
Assenza e presenza del fiore. Ovvero: sulla vocazione di Marcovinicio, il pittore inafferrabile
Pangea - Friday, June 20, 2025I nuovi “vasi” di Marcovinicio approfondiscono e portano alle estreme conseguenze tutta la recente fase della produzione del pittore, la cui ricerca è tesa all’esigenza di spalancare, con differenti mezzi, orizzonti ulteriori rispetto a quelli della semplice “realtà fisica”, facendosi al tempo stesso sempre più rarefatta. Ci troviamo in questo caso di fronte ad una vera e propria “prova di sottrazione”, in cui l’artista attinge a poco a poco una dimensione inedita mediante piccole variazioni ed eliminazioni da un suo modulo classico: il vaso di fiori, più o meno stilizzato e semplificato. Non un modulo, peraltro, soltanto autoreferenziale e legato alla sua precedente produzione (in cui, comunque, aveva assunto una funzione essenziale, sul piano delle tavolequanto su quello dei disegni), ma universalmente riferito alla cultura occidentale, ove il fiore assume una valenza ideale, intesa in senso letterale, vale a dire riferita ad una tradizione che ha inizio con l’idealismo platonico. Le tensioni estetiche dell’assenza-presenza e i riferimenti alla valenza paradigmatica, ideale (e perduta) dei fiori ricordano in modo fortissimo le meditazioni di tutto un filone letterario della fine dell’Ottocento in Francia, in cui – sulla ovvia scia dei baudelairiani Les Fleurs du mal – il fiore viene utilizzato in senso allegorico o fortemente simbolico, evocato, nascosto e improvvisamente presentificato in tutta la sua icasticità espressiva.
Se il giovanissimo Arthur Rimbaud – in Ce qu’on dit au poète à propos de fleurs – scriveva sul tema una sarcastica ode a metà tra il dileggio e l’invito a scavare oltre le soglie della poesia comune e triviale, è Stéphane Mallarmé a trattare il tema nel modo più ispirato e affine a quello di Marcovinicio, nella criptica e difficilissima Prose dedicata a Des Esseintes, l’estetizzante e raffinatissimo protagonista in À reboursdi J. K. Huysmans. Il fiore che veniva da Baudelaire pervertito e da Rimbaud ironizzato viene riportato da Mallarmé al suo pristino splendore, ma come allusione e tensione anziché pieno possesso; il che non sarebbe più possibile nel mondo moderno. La Prose è proprio la rappresentazione estetica della frustrazione provata dal poeta-filosofo nel tentativo di attingere l’assoluto, “da troppo gladiolo celato”. Oltre le forme ideali allegorizzate nei fiori, si celerebbe una dimensione compiuta e definitiva, che l’artista deve limitarsi ad evocare per assenza.

Meno profonda filosoficamente ma non dissimile da quella della Prose era già stata in Mallarmé la meta-riflessione poetica condotta in una lirica come L’Azur, in cui il paradigmatico colore del cielo fungeva nella sua insensibilità da monito dell’impossibilità di raggiungere l’ideale. I fiori stessi erano, peraltro, già stati protagonisti di un’omonima lirica (Les Fleurs) del poeta francese, che sin dagli anni ’70ne tratteggiava l’allegorizzante valenza di idee platoniche: fissità trascendenti da anelare in un disperato (e inappagato) spasmo. La condizione nella quale Marcovinicio immette la riflessione sui fiori è differente, perché figlia del Novecento pittorico italiano e di tutto un concettualismo dell’arte contemporanea dal quale il consapevole distacco è in queste tavole evidente. Il giallo e nero viene qui nuovamente utilizzato, più che nella valenza “pittorica” e materica degli anni ’90, sfruttando la dialettica tra luce e abisso (e, pertanto, nero smaltato) che caratterizza tutte le recenti Vanitas dell’artista, incluse quelle dell’ultima mostra torinese. Una delle parole essenziali della produzione poetica mallarmeana è però cifra stilistica anche di questa fase di Marcovinicio: aboli-abolito.
L’abolizione/cancellazione di qualcosa rimanda immediatamente alla sua presenza, così come avviene ora per i fiori che trascendono l’orlo della tavola, rimanendo idealmente un’estrema propaggine del vaso ma venendo esclusi dalla sua rappresentazione: aboliti secondo i canoni classici dell’arte occidentale, tipicamente conclusa ed esaurita nella singola opera a livello espressivo. Il contrasto, nei vasi di Marcovinicio, è ulteriormente accentuato dalla nettezza definitoria tipica dei gialli e neri di questo periodo, che affermano (e in questo caso, contemporaneamente, negano) con una durezza ed una incisività inedite.
Esercizio di forte concettualità senza per questo essere concettuali in senso astratto, i vasi di fiori sono – come spesso nel pittore – al tempo stesso richiamo alla tradizione, autocitazione e intrapresa di un percorso inedito, avviato tuttavia secondo uno scavo. Come nella più profonda filosofia heideggeriana, ci viene presentificato un “andare avanti” che è sempre un “tornare all’origine”, in un movimento di avvicinamento e allontanamento rispetto ad una struttura in apparenza onni-pervasiva, ma in fondo inesprimibile nella sua essenziale ed eterna configurazione. Se in Marcovinicio l’espressione è rigida e netta, le sue opere disegnano sempre nuovi scenari, additano un altrove, talvolta permeandosi di fortissime istanze metafisiche. Il fiore-non fiore è compendio di questa cifra stilistica e in un certo senso meta-riflessione su di essa: un orizzonte non-presente al quale si tende e si anela con struggente Sehnsucht.
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Sulla ripetizione
Le ultime fasi della pittura di Marcovinicio, caratterizzata in passato da una variazione più libera su tematiche molto definite, sono improntate da una ripetizione frenetica, a prima vista ossessiva, disposta secondo fili conduttori di una chiarezza assertiva che non ne pregiudica la valenza evocativa. Se, nelle Vanitas, la ripetizione della medesima “alzata” in giallo e nero ha avuto come esito di maggiore impatto espressivo l’enorme parete allestita a Torino per la mostra “Altri mondi”, nelle fasi ancor più recenti essa si è declinata in forme ad un tempo antiche e nuove, riprendendo sia il tema del paesaggio (classico per il pittore) che quello dei vasi di fiori precedentemente evocato.
Il “punto di riferimento” visivo ed espressivo è un concetto-chiave per comprendere le modalità in cui Marcovinicio utilizza in modo ripetuto immagini-simbolo-paradigma quali la montagna, la mucca, il lago, le quali non vanno mai prese come simulacri astratti di un concettualismo diretto, del tipo ingenuo “questo significa quello”, “questo allude a quello”. Diversamente, esse si leggono come si guardano, si presentano come si offrono: in totale crudezza e durezza allo sguardo dell’unico osservatore possibile, come una sorta di ponte tra la modernità sterile della tecnica, in cui siamo immersi, ed un orizzonte ulteriore fatto di senso, di pregnanza, di motivi immediati e pure duraturi.
La ripetizione, in questo senso, è anche “eterno ritorno”: il procrastinarsi di situazioni dalle quali, nonostante le contingenze dei tempi e delle epoche storiche, delle decadenze e delle sfioriture, non si può mai veramente evadere, perché ontologicamente connaturate alla realtà. Vale a dire: la pura asserzione come messa in evidenza di ciò che è stabile, permanente, duraturo, immutabile, come l’essere stesso. Ben lungi dal volere attribuire alla pittura di Marcovinicio uno statuto “filosofico” in senso tradizionale (giacché mai il pittore può essere direttamente filosofo, così come il filosofo non può mai avvalersi direttamente dell’estatica espressività dell’artista visionario), senza dubbio le tematiche in essa presenti rimandano ad una sfera concettuale risalente ai primordi, alla grecità, a quell’essere parmenideo “velato” dai residuati moderni della soggettività e da quelli ancor più moderni della tecnica, che soltanto un’operazione paziente di scavo può mettere nuovamente in evidenza nella sua struttura intangibile. Trascendenza e immanenza: trascendenza da una realtà empirica e strumentalizzata che – come una sorta di feticcio – ha costituito una incrostazione empirica sulle strutture permanenti del reale; immanenza come affermazione netta e perentoria di queste stesse strutture, ri-consegnate in qualche misura all’eternità dalla quale provengono.
La stessa operazione portata avanti da Marcovinicio nei confronti del proprio lavoro precedente assume questa connotazione di “scavo archeologico”: riportare alla luce delle strutture di pensiero e di espressione apparentemente obliate per ribadirle nelle linee nettissime e dure di un disegno del passato che diventa un giallo e nero, di un paesaggio metafisico che diviene rigido e scheletrico, di uno specchio che veicola simboli arcaici – già utilizzati in altra forma – e li ripresenta come paradigma del duraturo, senza mai sconfinare nel puro divertissement, ma muovendo le proprie carte con la sapienza di un alchimista che rimescola il vecchio per attingere nuove forme. Nel pittore vi è fondamentalmente l’implicita convinzione che nell’arte non esista la creatio ex nihilo, ma si dia la rimbaudiana illuminazione, il contatto con la vocazione, la risposta ad una sorta di appello che riattiva strutture da sempre esistenti e gli chiede di riportarle alla luce in maniera apparentemente inedita, di asserire il reale con tutta la forza disponibile. Una forza che in Marcovinicio assume la connotazione di una giovinezza perenne, ben al di là del contingente dato anagrafico; di asserire quello che non può non essere reso presente perché si dà allo sguardo nel proprio valore permanente. Alchimia, mediazione, vocazione: un riposizionare le pedine dell’espressione estetica per fungere da tramite tra questa realtà e un mondo dimenticato ma sempre presente: questa, in qualche modo, la vocazione dell’artista vero; questa, in qualche modo, la chiamata di Marcovinicio.
Jonathan Salina
**In copertina: Marcovinicio, Quadro con vaso, 2024, olio su faesite
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