Se mi trovassi nella sala di un museo con cento quadri appesi alle pareti, sono
certo che l’occhio mi cadrebbe sull’unico Cézanne esposto tra tutti gli altri.
Non ho nessuna particolare qualità di sguardo, ma da quando, ai tempi
dell’università, ho cominciato ad accompagnare agli studi letterari quelli
sull’arte, ma senza segnarmi a nessun corso, seguendo percorsi assolutamente
personali, a Cézanne sono sempre tornato. E quando capitavo a una mostra o in un
museo che conteneva una sua opera, era sempre lì che mi sentivo spinto – come
attratto da un mistero. Così, venendo a sapere di una grande esposizione a lui
dedicata a Aix-en-Provence, ho deciso di approfittare dell’occasione e
raggiungere quella cittadina provenzale che gli aveva dato i natali e che
sognavo di visitare da molti anni.
La Aix odierna non è certamente quella vissuta da Cézanne. Oggi il nome del
pittore ricopre le strade in ogni dove. Cézanne è il nome di una strada, di un
cinema, di un caffè, di un negozio qualunque: Cézanne come logo di un enorme
merchandising. Lo stemma stesso della città, che si trova incastonato in ogni
marciapiede del centro storico, è accompagnato dal suo nome. Ma pronunciare
Cézanne ad Aix nella seconda metà dell’Ottocento, voleva dire nominare una
specie di pazzo che nessuno comprendeva né voleva comprendere. Dobbiamo togliere
alla provincia un po’ del romanticismo che siamo abituati ad attribuirgli. La
provincia può essere anche chiusa, feroce, spietata. Spietata specialmente con
le diversità, con le anomalie. E Cézanne, in quella cittadina, doveva sembrare
addirittura un clochard. La domenica era solito andare da casa alla cattedrale
gotica a pochi passi, coi pantaloni e la giacca imbrattati di pittura, e si
fermava lì a pregare, ma evitava di incontrare il prete, perché temeva che gli
rubasse la libertà. Era schivo, irascibile, poteva esplodere di rabbia se
qualcuno lo toccava, come colto di sorpresa, come volessero derubarlo di un
segreto. Non sorprende quindi che giovanissimo, animato da uno spirito artistico
che la comunità non capiva, volesse evadere da quel luogo, raggiungere Parigi,
la capitale dell’arte, perché la provincia, per chi appartiene solo a se stesso,
per chi sogna qualcosa di diverso, per chi sente che il mondo gli esplode
dentro, può diventare una prigione. E nella capitale, dopo i numerosi scontri
con suo padre, che lo credeva un inconcludente – pure se gli garantirà una
rendita a vita che gli permetterà di dipingere sempre –, riesce alla fine ad
arrivare, legandosi a un gruppo di pittori.
Capitava che Paul raggiungesse al caffè gli amici, tra cui Zola, suo amico fin
dall’infanzia e che sarà pure colui che lo stimolerà nella carriera di pittore
anche contro il volere del padre, che lo spingeva verso studi giuridici: «una
cosa o l’altra», lo esorterà lo scrittore, «sii davvero un avvocato, o sii
veramente un artista; ma non restare un essere senza nome, portante una toga
sporca di pittura». Tra quegli amici che incontrava a un caffè parigino c’erano,
tra gli altri, Monet, Pissarro, Degas, Renoir e Manet. Quest’ultimo era
considerato il padre indiscusso di tutti loro; girava per Parigi vestito di
tutto punto, portando, per vezzo, un bastone da passeggio. Monet racconta che
quando arrivava Cézanne, con la sua barba da semidio, burbero e sciatto, tirasse
sopra la vita i pantaloni calati e facesse il giro del tavolo stringendo la mano
ai compagni. Arrivato davanti a Manet, si toglieva il cappello in forma di
ironica reverenza e gli diceva: “Non mi permetto di stringerle la mano, signor
Manet, perché non la lavo da una settimana”.
È solo uno dei tanti episodi di vita che bene mettono in evidenza il carattere
del più importante pittore francese a cavallo tra Ottocento e Novecento. Si deve
a John Rewald, tra i maggiori storici dell’Impressionismo e biografo di Cézanne,
una riscoperta mondiale dell’artista, quando ancora larga parte della critica ne
diffidava, e pure nel suo paese d’origine, Aix-en-Provence, lo consideravano
appena un uomo stravagante. Solamente gli artisti a lui posteriori ne avevano
compreso l’importanza e raccolto l’eredità; artisti che, attraverso i suoi studi
sulla natura e la sua tecnica pittorica, arrivarono a pensare a forme d’arte
come il Cubismo (non sarà un caso che Picasso lo considerasse un maestro
indiscusso, addirittura un Dio). Se Cézanne abbracciò la novità impressionista,
immediatamente dopo comprese pure che occorreva superarla, perché, come scrive
al più giovane Émile Bernard, che lo sollecitava a teorizzare il suo lavoro,
> «per noi uomini la natura è più in profondità che in superficie, di qui la
> necessità di introdurre nelle nostre vibrazioni di luce, rappresentate dai
> rossi e dai gialli, una quantità sufficiente di azzurri, per far sentire la
> presenza dell’aria».
Ma nonostante le teorizzazioni estorte da Bernard, Cézanne non sarà mai
pienamente soddisfatto della sua arte. Sognava di giungere, con la pittura, a
una Terra promessa; diceva di aver fallito, ma non come credeva Zola, che gli
rimproverava di non essere riuscito a realizzare quanto aveva compreso, ma
perché niente in arte è finito. La Terra promessa è una visione, una
resurrezione nella mente. «Nel pittore esistono due cose», aveva
scritto, «l’occhio e il cervello, ambedue devono aiutarsi a vicenda; bisogna
lavorare al loro mutuo sviluppo». Il cervello organizza ciò che l’occhio vede.
Ma quello che si vede non è un dato oggettivo, pure se oggettuale, bensì già una
sensazione, già, pure, un’interpretazione. Ed è per questo che Cézanne si
stancherà anche di Parigi, nonostante fosse ormai divenuto il più importante
pittore sconosciuto di Francia – mai la gioia di un successo pubblico. Dopo aver
provato a risiedere in più occasioni nella capitale, dove passava il più del
tempo a dipingere o a osservare i capolavori del Louvre, capisce che
Aix-en-Provence è la sua vera patria. Proprio la città di provincia che pure lo
aveva spinto lontano, ora tornava a essere un luogo ideale e fuori da ogni posa,
dove in campagna incontrava contadini che spesso ritraeva. Contadini, diceva al
più giovane amico Gasquet, che gli pareva non avessero alcuna percezione del
paesaggio in cui abitavano: per loro un campo, un albero, un frutto erano reali
soltanto per il loro utilizzo. Ma era esattamente di questo spirito semplice che
Cézanne aveva bisogno, perché quello spirito era privo di sovrastrutture e
poneva l’essere umano davvero nel tutto, parte del paesaggio che abitava, pieno
dentro la pienezza della vita. Per questo è a Aix-en-Provence che trova
l’isolamento necessario, la calma e i “motivi” di cui si nutre la sua visione.
Così Cézanne in una lettera spiega il suo desiderio di solitudine:
> «Il dubbio di apparire inferiore a quanto ci si attende da una persona che si
> presume all’altezza di ogni situazione è senza dubbio la scusa che mi fa
> vivere in disparte».
*
Lo dicevamo, nessuno come Zola aveva stimolato l’estro artistico di Cézanne, fin
da quando adolescenti passavano i pomeriggi nella campagna di Aix-en-Provence,
leggendo poesie ad alta voce, immaginando un nuovo modo di scrivere e di
dipingere la natura. Nessuno come Zola credeva al genio artistico di Cézanne,
convinto fosse la migliore mente della sua generazione. Ed era stato sempre Zola
il portavoce di quella nuova pittura che nella seconda metà dell’Ottocento stava
nascendo a Parigi; lui che scriveva violenti articoli contro la vecchia pittura
da Salon in difesa di un’arte dal vero che esprimesse, sulle tele, tutta la
natura – una natura che esplodeva di vita: Manet, il capostipite, e poi Monet,
Pissarro, Renoir, e ovviamente Cézanne. Ma Paul già guardava altrove, i suoi
accostamenti cromatici («Il colore è il luogo in cui il nostro cervello e
l’universo si incontrano», diceva), la volumetria, l’uso del pennello e della
spatola erano già distanti da quell’impressione di realtà che avevano i suoi
compagni e lo stesso Zola capiva e non capiva quale fosse la sua ricerca.
Paul Cézanne, Le cabanon de Jourdan, 1906
Quando nel 1885 pubblicò il romanzo L’Opera, Zola e Cézanne si erano già
allontanati. Il primo aveva in una certa misura chiuso il suo rapporto con i
pittori, dedicandosi interamente alla letteratura. I vecchi amici, letto il
romanzo, si sentirono delusi nel non trovare in quelle pagine la vitalità di
quel momento rivoluzionario che avevano attraversato insieme. Credettero poi che
il protagonista del romanzo, il pittore Claude Lantier, si ispirasse a Manet,
che Zola aveva contribuito, anni prima, a decretarne il successo. Ma solo uno di
quei pittori si riconobbe davvero dietro quelle pagine, ed era proprio l’amico
d’infanzia, Cézanne. Ora Paul finalmente sapeva cosa Emile pensava della sua
arte. Lo credeva un pittore “abortito”. Uno che non era riuscito a realizzare
quanto di grande la sua mente riusciva a cogliere. Se il loro rapporto si era
già frantumato, con L’Opera non sarebbe stato più recuperabile. Quei due vecchi
amici, che avevano condiviso sogni e speranze, che si erano raccontati tutto,
che si conoscevano tanto a fondo, non si sarebbero mai più rivisti.
Eppure, a leggere il romanzo, si comprende pure quanto Zola avesse compreso la
natura irrequieta di Cézanne, la sua perenne insoddisfazione, quella lotta con
la natura che poteva torturarlo, e quale sforzo l’amico dovesse compiere per
sentire sullo spazio bianco della tela la potenza della vita. Ed è questa lotta,
questo corpo a corpo con la realtà che Zola descrive così bene in certe pagine e
che molto rivelano di Cézanne:
> «Ah! lo sforzo creativo dell’opera d’arte, quello sforzo di sangue e lacrime
> di cui agonizzava per creare corpi, animarli di vita! Sempre in lotta con il
> reale e sempre vinto, la lotta contro l’Angelo! Si distruggeva nella
> impossibile impresa di fare entrare tutta la natura in una sola tela, spossato
> alla lunga dai perpetui dolori che gli tendevano i muscoli, senza che gli
> riuscisse mai di produrre l’opera del suo genio. Quello di cui altri si
> appagavano, l’approvazione della resa, la necessaria abilità, lo squassava di
> rimorsi, lo indignava come debole vigliaccheria: e ricominciava, e sciupava il
> buono in cerca di meglio, trovando che non ‘parlava’ (…). Ma che gli mancava
> per creare la vita? Un niente, di sicuro. Forse ne restava un poco al di qua,
> o andava un poco al di là. Un giorno, la parola “genio incompleto”, udita
> dietro le sue spalle, l’aveva lusingato e spaventato. Sì, doveva essere
> questo, il salto troppo corto o troppo lungo, lo squilibrio di nervi di cui
> soffriva, il guasto ereditario che, per qualche grammo di sostanza in più o in
> meno, produceva un pazzo invece che un uomo geniale. Quando la disperazione lo
> cacciava dallo studio, e fuggiva la sua opera, si portava sempre dietro questa
> idea di una fatale impotenza, l’udiva picchiare contro il suo cranio, come un
> rintocco di campana a morto».
A leggere certe pagine di L’Opera si ha l’impressione che nessuno si sia
avvicinato al moto creativo di Cézanne quanto Zola; che nessuno abbia capito
meglio di lui cosa significasse vivere dentro l’atto creativo, e quale fosse il
senso di insoddisfazione che il pittore sentisse non riuscendo mai a vedere
realizzato quanto la mente gli suggeriva. Ma Zola sembra pure, di contro, non
comprendere esattamente cosa sia quell’insoddisfazione, quasi rimproverasse
l’artigiano e non l’artista, cioè individuasse un difetto di senso pratico, di
realizzazione, e non d’ingegno. In realtà lo stesso Cézanne era consapevole che
nessuna “opera” potesse dirsi finita; che lo stesso principio di realtà aveva
una falla, un’assenza, una mancanza che l’occhio pure percepiva. Perché cercando
quella Terra promessa sapeva pure che questa in un’opera poteva essere suggerita
senza mai poterla affermare completamente.
*
Ogni mattina usciva dalla casa al centro di Aix, molto presto, per raggiungere
l’atelier che si era fatto costruire comprando un terreno in campagna, su
colline coltivate a ulivi. L’enorme vetrata dello stanzone faceva entrare molta
luce, assorbita dal grigio delle pareti, tinta scelta volontariamente per non
alterare la percezione dei colori sulla tela. A mezzogiorno, quando la luce
cambiava, usciva dallo studio con cavalletto, colori, pennelli e la tela che
stava realizzando, mettendosi di nuovo in cammino sulla collina per una ripida
salita. Raggiungeva così un punto panoramico dove in prospettiva l’azzurro
costone della montagna Sainte-Victoire dominava l’orizzonte. Passava tutto il
resto della giornata lì, ragionando su ogni pennellata, cercando in profondità
il contrasto tra i colori, misurando con l’occhio il rapporto tra la mente e il
paesaggio, non calcolando geometricamente la prospettiva, perché la matematica è
nemica della sensazione, e quello che l’occhio vede in prospettiva non è un
fascio di linee perpendicolari verso un punto all’orizzonte, ma un insieme di
colori che riempie ogni spazio, che è un tutto. Per questo nei suoi paesaggi le
prospettive sono tecnicamente sbagliate, eppure vere per come l’occhio
percepisce la profondità.
Non c’è niente di più teorico di un paesaggio. E Cézanne, per quanto non amasse
sprecare parole sulla pittura, preferendo il lavoro alla filosofia, immaginava
davvero la sua pittura come un atto critico, lavorando sulla percezione più che
sull’imitazione – ed è esattamente per questo che i suoi studi aprono al
pensiero del Novecento. Sapeva che lo sguardo, mentre osserva, interpreta, e
interpretando aggiunge le proprie sensazioni; sensazioni che si esprimevano
soprattutto con i colori. Se si trovano i giusti contrasti e le giuste relazioni
tra i colori che gli oggetti osservati esprimono – pensava –, il disegno sarebbe
emerso in conseguenza. È dal colore (dalla “sensazione coloristica” che si
riceve dagli oggetti osservati) che le forme emergono. E le forme sono presenze
con un loro volume, con un loro peso oggettivo. Si capisce così perché fosse
tanto lontano ormai da quell’impressione di realtà sperimentata dai suoi vecchi
compagni Monet, Renoir, e anche da Pissarro (a cui rimase però sempre legato).
La sua tavolozza non mischiava una tinta con l’altra. Ogni tono di blu, di ocra,
di rosso, di verde aveva un suo posto specifico. Cézanne lavorava per
sovrapposizione, anche per questo era lentissimo (gli ci volevano cento sedute
per un paesaggio così come per una natura morta o un ritratto, ed era
impossibile avere dei modelli che non fossero parenti e amici, che pure portava
allo sfinimento). E quelle che, avvicinandosi ai suoi quadri, sembrano macchie
di colore – macchie che di colori ne contengono molti –, sono il risultato di
una “sensazione coloristica” a cui chiedeva di perpetrarsi in quello spazio che,
solo, avrebbe restituito verità a quanto aveva visto.
Cézanne è un pittore della realtà nella misura in cui la realtà è qualcosa di
sacro, perché contiene il segreto delle cose nel loro stato nascente. La realtà,
nei quadri di Cézanne, sembra nascere in quel momento. Tutta la sua pittura è
qualcosa che torna alle origini del mondo per sprigionarne la natura
primordiale.
> «Per dipingere bene un paesaggio», dirà a Joachim Gasquet, «devo prima
> scoprire le forme geologiche. Rifletta che la storia del mondo ha inizio dal
> giorno in cui due atomi si incontrarono o due vortici, due danze chimiche si
> composero insieme. Quei grandi arcobaleni, quei prismi cosmici, quell’alba di
> noi stessi al di sopra del nulla, io li vedo crescere, io me ne sazio leggendo
> Lucrezio. Sotto quella pioggia sottile respiro la verginità del mondo. Un
> senso acuto delle sfumature mi tormenta. Mi sento colorato da tutte le
> sfumature dell’infinito».
Nel mio viaggio ad Aix, dopo aver visitato il suo atelier sono salito anche io
nel punto panoramico dove Cézanne si fermava a dipingere, e mano a mano che
facevo quella salita, immaginavo quanto fosse potente nella vita del pittore
compiere quel percorso ogni giorno. Si trattava di un rito, più che di un atto
di volontà o d’abitudine. Raggiungere il “motivo”, prima ancora che dipingere
quel “motivo”, era un gesto che doveva sentire come sacro. Mi sono fermato su
una panchina, ho fissato per molto tempo il paesaggio che avevo davanti,
puntando all’orizzonte la montagna Sainte-Victoire, il suo costone brullo, la
sua pietra calcarea che si colora di una luce calda che solo in Provenza ho
incontrato, una luce che emerge dagli stessi colori del paesaggio, che è dentro
ai colori stessi del paesaggio – quella montagna che si colora dell’azzurro del
cielo e di quello del mare alle sue spalle. Mi chiedevo cosa vedesse lui in
quella montagna per ritrarla così tante volte, farla divenire addirittura
un’ossessione, o il suo paesaggio ideale. Attraversando con lo sguardo l’intera
vallata, vedeva come la luce colorasse il volto della montagna, quel volto che
non si confondeva al cielo, ma ne era il suo riflesso speculare, come dire ciò
che del cielo restava solido allo sguardo, che acquistava colore e forma. E
la Sainte-Victoire non è ritratta più volte negli anni per vedere come sul suo
costone cambi di volta in volta la luce del giorno, come aveva fatto Monet con
la Cattedrale di Rouen. Per Cézanne quella montagna ha il volto azzurro di una
visione perpetrata – la visione di qualcosa che prendendo forma con gli anni
addirittura si scompone senza mai sgretolarsi. È quella visione che dà forma
allo sguardo, che ne sostanzia la sensazione che ne prova. La montagna è azzurra
e l’aria e le ombre causate dalla distanza tra l’occhio e l’oggetto osservato la
sfumano di rosa e di bianco. La montagna è già dentro lo sguardo. La
Sainte-Victoire, negli occhi e nella testa di Cézanne, è quel Paradiso che la
realtà ha perduto e che solo la pittura può farci definitivamente rivedere.
Paul Cézanne, Bagnanti, 1899-1904
*
Credo che la mia attrazione per Cézanne sia però nata da un quadro specifico che
sono andato a osservate molte volte, perché è conservato nella Galleria
Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Un quadro del 1906, Le Cabanon
de Jourdan, su cui mi sono interrogato spesso, non sapendo se sia mai riuscito a
capirlo davvero. Del resto a Cézanne si può arrivare armati di un’infinita
bibliografia e non sfiorare neppure per un attimo il suo segreto. Cézanne deve
risuonarti dentro, i suoi quadri vanno più sentiti che capiti, vissuti più che
spiegati.
Le Cabanon de Jourdan è un paesaggio con una casa in primo piano, a sinistra
della tela. Guardandolo siamo portati a riflettere su cosa significhi, nella
casa, l’azzurro della porta, quella porta che ha lo stesso colore del cielo, che
è una pennellata di cielo in uno spazio sbagliato, come un inciampo del
pennello, un errore, un attimo di cecità. Deve pure significare qualcosa, mi
sono sempre detto, se questo è uno degli ultimi dipinti a olio, realizzato pochi
mesi prima di morire. Cosa vuol dire quella casa, se quella porta è uno sbaglio
del cielo, o una distrazione dello sguardo. Quell’errore del pennello, quella
casa che è una casa che non può finire, perché la luce gli esplode dentro,
accende le pareti, è già colore, contiene tutto il cielo che solo lui, Cézanne,
vedeva – il cielo che è già qui: reale, materico, eterno.
Joachim Gasquet riporta una conversazione tra lui e Cézanne in cui quest’ultimo
afferma:
> «Tutto, più o meno, esseri e cose, non siamo altro che un po’ di calore solare
> immagazzinato, organizzato, un ricordo di sole, un po’ di fosforo che brucia
> nelle meningi del mondo (…). Ecco, io vorrei liberare questa essenza. La
> morale frammentata del mondo è forse lo sforzo ch’egli compie per ridiventare
> sole. Là si trova il suo concetto, il suo sentimento, il suo sogno di Dio.
> Dovunque, un raggio colpisce una porta oscura. Una linea, ovunque,
> circoscrive, tiene prigioniera una tonalità. I voglio liberarle».
*
Eppure paesaggi non sono solamente la campagna provenzale, o la visione
della Saint-Victoire così tante volte dipinta. Paesaggi sono anche la serie di
bagnanti, che forse meglio di ogni altro “motivo” restituisce l’immaginario di
Cézanne. Negli anni ne ho viste molte di sue opere con questo soggetto; e la
stessa mostra allestita ad Aix ne esponeva più di qualcuna. Quelle donne e
quegli uomini – quei volumi di donne e di uomini – sono in una relazione tanto
stretta con la natura che abitano che paiono i primi esseri a calpestare la
terra.
Mi sono fermato davanti a una in particolare che mi aveva
attratto, Bagnanti dipinte tra il 1899 e il 1905, conservata ora in un museo di
Chicago. In una figura umana un piede disteso a terra si confonde al verde
dell’erba, e un braccio si assorbe al tronco di un albero – e non stupisce che
il rosa di un incarnato sfumi in azzurro e che l’azzurro del cielo e dell’acqua
del fiume abbiano dato colore all’albero e alla stessa figura umana. I colori
delle cose non si mischiano impressionisticamente, contengono invece una luce
intrinseca che contamina. La realtà è per Cézanne una forma di coabitazione
armonica degli elementi; una coabitazione primordiale, originaria, in cui ogni
forma di vita è stata appena creata.
Ma sono convinto che questo “motivo” sia anche ciò che abbia ispirato Zola per
il romanzo L’Opera. Nella storia del romanzo il pittore Claude Lantier passa gli
ultimi anni della sua vita ossessionato da un solo quadro, che continuamente
corregge e disfa, sentendo di non arrivare mai a raggiungere quanto sente di
poter esprimere da quel soggetto. Il quadro è una veduta della Senna, ma in
primo piano un nudo di donna occupa gran parte dello spazio. La moglie del
pittore ne è addirittura gelosa, perché sente quanto Lantier ami più quel corpo
dipinto che il suo, che pure gli offre per interminabili sedute da modella; che
con quel corpo dipinto Lantier passi la gran parte del suo tempo, che occupi
ogni suo pensiero, che ci faccia addirittura l’amore, che lo osservi e lo studi
come fosse carne viva, come avesse un’anima e un nome. Ma nonostante l’amore,
nonostante l’ossessione, nonostante lo sforzo di finire quel soggetto, di
lasciarlo vivere di vita propria, Lantier non ne sarà mai totalmente
soddisfatto. Una notte, la stessa notte in cui sua moglie è riuscita finalmente
a strapparlo al suo lavoro, a farlo tornare da lei, alla vita reale, facendosi
possedere e illudendosi di possedere a propria volta suo marito, Lantier torna
di nuovo davanti al suo enorme quadro e riconosce il suo inesorabile fallimento,
compiendo il gesto estremo di impiccarsi davanti a quella donna che non ha mai
preso vita se non nella sua mente. Per Cézanne il “motivo” dei/delle bagnanti si
esprime fin dagli anni Settanta dell’Ottocento, si può addirittura dire che sia
sempre esistito, e forse proprio per questo Zola immagina quel particolare
soggetto per il quadro abortito che porta al suicidio il suo personaggio. Ma è
come se i due, uno attraverso il romanzo l’altro attraverso i quadri, stessero
dialogando attraverso l’arte senza riuscire a incontrarsi.
> «Claude, in maniche di camicia nonostante la rigida temperatura, nella fretta
> s’era infilato soltanto pantaloni e pantofole, era dritto sulla grande scala
> davanti al suo quadro. La tavolozza giaceva ai suoi piedi e con una mano
> reggeva la candela, mentre con l’altra dipingeva. Aveva gli occhi dilatati del
> sonnambulo, gesti precisi e rigidi, chinandosi ogni minuto per prendere il
> colore, rialzandosi, proiettando contro il muro una grande ombra fantastica,
> dai movimenti taglienti d’automa. E non un sospiro, niente altro, nell’immenso
> ambiente oscuro, che un tremendo silenzio. Rabbrividendo, Christine
> indovinava. Era l’ossessione, l’ora passata laggiù, sul ponte del
> Saints-Péres, che gli rendeva il sonno impossibile e che l’aveva riportato di
> fronte alla sua tela, divorato dal bisogno di rivederla, malgrado la notte.
> Senza dubbio, era salito sulla scala solo per empirsene gli occhi più da
> vicino. Poi, torturato da qualche nota falsa, malato di quella ossessione al
> punto di non poter attendere il giorno, aveva afferrato un pennello, dapprima
> nel desiderio di un semplice ritocco, poco a poco trascinato di correzione in
> correzione fino ad arrivare a dipingere come un allucinato, la candela in
> mano, in quella debole luce che i suoi gesti facevano oscillare. La sua smania
> impotente di creare lo aveva riafferrato, si macerava fuori del tempo, fuori
> del mondo, voleva soffiare la vita nella sua opera, subito!».
Zola non fa che battere il chiodo su quell’ossessione, su quel rapimento, su
quella vertigine da cui il suo personaggio è posseduto. Insiste appunto su
quell’atto creativo che non trova mai una capacità realizzativa, che mai si
concretizza. Ed è un’ossessione, un assedio che certamente Cézanne sentiva, ma
non era sufficiente a spiegare tutto.
Forse una risposta a Zola è un piccolo racconto di Balzac, Il capolavoro
sconosciuto, il cui protagonista, il pittore Frenhofer, è a sua volta un artista
che vuole svelare, attraverso l’osservazione della natura, il segreto della
vita. Lo stesso Cézanne, interrogato su quale fosse il personaggio letterario
che amasse di più, è proprio il protagonista del Capolavoro sconosciuto che
nomina. E a leggere alcune affermazioni sulla pittura di Frenhofer,
effettivamente sembra di ascoltare la voce stessa di Cézanne:
> «La missione dell’arte non è copiare la natura, ma esprimerla! Non sei un vile
> copista, ma un poeta! (…) Noi dobbiamo cogliere lo spirito, l’anima, la
> fisionomia degli oggetti e delle creature. Gli effetti, gli effetti! Ma gli
> effetti sono le casualità della vita, non sono la vita! Una mano, dato che ho
> fatto questo esempio, non è solo attaccata al corpo, ma esprime e continua un
> pensiero che bisogna cogliere e rendere. Né il pittore, né il poeta, né lo
> scultore devono separare l’effetto dalla causa, che sono indissolubilmente
> concatenati. (…) Voi disegnate una donna, ma non la vedete! Non è così che si
> svela il mistero della natura. La vostra mano riproduce, senza che voi vi
> accorgiate, il modello che avete copiato dal vostro maestro. Non penetrate
> abbastanza a fondo nell’intimo della forma, non la inseguite con sufficiente
> amore e perseveranza nei suoi sbandamenti e nelle sue fughe. La bellezza è
> qualcosa di severo e difficile che non si lascia conquistare senza sforzi:
> bisogna attendere il momento giusto, spiarla, starle alle costole e legarla
> bene per costringerla ad arrendersi. La forma è un Proteo ben più sfuggente e
> ingannevole del Proteo della storia. Solamente dopo un lungo combattimento la
> si può costringere a mostrarsi col suo vero aspetto. (…) Ogni figura è un
> mondo, un ritratto il cui modello è apparso in una visione sublime, inondato
> di luce, su indicazione di una voce interiore, spogliato da un dito celeste
> che ha mostrato, nel corso della sua vita, le fonti dell’espressione. (…) La
> natura comporta una serie di rotondità che si avvolgono le une nelle altre.
> Propriamente parlando, il disegno non esiste. (…) La linea è il mezzo con cui
> l’uomo comprende l’effetto della luce sugli oggetti, ma in natura non vi sono
> linee, tutto è pieno. È modellando che disegniamo, che stacchiamo gli oggetti
> dallo sfondo; solo la distribuzione della luce dà al corpo il suo vero
> aspetto».
Mettendo a confronto Zola e Balzac si ha come l’impressione che svelino il verso
e il recto di uno stesso personaggio. Balzac non poteva avere Cézanne come
modello per il suo Frenhofer, la prima apparizione di Il capolavoro
sconosciuto è infatti del 1831 – Cézanne era nato da appena otto anni. Ma lo
stesso quelle pagine ci raccontano di un sentimento creativo, una necessità di
coabitazione con il soggetto osservato, che è possibile attribuire allo stesso
Cézanne, il quale avrebbe potuto sottoscrivere frasi come:
> «La natura comporta una serie di rotondità che si avvolgono le une nelle
> altre. Propriamente parlando, il disegno non esiste. (…) La linea è il mezzo
> con cui l’uomo comprende l’effetto della luce sugli oggetti, ma in natura non
> vi sono linee, tutto è pieno».
È quel tutto pieno che desidera esprimere Cézanne. Far vivere insieme,
attraverso i colori, tutta la natura – esseri e cose. È quella la Terra
promessa. È quello il Paradiso tanto agognato, perché nell’espressione di quella
coabitazione è possibile rivivere il primo atto creativo, la nascita della prima
forma di vita sulla terra, il mistero raccontato in Genesi.
Si rilegga invece l’ultima frase di Zola:
> «La sua smania impotente di creare lo aveva riafferrato, si macerava fuori del
> tempo, fuori del mondo, voleva soffiare la vita nella sua opera, subito!».
Forse è realmente questo che ha ferito Cézanne di quel romanzo. Certo,
l’impotenza, l’incapacità di realizzazione, il fallimento. Ma a scapito di cosa?
Zola aveva colto qualcosa di più profondo che riguardava la persona di Cézanne.
Zola aveva capito quanto Paul, per esprimere la vita, avesse dovuto rinunciare
alla vita. Aveva capito che l’ossessione di esprimere la natura, l’ossessione di
cogliere, della natura, il fuoco che la rende viva, avesse di conseguenza reciso
ogni suo legame; che l’arte, in Cézanne, aveva inghiottito tutto: l’amore,
l’amicizia, i legami di sangue – si racconta che non partecipò neppure al
funerale di sua madre (la donna che per tutta la vita incoraggiò la sua
vocazione) per correre al suo “motivo”. Ma sarebbe un errore troppo grave
ridurre Cézanne a un’interpretazione psicologica carpita da qualche aneddoto.
Da una parte (la lezione di Balzac) il mistero della creazione. Dall’altra
(l’interpretazione di Zola) l’ossessione creativa che distrugge la vita. In
Cézanne convivono questi poli che non possono essere separati, che pur
collimando sono necessari l’uno all’altro.
> «È certo», scrive Merleau-Ponty in un saggio che dedica a Cézanne, «che la
> vita non spiega l’opera, ma è altrettanto certo che esse comunicano. La verità
> è che quell’opera da fare esigeva quella vita. Sin dall’inizio, la vita di
> Cézanne non trovava equilibrio se non appoggiandosi all’opera ancora futura,
> di cui era il progetto, e l’opera si annunciava mediante segni premonitori che
> avremmo torto a ritenere cause, ma che rendono vita e opera una sola
> avventura. Non ci sono più qui cause ed effetti, le une e gli altri si
> raccolgono nella simultaneità d’un Cézanne eterno che è la formula di quel che
> ha voluto essere e, ad un tempo, di quel che ha voluto fare».
*
Lasciando l’elegante e affollata via principale di Aix, una cittadina di
provincia oggi vitalissima, piena di giovani universitari, di locali, di turisti
da ogni parte del mondo, mi sono infilato in alcuni vicoli più stretti, cercando
la salita che mi avrebbe fatto raggiungere il cimitero di Saint-Pierre. Amo la
pace dei cimiteri di provincia, non vi è città che visiti in cui non cerchi il
luogo in cui la memoria è seppellita. Eppure mi stupiva accorgermi che via via
che mi avvicinavo al cimitero, quella folla che avevo visto in città, la stessa
che aveva riempito anche le sale della grande mostra dedicata a Cézanne e
addirittura la sua casa e il suo atelier, fosse improvvisamente scomparsa. Tra
le tombe più nessuno, soltanto un gatto rosso dormiva al sole sdraiato su una
lastra di marmo.
Presso la tomba di Cézanne; photo Andrea Caterini
La tomba di Cézanne, il cui nome inciso sulla pietra viva si era un poco
levigato, era a pochi passi dall’ingresso. Ecco, diventare una lapide da cui si
è cancellato anche il nome, soffiato via dal tempo; scomparire diventando
pietra, elemento, memoria organica di un luogo, non essere niente stando nel
tutto. È il pensiero che ho avuto salutando Cézanne un’ultima volta prima di
partire. «Ho giurato a me stesso di morire dipingendo», aveva scritto in una
lettera a Émile Bernard nel settembre del 1906. Sarebbe morto un mese dopo.
Alzando lo sguardo dopo una preghiera, scorgevo in lontananza, tra le punte di
due cipressi che facevano da cornice, il volto impenetrabile della
Sainte-Victoire, ancora lì davanti a lui: eternamente.
Andrea Caterini
*In copertina: Paul Cézanne, Portrait de l’artiste au chapeau de paille, 1875
ca.
L'articolo “Mi sento colorato da tutte le sfumature dell’infinito”. La Terra
promessa di Cézanne proviene da Pangea.
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Nel settembre del 1906 il poeta René Bichet, vicino a Jacques Rivière e André
Gide, scrive all’amico Alain-Fournier rievocando un ritratto di Infanta di Juana
Romani. In esso proietta la nostalgia per Parigi: una città «necessaria»[1]che
la figura della pittrice incarna simbolicamente. Dieci anni dopo, nel racconto
di Fritz-René Vanderpyl pubblicato sul Mercure de France, un quadro firmato
«Juanita Romani» diviene l’emblema di uno «charme simil-orientale»[2] di cattivo
gusto, che solo gli americani potrebbero appendere sopra i propri caminetti: in
entrambi i casi, Romani è immaginata come simbolo ibrido e ambivalente, legata
visceralmente alla capitale francese. La sua molteplice identità fu oggetto di
un’elaborazione retorica: il poeta Armand Silvestre la presenta come erede di
Tiziano e Correggio, mentre lei stessa si definisce «figlia di Benozzo Gozzoli»
e della solida tradizione artistica italiana. Nel 1901, Vittorio Pica la
descrive, accostandola a Giovanni Boldini, come «una giovane pittrice di non
comune bravura, destinata a piacere sempre più al gran pubblico e sempre meno
agli austeri amatori d’arte»[3].
Ma chi era questa artista vivacemente presente nella cultura
europea fin-de-siècle, eppure oggi così poco conosciuta?
All’origine c’è una realtà sociale dura: Juana nasce come Carolina Carlesimo nel
1867 a Velletri, da un brigante e da una bracciante del Lazio meridionale.
Emigra a Parigi nel 1877 con la madre e il patrigno musicista, Temistocle
Romani, membro di una famiglia di ricchi proprietari terrieri. In Francia inizia
la carriera di modella per artisti, per poi divenire pittrice. Espone
regolarmente ai Salon, alle esposizioni universali, in Italia alla IV Biennale
di Venezia (1901) e alla II Esposizione internazionale femminile di belle arti
di Torino (1913). La sua attività è segnata dalla vincita della medaglia
d’argento (1889), acquisti di Stato e da un’intensa attività di ritrattista.
Celebrata all’inizio del XX secolo, Juana fu inclusa come artista tra le più
note della sua generazione in Women in the Fine Arts di Clara Clement (1904)
e Women Painters of the World di Walter Sparrow (1905). Amata dal pubblico, ma
anche da insospettabili personaggi come Josephin Péladan, nel 1901 il dandy
Jacques d’Adelswärd-Fersen la rievoca nel romanzo Notre-Dame des Mers
Mortes[4] accostandola a da Vinci e Raffaello. Assiste da vicino alla nascita
del cinematografo grazie all’amicizia con Antoine Lumière e nello stesso periodo
la sua immagine circola tra profumi, colori, vini, affiche e riviste
come Fémina, assieme a Camille Claudel, e Le Figaro-Modes.
Tuttavia, già dagli anni Dieci la sua fama declina: Francis Carco la liquida con
pittrice “accademica” di un secolo passato e Henri Matisse la cita ironicamente
tra i pittori ancora “vendibili” ma superati. Il manifesto letterario Les
Somptuaires (1903) di Fleischmann e Levengard la nomina invece come esempio di
un’arte sontuosa e passionale da trasporre nel mondo cangiante delle parole e
della poesia, mentre Guillaume Apollinaire la confonde nel 1912 con il futurista
Romolo Romani, segno della sua ormai appannata notorietà. La sua carriera
s’interrompe bruscamente per una grave malattia mentale nel 1903. Internata a
Ivry-sur-Seine dal 1906, poi a Sainte-Anne e infine a Suresnes, morirà nel
1923.
Juana Romani, Rosina, 1892, collezione privata
*
Juana è da sempre stata lievemente strabica – come lo era Charcot, fatto che gli
procurava un certo disagio – e il suo occhio sinistro tendeva verso l’esterno:
lo sguardo che ne scaturiva attraeva per quella sottile incongruenza che
coinvolgeva l’osservatore. Chi la incontra rimane stordito dalla sua «bellezza
strana» fondata sull’«attrazione profonda e dispotica dei suoi occhi».
Nel 1884 Prouvé invia a Nancy due disegni a china, che saranno esposti nella
vetrina del laboratorio del rilegatore René Wiener: ad ottobre espone
una Magicienne e a novembre Une japonerie. L’italiana posa per entrambe
impersonando una sorta di geisha e un’incantatrice che, nel pieno di un’oscura
liturgia, con una bacchetta indica un grande occhio dal quale si irradia un
fascio elettrico.
Prouvé fa esperienza dell’incoscienza dell’occhio della sua modella che, più che
ritorcersi in sé stesso, viene riconsegnato al pittore restituendogli il segno
di uno sconcertante ribaltamento dei ruoli. Il disegno, dalla «fantasia
debordante», è conosciuto anche come Jettatura e nasce forse dall’assimilazione
che Juana può aver fatto del magnetismo degli atelier a ciò che era rapportabile
alla cultura ereditata dalla madre e dalla nonna. Diffusa al pubblico grazie
alla letteratura romantica francese, la jettatura è una credenza nata nel
Settecento e connaturata nel Regno di Napoli di cui Juana raccoglie il nucleo
più incandescente: lo sguardo come tecnologia, mezzo di azione, mano armata
dell’invidia che può uccidere.
L’occhio del disegno di Prouvé è comunque un pezzo staccato, esso si dà a vedere
come a volersi porre come problema e di sicuro lo sarà nel Novecento quando
artisti e filosofi francesi ne ripenseranno il valore disgiungendolo dallo
sguardo, accoppiandolo all’ano o all’alluce, lacerandolo, perfino, con una lama
da rasoio. Fluidità dello sguardo, elettricità del gesto, incoerenza della
rappresentazione sono le facce di un prisma al cui cuore ci sono nuove
significazioni. Questa instabilità nervosa è il costo da pagare per un mondo in
risemantizzazione. Non a caso Prouvé condivide con Juana la passione per il
poeta Maurice Rollinat che sarà ricoverato nella stessa casa di cura per malati
mentali dove alloggerà la pittrice per quasi venti anni: in cura dal dottor Paul
Grellety, Rollinat aveva assistito agli spettacoli del magnetizzatore Donato e,
per circa due anni, alle lezioni settimanali di Charcot, dando vita a
performance musicali che generano nel pubblico profondi stati d’inquietudine.
Membro degli Hydropathes e poi cantante di punta dello Chat Noir, nel 1883
pubblica la raccolta poetica Les Névrosesche gli conferisce una grande notorietà
e che, a più riprese, sarà ispirazione delle opere di Prouvé. In una poesia
Rollinat si dichiara la vittima della persecuzione di un occhio che non solo lo
fissa come un condannato a morte, ma lo accompagna in ogni suo spostamento:
«Dovunque io vada, ovunque il mio piede inciampi,/ Il mal-occhio!».
Un’inquietudine simile provata da August Strindberg che, come racconta
in Inferno (1897), si sente perseguitato dalla folla parigina.
Juana Romani, Primavera, 1894, Courbevoie, musée Roybet Fould
C’è un presentimento nell’aria e la paranoia si respira lungo le strade della
capitale: quella sensazione traduce il sospetto di una possibile animazione
dell’inorganico che diviene il principio stilistico stesso dell’art nouveau che
si afferma in quegli anni. L’interesse di Prouvé per la grafica e le arti minori
– collabora con Émile Gallé con cui è membro dell’École de Nancy – rivelano la
volontà trasversale di esplorare il mondo degli oggetti attraverso una loro
vitalizzazione per mezzo delle rappresentazioni vegetali. Ne impone a tutti gli
effetti uno stato di fatto: le cose, tra cui le modelle (e le donne) guardano,
sono in moto, fioriscono e hanno una loro esistenza a cui l’uomo inevitabilmente
partecipa.
Questa ruminazione artistica sullo sguardo porta Prouvé a coniugare ancora la
poesia di Rollinat con Juana che posa per Les visions roses (Rollinat), opera
che verrà esposta al Salon (SAF, n. 1988) del 1884: la modella è reclinata
all’indietro facendo mostra del proprio corpo nudo. È il seno di Juana il punto
di congiunzione tra l’opera di Prouvé e la poesia di Rollinat: «Vedo le tue
carni tutte rosa,/ I dardi aguzzi dei tuoi seni freddi,/ E poi le tue labbra!
quando vedo/ nelle loro così languide pose/ Corolle e boccioli di rose!».
Non solo il corpo diviene il territorio di metamorfosi floreali – ecco l’art
nouveau! – ma i seni si allineano simmetricamente allo sguardo, come nei corpi
femminili del Mediterraneo antico. Tiresia viene accecato dalla nudità e dal
seno nudo di Atena, così come Atteone che, trasformato in cervo e sbranato dai
cani, aveva posato lo sguardo sul corpo nudo di Artemide.
Il gesto intimidatorio dell’esposizione del seno «transiterà senza soluzione di
continuità dal mondo antico ai repertori folkloristici contemporanei, a indicare
un potenziale di altissimo rischio, che può formalizzarsi nella maledizione più
terribile» come rappresentato in Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci dove
una madre espone il petto come arma temibile contro i fascisti. Il potere
tagliente, castrante dello sguardo tornerà a essere indagato ancora nel 1884 con
la rappresentazione di Juana come Salomè che porge allo spettatore la testa del
San Giovanni per la quale Prouvé prende a modello sé stesso: è dunque Juana a
offrire al pittore la sua stessa testa. Si potrebbe dire: è Juana a offrire al
pittore il suo stesso sguardo.
Gabriele Romani
*La vicenda artistica e biografica di Juana Romani è l’oggetto dell’ultimo libro
di Gabriele Romani: Confini d’identità. Juana Romani: modella e pittrice, edito
Castelvecchi (Roma, 2024).
*In copertina: Edmond Bénard, Juana Romani nell’atelier di rue du Mont-Thabor,
1893, Parigi, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris.
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[1] René Bichet, Les poèmes du Petit B, Parigi, Éditions Émile-Paul Frères,
1938, p. 142.
[2] Fritz-René Vanderpyl, «Marsden Stanton a Paris» in Mercure de France,
vol. CXVII, settembre-ottobre 1916, p. 461.
[3] Vittorio Pica, «La pittura all’esposizione di Parigi» in Emporium,
vol. XIII, n.76, aprile 1901, p. 260.
[4] Jacques d’Adelswärd-Fersen, Notre-Dame des Mers Mortes (Venise), P. Sevin et
E. Rey, Paris 1901, pp. 25-26.
L'articolo Storia tragica di Juana Romani, la pittrice di successo che fu
internata e rosa dall’oblio proviene da Pangea.
I nuovi “vasi” di Marcovinicio approfondiscono e portano alle estreme
conseguenze tutta la recente fase della produzione del pittore, la cui ricerca è
tesa all’esigenza di spalancare, con differenti mezzi, orizzonti ulteriori
rispetto a quelli della semplice “realtà fisica”, facendosi al tempo stesso
sempre più rarefatta. Ci troviamo in questo caso di fronte ad una vera e propria
“prova di sottrazione”, in cui l’artista attinge a poco a poco una dimensione
inedita mediante piccole variazioni ed eliminazioni da un suo modulo classico:
il vaso di fiori, più o meno stilizzato e semplificato. Non un modulo, peraltro,
soltanto autoreferenziale e legato alla sua precedente produzione (in cui,
comunque, aveva assunto una funzione essenziale, sul piano delle tavolequanto su
quello dei disegni), ma universalmente riferito alla cultura occidentale, ove il
fiore assume una valenza ideale, intesa in senso letterale, vale a dire riferita
ad una tradizione che ha inizio con l’idealismo platonico. Le tensioni estetiche
dell’assenza-presenza e i riferimenti alla valenza paradigmatica, ideale (e
perduta) dei fiori ricordano in modo fortissimo le meditazioni di tutto un
filone letterario della fine dell’Ottocento in Francia, in cui – sulla ovvia
scia dei baudelairiani Les Fleurs du mal – il fiore viene utilizzato in senso
allegorico o fortemente simbolico, evocato, nascosto e improvvisamente
presentificato in tutta la sua icasticità espressiva.
Se il giovanissimo Arthur Rimbaud – in Ce qu’on dit au poète à propos de
fleurs – scriveva sul tema una sarcastica ode a metà tra il dileggio e l’invito
a scavare oltre le soglie della poesia comune e triviale, è Stéphane Mallarmé a
trattare il tema nel modo più ispirato e affine a quello di Marcovinicio, nella
criptica e difficilissima Prose dedicata a Des Esseintes, l’estetizzante e
raffinatissimo protagonista in À reboursdi J. K. Huysmans. Il fiore che veniva
da Baudelaire pervertito e da Rimbaud ironizzato viene riportato da Mallarmé al
suo pristino splendore, ma come allusione e tensione anziché pieno possesso; il
che non sarebbe più possibile nel mondo moderno. La Prose è proprio la
rappresentazione estetica della frustrazione provata dal poeta-filosofo nel
tentativo di attingere l’assoluto, “da troppo gladiolo celato”. Oltre le forme
ideali allegorizzate nei fiori, si celerebbe una dimensione compiuta e
definitiva, che l’artista deve limitarsi ad evocare per assenza.
Marcovinicio, Quadro con paesaggio, 2025
Meno profonda filosoficamente ma non dissimile da quella della Prose era già
stata in Mallarmé la meta-riflessione poetica condotta in una lirica
come L’Azur, in cui il paradigmatico colore del cielo fungeva nella sua
insensibilità da monito dell’impossibilità di raggiungere l’ideale. I fiori
stessi erano, peraltro, già stati protagonisti di un’omonima lirica (Les Fleurs)
del poeta francese, che sin dagli anni ’70ne tratteggiava l’allegorizzante
valenza di idee platoniche: fissità trascendenti da anelare in un disperato (e
inappagato) spasmo. La condizione nella quale Marcovinicio immette la
riflessione sui fiori è differente, perché figlia del Novecento pittorico
italiano e di tutto un concettualismo dell’arte contemporanea dal quale il
consapevole distacco è in queste tavole evidente. Il giallo e nero viene qui
nuovamente utilizzato, più che nella valenza “pittorica” e materica degli anni
’90, sfruttando la dialettica tra luce e abisso (e, pertanto, nero smaltato) che
caratterizza tutte le recenti Vanitas dell’artista, incluse quelle dell’ultima
mostra torinese. Una delle parole essenziali della produzione poetica
mallarmeana è però cifra stilistica anche di questa fase di
Marcovinicio: aboli-abolito.
L’abolizione/cancellazione di qualcosa rimanda immediatamente alla sua presenza,
così come avviene ora per i fiori che trascendono l’orlo della tavola, rimanendo
idealmente un’estrema propaggine del vaso ma venendo esclusi dalla sua
rappresentazione: aboliti secondo i canoni classici dell’arte occidentale,
tipicamente conclusa ed esaurita nella singola opera a livello espressivo. Il
contrasto, nei vasi di Marcovinicio, è ulteriormente accentuato dalla nettezza
definitoria tipica dei gialli e neri di questo periodo, che affermano (e in
questo caso, contemporaneamente, negano) con una durezza ed una incisività
inedite.
Esercizio di forte concettualità senza per questo essere concettuali in senso
astratto, i vasi di fiori sono – come spesso nel pittore – al tempo stesso
richiamo alla tradizione, autocitazione e intrapresa di un percorso inedito,
avviato tuttavia secondo uno scavo. Come nella più profonda filosofia
heideggeriana, ci viene presentificato un “andare avanti” che è sempre un
“tornare all’origine”, in un movimento di avvicinamento e allontanamento
rispetto ad una struttura in apparenza onni-pervasiva, ma in fondo inesprimibile
nella sua essenziale ed eterna configurazione. Se in Marcovinicio l’espressione
è rigida e netta, le sue opere disegnano sempre nuovi scenari, additano un
altrove, talvolta permeandosi di fortissime istanze metafisiche. Il fiore-non
fiore è compendio di questa cifra stilistica e in un certo senso
meta-riflessione su di essa: un orizzonte non-presente al quale si tende e si
anela con struggente Sehnsucht.
*
Sulla ripetizione
Le ultime fasi della pittura di Marcovinicio, caratterizzata in passato da una
variazione più libera su tematiche molto definite, sono improntate da una
ripetizione frenetica, a prima vista ossessiva, disposta secondo fili conduttori
di una chiarezza assertiva che non ne pregiudica la valenza evocativa. Se,
nelle Vanitas, la ripetizione della medesima “alzata” in giallo e nero ha avuto
come esito di maggiore impatto espressivo l’enorme parete allestita a Torino per
la mostra “Altri mondi”, nelle fasi ancor più recenti essa si è declinata in
forme ad un tempo antiche e nuove, riprendendo sia il tema del paesaggio
(classico per il pittore) che quello dei vasi di fiori precedentemente evocato.
Il “punto di riferimento” visivo ed espressivo è un concetto-chiave per
comprendere le modalità in cui Marcovinicio utilizza in modo ripetuto
immagini-simbolo-paradigma quali la montagna, la mucca, il lago, le quali non
vanno mai prese come simulacri astratti di un concettualismo diretto, del tipo
ingenuo “questo significa quello”, “questo allude a quello”. Diversamente, esse
si leggono come si guardano, si presentano come si offrono: in totale crudezza e
durezza allo sguardo dell’unico osservatore possibile, come una sorta di ponte
tra la modernità sterile della tecnica, in cui siamo immersi, ed un orizzonte
ulteriore fatto di senso, di pregnanza, di motivi immediati e pure duraturi.
La ripetizione, in questo senso, è anche “eterno ritorno”: il procrastinarsi di
situazioni dalle quali, nonostante le contingenze dei tempi e delle epoche
storiche, delle decadenze e delle sfioriture, non si può mai veramente evadere,
perché ontologicamente connaturate alla realtà. Vale a dire: la pura asserzione
come messa in evidenza di ciò che è stabile, permanente, duraturo, immutabile,
come l’essere stesso. Ben lungi dal volere attribuire alla pittura di
Marcovinicio uno statuto “filosofico” in senso tradizionale (giacché mai il
pittore può essere direttamente filosofo, così come il filosofo non può mai
avvalersi direttamente dell’estatica espressività dell’artista visionario),
senza dubbio le tematiche in essa presenti rimandano ad una sfera concettuale
risalente ai primordi, alla grecità, a quell’essere parmenideo “velato” dai
residuati moderni della soggettività e da quelli ancor più moderni della
tecnica, che soltanto un’operazione paziente di scavo può mettere nuovamente in
evidenza nella sua struttura intangibile. Trascendenza e immanenza: trascendenza
da una realtà empirica e strumentalizzata che – come una sorta di feticcio – ha
costituito una incrostazione empirica sulle strutture permanenti del reale;
immanenza come affermazione netta e perentoria di queste stesse strutture,
ri-consegnate in qualche misura all’eternità dalla quale provengono.
Marcovinicio, Quadro con mucca. Silenziosa disciplina, 1990; esposto ora in
mostra
La stessa operazione portata avanti da Marcovinicio nei confronti del proprio
lavoro precedente assume questa connotazione di “scavo archeologico”: riportare
alla luce delle strutture di pensiero e di espressione apparentemente obliate
per ribadirle nelle linee nettissime e dure di un disegno del passato che
diventa un giallo e nero, di un paesaggio metafisico che diviene rigido e
scheletrico, di uno specchio che veicola simboli arcaici – già utilizzati in
altra forma – e li ripresenta come paradigma del duraturo, senza mai sconfinare
nel puro divertissement, ma muovendo le proprie carte con la sapienza di un
alchimista che rimescola il vecchio per attingere nuove forme. Nel pittore vi è
fondamentalmente l’implicita convinzione che nell’arte non esista la creatio ex
nihilo, ma si dia la rimbaudiana illuminazione, il contatto con la vocazione, la
risposta ad una sorta di appello che riattiva strutture da sempre esistenti e
gli chiede di riportarle alla luce in maniera apparentemente inedita, di
asserire il reale con tutta la forza disponibile. Una forza che in Marcovinicio
assume la connotazione di una giovinezza perenne, ben al di là del contingente
dato anagrafico; di asserire quello che non può non essere reso presente perché
si dà allo sguardo nel proprio valore permanente. Alchimia, mediazione,
vocazione: un riposizionare le pedine dell’espressione estetica per fungere da
tramite tra questa realtà e un mondo dimenticato ma sempre presente: questa, in
qualche modo, la vocazione dell’artista vero; questa, in qualche modo, la
chiamata di Marcovinicio.
Jonathan Salina
*Il lavoro di Marcovinicio, nella sua scontrosa inattualità, è attualmente in
scena all’interno della collettiva “Awakening (1988-1993)”, a cura di Tiziana
Conti, Angelo Candiano e Federico Piccari, presso la Fondazione 107 a Torino
**In copertina: Marcovinicio, Quadro con vaso, 2024, olio su faesite
L'articolo Assenza e presenza del fiore. Ovvero: sulla vocazione di
Marcovinicio, il pittore inafferrabile proviene da Pangea.