontare la città con un linguaggio nuovo, capace di riprodurre “il rumore
delle Cascate”. Di questo poema, “opera tra le più importanti della letteratura
americana” e che “più di ogni altra ha reso William Carlos Williams una figura
fondamentale della nuova poesia americana” (così la quarta dell’edizione
Mondadori, a cura di Alfredo Rizzardi, 1997, ormai fuori catalogo) non c’è
traccia in questa antologia. Pazienza. Ci restano testi meravigliosi, tra cui
spicca Asfodelo, fiore che allude al verde, da imparare a memoria, immane,
immedicabile poesia d’amore, dell’“amore che ingoia tutto il resto”.
L’amore ricorre spesso in queste poesie. 64 volte. Ho contato. E sempre nel modo
giusto: frontale, olimpico, primaverile.
L'articolo William Carlos Williams, il poeta della primavera, della “Sacra luce
dell’amore” proviene da Pangea.