Fu, al principio, una visione erbivora. Ma quando cade la sera, alle pendici
dell’Aspromonte, è come un sigillo che si spezza, come una trappola che si serra
– tutto è prono al frainteso; non esistono ombre – acronimi della luce, semmai.
E ciò che era preda, si svolge nel predatore.
Insomma, dovrei scrivere un trattato sulla dedizione e uno sull’abbandono.
Perché ogni forma di dedizione è autentica se procede dall’abbandono – se lo
precede. Che è poi: falconeria dello stare al mondo – abituarsi a scegliere con
chi accompagnarsi dalle mani, mai dai volti – mere, metodiche maschere.
Caterina Dufì – credo sia pugliese, credo viva a Bologna, credo sia a questo
mondo dal 1998 – si fa chiamare, quando musica, Vipera. È un nome strano,
sacrificale, nel caso suo: se la si vede dal vivo – senza la triangolazione
fotografica, senza quella genia di immagini – Caterina è quella che si fa
bersaglio della Vipera, creatura che dardeggia, che eccelle nello scatto e nel
veleno. Dedizione al feroce, allora, purché si abbandoni la ferocia. Si dirà:
Caterina è l’avvelenata, il balenio del veleno o l’antidoto? “Le vipere
strisciano ovunque, senza contare quelle che si hanno nel cuore”, dice una quasi
bambina a Don Miguel, tragico co-protagonista di Anna, soror…, il più perfetto
tra i racconti di Marguerite Yourcenar. La bimbetta, calabrese, figlia di un
incantatore di serpenti, dice un’altra cosa: “Ci sono molti nomi che è meglio
non conoscere”. Poi si dice di malattie meridiane, di amori panici e platonici,
e di “brodo di vipera”. Mi è venuto in mente questo racconto ascoltando Acerbo e
divorato, il primo album di Vipera, uscito un paio di anni fa. Chi conosce i
nomi, ne sussurra alcuni, ne fa scorta – altri, li modella all’urlo.
Soprattutto: di ogni nome va aperta la corazza, il carapace che ne inghiotte il
senso. Ogni nome è un paravento: nasconde serpi – o tigri azzurre.
Acerbo e divorato è un album molto bello, che spiazza l’ecumenico andito
dell’odierna musica. La ballata trobadorica si mescola all’elettronica, qui,
Franco Battiato è commisurato ad Antonin Artaud e a Claudia Ruggeri, la
poetessa, a cui è dedicato un pezzo, il primo, Il matto. Su tutto, aleggia lo
spettro di Amelia Rosselli, la Santa Caterina della poesia italiana. “Che di
alcune cose ti basti solo il nominarle. Guardare la lenta impollinazione di
questi fiori bianchi”, bisbiglia Vipera – ma è voce marziale, che s’impiglia
all’osso frontale – in un pezzo che s’intitola Il macedone. Allo stesso tempo:
un’ingenuità che fa inermi – e uno stare al gioco del pericolo. Dal corpo della
colomba si dirama la vipera, con andatura da pianta, da vivente che mette
radice.
Vipera, cover di Acerbo e divorato, photo Alessia Rollo
Poiché è alla ricerca di un’integrità infallibile – che significa: sapere i
punti d’acqua, i punti di flessione, dove la carne è debole – Vipera non ama
parlare di Acerbo e divorato, è già oltre. Non ha tempo di sanare ferite e di
curare l’alfiere di ritorno dalla crociata: a quell’addestramento non si
ritorna, non ha senso né sede. Altra autonomia richiede il durare, il duraturo.
Così, mi fa dono d’ascolto. Tra i nuovi brani, uno si chiama Angelo nero,
attacca così: “Adesso che sta a me farti una domanda lucida, arrivare fino in
fondo a dove forse poi ti trovo di mandorla o di niente”. C’è un decoro, una
indecorosa accuratezza nel modo in cui Vipera usa le parole che va per la
rettitudine dei rettili, è vero. Attacca, stana – e dunque: quel suo bisbiglio,
una voce con le squame, che ti dichiara da un andito del bosco dove per i più è
patria di ululati, di ungulati in schiera.
A vederla, dico, Caterina, fu visione erbivora. Un erbario di occhi ampi, la
figura di una cosa offerta, d’altura. È strano, si dirà, che una creatura
simile, un essere d’aria, abbia scelto a protezione lo stigma di una bestia di
terra, che striscia. Ma qui è il miracolo: l’innocente che s’incarica di tutti i
veleni, che se ne fa carico, ne fa arco. Anima, forse, è un regno senza più
porte: essere quel che si è e abbeverarsene; anima è un altro modo di dire sete.
L’anima bella sibila, come la vipera – per i falchi, non è che la bianca
circostanza della caccia.
Perché Vipera? Chi è vipera?
Suggerivano di non attraversare la macchia mediterranea a mezzogiorno, quando il
sole bacia i rettili.
L’insidia, l’allerta che evoca il serpente, insieme a un’idea marziale che in me
suscita (un rivestimento, una muta, un alfabeto sulla loro pelle che
cambia). Un’immagine così forte è protezione.
Sono elementi che hanno sempre destato in me un grande fascino, e mi sono fatta
ospite loro. Ho scelto questo nome anche (e soprattutto) per il suo suono. Mi
piace l’innesco di quelle consonanti aguzze e il fatto di avere la possibilità
di scegliersi un nome ulteriore, diverso da quello che ho ricevuto in dono.
Perché non usi il tuo nome nei dischi: necessità di scudo, di slancio, di
disastro? Che un nome esista per annientamento?
Quando vado in scena cerco di presentarmi in uno stato vigile, sincero,
inscalfibile. La scena è anche tipografica, comunicativa. Ho anche una grande
passione per gli pseudonimi, i nomignoli, le parole inventate. Per questo ho
scelto un altro nome, che non sia il mio, che mi aiuti nella ricerca di una
postura diversa dal quotidiano.
Che cos’è “Acerbo e divorato”, cosa significa, da dove nasce?
Uno slancio, un tuffo a candela. Un sogno sui rapporti di consanguineità, sui
legami come vincoli e come ramificazioni su cui arrampicare gli occhi.
Un bambino di sei anni scala l’ulivo e arriva in cima, la sua testa sbuca dai
rami e vede, in fondo alla campagna, il mare aperto. Poi una vela. Da lì sogna
di prendere il largo. Lo prende. È un’immagine di giovinezza feroce, che vuole
consumare tutto, avere tutto tra le mani. È un sentimento che mi sorge se penso
al fiore giovane prima della catastrofe. Un’asincronia.
Durante la scrittura di Tentativo di volo, l’EP che precede Acerbo e divorato,
mi è saltata in mente l’immagine del frutto staccato, acerbo. Il gusto che
lascia in bocca – il doppio strappo che crea, nel gesto e nel sapore. Questo
titolo è in realtà il verso di un brano che non ho mai pubblicato. Ho notato che
anche isolato restava denso. Acerbo e divorato lo vedo un po’ come un disco di
formazione, in cui la ricerca sonora e stilistica hanno avuto la meglio
sull’omogeneità di un album musicale.
Così mi sentivo nella mia camera, fumando sul tavolo e guardando al cielo, così
è sorta questa immagine.
Che cos’è per te il verbo, la parola, la poesia? Che cosa la musica?
La parola è una capienza, una misura di efficacia, nitore, brillantezza. È un
evento magico, dove materiale e effimero si scambiano i ruoli, danno vita a
figure, a proposte, progetti sul mondo. Penso a fenomeni fisici, al prisma che
scocca in raggi colorati. Al miraggio, o alle visioni annebbiate da qualche
incenso. Penso a come la parola che prefigura possa agire in misura bipolare nel
negativo e nel suo opposto. Domina, lenisce. La musica e la poesia sono un
luogo di rifugio, una lente felice, che mi tiene accesa e disarmata.
Spiegami “Anime (intermezzo due)”; dimmi cos’è “l’equivalente spirituale
dell’oro”.
A.A.! Le Momo!
Anime è un brano in cui le parole sono un’esortazione, un’auto-esortazione al
restare in vita, nel suo senso più elevato e brillante, oltre alle distorsioni
degli eventi.
“Il teatro alchimistico”, è da lì che deriva “l’equivalente spirituale
dell’oro”. Antonin Artaud ne parla cercando un punto di congiunzione tra
materiale e spirituale. Poter arrivare all’oro, nella mia metafora è una vetta,
che si raggiunge oltrepassando stadi brutali, “malandando”. E “l’anima bella”
nella canzone è esortata a malandare. Così questa vetta dorata può essere
raggiunta nel corpo, attraverso il corpo. È qui che si evolve una parentela
metallica, stavolta in un travaso organico. Qui una ricerca analoga può essere
condotta, dalle funzioni vitali ad un sopra, un’esistenza di spirito che
coesiste, nutre, alimenta quella materiale. Ecco l’equivalente.
In controluce, nel disco, leggo Hegel, Claudia Ruggeri, i provenzali, i
Mirmidoni… cosa te ne fai di queste più o meno occulte citazioni? Cosa te ne fai
della ‘cultura’?
Altre, ancora camuffate, ombrate, tradotte. Ci sono dei concetti che hanno
guidato la scrittura di Acerbo e divorato, immaginandolo ancora come un disco di
formazione. L’anima bella di Hegel, per esempio, è una figura che non scocca,
non cade, non urta, non vive. Ho preso questo ritratto e indossandolo ho cercato
di scardinarlo. Stessa cosa con la poesia della Ruggeri, nell’idea che una
metafora per la crescita possa essere l’andare, il numero zero, l’inizio. In
particolare nel primo brano del disco, Il Matto, avevo il desiderio di ridare
voce a quei versi meravigliosi che aprono la raccolta inferno minore di Claudia
Ruggeri.
Mi servo di strategie labirintiche per il lavoro sui testi, in maniera analoga a
come avviene nel sampling e nell’elaborazione dei frammenti audio. È un processo
simile, che porta alla composizione di significati attraverso un sistema di
citazioni che volendo si svela, indica un disegno nuovo sul tappeto.
Cosa leggi? Dimmi: il poeta che continua a folgorarti; la poesia che hai tatuata
nella cosa detta cuore.
Tornando da casa penso a una poesia di Carlo Bordini. Lui si guarda allo
specchio ed è sicuro che i suoi non lo abbandoneranno mai, ritrovandone i
lineamenti, i modi.
Ma quella che mi buca il cranio è “Se sinistramente ti vidi apparire…”
da Documento di Amelia Rosselli.
Esiste l’anima? Che cos’è?
A dodici anni mi è capitato di percepirne la sede: è come un’intercapedine sotto
pelle, che divide la cute dal resto, dall’interno organico del corpo.
Cosa c’è dopo la morte?
La ricombinazione dei miei vecchi atomi di carbonio.
Confidi in qualcosa, ti arrocchi in qualche fede?
No, ma credo molto nel lavoro su di sé, pensato come educazione all’equilibrio.
La gratitudine che provo in alcuni momenti della vita mi porta ad uno stato
simile alla fede, acceso e sincero.
Qual è la tua bestia araldica, a protezione? Da cosa, poi, bisogna proteggersi?
Proteggersi da quasi tutto, ma il mio trucco è giocare sulla velocità. La
creatura che mi accompagna è il colibrì, certe volte – all’apice – il falco.
Esseri leggeri, esseri record in velocità.
Stai scrivendo – cosa?
Ho passato l’estate a scrivere un disco nuovo, un insieme di brani che ho in
parte suonato a lungo dal vivo, ora cerco un modo di fermarli, per farne un
album. Vorrei assumesse la flessibilità di una lamina metallica che oscilla.
Saranno sistemi elettrici, arteriosi.
Sto lavorando anche a un progetto in duo, con un’amica performer e autrice,
Eugenia Delbue. Ci chiamiamo ETEREA NOISE e uscirà presto il nostro primo album,
versante sonoro dello spettacolo che ha nome Radio Tunnel, per Zoopalco-Zpl,
etichetta bolognese di spoken music.
**
I.Teatro Cava / Ferina
Lavo i denti allo specchio con gli occhi sgranati
come per prepararmi all’ammutinamento
senza sapere da che parte sto
senza pregarti a sangue di non cadere dalla trave.
Immagino una scena scavata dentro ad un grande pezzo di tufo
dove mi hanno promesso che ti potrò assalire
la tana è profonda.
*
ho mangiato l’uva raccolta ho guardato nel centro del sole e non vedendo ho
puntato il dito
per caso
di nuovo
contro di te
II.
C’è una grande quantità di cadaveri di rana sulla strada che porta da un paese a
un altro, attraversano l’asfalto e non sempre arrivano dove devono.
Descrivere è implicito capire.
Ore che ho contato, ora che – uno ad uno – i fili d’erba le attraversano, nel
disordine che sembra sempre senza rimedio, un pensiero oltrepassa queste parole:
sono questi i momenti in cui mi sento particolarmente piccola.
*
III. Reset
aspetto finché non cala
aspetto finché non cade
aspetto finché non cedo
finché non cala
finché non cedo
fino alla fine del fiato
al tuo tempo diverso – più veloce
a un certo punto coincide:
arrivo a parlarti per davvero
umidità tocca corrente.
Attraversando la macchia mediterranea vicino al mare e dalle parti di Torre
Chianca, raccogliamo asparagi selvatici e mi racconti che le centrali
telefoniche, ai tempi tuoi, erano grandi quanto edifici. Quando non sono più
servite, sono state vendute a venticinque lire al chilo e tu hai cambiato
lavoro.
I blocchi relè, pieni di contatti, sono stati smontati e fatti passare uno a uno
lungo un nastro.
Un magnete attraeva a sé i materiali preziosi: il rame, l’ottone, l’oro.
Si tratta di cercare un modo in cui la traccia continua e scava i segni:
pensieri-correnti, che a lungo frequenti: linee su linee nel cranio che prendono
e mantengono una consistenza: una stanza da abitare in piedi e così piena da non
chiedere agli arti di tenerti.
La traccia continua, descrive un comportamento probabile: un mondo piccolo,
personale, in cui la storia arriva come un sedimento: una ricerca dell’oro, per
equivalerlo.
Camminiamo, e non ti lamenti del caldo alla testa. Attraversando una rete si
accede alle zone in cui la costa scogliosa viene segnata in superficie da
piccole faglie continue: ogni goccia che cade disegna – graduale – le aree dove
tra un po’ lo scoglio cederà.
Ci facciamo sismografi, geologi, trekker, ma ci troviamo spesso a camminare lì
sopra, i nostri scogli li conosciamo. Tu una volta sei caduto, ti sei rotto il
naso e dici che da allora respiri meglio.
Non posso scappare se l’allerta arriva insieme al crollo,
cosa corro a fare con la caviglia che mi ritrovo?
Cosa corro a fare?
Aspetto
finché non cado,
fino alla fine del fiato,
al tuo tempo diverso, più veloce.
*In copertina: Vipera in un ritratto fotografico di Clarissa Lapolla
L'articolo “Finché non cado, fino alla fine del fiato”. Dialogo con Vipera
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Homo Poeticus
In un momento come questo, nel quale il gesto di scrivere libri ha perso ormai
totalmente di senso, tanto che forse sarebbe meglio il contrario, la poesia
resta l’ultimo baluardo a proteggere questa sacra vocazione, l’unico presidio in
difesa di un tempio troppo spesso profanato in maniera ingiusta; si tratta di
un’esperienza, una delle pochissime fra quelle una volta elettive, che ancora e
per fortuna non è scesa alla portata di tutti, o di chiunque intenda farsi
chiamare autore o autrice perché ha espettorato qualcosa su un foglio cartaceo o
digitale. Tutto questo è successo se non altro perché il verso ha delle regole,
una musicalità, una complessità anche strutturale, cose che vanno imparate e poi
rispettate, concetti estetici che costitutivamente non possono essere alla
portata di prosatori pedestri e occasionali.
Il poeta vero e di talento autentico sa rispettare le regole della composizione
in modo naturale e ignaro: il genio è anche padronanza tecnica sublime ma
inconsapevole. In più la poesia ha anche una storia, che la rende unica, e ogni
opera in versi si colloca in un fluire atemporale, mentre invece, oggi, chi
scrive, non considera niente e nessuno oltre sé, pensa di essere il primo e
l’unico al mondo, trascurando il fatto che prima di lui ci sono stati Pablo
Neruda, Josif Brodskij, Sylvia Plath, e Emily Dickinson. E la poesia è protetta
non solo delle regole imposte dal metro, ma anche da quell’istanza autoriale
unica nel redigere l’opera, che è qualcosa che anima solamente il poeta, il
quale si distingue per la sua voce innocente, la limpida spontaneità, la grazia
sorprendente. Tutte cose totalmente antitetiche rispetto alla meschinità
borghese, contro la quale la silloge di poesie ci regala un sentire di nuovo,
nudo e puro, una fresca lettura delle più banali movenze della vita, alla luce
di una superiore sensibilità. Concetti unici, che fanno di quelle parole una
sorta di osservatorio distintivo, una peculiare finestra sulle cose, a cui
consegue una diversa visione del mondo.
Ben lontano da qualunque eventuale soluzione consolatoria, il poeta vero mischia
con naturalezza il comico e il tragico della vita, la storia del mondo, e gli
eventi personali. Vede le cose basse ancora più dal basso, e sa elevarle ancora
più dell’alto. Si sente perseguitato da guardoni curiosi e cinici, e provocato
continuamente dalla bruttezza e dalla volgarità dei suoi contemporanei. Offeso
da tutto ciò si scava una tana dentro di sé, e nello sforzo lirico, emette un
segnale di sola andata, come un’antenna che spara messaggi nello spazio
disabitato del cosmo. Crea nuove sensibilità nelle coscienze, attraverso il
recupero di sentimenti antichi, è drammatico in senso classico, ma ciò
nonostante sa anche innovare, costringe i lettori a comprenderlo, superando così
l’invisibile e pigra immobilità che ci impedisce spesso di capire noi stessi.
Tutto questo privilegio nel sentire non è ripagato con la gloria e con la
ricchezza, ma al contrario, il poeta ottiene in cambio solo un grande dolore ed
una irreversibile solitudine. (Sandro Bonvissuto)
**
Dal vostro al mio esilio
Oh, voi immortali
poeti d’ogni dove:
poeti d’oltre oceano
e della madre Russia.
Poeti impanicati
e poeti sbeffeggiati
nascosti e salvati in ogni angolo del mondo;
poeti suicidati e poeti martoriati nella Storia,
io vi dico:
non solo nel libro di Davide è il mio esilio,
ma nei vostri libri!
In tutti i vostri libri che traboccano versi intoccabili,
io ritrovo vita e respiro
e seppur solo – seppur solo! –
attraverso le parole d’ogni tempo: libero.
Perché l’epoca è adesso
nella lettura d’un sacro verso;
qui e ora,
nella letteratura che dà senso
al più profondo isolamento.
*
a Gian
Ruggero Manzoni
Quell’uomo sconosciuto ha ucciso uomini,
è stato nei servizi segreti,
ha conosciuto Pier Vittorio Tondelli.
Quell’uomo un giorno mi ha osservato
si è avvicinato, e con un atto di umiltà e rispetto
mi ha stretto la mano.
Quell’uomo si chiama Gian Ruggero Manzoni
e crede in dio.
Cosa pensa di Amelia Rosselli e di Borges non lo so,
ma li ha conosciuti.
E quella notte, quando ci siamo salutati, mi ha detto:
«È come se ci conoscessimo da sempre».
*
Del dolore ne conosco la rosa
lo stelo e la spina.
Del dolore forse avverto la causa,
ma è il suo silenzio o il suo grido
ciò che mi affascina e mi riavvicina a dio.
Nel dolore riconosco una sequela,
un qualcosa di tradito,
un petalo spezzato
all’improvviso dal tormento.
Ma è il dolore della mente,
il silenzio dell’anima,
quello più inquietante.
E quel poeta che ne soffre ancora,
considerato pazzo da qualcuno,
in realtà sta tessendo
un poema d’amore.
Con le sue parole
rende vero un profumo,
colora le rose d’un rosso potente;
ne incarna il sangue, ne ribolle.
Dunque, che sia la tua rosa
la causa di tutto questo poetare?
Di tutto questo soffrire?
La tua rosa alchemica,
la mia alchemica rosa,
che nascondiamo da sempre al mondo
ma non a un amico di una sera soltanto.
Perché quel nostro incontro di poeti,
oltre a dare il senso alla scusa di uno sfogo,
permette al cuore di rinascere;
come quando una musa ti ama per davvero.
Giorgio Anelli
*I testi, compresa l’introduzione, sono tratti dall’ultimo libro di Giorgio
Anelli, “Rosa alchemica, alchemica rosa”, Ensemble, 2025
*In copertina: Peter van der Doort, Amphiteatrum sapientiae aeternae, XVI sec.
L'articolo “Del dolore conosco la Rosa”. Sulle poesie di Giorgio Anelli proviene
da Pangea.
Leggendo la recentissima traduzione de I Sonetti a Orfeo di Rilke, curata da
Riccardo Held, per la collana Lo Specchio di Mondadori, non posso fare a meno di
pensare a Marina Cvetaeva:
> E oggi ho voglia che Rilke parli attraverso di me. Nel linguaggio comune
> questo si chiama traduzione (com’è più bello in tedesco – Nachdichten! Andando
> sulle orme di un poeta, aprire di nuovo tutta la strada da lui aperta […]).
La traduzione poetica è sempre un atto di fedeltà, umiltà e soprattutto amore.
Si tratta letteralmente della gestazione di una nuova creatura, che ancora non
esiste nella lingua di approdo: bisogna attraversarla, traghettarla e partorirla
in un nuovo registro linguistico. Un esercizio faticoso che presuppone ascolto,
attenzione pura, molte letture e interiorizzazioni, fino a quando non si riesce
a trovare quella parola perfetta – la sola – che possa “dire” la “cosa” in
un’altra lingua, senza tradirne il senso.
Di certo è una sfida. Lo spiega bene Held nella sua nota di chiusura, una nota
quasi sottovoce, mirabilmente rilkiana, nel tono, nello stile e soprattutto
nell’essenza. In essa vi è tutto il Rilke dei Sonetti e delle Elegie, due opere
intrinsecamente connesse che rappresentano un vertice lirico di tutti i tempi.
Già nel titolo che antepone alle sue parole, tratto da un verso dei Sonetti (II,
23), Held ci parla in questo senso: «Niente più che un pensiero», ben
consapevole di cimentarsi con l’ascesa ad una vetta e ai suoi molti “strati di
senso”, che ancora oggi sfuggono agli interpreti.
Nel 1922, Rilke non aveva in programma i Sonetti: quei versi sgorgarono dagli
appunti che l’amica Gertrud Ouckama Knopp prese sulla malattia e sulla morte
della figlia Wera (che Rilke aveva conosciuto bambina), e che poi spedì a Rilke.
L’immagine della giovanissima ragazza, promettente ballerina, strappata alla
vita all’età di 19 anni per leucemia (la stessa malattia che – per ironia della
sorte – lo condurrà alla morte), lo colpì così tanto da dedicare I sonetti a
Orfeo alla sua memoria.
La morte, cuore della vita
Suddiviso in due parti e concepito come “monumento funebre” per Wera Ouckama
Knopp (1900-1919), il ciclo dei Sonetti consente a Rilke di sostituire la
contrapposizione tra vita e morte con la «grande unità» di un «doppio regno» che
lega inscindibilmente vita e morte in un’unica, incessante, metamorfosi.
Da molti anni, ormai, il poeta andava delineando nella propria opera una
peculiare visione della morte: dalla stesura del Libro della povertà e della
morte (terza ed ultima parte de Il libro d’ore) ininterrotta divenne la sua
riflessione sull’evolversi ultimo dell’esistenza, nel quale la morte assume un
ruolo centrale. Rilke è sempre più convinto che le religioni si siano limitate a
fornirne diverse “figurazioni”, a mo’ di consolazione, invece di offrire validi
strumenti per comprenderla ed accoglierla in sé. Non si tratta allora di
abbracciare la morte come l’altra faccia della vita, come l’altra sua metà che
lasciamo in ombra? Così scriveva, nel marzo del 1920, in una lunghissima lettera
ad una giovane amica, Anita Forrer:
> La mia inclinazione mi ha spinto, sempre più profondamente, anno dopo anno, a
> fare della morte il cuore della vita, come se in essa fossimo veramente a
> casa, serbati e protetti, cullati nella più profonda e sublime fiducia.
Verso l’estremo
Se la morte è dunque il «cuore della vita», allora, chi meglio di Orfeo, che
entra nel regno dei morti per riportare in vita la sua Euridice, può incarnare
nella sua figura la compresenza di vita e morte?
Orfeo è il “Dio della cetra” che incanta il bosco e le fiere con la sua musica,
conosce l’essere e il non-essere, la dolorosa caducità della vita, eppure, la
canta e la celebra e, dal suo canto, sgorga una fanciulla: Wera. Ella portava
con sé l’infanzia, la danza e la musica, ma anche la morte già dentro la vita:
una figura orfica, una novella Euridice, che reca in sé l’accettazione e la
celebrazione della metamorfosi dell’esistenza ed il suo naturale confluire nella
morte.
Con Wera e con i Sonetti, che precedono la ripresa delle Elegie, la morte che
aveva aleggiato intorno a Rilke, trattenendolo sulla “soglia” dell’opera, entra
dunque dentro l’opera stessa e lo spinge “verso l’estremo” – là dove voleva
arrivare dopo aver conosciuto l’opera di Cézanne. E questo spingersi verso
l’estremo, la morte, anziché portare angoscia e terrore, porta addirittura la
possibilità di salvezza.
Orfeo parla e canta, si apre al mondo; non conosce differenze tra l’aldiquà e
l’aldilà, che celebra allo stesso modo. Anche dopo la morte continua a vivere
nella natura, negli alberi e negli uccelli, in cui si dissolve
“panteisticamente” come san Francesco nel Libro d’ore. Nei Sonetti, la poesia
diviene parola che tenta l’indicibile. È una parola buia, densa di segreto,
talvolta di inaudita complessità (nelle lettere Rilke parla del «dettato più
misterioso ed enigmatico» cui abbia mai assolto) che si fa però scrittura
perfetta, gioiosa, musicale.
Singolari relazioni tra i sensi
Il poeta è consapevole del suo ruolo di cantore sul confine tra il regno dei
vivi e quello dei morti, dove nuove insondabili relazioni (autentiche
sinestesie) si instaurano tra i cinque sensi.
È la sfera acustica a dominare l’intera raccolta. Il poeta immagina la voce
delle cose: il suo sguardo è diventato ascolto, secondo quell’intuizione che
aveva vissuto in Egitto avanti alla sfinge, quando il fruscio delle ali di una
civetta disegnò quell’immenso profilo nel suo udito. Fu questa l’intuizione
iniziale dell’“udito di morto” che attraversa trasversalmente le Elegie e
i Sonetti, ove si instaurano nuove, singolari, relazioni tra i sensi, tanto che
ci parrà di “vedere gli odori”, “udire i colori”, “toccare i suoni”, “danzare i
sapori”… I sensi mutano gli oggetti, spaziano da quelli che gli sono propri a
quelli che appartengono ad altra sfera della percezione.
Siamo in presenza di un’opera d’arte di assoluta originalità e perfetto
equilibrio compositivo, nella quale Orfeo vince le Menadi che volevano
dilaniarlo, perché la sua musica è ordine e bellezza. Anche dopo essere stato
ucciso, continua a vivere attraverso i boschi, gli alberi e gli animali. Così
termina la prima parte dei Sonetti.
La seconda è ancora più rarefatta. Rilke canta i suoi temi prediletti, cui
attinge con costanza nel corso degli anni, da una parte all’altra della sua
produzione, quasi in un percorso “circolare”: il respiro (vera cifra del tardo
Rilke), l’aria, i venti, i mari, lo spazio, gli specchi: “intervalli di tempo”
che riflettono infinite volte il volto della bellezza… Evoca gli animali, tra
cui il mitico unicorno, invisibile ma vero, simbolo della verginità nel
Medioevo. Celebra i fiori, tra cui l’immancabile rosa e l’anemone; la macchina,
presuntuosa padrona della modernità, a cui non vuole obbedire. Invoca il
mutamento, la sua fiamma; maledice l’oro e il denaro; si rivolge alle stelle,
alle fontane, ai giardini, alle campane e, verso dopo verso, si immedesima in
una parte del tutto, in uno spirito eterno che non tramonta e mai tramonterà,
che “resiste ormai per sempre”, che acconsente al cambiamento, al rinnovamento,
che si congeda dalle cose con la capacità di dire addio, accogliendo in sé il
pensiero della morte nella vita.
Alla legge della separazione dei due regni si contrappone quindi quella di
un’incessante metamorfosi: è lì che ruotano i Sonetti, in uno “spazio interiore
di mondo” che diventa il “doppio regno”, uno spazio che lega inscindibilmente
vita e morte. Essenziale diviene la trasformazione del visibile nell’invisibile:
la realtà esterna si ritrae (si comprime potremmo dire) a sorgente di materiali,
quasi un deposito di immagini, cui il cuore attinge per adempiere la sua opera
di metamorfosi-fusione-annullamento di confini tra esterno ed interno, tra
oggetto osservato e soggetto che osserva in un unico, indivisibile, spazio terzo
dove le cose – dentro di noi – raggiungono la loro pienezza.
L’esterno offre le immagini ma ciò che qui conta è il cuore: l’io del
poeta-Orfeo, centro di realtà solo interiori – invisibili – dove tutto è in
perenne trasformazione: l’albero matura il frutto nel silenzio; il frutto si
scioglie nella bocca e diviene puro piacere; i morti nutrono le radici dei
fiori; la danza diviene simbolo dell’anima, incarnazione della fiamma, come la
poesia…
Solo chi, come Orfeo, abbia levato la sua cetra nel regno delle ombre, potrà
presagire col cuore un infinito canto – che non è più desiderio soggettivo verso
uno scopo da raggiungere – ma il respiro che sfiora l’essere e il non-essere, il
vivere ed il morire: quella “grande unità” che si chiama esistenza.
Marilena Garis
*L’articolo, che si pubblica per gentile concessione, è uscito come “Nella
«grande unità» di Rainer Maria Rilke”, sulla rivista “Studi Cattolici” delle
Edizioni Ares
In copertina: cartone di scena dall’Orphée di Jean Cocteau
L'articolo “Andando sulle orme di un poeta”. Discorso sui “Sonetti a Orfeo” di
Rilke proviene da Pangea.
La categoria del ‘politico’ è propria della poesia italiana, dal punto di vista
simbolico – le invettive di Dante che scandiscono la Commedia, i sonetti
‘babilonesi’ di Petrarca, ad esempio – come da quello esistenziale. I poeti
italiani, quando ancora l’Italia era un’idea, un pullulare di principi e di
principati, erano assunti a corte, esercitavano mansioni di funzionari nei
nascenti comuni. Così – per dire – Iacopo da Lentini, “il Notaro”, operava
presso la corte di Federico II e Ludovico Ariosto si dimostrò abile
amministratore in Garfagnana, per conto dagli Este.
Ciò non vuol dire che il poeta sia per forza un cortigiano. È vero, il potente
ha bisogno del suo eloquio, del poema encomiastico, per lo più didascalico,
esornativo – ma è pur vero che il poeta, se tale è, va a briglia sciolta,
impenna il senno; benché possa essere animato da scaltrezza (che significa:
giustezza d’intenti; figura dell’altro mondo che si adopera nel mondano) non si
fa maculare dai lacchè. Il Malatesta aveva bisogno di un aedo, Basinio da Parma,
che giustificasse le sue gesta; pur al soldo dei Medici, Angelo Poliziano
conserva un’eminenza intellettuale che lo obbligherà all’esilio – d’altronde, la
via ‘notturna’ della poesia italiana ha il suo zenit nel Tasso messo ai ceppi a
Sant’Anna. La “Raccolta aragonese” voluta da Lorenzo de’ Medici dimostra che
la poetica, la questione della lingua, è una branca della politica.
Certo, occorre non inquinare le fonti. Il rapporto tra poesia e politica non si
regola nella poesia declamatoria, né nella poesia ‘civile’ – al contrario, il
poeta è l’incivile del linguaggio, compie atti di brigantaggio linguistico
contro la lingua imposta dal potere. Secoli di ‘impegno’ – pensiamo alla poesia
risorgimentale italica – hanno prodotto una poesia esangue benché piena di urla,
capace di infiammare gli animi, semmai, ma il cui fuoco lirico si è presto
spento. Un conto è l’ardore di Ugo Foscolo o l’audacia di Vittorio Alfieri,
altro il rovistar per peana del garibaldino Francesco Dall’Ongaro o i pur sapidi
sketch di Vincenzo Riccardi di Lantosca (esempio, Dio, Patria, Famiglia:
“Patria, ossia quei pochetti sicuretti; Famiglia,/ quel tanto della propria
moglie, che uno si piglia;/ quanto a Dio ci s’intende che noi s’intende il
prete”). Il ‘disimpegno’ esibito, disinibito, d’altro canto, ha prodotto
tonnellate di bigiotteria lirica.
Eppure, ogni potere, per fondarsi – non ho detto celebrarsi –, ha bisogno del
poeta. Anche in questo caso, da un lato ci sono i bardi del bene comune, i
boiardi dell’opportunismo verbale, dall’altra il poeta, l’inafferrabile. Ogni
nazione si fonda sul poeta perché il suo linguaggio feconda il futuro, è motivo
di avvenire, è ragione di esistenza; altresì, si affida al burocrate. L’Italia è
Giacomo Leopardi più che Goffredo Mameli, giovane martire delle lotte
risorgimentali. La Russia fonda il suo essere su Aleksandr Puškin e su Boris
Pasternak, non certo su Nikolaj Tichonov, poeta tribunizio, più volte premio
Stalin, deputato dei Soviet.
È interessante perché al contempo il poeta fonda la natura politica della
propria nazione, e nello stesso tempo – in forza della sua assolutezza, della
sua incoercibile singolarità – la disintegra. L’uno e il tutto, la costruzione e
la distruzione si coagulano senza sintesi nel corpo lirico del poeta: che è per
questo offerto.
Il Novecento è stato un secolo di profeti inascoltati, di poeti dal potente
ardore ‘politico’ messi diversamente a tacere – penso a Ezra Pound, ovviamente,
ma anche a Iosif Brodskij e a Hugh MacDiarmid, il paladino dei nazionalisti
scozzesi, l’Omero dello scots. Soltanto in William Butler Yeats, magicamente,
misteriosamente, la figura del poeta coincide con quella del ‘padre della
patria’: l’Irlanda esiste perché un poeta mitografo e allampanato ha detto di
una small cabin sulle sponde del lago Innisfree. Per molto tempo, più di altri
poeti, Robert Frost ha incarnato l’identità autentica degli Stati Uniti
d’America: è ancora così? Attorno a quale poeta vivente, oggi, riconosciamo la
nostra identità? Quando una nazione perde memoria dei suoi poeti, perde se
stessa. Ad oggi, i poeti cantano di rose e di passeggere indignazioni, sono i
macchinisti di versi concettosi, sono troppo intelligenti, fanno del proprio
ombelico la sola patria.
Ricevendo il Nobel per la letteratura, era il 1959, Salvatore Quasimodo volle
affrontare la questione de “Il poeta e il politico”. Indipendentemente dalla
poesia di Quasimodo – espressa tra Saffo e il Pci – quel discorso, a tratti
enigmatico, ha ragione di fascino. Quasimodo distingue il poeta – che agisce il
‘politico’ alla greca, come una categoria della ribellione, ovvero
dell’indomabile – dal letterato, che è poi il retore, il portaborse del potere.
> “Il poeta è solo: il muro di odio si alza intorno a lui con le pietre lanciate
> dalle compagnie di ventura letterarie. Da questo muro il poeta considera il
> mondo, e senza andare per le piazze come gli aedi o nel mondo ‘mondano’ come i
> letterati, proprio da quella torre d’avorio, cosi cara ai seviziatori
> dell’anima romantica, arriva in mezzo al popolo, non solo nei desideri del suo
> sentimento, ma anche nei suoi gelosi pensieri politici”.
È nell’esplicita distanza – quando non: lotta – con il potere che si esprime la
‘poetica della politica’ del poeta. Di questa libertà – che è: liberarsi dal
giogo della lingua del potere, imponendo un verbo nuovo, nuovamente innocente –
il poeta è il terribile portavoce.
> “Il poeta è un irregolare e non penetra nella scorza della falsa civiltà
> letteraria piena di torri come al tempo dei Comuni; sembra distruggere le sue
> forme stesse e invece le continua; dalla lirica passa all’epica per cominciare
> a parlare del mondo e di ciò che nel mondo si tormenta attraverso l’uomo
> numero e sentimento. Il poeta comincia allora a diventare un pericolo. Il
> politico giudica con diffidenza la libertà della cultura e per mezzo della
> critica conformista tenta di rendere immobile lo stesso concetto di poesia,
> considerando il fatto creativo al di fuori del tempo e inoperante; come se il
> poeta, invece di un uomo, fosse un’astrazione… Nel mondo contemporaneo il
> politico assume vari aspetti, ma non sarà mai possibile un accordo col poeta,
> perché uno si occupa dell’ordine interno dell’uomo e l’altro dell’ordinamento
> dell’uomo… Oggi il poeta è libero? È libero, secondo le società che lo
> esprimono, o il continuatore di illuminazioni pseudo-esistenziali, il
> decoratore dei placidi sentimenti umani, o chi non scende profondamente nella
> dialettica del proprio tempo per timore politico o per inerzia”.
Cinquant’anni prima, in un saggio su Il poeta e il nostro tempo, Hugo von
Hofmannsthal scriveva che misteriosamente il poeta, l’inerme, l’assoluto
sconosciuto, il paria ai più, “è il luogo in cui le forze del tempo tendono ad
equilibrarsi”; scrive che “è come se i poeti lavorassero all’unisono alla
costruzione di una piramide, all’immensa dimora di un re defunto o di un dio non
nato”, capaci di “creare l’accordo accettabile di tutto quanto si manifesta”.
Ecco che il politico sfocia quasi nel teologico. Il Regno di questo mondo; “Il
mio regno non è di questo mondo”.
Poi, certo, il vero compito politico del poeta è creare uno spazio di grazia e
di bellezza quando tutto intorno è orrore, è morte. Confidare nella bellezza
nonostante l’orrore e la morte. Quando la morte – che non ha l’ultima parola –
avrà smesso di urlare, esisterà, per i sopravvissuti e i futuri, uno spazio di
grazia e di bellezza. Un fuoco. Non per forza gradevole né confortevole, ma
buono.
Per il resto, è prova dell’integralismo lirico del poeta la capacità di
imprecare in versi. Quando è troppo, bisogna sobillare le Sibille del
linguaggio, tramutare il verbo in Erinni. Al di là di isolati, alati esempi –
“Muore ignominiosamente la repubblica”, Mario Luzi – la poesia più violenta, in
questo senso, priva di orpelli poetici, quasi integralmente politica,
integerrima, è Show, di Giorgio Caproni, che apre la sezione “Anarchiche o fuori
tema” del libro postumo Res amissa (1991); libro in cui – scrive Giorgio Agamben
– “la disappropriata maniera di Caproni”, “ha raggiunto ormai una regione sempre
al di là del proprio e dell’improprio, della salvezza e della rovina”. È da
questo non chiedere approvazione, da questo inappropriato, da questa rovina in
cui tutto è salvo – cioè infinitamente finito – che si riparte – anzi, si
vagabonda, dacché è lo sciacallo e la libellula, ora, l’icona del poeta.
(Che Show stia anche per sciò è perfino ovvio marcarlo: sciò, sciò, fuori tutti,
galletti del potere).
**
Show
Guardateli bene in faccia.
Guardateli.
Alla televisione,
magari, in luogo
di guardar la partita.
Son loro, i “governanti”.
Le nostre “guide”.
I “tutori”
– eletti – della nostra vita.
Guardateli.
Ripugnanti.
Sordidi fautori
dell’“ordine”, il limo
del loro animo tinge
di pus la sicumera
dei lineamenti.
Sono
(ben messi!) i nostri
illibati Ministri.
Sono i Senatori.
I sinistri
– i provvidi! – Sindacalisti.
“Lottano” per il bene
del Paese.
Contro i Terroristi
e la Mafia.
Loro,
che dentro son più tristi
dei più tristi eversori.
Arrampichini.
Arrivisti.
In nome del Popolo (Avanti!
Sempre Avanti!), in perfetta
Unità arraffano
capitali – si fabbricano
ville.
Investono
all’estero, mentre “auspicano”
(Dio, quanto “auspicano”)
pace e giustizia.
Loro,
i veri seviziatori
della Giustizia in nome
(sempre, sempre in nome!)
del Dollaro e dell’Oro.
Guardateli, i grandi attori:
i guitti.
Degni
– tutti – dei loro elettori.
Proteggono i Valori
(in Borsa!) e le Istituzioni…
Ma cosa si nasconde
dietro le invereconde
Maschere?
Il Male
che dicono di combattere?…
Toglieteceli davanti.
Per sempre.
Tutti quanti.
Giorgio Caproni
Da G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1999
*In copertina e nel testo: opere di David Lynch
L'articolo “Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti”. Il poeta e il
politico proviene da Pangea.
Nel 1982, per la Faber del loro antico mentore, T.S. Eliot, Ted Hughes e Seamus
Heaney – che senza troppa imprecisione possiamo definire i più autorevoli poeti
in lingua inglese del secondo Novecento – curarono un’antologia folle fin dal
titolo. The Rattle Bag ha a che fare, nello stesso tempo, con una sacca piena di
cose che tintinnano, con un pasticcio – anzi, un pasticciaccio – e con i
serpenti a sonagli. C’è qualcosa, al contempo, cioè, di infantile e di
pericoloso, di carnevalesco e di carnale in quel titolo. Credo che l’antologia
venga venduta ancora oggi – l’ultima edizione risale a un ventennio fa.
Nella brevissima nota introduttiva, gli autori dissero di scelte arbitrarie, di
una estetica del capriccio, di poesie “dal fascino singolare che continuano a
trasmettere il proprio segnale vagabondando in questo vasto e volubile mondo”.
Bisogna sempre dubitare dei poeti: anche quando sorridono, celano coltelli. Per
descrivere un’antologia creata “per accumulo”, quasi per sbaglio e per caso, i
poeti usano la parola cairn. Un cumulo di pietre. Un tumulo. Un segnale d’alta
via di pietre impilate una sull’altra. Un idolo, insomma. Con la pietra si può
lapidare e si può edificare, si distrugge e si costruisce. Chi conosce la poesia
di Heaney e di Hughes, ancorata com’è alla vita a mani nude, al nomadismo
verbale, ai campi e ai boschi, ai primordi, a un andare a rapina, sa il peso
della parola cairn.
Due anni dopo l’uscita di The Rattle Bag, Ted Hughes sarebbe stato eletto “Poet
Laureate” del regno. Molti anni dopo, nel 2003, Seamus Heaney ritornò a
quell’impresa in un saggio che s’intitola Bags of enlightenment. Ritornò,
intendo, sul concetto di capriccio e di arbitrio: “Un’arbitraria ricchezza più
che lavoro istituzionale: questo cercavamo… Il nostro criterio era divertire
prima che educare”. Di qui le scelte – su cui arrivo tra un attimo – dettate dal
desiderio di stupire, orientate all’eccelso, sì, ma anche all’eccentrico. L’idea
era quella di creare una ‘scatola delle meraviglie’ per gli amanti della poesia
e per gli studenti.
> “Se alla fine di un anno scolastico anche soltanto una di queste poesie
> resterà impressa in uno studente, sarà stato un traguardo notevole. Una poesia
> del genere può essere percepita come un possesso prenatale, una garanzia di
> interiorità e di legame con le origini. Può diventare la cruna verbale
> attraverso cui un ragazzo può passare più e più volte, fino a quando non
> l’avrà imparata a memoria, fino a quando non diventerà un sentiero tra il
> cuore e la mente, un sentiero in cui quell’individuo potrà ripetutamente
> entrare, verso il regno della rettitudine e della gentilezza”.
È davvero un maestro, Seamus Heaney. Credeva nella letteratura – secondo gli
insegnamenti di Matthew Arnold – “come mezzo per la diffusione generale della
generosità e della luce”.
In sostanza, The Rattle Bag raduna le poesie preferite da Heaney e da Hughes –
non è un caso che l’ultima poesia della raccolta, You’re, sia di Sylvia Plath.
Tra gli autori antologizzati – tolti alcuni inni dei primordi e certe
filastrocche popolari – spiccano Auden e William Blake, Shakespeare e Emily
Dickinson, Lewis Carroll, Kavafis, Robert Frost. Appaiono, però, soprattutto,
autori per lo più ignoti (almeno a me) come Padraic Colum e Allen Curnow,
Kenneth Fearing, Dafydd Ap Gwilym e Hyam Plutzik. Ancora oggi l’antologia di
Heaney-Hughes è giudicata eclectic, instructive and inspiring.
Uno spazio consistente in The Rattle Bag è dedicato all’‘onda’ dei poeti
dell’Est Europa; tra costoro, uno dei più rappresentati è il poeta ceco Mirolav
Holub, con cinque testi. Nel 1988, con la consueta, violenta enfasi, Ted Hughes
dichiarò che Holub “è tra la mezza dozzina di poeti più importanti al mondo”.
Non l’avevo mai sentito prima di pochi giorni fa. Nato a Plzeň nel settembre del
1923, tradotto in inglese fin dagli anni Sessanta, Miroslav Holub, in realtà,
fece carriera come immunologo. Da qui, l’ispirata nitidezza dei versi, l’ironia
aspra, il fiabesco inchiodato a un ritmo geometrico, il lirismo che si fa
apodittico, ‘scientifico’. Anche Mirslav Holub – secondo i canoni degli
scrittori ‘a Est’ – recinta l’assurdo in una scrittura da stenografo. Fu
tradotto presto e con straordinario successo nel mondo inglese: nel 1967 la
Penguin editò un’antologia di Selected Poems, introdotta da Alfred Alvarez; fu
il primo di molti libri. La Faber radunò i suoi saggi – che oscillano tra
argomenti letterari a temi scientifici – come The Dimension of the Present
Moment (1990); Poems Before & After è uscito nel 2016. In Italia, Holub non ha
attecchito, marginalizzato in uscite sporadiche, di poco peso. Il poeta è morto
a Praga nell’estate del 1998.
Holub fa parte della lunga lista di poeti-scienziati che confortano il canone
della poesia europea. Più di altri – e con una certa dose di spavalderia – ha
ragionato su questi estremi della sua vita, spesso inconciliabili. “Negli
ambienti scientifici cerco di nascondere il fatto che scrivo versi. Gli
scienziati tendono a diffidare dei poeti: ritengono che siano delle persone con
uno scarso senso di responsabilità”. Allo stesso tempo, i poeti diffidavano di
Holub perché era uno scienziato… A Heaney le poesie di Holub piacevano perché
“mettono a nudo le cose, ci mostrano non tanto il cranio sotto la pelle, ma il
cervello che sta sotto il cranio”.
Nel 1967, a Spoleto, Holub incontrò Ezra Pound. Scrisse – lo sketch è tradotto
in calce all’articolo – di una figura statuaria, dei suoi occhi azzurri, di una
mano “gelida, di pietra”. Cesare Cavalleri incontrò Pound a Venezia, nel 1971.
Disse anche lui degli occhi azzurri – “due laghi d’azzurro” – e della “mano
gelata”; disse che Pound era “assorto, rannicchiato, vivo” (in: C.
Cavalleri, “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria. Una
conversazione con Jacopo Guerriero, ELS La Scuola, 2018). In un articolo uscito
sul “Corriere della Sera” l’11 aprile di quello stesso anno (ora in: E. Pound, È
inutile che io parli. Interviste e incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021)
anche Indro Montanelli scrisse degli occhi di Pound, “non ne avevo mai visti di
eguali, una cascata di luce blu”, della sua figura, “marmorea”, di una “bellezza
al di fuori di qualsiasi corrente archetipo”. In questa ricorrenza di ciò che
pietrificato pietrifica c’è il genio di Pound, ultimo della stirpe dei giganti.
Quando l’Unione degli scrittori della Cecoslovacchia propose a Holub uno
stipendio equivalente a quello che aveva come ricercatore scientifico per darsi
alla letteratura, il poeta si negò. “Amo la scienza. Se avessi tutto il tempo
del mondo per scrivere versi, non scriverei più nulla”. Scriveva nei ritagli, da
apolide alla poesia, in affanno, affascinato dal tutto.
***
Discorso sull’angelo canide
Lacrime di luce sull’asfalto: mentono.
Forse pensava a una cagna
o ricordava un osso –
coltelli negli occhi di ruote malvage
che afferrano spaccano schiacciano –
ha la mascella rotta
striscia, guaisce – no!
cade, mugola, geme
resta immobile.
La gente, intorno,
lo fissa:
un angelo cane
peloso e nero
con ali madide di fango
e quell’infinito dolore
che si moltiplica dalla sua aureola
sopra le pozzanghere.
L’oscurità
sfrega le mani
sul corpo e risuona
in colonnati verso il cielo.
Lo dragano via.
È solo una pezza
uno straccio per il cimitero
e nulla più.
L’angelo
delle tegole
annusa i camini
e rosicchia le ossa delle stelle cadenti.
*
Breve riflessione sull’identità
Giorno dopo giorno nulla è uguale a se stesso.
Né i fiumi né le capre né i profeti.
Se l’oggi è uguale a domani
non tutte le cose restano
uguali. Perché quando una cosa
cambia, cambiano anche le altre.
Le cose non sono sole: dipendono
in modo claustrale da altre cose,
per lo meno in parte. Dunque,
sai, non sai mai…
Anche i profeti appartengono a questo
sistema di relazioni fisse. Come le parole. Come
le capre e il latte. Come il sangue.
Per questo, è piuttosto difficile
riconoscere le proprie parole, il proprio
sangue, il proprio profeta e la propria capra.
Molto difficile. Ma ancora e ancora
ci tentiamo, in modo da non ricavare capre
dai profeti o sangue dal latte.
Pretendiamo che le cose abbiano un’identità
mentre ci trasformiamo nel nostro doppio
e marciamo lentamente nell’oscuro abisso del tempo.
*
Il giardino dei vecchi
È scaltra l’edera, cresce
ovunque e dell’erba
incolta nessuno fa più
caso. Sotto gli alberi
l’invasione di frutti gotici.
Crollò l’oscurità, mitologica
e senza denti.
Ma Minotauro l’ha sconfitta
grazie a un buco nella recinzione.
Da qualche parte, Icari
impigliati nella ragnatela.
Durante una luminosa mattina
i cespugli rivelarono
lo spudorato, grigio
osso frontale dei fatti.
Boccheggiava, senza più parole.
*
Breve riflessione sull’accuratezza
I pesci
sanno sempre con precisione dove e quando muoversi,
all’unisono
gli uccelli hanno un innato senso del tempo e
dell’orientamento.
L’umanità
è priva di tali istinti, per questo ricorre alla ricerca
scientifica. La sua natura è illustrata dal seguente esempio.
Un soldato
doveva far esplodere il cannone ogni giorno alle sei di sera.
Era un soldato, obbediva. La sua accuratezza fu spiegata così:
L’orologio
della vetrina, in città: mi baso su quello. Ogni giorno alle
diciassette
e quarantacinque, monto sulla collina dove è pronto il
cannone.
Alle diciassette e cinquantanove mi avvicino al cannone, alle
diciotto in punto sparo.
Ora era chiara
la ragione di quella accuratezza. Non restava
che controllare il cronometro. Fu dunque interrogato
l’orologiaio.
L’orologiaio
disse che quello era uno degli strumenti più precisi in
assoluto.
Immagini, ormai da molti anni un cannone spara ogni giorno
alle sei in punto.
Ogni giorno, nello stesso istante, il mio orologio segna
esattamente le sei.
Gli orologi becchettano, i cannoni esplodono.
*
Incontro con Ezra Pound
Non so se siano stati creati prima i poeti o i festival.
Tuttavia, è stato un festival a farmi incontrare Ezra Pound.
Era seduto su una sedia, in una piazza di Spoleto; mi spinsero verso di lui. Gli
porsi la mano, la afferrò, fissandomi con quegli occhi azzurri che varcarono la
testa, perdendosi, lontani. Non si mosse. Non lasciò la mano, dimenticò gli
occhi. Fu una lunga stretta, come quella di una statua. La sua mano era gelida,
di pietra. Impossibile liberarsi.
Dissi qualcosa. I passeri mi interruppero. Un ragno rampicava sul muro, tastava
la pietra con le zampe anteriori. Un ragno che capiva il linguaggio della
pietra.
Un treno merci si conficcò nel tunnel del mio cranio. Un controllore in blusa
blu mi salutava, cupo, dall’ultimo vagone.
È interessante il tempo che ci vuole perché un treno merci come quello passi.
Poi ci separarono.
Anche la mia mano era fredda: aveva toccato la Via Lattea.
Dunque i treni merci esistono. Un ragno sulla pietra esiste. Esiste la mano e la
mano in sé. Esiste anche un non incontro ed esiste un incontro con una non
persona. Esiste un tunnel – un intero reticolo di tunnel, vuoti e oscuri, che
mettono in contatto la materia vivente che si chiama poesia ai festival.
Potrei avere incontrato Ezra Pound – eppure, in quell’istante non esistevo.
*
Il giudizio finale
Una lavatrice automatica
è accesa – lava
strizza, asciuga.
Come un angelo che mastica
chewing gum. Come il granito
che perfora il quarzo.
Qualcuno maledice il mare
ma non lo senti.
Piume d’oca vagano in cucina.
Le tue piccole dita scompaiono
sotto la porta.
Mosche: piccole Icaro che
tappano le falle del labirinto.
Hai un bell’aspetto, figlio mio
dici mentre ti coglie l’infarto.
La lavatrice lavora.
Vi entrano banchetti luculliani
c’è anche la granola.
E i riflessi. Cadono lettere
bene ordinate. E balene
che nuotano e denti innumerevoli.
Entrano i ricordi, escono
i codici della strada.
Bianco. La lavatrice lavora.
Chi pagherà la banda?
Dov’è il ballo dei pompieri?
Dove suonerà il flauto stretto
dal gelo? Come superare
l’ombra di un libro?
Bianco di fuliggine dilavata.
La lavatrice gira
e tremano le mani di Discobolo.
L’eternità è misurata
con precisione al secondo.
Sì.
In un panorama di giochi
bisogna giocare fino alla fine.
In un panorama di fango
la via d’uscita è
la lavatrice.
Quando è il caos
le vie a senso unico
sono un sollievo.
Quando sei in via d’estinzione
la precisione vale più di un dio.
In questo rumore
bianco esco da una porta
che mi porta
in questa stessa stanza.
*
Una favola
Si costruì una casa
le fondamenta
di pietra
i muri
il tetto sopra la testa
il camino e il fumo
la vista dalla finestra.
Si fece un giardino
il recinto
il timo
il lombrico
la rugiada, a sera.
Si ritagliò un pezzo di cielo.
E avvolse il giardino nel cielo
e la casa nel giardino
e il tutto in un fazzoletto
poi se ne andò
solitario come una volpe artica
varcando il freddo
e quella infinita
pioggia
per il mondo.
Miroslav Holub
L'articolo Rosicchiando le ossa delle stelle cadenti. Sulla poesia di Miroslav
Holub proviene da Pangea.
Si dice che l’uomo abbia imparato a cacciare dal lupo, osservando il modo in cui
questo si muove in gruppo, concepisce il terreno, annusa l’aria, spazializza la
sua fame e il suo destino. Cacciare, in fondo, significa mappare e mappare
implica disegno e misura. Disegnare, a sua volta, ci insegna a pensare in
termini di futuro e passato, di desiderio e fine. In un certo senso, il lupo ci
ha reso poeti.
Il ciclo Confessioni del lupo raccoglie i frammenti di un’elegia esplosa e
scheggiata in onore di questo animale, in cui ancora collettivamente e
simbolicamente riconosciamo diverse apoteosi: ferocia e tenerezza, intelligenza
e istinto, fiuto e indipendenza. Quel mosaico di forme variopinte e a volte
grottesche, il cane, non sarebbe il nostro più devoto alleato, con il suo
affetto che sembra sfidare ogni logica, se non avessimo, seguendo i nostri
capricci, riscritto il destino genetico del lupo. Dovessimo sparire dalla faccia
della terra, anche il prodotto della nostra selezione artificiale sparirebbe con
noi. Il cane tornerebbe alla sua unica e vera dimensione possibile, tornerebbe a
essere lupo – o comunque un animale molto simile al Canis lupus, come
vividamente immaginato da Richard Jefferies in After London (1885) uno dei primi
romanzi post-apocalittici dell’era moderna, dove branchi ferali vagano in
un’Inghilterra riconquistata dalla natura.
Nel mio ciclo, il lupo si confonde, come in una pittura rupestre, con elementi
umani. Se lì si intreccia, si fonde con il carbone applicato, il sangue, il
fuoco che ha guidato il disegno, con la luce millenaria imprigionata nelle rocce
calcaree; qui, si mischia con la marmellata di mirtilli, l’asfalto, il seme
schizzato sulle lenzuola. Nella poesia finale del ciclo, ho immaginato un
lupo – uno di quelli realmente reintrodotti negli anni Novanta del secolo scorso
nel parco di Yellowstone –il suo iniziale disorientamento, il panico di fronte
all’ignota sensazione della fame, fino al primo morso, alla successiva
diminuzione della popolazione di cervi. Pare che i biologi si fossero messi le
mani nei capelli all’inizio, incerti sulla bontà del loro progetto, finché, dopo
un paio d’anni, videro gli alberi crescere, non più decimati sul nascere dai
troppi erbivori ingordi. E con gli alberi ai bordi dei fiumi tornarono i
castori, e con le loro dighe nuove popolazioni di insetti e uccelli, finché
persino il corso dei fiumi cambiò. Il lupo non aveva solo rinvigorito
l’ecosistema: aveva trasformato persino la geografia del parco.
Il ciclo Confessioni del lupo è tratto da un libro in fieri. Mi piace pensare a
questa raccolta, alla quale lavoro dai primi mesi del 2023, come a una sintesi
dei due libri precedenti, Habitat e La grande nevicata, con cui andrebbe a
formare una sorta di trilogia. Non so se la parola “sintesi”, con quel
retrogusto hegeliano, sia davvero quella giusta per definirne l’identità, ma è
vero che in queste pagine ritornano sia la riflessione ecologica e topografica
che ha animato Habitat, sia quella meteorologica e memoriale che
contraddistingue La grande nevicata. La differenza è che in questi testi più
recenti emerge con maggiore forza – e una certa virulenza – la dimensione
elegiaca, intesa tanto come lamento quanto come celebrazione. Forse ciò è dovuto
al mio ritorno a Rilke, così pervasivo e dominante negli ultimi due anni: un
ritorno esplicitato in modo un po’ ironico, ma non per questo meno radicale e
sentito nello pseudo-sonetto Saggio sugli angeli e, soprattutto,
in Borgeby. Questo toponimo, di non facile ubicazione, rimanda alla cittadina
svedese dove il poeta soggiornò per un certo periodo, nel 1904, e da cui inviava
lettere cariche di attesa per le meraviglie policromatiche e dinamiche
dell’autunno che si sarebbero presto rivelate. Rilke veniva dall’estate calda,
monotona e statica di Roma e non vedeva l’ora di immergersi nei cieli in
subbuglio dell’autunno nordico. Quella mia poesia è, a suo modo, una lettera a
un destinatario non nominato – una lettera priva dei caratteri riconoscibili
della corrispondenza – in cui gli accenni a una quotidianità claustrofobica si
intrecciano a frammenti di geografie fluide, umane e non-umane.
Federico Italiano ritratto da Dino Ignani
La poesia – anche quella più difficile o apparentemente inutile – è radicata
nella realtà, possiede una propria causalità, simile al suono generato dal vento
che attraversa la “Æolian lyre”, l’arpa eolia, evocata da Shelley nella
sua Defence of Poetry. Essa nasce dall’incontro tra due realtà oggettive che,
interagendo, si trasformano, si traducono, generando una terza entità, un terzo
oggetto, la poesia stessa. Questa, a sua volta, darà vita a ulteriori pieghe del
reale. In tal senso, la poesia non solo agisce sulla realtà, la poesia è realtà.
Federico Italiano[1]
Borgeby
Provai a percorre tutti i fiumi di Francia
sulla carta limnologica a colazione –
c’era la Loira in blu, l’Aveyron
in rosa, la Mosella in verde
e tutti i tributari,
tutti gli affluenti,
nei loro correspettivi colori.
Mappai le vene di un mammifero
immenso, squartato e deposto
sul tavolo autoptico della Storia
ma finito il caffè mi alzai,
feci andare il lavastoviglie
e dimenticai i fiumi,
il prosciutto, la Francia e il sangue,
per scrivere di un poeta vegetariano
che da Borgeby in Svezia mandava
lunghe lettere alla moglie
sull’autunno imminente,
sul vento che non cessa, sul turgore
dei frutti, sulle cicogne più giovani
ormai indistinguibili da quelle più anziane.
*
Saggio sugli angeli
Le ossa degli angeli si flettono elastiche
ma si possono fagliare se esposte
troppo a lungo all’atmosfera terrestre.
Sono un mix di cellule e collagene, come le nostre,
solo che al posto dei fosfati hanno uranio
espulso dalla supernova Tycho.
Simile a quello degli uccelli, il loro sterno è ampio,
a forma di ascia, con un osso biforcuto
sotto il collo: non fosse per le piume sulle ali
e i così biondi boccoli, ne aprirei con piacere uno
lungo il torace per capire cosa si nasconda lì
dentro – se una stufa celeste, un ingranaggio divino –
cosa gli faccia splendere madreperla la cute
insinuando la finzione del sangue sulle gote.
*
Confessioni del lupo
1.
La notte è un mostro gigante
che ho sfamato
centinaia di volte
bruciandomi le mani e il pube.
Ho il pelo radioattivo,
sono un pericolo.
Le viscere della terra – una mucosa
che si prende gioco di me.
*
3.
impronte latenti
Con l’eloquio di una perdita còlta
in flagrante, l’umidità mi ha tradito
svelando al lampadario
e a tutte le finestre dirimpetto
gli esiti della mia pressione, strani
fischi nel mio sistema di valvole,
le crepe nelle mie guarnizioni,
l’odore di caviale sui lenzuoli
e il beneficio atteso di uno schizzo,
di una goccia – una nota, una bozza d’essere.
*
4.
lupo vegano
Quando nel cielo scomparvero tutte le pecorelle
intimorite dal mio gioire nel guardarle
smisi di provare piacere con gli occhi
e rinnegai Dio-Lupo
dedicandomi a funghi psicotropi e arbusti aromatici
per lenire l’acidità nel mio stomaco
e l’infiammarsi dei miei pensieri grigi.
Un mattino, passato l’inverno, le greggi tornarono
in cielo, infinite pecorelle candide come neve,
ma non avevo più gli occhi per contemplarle
né avidità nei lombi, estinta
era la gioia indivisibile
di chi divora il giorno senza masticare
e non teme il suo vero colore.
*
5.
die Füchse brauen
[le volpi fanno la birra]
Quando dai boschi sale la bruma o la foschia
ammanta brughiere e villaggi
dicono sia colpa delle volpi
che fabbricano birra nelle loro tane
come se quei loschi canidi rossi
sappiano discernere il malto
dal luppolo. Che ingenui –
le nebbie salgono dalle mie lingue
quando ansimo per raffreddarmi il sangue.
*
6.
Aldo Leopold
Solamente la montagna ha vissuto
così a lungo da capire davvero –
dicono – il mio ululare.
Ah, ma si sbagliano:
per ogni mio lamento c’è un lupo
oltre il bosco che si interroga e risponde
un filo d’erba che si piega,
un sassolino che scricchiola
sotto le mie zampe contratte nel canto
una foglia che cadendo cambia
direzione e colpisce
un efemerottero mentre ispeziona il suo stagno
una lepre che medita
immobile sulla fine dei giorni
e un assiolo solitario che si eccita.
*
7.
Pelle
aggrottata
lingua del passato,
duna, radioattiva spiaggia
intertidale, pergamena o lenzuolo,
ti indosserò fino alla fine, senza cedere nulla,
neanche un millimetro, neanche una molecola, pel-
le.
*
10.
Yellowstone
National Park
Mi reintrodussero senza darmi istruzioni
vagai senza una mappa guaendo
e fornicando per sconforto
con l’orrore
dei crinali negli occhi
e il pelo che si rizzava a ogni alito
di vento o al ronzio di un calabrone.
Non sapevo neanche cosa fosse la fame finché
qualcosa si contorse e m’inondò di saliva
le mascelle: un profilo tondo –
una coscia,
vicino al ruscello,
ben tornita – le mie pupille
s’espansero e addentai un futuro di sangue.
Dopo qualche inverno si ridussero i cervi
i germogli perdurarono, divennero
alberi, crescendo lungo le rive,
i castori
ebbero legna per le loro dighe –
nicchie per marmotte e idrofile – un giorno
vidi un astore inchinarsi al mio passaggio.
La mia fame assestava il corso dei fiumi
fortificava colline e spargeva fiori
nel verde indiviso delle vallate
ogni mio morso
dava agli alberi il tempo
di fare corteccia, mettere muscoli
resistere al vento, cambiare le topografie.
*Per gentile concessione si riproducono parte dell’introduzione di Federico
Italiano e una selezione di testi, pubblicati integralmente nell’ultimo numero
di “Poesia” (Crocetti Editore, n. 33, settembre-ottobre, 2025)
In copertina: schizzo preparatorio di Rubens per “La caccia al lupo e alla
volpe” (1616 ca.)
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[1] Federico Italiano ha pubblicato, tra l’altro, “Nella costanza” (Atelier,
2003); “L’invasione dei granchi giganti” (Marietti, 2010), “Habitat” (Elliot,
2020), “La grande nevicata” (Donzelli, 2023). Ha tradotto, tra gli altri, Jan
Wagner (per Bompiani e Einaudi), Michael Krüger e Durs Grünbein; è tradotto in
inglese, spagnolo, ungherese, ebraico, svedese e un certo numero di altre
lingue. Lo trovate anche qui: http://www.federicoitaliano.com
L'articolo “Confessioni del lupo”. Una silloge di Federico Italiano proviene da
Pangea.
Dylan Thomas accettò di fargli da testimone di nozze. Era il 4 ottobre del 1939,
non poteva rifiutare: conosceva Keidrych Rhys, gallese di Bethlehem, da una
vita; spesso lo aveva pubblicato sulla rivista che dirigeva, “Wales”. Keidrych
sguazzava con agio nell’editoria dell’epoca – nel ’44, per la Faber di Sir T.S.
Eliot, avrebbe pubblicato un’importante antologia di Modern Welsh Poetry – ed
era un gran bevitore. Nel ’39 Dylan Thomas, già superstar della letteratura
anglofona, aveva licenziato, per Dent, The Map of Love; Keidrych compiva
ventiquattro anni; la festa, a Llansteffan, annaffiata d’alti alcolici, si
protrasse fino a notte.
Più che per Keidrych, gli astanti andarono in visibilio per lei, la sposa.
Trentenne, di una bellezza estranea, Lynette Roberts – in verità: Evelyn
Beatrice Roberts – era alla sua terza vita. La prima l’aveva passata in
Argentina: nacque a Buenos Aires, negli agi; il papà, Cecil Arhur Roberts, era
un ingegnere ferroviario che dal Galles si era trasferito prima in Australia,
poi in Sud America. La prima lingua di Lynette era lo spagnolo: restò scolpito,
in lei, il vello bruno, taurino, del Rio della Plata; l’indolenza – e
l’equivalente violenza – dell’Argentina.
La seconda vita di Lynette ha per levatrice una ferita, uno squarcio: poco prima
di compiere quattordici anni, sua mamma muore di tifo. Lei e le sorelle –
Winifred e Rosemary – furono spedite a studiare in Inghilterra, alla Central
School of Arts and Crafts. Di quella vita, si ricordano i lunghi viaggi – in
Ungheria, Austria, Germania, al seguito di un’amica, Kathleen Bellamy, inviata
per “La Nacion” – e l’avventura di aprire un negozio di fiori, “Bruska”, a
Londra. Aveva cominciato a scrivere versi a Madeira, ispirata dal clima, da un
angelo interiore, spinato.
Keidrych l’aveva conosciuto da poco, durante una lettura pubblica. Si sposarono
all’improvviso, con inattesa furia: la terza vita di Lynette cominciò a
Llanybri, villaggio di campagna nel Carmarthenshire, dove si era trasferita con
il marito. Voleva riformulare le proprie origini gallesi. Voleva scriverne.
Voleva scrivere. Dylan Thomas la licenziò con poche, apodittiche parole: “che
ragazza curiosa, si dichiara poetessa a pieno titolo, in pieno petto… ha tutti i
crismi dell’isterica”.
L’amore con Keidrych durò un decennio – i due divorziarono nel ’49 – e un paio
di figli, Angharad e Preiden. Lentamente, Lynette deragliò nell’insania; aveva
un precedente, in famiglia: il fratello Dymock, schizofrenico, finì in un
ricovero di malati di mente appena sedicenne, a Salisbury, fino alla morte.
Negli anni gallesi – di povertà, certo, ma anche di una gioia frugale, informe,
di albatros e brughiere –, Lynette scrisse tanto – e magnificamente. Trovò in
Edith Sitwell – poetessa-pitone, dall’enigmatico, viscido genio – una mecenate e
una confidente; figura tra le figure di rilievo nella tabula gratulatoria de La
Dea Bianca, il capolavoro di Robert Graves. Erano amici, lei gli raccontava
diverse storie scardinandole dall’antica mitologia gallese, lui scrisse che
“Lynette Roberts è uno dei pochi autentici poeti viventi”.
I suoi versi entusiasmarono un lettore altrimenti raggelato come Eliot: nel 1944
pubblicò con la Faber i Poems, seguiti, nel 1951, dall’opera più ambiziosa, il
poemetto God with Stainless Ears, in cui il dato leggendario si fonde con il
contemporaneo, la “baia brulicante di uccelli” si commisura a “soldati e corpi
corazzati”. È poesia audace, quella di Lynette Roberts, a tratti involuta, con
invenzioni che la collocano nel più alto lignaggio della poesia inglese
dell’epoca. In un testo – a dire di un ardore –, Transgression – non certo il
più bello –, rifà la Genesi:
> “All’inizio Dio non volle altro che se stesso.
> E questa immensa emissione di luce eruttava orrore
> attraverso i cieli senza aver nulla da fare.
> Conosceva il bene e il male, e noia lo torturava.
> Sapeva la vita, e gli venne a noia”.
A leggerla, viene in mente Fernanda Romagnoli, avrebbero potuto essere amiche.
La stessa dinamica le anima: una poesia apparentemente cristallina, emanata da
un ematoma del cuore, che in un istante mette le unghie, azzanna. Lo stesso,
spaesante istinto nel percorrere l’insolito, l’insoluto. In una poesia –
tradotta in calce – Lynette Roberts scrive che i gabbiani le ricordano le
“lacrime dei turisti”.
Sfinì, in uno sfarfallio di inquietudini, Lynette. Nel 1956 le fu dichiarata
schizofrenica – due anni prima aveva pubblicato un libro, The Endeavour che
romanzava intorno al “primo viaggio di James Cook in Australia”. Una volta
radicata, volle sradicarsi. Vagò per diversi sanatori; morì il 25 settembre del
1995. Sepolta nel cimitero di Llanybri, che aveva celebrato più volte nei suoi
versi, chiese una lapide sobria, una scritta assolutoria: Lynette Roberts, poet.
Dylan Thomas aveva visto giusto.
I suoi versi – dalla potenza assurda, dissennata, estranea alle mode – furono
dimenticati presto; per quarant’anni, Lynette rifiutò di scrivere perché la vita
la rifiutava. Nel 2005 Carcanet pubblica, a cura di Patrick McGuinness,
un’edizione dei Collected Poems, seguita, nel 2008, da Diaries, Letters and
Recollections. Fu, decenni dopo, un’autentica scoperta, Lynette, d’insperata
freschezza. Quest’anno, come A Letter to the Dead, esce una nuova edizione
dei collected poems, arricchita da materiali d’archivio.
***
Premonizione
Quando angoli di ferro blu e
grumi di erba rada, a grottesche
recedono furtivamente da qui
e lasciamo una moltitudine allo spazio
mentre crolla dal tuo sorgere
un saluto, accetto l’impercettibile
pallida notte, il suo volto ciclope
in cui nascondere la mia paura, di ghiaccio.
*
Non è stato facile
Mentre brilla la legna e brucia
abbiamo spartito la nostra frugale
felicità; mentre sulla grata, fredda, colava
la cenere, ci siamo nutriti ai cancelli
della povertà; idioma dell’umiliazione
e del disastro. Non è stato facile.
Non lo è ora. Eppure, infuriava tempesta
sul quieto verde volto del pianeta.
*
L’ipnotista
Continuava a fissarmi, quella volpe
nel bosco – con un gesto di gioia
pitocca ho deriso la sua audacia:
e ora mi veglia, è lì, presso quell’albero.
*
Spina di sangue
C’è chi divora la piana fino alle anche della notte
chi slega gli uccelli al volo e dilaga
per leghe perché vuole vedere l’osso
del bisonte, fiero come una pietra,
c’è chi separa il mais e fa scempio
di questa luce sciroppo:
questa è la dura, mostruosa condizione
di chi nasce e piange in un’alba gialla
in un’alba gialla come il limone.
Un cuore rompe il ghiacciaio della notte
è lì e fa scoppiare un’aquila di carta
e c’è chi trascina il giorno in una cappa
di gioia di pianto di mania:
questo giorno è stato esaudito: un bimbo è nato
un bambino ci è nato.
*
Gabbiani
Planano lenti i gabbiani, senza paura
preferiscono perdersi come lacrime
di turisti: il molo e la nave cominciano
a muoversi e cominciamo
a piangere, così, senza motivo.
Gridano i gabbiani ricordando
l’oceano dell’incertezza
e la brutalità dei marinai, mere
mosche ai margini della nave.
I patti si stringono, si rompono
e il rimpianto ci muove immotivato:
lacrime crinite d’ira, cretine,
scavano solchi sulle guance.
*
Blu ellittico
È freddo e i gabbiani, le mucche del cielo,
muggiscono, cercano cibo e sorvolano
l’acqua blu: allora penso alla neve.
Quando penso sono sola.
Penso al mare, alle sue immense onde
onde piene di occhi che dicono
alle onde, cercate i morti perché
i morti non sono davvero morti.
Perché, è vero, il mare offre più di ciò che afferra
e stigma di morte non grava sull’uomo – il mare
concede ai morti una via di fuga: i gabbiani lo sanno
e scalpitano presso le stalle del cielo.
*
Madrigale verde
Vedi, il mio ospite è un albero:
cresce nonostante il dolore
le sfide e la difficoltà
di crescere.
È verde, è risoluto:
anche se respira angoscia
sprigiona pace, la pace della mente
e cresce e si muove
e cammina con verde tenerezza
lungo la terra:
cielo e sole sigillano il suo essere
come io vorrei fare con il tuo.
*
Coniglio accoppato
Sdraiato nel cristallino del crepuscolo
sono io il suo singolare difetto
e i suoi occhi, come stelle dimentiche,
si schiudono in una nebulosa distante anni luce.
Desiderano che il passato sia scuro come la notte
che il futuro sia piena luce e caritatevoli raggi.
Eppure so, per un sapere ancora arcano,
in qualche moto centrale del mio essere,
che tutto risorgerà, che tutto si volgerà
a me circondandomi, come gli anni luce
ruotano, invisibili, sul loro fuso di ghiaia.
Lynette Roberts
L'articolo “Un cuore rompe il ghiacciaio della notte”. Vita lirica di Lynette
Roberts proviene da Pangea.
È stato Roger Munier, munifico in amicizia, a far incontrare Martin Heidegger e
René Char. Era il 1955, Jean Beaufret aveva invitato Heidegger a un
convegno, Qu’est-ce que la philosophie?, a Cerisy-la-Salle; Jacques Lacan
avrebbe ospitato il filosofo tedesco a casa sua. Ne sortì, tra estremi, un
legame possente. Undici anni dopo, Char invita Heidegger a Le Thor, in Provenza,
a parlare di Eraclito.
Nato a Nancy il 21 dicembre del 1923, Roger Munier aveva incontrato Heidegger a
Todtnauberg, nella Foresta Nera, nel 1949: aveva ventisei anni, cominciò a
tradurre la Lettera sull’“umanismo”, uscita, infine, nel ’53 sui “Cahiers du
Sud”. Si era avventurato in Germania per sfidare, viso-nel-viso, quell’uomo che
gli aveva in certa misura cambiato la vita. Heidegger, come sempre, maculato di
sorrisi e di allusioni, fu cordiale, generoso, di quarzo.
Che figura straordinaria quella di Roger Munier: ha tenuto insieme mondi,
spiriti, con l’arguzia di una merlettaia del pensiero; sì, proprio come una
devota figura di Vermeer, sempre a distanza dal centro verminaio del quadro –
per eccesso di sapienza –, sempre così azzurra.
Scoprì Heidegger mentre studiava teologia tra i Gesuiti: per un po’, Munier fu
folgorato dall’ordine, stigmatizzato da una specie di conversione. Mollo tutto
nel ’53, impegnandosi, da allora, nei ranghi dell’Otua (Office technique pour
l’utilisation de l’acier), organizzazione legata all’industria siderurgica, per
cui ricoprirà alti incarichi. In Francia, si legò a Paul Celan; riceveva
biglietti affettuosi da Emil Cioran. In Giappone, si innamorò della poesia
orientale: ne amava l’asciuttezza, la tirannia dello sguardo, quelle immagini al
contempo brusche come un colpo d’ascia, tenere come un fiore. La passione
fermentò in un libro, Haiku, pubblicato da Fayard nella collana di documents
spirituels “L’espace intérieur”, diretta proprio da Munier; tra i titoli in
catalogo spiccano un saggio di Thomas Merton sul Taoismo, la Guida spirituale di
Miguel de Molinos, il padre del “quietismo”, la biografia di Milarepa tradotta
da Jacques Bacot (attualmente in catalogo Adelphi) e un libro di Julius Evola
sullo yoga tantrico. A corredo del libro, eletto alla bellezza, un sublime
saggio di Yves Bonnefoy, Du haiku.
Negli anni, Munier, figura tanto centrale da restare elusiva ai più, eletta da
un istinto allo straniamento, si trincerò dietro un fortino di autori-totem: a
lui dobbiamo la traduzione in francese di Angelo Silesio e di Antonio Porchia,
di Roberto Juarroz e dei libri più importanti di Octavio Paz. Per i “Cahier de
l’Herne” voltò nel proprio idioma Che cos’è metafisica?, il celebre lavoro di
Heidegger; per le edizioni Fata Morgana ha tradotto e commentato l’ottava
delle Elegie duinesi di Rilke: lo affascinava il punto di “completa lacerazione”
della poesia, quello in cui “la visione si apre, finalmente, senza schemi né
limiti, e lo sguardo, liberato, si effonde nella profondità dell’animale”.
Nel 1973 Gallimard aveva pubblicato L’Instant, indocile esordio poetico di
Munier. Si legge, in quel procedere per frizioni e slogature grammaticali – che
sorbite in calce all’articolo –, lo sgocciolio di Celan; soprattutto: i
vagabondaggi nel linguaggio di Eraclito. Con “l’Oscuro” di Efeso Munier si
confronta per anni: nel 1991 Fata Morgana pubblica un’edizione
dei Fragments che, a dire di chi sa, resiste per aurea nitidezza. Anche qui:
Munier è affascinato dal crollo del linguaggio, dalla sua imbestiata
beatitudine, da una solitudine solare – scrive di una “parola-cosmo, il primo e
ultimo dire di tutte le cose”. Come a dire aiuto – come a dire amore.
Autore di un’opera erratica, dal 1995 comincia a raccogliere i diari con il
titolo simbolico Opus incertum(qualcosa esce per Gallimard, poi è gara tra
diversi editori, per una mole di oltre tremila pagine; l’ultimo tomo, La Voix de
l’érable, Opus incertum VII, Mars 1995 – Septembre 1997, è uscito quest’anno per
le edizioni Arfuyen). Si tratta, scrive Munier, di “pensieri quotidiani che
s’incastrano l’uno nell’altro con un certo disordine, non senza un movimento
segreto che li governi… è un percorso da nottambuli”. Disordine, segreto, notte.
Già: omaggiare il linguaggio nella sua disparità; romperne il carapace, essere
capaci nel fuoco.
In questa tratta nell’aldilà della parola, è quasi naturale che Munier abbia
ingaggiato una lotta senza quartiere con Rimbaud, con quel dire senza diaria,
senza ricompensa. Nel 1976, per “Archives des Lettres modernes”, cura una
inchiesta, aujourd’hui, Rimbaud…, che mette in fila pensatori, scrittori, poeti.
Tra i tanti, partecipano Le Clézio e Bonnefoy, Derrida e René Char, che rinviene
con un’illuminazione:
> “Bisogna vivere Rimbaud, l’inverno, attraverso un ramo verde la cui linfa
> ribolle e schiuma nel camino, nell’indifferenza di un fuoco di ceppi morti che
> si inchinano”.
Naturalmente, all’alto consesso partecipò, avvolto in titanica stola, anche
Heidegger; come sempre, portò il discorso in un altrove terribile: “Intendiamo
con sufficiente chiarezza, nel dire che dice la poesia di Arthur Rimbaud, ciò
che tace? Vediamo, già, l’orizzonte a cui è giunto?”.
Nessun punto di sutura tra noi e il linguaggio – dacché la parola esiste per
scatenarci. Dunque: si dice per recidere (non per recitare, non per decidere).
Muore, infine, Roger Munier, nell’agosto del 2010, riposa a Xertigny, nei Vosgi,
la terra degli avi; un bel sito è consacrato alla sua memoria.
***
I privi di tutto
Chi nomini – cosa?
Nulla ha nome
il nome nomino.
Il mare non conosce
la tua musica – tu
ignori la sua
È l’albero
che freme al vento
o il vento
che freme nell’albero?
Chi si muove:
albero o vento?
Un corvo nero, aguzzo
nel giorno opale
artiglia l’opale.
Il brusio del torrente
se nessuno lo intende
è niente.
Non esiste brusio
non è che nulla.
Ma urla.
Il canto
del Nulla.
Predilige l’alba
che nel suo imbelle chiarore
tiene sotto chiave la notte.
Qualcosa viene
il solo che viene
e non viene
porzione del nostro oblio.
Il tempo avviene
infaticabile
continuo come il divenire
di ciò che viene.
Tutto è chiuso
e si conferma
nel centro della sua notte.
Tutto ciò che si spalanca
è ferita.
Il giorno non sfugge alla notte
né la notte al giorno:
ciò che esiste esiste
perché sia annientato.
Il nulla non è il terribile:
terribile è la lotta
nel giorno della sua apparizione
questa agonia che viene.
Cercò una parola
l’ultima parola.
Quella che metterà
fine a quel dire
inutile e infinito.
Soltanto una parola
ha tale potere.
Niente
non c’è da dire
su ciò che ci fa
parlare.
Dicembre 1974
*
Da La traccia
Destituire. Strappare.
Nulla se non l’aleatorio
eppure non è caos.
Quando perdi il filo
e insinuarsi non è più possibile
quando l’ostacolo è massiccio
compatto, continuo
allora tocchi il continuo
l’esattezza del continuo
continuamente.
Niente che possa vedere
niente – è indubbio. Niente
è lì se non lo vedo.
Fissa… cosa? L’istante? No.
La figura. Quella che appare e sparisce
nel volgere dell’istante.
Che rinvenga
che ritorni dissotterrato
il puro momento
che tutto miracolosamente
disfa – essendo sé
(nello splendore) e dunque
indistinto, fuso
nell’unità perenne…
Il cielo si copre.
Remissione, rapimento.
Nel grigio del mare:
il caglio del tempo.
Se viene, se è
è nel deviare. È come
decentrato e devi
sporgerti per raggiungerlo.
Nell’inatteso – di lato.
No, il sole in effetti
non si leva né cala.
Nel ritrarsi della traccia
appare, al di là di ogni
designare. Insignificante
apparenza: non è che
se stesso. Perde perfino
il nome.
L’uccello riceve la pioggia
nel becco, nel cranio tesi
verso ciò che precipita.
È pioggia? No: specie
di crollo, l’impalpabile
si effonde e affonda
un venire, un avvento
silente, dall’alto.
La pioggia, la pioggia…
Come la fine di una
distanza.
La gioia risaputa
non è più gioia
gioia non è – nulla
può essere identificato –
poi: identità comincia.
La pioggia cessa
all’improvviso
qualcuno la trattiene
è riottosa, reticente. Poi:
comincia a martellare
ricomincia, incerta…
Il tempo – cos’è il tempo?
Tutto è lo stesso ed è
immobile, ma mai
un precedente.
Nuvole: grigia
lega, lenta lana
che nega, assolve
la sera, svanisce.
**
Da Haiku
Ah… poter essere
un bambino
il primo giorno dell’anno
(Issa)
*
Mi sono voltato
ma l’uomo si era
già perso nella nebbia
(Shiki)
*
Sovrasta il mare
un sole ingabbiato
tra rovi di nebbia
(Buson)
*
Pioggia di primavera –
e ogni cosa
torna a splendere
(Chiyo-ni)
*
Nel più lungo giorno
muschio negli occhi
che fissano il mare
(Taigi)
*
Ignaro
del lignaggio del luogo
un uomo taglia l’erba
(Shiki)
*
Anche sulla legna
ammassata per il fuoco
nascono germogli
(Bonché)
*
Prima che l’ipomea
fiorisca, consumiamo
il pasto: siamo umani
(Basho)
*
Ho colto la peonia:
stasera mi coglie
una profonda nostalgia
(Hokushi)
L'articolo “Il canto del Nulla”. Su Roger Munier: un poeta-pensatore tra
Heidegger e Celan proviene da Pangea.
La prima lassa della Terra desolata, poema pentagonale di Thomas S. Eliot,
s’intitola The Burial of the Dead, “il seppellimento dei morti”. Come si sa,
Eliot parla di aprile, the cruellest month e di Unreal City, cita – senza
apparente coerenza – Wagner, Dante, Baudelaire. Nell’affastellarsi di luoghi
comuni e figure sacre, appaiono Madame Sosostris, specie di degradata
Iside, famois calirvoyante, la Dama delle Rocce e the lady of situations, in un
cortocircuito tra lascivia e verginità; il tempo è sospeso tra la battaglia di
Milazzo – prima guerra punica, 260 a.C. – e l’oggi, sancito dall’anonimo
traffico umano che scorre – latenza di frode, flatulenza d’inganno – sul London
Bridge. Il figlio dell’uomo, ormai, nulla può più sapere dei “rami che crescono/
su queste macerie”: non è che “un mucchio di frante immagini”. Il poema di Eliot
non è affatto “sepolcrale”, non appartiene al genio di Thomas Gray o di Edward
Young (preromantici malsopportati dal T.S.), né a quello – con sopraggiunti
accenti ‘eroici’ – di Foscolo. Con The Waste Land, Eliot scrive le esequie della
poesia occidentale – poesia ‘rituale’ (proprio perché irrituale nel linguaggio),
rivolta ai morti, a vivificarli.
*
Mi hanno colpito le parole di Charles Wright in una delle sue rare interviste.
Il giorno della morte, il grande poeta americano – benché non credente –
vorrebbe farsi accompagnare dal Burial of the Dead, il rito funebre della Chiesa
anglicana, accolto nel Book of Common Prayer. In effetti, anche l’opera di
Wright – che nasce all’ombra di Ezra Pound, il gran maestro di Eliot – è una
specie di servizio della parola rivolto ai morti.
Va ancora riferito, con umile sfarzo, il rapporto vitale tra preghiera e poesia.
*
Il tema di questo articolo: la parola efficace rivolta ai morti. Parola che si
radica nella landa dei morti: come crescerà; come chiamare quel virgulto
alfabeto; come intendere quel puledro verbo?
Alcune parole – un formulario formulato da uomini – hanno effetto nell’aldilà. O
meglio: agiscono nei pertugi tra questa vita e l’altra, l’autentica (stando al
religioso dire). Il corpo matura come un frutto, come una crisalide, e ciò che
sboccia – l’anima, lo spirito, il ‘respiro’, l’elan dell’altro, l’atman, la
rancura o l’amore che ci fa viventi – vaga, disorientato, indeciso, nel regno di
mezzo tra il mondo e l’oltre mondo. L’anima – chiamiamola così, per capirci –
cresce, deve svilupparsi, deve scegliere e compiere delle prove prima di
approssimarsi all’assoluto. L’anima trasmuta, mette il pelo – l’anima ha sete.
Il rito aiuta l’anima in questa catabasi o ascesa.
L’anima ha bisogno di un patrimonio di linguaggio, di un abbecedario, per capire
chi è e dov’è. Il rito: corde, ramponi, piccozze per aiutare l’anima a rampicare
la schiena di Dio.
*
Cosa succede se l’anima – o come vogliamo chiamare il polline del corpo – è
priva di linguaggio? L’anima è disorientata, s’imbestia, cresce in ira e rimorso
– le crescono i denti. Un uomo, per emergere da sé, per ergersi, deve morire.
Esistono i non-morti: anime disperse, che non hanno trovato lo spiraglio per
accedere all’altro mondo, restano recluse in questo. Anime incattivite. Che
mordono. Che tormentano. Gli sciamani siberiani uscivano fuori di sé per placare
le anime violente; come per concertare con gli spiriti il successo del parto.
> “Da questo luogo
> sotto il grande sole
> cominciò a camminare
> Per tre giorni
> egli va così.
> Nella direzione davanti a lui
> era un’isola-nube
> tre grandi tende…
> salì veloce sul palo
> che sostiene le tende
> salì nel cuore del fuoco
> come coleottero di ferro”.
*
Allo stesso modo, la preghiera per i defunti: linguaggio che conforta l’anima
nella prova. Nessuna nostalgia in questo infondere coraggio. Puro esercizio di
linguaggio: consuonare ai morti, con loro cantare.
*
La Commedia di Dante non è forse un immenso tentativo di conciliarsi con i
morti? E poi: trovare il linguaggio con cui colloquiare con Dio. Dunque:
intendere il linguaggio con cui i morti si rivolgono a noi, ora.
*
Oltre che ‘comunicare’ tra di loro, gli uomini manovrano il linguaggio per
mettersi in comunicazione con i morti. La poesia nasce quando Gilgameš scopre
che l’uomo è morituro: alza il lamento funebre sulle spoglie dell’amico Enkidu,
va alla ricerca dell’immortalità. Allo stesso modo, l’Odissea è il grande canto
dell’amore mortale rispetto all’ardore ultraterreno, è il poema dei figli che
cercano i padri, il poema degli avi conficcati negli eredi – dalle
invocate-evocate ombre (libro IX) agli spettri dei Pretendenti, che s’involano
come pipistrelli, alla fine del poema.
Orfeo non può far risorgere dai morti – blanditi dal suo canto – l’amata
Euridice: in quel voltarsi, in quel ‘gioco degli occhi’ è il momento in cui
nasce la lirica occidentale, in cui il poeta si scinde dallo sciamano. I morti,
da allora, rivivono nel canto, nel giogo della malinconia, nella grigia gioia
del rimpianto. Non più compimento, ma compianto.
Édouard Manet, Cristo morto sorretto dagli angeli, acquaforte, 1866-1867
*
Dalla Laura di Petrarca al Moammed Sceab di Ungaretti. I morti agiscono sui
vivi, fino a modellarli. Quanti viventi vivono conformandosi a una promessa
conclusa con chi non è più qui? Quanti viventi sono il calco dei morti? Quanti
viventi vivono credendo di poter ‘riscattare’ la memoria di un morto?
A volte, i morti ci incatenano. I morti si nutrono della nostra vita.
A volte, incateniamo i morti – succhiamo i loro empi capezzoli.
Al contrario, la parola rituale, The Burial of the Dead: parola efficace tra i
morti, parola vivente. Sono i vivi, qui, che agiscono nell’altro mondo – che si
fanno consegna, offerta. Che piantano torce sul torace dell’altro mondo.
*
Parola vivente, parola vivanda.
*
Di cos’altro dobbiamo parlare, in questo tempo moribondo, se non della parola
che opera sui morti (e dunque, sulla vita)? Non più atto di supremazia magica,
superamento di ogni mantica: suprema spoliazione, piuttosto, dedizione. Spiumare
la lingua fino a ossea ispirazione.
*
Millenaria tradizione di dialogo con i morti. Ad esempio: il Libro dei
morti egizio. Sessione di liriche indicazioni – dunque: etiche – per uscire
indenni dal giudizio degli dèi, presieduto dal dio-sciacallo, Anubi.
> “Concedete che il defunto venga a voi,
> lui che non ha peccato
> che non ha mentito
> che non ha commesso male
> che non ha fatto alcun crimine
> che non ha reso falsa testimonianza
> che nulla ha fatto contro se stesso
> ma che vive di verità
> si nutre di verità.
> Dovunque ha sparso la gioia.
> Di ciò che ha fatto
> gli uomini parlano e gioiscono gli dèi.
> Egli si è conciliato gli dèi con il suo amore”.
I testi che compongono il Libro dei morti “appartengono alla liturgia che
accompagnava il seppellimento e venivano deposti accanto al morto mummificato,
affinché se ne valesse come istruzione nell’affrontare il regno d’oltretomba”
(Alonso M. Di Nola).
Questo m’interessa. La parola che agisce nell’aldilà. Parola umana che, al più
puro punto di raffinamento, al più limpido monile, esiste per parlare ai morti.
Parola che istruisce il defunto. Per questo: è opera pia, opera necessaria,
inserire nella tomba del defunto – nella tasca dei pantaloni, nella camicia –,
un testo-talismano. Una poesia. Parola che non leghi il defunto, ancora, a
questa terra, che non lo ancori, ancora, al qui; che lo sprigioni. Parola che
non reclama possesso, ma che liberi – che conforti senza confinare. Parola
d’oltreconfine.
*
Grande brigante: il sacerdote carda i morti sul petto, per guadare, guidandoli
nell’altrove. Qualche verbo in borraccia.
*
La differenza tra il Libro dei morti egizio e l’apparentemente analogo Libro
tibetano dei morti, il Bardo Thödol, secondo l’immenso Giuseppe Tucci:
> “Gli Egiziani cercarono di salvare il corpo dal corrompimento che fatalmente
> dissolve ogni cosa creata: l’integrità del corpo è necessaria per la
> continuazione della vita nell’oltretomba. Per i Tibetani il cadavere si brucia
> o si squarta o si abbandona sulle montagne, perché le bestie da preda e gli
> uccelli lo divorino.
>
> Per gli Egiziani la morte è definitiva, delimita due mondi. La sopravvivenza
> nel mistero che essa dischiude è sopravvivenza individua; cioè della medesima
> creatura che già visse in questo mondo e colà perdura con le stesse parvenze e
> lo stesso nome. Per i Tibetani la morte o è il cominciamento di una nuova
> vita, come accade per le creature che la luce della verità non rigenerò e
> trasse a salvazione, o il definitivo disparire di questa fatua personalità –
> effimera e vana come riflesso della luna sull’acqua – nella luce
> indiscriminata della coscienza cosmica, infinita potenzialità spirituale.
> Continuare ad esistere in qualunque forma di esistenza, anche come dio, è
> dolore: perché esistenza vuol dire divenire, e il divenire è l’ombra
> dell’essere, un sempre rinnovato corrompimento, una pena che mai si placa”.
Il Bardo prevede almeno due settimane di prossimità con il moribondo, aiutandolo
a vincere terrori e interrogativi, per condurlo alla “grande liberazione”. La
liturgia, che stempera il tempo nell’eterno, il buio in bulimia di luci, si
dispiega in versi, per ipnotizzare ogni illusione.
> “Mentre sorge in me il Bardo della Vita
> lascerò ogni futile pigrizia che ruba il tempo
> e affronterò il Sentiero dell’Ascolto, della Riflessione,
> della Meditazione concentrandomi sull’Insegnamento
> con il dono di un corpo umano
> svelando la vera natura dell’illusione
> realizzerò i Tre Corpi lasciando ogni indugio
>
> Mentre sorge in me il Bardo del Sogno
> spegnerò il tenebroso sonno dell’ignoranza
> concentrando la mente nel suo stato naturale
> svelando la vera natura del sogno
> senza sprofondare nel sonno dei bruti
> mediterò sulla Chiara Luce della Miracolosa Trasformazione
> portando questa pratica nel sonno”.
Ho citato alcuni versi che presiedono il Bardo Thödol vero e proprio, nella
versione approntata da Ugo Leonzio per Einaudi nel 1996. Superba, per glaciale
nitidezza, la nota biografica che cinge Leonzio, estroso scrittore, studioso di
allucinogeni e di Céline: “nato a Milano, ha viaggiato nelle regioni himalayane
per studiare le pratiche rituali di cui questo libro fa parte”.
*
Anche il Rito delle esequie cattolico è di sublime bellezza quanto a
composizione. D’altronde, è il rito centrale, ‘pasquale’ – il momento in cui la
fede nella resurrezione dei corpi è messa alla prova. Al sacerdote che guida il
rito – ma che non è univoca guida: a noi il compito di procedere nel canto, a
rincuorare e aiutare il morto – è chiesta particolare preparazione. Alle
preghiere canoniche – alcuni Salmi, per lo più – si alternano parole scritte
apposta per la cerimonia; queste, ad esempio:
> “Con questa fede nel cuore ci accingiamo a deporre,
> come un seme, nel sepolcro
> il fragile e corruttibile corpo
> del nostro fratello (della nostra sorella) N.,
> con la piena fiducia che nel giorno della sua venuta
> il Signore lo(a) farà risorgere incorruttibile,
> nella pienezza della sua gloria.
> Rinnovando perciò la nostra adesione di fede, diciamo:
> Tu sei la vita e la risurrezione nostra, Signore Gesù!
> Tu che hai pianto la morte dell’amico Lazzaro,
> trasfigura le nostre lacrime nella gioia della tua salvezza.
> Tu che al ladrone pentito hai accordato il tuo perdono
> e promesso il paradiso,
> avvolgi il nostro fratello (la nostra sorella)
> nel tuo abbraccio di misericordia e di vita.
> Tu che sei stato spogliato delle tue vesti
> e, avvolto in bende, sei stato deposto nella tomba,
> fa’ indossare la splendida veste della vita immortale
> al nostro fratello (alla nostra sorella),
> che viene a te nella nudità della morte”.
*
Quanto, esaltando in retorica, in ‘letterarietà’, la poesia ha perso in
efficacia? Con quali parole parlano tra loro i morti? Qual è il linguaggio
dell’aldilà? Sussurro, latrato, biascichio, frattaglie d’angelo? Il linguaggio è
il principio della caduta o un metodo per ascendere?
*
Certo: il chiacchierio chiesastico, questa eco da oratorio, va rimeditato. Ai
poeti, dopo immenso sconvolgimento interiore, il compito di trovare la parola
che attecchisca ancora nell’aldilà.
*
Esalare l’ultimo respiro: slegare i nodi del linguaggio comune, che imprigiona e
castra, per eseguire l’altro, che disincastra, che libera.
Linguaggio: comunione tra i vivi e i morti. Lingua-ostia.
*
Penso ad alcune lasse del poemetto di Carlo Betocchi, In piena primavera, pel
Corpus Domini:
> “La tua mente illusoria rifiutala
> se non ha altri argomenti che te:
> e il tuo cuore, se non ha che i tuoi
> lamenti. Non avvilirti
> compassionandoti. Sii non schiavo di te,
> ma il cuore di ciascun altro: annullati
> per tornar vivo dove non sei
> più di te, ma l’altro che di te si nutra,
> distinguilo dal numeroso,
> chiama ciascuno col suo nome”.
È già parola efficace, questa, che non permette alla letteratura di irrompere,
corrompendo. Il letterario è la merce della lettera, ne è il baldacchino, la
baldracca.
Se un poeta non ha efficacia, se la sua parola non ha effetto su questo e
l’altro mondo, è un falso poeta. Non effonde – confonde.
***
La sepoltura dei morti
In piedi, tutti, intonano l’inno:
Io sono la resurrezione e la vita, dice il Signore;
chi ha fede in me, benché sia morto, vivrà;
chi vive e ha fede in me non morirà mai.
So che il mio Redentore vive
che all’ultimo giorno si ergerà sulla terra;
e anche se questo corpo sarà sbriciolato, vedrò Dio;
lo vedrò davanti a me, lo contemplerò con i miei occhi
non mi sarà estraneo.
Perché nessuno vive per sé
per sé nessuno muore.
Quando viviamo, viviamo nel Signore
quando moriamo, moriamo nel Signore.
Nella vita e nella morte siamo del Signore.
Beati i morti che nel Signore muoiono;
così sussurra lo Spirito, resi hanno riposo dal dolore.
Per la sepoltura di un adulto:
O Dio, dall’innumerevole misericordia: accetta le nostre preghiere per il tuo
servo, concedigli l’ingresso nella terra della luce e della gioia, nella
comunione dei tuoi santi, per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio, nostro Signore,
che vive e regna con te e con lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre.
Amen.
Per la sepoltura di un bambino:
O Dio, il cui diletto Figlio ha preso i bambini tra le braccia, benedicendoli:
donaci la grazia, ti preghiamo, affidiamo questo bambino alla tua infallibile
cura, al tuo inesauribile amore, conduci tutti noi nel tuo celeste regno; per
mezzo del tuo figlio, Gesù Cristo, nostro Signore, che vive e regna con te e con
lo Spirito Santo, un unico Dio, ora e nel sempre. Amen.
Consacrazione della tomba
Qualora la tomba si trovi in un luogo non destinato a sepoltura cristiana, il
sacerdote può recitare la seguente preghiera, al momento opportuno:
O Dio, il cui Figlio benedetto è stato deposto in un sepolcro nel giardino:
benedici, ti preghiamo, questa tomba e concedi che colui il cui corpo è qui
sepolto possa dimorare in Cristo, in paradiso, e raggiungere il tuo celeste
regno; per tramite di tuo Figlio Gesù Cristo nostro Signore. Amen.
Preghiera aggiuntiva:
Nelle tue mani, Signore, affidiamo il nostro caro fratello: che sia prezioso ai
tuoi sguardi. Lavalo nel sangue dell’Agnello, l’innocente che fu immolato per
annientare i peccati del mondo; perché, purificato, estinta ogni lordura
contratta in questa vita terrena, possa essere presentato netto, limpido e senza
macchia al tuo cospetto; per la grazia di Gesù Cristo, tuo unico Figlio e nostro
Signore. Amen.
Ricordati del tuo servo, Signore, secondo la grazia con cui favorisci il tuo
popolo: che cresca in amore e sapienza, per progredire sempre di più nella vita
di perfetto servizio nel tuo celeste regno; per Gesù Cristo nostro Signore.
Amen.
O Dio degli infiniti giorni, Dio della misericordia innumerabile: facci certi,
te ne supplichiamo, della brevità e dell’incertezza della vita; che lo Spirito
Santo ci guidi in santità e giustizia lungo l’arco dei giorni; quando avremo
servito i figli della nostra generazione, ci riuniremo ai padri, in retta
coscienza; nella fiducia di una fede certa; nel conforto di una ragionevole,
religiosa, santa speranza; nel tuo favore; in perfetta grazia con il mondo.
Tutto ciò che ti chiediamo è per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro. Amen.
Da: “Burial of the Dead. Rite One”, raccolto in “Book of Common Prayer”
*In copertina: Paul Troger, Cristo morto con angelo, XVII sec.
L'articolo “Dovunque ha sparso la gioia”. Parlare ai morti proviene da Pangea.
Caro Marco Maraldi,
le scrivo col cuore in mano per ringraziarla della parola di cui si è fatto
carico, parola nuova che ha avuto animo di scrivere, quasi pronunciare, e che
dilaga a fiotti, incessantemente, dalle pagine del suo libro Assalti (Fallone
Editore, 2025).
> “senza scendere non troverai nel temporale
> delle ustioni un’impronta solo tua”
>
> Tutto è morto
> qui – le galassie
> hanno preso anche la neve.
> Tutto è morto
> e insepolto tutto è
> morto perché non fa
> silenzio,
> qualcosa ancora tace.
> Sulle reni scucite il vestito
> batte piano
> il calendario di un’ascesa infinita.
> Non hanno trovato impronte
> nell’inverno della cenere.
Parola escatologica, cercata lontano, dopo la fine. Prima della parola sfinita,
appena un attimo prima della sua manifestazione ultima, insomma all’origine e
prima… diciamo prima di Hopkins, prima di Ungaretti, prima di Péguy, prima di
Rebora, prima di Eliot, prima di Turoldo, prima di Testori, prima di Luzi.
> “Baciami che io… ti segno dammi il pane… del collo, i milligrammi del respiro…
> la sostanza… non sono vergine… sono grande e ho una potenza che gli altri… non
> mi credono… ti voglio mostrare… baciami che io… ti segno che ti marchio a…
> febbre… non lo nascondere così… ti riconosco ci sarà… tempo… ci sarà un segno
> per ammazzarci nella polvere”.
Più che una preghiera è una confessione, o quello che resta, imploso nel
sentimento di verità raggiunto. Sentire come evento, come fulmine, o saetta che
avverte l’effetto impareggiabile del mistero. Arrivo perfetto e imprevisto,
temuto. Luce che sbianca nella luce altra e incandescente del dire. “[…]
custodisci il fiore dell’origine […]” (pag. 48). Spirito di ferro fuso, o rosa
pura scossa dal vento, sul ciglio di una voragine. L’impeto dell’essere,
investiti da questo, del sentirsi destinati a questo. Ogni fulminazione sembra
l’ultima e invece rappresenta un avvento, in quanto parola che si sta
significando nell’attimo stesso del dire, dello stare sul limite e toccarlo: Dio
è frantumato, invocato, attraversato, abbracciato, scandito, immaginato.
Nella prospettiva del mondo attuale “che risponde al progressivo cancellarsi di
Dio come Unico oggetto d’amore” (Michel de Certeau). Perciò esporsi significa
testimoniare (malgrado tutto!), raggiungere uno sconfinamento, affinché il
vissuto possa vivere negli altri, non gli ipocriti lettori (sebbene fratelli),
ma voce rivolta a buone volontà incarnate nel sapere, o della visione alimentata
dal sapere; spalancate, comunque, sul petto di Dio battente al suolo: voce
offerta con slancio.
> “Sei solo un’eco della divinazione. Non essere riconsegnato alla volgarità di
> avere un nome. Nessuno in te all’infuori di me – i fiori della grazia sono
> brace in bocca. Hanno cieli negli occhi e chiodo notturno. Tu rinasci
> nel senzanome. Dormi adesso, dormi – le parole sono piene di punte”.
Risuonano l’argento e l’azzurro dei Salmi (l’argento che riflette e l’azzurro
che assorbe il lampo della luce perenne). Che forza! Riecheggia tutto in sillabe
di sonagli che scoprono un canto scavato, scoperto laggiù, nel tempo (il prima
che dicevo, il prima che indica una radice mistica), e ora raggiunto. Poesia che
nasce per essere Lui, non come Lui. Insomma chiedere l’impossibile, perché è Lui
che fa.
> “C’è una lingua che non vuol parlare,
> infatti vuole solo accadere”.
Questi i due versi in esergo. Poi, a stringere i tempi, o l’intero spazio
poetico, che ha ansia di anticipare, ecco che si annuncia il riconsegnato.
All’elenco delle parole redatte dal profondo prefatore del libro, Lorenzo
Chiuchiù, e cioè esilio, rivolta, sacrificio, verginità, aggiungo un’altra
parola-chiave: riconsegna. Chi è il riconsegnato? Etimologicamente: ri è il
prefisso che restituisce e ripete il segno che sigilla, e l’azione del donare.
La riconsegna è all’amore, e la parola è un’offerta. Adesso c’è un nuovo
pensiero da fermare sulla carta, che equivale a un’immersione. Non è poesia
comune, sta piantata nel cuore, ed è strumento di ricerca e di strazio. Che sia
desiderio?, che si voglia dar fibra, adoperandosi così a un desiderio
d’infinito? Giacché c’è un grido dopo ogni segno d’interpunzione, come a dire:
finché ho fiato io ti cerco, io ti nomino. Il suo bussare batte e ribatte alla
porta senza tregua, per conoscere, ecco il perché, l’esigenza, della parola, del
discorso poetico.
Discorso impervio, eppure proprio da qui viene la spinta a capire, a cercare
d’interpretare una forma che pur nel suo espressionismo appare calibrata ad
alzare arcate su arcate architettoniche di pietre e fango, capaci di stare
contro il cielo, in rigoroso e innamorato disegno. Confesso: di fronte a questo,
io avverto la mia povertà, la mia miseria, ho paura di violare tutta questa
bellezza, tutta questa grazia!
> “Stelle del digiuno latte
> del firmamento, c’è
> l’ignoto a penetrare l’universo
> della fronte, quando anche il pane della terra riceve la sostanza
>
> sei solo e questa sete è già un miracolo. Sei nato riconsegnato, ed ecco: un
> non-pensiero si annida lì, colpevole nel sangue ascetico. Sei nato
> riconsegnato: con le sillabe in lotta e una lama che divora. Non hai chiuso
> gli occhi, poi ti abbiamo medicato le mani, ferite d’inchiostro… non ci hai
> avvertito (– bevi: questo è il destino; – bevi: è vino che ustiona; – benedici
> il flagello: questa è la carezza”.
P. S. Il nascere, ovvero: l’uomo e la parola si rinnovano. Ce n’è bisogno, ché
senza la poesia ogni cosa è spenta, ogni cosa è inutile. Alla riconsegna si lega
il tema dell’evento, va sottolineato. Sempre citando de Certeau, si può dire che
“il libro preserva un segreto che non possiede”. Il che è il massimo della
relazione. Splendido!
Vincenzo Gambardella
*In copertina: Giorgio Morandi, Vasi su un tavolo, 1931
L'articolo “Custodisci il fiore dell’origine”. Lettera di Vincenzo Gambardella a
Marco Maraldi proviene da Pangea.