Orfeo e Davide, re d’Israele, sono figure cardinali, incardinate al potere della
parola. Leggerle in filigrana permette di discernere affinità e differenze tra
Atene e Gerusalemme. Di Orfeo, il poeta primordiale, si dice che sapeva
ammansire le belve feroci, far marciare gli alberi e “persuadere, incantando, le
rocce che lo seguissero” (Euripide). Riuscì, secondo il mito, a muovere a
compassione Ade, il re degli inferi – il suo è un movimento ctonio, di catabasi,
per adempiere la resurrezione al sole.
Anche Davide, quando arma il canto, mette in fuga il maligno: “Davide prendeva
in mano la cetra e suonava; Saul si placava, stava meglio, lo spirito cattivo si
ritirava da lui” (1 Sam 16, 23). A differenza di Davide – dal cui lignaggio
scaturisce il Verbo che annienta ogni verbo, Gesù –, Orfeo è figura originaria,
a cui afferiscono i riti orfici. I misteri di Orfeo riguardano pratiche di
purificazione che non prevedono olocausto; Orfeo insegna il ritorno all’unità,
la separazione tra anima e corpo, la trasmigrazione dell’anima. “È l’estasi e la
sua follia a far sorgere la poesia di Orfeo… L’esperienza indicibile dei
misteri, in quanto non può esprimersi direttamente, trova nella poesia di Orfeo
un’espressione sostitutiva, compensativa” (così Giorgio Colli in: La sapienza
greca I, Adelphi, 1977). Secondo Angelo Tonelli, Orfeo, che “con la sua voce
portò tutte le cose nella gioia” (Eschilo), è una figura sciamanica (in: Eleusis
e Orfismo, Feltrinelli, 2015). La poesia moderna nasce, per così dire,
dall’avvizzimento della parola magica: Orfeo non riesce a riportare in vita
l’amata Euridice, per un pallido gesto di pietà. La poesia, da allora, muove il
cuore, non muta le forme.
Davide, uomo ‘carnale’ quant’altri mai, non è un iniziatore: egli sistema la
liturgia biblica – è il mitico compositore dei Salmi – e porta l’Arca a
Gerusalemme. Davide, tuttavia, ha caratteri ‘dionisiaci’: giovane, bello,
‘erotico’ – le donne, da Mical a Betsabea, si piegano al suo carisma – assume il
genio fondamentale degli adepti di Dioniso, la danza. La strepitosa scena
biblica (2 Sam, 14 ss.) di Davide che “danzava con tutte le forze davanti al
Signore”, forsennato, tra grida e suoni di corno, semisvestito, irrita la
moglie, Mical: dopo aver rimproverato il re, non avrà più figli da lui, “fino al
giorno della sua morte”.
Secondo sacra tradizione, Davide ha potere sulle bestie feroci – il lupo, il
leone e l’orso –: la mirabile immagine “le mie mani sono un flauto/ le mie dita
una cetra” (testimoniata nel Salmo 151, liturgico per la Chiesa ortodossa),
ricorda quella forgiata da Rilke per Orfeo, quando dice della “lieve lira/
cresciuta alla sinistra come un cespo/ di rose in mezzo ai rami dell’ulivo”.
Orfeo e Davide manovrano lo strumento a corda, a cui deve accordarsi la voce; la
lira e il kinnor (l’ebraica cetra) provengono dall’arco – l’arte lirica richiede
mira, è incrostata di sangue.
A differenza di Orfeo – decapitato dalle Baccanti – Davide, il musico guerriero,
sa volgere la cetra in arma, in fionda: uccide il mostro, lo decolla, si
rispecchia in quel cranio pari a un palazzo, lo pretende a sé, insieme all’Arca
(“prese la testa del Filisteo e la portò a Gerusalemme”, 1 Sam, 17, 54).
L’energumeno Golia, sapiente nell’arte della guerra, è una sorta di Sfinge e di
Minotauro, fusi insieme. Diversamente degli Inni Orfici, il salterio è canto
‘pubblico’: in Davide – qui la grande distanza da Orfeo – la dimensione poetica
si fonde con quella politica, il sacerdote è il re. Il genio sciamanico
(diremmo, biblicamente, profetico) scema di fronte alla necessità del governo –
dunque, della lotta perenne. Allo stesso tempo, i Salmi sono incanto e
incitazione, libagione di inni e urlo di guerra, canto che sprofonda negli
abissi dell’uomo – il Salmo 51, ad esempio, in cui Davide chiede a Dio “rendimi
puro” – e preghiera ‘nazionale’. I Salmi congiungono a Dio, ne placano la fame.
Orfeo e Davide – cioè, Atene e Gerusalemme – sono i punti attorno a cui si
forgia la poesia occidentale. Poesia dell’io e del mondo, poesia che sa il
mormorio dell’erba, l’ungulato e il ronzio; che sa avvinghiarsi a Dio e
rivolgersi ai morti, che allontana il male.
Abraham Bosse, Davide con la testa di Golia, 1651
Già Gianfranco Ravasi – in: I Salmi, San Paolo, 2006 – ravvisava nel salterio il
grande codice della poesia (“Per entrare in sintonia piena coi Salmi è
indispensabile aprirsi all’intuizione libera e al rigore della poesia”): nel suo
commento, sono molteplici i riferimenti letterari, da Thomas S. Eliot a Paul
Celan (legato in particolare al Salmo 16, “ti manda un bagliore attorno/
all’angolo destro”). Eppure, a parte sporadiche, pur luminose, sortite (da David
Maria Turoldo a Guido Ceronetti, da Massimo Bontempelli a Mario Luzi e Salvatore
Quasimodo), i letterati restano timorosamente distanti dal testo sacro. Da qui,
l’idea del Salterio dei Poeti: trentatré poeti, noti e ignoti, italiani e
internazionali, cattolici o atei (tra gli altri citiamo, Mariangela Gualtieri e
Daniele Mencarelli, Roberto Mussapi e Giuseppe Conte, Alessandro Ceni e Flavio
Santi, Andrea Temporelli, Gian Ruggero Manzoni, Tiziana Cera Rosco e Susan
Stewart, John Kinsella e Jorge Aulicino, poeta argentino che ha volto nella sua
lingua la Divina Commedia e le poesie di Pasolini), hanno tradotto, a modo loro,
in ebbra libertà, un salmo. Ne è venuto fuori un libro arcangelico e arcano
(presente, in edizione speciale, fuori commercio, nei luoghi del Festival
Biblico e presentato al pubblico sabato 31 maggio, ore 21.30, nel Brolo del
Palazzo Vescovile di Vicenza, insieme a Cristiano Godano), una sorta di
breviario lirico, laico, anomalo, frutto di un’impresa mai tentata prima:
sondare i legami tra parola sacra e poesia contemporanea. Non si tratta di
‘riverginare’ la poesia né di proporre una traduzione ‘alternativa’: opera di
abbandono, questa, piuttosto. Di asciuttezza ascetica – finanche
pericolosa. Sobria ebrietas: orfismo biblico. A dirla come piace all’oggi: il
genio poetico contro l’intelligenza artificiale. Noi preferiamo altro: ascesi.
Cioè: decapitare l’idolo, deflagrare in Dio.
**
Salmo 6
Signore nella tua ira non avvolgermi
Signore nel tuo furore non abbattermi
abbi pietà di me, son tutte un tremito
le mie povere ossa, guariscimi,
ha troppo forti brividi la mia anima,
sino a quando Signore vorrai permetterlo?
Salva tu la mia vita, mio Dio, volgiti
verso di me, con la tua bontà soccorrimi
nessuno tra i morti di te è memore
nessuno canta le tue lodi agli Inferi.
I miei lamenti mi stremano
sono spossato dai miei gemiti
bagno ogni notte il mio letto di lacrime
i miei occhi di pianto si struggono
tra tante mie pene invecchiano.
Via da me voi coi pensieri malefici
Dio ascolta del mio pianto il fremito
il Signore ascolta la mia supplica
e sa le mie lacrime accogliere,
i miei nemici siano affranti e tremino
si voltino via all’istante e si vergognino.
Traduzione di Giuseppe Conte
Giovanni Battista Scultori, Davide tenta di staccare la testa di Golia, 1540
*
Salmo 72
Detto di Salomone
O dio, dona il tuo consiglio al re
e la tua giustezza al figlio del re
perché giudichi il tuo popolo con misura,
anche i mendicanti, con giudizio.
Le montagne innalzino pace al tuo popolo
e i colli si adagino nella giustizia.
Distinguerà i pitocchi tra la gente
e salverà i figli dei poveri e umilierà il sicofante
e sarà sole e luna per generazioni e generazioni
e scenderà come pioggia sull’erba
come le stille istillerà la terra.
Cresceranno nei giorni la sua giustezza
e l’abbondanza di pace
fino a quando non scomparirà la luna,
e dominerà da mare a mare
e dal fiume sino ai limiti della terra abitata.
Gli Etiopi si piegheranno a lui
e i suoi nemici leccheranno la polvere.
I re di Tarsis favolosa e le isole offriranno doni,
anche i re d’Arabia e Saba porteranno doni
e si inginocchieranno a lui tutti i re
e tutte le stirpi gli si faranno schiave.
Così saranno liberati il miserabile dalla mano violenta
e il povero al quale non giunge aiuto
e risparmierà il miserabile e il povero
e salverà le vite dei poveri
dall’usura e dall’ingiustizia,
pagherà il prezzo del riscatto delle loro anime
e sarà onorato il loro nome davanti a lui
e vivrà
e gli sarà dato oro d’Arabia
e pregheranno per lui continuamente,
l’intero giorno diranno bene di lui.
Nascerà il grano nella terra sulle cime dei monti
il suo frutto si eleverà sul Libano
e fiorirà nel paese come erba dei prati.
Sia il suo nome benedetto nei secoli
e davanti al sole resisterà
e siano benedette tutte le tribù della terra,
tutte le stirpi lo rendano felice
bene sia detto il dio potente, il dio di Israele
il solo che fa meraviglie
e bene sia detta la sua gloria per sempre
e nei secoli dei secoli
e tutta la terra sia riempita della sua gloria.
Così sia, così sia.
*
Il grande passaggio
Non sapevo nemmeno se fosse il Salmo 71 o il 72. «Forse ho sbagliato» mi
confessavo, «Ho scritto al Festival che avrei tradotto il 72, ma ora ho il
dubbio che si tratti invece del 71…». Poi ho scoperto che la numerazione non è
univoca: ce n’è una ebraica e una greco-latina. Il Salmo che ho scelto è il 72
secondo la numerazione ebraica, e il 71 secondo quella greca, riferita alla
Bibbia dei LXX. Non conosco l’universo dell’esegesi biblica, ma il greco sì,
perché è la lingua della mia adolescenza, del ginnasio e del liceo. Lingua del
grande passaggio, cioè della traduzione dalla mia vita da bambina a quella da
adulta, segnata da una traduzioneancora più profonda: dalla vita con mio padre a
quella senza di lui — morto suicida un giorno di ottobre durante la mia seconda
liceo. So come ho fatto a sopravvivere: mi sono accorta che dovevo concentrarmi.
E l’esercizio della traduzione, per esempio, era efficace e benefico. Un
continuo movimento dal latino o dal greco all’italiano e viceversa, e anche dal
latino al greco e viceversa. L’esercizio della traduzione mi ha traghettata, mi
ha tradotta in una nuova fase della vita. E io mi sono affidata a questo, mi
sono persa nelle lingue, ho camminato tra radici e radure, afferrandomi a legami
sintattici, cedendo all’incanto dei significanti, accendendo correspondences e
significati. Tradurre ha assorbito il mio dolore come una spugna un liquido.
Sono stati il greco, o il latino, ad avermi tradotta. Blandivano la mia
sofferenza in una perfetta misdirectionillusionistica capace di riorientarmi con
la magia bianca — come direbbe l’amico Davide Brullo — dell’etimologia, dove
tutto vive in un intrico di sentieri, immaginari o veri. Presa in ostaggio nel
bosco arbustivo dove rovi innumerabili impigliano gambe, ogni abito, finanche i
capelli, non mi resta che trovare la strada come chi è abbandonato, con pazienza
e intuizione e coraggio. Tra i cespugli indistinti, tutto al primo sguardo è
cupo e confuso. Provo una direzione, che ritorna su se stessa; ne tento un’altra
che finisce nel fitto impenetrabile. Poi, grazie al miracolo di un dettaglio, le
forme iniziano ad apparire: sono le briciole che conducono fuori.
Un esempio: quando ho incontrato il Salmo 72, ne sono stata intimorita. Mi sono
trovata sola davanti alle parole di Salomone, trasportata da una potenza immensa
in un luogo ancestrale, sollevata in volo, come fossi un granello di polvere
leggerissimo. Non conoscevo il Salmo, credo di non averne mai letto alcuno.
Prima di sceglierlo, ne ho passati in rassegna diversi, in lingua italiana, e ho
preferito il 72. Il motivo della scelta è ovviamente misterioso. Probabilmente
sono stata presa dalle montagne, dalle colline, dal deserto, dal grano e
dall’erba dei prati. E poi dalla giustezza, cioè la misura di dio, che se
accolta, fa accadere lo smisurato. Dal potere orfico della pace che fa muovere
la natura, dalla giustizia e dalla natura, che sono della stessa fatta. Dal
fatto che la giustizia è abbondanza di pace, e la pace avrà la natura
dell’abbondanza. Sì, tutto questo è luminoso e come la luce, scorre. Ma prima,
ho dovuto entrare in un luogo più oscuro, e quella misura di cui sopra, mi ha
guidata nel discernimento (τὸ κρίνειν) dello ptochós (πτωχός) dal pénes (πένης).
Eccolo qui il bosco fitto della traduzione. I due termini si confondevano l’uno
nell’altro nelle versioni che avevo esaminato. Ma se in tutto il Salmo
comparivano due termini differenti, anche io dovevo ben trovare la strada per
questo discernimento. Boscaglia massimamente spinosa: serviva rivolgersi
al Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots di Pierre
Chantraine, strumento esoterico. Qui inizia ad aprirsi la radura parlante. Qui
lo ptochós è il mendicante, l’indigente, l’accattone, il pitocco che vive
nello ptóa (πτόα) ovvero nello spavento o nel terrore, perché ptésso (πτήσσω) è
spaventare, far sbigottire, essere terrorizzato e terrorizzare, ma anche
acquattarsi, rannicchiarsi, appiattirsi per il terrore, detto di persone e di
animali. In questo fitto cespuglio di rovi troviamo anche una lepre — davvero! —
che si nasconde. «Lo ptochós è colui che non può che fuggire e chiedere aiuto»,
leggo nel Chantraine — e in effetti ptóx (πτώξ), variante di ptochós, è epiteto
della lepre, e poi è detto di piante che si schiacciano al suolo. Tuttavia nel
greco tardo, infine, assume solo il significato di povero. A me sarebbe piaciuto
tradurlo con pitocco, perché questo fa eco al suono del greco ptochós,
ma pitocco è parola forte, che avrebbe attratto tutto il Salmo, se fosse stata
ripetuta con l’insistenza con la quale lo è nel testo originale. Ho scelto
invece di frantumarlo in una costellazione formata
da pitocchi, mendicanti, miserabili, che inevitabilmente hanno indebolito il
suono esplosivo occlusivo pt in favore di quello nasale bilabiale m, e di quello
più fluido delle parole intere. Quanto al termine pénes, indicante il povero che
deve lavorare per vivere, e fare fatica quotidiana, è stato decisamente meno
complicato: povero non si impone acusticamente come pitocco e nella sua
neutralità significante, ho potuto ripeterlo lungo tutto il corso del Salmo.
Sempre seguendo il Chantraine, nella radura di pénes ci sono diverse radici ad
armare il terreno: c’è il grado forte pon presente in ponos (πόνος), che rimanda
al mondo della fatica, della lotta, della sofferenza fisica, affrontate nel
lavoro quotidiano. Bene anche il fatto che povero mantenga la labiale p e la
vocale o. E si sente anche solo lontanamente una minima risonanza
tra pénes e povero, soprattutto quando la parola greca è declinata al genitivo,
divendo trisillabica. Infine vorrei dire di quella piccola congiunzione e, in
greco kái (καί), che in tutto il Salmo viene ripetuta venticinque volte, e in
essa mi è sembrato di intravedere il filo di una collana lasciato visibile da
perle che si separano perché non sono fissate da nodi.
Con Walter Benjamin credo che la traduzione sia profondamente una connessione di
vita, Zusammenhang des Lebens, un esercizio di sopravvivenza dell’opera e di chi
ne opera il passaggio.
Traduzione e commento di Roberta Castoldi
Robert van Audenaerde, Davide con la testa di Golia, XVII sec.
*
Salmo 139
Dal tuo orizzonte lontanissimo mi scavi
e stasi o movimento che io sia, mi misuri
e incombi e pervadi e ogni strada
che nomino si svolge in te, sempre più in te.
Se sillaba aperta appena schiocca in questa bocca, tu sai – tu sei –
il discorso compiuto,
mano che pesa
presenza che urta – esame del volto – tu per sempre,
fatalmente, di fronte.
E non so quale sapere tu sia, che accadi
dentro i miei inferi, e nei paradisi. E se mai
una mano esista che mi afferri anche là, nei confini
che tocco con le ali dell’alba, è la tua, ancora.
E parlare desiderando che la notte mi ammanti
e si chiuda su di me ogni luce – ogni vita –
pur sapendo che in tutte le oscurità
per te splendono nascite
e collassi siderali e luci e giorni primordiali.
Lo sa bene, questa anima: accucciato nel ventre
della donna, tessendo le fibre le reni le ossa
nel segreto delle midolla della terra,
ero un grumo
e mi hai guardato, marchiando i giorni che saranno i miei.
Molteplice intero – la tua incalcolabilità.
Sommerso in pensieri cari, non sondabili, che sono
e si moltiplicano come sabbia se li raccolgo,
Io, giunto alla fine, uscito
dal Grande Sogno,
ancora in te mi ritrovo.
Un giorno, un lungo dolore colpirà chi sparge
il sangue innocente, e chi sparla di te
come tu fossi il dio
di un qualsiasi nulla, vanamente.
Odio chi ti odia, è vero, e non dovrei?
E lo odio con odio perfetto, fissandolo
come si fissa il nemico nella lotta.
Ma tu scrutami, Signore, e sfasciami il cuore,
esponimi alla tua prova e leggi i miei sentieri:
se è in me la via della vanità o quella luminosa
dell’eternità.
Ancora scavami. Conducimi.
Traduzione di Gabriel Del Sarto
*In copertina: Pietro Novelli, Davide con la testa di Golia, XVII sec.
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poesia proviene da Pangea.
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Così appunta Elias Canetti, è il 30 luglio del 1966:
> “Leggo poesie in tutte le lingue che conosco, e in traduzione, quando sono
> scritte in lingue che non conosco, ma cerco di farmi almeno un’idea di quelle
> lingue… Sfoglio libri su tutti i possibili animali. Torno ad ascoltare, cosa
> che da moltissimi anni non facevo più, le mie care voci degli animali”.
Canetti associa la lettura della poesia alla voce animale – imparare lingue
sconosciute, cioè: imparare la parola del lupo, l’urlo dell’ungulato, il cigolio
della gazza. Il brano è in un libro, Processi. Su Franz Kafka (Adelphi, 2024),
di inclassificabile bellezza. Inutile ricordare la presenza ‘animale’, da
strenuo classificatore, nei libri di Kafka: florilegio di sciacalli e ratti, di
cani e di pantere, di cavalli e scimmie. L’opera di Kafka è un bestiario;
valicare il simbolo a cui sottende quella singola bestia vuol dire franare nella
follia.
Ad ogni modo, che scena magnifica. Uno dei più potenti intelletti del secolo,
Canetti, che, nel suo studio, ascolta le voci degli animali, per liberarsi dal
linguaggio umano (si legge poesia anche per questo: per sobillare il linguaggio,
per liberarsi da umana lingua). Per chi fosse interessato, Canetti fa
riferimento ad Animal Language, libro fotografico del 1938, con due dischi “che
riproducevano i versi degli animali africani di giorno e di notte”, ideato da
Julian Huxley, il fratello di Aldous, che è stato, tra l’altro, il fondatore del
WWF, l’uomo che ha inventato la parola Transhumanism, transumanesimo.
Incapace di ‘contattare’ gli animali, Canetti li ascolta, nel suo studio gonfio
di libri, fiero della propria interiore ‘animalità’.
Sono quasi certo che i libri sciorinati da Canetti tra quelli “che più contano
per me”, facciano parte della biblioteca ideale di Gian Ruggero Manzoni. Pascal
e i Presocratici, Sofocle e William Blake, Georg Trakl e Zhuang-zi, Confucio,
Lao-Tzu ed Erodoto, Atlantis, soprattutto, la formidabile enciclopedia di miti e
fiabe africane collezionata da Leo Frobenius negli anni Venti. Manzoni ha lo
stesso physique intellettuale di Canetti: è uno ramingo tra più mondi culturali;
un vagabondaggio – è chiaro – che opera in orizzontale (libri) e in verticale
(pratica; ascesi/ascesa). A Canetti manca l’estremismo dell’azione, dell’esteta
armato; possedeva, tuttavia, il dono dell’ira e dell’eros. Ma non è questo il
punto.
Nel suo ultimo libro – se è poi l’ultimo: GRM pratica la giusta liturgia della
dissipazione, ogni libro è sempre l’ultimo –, Nel lento movimento dei
ghiacci (stampa puntoacapo), Manzoni dichiara i punti di giunzione tra il verbo
e l’animale, tra il poeta e lo sciamano (“Sciamano del Delta del Po, sempre
scopro ogni notte che vago nell’immutata sostanza della natura umana”: sua serpe
e suo scettro sia l’angusta anguilla). Sciamino, a questo punto, gli scettici:
al netto del consueto, cospicuo proliferare di ‘cultura’ (Leopold Zunz, Pascal,
Aristotele, i canti dei nativi d’America), Manzoni si dà alla ‘natura’ del gesto
lirico, inaugura la danza con gambe tese ad arco:
> “Nel lento movimento dei ghiacci, la porta spalancata è alla cometa, quella
> recante vita nel suo strascico… recante l’essenza di un altro mondo, che mai
> vedremo, se non ipotizzando un oltre alla tenebra, in piena luce”.
In un brano – che ricorda gli incantesimi orditi da Álvaro Mutis – GRM parla
dello “sciamano Ainu” che balla con l’orso dell’Hokkaido; parla delle “maghe del
Rio delle Amazzoni”, parla dell’“angelo di carne”. Ossidati all’oggi, i poeti
scontano la latitanza dal linguaggio che ‘agisce’, che si fa atto: espulsi dalla
natura e dalla storia – il poeta non ‘serve’ più, se non in civiltà più
raffinate, a cementare il senso d’appartenenza a una nazione, di servizio a una
terra, a una lingua/seme, lingua-seminagione –, i poeti, servili, sono utili,
semmai, a stimolare le anime belle, a far leva sui ‘sentimenti’; mai che
trafiggano e trasformino le anime. Così, sono i falsi poeti a proliferare, oggi,
a primeggiare, come sono i falsi profeti a guidare le adunate dei fedeli. Ma al
poeta nulla importa dell’applauso o del consenso – necessario, invece, al
romanziere, a chi lavora per ‘comunicare’ –: attende che la sua parola
sia efficace, e non mero guscio, vocabolo inerte, vocabolo-carcassa.
Manzoni riassomiglia la poesia al suo dire originario, ne fa nenia, sacra
cantilena – dunque, sacrilegio – in assenza di opera sacra. E allora:
> “Oggi sono la lince del fiume Amur, ieri fui il daino preso in trappola,
> domani sarò l’orso polare che, ai cacciatori, parlerà del sonno che t’invade,
> quando il freddo ti prende l’anima e le carni… quando i liquami umani via via
> si solidificano e l’alito vaporoso si trasforma in neve sulla barba”.
Chi vede in questi brani mere figure esornative, ‘immagini’, pittogrammi del
fallimento, è un idolatra del vocabolario. Chi conosce Manzoni sa che
la pratica è tale da sempre, da Il mercante di allodole (era il 1977, primo
verso che testimonia un’indole indocile: “Chi comprende i simboli con le mani è
l’unico uomo libero”), a Le battane di bronzo (uscì per la Stamperia
dell’Arancio, trent’anni fa, ne riproduco le cifre finali: “Per conquistare il
cielo occorrono macchine di luce, un modello che convinca e che riempia ognuno;
e una religione, votata all’essenza, o alla più feroce risposta”), in qua. Oggi
– nell’era della simulazione, che chiede di dissimularsi nell’altro – tale
pratica è semplicemente più esplicita.
Dunque, la congiunzione tra il poeta e l’animale. L’anima dello sciamano – così
ne dice Klaus E. Müller in Sciamanismo. Guaritori. Spiriti. Rituali, Bollati
Boringhieri, 2001 – veniva ruminata per tre anni dalla “Madre animale” (sia
alce, cervo o renna), era “l’anima di un essere dalla duplice natura, animale e
umana”, riconoscibile fin da bambino per eccezionalità fisica, ‘mostruosa’ (“gli
individui destinati a diventare grandi sciamani nascevano con i denti, oppure
‘con la camicia’ e con un numero eccedente di dita per mano (o per piede), o con
un neo vistoso sul corpo”), e psichica (“tendevano a cadere in deliquio e
avevano un carattere chiuso; di indole pensosa, passavano il tempo a rimuginare,
soli”). Ne seguiva, l’addestramento, la vita riparata dal convegno umano, in
luoghi spesso inaccessi; il corredo sonoro e lirico, che riproduceva le voci
degli animali-guida. Parola che sana, quello dello sciamano, che piega, che
piaga. L’amorfo repertorio che leggiamo, preziosità etnografica (ad esempio,
in: Testi dello sciamanesimo siberiano e centroasiatico, Utet, 1984), non va
letto come si leggerebbero Yeats o Blake (due poeti-sciamani, tra l’altro, che
sciamanizzano) ma come canto che anima, che opera, che in assenza di compito
resta esteticamente inerme. Lo sciamano presiede alla vita – il parto – e alla
morte – la sepoltura – e al pasto – la caccia. Eleva a suo grado gli elementi.
Ora: che può il poeta se non riferire un deciduo dire, la caducità della parola?
Il libro di Manzoni non è la cronaca di uno sciamano infame, senza futuro, ma
l’indizio iniziale di chi torna a manovrare il fuoco, di chi, con la timida
tenerezza del nudo uomo, che ascolta l’erba, i fiumi, lo scalciare del sole,
leva le briglie alle parole, leva ogni paramento, a trafittura d’ululato.
Compito del poeta: liberarsi della poesia. Scatenarla.
Per altro, il riferimento – GRM ha tradotto Genesi, Esodo, Isaia, una manciata
di Salmi per il “Salterio dei Poeti” e altro ancora va traducendo dal Testo – ha
pertinenza biblica. Iubal, figlio di Lamec, della genia di Caino, è “il padre di
tutti i suonatori di cetra (kinnor) e di flauto (ugab)”. Iubal non è il
primogenito – non lo era neanche Abele; a sottendere: destino di sacrificio – e
gli strumenti che crea indicano un opposto approccio all’arte mantica della
musica. Ugab, lo strumento a fiato, ruba il ‘soffio’ di chi lo suona: appare
poche volte nel testo biblico. Kinnor, invece, partecipa di ogni luogo del Testo
(42 occorrenze): lo strumento a corda pretende maneggevolezza nella voce,
accordo con il canto. Ogni strumento musicale è trasmutazione di uno strumento
di guerra: il flauto fu cerbottana; la cetra fu arco e fionda. Il flauto adombra
la tattica dell’uccello, la cetra quella del felide. Anche il più alto atto
d’arte reca un pervicace sentore di sangue.
Chi lamenta assenza di animali nei Vangeli ha lo sguardo fuori asse. Al dialogo
umano, frutto di sacri fraintesi, il Nazareno preferisce quello con le bestie e
con gli angeli (così insegna l’evangelista Marco). Il suo stesso corpo è arca,
nella sua voce la voce delle miriadi di bestie. Per altro, gli apostoli
operavano guarigioni, andavano in estasi, afferravano la serpe senza che gliene
incorresse danno. Di ciò, non restano neppure le vestigia – se non negli
esorcismi –, ma il sottile fastidio di un tempo andato.
Manzoni, intanto, continua la sua danza – a me ricorda, di spalle, il Giudice
Holden, istoriata creatura uscita dalle fucine di Cormac McCarthy, un poco Pan
un poco Astaroth, che sganghera la luce nel suo noccioleto. A noi, succhiare di
quel fiele.
*In copertina: strumento sciamanico esposto in “Shamans. Communicating the
invisible”, al Muse di Trento; nel testo: opere di Gian Ruggero Manzoni
L'articolo “Per conquistare il cielo”. La poetica dello sciamano. (Qualcosa,
ancora, su GRM) proviene da Pangea.
Per spiegare se un testo sia traducibile sono stati scritti centinaia di libri e
di saggi di traduttologia, sono state spese milioni parole in decine di lingue,
tradotte a loro volta in altre decine di lingue. Quello che resta, di questo
profluvio verbale, di questo scialo teoretico, sono alcune affermazioni
apodittiche e contraddittorie, che spesso sconfinano nel paradosso o nella
boutade, e che fanno il giro del mondo nei convegni sulla traduzione. Il
repertorio è infinito: dal precetto di Cicerone di non tradurre verbum pro
verbo alle polemiche di San Gerolamo, dalle considerazioni di Lutero alle
argomentazioni di Du Bellay, Montaigne e Chapman, a quelle di Ben Jonson
sull’imitazione, fino alle considerazioni filosofiche di Von Humboldt e ai
resoconti di Goethe, Schopenhauer, Arnold, Valéry, alle teorizzazioni di Pound,
Benjamin e Ortega y Gasset.
In Italia domina la battuta, citatissima e un po’ misogina – attribuita a Croce
ma in realtà di Carl Bertrand, il traduttore tedesco di Dante, che riprese una
definizione di Gilles Ménage –, secondo cui le traduzioni sarebbero come le
donne, “brutte e fedeli o belle e infedeli”. Come anche quella, attribuita a
Robert Frost, secondo cui “poesia è ciò che si perde nella traduzione”. Per
Ortega y Gasset, la traduzione, semplicemente, “non è possibile”; per Jakobson
“la poesia è intraducibile per definizione”. Walter Benjamin, pur nel suo
pessimismo, sostiene che “la traduzione è necessaria”. Secondo Novalis e
Humboldt, tutta la comunicazione è traduzione. C’è poi la celebre quartina di
Nabokov:
> “Cos’è la traduzione? Su un vassoio
> La testa pallida e fiammante di un poeta,
> Uno stridìo di pappagallo, una ciancia di scimmia,
> E una profanazione dei morti”.
Come afferma George Steiner in Dopo Babele, “per circa duemila anni di
discussioni e di precetti, le convinzioni e i contrasti manifestati sulla natura
della traduzione sono stati quasi gli stessi. Tesi identiche, mosse e
confutazioni familiari ricorrono nelle dispute, quasi senza eccezioni, da
Cicerone e Quintiliano ai giorni nostri”. Il postulato dell’intraducibilità
“poggia sulla convinzione, formale e pragmatica, che non vi possa essere
autentica simmetria, rispecchiamento adeguato, tra due sistemi semantici
differenti”. Il punto, conclude ancora Steiner, è sempre il medesimo: la cenere
non è la traduzione del fuoco.
Scuola spagnola, Testa di Giovanni il Battista, XVII secolo
Se, come sostiene Croce, “l’intraducibilità è la vita della parola”, resta
nondimeno il dato incontrovertibile che centinaia di migliaia di biblioteche
straripano di libri tradotti. E restano i milioni di libri tradotti da
un’infinità di lingue: molti egregiamente, altri mediocremente, altri ancora
pessimamente. Perché è vero che in nome della traduzione – della sua necessità,
e del suo culto – sono stati commessi i delitti più infami e i più gloriosi atti
di eroismo. Sepolti negli scaffali delle biblioteche, esposti sui banconi dei
librai di tutto il mondo, giacciono crimini linguistici efferati, compiuti
spesso da persone, come si dice, al di sopra di ogni sospetto, che le logiche
editoriali impongono, o tollerano o incoraggiano, che spesso i lettori subiscono
impotenti, e che nessuno punisce mai.
In questa necessaria, indispensabile quanto spesso inutile attività dell’ingegno
umano, si sono esercitate schiere di inetti, ignari spesso della lingua di
partenza come di quella d’arrivo, consegnando agli editori o alle stampe aborti
mostruosi; e imperano legioni di scrittori mancati e di scribacchini frustrati
che cercano, come uccelli usurpatori, confortevole riparo in nidi altrui. Ma a
tale attività offrono il loro contributo anche legioni di onesti mestieranti,
che pur dietro compensi offensivi nobilitano la professione; per non dire dei
non pochi geni che la elevano da attività funambolica a sublime forma d’arte.
Con ciò non si vuole infierire sulle traduzioni letterarie malfatte, ma
semplicemente porre l’accento su quanto sia arduo riuscire a fare una buona
traduzione. Com’è noto, una delle attività preferite di moltissimi critici e
traduttori è la caccia all’errore nelle traduzioni altrui: sport che ha prodotto
qualche libro divertente e molte gogne umilianti, come l’americano Glorious
Mistakes. Il che equivale, comunque, a sparare ai passeri. I francesi hanno
un’espressione deliziosa per definire questi perditempo frustrati che cercano un
po’ di gloria dando la caccia all’errore in traduzioni di onesti professionisti
che per pochi soldi si sono consumati gli occhi su testi a volte difficilissimi
al limite dell’intraducibilità: li chiamano (excuse my French) le enculeurs des
mouches, i sodomizzatori delle mosche.
Giovanni Bellini, Testa di Giovanni il Battista, 1470 ca.
Come diceva Pound, i critici dovrebbero ricordarsi che scopo della traduzione
poetica è appunto la “poesia”, non le definizioni verbali dei dizionari; e che a
volte una traduzione è brutta proprio perché non sbaglia mai. Il fondamento
della traduzione poetica, infatti, è la trasposizione, non il rispecchiamento,
vale a dire la restituzione fedele del senso poetico, e la necessità di
compiere, nella lingua d’arrivo, lo stesso percorso creativo che ha condotto
l’autore originale a dare al suo testo, tra tutte le forme possibili, quella
storicamente proposta e non altre. In questo senso, allora, ogni testo diventa
traducibile, con buona pace di Croce (che del resto non era poeta) e di tutti i
pudichi glottologi che con reverenza quasi superstiziosa ritengono sacro e
inviolabile il testo originale.
Prendiamo il caso del greco-alessandrino Costantino Kavafis, che mentre in
Grecia (dove lui non è mai vissuto) infuriava asperrima la questione della
lingua, se cioè si dovesse usare la lingua popolare (dimotikì) o quella
riformata (l’aulica katharèvusa), lui, “alla periferia dell’impero”, ad
Alessandria d’Egitto, usava nella sua poesia un amalgama delle due lingue,
creando uno stile personalissimo, unico e inimitabile. Se il neogreco è dunque
l’unico caso di diglossia praticata in un Paese moderno, com’è possibile
tradurre un poeta, che tra l’altro occasionalmente usa metrica e rima, e una
lingua “schizofrenica”, in qualsiasi altra lingua a cui sia estraneo il fenomeno
della diglossia? Eppure lo hanno fatto in moltissimi. Secondo una recente
ricerca dell’Università di Salonicco, Kavafis è in assoluto il poeta moderno più
tradotto e imitato al mondo (seguito a diverse lunghezze da Pessoa). Che cosa
sarà mai rimasto della “intraducibile” poesia di Kavafis nelle innumerevoli
versioni fatte nelle lingue più ignote, compresa la lingua dei maori? Di certo,
come nel caso di molti altri poeti, qualche inevitabile scempio metafrastico. Ma
forse non solo. Io credo che resti dell’altro, che se si perde molta “filologia”
rimanga però anche un po’ di buona “poesia”. Diversamente non si spiegherebbe il
paradosso che uno dei poeti moderni “più intraducibili” come Kavafis abbia
influenzato forse più di chiunque altro buona parte della poesia contemporanea
moderna.
Personalmente credo che la traduzione vada intesa secondo il principio
dell’equivalenza, e che il traduttore dovrebbe sforzarsi di pensare a come
sarebbe l’opera originale se fosse stata scritta nella propria lingua. E mi
torna alla mente Novalis, secondo cui la traduzione è “poesia della poesia”,
giacché il traduttore, nel suo sforzo di dare una nuova veste linguistica
all’originale, deve prima enuclearne la “poeticità”. Questo è il principio di
equivalenza su cui dovrebbe fondarsi l’atto del tradurre. Atto che è garantito
solo se il traduttore è un poeta o ha alle spalle una solida cultura poetica. Se
poi il traduttore-poeta condivide con l’autore che traduce principî estetici e
artistici comuni, e ha con quest’ultimo affinità ideali, allora il testo tradotto
riuscirà davvero a costituirsi come un’opera nuova e originale. Credo che
l’obiettivo finale di ogni traduzione, infatti, sia quello di trascendere
l’originale, in un certo senso ucciderlo per trasformarlo in un nuovo originale.
Giovan Francesco Maineri, Testa di Giovanni il Battista, 1502
Ma questa è una situazione ideale, quasi sempre difficile da verificarsi. Le
necessità dell’editoria moderna sembrano far prevalere le esigenze delle
traduzioni di servizio su quelle artistiche, e d’altro canto non sempre i buoni
traduttori sono anche poeti, e viceversa. Ma anche quando una stessa persona
riesca a coniugare in sé le qualità del poeta e del traduttore, i pericoli non
mancano. Il testo originale rischia di essere dimenticato e sostituito
completamente da un altro testo (a volte persino migliore, come per esempio è
capitato al Cinque maggio di Alessandro Manzoni tradotto da Goethe), che reca in
sé le tracce dell’ideologia e delle esperienze di colui che pertanto dovrà
considerarsi il nuovo autore, e le specificità proprie dell’ambito linguistico e
culturale d’arrivo.
Tradurre, dunque, non è né possibile né impossibile: è semplicemente
necessario. Per dirla con Benjamin, la traduzione è un luogo d’incontro tra
lingue e culture diverse, un luogo utopico di raccordo tra le divergenze. È un
mezzo di circolazione, di crescita e di arricchimento culturale prezioso e
indispensabile.
Forse la miglior traduzione letteraria possibile è quella della poesia tradotta
dai poeti, cioè la poesia tradotta in “poesia”.
Nicola Crocetti
*Questo testo è stato scritto per una conferenza sulla traduzione tenutasi a
Parigi nel 2000. Fortunosamente ritrovato dall’autore, ci è parso bello
pubblicarlo, non come l’ennesimo documento su un tema per sua natura infinito –
come lo è il linguaggio, come lo è il suo umile tedoforo: l’uomo – ma per la sua
smaliziata ‘luccicanza’, per la sua inesausta fede nel ‘fatto’ poetico. Al
poeta, in effetti, non interessano gli applausi del pubblico pagante (o
fraudolento), ma che la sua poesia ‘agisca’ davvero: che faccia piovere sul
deserto, che faccia muovere le montagne, che muova a compassione gli induriti
cuori.
In copertina: Albrecht Bouts, Testa di Giovanni il Battista, XV secolo
L'articolo “Su un vassoio, la testa pallida del poeta”. Tradurre poesia, un
crimine linguistico proviene da Pangea.
Dotato di quella rabbiosa precocità che soltanto il dolore rende esatta –
endocardite reumatica, dissero: faceva le elementari – e di uno sguardo
mesmerico, da mari del Nord, Massimo Ferretti inviò la plaquette che s’era
stampato a sue spese, presso una tipografia di Jesi, a una decina di riviste
letterarie. Doveva ancora diplomarsi, compiva vent’anni: eccelleva nei temi,
restio al resto lo bocciarono in seconda. Nato a Chiaravalle, figlio di un
geometra e di una maestra elementare, fu snobbato da quasi tutti i papaveri
dell’editoria di allora. Gli rispose, entusiasta, Pier Paolo Pasolini; di lui
scrisse, entusiasta, su “Officina”. Ferretti si rivolgeva al “caro professore”
con deferenza non priva di ferocia; Pasolini, che alternava generosità e
tirannia (due monete della stessa zecca), tentò di fare di quel ceruleo
marchigiano uno dei suoi adepti. Quando gli intimò di non pubblicare per Schwarz
– “ha stampato un pacco di inutili libri vanitosi e superficialmente
sperimentali” – Ferretti obbedì; quando gli propose di scrivere per la Rai,
Ferretti ci si mise (senza successo). Quando, desolato dall’università – a
Perugia, “un labirinto di vicoli; profumi claustrali; manie cosmopolite” –,
Ferretti gioca all’uomo in rivolta, carpito di una rivoltante depressione, e gli
chiede “tu frequenti l’ambiente del cinematografo: e io porto dentro di me un
attore”, Pasolini lo blocca, bacchetta il suo “maleodorante romanticismo”, gli
dice di tornare a studiare.
> “Altrimenti sei il solito mandolinista italiano, il solito poetastro
> rompicoglioni, dilettante e presuntuoso”.
Siamo agli inizi del ’57: Pasolini sta acconciando Le ceneri di Gramsci; ha da
poco pubblicato Ragazzi di vita. Grazie ai suoi auspici, Ferretti pubblicherà
per Garzanti, nel 1963, Allergia: pochi ne parlano, pochi lo comprano, alcuni se
ne entusiasmano (Ferretti giura di aver visto, a Roma, “Sul bus 37, Giorgio
Manganelli… con un libro sotto il braccio: Allergia”). Ad ogni modo, il libro è
onorato con il “Premio Viareggio” opera prima; negli anni, s’inabissa
nell’oblio, diventando – per sparuti poeti che ormeggiano le proprie aspirazioni
verso l’inattuale – un testo ‘di culto’: all’edizione Marcos y Marcos del 1994
seguirà, nel 2019, quella definitiva, edita da Giometti & Antonello.
Aveva ragione Pasolini – che leggeva il giovane Ferretti “con le lacrime agli
occhi, come in sogno” –: quella poesia, di un Leopardi passato sotto i torchi di
Marx, reca una spaventosa innocenza, un delirare che viene dai primordi, lo
stigma dell’“adolescente segnato dalla malattia e da un’inquietudine perpetua
come un personaggio di Thomas Mann” (così Massimo Raffaeli). L’attacco
di Polemica per un’epopea tascabile, per dire, è bellissimo:
> “Sono un animale ferito.
> Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere
> definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda.
> Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il
> cuore m’avrebbe solo bagnato”.
Successe, poi, il disastro.
Pasolini intendeva il magistero nelle forme di un’arte predatoria; Ferretti –
creatura dagli insondabili umori, da erbivoro con zanne da tigre – gli sfuggì. A
metà dicembre del 1957 i due – il maestro e il pupillo – s’incontrano, a Roma.
Ferretti si ritrae, rientra a casa inquieto, inquietato: “Avevo 20 anni e t’ho
fatto diventare un eroe… questa è stata la mia grande colpa”. Pasolini gli
risponde con un autoritratto:
> “io mi innamoro esclusivamente dei ragazzi sotto i vent’anni, e molto ingenui,
> direi quasi soltanto del popolo (ingenui dal punto di vista culturale, non
> erotico)… Una vita estremamente libera e dissipata non ha scalfito la mia
> innocenza nemmeno di un millimetro: sono veramente vergine e ragazzo, da
> questo punto di vista”.
Da lì, il rapporto si corrode: Ferretti segue l’armata del Gruppo 63, frequenta
Nanni Balestrini, si scrive con Antonio Porta; pubblica con Feltrinelli, nel
1965, Il gazzarra. Nonostante il romanzo sia esaltato, in copertina, come
“Divertentissimo: un Zazie nel metrò italiano, un nuovo Pian della Tortilla”,
Ferretti non è Queneau né Steinbeck; la critica lo snobba e Il gazzarra – come
il romanzo precedente, Rodrigo, edito da Garzanti nel 1963 – resta tra le
retrovie dell’epoca.
Nel 1959 Ferretti si era “consegnato”, per l’ennesima volta, a Pasolini; gli
racconta del cugino suicida, “aveva un anno più di me e non era un giovane
bruciato: era disperato”. Il maestro gli risponde, trafelato, tra “il trasloco”
e “il Premio Strega, con le sue mille telefonate”. È una risposta sbrindellata,
da bovina madama ideologia in imperio: “Quello che non capisco – e che ti
minaccia – che minaccia te, la tua poesia, il tuo equilibrio – è quella voglia a
essere ciò che non vuoi essere: borghese, reazionario, fascista”. Ferretti lo
malmena: “Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente… sei
diventato vecchio o non hai più niente da dirmi?”.
Da qui in poi, il carteggio – che si legge in un libro violento e
istruttivo edito da Giometti & Antonello: Massimo Ferretti, Lettere a Pier Paolo
Pasolini e altri inediti, a cura di Massimo Raffaeli – segue l’atroce trama di
un tema capitale: il maestro che diventa aguzzino; o meglio: l’angelo che si
tramuta, per infatuata furia, in vampiro. Pasolini, creatura angelica, sapeva
azzannare al collo.
Per un po’, Ferretti lavora in Longanesi, scrive saltuariamente su “Il Giorno”;
per Feltrinelli traduce Tra, romanzo sperimentale (mai più ripubblicato) di
Christine Brooke-Rose; per Astrolabio traduce Hilda Doolittle (I segno sul muro,
1973), primordiale musa di Pound, e l’antropologa Margaret Murray (Il dio delle
streghe, 1972). Nel 1968 aveva sposato, a Roma, Nilvia, una compagna del liceo:
chiedendo a Pasolini di fargli da testimone gli scrisse di aver
visto Teorema, “è proprio avvilente (per uno che ti ha stimato come me)
assistere allo spettacolo di come degradi il tuo talento”. Pasolini replica da
chioccia in estro (“Teorema è un bellissimo film, quasi assoluto”) e accetta di
fargli da testimone, “disumanamente”. Le date, tuttavia, non collimano: al
fianco di Ferretti ci sarà Balestrini. Qualche tempo prima, Pasolini lo aveva
bollato così: “Rimbaud integrato in una società di imbecilli”.
Schifato dall’odierno mondo della cultura italiana, Ferretti si isola, scrive
nascostamente, guarda il calcio in tivù, gioca a scacchi. Non attende altro e
nel novembre del 1974 muore, nel sonno. Qualche mese prima aveva scritto
l’ultima, allucinata lettera-invettiva a “Pierpaolo mio”:
> “Decaduta si insabbia nella tua religiosa mondanità la mia vispa teresa per
> niente sorpresa che Pasolini faccia rima soprattutto con quattrini”.
Era arrivato l’astio, infine, il cupo gemello della pietà.
Pasolini sarebbe morto, nei modi che sappiamo, esattamente un anno dopo.
*In copertina: Pier Paolo Pasolini nel 1966, ritratto da Richard Avedon
L'articolo “Altrimenti sei il solito poetastro rompicoglioni”. Pasolini &
Ferretti, l’allievo eretico proviene da Pangea.
Tutto si può dire del vuoto, fuorché che lo si possa fare.
*
Li riempio soltanto o vivo appieno ogni giorno? Giorni come gabbie, solo fra
soli. La vita è piena di rischi e c’è un male che è vero e un bene che è falso –
soltanto sperare mi fa cambiare in meglio. Mi torna in mente, allora, quel detto
di Samuel Johnson, in Rasselas, principe d’Abissinia (citato una volta da Simon
Leys):
> “non lasciare che la vita ristagni… riaffidati al flusso del mondo”.
Annoto queste parole di Papa Leone XIV, dette al suo primo incontro con i
giornalisti: “Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che
rappresentano una sfida per tutti noi e che non dobbiamo fuggire. Al contrario,
essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi, di non cedere mai
alla mediocrità. […] Come ci ricorda Sant’Agostino, che diceva: ‘Viviamo bene e
i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi’”.
Se me lo chiedessero, in effetti, non saprei dire perché mi metta a scrivere: il
mio cuore ha ancora tanti nodi che forse non potrò mai sciogliere – o che,
simile a un fine elastico per capelli, lo storceranno per sempre.
*
Alla ricerca di uomini grandi, di chi ti conferma cose di te stesso che soltanto
sospettavi – o comunque, che fanno un po’ di “chiarezza”. In una vecchia
intervista, Giampiero Neri, descrivendo il suo rapporto con uno dei personaggi
di un recente libro, Piazza Libia, diceva di passaggio:
> “Devo dire, non è stato neanche facile entrare in rapporto con questo Signor
> Giovanni [disoccupato da anni]… perché la società naturalmente vive di
> rapporti di lavoro, sicché, non lavorare, trovarsi ai margini, imbarbarisce un
> po’ i nostri comportamenti. Quindi, il signor Giovanni, non era disponibile
> sempre…”
Banale, ma io che un “lavoro” vero e proprio non l’ho mai avuto, né mi ci sono
mai identificato, per essere semplicemente quel che sono, temo di non aver mai
fatto che lottare in – contro – questo tipo di società.
*
Domenica in bicicletta per delle colline a ovest di Pechino. Fino a un tempio
buddista, dai cortili a diversi livelli, alti pini – una coppia è chiamata
“drago che sposa la fenice”, uno piegato abbraccia una pagoda che sorge oltre
una terrazza. Ce n’è uno di mille e passa anni, un gushu 古树 (“albero antico”):
dal tronco larghissimo, che si dirama in una decina d’altri, ha la corteccia
sottile, pare un platano non fosse per i suoi aghi verdi scuri.
Mi attardo a decifrare alcuni caratteri intorno alla porta di una sala in cima:
> “le nuvole si aprono sul mondo del loto, sull’altare si sparge come pioggia la
> suprema saggezza
>
> le onde si alzano, la foresta manda aromi, il padiglione nella nebbia si
> affaccia sulla sala dell’Arhat”
Al tempio, mangiamo degli spaghetti in brodo, dando le spalle a quelli dietro,
faccia a faccia con chi è dall’altra parte della stanza; alle pareti ci sono due
cartelli con scritto: “non parlare”, “restare in quiete”. Nelle altre pareti, su
carta color cachi, passaggi dai sutra e due grandi caratteri: “Saggezza”
(hui 慧), “Prosperità” (fu 福).
In due stanze laterali dell’ultimo cortile, siedono centinaia di statue di
bronzo rappresentanti diversi monaci e santi: c’è chi suona un flauto, chi porta
una ciotola di riso, chi è in meditazione, chi ride. Ci cammino di fianco,
posando le mani sulla superficie fresca, come fanno gli altri visitatori. Due
fedeli percorrono il corridoio a mani giunte.
*
Per strada, con le mani fra le ruote dentate e la catena intoppata, mi viene in
mente mio nonno materno, un omone alto e robusto, con una pancia durissima,
sempre abbronzato e in canottiera, a piedi nudi. Di mestiere riparava macchinari
pesanti: nel garage della vecchia casa in campagna c’era un’officina
ordinatissima, con ogni strumento possibile.
Dopo la pensione, si costruì quella casa in campagna, comprò dei campi per
coltivare viti – vinse dei premi per il suo Erbaluce – e kiwi. In cima a una
collina, dove ora è un vigneto, mise file di noccioli: ci salivo spesso a vedere
il panorama: la pianura nella foschia e i funghi della centrale nucleare
dismessa di Trino. Poi attraverso un sentiero nel bosco – che lui teneva pulito,
anche per poter andarci a funghi – si arriva a un santuario dedicato alla
Madonna. Più oltre si scollina in un paese dove ho degli amici.
Me lo ricordo nel fragore di un trattorino, manovrare davanti alla strada di
casa. Da un lato, la strada scendeva e dava sui garage, di fronte a qualche
filare di kiwi. Qualche anno fa, quando ormai la casa era disabitata, d’estate,
andavo ad aprire regolarmente l’acqua per annaffiare il prato del giardino nel
retro, con altissimi pini, alberi di diversa specie (come una larga magnolia) e
qualche pianta esotica. Un sentiero di mattonelle portava all’orto, dove su un
muro crescevano le zucche, a fianco di una tettoia per accatastare la legna, un
pollaio in disuso. Sotto i garage, in un freddo scantinato, i macchinari per
fare il vino.
I serramenti erano in ottone. Sul balcone al primo piano una panchina a dondolo.
Sopra una piccola mansarda, dove i miei vissero prima che nascessi. Davanti alla
casa c’era un grande prato incolto, e a lato una stradina, che si fa sterrata e
sale sempre più ripida e stretta, immergendosi nel bosco, verso il santuario,
segnata dalle nicchie della Via Crucis – aprendosi qui e là su dei prati,
qualche isolato vigneto, o sulla pianura sotto, fra gli alberi… la Dora,
Vestigné, Ivrea, la maestà delle Alpi sullo sfondo.
Da bambino andavo a fare ripetizioni d’inglese da una signora venuta a ritirarsi
in una villa appena dietro. Aveva studiato ad Oxford, indossava le Clarks,
andava a fare tiro con l’arco per i boschi, e mi offriva delle caramelle di
viola. Si faceva pagare profumatamente.
Pensavo in effetti che ho avuto un’adolescenza piuttosto selvaggia. Alle
superiori passavo la settimana a Torino, dove vivevo in un convitto con il
figlio di un albergatore di certe valli piemontesi, riccioluto, sempre in tuta,
un secchione, e nel weekend o nelle vacanze tornavo nel mio paese di provincia.
Passavo con i miei amici d’infanzia pomeriggi a fare nulla su delle panchine, in
qualche angolo di strada, nei pressi di una chiesetta fra i campi, o in giro per
i boschi. Ci si accampava da qualche parte e ci si inventava qualche cosa da
fare: spedizioni in fabbriche abbandonate, furti di trattori, infastidire il
vicinato. Avevo diversi volti: quello a scuola, più composto, e quello con i
miei vecchi amici – comunque sempre contrassegnato da un certo distacco, insieme
ad una ricerca di continua approvazione, mi sembra ora.
Forse soffrivo questi continui addii, una vita sempre scissa?
*
Forse, volevo parlare del fratello minore di mio nonno, che era invece un
filosofo, – nelle foto a casa dei nonni – magro, capelluto e con una folta barba
nera. Sempre elegante, volto da santone, o da Marx redivivo. Scriveva e teneva
corrispondenze colte, era intelligentissimo: lo presero a lavorare per una
grande azienda di gomme, ai massimi vertici, ma ci durò poco.
Aveva una folta biblioteca, di cui una parte finì tra gli scaffali di casa
nostra: ci ho passato non poche estati, fra quei libri: aveva di tutto, dai
classici di ogni tempo, romanzi moderni e contemporanei, a saggi di ogni
argomento, libri per fare l’orto e di cucina, sulle religioni e la magia –
immagino, tracce di diversi periodi della sua vita, come le sgualcite cartoline
e fogli di appunti al loro interno. Per lo più tascabili, comprati e – immagino
– letti compulsivamente. Ricordo la sua fitta e precisa grafia di ragazzo, negli
appunti ai margini di un manuale ingiallito di storia di letteratura italiana.
Da quel che ne so, il prozio finì per sposarsi con una specie di maga, prima
delle sue rovine. Un giorno, a cavallo dei quarant’anni – io non ero ancora nato
–, parcheggiò la macchina sulla soglia di un bosco, vi si inoltrò e si lasciò
morire fra gli alberi.
Mia mamma, che si commuove sempre quando ne parla, dice che i miei bisnonni –
dei “marghé”, produttori di burro, gente semplice ma che aveva potuto
arricchirsi dopo la guerra – l’avevano viziato troppo, forse non sapendo come
affrontare la situazione. Lei lo ammirava: da lui aveva imparato per esempio ad
apprezzare la musica classica: a casa abbiamo una ricca collezione di vinili dei
compositori più importanti della storia, raccolti da mia madre.
Chissà a quante famiglie è capitato lo stesso – e che la sua anima ancora
sofferente – riposi in pace – non abbia continuato a tormentare noi, o me,
nascosta fra le pagine di quei libri.
*
Questo libro, una raccolta di traduzioni inglesi di 101 liriche cinesi, l’ho
trovato tempo fa in una bancarella, passeggiando per un’università a
Pechino. Con l’aiuto di queste versioni di Chu Dagao, ne rendo alcune in
italiano pensando a qualche amico, e questa poesia di Su Shi:
Dopo aver bevuto
Questa notte ho bevuto al Versante Orientale – di continuo tra il sobrio e
l’ebbro.
Al mio ritorno, sembrava fosse la terza ora.
Romba già il fiato del servo,
nessuno risponde alla porta
appoggiato al bastone ascolto il suono del fiume.
Spesso odio il fatto che questo corpo non mi appartenga:
quando potrò finalmente obliare gli affari terreni?
A notte fonda la brezza, onde fini come la seta.
Che passi di qua una piccola barca
per fiumi e mari per il resto della mia vita!
*
101 Chinese Lyrics (New World Press), ristampato nel 1987, compie una raccolta
di 50 liriche pubblicata dall’Università di Cambridge nel 1937. Il traduttore,
Chu Dagao 初大告 (1898-1987), originario dello Shandong (contea di Laiyang), fu
professore all’Istituto di lingue straniere di Pechino (ora Università di lingue
straniere di Pechino).
Laureatosi nel 1925 presso l’Università normale di Pechino, tra il 1934 e il
1937 studiò appunto a Cambridge, per poi insegnare in diversi istituti in Cina –
lo dicono “uno straordinario traduttore, educatore e poeta. Con la sua profonda
comprensione della letteratura cinese, specialmente della poesia lirica, ha
contribuito grandemente all’introduzione dei versi e dei classici filosofici
cinesi nel mondo anglofono” (dal risvolto di copertina). Sua è anche, infatti,
una traduzione del classico del taoismo, il Tao Tê Ching.
Nel 1919, Chu partecipò alle dimostrazioni studentesche del Quattro Maggio,
venendo arrestato – e liberato grazie al “supporto della popolazione”. Con la
nuova Cina, contribuì a fondare la Società Jiusan (“Nove-tre”, in riferimento
alla vittoria nella seconda guerra sino-giapponese, avvenuta il 3 settembre
1945), uno degli otto “partiti democratici” minori consentiti tutt’ora, animato
dagli intellettuali.
Andrea Corsi
*
Da 101 liriche cinesi
(a cura di Chu Dagao)
Zhang Zhihe
Canzone del pescatore
Volano bianchi aironi davanti alla collina Xisai
fiori di pesco scorrono sul fiume, il persico è grasso.
Con un cappello azzurro di bambù e un verde mantello,
nel vento obliquo e la pioggia fine non c’è fretta che torni.
Zhang Zhihe (732-774) fu un poeta della dinastia Tang (618-907) ed un buon
calligrafo e pittore.
*
Liu Yuxi
Onde sulla spiaggia
All’ottavo mese odo il suono delle onde che mugghiano sulla terra,
le creste alte una decina di metri si rompono sulla parete rocciosa, e si
ritirano.
All’improvviso si ritraggono alla porta del mare
alzando cumuli di sabbia che sembrano di neve.
Liu Yuxi (772-842), anche conosciuto come Liu Mengde, fu un letterato e
filosofo. Fu ufficiale durante il regno dell’imperatore De Zong della dinastia
Tang e un amico intimo di Bai Juyi, uno dei più grandi poeti di tutti i tempi.
*
Wen Tingyun
L’isolotto di bianco trifoglio
Pulito e vestito,
solo, mi sporgo dalla Torre sul fiume.
Vedo mille vele, tranne quella che vorrei passasse.
Che incanto i raggi del sole al tramonto sull’acqua lontana
il mio cuore spezzato è volto a quell’isolotto di bianco trifoglio.
Wen Tingyun (812-866) fu un famoso poeta lirico della dinastia Tang. Sono
sopravvissute Intorno a 60 sue poesie, tutte scritte in uno stile fiorito.
*
Wei Zhuang
Le terre del Sud
I
Tutti lodano le terre del Sud
il viaggiatore vi prende dimora fino alla vecchiaia.
In primavera, le acque dei fiumi sono più blu del cielo,
si cade nel sonno ascoltando la pioggia su barche dipinte.
Le locandiere per strada splendono come lune,
i polsi dietro alle maniche sembrano di neve.
Resta finché non sei vecchio
se non vuoi spezzarti il cuore non tornare a casa.
II
Ricordo ancora le gioie del Sud,
quando ero giovane e indossavo vesti leggere.
A cavallo sostavo sui ponti,
dai balconi rosse maniche mi mandavano saluti.
Nel paravento si nascondeva l’oro della giada
ebbro mi inoltravo in stanze gemmanti.
Se dovessi vedere ancora quei rami fioriti,
vi resterei fino a che i miei capelli non si facessero bianchi.
*
Passeggiata in primavera
È primavera, camminando
mi soffiano sulla testa fiori di albicocco.
Per strada, chi è quel giovane dall’aria nobile?
Mi farei sua serva e mi offrirei a lui in sposa, fino alla fine dei miei giorni.
Non ne proverei vergogna, anche se senza amore dovesse un giorno abbandonarmi.
*
Fiori di magnolia
Solo salgo sul piccolo padiglione, la primavera volge alla fine
triste guardo la strada verdeggiante verso il valico di frontiera.
Non giungono notizie, né viaggiatori.
Aggrotto le sottili sopracciglia, me ne torno al salotto.
Sedersi a guardare i fiori che cadono è cosa vana
lacrime rosse rigano le mie maniche di seta.
Non mi sono mai inoltrato tra montagne e fiumi, prima d’ora,
potrà il mio spirito trovare in sogno un degno compagno?
Wei Zhuang (c.836-910) fu un poeta delle Cinque Dinastie (907-960) conosciuto
per la grazia dell’implicita bellezza della sua poesia lirica.
*
Li Xun
Una nuvola sul monte Wu
Il tempio antico si affaccia su una verde scogliera,
la residenza dell’imperatore poggia su un fiume di giada.
Il boudoir è immerso nei suoni del fiume e nei colori della montagna.
Interminabili, i pensieri giungono dal passato.
Nuvole e pioggia si danno il cambio dalla mattina alla sera
tra foschie e fiori, passano le primavere e gli autunni.
È inutile che il pianto delle scimmie segua la barca solitaria
il viaggiatore ha già per sé non pochi turbamenti.
Li Xun (c.855-c.930), discendente di un persiano, fu un poeta lirico delle
Cinque Dinastie. Gran parte dei suoi poemi descrivono i costumi e panorami del
sud della Cina.
*
Lü Yan
Aspettando un amico
Obliqui i raggi di luna,
freddo il vento autunnale.
Questa sera, verrà il mio vecchio amico?
Ho aspettato fino all’ultima ombra dell’albero dei parasoli.
Lü Yan, poeta della dinastia Tang. Le date della sua nascita e morte non sono
conosciute. Sappiamo solo che fu attivo intorno all’857.
*
Li Cunxu
Come un sogno
Un tempo festeggiammo nella caverna della Fonte del Fiore di Pesco,
intonavamo musiche pure e ballavamo come fenici.
Ricordo ancora quando ci separammo
con le lacrime ti accompagnai alla porta.
Come un sogno, come un sogno!
Sono rimasto con la luna calante, i fiori cadevano nella foschia.
Li Cunxu (885-926), fondatore della dinastia Tang posteriore (923-936), divenne
imperatore nel 923 e restò ucciso in un ammutinamento nel 926.
*
Su Shi
In memoria
Per dieci anni, un abisso ha separato i vivi dai morti.
Anche se non ti penso,
mi è impossibile dimenticare.
La tomba spoglia è lontana mille li
non c’è luogo dove possa dire la mia tristezza.
Se ci incontrassimo non mi riconosceresti,
sembra che il mio volto sia coperto dalla polvere
e alle tempie i capelli sono brina.
Ieri notte ho sognato di tornare all’improvviso a casa.
Eri davanti alla finestra della camera,
alla toeletta.
Ci siamo guardati
le lacrime hanno preso il posto delle parole.
Ricordo anno dopo anno, quel luogo che mi ha spezzato il cuore
notte di chiara luna,
i pini bassi sul poggio.
Su Shi (1037-1101), anche conosciuto come Su Dongpo, nacque nella contea di
Meishan, provincia dello Sichuan. Poeta maggiore della dinastia dei Song
settentrionali, fu anche un celebre calligrafo e pittore. Si distinse come uomo
di stato e coprì diverse cariche ufficiali, ma fu spesso mandato in esilio.
Allargò l’ambito della poesia ci introducendo argomenti più seri, rendendolo
dunque un genere più consistente. La sua poesia è fresca, audace e vivida nello
stile.
*
Xiang Gao
Solitudine
Chi siede in compagnia sotto la finestra illuminata?
Siamo in due, io e la mia ombra.
Ma quando la lampada si esaurisce, e sarà ora di ritirarmi
anche la mia ombra sarà presa dal buio.
Non so che fare!
Quanto sono misero e disperato!
Xiang Gao nacque intorno al 1100.
*
Yue Fei
Devozione non ricambiata
Ieri sera i grilli d’autunno non hanno smesso di cantare
mi hanno suscitato in sogno luoghi a migliaia di li.
Era già la terza ora.
Mi sono alzato, mi sono messo a passeggiare sulla soglia di casa.
Tutto era nel silenzio,
dietro la tenda la luna illuminava appena.
Tutta la mia vita l’ho spesa al servizio dello stato.
A quelle vecchie montagne dove le foreste stanno invecchiando
il ritorno mi è impedito.
Vorrei affidare le preoccupazioni del mio cuore a un liuto di diaspro:
ma chi potrebbe comprenderne la melodia spezzata se non i miei amici lontani?
Yue Fei (1103-1142), eroe nazionale della dinastia dei Song meridionali che
combatté contro l’invasione dei Nüchen. Solo alcune sue opere sono state
tramandare, tutte permeate da forte patriottismo.
*
Nota sullo sviluppo della poesia in stile “ci”
La poesia lirica cinese Ci affonda le sue radici più antiche nel classico Libro
delle odi (Shijing), il quale pose le basi dei suoi schemi ritmici, i motivi
tonali, le differenti misure dei versi e la loro applicazione alla musica. Con
la dinastia Han, la poesia prese forme regolari e l’accento venne messo sulla
creazione musicale, con odi e inni per le occasioni cerimoniali. Durante le
dinastie Sui, Tang e in particolar modo Song, attraverso le accademie di musica,
si assisté ad un divorzio completo tra quest’ultima e la poesia. In seguito ai
frequenti contatti con le regioni occidentali e l’Asia centrale, furono
introdotti motivi musicali senza parole o con mere traduzioni illetterate. I
poeti che volevano scrivere una canzone per una musica, dovevano “riempire la
melodia con le parole”, adattando i motivi tonali della lirica e la lunghezza
dei versi (alternanza di “versi lunghi e brevi”). Da cui, poi, la
poesia ci 词. Questo tipo di lavoro, tuttavia, non teneva molto conto della
libertà dei poeti. I quali cominciarono a non rispettare le regole, o a
mantenerne soltanto alcune. Molti poeti scrissero allora delle poesie per
melodie senza attenersi al loro tema originale. Se una gran parte delle melodie
o canzoni originali trattavano il tema dell’amore, i poeti scrivevano sulla
guerra o eventi storici. Così che le melodie vennero tramandate soltanto nella
loro forma, senza relazione effettiva con il significato delle poesie.
Ad ogni modo, basti dire che la formazione della categoria di versi ci, non solo
ha abbellita ma anche arricchito la poesia cinese in generale. Nella presente
traduzione i nomi delle melodie sono stati lasciati soltanto nella versione
originale cinese, tra parentesi.
L'articolo “Come un sogno, come un sogno!”. Piccola antologia della poesia
cinese classica proviene da Pangea.
Massimo Bontempelli è lo scrittore italiano che con maggiore intensità ha
lavorato nel canone biblico, rielaborandolo secondo le mire della propria
ispirazione. Tra i grandi autori del Novecento – vanno citati, almeno, La vita
intensa, Vita e morte di Adria e dei suoi figli, Gente nel tempo e L’amante
fedele; sia lode all’editore Utopia che va rieditando tutto –, Bontempelli fondò
riviste – “900”, ad esempio, insieme a Curzio Malaparte: ai “Cahiers d’Italie et
d’Europe” collaborarono, tra gli altri, Joyce e Pierre Mac Orlan, Virginia Woolf
e Alberto Moravia –, fu futurista per noia, fascista per dovere e per passione,
espulso dal partito nel 1936, perché rifiutò di occupare la cattedra di
letteratura italiana a Firenze al posto di Attilio Momigliano, sollevato dopo le
leggi razziali. Eletto senatore nel 1948, nei ranghi del Fronte Democratico
Popolare, fu espulso anche dal Parlamento, poco dopo; al “compagno Bontempelli
di oggi” non fu perdonato “il camerata Bontempelli di ieri”; un’autentica
porcata politica, come ha riconosciuto un critico ‘di parte’ (comunista),
Alberto Asor Rosa: “la sua elezione, con un rigore che non fu usato nel
confronto di altri, venne invalidata per il suo passato fascista e la sua
appartenenza alla Accademia d’Italia”.
Musicista nel tempo libero, Bontempelli ha tradotto Stendhal, Chateaubriand,
Apuleio. Il suo Vangelo secondo Giovannifu incorporato in un’edizione dei
Vangeli edita da Neri Pozza nel 1947, a cura degli scrittori: a Nicola Lisi fu
affidato il Vangelo di Matteo, a Corrado Alvaro quello di Marco, a Diego Valeri
quello di Luca. Il volume uscì con l’introduzione di don Giuseppe De Luca e
l’imprimatur dell’allora cardinale Roncalli. Dal Nuovo Testamento, Bontempelli
ha tradotto anche le Lettere di Giovanni e – con particolare partecipazione –
l’Apocalisse: nel poeta “relegato in una menoma isola dell’Egeo di Pan, sotto le
stesse stelle che Saffo aveva vedute tramontare, [che] nel giorno del Signore ha
e scrive il rapimento dell’angoscia e della speranza”, intravedeva,
probabilmente, il simbolo vivente della scrittura. Cioè: isolarsi dalle tempeste
della Storia, vigilare sulle proprie visioni, darsi alle altezze.
Bontempelli è un pioniere della traduzione biblica ‘autoriale’: entra nel
deserto ebraico da predestinato, con iliadica corazza retorica e tutti gli
araldi attorno. Alcune proposte, così, suonano un po’ rétro, molte altre
resistono, sgargianti (ad esempio, è bello passarsi sulle labbra questo dire,
corroborante: “Dolce cosa è la luce, e diletto agli occhi il sole”).
Nell’editoriale di “900”, era il 1926, Bontempelli scrive: “La vita più
quotidiana e normale, vogliamo vederla come un avventuroso miracolo: rischio
continuo, e continuo sforzo di eroismi o di trappolerie per scamparne.
L’esercizio stesso dell’arte diviene un rischio d’ogni momento”. Il senso del
rischio e dell’avventura si avvertono nelle sue traduzioni, brillanti, a briglia
sciolta.
Tradurre il testo sacro – dunque: dissacrarlo – vuol dire aprire i recinti e
liberare le bestie. Spesso, ciò che hai creduto domestico, domesticato, ti si
rivolta contro, si rivela il tuo totale nemico. La Bibbia, cioè, è un testo
‘vivente’, un testo-zoé, parola che dà la vita: ogni traduzione, allora, è come
il gesto del picador che conficca la lancia sul collo taurino, fiacca e fa
esplodere il corpo dell’offerta. Bontempelli ne era consapevole: aveva sintonia
con Giovanni, in particolare, e così scrive dell’Apocalisse, testo che è
inesatto tacitare come attuale, perché è grazie al suo attuarsi che esiste
l’attualità:
> “La caduta degli angeli è il primo capitolo della storia umana. Di là comincia
> l’inquietudine dei tentativi perennemente rinnovati dell’uomo per ritrovare il
> volo e il cielo: ma di continuo li combattono le potenze della terra, quasi
> essa non voglia essere riabbandonata alla vuota solitudine ora che ha sentito
> il caldo della vita e dell’intelligenza.
>
> Poesia, filosofia, religione, forme vive della contemplazione, tentano
> resistere alla storia, che è fatta di prepotenza e avidità. Disperata
> resistenza. La spiritualità dell’uomo è continuamente sopraffatta dalla sua
> zoologia… Ogni periodo di tempo presenta in pieno il decorso di questa lotta,
> nella quale la malizia storica finisce sempre per avere il sopravvento
> sull’innocenza primordiale: le epoche che la storia ci tramanda con vanto come
> le più splendide, sono quelle in cui l’uomo più s’allontanava dalla Sapienza e
> da Dio: i cosiddetti Rinascimenti. Il poema di Giovanni è tra l’altro una
> vivace rappresentazione del travaglio della storia, della lotta tra
> contemplazione e azione, tra cielo e terra”.
Nel 1971 Mondadori ha raccolto come Traduzioni dalla Bibbia gli esperimenti
esegetici di Bontempelli. L’autore era morto undici anni prima; aveva lo stigma
del visionario. Dal Primo Testamento aveva tradotto Il libro di Giobbe, Cantico
dei Cantici, Sapienza. La casa editrice De Piante ha riesumato le sua versione
di Qoelet (2025), il rotolo biblico che ricapitola la promessa in un pozzo,
l’esodo in una spartizione di sparizioni. Qoelet: basso rogo di fiamme locuste;
buco nero in cui l’iddio degli eserciti è vanitas, insieme a tutto il resto,
insieme al tutto.
Non difetta in lirismo, il genio del grande scrittore. Bontempelli, in effetti,
scrisse poesie: raccolte, nel 1919, da Facchi, come Il purosangue. L’ubriaco,
recano i crismi di una ferina singolarità, da disastro imminente. Piacquero a
Gozzano, Mengaldo le incorpora nei Poeti italiani del Novecento, andrebbero
rilette, eccone una, Prigioni, 1:
Un lucernario nell’alto taglia un quadrato di cielo.
Stridi di rondini neri nei mattini passano
si sgombra la scena canta l’azzurro –
passano aquile grandi grandi con le ali
tra le trombe dorate del sole alto –
angeli a stormi al tramonto appaiono fuggono
candidi profilati di bagliori rosei –
nel prato delle stelle che sventolano veli
scivolano sciami lunghi d’anime scompaiono.
A notte fonda si spengono tutte le stelle
nulla si muove sulla scena nera –
tutti i pensieri profondi degli uomini s’addensano
nell’immenso quadrato del cielo
sfumava la cornice nel nero dell’infinità
cadono le pareti e la prigione è scomparsa –
tutti i canti gravi e acuti del mondo
accolgono l’anima libera signora.
Girandole cifrate della storia. Nel 1955 – “credo” – Guido Ceronetti comincia a
praticare, da alchimista, il testo biblico: si scontra con Ecclesiaste, impara
da un rabbino “a dirne i versetti autentici, le ripetizioni martellanti in
specie, facendo smorfie di rabbia e di disgusto”. Compiva ventotto anni. A mo’
di risarcimento, due anni prima, il Premio Strega aveva onorato Bontempelli,
ormai un paria delle patrie lettere: L’amante fedele – una raccolta di antichi
racconti – primeggiò sul Sergente nella neve di Rigoni Stern, sulle Novelle del
ducato in fiamme di Gadda e Le libere donne di Magliano di Tobino, un
capolavoro.
La prima traduzione di Ceronetti di Qohélet o L’Ecclesiaste esce da Einaudi nel
1970, nella ‘Collezione di poesia’. Bontempelli era morto dieci anni prima – di
“qoheletite”, verrebbe da dire, parafrasando Ceronetti –; l’anno dopo Mondadori
sarebbe uscita con il volume – presto scomparso – delle Traduzioni dalla Bibbia.
Bontempelli si rifaceva alla “Clementina”, la versione della Biblia
Sacra vulgata, edita nel 1927. Le varie versioni di Qohélet ordite da Ceronetti
trovano un luogo riassuntivo nell’edizione Adelphi del 2001. Ceronetti era
sintonizzato su quel roco dire di “colui che prende la parola”: uno che ghigna
tra cumuli di carcasse. Amava l’“incurabile incoerenza” del testo ebraico, la
funebre giga di quel “Disitengratore che come tesori di sapienza nient’altro ha
da offrire che pentole e sveglie rotte di assurdo, figure di sconnessione,
figure del titanico, indecente Assurdo che è la vita”. Se ne rallegrava,
perfino, di quel Qohélet-Céline, orchestrale di disastri. Franco Fortini lo
criticò. Nei suoi bagliori verbali si intravedeva troppo Novecento, troppa danza
macabra dei pupazzi e degli scheletri, troppo gnosticismo da letterati.
> “Quanto a Ceronetti, sembra di leggere una parafrasi da Ungaretti; non priva
> di efficacia; ma che introna e distrae. Di fronte a questa violenta
> elettricità da esposizione, dove risultano domati e quasi resi inoffensivi
> anche potenti e terribili reperti di antiche civiltà, quasi si rimpiangono
> certi musei polverosi dove la luce è solo quella delle finestre”.
Più in generale, Fortini – in urticante intelligenza – si scagliava contro le
traduzioni esagitate più che esegetiche, da scrittori in lotta con la Scrittura,
nel tempo in cui “tutti ambiscono alla irrepetibilità e alla firma”. Introduceva
una “lettura” – non traduzione – di Ecclesiaste approntata da Attilio Lolini in
un libro di petroglifica bellezza, edito dalle edizioni di Barbablù nel 1984,
tirato in quattrocento copie numerate (poi: Edizioni L’obliquo, 1993, con cinque
tavole di Salvo). “Lolini adotta, col coraggio di una calcolata innocenza, un
atteggiamento post-diluviano o post-atomico, come di chi stia leggendo in una
carta mezza abbruciata, in un libro squinternato dall’apocalisse. L’oltranza fa
presto dimenticare l’origine biblica”, scrive Fortini.
L’esito ha finiture a volte sgargianti, da moloch sumero, da profilo macedone;
così dal quarto capitolo del libro:
“Le violenze
tutte
ho veduto
sotto il sole
le lacrime degli oppressi
non saranno premiate
ma anche gli oppressori
non verranno consolati
Ai morti dico:
felici voi
più felici certo
di coloro che si dicono
vivi
Ma più felice
chi non è stato
chi non sarà
che non ha visto
che non vedrà
il male che l’uomo
compie sotto il sole
La pena che dà
il fare
gli sforzi
l’invidia che l’uno
prova per l’altro
miseria
un vortice di vento
Perché
ti agiti
così
lo stolto
che ha le mani
legate
pur si divora
le carni”
Rimane sempre lo scarto, un vocabolario che potremmo dire afasia: sguainare un
linguaggio è ridurre a guaito il dire di Dio. Reclinare in tazzina l’infinità
teurgica, tellurica del testo. Eppure, occorre il latte, occorre la briciola, la
particola di pietà per far crescere i poppanti, noi. A noi non resta che slegare
i sigilli, insistere su quella gioventù di scatenati riti, di scriteriato amare
– meditare l’ingiuria per gustare il giusto. Cos’è tradurre? Scoprire se stessi
o scoperchiarsi?
Entrare nel testo: abbandonare i paramenti retorici, abbandonare sé. Una
spoliazione – una rapina. Cosa resta? Il frumento e il trafugato, il transfuga e
la trattativa, il rifiuto, il fiato.
L'articolo Malati di “qoheletite”: Massimo Bontempelli, Guido Ceronetti, Attilio
Lolini proviene da Pangea.
Alla guerra seguì la seduzione del deserto, la sedizione dal mondo.
Nel ’39, è rogo bellico, vuole arruolarsi nell’esercito – gli è impedito, a
causa di una frattura al bacino, lì dalla giovinezza. Nato a Morges, Svizzera,
nel 1911, Armel Guerne cresce con il padre, direttore di una azienda di pezzi di
ricambio affiliata alla Renault, a Parigi; rifiuta gli studi in economia, si
ribella al giogo familiare. Cacciato di casa, sedicenne, coltiverà la propria
preparazione grazie alla famiglia del migliore amico, Mounir Hafez, futuro
orientalista, esperto in mistica islamica, egiziano d’origine.
Fin da allora la vita di Guerne si svolge in direzione contraria. Studia in
Siria, lavora come insegnante di ginnastica, viaggia in nave prestando servizio
come mozzo. Ritornato in Francia, approfondisce le discipline psicologiche alla
Sorbona; intanto, comincia a tradurre Novalis, primo atto d’amore verso gli
amatissimi poeti tedeschi. L’incontro con Paul Éluard, Georges Bataille e Breton
lo lascia indifferente, “la frivolezza dell’intelletto” – così giudica il ménage
dei club parigini – non lo tocca.
Nell’anno in cui anela alle armi, sceglie l’amore: sposa ‘Pérégrine’ – cioè
Jeanne-Gabrielle Berruet – con cui vive da anni. Armel Guerne è un uomo
‘elementare’, è un uomo che modella l’elemento: che dall’argilla sa trarre il
fuoco, che legge le pietre. È un uomo nudo – concretezza è il sale del suo
carisma. Lo si vede dai testi – Oraux, l’esordio, è del 1934; seguiranno libri
disancorati alle leggi dell’oggi, di dissacrante libertà: Mythologie de
l’homme (1945), Testament de la perdition (1961), Les Jours de
l’Apocalypse (1967), Le Jardin colérique(1977), ad esempio – primevi nel dire,
di primordiale avventatezza, una ventata di nevi.
Si schierò contro Pétain, contro Vichy. A Parigi, con inguaribile spirito
avventuriero – una specie di didattica dell’innocenza –, compie alcuni atti di
sabotaggio contro i tedeschi; l’anno dopo viene ingaggiato da Francis Suttill,
agente segreto britannico, tra i ranghi della resistenza. Armel prende il nome
di “Gaspard”, dedicandosi completamente alla lotta. La rete, tuttavia, viene
smobilitata già nel giugno del ’43: Armel e la moglie vengono arrestati dalla
Gestapo e internati, per quattro mesi, in una cella di massima sicurezza, a
Fresnes. Deportato a Royallieu, Guerne è destinato a Buchenwald in quanto
“affiliato agli inglesi”. Nelle Ardenne francesi, presso la stazione di Amagne,
il poeta riesce rocambolescamente a scappare. Forza con le pinze il filo spinato
che serra i finestrini del convoglio; i tedeschi lo vedono, fanno fuoco. “Mi
gettai nel Sulces, un ruscello poco profondo, blindato dal ghiaccio. L’acqua,
gelida, non superava i trenta centimetri. Mi sdraiai sul greto – gli fui grato –
restai lì quasi un’ora – le SS sparavano, di tanto in tanto – il treno ripartì,
infine”. Il poeta rientra a Parigi travestito da ferroviere, da lì va a Pamplona
poi a Londra. Anche gli inglesi lo tengono in arresto: credono sia una spia –
subisce l’ignominia di essere considerato, per eccesso di candore, un traditore.
L’ambasciata svizzera gli presterà soccorso. “Ho vissuto tutti gli orrori
dell’occupazione: la prigione, la minaccia, il tradimento – infine, è stato
Novalis a salvarmi”, dirà.
Seguiranno, a Parigi, anni di lavoro incessante come traduttore. Guerne
traduce Moby Dick e Shakespeare, Stevenson e Virginia Woolf; traduce – con
l’aiuto di uno iamatologo – Kawabata e alcuni racconti giapponesi d’era
medioevale. Soprattutto, volge in francese i tedeschi: Rilke (Elegie duinesi e
i Sonetti a Orfeo), Hölderlin – per Mercure de France e Flammarion –, Kleist e
Dürrenmatt, Martin Buber e von Balthasar. Traduce per necessità, estraniandosi
dal tempo, operando una sorta di romitorio interiore. Fa poco per divulgare
la propriaopera, lasciata brada. La sua versione del Daodejing, uscita nel 1963,
sorprende Emil Cioran:
> “Credo davvero nell’effetto benefico di questo libro su di te, nella misura in
> cui è contrario ai tuoi più profondi istinti. Tu sei più prossimo alla
> preghiera e alla blasfemia, che all’indifferenza e all’annientamento. Per
> questo è così ammirevole lo spettacolo della tua lotta sul Non-agire!”.
Armel Guerne e Cioran si conoscono nei primi anni Cinquanta. A Cioran piacque
quell’uomo privo di orpelli intellettuali, che durante la Seconda guerra non era
stato viziato dagli obbrobri né dagli onori. Pareva uno spettro sano – un santo
spurio.
L’amicizia si consolidò dal 1960: Guerne acquista un mulino a vento a Tourtrès,
in Lot-et-Garonne; un centinaio di abitanti, tanto vento, solitudine acerrima,
d’acciaio. Invita alcuni amici, rielabora, con incessante amore, per Gallimard,
le Œuvres complètes di Novalis, da estraneo ai culti della cultura francese.
Cioran apprezzava l’ascetismo di quel suo singolare amico. Nei Quaderni – che
sono poi la cartina di tornasole della sua vita; in Italia li stampa Adelphi –
Cioran torna spesso al poeta, con augustea angoscia e falcate di ironia:
> “Armel Guerne mi ha mandato la sua traduzione delle novelle di Stevenson. Ieri
> sera, verso mezzanotte, mentre mi cambiavo d’abito per la passeggiata
> notturna, ho avuto la sensazione di essere il dottor Jekyll che si travestiva
> per andare a fare qualche nefandezza…”
A volte, appunta alcune frasi dall’epistolario con Guerne. Come questo frammento
da una lettera di Guerne del 28 maggio 1969: “L’umanità contemporanea al di
sotto dei trent’anni appartenente alle nazioni cosiddette civilizzate non sa che
cosa sia il sorriso o il riso e ha l’occhio senza sguardo…”.
L’amicizia epistolare tra Cioran e Guerne è testimoniata dalle Lettres de Guerne
à Cioran, 1955-1978 (Éditions Le Capucin, 2001) e da E.M. Cioran-A.
Guerne, Lettres 1961-1978, ed. Vincent Piednoir, L’Herne, 2011 (da cui abbiamo
estratto un paio di lettere di Cioran). Erano nati nello stesso mese, nello
stesso anno, a una settimana di distanza; Armel Guerne morirà nel 1980, era la
fine di settembre, è sepolto a pochi passi dal suo mulino. L’ultima lettera di
Cioran è di due anni prima: il pensatore selvatico parla di febbri, di mali,
dell’incubo di essere in balia dei medici.
> “Sai bene il dramma di avere un corpo, ma ciò che di te ammiro sono i momenti
> in cui non ti tocca alcun problema: il mirabile distacco che annienta la
> morte, ridotta a fare la parte di un insulso intruso. Tuttavia, una frase
> della tua lettera mi ha davvero sbriciolato il cuore: ‘Il tempo si stende
> intorno a me e assume proporzioni inimmaginabili, con tutti quei frammenti
> infiniti’. So cosa intendi e non ho nessun consiglio da darti, nessuna bugia
> per aiutarti. È puro orrore. Per tutta la vita sono stato afflitto da momenti
> di noia e di inedia, impossibili da superare, che mi hanno impedito di
> compiere qualcosa di concreto e di coerente. Devo loro il privilegio di aver
> saputo catturare il delirio degli altri, immaginandoli nel dettaglio,
> soprattutto quando si tratta della percezione del tempo, il più grande nemico
> che l’uomo deve affrontare”.
In pochi scrissero della sua morte; aveva scritto che “i poeti si sporgono dove
gli uomini non vogliono andare”. Sulla rivista “Sud-Ovest”, J.-F. Mézergues
ricordò che il poeta del mulino gli aveva descritto la sua morte: “è un’isola
persa nel mare; su di lei il mattino leva la sua bandiera bianca; in lontananza,
un orlo di fulmini neri”. Disse che “le parole chiave della poesia sono:
profezia, annuncio, presentimento, promessa… termini vuoti nella vita spettrale
che ci è imposta oggi, dove non c’è posto per l’individuo ma soltanto per il
denaro, un falso”.
Qualcuno ha registrato la sua ultima parola, prima di spirare. “No”. Che è poi
un sì alla vita nuova, che è poi uno sparo. Inutile parlare di memoria quando è
stato un cenacolo, di ricordo quando ce ne siamo abbeverati.
***
Lettere di Emil Cioran ad Armel Guerne
Mio caro Guerne,
se l’insoddisfazione fosse un carisma della santità, sarei santo da tempo. La
mia è davvero una forma di santità! Passo la vita al telefono, altrimenti nelle
biblioteche, alla ricerca di un libro che mi riconcili con me stesso e con le
cose del mondo. Quando non spreco tempo in conversazioni, lo perdo leggendo:
leggo, leggo, inutilmente, per non pensare, per non vedere fino a che punto sono
infossato nel nonsenso.
L’altro giorno mi è stato chiesto di scrivere un articolo per una rivista. Ho
risposto: più avanti. Mi è stato chiesto un titolo per annunciare la futura
collaborazione. Non riesco a trovare nulla di cui scrivere, ho risposto. Nel
frattempo, continuerò a scrivere un testo sulla rabbia.
Il mio dramma è semplice: tutti i miei antenati hanno vissuto nelle montagne, a
contatto con l’elemento, io vivo da trent’anni in una metropoli. Mi fermo, per
paura di compatirmi (cosa che in effetti non smetto di fare).
I miei migliori auguri,
E.M. Cioran
Parigi, 30 novembre 1963
*
Mio caro Guerne…
La questione del lavoro ha messo da parte quella del freddo – che mi
intimidisce. Sulle alture dove abiti l’aria non deve essere docile. Come potrei
affrontarla quando spendo i miei giorni in una stanza surriscaldata, dove
prospera la mia anemia?
Confesso di non saper immaginare la vita che conduci lì, ora, in questo periodo
dell’anno. Come trascorri le lunghe sere che cominciano tanto presto?
Questa mattina, contemplando gli alberi del Luxembourg (mi arrangio con ciò che
ho sottomano), mi dicevo che la sola stagione assolutamente poetica è l’inverno,
perché non c’è traccia di concessione all’umano. Sogno che il paesaggio intorno
al Moulin sia meravigliosamente desolato come lo immagino. L’idea che da qualche
parte rintocchi una risata mi fa venire voglia di vomitare. Per rassicurarmi che
la serenità regna nei tuoi campi, raccontami di raffiche di vento, terre cupe e
cieli tersi… Ti ho mai detto che il solo paesaggio a cui non ho nulla da
obiettare è quello delle brughiere descritte dalle sorelle Brontë? È senza
dubbio per uno strano fenomeno di contaminazione che vedo in questo istante il
tuo mulino nel bel mezzo dello Yorkshire.
A voi la mia amicizia e i miei migliori auguri
E.M.
23 dicembre 1963
*
Mio caro Guerne,
le “sacrosante” vacanze, come giustamente le chiami, sono infine arrivate. È un
rito o una prova che non si può eludere. Tentare di fuggire e scansarle è
un’impresa di tale originalità che pochi ne sarebbero capaci. Presto arriveremo
a dire che l’uomo più che un animale mortale è una bestia da vacanza.
Quindi: tra un’ora parto per la Loira Atlantica, per far visita ad alcuni amici
che hanno una bella casa con giardino. Ci resterò per circa dieci giorni, poi
andrò con Simone a Dieppe, dove ci hanno prestato un appartamento. Insomma,
vacanze da parassita. Invidio il fatto che dovrai tradurre Novalis. Vieni pagato
cifre irrisorie, ma questo è il regime incredibile in cui siamo costretti. Cosa
aspetti? Unisciti a una falange anarchica del movimento studentesco! Una
bandiera nera affissa in cima al tuo Moulin mi farebbe felice, per non parlare
del boom turistico che tale spettacolo comporterebbe…
Nella tua ultima lettera mi scrivi che in fondo pensiamo sempre di essere più
giovani di quanto siamo. Questo è vero come regola generale: non lo è per me,
che continuo a vedere da venti o trent’anni le stesse persone. Dico vedere e
non rivedere perché a malapena le riconosco. Questa macabra sfilata mi ha
provocato un vero e proprio “complesso” da invecchiamento: anche se a tratti mi
sento ancora giovane, non lo sono, non lo sarò più, e non posso dimenticare la
mia età perché i fantasmi che mi fanno visita mi costringono a ricordarmela, a
pensarci di continuo. A volte mi sembro come una vecchia civetta che non osa
guardarsi allo specchio. Come è deplorevole tutto questo!
Tutta la mia amicizia,
E.M. Cioran
Parigi, 5 agosto 1968
***
Freddo
La luce è troppo dura per questo tempo,
ha gli aculei ed è dolce la sua crudeltà:
troppo scaltro il lucore, troppo nudo
troppo sottile nel filo e liscio nella grana
e il cielo è troppo blu, di un azzurro grezzo
per un sole tanto alto, radioso e felice.
Nuda come l’acciaio, bianca come un’arma
illuminata e illuminante, non sappiamo
se il suo invisibile canto trapassi le ombre
se monta o se cala, se è avanguardia o resa;
ma quando il vero novembre crolla su di noi
questa musica ci rende radiosi e leggeri
lascia una magia, un lento profumo d’estate
che ci ripara dai venti umidi, dai giorni grigi.
*
Il vivo peso della parola
Puoi scrivere – e scrivi;
puoi tacere – e taci.
Ma è sapere il silenzio
l’unica, la grande chiave:
devi perforare i simboli
e divorare le immagini
udire per non intendere
soffrire fino alla morte –
lascia che il vivo peso
della parola ti frantumi.
*
L’albero e il muro
Un albero non è mai dritto:
è al debutto. S’impenna
potente, fin dal fondo delle radici
verso quel punto nel cielo che lo attende,
quell’ambone nel cielo che esiste solo per lui.
Il muro è dritto, eretto dalla base
non nasce che da se stesso. È pur sempre
l’erede diretto di Babele.
L’albero tace: quando muore
la sua preghiera resta impressa
in noi e il suo nome è la luce.
*
Ouverture
Sotto il velo di un aprile che impreca e ride
più verde che vivo, turbato dall’insonnia dei sognatori
il giorno minaccia il giorno che viene: non reca
annunci perché le sentinelle hanno munto la notte.
Un uccello piange. Per paura o per istinto d’amore?
L’erba si piega. È l’angoscia o il peso della pioggia?
Un rischio si apre in ogni istante che passa
e il pericolo è come una corona altera
che mostra il cranio, si inebria di gioielli
ed è quasi un miracolo perché illumina il giorno.
*
Il temporale
Drago che governi su nebbia e nibbi
monarca oscuro e onnipossente
dei frantumi che ti offriamo:
principe del torpore e dell’ira crestata
salute! Ti eleggiamo maestro dei nostri
istanti perché vogliamo essere come te.
Ciò che temiamo è il momento che si biforca
che lascia essudare tutto, il momento
in cui ci alziamo nudi, senza vesti né maschere
in piedi, nella nostra singolarità.
*
Il giardino in collera
Nel crudo oscuro giardino in collera
della carne e del sangue, sui neri meridiani
di questa anatomia strappata dalla mente
e rubata all’anima a cui è annodata
grazie a cui spirava la vita
prima di spirare, come sappiamo:
cosa fa il viandante? cosa può il giardiniere?
La lettera è morta: ci resta il grido
l’urlo dell’essere, un’onomatopea
e l’appello scheggiato di un gesto senza
speranza. Gli uomini delle grotte, rispetto a noi
possedevano il genio della grazia e della conversazione.
Armel Guerne
L'articolo “Ci resta il grido”. Armel Guerne: il poeta dei mulini a vento,
l’amico di Cioran proviene da Pangea.
È morto Stefano Simoncelli. Lo so. Me lo hanno detto dei giornalisti stamattina,
chiedendo di commentarla, ma la morte non sopporta commenti… e, per quanto mi
riguarda, con dolore, posso solo dire che non ci sopportavamo da anni. Ci siamo
evitati, maltrattati, cancellati per necessità reciproche, oppure orgogliosa
indifferenza.
Era un bugiardo. Sin dove ha potuto ha mentito, tradito, contraffatto la verità,
soprattutto in amore. Ha invidiato ed emulato, sino all’esaurimento nervoso,
l’aura poetica di Ferruccio che, a sua volta, non lo sopportava più. Ferruccio,
come un riccio solitario, preferiva autodistruggersi pieno d’aculei, squarci
d’azzurro ultramarino, artifici alcolici, versi intessuti di metriche sospese e
impossibili, tra l’inguaribile e l’immaginario.
La vita di Stefano era quella tipica, riccioluta, di maniera, di chi indossa
appena possibile, la faccia da poeta bene in vista, appartato, elegante,
maglietta ben stirata, con coccodrillo e microfono in mano. In cambio di
recensioni offriva soggiorni con vista sul canale. Oppure le comprava molto
semplicemente, in cambio di qualche spiccio, cenetta in collina, arrangiata
grazie all’eredità accumulata per vie seduttive. Era un ipocrita straordinario,
anche quando mi chiamava ‘fratello’. Era affetto da ‘ipocrisia sincera’, oserei
dire necessaria, infelicemente gioiosa, come lo sono tutti gli ossimori.
Certo, ora che mi manca veramente, meriterebbe meno stupidaggini, meno
ignoranza, arroganza ben stipendiata, di quella che alberga in Casa Moretti; e,
al fine, un po’ più di silenzio. Non era affatto laureato, scarso in grammatica,
per niente anarchico, in pochi lo sanno. Né era quel grande poeta o tennista che
avrebbe voluto. Era, questo sì, un uomo corrotto e indecente. Anche per questo,
piangendo di cuore, stanotte gli auguro la prima notte di quiete, come a tutti i
peccatori, che davvero lo meritano.
Walter Valeri
Abano Terme, 20/05/2025
*Walter Valeri, tra l’altro, ha fondato insieme a Stefano Simoncelli, Alessandro
Casagrande e Ferruccio Benzoni, nel 1973, la rivista “Sul Porto”. In copertina:
Stefano Simoncelli e Walter Valeri in un ritratto fotografico di Daniele Ferroni
L'articolo Elogio funebre per Stefano, un peccatore. Tuo, Walter Valeri proviene
da Pangea.
Andai a trovarlo per via di René Char, il poeta combattente, il “Capitaine
Alexandre”, il poeta di Fogli d’Ipnos, così amato da Camus. L’aveva conosciuto,
trentenne, in un paio di folgoranti viaggi, insieme a Vittorio Sereni. “Guidava
una Alfa Sud amaranto in modo terribile, da Milano a L’Isle-sur-la-Sorgue. Se
tirava il mistral, Char dava di matto, era impossibile avvicinarlo…”.
A Stefano Simoncelli piaceva fare il piacione – sapeva di piacere, si vantava
della sua longeva virilità. Era capace di improvvise dolcezze, di disastri
altrettanto bruschi. Aveva una palafitta sull’abisso. Tra i poeti viventi, era
senz’altro il poeta più vivo. Insieme a Ferruccio Benzoni, a Cesenatico, nel
1973, aveva ideato la rivista “Sul porto”. Di quell’aurora di poeti, Simoncelli
era l’irrequieto, l’irregolare. Da ragazzo, eccelleva coi piedi: a sedici anni
lo voleva la Fiorentina, “mio padre non ne volle sapere; avrei dovuto
trasferirmi a Firenze, si oppose”. Restò a giocare nel ravennate, tra i
dilettanti e la serie C. Anni dopo, una fotografia immortala Simoncelli con
l’accappatoio, nello spogliatoio di un glabro campo da calcio; al suo fianco,
Giovanni Giudici, in giacca e cravatta. “Veniva a vedermi quando facevo il
torneo del bar: ero di un’altra categoria, segnavo sempre tre o quattro gol.
Giocavo all’ala…”.
Giocavo all’ala è il titolo della raccolta più nota di Simoncelli: esce
vent’anni fa, per Pequod, l’editore a cui il poeta resterà rigorosamente fedele.
Aveva esordito nel 1980 con una silloge, Via dei platani, introdotta da Giovanni
Raboni, pubblicata da Guanda nei “Quaderni della Fenice 64”. Seguì un altro
libro – Poesie d’avventura, per Gremese, sotto gli auspici di Enzo Siciliano,
nel 1989 –, la rottura con Benzoni, gli inferi della vita. Per quindici anni
Simoncelli, poeta avventuriero, poeta – si direbbe – senza lignaggio, poeta
latitante al sé, non scrive. Nel 1997 muore Benzoni, nel 2000 muore la madre, “e
per me è stato un dolore fortissimo. Erano morti tutti. Mi sentivo solo al
mondo. Poi, un giorno, è tornata la poesia e mi ha detto, ‘piccolino, perché non
ci mettiamo a scrivere qualcosa?’”. Da allora, Simoncelli si rimette alla
scrivania. Come un ossesso. Scrive tutti i giorni. Non smette più. Una veglia
perenne. Escono, con compulsiva violenza, La rissa degli angeli (2006), Stazione
remota (2008), Hotel degli introvabili (2014), Residence Cielo (2019), Un
barelliere del turno di notte (2021). Tra raccolte e plaquette, una
pubblicazione all’anno. Con Sotto falso nome, nel 2023, è finalista alla prima
edizione dello Strega poesia. Arnaldo Colasanti ha scritto che la poesia di
Simoncelli possiede una “forza immensa”, una “perfetta gloria”, perché “una
poesia che accetta di cancellare quel poco che è, se stessa, è una poesia senza
limiti, è una poesia dell’indifferenza e dell’assoluto”.
Simoncelli amava le donne e amava i cani. Una raccolta, A beneficio degli
assenti (2020), è “alla memoria della mia labrador Margot”. La poesia che mi ha
dedicato comincia così: “Non assomiglio più a nessuno…/ Certe volte sembro un
banco di nebbia,/ impenetrabile e denso, come quelli// che arrivano dal mare a
tradimento/ verso mezzogiorno portandosi via tutto”. C’era sempre qualcosa di
scaraventato in lui, c’era un cuore chiamato Paul Newman: lo spaccone che si
rivela spappolato. Un giorno mi ha scritto, “ho pensato di farmi fuori”; ogni
poesia, con quei versi di selvaggia lucidità (“Non so più chi sono/ e quale il
mio nome vero”), poteva essere l’ultima – Simoncelli scriveva come si prepara il
fuoco, per quelli che verranno e per quelli che non ci sono più.
Mi disse di quando aveva fatto ubriacare Franco Fortini, “cominciò a declamare
Baudelaire in francese, una scena di una bellezza assoluta”. Mi disse di aver
accompagnato Giorgio Caproni a vedere i treni, a Bologna; disse che “soltanto i
mediocri se la tirano” e disse di Pasolini, “uomo dal fascino micidiale,
avvertivi l’intelligenza e il tormento dell’intelligenza”: era andato a trovarlo
a Chia. Giocava con i ricordi come un pescatore con le più prelibate esche.
Amava i complimenti perché ha fatto di tutto per distruggersi. “La poesia è un
viaggio verso l’ignoto, la poesia sa di me molte più cose di quante io sappia di
me stesso”, mi aveva detto, a Cesena, anni fa, nella luce torba del suo
appartamento, una luce terrea, che ti seppellisce.
Era nato nel 1950, ha avuto pochi amici, in molti non lo sopportavano – il male
l’ha divorato in fretta. La settimana scorsa gli ho scritto. “Ti vedo con
piacere”, fa lui – non ci siamo visti, non c’è stato il tempo. Se esiste un Eden
dei poeti, Simoncelli cercherà di evitarlo. “I poeti davanti sorridono sempre –
poi ti accoltellano alle spalle”. Andrà per la sua via, come sempre, con il
corrusco orgoglio dei ronin, dei cavalieri solitari. Le sue poesie lasciano il
sale sulle labbra. Tra gli animali, preferiva la volpe, perché “prima di morire
guarda verso il bosco dove è nata”.
**
Intanto vedo che non vieni
per cena, che non ci sei
in mezzo alla piazza
tra i piccioni e la giostra,
che ti bagnerai fino alle ossa,
ti ammalerai adesso che piove
e hai dimenticato l’ombrello
accanto alla porta,
che non chiamerai per avvisarmi
e non ci sarà più niente,
proprio più niente
da chiederti.
(da Terza copia del gelo, Italic Pequod, 2012)
*
Nelle notti di burrasca lo si può vedere mentre lampeggia con una torcia
elettrica incomprensibili segnali luminosi lungo la spiaggia. È convinto che da
qualche parte, prima degli scogli e la grande secca di sabbia, aspettino di
sbarcare tutti i dimenticati, gli introvabili e i dispersi che hanno
attraversato a luci spente la grande burrasca della sua e di ogni altra
memoria.
(da Hotel degli introvabili, Italic Pequod, 2014)
*
Mancano pochi minuti a mezzanotte
e qualcuno bussa piano alla porta.
Mi alzo dal divano barcollando
e domando: “chi è?”. Silenzio
dentro a un altro silenzio
più crudele e profondo.
Faccio scorrere la sbarra
d’acciaio, tolgo la catenella,
schiudo una minuscola fessura
e guardo verso destra, a sinistra,
in basso, in alto, ma non c’è nessuno.
Buio sul pianerottolo, buio nel dolore,
il mio, buio dappertutto, mentre sento
la tua voce che bisbiglia da chissà dove:
“sono ritornata a prenderti, sei pronto?”
Lo sono da sempre ti vorrei rispondere,
ma la commozione mi stringe la gola,
non respiro, e d’un tratto capisco
che non capirò mai più niente.
(da Visite notturne, Italic Pequod, 2024)
*Le poesie di Stefano Simoncelli sono state scelte da Clery Celeste
L'articolo “Buio dappertutto”. Parole & poesie per Stefano Simoncelli proviene
da Pangea.
> Sensi di fanciullo ti chiedo,
> di farmi interiore e mite,
> e taciturno nella tua pace.
> E di possedere un cuore chiaro[1].
>
> David Maria Turoldo sul Salmo 131
Salmo 131
Un canto delle salite. Di Davide
Oh Eterno,
non si erige all’orgoglio il mio cuore
né alla superbia s’inerpica il mio sguardo
non bramo grandi faccende
né meraviglie al di sopra di me
ho ammansito e reso dolce la mia anima
come bimbo divezzato in grembo alla madre
come bimbo slattato è in me l’anima mia
pòsati e confida nel Signore, Israele
da ora e per sempre
*
Canto delle “salite”, cantico d’ascensione, salmo graduale, che percorre gradi,
misure o ranghi d’altezza, noveri di espugnata prossimità al luogo Santo (dal
120 al 134): intonati nella fatica del salire, sino a Gerusalemme, dove si era
pellegrini, devoti in visita, latori di doni. Deuteronomio 16, 16:
> Tre volte all’anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore tuo Dio,
> nel luogo che Egli avrà scelto: nella festa degli azzimi, nella festa delle
> Settimane e nella festa delle Capanne. Nessuno si presenterà davanti al
> Signore a mani vuote[2]
oppure intonati dai cantori leviti, ministri del culto, mentre salivano i
quindici dislivelli per servire al Tempio. Ascensione onorata col moto delle
membra, divario terrestre, da colmare col fisico proprio impegno.
“Oh eterno” dice il salmista, si rivolge al Signore col tetragramma biblico
“יהוה”(YHWH), il nome sacro con cui Dio si svela a Mosè, facendone il suo messo.
Esodo 3, 14:
> «Io sono colui che sono!» E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: Io-Sono mi
> ha mandato a voi»2
Perché questo Io sono, che è natura trascendente ed eterna, è anche nesso
d’amore, stabilita alleanza con il suo popolo; e il salmista è piccolo fiore di
un unico stelo, è voce di cuore che crede, la cui ugola canta perché è cantata:
in ciascuno che divarichi il petto dimora il tempio di Dio, e ogni respiro
rivolto al cielo è particella accesa del corpo di Cristo.
“Non si erige all’orgoglio il mio cuore”, così recita il canto, non
s’insuperbisce (dalla parola “fiero”, in ebraico “גָּבַה”gavah, riferisce ciò
che vuol esser alto, esaltato): e inverte l’immagine del salire, concessa al
corpo, al cuore negata. Perché la fatica è un salire che monda e benedice, non
così la superbia cui s’inerpica lo sguardo in chi perde la via: cercando
gl’idoli sulle alture, riponendo il senso del vivere nei mondani traguardi, la
fiducia nei propri vigori e talenti. Non questa la scalata, l’ascensione, bensì,
a contrappunto, salire l’erta della fatica, abbassando il cuore all’umiltà,
ignorando le lusinghe del mondo. Giacomo 4, 4-6:
> Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio?
> […] Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi
> […] Dio resiste ai superbi,
> agli umili invece dà la sua grazia2
Occhi inerpicati a superbia, “רָמוּ” (ramu), esaltati, ma anche intricati,
complicati: ché gli occhi sono visuale, scorcio, ma altresì atteggiamento: lo
sguardo che si leva in alto, e dall’alto scruta, è presagio d’arroganza, seme di
malizia. Il salmista scansa questo repentaglio, cerca l’umiltà nel sentire, nel
vedere e nel desiderare. Cuore, occhi, brama sono ammansiti nella pace. E cara a
Dio sopra ogni cosa è l’umiltà.
> In un luogo eccelso e santo io dimoro,
> ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati,
> per ravvivare lo spirito degli umili
> per rianimare il cuore degli oppressi2
>
> Isaia 57, 15
> Su chi volgerò lo sguardo?
> sull’umile e su chi ha lo spirito contrito
> e su chi trema alla mia parola2
>
> Isaia 66, 2
> Vidi tutte le reti del Maligno
> distese sulla terra e dissi gemendo:
> – Chi mai potrà scamparne?
> E udii una voce che mi disse: l’umiltà
>
> La Pace è a prezzo della moderazione
> dei desideri, il nostro desiderare continuo
> ci riempie di agitazione[3]
>
> Antonio Abate, dai Padri del deserto
Questa brama ama celarsi in inquietudini che, nel sentire comune, sono virtù.
Aspirare a grandi cose, nella realizzazione personale, persino nel cammino di
perfezione spirituale, pare idea buona, encomiabile, ma nasconde l’insidia
dell’orgoglio: miraggio d’autonomia, idolatria rivolta a sé stessi, al proprio
presunto merito.
È dall’operazione contraria, salire nella fatica, discendere nella contrizione
della propria mancanza, che nasce l’intimo contatto con Dio. San Paolo, 2
Corinzi 12, 7-10:
> 7 [e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni] Per questo, affinché io
> non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di
> Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
> 8 A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse
> da me.
> 9 Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta
> pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie
> debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo2
Accogliere la propria insufficienza è la grazia più grande, piena di dolcezza.
In chi tutto realmente regge e conduce, teneramente abbandonarsi. Teresina di
Lisieux:
> Dell’albero dell’amore, il frutto gustoso si chiama abbandono[4]
>
> Poesie, p. 746
> Il buon Dio vuole che io mi abbandoni come un bambino piccolo piccolo
> che non si preoccupa di ciò che si farà di lui4
>
> Novissima verba, p. 1016
L’alterigia è una tentazione subdola, che può coinvolgere anche chi è fortemente
dedito a vita spirituale, e pratica ascetici atletismi, compiacendosi di sé
stesso, non riconoscendo il dono ricevuto: è la grazia del Signore che viene a
illuminare ogni umana pochezza. Dai Padri:
> Compito del monaco è veder giungere fin da lontano i propri pensieri3
>
> M., 64
Anche la devozione al Signore è un suo dono, che deriva dal nostro saper
lasciare presunzioni e aspettative per abbandonarci nelle sue mani. Gratitudine,
affidamento, amore fanno funzione vicaria a integrità e pregi morali
irraggiungibili. Dai Padri:
> La riconoscenza perora al cospetto di Dio a favore dell’impotenza3
>
> N., 637
> Un anziano diceva: «Sii come un cammello: porta il carico dei tuoi peccati e,
> attaccato alla briglia, segui i passi di colui che conosce le vie di Dio»3
>
> N., 399 (P.E., I, 19, 17)*
> Ora non temo più Dio; lo amo: perché l’amore scaccia il timore3
>
> Abate Antonio, 32
Così il Salmista, pago della sua devozione, spogliatosi di timori e ambizioni si
abbandona alla nudità imbelle e inespugnabile della limpida fiducia. “Non bramo
grandi faccende”, non aspiro a grandi cose a farsi, a prestigiose mansioni: la
parola ebraica per “aspirare” è “הָלַךְ” (halak), che significa camminare,
andare in una direzione: cioè il movimento verso, teso a perseguire qualcosa.
“Grandi cose [a farsi], grandi faccende” si traduce da “גָּדוֹל” (gadol), che
significa grande o importante. L’orante è appagato dalla sua condizione, rifugge
ambizioni più ampie o complesse, foriere di orgoglio e smarrimento. Teresina di
Lisieux:
> Gesù non chiede azioni grandi, ma soltanto l’abbandono e la riconoscenza4
>
> Lettere, 196
Ha fiducia candida, sincera nel progetto di Dio, vero destino di ogni creatura,
che viene prima degli uffici mondani. Matteo 6, 33:
> Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia,
> e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta2
Nei Padri:
> Un anziano disse: non feci mai un passo senza sapere dove posassi il piede.
> Mi fermavo a riflettere, senza cedere,
> sino a che Dio non mi prendesse per mano3
>
> N. 485, Paolo Evergetinos III, 31, 11
“Né [bramo] meraviglie al di sopra di me” dall’ebraico “פָּלָא” (pala), che
significa meraviglioso o straordinario. Il salmista non vuole ambire a ruoli o
imprese che escano dal comune e dall’ordinario, e che siano oltre la sua portata
di creatura semplice, perché confida nell’onniscienza e nell’onnipotenza di Dio:
nelle sue vie, ben più alte, tracciate per lui. Isaia 55, 8-9:
> 8 Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
> le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore.
> 9 Quanto il cielo sovrasta la terra,
> tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
> i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri2
L’orante desidera dunque riposare in queste altezze, nella saggezza e sovranità
del Padre, sgravando il suo cuore da insidiose ambizioni personali, che evadano
il suo controllo.
“Ho ammansito” (lett. שִׁוִּ֨יתִי = “ho placato”, aggiustato alla calma) e “reso
dolce” (lett. וְדוֹמַ֗מְתִּי = reso silenziosa) “la mia anima”: atto deliberato
di riportare l’interiorità all’equilibrio, fino a una inerme quiete. Teresina di
Lisieux:
> Occorrerebbe una lingua diversa da quella della terra
> per esprimere la bellezza dell’abbandono di un’anima
> tra le mani di Gesù4
Il salmista rende la propria anima “dolce” nel senso di docile, temperata,
posata in un silenzio senza pretese. Trova così la pace interiore, sentendo la
presenza di Dio, mediante la disciplina su sé stesso e la fiduciosa resa alla
potenza del Padre. L’umiltà, nella relazione con Dio e le altre creature, è un
campo dai mille frutti. Perenne luogo di arrivo e partenza, itinerario
oscillante tra esito ed esordio, mai stabilmente appreso. Dai Padri:
> La terra sulla quale il Signore ha comandato di lavorare è l’umiltà3
>
> N., 656
> Se tu ti accorgessi che sei inferiore a tutte le creature.
> Questo pensiero unito al lavoro corporale:
> ecco ciò che corregge e conduce all’umiltà3
>
> Sisoe, 13
> Un anziano che abitava in Egitto diceva sempre: «non c’è strada più breve che
> quella dell’umiltà»3
>
> P.E., III, 38, 44
Accidentata via, eppure breve, verso la beatitudine: intima relazione col
Creatore, ferma limpidezza del cuore; e gioia pura, che è adesione perfetta a
ciò che è. Per questo, uno dei segni più chiari di santità e di umiltà, una
delle sue inevitabili conseguenze, è la gioia. Simone Weil:
> La gioia non è altro che il senso della realtà
> […] essa non sogna, non desidera ciò che non esiste; accetta ciò che è[5]
>
> (Cahier I, 18; 70)
> La contemplazione perfettamente pura della miseria umana ci strappa al
> cielo[6]
>
> (Cahier II, 157)
> La gioia è la coscienza di ciò che non è io6
>
> (Cahier II, 193)
L’altro da sé esiste, ed è necessario ridursi, e flettere agli ingranaggi del
reale: quegl’insondabili meccanicismi che sono proiezione oblunga, nel visibile,
dell’arabesco di perfezione divina che, essendo ulteriore alla materia, è
inesperibile. Simone Weil:
> La necessità è una musica, la vibrazione del silenzio di Dio[7]
>
> (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, 129)
Nel duro apparato della necessità, la sofferenza ha un ruolo preciso:
> Il carattere irriducibile della sofferenza […] ha come scopo di arrestare la
> volontà […] affinché, arrivato alla fine delle capacità umane, l’uomo tenda le
> braccia, si arresti, guardi e attenda[8]
>
> (Cahier III, 29)
Questo stabilisce un nesso ideale col Salmo precedente, il De profundis, in cui
si mette in evidenza tutta l’insufficienza e incompiutezza dell’umano, che geme
dal buio del suo peccato, impetrando perdono: quella pietosa grazia che si
riceve mediante contrizione, quado l’umiltà, afflitta dall’errore commesso,
mestamente duole, e lacrima:
> Se consideri le colpe, Signore,
> Signore, chi ti può resistere?2
>
> (Sal 130)
Afflizione che è un rammarico non ostentato o auto denigratorio, ma
weiliano senso della realtà: riguardo la propria carenza. Compunto, l’orante
volge al cielo, confida nel dono:
> L’anima mia è rivolta al Signore
> più che le sentinelle all’aurora2
>
> (Sal 130)
Dai Padri:
> Qual è la preghiera pura? […] quella che è breve in parole e grande in opere.
> […]
> Diverso è, del resto, il mondo dei penitenti, diverso il mondo degli umili;
> i penitenti sono mercenari, gli umili, figli3
La pazienza, la fiducia, la gioia sono l’umiltà più profonda che innamora Dio:
> Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente,
> in ogni cosa rendete grazie:
> questa infatti è volontà di Dio2
>
> (Prima lettera ai Tessalonicesi 5,16)
Riferendosi al noto tratto del Vangelo di Matteo (Matteo 6, 25-34), in cui il
giglio nel campo e l’uccello nel cielo incarnano il totale affidarsi a Dio,
senza affanni né premure, delle creature semplici, Søren Kierkegaard dice:
> là dove il giglio e l’uccello insegnano la gioia, c’è gioia sempre […] la
> gioia del silenzio e dell’obbedienza. Perché quando tu taci nel silenzio
> solenne, quale è in natura, non esiste il domani; e quando tu obbedisci come
> obbedisce il creato, non c’è il domani, quel giorno maledetto, l’invenzione
> della chiacchiera e della disobbedienza. Ma se dunque grazie al silenzio e
> all’obbedienza non esiste il domani, allora nel silenzio e nell’obbedienza è
> l’oggi che è, e che dunque è la gioia, quale è nel giglio e nell’uccello[9]
L’umiltà, che è fiducia e serena perseveranza, assenso profondo al reale in
totale presenza, dilata l’istante all’eterno. Stancare Dio di pazienza. Stupire
Dio di speranza. Simone Weil:
> Una pazienza capace di stancare Dio procede da un’umiltà infinita[10]
>
> (La connaissance surnaturelle, 47)
Così Teresina:
> Si stancherà più presto lui di farmi aspettare, che io di aspettarlo4
>
> (Lettere, 103)
Attesa paziente, fiduciosa, senza smanie o assilli, senza egotici delirî o avare
tristezze.
Dai Padri:
> Un anziano disse: Se sei orgoglioso, sei il diavolo. Se sei triste, sei suo
> figlio. E se ti preoccupi di mille cose, sei il suo servitore senza riposo3
Santità nel Signore è affidamento completo e piena gioia.
Infatti “come bimbo divezzato” (כְּ֭גָמֻל) “su sua madre”, “in sua madre”
(עָלַ֣י אִמּ֑וֹ), cioè in braccio alla madre, tradotto: “in grembo alla madre”,
è l’anima del Salmista: non più in uno stato di dipendenza e desiderio
materiale, ma nella letizia di una diversa maturità, piena di gratificazione. Un
bambino svezzato non piange più per il latte ma riposa beatamente; pargolo
quieto, fasciato dalle braccia della mamma: pur avvinto al suo seno, ne gode il
senso di protezione, senza null’altro desiderare. È bello notare che l’immagine
di Dio come Madre, non solo come Padre, sia ricorrente nella Bibbia[11]
> Come una madre consola un figlio
> così io vi consolerò
>
> Isaia 63,13
“Come bimbo divezzato” (כַּגָּמֻ֖ל), dice dunque l’orante, e reitera
l’espressione all’ultimo verso, dove si è resa con una formula più nitida e
compatta: “come bimbo slattato” (כְּ֭גָמֻל): l’idea di affrancamento dalla
condizione precedente è reso mediante s privativo, che sottolinea una cesura dal
pregresso, che è cessazione e riscatto. Troncamento che germina nel nuovo corso
di esistenza, compiuta in Dio: laddove dei carismi che abbiamo ricevuto, fatti
fruttificare nel mondo, viene reso grazie al Padre, con devota umiltà:
> Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà,
> la mia memoria, la mia intelligenza
> e tutta la mia volontà,
> tutto ciò che ho e possiedo;
> tu me lo hai dato, a te, Signore, lo ridóno;
> tutto è tuo, di tutto disponi secondo la tua volontà:
> dammi solo il tuo amore e la tua grazia;
> questo mi basta
>
> Sant’Ignazio di Loyola
Il Signore riceve, il Signore dà. Chi in Dio crede e armoniosamente si posa è
come un bimbo svezzato in grembo alla madre, che non pretende nutrimento, ma
gode l’affetto, gli sguardi, le tenerezze. Su sua madre, in sua madre, in
braccio alla madre.[12]
Il rapporto intimo e personalissimo non preclude, anzi prescrive, l’estensione
del desiderio di grazia a tutti gli altri membri dell’alleanza, particelle del
corpo mistico di Cristo. Dunque l’ultimo verso del Salmo si rivolge direttamente
a Israele (יִשְׂרָאֵל), inteso come “popolo” che desidera appartenere all’Eterno
e in lui dimorare: “pòsati e confida nel Signore, Israele da ora e per sempre”.
La moltitudine che sceglie di seguire Dio è identità collettiva in cammino,
conscia del passaggio attraverso la cruna d’ago della necessità,
dell’impermanenza, del dolore insito nella materia; una pluralità che si
percepisce unità, e volge il viso al solo che amorevolmente guarda, consola,
guarisce: restituendo l’uomo alla sua primigenia, naturale fraternità. Simone
Weil:
> Dio ci viene a prendere attraverso i veli dello spazio e del tempo, sulla
> Croce. È l’irruzione dell’infinito nel finito8
>
> (Cahier III, 45)
> la Croce è una bilancia in cui un corpo fragile e leggero, ma che era Dio, ha
> sollevato il peso del mondo intero8
>
> (Cahier III, 50)
> Non c’è che una croce, ed è la totalità della necessità che riempie l’infinità
> del tempo e dello spazio, e che può, in alcune circostanze, concentrarsi
> sull’atomo che è ciascuno di noi e polverizzarlo completamente7
>
> (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, 110)
Da qui il discernimento di un comune destino, da cui nasce la compassione. Edith
Stein:
> Benedici lo spirito affranto
> dei sofferenti,
> la pesante solitudine degli uomini,
> l’essere che non conosce il riposo,
> la sofferenza che non si affida mai a nessuno.
> È a colui che sul Monte degli Ulivi
> lottò, sudando sangue e acqua,
> con Dio, con ardenti suppliche,
> che spetta la vittoria,
> è su questo monte che si decise
> la sorte del mondo.
> Qui, cadete a terra
> e pregate
> senza più domandare:
> Chi? Come? Dove? Quando?[13]
Dorata coralità, fulgida reciprocità, che è essere raggiunti da Dio sulla Terra,
e in lui tornare e dimorare:
> Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore,
> mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
> mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo2
>
> (Sal 18)
Biunivoca accoglienza, ancipite corrispondenza d’amore. Teresina:
> Lui, il Re dei re, si è talmente umiliato che il suo viso era nascosto e
> nessuno lo riconosceva […] E anch’io voglio nascondere il mio viso […] che sia
> solo lui a contare le mie lacrime; che almeno nel mio cuore possa riposare il
> suo amatissimo capo ed egli possa sentire che lì è conosciuto e compreso.4
>
> (Lettere, 137)
Simone Weil solleva in culmine, e osa sussurrare:
> Non sono io a dover amare Dio. Che Dio si ami attraverso me6
>
> (Cahier II, 274)
Teresina così risponde:
> è in lui che noi ci amiamo teneramente […]
> piuttosto che l’unione, è l’unità che esiste fra le nostre anime4
>
> (Lettere, 132)
Protendersi con l’umiltà della propria inadeguatezza, nell’attesa che si
divarica alla grazia. Affidarsi, affidare, con devozione ferma, cocciuta fede.
Come il padre di famiglia che affida i figli alla Vergine, in Charles Peguy:
> E se ne è andato con le braccia penzoloni.
> Se n’è andato colle braccia vuote.
> Lui che li aveva affidati.
> Come un uomo che portava un paniere.
> E che non ne poteva più e aveva male alle spalle[14]
Similmente, il gesto del posare sé stessi in Dio, nella parte finale del canto:
“posati e confida nel Signore, da ora e per sempre”. L’esortazione al popolo
dell’alleanza, Israele (יַחֵ֣ל), sarebbe letteralmente: “Israele, metti speranza
(יָחַל), attendi, sii paziente: riponi fiducia in YHWH da questo momento e fino
all’eternità”. L’orante conosce quest’attesa feconda e fattiva, piena di fiducia
e nell’intervento di Dio. “Riponi te stesso e la tua speranza”, “confida”: un
invito a fare affidamento sulle promesse di Dio e sul Suo progetto, anche quando
le circostanze sembrano incerte o difficili, cioè fin da ora (מֵֽ֝עַתָּ֗ה = fin
da questo momento, seppure nebuloso o precario) e “per sempre”. Charles Peguy lo
sente il rotondo stupore di Dio, quando incontra la fiamma irriducibile che arde
nell’umano cuore, pur avendola lui medesimo creata:
> Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza.
> E non me ne capacito.
> Quella piccola speranza che non sembra niente.
> Quella piccola bambina speranza14
Il Salmo chiude con incantevole fermezza, nella chiamata all’essenza: prolungare
la speranza fino all’eternità (וְעַד־עוֹלָֽם׃). La parola ebraica “עוֹלָם”
(olam), che può significare “per sempre”, “eternità” o “una lunga durata”,
evidenzia la natura senza fine delle promesse di Dio: la relazione perpetua di
fedeltà e fiducia tra il Padre e ogni singola sua creatura che al cielo volga lo
sguardo. La piccola bambina Speranza, l’intera consegna di sé, che sa far quieto
il cuore:
> È lei, quella piccola che tira tutte.
> Perché la Fede non vede che ciò che è.
> E lei vede ciò che sarà.
> La Carità non ama che ciò che è.
> E lei ama ciò che sarà.
> La Fede vede ciò che è.
> Nel Tempo e nell’Eternità.
> La Speranza vede ciò che sarà.
> Nel tempo e nell’eternità.14
Isabella Bignozzi
Isabella Bignozzi ha tradotto il Salmo 131 per il “Salterio dei Poeti”,
progetto-libro curato da Roberta Rocelli e da Davide Brullo per Festival Biblico
2025
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[1] In: I Salmi, Traduzione di David Maria Turoldo, Commento di Gianfranco
Ravasi, Oscar Classici Mondadori 1994
[2] La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009
[3] Detti e fatti dei padri del deserto, a cura di Cristina Campo e Piero
Draghi, Rusconi Libri, 1994
[4] Thérèse de Lisieux, Oeuvres complètes, Cerf DDB, Paris 1992
[5] Simone Weil, Quaderni. Volume primo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1982
[6] Simone Weil, Quaderni. Volume secondo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi
1985
[7] Simone Weil, Pensieri disordinati sull’amore di Dio, La Locusta 1991
[8] Simone Weil, Quaderni. Volume terzo. A cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi 1974
[9] Søren Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo.
Discorsi (1849-1851). A cura di Ettore Rocca, Donzelli 2011
[10] Simone Weil, La connaissance surnaturelle, Gallimard 1950, ora Taccuino di
Londra, in Simone Weil, Quaderni. Volume quarto. A cura di Giancarlo Gaeta,
Adelphi 1993
[11]Per esempio: Isaia 49,15: «Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne
si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai»; Osea 11, 3-4: «Io li
traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva
un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare»; Salmo
71, 6: «Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu
sei il mio sostegno». Così, il termine ebraico rahamim, (רַחֲמִים), che nella
Bibbia si riferisce spesso alla compassione, misericordia o tenerezza di Dio
verso l’uomo, deriva dalla radice ר-ח-ם (r-ḥ-m), che è collegata al termine
“reḥem” (רֶחֶם), cioè “grembo materno”. A suggerire che l’amore divino per le
sue creature è viscerale, intimo, incondizionato — come quello di una madre per
il figlio che porta in grembo. Il biblista Gianfranco Ravasi ha osservato che
esistono almeno 60 aggettivi di Dio al femminile nella Bibbia, e più di 260
riferimenti alle «viscere materne» del Signore.
[12] עָלַ֣י “su”, “in”, preposizione anch’essa iterata, quando è in relazione
alla locuzione “sua madre” assume il significato di “in braccio a sua madre”,
mentre quando si riferisce al pronome “me” (עֲלֵ֣י) indica “in me”, “dentro di
me” . A tal proposito si nota come la vocalizzazione, resa in ebraico mediante
segni diacritici, diversifichi lievemente toni e sensi anche di espressioni
anaforizzate.
[13] Waltraud Herbstrith, Poèmes et prières dans les oeuvres posthumes,
Francoforte 1975
[14] Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù. Traduzione di
Giuliano Vigini. Medusa Edizioni 2014
*In copertina: Leon Dabo, Studio di mano, 1890 ca.
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