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Rilke incontra Einstein. Ovvero: le “Elegie duinesi” e la teoria della relatività
Di scienza, Rainer Maria Rilke parlò sia con Rudolf Kassner che con Paul Valéry. Questi ultimi coltivarono un interesse profondo verso le rivoluzionarie teorie comparse agli albori del ventesimo secolo. Relatività e meccanica quantistica, dunque, pervennero al poeta nella forma di dialoghi evaporati nel tempo. Sul livello di comprensione che ne ebbe, l’unica testimonianza diretta – quella di Kassner – restituisce un responso severo: > “non capì nulla degli aspetti concreti e del tutto discutibili della teoria di > Einstein più di quanto non capissero la maggior parte dei lettori di giornali, > riviste e opuscoli all’inizio degli anni Venti”.  Aggiunge poi, a conclusione di una serie di incontri:  > “Lo vidi per l’ultima volta per tre giorni; sicuramente la conversazione si > rivolse anche alla teoria della relatività, e sicuramente mi sarei accorto se > avesse fatto un’affermazione che tradisse qualcosa di più della semplice > curiosità per qualcosa di curioso”. Ma si lascia sfuggire, in ultimo, un:  > “solo che guardava l’incomprensibile con il suo occhio di poeta plastico. > […]”. Appesa a quella timida dubitazione, che cede il passo ad una remota ipotesi contraria, sta il mistero della prova smarrita dalla storia. Bisogna, allora, aprire un varco alle parole che, come gocce di pioggia, cadono dallo sconfinato cielo della sua poesia e dei suoi epistolari. Lì, dove precipitano ed increspano le pozzanghere delle nostre coscienze, un’introiezione profonda emerge e pare replicare, nel verbo, le regole delle fisiche cui obbediscono l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Non una mera somiglianza metaforica, ma un’identità di strutture di base essenziali, che siritrovano in una insperata unità d’intendimento. * Il 22 febbraio 1923, rivolgendosi a Ilse Jahr, Rilke scrive: > “c’è un’incredibile discrezione tra noi, e dove un tempo era vicinanza e > penetrazione, ora si tendono nuove distanze, come nell’atomo, che la nuova > scienza anche comprende come un universo in piccolo. L’afferrabile se ne va, > si trasforma, invece del possesso s’impara la relazione, e nasce un’anonimità, > che deve cominciare a sua volta da Dio, per essere perfetta e senza scampo”. Arcane consapevolezze rimuginano come  > “‘il moto continuo’ che accade spontaneamente e dappertutto, in ‘ogni vuoto’… > attivo ‘centro di forze’ […]; la vivente forza del divenire è imperitura, è > l’incomprensibile madre. L’incomprensibile madre è radice del tutto; tessendo > continuamente non ha bisogno di impulso”. Una concezione moderna, coerente con le più recenti teorie sulla nascita dell’universo filtra, qui, e parla di origini tratte dalla perturbazione interna di un vuoto-pieno, più che da una deflagrazione soprannaturale.  Prospettive avvedute dei fenomeni scientifici e delle loro componenti elementali echeggiano nei versi della poesia Gong:   > “Risonanza, non più con l’udito > misurabile. Come fosse il suono > che tutt’intorno ci trascende > una maturità dello spazio” Risonanza – è campo perenne di forze interagenti e confliggenti, muro di suoni e silenzi, nota e pausa di uno spartito, alternanza di vita e di morte che, in perpetuo moto, genera mondo e lo precipita nel vuoto. Risonanza è – movimento interiore, “suono della campana dell’essere”, spazio “vibrante”, in questa vivida rappresentazione.  “Maturità dello spazio” – è pienezza della percezione, sforzo giunto a compimento, pretesa di astrazione, che infine approda alla completa comprensione. Ogni parola disloca la poesia nell’alveo della scienza e lì, annullate le distanze tra fenomeno fisico e spirituale, si sperimenta una prodigiosa unità animata da meccaniche gemelle.  * Ancor più nella prosa, Rilke sorprende per ricchezza di messaggi. Paradigmatica è l’elaborazione dell’immagine-suono, di cui fa esperienza in Egitto, al cospetto della grande Sfinge. La racconta in una memorabile lettera scritta il primo febbraio 1914 alla musicista Madga von Hattingberg:  > “…Quante volte, già, avevo tentato di cogliere quella vasta guancia in tutti i > suoi dettagli: si arrotondava in alto con tanta lentezza, come se in quel > luogo ci fosse spazio per più punti che quaggiù […] nella più grande pienezza > del sentire, feci esperienza della sua rotondità. Solo un istante dopo > compresi che cosa fosse accaduto. Pensi: dietro la sporgenza del copricapo > regale, sulla testa della Sfinge, si era alzata in volo una Civetta e lenta, > indescrivibilmente udibile nella pura profondità della notte, aveva sfiorato > il volto col suo morbido volo; e in quel momento, nel mio udito, divenuto > perfettamente chiaro per il lungo silenzio della notte, si era inciso, come > per miracolo, il profilo della guancia”. Dove “una costellazione e un Dio indugiavano (n.d.a.: da secoli immemori) silenziosamente l’una di fronte all’altro”, si consuma l’involontario amplesso tra fisica e letteratura. Nel silenzio e nell’immobilità di quel luogo della mente, una perturbazione, un fattore chiarificante si palesa e perfeziona la comprensione del contesto: la Civetta.  Stupisce, ancora, l’assoluto allineamento tra la realtà – che esiste e si manifesta quando viene osservata, stimolata, messa alla prova, verificata – e la parola che fa esistere le cose perché di esse se ne dice. Di questi poteri e potenze del verbo la vita stessa di Rilke è dogma incarnato. L’immagine-suono, che in se stessa sfugge alla fisicità dei cinque sensi – invocandone un sesto – è trasposizione poetica dell’esperienza attonita che l’uomo fa quando incontra, per la prima volta, la relatività einsteniana e la meccanica quantistica; esse stesse invocano quarte e ulteriori dimensioni alle tre a noi note: essenze non sperimentabili, di cui è concesso scoprire la misura e la forma solo quando sono interrogate dagli eventi.  * Le fotografie che l’universo proietta nei nostri occhi attraverso i telescopi sono scatti, frammenti perduti e sparpagliati dappertutto. Osservandoli, consci che il loro tempo è ormai annichilito – e pure vivo – assistiamo ad un eterno nostro essere, contemporaneamente ovunque. La figura mistica dell’Angelo rilkiano pare vivere in noi in omologo rapporto: una monade che scruta ogni cosa con “sguardo laterale”, in cui tutto esiste e permane simultaneamente, a dispetto di un tempo che svanisce quando perde la caratteristica principale che ha per noi: il potere di scandire il prima, l’adesso e il dopo; l’essere e il non essere; la morte e la vita.  Rainer Maria Rilke e Paul Valéry, 13 settembre 1926 * La professione di fede che Rilke fa verso i traguardi della scienza viene a galla – cristallina – nella lettera a von Hulewicz del 13 novembre 1925: >  “Tutti i mondi dell’universo precipitano nell’invisibile, nella realtà più > profonda che abbiano accanto; alcune stelle si potenziano immediatamente e si > spengono nell’infinita coscienza degli angeli; altre devono affidarsi ad > esseri che le trasformano con lentezza e fatica, nei cui terrori ed estasi > esse raggiungono la loro prossima invisibile realizzazione”. Un superiore intendimento poetico lo attraversa quando dice che  > “La caducità precipita ovunque in un essere profondo; e così, tutte le > figurazioni di ciò che è non vanno usate soltanto entro i confini temporali, > ma, per quanto possiamo, sono da inserire in quelle superiori significazioni > di cui partecipiamo”. La coscienza della prevalente invisibilità del tutto traspare in controluce e fa intuire ulteriori consapevolezze:  > “Le Elegie mostrano noi intenti a quest’opera, all’opera in queste incessanti > trasposizioni dell’amato visibile e tangibile nell’invisibile vibrazione ed > eccitamento della nostra natura, che introduce nuove cifre di vibrazione nelle > sfere di vibrazione dell’universo. (Siccome le diverse materie dell’universo > non sono che diversi esponenti di vibrazione, noi prepariamo in questo modo > non soltanto intensità di natura spirituale, ma chissà, nuovi corpi, metalli, > nebulose e costellazioni). E questa attività viene singolarmente sostenuta e > spinta dal sempre più rapido sparire di tante cose visibili che non verranno > sostituite”. * L’accesso all’infinitamente piccolo avviene con la stessa avidità poetica mostrata verso l’infinitamente grande. Accade nel vertice del suo pensiero, nel luogo di confine tra i due mondi, dove occhio di vivo e occhio di morto osservano le cose che sono “l’una all’altra nascoste”.  Il linguaggio, che deve dare voce ad entrambi i punti di osservazione, contemporaneamente, cela un intreccio che mostra più di una vaga somiglianza con la complementarità e l’entanglement quantistico. È nella Quinta Elegia, dove si incontrano i saltimbanchi parigini del Père Rollin, che il poeta articola plasticamente il mistero di quella prodigiosa meccanica:  > “Ma chi sono, dimmi, questi girovaghi; > Ma dove, oh, dove è quel posto – io lo porto nel cuore –  > dov’erano ancora tanto lontani dal farcela > dove ancora cadevano l’uno dall’altro”. Il dove – luogo metafisico in cui accade un evento indicibile è il passaggio dal puro troppo poco del non essere ancora in grado, al vuoto troppo dell’essere in grado; e pare riguardare necessariamente ciò che, come vale per le particelle, dispone le parti di un sistema in modo che le loro qualità siano rilevabili solo singolarmente e mai tutte insieme.  La metà delle cose che si volge all’occhio del vivo è la prima – quella che può (solo) notare l’assenza o la presenza dell’abilità secondo una logica causale e temporale, mentre il quid che definisce la dote ora acquisita è visibile (solo) ad un occhio dotato di “desertica lucidità”.  Se Einstein incarna l’immagine dello scienziato capace di sfatare i dogmi e porre l’uomo in una definitiva ottica di probabilità – e mai di certezza – Rilke ne rappresenta il corrispettivo letterario.  A noi, fortunati beneficiari di insperate consapevolezze, la presa d’atto che “a cavallo di un raggio di luce”, entrambi avrebbero potuto apporre la firma a questo pensiero: > “Noi, che siamo qui e oggi, non siamo appagati neppure per un istante nel > mondo del tempo, né a esso legati. Trapassiamo senza sosta, trapassiamo verso > gli avi, verso la nostra origine e verso coloro che in apparenza vengono dopo > di noi. In tale mondo immenso e ‘aperto’ tutti sono, non si può dire > ‘contemporaneamente’, perché è appunto il venir meno del tempo che fa sì che > tutti siano”. Riccardo Peratoner L'articolo Rilke incontra Einstein. Ovvero: le “Elegie duinesi” e la teoria della relatività proviene da Pangea.
August 1, 2025 / Pangea
“Dove tu indugi, sarà tiranno”. Ritratto del folle
Temi il folle: egli non farà né ciò che si conviene né ciò che conviene. Temilo perché è folle. E non gli estorcerai niente, di ciò su cui far leva è ragionevole, e vigliaccamente, secondo ragione, ricattare. Sarai capace di avvicinarlo solo nello stigma e nel timore. Egli non si redime né può, né ha da servirgli d’esser redento: e questo lo rende un Dio, al tuo confronto. Dove tu indugi, sarà tiranno, farà strame e macello. Dove tu tiri dritto, indugerà con gusto e letizia, e gentilezze squisite che non puoi né devi conoscere – inusitate e imprevedibili. Deliberatamente carezzerà il nemico, fuori d’ogni ragione utile, e trafiggerà chi gli sorride tendendogli la mano; ma potrebbe anche arrivare a torturare il suo torturatore, e il nemico far soccombere, fra sangue e guano, e senza una ragione, ancora, che tu comprenda o possa al modo suo.  Il suo genio è nudo, lo si sa, non ha strade segnate e avversa l’idea stessa di direzione. Alle pesanti palpebre della stagnazione, preferisce la follia esagitata del propugnare uscite dal solco. Delira, lo si sa, aggiunge all’ovvio più tondo logiche dispari e grappi di stelle acuminate. Siderali distanze lo separano dall’ordinario elevato a regola, è dissipatore d’anima e ingegno. Abbiate timore della sua bestiale, innocente virtù, perché porta tempesta dove non si alzerebbe un solo vento; perché depone doni e profferte all’altare della dissidenza più sistematica. Il suo pensiero coopta spesso Ockham, ma di gioco ridonda, sempre, e sperimentante bellezza. Il suo eccedere cuce in segreto le ferite senza voce del mondo, ma è anche la benedizione del bastante. Egli onora luoghi e parti di sé che i più ignorano o misconoscono, e sa che il suo linguaggio è enigma insolubile presso chi esibisce una povera grammatica prona alle leggi del verosimile e ai suoi regni filistei. L’audacia del suo fuoco è fulgida e sbilenca, divora parole cortigiane come smesse pelli, condanna ogni autismo intellettuale e morale, prende campo in una eterna battaglia per tenere in vita parti del mondo che altrimenti morirebbero in serie senza un lamento.  Ha presumibilmente conosciuto anguste corsie, di perdita di sé e estorsione di ciò che essere non voleva, e che strozzavano vista e cuore, cucivano il giorno e la notte in un’uguale trama di protratta anestesia. Ha conosciuto la guarigione come ricatto e la libertà gabellata per necessità di guarigione. Egli è guerriero, guerriero della mente e amico della mano sinistra. Innalza la bellezza al di sopra del suo stato bruto di vento tagliente e nuda terra, e la pone nel calice di un fiore muto. Strappa all’assenza un barlume di presenza, una traccia, qualcosa che aggira l’ovvio e descrive cerchi soavi di farfalla. Lotta contro i suoi stessi sogni, che ha visto mutare in incubi di piombo e cristallo, magma e tempesta – profondo come una galassia, temprato e destro al soffrire… Disperatamente fuori dal cerchio di luce del domato fuoco d’ogni civiltà. Temilo perché senza essere a modo tuo, egli è in sé, e più che te od altro. Temilo perché non fa ciò che serve, perché è un mostro e un Dio, in salute della sua malattia, che veleni morali non sa: tutti gli elementi in lui coesistono e sono, senza prevalere l’uno sull’altro, secondo ragione, che non sia natura alla natura sparsa, come lava nella lava. Temilo perché non potrai piegarlo avvicinandolo a te, perché non potrai ricattarlo – benedizioni o maledizioni non conoscendo, che inflitte siano, o da chicchessia ammannite. Egli è sempre distante oceani e stelle, egli è dove tu paventi e non comprendi: nel suo male e nel suo bene, ontico e ontologico assieme. Per questo né si salva né salvezza concepisce, e la sua colpa sempre, è originaria, i suoi fini terrifici e netti – che son l’una cosa e l’altra senza giustificazioni. Temilo perché lo torturasti proprio come un folle, quando violento non fu né esser voleva, e lo blandisti spremendo altra violenza, per paura della sua violenza, dalle nutrite tette della sua anima superiore. Temilo perché inventasti tu la colpa e la cura, e mai sapesti andare oltre il delitto dell’una nell’altra. Temilo perché Napoleone e Hitler furono e sono colpevoli, e non folli abbastanza, e della stessa tua colpa che abbisogna d’un concetto in soccorso all’inerzia del suo macchinico sfacelo, ma mai fuori da essa, se non per “pruderia” morale dell’inconcepibile. Temilo perché ottimizzare il delitto a scopi ritenuti superiori, è cosa tua e non sua. Temilo, perché, al fine, la libertà non potrà essere né merce né privilegio desunto – nel bene e nel male. Temilo in entrambe, dunque. Massimo Triolo *Nell’articolo: opere di Johann Heinrich Füssli (1741-1825) L'articolo “Dove tu indugi, sarà tiranno”. Ritratto del folle proviene da Pangea.
July 21, 2025 / Pangea
“Bisogna quindi amare assolutamente tutto”. Ad Assisi, con Simone Weil
Nel 1937, Simone Weil trascorse due giorni ad Assisi: “Mentre mi trovavo da sola nella piccola cappella romanica del XII secolo all’interno di Santa Maria degli Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove san Francesco ha pregato tanto spesso, per la prima volta nella mia vita qualcosa più forte di me mi ha obbligata a mettermi in ginocchio”.  Questa è l’esperienza di Simone nella Porziuncola, quella piccola chiesetta di pietra che si trova all’interno della maestosa Santa Maria degli Angeli. Un luogo di pellegrinaggio e preghiera che recentemente ho voluto visitare anch’io proprio per capire l’esperienza della Weil. > “Ad Assisi sono completamente scomparsi dalla mia memoria Milano, Firenze, > Roma e tutto il resto, tanto sono stata affascinata dalle campagne così dolci, > così miracolosamente evangeliche e francescane, dalle chiese così incantevoli, > da tanti ricordi felici e da quei nobili esemplari della specie umana che sono > i contadini umbri, una razza ricca di bellezza, di vigore fisico, di gioia, di > dolcezza. Non avevo mai sognato un paese così meraviglioso”. Simone Weil la filosofa, la mistica, l’anarchica, l’operaia per scelta, la non più ebrea, la malata, la donna che scelse l’adesione alla miseria per avvicinarsi a Dio, che capì presto quanto fosse necessario fare “vuoto” per fare spazio a Lui, negare se stessi, ammettere che l’universo è assolutamente privo di finalità e che in questa assenza sta l’essenza del mondo, la bellezza pura, e che per non cedere alle passioni è necessario esercitare l’attenzione, la responsabilità, portare il corpo alla disintegrazione.  > “Ad esempio, mi sono sempre proibita di pensare al futuro, ma ho sempre > creduto che il momento della morte sia la norma e la meta della vita. Pensavo > che per coloro i quali vivono come si conviene sia l’istante in cui, per una > frazione infinitesimale di tempo, la verità pura, nuda, certa, eterna penetra > nell’anima. Posso dire di non aver mai desiderato per me alcun altro bene”.  L’ascesi come fortificazione e non come mortificazione. Proprio ciò che scelse di fare Simone anche in punto di morte: portare la propria croce. In preda a una tubercolosi, poco più che trentenne, si lasciò anche morire di fame: “Trovo conforto soltanto nel ricordo delle voluttà sia spirituali sia fisiche che sorgono durante la sofferenza fisica. Sono brevissime, e tuttavia di una tale intensità da equivalere a un lungo benessere. Lo so per esperienza, e suppongo che sia così per tutti”. Perché la malattia offre la condizione ideale per l’ascesi e per raggiungere Dio. Per scorgerlo bisogna sottrarsi al mondo.  Per riuscire a vedere è necessario essere consapevoli. L’attenzione è la più alta forma di preghiera. Scriveva Simone Weil nel suo Attesa di Dio:  > “L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in sé stessi, così come si > inspira e si espira. Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono > infinitamente più di tre ore d’applicazione con la fronte corrugata, che fanno > dire, con la sensazione di aver fatto il proprio dovere: «Ho lavorato sodo».”. Attenzione come sospensione del proprio pensiero, come possibilità di lasciarlo andare, renderlo disponibile, vuoto, in attesa, senza nulla da cercare, pronti ad accogliere la nuda verità dell’oggetto che sta per penetrarvi. Weil recitava il Pater ogni mattina come una vera e propria pratica di meditazione, una pratica del verificare, un sacramento, una veglia: “Se mentre lo recito la mia attenzione divaga o si assopisce, anche solo in misura infinitesimale, ricomincio daccapo fino a che non abbia ottenuto per una volta un’attenzione assolutamente pura”.  Simone considerava Meister Eckhart un autentico amico di Dio che diceva e scriveva parole udite nel segreto e nel silenzio anche quando queste non concordavano con l’insegnamento della Chiesa, consapevole che il linguaggio della pubblica piazza non può essere come quello della camera nuziale. Anche lei “andava stretta” alla Chiesa. Era una che ripudiava le Crociate e l’Inquisizione, che non aveva bisogno d’intermediari per sentire Dio, i cui figli dovrebbero avere come unica patria l’universo: “Le cose meno vaste dell’universo, nel novero delle quali è la Chiesa, impongono obblighi che possono essere molto estesi, ma fra i quali non c’è quello di amare”.  Per Simone nelle parole “sia fatta la tua volontà”, c’era già ogni cosa, perché se pronunciate con tutta l’anima, implicavano la totale accettazione della volontà divina:  > “Bisogna quindi amare assolutamente tutto, nell’insieme e in ogni dettaglio, > compreso il male sotto qualsiasi forma, e in particolare i peccati commessi, > posto che siano trascorsi (mentre bisogna odiarli se la loro radice persiste), > le proprie sofferenze passate, presenti e future, e – di gran lunga la cosa > più difficile – le sofferenze altrui, posto che non si sia chiamati ad > alleviarle. In altre parole, bisogna sentire la realtà e la presenza di Dio > attraverso tutte le cose esteriori senza eccezioni, con la stessa chiarezza > con cui la mano avverte la consistenza della carta attraverso il portapenne e > la penna”. Viviamo nell’attesa di compensare le nostre mancanze, i nostri vuoti, in balìa delle circostanze, sperando sempre in qualcosa di meglio, che le cose cambieranno, miglioreranno, e che la permanenza della nostra personalità perduri, ma Weil ci ricorda che la paura dell’imminenza della morte è legata soprattutto a questo: non avremo tempo, non è mai stato questo il senso, tali compensazioni non arriveranno mai: “L’umiltà consiste nel sapere che in questo mondo tutta l’anima – non solo il cosiddetto io, nella sua totalità, ma anche la parte soprannaturale, ovvero sia Dio in essa presente – è sottomessa al tempo e alle vicissitudini del mutamento”. La parte mediocre del nostro io non teme la fatica e la sofferenza, teme soltanto di essere uccisa.  Le fede consiste nella “visione delle cose invisibili”, come diceva San Paolo. Non c’è mai nulla da cercare, la salvezza opera nella mancanza di attività. È Dio che cerca l’uomo, non il contrario.  > “Se Dio, dopo una lunga attesa, lascia vagamente intravedere la sua luce > oppure si rivela in persona, è soltanto per un istante. Poi bisogna rimanere > di nuovo immobili e attenti, aspettare senza muoversi, chiamando solo quando > il desiderio è troppo forte”.  La necessità cieca è l’unica strada per accorciare la distanza e avvicinarsi, e amare la propria Croce. > “L’anima è là dove si intersecano la creazione e il Creatore. Quel punto > d’intersezione è il punto d’incrocio dei bracci della Croce”.  L’unica vera parola di Dio è il silenzio.  E dopo aver letto e amato la Weil e il suo Attesa di Dio, eccomi partire per il mio viaggio, e scoprire che si arriva ad Assisi come osservatori. Si guardano gli altri compiere riti, gesti scaramantici, cedere a superstizioni, intrecciare mani in preghiera o lasciare che tocchino statue, altari, pietre, tombe di cadaveri mummificati. Mani che scrivono, che asciugano lacrime che sgorgano da occhi in preda all’estasi.  E poi quel richiamo continuo, necessario e imprescindibile, al silenzio che aleggia in tutta la città, in ogni chiesa, in ogni giardino, dai cartelli o dai microfoni.  Si guardano, si osservano e si giudicano gli altri, ma poi si finisce noi stessi in lacrime sotto al peso della stanchezza della vita nella sublime basilica di San Francesco, sentendo forte e chiara la propria piccolezza, ma non l’inutilità.  Si sente la sofferenza sgorgare dall’acqua salata, e quanto solo l’amore conti, e quanto coraggio e forza questo richieda, quanto impegno, che sia amore per Dio o per la persona che si ha accanto.  Nella Porziuncola ho sperimentato io stessa l’importanza dell’inginocchiarsi per testare la scomodità e la vividezza del dolore, ascoltando la messa, recitando: Padre Nostro “che sei nel segreto”.  Il distacco da sé come riflesso di Dio.  Il legno, le ginocchia e le anime che scricchiolano.  Il tempo che cessa di esistere.  Gli uomini più vigorosi e gli storpi che tornano a essere uguali.  L’ordine che regna sovrano nel silenzio del crepuscolo.  La pietra che protegge.  Il piccolo che si fa grande.  Il fremito della malattia. I cuori spezzati. Le ferite che s’innalzano sopra al capo di ogni uomo e che splendono di fervore.  Le preghiere sussurrate. L’attesa come stato di grazia. Continuare ad amare anche nella sventura.  Il bisogno disperato di farsi perdonare e di perdonare. Gli errori pagati cari. Il dono di chi crede e la speranza di chi dubita. L’immenso divenire. La patria dell’eterno momento presente.  Il timore della morte che cela nostalgia di casa.  Un viaggio ad Assisi si può trasformare da attesa a incontro con Dio.  Dejanira Bada L'articolo “Bisogna quindi amare assolutamente tutto”. Ad Assisi, con Simone Weil  proviene da Pangea.
July 5, 2025 / Pangea
Breve lettera a un’anima sorella sulla condizione del poeta e questioni affini
Mi rivolgo a te con parole come carezze di cardo, facendo delle mie spine un lambire delicato, senza bardature morali, infine, e armamentari retorici. Hai veduto, credo, quanta poca virtù alligni nella forza di chi mostra sicumera, e quanta sapienza virtuosa in quella più dimessa di chi sorregge grandi pesi senza farne mostra o parola. Trovo sempre più vasto lo sguardo di chi guarda al mondo con cuore semplice, e di semplici, buone cose si nutre con la gioia manifesta di un bimbo che riceve qualcosa in dono. Sia il mondo di coloro i cui sogni non poggiano solo su di un guanciale. La mia parola, vedi, è ben umile cosa: artigianato e non arte – sebbene le due cose non fossero così distanti tra loro nell’epoca fiorente delle botteghe. Non sono solito far tuonare la parola contro coloro che peccano, e so bene che se esiste un Dio non si volge all’umana fallacia come se dovesse compilare un libro mastro delle qualità e dei difetti. Faccio tuonare la parola, piuttosto, contro coloro che non solo pianificano scientemente il male ma sono per soprammercato incapaci di concepire il bene. Dio, però, e preferisco perseverare nell’idea che esista oltre o prima di ogni iconografia, non è un notaio dell’anima e nemmeno un cecchino dei cuori. Ho visto persone fare il male con una innocenza bestiale ed essere ugualmente capaci di volere il bene senza niente in cambio. Credo piuttosto che la malvagità sia insita nel progettare il male, come suggerivo, nel renderlo numero organizzato, nel farlo divenire una cosa seriale e un’abitudine. In questo i potenti sono maestri e capaci di ideare falsi valori, idoli osceni, inclinazioni coatte, dispositivi senz’anima di azioni simili ad automatismi. In tutto questo vorrei sempre che la poesia che concepisco potesse essere trasversale, laterale a ogni acquisito, e ficcante abbastanza da insinuare dubbi e domande, piuttosto che proclamare certezze.  D’altra parte, se il poeta fosse solo fingitore, la poesia sarebbe ben misera cosa, il fatto è che il poeta finge, sì, ma sempre guarnendo la finzione di un po’ di verità; o forse è proprio un certo tipo di finzione che è realmente depositaria del dono di saper suscitare emozioni e pensieri veritieri. Ma non è ancora questo il nodo. Fingere non significa necessariamente mentire, esattamente come dissimulare non è sempre nascondere.  Forse il vero poeta finge un ruolo, una postura, uno stratagemma e una disposizione, solo per aggirare l’ovvio e mettere in luce ciò che è nascosto, recondito ma vero sebbene esule dall’attenzione dei più. Creare ha in questo senso la pienezza, l’abbondanza di sé, e la veritativa sostanza, di ciò che eccede le misure note e trabocca, promana ancora prima dell’intenzione di farne dono o materia di scambio. Io, personalmente, creo come un invasato perché sento l’impellenza di non volgermi all’indirizzo di questo o quel tipo di lettore, ma nella speranza, sempre ferma e genuina, di traslare ciò che ho dentro fino al punto di non appartenermi più, fino al punto di sorprendermi io stesso che le sue caratteristiche siano più evidenti se adulterate dalla fantasia, che non messe brutalmente in pedissequo elenco.  L’artista crea mondi ma non ne è padre, in qualche modo egli è solo un tramite, prende in prestito qualcosa di comune e lo volge allo straordinario, prende in prestito storie e paesaggi dell’esistere non comuni e restituisce la familiarità di ciò che è vita senza apparenti eccezioni. Il suo è uno sguardo trasmigratore. Egli conosce bene gli artifici e usa mille trucchi, esattamente com’è capace di denudare la parola, renderla essenziale e parca, ma tutto questo avendo ben presente che le due cose coincidono e si equivalgono, laddove si testimonia non tanto di sé quanto di un sé che ridonda di altri ed altro, di un sé libero di essere ovunque e in ogni tempo, ma mai in ritardo o fuori luogo.  Vorrei che tu sapessi che nella vita io ho molto sbagliato e perseverato nell’errore e nell’ingiustizia; proprio per questo quando scrivo cerco di colmare ciò che è in difetto, ricucire ferite, rimettere debiti, raccogliere la voce di chi soffre in silenzio, soprattutto di sé, e renderla scudiscio e carezza, ruggito e silenzio, un dono infine, che non ha l’intenzione del dono, e soprattutto è tale verso me nel momento stesso che è raccolto da un’anima – forse lontana fino allo stemperare della propria traccia, ma pur sempre sorella in questo umano cammino. Penso che questo possa essere l’inizio di un gesto di avvicinamento, ispettivo e cauto, ma tale, di dialogo tra noi. Massimo Triolo *In copertina e nel testo: Johan Christian Dahl (1788-1857), Studi di nuvole L'articolo Breve lettera a un’anima sorella sulla condizione del poeta e questioni affini proviene da Pangea.
July 1, 2025 / Pangea
“La filosofia non deve rassicurare, ma turbare”. Su Lev Šestov, il pensatore brutale
Nel 1920, a Londra (presso Martin Secker) e a New York (per R.M. McBride), viene pubblicato un libro ‘impossibile’, All Things are Possible. Apotheosis of Groundlessness. Il sottotitolo – “Tentativi di un pensare adogmatico” – attrae il più filosofico degli scrittori dell’epoca, David Herbert Lawrence. In origine, il libro era uscito in Russia, nel 1905, come “Apoteosi della precarietà”; l’autore, Lev Šestov, era nato a Kiev quarant’anni prima; avrebbe voluto studiare matematica, avrebbe voluto fare l’avvocato – il padre, di lungimirante intelligenza, guidava una ricca azienda che commerciava in tessuti. Del libro – costruito impilando una serie di micidiali aforismi, tesi a decostruire le illusioni della ragione, le fallaci imprese del filosofare – si parlò a lungo. Nel 1903 Šestov aveva strutturato – sbriciolando ogni ‘sistema’ – la propria Filosofia della tragedia in un lungo studio su Nietzsche e Dostoevskij (edito da De Piante nel 2024, a cura di Luca Orlandini); tra anni prima era uscito L’idea di bene in Tolstoj e Nietzsche (in Italia: Castelvecchi, 2014). Šestov riuscì a incontrare il conte Tolstoj nel 1910, in marzo, pochi mesi prima che il grande scrittore, dopo la grande fuga, precipitasse negli altri mondi, morendo. Tolstoj era atterrito dall’arguzia – lenta, letale – di Šestov; pare che dopo aver sfogliato i suoi libri – così testimonia Maksim Gork’ij – abbia detto: “Che audacia… in sostanza, ha scritto senza mezzi termini che non ho fatto che ingannare me stesso – e che ho ingannato i miei lettori…”.  Nel 1920, Šestov parte per Sebastopoli – da lì, volta a Costantinopoli, a Genova, infine a Ginevra. Inviso ai bolscevichi, aveva da poco pubblicato Potestas Clavium. Dal 1921, si trasferisce in un modesto appartamento, a Parigi – sede, tra l’altro, degli incontri con il suo più luminoso e tragico allievo, Benjamin Fondane. Nel mondo inglese, il libro di Šestov passò per lo più inosservato: come accettare un pensatore impegnato a sregolare i dogmi della ragione, a sfatare ogni ‘buon senso’ in virtù dell’insensatezza del vivere, a mutilare le sirene del ‘progresso’ promuovendo, piuttosto, l’epica del miracolo, l’etica del capriccio? Nella sua introduzione, profetica – “La vera Russia è nata. Presto riderà di noi” – ed estrosa, Lawrence scrisse che Šestov “Non è nichilista – scuote l’umana psiche dai propri logori legami. La sua idea, centrale e positiva, è che l’animo umano deve credere in nient’altro che in se stesso”. Non credo sia questo il cuore del pensare di Šestov – se ci piace, possiamo dare all’egotismo il nome di ascesi e fare liturgia del carpe diem – ma Lawrence – che trascina il russo, come dire, dalla sua parte – la dice bene: > “Nell’inconscio, l’impulso creativo sgorga come il primo moto dell’universo. > Aprite la coscienza a questo impulso, levate le vecchie cateratte, annientate > le chiuse, le dighe, i canali di scolo. Ogni ideologia, in definitiva, non è > che un ostacolo allo sviluppo spontaneo della propria creatività. Scacciamo > ideali e ideologie. Lasciamo che ogni individuo segua l’impulso eternamente > incalcolabile che è dentro di lui. Non esiste una legge universale. Ogni > essere, nella sua più pura forma, è legge a sé, singola, univoca divinità a > fronteggiare l’ignoto”.  Secondo Lawrence, “non dobbiamo essere irritati leggendo Šestov, ma divertiti”. In uno dei suoi più riusciti aforismi, Šestov scrive che la filosofia non nasce per confortare ma per turbare, per sconvolgere la comodità delle proprie consuetudini. Proprio per la sua aurorale radicalità, il pensiero di Šestov non trova luogo nelle accademie, non può elevarsi a moda (come accade, da tempo, al pensare, prodigiosamente ondivago e lucido di Emil Cioran). “Il pensiero di Šestov fatica a trovare collocazione all’interno di sistematizzazioni o correnti filosofiche definite… A questo punto il lettore sarà ragionevolmente investito da domande accusatorie: che utilità potrà mai avere un pensiero del genere? Quale insegnamento si può cogliere da questo abuso di libertà e licenza poetica? Ebbene, il pensiero di Šestov è unico proprio perché non si accontenta di enumerare, chiarificare e predicare le sue nozioni, ma preferisce penetrare all’interno dell’esistente e riallacciarsi alla vita, aspirando non a una pratica propedeutica all’utile, ma direttamente a smuovere le montagne con la sua voce” (così Samuele Brullo in: Apologia dell’impossibile. Šestov: la verità in conflitto tra speculazione e rivelazione, Alma Mater Studiorum, 2025). All’epoca dell’infatuazione per Šestov, Lawrence girava l’Italia, con una predilezione per la Sardegna. Amava leggere Grazia Deledda, aveva scritto alcuni dei suoi libri maggiori, Figli e amanti, L’arcobaleno; proprio quell’anno usciva Donne innamorate. Lawrence scrisse che lo stile di Šestov, “di primo acchito è sconcertante”. Aveva ragione: poco indulgente con i vezzi retorici, con l’aplomb, con la plumbea eleganza dei romanzieri occidentali, Šestov agiva artigliando. Possedeva l’arguzia degli antichi maestri che, passo per passo, zolla per zolla, decostruiscono ogni idolo; infine, resta la carcassa, una stagione di condor, le ossa, bellissime, come candelabri – un intenso desiderio di luce.  I due, lo scrittore inglese e il pensatore venuto dalla Russia, non si incontrarono mai. Probabilmente Šestov avrebbe enumerato Lawrence nella schiera degli scrittori che, al cospetto dell’indimostrabile, si affannano a mostrare la propria intelligenza, a giustificarla. Ma siamo tutti in balia della grazia – una grazia che, a volte, ha la figura della tigre.  *** Tentativi di un pensare adogmatico I Le oscure strade della vita non offrono la comodità delle arterie principali: niente luce elettrica, niente gas, neppure una mera lampada a cherosene. Nessun marciapiede: il viaggiatore si arrangi al buio. Se vuole la luce, attenda il lampo, oppure, come facevano i primitivi, cominci a sfregare le pietre finché non fiotti una scintilla. Nel lampo, gli accadono profili ignoti; deve cercare di ricordare ciò che ha appena percepito, poco importa se l’impressione è giusta o fallace. Perché non troverà altra luce, a meno che non apra il cranio contro il muro e ne scaturisca un fuoco. Cosa può mai radunare un mero mendicante in questo modo? Come possiamo attenderci resoconti chiari da colui la cui curiosità – chiamiamo così questa forza – lo ha portato a brancolare ai margini della vita? Perché dovremmo confrontare la sua cronaca con quella dei viaggiatori che, ben attrezzati, hanno percorso strade luminose? * L’uomo ben acconciato, la cui vita è comoda, si dice: “Come può vivere chi non confida nella certezza del domani, come può dormire chi non ha un tetto sopra la testa?”. Quando la sfortuna si accanisce su di lui ed è cacciato da ogni casa, deve tuttavia ripararsi sotto una siepe. Non riesce a dormire, il terrore lo attanaglia. Potrebbero esserci bestie feroci, brutali compagni di vagabondaggio. Ma a lungo andare si abitua a tutto. Si affiderà al caso, vivrà come un mendicante, dormirà il sonno del giusto nei fossi.  * Uno scrittore, meglio se giovane e inesperto, si sente in obbligo di offrire al lettore le risposte a ogni possibile interrogativo. La coscienza non gli permette di volgere lo sguardo dai problemi più ardui, così comincia a discettare di “cose prime e ultime”. Non avendo nulla da dire su tali argomenti – non è dei giovani l’abisso del pensare – annaspa, si agita, urla fino a perdere la voce. Infine, roso dalla stanchezza, tace. Se le sue parole hanno avuto un certo successo presso il pubblico, si stupisce di essere considerato un profeta. A quel punto, è preso da un insaziabile desiderio di preservare tale influenza fino alla fine dei suoi giorni. Ma se è più sensibile e dotato della media, inizia a disprezzare la folla per la sua incurabile credulità e a dileggiare se stesso per essersi atteggiato ignobilmente a pagliaccio, propalando idee elevate che non lo riguardano.  * Il fatto che alcune idee siano materialmente inutili all’umanità non può giustificare il loro rifiuto. Una volta che un’idea esiste, bisogna aprirle le porte. Se chiudiamo le porte, il pensiero si farà strada con la forza, oppure, come la mosca delle favole, si intrufolerà in noi senza che ce ne accorgiamo. Le idee non hanno riguardo per le nostre leggi sull’onore e la moralità.  * Per sfuggire alla presa delle idee dominanti di oggi dovremmo studiare la storia. Le vite di altre uomini in altre terre e in altre epoche ci insegna a comprendere che le nostre “leggi eterne”, le nostre idee infallibili non sono che aborti. Fate un passo avanti, immaginate le creature che vivono oltre questo pianeta, e le nostre eternità terrene perderanno il loro fascino.  * Nulla sappiamo delle realtà ultime della nostra esistenza – mai ne sapremo qualcosa. Rassegniamoci. Ciò non significa che dobbiamo accettare questa o quella teoria dogmatica sul nostro modo di vivere, tanto meno il positivismo, che ha il viso dello scettico. Ne consegue soltanto che l’uomo è libero di cambiare la propria concezione dell’universo ogni qualvolta cambia gli stivali o i guanti e che i principi riguardano soltanto la distanza che abbiamo dagli altri e in quale misura dipendono da noi. Per principio, dunque, l’uomo dovrebbe rispettare l’ordine del mondo esteriore come il caos totale di quello interiore. Per chi trova difficile sopportare tale dualità, si può prevedere un certo ordine dello spirito. Purché costui non se ne vanti, perché è un segno della sua debolezza, meschinità, ottusità.  * La filosofia deve rinunciare al vano tentativo di trovare le “eterne verità”. Il compito della filosofia è insegnare all’uomo a vivere nell’incertezza – proprio perché l’uomo ha una paura suprema dell’incertezza e si nasconde perennemente dietro lo schermo di questo o di quell’altro dogma. In breve, il compito della filosofia non è di rassicurare le persone, ma di turbarle.  * Quando l’uomo scopre un certo difetto di cui non può liberarsi, non gli resta che accogliere quel difetto come una qualità naturale. Quanto più grave e importante è il difetto, tanto più urgente è la necessità di nobilitarlo. Dal sublime al ridicolo il passo è breve e un vizio inestirpabile, negli uomini forti, è ribattezzato virtù.  * Il compito dello scrittore: andare avanti e condividere le proprie impressioni con i lettori. Non è obbligato a dimostrare nulla. Ma egli è perseguitato da quegli agenti di polizia – la morale, la scienza, la logica e così via – e crede di aver bisogno di una buona argomentazione per sedarli. Non deve preoccuparsi troppo, non deve farci credere di essere “interiormente giusto”. È più che sufficiente che continui a usurpare lo spazio che quei guardiani dei sentieri verbali vorrebbero sottrargli.  * Il segreto dell’“armonia interiore” di Puškin. Per Puškin nulla era privo di speranza. Egli vedeva segnali di speranza in ogni cosa. Peccare è piacevole, ed è piacevole pentirsi di aver peccato. È bene dubitare, ma ancor meglio credere. È bello pattinare sul ghiaccio “con i piedini in calzari di cuoio e acciaio” e vagare come zingari, pregare e litigare con un amico, fare pace con un nemico e piangere per un capriccio, ricordare il passato e scrutare il futuro. Puškin sapeva versare lacrime cocenti e chi sa piangere sa sperare.  * Il campo ben curato del pensiero contemporaneo deve essere dissestato. Pertanto, in ogni occasione e circostanza, le verità generalmente accettate devono essere messe in ridicolo: al loro posto, si preferisca proferire paradossi. Poi, vedremo… * Lodare se stessi è considerato sconveniente; lodare la propria setta, la propria filosofia è un dovere supremo. Perfino i migliori scrittori si sono presi la briga di giustificare la propria filosofia prima ancora di fondarla – avendo successo nel primo più che nel secondo caso. Le loro idee, dimostrate o meno, sono il loro bene più prezioso, autentica consolazione nel dolore, consiglio sagace nello smarrimento. Perfino la morte non è temuta dalle idee: sono le sole imperiture ricchezze. Tutto questo i filosofi ripetono, ripetono e ripetono con la stessa arbitraria eloquenza degli avvocati che perorano la causa di ladri e truffatori. Eppure, nessuno ha mai chiamato un filosofo “mercenario della coscienza”: perché mai tale parzialità? * L’uomo è abituato ad avere delle convinzioni, dunque, eccoci qui. Nessuno di noi può farne a mene, anche se in fondo le disprezza.  * La letteratura affronta i problemi più importanti dell’esistenza, per questo i letterati sono considerati, tra tutti, le persone più importanti. Un impiegato di banca, sempre lì a distribuire denaro, potrebbe benissimo considerarsi un milionario. L’alta stima attribuita alle questioni irrisolvibili dovrebbe screditare gli scrittori ai nostri occhi. Eppure, questi letterati sono così abili e astuti nell’esporre le proprie tesi e nel rivelare la fondamentale importanza della loro missione, che a lungo andare convincono tutti – soprattutto se stessi. Ciò è dovuto alla loro limitata intelligenza. Gli auguri romani avevano menti più sottili e versatili: ingannavano gli altri senza aver bisogno di ingannare se stessi. Nel loro ambiente non avevano paura di esporre i propri segreti, perfino di screditarli, certi di saper assumere un’espressione solenne nella giusta occasione. Ma i nostri scrittori odierni, prima di pronunciare in pubblico le proprie improbabili affermazioni, devono cercare di convincersi interiormente. Altrimenti, non possono iniziare.  * I moralisti sono le persone più vendicative dell’umanità: usano la morale come la più sottile arma di vendetta. Non si accontentano di disprezzare e condannare il prossimo: vogliono che la condanna sia suprema, universale, cioè che tutta l’umanità si ribelli come un sol uomo contro il condannato. Solo allora saranno pienamente soddisfatti. Nulla al mondo può portare a risultati tanto prodigiosi quanto la moralità.  * Gli eretici venivano perseguitati con la massima crudeltà per minime devianze dalla fede comunemente accettata. Era proprio tale ostinazione a difendere una piccolezza a irritare i giusti fino alla follia. “Perché non possono cedere su una questione tanto insignificante? Non possono avere seri motivi per opporsi. Vogliono soltanto affliggerci, farci dispetto”. Così l’odio monta e montagne di fascine e macchine di tortura apparvero per sfidare quella ostinata malvagità.  * Le rivelazioni più alte e significative giungono al mondo nude, rudi, senza abiti di gala. Trovare le parole per esprimerle è impresa delicata, un’arte. Le banalità e le stupidaggini, al contrario, appaiono subito in abiti confezionati, assai vistosi. Per questo, sono subito pronte a essere presentate al pubblico.  * Essere irrimediabilmente infelici è da svergognati. Una persona irrimediabilmente infelice è al di fuori dalle leggi della terra. Ogni legame tra lui e la società è definitivamente reciso. Poiché prima o poi ogni individuo è destinato a una infelicità irrimediabile, l’ultima parola della filosofia è la solitudine.  Lev Šestov *In copertina: un disegno di Michelangelo L'articolo “La filosofia non deve rassicurare, ma turbare”. Su Lev Šestov, il pensatore brutale proviene da Pangea.
June 30, 2025 / Pangea
Dimenticare Nietzsche. Ovvero: sulla maledizione dei lettori abusivi
Idola theatri distrutti, metafisica abbattuta, morale «ritrovata» (che non si muta né in stoica, né in cinica), grazie a un’accurata scepsi danzante, antidoto al veleno di un pensare a livello del suolo: «a morte tutto ciò che non è vita», è il suono della lama del boia propagato pagina dopo pagina fra gli scritti di Nietzsche, lettore di Ermerson: righe pensate per essere remote, inavvicinabili come il sole, da guardare a distanza e con filtri potenti. Nulla ha resistito al zoroastriano assassinio del falso teoretico, etico ed estetico («sono un genio della verità»), e dell’insufficiente: neppure il dettato pessimistico dell’amato maestro Schopenhauer, incendiato e ripopolato dalla gaia saggezza, superato dalla più assoluta affermazione tragica. Si deve a Nietzsche persino la liberatoria dichiarazione di guerra «all’arcigno e squallido paganesimo germanico», così lontano da quello ricco e nobile antico.  Persino chi osserva rapidamente sa che esistono perlomeno tre Nietzsche: quello che è, quello che si vorrebbe che fosse, quello che è diventato. L’opera sua è la tipica immagine del banco di prova per intemerati adepti, a favore di troppi giochi e manie di scoperta. Questo fatto rende ogni «pronuncia» su Nietzsche (sommo divagatore e dispersore di tracce che voleva essere «sentito», come il vento, e non capito, eternamente a caccia dei suoi consanguinei) a rischio crollo. Se si prova a dire qualcosa bisogna fare i conti con montagne di ostacoli tutti collegati all’inespugnabilità cui aspirava e al dolore ghiacciato, colmo di generatività, che voleva infliggere al suo lettore.  Quali sono questi tremendi ostacoli? Non solo, per esempio, l’irreperibilità avanguardista del metodo, ma la fatica di braccare la volontà originaria della sua opera, una stanchezza moltiplicata da tutto il bagaglio di scontri, contraddizioni, clamori aneddotici, e ovviamente con le dovute necessità filologiche che nel suo caso vanno osservate con una sensibilità maggiore. Perché Nietzsche è, infatti, soprattutto un «caso», sia per la naturale inclinazione a disgregarsi incessantemente sia per la manipolazione fluviale che ha subìto. La morte di Elisabeth Nietzsche è stata una liberazione per gli studi, fatto epocale che ha consentito di osservare il materiale inedito con occhio meno partigiano, e finalmente si è potuto trattarlo con metodo critico-filologico invece che sindacale o elettorale. In questa attività si è distinto Karl Schlechta, il primo a indicare e dimostrare le manomissioni della sorella di Nietzsche, nel 1956. Schlechta ha chiarito definitivamente che non è mai esistita, neppure in nuce, un’opera sistematica dell’ultimo Nietzsche, e che la Volontà di potenza non è che una ovvia compilazione di frammenti tratti dai quaderni di appunti, approntata con scelte arbitrarie da mani che non erano quelle di Friedrich.  La messa a disposizione dell’intero lascito nietzscheano in versione filologicamente accettabile, depurato da tutti i gravi teppismi successivi, si deve a Montinari e Colli negli anni Sessanta, quindi davvero ‘tardi’: la loro edizione del pensiero di Nietzsche è il riferimento d’elezione per tutti gli studiosi che cercavano quel «Nietzsche dentro Nietzsche» a lungo nascosto. In generale, la letteratura su Nietzsche è sterminata, spesso di poco valore, e rappresenta più che altro una pubblicistica popolare affranta dal generalismo o sovraeccitata da equivoci e fanatismi. Nietzsche era in competizione aperta con la Storia, meritandosi la sua maledizione. E in alcuni momenti la Storia permette che affiori la propria ironia rendendosi manifesta a tutti: Wilde moribondo fra la più brutta carta da parati all’hotel Hôtel d’Alsace, Pascal sepolto in Rue Descartes e Nietzsche, ricoverato in clinica psichiatrica a Basilea, con la scheda anamnestica in cui si scrive che «è completamente pazzo».  Tanti aneddoti e almanacchi su Nietzsche, e alambicchi grotteschi per «capirlo» o estrarne temibili «contenuti». Tutti hanno avuto la sventura di avere lettori abusivi e commentatori della domenica, nessuno si è salvato, ma Nietzsche in particolare ha attirato la mancanza di pudore di tante «mosche del mercato», proprio lui che ha sempre volutamente «abitato le cime». Il paradosso della popolarità è beffa ma non danno: forse è vantaggioso che sia finita così, se mette in risalto «l’hypocrite lecteur». Chi, pur non avendo né arte né parte, si è negato la vanità e l’esaltazione di vanagloriarsi su Genealogia della morale, Zarathustra, Umano troppo umano? Come sempre, questo rimane un argomento di poca importanza, se è vero che la grandezza di un autore è incorrotta dai saccheggi. Ma fino allo stremo, va ribadito che Nietzsche, errante ed errato, è più indisponibile di altri a farsi sgretolare, a farsi «lavorare». Errante entro la sua stessa opera, ricercatore della Ricerca, un confine vivente e permanente fra eremita e viandante, immagine mitica della carta numero nove dei tarocchi marsigliesi. Errato per le confetture, per le rilegature, per farne attracco di tutti, ma specialmente errato par excellence perché non può essere «giusto» fino in fondo per nessuno, perché mai darà il risultato sperato. Non ci deve nulla, eccetto la libertà di dimenticarlo e farne memorandum per il pensiero e la vita, ma senza nostalgia e idolatria.  Che cos’è Nietzsche? Uno che ha lasciato le chiavi per tutti i malanni della medietà troppo umana, per proteggersi dall’assedio nichilista e da ogni intellettualità didattica. Una via per tutte le vie, la via dello spirito libero. Via che non può percorrersi, che deve essere superata già nell’atto di visualizzarla. Ma anche educatore senza pedagogia, maestro senza parole e «perverso polimorfo», per usare un freudismo. Esperto cacciatore della qualità dei sentimenti morali, spregiatore del moralismo quale scheda preordinata per attraversare la vita e i suoi dilemmi. Incluso il dilemma della Storia, che lui dissolve attraverso un antistoricismo elettrificato: si può essere contro la concezione hegeliana della Storia come il divenire di un’Idea, un moto continuo rettilineo uniforme, con una perenne sintesi dialettica degli opposti, cospirante a un fine ultimo.  Per capire Nietzsche, o meglio per vederlo, occorre probabilmente un esercizio maturo e flessibile del «confine», perché ogni suo intento e ogni suo pensiero, ogni sua scrittura – anche quando «a razzi», o furiosamente aforistica – sono una lunga meditazione che ha intrecciato la sua origine a quella di ogni possibile confine. Le linee divisorie sono il suo cruccio e diletto, è lì che può esistere ogni vera intuizione sulla realtà e sulla coscienza. Confine nietzscheano, che distingue esterno ed interno, ma consente uno scambio. Delimita e consente il transito fra identità e differenza. La virtù del confine è la porosità, è tale solo se è poroso: la sua capacità di rendere possibile transizione e scambio. Nietzsche metta in guardia sul pericolo che esso possa «ammalarsi», indurirsi, ingessarsi, diventare luogo di presidio militare, mutare in cancerosa sclerosi: patologia del confine è perdita di porosità, che apre al fantasma schizoide della contaminazione estranea. Ma se «ognuno è a sé stesso il più lontano», dunque il primo estraneo che incontra, questi rischia la vita in tale fraintendimento. Estraneo è in primo luogo il soggetto a sé medesimo se è sordo al vero che lo abita, ipoacusia letale alla sua individuazione. Fare massacro con l’ombra di sé, per conoscerla e superarla, rimanendo però fra gli abissi: per essere finalmente non più arcaici, ma Antichi. Attrito sanguinario, ma inevitabile ai passaggi ulteriori di liberazione, sensuale «maturazione» (Nietzsche parla di «succosità, dolcezza, sapore pieno» di sé»), definizione. Si descriveva così: «sono un vento del Settentrione per fichi maturi…». Un invito ad abbandonare la «nave», inventandosi da zero e a spese proprie un mezzo di navigazione inedito. Spacciato di certo chi non lo farà, «in nome di una nobilitazione dell’obbedienza alla giustificazione dell’intera quotidianità, per avere in cambio una pace del cuore rozza»: ecco gli «uomini del mercato» e il loro ghigno, gonfaloni «dell’intera bassezza, dell’intera semibestiale miseria della loro anima».  Forse inesistente un modo per comprendere Nietzsche se non quello di esserne prescelti tramite divertita, misteriosa, congiuntura oltre lo spazio e il tempo. Un indizio su «come fare», potrebbe averlo regalato quando ha nascosto il suo ritratto nella frase «un sì, un no, una linea retta, una meta…».  Rubina Mendola *** Zarathustra 25 | SULLE ISOLE FELICI I fichi cadono dall’albero; essi sono buoni e dolci; e mentre cadono la lor buccia rosea si fende. Io sono un vento del nord per i fichi maturi. Così, come fichi, a voi giungano le mie dottrine, amici: ora gustatene il succo e la polpa soave! È autunno d’intorno, e puro il cielo, e pomeriggio. Guardate quanta abbondanza ne circonda! E in mezzo all’abbondanza è bello spingere lo sguardo verso mari lontani. Ma le migliori parabole devono parlare del tempo e del divenire: essere una lode e una giustificazione di tutto ciò che perisce! Creare – ecco la grande redenzione dai dolori e il conforto della vita. Ma perché esista il creatore occorrono molte sofferenze e molte trasformazioni. Sì, molto amaro morire ci deve essere nella vita vostra, o creatori! Sareste così gli assertori e i giustificatori di tutto ciò ch’è caduco […] In verità, feci la mia strada attraverso cento anime e cento culle e cento dolori del parto. Mi son congedato molte volte, e conosco le ultime ore che spezzano il cuore. Ma così impone la mia volontà creatrice, la mia sorte. Oppure, perché più franco vi parli: appunto questo destino vuole la mia volontà. Tutti i miei sentimenti soffrono in me e son prigionieri: ma il mio volere giunge sempre liberatore e messaggero di gioia. Il volere redime: ecco la vera dottrina della volontà e della libertà – è così che Zarathustra v’insegna. *In copertina: Max Klinger, Il filosofo, 1898-1910 L'articolo Dimenticare Nietzsche. Ovvero: sulla maledizione dei lettori abusivi proviene da Pangea.
June 27, 2025 / Pangea
“Sono nato sopra sabbie mobili”. Apoteosi di Rudin, l’idealista che non sa agire, l’intellettuale di oggi
Esiste un tipo d’uomo che nasce aurora e muore nuvola: illumina, promette, ma non riscalda. Un lampo che non precede il tuono, un seme che conosce la forma dell’albero ma non affonda mai le radici. Un tipo d’uomo che cammina con parole di fuoco sulle labbra, ma con piedi di vetro, che parla di verità, giustizia, bellezza — un profeta senz’altare. Rudin è uno di questi. È l’eco di tutte le generazioni che hanno saputo cosa cambiare, ma non come. Nel 1856, Ivan Turgenev pubblicava Rudin, il suo primo romanzo, tracciando il ritratto inconfondibile di un uomo colto, brillante, idealista – eppure incapace di agire. A quasi due secoli di distanza, la figura di Dmitrij Rudin resta inquietantemente attuale. È l’archetipo dell’intellettuale disarmato, simile a protagonisti russi come Eugene Onegin di Puškin e Pečorin di Lermontov; coloro che hanno tutte le parole del mondo, ma nessuna azione nelle mani. Uomini di idee senza opere, di ideali senza sacrifici. Coloro che non vivono, bensì declamano la vita. Parlano di futuro, ma rimangono prigionieri di loro stessi. > “Gli uomini hanno bisogno di questa fede; essi non possono vivere di > impressioni soltanto, è un peccato per loro di temere il pensiero e di non > aver confidenza con esso. Lo scetticismo si è sempre distinto per fecondità, > per impotenza.” In Rudin si annida la malinconia dell’inconcluso, la nobiltà sterile del pensiero che non sa incarnarsi. È un personaggio che seguirà il filone dei protagonisti turgeneviani, quelli che come Icaro volano verso il sole con ali di concetti, e che come Icaro, cadono – ma non per eccesso di coraggio, bensì per esitazione. L’influenza dell’idealismo tedesco e del Romanticismo è il prisma attraverso cui si può leggere gran parte dell’anima di Rudin. Egli parla come un discepolo tardivo di Hegel, immaginando lo Spirito Assoluto scorrere nei suoi monologhi, ma senza la forza storica della sintesi. È innamorato dell’infinito, come ogni romantico educato ai versi di Schiller e alla filosofia di Fichte: per lui, l’idea non è uno strumento, ma una dimora. Il mondo esterno, con i suoi limiti e la sua carne, gli appare come una minaccia alla purezza concettuale. Così resta inchiodato alla soglia, dove l’ideale non diventa realtà, ma simulacro. Come un pianista che conosce lo spartito ma non osa toccare il piano, Rudin incarna la grandezza sterile del pensiero assoluto. Eppure, Turgenev stesso traccerà più avanti un controcanto: in Padri e figli, egli oppone a Rudin la figura di Bazarov. Se Rudin è il predicatore delle idee non vissute, Bazarov è il nichilista, l’iconoclasta che nega ogni altezza. Tra i due si apre una frattura generazionale: l’uno è figlio del Romanticismo e della filosofia, l’altro del disincanto scientifico. Rudin crede ancora nella bellezza della parola, Bazarov nella freddezza dell’azione. Entrambi, però, falliscono a modo loro. Il primo affoga nella retorica, il secondo nel cinismo. In questo confronto, Turgenev non prende posizione, ma ci offre due specchi: uno per le illusioni che ci paralizzano, l’altro per le verità che ci svuotano. In Rudin, Turgenev ha scolpito una condizione che incarna quella malattia dell’anima che Nietzsche avrebbe poi definito decadentismo dello spirito; ma egli non lo condanna: lo contempla. Rudin non è un fallito, è un segnale. Un avvertimento per ogni epoca in cui la parola rischia di sostituire il gesto, e in cui il cielo, pur bellissimo, si dimentica della terra. Dmitrij Rudin è incapace di trasformare il fuoco in gesto. È un filosofo da salotto, un oratore da veranda estiva, innamorato di concetti e idee come altri uomini si innamorano di donne. Ma le sue idee non mettono radici nella realtà. Sono fiori secchi in un vaso di porcellana: belli da vedere, ma già morti.  > “Egli dimostrò che l’uomo senza amor proprio è niente, che l’amor proprio è la > leva di Archimede, con la quale si può sollevare il mondo […] L’uomo deve > stroncare il tenace egoismo della sua personalità per dare a questa il diritto > di manifestarsi!” Anche nell’amore, Dmitrij è incompiuto. La giovane e forte Natal’ja lo ama con l’istinto del vivere, mentre lui la ama come si ama un’idea: da lontano, con un certo timore. Quando arriva il momento di scegliere, indietreggia, preferendo la coerenza astratta alla realtà impura dell’esistenza. Così perde tutto: non solo l’amore, ma anche l’occasione di diventare ciò che predicava. Turgenev, con la sua scrittura delicata e malinconica, dà voce a una generazione post-napoleonica pronta alla bufera rivoluzionaria (forse ci ricorda qualcosa). Rudin però è il figlio di un tempo sospeso, di una Russia ancora addormentata, dove l’azione non ha ancora trovato la sua lingua, e la parola si consuma nell’eco. La sua tragedia è tutta interiore: sapere cosa andrebbe fatto, ma non riuscire mai a farlo. Rudin però non è un codardo, è solamente privo della forza incarnata del vivere. È il pensiero che non sa sporcarsi. Forse per questo alla fine morirà altrove, come un Don Chisciotte tardivo, combattendo una rivoluzione non sua, in una terra straniera, come se solo lontano dalla propria voce potesse finalmente agire. Ma è troppo tardi. La sua morte non redime, non compie: è l’epilogo silenzioso di una sinfonia mai suonata. > “La frase, è vero, mi ha rovinato, mi ha perduto; sino alla fine non ho potuto > disfarmene. Ma ciò che ho detto non è una frase. Non sono una frase, fratello, > questi capelli bianchi, queste rughe; questi gomiti logorati non sono una > frase.” Rileggendolo due secoli dopo, capiamo che Rudin vive ancora oggi, in ogni intellettuale che sa parlare ma non fare, in ogni anima che cerca la verità per osservarla da lontano. È la figura eterna dell’uomo che conosce il sentiero, ma si perde nella mappa. Eppure, la sua malinconica grandezza sta proprio lì: nella purezza dei suoi sogni non realizzati, nella struggente bellezza di chi voleva cambiare il mondo – e non ha nemmeno cambiato se stesso. > “Sono nato sopra sabbie mobili – Non posso fermarmi.” Quante volte abbiamo parlato e non agito? Quante volte abbiamo scambiato l’ideale per il compimento? La filosofia greca ha esaltato il pensiero come suprema attività dell’anima, ma in Rudin vediamo il volto oscuro di questa esaltazione: il pensiero come rifugio, come paralisi. L’ideale, se non si fa azione, si consuma in se stesso, si svuota. Errore non è cecità, lo è invece l’inazione; non il peccato, ma l’inerzia dell’anima. L’agire od il patire; Rudin vive nell’attesa di un’epoca che non arriva, in un eterno non ancora. È un uomo che vede la vetta, ma non sa camminare. Per questo ci lascia tra le liane del nostro animo a riflettere: è peggio fallire tentando o non tentare affatto per paura di fallire? Tommaso Filippucci *In copertina: Théodore Géricault, Ritratto di Delacroix, 1819 ca. L'articolo “Sono nato sopra sabbie mobili”. Apoteosi di Rudin, l’idealista che non sa agire, l’intellettuale di oggi proviene da Pangea.
June 26, 2025 / Pangea
Il deserto e il giardino. Ovvero: il viaggio “che ti apre la mente” e quello che muta il cuore
> Cælum, non animum mutant qui trans mare currunt > > Orazio, Epistulae, I, 11, v.27 La retorica inciampa da sola perché è imbranata: tanto se la racconta, tanto se la canta, che gira su sé stessa fino a cadere – come fanno per gioco i bambini. E in effetti, la retorica è infantile: egoriferita, bizzosa, volubile secondo la convenienza. Ma siccome: agere sequitur esse; coloro che la retorica praticano, magari inconsapevolmente che retorica sia, sono come bambini, creature psicologicamente infantili. Scelgono un giocattolo: è l’argomento della loro retorica, ciò che dev’essere giustificato dalle loro chiacchere. Dei vari argomenti/giocattolo uno ci pare sia più diffuso degli altri: il viaggio. E già si prefigura l’immagine del tizio tutto compiaciuto, le gote gonfie come quelle di un pupo, appena tornato da quell’avventura d’una settimana andata esattamente come aveva previsto l’agenzia di viaggi o la premurosa fidanzata, che ti dice: “eeh, viaggiare sì che ti apre la mente” – e tu, stronzo, che non viaggi perché magari quando hai i soldi non c’hai tempo e quando c’hai tempo non c’hai i soldi, o forse soltanto di viaggiare non ti frega niente, perché il senso della tua esistenza non dipende dall’ottemperanza di riti sociali massificati né dall’incontro con il presunto «altro» antropologico… tu, stronzo, t’interroghi su quella curiosa espressione, cercando di capire se in fondo tizio non abbia ragione.  C’è chi crede che il mondo sia il suo giardino, e chi crede invece che il suo giardino sia il mondo. Ma che cos’è un «giardino»? Nell’accezione volgare, per «giardino» s’intende generalmente lo spazio verde che circonda la casa. Tra erba, fiori della mamma o della nonna, magari qualche albero, il giardino è la dimora delle fantasticherie del bambino. Egli lì gioca; ma proprio lì il suo gioco assume un potere diverso rispetto a quanto accade dentro le mura: il giardino è casa, si; ma è anche natura, che, per quanto addomesticata, conserva quella capacità di fascinazione ambigua che la natura ha da sempre sull’Uomo. Il bambino che gioca nel giardino percepisce l’eccitazione dell’avventura vera. Poi però il bambino cresce; dell’avventura rimane solo l’idea, il ricordo nostalgico che pure non cèssa di pungolare la coscienza perché si ribelli al mondo adulto delle convenzioni opprimenti, delle frustrazioni svilenti, degli scopi fuorvianti. In ogni adulto che ha conosciuto da bambino il giardino, resta impressa la traccia dell’avventura.  Ma l’adulto, l’avventura, non sa più viverla. Non sa più viverla perché oramai comprende secondo il criterio dell’estensione quantitativa ciò che da bambino era compreso per intensità qualitativa[1]: al bambino era sufficiente qualche impressione di verde per ritrovarsi in un bosco; all’adulto non è sufficiente l’oceano per bagnarsi, non sono sufficienti i deserti per conoscere la sete, non sono sufficienti le vette per avere le vertigini. In fondo, la sua insoddisfazione, oltre ogni retorica, è dovuta ad un fraintendimento: ricorda l’avventura, ma si è rinchiuso in casa. Il giardino non è più un ponte verso l’altrove; è diventato decorazione perimetrale del suo Ego – ed essendo per lui il mondo il suo giardino; allora: il mondo è ridotto ad oggetto; ad oggetto desiderabile, da possedere, ma anche, fattualmente, inerte.  Albrecht Dürer, Angeli mostrano la Veronica in cui è impresso Cristo, 1513 C’è poi chi crede che il suo giardino sia il mondo. In genere, è colui che viene stigmatizzato dai benpensanti benfacenti come l’“ottuso”, colui che, invece di “aprire la mente” col tirabusciò del viaggio, resta inquilino dell’ignoranza, della superstizione domestica. Forse potrebbero pure avere qualche ragione, se del giardino e del mondo si avesse una comprensione esclusivamente estensiva. Ma siccome è possibile comprenderli diversamente; allora: il piedistallo della loro boria è piuttosto lo scalino su cui inciampano, facendo la figura dei coglioni κατ’ ἀλήθειαν. Del giardino e del mondo si può infatti avere anche una comprensione qualitativa, che ci fa accedere al senso autentico di entrambi. Al giardino dedicò molti anni fa un interessante libello, purtroppo incompiuto, Attilio Mordini[2]. Scrive Mordini:  > […] il giardino, almeno nella storia della nostra civiltà, nasce in > Mesopotamia quale paradiso; vale a dire quale idealizzazione del creato, luogo > di meditazione e di contemplazione intimamente complementare al tempio. [Nasce > e si afferma quale manifestazione di bellezza intesa come espressione di una > verità suprema a cui l’Uomo, elevandosi, aspira e tende sempre più […] È da > una tale idea, da un tale archetipo di giardino che muove ogni altro giardino > nel corso della Storia, accentuando ora in un senso ora in un altro la sua > funzione di porgere all’uomo un significato che, pur modificandosi di luogo in > luogo e di tempo in tempo, è rimasto fondamentalmente lo stesso, almeno fino > agli albori dell’età moderna][3]. Ben lungi dall’essere meramente uno spazio decorativo; il giardino è, o meglio: era un segno di una «verità suprema». Di tale segno, il significante sono gli elementi vegetali e floreali, combinati armoniosamente con elementi artificiali, p.e. fontane, vasche, etc.; mentre il suo significato è offrire all’Uomo l’occasione per accedere al suo intimo Sé, attraverso la meditazione sulla bellezza quintessenziale del Creato.  Questo significato del giardino assume col Cristianesimo una sfumatura peculiare. Dice sempre Mordini:  > Il giardino riappare […] nella contemplazione cristiana come perfezione ultima > della selva, ma non propriamente nel senso cosmico; riappare, invece, > come hortus conclusus, riappare soprattutto come simbolo dell’anima separata > dalla selva del mondo per essere coltivata e curata con l’aiuto della > grazia.[4] Quindi il giardino, con la contemplazione cristiana, viene compreso simbolicamente come l’anima di ogni persona. Ed è in questo giardino, in tale hortus conclusus, che l’Uomo può cogliere ciò che non per caso è stato chiamato: il «fiore dell’anima» (Proclo), ovverosia: incontrare lo Spirito, trasformarsi nello Spirito – compiendo così il gesto fondamentale per la divinizzazione (2Pt I, 4). E allora: colui che crede la propria anima sia il mondo, abiterebbe questo giardino senza aver bisogno d’altro spazio terreno, perché tutta la Terra sarebbe diventata un mondo troppo angusto. Dove andare allora, cosa esplorare, quale “altro” incontrare se l’esigenza fondamentale è andare nella propria anima, esplorarla, affinché non si resti tragicamente stranieri in essa? D’altronde, trovare questo giardino ed abitarlo non è immediato. Esso sta aldilà del deserto. È là che andò a cercarlo s. Antonio abate, e con lui tutti i grandi contemplativi eremiti del Cristianesimo. Una certa vulgata interpreta il gesto di s. Antonio come misantropia: lui volle allontanarsi dagli uomini per sfuggire alla loro corruzione, quasi fossero tutti degli appestati dal peccato che avrebbero potuto contagiarlo. Ma la verità è un’altra: ogni luogo abitato dall’Uomo può diventare un paradiso in Terra, può offrire tutto ciò di cui lo Ego abbisogna o desidera. Tra gli uomini si può infatti trovare una casa in cui abitare comodamente, si può trovare delle attività che ci soddisfino o che ci allietino, si può trovare l’amore per un’altra persona, si possono coltivare speranze terrene – insomma: si può trovare tutto ciò che distrae dalla concentrazione nel Sé[5]. Si capisce che il deserto non era il fine, bensì: il mezzo.  Marco d’Oggiono, Pala dei tre Arcangeli, 1516 ca. Oggi dov’è il deserto? Si potrebbe pensare ch’esso sia fattualmente scomparso: quale luogo della Terra può infatti essere considerato davvero «deserto», quando tutto lo spazio terrestre è abitato dalla telecomunicazione? Quando il cielo è percorso con indifferente alacrità dai satelliti, e tutti noi nuotiamo, annaspiamo, forse: affoghiamo nella banda larga? È opportuno intendersi su cosa sia il «deserto». S. Antonio ce lo ha insegnato: esso è l’assenza di umanità. In questo senso, oggi il deserto è paradossalmente molto più vicino di quanto fosse per lui: in una società come la nostra, disumanizzata e disumanizzante, la sabbia copre già la soglia delle nostre case. Viviamo in un tempo in cui l’umanità pretende di instaurare il paradiso in Terra, ma il paradiso dello Ego non può che essere un inferno – ardente e riarso proprio come un deserto!  L’Uomo contemporaneo si è così ritrovato a vivere una situazione segnata da un’ambiguità drammatica: se per chi cerca il proprio giardino interiore essa offre opportunità sorprendenti; per chi invece non ha il pollice verde della speranza teologale, il deserto è solo un deserto: è la disperazione.  Niccolò Mochi-Poltri *In copertina: William Turner, Studio di un angelo steso al sole, 1841 ca. -------------------------------------------------------------------------------- [1] Cfr. R. Guénon, Il Regno della quantità ed il segno dei tempi, trad. it. di P. Nutrizio, T. Masera, Adelphi, Milano 2009 [2] A. Mordini, Giardini d’Occidente e d’Oriente, a cura di F. Cardini, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2008 [3] Ivi, p. 31 [4] Ivi, p. 58 [5] S. Atanasio di Alessandria, in: Vita di Antonio (l’edizione di riferimento è a cura di L. Cremaschi, Edizioni Paoline, Alba 1984), dice: “5.1. Ma il diavolo, che odia il bene ed è invidioso, non sopportò di vedere in un giovane [s. Antonio] tale proposito di vita e incominciò a mettere in opera anche contro di lui i suoi intrighi abituali. 2. Per prima cosa cercò di distoglierlo dall’ascesi ispirandogli il ricordo delle ricchezze, la sollecitudine per la sorella, l’affetto per i parenti, l’amore per il denaro, il desiderio di gloria, il piacere di un cibo svariato e ogni altro godimento della vita”. L'articolo Il deserto e il giardino. Ovvero: il viaggio “che ti apre la mente” e quello che muta il cuore proviene da Pangea.
June 25, 2025 / Pangea
“Vorrei essere figlio di un uomo felice”. L’Odissea? La fantasticheria di Telemaco, il prototipo di Amleto
All’inizio dell’Odissea, sull’Olimpo si sono riuniti gli dei e Zeus comincia a parlare della sventura di Egisto, ucciso da Oreste, che ha vendicato l’assassinio di suo padre Agamennone. Il re di Micene, di ritorno da Troia, aveva trovato infatti la morte per mano di chi si era unito a sua moglie. Questo tema della vendetta di Oreste domina tutta la prima parte del poema omerico, quella che solitamente viene chiamata «Telemachia». Perché? La sua rievocazione è il tarlo di Telemaco, il figlio di Odisseo, che aspetta il ritorno del padre, dopo venti anni di assenza, temendo sia morto, per cui parte in cerca di sue notizie, mentre i Proci nella reggia spadroneggiano, e chiedono alla madre Penelope di rassegnarsi alla vedovanza e sposare uno di loro. Ma che cosa rappresentano per Telemaco l’omicidio di Agamennone e la vendetta del figlio continuamente evocati?  Per rispondere a questa domanda bisognerebbe provare a immaginare l’Odissea da un punto di vista completamente diverso. Immaginarla, cioè, come se fosse, per intero, una fantasticheria di Telemaco. Come se tutto il racconto di Odisseo, delle sue disavventure, la peregrinazione per mari e per terre, non sia altro che l’elaborazione mentale di un figlio che nell’attesa del ritorno del padre, nel vuoto di potere che egli ha lasciato non tanto nel regno ma nella sua crescita, ha bisogno di ricostruire la figura paterna attraverso il mito. L’Odissea come sogno interiore di Telemaco, insomma, come suo percorso immaginativo e iniziatico per definire la propria identità.  Il viaggio di Odisseo apparirebbe come una narrazione interna – doppiamente interna, considerato che Odisseo per buona parte del poema racconta in prima persona – una mitopoiesi prodotta da Telemaco per colmare il vuoto paterno. Tutte le tappe del viaggio – Circe, Polifemo, le Sirene, Scilla e Cariddi – non sarebbero pertanto ostacoli esterni, ma figure simboliche dell’inconscio, personificazioni di forze psichiche che il giovane deve attraversare per crescere. Odisseo incarna tutto ciò che Telemaco, ancora in formazione, non è ma desidera diventare. In questo senso, l’Odissea funziona come una phantasmagoria, una costruzione mentale che serve a mediare il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Si spiegherebbe così anche diversamente il senso della «Telemachia», cioè la scelta di Omero, del tutto insolita, di ritardare l’entrata in scena del protagonista fino al quinto libro, dedicando un lungo preambolo alle avventure di Telemaco. Un preambolo che potrebbe essere la chiave di lettura dell’intero poema, cambiandone radicalmente il senso. E quale sarebbe il senso? Che non si dà narrazione alcuna all’infuori della figura del Padre, della sua distanza, della sua indecifrabilità. Che qualsiasi racconto sia, come suggerisce il significato stesso del nome Telemaco, la descrizione di una battaglia svolta lontano dal padre o per tenere il padre lontano. Una battaglia che è – anche, allo stesso tempo – una «tentazione di evasione dalla sfera paterna» (come pare che Kafka volesse intitolare l’intera sua opera). In questo combattimento, dunque, rientra a pieno titolo il fantasma di Oreste, che è una proiezione delle paure – o del desiderio inconscio – di Telemaco.  All’inizio del poema, dopo la discussione tra gli dei sull’Olimpo e la decisione di Atena di raggiungere la reggia di Odisseo a Itaca sotto le sembianze di uno straniero di nome Mentore, troviamo il principe che siede tra i «Pretendenti» che gozzovigliano. «Sedeva con l’angoscia nell’animo» scrive Omero. E pensando al padre, fantastica sulla possibilità che possa arrivare all’improvviso a disperdere i Proci. Telemaco è come Amleto nel palazzo di Elsinore: è giovane, è depresso, dialoga in cuor suo con lo spettro del padre, che è stato ucciso dal fratello in combutta con sua madre. Penelope non ha mai tradito Odisseo, però le insistenze dei Proci bastano ad agitare nella mente di Telemaco la fantasia della triangolazione. È la stessa Atena travestita a materializzarla, quando gli suggerisce, poco dopo, di pensare a come uccidere i Proci.  > «Non sei più un bambino, non ne hai più l’età. Non sai quale fama si è > conquistata fra gli uomini il divino Oreste, per aver ucciso il perfido Egisto > che gli assassinò il padre glorioso? Anche tu dunque, grande come sei, e > bello, mostrati audace, affinché possano dir bene di te i tuoi discendenti».  Come lo spettro del re Amleto inciterà il principe alla vendetta, così la dea spinge Telemaco ad agire, a onorare suo padre, per certificare l’ingresso nell’età adulta. Ecco che per la seconda volta nel poema il tema di Oreste viene evocato.  Telemaco, appena compare, all’inizio del canto, è seduto, paralizzato dall’inazione e dal dubbio (l’«essere o non essere» non riguarda sé stesso ma suo padre). Odisseo è lontano, e la sua assenza non è soltanto fisica: è una mancanza simbolica, un vuoto che condiziona la formazione del figlio, è «la mancanza nel campo dell’Altro», come la chiamerebbe Lacan, il punto da cui prendono avvio il desiderio e l’identità del soggetto. Atena, infatti, lo invita a muoversi, a compiere un viaggio, a cercare notizie sul padre per cercare, in realtà, notizie su sé stesso. Prima però gli comunica che suo padre non è morto, e con una certa delicatezza gli dice, vagamente, che > «qualcosa lo trattiene sul mare immenso, forse, in un’isola cinta dall’acqua, > uomini selvaggi e crudeli lo tengono, contro il suo volere, prigioniero».  Nessun accenno alla bellissima ninfa Calipso. Poi gli rivolge una inattesa domanda, gli chiede se davvero lui è il figlio di Odisseo, come a esigere una prova. Domanda cruciale, ineludibile, alla quale Telemaco risponde così:  > «Mia madre dice che sono suo figlio, ma io non so; nessuno può sapere qual è > la sua nascita. Vorrei essere figlio di un uomo felice, che giunge alla > vecchiaia padrone dei suoi beni. E colui, invece, del quale figlio mi dicono, > perché questo tu mi domandi, è di tutti i mortali il più infelice».  Risposta sorprendente. «Vorrei essere figlio di un uomo felice». Odisseo non può essere felice perché sconta la punizione per la sua hybris. Come tutti gli eroi della guerra di Troia, gli usurpatori, i vincitori con l’inganno, anche lui – soprattutto lui – deve pagare se non con la morte, con l’infelicità quella colpa di aver ecceduto. Ma la punizione per la colpa, spesso, non si esaurisce soltanto nel colpevole: la nemesi opera anche nelle generazioni successive, come sappiamo da molti miti greci.  Che giustizia è mai questa che fa ricadere la colpa di un padre sul figlio e sui figli del figlio ancora? Una catena di castigo che non si interrompe, generazione dopo generazione. Forse la vera spiegazione è proprio nella risposta di Telemaco. Si desidera un padre felice, perché il peso dell’infelicità paterna grava inevitabilmente anche sul figlio. È questa la vera nemesi, la vera colpa? Forse la più grande responsabilità che ha un genitore nei confronti dei propri figli è proprio nella sua capacità d’essere felice. Così Telemaco, dopo aver convocato per la prima volta un’assemblea degli uomini di Itaca – un atto di grande significato: mostra il desiderio di assumere il ruolo di guida in assenza del padre – e aver lamentato l’arroganza e il comportamento disonorevole dei Proci, salpa di notte da Itaca verso Pilo, nel Peloponneso, dando inizio al suo viaggio alla ricerca del padre, diretto verso la casa di Nestore, il più vecchio e il più saggio tra i re greci che hanno partecipato alla guerra di Troia. Lui, a differenza di Odisseo, è tornato nel suo regno, e lì Telemaco, accompagnato dalla dea Atena sempre travestita da Mentore, lo raggiunge per avere notizie del padre.  Felice Giani, Telemaco consolato da Temosiri, sacerdote del tempio di Apollo, 1790 ca. A Pilo, sulla riva del mare la gente sacrifica tori neri a Poseidone, con un grande banchetto rituale al quale partecipa anche il re Nestore con i suoi figli. I due vengono accolti con grande ospitalità, prima ancora di sapere chi fossero, come impone la legge sacra dell’ospitalità (la xenia, principio fondamentale nella cultura greca antica). Atena incoraggia Telemaco a parlare con Nestore senza timore. Il giovane, allora, spiega il motivo del suo viaggio: vuole sapere che fine abbia fatto suo padre Odisseo, disperso dopo la fine della guerra di Troia. Ma il re di Pilo non ha più visto Odisseo, ricorda con affetto la sua amicizia e poi, ecco che, per la terza volta, tramite il prosieguo del racconto di Nestore, ricompare il tema dell’uccisione di Agamennone per mano della moglie Clitennestra e dell’amante di lei, Egisto, e il tema della vendetta di Oreste, il leitmotiv che accompagna ossessivamente la «Telemachia». Oreste è l’alter ego di Telemaco: la sua vendetta non è soltanto un richiamo, un’esortazione ad agire (Telemaco dovrebbe prendere esempio da lui, vendicare il padre uccidendo i Proci che insidiano il letto nuziale dei suoi genitori), ma anche, più sotterraneamente, la materializzazione di una fantasia: il padre che ritorna e viene ucciso da qualcuno che ha preso il suo posto al fianco della madre.  Telemaco deve liberarsi di questi fantasmi (definirlo complesso edipico è un anacronismo curioso, ma di fatto di questo stiamo parlando), e il suo viaggio, la sua piccola, circoscritta «odissea» attorno all’assenza di suo padre a questo serve, a farlo maturare, a fargli assumere il suo ruolo di uomo adulto. Ma questa prima tappa funziona solo come presa di coscienza: Telemaco avrà bisogno di sapere che suo padre è vivo, per poter realizzare la sua rappresentazione del nostos paterno, per poter riconciliarsi con lui immaginandone il lungo percorso che ha dovuto affrontare per tornare in patria, e per poter figurarsi un epilogo diverso da quello di Agamennone.  Nestore invita così Telemaco a recarsi a Sparta, da Menelao, che potrebbe avere informazioni più precise su Odisseo. Gli offre un carro e il figlio Pisistrato come guida e compagno di viaggio. I due giovani vengono accolti (ancora una volta) con grande ospitalità a Sparta, dove il re Menelao e la regina Elena (tornati insieme dopo la guerra di Troia), stanno celebrando un doppio matrimonio, quello del figlio di Menelao e della figlia con principi stranieri. Se qui il tema del matrimonio dei giovani si riflette nel matrimonio adulto, è per un motivo preciso. Telemaco deve imparare ancora qualcosa di fondamentale: l’idea che la vita è, in fondo, un compromesso, che l’amore coniugale è fatto di separazione, inganno, allontanamento e ricomposizione, anche se le crepe non si risanano mai. Elena intuisce la somiglianza tra Telemaco e il padre Odisseo e scopre, così, la vera identità del giovane (un’identità derivata). Questo riconoscimento fa commuovere tutti, perché il pensiero di tutti è rivolto, adesso, allo scomparso Odisseo. Ecco, allora, che Elena decide di versare nel vino una droga (pharmakon), che «fuga il dolore e l’ira, il ricordo di tutti i malanni». Ma perché Elena vuole anestetizzare gli ospiti e il marito? Sappiamo che il pianto per gli antichi greci non era motivo di vergogna: tutti gli eroi versano lacrime, perfino Achille. E allora perché questo desiderio di narcotizzare le emozioni? Omero non ce lo spiega, e intanto, ordinato che si versasse il vino drogato ai presenti, Elena inizia a raccontare di Odisseo e di quando il re di Itaca, travestito da mendicante, era penetrato nella città di Troia. Solo lei lo riconobbe (così come adesso ha riconosciuto Telemaco), e dopo averlo lavato e rivestito, gli chiese di rivelarle i piani militari dei greci, giurandogli solennemente che non lo avrebbe tradito, lasciandolo tornare al suo accampamento e alle navi. Da quel momento, dice, «il mio cuore gioiva, perché ormai mi s’era rivolto a tornare a casa»; e lei, pentita, malediva la follia amorosa che l’aveva strappata alla casa, a un marito «a nessuno inferiore, per il senno e l’aspetto».  Elena sta cercando qui di farsi perdonare il tradimento, giudicando la sua fuga a Troia come una follia amorosa, ma a questo punto, però, interviene Menelao e racconta della notte in cui lui e gli altri guerrieri greci si erano nascosti nella pancia del cavallo di legno. Elena, dice, per tre volte girò intorno al cavallo e chiamò per nome i migliori dei Danai, imitando la voce delle loro mogli, così che alcuni di loro, tra cui lo stesso Menelao, furono spinti a rispondere, se non gli fosse stato impedito da Odisseo, che non si era lasciato ingannare e aveva tappato la bocca degli uomini, salvandoli tutti da una morte sicura, finché Atena non condusse la donna lontano. La voce di Elena che imita quella delle mogli dei greci è un richiamo irresistibile, come il canto delle sirene (questa Elena che maneggia le droghe, riconosce gli uomini, imita le voci ha qualcosa di magico, indubbiamente). Ma che cosa sta facendo Menelao qui, se non accusare sua moglie di aver tentato di ingannare i greci, i suoi compatrioti, e lo stesso marito (ingannarlo ancora una volta, imitando la sua stessa voce, un inganno nell’inganno), mettendo a repentaglio la loro vita, per difendere i troiani? Menelao, in altre parole, smentisce la moglie, rinnega la versione che lei stessa ha appena raccontato nel tentativo di scagionarsi, adulando il marito («a nessuno inferiore, per il senno e l’aspetto»). Mentre Elena ha appena detto di aver aiutato Odisseo, nascondendo ai troiani la sua sortita in città, e di essersi pentita della sua scelta, oppressa dalla nostalgia per la casa nuziale e lo sposo, Menelao le rinfaccia di aver cercato di smascherare l’inganno del cavallo di legno, inchiodandola alla sua antica responsabilità.  Con un capolavoro di psicologia coniugale raffinatissima, Omero qua ci mostra un marito e una moglie che, tornati insieme dopo una lunga separazione, covano ancora sensi di colpa da un lato e rancori mai sopiti dall’altro. Capiamo adesso il motivo per cui Elena ha voluto drogare gli ospiti e il marito: affinché quest’ultimo, obnubilato dal «farmaco», credesse alla sua versione e non si facesse prendere dall’ira o dalla sofferenza della gelosia. Ma, evidentemente, nemmeno la droga è riuscita a cancellare dalla mente di Menelao il tradimento della moglie.  Bartolomeo Pinelli, Il sogno di Telemaco, 1808 Telemaco poi, viene a sapere finalmente da Menelao che suo padre è vivo, tenuto prigioniero sull’isola Ogigia dalla ninfa Calipso. Ma prima di rivelarglielo, Menelao gli racconta, conosciuta da Perseo, la sorte degli altri comandanti greci reduci da Troia, tra cui, quella del fratello Agamennone, ucciso da Egisto. Per la quarta volta ritorna il tema di Oreste («Potresti trovarlo vivo, Egisto, o forse l’ha già ucciso Oreste» dice Menelao a Telemaco, quasi a suggerirgli la vendetta). Alla fine del suo breve viaggio, dunque, Telemaco ha scoperto che suo padre è vivo, ma anche – riecco il fantasma, il ritorno del rimosso – che sua madre, l’archetipo della sposa fedele, potrebbe rivelarsi un’Elena, o una Clitennestra, che non solo tradisce il marito, ma trama anche per la sua morte.  La «Telemachia» dunque è come la trasposizione di un rito di passaggio che ogni adolescente deve compiere: allontanamento, straniamento, ritorno in città come cittadino di pieno diritto. Ecco perché il ritorno di Odisseo – con la strage dei Proci, il riconoscimento – può essere interpretato come la conclusione catartica di un processo immaginativo: un desiderio di restaurazione e di ordine, una «fantasia di completamento» che può avvenire solo quando Telemaco riesce a cancellare il fantasma di Oreste. Il suo «doppio», cioè, non deve più essere il figlio che vendica l’assassinio del padre, ma il padre stesso. Telemaco deve liberarsi dalla fantasia del padre tradito e ucciso, di questo desiderio inconscio, per vivere finalmente il desiderio cosciente che il padre torni, lo riconosca, agisca insieme a lui, e infine lo legittimi.  Rileggere l’Odissea come un racconto mentale di Telemaco significa spostare il baricentro del poema dalla dimensione esterna dell’avventura a quella interna della psiche. L’opera si rivela allora come un Bildungsroman, un viaggio non tanto nei mari del Mediterraneo quanto nel paesaggio interiore di un figlio che, per diventare uomo, ha bisogno di immaginare il proprio padre come modello, non come antagonista. Un sogno epico, ma anche una necessaria finzione per attraversare il vuoto e costruire un’identità. Fabrizio Coscia *Le citazioni dell’Odissea sono tratte dalla traduzione di Maria Grazia Ciani, edizione Marsilio. *In copertina: Jacques-Louis David, L’addio a Telemaco, 1818  L'articolo “Vorrei essere figlio di un uomo felice”. L’Odissea? La fantasticheria di Telemaco, il prototipo di Amleto proviene da Pangea.
June 25, 2025 / Pangea
Anglofilia. Perché amiamo gli inglesi (tanto quanto li odiamo). Dialogo con Ignacio Peyró
È un sublime omaggio all’immaginario anglosassone quello che Ignacio Peyró – direttore dell’Istituto Cervantes, saggista e giornalista per “El Pais” – regala al lettore con il suo ultimo Anglofilia. Piccolo glossario sentimentale della cultura inglese (Graphe.it edizioni). Un libro-miniera (versione breve di quella spagnola che supera le mille pagine) che attraverso uno stile intrigante e raffinato compone un elegante ed eccentrico mosaico della englishness mischiando umorismo ed erudizione, profondità ed acume per raccontare il grande mito di un’Inghilterra eterna capace di essere icona di stile, riferimento letterario e santuario estetico. Definendo un personalissimo e luccicante alfabeto della Gran Bretagna: dalla A di Alcol alla B di Big Ben, passando per la R di Rolls Royce, fino alla P di Pub. Ne emerge un gioiello letterario che regala a chi legge il fascino di quella Gran Bretagna dello spirito, paradiso perduto di tutti gli anglofili. Un immaginario sentimentale ed estetico (prima che politico e morale) che nelle pagine di Peyró viene immortalato senza nostalgia o pedanteria, ma con grande cultura, eleganza e fantasia.  Che cos’è per lei l’anglofilia? E come la ha vissuta? È più un’esperienza accumulata da generazioni che un’esperienza personale. Probabilmente è qualcosa che ormai si è andata perdendo con il tempo. In tutta Europa c’è stato un innamoramento per la politica, le istituzioni e le abitudini britanniche dal Settecento al Novecento. Da loro abbiamo copiato in gran parte la stampa, il parlamentarismo… e perfino lo snobismo e l’imperialismo. Ma c’è stata anche una grande seduzione britannica attraverso i costumi: la moda, i giochi – pensiamo al calcio. Così, l’Inghilterra è riuscita a far sì che “inglese” per molto tempo fosse una sorta di titolo di prestigio oltre che un’origine. Il paradosso è che molte cose che sembrano al cento per cento britanniche hanno in realtà origini continentali. La mia generazione – sono del 1980 – è tra le ultime ad aver vissuto quella che è stata un’abitudine molto europea e poco contestata all’anglofilia. Come nasce questo libro(sia nella versione spagnola che in quella italiana)? Ero un giovane giornalista spagnolo che voleva scrivere. Ho sempre voluto scrivere, è la mia vocazione. Ho scritto libri per altri, non ce n’era ancora nessuno in libreria che portasse il mio nome. Così sono andato da un editore con varie proposte: scelse questa. Mi ci concentrai per diversi anni e gli consegnai un libro di 1100 pagine: dovevo fare qualcosa per attirare l’attenzione. La selezione italiana è di poco più di 400. La genesi, diciamo, spirituale è più semplice: sui giornali finivo sempre per scrivere di cose britanniche, il tema giunse da sé. Quali lemmi della versione originale avrebbe voluto aggiungere? Non aggiungerei nulla. Così come è fatta, la selezione è ottima. Che ruolo hanno avuto nobiltà e aristocrazia, a cui dedica uno splendido paragrafo nella sua opera, nella formazione dell’anglofilia e di una certa idea delle englishness? L’importante, più che la nobiltà e l’aristocrazia, è la capacità dei britannici, nel corso della storia, di generare élite sociali positive. Lo fanno a partire dall’ideale del gentleman – che ha molto a che vedere con il gentiluomo del Rinascimento italiano – e dalla scuola. Così, si può essere un gentleman, con un ideale aristocratico, indipendentemente dalle proprie origini.  Leggendo le voci “Alcol”, “Cabine telefoniche” e “Big Ben”, tra le altre, in pochi dettagli emerge la capacità di dare vita ad un immaginario anglosassone affascinante che oltre a raccontare sa anche “intrattenere”. A quali dei lemmi della sua opera è più legato e quali la hanno più divertita nella loro scrittura? E perché? Una delle peculiarità del mondo britannico è che può essere, oltre che molto iconico, particolarmente narrativo; all’interno di questa narrazione c’è sempre un forte umorismo, ricco di aneddoti e ironia. Questo è un libro di libri, di erudizione festosa, e mi sono divertito moltissimo a scriverlo quasi quindici anni fa. In effetti, vorrei ampliarlo nell’edizione spagnola da 1100 pagine… Secondo lei come è cambiato il mito anglofilo con la Brexit? O è iniziato a decadere ben prima? C’è sempre stato un rapporto conflittuale tra Regno Unito e continente. Questo non vuol dire che non sia stato ricco: pensiamo al Grand Tour, ad Agincourt, a Verdun… La Brexit è un passo in più in questa storia di incontri e scontri. L’anglofilia ha una sua età dell’oro, che va dalla fine del XVIII secolo fino alla metà del XX, con Churchill e la Seconda guerra. Poi ci sarà un’altra anglofilia, pop. Esiste ancora un’anglofilia, per così dire, d’immagine: automobili, arredamento, abbigliamento. L’anglofilia come libertà, istituzioni e letteratura è meno presente, in parte per il successo che hanno avuto alcune sue esportazioni come la monarchia parlamentare, la tolleranza, la stampa o i romanzi leggibili. Ignacio Peyró è l’attuale direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, dopo aver diretto quello di Londra Come valuta la narrazione del finis britanniae che è propria di questi anni?  È una narrazione che non esiste solo all’esterno, ma soprattutto all’interno del Regno Unito, e che proviene dal dopo-sbornia post-imperiale. In effetti, gran parte di questa cattiva assimilazione è alla base della Brexit. Lo disse un Segretario di Stato degli Stati Uniti: si tratta di trovare un nuovo ruolo nel mondo. La visita di Re Carlo in Italia ha suscitato molto clamore. Sta ritornando una marcata anglofilia in Italia e in Europa? L’Italia è stata un paese molto anglofilo, così come la Gran Bretagna ha preso molto dall’Italia con il Grand Tour: idee di arredamento e arte (classicismo e neoclassicismo), modi e urbanità, il gusto per il passato… Ma la Brexit è stata una cattiva scelta che ha allontanato le simpatie anglofile dal mondo.  Come si sono declinate in letteratura e in estetica questa anglofilia e anglofobia? L’anglofobia ha a che fare (cibo e clima a parte) con la critica a ciò che viene percepito come materialismo inglese. È una critica in realtà più filosofica. L’antiliberale tende a essere antibritannico. L’anglofilia, invece, può essere molto alta o molto bassa: ha a che vedere con le istituzioni, la politica, la libertà e la tolleranza… e anche con abitudini come la caccia o le giacche. Dal “Telegraph” a personalità come Macmillan e Disraeli poche cose hanno rappresentato la britishness come i Tory e il mondo conservatore. Come vede oggi lo stato del mito di questa antichissima classe dirigente che ha incarnato l’anima più autentica del potere britannico? Il partito Tory era la cosa più solida della Gran Bretagna. Ed era, in effetti, il grande partito politico del mondo britannico, almeno il modello per gli altri, soprattutto nell’ambito della destra. Era “il partito della nazione”, benché sappiamo che in una democrazia una cosa del genere non è possibile né auspicabile. Ma era un partito capace di integrare numerose sensibilità. Ora ha avuto un’eresia postmoderna con Nigel Farage. Da spagnolo di cultura europea come ha vissuto il confronto con il mondo e la cultura britannica come direttore del Cervantes di Londra? La storiografia classica britannica, quella whig, contempla la creazione dell’Inghilterra moderna in lotta contro la Spagna e il Papato. Così, siamo stati nemici metafisici, nonostante Castiglia e Inghilterra avessero molto in comune e, come sottolinea Sir John Elliott, l’impero britannico si sia ispirato a quello spagnolo. Dal XIX secolo esiste una certa visione un po’ folkloristica della Spagna, coerente con uno sguardo anglosassone che guardava con condiscendenza il resto del mondo. Questo è cambiato progressivamente nelle ultime generazioni. Quali sono gli scrittori e registi contemporanei in cui ritrova ancora oggi il mito (o l’ethos se vogliamo) britannico?  Oh, beh, ce ne sono molti. Cito gli appena scomparsi Roger Scruton, Auberon Waugh… ma anche John Le Carré. È una cultura di grande prosa e narrazione.  Oggi è direttore dell’Istituto Cervantes di Roma, è in lavorazione un dizionario sentimentale se non italiano almeno romano? Josep Pla, grande scrittore catalano, osò affrontare tutta l’Italia – è sorprendente che le sue Lettere dall’Italia non siano tradotte – tranne Roma. Mi sembra una scelta saggia. Invece di scrivere un libro molto grande e pieno di altri libri come quello che ho fatto sulla Gran Bretagna, vorrei farne uno molto breve, un arabesco, con una bibliografia minima – cosa quasi impossibile – su questo paese meraviglioso. Francesco Subiaco L'articolo Anglofilia. Perché amiamo gli inglesi (tanto quanto li odiamo). Dialogo con Ignacio Peyró proviene da Pangea.
June 19, 2025 / Pangea