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Storia tragica di Juana Romani, la pittrice di successo che fu internata e rosa dall’oblio
Nel settembre del 1906 il poeta René Bichet, vicino a Jacques Rivière e André Gide, scrive all’amico Alain-Fournier rievocando un ritratto di Infanta di Juana Romani. In esso proietta la nostalgia per Parigi: una città «necessaria»[1]che la figura della pittrice incarna simbolicamente. Dieci anni dopo, nel racconto di Fritz-René Vanderpyl pubblicato sul Mercure de France, un quadro firmato «Juanita Romani» diviene l’emblema di uno «charme simil-orientale»[2] di cattivo gusto, che solo gli americani potrebbero appendere sopra i propri caminetti: in entrambi i casi, Romani è immaginata come simbolo ibrido e ambivalente, legata visceralmente alla capitale francese. La sua molteplice identità fu oggetto di un’elaborazione retorica: il poeta Armand Silvestre la presenta come erede di Tiziano e Correggio, mentre lei stessa si definisce «figlia di Benozzo Gozzoli» e della solida tradizione artistica italiana. Nel 1901, Vittorio Pica la descrive, accostandola a Giovanni Boldini, come «una giovane pittrice di non comune bravura, destinata a piacere sempre più al gran pubblico e sempre meno agli austeri amatori d’arte»[3]. Ma chi era questa artista vivacemente presente nella cultura europea fin-de-siècle, eppure oggi così poco conosciuta?  All’origine c’è una realtà sociale dura: Juana nasce come Carolina Carlesimo nel 1867 a Velletri, da un brigante e da una bracciante del Lazio meridionale. Emigra a Parigi nel 1877 con la madre e il patrigno musicista, Temistocle Romani, membro di una famiglia di ricchi proprietari terrieri. In Francia inizia la carriera di modella per artisti, per poi divenire pittrice. Espone regolarmente ai Salon, alle esposizioni universali, in Italia alla IV Biennale di Venezia (1901) e alla II Esposizione internazionale femminile di belle arti di Torino (1913). La sua attività è segnata dalla vincita della medaglia d’argento (1889), acquisti di Stato e da un’intensa attività di ritrattista.  Celebrata all’inizio del XX secolo, Juana fu inclusa come artista tra le più note della sua generazione in Women in the Fine Arts di Clara Clement (1904) e Women Painters of the World di Walter Sparrow (1905). Amata dal pubblico, ma anche da insospettabili personaggi come Josephin Péladan, nel 1901 il dandy Jacques d’Adelswärd-Fersen la rievoca nel romanzo Notre-Dame des Mers Mortes[4] accostandola a da Vinci e Raffaello. Assiste da vicino alla nascita del cinematografo grazie all’amicizia con Antoine Lumière e nello stesso periodo la sua immagine circola tra profumi, colori, vini, affiche e riviste come Fémina, assieme a Camille Claudel, e Le Figaro-Modes. Tuttavia, già dagli anni Dieci la sua fama declina: Francis Carco la liquida con pittrice “accademica” di un secolo passato e Henri Matisse la cita ironicamente tra i pittori ancora “vendibili” ma superati. Il manifesto letterario Les Somptuaires (1903) di Fleischmann e Levengard la nomina invece come esempio di un’arte sontuosa e passionale da trasporre nel mondo cangiante delle parole e della poesia, mentre Guillaume Apollinaire la confonde nel 1912 con il futurista Romolo Romani, segno della sua ormai appannata notorietà. La sua carriera s’interrompe bruscamente per una grave malattia mentale nel 1903. Internata a Ivry-sur-Seine dal 1906, poi a Sainte-Anne e infine a Suresnes, morirà nel 1923.  Juana Romani, Rosina, 1892, collezione privata * Juana è da sempre stata lievemente strabica – come lo era Charcot, fatto che gli procurava un certo disagio – e il suo occhio sinistro tendeva verso l’esterno: lo sguardo che ne scaturiva attraeva per quella sottile incongruenza che coinvolgeva l’osservatore. Chi la incontra rimane stordito dalla sua «bellezza strana» fondata sull’«attrazione profonda e dispotica dei suoi occhi». Nel 1884 Prouvé invia a Nancy due disegni a china, che saranno esposti nella vetrina del laboratorio del rilegatore René Wiener: ad ottobre espone una Magicienne e a novembre Une japonerie. L’italiana posa per entrambe impersonando una sorta di geisha e un’incantatrice che, nel pieno di un’oscura liturgia, con una bacchetta indica un grande occhio dal quale si irradia un fascio elettrico.  Prouvé fa esperienza dell’incoscienza dell’occhio della sua modella che, più che ritorcersi in sé stesso, viene riconsegnato al pittore restituendogli il segno di uno sconcertante ribaltamento dei ruoli. Il disegno, dalla «fantasia debordante», è conosciuto anche come Jettatura e nasce forse dall’assimilazione che Juana può aver fatto del magnetismo degli atelier a ciò che era rapportabile alla cultura ereditata dalla madre e dalla nonna. Diffusa al pubblico grazie alla letteratura romantica francese, la jettatura è una credenza nata nel Settecento e connaturata nel Regno di Napoli di cui Juana raccoglie il nucleo più incandescente: lo sguardo come tecnologia, mezzo di azione, mano armata dell’invidia che può uccidere. L’occhio del disegno di Prouvé è comunque un pezzo staccato, esso si dà a vedere come a volersi porre come problema e di sicuro lo sarà nel Novecento quando artisti e filosofi francesi ne ripenseranno il valore disgiungendolo dallo sguardo, accoppiandolo all’ano o all’alluce, lacerandolo, perfino, con una lama da rasoio. Fluidità dello sguardo, elettricità del gesto, incoerenza della rappresentazione sono le facce di un prisma al cui cuore ci sono nuove significazioni. Questa instabilità nervosa è il costo da pagare per un mondo in risemantizzazione. Non a caso Prouvé condivide con Juana la passione per il poeta Maurice Rollinat che sarà ricoverato nella stessa casa di cura per malati mentali dove alloggerà la pittrice per quasi venti anni: in cura dal dottor Paul Grellety, Rollinat aveva assistito agli spettacoli del magnetizzatore Donato e, per circa due anni, alle lezioni settimanali di Charcot, dando vita a performance musicali che generano nel pubblico profondi stati d’inquietudine. Membro degli Hydropathes e poi cantante di punta dello Chat Noir, nel 1883 pubblica la raccolta poetica Les Névrosesche gli conferisce una grande notorietà e che, a più riprese, sarà ispirazione delle opere di Prouvé. In una poesia Rollinat si dichiara la vittima della persecuzione di un occhio che non solo lo fissa come un condannato a morte, ma lo accompagna in ogni suo spostamento: «Dovunque io vada, ovunque il mio piede inciampi,/ Il mal-occhio!». Un’inquietudine simile provata da August Strindberg che, come racconta in Inferno (1897), si sente perseguitato dalla folla parigina.  Juana Romani, Primavera, 1894, Courbevoie, musée Roybet Fould C’è un presentimento nell’aria e la paranoia si respira lungo le strade della capitale: quella sensazione traduce il sospetto di una possibile animazione dell’inorganico che diviene il principio stilistico stesso dell’art nouveau che si afferma in quegli anni. L’interesse di Prouvé per la grafica e le arti minori – collabora con Émile Gallé con cui è membro dell’École de Nancy – rivelano la volontà trasversale di esplorare il mondo degli oggetti attraverso una loro vitalizzazione per mezzo delle rappresentazioni vegetali. Ne impone a tutti gli effetti uno stato di fatto: le cose, tra cui le modelle (e le donne) guardano, sono in moto, fioriscono e hanno una loro esistenza a cui l’uomo inevitabilmente partecipa. Questa ruminazione artistica sullo sguardo porta Prouvé a coniugare ancora la poesia di Rollinat con Juana che posa per Les visions roses (Rollinat), opera che verrà esposta al Salon (SAF, n. 1988) del 1884: la modella è reclinata all’indietro facendo mostra del proprio corpo nudo. È il seno di Juana il punto di congiunzione tra l’opera di Prouvé e la poesia di Rollinat: «Vedo le tue carni tutte rosa,/ I dardi aguzzi dei tuoi seni freddi,/ E poi le tue labbra! quando vedo/ nelle loro così languide pose/ Corolle e boccioli di rose!».  Non solo il corpo diviene il territorio di metamorfosi floreali – ecco l’art nouveau! – ma i seni si allineano simmetricamente allo sguardo, come nei corpi femminili del Mediterraneo antico. Tiresia viene accecato dalla nudità e dal seno nudo di Atena, così come Atteone che, trasformato in cervo e sbranato dai cani, aveva posato lo sguardo sul corpo nudo di Artemide.  Il gesto intimidatorio dell’esposizione del seno «transiterà senza soluzione di continuità dal mondo antico ai repertori folkloristici contemporanei, a indicare un potenziale di altissimo rischio, che può formalizzarsi nella maledizione più terribile» come rappresentato in Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci dove una madre espone il petto come arma temibile contro i fascisti. Il potere tagliente, castrante dello sguardo tornerà a essere indagato ancora nel 1884 con la rappresentazione di Juana come Salomè che porge allo spettatore la testa del San Giovanni per la quale Prouvé prende a modello sé stesso: è dunque Juana a offrire al pittore la sua stessa testa. Si potrebbe dire: è Juana a offrire al pittore il suo stesso sguardo. Gabriele Romani *La vicenda artistica e biografica di Juana Romani è l’oggetto dell’ultimo libro di Gabriele Romani: Confini d’identità. Juana Romani: modella e pittrice, edito Castelvecchi (Roma, 2024).  *In copertina: Edmond Bénard, Juana Romani nell’atelier di rue du Mont-Thabor, 1893, Parigi, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris.  -------------------------------------------------------------------------------- [1] René Bichet, Les poèmes du Petit B, Parigi, Éditions Émile-Paul Frères, 1938, p. 142. [2] Fritz-René Vanderpyl, «Marsden Stanton a Paris» in Mercure de France, vol. CXVII, settembre-ottobre 1916, p. 461. [3] Vittorio Pica, «La pittura all’esposizione di Parigi» in Emporium, vol. XIII, n.76, aprile 1901, p. 260. [4] Jacques d’Adelswärd-Fersen, Notre-Dame des Mers Mortes (Venise), P. Sevin et E. Rey, Paris 1901, pp. 25-26.  L'articolo Storia tragica di Juana Romani, la pittrice di successo che fu internata e rosa dall’oblio proviene da Pangea.
July 7, 2025 / Pangea
Assenza e presenza del fiore. Ovvero: sulla vocazione di Marcovinicio, il pittore inafferrabile
I nuovi “vasi” di Marcovinicio approfondiscono e portano alle estreme conseguenze tutta la recente fase della produzione del pittore, la cui ricerca è tesa all’esigenza di spalancare, con differenti mezzi, orizzonti ulteriori rispetto a quelli della semplice “realtà fisica”, facendosi al tempo stesso sempre più rarefatta. Ci troviamo in questo caso di fronte ad una vera e propria “prova di sottrazione”, in cui l’artista attinge a poco a poco una dimensione inedita mediante piccole variazioni ed eliminazioni da un suo modulo classico: il vaso di fiori, più o meno stilizzato e semplificato. Non un modulo, peraltro, soltanto autoreferenziale e legato alla sua precedente produzione (in cui, comunque, aveva assunto una funzione essenziale, sul piano delle tavolequanto su quello dei disegni), ma universalmente riferito alla cultura occidentale, ove il fiore assume una valenza ideale, intesa in senso letterale, vale a dire riferita ad una tradizione che ha inizio con l’idealismo platonico. Le tensioni estetiche dell’assenza-presenza e i riferimenti alla valenza paradigmatica, ideale (e perduta) dei fiori ricordano in modo fortissimo le meditazioni di tutto un filone letterario della fine dell’Ottocento in Francia, in cui – sulla ovvia scia dei baudelairiani Les Fleurs du mal – il fiore viene utilizzato in senso allegorico o fortemente simbolico, evocato, nascosto e improvvisamente presentificato in tutta la sua icasticità espressiva.  Se il giovanissimo Arthur Rimbaud – in Ce qu’on dit au poète à propos de fleurs – scriveva sul tema una sarcastica ode a metà tra il dileggio e l’invito a scavare oltre le soglie della poesia comune e triviale, è Stéphane Mallarmé a trattare il tema nel modo più ispirato e affine a quello di Marcovinicio, nella criptica e difficilissima Prose dedicata a Des Esseintes, l’estetizzante e raffinatissimo protagonista in À reboursdi J. K. Huysmans. Il fiore che veniva da Baudelaire pervertito e da Rimbaud ironizzato viene riportato da Mallarmé al suo pristino splendore, ma come allusione e tensione anziché pieno possesso; il che non sarebbe più possibile nel mondo moderno. La Prose è proprio la rappresentazione estetica della frustrazione provata dal poeta-filosofo nel tentativo di attingere l’assoluto, “da troppo gladiolo celato”. Oltre le forme ideali allegorizzate nei fiori, si celerebbe una dimensione compiuta e definitiva, che l’artista deve limitarsi ad evocare per assenza.  Marcovinicio, Quadro con paesaggio, 2025 Meno profonda filosoficamente ma non dissimile da quella della Prose era già stata in Mallarmé la meta-riflessione poetica condotta in una lirica come L’Azur, in cui il paradigmatico colore del cielo fungeva nella sua insensibilità da monito dell’impossibilità di raggiungere l’ideale. I fiori stessi erano, peraltro, già stati protagonisti di un’omonima lirica (Les Fleurs) del poeta francese, che sin dagli anni ’70ne tratteggiava l’allegorizzante valenza di idee platoniche: fissità trascendenti da anelare in un disperato (e inappagato) spasmo. La condizione nella quale Marcovinicio immette la riflessione sui fiori è differente, perché figlia del Novecento pittorico italiano e di tutto un concettualismo dell’arte contemporanea dal quale il consapevole distacco è in queste tavole evidente. Il giallo e nero viene qui nuovamente utilizzato, più che nella valenza “pittorica” e materica degli anni ’90, sfruttando la dialettica tra luce e abisso (e, pertanto, nero smaltato) che caratterizza tutte le recenti Vanitas dell’artista, incluse quelle dell’ultima mostra torinese. Una delle parole essenziali della produzione poetica mallarmeana è però cifra stilistica anche di questa fase di Marcovinicio: aboli-abolito.  L’abolizione/cancellazione di qualcosa rimanda immediatamente alla sua presenza, così come avviene ora per i fiori che trascendono l’orlo della tavola, rimanendo idealmente un’estrema propaggine del vaso ma venendo esclusi dalla sua rappresentazione: aboliti secondo i canoni classici dell’arte occidentale, tipicamente conclusa ed esaurita nella singola opera a livello espressivo. Il contrasto, nei vasi di Marcovinicio, è ulteriormente accentuato dalla nettezza definitoria tipica dei gialli e neri di questo periodo, che affermano (e in questo caso, contemporaneamente, negano) con una durezza ed una incisività inedite.  Esercizio di forte concettualità senza per questo essere concettuali in senso astratto, i vasi di fiori sono – come spesso nel pittore – al tempo stesso richiamo alla tradizione, autocitazione e intrapresa di un percorso inedito, avviato tuttavia secondo uno scavo. Come nella più profonda filosofia heideggeriana, ci viene presentificato un “andare avanti” che è sempre un “tornare all’origine”, in un movimento di avvicinamento e allontanamento rispetto ad una struttura in apparenza onni-pervasiva, ma in fondo inesprimibile nella sua essenziale ed eterna configurazione. Se in Marcovinicio l’espressione è rigida e netta, le sue opere disegnano sempre nuovi scenari, additano un altrove, talvolta permeandosi di fortissime istanze metafisiche. Il fiore-non fiore è compendio di questa cifra stilistica e in un certo senso meta-riflessione su di essa: un orizzonte non-presente al quale si tende e si anela con struggente Sehnsucht. * Sulla ripetizione Le ultime fasi della pittura di Marcovinicio, caratterizzata in passato da una variazione più libera su tematiche molto definite, sono improntate da una ripetizione frenetica, a prima vista ossessiva, disposta secondo fili conduttori di una chiarezza assertiva che non ne pregiudica la valenza evocativa. Se, nelle Vanitas, la ripetizione della medesima “alzata” in giallo e nero ha avuto come esito di maggiore impatto espressivo l’enorme parete allestita a Torino per la mostra “Altri mondi”, nelle fasi ancor più recenti essa si è declinata in forme ad un tempo antiche e nuove, riprendendo sia il tema del paesaggio (classico per il pittore) che quello dei vasi di fiori precedentemente evocato. Il “punto di riferimento” visivo ed espressivo è un concetto-chiave per comprendere le modalità in cui Marcovinicio utilizza in modo ripetuto immagini-simbolo-paradigma quali la montagna, la mucca, il lago, le quali non vanno mai prese come simulacri astratti di un concettualismo diretto, del tipo ingenuo “questo significa quello”, “questo allude a quello”. Diversamente, esse si leggono come si guardano, si presentano come si offrono: in totale crudezza e durezza allo sguardo dell’unico osservatore possibile, come una sorta di ponte tra la modernità sterile della tecnica, in cui siamo immersi, ed un orizzonte ulteriore fatto di senso, di pregnanza, di motivi immediati e pure duraturi.  La ripetizione, in questo senso, è anche “eterno ritorno”: il procrastinarsi di situazioni dalle quali, nonostante le contingenze dei tempi e delle epoche storiche, delle decadenze e delle sfioriture, non si può mai veramente evadere, perché ontologicamente connaturate alla realtà. Vale a dire: la pura asserzione come messa in evidenza di ciò che è stabile, permanente, duraturo, immutabile, come l’essere stesso. Ben lungi dal volere attribuire alla pittura di Marcovinicio uno statuto “filosofico” in senso tradizionale (giacché mai il pittore può essere direttamente filosofo, così come il filosofo non può mai avvalersi direttamente dell’estatica espressività dell’artista visionario), senza dubbio le tematiche in essa presenti rimandano ad una sfera concettuale risalente ai primordi, alla grecità, a quell’essere parmenideo “velato” dai residuati moderni della soggettività e da quelli ancor più moderni della tecnica, che soltanto un’operazione paziente di scavo può mettere nuovamente in evidenza nella sua struttura intangibile. Trascendenza e immanenza: trascendenza da una realtà empirica e strumentalizzata che – come una sorta di feticcio – ha costituito una incrostazione empirica sulle strutture permanenti del reale; immanenza come affermazione netta e perentoria di queste stesse strutture, ri-consegnate in qualche misura all’eternità dalla quale provengono.  Marcovinicio, Quadro con mucca. Silenziosa disciplina, 1990; esposto ora in mostra La stessa operazione portata avanti da Marcovinicio nei confronti del proprio lavoro precedente assume questa connotazione di “scavo archeologico”: riportare alla luce delle strutture di pensiero e di espressione apparentemente obliate per ribadirle nelle linee nettissime e dure di un disegno del passato che diventa un giallo e nero, di un paesaggio metafisico che diviene rigido e scheletrico, di uno specchio che veicola simboli arcaici – già utilizzati in altra forma – e li ripresenta come paradigma del duraturo, senza mai sconfinare nel puro divertissement, ma muovendo le proprie carte con la sapienza di un alchimista che rimescola il vecchio per attingere nuove forme. Nel pittore vi è fondamentalmente l’implicita convinzione che nell’arte non esista la creatio ex nihilo, ma si dia la rimbaudiana illuminazione, il contatto con la vocazione, la risposta ad una sorta di appello che riattiva strutture da sempre esistenti e gli chiede di riportarle alla luce in maniera apparentemente inedita, di asserire il reale con tutta la forza disponibile. Una forza che in Marcovinicio assume la connotazione di una giovinezza perenne, ben al di là del contingente dato anagrafico; di asserire quello che non può non essere reso presente perché si dà allo sguardo nel proprio valore permanente. Alchimia, mediazione, vocazione: un riposizionare le pedine dell’espressione estetica per fungere da tramite tra questa realtà e un mondo dimenticato ma sempre presente: questa, in qualche modo, la vocazione dell’artista vero; questa, in qualche modo, la chiamata di Marcovinicio. Jonathan Salina *Il lavoro di Marcovinicio, nella sua scontrosa inattualità, è attualmente in scena all’interno della collettiva “Awakening (1988-1993)”, a cura di Tiziana Conti, Angelo Candiano e Federico Piccari, presso la Fondazione 107 a Torino **In copertina: Marcovinicio, Quadro con vaso, 2024, olio su faesite L'articolo Assenza e presenza del fiore. Ovvero: sulla vocazione di Marcovinicio, il pittore inafferrabile proviene da Pangea.
June 20, 2025 / Pangea