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“Il rito del consumo è la superstizione più nefasta”. Dialogo con Gian Ruggero Manzoni, lo sciamano del Delta del Po
La produzione letteraria (e non solo) di Gian Ruggero Manzoni è delle più variegate e peculiari. Leggendone i libri, seguendone il percorso artistico (almeno di questi anni) ci si accorge facilmente di quanto l’autore abbia un piede nel presente e un piede in un passato remotissimo. Manzoni lo vedo un po’ così, attuale e allo stesso tempo antico, mentre paziente fila una tela che ricongiunge il presente con gli albori dell’umanità.  Dopo un libro come Dialoghi infami (Medusa, 2024), tremendamente macchiato dalla contemporaneità, con Nel lento movimento dei ghiacci (puntoacapo, 2024) facciamo un balzo indietro di millenni (come già aveva compiuto con Ultramodum), all’origine della vicenda umana, quando ancora non era Storia, sulle orme di sciamani che camminano sul sottile confine tra questo mondo e l’altro (o gli altri), fra religione e magia. Il libro raccoglie una serie di prose poetiche e disegni, suddivise in quattro sezioni: Nel lento movimento dei ghiacci, Sciamani, La quarta moira, La rinuncia. Mi domando se non stia tutto qui il senso della ricerca artistica, della scrittura come del disegno: ritrovare il filo di un discorso incominciato migliaia di anni fa e che abbiamo perso lungo la strada, ritrovare la magia di cui è ancora intrisa la realtà sotto tonnellate di cemento. Artista, poeta, scrittore; traduci e interroghi testi sacri e mercenari sanguinari: ti senti anche tu un po’ sciamano? A un recente Festival Internationnal des Traditions et Spiritualites Ancestrales et du Chamanisme, tenutosi in una vallata nei pressi di Reims, in Francia, confrontandomi con sciamani e sciamane riconosciuti quali Abdellah e Gnawa Akharraz, Vera Sakhina, Ayangat, Anja Normann, Frederic Roure, Bhola Nath Banstola, Tiegniery Diarra, Baruch Osorno, Domi Farinelli, sono stato riconosciuto, da loro, quale sciamano a mia volta… sciamano della parola, non celebrativo, cioè non operante tramite danze o gesti propiziatori, ma quale “guaritore”, così mi hanno definito, per mezzo della parola, ed “evocatore”, sempre tramite il suono che conteniamo, di entità superiori. Comunque già mia nonna Olimpia, a sua volta sciamana romagnola, mi aveva riconosciuto e, a suo tempo, mi passò il dono. Inoltre ogni buon poeta o artista o musicista è infine uno sciamano se opera per il bene e il bello, e se sempre rispettoso delle “anime naturali”.   Quale legame persiste fra l’uomo di oggi e quello che vestiva le pelli di mammut e interrogava il fato seguendo il volo degli uccelli? Sono lo stesso uomo unicamente in tempi diversi. Tutte le massime domande sono ancora sul tavolo prive di risposta, quindi nulla sapeva del cosmo e di sé l’uomo primitivo e nulla sappiamo di noi e del cosmo… o, meglio, della dimensione che ci contiene e che conteniamo… noi umani del XXI° secolo. Giusto sappiamo che un giorno moriremo e che la Terra è tonda e ruota attorno al Sole, mentre la Luna ruota attorno alla Terra, poi stop, che altro si sa? Dimenticavo, ancora molti continuano a credere che la Terra sia piatta… e detto ciò non resta che sorridere riguardo la nostra attuale condizione.  “La magia appare incredibile solo perché è l’evento più naturale e quotidiano che ci sia”. “Ciò che è stato creato è magia, e lo sciamano non è che l’indagatore dell’indagine”. Ma cos’è la magia? Credendo in un divino generatore, creatore e demiurgo, credo anche che esistano esseri umani e animali e piante che riescono a metterci in contatto con altre dimensioni. La magia è la capacità di proiettarti o proiettare un altro essere in universi paralleli, come sostengono le varie Teorie del Multiverso, così, scientificamente, oggi vengono appellate, mentre arcaicamente avevano e ancora hanno altri nomi. La magia è entrare in esse e giungere a vibrare come le stesse, fino alla scoperta della propria “nota armonica”, come la definiva il teosofo, pedagogista, filosofo, esoterista austriaco Rudolf Steiner. Il sommo Guido Ceronetti giustamente scriveva nel suo Il silenzio del corpo, un libro che consiglio:  > “La fame di magico è più che legittima, il rischio è, sempre, che il malvagio > destino la orienti, per sfogarla, sulla stella del male. Ma di magia buona c’è > oggi molto più bisogno che di medicina buona”. Quando osserviamo una civiltà arcaica (anche quella più vicina a noi, come quella contadina) con i suoi riti, ci appare come in balia delle superstizioni, eppure era una civiltà più solida della nostra. Siamo oggi, più di allora, vittime di superstizioni? Direi che il “rito del consumo” sia la superstizione più nefanda che oggi ci possa essere, idem la “messa del denaro”, paragonabile ad ogni “messa nera”. Tutto ciò che oggi divide e rende predatori risulta quale attuale superstizione, ciò che invece unisce è ‘savietà’, saggezza, buon senso, cultura base, consapevolezza, massima osservazione, “antica credenza popolare”, compenetrazione, quindi passata e accettabile superstizione. Sì, un tempo, anche noi Occidentali, oggi definiti evoluti, emancipati, civili, tramite l’attenzione persistente riuscivamo a compenetrare la materia e il mistero così come l’altro o l’altra da sé, al punto di partorire modi di dire valevoli ovunque atemporalmente. Quindi necessita suddividere la superstizione, come poi la magia, in bianca o nera. Su ciò che oggi definiamo idolatria o, peggio, ignoranza, un tempo si sono costruiti imperi, ma l’antica superstizione era troppo attinente al destino e allo stare attenti ai “segni” per poterla definire volgarmente ubbia. I “segni” e la capacità di interpretarli sono da considerarsi come le tracce lasciate sul suolo che i pellerossa riuscivano a leggere. L’interpretazione dei “segni” e delle atmosfere era l’arcaica buona, benevola, accrescente superstizione.  Questo lento movimento dei ghiacci, questo andare alla deriva, rappresenta un po’ la tua idea dell’umanità oggi. In alcuni passaggi sembri suggerire una fratellanza umana originaria perduta, ormai scaduta in uno “scontro tra simboli che, nell’errore, si leggono avversi… si disegnano quali contrari, di sanguinari eccessi o di ecatombi, oppure di massacri”. È una fratellanza recuperabile? Sì, la lenta deriva dei freddi… dei gelidi ghiacci è il nostro attuale andare. Mai gli uomini sono stati fratelli per sangue, quanto, invece, fratelli per idea, per idealità, quindi per fede, perciò uniti anche se non si è stati scaturiti dalla medesima carne. Gli ovuli e l’utero che rendono non solo fratelli ma gemelli si chiamano: credo comune, comune rappresentazione mentale, comune opinione, convinzione comune, sentire comune, spirito comune, volontà comune, divinità comune, comune magia. Nell’oggi l’Occidente ha perduto quei valori fondamentali che ho pocanzi elencato. Siamo molto… troppo lontani gli uni dagli altri. Crollata una memoria comune, così che nascessero infinite memorie, ecco che la frammentazione… la polverizzazione disintegra ogni possibile verità comune, o, meglio ancora, ogni comune verità.  La quarta moira, cioè il nulla, l’assenza di prima e dopo, la fine della fine, domina una parte centrale del libro. Qual è il tuo rapporto con la morte e con ciò che viene (se viene) dopo? Sono solito dire che i miei genitori più che vivere mi hanno insegnato il come morire con estrema dignità, sacralità, coraggio e spiritualità. Il senso di morte ha sempre aleggiato a casa mia, ma non in accezione cupa, oscura, deprimente, scoraggiante, quanto come persistente preparazione alla stessa. Ogni attimo può essere l’ultimo e per quell’ultimo necessita essere pronti. Infine la mia esistenza, finora, è stata un persistente apprestamento alla morte, con tutto quello che ne consegue, quale prima componente il cercare di vivere… sì, di vivere ogni attimo come appunto fosse l’ultimo. Ciò che di noi resta, così come ciò che di questo universo resterà, non sarà neppure un punto su di una mappa ampia quanto la potenza dell’inesprimibile. Il mio e il nostro nulla è il saper morire quindi il saper vivere in quell’inesprimibile. A tal proposito tanto mi fu caro quello strabiliante scritto titolato, in italiano, La Lettera di Lord Chandos, in tedesco “Ein Brief”, del grande Hugo von Hofmannsthal. Valerio Ragazzini ** Brani tratti da Nel lento movimento dei ghiacci (puntoacapo) di Gian Ruggero Manzoni Ogni dimensione ride attorno a me, e mai mi priverò di quello che la mia fede dona. Un sorriso è il Cristo, mai un atto d’accusa. Sciamano del Delta del Po, sempre scopro ogni notte che vago nell’immutata sostanza della natura umana. È ancora un antico sogno che riconduce alla mia terra d’origine, a quell’arcaico intrico di rami, rovi, edera, canne, alghe palustri. È nella natura aspra della mia gente che saldo la tragedia, ma anche l’elevazione, del nostro destino di eterni immaturi. Che gioia! Che ritrovata incoscienza pudica! Forse che l’Età dell’Oro dimori in un colpo di zappa o nel tergersi la fronte dal sudore? La genuinità perduta solca ancora la palude. Nulla è scomparso. Tutto è ancora lì, se apri gli occhi di tua madre, e, del padre, se indossi gli stivali di gomma e i pantaloni di velluto. * Mi diceva un filosofo e musicista di Praga: “La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo”; la stessa accusa fu di mia nonna, indagatrice di segni e di premonizioni sulla corteccia degli olmi o dei pioppi padani. Lei mai volle salire in auto, se non il giorno che la portarono all’ospedale dove le diagnosticarono che entro un mese sarebbe morta e che si preparasse a salpare. Al che si fece riportare nel suo letto (posto al centro della nostra casa), accese la candela che aveva sul comodino, recitò le orazioni e si spense con l’ultima goccia di cera scivolata… mentre le api, riunitesi, con lei migrarono in un’altra chiesa dimenticata… su di un altro altare. * Al che si disse che oltre la velocità della luce, pur sempre relativa, non si può andare, visto che non esiste alcun modo di accelerare una spinta fin oltre i 300.000 chilometri al secondo, se non fornendo un’energia che risulti al di là dell’estremo, quindi ardua, impossibile, lontana da noi, inavvicinabile, cattiva e infinita, non certo piccola giostra che tramite il calore muove pale, vele, seggiolini, camei, sputando sulle madri che glabre ammirano con facce ebeti i loro figli… privi di futuro, carne già morta, di già polvere, di già rutto di un mulinello di cielo, o coda gelida di uno spegnersi sia di stelle che d’illusioni… che di risorse… che di fermenti… che di fittizie occasioni. * L’11 maggio del 1872 il cielo d’Europa venne ammutolito da una pioggia di meteore in fiamme che cessarono in una nuvola di cenere che avvolse per giorni animali da latte, neonati, baldracche, lumache e api, poi connestabili, carabinieri, netturbini, scava pozzi, e pur anche cani e aironi, quale benedizione di me demone che per non molto custodirò l’equilibrio dei corpi astrali, così che lei, la gran signora, nella gravità copuli col marito mentre, gli ultimi gemiti, siano dell’amante, poi dell’amante, e dell’amante ancora, nella perduranza di una sterile ginnastica, frutto di una Gomorra petulante e allucinata, incensata dallo sperma di un toro che annaffia probi e tagliagole, avvocati, notai, banchieri, i quali si riconoscono fra loro tramite anelli ai lobi, occhi truccati, turbanti e gemme, cinismo, volgarità e nessuna carità parziale, cristiana, o chissà dove e come, la stessa, sia nata e possa custodire un valore ultraumano o solo menzogne, o sterili sermoni. *In copertina e nel testo, alcune opere di Gian Ruggero Manzoni L'articolo “Il rito del consumo è la superstizione più nefasta”. Dialogo con Gian Ruggero Manzoni, lo sciamano del Delta del Po proviene da Pangea.
April 16, 2025 / Pangea
La vita come magia: Attilio Bertolucci, il poeta del batticuore. Dialogo con Paolo Lagazzi
La lucertola di Casarola è il titolo della poesia che battezza l’ultimo libro di Attilio Bertolucci, uscito nel 1997 per Garzanti. La scena ha la luce olimpica dell’infanzia, una specie di celestiale crudeltà. “Ricordo che bambino m’incitavano/ a mozzar loro la coda – non temere,/ rinasce, non temere – e io a rifiutare, caparbio, silenzioso”. La poesia parla, in forme sotterranee, di ciò che permane e di ciò che va, della cenere e dell’indomito. Nella caparbietà, nel vello del silenzio, si intravede – come l’autoritratto di un pittore del Rinascimento, viso che fissa lo spettatore dall’angolo tra la massa degli altri – la firma del poeta. Un gatto fissa la scena, la figura rettile che appare e scompare. L’ultima lassa sfiora l’oracolo, una forma verminosa della luce: > “Sciocca felina, ignara > dei cunicoli cui torna, non fugge, > l’abitatrice avanti te e me > di questa verde plaga occidentale”. Secondo Paolo Lagazzi – in un libro, La casa del poeta, di leggiadra magia, ora edito da La Nave di Teseo, che assembla “Ventiquattro estati a Casarola con Attilio Bertolucci” – si tratta di una poesia-rivelazione: “la lucertola appenninica, ricca di cunicoli in cui nascondersi per tornare, di sortilegi per riemergere dalle proprie ferite, racchiude in sé la forza di ciò che dura e durerà sempre, attraverso e oltre i dubbi e i dolori la vita – e la poesia che in essa si cerca e riflette”. Forse quel rettile – figura di una vita non rettilinea – simboleggia la poesia stessa di Bertolucci: all’apparenza comune, sorgiva, come l’erba e le lucertole; in verità, retrattile, sapiente al mezzogiorno, edotta nei meandri dell’oscurità. Così, nel suo discorrere – come di chi è uso ad abusare della pazienza dei morti, come chi sa imbonire il miraggio, disperdere l’inganno in una fiaba: si legga l’insuperabile Per un ritratto dello scrittore da mago, Diabasis, 1994, poi Moretti & Vitali, 2006 –, Lagazzi dice della luce frontale di Bertolucci, gioviale Giove, principesco nell’avita Casarola, conficcata nell’Appennino parmense; non ne cela le aspre ombre. La crisi-catabasi del 1958, ad esempio – gli anni in cui il poeta comincia la lunghissima elaborazione del poema familiare La camera da letto –, in cui Bertolucci sperimenta ‘il terribile’, il mostro interiore; il gemellaggio, spiazzante, tra allegria e desiderio di isolamento; amicizia e reticenza.  Con nobile andare, da patriarca, Bertolucci ha attraversato tutti i tempi della cultura italiana: negli anni Trenta dirige per Guanda la collana “La Fenice”; vent’anni dopo guida “Il gatto selvatico”, la rivista dell’ENI; sarà alla direzione di “Nuovi Argomenti”. Amico di Vittorio Sereni e di Pier Paolo Pasolini, fu consulente per Garzanti; con Viaggio d’inverno (1971), tra l’altro, ottenne l’“Etna-Taormina”, nell’anno in cui presidente di giuria era Eugène Ionesco. In calce a La casa del poeta, Bernardo Bertolucci, primogenito di Attilio, appunta, “Continuo a chiedermi: e io dove ero?”. A significare, credo, la placida inafferrabilità del padre; il talento di un padre di ‘liberare’ i figli, che sappiano librarsi da sé. Chissà fino a che punto i grandi film di Bernardo – Ultimo tango a Parigi, Novecento, L’ultimo imperatore… – sono debitori dello sguardo di Attilio. Nei ricordi di Pietro Citati – riferiti da Lagazzi – “Appena parlava c’era odore di prati emiliani, di Tasso, di letteratura inglese, di famiglia, di mucche, di dolcezza e di infinita saggezza”.  Bertolucci amava Thomas Hardy e William Wordsworth; amava Proust – ha tradotto Baudelaire. Certo, la sua opera può avvicinarsi a quella pittorica di Vermeer: una luce fiamminga, esatta, non priva di enigma. Nel Ritratto di giovane gentiluomo di Lorenzo Lotto, una lucertola sfida l’uomo che ci guarda, drappeggiato da un’insanabile mestizia, mentre sfoglia un libro. Creatura a sangue freddo che si nutre di luce, ne fa scorta per i suoi viaggi sotterranei – sapersi nascondere, disgustati dalle mode, è il tono del poeta. Luce-lucertola, nostra verde torcia.  Nella sua ultima intervista, concessa nel gennaio del 1977 alla Radiotelevisione Svizzera, Cristina Campo parla della lucertola come emblema della vita, al contempo solare e terribile: > “Non mi sono mai posta il problema, perché si vive? Per me è un miracolo… > Avere visto una lucertola che prendeva la buccia di una pera, stando sopra il > mio piede, e la portava alla femmina, come un dono, mentre il sole tramontava. > Ecco, che bello essere creati… o che cosa spaventosa in altri momenti”. > > (in: Ottanta poetesse per Cristina Campo, Magog, 2023)  La nuda vita, la mera vita – una fredda incandescenza, come la spada che fa lo scalpo al sole. Nella prefazione alle Operedi Bertolucci, inscatolate nei ‘Meridiani’ (Mondadori, 1997), Lagazzi dà forma al concetto così: > “Non molte sono le opere del secolo in grado di procurarci un così intenso e > nutritivo batticuore perché assai rara è la capacità di restituire la vita > nella sua struggente evidenza, e non solo come onda del tempo, fino al > mormorio più segreto (il fruscìo d’una tenda che sbatte, il brivido d’una > clessidra), o come brusìo di voci prima del silenzio finale, ma anche come > verità di colori, di corpi e di tracce irriducibili alla corrosione del > tempo”.  Quando sento Lagazzi, la sua gioia è già presagio di un gioco di prestigio. “Andremo a Casarola… ti porterò a Casarola… e sarà una giornata memorabile”. E s’intuisce già, nel fondo, il mormorio dei prati, le lucertole che guizzano, quei rettili delfini, un dio aprico, con l’ascia e l’aratro, e il mormorio della parola memorabile fa di questo mondo, immediatamente, una ventura. Che la cosa, poi, accada, o rimandi all’assalto dell’impossibile, poco importa. Il grigio non esiste.  Bertolucci, ancora: descrivimelo in tre aggettivi. Potrei dirti che era seducente, vero e imprendibile.  Col primo aggettivo voglio dire che aveva quel dono molto raro, forse concesso dagli dèi solo ai maestri, che è il fascino personale nel senso più profondo, psichico, magico, sciamanico. Avvicinarlo davvero era impossibile senza lasciarsi sedurre, incantare, plagiare.  Col secondo aggettivo voglio sottolineare che il suo modo d’essere, per quanto tendente all’affabulazione nel quotidiano e alla rêverie nella scrittura, non era mai astratto, non fuggiva mai per la tangente, non si perdeva in discorsi vacui o retorici: c’era in lui, vivissimo, un bisogno di chiarezza, concretezza, fisicità, un bisogno di muoversi con un passo e un respiro giusto che era anche una necessità etica, e che nasceva dalle sue radici contadine e cristiane.   Nonostante la sua concretezza era a suo modo imprendibile, e dicendo questo alludo al fondo mercuriale del suo spirito, alla sua intima mobilità, al continuo trascolorare delle sue parole e delle sue fantasie tra le apparenze e i segreti della vita, ai suoi andirivieni fra naturalezza e malizia, agli spostamenti velocissimi del suo sguardo sul mondo, alla sua refrattarietà a essere incasellato in categorie, al suo grande bisogno di libertà, al suo sentimento della vita come avventura feriale, come magia e grazia, come radicamento delle parole e delle cose anche più umili e comuni nel mistero. Esiste, per tua esperienza, una consustanzialità tra il corpo del poeta e il suo corpus lirico, tra la tempra etica e quella estetica? Mi riferisco, va da sé, a Bertolucci: fino a che punto l’uomo combaciava con il poeta – e viceversa? Ha scritto Pietro Citati che sentirsi un poeta era per Bertolucci come essere “un bollito o una patata al forno”: una realtà naturale, accettata con assoluta innocenza. A mia volta ho ricordato nella Casa del poeta una lirica in cui Paolo Bertolani dice che Attilio sapeva trasformare in poesia qualunque gesto, fosse pure passare un giornale dalle proprie mani a quelle dell’ospite o versare il vino a tavola. Anch’io ho sempre avvertito una continuità essenziale fra la vita e la poesia nel carattere e nel destino di Attilio. Ciò non significa affatto che covasse il seme dell’estetismo. La fonte prima e necessaria della poesia era per lui la vita: la poesia non era vera se non si nutriva di vita, ma a sua volta “sentire” la vita nelle sue risonanze profonde non gli era concesso se non nella luce della poesia. Poiché era impossibile sbrogliare questo nodo con le forbici del pensiero, ho letto e riletto per mezzo secolo la sua poesia e ho camminato fianco a fianco con lui, ho respirato i suoi soffi lirico-epici e ho condiviso molti suoi momenti umani, soprattutto a Casarola. Mi sono lasciato intridere dal batticuore aritmico dei suoi giorni e dei suoi versi, ho cercato di accogliere e di lasciare che si muovessero dentro di me la luce e la pazienza, i lati umbratili e la joie de vivre che percorrevano il tempo della sua esistenza e le pieghe mobili della sua opera. Amava il jazz, il cinema, Verdi e Proust, è vero, ma qual è la vera ‘miccia’ culturale di Bertolucci, quella che lo animava? Forse il “la” alla creazione poetica di Attilio lo ha impresso la pittura, perché la sua poesia è anzitutto immagine, sguardo, visione. L’immagine è per lui il modo che ha il mistero vitale di manifestarsi nella luce. Guardare non è mai un esercizio “teorico”: è invece pura esperienza d’immersione nelle forme dell’essere, nei colori vivi e cangianti delle cose nel flusso del tempo. L’amore del poeta per la pittura precede l’incontro con Roberto Longhi (avvenuto nel ’35); già Sirio (del ’29) e Fuochi in novembre (del ’34) vibrano e brillano di riferimenti pittorici impliciti o dichiarati, da Monet a Bonnard, dal liberty a Modigliani, da Picasso a De Chirico. L’insieme delle scoperte della modernità pittorica è stato per il primissimo Bertolucci un crogiolo d’impareggiabile vitalità, una trama screziata di possibilità sperimentali, un invito al viaggio della poesia tra i sortilegi della luce e dell’ombra. Naturalmente la pittura (e subito dopo il cinema, sorta di pittura in movimento) è stata solo il “la” della sua avventura poetica: nel tempo l’amore per i maestri moderni e antichi della visione si è intrecciato sempre più fittamente con la passione per Proust, per Verdi e per altri poeti, soprattutto inglesi e americani. Ma è significativo che, ancora nel ’43, alla richiesta di Luciano Anceschi a tutti i poeti dell’antologia Lirici nuovi di fornirgli uno scritto di poetica, Attilio abbia risposto con quelle celebri righe sulla propria poesia come ricerca di “un po’ di luce vera” orientata verso fari della pittura quali gli impressionisti e Vermeer. Sul senso dell’amicizia e della famiglia in Bertolucci. Dimmi. Benché nel carattere di Attilio fosse esplicita la componente narcisistica, in lui era altrettanto viva è vera la capacità di amare, il calore dei sentimenti. A parte quello per i genitori e il fratello, l’amore fondamentale della sua vita era quello per Ninetta. Lei era tutto per lui: donna “dolce e pericolosa” e tenerissima compagna, musa e anima tutelare, regista degli spazi domestici e fonte, fino agli ultimi anni, di turbative scintille d’eros… L’amore per lei e con lei era un’esperienza privatissima, qualcosa come un sogno da sognare in due, eppure da quel sogno, da quel nocciolo irriducibile di bellezza erano nati i figli. L’amore si era rivelato una forza espansiva: la solitudine di coppia si era trasformata in una famiglia… In questo movimento di apertura continuava a irradiarsi un calore intimo, simile alle tante rêveries di fiamme e di fuochi che attraversano la poesia di Attilio; eppure né l’amore per Ninetta né quello per i figli ha mai assunto nello spirito e nell’opera del poeta i tratti dell’idillio. Il bisogno di essere amato e di amare è sempre percorso in quest’opera poetica da tremori, brividi, lievi sussulti, ombre, timori, ansie, fantasmi…  Quando lei si allontana, anche di poco, in lui sale una fitta d’angoscia; a loro volta i figli saranno presto risucchiati dal “fuori”, dall’altrove, dal lontano, e vani saranno gli esorcismi messi in atto dal padre (come nella struggente lirica I pescatori) per trattenerli, per rendere eterno e inattaccabile dal tempo il cerchio incantato della famiglia. Tutto questo non va inteso alla lettera. Attilio non era quel “ragno” vischioso di cui si è favoleggiato, dedito solo a intrappolare moglie e figli in una ragnatela nutrita d’ansia, senso del possesso, gelosia, ossessione, egoismo. Ninetta è sempre stata una donna intimamente libera, e lui l’amava proprio per questo. A loro volta i figli non sono mai stati tanto condizionati dal padre da non poter lanciarsi in tutte le avventure, verso tutti gli orizzonti. Attilio stesso desiderava che questo avvenisse: non è forse stato lui a propiziare l’incontro fra Bernardo e il Pasolini regista, incontro decisivo per la vita e la straordinaria carriera del primo? Attilio era uno spirito “di soglia”: se cercava di preservare dalle ombre i suoi spazi intimi – le sue dimore, la sua famiglia – era altrettanto portato a uscirne, a respirare i soffi del mondo. Questo secondo lato del suo essere non riguardava solo il rapporto con la natura ma anche quello con la società. Era curioso come Proust, gli piacevano i nuovi incontri, amava esplorare ambienti diversi. Fin da giovanissimo aveva amici che nutrivano le sue giornate di parole scambiate passeggiando o nelle lunghe soste in qualche caffè. Anche la scoperta precoce del cinema non sarebbe stata un’occasione di tale vitalità se non fosse stata da lui condivisa con amici quali Pietrino Bianchi e Cesare Zavattini. Certo questa sete di amicizie non era priva di un retroterra amaro e nevrotico. L’allegra disposizione al confronto, alla chiacchiera e anche al gioco si alternava con momenti in cui prevaleva il lato schivo e ombroso, il desiderio di solitudine, la voglia di fuggire “via dalla pazza folla”. Eppure prima o poi riemergeva sempre in lui il bisogno di aprirsi agli altri, di condividere i momenti, di gustare il piacere dell’incontro, perfino di “perdere il tempo” per poterlo magari, un giorno, ritrovare. Il nostro incontro durato ventisette anni è stato – non ho timore di dirlo – una grande amicizia. Nello scritto che accompagna il mio libro La casa del poeta (nella prima edizione era la prefazione), Bernardo dice che l’espressione “grande amicizia” riferita al rapporto tra suo padre e me “suona riduttiva e semplificatoria”. Senza dubbio lui era per me non solo un amico ma anzitutto un maestro e in un certo senso anche un secondo padre (questo l’ha capito e detto molto bene Emanuele Trevi nella prefazione alla nuova edizione del libro). Eppure se torno a sottolineare la grande amicizia fra noi è in primo luogo perché mi sembra che riuscire a essere veramente amici sia sempre più difficile nei nostri anni. Da alcune persone che ho ritenuto a lungo grandi amici sono stato, infine, tradito. Questo non è mai successo con Attilio. Non potrò mai dimenticare il suo sguardo l’ultima volta che lo vidi. Eravamo a Roma nel suo appartamento. Era tanto malato che sarebbe vissuto solo altri due mesi, eppure ne suoi occhi resisteva qualcosa – una luce, il segno di una specie di letizia – che non so esprimere ma in cui mi parve di riconoscere il senso del nostro incontro come dono reciproco, come destino. …gli hai fatto qualche gioco di prestigio? Sì, ho offerto diverse volte dei giochi di prestigio a lui, a Ninetta e anche ai loro ospiti di passaggio. Una volta a Casarola io e mio fratello gemello Corrado (da giovanissimi ci eravamo esibiti in varie occasioni, anche in alcuni teatri, come prestigiatori dilettanti in coppia) abbiamo portato da Parma una gran quantità di attrezzi magici e nella locanda Tramaloni abbiamo allestito un vero e proprio show invitando tutti gli abitanti del paese, specialmente i bambini. Ricordo la felicità di Attilio in quell’occasione. Era lo spettatore perfetto: sapeva benissimo che il solo atteggiamento giusto di fronte a un prestigiatore è stare al gioco, abbandonarsi al piacere dell’illusione senza cercare di capire il trucco. Secondo me è lo stesso atteggiamento che occorrerebbe a ogni critico di fronte a un testo letterario in grado di suscitare incanto. Il buon critico non cerca di smascherare il testo, di rivelarne i congegni o i doppifondi, di smontarlo come un meccanismo o di dissezionarlo come un cadavere utilizzando i bisturi della scienza (dalla psicanalisi alla linguistica alla semiotica): accetta, invece, di lasciarsi sedurre, di lasciarsi invadere dalle sue vibrazioni magiche, dalla trama mobile delle sue illusioni per restituirne almeno una parte ai lettori con le proprie parole. Ultima. Una poesia-emblema di Bertolucci, quella a cui sei più legato – e perché. Forse Il tempo si consuma, collocata al centro esatto di Viaggio d’inverno. Scritta nel 1957, in un momento di grave crisi psichica dell’autore, questa poesia sa illimpidire lo strazio trasfigurandolo “in stupore e in contemplazione”, per riprendere parole dedicate da Montale a Saba. Un padre (il poeta) entra in una chiesa romana all’ora della messa festiva, in cerca del giovane figlio; non vedendolo è assalito dall’ansia; ma un quadro che rappresenta Gesù mentre, bambino, aiuta Giuseppe nel suo lavoro di falegname, lo rincuora – e proprio dal ritorno del coraggio scocca l’abbandono giusto, quello che lo porta finalmente a individuare il figlio nell’“agitazione terrena/ delle ragazze e dei ragazzi tenuti/ lontani dal bel sole di domenica”. > Così, d’improvviso, in un angolo vicino > alla porta, t’ ho ritrovato, quieto > e solo, m’hai visto, ti sei > accostato timidamente, ho baciato > i tuoi capelli, figlio ritrovato > nel tempo doloroso che per me e te > e tutti noi con pena si consuma. Sul piano della visione il testo si sviluppa come una scena filmica scandita in tre momenti: l’ingresso del poeta nella chiesa e la panoramica inutile del suo sguardo sui banchi; la zoomata verso il quadro sul fondo; l’incontro col figlio. Attraverso i passaggi ottici, è una complessa vicenda spirituale a dipanarsi nell’anima del protagonista fra il suo improvviso inabissarsi in un vuoto generante terrore, il conforto che nasce dalla bellezza colta nella sua natura più semplice e sacra (il “garzone/ di falegname, Gesù”) e il ritrovamento del figlio insieme al riaffiorare della fiducia. Con una pregnanza e limpidezza davvero evangeliche (penso alle parabole del figliol prodigo e della pecorella smarrita), la poesia si squaderna come dramma di un tempo sospeso e ondeggiante fra la perdita e il ritorno del calore vitale, tra la piccola morte della distanza e la “resurrezione” dell’incontro, tra il brivido dell’assenza e la luce dell’amore ancora possibile.  Per quanto mi riguarda, non credo d’aver incontrato molte volte, nel Novecento, una voce tanto vibrante nella sua forza umile e salvifica, nel suo soffio capace di lenire le ferite profonde dei nostri cuori. L'articolo La vita come magia: Attilio Bertolucci, il poeta del batticuore. Dialogo con Paolo Lagazzi proviene da Pangea.
April 15, 2025 / Pangea
“Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth
Nel 1978, per la Christopher’s Books di Santa Barbara, piccola editrice eletta all’anticonformismo, esce un libro di spregiudicata bellezza. S’intitola The Love Poems of Marichiko; in copertina spiccano aerei, ermetici calligrammi. Kenneth Rexroth, il traduttore, ha settantatré anni, è nato tre giorni prima del Natale del 1905, a South Bend, Indiana. Il padre, venditore di farmaci, alcolizzato, muore che Kenneth è un ragazzino, nel 1919; la madre se n’era andata tre anni prima. Cresciuto con gli zii, a Chicago, reso spregiudicato dalla solitudine, Kenneth a diciannove anni prende la strada, gira il paese in autostop, si dà a diversi lavori – quello più proficuo sembra essere stato la guardia forestale. “Trovai lavoro a Marblemount. Zaino in spalla, mi presentai presso il Forest Service. Mi aprì Tommy Thompson, un tipo meraviglioso. ‘Vieni a cena con noi. Forse ho qualcosa’. Era uno dei paesaggi più selvaggi degli Stati Uniti: non sapevo nulla di scienze forestali, non conoscevo le ruvide vertigini delle montagne. Da bambino, ero stato nelle Alpi. Tommy mi disse di aprire un sentiero, oltre il bosco, verso il ghiacciaio. Partii con una sega, un’ascia, cibo nello zaino per una settimana”. Così scrive Kenneth in uno dei suoi reperti autobiografici; che sono, poi, l’autobiografia di un paese, tra vendemmia di vento e metropoli nell’urlo. Fronte ampia, baffi geroglifici, occhi pieni di pietà. Kenneth Rexroth pubblica il primo libro importante nel 1940, s’intitola In What Hour. Introdotto alla poesia da Louis Zukofsky, diventerà amico di Lawrence Ferlinghetti. A San Francisco, il 7 ottobre del 1955, è Rexroth il gran cerimoniere del leggendario “Six Gallery reading”, quello in cui Allen Ginsberg legge Howl, specie di Pentecoste dei Beat. Quando qualcuno gli dice di essere stato il profeta dei Beat, il Giovanni Battista di quella generazione di imbestiati e ‘battuti’, Rexroth si ribella – li credeva, Kerouac, Ginsberg & Co., tumefatti dalla fama, affratellati ai santi, in fondo, dei traditori. Lui era rimasto ciò che era: un uomo docilmente ribelle ai canoni imposti, un anarchico, un ulisside cercatore. Più prossimo al medianico Ezra Pound che al mediatico ribellismo di quella generation, Rexroth aveva tracciato da tempo la sua via verso Oriente: autodidatta, avventuriero dalla mente Bucefalo, per la New Directions aveva tradotto One Hundred Poems from the Japanese (1955) e One Hundred Poems from the Chinese (1956). Implacabile poligrafo, animato da una curiosità, si direbbe, animalesca, Rexroth ha tradotto García Lorca e Machado, Pierre Reverdy e Antonin Artaud, Basho e Wang Wei, Saffo e Leopardi (L’infinito attacca così: “This lonely hill has always/ Been dear to me, and this thicket / Which shuts out most of the final/ Horizon from view…”). Nella prefazione a The Phoenix and the Tortoise (1944) dichiarò di rifarsi “a fonti ellenistiche, bizantine e tardo romane – e a Marziale”. La poesia si sviluppava secondo “un più o meno sistematico, più o meno preciso punto di vista”; il poeta dichiarava il proprio “senso di disperazione e di abbandono di fronte al collasso di un intero sistema di valori culturali”. La raccolta era dedicata a David Herbert Lawrence – “morto nel tentativo di rifondare una famiglia spirituale” – e ad Albert Schweitzer, “l’uomo che, in questi tempi, ha realizzato il sogno di Leonardo da Vinci – Leonardo, che morì impotente, lasciando i suoi progetti a metà, che ha dimostrato che la volontà umana è una porta troppo stretta perché una persona possa forzarla verso l’universale”.  Infaticabile ‘molestatore’ culturale, nel 1949 Rexroth firma un’antologia che raduna il meglio dei New British Poets, dedicata, in parti uguali, a James Laughlin, il suo editore, e, “come sempre”, alla moglie, Marie. Lì, senza tema di discepoli, sono stivati i poeti che seguono il dominio di Eliot e di W.H. Auden: George Barker e Hugh Macdiarmid, Lawrence Durrell e David Gascoyne, Stephen Spender e Denise Levertov. Il cuore dell’antologia è Dylan Thomas (“Non c’è dubbio che sia lui il giovane poeta più influente che scriva oggi in Inghilterra. L’unanimità con cui tutti, tranne gli irriducibili stalinisti e i versificatori domestici, da rivista, lo indicano come il più formidabile fenomeno della poesia contemporanea è semplicemente sbalorditiva”); mirabili le pagini introduttive: > “Dylan Thomas è sfacciato. Non si mostra mai a cuore aperto. Ti prende per il > collo. Ti incunea il cuore in gola. Ti colpisce il muso con un cuore > sanguinante e odoroso, un cuore pieno di vermi e di aghi, di nerosangue, > spinato, il cuore di un lupo mannaro… Dylan Thomas scrive come se non avesse > mai incontrato essere umano, come se non conoscesse lo spazzolino da denti. > Non c’è nulla di male in questo. Egli è un capo selvaggio che guida la sua > spedizione di cacciatori, per fare lo scalpo ai visi pallidi. Appartiene a una > stirpe di eroi”.  In fondo estraneo ai patronimici della fama, ai club, alle combine dei premi, spesso disperso in piccole edizioni d’arte, Rexroth ha scritto di William Blake e di Rimbaud, dei canti dei nativi americani e del jazz, di Isaac B. Singer e della controcultura americana, dell’Ecclesiaste e della Cabbala. Un suo saggio sonda i legami tra Coleridge e lo Zen; un articolo pubblicato sul “San Francisco Examiner” – di cui era editorialista – s’intitola The Tao of Fishing, esce nell’agosto del 1960: il mese prima si era occupato del teatro Kabuki e di Samuel Beckett. È difficile, intendo, trovare un poeta dagli interessi tanto poliedrici ed eterogenei: leggere Rexroth è una gioia del cervello, obbliga a una perpetua gimkana tra comodità e convenzioni, è un poeta sempre in allarme, Rexroth, è un poeta-sentinella, alle pendici di un evo appena intuito. Ha scritto, con la stesso assiduo, generoso genio, con l’audacia del perpetuo dilettante, del bambino eterno, di Simone Weil e degli haiku, di Matteo Ricci, il gesuita nato a Macerata che partì nel Cinquecento ad evangelizzare la Cina, e delle lettere di Van Gogh. In Italia, tuttavia, Rexroth è per lo più un paria. L’ho conosciuto grazie a Flavio Santi: nel 1999, per Marcos y Marcos, ha curato l’antologia Su quale pianeta; esiste, ormai, nel mercato secondario. InternoPoesia, per la cura di Francesco Dalessandro, pubblicherà un mannello di “poesie scelte” come Lasciati celebrare.La celebreremo.   Cristina Giorcelli ha scritto che Rexroth, “Tenace oppositore del materialismo contemporaneo, nutrì palingenetiche speranze nelle filosofie orientali e nella poesia. Nella sua visione, mistica e sensuale a un tempo, la poesia costituisce l’atto comunicativo, ‘sacramentale’, per eccellenza: in poesia, infatti, il suono, il ritmo, l’attenzione alla calligrafia (quale si rivela nella resa grafica delle traduzioni di Rexroth di poesia cinese e giapponese), la cura tipografica del testo, devono partecipare all’‘estasi del senso’”.  In appendice, diamo minimo conto dell’affinità tra Rexroth e il mondo orientale: le sue traduzioni dicono – poundianamente – di un’armonia da lotofago, l’ingordigia della bellezza. Il poeta che traduce divorando.  Rexroth morì a Santa Barbara nel giugno del 1982. Poco prima, si era convertito al cattolicesimo; nel 1978 aveva pubblicato come The Burning Heart una selezione di “poetesse giapponesi”. Fu una raccolta di successo, poi ripresa da New Directions: per la prima volta, si squarciavano i paraventi di un’era remota, di una femminilità irredenta. The Love Poems of Marichiko pareva un’appendice a quell’assiduo lavoro di ricerca. Le poesie sono delicatissime, scritte su veli di carta, da mollare ai venti: > “Fare l’amore con te > è come bere acqua di mare. > Più bevo > più sete mi setaccia > niente può placarla, se non: > bere il mare per intero” > “E un giorno, sei pollici di > cenere sarà ciò > che resta del nostro incendio > mentale, di tutto il mondo creato, > di questo amore, l’origine > la dissipazione” Dietro il volto della giovane poetessa contemporanea Marichiko, si nascondeva Kenneth Rexroth. Estremo gioco d’ombre di un cannibale del linguaggio. Rexroth eccelleva nella poesia d’amore; l’arte dei famelici. ** GIAPPONE Yosano Akiko (1878-1942) Neri i capelli in mille rivoli annodati annodati i capelli annosi annodati nodosi ricordi delle nostre infinite notti d’amore. * L’autunno sfiorisce: nulla dura per sempre.  Il fato sfata le nostre vite. Accarezza i miei capezzoli con le tue mani da manovale.  * Cogli i miei seni squarcia ogni mistero un fiore esplode è cremisi e profuma.  * Fukao Sumako (1895-1974) Casa luminosa Che casa luminosa: nessuna stanza è resa al buio. La casa si erge alta sulle scogliere, scandita come un faro.  Quando arriva la notte depongo una luce una luce più grande del sole e della luna. Pensa  al mio cuore che si flette quando con dita tremanti accendo un fiammifero nella sera. Sollevo il petto inspiro ed espiro al rumore dell’amore come la figlia del guardiano del faro.  Questa è una casa luminosa. Voglio creare un mondo che nessun uomo può costruire.  * Noriko Ibaragi (1926-2006) La mente di una bambina Ecco cosa aveva in mente una bambina: perché la schiena delle mogli odora così forte di magnolia o di gardenia?  Cos’è  quel futile velo di nebbia sulle spalle delle mogli? Ne voleva avere  quella meravigliosa cosa che alle vergini è vietata.  La bambina crebbe divenne moglie – fu madre.  Un giorno capì: la tenerezza che si ammucchia sulle spalle delle mogli non è che fatica di amare – amare giorno dopo giorno.  * CINA Huang O (1498-1569) Sopra la melodia “Nuvole imbizzarrite” Hai tenuto il mio fiore di loto tra le labbra, hai slabbrato il pistillo. Abbiamo rubato un frammento del magico corno del rinoceronte: insonni per tutta la notte – per tutta la notte la cresta leonina del gallo  si è fermata. Per tutta la notte l’ape si è incuneata tremando tra gli stami del fiore. Oh mio dolce gioiello! Soltanto il mio signore domina sul sacro stagno di loto: ogni notte fa esplodere in me i suoi fiori di fuoco.  * Sun Yün-Feng  (1764-1814) Sulla strada, attraversando Chang-te L’anno scorso ho attraversato questo luogo: mi è piaciuto e sono felice di esserci ancora.  Il mercato del pesce si inabissa tra ombre blu. Da una locanda con il tetto di paglia si snoda il fumo del tè.  Le sabbie, a riva, interrano la bianca luna: il fiume sussurra. I salici attendono il verde della ventura primavera. I versi di una poesia mi lacerano. L’ho preteso: fermi per un po’, destriero.  * Viaggio tra le montagne  Il vento occidentale invita alla nostalgia: la polvere del carro sale fino alle nubi – è sera.  Le cicale fischiano tra le foglie ingiallite.  Al tramonto l’ombra di un uomo è spaventosa come una montagna – gli uccelli si ritirano tra i greti del sonno. Vago senza fermarmi – ho perso la via di casa. Mentre ammiro il fiume, un brivido d’invidia per il pescatore che siede in solitudine: pensa pensieri eleganti, senza peso.  * Qiu Jin (1875-1907) Una lettera alla Signora T’ao Ch’iu Sono sola con la mia ombra mormoro e scrivo strani  caratteri nell’aria, come Yin Hao.  Vino e malanni non mi spezzano non soffro per chi non c’è più: per avere ragione del mio cuore Li Ch’ing-chao ha messo sotto  torchio una città intera. Nessuno può capirmi: le mie visioni superano quelle degli uomini che mi stanno al fianco –  ma sopravvivere è impossibile.  A cosa serve il cuore di un eroe in abiti femminili? Il mio destino è il rischio: imploro il Cielo – le eroine del passato hanno mai  conosciuto l’invidia? L'articolo “Il cuore di un lupo mannaro”. Viaggio in Oriente con Kenneth Rexroth proviene da Pangea.
April 12, 2025 / Pangea
“Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con Maria Borio
Ancora Emily Dickinson? Questo ho pensato – devo ammettere – quando mi sono ritrovata davanti un altro libro della più famosa poetessa statunitense. “Più famosa” oggi, si intende. Negli ultimi anni abbiamo infatti assistito a una proliferazione di testi su o della “reclusa di Amherst” che in vita pubblicò pochissimo, e non fu quasi mai compresa – basti pensare che la prima edizione critica delle sue 1.775 poesie, a cura di Thomas H. Johnson, risale al 1955, sessantanove anni dopo la sua morte. Tutti pazzi per Emily, dunque: nuove traduzioni, nuove biografie, romanzi che la vedono protagonista, diversi film, fino ad arrivare a una (terribile) serie televisiva. Brucia un grande fuoco attorno alla sua figura. In tale contesto, c’è chi potrebbe domandarsi, con malinconia, se tutta questa attenzione avrebbe fatto piacere alla scrittrice solitaria, che si “auto-isolava” dal mondo esterno. Qualcun altro, invece, con ferina curiosità, si chiede perché proprio Dickinson sembra essere stata eretta a diventare il santino della poesia femminile – se non addirittura femminista. Sono domande a cui non so rispondere – non è compito mio –, ma posso dire che questo libro (Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, Crocetti Editore, 2025) mette in risalto alcune caratteristiche della poetessa che sono passate in secondo piano rispetto ad altre più decantate dalla critica. Prima di tutto, è interessante il progetto che si cela dietro al libro: i componimenti sono stati scelti da Jorie Graham, una delle voci poetiche più importanti e significative dei nostri giorni. Nata a New York nel 1951, è cresciuta in Italia, a Roma. Vincitrice del Premio Pulitzer per la poesia nel 1996, dal ’99 insegna scrittura creativa all’Università di Harvard – ricoprendo il ruolo che fu del poeta irlandese (e Premio Nobel) Seamus Heaney. Con i suoi versi traccia una lotta contro la decadenza del mondo, il caos e lo smarrimento. Si è confrontata con le poesie di Dickinson. Quelle qui raccolte rappresentano un campionario esemplare dei motivi più rilevanti e degli aspetti stilistici principali della sua produzione. La cura del volume è affidata a Maria Borio, come la traduzione – affrontata insieme a Jacob Blakesley. L’obiettivo principale: quello di “presentare una versione quanto più autentica della scrittura poetica di Dickinson e del suo carattere di autrice […]. Lo stile e la lingua di questa poesia testimoniano, infatti, che D. si confrontava acutamente con le questioni intellettuali e sociali più rilevanti della sua epoca, anzi che era all‘avanguardia, anticipando fenomeni artistici e di pensiero del Novecento”. Maria Borio è poeta e saggista. Dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea, cura la sezione poesia di «Nuovi Argomenti». La sua ultima silloge, Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni, Interlinea 2019) è stata tradotta negli USA. Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018). Ha gli occhi profondi e la voce gentile. Alla presentazione del libro di Crocetti, a Milano – in dialogo con Benedetta Centovalli e Tommaso Di Dio –, ha affascinato gli uditori parlando della “luce oscura” di Emily, della percezione fisica nelle sue poesie, della rivoluzione che ha creato a partire dal suo limite. Mi sono avvicinata, mi ha permesso di porle qualche domanda.  Cinquantacinque poesie, scritte da Emily Dickinson, selezionate da Jorie Graham, tradotte da Maria Borio e Jacob Blakesley. Credi che la poetessa statunitense contemporanea abbia fatto da “mediatore”, attraverso la sua sensibilità, nella selezione dei testi che più rappresentano Emily? Ritieni che la cooperazione tra diversi attori (e tra più poeti) abbia arricchito queste traduzioni, offrendo nuove prospettive rispetto alle versioni precedenti? Jorie Graham ha offerto un campione di poesie che restituisce una fisionomia autentica della poetica di Emily Dickinson, a lungo miscompresa. Non si tratta di una poetessa vagamente misticheggiante, vergine sacrificale confinata nella Homestead, ma di una scrittrice e intellettuale al passo con il proprio tempo, fine osservatrice delle questioni politiche, filosofiche, teologiche e letterarie del Rinascimento Americano, cioè quel giro di decenni in cui emergono le voci di Emerson con Self-Reliance e Thoreau con Walden, fino a Leaves of grass di Whitman. Lo sguardo di Emily si innerva anche di scienza, dalla botanica alla geologia; non dimentichiamo che condivideva le teorie di Darwin e leggeva l’«Atlantic Monthly». La sua poesia realizza una rivoluzione percettiva, esistenziale ed ontologica. La cooperazione che è alla base della raccolta cerca di restituire il carattere acuto e polivalente di questa rivoluzione. Tu stessa hai sottolineato la grande attenzione che si è posta nella resa del ritmo e nel rispetto della punteggiatura di Emily. Com’è stato adattarsi al suo “andamento meditativo anticonvenzionale”, e all’impossibilità di riportare sempre la rima? La metrica degli originali reinterpreta soprattutto la tradizione dei versetti cantati nella liturgia protestante, estranea alla poesia italiana. Ma perdere le corrispondenze della rima non comporta la rinuncia a quelle delle assonanze e delle consonanze e delle allitterazioni: non impedisce, cioè, di ricomporre una specie di tessuto ritmico sinottico parallelo a quello delle versioni inglesi. La punteggiatura, soprattutto i trattini, è il punto d’unione tra l’inglese di Dickinson e l’italiano, grazie a cui è stato ricucito il ritmo sincopato nelle traduzioni. Questa poesia si snoda come un discorso della coscienza, in anticipo rispetto allo stream of consciousness del Novecento, con avanzamenti e indietreggiamenti, in presa diretta, nel suo farsi. È il ritmo, prima che ogni altro aspetto stilistico, che rende questi testi come fotografie di una mente in movimento, nel suo tempo storico contingente, eppure percepita vicina, contemporanea, anche da chi legge oggi. Il ritmo dà a questa poesia una tangibile universalità. Quali sono, secondo te, gli aspetti linguistici di Dickinson più difficili da rendere in italiano? Le espressioni ironiche. Due esempi: l’uso di “Gentlemen”, quando Emily si rivolge a un ipotetico consesso di filosofi e scienziati che cercano di stabilire che cosa sia la fede, e che è stato tradotto con “Lor Signori” in “Faith” is a fine invention…; oppure, in I’m Nobody! Who are you?…, l’espressione “the livelong June”, tradotto “tutto il santo Giugno”, che descrive il tempo stagionale dell’assordante gracidare delle rane. Qual è la forza di Emily Dickinson, la sua modernità? Ciò che le permette di essere nel tempo, di resistere, anche quando i suoi versi non vengono compresi – addirittura rovinati, storpiati? Il ritmo, come dicevo prima, di una mente inquieta e totalmente vera – per questo è Brain, reale e pulsante, e non l’astratta Mind –, che non scrive soltanto per esprimere se stessa, ma per cercare di capire il mondo. La poesia come forma di intelligenza. L’ironia che accompagna la lirica di Emily Dickinson potrebbe essere intesa come elemento di innovazione rispetto alla tradizione poetica a lei contemporanea? C’è un componimento in particolare dove questi due elementi sono inseparabili, a tuo parere? L’ironia di Dickinson non è un espediente comico o una semplice tecnica di straniamento. Si tratta di un modo per inclinare e affinare la visione: un’angolatura diversa, che ci raggiunge all’improvviso, un’inversione di marcia rispetto all’abitudine e all’ipocrisia, un’intensificazione dell’intelligenza che cerca il fondo autentico dell’esperienza umana. Tell all the Truth, but tell it slant…, cioè “Dì tutta la Verità, ma dilla obliqua”: non esiste un’unità di senso, logica o scientifica, che fornisce soluzioni o regola le nostre vite in schemi e leggi; la verità è fatta di possibilità e di domande, e spesso sta proprio in quest’ultime, non nelle risposte. L’ironia serve a Dickinson per interrogare. “Sgretolarsi non è l’Atto di un istante/ […] Scivolare – è la legge del Signor Crollo –”. Commenteresti questi versi? Uno dei temi su cui Dickinson ritorna in modo ossessivo è la morte, il decadimento della materia, lo sgretolarsi del qui e ora. Il pungolo dell’esistenza che si scompone è controbilanciato da quello per l’eternità. Se la condizione delle creature mortali è transeunte, qual è quella opposta? L’eternità è plausibile, o è solo un’illusione che consola, come le promesse della fede possono essere un palliativo alle ingiustizie reali? Banalmente, Emily aveva una consuetudine quotidiana con la morte: la sua casa era vicina a un camposanto, come in moltissime cittadine americane dell’epoca, e i lutti si verificavano non di rado! Il tendere inevitabile della vita verso la morte, con l’ipoteca dell’eternità che attende al varco, la attira e la snerva: abituata a interrogare qualsiasi fenomeno, lo sgretolamento fisiologico e processuale (“non è l’Atto di un istante”) del corpo coincide, per lei, con la terribile dissoluzione della capacità di pensare, di avere una coscienza, che spera invece possa perpetuarsi. Il nostro decadimento è irreversibile, perciò è una “legge”, ma Dickinson sa affrontarlo con ironia e, infatti, “Crashe’s law” è stato tradotto con “legge del Signor Crollo”. Anche il tremendo decadimento è posto al vaglio di un’interrogazione. Possiamo dire che la poesia, per Emily Dickinson, è lo strumento che occorre per interrogare i rapporti tra le cose – e se stessa. Da poeta, tu condividi questa visione? Sì. La poesia è una forma di pensiero che, interrogando, esprime una creazione e decreazione continua di rapporti. Ti sei occupata, tra i tuoi studi, di Eugenio Montale. Nell’Introduzione al volume di Crocetti scrivi che “se Montale avesse dato meno peso alla religione nell’opera di Dickinson, forse si sarebbe accorto che alcuni aspetti della propria poetica lo accomunavano a quest’autrice”. Dove hai individuato maggiormente questi aspetti? Montale aveva una visione del mondo atea ed esistenzialista. Ma la sua poesia è anche una poesia di pensiero, come quella di Valéry. Spesso ha un tono filosofico. Non chiederci la parola…, negli Ossi di seppia, termina in questo modo: “questo solo possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, cioè condensa in una chiusa quasi epigrammatica una dichiarazione sull’esistenza umana, una dichiarazione che è metafisica, asserisce una verità. La prospettiva metafisica non è, però, astratta, incorporea, ma radicata nelle dinamiche complesse della coscienza. Per il legame viscerale e sensuoso tra coscienza e metafisica, Montale è vicino a Dickinson. Credo che tradurre un poeta comporti il fatto di passarci insieme molto tempo. “Abitare” il suo linguaggio – verbo a Emily tanto caro. Posso chiederti quali sensazioni o emozioni sono sorte in te durante, o dopo, questa esperienza? Emily Dickinson ha in qualche misura influenzato anche il tuo modo di guardare alla realtà? Ho imparato qualcosa di paradossale: l’arte di non prendersi sul serio. Non si tratta di irresponsabilità o superficialità, anzi, proprio l’opposto. Fino a quando ci ostiniamo a prendere estremamente sul serio quello che facciamo, con caparbietà, per quanto genuina, restiamo confinati in noi stessi, chiusi nell’ego. Allentando la tensione, con una curvatura ironica e un’accettazione del perdono, anche scegliendo di affrontare le cose con un impeto tragico, forse potremo riuscire a vederci come ci può vedere un altro, ad abitare lo spazio dell’altro, ad essere più autentici. Il tuo peggior nemico è te stesso. Anna Taravella ** 657 Io abito nella Possibilità – Una Casa più bella della Prosa – Più abbondante di Finestre – Più ricca di Porte – Di Camere come Cedri – Inespugnabili dall’Occhio – E come Tetto Eterno Le volte del Cielo – Di Visitatori – i più belli – Per il Lavorìo – Questo – Dispiegare ampio delle mie strette Mani A raccogliere il Paradiso – * 1129 Di’ tutta la Verità ma dilla obliqua – Il successo sta in un Circuito Troppo brillante per la nostra debole Delizia La sorpresa stupenda della Verità Come il Fulmine che per i Bambini si attenua Con spiegazioni soavi La Verità deve abbagliare gradualmente O tutti sarebbero ciechi – * 599 C’è un dolore – così totale – Che ingoia l’Essere – Poi copre l’Abisso con lo Stordimento – Così la Memoria può passarci Intorno – Attraverso – Sopra – Come chi in un Delirio – Vada sicuro – un occhio aperto – Lo farebbe cadere – Osso dopo Osso – * 997 Sgretolarsi non è l’Atto di un istante Una pausa fondamentale, I processi di Disgregazione Sono Decadimenti organizzati – Prima c’è una Ragnatela sull’Anima Una Pellicina di Polvere Un Tarlo nell’Asse Una Ruggine Primaria – La Rovina è accurata – il lavorio del Diavolo Consequenziale e lento – Perdersi in un istante, nessun uomo l’ha fatto Scivolare – è la legge del Signor Crollo – * 258 C’è un certo Taglio di luce, Pomeriggi d’Inverno – Che opprime, come la Gravità Delle Melodie da Cattedrali – Una Ferita celeste, ci procura – Noi non troviamo la cicatrice, Ma un’intima differenza, Dove è ciò che conta – Nessuno può insegnarla – Nessuno – È il Sigillo della Disperazione – Un’afflizione imperiale Mandata a noi dall’Aria – Quando arriva, il Paesaggio ascolta – Le Ombre – trattengono il respiro – Quando se ne va, è come la Distanza Negli occhi della Morte – * 642 Bandire – Me da Me stessa – Ne avessi l’Arte – La mia Fortezza invincibile Da Ogni Cuore – Ma poiché Io stessa – Mi assalto – Come potrei aver pace Se non soggiogando La Coscienza? E poiché Noi due siamo Re l’una per l’altra Come potrebbe essere Se non Abdicando – Me – da Me? Da Emily Dickinson, Cinquantacinque poesie, tr. it. di Maria Borio e Jacob Blakesley, Crocetti, 2025 L'articolo “Bandire – Me da Me stessa”. In onore di Emily Dickinson. Dialogo con Maria Borio proviene da Pangea.
April 11, 2025 / Pangea
“Voglio condividere il pane con i pazzi”. Christine Lavant, la poetessa amata da Thomas Bernhard
Qualche giorno fa, alla radio, davano Il mattino di Grieg. Alle elementari, il maestro di musica ci faceva suonare Il mattino: gli Aulos fischiavano nell’aula, pervasa da un improvviso odore di larici. Nulla, nella periferia torinese dove si esercitavano quei bambini, ricordava la Norvegia o le gesta di Peer Gynt, l’eroe scapestrato di Ibsen. Le Alpi, lontane, inaccessibili, sembravano bianche sfingi. Secondo i pitagorici, il flauto è “troppo sfrenato” (così Giamblico) per indurre alla contemplazione: le loro danze si sviluppano lungo le elitre della lira. Eppure, Il mattino è una musica vitrea, traslucida, si frantuma ovunque, come crisalidi di zucchero.  Non ricordavo che Edvard Grieg si fosse fatto seppellire in una parete rocciosa, poco lontano dalla sua casa, Trodhaugen, presso Bergen. Il sepolcro guarda l’oceano, assediato da felci, muschi, piante – nessuno, tranne gli uccelli marini, può onorare il grande compositore. Grieg non voleva fiori, non voleva pianti. Grieg è raffigurato sempre con lunghi baffi che rassegnano il suo viso a quello di uno sparviero.  * Il sepolcro di Grieg – e la sua poetica, da autodidatta e naïf – rimanda in me alla poesia di Christine Lavant. Inaccessibile, vertiginosa per eccesso di semplicità, rivolta agli elementi primi del creato – il sole e la luna, la pioggia e la pietra – più che all’uomo. Tesa, intendo, verso l’umano, verso quella candida ferocia, che non all’umanità: verbo che mette conifere e artigli, che spaura l’inno in uno scoccare di frecce.  * Nata Thonhauser nel luglio del 1915, in Carinzia, Christine Lavant – il nome ricalca quello della valle in cui è cresciuta – è tra i poeti più eccentrici e insondati del secolo. Figlia di un minatore e di una sarta, afflitta dalla scrofola, da continui mali, diseguale l’educazione, presto interrotta, la Lavant scrive come in una camera d’attesa del creato, nell’antiporta dell’Eden, di uomini ancora indecisi tra la forma dell’angelo e quella del leone, della serpe e del toro. Il sentire della Lavant, il suo dire scampanio, non ha mediazione retorica, giunge dal fondaco biblico, da quel residuo d’uomo che chiamiamo candore.  * Sulla strada della Lavant, Rilke, il lupo orfico, che la marchia a fuoco. Lo legge durante uno dei ricoveri, a Klagenfurt, negli anni Trenta. Christine impara a cucire per darsi in pasto al quotidiano; scrive come una forma dell’andare mendicando. Tentare un gemellaggio tra ago e penna, tra cucitura e scrittura – punto intermedio: la cicatrice.  Seguono i primi rifiuti, le violente reazioni: brucia i taccuini, albeggianti nel fuoco, tenta il suicidio, affossa nella depressione. Di lì, l’ingresso nella casa di cura – i valligiani le danno della pazza, e lei è lì, reclina nell’aura di santità dei marginali e dei dementi. Dopo la morte dei genitori, nel 1938 – che è poi uno sbandarsi, un vivere senza più bende – Christine si sposa con Josef Habernig, pittore, colto, già proprietario di terre, di trentacinque anni più grande di lei. Usava indossare un velo, a celare il cranio. > “Dopo la morte dei miei genitori, mi sono trasferita in una soffitta. Così, > interruppi l’incanto. Pensai che l’ira con cui scrivevo fosse una malattia, > volevo sedarla, non si addiceva alla povera persona che ero. Finché non ebbi > trent’anni. Lavoravo a maglia tutto il giorno per i contadini, leggevo, mi > auguravo – secondo i modi di nostra madre – di avere un tetto sopra il cranio > e un posto buono per dormire. Finché un giorno, contro mia volontà, mi è stato > imposto un volume di versi di Rilke. Lo presi per non offendere la > bibliotecaria che me l’aveva offerto. Nulla sapevo di Rilke, non intendevo > leggere poesie – ostacolavano il mio lavoro. Poi l’ho letto. Galoppata di > nuvole sopra di me. Non ho fatto che scrivere versi. Giorno e notte”.  * Miracolata da Rilke, che giunge come un dio tra le nubi – ma di Rilke, Christine tiene l’esubero, la carcassa. Nessun vello retorico, nessun veicolo filosofico: soltanto denti, ossa, le scattanti figure della predazione. Di Rilke, il profilo centauro.  * Lento, lentissimo approvvigionarsi di onori. La prima raccolta nel 1949; nel ’54 ottiene il Premio Georg Trakl. Usciranno “La ciotola del mendicante” (1956), “Un fuso nella luna” (1959), “Il grido del pavone” (1962). L’amore per il pittore Werner Berg le dona dionisiaca ispirazione. Christine scrive fino a trenta poesie al giorno; finché la soglia tra vita e scrittura si deforma, si sfascia, la donna crolla in collasso nervoso.  Di migliaia di versi si compone il canzoniere di Lavant – dissennato, diseguale, inabile ad alcuna didattica lirica. Va amato questo sperpero di sé, questo intenebrarsi nel linguaggio, ogni giorno, come una lotta al quotidiano. Come una tacca sul bastone, come un intaccare la luce. Ci è stato detto di una poesia raffinata fino all’alambicco, di poche perfettissime parole: chessò, i testi di Eliot e di Valéry, l’opera ben ragionata di Montale, di Ungaretti. Invece, penetrare nell’oceano fino a perdere il giudizio – fino allo scafo capodoglio. Dunque: la scrittura continua di Lorenzo Calogero, il milione di versi di Gian Giacomo Menon, la lirica perpetua, almeno una poesia al giorno, di Ghiannis Ritsos. A questa indecente generosità segue, di solito, la reticenza, l’incomprensione, il disorientamento. Ma è quello: perdersi in un’opera immeditata e immensa, darsi alla danza. Altri vadano con il bilancino dell’orafo, a pesare aggettivi ed endecasillabi – qui si è nel ritmo, nel gorgo – senza poesia, non sorge il sole, nasce obliquo, mero astro-feto, infecondo.  * > “Poesia, nemico mortale. È lei che mi ha fatto invecchiare così presto, mia > prematura morte”.  Dopo la morte del marito, nel 1964, Christine piomba nell’abulia, nel disastro dei nervi. Nel 1970 riceve il “Großer Österreichischer Staatspreis”, tra le massime onorificenze conferite all’eccezionalità letteraria dallo stato austriaco, andata, tra gli altri, a Elias Canetti e a Ingeborg Bachmann. Christine Lavant muore tre anni dopo, in giugno. Nel 1978 esce, postuma, la raccolta “Un’arte come la mia è solo vita mutilata”: nel titolo già si è negli argini di una poetica che risolve, a contrario, l’estasi della “vita come opera d’arte”. In Christine è il senso animale, l’andare con mani a maggese, a setacciare particole e rovi. Piaceva a Thomas Bernhard, la poesia di Christine Lavant. L’aveva conosciuta negli anni Cinquanta, Bernhard, poco più che ventenne, quando praticava la lirica, con toni campali, marziali, di campo (una selezione delle poesie di Bernhard è in Sulla terra e all’inferno e Sotto il ferro della luna, entrambi editi da Crocetti). Proprio Bernhard, nel 1987, per Suhrkamp, cura una serratissima antologia di Poesie di Christine Lavant, da cui la traduzione di Anna Ruchat per FinisTerrae (2022; già Effigie, 2016).  Tra le altre cose – tratte dal carteggio tra Bernhard e Siegfrid Unseld, 2009 – Bernhard scrive che “La nostra poetessa è tra le più interessanti e merita di essere conosciuta nel mondo intero”. E più in particolare: > “La Lavant era un essere assolutamente terreno, molto intelligente e > raffinato. Viveva sopra il tetto di cemento di un supermercato e batteva le > sue poesie direttamente a macchina. Per me tutto questo è molto più > significativo di tutte le menzogne raccontare sulla sua estraneità al mondo, > sul suo romanticismo valligiano e su un destino voluto da Dio”.  L’estranea è nel mondo ben più dei mondani, gli straniti.  Aveva quel volto ligneo, uscito dalla bottega di Bruegel, la nobiltà di una regina di Saba in stracci – la nobiltà di chi lancia le briciole alle stelle, i suoi piccioni.  ** Voglio condividere il pane con i pazzi, ogni giorno un pezzo di questo grande orrore, anche la campana nel cuore, là, dove il colombo fa il nido e trova un minuscolo asilo nella selva sulle acque. A lungo ho vissuto come pietra sul fondo delle cose. Ma ho sentito la campana sussurrare il tuo segreto nei pesci volanti. Imparerò a volare e a nuotare e lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietra lascerò la malinconia coricata nella madreperla, ma solleverò in alto la rabbia e la miseria. Le mie ali sono più antiche della tua pazienza, le mie ali sono volate oltre il coraggio, che s’era fatto carico dell’errare. Voglio condividere il pane con i pazzi là, nella spaventosa selva del colombo dove la campana divide in tre parti il grande terrore trasformandolo nel suono tripartito del tuo nome.  * Caccia via da me la stella, che sghignazza così, senza motivo, tu, cane del vicino! Dille una parola di cane! Abbaiale contro qualcosa di cattivo, inseguila come fosse selvaggina, non mi serve una costellazione, il mio Cane Minore ora sei tu! Pensi forse che non basti  per questo cuore nero? Colpisce alla cieca il dolore e lo morde finché non si spezza. Non hai fame, cane? Andate e mangiate entrambi! La stella s’è ritirata lontano ora io piango senza motivo. * Solo un ramo secondario del sonno, selvaggio e bastardo, allevato dalle droghe si prende cura a volte della mia anima. Due esseri abusati a servizio l’uno dell’altro, consolano quel che ancora va consolato e benevoli nascondono ciò che sanno mettono al mondo sogni dimidiati cerei e senza volto ignoranti di pazienza e cura sciolti già al primo canto del gallo. E tuttavia sono figli piccoli battezzati di corsa, tutti consacrati a colui che li ha sacrificati entrambi come due schiavi o cani randagi mentre il buon nobile sonno si corica soltanto con anime illustri.  * Dimentica il tuo ciarpame, Creatore! O sarai creatore di ciò che è cadavere e lo rimane e si unisce alla terra ben più volentieri che al cielo. Vai, continua ad ammantare i gigli corrompi pure i passeri con il miele vergine – io vivo di ruggine e muffa. Tu dici che questo non mi sazia e blateri della città di Dio che molti conquistano con il digiuno. Non io! Mi piace vivere nell’argilla per diventare pietra e tuttavia mai esserti di peso. * Decrepita fisso la ruota del tempo. Come girano lentamente ora i raggi del sole! Nessun mastro m’insegna a raggiungere lo scopo, ma spesso sembra che io sia un’iniziata. Le persone più vicine mi hanno consegnata a ciò che vi è di comprensibile nelle caverne dell’abbandono e le mie dita scivolano lungo la scrittura ideografica che sa ogni cosa. Come preferirei star seduta tra i papaveri tra consolazione, speranza e un po’ di malafede perché qui tutto ha già i lineamenti chiari della dura verità – si muore assiderati. * Hai modificato tu il paesaggio tra noi. Ogni cosa tra nuvole e radici ha subito gravi danni. I fratelli non dormono più l’uno accanto all’altro e il ponte della fiducia è sparito dagli occhi di tutti. Non so più su cosa cammino, né dove vado, perché la tua voce non mi porta nessun vento, nessun richiamo d’uccello né rumore di fogliame. Quattro volte verso il basso spinge la direzione del cielo e la mia mano, che cerca la tua manica, torna vuota e segnata. Ora lo grido a perdifiato ed è come tempesta, che mi fa nuda, tutta nuda, fino all’anima e senza vergogna sotto le stelle. Perché, dimmi, perché mi hai lasciato il gridare? E il cartiglio degli occhi sotto la fronte apprensiva? Perché non mi hai strappato il cuore dalle costole, perché non l’hai calpestato e dato, a pezzetti, in pasto ai cani? Questo avresti dovuto fare prima di consegnarmi al villaggio! Perché è questo l’inferno di cui sognavo con terrore da bambina, e di certo anche prima nel corpo affamato di mia madre. Tutto viene di lì. Di lì sono venuta io, smilza e avida di miracoli, che uno di essi alla fine mi rendesse bella per le cose dell’amore e più tardi nella trasparenza degli angeli. Tu avresti potuto farlo! Lo sento ancora, sotto la cute, dove gemendo la bestia cresce. Traduzione di Anna Ruchat Da Christine Lavant, Poesie. Scelte da Thomas Bernhard, tr. it. di Anna Ruchat, FinisTerrae, Como-Pavia, 2022.  L'articolo “Voglio condividere il pane con i pazzi”. Christine Lavant, la poetessa amata da Thomas Bernhard proviene da Pangea.
April 10, 2025 / Pangea
“In un angolo sghembo del mondo”. Kavafis, il gigante solitario
Costantino Kavafis è il poeta di paradossi. Il primo e principale è che un giovane privo di formazione scolastica grecofona e mai vissuto in Grecia, sia diventato uno dei maggiori poeti greci del Novecento. Il suo greco era quello di un autodidatta, che non di rado faceva errori di ortografia sconcertanti. Il secondo paradosso è che Kavafis non ha mai pubblicato una raccolta di versi in vita. La prima è uscita postuma, nel 1935, due anni dopo la sua morte. Le sporadiche pubblicazioni su riviste provinciali e di scarsa circolazione gli erano valse in Grecia lazzi e derisioni a causa della sua omosessualità. Kavafis nasce ad Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1863, ultimo di nove figli di Petros e Charìklia Fotiadi, esponenti di importanti famiglie aristocratiche (Fanarioti) di Costantinopoli, ricchi titolari di un’azienda di import-export con succursali in Inghilterra. Due anni dopo la morte di Petros, nell’agosto 1870, Charìklia e i figli si trasferiscono a Liverpool e a Londra. Nel 1876 l’impresa di famiglia fallisce; l’anno seguente, via Parigi e Marsiglia, i Kavafis tornano ad Alessandria, dove Costantino si iscrive al liceo commerciale. Nel 1882, in seguito a gravi scontri tra il partito nazionalista e gli occupanti britannici (l’Egitto è un loro protettorato), in cui rimane distrutta la casa di famiglia, Charìklia e i figli più giovani riparano a Costantinopoli – all’epoca capitale dell’impero ottomano –, dove rimangono fino al 1885. È in questo periodo che Costantino comincia a scrivere versi e ad avere le prime esperienze omosessuali. Sempre nel 1885, a 22 anni, ritorna ad Alessandria, dove risiederà fino alla morte, avvenuta il 29 aprile 1933, giorno del suo settantesimo compleanno.  Si dedica allo studio e al lavoro, collabora con diversi giornali, frequenta la Borsa come agente di cambio (occupazione che mantiene fino al 1902) e approfondisce la conoscenza della letteratura greca e bizantina, nonché di quella francese e inglese. Nel 1892 viene assunto come impiegato part time nell’Ufficio irrigazioni del ministero dei Lavori pubblici di Alessandria, dove si fa apprezzare per le sue conoscenze linguistiche (parla inglese, greco, francese, arabo e un po’ d’italiano, oltre alle lingue classiche). Manterrà l’impiego fino alla pensione, nel 1922, anno della catastrofe greca in Asia Minore. Una delle definizioni più pertinenti della poesia di Kavafis è forse quella del suo traduttore francese, il poeta Dominique Grandmont. Poiché la verità non è mai quella che ci narrano i vincitori, occorre interessarsi ai personaggi ignorati dalla Storia, a piccoli commercianti, nobili dissoluti o assassinati, generali traditi o dignitari esiliati; occorre prendere in esame non la cultura “emblematica”, ma gli eventi occulti, determinanti e per questo cancellati. È quello che Kavafis fa – dice Grandmont –, donandoci “una specie di Iliade dei dimenticati”. Un’operazione analoga a quella di Plutarco, la cui erudizione Kavafis ammirava, e le cui opere erano probabilmente i suoi livres de chevet, tali e tanti sono nei suoi testi i riferimenti allo storico greco (vi sono testimonianze di come il poeta amasse citarlo a memoria in pubblico, non senza civetteria). Se nelle sue Vite Plutarco indaga la Storia di Roma e della Grecia attraverso l’ethos dei personaggi, Kavafis, nelle sue poesie ‘storiche’ e ‘filosofiche’ mette in risalto gli aspetti meno noti della personalità dei suoi protagonisti. I suoi sono sì gli eroi della Storia maiuscola, come gli Spartani di Leonida alle Termopili, a cui il poeta dedica una delle sue poesie più belle e commosse, ma soprattutto le umili comparse di una storia minuscola e dimenticata. Sono sovrani macedoni, seleucidi, egiziani, tiranni greco-siriani e imperatori bizantini dai nomi pomposi – l’Evergete, il Benefattore (trasformato dal popolo in Kakergete, il Malfattore), il Poliorcete, l’Assediatore di città, il Nicatore, il Vittorioso –, o nomi beffardi, come il Misopogon (l’Odiatore della barba). Principi destinati spesso a essere uccisi dal nemico, com’è naturale, ma anche a cadere vittime di cospirazioni ordite da amici, fratelli, mogli infedeli. Sovrani tronfi e vanesii, messi alla berlina dal popolo con nomi dissacranti e ironici – Schiavo, Naso aquilino, Làtiro (Cece), Fiscone (Panzone) –, che il poeta definisce, tout court, “pagliacci”. Perché Kavafis ha un suo personale alto senso della giustizia storica: demitizza i potenti svelandone le false glorie e le miserie, raccontandone le sconfitte e la decadenza; riabilita personaggi a suo parere ingiustamente diffamati; in altre parole, punta a ristabilire una sua verità. E soprattutto, al pari di Plutarco, è impegnato a ricuperare e a far rivivere la grandezza della Grecia e della sua lingua. Una lingua già parlata all’età del bronzo e che, come è stato detto, “ha insegnato ai popoli la dolcezza e l’umanità”. LE POESIE. TESTO GRECO A FRONTE Basta, tutto ciò, a spiegare il successo straordinario, senza uguali nella poesia del Novecento, di questo poeta vissuto ai margini di tutto – dell’impero geografico e delle lettere, della vita sociale e professionale, dell’editoria e della critica –, di quest’uomo colto e raffinato, greco alessandrino di nascita, di lingua e di sentimento, costretto a guadagnarsi il pane come travet anglofono nell’Ufficio irrigazioni del ministero dei Lavori pubblici nell’Egitto protettorato britannico? Certamente al suo successo universale hanno concorso altri fattori, primo fra tutti la relativamente facile traducibilità della sua poesia nelle altre lingue. Perché se è vero che nella traduzione va persa una delle caratteristiche principali della poesia di Kavafis, cioè lo smalto del suo impareggiabile greco – un amalgama di lingua colta e popolare, che conferisce al suo lessico la levigatezza e le screziature del marmo –, molto altro si conserva, soprattutto l’afflato morale, il sarcasmo e l’ironia con cui sono ritratti eventi e personaggi di un mondo remoto e sconosciuto: quello dell’ecumene ellenistica, della Siria, della Seleucìa, di Cirene, di Tiana, dei Tolomei d’Egitto, di Bisanzio. Nell’opera di Kavafis sono stati contati i nomi di 251 personaggi, 130 dei quali storici, 64 mitologici e 57 di fantasia. Mondi lontani mille o duemila anni da noi e per lo più estranei a gran parte delle culture e dei Paesi odierni, ma che il poeta utilizza spesso come metafore della contemporaneità. Un altro elemento dell’importanza di Kavafis è la straordinaria attualità della sua poesia: che, pur essendo quella di un autore del passato, si può leggere come un’opera dei nostri tempi. Anche spogliata, nelle traduzioni, dello splendido orpello (l’aurea pellis) della sua lingua, questa poesia parla ai suoi posteri, ai nostri contemporanei, e quasi certamente parlerà alle generazioni future, con una forza e un’incisività non intaccate dal tempo. Come d’altronde egli era ben cosciente quando diceva di sé, con la sua amabile ironia: “Kavafis è un poeta del futuro’. Kavafis suddivideva le sue poesie in tre categorie: “filosofiche”, “storiche” ed “erotiche”, o sensuali. Una ripartizione che secondo alcuni critici non ha senso, vuoi perché non pochi testi sono riconducibili all’una o all’altra categoria, vuoi perché, come ha fatto notare il suo traduttore americano Daniel Mendelsohn, il poeta deve essere apprezzato in una prospettiva unica: quella che gli consentiva di guardare alla storia con l’occhio di un amante e al desiderio con l’occhio di uno storico. Del resto lo stesso Kavafis ha affermato che “molti poeti sono soltanto poeti, mentre io sono un poeta storico”. L’Alessandrino aborre gli abbandoni e gli sdilinquimenti lirici. Scandaglia con severità l’animo umano ma ha pietà delle sue debolezze. Esalta il primato dell’Arte e della Poesia. Rimarca con orgoglio la bellezza e l’unicità dell’inestimabile patrimonio della cultura e della lingua greca ricevuto in eredità, e che egli ha contribuito ad arricchire forgiando a suo uso e consumo un idioma nuovo, che rende unica, riconoscibile e inimitabile la sua voce. Kavafis riserva il suo sarcasmo ai fanatici e ai puritani, lui che ha come unica religione la tolleranza. Infine, rivendica la legittimità del sentimento e della passione in ogni sua forma, anche in quelle “che la morale corrente condanna”. E sulla sua opera intera appone il sigillo dell’ironia. Domina, nell’opera di Kavafis, il tema del tempo che tutto altera; la presenza del passato nel nostro presente, la realtà inestricabile dall’immaginazione. E ci sono, imprinting inconfondibili, l’eros e la memoria, soprattutto nelle poesie “erotiche” o sensuali. Sono i testi originati dagli incontri casuali sulle scale di casa (al pianterreno dello stabile in cui abitava, al numero 10 della rue Lepsius – oggi museo – c’era un bordello), a teatro o nei luoghi di piacere che frequentava. Sono i versi sull’esaltazione della bellezza fisica (labbra rosse, capelli neri profumati, pelle di gelsomino, occhi di zaffiro, corpi modellati da Amore), sul desiderio erotico inappagato, sugli amori e i luoghi della giovinezza rievocati con rimpianto a distanza di anni. In questi testi, un terzo circa delle 154 poesie del “canone”, la sua omosessualità compare inizialmente per accenni timidi e velati (si considerino i tempi e l’ambiente in cui visse e scrisse), per farsi nel tempo più ardita e quasi sfrontata. E anche per alcuni di questi testi non di rado chiama ‘in soccorso’ personaggi e autori della Grecia antica, quasi a voler dare maggior vigore al diritto della sua diversità, a rivendicare con orgoglio una delle fonti principali della sua ispirazione. Nelle poesie in cui parla apertamente di amore omoerotico, Kavafis ricorre al vocabolario usato nella società in cui vive, definendolo “illecito”, “morboso”, “anomalo”. In altre parole, un tipo di piacere (nella mia traduzione delle sue poesie questa parola compare 40 volte) considerato perversione. E tuttavia, in una nota privata del 1902, il poeta afferma che per lui “la perversione” è “fonte di grandezza”. Non è mancato, in Grecia e altrove, chi ha attribuito all’omosessualità di Kavafis una parte importante del suo successo. Secondo costoro, sarebbero stati i suoi paladini omofilòfili a diffonderne l’opera e a incoraggiarne le traduzioni. È indubbio che amici e ammiratori come E. M. Forster, Maurice Bowra, Wystan H. Auden hanno concorso a far conoscere Kavafis nel mondo anglosassone, l’unico che allora contasse veramente ai fini della diffusione planetaria di un nome, di una figura, di un’opera. Forster, che conobbe Kavafis ad Alessandria durante la Prima guerra mondiale, nel 1919 pubblicò un articolo in cui descriveva il valore del suo lavoro, l’uso inimitabile della lingua e la sua “inconsueta filosofia”. L’immaginazione del pubblico fu colpita in particolare dalla descrizione del “gentiluomo greco in paglietta, ritto in piedi, assolutamente immobile, in un angolo sghembo del mondo”. Di Auden è rimasta famosa la definizione del suo “inconfondibile tone of voice”, che sopravvive alla traduzione. Bowra ne elogiò la lingua magistrale, che mescola il greco erudito e i testi antichi con lo slang della moderna Alessandria. Numerosi sono stati, fin da subito e soprattutto in Grecia, i detrattori del poeta. A cominciare dal patriarca delle lettere greche Kostìs Palamàs, assertore della poesia lirica e della lingua popolare, il quale definì i testi dell’Alessandrino meri reportages, “annotazioni indegne di diventare poesie”. Molti altri intellettuali ateniesi manifestarono apertamente la loro ostilità alla poesia di Kavafis, imputandogli errori di ortografia e l’uso di una lingua improbabile (viene in mente la nostra Amelia Rosselli), senza risparmiargli commenti ingenerosi e imitazioni crudeli. Perfino Nikos Kazantzakis diede voce a un’opinione comune: “Kavafis è uno degli ultimi fiori di una cultura. Un fiore dalle foglie doppie scolorite, dal lungo stelo svigorito, un fiore senza seme”. Seferis ribadì in altro modo le proprie riserve: “Kavafis è una fine, non un inizio”. E più avanti Elitis lo definirà un “innovatore, ma vecchio”. Certo è che al suo apparire la poesia di Kavafis provocò scompiglio e ribellione nell’ambiente letterario provinciale e sonnacchioso della Grecia d’inizio secolo. Ma nel 1924, nel momento degli attacchi più virulenti contro di lui, la rivista ateniese “Nea Techni” gli dedicò per la prima volta un numero speciale. Tra i vari articoli, quello del poeta Napoleon Lapathiotis ne prendeva le difese e si scagliava contro i suoi avversari accusandoli di “animosità, invidia, parzialità fanatica, superficialità meschina, ignoranza totale e sistematica di ciò che significano l’Arte e l’artista”. L’opera di Kavafis, scriveva Lapathiotis, è invece “originale, senza precedenti” e, come “una quintessenza della poesia, schiude gli orizzonti dell’Arte universale”. Lungo fu il processo di maturazione di Kavafis, considerato spesso un “poeta della vecchiaia”. Tuttavia, una volta raggiunta la pienezza espressiva (verso i quarant’anni), egli rifiutò gran parte della produzione precedente, escludendola dalle 154 poesie del “canone”, lo stesso numero dei sonetti di Shakespeare. Anche se è indubbio che alcune delle poesie “rifiutate” e “inedite” avrebbero potuto benissimo far parte delle poesie del “canone”. Oggi sono innumerevoli, in tutto il mondo, le schiere degli estimatori e lettori, che hanno fatto di Kavafis il poeta più tradotto, più conosciuto e uno dei più amati del Novecento. A partire, in Italia, da Filippo Maria Pontani, il primo a presentarlo integralmente più di mezzo secolo fa e la cui versione, al pari della poesia di Kavafis, sfida il tempo.Giorgio Seferis ha scritto che “al di là della sua poesia Kavafis non esiste”. In effetti la sua vita somiglia a quella di alcuni dei personaggi storici minori da lui riesumati, ma che la scintilla di un evento, di un motto insignificante, di un epitaffio semicancellato, del volto di un bel giovane visto per strada o raffigurato su una moneta, di un nome storico dimenticato o fittizio, accende di improvvisi bagliori. Il poeta visse per lunghi anni in isolamento volontario: un’esistenza schiva, punteggiata da rare assenze dalla sua amata Alessandria – se si eccettuano gli anni trascorsi da ragazzo in Inghilterra e a Costantinopoli, brevi visite a Parigi e ad Atene e l’ultimo soggiorno di sei mesi nella capitale greca per essere operato di un cancro alla laringe che ne segnò la fine. Giornate scandite dai discreti incontri omosessuali nelle case di piacere o nel suo appartamento, da passeggiate in città, da soste nei caffè popolari, da appassionati conversari con amici e visitatori occasionali. E, cosa più importante, dalle immersioni notturne negli studi e nelle letture di autori classici e storici antichi. Con altrettanta parsimonia distribuì la propria opera, che si rifiutò sempre di raccogliere in volume, e che incessantemente correggeva, riscriveva, cancellava, intervenendo anche sulle feuilles volantes a stampa che distribuiva agli intimi e a pochissimi eletti, assillato dalla smania di riuscire ad apporre l’ultimo tocco di perfezione alla sua poesia.  Kavafis visse quasi esclusivamente al servizio della Poesia e dell’Arte, del suo amore per la lingua e dell’appassionata dedizione alla cultura greca: cose tutte che elevò a vertici empirei. Questa è stata, e continuerà a essere, la sua eredità. Nicola Crocetti * 11 poesie di Kavafis nella traduzione di Nicola Crocetti La satrapia Che disastro! Sei fatto per cose grandi e belle e hai sempre questa sorte ingrata che coraggio e successo ti rifiuta; hai consuetudini vili come intralcio, meschinità, indifferenze. Ed è tremendo il giorno che ti arrendi (il giorno che rinunci e che ti dai per vinto) e ti metti in cammino verso Susa per andare a trovare il re Artaserse che benigno ti accoglie alla sua corte e ti offre satrapie e favori. E tu le accetti con disperazione queste cose di cui non sai che farti. Ben altro chiede l’anima, per altre cose piange: per le lodi del popolo e dei Dotti, i difficili, inestimabili consensi; e l’Agorà, il Teatro, le Ghirlande. Come può darti tutto ciò Artaserse? La satrapia può darti queste cose? E senza queste, me la chiami vita? * Itaca Se ti metti in viaggio per Itaca augurati che sia lunga la via, piena di conoscenze e d’avventure. Non temere Lestrigoni e Ciclopi o Posidone incollerito: nulla di questo troverai per via se tieni alto il pensiero, se un’emozione eletta ti tocca l’anima e il corpo. Non incontrerai Lestrigoni e Ciclopi, e neppure il feroce Posidone, se non li porti dentro, in cuore, se non è il cuore a alzarteli davanti. Augurati che sia lunga la via. Che siano molte le mattine estive in cui felice e con soddisfazione entri in porti mai visti prima; fa’ scalo negli empori dei Fenici e acquista belle mercanzie, coralli e madreperle, ebani e ambre, e ogni sorta d’aromi voluttuosi, quanti più aromi voluttuosi puoi; e va’ in molte città d’Egitto, a imparare, imparare dai sapienti. Tienila sempre in mente, Itaca. La tua meta è approdare là. Ma non far fretta al tuo viaggio. Meglio che duri molti anni; e che ormai vecchio attracchi all’isola, ricco di ciò che guadagnasti in viaggio, senza aspettarti da Itaca ricchezze. Itaca ti ha donato il bel viaggio. Non saresti partito senza lei. Nulla di più ha da darti. E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso. Sei diventato così esperto e saggio, avrai capito Itaca che vuol dire. * Più che puoi Se non riesci a farla come vuoi, la vita, sforzati almeno più che puoi di non prostituirla nei contatti eccessivi con la gente, con i gesti eccessivi e le parole. Non la svilire col portarla troppo spesso in giro, con l’esporla ai rapporti e ai commerci dell’insensatezza quotidiana finché diventi estranea ed importuna. * Assai di rado È un vecchio. Senza forze, curvo, storpiato dagli anni e dagli abusi, cammina a passo lento nella viuzza. Ma appena rientra in casa a rintanare il suo misero stato e la vecchiaia, riflette sulla parte che ha ancora presso i giovani. Adolescenti ora dicono i suoi versi. I loro occhi vivi son colmi delle sue visioni. Le loro menti sane e sensuali, le loro carni ben tornite e sode, la sua idea di bellezza fa vibrare. * Una notte La camera era povera e triviale, nascosta sull’equivoca taverna. Dalla finestra si vedeva il vicolo sudicio e angusto. Da sotto provenivano voci di operai che giocavano a carte e facevano baldoria. E lì, sull’infimo e sordido giaciglio, ebbi il corpo d’amore, ebbi le labbra sensuali e rosate dell’ebbrezza – rosate di una tale ebbrezza, che anche adesso che scrivo, dopo tanti anni!, nella mia casa solitaria, m’ubriaco ancora. * Torna Torna sovente e prendimi, torna e prendimi amata sensazione – quando il ricordo del corpo si ridesta e trascorre nel sangue il desiderio antico; quando labbra e pelle rammentano, e alle mani pare di nuovo di toccare. Torna sovente e prendimi, di notte, quando labbra e pelle rammentano… * Lontano Questo ricordo lo vorrei ridire… Ma ormai s’è così spento… quasi più nulla resta – perché giace lontano, negli anni primi dell’adolescenza. Pelle come di gelsomino fatta… Quella sera d’agosto – ma era agosto?… Ricordo appena gli occhi; erano azzurri, credo… Ah sì, azzurri, uno zaffiro azzurro. * Guardai così fissa Guardai così fissa la bellezza che se n’è riempito lo sguardo. Linee del corpo. Labbra rosse. Membra sensuali. Capelli come da statue greche presi: anche se spettinati sempre belli, caduti un po’ sopra le fronti bianche. Volti d’amore, come li voleva la mia poesia… le notti della mia giovinezza, nelle mie notti incontrati di nascosto… * Aspettando i barbari – Che aspettiamo, raccolti nell’agorà? Oggi devono arrivare i barbari. – Perché è così inoperoso il Senato? E perché siedono senza far leggi i Senatori? Perché oggi arrivano i barbari. Che leggi devon fare i Senatori? Quando verranno, faranno leggi i barbari. – Perché l’imperatore s’è alzato così presto e sta alla porta maggiore della città solenne in trono, e indossa la corona? Perché oggi arrivano i barbari. E l’imperatore aspetta di ricevere il loro capo. Anzi ha disposto di offrirgli una pergamena. Sulla quale gli ha scritto molti titoli e nomine. – Perché stamani i due consoli e i pretori sono usciti con toghe rosse ricamate? Perché indossano bracciali colmi di ametiste e anelli con smeraldi splendidi e lucenti? Perché oggi impugnano le preziose mazze dai raffinati ceselli d’argento e d’oro? Perché oggi arrivano i barbari; e queste cose abbagliano i barbari. – Perché i valenti retori non vengon come sempre a fare i loro discorsi, a dire le loro cose? Perché oggi arrivano i barbari; e hanno a noia concioni ed eloquenza. – Perché questa inquietudine, d’un tratto, questo scompiglio? (Come si sono fatti serî i volti.) Perché si svuotano in fretta strade e piazze e tutti tornano a casa pensierosi? Perché si è fatta notte e non son venuti i barbari. Messaggeri son giunti dai confini e han detto che non ci sono più barbari. E ora, senza barbari, che sarà di noi? Era una soluzione, quella gente. * Giorni del 1901 Questo aveva dagli altri di diverso: che pure nella sua dissolutezza, nel soverchio esercizio dell’amore, e nonostante l’armonia consueta tra il suo atteggiamento e l’età, c’erano istanti in cui – ma beninteso istanti rari – dava l’impressione che la sua carne fosse quasi intatta. Dei suoi ventinove anni la bellezza, la tanto cimentata dal piacere, in quegli strani istanti ricordava un efebo maldestro che all’amore la prima volta il corpo casto cede. * Termopili Onore a quanti nella loro vita si fecero custodi delle Termopili, senza mai venir meno a quel dovere. Integri e giusti nelle loro azioni, ma sempre con pena e compassione; generosi se ricchi, e generosi sia pur con poco se indigenti, soccorrevoli quanto possono; pronunciando sempre la verità, ma senza detestare i mentitori. E sono degni di più grande onore se prevedono (e molti lo prevedono) che all’ultimo comparirà un Efialte e comunque i Persiani passeranno. Traduzione di Nicola Crocetti L'articolo “In un angolo sghembo del mondo”. Kavafis, il gigante solitario proviene da Pangea.
April 8, 2025 / Pangea
“Siamo in una scorreggioteca. Si deve ricominciare da zero”. Ovvero: sulla poesia come destino. Dialogo con Aldo Nove
Comunque, è un trafficare tra le ombre – è un cenacolo. Oh, sì: spalancare le briciole sul palmo, fino al bruciore, e vedere i morti che vengono a becchettare. Morti con il volto da ghepardo, morti immortali e morti morituri. Morti che stanno in tasca, come un fiammifero.  Da un po’, inseguo le tracce fantasmatiche di Ivano Fermini. Ho letto alcuni versi folgoranti; ho ricostruito alcuni percorsi. Milo De Angelis ne fu il sulfureo, il negromante. Mi accenna ad Aldo Nove. Gli scrivo. Risposta secca, a tagliagole – più tardi verrà il bene, viene dopo, al calor bianco, al netto di tutto. Leggi questo. Inabissarsi. In quel libro, uscito per il Saggiatore – che “ha in corso di pubblicazione la sua intera opera” – Aldo Nove parla di poeti, di poesia, di un sé nell’Illiria lirica. Questa frase è a pagina 103: > “Lo portavo sempre con me, negli anni terribili e salvifici del liceo, Georg > Trakl. Fino a che non scelsi di suicidarmi con la stessa dose di cocaina con > cui Trakl si tolse la vita”.  Poco prima, Nove ha ricalcato Grodek, la poesia suprema e terribile di Trakl, “La sera risuonano i boschi autunnali/ di armi mortali…”. Inabissarsi è anche un libro pieno di poesie – poesie che sono un allarme, poesie disarmate.  Inabissarsi significa anche catapultarsi in una catabasi. Che faccia male è certo. I morti fanno le capriole. A volte, hanno una cresta di aculei sulla schiena. In Inabissarsi si parla di Ivano Fermini. Si parla anche di Milo De Angelis e di Nicola Crocetti, di Franco Buffoni e di Silvio Raffo. Si parla di Elio Pagliarani che compra le arance. Qualcuno – forse Cesare Cavalleri – mi ha parlato di come Eugenio Montale comprava i carciofi. Ecco. “La consapevolezza di un’arancia”. Così scrive Aldo Nove per farci capire cos’è un poeta. Attraversare la crosta del frutto, “intuirne le proprietà, quasi fosse un pianeta”. Come le arance di Cézanne, come la melità delle mele di Cézanne che tanto affascinò Rilke.  Un capitolo di Inabissarsi è dedicato a Ivano Fermini. Nato a Bolzano, trasferitosi a Milano, fece, a moti ondivaghi, l’operaio, “aveva degli enormi baffi neri”. Fermini è morto vent’anni fa. Un giorno Fermini chiede a Nove se può vivere con lui e Tiziana, “una ragazza a cui volevo molto bene, ovviamente fino a che non ci siamo detestati a vicenda”. La cosa “non era possibile né aveva senso”. Il poeta si dilegua. “Da quel giorno non lo vedemmo più”.  I poeti fanno così. A volte si disintegrano davanti ai nostri occhi per eccesso di prossimità. A volte i poeti fanno la crisalide. A volte i poeti sono come l’acqua in un secchio. Devi annaffiare le piante prima che si affollino, a carapace, le zanzare.  Aldo Nove ha scritto che nella poesia di Fermini “tutto è primordiale. E succede per la prima volta”. Abbiamo deciso di ripubblicare, dopo troppi anni, le sue poesie, scollegate da ogni oggi, impossibili, bellissime.  Inabissarsi è dedicato a Federica Fracassi, l’attrice, e inizia con “lo schifo assoluto di questo momento storico, la vergogna quotidiana di essere passati alla forma più sofisticata ed efficace di dittatura, quella delle nostre menti…”. Questo scrive a pagina 10 Aldo Nove: > “Una poesia senza vita è nulla, oppure uno degli ennesimi giochi imperanti > della finanza globale, cioè il fantasma mortale di qualcosa che non ha altro > scopo che rapinare energia all’umano tradito, quasi ormai estinto. > > Una vita senza poesia è la trasformazione in atto dei «cittadini», o meglio > degli umani, in automi obbedienti e non pensanti, quasi non più senzienti per > la propria acquisita organicità a un gioco astratto di cifre appresso alle > quali correre affannosamente per mantenere in piedi il nostro puro dato > biologico”. Il libro è costellato da fotografie di poeti – poeti fanciulli, eterni puer. Amelia Rosselli bambina sulle spalle del papà, ad esempio.  Si parla – con ampiezza d’aquila – di Lorenzo Calogero, l’abbagliante poeta di Melicuccà, Calabria.  Che libro superbamente eversivo, questo. Eversione perfino dal verso, dal fare il verso a se stessi – c’è qualcosa di messianico nel poeta (quello vero, non supino all’oggi, suino, alieno alla biada della fama, sfamato dai cieli) messo alla gogna, insinuato nell’insulto, solitamente sputato, che spunta dove meno credi.  Un giorno mi scrive “sono 8+3-2”; un giorno mi chiama “brillo” – brillio, dico. Di Nicola Crocetti ricorda, “mi ha insegnato una fedeltà assoluta, nella totale incuria verso il misero interesse personale”; ricorda che è stato “spesso tradito da personaggi infami che ne hanno intuito e sfruttato biecamente la sprezzante indifferenza verso il denaro”.  Insomma, parte un dialogo – all’incirca. Accerchiati da questo continuo crollo. Come se il crepitio fosse uno scrivere a crepapelle – i volti posti all’azzurro e congioire dei fiori, un rogo.   Scrivi: “La poesia è un destino. Il destino di chi libera tutti”. Cosa significa? La poesia (e il poeta, che ne è “l’umile messaggero”, per citare Nanni Balestrini) esiste proprio in quanto destino, il che, mi sembra, indica una sorta di escatologia empirica, immediata: “adesso”. Provo a dirlo diversamente: la poesia disvela che non c’è nulla da svelare se non la trappola del  linguaggio, che il poeta sbroglia nell’atto della scrittura. Quell’attimo di attività paradossale è il destino (di libertà, di autenticità) della poesia. Che rapporto c’è tra il poeta è la Storia? Il poeta è nel mondo o è fuori dal mondo – è mondo o immondo? Come diceva Borges a proposito di Dante, entrambe le cose. “Movimento dello spirito nel tempo”, a inaugurarne le stagioni e gli abissi. La Storia del resto è fare narrazione… i fatti… esistono? Esiste a tuo dire un rapporto consustanziale tra il poeta, l’uomo poeta, e la sua poesia? Intendo, tra estetica ed etica? Credo di sì ma è una questione talmente personale da sfuggire a qualunque etichetta. Poeti si è se si vive la poesia. Altrimenti, come diceva Rilke in Lettere a un giovane poeta, è davvero meglio lasciare perdere e guardare San Remo. Qual è il poeta che ti ha affascinato, la poesia che ti ha folgorato? Ora c’è la disadorna di Milo De Angelis e Invece della rivoluzione di Nanni Balestrini. Due scarti, nella mia vita, improvvisi e totali. Che cos’è lo ‘spirito’? Qual è la tua poetica dell’esistere? “Trasumanar per verba non si poria”. Scrivi, in sostanza, che la poesia è una liberazione dalla “trappola” del quotidiano? Poesia, allora, sempre sovversiva, eversiva? Ma a cosa serve infine la poesia? La poesia serve a distruggere lo squallore del quotidiano per riportarlo alla sua materialità e ricostruirlo. Dura poco… è un gioioso, o se non è gioioso ne vale la pena, mito tra Sisifo e Ulisse incantato dalle Sirene. Nel tuo canone portatile quali sono i poeti primari, i poeti re? Tanti, troppi. I già citati Balestrini e De Angelis, tra i contemporanei, insieme a Valduga e Lamarque. Nella seconda metà del Novecento Giudici e Zanzotto. E poi la triade Carducci Pascoli D’Annunzio. E indietro Tasso e ovviamente Dante. E i Salmi…  La poesia a scuola: come si fa, cosa bisogna fare? Escluderla. La scuola attualmente non ha nulla a che fare con la poesia. La si conosce altrove. Chi ne ha bisogno la trova. Parlano di Scurati, oscurando Georg Trakl: perché? Cos’è questa cosa detta ‘cultura’? Si segue chi “ave del suo cul fatto trombetta” (Dante, nelle Malebolge). Siamo in una scorreggioteca. La cultura è nelle catacombe. È nelle catacombe che si dipanò nel mondo e nei secoli il messaggio cristiano. Tutto ciò che si propone come ‘culturale’, oggi, è merda che crea hype: più puzza, più se ne parla. Si deve ricominciare da zero. Anzi da tre, come diceva il grande Troisi. E pochi ma buoni lo stanno facendo. Tra tutti, immenso, Nicola Crocetti. L'articolo “Siamo in una scorreggioteca. Si deve ricominciare da zero”. Ovvero: sulla poesia come destino. Dialogo con Aldo Nove  proviene da Pangea.
April 7, 2025 / Pangea
“Il suono delle stelle”. W.G. Sebald, poeta
La poesia nasce dal clangore delle armi, sotto le possenti mura di Ilio, dove i vortici di sabbia si levano falbi e alte risuonano le grida dei feriti.  La poesia nasce dal lucore marino del remo che sospinge Ulisse verso ignoti approdi.  Non illudiamoci: alle origini del mito, è da scuro e caldo sangue che sgorga la poesia. Il primo poeta deve essere stato un aruspice – le mani vermiglie tra fumanti viscere, in cerca del celeste presagio. Solo dopo verranno il Parnaso, le fonti dell’Elicona, lo sguardo celeste e radioso di Apollo.  L’ispirazione delle Muse: il lusso di chi ha imparato ad addomesticare il furore delle Erinni. * Come Joyce, Nabokov, Kiš e tanti altri, Sebald è stato prima poeta e poi narratore. Per tutta la sua vita ha scritto poesie, nonostante dichiarasse che il suo mezzo espressivo fosse la prosa. Con Calliope ha sempre colloquiato sommessamente, con la discrezione che si riserva ai vizi più imperdonabili. Ora, Adelphi pubblica per la prima volta in traduzione italiana un’antologia lirica del tedesco, Sulla terra e sull’acqua, che raccoglie le poesie scritte tra il 1964 e il 2001, quando uno scontro frontale pose fine alla sua esistenza terrena. * Se poesia vuol dire abbracciare la metamorfosi nel corpo e nel tempo della storia, allora Sebald è stato valente poeta. Di sguincio, come a spiare i gesti degli uomini, con un occhio teso verso la terra e l’altro rivolto al cielo, registra il movimento delle costellazioni, le ampie distanze, il silenzio delle stelle. La rivelazione accade soltanto in modo fulmineo. Il testo è il tuono che segue e rimbomba a lungo. Nelle poesie di Sebald, indovini il momento che precede la scarica elettrica, la tensione che precede lo scioglimento. Senti l’ultima raffica di vento prima della pioggia, l’imposta che si chiude su una piazza come sul mondo intero, l’eco di un suono che si dissolve in lontananza. “Dove vanno adesso i poeti?” – chiede il protagonista di Sindbad torna a casa, breve romanzo di un malinconico Sándor Marai. La domanda è destinata a non trovare risposta. I poeti sono ovunque e in nessun luogo: dimorano sulla soglia.  > Tu resta sempre  > Sul piede di partenza Essere poeti significa rivendicare la responsabilità di una scelta radicale. Scrivere poesie vuol dire accogliere le infinite possibilità che l’orizzonte dischiude. Come Bashō, Rimbaud, Bouvier e Chatwin, Sebald viaggia nello spazio per spinta di nervi e cuore. La letteratura viene dopo: prima bisogna aver guadato fiumi, lasciato impronte sulla neve, incontrato il lampo negli occhi di una volpe. Di tanto in tanto, aver osservato il tempo all’opera: muschio ed edera che avvolgono colonne e capitelli, cenere di antichi incendi negli sguardi dei vecchi. * Vertigini, Emigrazioni, Il passeggiatore solitario, Tessitura di sogno: con Sebald si cammina sempre sul bordo di una scogliera, a sfioro di un precipizio. Il poeta tedesco ha il passo del fondista: i valichi e le vette sono per altri, gli astrali alpinisti del verso. Sull’orlo di un crinale, a mezzacosta, al confine: tra veglia e sogno, memoria e oblio, passato e presente. Immagino la poesia di Sebald come un faro: distante e al tempo stesso intima, solitaria, fiero avamposto tra le tempeste marine.   Nelle sue poesie colpisce la naturale convivenza tra una dimensione fisica, radicata nella storia e nel tempo, e un’altra che invece sembra trascenderla, attraversandola come un raggio obliquo. Non si tratta di una vera e propria metafisica, ma piuttosto della vigile contemplazione di un mistero che si annida nell’esperienza stessa del vivere. Un mistero che si traduce in una sorta di “straniamento”, in un radicale ribaltamento di prospettiva, in cui anche le cose e la natura partecipano della natura umana. Così, nella prima poesia che apre Latinetto, un treno che sfreccia diventa oggetto di studio da parte del paesaggio circostante. Un mucchio di foglie e sterpaglie vive nell’attesa angosciosa del fuoco che un uomo appiccherà. Gli alberi e le case tacciono: la sera accerchia i colori del villaggio con la sua ombra. I castelli sembrano abitati da incantesimi senza tempo. Così, nel sontuoso Nymphenburg, pare di vedere un trovatore provenzale o una principessa poeta affacciarsi da una finestra del palazzo: > Siepi sono cresciute > oltre la corte e il castello. > Da tempo nell’oblio > fontane e lumiere > dietro le facciate, > serenate e pizzicar di corse, > le sfumature malvacee. > Per sale in legno di sandalo, > le guide bisbigliano > del Tavolino magico > nelle biblioteche > dei defunti principi. * La poesia è ciò che resta della fosforescenza del vivere. I versi indugiano sulla pelle di un ricordo.Sebald accoglie e ricombina strade percorse, volti, città e luoghi dove il tempo si è fatto curva nella memoria. Passato e presente si intrecciano senza soluzione di continuità: il poeta non conosce cronologia, né il dolce balsamo dell’oblio. La tentazione dell’autobiografia: testimoniare una perenne metamorfosi. Così, un viaggio nelle Fiandre diventa un inesauribile nodo di ricordi, rivelazioni e immagini folgoranti. Il candore della neve ammanta i vigneti e il giardino pensile di Ezra Pound, il campo di battaglia di Waterloo biancheggia sul sangue dei caduti, i palazzi nobiliari diventano istituti di ricerca e osservatori ornitologici. Personaggi bizzarri si alternano a episodi di glossolalia, sfilano nomi di città come dal finestrino di un treno.  Il presagio di un amore, infine, riporta un ordine apparente nel vortice del caos: la premessa di nuove partenze, il richiamo di un altrove che sembra una promessa di felicità. > Parti per l’Egeo > per Santorini > terra di basalto > fosforescenza sul remo > trattieni l’acqua > nella tua mano: > luccica – di notte –  > davanti alla casa delle melanzane > macchia d’ombra nel buio > sul muro imbiancato a calce > verde chiaro di giorno > fili di rafia violetta > nel sole. Si avanza per interiori lampeggiamenti, in un’ipertrofia della memoria. Un soggiorno a Marienbad diventa una dolente riflessione sulla transitorietà della vita, sulla perdita del sacro, sul presentimento costante di qualcosa di ineluttabile, antico quanto il respiro del mondo. > Ma non rimane il mondo? > così domandasti, una verde landa > non si estende lungo il fiume > in mezzo a cespugli e prati? Il raccolto  > non matura dunque? Sulle pareti > rocciose l’ombra del sacro > non aleggia più? E quello che > di là sotto sta salendo non è forse > il colore grigio della notte? * L’occhio di Sebald vaga nelle remote lontananze, ma osserva con lucida attenzione le vicende umane. Chi ha letto le sue opere, sia narrative che saggistiche, ritroverà in Sulla terra e sull’acqua personaggi familiari e, soprattutto, quel tono inconfondibile del suo stile: un effetto di sospensione temporale, un’accorata meditazione sulla dissoluzione, uno squarcio improvviso su una realtà ulteriore, dove le tracce del passato continuano a vivere nei dettagli del presente. Nel caleidoscopio poetico di Sebald convivono persone comuni e familiari, grandi scrittori e musicisti: nessuno è risparmiato dall’incessante trasformazione del tempo. Di Kafka si evoca il viaggio verso il sanatorio di Matliary, nei monti Tatra, con pochi effetti personali e qualche cartolina illustrata. Čechov viene ricordato negli ultimi momenti della sua vita e dopo il trapasso, quando la salma viene trasportata goffamente a Mosca: ne emerge un ritratto tra il tragicomico e il grottesco. Elegia a Marienbad evoca invece la passione senile di Goethe per la giovanissima Ulrike von Levetzow. Sempre a Marienbad si infrange l’amore disperato di Chopin per la giovane boema Maria.  Gli emigranti, da sempre figure centrali nella produzione di Sebald, ritornano in alcune poesie, al momento della partenza, e poi una volta giunti a destinazione: spaesati, sradicati, rovesciati nel mezzo di una realtà che non riescono linguisticamente e semanticamente a decifrare. Il contesto è quello dei freddi luoghi del viaggio: piroscafi simili a grandi mostri acquatici, sale d’attesa, aeroporti e vuote camere d’albergo.  In queste poesie, il respiro di Sebald è potentemente narrativo: sembra quasi che i versi non possano sostenere il ritmo lento e sottilmente allucinato delle immagini descritte. Lo scrittore dà il meglio di sé quando si affida a un’ispirazione più vasta e misteriosa, che si traduce nell’esemplarità del frammento e fa emergere, come in filigrana, un altrove presagito. Penso alla semplicità di Poesia Invernale: > Nella valle echeggia > Il suono delle stelle e > La vastità del silenzio > Sopra la neve e i boschi. > > Il bestiame è nella stalla. > Dio è in Cielo. > Gesù Bambino nelle Fiandre. > Chi crede sarà beato. I tre Re Magi sono in cammino sulla Terra. E ai suggestivi versi finali di Trigonometria delle sfere: > E non ti scordare disse una volta > Che dalla costellazione dell’Ariete > il vento del Nord porta la luce > fin negli alberi di melo. Ora sappiamo perché il Nord ci attira con la violenza di un ago magnetico, o perché nella notte declinante siede un santo che ruggisce come un leone. Abbiamo compreso il segreto del poeta, di ogni poeta: accendere il fuoco e nel fumo leggere il futuro. Portare fuori la cenere e gettarsela alle spalle. Come Orfeo, non guardarsi mai indietro nel farlo. Con il cinabro pitturarsi il volto e tentare l’arte della metamorfosi. Lorenzo Giacinto *In copertina: Jan Peter Tripp, L’Oeil oder die weisse Zeit, 2003 L'articolo “Il suono delle stelle”. W.G. Sebald, poeta proviene da Pangea.
April 7, 2025 / Pangea
“Questa lingua antica che risana”. Nel bosco segreto di Vicente Valero
Leggere Días del bosque (Visor Libros, 2008; Premio Loewe 2007) significa lasciarsi alle spalle la città, il cemento, i riquadri di cielo, per immergersi in un’atmosfera che al primo sguardo non appartiene a chi vive respirando gas. Bosco, fiume, cervo, luce, albero, uccelli, foglie, oscurità. Con questo vocabolario Vicente Valero ci chiede di entrare in un altro ritmo e in un’altra visione, dove l’estraneità iniziale a poco a poco si dissolve, si raccoglie e si mette in ascolto. Per avvicinarsi all’autore non si può tralasciare la sua nascita a Ibiza nel 1963, pervasa di tutto quello che un’isola porta in sé. L’insularità si presenta infatti come un fattore significativo per la sua poesia e la sua opera letteraria, di cui egli stesso prende coscienza pienamente nel momento in cui si allontana per completare gli studi a Barcellona (perché solo lasciando un’isola – afferma – si comprende cos’è un’isola). Alla domanda riguardo a come la propria origine isolana abbia influito sulla sua opera, Valero ha risposto: «L’unica cosa che oso dire è che in un’isola la natura si esprime in una forma smisurata. Un’isola è di per sé un fenomeno prodigioso della natura, paragonabile soltanto ai deserti e alle montagne più alte. L’artista insulare diventa interprete di quell’eccesso e di quegli estremi. I colori e i profumi, il sole, le notti, il mare: tutto si dà come un’inondazione, come un’onda immensa e violenta. L’artista non sfugge all’onda, ma non si lascia trascinare a riva: quando la vede arrivare, vi si tuffa a capofitto, la trapassa. Il suo corpo lavato da quest’onda è l’unico tema».  Chiunque trascorra tempo, vita e pensieri su un’isola sa bene quanto ogni elemento naturale si esprima nella sua forma estrema, conosce ogni contraddizione o armonia tra furia e bonaccia, tra confine e infinito, voce e silenzio, tutta la potenza racchiusa in uno spazio delimitato. Sa anche – ricordando Pavese – che dovrà fare i conti con quel limite, come un orizzonte da combattere o da accettare.  Il poeta si addentra dunque in questa natura potente con i sensi allertati e ascolta, vede, sente, impara un nuovo linguaggio, perché la parola poetica coinvolge tutti i sensi per Valero, e più ancora può agire come un senso ulteriore del nostro corpo. Alla luce di questo riferimento possiamo avvicinarci all’opera dell’autore spagnolo, che è narratore, saggista, traduttore, ma soprattutto poeta, a partire dal primo libro di poesie Jardín de la noche (El Serbal, 1987). La sua ultima opera, El tiempo de los lirios (Periférica, 2024) si presenta invece nel profilo un quaderno di viaggio: Valero percorre l’Umbria per incontrare, attraverso un dialogo tra arte, cultura e natura, Francesco d’Assisi, proprio colui che in forma altissima ha vissuto e riscritto la relazione di fraternità e consonanza con ogni elemento del creato. Ma cosa può essere el bosque per un poeta a cavallo tra due secoli accelerati come i nostri? Se ci sentissimo ancora di pronunciare «nobis placeant ante omnia silvae», che significato avrebbe?  La lettura de I giorni del bosco ci immerge in un ambiente naturale che non si dà come un paesaggio fuori di noi, una bellezza con cui entrare in relazione e di cui semplicemente godere, come egli stesso ha affermato:  > «non potevo situarmi di fronte e contemplare come un visitatore o un turista > contempla o fotografa un paesaggio, ma parlarne dall’interno, lasciar parlare > il mio corpo durante il transito per quel mondo solare, pieno di boschi > riarsi, di segni millenari, invecchiati, di spiagge e sentieri, di notti > profonde e albe umide. Credo che la mia poesia cerchi di esprimere una > pulsione in cui i sensi, la memoria e la forza stessa degli elementi diventano > una cosa sola, una sola verità». Questa prospettiva unitaria supera quell’antropocentrismo predatorio che nel libro è rappresentato da figure che creano un silenzio oscuro e mortale, la morte del pensiero: il cliente, l’aviatore, il cacciatore che conosce le parole ma il suo pensiero è lo sparo, e muore con la preda. Figure che non sono in grado di incontrare e decifrare la parola dei luoghi né di vedere il cervo, «quello che si lasciava vedere», la cui parola ogni volta è apparizione.  Il nostro bosco non è uno spazio idilliaco, ma un luogo di spari e contraddizioni, di coltelli e sangue, di paura come lupo mite che ha perso il branco, dove il dolore e la furia del vento si fanno palpabili. Allo stesso tempo, è proprio qui che le parole scorrono come un fiume, parole che si immergono e rinascono rinnovate, qui il poeta percepisce la sorgente che ha in sé, il suo corpo, la sua mano diventano una fonte. Nell’osmosi tra parola, corpo e bosco si rivela «questa lingua antica che risana». Nel bosco di Valero, si fa strada la figura del caminante, che nel suo andare si prepara alla visione nell’atto proprio di riconoscere di essere fatto della stessa materia del bosco che attraversa. Il sangue che il viandante lascia sui biancospini è verde come erba e si rinnova con la fioritura, le orme lasciate sul terreno «sono come membra in più del suo corpo (…) sono polvere e fango – come una qualsiasi altra parte del mio corpo», leggiamo nelle Dichiarazioni, le ventiquattro prose poetiche che costituiscono la seconda parte de I giorni del bosco, ognuna delle quali – in corrispondenza alle ventiquattro poesie che aprono il libro – riprende e approfondisce le visioni e gli squarci che la prima parte del testo – Poesie appunto – offre.  Colmo di stupore e solitario è l’animo del poeta, «nemmeno i suoi demoni lo accompagnano», mentre si avventura nel «bosco segreto delle parole» dove con forza analogica si avvicinano realtà che sembrano lontane ma che, accostate, rivelano nuovi significati, si misurano con l’indecifrabile e l’indicibile, perché, secondo Valero, è solo la parola poetica ciò che può proteggerci da quanto non può essere detto o compreso. Qui le parole sono alberi elevati e misteriosi: gli alberi sognano, le foglie sono «parole sagge e pronunciate a bassa voce». Acuta è la percezione del viandante, vedere, ascoltare, immergersi, toccare, palpare sono i suoi verbi: così può nascere quella «oscura e calda lingua che abbiamo imparato con le mani».  Immerso nel reale, Valero è un poeta che continua a credere nell’ispirazione che si manifesta lungo un cammino di avvicinamento, mai del tutto compiuto, verso una verità che può darsi solo per frammenti. Ma qualcosa può accadere in questo spazio-tempo del cammino, la sete del poeta-caminante può calmarsi, può apparire un segno che illumina, una ráfaga dice il poeta, un lampo che mette a fuoco l’intuizione di quella verità che proprio la realtà ci sta rivelando.  Accogliere la forza animistica della parola di Valero, parola allo stesso tempo concreta, sanguinante, sussurrata e stupefatta, significa accogliere la sua fede nella parola, che scaturisce da una continua ricerca nel luogo in cui il «mistero è tangibile», dove luce e ombra, oscurità e chiarezza si rincorrono, dove anche la caduta è luminosa. Qui respira l’emboscado, come scrive l’autore nella terza e ultima sezione Discorso in versi che conclude il libro, un uomo nuovo, una figura inavvertita, tutt’uno con la materia infinita del bosco e delle sue parole.  Cinzia Thomareizis * Poesie I Sono parole le foglie di questo albero di fico. Parole sussurrate. Il merlo le convoca e le pronuncia con la sua lingua nera dell’alba. Io credo ancora in voi. Credo nell’aria pallida di questo inverno e nelle foglie senza luce che ora scivolano nude, scorrono come parole ultime del mondo: oscure messaggere di una più profonda e perfetta chiarezza.        II Un giorno, nel bosco segreto delle parole, il cervo che avevo visto, quello che si lasciava vedere, laggiù dove non ci sono strade né sentieri ma solo erba alta e rami sparsi, mi disse che il fiume della notte illumina i disperati, a patto che immergano senza paura il loro dolore.  III L’aviatore non è come un uccello. L’aviatore che ne sa, per esempio, di questo fango. Di queste pietre azzurre sotto l’albero. Che ne sa l’aviatore di queste radici. Di questi rami putridi, di queste foglie bagnate: così piacevoli e soffici. VI Sogna di essere stato una goccia di pioggia, un padre per gli usignoli. Sogna anche di essere stato una lanterna nella notte, una dimora per gli esuli, un’ombra per i viandanti a mezzogiorno. Adesso che sta per essere abbattuto, sogna di essere stato un albero l’albero. IX Parole che abbiamo visto immergersi solitarie ogni notte nelle acque oscure di questo fiume. Il cervo che avevo visto allora beveva, lavava le sue ferite invisibili. Nel buio una nuova lingua rinasceva, fremeva come un animale notturno, divampava fino all’alba. XI Una volta sulla tavola del tramonto vidi anche dei bicchieri vuoti, i frammenti azzurri di un pane sconosciuto. C’era sangue sulla tovaglia tessuta dagli dèi, coltelli bruciati dal sole. Mi avvicinai e mangiai. A quel tempo mi nutrivo soltanto di ferite oscure, di antichi e violenti sacrifici. XVII Il vento cerca sempre il bosco: sa che qui il suo dolore sarà libero, potrà gemere, erompere, far rabbrividire la terra. Sa che qui potrà dichiarare il suo tormento: il piacere della sua ira. XX Oscura e calda lingua che abbiamo imparato con le mani, palpando la membrana appiccicosa dei nidi, la crescita del muschio e della ragnatela, le vene bianche delle foglie morte, l’aridità del formicaio. XXI La paura era solamente un povero lupo che correva mite e disperato verso nessun luogo, un animale perso sotto la pioggia nera del bosco: solo un’ombra assente e infelice del branco. XXIII Ho lasciato ogni giorno il mio sangue sui biancospini. Il mio sangue in questo bosco è verde. Quando i biancospini fioriscono, anche il mio sangue si rinnova. Così ho imparato a fiorire. Così ho imparato a contemplare il mio sangue XXIV Una goccia del mio sudore nel bosco farà crescere l’albero della sete. All’ombra di quest’albero un giorno forse riposeranno altri viandanti. F0rse, all’ombra di quest’albero, un giorno le parole del bosco saranno di nuovo ascoltate, quel cervo che vidi sarà visto di nuovo. Che una goccia del mio sudore sia questo. * Dichiarazioni II In questo nostro bosco di parole il cervo è servo del fiume e della luce, si abbevera a un’acqua che rischiara. Ciò che dice e ciò che tace lo sa solo il viandante, colui che sale sempre più in alto, colui che un giorno riuscirà a vedere il cervo. Ogni sua parola è un’apparizione, un regalo del bosco. Di notte – dove non ci sono strade né sentieri – il fiume scende con la sua luce, le sue fiamme umide, le sue voci cristalline.  Vengono allora ad abbeverarsi di consolazione quelli che si sono persi nel bosco: gli uomini che si immergono. Nel loro dolore si trova anche pace. Il cervo è una trasparenza e un riflesso dell’acqua, un’ombra fuggita dal giardino del salmista, uno strano evento. Un cervo ha sempre sete, per questo conosce il cammino dei disperati, le orme riarse degli altri fiumi. Per questo nella mia sete l’ho visto anch’io. VII Nessuno accompagna il viandante. Nemmeno i suoi demoni lo accompagnano quando si mette in cammino, quando si addentra nel bosco. È questa la solitudine del viandante solitario. È questo l’orizzonte nitido e virtuoso di ogni suo cammino. XV Ho chiesto al bosco che si prenda cura della mia anima, che la bagni con essenze luminose, con le sue resine rosse. Non desidero un’anima pura: solo un’anima che profumi di rami bruciati dal sole, di nido e di muschio, di fiume senza ritorno. Ho anche chiesto al bosco che renda la mia anima un recipiente migliore, creta utile e bella, di cui si possano servire gli uccelli e i viandanti, i cervi e le genette. Perché tutti un giorno possano bere acqua misericordiosa, acqua dell’infinito. Ho anche chiesto al bosco il calore della sua bocca, perché in questo modo la mia anima possa per sempre sentire il fiato umido della luce, la saliva fertile delle stagioni, il fermento oscuro di ogni radice. Non voglio un’anima pura che miri semplicemente al cielo. Voglio un’anima che porti il suo gemito fino alla bocca del bosco e che sia salvata se possibile dai fiumi sotterranei, dalle promesse del lichene. E per questo ho chiesto al bosco di lambire la mia anima con la sua lingua invisibile. XX Anche le mie mani possiedono una loro visione del bosco, hanno imparato ad aprire le pagine segrete e a leggervi le parole invisibili. Ne palpano l’oscurità e la temperatura, il timore e la speranza.  Le mie mani accarezzano il miracolo del nido, la sua pelle notturna. Accarezzano l’aria esalata dalle radici, la forza dei frutti nuovi, la scia umida e trasparente delle lumache.  Tastano la misera luce del muschio e il brusco presentimento dei rami spezzati. Tastano l’età della corteccia e la consistenza della resina. Tastano l’umidità del colore verde e l’alito degli scarabei. Accarezzano anche gli occhi dell’animale morto e palpano nel suo sguardo l’ombra azzurra di ogni cammino, l’acqua desiderata. Accarezzano il polso fertile e misterioso della sua decomposizione. Le mie mani parlano allora un’altra lingua: quella che hanno imparato toccando il tessuto del bosco, il suo mistero tangibile. XXIV Là dove, infine, mi siedo a riposare ogni giorno c’è un odore di lichene bruciato, di ruta e di timo. È un luogo che abitava in me prima di conoscerlo. È un’ombra desiderata con dolcezza. Sotto quest’ombra, il mio corpo è una fonte. E adesso posso anche sentire il freddo oscuro e sotterraneo, la sorgente invisibile che risiede in me. Che le radici e gli uccelli di passo vengano ad abbeverarsi, se lo vogliono. Nella mia fatica ho visto altre strade, una pineta più pura. Adesso osservo il mio sudore e scrivo queste parole che sono foglie del bosco, foglie umide che annunciano il suo segreto. Prima di fare ritorno, prima di mettermi un’altra volta in cammino, un sole cupo lava il mio corpo con la sua resina bianca. Traduzione di Cinzia Thomareizis *In copertina: Georgia O’Keeffe, From the Faraway, Nearby, 1937 L'articolo “Questa lingua antica che risana”. Nel bosco segreto di Vicente Valero proviene da Pangea.
April 3, 2025 / Pangea
“Nella famelica ora degli ispirati”. L’ossessione di Coleridge e lo spirito inquieto di Chatterton
Thomas Chatterton si ammazza alla fine di agosto del 1770, in un angusto abbaino di Londra, in Brook Street: avrebbe compiuto diciott’anni a novembre. Nato a Bristol, si era trasferito nella capitale certo di poter vivere del proprio estro poetico: scriveva versi di screanzata nobiltà da quando era bambino. Tra l’altro, si era inventato un accattivante alter ego: Thomas Rowley, monaco vissuto nel XV secolo, sagace nell’ode, nell’afflato epico – la Song from Ælla in questo particolare canone è un piccolo capolavoro –, nell’inno dall’ardore biblico. Un odore di selva, di Gerusalemme nei boschi, si respira nelle poesie di Rowley. Per un po’, qualcuno credette agli inganni di Chatterton, il ragazzino che trafficava con l’antica parlata inglese, leggeva Edmund Spenser, adorava le Bibbie miniate, che celavano draghi e manifesti elfi dietro il leggio degli evangelisti. È vero, era l’era dei rifacimenti medioevali – l’Ossian forgiato da Macpherson, per dire – e delle liriche nate tra cimiteri di campagna; in Chatterton, tuttavia, la razzia è raddoppiata, pura previsione di Borges: a volte, il fittizio Rowley riscrive versi di Acca, il vescovo di Hereford vissuto nell’VIII secolo. Traduceva Orazio. A Londra, il ragazzino tentò di accattivarsi i favori di Horace Walpole: lo scrittore del Castello di Otranto, l’inventore del gothic story, abile mestatore di manoscritti ritrovati, frequentava il Parlamento, era conte di Ortford, tra i più potenti e autorevoli intellettuali del tempo. Walpole cadde nel tranello di Chatterton: quando scoprì che Rowley non esisteva, mero frutto della sua adolescente invenzione, s’incupì, livido d’invidia; fece saltare una pubblicazione già prevista, alienò Thomas dall’ambiente. Il ragazzo rispose con le armi della poesia, inviando a Walpole un’ode altera, intrisa d’ira, dall’attacco spiazzante, naturalmente postuma: > Walpole, non avrei mai pensato > che esistesse un cuore meschino come il tuo. > Tu che, cullato dal lusso, fissi con disprezzo > il ragazzo disperato, senza amici né padre… Forlorn: così si descriveva Thomas the Boy – disperato, desolato, da tutti desertificato. Si uccise con l’arsenico, non prima di aver fatto a pezzi i propri residui versi. Nel quadro del preraffaellita Henry Wallis, The Death of Chatterton (1856), il ragazzo è chino sul letto, pare un corpo di ceramica; fulvi i capelli, i pantaloni viola; dalla finestra, semiaperta, un frammento londinese: la luce è fulgida, sotto l’ala dell’arcangelo.  Thomas Chatterton, il primo poeta maledetto della storia della poesia moderna, diventò un mito. A lui si riferiscono, a turno, inserendosi in quella imberbe epopea, John Keats e Percy Bysshe Shelley; la sua fama varcò i confini nazionali. Alfred de Vigny gli dedicò un’opera, Chatterton (1835), appunto, che inaugura il tema – da allora dominante – del talento puro, barbarico, inappropriato al proprio tempo, del poeta ingiuriato, suicidato dalla società. Intorno a quel testo, Leoncavallo costruì Chatterton, opera lirica in tre atti, andata in scena al Teatro Drammatico di Roma nel marzo del 1896 – senza troppi successi, va detto. Prima della biografia di Rimbaud ordita da Ardengo Soffici, Ettore Allodoli – amico di Papini, futuro biografo di Michelangelo, Cellini, Giovanni delle Bande Nere e Savonarola –, nel 1904, firmò un rapace profilo di Thomas Chatterton, secondo la moda delle agiografie dei ‘ribelli’. Scrisse che leggendo Chatterton, una leggenda, “ci sentiamo turbati come dinanzi a qualcosa di straordinario”.  Più che il genio sfiorito dalla sfortuna, l’idea del talento troppo presto reciso, in Chatterton s’impone la profezia del prodigio. Intendo: la prodigalità del verbo, la pronuncia inselvatichita da un eccesso di solitudine, l’immaginario sbrindellato. È naturale che la città rigetti Chatterton, il poeta provinciale, alla provincia dell’adultità, che vaga tra chiese dismesse e dimesse valli, che ci impone un Medioevo dei sensi. A differenza di William Blake, uomo ‘totale’, uomo celeste, compiuto nel creare, Thomas Chatterton è il puer, l’infinitamente ingenuo, il totalmente ispirato, il tutto che spira: ovvia, dunque, l’imperfezione, lo sbrego, la lingua mutilata, la speranza messianica presto delusa. Egli sfregia l’ordine originario, la cultura costituita: è, allo stesso tempo, un Jackson Pollock tra i poeti pompier e un arcano bizantino agli occhi di chi crede di aver inventato la prospettiva lirica. È esagerato tra i contemporanei, ma pure il più arguto tradizionalista. Per tale intransigenza, Chatterton diventa l’inno e la coccarda dei Romantici inglese.  È stato William Wordsworth ad affibbiare a Chatterton la definizione – the marvellous Boy – che gli resta eternamente incisa: la troviamo in un Resolution and Independence, il poema pubblicato nel 1807. Eppure, fu Samuel Taylor Coleridge a nutrire una specie di demoniaca affinità con Chatterton. Della sua Monody of the Death of Chatterton esistono sette versioni; la prima è del 1790, il poeta ha diciott’anni, vuole eguagliare l’estro funereo di Chatterton, si aggrappa alla musa: > “Musa, sussurra lirici lai > il mio cuore s’imbatta nella lode! > Ma, Chatterton… ora odo il tuo nome > e Fantasia raggela, ragguaglia morte ogni Speranza di Fama. > > Quando Bisogno e Inettitudine hanno sfibrato la tua anima > inzuppata nella tazza vedo Morte che assidera > e il tuo cadavere abbagliante di lividi > sulla cruda terra vedo, vedo > l’ardore che già arma il mio immaginare > e il petto sfodera un sospiro > poi è l’Ira che lampeggia > nella lacrima e mi erode gli occhi”. Di questo dice questo raffazzonato articolo: dell’ossessione dei poeti per i poeti che non ci sono più. Ciascuno ha i suoi: alcuni ci ruotano attorno come cagnolini, altri ci crescono in seno come una serpe. C’è chi tiene accesa per noi la luce, fino all’alba – chi screzia i nostri appunti. Chi imita il suono del chiurlo o il rumore della pioggia; chi si traveste da civetta o da gatto. Ciascun poeta vivo ha i propri poeti morti per padrini, di cui non sa nulla – eppure, sono loro a introdursi nelle nostre vite di soppiatto, inattesi, a testimonianza. Un poeta è vivo per il patto che ha stretto con un poeta morto.  L’ultima versione della Monody è del 1834: Coleridge è in punto di morte, zittito, da tempo, dall’abuso di oppiacei, da una vita di flebili successi, grave nel fallire. Nel 1817 aveva pubblicato la Biographia Literaria. Perfino negli anni cruciali, quelli del Rime of the Ancient Mariner (1798), Coleridge continua, con demoniaca furia, a riscrivere la Monody. È una sorta di sabba, di ostile liturgia: Coleridge sfregia se stesso per evocare lo spirito di Chatterton. La versione più riuscita è quella del 1829, in cui la vita di Coleridge pareggia misticamente quella di Chatterton. Eccone alcuni squarci: “Un miracolo pare pallore di morte: tutti dormono con gaudio, Feti e Infanti, Giovani e Vecchi, notte che segue notte fino alla notte perenne! Raddoppiata stranezza: la vita non è che ansimare sulle ripide vie della Necessità.  Ma vai via, Fantasma col grugno, Re Scorpione, via! Riserva i tuoi terrori, quel pavoneggiare di spine ai Ricchi codardi, alla Colpa con la stola di Stato! Ecco, io preferisco stare di fianco alla tomba di uno marcato dal prodigio e dall’avaro Fato  (lui che tutto dona e tutto nega): faceva risuonare enigmatiche cupole, antiche campane con la voce di una Madre: torna povero Puer, torna a casa, strenuo vagabondo! O Chatterton! Questa smorfia di pietre ti protegge dallo scempio, dal cupo gelo dell’abbandono.  Troppo a lungo l’irriconoscenza ti ha irritato.  Qui hai riposo, sotto questa zotica zolla! Ma la tua parola vaga, non è congiunta alla terra ma tra le abbacinanti schiere dei giusti presso il trono di pietà del tuo Dio dove l’amore redime nell’inno ogni cosa (credici, anima mia), all’arpa dei Serafini. […] Lontano dagli uomini, tra boschi dai sentieri insensati, era solito vagare, come il raggio  di una stella che mareggia tra i rami dell’albero.  Qui, nella famelica ora degli ispirati quando l’anima sente ribollire il proprio potere, in queste terre selvagge, nel ruggire delle cave rocche dove si libra il leonino gabbiano sei passato, con gambe ineguali e sassoni versando al vento la resina di un canto in coccio: sulla soglia di qualche spaventoso scoglio ti fermavi, fissando le onde, ovunque. […] O Chatterton! Se fossi ancora vivo di certo apriresti le danze della burrasca ti uniresti a noi per guidarci verso l’indivisa valle della Libertà; e quando cadrà la sera, la serafica,  saremo una folla intorno a te, rapiti dal tuo maestoso canto, esultanti per quella Poesia dagli occhi di ragazzo mascherata con la canizie dell’Antichità”. In questa specie di manifesto romantico – il poeta canta nei meandri del bosco, non nei club della City, si fa editare dagli alcioni e dalle querce – si prefigura l’icona del Wanderer di Friedrich. Diversi decenni dopo, nel 1938, tenendo insieme i toni di Coleridge e il mito di Chatterton, Dylan Thomas scrive O Chatterton – come a dire che i morti non hanno requie, che tutto reclamano. Il riferimento alla “valle della Libertà” è specificato nella strofa finale, qui non tradotta. Coleridge cita il Susquehannah, il fiume che attraversa la Pennsylvania, lo stato di New York e il Maryland. Coinvolto dalle idee dell’amico Robert Southey, Coleridge voleva fondare in un luogo boschivo non ben precisato intorno al Susquehannah una comunità egualitaria. Sarebbero partiti in dodici, tutti poeti, con relative consorti. La loro idea di vita, pantisocrazia, fondeva averi messi in comune, assenza di proprietà privata, ricerca spirituale. Si trattava di una poetica dell’esistere: i poeti avrebbero coltivato i campi per tre ore al giorno, destinando il resto del tempo alla poesia e allo studio. Nessuno, in quella colonia, avrebbe primeggiato sull’altro. Le donne, devote, avrebbero alienato i mariti dall’ira con le arti dell’amore. Coleridge pensava che la politica europea, in sé, fosse rea di schiavismo e di oppressione. Gli mancarono le sostanze economiche – e spirituali – per realizzare gli intenti, presto naufragati. Preferiva baloccare con gli spiriti. Chatterton, poeta irredento, non è mai morto: se non lo vedi è nascosto lì, sotto il tuo palato, usa la tua lingua come una zattera. Azzannalo. *In copertina: un disegno di Mervyn Peake L'articolo “Nella famelica ora degli ispirati”. L’ossessione di Coleridge e lo spirito inquieto di Chatterton proviene da Pangea.
April 2, 2025 / Pangea