Morì nel 1492, secondo il calendario d’Occidente, Jami – un anno fatale.
Cristoforo Colombo aveva scoperto l’America; il Sultanato di Granada, ultimo
lembo musulmano in Spagna, veniva definitivamente corroso. A suo modo, anche la
figura di Jami è uno spartiacque tra il vecchio e il nuovo mondo della poesia
persiana – con lui, un pioniere, benché radicato nella tradizione, un’epoca
finisce. Mahmood Jamal, ideatore, per Penguin, della più nota antologia di
poesia Sufi, Islamic Mystical Poetry, lo definisce “l’ultimo grande poeta
sufista, l’ultimo grande interprete della lirica persiana”.
Mawlanā Nūr al-Dīn ’Abd al-Rahmān – questo il nome autentico, per esteso –
nacque a Torbat-e-Jam, nell’attuale Iran, al confine con l’Afghanistan, nel
1414. Fu il padre a introdurlo alla mistica Sufi, dopo averne saggiato i
‘segni’. Jami – il nome proviene dal luogo natio; così il poeta si celebra in un
distico: “Jam è il mio paese natale, del miele di Ahmad/ si è abbeverata la mia
profetica penna” – perfezionò gli studi a Samarcanda. Nel curriculum di un
sapiente dell’epoca, la conoscenza lirica – necessaria ad assurgere a Dio, ad
assaggiarne il nettare – si mescola a quella scientifica, terrena: all’uomo
compiuto è chiesto di unire cielo e terra nelle proprie mani, di divorarli. Di
Jami, tra i molteplici scritti – un’ottantina – resiste uno studio per
progettare strumenti idrici ancora efficaci. Conosceva i metodi per irrigare a
dovere i campi – i modi per dare acqua agli assetati di sapienza.
Per un po’, pensò di unirsi totalmente a Dio, mollando il mondo con radicalità
catacombale. Infine – sedotto da un sogno, certo di averne intuito i rivoli
simbolici – sposò la nipote del suo maestro, Kasgari. Ebbe quattro figli – tre
morirono poco più che neonati; il dolore, a fendenti, istruì Jami negli
impossibili meandri della perseveranza. Ebbe incarichi a Herat, dove edificò la
sua scuola; dominavano i Timuridi, gli eredi di Tamerlano. Fu attratto dalla
dissoluzione del sé – a tratti, disse di sentirsi “sparire” – e lo sentì
“spaventosamente”.
Nei suoi insegnamenti mistici, Jami enfatizzava la via dell’amore – “O Jami,
solo Amore è la via verso Dio:/ la pace ammanti chi segue la vera via” – l’unica
capace di scuotere l’uomo dal mondo. Credeva nella veglia incessante, nella
pratica del silenzio, nella meditazione che porta a confondere il proprio stato
terreno con quello celeste. Credeva che l’uomo può – scotennando la propria
crosta transeunte – sbocciare in creatura angelica. Uomo, crisalide di Dio.
Scrisse che Dio è ovunque, che si manifesta in ogni cosa, che il compito del
seguace Sufi è assurgere alla dimensione del ‘santo’, colui che supera l’etica
della differenza, le istituite distinzioni, al di là del bene e del male,
immerso nell’ardore.
Radunò una serie di celebri “Fiabe mistiche” che sfociano in una morale
spiazzante rispetto ai canoni mondani. È nella poesia, tuttavia, che si
consolidano le sue esperienze mistiche e sapienziali. È vero: Jami non è un
innovatore – sarebbe inesatto intenderlo come un ‘esecutore’. Egli porta a
compimento il ciclo della grande poesia persiana – di Rumi, di Hafez, per
intenderci – riutilizzandone codici e cliché; eppure, alcune sentenze trovano
nei suoi versi una freschezza arcana, immotivata, soltanto sua. Tentò di elevare
l’uomo dalle ganasce del pensiero, dai sofismi, le levatrici del maligno;
scrisse che “Ogni pensiero/ che non sia memoria di Dio è malvagio”.
Un’epigrafe irradiava, dalla tomba, il suo estremo sentire. “Quando il tuo viso
si nasconde, come la luna è nascosta dalle nuvole oscure, stillo lacrime
stellari: nonostante le stelle, a miriadi, rimane buia la mia notte”. È bello –
nei giochi delle corrispondenze – tracciare avidi legami, impossibili, con
Giovanni della Croce (uno spagnolo, non a caso). Anche in Jami, il rovesciamento
dei simboli è totale: ciascuno sperimenti la propria notte, fino alla cecità. In
sovrappiù, Jami identifica l’andare ‘lunatico’ dell’Amato, la necessità del
pianto – quasi che le stelle non siano che lacrime cristallizzate. Del sapiente,
svanì la tomba, il corpo, l’eremo del pianto.
Agli studenti che gli chiedevano di essere ammessi alla sua scuola, Jami
chiedeva, anzi tutto, se fossero mai stati innamorati. Di fronte a chi diceva,
con servile severità, di non aver mai amato, rispondeva, “Vai – ama – poi
ritorna: ti mostrerò la via”. A dire che non esiste ascesi senza l’abisso della
carne, la rovina del corpo – sfigurarsi sullo spigolo di questa terra.
***
Nel giardino
Nel giardino, sulla riva del fiume
con il calice in mano:
Sorgi, Saqi! Versami il vino!
L’astinenza qui è crimine!
Lo Sceicco è ubriaco di religione:
la paura affolla le moschee,
ma la vera estasi permane
nella bettola piena di ubriaconi.
Hai baciato il calice con le tue
labbra: ero così ubriaco che
non ho distinto il rosso della
tua bocca dal rosso del vino.
Non devi sguainare la spada
per spezzarmi il cuore:
trattieni le armi, il tuo sguardo
è un dardo sufficiente.
Agli uomini che confidano
nella ragione non spiegare
le pene d’amore; non svelare
tali segreti ai mediocri.
Jami è ubriaco del tuo Amore
e non ha ancora cominciato
a bere: in questo banchetto
nessuno ha bisogno di vino.
*
Il senso dell’insensato amore
Quando l’eternità sussurra “Amore”
Amore mette il fuoco nello stilo.
La penna sorge dall’eterno desco
e disegna ogni bellezza possibile.
I cieli sono i virgulti di Amore
gli elementi vengono al mondo grazie ad Amore.
Senza Amore non capisci il bene né il male;
ciò che orbita lontano da Amore è inesistente.
Il tetto azzurro del mondo
che ruota lungo le vie del giorno
è il Loto del giardino di Amore
è l’elsa del bastone di Amore.
Il magnete nel cuore della pietra
che costringe il ferro a scalpitare
è Amore dalla volontà ferrea
appare nell’abisso della roccia
contempla la pietra nel suo riposo
e ama chi lo ama. Da qui
proviene il dolore di chi è lapidato
dall’Amore per l’Amato.
È vero: Amore reca dolore
ma è anche il più puro conforto.
L’uomo non può sfuggire al ciclo
della vita e della morte senza la benedizione di Amore.
*
O Tu, la cui bellezza è in tutto ciò che è manifesto
possano mille venerabili spiriti essere il Tuo sacrificio!
Come un flauto canto il canto della separazione
da Te, anche se mi sei vicino in ogni istante.
L’Amore si rivela in tutto ciò che vediamo:
a volte ha le vesti di un re, altre volte
è un mendicante, vive per strada
ha la ciotola dell’elemosina in mano.
Issati, o Saqi, e versa il vino
che lenisce il dolore dai nostri cuori!
Quel vino ci libera dall’onnipotente io
gettandoci nella certezza del Potente.
O Jami, solo Amore è la via verso Dio:
la pace ammanti chi segue la vera via.
*
Sono così ubriaco che il vino mi esce dagli occhi;
il mio cuore è in fiamme: sento il suo odore mentre brucia!
Se l’Amato si presenta a mezzanotte senza veli
un anziano estremista scapperà dalla moschea.
Ti ho visto all’alba e ho dimenticato di pregare:
è inutile la supplica quando il sole sorge.
Su una goccia del dolore di Jami cadesse nel fiume,
i pesci, arsi dal dolore, balzerebbero a riva.
*
Ti attraggono le forme terrene:
il destino le incenerirà tra un attimo –
va’ e dona il tuo cuore a chi è sempre
stato con te e con te resterà sempre.
*
Ho vissuto rincorrendoti – ho lottato
per unirmi a Te: intuire il tuo sguardo
tra fraintesi d’ombra è preferibile, per me,
che assaggiare le più belle bellezze della terra.
*
Oh, mio cuore… quanto ancora cercherai
il perfetto nelle scuole, per quanto tempo
continuerai a perfezionarti con la filosofia
e le regole matematiche? Ogni pensiero
che non sia memoria di Dio è malvagio.
Inchinati davanti a Dio, slaccia da te
ogni pensiero, molla il mondo dei concetti
ai filosofi, agli stolti intellettuali!
*
Il mondo esiste grazie a Te
ma di Te non c’è traccia:
benché Tu non abbia bisogno
di me, io vivo per Te.
*
Il vicino e il parente, lo straniero e il vagabondo:
tutti sono Lui! – Lui è nell’abito del mendicante
e nella stola del re. Nelle assemblee e nelle alcove
nei tribunali e nei postriboli, Dio è in tutto, il tutto è Lui.
*
Senza velo non posso vederti
senza schermo non posso fissarti:
prima devo raggiungere l’illuminazione.
D’altronde, chi può scrutare le sorgenti del sole?
*
Se vuoi essere l’inquieto usignolo, diventa usignolo!
Tu sei una parte e la Realtà è il Tutto:
per qualche giorno medita sul Tutto, diventa Tutto!
Se nel tuo cuore appare una rosa, diventa quella rosa.
**
Fiabe mistiche
Un cammello e un asino marciavano assieme. Giunti alla riva di un fiume, il
cammello si immerse per primo in acqua. L’acqua gli arrivava poco oltre le
ginocchia, refrigerando appena il corpo. Così disse: “Vieni anche tu, il fiume
mi arriva soltanto ai fianchi!”. “Ti credo”, rispose il saggio amico dalle
lunghe orecchie, “ma noi siamo molto diversi: l’acqua che ti arriva ai fianchi
mi sommergerebbe la schiena…”.
Il saggio rifiuta di farsi condurre oltre le profondità che conosce.
*
Il cane e il pane
Un cane, straziato dalla fame, stava alle porte di un villaggio quando vide una
pagnotta rotolare fuori dalle mura e dirigersi verso il deserto. Il cane si
lanciò all’inseguimento, corse, gridando, “Oh Bastone della Vita, Potenza del
Viaggiatore, Oggetto del mio Desiderio, Consolazione dell’Anima! In quale
direzione volgi i tuoi passi, dove stai andando?”
“Nel deserto”, gli disse il pane, “a trovare i miei amici, il lupo e il
leopardo, per ricambiare la visita che mi hanno fatto, un tempo”.
“Il tuo discorso sprezzante non mi spaventa”, replicò il cane, “ti inseguirei
nella bocca di un coccodrillo, tra le fauci di un leone. Se rotolassi per tutto
il mondo, ti inseguirei comunque”.
Chi vive di solo pane si sottomette, per averlo, ai più vili abusi: è come un
cane famelico.
*
La vespa rossa e l’ape
Una vespa rossa, un giorno, attaccò un’ape, desiderosa di suggere della sua
dolcezza. L’ape iniziò a piangere dicendo: “Circondanti come siamo dal più puro
miele e dal dolce nettare dei fiori, perché insegui soltanto me, abbandonando
tutto il resto?”. La vespa rispose: “Se c’è del miele al mondo, tu ne sei la
fonte; se c’è dolce nettare, tu ne sei la sorgente”.
Felice l’uomo che distingue il vero dal falso e rifiuta di accettare il poco.
*In copertina: Y.Z. Kami, Endless Prayers XXVIII, 2009
L'articolo “Se nel tuo cuore appare una rosa, diventa quella rosa”. Jami, il
poeta sapiente proviene da Pangea.
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Quale traccia di senso è liberata dal nostro tempo? Derrida parlava di “aporia”
come assenza di esito e, quindi, di compimento (vedi J. L. Nancy, Derrida da
capo, in A partire da Jacques Derrida, Jaca Book, Milano 2007, a cura di
Gianfranco Dalmasso). Per questo, l’unico senso possibile sembrerebbe
indecidibile e disseminato, senza origine e senza identificazione, puro mistero
metafisico e consapevolezza di un’alterità impensata e, perciò, per sempre
impensabile. No-where perenne e allo stesso tempo qui e adesso, questa è la vera
“oltranza” e il fuori confine: l’accensione costante di un senso che contiene la
sua caduta, che non può comprendersi se non in avvii improvvisi che, però,
covano nel tempo, come una “nube della non conoscenza” post litteram:
> come se il mio ventre covasse una bomba
>
> (Antonio Porta, Airone)
l’intera vita non è altro che desiderio e attraversamento costante di frontiere
che riportano l’ombra di una percezione incomprensibile e rigiocano l’origine
nel continuo ri-chiamo che è verso e parola, balbettio di nuovi linguaggi per
tornare ancora a smentire la tensione, l’accecamento della relazione e il suo
ritardo. Il soggetto diventa “realtà espressiva”, avrebbe detto Raboni, e la
realtà di mondo che implica l’identità si formula solo attraverso l’intreccio
indissolubile e l’aspirazione costante. Il “suono del contatto” che è l’airone
di Porta funziona come sentimento e avvertimento (“avverto il sobbollire nello
scroto”) per una sessualità al suo risveglio, la tensione relazionale, la
ri-nascita continua del contatto desiderato, fecondazione e spargimento e allo
stesso tempo rimando e resistenza: uomo “umile dio del suo corpo” che “resiste
sulle rive dei fiumi”.
L’uomo è come l’airone? Simbolo transizionale ma riconoscibile “non troppo uomo
non troppo animale” “quando muove le zampe / nei primi passi della danza
amorosa”, si apre ai limiti dell’identità individuale, alla trasformazione
restando se stesso
> come la cagna
> lupa affamata insegue disperata
> la lepre elegante troppo veloce
> quasi non si fa distanziare nel breve piano
> ma alla soglia di un boschetto
> tra i primi cespugli quella sparisce
> perché la cagna è vecchia ormai
> e la sua fame non diminuisce
> come la sua crudeltà di prima,
> della sua giovinezza,
> così la chiamiamo: crudeltà
> invece è fame
> di mille altre lepri
> eleganti paurose prudenti veloci
> di continuo nascono e muoiono al mondo
> inseguite inseguitrici,
> è tanto semplice, infine,
> quando la vita mostra di bastare a se stessa
> riflessa nei nostri occhi puntati
> dalla cima della collina
> come nei tuoi specchi ciechi, airone
La frontiera tra il boschetto e la “semplice vita” è l’età, la soglia
dell’abbandono nonostante il desiderio sia ancora “affamato”, la frontiera è
“nascere e morire, / rinascere e volare via” come l’airone-angelo indica.
Messaggero di relazione,
> ilare sorgente ultima di melodia
> contro la sua assenza di voce, airone,
> i tuoi striduli messaggi,
> hai partorito l’invisibile usignolo
la musica dell’invisibile è l’ultima e prima sorgente di senso. Marc Augé diceva
che “una frontiera non è un muro che vieta il passaggio, ma una soglia che
invita al passaggio. Non è un caso che gli incroci e i limiti, in tutte le
culture del mondo, siano stati oggetto di un’intensa attività rituale. Non è un
caso che gli esseri umani abbiano dispiegato ovunque un’intensa attività
simbolica per pensare il passaggio dalla vita alla morte come una frontiera: è
solo grazie all’idea che la si possa attraversare nei due sensi che la frontiera
non cancella irrevocabilmente la relazione fra gli uni e gli altri” e
“l’illusione, diceva Freud, è figlia del desiderio”.
Il desiderio è il problema dell’identità, del dio di cui l’airone è il feticcio,
quasi un albatro rovesciato, cioè il “dio oggetto” simbolo di una realtà di cui
si tenta ancora di cogliere il senso. Riassumendo ancora Augé (Il dio oggetto),
il senso del limite e il limite del senso hanno in ogni cultura un nonluogo
pensato e vissuto con e nel sistema generale dei valori della vita, che solo il
rituale è in grado di individuare e re-inventare, aggiungerei, come l’airone di
Porta:
> Nel tuo volo immagino, Airone
> osservi le ferite della Terra
> scopri l’opera dell’uomo
> dove senza sosta rivoli di sangue
> e la fame morde
> camminano uomini che non possono
> essere ancora uomini
> e ci porti testimonianza
> del silenzio di morte
> e ci imponi di ammutolire
> con te sorvoliamo un luogo
> che è un luogo più di ogni altro di tortura
> El Sexto, il carcere di Lima
> dove i perduti rinchiusi
> leccano per sete il sangue delle ferite dell’altro rinchiuso
> si sappia non si dimentichi che cosa
> all’uomo nasce dall’uomo, fratello
> come non chiamarti fratello che ti rifiuto
> Airone hai due occhi come ribes purpurei
> mi chiedo se sono ciechi
> solo un puro ornamento
Un rituale che è cammino costante verso frontiere inaudite e incomprensibili,
verso un’ibridazione di forme per “continuare a nuotare”, “sollevarsi tra gli
dèi / e sprofondare nel cuore marino” o nell’ “intorno” (il mondo) “cerchiato
dai boschi pieni d’ombra / dove altri dèi dormono in silenzio / visibili
invisibili”. La nuova frontiera è “il fuoco puro dell’energia” (metafora
nucleare) che annienta il vecchio soggetto, il concetto stesso di uomo e
l’identità per come l’abbiamo conosciuta:
> ci sarà non io
> e il pensiero non mi dà tristezza né gioia
> ma quiete, soltanto, felicità del limite
Siamo nella fase liminare della rinascita, in un mondo intermedio e in transito
ma bloccato all’azione, in uno stato di perenne immaginazione. Come viene detto
in La nube della non conoscenza, siamo nella “facoltà attraverso la quale ci
rappresentiamo tutte le immagini di cose assenti e presenti. Sia essa che gli
strumenti per mezzo dei quali essa opera”, in attesa di una “grazia” che
interrompa la proiezione di “differenti immagini illusorie di creature
materiali” e indirizzi alla pratica di diverse ritualità relazionali:
> come in attesa di essere ancora luce
> all’alba quando il conflitto si placa e si racchiude
> in un uovo minuscolo
> dove già pulsa il cuore di un usignolo
> dove batte il minuscolo mio cuore neonato
> come milioni di altri muscoli nascosti
> potenti macchine da guerra che avanzano
> che scuotono la cintura della terra
> e misurano ogni altro respiro
La rinascita in nuova forma dentro la metafora del volo, nell’Airone di Porta,
demarca l’urgenza di liberazione dall’impasse concettuale che vede l’essere
umano stretto nella sua stessa definizione, come una lingua morta che vuole
rinascere dal solco della sua scomparsa: volare per essere risucchiato “verso un
passaggio strettissimo”, per poi essere partorito “in una forma che non conosco
ancora”.
“L’anticipo nel desiderio…”, quel desiderio di cui dicevamo in precedenza, è il
margine (la frontiera) che non annienta il sociale per manifestare il principio
di senso (ancora Augé, per cui nel passaggio-limite è ravvisabile la “grazia”
come base “concreta” che non riesamina l’origine ma si arrende alla
trasformazione) ma è punto di arrivo senza esserlo, un presente che indaga il
passato per scoprire il limite della vita nella sua alterazione. Il futuro è
finito a causa della sua indeterminazione, senza possibilità di rinvio, se non
costante e immanente. La grazia è uno spazio senza speranza che, ugualmente,
tende al semplice riconoscimento di quel che è e ne rende grazie. Possibile
trascendenza di sé nell’altro, la grazia immanente corre sempre il rischio della
disperazione ma anche questo è “un dono che viene da se stesso”; persino
l’airone feticcio, allora, non è più una guida ma un gioco di parole, una
questione linguistica, e come ogni lingua mutuabile, trasformabile (in questo
senso non un cascame, ma un nuovo inizio):
> Ai, nero, qui il tuo inchiostro
> arriva l’intraducibile scrittura
> il filo spinato dei tuoi versi
> aire, no, non spira
> non vola, si chiude:
> è questa la fodera dell’aire immobile
> impermeabile calor bianco
> occhicorallini, biancospada
> buchi il sole debole del crepuscolo
> buchi la piena luna dell’alba, mi chiedo
> come seguire la tua assenza?
Forse camminando in questa assenza, nonostante la fine di ogni fine o il non
finire della fine, possono scoprirsi linguaggi altri, come i riassemblaggi
verbali sembrano suggerire, e perfino la coscienza di sé può sorprendersi
“altra”: “(lo stellato mi ha attraversato senza dolore / ora sono albero, ora
bottiglia)”. Il “terrore della perdita” è la parola ri-trovata nella caduta,
l’incontro col dio è l’incontroscontro col mondo:
> Qui in casa dormono tutti, un’ondata
> improvvisa mi rigetta sulla spiaggia
> a incontrare il tuo becco.
Gianluca D’Andrea
(dicembre 2025)
*In copertina: opera di Helena Almeida
L'articolo “In attesa di essere ancora luce”. L’airone di Porta e la vita oltre
frontiera proviene da Pangea.
Cinquant’anni fa, per Einaudi, usciva un libro straordinario.
Titolo a caratteri cubitali, numero 70 della collana “Nuovo Politecnico”: era
l’8 febbraio del 1975 – la copertina ricordava Malevič (piccolo quadrato rosso
su fondo bianco), l’autore, Roman Jakobson, era noto per essere – così la
bertuccia Treccani – l’“iniziatore del metodo formalista” e “fra i fondatori…
dello strutturalismo in linguistica”; un tempo i suoi Saggi di linguistica
generale erano dati per naturale bagaglio nella ‘formazione’ di uno studente. Il
pamphlet – Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, trenta pagine uscite
in origine nel 1931 – tentava di analizzare “Il problema Majakovskij”: in
realtà, era il più sottile atto d’accusa mai scritto contro il dominio
sovietico. Più in generale, era il più potente atto d’accusa mai scritto contro
ogni potere che per giustificare e assolvere se stesso ha bisogno,
sistematicamente, di eliminare i suoi poeti. Per sussistere, un potere –
tirannico o ‘democratico’ che sia – ha bisogno di cantori; ha bisogno di
assassinare i poeti.
> “Noi viviamo nel cosiddetto periodo ricostruttivo e, probabilmente, produrremo
> ancora non poche locomotive d’ogni sorta e non poche ipotesi scientifiche. Ma
> alla nostra generazione è già predestinata la penosa impresa di una
> costruzione priva di canti”.
Che pena l’epoca – che è poi questa, la nostra – che si svolge “priva di canti”,
priva di incanto.
Nell’introduzione a quel libello che fu incendio, Vittorio Strada scriveva che
“La leggenda di Majakovskij non ha pari nella poesia del secolo”: oggi, della
“leggenda” resta l’infiorescenza bibliografica – Majakovskij si legge senza
scosse, si traduce al merletto, in lode della botticelliana madama Filologia,
non fa più legge, non ‘penetra’ più nelle nostre rivoluzioni domestiche. Roman
Jakobson aveva temprato le proprie scoperte studiando gli sconcertanti poemi di
Velimir Chlebnikov, il suo amico più caro, il più folle.
Poi verranno i Gulag, la “guerra patriottica”, la Guerra Fredda. Verranno
Solženicyn e Šalamov, Brodskij e Limonov. Verranno i reclusi, le accuse, gli
esodi e gli esordi. Roman Jakobson capì per primo l’origine indicibile del
problema: un’epoca “priva di canti” sfocia, con cruenta naturalezza, nella
società del controllo, nella società cannibale – questa. La lista dei
massacrati, degli annientati – che culmina con il proiettile che perfora il
cuore di Majakovskij, un proiettile che potremmo chiamare Zeus – è micidiale:
> “La fucilazione di Gumilëv (1886-1921), la lunga agonia spirituale, gli
> insopportabili tormenti fisici e la fine di Blok (1880-1921), le crudeli
> privazioni e la morte tra sofferenze inumane di Chlebnikov (1885-1922), i
> meditati suicidi di Esenin (1895-1925) e di Majakovskij (1894-1930). Così nel
> corso degli anni venti periscono in età dai trenta ai quarant’anni gli
> ispiratori di una generazione, e in ognuno di essi v’è la coscienza
> dell’ineluttabile condanna, intollerabile nella sua lentezza e precisione”.
Jakobson insegnava a Praga e a Brno; nel 1939, per scampare ai tedeschi, si era
rifugiato a Oslo, per poi trasferirsi negli Stati Uniti. Nel 1962 sarà candidato
al Nobel per la letteratura. Riteneva che i pur “splendidi libri” di Pasternak e
di Mandel’štam fossero “poesia da camera, che non accenderà una creazione
nuova”. Sbagliava. Mentre in Italia usciva – tardivamente – Una generazione che
dissipato i suoi poeti – in una collana che contava, a quei tempi, opere di
Roland Barthes e di Kate Millet, di Enrico Berlinguer e di Franco Basaglia –
Roman Jakobson incontrava, a Stoccolma, Bengt Jangfeldt, all’epoca trentenne,
che sarebbe diventato, come dicono le quarte, “uno dei massimi conoscitori al
mondo dell’opera di Majakovskij” (dida, alle mie orecchie, che sa di dedizione
borgesiana). Jangfeldt – i suoi libri majakovskijani sono editi in Italia da
Neri Pozza – tenne con sé le registrazioni di quegli incontri per un po’; nel
1992 le riunì in un libro, che esce oggi come Io, futurista per Feltrinelli
(nella traduzione di Serena Prina, la grande interprete di Dostoevskij,
Bulgakov, Pasternak).
I russi hanno il genio per l’autobiografia. Tutto ciò che vivono – per una
qualche complicità con l’apocalittica –, anche il più minuto fatto, splende con
la potenza di un’icona, di un annuncio. Scrittori e poeti altrimenti
incomparabili – chessò: Anna Achmatova e Vladislav Chodasevič, Vladimir Nabokov
e Iosif Brodskij – sono uniti dal genio della memoria, dal talento
autobiografico. Nella sua autobiografia più lucida, Uomini e posizioni– ma la
prima, Il salvacondotto, è ben più bella, per folleggiare del linguaggio – Boris
Pasternak scrive che degli anni che precedono e seguono la Rivoluzione, di quel
“mondo di fini e di aspirazioni, di problemi e di imprese prima sconosciuti”, di
quel “mondo unico e senza pari”, “bisogna scriverne in modo tale che il cuore si
stringa e i capelli si rizzino in testa”. Entrambe le sue autobiografie
terminano con il suicidio di Majakovskij – la seconda, l’ultima, accenna
all’altro, il più assurdo e dolente, quello di Marina Cvetaeva. Le memorie di
Jakobson parlano di quel mondo “senza pari” con il cuore spezzato.
Il tema fondamentale è ribadito con costanza senza ostacoli: la Rivoluzione
russa è stata, prima di tutto, una rivoluzione del linguaggio, è stata
una poetica. Come dar torto a Jakobson? Le radici di una nazione – di una
conversione – sono sempre, misteriosamente, liriche. Ogni sconvolgimento storico
ha alla sua base, misteriosamente, un poeta. Walt Whitman e Robert Frost hanno
fondato i momenti miliari della storia degli Stati Uniti d’America; Hugo,
Baudelaire, Valéry e René Char sono le fonti della storia moderna francese come
Wordsworth, Tennyson, Auden e Ted Hughes lo sono stati della storia moderna
inglese. William Butler Yeats ha ‘creato’ l’odierna Repubblica d’Irlanda come
Hugh MacDiarmid è all’origine delle rivendicazioni nazionaliste scozzesi; in
Italia abbiamo avuto, nelle ultime diverse fasi, Manzoni, D’Annunzio, Ungaretti
e Pasolini. Naturalmente, in questa considerazione non conta il ‘gusto’ o la
singola potenza lirica (potrei preferire Leopardi, Pascoli, Campana, Zanzotto),
ma la singolare possanza storica di un poeta. Quando un Paese ignora o tenta
sistematicamente di marginalizzare il poeta, di industriarlo all’indifferenza,
accade un sovvertimento radicale dei valori ‘politici’ – sorge una generazione
senza identità, serva, servile, benché cieca in ferocia.
Di Majakovskij – il protagonista, in fondo, di Io, futurista – si dice che “non
fu mai felice”, che “non amava i bambini” perché era un bambino all’eccesso, che
“amava molto i cani”. Majakovskij era “l’uomo del futuro”, il poeta-Adamo che
seminava versi per la nascita di un nuovo mondo. Quel mondo, se mai nacque,
nacque storpio, malvagio – l’albero della conoscenza svoltò in gogna e
ghigliottina. “Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro
perché ci potesse restare un passato”, scrive Jakobson, con sobria veggenza,
in Una generazione che ha dissipato i suoi poeti – di cui Io, futurista è, di
fatto, l’appendice. Nella straziante poesia “in morte di Vladimir Majakovskij”,
Pasternak scrive dell’eterno ragazzo che si getta “ancora una volta di colpo/
nella schiera delle leggende giovani”. Le poesie “in morte di Majakovskij”
diventarono una moda, un modo per costruire il futuro incenerendolo; Marina
Cvetaeva aveva riconosciuto in lui i caratteri dell’“arcangelo carrettiere”.
In Io, futurista il Futurismo c’entra poco. Jakobson ricorda la gita di
Marinetti a Mosca nel gennaio del 1914. Fu un incontro sballato, tra estranei.
> “Marinetti era un grande diplomatico e sapeva fare buona impressione su certi
> settori del pubblico. Parlava francese con un forte accento italiano, ma molto
> bene. Ebbi modo di ascoltare Marinetti due o tre volte. Era un uomo nel
> complesso limitato, con un grande temperamento, che sapeva leggere con grande
> effetto anche se in modo superficiale. Ma tutto questo non ci irretiva. Non
> capiva affatto i futuristi russi. Chlebnikov gli era profondamente avverso”.
Quando il futurismo russo decise di ergersi a soggetto politico chiamandosi
“Kom-Fut”(comunisti-futuristi), per iniziativa di Majakovskij, nel 1919, fu
presto sciolto – e cominciarono i guai. Per le sorti della Rivoluzione, i poeti,
che ne erano stati il propellente primo, diventarono un problema. Nel maggio del
1921, sul margine del poema 150.000.000, che gli era stato donato da
Majakovskij, Lenin scrive, “Una sciocchezza… una stupidità matricolata e
pretenziosa. Secondo me solo una su dieci di queste cose dovrebbe essere
pubblicata e in non più di 1500 esemplari per le biblioteche e per gli
eccentrici”. La politica comincia, clinicamente, cinicamente, a impedire l’opera
dei poeti – a limitare le pubblicazione, a censire censure.
In calce al libro, le lettere di Jakobson a Elsa Triolet. Nata Ella Kagan, donna
di inflessibile bellezza, fu l’imperterrita amata di Jakobson, monito della
perduta gioventù. Le lettere sono belle, svenevoli a tratti – “E adesso, mentre
ti scrivo, di nuovo non è questione di domande o di racconti, ma solo di labbra
che si contraggono e di un pensiero caparbio, caparbio: voglio Elsa. Adesso non
c’è altro pensiero” –; insegnano l’ovvio: dietro ogni grande rivoluzione –
poetica, scientifica, politica – c’è un grande amore. Elsa preferì, con
meteorologica precisione, sempre altri a Jakobson: l’ufficiale francese André
Triolet la portò a Tahiti e a Parigi, infine, dove conobbe tanti altri e, nel
’28, Louis Aragon, l’uomo della vita.
La sorella maggiore di Elsa, Lilja, fu la leggendaria amante di Majakovskij. A
tal proposito, la scena più bella di Io, futurista, a pagina 81, racconta di
quando Majakovskij, affittuario di “un borghese di medio livello”, tale Bal’šin,
sradicò il telefono di casa, inchiodato al muro, per portarselo in camera, “con
un pezzetto di parete”, e discutere, in intimità, “con la sua Lilicka”. Come
scriveva Pasternak, “Quando un poeta ama,/ è un dio smanioso che si innamora/ e
il caos di nuovo sbuca alla luce/ come ai tempi dei fossili”. Il poeta che
sradica con foia il telefono dalla parete per parlare con la donna che ama – per
urlare parole d’amore. Eccolo, l’emblema di un’epoca irripetibile – l’epoca
delle passioni forti.
L'articolo Per urlare ancora parole d’amore. Lamento su un’epoca che ha ucciso i
suoi poeti. (Ovvero: intorno a Majakovskij) proviene da Pangea.
“Perché non v’è punto qui/ che non ti veda. Devi cambiare la tua vita”. Fermo,
di fronte al torso arcaico di Apollo, Rilke formula un imperativo oracolo,
ascoltando ciò che muta come se parlasse. Non è la nebbia di una morale, bensì
l’esperienza di metamorfosi che ogni vivente, nel suo perire, impone allo
sguardo; un volto d’albero, un muro di spine, una foglia che cade, ogni cosa
diviene giudice muto e maestro metafisico.
È da questa soglia rilkeana, da questa “Schwere der Dinge”, che possiamo
avvicinarci a Christian Morgenstern e alla parte del suo animo nascosta tra le
fronde. Perché anche nel suo Blätterfall, in un quadro autunnale che raschia sul
bordo della meditazione morale, la natura non è sfondo, ma interlocutrice,
segno, terreno dove l’uomo impara la sua postura, la discrezione, il silenzio
assordante.
> “Nella vita ci sono grandi ore. Noi leviamo gli occhi verso di esse come verso
> le colossali figure del futuro e dell’antichità.”
>
> Friedrich Hölderlin, Iperione
Nato nel 1871 a Monaco di Baviera, Christian Morgenstern è solitamente ricordato
per le sue Galgenlieder, i suoi Fatti lunari (pubblicati in Italia da Guanda) e
per l’umorismo stralunato. Cresciuto fra pittori e febbri, fu poeta dalla salute
sempre inclinata, funambolo dell’assurdo prima che l’assurdo avesse una
capitale. Colpito da tubercolosi sin dalla giovinezza – malattia che lo portò
alla morte prematura nel 1914 – conobbe a lungo la stanza del malato; il luogo
in cui l’immaginazione impara a uscire prima del corpo. Da qui la doppia natura:
da un lato l’inventore di quei poemetti che sembrano nati in un teatro di
marionette composto da canneti metafisici; dall’altro, un autore capace di una
spiritualità calma, quasi orientale, nutrita di Steiner, di teosofie leggere e
antroposofia.
I frequenti spostamenti lo portarono a soggiornare alcuni mesi, tra il 1906 e il
1907, nel sanatorio per malattie polmonari di Birkenwerder. Qui lo studio del
Vangelo di Giovanni e degli scritti di Meister Eckhart gli procurò una sorta di
iniziazione spirituale che lo rese liminale. La poesia Blätterfall appartiene a
questa fase più meditativa e più “seria” della sua produzione; non trascende
l’ironia dei Galgenlieder, ma esplode una sorta di piccola filosofia in cui la
natura diventa maestra di saggezza tragica e di compostezza.
Caduta delle foglie
Il bosco autunnale fruscia intorno a me…
Un infinito mare di foglie
Si stacca dalla rete dei rami.
Ma tu, il cui cuore appesantito
Vuole condividere il grande dolore…
Sii forte, sii forte e taci!
Impara a sorridere quando le foglie,
Facili prede del vento leggero,
Ondeggiano e scompaiono.
Tu sai che proprio la caducità
È la spada con cui lo spirito del tempo
Supera se stesso.
Morgenstern dispone il “mare di foglie” come un teatro cosmico in cui l’uomo,
fragile spettatore, è chiamato a un’ascesi del silenzio: «Sii forte, sii forte e
taci!». Rilke avrebbe riconosciuto in questo comandamento la stessa disciplina
interiore che governa le Dinggedichte, dove il poeta non descrive la cosa, ma la
lascia farsi gesto, inclinazione, destino. Ciò che si perde si apre, ciò che
discende si libera. La poesia, nella sua apparente semplicità, si colloca così
accanto alla visione rilkeana del mondo che “stirbt und wird”, muore e diviene,
una visione che fa dell’effimero un’energia spirituale.
> “Cerchi che si tendono sempre più
> ampi sopra le cose è la mia vita.”
>
> Rainer Maria Rilke, Il libro d’ore
Se Rilke ci insegna a far parlare le cose, Hölderlin ci mostra il gesto opposto
e complementare. La natura non è soltanto scena ma compagna di redenzione,
cornice in cui si misura il rapporto umano con il divino. La malinconia
dignitosa e la tensione verso una forma di abitare il mondo si incontrano in
Hölderlin in una poetica del mediamento. L’estasi del poeta è sempre una
mediazione che tenta di ricollegare la frammentazione moderna. In relazione a
Morgenstern, Hölderlin ci permette di leggere l’esortazione al silenzio come
forma di abitare il tempo. Il suo “sii forte e taci” risuona come regola
heideggerianamente prescientifica dell’abitare che Hölderlin, prima di tutti,
aveva posto come questione poetica.
Christian Morgenstern (1871-1914)
Lo studio critico moderno conferma questo aggancio; la natura come mezzo per
oltrepassare la contingenza e riconsegnare all’uomo una misura dell’entusiasmo
poetico. “Non coerceri maximo, / contineri minimo / divinum est.”,riporta il
lungo epitaffio sulla tomba di Ignazio di Loyola citato da Hölderlin
nell’apertura dell’Iperione: “Non essere limitato da cos’è più grande, essere
contenuto da ciò che è minimo, questo è divino”. Così, quando Morgenstern invita
a “sorridere” davanti al fogliame che svanisce nel vento, chiede un atto di fede
nel ritmo dell’essere. Imparare dai cicli naturali a non opporsi alla perdita,
perché è proprio lì che l’anima comprende la misura del mondo.
> “Costruisco una tomba per il mio cuore, affinchè possa riposare; mi imbozzolo
> perchè ovunque è inverno; mi avvolgo nei miei ricordi contro la tempesta.”
>
> Friedrich Hölderlin, Iperione
A sorreggere questa interpretazione giunge Nietzsche, il vero “formatore” della
giovinezza di Morgenstern e colui che offrì un primo fondamento filosofico al
suo rifiuto emotivo dell’arida incultura guglielmina. Il vento leggero che
rapisce il fogliame non è, per Nietschze, minaccia, ma forza dionisiaca che
smuove la forma, afferma la potenza del divenire e spezza le catene della
malinconia reattiva. “Tutto va, e tutto torna”, scrive nello Zarathustra,
ricordando che la vita è un eterno ritorcersi di forme e di energie.
Il Blättermeer di Morgenstern, osservato nella sua fluttuante impermanenza,
diventa così una figura nietzscheana: la danza minima di ciò che continua a
vibrare mentre scompare. Il comando “sii forte” non è una severità morale, ma
una pedagogia del divenire; accogliere il mondo nella sua continua evaporazione,
senza cedere all’illusione di un centro stabile.
> “Voglio imparare sempre di più a vedere come bello ciò che è necessario nelle
> cose; allora io sarò uno di quelli che fanno le cose belle. Amor fati:
> lasciate che sia il mio amore d’ora in poi!”
>
> Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza
A fornirci l’ultimo nodo, però, è Bergson, che con la sua filosofia
della durée (durata) sembra quasi commentare direttamente i versi finali della
poesia: “Tu sai che proprio la caducità/ È la spada con cui lo spirito del
tempo/ Supera se stesso”. La temporalità bergsoniana non è una serie di istanti
che si consumano, ma un flusso qualitativo, una “élan vital” in cui vita e tempo
coincidono come movimento indivisibile.
Il testo di Morgenstern, nel suo insistere sulla caducità che «sovrasta» il
tempo, può essere letto come poesia della durata: il fogliame che cade non
interrompe l’esperienza, la intensifica; la caducità è l’atto che concentra la
memoria e l’anticipazione in un presente vivo. Bergson sostiene che il puro
presente è un inafferabile avanzare del passato che divora il futuro, e così, il
sorriso che l’io consiglia è gesto proprio, modalità del presente che incorpora
il passato e prepara il divenire. Nella sinergia di Bergson e Morgenstern il
tempo smette di essere nemico e diventa materia plastica dell’anima.
> “E tutto è unanime, nel silenzio su noi,
> metà vergogna, forse, e metà speranza ineffabile.”
>
> Rainer Maria Rilke, II Elegia Duinese
In questo modo, il bosco autunnale non è più soltanto un luogo della malinconia,
bensì il laboratorio dove Rilke vede la cosa dichiarare la propria anima, dove
Hölderlin riconosce la ferita sacra dell’esistenza, dove Nietzsche vi scorge il
gioco in cui l’essere si afferma contro la gravità della fine, e dove Bergson
ascolta il pulsare segreto del tempo che si rinnova.
Morgenstern, sotto questa luce, appare come un poeta che conosce la leggerezza
del pensiero profondo; parla alla quiete, ma soprattutto parla del mondo intero.
Nel suo invito a sorridere mentre tutto svanisce, si cela un gesto ontologico,
una teologia dell’imparare che la vita non ci appartiene per durare, ma per
trasformarsi, per transitare, per brillare un istante prima di dissolversi nel
respiro dell’universo. Morgenstern, con la sua voce più lieve e più
adulta, trasforma una visione in gesto etico, in assentire, e tacere. Un tacere
che non è resa, un tacere che non è condanna.
Il mondo vive nel suo cadere e l’uomo cresce nella misura in cui impara ad
accompagnarlo senza rumore.
Tommaso Filippucci
*In copertina: la “sfera dei colori” secondo Philipp Otto Runge (1777-1810)
L'articolo “Sii forte, sii forte e taci”. Christian Morgenstern o della legge
del mondo proviene da Pangea.
La prima volta è stato terribile. Fare il gesto con la mano della pistola
puntata alla tempia…
È stato terribile il fatto del solo pensiero che mi sfiorasse, e delle mie
parole quasi prive di speranza… Sì ‒ terribile.
Tutto questo accadeva per qualcosa che non andava per il verso giusto; e non per
colpa mia.
Nel frattempo è uscito un mio libro di poesie, che in esergo riportava questi
versi:
> Segui il tuo destino,
> annaffia le tue piante,
> ama le tue rose.
> Il resto è l’ombra
> di alberi estranei.
Dunque penso: La poesia mi salva. La poesia m’insegna. La poesia è tutto.
La seconda volta, però, fu ancora più brutto. Capii che mi stavano distruggendo
i sogni. Lo ammisi. E qualcuno disse davanti a tutti di chi era la colpa. Lo
ripeté più volte, con atto di sfida.
Io, per tutta risposta, mi spensi. Mi sedetti quasi subendo in silenzio.
Troppa gente poteva sentire la mia reazione; gente sbagliata poteva annichilire
e reagire di fronte alla mia rabbia infinita; ma non era il caso.
Per questo, e per motivi ben più forti ‒ ben più sacri ‒, tengo alto il fuoco,
tengo desto il cuore.
Nessuno distruggerà i miei sogni. Nessuno!
Ho appeso questa poesia al muro, accanto al comodino, accanto al letto. Così che
io possa vederla e leggerla ogni notte. Ogni notte!
È il mio memento. È il mio cuore incendiato!
Io sono ancora vivo.
(Giorgio Anelli)
*
Segui il tuo destino,
annaffia le tue piante,
ama le tue rose.
Il resto è l’ombra
di alberi estranei.
La realtà
sempre è di più o di meno
di quello che vogliamo.
Solo noi siamo sempre
uguali a noi stessi.
Dolce è vivere solo.
Grande e nobile è sempre
semplicemente vivere.
Lascia il dolore sulle are
come ex voto agli dèi.
Guarda da lontano la vita,
senza mai interrogarla.
Essa niente può dirti.
La risposta
sta al di là degli dèi.
Ma serenamente
imita l’Olimpo
dentro il tuo cuore.
Gli dèi sono dèi
perché non si pensano.
(1.7.1916)
Ode di Ricardo Reis
*In copertina: Fernando Pessoa nel 1928
L'articolo “Segui il tuo destino”. Delirio e bellezza intorno a una poesia di
Pessoa proviene da Pangea.
Riuscì a far ridere Thomas S. Eliot, il poeta cardinalizio, il poeta-papa, per
sempre serrato in una vaticana severità. Scrisse dell’“improvviso rimbombare
della risata di Eliot”. Scrisse di una risata che squarciava i cieli.
Nell’ufficio della Faber and Faber – in Russell Square, Londra – una fotografia
di Pio XII fronteggiava quella di Virginia Woolf, l’antica amica. La prima
grande intervista – di un ciclo mitico: “The Art of Poetry” – della “Paris
Review”, è firmata, nel 1959, da Donald Hall.
Trentenne – era nato a Hamden, Connecticut, nel settembre del 1928 –, Donald
Hall aveva il profilo del predestinato, dello straordinario genio. Licenza ad
Harvard, borsa di studio a Stanford, nel 1957 aveva curato, insieme a Robert
Pack e a Louis Simpson, una notissima antologia di New Poets of England and
America; Robert Frost – uno dei suoi lari: avevano giocato a softball insieme –
aveva accettato di firmare la compassata introduzione. Come poeta, Hall aveva
esordito, con Exile, nel 1952: il primo tomo di una bibliografia iliadica, che
finirà per accumulare una cinquantina di libri. Eliot era il suo mito.
Dodicenne, frequentava i ragazzi più grandi, che transitavano a Yale. Sentì
parlare di Eliot. “Con la paghetta che mi davano i miei, mi comprai l’edizione
delle poesie di Eliot. Costava due dollari e cinquanta centesimi. Decisi che
sarei stato un poeta per il resto della vita – decisi di dedicare almeno due ore
al giorno alla poesia, dopo la scuola. Continuo a farlo”. Un suo amico – “aveva
sedici anni, mi pareva un vegliardo” – gli aveva detto che “scrivere poesie è
come rapinare in banca. Pensai a Bonnie e Clyde. La cosa mi piacque da
impazzire”.
Figlio di buona famiglia – il padre era un uomo d’affari – Donald Hall, negli
anni, otterrà tutti i premi che possiamo immaginare. Un paio di Guggenheim
Fellowship – conquistati nel 1963 e nel 1972 – gli permisero di fare della
poesia la propria rendita. Nominato “Poeta laureato” degli Stati Uniti nel 2006
– un paio di anni prima a ricoprire l’incarico c’era Louise Glück, futuro Nobel
per la letteratura; lo sostituirà, nell’ambito ruolo, Charles Simic – quattro
anni dopo viene onorato da Barack Obama con la National Medal of Arts. Harold
Bloom lo ha inserito nel fatidico “Canone Occidentale”, insieme a Nabokov,
Raymond Carver, Cormac McCarthy, Philip Roth e Thomas Pynchon. In Italia, la sua
opera poetica è sistematicamente ignorata, chissà perché.
Ma torniamo ai primordi. Donald Hall aveva il culto della franchezza, la
capacità – rapace – di indentificare il ‘tono’ di un uomo attraverso uno sketch.
Eccelleva negli aneddoti, come se la parte – la briciola di un’esistenza –
racchiudesse in vitro il tutto. Dedicò la vita al racconto dei ‘maestri’,
all’incessante ricerca dei ‘padri’: all’assidua acquiescenza di troppi –
tradotto: l’estetica dei paraculo – preferì la sfacciataggine. Così, ad esempio,
rievocando l’antica intervista a Eliot:
> “Ci incontrammo preliminarmente a New York. Era tornato da una vacanza alle
> Bahamas, o da un posto del genere. Era abbronzato, snello, stupendo. Il che mi
> sorprese. Non lo incontravo da due o tre anni – nel frattempo, si era sposato
> con Valerie Fletcher. Che cambiamento! La prima volta che lo avevo visto, nel
> 1950, pareva un cadavere. Era pallido, curvo, rigido; tossiva
> ininterrottamente. Quell’uomo arcano, grave di antiche gentilezze, pareva
> adatto alla tomba. Fu così che lo rividi, più volte. Eppure, quel giorno era
> felice. Il secondo matrimonio lo aveva ringiovanito di vent’anni. Rideva,
> tenendo per mano la giovane moglie – era una persona totalmente diversa: più
> leggera, radiosa, disponibile”.
Eliot che ride – abbronzato – mentre impugna il braccio della seconda moglie.
Un’immagine capace di scardinare l’intero tempio di cattedratici pregiudizi
accademici. Memorabile – per stare in tema – l’aneddoto. Da Mr. Eliot – il vate
e il doge dell’editoria anglofona – si approssima un giovane poeta americano.
Chiede consiglio: vorrebbe iscriversi a Oxford, seguendo il sentiero di studi
percorso, quarant’anni prima, da Eliot. La risposta del poeta è spiazzante: “gli
disse di fornirsi di biancheria intima di lana, a causa della forte umidità che
trasuda dalle pietre di Oxford”.
Oltre all’intervista a Eliot – introduzione di Pasquale Panella, anno di grazia
2000 – l’unica altra cosa di Donald Hall tradotta in Italia è l’intervista a
Ezra Pound – introdotta da Mario Luzi, era il 1996, entrambi i tomi escono per
minimum fax, oggi veleggiano nel mercato secondario. In origine, l’intervista
esce nel 1962, sulla “Paris Review” – i poundologi la ritengono una delle
migliori mai realizzate da ‘Ez’. Hall incontra Pound a Roma, nel 1960 – “non era
ancora penetrato nel silenzio, ma il silenzio lo stava lentamente compenetrando”
– in un bar. “Il cameriere lo riconobbe, non ci aveva mai visti insieme, fece un
collegamento. Pronunciò alcune frasi in italiano. Non le capii. L’ultima parola
era ‘figlio’. Pound mi fissò, fissò il cameriere. Disse ‘Sì’”.
L’intervista a Pound va letta insieme a Fragments of Ezra Pound, formidabile
saggio biografico con cui Donald Hall chiude Old Poets. Reminiscences and
Opinions: uscito nel 1979, costantemente ristampato, è uno dei libri folgoranti
per comprendere la grande poesia americana del Novecento. Nella chiusa al lungo
testo dedicato a Pound, Hall parla di un “vecchio Odisseo senza Penelope né
Telemaco”, di un uomo che “non è salpato verso il Paradiso, ma ha scelto di
tornare nel proprio Inferno”, di “una navigazione che non ha trovato porto”, del
“vasto e nobile linguaggio di Ezra Pound”. Scrisse che “nessun uomo compie la
sua vita o i suoi Cantos, perché siamo tutti un cumulo di frammenti. Soltanto in
pochi solcano i mari”.
Nei ringraziamenti, Donald Hall cita Jane Kenyon, “che è dentro e oltre ogni mio
lavoro”. Si erano conosciuti ad Ann Arbor, Michigan, dove lui insegnava. Lei
aveva poco più di vent’anni, abitava lì, indossava una bellezza schiva e la
stola di un talento feroce, esatto, di quelli che per penuria di tempo terrestre
devono bruciare tutto. Donald Hall fu abbacinato da quella figura, al contempo
aggraziata e indocile. Si sposarono nel 1972 – vent’anni prima Donald si era
unito alla prima moglie, Kirby Thompson, da cui aveva avuto due figli. Nel ’75,
Jane e Donald mollano tutto – insegnamento, stabilità sociale, i fumi della fama
– per ritirarsi a “Eagle Pond Farm”, la casa avita degli Hall, presso Wilmot,
New Hampshire. Poco più di mille abitanti, campi, boschi, poco tempo per le
frivolezze, la dedizione dei monaci e dei pionieri. Fu un amore folle,
assertivo, confermato da una fede nella singolarità dell’altro che non può non
affascinare. Lavoravano la terra, cucinavano, cucivano poesia. Donald Hall –
poeta esuberante nel dominio della tavolozza lirica: capace di alternare la
forma ‘chiusa’ ai più arditi esperimenti modernisti – sapeva che era lei, Jane,
l’autentico genio: sapeva ascoltarla – sapevano litigare. Roso da un cancro al
colon, curato da lei, lui riuscì a venirne fuori, smagrito, smarrito, è vero, ma
coriaceo. Lei, curata da lui con la venerazione del pittore di icone, fu
stroncata dalla leucemia: morì nel 1995, dopo vent’anni di vita insieme, ai
confini di tutto il resto.
È difficile rassettare in altro modo la parola coniugale: una congiunzione che
trascende ogni altro essere, autenticamente terribile. Cosa che allea il cuore
all’astro. Donald Hall fu squarciato, la poesia pareva essersi disseccata in
Jane; la prima raccolta edita dopo la morte della Kenyon, Without, è una sorta
di mefistofelico requiem. The Painted Bed, a dire di molti, è la più bella
poesia di Donald Hall dedicata alla moglie: il letto coniugale è, al contempo,
zattera e tomba, ventre e arca. Il riferimento odisseico è implicito. Chiude
così:
“E ora giaccio sul letto dipinto
rimpicciolisco, concentrato
nel viaggio che inauguro
per dormire senza dolore
nella reggia dell’oscurità
il mio corpo accanto al tuo”.
Preferisco Weeds and Peonies – la leggete in calce all’articolo. È “la mia prima
poesia dettata dal lutto”: Donald Hall tenta di coniugare il proprio stile a
quello di Jane. Il risultato è forse una delle poesie più belle di Donald Hall
in assoluto. Non è un caso se l’edizione dei Selected Poems of Donald
Hall allestita per mano del poeta sia, in fondo, un gigantesco atto d’amore per
Jane Kenyon: è lei la vera protagonista delle poesie e del Postscriptum finale
(qui tradotto in parte). Siamo nel 2015 – Jane è morta vent’anni prima – Donald
muore nel 2018 – non pubblicherà più nulla.
Donald Hall e Jane Kenyon nel 1993
È raro scoprire delle ‘coppie’ letterarie; di solito, sono legate dal famelico
desiderio di agire sulla cultura del proprio tempo (penso al mostro bifronte
Sartre-de Beauvoir o Aragon-Triolet). L’unico legame analogo a quello tra Donald
Hall e Jane Kenyon è il rapporto Sylvia Plath/Ted Hughes. In questo caso, però,
le analogie sono per sovversione d’intenti e di stili: Sylvia & Ted raffigurano
– fino all’esasperazione, fino all’insopportabile – l’emblema della coppia col
cappio, della coppia cannibale. I due esistono per offrire materia da divorare
all’altro – inevitabile che uno soccomba. Passione che svasa in deliquio, in
lotta senza quartiere. Di entrambi, ricordiamo i calchi del rancore, la cagnara
lirica, gli omerici litigi, il sabba; un amore in forma di condor. Non credo sia
un caso che l’ultima opera di Hughes, la più nota (per frainteso), Lettere di
compleanno, sia quella meno efficace: per amare l’antica moglie, il poeta deve
farsi altro da sé, fino a modificare il proprio primigenio stile.
Diversi per genio umano e per nitore lirico, Donald Hall e Jane Kenyon si sono
fusi senza confondersi, si sono mangiati senza consumarsi – sono riusciti a
consuonare. Dando al matrimonio un’accezione bianca, in favore stellare, di
certo poco appetibile per i tabloid ma singolarmente eccezionale – per
l’eccezione che la accerchia – per la storia della letteratura; ancor più –
visto che la letteratura è cosa troppo piccola, infine futile – per il nostro
conforto.
Fu Peter A. Stitt a incaricarsi di intervistare Donald Hall per la “Paris
Review”. Era l’autunno del 1991 – “The Art of Poetry No. 43”. Trent’anni prima,
per quella stessa rivista, Donald Hall aveva intervistato Marianne Moore, la
gran dama della poesia americana, idolatrata da Pound, premio Pulitzer, adorava
Muhammad Ali e andava a vedere le partite di baseball con cappello a tricorno e
nero mantello. Anche Hall giocava a baseball: la copertina lo immortala con la
divisa dei “Pirates”, alacre in pinguèdine, nerobarbuto, savio incrocio tra un
personaggio dei Peanuts e un maestro sufi. All’intervistatore disse che da
ragazzino, dodicenne, adorava gli horror. “Qualcuno mi disse, se ti piace quella
roba, leggi Edgar Allan Poe. Lo lessi – me ne innamorai – da grande volevo
diventare Poe. La prima poesia che ho scritto, non è troppo macabra, ma imita
Poe”. La prima poesia di Donald Hall, serbata come un monito, fa così: “Hai mai
ragionato/ sulla prossimità della morte?/ Puzza in ogni angolo/ di notte
strilla/ ti insegue per tutto il giorno/ fino al momento in cui/ con voce ferma
e forte/ ripete il tuo nome./ Allora, allora, è la fine di tutto”. Il poeta
giocò con le parole. Tutto, all, suonava come il suo cognome, Hall. La fine di
Hall.
Chissà come si chiamano gli uomini che muoiono più volte. Per essere un poeta,
forse, un poeta deve morire le morti di tutti.
**
Donald Hall, Postscriptum
A dodici anni ho scritto la prima poesia – a quattordici ho deciso che avrei
scritto per tutta la vita. Non me ne pento. È strano, ma per me è una piacere
ripercorrere questa vita, fatta di così tanti altezze e così tanti abissi. Nasce
mio figlio, il mio carnefice; muore mio padre; sposo Jane Kenyon e ci
trasferiamo nel New Hampshire; Jane prospera e scriviamo poesie assieme; Jane
muore; io vivo, io invecchio.
Se leggo le mie poesie in ordine cronologico, mi accorgo del mutamento di toni e
di forme. Passo dalle strofe in metrica ai versi liberi; più tardi – per amore
del mio vecchio amore, Thomas Hardy – torno alle forme chiuse. Non tutti i poeti
cambiano stile come ho fatto io. La maggior parte si installa in uno stile. Come
accade per la maggior parte degli scultori e dei pittori: non potremmo
confondere un Cézanne con un Van Gogh.
Quando Jane e io ci siamo trasferiti qui da Ann Arbor, dove insegnavo, eravamo
felici del nuovo orizzonte. Amavamo stare da soli, in campagna, in compagnia
della poesia; trascorrevamo le estati a falciare il fieno con mio nonno.
Scrivevamo del luogo in cui stavamo vivendo. Scrivevamo l’uno dell’altra. Dopo
che Jane morì di leucemia, a quarantasette anni, nel letto dipinto della nostra
camera, per cinque anni non ho scritto che della sua morte. […]
Io e Jane lavoravamo assieme alle nostre poesie. Ignoravamo le prime bozze – è
una cattiva abitudine; occorre attendere che una poesia si solidifichi – quando
le poesie giungevano a una forma quasi definitiva, ciascuno si affidava
all’altro, il suo primo e fidato lettore. Quando ripetevo una parola –
un’abitudine acquistata da Yeats – Jane la cancellava. Quando usavo degli
ausiliari, li cassavo, così “stava piovendo” diventava “pioveva”. Jane liberava
i versi da metafore morte, sfinite dall’uso; sapeva la mia irascibilità
sull’argomento. Esultava quando ne rintracciava qualcuna, tra le mie bozze
“Perkins – Perkins ero io – ecco una metafora morta!”. Questi incontri erano
fondamentali, non sempre facili. A volte eravamo cortesi – nessuno dei due
faceva esattamente ciò che gli diceva l’altro. Ci aiutavamo moltissimo. Jane mi
ha salvato da mille errori: limava la mia connaturata esuberanza, correggeva la
sintassi. Di rado diceva che la poesia andava bene. A volte diceva “Ci sei
quasi”, altre volte “Perkins, hai lavorato bene”. Desideravo con ardore i suoi
elogi. Eppure, era essenziale essere privi di indulgenza. Ricordo una sera, era
il 1992, eravamo in soggiorno, lei leggeva il mio Museum of Clear Ideas, una
cosa del tutto diversa rispetto ai miei libri precedenti. Quando mi guardò,
piangeva. “Perkins, non mi piace!”. Mi fulminò, feci per piangere anche io, “Va
bene lo stesso, va bene lo stesso”, le dissi.
Quanto meglio scriveva, quanti più onori riceveva, tanto più mi preoccupavo di
non essere come Jane. Dopo la sua morte, non me ne preoccupai più. Scrissi per
due. La prima poesia dettata dal lutto, Weeds and Peonies, usa parola che
risuonano nell’opera di entrambi.
**
Erbacce e peonie
Sbocciano le tue peonie, bianche come squarci di neve
maculate di rosso nell’irsuto essere
nella tua cinta di prodigi, presso il portico.
Magnanimo fiore: lo porto a casa, lo metto
in una ciotola di vetro, a galleggiare – come facevi tu.
Piaceri ordinari, il contegno della memoria
soffiano come neve nel giardino disfatto
e soggiogano le margherite. Il tuo cappotto blu
svanisce verso Pond Road, diventa una tormenta
immaginaria: Gus ti è al fianco, la sua coda pinneggia,
ma tu non riappari, stanca e felice
e continui quarti di dolore appestano l’aria –
come la bestia che abbaia per tutta la notte
come il gatto che si stira, poi si accuccia
e sogna i lattiginosi capezzoli della madre.
Un procione ha decapitato il geranio nel vaso.
Fiori e radici sono uno strazio, a terra,
nel retro, dove i gigli cominciano
le loro escursioni quotidiane sul muro di pietra:
è la stagione delle rose. Cammino avanti e indietro
tra le erbacce – le peonie
fissano con esatto candore il Kearsarge:
l’hai vinto, una volta, indossavi scarponi viola.
“Torna presto e fai attenzione quando scendi”.
Le tue peonie inclinano l’enorme cranio
verso ovest. Vogliono cadere. Alcune, in effetti, cadono.
**
Gracida ghiaccio il Kearsarge; dai rami
la neve s’innerva sulla neve; nessuna fiumana, no:
si muove restando immobile. Stasera
portiamo legna a piene braccia
dalla legnaia di Glenwood e costruiamo un fuoco
per tenere lontana la notte dalla finestra.
Siediti vicino alla stufa Jane Kenyon
mentre porto il vino:
parleremo del tempo per passare il tempo
senza pretendere di poterlo mutare.
La tempesta esige di estinguersi
con macerie di betulle brillanti
in ginocchio sui sentieri coperti di brina.
Evita le previsioni meteo, che sorridono
felici per la tempesta
prendi il giorno così com’è
e il gelo non santificherà più queste vecchie vie
perché già urla la raganella, la primavera trotta
e il giorno è dato in dono proprio
a noi, i consoli di questo regno.
*
Pomeriggio in riva allo stagno
Fu luglio
e furono sedate le nere mosche primaverili
Furono pomeriggi verdi
sopra il muschio
presso l’oscurità di Eagle Pond: nei pertugi
delle forre sentiamo il richiamo delle strolaghe.
Quei giorni:
folli di fievole felicità e grida di falchi.
L’ambizione e la sua rabbia ci diede tregua
dimenticammo tutto
dimenticammo Jane Kenyon, non sapevamo chi fosse Donald Hall
sonnambuli, dardeggiavano sguardi su pagine dorate.
Un giorno
attraversammo i binari della ferrovia: tremavano
nell’obliquo sole di agosto –
chi dei due dormiva, chi leggeva
sotto la quercia, vicino allo stagno.
Poi caddero le ghiande – e quei giorni furono la nostra fine.
*
Ardore
Lei morì e urlai – il cane
era cupo e scappò via.
Ora non mi getto più
verso la parete
ricoperta di fotografie
non mi rivolgo più a lei
il mio “tu”, nelle poesie. Lei
è rientrata nel museo
di granito: JANE KENYON (1947-1995).
Ero vivo, al suo cospetto, ero
nel mio acme animale –
sentore di predatore.
La sua morte è la cosa peggiore
che mi potesse accadere –
prendermi cura di lei è stata
la mia benedizione.
Ma ora voglio chi non c’è
la donna dai volti volubili
e molteplici, che inventa metafore
e trita cipolle, che beve vino
mentre olia la pentola e canta
tra sé e sé perché cerca
di terminare una poesia.
Quando faccio l’amore, ora,
qualcosa non funziona.
L’autunno scorso una donna
mi ha detto: “Diffido del tuo ardore”.
Inverno, Florida:
odio le vecchie coppie
della mia età che passeggiano
tenendosi per mano, odio
la loro carne flaccida. Fisso
le giovani donne indignato
e lascivo: non sanno amare
né lavorare né morire.
Le ore scorrono lente, le settimane
vanno sulle rapide del nulla.
Sul greto di ogni giorno recito
i miei lamenti. Il dolore è illecito
e la lussuria, a letto, mi volta
le spalle: guarda da un’altra parte.
*
Orologio Luna
Come una zattera nella subacquea dimora
degli spettri, a mezzanotte, tra lumi e pozze
d’ombra, sotto la luce fumante della luna piena
che riempie di neve il soffitto, vado alla deriva
lungo la marea di gennaio, di stanza in stanza,
verso l’orologio a pendolo che batte come
un cuore: attendo la pausa in cui si apre lo stretto
spiraglio verso il riposo – lì le onde si bloccano
impennate, di pietra, come lunatici leoni di Micene.
*
Lupo coltello
dal diario di bordo di C.F. Hoyt, US Navy, 1826-1889
“Metà agosto, secondo anno
della mia prima spedizione polare, nevi e ghiaccio invernali
alle calcagna, Kantiuk e io
sfrecciammo con la slitta
lungo la Crispin Bay: cercavano i resti
della Spedizione Franklin. Ci abbatté la tempesta
e tornammo indietro e lottammo, cauti,
nella neve, per timore di mollare terra
avventurandoci su pianure di ghiaccio
alla deriva, abbandonati alla Provvidenza
dei mari.
Verso il tramonto
sentii ringhiare alle mie spalle.
Kantiuk disse
che due lupi, magri come le ossa
di una nave in naufragio,
ci seguivano da un’ora – ora
digrignavano i denti
preparandosi al banchetto.
Avevo poca carica per
il fucile: si approssimava il secondo
inverno, razionavamo le provviste.
Fu buio
non potemmo andare oltre
ci accampammo tra capanne
di ghiaccio – anche i lupi
si fermarono, ringhiando
appena oltre l’orizzonte
del nostro sguardo – sentivo
i loro artigli arpionare il suolo.
Kantiuk rise, disse che i lupi
erano rosi dalla fame. Alzai
il fucile, pronto a sparare al primo
sperando di spaventare l’altro.
Kantiuk mi tirò via il fucile
rideva ripetendo
che i lupi avevano fame.
Temevo che il mio vecchio
compagno di avventure fosse
folle, impazzito nella tempesta
tra cimase di ghiaccio
braccato dai lupi. Kantiuk
rovistò nello zaino, tirò fuori
due coltelli – turnok li dicono gli Inuit –
li affilò con fatica, da entrambi i lati:
avevano la violenza dei rasoi da barbiere –
si avvicinò ai cani, raspò con le lame
la bestia più giovane: zoppicava
da un paio di giorni.
Ricordo
che pensai di puntare il fucile
contro Kantiuk mentre mi passava
accanto, con i coltelli rossi
del sangue del nostro cane
che aveva mugolato e sofferto e ora
era lì, morto, mentre cugini
e zii, affamati pure loro, lo fissavano –
e conficcò i coltelli
nella neve.
Immediatamente
le vaghe grige forme dei lupi
si fecero solide, uscirono dall’oscurità
della neve, piombarono fameliche
figure simili a corvi
a leccare il sangue dell’acciaio affilato.
La lama lacerò a tal punto
la lingua di quegli esseri
che il loro sangue sgorgava
a profusione, e rimpiazzò quello
del cane e mangiarono furiosamente
più di prima, mentre Kantiuk rideva
tenendosi i fianchi
e rideva.
Risi anch’io
sollevato perché la Provvidenza
ci aveva concesso di vivere ancora
una volta – o forse perché trovavo ridicole –
così lontano dalla mia terra, il Connecticut
in condizioni così estreme – quelle
creature tanto avide
da ingozzarsi del proprio sangue.
Crollarono, esangui, prima
uno poi l’altro, nella neve:
Kantiuk recuperò
i suoi turnok
dopo aver tagliato
la carne più morbida
dalla coscia di uno dei lupi –
la mangiammo
grati, benedicendo il Creatore
che ci affama
e che ci sfama”.
Donald Hall
L'articolo “Scrivere poesie è come rapinare in banca”. Donald Hall o dell’ardore
coniugale proviene da Pangea.
Sandor Weöres pare una specie di Lord Jim della letteratura ungherese, un uomo
animato da una curiosità oceanica – e da una equivalente inquietudine. Nei suoi
versi, Weöres è sempre spiazzante: a volte adotta i toni di un filosofo stoico
tardoantico – nel suggestivo Terra sigillata –, a volte arma di immagini un
concetto, altre volte sorprende con bucoliche tenerezze. Le sue invettive contro
l’ardore bellico che anima l’uomo prendono la via della profezia più che del
pragmatismo; in Ore difficili, ad esempio, la lotta ha il nitore della ricerca
ascetica, la predilezione per la vita spirituale.
Nato nel 1913 a Szombathely, in Ungheria – il padre era un ussaro – Weöres ha
studiato legge, poi geografia, infine filosofia; ha esordito con rapace
precocità, pubblicando le prime poesie a quattordici anni, segno di una stimmate
interiore. Ha viaggiato – e vissuto – nelle Filippine, in Vietnam, in India, in
Italia; poeta dal cuore apolide, apolitico per estro, ha ingaggiato un
versificare che stringe l’assoluto, che fa lo scalpo alla Storia. Durante la
Seconda guerra, fu obbligato ai lavori forzati; rifiutò i diktat del “realismo
socialista” rifugiandosi in una poesia totale, capace di risvegliare dal torpore
i miti, altrimenti assiderati dalla “Repubblica Popolare”. Tra il 1949 e il 1964
la sua poesia fu considerata sgradita, ostile al suo Paese. Gli fu utile la
pratica del tradurre: trascinò nella sua lingua l’opera di Dante, di Petrarca e
di Leopardi; ha consegnato una versione sgargiante del Daodejing, molto letta
ancora oggi, e dell’Epopea di Gilgamesh. Sentì una certa sintonia con Thomas S.
Eliot, di cui tradusse La terra desolata. Per un po’, fu libraio, a Budapest.
Morto nel gennaio del 1989, Sandor Weöres è riconosciuto tra i grandi poeti
ungheresi di ogni tempo: nel suo paese gli hanno dedicato statue. In Italia la
sua opera è pressoché sconosciuta: nel 1984, per Vallecchi, Paolo Santarcangeli
ha curato alcuni suoi testi nel complessivo Trilogia di poeti ungheresi (insieme
a poesie di György Somlyó e di Sándor Rákos). In Francia, Sandor Weöres è stato
tradotto da Bernard Noël; nel mondo anglofono ha avuto la ‘benedizione’ di Edwin
Morgan, grande poeta scozzese (è stato il primo ‘Poet Laureate’, o meglio,
‘Makar’ del suo Paese) e grande traduttore (tra l’altro, del Beowulf, di Eugenio
Montale e di Attila József). Così ne scrive nell’edizione dei Selected Poems di
Weöres uscita da Penguin nel 1970:
> “Sandor Weöres è poeta proteiforme, di straordinario virtuosismo, capace in
> ogni formula lirica, dai metri complessi al verso libero, profondamente
> consapevole dei poteri musicali e ritmici che la poesia condivide con la danza
> e il rito, a tal punto che la sua opera sa fondere il sofisticato nel
> primordiale. Non sorprende, dunque, la sua visione assoluta della poesia,
> assolutamente ‘aperta’ a ogni possibilità di canto; non sorprende che non
> nutra simpatie verso i precetti socio-politici del Paese in cui vive”.
Leggendo Sandor Weöres – in calce, alcuni versi tradotti dalla versione di Edwin
Morgan – si percepisce l’indole del poeta come creatore di mondi, come re delle
stelle. Una condizione lirica, al contempo, ferina e piena di grazia, grata al
creato.
***
Momento eterno
Non affidarti alla pietra:
si sbriciolerà. Plasma nell’aria
l’istante che perfora il tempo
dall’aldilà all’adesso
veglia su ciò che l’ora ammorba
tieni stretto nella morsa
il tesoro – l’eternità, bilanciata
tra futuro e passato.
Come il corpo del nuotatore
è sfiorato dal pesce che fluttua
così ci sono momenti in cui
Dio è in te e tu puoi divinarlo:
lo ricordi a tratti, a bocconi,
sempre troppo tardi, in sogno.
Mastichi l’eternità
da questo lato della tomba.
*
Morire
Occhi di madreperla, acido sentore
di mele, scampanio di urla e passi
che balbettano, si addensano, gemelli
dalle enormi corna sogghignano
e affondano e trabocca il freddo e tutto
è azzurro, vasti elettrificati azzurri campi
aratri che lampeggiano e spine
che sbocciano sulla nudità del cielo
la terra ha le rughe, la terra è lebbrosa
ma scalpita un dolce nido selvaggio:
dal piatto si apre una luce puntinata, costante.
*
Bisbiglii nell’oscurità
Ti issi dal pozzo, bimbo. La tua testa è una pira, il braccio un ruscello, aria
il tuo corpo, fango ai piedi. Devo legarti, ma non avere paura; ti amo e i miei
nodi sono la tua libertà.
Scrivi sul cranio: “Sono forte, devoto, impavido, amo la casa e piaccio alle
donne”.
Scrivi sul braccio: “Ho tutto il tempo che voglio, non ho fretta: l’eterno è
mio”.
Scrivi sulla schiena: “In ogni cosa mi riverso, ogni cosa in me si riversa; non
sono continente, nulla può contaminarmi”.
Scrivi sui piedi: “Conosco la misura dell’oscurità, le mie mani sondano i suoi
lemmi; sono il solo che conosca il senso della parola abisso”.
Ora sei oro, bimbo. Diventa pane per i ciechi, trasformati in spada per chi ti
vuole.
*
Terra sigillata
Epigrammi di un poeta antico
Inutile investigare: so nulla. Un vecchio uomo che dorme, al risveglio è un
bambino – puoi leggere ciò che sai nei miei grandi occhi azzurri. Intravedo gli
acidi acini del sapere.
*
Un bambino dalle dita rosate accarezza le trote in riva al fiume: ne chiedo una
e lui risponde no, non ti darò nemmeno una trota autentica.
Vecchi profeti, cosa volete ancora da me? I ventiquattro prismi celesti – un
tempo vagavo cieco nel cuore e sapevo leggerlo.
*
Se vuoi la tua fortuna, ti svelerò chi sei, cosa ti aspetti – ma sono sordo ai
proclami – non ho più segreti da saccheggiare.
*
Dici di essere figlio di Dio: perché allora ti comporti come un mendicante?
Zeus, quando scende sulla terra, chiede pane e acqua, ha fame, come un
vagabondo.
*
Lo Splendente scende sulla terra e mendica nel fango – quando è nel suo
castello, in cielo, tra colonne d’oro, sogna di tornare quaggiù.
*
Il messaggero mira in alto: ecco il centro della terra!
Sopra la sua testa, il cielo si impenna, con un buco nel viso.
*
Bello il pino solitario, bella la rosa aureolata di api, bello il bianco
funerale, il più bello di tutto – l’unione.
*
I tesori dell’albero: foglie, fiori, frutti.
Li dona con generosità, avvinghiato agli elementi.
*
La foresta è pudica, il lupo muore all’ombra, senza dare notizia di sé – una
prefica pagata come si deve urla senza vergogna durante la sepoltura di uno
sconosciuto.
*
Se il cuore è saldo, il malfattore non commette errori mentre presenta bilanci
corrotti – ma si sbilancia, sbriciola in pianto e prova pietà per l’innocente
punito.
*
Il crimine ha una sua nobiltà, la virtù è sacra; ma che valore ha un cuore
inquieto? In quel caso, il crimine è un ubriaco furioso, la virtù un
carceriere.
*
Taglio il destino nel bocciolo: il mio cranio è la cupola celeste, le stelle
gravide di fato corrono lungo le sue arcate.
**
Segni
I
Il mondo intero è sotto la mia palpebra.
Dio si insinua tra la testa e il cuore. Ecco perché mi sento pesante. Ecco
perché è infelice l’asino su cui sono assiso.
*
II
Folle dei cieli: tu che versi il tuo viso sulle acque, qual è la ragazza che ti
svestirà della follia?
Grande santo, dopo aver nuotato in questo mondo sei arrivato al silenzio,
all’infinito vuoto – sei asceso fino all’abito di cristallo della sposa: e,
dimmi, com’è?
*
III
Uomo: risveglia la donna segreta, segregata in te; donna, illumina la tua parte
maschile: quando l’Invisibile abbraccia, penetra ogni parte di te.
*
IV
Grande è l’amore che ci getta nel vortice!
Grande è l’amore che ci attende mentre ci trasformiamo in un vortice!
*
V
Più delle nebulose afflizioni del cuore, più del dubitoso lavorio della mente –
compiaciti del mal di denti, per le energie che ti leva…
Solo le parole possono risolvere una domanda – ma ogni cosa ha in sé la sua
risposta.
**
Ore difficili
Il tempo delle cupe profezie è al termine: la Storia bisbiglia il suo Inverno
intorno a noi.
Uomo: potenza suicida nelle membra, veleno nel sangue, follia di cane rabbioso
nel cranio – nessuno può divinare il suo destino.
Vuole squartare i propri simili con nuovi strumenti di devastazione, vuole
ispezionarne le ossa; le sue sole conquiste: la perdita della ruota e del fuoco,
l’oblio del verbo, la vita a quattro zampe.
Che si districhi, che si sleghi: che rinunci ai suoi innumerevoli gesti da
marionetta condotti con ostinazione brulicante di vermi, alle sue attività utili
ad approvvigionare termiti – si commisuri all’ordine del mondo interiore.
I monti interiori, familiari e ordinari, sovrastano l’avidità individuale. Si
integrano tra loro, trovano equilibrio con il mondo esterno.
Questa è l’antica pratica: finora i flussi insanguinati della storia si sono
mossi ispirati dalla bellezza e dalla grandezza – ma ora è soltanto morte
inferiore, incessante processo di disumanizzazione.
In qualche culla un bambino in fiamme reca dono divini; neppure nei nostri sogni
potevamo prevederlo.
Come nei tempi passati si è svelata l’arcana forza del mondo materiale così
sveleremo i poteri del mondo interiore, incorporeo.
Nelle mani del bambino la lampada della ragione non ha tirannia: serve a
risvegliare le forze spirituali, le illumina, le mette all’opera.
Una volta, l’uomo era un grande conquistatore – in futuro, conquisterà se stesso
– allineerà le stelle al suo destino.
*
Montagna, paesaggio
Il fiume fende la valle
gli uccelli spettegolano.
Quiete verticale
case-volto-di-Dio:
levitano.
Più in alto, il canto di Nemo
il mulino sulla cima:
il ghiaccio si rompe, è brutale.
Sandor Weöres
L'articolo “Non ho più segreti da saccheggiare”. Vita & versi di Sandor Weöres
proviene da Pangea.
Per il suo funerale scelse il salmo 139 – “tenebra mi annulla/ la notte è luce
su di me”. L’amico Liam Rector, postura plastica da poeta, declamò i versi
di Let Evening Come e Otherwise. Il celebrante accordò, a cappella, le note
di Amazing Grace.
Aveva già opzionato il suo loculo, Jane Kenyon. Quindici anni prima, insieme al
marito Donald Hall, in una terra siglata da cespi di betulle e granitiche querce
del New Hampshire. L’acquisto officiò il matrimonio della coppia con il luogo –
l’amena cittadina di Wilmot. Nell’avita tenuta di ‘Don’ – ove Jane giunse, si
congiunse alle donne che ne avevano albergato le stanze.
*
Si erano sposati per affetto, dunque per difetto, nel 1972. Accademico, il fato,
con seducente banalità, dirottò la Kenyon, studentessa, presso il seminario di
scrittura creativa di Hall all’Università del Michigan. Non emerse per talento,
non affiorò per avvenenza. In dote, gli recò, imberbe, i suoi versi acerbi. Lui
era reduce dall’unione con la prima moglie, Kirby Thompson – corredata di due
figli –, la Kenyon da una liaison imbozzolata nella gioventù.
Condivisero l’amore per la poesia, una carnalità consueta e i gatti. Scarsamente
appassionati, si amarono per conforto. Fu un legame di miti vertigini. Alle
nozze intervennero i parenti stretti. Jane non riportò memorie scritte di quel
giorno. Unico sigillo, a testimonianza, il regalo di sua nonna Dora – una copia
rilegata in pelle bianca della Bibbia di Re Giacomo.
Consacrazione di un epilogo, per il ventiduesimo anniversario Hall le donò un
anello di tormalina rosa serrato da nove minuti diamanti. Lei lo battezzò
“Please, don’t die”. La leucemia stillava piena egemonia. Jane Kenyon aveva
appena intessuto le sue poesie più fauste. Morì un anno dopo, il 22 aprile 1995.
Aveva quarantasette anni.
*
Coronata d’alloro al tempo stesso – fu Poeta laureato del New Hampshire – se ne
andò insignita di lirica reputazione. Dunque, in pace. Mal tollerò l’opprimente
veste di poeta moglie di un poeta e avrebbe disprezzato postumi riscatti
femminei alla Sylvia Plath. Pure, credette di abdicare alla vita. Ma preferì
morire da poeta, che da suicida.
> «La mia fede in Dio, soprattutto l’idea che un credente è parte del corpo di
> Cristo, mi ha impedito di farmi del male. […] Quando ho sofferto talmente
> tanto da desiderare di non essere viva o cosciente… mi sono detta: “Se ti
> ferisci, ferisci il corpo di Cristo, e Cristo è già stato ferito abbastanza”».
*
Oppressa dalla depressione – bipolare al focolare – generò Having It Out with
Melancholy, versi afflitti d’atrabile e farmacologica soggezione. In epigrafe
s’appellava a Čechov, suo mentore insieme a Keats. Depressione e poesia – come
patogeno endogeno.
A stringare il morbo nel verbo, le scarne righe di Suggestion from a Friend –
“Non saresti così depresso/ se davvero credessi in Dio”.
Rigettò ogni visione romantico-terapeutica del rapporto fra malattia e
scrittura. Piuttosto, se ne avvalse per scopo clinico, cinico – la poesia per
aumentare la comprensione della patologia. Pare prossima, di spirito e
d’intenti, a Margiad Evans – autrice che sguainò la poesia contro l’epilessia.
Rifiutò, dunque, di recitare il melodramma – promosso da certe poetesse – della
rosea invasata, dell’artista rosa dalla follia.
*
Votato a una mistica domestica – mai addomesticato – il suo verso divora nella
dimora. Visuale, aurale, a scorporare dal corpo, mistico sito, il rito del
poetare – irrompe lo Spirito Santo. Errante presenza – di stanza in stanza.
Jane Kenyon è poesia-annunciazione, poesia-apparizione, poesia-redentiva.
Gregory Orr velatamente l’annoverò fra i poeti post-confessionali – la poesia
autobiografica come bianca arma di sopravvivenza e riconciliazione col mondo. Di
trasformazione – l’uso della lingua a emendare l’esperienza. Era disposta a
capitolare, per non ricapitolare – in versi – la vita.
*
Madrina dell’anti-canone delle Plath e delle Sexton, Jane Kenyon – fanatica
della mistica – si consacrò a Teresa D’Avila, Giuliana di Norwich. Quindi a
Emily Dickinson ed Elizabeth Bishop – dai meandri del New England le condusse
fino ai setosi dedali della Cina, con una sequela di letterarie lectures,
salmodiando sulla loro opera. Nel 1979, alla cerimonia commemorativa della
Bishop, franò nella commozione – ne ammirava il verso scarno, preciso, il
linguaggio pressato. Beneficiò spesso del paragone con la Dickinson – la ricerca
di Dio, della solitudine nella natura, il mistero della bellezza, il diafano
legame fra depressione e gioia.
Fu, anzitutto, devota ad Anna Achmatova. Tradusse la russa con altera premessa –
giudicando insoddisfacenti le rare versioni in circolazione, decretò di
confezionare la propria.
Il marito, Hall, ammantato di un radicalismo poetico virato allo snobismo più
estremo – nel 2006 nominato Poeta laureato degli Stati Uniti –, fu d’opposto
avviso. Pur avendo costeggiato e corteggiato svariati generi della parola,
prestò somma fedeltà al suo originale suono – in mancanza, riteneva
inafferrabili le connessioni interne alla poesia.
D’indole diversamente tirannica, entrambi rigettarono la traduzione come pratica
ordinaria, grigio esercizio, servizio.
Il poeta Hayden Carruth qualificò la Kenyon quale Achmatova americana. Arduo
immaginare due esistenze più dissimili. Contemplativa e apolitica, la poesia
della Kenyon si nutrì nondimeno dello slancio slavo – s’apparentarono gli
spiriti.
Della Venere di Odessa venerò la lirica succinta, la supremazia, imperiale,
dell’immagine a scapito del simbolo – le sei poesie inizialmente tradotte furono
incluse nella sua prima raccolta, From Room to Room (1978); confluite poi
in Twenty Poems of Anna Akhmatova (Ally Press, 1985).
*
Lirismo tangibile, quello di Jane Kenyon. Mirava a una verità d’opale, epifania
privata compressa nell’attimo. Digiuna di orpelli, scrittura prossima alle
Scritture, ellittica, irrisolta, come l’onnipresente rimando al mondo naturale.
Il poeta Robert Hass la paragonò, per temi pastorali e cupe meditazioni, a
Robert Frost – che pure aveva conosciuto suo marito anni prima – ma con uno
sguardo più interiore.
All’immaginario imagista si appellò invece per non scivolare nell’astrazione –
la poesia di Ezra Pound come monito e monile.
*
Il giornalista Bill Moyer, nel 1993, effigiò Jane Kenyon e Donald Hall in un
documentario – A Life Together – vincitore di un Emmy Award. Proiezione
routinaria di un matrimonio fra poeti dominato da una viscosa discepolanza,
sfociata in rivalità lirica. “È dannatamente duro con la mia prosa. Sarcastico.
Quando parliamo di poesia, so di trovarmi su un terreno più solido, ma con la
prosa può ridurmi in poltiglia” – così Jane, a commento del consorte. Lo diceva
dispotico e possessivo. Ad ogni modo, l’ultimo atto letterario di Hall – morì
nel 2018 – fu la cura e selezione di The Best Poems of Jane Kenyon (Graywolf
Press). Riteneva gemmata, la consorte, dalla sua costola poetica.
*
Coltivava narcisi e peonie, Jane. Poesia e giardinaggio come suoi talenti
privati – il connubio ricorda la schiva scrittrice italiana Pia Pera, che pure
tradusse i russi, fra tutti Čechov e Puškin. Entrambe, arti intrise di morte e
resurrezione. Lottò con la fede, la Kenyon – educata con metodo metodista. Aveva
paura di Dio. Finché una domenica, nella nivea chiesa di Wilmot, il ministro
Jack Jensen evocò Rainer Maria Rilke nel suo sermone. Col tempo, la sua vita
religiosa invase la sua vita letteraria. In Robert Bly intuì la dimensione
spirituale della poesia – a sublimare il sublime. Patrocinò una funzione
sacerdotale del poeta.
*
Per la sepoltura, Hall scelse di drappeggiare sul corpo di sua moglie una salwar
kamiz bianca e un foulard sulla spalla sinistra provenienti dall’India – c’erano
stati insieme due volte. Fra le dita, ossute e incrociate – ornamento d’eterno –
la fede nuziale. Le baciò per l’ultima volta le labbra, fredde e rigide.
Lapidario, scolpito nel nero marmo della lapide, l’epitaffio recita un verso di
Jane.
> Credo nei miracoli dell’arte, ma quale
> prodigio ti terrà al sicuro al mio fianco?
L’aveva composto per osteggiare la morte di Donald – svilito, all’epoca, da un
cancro. All’ombra delle sue parole, oggi, riposano entrambi. Ogni poetica
contesa è trascesa.
Fabrizia Sabbatini
*
Il pipistrello
Leggevo del razionalismo,
il genere di cose che facciamo al nord
all’esordio d’inverno, dove il sole
abdica al giorno alle 4:15.
Forse il mondo è intelligibile
al genio razionale;
forse accendiamo lampade al crepuscolo
per nulla…
Poi ho udito delle ali sopra la testa.
I gatti ed io abbiamo inseguito il pipistrello
in tondo – soggiorno, cucina,
ripostiglio, cucina, soggiorno…
A ogni giro ci sfuggiva
come l’identità del terzo
della Trinità: colui
che ha parlato per mezzo dei profeti,
colui che ha sorpreso Maria
apparendo all’improvviso.
Jane Kenyon
*Per la prima volta in Italia, una antologia delle poesie di Jane Kenyon è edita
dalle edizioni Magog, a cura di Fabrizia Sabbatini
L'articolo Jane Kenyon o della mistica domestica proviene da Pangea.
La poesia di Jay Wright è “enormemente vasta”, come Pasolini definì quella di
Pound nella celebre intervista: nata come lirica di forte impronta religiosa, in
essa si riscontra un’insistenza decisa sul tema della storia dagli albori, anche
solo nei titoli stessi della raccolta d’esordio del 1967 Death as History, poi
ripudiata, e della ben più cospicua Dimensions of History (apparsa nel 1976),
tanto che Gerald Barrax scrisse nel 1983 che “se Wright avesse una musa classica
sarebbe Clio”, come ben evidente in particolare nei suoi primi quattro libri di
versi: l’opera del poeta, sempre per citare il Pasolini dell’intervista, si
sviluppa come se “si estendesse in superficie occupando un territorio poetico
immenso”, dall’Africa dei suoi antenati alle Americhe, affondando le radici
nella millenaria tradizione filosofico-letteraria del mondo classico e nelle
varie ramificazioni europee che ne derivarono, ove epoche diverse e mitologie
disparate come egizia, azteca e Dogon (dall’Africa occidentale) – per citare
quelle che più comunemente si incontrano – permeano il tessuto dei versi
convergendo in una singolarissima architettura.
Estremamente unitaria, la sua poesia andrebbe vista probabilmente come un’unica
opera in versi: a suggerire questa continuità (peraltro confermata dallo stesso
autore) basti ricordare che in Transfigurations, apparsa nel 2000, vennero
ristampate le precedenti sette raccolte The Homecoming
Singer (1971), Soothsayers and Omens (1974), Dimensions of History (1977), The
Double Invention of Kǫmǫ (1980), Explications / Interpretations (pubblicata nel
1984 ma scritta prima del 1980), Elaine’s Book (1986), Boleros (1991) e la
semi-eponima Transformations, inedita; la raccolta successiva, The Guide
Signs (apparsa nel 2007), come Transfigurations venne stampata a Baton Rouge
dalla Louisiana State University Press, e con quella condivide anche l’aspetto
grafico della copertina (fatta in entrambi i casi da Amanda McDonald Scallan) e
dei caratteri (Trump mediaeval), sottolineando ulteriormente la continuità tra
le due opere (e quindi tra The Guide Signs e le precedenti otto).
Anche nei volumi pubblicati dal 2007 in avanti, Music’s Mask and
Measure (2007), Polynomials and Pollen (2008), The Presentable Art of Reading
Absence (2008), Disorientations: Groundings (2013), The Prime
Anniversary (2019), Thirteen Quintets for Lois and the ἔτι καὶ νῦν of
Grace (2021) e Postage Stamps (2023), si riscontrano molti degli elementi che
avevano caratterizzato le prime nove raccolte: a livello poetico si nota una
continua frapposizione di una dimensione piú “lirica”, in cui le opere sono
composte in prevalenza da poesie relativamente brevi, spesso di qualche dozzina
di versi (non mancano ovviamente esempi di testi più succinti, come in Music’s
Mask and Measure, composta quasi interamente da poesie tra cinque e dodici
versi, e in altre raccolte in cui si trovano sonetti o componimenti in poche
ottave o strofi spenseriane, come ad esempio in The Prime Anniversary), ad una
dimensione più “poematica”, evidente ad esempio in The Presentable Art of
Reading Absence, un unico poema, o in The Double Invention of Kǫmǫ e in The
Guide Signs, di cui intere sezioni sono strutturate più come poemi o poemetti (o
sistemi unitari di poemetti) che come raccolte di poesie.
Fatta di accostamenti tra culture lontane a livello geografico e storico, questa
poesia è diventata man mano più universale, più pregna di immagini
caratterizzate da una callida iunctura: si osserva sempre la giustapposizione di
mitologie distinte appartenenti a mondi diversi, che inizia già in Soothsayers
and Omens e trova forse il suo apice in alcuni titoli di Boleros, in cui Wright
stabilisce una corrispondenza tra le muse greche e gli stadi dell’anima nella
mitologia egizia; nelle raccolte da Transformations in avanti il poeta affianca
alla cosmologia mitologica (prevalentemente Dogon) un cosmo più concreto, vicino
a quello degli astronomi, menzionando ad esempio lune di Giove, frammenti di
stelle e campi magnetici in Transformations; in tempi più recenti ancora nomina
spessissimo gli elettroni, e userà un’espressione fortemente scientifica come
“il reperto fossile di un’anima” in The Presentable Art of Reading Absence.
Pur essendo in origine avulso dalla metrica tradizionale e legato a versi brevi,
già in Dimensions of History Wright a tratti usa con insistenza il verso più
comune nella poesia inglese, il pentametro giambico; la metrica canonica torna
(filtrata da un uso molto novecentesco e “libero”) nelle sezioni conclusive
di Boleros e poi in gran parte di Transformations, dove compaiono sonetti con
strutture rimiche piuttosto inusuali (continuando la tradizione di Ozymandias o,
in tempi piú recenti, di Parting di Yeats) che comporranno poi anche il primo
movimento di Thirteen Quintets for Lois; inizialmente le rime sono non di
rado in tmesi, con parole troncate a metà e continuate al verso successivo;
vengono conservate in posizione più consueta nelle ultime raccolte, ove si
osserva piuttosto uno spostamento degli accenti verso la fine delle parole per
esigenze di rima. Nonostante un uso meno frequente, i versi liberi continuano a
far parte della poesia di Wright anche nelle ultime raccolte, soprattutto nelle
sue parti liriche.
Emergono molto numerosi sintagmi in altre lingue, in prevalenza in spagnolo,
presente in particolare nelle poesie di ambientazione latinoamericana (Wright
cita spessissimo autori dell’intera tradizione poetica in lingua spagnola, dal
vecchio e dal nuovo mondo), quindi anche in francese (antico e moderno), in
italiano (si tratta soprattutto di citazioni dalla Commedia, ma compaiono anche
altri autori), in latino (aureo e carolingio), in tedesco e in greco antico,
lingua in cui si riscontra anche l’invenzione lessicale, come nel caso del
neologismo “ἱερο-χθων” in Polynomials and Pollen (da ἱερός, “sacro” e χθών,
“terra, suolo”, il secondo associato genericamente all’oltretomba e alle sue
divinità oscure).
Come si può dedurre, a fronte un apparato poetico così vasto le fonti sono
molteplici: solo per citarne alcuni tra i moltissimi Wright stesso scrisse a
proposito dei versi di The Double Invention of Kǫmǫ che i lettori avrebbero
certamente riconosciuto “Goethe, Agostino (in quanto doppio cittadino), Dante,
Duns Scoto e i rinascimenti [sic]” tra le molte voci; l’uso di un linguaggio
patristico nelle poesie più religiose rimanda alla Bibbia (talvolta anche
all’Apocalisse e in generale ai suoi libri più “immaginifici”), ai presocratici
e ai poeti confessionali, tra cui compare spesso Donne; è preponderante la
tradizione tedesca, soprattutto quella poetica; Wright nomina spesso
esplicitamente filosofi, prevalentemente greci antichi come Plotino e Parmenide
(in particolare in Disorientations). Tra i contemporanei ricopre un ruolo
primario Eliot, e non mancano ovviamente grandi poeti afroamericani del
Novecento come Tolson, a cui è spesso associato, mentreExplications /
Interpretations è dedicata a Harold Bloom e a Robert Hayden, morto appena
quattro anni prima della pubblicazione; The Double Invention of Kǫmǫ, infine, è
dedicata al grande antropologo Marcel Griaule, che studiò a fondo i Dogon e la
loro mitologia.
Il suo linguaggio è spesso piano e al contempo molto elegante, semplice a
livello linguistico e complicato a livello di stratificazione
storico-filosofica, gremito di parole in lingue native americane e africane;
sebbene il senso profondo dei suoi versi sia spesso oscuro, la loro limpidezza
fa di Jay Wright uno dei più grandi poeti viventi.
Francesco Kerbaker
**
The Invention of a Garden
I’m looking out of the window,
from the second floor,
into a half-eaten patio
where the bugs dance deliriously
and the flowers sniff at bits of life.
I touch my burned-out throat,
with an ache to thrust
my fingers to the bone,
run them through the wet
underpinnings of my skin,
in the thick blood, around
the cragged vertebrae.
I have dreamed of armored insects
taking flight through my stomach wall,
the fissured skin refusing to close,
or bleed, but gaping
like the gory lips of an oyster,
stout and inviting, clefts of flesh
rising like the taut membrane of a drum,
threatening to explode and spill
the pent-up desires I hide.
Two or three birds
invent a garden, he said
and I have made a bath
to warm the intrepid robins
that glitter where the sun
deserts the stones.
They come, and splash, matter-of-factly,
in the coral water, sand-driven
and lonely as sandpipers
at the crest of a wave.
Could I believe in the loneliness
of beaches, where sand crabs
duck camouflaged in holes,
and devitalized shrubs and shells
come up to capture the shore?
More, than in this garrisoned room,
where this pencil scratches
in the ruled-off lines,
making the only sound
that will contain the taut,
unopened drum that beats the dance
for bugs and garden-creating birds.
L’invenzione di un giardino
Guardo dalla finestra,
al secondo piano,
verso un logoro patio
dove gli insetti danzano in delirio
e i fiori annusano pezzi di vita.
Tocco la mia gola bruciata,
volendo infilare
le dita fino all’osso,
passarle negli strati
bagnati sotto la mia pelle,
nel sangue spesso, intorno
alle vertebre ruvide.
Ho sognato insetti corazzati
involarsi squarciando il mio stomaco:
la pelle fessa rifiutava di chiudersi
o sanguinare, aperta
come le labbra cruente di un’ostrica,
forti e invitanti, fessure di carne
pulsanti come la pelle tesa di un tamburo,
minacciando di scoppiare e sversare
i desideri repressi che celo.
Due o tre uccelli
inventano un giardino, disse,
e ho costruito una vasca
per scaldare i pettirossi intrepidi
che luccicano dove il sole
lascia le pietre.
Vengono e spruzzano, in modo pratico,
nell’acqua corale, guidati dalla sabbia
e soli come piovanelli
alla cresta di un’onda.
Potrei credere alla solitudine
delle spiagge, ove granchietti
si camuffano in buche
e arbusti e conchiglie smorti
vengono a catturare la riva?
Più che in questa stanza presidiata,
dove questa matita solca
linee cancellate,
facendo l’unico rumore
che conterrà il tamburo
teso, chiuso, che detta la danza
per insetti e uccelli crea-giardino.
(Da The Homecoming Singer)
*
Inside Chapultepec Castle
Wherever you turn,
the sensual halls caress you.
Rose blood heroes snarl
and careen from the walls.
Jades and silver medals enchant your eye.
Fading amber tapestries and gold furniture
lie jealously next to them.
To get here,
you are pulled from below,
a baptized sinner
emerging from the water,
still trembling.
If you listen,
you can hear something
picking at this temple’s heart.
If you are still,
you can see a girl,
as pure as a goddess
who would embrace the chosen,
lie down to caress it.
Nel castello di Chapultepec
Dovunque ti giri,
le sale sensuali ti accarezzano.
Eroi dal sangue di rosa ringhiano
carenando dai muri.
Giade e medaglie argentee incantano i tuoi occhi.
Arazzi ambrati sbiaditi e mobili dorati
stanno, gelosi, accanto a loro.
Per arrivare qui,
sei tratto da sotto,
peccatore battezzato
che emerge dall’acqua,
ancora tremante.
Se ascolti,
puoi sentire qualcosa
che becca il cuore del tempio.
Se resti fermo,
vedi una ragazza,
pura come una dea
che abbraccerebbe i prescelti,
sdraiarsi e accarezzarlo.
Da (Soothsayers and Omens)
*
Teponaztli
Fat singer in three keys,
a continent rolls at your feet.
Gourd gong of the dervishes,
praise your end.
Your tongue slit double,
the mallets stamp your body,
a calked Calliope,
sheer deep in pitch and darkness.
Bone clock of the spirits,
praise your purposes.
Inside, the body,
cut rib upon rib,
howls at the debt the drummer owes.
When the lion climbs
into the skin of a llama,
debtors to ourselves,
we pitch the sound of serpent’s feet,
mare’s claws, an eagle’s brimstone,
and the body screams agains
the stamp of a goddess
white as pain.
Teponaztli
Cantante grasso in tre chiavi,
un continente rotola ai tuoi piedi.
Gong duro dei dervisci,
elogia la tua fine.
Tagliata in due la lingua,
i magli pestano il tuo corpo,
Calliope sigillata,
invischiata in pece e buio.
Orologio d’osso degli spiriti,
elogia i tuoi scopi.
Dentro, il corpo,
tagliato costola su costola,
urla al debito del tamburiere.
Quando il leone entra
nella pelle di un lama,
debitori a noi stessi,
moduliamo passi di serpente,
unghia di cavalla, zolfo d’aquila,
e il corpo grida contro
il colpo di una dea,
bianco come il dolore.
Il Teponaztli è un tamburo azteco, suonato con bacchette che battevano su due
lingue di diverse dimensioni incise sulla superficie.
(Da Dimensions of History)
*
[Bolero] 7
Tough old Glasgow tucks itself
under a leg of the Firth of Clyde.
No
Scotia sniveling in that,
just pennywise prudence, a way
of ladling the elation of coming home.
Logicians on the eastern shore count it
no surprise that queenly old Edinburgh
lies on the Firth of Forth,
near to the heart of Midlothian.
So, on a doon and windless morning,
we whip east and touch down
near the greenest pasture in Scotland.
As we step from the plane,
the neighboring sheep show us their haggis eyes
for the flinty spark of a moment.
Suddenly,
I amna deid dune sae muckle as fou,
suspecting that, here, one can
thow the cockles o’ yin’s heart,
no small change from a sixpenny planet,
and have the thieveless crony within you
as suddenly awaken.
We found this bel canto morning
in a Jarocho garden,
on an afternoon when spring had departed
and left only its scunning heat.
I say this now, though I know
that my heart’s weather had turned
on a winter night, when I heard the deer
stamping in the water under the raised barn
and felt the star heat fade and the first, clear
cut of loneliness,
the concert pitch of death’s tuning.
Marry or burn,
one cannot run away or into,
for there is nothing so sedentary
as the desire to be comforted, by love,
or by some feeling one cannot name.
On Hidalgo, in Guadalajara,
the blue flowers, in their persistence
on the neighbors’ white wall,
comforted us, and so the lace of a plaza in sun,
tacos at dawn from a cart in Gigantes,
the mudéjar ache of the divided cathedral,
the rose pinion of paseos,
held us till summer.
Those were the garden’s traces,
leading to the rose of Midlothian,
the stone house walled in and set
in view of the castle.
Down the road,
the old poet, who did hard times for Lallans,
nests with his chickens and neat Laphroaig.
I count him the most civil of servants,
whose gift is the mist of tongues,
rising from the doom gray of council houses
and snuffed coal mines.
I love the sound of sporran and kilt in his voice,
his refusal to give in to King Street’s dove gray manner.
It is some distance to have traveled to learn
to resist being comforted too soon.
Perhaps some moor-stiff night,
we will put on our fog-heavy tweeds
and make our way to old Glasgow,
curled in its water bed,
confident,
cocky,
still uncomforted.
[Bolero] 7
Glasgow, tosta, si insinua
sotto un ramo del Firth of Clyde.
Nessuna
Scotia si lagna in questo,
solo prudenza oculata, un modo
di elargire la gioia di tornare a casa.
I logici sulla costa est non sono
sorpresi che Edimburgo, regale,
sia sul Firth of Forth
vicino al cuore del Midlothian.
Quindi, una mattina scura e senza vento,
andiamo a est e arriviamo
presso il pascolo più verde di Scozia.
Come lasciamo il piano
le pecore vicine ci mostrano i loro occhi-haggis
per un attimo illuminante.
A un tratto,
I amna deid dune sae muckle as fou:
sospetto che qui si possa
thow the cockles o’ yin’s heart,
ben diverso da un pianeta da nulla,
e avere con te un amico fiacco
come svegliato a un tratto.
Trovammo questo mattino-bel-canto
in un giardino jarocho,
un pomeriggio quando la primavera era partita
lasciando solo il suo caldo aleggiante.
Lo dico ora, anche se so
che cambiò il tempo nel mio cuore
una notte d’inverno, quando sentii il cervo
scalciare in acqua alla stalla rialzata
e il calore stellare svanire e il primo, chiaro
taglio della solitudine,
il diapason della morte.
Sposati o brucia,
non si può scappare da o verso:
nulla è più sedentario
di voler esser confortati, dall’amore
o da un sentimento non nominabile.
Su Hidalgo, a Guadalajara,
i fiori blu, nella loro persistenza
sul muro bianco dei vicini,
ci confortarono, come il pizzo di una plaza al sole,
tacos all’alba da un carretto a Gigantes,
il dolore mudéjar della cattedrale divisa,
il pignone di rosa dei paseos,
ci tennero fino all’estate.
Queste erano le tracce del giardino
che portavano alla rosa del Midlothian,
la casa di pietra murata e messa
davanti al castello.
Più avanti,
il vecchio poeta, che ha sofferto per Lallans,
si annida coi suoi polli e il Laphroaig liscio.
È per me il più grande servo pubblico,
il cui dono è foschia di lingue,
emerso dal grigio infausto delle case popolari
e miniere di carbone estinte.
Amo il suono di sporran e kilt nella sua voce,
la sua resistenza ai modi grigio-tortora di King Street.
È un lungo viaggio per aver imparato
a resistere al conforto troppo presto.
Forse, una notte rigida-brughiera,
metteremo i tweeds pregni di nebbia
e andremo verso la vecchia Glasgow,
arricciata nell’acqua,
sicura,
tronfia,
ancora inconfortata.
«I amna deid dune sae muckle as fou» e «thow the cockles o’ yin’s heart» sono
variazioni dei primi versi del poema in lingua scozzese A drunk man looks at the
thistle di Hugh MacDiarmid, qui traducibili come «non sono stanco morto,
piuttosto sono ubriaco» e «scaldare la parte piú intima del cuore».
(Da Boleros)
*
She sat, holding a match to an earwig
She sat, holding a match to an earwig,
all compassion and contemplation abruptly at hand.
Those who had known her father gathered themselves
in the doorway
and marveled at her instrumental ingenuity.
A vestry madness burdened the convocation.
Who would think that love could speak so solemnly
without provocation?
Could she arrange her spices and unguents,
and propel them into service before the banns,
when, haloed and trumpeted,
washed and cinched by a purple headscarf,
she would begin her memories?
Singing now:
¿Por que no viene, padre,
por que no viene un día,
que yo casarme quiero
con el conde de Almería?
And yet I caught him by my will and ineffable longing,
and hold him secretly…
My body is various, infinite, and singular,
turbulent notions proposed by an exile.
I take this rhythm perdidamente
to the crossroads,
where all who would wound me
bring me their bands of cotton, eggs, and ashes.
I will speak with my father
about transcendence,
and offer him those moments which have no
authority or being.
Sedeva, un fiammifero a una forbicina
Sedeva, un fiammifero a una forbicina,
ogni compassione e contemplazione a un tratto sotto mano.
Chi aveva conosciuto suo padre si raccolse
alla porta,
ammirati dalla sua ingegnosità strumentale.
Pesò follia segreta sull’adunanza.
Chi direbbe che l’amore può parlare così solennemente
non provocato?
Potrebbe sistemare spezie e unguenti,
mandarli al servizio prima dell’annuncio di nozze,
l’aura attorno, tra trombe,
lavata e stretta in un foulard viola,
iniziando i suoi ricordi?
Ora cantando:
¿Por que no viene, padre,
por que no viene un día,
que yo casarme quiero
con el conde de Almería?
Eppure lo presi con la mia voglia e brama ineffabile
e lo tengo in segreto…
Il mio corpo è vario, infinito e singolo,
nozioni turbolente proposte da un esule.
Porto questo ritmo perdidamente
al crocevia,
dove chi mi ferirebbe
porta cotone in fasci, uova e ceneri.
Parlerò con mio padre
della trascendenza,
gli offrirò quei momenti che non hanno
autorità o stato.
(Da Disorientations: Groundings)
Traduzione di Francesco Kerbaker
Jay Wright è nato nel 1934 nel New Mexico e ha vissuto in diversi paesi tra
l’Europa e le Americhe. Nel corso della sua lunga carriera si è distinto anche
come drammaturgo e saggista. È MacArthur Fellow dal 1986.
*In copertina: Joaquín Sorolla, “Bambino al mare”, 1905
L'articolo “Un sentimento innominabile”: Jay Wright e la musa afroamericana
proviene da Pangea.
In poesia accade come in pittura. Potremmo dire: il privilegio del volto, il
principio del ritratto – o dell’autoritratto –, bracconiera priorità dell’io.
L’arte europea eccelle nell’investigare l’uomo. Negli sguardi smaliziati di
Antonello, nei corpi-molosso di Michelangelo, nei volti regali e atterriti di
Tiziano intuiamo il ribollio dell’anima, i labirinti dell’interiore. La resa dei
volti, pur perfetta, non è mai realistica – o encomiastica – ma arresa. Il corpo
è ritratto, in realtà, per ritrarre l’interiorità: il corpo ritratto è un
corpo rivelato, identifica un’indole – che sia: ferina e ambiziosa o umile e
benevola, sottomessa al fato o fatale.
Il ritratto reca un meccanismo opposto a quello dello specchio, oggetto
demoniaco perché riduce il corpo alla sua superficie corruttibile – alla sua
disonestà. Il ritratto ambisce ad essere la riproduzione di un corpo già
risorto, eletto ai cieli.
La ragione del predominio dell’umano nell’arte europea è ovvia: da un lato
l’armonia greca – l’universo è proporzionato alla sproporzione del corpo umano;
il tutto è commisurato all’uomo – dall’altro lo schianto del
Dio-fatto-a-somiglianza-d’uomo (ribaltamento della prospettiva ebraica espressa
in Genesi). Tutto è lì, in quel Dio-corpo appeso alla Croce. Le innumerevoli
raffigurazioni del trafitto, dell’innocente ucciso, hanno per scopo lo
spiraglio, la stimmate di luce, uno stillare d’altro mondo. Non si ritrae il
Cristo: gli si fa, devotamente, lo scalpo – che mi attraversi, mentre lo
dipingo, che mi folgori mentre prego Lui attraverso la Sua raffigurazione.
Dalla pittura europea l’animale è bandito.
Certo, l’animale c’è. Di solito, a decorazione – la stessa funzione che ha il
paesaggio. I cani – cagnetti o levrieri che siano – fanno parte
dell’oggettistica di un principe, ne costituiscono il paesaggio domestico: come
la sua pelliccia, l’anello, il bastone – indicano uno status.
Altrimenti, l’animale assurge a simbolo. Il pavone, lo scorpione, il pellicano,
il serpente – per non dire gli emblemi cristici o evangelici, dal leone al toro
– non sono raffigurati per ciò che sono ma per ciò che rappresentano in uno
zodiaco dei sensi, in un bestiario umano, troppo umano. È una dinamica tipica,
di cui abbiamo dimestichezza leggendo Dante, ad esempio, quando appaiono, quasi
bave d’oltremondo, la lonza e la pantera, l’aquila e il veltro. I bestiari, in
effetti, non sono un repertorio zoologico di bestie: l’animale, spesso ferino,
spesso immaginario, s’insinua in un senso, in un sentire, umani, come la pietra
incastonata nella chioma di ferro di un anello.
Esempi sparsi – chessò, la lepre e il rinoceronte di Dürer – afferiscono a
un’area del singolare che riguarda la sapienza zoologica, il primo vagire della
‘scienza’ – ma l’animale, come l’animale uomo, non è semplicemente la sua pur
perfetta raffigurazione fisica. Le scene di caccia del Settecento, i leoni di
Delacroix o le vacche di Segantini – pur nella diversità di intenti e di talenti
– non deviano dalle schema: la bestia è co-protagonista, è lì a illuminare certi
aspetti della vita umana. La bestia esiste perché c’è un uomo che la agisce.
Anche i pittori statunitensi, storditi dalla vastità dello sconosciuto
continente in cui sono atterrati, restano alieni all’animale: i loro quadri
– pompier più che pionieristici – raffigurano, alla meglio, vaste vallate, monti
abissali, un verdeggiare infinito (quando non inquietante); l’uomo, in scala,
ridotto, è pur sempre lì, frastornato Adamo pronto a modellare il mondo secondo
il suo spirito.
Allo stesso modo, l’aquila di Hölderlin, il passero solitario di Leopardi,
il nightingale di Keats, l’albatros di Baudelaire e l’upupa di Montale sono
funzioni – geniali – dello stato d’animo del poeta: sono simboli. La pratica è
antichissima: già Efrem il Siro, nel IV secolo, in uno dei suoni inni, celebra
la familiarità tra uomo e bestia (“noi siamo loro”), pur nella differenza:
“attraverso gli animali/ l’uomo scoprì se stesso”. Gli animali in elenco
rappresentano, appunto, dei ‘caratteri’ umani: il lupo è vorace, la iena
assassina, la serpe infida, lo scorpione traditore, il cane fedele; la volpe è
figura di Erode, il sovrano ingordo e codardo che “profana la tana altrui” e
“per vanità” uccide il Battista. L’animale, in sé – troppo attonito al terreno
–, è niente. La ‘continuità’ con l’uomo ne annienta l’irriducibile alterità,
l’irriducibile nobiltà.
Altre culture, al contrario – quella estremo orientale, quella dei nativi
americani o degli sciamani dell’area uralica e siberiana, ad esempio – fanno
dell’animale il centro della loro attività rituale e artistica. La tigre e
l’airone, la gru e il granchio, il pesce e la scimmia riempiono le opere dei
pittori giapponesi e cinesi: il loro intento non è realistico né simbolico;
semmai anagogico. Come il pittore occidentale tenta, attraverso il ritratto, di
avverare l’anima di colui che ritrae, così il pittore orientale vuole
conquistare la ‘forza’, l’energia della bestia che dipinge. Il corvo e il
coyote, la volpe e l’orso, nelle culture sciamane, non sono bestie simboliche,
bensì autentiche; sono figure regali che aiutano il sapiente nell’operazione di
guarigione, nell’operare il viaggio negli altri mondi.
Tranne rari casi, la poesia italiana è embricare l’ombelico: sprofondare in sé,
specchiarsi nel mondo; ambire – o aderire – alla belva in quanto araldica
lirica. Naturalmente, le eccezioni sono diverse, diversamente singolari –
dal Bove di Pascoli agli aironi di Alessandro Ceni e di Antonio Porta,
dalla Capra di Saba (nel cui “viso semita”, però, scorgiamo lo scalpitio
dell’emblema, di una fraternità che va al di là dell’animale, di cui l’animale
non è parte) ai bestiari di Bellintani – io preferisco Il cervo di D’Annunzio,
che rimane il solo poeta ‘panico’ della nostra tradizione:
Non odi cupi bràmiti interrotti
di là del Serchio? Il cervo d’unghia nera
si sépara dal branco delle femmine
e si rinselva. Dormirà fra breve
nel letto verde, entro la macchia folta,
soffiando dalle crespe froge il fiato
violento che di mentastro odora.
Le vestigia ch’ei lascia hanno la forma,
sai tu?, del cor purpureo balzante.
Ei di tal forma stampa il terren grasso;
e la stampata zolla, ch’ei solleva
con ciascun piede, lascia poi cadere.
Ben questa chiama “gran sigillo” il cauto
cacciatore che lèggevi per entro
i segni; e mai giudizio non gli falla,
oh beato che capo di gran sangue
persegue al tramontare delle stelle,
e l’uccide in sul nascere del sole,
e vede palpitare il vasto corpo
azzannato dai cani e gli alti palchi
della fronte agitar l’estrema lite!
Ma invano invano udiamo i cupi bràmiti
noi tra le canne fluviali assisi.
Tu non ti scaglierai nel Serchio a nuoto
per seguitar la pesta, o Derbe; e il freddo
fiume non solcherà suplice solco
del tuo braccio e del tuo predace riso,
fieri guizzando i muscoli nel gelo.
Inermi siamo e sazii di bellezza,
chini a spiare il cuor nostro ove rugge,
più lontano che il bràmito del cervo,
l’antico desiderio delle prede.
Or lascia quello il branco e si rinselva.
Forse è d’insigni lombi, e assai ramoso.
Ei più non vessa col nascente corno
le scorze. Già la sua corona è dura;
e il suo collo s’infosca e mette barba,
e fra breve sarà gonfio dal molto
bramire. Udremo a notte le sue lunghe
muglia, udremo la voce sua di toro;
sorgere il grido della sua lussuria
udremo nei silenzii della Luna.
È vero: nel mondo anglofono – complici, soprattutto, le novelle mitologie dei
preromantici, Blake su tutti, le vertigini di Gerard Manley Hopkins, la forza
concettuale di Yeats – la bestia ritrova il suo estro-cuspide, il posto che le
spetta. Eppure, anche qui – il libro germinale è La Dea Bianca di Robert Graves
– si tratta, per lo più, di un regesto di simboli, di dissotterrare antiche,
druidiche immagini – malinconia di un tempo trascorso. Il solo poeta che
sistematicamente abbia messo al centro l’animale nel suo discorrere lirico è Ted
Hughes; fin da subito, fin dal primo libro, The Hawk in the Rain, fin da quelle
prime poesie-fossili, giunte da un mondo ulteriore, The Jaguar, The Thought-Fox,
The Horses. Non è un caso se una delle antologie postume più belle di Hughes – a
cura di Alice Oswald – s’intitoli Bestiary. Il bestiario, però, contempla
l’inganno: il termine rimanda, ancora, all’animale-effigie, alla bestia come
gioiello nell’immaginario umano – alla bestia spoglia di sé, mero alambicco
d’intelletto.
Il punto più profondo del legame tra Ted Hughes e l’animale, tra il poeta e
l’anima animalesca accade in libro considerato secondario nell’opera di quel
grande poeta. Under the North Star viene pubblicato da Faber nel 1981 in
edizione di pregio, con gli acquerelli di Leonard Baskin, già compagno di
imprese poetico-pittoriche di Hughes. Il libro dà voce a diversi animali: il
gufo delle nevi e l’orso, la lince e l’airone, la volpe artica, l’aquila e il
puma. Dedicato To Lucretia, la figlia di Baskin, il libro ha il ritmo di una
filastrocca: in realtà, Hughes – lo consegna alla prima, straniante,
poesia, Amulet – impone un rito. Il poeta indossa la stola lirica – dunque: gli
attributi sciamanici –, industria la danza e diventa civetta e airone, grizzly e
puma, lince e luccio e bue. Guarda con i loro occhi, tenta di registrare il loro
linguaggio; non è fratello né artefice della bestia, ma scriba. Poesia, qui,
allora, è verbo di neve: bianco testimone di tracce, aneliti, sangue. Non conta
tanto – non conta più – che la poesia sia bella (categoria astratta, che
pertiene al mondo, per lo più ingannevole, del letterario, dunque
dell’illetterato quanto a mondo), ma autentica; l’autorialità del poeta, qui, è
nel suo sacrificio: l’io, ora, vola, galoppa, fluttua e sgrana arti e artigli.
Che siano poesie ‘per bambini’, queste – così dicono gli adulti, decrepiti nella
loro origine – rientra nella pratica dell’autore. Va addestrato alla bestia, il
bimbo, che sappia – piccolo Mowgli espropriato del primigenio bosco – i suoni e
le voci animali, che riconosca il punto di parentela e quello dell’intoccabile.
A tale distanza occorre ascendere – il resto, non ormeggia più, è gioco di
ombreggiatura; e, certo, la poesia è piena di straordinari caratteristi, i
caricaturisti della realtà.
***
Da Under the North Star
Amuleto
Nelle fauci del Lupo, una montagna di erica.
Nella montagna di erica, la pelle del Lupo.
Nella pelle del Lupo, la frantumata foresta.
Nella frantumata foresta, la zampa del Lupo.
Nella zampa del Lupo, l’orizzonte pietrificato.
Nell’orizzonte pietrificato, la lingua del Lupo.
Nella lingua del Lupo, le lacrime della Cerva.
Nelle lacrime della Cerva, la palude di ghiaccio.
Nella palude di ghiaccio, il sangue del Lupo.
Nel sangue del Lupo, vento di neve.
Nel vento di neve, l’occhio del Lupo.
Nell’occhio del Lupo, la Stella Polare.
Nella Stella Polare, le fauci del Lupo.
*
Civetta delle nevi
Occhio Giallo, Occhio Giallo
giallo perché è gialla la Luna.
Esce dal Buco Nero del Nord
un’Era Glaciale in volo!
La Luna vola bassa –
la Luna incombe, caccia la sua Lepre –
La Luna cala, grossa di brina
affamata come la fine del mondo.
Il Polo Nord ha la gola roca
ruggisce e ne trema il globo –
Gli occhi del pianeta serrati di paura
eppure le stelle tremano di gioia.
Guarda!
Lepre ha il suo splendido monumento!
Si impenna una bufera Ciclope
su zampe di ferro nero!
Gioiamo insieme alla Lepre!
Civetta delle nevi, Civetta delle nevi
sei immobile e fissi l’immobile globo.
La Luna vola alto.
La bianca montagna è in volo.
Lepre diventa un angelo!
*
Airone
Sole è un iceberg
nel cielo.
In un’alcova di gelo
giacciono i pesci.
Il fiume è condannato
Morte si muove su di lui.
Ma l’Airone
in posa di caccia
è diventato di ferro
e non può muoversi.
*
Volpe artica
Nessuna traccia. Neve.
Orecchio – resto stellare.
Cristalli di silenzio.
Il mondo ti fissa, attonito.
Fauci fradice di ghiaccio
perforano la brina:
qualcosa di impalpabile –
nevischio di piume.
La foresta sussurra.
Respiro furetto
vuoto come il chiarore lunare
ha un’ombra blu.
Il sogno smuove
il muso addormentato
della terra folgorata dalla neve.
Quando verrà il giorno
sarà impossibile per il sole
rintracciare ciò che la notte
ha registrato di nascosto.
*
Lince
Le zampe silenti della foresta,
delle nuvole, delle montagne
hanno il loro meritato riposo
sotto l’orecchio di Lince.
Dormono del suo sonno – come
in un profondo – profondo – lago.
Non disturbare la belva
o le nuvole apriranno gli occhi,
la foresta, in silenzio,
sposterà tutti i boschi
e le montagne, arse di nebbia,
svaniranno tra le loro pietre.
*
Puma
Dio mise il Puma sulla Montagna:
sarai l’organista
degli echi cattedrale.
Delle sue urla risuona la cava rupe
la soglia e l’abisso.
La sua musica sorprende per vastità.
Sul pinnacolo del suo gridare
solleva la gelida vetta
e ascende, alla ricerca del Creatore.
Sacerdotessa delle caverne dall’occhio folle –
per tutta la notte cerca di assalire il cielo:
il suo canto è come un missile e la Luna gli gela il muso.
Il giorno dopo, esausta
dorme al sole.
A volte – spezzata
da un silenzio che fiammeggia –
indossa un gioiello.
Ted Hughes
*In copertina: Leonard Baskin, Frightened Boy and His Dog, 1955; nel testo,
disegni di Leonard Baskin
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