James Merrill, il poeta dell’altro mondo, il Mozart della poesia americana

Pangea - Thursday, March 20, 2025

Infine, scelsero Stonington, Connecticut. Diciottomila abitanti, a perpendicolo sull’oceano, l’ancora e il cannocchiale come emblemi sullo stemma civico. Questo gli permetteva, al contempo, vastità e vacuità; ampi orizzonti e vita nascosta. Era il 1955, James Merrill doveva compiere trent’anni, aveva il volto di un fauno, la serafica bellezza di un Milarepa di cristallo. Nato a New York, figlio di ricchissimi – suo padre era il fondatore dell’agenzia di investimenti finanziari Merrill Lynch –, odiava, va da sé, la vita dei genitori. 

“Non confidavo nella vita dei miei – sempre così integralmente presi da impegni, obblighi sociali, cerimonie. La mia accelerazione emotiva, per così dire, era data dagli animali, dai miei istanti nella natura; oppure, dal mio rapporto con i vari inservienti della casa… le loro vite, al contrario di quelle dei miei genitori, sembravano avere un senso compiuto, perfetto. I giardinieri avevano le mani nella terra. I cuochi dragavano la farina, preparavano il pane e le torte. Mio padre, semplicemente, faceva soldi; mia madre vergava nomi sui segnaposto, pianificava i menù, ricamava”. 

I Merrill divorziarono che James aveva tredici anni; il poeta – già autore di una prodigiosa raccolta d’esordio, The Black Swan, tirata dal suo professore, in forma privata, ad Atene – scelse una via spartana: abitò in quello sperduto borgo del Connecticut con il compagno, David Jackson. Si era laureato su Marcel Proust, d’inverno si trasferiva in Grecia. Andrea Mariani, in un antico studio su Merrill – tra i pochi in Italia – scrive che Stonington fu “il luogo di una concentrazione psichica ed emotiva senza eguali, nella storia della poesia americana contemporanea: un ubi consistam che, restando miracolosamente intatto in mezzo ai più violenti e volgari pericoli del mondo, permettesse al poeta nel contempo la visione chiara e distinta del turbine circostante… Stonington è l’assenza che permette di aprire gli occhi verso il di fuori”. 

Secondo Harold Bloom – tra i suoi più importanti esegeti – James Merrill

“è un artista in versi indiscutibile, al pari di Milton, Tennyson e Pope. Di certo, sarà ricordato come il Mozart della poesia americana, classico prima che manierista o barocco, un maestro nel modellare la luce, nella perfezione che consola”. 

Scrisse libri di sigillata complessità in cui i dati autobiografici si coagulano a una congerie di riferimenti culturali che svariano tra William Blake e il melodramma, tra Dante e Henry James, Pound e il sufismo. Per alimentare la propria ispirazione maneggiava la tavola oujia: comunicava con gli spiriti, mediava tra gli altri mondi, si applicava nella scrittura automatica. Come Yeats e come Rilke, credeva nello schianto angelico del poeta, in una sorta di medianico ermetismo. La pratica diventò ossessione: Merrill ne uscì con ciclo onirico, “The Changing Light at Sandover”, stampato da Scribner’s nel 1982. Il libro, di quasi seicento pagine, tra i più folli tentativi della lirica americana, raduna tre tomi, pubblicati separatamente in otto anni di traffico spirituale; il più importante, Mirabell: Books of Number, permise al poeta, nel 1979, il National Book Award – che per altro aveva già ottenuto nel 1967, con Nights and Days. 

Scrittore centauro, di violenta intelligenza, nel 1976 aveva pubblicato Divine Comedies, una specie di picaresco viaggio nell’aldilà. Tra gli spiriti “lari” del narratore, J.M., appare Wystan H. Auden, il grande poeta; tra i protagonisti, Ephraim che fu ebreo greco in Asia Minore poi sibarita, favorito dell’imperatore Tiberio, “morto/ strozzato nel 36 d.C. a Capri/ per aver AMATO/ IL NIPOTE DEL MOSTRO/ CALIGOLA”, poi altro, in perpetue rinascite. 

Non sono estranei dal clima i viaggi a Istanbul e quelli in Giappone, l’etica cristiana, il buddismo. Il libro sconcertò critica e pubblico; sul “NY Times” Louis Simpson – era il 21 marzo del 1976, Merrill aveva compiuto cinquant’anni due settimane prima – ribadì ciò che tutti sappiamo, cioè che “esistono due tipi di poeti: quelli che credono che le poesie siano una costruzione verbale, in cui poco importano le emozioni, per cui la poesia è un vertiginoso gioco di parole, e quelli che ritengono che la poesia sia un prodotto del sentimento più che dell’arguzia”. Merril, va da sé, fa parte del primo gruppo, “è brillante, esotico, pittoresco, opera a latitudini superiori. Non è colpa sua se pochi lettori resistono a questo tipo di poesia”. Forse è questa la ragione per cui la poesia di Merrill in Italia, a parte gli sporadici interessi di Andrea Mariani, Flavio Santi e Damiano Abeni, è pressoché assente in Italia. Ad ogni modo, con Divine Comedies, Merrill ottenne il Pulitzer. 

Amico dei poeti che come lui avevano a cuore il linguaggio e non il cuore messo a mercato su un libro – Elizabeth Bishop su tutti –, Merrill tentò di far convergere la vita nel verbo, fu uno dei rari lirici votati integralmente alla poesia. Scrisse alcune delle poesie più studiate nei college americani, Lost in Translation, ma è pur vero che l’oggi non ritiene più la poesia una prassi, cioè un’arte che richiede dedizione, amore, le generalità dell’ingegno, bensì l’istantanea di un sentire, le bave dell’io, una polluzione irrichiesta, spesso in ciance.

Morì nel febbraio del 1995, svernava in Florida, dopo aver vissuto molte vite, in vagabondaggio tra miriadi di ere. In fondo, ardeva.  

*

Voci dall’altro mondo

Al nostro tocco, la tazza da tè scalciò
svoltò, pigra, in cerchio
dalla A alla Z. La prima voce
(se puoi dire voce questo muto
soffiare) fu di un ingegnere. 

Originario di Colonia
morto a ventidue anni
di colera al Cairo, non aveva CONOSCIUTO
ALCUNA FELICITÀ. Eppure, aveva incontrato Goethe.
Goethe gli aveva detto: PERSEVERA. 

Il nostro grigio segugio uggiolò. Poi, un’orda
di voci si impilò sopra la tavola ouija
alcune di infanti, alcune camuffate
dal sonno; un ragazzino
di nome Will, riluttante alla gorgiera

come un grande quadro di El Greco, svoltò
l’arazzo della sua voce verso l’altra
fredda, portentosa: TUTTO È PERDUTO.
LASCIATE LA CASA. OTTO VON THURN UND TAXIS.
OBBEDITE. NON AVETE SCELTA. 

Terrorizzati, ci fermammo; confusi
finché l’alba maculò d’oro le lenzuola.
Ogni notte, da allora, la luna si gonfia,
piccoli insetti sbattono sulla torcia
che sguainiamo per orientarli oltre il portico…

Ma nessun Segno. Nuovi voci arrivano
dettano indirizzi, mendicano scritti;
alcune ci mettono in guardia da una vita vana
con un tono che ci pare esilarante. 
Di questi tempi, dormiamo profondamente. 

L’altra notte, la tazza da tè si è rotta di rabbia.
In effetti, siamo ormai indifferenti  
all’altro mondo. Nella penombra
i gomiti sul tavolino
glabro, parliamo, fumiamo, lieti di essere

disturbati dal ronzio del gelsomino, dal pigolio
delle nostre voci, dai sibili del povero, cieco Rover,
più che da quelli che strepitano a mezz’aria
ossessionati o misericordiosi, per un compito
che siamo riusciti con arguzia a posticipare:

da quando i freddi riflessi dei morti
ci fissano, estinti risorti
irresistibili, le nostre vite non sono 
mai state così piene, così reali
e la luna piena tarda ad assottigliarsi. 

*

Giorni nel 1964

Case, un’ambasciata, l’ospedale
i dintorni sarchiati dal sole, ancora tremano
nelle pozze spalancate dalla notturna pioggia…
Dall’altra parte della strada che va verso il centro
una ripida collina ci è amica
puoi scalarla in venti minuti 
per avere viste mozzafiato,
frantumate da pini marittimi, urbani e di mare.
Sotto i piedi, ciclamini, crochi d’autunno
che ambrano come bava sottile le reliquie
dei bei tempi di noi tutti. Se non è l’Olimpo
è una baldoria al di là dei rumori, tutto l’anno.

Ho portato a casa i fiori del mio scalare.
Kyria Kleo che pulisce per noi
li ha messi nell’acqua, Vergine, mugola, Vergine.
Aveva sempre male alle gambe. Vestiva di scuro, grassa, 
ultracinquantenne, pareva una matrona di Palmira
estratta dal lardo e dal crine di sauro. Quanto ci amava,
me, te, amava tutti, l’uccello, il gatto!
Ora so che era lei l’amore. Amore tutto il giorno
la faceva sospirare e splendere e soffrire. 
(Non comunicavamo con parsimonia).
Viveva vicino a noi con la pia madre
e il figlio nullafacente. Mi chiamava figlio, il mio vero figlio, diceva.

Dovrei dire che la pagavo generosamente. 
L’amore rende generosi. Guardaci. Ci conoscevamo
così poco che al posto di dormire
stavamo notti intere alla luce della lampa
a guardarci, a spartirci storie. 
Un’ora tra tutte ritorna – tu che annaspi tra le mie braccia
e ami o ridi o entrambi – ho appena
ricordato e ti dico che ho alzato lo sguardo
era mezzogiorno: la povera vecchia Kleo
le gambe doloranti, arranca tra i pini. La chiamo.
Chiamo tre volte prima che si giri. 
Sopra il maglione azzurro aveva il volto dipinto.
Sì. La sua faccia. Dipinta. Bianca 
da clown, bianca come la luna di giorno,
con le palpebre perlacee, la bocca a foglia. 
Mangiami, pagami – la maschera erotica
che il mondo indossa con l’illusione
di unirsi a se stesso in nozze – con una necessità.

Sorpresi, muti – l’amore è illusione? – siamo 
andati per la nostra via. Poi ho attraversato una piazza
dov’era il mercato: verdure, polli, ceramiche
continuavano a materializzarsi grazie all’arte
onirica dei mercanti; attento a non essere gabbato
ho colto il fiore di quella dolcezza di novembre, 
perduto su sentieri di morbida argilla, 
dove il bocciolo palpita desto per essere
strappato, in ginocchio, nel fango – 
mi fermai, freddo, per il nostro bene:
di ritorno, calmo, sulla via di casa, comprai un po’ di frutta.

Perdona se leggi questo. (E possa Kuria Kleo,
se qualcuno tradurrà mai in greco, leggendole 
ad alta voce questa poesia, perdonarmi).
Ero stato troppo a lungo senza amore,
non sapevo nulla dei miei pensieri,
e dove nascondere il viso quando il tuo tocco, 
rapido, misericordioso, mi ha fatto da benda.
Un dio respira alle mie labbra. Forse è illusione
che allora duri a lungo; che abiti elemosinando
ogni giorno, qui, con noi, a pulire e ad annaffiare
a sospirare sempre d’amore e di dolore. 
Speravo di poter ascendere a quelle altezze
che si chiamano degradazione; in quei giorni
mi parve di scalare un mondo 
di fiori selvaggi, pasti, lacrime – ma forse cadevo
le gambe curve, da ascesi a catabasi
nelle pozze create da quei tomi di pioggia notturna…
Ma tu eri ovunque, accanto a me, mascherata
e smascherata, mentre ridi, soffri, ami. 

*

Stanza a infrarossi
mente ultravioletta
organismi più strani
allucinati sulla scia, fluorescenti:

catene di gingilli dorati, bolle di fuoco verde
lungo le arteriose branche – 
qui a Microcosmics Illustrated 
Natale è tutto l’anno!

Indifese, le patrizie cellule attendono
l’invasione barbarica dei virus
un altro sacco di Roma.
Una nuova era. Ci terrorizza. 

Terrore? Grida di gioia nella mangiatoia.
Gioia? L’albero su cui morirà ora scintilla. 

*

L’altro aprile

I vetri dardeggiano, tremano al tuo passaggio spettrale:
una trasparenza a raggi X ondeggia, mi alzo
ma non so dire, ricordo solo che uno soltanto
è quello che si alza e non sa dire. Fanciullo acquazzone
questa è la tua casa. Lascia che il nostro occhio si oscuri
che crolli la pioggia, che la candela barcolli – 
nel profondo del suo vocalizzo ci siamo solo io e lei. 
Le iridi grige venate di ruggine, dell’alba sono umili
e fiere: lungo il tuo andare adagiano il cranio, nella polvere. 

*

Urbana convalescenza

Passeggio dopo una settimana a letto
stanno demolendo parte dell’isolato:
freddo, stordito, solo, mi affranco dalla dozzina
in mansueti atti e guardo l’enorme gru
che armeggia voluttuosa nella sporcizia di anni. 
Le sue fauci sbavano macerie. Un vecchio
ride, impreca il suo cervello e ricordo
la fine de La Dea Bianca. 

Come al solito, a New York abbattono tutto
prima che tu abbia iniziato a prendertene cura. 
A testa bassa, nel tempio del frastuono, fammi ricordare
quale edificio sorgeva qui. C’era davvero un edificio?
Vivo in questa strada da un decennio. 

[…]

*

Misteriosa epigrafe

Questi giorni, come te, 
sembrano vuoti e vacui
hanno avide radici che scavano
per arpionare in profondità la desolazione. 

*

Ceppo 

Poi la fiamma si biforcò in un sentiero inatteso
ansimai, caddi, svanii.
Densità che pulsava verso l’alto, bande di cenere,
cara luce che vaga verso il nulla,
cosa potresti essere se non luce, e nient’altro?

*

Presso la Monument Valley 

Crepuscolo di primavera, durante un permesso
di guerra, presso la fattoria Shoup, a sud di Troy,
ho cavalcato per l’ultima volta. Il silenzio sgorga dalle
stelle della sera, l’acetosella cinguetta 

forse non le dispiace essere calpestata.
I prati ci abbracciarono, inebriati da invisibili lillà. 
Vite rapide, polifoniche abbondavano ovunque. 
Di comune accordo, costeggiammo il piccolo lago.

E ora eccomi seduto tra le forme folli che prendono
le cose. Vita fasulla da colono bianco, maculata
da lunga colpa. Le Tre Sorelle ululano. La Porta
degli Inferi sbadiglia. Mangio qualcosa nella Hertz

mentre cala l’ombra. Giunse alla mia soglia
come la morte, questa smagrita creatura 
dagli occhi cinerini, incerta se confidare nell’uomo – 
Mio caro dio, un cavallo. Gli offro un torsolo di mela

ma fame non lo fagocita e lo lascia cadere
nella sabbia. Alzo il finestrino e proseguo. 
Riguardo all’antico legame tra la sua specie
e la mia c’è poco altro da dire. 

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