
“Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge”. Nella magia di Ingmar Bergman
Pangea - Wednesday, April 30, 2025Cento soldatini potevano certo bastare per un sogno. Cento soldatini di stagno a suo fratello Dag in cambio del proiettore ricevuto a Natale. Un baratto che vale l’essenza di una vita intera.
Dal guardaroba della camera, un giovanissimo, magrolino e inesperto Ingmar Bergman sistema il proiettore su una scatola di zucchero e accende la lampada a petrolio. Orienta la luce verso la parete dipinta di bianco e inserisce la pellicola di un film romantico.
Un aneddoto, insieme alla torcia che illuminava il buio della punizione nello sgabuzzino e la paura del mostro che mangia le dita dei piedini, tatuato nella memoria che Ingmar Bergman registra per sempre, in quello straordinario romanzo autobiografico, concluso a fine settembre 1986, dall’evocativo titolo Lanterna magica (Garzanti, traduzione di Fulvio Ferrari). Un guazzabuglio di incontri e scontri, gozzoviglie, solitudini, sceneggiature e opere per il teatro e la tivù e pellicole, manoscritti tragicamente perduti come la fiaba della stanca torre Eiffel (Joakim Naken), passioni travolgenti e sensuali, drammi e immani sensi di colpa, disastri economici e rovesci familiari, rinascite e ricadute. “Fantasmi, demoni e altri esseri senza nome e senza dimora” sembra che lo abbiano cinto d’assedio sin dalla più tenera età.
Secondo figlio di un pastore protestante della corte reale, Bergman esordisce come regista teatrale e proprio il teatro, prima che il cinema, ha caratterizzato la sua esistenza, come si legge in questo romanzo fiume. Al cinema dedica luminose pagine:
“un’illusione progettata fin nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà che quanto più vivo tanto più mi appare illusoria”.
Il più grande maestro, secondo il grande Bergman, è Tarkovskij che non spiega mai, ma rappresenta le sue visioni, poi Fellini, Kurosawa e Buñuel e quel mago di Méliès. Le sue parole calano nitide e sognanti sulla pagina:
“Film come sogno, film come musica. Nessun’altra arte come il cinema va direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna”.
Il cinema è rivelazione:
“Le ombre, mute o parlanti, si rivolgono direttamente alle regioni più segrete del mio animo. Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante, scintillante, il fruscìo della croce di Malta, la mano sulla manovella”.
Il cinema è come l’amore, in tutti i sensi.
“Girare un film è un’operazione intensamente erotica. La vicinanza con gli attori non conosce riserve, ognuno si affida totalmente all’altro. L’intimità, l’affetto, la dipendenza, la tenerezza, la fiducia, la disinvoltura davanti al magico occhio della macchina da presa danno un caldo e forse illusorio senso di sicurezza”.
In questa autobiografia, Bergman parla senza riserve e senza censure della fisicità, che spesso lo metteva a dura prova e lo divorava, quanto dei malesseri interiori che lo costringevano a un doloroso conflitto interiore. Sensibilissimo al fascino femminile, ogni storia d’amore che iniziava sembra il canovaccio di una nuova opera da trasporre sul palcoscenico.
“L’innamoramento, che ebbe modo e tempo di svilupparsi liberamente, aprì stanza chiuse, muri crollarono, io respirai. Il tradimento nei confronti di Ellen e dei bambini era avvolto nella nebbia, sempre presente ma stranamente stimolante. Per alcuni mesi visse e respirò un’audace messinscena, incorruttibile, autentica e quindi indispensabile. Si dimostrò spaventosamente cara quando arrivò il conto”.
Conti e debiti, difficoltà economiche e rovesci di fortuna che non sono mancati lungo il corso di una vita. Ad un certo punto, il regista comprò persino il primo cappello della sua vita per dare l’impressione di una solidità che proprio non possedeva.

Le descrizioni dei teatri sono deliziosamente struggenti e nostalgiche:
“A teatro c’erano le pulci. La vecchia compagnia era probabilmente immune, la nuova arrivò con sangue giovane e venimmo crudelmente morsicati. Il tubo di scarico del ristorante passava per i camerini degli uomini e gocciolava continuamente urina sul calorifero vicino alla parete”.
Una situazione drammatica che Bergman non esita a definire “il paradiso fatto realtà”. Il maestro a teatro continuamente citato e preso come modello: Strindberg. La famiglia d’origine, l’infanzia in canonica, un pensiero ricorrente e intrecciato alle pagine della maturità. Una vita, quella dei genitori, vissuta come “su un vassoio”, sempre davanti al pubblico.
“Papà era un predicatore popolare, la chiesa era sempre piena quando parlava lui. Era un premuroso pastore d’anime e possedeva un talento inestimabile: la sua capacità di ricordare le persone era illimitata. Durante tutti quegli anni aveva battezzato, confermato, unito in matrimonio e sepolto molti dei suoi quarantamila parrocchiani. Di tutti ricordava il volto, il nome e le condizioni”.
Del fratello, invece, mette a fuoco l’odio verso il padre e il tentativo di suicidio, un’antipatia reciproca e fraterna che lasciò il posto al vuoto, anche dopo tantissimi anni, quando Dag andò a trovarlo nell’isola rifugio di Fårö con la moglie greca. I genitori, per il fratello, continuavano ad essere
“mitici, capricciosi, imprevedibili, giganteschi. Cercammo di ripercorrere con la mente sentieri abbandonati e ci guardammo stupiti l’un l’altro: due vecchi signori, usciti dallo stesso grembo, separati da una distanza incolmabile”.
Sulla sorella più piccola si accende una timida tenerezza sullo sfondo della pagina.
“I miei ricordi d’infanzia riguardo a Margareta sono pallidi e sfuggenti. Costruimmo un teatro delle marionette, lei cucì i costumi e io dipinsi le scene. La mamma era una spettatrice paziente e interessata, e ci regalò anche un sipario di velluto dai bei ricami”.
Nonostante avventurose e innumerevoli esperienze, quel gettarsi “a capofitto nell’abisso della vita”, lo sguardo del regista svedese ritorna, anche alla fine del suo memoir, all’album delle foto di famiglia, al piccolo cerotto sull’indice, al disegno di una coperta, al profumo d’aringa fritta, al volto di sua madre, che appare e scompare, nella brulicante folla elegante delle foto.
Riprende tra le mani il diario segreto della madre, le pagine che inquadrano il momento della sua nascita, la sua venuta al mondo, correva il luglio 1918.
“Nostro figlio è nato domenica mattina, quattordici luglio. (…) Sembra un piccolo scheletro con un nasone rosso fuoco. Rifiuta con ostinazione di aprire gli occhi. Dopo qualche giorno mi è venuto a mancare il latte per via della malattia. Allora è stato battezzato in tutta fretta in ospedale. Si chiama Ernst Ingmar”.
Questa ostinazione a non aprire gli occhi sembra intrecciata al sogno di rimanere a vivere nelle segrete stanza dell’infanzia perduta, tra i morti che sono “costretti a tormentare i vivi”.
“In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà”.
In breve, anche nella sua Lanterna magica, Bergman riesce a mettersi a nudo: “illusionista e reo confesso di questa illusione – secondo la netta definizione di Olivier Assayas e Stig Björkman in Conversazione con Ingmar Bergman(Lindau) – vulnerabile e inaccessibile, umano e insondabile”.
L’invito da cogliere è, quindi, quello di ascoltare la voce incoerente e illogica delle emozioni:
“Ma voi vi renderete certamente conto che quando si è artisti, quando si creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Dal punto di vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è proibito non esserlo. Ma se si ha fiducia nelle proprie emozioni, allora si può essere del tutto incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze delle emozioni che hai suscitato. Per sempre”.
Linda Terziroli
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