C’è un filo diafano, un’arcana gravitazione che stringe i mistici di ogni epoca
al seno del mistero. Karol Józef Wojtyła a 24 anni, sul bordo di una vocazione
nitida e cruciale, scriveva poesie. Liriche liminali, dal passo pacato ma
custodite nella gravità di un movimento basale, gregoriano: una monodia di
devozione incessante e inviolata.
Poiesis che è primordio, promessa, esercizio d’estasi. Rive piene di
silenzio come stati dell’essere, dove non è l’alta parabola, ma l’intimo affondo
l’atto del lambire. Spoliazione di ogni avvistamento, di ogni appetito
cromatico, di ogni intenzionale attesa. Non guardare, perché si è guardati: da
prima dei vagiti del tempo.
Sono sempre nel fiore della lentezza i movimenti del sacro, ripetono il rito: un
effluvio ardente diffonde dall’oltre, s’attenua nel suo passo custodendo il
varco; e preme di silenzio il punto profondo. Durare nella trasparenza, nello
stupore che addita l’eternità: pronunciare la cessione di sé, per quell’assise
di chiarore che è il chinarsi di Dio.
L’amore, sapienza che trasfigura, sa il vincolo dirotto tra ferita e grazia, la
rosa segreta della croce: verità che pertiene all’ombra, alle rifrazioni
dell’acqua, all’estremo volo che piega all’orizzonte. Cui è basilare far spazio,
deprivandosi di lemmi e cognizioni, dando il grembo a un “nulla crescente”, che
ha cara la luce.
Vertigine di “strana morte” in cui lo smisurato alberga in gloriose minuzie: un
cinguettio di fanciulli, il fieno odoroso; un pane di frumento, le foglie
cadute. È l’umiltà sacra delle cose primarie, ridestate in essenza dal soffio
perpetuo, le esistenze minime che recano l’esile offerta: lo stento e l’assillo
di ogni anonima incarnazione: “minuscola cella” in cui il sacro si corica, senza
clamore.
La poesia di Wojtyła è un piovasco di bagliori, fenomeni inversi, in cui
l’universo si eclissa per rivelare, nel suo svanire, le pure altezze
dell’Intelletto divino, mentre un canto oceanico s’alza dai corpi in elegia, che
anelano al “vortice di sole”, sostenendo in cuore “l’esilio di Dio”: suo velarsi
in suprema presenza.
Trema l’anima in uno schiudersi di rose quando l’interminato sospiro l’avvolge,
e accoglie nell’incanto della propria povertà il punto aureo di teofania,
l’oceano di luce del “grande Tacere”.
Nel Canto del sole inesauribile, il sovrano sguardo eleva e sfianca l’inezia
vivente: e nel declinare della vita è fatto saldo il patto con il grande astro
di luce, che trattiene a sé ogni fiato in chiarità definitiva. Il dolore porge
sé stesso in tenera nostalgia, nello struggente ricordo del Volto fa eucaristia
minore che “si arrossa di sangue/ come trafitta da spine”. Sete sacra, che
lascia vorticare accanto un cosmo adolescente di gravami e fulgori; fissandone
il cuore segreto, l’oscura stilla, aghiforme totalità e pienezza immobile.
Sorgente del gesto di genesi, in cui già dimora la discesa alla passione, al
pane, al grano: l’infinità si curva nell’umile riserbo, nel mite ricovero: il
grembo di Maria, “la mangiatoia”, “il fieno”. La grazia diserta il computo e si
china verso irrisorie, lucenti umiltà. Quando posa nel cuore umano, mondi nuovi
germinano nella reciprocità di sguardo: è l’armonia del trinitario mistero,
laddove il Padre ama nel Figlio e attraverso lo Spirito si dona.
Il poeta fa una teologia del nascondimento epifanico, dell’apparizione criptata,
in cui l’Eucaristia è memoriale e atto creativo corrente, vivo: la puntuale,
assidua rigenerazione cosmica e personale, rubino taciturno d’intimo albore,
fuoco risorto nell’intenzione di Dio, è dove l’uomo si riconosce come brama
velata: ché anche l’Eterno emana per carenza d’amore, e crea ogni forma dal
palmo, chiamandola per nome.
Esiste una via cristica che accomuna il celeste alla creatura: il risalire
l’erta della croce, il cui vertice d’intuito e senso di sacra presenza non è
sangue versato, ma vegliato vuoto, spalancato di preghiera nella carne: anche in
Gesù, sull’albero atroce, fu la consegna, non la ferita, a generare il nome del
Padre sulle labbra.
Nelle acque del cuore, fatte torbide dall’umana miseria, il chiarore del posarsi
profondo di Dio crea il “Punto Candido” di visione, io eucaristico d’incantevole
convegno che risale con soavità l’invisibile nodale: altare insostenibile dove
il sensibile si spezza e l’occhio vero non osa. La tracotante fragilità di
arroccarsi, talora, nel pensiero, e non essere fiamma di totale ardore, è
redenta, al cospetto delle fluide e radiose – il sole, il mare – epiclèsi del
creato: che generano confidenza, meraviglia, senso di tutela. Dove l’umano,
nonostante le sue ambiguità e imposture, trova riparo in incommensurabili
fedeltà; è questo il vibrato mistico: che porterà alla partitura interiore di
lode, alla consonanza di adesione perfetta.
Lucente e scoscesa, profondamente cristocentrica la teologia contemplativa
distesa nel canto di Karol Wojtyła snuda l’apòfasi come via diletta
dell’esperienza mistica. Tanto nella visionarietà quanto nell’edificio
spirituale, nel sentire che oltrepassa l’intelletto, nell’ascesi inversa alle
lucòree voragini interiori, nelle antitesi metafisiche tra oscurità e bagliori,
nella preghiera silente, terminale della pura adorazione, nell’anima come alveo
del riconoscimento, riecheggiano le atmosfere di Sant’Agostino, Isacco di
Ninive, Meister Eckhart, Giovanni della Croce, Angelo Silesio.
Toni umilissimi, ma a vertiginose altezze, laddove l’Amore è l’evento teofanico
per eccellenza, ciò che “spiega ogni cosa”. Il Pellegrino cherubico di Silesio
risuona in quell’anelito alla semplicità radicale in cui Dio è presente solo “là
dove nulla più rimane”. Una poesia che fa lectio divina per puro nitore, e prega
con un affetto teologico struggente.
Una costante tensione tra immanenza e trascendenza trova ristoro nel gesto
soprannaturale dell’abbassamento: l’umiltà di Dio che si riduce nell’uomo. Pure,
l’incarnazione del Verbo ritorna ossessivamente in immagini di discesa e
decremento sempre nuove: Dio si fa croce, si fa occhi, si fa abisso, si fa
perfino nostalgia, e sosta nelle briciole di materia, grano e pane: luoghi
ontologici, nei quali l’Essere si mostra nella diatonia tra finitezza e
pienezza.
Il poeta guada ampi corsi d’intensità mistica, semplicità lirica e tensione
all’invisibile; in particolare, nel Canto del sole inesauribile questa
traiettoria si arricchisce di un’ulteriore stratificazione cosmica, laddove il
sole non è più solo simbolo di Dio, ma interlocutore metafisico dell’anima, che
“non è una foglia”, non conosce la nuda impermanenza, ma contiene in sé una
partecipazione eterna al movimento del creato. Il cosmo si traduce in figura
sacramentale: “il frammento di pane più reale dell’universo/ più colmo d’Essere,
colmo del Verbo”: la parola si sostanzia nella cosa. Il pane eucaristico è
metonimia potente dell’Essere.
Nel lessico essenziale, vicino alla sorgente biblica e patristica, la poesia di
Karol si compie canto dell’umiltà ontologica. Scritture sapienziali in essenza,
mai nei toni, frammenti di un’apocalisse centrale, in cui l’uomo e Dio si
cercano nei luoghi più reconditi della coscienza, e nelle trasparenze del
silenzio che dilata lentissimo, di fronte allo svelarsi di un’eccedenza. Tale
tensione all’inesprimibile genera una poesia prossima al sublime romantico –
Novalis, Hölderlin – ma qui rifratta attraverso una spiritualità profondamente
cristocentrica e pascaliana: “più aguzzo lo sguardo, meno riesco a vedere”.
Similmente a quello che accadeva in Cristina Campo, la funzione del linguaggio
nel poeta è performativa, ma anche liturgica: la figura campiana è vaso d’oro in
cui, per astinenza e accumulo, precipita l’ignoto liquore dell’idea; e così
l’atto del nominare nel poeta Wojtyła – “Ah, accogli, Signore, l’ammirazione che
mi zampilla dal cuore” – è invocazione, rito che plasma lo spazio interiore e lo
dispone all’incontro con il mistero.
Il linguaggio non descrive Dio, ma rasenta quel “fiore inaccessibile” che è
icona teandrica d’intimità senza tempo, luce nuziale, mutua fiamma. Il poeta
cerca trasparenza, per essere pura rifrazione delle solenni vastità
evocate. Teologo del lemma incarnato, viandante del muto brillare, esegeta di
sobrietà: ecco Karol Wojtyła giovanissimo poeta. Il resto pertiene alla storia:
l’agire nel mondo di un uomo intero, abitato dallo Spirito.
Isabella Bignozzi
**
da: Il canto del Dio nascosto[1]
Lontane rive di silenzio cominciano appena di là dalla soglia.
Non le sorvolerai come un uccello.
Devi fermarti a guardare sempre più in profondità
finché non riuscirai a distogliere l’anima dal fondo.
Là nessun verde sazierà la vista,
e gli occhi prigionieri non si libereranno.
Credevi che la vita ti nascondesse a quella Vita
chinata sugli abissi.
Ma da questa corrente – sappi – non c’è ritorno.
Avvolto dalla misteriosa bellezza dell’eternità!
Durare e durare. Non interrompere la fuga
delle ombre, durare solamente
in modo sempre più chiaro e più semplice.
Intanto sempre indietreggi davanti a Qualcuno che viene di là
chiudendo piano dietro a sé la porta della piccola stanza
e venendo smorza il passo
– e col silenzio colpisce quello che è più profondo.
*
Ecco l’amico. Sempre ritorni con la mente
a quel mattino invernale.
da tanti anni ormai credevi, sapevi certamente
ma lo stupore non ti può lasciare.
Chino sopra la lampada, nel fascio di luce unita in alto,
senza alzare il viso perché sarebbe inutile –
ormai non sai se è là, là visto di lontano,
oppure qui, nel profondo degli occhi chiusi –
È là. Mentre qui non c’è soltanto tremore,
soltanto le parole del nulla ritrovate –
ah, ti rimane ancora un briciolo di questo stupore
che sarà tutto il contenuto dell’eternità.
*
Non così si presenta la forza vitale della luce.
Quando il mare rapidamente ti nasconde
e ti scioglie in abissi silenziosi
– la luce strappa bagliori verticali alle onde languide
e il mare piano finisce, affluisce un chiarore.
E allora, in ogni direzione, negli specchi lontani e vicini,
vedi la tua ombra.
Come ti nasconderai in questa Luce?
Sei troppo poco trasparente
e il chiarore alita dappertutto.
In quell’istante – guarda dentro di te. Ecco l’Amico
che è solo una scintilla, eppure è tutt’intera la Luce.
Accogliendo dentro di te quella scintilla
non scorgi altro,
e non senti di quale Amore sei avvolto.
*
Il Signore, quando attecchisce nell’intimo è come un fiore
assetato di caldo sole.
Vieni, dunque, o luce, dalle profondità dell’inesplicabile giorno.
e pósati sulla mia riva.
Ardi, non troppo vicino al cielo
e non troppo lontano.
Ricordati, cuore, di quello sguardo
in cui ti attende tutta l’eternità.
Chìnati, cuore, chìnati, sulla riva,
annebbiata nella profondità degli occhi,
sul fiore inaccessibile,
su una delle rose.
*
Io stacco piano la luce dalle parole
e raduno i pensieri come un gregge di ombre
e lentamente in tutto immetto il nulla
che attende l’alba della creazione.
Lo faccio per creare uno spazio
alle Tue mani tese
lo faccio per avvicinare
l’eternità in cui Tu possa alitare…
Inappagato dall’unico giorno della creazione
io bramo un nulla crescente,
perché il mio cuore sia disposto al soffio
del Tuo Amore.
*
V’era Dio, in cuore, v’era l’universo,
ma l’universo si oscurava
e diveniva, piano, canto del Suo intelletto,
diveniva la stella più bassa.
O maestri dell’Ellade, vi narro un grande miracolo:
non importa vegliare sull’Essere che scorre via tra le dita,
c’è la Bellezza reale,
celata sotto il Sangue vivo.
Il frammento di pane più reale dell’universo
più colmo d’Essere, colmo del Verbo
– il canto che sommerge come un mare
– il vortice di sole
– l’esilio di Dio.
*
Il Tuo sguardo fisso sull’anima, come il sole verso la foglia s’inclina,
ne arricchisce il fiorire con la profonda, trasparente bontà,
l’accoglie nel suo raggio
– ma Tu, Maestro, guarda:
che accadrà della foglia e del sole? – la sera si avvicina.
*
L’anima non è una foglia.
E su di sé può trattenere il sole
e insieme a lui discendere
in un arco inscindibile, al tramonto.
E laggiù lo raggiunge e rimane,
partecipando al solare declino,
e quando ancora procede il cammino,
in una lunga ombra a lui si salda –
Non spezza l’orizzonte,
nell’ansia di giorni lontani,
– ma solo sta alla porta e bussa.
Ed ecco, ha giù raggiunto tutto:
ecco, ogni giorno le riporta il sole
nel cerchio visibile.
*
È in me l’acqua profonda trasparente,
ai miei occhi velata di nebbia –
quando, come un torrente, io corro troppo in fretta,
non sono degno che quel fondo così abissale.
Là, ogni giorno, il mio Signore viene e resta –
scia di sangue quando s’immerge nella neve –
– e vi è reciproco riconoscimento
e alita una reciproca abbondanza.
Se, allora, qualcuno sapesse togliere
dalle profondità trasparenti la nebbia,
si vedrebbe – in quale miseria,
si vedrebbe – in chi –
e si vedrebbe – quale chiarore
inonda la profondità oscurata,
si vedrebbe – nel cuore umano,
nel più semplice dei soli.
*
O Signore, perdona al mio pensiero che non Ti ama ancora abbastanza,
perdona al mio amore, Signore, ch’è sì terribilmente incatenato al pensiero
che Ti sperde in pensieri freddi come la corrente
e non avvolge in brucianti falò.
Ah, accogli, Signore, l’ammirazione che mi zampilla dal cuore
come zampilla un ruscello dalla fonte –
– il segno che di lì verrà la vampa –
e non respingere, Signore, neanche la tiepida ammirazione
che un giorno colmerai con una pietra ardente sulle labbra –
Non respingere, Signore, la mia ammirazione
che per Te è un nulla, perché Tu Intero sei in Te Stesso,
ma per me, ora, è tutto,
un torrente che rapisce le sue rive
prima di dire la sua nostalgia per gli oceani smisurati.
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[1] in: L’opera poetica completa di Karol Wojtyla, a cura di Santino Spartà,
Libreria Editrice Vaticana 2012
L'articolo “Nel profondo degli occhi chiusi”. Karol Wojtyła, poeta proviene da
Pangea.
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Debellati gli aggettivi con la corazza, quelli che piacciono alla critica – a
ciò che ne rimane, a ciò che razzola tra la cenere –: finalmente, la scoperta di
un poeta primigenio, senza lignaggio. Un poeta senza paladini né palafreni né
padrini in parata.
Un poeta, cioè, che comporta l’abbandono delle norme ortografiche, delle
grammatiche cattedratiche, di ogni forma di subdola tattica; alieno
all’abbondanza dei retori del quieto vivere e del quieto amare. Non dovrebbe
fare così un poeta: interrare il vocabolario, pio stendardo, e sfoderare l’ascia
del verbo? “Insegnaci a pregare”, implorano gli inebetiti discepoli al maestro:
Gesù sbriciola per loro le scarne parole del Pater – mai un dio è stato così
prossimo, così grano e spada, e noi fummo il suo pasto, il suo desco, il suo
desinare e il suo destino a morire di sete.
Insegnaci a parlare, dovremmo chiedere ai poeti.
Ricorda: si prega nei luoghi desolati, dove vagano, in tormento, gli spiriti
impuri, dove appaiono in Appalachia di zampe gli angeli. Non altrove si deve
scrivere.
Così, questo libro di Blu Temperini va letto insieme ai trattati di falconeria,
ai bestiari medioevali, alle carte celesti dove gli astri, con strenua pazienza,
indossano il volto del leone e del cavallo, dell’eroe e della vergine.
Questo libro – un esordio mai così antichissimo – è requie e cinghia, nuovo
culto al di là dai cultori dell’odierno lirismo. Potremmo chiamarlo – come si
diceva una volta, senza essere iniziati ad alcunché che all’obbedienza –
“ufficio delle tenebre”.
Non c’è linea di continuità, intendo, tra questo poeta – d’indecente precocia,
di sfiancata facondia – e la quadrupede tradizione dei poeti recenti, altra è la
sua biada, altitudine diaccia, propria di chi frequenta i ghiacciai, le
inimmaginabili alture.
Hanno gli artigli, il becco e le cangianti penne queste poesie.
A esasperare lo spaesamento, una lista di avi e di archivi costruiti a casaccio,
in casa, da autodidatta, piccoli idoli di legno: Sergio Solmi e Guido Ceronetti,
Giovanni Boine ed Egle Marini, Maria Maddalena de’ Pazzi, Tommaso Landolfi,
Maria Banuș, che tanto piacque ad Andrea Zanzotto. La formula, cioè, di
addobbarsi estranei al proprio tempo, di ancheggiare in un altrove di trine,
come se l’Eden, in fondo, non fosse altro che un decalogo di candele.
Nella più piena spoliazione – tolti dalla bocca gli ultimi nutrimenti, la
particola poetica che ci rende soddisfatti del ‘buon lavoro’ – Blu Temperini
reca l’estremismo di Alejandra Pizarnik, la premura oracolare di una visionaria
dell’anno mille. Poesia, cioè, come frammento mesolitico e contrafforte in
selce; turba del toro primordiale da cui estrarre il corallino per aggiornare a
luce le latebre grotte.
Lingua che ci precede, da assumere tenendo l’orecchio confitto al tronco e alla
nubile nube. Parola impareggiabile, allora, nel senso che neppure il poeta –
scriba senza arte di concia – sa dire da dove quel dire provenga, da quale piaga
o plaga.
Da qui, l’ostinato cicaleccio dei morti, l’orma bivalve del verbo penitente, i
celesti fatti paglia. Tutto un sistema divinatorio per costringere le stelle,
ancora, a brucare nella brocca delle nostre mani, a bruciarci. Il resoconto di
questa ecchimosi: poesia.
Che a Torino – città d’elezione di Blu – sia custodita la Sindone e si celi, tra
cunicoli a forma di serpe e di capra, il Graal (o la sua ombra, è lo stesso), è
sintomatico di una scrittura che non si coagula nell’iride né nella mente, che
restituisce il sangue degli andati in statura di rosa, in sutura.
Si sarebbe tentati di sussurrare la parola sacro; semplicemente, come accade
nella poesia autentica, rarissima, si tratta del cuore Lancillotto, del cuore
cavalleggero, senza cavilli, di cui, a fine lettura, non resta che la brace, un
bronzeo da primo giorno del mondo, il santo pudore.
**
La violenza è maestosa, nel suo presente
anche il domani, prima del tempo;
e la brama si ostina laddove
non può essere disimparata,
nel filamento partecipe e
non partecipe dell’attenzione.
Il futuro è nell’oltrepassare
le cose vedute alla fine.
*
Miracolo
Da falce e creta è nutrito il tuo
corpo in questo abbraccio e
vedi solo il prestito del cuore
compiere un arco nel risveglio.
Una colomba trasvola nella stanza:
migrano da parete a parete
– vuote – le coordinate del miracolo.
*
Non più vincitori vorrebbe il cielo
Sul nome d’oggi termini la fabula,
l’opera che nell’amichevole cuore
nasconde il rifiuto ad ogni benevolenza,
tragitto di ambedue – vincitori
e vinti – per gli annali di innocenza.
Ma solo i vincitori trapassano sulla
più violenta sponda che si inclina;
di ogni vittima innamorati sono
i primi a sommare il fuoco con la frode.
Giustizia stessa si reca su uno solo
e con gli altri vagabonda.
*
Ogni ultima cosa la chiamo notizia
ed è sadico dover dire sì alla vita
che miete le sue vittime, dire sì
all’agnello distrutto nel coro,
all’insetto fratello della perdita,
ma più sadico è festeggiarne l’indolenza,
più sadico è restare attesi nell’ordinario sangue.
Tra le voci perdenti dell’effimero
nell’effimero lume del mondo
il torto è fatto, ogni ultima
cosa la chiamai vantandomi
e fui punita, puniti i miei anni.
– Umiliati! –
*
Non ho altra volontà
– dicono gli innocenti –
che ardere su due paragoni:
prima schiavi, poi trasparenza
dovunque riletta, trafugata
da ospiti tutti attesi, tutti danneggiati.
In uno scrigno di irriconoscibili
difetti d’amore è possibile trovarli,
fedeli alla doppiezza del gesto;
e se il mondo non potrà morire
sarà un innocente a vivere.
*
I tonni o della fame di forme
Non esiste l’uscita materna,
tutto è contorta fluttuazione;
nessuna immagine e nessun
disegno, tutto è somigliante
nel branco e non ha difetto.
Poi l’artificio pesante dell’azzurro
accomuna la fame di forme.
*
La serpe o della degradazione
Forse prima celebrava messe
col capo sollevato ed era attrezzo
di individuo contrariato dallo spirito,
sola tolleranza che esibiva il sangue.
Ora intransigente si inchina
a questa sospensione e si
arricchisce dell’ombra sua
come di ogni oggetto spezzato.
*
Gli uccelli o dell’esilio
Gli uccelli abitano alte impressioni
e nel tornare alla fonte si contorcono:
la terra brucia per quelli che volano.
Sotterrano con l’unica lastra
di sguardi ogni rivalsa:
nel cielo una radice sfigurata,
la prova di un altro mondo che ripugna.
*
Da Elemento (Uno studio)
(VII)
Nella caccia segnali di rupe,
le terre già improntate:
lusinghe, bestiame.
Il cacciatore, la ricerca
e l’estinzione gettata in questi obblighi:
operazione, opere di rinuncia.
Le carni fedeli al carnefice,
i sensi alla vittima:
un prodigio i doppi umori.
*
(XIV)
Dove è passata la terra
fu niente l’immagine, il suono;
fu il lavorio delle cose interminabili,
dei mattini impietositi.
Da nulla è lasciato intendere
quale sole, quale tempo inganna
e sulle tavole non le scritture, i gesti.
Blu Temperini
*I testi, pubblicati per gentile concessione, sono tratti da: Blu Temperini,
“Nel principio infondato”, Crocetti, 2025
**In copertina: Frida Kahlo, “Il cervo ferito”, 1946
L'articolo “Ufficio delle tenebre”. Intorno a un libro di Blu Temperini proviene
da Pangea.
Non era tornato a casa. I compagni di plotone non lo avevano trovato. Nemmeno le
squadre di cercatori inviate a Hulluch, nell’Alta Francia, riportarono notizie
certe su di lui. Disperso tra le ceneri della battaglia in qualche fossa comune,
il suo nome arrivò in tondo su un telegramma che i genitori, in Inghilterra,
lessero in lacrime. Il biglietto avvisava la dipartita del capitano Charles
Hamilton Sorley, colpito in testa da un cecchino durante i combattimenti a Loos,
nell’ottobre 1915. Ucciso all’istante, il loro ragazzo se ne era andato con la
promessa del congedo previsto di lì a qualche mese. Aveva appena vent’anni.
Così la sua scomparsa si univa alla fine di un’intera generazione di giovani
vittime in un massacro senza precedenti. Difatti, era da secoli che l’antica
menzogna del «dolce morire per la patria» – il dictum latino trapiantato nel
suolo d’Albione – aveva preparato schiere di figli devoti, mossi all’azione dai
valori dei padri ed allevati nel grembo delle public schools, da immolare al
momento opportuno sui campi di battaglia.
Che il capitano Sorley componesse versi è una storia altrettanto amara quanto
avventurosa. Annoverato fra i sedici war poets della Prima guerra onorati sulla
lapide di Westminster, ne è il più giovane rappresentante, forse uno dei meno
noti per l’opera rimasta incompiuta, benché prolifica, addirittura sorprendente
se si considera l’età anagrafica. La sua voce singolare è attestata in una vasta
messe di componimenti – quelli d’anteguerra i migliori – che rivelano un’esperta
caratura tecnica d’impronta tradizionale, una combinazione di perfezione
stilistica nel dettato e auscultazione del ritmo interno alla strofa, sempre
attento alla rima e sostenuto dalla profonda cultura classica. La lucidità di
visione e il rigore metrico ne fanno, in definitiva, uno dei lirici più dotati
nell’eterogeneo coro di talenti che sbocciarono – per essere infine soffocati –
sotto le bombe. Tuttavia, il suo profilo tende a sfuggire ad ogni etichetta
affibbiata nel tentativo di inquadrarne la posizione verso il conflitto in un
anello di congiunzione tra filone eroico-patriottico e svolta
realistico-satirica, di per sé fallace se si considera la risposta di ciascun
autore all’evolversi degli eventi, oltre la caratteristica linea d’azione.
Per circostanze storiche indubbie, i primi poeti-combattenti volontari cantavano
la guerra in versi idealistici e patriottici, celeri a scattare al segnale della
propaganda per partecipare al “gioco” o show (come incitava la sciovinista
Jessie Pope, Who’s for the Game?) tenuto sull’impietoso palcoscenico del mondo.
Se per un guerriero di razza come l’aristocratico Julian Grenfell era facile
osannare la morte onorevole dalle «soffici ali» (Into Battle), un immaturo
Rupert Brooke – non avendo conosciuto la vita di trincea – elogiava l’impresa
virtuosa che avrebbe restituito la gloria eterna al milite sepolto in un campo
straniero (The Soldier). Contro i grandi ideali dei suoi contemporanei, Charles
Sorley – scozzese di origini e inglese per elezione – scaglia con coraggio la
sua abiura, eppure non da subito. Agli inizi della campagna, aveva nutrito anche
lui vaghe fantasie cavalleresche rispetto al pericolo della caduta, tra canti
enfatici e ingenuità romantiche: «Ricoprite di gioia il letto della terra/ E
così morite, siate felici.» (All the Hills and Vales Along).
Sorley studente a Marlborough (fila inferiore al centro) © reserved Marlborough
College
Il testo più famoso e antologizzato, distante dai toni esultanti del 1914, sarà
l’ultimo vergato al fronte, rinvenuto dai commilitoni nel suo kit, che, assieme
ad altri frammenti e abbozzi di prose, lascia ai posteri un monito potente di
fronte a ogni mistificazione della carneficina reale. Crollata l’edulcorata
visione della guerra, la poesia apre uno slargo inaspettato nel panorama
dell’epoca, un bagliore di verità nella critica al sistema bellicista
dell’Impero, messa a segno in versi crudi e irriverenti, tesi a guardare la
morte dritta negli occhi:
> “Quando vedrai milioni di morti senza parole
> Che incedono nei tuoi sogni in pallidi battaglioni,
> Non dire loro cose dolci come hanno fatto altri uomini,
> Rammenta questo. Perché non è necessario.
> Non concedere lodi. Sordi ormai, come potrebbero capire
> Che soltanto le maledizioni si addensano sopra ogni testa squartata?
> Né lacrime. I loro occhi ciechi non vedono scorrere le tue lacrime.
> Né onore. È facile morire…”
Dinanzi al culto vittoriano degli eroi, il blasone di Scozia fa sentire senza
orpelli la sua natura indocile, rinunciando alla fedeltà dogmatica verso la
corona. Fuori dalle gesta eroiche del mito, l’orrore della strage si poteva
raccontare solamente nei resti umani risucchiati dentro la waste land della
Terra di Nessuno, ovvero l’altra faccia dell’epopea. Dopo gli eccidi della
Somme, la percezione del conflitto – e di conseguenza la sua rappresentazione
letteraria, specie in poesia – non sarebbe stata più la stessa. La tragedia che
aveva sperperato il fiore della gioventù britannica sui terreni delle Fiandre si
annunciava agli occhi dei conterranei al netto di tutte le possibili distorsioni
della memoria. Secondo Siegfried Sasson, il “sicuro” mondo d’anteguerra si era
ridotto a un «inferno dove finiscono risate e ragazzi», e lo stesso Rudyard
Kipling – il figlio John caduto anch’egli a Loos – avrebbe parlato, nei
suoi Epitaphs of War (1914-18), a nome dei «giovani arrabbiati e traditi» (A
Dead Statesman) nelle loro illusioni, derubati degli anni di innocenza con un
sacrificio ingiusto.
In questo solco di condanna dei mali inferti dal conflitto, il timbro di Sorley,
col suo grido all’internazionalismo (To Germany), spicca per drammaticità e
premonizione circa la futilità dell’impresa che vanifica ogni azione umana
(Such, Such is Death), ponendosi da antesignano: una vena sovversiva precedente
alla virata antimilitarista di un Siegfried Sassoon, degli epigoni Wilfred Owen
e Isaac Rosenberg. Per questo, nella sua autobiografia Good-Bye to All That,
Robert Graves lo pianse come la perdita più dolorosa di cui avesse sofferto la
moderna poesia inglese.
La raccolta che gli diede la fama – giunta postuma e limitata alle liriche a
tema bellico –, dal titolo Marlborough & Other Poems, venne pubblicata nel 1916
per volere della famiglia ed ebbe una tiratura altissima, con varie ristampe,
nel primo dopoguerra. Nonostante ciò, colui al quale non spettò una
canonizzazione simile all’apollineo Brooke merita di essere ricordato senza armi
e divisa.
Frontespizio della raccolta Marlborough and Other Poems con un ritratto in
gessetto di Cecil Jameson
Discendente di una stirpe illustre sorta tra i fiumi Tay e Tweed, conta fra i
suoi avi eminenti Scots del calibro di William Sorley, reverendo della Chiesa di
provincia, e George Smith, uomo di lettere edimburghese rinomato per il suo
“passaggio in India”. Il padre William Ritchie Sorley è professore emerito di
filosofia all’Università di Aberdeen, le cui idee rivoluzionarie nel campo della
morale gli valgono una cattedra a Cambridge nel 1900. Da questo momento, tutta
la famiglia, d’indole eclettica e apertura cosmopolita, decide di avvicinarsi
alla venerata città universitaria.
Fin dalla tenera età, i piccoli Sorley – la sorella Jean e i due gemelli Charles
e Kenneth – vengono allevati dalla madre con una buona dose di grammatica
francese e letteratura nazionale: passi di Shakespeare, brani di Scott e canti
di Blake sono di casa. Da ragazzino, Charles divora i classici greci e tutti i
drammi elisabettiani sugli scaffali, legge le odi di Keats come un salterio e
allena l’orecchio sulle note di A. E. Housman (A Shropshire Lad, fra i suoi
libri preferiti) fino a comporre versi propri. L’istruzione migliore a cui
poteva aspirare lo vede dapprima allievo diurno alla King’s College Choir School
di Cambridge e dal 1908 nel convitto privato di Marlborough, trampolino di
lancio per le cime oxbridge. Qui viene eletto ai principali club studenteschi,
conteso tra la Debating Society e la Junior Literary Society.
Il talento precoce nella scrittura lo condurrà ben presto alle prime
pubblicazioni sulle riviste collegiali, tra cui il Marlburian. Nello stesso
tempo, si distingue fuori dalle aule per l’eccezionale talento sportivo: nella
corsa è una meteora. Sembra inoltre non badare a premi, medaglie e
riconoscimenti poetico-letterari che si succedono sul suo cammino. Umile di
carattere, fa anche fatica a riconoscere il fascino che emana crescendo. Alla
soglia della maggiore età, è diventato un ragazzo bellissimo, dalla dizione
perfetta e magnetico nei modi. Alle prese con le nuove consapevolezze, si ritrae
come un privilegiato (come per gli estratti successivi, si fa riferimento al
volume a cura di W. R. Sorley, The letters of Charles Sorley, with a chapter of
biography, Cambridge University Press, 1919):
> “Mi sento terribilmente indegno e inesperto perché la vita non mi ha dato
> difficoltà in casa né grossi problemi da risolvere, soltanto quelli possono
> rafforzare davvero un uomo…”
Si rende conto, a quell’altezza, che la vita è stata fin troppo buona con lui. E
per restituire al mondo il dono ricevuto avrebbe fatto del suo meglio in tutto.
Il nervo resistente della sua personalità, temprato sulle prediche evangeliche e
addestrato al valore della disciplina, trovava in ogni cosa una prova da
affrontare, in ogni difficoltà una sfida, come ricorderà il padre orgoglioso:
> “Voleva sempre crescere. Ogni nuova esperienza, che fosse un gioco, un libro,
> un luogo o una persona da conoscere — era per lui un’avventura; dava la sua
> opinione con entusiasmo, mentre coglieva soltanto il meglio, nient’altro
> contava. Qualunque delusione, apprensione o senso di sconfitta, per qualsiasi
> fallimento, lo teneva per sé, andando incontro alle sue imprese, soprattutto
> la più grande di tutte – nell’agosto 1914 – con un’allegra prontezza e un
> umorismo che regalavano un senso di conforto e sicurezza a tutti quelli che lo
> vedevano. ‘Ecco Charlie, sempre brillante e coraggioso,’ diceva la nostra
> vecchia padrona di casa dello Yorkshire alla fine di ogni vacanza.”
Alla luce dei successi scolastici, i versi della fase Marlborough raccontano
slanci d’ebbrezza giovanile, l’abitudine alla camaraderie contratta dalla vita
di collegio e, più di tutto, un desiderio indomabile di libertà, il bisogno di
solitudine nella natura selvaggia e incontaminata, a contatto con burrasche e
temporali. Lungo i pendii delle vicine Downs o sulle native Highlands, Charles
ama ritirarsi, come un asceta, percorrendo ampie distese a lunghi passi,
attirato dai misteri dei glen, in maratone da cui torna rigenerato:
> “Era solito fare lunghe passeggiate, come quando spariva per correre in
> maglietta e pantaloncini sulle Downs. Aveva scelto di starsene per conto suo.”
Il cognome Sorley – in gaelico sta per pellegrino o viandante – lo aveva
predestinato, imprimendo nel suo spirito il desiderio di un riparo dell’anima,
l’istinto animale a fuggire “via dalla pazza folla”. A quell’atteggiamento
romantico verso l’esistenza si sarebbe aggrappato per capire sé stesso nel
profondo del cuore, ma soprattutto per scrivere. Corsa, pioggia, vento e poesia
sono per lui un tutt’uno.
> “[…] nello Yorkshire, dove le brughiere discendono verso il mare, oppure in
> qualche luogo delle sue origini – Selkirk, Dunbar o Aberdeen; […] attraverso
> la Francia, in bici, cavalcò la costa della Normandia e le sponde della Senna.
> Una volta, in un pomeriggio di tempesta, dopo aver percorso a fatica una
> scarpata, sul punto di attraversare le colline, ci imbattemmo improvvisamente
> in un campo coperto da grandi selci bianche. Ma Charlie, che in genere
> rispondeva prontamente, non disse una parola; fissava il campo come se ci
> vedesse scritto qualcosa.”
Più tardi, il talento di famiglia viene ammesso a Oxford con una borsa di studio
e grazie all’intervento paterno gli è concessa l’interruzione prematura degli
studi. Al giovane spettava la gioia di un Grand Tour, o almeno una breve
esperienza formativa all’estero, prima di precipitarsi nel mondo dei college.
Non perde tempo e all’inizio del 1914 è a Jena per frequentare i corsi di
filologia all’università locale. Dopo un tour mitteleuropeo, si cala appieno
nella vita della città. La lingua gli dà la fame della scoperta, trasmettendogli
la ricchezza di una cultura che non smetterà mai di affascinarlo. In questo
periodo, la visita del fratello e dei genitori, che coinvolge in passeggiate
campestri e giri turistici, viene a ricordargli il calore della patria, a
rinsaldare il rapporto sincero custodito per lettera. Una sera, in cima a un
colle, guarda insieme a loro una Jena luccicante sotto il crepuscolo, e in
quell’istante si sente al sicuro.
Basterà la notizia della dichiarazione di guerra a richiamarlo al di là della
Manica dopo una rocambolesca giornata di carcere a Treviri (nel frattempo Russia
e Germania sono diventate nemiche). Non appena tocca terra, firma convinto le
liste di coscrizione. L’invasione tedesca del Belgio è una mossa troppo
oltraggiosa per resistere alla tentazione. Arruolato come secondo tenente nei
reparti del Suffolk Regiment, viene da qui mobilitato in fretta sul Fronte
occidentale, a marcia indietro sul continente.
A sostenerlo durante l’addestramento militare sarà l’amicizia fraterna di Arthur
Watts (soldato del battaglione alleato ed ex lettore di inglese a Jena), più
dolce dei vecchi legami camerateschi, che riaccende in lui l’amore dei miti
greci. Uniti da comuni interessi letterari, i loro scambi epistolari celano, in
sordina, intense vibrazioni romantiche, scintille di intimità che tentano di
ricucire la distanza sulla scia dell’epica. Tra le righe cifrate in greco e
tedesco, come un appassionato codice segreto, un adorante Charles trasfigura il
compagno nei panni di Ulisse per sentirlo più vicino:
> “Dammi l’Odissea e restituirò il Nuovo Testamento. Indicami la strada, sia
> fisica che spirituale. Solo qualche volta l’orribile visione di pane e burro
> viene ad eclissare il mio sogno; […] In questi sogni mi appari come il
> sergente-pioniere. Forse sei tu l’Odisseo, mentre io non sono altro che uno di
> quei fedeli ἑταῖροι [compagni]… Ma comunque sia, le nostre vite saranno
> πολύπλαγκτοι [agitate dal Fato]. E noi verremo sepolti dal mare – […]
> Dall’inizio di questa lettera, sento un certo profumo di romanticismo durante
> la ronda notturna.”
Mentre si scrivono, i due amici separati dalla guerra guardano lo stesso cielo
inondato di malinconia, l’uno al lume di un fiammifero, l’altro proiettato verso
le stelle:
> “Tu, al telescopio, vedi la strada verso la stella nella sua vastità, senza
> l’ingombro degli atomi che soffiano negli occhi e riempiono i nostri pori di
> linfa vitale – metà strada verso quella stella – ad ogni curva. […] E così
> fino al nostro prossimo incontro!”
Negli ultimi mesi in trincea, Sorley non ha perso il suo umorismo né la
nostalgia degli affetti. Ciò che lo tiene sveglio di notte è il pensiero di aver
dimenticato a casa la sua copia di Omero – come detta il frammento Non ho
portato la mia Odissea con me sul mare [XXXVI] – e il desiderio di una colazione
rigorosamente inglese.
Irrequieto e in preda all’attesa spasmodica nelle retrovie, ha il tempo di
scrivere ai propri cari che la firma della pace sembra «un brutto scherzo» sulla
bocca di tutti. Il suo addio alle armi, del resto, lo ha già annotato nel
taccuino impolverato che porta in tasca. Esegue quindi l’ultimo comando, butta
giù una lettera per Arthur e a qualche giorno dall’azione saluta l’Inghilterra
con Auf Wiedersehen.
*
Per riscoprire la penna di Charles Sorley, si propone qui di seguito una
selezione di testi inediti e rappresentativi della sua opera poetica, tratti
ciascuno da una sezione della raccolta Marlborough e altre poesie:
Il canto dei corridori spogli
Agitiamo i fianchi discinti
Con la luce negli occhi,
La pioggia ci cade sulle labbra,
Non corriamo per vincere.
Non sappiamo di chi fidarci,
Ma non torniamo indietro,
Perché è nostro dovere correre
Attraverso l’immensità dell’aria.
Le acque dei mari
Si agitano come in tempesta.
La tempesta spezza gli alberi
E non li lascia al caldo.
Eppure, si ferma forse la lacerante tempesta?
Si chiedono perché le cime degli alberi?
Così, noi corriamo senza una ragione
Sotto la grandezza del cielo terso.
La pioggia ci cade sulle labbra,
Non corriamo per vincere.
La tempesta frusta l’acqua
E l’onda ulula ai cieli.
S’alzano i venti, che la colpiscono
E la infrangono come sabbia,
E noi corriamo perché ci dà piacere
Lungo la radiosa vastità della terra.
*
Pioggia (estratto)
C’è qualcosa nella pioggia
Che mi invita a rimanere:
C’è qualcosa nel vento
Che mi sussurra “Lasciati alle spalle
Questa terra di tempi e regole,
Terra di campane e lezioni mattutine.
Il latino, il greco e il cibo del collegio
Non ti servono a molto.
Lasciali: se vuoi essere libero
Seguimi, seguimi, vieni con me!”
Quando raggiungo i quattro chilometri,
Per guardare di nuovo là fuori
Sui cieli bianco opaco
E il velo di pioggia alla deriva,
E il mucchio di siepi sparse
Che ondeggia debole sul dirupo,
E l’infinita distesa di colline
Ricoperte di vesti verdi e d’argento;
C’è qualcosa nella loro foggia
Di desolante e sterile bruttezza,
Che mi sussurra “Hai letto
di una terra di luce e gloria:
Ma non credere a ciò che dicono.
È un regno tetro e desolato,
Dove i venti e le tempeste ti chiamano
E la pioggia spazza via ogni cosa.
Non dar retta ai predicatori
Che parlano di una terra dolce e remota.
Qui c’è una terra migliore e più gentile
E non si trova lontano”.
*
Due sonetti (Parte I)
I santi hanno adorato la nobiltà della tua anima.
I poeti sono diventati pallidi davanti alla tua gloria.
Noi siamo tra i milioni di anime che in ogni ora
Attendono di percorrere il tuo cammino.
Tu, così familiare, un tempo diverso: abbiamo tentato
Di vivere senza pensare alla tua presenza.
Ma in ogni strada, da ogni parte, adesso
Vediamo la tua insegna dritta e ferma.
La immagino come quel cartello nella mia terra,
Alto e canuto, che mi indicava di andare
In alto, sulle colline, a destra,
Dove nuotano le nebbie e i venti urlano e soffiano,
Una terra senza casa e senza amici, ma pur sempre
Una terra ignota che desideravo conoscere.
*
Smarrito
Sulle fantasie del mio passato
È calata una cecità grave e silente.
Adesso il mio sguardo si volge ad altre cose,
Non quelle che un tempo vide e conobbe.
Non posso pensare a quelle terre a me care
(O laggiù, i tempi andati!)
Dove il vecchio cartello malconcio resta in piedi
E le quattro strade vanno in silenzio
Verso est, ovest, sud e nord,
Dove spirano i freddi venti invernali.
E cosa porterà con sé la sera
Non spetta a me né a voi saperlo.
*Il servizio e la traduzione dei testi sono di Pierluigi Piscopo
Riferimenti bibliografici:
– C. H. Sorley, Marlborough: and other poems, a cura di W. R. Sorley, Cambridge
University Press, Cambridge 1916.
– C. H. Sorley, Collected Poems, a cura di J. Moorcroft Wilson, Cecil Woolf,
London 1985.
– J. Moorcroft Wilson, Charles Hamilton Sorley: A Biography, Cecil Woolf, London
1985.
– W. R. Sorley, a cura di, The letters of Charles Sorley, with a chapter of
biography, Cambridge University Press, Cambridge 1919.
– J. Moorcroft Wilson, a cura di, The Collected Letters of Charles Hamilton
Sorley, Cecil Woolf, London 1990.
– N. McPherson, It Is Easy to Be Dead, Oberon Books, 2016.
*In copertina: Charles Hamilton Sorley, fotografo sconosciuto, circa 1914.
L'articolo “Quando vedrai milioni di morti senza parole…” Vita & poesia di
Charles Hamilton Sorley proviene da Pangea.
Nella Seconda lettera ai Corinzi, capitolo 12, Paolo dice di essere stato
“rapito fino al terzo cielo”, nel luogo detto “Paradiso” e lì di aver “udito
parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare”. Ne dice parlando in
terza persona – “so che un uomo, in Cristo…” – dicendo di non sapere se questa
razzia di sé, accaduta quattordici anni prima, sia stata compiuta “con il corpo
o senza corpo”. L’insenziente corpo, l’insaziato corpo, è posseduto da Cristo.
Nella Prima lettera ai Corinzi, Paolo – capitoli 12-14 – distingue tra
“profezia”, linguaggio a edificazione della neonata ecclesia, e “glossolalia” –
le “lingue degli angeli” – l’incomprensibile idioletto che congiunge il fedele,
l’ispirato, a Dio, frutto di singolare esperienza, che non si può comunicare.
Paolo scrive agli abitanti di Corinto, la città legata a Poseidone, dove si
svolgevano i giochi Istmici; la città di Sisifo, dove Medea ordisce la sua
vendetta contro Giasone. In cima all’Acrocorinto, ricorda Pausania, spiccava il
tempio di Venere, “nel quale sono la statua della Dea armata, quella del Sole,
quella dell’Amore con l’arco”. Non è un caso che Paolo operi il suo trattato sul
linguaggio nella terra del logos; che parli della “straordinaria grandezza delle
rivelazioni” nella terra dei misteri, dell’enigma, della trance. Scrivendo in
greco – lingua accessoria, d’uso, non connaturata, che è poi la subdola lingua
dei Vangeli, redatti nella lingua che Gesù non parlava – Paolo risignifica ogni
parola. È come se mutasse su zattera il senso di ogni sintagma. Nella terra
del logos egli si fa portavoce del Logos, il Verbo che sconfigge ogni verbo.
*
Nel dodicesimo libro della Genesi alla lettera, Agostino sviscera il brano di
Paolo. Come esistono tre cieli, così esistono tre specie di visioni, quella
“corporale”, quella “spirituale” e quella “intellettiva”. Delle visioni, occorre
discernere quelle che sono ispirate dagli “angeli buoni” da quelle che sono
insinuante opera del demonio. In sostanza – sulla stessa scia di Paolo –
Agostino disciplina la facondia estatica dei fedeli. Il tempo in cui gli dèi
parlavano nei fiumi, nel vento e negli alberi, in cui tutto era opera, è al
tramonto: improvvisamente, non c’è più strepito, ma silenzio, le cose mutevoli
sono ormai mute, alla selva fa specchio la basilica, al mito il rito.
A un certo punto, per assecondare “alcuni dei più stimati commentatori delle
Sacre Scritture in conformità con la fede cattolica”, Agostino scrive che
“l’Apostolo inoltre sarebbe stato rapito per contemplare in una visione di
straordinaria evidenza il regno delle realtà incorporee che le persone
spirituali anche in questa vita amano e desiderano godere al di sopra di ogni
altra cosa”.
In realtà, Paolo non dice di aver visto, ma di aver udito qualcosa. Visione per
verba, preverbale.
*
I pionieri del cristianesimo, gli apostoli, parlavano in lingue, possedevano
parole efficaci, in grado di sanare e di far risorgere i morti. Così dice Gesù
ai Dodici: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi,
scacciate i demoni”; atto che si compie “dicendo che il regno dei cieli è
vicino” (Mt 10, 7-8). Annuncio che guarisce, linguaggio che vince la morte. Non
unguento né formulario offre il Nazareno, ma un “potere” che lavora tramite
corpo e lingua – linguaggio incarnato, lingua amuleto, Verbo che dilaga. Di ciò
non resta che qualche vestigia – l’esorcismo –; quanto al resto, è compilazione
di atti ruderi che segnalano una sequela. Mirabile danza – nei sacerdoti che non
optano per un ‘fai-da-te’ liturgico – la cui forza si misura, semmai, in eoni.
Quasi che all’entusiasmo delle origini sia sostituita la sfinente attesa, il
dispiegarsi di una spettrale speranza. All’efficacia seguì l’ufficio.
*
Alle origini, i cristiani ‘sciamanizzavano’ – guarivano i malati, avevano
visioni, elevavano a nuova vita i morti, parlavano in lingue – e andavano in
estasi. La parola ekstasis – nel senso proprio della trance, dell’uscire fuori
di sé – ricorre due volte nel Nuovo Testamento. La prima (At 10, 9 ss.) riguarda
Pietro: la guida degli apostoli è a Giaffa, è mezzogiorno, è sulla terrazza di
una casa a pregare, quando, “Gli venne fame e voleva prendere cibo. Mentre
glielo preparavano, fu rapito in estasi”. Pietro vede una tovaglia, imbandita di
quadrupedi, rettili, uccelli. Il senso della visione è legato alla storia del
centurione Cornelio, “uomo giusto e timorato di Dio”, un “impuro” – come i cibi
visti in estasi – che si avvia alla conversione. All’estasi di Pietro sono
legati i criteri dell’estasi arcaica: la preghiera solitaria, il digiuno
preparatorio, la visione che rovescia il canone costituito.
Gli Atti degli Apostoli dicono anche del rapimento di Paolo (22, 17). È lui a
farne testimonianza, davanti ai Giudei: al racconto della “voce” udita mentre
andava verso Damasco, della luce che lo acceca, segue quello dell’estasi. “Dopo
il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi”.
Durante l’estasi, Paolo vede Cristo che gli rivela “ti manderò lontano, alle
nazioni”. Pur diversa da quella di Pietro – qui si calca un compito – l’estasi è
simile nel codice: convertire i pagani.
*
Che s’intende dire? Che il cristianesimo originario non è statico, non
istituisce norme, ma è insicuro, instabile – è nella giovinezza della danza. La
parola estasi, nel mondo greco, è centrale (si legga: Negli abissi luminosi.
Sciamanesimo, trance ed estasi nella Gracia antica, a cura di Angelo Tonelli,
Feltrinelli, 2021) nell’affronto col numinoso, nell’addestrarsi al suo contatto.
Nei Vangeli, Gesù obbliga a una continua uscita da sé, a un linciaggio del sé,
al brigantaggio dell’io – e lo fa nel Verbo. Dopo la sua morte, l’accesso a Lui
è tramite memoria e estasi.
Così scrive Tonelli, per capirci sulla tempesta estatica greca:
> “La capacità profetica nasce dalla mania, ovvero da una condizione
> di trance che consente di trascendere i limiti dell’ego e della coscienza
> ordinaria, strutturata spaziotemporalmente, aprire un varco ed entrare in
> contatto con l’Assoluto invisibile”.
Emozione sonnambula nell’assistere al mutamento radicale di alcune parole-dolmen
– profezia, estasi, mania, logos – da un tempio (Atene) a un altro
(Gerusalemme). Paolo sa di aprire un nuovo mondo: scrive come dal sepolcro
vuoto; scrive rovesciando le pietre.
Ai primordi del cristianesimo tutti i paramenti – le vesti animalesche, il
tamburo, i cembali, le maschere, il fuoco e le erbe – sono inutili: in quella
fanciullezza, Gesù accadeva così, d’improvviso, senza preparazione, era dietro
la porta, origliava, preparava la tavola.
*
Unico compito della poesia, svestita delle corazze letterarie: dire le “parole
indicibili [ekousen arreta] che non è lecito ad alcuno pronunciare”. Il resto:
didattica del verbo, bieco conforto, confusione.
*
Vado a Mercatello sul Metauro: il luogo di Veronica Giuliani. Nella violenta
sequela del linguaggio non arretra di fronte alle ekousen arreta, non indottrina
le indicibili parole.
Vedo il sentiero che da Mercatello va a Città di Castello, dove Veronica si
infossa tra le cappuccine. Trenta chilometri. Li faceva a piedi. Tra forre,
campi, terre glabre, lunari scollinamenti: era questo il deserto di Veronica. Il
sole è filisteo – è tutto un furore di lucertole.
Nella casa natale di Veronica – nata qui il 27 dicembre del 1660 – elargiscono
lieti depliant. Uno di questi, Spes contra Spem, raduna uno spettro di pensieri
che non ammette decoro. Questo è il primo:
> “Mi sento con una oscurità ed aridità così grande, che non ho neppure un
> pensiero buono. Non mi posso aiutare con atti di fede, perché non mi pare
> d’aver fede in niente; né con atti di speranza, perché non trovo ove fermarmi;
> né con atti di carità perché non so cosa sia. Mi sento la mente così offuscata
> e come una nebbia densa che mi copre qualsiasi bene”.
Diremmo, il coraggio della disperazione – sfigurare il niente. Un niente che è
nient’altro che niente – nessun premio corona la corsa del fedele in tale notte
oscura. La Giuliani non è Giovanni della Croce – è al di là.
Il pio cronachista stempera a inconsistenza il martirio di Veronica e scrive che
“Tante esperienze mistiche destano l’attenzione del Sant’Ufficio che esamina e
controlla severamente il suo operato, provocandole una grande sofferenza; viene
però scagionata da ogni accusa di falsità e mistificazione”. Nello specifico, le
cose, riguardo alla grande sofferenza, sono andate così: “Denunciata al
Sant’Uffizio nel 1697, viene esaminata con insistenza impietosa, ispezionata
corporalmente in modi umilianti, segregata, privata d’ogni carica, interdetta
dal comunicare con l’esterno. Il rigore si attenua, ma riprende presto in forme
più dure, toccando l’apice nel 1714, con le sconsideratezze d’un giovane
confessore che la tratta da strega (in un’età in cui le streghe andavano al
togo), da indemoniata e le impone di leccare sterco, inghiottire insetti” (così
in: Scrittrici mistiche italiane, a cura di G. Pozzi e C. Leonardi,
Marietti,1988). Veronica muore nel luglio del 1727. Da bambina fu falciata dalle
estasi: vedeva Gesù; da ragazza, a Piacenza, al seguito del padre, fu desiderata
da molti, era bellissima. Sconveniente il suo essere: tirava di scherma,
preferiva gli abiti maschili, non dominava l’ira. Dai pretendenti – nobili,
tanti – si schermò con l’immagine del Crocefisso.
*
Della Giuliani, l’agone nel linguaggio, l’agonia. Analfabeta, “imparò a scrivere
scrivendo”, sotto obbligo del confessore, dal 1693: da quella tortura proviene
il diario, abnorme – oltre ventiduemila pagine –, in cui, con rozza violenza,
descrive le sue rivelazioni. È tra i grandi scrittori italiani di ogni tempo –
purissimo cannibalismo si avverte qui, e avvince. Temprato, il suo scrivere,
dalla scomodità e dallo scandalo: Veronica “scriveva solo di notte, in positure
estremamente disagiate… una scrittura, la sua, nata nel coniugio del buio
esteriore con le tenebre dell’anima”.
Per dire l’indicibile, inventa parole. La sua speleologia nel niente è
insuperata:
> “…perché Idio più si fa sentire e intendere, meno si sente e si cape. È
> incomprensibile, non v’è modo di capire niente, è immenso, non c’è capacità a
> comprenderlo, né creatura alcuna pò mai arivare a questo, e se esso dà qualche
> sagio al’anima di questo suoi divini atributi è in modo che non si trova modo
> a racontarlo. Più si cape meno si cape, più s’intende men s’intende; ci fa
> scordare di tutto; resta l’anima tutta asorbita in Dio, non capisce più niente
> di sé né di nulla di questa vita”.
L’enorme inermità della parola – “Dico e ridico e non dico niente” – la rende
rondine a penetrare l’eterno. Mistero dei misteri, il Dio che non va pronunciato
invano è, invece, detto e contraddetto – detto fino a esaurire ogni umano verbo
– detto fino a spaccargli il volto.
Il diario della Giuliani: una straordinaria cancellatura, una sparizione nella
torba linguaggio. Una diario-petroglifo: lapidazione di frasi lapidarie. “Io non
dico altro. Non so cosa abbia detto”; “Non dico altro, perché tanto non dico
niente”. Eppure, continua a dire, a ridire, ossessionando l’alfabeto fino al
bestiario, alle fiere e ai mostri, Veronica, a fecondare il divino niente (“Te
ne stai nel profondo del tuo annientamento”): che fiorisca – lei sguainerà falce
e denti in legione.
*
Mettere a repentaglio il linguaggio, rapinarlo da ogni senso, insediarsi in esso
per insidiarlo.
Più tardi scendo verso il Metauro. Le acque sono straordinariamente limpide –
limpide come di capelli chiari. Non c’è difetto di distanza tra il corpo di
Veronica Giuliani e il corpus dei suoi scritti: si scrive, si intaglia. A quel
punto di concisione, basta che qualcuno ti dica davvero e sparirai – puf!
Comunque, a Mercatello, cornacchie ovunque, in ogni infisso di casa. Sono una
decina, sul ponte. Hanno preso dominio di una piccola cappella. Sopruso di
becchi nei ruderi. Forse gli abitanti, qui, rinascono cornacchie. Forse Veronica
ha previsto l’immacolato tormento di Kafka. Al cielo bufalo hanno tagliato le
corna.
*In copertina e nell’articolo alcuni “Studj di pittura” di Giambattista
Piazzetta (1682-1754)
L'articolo Il tormento e l’estasi. Tra apostoli sciamani e stregonerie del
linguaggio: il poeta dica soltanto “parole indicibili” proviene da Pangea.
Gliel’ho detto così, brutale, a bruciapelo. Il tuo libro non mi è piaciuto.
Sembrava saperlo. Sembra sapere tutto. Sembrava sollevato. Poi ho capito
qualcosa – che dirò più tardi.
Con La Repubblica italiana dei poeti – Edizioni Industria & Letteratura, 2025 –
Andrea Temporelli tenta di costruire un orizzonte per comprendere la poesia
italiana contemporanea. Lo fa consapevole del frainteso, per un bene più grande,
a mo’ di lascito. Più che la costruzione di un nuovo canone, mi pare la sua
disfatta – qualcosa di simile all’Uranometria di Johann Bayer, dove gli ammassi
stellari possono sembrare draghi, pellicani ed eroi omerici fuori tempo, oppure
meri emblemi del nostro disorientamento. In sostanza, Temporelli passa in
rassegna oltre seicento poeti. Neppure troppi, se si pensa che Pier Vincenzo
Mengaldo, nel ’78, ne ha riferiti, a rappresentare i Poeti italiani del
Novecento, una cinquantina – non tutti indimenticabili –; un numero che è
andato, con lo svolgersi dei decenni, drammaticamente levitando.
La Repubblica italiana dei poeti – io propendo ancora per la “Dittatura
dell’unico” – è costruita a contrario rispetto a una comune antologia. Dopo aver
impilato i poeti di cui occorre “leggere tutto”, “tutto o quasi”, “tutto o quel
che si può” (il che è tutto risolto a pagina 28), l’autore si impegna – per le
successive duecento e passa pagine – a dar conto degli esclusi. Questa porzione
del libro s’intitola La cura degli assenti; non è secondario ricordare – a dire
della mente simbolica dell’autore, nel senso che tiene assieme tutto – che
quello è anche il titolo di una recente poesia di Temporelli (il quale, per buon
gusto – anzi, con alta malizia –, non si auto-antologizza), apparsa su un numero
di “Poesia” (n.31, Maggio-Giugno 2025). Ne ricalco alcuni lacerti, i più belli:
> “La neve invece
> prepara il fango, l’usura del gelo, il silenzio
> ingoiato per fame, vera fame. […]
> L’osso scartato dai cani
> è la prima idea del mattino”.
Nel circuito di queste parole – la neve e la fame, l’osso, il mattino, i cani –
si trova forse la chiave per comprendere La Repubblica dei poeti.
Smetto di cianciare.
Il lavoro di Temporelli è folle: richiede la mente di Cartesio in un corpo
dionisiaco. La danza, selvaggia, pretende, perché la profezia si avveri, di
polverizzare tutto: così un figlio s’india nel padre e il padre può smettere di
essere padre, ma acqua, mano, neve.
La Repubblica italiana dei poeti, attaccavo, è un libro che non mi piace. Ovvio:
la vertigine dei nomi – legionedirebbe l’evangelista – fa svenire, fa venir
voglia di consacrarsi ad altro. Ma sarebbe sbagliato perché ogni singola vita –
insegna l’autore o la sua ombra – va benedetta. Non mi piace, dicevo, perché ho
avuto il privilegio di scorrazzare nella savana di “Atelier”, la rivista ideata
da Marco Merlin – l’altro lato di Andrea Temporelli, il suo idolo – trent’anni
fa e da lui diretta fino al 2013. A quell’epoca – di cui potete leggere tutto –,
era già tutto chiaro, con furia lungimirante, ad alto grado di ebbrezza: la fine
dei ‘maestri’, l’implosione di ogni ordine di autorevolezza (ergo: pubblicare
per ‘Lo Specchio’ Mondadori equivale a stampare per l’editore-artigiano sotto
casa), la latitanza da ogni orizzonte di gloria, il brigantaggio del linguaggio,
la critica spettrale, atta a certificare la lebbra, la morte-in-vita. Alla
letteratura, appunto – con le sue stole, le moine, i premi, il delirio
patologico dell’egotismo – preferimmo la vita. Per intenderci, così scriveva
Marco Merlin nell’editoriale di “Atelier” del marzo 2004:
> “La nostra parte ci è chiara. Quello che spetta a noi è stare, verticali,
> dentro il nostro respiro, smemorati del nostro nome, aperti a tutto, senza
> privilegio alcuno da difendere. Ma anche senza la paura di testimoniare le
> passioni che ci animano e di soffiare sull’orizzonte, per vedere se qualche
> zolla comincia a bruciare”.
Ho conosciuto Marco Merlin attorno a un editoriale dal titolo che ancora brucia,
“Militare più che militante”. Era il 2001. Quegli editoriali (dai
titoli-emblema: “Siamo poeti o giullari?”; “Fine del Novecento”; “Lo scisma
della poesia”; “La poesia è una marchetta”; “Liberarsi dalla letteratura”), che
costituiscono una delle audacie più pure e più folli della poesia recente, sono
stati poi raccolti in un libro, Smarcamenti, affondi e fughe(Giuliano Ladolfi
Editore, 2016). L’autore di quel libro risulta essere Andrea Temporelli – in
realtà è Marco Merlin. Andrea Temporelli – che ho chiamato al dialogo – ha
inglobato e divorato Marco Merlin, maestro di cui sono ormai orfano.
Ricalco alcune frasi – come sempre di miliare potenza, che istigano a un compito
– con cui Temporelli chiude La Repubblica dei poeti. “La competizione, semmai, è
crescere verticali su sé stessi per raccogliere più luce”; “Riconosciamo nel
dissenso e nella diversità di vedute l’unica opportunità sensata e interessante
per superare la palude contemporanea. Il nemico leale sarà il vero maestro, la
pietra per saggiare e rafforzare il talento”.
Ora ho capito – dicevo al principio. La ridda di nomi serve per disfarsene – per
disfarsi, soprattutto, del proprio sguardo ‘critico’, del proprio io. Un
ritornare puri dopo la puritana guerra. Sporchi, luridi – ma vivi.
Andrea Temporelli ha scelto il deserto – che lo dica bosco è lo stesso. Lo
chiamerò Ismaele. Il figlio di Abramo “abitò nel deserto e divenne un arciere”
(Gn 21, 20). Arciere in ebraico si dice qashshath, parola che viene usata
soltanto una volta in tutto il Testo, per onorare Ismaele. Il figlio sinistro ha
destrezza nell’arco, non si fa addestrare dalla trafila del Patto. Alla Terra
Promessa preferisce il Nessundove dei rettili e dei cavalli rudi, dal pelo
ispido, le dune e le tende al giardino del tempio. Mi viene in mente il bel
libro di Octavio Paz, L’arco e la lira – ma lì si parlava di Apollo. Chissà se
il dardo sibila in endecasillabi prima di avverarsi nella preda. Parole,
parole.
Immagino Temporelli, di spalle, l’arco a tracolla – ed è tutto.
Andrea Temporelli: che fine ha fatto Marco Merlin?
Finalmente si è tolto dalle scatole. Me lo sono divorato e sbocconcellato fino
all’ultimo brandello e ora, dopo una bella dieta dimagrante, posso scattare
senza ingombri oltre il suo territorio limitato. Averlo fatto fuori, mi
permetterà di scrivere, disinibito, lasciando ad altri la teoria e il lavoro
critico. Temo solo che qualcuno voglia fare pagare a me i suoi debiti. Ma, si
sappia, non ci penso nemmeno. Mi chiedo, divertito, quanto tempo gli altri ci
metteranno a capire che non c’è più.
Che rapporto c’è tra “L’opera comune” e “La Repubblica italiana dei poeti”?
Idealmente, sono due meravigliosi fallimenti concentrici. Il primo, entro il
raggio ristretto dell’amicizia; il secondo, con un raggio quasi illimitato che
rilancia in una dimensione politica la medesima utopia.
Che rapporto c’è, nel tuo ‘metodo’ poetico – dunque, esistenziale – tra il
deserto che ti sei scavato e la massa di poeti – una schiera, una falange, una
squadriglia – che hai scovato?
Non lo so. Era una domanda da porre a quell’altro, che non c’è più. Io non
possiedo il metodo, semmai ne sono posseduto e solo dall’esterno qualcuno potrà
descriverlo. Per me la massa è il deserto.
I maestri sono scimmie ammaestrate che desiderano portaborse, l’autorevolezza
editoriale è defunta da un pezzo, gli editori ‘di peso’ equivalgono ai pesi
piuma. In questo spazio – che dura da più di un ventennio – di libertà assoluta,
che senso ha rifondare un canone, perimetrare un ‘orizzonte’?
Tutta la vicenda umana consiste nell’innalzare castelli di ghiaccio nel deserto!
Lo si fa per obbedienza a un senso di bellezza, alla bellezza di un senso che ci
sfugge. Detto questo, tu lo sai bene e lo hai spiegato: si fa l’appello per lo
sterminio della vanità, per attraversare il fuoco dell’opera (nostra, altrui,
comune) che ci travalica, che diventa dono. Di maestri non ne ho più bisogno,
ormai. Ma non fraintendermi: preferirei averne ancora desiderio, significherebbe
essere ancora giovani e aperti a molteplici sviluppi. Alla mia età, però,
sarebbe patologico insistere a cercare “padri”. Quelli che si sono presentati
come tali, erano padrini incapaci di riconoscere e difendere la profezia degli
eventuali figli e, dunque, non c’è stato reciproco riconoscimento. Hanno
preferito, come indichi nella domanda, la gratificazione immediata del
rispecchiamento. Si sono bruciati da soli, in tal senso. E sono fiducioso: la
loro eredità, per fortuna, andrà perduta. La loro autoconsacrazione nel canone
non ha fondamento. Io, con questo libro, rimetto idealmente tutto in
discussione. I conti con la tradizione, vivaddio, sono sempre aperti, e lo
sguardo determinante è quello dei posteri, degli alieni che equivocheranno,
rimedieranno, rimuoveranno secondo la loro logica, non secondo quella di chi li
ha preceduti.
Lui è Andrea Temporelli o Marco Merlin?
Nella tua “Repubblica” pare che la quantità abbia soppiantato la qualità. Mentre
il secolo scorso si può riassumere entro una piramide di nomi e di dicotomie
(Pascoli/D’Annunzio; Ungaretti/Montale/Svevo; Luzi/Zanzotto/Sereni/Caproni etc.,
con singolarità satellitari – es. Campana, Sbarbaro, Rosselli, Bertolucci,
Pasolini, Pozzi…) l’oggi è l’assembramento di centinaia. Il poeta è detronizzato
dallo storicismo, dall’orizzontalità dilagante, da una analfabeta
alfabetizzazione? Cosa?
Siamo passati dall’umanesimo aristocratico, con i suoi pregi e difetti, alla
democratura dell’individualismo capitalistico. Ma la rete si sta formando: i
nodi strategici si rafforzeranno, le cricche saranno poste ai margini, la
coscienza generale lascerà emergere le nuove strutture, e anche la matassa ora
apparentemente indistricabile in cui ognuno pare avere il diritto di
autorealizzarsi (in qualsiasi pratica sociale o forma d’arte) avrà una sua
figura riconoscibile. Manca qualcuno, nel mio catalogo? Indubbiamente. Tu
aggiungeresti, mi hai detto, Ivano Fermini, io Sonia Gentili e, forse, Ugo
Magnanti e Domenico Segna; ma anche qualche decina di nomi ulteriori non
smuoverebbe la massa critica di oltre seicento autori (selezionati!). Per questo
la fotografia del panorama resta complessivamente credibile e, adesso che il
perimetro è ragionevolmente chiuso, si potrà anche eleggere i pochi che
veramente svettano – spiegando perché, rendendo ragione, insomma, di tutti gli
altri. Questo è l’intento del libro. Se poi si vorrà ammettere che non svetta
nessuno, che abbiamo tante colline e che in generale la produzione poetica è
buona (una visione ottimistica e inclusiva), sia pure. Saremo un’epoca di
produzione di massa da cui prendere, di volta in volta, esempi a capriccio. Per
quel che riguarda me, invece, arriverei a dire che i poeti che mi interessano e
che continuerò a seguire sono pochissimi. Due mani per contarli basteranno.
Che rapporto c’è, cioè, tra il singolare talento di un poeta e la ‘comunità’ dei
poeti?
Vedo che fatichi anche tu a ricordarti che Marco Merlin non c’è più. È una
domanda a cui lui avrebbe saputo rispondere. Non a caso, la Repubblica italiana
dei poeti non è un suo libro, perché non ha metodo e uniformità di sguardo
critico. È il bolo fermentante, il rigurgito con cui ho digerito ciò che lui
avrebbe voluto apparecchiare con perizia tecnica. Perdonerai l’immagine
infelice, che però coglie nel segno.
Che differenza c’è, cioè, tra generosità ed ecumenismo, tra dottrina e
indottrinamento?
Non lo so. Umanamente e intellettualmente, mi addestro alla generosità, con
risultati alterni. L’ecumenismo e l’indottrinamento spettano a chi ha qualche
idea da imporre agli altri. Magari qualche poetica. Io invece non ne ho. Non a
caso, nel libro non escludo nessuna ipotesi di poesia, nessun orientamento
specifico.
In un recente incontro, hai usato la parola ‘benedire’. Spiegami: cosa significa
nel contesto della tua ricerca?
Benedire significa dire bene. Pronunciare un nome in modo che il chiamato si
senta compreso, rispettato, amato. Significa riconoscere l’alterità. Anche
quando si convoca l’altro per una responsabilità, per chiedere di rispondere a
qualcosa che ha che fare con la relazione. Occorre benedire ogni poeta, e
benedire ogni epoca. Anche la propria, che è sempre così facile da disprezzare.
La poesia all’epoca dell’Intelligenza Artificiale: che senso ha? Che poeta
verrà?
Non lo so. Ma sono molto curioso. Penso che mi troverò a mio agio nella
strategia della continua evoluzione di pensiero e di stile. L’IA è il terreno in
cui coltivare la Maniera. L’arte sopravvivrà in forme più selvatiche. L’errore,
l’imperfezione, lo scatto qualitativo imprevisto rispetto al sistema saranno le
stimmate della verità poetica. E l’errore evolutivo, lo scarto, ogni forma di
smarcamento hanno a che fare con l’emozione, che resta supporto
dell’intelligenza umana, come ha dimostrato Damasio.
Ma chissà, staremo a vedere.
Mi pare che la poesia abbia perso premura di profezia, è così orientata al tempo
presente da perderlo di vista. Sbaglio, sono un qualunquista?
Ciò che è davvero presente, pre-sente. Ma molti poeti, hai ragione, non sono
presenti a sé stessi, perché si fissano nello specchio, anziché guardare la
scena in cui sono essi stessi inseriti. Forse, la fotografia dell’oggidì
scattata in questa Repubblica italiana dei poeti fornirà a qualcuno la scossa
per risvegliarsi dall’incantamento.
E ora… cosa scrivi?
Ho una raccolta di poesie quasi pronta; si intitola Luz. Ho in gestazione un
poema, per ora informe. Queste le sento come due opere urgenti, che vorrei
licenziare quanto prima, per determinare un punto di non ritorno. Ma sto
concependo anche un romanzo fantasy, o forse più propriamente epico, che
potrebbe anche abortire e ho un semenzaio di appunti su quaderni e diari
piuttosto vasto. Ho il presentimento di un flusso poetico che vuole emergere in
modo continuativo con una sua particolare struttura, insieme mossa e
determinata. Mi tenta, per tutte queste avventure, l’ipotesi di dedicarmici in
una condizione di libertà dalla pubblicazione. Molto di ciò che scriverò, oltre
ai prossimi due passi poetici (Luz e il poema), potrebbe restare inedito per
scelta. Non so. Non vorrei che fosse il segno di una resa, un alibi rispetto
alla “lotta” per difendere ciò in cui si crede. Ma l’idea di attendere i
fatidici nove anni prima di rileggersi ed eventualmente proporsi a un editore mi
piace, mi dà pace. O magari andare ben oltre i nove anni. Ci pensi anche tu?
Scrivere per non pubblicare, ma solo per dedicarsi all’opera. Che vertigine di
libertà!
*In copertina: Leonardo da Vinci, Studio per la testa di un guerriero, 1504 ca.
L'articolo “Benedire tutto, crescere verticali su sé stessi”. Dialogo con Andrea
Temporelli proviene da Pangea.
> “Il manicomio, quel monastero psichico dove il muro che divide la medicina
> dalla religione si apre, e dove arrendersi alla degradazione”.
>
> (J. Hillman, La vana fuga degli dèi)
È grazie ad una sollecita curatela, aliena dalle deadline-codice-a-barre degli
editori convenzionali, del coraggioso samizdat Nessuno Editore di Antonio
Curcetti, nella traduzione di Antonio Bux e arricchito di una testimonianza di
Ianus Pravo, che il lettore italiano (esiste? o, reductio ad unum, si perita di
scrivere soltanto?) può godere di una raccolta o, preferibile scelta lessicale,
di un ingemmato ed inedito ‘poema’ – ‘poema’ sia detto e ciò basti, non per
svogliatezza di traduttore ma poiché, come scrive Bux nella sua nota di
gestazione, nella concezione paneriana del dire poesia non meno che nel far(si)
poesia tutto l’opus del castigliano è un poema ininterrotto alla Éluard, tanto
per tematiche, crimini commessi o presunti ed ossessioni quanto per circolarità
del verso del poeta madrileno, repubblicano, alcolista, dalla sessualità feroce
e promiscua. Un vademecum per l’internamento nella Spagna franchista.
La raccolta si apre con un epitaffio che è distillato di provocazione:
All’Esercito Popolare Repubblicano e di verso in verso de-costruisce i miti
fondanti della Monarchia iberica, Patria e Religione:
> “Un giorno le mosche mangeranno dalla mia mano
> e umiliato io sarò solo uno spettro da marciapiede.”
>
> (Edgar Allan Poe, o il volto del fascismo)
o ancora:
> “(…) il nulla,
> un’entità che fatalmente rompe
> con l’amore e la vita, chiede un’ascesa,
> per questo una croce negli occhi
> e uno scorpione sul fallo raffigurano il poeta
> tra le braccia del nulla, del nulla rigonfio,
> quando dice che neanche Dio è superiore al poema.”
>
> (Quello che Stéphane Mallarmé volle dire nelle sue poesie)
o ancora:
> “(…) e tra le mie mani nasce il deserto,
> la paura tra i miei occhi è Gesù Cristo
> come una stella che giace nel nulla.”
>
> (Nascita di Gesù)
In Panero coincide la profezia di Tiresia (la follia distorce lo spazio-tempo
dell’umanità meccanica) non meno che il furore anticattolico in un qui ed ora
dove la religione non può che farsi pre-colombiana o non essere:
> “E il mondo dice, Dio non esiste
> è immaginare il Papa
> mentre gli atei piangono,
> piangono la sua bellezza perduta,
> e Dio non esiste più,
> sta piangendo all’Inferno.
> È tutta qui la statua del nulla.”
>
> (La monaca atea)
Panero è il più nobile e decaduto rappresentante della vita per l’arte e
dell’arte per e nella vita degli ultimi decenni di poesia europea. La sua
vicenda biografica non può in alcun modo essere disgiunta dai suoi scritti tale
è la compenetrazione, la trasfusione che sanguina sulla pagina. Non vi è nulla
in Panero che non appaia necessario e fatale, pur nella sua attitudine picaresca
che si burla della tradizione ‘alta’ (siamo tutti figli di Cervantes quando
incontriamo un mulino a vento) del cavaliere errante; proprio il tòpos del
cavaliere armato o goffeggiante è ricorrente nei versi del poeta di Madrid come
incessanti sono i richiami alla crassa materia che ci fece nati “a viver come
bruti”: escrementi, sperma, urina sono elementi organici su cui Panero indugia
non (solo) per il compiacimento d’un maledettismo ducassiano/laforguiano che lo
de-finisce ma per l’autenticità della sua visione. Se pretendiamo di cantare,
novelli Blake, l’Innocenza non possiamo esimerci dal menzionare la merda dalla
quale nasciamo e nella quale finiremo:
> “(…) guarda, uomo caduto, guarda il mattino
> che di nuovo si solleva per continuare la tortura,
> anche quando la tua anima che sa d’escremento
> finge d’essere una rosa e la vita
> tra le pareti crudeli di questa camera,
> uguali alla cella di un condannato a morte
> e coi giorni che rinnovano la sentenza,
> ti fa dire: appartieni all’uomo o al nulla?”
>
> (Apparizione)
o ancora:
> “(…) vivere voglio, assediato da nessuno
> e con un marchio di merda sulla fronte.”
>
> (Tangeri)
Panero possiede gli occhi del visionario, del folle in Cristo direbbero i russi,
ma la cifra che esprime è sovente giullaresca, donchisciottesca appunto, con
aperture all’osceno dissacratorio – quello di Bataille, di Genet e di Buñuel – e
imbardate di macabra goticità:
> “Io sono solo un maiale che invoca la protezione del silenzio.”
>
> (***)
e tuttavia, del folle conserva la saturnina meraviglia dinnanzi al mondo, chiave
che schiude paradisi d’infanzie a colui che sa udire il pianto dell’alba:
> “Il rito della morte chiama a sé la vita
> e Dio si nasconde tra le mie cosce
> e i miei genitori chiedono perdono per avermi consegnato
> nudo agli uomini nella pianura buia.”
>
> (Regalo di un uomo)
Lettore onnivoro, enciclopedico, nato poeta in una famiglia di poeti e tocchi,
Panero è muscolare nella sua espressione della violenza e soave nella sua lunare
melanconia, fabbro di schegge di esistenzialismo selvaggio e di chirurgica
precisione nell’oltraggio. Il suo senhal è il ‘Nulla’:
> “(…) il fiore che cercavamo nel poema
> significava la tomba.”
>
> (Segreti del poema)
Da ultimo, alcune considerazioni sull’operazione editoriale: la versione di Bux,
colata di cemento a fondare la travatura del ‘poema’, è sorretta
dall’intervento a posteriori di riletture tentacolari ad opera di castigliani
madre-lingua che traducono senza tradire l’argot paneriano, quel vomitare
analogie del gergo carcerario e/o psichiatrico che nella piena euforica buxiana
sarebbero andati irrimediabilmente smarriti. L’apparato di note è adeguato e
corrobora i passi incerti di chi scelga di avventurarsi lungo i supplizi di
Panero.
Come per la raccolta di Kinski (Febbre. Diario di un lebbroso), la passione e
l’urgenza rapace di Curcetti meriterebbero platee strepitanti e non
semi-clandestine. Meglio essere pubblicato in Unione Sovietica come clandestino,
avrebbe detto Limonov, che adorato da traditore ed esule come Brodskij? Postilla
e gran finale per la testimonianza di prima mano di Ianus Pravo che di Panero è
stato confidente presso l’ultimo asilo a Las Palmas: l’uomo Panero, acquarellato
nel suo rigagnolo di urina, emerge ammonitorio come un hidalgo della beffa,
sodale dei reietti nella inesausta lotta contro le miserie dell’Esserci:
> “Uscire dalla cloaca è solo un ripiego,
> vivere tra i topi il nostro destino.”
>
> (Poveraccio)
Luca Ormelli
Il libro: Leopoldo María Panero, Contro la Spagna e altri poemi non d’amore,
Nessuno Editore, 2024 (f.c.); traduzione di Antonio Bux, a cura di Antonio
Curcetti.
L'articolo “Tra le mie mani nasce il deserto”. Leopoldo María Panero, l’hidalgo
della beffa, il martire dell’erranza proviene da Pangea.
Due anniversari poundiani ci ‘obbligano’ a rileggere il poeta-totem del secolo.
Il primo è sul bivio della tragedia: ottant’anni fa – era il maggio del 1945 –
Pound viene arrestato con l’accusa di alto tradimento, recluso in un campo, a
Pisa, in durissime condizioni. In giugno subisce diverse visite psichiatriche;
sarà poi scortato nel reclusorio militare di St. Elizabeths, Washington DC.
D’altro stampo il secondo anniversario: il 9 luglio Mary de Rachewiltz compie
cento anni. La figlia – nata dall’unione di Pound con la violinista Olga Rudge –
ha dedicato la vita alla divulgazione e alla traduzione delle opere del padre,
custodendone il carisma. Una mostra, allestita presso il Palais Mamming di
Merano, “Mary’s Dream. Portrait of a Lady”, ne riassume l’esistere, a suo modo
rude – e regale. In memoria di Ezra Pound, l’ultimo numero di “Studi Cattolici”,
la rivista di Ares – tra i rari, integerrimi editori ‘poundiani’ in Italia –
dedica un “Quaderno” speciale da cui abbiamo estratto lo studio di Alessandro
Rivali, già autore del libro-intervista “Ho cercato di scrivere Paradiso. Ezra
Pound nelle parole della figlia” (Mondadori, 2018). Il fascicolo è arricchito da
materiali poundiani inediti tratti dall’archivio di Cesare Cavalleri; è
trascritta inoltre una lettera di Pound alla figlia dalla prigione di Pisa il 19
ottobre del 1945, di particolare bellezza, a liceità di un ‘compito’: “sei
autorizzata a curare il mio ms [manoscritto] ma non voglio che tu venga
sommersa, preferirei piuttosto che tu scriva dieci pagine per conto tuo invece
di curarne un centinaio. Ok per un lavoro di dieci anni nel tuo tempo libero, ma
attenta a non affondare in un lavoro accademico”.
**
Ottant’anni fa – era il 3 maggio del 1945 – iniziò la prigionia del poeta Ezra
Pound (1887-1972). Sulle sue spalle pesava la gravissima accusa di tradimento,
per aver parlato – da cittadino statunitense – ai microfoni della Radio
Fascista1. Dopo i primi interrogatori, relativamente tranquilli, a Genova,
presso il Centro del controspionaggio americano distaccato presso la 92ª
Divisione Usa, il 25 maggio il poeta fu portato al campo di reclusione e
rieducazione per soldati americani costruito nel comune di Metato, a nord di
Pisa. Qui, Pound fu rinchiuso in una gabbia non troppo diversa da quelle che
abbiamo visto nei servizi tv dedicati alla prigione di Guantanamo. Esposto al
sole cocente di giorno e alla luce dei riflettori di notte, in uno spazio
ristrettissimo e senza ripari, incerto sulla sua condizione futura, che avrebbe
potuto anche condurlo sulla sedia elettrica, il poeta pensò – come mi confidò la
figlia Mary – al suicidio, forse tagliandosi i polsi con il reticolato con cui
era stata rinforzata la sua gabbia. Il 18 giugno Pound patì un collasso nervoso
dovuto all’asprezza della detenzione, e di conseguenza gli furono concesse
condizioni mitigate nell’infermeria del campo.
In queste circostanze così drammatiche il poeta continuò a scrivere
quei Cantos che nel suo intento dovevano essere il Grande poema americano e a
cui si era dedicato anima e corpo dagli anni della Prima guerra mondiale (i
primi tre canti, poi completamente rivisti, uscirono su Poetry nel 1917).
I canti nati dalla prigionia di Pisa – i famosi Pisan Cantos, vincitori del
prestigioso Premio Bollingen del 1949 – sono forse il momento più alto e
commosso della multiforme avventura poetica di Pound. Sono il personalissimo
“Purgatorio” di un uomo su cui «il sole è tramontato», che scopre che «la carità
più profonda / si trova fra chi ha infranto / le regole», che si sente un «cane
bastonato sotto la grandine» e che comprende che «chi ha trascorso un mese nelle
celle della morte / non crede più alla pena capitale / Dopo un mese nelle celle
della morte un uomo / non ammetterà gabbie per belve». Nel suo Commento
ai Cantos, in appendice all’edizione del ‘Meridiano’ Mondadori, la figlia Mary
scriverà dei Pisani: «Si possono considerare anche un testamento, un addio agli
amici e un’autobiografia degli affetti».
Pound nel campo di Pisa scrive sull’improvvisato materiale che ha a
disposizione, fosse pure un lembo di carta igienica (se ne può vedere uno in
foto nell’edizione New Directions dei Pisan Cantos curata da Richard Sieburth2).
Pound diventa uno scriba che ha per appiglio lo scrigno della memoria e per
ispirazione la realtà osservabile dalla gabbia. È «sostenuto» dall’apparizione
di una lucertola, nota «gli uccelli selvatici [che] mangiavano pane bianco»,
come «un grillino verde / smeraldo più pallido» a cui «manca la zampina destra»,
suggerisce perfino a un felino intruso di cambiare le sue abitudini: «Gatto
ladro nottambulo lascia stare i miei duri tomi / non è cibo per gatti / se tu
fossi più furbo / verresti all’ora dei pasti / quando la carne abbonda / non
puoi mangiare i manoscritti né il Confucio / e neppure la Bibbia / fuori da
questa scatola di lardo / timbrata W, 11 o o 9 o / che mi fa da guardaroba». E
ancora, Pound benedice il vento che «sa di mare» e lo «toglie all’inferno, alla
fossa / alla polvere e alla luce accecante».
Nei Pisani Pound è la «formica solitaria da un formicaio distrutto» e «dalle
rovine dell’Europa» si chiede se rivedrà «le antiche strade», inoltre riavvolge
il nastro della memoria fino al giorno in cui lasciò l’America per l’Europa con
80 dollari in tasca e il sogno di diventare poeta. Nel suo “diario di un dolore”
dietro i reticolati scriverà alcuni dei più toccanti versi del Novecento, tra
cui quelli indimenticabili del Canto 81: «Quello che veramente ami rimane, / il
resto è scorie / Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che
veramente ami è la tua vera eredità».
Il primo traduttore dei Pisani fu Alfredo Rizzardi che compendiò bene i motivi
portanti dell’opera:
> “Nei Canti pisani la fantasia scopre la memoria, e il suo calore non è più
> fuoco fatuo, ma giunge a bruciare. Costante in ogni pagina è la scoperta della
> propria vita passata, per cui le figure evocate nel cerchio infiammato della
> propria vita passata paiono ancora più reali, più vive di quelle sbiadite, che
> lo circondano. Amici. Compagni di giovinezza, figure care: evocate dalla terra
> dei morti quasi il Poeta vi avesse posato il piede e a essi parlasse”3.
*
I Drafts and Fragments
Se i Pisani sono felicemente noti, non si può dire lo stesso per l’ultimo
tassello del grande poema incompiuto (o “infinito” secondo la suggestione della
figlia Mary) dei Cantos. Quei Drafts and Fragments che in Italia conosciamo in
tre edizioni: Scheiwiller (1973, a cura di Mary de Rachewiltz), Guanda (1981, a
cura di Carlo Alberto Corsi e Michelangelo Coviello) e quella del ‘Meridiano’
Mondadori preparato sempre da Mary de Rachewiltz nel 1985 per il centenario
della nascita di Pound.
Questi ultimi frammenti sono di una bellezza lacerante. Schegge purissime.
Bagliori carichi di pietasche segnano il tempo di un uomo al tramonto della
vita. Di un uomo che aveva scontato senza processo tredici anni di manicomio
criminale a Washington e che, una volta tornato in Italia, correva l’estate del
1958, sognava di dare un “Paradiso” al suo poema. La realtà fu ben diversa,
senz’altro più cruda.
Gli anni del “ritorno” non furono facili. Pound era invecchiato, era stato
privato della personalità giuridica e affidato alla moglie Dorothy, nominata suo
tutore legale, da tanti era considerato un “nemico” dal passato ingombrante,
sentiva la mancanza di troppi amici. Eppure, in quel tempo difficile, iniziò gli
appunti per l’ultimo tratto del suo lungo viaggio. Iniziò a scrivere a
Brunnenburg, il castello di Mary e Boris de Rachewiltz a Tirolo, pochi
chilometri sopra Merano, cercando di combattere i demoni che di volta in volta
lo tentavano: i rigori del clima, l’isolamento del luogo, la solitudine, lo
spaesamento e persino la gelosia delle donne intorno a lui, come avrebbe
annotato nel Canto 113. Per il poeta Brunnenburg sarebbe dovuta essere la
personale Ezuversity dove accogliere discepoli e amici e continuare a scrivere
(come aveva fatto negli anni di reclusione in cui aveva lavorato alle
sezioni Rock Drill e Thrones dei Cantos). Invece iniziò il sofferto periodo
del tempus tacendi. Resta magnifico il ritratto di Grazia Livi
per Epoca tracciato a cinque anni di distanza dal rientro in Italia:
> “La prima cosa che colpisce, in Ezra Pound, è la sua genialità ormai vinta e
> naufragante oltre gli illusori confini del mondo. È ancora diritto e solenne
> d’aspetto, con la faccia asciutta ornata da una bianca barbetta appuntita, le
> mani magre e agili, il gesto da gentiluomo che subito si alza in piedi e offre
> la sua poltrona, ma nello stesso tempo si ha la chiara impressione che egli
> non appartenga più a sé stesso e che tutti gli elementi della sua persona
> siano coordinati fra di loro in maniera puramente fisica, funzionale. L’occhio
> è come vitreo e contempla le facce, gli oggetti con una fissità dolorante; la
> voce emerge a fatica dal torace stanco a comporre lentissime frasi meditanti;
> i piedi immobili sul tappeto, sono calzati di pantofole. Non c’è un libro,
> attorno a lui, che testimoni della sua gloria trascorsa: solo un’edizione
> parigina dei primi sedici Cantos, pubblicata nel 1925 […]. Questo, infatti, è
> Ezra Pound al giorno d’oggi: non un uomo ma un simbolo, che mantiene rapporti
> soltanto formali con la vita; non un personaggio, ma una presenza che guarda
> alle vicende di questo mondo con animo già liberato, già lontano, già
> naufragante nella tragica e illuminata saggezza che precede la fine”4.
Il Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano è una miniera di
informazioni per gli amanti di Pound, in primis perché custodisce l’archivio
Scheiwiller, l’intrepido editore che sostenne sempre il poeta americano,
pubblicando nel 1955, tra l’altro, in anteprima mondiale, Section: Rock-Drill
85-95 de los cantares.
Nell’archivio è custodita un’interessante lettera di Ugo Dadone (1886-1963),
amico di Boris e poliedrica figura di giornalista, viaggiatore e “agente
segreto”, che ospitò Pound a Roma nel 1961. Dadone raccontava con preoccupazione
a Scheiwiller le difficilissime condizioni del poeta. A suo dire, Pound si
sentiva in colpa per aver combinato “guai” a Brunnenburg, era depresso perché
non aveva più amici, il suo conto in banca era in passivo e non voleva più
pubblicare perché non sarebbe stato comunque pagato; infine, non si sentiva in
grado di fare nulla di buono perché non aveva più idee da svolgere.
Era il Pound che l’anno prima aveva scritto a Eliot (15 aprile 1960) dicendo che
si sentiva seduto sulle proprie “rovine”: a tale missiva l’autore di The Waste
Land rispose con un telegramma: «Tu sei il più grande poeta di sempre. E io devo
tutto a te».
*
L’iter della pubblicazione degli ultimi Cantos
In questo contesto delicato iniziò l’iter che avrebbe rocambolescamente portato
alla pubblicazione dei meravigliosi Drafts and Fragments. La figlia Mary parlò
di «un crepuscolo con tenerezza e rimpianto e un’affermazione della propria
innocenza», mentre Massimo Bacigalupo nel suo indispensabile L’ultimo Poundparlò
di «una nuova, sofferta, temperie psicologica»:
> “Il Poeta che s’era lasciato allegramente alle spalle la pietra miliare del
> Canto 100 senza quasi farci caso e che emerge indenne, “aloof”, cinquanta
> pagine innanzi dalle “onde scure” che hanno più d’una volta minacciato di
> sommergerlo, sente ora che la sua poesia – e la sua vita – ha i giorni
> contati, che il “nemico” – non più l’ossessivo “they” ma l’oscurità, la morte,
> e anche un mondo di cultura dal quale egli è escluso – sta guadagnando terreno
> da tutte le parti, al punto di invertire le posizioni mantenute nonostante
> tutto – in quanto conditio sine qua non dello scrivere – sino a ora”.
Nel ricco saggio Hall of Mirrors6 Peter Stoicheff ha ricostruito un periodo di
vicenda della pubblicazione di questi ultimi Cantos, pubblicazione che avvenne
con un Pound riluttante che non si sentiva pronto per l’ultima revisione e che
fin dal 17 ottobre 1959 aveva annotato «la bellezza perduta per mancanza di
energia nella mano che scrive»7.
Tutto nacque dall’intervista che Donald Hall chiese a Pound per la Paris Review,
rivista di cui Hall era allora poetry editor. Si incontrarono per tre giorni a
Roma, in via Poliziano, nel tempo in cui Pound era ospite di Dadone. Pound
voleva essere pagato per l’intervista e in risposta si sentì dire che si sarebbe
potuto fare, ma che l’intervista sarebbe dovuta essere corredata da poesie
inedite. Pound propose gli inediti Versi prosaici e alcune lettere inedite a
Basil Bunting, ma la proposta venne respinta; la rivista rilanciò per avere
un’anteprima di nuovi Cantos. Pound mandò le bozze di sette Canti acconsentendo
poi alla pubblicazione dei Canti 115 e 116. Quando James Laughlin, lo storico
editore di Pound con le sue New Directions, vide il materiale, scrisse al poeta
che aveva letto qualcosa di veramente meraviglioso, erano versi semplicemente
«magnifici». Non fu però Laughlin a pubblicare l’ultimo tassello dei Cantos. Fu
“bruciato” nel 1967 dall’edizione pirata di Fuck You Press (un nome un
programma…) di Ed Sanders, che aveva avuto il materiale “incandescente” da Tom
Clark, un ragazzo che stava preparando una tesi sulla struttura dei Cantos e che
a sua volta aveva ricevuto i dattiloscritti da Hall. La Fuck Press stampò (o
disse di aver stampato…) 300 copie dei Drafts and Fragments che andarono subito
a ruba. Per Laughlin si trattò di un’edizione disgustosa, ma fu il volano perché
New Directions desse il via all’edizione autorizzata che noi conosciamo. Una
curiosità: c’è stato anche uno studioso come Joshua Kotin che si è messo sulle
tracce delle 300 copie per cercare di “mapparle” (finora è riuscito a
rintracciare il destino di 152 esemplari)8.
Una nota a margine. L’intervista di Pound con Hall fu pubblicata nel
prezioso Per conoscere Pound9 e offre molti spunti sugli ultimi pensieri del
poeta. Pound ricordava come un poeta dovesse avere «una curiosità continua»,
come l’artista «dovesse continuare a muoversi». Non dissimile il suo consiglio
per i giovani. A suo parere andavano incoraggiati a “migliorare la loro
curiosità” senza fingere,
> “ma ciò non basta. La pura registrazione del mal di pancia, il solo svuotare
> il cestino non basta. Infatti la coppa di ponce degli studenti dell’Università
> di Pennsylvania aveva come motto: «Qualsiasi cretino può essere spontaneo»”.
Nel corso della conversazione Pound ammetteva le sue difficoltà a concludere
i Cantos con un paradiso:
> “È difficile scrivere il paradiso quando tutti i segni superficiali dicono
> che dovresti scrivere un’apocalisse. È più facile trovare abitanti per
> l’inferno o anche per il purgatorio. Sto cercando di riunire e fissare i più
> alti voli della mente…”
*
La verità sta nella tenerezza
Pur con queste drammatiche premesse, gli ultimi frammenti di Pound restano tra i
momenti più alti della sua poesia. Sono l’esame di coscienza di un grande
dolente all’epilogo della vita. Sono le illuminazioni piene di tenerezza di un
uomo che ha inseguito l’arte (rinnovandola) in ogni istante della sua vita. Che
ha visto da vicino la bellezza, la morte e la disperazione. È un poeta in cerca
di «una quieta dimora», di «un amato e quieto paradiso» e che, come scrive
nel Canto 110, riesce a vedere con occhi di «corallo o turchese». È una
scrittura difficile, ma allo stesso tempo carica di accensioni ed epifanie.
Ritornano i luoghi cari, dalla Liguria a Venezia, gli affetti, gli eletti da
inserire nel paradiso (Mozart, Agassiz e Linneo), i versi perfetti segnati dalla
lunga confidenza con l’Estremo Oriente: «Il mare oltre i tetti, ma sempre mare e
promontorio. / E in ogni donna, pur fra l’acredine c’è una tenerezza, / Una luce
azzurra sotto le stelle».
È un poeta che, come tutti i grandi poeti, dona sentenze memorabili che
racchiudono un mondo: «La verità sta nella tenerezza». Ritorna il tema
dell’umiltà, così presente nei Pisani, perché è «un uomo che cerca il bene, / e
fa il male», ed è consapevole che «la bellezza non sta nella pazzia / Anche se
cocci ed errori miei mi circondano. / E non sono un semidio, / Non riesco a
dargli un nesso. / Se in casa l’amore manca, manca tutto».
E, ancora, «Ammettere l’errore e tenere al giusto: / Carità talvolta io l’ebbi,
/ non riesco a farla fluire. / Un po’ di luce, come un barlume / ci riconduca
allo splendore ora».
Un poeta della sensibilità di Giovanni Raboni colse al volo la grandezza di
questi frammenti. Nell’introduzione alla bellissima edizione Guanda preparò una
memorabile pagina di accompagnamento, in cui tra l’altro affermava:
> “Col passare del tempo, la grandezza della poesia di Pound mi appare sempre
> più evidente, solitaria e indimostrabile. A volte ho l’impressione di trovarmi
> solo a contemplarla, e mi prende il timore che, a chi me ne chiedesse conto,
> non saprei rispondere che con un gesto di rinuncia o una parola di sgomento.
> Altre volte, è come se questa grandezza mi fosse stata rivelata in sogno, e il
> suo segreto, la sua prova scomparissero, si dissolvessero ogni mattina con
> l’avvento della luce… […] Ma ecco, intanto, una buona occasione per rileggere,
> e ripensare, Pound: questi stupendi Drafts & Fragments, che… hanno il grande
> merito o vantaggio di mostrarci un Pound anche praticamente in bilico e
> tensione fra “poema” e “frammento”, fra la drammatica, impossibile ricerca
> dell’unità e della compiutezza e l’esaltante vitalità della dispersione,
> dell’esplosione, del molteplice. Insomma, un Pound ancora più fortemente e
> visibilmente “potenziale” – sino al puro abbozzo, al puro appunto stenografico
> –, ancora più vicino del solito a quello stato di energia pura, non incarnata
> né incarnabile una volta per tutte, che costituisce la verità più profonda (il
> segno – il sogno – più vero) della sua grandezza”.
Il parere di Raboni si accorda perfettamente a quanto scrisse Ford Madox Ford
per l’opuscolo che accompagnò la pubblicazione americana di XXX Cantos nel
1933:
> “La prima parola da dire sui Cantos è bellezza. E l’ultima sarà bellezza. La
> loro straordinaria incomparabile bellezza. Formano una storia del mondo senza
> eguali vista da queste coste che sono la culla della nostra civiltà… E una
> sola cosa è necessaria alla nostra società più della Storia. Ed è che ci sia
> da qualche parte un’opera d’arte o qualcuno che produce un’opera d’arte che
> ogni volta che la visiti susciterà infallibilmente in te delle emozioni.
> Questo è quanto fanno i Cantos”.
E per avere la misura di questa tersa grandezza forse non c’è modo migliore che
riportare alcuni luminosi frammenti della versione finale dei Cantos scelta da
Mary de Rachewiltz:
“Ho provato a scrivere il Paradiso
non ti muovere,
lascia parlare il vento
così è Paradiso
Lascia che gli Dei perdonino quel che
ho costruito
Chi ho amato cerchi di perdonare
quello che ho costruito
[…]
Uomini siate non distruttori”.
Alessandro Rivali
1 Sulla vicenda si veda il recente Luca Gallesi, Ezra Pound a Pisa – Un poeta in
prigione, Ares, Milano 2024. Per un inquadramento a tutto tondo degli ultimi
anni di Pound: A. David Moody, Ezra Pound: poet, vol. III, The Tragic Years
1939-1972, Oxford University Press, Oxford 2015.
2 New Directions, New York 2003.
3 A. Rizzardi, La maschera e la poesia in Ezra Pound, in Canti Pisani di Ezra
Pound, Guanda, Parma 1953, p. XXIII.
4 G. Livi, “Vi parla Ezra Pound: Io so di non sapere nulla”, intervista con Ezra
Pound, Epoca, n. 652, 24 marzo 1963, pp. 90-93.
5 M. Bacigalupo, L’ultimo Pound, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1981, p.
525.
6 P. Stoicheff, The Hall of Mirrors: “Drafts & Fragments” and the End of Ezra
Pound’s “Cantos”, University of Michigan Press, Michigan 1995.
7 Commento a Stesure e frammenti dei Cantos CX-CXVII, in E. Pound, I Cantos, a
cura di Mary de Rachewiltz, Meridiani Mondadori, Milano 1985, p. 1629.
8 Sulla vicenda, l’articolo dello stesso J. Kotin “The Fuck You Press Cantos: A
Census”, realitystudio.org/bibliographic-bunker/fuck-you-press-archive/the-fuck-you-press-cantos-a-census/
9 A cura di Mary de Rachewiltz, con un saggio introduttivo di M.L. Ardizzone,
Mondadori, Milano 1989.
L'articolo “La verità sta nella tenerezza”. Gli ultimi Cantos: il testamento di
Ezra Pound proviene da Pangea.
Fu Arthur Symons, l’insigne studioso dei Simbolisti francesi, il traduttore di
D’Annunzio, l’oppiaceo biografo di William Blake, a foggiare il mito di Ernest
Dowson. I caratteri c’erano tutti, energici: il genio malinconico, una famiglia
sotto l’aura della tragedia, la dissipazione del sé, il disordine erotico e la
morte, troppo giovane, come da maledettismo all’ora del tè, a trentadue anni,
dopo aver abitato a lungo nelle lande del nulla, in una sorta di afasia del
cuore.
L’edizione dei Poems of Ernest Dowson, allestita da Symons a Londra, per John
Lane, pochi anni dopo la morte del poeta, nel 1905, aveva tutti i crismi del
libro ‘generazionale’; diventò la bibbia del decadentismo inglese. Nel
frontespizio campeggiava un ritratto di Dowson firmato da William Rothenstein:
lo sguardo del giovane, sempiterno e allarmato; il corpo spettrale, pronto a
svanire dallo spettacolo del tempo. Il libro era scortato da quattro
illustrazioni di Aubrey Beardsley, lo spiritato artista, il magnetico
illustratore delle opere di Oscar Wilde. Per altro, Wilde, pianse la morte di
Dowson, “povero, meraviglioso ragazzo ferito”: lo inseguì tra i plumbei meandri
della morte. Dowson era morto in febbraio, nel 1900, in circostanze poco chiare;
Wilde finì i suoi giorni, tristemente, quello stesso anno, a Parigi – sfioriva
novembre. Erano amici, Ernest ne idolatrava il prodigioso talento, osava
firmarsi “Dorian” – si era fatto obbligo di costringerlo ai più infimi bordelli
di Parigi. Per sopravvivere, traduceva in inglese Zola e Balzac.
A pagina sette dell’edizione dei Poems, l’apoteosi, la fotografia di Dowson:
abiti eleganti, di stampo eccentrico; lo sguardo fisso nel vuoto, chiuso,
atterrito, di chi è attratto dal vuoto. Abusava di hashish. Era nato in un
sobborgo di Londra nell’agosto del 1867; lo zio, Alfred Domett, poeta di alterno
talento, era stato Primo ministro della Nuova Zelanda. Si diceva della tragedia
familiare: il padre morto di tubercolosi che lui compiva ventisette anni; la
madre lo seguì poco dopo, suicida. Ernest soffriva di bipolarismo: a un
carattere schivo, tenue fino all’essere deciduo, coerente con la poetica,
alternava l’ira, irragionevole, frenata da cupe colpe. Con pochi tratti, Symons
ne intagliò il ‘carattere’, fino a farne il ‘tipo’ di un’epoca:
> “Sempre estraneo a se stesso, morbosamente timido, appesantito da una
> sensibilità anarchica, che lo allentava da ogni obbligo; si rifiutava di
> comunicare con i parenti, che lo avrebbero volentieri aiutato”.
Frequentò Oxford, senza mai laurearsi; amava il music hall, scrisse per il
teatro – The Pierrot of the Minute, ad esempio, “A Dramatic Phantasy” di un
unico atto –, fu amico di Lionel Johnson e di William Butler Yeats. Il grande
poeta irlandese ricordò a lungo “la lettura delle disperate poesie di Dowson in
una taverna di Londra”: nel 1936 antologizzò questo pioniere della “generazione
tragica” nell’Oxford Book of Modern Verse. In quel libro – decisivo per carpire
il crisma della poesia inglese del Novecento – i versi di Dowson seguono quelli
di Yeats.
Intorno alla morte e alla malia del male che attanagliò Dowson, Symons compie un
laccato esercizio di stile:
> “La malattia finì per debilitarlo, lui volle lasciarsi morire di fame. Fu
> trovato da un amico, anche lui indigente, in una bottega: riusciva a malapena
> a tenersi in piedi. Un muratore si prese generosamente cura di lui,
> ospitandolo in una povera casa alla periferia di Catford. Il poeta non sapeva
> che stava morendo, era pieno di progetti per il futuro. La vendita di una
> proprietà, diceva, gli avrebbe consentito 600 sterline e una nuova vita;
> iniziò a leggere Dickens con singolare entusiasmo. L’ultimo giorno della sua
> vita terrena, restò sveglio a chiacchierare fino alle cinque di mattina. Cercò
> di tossire, inutilmente; il cuore smise di battere… Fu artista privo di
> ambizioni, che scriveva per soddisfare i propri gusti esigenti, con un
> atteggiamento di altezzosa umiltà verso un pubblico da cui non si attendeva
> alcun riconoscimento. Morì nell’oscurità, incurante delle sue scritture. Morì
> giovane, sfinito da una vita che non fu mai davvero vita, lasciandoci questi
> pochi versi che hanno il pathos delle cose troppo giovani e troppo fragili per
> invecchiare”.
Poco più che ventenne, si era innamorato di “Missie”, la figlia di un
ristoratore polacco. Lei aveva undici anni, lui la elesse a musa. Quando la
chiese in sposa, cinque anni dopo, lei gli preferì un altro, un sarto. Ernest
Dowson, da allora, volle soltanto la compagnia di prostitute d’ogni sorta: non
aveva l’estro di un Baudelaire, piuttosto, quello di uno che sa ricamare tra
anfratti di nebbia, un pittore di paraventi.
Il volume dei Poems, adatto alle giornate di pioggia, alle brume interiori, da
nascondere dall’avidità di sguardi chiassosi, diventò leggenda. Margaret
Mitchell trasse il titolo del suo maggior libro, Gone with the Wind, da un verso
di Non sum qualis eram bonae sub regno Cynarae, una delle più note poesie di
Dowson. “Lawrence d’Arabia” citò una poesia di Dowson – Impenitentia Ultima –
nei Sette pilastri della saggezza; così fece Jack London, ammaliato da
quell’avventuriero dei mondi paralleli. Le poesie di Dowson hanno ispirato le
canzoni di Morrissey e dei Cure (Dregs, in particolare, è il contrafforte
di Alone).
Le stole della poesia decadente, che appesantiscono i versi, virandoli in
kitsch, in sniffata d’eroina, non ottenebrano la ricerca di Dowson. Il poeta –
forse perché incauto, incurante dell’esito del proprio lavoro – leva tutti i
trucchi, annienta gli orpelli. In lui, anche la disperazione è leggera, un colpo
d’ala l’inquietudine, l’estremo grido pare una falena. In Dowson, cioè, il
pallore di Poe si mescola all’armonia di Orazio – a leggerle troppo forti,
queste poesie rischiano di frantumarsi. Ha testimoniato il Nessundove, ha
mappato il respiro ultimo, l’ultima soglia, il punto in cui il sogno è la
primizia della realtà, il suo più puro bocciolo. Voleva sfracellarsi, Dowson, e
dare a questo umiliarsi una tempra solenne – si convertì al cattolicesimo perché
la sequela avesse il nitore di chi si pavoneggia tra rovine di volti appena
violati, di chi non ha nulla da restituire.
**
Ernest Dowson
(1867-1900)
Non sum qualis eram bonae sub regno Cynarae
Trascorse la notte tra le mie e le sue labbra:
lì tracce d’ombra, Cynara! Mesci il respiro
dalla mia anima, tra baci e vino;
disfatto, distrutto da un’antica passione
feci di me deserto e inclinai il capo:
a mio modo ti fui fedele, Cynara!
Per tutta la notte: il tuo cuore rimbomba sul mio
per tutta la notte: il sonno ti dileguò tra le mie braccia
dolci i baci della sua rossa bocca acquistata a buon prezzo;
disfatto, distrutto da un’ancestra passione
feci di me deserto e inclinai il capo:
a mio modo ti fui fedele, Cynara!
Tutto ho dimenticato, Cynara! Via col vento
le rose, le rose erose dalla folla,
e ballo, ballo per confinare all’oblio i tuoi pallidi gigli;
disfatto, distrutto da fatale passione
feci di me deserto e inclinai il capo:
a mio modo ti fui fedele, Cynara!
Più folle del vino, più forte fu la musica
ma a festa finita si spegne la lampa
e cala, nottola, a notte, la tua ombra, Cynara;
disfatto, distrutto da un’arcana passione
feci di me deserto e inclinai il capo:
a mio modo ti fui fedele, Cynara!
*
Epigramma
Sono un idolatra e ho implorato
con gravi suppliche, con preghiere a unghiate
l’immagine plasmata dai miei sogni
– il suo collo di cigno, i suoi scuri capelli –
ma gli dèi non tollerano culti stranieri: hanno
mutato in marmo il mio idolo, in pietra il suo cuore.
*
Notti in grigio
Vagammo, a tratti, attratti dal sogno,
lungo i sabbiosi greti del Nessundove –
papaveri sbocciano nella sabbia:
li abbiamo colti per gettarli
con noncuranza nel fiume segugio
mentre, mano nella mano, sotto
stelle indigene, vedevamo ogni cosa
su strade inaudite, sotto l’aura dell’ombra.
Poi le stelle si spensero e i papaveri
ci parvero rari – e i tuoi occhi, che erano
tutta la mia luce, si oscurarono: perché
nessuno sospetti che i giorni perduti
ancora mi perseguitano, li ho gettati nel nulla.
*
Crescere
Vidi la gloria della sua infanzia
mutare a mezzadria del dolore:
la bambina che conoscevo, amata
al tempo dei gigli, diventò una donna
enigmatica, dagli occhi chiari – occhi cari
ma diversi da quelli di allora.
Infine, nell’anima maculata di inquietudini
l’antico bene dell’amata infanzia
ritornò, in nuova foggia: adorai
la gloria della sua femminilità
ritrovando l’antica grazia in quegli occhi
abissali, educati al gesto gentile.
*
Spleen
Insonne, di deserto pianto
sonnambuli i ricordi
vidi il fiume farsi lebbra
perdere la pelle fino a sera
fino a sera vidi la pioggia
passeggiare sulle finestre
nessun dolore: mi sfianca
ciò che desidero
le sue labbra, gli occhi
sono l’ombra di un’ombra
finché mangiare il suo cuore
fu l’opera del nulla
pensai di poter piangere
ma i ricordi non mi danno tregua.
*
Vitae summa brevis spem nos vetat incohare longam
Non durano a lungo il pianto e la gioia
l’amore, il desiderio e l’ira:
una volta varcata la soglia
non faranno più parte di noi.
Non durano a lungo i giorni del vino
e delle rose, nebbie fugaci:
il nostro sentiero si scorge a mala pena
per svanire in un sogno.
*
Ruderi
Il fuoco si è spento, non scalda più
(così svanisce ogni umano canto).
Il bronzeo vino è finito, resta il sedimento
amaro come l’assenzio, salace come il dolore.
Il bene e la speranza, insieme all’amore,
sono ora nel tetro teatro delle cose perdute.
Gli spettri non ci danno tregua: questa
era un’amante, quella, forse, un’amica.
Con occhi bianchi, indifesi, sediamo, aspettiamo
che cali il sipario, che il cancello si chiuda:
così svanisce il rudere di ogni umano canto.
*
A una ragazza che fa sciocche domande
Perché ti chiedo scusa, Cloe? Perché la luna
è lontana e io sono costretto a questo angusto astro.
Perché il tuo viso è bello? E se non lo fosse?
Il viso più bello è quello che non ho mai visto.
Perché la terra è fredda e per quanto lo desideri
non trovo una nave che mi porti nella terra di nessuno?
Perché le tue labbra sono rosse e il tuo petto fa vergognare
le nevi? Dove sono diretto non esistono né rosso né neve.
Perché le tue labbra impallidiscono e il tuo petto crolla?
Vedo dove soffia il vento, Cloe, e non devo chiederti scusa.
*
Altrove
Le conseguenze dell’amore!
Credo sia ora, dobbiamo separarci
e razziare il più triste di tutti i raccolti
le conseguenze dell’amore.
Ieri eri dolce, poi cominciò il pianto
una piantagione che non puoi più arginare
ecco la nostra vigna! Baci che raggelano
il cuore, gelide labbra, sguardi in contorsione:
no, non possiamo separarci, eppure
muti, mietiamo ciò che abbiamo seminato,
le conseguenze dell’amore.
*
Impenitentia Ultima
Prima che la luce si spenga per sempre, non vorrei che Dio
mi conceda altri giorni, né che le cose risorgano nel ristagno;
così grido: “Un solo giorno tra i grandi perduti giorni, un solo
volto tra tutti i volti, ti chiedo di farmi vedere prima del nulla
perché, o Dio, sciolto dai Tuoi fiori ho scelto le tristi
rose del mondo: per questo ho i piedi laceri e gli occhi acini accecati
dal sudore, ma al Tuo terribile tribunale, quando questa vuota vita
si concluderà, salderò il mio debito, raccoglierà ciò che ho seminato.
Eppure, una volta che la sabbia è scorsa e il filo d’argento
spezzato, ti prego, concedimi una grazia, concedimi
un’ora tra tutte le ore, un’ora soltanto, e fammi vedere
pari a un sigillo, i suoi occhi sgargianti che piangono”.
Le sue mani mi acquietino, i suoi capelli mi crocefiggano
lontano dall’abisso della notte, fuori dalla porzione della paura,
che i suoi occhi siano la mia guida mentre il sole si spegne
che la sua voce sia l’estremo bocciolo nel cavo delle orecchie.
Prima che le acque trabocchino rovinose, che la vita sia vinta
e che la Tua ira mi fucili come un bimbo che recide un fiore
ti loderò, Signore, dagli Inferi, con le membra dilaniate
per l’ultima visione del suo viso, la breve grazia di un’ora, la garza.
L'articolo “Sono un idolatra. Vagammo, attratti dal sogno”. Ernest Dowson, il
poeta che fu leggenda (e che ha ispirato i Cure) proviene da Pangea.
Mi rivolgo a te con parole come carezze di cardo, facendo delle mie spine un
lambire delicato, senza bardature morali, infine, e armamentari retorici.
Hai veduto, credo, quanta poca virtù alligni nella forza di chi mostra sicumera,
e quanta sapienza virtuosa in quella più dimessa di chi sorregge grandi pesi
senza farne mostra o parola.
Trovo sempre più vasto lo sguardo di chi guarda al mondo con cuore semplice, e
di semplici, buone cose si nutre con la gioia manifesta di un bimbo che riceve
qualcosa in dono. Sia il mondo di coloro i cui sogni non poggiano solo su di un
guanciale. La mia parola, vedi, è ben umile cosa: artigianato e non arte –
sebbene le due cose non fossero così distanti tra loro nell’epoca fiorente delle
botteghe.
Non sono solito far tuonare la parola contro coloro che peccano, e so bene che
se esiste un Dio non si volge all’umana fallacia come se dovesse compilare un
libro mastro delle qualità e dei difetti. Faccio tuonare la parola, piuttosto,
contro coloro che non solo pianificano scientemente il male ma sono per
soprammercato incapaci di concepire il bene. Dio, però, e preferisco perseverare
nell’idea che esista oltre o prima di ogni iconografia, non è un notaio
dell’anima e nemmeno un cecchino dei cuori. Ho visto persone fare il male con
una innocenza bestiale ed essere ugualmente capaci di volere il bene senza
niente in cambio. Credo piuttosto che la malvagità sia insita nel progettare il
male, come suggerivo, nel renderlo numero organizzato, nel farlo divenire una
cosa seriale e un’abitudine. In questo i potenti sono maestri e capaci di ideare
falsi valori, idoli osceni, inclinazioni coatte, dispositivi senz’anima di
azioni simili ad automatismi. In tutto questo vorrei sempre che la poesia che
concepisco potesse essere trasversale, laterale a ogni acquisito, e ficcante
abbastanza da insinuare dubbi e domande, piuttosto che proclamare certezze.
D’altra parte, se il poeta fosse solo fingitore, la poesia sarebbe ben misera
cosa, il fatto è che il poeta finge, sì, ma sempre guarnendo la finzione di un
po’ di verità; o forse è proprio un certo tipo di finzione che è realmente
depositaria del dono di saper suscitare emozioni e pensieri veritieri. Ma non è
ancora questo il nodo. Fingere non significa necessariamente mentire,
esattamente come dissimulare non è sempre nascondere.
Forse il vero poeta finge un ruolo, una postura, uno stratagemma e una
disposizione, solo per aggirare l’ovvio e mettere in luce ciò che è nascosto,
recondito ma vero sebbene esule dall’attenzione dei più. Creare ha in questo
senso la pienezza, l’abbondanza di sé, e la veritativa sostanza, di ciò che
eccede le misure note e trabocca, promana ancora prima dell’intenzione di farne
dono o materia di scambio. Io, personalmente, creo come un invasato perché sento
l’impellenza di non volgermi all’indirizzo di questo o quel tipo di lettore, ma
nella speranza, sempre ferma e genuina, di traslare ciò che ho dentro fino al
punto di non appartenermi più, fino al punto di sorprendermi io stesso che le
sue caratteristiche siano più evidenti se adulterate dalla fantasia, che non
messe brutalmente in pedissequo elenco.
L’artista crea mondi ma non ne è padre, in qualche modo egli è solo un tramite,
prende in prestito qualcosa di comune e lo volge allo straordinario, prende in
prestito storie e paesaggi dell’esistere non comuni e restituisce la familiarità
di ciò che è vita senza apparenti eccezioni. Il suo è uno sguardo trasmigratore.
Egli conosce bene gli artifici e usa mille trucchi, esattamente com’è capace di
denudare la parola, renderla essenziale e parca, ma tutto questo avendo ben
presente che le due cose coincidono e si equivalgono, laddove si testimonia non
tanto di sé quanto di un sé che ridonda di altri ed altro, di un sé libero di
essere ovunque e in ogni tempo, ma mai in ritardo o fuori luogo.
Vorrei che tu sapessi che nella vita io ho molto sbagliato e perseverato
nell’errore e nell’ingiustizia; proprio per questo quando scrivo cerco di
colmare ciò che è in difetto, ricucire ferite, rimettere debiti, raccogliere la
voce di chi soffre in silenzio, soprattutto di sé, e renderla scudiscio e
carezza, ruggito e silenzio, un dono infine, che non ha l’intenzione del dono, e
soprattutto è tale verso me nel momento stesso che è raccolto da un’anima –
forse lontana fino allo stemperare della propria traccia, ma pur sempre sorella
in questo umano cammino.
Penso che questo possa essere l’inizio di un gesto di avvicinamento, ispettivo e
cauto, ma tale, di dialogo tra noi.
Massimo Triolo
*In copertina e nel testo: Johan Christian Dahl (1788-1857), Studi di nuvole
L'articolo Breve lettera a un’anima sorella sulla condizione del poeta e
questioni affini proviene da Pangea.
Di solito, la storia delle religioni da’ su un bivio implacabile. Da un lato, la
via della Legge – il viatico dell’obbedire – dall’altro quella del cuore –
l’ammutinamento a sé, la più sublime obbedienza. Da una parte, un radicare il
dio in questo mondo, nel mondano; dall’altra, sradicarsi dal mondano, tornare
mondi, rientrare nel feto del tempo, in un perpetuo primo giorno del mondo. La
via ‘legalista’ – che è poi: riflessione nei meandri dei sacri precetti – ha la
sua ancella nella vita ‘attiva’: il fedele partecipa alla Storia, si fa carico
delle storie di tutti, è presente nel ‘sociale’. La sua vita è moralmente
integra: mira a creare una città celeste nelle nostre metropoli. Al contrario,
c’è chi smaterializza la Legge fino al simbolo, fino al suo superamento; si fa
estraneo alla Storia perché partecipe dell’Eterno, non contempla il ‘sociale’ –
pur amando l’uomo come amerebbe un insetto o una pietra – perché tutto è già
salvo: la ‘non azione’, o meglio, la contemplazione – questa è la sua via – lo
porta a estraniarsi dal mondo, a preferire la solitudine. Per gli uni, è da
attendere il Giudizio, che separerà i retti dagli irredenti, per quest’altro il
Giudice ha i contorni sconfinati dell’Amato. All’agorà, all’assemblea, costui
preferisce il deserto – perché soltanto lì potrà rinfocolare un eden, un
giardino –; alla politica predilige i sentieri dell’apolide, alla teologia la
fame, ai paramenti sacri la nudità, al rito la preghiera incessante. Il suo
spazio non è il tempio – angusto chiavistello di Dio – ma il vento, l’incavo tra
le rocce e il roveto, il fuoco e la nube: i luoghi dove agli esordi Dio parlava,
muggiva, fischiava.
Queste due dimensioni – la prima alla luce degli eventi storici, l’altra nelle
tenebre del nascondimento: ma lo spettro di tale lucore è illusorio – presiedono
ogni sentiero spirituale; a volte sono in contrasto, di certo non sono
sovrapponibili. Se il rischio del primo livello è la retorica fine a stessa, il
formalismo, l’Iddio bigiotteria, l’Iddio orpello; quello del secondo è l’afasia,
l’abulia, la confusione tra miracolo e miraggio, fino a fare del deserto un
idolo, della solitudine una regola, una reggia. Al contrario, la via ‘negativa’
incendia ogni norma, ogni ‘normalizzazione’: la regola è l’irregolare, a lambire
il fuorilegge, dacché, per natura, nulla è fuori dalla legge di Dio.
Nato nel gennaio del 1630 in Punjab, all’epoca dell’India Moghul, di Sultan Bahu
sappiamo poco, oltre i veli dell’agiografia, Manaqib-i Sultani, scritta molti
anni dopo la sua morte, accaduta nel 1691. Da ragazzo, amava vagare nelle
foreste; fu la madre, Ravi, nel tentativo di avviare a un destino a temperatura
spirituale quel figlio indocile, ad affidarlo a un maestro sufi. Bahu studiò a
Delhi, si affratellò alla Qadiryya, l’ordine fondato da Abdul Qadir Gilani,
diffuso in India, Pakistan e Afghanistan. Visse scrivendo, insegnando una rude
compassione; fondò una confraternita, “Sarwari”, che predicava l’annientamento
in Dio, l’inutilità dei precetti esteriori, la folgore di un contatto diretto
con il divino. Esprimeva i suoi insegnamenti in poesie di glaciale nitidezza,
sagaci nel paradosso, nell’esasperare i modi della poesia persiana: l’estro
erotico (tipico in Hafez, ad esempio) si esaurisce nella meditazione, in quel
rogo azzurro; il cuore non è più un incendio ma un oceano. A volte, Sultan Bahu
procede per terzine polemiche, che stigmatizzano chi crede di poter ingabbiare
Dio in un luogo, un lemma, un codice:
> “Dio non giace sui troni, Dio non è imprigionato alla Kaʿba
> non troverai Dio nei libri, Dio non è nel mihrab, nel mirare alla Mecca.
> Egli non si sprigiona se nuoti nel Gange o se intraprendi un pellegrinaggio”
La purezza non proviene dal fiume, la fede non si basa sui ‘pilastri’
dell’islam. “Le poesie mistiche di Sultan Bahu esprimo una critica alle forme,
alla cristallizzazione legalista, alle istituzioni del religioso; egli crede
nella possibilità di una relazione individuale con Dio. Bahu enfatizza il punto
centrale del Sufismo: l’assoluto amore, la profonda dedizione a Dio sono il
risultato di uno smarrirsi nel divino. Per ‘annegare in Dio’ è necessario
eliminare tutti gli ostacoli, i desideri, gli umani affetti, l’attaccamento al
mondo carnale, transeunte. Attraverso un sistematico distacco dal mondo e la
pratica dell’ascetismo sotto la guida di un maestro – cioè: meditando
incessantemente il nome di Dio – il Sufi avrà successo e domerà l’anima” (così
Jamal J. Elias in Death Before Dying. The Sufi Poems of Sultan Bahu, University
of California, 1998).
A dire di Sultan Bahu, l’intelligenza serve a sbriciolare l’intelletto, la
cultura distoglie dalla ricerca del vero, la cui lampante evidenza è avvelenata
dai chiosatori. Come tutti i mistici, i poeti-profeti, Bahu ama guerreggiare con
il linguaggio attraverso l’arma del paradosso:
> “Per rintracciare l’Amato ti basti la prima lettera, alif
> non hai bisogno di aprire il Corano”.
Nel suo vagabondaggio nelle tane dell’eterno, Bahu sembra oscillare tra la
“preghiera del cuore” – l’insondabile mantra, auspicio di una perdizione che
orienta, lanterna degli esicasti e del ‘pellegrino russo’ – e i “doveri del
cuore” (Chovot ha-Levavot, il trattato di Bahya ibn Paquda, rabbino vissuto
nella Spagna islamica un millennio fa). Eppure, gli è necessaria la poesia,
garrulo dire da fedele in disgrazia, il cui alimento è l’amore:
> “Come il falcone è impedito al volo se gli legano le zampe
> così, senza amore, Bahu smarrisce ogni parola”.
Sapienza degli insipienti, vocabolario di analfabeti, gloria degli ignoti e
degli ignavi, vita da lebbrosi d’amore: ogni contrasto è varcato da chi percorre
la via negativa. Il frainteso è ovunque, le trappole degli artificieri
d’accademia pure: la vera fede è tacciata di infedeltà, l’innocenza presa per
abominio – ma è proprio quello il segno. Della vita di un uomo, a ben dire, non
resta che il sussurro, il flebile fiorire di una leggenda – un’esasperazione di
oasi. Chiameremmo colibrì quel Corano colabrodo – di lui diranno: si è fatto in
briciole per attirare Dio, perché se ne nutrisse, a piene mani.
*
Sultan Bahu
(Shorkot, Pakistan, 1630 – Jhang, Pakistan, 1691)
Sei infimo se infine
all’essenza divina
non ti affratelli
Fa’ razzia del tuo io
fai a pezzi quella iena
Se i desideri ti sovrastano
resterai uno svergognato
Uno che vive già nella tomba
*
Non sopporto la padronia
del cuore – i desideri
mi logorano
Gli amici non sanno
acquietare il cuore
l’amore è un incendio
Nell’arena dell’amore
tutto arde e tutto muore
Mi sacrifico perché Bahu
persiste nell’impazienza
*
Pietà inondi Shorkot
la città di Bahu
Pietà ammanti
cercatori e pionieri
con la stessa cura
con cui il giardiniere
accudisce i fiori
La divina visione della Pietà
si appropria di te all’istante
Bahu, l’uomo nobile,
accoglie l’amato nella sua casa
*
Vivi nel canto:
sei un discepolo
diventa cercatore
Aggrappati al manto
del maestro – un maestro
diventa
Immergiti nel credo:
se pronunci
continuamente
il nome di Allah
Allah ti purificherà
*
Chi pratica lo spirito
senza la sapienza
è un infedele e morirà
demente
Lo adorano da secoli
ma nessuno conosce Allah
L’ignoranza erige templi
in cui dimora un idolo
analfabeta – c’è
Chi attenta all’Unità
dell’Uno: a lui io
mi attengo
*
Non ha luogo l’intelletto
non ha casa il pensiero
nelle segrete del Glorioso
Non esistono mullah
né astrologhi né chi strologa
in teologia – tutto
Ha annientato il Divino
Io, Bahu, ho avuto accesso
ai misteri della sapienza
senza aprire alcun libro
*
L’amore arde e mi chiama
alla preghiera – le orecchie
rispondono alla chiamata
Eseguo l’abluzione nel sangue
Allah mi chiama, vuole
che io mi annienti:
Nessun ritorno è possibile
Chi accoglie la chiamata
realizza il sapere
*
Soltanto un vero
amante può eseguire
la preghiera d’amore
che non ha parole.
Nessun altro può cantare
l’inno d’amore: egli
Esegue l’abluzione con il sangue
del cuore e le lacrime degli occhi
La lingua non si muove
le labbra non tremano:
questa è la vera preghiera
*
Se ami sei nel rogo
e il tuo cuore è una montagna
Nemici a frotte
fiottano insulti: per te
non sono che prati in fiore
Come Al-Hallaj crocefiggi
il tuo segreto: non
Desistere dall’umiliazione
che continuino a dirti infedele
*
Chi ama vaga
nell’incendio
Vive in due mondi
chi ha donato l’anima
all’Amato
Perché accendere una lampada
quando il cuore è già luce?
Oltre i regni dell’intelletto
Bahu annienta ogni
forma di intelletto
*
Il cuore è un abisso
più profondo dei fiumi
e degli oceani: chi può
dire di conoscerlo?
Nei suoi meandri:
velieri e zattere
alberi e mozzi – come
una vela si dispiegano
i quattordici regni
tra gli spiragli del cuore
chi ha confidenza con il cuore
detto Bahu sarà amato
dal Salvatore
L'articolo “Fa’ razzia dell’io, fai a pezzi quella iena”. Le poesie mistiche di
Sultan Bahu proviene da Pangea.