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Anglofilia. Perché amiamo gli inglesi (tanto quanto li odiamo). Dialogo con Ignacio Peyró
È un sublime omaggio all’immaginario anglosassone quello che Ignacio Peyró – direttore dell’Istituto Cervantes, saggista e giornalista per “El Pais” – regala al lettore con il suo ultimo Anglofilia. Piccolo glossario sentimentale della cultura inglese (Graphe.it edizioni). Un libro-miniera (versione breve di quella spagnola che supera le mille pagine) che attraverso uno stile intrigante e raffinato compone un elegante ed eccentrico mosaico della englishness mischiando umorismo ed erudizione, profondità ed acume per raccontare il grande mito di un’Inghilterra eterna capace di essere icona di stile, riferimento letterario e santuario estetico. Definendo un personalissimo e luccicante alfabeto della Gran Bretagna: dalla A di Alcol alla B di Big Ben, passando per la R di Rolls Royce, fino alla P di Pub. Ne emerge un gioiello letterario che regala a chi legge il fascino di quella Gran Bretagna dello spirito, paradiso perduto di tutti gli anglofili. Un immaginario sentimentale ed estetico (prima che politico e morale) che nelle pagine di Peyró viene immortalato senza nostalgia o pedanteria, ma con grande cultura, eleganza e fantasia.  Che cos’è per lei l’anglofilia? E come la ha vissuta? È più un’esperienza accumulata da generazioni che un’esperienza personale. Probabilmente è qualcosa che ormai si è andata perdendo con il tempo. In tutta Europa c’è stato un innamoramento per la politica, le istituzioni e le abitudini britanniche dal Settecento al Novecento. Da loro abbiamo copiato in gran parte la stampa, il parlamentarismo… e perfino lo snobismo e l’imperialismo. Ma c’è stata anche una grande seduzione britannica attraverso i costumi: la moda, i giochi – pensiamo al calcio. Così, l’Inghilterra è riuscita a far sì che “inglese” per molto tempo fosse una sorta di titolo di prestigio oltre che un’origine. Il paradosso è che molte cose che sembrano al cento per cento britanniche hanno in realtà origini continentali. La mia generazione – sono del 1980 – è tra le ultime ad aver vissuto quella che è stata un’abitudine molto europea e poco contestata all’anglofilia. Come nasce questo libro(sia nella versione spagnola che in quella italiana)? Ero un giovane giornalista spagnolo che voleva scrivere. Ho sempre voluto scrivere, è la mia vocazione. Ho scritto libri per altri, non ce n’era ancora nessuno in libreria che portasse il mio nome. Così sono andato da un editore con varie proposte: scelse questa. Mi ci concentrai per diversi anni e gli consegnai un libro di 1100 pagine: dovevo fare qualcosa per attirare l’attenzione. La selezione italiana è di poco più di 400. La genesi, diciamo, spirituale è più semplice: sui giornali finivo sempre per scrivere di cose britanniche, il tema giunse da sé. Quali lemmi della versione originale avrebbe voluto aggiungere? Non aggiungerei nulla. Così come è fatta, la selezione è ottima. Che ruolo hanno avuto nobiltà e aristocrazia, a cui dedica uno splendido paragrafo nella sua opera, nella formazione dell’anglofilia e di una certa idea delle englishness? L’importante, più che la nobiltà e l’aristocrazia, è la capacità dei britannici, nel corso della storia, di generare élite sociali positive. Lo fanno a partire dall’ideale del gentleman – che ha molto a che vedere con il gentiluomo del Rinascimento italiano – e dalla scuola. Così, si può essere un gentleman, con un ideale aristocratico, indipendentemente dalle proprie origini.  Leggendo le voci “Alcol”, “Cabine telefoniche” e “Big Ben”, tra le altre, in pochi dettagli emerge la capacità di dare vita ad un immaginario anglosassone affascinante che oltre a raccontare sa anche “intrattenere”. A quali dei lemmi della sua opera è più legato e quali la hanno più divertita nella loro scrittura? E perché? Una delle peculiarità del mondo britannico è che può essere, oltre che molto iconico, particolarmente narrativo; all’interno di questa narrazione c’è sempre un forte umorismo, ricco di aneddoti e ironia. Questo è un libro di libri, di erudizione festosa, e mi sono divertito moltissimo a scriverlo quasi quindici anni fa. In effetti, vorrei ampliarlo nell’edizione spagnola da 1100 pagine… Secondo lei come è cambiato il mito anglofilo con la Brexit? O è iniziato a decadere ben prima? C’è sempre stato un rapporto conflittuale tra Regno Unito e continente. Questo non vuol dire che non sia stato ricco: pensiamo al Grand Tour, ad Agincourt, a Verdun… La Brexit è un passo in più in questa storia di incontri e scontri. L’anglofilia ha una sua età dell’oro, che va dalla fine del XVIII secolo fino alla metà del XX, con Churchill e la Seconda guerra. Poi ci sarà un’altra anglofilia, pop. Esiste ancora un’anglofilia, per così dire, d’immagine: automobili, arredamento, abbigliamento. L’anglofilia come libertà, istituzioni e letteratura è meno presente, in parte per il successo che hanno avuto alcune sue esportazioni come la monarchia parlamentare, la tolleranza, la stampa o i romanzi leggibili. Ignacio Peyró è l’attuale direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, dopo aver diretto quello di Londra Come valuta la narrazione del finis britanniae che è propria di questi anni?  È una narrazione che non esiste solo all’esterno, ma soprattutto all’interno del Regno Unito, e che proviene dal dopo-sbornia post-imperiale. In effetti, gran parte di questa cattiva assimilazione è alla base della Brexit. Lo disse un Segretario di Stato degli Stati Uniti: si tratta di trovare un nuovo ruolo nel mondo. La visita di Re Carlo in Italia ha suscitato molto clamore. Sta ritornando una marcata anglofilia in Italia e in Europa? L’Italia è stata un paese molto anglofilo, così come la Gran Bretagna ha preso molto dall’Italia con il Grand Tour: idee di arredamento e arte (classicismo e neoclassicismo), modi e urbanità, il gusto per il passato… Ma la Brexit è stata una cattiva scelta che ha allontanato le simpatie anglofile dal mondo.  Come si sono declinate in letteratura e in estetica questa anglofilia e anglofobia? L’anglofobia ha a che fare (cibo e clima a parte) con la critica a ciò che viene percepito come materialismo inglese. È una critica in realtà più filosofica. L’antiliberale tende a essere antibritannico. L’anglofilia, invece, può essere molto alta o molto bassa: ha a che vedere con le istituzioni, la politica, la libertà e la tolleranza… e anche con abitudini come la caccia o le giacche. Dal “Telegraph” a personalità come Macmillan e Disraeli poche cose hanno rappresentato la britishness come i Tory e il mondo conservatore. Come vede oggi lo stato del mito di questa antichissima classe dirigente che ha incarnato l’anima più autentica del potere britannico? Il partito Tory era la cosa più solida della Gran Bretagna. Ed era, in effetti, il grande partito politico del mondo britannico, almeno il modello per gli altri, soprattutto nell’ambito della destra. Era “il partito della nazione”, benché sappiamo che in una democrazia una cosa del genere non è possibile né auspicabile. Ma era un partito capace di integrare numerose sensibilità. Ora ha avuto un’eresia postmoderna con Nigel Farage. Da spagnolo di cultura europea come ha vissuto il confronto con il mondo e la cultura britannica come direttore del Cervantes di Londra? La storiografia classica britannica, quella whig, contempla la creazione dell’Inghilterra moderna in lotta contro la Spagna e il Papato. Così, siamo stati nemici metafisici, nonostante Castiglia e Inghilterra avessero molto in comune e, come sottolinea Sir John Elliott, l’impero britannico si sia ispirato a quello spagnolo. Dal XIX secolo esiste una certa visione un po’ folkloristica della Spagna, coerente con uno sguardo anglosassone che guardava con condiscendenza il resto del mondo. Questo è cambiato progressivamente nelle ultime generazioni. Quali sono gli scrittori e registi contemporanei in cui ritrova ancora oggi il mito (o l’ethos se vogliamo) britannico?  Oh, beh, ce ne sono molti. Cito gli appena scomparsi Roger Scruton, Auberon Waugh… ma anche John Le Carré. È una cultura di grande prosa e narrazione.  Oggi è direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, è in lavorazione un dizionario sentimentale se non italiano almeno romano? Josep Pla, grande scrittore catalano, osò affrontare tutta l’Italia – è sorprendente che le sue Lettere dall’Italia non siano tradotte – tranne Roma. Mi sembra una scelta saggia. Invece di scrivere un libro molto grande e pieno di altri libri come quello che ho fatto sulla Gran Bretagna, vorrei farne uno molto breve, un arabesco, con una bibliografia minima – cosa quasi impossibile – su questo paese meraviglioso. Francesco Subiaco L'articolo Anglofilia. Perché amiamo gli inglesi (tanto quanto li odiamo). Dialogo con Ignacio Peyró proviene da Pangea.
June 19, 2025 / Pangea
“Ogni linguaggio è territorio animale… parole cannibali e sottili come un’ostia”
Parole: piccoli ceselli sulla pelle pietrigna del tempo. Fiammanti agguati, di feroci simmetrie, che abbrancano prede fatte di vento. Mosse a un crudore aspro o leni, appoggiate o impugnate, deposte, in profferta come doni votivi testimoni di una fragilità che elegge Dio. Parole derelitte come costole spolpate dal sole. Parole dipinte con estro tonale, giustapposte, squillanti, stemperate o scialbe. Parole fuori traccia, inedite e da sommossa, futili, banali, raccogliticce. Che mordono la carne come stiletti, che lambiscono appena come fiati di petalo, come un caldo contatto di pelle… Che sanciscono distanze, che abbreviano o circonloquiscono in modo infame. Come incunaboli di fioriture, laceri stracci, arazzi superbi, protendersi di dita rattrappite verso l’impellenza del sole; sequele di futili, pedissequi rilievi, insignificanti, giocose, gratuite, nudate e sofferte. Che avvengono e non avvengono, numinose e sapienti come antico delubro, fitte di semenza o sterili come le greppie del potere. Occulte o palmari. Parole abbrivio di lagnanze, petulanti tracce egotiche di parventi ragioni, disilluse e bestiali, perentorie come carcasse da mattatoio, celestiali e senza macchia. Parole argilla del boia e arcolai di salubri raggi. Ogni linguaggio è territorio animale… Ma per ogni parola, detta o non detta, si adultera o corrompe ciò che designa: intrasferibile verità e atavica condanna. Per ogni parola, scelta e ragionata, prolettica e ventrale, la meridiana del pieno meriggio si sgretola come osso tra le zanne di una bestia. Il giorno è una stele che detta pene e vantaggi, la notte non appartiene a nessuno, solo a un varco di stelle che, compassate, trafiggono solitudine antica. E le parole lì, adiacenti a un desiderio, una promessa, un pianto incistato in gola. Mentre la fatica del mondo si compie e le vite si estenuano fino all’ultimo singhiozzo di luce lecita. Possono far libera un’anima o condannarla alla pazzia, secchi gerani scossi dalle mani di un uomo senza più un uscio per entrare o uscire dalla propria appartenenza. Ho visto creature, punite da un obolo di misericordia, brandire le parole e scucire il velo dell’ipocrisia. Creature che non possono incontrarsi senza prima smarrirsi dentro sé, perché è vero: solo ci si incontra, smarrendo la strada. Là dove la parola evoca una disorna traccia, la geniale omissione dell’intero oggettuale, scheletro astratto del contingente che fu o che sarà, che di un oggetto ne fa mille e di mille uno. Parole che appendono la lebbra delle fiamme a polverosi registri. Parole che inseguono sentori: pugni che stringono il vento o mungono il sangue dalle lame. Parole derelitte al centro di un’idea inesplicabile che si aggira sola al mondo come una creatura. Parole come colli di bianchi cigni, come retrattili artigli, ottuse come liti, angoli acuti senza porzione d’arco discreto. Legittime e legittimate. Su arazzi di religioni e simili a stampelle d’un pensiero storpio. Che giustificano il delitto seriale, che deprecano un tozzo rubato, enfie e vacue, puntute e abissali… Che disegnano la silhouette di un’identità gettata nei fatti. Che sfogliano paesaggi con le dita sottili di un visibile nascosto. Parole, sono solo parole, ma si può dover morire per dar loro un senso. Il poeta le sceglie, chi voce non ha le subisce, tutti le usiamo senza troppo tema di sbagliare, con quotidiano, usato abuso che niente aggiunge e niente sa di verità e bellezza. Parole come un delitto perfetto di omissioni. Che molto dicono col raggiro di non dire e di pletore d’opinioni e fatti desunti. Stagionali come abiti, eterne come una rosa dipinta o cantata. Parole di polvere su cubitale polvere di parole. Scritte sull’acqua, figlie della muta e di mimesi psicotiche dettate, a cliché, dalla paranoia del potere. Come spine confitte di ordini eseguiti, sogni nel sogno e rime eterne col nostro rimosso, discorsi allo specchio di un turgore che olezza di carogna. Parole enormi come cattedrali e che non significano un metro, parole esigue che affoltano di vuoto. Cannibali e sottili come un’ostia. Rune di un’esistenza sequestrata dal cielo. Ce ne sono di puntiformi e di simili a enormi bacini, come soffitte e come sacrari, o infiniti contenitori in cui derubricare scomode posizioni, a cumuli, con surrettizi, epidermici giudizi figli d’apocrifa antonomasia. Ne sfoggiamo di trite e ne defalchiamo di essenziali. Talvolta ne azzecchiamo qualcuna, ma come per un lancio di dadi, un gioco di bussolotti. Massimo Triolo *In copertina e nel testo: disegni di Peter Paul Rubens (1577-1640) L'articolo “Ogni linguaggio è territorio animale… parole cannibali e sottili come un’ostia” proviene da Pangea.
June 9, 2025 / Pangea
L’incontro con il genio (o della disgrazia di essere mediocri)
C’è qualcosa di più devastante di una vocazione artistica sprovvista del talento? E secondo quale criterio il talento viene concesso o negato? Certo è che chi ha la sventura di entrare nell’orbita del genio ne viene risucchiato e poi distrutto, inesorabilmente. Come l’amico di Glenn Gould immaginato da Thomas Bernhard, nel romanzo Il soccombente, che si uccide quando scopre che non potrà mai eguagliare il talento smisurato del pianista canadese, ascoltandolo per la prima volta suonare le Variazioni Goldberg.  > «Chiunque si sia proposto di diventare celebre e di acquistare una completa > padronanza del pianoforte – dice il narratore – può riuscire a suonare come > suonava Wertheimer purché si dedichi allo studio del pianoforte per i decenni > prescritti, pensai, ma se uno con queste aspirazioni si imbatte in un Glenn > Gould, e sente suonare un tipo come Glenn Gould, allora, pensai, se è fatto > come Wertheimer, anche per lui è finita».  Come avrà vissuto la sua amicizia fraterna con Gustave Flaubert lo scrittore di teatro e poeta Louis-Hyacinthe Bouilhet, compagno di classe al Collège Royal di Rouen? Flaubert aveva del suo giudizio una fiducia assoluta, lo chiamava la sua «coscienza letteraria». Fu Bouilhet che incoraggiò Flaubert a scrivere Madame Bovary, ispirandosi alla vicenda reale di Delphine Delamarre e ne seguì la lunga gestazione, tra il settembre 1851 e l’aprile 1856. Ma che cosa pensava, quando ascoltava l’amico che gli leggeva, ogni settimana, le pagine del romanzo? Era tormentato dall’angoscia, nello scoprire l’inconfondibile marchio del talento, o animato da una sincera ammirazione? Erano nati lo stesso anno, il 1821, si assomigliavano anche sorprendentemente, e per questo spesso venivano scambiati l’uno per l’altro, eppure uno era dotato di genio, l’altro no.  Dopo la morte di Bouilhet, oltre che preoccuparsi della ristampa delle sue opere e della messa in scena del suo teatro, Flaubert scrisse la prefazione alle Dernières chansons, unico suo testo critico, e per anni si batterà per un monumento a Rouen in memoria dell’amico, che oggi, però, nessuno più ricorda.  E Dino Frescobaldi, il poeta stilnovista amico di Dante, che lesse i primi canti autografi dell’Inferno, trovati per caso in un quadernetto custodito in un forziere in casa Alighieri, come reagì alla rivelazione del capolavoro scritto dall’amico lontano? L’episodio ci è raccontato da Boccaccio. Circa cinque anni dopo l’esilio di Dante, la moglie Gemma Donati cercò di ottenere le rendite che le spettavano sui beni confiscati. Incaricò per questo un parente di cercare i documenti necessari alla causa in un forziere che nei giorni del bando aveva portato via da casa, per salvare «certe cose più care» da eventuali saccheggi. Nel forziere, tra vari documenti, fu ritrovato anche un «quadernetto» che conteneva i primi sette canti dell’Inferno. Non capendo di cosa si trattasse, la donna decise di dare in visione quegli scritti a Frescobaldi, che naturalmente vide subito la grandezza di quei versi e l’eccezionalità dell’opera iniziata: ne fece alcune copie da distribuire agli amici e spedì il manoscritto a Moroello Malaspina, in Lunigiana, dove Dante era ospite in quegli anni, affinché il poeta fiorentino potesse continuare in esilio il capolavoro interrotto.  Che cosa deve aver provato Frescobaldi nel leggere quei primi canti della Commedia? Si sarà portato il «quadernetto» a casa, furtivo, come se avesse con sé un tesoro? Passò l’intera notte sveglio a lasciarsi incantare dalla bellezza di quei versi? Forse sarà stato tentato, per qualche momento, di rubarli, di plagiare l’amico, di approfittare della sua lontananza forzata, ma subito dopo deve aver prevalso l’animo dell’intellettuale appassionato, la certezza che rendere possibile la continuazione di quell’opera per mano del suo autore sarebbe stato il dono più importante che avrebbe potuto fare all’umanità intera. Erano suoi i primi occhi che si posavano su quei versi che milioni e milioni di volte sarebbero stati letti nei secoli a venire. Lui ne fu il primo ammiratore. E solo grazie a lui, al suo ritrovamento casuale, forse, Dante riprese a comporre il suo capolavoro smarrito.  Max Brod (1884-1968) E Max Brod, scrittore mediocre e amico fraterno di Franz Kafka, come visse la fama postuma del genio di Praga, al di là della sua dedizione totale alla diffusione pubblica della sua opera? Passò la vita nella convinzione di lasciare un segno con la propria scrittura, ma oggi lo ricordiamo solo ed esclusivamente per la sua amicizia con Kafka, e per non aver distrutto quei testi che l’amico in punto di morte gli aveva chiesto di bruciare. Il suo vero talento fu in effetti quello di fiutare il talento degli altri, di riconoscerlo e sostenerlo con generosità. L’unico clamoroso errore che fece fu quello di non intuire che proprio lui ne era sprovvisto.  Ed Heinrich Köselitz, il segretario di Nietzsche, dal filosofo ribattezzato Peter Gast, modestissimo compositore che per tutta la vita sognò di diventare famoso, ma che dedicò tutto il suo tempo alla trascrizione dei manoscritti di Nietzsche, quante volte maledisse il giorno in cui ebbe deciso di trasferirsi a Basilea per seguire i corsi di quell’eccentrico professore, o forse quello ancor prima, quando un amico gli ebbe messo tra  le mani una copia della Nascita della tragedia, folgorandolo per sempre? Divenne il segretario personale del filosofo, forse fu l’unico ad averne intuito la grandezza, ma la sua ambizione di diventare un compositore fu distrutta dalla dedizione assoluta che riservò al genio di Nietzsche. Artista-segretario fu anche Niccolò Franco, al servizio di Pietro Aretino, che lo accolse nella sua casa sul Canal Grande nel 1537 e inizialmente lo apprezzò molto. Si valse della sua conoscenza del latino per collaborare proficuamente alla stesura delle opere di Aretino, del quale fu anche compagno di bagordi. Ma Franco si logorava segretamente d’invidia per il successo del suo signore, al punto che decise di mettersi in proprio e di pubblicare anche lui un epistolario, emulando quello dell’Aretino alla quale aveva collaborato. Aretino non gradì. E l’affronto del plagio fu pagato con il volto sfregiato da una coltellata sferrata da un sicario.  Mozart/Tom Hulce nel film di Milos Forman, Amadeus (1984) Morì, invece, nel rogo di una clinica psichiatrica Zelda Sayre, la moglie di Francis Scott Fitzgerald, autrice di un non memorabile romanzo Lasciami l’ultimo valzer, e frustrata dall’immenso talento del marito. Le camere d’albergo sfasciate, i fiumi di gin, i litigi furiosi, le feste, le scenate di gelosia, tutto contribuì a renderli una coppia mitica. Ma lei sacrificò la sua vita al sogno di gloria di lui. Anche Lucia, la figlia di James Joyce, ballerina di grandi promesse, è morta in manicomio, impazzita per un autodistruttivo processo identificativo con il padre. I primi segni della sua pazzia iniziarono nel 1930. A trentatré anni aveva già fatto il giro dei manicomi europei. Fu presa in cura da Jung, ma resterà il grande dolore di Joyce, il suo cruccio segreto e perenne, e secondo alcuni critici la sua vera fonte di ispirazione. Quando lo scrittore morì e gliene fu data notizia, Lucia commentò così:  > «Che sta facendo sottoterra quell’idiota? Quando si deciderà a uscire? Sta > sempre a sorvegliarci».  Pure lo scrittore Klaus Mann, figlio di Thomas, conobbe il disagio psichico di avere un padre come genio, il terribile Mago, che lo disprezzava per via della sua omosessualità mai nascosta (a differenza della propria, che tenne segreta). La sua vita fu segnata dall’uso costante di droghe (morfina soprattutto), che raccontò nel romanzo Il vulcano. Morì suicida a Cannes, schiacciato dall’ingombrante figura paterna. E infine Antonio Salieri, il compositore di corte a Vienna, fu, secondo la fantasiosa versione del dramma di Puškin, ripresa poi dal film di Miloš Forman, Amadeus, talmente invidioso del genio di Mozart da arrivare all’omicidio. Realtà o fantasia non conta. Quel che conta è la silenziosa tragedia che si consuma nei cuori dei mediocri. Magari, se non avessero avuto la sventura di riconoscere il genio fuori di loro, accanto a loro, avrebbero continuato a vivere coltivando l’insana illusione che quel genio potesse dimorare anche dentro di loro, e – chissà – avrebbero potuto perfino convincere gli altri. E invece no. Ecco che il destino, non contento di avergli negato il bene più grande cui ambivano, gli mette sulla strada qualcuno che lo costringe a guardare in faccia la verità.  E dunque, che cosa scatta nell’animo di un artista mediocre che entra in contatto con un genio? L’amico o rivale o parente diventa la manifestazione concreta dei suoi sogni di gloria infranti, delle sue ambizioni frustrate, di tutto ciò che avrebbe voluto essere e avere, e non è stato e non ha avuto. In quell’incontro con il genio egli entra, così, come scrive Bernhard, nella «trappola mortale della sua vita». E una volta scattata la trappola, non può uscirne esce. Fabrizio Coscia *In copertina: Glenn Gould (1932-1982) L'articolo L’incontro con il genio (o della disgrazia di essere mediocri) proviene da Pangea.
June 4, 2025 / Pangea
La bambina e la fame. Sulla differenza tra giornalismo e letteratura
L’articolo va sotto l’etichetta Attualità. Secondo l’articolo c’è un posto nel mondo, il mio stesso mondo, dove c’è una bambina di 12 anni “così malnutrita che riesce a malapena a parlare.” L’articolo è corredato di foto, la didascalia recita sia della bambina malnutrita. Secondo la madre: “Se qualcuno la tocca o lei prova a muover le braccia o le gambe, grida di dolore.” A questo punto tocca a me, lettore, decidere cosa farmene dell’articolo.  Leggerlo diminuirà le sofferenze della bambina o aumenterà soltanto il mio senso di disaffezione verso la specie umana, qui da me rappresentata? Leggerlo servirà a far entrare i generi alimentari in quel posto del mondo dove per ora non possono entrare poiché, impedendo l’entrata dei generi alimentari si debella la minaccia che gli abitanti di quel posto rappresentano per gli abitanti del posto confinante, a detta del governo confinante è così che si fa, il quale governo, impedendo l’entrata dei generi alimentari, consente ci siano in quel posto “più di 70 mila bambini[…] ricoverati in ospedale per malnutrizione acuta” e che “1,1 milioni non dispongono del fabbisogno nutrizionale giornaliero necessario per sopravvivere”? Mi dico: i giornalisti che hanno scritto l’articolo di certo si augurano che io, leggendolo, faccia poi tutto ciò che è in mio potere per far sapere al governo del mio di posto che non continuerà a restare in carica a lungo se non fa nulla perché i generi alimentari entrino in quel posto lì del mondo, che non lo resterà perché perderà il mio voto e quello di moltissimi altri, e a me dispiace per loro, perché io il governo del mio posto non l’ho mai votato, con me non ha nulla da perdere, d’altronde seppure il governo in carica del mio posto mi fosse stato meno inviso dubito avrebbe avuto comunque il potere di influenzare il governo del paese che sta impedendo l’entrata dei generi alimentari in quel posto nel mondo dove un sacco di 25 chili di farina bianca costa 372 dollari. Per di più dubito che chi sostiene il governo del mio di posto smetta di sostenerlo perché quel posto nel mondo viene affamato. Sono dell’idea, o sono io che li calunnio pensandolo, sia comunque sempre meglio tenersi amico il governo del posto che li affama, siccome tenersi per amici loro, gli affamati, non arrecherebbe nessun beneficio, anzi. “Cari giornalisti”, direi ai giornalisti dell’articolo, “chi meglio di voi può accorgersi che uno più è povero più deve pagare le cose più di quanto le paghino i non poveri. Ai ricchi addirittura si regala. Si fa di tutto per farsi benvolere dai ricchi. Dai poveri invece si vuole stare alla larga. I poveri sono contagiosi. I ricchi purtroppo no.”  Un dottore, nell’articolo, “spiega che la carestia ha causato aborti spontanei e la nascita di bambini pericolosamente sottopeso con gravi malformazioni.” E se non si trattasse di un articolo d’attualità ma di una storia? “C’era una volta un posto dove i bambini nascevano pericolosamente sottopeso e con gravi malformazioni, quando non venivano abortiti prima – e c’era chi diceva fosse meglio così, essere abortiti prima.” Come continuerebbe la storia? Quali dilemmi morali, tuttavia del tutto speculativi, offrirebbe? È nell’articolo o nella storia a esserci un padre che dice: “Mi sento impotente quando i miei figli chiedono il pane e io non ho nulla da dargli. […] A volte mi auguro che possiamo morire assieme in un attacco aereo, per non soffrire la fame e questa continua agonia”?  Il personaggio del padre mi catturerebbe o, da raffinato lettore quale sono diventato, lo troverei troppo piatto, prevedibile, retoricamente debole? A dei giornalisti un padre in tale situazione cosa può mai raccontare, se non la versione più pietistica di sé stesso? Però bisognerebbe indagarlo. L’articolo del padre dice la sua famiglia conti nove persone. Ora, non saranno tutti figli ma la media dei figli, nell’articolo, è di quattro o cinque. Bene, così come ho sentito dire che in quel posto non si viene affamati ma che vi si debella l’obesità, non vedo perché non se ne possa dire che non si stanno uccidendo persone ma impartendo loro i rudimenti della pianificazione familiare.  Come si comporta il personaggio del padre con moglie e figli quando il governo del paese confinante non si impegna così a fondo per distruggere gli abitanti di quel posto dove abita anche lui, il padre? Cosa fa nella vita quando non è sotto diretta minaccia di invasione e distruzione? Approfondiamo il personaggio, rendiamolo credibile, esigiamone la doverosa parte di miserabilità comune a ogni vivente. La bimba nella foto – ritorno alla foto di corredo all’articolo – mostra una sua foto da uno smartphone, è la foto di quando non era denutrita ma una bella bambina dalle guance floride. Quindi adesso devo spegnere tutto, rimuovere l’articolo – è quello che faccio tutti i giorni, come vuoi che sia possibile sopravvivere sapendo di un milione e centomila persone studiatamente affamate, in quel posto lì, ignorando selettivamente gli altri posti dove pure agli abitanti gliene vengono fatte passare di ogni? – e calarsi nella scena, da sviluppare ulteriormente: c’è una bambina che grida di dolore se la tocchi, che ha le costole sporgenti e i capelli che cadono. Dall’articolo: “I capelli le stanno cadendo. Le costole le sporgono.” Bisogna immaginarsela mentre con le mani ossute accende lo schermo dello smartphone per rivedersi com’era prima della fame. In uno specchio magico e crudele.  Aveva bei capelli mossi, la sua vanità di bambina, e le guance paffute. Mia figlia ogni mattino si guarda allo specchio per controllare quanto le sono cresciuti i capelli. Sono la sua vanità da bambina. O tu lettore – mi dico – fai attenzione, altrimenti potrebbe insinuarsi il dubbio io stia intendendo che posso capire la sofferenza della bambina giusto perché una bambina ce l’ho anche io, quasi dispensando chi una bambina non ce l’ha dal poterla capire altrettanto, anzi quasi spingendolo a dire: Chi tante e chi nessuna, di bambine, e nel caso del personaggio del padre: ha tanti figli, averne qualcuno in meno alla fin fine per lui potrebbe rivelarsi addirittura un sollievo. Preciso perciò che avere una bambina mi aiuta a capire la vanità della bambina della foto, non certo la sua sofferenza, che non comprendo affatto, che non voglio comprendere, sempre per quella ragione del dover sopravvivere rimuovendo la consapevolezza sui fatti di cui sopra. Ho famiglia, io, oh, sono disumanizzato per giusta causa. La bambina, la scena è questa, soffre tanto per il suo essere uno scheletro dolorante ma è lo star perdendo i capelli a procurarle una sofferenza di ordine superiore, indimenticabile.  Non devo dimenticare chi ha scritto l’articolo, che lo ha scritto dopo averne scritti altri e che altri ancora ne scriverà. Lui, loro, come me, non potranno restare a lungo in compagnia della bambina. No, proprio no, bisogna rimuoverla. Bisogna andare avanti, quanto più non si può andare avanti tanto più si deve andare avanti il più velocemente possibile.  La bambina vive con sette familiari in quel posto nel mio stesso mondo, così riporta l’articolo di attualità. Saranno i sette familiari a restare con lei, ricordandosi di lei, assieme a lei. Io, lettore, devo solo illudermi chiedendomi: quando di anni ne avrà ventidue, poi trentadue, poi quarantadue, la donna che sarà come penserà alla bambina che sarà stata, al suo corpo in fiamme, ai suoi capelli diradati, al suo volto afflitto che a dodici anni già ne dimostrava molti di più?  A cinquantadue anni o sessantadue, specchiandosi, quella donna si dirà: “Ecco, questo è esattamente lo stesso volto che ho avuto quando ne avevo dodici.”  La storia allora potrebbe cominciare così, non spaventando i lettori aprendosi su un posto gremito di aborti e malformazioni, come la cloaca del Golgotha su cui si apre il romanzo Barabba di Lagerkvist, ma con una donna di sessantadue anni che guardandosi allo specchio pronuncia per sé stessa e per tutti coloro che la leggeranno la frase enigmatica: “Ecco, questo è esattamente lo stesso volto che ho avuto da bambina.”  Chi legge vorrà sapere: come, lo stesso volto? Cos’è, una storia fantastica, paradossale? E continueranno a leggere, sorretti dal sollievo iniziale: quale che sia stata la vita attraversata da quella donna almeno si ha certezza che abbia vissuto fin lì, che sia sopravvissuta. L’Ismaele melvilliano rappresenta sempre l’infantile speranza di sopravvivere per raccontarla. Che la bambina sopravviverà, che invecchierà, l’articolo e i giornalisti che l’hanno scritto non possono garantircelo. Io lettore non posso sapere se la bambina che viveva fino a pochi giorni fa nel posto della fame sia ancora viva ora che sto pensando a lei. Una storia, per essere una storia, dovrebbe tornarci su molto spesso, dovrebbe a continuare parlarci della bambina per più pagine, fino a un compimento o a una svolta o a qualcosa che gli assomigli. Una storia garantirebbe alla bambina il rifugio di una memoria collettiva molto più di un articolo di giornale, ma un articolo di giornale è tutto ciò che abbiamo. I giornalisti non possono continuare a scrivere della bambina, nessun giornale gli pagherebbe la storia della bambina dal costato sporgente che perdeva i capelli per la fame, e neppure io.  Io lettore non posso che immaginarla per la durata di un’altra piccola scena futura, immaginarmela mentre a dodici anni guardando la sua foto di poco tempo prima, del tempo prima della fame, dice a sé stessa: “Ecco il volto che avrò tra cinquant’anni, quando sarò sopravvissuta a tutto questo, chiedendomi che senso avrà avuto essere sopravvissuta a tutto questo.” antonio coda *In copertina: Fernand Khnopff, Ritratto di bambina, 1895 L'articolo La bambina e la fame. Sulla differenza tra giornalismo e letteratura proviene da Pangea.
June 3, 2025 / Pangea
“Per conquistare il cielo”. La poetica dello sciamano. (Qualcosa, ancora, su GRM)
Così appunta Elias Canetti, è il 30 luglio del 1966: > “Leggo poesie in tutte le lingue che conosco, e in traduzione, quando sono > scritte in lingue che non conosco, ma cerco di farmi almeno un’idea di quelle > lingue… Sfoglio libri su tutti i possibili animali. Torno ad ascoltare, cosa > che da moltissimi anni non facevo più, le mie care voci degli animali”.  Canetti associa la lettura della poesia alla voce animale – imparare lingue sconosciute, cioè: imparare la parola del lupo, l’urlo dell’ungulato, il cigolio della gazza. Il brano è in un libro, Processi. Su Franz Kafka (Adelphi, 2024), di inclassificabile bellezza. Inutile ricordare la presenza ‘animale’, da strenuo classificatore, nei libri di Kafka: florilegio di sciacalli e ratti, di cani e di pantere, di cavalli e scimmie. L’opera di Kafka è un bestiario; valicare il simbolo a cui sottende quella singola bestia vuol dire franare nella follia.  Ad ogni modo, che scena magnifica. Uno dei più potenti intelletti del secolo, Canetti, che, nel suo studio, ascolta le voci degli animali, per liberarsi dal linguaggio umano (si legge poesia anche per questo: per sobillare il linguaggio, per liberarsi da umana lingua). Per chi fosse interessato, Canetti fa riferimento ad Animal Language, libro fotografico del 1938, con due dischi “che riproducevano i versi degli animali africani di giorno e di notte”, ideato da Julian Huxley, il fratello di Aldous, che è stato, tra l’altro, il fondatore del WWF, l’uomo che ha inventato la parola Transhumanism, transumanesimo.  Incapace di ‘contattare’ gli animali, Canetti li ascolta, nel suo studio gonfio di libri, fiero della propria interiore ‘animalità’.  Sono quasi certo che i libri sciorinati da Canetti tra quelli “che più contano per me”, facciano parte della biblioteca ideale di Gian Ruggero Manzoni. Pascal e i Presocratici, Sofocle e William Blake, Georg Trakl e Zhuang-zi, Confucio, Lao-Tzu ed Erodoto, Atlantis, soprattutto, la formidabile enciclopedia di miti e fiabe africane collezionata da Leo Frobenius negli anni Venti. Manzoni ha lo stesso physique intellettuale di Canetti: è uno ramingo tra più mondi culturali; un vagabondaggio – è chiaro – che opera in orizzontale (libri) e in verticale (pratica; ascesi/ascesa). A Canetti manca l’estremismo dell’azione, dell’esteta armato; possedeva, tuttavia, il dono dell’ira e dell’eros. Ma non è questo il punto.  Nel suo ultimo libro – se è poi l’ultimo: GRM pratica la giusta liturgia della dissipazione, ogni libro è sempre l’ultimo –, Nel lento movimento dei ghiacci (stampa puntoacapo), Manzoni dichiara i punti di giunzione tra il verbo e l’animale, tra il poeta e lo sciamano (“Sciamano del Delta del Po, sempre scopro ogni notte che vago nell’immutata sostanza della natura umana”: sua serpe e suo scettro sia l’angusta anguilla). Sciamino, a questo punto, gli scettici: al netto del consueto, cospicuo proliferare di ‘cultura’ (Leopold Zunz, Pascal, Aristotele, i canti dei nativi d’America), Manzoni si dà alla ‘natura’ del gesto lirico, inaugura la danza con gambe tese ad arco: > “Nel lento movimento dei ghiacci, la porta spalancata è alla cometa, quella > recante vita nel suo strascico… recante l’essenza di un altro mondo, che mai > vedremo, se non ipotizzando un oltre alla tenebra, in piena luce”.  In un brano – che ricorda gli incantesimi orditi da Álvaro Mutis – GRM parla dello “sciamano Ainu” che balla con l’orso dell’Hokkaido; parla delle “maghe del Rio delle Amazzoni”, parla dell’“angelo di carne”. Ossidati all’oggi, i poeti scontano la latitanza dal linguaggio che ‘agisce’, che si fa atto: espulsi dalla natura e dalla storia – il poeta non ‘serve’ più, se non in civiltà più raffinate, a cementare il senso d’appartenenza a una nazione, di servizio a una terra, a una lingua/seme, lingua-seminagione –, i poeti, servili, sono utili, semmai, a stimolare le anime belle, a far leva sui ‘sentimenti’; mai che trafiggano e trasformino le anime. Così, sono i falsi poeti a proliferare, oggi, a primeggiare, come sono i falsi profeti a guidare le adunate dei fedeli. Ma al poeta nulla importa dell’applauso o del consenso – necessario, invece, al romanziere, a chi lavora per ‘comunicare’ –: attende che la sua parola sia efficace, e non mero guscio, vocabolo inerte, vocabolo-carcassa.  Manzoni riassomiglia la poesia al suo dire originario, ne fa nenia, sacra cantilena – dunque, sacrilegio – in assenza di opera sacra. E allora: > “Oggi sono la lince del fiume Amur, ieri fui il daino preso in trappola, > domani sarò l’orso polare che, ai cacciatori, parlerà del sonno che t’invade, > quando il freddo ti prende l’anima e le carni… quando i liquami umani via via > si solidificano e l’alito vaporoso si trasforma in neve sulla barba”.  Chi vede in questi brani mere figure esornative, ‘immagini’, pittogrammi del fallimento, è un idolatra del vocabolario. Chi conosce Manzoni sa che la pratica è tale da sempre, da Il mercante di allodole (era il 1977, primo verso che testimonia un’indole indocile: “Chi comprende i simboli con le mani è l’unico uomo libero”), a Le battane di bronzo (uscì per la Stamperia dell’Arancio, trent’anni fa, ne riproduco le cifre finali: “Per conquistare il cielo occorrono macchine di luce, un modello che convinca e che riempia ognuno; e una religione, votata all’essenza, o alla più feroce risposta”), in qua. Oggi – nell’era della simulazione, che chiede di dissimularsi nell’altro – tale pratica è semplicemente più esplicita.  Dunque, la congiunzione tra il poeta e l’animale. L’anima dello sciamano – così ne dice Klaus E. Müller in Sciamanismo. Guaritori. Spiriti. Rituali, Bollati Boringhieri, 2001 – veniva ruminata per tre anni dalla “Madre animale” (sia alce, cervo o renna), era “l’anima di un essere dalla duplice natura, animale e umana”, riconoscibile fin da bambino per eccezionalità fisica, ‘mostruosa’ (“gli individui destinati a diventare grandi sciamani nascevano con i denti, oppure ‘con la camicia’ e con un numero eccedente di dita per mano (o per piede), o con un neo vistoso sul corpo”), e psichica (“tendevano a cadere in deliquio e avevano un carattere chiuso; di indole pensosa, passavano il tempo a rimuginare, soli”). Ne seguiva, l’addestramento, la vita riparata dal convegno umano, in luoghi spesso inaccessi; il corredo sonoro e lirico, che riproduceva le voci degli animali-guida. Parola che sana, quello dello sciamano, che piega, che piaga. L’amorfo repertorio che leggiamo, preziosità etnografica (ad esempio, in: Testi dello sciamanesimo siberiano e centroasiatico, Utet, 1984), non va letto come si leggerebbero Yeats o Blake (due poeti-sciamani, tra l’altro, che sciamanizzano) ma come canto che anima, che opera, che in assenza di compito resta esteticamente inerme. Lo sciamano presiede alla vita – il parto – e alla morte – la sepoltura – e al pasto – la caccia. Eleva a suo grado gli elementi. Ora: che può il poeta se non riferire un deciduo dire, la caducità della parola? Il libro di Manzoni non è la cronaca di uno sciamano infame, senza futuro, ma l’indizio iniziale di chi torna a manovrare il fuoco, di chi, con la timida tenerezza del nudo uomo, che ascolta l’erba, i fiumi, lo scalciare del sole, leva le briglie alle parole, leva ogni paramento, a trafittura d’ululato.   Compito del poeta: liberarsi della poesia. Scatenarla.  Per altro, il riferimento – GRM ha tradotto Genesi, Esodo, Isaia, una manciata di Salmi per il “Salterio dei Poeti” e altro ancora va traducendo dal Testo – ha pertinenza biblica. Iubal, figlio di Lamec, della genia di Caino, è “il padre di tutti i suonatori di cetra (kinnor) e di flauto (ugab)”. Iubal non è il primogenito – non lo era neanche Abele; a sottendere: destino di sacrificio – e gli strumenti che crea indicano un opposto approccio all’arte mantica della musica. Ugab, lo strumento a fiato, ruba il ‘soffio’ di chi lo suona: appare poche volte nel testo biblico. Kinnor, invece, partecipa di ogni luogo del Testo (42 occorrenze): lo strumento a corda pretende maneggevolezza nella voce, accordo con il canto. Ogni strumento musicale è trasmutazione di uno strumento di guerra: il flauto fu cerbottana; la cetra fu arco e fionda. Il flauto adombra la tattica dell’uccello, la cetra quella del felide. Anche il più alto atto d’arte reca un pervicace sentore di sangue.  Chi lamenta assenza di animali nei Vangeli ha lo sguardo fuori asse. Al dialogo umano, frutto di sacri fraintesi, il Nazareno preferisce quello con le bestie e con gli angeli (così insegna l’evangelista Marco). Il suo stesso corpo è arca, nella sua voce la voce delle miriadi di bestie. Per altro, gli apostoli operavano guarigioni, andavano in estasi, afferravano la serpe senza che gliene incorresse danno. Di ciò, non restano neppure le vestigia – se non negli esorcismi –, ma il sottile fastidio di un tempo andato.  Manzoni, intanto, continua la sua danza – a me ricorda, di spalle, il Giudice Holden, istoriata creatura uscita dalle fucine di Cormac McCarthy, un poco Pan un poco Astaroth, che sganghera la luce nel suo noccioleto. A noi, succhiare di quel fiele.  *In copertina: strumento sciamanico esposto in “Shamans. Communicating the invisible”, al Muse di Trento; nel testo: opere di Gian Ruggero Manzoni L'articolo “Per conquistare il cielo”. La poetica dello sciamano. (Qualcosa, ancora, su GRM) proviene da Pangea.
May 29, 2025 / Pangea
“Su un vassoio, la testa pallida del poeta”. Tradurre poesia, un crimine linguistico
Per spiegare se un testo sia traducibile sono stati scritti centinaia di libri e di saggi di traduttologia, sono state spese milioni parole in decine di lingue, tradotte a loro volta in altre decine di lingue. Quello che resta, di questo profluvio verbale, di questo scialo teoretico, sono alcune affermazioni apodittiche e contraddittorie, che spesso sconfinano nel paradosso o nella boutade, e che fanno il giro del mondo nei convegni sulla traduzione. Il repertorio è infinito: dal precetto di Cicerone di non tradurre verbum pro verbo alle polemiche di San Gerolamo, dalle considerazioni di Lutero alle argomentazioni di Du Bellay, Montaigne e Chapman, a quelle di Ben Jonson sull’imitazione, fino alle considerazioni filosofiche di Von Humboldt e ai resoconti di Goethe, Schopenhauer, Arnold, Valéry, alle teorizzazioni di Pound, Benjamin e Ortega y Gasset. In Italia domina la battuta, citatissima e un po’ misogina – attribuita a Croce ma in realtà di Carl Bertrand, il traduttore tedesco di Dante, che riprese una definizione di Gilles Ménage –, secondo cui le traduzioni sarebbero come le donne, “brutte e fedeli o belle e infedeli”. Come anche quella, attribuita a Robert Frost, secondo cui “poesia è ciò che si perde nella traduzione”. Per Ortega y Gasset, la traduzione, semplicemente, “non è possibile”; per Jakobson “la poesia è intraducibile per definizione”. Walter Benjamin, pur nel suo pessimismo, sostiene che “la traduzione è necessaria”. Secondo Novalis e Humboldt, tutta la comunicazione è traduzione. C’è poi la celebre quartina di Nabokov:  > “Cos’è la traduzione? Su un vassoio  > La testa pallida e fiammante di un poeta,  > Uno stridìo di pappagallo, una ciancia di scimmia,  > E una profanazione dei morti”. Come afferma George Steiner in Dopo Babele, “per circa duemila anni di discussioni e di precetti, le convinzioni e i contrasti manifestati sulla natura della traduzione sono stati quasi gli stessi. Tesi identiche, mosse e confutazioni familiari ricorrono nelle dispute, quasi senza eccezioni, da Cicerone e Quintiliano ai giorni nostri”. Il postulato dell’intraducibilità “poggia sulla convinzione, formale e pragmatica, che non vi possa essere autentica simmetria, rispecchiamento adeguato, tra due sistemi semantici differenti”. Il punto, conclude ancora Steiner, è sempre il medesimo: la cenere non è la traduzione del fuoco. Scuola spagnola, Testa di Giovanni il Battista, XVII secolo Se, come sostiene Croce, “l’intraducibilità è la vita della parola”, resta nondimeno il dato incontrovertibile che centinaia di migliaia di biblioteche straripano di libri tradotti. E restano i milioni di libri tradotti da un’infinità di lingue: molti egregiamente, altri mediocremente, altri ancora pessimamente. Perché è vero che in nome della traduzione – della sua necessità, e del suo culto – sono stati commessi i delitti più infami e i più gloriosi atti di eroismo. Sepolti negli scaffali delle biblioteche, esposti sui banconi dei librai di tutto il mondo, giacciono crimini linguistici efferati, compiuti spesso da persone, come si dice, al di sopra di ogni sospetto, che le logiche editoriali impongono, o tollerano o incoraggiano, che spesso i lettori subiscono impotenti, e che nessuno punisce mai. In questa necessaria, indispensabile quanto spesso inutile attività dell’ingegno umano, si sono esercitate schiere di inetti, ignari spesso della lingua di partenza come di quella d’arrivo, consegnando agli editori o alle stampe aborti mostruosi; e imperano legioni di scrittori mancati e di scribacchini frustrati che cercano, come uccelli usurpatori, confortevole riparo in nidi altrui. Ma a tale attività offrono il loro contributo anche legioni di onesti mestieranti, che pur dietro compensi offensivi nobilitano la professione; per non dire dei non pochi geni che la elevano da attività funambolica a sublime forma d’arte. Con ciò non si vuole infierire sulle traduzioni letterarie malfatte, ma semplicemente porre l’accento su quanto sia arduo riuscire a fare una buona traduzione. Com’è noto, una delle attività preferite di moltissimi critici e traduttori è la caccia all’errore nelle traduzioni altrui: sport che ha prodotto qualche libro divertente e molte gogne umilianti, come l’americano Glorious Mistakes. Il che equivale, comunque, a sparare ai passeri. I francesi hanno un’espressione deliziosa per definire questi perditempo frustrati che cercano un po’ di gloria dando la caccia all’errore in traduzioni di onesti professionisti che per pochi soldi si sono consumati gli occhi su testi a volte difficilissimi al limite dell’intraducibilità: li chiamano (excuse my French) le enculeurs des mouches, i sodomizzatori delle mosche. Giovanni Bellini, Testa di Giovanni il Battista, 1470 ca. Come diceva Pound, i critici dovrebbero ricordarsi che scopo della traduzione poetica è appunto la “poesia”, non le definizioni verbali dei dizionari; e che a volte una traduzione è brutta proprio perché non sbaglia mai. Il fondamento della traduzione poetica, infatti, è la trasposizione, non il rispecchiamento, vale a dire la restituzione fedele del senso poetico, e la necessità di compiere, nella lingua d’arrivo, lo stesso percorso creativo che ha condotto l’autore originale a dare al suo testo, tra tutte le forme possibili, quella storicamente proposta e non altre. In questo senso, allora, ogni testo diventa traducibile, con buona pace di Croce (che del resto non era poeta) e di tutti i pudichi glottologi che con reverenza quasi superstiziosa ritengono sacro e inviolabile il testo originale. Prendiamo il caso del greco-alessandrino Costantino Kavafis, che mentre in Grecia (dove lui non è mai vissuto) infuriava asperrima la questione della lingua, se cioè si dovesse usare la lingua popolare (dimotikì) o quella riformata (l’aulica katharèvusa), lui, “alla periferia dell’impero”, ad Alessandria d’Egitto, usava nella sua poesia un amalgama delle due lingue, creando uno stile personalissimo, unico e inimitabile. Se il neogreco è dunque l’unico caso di diglossia praticata in un Paese moderno, com’è possibile tradurre un poeta, che tra l’altro occasionalmente usa metrica e rima, e una lingua “schizofrenica”, in qualsiasi altra lingua a cui sia estraneo il fenomeno della diglossia? Eppure lo hanno fatto in moltissimi. Secondo una recente ricerca dell’Università di Salonicco, Kavafis è in assoluto il poeta moderno più tradotto e imitato al mondo (seguito a diverse lunghezze da Pessoa). Che cosa sarà mai rimasto della “intraducibile” poesia di Kavafis nelle innumerevoli versioni fatte nelle lingue più ignote, compresa la lingua dei maori? Di certo, come nel caso di molti altri poeti, qualche inevitabile scempio metafrastico. Ma forse non solo. Io credo che resti dell’altro, che se si perde molta “filologia” rimanga però anche un po’ di buona “poesia”. Diversamente non si spiegherebbe il paradosso che uno dei poeti moderni “più intraducibili” come Kavafis abbia influenzato forse più di chiunque altro buona parte della poesia contemporanea moderna. Personalmente credo che la traduzione vada intesa secondo il principio dell’equivalenza, e che il traduttore dovrebbe sforzarsi di pensare a come sarebbe l’opera originale se fosse stata scritta nella propria lingua. E mi torna alla mente Novalis, secondo cui la traduzione è “poesia della poesia”, giacché il traduttore, nel suo sforzo di dare una nuova veste linguistica all’originale, deve prima enuclearne la “poeticità”. Questo è il principio di equivalenza su cui dovrebbe fondarsi l’atto del tradurre. Atto che è garantito solo se il traduttore è un poeta o ha alle spalle una solida cultura poetica. Se poi il traduttore-poeta condivide con l’autore che traduce principî estetici e artistici comuni, e ha con quest’ultimo affinità ideali, allora il testo tradotto riuscirà davvero a costituirsi come un’opera nuova e originale. Credo che l’obiettivo finale di ogni traduzione, infatti, sia quello di trascendere l’originale, in un certo senso ucciderlo per trasformarlo in un nuovo originale. Giovan Francesco Maineri, Testa di Giovanni il Battista, 1502 Ma questa è una situazione ideale, quasi sempre difficile da verificarsi. Le necessità dell’editoria moderna sembrano far prevalere le esigenze delle traduzioni di servizio su quelle artistiche, e d’altro canto non sempre i buoni traduttori sono anche poeti, e viceversa. Ma anche quando una stessa persona riesca a coniugare in sé le qualità del poeta e del traduttore, i pericoli non mancano. Il testo originale rischia di essere dimenticato e sostituito completamente da un altro testo (a volte persino migliore, come per esempio è capitato al Cinque maggio di Alessandro Manzoni tradotto da Goethe), che reca in sé le tracce dell’ideologia e delle esperienze di colui che pertanto dovrà considerarsi il nuovo autore, e le specificità proprie dell’ambito linguistico e culturale d’arrivo. Tradurre, dunque, non è né possibile né impossibile: è semplicemente necessario. Per dirla con Benjamin, la traduzione è un luogo d’incontro tra lingue e culture diverse, un luogo utopico di raccordo tra le divergenze. È un mezzo di circolazione, di crescita e di arricchimento culturale prezioso e indispensabile.  Forse la miglior traduzione letteraria possibile è quella della poesia tradotta dai poeti, cioè la poesia tradotta in “poesia”. Nicola Crocetti *Questo testo è stato scritto per una conferenza sulla traduzione tenutasi a Parigi nel 2000. Fortunosamente ritrovato dall’autore, ci è parso bello pubblicarlo, non come l’ennesimo documento su un tema per sua natura infinito – come lo è il linguaggio, come lo è il suo umile tedoforo: l’uomo – ma per la sua smaliziata ‘luccicanza’, per la sua inesausta fede nel ‘fatto’ poetico. Al poeta, in effetti, non interessano gli applausi del pubblico pagante (o fraudolento), ma che la sua poesia ‘agisca’ davvero: che faccia piovere sul deserto, che faccia muovere le montagne, che muova a compassione gli induriti cuori.  In copertina: Albrecht Bouts, Testa di Giovanni il Battista, XV secolo L'articolo “Su un vassoio, la testa pallida del poeta”. Tradurre poesia, un crimine linguistico proviene da Pangea.
May 27, 2025 / Pangea
Il mostro morale. Perché è sbagliato parlare di “banalità del male”
Anche se continuiamo a chiamarla «la banalità del male», il male non è mai banale. Il male è complicato, tortuoso, tende a negare sé stesso e ha una sua diabolica intelligenza. Del resto, la parola diábolos in greco vuol dire «dividere», o «colui che divide». E andrebbe inteso non tanto come calunniatore o seminatore di zizzania, quanto piuttosto come colui che scinde sé stesso in una doppia personalità: quella che commette il male e quella che rimuove il male commesso, oppure tende a cercare alibi, o più semplicemente a nasconderlo.  Quando la filosofa Hannah Arendt sottotitolò La banalità del male il suo celebre reportage sul processo al criminale nazista Adolf Eichmann, per spiegare come le persone più ordinarie possano trasformarsi in carnefici e partecipi di un sistema totalitario, possano cioè diventare funzionali a un ingranaggio mostruoso di sopraffazione e sterminio, non poteva immaginare né che quella sua definizione sarebbe stata così inflazionata in seguito, né che essa nasceva da un clamoroso equivoco. Seguendo in veste di giornalista per il “New Yorker” il processo contro Eichmann, l’ex tenente colonnello delle SS, nel 1961, Arendt si trovò di fronte un grigio burocrate, inetto e poco intelligente. O almeno così le sembrò. Eichmann, il pianificatore della Shoah, colui che aveva organizzato il traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei nei Lager, era caratterizzato, agli occhi della filosofa, da un’«assenza di pensiero». Eichmann non aveva nulla di demoniaco, né possedeva il carisma del male. Era un impiegato incolore, il prototipo del burocrate, incapace di «mettersi nei panni degli altri». Le sue frasi interminabili al processo suonavano terribilmente noiose e il suo ritornello di aver agito su ordine e prestato giuramento di fedeltà lo facevano apparire come un uomo «spaventosamente normale».  Ma Arendt era caduta nella trappola tesa da Eichmann.  All’epoca non si conoscevano, infatti, tutti i documenti che sono emersi successivamente sul gerarca nazista. In particolare, le cosiddette «carte argentine», ovvero gli appunti dell’esilio, e i dialoghi e le interviste integrali di Willem Sassen registrate sui nastri, da cui emerge un Eichmann ben diverso: uno spietato, perverso criminale che al processo si finse «banale», mise in atto cioè una interpretazione, con notevoli doti da attore, per tentare di sfuggire alla condanna a morte (tentativo, peraltro, che si rivelò inutile, poiché i giudici israeliani non gli credettero). Quella «banalità» era, in altre parole, una maschera.  Quando Eichmann afferma al processo di «aver obbedito a precisi ordini superiori»; quando insiste nel dire di «non aver nutrito alcun odio personale per le vittime», anzi, di aver addirittura dovuto mettere a tacere la propria «sofferenza», sta solo recitando. Rimase, infatti, fino all’ultimo suo giorno fanaticamente fedele all’ideologia nazista e antisemita. Eichmann era presente alla Conferenza di Wansee, nel gennaio 1942, quando si decise, a tavolino, che la questione ebraica dovesse essere risolta con lo sterminio totale. La organizzò, quella Conferenza, e ne stese i verbali. Ne approvò le conclusioni. Non è vero che non aveva fatto altro che «temperare le matite a un tavolo in disparte». Eichmann era un uomo assetato di potere, che in Argentina, dove si era rifugiato per eludere il processo di Norimberga, si vantava con i suoi sodali nazisti superstiti, e il suo pubblico di affezionati, di aver mandato al gas sei milioni di ebrei, cifra che lui stesso aveva ricavato tenendo la contabilità dei trasporti. Totale era la sua abnegazione al genocidio, sadici i suoi festeggiamenti per i progressi della Shoah (sorseggiava cognac davanti al camino in compagnia dei suoi superiori), diffuso il terrore che seminava tra i prigionieri dei Lager.  La capacità di Eichmann di calarsi in un ruolo dimesso e anonimo, la sua abilità di manipolatore sociale ingannò, dunque, anche una mente sopraffina come quella di Arendt, che, basandosi sui verbali del processo, sugli interrogatori, raccontò a milioni di lettori un Eichmann fasullo. E, soprattutto, con quella sua nozione di «banalità del male», ha provocato interpretazioni riduttive e fuorvianti sulla natura stessa del nazismo e dei suoi crimini, soprattutto se si confronta con quella che emerse invece dieci anni dopo da un altro libro, uno sconvolgente libro, forse il più importante sulla Shoah, In quelle tenebre di Gitta Sereny. La giornalista e storica austriaca-britannica, di origini ebree ungheresi, raccolse i colloqui avuti nel 1971 – più di sessanta ore – nel carcere di Düsseldorf, con Franz Stangl, il boia austriaco comandante del campo di sterminio di Treblinka, dove più di un milione di persone trovò la morte. Sereny, a differenza di Arendt, non si ferma all’apparente «banalità del male» dell’ex comandante, ai suoi racconti spesso vittimistici – per quanto Stangl fosse un individuo molto più ordinario di quello che volle dar mostra di essere Eichmann –, ma sceglie di stanarlo e sondarlo, quel male, di guardarlo in faccia, di confrontarsi con esso.  Sereny registra ore e ore di conversazione con Stangl, intervista a lungo anche la moglie, e le figlie, conquistandosi la loro fiducia, e altre SS che lo hanno conosciuto, e i sopravvissuti al Lager. Ci sono pagine insostenibili in questo libro – alcuni racconti dei carnefici e delle vittime – perché ci immettono dentro la macchina della morte al lavoro, senza risparmiarci nulla di quell’orrore. Eppure, Sereny, che non deroga mai dal suo giudizio morale, che a volte vacilla di fronte ad alcune rivelazioni sconcertanti, che non smette di incalzare e pungolare il suo interlocutore, si lascia andare ad alcune considerazioni inaspettate, tipo questa: riferendosi al legame di Stangl con la moglie e al suo affetto incondizionato per le figlie, scrive: «non c’è dubbio, qualunque cosa egli sia divenuto, ch’egli sia stato capace di amore». E a conferma di questa intuizione, Frau Stangl, molte pagine dopo afferma:  > «Paul era un padre incredibilmente buono e amoroso. Giocava sempre con le > bambine. Gli faceva delle bambole, e poi le aiutava a vestirle. Lavorava con > loro; gli insegnava una quantità di cose. Loro lo adoravano tutt’e tre. Era > sacro, per loro…».  Come spiegare questa assurda dicotomia? Stangl ha iniziato la sua carriera nel nazismo occupandosi del “Programma Eutanasia” varato dal regime (detto anche Aktion T4), che sperimentò pionieristicamente le prime morti per gas sui disabili, come ampliamento di una legge del 1933 sulla sterilizzazione coatta; poi fu nominato alla direzione del campo di sterminio di Sobibór e infine a Treblinka. Una vita dedita allo sterminio di esseri umani, compresi centinaia di migliaia di bambini. Eppure, era un padre amorevole, un marito premuroso. E le sue figlie lo adoravano, e hanno continuato ad amarlo anche quando hanno scoperto chi era e che cosa aveva fatto.  Stangl è irritante nelle sue reticenze: per tutti gli incontri si ostina a negare le sue responsabilità, sostiene che non poteva fare altrimenti, che fu costretto dalle circostanze, scende continuamente a patti con la sua coscienza, svelando a Sereny il meccanismo psichico schizofrenico di difesa, «i due uomini che era diventato» per sopravvivere, evidente in maniera agghiacciante quando si compiace a un certo punto di aver reso Treblinka un posto «veramente bello», con uno zoo, le panchine, i fiori. Anche la moglie, che per tanto tempo ha preferito non sapere, rimuovere la verità, ci appare intollerabile. Eppure il metodo perseguito da Sereny – la strategia del ragno che tesse paziente la sua tela per bloccare la sua preda – alla fine del libro risulta vincente.  L’ultimo giorno in cui ha intervistato Stangl riesce finalmente a ottenere un’ammissione da lui. O almeno il massimo dell’ammissione che un uomo del genere poteva fare. «La mia colpa è di essere ancora qui. Questa è la mia colpa» dice, dopo un’estenuante pausa in cui ha riconosciuto per la prima volta la sua responsabilità nello sterminio. Il giorno dopo, il 28 giugno 1971, Stangl muore in prigione per un attacco di cuore. Come se l’ammissione della sua colpa lo avesse letteralmente schiantato.  Questo malore mi ha fatto venire in mente una scena di un recente film, La zona d’interesse, di Jonathan Glazer, che racconta Auschwitz dall’altro lato, letteralmente, concentrandosi cioè sui carnefici, non sulle vittime: quello che vediamo non è il Lager, ma ciò che succede nei suoi paraggi, accanto, a ridosso, ai margini, ovvero la vita del comandante del campo Rudolf Höß e di sua moglie Hedwig che insieme ai loro cinque figli e il cane (oltre a una numerosa servitù locale) abitano in una casa e in un grande giardino in un terreno adiacente al muro del Lager. Un idillio ai confini dell’inferno. Lui va a pesca con i figli, racconta loro le fiabe per farli addormentare, lei cura le aiuole, riceve le amiche. Insieme organizzano feste con rinfreschi e bagni in piscina. Dall’altra parte del muro, intanto, rigorosamente fuori scena, proviene un paesaggio sonoro attutito, ma che non si interrompe mai: grida, pianti, lamenti, colpi di mitra, latrati di cani, ordini urlati, e soprattutto un rumore di fondo, continuo, incessante, un borbottio metallico che si presuppone provenga dai crematori, accompagnato da alcuni dettagli visivi che emergono dalla quotidianità della «famigliola» tedesca: il fumo delle ciminiere e quello dei treni in arrivo che si scorgono ai margini superiori di certe inquadrature, i bagliori notturni dei forni che si intravedono di notte alle finestre velate dalle tende della casa del comandante.  Il comandante ricorda molto Stangl, anche lui realizza il male con spietata freddezza, separando il suo ruolo di criminale da quello piccolo-borghese di padre di famiglia benevolo e marito premuroso, che persegue la sua piccola dose di felicità, fatta di benessere, status, sicurezza, carriera, rivalsa, una felicità molto kitsch, che si regge su un baratro di colpe, omissioni, indifferenza, omertà. Ma mentre la moglie è inamovibile nel non voler sapere e vedere (al punto che nasconde il muro del campo con gli alberi del suo giardino), tutta concentrata a mantenere ciò che possiede, lui a un certo punto del film ha un crollo fisico. Dopo aver ricevuto l’incarico di dirigere l’“Aktion Höß”, un’operazione a lui intitolata che consiste nel trasporto di 800.000 ebrei ungheresi nei diversi Lager, partecipa a una festa con le alte sfere del nazismo. Alla fine della serata è colto da conati di vomito sulla scalinata interna del palazzo, ed è costretto a sostare nel buio, nascosto, preoccupato che qualcuno possa vederlo.  A differenza di Stangl, Höß non prende consapevolezza di nulla, né si pente di nulla, ma quel vomito indica la verità del corpo contro una mente che tacita le sue colpe. È una verità fisica, che si ribella ai mascheramenti della coscienza. Quando ha riassunto il suo tempo passato con Stangl, Sereny non ha avuto dubbi nel dire che sentiva di «essere in presenza del male». Eppure Stangl era morto ammettendo una sua colpa, o forse a causa di quello, mentre in Eichmann non ci furono pentimento né ammissione alcuna. Ancora poco prima di essere processato si augurava che gli egiziani e gli arabi continuassero con Israele il lavoro iniziato da lui, sperava che i musulmani completassero lo sterminio totale che a lui era stato impedito. Sereny non ci offre una soluzione alla «divisione» diabolica che il male attua in chi lo compie: il male per lei resta un mistero. Come se calasse sull’umanità dall’alto.  > «Io non credo che tutti gli uomini siano uguali, poiché la nostra > caratteristica essenziale è proprio di essere individuali e diversi – scrive > nell’epilogo del libro –. Ma l’individualità e la differenza non sono dovute > soltanto alle qualità che ci capita di avere alla nascita. Dipendono > altrettanto dalla misura nella quale abbiamo potuto liberamente svilupparci. > V’è un nucleo essenziale del nostro essere, ancora mal definito e mal > compreso, che, godendo di questa libertà, sorge e si sviluppa, quasi come il > nascere, e che ci libera e ci separa da influenze intrinseche, e in seguito > determina la nostra condotta e il nostro sviluppo morale. Io credo che un > mostro morale non sia tale dalla nascita, ma sia prodotto da interferenze nel > suo sviluppo. Io non so che cosa sia questo nucleo».  L’umiltà di Sereny nel non voler definire quel «nucleo» fa la differenza con l’approccio di Arendt. Sereny rifiuta i documenti – quelli su cui invece si concentra la filosofa – o almeno rifiuta di farne il centro della sua ricerca, per affidarsi invece all’ascolto della parola. In questo il suo metodo è simile a quello che Claude Lanzmann avrebbe utilizzato per il suo documentario Shoah, uscito nel 1985. Anche Lanzmann non crede nei documenti, in particolare – da regista – nelle immagini d’archivio. Nel suo documentario radicale, estremo, lungo quasi dieci ore, parte da un assunto etico rigorosissimo, da cui deriva anche un’estetica altrettanto rigorosa, ovvero quello dell’irrappresentabilità della Shoah, dell’impossibilità di restituirne l’immagine. Da qui la polemica con Steven Spielberg per Schindler’s List e il giudizio severo su La vita è bella di Benigni, film che considerava entrambi detestabili perché menzogneri. Per Lanzmann, in effetti, non c’è nulla da vedere nella Shoah – in particolare nei campi di sterminio di Chelmno, Belzec, Sobibór, Treblinka, Birkenau – nessuna immagine può riprodurre l’evento della «catastrofe». Un bel paradosso per un’opera filmica, che sceglie di rinunciare al materiale di repertorio.  Lanzmann lavora undici anni per raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti (soprattutto dei pochissimi Sonderkommando scampati alla morte), ma anche dei testimoni, più o meno indifferenti (i contadini di Treblinka, gli abitanti di Chelmno), i collaboratori-complici, più o meno forzati (i conduttori dei treni, i ferrovieri, gli autisti delle SS), i carnefici stessi, e lo fa affidando alla parola l’unica forma di restituzione possibile, proprio come aveva fatto Sereny, spesso intervistando le stesse persone che abbiamo incontrato nel libro In quelle tenebre (come il notevole Richard Glazer, superstite di Treblinka). Pur sapendo che i «salvati» non hanno potuto fare realmente esperienza del Lager, non essendo entrati nelle camere a gas, come sosteneva anche Primo Levi, e nemmeno gli stessi «sommersi» (poiché sono morti appena arrivati, per la stragrande maggioranza), la parola, all’interno di un simile paradosso, mantiene la funzione fondamentale di ricostruzione della memoria. È una parola – quella della testimonianza dei sopravvissuti – sacralizzata attraverso la sua dissacrazione. Una parola che bisogna ascoltare insieme ai silenzi, alle incertezze, alle interruzioni provocati dagli improvvisi crolli emotivi, con il regista-intervistatore che incalza, incoraggia a continuare, a dire l’indicibile; una parola accompagnata dalle lente zoomate della cinepresa su quei volti segnati dall’inferno vissuto, quei volti che portano impresse, indelebili, le cicatrici dell’esperienza, volti di chi è sopravvissuto, sì, ma in qualche modo è anche morto dentro, nonostante una vita che è proseguita.  Le interviste avvengono spesso sui luoghi stessi dello sterminio, oppure, quando il testimone si trova altrove, sono montate con le immagini di quei luoghi, così che parola, volti e luoghi sono continuamente in dialogo tra loro. I luoghi, però, sono come appaiono adesso (ovvero al momento della realizzazione del film, nel 1985) e sono ripresi senza voci fuori campo, senza colonna sonora, senza commenti aggiuntivi: le lunghe, estenuanti carrellate che riprendono i prati, i boschi, le radure, le stazioni di Auschwitz, Treblinka, Sobibór, non testimoniano ciò che è stato, ma ciò che è rimasto. Anche quando la macchina da presa si inoltra all’interno dei Lager, e riprende i forni crematori, le docce, i cortili, è il vuoto che riprende. Ma indagando quel vuoto, che fa da contrappunto alla parola del ricordo, alla parola-testimonianza, certificando cioè quella irrappresentabilità dell’evento raccontato (quello che è successo non puoi vederlo, oggi non ci sono più in queste radure le montagne dei cadaveri, il fumo dei crematori, i nazisti, gli ebrei, non c’è più niente di ciò che stai ascoltando in quello che vedi), se ne evoca la verità con ancora più forza.  In fondo è questa la potenza del cinema di Lanzmann: quel montaggio così ipnotico, quei piani-sequenza, quegli indugi sugli spazi vuoti sono un racconto a parte, il vero nucleo di quel racconto, capace di farci percepire la memoria che i luoghi, ancor prima che le persone, conservano di ciò che è stato, con tutto il dolore e l’orrore della Storia di un intero popolo e dei suoi singoli individui. Ed è, forse, l’unica forma possibile di memoria su cui oggi – oggi che i sopravvissuti stanno scomparendo – possiamo contare. Ma se il metodo di Sereny sembra simile a quello di Lanzmann, le prospettive sono opposte. Basti confrontare, ad esempio, le interviste alla SS Franz Suchomel, detenuto nel 1963 e processato insieme ad altre dieci guardie di Treblinka. Lanzmann e Sereny attivano una diversa focalizzazione sulla stessa persona: mentre Lanzmann mantiene sempre un gelido distacco, un inflessibile rifiuto morale nei confronti dei carnefici («Signor Suchomel, non parliamo di lei, ma soltanto di Treblinka» gli dice a un certo punto, bloccando i suoi tentativi di giustificare il fatto che al momento della destinazione nessuno gli avesse detto che si trattava di un campo di sterminio), Sereny mostra invece sempre il tentativo intellettuale di accedere al cuore dei carnefici attraverso la ragione («La posizione che Suchomel ha adottato come ammiratore degli ebrei è altrettanto notevole della sua memoria, e psicologicamente interessante»). Proprio la ragione, così come la misura, e lo sforzo di comprendere l’incomprensibile, e la considerazione terenziana dell’«homo sum», rendono il libro di Sereny una degna risposta etica all’orrore, l’unica possibile forse, per evitare, come avvertiva Nietzsche, che lottare contro i mostri possa trasformare anche noi in un mostro. Fabrizio Coscia *Nota: dobbiamo allo straordinario lavoro documentale della filosofa e storica tedesca Bettina Stangneth, raccolto nel volume La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme (pubblicato nel 2011 e tradotto in Italia nel 2017 dalla Luiss University Press), la demolizione del ritratto di Eichmann compiuto da Hannah Arendt.  L'articolo Il mostro morale. Perché è sbagliato parlare di “banalità del male”  proviene da Pangea.
May 21, 2025 / Pangea
Nelle latebre della psiche. “Memorie dal sottosuolo”: storia di un outsider totale
Memorie dal sottosuolo, pubblicato nel 1864, si palesa come una delle opere più emblematiche di Fëdor Dostoevskij, segnando una svolta epocale nel suo percorso, sia narrativo che filosofico. Questo romanzo, che ad un primo sguardo potrebbe sembrare un semplice monologo psicologico, è in realtà un dedalo intricato di riflessioni che sfidano il lettore a confrontarsi con questioni le più profonde dell’umana vicenda.  Se la sua superficie può essere interpretata come la confessione di un uomo recluso nel suo mondo interiore, la struttura ed il contenuto si rivelano come critica diretta alla modernità, alle sue certezze ed alle sue illusioni – a tratti le due cose assieme. In Memorie dal sottosuolo, Dostoevskij non si limita a sondare l’animo umano, ma lo fa in un contesto che estrinseca la condizione dell’uomo del suo tempo: un tempo in cui le grandi verità universali e i tradizionali capisaldi morali sembrano essere non più valevoli, sostituiti da un’intelligenza calcolatrice e razionale che si sforza di ridurre l’essere umano a mero ingranaggio di una macchina sociale secondo un meccanicistico e deterministico principio di ascendenza scientifica. In questo contesto, il protagonista, l’“uomo del sottosuolo”, diviene simbolo di una civiltà in crisi, un uomo che ha rinunciato alla speranza di trovare una risposta filosofica congeniale alle grandi domande della vita, e si ritira nelle latebre della propria identità interiorizzante: luogo oscuro dove la psiche è preda delle sue contraddizioni più forti e delle sue fratture più dolorose. Il sottosuolo, in questa accezione, non è tanto un luogo fisico, quanto l’emblema della disgregazione dell’individuo, del suo allontanamento da una razionalità confacente ai massimi sistemi morali (ontologici e tradizionali come della società organizzata) e dello iato tra l’uomo e l’impronta della sua autentica essenza. L’opera, quindi, non si limita a esplorare unicamente la psicologia del protagonista, ma si erge a riflessione teorica e filosofica sulla natura dell’essere umano e sulla sua condizione esistenziale. Se da un lato l’uomo del sottosuolo rifiuta la razionalità delle scienze positive come leva di progresso e conseguimento della felicità, dall’altro lato non riesce a fuggire dalla consapevolezza del suo essere nudato e esposto a ridde di stimoli esuli da risposte attive: condannato alla solitudine, incapace di agire secondo una logica di autodeterminazione e imprigionato nelle proprie ritorte elucubrazioni interiori, nelle proprie nevrosi, nei sensi di colpa. La riflessione filosofica che attraversa l’opera è lontana da ogni sistema dogmatico e metafisico, eppure incapace di sfuggire dalla propria condizione di inadeguatezza. Nel contesto della società che Dostoevskij descrive, l’individuo moderno è costretto a fare i conti con il carattere di crescente meccanicità della vita quotidiana, con una razionalità elefantiaca, con la riduzione dell’umano a schemi e calcoli matematici, previsioni scientifiche, dove ogni emozione, ogni impulso, ogni azione sembrano essere ricondotti ad una funzione deterministica. In un tal mondo, l’individuo si percepisce come ingranaggio che opera secondo regole prestabilite, incapace di emergere dalla sua condizione di prigionia entro una realtà che non sente più sua. Eppure, nonostante il rifiuto del razionalismo ottocentesco, l’uomo del sottosuolo non si consola nella sua solitudine, né trova la liberazione nella ribellione contro i “due più due quattro”: la sua coscienza si torce in una spirale di auto-accusa e di impotenza, dove la riflessione non si traduce mai in soluzione concreta o liberatrice, attiva e tale da forgiare il proprio senso al mondo, non risentita e creatrice, ma in un continuo, straziante interrogarsi senza soluzione di continuità. La caratteristica principale di Memorie dal sottosuolo è proprio questa: l’opera non offre risposte semplici. Al contrario, ogni risposta sembra aprire un nuovo abisso, ogni apparente conclusione porta con sé la scia di nuovi interrogativi. Dostoevskij non ci consegna un sistema filosofico coerente e consolatorio, ma ci obbliga a confrontarci con l’inquietante verità della condizione umana: l’incapacità di raggiungere una conoscenza definitiva, l’impossibilità di liberarsi dalle proprie contraddizioni, il fallimento della razionalità come perno di comprensione totale del mondo. Il sottosuolo, quindi, non è solo un luogo spinoso di un estenuante cogito e di un’aspra sofferenza individuale, ma diventa metafora di una condizione universale: quella di ogni essere umano che, pur nella ricerca incessante di una verità possibile, è costretto a confrontarsi con i limiti intrinseci della propria esistenza. La riflessione sul “sottosuolo” come spazio oscuro ed inesplorato della psiche è centrale nell’opera e ci abbrivia a un viaggio nell’interiorità che non conduce mai a liberazione, ma solo a una permanente tensione tra il desiderio di comprendere e la consapevolezza che ogni comprensione collide con l’irrazionalità dell’esperienza umana. In tal senso, questa si configura come un’opera irrazionalista che mette in crisi ogni tentativo di definire l’essere umano attraverso categorie universali. L’uomo neoterico è troppo complesso, troppo frantumato, contraddittorio, per essere ridotto ad un insieme di leggi modellistiche frutto di calcolo e previsione. Eppure, nonostante questa consapevolezza della propria condizione di impotenza, continua a cercare, ad interrogarsi, a lottare con sé stesso in una spirale che non conduce a un solo esito certo. In questo complesso romanzo, quindi, Dostoevskij non ci offre una filosofia dell’uomo che possa essere facilmente assimilata o sistematizzata, ma ci presenta un tragitto senza meta, che costringe a confrontarci con le nostre stesse inquietudini, i nostri dubbi, le nostre paure, e senza nessuna promessa di riscatto. Questo è il grande paradosso dell’opera: la ricerca di senso non è mai fruttuosa, ma è proprio in questa incessante ricerca che risiede la sua potenza. L’autore, con maestria, riesce a dipingere la psiche in tutta la sua prismatica complessità, senza cedere alla semplificazione o risolvere i conflitti che ne emergono. L’opera diventa così un’autentica meditazione sull’essere umano che pur nella sua dogliosa inadeguatezza, come per una coazione a ripetere, insiste incessantemente a far ritornare il pensiero su sé stesso fino a una sorta di spasmo intellettuale. Memorie dal sottosuolo non è, dunque, solo un romanzo psicologico, ma una riflessione filosofica di un esistenzialismo ante litteram che sollecita a confrontarsi con l’angoscia ed il paradosso della nostra irredimibile condizione senza offrire mai la consolazione di risposte conchiuse. La struttura del romanzo non è semplicemente un espediente narrativo, ma manifestazione tangibile della visione dostoevskijana della psicologia umana, che, come il protagonista, si muove nella snervante, convulsa poiesi di pensieri contraddittori ed inconciliabili. La narrazione è divisa in due parti, ma questa divisione non è mai un semplice schema: specchia, in modo mirabile, l’irrazionalità e la frammentazione della mente del protagonista, il quale sperimenta l’inestricabile farragine dei propri pensieri secondo un avvicendarsi di elementi non lineari eppure sottilmente ficcanti. La sua riflessione è ciclica, sghemba, irrequieta. La mente, simile a uno sprofondo, non si pacifica: ogni tentativo di risolvere la confusione interiore si dissolve in spirali di dubbi e di incertezze che non hanno niente di apodittico e perspicuo. Nella prima parte del romanzo, l’“uomo del sottosuolo” si rivolge direttamente al lettore in un flusso di coscienza che è espressione massima dell’alienazione e della solitudine più inciprignita. Così, in queste pagine, egli si svela senza diaframmi, senza una maschera sociale che lo nasconda, e lo fa in un modo che sfida ogni convenzione letteraria. Non si tratta di una riflessione pacata e distaccata, ma di un fiume di pensieri che si accavallano, si contraddicono, si disperdono in mille rivi senza mai trovare conclusione soddisfacente (il protagonista è uno scontento cronico) e in tale flusso, non c’è unità di pensiero, ma anzi si moltiplicano le fratture: il desiderio di affermare la propria individualità e la consapevolezza che essa è solo una forma di cattività e autoinganno conducono l’uomo del sottosuolo a una solitudine insostenibile.  Non vi sono cartografie esistenziali di condotta giusta e confacente al raggiungimento della felicità ma solo una continua oscillazione tra il rimpianto e la disillusione, tra la speranza che il pensiero possa fare luce su un senso auspicabile e la disillusione più aspra. La narrazione stessa riflette questo confliggere, questo andamento franto e nevrotico, spostandosi incessantemente tra il disprezzo per la razionalità e l’impossibilità di eluderla. La seconda parte del romanzo, in cui l’uomo del sottosuolo racconta alcuni episodi significativi della sua vita, non cerca di ricreare una narrazione cronologica o lineare. Gli eventi che descrive sono scuciti, sconnessi, rapsodici come le sue stesse esperienze emotive e psichiche. Piuttosto che una storia coerente, ciò che emerge è un mosaico di scene, ambiti e considerazioni che, pur sembrando disarticolati, servono proprio a dare concretezza alla sofferenza e all’impotenza.  I tentativi di relazionarsi con gli altri, di inserirsi nella vita sociale, non sono altro che un protratto fallimento, un puntuale appuntamento con la propria inadeguatezza. Ogni episodio che il protagonista rievoca diventa l’occasione per una riflessione che non porta a chiarimento, ma che, quasi, inasprisce la condizione di frustrazione esistenziale che lo connota. La vita di quest’uomo kafkiano che non riesce a essere “neanche un insetto” è attraversata da un eterno conflitto tra il desiderio di affermarsi ed il timore di essere fatalmente sopraffatto dal mondo esterno, un conflitto che, come le sue riflessioni, non trova mai una via di fuga, men che meno ariosa. La sua condizione, quindi, è il perfetto riflesso della sua psiche lacerata, ipertrofica, incapace di conciliare le proprie pulsioni più profonde con le aspettative della società. Ma il sottosuolo in cui si rifugia è metafora di una condizione esistenziale che travalica il semplice isolamento sociale. L’uomo del sottosuolo è un individuo che ha scelto la solitudine, e non solo come ritiro dal mondo, ma anche come forma di resistenza. Resistenza non tanto contro le forze esterne, ma contro la propria stessa natura, contro il senso di impotenza che prova di fronte ad una realtà che è incapace di soddisfare le sue esigenze più ime. Il sottosuolo, in quest’ottica, è luogo di punizione, di autoafflizione: l’isolamento, per il protagonista, non è mai liberatorio, ma preferibilmente un incessante tormento che lo costringe a fare i conti con pletore di fallimenti, con illusioni smarrite, con il decadere di ogni possibilità di redenzione. Questo rifugio interiore è l’unico spazio in cui l’individuo può ancora agire, ma in un contesto cervellotico e involuto che non si traduce in scelte fattive ed è senza possibilità di riscatto o di pacificazione. Inoltre, egli si presenta come un “outsider” in senso totale, un individuo che non appartiene a nessun gruppo, a nessuna ideologia, un essere che non accetta nessuna mediazione tra sé ed il mondo. Questo rifiuto totale della mediazione sociale (quella del pensiero è invece fin troppo invadente e elaborata, reattiva e risentita in senso nietzschiano) lo rende incapace di inserirsi in qualsiasi compagine sociale, sia essa religiosa, politica o culturale. Egli conduce un’esistenza spettrale e defilata, che si esprime esclusivamente attraverso il proprio rifiuto della realtà. Non è uomo che si oppone ad una società ingiusta o che si ribella ad un ordine oppressivo, ma individuo che rifiuta ogni forma di riconoscimento da parte del mondo esterno. Il suo isolamento è condanna a vivere privo di strutture di significato e coordinate inclusive o di inserimento. In fondo egli è cattivo (anche nel senso latineggiante di “prigioniero”) perché rifiuta la dativa semplicità di ciò che è buono e elargivo di sé, ed è appunto ostaggio di non altro che della propria bizantina, capricciosa e accidiosa libertà di pensiero autoriferito. Il “sottosuolo”, dunque, non è solo il luogo di una riflessione sulla condizione dell’individuo moderno, ma anche simbolo rivelatore della crisi esistenziale che segna un’epoca. Lì l’individuo non è mai in grado di liberarsi dei propri ceppi interiori. La sua battaglia contro sé stesso è incessante e senza speranza, una teoria di specchi in cui si perde dell’identità persino il pedissequo riflesso singolo, a favore di una proliferazione di immagini; ed è proprio questa lotta senza fine che rende l’opera dostoevskijana così potente e tragica. L’uomo del sottosuolo continua a scavare, ad interrogarsi, a provare a superare il conflitto che lo rode da dentro come un tarlo della ragione. Questo conflitto, questa continua scissione tra il desiderio di azione e l’incapacità di agire, è la vera essenza del sottosuolo: luogo in cui l’individuo si consuma e estenua nella solitudine, nel suo senso di carenza e insufficienza e nella sua incapacità di riconciliarsi con il mondo e con sé. Il sottosuolo è l’arena in cui si  svolge la lotta infinita tra la natura dell’uomo e le aspettative della società, una lotta che non trova mai conciliazione. Una delle questioni più urgenti e più pungenti che Dostoevskij affronta in Memorie dal sottosuolo è quella che riguarda la tensione tra la razionalità illuminista e l’irrazionalità magmatica che intrinsecamente caratterizza il tragitto umano. Il protagonista si erge come un contro-esempio, radicale e disilluso, alla visione ottimistica dell’essere umano, quella che immagina la ragione ed il progresso come soluzioni che, se ben operanti, potrebbero condurre alla felicità, alla realizzazione ed alla pace sociale. Questa concezione, che si fonda sull’idea che ogni uomo possa essere guidato da principi morali e scientifici, e che anzi essi possano sovrapporsi, che la razionalità possa effettivamente orientare il corso degli eventi, viene demolita con una lucidità ed una durezza che rasentano la ferocia. Il protagonista rigetta fermamente l’idea di un uomo “razionale”, come quella che lo vede quale zoon politikon che vive seguendo leggi universali e previsioni deterministicamente orientate, nell’alveo di una vita socialmente condivisa. La sua esistenza si scontra frontalmente con questo ideale dell’uomo come macchina razionale (“punta di organetto” e tavola di calcoli); eppure, è proprio nella negazione di questa razionalità che emerge l’essenza di una profonda crisi ammantata di superiorità morale. L’uomo del sottosuolo, per Dostoevskij, incarna la consapevolezza acuta che il raziocinio, lungi dall’essere una chiave per la liberazione, diventa prigionia asfissiante. La sua ribellione non è tanto contro il progresso o la scienza in sé, ma contro la pretesa di considerare l’uomo come entità che può essere completamente spiegata e regolata da calcoli:  > “…Allora, dite voi, la scienza stessa insegnerà all’uomo (benché questo sia > già un lusso, secondo me) che in realtà egli non ha né ha mai avuto volontà né > capriccio, e che egli stesso non è altro che una specie di tasto di pianoforte > o di puntina d’organetto; e che, inoltre, al mondo ci sono anche le leggi di > natura; sicché, qualsiasi cosa egli faccia, avviene non già per suovolere, ma > da sé, secondo le leggi di natura. Di conseguenza, basta solo scoprire > queste leggi di natura, e l’uomo non dovrà più rispondere delle sue azioni e > vivere gli sarà estremamente facile. Tutte le azioni umane, s’intende, saranno > calcolate allora secondo quelle leggi, matematicamente, come una tavola dei > logaritmi, fino a 108.000, e riportate sul calendario; oppure, meglio ancora, > usciranno delle benemerite pubblicazioni, sul tipo degli attuali dizionari > enciclopedici, in cui tutto sarà elencato e indicato così esattamente, che al > mondo ormai non ci saranno più né azioni, né avventure…”   L’infelice protagonista è scettico verso ogni visione che cerchi di ridurre la complessità e la contraddittorietà del suo sé ad una formula. Riconosce con dolore e lucidità che ognuno è capace di autolesionismo, di contraddizione, di follia, di gesti che sfidano ogni previsione logica e scientifica, ma i suoi viluppi di pensieri non lo conducono se non a una falsa libertà. La libertà, certo, non può essere definita da un ordine logico predeterminato, ma se la ragione è una prigione, essa non può che essere qualcosa che si sottrae a ogni edificazione razionale. Il protagonista si oppone in modo deciso a ogni concezione ottimistica della società come sistema razionale e ordinato in cui ogni individuo trova una propria collocazione data, contribuendo al bene collettivo secondo un pensiero utilitaristico (si legga qui utilitarismo come dottrina filosofica e non nel suo senso deteriore invalso). Questo ordine sociale non è altro che un paramento dietro cui si cela la disumanizzazione dell’individuo, esattamente come avviene nella “macchina sociale” evocata da Michelstaedter ne La persuasione e la rettorica: > “Si sono fatti una forza della loro debolezza, poiché su questa comune > debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca > convenzione… mossi e motori ad un tempo, infallibili e sicuri tutti, in quanto > attraverso di loro viva la vita del grande organismo con la sua previsione > complessa e squisita, cristallizzata negli ingegni delicati e potenti che > eliminano dal campo della vita umana ogni contingenza… E come perché uno metta > in un organo meccanico una data moneta e giri l’apposita leva, la macchina > pronta gli suona la melodia desiderata, poiché nei suoi congegni è > cristallizzato il genio musicale del compositore, e l’ingegno tecnico > dell’organista, così al determinato lavoro che l’uomo compie per la società, > che gli è familiare e istintivo nel modo, ma oscuro nella sua ragione e nel > suo fine, la società gli elargisce sine cura tutto quanto gli è necessario, > poiché nel suo organismo s’è cristallizzato tutto l’ingegno delle più forti > individualità accumulato dai secoli…” Si vede, in definitiva, come ognuno sia privo di un legame autentico con il mondo: simile a frammento che non può essere ridotto a ideologia collettiva o a modello sociale organizzato. Tuttavia, dalla ribellione, emerge un dolente paradosso. L’uomo del sottosuolo non ha il coraggio di abbracciare una libertà autentica, quella che avrebbe richiesto un atto consapevole di autodeterminazione, un passo che implica la scelta di una vita concreta, pur con i suoi limiti, le sue imperfezioni e le sue sofferenze: la sua è una libertà apocrifa, infatti, che non edifica ma distrugge. È distruttiva e autolesionistica, accidiosa e stagnante: insiste dove duole proprio come “il demone della perversità” di Poe, persevera nel desiderio di annientamento. La consapevolezza di essere liberi allora tormenta, perché questa libertà non porta con sé alcuna possibilità di adempimento di sé o di soddisfazione, ma solo il peso di una continua, insostenibile emarginazione. L’incapacità di scegliere una via, di agire secondo una volontà autentica, di formulare progetti concreti spinge verso un’esistenza vacua, segnata dalla rassegnazione e dal tormento, ma anche dalla paura di cedere alle stimolazioni del mondo esterno. La critica alla razionalità, tuttavia, non si configura come un abbraccio irrazionale della follia o del caos. E Dostoevskij, pur rifuggendo da ogni romanticismo che celebri l’irrazionalità come un valore in sé, solleva una domanda più radicale: fino a che punto possiamo veramente considerare l’uomo libero? Se anche il pensiero più puntuto e risolto non è la via per la libertà, se il rifiuto della razionalità porta solo a un’arte della distruzione, allora che cos’è essa veramente? La riflessione è ben più profonda e inquietante: l’uomo neoterico, nonostante la pretesa di essere libero, fa della sua stessa coscienza una trappola, irretito nelle pulsioni più profonde, in angosce inconfessabili e in passioni autodistruttive. La libertà, dunque, lungi dall’essere una conquista, diventa una condanna, un dissidio interiorizzante e risentito che non può essere risolto attraverso una razionalità progettante. Una risposta né ontologica né illuministica ma esistenzialista potrebbe essere quella di affrontare la realtà attraverso l’accettazione delle sue implicazioni più tragiche. L’ineguagliabile autore russo irrompe nel cuore della modernità sollevando la domanda esistenziale fondamentale: che cosa significa essere veramente liberi, se la libertà stessa è inestricabilmente legata alla sofferenza e alla disillusione? La sua critica al razionalismo è un invito a riconoscere la fragilità e la contraddittorietà dell’essere umano, la sua necessità inestinguibile di trascendere persino ciò che è logico e perspicuo o più auspicabile, scollinare modelli meccanicistici e segnati da cinghie di cause e effetti, e ci ricorda infine che è troppo complesso e composito per essere risolto da un modello teorico coerente e totale, che la sua libertà non può mai essere pienamente definita, e che la sua vera natura è perennemente esposta alla lacerante tensione tra desiderio di ordine e caos interiore. La solitudine che pervade l’esistenza del sottosuolo è, al contempo, una scelta deliberata e, come detto, una condanna irrevocabile. Da un lato, essa si configura come difesa: una ritirata strategica dal mondo che l’individuo non riesce più a comprendere, né ad accettare. Il protagonista rifiuta di essere parte di una collettività che gli appare estranea, un sistema che non riesce ad offrire risposte soddisfacenti alle sue domande e esigenze più ime. Egli non è semplicemente un emarginato, un individuo che si ritira per scelta o per necessità, ma un pensatore tormentato che si identifica in modo coestensivo, e fino a coincidervi, col proprio spazio mentale come ultima risorsa per fuggire il vuoto della vita quotidiana. Le convenzioni, le aspettative sociali ed il progresso razionalistico non hanno nulla da offrire a chi, come lui, percepisce il mondo come meccanismo alienante, incapace di adempiere alle urgenze più nude dell’anima umana. In questo rifiuto, l’uomo del sottosuolo si palesa come una figura solitaria, ma anche come una sorta di “testimone” di una condizione che, pur dolorosa, appare ineludibile. Tuttavia, questa solitudine diventa presto un dispositivo da tortura: non solo lo allontana dagli altri, ma lo intrappola in un circolo vizioso di pensieri ossessivi e di riflessioni che non conducono mai a una catarsi. Essa non è liberatoria, ma un sortilegio che imprigiona la sua psiche, atrofizza l’azione, tra sensazioni dolorose e autocritiche incessanti. L’esistenza diventa segnata dal conflitto tra il desiderio di allontanarsi da un mondo indiscernibile e la crescente consapevolezza che la solitudine stessa non offre alcuna risposta ad un acuto tormento, ad un rimuginio che non approda né a soluzioni né a rivelazioni.  Qui l’uomo non può trovare zona franca, come facevano gli eroi romantici, nella solitudine come spazio di riflessione pura, di autoconsolidamento o elevazione spirituale. Mentre per gli eroi romantici la solitudine era uno perno creativo, un laboratorio dell’anima dove l’individuo poteva avvicinarsi a sé e alle verità universali, per l’uomo del sottosuolo è la prigione della sua impotenza. La ricerca della verità, allora, non è atto di liberazione, ma processo che si rivela sterilmente doloroso: interminabile maelstrom che non porta mai alla purificazione o al superamento del dolore. Lì non si costruisce una nuova visione del mondo, ma il rifugio ultimo di chi ha praticato la rinuncia a qualsiasi anelito di salvezza, il luogo dove il dolore esistenziale non può essere elaborato.  L’uomo del sottosuolo non è pari al compiere scelte decisive, è drastico solo nella negazione, non riesce a superare l’apatia che lo immobilizza acuendo il suo stato tormentoso. L’esistenza stessa, in quest’ottica, è sofferenza senza redenzione, un susseguirsi di riflessioni auto-assolutorie ma che non riescono mai a raggiungere una verità definitiva o una pace. Lungi dall’essere una condizione passeggera o un semplice rifugio provvisorio, diventa l’emblema stesso della sua impotenza. La sua esistenza si nullifica, scivolando lentamente nell’indifferenza e nell’autoafflizione. Soffre di soffrire, il suo patimento rasenta l’astrazione: egli è la propria stessa malattia. La tensione tra libertà ed azione, centrale in Memorie dal sottosuolo, svela la natura profondamente ambigua e lacerata, sdrucciola e elusiva di una libertà che, pur essendo riconosciuta come un diritto fondamentale, non è mai facilmente conducibile alla capacità di agire. A ben vedere l’individuo non è incapace di agire, ma sceglie deliberatamente l’inazione. La sua azione si limita all’introspezione, a un vertiginoso flusso di pensieri che non si attua mai in un movimento esterno, in un gesto che abbia una valenza trasformativa. La sua è una riflessione autofaga.  Appare qui il passato come isola e fardello morale, come luogo di una vis inattiva. Decifrare un ordine nel caos dell’esistenza porta solo ai segni di un’astrusa alienazione, ciclo infinito che non approda a nulla di concreto. Libertà come maledizione: condanna all’immobilità, all’impossibilità di fare esperienza del mondo in modo autentico. L’intellettualismo del protagonista diventa intrico di parole e concetti che non hanno alcuna relazione con il mondo esterno, avvitandosi su un oggetto che non esiste. In fondo il cuore della visione dostoevskjiana è lo smascheramento spietato di una libertà malintesa (quella di poter scegliere arbitrariamente come mero esercizio astrattivo che ha in sé il suo fine) a favore di una, ben più ariosa, che riconosce l’ineluttabilità della condizione umana, la sua dimensione finita e tragicamente contraddittoria. Ma, come detto, la libertà del protagonista è una macchina da tortura. L’uomo del sottosuolo è, in fondo, la rappresentazione di un’umanità moderna che, pur avendo conquistato una via di uscita dal giogo delle convenzioni e della tradizione, si ritrova incapace di utilizzarla per creare nuovi significati nella tensione lacerante tra libertà e destino, tra il desiderio di autodeterminazione e la fatalità che sembra legare ogni individuo a uno stato di prostrante paralisi: il destino non è più visto come una forza esterna da cui l’individuo è condannato a essere schiacciato, ma come un dramma interiore che ha per teatro la sola mente del protagonista, un destino che è inevitabile non per degli influssi esterni, ma per incapacità personale di affrontarlo. È così che si allarga la forbice tra l’individuo e il mondo che lo circonda.  Ma la società lo soffoca non più del tanfo della sua stagnazione, del disfacimento della propria stessa individualità che da essa si voleva riscattata.  Dostoevskij sfida il lettore nella sua capacità di non cedere al nichilismo più sterile o al fatalismo pur esplorando le zone più latebrose della psiche, con una lucida ma dolorosa analisi della realtà non mistifica né ignora, ma mostra la condizione patologica di una “volontà di potenza” alla rovescia, di un esecrabile e mortifero eterno ritorno che il protagonista compie su sé, avvitandosi in una stagnazione spiraliforme. L’opera suggerisce che la vera sfida per l’individuo moderno non sta nel cercare soluzioni o risposte univoche, ma nel creare una propria interna tensione attiva e liberatrice, proprio in limine tra autodeterminazione e azione, pensiero come atto di autocoscienza e volontà di progettare per edificare un senso che non eluda la fragilità dell’esistere. Il sottosuolo è così la metafora di una disarmonia tipica della vita moderna e l’opera di Dostoevskij, gioiello senza tempo e figlio del suo tempo, si presenta dunque come una sfida ancora aperta. Massimo Triolo *In copertina: un ritratto di Valentin Serov L'articolo Nelle latebre della psiche. “Memorie dal sottosuolo”: storia di un outsider totale proviene da Pangea.
May 19, 2025 / Pangea
Esercizi di aurea mediocritas. Ovvero: elogio dello sfigato
Esiste, in letteratura, una categoria estetica dell’amabilità? E se sì, quali spazi di conoscenza dell’animo umano ci apre nella sua ordinarietà, nella sua mediocritas? Del resto, la stessa parola – mediocritas – in latino non aveva originariamente un valore dispregiativo. Indicava, piuttosto, una virtù: quella della moderazione, della giusta misura; la capacità di non cadere negli eccessi, di mantenersi nella linea media. Questa mediocritas Orazio in una famosa ode la definisce «aurea», perché alludeva a un ideale di saggezza (Aristotele in greco la chiama mesotes): l’uomo doveva ambire a quella medietà, a quell’equilibrio tra due opposti, per esaltare appunto l’umanità stessa che era in lui, misura di tutte le cose. Il controllo delle passioni, la moderazione, erano dunque un valore etico da perseguire. Poi, con la modernità qualcosa è cambiato: da un lato il romanticismo, con l’invenzione del genio e del sublime, il mito del titanismo, e a seguire il decadentismo con il dandismo anti-borghese e la dottrina nietzschiana dello Übermensch (più o meno travisata dagli esteti alla D’Annunzio); e dall’altro (o all’opposto, se vogliamo) il capitalismo industriale, con l’invenzione dell’efficienza e il mito del successo, hanno fatto assumere all’«aurea mediocritas» un significato completamente diverso, con una coloritura ironica, se non sarcastica, per dire di qualcuno che si accontenta miseramente di quel poco che ha o che è. Finché la mediocrità non è diventata il tabù per eccellenza della nostra società dei consumi, ipercompetitiva e ansiogena, dove un selvaggio darwinismo sociale punta a instillare in tutti il germe dell’eccezionalità, della rincorsa ai «15 minuti di celebrità», dove il Superuomo da supermarket è diventato alla portata di tutti (come sembrano suggerirci ogni giorno le pubblicità, che ci invitano a essere i migliori possedendo le cose migliori). C’è una parola – orrenda – che oggi definisce il mediocre: la parola «sfigato». Essere uno sfigato sembra diventata la peggiore iattura, la condanna più inesorabile. Una volta marchiato come tale, un individuo è tagliato fuori inesorabilmente. Se sei uno sfigato non puoi essere preso in considerazione, non puoi far parte del gruppo. Lo sfigato è un perdente e non c’è spazio per i perdenti in una società che fa del successo da talent-show l’unico imperativo categorico. Ma lo sfigato è però anche quello che non si conforma, quello che non contribuisce a mandare avanti il tutto come occorre. È l’anello debole o il granello di sabbia che inceppa l’ingranaggio. Ed è, proprio per questo, amabile.  La letteratura ci ha consegnato, in effetti, grandiose figure di mediocri amabili. Il Leopold Bloom dell’Ulysses di James Joyce, ad esempio, è un buffone shakespeariano. È vitale, è gentile, è simpatico, in un episodio assurge perfino a una sua memorabile eroicità, quando nel pub difende le proprie origini ebraiche di fronte all’orrido Cittadino antisemita. Non conosce il rancore, non ha ambizioni, ma è generoso, pratica la misura, coltiva una cauta sessualità. È consapevole dei tradimenti della moglie, ma nel capitolo finale della fantasmagoria notturna ha una visione in cui Shakespeare lo esorta a non vendicarsi su Molly come Otello con Desdemona. Bloom è un puro di cuore. Ma soprattutto è umano. Di tutt’altro genere di umanità, ma altrettanto amabile, è lo Stepan Arkaďič Oblonskij di Lev Tolstoj, in Anna Karenina. Vorrebbe essere l’emblema di una certa superficialità e frivolezza dell’alta società russa dell’Ottocento, con il suo modo di vivere agiato, ma quel che ne viene fuori è un personaggio irresistibile. «Stiva» è un uomo futile, certo, un fanfarone dedito ai piaceri della vita (le donne, il cibo, lo champagne), un egoista, ma proprio questo suo rifiuto di impegnarsi in grandi progetti, di assumersi le responsabilità, lo rendono amabile. Non a caso il romanzo comincia dal putiferio che ha scatenato la scoperta da parte della moglie della sua tresca con l’istitutrice francese dei figli. Oblonskij è un personaggio comico, di una comicità che lo salva da tutte le sue colpe. A lui si potrebbero riferire le parole di Philip Roth in Pastorale americana:  > «Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe > dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la > gita».  La sua prima apparizione ci ricorda un altro grande personaggio russo (anche lui di amabile mediocrità), Il’ja Il’ič Oblómov, protagonista del romanzo eponimo di Ivan A. Gončarov, il proprietario terriero che trascorre le sue giornate a letto o sdraiato sul divano. Anche «Stiva» si risveglia sul divano, ignaro della bufera che sta per abbattersi sul suo matrimonio: ha fatto un sogno in cui si trovava a un banchetto in America, dove si mangiava su tavoli di vetro, «tavoli canterini che intonavano Il mio tesoro», con delle «caraffine sinuose che scoprivamo essere donne…». Un sogno tipicamente oblonskijano. Senonché quel principio di piacere che lo ha accompagnato nella notte è costretto a scontrarsi con il principio di realtà incarnato dalla moglie che gli si para davanti sventolando un biglietto, prova tangibile del suo tradimento, e un’espressione di disgusto, disperazione e rabbia. E lui che cosa fa?  > «Invece di risentirsi, di negare, di giustificarsi, di chiedere perdono o di > restare finanche impassibile (tutto era da preferirsi a ciò che fece!), sul > viso gli si era involontariamente stampato (“riflesso cerebrale”, si scoprì a > pensare da appassionato di fisiologia qual era) il solito, consueto, bonario e > perciò sciocco sorriso».  Un sorriso che rende furibonda la moglie. Ma quel «riflesso cerebrale» altro non è se non la rivelazione inconsulta della sua natura di uomo che rifiuta la tragedia, l’alto, il sublime (tutto ciò che invece accetta sua sorella Anna, lasciandoci la pelle).  Ancora diversa è l’amabilità di Hans Castorp, il giovane protagonista de La montagna incantata di Thomas Mann, che con la sua strepitosa disponibilità pedagogica ed erotica, pronto a innamorarsi di tutto e di tutti, rappresenta l’alunno ideale che vorrebbe qualunque docente. Personaggio ordinario, certo, come spesso Mann sottolinea, ma anche una spugna capace di accogliere, metabolizzare le antinomie (da un lato l’umanista Settembrini, dall’altro il radicale antimoderno Naphta, ma al centro, soprattutto, l’eros di Madame Chauchat), insomma un individuo malleabile, che ci mostra quanto sia importante non porre difese, né argini, essere curiosi e aperti alle sollecitazioni della vita.  E come definire se non amabile anche la mediocrità di Zeno Cosini, l’inetto della Coscienza di Zeno,trasparente alter-ego dell’autore Italo Svevo, su cui, non caso, lo stesso Joyce, che fu amico di Svevo, modellò il suo Bloom? Cosini (in nomen omen) con le sue debolezze, i suoi tradimenti, i suoi tic, i suoi lapsus, i suoi continui patteggiamenti con la propria coscienza, quanto ci appare vicino e fraterno e adorabile. Nella sua inettitudine, nella sua nevrotica inerzia, nella sua mediocrità, vi è nascosta una vitalità sotterranea. Quando vede un uomo zoppicare per strada, al solo prendere coscienza dello sforzo che i muscoli devono compiere per camminare, comincia a zoppicare anche lui. Quando muore il suo antagonista Guido Speier, si accoda al funerale sbagliato. Quando decide di smettere di fumare, accompagna qualsiasi evento con il proposito, sempre vanificato, di fumarsi l’ultima sigaretta. Perfino la scelta della moglie è il frutto di un equivoco, di un errore, e di un forzato accomodamento con la mediocrità.  Zeno è un personaggio che non ha in mano il suo destino, ma che si lascia trasportare dagli eventi senza opporvi la minima resistenza. Ma non è proprio in questo naufragio (che egli chiama «malattia») la sua salvezza? Nella stessa categoria estetica possiamo includere anche il rabbino Hillel (realmente esistito, ma personaggio letterario in quanto tra i protagonisti principali del Talmud). La sua contrapposizione con l’altro rabbino, il rigido e dogmatico Shammai che lo coinvolge in oltre trecento dispute fa risaltare luminosamente la sua amabilità, la sua saggezza tutta pratica, la sua apertura mentale. Hillel riconosce che la vita, nella sua mutevolezza, nella sua imprevedibilità, non può subire la costrizione di un codice scritto immutabile. Si racconta di un pagano che si presentò al maestro Shammai e gli chiese di potersi convertire alla fede ebraica, a condizione però che il rabbino gli insegnasse l’intera Torah mentre lui si reggeva su una gamba sola. Shammai lo cacciò via con un bastone. Lui allora andò da Hillel con la stessa richiesta. E Hillel gli disse:  > «Ciò che non desideri per te, non fare al tuo prossimo. Questa è tutta la > Torah, il resto è solo commento. Ora va’ e imparalo».  Una delle massime di Hillel è: «non separarti dalla comunità», ovvero non desiderare di essere diverso (non c’è in questo un’eco di Kafka, del desiderio dell’agrimensore K. di entrare nel Castello?). «Ama le creature» esortava, ancora, Hillel, il rabbino umile, che praticò la «mediocrità» nel suo valore etimologico, nel senso cioè di sapersi porre nel mezzo fra gli estremi, di saper praticare quella legge della «misura» che Albert Camus indicherà, nel suo L’uomo in rivolta, come un valore di mediazione da opporre alla «dismisura» che invece conduce al nichilismo. Una misura che nasce dalla «rivolta», non dall’acquiescenza, poiché antepone l’uomo all’assoluto. Così come antepone l’uomo all’assoluto Samuel Picwick, il protagonista del Circolo Pickwick di Charles Dickens, la cui accettazione della realtà è per l’appunto basato sulla «misura». Egli è l’incarnazione stessa della bontà e della generosità. Il suo rapporto con l’inseparabile Sam Weller è paterno, i suoi piaceri sono semplici, la fiducia negli altri gli permette di scorgervi il loro lato migliore. È un viaggiatore instancabile, ma un viaggiatore nelle sfere mediane della realtà. La sua innocenza, la sua attitudine a mantenere ottimismo e umorismo anche nelle disavventure, ricorda un po’, spostandoci dalla letteratura al cinema, Jeffrey Lebowski, il protagonista del film Il grande Lebowski, dei fratelli Coen: un hippie fannullone (oblomoviano), pacifico, rilassato, inconcludente. Potremmo definirlo senza dubbio uno «sfigato», eppure è forse il personaggio più amabile e più amato della storia del cinema, al punto che il culto dei suoi ammiratori – una vera e propria setta – ha dato vita a una religione, denominata «dudeismo» (dal soprannome di Lebowski, The Dude, in italiano»). In che cosa consiste questa religione o meglio questa filosofia? Si può sintetizzare nella massima di Lebowski: «The Dude abides» («il Drugo sopporta»), un’originale commistione tra epicureismo e stoicismo.  Lebowski ci insegna a restare distaccati anche quando si è immersi nelle situazioni più assurde, a non prendersi mai sul serio, a trovare il lato positivo in ogni situazione, a saper apprezzare le piccole cose della vita (gli amici, il bowling, la marijuana, il White Russian), a ignorare le convenzioni sociali (indimenticabile la sua apparizione in vestaglia al supermercato, dove beve il latte direttamente dal cartone). Lebowski è la negazione del «sogno americano», ma è – anche – l’esaltazione del lato umano di questo fallimento. Il suo rifiuto di costruire un progetto di vita funzionale ai valori della società competitiva ne fa, in effetti, un paladino della sconfitta.  A pensarci bene, tutti questi personaggi qui ricordati, a che livello di conoscenza ci fanno pervenire? Saremmo portati a pensare che, rispetto agli Amleto, ai Raskolnikov, abbiano una capacità minore di scandaglio, di introspezione, eroi del «soprasuolo», per così dire, votati a una più prevedibile umanità. Esiste, invece, un valore sapienziale in questi personaggi che non possiedono gli altri, più tragici, più sofferti. È il valore della disponibilità, della capacità di adattamento, della comprensione, del relativismo, della misura.Perché in fondo è questo che ci insegnano soprattutto questi personaggi: non solo a farci riconoscere l’un l’altro come esseri umani, fragili limitati piccoli, ma soprattutto a non giudicare la vita ma a trovare degli interstizi in cui collocarci, a capire il significato del compromesso, ad abitare il mondo restando «fedeli alla terra». Fabrizio Coscia *Le citazioni da Anna Karenina sono tratte da Einaudi, 2017, traduzione di Claudia Zonghetti; quelle da Pastorale americana da Einaudi, 2013, traduzione di Vincenzo Mantovani; quelle di Hillel dal volume di Abraham Cohen, Il Talmud, Laterza, 1999. Ringrazio Filippo La Porta per la nostra conversazione sul tema.  L'articolo Esercizi di aurea mediocritas. Ovvero: elogio dello sfigato  proviene da Pangea.
May 15, 2025 / Pangea
“Dall’abisso a te grido”. La via alta e la via bassa, una sono. Una meditazione
C’è una pena nell’essere, una spina che accompagna ogni passo, che tormenta ogni riposo. «Respiro. Questo è già desiderare».[i] E dal desiderio l’azione, dall’azione ingiustizia, dall’ingiustizia la morte. A ogni slancio verso la vita, risponde il ghigno corrosivo della morte. Cerchiamo la vita e troviamo la morte. Ogni mattino che cade sulla terra, l’uomo che soffre, l’uomo che pensa e che soffre, fin dal suo primo respiro è condannato: agire e ferire; non farlo e morire. * Il popolo del Nilo che pesa le anime al trapasso, Arjuna fermo in mezzo al campo di battaglia, sono figli di questa pena.  C’è una pena nell’essere ed è una pena che non ha riscatto. * Respirare e desiderare, vivere e uccidere. Questo è proprio dell’uomo. Ma la pena non è dell’uomo soltanto: «tutta la creazione geme»,[ii] come sapendo che tutto muore di una pena sconosciuta, che nel nascere delle cose è inscritto il loro morire, «secondo il dovuto, perché pagano l’una all’altra, giusta pena e ammenda della loro ingiustizia».[iii] * C’è una pena nell’essere e c’è una pena nell’uomo. Ed è la stessa pena, il sentire qualcosa che manca – al fondo di ogni gioia sentire il brivido del terrore, al fondo di ogni dolore saperne l’insensatezza.  C’è una pena che è dell’essere, ma di cui in tutto l’essere, nell’intero novero di quello che abbiamo intorno e che chiamiamo cosmo, l’uomo soltanto ha coscienza. L’uomo è coscienza del cosmo, il punto del cosmo in cui il cosmo diventa capace di sentire se stesso, di pensare a se stesso, di patire se stesso. È vertiginoso e tremendo. Il cosmo che geme e l’uomo che paga. Per questo – per questa tremenda vertigine – l’uomo dimentica, sceglie di dimenticare. * «Dalla natura sorge la paura della morte».[iv] E se il nemico è oscuro, se non si può fuggirlo né affrontarlo a viso aperto perché non ha forma, perché non è fuori ma dentro – e la sua forma è una forma di verme che si aggrappa al ventre e sale per lo stomaco, se questo nemico oscuro non si può fuggirlo né affrontarlo, quale altra salvezza se non dimenticare? * «Facciamoci un nome per non perderci sulla terra».[v] È il contrappasso spaventoso di Babele: la tecnica in cambio del dono, il potere in cambio dell’amore. Attraversiamo i giorni e le notti dormendo in «cessi con porte numerate»,[vi] accaniti a «progettare il frigorifero perfetto»,[vii] a «sognare sistemi così perfetti che nessuno debba essere buono».[viii] «Facciamoci un nome per non perderci sulla terra». Questo si dicevano i carpentieri di Babele, questo ci ripetiamo senza dircelo ogni mattina – il desiderio pervertito in brama, l’amore in possesso. * «Dalla natura sorge la paura della morte». Dalla paura, la dismemoria. Il mondo, che «per i desti è uno e comune», in chi resta a dormire si frantuma, a ciascuno dando la sua parvenza, «un proprio mondo particolare»;[ix] ciascuno, dimentichi noi dell’essere e della sua pena, vivendo «secondo una sapienza sua propria».[x] * «Chi ci farà vedere il bene?».[xi] Una domanda che è un miracolo. Accaniti a progettare il frigorifero perfetto, vivendo ciascuno secondo una sapienza sua propria, abituati alla smemoratezza e a confondere il desiderio con la brama, come ci può venire in mente la domanda del salmista, come può venirci in mente che da altri e non da noi vada appresa la forma del bene? * C’è una pena dell’essere, una pena che è la nostra e che è senza riscatto.  * «L’uomo nella prosperità non comprende».[xii] La nostra vita finirà, le nostre battaglie, le nostre conquiste, gli amori: tutto finirà e non saranno i nostri sforzi a poterne salvare un solo granello. Facciamoci un nome sulla terra, progettiamo il frigorifero perfetto. E quando tutto sarà morto, quando tutto sarà polvere, soltanto allora, solo allora – santa grazia – la sferza della vita ci risvegli alla vita. * «Che cos’è l’uomo»,[xiii] allora, e chi sono io – che vaneggio per questa via bassa cercando la strada più alta? Che cos’è l’uomo, questo grumo di polvere e di vanagloria – e perché, come mai questo niente respira e desidera? * E «fino a quando», fino a quando questa morsa sulla bocca dello stomaco, questo alternarsi di memoria e dismemoria, di ottusità e di patimento? C’è una pena nell’essere – ma prima di tutto c’è un essere; e se l’essere c’è – mai può non-essere,[xiv] mai può essere non-stato. Se c’è un cosmo c’è un principio, e il principio è un uomo, un Dio, un Dio che sa l’uomo e il suo dramma, perché è tutto nell’uomo e nel suo dramma. «Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?».[xv] * La via che scende, la via che sale. «Scendi in più in basso, scendi soltanto nel mondo di perpetua solitudine».[xvi] * La via che scende. «Dall’abisso a te grido». * La via che sale. «Che cos’è l’uomo?». * «E in te il perdono e in noi il timore – in te il perdono, in noi il timore». * Il perdono. C’è una pena nell’essere che è nostra e non nostra. C’è una pena e una mancanza. C’è uno strappo, uno strappo nell’ordine. * Dall’abisso a te grido – a te, a chi? Daniele Gigli ** > Salmo 130 > > Dall’abisso a te grido, Signore – Signore ascolta la mia voce > alle mie suppliche, alle mie, presta l’orecchio. > Se consideri lo strappo della legge non resisto – mio Signore, chi resiste? > E in te è il perdono e in noi il timore – in te il perdono, in noi il timore; > e ho sperato, mio Signore, la mia anima ha sperato che parlassi, ti ho > aspettato > simile a una scolta con l’aurora, > a una scolta con l’aurora! > Dalla veglia del mattino fino a notte, > dalla veglia del mattino aspettalo, Israele: > spera nel Signore: col Signore c’è lealtà – e redenzione molta, in lui. > Salva l’ordine strappato di Israele, salva la sua legge.[xvii] (Tutte le traduzioni sono a cura dell’autore) -------------------------------------------------------------------------------- [i] W.H. Auden, Prima, in Horae Canonicae. [ii] San Paolo, Lettera ai Romani, 8, 22. [iii] Anassimandro, Frammento 1. [iv] San Tommaso D’Aquino, Sopra la Seconda lettera ai Corinzi, 5, 2. [v] Genesi, 11, 4. [vi] T.S. Eliot, Cori da «La Rocca», III, 229. [vii] Ivi, III, 244. [viii] Ivi, VI, 307. [ix] Eraclito, Frammento 89. [x] Id, Frammento 1. [xi] Salmi, 4, 7. [xii] Salmi, 48 (49), 8-10. [xiii] Salmi, 8, 5. [xiv] Parmenide, Frammento 2. [xv] Salmi, 12 (13), 3. [xvi] T.S. Eliot, Burnt Norton, III, 114-115.  [xvii] Salmi, 129 (130). *La traduzione di Daniele Gigli è parte del progetto “Salterio dei Poeti”. Il 9 maggio, a Rovigo (Pescheria Nuova, Corso del Popolo, 140) e l’11 maggio a Chioggia, nell’ambito del Festival Biblico, terrà una meditazione dal titolo “La via alta e la via bassa, una sono. Desiderio e salvezza” In copertina: Antonello da Messina, Salvator Mundi, 1465 L'articolo “Dall’abisso a te grido”. La via alta e la via bassa, una sono. Una meditazione proviene da Pangea.
May 2, 2025 / Pangea