Poco importa che si riferisse alle bianche montagne che spiccano alle spalle
della cittadina: quel nome, attribuito con razionalità da irragionevoli, ha un
sapore di Egitto, di gesti che adombrano, con severità, la rivoluzione degli
astri, di un mistero ispido, felino, del sangue che nutre l’oltre, un aldilà di
angeli sciacalli, lo sciacallaggio dell’io, e quell’arrischiata geometria –
Pyramiden-Piramida-piramide – che incombe, come se si potesse armonizzare il
pasto, favoleggiare su una dottrina dell’assalto, approvvigionare il cuore di
memorie passeriformi.
E poi, sì, il ghiacciaio – il Nordenskjøldbree – che pare una Sfinge, gonfio di
leonini, femminei enigmi; il fiordo che fende una liceale idea di fede; l’idea
che lassù, alle Svalbard, esista il Messia paria, l’impari, in forma orsina,
l’irsuto, nonostante l’impero dei Soviet che manda a pascolare i sudditi negli
inaccessibili luoghi. Uomini che, per incuria e per purezza del luogo, divengono
torce, uomini-fuoco. Già. La Terza Roma, Mosca, che fa proseliti al Polo;
Cirillo trapiantato in una baia. Pyramiden come Gerusalemme, allora: forse è lì,
nella fantomatica città – dismessa dagli anni Novanta, oggi meta degli
estremismi del turismo –, che avverrà il Giorno.
Lascia una stimmate nel cuore la vista di Pyramiden, se non altro per quella
sproporzione di un Eden all’estremo Nord. E poi: la sovranità dell’uomo che
vuole costruire città in luoghi a lui sigillati. In scala, Pyramiden mi ricorda
l’utopia di Cosimo I de’ Medici, Granduca di Toscana: ribattezzò “Città del
Sole” – già nei ventricoli del nome, l’idra dell’utopia, una solarità nera, la
nigredo di Adamo – un borgo costruito sul Sasso Simone, impervia rocca nei
pressi di Carpegna, poco lontano da Urbino. Della città – col mastio, la chiesa,
il tribunale e le botteghe –, ideata tra astrazioni, nel laboratorio fiorentino
del Granduca, restano tracce di vie, rudi cisterne: sfiorì in un secolo,
falciata da cupi inverni, dalle intemerate dei lupi, dal dilagare di delittuose
malattie; nel XVII secolo era già spirata. Dicono di un ebrietà di orsi.
Pyramiden, però – ecco, il miracolo (e la condanna) del gelo –, non è sparita; è
lì, l’espianto dei volti, le vite confitte, la confettura dei ricordi.
Inossidabile memoria del Nord. Così, intorno a Pyramiden. Una città
fantasma (Bertoni, 2025), Linda Terziroli ha costruito un romanzo di ferma
ferocia – che è poi, anche, un modo per dire: sono sopravvissuta, sono qui, a
tempio disfatto, con la piccola reliquia tra le palpebre mani.
Ma un libro, soprattutto, non è la cronaca dei fatti, bensì carrellata di
immagini. Ne scelgo due, indelebili, che vanno incapsulate l’una nell’altra a
dire della ricerca dell’assoluto, di una innocenza che giunge dai primordi della
pena. La prima:
> “Le altalene davanti alla scuola danzano, oggi, scricchiolando, al gelido
> fiato del vento polare… I bambini, che non erano numerosi quanto gli adulti,
> si divertivano per ore su quelle magre altalene azzurre di acciaio verniciato.
> Nonostante il freddo, nonostante la penuria di luce. I bambini sanno giocare
> ovunque. Anche sul prato della fine del mondo”.
L’altra riguarda l’animale:
> “Dietro il nuovo capanno di legno si muoveva un orso bianco di almeno duecento
> chili… Era ormai da un paio d’anni che non mi capitava di vedere un orso da
> così vicino. Potevo sentire il suo fiato caldo. E, soprattutto, il suo odore
> acre. Ho visto la sua bocca spalancata, i denti piuttosto gialli. Il giallo
> della pelliccia vicino alle fauci. E soprattutto i suoi occhi che mi
> guardavano. Forse non mi avrebbe fatto del male. Gli animali di varie specie
> hanno un rispetto quasi religioso nei confronti di una donna incinta. L’avevo
> letto da qualche parte. Ero sorprendentemente tranquilla. Intercettare il suo
> sguardo, tuttavia, mi ha dato una scossa violentissima. Era il suo sguardo a
> graffiarmi con potenza”.
Più che a Guido Morselli – autore-totem di Terizoroli – si va a volte nei
dintorni di Karen Blixen. Quando incontrano un orso, gli Iacuti lanciano
un’invocazione:
> “Modera la tua ira!
> Se tu volessi ritirarti nel profondo della foresta,
> come una crepa nel legno,
> diverresti simile a una soffice piuma di zibellino”.
Nel romanzo, alla protagonista, ignara del sistro e del tamburo, insegnano a
maneggiare il Mosin-Nagant “in caso di necessità”: un fucile a ripetizione tra i
più usati nel regno sovietico. Ma qui è accaduto qualcos’altro. Il nascituro,
forse, avrà la statura di un compiuto essere, non sarà più mero strumento
dell’uomo.
Ad ogni modo, ho interpellato Linda.
Preliminare: perché l’ossessione del Nord?
Che cosa si prova quando ci si accorge, improvvisamente, di non aver scampo? Mi
hanno sempre affascinato le storie ambientate al Polo. La tragica fine tra i
ghiacci del celebre esploratore Roald Amundsen, scomparso per salvare il vecchio
rivale Umberto Nobile. La celebre “tenda rossa”. Ma anche la spedizione
scientifica di Salomon August Andrée nel 1882. La storia della casa svedese a
Kapp Thorsen, nell’Isfjorden, a Spitsbergen, il cuore dell’arcipelago delle
Svalbard dove diciassette cacciatori di foca trovarono la morte nell’inverno
1872 – 1873. Tanto per citare alcune storie artiche che mi appassionano molto.
Il Polo Nord è aspro e senza speranza, inospitale e sublime. Con una luce
abbagliante e una tenebra feroce: è terra dai forti contrasti. Terra di
conquista e terra di morte, dove si distilla l’umanità perché la natura prende
il sopravvento, perché l’uomo di fronte alla natura è destinato a soccombere. Le
storie polari sono dense di eroismi e di tragedie. L’odore di morte è sepolto da
una coltre di mistero e non riesci a cogliere il segreto del suo mistero, ma ne
sei catturato, soggiogato come da una malia. Sono terre affascinanti che serbano
in grembo molte storie affascinanti che devono essere ancora portate alla luce.
Poi: Pyramiden. Che cosa ti affascina di quella città-fantasma, erede geologica
di un tempo perduto, non so quanto da rimpiangere?
Pyramiden è il nome di questa città mineraria sovietica, ormai un fantasma nel
cuore dell’isola di Spitsbergen, alle Svalbard, che si trovano appunto in
Norvegia. Fondata da minatori svedesi nei primi anni del Novecento, la città fu
venduta ai russi nel 1927. E ancora oggi è un avamposto russo in terra
norvegese. Ma al di là del dato, del riferimento storico, un tempo sovietico che
non esiste più, un sogno di grandezza piuttosto assurdo nel cuore del fiordo,
l’idea di piramide che evoca il suo nome certo fa riferimento alle montagne
piramidali o se vogliamo triangolari che qui si vedono, ma ancor di più mi fa
pensare alla morte. Ad una pace (come è scritto sulla montagna della città in
cirillico “Miru Mir”) che è una riduzione al silenzio, un riposo fatale, una
istigazione al suicidio, un calice di veleno. Un luogo, insomma, in cui il
passato si congela e si squaderna placido davanti al tuo sguardo, come un freddo
cadavere. Un luogo in cui la notte artica allunga una coperta di tenebra e la
luce illumina un mistero che non sei in grado, razionalmente, di interpretare.
In esergo: Ezra Pound – perché? Poi, Pascoli. C’è forse un refrain, un
sottofondo lirico che anima il romanzo?
Ciò che ami veramente rimarrà, ciò che ami veramente non ti sarà portato via, è
la tua vera eredità, scrive Ezra Pound. L’oggetto del nostro amore non è quindi
un luogo, non è un qualcosa che ci può essere strappato, è invece qualcosa che
rimane per sempre, come un ricordo ancorato al cuore. Ecco il senso del ritorno
della protagonista – a distanza di tanti anni – nei luoghi in cui ha vissuto
come insegnante, ormai ridotti a relitti, a fotografie ingiallite e perdute sul
fondo di un cassetto. Si accorge, insomma, Anna, la protagonista, che non serve
ritornare dove era stata una giovane insegnante innamorata, da ragazza, ormai
che è donna. Tutto quello che le serve è ricordare. Ricordare tuttavia non
significa ricostruire il passato e le sue verità. La verità è opaca e il male
che in questa strana terra perduta si consumava non si legge chiaramente ad
occhio nudo. La verità è che le radici del male sono spesso ben nascoste e sono
piuttosto aggrovigliate.
Da dove ti è arrivata questa storia, come l’hai elaborata?
Sono certa che la potenza di un luogo misterioso come Pyramiden può essere in
grado di stregare anche il più razionale e indifferente degli uomini. Dopo aver
visitato Pyramiden, ormai diversi anni fa, ho iniziato a visitarla dal punto di
vista narrativo e mi sono spesso domandata come inserire una vicenda inventata
tra le pagine di un luogo così particolare e seducente e inquietante. Ho quindi
pensato che certo doveva essere un luogo di morte ma anche la culla di un amore
tragico e tormentato. Una mia amica mi ha detto che è un romanzo da leggere nel
cuore dell’inverno.
Che cosa hai scelto di omettere, di velare nel pudore? Qual è ‘l’indicibile’ del
tuo romanzo?
Ho scelto di omettere e quindi di non rivelare alcuni particolari che potrebbero
spiegare il comportamento enigmatico di un paio di personaggi. Perché mi
sembrava molto interessante non dare troppe spiegazioni. Non mettere le mani
avanti. Non tenere per mano il lettore. Ma nella vita non è forse così? Quello
che vediamo è sempre vero? La spiegazione che ci danno di alcune vicende del
passato è vera del tutto? La voce che sentiamo nel bel mezzo della notte è il
grido d’aiuto o una raffica di vento gelido? Inoltre, mi piaceva l’idea che la
protagonista, un poco per volta, arrivasse a capire di essere ascoltata,
controllata e spiata. Del resto, a Pyramden, con l’ufficio con le finestre
sbarrate del KGB più a nord della Terra, potrebbe essere piuttosto qualcosa di
corrispondente alla verità.
Ritaglia un nugolo di frasi dal libro, quelle che ritieni importanti.
Ad esempio questa che ha a che fare con l’insondabilità della verità e del male.
> “C’è sempre un giorno in cui uno dei veli che copre la verità scende e puoi
> contemplare una parte della realtà in tutta la sua crudezza e la sua
> integrità, ma solo una parte minima e alquanto stropicciata. La vedi e senti
> come un’ustione sulla pelle. Per me quello è stato un giorno particolarmente
> freddo, era marzo, ma la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero e,
> nonostante questo, si iniziava a intravedere il risveglio della primavera. Il
> fiordo ghiacciato cominciava a mostrare le prime crepe, i primi cedimenti,
> sotto il respiro della stagione più mite. Si sentivano dei rumori provenire
> dai ghiacciai. Improvvisamente si staccavano pezzi di ghiaccio con il fragore
> improvviso, spaventoso come di un colpo di fucile”.
Oppure penso alla descrizione di una donna bellissima, ricoverata nel grembo
dell’ospedale inaccessibile che è prigioniera della sua pazzia e delle
conseguenti, drammatiche cure della sua stessa malattia mentale.
> “Congiungeva le mani, sembrava pregasse. Ho pronunciato il suo nome, prima con
> un sussurro poi con la voce più alta. “Nastas’ya, Nastas’ya!”. Lei che ha
> capito di essere chiamata, ha diretto lo sguardo nella mia direzione e ha
> sorriso. Ma nella sua bocca c’erano solo saliva e gengive spoglie. Sorrideva,
> ma non aveva nessun dente in bocca. Glieli avevano strappati tutti”.
Questa frase che segue penso invece racchiuda, in uno sguardo, il significato
che ho tentato di dare alla mia storia ambientata nella città fantasma di
Pyramiden:
> “Quando muore, il passato continua a sopravvivere in una stanza piena di
> polvere, dentro il nostro cuore. Camminando tra queste pietre, ci sono
> migliaia di occhi che ci scrutano”.
E ora? Cosa scrivi, cosa studi?
Ho presentato pochi giorni fa il saggio La nascita nella letteratura (Oligo
editore) che è uscito dopo il romanzo Pyramiden. Un itinerario nel cuore
dell’ossessione della maternità, un viaggio tra le pagine letterarie dedicate al
parto e all’aborto. Cerco sempre di trovare nuovi terreni di riflessione accanto
alla passione per gli autori che amo, come certamente Guido Morselli. In questo
momento, sto studiando le scrittrici del Novecento, cerco di ascoltare la loro
voce, di distinguere e distillare insomma la voce femminile che è, di per sé,
più bassa, più misteriosa e, per certi versi, fioca rispetto a quella maschile.
Ma talvolta è necessariamente più potente e audace.
*In copertina e nel testo: immagini da Pyramiden
L'articolo “Anche sul prato della fine del mondo”. Storia di Pyramiden, la città
fantasma. Dialogo con Linda Terziroli proviene da Pangea.
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Cento soldatini potevano certo bastare per un sogno. Cento soldatini di stagno a
suo fratello Dag in cambio del proiettore ricevuto a Natale. Un baratto che vale
l’essenza di una vita intera.
Dal guardaroba della camera, un giovanissimo, magrolino e inesperto Ingmar
Bergman sistema il proiettore su una scatola di zucchero e accende la lampada a
petrolio. Orienta la luce verso la parete dipinta di bianco e inserisce la
pellicola di un film romantico.
Un aneddoto, insieme alla torcia che illuminava il buio della punizione nello
sgabuzzino e la paura del mostro che mangia le dita dei piedini, tatuato nella
memoria che Ingmar Bergman registra per sempre, in quello straordinario romanzo
autobiografico, concluso a fine settembre 1986, dall’evocativo titolo Lanterna
magica (Garzanti, traduzione di Fulvio Ferrari). Un guazzabuglio di incontri e
scontri, gozzoviglie, solitudini, sceneggiature e opere per il teatro e la tivù
e pellicole, manoscritti tragicamente perduti come la fiaba della stanca torre
Eiffel (Joakim Naken), passioni travolgenti e sensuali, drammi e immani sensi di
colpa, disastri economici e rovesci familiari, rinascite e ricadute. “Fantasmi,
demoni e altri esseri senza nome e senza dimora” sembra che lo abbiano cinto
d’assedio sin dalla più tenera età.
Secondo figlio di un pastore protestante della corte reale, Bergman esordisce
come regista teatrale e proprio il teatro, prima che il cinema, ha
caratterizzato la sua esistenza, come si legge in questo romanzo fiume. Al
cinema dedica luminose pagine:
> “un’illusione progettata fin nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà
> che quanto più vivo tanto più mi appare illusoria”.
Il più grande maestro, secondo il grande Bergman, è Tarkovskij che non spiega
mai, ma rappresenta le sue visioni, poi Fellini, Kurosawa e Buñuel e quel mago
di Méliès. Le sue parole calano nitide e sognanti sulla pagina:
> “Film come sogno, film come musica. Nessun’altra arte come il cinema va
> direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della
> nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna”.
Il cinema è rivelazione:
> “Le ombre, mute o parlanti, si rivolgono direttamente alle regioni più segrete
> del mio animo. Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante,
> scintillante, il fruscìo della croce di Malta, la mano sulla manovella”.
Il cinema è come l’amore, in tutti i sensi.
> “Girare un film è un’operazione intensamente erotica. La vicinanza con gli
> attori non conosce riserve, ognuno si affida totalmente all’altro. L’intimità,
> l’affetto, la dipendenza, la tenerezza, la fiducia, la disinvoltura davanti al
> magico occhio della macchina da presa danno un caldo e forse illusorio senso
> di sicurezza”.
In questa autobiografia, Bergman parla senza riserve e senza censure della
fisicità, che spesso lo metteva a dura prova e lo divorava, quanto dei malesseri
interiori che lo costringevano a un doloroso conflitto interiore. Sensibilissimo
al fascino femminile, ogni storia d’amore che iniziava sembra il canovaccio di
una nuova opera da trasporre sul palcoscenico.
> “L’innamoramento, che ebbe modo e tempo di svilupparsi liberamente, aprì
> stanza chiuse, muri crollarono, io respirai. Il tradimento nei confronti di
> Ellen e dei bambini era avvolto nella nebbia, sempre presente ma stranamente
> stimolante. Per alcuni mesi visse e respirò un’audace messinscena,
> incorruttibile, autentica e quindi indispensabile. Si dimostrò spaventosamente
> cara quando arrivò il conto”.
Conti e debiti, difficoltà economiche e rovesci di fortuna che non sono mancati
lungo il corso di una vita. Ad un certo punto, il regista comprò persino il
primo cappello della sua vita per dare l’impressione di una solidità che proprio
non possedeva.
Le descrizioni dei teatri sono deliziosamente struggenti e nostalgiche:
> “A teatro c’erano le pulci. La vecchia compagnia era probabilmente immune, la
> nuova arrivò con sangue giovane e venimmo crudelmente morsicati. Il tubo di
> scarico del ristorante passava per i camerini degli uomini e gocciolava
> continuamente urina sul calorifero vicino alla parete”.
Una situazione drammatica che Bergman non esita a definire “il paradiso fatto
realtà”. Il maestro a teatro continuamente citato e preso come modello:
Strindberg. La famiglia d’origine, l’infanzia in canonica, un pensiero
ricorrente e intrecciato alle pagine della maturità. Una vita, quella dei
genitori, vissuta come “su un vassoio”, sempre davanti al pubblico.
> “Papà era un predicatore popolare, la chiesa era sempre piena quando parlava
> lui. Era un premuroso pastore d’anime e possedeva un talento inestimabile: la
> sua capacità di ricordare le persone era illimitata. Durante tutti quegli anni
> aveva battezzato, confermato, unito in matrimonio e sepolto molti dei suoi
> quarantamila parrocchiani. Di tutti ricordava il volto, il nome e le
> condizioni”.
Del fratello, invece, mette a fuoco l’odio verso il padre e il tentativo di
suicidio, un’antipatia reciproca e fraterna che lasciò il posto al vuoto, anche
dopo tantissimi anni, quando Dag andò a trovarlo nell’isola rifugio di Fårö con
la moglie greca. I genitori, per il fratello, continuavano ad essere
> “mitici, capricciosi, imprevedibili, giganteschi. Cercammo di ripercorrere con
> la mente sentieri abbandonati e ci guardammo stupiti l’un l’altro: due vecchi
> signori, usciti dallo stesso grembo, separati da una distanza incolmabile”.
Sulla sorella più piccola si accende una timida tenerezza sullo sfondo della
pagina.
> “I miei ricordi d’infanzia riguardo a Margareta sono pallidi e sfuggenti.
> Costruimmo un teatro delle marionette, lei cucì i costumi e io dipinsi le
> scene. La mamma era una spettatrice paziente e interessata, e ci regalò anche
> un sipario di velluto dai bei ricami”.
Nonostante avventurose e innumerevoli esperienze, quel gettarsi “a capofitto
nell’abisso della vita”, lo sguardo del regista svedese ritorna, anche alla fine
del suo memoir, all’album delle foto di famiglia, al piccolo cerotto
sull’indice, al disegno di una coperta, al profumo d’aringa fritta, al volto di
sua madre, che appare e scompare, nella brulicante folla elegante delle foto.
Riprende tra le mani il diario segreto della madre, le pagine che inquadrano il
momento della sua nascita, la sua venuta al mondo, correva il luglio 1918.
> “Nostro figlio è nato domenica mattina, quattordici luglio. (…) Sembra un
> piccolo scheletro con un nasone rosso fuoco. Rifiuta con ostinazione di aprire
> gli occhi. Dopo qualche giorno mi è venuto a mancare il latte per via della
> malattia. Allora è stato battezzato in tutta fretta in ospedale. Si chiama
> Ernst Ingmar”.
Questa ostinazione a non aprire gli occhi sembra intrecciata al sogno di
rimanere a vivere nelle segrete stanza dell’infanzia perduta, tra i morti che
sono “costretti a tormentare i vivi”.
> “In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti
> nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti
> alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la
> velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio
> una piccola visita alla realtà”.
In breve, anche nella sua Lanterna magica, Bergman riesce a mettersi a nudo:
“illusionista e reo confesso di questa illusione – secondo la netta definizione
di Olivier Assayas e Stig Björkman in Conversazione con Ingmar Bergman(Lindau) –
vulnerabile e inaccessibile, umano e insondabile”.
L’invito da cogliere è, quindi, quello di ascoltare la voce incoerente e
illogica delle emozioni:
> “Ma voi vi renderete certamente conto che quando si è artisti, quando si
> creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti.
> Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Dal punto di
> vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è proibito non esserlo. Ma se
> si ha fiducia nelle proprie emozioni, allora si può essere del tutto
> incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze
> delle emozioni che hai suscitato. Per sempre”.
Linda Terziroli
L'articolo “Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge”.
Nella magia di Ingmar Bergman proviene da Pangea.
Lo scrittore Guido Morselli dai suoi nipoti si faceva chiamare “Orso”, anzi
talvolta “Orzo”, forse per mettere dentro la parola orso quella zeta affilata
dello zio che era, dopotutto. Zio di Loredana, Gianluca, Nicoletta, figli della
sorella Maria, che, per vezzo e per dispetto, lui chiamava “Mariolino”. Per non
parlare della nipote Loredana, da Guido battezzata “zia Lori” e poi Gianluca,
che lui chiamava “Tonino”.
Non può che nascere da un’esigenza creativa profonda questo vezzo di mutare i
nomi alle persone, di nominare le persone e le cose alla rovescia, ribaltare i
punti di vista, invertire il genere, per scovare nuove chiavi di interpretazione
del mondo. Nomina sunt consequentia rerum dice il latino? Etsi omnes, ego
non replicherebbe Guido Morselli: l’eccezione poteva diventare la regola. Lui
del resto “scrittore senza destinatario”, lo scrittore che è diventato tale
solo post mortem. Lo scrittore che… non lo pubblicava nessuna casa editrice.
> “Era eclettico, sperimentò generi diversi, cambiò pelle letteraria. Mi ricordo
> quando si mise a lavorare persino a un curioso Dizionarietto dietetico, con
> l’aiuto di un medico”.
Queste le parole dell’amico “colto”, l’intellettuale Dante Isella che la giovane
studiosa Elena Valentina Maiolini pone a epigrafe di un volume preziosissimo
tanto curioso e stravagante, da lei curato, il Dizionario dietetico che esce
proprio in questi giorni di aprile 2025, per Biblioteca Ronzani. Un’opera
originale che testimonia, ennesima, amara prova, il talento e l’apertura alla
sperimentazione, a tutto campo, dell’outsider italiano del Novecento.
Giornalista, drammaturgo, reportagista, sceneggiatore e ora, qui, lessicografo.
Anche se si tratta di un’attitudine che già gli riconoscevamo con certo uso
creativo del linguaggio (leggi alla voce fobantropo, nittalopo). E già
conoscevamo il suo interesse vitivinicolo (aveva seguito da vicino il colono
Bosatelli nella produzione del Vino del Sasso di Gavirate) e quello
nell’agronomia (dalle piante da frutto a quelle dei capperi da far sbocciare tra
le fessure dei muretti a secco del podere di Santa Trinita a Gavirate).
Altrettanto frequenti, nell’opera narrativa di Morselli, sono i riferimenti agli
alimenti, alle pietanze tanto quanto alle “bicchierate”. Uno su tutti mi torna
in mente, dall’opera Contro-passato prossimo:
> “seduto e vociante fra una dozzina di commensali, finché scomparve dietro una
> montagnola di tagliatelle alla bolognese. Era F.T. Marinetti, seppe dal
> cameriere. Con una rappresentanza apostolica di futuristi, la Nuova Accademia.
> Quest’altra mensa al profumo di ragù e chianti, surrettiziamente gli si
> sovrappose alla ‘mensa’ che aveva lasciato mezz’ora prima”.
Si dice che Morselli non amasse cucinare, che, a casa sua, l’ospite avrebbe
assaporato la ruggine della grattugia. A tavola nella casa di Milano, arrivando
perennemente in ritardo, Guido toglieva lesto da sotto il naso di suo padre,
Giovanni Morselli, il ricco piatto; non doveva esagerare. Il padre, modenese,
figlio di un medico condotto, era laureato in Chimica Farmaceutica a Bologna ed
era stato assunto alla Carlo Erba di Milano. Convinto sostenitore della ricerca
nel campo della produzione, Giovanni Morselli aveva sperimentato con successo
alimenti per l’infanzia quali farina lattea e alimento GIM, che gli
conquistarono la fiducia di Giuseppe Visconti di Modrone. Giovanni Morselli
aveva inventato per la Carlo Erba anche le polverine “IDRIZ” per render l’acqua
gasata. E sembra proprio la chimica degli alimenti (che probabilmente respirava
in casa, dove c’erano comunque, ai fornelli, diverse persone di servizio)
sposata all’accurata scelta delle parole alla base di questa sua originale
“filosofia dell’alimentazione”. L’attenzione a quella famosa regola che doveva
essere la misura, il tanto celebrato “cum grano salis”. A tavola, scrive Guido
Morselli: “è bene essere il più possibile allegri”, con un imperativo che fa
riflettere:
> “non leggere e non trattare affari, così come è ottima norma riposare dopo i
> pasti ascoltando qualche brano di piacevole musica o schiacciando un pisolino
> o dedicandosi a qualche svago gradito che non implichi soprattutto eccessiva
> applicazione mentale o visiva”.
A quale svago gradito fa riferimento?
Al suo fianco nella realizzazione del Dizionario l’amico medico chirurgo Giorgio
Riva, specialista in medicina interna presso la clinica La Quiete di via
Annunciata a Milano. Aveva chiesto lumi anche al medico Franco Zighetti, marito
di Franca Bassi, figlia dell’amica Maria Bruna Bassi, e – mi suggerisce Andrea
Bortoluzzi – al fratello dell’amico notaio Bepi Bortoluzzi, il dottor Emilio
Bortoluzzi, fondatore del reparto di rianimazione dell’Ospedale di Circolo, a
Varese. Amici medici e medici amici, di ispirazione letteraria (supponiamo) nel
ventaglio dei personaggi che abbiamo imparato a conoscere, a riconoscere e ad
amare tra le opere narrative di Morselli. Penso ovviamente a Karpinsky
di Dissipatio H.G., ma anche al dottor Vanetti di Un dramma borghese, a Saverio
Maggio di Uomini e amori e a tante tante figure salvifiche e di accudimento che
incontriamo nell’opera narrativa di Guido Morselli. In questo caso, la strada di
pubblicazione esula dalla letteratura per pigliare un sentiero divulgativo e di
salute, una destinazione di “necessità sociale”.
La struttura è tripartita – spiega Maiolini nel saggio introduttivo Il gusto
dello scrittore – “sommaria introduzione alla dietetica in generale”, sulle
caratteristiche, le composizioni e i tempi di digestione degli alimenti (vi sono
compresi i sintetici Consigli dietetici per sani), il dizionario “vero e
proprio”, ossia il lemmario con le voci sulle sostanze commestibili (se ne
contano 333), distribuite in ordine alfabetico, con indicazioni varie, da note
linguistiche a componenti biochimiche, da proprietà digestive a tradizioni
agricole; e infine una sezione sulle diete in regimi terapeutici particolari”. E
qual è la finalità? Lo scopo voleva essere fondamentalmente civile come spiega
Morselli all’inizio della Presentazione:
> “Scopo del nostro lavoro è stato quello di fornire al pubblico alcune nozioni
> elementari e un orientamento di massima, nel campo
> dell’alimentazione. È chiaro dunque che il presente volumetto non costituisce,
> neppure in compendio, un trattato di bromatologia o di dietetica”.
“La materia quando inizia a soffrire” era la sua annotazione alla voce vivere,
pescata dal guazzabuglio del suo Diario. Un interesse mai sopito per la
dimensione esistenziale che rende Guido Morselli un autore di culto. Come mi
conferma Elena Valentina Maiolini. Qui riporto il nostro dialogo.
Come si concilia e dialoga la stesura del «Dizionario dietetico» con la
produzione narrativa di Morselli?
È il testo preliminare alla stagione creativa dei grandi romanzi. Ci lavora
nell’estate del 1956, mentre al primo importante romanzo, Un dramma borghese,
sappiamo che si mette nella seconda metà del 1961. Si potrebbe partire da questo
dato, per valutare il Dizionario dietetico in rapporto alla produzione
narrativa: dopo aver scritto per anni tanti testi brevi (quelli che hai raccolto
tu l’anno scorso per il Saggiatore, con Giorgio Galetto e Fabio Pierangeli),
prima di cambiare la sua «pelle letteraria» – con le parole di Dante Isella –
con il genere del romanzo, si volle cimentare con una forma breve, anzi
brevissima: un lemma di dizionario, appunto.
Vede la luce a quasi settant’anni dalla sua stesura grazie al Fondo per
ricercatori destinatomi dalla Commissione ricerca dell’Università dell’Insubria,
che ci tengo a ringraziare, insieme al mio Dipartimento di Scienze umane e
dell’innovazione per il territorio e al Centro Storie Locali dell’Insubria. Ma
soprattutto, grazie al permesso degli Eredi, sostenuti da te con costanza.
Qualcuno ha parlato di “fiducia nella parola” per Morselli, ma è sfiducia nel
genere umano?
Gianmarco Gaspari ha definito con questa felice formula la predilezione di Guido
Morselli per la sintassi breve. Molto spesso le sue frasi si addensano; ci sono
proprio dei punti dove la scrittura sulla pagina si restringe, e produce un
aforisma: frasi brevi e molto efficaci, evocative, che si mandano a memoria
volentieri. Ciò accade senz’altro anche in quest’opera lessicografica che non
conoscevamo; e no, non direi che si tratti di una sfiducia nel genere umano.
Potresti ben dirlo anche tu, che tanto hai studiato la sua biografia, come
potesse essere attento verso gli altri. Sono d’accordo con Vittorio Coletti:
l’umanesimo di Morselli consiste in «un’attenta fenomenologia degli atti umani»
(atti alimentari, in questo caso!), che sottopone a una lucida osservazione,
«con una tonificante dose di realismo pragmatico e positivo».
Che cosa ha spinto Morselli ad abbracciare un così vasto tema e un progetto così
profondamente diverso dalle altre sue opere?
Non dimentichiamo che non lo sapeva: non sapeva che cosa sarebbe venuto dopo.
Per noi è l’autore sommerso di Un dramma borghese, di Roma senza papa,
di Dissipatio H.G.… ma al tempo di questa impresa lessicografica, non li aveva
ancora scritti. Aveva scritto saggi, articoli dal taglio giornalistico,
racconti… poi questo dizionario. Forse era alla ricerca di un genere?
Sicuramente il Dizionario dietetico è l’esito di una curiosità intellettuale e
umana forte: vi si apprestò con l’entusiasmo testimoniato da alcuni picchi nel
tono (come un onore! a Napoli, ideatrice degli spaghetti con le vongole!), e con
la curiosità dell’intenditore di pasticcerie cittadine, dell’osservatore di
insegne sulle vetrine dei formaggiai… ma anche del coltivatore in proprio di
asparagi.
Quali sono le voci più folgoranti o più sorprendenti?
Io trovo gustosissime quelle in cui si manifestano alcune sue predilezioni. Ad
esempio, per la vita di campagna, rispetto a quella di città: uno dei temi in
cui si incanala una vena ironica indubbia, che non gli è stata riconosciuta a
sufficienza.
Prendiamo la voce aglio:
> «È veramente un condimento, se non un cibo, sanissimo, e varrebbe la pena di
> esercitarci a superare l’avversione che suscita in noi, abitanti della città
> raffinati e schizzinosi, il suo agreste profumo».
Questa è folgorante, e ben strutturata: c’è un senso di realtà territoriale,
stereotipata, ma non troppo; c’è il profumo della terra, c’è il senso
psicologico del cibo. E poi c’è il gusto della lingua italiana: il lessico, con
la differenza tra condimento e cibo; la locuzione che definisce (se non un
cibo…); le strategie che fanno il tono colloquiale, morbido, mai perentorio,
ossia il condizionale (varrebbe la pena) e il noi inclusivo (esercitarci… noi,
abitanti).
Che cosa aggiunge questa opera inedita alla lettura del corpus letterario di
Guido Morselli?
Tra le varie cose, direi un catalogo. Appassionati e studiosi di Morselli vi
troveranno un prontuario di tanti aspetti declinati in forma narrativa nei
romanzi. Tu già dicevi che ci sono molto medici, nei suoi romanzi. E pure
sappiamo che ci sono dei cibi, che c’è il caffè… Una mia laureanda, Eleonora
Trezzi, sta scoprendo molti contatti con la prima opera che è seguita, Un dramma
borghese. Ad esempio, il dottor Vanetti, che prima ricordavi, l’interlocutore
privilegiato del protagonista, a un certo punto gli confida di essere socio di
una fabbrica di caramelle a Losanna: «Adesso, per integrare il guadagno di
medico, che non gli basta, è socio in una fabbrichetta di caramelle, a Losanna,
e lo tiene nascosto, dice, per salvaguardare la sua dignità. Le caramelle sono
tossiche per lui, gli paiono una degradazione», registra l’io narrante nel suo
resoconto quotidiano al magnetofono. Ebbene, tra le fonti del Dizionario c’è un
foglietto di pubblicità su uno spazzolino, brevettato nel 1949 da un dentista di
Trieste, che sembra proprio esprimere tutte le preoccupazioni che in Vanetti,
improvvisato imprenditore contro la salute dentale, si fanno sensi di colpa.
Segnalo che, grazie al permesso degli Eredi, con la tua mediazione, e alla
disponibilità del Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di Autori
moderni e contemporanei dell’Università di Pavia, ora le fonti di tipo
giornalistico e pubblicitario sono tutte in rete nel sito del Centro Storie
Locali: https://morselli.cslinsubria.it/.
Affrontare e attraversare questo schivo autore del Novecento è un’avventura
unica che non lascia indifferenti: che cosa insegna oggi a distanza di oltre
mezzo secolo dalla sua scelta di abbandonare la vita?
Che la fatica di vivere non è in contraddizione con l’amore per la vita.
Linda Terziroli
L'articolo “Qualche svago gradito”. I “consigli dietetici” di Guido Morselli
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