Forse, fra i lettori, proprio coloro che provano una certa inquietudine al
pensiero di ritrovarsi su un aereo e dover volare, spesso loro malgrado,
finiscono per apprezzare maggiormente i racconti e i romanzi dedicati a questo
strano desiderio umano di “staccare l’ombra da terra”. Siamo, o siamo stati,
tutti lettori appassionati di Saint-Exupéry nonché, in tempi più recenti, di
quel notevolissimo e sfortunato scrittore – sfortunato come uomo, ma fortunato e
talentuosissimo come scrittore – che è stato Daniele Del Giudice.
Il mondo degli aerei e dei piloti torna prepotentemente in primo piano
nell’opera di un altro grande scrittore del Novecento, lo statunitense James
Salter, ancora troppo poco conosciuto da noi, benché Guanda ne abbia pubblicato
quasi tutta l’opera. Di Salter ricorre ora un doppio anniversario: cent’anni
dalla nascita, avvenuta il 10 giugno 1925 e dieci dalla morte, il 19 giugno
2015, subito dopo il compimento dei novant’anni. Una vita lunga e, come vedremo,
anche complessa, a cui non corrisponde la mole di pubblicazioni che ci si
potrebbe forse aspettare. In termini quantitativi l’output è stato nell’insieme
modesto, insomma, ma se si passa, come si dovrebbe, a una valutazione
qualitativa, il discorso cambia radicalmente, perché Salter è da considerarsi
una figura di assoluto spicco nella letteratura statunitense del secondo
dopoguerra. La sua scrittura, scrive John Irving nella postfazione all’edizione
italiana di A Sport and a Pastime(Un gioco e un passatempo, edito da Rizzoli nel
2006 e riproposto da Guanda nel 2015) – un titolo, sia detto per inciso, tratto
curiosamente da una sura del Corano – “trasforma i suoi libri, romanzi o memorie
che siano, in risultati letterari eccezionali”, tanto che qualunque scrittore
contemporaneo “si sentirà umiliato dalla sua lingua”.
Nato nel New Jersey, all’età di appena due anni Salter, che in realtà si
chiamava James Arnold Horowitz, segue la famiglia a Manhattan, e New York
diventa la sua città, la città in cui frequenta anzitutto le scuole superiori
(fra i compagni di scuola si annoverano fra gli altri Julian Beck e Jack
Kerouac), pubblicando le prime poesie, a suo dire terribili, sul giornalino
scolastico. È uno studente brillante e molto portato per le materie
scientifiche, e al momento della scelta dell’università, indeciso fra il MIT e
Stanford, si lascerà convincere dal padre, un ex militare, a entrare – siamo nel
1942 – all’Accademia militare di West Point. Si arruola poi nell’aviazione, ma
nel frattempo si laurea e ottiene anche un master alla Georgetown University, e,
dopo alcuni incarichi nelle Filippine, in Giappone e alle Hawaii, partecipa alla
guerra di Corea eseguendo un centinaio di missioni di combattimento nei cieli
coreani. Da questa esperienza ricava nel 1956 il suo primo romanzo, The
Hunters (Per la gloria, Guanda, 2016), che per non dare nell’occhio fra i
commilitoni pubblica con lo pseudonimo di James Salter, nome che in seguito
deciderà di adottare anche nella vita civile. Da The Huntersverrà anche tratto
nel 1958 un fortunato film con Robert Mitchum.
Segue nel 1961 The Arm of Flesh, ripubblicato quasi quarant’anni dopo con varie
modifiche e con il nuovo titolo di Cassada, un altro romanzo incentrato sulle
sue esperienze di pilota, ma ambientato stavolta alla base aerea di Bitburg, in
Germania. Nel frattempo, tuttavia, Salter ha capito che, se davvero vuole
dedicarsi alla letteratura, deve cambiare vita. Un segnale di una possibile
crisi esistenziale, a ben vedere, si coglie già in alcune pagine di Per la
gloria (cito qui dalla traduzione di Katia Bagnoli) che sembrano attagliarsi a
chiunque vada in pensione o smetta un’attività:
> “Fare parte di una squadriglia era una sintesi dell’esistenza. Quando arrivavi
> eri un bambino. C’erano opportunità infinite, e tutto era nuovo. Gradualmente,
> quasi senza rendertene conto, i giorni degli studi faticosi e del piacere
> erano finiti, avevi raggiunto la maturità; e poi all’improvviso eri vecchio, e
> volti e persone nuove che faticavi a riconoscere ti spuntavano intorno in
> fretta, fin quando scoprivi di non essere più il benvenuto fra loro perché
> tutti quelli che avevi conosciuto e con cui avevi vissuto se ne erano andati e
> la guerra non era diventata altro che una serie di ricordi incondivisibili di
> eventi avvenuti tanto tempo prima.”
Salter lascia quindi l’aeronautica e per guadagnare qualcosa si dà alle
sceneggiature di film e documentari, vincendo anche un premio alla Mostra di
Venezia del 1962, scrivendo nel 1969 la sceneggiatura di un film ambientato a
Roma, L’appuntamento, diretto da Sidney Lumet e interpretato da Anouk Aimée e
Omar Sharif, e collaborando, fra gli altri, con Robert Redford, per il quale
scrisse la sceneggiatura di Downhill Racer(Gli spericolati). Quest’ultimo
tuttavia infine rifiutò, perché il protagonista gli sembrava troppo riservato e
inadatto a lui, la sceneggiatura per un altro film, Solo Faces, incentrato sul
mondo degli scalatori, che lo scrittore decise in seguito di trasformare in un
romanzo, uscito nel 1979. Romanzo che diventerà un libro di culto nell’ambiente
appunto degli appassionati di quello sport.
Ma la strada di Salter è decisamente quella della narrativa pura, e se sarà
ricordato, come credo e spero, ciò avverrà grazie a una manciata di romanzi e
volumi di racconti che hanno rappresentato un’alternativa forse minoritaria, ma
non per questo meno presente e proficua, rispetto alla tradizione prevalente
nella recente letteratura statunitense, quella delle narrazioni fluviali, da
Bellow a Roth, da Updike a Mailer, da Ford allo stesso Irving, e oggi da De
Lillo a Franzen. Tanto divergente è potuto sembrare a molti critici il suo
cammino che Salter è stato presto bollato come atipico ed “eurocentrico”, il che
forse non è del tutto errato, se si pensa ai forti legami da lui intrattenuti
con diverse letterature europee, e in particolare con quella francese (per un
periodo ha anche vissuto a Parigi). Dagli scrittori europei Salter mutua forse
la riflessione sulla letteratura come modalità di vita, e la sua forza sta nel
far sì che, grazie a un instancabile lavoro di cesello, ogni sua opera, dal
romanzo più corposo al più breve dei racconti, sia un piccolo o grande
capolavoro. Nei suoi quasi sessant’anni di attività come scrittore, da The
Hunters all’ultimo romanzo uscito nel 2013, All That Is (Tutto quel che è la
vita, Guanda, 2015), Salter ha saputo mantenere inalterata nel tempo la tensione
e la profonda meditazione che si avverte dietro ogni sua pagina, ogni paragrafo,
persino ogni frase da lui formulata – quella che considerava, cioè, la vera
unità di misura della narrativa. A proposito della sua frase, appunto, e di
quanto sia ben tornita, Richard Ford ha scritto una volta che “It is an article
of faith among readers of fiction that James Salter writes American sentences
better than anyone writing today” (“È articolo di fede tra i lettori di
narrativa che James Salter scrive oggi frasi americane meglio di chiunque
altro”).
Grande estimatore delle metafore, Salter riesce quasi sempre a stupire, a
coniarne di nuovissime. Per farmi capire meglio prendo, praticamente a caso, un
suo paragrafo, uno dei tanti che potrei citare, l’inizio del secondo capitolo
di Una perfetta felicità (nella traduzione di Katia Bagnoli). Ecco cosa scrive:
> “Era l’autunno del 1958. Le bambine avevano sette e cinque anni. Sul fiume,
> del colore dell’ardesia, si riversava la luce. Una luce morbida, un’indolenza
> divina. In lontananza il ponte nuovo scintillava come una dichiarazione
> d’intenti, come un’affermazione che in una lettera costringe chi legge a
> soffermarsi.”
Un paragrafo praticamente perfetto.
Scrivere, cancellare e riscrivere continuamente, questa la sua tecnica,
acquisita quando i computer non esistevano ancora, ma mantenuta poi anche in
seguito, a garanzia di una ricerca incessante e faticosa dell’espressione
migliore, più calzante. Diceva di odiare quanto sgorgava direttamente dalla
mente, e che l’unico piacere dello scrivere consisteva in realtà nel correggere
e riscrivere. A questa inclinazione artigianale Salter univa una grande
curiosità per gli altri e per il mondo, che gli consentiva di archiviare prima
nella sua mente e riutilizzare poi nelle sue storie impressioni e frammenti di
discorsi accumulati nei decenni, giungendo il più delle volte, come ha
confessato, a creare personaggi che sono spesso un originale collage di diverse
persone reali, colte in una battuta o in un singolo atteggiamento. Sebbene
qualche critico abbia definito il suo stile impressionistico, o addirittura
affine al pointillisme in pittura, Salter ha regolarmente sottolineato di aver
voluto solo e sempre ricercare la massima chiarezza, insistendo non tanto sulle
grandi teorie, quanto sulle gioie e sulle asperità della vita quotidiana.
La sua abilità nel descrivere la passione sentimentale e sessuale – ne è un
esempio evidente A Sport and a Pastime –, così come la pulsione di ciascuno di
noi verso le novità e il cambiamento, palesa uno studio appassionato di diversi
antecedenti letterari, fra cui Salter stesso ha sempre annoverato un altro
militare, Isaac Babel’, ma anche Gogol’, Gide, Kawabata, Nabokov, Karen Blixen,
Thomas Wolfe e Marguerite Duras. Uno studio, peraltro, ravvicinato e intenso,
senza limitazioni o timori reverenziali, fondata sull’augusta e oggi troppo
frettolosamente abbandonata pratica della mimesi.
Con Light Years, del 1975 (tradotto in italiano da Guanda nel 2015 con il
titolo Una perfetta felicità),Salter riesce a raccontare con un’ispirazione
felicissima e uno stile ellittico e obliquo una storia, d’amore prima e di
bruciante separazione poi, basandosi sulla convinzione più volte espressa che
nella vita non conti tanto la realtà oggettiva, quanto la memoria, i ricordi che
riusciamo a strappare all’oblio. Scriverne e descriverli è anzi l’unico modo per
farli e farci vivere ancora. “There is no complete life,” sostiene. “There are
only fragments” (“Non esiste la vita completa, ci sono solo frammenti”). Ma la
forza del libro sta anche nella sua capacità di descrivere le conseguenze della
dissoluzione di una famiglia per tutti i suoi componenti e di farci entrare con
discrezione, ma anche con consumata maestria, nella mente dei protagonisti: la
bella, sofisticata e confusa Nedra, avvinta dalla lettura della biografia di
Alma Mahler, e il marito Viri, un architetto ebreo elegante e a suo modo
romantico – ebreo proprio come quel Salter il cui matrimonio andrà in pezzi poco
dopo la stesura del libro. Ma d’altra parte in Salter l’autobiografia, seppur
ben dissimulata, è sempre in agguato: la storia d’amore torrida con la ragazza
francese di A Sport and a Pastime è tratta di peso dalle sue esperienze
personali, e la vita, fra il divorzio, la morte improvvisa di una figlia in
circostanze drammatiche e le malattie che contrappuntano l’avanzare dell’età,
non lo ha certo risparmiato. Ma nelle sue opere ha saputo sempre evitare
qualsiasi tentazione di ripiegamento su sé stesso e di sentimentalismo.
Sulla fine di un amore tornerà anche con il bellissimo racconto che dà il titolo
alla raccolta Dusk and Other Stories, uscita nel 1988 (Crepuscolo e altre
storie, Guanda, 2022), racconto seguito da una serie di altre piccole gemme. Il
libro otterrà il PEN/Faulkner Award, un premio di grande prestigio. Lo stesso
livello qualitativo si riscontra senz’ombra di dubbio nella seconda raccolta,
dal titolo Last Night, che esce nel 2005 (L’ultima notte, Guanda, 2018).
In Burning the Days, del 1997 (Bruciare i giorni, Guanda, 2018), che è invece
una specie di memoir o autobiografia per frammenti, in cui si muove senza alcuna
remora da un periodo all’altro della propria vita, lo scrittore spinge ancora
oltre l’idea della reminiscenza come (unica) base della narrazione. Anche in
questo caso Salter sfugge all’assillo, secondo lui deleterio, di dover evocare
tutto e ribadisce invece il proprio diritto al parziale silenzio, alla cernita,
alla scelta, che oltre tutto ha il potere di stimolare la collaborazione del
lettore, la cui curiosità a volte inappagata diventa un asse trainante del
libro.
James Salter (1925-2015)
Una curiosità per chiudere. Come il nostro Filippo Tuena, che ha voluto dedicare
al cocktail Martini un libro collettaneo uscito qualche anno fa per Nutrimenti,
anche Salter ne è stato per tutta la vita un adepto. Una volta calcolò quanti
Martini aveva bevuto in vita sua, e giunse alla conclusione che dovevano essere
all’incirca ottomilasettecento. Dev’essere, questa predilezione per il cocktail
Martini, un’altra caratteristica degli scrittori di oggi, almeno dei più
interessanti: qualcuno, prima o poi, potrebbe farne magari l’argomento di una
tesi di laurea.
Raoul Precht
*In copertina: poster di Downhill Racer (“Gli spericolati”), 1969, film di
Michael Ritchie, scritto da James Salter, con Robert Redford e Gene Hackman
L'articolo James Salter o della scrittura come cocktail Martini proviene da
Pangea.
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Nel 1915, quasi in latitanza, uscì un libro che diremmo umile, inutile perfino.
Raccoglieva una sessantina di poesie di Adelaide Crapsey, sistemate con
devozione dagli scarsi amici. Tutto di questa donna – nonostante il corpo
esagonale e una certa severità nello sguardo – ha a dire: scava a te una tana,
arginati, disarginata, nell’altrui dimora. Il libro – con lo stesso titolo, di
screanzata evidenza, Verse – fu ripreso – con l’aggiunta di altri testi – nel
1922 dalle edizioni Knops di New York. L’autrice era morta nel 1914, razziata
dalla meningite tubercolare – aveva passato gli ultimi anni in un ricovero lungo
le rive del lago Flower; i prefatori scrissero di “una vita segnata dalla
tragedia”, di “un’opera sostanziosa, sostanzialmente incompiuta”, di “anni
passati in esilio, sulla soglia di una finestra” (così Claude Bragdon). Da qui,
forse, non soltanto lo statuario sentore dell’inevitabile che trafigge quei
versi, ma, soprattutto, l’elemento naturale che li pervade: metereologica
cronaca di un animo cronicamente vigile. Nei versi di Adelaide Crapsey non
sfugge il minimo moto della neve; la poetessa si accorge della più infima foglia
che, ad avvenuto autunno, molla gli ormeggi e crolla. Anche lei, forse, si
sentiva come quella foglia.
Si disse, tra l’altro, della “tenacia nello studio degli aspetti tecnici della
poesia inglese” – nel 1918 Knopf aveva pubblicato il suo A study in English
metrics – della capacità di “ritrarre la bellezza della vita secondo l’esempio e
lo spirito di Keats e di Stevenson”. In particolare, Adelaide aveva architettato
una formula lirica spiazzante per l’epoca: la chiamava cinquain, riferendosi a
una poesia di cinque versi in cui, di solito, il primo e l’ultimo sono di una
parola soltanto. Potremmo dire: un cinguettio, quando non, un urlo rattenuto. La
chiglia di un poemetto; la cruna dell’iceberg; Moby Dick nel diorama. “Questo
tipo di poesie caratterizza l’originalità suprema di Adelaide Crapsey. Si tratta
di una compressione lirica estrema. L’artista riduce l’idea ai minimi termini –
e la presenta in una singola, folgorante impressione” (Jean Webster).
Adelaide comincia a sperimentare questa formula nel 1911; la perfeziona negli
anni della malattia, quasi fosse un lenitivo – o un veleno. A tratti, queste
poesie che riassumono il cosmo in una federa, ricordano i tanka, la poesia
giapponese classica di cinque versi, ma la poetessa scansa la ‘giapponeseria’:
in lei, piuttosto, aleggia lo spettro di Emily Dickinson. Estranea allo
sperimentalismo dell’epoca, Adelaide Crapsey ignorava che Ezra Pound si aggirava
in direzioni liriche analoghe: l’Imagismo – che postulava nitidezza del verso,
concisione, brevità e brutale procedere per associazioni, secondo le formule
della poesia cinese e giapponese – nasce nel 1915; si sviluppa dal 1911. Non è
un caso che Marianne Moore riconobbe in lei una sorella, pur cresciuta in
cattività, in un mondo, si direbbe, distante dalle concrezioni letterarie
dell’epoca:
> “L’isolamento le ha permesso di muoversi appartata, la ‘bianchezza’ e il
> vigore dei suoi versi sono impressionanti”.
Cresciuta in una famiglia d’alta tempra culturale, Adelaide Crapsey studiò al
Vassar College, si perfezionò all’American Academy a Roma. La sua giovinezza fu
funestata dalla morte delle sorelle – Ruth, undicenne, di brucellosi; Emily, a
ventiquattro anni, di appendicite – e dalla vulcanica prestanza del padre. Il
pastore Algernon Sidney Crapsey, uomo di vaste letture, alto ministro della
chiesa episcopale, fu dichiarato eretico nel 1906 ed espulso dalla parrocchia
che guidava, a New York – con sua somma gioia. Da anni, in pubblico, il pastore
Crapsey si scagliava contro l’ottusità della chiesa; affermava di credere
nell’umanità più che nella divinità di Cristo; contestò la nascita verginale e
la resurrezione di Gesù. Pubblicò le proprie asserzioni in un libro, Religion
and Politics (1905), che fece scandalo. L’indomito teologo – nel frattempo,
diventato socialista – raccontò la sua vita in un’autobiografia dal titolo
eclatante, The Last of the Heretics, edita da Knopf nel 1924 – riscosse un
discreto credito.
Adelaide Crapsey (1878-1914)
Per un po’, Adelaide accompagnò il padre nelle peregrinazioni in Europa e negli
Stati Uniti: era un eccezionale conferenziere; all’Aia e in Francia la figlia
fungeva da efficace traduttrice. L’insegnamento – a Stamford, Connecticut – durò
poco, come quello a Northampton, Massachusetts, dove occupava la cattedra di
“Poetica”: il male aveva iniziato ad assalirla. Fu sepolta al Mount Hope
Cemetery, Rochester, nella cappella di famiglia; qualcuno scrisse “Qui riposa
chi/ non ha mai avuto posa”. Il “Boston Evening Transcript” – reso celebre da
una poesia (non bella) di T.S. Eliot – scrisse che le sue cinquain “sono la
straordinaria testimonianza di uno spirito che ha lanciato la propria ‘indomita
sfida alle stelle’”. I Verse furono ristampati con costanza fino al 1938, poi,
lentamente, ci si dimenticò di Adelaide, donna dall’animo irto di luci. Fu Carl
Sandburg, il grande poeta di Chicago, Premio Pulitzer nel 1951, a riscoprirla;
le aveva dedicato una poesia, Adelaide Crapsey, appunto, che commuove:
“…ho letto il tuo cuore in un libro.
E la tua bocca che medita in blu – so di averla vista, in qualche luogo di
piogge perenni.
E vidi una donna con la testa tra le ginocchia nude, la testa tesa ad ascoltare
il mare, il vasto nudo oceano che portava sulla schiena un vagone di sale…”
Nel 1977 Susan Sutton Smith ha curato per la University of New York Presse The
complete poems and collected letters of Adelaide Crapsey. Ma Adelaide era
arrivata, ancora una volta, troppo tardi: di rado i reperti antologici della
poesia americana fanno riferimento a lei. Si è fatta piccola come i suoi versi,
Adelaide, fino a nascondersi in quel greto di parole: come chi, a riparo da
tutto, si mette sotto il tavolo a scrivere, sottocoperta, e dà alle sedie nomi
stellati, Pegaso, Andromeda, Aldebaran, Sirio…
***
Novembre, notte
Ascolta.
Stordisce scricchiolio
come di emigranti spettri
delle foglie cristallizzate dal gelo che
cadono.
*
Fuggiasco
Rude
e vasto il moto di quel
magnifico braccio: sbrecciò
le porte del dolore che segregava l’anima
dalla vita.
*
Niagara
Visione in una notte di novembre
Così fragile
sopra la matassa
d’acqua che si frange
autunnale vana avventata
luna.
*
Trappola
È bene
che giorno segua giorno
che l’anno, esausto, sia
sostituito da un altro anno… e così anni e giorni…
è il bene?
*
Triade
Triade
del silenzio:
la neve che cade, l’ora
che precede l’alba, la bocca
del cadavere.
*
Stupore
È vero:
queste non sono le mie mani
eppure, sono certa che siano quelle
di una donna che un tempo aveva mani
come queste.
*
Susanna e i vecchioni
“Perché
scagli il male
contro di lei?” “Perché
è bella e pura: non
ti basta?”
*
Neve
Guarda
dalle colline blatte
baluginano le froge del vento,
è inverno… guarda e senti l’odore
della neve!
*
Angoscia
Serba
la veglia senza lacrime
tutta la notte, ma quando l’alba
è blu e sgattaiola la luna, allora piangi, è l’ora
di piangere.
*
Ombra lunatica
Immobile
come le ombre proiettate
dalla luna nelle notti senza vento
sarà il mio cuore quando sarò
morta.
*
Giovinezza
A me
non toccherà
vecchiaia né morte, la strana
ignominiosa fine dei vecchi
morti viventi.
*
A guardia della ferita
Se
fosse più leggera
di un petalo di fiore sospeso
sull’erba, oh, sarebbe ancora troppo pesante
troppo pesante!
*
Notte, vento
Gli antichi
antichi venti che soffiano
da quando era il caos, dicono
agli strepitosi, strepitanti alberi che
devo piangere.
*
Dopo aver visto l’Eva di Lucas Cranach
Oh,
è mai esistito un tempo
in cui Eva dimorava in Paradiso
con questo corpo, così placida, così
giovane?
*
La fonte
Hai dragato
il riso da un pozzo
di lacrime sepolte
per questo risuona elfico – beffardo
e dolce.
*
Morte solitaria
Farà freddo e sarò io ad alzarmi
e a lavarmi in acque gelate; io
tremerò, intonerò la confessione
solitaria, all’alba; io mi ungerò
la fronte, i piedi e le mani
chiuderò le finestre
allestirò quattro vertiginose
candele e le accenderò mentre
il grigio divora il mattino; io
mi poserò, rigida, nel letto, io
stenderò il lenzuolo fin sotto il mento.
Adelaide Crapsey
*In copertina: Mary Cassatt, Peasant Mother and Child, 1894 ca.
L'articolo “La veglia senza lacrime”. Adelaide Crapsey, la poetessa che ha
riassunto il cosmo in cinque versi proviene da Pangea.
Li abbandonava dappertutto. Manoscritti dimenticati ovunque, quaderni dispersi
in polverose stazioni, fogli lasciati nelle stanze di squallidi ostelli. Il
vagabondaggio di Kenneth Patchen nell’America della Grande Depressione fu
un’esperienza intensa e totalizzante. Ovunque andasse, racconta la moglie
Miriam, «lui creava sempre», disseminava versi, irradiava il prodotto di
un’invincibile urgenza creativa. Dopo un periodo di studi all’Università del
Wisconsin nel 1929, Patchen, affascinato dalla storia di poeti come Walt Whitman
o Carl Sandburg, iniziò a viaggiare negli Stati Uniti vivendo dei lavori che la
provvidenza gli avrebbe offerto. L’incontro con quel mondo rurale, così
irrimediabilmente prostrato dalla crisi, fu determinante; la capacità di
setacciare la realtà alla ricerca di un tesoro nascosto, la potente
immaginazione e l’indiscutibile talento fecero il resto.
L’educazione di Patchen si svolse in un contesto di discreta povertà. Il padre,
Wayne, era impiegato nelle acciaierie di Youngstown. La madre, fervente nella
fede, diede al piccolo Kenneth una formazione cattolica. Il poeta patì la
violenza dell’industrializzazione nelle piccole città rurali dell’Ohio. Questo
disagio fu denunciato nei suoi versi, come nel componimento May I Ask You a
Question, Mr. Youngstown Sheet & Tube?, in cui leggiamo di «case sporche e
grigie, con le tende abbassate», del «fumo giallo-marrone che soffia
continuamente» e del «sapore di catrame in bocca». Dal 1937 un grave problema
alla colonna vertebrale costrinse Patchen a svariati interventi chirurgici,
esonerandolo dalle armi. Dopo un incidente in sala operatoria la situazione si
aggravò, costringendo il poeta a passare molto tempo steso su un letto.
Kenneth Patchen (1911-1972)
Patchen fu un convinto pacifista, risolutamente contrario all’entrata in guerra
degli Stati Uniti e, tra i molti riferimenti alle sue posizioni di obiettore,
spicca il romanzo sperimentale pubblicato nel 1941 e intriso di surrealtà e
pacifismo, The Journal of Albion Moonlight (probabilmente capitato nelle mani di
Bob Dylan). L’indifferenza che la critica accademica riservò a Pacthen fu
risarcita dal sostegno di figure come Robert Penn Warren, Richard Eberhart,
William Carlos Williams, Lawrence Ferlinghetti ed Henry Miller. Quest’ultimo,
nel saggio Patchen: Man of Anger and Light, descrive il poeta come un uomo
tenero e spietato al contempo, che ha la capacità di allontanare coloro che
cercano di aiutarlo: «un uomo inesorabile», che «non ha maniere, né tatto, né
grazia», «che non fa sconti e, come un gangster, segue un codice tutto suo».
La visione poetica di Patchen fu anche il frutto di una situazione culturale di
assoluta libertà da schemi e gerarchie. Le avanguardie avevano rotto il
cristallo che separava la sostanza artistica dalla banalità della vita più
ordinaria, e ora – anche se l’effetto, oggi lo sappiamo, non sarebbe durato che
pochi decenni – questa sostanza faceva brillare il mondo di una luce nuova. Così
come era possibile fare arte con qualsiasi cosa, era possibile fare letteratura
con qualsiasi immagine. Certo, questa semplicità non rendeva facile il lavoro
del poeta e Patchen era consapevole della precarietà su cui si muoveva,
sull’orlo dell’abisso della banalità, in bilico sull’unico piccolo punto da dove
è permesso spiccare il volo verso sublimi altezze. Significativo, in questo
senso, il divertimento con cui il poeta si descrive in Memorie di un pornografo
timido, scherzando sul rischio di un destino di opaca sciatteria:
> «E Patchen? – chiese lei con la matita pronta. – Ah, Patchen. Nessuno lo
> prende sul serio – disse uno di loro. – Patchen ha perso l’imbarco – disse il
> signor Brill –. Ha fatto lo sbaglio di credere che la poesia sia una specie di
> pattumiera dove si può buttare di tutto, e di sicuro parecchie volte ha
> passato i limiti».
In realtà l’equilibrista Patchen questi limiti non li superò mai. Come amano
ripetere le antologie, aprì la strada ai poeti della Beat Generation, con cui,
senza presentarne i tratti nichilistici e autodistruttivi, condivise il piglio
anticapitalistico ed eversivo (per inciso: difese pubblicamente Allen Ginsberg e
Lawrence Ferlinghetti nel processo per l’osceno poema l’Urlo). Decostruì il
romanzo, fu maestro nella poesia concreta, combinò letteratura e jazz in
singolari performance e sperimentò con scrittura e pittura – si vedano i
suoi Painted Books, che stupiscono per gli esiti tutt’altro che dilettantistici.
Memorabile, a sigillo del suo radicale sperimentalismo, il
componimento L’uccisione di due uomini da parte di un ragazzo in guanti giallo
limone, dove Patchen riesce nell’impresa di fare poesia con il nulla, con
l’attesa di qualcosa che deve succedere. Le parole non dicono niente, se non
trasmettere la forza di un’azione subitanea; l’immaginazione deve intervenire,
ricamando sulla bizzarra informazione di un assassino «in guanti giallo limone».
Negando ogni riferimento, si negava l’atto stesso del fare poesia. Più o meno
consapevolmente, Patchen si stava muovendo sullo stesso impervio sentiero di
certa pittura astratta e, forse, non è improprio avanzare un paragone con
i tagli di Lucio Fontana e con il gioco di attesa e azione che essi
presuppongono.
Attingere agli strumenti della quotidianità, si sa, non esclude la forza di
visioni di profonda suggestione. Come nella sua più bella poesia, La
ventitreesima strada porta al Paradiso, in cui la città, stanca, verso sera
dischiude il suo segreto, proiettando il poeta in una realtà parallela di
altissima purezza. Proprio lì, nel mezzo della tetra atmosfera di una città nel
«Sabbat prima della cena», tra il miagolio di gatti randagi e il fastidio degli
strilloni per strada, gli amanti sono «per un po’ al sicuro, salvi fino a
domani». Gli amanti consumano una cena frugale e sono meravigliosi. O ancora
in La scuola all’angolo della strada, in cui l’inquietudine del memento
mori scende tra un gruppo di giovani. Guardando le ragazze di passaggio e
bevendo gin scadente, i giovani se ne stanno nello squallore dei loro giorni
vuoti, aspettando che il tempo ricopra d’erba le loro tombe. I ragazzi,
«sonnambuli in una terra buia e terribile, dove la solitudine è un coltello
sporco alla gola», dissipano i propri anni, sotto l’indifferente sguardo di
«stelle fredde e puttane».
Non di rado, la visionarietà della poesia di Patchen porta a furiose accensioni,
ed è allora che i versi si infuocano di toni cosmici che ricordano le più
riuscite prove di Dylan Thomas. È quanto accade in Finché il sole spenderà
ancora il suo favoloso denaro, «in cui il succo fumante dell’universo» si
riversa «come il cervello spaccato di Dio», in un’oscura consacrazione finale;
oppure in Accettiamo la pazzia apertamente, in cui il tempo del poeta, che è
il nostro tempo, si trascina «dentro la dimora serrata dell’eternità». Non c’è
possibilità di salvezza e il componimento, di titanica disperazione, si chiude
nella visione di una «marcia palude di enormi aride tombe» che abita le nostre
teste.
Quando Patchen era ancora adolescente, la sorellina Kathleen fu investita da
un’auto. La sua morte fissata in versi commoventi e terribili:
> “Com’è commovente il suo sonno.
> Ora il suo limpido respiro è immobile.
> Nulla cade stanotte,
> Uomo o uccello,
> Più caro di lei.
> Nessun luogo dove debba andare
> Senza di me. Niente se non il mio richiamo.
> Oh niente oltre al freddo lamento della neve”.
La perdita della sorella non fu mai del tutto superata. Oltre a questo, la
madre, Eva, a lungo aveva desiderato che il figlio Kenneth si facesse prete.
Antonio Soldi
*
Notte, sii musica
Notte, sii musica
Affinché il suo sonno possa errare
Dove gli angeli hanno i loro alti cori bianchi
Mare, sii una mano
Affinché i suoi sogni possano osservare
Il tuo esploratore che tocca la verde pelle del mondo
Cielo, sii una voce
Affinché si possano contare le sue bellezze
E le stelle piegheranno i loro volti silenziosi
Nello specchio della sua grazia
Terra, sii una strada
Affinché il suo passo possa condurti
Dove le città del paradiso innalzano le loro vive guglie
Dio, sii un mondo e un trono
Affinché la sua vita possa trovare il suo momento
E le anime di antiche campane in un libro per bambini
Possano guidarla nella Tua casa meravigliosa
*
La scuola all’angolo della strada
Il prossimo anno ci coprirà l’erba della tomba.
Ora stiamo in piedi e ridiamo;
Guardando le ragazze che passano;
Puntando su lenti cavalli; bevendo Gin scadente.
Non abbiamo niente da fare; nessun posto dove andare; nessuno.
L’anno scorso era un anno fa; niente di più.
Non eravamo più giovani allora; né ora siamo più vecchi.
Riusciamo a mantenere un aspetto da giovani;
Dietro le facce non sentiamo nulla, in un modo o nell’altro.
Probabilmente non saremo del tutto morti quando moriremo.
Non siamo stati mai niente per tutto il tempo; nemmeno dei soldati.
Noi siamo gli insultati, fratello, i figli desolati.
Sonnambuli in una terra oscura e terribile,
Dove la solitudine è un coltello sporco alla gola.
Stelle fredde ci guardano, amico,
Stelle fredde e le puttane.
*
Per Miriam
Oh mio tesoro
Finché il sole spenderà ancora il suo favoloso denaro
Per i regni nell’occhio di un folle,
Continuiamo a sprecare le nostre vite
Gridando bellezza al mondo
E continuiamo a lodare verità e giustizia
Sebbene gli occhi delle stelle diventino neri
E il succo fumante dell’universo,
Come il cervello spaccato di Dio,
Diluvi su di noi in una consacrazione finale.
*
La Ventitreesima Strada porta al Paradiso
Stai vicino alla finestra mentre le luci lampeggiano
Lungo la strada. Da qualche parte un tram, che porta
a casa commesse e impiegati, sferraglia attraverso
Questo Sabbat prima della cena. Un gatto in un vicolo piange
Per i cassonetti trovati chiusi; gli strilloni
Iniziano il loro giro di omicidi-a-penny.
Siamo chiusi dentro, al sicuro per un po’, salvi fino a
Domani. Ti sfili il vestito, abbassi
Le calze, attenta a non smagliarle. Nuda ora,
Morbida luce su morbida pelle, ti fermi
Per un momento; ti volti e mi guardi –
Sorridi come sanno solo le donne
Che sono state a lungo distese col proprio amante
Per uscirne più vergini.
La nostra cena è povera ma noi siamo meravigliosi.
*
Accettiamo la pazzia apertamente
Accettiamo la pazzia apertamente. Oh uomini
della mia generazione. Seguiamo
Le orme di questa macellata epoca:
Guardatela trascinarsi per la cupa terra del Tempo
Dentro la dimora serrata dell’eternità
Col rumore che ha la morte,
Col volto indossato dalle cose morte –
Né mai diremo
Volevamo di più; cercavamo di trovare
Una porta aperta, un completo atto d’amore,
Che trasformasse la maligna oscurità del giorno;
ma
Noi trovammo tanto inferno e nebbia
Sulla terra, e dentro la testa
Una marcia palude di enormi aride tombe.
*
Dobbiamo essere lenti
Perché io e te siamo lavati nel silenzio:
Qui dove la campagna tutt’intorno
È silenziosa; assopita nella tenerezza
Di questa stella della sera; scintillante
Al polso della notte. Le luci del paese,
Come antichi bardi in preghiera, vengono
A noi dolcemente su campi germoglianti di grano
E docili pecore. Vorremmo far parte
Di questo luogo, dove il sonno non è quello della città,
Dove il sonno è pieno e lieve e intimo
Come il profilo di una foglia in un bicchiere di tè; ma
La conoscenza nel cuore di ognuno di noi
Ha dipinto occhi marci dentro
La testa: non abbiamo scelta: vediamo
Tutte le cose che piangono e i giorni volgari
Sopra questa umile terra, che mischiano
Clacson di Taxi e disperazione senza fine
Ad ogni paesaggio, qui, o ovunque.
*
I leoni di fuoco avranno la loro caccia
I leoni di fuoco
Cacceranno in questa terra nera
I loro denti strazieranno le vostre tenere gole
I loro artigli uccideranno
Oh i leoni di fuoco si sveglieranno
E le valli fumeranno della loro furia
Perché siete ammalati dello sporco del vostro denaro
Perché siete maiali che razzolate nella broda della vostra guerra
Perché siete meschini e subdoli e pieni del pus del vostro
assassinio ipocrita
Perché avete voltato le spalle a Dio
Perché avete sparso le vostre empietà ovunque
Oh i leoni di fuoco
Attendono nell’oscurità strisciante del vostro mondo.
E i loro terribili occhi vi osservano
*
Una buona giornata per un linciaggio
Gli agenti sembrano tristi vecchi giudici
In una strana corte. Puntano i loro musi
Al Negro che si muove a scatti nel cappio;
I suoi piedi si agitano come corvi sopra questi
Uomini onorevoli che ridono mentre soffoca
Non conosco questo nero
Non conosco questi bianchi
Ma so che una delle mie mani
È nera, e una è bianca. Io so che
Una parte di me viene strangolata
Mentre l’altra orrendamente ride.
Finché non cambierà,
Io per sempre ucciderò; e sarò ucciso.
Traduzione di Francesco Soldi
*In copertina: Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese, 1966
L'articolo Kenneth Patchen, il poeta inesorabile, l’uomo “che non fa sconti e
segue un codice tutto suo” proviene da Pangea.
Ha la faccia del predestinato, Willis Barnstone, il patriarca della poesia
americana, ha una faccia di cera, che puoi modellare a tuo piacere, che può
prendere qualsiasi forma. Nato a Lewiston, Maine, nel 1927, finì su un giornale,
il “New York Daily News”, la prima volta, per caso, da bambino: invitava Babe
Ruth, il leggendario giocatore di baseball, a una raccolta fondi per gli orfani,
per gli sfortunati dei quartieri infimi. Quarant’anni dopo, lo vediamo al
braccio di Jorge Luis Borges, a Buenos Aires. Lo scrittore argentino, arso da
cecità, ha il solito sguardo, nei labirinti dell’invisibile; Willis fissa la
camera, perplesso, pare uno Zelig; indossa un completo bianco, il registratore a
tracolla.
Lavoreranno insieme a lungo, per un paio di decenni: Barnstone accompagnerà
Borges in un importante ciclo di conferenze negli States, ad Harvard, alla
Columbia, a Chicago; ne sortì un libro, Borges at Eighty: Conversations, passato
in Italia come Conversazioni americane (Editori Riuniti, 1984). Secondo
Barnstone (in: Borges the Poet, a cura di Carlos Cortínez, The University of
Arkansas Press, 1986), Borges è un Poet of Ecstasy: “Per quel che posso capire,
Borges è un composto instabile, un composto misterioso, che cerca
incessantemente di trovare la condizione stabile, la cifra o la formula o la
chiave della propria essenza, ma è destinato a eterna metamorfosi. Muove cioè
dall’entasis (essere in sé) all’ekstasis (essere altrove)”. Amava la “notturna
attività del poeta cieco”, fonte, per i lettori, di abbagliante chiarità.
Non è difficile capire perché a Borges piacesse quell’americano allampanato,
all’apparenza inerte, dal corpo salamandra. Conosceva lo spagnolo – uno dei suoi
primi lavori è una traduzione dai testi di Antonio Machado –, aveva studiato in
Messico e in Francia, aveva insegnato in Grecia: le sue versioni da Saffo –
uscite in origine nel 1965 – vengono rieditate ancora oggi. Soprattutto,
Barnstone, a differenza di altri poeti, esperti geologi del proprio io,
‘specialisti’ dei fatti loro, aveva una mente oceanica: era stato in Cina – da
lì, le traduzioni da Wang Wei –, lo affascinavano i perigli del ‘religioso’. Nel
1972, per la New Directions di James Laughlin, aveva firmato una notevole
edizione dei Poems of Saint John of the Cross. Le indagini nella letteratura
spagnola non lo abbandoneranno: negli anni, Barnstone traduce il poeta
agostiniano Luis de León (1979), Vicente Aleixandre (1981), Quevedo, García
Lorca e Miguel Hernandez (in: Six Masters of the Spanish Sonnet, 1993). Fra i
suoi libri di poesia ricordiamo From This White Island (1960), China
Poems (1977), Algebra of Night (1998), Life Watch (2003); l’ultimo libro
lirico, Moonbook and Sunbook, è edito nel 2014.
È pressoché impossibile districarsi nell’amazzonica bibliografia di Barnstone,
un poligrafo che non teme fatica, un poligrafo che odora di Himalaya; su Borges
ha scritto un grazioso pamphlet, With Borges on an Ordinary Evening in Buenos
Aires: A Memoir (1993), in cui, tra l’altro, rievoca un sogno narratogli dal
grande scrittore argentino. “Erano i giorni della ‘Guerra sporca’, le bombe
esplodevano in città; arrivai da Borges, lo vidi sconvolto, mi raccontò un
sogno”. Quel sogno è alla base di un racconto borgesiano, La memoria di
Shakespeare, che reca, a sua volta, lo stigma dell’incantesimo, del gioco di
prestigio. Ne riparleremo.
Molti anni dopo – il testo è raccolto nell’antologia Mexico in My Heart,
Carcanet, 2015 – Barnstone ha trasfigurato il suo legame con Borges in una
poesia dai molti sigilli, Borges and His Beasts:
> “Qualcosa è sbagliato nel tuo volto. Non è
> quello di un vecchio, ma di uno che non cresce.
> Nonostante i grigi capelli e l’occhio cavo come una tazza,
> morto, e l’altro, grigia trama di tumida nebbia
> dove un cervo bianco corre e scompare o lampeggia
> blu, in quel sogno dove hai dimenticato che si muore,
> e progetti un alfabeto di luce che faccia fibrillare
> la sfera del cuore. L’oscurità è sparita e ora devi
> sorridere come un bimbo. Succhi l’antica parola norrena
> che ti offre il cielo. Ma sei solo e sei assurdo
> e sai che c’è qualcosa di sbagliato. Viso da bimbo
> che ride, sembra un dente, l’occhio è un fiume
> perché ha conosciuto la pantera che non muore mai”.
Forse su suggerimento di Borges, Willis Barnstone s’inabissa nella Bibbia,
esplora lo gnosticismo, studia l’ebraico e l’aramaico. Le traduzioni degli
apocrifi, degli pseudoepigrafi e dei manoscritti del Mar Morto convergono in The
Other Bible (1984); nel 2003, insieme a Mervin Meyer raccoglie come The Gnostic
Bible i testi della tradizione gnostica cristiana, mandea, catara, ebraica. Il
suo The Restored New Testament (2009), che riesuma le fonti dei Vangeli canonici
e accoglie i cosiddetti Vangeli gnostici, è elogiato da Harold Bloom: “allo
stesso tempo, è un’eloquente, vivida traduzione dei vangeli e dell’Apocalisse e
un superbo atto di restituzione, di restauro”.
Nel 2004 ha tradotto i Sonetti a Orfeo di Rilke, il libro della vita.
> “Ho iniziato a scrivere versi nel 1947, dopo aver letto i Sonetti a Orfeo di
> Rilke in edizione bilingue. All’ultimo anno di università, cominciai a
> maneggiare il tedesco. Il libro di Rilke fu fondamentale per farmi capire che
> in poesia si potevano esprimere concetti filosofici – fu Rilke a consegnarmi
> alla poesia”.
C’è una generosità impulsiva in questo poeta traduttore, che non teme
l’avventura, l’avventatezza, la capriola e lo schianto. I suoi miracolosi
repertori antologici – A Book of Women Poets from Antiquity to Now, 1980; The
Literatures of Asia, Africa, and Latin America, 1998 – sono un invito al
viaggio, un monito ai poeti: andate lì dov’è l’ignoto, scavate, scoprite –
perdetevi, semmai, e sia bello il vostro essere candele nella tenebra.
Il poeta centenario ha attraversato tempi e poeti, volti e monoliti; nelle sue
mani, pari ad anfore, convergono i millenni, dal vello pieno. Opera di
mungitura, allora, di chi sa i proventi del coltello, di chi sa imboccare il
prossimo.
***
Il bene
Primo mattino, luna sulla landa
a cerchio gli uccelli di Ur, prima che
il diluvio lordi il ricordo della coppia
bandita dalle mele e dal fatale fuoco
del sangue: Adamo ed Eva a passeggio
nel ghetto giardino, accerchiano l’albero.
Non sanno l’incendio che scintilla tra
i corpi, non sanno leggere né parlare
conoscono la notte e il meriggio, gli sfugge
l’oscuro che non ha zenit. Adamo, Eva,
bestie buone, brade all’alba del globo,
cieca gente, come noi, all’apocalisse.
Sondano il sole, che irradia morte da un albero
rosso. La luce infuria, analfabeta – loro, se ne vanno.
*
L’usignolo
Benché l’orrore dell’usignolo
il sacro usignolo dall’inascoltato canto
che stride invisibile nella tormenta,
oltre l’albero delle stelle, sia solo un verbo
o una longitudine epistemologica,
è lui a svegliarmi, all’alba, l’occhio
inumato di croste, prima dell’estasi
del giorno. L’orrore non è mai distante:
l’arida biologia lede la speranza degli insetti:
la falena che intrappola la luna, il ronzio
della solitudine nell’ansimare dell’aria,
la trama dei vermi volanti. Eppure, è sempre
con me il segreto dell’usignolo, che mi illude.
Invisibile, anche io sono ancora qui.
*
In cammino
Cammino sempre: anche se la strada è corta
i passi sono infiniti. Qui
in Canada, le oche respirano lo stesso dolore
artico che aleggia nella mia anima introvabile,
ma le oche non sanno il freddo, volano alte
dalla Patagonia gaucho. Sono un uomo di carbone
e ardo sotto quegli uccelli dagli occhi di fuoco
intrappolati in abitudini elettriche.
Respiro il verde cielo – finché non mi coagulo.
*
Rendezvous
Papà, sei tornato stanotte.
Anni dopo il Tibet. Il viso lampeggia
e sorride tra i camion. Accendi
un fiammifero. Mi alzo dal letto
e siamo sulle colline dove nessuno
può vederci, dove non c’è testimone.
Vorrei darti il mio iPad. Sei un uomo
moderno. Non c’è bisogno del cappello.
I tibetani ci salutano. I monaci, come te,
non vogliono morire giovani. Bruciano
i loro corpi per protesta. Anche tu sei
logoro dal rogo della tristezza. Ora siamo noi
a dover varcare le colline. Il tempo ti ha reso
dolce, esatto. Per venire qui hai venduto
la casa in Colorado. Il cielo è nero
ora. Ci guida il sole interiore.
*
Dai “Sonetti a Orfeo” di Rilke
Silente amico di vaste distanze, odi
il tuo respiro che divarica le stanghe dello spazio.
Perduto tra le cinghie di campanili in rovina, suona,
permetti che rintocchi. Ciò che di te si nutre
trarrà il suo dominio da questo pasto.
Percorri la trasformazione, arretra
in essa. Cosa ti frena? Cediti. Se
bere è dolore, sii vino.
Sii notte, sii la sconfinata forza
e lascia che incroci i tuoi sensi.
Sii il senso di questo strano accordo. Va’ –
e se la terra svanisce, se ti ha dimenticato
sussurra al silenzio della terra: Io scorro.
E all’acqua che scorre: Io sono.
*
Da San Giovanni della Croce
Vivo ma in me non vivo
attendo che la vita passi
muoio perché non muoio.
In me non vivo
senza Dio non posso vivere;
a lui o a me me stesso non
posso dare, dunque a che vivere?
Agonia di mille morti
attendo che la vita passi
muoio perché non muoio.
Questa viva che solo vivo
è di vita ruberia, nulla se
non perpetua morte – nessuna
scappatoia se in te non vivo.
Dio, ascoltami, parole di verità
la mia: questa vita non voglio
muoio perché non muoio.
Il pesce pescato dal mare
ha la sua consolazione:
morte di breve durata
che infine reca sollievo.
Nessuna morte è più convulsa
e orrenda di questa mia patetica vita.
Più vivo, più muoio.
Provo sollievo soltanto
quando ti vedo nel sacramento
sprofondo nello sconfinato sconforto
privo della tua dolce compagnia.
Ora, tutto pulsa di dolore:
voglio – e non posso – averti
muoio perché non muoio.
**
Da Saffo
Lampi
se ci arride la sorte
ambiremo al porto
alla nera terra
Le raffiche di vento
fiaccano i marinai
che sperano
Nell’asciutto
nello sbarco
e scollegarsi
dal carico
che galleggia
Fatica molta
prima dell’approdo
sulla cruda terra
*
L’invito è per uno
non per tutti
al banchetto
che inaugura Era
perché vasta
sia
la mia vita
*
Silente
Zeus
dallo scudo di pelle di capra
e di Citera
ti prego
ti offro un cuore
saturo di bene
come nei giorni in cui lasciasti Cipro
ascolta la mia preghiera
vieni a me
lima le mie durezze
*
Espero, conduci a casa le rovine
dell’alba
conduci a casa le pecore
accompagna a casa la capra, alla sua casa
la bimba – c’è una madre che la aspetta
*
Imitano la morte
le colombe: quando l’anima
si fa fredda, le ali pendono
ai loro fianchi
*
No – non avrei potuto
credere di afferrare il cielo
con queste nude braccia
*
Verginità, verginità, te ne sei andata
lasciandomi sola.
Da te non verrà più – mai più mi vedrai.
*
Dimmi della sposa dagli stupendi
piedi – che Artemide
la figlia di Zeus drappeggiata di viola
deponga la sua ira
Venite, Grazie, venite Muse di Pieria:
il cuore è gonfio di incanti
e limpido sgorga l’inno
lo sposo infastidisce le dame
mentre l’Alba dai calzari d’oro
posa una lira sui loro capelli
*
Sortiranno inni
dalle vergini
tessitura d’amore
tra te e la sposa
dalla porpora veste
Svegliatevi, svegliate
i giovani della vostra età:
questa notte non dormiremo
saremo noi a destare
l’usignolo dalla vorticosa voce
**
Dal Vangelo di Matteo
Ecco: uscì il seminatore alla semina
e di ciò che seminava, seme finì in strada
uccelli calarono e mangiarono.
Parte su petraia, dove era poca terra
e seme subito sbocciò
perché non s’inabissava la terra.
Ma quando fu alto il sole
seccarono le piante:
prive di radici appassirono.
Parte finì tra spine e spine
finirono per soffocarlo.
Ma parte cadde su terra buona
e venne il frutto
il cento il sessanta il trenta
chi ha orecchie atte all’ascolto, ascolti.
Traduzioni e testi di Willis Barnstone
L'articolo “Un alfabeto di luce”. Willis Barnstone, il patriarca della poesia
americana proviene da Pangea.
Rileggendo Il Grande Gatsby sveliamo ogni volta una frase indimenticabile: “Così
continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel
passato”. La conosciamo tutti, l’abbiamo riletta o citata in decine di
occasioni, a volte senza nemmeno capire cosa significhi davvero: non si tratta
di una chiusura. Anche a distanza di cent’anni, è l’incipit della nostra vita.
Perché nel mondo edificato da F. S. Fitzgerald nessuno si rivolge avanti, tutti
guardano indietro – la direzione naturale dell’esistenza è il rimpianto. E Daisy
Fay ne è il faro: la luce verde che brilla dall’altra parte della baia. Non
soltanto per Gatsby. Ogni personaggio a suo modo suo insegue un tempo che non
esiste più. Il Grande Gatsby revoca il sogno della promessa americana.
*
Si potrebbe cominciare da lei, Daisy, e da come non sia innocente – lo sappiamo
–, ma nemmeno possa essere ridotta a mero simbolo dell’opportunismo. Daisy
rappresenta l’attimo in cui si cessa di sperare, una linea di separazione tra la
giovinezza dall’età adulta.
> “Spero che mia figlia sia una oca. Una piccola, splendida, stupida oca
> giuliva”.
La consapevolezza di essersi costruiti un’identità e di non poter mai più
diventare altro.
Per questo, quando Gatsby le chiede di negare l’amore per Tom, lei esita. Ciò
che le viene chiesto è impossibile: riscrivere la propria identità, negare il
tempo, rientrare in un abito lontano dalle sue forme. L’amore di Gatsby è una
fotografia: la convinzione che nulla sia cambiato. Eppure, Daisy vive. È
cambiata. È stanca. E nel suo cinismo nasconde un dolore autentico, la lucidità
di chi ha rinunciato a rincorrere ciò che non può più essere.
Gatsby non accetta il tempo: edifica, scollegandosi dalla realtà, se stesso per
diventare degno del sogno di Daisy. Un’immagine che per esistere necessita di
restare irrealizzata. Nell’intreccio è il motivo per cui Daisy – nel momento in
cui potrebbe amarlo di nuovo – termina con il rifiutarlo: tornare davvero
insieme a Gatsby significherebbe uccidere l’idea di lui, tenuta fino a quel
momento viva dentro di sé.
Gatsby è l’unico a credere davvero nel sogno americano. E per questo è il solo
che merita compassione. Ma anche il solo che non sopravvive.
*
Nick Carraway insegue il tempo. È lo scrittore che racconta quel momento della
sua vita come se fosse l’unico in cui tutto ha avuto un senso. Il romanzo,
allora, diviene un modo per abitare ancora una volta lo spazio liminale, il
confine tra l’ingenuità e la delusione. Nick scrive perché non può restare. E
non può restare perché ha capito. E se Gatsby crede nella luce verde, Nick crede
nel ricordo di Gatsby: nel tentativo – vano, quanto umano – di fissare il senso
in un mondo che sfugge. Di scrivere per salvarsi.
*
Tom Buchanan domanda indietro la sua giovinezza. La forza bruta che gli
permetteva di dominare gli altri senza sforzo, quella virilità che il tempo e la
cultura che cambia gli stanno sottraendo. Tom tradisce perché ha paura: ogni
nuova amante è un gesto disperato di riaffermazione. È l’unico che si sente
ancora in diritto di possedere il mondo – e il personaggio che più lo teme.
Fuggire insieme a Daisy, ricominciare, rappresenta una mera strategia di
sopravvivenza.
Myrtle Wilson invece guarda indietro con gli occhi di chi non ha mai avuto
nulla. Insegue la possibilità di un’altra vita: la scalata sociale, il rispetto,
il glamour del sogno americano. Myrtle crede sia sufficiente vestirsi bene e
sorridere a Tom per essere ammessa nel mondo che lui rappresenta. Eppure, quel
mondo, quando si tratta di dover scegliere, non esita ad annientarla: Myrtle è
la tragedia delle classi sociali in un romanzo che parla di sogni costruendo
confini. E il suo corpo sull’asfalto concretizza la prova che non tutti possano
permettersi un passato differente.
*
Il Grande Gatsby parla dell’impossibilità di abbandonare il passato e nella sua
sospensione si compie un’estetica. Gatsby non sogna il futuro: lo reitera. E la
luce verde è un’eco che precede, una prolessi emotiva. E se Nick Carraway scrive
è per abitare quella terra interstiziale che Barthes chiamava l’intervallo della
memoria, dove il tempo cessa di scorrere per addensarsi. Qui dove si cela
l’illusione: mai la promessa di un’esistenza nuova, ma la bellezza, dolcissima e
tragica, di una vita impossibile.
Nicolò Locatelli
*In copertina: Robert Redford come Jay Gatsby nel film di Jack Clayton del 1974
L'articolo Cent’anni di luce verde. “Il Grande Gatsby” o il sogno di una vita
impossibile proviene da Pangea.
Catcher in the rye, conosciuto in Italia come Il giovane Holden, esce in America
nel 1951 e la sua ambientazione, leggendone i riferimenti, è da collocarsi
probabilmente prima del Natale del 1949. È il romanzo che segna il successo,
nella sua invero esigua produzione letteraria (un romanzo, nove racconti e
quattro novelle), di J. D. Salinger; produzione nella quale ricorrono la
descrizione di pensieri e azioni di giovani non adattati, adolescenti perlopiù
laconici che non sanno o non possono esprimere ciò che provano realmente, la
capacità di sottrarre allo scacco dell’inautentico e alla perdita di un senso
verace che i bambini hanno su questi, e il rifiuto verso la società borghese e
convenzionale. Questo autore che ha anche ispirato la Beat Generation, consegna
con Catcher in the rye un capolavoro senza tempo che ha saputo parlare, in
diversi decenni, a tanti lettori, giovani e non, senza perdere di freschezza e
urgenza.
Il protagonista è uno strampalato, pensoso, a tratti taciturno e a tratti
verboso sedicenne, che eccelle in Inglese ed è carente nelle altre materie della
scuola di preparazione al college che frequenta in Pennsylvania. Viene espulso
dalla scuola e decide di andarsene da solo a intraprendere un viaggio che non ha
meta precisa se non il ganglio urbano di New York.
Quante volte nella letteratura di tutti i tempi il viaggio è tramite e veicolo
di scoperta e rinascita… Ma per Holden Caulfield non è niente di tutto questo:
il ragazzo, infatti, nella carrellata di incontri e esperienze che compie, reca
con sé e rivolge molte domande ma non riceve mai risposte, o ne riceve di
insoddisfacenti, finendo per inasprire il proprio senso di disorientamento e
insoddisfazione; il tragitto che descrive è dettato dall’impulso del momento e
risulta sconclusionato. Egli cerca forse non il senso della vita, ma se non
altro un senso possibile, che non si palesa mai, però, nel corso delle sue
picaresche vicissitudini.
Holden è una figura romantica in chiave neoterica e novecentesca, parla il gergo
dei giovani di allora, cosa che connota fortemente il romanzo per il verso di un
realismo, spesso minimale, che ha affascinato generazioni. Appare un perdente,
prende pugni, corteggia ragazze che non gli badano granché, sbatte contro muri
fatti di convenzioni e contro situazioni che si volgono spesso al peggio o a una
mancanza di esito.
Tanto per cominciare non ama il cinema, a differenza dei suoi coetanei, forse
perché foriero di sogni artefatti, vero corrispettivo di ciò che è mediato in
senso deteriore. ed ama, per contro, la schiettezza d’animo (con la quale si
esprime egli stesso) al di sopra di ogni altra cosa. Né adulto né bambino, ha
pensieri desueti e sconcertanti, ricorda spesso il fratello che ha perso per una
leucemia e, così si evince, non ama i propri genitori benestanti ma ha una
spiccata simpatia per la sorellina. In un mondo che sembra avere solo strade
ferrate, percorsi ordinari e ordinati, Holden si muove come un pipistrello in
una stanza.
Il suo ex insegnante di Inglese, il solo forse per cui prova simpatia, lo
accoglie una notte in cui si trova in difficoltà, nel corso della sua fuga, e
gli rivolge parole che parafrasiamo: “la differenza tra una persona immatura e
una matura, è che la prima vuole morire per un ideale, la seconda vivere per
esso”. Come negare che questo aneddoto che il professore rivolge affettuosamente
al protagonista, sia veridico? Vivere significa anche morire mille volte e mille
ancora dover risorgere, condurre una strenua battaglia per la verità e la
bellezza, in un mondo che le nega entrambe ed è anzi di per sé mortifico. È
questo un cimento cui Holden si avvia sprovveduto in ogni forma, sgangherato e
idiosincratico, con pensieri strani, autentici e veritativi, che tiene per sé o
deve dissimulare, e che fanno a cozzi con la sua sonnolenta, ordinaria
generazione che vuole sentirsi adulta anzitempo e si prepara a un ingresso
trionfale nella vita matura e che sogna coronato di certezze salde e successo
conformi a un “sogno americano” mai così deviante e falso. Perché il suo tempo,
il tempo intimo di Holden, fa a pugni con quello storico che vive, ed è una
sorta di zona franca dall’ottusità dei più, dalla loro refrattaria esistenza
così impermeabile al dubbio; un viatico, insomma, con cui cerca di tenersi lungi
da convenzioni e ruoli, e dal dover declinare il suo autentico essere attraverso
ogni sorta di possedere, dal doverlo smarrire goccia a goccia scivolando
dissanguato nell’alveo dell’età adulta (che mente o è irretita nella menzogna,
veste ruoli in cui si identifica totalmente, mette per propri idoli dei fini
assoluti e pressoché senza complemento: fini che non le guadagnano senso di
responsabilità, ma una pallida copia di esso assieme a un inventario di
privilegi).
Più propriamente egli non scimmiotta gli adulti né i propri coetanei, non gioca
a interpretare nessun ufficio che all’età matura afferisca, raramente pronostica
sul proprio futuro, perché tremendamente incombente ma lontano come un orizzonte
simile a un’evanescente stringa.
Holden non elude l’angoscia della libertà e non vuole entrare grufolante, con
decorrenza precoce, tra recinti di affanni e preoccupazioni. In fondo gli
basterebbe avere una ragazza a fianco, che sappia “tenerlo per mano”, perché a
quell’età si è fragili spighe e nessuna ragazza ci capisce davvero, nessun
genitore sa farsi carico, con risposte perspicue anziché cliché e morali
posticce, dei dubbi, delle istanze e delle stranezze che si affoltano nella
mente di un figlio in crescita… Si è soli in una folla di nomi, postazioni,
ruoli, nel mezzo di un mondo che ad esser capito non basta una vita e ad esser
sognato non basta una gioventù.
Lo slancio sorgivo e autentico di questo giovane si strozza nel finale in rivi
stenti di terapia psicanalitica, avverando paradossalmente le parole dell’amico
Carl Luce, che dopo un fugace incontro attraversato da disagio e indolenza, gli
consiglia di andare da uno psicanalista. Un luogo comune, certo, ma che traduce
in fatto tutta la distanza che separa il giovane Holden da quel ragazzo adulto e
già inquadrato.
Holden, a New York dove è fuggito, si imbarca persino in un incontro con una
prostituta senza riuscire a fare altro che parlarci e lasciar passare il suo
quarto d’ora per procura, chiedendole poi di rivestirsi.L’amore, nella sua
carnalità, è qualcosa a cui non è pronto, o forse semplicemente non a quel modo.
Sente, sì, la sua urgenza, ma lo spaventa. Così come ogni cosa che sopravvenga
dopo una lunga, smaniosa attesa, ma si riveli spogliata di ogni sogno, vera e
cruda, impellente e mai realmente conquistata: solo tale da accadere lasciandoci
“secchi”…
Prima di fuggire anche da New York, Holden passa una giornata con la sorellina
Phoebe, la sola che forse sappia accettarlo e capirlo, seppure in qualche
ingenuo modo; e alla sua domanda su cosa Holden voglia fare da grande, lui le
confida di voler fare
> “colui che salva i bambini, afferrandoli un attimo prima che cadano nel
> burrone, mentre giocano in un campo di segale”.
Pare una sciarada, ma a parte il richiamo a una poesia di Burns e al gioco del
baseball cui Holden è affezionato (conserva anche un guantone come ricordo di
suo fratello) egli non fa manifesto altro che di voler soccorrere i bimbi persi
in un mondo di giochi prima che la vita li getti a strapiombo in una età che si
palesa come una rovinosa caduta; o forse semplicemente salvarli dal vuoto della
vita, quando finiscono i sogni dell’infanzia e comincia la realtà di
un’esistenza che non è pari alla poiesis di nuovi sogni e nuove sfide, ma opaca
e priva di un vero senso se non quello artificioso e costrittivo del ruolo di
adattati.
Caulfield rimane un antieroe che ha affascinato intere generazioni, forse
proprio perché così vicino a noi in una straniante età di passaggio che
attraversiamo senza certezze e ripari, o nel ricordo di essa, che tanto può aver
deciso della nostra vita attuale come anche tanto poco da destare sconcerto ed
echi di una paura che perdura come una voce ormai inascoltata.
Massimo Triolo
L'articolo “Sogni d’oro, imbecilli!”. Intorno a Holden Caulfield, il pipistrello
della letteratura proviene da Pangea.
Nel 1978, per la Christopher’s Books di Santa Barbara, piccola editrice eletta
all’anticonformismo, esce un libro di spregiudicata bellezza. S’intitola The
Love Poems of Marichiko; in copertina spiccano aerei, ermetici calligrammi.
Kenneth Rexroth, il traduttore, ha settantatré anni, è nato tre giorni prima del
Natale del 1905, a South Bend, Indiana. Il padre, venditore di farmaci,
alcolizzato, muore che Kenneth è un ragazzino, nel 1919; la madre se n’era
andata tre anni prima. Cresciuto con gli zii, a Chicago, reso spregiudicato
dalla solitudine, Kenneth a diciannove anni prende la strada, gira il paese in
autostop, si dà a diversi lavori – quello più proficuo sembra essere stato la
guardia forestale. “Trovai lavoro a Marblemount. Zaino in spalla, mi presentai
presso il Forest Service. Mi aprì Tommy Thompson, un tipo meraviglioso. ‘Vieni a
cena con noi. Forse ho qualcosa’. Era uno dei paesaggi più selvaggi degli Stati
Uniti: non sapevo nulla di scienze forestali, non conoscevo le ruvide vertigini
delle montagne. Da bambino, ero stato nelle Alpi. Tommy mi disse di aprire un
sentiero, oltre il bosco, verso il ghiacciaio. Partii con una sega, un’ascia,
cibo nello zaino per una settimana”. Così scrive Kenneth in uno dei suoi reperti
autobiografici; che sono, poi, l’autobiografia di un paese, tra vendemmia di
vento e metropoli nell’urlo.
Fronte ampia, baffi geroglifici, occhi pieni di pietà. Kenneth Rexroth pubblica
il primo libro importante nel 1940, s’intitola In What Hour. Introdotto alla
poesia da Louis Zukofsky, diventerà amico di Lawrence Ferlinghetti. A San
Francisco, il 7 ottobre del 1955, è Rexroth il gran cerimoniere del leggendario
“Six Gallery reading”, quello in cui Allen Ginsberg legge Howl, specie di
Pentecoste dei Beat. Quando qualcuno gli dice di essere stato il profeta dei
Beat, il Giovanni Battista di quella generazione di imbestiati e ‘battuti’,
Rexroth si ribella – li credeva, Kerouac, Ginsberg & Co., tumefatti dalla fama,
affratellati ai santi, in fondo, dei traditori. Lui era rimasto ciò che era: un
uomo docilmente ribelle ai canoni imposti, un anarchico, un ulisside cercatore.
Più prossimo al medianico Ezra Pound che al mediatico ribellismo di
quella generation, Rexroth aveva tracciato da tempo la sua via verso Oriente:
autodidatta, avventuriero dalla mente Bucefalo, per la New Directions aveva
tradotto One Hundred Poems from the Japanese (1955) e One Hundred Poems from the
Chinese (1956).
Implacabile poligrafo, animato da una curiosità, si direbbe, animalesca, Rexroth
ha tradotto García Lorca e Machado, Pierre Reverdy e Antonin Artaud, Basho e
Wang Wei, Saffo e Leopardi (L’infinito attacca così: “This lonely hill has
always/ Been dear to me, and this thicket / Which shuts out most of the final/
Horizon from view…”). Nella prefazione a The Phoenix and the Tortoise (1944)
dichiarò di rifarsi “a fonti ellenistiche, bizantine e tardo romane – e a
Marziale”. La poesia si sviluppava secondo “un più o meno sistematico, più o
meno preciso punto di vista”; il poeta dichiarava il proprio “senso di
disperazione e di abbandono di fronte al collasso di un intero sistema di valori
culturali”. La raccolta era dedicata a David Herbert Lawrence – “morto nel
tentativo di rifondare una famiglia spirituale” – e ad Albert Schweitzer,
“l’uomo che, in questi tempi, ha realizzato il sogno di Leonardo da Vinci –
Leonardo, che morì impotente, lasciando i suoi progetti a metà, che ha
dimostrato che la volontà umana è una porta troppo stretta perché una persona
possa forzarla verso l’universale”.
Infaticabile ‘molestatore’ culturale, nel 1949 Rexroth firma un’antologia che
raduna il meglio dei New British Poets, dedicata, in parti uguali, a James
Laughlin, il suo editore, e, “come sempre”, alla moglie, Marie. Lì, senza tema
di discepoli, sono stivati i poeti che seguono il dominio di Eliot e di W.H.
Auden: George Barker e Hugh Macdiarmid, Lawrence Durrell e David Gascoyne,
Stephen Spender e Denise Levertov. Il cuore dell’antologia è Dylan Thomas (“Non
c’è dubbio che sia lui il giovane poeta più influente che scriva oggi in
Inghilterra. L’unanimità con cui tutti, tranne gli irriducibili stalinisti e i
versificatori domestici, da rivista, lo indicano come il più formidabile
fenomeno della poesia contemporanea è semplicemente sbalorditiva”); mirabili le
pagini introduttive:
> “Dylan Thomas è sfacciato. Non si mostra mai a cuore aperto. Ti prende per il
> collo. Ti incunea il cuore in gola. Ti colpisce il muso con un cuore
> sanguinante e odoroso, un cuore pieno di vermi e di aghi, di nerosangue,
> spinato, il cuore di un lupo mannaro… Dylan Thomas scrive come se non avesse
> mai incontrato essere umano, come se non conoscesse lo spazzolino da denti.
> Non c’è nulla di male in questo. Egli è un capo selvaggio che guida la sua
> spedizione di cacciatori, per fare lo scalpo ai visi pallidi. Appartiene a una
> stirpe di eroi”.
In fondo estraneo ai patronimici della fama, ai club, alle combine dei premi,
spesso disperso in piccole edizioni d’arte, Rexroth ha scritto di William Blake
e di Rimbaud, dei canti dei nativi americani e del jazz, di Isaac B. Singer e
della controcultura americana, dell’Ecclesiaste e della Cabbala. Un suo saggio
sonda i legami tra Coleridge e lo Zen; un articolo pubblicato sul “San Francisco
Examiner” – di cui era editorialista – s’intitola The Tao of Fishing, esce
nell’agosto del 1960: il mese prima si era occupato del teatro Kabuki e di
Samuel Beckett. È difficile, intendo, trovare un poeta dagli interessi tanto
poliedrici ed eterogenei: leggere Rexroth è una gioia del cervello, obbliga a
una perpetua gimkana tra comodità e convenzioni, è un poeta sempre in allarme,
Rexroth, è un poeta-sentinella, alle pendici di un evo appena intuito. Ha
scritto, con la stesso assiduo, generoso genio, con l’audacia del perpetuo
dilettante, del bambino eterno, di Simone Weil e degli haiku, di Matteo Ricci,
il gesuita nato a Macerata che partì nel Cinquecento ad evangelizzare la Cina, e
delle lettere di Van Gogh.
In Italia, tuttavia, Rexroth è per lo più un paria. L’ho conosciuto grazie a
Flavio Santi: nel 1999, per Marcos y Marcos, ha curato l’antologia Su quale
pianeta; esiste, ormai, nel mercato secondario. InternoPoesia, per la cura di
Francesco Dalessandro, pubblicherà un mannello di “poesie scelte” come Lasciati
celebrare.La celebreremo.
Cristina Giorcelli ha scritto che Rexroth, “Tenace oppositore del materialismo
contemporaneo, nutrì palingenetiche speranze nelle filosofie orientali e nella
poesia. Nella sua visione, mistica e sensuale a un tempo, la poesia costituisce
l’atto comunicativo, ‘sacramentale’, per eccellenza: in poesia, infatti, il
suono, il ritmo, l’attenzione alla calligrafia (quale si rivela nella resa
grafica delle traduzioni di Rexroth di poesia cinese e giapponese), la cura
tipografica del testo, devono partecipare all’‘estasi del senso’”.
In appendice, diamo minimo conto dell’affinità tra Rexroth e il mondo orientale:
le sue traduzioni dicono – poundianamente – di un’armonia da lotofago,
l’ingordigia della bellezza. Il poeta che traduce divorando.
Rexroth morì a Santa Barbara nel giugno del 1982. Poco prima, si era convertito
al cattolicesimo; nel 1978 aveva pubblicato come The Burning Heart una selezione
di “poetesse giapponesi”. Fu una raccolta di successo, poi ripresa da New
Directions: per la prima volta, si squarciavano i paraventi di un’era remota, di
una femminilità irredenta. The Love Poems of Marichiko pareva un’appendice a
quell’assiduo lavoro di ricerca. Le poesie sono delicatissime, scritte su veli
di carta, da mollare ai venti:
> “Fare l’amore con te
> è come bere acqua di mare.
> Più bevo
> più sete mi setaccia
> niente può placarla, se non:
> bere il mare per intero”
> “E un giorno, sei pollici di
> cenere sarà ciò
> che resta del nostro incendio
> mentale, di tutto il mondo creato,
> di questo amore, l’origine
> la dissipazione”
Dietro il volto della giovane poetessa contemporanea Marichiko, si nascondeva
Kenneth Rexroth. Estremo gioco d’ombre di un cannibale del linguaggio. Rexroth
eccelleva nella poesia d’amore; l’arte dei famelici.
**
GIAPPONE
Yosano Akiko
(1878-1942)
Neri i capelli
in mille rivoli annodati
annodati i capelli annosi
annodati nodosi ricordi
delle nostre infinite notti d’amore.
*
L’autunno sfiorisce:
nulla dura per sempre.
Il fato sfata le nostre vite.
Accarezza i miei capezzoli
con le tue mani da manovale.
*
Cogli i miei seni
squarcia ogni mistero
un fiore esplode
è cremisi e profuma.
*
Fukao Sumako
(1895-1974)
Casa luminosa
Che casa luminosa:
nessuna stanza è resa al buio.
La casa si erge alta
sulle scogliere, scandita
come un faro.
Quando arriva la notte
depongo una luce
una luce più grande del sole e della luna.
Pensa
al mio cuore che si flette
quando con dita tremanti
accendo un fiammifero nella sera.
Sollevo il petto
inspiro ed espiro al rumore dell’amore
come la figlia del guardiano del faro.
Questa è una casa luminosa.
Voglio creare un mondo
che nessun uomo può costruire.
*
Noriko Ibaragi
(1926-2006)
La mente di una bambina
Ecco cosa aveva in mente una bambina:
perché la schiena delle mogli
odora così forte di magnolia
o di gardenia?
Cos’è
quel futile velo di nebbia
sulle spalle delle mogli?
Ne voleva avere
quella meravigliosa cosa
che alle vergini è vietata.
La bambina crebbe
divenne moglie – fu madre.
Un giorno capì:
la tenerezza
che si ammucchia sulle spalle delle mogli
non è che fatica
di amare – amare giorno dopo giorno.
*
CINA
Huang O
(1498-1569)
Sopra la melodia “Nuvole imbizzarrite”
Hai tenuto il mio fiore di loto
tra le labbra, hai slabbrato
il pistillo. Abbiamo rubato
un frammento del magico corno
del rinoceronte: insonni
per tutta la notte – per tutta
la notte la cresta leonina del gallo
si è fermata. Per tutta la notte l’ape
si è incuneata tremando tra gli stami
del fiore. Oh mio dolce gioiello!
Soltanto il mio signore domina
sul sacro stagno di loto:
ogni notte fa esplodere in me
i suoi fiori di fuoco.
*
Sun Yün-Feng
(1764-1814)
Sulla strada, attraversando Chang-te
L’anno scorso ho attraversato questo luogo:
mi è piaciuto e sono felice di esserci ancora.
Il mercato del pesce si inabissa tra ombre blu.
Da una locanda con il tetto di paglia
si snoda il fumo del tè.
Le sabbie, a riva, interrano
la bianca luna: il fiume sussurra.
I salici attendono il verde
della ventura primavera.
I versi di una poesia mi lacerano.
L’ho preteso: fermi per un po’, destriero.
*
Viaggio tra le montagne
Il vento occidentale invita alla nostalgia:
la polvere del carro sale fino alle nubi – è sera.
Le cicale fischiano tra le foglie ingiallite.
Al tramonto l’ombra di un uomo è spaventosa
come una montagna – gli uccelli si ritirano tra i greti del sonno.
Vago senza fermarmi – ho perso la via di casa.
Mentre ammiro il fiume, un brivido
d’invidia per il pescatore che siede
in solitudine: pensa pensieri eleganti, senza peso.
*
Qiu Jin
(1875-1907)
Una lettera alla Signora T’ao Ch’iu
Sono sola con la mia ombra
mormoro e scrivo strani
caratteri nell’aria, come Yin Hao.
Vino e malanni non mi spezzano
non soffro per chi non c’è più:
per avere ragione del mio cuore
Li Ch’ing-chao ha messo sotto
torchio una città intera.
Nessuno può capirmi:
le mie visioni superano quelle
degli uomini che mi stanno al fianco –
ma sopravvivere è impossibile.
A cosa serve il cuore di un eroe
in abiti femminili?
Il mio destino è il rischio:
imploro il Cielo – le eroine
del passato hanno mai
conosciuto l’invidia?
L'articolo “Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth
proviene da Pangea.
Ancora Emily Dickinson? Questo ho pensato – devo ammettere – quando mi sono
ritrovata davanti un altro libro della più famosa poetessa statunitense. “Più
famosa” oggi, si intende. Negli ultimi anni abbiamo infatti assistito a una
proliferazione di testi su o della “reclusa di Amherst” che in vita pubblicò
pochissimo, e non fu quasi mai compresa – basti pensare che la prima edizione
critica delle sue 1.775 poesie, a cura di Thomas H. Johnson, risale al 1955,
sessantanove anni dopo la sua morte.
Tutti pazzi per Emily, dunque: nuove traduzioni, nuove biografie, romanzi che la
vedono protagonista, diversi film, fino ad arrivare a una (terribile) serie
televisiva. Brucia un grande fuoco attorno alla sua figura. In tale contesto,
c’è chi potrebbe domandarsi, con malinconia, se tutta questa attenzione avrebbe
fatto piacere alla scrittrice solitaria, che si “auto-isolava” dal mondo
esterno. Qualcun altro, invece, con ferina curiosità, si chiede perché proprio
Dickinson sembra essere stata eretta a diventare il santino della poesia
femminile – se non addirittura femminista.
Sono domande a cui non so rispondere – non è compito mio –, ma posso dire che
questo libro (Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, Crocetti Editore,
2025) mette in risalto alcune caratteristiche della poetessa che sono passate in
secondo piano rispetto ad altre più decantate dalla critica. Prima di tutto, è
interessante il progetto che si cela dietro al libro: i componimenti sono stati
scelti da Jorie Graham, una delle voci poetiche più importanti e significative
dei nostri giorni. Nata a New York nel 1951, è cresciuta in Italia, a Roma.
Vincitrice del Premio Pulitzer per la poesia nel 1996, dal ’99 insegna scrittura
creativa all’Università di Harvard – ricoprendo il ruolo che fu del poeta
irlandese (e Premio Nobel) Seamus Heaney. Con i suoi versi traccia una lotta
contro la decadenza del mondo, il caos e lo smarrimento. Si è confrontata con le
poesie di Dickinson. Quelle qui raccolte rappresentano un campionario esemplare
dei motivi più rilevanti e degli aspetti stilistici principali della sua
produzione.
La cura del volume è affidata a Maria Borio, come la traduzione – affrontata
insieme a Jacob Blakesley. L’obiettivo principale: quello di “presentare una
versione quanto più autentica della scrittura poetica di Dickinson e del suo
carattere di autrice […]. Lo stile e la lingua di questa poesia testimoniano,
infatti, che D. si confrontava acutamente con le questioni intellettuali e
sociali più rilevanti della sua epoca, anzi che era all‘avanguardia, anticipando
fenomeni artistici e di pensiero del Novecento”.
Maria Borio è poeta e saggista. Dottore di ricerca in letteratura italiana
contemporanea, cura la sezione poesia di «Nuovi Argomenti». La sua ultima
silloge, Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni,
Interlinea 2019) è stata tradotta negli USA. Ha scritto le monografie Satura. Da
Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La
poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).
Ha gli occhi profondi e la voce gentile. Alla presentazione del libro di
Crocetti, a Milano – in dialogo con Benedetta Centovalli e Tommaso Di Dio –, ha
affascinato gli uditori parlando della “luce oscura” di Emily, della percezione
fisica nelle sue poesie, della rivoluzione che ha creato a partire dal suo
limite. Mi sono avvicinata, mi ha permesso di porle qualche domanda.
Cinquantacinque poesie, scritte da Emily Dickinson, selezionate da Jorie Graham,
tradotte da Maria Borio e Jacob Blakesley. Credi che la poetessa statunitense
contemporanea abbia fatto da “mediatore”, attraverso la sua sensibilità, nella
selezione dei testi che più rappresentano Emily? Ritieni che la cooperazione tra
diversi attori (e tra più poeti) abbia arricchito queste traduzioni, offrendo
nuove prospettive rispetto alle versioni precedenti?
Jorie Graham ha offerto un campione di poesie che restituisce una fisionomia
autentica della poetica di Emily Dickinson, a lungo miscompresa. Non si tratta
di una poetessa vagamente misticheggiante, vergine sacrificale confinata
nella Homestead, ma di una scrittrice e intellettuale al passo con il proprio
tempo, fine osservatrice delle questioni politiche, filosofiche, teologiche e
letterarie del Rinascimento Americano, cioè quel giro di decenni in cui emergono
le voci di Emerson con Self-Reliance e Thoreau con Walden, fino a Leaves of
grass di Whitman. Lo sguardo di Emily si innerva anche di scienza, dalla
botanica alla geologia; non dimentichiamo che condivideva le teorie di Darwin e
leggeva l’«Atlantic Monthly». La sua poesia realizza una rivoluzione percettiva,
esistenziale ed ontologica. La cooperazione che è alla base della raccolta cerca
di restituire il carattere acuto e polivalente di questa rivoluzione.
Tu stessa hai sottolineato la grande attenzione che si è posta nella resa del
ritmo e nel rispetto della punteggiatura di Emily. Com’è stato adattarsi al suo
“andamento meditativo anticonvenzionale”, e all’impossibilità di riportare
sempre la rima?
La metrica degli originali reinterpreta soprattutto la tradizione dei versetti
cantati nella liturgia protestante, estranea alla poesia italiana. Ma perdere le
corrispondenze della rima non comporta la rinuncia a quelle delle assonanze e
delle consonanze e delle allitterazioni: non impedisce, cioè, di ricomporre una
specie di tessuto ritmico sinottico parallelo a quello delle versioni inglesi.
La punteggiatura, soprattutto i trattini, è il punto d’unione tra l’inglese di
Dickinson e l’italiano, grazie a cui è stato ricucito il ritmo sincopato nelle
traduzioni. Questa poesia si snoda come un discorso della coscienza, in anticipo
rispetto allo stream of consciousness del Novecento, con avanzamenti e
indietreggiamenti, in presa diretta, nel suo farsi. È il ritmo, prima che ogni
altro aspetto stilistico, che rende questi testi come fotografie di una mente in
movimento, nel suo tempo storico contingente, eppure percepita vicina,
contemporanea, anche da chi legge oggi. Il ritmo dà a questa poesia una
tangibile universalità.
Quali sono, secondo te, gli aspetti linguistici di Dickinson più difficili da
rendere in italiano?
Le espressioni ironiche. Due esempi: l’uso di “Gentlemen”, quando Emily si
rivolge a un ipotetico consesso di filosofi e scienziati che cercano di
stabilire che cosa sia la fede, e che è stato tradotto con “Lor Signori”
in “Faith” is a fine invention…; oppure, in I’m Nobody! Who are you?…,
l’espressione “the livelong June”, tradotto “tutto il santo Giugno”, che
descrive il tempo stagionale dell’assordante gracidare delle rane.
Qual è la forza di Emily Dickinson, la sua modernità? Ciò che le permette di
essere nel tempo, di resistere, anche quando i suoi versi non vengono compresi –
addirittura rovinati, storpiati?
Il ritmo, come dicevo prima, di una mente inquieta e totalmente vera – per
questo è Brain, reale e pulsante, e non l’astratta Mind –, che non scrive
soltanto per esprimere se stessa, ma per cercare di capire il mondo. La poesia
come forma di intelligenza.
L’ironia che accompagna la lirica di Emily Dickinson potrebbe essere intesa come
elemento di innovazione rispetto alla tradizione poetica a lei contemporanea?
C’è un componimento in particolare dove questi due elementi sono inseparabili, a
tuo parere?
L’ironia di Dickinson non è un espediente comico o una semplice tecnica di
straniamento. Si tratta di un modo per inclinare e affinare la visione:
un’angolatura diversa, che ci raggiunge all’improvviso, un’inversione di marcia
rispetto all’abitudine e all’ipocrisia, un’intensificazione dell’intelligenza
che cerca il fondo autentico dell’esperienza umana. Tell all the Truth, but tell
it slant…, cioè “Dì tutta la Verità, ma dilla obliqua”: non esiste un’unità di
senso, logica o scientifica, che fornisce soluzioni o regola le nostre vite in
schemi e leggi; la verità è fatta di possibilità e di domande, e spesso sta
proprio in quest’ultime, non nelle risposte. L’ironia serve a Dickinson per
interrogare.
“Sgretolarsi non è l’Atto di un istante/ […] Scivolare – è la legge del Signor
Crollo –”. Commenteresti questi versi?
Uno dei temi su cui Dickinson ritorna in modo ossessivo è la morte, il
decadimento della materia, lo sgretolarsi del qui e ora. Il pungolo
dell’esistenza che si scompone è controbilanciato da quello per l’eternità. Se
la condizione delle creature mortali è transeunte, qual è quella opposta?
L’eternità è plausibile, o è solo un’illusione che consola, come le promesse
della fede possono essere un palliativo alle ingiustizie reali? Banalmente,
Emily aveva una consuetudine quotidiana con la morte: la sua casa era vicina a
un camposanto, come in moltissime cittadine americane dell’epoca, e i lutti si
verificavano non di rado! Il tendere inevitabile della vita verso la morte, con
l’ipoteca dell’eternità che attende al varco, la attira e la snerva: abituata a
interrogare qualsiasi fenomeno, lo sgretolamento fisiologico e processuale (“non
è l’Atto di un istante”) del corpo coincide, per lei, con la terribile
dissoluzione della capacità di pensare, di avere una coscienza, che spera invece
possa perpetuarsi. Il nostro decadimento è irreversibile, perciò è una “legge”,
ma Dickinson sa affrontarlo con ironia e, infatti, “Crashe’s law” è stato
tradotto con “legge del Signor Crollo”. Anche il tremendo decadimento è posto al
vaglio di un’interrogazione.
Possiamo dire che la poesia, per Emily Dickinson, è lo strumento che occorre per
interrogare i rapporti tra le cose – e se stessa. Da poeta, tu condividi questa
visione?
Sì. La poesia è una forma di pensiero che, interrogando, esprime una creazione e
decreazione continua di rapporti.
Ti sei occupata, tra i tuoi studi, di Eugenio Montale. Nell’Introduzione al
volume di Crocetti scrivi che “se Montale avesse dato meno peso alla religione
nell’opera di Dickinson, forse si sarebbe accorto che alcuni aspetti della
propria poetica lo accomunavano a quest’autrice”. Dove hai individuato
maggiormente questi aspetti?
Montale aveva una visione del mondo atea ed esistenzialista. Ma la sua poesia è
anche una poesia di pensiero, come quella di Valéry. Spesso ha un tono
filosofico. Non chiederci la parola…, negli Ossi di seppia, termina in questo
modo: “questo solo possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”,
cioè condensa in una chiusa quasi epigrammatica una dichiarazione sull’esistenza
umana, una dichiarazione che è metafisica, asserisce una verità. La prospettiva
metafisica non è, però, astratta, incorporea, ma radicata nelle dinamiche
complesse della coscienza. Per il legame viscerale e sensuoso tra coscienza e
metafisica, Montale è vicino a Dickinson.
Credo che tradurre un poeta comporti il fatto di passarci insieme molto tempo.
“Abitare” il suo linguaggio – verbo a Emily tanto caro. Posso chiederti quali
sensazioni o emozioni sono sorte in te durante, o dopo, questa esperienza? Emily
Dickinson ha in qualche misura influenzato anche il tuo modo di guardare alla
realtà?
Ho imparato qualcosa di paradossale: l’arte di non prendersi sul serio. Non si
tratta di irresponsabilità o superficialità, anzi, proprio l’opposto. Fino a
quando ci ostiniamo a prendere estremamente sul serio quello che facciamo, con
caparbietà, per quanto genuina, restiamo confinati in noi stessi, chiusi
nell’ego. Allentando la tensione, con una curvatura ironica e un’accettazione
del perdono, anche scegliendo di affrontare le cose con un impeto tragico, forse
potremo riuscire a vederci come ci può vedere un altro, ad abitare lo spazio
dell’altro, ad essere più autentici. Il tuo peggior nemico è te stesso.
Anna Taravella
**
657
Io abito nella Possibilità –
Una Casa più bella della Prosa –
Più abbondante di Finestre –
Più ricca di Porte –
Di Camere come Cedri –
Inespugnabili dall’Occhio –
E come Tetto Eterno
Le volte del Cielo –
Di Visitatori – i più belli –
Per il Lavorìo – Questo –
Dispiegare ampio delle mie strette Mani
A raccogliere il Paradiso –
*
1129
Di’ tutta la Verità ma dilla obliqua –
Il successo sta in un Circuito
Troppo brillante per la nostra debole Delizia
La sorpresa stupenda della Verità
Come il Fulmine che per i Bambini si attenua
Con spiegazioni soavi
La Verità deve abbagliare gradualmente
O tutti sarebbero ciechi –
*
599
C’è un dolore – così totale –
Che ingoia l’Essere –
Poi copre l’Abisso con lo Stordimento –
Così la Memoria può passarci
Intorno – Attraverso – Sopra –
Come chi in un Delirio –
Vada sicuro – un occhio aperto –
Lo farebbe cadere – Osso dopo Osso –
*
997
Sgretolarsi non è l’Atto di un istante
Una pausa fondamentale,
I processi di Disgregazione
Sono Decadimenti organizzati –
Prima c’è una Ragnatela sull’Anima
Una Pellicina di Polvere
Un Tarlo nell’Asse
Una Ruggine Primaria –
La Rovina è accurata – il lavorio del Diavolo
Consequenziale e lento –
Perdersi in un istante, nessun uomo l’ha fatto
Scivolare – è la legge del Signor Crollo –
*
258
C’è un certo Taglio di luce,
Pomeriggi d’Inverno –
Che opprime, come la Gravità
Delle Melodie da Cattedrali –
Una Ferita celeste, ci procura –
Noi non troviamo la cicatrice,
Ma un’intima differenza,
Dove è ciò che conta –
Nessuno può insegnarla – Nessuno –
È il Sigillo della Disperazione –
Un’afflizione imperiale
Mandata a noi dall’Aria –
Quando arriva, il Paesaggio ascolta –
Le Ombre – trattengono il respiro –
Quando se ne va, è come la Distanza
Negli occhi della Morte –
*
642
Bandire – Me da Me stessa –
Ne avessi l’Arte –
La mia Fortezza invincibile
Da Ogni Cuore –
Ma poiché Io stessa – Mi assalto –
Come potrei aver pace
Se non soggiogando
La Coscienza?
E poiché Noi due siamo Re l’una per l’altra
Come potrebbe essere
Se non Abdicando –
Me – da Me?
Da Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, tr. it. di Maria Borio e Jacob
Blakesley, Crocetti, 2025
L'articolo “Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con
Maria Borio proviene da Pangea.
Nella ben documentata biografia dedicatagli da Blake Bailey (Cheever. A Life),
si racconta a un certo punto di come John Cheever s’imbatta in un romanzo di
Saul Bellow e sia, da quel momento in poi, soggiogato, anzi quasi ossessionato
dal collega. Già gli erano piaciuti i primi due romanzi di Bellow, e in
particolare The Dangling Man (L’uomo in bilico), ma la sua reazione alla lettura
del terzo romanzo bellowiano, The Adventures of Augie March (Le avventure di
Augie March), che esce nel 1953, sarà tale da stordirlo. Una vera e propria
rivelazione, tanto da spingerlo a scrivere al suo quasi coetaneo che, se avesse
continuato su quella strada, per lui, cioè per il povero Cheever, non ci sarebbe
stato altro destino possibile se non quello di tornarsene a casa e “andare a
lavorare a una pompa di benzina a fare il pieno agli automobilisti in transito
per Cape Cod”. Un modo indubbiamente immaginifico e autoironico di esprimere la
propria ammirazione, ma anche un segnale di quanto la prosa di Bellow l’avesse
colpito; anche se in seguito, moderando leggermente gli entusiasmi, dirà (ma
sempre con riferimento all’esempio di Bellow, che quindi continuava a
bruciargli) che in fondo la scrittura non è un’attività competitiva.
Non è questo che uno dei tanti esempi possibili per descrivere l’impatto avuto
da Bellow sugli scrittori della sua generazione, come per esempio Malamud, per
non parlare naturalmente di quelle successive (Philip Roth in primis), che ne
hanno magari criticato il progressivo scivolamento verso posizioni
neoconservative, ma hanno fatto comunque pienamente tesoro delle sue conquiste
espressive. A vent’anni dalla morte, avvenuta il 5 aprile 2005, cerchiamo allora
di verificare quanto di Bellow e della sua opera sia rimasto. Da The
Victim(1947) a Henderson the Rain King (1957) – l’unico dei romanzi bellowiani
il cui protagonista non sia ebreo –, da Herzog (1964) a Mr Sammler’s
Planet (1970), da Humboldt’s Gift (1975) a The Dean’s December (1982), da More
Die of Heartbreak (1987) a Ravelstein (2000): anche se ci limitiamo ai titoli
dei soli romanzi principali, riscontriamo sempre almeno due doti, una prodigiosa
ispirazione e un’inesauribile creatività. Perché una cosa è certa:
il corpus prodotto in mezzo secolo di attività da Bellow è impressionante per
qualità e continuità d’ispirazione, per il sottile intreccio tra profondità di
contenuti e padronanza delle tecniche narrative.
Non gli sono mancati i riconoscimenti, fra cui il premio Nobel, che gli venne
conferito nel 1976, mentre l’anno precedente gli era stato preferito Montale, in
quell’alternanza prosa/poesia che ne contrassegnò diverse edizioni. E va detto
che di rado premio Nobel fu più meritato, né mai fu al tempo stesso più
ortodosso, legato cioè non a questioni extraletterarie (ossia, spesso,
politiche) o all’esigenza di ampliare la portata del concetto di letteratura, ma
intrinseco, volto cioè a premiare davvero l’eccellenza nella scrittura. E a
proposito di Nobel: diversamente da altri scrittori, che nei confronti del
premio furono molto critici (Beckett) o addirittura lo rifiutarono (Sartre), pur
non essendo del tutto convinto dell’utilità né degli aspetti pubblicitari ad
esso connessi, Bellow si limitò a ringraziare, da persona discreta e gentile
qual era. In passato, aveva detto dei propri libri e dei propri lettori che, se
di un suo romanzo riusciva a venderne cinquantamila copie, l’avrebbero poi letto
forse in cinquemila, ma avrebbero reagito ad esso al massimo in trecento, e il
Nobel gli sembrò quindi semplicemente uno dei possibili strumenti per far
aumentare queste cifre (e magari in particolare l’ultima).
Una volta tanto, l’occasione del conferimento del Nobel risulta interessante
anche per i contenuti della lecture tenuta da Bellow, in cui, polemizzando con
le posizioni di Alain Robbe-Grillet e altri, esalta la vitalità del romanzo (e
dei suoi personaggi) e mostra di perseguire l’ideale di una narrativa eclettica,
che non si lasci limitare o coartare dall’esterno, che non tema le grandi
dimensioni e le scommesse creative e perfino che non sia necessariamente
equilibrata, e anzi contenga al proprio interno elementi alieni
al plot principale e magari centrifughi. Menziona a un certo punto una frase di
Joseph Conrad, il quale, nella prefazione al Negro del “Narciso”, diceva che
l’arte è il tentativo di rendere la massima giustizia possibile all’universo
visibile. Ben lungi dall’accettare l’idea di una crisi strisciante o di
un’implosione del romanzo quale genere letterario, Bellow rivendica al contrario
l’importanza di continuare a svilupparlo senza confini prestabiliti, aprendosi
all’influenza di quelli che tre anni dopo, in un’altra intervista (a Maggie
Simmons per “Quest”), chiamerà “deeper motives” (“motivi più profondi”), che
spesso sgorgano direttamente dall’inconscio e dall’emotività dello scrittore
configurandosi come onesti elementi morali (non moralistici), scaturenti cioè
dall’approccio etico di ciascuno scrittore con la realtà e dalla sua
rielaborazione mentale della stessa.
Da tutto questo derivava un rifiuto del postmodernismo e delle tendenze più in
voga negli anni Settanta e Ottanta, il suo orgoglio di essere uno scrittore
“unfashionable”, ovvero non alla moda, il suo amore e piacere per la lingua di
cui si serviva, un inglese ricchissimo e duttile. E ne derivava anche una certa
intransigenza, che non lo farà arretrare dinanzi alle accuse di conservatorismo,
soprattutto a partire da Il pianeta di Mr Sammler, dovute anche al suo graduale
avvicinarsi a posizioni neoliberali e a figure come quella del filosofo Allan
Bloom. Per Bloom, che sarà insieme a Mircea Eliade uno dei protagonisti del
romanzo a chiave Ravelstein, e per il suo The Closing of the American Mind – una
specie di trattato in cui, considerato il nichilismo delle più giovani
generazioni, si preconizzava un imminente trionfo della barbarie – l’elettore
democratico Bellow scrive infatti un criticatissimo prologo. Un conservatorismo
peraltro non politico, il suo, ma morale, dovuto al disagio provato nel vedere
tante promesse svanire nel nulla e la società americana incapace di assorbire le
pulsioni verso una maggiore giustizia civile e razziale, verso un superamento
della povertà estrema, verso un maggiore rispetto dei diritti
civili. Conservatore controcorrente in un’America che a suo parere andava verso
un liberalismo ingenuo, confuso e velleitario, oggi Bellow sarebbe probabilmente
all’estrema sinistra dello spettro politico, a burlarsi di questo nuovo ceto
politico sciatto e pasticcione, se non decisamente fascista, emerso dalle ultime
elezioni.
Qualche altra caratteristica di Bellow da mettere rapidamente in luce, anche se
in maniera non sistematica (proprio come forse avrebbe amato): anzitutto, la
capacità di essere ironico e autoironico. Tanto per fare un solo esempio, nel
rispondere alle domande di Joseph Epstein per la “New York Times Book Review”,
il 5 dicembre 1976, Bellow esordisce così: “Well, you are not Eckermann, I am
not Goethe, and this, our City of Chicago, is most distinctly not Weimar. But
let’s go ahead anyway. Shoot.” (“Lei non è Eckermann, io non sono Goethe, e
questa nostra città di Chicago di certo non è Weimar. Ma procediamo pure.
Spari.”)
Poi, la capacità di cogliere nel segno, che caratterizza in pratica ciascuno dei
suoi quattrodici romanzi. Bellow lo spiegava senza davvero spiegarselo: a lui
sembrava semplicemente di dar voce a paure e confusioni che erano sue proprie e
a cui solo a posteriori riconosceva un carattere di universalità. Diceva che, in
quanto romanziere, era parte del suo lavoro quotidiano cercare di dare
espressione, nel modo più preciso e circostanziato possibile, ai dubbi e alle
angosce che serpeggiano in una società di per sé sempre più impaziente e
incerta. E questo, nella maggior parte dei casi, gli è senza alcun dubbio
riuscito: certe profonde e strampalate lettere di Moses Herzog ai suoi
impossibili interlocutori, da Eisenhower a Nietzsche a Spinoza, fanno già parte
della storia della letteratura. “Se sono matto, per me va benissimo”, come
recita l’incipit del libro; e a quanto pare, nel creare il prototipo
dell’intellettuale ebreo metropolitano, ironico e fortemente nevrotico, sempre
sospeso fra riflessione e azione (il più delle volte mancata) – prototipo che al
cinema farà poi la fortuna di un Woody Allen – Bellow tocca davvero un tasto
sensibile, dà vita letteraria a qualcosa che cominciava a esistere e a
propagarsi in natura.
E ancora, il legame indissolubile con Chicago. Nato a Lachine, nel Quebec, nel
1915 – il vero nome è Salomon Byelo, è l’ultimo di quattro figli e il primo a
vedere la luce nel Nuovo Mondo –, Bellow trascorre l’infanzia a Montreal e a
Chicago si trasferisce con la famiglia (emigrata in origine da San Pietroburgo)
all’età di nove anni. Vivranno da emigrati canadesi nel West Side, una delle
zone più problematiche della città in termini di piccola criminalità e
d’insicurezza. Nella magmatica e caotica Chicago, Bellow avrebbe poi seguito gli
studi liceali, si sarebbe anche iscritto, in una prima fase, alla locale
università, dove avrebbe però subito toccato con mano lo strisciante
antisemitismo che imperava anche negli Stati Uniti e che gli ispirerà il secondo
romanzo, La vittima, prima di spostarsi alla Northwestern per laurearsi in
sociologia e antropologia (non in lettere, e forse è significativo anche
questo). A Chicago, lavora in seguito al Federal Writer’s Project – un centro
studi che era diventato anche una specie di sinecura per scrittori progressisti
e che Trump oggi si affretterebbe a chiudere –, stringendo con la città un
legame indissolubile, che resta in essere anche quando la lascerà
temporaneamente. Viaggerà infatti in Europa grazie a una borsa Guggenheim – è a
Parigi che comincia a scrivere, a suo dire soprattutto in treno e nei cafés, il
brillante e picaresco Augie March – e per determinati periodi vorrà o dovrà
trasferirsi a Minneapolis e a Boston. Ma nella maggior parte dei suoi romanzi
Chicago è onnipresente; il richiamo e il fascino che la città esercita su di lui
ben si rispecchiano nella convinzione di alcuni tra i suoi personaggi principali
di non poter vivere altrove, in un’accettazione totale anche delle brutture e
delle manchevolezze della vita cittadina che non si riscontra nelle opere di
altri scrittori, come Theodore Dreiser, Nelson Algren o Richard Wright, i quali
a Chicago hanno trascorso quasi tutta, se non tutta la vita. In alcuni libri di
Bellow, come per esempio Il dono di Humboldt – romanzo davvero pirotecnico su un
intellettuale in crisi, in cui fra le righe prende a modello l’amico poeta
Delmore Schwartz, morto una decina d’anni prima –, la Chicago dei grattacieli,
dei mattatoi, della polizia corrotta, della criminalità organizzata per bande,
del business che primeggia su tutto è ritratta con rara maestria e ricchezza di
sfumature.
Bellow è stato amatissimo dalle donne (cinque mogli, quattro divorzi, avrà
l’ultima figlia all’età di ottantaquattro anni) e naturalmente dal suo pubblico,
sempre più vasto, ma anche da molti colleghi scrittori, che in qualche caso
potrebbero passare, sia pure entro certi limiti, per suoi discepoli. È ancora
Blake Bailey, ma stavolta nella biografia dedicata a Philip Roth, a raccontare
del bellissimo rapporto fra i due, che insieme a Malamud, a Mailer e ai fratelli
Singer, erano uniti anche dal fatto di far parte di quella che Truman Capote
aveva voluto sprezzantemente definire nel 1968 su “Playboy” la “Jewish literary
Mafia”. (Di sicuro, assieme a tutti questi altri autori Bellow è riuscito se non
altro a creare un genere letterario, quello dell’immigrato alle prese con
l’incomprensibile realtà urbana, e a far emergere nelle lettere americane
moderne la presenza ebraica, soprattutto quella degli ebrei ormai integrati o in
via di sempre maggiore integrazione.) Roth, che con le sue battute e barzellette
riusciva invariabilmente a divertirlo, continuerà a telefonare a Bellow anche
quando quest’ultimo, ormai novantenne, era troppo confuso persino per sapere chi
fosse, e parteciperà al suo funerale, nella remota Brattleboro, in Vermont,
benché soffrisse di una patologia alla schiena che lo aveva quasi immobilizzato.
Ma il rispetto e l’ossequio al maestro, a volte, permette di superare qualunque
avversità; e Bellow era stato per lui e molti altri indiscutibilmente un vero
maestro.
Raoul Precht
L'articolo “Se sono matto, per me va benissimo”. Saul Bellow, un maestro
proviene da Pangea.
Giacca giusta, cravatta, viso affilato e aristocratico, cappello costoso,
William S. Burroughs sembrava un Lord. Il Lord della disperazione; il Baronetto
del sottosuolo; il Principe della morfina.
La letteratura, si sa, nasce dal disastro, dalla morte.
E da una leggenda bugiarda.
Settembre 1951, Messico. Bisognerebbe scrivere una storia della letteratura
sugli scrittori che hanno sentito il bisogno di perdersi in Messico, in quei
meandri del delirio, che infernale ubriacatura, ce ne sono un mucchio, da
Antonin Artaud a Malcolm Lowry, da Carlo Coccioli a Hart Crane e Cormac
McCarthy.
Burroughs in delirio lisergico.
Piglia la pistola.
Mette il flûte in testa alla moglie, Joan Vollmer. 28 anni, viso da bambola.
William è più grande di un paio di lustri, ha studiato ad Harvard, rampollo
sregolato di una famiglia di ricchi; afferra l’arma, gioca a fare l’eroe, le
spara in faccia.
> “Poi ci fu quel terribile incidente con Joan Vollmer, mia moglie. Avevo un
> revolver che volevo vendere a un amico. Lo stavo controllando ed è partito un
> colpo: lei è rimasta uccisa. Qualcuno ha messo in giro la voce che stessi
> cercando di centrare un bicchiere di champagne sulla sua testa, alla Guglielmo
> Tell. Una cosa assurda e falsa”.
Verità, memoria e menzogna sono il fango mistico da cui esala l’esaltante
narrativa di Burroughs. Di certo c’è che Joan dà a William un figlio, nel 1947,
e che lui, scampando il processo, se ne scappa a casa di Paul Bowles, quello
del Tè nel deserto, a Tangeri. Lì, sgangherato dalla colpa, colto nel folto del
tremendo, Burroughs scrive il libro di culto, Pasto nudo, l’epos di un Ulisse
cocainomane, il regesto visionario di un malato (“La Malattia è la
tossicodipendenza e io per quindici anni sono stato un tossicomane”), la
stagionatura agli inferi di un cervello rimbaudiano in mescalina.
Pasto nudo diventò il Corano dei Beat, Burroughs l’Allah dei beatnik, Jack
Kerouac il suo profeta.
> “Jack Kerouac è stato fondamentale nell’alimentare il mio interesse per la
> scrittura. Tra l’altro, il titolo Pasto nudo si deve a lui: è stato un caso,
> naturalmente. Continuava a dirmi che dovevo fare lo scrittore, e io gli
> rispondevo che non sapevo niente di letteratura. Così ho davvero cominciato
> piuttosto tardi”.
Raffinato, viziato, vizioso, nessuno ha mai saputo descrivere adeguatamente
Burroughs. “Era un Raskol’nikov in cerca di tutte le cose che non si dovrebbero
fare. Voleva semplicemente provare tutto”, ha detto Allen Ginsberg. Certo. C’è
il delitto, l’immolazione nel castigo, la baraonda catartica, l’alchimia della
droga.
Nel 1963, a Parigi, prima di intervistarlo, Joseph Barry lo vede così,
> “Un tizio un po’ curvo, alto circa uno e ottanta; magro; un volto scarno che
> sembra un misto di Ralph Richardson e Buster Keaton”.
Insomma, un attore dell’assurdo. Su Village Voice, a declamarne il talento, uscì
questa didascalia:
> “Tossico e assassino formatosi ad Harvard, William S. Burroughs è stato un
> illustre decano della feccia… In misura maggiore di quanto non lo rendesse
> possibile la sua leggenda, era anche un uomo dal pensiero complesso,
> inquietante e visionario, profondamente paranoico e profondamente morale”.
Lui, teorico della letteratura come sprofondamento nella notte oscura dei sensi
e dei pensieri, era più sbrigativo, “sono robaccia – e sarò per sempre un
drogato”.
L’ennesimo paradosso di questo inafferrabile surfer dell’Lsd è che “odiava
rilasciare interviste” (così Sylvère Lotringer), solo che il tomo che
raccoglie tutte le sue Interviste, stampato da il Saggiatore, una specie di
monumento e di monolite, va avanti per 1200 pagine e passa (2018). Burroughs
stava meglio nel suo mondo immaginario, macerato a dovere dalla coca, più che in
quello reale. Lo intervistavano e lui balbettava, eludeva, rispondeva a
monosillabi, si perdeva in una amazzonia di metafore. A Londra, nel 1974, il
Duca della Beat generation dialoga con il Duca Bianco, David Bowie, e tartaglia,
farfuglia, William tratta la superstar come uno scrittore vero (“È piuttosto
sorprendente che siano testi così complessi, e che possano conquistare un
pubblico di massa…”), e Bowie fa spallucce, fa il falso modesto, come di fronte
al frontman dei fan (“Sono abbastanza sicuro che alla gente che ascolta le mie
cose non interessano i testi”).
Dunque, a cosa serve questa mole micidiale di interviste, colloqui,
registrazioni (un centinaio)? A fare l’elenco dei – rari – scrittori che
piacciono al guru dei fulminati, ad esempio. Sintesi magnetica:
> “C’è Joyce. Shakespeare, Rimbaud, alcuni scrittori di cui la gente non ha mai
> sentito parlare… Genet, naturalmente, ma la sua è una prosa francese classica.
> Non è un innovatore linguistico. Poi ci sono Kafka, Eliot e Conrad, che è uno
> dei miei preferiti”.
Legge con gusto Graham Greene, legge Le Carré (“proprio un bravo scrittore”),
non gli parlate di 1984 (“sembra quasi naif, alquanto obsoleto”), è lucidamente
crudele riguardo a Hemingway (“Le nevi del Kilimangiaro penso che sia un grande
racconto. Se prendi invece cose come Verdi colline d’Africa e Di là dal fiume e
tra gli alberi, la sua immagine ha preso il sopravvento. L’eccesso di immagine è
molto pericoloso per uno scrittore”), ama H.G. Wells (“mi è sempre sembrato uno
dei migliori”) e C.S. Lewis (“Un altro che mi piace moltissimo.
In Quell’orribile forza e Lontano dal pianeta silenzioso ho trovato molte
analogie con le mie idee”), offre una fulminante esegesi di Céline:
> “Mi pare che i fraintendimenti dei critici rispetto alla sua opera siano
> simili a quelli che investono anche i miei lavori: dicevano che fosse un
> diario della disperazione ecc. Io la trovavo invece molto divertente. Penso
> che sia in primo luogo uno scrittore umoristico”.
Quanto al resto, Burroughs, dal suo Nirvana nitido come un urlo, ha capito, già
allora, che la frustrazione è la molla del capitalismo (“La celebrazione totale
del piacere assoluto significherebbe la fine del sistema. Se davvero fossimo
tutti appagati sessualmente, il bisogno di automobili e televisioni
diminuirebbe”), disprezza indolentemente i politici (“Trovo insulso il loro modo
di pensare, così rivolto all’esterno, orientato sull’immagine, sul potere. Mi
annoiano; non li odio”), vorrebbe fare la rivoluzione con i Rolling Stones (“I
Rolling Stones si considerano dei rivoluzionari? Certo che sì, baby. Cercano di
aiutare in tutti i modi, e sono dalla nostra parte, completamente”), inaugura un
ambientalismo radiosamente radicale (“L’uomo è un cattivo animale. Prima
distrugge la razza umana, poi gli animali, infine l’ambiente”).
Quando gli chiedono che razza di vita selvaggia abbia vissuto, Burroughs, con
educazione, blocca chi lo interpella, “La maggior parte del tempo l’ho passata
alla macchina da scrivere e non a tenermi impegnato con chissà quali
spumeggianti accadimenti”, dice. E se uno pensa che William sia un contorto
nichilista, mostrificato dal nulla, sbaglia, “Se non fossi sorpreso della tua
vita, non saresti vivo. La vita è una sorpresa!”, grida.
Così il decano degli sballati decanta l’esistenza, compila il suo folle inno
all’ottimismo.
L'articolo Ulisse cocainomane, Raskol’nikov dei Beat. Vita eccentrica di William
S. Burroughs, un ottimista proviene da Pangea.