“Bisogna quindi amare assolutamente tutto”. Ad Assisi, con Simone Weil

Pangea - Saturday, July 5, 2025

Nel 1937, Simone Weil trascorse due giorni ad Assisi: “Mentre mi trovavo da sola nella piccola cappella romanica del XII secolo all’interno di Santa Maria degli Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove san Francesco ha pregato tanto spesso, per la prima volta nella mia vita qualcosa più forte di me mi ha obbligata a mettermi in ginocchio”. 

Questa è l’esperienza di Simone nella Porziuncola, quella piccola chiesetta di pietra che si trova all’interno della maestosa Santa Maria degli Angeli. Un luogo di pellegrinaggio e preghiera che recentemente ho voluto visitare anch’io proprio per capire l’esperienza della Weil.

“Ad Assisi sono completamente scomparsi dalla mia memoria Milano, Firenze, Roma e tutto il resto, tanto sono stata affascinata dalle campagne così dolci, così miracolosamente evangeliche e francescane, dalle chiese così incantevoli, da tanti ricordi felici e da quei nobili esemplari della specie umana che sono i contadini umbri, una razza ricca di bellezza, di vigore fisico, di gioia, di dolcezza. Non avevo mai sognato un paese così meraviglioso”.

Simone Weil la filosofa, la mistica, l’anarchica, l’operaia per scelta, la non più ebrea, la malata, la donna che scelse l’adesione alla miseria per avvicinarsi a Dio, che capì presto quanto fosse necessario fare “vuoto” per fare spazio a Lui, negare se stessi, ammettere che l’universo è assolutamente privo di finalità e che in questa assenza sta l’essenza del mondo, la bellezza pura, e che per non cedere alle passioni è necessario esercitare l’attenzione, la responsabilità, portare il corpo alla disintegrazione. 

“Ad esempio, mi sono sempre proibita di pensare al futuro, ma ho sempre creduto che il momento della morte sia la norma e la meta della vita. Pensavo che per coloro i quali vivono come si conviene sia l’istante in cui, per una frazione infinitesimale di tempo, la verità pura, nuda, certa, eterna penetra nell’anima. Posso dire di non aver mai desiderato per me alcun altro bene”. 

L’ascesi come fortificazione e non come mortificazione. Proprio ciò che scelse di fare Simone anche in punto di morte: portare la propria croce. In preda a una tubercolosi, poco più che trentenne, si lasciò anche morire di fame: “Trovo conforto soltanto nel ricordo delle voluttà sia spirituali sia fisiche che sorgono durante la sofferenza fisica. Sono brevissime, e tuttavia di una tale intensità da equivalere a un lungo benessere. Lo so per esperienza, e suppongo che sia così per tutti”.

Perché la malattia offre la condizione ideale per l’ascesi e per raggiungere Dio. Per scorgerlo bisogna sottrarsi al mondo. 

Per riuscire a vedere è necessario essere consapevoli. L’attenzione è la più alta forma di preghiera. Scriveva Simone Weil nel suo Attesa di Dio

L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in sé stessi, così come si inspira e si espira. Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono infinitamente più di tre ore d’applicazione con la fronte corrugata, che fanno dire, con la sensazione di aver fatto il proprio dovere: «Ho lavorato sodo».”.

Attenzione come sospensione del proprio pensiero, come possibilità di lasciarlo andare, renderlo disponibile, vuoto, in attesa, senza nulla da cercare, pronti ad accogliere la nuda verità dell’oggetto che sta per penetrarvi.

Weil recitava il Pater ogni mattina come una vera e propria pratica di meditazione, una pratica del verificare, un sacramento, una veglia: “Se mentre lo recito la mia attenzione divaga o si assopisce, anche solo in misura infinitesimale, ricomincio daccapo fino a che non abbia ottenuto per una volta un’attenzione assolutamente pura”. 

Simone considerava Meister Eckhart un autentico amico di Dio che diceva e scriveva parole udite nel segreto e nel silenzio anche quando queste non concordavano con l’insegnamento della Chiesa, consapevole che il linguaggio della pubblica piazza non può essere come quello della camera nuziale.

Anche lei “andava stretta” alla Chiesa. Era una che ripudiava le Crociate e l’Inquisizione, che non aveva bisogno d’intermediari per sentire Dio, i cui figli dovrebbero avere come unica patria l’universo: “Le cose meno vaste dell’universo, nel novero delle quali è la Chiesa, impongono obblighi che possono essere molto estesi, ma fra i quali non c’è quello di amare”. 

Per Simone nelle parole “sia fatta la tua volontà”, c’era già ogni cosa, perché se pronunciate con tutta l’anima, implicavano la totale accettazione della volontà divina: 

“Bisogna quindi amare assolutamente tutto, nell’insieme e in ogni dettaglio, compreso il male sotto qualsiasi forma, e in particolare i peccati commessi, posto che siano trascorsi (mentre bisogna odiarli se la loro radice persiste), le proprie sofferenze passate, presenti e future, e – di gran lunga la cosa più difficile – le sofferenze altrui, posto che non si sia chiamati ad alleviarle. In altre parole, bisogna sentire la realtà e la presenza di Dio attraverso tutte le cose esteriori senza eccezioni, con la stessa chiarezza con cui la mano avverte la consistenza della carta attraverso il portapenne e la penna”.

Viviamo nell’attesa di compensare le nostre mancanze, i nostri vuoti, in balìa delle circostanze, sperando sempre in qualcosa di meglio, che le cose cambieranno, miglioreranno, e che la permanenza della nostra personalità perduri, ma Weil ci ricorda che la paura dell’imminenza della morte è legata soprattutto a questo: non avremo tempo, non è mai stato questo il senso, tali compensazioni non arriveranno mai: “L’umiltà consiste nel sapere che in questo mondo tutta l’anima – non solo il cosiddetto io, nella sua totalità, ma anche la parte soprannaturale, ovvero sia Dio in essa presente – è sottomessa al tempo e alle vicissitudini del mutamento”. La parte mediocre del nostro io non teme la fatica e la sofferenza, teme soltanto di essere uccisa. 

Le fede consiste nella “visione delle cose invisibili”, come diceva San Paolo. Non c’è mai nulla da cercare, la salvezza opera nella mancanza di attività. È Dio che cerca l’uomo, non il contrario. 

“Se Dio, dopo una lunga attesa, lascia vagamente intravedere la sua luce oppure si rivela in persona, è soltanto per un istante. Poi bisogna rimanere di nuovo immobili e attenti, aspettare senza muoversi, chiamando solo quando il desiderio è troppo forte”. 

La necessità cieca è l’unica strada per accorciare la distanza e avvicinarsi, e amare la propria Croce.

“L’anima è là dove si intersecano la creazione e il Creatore. Quel punto d’intersezione è il punto d’incrocio dei bracci della Croce”. 

L’unica vera parola di Dio è il silenzio. 

E dopo aver letto e amato la Weil e il suo Attesa di Dio, eccomi partire per il mio viaggio, e scoprire che si arriva ad Assisi come osservatori. Si guardano gli altri compiere riti, gesti scaramantici, cedere a superstizioni, intrecciare mani in preghiera o lasciare che tocchino statue, altari, pietre, tombe di cadaveri mummificati. Mani che scrivono, che asciugano lacrime che sgorgano da occhi in preda all’estasi. 

E poi quel richiamo continuo, necessario e imprescindibile, al silenzio che aleggia in tutta la città, in ogni chiesa, in ogni giardino, dai cartelli o dai microfoni. 

Si guardano, si osservano e si giudicano gli altri, ma poi si finisce noi stessi in lacrime sotto al peso della stanchezza della vita nella sublime basilica di San Francesco, sentendo forte e chiara la propria piccolezza, ma non l’inutilità. 

Si sente la sofferenza sgorgare dall’acqua salata, e quanto solo l’amore conti, e quanto coraggio e forza questo richieda, quanto impegno, che sia amore per Dio o per la persona che si ha accanto. 

Nella Porziuncola ho sperimentato io stessa l’importanza dell’inginocchiarsi per testare la scomodità e la vividezza del dolore, ascoltando la messa, recitando: Padre Nostro “che sei nel segreto”. 

Il distacco da sé come riflesso di Dio. 

Il legno, le ginocchia e le anime che scricchiolano. 

Il tempo che cessa di esistere. 

Gli uomini più vigorosi e gli storpi che tornano a essere uguali. 

L’ordine che regna sovrano nel silenzio del crepuscolo. 

La pietra che protegge. 

Il piccolo che si fa grande. 

Il fremito della malattia.

I cuori spezzati.

Le ferite che s’innalzano sopra al capo di ogni uomo e che splendono di fervore. 

Le preghiere sussurrate.

L’attesa come stato di grazia.

Continuare ad amare anche nella sventura. 

Il bisogno disperato di farsi perdonare e di perdonare.

Gli errori pagati cari.

Il dono di chi crede e la speranza di chi dubita.

L’immenso divenire.

La patria dell’eterno momento presente. 

Il timore della morte che cela nostalgia di casa. 

Un viaggio ad Assisi si può trasformare da attesa a incontro con Dio. 

Dejanira Bada

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