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“Se nel tuo cuore appare una rosa, diventa quella rosa”. Jami, il poeta sapiente
Morì nel 1492, secondo il calendario d’Occidente, Jami – un anno fatale. Cristoforo Colombo aveva scoperto l’America; il Sultanato di Granada, ultimo lembo musulmano in Spagna, veniva definitivamente corroso. A suo modo, anche la figura di Jami è uno spartiacque tra il vecchio e il nuovo mondo della poesia persiana – con lui, un pioniere, benché radicato nella tradizione, un’epoca finisce. Mahmood Jamal, ideatore, per Penguin, della più nota antologia di poesia Sufi, Islamic Mystical Poetry, lo definisce “l’ultimo grande poeta sufista, l’ultimo grande interprete della lirica persiana”.  Mawlanā Nūr al-Dīn ’Abd al-Rahmān – questo il nome autentico, per esteso – nacque a Torbat-e-Jam, nell’attuale Iran, al confine con l’Afghanistan, nel 1414. Fu il padre a introdurlo alla mistica Sufi, dopo averne saggiato i ‘segni’. Jami – il nome proviene dal luogo natio; così il poeta si celebra in un distico: “Jam è il mio paese natale, del miele di Ahmad/ si è abbeverata la mia profetica penna” – perfezionò gli studi a Samarcanda. Nel curriculum di un sapiente dell’epoca, la conoscenza lirica – necessaria ad assurgere a Dio, ad assaggiarne il nettare – si mescola a quella scientifica, terrena: all’uomo compiuto è chiesto di unire cielo e terra nelle proprie mani, di divorarli. Di Jami, tra i molteplici scritti – un’ottantina – resiste uno studio per progettare strumenti idrici ancora efficaci. Conosceva i metodi per irrigare a dovere i campi – i modi per dare acqua agli assetati di sapienza.  Per un po’, pensò di unirsi totalmente a Dio, mollando il mondo con radicalità catacombale. Infine – sedotto da un sogno, certo di averne intuito i rivoli simbolici – sposò la nipote del suo maestro, Kasgari. Ebbe quattro figli – tre morirono poco più che neonati; il dolore, a fendenti, istruì Jami negli impossibili meandri della perseveranza. Ebbe incarichi a Herat, dove edificò la sua scuola; dominavano i Timuridi, gli eredi di Tamerlano. Fu attratto dalla dissoluzione del sé – a tratti, disse di sentirsi “sparire” – e lo sentì “spaventosamente”. Nei suoi insegnamenti mistici, Jami enfatizzava la via dell’amore – “O Jami, solo Amore è la via verso Dio:/ la pace ammanti chi segue la vera via” – l’unica capace di scuotere l’uomo dal mondo. Credeva nella veglia incessante, nella pratica del silenzio, nella meditazione che porta a confondere il proprio stato terreno con quello celeste. Credeva che l’uomo può – scotennando la propria crosta transeunte – sbocciare in creatura angelica. Uomo, crisalide di Dio. Scrisse che Dio è ovunque, che si manifesta in ogni cosa, che il compito del seguace Sufi è assurgere alla dimensione del ‘santo’, colui che supera l’etica della differenza, le istituite distinzioni, al di là del bene e del male, immerso nell’ardore.  Radunò una serie di celebri “Fiabe mistiche” che sfociano in una morale spiazzante rispetto ai canoni mondani. È nella poesia, tuttavia, che si consolidano le sue esperienze mistiche e sapienziali. È vero: Jami non è un innovatore – sarebbe inesatto intenderlo come un ‘esecutore’. Egli porta a compimento il ciclo della grande poesia persiana – di Rumi, di Hafez, per intenderci – riutilizzandone codici e cliché; eppure, alcune sentenze trovano nei suoi versi una freschezza arcana, immotivata, soltanto sua. Tentò di elevare l’uomo dalle ganasce del pensiero, dai sofismi, le levatrici del maligno; scrisse che “Ogni pensiero/ che non sia memoria di Dio è malvagio”. Un’epigrafe irradiava, dalla tomba, il suo estremo sentire. “Quando il tuo viso si nasconde, come la luna è nascosta dalle nuvole oscure, stillo lacrime stellari: nonostante le stelle, a miriadi, rimane buia la mia notte”. È bello – nei giochi delle corrispondenze – tracciare avidi legami, impossibili, con Giovanni della Croce (uno spagnolo, non a caso). Anche in Jami, il rovesciamento dei simboli è totale: ciascuno sperimenti la propria notte, fino alla cecità. In sovrappiù, Jami identifica l’andare ‘lunatico’ dell’Amato, la necessità del pianto – quasi che le stelle non siano che lacrime cristallizzate. Del sapiente, svanì la tomba, il corpo, l’eremo del pianto.  Agli studenti che gli chiedevano di essere ammessi alla sua scuola, Jami chiedeva, anzi tutto, se fossero mai stati innamorati. Di fronte a chi diceva, con servile severità, di non aver mai amato, rispondeva, “Vai – ama – poi ritorna: ti mostrerò la via”. A dire che non esiste ascesi senza l’abisso della carne, la rovina del corpo – sfigurarsi sullo spigolo di questa terra.  *** Nel giardino Nel giardino, sulla riva del fiume con il calice in mano: Sorgi, Saqi! Versami il vino! L’astinenza qui è crimine! Lo Sceicco è ubriaco di religione: la paura affolla le moschee, ma la vera estasi permane nella bettola piena di ubriaconi.  Hai baciato il calice con le tue labbra: ero così ubriaco che  non ho distinto il rosso della tua bocca dal rosso del vino.  Non devi sguainare la spada per spezzarmi il cuore: trattieni le armi, il tuo sguardo è un dardo sufficiente.  Agli uomini che confidano nella ragione non spiegare  le pene d’amore; non svelare tali segreti ai mediocri.  Jami è ubriaco del tuo Amore e non ha ancora cominciato a bere: in questo banchetto nessuno ha bisogno di vino. * Il senso dell’insensato amore  Quando l’eternità sussurra “Amore” Amore mette il fuoco nello stilo.  La penna sorge dall’eterno desco e disegna ogni bellezza possibile.  I cieli sono i virgulti di Amore gli elementi vengono al mondo grazie ad Amore. Senza Amore non capisci il bene né il male; ciò che orbita lontano da Amore è inesistente.  Il tetto azzurro del mondo che ruota lungo le vie del giorno è il Loto del giardino di Amore è l’elsa del bastone di Amore.  Il magnete nel cuore della pietra che costringe il ferro a scalpitare è Amore dalla volontà ferrea appare nell’abisso della roccia contempla la pietra nel suo riposo e ama chi lo ama. Da qui proviene il dolore di chi è lapidato dall’Amore per l’Amato.  È vero: Amore reca dolore ma è anche il più puro conforto.  L’uomo non può sfuggire al ciclo della vita e della morte senza la benedizione di Amore. * O Tu, la cui bellezza è in tutto ciò che è manifesto possano mille venerabili spiriti essere il Tuo sacrificio! Come un flauto canto il canto della separazione da Te, anche se mi sei vicino in ogni istante.  L’Amore si rivela in tutto ciò che vediamo: a volte ha le vesti di un re, altre volte è un mendicante, vive per strada ha la ciotola dell’elemosina in mano.  Issati, o Saqi, e versa il vino che lenisce il dolore dai nostri cuori! Quel vino ci libera dall’onnipotente io gettandoci nella certezza del Potente.  O Jami, solo Amore è la via verso Dio: la pace ammanti chi segue la vera via.  * Sono così ubriaco che il vino mi esce dagli occhi; il mio cuore è in fiamme: sento il suo odore mentre brucia!  Se l’Amato si presenta a mezzanotte senza veli un anziano estremista scapperà dalla moschea.  Ti ho visto all’alba e ho dimenticato di pregare: è inutile la supplica quando il sole sorge.  Su una goccia del dolore di Jami cadesse nel fiume,  i pesci, arsi dal dolore, balzerebbero a riva. * Ti attraggono le forme terrene:  il destino le incenerirà tra un attimo –  va’ e dona il tuo cuore a chi è sempre  stato con te e con te resterà sempre. * Ho vissuto rincorrendoti – ho lottato per unirmi a Te: intuire il tuo sguardo tra fraintesi d’ombra è preferibile, per me,  che assaggiare le più belle bellezze della terra.  * Oh, mio cuore… quanto ancora cercherai il perfetto nelle scuole, per quanto tempo continuerai a perfezionarti con la filosofia e le regole matematiche? Ogni pensiero che non sia memoria di Dio è malvagio. Inchinati davanti a Dio, slaccia da te ogni pensiero, molla il mondo dei concetti ai filosofi, agli stolti intellettuali! * Il mondo esiste grazie a Te ma di Te non c’è traccia: benché Tu non abbia bisogno di me, io vivo per Te.  * Il vicino e il parente, lo straniero e il vagabondo: tutti sono Lui! – Lui è nell’abito del mendicante e nella stola del re. Nelle assemblee e nelle alcove nei tribunali e nei postriboli, Dio è in tutto, il tutto è Lui.  * Senza velo non posso vederti senza schermo non posso fissarti: prima devo raggiungere l’illuminazione. D’altronde, chi può scrutare le sorgenti del sole? * Se vuoi essere l’inquieto usignolo, diventa usignolo! Tu sei una parte e la Realtà è il Tutto: per qualche giorno medita sul Tutto, diventa Tutto! Se nel tuo cuore appare una rosa, diventa quella rosa.  ** Fiabe mistiche Un cammello e un asino marciavano assieme. Giunti alla riva di un fiume, il cammello si immerse per primo in acqua. L’acqua gli arrivava poco oltre le ginocchia, refrigerando appena il corpo. Così disse: “Vieni anche tu, il fiume mi arriva soltanto ai fianchi!”. “Ti credo”, rispose il saggio amico dalle lunghe orecchie, “ma noi siamo molto diversi: l’acqua che ti arriva ai fianchi mi sommergerebbe la schiena…”. Il saggio rifiuta di farsi condurre oltre le profondità che conosce.  * Il cane e il pane Un cane, straziato dalla fame, stava alle porte di un villaggio quando vide una pagnotta rotolare fuori dalle mura e dirigersi verso il deserto. Il cane si lanciò all’inseguimento, corse, gridando, “Oh Bastone della Vita, Potenza del Viaggiatore, Oggetto del mio Desiderio, Consolazione dell’Anima! In quale direzione volgi i tuoi passi, dove stai andando?” “Nel deserto”, gli disse il pane, “a trovare i miei amici, il lupo e il leopardo, per ricambiare la visita che mi hanno fatto, un tempo”.  “Il tuo discorso sprezzante non mi spaventa”, replicò il cane, “ti inseguirei nella bocca di un coccodrillo, tra le fauci di un leone. Se rotolassi per tutto il mondo, ti inseguirei comunque”.  Chi vive di solo pane si sottomette, per averlo, ai più vili abusi: è come un cane famelico.  * La vespa rossa e l’ape Una vespa rossa, un giorno, attaccò un’ape, desiderosa di suggere della sua dolcezza. L’ape iniziò a piangere dicendo: “Circondanti come siamo dal più puro miele e dal dolce nettare dei fiori, perché insegui soltanto me, abbandonando tutto il resto?”. La vespa rispose: “Se c’è del miele al mondo, tu ne sei la fonte; se c’è dolce nettare, tu ne sei la sorgente”.  Felice l’uomo che distingue il vero dal falso e rifiuta di accettare il poco.   *In copertina: Y.Z. Kami, Endless Prayers XXVIII, 2009 L'articolo “Se nel tuo cuore appare una rosa, diventa quella rosa”. Jami, il poeta sapiente proviene da Pangea.
December 20, 2025 / Pangea
“In attesa di essere ancora luce”. L’airone di Porta e la vita oltre frontiera
Quale traccia di senso è liberata dal nostro tempo? Derrida parlava di “aporia” come assenza di esito e, quindi, di compimento (vedi J. L. Nancy, Derrida da capo, in A partire da Jacques Derrida, Jaca Book, Milano 2007, a cura di Gianfranco Dalmasso). Per questo, l’unico senso possibile sembrerebbe indecidibile e disseminato, senza origine e senza identificazione, puro mistero metafisico e consapevolezza di un’alterità impensata e, perciò, per sempre impensabile. No-where perenne e allo stesso tempo qui e adesso, questa è la vera “oltranza” e il fuori confine: l’accensione costante di un senso che contiene la sua caduta, che non può comprendersi se non in avvii improvvisi che, però, covano nel tempo, come una “nube della non conoscenza” post litteram: > come se il mio ventre covasse una bomba > > (Antonio Porta, Airone) l’intera vita non è altro che desiderio e attraversamento costante di frontiere che riportano l’ombra di una percezione incomprensibile e rigiocano l’origine nel continuo ri-chiamo che è verso e parola, balbettio di nuovi linguaggi per tornare ancora a smentire la tensione, l’accecamento della relazione e il suo ritardo. Il soggetto diventa “realtà espressiva”, avrebbe detto Raboni, e la realtà di mondo che implica l’identità si formula solo attraverso l’intreccio indissolubile e l’aspirazione costante. Il “suono del contatto” che è l’airone di Porta funziona come sentimento e avvertimento (“avverto il sobbollire nello scroto”) per una sessualità al suo risveglio, la tensione relazionale, la ri-nascita continua del contatto desiderato, fecondazione e spargimento e allo stesso tempo rimando e resistenza: uomo “umile dio del suo corpo” che “resiste sulle rive dei fiumi”. L’uomo è come l’airone? Simbolo transizionale ma riconoscibile “non troppo uomo non troppo animale” “quando muove le zampe / nei primi passi della danza amorosa”, si apre ai limiti dell’identità individuale, alla trasformazione restando se stesso > come la cagna > lupa affamata insegue disperata > la lepre elegante troppo veloce > quasi non si fa distanziare nel breve piano > ma alla soglia di un boschetto > tra i primi cespugli quella sparisce > perché la cagna è vecchia ormai > e la sua fame non diminuisce > come la sua crudeltà di prima, > della sua giovinezza, > così la chiamiamo: crudeltà > invece è fame > di mille altre lepri > eleganti paurose prudenti veloci > di continuo nascono e muoiono al mondo > inseguite inseguitrici, > è tanto semplice, infine, > quando la vita mostra di bastare a se stessa > riflessa nei nostri occhi puntati > dalla cima della collina > come nei tuoi specchi ciechi, airone La frontiera tra il boschetto e la “semplice vita” è l’età, la soglia dell’abbandono nonostante il desiderio sia ancora “affamato”, la frontiera è “nascere e morire, / rinascere e volare via” come l’airone-angelo indica. Messaggero di relazione,    > ilare sorgente ultima di melodia > contro la sua assenza di voce, airone, > i tuoi striduli messaggi, > hai partorito l’invisibile usignolo la musica dell’invisibile è l’ultima e prima sorgente di senso. Marc Augé diceva che “una frontiera non è un muro che vieta il passaggio, ma una soglia che invita al passaggio. Non è un caso che gli incroci e i limiti, in tutte le culture del mondo, siano stati oggetto di un’intensa attività rituale. Non è un caso che gli esseri umani abbiano dispiegato ovunque un’intensa attività simbolica per pensare il passaggio dalla vita alla morte come una frontiera: è solo grazie all’idea che la si possa attraversare nei due sensi che la frontiera non cancella irrevocabilmente la relazione fra gli uni e gli altri” e “l’illusione, diceva Freud, è figlia del desiderio”.  Il desiderio è il problema dell’identità, del dio di cui l’airone è il feticcio, quasi un albatro rovesciato, cioè il “dio oggetto” simbolo di una realtà di cui si tenta ancora di cogliere il senso. Riassumendo ancora Augé (Il dio oggetto), il senso del limite e il limite del senso hanno in ogni cultura un nonluogo pensato e vissuto con e nel sistema generale dei valori della vita, che solo il rituale è in grado di individuare e re-inventare, aggiungerei, come l’airone di Porta: > Nel tuo volo immagino, Airone > osservi le ferite della Terra > scopri l’opera dell’uomo > dove senza sosta rivoli di sangue > e la fame morde > camminano uomini che non possono > essere ancora uomini > e ci porti testimonianza > del silenzio di morte > e ci imponi di ammutolire > con te sorvoliamo un luogo > che è un luogo più di ogni altro di tortura > El Sexto, il carcere di Lima > dove i perduti rinchiusi > leccano per sete il sangue delle ferite dell’altro rinchiuso > si sappia non si dimentichi che cosa > all’uomo nasce dall’uomo, fratello > come non chiamarti fratello che ti rifiuto > Airone hai due occhi come ribes purpurei > mi chiedo se sono ciechi > solo un puro ornamento Un rituale che è cammino costante verso frontiere inaudite e incomprensibili, verso un’ibridazione di forme per “continuare a nuotare”, “sollevarsi tra gli dèi / e sprofondare nel cuore marino” o nell’ “intorno” (il mondo) “cerchiato dai boschi pieni d’ombra / dove altri dèi dormono in silenzio / visibili invisibili”. La nuova frontiera è “il fuoco puro dell’energia” (metafora nucleare) che annienta il vecchio soggetto, il concetto stesso di uomo e l’identità per come l’abbiamo conosciuta: > ci sarà non io > e il pensiero non mi dà tristezza né gioia > ma quiete, soltanto, felicità del limite Siamo nella fase liminare della rinascita, in un mondo intermedio e in transito ma bloccato all’azione, in uno stato di perenne immaginazione. Come viene detto in La nube della non conoscenza, siamo nella “facoltà attraverso la quale ci rappresentiamo tutte le immagini di cose assenti e presenti. Sia essa che gli strumenti per mezzo dei quali essa opera”, in attesa di una “grazia” che interrompa la proiezione di “differenti immagini illusorie di creature materiali” e indirizzi alla pratica di diverse ritualità relazionali: > come in attesa di essere ancora luce > all’alba quando il conflitto si placa e si racchiude > in un uovo minuscolo > dove già pulsa il cuore di un usignolo > dove batte il minuscolo mio cuore neonato > come milioni di altri muscoli nascosti > potenti macchine da guerra che avanzano > che scuotono la cintura della terra > e misurano ogni altro respiro La rinascita in nuova forma dentro la metafora del volo, nell’Airone di Porta, demarca l’urgenza di liberazione dall’impasse concettuale che vede l’essere umano stretto nella sua stessa definizione, come una lingua morta che vuole rinascere dal solco della sua scomparsa: volare per essere risucchiato “verso un passaggio strettissimo”, per poi essere partorito “in una forma che non conosco ancora”. “L’anticipo nel desiderio…”, quel desiderio di cui dicevamo in precedenza, è il margine (la frontiera) che non annienta il sociale per manifestare il principio di senso (ancora Augé, per cui nel passaggio-limite è ravvisabile la “grazia” come base “concreta” che non riesamina l’origine ma si arrende alla trasformazione) ma è punto di arrivo senza esserlo, un presente che indaga il passato per scoprire il limite della vita nella sua alterazione. Il futuro è finito a causa della sua indeterminazione, senza possibilità di rinvio, se non costante e immanente. La grazia è uno spazio senza speranza che, ugualmente, tende al semplice riconoscimento di quel che è e ne rende grazie. Possibile trascendenza di sé nell’altro, la grazia immanente corre sempre il rischio della disperazione ma anche questo è “un dono che viene da se stesso”; persino l’airone feticcio, allora, non è più una guida ma un gioco di parole, una questione linguistica, e come ogni lingua mutuabile, trasformabile (in questo senso non un cascame, ma un nuovo inizio):  > Ai, nero, qui il tuo inchiostro > arriva l’intraducibile scrittura > il filo spinato dei tuoi versi > aire, no, non spira > non vola, si chiude: > è questa la fodera dell’aire immobile > impermeabile calor bianco > occhicorallini, biancospada > buchi il sole debole del crepuscolo > buchi la piena luna dell’alba, mi chiedo > come seguire la tua assenza? Forse camminando in questa assenza, nonostante la fine di ogni fine o il non finire della fine, possono scoprirsi linguaggi altri, come i riassemblaggi verbali sembrano suggerire, e perfino la coscienza di sé può sorprendersi “altra”: “(lo stellato mi ha attraversato senza dolore / ora sono albero, ora bottiglia)”. Il “terrore della perdita” è la parola ri-trovata nella caduta, l’incontro col dio è l’incontroscontro col mondo: > Qui in casa dormono tutti, un’ondata > improvvisa mi rigetta sulla spiaggia > a incontrare il tuo becco. Gianluca D’Andrea (dicembre 2025) *In copertina: opera di Helena Almeida L'articolo “In attesa di essere ancora luce”. L’airone di Porta e la vita oltre frontiera proviene da Pangea.
December 19, 2025 / Pangea
Per urlare ancora parole d’amore. Lamento su un’epoca che ha ucciso i suoi poeti. (Ovvero: intorno a Majakovskij)
Cinquant’anni fa, per Einaudi, usciva un libro straordinario. Titolo a caratteri cubitali, numero 70 della collana “Nuovo Politecnico”: era l’8 febbraio del 1975 – la copertina ricordava Malevič (piccolo quadrato rosso su fondo bianco), l’autore, Roman Jakobson, era noto per essere – così la bertuccia Treccani – l’“iniziatore del metodo formalista” e “fra i fondatori… dello strutturalismo in linguistica”; un tempo i suoi Saggi di linguistica generale erano dati per naturale bagaglio nella ‘formazione’ di uno studente. Il pamphlet – Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, trenta pagine uscite in origine nel 1931 – tentava di analizzare “Il problema Majakovskij”: in realtà, era il più sottile atto d’accusa mai scritto contro il dominio sovietico. Più in generale, era il più potente atto d’accusa mai scritto contro ogni potere che per giustificare e assolvere se stesso ha bisogno, sistematicamente, di eliminare i suoi poeti. Per sussistere, un potere – tirannico o ‘democratico’ che sia – ha bisogno di cantori; ha bisogno di assassinare i poeti.  > “Noi viviamo nel cosiddetto periodo ricostruttivo e, probabilmente, produrremo > ancora non poche locomotive d’ogni sorta e non poche ipotesi scientifiche. Ma > alla nostra generazione è già predestinata la penosa impresa di una > costruzione priva di canti”.  Che pena l’epoca – che è poi questa, la nostra – che si svolge “priva di canti”, priva di incanto. Nell’introduzione a quel libello che fu incendio, Vittorio Strada scriveva che “La leggenda di Majakovskij non ha pari nella poesia del secolo”: oggi, della “leggenda” resta l’infiorescenza bibliografica – Majakovskij si legge senza scosse, si traduce al merletto, in lode della botticelliana madama Filologia, non fa più legge, non ‘penetra’ più nelle nostre rivoluzioni domestiche. Roman Jakobson aveva temprato le proprie scoperte studiando gli sconcertanti poemi di Velimir Chlebnikov, il suo amico più caro, il più folle.  Poi verranno i Gulag, la “guerra patriottica”, la Guerra Fredda. Verranno Solženicyn e Šalamov, Brodskij e Limonov. Verranno i reclusi, le accuse, gli esodi e gli esordi. Roman Jakobson capì per primo l’origine indicibile del problema: un’epoca “priva di canti” sfocia, con cruenta naturalezza, nella società del controllo, nella società cannibale – questa. La lista dei massacrati, degli annientati – che culmina con il proiettile che perfora il cuore di Majakovskij, un proiettile che potremmo chiamare Zeus – è micidiale: > “La fucilazione di Gumilëv (1886-1921), la lunga agonia spirituale, gli > insopportabili tormenti fisici e la fine di Blok (1880-1921), le crudeli > privazioni e la morte tra sofferenze inumane di Chlebnikov (1885-1922), i > meditati suicidi di Esenin (1895-1925) e di Majakovskij (1894-1930). Così nel > corso degli anni venti periscono in età dai trenta ai quarant’anni gli > ispiratori di una generazione, e in ognuno di essi v’è la coscienza > dell’ineluttabile condanna, intollerabile nella sua lentezza e precisione”.  Jakobson insegnava a Praga e a Brno; nel 1939, per scampare ai tedeschi, si era rifugiato a Oslo, per poi trasferirsi negli Stati Uniti. Nel 1962 sarà candidato al Nobel per la letteratura. Riteneva che i pur “splendidi libri” di Pasternak e di Mandel’štam fossero “poesia da camera, che non accenderà una creazione nuova”. Sbagliava. Mentre in Italia usciva – tardivamente – Una generazione che dissipato i suoi poeti – in una collana che contava, a quei tempi, opere di Roland Barthes e di Kate Millet, di Enrico Berlinguer e di Franco Basaglia – Roman Jakobson incontrava, a Stoccolma, Bengt Jangfeldt, all’epoca trentenne, che sarebbe diventato, come dicono le quarte, “uno dei massimi conoscitori al mondo dell’opera di Majakovskij” (dida, alle mie orecchie, che sa di dedizione borgesiana). Jangfeldt – i suoi libri majakovskijani sono editi in Italia da Neri Pozza – tenne con sé le registrazioni di quegli incontri per un po’; nel 1992 le riunì in un libro, che esce oggi come Io, futurista per Feltrinelli (nella traduzione di Serena Prina, la grande interprete di Dostoevskij, Bulgakov, Pasternak).  I russi hanno il genio per l’autobiografia. Tutto ciò che vivono – per una qualche complicità con l’apocalittica –, anche il più minuto fatto, splende con la potenza di un’icona, di un annuncio. Scrittori e poeti altrimenti incomparabili – chessò: Anna Achmatova e Vladislav Chodasevič, Vladimir Nabokov e Iosif Brodskij – sono uniti dal genio della memoria, dal talento autobiografico. Nella sua autobiografia più lucida, Uomini e posizioni– ma la prima, Il salvacondotto, è ben più bella, per folleggiare del linguaggio – Boris Pasternak scrive che degli anni che precedono e seguono la Rivoluzione, di quel “mondo di fini e di aspirazioni, di problemi e di imprese prima sconosciuti”, di quel “mondo unico e senza pari”, “bisogna scriverne in modo tale che il cuore si stringa e i capelli si rizzino in testa”. Entrambe le sue autobiografie terminano con il suicidio di Majakovskij – la seconda, l’ultima, accenna all’altro, il più assurdo e dolente, quello di Marina Cvetaeva. Le memorie di Jakobson parlano di quel mondo “senza pari” con il cuore spezzato.  Il tema fondamentale è ribadito con costanza senza ostacoli: la Rivoluzione russa è stata, prima di tutto, una rivoluzione del linguaggio, è stata una poetica. Come dar torto a Jakobson? Le radici di una nazione – di una conversione – sono sempre, misteriosamente, liriche. Ogni sconvolgimento storico ha alla sua base, misteriosamente, un poeta. Walt Whitman e Robert Frost hanno fondato i momenti miliari della storia degli Stati Uniti d’America; Hugo, Baudelaire, Valéry e René Char sono le fonti della storia moderna francese come Wordsworth, Tennyson, Auden e Ted Hughes lo sono stati della storia moderna inglese. William Butler Yeats ha ‘creato’ l’odierna Repubblica d’Irlanda come Hugh MacDiarmid è all’origine delle rivendicazioni nazionaliste scozzesi; in Italia abbiamo avuto, nelle ultime diverse fasi, Manzoni, D’Annunzio, Ungaretti e Pasolini. Naturalmente, in questa considerazione non conta il ‘gusto’ o la singola potenza lirica (potrei preferire Leopardi, Pascoli, Campana, Zanzotto), ma la singolare possanza storica di un poeta. Quando un Paese ignora o tenta sistematicamente di marginalizzare il poeta, di industriarlo all’indifferenza, accade un sovvertimento radicale dei valori ‘politici’ – sorge una generazione senza identità, serva, servile, benché cieca in ferocia.  Di Majakovskij – il protagonista, in fondo, di Io, futurista – si dice che “non fu mai felice”, che “non amava i bambini” perché era un bambino all’eccesso, che “amava molto i cani”. Majakovskij era “l’uomo del futuro”, il poeta-Adamo che seminava versi per la nascita di un nuovo mondo. Quel mondo, se mai nacque, nacque storpio, malvagio – l’albero della conoscenza svoltò in gogna e ghigliottina. “Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato”, scrive Jakobson, con sobria veggenza, in Una generazione che ha dissipato i suoi poeti – di cui Io, futurista è, di fatto, l’appendice. Nella straziante poesia “in morte di Vladimir Majakovskij”, Pasternak scrive dell’eterno ragazzo che si getta “ancora una volta di colpo/ nella schiera delle leggende giovani”. Le poesie “in morte di Majakovskij” diventarono una moda, un modo per costruire il futuro incenerendolo; Marina Cvetaeva aveva riconosciuto in lui i caratteri dell’“arcangelo carrettiere”.  In Io, futurista il Futurismo c’entra poco. Jakobson ricorda la gita di Marinetti a Mosca nel gennaio del 1914. Fu un incontro sballato, tra estranei.  > “Marinetti era un grande diplomatico e sapeva fare buona impressione su certi > settori del pubblico. Parlava francese con un forte accento italiano, ma molto > bene. Ebbi modo di ascoltare Marinetti due o tre volte. Era un uomo nel > complesso limitato, con un grande temperamento, che sapeva leggere con grande > effetto anche se in modo superficiale. Ma tutto questo non ci irretiva. Non > capiva affatto i futuristi russi. Chlebnikov gli era profondamente avverso”. Quando il futurismo russo decise di ergersi a soggetto politico chiamandosi “Kom-Fut”(comunisti-futuristi), per iniziativa di Majakovskij, nel 1919, fu presto sciolto – e cominciarono i guai. Per le sorti della Rivoluzione, i poeti, che ne erano stati il propellente primo, diventarono un problema. Nel maggio del 1921, sul margine del poema 150.000.000, che gli era stato donato da Majakovskij, Lenin scrive, “Una sciocchezza… una stupidità matricolata e pretenziosa. Secondo me solo una su dieci di queste cose dovrebbe essere pubblicata e in non più di 1500 esemplari per le biblioteche e per gli eccentrici”. La politica comincia, clinicamente, cinicamente, a impedire l’opera dei poeti – a limitare le pubblicazione, a censire censure.  In calce al libro, le lettere di Jakobson a Elsa Triolet. Nata Ella Kagan, donna di inflessibile bellezza, fu l’imperterrita amata di Jakobson, monito della perduta gioventù. Le lettere sono belle, svenevoli a tratti – “E adesso, mentre ti scrivo, di nuovo non è questione di domande o di racconti, ma solo di labbra che si contraggono e di un pensiero caparbio, caparbio: voglio Elsa. Adesso non c’è altro pensiero” –; insegnano l’ovvio: dietro ogni grande rivoluzione – poetica, scientifica, politica – c’è un grande amore. Elsa preferì, con meteorologica precisione, sempre altri a Jakobson: l’ufficiale francese André Triolet la portò a Tahiti e a Parigi, infine, dove conobbe tanti altri e, nel ’28, Louis Aragon, l’uomo della vita.   La sorella maggiore di Elsa, Lilja, fu la leggendaria amante di Majakovskij. A tal proposito, la scena più bella di Io, futurista, a pagina 81, racconta di quando Majakovskij, affittuario di “un borghese di medio livello”, tale Bal’šin, sradicò il telefono di casa, inchiodato al muro, per portarselo in camera, “con un pezzetto di parete”, e discutere, in intimità, “con la sua Lilicka”. Come scriveva Pasternak, “Quando un poeta ama,/ è un dio smanioso che si innamora/ e il caos di nuovo sbuca alla luce/ come ai tempi dei fossili”. Il poeta che sradica con foia il telefono dalla parete per parlare con la donna che ama – per urlare parole d’amore. Eccolo, l’emblema di un’epoca irripetibile – l’epoca delle passioni forti.  L'articolo Per urlare ancora parole d’amore. Lamento su un’epoca che ha ucciso i suoi poeti. (Ovvero: intorno a Majakovskij) proviene da Pangea.
December 18, 2025 / Pangea
“Sii forte, sii forte e taci”. Christian Morgenstern o della legge del mondo
“Perché non v’è punto qui/ che non ti veda. Devi cambiare la tua vita”. Fermo, di fronte al torso arcaico di Apollo, Rilke formula un imperativo oracolo, ascoltando ciò che muta come se parlasse. Non è la nebbia di una morale, bensì l’esperienza di metamorfosi che ogni vivente, nel suo perire, impone allo sguardo; un volto d’albero, un muro di spine, una foglia che cade, ogni cosa diviene giudice muto e maestro metafisico. È da questa soglia rilkeana, da questa “Schwere der Dinge”, che possiamo avvicinarci a Christian Morgenstern e alla parte del suo animo nascosta tra le fronde. Perché anche nel suo Blätterfall, in un quadro autunnale che raschia sul bordo della meditazione morale, la natura non è sfondo, ma interlocutrice, segno, terreno dove l’uomo impara la sua postura, la discrezione, il silenzio assordante. > “Nella vita ci sono grandi ore. Noi leviamo gli occhi verso di esse come verso > le colossali figure del futuro e dell’antichità.” > > Friedrich Hölderlin, Iperione Nato nel 1871 a Monaco di Baviera, Christian Morgenstern è solitamente ricordato per le sue Galgenlieder, i suoi Fatti lunari (pubblicati in Italia da Guanda) e per l’umorismo stralunato. Cresciuto fra pittori e febbri, fu poeta dalla salute sempre inclinata, funambolo dell’assurdo prima che l’assurdo avesse una capitale. Colpito da tubercolosi sin dalla giovinezza – malattia che lo portò alla morte prematura nel 1914 – conobbe a lungo la stanza del malato; il luogo in cui l’immaginazione impara a uscire prima del corpo. Da qui la doppia natura: da un lato l’inventore di quei poemetti che sembrano nati in un teatro di marionette composto da canneti metafisici; dall’altro, un autore capace di una spiritualità calma, quasi orientale, nutrita di Steiner, di teosofie leggere e antroposofia. I frequenti spostamenti lo portarono a soggiornare alcuni mesi, tra il 1906 e il 1907, nel sanatorio per malattie polmonari di Birkenwerder. Qui lo studio del Vangelo di Giovanni e degli scritti di Meister Eckhart gli procurò una sorta di iniziazione spirituale che lo rese liminale. La poesia Blätterfall appartiene a questa fase più meditativa e più “seria” della sua produzione; non trascende l’ironia dei Galgenlieder, ma esplode una sorta di piccola filosofia in cui la natura diventa maestra di saggezza tragica e di compostezza. Caduta delle foglie Il bosco autunnale fruscia intorno a me… Un infinito mare di foglie Si stacca dalla rete dei rami. Ma tu, il cui cuore appesantito Vuole condividere il grande dolore… Sii forte, sii forte e taci! Impara a sorridere quando le foglie, Facili prede del vento leggero, Ondeggiano e scompaiono. Tu sai che proprio la caducità È la spada con cui lo spirito del tempo Supera se stesso. Morgenstern dispone il “mare di foglie” come un teatro cosmico in cui l’uomo, fragile spettatore, è chiamato a un’ascesi del silenzio: «Sii forte, sii forte e taci!». Rilke avrebbe riconosciuto in questo comandamento la stessa disciplina interiore che governa le Dinggedichte, dove il poeta non descrive la cosa, ma la lascia farsi gesto, inclinazione, destino. Ciò che si perde si apre, ciò che discende si libera. La poesia, nella sua apparente semplicità, si colloca così accanto alla visione rilkeana del mondo che “stirbt und wird”, muore e diviene, una visione che fa dell’effimero un’energia spirituale. > “Cerchi che si tendono sempre più > ampi sopra le cose è la mia vita.” > > Rainer Maria Rilke, Il libro d’ore Se Rilke ci insegna a far parlare le cose, Hölderlin ci mostra il gesto opposto e complementare. La natura non è soltanto scena ma compagna di redenzione, cornice in cui si misura il rapporto umano con il divino. La malinconia dignitosa e la tensione verso una forma di abitare il mondo si incontrano in Hölderlin in una poetica del mediamento. L’estasi del poeta è sempre una mediazione che tenta di ricollegare la frammentazione moderna. In relazione a Morgenstern, Hölderlin ci permette di leggere l’esortazione al silenzio come forma di abitare il tempo. Il suo “sii forte e taci” risuona come regola heideggerianamente prescientifica dell’abitare che Hölderlin, prima di tutti, aveva posto come questione poetica. Christian Morgenstern (1871-1914) Lo studio critico moderno conferma questo aggancio; la natura come mezzo per oltrepassare la contingenza e riconsegnare all’uomo una misura dell’entusiasmo poetico. “Non coerceri maximo, / contineri minimo / divinum est.”,riporta il lungo epitaffio sulla tomba di Ignazio di Loyola citato da Hölderlin nell’apertura dell’Iperione: “Non essere limitato da cos’è più grande, essere contenuto da ciò che è minimo, questo è divino”. Così, quando Morgenstern invita a “sorridere” davanti al fogliame che svanisce nel vento, chiede un atto di fede nel ritmo dell’essere. Imparare dai cicli naturali a non opporsi alla perdita, perché è proprio lì che l’anima comprende la misura del mondo. > “Costruisco una tomba per il mio cuore, affinchè possa riposare; mi imbozzolo > perchè ovunque è inverno; mi avvolgo nei miei ricordi contro la tempesta.” > > Friedrich Hölderlin, Iperione A sorreggere questa interpretazione giunge Nietzsche, il vero “formatore” della giovinezza di Morgenstern e colui che offrì un primo fondamento filosofico al suo rifiuto emotivo dell’arida incultura guglielmina. Il vento leggero che rapisce il fogliame non è, per Nietschze, minaccia, ma forza dionisiaca che smuove la forma, afferma la potenza del divenire e spezza le catene della malinconia reattiva. “Tutto va, e tutto torna”, scrive nello Zarathustra, ricordando che la vita è un eterno ritorcersi di forme e di energie. Il Blättermeer di Morgenstern, osservato nella sua fluttuante impermanenza, diventa così una figura nietzscheana: la danza minima di ciò che continua a vibrare mentre scompare. Il comando “sii forte” non è una severità morale, ma una pedagogia del divenire; accogliere il mondo nella sua continua evaporazione, senza cedere all’illusione di un centro stabile. > “Voglio imparare sempre di più a vedere come bello ciò che è necessario nelle > cose; allora io sarò uno di quelli che fanno le cose belle. Amor fati: > lasciate che sia il mio amore d’ora in poi!” > > Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza A fornirci l’ultimo nodo, però, è Bergson, che con la sua filosofia della durée (durata) sembra quasi commentare direttamente i versi finali della poesia: “Tu sai che proprio la caducità/ È la spada con cui lo spirito del tempo/ Supera se stesso”. La temporalità bergsoniana non è una serie di istanti che si consumano, ma un flusso qualitativo, una “élan vital” in cui vita e tempo coincidono come movimento indivisibile.  Il testo di Morgenstern, nel suo insistere sulla caducità che «sovrasta» il tempo, può essere letto come poesia della durata: il fogliame che cade non interrompe l’esperienza, la intensifica; la caducità è l’atto che concentra la memoria e l’anticipazione in un presente vivo. Bergson sostiene che il puro presente è un inafferabile avanzare del passato che divora il futuro, e così, il sorriso che l’io consiglia è gesto proprio, modalità del presente che incorpora il passato e prepara il divenire. Nella sinergia di Bergson e Morgenstern il tempo smette di essere nemico e diventa materia plastica dell’anima.  > “E tutto è unanime, nel silenzio su noi, > metà vergogna, forse, e metà speranza ineffabile.” > > Rainer Maria Rilke, II Elegia Duinese In questo modo, il bosco autunnale non è più soltanto un luogo della malinconia, bensì il laboratorio dove Rilke vede la cosa dichiarare la propria anima, dove Hölderlin riconosce la ferita sacra dell’esistenza, dove Nietzsche vi scorge il gioco in cui l’essere si afferma contro la gravità della fine, e dove Bergson ascolta il pulsare segreto del tempo che si rinnova.  Morgenstern, sotto questa luce, appare come un poeta che conosce la leggerezza del pensiero profondo; parla alla quiete, ma soprattutto parla del mondo intero. Nel suo invito a sorridere mentre tutto svanisce, si cela un gesto ontologico, una teologia dell’imparare che la vita non ci appartiene per durare, ma per trasformarsi, per transitare, per brillare un istante prima di dissolversi nel respiro dell’universo. Morgenstern, con la sua voce più lieve e più adulta, trasforma una visione in gesto etico, in assentire, e tacere. Un tacere che non è resa, un tacere che non è condanna.  Il mondo vive nel suo cadere e l’uomo cresce nella misura in cui impara ad accompagnarlo senza rumore. Tommaso Filippucci *In copertina: la “sfera dei colori” secondo Philipp Otto Runge (1777-1810) L'articolo “Sii forte, sii forte e taci”. Christian Morgenstern o della legge del mondo proviene da Pangea.
December 15, 2025 / Pangea
“Segui il tuo destino”. Delirio e bellezza intorno a una poesia di Pessoa
La prima volta è stato terribile. Fare il gesto con la mano della pistola puntata alla tempia…  È stato terribile il fatto del solo pensiero che mi sfiorasse, e delle mie parole quasi prive di speranza… Sì ‒ terribile.  Tutto questo accadeva per qualcosa che non andava per il verso giusto; e non per colpa mia. Nel frattempo è uscito un mio libro di poesie, che in esergo riportava questi versi: > Segui il tuo destino, > annaffia le tue piante, > ama le tue rose. > Il resto è l’ombra > di alberi estranei. Dunque penso: La poesia mi salva. La poesia m’insegna. La poesia è tutto. La seconda volta, però, fu ancora più brutto. Capii che mi stavano distruggendo i sogni. Lo ammisi. E qualcuno disse davanti a tutti di chi era la colpa. Lo ripeté più volte, con atto di sfida.  Io, per tutta risposta, mi spensi. Mi sedetti quasi subendo in silenzio.  Troppa gente poteva sentire la mia reazione; gente sbagliata poteva annichilire e reagire di fronte alla mia rabbia infinita; ma non era il caso. Per questo, e per motivi ben più forti ‒ ben più sacri ‒, tengo alto il fuoco, tengo desto il cuore. Nessuno distruggerà i miei sogni. Nessuno! Ho appeso questa poesia al muro, accanto al comodino, accanto al letto. Così che io possa vederla e leggerla ogni notte. Ogni notte! È il mio memento. È il mio cuore incendiato! Io sono ancora vivo. (Giorgio Anelli) * Segui il tuo destino, annaffia le tue piante, ama le tue rose. Il resto è l’ombra di alberi estranei. La realtà sempre è di più o di meno di quello che vogliamo. Solo noi siamo sempre uguali a noi stessi. Dolce è vivere solo. Grande e nobile è sempre semplicemente vivere. Lascia il dolore sulle are come ex voto agli dèi. Guarda da lontano la vita, senza mai interrogarla. Essa niente può dirti. La risposta sta al di là degli dèi. Ma serenamente imita l’Olimpo dentro il tuo cuore. Gli dèi sono dèi perché non si pensano. (1.7.1916) Ode di Ricardo Reis *In copertina: Fernando Pessoa nel 1928 L'articolo “Segui il tuo destino”. Delirio e bellezza intorno a una poesia di Pessoa proviene da Pangea.
December 13, 2025 / Pangea
“Scrivere poesie è come rapinare in banca”. Donald Hall o dell’ardore coniugale
Riuscì a far ridere Thomas S. Eliot, il poeta cardinalizio, il poeta-papa, per sempre serrato in una vaticana severità. Scrisse dell’“improvviso rimbombare della risata di Eliot”. Scrisse di una risata che squarciava i cieli. Nell’ufficio della Faber and Faber – in Russell Square, Londra – una fotografia di Pio XII fronteggiava quella di Virginia Woolf, l’antica amica. La prima grande intervista – di un ciclo mitico: “The Art of Poetry” – della “Paris Review”, è firmata, nel 1959, da Donald Hall.  Trentenne – era nato a Hamden, Connecticut, nel settembre del 1928 –, Donald Hall aveva il profilo del predestinato, dello straordinario genio. Licenza ad Harvard, borsa di studio a Stanford, nel 1957 aveva curato, insieme a Robert Pack e a Louis Simpson, una notissima antologia di New Poets of England and America; Robert Frost – uno dei suoi lari: avevano giocato a softball insieme – aveva accettato di firmare la compassata introduzione. Come poeta, Hall aveva esordito, con Exile, nel 1952: il primo tomo di una bibliografia iliadica, che finirà per accumulare una cinquantina di libri. Eliot era il suo mito. Dodicenne, frequentava i ragazzi più grandi, che transitavano a Yale. Sentì parlare di Eliot. “Con la paghetta che mi davano i miei, mi comprai l’edizione delle poesie di Eliot. Costava due dollari e cinquanta centesimi. Decisi che sarei stato un poeta per il resto della vita – decisi di dedicare almeno due ore al giorno alla poesia, dopo la scuola. Continuo a farlo”. Un suo amico – “aveva sedici anni, mi pareva un vegliardo” – gli aveva detto che “scrivere poesie è come rapinare in banca. Pensai a Bonnie e Clyde. La cosa mi piacque da impazzire”.  Figlio di buona famiglia – il padre era un uomo d’affari – Donald Hall, negli anni, otterrà tutti i premi che possiamo immaginare. Un paio di Guggenheim Fellowship – conquistati nel 1963 e nel 1972 – gli permisero di fare della poesia la propria rendita. Nominato “Poeta laureato” degli Stati Uniti nel 2006 – un paio di anni prima a ricoprire l’incarico c’era Louise Glück, futuro Nobel per la letteratura; lo sostituirà, nell’ambito ruolo, Charles Simic – quattro anni dopo viene onorato da Barack Obama con la National Medal of Arts. Harold Bloom lo ha inserito nel fatidico “Canone Occidentale”, insieme a Nabokov, Raymond Carver, Cormac McCarthy, Philip Roth e Thomas Pynchon. In Italia, la sua opera poetica è sistematicamente ignorata, chissà perché.  Ma torniamo ai primordi. Donald Hall aveva il culto della franchezza, la capacità – rapace – di indentificare il ‘tono’ di un uomo attraverso uno sketch. Eccelleva negli aneddoti, come se la parte – la briciola di un’esistenza – racchiudesse in vitro il tutto. Dedicò la vita al racconto dei ‘maestri’, all’incessante ricerca dei ‘padri’: all’assidua acquiescenza di troppi – tradotto: l’estetica dei paraculo – preferì la sfacciataggine. Così, ad esempio, rievocando l’antica intervista a Eliot: > “Ci incontrammo preliminarmente a New York. Era tornato da una vacanza alle > Bahamas, o da un posto del genere. Era abbronzato, snello, stupendo. Il che mi > sorprese. Non lo incontravo da due o tre anni – nel frattempo, si era sposato > con Valerie Fletcher. Che cambiamento! La prima volta che lo avevo visto, nel > 1950, pareva un cadavere. Era pallido, curvo, rigido; tossiva > ininterrottamente. Quell’uomo arcano, grave di antiche gentilezze, pareva > adatto alla tomba. Fu così che lo rividi, più volte. Eppure, quel giorno era > felice. Il secondo matrimonio lo aveva ringiovanito di vent’anni. Rideva, > tenendo per mano la giovane moglie – era una persona totalmente diversa: più > leggera, radiosa, disponibile”.  Eliot che ride – abbronzato – mentre impugna il braccio della seconda moglie. Un’immagine capace di scardinare l’intero tempio di cattedratici pregiudizi accademici. Memorabile – per stare in tema – l’aneddoto. Da Mr. Eliot – il vate e il doge dell’editoria anglofona – si approssima un giovane poeta americano. Chiede consiglio: vorrebbe iscriversi a Oxford, seguendo il sentiero di studi percorso, quarant’anni prima, da Eliot. La risposta del poeta è spiazzante: “gli disse di fornirsi di biancheria intima di lana, a causa della forte umidità che trasuda dalle pietre di Oxford”.  Oltre all’intervista a Eliot – introduzione di Pasquale Panella, anno di grazia 2000 – l’unica altra cosa di Donald Hall tradotta in Italia è l’intervista a Ezra Pound – introdotta da Mario Luzi, era il 1996, entrambi i tomi escono per minimum fax, oggi veleggiano nel mercato secondario. In origine, l’intervista esce nel 1962, sulla “Paris Review” – i poundologi la ritengono una delle migliori mai realizzate da ‘Ez’. Hall incontra Pound a Roma, nel 1960 – “non era ancora penetrato nel silenzio, ma il silenzio lo stava lentamente compenetrando” – in un bar. “Il cameriere lo riconobbe, non ci aveva mai visti insieme, fece un collegamento. Pronunciò alcune frasi in italiano. Non le capii. L’ultima parola era ‘figlio’. Pound mi fissò, fissò il cameriere. Disse ‘Sì’”. L’intervista a Pound va letta insieme a Fragments of Ezra Pound, formidabile saggio biografico con cui Donald Hall chiude Old Poets. Reminiscences and Opinions: uscito nel 1979, costantemente ristampato, è uno dei libri folgoranti per comprendere la grande poesia americana del Novecento. Nella chiusa al lungo testo dedicato a Pound, Hall parla di un “vecchio Odisseo senza Penelope né Telemaco”, di un uomo che “non è salpato verso il Paradiso, ma ha scelto di tornare nel proprio Inferno”, di “una navigazione che non ha trovato porto”, del “vasto e nobile linguaggio di Ezra Pound”. Scrisse che “nessun uomo compie la sua vita o i suoi Cantos, perché siamo tutti un cumulo di frammenti. Soltanto in pochi solcano i mari”.  Nei ringraziamenti, Donald Hall cita Jane Kenyon, “che è dentro e oltre ogni mio lavoro”. Si erano conosciuti ad Ann Arbor, Michigan, dove lui insegnava. Lei aveva poco più di vent’anni, abitava lì, indossava una bellezza schiva e la stola di un talento feroce, esatto, di quelli che per penuria di tempo terrestre devono bruciare tutto. Donald Hall fu abbacinato da quella figura, al contempo aggraziata e indocile. Si sposarono nel 1972 – vent’anni prima Donald si era unito alla prima moglie, Kirby Thompson, da cui aveva avuto due figli. Nel ’75, Jane e Donald mollano tutto – insegnamento, stabilità sociale, i fumi della fama – per ritirarsi a “Eagle Pond Farm”, la casa avita degli Hall, presso Wilmot, New Hampshire. Poco più di mille abitanti, campi, boschi, poco tempo per le frivolezze, la dedizione dei monaci e dei pionieri. Fu un amore folle, assertivo, confermato da una fede nella singolarità dell’altro che non può non affascinare. Lavoravano la terra, cucinavano, cucivano poesia. Donald Hall – poeta esuberante nel dominio della tavolozza lirica: capace di alternare la forma ‘chiusa’ ai più arditi esperimenti modernisti – sapeva che era lei, Jane, l’autentico genio: sapeva ascoltarla – sapevano litigare. Roso da un cancro al colon, curato da lei, lui riuscì a venirne fuori, smagrito, smarrito, è vero, ma coriaceo. Lei, curata da lui con la venerazione del pittore di icone, fu stroncata dalla leucemia: morì nel 1995, dopo vent’anni di vita insieme, ai confini di tutto il resto.  È difficile rassettare in altro modo la parola coniugale: una congiunzione che trascende ogni altro essere, autenticamente terribile. Cosa che allea il cuore all’astro. Donald Hall fu squarciato, la poesia pareva essersi disseccata in Jane; la prima raccolta edita dopo la morte della Kenyon, Without, è una sorta di mefistofelico requiem. The Painted Bed, a dire di molti, è la più bella poesia di Donald Hall dedicata alla moglie: il letto coniugale è, al contempo, zattera e tomba, ventre e arca. Il riferimento odisseico è implicito. Chiude così: “E ora giaccio sul letto dipinto rimpicciolisco, concentrato nel viaggio che inauguro  per dormire senza dolore nella reggia dell’oscurità il mio corpo accanto al tuo”.  Preferisco Weeds and Peonies – la leggete in calce all’articolo. È “la mia prima poesia dettata dal lutto”: Donald Hall tenta di coniugare il proprio stile a quello di Jane. Il risultato è forse una delle poesie più belle di Donald Hall in assoluto. Non è un caso se l’edizione dei Selected Poems of Donald Hall allestita per mano del poeta sia, in fondo, un gigantesco atto d’amore per Jane Kenyon: è lei la vera protagonista delle poesie e del Postscriptum finale (qui tradotto in parte). Siamo nel 2015 – Jane è morta vent’anni prima – Donald muore nel 2018 – non pubblicherà più nulla.  Donald Hall e Jane Kenyon nel 1993 È raro scoprire delle ‘coppie’ letterarie; di solito, sono legate dal famelico desiderio di agire sulla cultura del proprio tempo (penso al mostro bifronte Sartre-de Beauvoir o Aragon-Triolet). L’unico legame analogo a quello tra Donald Hall e Jane Kenyon è il rapporto Sylvia Plath/Ted Hughes. In questo caso, però, le analogie sono per sovversione d’intenti e di stili: Sylvia & Ted raffigurano – fino all’esasperazione, fino all’insopportabile – l’emblema della coppia col cappio, della coppia cannibale. I due esistono per offrire materia da divorare all’altro – inevitabile che uno soccomba. Passione che svasa in deliquio, in lotta senza quartiere. Di entrambi, ricordiamo i calchi del rancore, la cagnara lirica, gli omerici litigi, il sabba; un amore in forma di condor. Non credo sia un caso che l’ultima opera di Hughes, la più nota (per frainteso), Lettere di compleanno, sia quella meno efficace: per amare l’antica moglie, il poeta deve farsi altro da sé, fino a modificare il proprio primigenio stile.  Diversi per genio umano e per nitore lirico, Donald Hall e Jane Kenyon si sono fusi senza confondersi, si sono mangiati senza consumarsi – sono riusciti a consuonare. Dando al matrimonio un’accezione bianca, in favore stellare, di certo poco appetibile per i tabloid ma singolarmente eccezionale – per l’eccezione che la accerchia – per la storia della letteratura; ancor più – visto che la letteratura è cosa troppo piccola, infine futile – per il nostro conforto.  Fu Peter A. Stitt a incaricarsi di intervistare Donald Hall per la “Paris Review”. Era l’autunno del 1991 – “The Art of Poetry No. 43”. Trent’anni prima, per quella stessa rivista, Donald Hall aveva intervistato Marianne Moore, la gran dama della poesia americana, idolatrata da Pound, premio Pulitzer, adorava Muhammad Ali e andava a vedere le partite di baseball con cappello a tricorno e nero mantello. Anche Hall giocava a baseball: la copertina lo immortala con la divisa dei “Pirates”, alacre in pinguèdine, nerobarbuto, savio incrocio tra un personaggio dei Peanuts e un maestro sufi. All’intervistatore disse che da ragazzino, dodicenne, adorava gli horror. “Qualcuno mi disse, se ti piace quella roba, leggi Edgar Allan Poe. Lo lessi – me ne innamorai – da grande volevo diventare Poe. La prima poesia che ho scritto, non è troppo macabra, ma imita Poe”. La prima poesia di Donald Hall, serbata come un monito, fa così: “Hai mai ragionato/ sulla prossimità della morte?/ Puzza in ogni angolo/ di notte strilla/ ti insegue per tutto il giorno/ fino al momento in cui/ con voce ferma e forte/ ripete il tuo nome./ Allora, allora, è la fine di tutto”. Il poeta giocò con le parole. Tutto, all, suonava come il suo cognome, Hall. La fine di Hall.  Chissà come si chiamano gli uomini che muoiono più volte. Per essere un poeta, forse, un poeta deve morire le morti di tutti.  ** Donald Hall, Postscriptum A dodici anni ho scritto la prima poesia – a quattordici ho deciso che avrei scritto per tutta la vita. Non me ne pento. È strano, ma per me è una piacere ripercorrere questa vita, fatta di così tanti altezze e così tanti abissi. Nasce mio figlio, il mio carnefice; muore mio padre; sposo Jane Kenyon e ci trasferiamo nel New Hampshire; Jane prospera e scriviamo poesie assieme; Jane muore; io vivo, io invecchio.  Se leggo le mie poesie in ordine cronologico, mi accorgo del mutamento di toni e di forme. Passo dalle strofe in metrica ai versi liberi; più tardi – per amore del mio vecchio amore, Thomas Hardy – torno alle forme chiuse. Non tutti i poeti cambiano stile come ho fatto io. La maggior parte si installa in uno stile. Come accade per la maggior parte degli scultori e dei pittori: non potremmo confondere un Cézanne con un Van Gogh.  Quando Jane e io ci siamo trasferiti qui da Ann Arbor, dove insegnavo, eravamo felici del nuovo orizzonte. Amavamo stare da soli, in campagna, in compagnia della poesia; trascorrevamo le estati a falciare il fieno con mio nonno. Scrivevamo del luogo in cui stavamo vivendo. Scrivevamo l’uno dell’altra. Dopo che Jane morì di leucemia, a quarantasette anni, nel letto dipinto della nostra camera, per cinque anni non ho scritto che della sua morte. […] Io e Jane lavoravamo assieme alle nostre poesie. Ignoravamo le prime bozze – è una cattiva abitudine; occorre attendere che una poesia si solidifichi – quando le poesie giungevano a una forma quasi definitiva, ciascuno si affidava all’altro, il suo primo e fidato lettore. Quando ripetevo una parola – un’abitudine acquistata da Yeats – Jane la cancellava. Quando usavo degli ausiliari, li cassavo, così “stava piovendo” diventava “pioveva”. Jane liberava i versi da metafore morte, sfinite dall’uso; sapeva la mia irascibilità sull’argomento. Esultava quando ne rintracciava qualcuna, tra le mie bozze “Perkins – Perkins ero io – ecco una metafora morta!”. Questi incontri erano fondamentali, non sempre facili. A volte eravamo cortesi – nessuno dei due faceva esattamente ciò che gli diceva l’altro. Ci aiutavamo moltissimo. Jane mi ha salvato da mille errori: limava la mia connaturata esuberanza, correggeva la sintassi. Di rado diceva che la poesia andava bene. A volte diceva “Ci sei quasi”, altre volte “Perkins, hai lavorato bene”. Desideravo con ardore i suoi elogi. Eppure, era essenziale essere privi di indulgenza. Ricordo una sera, era il 1992, eravamo in soggiorno, lei leggeva il mio Museum of Clear Ideas, una cosa del tutto diversa rispetto ai miei libri precedenti. Quando mi guardò, piangeva. “Perkins, non mi piace!”. Mi fulminò, feci per piangere anche io, “Va bene lo stesso, va bene lo stesso”, le dissi.  Quanto meglio scriveva, quanti più onori riceveva, tanto più mi preoccupavo di non essere come Jane. Dopo la sua morte, non me ne preoccupai più. Scrissi per due. La prima poesia dettata dal lutto, Weeds and Peonies, usa parola che risuonano nell’opera di entrambi.  ** Erbacce e peonie Sbocciano le tue peonie, bianche come squarci di neve maculate di rosso nell’irsuto essere nella tua cinta di prodigi, presso il portico.  Magnanimo fiore: lo porto a casa, lo metto in una ciotola di vetro, a galleggiare – come facevi tu. Piaceri ordinari, il contegno della memoria soffiano come neve nel giardino disfatto e soggiogano le margherite. Il tuo cappotto blu svanisce verso Pond Road, diventa una tormenta  immaginaria: Gus ti è al fianco, la sua coda pinneggia,  ma tu non riappari, stanca e felice e continui quarti di dolore appestano l’aria –  come la bestia che abbaia per tutta la notte come il gatto che si stira, poi si accuccia e sogna i lattiginosi capezzoli della madre.  Un procione ha decapitato il geranio nel vaso. Fiori e radici sono uno strazio, a terra,  nel retro, dove i gigli cominciano le loro escursioni quotidiane sul muro di pietra: è la stagione delle rose. Cammino avanti e indietro tra le erbacce – le peonie fissano con esatto candore il Kearsarge: l’hai vinto, una volta, indossavi scarponi viola.  “Torna presto e fai attenzione quando scendi”. Le tue peonie inclinano l’enorme cranio verso ovest. Vogliono cadere. Alcune, in effetti, cadono.  ** Gracida ghiaccio il Kearsarge; dai rami la neve s’innerva sulla neve; nessuna fiumana, no:                         si muove restando immobile. Stasera                                     portiamo legna a piene braccia dalla legnaia di Glenwood e costruiamo un fuoco per tenere lontana la notte dalla finestra.                         Siediti vicino alla stufa Jane Kenyon                                    mentre porto il vino: parleremo del tempo per passare il tempo senza pretendere di poterlo mutare.                         La tempesta esige di estinguersi                                     con macerie di betulle brillanti in ginocchio sui sentieri coperti di brina. Evita le previsioni meteo, che sorridono                         felici per la tempesta                                    prendi il giorno così com’è e il gelo non santificherà più queste vecchie vie perché già urla la raganella, la primavera trotta                          e il giorno è dato in dono proprio                                     a noi, i consoli di questo regno.  * Pomeriggio in riva allo stagno                         Fu luglio e furono sedate le nere mosche primaverili             Furono pomeriggi verdi                         sopra il muschio presso l’oscurità di Eagle Pond: nei pertugi delle forre sentiamo il richiamo delle strolaghe.                          Quei giorni: folli di fievole felicità e grida di falchi.             L’ambizione e la sua rabbia ci diede tregua                         dimenticammo tutto dimenticammo Jane Kenyon, non sapevamo chi fosse Donald Hall sonnambuli, dardeggiavano sguardi su pagine dorate.                         Un giorno attraversammo i binari della ferrovia: tremavano             nell’obliquo sole di agosto –                          chi dei due dormiva, chi leggeva sotto la quercia, vicino allo stagno.  Poi caddero le ghiande – e quei giorni furono la nostra fine.  * Ardore Lei morì e urlai – il cane era cupo e scappò via. Ora non mi getto più verso la parete ricoperta di fotografie non mi rivolgo più a lei il mio “tu”, nelle poesie. Lei è rientrata nel museo di granito: JANE KENYON (1947-1995). Ero vivo, al suo cospetto, ero nel mio acme animale –  sentore di predatore.  La sua morte è la cosa peggiore che mi potesse accadere –  prendermi cura di lei è stata la mia benedizione.  Ma ora voglio chi non c’è la donna dai volti volubili e molteplici, che inventa metafore e trita cipolle, che beve vino mentre olia la pentola e canta tra sé e sé perché cerca di terminare una poesia. Quando faccio l’amore, ora,  qualcosa non funziona. L’autunno scorso una donna mi ha detto: “Diffido del tuo ardore”. Inverno, Florida: odio le vecchie coppie della mia età che passeggiano tenendosi per mano, odio la loro carne flaccida. Fisso  le giovani donne indignato e lascivo: non sanno amare né lavorare né morire.  Le ore scorrono lente, le settimane vanno sulle rapide del nulla.  Sul greto di ogni giorno recito i miei lamenti. Il dolore è illecito e la lussuria, a letto, mi volta le spalle: guarda da un’altra parte.  * Orologio Luna Come una zattera nella subacquea dimora degli spettri, a mezzanotte, tra lumi e pozze d’ombra, sotto la luce fumante della luna piena che riempie di neve il soffitto, vado alla deriva lungo la marea di gennaio, di stanza in stanza,  verso l’orologio a pendolo che batte come  un cuore: attendo la pausa in cui si apre lo stretto spiraglio verso il riposo – lì le onde si bloccano impennate, di pietra, come lunatici leoni di Micene.  * Lupo coltello dal diario di bordo di C.F. Hoyt, US Navy, 1826-1889 “Metà agosto, secondo anno della mia prima spedizione polare, nevi e ghiaccio invernali alle calcagna, Kantiuk e io sfrecciammo con la slitta lungo la Crispin Bay: cercavano i resti della Spedizione Franklin. Ci abbatté la tempesta e tornammo indietro e lottammo, cauti, nella neve, per timore di mollare terra avventurandoci su pianure di ghiaccio alla deriva, abbandonati alla Provvidenza dei mari.  Verso il tramonto sentii ringhiare alle mie spalle. Kantiuk disse  che due lupi, magri come le ossa di una nave in naufragio,  ci seguivano da un’ora – ora  digrignavano i denti preparandosi al banchetto. Avevo poca carica per  il fucile: si approssimava il secondo inverno, razionavamo le provviste.  Fu buio non potemmo andare oltre ci accampammo tra capanne  di ghiaccio – anche i lupi si fermarono, ringhiando  appena oltre l’orizzonte del nostro sguardo – sentivo  i loro artigli arpionare il suolo.  Kantiuk rise, disse che i lupi erano rosi dalla fame. Alzai  il fucile, pronto a sparare al primo sperando di spaventare l’altro. Kantiuk mi tirò via il fucile rideva ripetendo che i lupi avevano fame.  Temevo che il mio vecchio compagno di avventure fosse folle, impazzito nella tempesta tra cimase di ghiaccio braccato dai lupi. Kantiuk  rovistò nello zaino, tirò fuori due coltelli – turnok li dicono gli Inuit –  li affilò con fatica, da entrambi i lati: avevano la violenza dei rasoi da barbiere –  si avvicinò ai cani, raspò con le lame la bestia più giovane: zoppicava da un paio di giorni.  Ricordo  che pensai di puntare il fucile contro Kantiuk mentre mi passava accanto, con i coltelli rossi  del sangue del nostro cane  che aveva mugolato e sofferto e ora era lì, morto, mentre cugini e zii, affamati pure loro, lo fissavano –  e conficcò i coltelli nella neve.  Immediatamente  le vaghe grige forme dei lupi si fecero solide, uscirono dall’oscurità della neve, piombarono fameliche  figure simili a corvi a leccare il sangue dell’acciaio affilato. La lama lacerò a tal punto la lingua di quegli esseri che il loro sangue sgorgava  a profusione, e rimpiazzò quello  del cane e mangiarono furiosamente più di prima, mentre Kantiuk rideva tenendosi i fianchi e rideva.  Risi anch’io sollevato perché la Provvidenza ci aveva concesso di vivere ancora una volta – o forse perché trovavo ridicole –  così lontano dalla mia terra, il Connecticut in condizioni così estreme – quelle creature tanto avide da ingozzarsi del proprio sangue. Crollarono, esangui, prima uno poi l’altro, nella neve:  Kantiuk recuperò  i suoi turnok dopo aver tagliato la carne più morbida dalla coscia di uno dei lupi –  la mangiammo grati, benedicendo il Creatore che ci affama  e che ci sfama”.  Donald Hall L'articolo “Scrivere poesie è come rapinare in banca”. Donald Hall o dell’ardore coniugale proviene da Pangea.
December 11, 2025 / Pangea
“Non ho più segreti da saccheggiare”. Vita & versi di Sandor Weöres
Sandor Weöres pare una specie di Lord Jim della letteratura ungherese, un uomo animato da una curiosità oceanica – e da una equivalente inquietudine. Nei suoi versi, Weöres è sempre spiazzante: a volte adotta i toni di un filosofo stoico tardoantico – nel suggestivo Terra sigillata –, a volte arma di immagini un concetto, altre volte sorprende con bucoliche tenerezze. Le sue invettive contro l’ardore bellico che anima l’uomo prendono la via della profezia più che del pragmatismo; in Ore difficili, ad esempio, la lotta ha il nitore della ricerca ascetica, la predilezione per la vita spirituale.  Nato nel 1913 a Szombathely, in Ungheria – il padre era un ussaro – Weöres ha studiato legge, poi geografia, infine filosofia; ha esordito con rapace precocità, pubblicando le prime poesie a quattordici anni, segno di una stimmate interiore. Ha viaggiato – e vissuto – nelle Filippine, in Vietnam, in India, in Italia; poeta dal cuore apolide, apolitico per estro, ha ingaggiato un versificare che stringe l’assoluto, che fa lo scalpo alla Storia. Durante la Seconda guerra, fu obbligato ai lavori forzati; rifiutò i diktat del “realismo socialista” rifugiandosi in una poesia totale, capace di risvegliare dal torpore i miti, altrimenti assiderati dalla “Repubblica Popolare”. Tra il 1949 e il 1964 la sua poesia fu considerata sgradita, ostile al suo Paese. Gli fu utile la pratica del tradurre: trascinò nella sua lingua l’opera di Dante, di Petrarca e di Leopardi; ha consegnato una versione sgargiante del Daodejing, molto letta ancora oggi, e dell’Epopea di Gilgamesh. Sentì una certa sintonia con Thomas S. Eliot, di cui tradusse La terra desolata. Per un po’, fu libraio, a Budapest.  Morto nel gennaio del 1989, Sandor Weöres è riconosciuto tra i grandi poeti ungheresi di ogni tempo: nel suo paese gli hanno dedicato statue. In Italia la sua opera è pressoché sconosciuta: nel 1984, per Vallecchi, Paolo Santarcangeli ha curato alcuni suoi testi nel complessivo Trilogia di poeti ungheresi (insieme a poesie di György Somlyó e di Sándor Rákos). In Francia, Sandor Weöres è stato tradotto da Bernard Noël; nel mondo anglofono ha avuto la ‘benedizione’ di Edwin Morgan, grande poeta scozzese (è stato il primo ‘Poet Laureate’, o meglio, ‘Makar’ del suo Paese) e grande traduttore (tra l’altro, del Beowulf, di Eugenio Montale e di Attila József). Così ne scrive nell’edizione dei Selected Poems di Weöres uscita da Penguin nel 1970: > “Sandor Weöres è poeta proteiforme, di straordinario virtuosismo, capace in > ogni formula lirica, dai metri complessi al verso libero, profondamente > consapevole dei poteri musicali e ritmici che la poesia condivide con la danza > e il rito, a tal punto che la sua opera sa fondere il sofisticato nel > primordiale. Non sorprende, dunque, la sua visione assoluta della poesia, > assolutamente ‘aperta’ a ogni possibilità di canto; non sorprende che non > nutra simpatie verso i precetti socio-politici del Paese in cui vive”.  Leggendo Sandor Weöres – in calce, alcuni versi tradotti dalla versione di Edwin Morgan – si percepisce l’indole del poeta come creatore di mondi, come re delle stelle. Una condizione lirica, al contempo, ferina e piena di grazia, grata al creato.  *** Momento eterno Non affidarti alla pietra: si sbriciolerà. Plasma nell’aria l’istante che perfora il tempo dall’aldilà all’adesso veglia su ciò che l’ora ammorba tieni stretto nella morsa  il tesoro – l’eternità, bilanciata tra futuro e passato. Come il corpo del nuotatore è sfiorato dal pesce che fluttua così ci sono momenti in cui  Dio è in te e tu puoi divinarlo: lo ricordi a tratti, a bocconi, sempre troppo tardi, in sogno. Mastichi l’eternità da questo lato della tomba.  * Morire Occhi di madreperla, acido sentore  di mele, scampanio di urla e passi che balbettano, si addensano, gemelli dalle enormi corna sogghignano e affondano e trabocca il freddo e tutto è azzurro, vasti elettrificati azzurri campi aratri che lampeggiano e spine  che sbocciano sulla nudità del cielo la terra ha le rughe, la terra è lebbrosa ma scalpita un dolce nido selvaggio: dal piatto si apre una luce puntinata, costante.  * Bisbiglii nell’oscurità Ti issi dal pozzo, bimbo. La tua testa è una pira, il braccio un ruscello, aria il tuo corpo, fango ai piedi. Devo legarti, ma non avere paura; ti amo e i miei nodi sono la tua libertà. Scrivi sul cranio: “Sono forte, devoto, impavido, amo la casa e piaccio alle donne”. Scrivi sul braccio: “Ho tutto il tempo che voglio, non ho fretta: l’eterno è mio”. Scrivi sulla schiena: “In ogni cosa mi riverso, ogni cosa in me si riversa; non sono continente, nulla può contaminarmi”. Scrivi sui piedi: “Conosco la misura dell’oscurità, le mie mani sondano i suoi lemmi; sono il solo che conosca il senso della parola abisso”. Ora sei oro, bimbo. Diventa pane per i ciechi, trasformati in spada per chi ti vuole.  * Terra sigillata Epigrammi di un poeta antico Inutile investigare: so nulla. Un vecchio uomo che dorme, al risveglio è un bambino – puoi leggere ciò che sai nei miei grandi occhi azzurri. Intravedo gli acidi acini del sapere.  * Un bambino dalle dita rosate accarezza le trote in riva al fiume: ne chiedo una e lui risponde no, non ti darò nemmeno una trota autentica.  Vecchi profeti, cosa volete ancora da me? I ventiquattro prismi celesti – un tempo vagavo cieco nel cuore e sapevo leggerlo.  * Se vuoi la tua fortuna, ti svelerò chi sei, cosa ti aspetti – ma sono sordo ai proclami – non ho più segreti da saccheggiare.  * Dici di essere figlio di Dio: perché allora ti comporti come un mendicante? Zeus, quando scende sulla terra, chiede pane e acqua, ha fame, come un vagabondo.  * Lo Splendente scende sulla terra e mendica nel fango – quando è nel suo castello, in cielo, tra colonne d’oro, sogna di tornare quaggiù. * Il messaggero mira in alto: ecco il centro della terra! Sopra la sua testa, il cielo si impenna, con un buco nel viso.  * Bello il pino solitario, bella la rosa aureolata di api, bello il bianco funerale, il più bello di tutto – l’unione.  * I tesori dell’albero: foglie, fiori, frutti.  Li dona con generosità, avvinghiato agli elementi.  * La foresta è pudica, il lupo muore all’ombra, senza dare notizia di sé – una prefica pagata come si deve urla senza vergogna durante la sepoltura di uno sconosciuto.  * Se il cuore è saldo, il malfattore non commette errori mentre presenta bilanci corrotti – ma si sbilancia, sbriciola in pianto e prova pietà per l’innocente punito.  * Il crimine ha una sua nobiltà, la virtù è sacra; ma che valore ha un cuore inquieto? In quel caso, il crimine è un ubriaco furioso, la virtù un carceriere.  * Taglio il destino nel bocciolo: il mio cranio è la cupola celeste, le stelle gravide di fato corrono lungo le sue arcate.  ** Segni  I Il mondo intero è sotto la mia palpebra.  Dio si insinua tra la testa e il cuore. Ecco perché mi sento pesante. Ecco perché è infelice l’asino su cui sono assiso. * II Folle dei cieli: tu che versi il tuo viso sulle acque, qual è la ragazza che ti svestirà della follia? Grande santo, dopo aver nuotato in questo mondo sei arrivato al silenzio, all’infinito vuoto – sei asceso fino all’abito di cristallo della sposa: e, dimmi, com’è? * III Uomo: risveglia la donna segreta, segregata in te; donna, illumina la tua parte maschile: quando l’Invisibile abbraccia, penetra ogni parte di te.   * IV Grande è l’amore che ci getta nel vortice! Grande è l’amore che ci attende mentre ci trasformiamo in un vortice! * V Più delle nebulose afflizioni del cuore, più del dubitoso lavorio della mente – compiaciti del mal di denti, per le energie che ti leva… Solo le parole possono risolvere una domanda – ma ogni cosa ha in sé la sua risposta.  ** Ore difficili Il tempo delle cupe profezie è al termine: la Storia bisbiglia il suo Inverno intorno a noi.  Uomo: potenza suicida nelle membra, veleno nel sangue, follia di cane rabbioso nel cranio – nessuno può divinare il suo destino.  Vuole squartare i propri simili con nuovi strumenti di devastazione, vuole ispezionarne le ossa; le sue sole conquiste: la perdita della ruota e del fuoco, l’oblio del verbo, la vita a quattro zampe.  Che si districhi, che si sleghi: che rinunci ai suoi innumerevoli gesti da marionetta condotti con ostinazione brulicante di vermi, alle sue attività utili ad approvvigionare termiti – si commisuri all’ordine del mondo interiore.  I monti interiori, familiari e ordinari, sovrastano l’avidità individuale. Si integrano tra loro, trovano equilibrio con il mondo esterno.  Questa è l’antica pratica: finora i flussi insanguinati della storia si sono mossi ispirati dalla bellezza e dalla grandezza – ma ora è soltanto morte inferiore, incessante processo di disumanizzazione.  In qualche culla un bambino in fiamme reca dono divini; neppure nei nostri sogni potevamo prevederlo.  Come nei tempi passati si è svelata l’arcana forza del mondo materiale così sveleremo i poteri del mondo interiore, incorporeo.  Nelle mani del bambino la lampada della ragione non ha tirannia: serve a risvegliare le forze spirituali, le illumina, le mette all’opera.  Una volta, l’uomo era un grande conquistatore – in futuro, conquisterà se stesso – allineerà le stelle al suo destino.  * Montagna, paesaggio Il fiume fende la valle gli uccelli spettegolano.  Quiete verticale case-volto-di-Dio: levitano. Più in alto, il canto di Nemo il mulino sulla cima:  il ghiaccio si rompe, è brutale. Sandor Weöres L'articolo “Non ho più segreti da saccheggiare”. Vita & versi di Sandor Weöres proviene da Pangea.
December 9, 2025 / Pangea
Jane Kenyon o della mistica domestica
Per il suo funerale scelse il salmo 139 – “tenebra mi annulla/ la notte è luce su di me”. L’amico Liam Rector, postura plastica da poeta, declamò i versi di Let Evening Come e Otherwise. Il celebrante accordò, a cappella, le note di Amazing Grace.  Aveva già opzionato il suo loculo, Jane Kenyon. Quindici anni prima, insieme al marito Donald Hall, in una terra siglata da cespi di betulle e granitiche querce del New Hampshire. L’acquisto officiò il matrimonio della coppia con il luogo – l’amena cittadina di Wilmot. Nell’avita tenuta di ‘Don’ – ove Jane giunse, si congiunse alle donne che ne avevano albergato le stanze.  * Si erano sposati per affetto, dunque per difetto, nel 1972. Accademico, il fato, con seducente banalità, dirottò la Kenyon, studentessa, presso il seminario di scrittura creativa di Hall all’Università del Michigan. Non emerse per talento, non affiorò per avvenenza. In dote, gli recò, imberbe, i suoi versi acerbi. Lui era reduce dall’unione con la prima moglie, Kirby Thompson – corredata di due figli –, la Kenyon da una liaison imbozzolata nella gioventù.  Condivisero l’amore per la poesia, una carnalità consueta e i gatti. Scarsamente appassionati, si amarono per conforto. Fu un legame di miti vertigini.  Alle nozze intervennero i parenti stretti. Jane non riportò memorie scritte di quel giorno. Unico sigillo, a testimonianza, il regalo di sua nonna Dora – una copia rilegata in pelle bianca della Bibbia di Re Giacomo.   Consacrazione di un epilogo, per il ventiduesimo anniversario Hall le donò un anello di tormalina rosa serrato da nove minuti diamanti. Lei lo battezzò “Please, don’t die”. La leucemia stillava piena egemonia. Jane Kenyon aveva appena intessuto le sue poesie più fauste. Morì un anno dopo, il 22 aprile 1995. Aveva quarantasette anni.  * Coronata d’alloro al tempo stesso – fu Poeta laureato del New Hampshire – se ne andò insignita di lirica reputazione. Dunque, in pace. Mal tollerò l’opprimente veste di poeta moglie di un poeta e avrebbe disprezzato postumi riscatti femminei alla Sylvia Plath. Pure, credette di abdicare alla vita. Ma preferì morire da poeta, che da suicida.  > «La mia fede in Dio, soprattutto l’idea che un credente è parte del corpo di > Cristo, mi ha impedito di farmi del male. […] Quando ho sofferto talmente > tanto da desiderare di non essere viva o cosciente… mi sono detta: “Se ti > ferisci, ferisci il corpo di Cristo, e Cristo è già stato ferito abbastanza”». * Oppressa dalla depressione – bipolare al focolare – generò Having It Out with Melancholy, versi afflitti d’atrabile e farmacologica soggezione. In epigrafe s’appellava a Čechov, suo mentore insieme a Keats. Depressione e poesia – come patogeno endogeno.  A stringare il morbo nel verbo, le scarne righe di Suggestion from a Friend – “Non saresti così depresso/ se davvero credessi in Dio”.  Rigettò ogni visione romantico-terapeutica del rapporto fra malattia e scrittura. Piuttosto, se ne avvalse per scopo clinico, cinico – la poesia per aumentare la comprensione della patologia. Pare prossima, di spirito e d’intenti, a Margiad Evans – autrice che sguainò la poesia contro l’epilessia. Rifiutò, dunque, di recitare il melodramma – promosso da certe poetesse – della rosea invasata, dell’artista rosa dalla follia.  * Votato a una mistica domestica – mai addomesticato – il suo verso divora nella dimora. Visuale, aurale, a scorporare dal corpo, mistico sito, il rito del poetare – irrompe lo Spirito Santo. Errante presenza – di stanza in stanza.  Jane Kenyon è poesia-annunciazione, poesia-apparizione, poesia-redentiva. Gregory Orr velatamente l’annoverò fra i poeti post-confessionali – la poesia autobiografica come bianca arma di sopravvivenza e riconciliazione col mondo. Di trasformazione – l’uso della lingua a emendare l’esperienza. Era disposta a capitolare, per non ricapitolare – in versi – la vita.  *  Madrina dell’anti-canone delle Plath e delle Sexton, Jane Kenyon – fanatica della mistica – si consacrò a Teresa D’Avila, Giuliana di Norwich. Quindi a Emily Dickinson ed Elizabeth Bishop – dai meandri del New England le condusse fino ai setosi dedali della Cina, con una sequela di letterarie lectures, salmodiando sulla loro opera. Nel 1979, alla cerimonia commemorativa della Bishop, franò nella commozione – ne ammirava il verso scarno, preciso, il linguaggio pressato. Beneficiò spesso del paragone con la Dickinson – la ricerca di Dio, della solitudine nella natura, il mistero della bellezza, il diafano legame fra depressione e gioia.  Fu, anzitutto, devota ad Anna Achmatova. Tradusse la russa con altera premessa – giudicando insoddisfacenti le rare versioni in circolazione, decretò di confezionare la propria.  Il marito, Hall, ammantato di un radicalismo poetico virato allo snobismo più estremo – nel 2006 nominato Poeta laureato degli Stati Uniti –, fu d’opposto avviso. Pur avendo costeggiato e corteggiato svariati generi della parola, prestò somma fedeltà al suo originale suono – in mancanza, riteneva inafferrabili le connessioni interne alla poesia. D’indole diversamente tirannica, entrambi rigettarono la traduzione come pratica ordinaria, grigio esercizio, servizio.     Il poeta Hayden Carruth qualificò la Kenyon quale Achmatova americana. Arduo immaginare due esistenze più dissimili. Contemplativa e apolitica, la poesia della Kenyon si nutrì nondimeno dello slancio slavo – s’apparentarono gli spiriti.   Della Venere di Odessa venerò la lirica succinta, la supremazia, imperiale, dell’immagine a scapito del simbolo – le sei poesie inizialmente tradotte furono incluse nella sua prima raccolta, From Room to Room (1978); confluite poi in Twenty Poems of Anna Akhmatova (Ally Press, 1985). * Lirismo tangibile, quello di Jane Kenyon. Mirava a una verità d’opale, epifania privata compressa nell’attimo. Digiuna di orpelli, scrittura prossima alle Scritture, ellittica, irrisolta, come l’onnipresente rimando al mondo naturale.  Il poeta Robert Hass la paragonò, per temi pastorali e cupe meditazioni, a Robert Frost – che pure aveva conosciuto suo marito anni prima – ma con uno sguardo più interiore.  All’immaginario imagista si appellò invece per non scivolare nell’astrazione – la poesia di Ezra Pound come monito e monile.  * Il giornalista Bill Moyer, nel 1993, effigiò Jane Kenyon e Donald Hall in un documentario – A Life Together – vincitore di un Emmy Award. Proiezione routinaria di un matrimonio fra poeti dominato da una viscosa discepolanza, sfociata in rivalità lirica. “È dannatamente duro con la mia prosa. Sarcastico. Quando parliamo di poesia, so di trovarmi su un terreno più solido, ma con la prosa può ridurmi in poltiglia” – così Jane, a commento del consorte. Lo diceva dispotico e possessivo. Ad ogni modo, l’ultimo atto letterario di Hall – morì nel 2018 – fu la cura e selezione di The Best Poems of Jane Kenyon (Graywolf Press). Riteneva gemmata, la consorte, dalla sua costola poetica.  * Coltivava narcisi e peonie, Jane. Poesia e giardinaggio come suoi talenti privati – il connubio ricorda la schiva scrittrice italiana Pia Pera, che pure tradusse i russi, fra tutti Čechov e Puškin. Entrambe, arti intrise di morte e resurrezione. Lottò con la fede, la Kenyon – educata con metodo metodista. Aveva paura di Dio. Finché una domenica, nella nivea chiesa di Wilmot, il ministro Jack Jensen evocò Rainer Maria Rilke nel suo sermone. Col tempo, la sua vita religiosa invase la sua vita letteraria. In Robert Bly intuì la dimensione spirituale della poesia – a sublimare il sublime. Patrocinò una funzione sacerdotale del poeta.  * Per la sepoltura, Hall scelse di drappeggiare sul corpo di sua moglie una salwar kamiz bianca e un foulard sulla spalla sinistra provenienti dall’India – c’erano stati insieme due volte. Fra le dita, ossute e incrociate – ornamento d’eterno – la fede nuziale. Le baciò per l’ultima volta le labbra, fredde e rigide. Lapidario, scolpito nel nero marmo della lapide, l’epitaffio recita un verso di Jane.     > Credo nei miracoli dell’arte, ma quale  > prodigio ti terrà al sicuro al mio fianco? L’aveva composto per osteggiare la morte di Donald – svilito, all’epoca, da un cancro. All’ombra delle sue parole, oggi, riposano entrambi. Ogni poetica contesa è trascesa.  Fabrizia Sabbatini * Il pipistrello Leggevo del razionalismo,  il genere di cose che facciamo al nord  all’esordio d’inverno, dove il sole  abdica al giorno alle 4:15. Forse il mondo è intelligibile  al genio razionale; forse accendiamo lampade al crepuscolo  per nulla… Poi ho udito delle ali sopra la testa. I gatti ed io abbiamo inseguito il pipistrello  in tondo – soggiorno, cucina,  ripostiglio, cucina, soggiorno… A ogni giro ci sfuggiva come l’identità del terzo  della Trinità: colui  che ha parlato per mezzo dei profeti,  colui che ha sorpreso Maria  apparendo all’improvviso. Jane Kenyon *Per la prima volta in Italia, una antologia delle poesie di Jane Kenyon è edita dalle edizioni Magog, a cura di Fabrizia Sabbatini L'articolo Jane Kenyon o della mistica domestica proviene da Pangea.
December 5, 2025 / Pangea
“Un sentimento innominabile”: Jay Wright e la musa afroamericana
La poesia di Jay Wright è “enormemente vasta”, come Pasolini definì quella di Pound nella celebre intervista: nata come lirica di forte impronta religiosa, in essa si riscontra un’insistenza decisa sul tema della storia dagli albori, anche solo nei titoli stessi della raccolta d’esordio del 1967 Death as History, poi ripudiata, e della ben più cospicua Dimensions of History (apparsa nel 1976), tanto che Gerald Barrax scrisse nel 1983 che “se Wright avesse una musa classica sarebbe Clio”, come ben evidente in particolare nei suoi primi quattro libri di versi: l’opera del poeta, sempre per citare il Pasolini dell’intervista, si sviluppa come se “si estendesse in superficie occupando un territorio poetico immenso”, dall’Africa dei suoi antenati alle Americhe, affondando le radici nella millenaria tradizione filosofico-letteraria del mondo classico e nelle varie ramificazioni europee che ne derivarono, ove epoche diverse e mitologie disparate come egizia, azteca e Dogon (dall’Africa occidentale) – per citare quelle che più comunemente si incontrano – permeano il tessuto dei versi convergendo in una singolarissima architettura. Estremamente unitaria, la sua poesia andrebbe vista probabilmente come un’unica opera in versi: a suggerire questa continuità (peraltro confermata dallo stesso autore) basti ricordare che in Transfigurations, apparsa nel 2000, vennero ristampate le precedenti sette raccolte The Homecoming Singer (1971), Soothsayers and Omens (1974), Dimensions of History (1977), The Double Invention of Kǫmǫ (1980), Explications / Interpretations (pubblicata nel 1984 ma scritta prima del 1980), Elaine’s Book (1986), Boleros (1991) e la semi-eponima Transformations, inedita; la raccolta successiva, The Guide Signs (apparsa nel 2007), come Transfigurations venne stampata a Baton Rouge dalla Louisiana State University Press, e con quella condivide anche l’aspetto grafico della copertina (fatta in entrambi i casi da Amanda McDonald Scallan) e dei caratteri (Trump mediaeval), sottolineando ulteriormente la continuità tra le due opere (e quindi tra The Guide Signs e le precedenti otto). Anche nei volumi pubblicati dal 2007 in avanti, Music’s Mask and Measure (2007), Polynomials and Pollen (2008), The Presentable Art of Reading Absence (2008), Disorientations: Groundings (2013), The Prime Anniversary (2019), Thirteen Quintets for Lois and the ἔτι καὶ νῦν of Grace (2021) e Postage Stamps (2023), si riscontrano molti degli elementi che avevano caratterizzato le prime nove raccolte: a livello poetico si nota una continua frapposizione di una dimensione piú “lirica”, in cui le opere sono composte in prevalenza da poesie relativamente brevi, spesso di qualche dozzina di versi (non mancano ovviamente esempi di testi più succinti, come in Music’s Mask and Measure, composta quasi interamente da poesie tra cinque e dodici versi, e in altre raccolte in cui si trovano sonetti o componimenti in poche ottave o strofi spenseriane, come ad esempio in The Prime Anniversary), ad una dimensione più “poematica”, evidente ad esempio in The Presentable Art of Reading Absence, un unico poema, o in The Double Invention of Kǫmǫ e in The Guide Signs, di cui intere sezioni sono strutturate più come poemi o poemetti (o sistemi unitari di poemetti) che come raccolte di poesie. Fatta di accostamenti tra culture lontane a livello geografico e storico, questa poesia è diventata man mano più universale, più pregna di immagini caratterizzate da una callida iunctura: si osserva sempre la giustapposizione di mitologie distinte appartenenti a mondi diversi, che inizia già in  Soothsayers and Omens e trova forse il suo apice in alcuni titoli di Boleros, in cui Wright stabilisce una corrispondenza tra le muse greche e gli stadi dell’anima nella mitologia egizia; nelle raccolte da Transformations in avanti il poeta affianca alla cosmologia mitologica (prevalentemente Dogon) un cosmo più concreto, vicino a quello degli astronomi, menzionando ad esempio lune di Giove, frammenti di stelle e campi magnetici in Transformations; in tempi più recenti ancora nomina spessissimo gli elettroni, e userà un’espressione fortemente scientifica come “il reperto fossile di un’anima” in The Presentable Art of Reading Absence. Pur essendo in origine avulso dalla metrica tradizionale e legato a versi brevi, già in Dimensions of History Wright a tratti usa con insistenza il verso più comune nella poesia inglese, il pentametro giambico; la metrica canonica torna (filtrata da un uso molto novecentesco e “libero”) nelle sezioni conclusive di Boleros e poi in gran parte di Transformations, dove compaiono sonetti con strutture rimiche piuttosto inusuali (continuando la tradizione di Ozymandias o, in tempi piú recenti, di Parting di Yeats) che comporranno poi anche il primo movimento di Thirteen Quintets for Lois; inizialmente le rime sono non di rado in tmesi, con parole troncate a metà e continuate al verso successivo; vengono conservate in posizione più consueta nelle ultime raccolte, ove si osserva piuttosto uno spostamento degli accenti verso la fine delle parole per esigenze di rima. Nonostante un uso meno frequente, i versi liberi continuano a far parte della poesia di Wright anche nelle ultime raccolte, soprattutto nelle sue parti liriche. Emergono molto numerosi sintagmi in altre lingue, in prevalenza in spagnolo, presente in particolare nelle poesie di ambientazione latinoamericana (Wright cita spessissimo autori dell’intera tradizione poetica in lingua spagnola, dal vecchio e dal nuovo mondo), quindi anche in francese (antico e moderno), in italiano (si tratta soprattutto di citazioni dalla Commedia, ma compaiono anche altri autori), in latino (aureo e carolingio), in tedesco e in greco antico, lingua in cui si riscontra anche l’invenzione lessicale, come nel caso del neologismo “ἱερο-χθων” in Polynomials and Pollen (da ἱερός, “sacro” e χθών, “terra, suolo”, il secondo associato genericamente all’oltretomba e alle sue divinità oscure). Come si può dedurre, a fronte un apparato poetico così vasto le fonti sono molteplici: solo per citarne alcuni tra i moltissimi Wright stesso scrisse a proposito dei versi di The Double Invention of Kǫmǫ che i lettori avrebbero certamente riconosciuto “Goethe, Agostino (in quanto doppio cittadino), Dante, Duns Scoto e i rinascimenti [sic]” tra le molte voci; l’uso di un linguaggio patristico nelle poesie più religiose rimanda alla Bibbia (talvolta anche all’Apocalisse e in generale ai suoi libri più “immaginifici”), ai presocratici e ai poeti confessionali, tra cui compare spesso Donne; è preponderante la tradizione tedesca, soprattutto quella poetica; Wright nomina spesso esplicitamente filosofi, prevalentemente greci antichi come Plotino e Parmenide (in particolare in Disorientations). Tra i contemporanei ricopre un ruolo primario Eliot, e non mancano ovviamente grandi poeti afroamericani del Novecento come Tolson, a cui è spesso associato, mentreExplications / Interpretations è dedicata a Harold Bloom e a Robert Hayden, morto appena quattro anni prima della pubblicazione; The Double Invention of Kǫmǫ, infine, è dedicata al grande antropologo Marcel Griaule, che studiò a fondo i Dogon e la loro mitologia. Il suo linguaggio è spesso piano e al contempo molto elegante, semplice a livello linguistico e complicato a livello di stratificazione storico-filosofica, gremito di parole in lingue native americane e africane; sebbene il senso profondo dei suoi versi sia spesso oscuro, la loro limpidezza fa di Jay Wright uno dei più grandi poeti viventi. Francesco Kerbaker ** The Invention of a Garden I’m looking out of the window, from the second floor, into a half-eaten patio where the bugs dance deliriously and the flowers sniff at bits of life. I touch my burned-out throat, with an ache to thrust my fingers to the bone, run them through the wet underpinnings of my skin, in the thick blood, around the cragged vertebrae. I have dreamed of armored insects taking flight through my stomach wall, the fissured skin refusing to close, or bleed, but gaping like the gory lips of an oyster, stout and inviting, clefts of flesh rising like the taut membrane of a drum, threatening to explode and spill the pent-up desires I hide. Two or three birds invent a garden, he said and I have made a bath to warm the intrepid robins that glitter where the sun deserts the stones. They come, and splash, matter-of-factly, in the coral water, sand-driven and lonely as sandpipers at the crest of a wave. Could I believe in the loneliness of beaches, where sand crabs duck camouflaged in holes, and devitalized shrubs and shells come up to capture the shore? More, than in this garrisoned room, where this pencil scratches in the ruled-off lines, making the only sound that will contain the taut, unopened drum that beats the dance for bugs and garden-creating birds. L’invenzione di un giardino Guardo dalla finestra, al secondo piano, verso un logoro patio dove gli insetti danzano in delirio e i fiori annusano pezzi di vita. Tocco la mia gola bruciata, volendo infilare le dita fino all’osso, passarle negli strati bagnati sotto la mia pelle, nel sangue spesso, intorno alle vertebre ruvide. Ho sognato insetti corazzati involarsi squarciando il mio stomaco: la pelle fessa rifiutava di chiudersi o sanguinare, aperta come le labbra cruente di un’ostrica, forti e invitanti, fessure di carne pulsanti come la pelle tesa di un tamburo, minacciando di scoppiare e sversare i desideri repressi che celo. Due o tre uccelli inventano un giardino, disse, e ho costruito una vasca per scaldare i pettirossi intrepidi che luccicano dove il sole lascia le pietre. Vengono e spruzzano, in modo pratico, nell’acqua corale, guidati dalla sabbia e soli come piovanelli alla cresta di un’onda. Potrei credere alla solitudine delle spiagge, ove granchietti si camuffano in buche e arbusti e conchiglie smorti vengono a catturare la riva? Più che in questa stanza presidiata, dove questa matita solca linee cancellate, facendo l’unico rumore che conterrà il tamburo teso, chiuso, che detta la danza per insetti e uccelli crea-giardino. (Da The Homecoming Singer) * Inside Chapultepec Castle Wherever you turn, the sensual halls caress you. Rose blood heroes snarl and careen from the walls. Jades and silver medals enchant your eye. Fading amber tapestries and gold furniture lie jealously next to them. To get here, you are pulled from below, a baptized sinner emerging from the water, still trembling. If you listen, you can hear something picking at this temple’s heart. If you are still, you can see a girl, as pure as a goddess who would embrace the chosen, lie down to caress it. Nel castello di Chapultepec Dovunque ti giri, le sale sensuali ti accarezzano. Eroi dal sangue di rosa ringhiano carenando dai muri. Giade e medaglie argentee incantano i tuoi occhi. Arazzi ambrati sbiaditi e mobili dorati stanno, gelosi, accanto a loro. Per arrivare qui, sei tratto da sotto, peccatore battezzato che emerge dall’acqua, ancora tremante. Se ascolti, puoi sentire qualcosa che becca il cuore del tempio. Se resti fermo, vedi una ragazza, pura come una dea che abbraccerebbe i prescelti, sdraiarsi e accarezzarlo. Da (Soothsayers and Omens) * Teponaztli Fat singer in three keys, a continent rolls at your feet. Gourd gong of the dervishes, praise your end. Your tongue slit double, the mallets stamp your body, a calked Calliope, sheer deep in pitch and darkness. Bone clock of the spirits, praise your purposes. Inside, the body, cut rib upon rib, howls at the debt the drummer owes. When the lion climbs into the skin of a llama, debtors to ourselves, we pitch the sound of serpent’s feet, mare’s claws, an eagle’s brimstone, and the body screams agains the stamp of a goddess                                          white as pain. Teponaztli Cantante grasso in tre chiavi, un continente rotola ai tuoi piedi. Gong duro dei dervisci, elogia la tua fine. Tagliata in due la lingua, i magli pestano il tuo corpo, Calliope sigillata, invischiata in pece e buio. Orologio d’osso degli spiriti, elogia i tuoi scopi. Dentro, il corpo, tagliato costola su costola, urla al debito del tamburiere. Quando il leone entra nella pelle di un lama, debitori a noi stessi, moduliamo passi di serpente, unghia di cavalla, zolfo d’aquila, e il corpo grida contro il colpo di una dea,                                    bianco come il dolore. Il Teponaztli è un tamburo azteco, suonato con bacchette che battevano su due lingue di diverse dimensioni incise sulla superficie. (Da Dimensions of History) * [Bolero] 7 Tough old Glasgow tucks itself under a leg of the Firth of Clyde. No Scotia sniveling in that, just pennywise prudence, a way of ladling the elation of coming home. Logicians on the eastern shore count it no surprise that queenly old Edinburgh lies on the Firth of Forth, near to the heart of Midlothian. So, on a doon and windless morning, we whip east and touch down near the greenest pasture in Scotland. As we step from the plane, the neighboring sheep show us their haggis eyes          for the flinty spark of a moment. Suddenly, I amna deid dune sae muckle as fou, suspecting that, here, one can thow the cockles o’ yin’s heart, no small change from a sixpenny planet, and have the thieveless crony within you                             as suddenly awaken. We found this bel canto morning in a Jarocho garden, on an afternoon when spring had departed and left only its scunning heat. I say this now, though I know that my heart’s weather had turned on a winter night, when I heard the deer stamping in the water under the raised barn and felt the star heat fade and the first, clear cut of loneliness, the concert pitch of death’s tuning. Marry or burn, one cannot run away or into, for there is nothing so sedentary as the desire to be comforted, by love, or by some feeling one cannot name. On Hidalgo, in Guadalajara, the blue flowers, in their persistence on the neighbors’ white wall, comforted us, and so the lace of a plaza in sun, tacos at dawn from a cart in Gigantes, the mudéjar ache of the divided cathedral, the rose pinion of paseos,                                  held us till summer. Those were the garden’s traces, leading to the rose of Midlothian, the stone house walled in and set in view of the castle. Down the road, the old poet, who did hard times for Lallans, nests with his chickens and neat Laphroaig. I count him the most civil of servants, whose gift is the mist of tongues, rising from the doom gray of council houses and snuffed coal mines. I love the sound of sporran and kilt in his voice, his refusal to give in to King Street’s dove gray manner. It is some distance to have traveled to learn to resist being comforted too soon. Perhaps some moor-stiff night, we will put on our fog-heavy tweeds and make our way to old Glasgow, curled in its water bed,                       confident,                       cocky,                       still uncomforted. [Bolero] 7 Glasgow, tosta, si insinua sotto un ramo del Firth of Clyde. Nessuna Scotia si lagna in questo, solo prudenza oculata, un modo di elargire la gioia di tornare a casa. I logici sulla costa est non sono sorpresi che Edimburgo, regale, sia sul Firth of Forth vicino al cuore del Midlothian. Quindi, una mattina scura e senza vento, andiamo a est e arriviamo presso il pascolo più verde di Scozia. Come lasciamo il piano le pecore vicine ci mostrano i loro occhi-haggis          per un attimo illuminante. A un tratto, I amna deid dune sae muckle as fou: sospetto che qui si possa thow the cockles o’ yin’s heart, ben diverso da un pianeta da nulla, e avere con te un amico fiacco                             come svegliato a un tratto. Trovammo questo mattino-bel-canto in un giardino jarocho, un pomeriggio quando la primavera era partita lasciando solo il suo caldo aleggiante. Lo dico ora, anche se so che cambiò il tempo nel mio cuore una notte d’inverno, quando sentii il cervo scalciare in acqua alla stalla rialzata e il calore stellare svanire e il primo, chiaro taglio della solitudine, il diapason della morte. Sposati o brucia, non si può scappare da o verso: nulla è più sedentario di voler esser confortati, dall’amore o da un sentimento non nominabile. Su Hidalgo, a Guadalajara, i fiori blu, nella loro persistenza sul muro bianco dei vicini, ci confortarono, come il pizzo di una plaza al sole, tacos all’alba da un carretto a Gigantes, il dolore mudéjar della cattedrale divisa, il pignone di rosa dei paseos,                                  ci tennero fino all’estate. Queste erano le tracce del giardino che portavano alla rosa del Midlothian, la casa di pietra murata e messa davanti al castello. Più avanti, il vecchio poeta, che ha sofferto per Lallans, si annida coi suoi polli e il Laphroaig liscio. È per me il più grande servo pubblico, il cui dono è foschia di lingue, emerso dal grigio infausto delle case popolari e miniere di carbone estinte. Amo il suono di sporran e kilt nella sua voce, la sua resistenza ai modi grigio-tortora di King Street. È un lungo viaggio per aver imparato a resistere al conforto troppo presto. Forse, una notte rigida-brughiera, metteremo i tweeds pregni di nebbia e andremo verso la vecchia Glasgow, arricciata nell’acqua,                       sicura,                       tronfia,                       ancora inconfortata. «I amna deid dune sae muckle as fou» e «thow the cockles o’ yin’s heart» sono variazioni dei primi versi del poema in lingua scozzese A drunk man looks at the thistle di Hugh MacDiarmid, qui traducibili come «non sono stanco morto, piuttosto sono ubriaco» e «scaldare la parte piú intima del cuore». (Da Boleros) * She sat, holding a match to an earwig She sat, holding a match to an earwig, all compassion and contemplation abruptly at hand. Those who had known her father gathered themselves in the doorway and marveled at her instrumental ingenuity. A vestry madness burdened the convocation. Who would think that love could speak so solemnly without provocation? Could she arrange her spices and unguents, and propel them into service before the banns, when, haloed and trumpeted, washed and cinched by a purple headscarf, she would begin her memories? Singing now:                         ¿Por que no viene, padre,                         por que no viene un día,                         que yo casarme quiero                         con el conde de Almería? And yet I caught him by my will and ineffable longing, and hold him secretly… My body is various, infinite, and singular, turbulent notions proposed by an exile. I take this rhythm perdidamente to the crossroads, where all who would wound me bring me their bands of cotton, eggs, and ashes. I will speak with my father                                                about transcendence, and offer him those moments which have no                                            authority or being. Sedeva, un fiammifero a una forbicina Sedeva, un fiammifero a una forbicina, ogni compassione e contemplazione a un tratto sotto mano. Chi aveva conosciuto suo padre si raccolse alla porta, ammirati dalla sua ingegnosità strumentale. Pesò follia segreta sull’adunanza. Chi direbbe che l’amore può parlare così solennemente non provocato? Potrebbe sistemare spezie e unguenti, mandarli al servizio prima dell’annuncio di nozze, l’aura attorno, tra trombe, lavata e stretta in un foulard viola, iniziando i suoi ricordi? Ora cantando:                         ¿Por que no viene, padre,                         por que no viene un día,                         que yo casarme quiero                         con el conde de Almería? Eppure lo presi con la mia voglia e brama ineffabile  e lo tengo in segreto… Il mio corpo è vario, infinito e singolo, nozioni turbolente proposte da un esule. Porto questo ritmo perdidamente al crocevia, dove chi mi ferirebbe porta cotone in fasci, uova e ceneri. Parlerò con mio padre                                      della trascendenza, gli offrirò quei momenti che non hanno                                     autorità o stato. (Da Disorientations: Groundings) Traduzione di Francesco Kerbaker Jay Wright è nato nel 1934 nel New Mexico e ha vissuto in diversi paesi tra l’Europa e le Americhe. Nel corso della sua lunga carriera si è distinto anche come drammaturgo e saggista. È MacArthur Fellow dal 1986. *In copertina: Joaquín Sorolla, “Bambino al mare”, 1905 L'articolo “Un sentimento innominabile”: Jay Wright e la musa afroamericana proviene da Pangea.
December 5, 2025 / Pangea
“Nelle fauci del Lupo”. Sulla dimensione animalesca della poesia
In poesia accade come in pittura. Potremmo dire: il privilegio del volto, il principio del ritratto – o dell’autoritratto –, bracconiera priorità dell’io.  L’arte europea eccelle nell’investigare l’uomo. Negli sguardi smaliziati di Antonello, nei corpi-molosso di Michelangelo, nei volti regali e atterriti di Tiziano intuiamo il ribollio dell’anima, i labirinti dell’interiore. La resa dei volti, pur perfetta, non è mai realistica – o encomiastica – ma arresa. Il corpo è ritratto, in realtà, per ritrarre l’interiorità: il corpo ritratto è un corpo rivelato, identifica un’indole – che sia: ferina e ambiziosa o umile e benevola, sottomessa al fato o fatale.  Il ritratto reca un meccanismo opposto a quello dello specchio, oggetto demoniaco perché riduce il corpo alla sua superficie corruttibile – alla sua disonestà. Il ritratto ambisce ad essere la riproduzione di un corpo già risorto, eletto ai cieli.    La ragione del predominio dell’umano nell’arte europea è ovvia: da un lato l’armonia greca – l’universo è proporzionato alla sproporzione del corpo umano; il tutto è commisurato all’uomo – dall’altro lo schianto del Dio-fatto-a-somiglianza-d’uomo (ribaltamento della prospettiva ebraica espressa in Genesi). Tutto è lì, in quel Dio-corpo appeso alla Croce. Le innumerevoli raffigurazioni del trafitto, dell’innocente ucciso, hanno per scopo lo spiraglio, la stimmate di luce, uno stillare d’altro mondo. Non si ritrae il Cristo: gli si fa, devotamente, lo scalpo – che mi attraversi, mentre lo dipingo, che mi folgori mentre prego Lui attraverso la Sua raffigurazione.  Dalla pittura europea l’animale è bandito.  Certo, l’animale c’è. Di solito, a decorazione – la stessa funzione che ha il paesaggio. I cani – cagnetti o levrieri che siano – fanno parte dell’oggettistica di un principe, ne costituiscono il paesaggio domestico: come la sua pelliccia, l’anello, il bastone – indicano uno status.  Altrimenti, l’animale assurge a simbolo. Il pavone, lo scorpione, il pellicano, il serpente – per non dire gli emblemi cristici o evangelici, dal leone al toro – non sono raffigurati per ciò che sono ma per ciò che rappresentano in uno zodiaco dei sensi, in un bestiario umano, troppo umano. È una dinamica tipica, di cui abbiamo dimestichezza leggendo Dante, ad esempio, quando appaiono, quasi bave d’oltremondo, la lonza e la pantera, l’aquila e il veltro. I bestiari, in effetti, non sono un repertorio zoologico di bestie: l’animale, spesso ferino, spesso immaginario, s’insinua in un senso, in un sentire, umani, come la pietra incastonata nella chioma di ferro di un anello.  Esempi sparsi – chessò, la lepre e il rinoceronte di Dürer – afferiscono a un’area del singolare che riguarda la sapienza zoologica, il primo vagire della ‘scienza’ – ma l’animale, come l’animale uomo, non è semplicemente la sua pur perfetta raffigurazione fisica. Le scene di caccia del Settecento, i leoni di Delacroix o le vacche di Segantini – pur nella diversità di intenti e di talenti – non deviano dalle schema: la bestia è co-protagonista, è lì a illuminare certi aspetti della vita umana. La bestia esiste perché c’è un uomo che la agisce. Anche i pittori statunitensi, storditi dalla vastità dello sconosciuto continente in cui sono atterrati, restano alieni all’animale: i loro quadri – pompier più che pionieristici – raffigurano, alla meglio, vaste vallate, monti abissali, un verdeggiare infinito (quando non inquietante); l’uomo, in scala, ridotto, è pur sempre lì, frastornato Adamo pronto a modellare il mondo secondo il suo spirito.  Allo stesso modo, l’aquila di Hölderlin, il passero solitario di Leopardi, il nightingale di Keats, l’albatros di Baudelaire e l’upupa di Montale sono funzioni – geniali – dello stato d’animo del poeta: sono simboli. La pratica è antichissima: già Efrem il Siro, nel IV secolo, in uno dei suoni inni, celebra la familiarità tra uomo e bestia (“noi siamo loro”), pur nella differenza: “attraverso gli animali/ l’uomo scoprì se stesso”. Gli animali in elenco rappresentano, appunto, dei ‘caratteri’ umani: il lupo è vorace, la iena assassina, la serpe infida, lo scorpione traditore, il cane fedele; la volpe è figura di Erode, il sovrano ingordo e codardo che “profana la tana altrui” e “per vanità” uccide il Battista. L’animale, in sé – troppo attonito al terreno –, è niente. La ‘continuità’ con l’uomo ne annienta l’irriducibile alterità, l’irriducibile nobiltà.  Altre culture, al contrario – quella estremo orientale, quella dei nativi americani o degli sciamani dell’area uralica e siberiana, ad esempio – fanno dell’animale il centro della loro attività rituale e artistica. La tigre e l’airone, la gru e il granchio, il pesce e la scimmia riempiono le opere dei pittori giapponesi e cinesi: il loro intento non è realistico né simbolico; semmai anagogico. Come il pittore occidentale tenta, attraverso il ritratto, di avverare l’anima di colui che ritrae, così il pittore orientale vuole conquistare la ‘forza’, l’energia della bestia che dipinge. Il corvo e il coyote, la volpe e l’orso, nelle culture sciamane, non sono bestie simboliche, bensì autentiche; sono figure regali che aiutano il sapiente nell’operazione di guarigione, nell’operare il viaggio negli altri mondi. Tranne rari casi, la poesia italiana è embricare l’ombelico: sprofondare in sé, specchiarsi nel mondo; ambire – o aderire – alla belva in quanto araldica lirica. Naturalmente, le eccezioni sono diverse, diversamente singolari – dal Bove di Pascoli agli aironi di Alessandro Ceni e di Antonio Porta, dalla Capra di Saba (nel cui “viso semita”, però, scorgiamo lo scalpitio dell’emblema, di una fraternità che va al di là dell’animale, di cui l’animale non è parte) ai bestiari di Bellintani – io preferisco Il cervo di D’Annunzio, che rimane il solo poeta ‘panico’ della nostra tradizione:  Non odi cupi bràmiti interrotti di là del Serchio? Il cervo d’unghia nera si sépara dal branco delle femmine e si rinselva. Dormirà fra breve nel letto verde, entro la macchia folta, soffiando dalle crespe froge il fiato violento che di mentastro odora. Le vestigia ch’ei lascia hanno la forma, sai tu?, del cor purpureo balzante. Ei di tal forma stampa il terren grasso; e la stampata zolla, ch’ei solleva con ciascun piede, lascia poi cadere. Ben questa chiama “gran sigillo” il cauto cacciatore che lèggevi per entro i segni; e mai giudizio non gli falla, oh beato che capo di gran sangue persegue al tramontare delle stelle, e l’uccide in sul nascere del sole, e vede palpitare il vasto corpo azzannato dai cani e gli alti palchi della fronte agitar l’estrema lite! Ma invano invano udiamo i cupi bràmiti noi tra le canne fluviali assisi. Tu non ti scaglierai nel Serchio a nuoto per seguitar la pesta, o Derbe; e il freddo fiume non solcherà suplice solco del tuo braccio e del tuo predace riso, fieri guizzando i muscoli nel gelo. Inermi siamo e sazii di bellezza, chini a spiare il cuor nostro ove rugge, più lontano che il bràmito del cervo, l’antico desiderio delle prede. Or lascia quello il branco e si rinselva. Forse è d’insigni lombi, e assai ramoso. Ei più non vessa col nascente corno le scorze. Già la sua corona è dura; e il suo collo s’infosca e mette barba, e fra breve sarà gonfio dal molto bramire. Udremo a notte le sue lunghe muglia, udremo la voce sua di toro; sorgere il grido della sua lussuria udremo nei silenzii della Luna. È vero: nel mondo anglofono – complici, soprattutto, le novelle mitologie dei preromantici, Blake su tutti, le vertigini di Gerard Manley Hopkins, la forza concettuale di Yeats – la bestia ritrova il suo estro-cuspide, il posto che le spetta. Eppure, anche qui – il libro germinale è La Dea Bianca di Robert Graves – si tratta, per lo più, di un regesto di simboli, di dissotterrare antiche, druidiche immagini – malinconia di un tempo trascorso. Il solo poeta che sistematicamente abbia messo al centro l’animale nel suo discorrere lirico è Ted Hughes; fin da subito, fin dal primo libro, The Hawk in the Rain, fin da quelle prime poesie-fossili, giunte da un mondo ulteriore, The Jaguar, The Thought-Fox, The Horses. Non è un caso se una delle antologie postume più belle di Hughes – a cura di Alice Oswald – s’intitoli Bestiary. Il bestiario, però, contempla l’inganno: il termine rimanda, ancora, all’animale-effigie, alla bestia come gioiello nell’immaginario umano – alla bestia spoglia di sé, mero alambicco d’intelletto.  Il punto più profondo del legame tra Ted Hughes e l’animale, tra il poeta e l’anima animalesca accade in libro considerato secondario nell’opera di quel grande poeta. Under the North Star viene pubblicato da Faber nel 1981 in edizione di pregio, con gli acquerelli di Leonard Baskin, già compagno di imprese poetico-pittoriche di Hughes. Il libro dà voce a diversi animali: il gufo delle nevi e l’orso, la lince e l’airone, la volpe artica, l’aquila e il puma. Dedicato To Lucretia, la figlia di Baskin, il libro ha il ritmo di una filastrocca: in realtà, Hughes – lo consegna alla prima, straniante, poesia, Amulet – impone un rito. Il poeta indossa la stola lirica – dunque: gli attributi sciamanici –, industria la danza e diventa civetta e airone, grizzly e puma, lince e luccio e bue. Guarda con i loro occhi, tenta di registrare il loro linguaggio; non è fratello né artefice della bestia, ma scriba. Poesia, qui, allora, è verbo di neve: bianco testimone di tracce, aneliti, sangue. Non conta tanto – non conta più – che la poesia sia bella (categoria astratta, che pertiene al mondo, per lo più ingannevole, del letterario, dunque dell’illetterato quanto a mondo), ma autentica; l’autorialità del poeta, qui, è nel suo sacrificio: l’io, ora, vola, galoppa, fluttua e sgrana arti e artigli.  Che siano poesie ‘per bambini’, queste – così dicono gli adulti, decrepiti nella loro origine – rientra nella pratica dell’autore. Va addestrato alla bestia, il bimbo, che sappia – piccolo Mowgli espropriato del primigenio bosco – i suoni e le voci animali, che riconosca il punto di parentela e quello dell’intoccabile. A tale distanza occorre ascendere – il resto, non ormeggia più, è gioco di ombreggiatura; e, certo, la poesia è piena di straordinari caratteristi, i caricaturisti della realtà.  *** Da Under the North Star Amuleto  Nelle fauci del Lupo, una montagna di erica. Nella montagna di erica, la pelle del Lupo. Nella pelle del Lupo, la frantumata foresta. Nella frantumata foresta, la zampa del Lupo. Nella zampa del Lupo, l’orizzonte pietrificato. Nell’orizzonte pietrificato, la lingua del Lupo. Nella lingua del Lupo, le lacrime della Cerva.  Nelle lacrime della Cerva, la palude di ghiaccio. Nella palude di ghiaccio, il sangue del Lupo. Nel sangue del Lupo, vento di neve. Nel vento di neve, l’occhio del Lupo. Nell’occhio del Lupo, la Stella Polare.  Nella Stella Polare, le fauci del Lupo.  * Civetta delle nevi  Occhio Giallo, Occhio Giallo giallo perché è gialla la Luna.  Esce dal Buco Nero del Nord un’Era Glaciale in volo! La Luna vola bassa –  la Luna incombe, caccia la sua Lepre –  La Luna cala, grossa di brina affamata come la fine del mondo.  Il Polo Nord ha la gola roca ruggisce e ne trema il globo –  Gli occhi del pianeta serrati di paura eppure le stelle tremano di gioia.  Guarda! Lepre ha il suo splendido monumento! Si impenna una bufera Ciclope su zampe di ferro nero! Gioiamo insieme alla Lepre! Civetta delle nevi, Civetta delle nevi sei immobile e fissi l’immobile globo.  La Luna vola alto.  La bianca montagna è in volo.  Lepre diventa un angelo! * Airone  Sole è un iceberg nel cielo. In un’alcova di gelo giacciono i pesci. Il fiume è condannato Morte si muove su di lui. Ma l’Airone in posa di caccia è diventato di ferro e non può muoversi.  * Volpe artica Nessuna traccia. Neve.  Orecchio – resto stellare.  Cristalli di silenzio.  Il mondo ti fissa, attonito.  Fauci fradice di ghiaccio perforano la brina: qualcosa di impalpabile –  nevischio di piume.  La foresta sussurra.  Respiro furetto vuoto come il chiarore lunare ha un’ombra blu.  Il sogno smuove il muso addormentato della terra folgorata dalla neve.  Quando verrà il giorno sarà impossibile per il sole rintracciare ciò che la notte  ha registrato di nascosto.   * Lince Le zampe silenti della foresta, delle nuvole, delle montagne hanno il loro meritato riposo sotto l’orecchio di Lince.  Dormono del suo sonno – come  in un profondo – profondo – lago. Non disturbare la belva o le nuvole apriranno gli occhi, la foresta, in silenzio, sposterà tutti i boschi e le montagne, arse di nebbia, svaniranno tra le loro pietre. * Puma  Dio mise il Puma sulla Montagna: sarai l’organista  degli echi cattedrale.  Delle sue urla risuona la cava rupe la soglia e l’abisso.  La sua musica sorprende per vastità. Sul pinnacolo del suo gridare solleva la gelida vetta e ascende, alla ricerca del Creatore. Sacerdotessa delle caverne dall’occhio folle –  per tutta la notte cerca di assalire il cielo: il suo canto è come un missile e la Luna gli gela il muso.  Il giorno dopo, esausta dorme al sole.  A volte – spezzata da un silenzio che fiammeggia –  indossa un gioiello.   Ted Hughes *In copertina: Leonard Baskin, Frightened Boy and His Dog, 1955; nel testo, disegni di Leonard Baskin L'articolo “Nelle fauci del Lupo”. Sulla dimensione animalesca della poesia proviene da Pangea.
December 4, 2025 / Pangea