Nel 1904, per “La Nuova Rassegna” di Firenze, Ettore Allodoli scrive un ispirato
profilo di Thomas Chatterton. Con l’acribia del critico, Allodoli tenta di
scindere il mito dall’uomo, la leggenda dall’opera. Impresa, per lo più,
vana. Thomas Chatterton, il poeta morto per scelta neppure diciottenne, aveva
finito per incarnare l’idolo del genio ribelle alle coercizioni della società,
l’artista incompreso, umiliato. Era una specie di Werther, rinnovava i caratteri
del puer virgiliano – parola che redime i mondi –, è stato il ragazzino giunto a
sconvolgere la scena lirica del proprio tempo, dominata da poeti ipocriti, da
piumati, spumeggianti lacchè.
Icona triste, notturna, già totalmente ‘romantica’, dalla giovinezza
lunare, Thomas Chatterton rischiò di essere il Rimbaud della poesia inglese – la
morte fu per lui una sorta di infernale Harar. Non ci riuscì perché l’epoca –
per usare una formula di Antonin Artaud – aveva scelto di suicidarlo. Così, il
giovane Allodoli – aveva poco più di vent’anni: amico di Giovanni Papini, sarà
Accademico d’Italia, critico infaticabile e biografo, tra i tanti, di
Michelangelo, Savonarola e Giovanni dalle Bande Nere – riporta il ragazzo al suo
vero, pionieristico ruolo: il precursore di Keats, Shelley e Byron, nei toni
poetici e nella postura del vivere (dissennata: per eccesso di vitalismo come
d’intimismo). Ce lo descrive “ambizioso e orgoglioso” fino alla mania –
“l’orgoglio gli ottenebrò la mente e lo fece sviare nei suoi ragionamenti e
nelle sue riflessioni” –, grave di “generosa baldanza” e “indipendenza di idee”.
Anche il critico, tuttavia, non può non impuntarsi nel mito, dalle oscurità
elisabettiane:
> “ritiratosi dalla vita brillante presso un fabbricante di manifatture in
> Brookstreet nelle vicinanze di Londra, visse alquanto in silenzio finché un
> giorno, dopo avere orgogliosamente rifiutato un pranzo che il padrone di casa
> gli offriva, la fame, le delusioni e la disperazione lo costrinsero ad
> uccidersi. Quasi nessuno parlò della sua morte e il suo corpo fu sepolto nella
> fossa comune”.
Alla dissipazione del corpo seguì la resurrezione del corpus: ci si accorse –
troppo tardi – di essere al cospetto di un talento selvatico, dall’opera
esondante, un Niagara, capace di passare, con aggressivo agio, dal poema
cavalleresco alla scena ‘da camera’, dall’idillio alla satira, violenta. Non so
se la solitudine ricercata, la sovrabbondante ira, la frustrazione abbiano
favorito o stravolto l’opera di Chatterton: ancora oggi egli è l’autentico
rivoluzionario della poesia inglese, ignifugo alle mode critiche e alle
stagionali rivalutazioni. Se William Blake, per dire – per effetto, è ovvio, di
una agghiacciante singolarità – è diventato un idolo, Chatterton resta nel volgo
dei vampiri, a ruminare tra le ombre: per sempre insoddisfatto, non ci dà pace,
ci dà di morso.
Luigi Berti – tra i rari che abbiano tentato di tradurre Chatterton nella nostra
lingua – credette di trovarsi al cospetto di un genio ingenuo, di un rebus, in
fondo (“Chatterton ci ha lasciato due volumi di versi e certi critici vi hanno
veduto anche un’evasione immaginativa di rara potenza, altri ancora uno stato
morboso che lo spingeva a crearsi un mondo d’immagini e di musica in cui la
morte era regina”, in: I preromantici inglesi, Guanda, 1964); scrisse che se
fosse vissuto di più, chissà, “sarebbe stato tra i più forti poeti preromantici
e forse anche tra i maggiori del suo tempo”. Al tempo di Allodoli – che costella
il suo saggio di qualche traduzione, qua e là –, i ragazzi mandavano a memoria
le poesie di Chatterton rimpinguandosi della sua leggenda: il poeta incompreso,
il poeta ribelle, l’uomo che ha scelto di vivere poeticamente, fino alla
tragedia. La frase con cui Allodoli chiude il saggio – “pensando al diciottenne
poeta, noi ci sentiamo turbati come dinanzi a qualcosa di straordinario” –
dichiara il destro di una poetica: il poeta è sempre fuori dall’ordinario, non
si lascia intimidire dalle norme stantie della storia dell’arte; il poeta è il
perturbante.
Henry Wallis, The Death of Chatterton, 1856
Fresca, d’altronde, era l’impressione di Chatterton, l’opera lirica di
Leoncavallo andata in scena al Teatro Drammatico Nazionale di Roma nel marzo del
1896. Il libretto era tratto dalla drammaturgia del 1835 di Alfred de Vigny, tra
le sue più grandi. L’introduzione dello scrittore – Dernière nuit de travail –,
di fatto, fa di Chatterton un monito e un mito ‘universale’.
> “La mia causa è il perpetuo martirio del poeta, la sua perpetua immolazione –
> La mia causa: il diritto che egli viva – La mia causa: il pane che non gli
> diamo – La mia causa: la morte che è costretto a darsi”.
A De Vigny non importava l’opera di Chatterton, poeta solare pur nella sua
disperazione, ma l’epopea del “criminale davanti a Dio e davanti agli uomini,
dacché il suicidio è un crimine religioso e sociale”. Ne fa il sovrano
dell’angoscia, il prototipo del suicidato dalla società – “Quando un uomo muore
in questo modo possiamo parlare di suicidio? È la società che lo ha gettato
negli inferi” –, l’erma di un sopruso che tutto mette in discussione:
> “Il Poeta era tutto per me; Chatterton non era che un nome; ho deliberatamente
> messo da parte gli esatti fatti della sua vita per prelevare da quel destino
> ciò che lo rendeva un esempio per sempre deplorevole di una nobile miseria. I
> tuoi compatrioti ti dissero bimbo meraviglioso! Giusto o meno che fosse, eri
> infelice; ne sono certo, e mi basta. Anima desolata, povera anima diciottenne!
> Perdonami se ho preso come un simbolo il nome che hai portato su questa terra,
> e in tuo nome aver tentato il bene”.
Il cadavere di Chatterton, pari a un burattino, si prestò a essere manovrato da
molti, travestito dai tanti. Il suicidio tramutò l’esistenza di un irregolare in
quella di un reietto dell’assoluto. Caso singolare in cui una vita, malridotta,
ha vampirizzato l’opera.
In realtà, scevra dalla gigantografia leggendaria, la burrascosa esistenza di
Thomas Chatterton si muove attorno ad alcuni, miliari, elementi. Nato a Bristol
il 20 novembre del 1752 – quasi un secolo dopo, il 20 ottobre del 1854, nasce,
pure lui in provincia, quell’altro “ragazzo meraviglia”, Arthur Rimbaud: nella
genuflessione del genetliaco, lievemente obliquo, c’è anche la sostanziale
differenza di statura lirica, ma non di carisma – Chatterton subisce, da subito,
lo stigma della perdita. Il padre, che si chiamava come il figlio – biblica
surplace, la saggezza del sangue – muore pochi mesi prima della sua nascita, in
agosto: musico mediocre, poeta per dire, per diletto praticava l’occultismo.
Thomas cresce con la madre, insegnante di cucito e di ‘ornato’: di suo, acuisce
un’indole alla solitudine, alla lettura disordinata. Da bambino, faticava ad
apprendere l’alfabeto, lo consideravano alla stregua di un idiota. La scuola –
frequentata a Bristol – lo infastidisce, come, in generale, le gerarchie
dell’ordine costituito e i fatui giochi dei suoi compagni. Mitizza, invece, i
meandri della chiesa di St Mary Redcliffe, in cui è sagrestano lo zio, per
tradizione legata al lignaggio dei Chatterton. Orfano di padre, Thomas
Chatterton trova una parentela tra affini nei cavalieri medioevali, nei vescovi
capaci nell’elargire le pene e nello sguainare la spada. Ama insinuarsi in un
altro modo: predilige l’epoca della Guerra delle Rose e quella di Enrico VIII,
s’inventa un XV secolo a suo uso, comincia a scovare vecchie pergamene negli
archivi di famiglia e in quelli della parrocchia, balocca con la lingua. La sua
precocità è inquietante: a otto anni l’idiota si rivela un lettore formidabile;
a undici si ritiene poeta compiuto. È l’era in cui vanno di moda i ‘notturni’ e
l’esotismo di un Medioevo ricostruito in vitro, con sapienza letteraria:
spopolano i canti di Ossian di James Macpherson – stampati dagli anni settanta
del Settecento, in Italia hanno un traduttore d’elezione in Melchiorre Cesarotti
– e le Reliques Of Ancient English Poetry di Thomas Percy; la caccia al
manoscritto perduto è lo sport più in voga tra i letterati del tempo.
All’accademismo, Thomas Chatterton preferisce l’energumena genuinità
dell’ispirazione; l’invenzione di Thomas Rowley, immaginario monaco vissuto nel
XV secolo, nei dintorni di Bristol, è la testimonianza di un talento senza
freni.
Abile nella mistificazione, nell’arte di produrre poemi in un middle english di
propria foggia, sagace nel gioco dei labirinti verbali, Thomas Chatterton
comincia a vendere i testi di Rowley, suo medioevale alter ego, come li avesse
tratti da un manoscritto fortunosamente ritrovato. Per un po’, nessuno sa
sbugiardarlo e il falso gli rende – ancora nel 1778, il poeta ‘laureato’ Thomas
Warton inserisce i poemi di Rowley nella sua History of English Poetry, tra John
Gower e Geoffrey Chaucer. Per contrasto, la stoffa di Chatterton – portata
all’esuberanza come all’esuberante depressione – non sopportava le falsità del
proprio tempo.
Talento burrascoso e inarginabile, il ragazzo sbarca, sedicenne, a Londra, certo
di poter sopravvivere del proprio talento. Le poesie gli rendono poco; in genere
– privo di appoggi e di sostanze – una specie di sovrumana indifferenza gli fa
da aura. Sono, in ogni caso, anni di prodigiosa scrittura: Chatterton tocca
tutti gli angoli della sensibilità lirica – dalla satira allo ieratico poema
medioevale, dall’imitazione alla poesia d’amore, dall’invettiva all’improvviso,
dalla pièce teatrale al ‘pezzo’ cosmico –, è famelico di fama. A differenza dei
poeti del suo tempo, vive ciò che scrive, incarna il proprio verbo, crede alla
parola con fanciullesca ingenuità – è questo, in lui, a spaventare, ad atterrire
chi lo incrocia, riconoscendo, nello spavaldo ragazzo, il marchio feroce del
prescelto. Il rapporto con Horace Walpole è emblematico. Chatterton inviò
all’autore del Castello di Otranto– che, nella finzione narrativa, è presentato
come un manoscritto stampato a Napoli nel XVI secolo – una silloge di testi di
Rowley. Walpole, dapprincipio, ne è entusiasta e propone una pubblicazione di
quei testi; poi, scoperto l’inganno, si nega a Chatterton, rifiutando di
restituirgli le poesie. Sembra – per sinistre preveggenze – la sorte subita dal
manoscritto dei Canti Orfici di Dino Campana, perduti, per incuranza, da Ardengo
Soffici. Sembra, cioè, che nelle retrovie di una grande opera ci sia sempre uno
smarrimento, un’irriconoscenza – foss’anche dell’autore, incapace di ‘fare i
conti’ con il proprio talento, di metterlo a profitto –, una perdita.
Per un carattere scheggiato come quello di Chatterton, la sconfitta è
irricevibile, irredimibile. Per un po’, il ragazzo tenta di conquistare il
Sindaco di Londra, William Beckford, che distrattamente lo stima; poi cerca di
concupire qualche possibile mecenate. I testi più languidi lasciano spazio alle
poesie corrosive; benché pubblichi, qua e là, sui giornali dell’epoca, il poeta,
letteralmente, fa la fame. Poco prima di morire, chiede a un amico, chirurgo, di
farlo assumere come suo assistente su un cargo che viaggia verso l’Africa –
anche in questo caso, la prossimità con le scelte di Rimbaud sfiora la vita
apocrifa.
Gli ultimi giorni della vita di Thomas Chatterton sono pura immersione
nell’amnio di una notte oscura del cuore. Nel cimitero della chiesa di St
Pancras, annebbiato dai pensieri, il poeta cade in un sepolcro vuoto, in attesa
della tomba; ne esce indenne, tra gli stornelli dell’amico che lo accompagna,
“Ho visto risorgere un genio”. La risposta di Chatterton ha il crisma della
nottola: “Da tempo, ormai, sono in combutta con le tombe”. Morì il 24 agosto del
1770, neppure diciottenne, nella scarna soffitta in cui abitava, in Brook
Street. Inghiottì arsenico, fece a pezzi i pochi quaderni che aveva con sé.
La sua morte passò praticamente inavvertita dai letterati dell’epoca; il suo
corpo fu gettato in una fosse comune, nel cimitero annesso alla parrocchia di St
Andrew a Holborn, presso la Shoe Lane Workhouse. Alcuni credono che lo zio abbia
disseppellito e recuperato il corpo di Chatterton, insediandolo nell’amata
chiesa di St Mary Redcliffe, dove un cenotafio ne fa memoria. Pochi giorni dopo
la sua morte, un certo Thomas Fry approdò a Londra con l’intento di scoprire chi
fosse l’autore – o lo scopritore – delle poesie ascritte a Thomas Rowley: voleva
fargli da mecenate.
Non si contano gli omaggi lirici e biografici destinati a Chatterton. Uno dei
più riusciti, tra i recenti, è il romanzo storico di Peter Ackroyd, Chatterton:
finalista al Booker Prize nel 1987, fu tradotto in Italia due anni dopo, nel
1989, come Il ragazzo meraviglioso (Chatterton). In copertina, come è ovvio,
spicca The Death of Chatterton, capolavoro del pittore preraffaellita Henry
Wallis. Il ragazzo, di cerea, incredula bellezza, apollinea, è sdraiato sul
letto, morto; ha i capelli rossa e al suo fianco, in un forziere, semiaperto, i
fogli con le sue poesie, a pezzi – quasi che le mani potessero imitare un rogo.
Il ragazzo ha i pantaloni blu; la finestra, spalancata sulla quinta londinese;
una pianta, umile, eroica, sul davanzale, insegna – chissà – che la morte
feconda la vita. Per il quadro, compiuto nel 1856 e che moltiplicò la fama
postuma di Chatterton, aveva posato un giovane George Meredith, l’autore
de L’egoista. Nella cerchia dei Preraffaelliti, Thomas Chatterton figurava come
uno degli eroi; Dante Gabriel Rossetti lo omaggiò con un sonetto dall’attacco
esagerato: “con la virilità di Shakespeare nel cuore selvaggio di un
ragazzo”. Fu William Wordsworth, tuttavia, molto tempo prima, a coniare per
Thomas Chatterton un’indelebile definizione: the marvellous Boy. La poesia
– Resolution and Independence, 1807 – parla di quell’“anima insonne che perì del
proprio orgoglio” e lega, in un dittico efficace, il poeta della gioia
(gladness) con quello della mania (madness), il sole e la sua eclissi, la luce e
la sua irredimibile ombra.
Da qui, è pressoché impossibile inseguire lo spettro di Chatterton nell’opera
dei più potenti poeti inglesi di ogni tempo. Coleridge scrive una Monody of the
Death of Chatterton che lo accompagna per tutta la vita: la prima versione è del
1790, nell’ultima, del 1834, il poeta della Ballata del vecchio marinaio si
rivolge al Poor Chatterton, “Il tuo destino mi riempie di dolore/ chi avrebbe
potuto amarti prima della fine?… ho gettato una corona di oscuri fiori/ sulla
tua tomba informe”. John Keats dedica Endymion “alla memoria di Thomas
Chatterton”; intorno al suo “triste destino” aveva già scritto un sonetto – To
Chatterton, appunto – di azzurra tenerezza: “La tua gemma per il gelo è
crollata./ Ma questo è il passato: ora sei tra le stelle/ nei più alti cieli,
alle sfere canti/ soavi inni, nulla ti turba/ dell’ingrato mondo, delle umane
paure”. Keats associava Chatterton “all’autunno”, lo riteneva “il più puro
scrittore in Lingua Inglese” (così a John Hamilton Reynolds, 21 settembre 1819).
In risposta, Percy Bysshe Shelley cita “la solenne agonia” di Chatterton
in Adonais, “An Elegy on the Death of John Keats”. Entrambi, introdotti alla
vita lirica dall’astro di Chatterton, morirono troppo giovani: la fatalità, al
calor bianco, pare insinuare una poetica.
La poesia ‘in memoria’ di Thomas Chatterton – sorta di amuleto per accedere
nell’empireo dei poeti – divenne un genere, una sorta di formula teurgica. Lo
praticò, tra i tanti, anche da Dylan Thomas, legato a Chatterton dal duro
lignaggio dei pionieri del verbo. O Chatterton, poesia del 1938, ha modi da musa
ubriaca: “O Chatterton e altri su in soffitta/ Congiunti in uno stesso lume a
gas/ A usare lysoformio per narcotico;/ Bevete alle tette della terra;/ Bevuta
liscia la vita/ È un veleno migliore che in bottiglia/ Nella saliva fermenta un
veleno migliore/ Di quello che uno caverebbe/ Dalle budella d’un serpente” (la
traduzione è di Ariodante Marianni). Serge Gainsbourg, invece, cantò la morte
di Chatterton nel 1967: “Chatterton suicida/ Annibale suicida/ Demostene
suicida/ Nietzsche/ in delirio/ Quanto a me/ non va poi meglio”.
Ogni letteratura ha bisogno, per trovare nuova nascita, nuova foggia
linguistica, di un capro espiatorio, di un agnello sacrificale. Il ragazzo di
belle speranze che s’incaglia nella sfortuna. Il pioniere che si perde nel
deserto, a un passo dalla terra promessa, appena intuita – la cui novità risiede
nell’annuncio, spericolato, incomprensibile. Thomas Chatterton è stato
l’agnus della poesia inglese moderna. È stato sconfitto, è vero – ma questa
sconfitta, ora, ci sovrasta.
*Si pubblica, in parte, l’introduzione al volume: Thomas Chatterton, “Nell’aura
del fulmine. Poesie scelte”, Feltrinelli, 2025, a cura di Davide Brullo
In copertina: Nicola Samorì, Arco della sete, 2020
L'articolo “Turbati, come dinanzi a qualcosa di straordinario”. Storia & versi
di Thomas Chatterton, il poeta maledetto proviene da Pangea.
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È recentemente apparsa un’antologia che segna uno spartiacque nel mondo della
letteratura e degli studi iranistici italiani. Sino ad ora, dell’Iran si aveva
un’immagine perlopiù fuorviata, o da rappresentazioni che ne enfatizzavano le
antiche memorie di sfarzosi sultani e fiabesche notti arabe o da reportages di
impronta giornalistica, fissatisi negli ultimi anni soltanto sulla drammatica
situazione politica del Paese.
Da un punto di vista letterario, dal Settecento in poi, grande attenzione
traduttiva è stata riservata alla Persia, basti ricordare l’amore goethiano per
Hāfez, le pregevoli versioni europee di Rumi e ‘Attār, Sā‘di e Firdusi, fino
alla secolare fortuna di un classico dei classici della poesia universale quale
Omar Khayyām. Tale lascito ha senz’altro posto la letteratura classica persiana
nell’olimpo delle grandi imprese di traduzione moderna, portando l’iranistica a
esiti raffinatissimi a discapito di qualsivoglia incursione nei suoi più recenti
sviluppi. Mi riferisco alla smisurata quantità di imprescindibili autori
iraniani vissuti tra XIX e XX secolo del tutto ignorati dall’accademia
occidentale, consegnati a impietoso oblio, lo stesso incrementato dalla
narrazione politica e massmediatica internazionale ideologicamente impegnata,
dal 1979 in poi, a far emergere solo alcuni aspetti – soprattutto politici ed
economici – della multisfaccettata e particolarmente feconda cultura dell’Iran.
Con Poeti iraniani (Mondadori, 2024) scopriamo invece un Paese dove la poesia
rappresenta ancor oggi il linguaggio identitario di un popolo desideroso di
raccontarsi in ogni aspetto, esistenziale e filosofico. Il volume è curato da
Faezeh Mardani che della letteratura persiana contemporanea è tra le massime
esperte non solo in Italia, e compendia le dodici più emblematiche voci della
poesia, presentate secondo un criterio diacronico in un’ottica riassuntiva anche
degli enormi mutamenti sociopolitici del Novecento iraniano. Si parte da Nimā
Yushij, padre della Poesia nuova nonché primo autore che nel 1921 aprì al verso
libero e ai temi del modernismo simbolista, per arrivare ad Ahmad Shāmlu,
poeta-profeta la cui opera di magmatico impegno civile galoppa per tutto il
secolo breve innalzando monumentali mausolei di carta, passando per Mehdi
Akhavān Sāles, nostalgico aedo delle attuali rovine persuaso del potere
salvifico delle fonti preislamiche, sino alle voci più conosciute nel mondo
occidentale come Forugh Farrokhzād, la poetessa del peccato che negli anni
Sessanta osò per prima pubblicare versi di spregiudicata femminilità in
opposizione a una cultura maschilista e retrograda, o Sohrāb Sepehri, vero
mistico sufi interessato alla pittura e alle vie esoteriche orientali. Da questa
prima generazione di poeti – non a torto definiti “colonne della Poesia nuova” –
si giunge poi a una seconda ondata, toccata invece da istanze
neoavanguardistiche e antiletterarie. Abbiamo qui Bijan Jalāli, autore di densi
frammenti lirici dal registro colloquiale ma profondo valore
sapienziale, Yadollāh Royāi, maestro della Nouvelle vague letteraria iraniana e
di uno sperimentalismo linguistico mai privo di pathos e autenticità, Mohammad
Reza Shafiei Kadkani, prodigioso conoscitore dell’eredità lirica persiana i cui
lacerti d’oro interseca a versi carichi di disincanto e dissenso per l’oggi,
fino a Seyyed ‘Ali Sālehi, decano della Poesia parlata che nei suoi testi
inaugura un connubio tra linguaggio popolare e mistico. L’antologia si chiude
con le firme ad oggi più amate e lette: Ziyā’ Movahhed, poeta-filosofo
insuperabile nell’intrecciare riflessioni metafisiche a lampi e intuizioni di
gusto impressionista, Abbās Kiārostami, artista abilissimo nel tratteggiare il
proprio visionario orizzonte interiore tramite fulminei fotogrammi-haiku, e
infine Garous Abdolmalekiān, poeta poco più che quarantenne ma già affermato e
celebrato, firma di diverse opere dove un ispirato afflato lirico si interseca a
una dolente e impetuosa denuncia civile.
Insomma, una caleidoscopica rassegna volta a far scoprire ai lettori italiani lo
scrigno dei tesori poetici dell’Iran contemporaneo e altresì il particolare
sentimento che unisce il Paese alla poesia, a tutti i livelli. Nell’introduzione
dei suoi Canti azzurri (2010), Ziyā’ Movahhed spiega così la propria ragione
poetica:
> «Il regno della poesia è totalmente diverso dal territorio della prosa. La
> poesia è dire l’indicibile… Vi siete mai chiesti perché gli uccelli mentre
> volano e saltano da un ramo all’altro cantano? Non potrebbero saltare e volare
> senza cantare? Avete mai sentito il canto degli uccelli sui rami al mattino
> presto? Cos’è che li fa cantare? Quale bisogno è appagato dal canto? Non
> basterebbe solo volare? La poesia è la forma più alta del piacere e di quella
> libertà che allontana ansia e paura. È la voce della protesta che può
> esprimere l’ineffabile. E, infine, è il canto degli uomini, il canto
> dell’anima, il canto cui aspira il nostro spirito».
In tale passaggio di Movahhed si precisano le due direttive su cui scorre tanto
la letteratura persiana contemporanea quanto il sentire profondo che lega il
popolo iraniano alla poesia, considerata all’unisono voce della protesta e canto
dello spirito. Per quanto riguarda la cifra di dissenso e impegno civile, ne è
da sempre il principale canale, essendo la figura del poeta ancora socialmente
centrale in Iran come testimone della storia di un intero popolo cui è stata
privata la libertà ma non il fermento culturale, il senso profondo di
appartenenza a una millenaria tradizione di arte, musica, cultura e, appunto,
scrittura poetica. Non è un caso che quand’anche si tinga di furia e ribellione,
la poesia persiana suole comunque vestirsi di una singolare, epica solennità,
osservando una radicata fiducia e riverenza verso la parola, ritenuta sacra.
Ed ecco arrivati alla ancestrale tensione metafisica che seguita a perdurare e
ardere nella poesia persiana dal Novecento a oggi. Sebbene il più giovane tra
gli antologizzati, Garous Abdolmalekiān, scriva «La poesia non è poesia/ se non
è manciate, manciate, manciate, / se non è sassi, sassi, sassi,/ se non è…», la
ricerca che sembra impregnarne i versi discende dalla stessa tradizione
neoplatonica avente come primario interesse la vita e la cura dell’anima: fuoco,
cardine di una nuova generazione di poeti che, pur essendosi distaccati dalle
forme metriche della maestosa civiltà letteraria del passato, continuano a
diffonderne, con picchi di assoluta creatività sperimentale, l’intenso portato
filosofico e teosofico. Da qui la plenaria attenzione riservata al fragile e
dissacrato universo della parola, intesa sempre quale alata messaggera
dell’ispirazione, bussola che orienta a invisibili mondi.
Sohrāb Sepehri (1928-1980)
«Ci siamo svegliati all’alba/ ci siamo sciacquati la faccia/ abbiamo lavato le
mani/ ma non/ le parole. […] Possa Dio redimerci l’anima / per averle lasciate
così sporche» scrive Ziyā’ Movahhed. E così, di rimbalzo, Shafiei Kadkani: «In
principio era la parola e la parola era sola/ e la parola era bella./ Bacio,
pane e sguardo di colomba era./ Dalle dita di Salomone, il demone/ sfilò la
gemma del sapere e della bellezza./ Fece magie quel perfido vecchio/ e la parola
(il mistero decretato) divenne sterile e inerme.// O tu, principio,/ rovina,
sommità, abisso,/ o tu, cantore dell’esistenza, scintilla d’ogni verso e poema/
ridona alla parola, un’altra volta,/ quell’eterno splendore, gioia e lucore,/
equità e sapienza./ Ridona alla parola quell’arcana magnificenza,/ amen!/ La
purezza del primo giorno ancora,/ amen!». Come si può notare, l’inchiostro in
cui i nostri poeti intingono la loro penna è lo stesso dei mistici del passato,
consci, secondo la prescrizione coranica, dei pericoli conseguenti a un
esercizio bulimico e retorico della parola strappata alla sua primordiale e
ineffabile lucentezza, al suo uso oculato e allegorico. Esemplare, in tal senso,
un passo del sufi Jāmi:
> «Meglio è per il derviscio celare le sciagure
> e per l’innamorato usare l’intelletto:
> poiché le parole sono un velo sul volto dell’Amico
> migliore di qualsiasi discorso è il silenzio.
>
> Tu, preso da continua brama di parlare,
> se sei saggio sappiti misurare.
> Né svelare potrai i segreti dell’Essere,
> perla che nemmeno il diamante della parola trafigge.
> Sopra brutto e bello tira una riga
> tira il velo che occulta il nascosto Splendore:
> i piedi nella veste, la testa sul petto ritrai:
> non fuor di te abita la luce di Quella bellezza».
Se è nell’oscuro oceano dell’umana e cosmica interiorità ad annidarsi la luce
divina, i poeti iraniani cercano ancor oggi di preservarne l’abissale vertigine
verbale eleggendo la poesia a unico linguaggio capace di esprimere la suprema
essenza della vita, attraverso i movimenti e le accensioni di un iridescente,
magico dettato: «O sermone dell’acqua/ vergato su metalliche tavolette marine/
magari in questa greve eloquenza d’indaco/ fosse il mio corpo una dolce
pronuncia d’acqua!» invoca a tal proposito Royāi. Del resto, ricordando
l’appellativo ladri di fuoco assegnato ai poeti occidentali da Rimbaud, già
Giuseppe Conte parlò di loro come eredi dell’acqua, adoratori delle antiche
sorgenti sapienziali dell’umanità, mai così necessari per tutti noi. «Ho parole
da vedere, annusare, toccare/ e non da spiegare/ parole come onde d’acqua/
tortuose e increspate» confessa Movahhed, rispolverando l’antica e immortale
metafora della poesia associata al ventre marino, il cui vero idioma non può che
essere una misteriosa, equorea sinfonia recante in sé l’esperienza dell’abisso,
del celeste fondale da cui riaffiorano «le parole dense del tacere».
Pare infine proprio questo il principale suggerimento che i poeti iraniani
contemporanei, nella loro policroma diversità d’approcci e accenti,
dall’emisfero più infiammato del pianeta intendono consegnarci: rifondare il
senso della scrittura a partire dal suo primato di viaggio interiore, di scavo
metafisico, oltre l’imperio dell’«arido vero», di ogni forma di rivendicazione
ideologico-materialista della letteratura, senza paura d’essere accusati di
rifiuto della realtà. Lo aveva già intuito Hölderlin: «Chi pensa il più
profondo/ ama il più vivo». Tanto più ci si cala in sé stessi, tanto più
dell’Altro si trova e ama. L’unica via di fuga dall’inferno del mondo ce la
abbiamo dentro, l’unica salvezza è smettere di cercare salvezza, imparando a
contemplare l’oasi infuocata di ogni istante. Ce lo ricorda una volta per tutte
Sepehri:
> «Bisogna chiudere il libro.
> Bisogna passeggiare
> nell’orizzonte esteso dell’attimo,
> osservare il fiore,
> percepire l’ambiguità.
> Bisogna correre fino in fondo all’Essere,
> fino al profumo terrestre del Nulla,
> alla congiunzione di albero e Dio».
Francesco Occhetto
*
Il sussurro della parola “vita”
Dietro la pineta, la neve.
La neve, uno stormo di corvi.
Strada vuol dire esilio.
Vento, canto, viaggiatore, un po’ di sonno.
Un ramo d’edera, un arrivo, un cortile.
Io, la nostalgia e il vetro bagnato.
Scrivo in questo spazio.
Due muri e qualche passero.
Qualcuno è triste.
Qualcuno fa la maglia.
Qualcuno conta.
Qualcuno canticchia.
La vita: uno stormo che vola via.
Perché questa angoscia?
Non mancano le speranze: c’è il sole,
il bambino del dopodomani,
la colomba dell’altra settimana.
Ieri notte morì qualcuno
ma ancora è buono il pane di grano.
E ancora gocciola l’acqua, e i cavalli bevono.
Scorrono le gocce,
la neve è sulle spalle del silenzio,
il tempo sulla spina dorsale del gelsomino.
Sohrāb Sepehri
*
Un’altra nascita
a Ebrāhim Golestān
Tutto il mio essere è un canto oscuro
che in un continuo ripetersi ti porterà
verso l’alba di eterne crescite e fioriture.
Ti ho sospirato, in questo canto io
ti ho sospirato, in questo canto io
ti ho unito all’albero, all’acqua, al fuoco.
La vita è forse il lungo viale
che ogni giorno percorre
una donna con la sua cesta.
La vita è forse la corda sul ramo dell’uomo che si impicca.
La vita è forse il bambino che torna da scuola.
La vita è forse accendersi una sigaretta
nella languida pausa tra due amplessi
o lo sguardo assente di un passante
quando si toglie il cappello, banalmente
sorride e all’altro dice: «buongiorno!»
La vita è forse quell’attimo sospeso
quando nelle tue pupille si strugge il mio sguardo,
presentimento che legherò alla percezione della luna,
alla conquista delle tenebre.
In una stanza grande quanto la solitudine
il mio cuore grande come l’amore
scruta le sue semplici pretese di felicità,
la bellezza dell’appassire dei fiori nel vaso,
l’alberello che hai piantato
nel giardino della nostra casa,
il cinguettio dei canarini
che cantano nella cornice della finestra.
Oh…
questa è la mia parte,
questa è la mia parte.
La mia parte è un cielo nascosto da una tenda appesa.
La mia parte è scendere una rampa di logori gradini
per scovare ciarpami e nostalgie.
La mia parte è una passeggiata
melanconica nel giardino dei ricordi,
è morire nella tristezza di una voce
che mi dice: «Amo
le tue mani».
Pianterò le mie mani in giardino,
lo so, lo so, lo so, crescerò
e le rondini deporranno le uova
nelle pieghe delle mie dita sporche d’inchiostro.
Per orecchini indosserò due rosse ciliegie gemelle
e alle mie unghie incollerò petali di dalia.
C’è una stradina
dove i ragazzi che mi amavano
con i loro capelli spettinati
i colli sottili e le gambe magre
pensano ancora al sorriso innocente di una ragazza
che una notte il vento portò via.
C’è una stradina che il mio cuore
ha rubato ai quartieri dell’infanzia.
Viaggio di una sagoma sulla linea del tempo,
di una sagoma che feconda la sterile linea del tempo,
sagoma cosciente di un’immagine che torna
da una festa nello specchio.
È così che qualcuno muore
e qualcuno resta.
Nessun pescatore raccoglierà mai una perla
dall’esile ruscello che sfocia nel fosso.
Io
conosco una fata piccola e triste
che vive nell’oceano e dolcemente
in un magico flauto suona il suo cuore.
Una fata piccola e triste
che di notte muore con un bacio
e all’alba con un altro bacio rinascerà.
Forugh Farrokhzād
*
E la parola era Dio
Quante volte abbiamo taciuto
per non dire quella sola parola.
Figura
allegoria
metafora
poesia
e le nostre mani restarono in tasca.
Ci siamo svegliati all’alba
ci siamo sciacquati la faccia
abbiamo lavato le mani
ma non
le parole.
Accanto a una candela
tenuta così spenta,
ora sia benedetta la notte,
sia benedetta.
Possa Dio redimerci l’anima
per averle lasciate così sporche.
Ziyā’ Movahhed
*
Mi disseto
a un miraggio,
vogliate crederci o no.
Abbās Kiārostami
*
Dimentica
Dimentica
la mitragliatrice
la morte
e pensa al destino dell’ape
che in mezzo alla piazza minata
cerca il ramo di un fiore.
Garous Abdolmalekiān
Traduzioni di Faezeh Mardani e Francesco Occhetto
*In copertina: Forugh Farrokhzād (1934-1967)
L'articolo “Mi disseto a un miraggio”. Per conoscere davvero l’Iran dobbiamo
leggere i suoi poeti proviene da Pangea.
Dunque, è dal termine che bisogna partire: dalla gemma partorita con dolore,
dalla goccia che prima di cadere e di mutarsi in folgore, trema, si aggrappa,
icona di spina, sventata vampa, al ramo. Così scrive lei, Karin Boye, in una
delle poesie più note: ciò che sboccia succede al dolore, ciò che nasce ferisce,
il nuovo accade per ventura di inverno in grammatura d’oro. Sembra di auscultare
la Decima elegia di Rilke, quella della “felicità ascendente”, della commozione
che lascia sgomenti (bestürzt) “quando cade una cosa felice”. In Karin è
epidermica la violenza, la screziata grazia della cosa che si spezza – la fiamma
prima della felicità, la forza che discende.
Fu pure lei, Karin, goccia che cade, il frutto che, risolto a maturità – cioè:
in parentela con il sole, un sole che si può dire Bicorne e Bucefalo –, si apre,
nella polpa da leccare, nella pappa leccornia, nel seme da piantare. Purissima
gemma, Karin scelse Alingsås, una cittadina di laghi; scelse i sonniferi –
cadde. Aveva 41 anni; l’anno, il 1941, è lo stesso – stimmate di santa, mesi in
costato, segni di cui fare sudario – in cui muoiono, volontariamente, anche
Virginia Woolf e Marina Cvetaeva. Karin optò per aprile, the cruellest month, il
mese che “genera/ lillà da terra morta, confondendo/ memoria e desiderio”. Aveva
tradotto La terra desolata di Eliot dieci anni prima – anni di esperienze
spaesanti, quelle. Il matrimonio con Leif Björk, nel ’29, l’attività totale nel
movimento socialista “Clarté”, il viaggio – per certi versi agghiacciante – in
Unione Sovietica e quello in Jugoslavia.
Nata a Göteborg nell’ottobre del 1900, in famiglia di alti studi – padre
ingegnere, madre impegnata nel ‘sociale’ e nello spirituale –, fu segnata da
feroce precocità: a nove anni scriveva i primi testi; a diciotto compose per il
compleanno del padre un libro di poesie e di leggiadre leggende, illustrandolo;
nel 1922 pubblica Moln(“Nuvole”), una raccolta di versi che sanno di fiaba e di
petroglifo, un esordio in stile Lascaux – aveva già inciso, a suo modo, la nuova
via della lirica svedese. Non difforme dalla poetica di Nelly Sachs, dalla voce
di Karin Boye (tradotta in Italia da Daniela Marcheschi; le Poesie di Karin sono
in catalogo Le Lettere dal 2018) proviene – ad esempio – la poesia di empia
bellezza, la poesia d’empito di Birgitta Trotzig. Fu amica Harry Martinson, che
la trasfigurò in Isagel, ‘carattere’ indimenticabile del poema
epico-cosmico Aniara.
Leggeva Kipling e Tagore, si interessò al buddismo, studiò il sanscrito, preferì
il cristianesimo – maneggiava l’Edda e i miti norreni. A dire di una poetica che
assembla la profezia, a dire dello scoperchiare gli altri cosmi, del tenere sul
palmo la foglia e la galassia, l’erba e la materia oscura, dell’adesione all’Ade
dei poeti ctoni, che confabulano con gli spettri, capaci di estrarre fibule di
luce, sfreccianti agnizioni. Certo, è da aggiungere: le depressioni ricorrenti,
l’omosessualità celata, il matrimonio fallito, i viaggi in Germania, a Berlino,
per frequenti, infeconde sedute psicoanalitiche. Lentamente, Karin Boye si slegò
da tutto – da tutti si sentiva annodata. Poetessa tra le più ardite, aderente al
linguaggio sabbatico, al linguaggio come sabba, cioè a stanare le forze, Karin
deve il successo, per paradosso, a un romanzo, Kallocaina, uscito nel 1940, in
cui, dietro al delirio statalista e alla fatidica “droga della verità” sono
adombrati i regimi sovietico e nazista. In Italia, il romanzo distopico è
tradotto da Iperborea: “Scritto nel 1940, quando era difficile nutrire grandi
speranze nell’avvenire, Kallocaina ha in comune con Noi di Zamjatin, Il mondo
nuovo di Huxley, 1984 di Orwell l’allucinata visione di una società
spersonalizzata, dominata da uno Stato poliziesco che arriva a invadere anche la
sfera privata dei cittadini sopprimendo ogni libertà”.
Tuttavia, per così dire, Karin aveva “uno Stato poliziesco” dentro di sé. Le
fotografie di famiglia sembrano tratte da un film di Ingmar Bergman: sorrisi
senza fiordi, orche sotto le bianche vesti e le belle trecce. Fece un viaggio in
Grecia che la empì di una luce cerbiatto, di una luce Cerbero. Tutto diventò
troppo – troppo tardi, soprattutto. La ragazza non riuscì a spezzarsi, si volse
alla morte nel sonno.
Ma va detto del seme, ora. De sju dödssynderna (“I sette peccati capitali”), la
raccolta postuma, alterna le visioni di Emanuel Swedenborg alle tenerezze di un
cronachista di mondi perduti, desunti da un acquazzone. Letale il poemetto
accusatorio che dà titolo al libro:
> “Di generazione in generazione non siamo stati altro che la nostra segreta
> follia
> il nostro mai-nato.
> Oh Dio, quanto sei prossimo a ciò che non esiste.
> Occupati di noi. Non possiamo più durare.
> Distruggi il male che non ha cura di distruggersi.
> Distruggi il sogno della nostra follia incapace di farsi reale.
> Distruggici”.
Qualcuno disse di fenomenali epifanie, di apatie d’acqua, qualcuno credeva
bastassero i fiori a imbonirla, imbottita di buoni odori. Ma lei, Karin, sapeva
che l’angelo è oscuro, che l’angelo è maculato, che l’angelo può chinarsi nella
foga della iena. Chissà – Rilke si sarebbe innamorato di lei.
**
Gli dèi
I carri degli dèi
non scuotono le nubi
scivolano silenti
come raggi.
I passi degli dèi
sono difficili da udire
come un mormorio
nell’erba.
Con cautela
segui le loro tracce:
profumano di una
vicinanza tremenda.
Voleranno, lasciandoti
pieno di parole
in un mondo vuoto.
*
Non nominare
Molte cose fanno male e non hanno nome.
Taci e accettale.
Il molto è segreto, oscuro il pericolo.
Sopporta e porta rispetto.
Meglio confinarsi nel segreto
e non solleticare i semi che crescono.
“Dove il pensiero non si avventura
Madre di Tutto, guidami, esortami!”
È bene ascoltare la voce della Madre –
non ha parole la cura, non ha nomi il cuore.
*
Il conforto delle stelle
Ho parlato con una stella, la scorsa notte
luce lontana, in inabitati spazi –
“Cosa illumini, strana stella?
Ti muovi così grande e luminosa”.
La mia pietà l’ha ammutolita
poi, con il suo stellato sguardo:
“L’eterna notte illumino
illumino lo spazio senza vita.
La mia luce è fiore che appassisce
nello spinato autunno del cielo.
Questa luce è tutto ciò
che ho, è il mio solo conforto”.
*
Alcuni cuori sono
inesauribili tesori.
I loro proprietari gettano
con generosità, ovunque, i rivoli di quel sole.
Con mani tenaci accogliamo
il dono, grati. Felicità
e salute a te, benedetto,
che maneggi l’oro come fosse sabbia!
Alcuni cuori sono
inabissati fuochi.
Nella più fredda notte
un riflesso sulla neve.
In quell’incanto, nessuno
sopporta il desiderio
tranne chi scorge una luce
nella notte e ne vuole la fiamma.
*
Certo, è ovvio, fa male quando il germoglio sboccia.
Altrimenti, che senso avrebbe la primavera?
Altrimenti, perché sedare nella gelida brina
quell’ardente desiderio?
Il germoglio è stato crisalide lo scorso
inverno: una novità che ora si spezza, scoppia.
È ovvio, è certo, ferisce il germoglio che sboccia
perché fa male ciò che cresce
e ciò che serba.
Certo, è ovvio, fa male la goccia che cade.
Trema di paura, pende grave
al ramo si avvinghia e si gonfia, scivola –
il peso la assilla, più forte si aggrappa.
Fa male essere smarriti, fa male la paura
e la separazione; fa male sentire che il profondo
ti attira e chiama – eppure
siedi e trema
è duro resistere
e resistere al desiderio di cadere.
Poi, all’acme dell’agonia, quando ogni aiuto è inutile
le gemme dell’albero sbocciano in gloria
poi, quando la paura svanisce
le gocce cadono e diventano luce
si dimenticano che il nuovo le atterriva
si dimenticano che la caduta è un rischio
per un attimo abitano la certezza
riposano nella fede
che ha creato il mondo.
*
È così grande questa quiete, la quiete
di un’assolata foresta in inverno.
Come ha fatto la mia volontà a diventare
così perfetta, così obbediente la mia vita?
Portavo in mano una ciotola di vetro – risuonava.
Il mio piede è diventato cauto – non inciampa più.
La mia mano è precisa – non trema più.
Sono stata travolta dalla violenza delle cose fragili.
*
Preghiera al sole
Non hai pietà perché i tuoi occhi non
conoscono il buio.
Salvami.
Come linee, gli steli dei fiori sono
risucchiati dalle altezze:
tremano, prossimi a te, i loro calici.
Gli alberi si scagliano come pilastri verso la gloria:
stendono le braccia piumate di foglie
assetate di luce, devote.
Hai tratto l’uomo
da una pietra, con ciechi sguardi
l’hai trafitto alla pianta sagomata dai venti.
Tuo è il gambo, tuo lo stelo. Tua la spina dorsale.
Salvami.
Non la vita. Non la pelle.
Un dio non ha potere sulle cose estreme.
Con occhi estinti e arti spezzati
è tuo colui che visse eretto
con colui che eretto muore
tu sei, oscurità che inghiotte oscurità.
Il ruggito si impenna. La notte è nel parto.
La vita brilla, preziosa.
Salva, salva, dio che vede,
ciò che hai donato.
*
Il vagabondo dei deserti
Voi pesate su bilance sbilenche
con pesi penosi misurate
non davanti al qadi che smista
le colpe dei criminali
ma davanti ad Allah, benedetto
il suo nome, il creatore della vita.
Per una piccola perla date mille datteri
ma io che ho sofferto la fame nel deserto
so quanto è inutile una cintura di perle
che non dà nutrimento,
ma io, corroso dalla sabbia,
so quanto è inutile l’elsa di un pugnale
istoriata di gemme
che non sa dissetarmi.
In questa città di minareti, distante dal deserto,
non mi inchinerò davanti ai severi mausolei
e alle porte dorate
ma presso gli umili pozzi, nascosti
dal viavai, dove il pastore porta la mandria
a sera, e semina il latte agli allettati.
*
E io voglio ringraziare, ora, per l’ora della grande umiliazione
per l’ora in cui ci si rivela nudi
senza trama d’orgoglio
e ci si abbandona
come un grano di polvere nel magnanimo bagliore dei mondi –
e scopri che tutto è meraviglia, che la vita è meraviglia
una meraviglia questo mero rifugio e il pane e l’acqua
e più di ogni altra cosa è meravigliosa l’immeritata grazia
la fiducia eternamente riposta in un essere umano.
*
La forma che io sono
La forma che io sono
ma la materia è primordiale fiamma.
Fuoco negli occhi
fiamme le mani.
Nell’ebbrezza creatrice
si annodano lingue di fuoco
fameliche attorno al profilo
del tuo essere.
Diventa mera forma
forma ben temprata
eterea
che galleggia su infuocati mari
miracolo e miraggio
increata e in crescita
– perché questo è un dio –
che ribolle sopra il caos.
Di tutte le cose
il dio è il più transitorio
di tutte le cose
l’adorazione permane.
Ribolli, ribolli
illusione, elisione
tra le fiamme
trovi l’eterno.
*
Bevo il sacrificio
Sul vino grezzo si gettano musi pesanti.
Non è il vino a deformarli tanto.
Il vino libera i pensieri
ma incardina la lingua al palato.
Come segreto bagliore, la pira sacrificale
è grezzo vino rosso.
Soltanto io so per quali
poteri si snoda il fumo.
Soltanto io so quali
mondi mondano la mia ebbrezza.
Ciascuno è fisso altrove
altrove qualcuno respira.
Ciascuno alza i calici verso
cose invisibili agli altri, verso
oscure terre dove gioia e dolore
non hanno alcun senso.
Così, in segreto, alzo il vino
mia fiamma sacrificale
presso un dolore che è soltanto mio
e che paragono all’eterna burrasca in mare.
*
Quegli oscuri angeli maculati di blu
con fiori di fuoco tra i neri capelli
conoscono le risposte a strane domande blasfeme –
forse sanno dove porta il ponte
dalle cave della notte alla luce del giorno –
forse sanno dove si rifugia l’uno
forse nella casa del Padre esiste
un luminoso rifugio che porta il loro nome.
Karin Boye
L'articolo “Non siamo altro che la nostra segreta follia”. Karin Boye, la
poetessa angelica proviene da Pangea.
Valéry è il poeta. Valéry è il poeta francese tra i più importanti di sempre. Il
suo intelletto sovrasta ogni ragione. Lui è matematico, magmatico e filosofo;
nel senso che per lui la filosofia è tutt’altro che filosofare. La sua mente ha
ragione su tutto.
Il sentimento non lo scalfisce. Nemmeno l’istinto. Eppure ha due crisi
importanti nella sua vita.
La prima, a Genova: durante la nuit de Gênes, decide di abbandonare la poesia
per lungo tempo, privilegiando riflessione e autoanalisi. Difatti, per
cinquantun anni, quasi ogni giorno, fra le quattro e le sette-otto del mattino,
Paul Valéry scrisse i suoi Quaderni: ne rimangono duecentosessantuno, in totale
circa ventisettemila pagine. Quando chi li scriveva avvertiva un qualche
movimento nella casa, smetteva. Diventava un altro, diventava Paul Valéry,
l’illustre poeta e saggista. Si era guadagnato il «diritto di essere stupido
fino alla sera». Ma che cos’era prima? Una pura attività mentale che scrive se
stessa. All’origine di Valéry c’è una folgorazione: la scoperta dell’«impero
nascosto» della nostra mente. Prima di diventare parole e significati, tutto ciò
che ci succede è un evento mentale. Valéry volle essere uno «strumento
d’osservazione» di questa scena mentale, uno strumento del quale si imponeva di
«aumentare la precisione».
Genova, città materna: “Questa città tutta visibile e presente a se stessa,
rifilata con il suo mare, la sua roccia la sua ardesia, i suoi mattoni, i suoi
marmi. In lavorio continuo contro la montagna”, annotava il poeta.
La sua, dunque, fu una vera e propria crisi esistenziale.
La seconda crisi però, non meno importante della prima, fu l’innamorarsi di una
donna in particolare, una poetessa anch’essa: Catherine Pozzi. Per otto anni i
due si amarono, si odiarono, si sfinirono vicendevolmente. Passione, enigma,
mistero dell’esistenza. Fiumane di parole riportate nelle lettere e nei diari e
nei quaderni. Ogni attimo scritto: eternato nella passione!
La ragione contro il sentimento. La precisione della disciplina che ostacolava
l’amore istintuale. Due geni non solo a confronto: due geni in incontro, ad
attraversarsi il cuore con le parole.
Paul Valéry. Il poeta del Cimitero marino è stato anche questo. È stato
soprattutto un ragazzo prodigio, che già a quindici anni scriveva testi teatrali
e poesie. Ne ricalchiamo una, ora, che scrisse prima della fantomatica crisi di
Genova.
Elevazione della luna
L’ombra veniva, i fiori s’aprivano, la mia Anima sognava,
E il vento addormentato taceva il suo ululo,
La Notte cadeva, dolce la Notte come una donna,
Sottile e violetta episcopalmente!
Le Stelle sembravano ceri funerari
Accesi come in una chiesa nelle sere;
E spandendo profumi, i gigli Turiferari
Dondolavano dolcemente i fratelli incensieri.
Una preghiera saliva in me come un’onda
E nell’immensità inazzurrante e profonda,
Gli astri raccolti abbassavano i casti occhi!…
Allora, apparve! ostia immensa e bionda
Poi scintillò, staccandosi dal Mondo
Poiché dita invisibili la innalzavano verso Cieli!…
È stupendo il canto nel verso. Ancora più meraviglioso, abbandonarlo; quasi per
sempre, quasi di schianto, col lampo nella notte a tiranneggiare la mente
prodigio.
È stupendo poi ritrovarlo il verso, diverso, essenziale, difficile, enigmatico,
maturo.
Ma come non ritrovare la bellezza già in questi prematuri versi: “Una preghiera
saliva in me come un’onda […] Allora, apparve! ostia immensa e bionda/ Poi
scintillò, staccandosi dal Mondoˮ. Quella stessa bellezza che Paul raccontava
entusiasta a Louÿs in una lettera del 1892:
> «Ciò che non invecchierà mai è il Bateau ivre, e un centinaio di frasi
> delle Illuminations, sono i Colloqui di Poe (e quasi tutto il resto),
> è Eureka, perché tutto ciò è vicino all’essenza della bellezza, perché è stato
> creato, strappato, liberato dalle viscere cosmiche, immerso nella gelida acqua
> per risuscitarne limpido, come la spada del giovane Sigfrido. Io faccio mille
> devozioni all’unico Poe e al solo Vinci, a quegli stessi angeli Rimbaud,
> Mallarmé, Wagner. Nulla esiste al di fuori salvo tenebre, imperfezione,
> nauseante incoscienza.»
Giorgio Anelli
L'articolo “Nell’immensità inazzurrante e profonda”. Paul Valéry, il poeta
proviene da Pangea.
Nel 1915, quasi in latitanza, uscì un libro che diremmo umile, inutile perfino.
Raccoglieva una sessantina di poesie di Adelaide Crapsey, sistemate con
devozione dagli scarsi amici. Tutto di questa donna – nonostante il corpo
esagonale e una certa severità nello sguardo – ha a dire: scava a te una tana,
arginati, disarginata, nell’altrui dimora. Il libro – con lo stesso titolo, di
screanzata evidenza, Verse – fu ripreso – con l’aggiunta di altri testi – nel
1922 dalle edizioni Knops di New York. L’autrice era morta nel 1914, razziata
dalla meningite tubercolare – aveva passato gli ultimi anni in un ricovero lungo
le rive del lago Flower; i prefatori scrissero di “una vita segnata dalla
tragedia”, di “un’opera sostanziosa, sostanzialmente incompiuta”, di “anni
passati in esilio, sulla soglia di una finestra” (così Claude Bragdon). Da qui,
forse, non soltanto lo statuario sentore dell’inevitabile che trafigge quei
versi, ma, soprattutto, l’elemento naturale che li pervade: metereologica
cronaca di un animo cronicamente vigile. Nei versi di Adelaide Crapsey non
sfugge il minimo moto della neve; la poetessa si accorge della più infima foglia
che, ad avvenuto autunno, molla gli ormeggi e crolla. Anche lei, forse, si
sentiva come quella foglia.
Si disse, tra l’altro, della “tenacia nello studio degli aspetti tecnici della
poesia inglese” – nel 1918 Knopf aveva pubblicato il suo A study in English
metrics – della capacità di “ritrarre la bellezza della vita secondo l’esempio e
lo spirito di Keats e di Stevenson”. In particolare, Adelaide aveva architettato
una formula lirica spiazzante per l’epoca: la chiamava cinquain, riferendosi a
una poesia di cinque versi in cui, di solito, il primo e l’ultimo sono di una
parola soltanto. Potremmo dire: un cinguettio, quando non, un urlo rattenuto. La
chiglia di un poemetto; la cruna dell’iceberg; Moby Dick nel diorama. “Questo
tipo di poesie caratterizza l’originalità suprema di Adelaide Crapsey. Si tratta
di una compressione lirica estrema. L’artista riduce l’idea ai minimi termini –
e la presenta in una singola, folgorante impressione” (Jean Webster).
Adelaide comincia a sperimentare questa formula nel 1911; la perfeziona negli
anni della malattia, quasi fosse un lenitivo – o un veleno. A tratti, queste
poesie che riassumono il cosmo in una federa, ricordano i tanka, la poesia
giapponese classica di cinque versi, ma la poetessa scansa la ‘giapponeseria’:
in lei, piuttosto, aleggia lo spettro di Emily Dickinson. Estranea allo
sperimentalismo dell’epoca, Adelaide Crapsey ignorava che Ezra Pound si aggirava
in direzioni liriche analoghe: l’Imagismo – che postulava nitidezza del verso,
concisione, brevità e brutale procedere per associazioni, secondo le formule
della poesia cinese e giapponese – nasce nel 1915; si sviluppa dal 1911. Non è
un caso che Marianne Moore riconobbe in lei una sorella, pur cresciuta in
cattività, in un mondo, si direbbe, distante dalle concrezioni letterarie
dell’epoca:
> “L’isolamento le ha permesso di muoversi appartata, la ‘bianchezza’ e il
> vigore dei suoi versi sono impressionanti”.
Cresciuta in una famiglia d’alta tempra culturale, Adelaide Crapsey studiò al
Vassar College, si perfezionò all’American Academy a Roma. La sua giovinezza fu
funestata dalla morte delle sorelle – Ruth, undicenne, di brucellosi; Emily, a
ventiquattro anni, di appendicite – e dalla vulcanica prestanza del padre. Il
pastore Algernon Sidney Crapsey, uomo di vaste letture, alto ministro della
chiesa episcopale, fu dichiarato eretico nel 1906 ed espulso dalla parrocchia
che guidava, a New York – con sua somma gioia. Da anni, in pubblico, il pastore
Crapsey si scagliava contro l’ottusità della chiesa; affermava di credere
nell’umanità più che nella divinità di Cristo; contestò la nascita verginale e
la resurrezione di Gesù. Pubblicò le proprie asserzioni in un libro, Religion
and Politics (1905), che fece scandalo. L’indomito teologo – nel frattempo,
diventato socialista – raccontò la sua vita in un’autobiografia dal titolo
eclatante, The Last of the Heretics, edita da Knopf nel 1924 – riscosse un
discreto credito.
Adelaide Crapsey (1878-1914)
Per un po’, Adelaide accompagnò il padre nelle peregrinazioni in Europa e negli
Stati Uniti: era un eccezionale conferenziere; all’Aia e in Francia la figlia
fungeva da efficace traduttrice. L’insegnamento – a Stamford, Connecticut – durò
poco, come quello a Northampton, Massachusetts, dove occupava la cattedra di
“Poetica”: il male aveva iniziato ad assalirla. Fu sepolta al Mount Hope
Cemetery, Rochester, nella cappella di famiglia; qualcuno scrisse “Qui riposa
chi/ non ha mai avuto posa”. Il “Boston Evening Transcript” – reso celebre da
una poesia (non bella) di T.S. Eliot – scrisse che le sue cinquain “sono la
straordinaria testimonianza di uno spirito che ha lanciato la propria ‘indomita
sfida alle stelle’”. I Verse furono ristampati con costanza fino al 1938, poi,
lentamente, ci si dimenticò di Adelaide, donna dall’animo irto di luci. Fu Carl
Sandburg, il grande poeta di Chicago, Premio Pulitzer nel 1951, a riscoprirla;
le aveva dedicato una poesia, Adelaide Crapsey, appunto, che commuove:
“…ho letto il tuo cuore in un libro.
E la tua bocca che medita in blu – so di averla vista, in qualche luogo di
piogge perenni.
E vidi una donna con la testa tra le ginocchia nude, la testa tesa ad ascoltare
il mare, il vasto nudo oceano che portava sulla schiena un vagone di sale…”
Nel 1977 Susan Sutton Smith ha curato per la University of New York Presse The
complete poems and collected letters of Adelaide Crapsey. Ma Adelaide era
arrivata, ancora una volta, troppo tardi: di rado i reperti antologici della
poesia americana fanno riferimento a lei. Si è fatta piccola come i suoi versi,
Adelaide, fino a nascondersi in quel greto di parole: come chi, a riparo da
tutto, si mette sotto il tavolo a scrivere, sottocoperta, e dà alle sedie nomi
stellati, Pegaso, Andromeda, Aldebaran, Sirio…
***
Novembre, notte
Ascolta.
Stordisce scricchiolio
come di emigranti spettri
delle foglie cristallizzate dal gelo che
cadono.
*
Fuggiasco
Rude
e vasto il moto di quel
magnifico braccio: sbrecciò
le porte del dolore che segregava l’anima
dalla vita.
*
Niagara
Visione in una notte di novembre
Così fragile
sopra la matassa
d’acqua che si frange
autunnale vana avventata
luna.
*
Trappola
È bene
che giorno segua giorno
che l’anno, esausto, sia
sostituito da un altro anno… e così anni e giorni…
è il bene?
*
Triade
Triade
del silenzio:
la neve che cade, l’ora
che precede l’alba, la bocca
del cadavere.
*
Stupore
È vero:
queste non sono le mie mani
eppure, sono certa che siano quelle
di una donna che un tempo aveva mani
come queste.
*
Susanna e i vecchioni
“Perché
scagli il male
contro di lei?” “Perché
è bella e pura: non
ti basta?”
*
Neve
Guarda
dalle colline blatte
baluginano le froge del vento,
è inverno… guarda e senti l’odore
della neve!
*
Angoscia
Serba
la veglia senza lacrime
tutta la notte, ma quando l’alba
è blu e sgattaiola la luna, allora piangi, è l’ora
di piangere.
*
Ombra lunatica
Immobile
come le ombre proiettate
dalla luna nelle notti senza vento
sarà il mio cuore quando sarò
morta.
*
Giovinezza
A me
non toccherà
vecchiaia né morte, la strana
ignominiosa fine dei vecchi
morti viventi.
*
A guardia della ferita
Se
fosse più leggera
di un petalo di fiore sospeso
sull’erba, oh, sarebbe ancora troppo pesante
troppo pesante!
*
Notte, vento
Gli antichi
antichi venti che soffiano
da quando era il caos, dicono
agli strepitosi, strepitanti alberi che
devo piangere.
*
Dopo aver visto l’Eva di Lucas Cranach
Oh,
è mai esistito un tempo
in cui Eva dimorava in Paradiso
con questo corpo, così placida, così
giovane?
*
La fonte
Hai dragato
il riso da un pozzo
di lacrime sepolte
per questo risuona elfico – beffardo
e dolce.
*
Morte solitaria
Farà freddo e sarò io ad alzarmi
e a lavarmi in acque gelate; io
tremerò, intonerò la confessione
solitaria, all’alba; io mi ungerò
la fronte, i piedi e le mani
chiuderò le finestre
allestirò quattro vertiginose
candele e le accenderò mentre
il grigio divora il mattino; io
mi poserò, rigida, nel letto, io
stenderò il lenzuolo fin sotto il mento.
Adelaide Crapsey
*In copertina: Mary Cassatt, Peasant Mother and Child, 1894 ca.
L'articolo “La veglia senza lacrime”. Adelaide Crapsey, la poetessa che ha
riassunto il cosmo in cinque versi proviene da Pangea.
Costretto al letto dell’ospedale della “Conception” di Marsiglia, Arthur Rimbaud
scrive al direttore delle “Messaggeries maritimes”: vuole essere destinato
ad Aphinar, benché “completamente paralizzato”. Morirà il giorno dopo, il 10 di
novembre del 1891; aveva compiuto 37 anni il mese prima. Aphinar è un luogo che
non esiste, è parte, forse, di una geografia ctonia, è un lembo di aldilà. La
grafia di quella lettera è storpia, incomprensibile il dire, di uomo che
balbetta idolatrie d’idiota, stordito dal dolore; eppure, che stupenda bravata,
che colpo di fionda: Rimbaud muore sulla cresta dell’ultima
invenzione. Aphinar è la parola-chiavistello, la parola-faina che bracca la
morte, che sconcerta l’eterno. (E noi, lì, al suo capezzale, vorremmo scortare
il poeta che ha dimenticato di essere poeta, il poeta estremista, all’ultimo
imbarco, sulla carrozzina, paralizzato, e sussurrargli nenie, ninnoli di verbo,
e asciugargli la fronte, e pettinargli i capelli, e imboccarlo).
Come si sa, Rimbaud vive gli ultimi dieci anni della sua vita in Africa, per lo
più ad Harar, in Etiopia. Si dà al commercio di caffè e di utensili vari, tenta
– con formule fallimentari – di vendere armi a Menelik, negus dello Scioa, invia
alla “Société de géographie de Paris” un Rapport sur l’Ogadine di schietta
nitidezza, scevro da lirismi. In sostanza, si annoia. Prima dell’Africa, era
stato a Londra e a Vienna, a Bruxelles e a Milano, a Giava – con la casacca
della Legione Straniera olandese – e ad Alessandria d’Egitto. A Cipro pare abbia
incidentalmente ucciso un operaio, lavorava in una cava di pietre. Scarse le
fotografie che lo ritraggono, spesso consumate dal tempo: il volto indemoniato
dal pallore, di febbrile ingenuità; a tratti, il cranio, rasato a zero.
Nell’ottobre del 1873, come vuole la leggenda, Rimbaud festeggia i suoi
diciannove anni dimenticando, a Bruxelles, nei magazzini dell’“Alliance
typographique M-J. Poot et compagnie”, le copie fresche di stampa di Une Saison
en enfer. Quasi vent’anni dopo, rassicura “Sua Eccellenza” il Ras Maconnèn:
presto “tornerò all’Harar, per esercitarvi il commercio, come prima”. Il più
grande poeta della modernità, il poeta perpetuamente contemporaneo,
infinitamente fanciullo, ha abiurato la poesia – è possibile?
Un po’ tutti hanno preso per la giacca Rimbaud: Paul Verlaine ne ha fatto il
proprio personale “angelo in esilio”; la sorella Isabelle lo ha tradotto in un
santo; secondo l’esploratore novarese Ugo Ferrandi, “era un arabista e un
poliglotta dottissimo, spiegava e commentava il Corano agli indigeni” (in: Carlo
Zaghi, Rimbaud in Africa, Guida editori, 1993). A dire dell’aitante avventuriero
francese Jules Borelli – che lo aveva scortato in un viaggio tra Ancober, Entoto
e Harar, in luoghi fino ad allora mai toccati da piede europeo – il “mercante
Rimbaud… conosce l’arabo, parla l’amarico e l’oromoo. È instancabile.
L’attitudine ad apprendere le lingue, la grande forza di volontà, l’inesausta
pazienza lo rendono uno tra i viaggiatori più esperti” (ora, insieme al
resoconto di quel viaggio, in: Scioa. L’Africa di Arthur Rimbaud, Magog, 2024).
La biografia di Rimbaud è stata anatomizzata al millimetro, forse per carpire il
segreto della sua poesia, sfuggente, per sempre nuova, inadatta al canone. I
viaggi di Rimbaud sono diventati romanzi – ne cito due: Rimbaud a Giava di Jamie
James, Melville, 2016, e Rimbaud e la vedova (sulla breve tappa milanese), di
Edgardo Franzosini, Skira, 2020 –, gli studi biografici (critici, psichici,
ipnotici) sono diventati un genere letterario a sé stante. Nel 2008, per
l’editore Marietti, Adriano Marchetti ha assemblato una fiera lista di
“Interpreti francesi di Rimbaud” in un libro di stravagante bellezza, Rapsodia
selvaggia. Tra i cinquantacinque, autorevolissimi “interpreti” – da Mallarmé ad
Aragon, da Simone Weil a Tzvetan Todorov e Yves Bonnefoy – ne preferisco due. Il
primo è René Char, che in una specie di epistola lirica inneggia al malandrino
Arthur:
> “Hai fatto bene a partire, Arhtur Rimbaud!… Hai avuto ragione ad abbandonare
> il viale degli oziosi, le osterie dei pisciaversi, per l’inferno delle bestie,
> per il commercio dei furbi e il buongiorno dei semplici”.
L’altro – più che altro, per l’austerità dello stile, per la cinerea postura – è
Julien Gracq, il quale ammira in Rimbaud “l’uomo che mantiene sempre
meravigliosamente le distanze”. Secondo Gracq, il carattere imperituro della
poesia di Rimbaud – garanzia di esistenza anche quando la lingua francese perirà
– è il suo essere “abbastanza inumana”.
È vero. La poesia di Rimbaud è pura metallurgia della fuga. Rimbaud non
chiede lettori – non chiede nulla in effetti. Rimbaud lascia tracce. I suoi
versi sono una mappa, una cartografia del non ritorno. Inseguire Rimbaud,
tuttavia, è il contrario della sequela: ciò che ci è donato non è il centuplo su
questa terra e il regno nella prossima. No. Rimbaud è il primo e il solo.
Rimbaud uccide i suoi discepoli. Rimbaud consegna agli affini il sacrario della
parola Aphinar; ci obbliga all’ennui, ai morbi di un’inquietudine che ghiaccia
le ossa, alla tigre in pieno petto. Non c’è alcun guadagno, alcun conforto dalla
lettura di Rimbaud, ma l’esilio nell’enigma, il punto – magnetico, è vero – in
cui tutte le certezze si sfasciano, in cui la poesia diventa rogo, suono, inno,
come ai tempi delle pitture magdaleniane, quando la stella mangiava alle nostre
mani, con il muso da sauro, e il poeta si trasformava in falco e volpe, pietra e
prato, biscia e vento.
Fernand Léger, Ritratto di Arthur Rimbaud, 1949
Mai si è scritto tanto di un poeta così violentemente reticente. Ardengo Soffici
andò in estro per quel ragazzo “che non ebbe paura di scendere giù per tutti i
gironi dell’inferno psicologico moderno per pescarvi il segreto di una bellezza
inusitata e folgorante” (così nel saggio su Arthur Rimbaud pubblicato nel 1911
nei “Quaderni della Voce”). Eppure, non seppe riconoscere in Dino Campana un
poeta altrettanto folgorante. Per decenni, Renato Minore si è insinuato nella
vita di Rimbaud, il “poeta dalle suole di vento” (il suo Rimbaud è uscito per
Mondadori nel 1991 e in edizione ampliata per Bompiani, nel 2019); l’esito della
ricerca è quasi ovvio: far rilucere l’enigma in sé, la nuda ecchimosi del
fuggiasco, la vita “esibita e impenetrabile a un tempo”. Quando l’ho
interpellato mi ha messo in guardia dal mito di Rimbaud, perché “Un mito è anche
una trappola infinita di volti, di voci, di specchi e lui stesso ha fatto di
tutto per essere duplicato, conteso, frainteso. Non meno carichi di risonanza, e
di ambigua luminosità, gli oggetti, le incalzanti reliquie che il Poeta
Maledetto ha lasciato: prima fra tutti la valigia dei viaggi in Abissinia, la
stampella che accompagnò i suoi ultimi passi, la firma sulle piramidi, le
lettere. E poi i disegni, le fotografie chiedendo all’immagine non il segreto
che versi e documenti trattengono, ma la ricchezza ammiccante e fissa
dell’icona, non solo il presagio di un destino, ma la conferma di un mistero
bloccato dal lampo di magnesio e lì rimasto intatto. La leggenda di Rimbaud
accomuna le generazioni e, in tutto il mondo, ogni giorno ci sono giovani che
scoprono le sue poesie e desiderano possederne una copia”.
Benjamin Fondane, il prodigioso pensatore amico di Emil Cioran, su Rimbaud, si
può dire, con ribalderia da bandito, ha fondato una filosofia (il suo Rimbaud le
voyou è attualmente edito in Italia da Castelvecchi); Victor Segalen ha scritto
forse il più commosso ed elusivo ritratto del poeta – Le Double Rimbaud, edito
nel 1906 su “Mercure de France” –, intimandoci di “Non cercare di capire”.
Forse Rimbaud ha esaudito le sue poesie nel vagabondaggio, diventando egli
stesso un “battello ebbro”. Forse, più prosaicamente, il ventenne roso dal dio
della giovinezza, il prediletto dal fato, ha preferito la vita allo scranno, il
veliero alla scrivania, l’Africa al marciume parigino. La poesia è stata una
parentesi, una ragazzata (una ragazzetta): il “ladro del fuoco” è diventato
fuoco, incede nell’incendio.
È proprio dei poeti pionieri – i rarissimi: Rimbaud, Friedrich Hölderlin,
William Blake, Emily Dickinson – abitare l’irriconoscenza, non riconoscere la
propria opera, obliarla, tra i nastri, nelle fauci di un baule, nella pazzia,
nella fuga.
Le poesie sono il lascito sinistro di Rimbaud: non possono stazionare su un
comodino, non si accomodano in una biblioteca. Queste poesie scalpitano, hanno
la criniera, recano vigoria di formula magica. Queste poesie agiscono, agitano.
Altro che Je est un autre: qui l’Altro ci fissa con occhi intimidatori. A volte
ha il volto di un Minotauro, altre della cincia, a volte è una betulla altre
volte un lupo.
Queste poesie fanno paura – la paura ci donerà un cuore barbaro, pronto di nuovo
a osare.
Davide Brullo
Pablo Picasso, Arthur Rimbaud, 1960
*
Vite
A dodici anni fui rinchiuso in una soffitta dove ho imparato il mondo, ho
illustrato la commedia umana. In una cella ho appreso la storia. In una qualche
festa notturna in una qualche città del Nord, ho incontrato tutte le donne dei
pittori antichi. In un vecchio vicolo di Parigi mi hanno insegnato le scienze
classiche. In una magnifica dimora cerchiata dall’intero Oriente ho compiuto la
mia immensa opera e ho passato il mio illustre ritiro. Ho sbrecciato il mio
sangue. Il dovere mi è rimesso. Non devo pensare più. Vengo davvero
dall’oltretomba, senza commissioni.
*
Sfridi
Plotoni di muri d’ombra: bastonano cani scheletrici,
*
Da dietro tartassava grottesche oscenità
Una rosa s’involava nel ventre del portiere
*
Bruna, aveva sedici anni quando la maritarono
……………………………………………………………….
E ora ama d’amore ardente il figlio di diciassette.
*
E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo.
*
Piove con dolcezza sulla città.
*
Quando la carovana dell’Iran si arrestò alla fontana di Ctesifonte, crebbe la
disperazione nel trovarla inerte. Alcuni accusarono i magi, altri gli imam. I
cammellieri si unirono alle imprecazioni… Si erano messi sulla via ormai da
molte lune… carichi d’incenso, di mirra e oro. Il loro capo gridò… soppesò di
sopprimerli… Certi accettarono.
*
All’assalto, o mia vita assente!
Arthur Rimbaud
*Per gentile concessione si pubblica la pagina introduttiva e una manciata di
testi, in traduzione inedita, da “Le più belle poesie di Arthur Rimbaud”,
Crocetti, 2025
In copertina: Arthur Rimbaud secondo Alberto Giacometti, 1962
L'articolo “E il poeta ubriaco inguainava di insulti l’Universo”. In fuga con
Rimbaud proviene da Pangea.
Li abbandonava dappertutto. Manoscritti dimenticati ovunque, quaderni dispersi
in polverose stazioni, fogli lasciati nelle stanze di squallidi ostelli. Il
vagabondaggio di Kenneth Patchen nell’America della Grande Depressione fu
un’esperienza intensa e totalizzante. Ovunque andasse, racconta la moglie
Miriam, «lui creava sempre», disseminava versi, irradiava il prodotto di
un’invincibile urgenza creativa. Dopo un periodo di studi all’Università del
Wisconsin nel 1929, Patchen, affascinato dalla storia di poeti come Walt Whitman
o Carl Sandburg, iniziò a viaggiare negli Stati Uniti vivendo dei lavori che la
provvidenza gli avrebbe offerto. L’incontro con quel mondo rurale, così
irrimediabilmente prostrato dalla crisi, fu determinante; la capacità di
setacciare la realtà alla ricerca di un tesoro nascosto, la potente
immaginazione e l’indiscutibile talento fecero il resto.
L’educazione di Patchen si svolse in un contesto di discreta povertà. Il padre,
Wayne, era impiegato nelle acciaierie di Youngstown. La madre, fervente nella
fede, diede al piccolo Kenneth una formazione cattolica. Il poeta patì la
violenza dell’industrializzazione nelle piccole città rurali dell’Ohio. Questo
disagio fu denunciato nei suoi versi, come nel componimento May I Ask You a
Question, Mr. Youngstown Sheet & Tube?, in cui leggiamo di «case sporche e
grigie, con le tende abbassate», del «fumo giallo-marrone che soffia
continuamente» e del «sapore di catrame in bocca». Dal 1937 un grave problema
alla colonna vertebrale costrinse Patchen a svariati interventi chirurgici,
esonerandolo dalle armi. Dopo un incidente in sala operatoria la situazione si
aggravò, costringendo il poeta a passare molto tempo steso su un letto.
Kenneth Patchen (1911-1972)
Patchen fu un convinto pacifista, risolutamente contrario all’entrata in guerra
degli Stati Uniti e, tra i molti riferimenti alle sue posizioni di obiettore,
spicca il romanzo sperimentale pubblicato nel 1941 e intriso di surrealtà e
pacifismo, The Journal of Albion Moonlight (probabilmente capitato nelle mani di
Bob Dylan). L’indifferenza che la critica accademica riservò a Pacthen fu
risarcita dal sostegno di figure come Robert Penn Warren, Richard Eberhart,
William Carlos Williams, Lawrence Ferlinghetti ed Henry Miller. Quest’ultimo,
nel saggio Patchen: Man of Anger and Light, descrive il poeta come un uomo
tenero e spietato al contempo, che ha la capacità di allontanare coloro che
cercano di aiutarlo: «un uomo inesorabile», che «non ha maniere, né tatto, né
grazia», «che non fa sconti e, come un gangster, segue un codice tutto suo».
La visione poetica di Patchen fu anche il frutto di una situazione culturale di
assoluta libertà da schemi e gerarchie. Le avanguardie avevano rotto il
cristallo che separava la sostanza artistica dalla banalità della vita più
ordinaria, e ora – anche se l’effetto, oggi lo sappiamo, non sarebbe durato che
pochi decenni – questa sostanza faceva brillare il mondo di una luce nuova. Così
come era possibile fare arte con qualsiasi cosa, era possibile fare letteratura
con qualsiasi immagine. Certo, questa semplicità non rendeva facile il lavoro
del poeta e Patchen era consapevole della precarietà su cui si muoveva,
sull’orlo dell’abisso della banalità, in bilico sull’unico piccolo punto da dove
è permesso spiccare il volo verso sublimi altezze. Significativo, in questo
senso, il divertimento con cui il poeta si descrive in Memorie di un pornografo
timido, scherzando sul rischio di un destino di opaca sciatteria:
> «E Patchen? – chiese lei con la matita pronta. – Ah, Patchen. Nessuno lo
> prende sul serio – disse uno di loro. – Patchen ha perso l’imbarco – disse il
> signor Brill –. Ha fatto lo sbaglio di credere che la poesia sia una specie di
> pattumiera dove si può buttare di tutto, e di sicuro parecchie volte ha
> passato i limiti».
In realtà l’equilibrista Patchen questi limiti non li superò mai. Come amano
ripetere le antologie, aprì la strada ai poeti della Beat Generation, con cui,
senza presentarne i tratti nichilistici e autodistruttivi, condivise il piglio
anticapitalistico ed eversivo (per inciso: difese pubblicamente Allen Ginsberg e
Lawrence Ferlinghetti nel processo per l’osceno poema l’Urlo). Decostruì il
romanzo, fu maestro nella poesia concreta, combinò letteratura e jazz in
singolari performance e sperimentò con scrittura e pittura – si vedano i
suoi Painted Books, che stupiscono per gli esiti tutt’altro che dilettantistici.
Memorabile, a sigillo del suo radicale sperimentalismo, il
componimento L’uccisione di due uomini da parte di un ragazzo in guanti giallo
limone, dove Patchen riesce nell’impresa di fare poesia con il nulla, con
l’attesa di qualcosa che deve succedere. Le parole non dicono niente, se non
trasmettere la forza di un’azione subitanea; l’immaginazione deve intervenire,
ricamando sulla bizzarra informazione di un assassino «in guanti giallo limone».
Negando ogni riferimento, si negava l’atto stesso del fare poesia. Più o meno
consapevolmente, Patchen si stava muovendo sullo stesso impervio sentiero di
certa pittura astratta e, forse, non è improprio avanzare un paragone con
i tagli di Lucio Fontana e con il gioco di attesa e azione che essi
presuppongono.
Attingere agli strumenti della quotidianità, si sa, non esclude la forza di
visioni di profonda suggestione. Come nella sua più bella poesia, La
ventitreesima strada porta al Paradiso, in cui la città, stanca, verso sera
dischiude il suo segreto, proiettando il poeta in una realtà parallela di
altissima purezza. Proprio lì, nel mezzo della tetra atmosfera di una città nel
«Sabbat prima della cena», tra il miagolio di gatti randagi e il fastidio degli
strilloni per strada, gli amanti sono «per un po’ al sicuro, salvi fino a
domani». Gli amanti consumano una cena frugale e sono meravigliosi. O ancora
in La scuola all’angolo della strada, in cui l’inquietudine del memento
mori scende tra un gruppo di giovani. Guardando le ragazze di passaggio e
bevendo gin scadente, i giovani se ne stanno nello squallore dei loro giorni
vuoti, aspettando che il tempo ricopra d’erba le loro tombe. I ragazzi,
«sonnambuli in una terra buia e terribile, dove la solitudine è un coltello
sporco alla gola», dissipano i propri anni, sotto l’indifferente sguardo di
«stelle fredde e puttane».
Non di rado, la visionarietà della poesia di Patchen porta a furiose accensioni,
ed è allora che i versi si infuocano di toni cosmici che ricordano le più
riuscite prove di Dylan Thomas. È quanto accade in Finché il sole spenderà
ancora il suo favoloso denaro, «in cui il succo fumante dell’universo» si
riversa «come il cervello spaccato di Dio», in un’oscura consacrazione finale;
oppure in Accettiamo la pazzia apertamente, in cui il tempo del poeta, che è
il nostro tempo, si trascina «dentro la dimora serrata dell’eternità». Non c’è
possibilità di salvezza e il componimento, di titanica disperazione, si chiude
nella visione di una «marcia palude di enormi aride tombe» che abita le nostre
teste.
Quando Patchen era ancora adolescente, la sorellina Kathleen fu investita da
un’auto. La sua morte fissata in versi commoventi e terribili:
> “Com’è commovente il suo sonno.
> Ora il suo limpido respiro è immobile.
> Nulla cade stanotte,
> Uomo o uccello,
> Più caro di lei.
> Nessun luogo dove debba andare
> Senza di me. Niente se non il mio richiamo.
> Oh niente oltre al freddo lamento della neve”.
La perdita della sorella non fu mai del tutto superata. Oltre a questo, la
madre, Eva, a lungo aveva desiderato che il figlio Kenneth si facesse prete.
Antonio Soldi
*
Notte, sii musica
Notte, sii musica
Affinché il suo sonno possa errare
Dove gli angeli hanno i loro alti cori bianchi
Mare, sii una mano
Affinché i suoi sogni possano osservare
Il tuo esploratore che tocca la verde pelle del mondo
Cielo, sii una voce
Affinché si possano contare le sue bellezze
E le stelle piegheranno i loro volti silenziosi
Nello specchio della sua grazia
Terra, sii una strada
Affinché il suo passo possa condurti
Dove le città del paradiso innalzano le loro vive guglie
Dio, sii un mondo e un trono
Affinché la sua vita possa trovare il suo momento
E le anime di antiche campane in un libro per bambini
Possano guidarla nella Tua casa meravigliosa
*
La scuola all’angolo della strada
Il prossimo anno ci coprirà l’erba della tomba.
Ora stiamo in piedi e ridiamo;
Guardando le ragazze che passano;
Puntando su lenti cavalli; bevendo Gin scadente.
Non abbiamo niente da fare; nessun posto dove andare; nessuno.
L’anno scorso era un anno fa; niente di più.
Non eravamo più giovani allora; né ora siamo più vecchi.
Riusciamo a mantenere un aspetto da giovani;
Dietro le facce non sentiamo nulla, in un modo o nell’altro.
Probabilmente non saremo del tutto morti quando moriremo.
Non siamo stati mai niente per tutto il tempo; nemmeno dei soldati.
Noi siamo gli insultati, fratello, i figli desolati.
Sonnambuli in una terra oscura e terribile,
Dove la solitudine è un coltello sporco alla gola.
Stelle fredde ci guardano, amico,
Stelle fredde e le puttane.
*
Per Miriam
Oh mio tesoro
Finché il sole spenderà ancora il suo favoloso denaro
Per i regni nell’occhio di un folle,
Continuiamo a sprecare le nostre vite
Gridando bellezza al mondo
E continuiamo a lodare verità e giustizia
Sebbene gli occhi delle stelle diventino neri
E il succo fumante dell’universo,
Come il cervello spaccato di Dio,
Diluvi su di noi in una consacrazione finale.
*
La Ventitreesima Strada porta al Paradiso
Stai vicino alla finestra mentre le luci lampeggiano
Lungo la strada. Da qualche parte un tram, che porta
a casa commesse e impiegati, sferraglia attraverso
Questo Sabbat prima della cena. Un gatto in un vicolo piange
Per i cassonetti trovati chiusi; gli strilloni
Iniziano il loro giro di omicidi-a-penny.
Siamo chiusi dentro, al sicuro per un po’, salvi fino a
Domani. Ti sfili il vestito, abbassi
Le calze, attenta a non smagliarle. Nuda ora,
Morbida luce su morbida pelle, ti fermi
Per un momento; ti volti e mi guardi –
Sorridi come sanno solo le donne
Che sono state a lungo distese col proprio amante
Per uscirne più vergini.
La nostra cena è povera ma noi siamo meravigliosi.
*
Accettiamo la pazzia apertamente
Accettiamo la pazzia apertamente. Oh uomini
della mia generazione. Seguiamo
Le orme di questa macellata epoca:
Guardatela trascinarsi per la cupa terra del Tempo
Dentro la dimora serrata dell’eternità
Col rumore che ha la morte,
Col volto indossato dalle cose morte –
Né mai diremo
Volevamo di più; cercavamo di trovare
Una porta aperta, un completo atto d’amore,
Che trasformasse la maligna oscurità del giorno;
ma
Noi trovammo tanto inferno e nebbia
Sulla terra, e dentro la testa
Una marcia palude di enormi aride tombe.
*
Dobbiamo essere lenti
Perché io e te siamo lavati nel silenzio:
Qui dove la campagna tutt’intorno
È silenziosa; assopita nella tenerezza
Di questa stella della sera; scintillante
Al polso della notte. Le luci del paese,
Come antichi bardi in preghiera, vengono
A noi dolcemente su campi germoglianti di grano
E docili pecore. Vorremmo far parte
Di questo luogo, dove il sonno non è quello della città,
Dove il sonno è pieno e lieve e intimo
Come il profilo di una foglia in un bicchiere di tè; ma
La conoscenza nel cuore di ognuno di noi
Ha dipinto occhi marci dentro
La testa: non abbiamo scelta: vediamo
Tutte le cose che piangono e i giorni volgari
Sopra questa umile terra, che mischiano
Clacson di Taxi e disperazione senza fine
Ad ogni paesaggio, qui, o ovunque.
*
I leoni di fuoco avranno la loro caccia
I leoni di fuoco
Cacceranno in questa terra nera
I loro denti strazieranno le vostre tenere gole
I loro artigli uccideranno
Oh i leoni di fuoco si sveglieranno
E le valli fumeranno della loro furia
Perché siete ammalati dello sporco del vostro denaro
Perché siete maiali che razzolate nella broda della vostra guerra
Perché siete meschini e subdoli e pieni del pus del vostro
assassinio ipocrita
Perché avete voltato le spalle a Dio
Perché avete sparso le vostre empietà ovunque
Oh i leoni di fuoco
Attendono nell’oscurità strisciante del vostro mondo.
E i loro terribili occhi vi osservano
*
Una buona giornata per un linciaggio
Gli agenti sembrano tristi vecchi giudici
In una strana corte. Puntano i loro musi
Al Negro che si muove a scatti nel cappio;
I suoi piedi si agitano come corvi sopra questi
Uomini onorevoli che ridono mentre soffoca
Non conosco questo nero
Non conosco questi bianchi
Ma so che una delle mie mani
È nera, e una è bianca. Io so che
Una parte di me viene strangolata
Mentre l’altra orrendamente ride.
Finché non cambierà,
Io per sempre ucciderò; e sarò ucciso.
Traduzione di Francesco Soldi
*In copertina: Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese, 1966
L'articolo Kenneth Patchen, il poeta inesorabile, l’uomo “che non fa sconti e
segue un codice tutto suo” proviene da Pangea.
Ci vuole lavorio d’ago per estrarre qualche filo, qualche bava d’alga dalla vita
altrimenti sigillata di Ernst Meister. Allo stesso modo, i versi di Ernst
Meister resistono cristallini, come sfingi di diamante, ignifughi al
‘significato’ – poiché “le parole sono sfinite” occorre andare per altre
promiscuità, occorre sgelare le ultime fonti e farsi spiga dei mercenari. Così,
le poesie di Meister sono ciò che resta dopo aver dragato un lago: frammenti di
selce, l’elmo di un popolo sconosciuto, il femore di un bue a tre teste;
resoconti geologici, cronache cristiche da un millenarismo sradicato, di cui
resta l’amen e il sibilo, la mera fibula.
Nato nel 1911 a Hagen, Meister studia a Marburgo e a Berlino: tra i suoi
insegnanti figurano Karl Löwith e Gadamer. Predilige la filosofia, la teologia,
la storia dell’arte; aurorale è la raccolta Ausstellung, uscita nel 1932.
Seguirà un lungo lazo di silenzio, un silente strazio, in devozione ai disastri.
L’era di Hitler tacita il poeta, estraneo al clima del tempo: arruolato durante
la Seconda guerra, ferito, arrestato dagli Americani in Italia, ritorna in
patria falciato nel cuore e nel corpo. Ritorna, lentamente, a scrivere: nel 1953
esce Unterm schwarzen Schafspelz; nel frattempo, il poeta, per un po’, lavora
come giardiniere nella fabbrica del padre. Scriverà tanto – sedici raccolte, una
manciata di racconti e di drammi –, spesso per piccole edizioni, votando tutto
se stesso alla scrittura. Ottiene qualche premio – il “Petrarca-Preis”, ad
esempio, nel ’76 –, ma il riconoscimento più importante, il “Büchner” – andato,
tra gli altri, a Gottfried e a Paul Celan, a Thomas Bernhard e a Elias Canetti
–, è postumo, assegnato nel 1979; il poeta muore quell’anno, a metà giugno.
Scherzo del fato, si dirà, connaturato a un poeta che ha fatto di tutto per
nascondersi.
Negli anni, l’opera di Meister si è rivelata tra le più vertiginose e gravide di
gloria della poesia tedesca contemporanea. Così scrive, tra gli altri, Gerd
Müller: “La produzione lirica di Meister è sorretta dalla tensione paradossale
fra ciò che si sa a proposito del ‘fondamento’ intimo di tutte le cose e,
contemporaneamente, la consapevolezza di non poter ‘comunicare’ sul piano
linguistico questo sapere” (in: Storia della letteratura tedesca dal Settecento
a oggi, Einaudi, 1991, III/2, pp.64-65, dove – ravvisiamo segni, gli imprevisti
di una sparizione incipiente – il poeta è dato per morto nel 1971…). Da qui, il
linguaggio franto, l’apparente inettitudine del verbo, un procedere più che per
enigmi per agnizioni.
Di norma, le poesie di Meister sono accalcate a quelle di Paul Celan e di Nelly
Sachs; di solito dicono di “poesia ermetica” (didascalia che, ermeticamente,
serra il becco a ogni altra intrusione); nel mondo inglese – dove Meister è
assai tradotto: in catalogo Wave Books – sono affascinati dalla relazione,
apparente, con l’opera di Heidegger. In realtà, Ernst Meister non riepiloga un
dire filosofico, non in quello si ripiega. In lui, è il premio di una allucinata
concretezza. Se Celan, per così dire, tiene l’Iddio alla gola, fa speleologia
nell’indicibile, Meister reca erbario dei piccoli elementi di Eden: foglia
inerte, nodo di vespe, sabbia; adamica muratura. Se Celan pretende il primo
verbo, Meister si sporge presso l’ultima sillaba.
Così il poeta annuncia, nel 1962, la propria poetica:
> “Beato lo scrittore che ignora che cosa sia il poetare, per così dire il nero
> su bianco… ma in compenso scrive poesie che sono inventate, qui e ora”.
Al ‘nero su bianco’ – ideologia di una ‘chiarezza’ che ottunde, che oscura – va
sostituito il ‘qui e ora’, l’eloquio dell’istante, grave di venti e di falchi:
al poeta il compito di ammutinare il linguaggio, nel gergo della predazione.
In Italia, Ernst Meister è stato tradotto da Andrea Mecacci per l’editore
Donzelli, nel 2000: il libro s’intitola Il respiro delle pietre. In calce, si
riproducono alcune poesie da Ora, nella traduzione di Stefanie Golisch, finora
inedite. “Per via della sua discrezione, il suo essere sfuggente, mi ricorda i
quadri di Giorgio Morandi: la stessa aura di intoccabilità”, scrive la Golisch
nelle sue riflessioni. Ne consegue il consiglio, aureo:
> “Poesia da leggere in un lungo pomeriggio d’estate, all’ombra di un vecchio
> albero. Senza interpretare, fare, tirare le somme, cercare di capire cosa
> vogliono dire. Leggere per leggere, diventare al contempo più pesante e più
> leggero e alla fine, forse, cadere nel sonno come un bambino, stanco di
> giocare”.
In Germania, il volume che raccoglie die Gedichte di Meister edito da Suhrkamp
(2011) è curato da Peter Handke, tra gli ammiratori del poeta. “Se esiste un
criterio di scelta, è questo: includere i versi e i ritmi in cui è costante la
selvaggia consapevolezza della morte, la necessità del morire, perché è questo
che determina il ‘detto pietrificato’ di Ernst Meister, quella energumena ed
eterea sospensione tra il lamento per l’atteso niente, il pegno di essere vivi,
e l’amore. È la morte, in effetti – lo insegna anche Goethe –, a conferire
entusiasmo alla vita, a infondere ritmo alla poesia”.
Poesia di greti, questa, di ingrata grazia – poesia di speroni rocciosi – che è
poi: rivoltare un cespuglio scoprendo l’angelo agnellino, capire che il bimbo
che ti fissa, nella fotografia, sul frigorifero, eri tu, tra qualche millennio
ed è quello e doverlo chiamare fuoco.
***
LE PAROLE SONO SFINITE
cinta dai tuoi capelli
ciascuna.
Nessun ladro
può nulla
quando entrambi
perdono
i sensi.
Non si può
annientare
la visione.
*
NEL SONNO E
nelle gole del sonno
quando incontri Quella
che si svela
dopo il piacere come
la morta
con il cuore pulsante,
come quella al centro
della stanza lattea
colma di risa delle ginocchia
e delle cosce,
e che subito ti scaglia
nel labirinto
del sogno comprensibile.
*
IL LAMPO
nasce da sé
e accende
i tuoi capelli.
Che venga
un incendio
dove scoppia il tetto,
la terra si squarcia.
Vieni,
un gelo viene
il più ardente.
*
CIÒ CHE DI QUESTA TERRA
amiamo, che
tu ami, fu
davvero potente.
Dunque ci hai reso
forestieri
d’amore. Ciò
resta nella morte
la ferita.
*
ECO LONTANO
dell’amore.
Sapevo
l’inizio e la fine
coniugi
nel nulla, nell’oro.
Ma ora
è fine sola.
Come un cane
mangio dal trogolo
che l’angelo senza palpebre
posò
nel basso crepuscolo.
*
UN BAMBINO
guarda la ciotola
colmo di tempo,
vede sorseggiare
l’imponente farfalla
grigia,
un bambino
e va
a pascolare nere pecore
al buio.
*
E IN SOGNO…
Nei condotti delle mie orecchie
la vita selvaggia
aveva perso il filo.
Dormivo,
e in sogno le spighe del grande
campo di grano battevano il tempo.
Una talpa, vecchissima, tornata bambina,
cantava nel suo labirinto
dolci melodie.
Così gli animali della notte,
quelli dalle ferite sanguinanti,
avevano trovato il loro cantore.
*
QUANTO SIAMO
promiscui!
Lo vedi
nei mercati,
nella faccia morta
dell’animale.
Tu sei
nessuno tranne te
eppure sei tutti.
*
EPPURE SIAMO
figli della terra –
non lo sappiamo?
Parti dell’origine,
le cui sorti
non dovrebbero
esserci tanto estranee.
Ma terribilmente
diviso sembra
lo stesso principio dei principi.
*
SENZA FIATO
saltare così lontano
nella vicina
vicinanza, la
più vicina,
verso l’ultima
sillaba pronunciata.
Traduzione di Stefanie Golisch
*In copertina: Joseph Beuys, 1972. Foto: © Erich Puls (Klaus Lamberty)
L'articolo “Verso l’ultima sillaba”. Sulla poesia di Ernst Meister proviene da
Pangea.
Parole: piccoli ceselli sulla pelle pietrigna del tempo. Fiammanti agguati, di
feroci simmetrie, che abbrancano prede fatte di vento. Mosse a un crudore aspro
o leni, appoggiate o impugnate, deposte, in profferta come doni votivi testimoni
di una fragilità che elegge Dio.
Parole derelitte come costole spolpate dal sole. Parole dipinte con estro
tonale, giustapposte, squillanti, stemperate o scialbe.
Parole fuori traccia, inedite e da sommossa, futili, banali, raccogliticce. Che
mordono la carne come stiletti, che lambiscono appena come fiati di petalo, come
un caldo contatto di pelle… Che sanciscono distanze, che abbreviano o
circonloquiscono in modo infame. Come incunaboli di fioriture, laceri stracci,
arazzi superbi, protendersi di dita rattrappite verso l’impellenza del sole;
sequele di futili, pedissequi rilievi, insignificanti, giocose, gratuite, nudate
e sofferte. Che avvengono e non avvengono, numinose e sapienti come antico
delubro, fitte di semenza o sterili come le greppie del potere. Occulte o
palmari. Parole abbrivio di lagnanze, petulanti tracce egotiche di parventi
ragioni, disilluse e bestiali, perentorie come carcasse da mattatoio, celestiali
e senza macchia. Parole argilla del boia e arcolai di salubri raggi.
Ogni linguaggio è territorio animale… Ma per ogni parola, detta o non detta, si
adultera o corrompe ciò che designa: intrasferibile verità e atavica condanna.
Per ogni parola, scelta e ragionata, prolettica e ventrale, la meridiana del
pieno meriggio si sgretola come osso tra le zanne di una bestia.
Il giorno è una stele che detta pene e vantaggi, la notte non appartiene a
nessuno, solo a un varco di stelle che, compassate, trafiggono solitudine
antica. E le parole lì, adiacenti a un desiderio, una promessa, un pianto
incistato in gola. Mentre la fatica del mondo si compie e le vite si estenuano
fino all’ultimo singhiozzo di luce lecita.
Possono far libera un’anima o condannarla alla pazzia, secchi gerani scossi
dalle mani di un uomo senza più un uscio per entrare o uscire dalla propria
appartenenza.
Ho visto creature, punite da un obolo di misericordia, brandire le parole e
scucire il velo dell’ipocrisia. Creature che non possono incontrarsi senza prima
smarrirsi dentro sé, perché è vero: solo ci si incontra, smarrendo la strada. Là
dove la parola evoca una disorna traccia, la geniale omissione dell’intero
oggettuale, scheletro astratto del contingente che fu o che sarà, che di un
oggetto ne fa mille e di mille uno.
Parole che appendono la lebbra delle fiamme a polverosi registri. Parole che
inseguono sentori: pugni che stringono il vento o mungono il sangue dalle lame.
Parole derelitte al centro di un’idea inesplicabile che si aggira sola al mondo
come una creatura. Parole come colli di bianchi cigni, come retrattili artigli,
ottuse come liti, angoli acuti senza porzione d’arco discreto. Legittime e
legittimate. Su arazzi di religioni e simili a stampelle d’un pensiero storpio.
Che giustificano il delitto seriale, che deprecano un tozzo rubato, enfie e
vacue, puntute e abissali… Che disegnano la silhouette di un’identità gettata
nei fatti. Che sfogliano paesaggi con le dita sottili di un visibile nascosto.
Parole, sono solo parole, ma si può dover morire per dar loro un senso.
Il poeta le sceglie, chi voce non ha le subisce, tutti le usiamo senza troppo
tema di sbagliare, con quotidiano, usato abuso che niente aggiunge e niente sa
di verità e bellezza.
Parole come un delitto perfetto di omissioni. Che molto dicono col raggiro di
non dire e di pletore d’opinioni e fatti desunti. Stagionali come abiti, eterne
come una rosa dipinta o cantata.
Parole di polvere su cubitale polvere di parole. Scritte sull’acqua, figlie
della muta e di mimesi psicotiche dettate, a cliché, dalla paranoia del
potere. Come spine confitte di ordini eseguiti, sogni nel sogno e rime eterne
col nostro rimosso, discorsi allo specchio di un turgore che olezza di carogna.
Parole enormi come cattedrali e che non significano un metro, parole esigue che
affoltano di vuoto. Cannibali e sottili come un’ostia. Rune di un’esistenza
sequestrata dal cielo. Ce ne sono di puntiformi e di simili a enormi bacini,
come soffitte e come sacrari, o infiniti contenitori in cui derubricare scomode
posizioni, a cumuli, con surrettizi, epidermici giudizi figli d’apocrifa
antonomasia.
Ne sfoggiamo di trite e ne defalchiamo di essenziali. Talvolta ne azzecchiamo
qualcuna, ma come per un lancio di dadi, un gioco di bussolotti.
Massimo Triolo
*In copertina e nel testo: disegni di Peter Paul Rubens (1577-1640)
L'articolo “Ogni linguaggio è territorio animale… parole cannibali e sottili
come un’ostia” proviene da Pangea.
Un lento avvicinamento al cuore di Roma in una mattina di tarda primavera:
corona della solarità, vasti aneliti di azzurro e un sentore di gelsomino
nell’aria. Andiamo alla ricerca del Graal nascosto in fondo al silenzio dei
tempi, la rosa dei secoli sfracellati – la fuga a ritroso dalla storia al mito.
Ci avviciniamo dall’alto, disegnando dolci traiettorie. Avvistiamo i bastioni
del Vaticano, San Pietro. Ecco le maestose forme, corolle di bianco marmo, fregi
e lesene di ionica nostalgia – mettiamo a fuoco lo sguardo verso l’oro inseguito
da Giasone.
Eccesso di idealismo? Forse. Come a dire: da una sponda dell’Egeo alla costa
tirrenica, presidiamo l’arco interiore della distanza con la fedeltà senescente
di Argo, innalzando iliache fortezze d’amore e fari di luminosa verità.
Da due lustri ormai riecheggia la marea dell’Egeo, non lontano dalla città di
Smirne. Quella notte è ormai istoriata nelle pareti del sogno. Lo pensava Saffo,
lo ha scritto Elitis:
> “nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia.”
E la luna era un astro più vivido che mai, come gli occhi luminosi della
circassa descritta da Kavafis. Con solide reti da pesca andavamo a caccia di
coralli, tenendo chiusa in petto quella voce che si sarebbe riversata, calda e
dolce come mosto, in puri esametri greci.
La strada per Efeso si snodava attraverso dorati campi di ulivi. Un tempo – dove
ora il muschio ricopre gli angoli sbreccati dei capitelli – si respirava
salsedine. Ho sempre creduto che la felicità occupi, nello spettro cromatico
dell’anima, il posto dell’ocra e dell’azzurro, sigillati uno dentro l’altro come
verso la linea dell’orizzonte. È qui, mi dico, che il grande solitario lanciava
i suoi frammenti. Sì, scagliati come piccole meteore infuocate. Per questo,
leggendo Eraclito, si accendono ancora piccoli falò ai bordi delle pagine e
sotto l’epidermide.
Sul lungomare di Smirne, nel viavai dei traghetti e tra i richiami alla
preghiera, pensavo all’Asia Minore, ad Efeso e Antiochia – all’oro
dell’Ellenismo –: è da qui, e non dall’Acropoli di Atene, che nasce l’umanesimo
di Kavafis, come suggerisce Marguerite Yourcenar nella sua splendida
presentazione critica del poeta. In quel momento, come dalle vigne e dai
frutteti pieni di agrumi di Archiloco, ho cercato di spremere il succo di un
modo di esistere, di una postura che giustificasse le coordinate presenti e
quelle passate. Era a Odisseas Elitis che dovevo guardare:
> “Devi saper afferrare il mare dall’odore perché esso ti dia la nave e perché
> la nave ti dia la Gorgona e la Gorgona ti dia Alessandro Magno e tutte le pene
> della grecità.”
Voglio dire: deve pur esserci un filo, un’immagine, una catena che tenga uniti
la pietra, i graffiti nelle caverne, la gola, il mattone e la pergamena:
qualcosa che rifluisce nel tempo, nonostante il tempo, dentro il tempo,
attraverso e al di fuori del tempo.
> “Dorme più profondamente chi è intriso di Storia
> Avanti accendila con un fiammifero come fosse alcol.
> Solo Poesia è
> Quello che rimane. Poesia. Giusta essenziale e retta
> Come forse l’hanno immaginata le prime due creature
> Giusta nell’asprezza del giardino e infallibile nel tempo.”
>
> (Odisseas Elitis, Come Endimione)
Nelle linee esatte dei palazzi del centro, nelle fughe dei cornicioni –
fosforescenza del passato – ripenso a Kavafis e a Elitis: poeti della luce. Sì,
anche Kavafis, considerato il poeta della penombra e delle stanze oscurate dalle
finestre chiuse. Per me, la poesia di K. inonda di luce. Come l’innamorata
ateniese ascolta le parole dello straniero Orazio e vi scopre immagini di
fulgida bellezza, così i versi del poeta greco rivelano squarci di mondo, aprono
nuove rotte da percorrere con fremito di piacere.
> “Il giovane professa il proprio amore
> E l’ateniese ascolta silenziosa
> Il suo eloquente innamorato Orazio;
> e del grande italiano la passione
> con mondi nuovi di Beltà l’abbaglia.”
>
> (Kavafis, Orazio ad Atene)
Anche io, mi dico con ingenuo spirito d’immedesimazione, sono un “Greco con
emozioni d’Asia”. Ecco, la vedo quella geometria invisibile che mi diverto a
incrinare con il richiamo di steppe, deserti e passi himalayani…
Ho scritto: “una fuga a ritroso dalla storia al mito” – un’anfora greca, un
ciottolo levigato, lo zampillio dell’acqua e lo sguardo di una ragazza. Dai
colli della periferia romana siamo arrivati a uno splendido borgo sul mare. La
natura non ha bisogno di camuffamenti e maschere. Dove fallisce la storia,
arriva la poesia. Il grano ci insegna ad esercitare la sua solare e libera
disciplina. I colori: buganvillea viola, lo smeraldo del mare, la ginestra, un
ciuffo di papavero. Tra gli arbusti e i rovi roventi per il mezzogiorno
sgusciano piccole vipere – anfibio attaccamento al cuore pulsante della terra.
Basilico, gelsomino e tiglio; sciame di vespe: il ronzio dei millenni.
La prima voce lirica nella poesia, l’obbedienza del marmo alla carezza umana, il
triangolo delle montagne introdotto nell’architettura, il richiamo dell’acqua,
l’attesa minoica del tuffo, l’etrusco sorriso: c’è qualcosa che incede lungo i
colli della storia, più persuasivo della tettonica delle placche. Mi viene in
mente ancora una volta Kavafis:
> “Oh, terra d’Ionia, te amano ancora,
> le loro anime te ricordano ancora.
> Quando l’alba d’agosto splende su di te
> Un rigoglio della loro vita percorre l’aria;
> e un’eterea forma di adolescente, a volte;
> indistinta, con passo celere,
> incede sopra le tue alture.”
>
> (Kavafis, Ionico)
A un’ansa del sentiero si trova una piccola edicola votiva dedicata alla
Madonna. La ospita una nicchia scavata nella pietra. Credo sia in quella
posizione da secoli. Da lì, ha vegliato sui pescatori, sui viandanti e ora
continua a vigilare sulle fiumane di sciatti turisti domenicali. In un lampo di
associazione, penso alle divinità dei crocevia: in Giappone, a ogni svolta,
trovi piccole statue di Jizō, bodhisattva protettore dei viaggiatori. Questa
Madonna mi ricorda le cappelle votive in Grecia: una in particolare, con annessa
chiesetta in miniatura, sul colle di una collina ateniese che vede il Partenone.
Su tutto, il bianco e l’azzurro.
Tra le pagine della mia antologia di Elitis ho ritrovato una piccola icona
greca: raffigura un San Giorgio fiammante nell’atto di uccidere il drago. Ho
smesso da tempo di credere alle coincidenze. E infatti, lo sguardo individua
subito delle frasi sottolineate con un lieve tratto di lapis:
> “Tendo con tutto me stesso verso un – come dire? – avvolgente, abbagliante
> bene. Da come mordo un frutto a come guardo dalla finestra, sento formarsi un
> intero alfabeto che mi sforzo di mettere in atto con l’intenzione di comporre
> parole e frasi e, massima ambizione, giambi e tetrametri. Il che vuol dire:
> concepire e parlare di un altro secondo mondo che dentro di me arriva sempre
> primo.”
Quando rileggo e rimedito tutto questo, nell’immaginazione e poi nel meriggio
spalancato della cassa toracica, allora, per dirlo con Elitis,
> “è come se sorgesse un secondo giorno dentro al primo”.
Lorenzo Giacinto
*La traduzione di Kavafis è di Nicola Crocetti; la traduzione di Elitis è di
Paola Maria Minucci
L'articolo “Nella poesia, come nei sogni, nessuno invecchia”. Elitis e Kavafis,
i poeti della luce proviene da Pangea.