Sarebbe impossibile, oggi, definire Suor Juana Inés de la Cruz “una delle
supreme figure simboliche in cui le donne moderne si sono riconosciute”. Eppure,
così attaccava la ‘quarta’ delle Poesie di questa singolare e ineffabile
personalità, tradotte da Roberto Paoli per la Bur nel 1983. Il libro –
naturalmente, verrebbe da dire – fa parte di un’eternità non più libraria, è
scomparso da cataloghi e scaffali; l’autrice è ormai un’innocua nota nei libri
di storia, una chiosa capretta, tanto che pare paradossale l’enfasi con cui
veniva presentata, allora:
> “Voleva vivere in perfetta solitudine, leggendo, studiando e scrivendo, senza
> essere disturbata dal tumulto della vita. ‘Il mio calamaio è il rogo nel quale
> devo bruciarmi’, scrisse stupendamente. Pochi uomini possono vantare una così
> adamantina, superba, disperata tensione intellettuale come questa suora
> messicana: sognava di essere androgina, di dimenticare il suo sesso e ogni
> sesso, il suo corpo e l’intero regno dei corpi, tutte le vicissitudini delle
> sensazioni e dei sentimenti”.
Anche il libro Einaudi che raccoglie i Versi d’amore e di circostanza di Juana –
uscito nella ‘bianca’ nel 1995, a cura di Angelo Morino – risulta “non
disponibile”. Peccato perché i versi di questa donna astrale, estranea al tempo,
che fu dama d’onore della viceregina, carmelitana scalza per una manciata di
mesi, poi affiliata all’ordine di San Gerolamo, temuta per spregiudicato
intelletto, di glaciale bellezza, sono tra i più alti dell’epoca, tra i più
belli mai scritti in lingua spagnola. Rimedieremo.
Chissà quali sono le “figure simboliche” in cui oggi si riconoscono le “donne
moderne”… Non credo che Suor Juana possa essere addomesticata in simboli e in
slogan: la sua mente, ferina, spaura; la sua libertà è violenta. Infine, si
liberò della biblioteca – che contava oltre 4mila volumi, spesso ‘proibiti’ se
non proibitivi – e degli strumenti musicali, che sapeva armeggiare. Chiuse anche
con gli strumenti scientifici con cui si lambiccava, giocando all’alchimia –
morì, troppo giovane, troppo altra, neppure cinquantenne, nel 1695, a causa di
un’epidemia (si dedicò a curare le inferme, subendone il contagio). Leggeva, tra
gli altri, Athanasius Kircher. A tratti, Suor Juana pare una delle donne dipinte
da Zurbarán: Sant’Agata o Santa Elisabetta del Portogallo, evanescenti e feroci,
con quel volto giaguaro. In lei, l’arguzia di Santa Teresa si svolge nell’aquila
di Tenochtitlán: un’intelligenza dagli artigli tesi. Per darle giustizia ci
vorrebbe la penna di Cristina Campo.
Perfino Samuel Beckett restò stordito dalla voracità linguistica di Suor Juana.
Su ispirazione di Octavio Paz – che a Suor Juana dedicò parte della sua vita da
studioso: Suor Juana o le insidie della fedecampeggiava, nel 1991, in catalogo
Garzanti, ora si trova nel mercato alternativo – cominciò a tradurla. L’esito
del suo lavoro – che contempla altri autori del Seicento come Bernardo de
Balbuena e Juan Ruíz de Alarcón – fu pubblicato nel 1958 dalla Indiana
University Press come An Anthology of Mexican Poetry transleted by Samuel
Beckett. Nel 1994 l’antologia è stata ripubblicata da Grove Press. Il libro è
smilzo, sobrio, ‘beckettiano’: nell’ala compare – guarda un po’ – Suor Juana,
nel ritratto di Miguel Cabrera: “Posseduta da un’ardente curiosità
intellettuale, ha difeso con forza il proprio diritto alla conoscenza, la
propria sete di sapere, scrivendo, tra l’altro, liriche di rara bellezza”.
Il 1958 è un anno importante per Beckett: traduce L’innominabile in inglese,
scrive Acte sans Paroles, L’ultimo nastro di Krapp, Finale di partita. L’anno
dopo il Trinity College lo investe del dottorato honoris causa. Credo che
Beckett, in quel lotto di anni, sia stato invaso dal linguaggio di Suor Juana:
esuberante, è vero, ma che esorbita fino ai confini dell’indicibile,
dell’annientamento, per eccesso, di ogni lemma. Come sfregare due pietre d’oro
perché accada una fiamma: è bianca, sa di acqua. Eppure – a dire
dell’insignificanza di Suor Juana nei perigli della cultura d’oggi – non c’è
cenno della Anthology of Mexican Poetry nel formidabile ‘Meridiano’ dedicato
a Romanzi, teatro e televisione di Beckett. Eppure, è opera in cui coincidono –
rarità al cubo – due futuri premi Nobel per la letteratura: Paz otterrà l’alloro
nel 1990, ventuno anni dopo Beckett. Il punto di giunzione tra l’irlandese e il
messicano è Antonin Artaud: credeva in misteriose analogie tra i Tarahumara,
“razza di uomini perduti” nei recessi del Messico, e la civiltà delle Aran, tra
il peyote e Bachall Isu, il mitico bastone di San Patrizio custodito – e poi
bruciato – a Dublino. Soprattutto, modellò il linguaggio fino a farne magia,
formula ipnotica.
Ad ogni modo, ecco come Samuel Beckett rende uno dei sonetti più noti di Suor
Juana, Éste que ves, engaño colorido:
Questo frainteso a colori che tanto ammiri,
vanagloria dell’eccellenza artistica
non è che una furba frode dei sensi
in fallaci sillogismi di pittura;
questo, dico, adulazione da becchino
che estenua l’odioso orrore degli anni,
vaniloquente sconfitta degli oltraggi del tempo
trionfo sull’oblio e sulla vecchiaia,
è vano artificio della dedizione
è fragile fiore al vento
è inutile santuario del fato
sordida inerte opera vana, conquista
che svanirà, ben fatta, certo, nient’altro
che carcassa e polvere, ombra e nulla.
Questa la traduzione, adesiva, di Paoli:
Questo, che vedi, colorato inganno
che dell’arte ostentando le bellezze
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dei sensi malizioso;
questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggendo del tempo i rigori
trionfare sugli anni e sull’oblio,
è un artificio vano della cura,
è un fiore molto gracile nel vento,
è un inutile scudo contro il fato:
è una sciocca pazienza delirante,
è un affanno fugace e, a ben guardare,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.
Un sapiente drammaturgo dovrebbe figurarsi il giorno in cui Samuel Beckett
incontrerà Suor Juana – le chiederà di ispezionare la sua calotta cranica,
riconoscendo gli stessi ghiacciai, un padre chiamato Antartide. Dopo averle
baciato le dita, è ovvio – rese al giglio e all’acciaio, fatte iena.
***
Da Primero sueño
Venere era, Venere
per prima della bella stella
del mattino adorna
brillò lungo l’alba
arcigna sposa del vecchio Titone.
Amazzone di ardore rivestita
armata contro la notte
fatata e fatale
pianto di malinconia pianta
e mostra l’amabile fronte
tra i ramificati bagliori del mattino
tenero ma ferino araldo
dell’astro feroce
che viene, che viene
schierando gli scherani
e gli arcieri bagliori
la retroguardia
di venerande veterane luci
contro di lei, tiranno usurpatore
dell’impero del giorno, mentre
cinghie di neri tuoni
trafiggono le ombre nottambule
fino ad atterrirla.
Ma lei è bella, lei è l’avanguardia
dell’araldo del sole
che sventola il palio a Oriente
e chiama alle armi le mere, bellicose
genie dei rapaci:
che sia ingenua la loro fede
sonora come quella delle trombe
quando il tiranno, in rotta, trema
sconvolto da cupi presentimenti
e si sforza di elencare la sua leggendaria
potenza e controbatte con il funebre
mantello le infallibili
falci di luce
ed è vano il valore
della disperazione, futile
ogni resistenza, così inclina
alla fuga, unica via di salvezza
e il rauco corno erutta
e i neri battaglioni
retrattili in geometrica ritirata.
Ma una più arcana pienezza
di raggi squarciò le più alte cime
le torri del mondo. Il sole
recluso nel suo girovagare
rende oro l’azzurro
raggi di luce virginea
incidono il ceruleo cranio del cielo
si abbattono su quella
funesta tirannia.
E lei fugge e lei inciampa
nei suoi stessi orrori
calpesta la sua ombra:
cieca fuga, luce che avanza
luce che incalza, che sfonda
il limite occidentale e la sfigura.
Ma la caduta la vivifica
la rovina la imbeve di una
rinnovata ribellione
e in quella parte di mondo
ignara del giorno
indossa ancora la corona
mentre nel nostro emisfero
il sole scuote la criniera
conferendo a ogni cosa
il suo degno colore
affidando agli ancoraggi
della luce il mondo – ora
tutto è luce e posso destarmi.
Versione di Samuel Beckett
L'articolo “Voleva vivere in perfetta solitudine”. L’incontro tra Samuel Beckett
e Suor Juana Inés de la Cruz proviene da Pangea.
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Dev’esserci, nella biografia di ogni poeta, un momento in cui la folgore cade
senza preavviso. L’istante in cui la poesia si incista nel destino: le stimmate
di una vocazione che è incontro fatale tra telos e contingenza.
Per Nicolas Bouvier, questo accade nella valle di Erzurum, quando l’alba si leva
verso il Caucaso, annunciata dagli occhi fosforescenti di una volpe:
> “in fin dei conti, ciò che costituisce l’ossatura dell’esistenza, non è né la
> famiglia, né la carriera, né ciò che gli altri diranno o penseranno di voi, ma
> alcuni istanti di questo tipo, sollevati da una levitazione ancora più serena
> di quella dell’amore, e che la vita ci distribuisce con parsimonia a misura
> del nostro debole cuore”.
*
La storia è nota, l’esordio ha quasi i contorni della leggenda. È il 1953.
Nicolas Bouvier, appena terminati gli studi universitari, parte dalla Svizzera a
bordo di una Topolino per raggiungere l’amico Thierry a Belgrado. Insieme, in
una sorta di sodalizio creativo e iniziatico, si mettono in viaggio verso est,
con l’intento di arrivare fino in India. Attraversano la Turchia, l’Iran, il
Pakistan e l’Afghanistan, spingendosi fino alle soglie del Passo Khyber.
Quando Thierry fa ritorno in Europa, Nicolas prosegue da solo. Si dirige in Sri
Lanka, dove – preda di un delirio febbrile e visionario – scrive Il Pesce
Scorpione. Raggiunge poi il Giappone, che agisce su di lui come un calmante
spirituale e gli ispira alcune delle pagine più intense e limpide della sua
opera. Il resto è un intreccio di ritorni e nuove partenze, un continuo
attraversamento delle stesse rotte e l’invenzione di itinerari futuri. Ma il
Passo Khyber, dove La polvere del mondo si arresta, rappresenta nell’itinerario
creativo di Nicolas Bouvier un confine simbolico. Oltre quell’imponente sistema
montuoso si apre un nuovo orizzonte: quello della creazione e della riflessione
poetica.
*
Bouvier si accosta al linguaggio della poesia relativamente tardi, a 35 anni.
Come racconta lui stesso in Routes et déroutes, la sua prima composizione risale
al soggiorno a Tabriz, benché la maggior parte dei versi venga scritta in
Giappone – il paese che, più di ogni altro, con la sua abbagliante sintesi di
ossimori, gli appare come una sorgente inesauribile di ispirazione. Non è un
caso, osserva, che proprio nel Sol Levante sia nata la forma dell’haiku, così
perfetta nella sua studiata semplicità. All’origine della poesia c’è il soffio
che riempie la cassa toracica, il daimon che piega i polsi e getta l’amo nei
fiumi della creazione. Scrivere è un atto da rabdomanti, misteriosa
trasmutazione alchemica. La poesia, dice,
> “era l’unico legame che mi restava con le parole, l’ultima passerella”.
Ma non basta. Il dettato poetico esige rigore: una lealtà da asceta, un lavoro
in sottrazione che può durare mesi, anni, persino decenni. A colpi d’ascia, fino
a raggiungere il cuore dorato del metallo – là dove si fronteggia la frontiera
del silenzio.
*
Nel 2012 esce la versione italiana delle poesie di Bouvier, curata da Luigi
Marfè, acuto indagatore del rapporto tra letteratura e viaggio. Il titolo della
raccolta – Il doppio sguardo. Le dehors et le dedans – sceglie con l’aggiunta
italiana una resa interpretativa, non letterale. Il doppio sguardo richiama
infatti l’idea di una visione sdoppiata. Eppure lo sguardo di Bouvier sulle cose
mi sembra piuttosto di natura “taoista”: non duplice, ma unitario nel suo
accogliere il dentro e il fuori, specchio e fiamma di estremi che si
compenetrano. Ecco che così dehors e dedans diventano due volti della stessa
medaglia. Il fuori: il mondo nel quale siamo immersi, colto nella sua energia
elementare, evocata da ciò che potremmo definire correlativi oggettivi. Il
dentro: un’esplorazione implacabile e dimessa di sé, alla ricerca di accorati
lampeggiamenti interiori.
*
Le poesie di Bouvier sono un irrimediabile ma necessario dissolvimento dell’io
nella pienezza nuda della natura. Voglio dire: come gettare l’io in pasto ai
lupi, seppellirlo sotto il candore della neve e trasfigurarlo nella notturna
luce delle costellazioni.
Piuttosto: viaggiare per addestrarsi alla solitudine ferale, al silenzio
astrale, agli esordi mai approfonditi. Apprendere a fare della mappa geografica
della propria vita il collo dell’imbuto dove smussare e levigare gli angoli
taglienti dell’autobiografia. Ritrovarsi sdraiati, come nel sogno di Kafka, alla
stessa altezza dello sguardo degli animali. Indagare i miti che da millenni
incendiano covoni di grano e spremono il succo dalle vigne.
Il viaggio è la forma più elegante e raffinata per congedarsi dalla tentazione
dell’io. Bisogna annientare l’idea del viaggio come carezza esotica, spogliarlo
di ogni orpello, liberarlo da ogni illusione di spensierata evasione. Tutto,
nelle poesie di Bouvier, parla il linguaggio di una scabra essenzialità, fatta
di elementi naturali primari, di superfici rocciose rastremate dalla salsedine,
di colori quasi chagalliani: luoghi e parole tra cui si avverta il passaggio
dell’aria, come all’inizio dei tempi.
*
La citazione di un anonimo cinese posta in esergo alla prima sezione della
raccolta conferisce a quest’ultima una tonalità poetica del tutto particolare.
> “Domani, se qualcuno si preoccupa del nostro amico d’oltremare,
> dite che, posati i sandali, è tornato a casa a piedi nudi”.
E in effetti i versi sono sospesi in una levità quasi aerea, dove la scelta
delle parole e l’evocazione delle immagini sono al tempo stesso un’aspirazione
alla leggerezza e un richiamo alla condizione terrestre. Nuvole che ammantano il
cielo, piogge che strizzano lembi di azzurro, fumi che si levano da spiagge
nere. E ancora: mormorii, cantilene, sussurri e bozzoli che volteggiano
nell’aria. Ma anche fieri cavalli di concreta carnalità, pozzanghere e campi
disertati, stazioni di treni e mercati orientali.
Personaggi, luoghi e scenari naturali costituiscono il serbatoio da cui il poeta
attinge per le sue composizioni poetiche. Molti degli episodi che danno vita
alle poesie si ritrovano anche nelle opere in prosa di Bouvier. A ben vedere, i
temi ricorrenti nello scrittore svizzero sono gli stessi: hanno a che fare con
la sciarada del viaggio, con la consapevolezza del tempo che passa, con
l’avvistamento dell’ultima dogana, la morte. Ciò che colpisce, nell’iterazione
di queste immagini, è che il dettato poetico di Bouvier, pur recalcitrante
all’io, si declina infine in una forma di poesia perfettamente classica, di
stampo lirico-elegiaco.
La poesia di Bouvier è pura epifania: un’improvvisa rivelazione suggerita da
un’immagine, una visione, un suono. Può accadere contemplando un tramonto
iraniano, osservando dei pellegrini in cammino dal Tibet verso l’India, o
ascoltando un motivo jazz suonato per strada a New York. Ciò che importa è che
sempre, a un certo momento, il tempo sembra raggrumarsi: quando il vasto e
misterioso respiro del mondo spira nel dettato poetico e l’animo vi aderisce
intimamente, in un attimo di agnizione -dissolvendosi completamente nello
sguardo muto dell’universo.
Nella seconda parte della raccolta, Le dedans, assistiamo all’irruzione
del tu, come se l’interiorità non potesse prescindere da un’intimità
relazionale, oltre che grammaticale. Le tre composizioni poetiche del ciclo Love
Song sembrano accendere schegge di lirismo. In realtà, ogni picco di emozione
viene trattenuto, smagato. Come il viaggio e la scrittura, anche l’amore spoglia
l’io da ogni scoria. Rimane sempre, a sigillare tutto, una sorta di misterioso
ritegno:
> “ma che la neve caduta questa notte
> sia come un dito sulla tua bocca”
*
Nicolas Bouvier aveva in mente di scrivere un ciclo di libri intitolato Livre
des Merveilles. Vi avrebbe dovuto appartenere anche Le vide et le plein, forse
l’opera più intensa del Bouvier prosatore, dove la scrittura aderisce con rara
levità alle asperità e ai declivi dell’anima. Livre des merveilles: un titolo
che richiama alla mente i libri di viaggio medievali, i mirabilia, popolati da
tempeste procellose, mostri marini e apparizioni miracolose; o che evoca le
peregrinazioni cartografate da celebri mercanti veneziani. Tuttavia, è bene non
divagare. Nei racconti cinesi, il pittore delle nuvole, dopo aver dato l’ultima
pennellata al suo capolavoro, avvolge i pennelli e li fissa alla cintura, prima
di mettersi in cammino. I manipolatori delle marionette Bunraku, presenti sulla
scena insieme alle loro figure, indossano un cappuccio quando sono ancora
novizi; i maestri, invece, agiscono a volto scoperto: sono diventati a tal punto
il personaggio che animano, da risultare, letteralmente, invisibili allo
sguardo.
Scrivere, come viaggiare, vuol dire scomparire. Scaraventare carta e inchiostro
e fuggire nel caldo ventre della terra.
Lorenzo Giacinto
**
Ulisse
A sud del parapetto,
non c’è più nulla fino alla Terra Antartica.
Leviatani e sirene solcano questi pascoli marini,
questo portolano increspato d’onde,
dove immense porzioni di cielo
si abbattono in scrosci spossati,
senza che Dio stesso
ne sia messo al corrente.
Ogni sera guardi il calice del sole
tuffarsi urlando nel mare a chiazze,
tra gli ammiccamenti dei grossi gatti di bordo
accovacciati tra le gomene.
I pescespada blu sfrecciano davanti alla prua,
come una banda di gioiellieri in fuga.
Sono mesi che non ricevi una lettera,
sei l’ultimo dei paria a bordo di questa nave,
il cuore sfatto, uno straccio di stoppa in mano,
già tutto nero di ricordi.
Ti annulli nel fremito delle eliche,
ascolti l’antico canto del sangue nelle orecchie –
coaguli di sole della memoria,
e l’inventario delle meraviglie,
quando sapevi vivere di poco,
e la vita ti seguiva come uno sciame d’api,
e pagavi, senza mercanteggiare,
il prezzo esorbitante della bellezza.
*
Hira – Mandi
Ultima bottega ancora aperta
nella notte della città –
ghirlande di peperoncini,
samovar e falene,
alone bianco dell’acetilene.
La barba del padrone è tinta
di un rosso birichino.
Tre uomini vestiti di cuoio
sorseggiano il tè versato nei piattini.
Alti zigomi,
che brillano nei volti color rame
sotto la frangia di cappelli informi.
Sono pellegrini del Tibet,
in cammino verso l’India del Gange
per appendere il loro mulinello da preghiera
ai rami del fico del Buddha,
prima di tornare alle loro terre
a fiato corto, a piccoli passi,
attraverso quei confini impraticabili
che passano sopra le nuvole.
Anch’io ho un appuntamento con un albero.
E in ogni caso non c’è più verso di dormire
quando la luna veleggia come una vela gonfia,
così brillante, così veloce,
che persino l’anima ne proietta un’ombra.
*
Love Song III
Quando attizzare le parole per un po’ di colore
non sarà più compito tuo,
quando il rosso del sorbo e le curve delle ragazze
non ti faranno più rimpiangere la tua giovinezza,
quando un nuovo volto, tutto scheggiato d’assenza,
non farà più tremare ciò che credevi solido,
quando il freddo avrà salutato il freddo
e l’oblio dirà addio all’oblio,
quando tutto avrà assunto la silenziosa opacità del
vischio –
quel giorno,
qualcuno ti aspetterà al margine della strada
per dirti che è stato giusto così,
che dovevi concludere il tuo viaggio
senza più nulla,
del tutto disarmato,
allora forse…
ma che la neve caduta questa notte
sia anche come un dito sulla tua bocca.
Nicolas Bouvier
Traduzione di Lorenzo Giacinto
L'articolo Per una poetica della sparizione. Sulla poesia di Nicolas Bouvier
proviene da Pangea.
Firenze, settembre 2018. il bibliotecario della Marucelliana posa il volume su
un leggio e si allontana con discrezione.cancellature, singole parole,
riscritture formicolano sopra le righe. guardo. guardo e basta, se tocco, tutto
scompare. sono rimasta a lungo su quei primi versi. simili al suo Libro ma
diversi. diversi. il titolo scritto a caratteri più minuti del testo:
“Cinematografia sentimentale”, “La notte mistica dell’amore e del dolore”. poi,
per tutto, fu semplicemente La Notte. non era il Libro. l’uomo non era,
esattamente, lo stesso. contemplando quel supporto pulito pensai a quante volte
Dino fosse entrato in una biblioteca, da anonimo. anonima la sua lungimiranza
nel consultare testi che ancora nessuno in Italia aveva notato. anonimo perché
già oltre. il volume sul leggio si intitolava Il più lungo giorno. l’amico Dino
Castrovilli quella mattina mi aveva detto: “ho una sorpresa per te”. così è
stato, che gliene sia sempre grata. incontrare quella rilegatura così gracile
dopo avere sognato un libro immenso. guardo e penso che tutta la vita di Dino
Campana è stata il più lungo giorno “ne la luce catastrofica”: ogni giorno
l’attesa vitale, urgente. ne la luce catastrofica. queste quattro parole mi
rotolano davanti tra le righe, tra tante altre, impigliate ad altre, ognuna
definitiva, visione autonoma. continuo a guardare. accanto a “stanza” Dino
scrive “piena di sogni”. sopra “scheletrico”, “vulcanizzato”. così apparivano le
coste antracite dei suoi Appennini. in alcuni casi, frasi accavallate: “e nella
vita stellare dello specchio un ricordo d’antica sera d’amore di viola”, segni
in schegge. mentre scrivo ho vicino a me la versione anastatica de Il più lungo
giorno di Vallecchi, la ‘realtà’ di quello che resta. ripenso a quei giorni come
a un sogno fugato.
devo iniziare. mi viene ‘ordine’. la parola che sale per prima percorrendo
questo magnificente lavoro di Gianni Turchetta, atto d’amore. fare ordine,
innanzi tutto. riconoscere la volontà di Dino Campana di affermare un talento
che sapeva, rivendicava, e ribadiva con uno studio continuo rimasto nella
maggior parte della critica sotto traccia, offuscato dalle diagnosi di
nevrastenia, dalle boutades dei momenti di corto circuito, dai pregiudizi di chi
vide in tutte quelle cancellature e riscritture un segno di confusione invece di
un intento lucido di rileggere le varie versioni di uno stesso testo e scegliere
quella che sembrasse migliore, come farebbe ogni scrittore. lineare nel proporsi
al mondo da poeta, tessitore di sogni, di connessioni inesplorate, creatività
pulita. nettarlo dallo stereotipo del matto talentuoso ma caotico, capace di
fulgori ma arronzone, scarpone indesiderato dei piccoli Olimpi letterari.
restituirgli un disegno personale, anche se offeso dal travaglio, e forse per
questo più assetato. l’ordine di Gianni Turchetta si manifesta già nella sezione
introduttiva, L’eterno ritorno dell’immagine e la resistenza della
poesia (Turchetta 2024, XI-CVIII)[i], che in esergo riporta come una
dichiarazione di intenti una frase di Michel Foucault: “dove c’è l’opera non c’è
follia” (da Storia della follia nell’età classica).
questo saggio di apertura è un attento lavoro filologico che mostra con
implacabile affetto verso l’essere umano che Turchetta segue da 40 anni,
attraverso alcuni elementi cardinali, l’intento costruttivo del Poeta rispetto
alla sua esperienza di studio della letteratura e della filosofia, in
particolare tedesca, inglese e belgo-francese, e questo attraverso una reiterata
frequentazione delle biblioteche, suggerendo spostamenti mirati che contestano
l’immagine di un dromopatico che si sarebbe trovato per caso, nel suo moto
perpetuo, anche in una biblioteca. le sedute di studio sono volute, nella
coscienza piena che il suo destino di poeta e letterato fosse stato deviato
dalla volontà della famiglia di farne un farmacista. già la scelta del
titolo, Canti Orfici è un manifesto identitario, una “posture visionnaire”
(Claudel in Turchetta 2024, XXXIX) che vuole discostarsi dal mito orfico
dell’Antichità o dell’Occultismo. l’Orfismo di Dino Campana rivendica il
concetto stesso di arte in quanto “mito della magia dell’artista, del suo
disperato immergersi nei ciechi abissi del cuore e dell’universo, e della sua
speranza e del suo bisogno di farne ritorno per raccontare a tutti il suo
viaggio” (Segal, Ibidem). Orfeo incarna la poesia che può vincere la morte, una
connotazione che Dino attribuisce a Faust, “alter ego del poeta” (XL). l’omaggio
alla poesia si sviluppa attorno a una tensione costruttiva, a un meccano
circolare in cui si alternano i temi della ripetizione e del ritorno, scrive
Turchetta, che nei testi del Quaderno, precedenti i Canti Orfici, si reiterano
attorno a un femmineo che non concerne soltanto la figura della donna ma diventa
uno sguardo sensibile che permea anche il paesaggio: la notte, la montagna,
l’acqua, le navi, la città (XCII). tutto è animato da un fremito cosmico: “Odore
amaro d’alloro ventava sordo dall’alto/Attorno al bianco chiostro sepolcrale:/
Ma bella come te, battello bruciato tra l’alto/ Soffio glorioso del ricordo,
gridai o città,/ (Quaderno, “Oscar Wilde a S. Miniato”, 158). e ancora: “Nave
che soffri e vegli/ Coll’occhio disumano/ E al destino lontano/ Sempre sopra del
vano/ Ondeggiare tu pensi/ E m’arde e m’arde il cuore/ Nella notte serena/
(testo 38, senza titolo). la nave come creatura senziente, quasi che
quell’“occhio disumano” fosse quello di un pesce e che l’ondeggiamento, più che
il beccheggio della prua, un respiro di branchie. rispetto alla figura della
donna, è evidente, scrive Turchetta, una continua oscillazione tra incontro e
perdita, un sentimento d’amore che si tempra e trova le sue note più alte
nell’assenza dell’amata. una volontà di strutturazione, scrive l’autore, si
evince anche dal riequilibrio del rapporto tra versi e prose, che nei Canti
Orfici sono rispettivamente 15 e 14, contro il rapporto di 14 a 4 ne Il più
lungo giorno. e allo stesso tempo questa tensione alla costruzione di
un opus unitario procede per lacerti, correzioni, rimandi, ritorni. Turchetta
espone quasi chirurgicamente il cantiere della costruzione poetica campaniana:
dopo l’Introduzione e la Cronologia, propone una vivida “Nota all’edizione” in
cui esplicita la struttura del volume, organizzato in quattro parti principali
(“macro-sezioni”): la prima dedicata ai Canti Orfici, le due successive ai testi
a stampa e manoscritti che hanno preceduto e seguito il Libro e la quarta alle
Lettere. qui l’autore esplicita il suo intento di far affiorare l’ordine
dell’immenso lavoro di scrittura e riscrittura di Dino Campana, una “tensione
verso la verità” (CXCIII) irraggiungibile per definizione ma continuamente
reiterata, elemento principe della dignità del lavoro campaniano, sia di quello
concepito come privato, come nel caso del Taccuinetto faentino, del Fascicolo
marradese inedito e del Taccuino Mattacotta, che di quello destinato a un
pubblico, come Il più lungo giorno e le Carte Bandini.
porre come primo documento i Canti Orfici, il cui commento è “intenzionalmente
ampio” (CXCVII) è una scelta assertiva, a dire che dopo infiniti giri attorno al
sole, rovinose cadute, perdite e smarrimenti questo è ciò che doveva rimanere.
un’alternativa sarebbe stata ordinare il materiale secondo un ordine cronologico
ma mettendo i Canti Orfici in prima posizione si vuole ribadire un pieno diritto
di presenza, umana e poetica. scemati i giudizi, i conflitti,
l’incomunicabilità, lo sperdimento, resta l’opera, l’unico Libro, anima salva.
là dove tutto era sembrato perso, mancato, l’opera è salvezza, senso di una
vita. nelle note all’unico Libro (853-1139), eroiche, si sente la meticolosità
di un affetto profondo e sedimentato, un dialogo intimo da cui affiora chiara
l’intenzione di riscattare un uomo ma soprattutto un immenso magmatico poeta.
solo per citare qualche esempio, apprendiamo che l’edizione dei Canti
Orfici proposta è quella che Dino Campana considerava, parlando dell’edizione
Vallecchi del ’28, l’editio princeps, corretta “sul testo di Marradi e delle
riviste che stamparono i miei versi per la prima volta” (853). le dimensioni del
volume 19,5×12,5 sono indicative perché si riscontrano almeno due diverse
partite di carta. informazioni dettagliate riguardano il corpo dei caratteri (10
per la poesia, 12 per la prosa), il numero di esemplari giunti a noi (Roberto
Maini ne avrebbe recensiti 111 cui se ne sono aggiunti nove), forniti o privi di
dedica, la menzione della qualità e del formato della carta, le differenze
riscontrate, dovute a correzioni effettuate sui piombi, segnano passo dopo passo
la qualità dell’analisi filologica dell’autore. egli menziona anche “l’unico,
prezioso reperto del processo di stampa della princeps” (855): le “bozze”
appartenute a Paolo Toschi, che incontrò per la prima volta Dino Campana “una
sera d’estate, a Marradi, in una stanza bassa e soffocante di una piccola
trattoria, negl’anni sereni in cui s’andava addensando il turbine della guerra:
e mi sembrò d’ascoltare una novella di Edgardo Poe”. in un’altra occasione,
nell’estate del ’14, il Poeta gli disse: “Voglio che lo legga anche Lei, il mio
volume: non posso regalargliene una copia, ma Le darò le bozze […] E oggi –
scrisse Toschi – sfoglio quelle bozze segnate di correzioni a lapis copiativo e
a penna, grosse come se fossero scritte con un fiammifero” (Ibidem). malgrado la
stima sincera che Toschi nutrì per la poesia di Dino Campana (“Fra molte cose
illogiche o non completamente realizzate, ma sempre lampeggianti di sprazzi di
poesia, trovo alcune pagine limpide, espressive di tale evidenza e poeticità
quale è raro trovare anche fra i più bravi scrittori d’oggi”), si può immaginare
che molte delle espressioni colorite che usò per descrivere l’uomo andarono a
innaffiare il mito del matto, riportando con dovizia di particolari alcune
imprese occorse per strada o nelle trattorie. “Tale vita avventurosa e
fantastica io l’ho sentita raccontare da lui stesso una sera d’estate” (Toschi
1926). A questo potremmo aggiungere la materialità dei verbali di “Pubblica
Sicurezza” e delle reiterate diagnosi e descrizioni sintomatiche, tra cui la
“Modula informativa per l’ammissione dei mentecatti nel manicomio di Firenze, 9
aprile 1909”, firmate negli anni da dottori e specialisti ai fini dei diversi
ricoveri psichiatrici. a volte sono i Carabinieri stessi a farsi medici: “segni
di pazzia furiosa […] essendo il Campana riconosciuto per matto furioso dal
Dottor condotto del luogo (“legione Territoriale dei Carabinieri Reali di
Firenze, 8 aprile 1909) (CXXXIX). già tre anni prima la Questura di Firenze
l’aveva definito “squilibrato di mente” (CXXV), avviando la catena del profilo
criminogeno ed entrando in sinergia con le diagnosi patogene degli specialisti
che sarebbero seguite e che avrebbero condotto Dino al manicomio di Imola il 5
settembre 1906 a seguito dell’“ordinanza” che attestava la sua “alienazione
mentale” (CXXXI). “il soggiorno nel manicomio di Imola era avvenuto – scrive lo
psichiatra Carlo Pariani – ‘non perché fosse malato di mente ma perché lo
volevano matto per forza’” (Pariani 2002, 21). appare oggi surreale che la
diagnosi che ha sentenziato l’entrata di Dino in manicomio è di “demenza
precoce?” con il punto interrogativo (Idem) e che tra le patologie, che
diventano voci di crimine, risulti anche l’uso di caffè “del quale è avidissimo
e ne fa un abuso eccezionalissimo” (Ibidem). il peccato di avidità fa la colpa,
la frequenza, la malattia. ugualmente vago è il certificato stilato dal Dott.
Cuylitis presso quella che era all’epoca la Maison de santé Saint- Bernard di
Tournay (attuale Tournai, in Belgio), il quale certifica, tra la fine del 1909 e
l’inizio del 1910, di aver personalmente “visto, esplorato e interrogato Campana
Decio (sic) “colpito da una malattia che si caratterizza con i sintomi seguenti:
“tendenza alla pigrizia (?)”, “al caffè”, “alcolismo” (CXLI)[ii]. a Tournai,
dopo aver passato due mesi nella prigione di Saint Gilles, a Bruxelles, Dino
avrebbe incontrato Il Russo, alter ego, scrive Turchetta, dell’“io poetico”,
opposto e complementare a Regolo; il primo vittima del sistema repressivo
pubblico, il secondo, alter ego vincente. eppure Il Russo incarna il sentimento
di persecuzione della poesia, quindi del “boy” innocente e, come in un gioco di
specchi, di Dino Campana stesso (1077). ne è prova anche l’errore, forse non
così casuale, nella traduzione dell’epigrafe da Whitman che chiude i Canti
Orfici, dove Dino ha tradotto: “Erano tutti stracciati e coperti del sangue del
fanciullo” quando l’originale in inglese recita: “I tre erano tutti stracciati e
coperti del sangue del fanciullo”, come a sottolineare la persecuzione di cui si
sentiva vittima, soprattutto da parte di Papini e Soffici. un’ interpretazione
complementare vede i versi di Dino Campana ispirati anche dalle Georgiche di
Virgilio nel passo in cui si narra dell’uccisione di Orfeo da parte delle donne
dei Ciconi, Georgiche che avrebbero avuto un ruolo importante nella diffusione
dei mito di Orfeo. allo stesso tempo, la diffidenza del Poeta verso la forza
pubblica andrà di pari passo con la necessità di trovare ancor più che un
equilibrio un ordine, manifesto d’altronde nell’intenzione di frequentare la
Scuola Ufficiali e poi di entrare in Polizia.
le Note ai Canti Orfici sono un lavoro di alta oreficeria, con infiniti spunti
di riflessione e approfondimento. soltanto per citare un esempio, La Notte,
Turchetta sottolinea come essa designi un percorso iniziatico dove si sentono
gli influssi degli Inni alla Notte di Novalis nella misura in cui il buio
notturno rappresenta il tempo della rivelazione e della verità “che la luce del
giorno nasconde”: “E la notte fu il grembo possente/delle rivelazioni – là
tornarono gli dei” (869). a questo elemento si intreccia “l’assoluta centralità
del tema dell’amore” (Ibidem) incarnato dall’incontro con la donna. amore,
scrive Gianni Turchetta, che dal singolo individuo passa a una verità cosmica,
in un contesto di sacralità laica. speculum ne è per l’autore La Verna, seconda
lunga prosa dei Canti Orfici. là dove ne La Notte si intravede l’ombra del V
canto dell’Inferno dantesco, la Lussuria, La Verna fa da contraltare, con i suoi
riferimenti a San Francesco e gli scenari all’aperto che implicano “ascesa” e
“purezza”, “pellegrinaggio da espiazione” (Ibidem). a giusto titolo Turchetta
esplicita il carattere altamente cinematografico de La Notte al fine di rompere
l’andamento cronologico e intesserlo di scorci, flashback e paesaggi onirici.
tutto per restituire, fondamentalmente, la dimensione di un viaggio
introspettivo che solo in questo modo avrebbe potuto accogliere l’immensità
dell’esperienza d’amore che attraverso la grazia della poesia si fa stato
d’amore universale. in questo senso, aggiungo, torniamo, anche se in una
declinazione laica, all’esplicitazione dell’intento di luce e amore del viaggio
dichiarato nel Paradiso: “poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte/ sembianze
femmi perch’io spandessi/ l’acqua di fuor del mio interno fronte. ‘La Grazia che
mi dà ch’io mi confessi’/ comincia’ io ‘da l’alto primopilo,/ faccia li miei
concetti bene espressi’”[iii].
*
la seconda parte del volume, Prima dei “Canti Orfici”, raccoglie diverse
sezioni[iv]. la prima, “Testi pubblicati da Campana”, conta tre scritti poi
rielaborati nel Libro: “Montagna – La Chimera”, “LE CAFARD (Nostalgia del
viaggio)” e “DUALISMO – Ricordi di un vagabondo. Lettera aperta a Manuelita
Tchegarray”. segue il Quaderno, ritrovato dal fratello di Dino, Manlio,
consegnato a Enrico Falqui, che nel 1942 ne curò la pubblicazione di cinque
pagine per l’editore Vallecchi nel volume Inediti di Dino Campana.questa sezione
raccoglie la totalità dei testi del Quaderno, 42, di cui 15 senza titolo.
Silvano Salvadori aveva già scritto, nel suo saggio sul Quaderno, di un afflato
universale del quotidiano. segue una breve sezione di tre “Testi contenuti nelle
lettere”, poesie, scrive Turchetta, che Dino Campana copia in una lettera
destinata ai periodici “La Lettura” e “Corriere della Domenica” (Lettera 4,
febbraio 1912), prima di arrivare al Taccuinetto faentino, acquistato in una
cartoleria di Faenza, “del tipo di quelli sui quali i clienti si fanno segnare
dal bottegaio i debiti della spesa giornaliera”, scrive Domenico De Robertis
nella Nota al Testo dell’edizione Vallecchi. un “quadernuccio” che “non ha un
principio e neppure una fine – nel senso che, essendo scritto nei due versi,
comincia senza terminare e l’uno s’intreccia e si confonde con l’altro”,
scriverà Falqui nell’introduzione all’edizione Vallecchi del 1960. quest’ultimo
si preoccupa dell’immagine da “scartafaccio” dell’opera, composta da testi
scritti in momenti diversi, forse già dal 1912 (1227), che si dipanano in
verticale e in orizzontale, a penna e a lapis, come aveva già sottolineato De
Robertis. e malgrado questo, Falqui sottolinea l’intento preparatorio di Dino,
in vista dei Canti Orfici, in cui farà confluire nove testi del Taccuinetto, che
attraverso quest’ultimo ci fa capire “quanto lungo e minuzioso e accanito e
cosciente sia stato il lavoro di Campana, […] quasi che chieda e cerchi e
aspetti e aneli di trovare e godere presso di noi il perfezionamento ideale”.
dopo il Taccuinetto Turchetta pone le Carte Ravagli con il “Fascicolo
marradese”, donato da Manlio Campana a Federico Ravagli, da questi pubblicato
tra il 1950 e il 1951 su Portici, e le Carte Bejor, che Turchetta restituisce
attraverso non il volumetto di Bejor ma dal volume del ‘42 di Ravagli. segue Il
più lungo giorno. Turchetta sottolinea come il manoscritto dimostri che, anche a
riscontro degli innumerevoli rimaneggiamenti, riscritture e sovrapposizioni dei
testi campaniani in nome di una poesia del movimento, i Canti Orfici non furono
una copia del primo manoscritto; al contrario, l’autore attesta l’esistenza di
un “antigrafo comune a PLG e a CO, da cui sarebbero stati copiati entrambi”
(1261). contrariamente alla credenza che il supporto cartaceo del manoscritto
fosse di poco conto, Turchetta ricorda che Dino Campana si avvalse di un “antico
volumetto rimasto bianco, trovato chissà dove, la cui composizione si può far
risalire alla prima metà del secolo XVIII” (De Robertis, Ibidem). le note
dell’autore alla sezione de Il più lungo giorno (1259-1293) sono di estremo
interesse: egli afferma che, per la presenza di inesattezze e irregolarità, il
manoscritto è probabilmente la riscrittura di un testo antigrafo; dubita
dell’affermazione, ormai radicata, che Il più lungo giorno costituisca due terzi
dei Canti Orfici, come affermato da De Robertis, e mostra dettagliatamente come
questo manoscritto che anticipa il Libro sia fondamentalmente provvisorio nelle
sue parti, tale da non poter costituire un’opera compatta sovrapponibile per i
suoi due terzi all’Opera. secondo l’autore, benché il manoscritto non fosse allo
stadio di appunti personali, Dino Campana non avrebbe mai consegnato a una
tipografia il testo de Il più lungo giorno nella forma in cui lo aveva redatto.
e se Papini e Soffici avessero accettato il manoscritto egli vi avrebbe
certamente apportato cambiamenti. quindi, anche per l’evidente sviluppo dei
testi campaniani pubblicati come “Autografi lacerbiani”, consegnati
probabilmente insieme a Il più lungo giorno e per la presenza di pagine vuote,
quest’ultimo non può essere considerato ‘il Libro’ di Campana (1263-65).
le Carte Papini contano due fascicoli con quattro testi nuovi rispetto a Il più
lungo giorno che confluiranno nei Canti: “Il Russo (storia vera)”, “(Crepuscolo
mediterraneo”), “Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray)” e “Pampa”.
probabilmente i testi consegnati a Papini erano più numerosi, visto che Campana
aveva consegnato altri testi per Lacerba insieme a Il più lungo giorno (1294).
in ogni modo emerge l’evidenza di una stesura di gran parte dei Canti
Orfici precedente la consegna de Il più lungo giorno, che nel suo insieme appare
ponderata, lontana dall’ipotesi diffusa di una ricostruzione frettolosa a
memoria. le Carte Bandini testimoniano una cura per la comprensibilità della
redazione, evidente nelle numerose rifiniture delle lettere, come se i testi
fossero destinati a ipotetici lettori. è interessante notare, scrive Turchetta,
che la sequenza dei Notturni combacia quasi interamente con la versione
dei Canti Orfici mentre altri testi presentano delle varianti, attestando un
percorso che va dagli “avantesti” de Il più lungo giorno alle diverse versioni
dei Canti Orfici, “elaborando i testi nelle direzioni di addensamento semantico
e di esasperazione iterativa che meglio caratterizzano il suo stile” (1303).
seguono Altri inediti, di influenza nietzschiana e baudelairiana, in parte
consegnati a Enrico Falqui dai parenti di Dino Campana. la parte Dopo i “Canti
Orfici” riprende “Versi e prose sparsi”, testi pubblicati tra il novembre 1914 e
il maggio 2016, tra cui tre prose estratte dai Canti Orfici. gli altri testi
verranno pubblicati nel 1928 da Attilio Vallecchi nella sezione “Inediti” del
volume Liriche. essi testimoniano la nuova direzione della scrittura campaniana,
sempre più orientata su un’integrazione tra poesia e pittura, e indicano la
volontà di Dino di arrivare a una seconda edizione del Libro, forse rivolgendosi
a un altro editore. alla luce di questo progetto di riedizione in vista di
un’ulteriore piallatura dei testi potrebbero essere lette anche le reiterate
pressioni, nel 1916, su Papini e Soffici affinché restituissero il manoscritto
de Il più lungo giorno. ne è prova una lettera in cui Emilio Cecchi nel maggio
1916 suggerisce a Dino Campana lo Studio Editoriale Lombardo per far “rivivere
il libro in un’edizione bella, corretta, etc con unite Olimpia, Toscanità e le
altre cose nuove” (1323). è evidente che questa fase in nuce della creazione
campaniana procedeva intrecciata al difficile percorso personale del Poeta,
evidente dal tenore delle Lettere: “Scrivere non posso, i miei nervi non lo
tollerano più, per ora”, confida all’amico Mario Novaro nell’aprile del
1916 (CLXVIII; 601). in questa fase di “sofferta monotonia” la mattina del 3
agosto 1916 Dino incontra per la prima volta, a Barco nel Mugello, Sibilla
Aleramo. a lei sono destinati alcuni dei Versi sparsi, testi scritti a mano
negli spazi liberi di alcune copie del Libro donate o vendute agli amici, tra
cui appunto Aleramo, Bejor, Cecchi e Ravagli. lungi dall’essere il risultato di
una mania correttiva, questi testi, scrive Turchetta, testimoniano di una
coerenza stilistica che Dino Campana voleva imprimere alla sua opera in vista di
una riedizione. ne è prova il fatto che quando Cecchi propone di far confluire
nella futura edizione una selezione dei Canti Orfici più “le ultime cose”, egli
risponde che sarebbe “la cosa più dolorosa che si potesse fare” (1323) a
testimonianza del fatto che considerava le sfumature apportate attraverso la
limatura o l’aggiunta di testi nuovi come parte integrante di un unico disegno
poetico del Libro. tra i Versi sparsi spicca “Arabesco-Olimpia”, che Turchetta
considera, “un arabesco sonoro”, per le fitte corrispondenze fonetiche e la
presenza di “colorismo”, “un testo capitale non solo di questa fase, ma di tutta
la produzione campaniana” (1326)[v]:
> Oro, farfalla, dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un
> tramonto di torricelle rosse perchè pensavo ad Olimpia che aveva i denti di
> perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù? Dei fiori bianchi e
> rossi sul muro sono fioriti. Perchè si rivela un viso, c’è come un peso
> sconosciuto sull’acqua corrente la cicala che canta.
il Taccuino Mattacotta, che segue i Versi sparsi, è un “quaderno di lavoro”, che
consiste nel “fare e rifare un numero relativamente limitato di componimenti”
in italiano, inglese e francese, avendo Dino riscritto, soprattutto a matita
copiativa e a penna a inchiostro nero, sulle stesse pagine da due a quattro
volte, databile tra gli ultimi mesi del 1914 e l’estate del 1916 (1341-1343).
il Taccuino fu donato a Sibilla Aleramo che in seguito l’avrebbe donato a Franco
Mattacotta durante la loro relazione.
> I announce the justification
> of candour and the
> justification of pride
> (se devo annunciar qualche
> cosa)
nella sezione Altri manoscritti, sono riunite le “Carte
Aleramo-Gallo-Mattacotta”, il “Manoscritto Orlandi”, le “Carte Gallo”, le “Carte
Novaro-Falqui” e “Poesie per Sibilla Aleramo”. nel primo fascicolo appare il
luminoso frammento L’infanzia nasce, che Turchetta attribuisce, benché non sia
autografo, a una sorta di testamento spirituale:
> L’infanzia nasce da un ritorno di se stessi giacchè in uno strano eco
> s’immobilizza e s’allontana dai giorni: anzi nasce proprio da una cosa
> “specchiata” con le ridenti spighe gialle e con i campanili: conoscenza eterna
> (di poco tempo) e sempre a sapersi da un tempo infinito come a stare sempre
> sulla riva del giorno.
nelle “Carte Gallo” affiora Giulietta e Romeo, un testo spedito a Sibilla
Aleramo a metà dicembre del 1916, forse uno dei “biglietti cinici” di cui
Sibilla dice a Leonetta Pieraccini, moglie di Emilio Cecchi. a Niccolò Gallo,
scrive Turchetta, si deve la prima edizione, nel 1958, del carteggio tra Sibilla
Aleramo e Dino Campana. qui torna il tema reiterato dell’innocenza: “e infine
della/lotta delle passioni/il trionfo dell’innocenza/, quasi a sottolineare il
baratro tra il cuore intatto del Poeta e le intemperie che lo colpiscono.
Turchetta propone una grafia emotiva, evidente nel “disordine convulso della
scrittura” (1369), in cui coabitano aggressività e pentimento. segue “Poesie per
Sibilla Aleramo”, testi iconici della poesia campaniana dove la rabbia sfuma nel
passo che incede del ricordo, nella dolce ripetizione che fissa l’eterno:
> Più pura nell’azzurro è la luce d’argento
> Più bella la tua figura.
> Più bella la luce d’argento nell’ombra degli archi
> Più bella della bionda Cerere la tua figura
nella sezione seguente, Altri testi, sono raccolte due delle quattro prove
d’esame per docente in Lingue straniere che Dino affrontò, senza successo,
nell’aprile del 1911 presso l’Istituto di Studi Superiori di Firenze. si tratta
del tema di italiano, “A zonzo per Firenze” e della redazione in francese, “Le
repentir”, da cui traspaiono, malgrado siano state redatte in un frangente
particolare e con un tempo limitato a disposizione, tòpoi familiari all’opera
campaniana, tra cui l’attenzione al paesaggio. le quattro “Traduzioni” che
seguono, da Verlaine, Ward Howe, Goethe e Heine, sono solo una parte del lavoro
effettuato da Dino Campana su testi stranieri.
*
Cercavo idealmente una patria non avendone
l’ultima parte del Meridiano è dedicata alle 290 Lettere 1903-1931, di cui la
maggior parte scritte tra il 1915 e il 1917. come nota Gianni Turchetta si
attesta una grande differenza tra il numero di lettere che precede i Canti
Orfici e quello che segue il Libro. la Lettera 7 indirizzata a Giuseppe
Prezzolini (6 gennaio 1914) riporta una versione de “La Chimera” molto vicina a
quella dei Canti Orfici. lo stesso è per una versione dei “Notturni” che appare
nella Lettera 13, destinata a Luigi Bandini. il lavoro di ricerca sulle Lettere
non è esaustivo. Turchetta ci dice, ad esempio, che ne mancano molte inviate
all’amico Mario Novaro (“siamo un po’ fratelli, non è vero?”, Lettera 93, aprile
1916) e a Sbarbaro. una recente pubblicazione a cura di Costanza Geldes da
Filicaia e Marcello Verdenelli rivela che Alessandro Pavolini avrebbe continuato
a scrivere a Dino Campana anche dopo l’internamento a Castel Pulci, stemperando,
seppure con cautela, l’immagine di una solitudine totale del Poeta durante i 14
anni in manicomio. le Lettere sono forse il contributo d’affetto per Dino
Campana più evidente dell’alacre lavoro di Gianni Turchetta, che rispetto alle
edizioni precedenti elimina la separazione tra la corrispondenza con Sibilla
Aleramo e le altre. qui lo studioso si fa da parte, e mentre egli tace la vita
di Dino si dipana, affiora il bisogno di essere riconosciuto, di percepirsi,
scrive Turchetta, attraverso lo sguardo degli altri. tra le epistole più
toccanti ci sono certamente quelle scambiate con Sibilla. l’abisso di una
passione limpida mista a rovina, “il cupo bagliore del miracolo”, scrive la
scrittrice al suo Dino “fatto per il sole”, coagulando forse un’intuizione[vi].
la reiterazione implacabile tra speranza e delusione, ira e dolcezza. due cuori
bambini che la vita ha portato lontani l’uno dall’altro. il continuo tentativo
di farsi capire votato all’incomprensione, la solitudine infera per un disamore
subίto che Dino sentiva destinale, ferita di abbandono che a sua volta diventa
lama acuminata che giudica e abbandona.
> Pensa che per vivere l’assurdità del nostro amore hai bisogno di tutta la tua
> grazia […]. Tu ora mi conosci e potremmo abitare lontani se non mi abbandoni
> col pensiero[vii].
eppure forse il dolore più cupo, l’affanno più lancinante di questa continua
ricerca di presenza al mondo affiora dalle lettere mandate ad amici e
intellettuali, tra cui spiccano Boine, che sente per Dino una sincera empatia:
“Ma lei dice che lo troveremo questo Iddio introvabile come una fiera che si
appiatti?” (Lettera 60, 15 novembre 1915), Novaro, Cecchi, Cardarelli, Carrà.
“Un po’ di coltura di pensiero veramente e vivamente moderno la posseggo
anch’io”, scrive il Poeta alla Direzione della rivista “La difesa dell’arte”
nell’estate del 1910 (Lettera 3). con Papini, con cui aveva ingaggiato una
tenzone a senso unico mesi prima, si firma nel dicembre 1913 “Suo uomo dei
boschi” (Lettera 6), chiedendogli di portare la sua “piena solidarietà” agli
“altri indimenticabili compagni”, compagni che certamente non avevano pensieri
per lui. Dino vuole riconoscersi altro dalla sfilata di “filibustieri”,
“bluffisti”, “nemici”, “chacals”, “mangiapane” dei circoli letterari soprattutto
fiorentini ma allo stesso tempo chiede a Mario Novaro: “Se à notizia di qualche
recensione per me la prego dirmelo” (Lettera 83, 25 febbraio 1916). alcuni
furono sinceramente toccati dall’aderenza piena alla vita di Dino. Francesco
Chiesa scrive: “Le sue parole mi commuovono e mi affliggono” (Lettera 61, 19
novembre 1915); Emilio Cecchi gli dice che le ore passate insieme erano state
“una ripresa di energia e fiducia” e si firma “aff.mo” (Lettera 84, 27 febbraio
2016). nella risposta di Dino affiora tutta la sua prostrazione per il
sentimento di incomprensione che avvertiva sia dai compaesani di Marradi, dai
quali si sentiva perseguitato “con un’infamia e una ferocia tutte
lazzaronescamente italiane e clericali” che dalle presenze immanenti di Papini e
Soffici, “ladri spie venduti e vigliacchi soprattutto” (Lettera 85, 1-2 marzo
1916). è quasi una lettera ultima in cui Dino si raccomanda affinché Cecchi non
dimentichi le ultime parole dei Canti Orfici, i versi di Whitman: They were all
torn and covered with the boy’s blood, “che sono le uniche importanti del
libro”. se è possibile che la solitudine di Dino Campana sia stata oltremodo
accentuata dalla critica, sicuramente questa lettera a Cecchi è una di quelle in
cui, forse anche a seguito delle sue condizioni fisiche e psichiche, si avverte
il senso di isolamento e di incomunicabilità: “Mi lascio vivere in un disgusto e
una noia mortale” (Lettera 88 a Cecchi, 28 marzo 1916). Cecchi appare come un
interlocutore amico, amico che cercherà di riconfortare il Poeta esprimendogli
da una parte stima e comprensione, pur avendo attraversato egli stesso “giorni
buj terribili… ore e ore di violenza e prigionia”, e consigliandogli dall’altra
di non dare troppa importanza al comportamento di Papini, di non “soffrire di
certe cose che francamente non valgono la pena per il fatto che non possono più
toccarla” (Lettera 86, 13 marzo 1916). è chiaro invece che l’indifferenza di
Papini rispetto all ‘assassinio’ di aver perso la copia de Il più lungo
giorno rimase per Dino una spina nel cuore. anche Boine registra la sua
sofferenza e a sua volta lo mette a parte delle proprie difficoltà economiche e
di salute: “Caro Campana, Le sue lettere sono sempre così dolorose! Non so mica
che cosa risponderle…Non pigli mai per inimicizia il mio silenzio: le voglio
bene, Campana, e ho grandissima stima di lei e delle sue cose [.]. Ma sono un
amico inutile. Suo Boine” (Lettera 99, 22 aprile 1916). da Margherita Carnecchia
Lewis, che lo chiama “Infelice Fratellino” (Lettera 124, 30 giugno 1916) a Emma
Cima, molti rispondono al suo disagio esistenziale, a loro volta provati da
vicissitudini personali, quasi che la sofferenza di Dino rappresentasse una
condizione umana condivisa, trascinata silenziosamente nei giorni. un diluvio
per tutti.
poi arrivò Sibilla.
*
T’ho avuto tutto nel primo sguardo, così interamente.
già nella Lettera 128 del 24 luglio 1916 si sente l’urgenza di
raccontarsi. Sibilla Aleramo va contro il galateo di ruolo dell’avvicinamento
amoroso. si muove per prima verso Dino, senza conoscerlo. cammina
nell’essenziale suo, fin dall’inizio in un’intimità spalancata, sovversiva
perché anti-strategica, aderente solo a quell’evento di piena che quattro anni
prima le aveva fatto scrivere in Corsica la sua prima poesia:
> e penserò allora a queste notti in paese straniero
> a queste luci vivide nel vento
> che volteggia dolce su le rupi,
> a questa mia anima
> che ancora una volta si risolleva,
> si risolleva avida,
> penserò a questo ch’è ancora nelle mie vene
> palpito di giovinezza,
> ardore forte
> volontà più grande d’ogni mio grande pianto,
> e stupirò allora,
> o notte di stelle, di vento, di anelito solitario[viii]
“Ho avuto la vostra cartolina, poche ore prima di partire, ieri. Adesso siamo
più vicini… Forse m’avete conosciuta in essenza, in un lampo, se v’ha toccato
qualche mio piccolo accento – e tutto il resto vi confonderà”. Lei già vicina.
si racconta tutta insieme, rotolando cose disparate, come se quel primo
riconoscimento fosse già maturo, pregno, già oltre. come se le parole dicessero
di un plurale. il giorno dopo dedica a Dino una poesia. e un giorno è un
lunghissimo tempo per chi ha capito. “Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,/
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,/ liberi singhiozzando, senza
mai vederci,/ né mai saperci, con notturni occhi… Cuor selvaggio,/ musico cuore”
(Lettera 129, 25 luglio 1916). Dino le risponde in francese: “Je vois que nous
pourrons être des amis si vous le voulez…Voilà donc une âme comme il en
manque…comme il en manque…je me suis dit. – Votre première lettre était vraiment
trop belle pour moi et je me suis mis à douter, mais maintenant j’ai
compris. Pardonnez-moi” (Lettera 133, 27 luglio 1916). segue un invito a
“condividere” la sua ammirazione per la linea “severa” e “musicale” degli
Appennini, ad andare insieme a Marradi e per le montagne
circostanti. “Aimeriez-vous de vivre un peu sous la tente?… Ce qui m’a le plus
touchez a été [sic] le souvenir de votre enfance. Comme je vous aime quand vous
écrivez cela ! Je vous baise les deux mains. Votre Cloche”. Sibilla accetta
l’ironico invito in tenda parlando come si parla alla vigilia di una vita
insieme: “Mi racconterete a voce quali altri tic bisogna perdonarvi, oltre a
quelli che bisogna ignorare” (Lettera 134, 28 luglio 1916). “Si vous venez ici
je n’oublierais pas, jamais, votre grace” (Lettera 135, Campana a Aleramo, 30
luglio 1916). dopo scivolarono. nell’amore. nel buio. l’ultima lettera per Lei è
dal manicomio di San Salvi, a Firenze, anticamera del destino: “Cara, Se credi
che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta della mia
vita. Vieni a vedermi, ti prego tuo, Dino” (Lettera 282, 17 gennaio 1918).
Sibilla non rispose. tace, il dolore.
dopo l’ingresso al manicomio di Castel Pulci, le rare lettere, indirizzate allo
psichiatra Carlo Pariani, all’amico Bino Binazzi e al fratello Manlio, indicano
una volontà di distrazione dal mondo, cioè uno sguardo ormai orfano d’innocenza
sul mondo, in cui tuttavia soggiace uno spirito vigile: “La suggestione regna
largamente in Italia e fa ottimi affari. Io sono un solitario e non mi piace
ammetterla” (Lettera 284 a Carlo Pariani, 30 aprile 1927). e allo stesso tempo,
Pariani riporta che qualche giorno prima gli avrebbe detto: “C’è il mezzo di
ringiovanire, di rivivere; c’è la suggestione. La suggestione può influire sul
carattere, può arrestare lo sviluppo del tempo, può lasciare uno nello stato in
cui è anche sempre. Può continuargli la vita anche per cento anni, la
suggestione (Pariani 2002, 26-27). a leggere oggi la testimonianza di Pariani si
resta in silenzio. lo psichiatra costruisce sistematicamente, commento dopo
commento, il profilo psicotico di Dino Campana con deduzioni proprie: “Del
secondo colloquio si riportano le idee vane […], si trascriveranno le stoltezze
principali e così dell’ultimo, tutto insensato, per manifestare intera la
personalità patologica” (25-26), e con scambi di questo tenore: “Sarà come lei
dice, ma gli avvenimenti che narra, signor Dino, non sono credibili. Lei passa
qui il tempo senza costrutto. Si troverà vecchio col dispiacere di averlo
sciupato” (25). non sapremo mai fino a che punto Dino giocasse con Pariani allo
‘spostato’ per proteggersi da tutto questo. sappiamo quasi niente. di quanto il
pensiero di Sibilla lo accompagnò in tutti quegli anni, “nel velo attraverso il
quale tutte le cose eterne vibrano e sorridono” (Aleramo in Turchetta 2020,
395). gli ultimi giorni non sono chiari ma Gianni Turchetta esprime chiaramente
l’ipotesi, condivisa da altri, tra cui lo scrittore e psichiatra Mario Tobino,
che non sia stata l’infezione all’inguine in un tentativo di fuga a uccidere
Dino ma che si sia trattato di un tentativo di autolesionismo immediatamente
insabbiato dalla Direzione di Castel Pulci.
resta il Poeta, come indica la lapide nella chiesa di Badia a Settimo,
nascosta, sotto il pavimento della navata sinistra: “Dino Campana, poeta,
1885-1932”.
in quei giorni di settembre, qualcuno aveva portato sulla tomba dei fiori
gialli.
i viali deserti di San Salvi imbevuti di notte fresca rimandavano ombre buone,
sussurri rappacificati. non c’è più nessuno, tutto è rimasto fedele.
Cristiana Panella
*
Riferimenti bibliografici
Alighieri, D. La Divina Commedia. A cura di A. Vallone e L. Scorrano. Napoli:
Editrice Ferraro, 1987.
Campana, D. Il più lungo giorno. Riproduzione anastatica del manoscritto
ritrovato dei Canti Orfici. Archivi, Arte e cultura dell’età moderna in
collaborazione con Vallecchi editore: Roma e Firenze, 1973. Copia numerata.
Pariani, C. Vita non romanzata di Dino Campana. A cura di C. Ortesta. SE:
Milano, 2002. Titolo originale: Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e
di Evaristo Boncinelli scultore, 1938.
Sitzia, S. “Per ua nuova edizione del “Quaderno” di Campana. Testimoni e
varianti di tradizione. Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiano
Otto-Novecentesca (OBLIO), I (2-3), 2011. Testo disponibile
su https://www.campadino.it
Toschi, P. “Il Rimbaud della Romagna”, Il Resto del Carlino, Bologna, 27
novembre 1926. Testo disponibile su https://www.campadino.it
Turchetta, G. Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta. Giunti/Bompiani:
Firenze e Milano, 2020.
Turchetta, G. Dino Campana. L’opera in versi e in prosa. I Meridiani. Milano:
Mondadori, 2024.
Vèroli, L. pudore selvaggio. L’estate in Corsica di Sibilla Aleramo.
Associazione Melusine e La Vita Felice: Milano, 2020.
--------------------------------------------------------------------------------
[i] Tranne laddove indicato, tutti i riferimenti in corpore al testo sono da
Turchetta 2024.
[ii] La traduzione dal francese è dell’autrice.
[iii] Paradiso, XXIV, 55-60.
[iv] Per una nota critica sulle prime pubblicazioni dei testi del Quaderno,
Sitzia 2011.
[v] Magistrale l’analisi dell’autore su “Arabesco-Olimpia” (Turchetta 2024,
1326-1329).
[vi] Lettera 139 di Sibilla Aleramo a Dino Campana, 6-7 agosto 1916.
[vii] Lettera 208 di Dino Campana a Sibilla Aleramo, 4 gennaio 1917.
[viii] Aleramo in Vèroli 2020, 91.
*In copertina : Max Kllinger, Una vita, 1885 ca.
L'articolo “…ne la luce catastrofica”. Attorno al Meridiano Campana di Gianni
Turchetta proviene da Pangea.
Potremmo dire: didattica della sobillazione. Svergognare il linguaggio, potremmo
dire. Riverginarlo. Resurrexi.
Senza che ciò diventi prassi, però – lui, il poeta, Prassitele del caos. Gli
altri – i poetastri-poetini-impotenti – i parassiti del verbo, i cannibali del
vocabolario.
Al posto del vocabolario: esigere l’arca. E rompere tutte le alleanze.
Esigere, cioè, il diluvio. Le tante bestie. Le acque sigillate. Nessuna colomba
a imbottirci di false speranze.
Di Matthieu Messagier, per così dire, resta l’ombra, la figura corrotta e
miracolata – il poeta, a dirla tutta, ha delirato e disertato: è già – e sempre
– altrove.
Una fotografia, forse, lo centra: il ragazzo – viso da inquieto putto: capelli a
tiara, inesorabili baffi, paffuto – siede su un triciclo, una mano regge il
volto, in crollo; davanti, un cane. Il tutto, reso all’oscuro, tra vampe
bianche, diacce. “Le Figaro” scrisse di una lumière obscure; era il 2020,
Messagier sarebbe morto l’anno dopo, a ridosso dell’estate, doveva compiere 72
anni. Flammarion aveva pubblicato come Dernières poésies immédiates una raccolta
di “Sérénades”. È un libro tra le strettoie del rischio, quello, scritto nel
luglio del 2006, in ospedale: il poeta, “ricoverato per una grave ipercalcemia…
dopo ventiquattro ore chiede un quaderno e una matita, a redigere, dice, un
‘Ticino di parole’”. Un insetto campeggia in copertina; la quarta è felicemente
destabilizzante:
> “Il foyer della Poesia gode dei tentativi
> delle parole di trovare per lei
> una ragion d’essere
> (la poesia autorizza il conoscere
> non certo l’inverso)
>
> Riverso il capo tra le mani
> non rendo scaltre le poesie di agonie
> passate all’autopsia della notte:
> pratico alfabeti impropri
> estranei alla cappa del pensiero
> necessario a ordire le loro
> cronache contemporanee”
Figlio di artisti – il padre, Jean, praticò, tra l’altro, come discepolo di
Picasso – Messagier è stato messo nelle condizioni di esigere il meglio dal
proprio genio. Girò qualche corto con Michel Bulteau, girò per Parigi giocando
al flâneur flamboyant, scrisse disegnando. Praticò la parola fin da bimbo, con
lo scopo, più che di auscultarsi, di sgretolarsi, di farsi lo scalpo, di
scappare. L’esordio nel 1969, per Pauvert, con un ciclo di versi di implacabile
precocità. Scrisse disinteressandosi di un ‘pubblico’, disperso tra i rivoli di
pubblicazioni d’occasione, occipitali al tempo, presto introvabili.
In Le Dernier des immobiles (1989), uno dei tanti fascicoli stampati con Fata
Morgana, il poeta stila in distillato la propria poetica:
> “Si scrive perché nessuna parola è in grado di condurci al senso: lasciala lì,
> allora, prima dei bei sentieri dell’opera, incisi sul filo dell’evidenza. È
> l’elegante unicità piromane a renderti pari alla natura originaria”.
Sviluppando la teoria delle ‘corrispondenze’ abbozzata da Baudelaire, Messagier
scrive di voler “pervenire alla somiglianza/ per averne perso il senso”.
Schifò il Sessantotto; nel 1971 scrisse – insieme a un gruppo di accoliti – un
improbabile Manifeste Électrique aux paupières de jupes, edito da Le Soleil
Noir. Quando capì che il gruppo percorreva la via di William S. Burroughs e dei
surrealismi, mollò tutti, facendo capo a se stesso. Anche Messagier – secondo il
crisma rimbaudiano – aveva bisogno di significare la propria poesia
disintegrandola. Dal ’72, per sette anni, non scrive; viaggia per l’Europa come
un vagabondo, un senzatetto di sé, un pellegrino in sempiterna erranza.
Dell’esperienza parigina serba l’amicizia con Dominique de Roux. Il grande
editore anticonformista de “l’Herne”, gli aveva commissionato un improbabile
“libro a venire”; gli aveva chiesto di dirigere insieme a lui la rivista “Exil”.
Il primo numero, uscito nell’autunno del 1973, reca testi di Ezra Pound, Raymond
Abellio, Henry James e J.-J. Langendorf. Messagier è già altrove, permette che
sia pubblicato il suo Bestiaire.
Tornato in Francia, piagato da una malattia neuromuscolare, Messagier si
installa nel Doubs, nascosto ai più. Lì scrive l’immane poema in
prosa Orant (1990), per lo più un oratorio di quaderni, spunti, appunti, una
pestilenza linguistica di ottocento pagine, “un affronto alla ragione, un gesto
borderline, fitto di pura confusione emotiva ed epifanica vastità che non è
improprio paragonare al Finnegans Wake di Joyce” (Renaud Ego).
Nei suoi scritti – che chiedono a chi li attraversa una sorta di ermeneutica
all’arma bianca, il disarmo del sé – qualcuno riconosce la “teomania” di Henry
Michaux. Renaud Ego ha rintracciato un lignaggio che lega Messagier a Gerard
Manley Hopkins (“per l’audacia sintattica”), Giacomo Leopardi (“poesia come
trasposizione della natura in piena esuberanza”) e Velimir Chlebnikov (“gusto
per i neologismi e ricerca di una ‘cosmoglossa’, un linguaggio comune per dire
l’universo”). Secondo il poeta
> “Il significato originario delle parole è in totale contraddizione con l’uso
> che ne ha fatto il nostro tempo: attonito rapimento, dolore, erba tra le
> mani”.
Di questa sregolatezza – improponibile a latitudini italiche, dove il dire
incontrollato (chessò: Calogero, Fermini, Ceni) è messo ai margini, incompreso
per incompiutezza di chi lo soppesa – resta l’impeto, il talamo, il sepolcro
vuoto. Titanomachia. Semmai: venefico antidoto contro gli artifici dei bot,
contro gli artificiosi versi dei poeti al botulino.
Spesso è opera che resta nei quaderni, quella di Messagier, che non si può
restituire in trascrizione. Pena la perdita del corpo del reato, del corpo
mistico del verso.
Dunque, sì: documento-nocumento.
***
Crepita il crepuscolo e crolla la camera
sempre in quello stesso crollo
nell’atto della creatura randagia
finché Locarno non si serra
in una crisalide epica e crepa l’idea
Volto fisso
e freme la circolazione
nel particolare, oh, sì, l’unico
preso dal panorama, il convulso, il rovinoso
soprassalto della carne
la maestà che diviene sudore
e il più vile dei tratti:
il tutto rampogna la propria apoteosi
e
vivacità dell’ossessa pazienza
annaspa nel flusso perché lo stupore è un nodulo
*
Lugano, la forma lappa
la sostanza del faticare
l’oscurità appena lambita
dalla speranza angolare
in aria si dispiega il rifugio
dello stesso volume o quasi
perché di rado l’arborescente visione
compie dell’asse degli anni
la nota astratta, la sorpresa
al calendario delle sentinelle
solo l’esasperazione
di un paradiso in sussiego
e il broncio corrugato come una goccia
preso da una divinità larva
che lavora al vertice
di un’immaginazione esperita
con tanto di balsamo addosso
con tanta redenzione priva di pareti.
*
Amadriadi arroganti al sole di maggio
C’era una lunga seta poetica
che nuotava con serica dolcezza.
“Intanto
della resina degli occhi
della sentinella che sfianca il giorno
la miscela è chiara
e il bruto atomo la sua fragranza
vinto al concerto
dalla prima”.
Amadriadi arroganti al sole di maggio
e perfino la grammatica dell’assenzio
le nuvole dei primati aggiunte
a quelle trasparenze su sopiti prati…
…su stupiti prati si slanciano
classifiche di ore al miele
e noi passiamo tra i punti e le virgole
per perderci (quando il medico mi ha auscultato
il cuore, ho detto: “non si facciano prigionieri!”)
*
L’autunno non sa redimersi dall’estate
quando esplodono le lacrime
perché è troppo – è difficile
il vano appello all’oggetto e al fine
Ed è rosa, è opaco
porge la sua tristezza
di rari alcolici
Da qui puoi vedere tutto
lo stato del risveglio
appena importato
Un torrente di carta & matita
i sorrisi della mano sinistra
frantumi di regni sconfitti
al culmine di una illogica velocità
Ma la vita è altro, è altrove
Matthieu Messagier
L'articolo “Pratico alfabeti impropri”. Matthieu Messagier o della poesia come
ribellione proviene da Pangea.
Forse è a causa di quel rigagnolo: scorre trascinando con sé un’Amazzonia in
miniatura – di sé ha intriso la terra che nonostante il sole, spazia in pozze,
in Pleistocene di fango. Entità spirituale di questo rio colombella, questo rio
piccionaia, che tutto trasfonde in melma, in creazione presa appena all’inizio.
Per questo, si marcia a strappi, il sentiero è disadatto, occorre andare per
roveti, per i campi, il cui verde, oggi, è abbagliante, è un abbigliamento di
lampi.
I caprioli calligrafi hanno lasciato insegne e vessilli sul fango – una loro
Iliade, una loro Torah di sumere zampe. Come è possibile risalire al loro
insegnamento, al loro insinuarsi tra le insenature dell’alfabeto? I bronchi del
bosco ruggiscono. Dov’è la bestia a quest’ora?
Penso alla cerva assetata del Salmo 42 – alla cerva che apre la sua criniera,
più vasta del sole.
Gli elementi del mondo, a quest’ora, sono in agguato, sono sulla cuspide
dell’ira – le rondini si affacciano come falcetti, il cielo, ben tosato, ora può
correre, come una pecora.
*
Più tardi, appunto, le pecore. Pecore raganelle, al pascolo.
Ma ciò che vedo non è innocente – ciò che vedo è forse un agnus dei in
muratura.
Il campanile della chiesa spicca, come il grano, chiaro, splende, ovunque. La
chiesa, però, è in crollo. Hanno smontato l’altare e gli alberi crescono felici
dov’era la navata centrale: il fico ha la buddità sulle foglie a palme aperte. A
cascata, l’edera penetra nell’abside, penetra per le finestre; la cupola è
sfondata, stelle a sei punte, orfane, trottano sui residui della volta. Hanno
sete e vogliono un capezzolo a cui ancorarsi. La trave, travolta, sembra un
drago; un serpentario, immagino, sotto i piedi.
Bosco in lotta con l’angelo.
Poco oltre: il cimitero. L’erba, la barbarica, degna erede degli Unni, ha
travolto ogni cosa. Apro il cancello – non disturbare i morti, non esserne
ostaggio, dice una voce – un cartello, di esosa ipocrisia, detta gli orari delle
visite. Lapidi irriconoscibili, fotografie tumulate dall’oblio; una croce, in
ascesa, tra quella gloria erbacea; ruggine a significare il Giordano e la
benedizione.
Glabri morti, grati morti.
*
Non saprei dire se sia questa la benedizione. Morire a tal punto che il marmo
inghiotta l’iscrizione del nome – morire innominati – morire succubi dell’erba.
Lì per lì però penso ad altro. A come possa sparire un paese. Chi lo ha
inghiottito?
Quei morti, dico. Avranno avuto figli, fratelli, zii, cugini. Quando si è
interrotto il legame di venerazione, quando si è interrata la stirpe? Come il
fiume sotterraneo che erutta fango. Il fiume è invisibile, e tu pattini sulla
sua coltre – e il fango ti afferra le scarpe, i calcagni, le caviglie. Pretende
che ti inginocchi.
Prova a sellare la cerva, prova a scalfirne la sete, l’insaziabile.
Sussurro la preghiera che il Nazareno ci ha insegnato. Sciamano vespe. Ronzano i
morti.
Quando non si venerano i morti, si muore.
Del paese resta l’insegna, l’istoriato nome – poi: qualche silos in abbandono,
case sfondate, un aratro meccanico sotto un velcro di piumate erbe. Falangi di
felci. I corvi, i rospi del cielo, volano a coppie. L’iddio ha il corpo della
cinghialessa e non so se questo sia qualcosa che si approssima al bianco, al
significato della parola bianco.
Dentro una casa, certuni onorano la festa – gli unici vivi. Vivono dietro una
trincea di lavanda. La casa è verde. Opera di coltello e d’amore – sopravvissuti
– una visione, forse.
*
Forse tradurre il testo sacro, la Bibbia, ha a che fare con quest’opera di
terribile spoliazione.
Per noi che veniamo dopo tutto questo manovrare di linguaggi, dopo il cardine,
il cardinalizio, l’andare tra i cardi. Forse è questo lavorare senza l’altare
che ci protegga, senza più paramenti né paratie – con l’erba in faccia. Con
l’erba alta che sfacciatamente ci spezza il viso. Erba che inibisce le gengive
all’inno – un nuovo innario da fare, come le frecce.
Insieme a Roberta Rocelli, per il Festival Biblico in atto quest’anno, si è dato
forma al “Salterio dei Poeti”. A trentatré poeti, italiani e non solo, è stato
chiesto di tradurre un salmo. Non contano i nomi, la nomea, la ‘competenza’: nel
gruppo, ci sono poeti noti e ignoti, vecchi di vita e giovanissimi, cattolici o
atei; c’è chi ha tradotto dall’ebraico e chi dalla “King James”, la versione
inglese, chi dal greco dei “Settanta”, chi dal tedesco o dal latino, chi
riformulando l’italiano, in un enigma traduttivo che comporta ascesi,
asciuttezza, svuotamento di sé. Alcuni sono restati ancorati alla lettera,
altri, letteralmente, sono andati fuori via, negli ignoti della propria
ispirazione – tradurre, d’altronde, lo detta San Paolo, è un carisma, non
incardinato, dunque, ad alcuna dottrina di esperti e specialisti. Qui,
specialmente, ci sono degli avventati, degli insipienti – a questa forma di
speciale inettitudine, di avventuriera investigazione si dà nome poesia.
Nel “Salterio dei Poeti” – che è un breviario da tenere in tasca, sempre con sé,
a monito e a protezione – c’è un salmo tradotto in friulano e c’è un salmo
extracanonico, c’è un salmo trapiantato nella lingua astrale di un poeta
australiano. Il libro – fuori commercio, cosa per latitanti dall’ovvio – sarà in
giro nei giorni del Biblico, dal venticinque aprile in poi, fino a giugno, qua e
là.
Ciò a cui ci si appella, è certo, è la lunga, disordinata, dissotterrata
tradizione di poeti e scrittori che hanno verificato il dire biblico. La nostra
poesia – francescana prima che cortigiana – da quello proviene. Dunque: Dante,
l’Assisiate, Jacopone, Petrarca; il Giobbe secondo Leopardi, le ustioni di
Manzoni; Bontempelli, Quasimodo, Pasolini, Testori, Luzi, Raboni… Non si è mai
tentato, finora, in Occidente, tranne sporadici, singolari, pur straordinari
momenti – gli esperimenti biblici di Guido Ceronetti e di Erri De Luca, quelli
di Jean Grosjean e di Paul Claudel in Francia, per dire, Coleridge e Milton
nell’antro anglofono, i saggi di Harold Bloom negli Stati Uniti – un’indagine
così ampia sui rapporti tra parola sacra e parola poetica, tra poesia
contemporanea e Bibbia. Il libro dei Salmi, il libro infinito, è il ‘grande
codice’ della poesia occidentale: Davide, il re salmista, che con il canto placa
il male e piega Dio al suo sussurro, danza al fianco di Orfeo.
*
Leggo qualcosa che Tiziana Cera Rosco ha scritto intorno a questa Pasqua. Io che
del Vangelo non so trattenere nulla, se non un invito al fuoco, all’abbandono,
all’abominio del sé, da setacciare fino alla garza del grazie, ricalco e imparo:
> “Dal profondo del mio cuore non mi importa della resurrezione ossia se Gesù
> sia risorto o meno. Mi importa invece tantissimo che abbia portato l’idea del
> risorgere così in alto e così vicino alle nostre possibilità tanto da cambiare
> la prospettiva alla vita. Mi importa tremendamente che sia vissuto – che uomo
> incredibile, faccio fatica a tenerlo tutto a mente – e che sia vissuto così
> vicino a me tanto che potevamo incontrarci perché 2025 anni, in questo tempo
> infinito di tutte le cose, non sono nulla”.
Nel Salmo che ha tradotto, il 51 – riprodotto in calce – appaiono anche “i cani
nella neve”. Forse è lì, nel bianco ovunque, nel bianco-bianco, che accade Dio –
mio Iddio lebbra, mio Iddio artico, mio Iddio capodoglio, mio Iddio tutto e
tutto sia un Moby Dick.
*
Leggendo Giovanni, il brano evangelico in cui Gesù appare a Maria di Magdala –
20, 11 ss.; mi aiuto con la non bella ma utile traduzione di Giancarlo Gaeta
edita da Quodlibet. Capisco – più che altro, annaspando – che i morti, gli
appena morti, restano per un po’ tra noi, a rinnovare i legami (“Non
trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre”), o a scioglierli per
sempre. Come sempre, Gesù è frainteso, è irriconosciuto e irriconoscibile: in
vita lo dicevano profeta, un Elia; ora, apparso, è preso per “il giardiniere”;
anzi, per colui che ha trafugato la salma del Nazareno (“se l’hai portato via
tu, dimmi dove l’hai messo e io andrò a prenderlo”: estrema predazione del
corpo, in predicato di unguenti). Atto di sabotaggio di Gesù e a se stesso.
Nessuno sa individuarlo, sa dire chi egli sia: la voce, però, è più del volto.
Al sentire il suo nome, al sentirsi chiamata – Mariam! – la donna capisce, la
donna sa, Rabbuni! Sempre è necessaria la contraffazione, la contraddizione –
morire per rinascere veri. Troppo facile circostanziare i fatti in un volto:
identità non è l’identico.
Questo andare tra irriconoscenza e sconosciuto è poi il tradurre.
Impaniarsi, si dirà – non è detto che appaia.
**
Dal “Salterio dei Poeti”
Salmo 42
Lamento del Levita in esilio
Al maestro del coro. Maskil. Dei figli di Qorah.
Cerva assetata l’anima mia
sbava per rivoli d’acqua – per te, o Dio.
L’anima mia è in arsura per Dio, il Dio zampilla-vita;
quando potrò tornare ed espormi al suo volto?
Mangio lacrime giorno e notte
mentre mi scherniscono senza tregua: Dov’è il tuo Dio?
Ricordo questo, e in me l’anima esala:
emergevo tra la gente, all’avanguardia per la casa di Dio,
tra inni e grida di giubilo di una folla in festa.
Perché ti schianti, anima mia,
perché in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
L’anima mia è franta
poiché mi ricordo di te
dalla terra del Giordano e dell’Hermon, dal monte Mis’ar.
Abisso desta abisso
nel turbinio delle tue cascate,
i tuoi flutti e i tuoi frangenti
irrompono su di me.
Di giorno l’Eterno
accende il suo amore
di notte in me è il suo cantico,
supplica del Dio vivente.
Interpellerò Dio, mio baluardo:
Per quale ragione di me ti dimentichi?
Perché vago oppresso
dal giogo dei nemici?
Raschiano le mie ossa con blasfemie gli aguzzini,
irridendomi tutto il giorno: Dov’è il tuo Dio?
Perché ti schianti, anima mia,
e in me bramisci? Confida in Dio:
ancora potrò celebrarlo,
archivio delle mie fattezze, mio Creatore.
Nel mio esilio di figlio che aveva appena perso la madre e, oltre la patria del
cortile, voleva diventare grande, disperso nel piccolo popolo di altri bambini
estranei l’uno all’altro, intruppati in seminario, il canto d’esilio del salmo
42 (ad aprire il Secondo Libro, a scandire la mia Seconda nascita) risuonava con
particolare potenza, fra gli altri. Per noi, gregge petulante di Dio, i salmi
erano pasto quotidiano, da brucare sotto lo sguardo attento di sacerdoti
esperti, smaliziati al plagio della vocazione.
La cerva assetata mi ha tormentato notte dopo notte. Bestia femmina, di odori
forti, selvatica, nel cui sguardo l’abisso dell’animalità rispecchia l’anima
dell’uomo. Madre perduta e desiderio incipiente, negli anni della pubertà, la
cerva mi ha sedotto. Ed è ancora inseguendo lei che mi avventuro in territori
non giurisidizionali. Altri filologi esperti, allattati nella lingua di Davide,
avanzeranno diritti. Il poeta è sempre un ladro, un accattone reietto che
rovista nel tempo, un eretico che s’infila tra la folla con in tasca una ruvida
pepita di verità. Ci pagherà un’ora d’amore, un tozzo di pane. O la scambierà
con il fondo di bottiglia di un bambino.
Ho passato lo sguardo, ovviamente, e provato la lingua sulla corteccia
scorticante dell’ebraico, da autodidatta, ma l’eco nelle viscere riportava a
quell’esilio, alla nenia tradizionale e armonizzata dei salmi, spesso cantati
anche da noi ragazzini (pietra liscia, levigata da millenni, splendente e
scivolosa al passo), e alle brame del ventre, morsa di solitudine e desiderio
d’acqua, di nuove sorgenti. Indietro non si torna: questa filologia di vita
sprona a forzare lo scrigno, ad appropriarsi dei sussurri del dio ripetuti di
lingua in lingua. Dio regge anche il fiato degli atei, anche di chi rigira il
coltello nella piaga e mentre ti contorci nel dolore chiede, spavaldo: “Dov’è il
tuo Dio, adesso? Eh, dov’è?”. Proprio lì, dentro la domanda, verbo che s’incarna
anche in un tempo assurdo.
Un sacerdote con cui colloquiavo, proprio mentre stavo traducendo il salmo, mi
riportava delle sue preghiere su questi testi, di quel senso di angoscia e
oppressione per il nemico. Come non bastassero i rumori di fondo dei nostri
anni, mossi da una sete di giustizia che stordisce e confonde. Abbiamo tutti una
patria ideale e perduta alle spalle, un sogno che ci asseta, e un nemico che ci
opprime.
La cerva è attenta ai rumori. Si nasconde. Scappa veloce. Osserva senza
mostrarsi. Solo quando si sente al sicuro esce in una radura e pascola al sole.
Sia così la nostra anima: raccolta e guardinga, in tempi di sperpero dell’io e
di sproloqui. Non nei dispositivi elettronici, non negli abissi del web
troveranno salvezza le nostre individualità. Dio è la memoria della nostra
identità, colui che ci porta “scolpiti sul palmo delle sue mani” (Isaia 49:16).
Traduzione e commento di Andrea Temporelli
*
Salmo 51
Porta numero 51
Abbaia la tua pietà, Signore, che arrivo con il mio sfregio.
Spingimi la testa nel tuo amore
Spingila verso il mio petto
Rompi l’osso occipitale dell’orgoglio che tiene su il collo
Per il quale non so baciare la dolcezza
Che hai inalterato nel mio cuore
Dunque spingimi verso la vicinanza violenta
Del tuo battito che sono tutta io
Tamburellami con la tua grazia
Col capo piegato su me stessa
Annegami
Fammi sbranare dal centro di questo petto
L’iniquità che mi protegge offendendoti
Flettimi, spezzami, raschiami
Scorzami da questa pelle
Con cui ho solidificato la maschera della mia purezza
Smascherami, sì, sfigurami
Riportami riconoscibile a misura ripida
Ripertica l’altezza con cui mi hai precipitato
Ricongiungimi con la stretta del tuo giudizio
Perché contro te solo ho peccato
Con il male ho scomposto quello che la tua parola aveva allineato
Riportami all’aria della tua bocca
Respirami profondamente
E vietami l’uso della disperazione
Perché non voglio coincidere col mio errore
Reincarnati in questo corpo flesso
Non farmi morire nel Nessuno
Appendimi denocciolata al tuo collo
Fammi ciondolare vicino al tuo calore
Ristabilisci la violenza non del sacrificio
Ma dell’abbandono
Abbandonami in te solo
Isolami in te solo
Sfoderami dal mio peccato, fammi splendere ancora
E torniamo alla neve
Rimarginiamo lo sfregio al bianco
Lava con rami e ghiaccio la pelle dell’animale ancora vivo
Che ha scambiato l’intimità siderale e il suo diapason
Con il suono dell’impatto di un colpo genitale
Questa inviolabile intimità che esige il riconoscerci ancora
Riconoscimi bianco, spezza ogni osso
Bucalo, intarsialo con la tua Parola in me
Sostituisci il mio cuore col mio stesso cuore ma riamato
Stiamo bocca a bocca con la Pietà che parla
Sillabami mentre dormo l’oro del tuo fiato
Lasciami solo nel sonno, solo con te
Saldami come il denudato mai privato del tuo ringhio.
Non abbandonarmi, rimani in me.
Non guardare la banalità del mio peccato
Liberami dall’inguine con cui fingo un altro bianco per raggiungerti
E aprimi come un sesso in pieno petto in tutti i lembi
Sciogli questo ghiaccio irrigidito
Che ritorna acqua al contatto col Vivente in me
Non farmi soffocare dalla mancanza della gioia
Non accatastarmi tra i pesci di una fossa
Che muoiono perché nessuno sa più come farli respirare.
Riossigenami
Spingimi la testa nel tuo polmone di neve
Azzannami nella dolcezza dello scomparire nel tuo fiato
Si, scomparire.
Ti ricordi quando andavamo con i cani nella neve?
Quanto abbaiavano i cani, orinavano in corsa nella bufera
E noi sempre bianco davanti dietro di fianco
Si condensava il fiato come un fuoco delle nevi
Le facce tagliate senza più vedere se non il freddo ardente
Che anche i cani si giravano e riannerivano i loro occhi nei nostri
Sempre vibranti dentro il bianco ancora in corsa che si spacca
Sulla terra che vibra
Fino a non servirci delle slitte, perché non c’erano più slitte
Fino a buttare via le redini perché non c’erano più redini
E vedere appena la terra davanti a noi
Come un prato bianco immenso mietuto di fresco
Senza più corsa dei cani e voci degli abbai
Solo la linea di silenzio del ritorno a casa.
Fammi ritornare, mio Bianco Velocissimo
Fammi risalire Sion, Gerusalemme
Fino al cospetto della montagna orso
Fammi sgozzare l’orso
E lasciare ancora un bisbiglio luccicante nella neve
Non disprezzare quello che ho da offrirti
Non i sacrifici degli uomini
Che non sanno quel che dicono e non sanno quel che fanno
Ma la somiglianza del tuo sangue siderale in me.
Fiutami ancora e purifica questo freddo nero che mi porto in petto
Non affidarmi a questo buio.
Guardami, Mio Accecante, denudami
Mio Ipervedente, lavami
Tienimi attaccato, attaccato alla tua bocca
Lasciami respirare la pronuncia del mio nome
Schiacciami in te, incostolami, spingi
Non farmi rimanere mezza viva
E rifoderami, Mio Siderale, così affilata dal tuo amore
Nessun prossimo apparente
Io sono qui tutta te
Riconoscimi dal punto più distante
Riavvolgimi al tuo fianco con un mattino di foreste in corsa
E come un mattino, mio Boreale,
Sarò bianco, vedrai –
Sarò più affamato della neve.
Traduzione di Tiziana Cera Rosco
L'articolo “Abisso desta Abisso”. I poeti contemporanei, la Bibbia e la lebbra
del tradurre proviene da Pangea.
La prima volta che ebbi tra le mani un libro di poesie del grande Victor Hugo fu
alla biblioteca civica Luigi Maino di Gallarate. Non sapevo affatto ‒ come molti
di voi, suppongo, del resto ‒ che il grande narratore francese avesse scritto
persino delle poesie. La sorpresa fu doppia, perché una volta aperto il libro,
scoprii che (scritto a matita) lo stesso era stato donato da Franco Buffoni alla
Biblioteca. Giuro, avrei voluto trafugare il libro!…
Va detto che il poeta Franco Buffoni io non lo conoscevo, né mai l’ho conosciuto
di persona; eppure il destino ha fatto sì che in alcune circostanze i nostri
sguardi e le nostre parole s’incrociassero per imbastire brevi aneddoti, che
adesso non starò certo qui a raccontare.
Quel che importa ricordare però, ora, invece, è la potenza della poesia di Hugo.
Difatti, lo stesso identico libro di allora (Hugo, Poesie, Mondadori 2002), è
tornato a me (non solo tra le mie mani, ma a far parte della mia “piccolaˮ
biblioteca). E leggendo di gran carriera ieri sera le poesie raccolte in questa
vasta antologia, pubblicata per i duecento anni dalla nascita del poeta, non
solo ho goduto assai dal piacere, ma soprattutto mi ci sono ritrovato
pienamente. Come se nei suoi versi Victor Hugo mi conoscesse e mi descrivesse
perfettamente.
Tra l’altro, detto per inciso, sono molte e varie le poesie che egli dedica al
poeta. Ma non sono le uniche potenti. La maestria dell’autore francese è
rinomata anche nello scrivere versi in tutti gli svariati temi che singolarmente
affronta.
Su tutte, quella dove mi ci ritrovo completamente s’intitola È bene che il
poeta…
> È bene che il poeta, assetato d’ombra e di cielo,
> Spirito dolce e splendido, che irraggia chiarità,
> Che innanzi a tutti cammina, illuminando chi dubita,
> Cantore misterioso che trasalendo ascoltano
> Le donne e i sognatori ed i saggi e gli amanti,
> Diventi in certi istanti un essere terribile.
> Talvolta, quando fantastica sul suo libro,
> Ove ogni cosa culla, abbaglia, calma, carezza, inebria,
> E l’animo a ogni passo trova polline per il suo miele,
> E gli angoli più bui hanno luci celesti;
> In mezzo a quell’umile ed alta poesia,
> In quella pace sacra in cui cresce il fiore prediletto,
> E si sentono scorrere le sorgenti ed i pianti,
> E le strofe, uccelli dipinti di mille colori,
> Volano cantando l’amore, la speranza e la gioia,
> Occorre che, a tratti, si tremi, e si oda,
> Di colpo, scuro, grave, tremendo per chi passa,
> Dall’ombra un verso feroce uscire ruggendo!
> Occorre che il poeta, il poeta dal seme fecondo,
> Somigli alle foreste, verdi, fresche, profonde,
> Piene di canti, amate dal sole e dal vento,
> Incantevoli, in cui d’un tratto s’incontra un leone.
>
> Parigi, maggio 1842
Confesso che stare nei boschi di montagna mi ha educato a questo tipo di poesia
e di vita. Stare nei boschi di montagna mi ha insegnato ad essere feroce e
fecondo, fiore prediletto, speranzoso cantore misterioso. Del resto, che il mio
urlo rimbombi tuttora per certe valli e in altrettanti luoghi immersi nella
natura e nel sentimento panico, non è cosa affatto scontata e banale.
Giorgio Anelli
*In copertina: Victor Hugo, Octopus, 1866–69
L'articolo “Occorre che il poeta somigli alle foreste”. Una poesia di Victor
Hugo proviene da Pangea.
Qualche tempo fa, sfogliando il primo numero di “niebo”, la rivista in rivolta,
ordita da Milo De Angelis. La copertina – nero su bianco – diceva “giugno 77”,
si diceva – è vero – di Omero e di Paul Celan, di Hölderlin e di Gottfried
Benn. Giancarlo Pontiggia compiva venticinque anni e in quel primo numero di
“niebo” è il poeta più rappresentato. È difficile, per chi strologa tra
fenditure di superficie, riconoscere nel poeta di allora, quello che scrive “Ah
divaricata e ora dentro/ nella pietra lupestre sotto il luno/ le labbra/ il tuo
stridere vento e strina la/ bocca”, il Pontiggia di oggi. Non è un caso se
l’esordio di questo poeta antico e dunque perennemente giovane accada nel 1998
(Con parole remote, Guanda), vent’anni dopo quelle audacie, quelle ragazzate in
versi. Eppure. Io trovo una continuità, rintraccio lo stesso discorso tra il
ragazzo del “bestiario frigido e/ inquieto”, fitto di “animaletti e bestioline”,
di “cielo e stelle”, e il poeta che oggi, nel suo libro più compiuto, ultimo, La
materia del contendere (Garzanti, 2025), fa dire a Marco Aurelio, l’imperatore
imperituro nel filosofare:
> “Quando il tempo viene meno,
> e la ragione ci implora: ‘non interpellarmi più’,
> quando
> nemmeno tu che hai governato il mondo,
> puoi più credere in quel mondo,
> onora la maestà del pensiero, sii fedele,
> sii
> come uno che accende il fuoco,
> entra nella notte
> fa ssst,
> con il dito poggiato sulla bocca”.
Quello che fa ssst, nel tempo senza tempo della poesia, è il Pontiggia ragazzo –
il Pontiggia ragazzo che lancia un assist al Pontiggia di oggi – uno apre il
fuoco, l’altro lo protegge: che ne imbiondiscano i sassi. Il Pontiggia ragazzo
parlava di un “luogo delle fate”, scriveva – in un saggetto sgargiante per
screziature grammaticali –: “Le bestioline lo azzannano, lo rodono, con la
scienza del ghigno. È una corda senza nodi. Si straripa”. Io credo che La
materia del contendere – titolo tratto da un passo di una poesia dall’attacco
fulminante: “Tutto è pieno di dèi, di vita che pullula./ Oppure: non c’è un bel
niente,/ ma un niente che pullula di sogni” – sia il punto in cui straripa la
poesia di Pontiggia. Una corda senza nodi, cioè: un serpente; una corda che si
fa parete di ghiaccio.
Pieno di fuoco, di fuchi del fuoco, questo libro, che ha per guardiani Eraclito
e Virgilio, e diversi altri numi, numerosissimi, fatti melma, però, in un
linguaggio che ha l’austerità di chi scruta gli astri, di chi fa affiorare
presagi e precordi tra i dadi. A chi piace il gioco delle risonanze (un giogo,
infine): veda, in controluce, il Pavese di “Leucò” (in Cos’è bene e cos’è male,
ad esempio), qualche latino di fronte a un’Arcadia di rovine, frantumi di
Borges, forse, i bagliori di un epigrammista, Ovidio meditato da Mandel’štam.
Tuttavia, Pontiggia non è poeta di stucchi né di ‘mestiere’: è poeta avventato
(cioè, che ha il vento dentro, non gli stagni odierni, artificiali), che si
sporge nell’avvenire, è un poeta inattuale, del tutto, che traduce i ‘segni’ in
versi.
Alcuni brani hanno il cataclisma della rivelazione; Il mondo nuovo, ad esempio:
> “Chi se li ricorda, i tempi
> di un tempo che fu, remoto, inaccessibile,
> che compare, ogni tanto, in sogno, per chi sogna,
> ancora.
> Ma nessuno più sogna, credimi,
> e questo è per voi, che venite di lontano,
> l’ostacolo più grande: resistere
> al sonno che vi invade, e annienta
> la mente che ragiona. Dai sonni, lunghi e ramosi,
> discendono i popoli dei sogni, che vi si appiccicano addosso,
> come ragne liquorose nella cella
> della mente.
> Ma nessuno più sogna, qui, dal tempo
> dei tempi che furono, e chi ci arriva, come voi, di lontano,
> si abitua a non farne,
> e così diviene simile a noi, ombra
> come tutti”
L’impeccabile equilibrio di Pontiggia è tale perché sempre sul punto del crollo,
della brocca che non regge, del futuro in pezzi. In questo libro – così pieno di
ombre, le frasche del fuoco, i suoi vessilli – il poeta s’intride nei primordi
dell’uomo, dice l’uomo prima dell’uomo (“Qualcuno scende dal Pleistocene,/
appena dopo la grande glaciazione,/ dice/ che sta per giungere uno,/ un uomo, un
mortale/ che aspira all’ordine dei cieli,/ cammina come se volasse…”), per
scongiurarne l’incendio, forse, per un soprassalto d’assoluto.
Libro da studiare come si sondano i petroglifi, certi che oltre la pietra è
carne ciò che ci artiglia, che il primate non ha il primato del linguaggio – e
tutto, atrocemente, docilmente, ci parla.
La ricorrente brocca di Pontiggia fa pensare in effetti all’annaffiatoio del
Lord Chandos di Hofmannsthal; anche il poeta, come quell’altro, può dire, “sento
un gioco di corrispondenze entusiasmante, davvero infinito dentro e attorno a
me… non v’è alcuna cosa in cui io non sia in grado di trasfondermi. Allora è
come se il mio corpo fosse composto di vere cifre che dischiudono ogni cosa”.
Questa continuità tra il poeta e il creato impone un continuo esilio dal dono:
si è a sentinella, a protezione. È “la vita che ci assale”, scrive Pontiggia –
porre un telaio nel caos, farne fuggire il filo come si rifugge da un fuoco
troppo netto, dalla lama troppo tesa.
Insomma, a far tonsura di questo vagabondaggio per enigmi pretendo Pontiggia al
dialogo.
Da dove arriva questo libro, di ombre e di fuochi, del fiume e dell’ibisco,
dell’allarme e del sussurro? Ne ricavo una via, bifronte, dalle epigrafi: si
parte con Eraclito, l’oscuro, si chiude nel candore di Virgilio, ecloga decima.
Insomma, dimmi.
Hai colto meravigliosamente, caro Davide, il senso delle due epigrafi, che
devono essere considerate parte integrante del testo: due immagini-pensiero, due
sentenze, entro le quali il libro si trova come raccolto. Il frammento eracliteo
ci parla del moto incessante delle cose, e della contesa che lo governa: quello
virgiliano della dimensione statica e utopica di un mondo pastorale, quasi una
memoria dell’età aurea di cui aveva scritto Esiodo. Moto e quiete: due stazioni
dell’animo umano, due modi della nostra percezione del mondo e del vivere. E il
canestro che il pastore sta intessendo con il suo «ibisco sottile», è in fondo
il libro che ho scritto: i poeti tessono da sempre i loro libri, li tessono e
ritessono, e a volte anche li disfano, come una tela perenne, che è come una
metafora della grande tela del mondo.
Parlano le ombre, in questo libro, “anime, stridono”, diresti. Mi viene da
chiederti, allora, dove sono i morti, chi sono queste ombre che ci fanno visita
e dimorano in noi, che cos’è, dunque, la morte…
Sì, quante ombre, e quante visite, in questo libro. Molte affondano nella
materia della mia infanzia, quasi uscissero da quel secchio che accoglie la
pioggia della vita, e sta alle origini di ogni nostro sentire. A volte solo
nomi, come quelli che compaiono alla fine della poesia intitolata In viaggio
(Altre ombre, sogni, vento): compagni di giochi dell’infanzia, per i quali la
vita fu così breve, ma colti in un momento di tregua, forse di splendore. E
l’ombra di mio padre, che popola diverse delle poesie del libro, a cominciare
da Una piuma d’oro, tutta intessuta intorno ad alcuni emblemi del mito –
classico e poi cristiano – della Fenice. Ma ci sono anche ombre fantastiche,
come quelle che vengono dalla grotta di Lascaux, o come la misteriosa voce che
parla dietro la porta dell’Istmo, e racconta in pochi versi l’intera sua vita. E
ombre di grandi, come Marco e Giuliano, che governarono il mondo, e si trovano
all’improvviso a contemplare qualcosa che non avevano previsto. Ma questo è un
libro di voci, ognuna delle quali porta con sé il proprio destino: voci che
parlano, gemono, stridono, sognano, a seconda della loro natura, e del vivere
che fu loro dato. Ciascuna con la sua sporta di gioie e di dolori, che
s’insaccano nel gran bulicame delle cose del mondo. Ma cos’è morte, nessuno di
noi lo può dire, anche se in una delle ultime poesie del libro si osa parlarne
con l’unica logica possibile, che è quella del paradosso:
> «un salto
> che nessuno ha mai fatto,
> e tutti fanno».
Vado a tentoni. Mi sembra che il tuo libro vada sfogliato come si sfibrano le
braci del fuoco, in attesa, cioè, quasi, di una ‘rivelazione’: che sia cenere o
abbaglio o bisbiglio. Già… ma quale rivelazione? Cosa insegui in questo
peregrinare di fuochi, di catabasi, di sogni?
Su questo libro hanno aleggiato, a lungo, le potenti immagini di un film
come Ordet di Dreyer. Lo dico piano, quasi temendo di essere equivocato, ma
questo è un libro traversato dai soffi dell’impensato, dove una brocca che
s’infrange può tornare a ricomporsi, così come una foglia strappata dal vento
tornare al suo ramo. Epifanie della speranza, mi piacerebbe chiamare queste
immagini, che sembrano fare da argine al potere buio delle cose che devono
seguire il loro corso. Miracolo contro Necessità. E così la morte, come
nel Settimo sigillo di Bergman – un altro nume, da sempre, della mia
immaginazione poetica – può anche essere distratta dal canto di nenia di una
madre. Parlo della poesia intitolata A un passo da ieri, dove la Morte si posa
> «su una forcina di bimba,
> si assopisce per un po’ al dondolio di una cuna,
> di una nenia
> che sembra soffiata dentro un vetro
> una bolla
> di voce che ha il suono del vento, la luce
> della neve che scende».
Questa poesia è come la risposta alla crudele ninna nanna tratta (ma con molta
libertà) da un frammento di Simonide: una ninna nanna per un bimbo che non è
più, e che riposa «sotto un cielo di chiodi di bronzo». Ma questo è tutto un
libro che procede per disgiunzioni e opposizioni: ed è questo il senso del
contendere che il titolo esprime. Una contesa di forze che abitano il mondo come
il nostro cuore. Penso alle anime che stridono, sì, ma sanno a volte parlarci
con immagini di vita e di rinascita, sovvertendo ogni principio:
> «è
> come essere in un nero
> che abbaglia, come
> scendere una scala, aprire una porta, trovarsi
> all’improvviso in alto»…
E anche qui, nella seconda parte della poesia, la Morte incespica, e cade
(Anime, stridono).
Sembri il più antico – e il più giovane, dunque – dei poeti italiani viventi,
per quel dire che sa di Antologia Palatina, di stare al desco coi lirici
antichi. Quali sono, in questa tua ricerca, in questa poetica, i tuoi lari, le
letture, i maestri?
Tantissimi, come puoi immaginare: la poesia, per me, non è mai stata un atto
individuale, semmai un processo collettivo, che si stratifica nel corso dei
secoli, insieme alla lingua che evolve, cambia, eppure è sempre la stessa, con
le sue procedure, che sono logiche e analogiche insieme. Mi verrebbe da dire che
in ogni verso di questo libro la contesa è tra immaginazione e pensiero, densità
fisica e molecolare del mondo e impennate del cuore che non ci sta, e un po’
stride, un po’ canta. E i suoi lari, i lari che in una poesia compaiono per
ripristinare – nella forma simbolica di una brocca – un ordine del vivere e del
sentire che sta per andare in pezzi, sono soprattutto i filosofi morali che
rileggo ciclicamente dagli anni della mia adolescenza: Seneca, Epitteto, Marco
Aurelio, Montaigne, perfino il Nietzsche della Gaia scienza, con tutti i suoi
dolorosi paradossi, i suoi patti mancati con la vita. E naturalmente i grandi
tragici, che irrompono nell’età classica di Pericle mantenendo ancora intatte le
energie immaginative di quella arcaica: parlo di Eschilo e di Sofocle,
naturalmente, con le loro parole intinte di destino e di pietà, sorrette da una
logica così inconfutabile, da poter affondare nelle acque del mistero.
Mi sorprende leggere poesie che registrano le voci di Lascaux, voci
pleistoceniche: quasi a cercare il punto in cui l’uomo diventò umano, il punto
in cui iniziò la caduta, l’ascesa. Da dove provengono quei versi?
Tocchi forse il punto decisivo del libro, che è tutto, dall’inizio alla fine,
una meditazione sull’uomo e sulla sua storia. Il cuore del discorso sta, per
quel che posso dire, alle pp. 63-68, dove si danno, nell’ordine, le seguenti
quattro poesie: Lascaux, voce; Telai, gnomoni, yo-yo; Il mondo nuovo; Dal
Pleistocene. Il mondo nuovo è quello che sta arrivando, e di cui ben poco, in
realtà, sappiamo; e certo porta in sé i segni dell’infero. È un mondo laborioso
e insonne, che si erge però su un vuoto inquietante, privo di desideri: un
grande apiario umano disertato anche dal sogno e dalla parola. La poesia che
parla di telai, gnomoni e yo-yo (un gioco dei miei anni Cinquanta, che molto fa
pensare alle leggi della quantistica) è una meditazione sul tempo. Le altre due
retrocedono nella misteriosa, profondissima fessura del preistorico, quasi una
sorta di Rift Valley del tempo e della vita da cui salgono gemiti, voci,
visioni. Poi succede che qualcuno, dal Pleistocene, scorga il futuro dell’uomo
senza sapere «se è il caso di essere contento». O che un basolo della via Appia,
dalla sua prospettiva, senta la fragile vanità dei processi storici, che si
dissolve nella rete profonda della Natura. Ma un po’ tutto, in questo libro,
parla di origini, di sacre acque, di disordini cosmici:
> «Ed è un bivacco di ere,
> che tumultuano, conglomerano. Padri
> che rotolano in altri padri. Materia
> che s’impenna, delira
> in vortici di fuoco».
>
> (Dillo tu)
La materia che delira è l’uomo: e in quel delirare – che etimologicamente indica
semplicemente un uscire dal seminato, un contraddire delle forze in atto – è
tutta la sua grandezza e la sua vanagloria.
A un certo punto, l’intuire i pensieri estremi di Marco Aurelio. Perché proprio
lui, l’imperatore pensatore che visse quasi sempre in guerra? A che
quell’estrema rivelazione, dove pare “che il tempo non sia mai stato”?
«Visse quasi sempre in guerra»: eppure volle persistere nel pensare. E non solo
pensieri astratti, ma pensieri che nascevano da volti, luoghi, affetti. Il primo
dei dodici libri dei suoi Ricordi è tutto composto di dediche: diciassette in
tutto, e l’ultima è agli dèi. Diciassette, che in numeri romani significava
morte: VIXI. Gli ho voluto prestare pensieri che nascono dalla disgregazione e
dalla rovina della filosofia in cui aveva sempre creduto, che era poi lo
Stoicismo nuovo di Epitteto, integralmente fondato sui valori etici. Eppure, nel
penultimo di questi frammenti, Marco sente che proprio per questo bisogna
continuare a onorare la maestà di una dottrina, restare fedeli a qualcosa che fu
grande. L’epoca di Marco è molto simile alla nostra: un mondo sembra finire, la
mente umana sembra precipitare in forme che lasciano perplesse le menti
migliori, e le riempiono di una misteriosa inquietudine, ma anche di uno strano
senso di attesa, come si dice nei primi due frammenti della poesia, che andranno
letti congiuntamente. Come se il secondo completasse, nella mente di chi pensa,
il primo, ma dopo un certo lasso di tempo. E in mezzo a quel vuoto, è tutto lo
stupore dell’inaudito, lo stupore che secondo Aristotele stava all’inizio di
ogni forma di conoscenza:
> «Inseguendo il fruscio del vento una sera mi persi
> in un anfratto di vita nascosta»…
> «E vidi stelle che non brillano per noi, eppure brillano,
> e nomi di popoli che non conosciamo».
Quale il distico, il cuneo di versi che meglio ti distingue, in questo libro, e
perché?
Tra le tante, scelgo una sequenza che sta proprio all’inizio del libro, ed è la
strofe conclusiva della poesia intitolata Un secchio (Origini).
> C’è un cuore austero
> prima di ogni verso
> e sogni, e cieli, e intonaci
> e tutta la vita del mondo
> che stride, gorgoglia
> come un ranocchio di fiume
> al suo primo salto
Dentro questa poesia ci sono le mie origini, che affondano in un mondo rurale:
quel secchio è un secchio vero, come tutte le brocche, le scodelle, i chiodi, le
stoffe, i bicchieri, le anfore che popolano il libro: oggetti primi del vivere,
un po’ come le lettere e i suoni dell’alfabeto per la nostra lingua. Dentro quel
secchio ci pioveva l’acqua del mondo, vera e simbolica insieme, come sempre
dev’essere ciò che entra in un verso.
E dentro quell’acqua, ci sono anche le mie origini poetiche. Se parlo di un
prima della scrittura, è perché credo che la poesia non sia un mero esercizio di
lingua: occorre una lingua per fare poesia, ma prima ancora una visione, che
viene da lontano, cioè da ben prima di noi, da una genealogia di padri e di
madri, di storie e di luoghi che sono ancora qui, e popolano il nostro
immaginario.
Ma questo, per come è stato scritto e mi si è mostrato a un certo punto del suo
tragitto, è tutto un libro di cose prime: quelle che contano per davvero, che
designano una forma del nostro essere, e trovano il loro senso – starei per dire
un compimento, se la parola non rischiasse discorsi fuorvianti – nella piccola
cella del nostro cuore. Di cose prime, ma anche ultime: perché ultimo non è
altro che l’anello che si aggancia al primo. Bisogna mantenere la purezza prima,
austera del cuore, per scrivere un verso, e lo slancio di quel ranocchio che
gorgoglia al suo primo salto.
Lui è Giancarlo Pontiggia
E ora? Dove cerchi?
Ancora sto seguendo l’onda di questo libro, che nelle intenzioni avrebbe dovuto
essere il mio libro più limpido e leggibile, e che invece mi sta apparendo, dopo
la pubblicazione, come il più labirintico, forse il più enigmatico fra quelli
che ho scritto.
C’è qualcosa di pauroso e di luttuoso nella storia dell’uomo, che ben
conosciamo, ma che le nuove forme della tecnologia stanno liberando da ogni
senso di pudore e di rimorso: il futuro che ci attende sarà probabilmente un
mondo feroce e anestetizzato, dominato dalla sofistica delle nuove macchine, e
da una sorta di devitalizzazione dei sentimenti. Ma questa è solo una
previsione, confortata dal fatto che di solito le previsioni umane non sono mai
all’altezza dei fatti: e questo ci riempie di sollievo. Vorrei ricordare al
lettore giovane, inevitabilmente fuorviato dal poco che ancora conosce del tempo
e delle sue infinite accensioni, che i processi della storia sono soltanto una
fortuita accozzaglia di possibili, alcuni dei quali entrano nel presente come se
fossero più veri degli altri: ma lo diventano, non lo erano.
Come scriveva Baudelaire, L’imagination est la reine du vrai, et le possible est
une des provinces du vrai(«L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile
una delle province del vero»), che è un’osservazione stupefacente, quasi una
definizione di ciò che la poesia dovrebbe sempre essere, indipendentemente dal
tema che assume: non puoi escludere il vero dalla tua riflessione, né fingere
che la storia non ti modelli, ma neanche puoi arrenderti all’idea che il mondo
sia soltanto quello che vedi. E mi viene in mente la prima parte di un frammento
di Eraclito:
> «La vita è un fanciullo che gioca, che muove i suoi pezzi sulla scacchiera».
Sì, la poesia porta in sé questa energia vitale, danzante, che alla fine vince
ogni malinconia: per dirla con Esiodo, sono i piedi delle Muse che battono
sull’Olimpo.
*In copertina: Georgia O’Keeffe, Starlight Night, 1917
L'articolo Miracolo contro Necessità. Dialogo con Giancarlo Pontiggia proviene
da Pangea.
In inglese si chiamano Furious Fifties – venti che azzannano, raffiche
capodoglio. Stanno al 50° parallelo dell’emisfero meridionale; apolidi
all’estremo confine della Patagonia, alle calcagna della Nuova Zelanda,
sparpagliati a poche braccia da Antartide. Dicono di possenti depressioni,
dicono dello scontro – letale, vulcanico – tra le vampe degli oceani e il gelo
della divinità antartica.
Dovremmo raccontare i perplessi progressi della civiltà stando segugi dei venti,
dissezionandone il ventre. Una storia occidentale per raffiche. Gli inglesi lo
sanno. Durante la leggendaria “Age of Sail”, tra il XVI e il XIX secolo – era di
conquiste e di razzie, di esplorazioni e di guerre per mare, di vascelli
fantasma e di ammutinati – i “Roaring Forties” (i venti al 40° parallelo sud) e
i “Furious Fifties” erano i Castore & Polluce dei velieri e dei velisti, i
gemelli terribili. Incoccare il giusto vento permetteva di penetrare nel
Pacifico o di fendere l’Indiano a velocità doppia – altrimenti: rotta, disarmo,
crollo, vagabondaggio da agnelli sacrificali presso lande inumane.
Les cinquantièmes hurlants è la traduzione in francese di “Furious Fifties”, i
“Cinquanta urlanti”. L’esergo avvampa: “Al di sotto del 40° parallelo sud non
c’è legge. Sotto il 50° non c’è Dio”. La quarta di copertina parla di
“periglioso vagabondaggio per mari”, di “elogio dell’avventura e del rischio”,
di “spedizione geografica e metafisica”, di “irragionevolezza”. Tutte cose che
nell’epoca dei sentimenti tenui, delle sentenze algoritmiche, della letteratura
illetterata, ombelicale, sociologica, sociopatica, patetica, affascinano per
inattesa inattualità.
Les cinquantièmes hurlants – stampa Gallimard – è un poema come non se ne vedeva
da tempo: audace fino all’ingenuità, ingordo, di scaltrita innocenza. Al primo
impatto, l’autore pare mescolare il Rimbaud del Battello ebbro alle cronache di
viaggio di James Cook, nella convinzione – australe, belluina e assurda;
assordante – che l’uomo, in fondo, sia sempre lo stesso, brutale impasto
d’argilla e d’angelo, proteso a belare verso le stelle, indifferenti al suo
ardire. In esergo, Hermann Melville – Moby Dick, la mappa alchemica di noi
industriosi perduti – e Velimir Chlebnikov, il folle poeta russo idolatrato da
Ripellino. L’autore ama le parole desuete, vara improbabili neologismi, gioca a
sconfinare dal linguaggio. “Perché dovrei essere ‘compreso’?”, ha detto
l’autore-pioniere in un’intervista, un paio di anni fa,
> “E poi, chi dovrebbe ‘comprendermi’? Per quel che mi riguarda, la poesia si
> colloca in una dimensione completamente diversa rispetto al linguaggio usato
> per ‘comunicare’ – ne è la suprema forma, il supremo abuso. Matthieu Messagier
> diceva che ‘la vera poesia è autentica delinquenza’”.
Tom Buron – l’autore – si atteggia a ribelle; spesso indossa pellicce troppo
grandi, improbabili; ha gli occhi assatanati, la fronte onniveggente; legge le
poesie appeso al microfono, pare Nick Cave. Si è costruito una sua pericolosità,
forse per consegnare ai versi un sovrappiù di rischio. Cita Ernst Jünger e René
Daumal, ha lavorato con musicisti jazz, legge Hart Crane e Dylan Thomas, le
stelle polari del suo ondivago verseggiare. Si atteggia, teneramente, a duro:
> “Sono legato a poeti la cui esistenza è all’altezza dell’opera – preferisco i
> poeti ‘compiuti’. Quelli che si lanciano con tutto il cuore, che dissipano le
> forze; gli avventurieri, questi antieroi della scrittura e del bel gesto; una
> specie di incrocio tra l’autore metodico e il torero, l’asceta e il corsaro.
> Insomma, si tratta di lottare e di essere, insieme a Conrad, ‘fedeli
> all’incubo che ci ha scelti’”.
Pratica la boxe – “uno sport pieno di eleganza, di sacralità… prima della
scrittura, è la boxe ad avermi dato una disciplina, una solida struttura dopo
un’adolescenza eccessiva, diciamo così” –, gli piace dire di aver vissuto a
Praga, a Napoli, a Dakar e a Città del Messico; dallo scoppio della guerra in
Ucraina lo si è visto, di tanto in tanto, a Kiev, a Zaporižžja, a Cherson. È
giovane: nato nel 1992, Tom Buron ha già pubblicato – Marquis Minuit è del
2021, Le chambre et le barillet è del 2023; ha esordito ragazzo, nel 2016 con
una serie di “Blues del XXI secolo” –, si è già conquistato le proprietà del
pioniere e del ribelle. Il libro edito da Gallimard – in contrasto con la poesia
francofona vigente, spesso di risulta, spesso un sussulto minimal, grave di
grigi aforismi, di tediosi borborigmi – dovrebbe essere quello della
consacrazione. Vista l’indole e il gergo, speriamo sia il libro della
dissolutezza e della dissacrazione: una zaffata oceanica, un galeone conficcato
nei muffiti salotti della poesia odierna. E poi… al largo, a bordeggiare
l’ignoto, a predare lo sconosciuto – ogni libro sia dunque un addio.
**
Da “Les cinquantièmes hurlants”
I
Già immagino la traversata, la trenodia,
giusto è il momento della nostra
rotta sopra i fari del mondo;
invento una virata di muso per deviare
la nave che scroscia su eleganti cariaggi
e sbava arguzie d’olio e di rame
mentre il litorale è nulla, ormai, e il mare
rende tellurico il suo decotto, le acque,
le flotte, una processione di palchi
tra nappe di nebbia.
Ho fatto il ritratto al regno:
non tornerò, neppure
per tutto l’oro del mondo nei lombi
del carcere, nel dire dei compagni, nel
vasto circo di quegli anni cruciali.
Stasera il cielo è incerato
lampi nelle giunture del cratere natio, questa sera,
ritornano elettrici i morti contro di noi.
Così, alla conquista della risacca,
inebrio il ritmo nel liquore liquame
da questo spiraglio, la scoperta di una
sferragliante consonanza – luce:
luce che agonizza come il mozzicone di una cicca
il komboloi tra il pollice e l’indice
mi rammenta alcune fate obliate dalla terra
che hanno abitato con noi con i loro furtivi passi
omettendo le mappe, le loro sinuose costole –
poi ricordo i cembali
la febbre dei codardi in evasione
ancora il ricordo dei cembali –
entriamo nella caccia: senza audacia
entrando nell’offerta della prossima isola.
Questa sera, setacciamo il cielo
per trovare un poco di immobilità
finché ci sovviene la litania
quella litania che dice: devi
dimenticare ben poche cose e poi
tieniti a distanza dalla febbre e dalla brace.
“Trasbordi, tragici tragitti – infine
il blu rinomina la lontananza delle strade
a tre golfi dalla commemorazione:
Mai più questo blu, mai, mai più…”
per lasciare infine un quinto del cielo
alla macabra danza dello zefiro.
Intanto, ho messo a morte
le mie prime intenzioni, conteggio
le crisi, marcio sulle liti
tra segreti estuari. Tempo
fa ero un cercatore, è vero.
Ho negoziato con un negromante
per farmi strada tra questi
sentimenti medioevali:
la buona sorte in una
tasca, quella cattiva nell’altra.
Ma oggi la notte fugge
e io vado mendicando
tra fratelli plurali, senza sosta.
La nave mi ha reso cieco
alle effemeridi della vendetta:
lo giuro, ho lasciato nei sobborghi
gli appetiti del mio abbaiare. L’ho fatto
per apprendere ogni giorno l’arte
della resurrezione: ecco cosa genera
un cuore apofatico, un corpo che s’inginocchia
davanti a ogni mistero del mondo libero.
Ma so ruggire – pirata impenitente
e intempestivo – ruggisce la pira
dei miei primevi pensieri. Sull’altra rotta
nelle altre notti, cacofonia di desideri
che rinnova la bella benedizione
del dolore, canceroso, arcigno, provato
nell’abitudine di quelle albe
quando ci si imbarca per terra
senza fuga, quando imbocchiamo
la via verso tratturi di fango che i nostri
avi non hanno avuto cura di nominare.
Quindi: vagabondaggio di onde
il coraggio del faro. Le porte si spalancano
e ricomincia la commedia
la disgrazia, i nuovi consolidati errori.
So i goffi ritornelli a ramponi
sul viso dei fumatori, quel po’
di eternità che fende gli indiani segni
prima del santuario del panico
quell’ambasciata sull’ascia della sera
irredimibile, in cui dicevo, andremo
a distillare il nostro sangue da quello altrui
ma non ho data di nascita
nessun genitore terreno: soltanto
qualche moneta in tasca – lucido
la fodera del tuono a ogni ora.
Aratura di scafi, armi –
incomparabile accordo tra estasi
e crollo, questa è la mia parte.
Così, ogni giorno sondiamo
l’oracolo dei mari, ogni giorno
partiamo da gorghi
carnevaleschi per incrociare
le spade ed è tutto un basculare
tra maniaci e manieri in questi
nuovi giardini di Eden.
Che vomitino il vino iniquo
il vento maligno dei civilizzati
nei porti dell’Est, posti dalle vaste palpebre;
pallidi isolotti, palme, spuma di spezie,
involuti incanti di catene – chiara è la lettera:
ciò che è costruito dev’essere distrutto
e ogni giorno rinnovato, alla partenza –
Tom Buron
L'articolo “Un cuore apofatico”. Il poema-oceano di Tom Buron, asceta & corsaro
proviene da Pangea.
Cari poeti,
so che avete fame di significato, e per questo riflettete anche su come la fede
interroga la vita. Questo “significato” non è riducibile a un concetto, no. È un
significato totale che prende poesia, simbolo, sentimenti. Il vero significato
non è quello del dizionario: quello è il significato della parola, e la parola è
uno strumento di tutto quello che è dentro di noi.
Ho amato molti poeti e scrittori nella mia vita, tra i quali ricordo soprattutto
Dante, Dostoevskij e altri ancora.Devo anche ringraziare i miei studenti
del Colegio de la Inmaculada Concepción di Santa Fe, con i quali ho condiviso le
mie letture quando ero giovane e insegnavo letteratura. Le parole degli
scrittori mi hanno aiutato a capire me stesso, il mondo, il mio popolo; ma anche
ad approfondire il cuore umano, la mia personale vita di fede, e perfino il mio
compito pastorale, anche ora in questo ministero. Dunque, la parola letteraria è
come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino. La
poesia è aperta, ti butta da un’altra parte.
Alla luce di questa esperienza personale, oggi vorrei condividere con voi alcune
considerazioni sull’importanza del vostro servizio.
La prima vorrei esprimerla così: voi siete occhi che guardano e che sognano. Non
soltanto guardare, ma anche sognare. Una persona che ha perso la capacità di
sognare manca di poesia, e la vita senza poesia non funziona. Noi esseri umani
aneliamo a un mondo nuovo che probabilmente non vedremo appieno con i nostri
occhi, eppure lo desideriamo, lo cerchiamo, lo sogniamo. Uno scrittore
latinoamericano diceva che abbiamo due occhi: uno di carne e l’altro di vetro.
Con quello di carne guardiamo ciò che vediamo, con quello di vetro guardiamo ciò
che sogniamo. Poveri noi se smettiamo di sognare, poveri noi!
L’artista è l’uomo che con i suoi occhi guarda e insieme sogna, vede più in
profondità, profetizza, annuncia un modo diverso di vedere e capire le cose che
sono sotto i nostri occhi. Infatti, la poesia non parla della realtà a partire
da princìpi astratti, ma mettendosi in ascolto della realtà stessa: il lavoro,
l’amore, la morte, e tutte le piccole grandi cose che riempiono la vita. Il
vostro è – per citare Paul Claudel – un “occhio che ascolta”. L’arte è un
antidoto contro la mentalità del calcolo e dell’uniformità; è una sfida al
nostro immaginario, al nostro modo di vedere e capire le cose. E in questo
senso lo stesso Vangelo è una sfida artistica. Essa possiede quella carica
“rivoluzionaria”, che voi conoscete bene, ed esprimete grazie al vostro genio
con una parola che protesta, chiama, grida. Anche la Chiesa ha bisogno della
vostra genialità, perché ha bisogno di protestare, chiamare e gridare.
Vorrei dire però una seconda cosa: voi siete anche la voce delle inquietudini
umane. Tante volte le inquietudini sono sepolte nel fondo del cuore. Voi sapete
bene che l’ispirazione artistica non è solo confortante, ma anche inquietante,
perché presenta sia le realtà belle della vita sia quelle tragiche. L’arte è il
terreno fertile nel quale si esprimono le «opposizioni polari» della realtà –
come le chiamava Romano Guardini –, le quali richiedono sempre un linguaggio
creativo e non rigido, capace di veicolare messaggi e visioni potenti. Per
esempio, pensiamo a quando Dostoevskij nei Fratelli Karamazov racconta di un
bambino, piccolo, figlio di una serva, che lancia una pietra e colpisce la zampa
di uno dei cani del padrone. Allora il padrone aizza tutti i cani contro il
bambino. Lui scappa e prova a salvarsi dalla furia del branco, ma finisce per
essere sbranato sotto gli occhi soddisfatti del generale e quelli disperati
della madre. Questa scena ha una potenza artistica e politica tremenda: parla
della realtà di ieri e di oggi, delle guerre, dei conflitti sociali, dei nostri
egoismi personali. Per citare soltanto un brano poetico che ci interpella.
E non mi riferisco solamente alla critica sociale che c’è in quel brano. Parlo
delle tensioni dell’anima, della complessità delle decisioni, della
contraddittorietà dell’esistenza. Ci sono cose nella vita che, a volte, non
riusciamo neanche a comprendere o per le quali non troviamo le parole adeguate:
questo è il vostro terreno fertile, il vostro campo di azione. E questo è anche
il luogo dove spesso si fa esperienza di Dio. Un’esperienza che è sempre
“debordante”: tu non puoi prenderla, la senti e va oltre; è sempre debordante,
l’esperienza di Dio, come una vasca dove cade l’acqua di continuo e, dopo un
po’, si riempie e l’acqua straripa, deborda. È quello che vorrei chiedere oggi
anche a voi: andare oltre i bordi chiusi e definiti, essere creativi, senza
addomesticare le vostre inquietudini e quelle dell’umanità. Ho paura di questo
processo di addomesticamento, perché toglie la creatività, toglie la poesia. Con
la parola della poesia, raccogliere gli inquieti desideri che abitano il cuore
dell’uomo, perché non si raffreddino e non si spengano. Questa opera permette
allo Spirito di agire, di creare armonia dentro le tensioni e le contraddizioni
della vita umana, di tenere acceso il fuoco delle passioni buone e di
contribuire alla crescita della bellezza in tutte le sue forme, quella bellezza
che si esprime proprio attraverso la ricchezza delle arti.
Questo è il vostro lavoro di poeti: dare vita, dare corpo, dare parola a tutto
ciò che l’essere umano vive, sente, sogna, soffre, creando armonia e bellezza. È
un lavoro che può anche aiutarci a comprendere meglio Dio come grande «poeta»
dell’umanità. Vi criticheranno? Va bene, portate il peso della critica, cercando
anche di imparare dalla critica. Ma comunque non smettete di essere originali,
creativi. Non perdete lo stupore di essere vivi.
Dunque, occhi che sognano, voce delle inquietudini umane; e perciò voi avete
anche una grande responsabilità. E qual è? È la terza cosa che vorrei
dirvi: siete tra coloro che plasmano la nostra immaginazione. Il vostro lavoro
ha una conseguenza sull’immaginazione spirituale delle persone del nostro tempo.
E oggi abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e
immagini potenti.
Io pure sento, vi confesso, il bisogno di poeti capaci di gridare al mondo il
messaggio evangelico, di farci vedere Gesù, farcelo toccare, farcelo sentire
immediatamente vicino, consegnarcelo come realtà viva, e farci cogliere la
bellezza della sua promessa. La vostra opera ci può aiutare a guarire la nostra
immaginazione da tutto ciò che ne oscura il volto o, ancor peggio, da tutto ciò
che vuole addomesticarlo. Addomesticare il volto di Cristo mettendolo dentro una
cornice e ad appendendolo al muro, significa distruggere la sua immagine. La sua
promessa invece aiuta la nostra immaginazione: ci aiuta a immaginare in modo
nuovo la nostra vita, la nostra storia e il nostro futuro. E qui torno a
ricordare un altro capolavoro di Dostoevskij, piccolo ma che ha dentro tutte
queste cose: le “Memorie dal sottosuolo”. Lì dentro c’è tutta la grandezza
dell’umanità e tutti i dolori dell’umanità, tutte le miserie, insieme. Questa è
la strada.
Cari poeti, grazie per il vostro servizio. Continuate a sognare, a inquietarvi,
a immaginare parole e visioni che ci aiutino a leggere il mistero della vita
umana e orientino le nostre società verso la bellezza e la fraternità
universale. Aiutateci ad aprire la nostra immaginazione perché essa superi gli
angusti confini dell’io, e si apra alla realtà tutta intera, nella pluralità
delle sue sfaccettature: così sarà disponibile ad aprirsi anche al mistero santo
di Dio. Andate avanti, senza stancarvi, con creatività e coraggio! Vi benedico.
Francesco
*Si pubblica per gentile concessione l’introduzione a: Versi a Dio. Antologia
della poesia religiosa, Crocetti, 2024, a cura di A. Spadaro, N. Crocetti, D.
Brullo
L'articolo “Cari poeti… la parola letteraria è come una spina nel cuore”. Una
lettera di Papa Francesco proviene da Pangea.
Entro a Montecalvo a piedi – il sole ha il becco, l’azzurro è carnale, viene da
morderlo. È un azzurro bue – un azzurro bestia da soma. Il sole sollazza, lì
sopra. Plana.
Provincia di Pesaro-Urbino, un castello nel vessillo comunale, poco meno di
tremila abitanti. Due bambini giocano – i re del luogo. Una signora, alla
finestra, fuma; un tizio fa lo scalpo al giardino di casa. Sabato – giorno di
riposo, giorno di Saturno. Un tempo, qui si sfogavano in lotte senza quartiere
gli sgherri del Montefeltro e quelli del Malatesta – di qui passò Francesco
Sforza; il castro fu messo al sacco da Cesare Borgia. Il borgo vanta ascendenze
romane.
Di tali, vestigia, oggi, non ci sono che straccetti. I bombardamenti alleati,
durante la Seconda guerra, hanno raso al suolo il paese. In particolare, gli
aerei della Raf hanno devastato la chiesa medioevale di San Nicolò: nella
struttura moderna – brutta come tutte le chiese moderne – è conservata la
campana del XIII secolo.
Per lo più: il bendaggio del silenzio. Un borgo sdentato.
*
Montecalvo dà su un abisso di calanchi: è questo a confermargli il carisma di
una superba alterigia.
Certo: bisogna scaraventarsi oltre i sentieri segnati; aprire un percorso tra i
rovi. A terra, le tracce calligrafiche del capriolo – poi, grumi d’erba smossi
dal cinghiale. Qualcuno dice di aver visto il cervo – ma i boschi sono pigmei,
laceri ai fianchi. Qualcuno dice del lupo vespertino, che s’incunea tra le assi
della notte. Nel crinale opposto, galoppano le mucche, mai viste così agili,
così fulve. Regna il gheppio, l’amuleto dei rapaci – appollaiato sui cavi
elettrici.
Il grigio dei calanchi, terra aspra resa lunare dalle acque, mi ricorda il
volto, infossato di rughe, di Samuel Beckett. Qui immagino che possa
parlare L’innominabile:
> “Adesso dove? Adesso quando? Adesso chi? Senza chiedermelo. Dire io. Senza
> pensarci. Chiamarle domande, queste, ipotesi. Andare avanti, chiamare questo
> andare, chiamare questo avanti”.
Qui dovrebbero venire a leggere L’innominabile – a inscenarlo.
Vocio interminabile dell’Innominabile – “D’altra parte a parlare sono obbligato.
Non tacerò mai. Mai” –, vocio-pigolio, balenio di belati, che disintegra l’idea
stessa del romanzo, come la pioggia fende le coste argillose, che degradano
all’eone di terra inferiore, infera. I calanchi: paesaggio che cammina. I
calanchi sono il luogo Innominabile: non c’è tenacia vegetale che possa
attecchire su quelle guance scavate, su quel glabro.
Parola lebbrosa, panorama dolente.
*
Da noi la trilogia di Beckett – Molloy, Malone muore, L’innominabile: scritta in
francese, pubblicata in Francia tra il 1951 e il 1953 – è ora raccolta nel
‘Meridiano’ Mondadori che raduna Romanzi, teatro e
televisione(2023). Strumento straordinario – leggere è altro – prevede:
sradicare e farsi dilaniare, mica sfogliare. La Faber pubblica la trilogia,
libro per libro, per festeggiare i settant’anni dalla prima edizione in inglese
di Molloy. L’introduzione dei libri è affidata a tre scrittori contemporanei:
Colm Tóibín, Claire-Louise Bennett and Eimear McBride.
Non so se si possa scrivere qualcosa di sensato intorno ai romanzi di Beckett:
nella loro voragine sono così audaci, così espliciti.
Samuel Beckett, il calanco della letteratura occidentale.
Lo dice lui, tra l’altro:
> “La sola ricerca fertile è quella che scava, che si immerge, è una contrazione
> dello spirito, una discesa. L’artista è attivo, ma in modo negativo:
> indietreggia di fronte alla nullità dei fenomeni siti al di fuori della
> circonferenza, è attratto verso il centro del vortice”.
*
Bisogna immergersi nei calanchi per capirne la spudorata attrazione.
Un’attrazione che ti si pianta fin nella fibra del sogno.
Sognai calanchi.
Dal vero, ne ho cavalcato uno. Camminare sul crinale tra due calanchi, lungo una
sella d’erba. Stellate di spine intorno. Spine serpentine. Straordinario il
silenzio nei boschivi, irsuti, che spaziano sulla cima dei calanchi. Come se le
bestie fossero spaventate da quella terra senza mediazioni, un rinoceronte
d’argilla. Il sogno del calanco: farsi vulcano, svanire.
*
Secondo Harold Bloom, Beckett è l’erede di Joyce, di Proust e di Kafka. Viene
dopo quegli scrittori-foresta. Viene nell’era desertificata. “La trilogia di
Beckett (Molloy, Malone muore, L’innominabile) rappresenta un vero passo oltre e
nulla di ciò che è stato impropriamente chiamato postmodernismo ha raggiunto il
suo livello”. Così scrive Bloom.
Come si fa a scrivere un romanzo come L’innominabile? Fare lo scalpo all’anima.
Entrare per frode nel linguaggio – già, questo fa lo scrittore: ladrocinio del
linguaggio. Deve frodare il linguaggio che, altrimenti, a lasciarlo fare, ci
frega, ci sfregia nel frainteso. Frastuono. Frana.
Stare nel centro del vortice. Nel centro di un calanco. Come si doma una stella
cometa. Cominciare da lì. Piantumare di sé il calanco.
*
Nel suo libro più bello, Rovinare le sacre verità (un tempo Garzanti, ora SE),
uno studio su “Poesia e fede dalla Bibbia a oggi”, Harold Bloom scrive che
Beckett era uno gnostico “naturale”, scrive che “Basilide o Valentino,
eresiarchi alessandrini, avrebbero subito riconosciuto il mondo della
trilogia... È il mondo dominato dagli Arconti, il kenoma, il non-luogo di
vuoto”.
Forse per questo, a perdifiato tra i calanchi – un fiato ben arato da
paleolitico di grigiori –, mi è venuto in mente il Vangelo di Filippo. I
calanchi non conservano ombre. Al centro di un calanco: si è come nel Pleroma;
si è come in un grembo – si retrocede dal feto, si recede da ciò che resta
dell’immagine. Falansterio di falci.
Scoperto a Nag Hammadi, il Vangelo di Filippo era d’uso proprio tra i
valentiniani citati da Bloom. Si trova facilmente in rete; in Italia esiste la
traduzione commentata di Luigi Moraldi, nei Vangeli gnostici editi da
Adelphi. In appendice, ne ho tradotto qualche fibbia, dalla versione di Willis
Barnstone: poeta dal solido talento, nato nel Maine quasi un secolo fa, ha
tradotto, tra l’altro, Saffo, Wang Wei, Giovanni della Croce e le poesie di Mao
Tse-tung; fu amico di Borges. Segno questo detto (dalla versione di Moraldi):
> “Dio è un mangiatore di uomini; per questo l’uomo gli è immolato. Prima che
> gli si immolasse l’uomo, gli si immolavano animali, giacché coloro ai quali si
> sacrificava non erano dèi”.
Alla coincidenza degli opposti, eraclitea, segue la messa in questione dei
‘nomi’. I nomi sono illusori, futili nodi che ci legano a questo mondo, a questo
tempo, alla superficie carnale delle cose. Soltanto chi possiede i nomi occulti
– il frutto sotto il carapace –, vive nel regno pur su questa terra. Questa
concezione, propria di chi scrive, è canone in Beckett: si scrive maneggiando un
coltello; bisogna scrostare i sacrosanti nomi, gli inesatti nomi, i nomi
ingannevoli delle cose. Ma chi può sopportarne lo splendore, poi?
La nudità sfoggiata dai calanchi: nome indottrinato dalla spoliazione. Oltre la
nudità di ciò che è nudo, oltre l’ultima, intima screpolatura, oltre la più
conficcata fenditura – a che quel bisbiglio? Cosa risuona?
Acqua battesimale – acqua che dilaga il fuoco – che dilata le doghe della
valle.
*
Nessun suono rimbomba sulle pareti dei calanchi: la terra ha molte bocche, la
terra ha sete di te. Strana sensazione: come di stare nel retro del sole, nel
suo cuoio.
Ecco: è come stare nel cranio vuoto del sole.
All’opera di scavo, all’ascesi, segua l’ascesa. Nello zaino ho Canto di vita,
un’antologia di poesie di Hugo von Hofmannsthal; è un libro lieve, apollineo.
Edito da Einaudi nel 1971, la traduzione è di Elena Croce.
Chi legge oggi le poesie di Hofmannsthal? A me paiono salvifiche. Sono il punto
di giunzione tra gli inni di Hölderlin e i versi di Rilke – solo: privati del
dramma, della reclusione, dell’annaspare tra i gangli di una risposta.
Hofmannsthal è l’annuncio, è il grande arciere, orefice di oracoli. La sua
poesia è una luce senza schegge, una luce laccio – forse è per questo che,
sgorgata nell’infallibile giovinezza, ha costretto il suo autore al silenzio.
Hofmannsthal ha scritto pochi, perfettissimi versi – poi, si è volto ad altro.
Più tardi, tento di rimescolare Manche freilich…, una delle poesie più ambigue.
Si parla della morte, di lande stellare, del collasso degli altri;
dell’invasione della vita in altre vite, dell’ombra e di un’anima spaventata.
Non serve capire quando si cammina tra gli assoluti. La figura della schmale
Leier, la “stretta lira”, sarà ripresa da Rilke nei Sonetti a Orfeo.
Alcuni – è vero – moriranno là
dove sibilano serpentini i remi
ma altri siedono al timone, saturi
del volo degli alati, delle lande stellari.
Alcuni hanno pesanti corpi
artigliati alle radici della vita
ma altri hanno un seggio
tra le Sibille, le regine,
perché lì è casa
leggero il capo, leggiadre le mani.
Ma l’Ombra gemma da quella vita
nelle altrui vite
il leggero si aggioga al pesante
come l’aria ai nodi della terra:
la pena di popoli dimenticati
non posso alienare dalle palpebre
né tentare l’anima, l’intimorita,
con l’intemerato crollo di lontane stelle.
Molti destini sono intrecciati al mio
l’Essere gioca a confonderli
ma la mia parte supera questa vita
l’ilare lira, la dinoccolata fiamma.
Il cielo impone nubi, per convalidare il suo rito in una litania di scure vesti,
di volti tirati. Pioverà. I calanchi intoneranno il loro lugubre canto. Da
lontano, le raganelle già si misurano con Beethoven. Qualcosa si muove – bene,
in fondo, è l’arte di adescare.
**
Dal Vangelo di Filippo
Luce e tenebra
Luce e oscurità, vita e morte, destra e sinistra
sono pargoli, inseparabili, sempre insieme.
I buoni non sono buoni, il malvagio malvagio
non è, vivere non è vivere, morte non è morte.
Ogni elemento sfuma nell’origine.
Chi vive al di là del mondo non svanisce.
È eterno.
*
Nomi
I nomi delle cose terrene: illusioni.
Rivolta dal reale all’irreale.
Se ausculti la parola “dio”: perdi il reale
predi l’irreale.
Padre, figlio, spirito santo, vita, luce, resurrezione, chiesa.
Parole non reali. Irreali
ma riferite al reale vengono udite dal mondo.
Ingannano. Se fossero i nomi del Regno
nessuno sulla terra li udirebbe.
Qui nessuno li assegna.
Il loro fine è insediarsi nell’eterno regno.
*
L’occulto
Gesù è nome occulto, Cristo manifesto.
Gesù non è parola qualsiasi, ma il nome con cui è chiamato.
In siriaco Cristo è Messia, in greco è Cristo.
Ogni lingua a suo modo lo chiama.
Nazareno è il nome rivelato di ciò che giace nel segreto.
*
Cristo
Cristo, in sé, è tutto, è tutto l’uomo
l’angelo, il mistero e il padre.
*
La perla
Se la perla è gettata nel fango, non perde valore
se la strofini con olio puro, non acquista valore.
Per sempre è preziosa agli occhi di chi la possiede.
Ovunque sono, i figli di Dio
sono preziosi agli occhi del padre.
*
Dio, il cannibale
Dio è un cannibale, Dio mangiatore di uomini. Per questo, la gente a lui si
sacrifica.
Prima che gli uomini dessero la vita per Dio
si sacrificavano le bestie, perché
chi li divorava non erano dèi.
*
Vetro e terra
I vasi di vetro e quelli di terracotta provengono munti dal fuoco.
Quando un vaso di vetro si rompe, lo rifanno:
il respiro lo ha creato.
Quando un vaso di terracotta si rompe, lo si butta:
non è il frutto di un respiro.
*
Uomini e bestie
La superiorità degli uomini è invisibile
agli occhi: risiede nel nascosto.
Per questo, dominano sulle bestie
che sono più forti e più grandi in forme
visibili e nascoste. Così, sopravvivono.
Quando l’umano si ritira, le bestie si uccidono
e si divorano tra loro: non hanno cibo.
Ma ora hanno cibo, perché l’uomo ara la terra.
*
Il mistero delle acque
Se ti inabissi nelle acque e risali
senza essere risanato e dici: “Sono cristiano”
prendi in prestito un nome.
Ma se ricevi lo Spirito Santo
hai in dono il nome. Un regalo
non si deve pagare.
Il prestito, invece, deve essere
saldato con gli interessi. Questo
significa: varcare un mistero.
*
La foggia del fuoco
Anima e spirito sorgono dall’acqua e dal fuoco.
Dall’acqua, dal fuoco, dalla luce viene l’attendente
nella camera nuziale.
Fuoco è crisma. Luce è fuoco. Non mi riferisco
alla fiamma informe, ma a un altro fuoco
bianco, luminoso, bello
che conferisce bellezza.
*
Resurrezione
Il Signore risorge dai morti.
È ciò che è
ma ora il suo corpo è perfetto.
Incarnato
ora è nella vera carne.
Questa nostra carne non è vera.
Questa nostra carne è soltanto la parvenza del vero.
L'articolo Saturi di stelle. Gita tra i calanchi con l’innominabile Beckett e il
Vangelo di Filippo proviene da Pangea.