Cento soldatini potevano certo bastare per un sogno. Cento soldatini di stagno a
suo fratello Dag in cambio del proiettore ricevuto a Natale. Un baratto che vale
l’essenza di una vita intera.
Dal guardaroba della camera, un giovanissimo, magrolino e inesperto Ingmar
Bergman sistema il proiettore su una scatola di zucchero e accende la lampada a
petrolio. Orienta la luce verso la parete dipinta di bianco e inserisce la
pellicola di un film romantico.
Un aneddoto, insieme alla torcia che illuminava il buio della punizione nello
sgabuzzino e la paura del mostro che mangia le dita dei piedini, tatuato nella
memoria che Ingmar Bergman registra per sempre, in quello straordinario romanzo
autobiografico, concluso a fine settembre 1986, dall’evocativo titolo Lanterna
magica (Garzanti, traduzione di Fulvio Ferrari). Un guazzabuglio di incontri e
scontri, gozzoviglie, solitudini, sceneggiature e opere per il teatro e la tivù
e pellicole, manoscritti tragicamente perduti come la fiaba della stanca torre
Eiffel (Joakim Naken), passioni travolgenti e sensuali, drammi e immani sensi di
colpa, disastri economici e rovesci familiari, rinascite e ricadute. “Fantasmi,
demoni e altri esseri senza nome e senza dimora” sembra che lo abbiano cinto
d’assedio sin dalla più tenera età.
Secondo figlio di un pastore protestante della corte reale, Bergman esordisce
come regista teatrale e proprio il teatro, prima che il cinema, ha
caratterizzato la sua esistenza, come si legge in questo romanzo fiume. Al
cinema dedica luminose pagine:
> “un’illusione progettata fin nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà
> che quanto più vivo tanto più mi appare illusoria”.
Il più grande maestro, secondo il grande Bergman, è Tarkovskij che non spiega
mai, ma rappresenta le sue visioni, poi Fellini, Kurosawa e Buñuel e quel mago
di Méliès. Le sue parole calano nitide e sognanti sulla pagina:
> “Film come sogno, film come musica. Nessun’altra arte come il cinema va
> direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della
> nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna”.
Il cinema è rivelazione:
> “Le ombre, mute o parlanti, si rivolgono direttamente alle regioni più segrete
> del mio animo. Il profumo di metallo surriscaldato, l’immagine oscillante,
> scintillante, il fruscìo della croce di Malta, la mano sulla manovella”.
Il cinema è come l’amore, in tutti i sensi.
> “Girare un film è un’operazione intensamente erotica. La vicinanza con gli
> attori non conosce riserve, ognuno si affida totalmente all’altro. L’intimità,
> l’affetto, la dipendenza, la tenerezza, la fiducia, la disinvoltura davanti al
> magico occhio della macchina da presa danno un caldo e forse illusorio senso
> di sicurezza”.
In questa autobiografia, Bergman parla senza riserve e senza censure della
fisicità, che spesso lo metteva a dura prova e lo divorava, quanto dei malesseri
interiori che lo costringevano a un doloroso conflitto interiore. Sensibilissimo
al fascino femminile, ogni storia d’amore che iniziava sembra il canovaccio di
una nuova opera da trasporre sul palcoscenico.
> “L’innamoramento, che ebbe modo e tempo di svilupparsi liberamente, aprì
> stanza chiuse, muri crollarono, io respirai. Il tradimento nei confronti di
> Ellen e dei bambini era avvolto nella nebbia, sempre presente ma stranamente
> stimolante. Per alcuni mesi visse e respirò un’audace messinscena,
> incorruttibile, autentica e quindi indispensabile. Si dimostrò spaventosamente
> cara quando arrivò il conto”.
Conti e debiti, difficoltà economiche e rovesci di fortuna che non sono mancati
lungo il corso di una vita. Ad un certo punto, il regista comprò persino il
primo cappello della sua vita per dare l’impressione di una solidità che proprio
non possedeva.
Le descrizioni dei teatri sono deliziosamente struggenti e nostalgiche:
> “A teatro c’erano le pulci. La vecchia compagnia era probabilmente immune, la
> nuova arrivò con sangue giovane e venimmo crudelmente morsicati. Il tubo di
> scarico del ristorante passava per i camerini degli uomini e gocciolava
> continuamente urina sul calorifero vicino alla parete”.
Una situazione drammatica che Bergman non esita a definire “il paradiso fatto
realtà”. Il maestro a teatro continuamente citato e preso come modello:
Strindberg. La famiglia d’origine, l’infanzia in canonica, un pensiero
ricorrente e intrecciato alle pagine della maturità. Una vita, quella dei
genitori, vissuta come “su un vassoio”, sempre davanti al pubblico.
> “Papà era un predicatore popolare, la chiesa era sempre piena quando parlava
> lui. Era un premuroso pastore d’anime e possedeva un talento inestimabile: la
> sua capacità di ricordare le persone era illimitata. Durante tutti quegli anni
> aveva battezzato, confermato, unito in matrimonio e sepolto molti dei suoi
> quarantamila parrocchiani. Di tutti ricordava il volto, il nome e le
> condizioni”.
Del fratello, invece, mette a fuoco l’odio verso il padre e il tentativo di
suicidio, un’antipatia reciproca e fraterna che lasciò il posto al vuoto, anche
dopo tantissimi anni, quando Dag andò a trovarlo nell’isola rifugio di Fårö con
la moglie greca. I genitori, per il fratello, continuavano ad essere
> “mitici, capricciosi, imprevedibili, giganteschi. Cercammo di ripercorrere con
> la mente sentieri abbandonati e ci guardammo stupiti l’un l’altro: due vecchi
> signori, usciti dallo stesso grembo, separati da una distanza incolmabile”.
Sulla sorella più piccola si accende una timida tenerezza sullo sfondo della
pagina.
> “I miei ricordi d’infanzia riguardo a Margareta sono pallidi e sfuggenti.
> Costruimmo un teatro delle marionette, lei cucì i costumi e io dipinsi le
> scene. La mamma era una spettatrice paziente e interessata, e ci regalò anche
> un sipario di velluto dai bei ricami”.
Nonostante avventurose e innumerevoli esperienze, quel gettarsi “a capofitto
nell’abisso della vita”, lo sguardo del regista svedese ritorna, anche alla fine
del suo memoir, all’album delle foto di famiglia, al piccolo cerotto
sull’indice, al disegno di una coperta, al profumo d’aringa fritta, al volto di
sua madre, che appare e scompare, nella brulicante folla elegante delle foto.
Riprende tra le mani il diario segreto della madre, le pagine che inquadrano il
momento della sua nascita, la sua venuta al mondo, correva il luglio 1918.
> “Nostro figlio è nato domenica mattina, quattordici luglio. (…) Sembra un
> piccolo scheletro con un nasone rosso fuoco. Rifiuta con ostinazione di aprire
> gli occhi. Dopo qualche giorno mi è venuto a mancare il latte per via della
> malattia. Allora è stato battezzato in tutta fretta in ospedale. Si chiama
> Ernst Ingmar”.
Questa ostinazione a non aprire gli occhi sembra intrecciata al sogno di
rimanere a vivere nelle segrete stanza dell’infanzia perduta, tra i morti che
sono “costretti a tormentare i vivi”.
> “In realtà io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti
> nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti
> alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la
> velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio
> una piccola visita alla realtà”.
In breve, anche nella sua Lanterna magica, Bergman riesce a mettersi a nudo:
“illusionista e reo confesso di questa illusione – secondo la netta definizione
di Olivier Assayas e Stig Björkman in Conversazione con Ingmar Bergman(Lindau) –
vulnerabile e inaccessibile, umano e insondabile”.
L’invito da cogliere è, quindi, quello di ascoltare la voce incoerente e
illogica delle emozioni:
> “Ma voi vi renderete certamente conto che quando si è artisti, quando si
> creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti.
> Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Dal punto di
> vista delle emozioni, bisogna essere illogici, è proibito non esserlo. Ma se
> si ha fiducia nelle proprie emozioni, allora si può essere del tutto
> incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze
> delle emozioni che hai suscitato. Per sempre”.
Linda Terziroli
L'articolo “Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge”.
Nella magia di Ingmar Bergman proviene da Pangea.
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Lo scrittore Guido Morselli dai suoi nipoti si faceva chiamare “Orso”, anzi
talvolta “Orzo”, forse per mettere dentro la parola orso quella zeta affilata
dello zio che era, dopotutto. Zio di Loredana, Gianluca, Nicoletta, figli della
sorella Maria, che, per vezzo e per dispetto, lui chiamava “Mariolino”. Per non
parlare della nipote Loredana, da Guido battezzata “zia Lori” e poi Gianluca,
che lui chiamava “Tonino”.
Non può che nascere da un’esigenza creativa profonda questo vezzo di mutare i
nomi alle persone, di nominare le persone e le cose alla rovescia, ribaltare i
punti di vista, invertire il genere, per scovare nuove chiavi di interpretazione
del mondo. Nomina sunt consequentia rerum dice il latino? Etsi omnes, ego
non replicherebbe Guido Morselli: l’eccezione poteva diventare la regola. Lui
del resto “scrittore senza destinatario”, lo scrittore che è diventato tale
solo post mortem. Lo scrittore che… non lo pubblicava nessuna casa editrice.
> “Era eclettico, sperimentò generi diversi, cambiò pelle letteraria. Mi ricordo
> quando si mise a lavorare persino a un curioso Dizionarietto dietetico, con
> l’aiuto di un medico”.
Queste le parole dell’amico “colto”, l’intellettuale Dante Isella che la giovane
studiosa Elena Valentina Maiolini pone a epigrafe di un volume preziosissimo
tanto curioso e stravagante, da lei curato, il Dizionario dietetico che esce
proprio in questi giorni di aprile 2025, per Biblioteca Ronzani. Un’opera
originale che testimonia, ennesima, amara prova, il talento e l’apertura alla
sperimentazione, a tutto campo, dell’outsider italiano del Novecento.
Giornalista, drammaturgo, reportagista, sceneggiatore e ora, qui, lessicografo.
Anche se si tratta di un’attitudine che già gli riconoscevamo con certo uso
creativo del linguaggio (leggi alla voce fobantropo, nittalopo). E già
conoscevamo il suo interesse vitivinicolo (aveva seguito da vicino il colono
Bosatelli nella produzione del Vino del Sasso di Gavirate) e quello
nell’agronomia (dalle piante da frutto a quelle dei capperi da far sbocciare tra
le fessure dei muretti a secco del podere di Santa Trinita a Gavirate).
Altrettanto frequenti, nell’opera narrativa di Morselli, sono i riferimenti agli
alimenti, alle pietanze tanto quanto alle “bicchierate”. Uno su tutti mi torna
in mente, dall’opera Contro-passato prossimo:
> “seduto e vociante fra una dozzina di commensali, finché scomparve dietro una
> montagnola di tagliatelle alla bolognese. Era F.T. Marinetti, seppe dal
> cameriere. Con una rappresentanza apostolica di futuristi, la Nuova Accademia.
> Quest’altra mensa al profumo di ragù e chianti, surrettiziamente gli si
> sovrappose alla ‘mensa’ che aveva lasciato mezz’ora prima”.
Si dice che Morselli non amasse cucinare, che, a casa sua, l’ospite avrebbe
assaporato la ruggine della grattugia. A tavola nella casa di Milano, arrivando
perennemente in ritardo, Guido toglieva lesto da sotto il naso di suo padre,
Giovanni Morselli, il ricco piatto; non doveva esagerare. Il padre, modenese,
figlio di un medico condotto, era laureato in Chimica Farmaceutica a Bologna ed
era stato assunto alla Carlo Erba di Milano. Convinto sostenitore della ricerca
nel campo della produzione, Giovanni Morselli aveva sperimentato con successo
alimenti per l’infanzia quali farina lattea e alimento GIM, che gli
conquistarono la fiducia di Giuseppe Visconti di Modrone. Giovanni Morselli
aveva inventato per la Carlo Erba anche le polverine “IDRIZ” per render l’acqua
gasata. E sembra proprio la chimica degli alimenti (che probabilmente respirava
in casa, dove c’erano comunque, ai fornelli, diverse persone di servizio)
sposata all’accurata scelta delle parole alla base di questa sua originale
“filosofia dell’alimentazione”. L’attenzione a quella famosa regola che doveva
essere la misura, il tanto celebrato “cum grano salis”. A tavola, scrive Guido
Morselli: “è bene essere il più possibile allegri”, con un imperativo che fa
riflettere:
> “non leggere e non trattare affari, così come è ottima norma riposare dopo i
> pasti ascoltando qualche brano di piacevole musica o schiacciando un pisolino
> o dedicandosi a qualche svago gradito che non implichi soprattutto eccessiva
> applicazione mentale o visiva”.
A quale svago gradito fa riferimento?
Al suo fianco nella realizzazione del Dizionario l’amico medico chirurgo Giorgio
Riva, specialista in medicina interna presso la clinica La Quiete di via
Annunciata a Milano. Aveva chiesto lumi anche al medico Franco Zighetti, marito
di Franca Bassi, figlia dell’amica Maria Bruna Bassi, e – mi suggerisce Andrea
Bortoluzzi – al fratello dell’amico notaio Bepi Bortoluzzi, il dottor Emilio
Bortoluzzi, fondatore del reparto di rianimazione dell’Ospedale di Circolo, a
Varese. Amici medici e medici amici, di ispirazione letteraria (supponiamo) nel
ventaglio dei personaggi che abbiamo imparato a conoscere, a riconoscere e ad
amare tra le opere narrative di Morselli. Penso ovviamente a Karpinsky
di Dissipatio H.G., ma anche al dottor Vanetti di Un dramma borghese, a Saverio
Maggio di Uomini e amori e a tante tante figure salvifiche e di accudimento che
incontriamo nell’opera narrativa di Guido Morselli. In questo caso, la strada di
pubblicazione esula dalla letteratura per pigliare un sentiero divulgativo e di
salute, una destinazione di “necessità sociale”.
La struttura è tripartita – spiega Maiolini nel saggio introduttivo Il gusto
dello scrittore – “sommaria introduzione alla dietetica in generale”, sulle
caratteristiche, le composizioni e i tempi di digestione degli alimenti (vi sono
compresi i sintetici Consigli dietetici per sani), il dizionario “vero e
proprio”, ossia il lemmario con le voci sulle sostanze commestibili (se ne
contano 333), distribuite in ordine alfabetico, con indicazioni varie, da note
linguistiche a componenti biochimiche, da proprietà digestive a tradizioni
agricole; e infine una sezione sulle diete in regimi terapeutici particolari”. E
qual è la finalità? Lo scopo voleva essere fondamentalmente civile come spiega
Morselli all’inizio della Presentazione:
> “Scopo del nostro lavoro è stato quello di fornire al pubblico alcune nozioni
> elementari e un orientamento di massima, nel campo
> dell’alimentazione. È chiaro dunque che il presente volumetto non costituisce,
> neppure in compendio, un trattato di bromatologia o di dietetica”.
“La materia quando inizia a soffrire” era la sua annotazione alla voce vivere,
pescata dal guazzabuglio del suo Diario. Un interesse mai sopito per la
dimensione esistenziale che rende Guido Morselli un autore di culto. Come mi
conferma Elena Valentina Maiolini. Qui riporto il nostro dialogo.
Come si concilia e dialoga la stesura del «Dizionario dietetico» con la
produzione narrativa di Morselli?
È il testo preliminare alla stagione creativa dei grandi romanzi. Ci lavora
nell’estate del 1956, mentre al primo importante romanzo, Un dramma borghese,
sappiamo che si mette nella seconda metà del 1961. Si potrebbe partire da questo
dato, per valutare il Dizionario dietetico in rapporto alla produzione
narrativa: dopo aver scritto per anni tanti testi brevi (quelli che hai raccolto
tu l’anno scorso per il Saggiatore, con Giorgio Galetto e Fabio Pierangeli),
prima di cambiare la sua «pelle letteraria» – con le parole di Dante Isella –
con il genere del romanzo, si volle cimentare con una forma breve, anzi
brevissima: un lemma di dizionario, appunto.
Vede la luce a quasi settant’anni dalla sua stesura grazie al Fondo per
ricercatori destinatomi dalla Commissione ricerca dell’Università dell’Insubria,
che ci tengo a ringraziare, insieme al mio Dipartimento di Scienze umane e
dell’innovazione per il territorio e al Centro Storie Locali dell’Insubria. Ma
soprattutto, grazie al permesso degli Eredi, sostenuti da te con costanza.
Qualcuno ha parlato di “fiducia nella parola” per Morselli, ma è sfiducia nel
genere umano?
Gianmarco Gaspari ha definito con questa felice formula la predilezione di Guido
Morselli per la sintassi breve. Molto spesso le sue frasi si addensano; ci sono
proprio dei punti dove la scrittura sulla pagina si restringe, e produce un
aforisma: frasi brevi e molto efficaci, evocative, che si mandano a memoria
volentieri. Ciò accade senz’altro anche in quest’opera lessicografica che non
conoscevamo; e no, non direi che si tratti di una sfiducia nel genere umano.
Potresti ben dirlo anche tu, che tanto hai studiato la sua biografia, come
potesse essere attento verso gli altri. Sono d’accordo con Vittorio Coletti:
l’umanesimo di Morselli consiste in «un’attenta fenomenologia degli atti umani»
(atti alimentari, in questo caso!), che sottopone a una lucida osservazione,
«con una tonificante dose di realismo pragmatico e positivo».
Che cosa ha spinto Morselli ad abbracciare un così vasto tema e un progetto così
profondamente diverso dalle altre sue opere?
Non dimentichiamo che non lo sapeva: non sapeva che cosa sarebbe venuto dopo.
Per noi è l’autore sommerso di Un dramma borghese, di Roma senza papa,
di Dissipatio H.G.… ma al tempo di questa impresa lessicografica, non li aveva
ancora scritti. Aveva scritto saggi, articoli dal taglio giornalistico,
racconti… poi questo dizionario. Forse era alla ricerca di un genere?
Sicuramente il Dizionario dietetico è l’esito di una curiosità intellettuale e
umana forte: vi si apprestò con l’entusiasmo testimoniato da alcuni picchi nel
tono (come un onore! a Napoli, ideatrice degli spaghetti con le vongole!), e con
la curiosità dell’intenditore di pasticcerie cittadine, dell’osservatore di
insegne sulle vetrine dei formaggiai… ma anche del coltivatore in proprio di
asparagi.
Quali sono le voci più folgoranti o più sorprendenti?
Io trovo gustosissime quelle in cui si manifestano alcune sue predilezioni. Ad
esempio, per la vita di campagna, rispetto a quella di città: uno dei temi in
cui si incanala una vena ironica indubbia, che non gli è stata riconosciuta a
sufficienza.
Prendiamo la voce aglio:
> «È veramente un condimento, se non un cibo, sanissimo, e varrebbe la pena di
> esercitarci a superare l’avversione che suscita in noi, abitanti della città
> raffinati e schizzinosi, il suo agreste profumo».
Questa è folgorante, e ben strutturata: c’è un senso di realtà territoriale,
stereotipata, ma non troppo; c’è il profumo della terra, c’è il senso
psicologico del cibo. E poi c’è il gusto della lingua italiana: il lessico, con
la differenza tra condimento e cibo; la locuzione che definisce (se non un
cibo…); le strategie che fanno il tono colloquiale, morbido, mai perentorio,
ossia il condizionale (varrebbe la pena) e il noi inclusivo (esercitarci… noi,
abitanti).
Che cosa aggiunge questa opera inedita alla lettura del corpus letterario di
Guido Morselli?
Tra le varie cose, direi un catalogo. Appassionati e studiosi di Morselli vi
troveranno un prontuario di tanti aspetti declinati in forma narrativa nei
romanzi. Tu già dicevi che ci sono molto medici, nei suoi romanzi. E pure
sappiamo che ci sono dei cibi, che c’è il caffè… Una mia laureanda, Eleonora
Trezzi, sta scoprendo molti contatti con la prima opera che è seguita, Un dramma
borghese. Ad esempio, il dottor Vanetti, che prima ricordavi, l’interlocutore
privilegiato del protagonista, a un certo punto gli confida di essere socio di
una fabbrica di caramelle a Losanna: «Adesso, per integrare il guadagno di
medico, che non gli basta, è socio in una fabbrichetta di caramelle, a Losanna,
e lo tiene nascosto, dice, per salvaguardare la sua dignità. Le caramelle sono
tossiche per lui, gli paiono una degradazione», registra l’io narrante nel suo
resoconto quotidiano al magnetofono. Ebbene, tra le fonti del Dizionario c’è un
foglietto di pubblicità su uno spazzolino, brevettato nel 1949 da un dentista di
Trieste, che sembra proprio esprimere tutte le preoccupazioni che in Vanetti,
improvvisato imprenditore contro la salute dentale, si fanno sensi di colpa.
Segnalo che, grazie al permesso degli Eredi, con la tua mediazione, e alla
disponibilità del Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di Autori
moderni e contemporanei dell’Università di Pavia, ora le fonti di tipo
giornalistico e pubblicitario sono tutte in rete nel sito del Centro Storie
Locali: https://morselli.cslinsubria.it/.
Affrontare e attraversare questo schivo autore del Novecento è un’avventura
unica che non lascia indifferenti: che cosa insegna oggi a distanza di oltre
mezzo secolo dalla sua scelta di abbandonare la vita?
Che la fatica di vivere non è in contraddizione con l’amore per la vita.
Linda Terziroli
L'articolo “Qualche svago gradito”. I “consigli dietetici” di Guido Morselli
proviene da Pangea.