La categoria del ‘politico’ è propria della poesia italiana, dal punto di vista
simbolico – le invettive di Dante che scandiscono la Commedia, i sonetti
‘babilonesi’ di Petrarca, ad esempio – come da quello esistenziale. I poeti
italiani, quando ancora l’Italia era un’idea, un pullulare di principi e di
principati, erano assunti a corte, esercitavano mansioni di funzionari nei
nascenti comuni. Così – per dire – Iacopo da Lentini, “il Notaro”, operava
presso la corte di Federico II e Ludovico Ariosto si dimostrò abile
amministratore in Garfagnana, per conto dagli Este.
Ciò non vuol dire che il poeta sia per forza un cortigiano. È vero, il potente
ha bisogno del suo eloquio, del poema encomiastico, per lo più didascalico,
esornativo – ma è pur vero che il poeta, se tale è, va a briglia sciolta,
impenna il senno; benché possa essere animato da scaltrezza (che significa:
giustezza d’intenti; figura dell’altro mondo che si adopera nel mondano) non si
fa maculare dai lacchè. Il Malatesta aveva bisogno di un aedo, Basinio da Parma,
che giustificasse le sue gesta; pur al soldo dei Medici, Angelo Poliziano
conserva un’eminenza intellettuale che lo obbligherà all’esilio – d’altronde, la
via ‘notturna’ della poesia italiana ha il suo zenit nel Tasso messo ai ceppi a
Sant’Anna. La “Raccolta aragonese” voluta da Lorenzo de’ Medici dimostra che
la poetica, la questione della lingua, è una branca della politica.
Certo, occorre non inquinare le fonti. Il rapporto tra poesia e politica non si
regola nella poesia declamatoria, né nella poesia ‘civile’ – al contrario, il
poeta è l’incivile del linguaggio, compie atti di brigantaggio linguistico
contro la lingua imposta dal potere. Secoli di ‘impegno’ – pensiamo alla poesia
risorgimentale italica – hanno prodotto una poesia esangue benché piena di urla,
capace di infiammare gli animi, semmai, ma il cui fuoco lirico si è presto
spento. Un conto è l’ardore di Ugo Foscolo o l’audacia di Vittorio Alfieri,
altro il rovistar per peana del garibaldino Francesco Dall’Ongaro o i pur sapidi
sketch di Vincenzo Riccardi di Lantosca (esempio, Dio, Patria, Famiglia:
“Patria, ossia quei pochetti sicuretti; Famiglia,/ quel tanto della propria
moglie, che uno si piglia;/ quanto a Dio ci s’intende che noi s’intende il
prete”). Il ‘disimpegno’ esibito, disinibito, d’altro canto, ha prodotto
tonnellate di bigiotteria lirica.
Eppure, ogni potere, per fondarsi – non ho detto celebrarsi –, ha bisogno del
poeta. Anche in questo caso, da un lato ci sono i bardi del bene comune, i
boiardi dell’opportunismo verbale, dall’altra il poeta, l’inafferrabile. Ogni
nazione si fonda sul poeta perché il suo linguaggio feconda il futuro, è motivo
di avvenire, è ragione di esistenza; altresì, si affida al burocrate. L’Italia è
Giacomo Leopardi più che Goffredo Mameli, giovane martire delle lotte
risorgimentali. La Russia fonda il suo essere su Aleksandr Puškin e su Boris
Pasternak, non certo su Nikolaj Tichonov, poeta tribunizio, più volte premio
Stalin, deputato dei Soviet.
È interessante perché al contempo il poeta fonda la natura politica della
propria nazione, e nello stesso tempo – in forza della sua assolutezza, della
sua incoercibile singolarità – la disintegra. L’uno e il tutto, la costruzione e
la distruzione si coagulano senza sintesi nel corpo lirico del poeta: che è per
questo offerto.
Il Novecento è stato un secolo di profeti inascoltati, di poeti dal potente
ardore ‘politico’ messi diversamente a tacere – penso a Ezra Pound, ovviamente,
ma anche a Iosif Brodskij e a Hugh MacDiarmid, il paladino dei nazionalisti
scozzesi, l’Omero dello scots. Soltanto in William Butler Yeats, magicamente,
misteriosamente, la figura del poeta coincide con quella del ‘padre della
patria’: l’Irlanda esiste perché un poeta mitografo e allampanato ha detto di
una small cabin sulle sponde del lago Innisfree. Per molto tempo, più di altri
poeti, Robert Frost ha incarnato l’identità autentica degli Stati Uniti
d’America: è ancora così? Attorno a quale poeta vivente, oggi, riconosciamo la
nostra identità? Quando una nazione perde memoria dei suoi poeti, perde se
stessa. Ad oggi, i poeti cantano di rose e di passeggere indignazioni, sono i
macchinisti di versi concettosi, sono troppo intelligenti, fanno del proprio
ombelico la sola patria.
Ricevendo il Nobel per la letteratura, era il 1959, Salvatore Quasimodo volle
affrontare la questione de “Il poeta e il politico”. Indipendentemente dalla
poesia di Quasimodo – espressa tra Saffo e il Pci – quel discorso, a tratti
enigmatico, ha ragione di fascino. Quasimodo distingue il poeta – che agisce il
‘politico’ alla greca, come una categoria della ribellione, ovvero
dell’indomabile – dal letterato, che è poi il retore, il portaborse del potere.
> “Il poeta è solo: il muro di odio si alza intorno a lui con le pietre lanciate
> dalle compagnie di ventura letterarie. Da questo muro il poeta considera il
> mondo, e senza andare per le piazze come gli aedi o nel mondo ‘mondano’ come i
> letterati, proprio da quella torre d’avorio, cosi cara ai seviziatori
> dell’anima romantica, arriva in mezzo al popolo, non solo nei desideri del suo
> sentimento, ma anche nei suoi gelosi pensieri politici”.
È nell’esplicita distanza – quando non: lotta – con il potere che si esprime la
‘poetica della politica’ del poeta. Di questa libertà – che è: liberarsi dal
giogo della lingua del potere, imponendo un verbo nuovo, nuovamente innocente –
il poeta è il terribile portavoce.
> “Il poeta è un irregolare e non penetra nella scorza della falsa civiltà
> letteraria piena di torri come al tempo dei Comuni; sembra distruggere le sue
> forme stesse e invece le continua; dalla lirica passa all’epica per cominciare
> a parlare del mondo e di ciò che nel mondo si tormenta attraverso l’uomo
> numero e sentimento. Il poeta comincia allora a diventare un pericolo. Il
> politico giudica con diffidenza la libertà della cultura e per mezzo della
> critica conformista tenta di rendere immobile lo stesso concetto di poesia,
> considerando il fatto creativo al di fuori del tempo e inoperante; come se il
> poeta, invece di un uomo, fosse un’astrazione… Nel mondo contemporaneo il
> politico assume vari aspetti, ma non sarà mai possibile un accordo col poeta,
> perché uno si occupa dell’ordine interno dell’uomo e l’altro dell’ordinamento
> dell’uomo… Oggi il poeta è libero? È libero, secondo le società che lo
> esprimono, o il continuatore di illuminazioni pseudo-esistenziali, il
> decoratore dei placidi sentimenti umani, o chi non scende profondamente nella
> dialettica del proprio tempo per timore politico o per inerzia”.
Cinquant’anni prima, in un saggio su Il poeta e il nostro tempo, Hugo von
Hofmannsthal scriveva che misteriosamente il poeta, l’inerme, l’assoluto
sconosciuto, il paria ai più, “è il luogo in cui le forze del tempo tendono ad
equilibrarsi”; scrive che “è come se i poeti lavorassero all’unisono alla
costruzione di una piramide, all’immensa dimora di un re defunto o di un dio non
nato”, capaci di “creare l’accordo accettabile di tutto quanto si manifesta”.
Ecco che il politico sfocia quasi nel teologico. Il Regno di questo mondo; “Il
mio regno non è di questo mondo”.
Poi, certo, il vero compito politico del poeta è creare uno spazio di grazia e
di bellezza quando tutto intorno è orrore, è morte. Confidare nella bellezza
nonostante l’orrore e la morte. Quando la morte – che non ha l’ultima parola –
avrà smesso di urlare, esisterà, per i sopravvissuti e i futuri, uno spazio di
grazia e di bellezza. Un fuoco. Non per forza gradevole né confortevole, ma
buono.
Per il resto, è prova dell’integralismo lirico del poeta la capacità di
imprecare in versi. Quando è troppo, bisogna sobillare le Sibille del
linguaggio, tramutare il verbo in Erinni. Al di là di isolati, alati esempi –
“Muore ignominiosamente la repubblica”, Mario Luzi – la poesia più violenta, in
questo senso, priva di orpelli poetici, quasi integralmente politica,
integerrima, è Show, di Giorgio Caproni, che apre la sezione “Anarchiche o fuori
tema” del libro postumo Res amissa (1991); libro in cui – scrive Giorgio Agamben
– “la disappropriata maniera di Caproni”, “ha raggiunto ormai una regione sempre
al di là del proprio e dell’improprio, della salvezza e della rovina”. È da
questo non chiedere approvazione, da questo inappropriato, da questa rovina in
cui tutto è salvo – cioè infinitamente finito – che si riparte – anzi, si
vagabonda, dacché è lo sciacallo e la libellula, ora, l’icona del poeta.
(Che Show stia anche per sciò è perfino ovvio marcarlo: sciò, sciò, fuori tutti,
galletti del potere).
**
Show
Guardateli bene in faccia.
Guardateli.
Alla televisione,
magari, in luogo
di guardar la partita.
Son loro, i “governanti”.
Le nostre “guide”.
I “tutori”
– eletti – della nostra vita.
Guardateli.
Ripugnanti.
Sordidi fautori
dell’“ordine”, il limo
del loro animo tinge
di pus la sicumera
dei lineamenti.
Sono
(ben messi!) i nostri
illibati Ministri.
Sono i Senatori.
I sinistri
– i provvidi! – Sindacalisti.
“Lottano” per il bene
del Paese.
Contro i Terroristi
e la Mafia.
Loro,
che dentro son più tristi
dei più tristi eversori.
Arrampichini.
Arrivisti.
In nome del Popolo (Avanti!
Sempre Avanti!), in perfetta
Unità arraffano
capitali – si fabbricano
ville.
Investono
all’estero, mentre “auspicano”
(Dio, quanto “auspicano”)
pace e giustizia.
Loro,
i veri seviziatori
della Giustizia in nome
(sempre, sempre in nome!)
del Dollaro e dell’Oro.
Guardateli, i grandi attori:
i guitti.
Degni
– tutti – dei loro elettori.
Proteggono i Valori
(in Borsa!) e le Istituzioni…
Ma cosa si nasconde
dietro le invereconde
Maschere?
Il Male
che dicono di combattere?…
Toglieteceli davanti.
Per sempre.
Tutti quanti.
Giorgio Caproni
Da G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1999
*In copertina e nel testo: opere di David Lynch
L'articolo “Toglieteceli davanti. Per sempre. Tutti quanti”. Il poeta e il
politico proviene da Pangea.
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Dove si trova il silenzio? È una condizione che fa parte di questo mondo o
esiste solo nell’universo siderale? Il silenzio si trova nei cimiteri, ci
riguarda o appartiene a un Altrove?
Esiste il silenzio?
A volte sembriamo cercarlo disperatamente, ne sentiamo la mancanza.
Dove abita il silenzio?
Non è un po’ come chiedersi: dove nasce il vento?
Siamo disposti a viaggiare e ad allontanarci molto per provare a stanarlo.
Lo cerchiamo durante i ritiri di meditazione, dove si rimane zitti per giorni, e
quando poi si può ricominciare a parlare, non abbiamo nemmeno tutta questa
voglia di farlo.
Ma il silenzio non è per tutti. Molti si sentono a disagio quando il mondo tace.
Perché il silenzio è anche un invito all’introspezione. Restare soli con sé
stessi può fare molto rumore. Eppure, come scrive il filosofo Peter Sloterdijk
in Devi cambiare la tua vita, al contemplante basterebbe comprendere una
procedura fondamentale che consiste nella “duplicazione di sé”, un metodo per
stare in buona compagnia anche quando si sceglie di ritirarsi dal mondo;
cogliere che dentro si ha già un partner superiore, un angelo, un monitor
spirituale, un genio, un mentore, un custode, un compagno, un guardiano che
protegge e controlla, che esamina e sostiene, senza cercare fuori qualcuno o
qualcosa che compensi la paura. Un nobile osservatore che sorveglia e fa sentire
al sicuro:
> “Chi vuole essere sé stesso sperimenta la presenza del suo altro interiore.
> Per sapere come sta quest’ultimo, occorre un quotidiano esame interiore”.
Il passo successivo, in particolare nei percorsi spirituali orientali, sarà la
fusione con questo Grande Altro o l’eliminazione della dualità tra Sé reale e Sé
ideale.
*
Io stessa ho cercato il silenzio nelle sinuosità del deserto dell’Oman. Ho
esplorato il Negev, il Sahara, il Thar, il Wadi Rum e i deserti americani. E
poi, durante un viaggio nella mia terra natìa, le Marche, ho capito che non
c’era bisogno di andare così distante per sentir dialogare soltanto le stelle
nella notte oscura. Là fuori, lontano dalle città, recuperare il silenzio
diventa di nuovo un’opzione possibile ma che pochi sembrano intenzionati a
perseguire. La maggior parte ha scelto di abbandonare i borghi e le campagne e
di conseguenza il silenzio, perché in pochi hanno ancora insito in sé il
contatto primordiale con la natura, quel luogo dove la solitudine può diventare
contemplazione, dove le parole non servono, perché è più interessante ciò che ha
da dire il mare.
Pensiamo che vivremo meglio silenziando il dolore, non capendo che solo
ascoltandolo e accogliendolo potremo elaborarlo ed evolvere. Ma tutto ciò
diventa possibile solo frequentando il silenzio e lasciando essere le cose così
come sono. È questo a creare fiducia, come scrive la poetessa Chandra Livia
Candiani ne Il silenzio è cosa viva:
> “La maggior parte di noi inizia un percorso meditativo in cerca di pace. Ma
> ben presto ci accorgiamo che quello con cui entriamo in contatto è il caos
> della nostra mente e la ristrettezza del nostro cuore. La pace non è la
> quiete, è piuttosto l’accoglienza dell’irrequietezza”.
Tutto sta nella possibilità di aprirsi a quel conoscere senza pensare.
Ma silenziare il caos vuol dire anche appropinquarsi ad assaporare la morte, la
lacerazione con ciò che consideriamo vita, con l’inizio e la fine di tutte le
cose, con il loro apparire e scomparire, con l’ingannevole sicurezza e l’ignoto.
Non troviamo il silenzio perché siamo distratti.
Viviamo in una società iperconnessa e industrializzata che mette a dura prova il
nostro sistema nervoso. Non siamo più in armonia con la vita, come scrisse la
filosofa e maestra spirituale Vimala Thakar ne Il mistero del silenzio. Se siamo
seduti in silenzio e la mente fa resistenza anche soltanto al suono del pianto
di un bambino, si crea una frizione, che genera irritazione e una reazione, una
resistenza alla vita stessa. Cerchiamo rifugio nella meditazione, nella
concentrazione, ma spesso non basta a trovare sollievo dal trambusto.
Dovremmo soggiornare in uno stato di osservazione consapevole che dovrebbe
accompagnarci durante tutta la giornata per essere in grado di trovare il
silenzio interiore, una condizione di non verbalizzazione, di sradicamento dei
dogmi, dei simboli, di teorie e d’ideologie, di opinioni, credenze e affezioni,
di nomi, di forme, d’identificazioni e di sentimenti; oltre l’io, il me, il mio,
oltre il tempo e lo spazio:
> “Perché il silenzio possa diventare vivo, la totalità del movimento cerebrale
> deve disattivarsi volontariamente”.
Il silenzio giace al di là del noto e dell’ignoto, di ciò che è visibile e
invisibile. Il regno del silenzio è il regno dell’inconoscibile. Come nella via
apofatica del misticismo cristiano di Meister Eckhart e Angelus Silesius,
dell’Anonimo Francofortese e di Margherita Porete, la quale dichiarava: “Il mio
Dio è colui di cui non si può dire parola”. La loro era una via di silenzio e di
contemplazione, dove al massimo si poteva asserire cosa non fosse Dio. Perché se
dici Dio, non è già più Dio, come dichiarava Sant’Agostino.
*
È possibile trovare il silenzio nell’immobilità, nella non-azione, nel
non-pensiero. Ma come si raggiunge il non-pensiero? Con il senza-pensiero,
quando: “Pur essendo di fronte a tutti gli oggetti circostanti, la mente rimane
pura ed incontaminata”, come scrisse Daisetsu Teitarō Suzuki, professore di
Filosofia Buddhista dell’Università di Kyoto in La dottrina zen della
non-mente. Per “oggetti circostanti” s’intendono la coscienza e l’Inconscio:
> “cioè uno stato in cui né pensieri, né coscienza, interferiscono col
> funzionamento spontaneo della mente. Far sorgere pensieri verso gli oggetti
> che ci circondano e trastullarci con false idee su questi pensieri, questa è
> la fonte delle preoccupazioni e delle immaginazioni”.
Cosa vuol dire senza-pensiero?
> “Vedere tutte le cose eppure mantenere la propria mente libera da macchie e
> attaccamenti. Obbligare la mente a non dirigersi verso qualsiasi cosa, questo
> è ‘estirpare i pensieri’”.
Astensione dalle discriminazioni. Pura presenza. Qualcuno potrebbe dire che in
questo modo si rischia di cedere all’annichilimento. Ma l’annichilamento non è
ancora forma e parola? Un grande insegnamento del maestro zen Mazu Daoyi,
parlando di cosa fosse l’illuminazione, fu: “Quando ho fame, mangio e quando
sono stanco, vado a dormire”.
Eihei Dōgen, filosofo, monaco e poeta zen fondatore della scuola Sōtō-shū, in
una poesia scriveva:
> “In primavera i fiori
> in estate il cuculo e
> in autunno la luna.
> Nel freddo inverno
> la neve chiara e pura”.
Ecco l’essenza della vita, la necessità di smettere di classificare,
concettualizzare, teorizzare e interpretare. D’altronde, anche William
Shakespeare in Romeo e Giulietta scrisse: “Romeo, perché ti chiami Romeo? Cambia
il tuo nome. In fondo, che cos’è un nome? Quella che noi chiamiamo una rosa, con
qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente”.
Cosa? Perché? Dove? Come? Queste non sono domande utili per la comprensione
della vita. Non sarebbe più utile prendere una tazza di tè seduti nel silenzio
del senza-pensiero anziché inseguire le deviazioni della mente? Guardando fuori,
poi dentro, poi di nuovo fuori, e capire che non c’è frammentazione.
Il silenzio è una forma di libertà e una via di vulnerabile accuratezza.
*
Il compositore John Cage – famoso anche per il brano 4’33, in cui l’orchestra
non deve suonare – ha sempre inserito lunghe pause tra le note, pause che
ricordano anche i momenti di sospensione tra un respiro e l’altro, tra
un’inspirazione e un’espirazione, come a evidenziare la rilevanza del silenzio.
Un silenzio che, in realtà, non esiste, non è mai esistito e mai esisterà. Anche
in una camera anecoica completamente insonorizzata c’è sempre qualcosa anziché
nulla: non ci sono rumori esterni di nessun tipo… ma ecco il suono del nostro
respiro, del sangue che scorre nelle vene, il battito cardiaco, il ronzio nelle
orecchie, magari anche un acufene.
Il silenzio non esiste. Perlomeno la totale assenza di rumori. Ma può esistere
il silenzio della mente, e Cage, con le sue pause, ci fa cogliere proprio questa
consapevolezza: la presenza mentale e la pace, giacciono in quello spazio vuoto,
in quella pausa tra un pensiero e l’altro, tra la nascita e la morte di un
giudizio. Solo una mente non discriminante può provare l’ebrezza della calma.
Ci sediamo a meditare, e veniamo invasi da pruriti, dolori, pensieri nefasti,
immagini, ricordi, idee. Nel libro Silenzio, John Cage scriveva: “Un complesso
d’archi, un tramonto, ciascuno agisce”. Si tratta di accettare che un suono è un
suono e un uomo è un uomo, senza illusioni sull’ordine e orpelli estetici che
abbiamo ereditato. Si tratta di considerare profondo l’ascoltare così come lo
starnutire. Si tratta di saper vedere, e cioè riconoscere, comprendere, sentire
nel cuore, sperimentare in prima persona.
*
E allora, dove cercare il silenzio? L’unica risposta plausibile è di non
cercare. Questa è la via maestra dei meditanti più esperti. Può sembrare troppo,
incomprensibile, ma intanto – per una volta – proviamo a incamminarci senza
pensare alla meta. Una via di apparente improvvisazione che in realtà cela un
programma di allenamento degno della più alta acrobatica spirituale. Perché
dietro alla capacità di tacere e di silenziare i condizionamenti mentali, c’è
sempre molta prassi ed esercizio, c’è dedizione e vocazione, intenzione ad
abbandonare e a lasciar andare. La capacità di assaporare un vero silenzio
interiore è direttamente proporzionale al saper camminare sulla fune della
meraviglia del vuoto.
Dejanira Bada
*In copertina: Philippe Petit durante un servizio fotografico nel dicembre del
1989 ritratto da Annie Leibovitz
L'articolo Camminare sulla fune, ovvero: esercizi per assaporare il silenzio
proviene da Pangea.
Una biblioteca mi ha fatto da culla, mi è stata matrigna.
La madre di mio padre si era trasferita a Milano da Palermo a dodici anni; aveva
la quinta elementare; la scaltrezza della creatura viva, terrena. Mio nonno era
nato in Francia da immigrati siciliani: una volta, ricordo, mi parlò di Leonardo
Sciascia, amava ascoltare Charles Aznavour. Durante la Seconda guerra operò in
marina: arrestato in Grecia, fu detenuto ad Amburgo. Si vantava della sua
“Enciclopedia Motta” che, in un’altra era, prometteva “il sapere universale”.
Era fissato con la geografia.
Le strane accelerazioni della Storia – il Sessantotto, un viaggio in Pakistan,
l’idea di ‘essere se stessi’ (mentre a volte è bene apparire per ciò che non si
è) – portarono mio padre a diventare il bibliotecario di un piccolo paese in
provincia di Torino. I miei nonni – i suoi genitori – sono sepolti a Riccione:
il cimitero, in fondo, è una sorta di immensa biblioteca umana, un ossario di
memorie – è forse la vera “biblioteca infinita” ideata da Borges. Il figlio, mio
padre, che ha il nome del biblico “sognatore”, è sepolto in un microscopico
borgo della Val Grande, a cinquecento chilometri di distanza dai genitori. Spero
sia felice: nei turni di notte, lassù, lo strigide si combina al capriolo, la
chimera al lupo.
La biblioteca, comunque, fu il baratro: il luogo dell’amore e della perdizione,
l’alcova e la tagliola.
*
Qualche anno dopo la morte di mio padre, ‘liberai’ dalla biblioteca che aveva
diretto Il gioco del mondo di Julio Cortázar. Non che non lo possedessi: è che
quell’edizione – copertina rigida, Einaudi, incellofanata – mi pareva ‘biblica’,
perfetta al sogno. Per un po’, riposi in quel libro il mio destino. Mi piaceva
l’idea che si potesse leggere al contrario e di sbieco, che parlasse di molto e
di niente. Molti anni più tardi – per una di quelle strane accelerazioni della
vita – finii a Buenos Aires, incontrai chi aveva incontrato Julio Cortázar.
*
È assurda l’idea di possedere dei libri: sono loro che si impossessano di te. Ne
sei posseduto, tanto che liberandoli te ne devi liberare. Le parole aprono
squarci, finestre o stimmate che siano – ma possono anche recludere.
*
In una lettera particolarmente bella – in: V. Šalamov-B. Pasternak, Parole
salvate dalle fiamme, Archinto, 1993 – Varlam Šalamov rimproverava Boris
Pasternak, che con svezzato sussiego parlava con sufficienza delle sue poesie.
Nei campi, in Siberia, c’è gente che è sopravvissuta con le sue poesie; c’è
gente che si è ricordata cos’è un uomo (cioè: la creatura disposta a dare la
vita per un altro, sconosciuto) leggendo le sue poesie.
I libri non salvano la vita – ci danno la vita; non insegnano a vivere, creano
la vita. I libri sono un uovo cosmico (leggi sotto). Per questo ogni regime –
tirannico o democratico che sia – sottrae i libri ai propri elettori sudditi o
favorisce un ‘sistema’ culturale basato sul mero mercato: così si forgia un
popolo servile, un popolo reclino sul proprio misero io, un popolo immiserito
nel cuore, un popolo di paglia, logorato, già cenere.
*
A Lima soggiornavo all’Hotel Ariosto: nelle librerie i libri costavano più che
in Italia, ma lo stipendio medio di un peruviano non superava i trecento euro
italiani. Cercavo le poesie di César Vallejo; qualcuno, al mercato – così
sgargiante che lo chiamai Armida – intonò i frammenti di un’epopea andina.
Finché non recidono il suo canto, finché non lo sradicano dal linguaggio, l’uomo
è vivo, la sua stirpe prolifera.
*
Un tempo, quando i libri si compravano nelle librerie, s’intraprendevano folli
avventure per cercare il libro definito, quello della svolta. Vagabondai per
giorni, a Milano, prima di trovare la “Trilogia di Valis” di Philip K.
Dick. Edizione Oscar Mondadori, in cofanetto. Perché mi fossi ostinato a quel
libro – torbido, involuto, teologico – non lo so. A volte di un libro ci cattura
l’aura – basta quella.
Entrando in libreria – come si entra in una città perduta – era possibile fare
incontri inattesi. La vita digitalizzata – il demoniaco dominio del cellulare,
insomma – ha recluso le nostre esistenze in un tunnel. Viviamo nei bunker
dell’io. In spazi senza accesso, senza concessione. Prima, tutto era un bosco –
si era disposti alla scoperta, pronti allo straordinario, i prediletti
dell’insperato.
*
Intendo dire: la ricerca del libro assoluto. Il libro-tutto. Il libro che somma
cielo e terra, che abbraccia i vivi e i morti. Il libro che vivifica. Che fa
risorgere.
Ad esempio: purché sia escluso da quella rivelazione, possiedo – e sono stato
posseduto – da una serie di edizioni dell’I-Ching, l’arcano libro divinatorio
cinese. Preferisco l’edizione curata da Eranos; l’ho avuto nelle versioni
inglese, francese, spagnola.
Da ragazzo, conferivo le stesse facoltà – chiamatela taumaturgia del linguaggio
– ai libri di Thomas S. Eliot.Rapivo ogni possibile traduzione della Terra
desolata; mi confinai nei Quattro quartetti. Dal canonico viaggio in Inghilterra
– fatto in treno, dormendo dove capitava – tornai povero di tutto ma con
l’edizione Faber dei Selected Poems di Eliot. Più tardi, da adulto, provai una
simile coincidenza con l’opera di Saint-John Perse.
*
A volte un libro è il solo conforto: ma con i libri non si tratta, si lotta;
infine, finisci per odiarli. C’è differenza tra claustrale e claustrofobico.
*
Questo articolo voleva affrontare un argomento che può apparire assurdo ai più.
È questo: comprare più volte lo stesso libro. Preciso: non lo stesso libro in
altra traduzione o diversa edizione (pratica buona & giusta, a volte
necessaria), ma lo stesso libro nella stessa traduzione pubblicata dallo stesso
editore nello stesso anno. Una copia. Una copia di una copia di una copia. Che
assurdità. È come se ri-comprando lo stesso libro – o ri-rubandolo – potessi
azzerare l’esperienza di lettura precedente (dunque: potessi azzerarti). Come se
potessi ‘riverginare’ il libro. Oppure, come se quella innaturale fedeltà
potesse concederti un accesso privilegiato alle zone segrete, alle zone oscure
di quel libro.
Già, perché il principio di ogni libro è che abbia un unico lettore, un lettore
eletto: tu. Gli altri sono dei vili mestatori di opinioni, degli eresiarchi. Tu
sei il solo custode della verità appena sussurrata da quel libro che, pur tirato
in migliaia di copie, esiste perché proprio tu lo legga. È stato scritto per te,
incidentalmente gettato in pasto al vile mercato degli altri.
I libri esistono in un’unica copia, per un solo lettore. Tu.
*
(Diamoci il privilegio, in questo tempo brutale, in questo tempo funesto, di
parlare di cose frivole, di cose che ci tengono stretti all’umano. Anche questo
– come si accarezza un albero e si guardano le stelle – è un atto di grazia e di
esistenza).
*
Il primo libro che ho comprato almeno tre volte è l’Ulisse di Joyce. La sua
lettura mi folgorò, al liceo – avevo un’insegnante di inglese particolarmente
severa, che mi ha inoltrato nell’opera di Yeats e di Ezra Pound. Ho comprato tre
copie dell’Ulisse, a distanza di tre anni, perché non lo capivo. Più non lo
capivo, più mi incaponivo, mi incapronivo, mi incapricciavo. Quel libro
racchiudeva un mondo, quel mondo non mi piaceva, ma lo volevo capire. Lo
volevo.
*
Un giorno, spiazzandomi, l’insegnante di inglese mi disse di preferire la
letteratura mitteleuropea: il suo libro del cuore era La morte di Virgilio di
Hermann Broch. A casa, mio padre ne aveva una copia. Il volto di Broch, in
copertina, pareva quello di un alienato: a metà tra il Minotauro e il grifone.
Il libro mi parve infinitamente più vasto e vertiginoso dell’Ulisse: ne ho
ancora tre o quattro copie, da qualche parte.
*
I libri che, negli anni, senza che ve ne sia bisogno, senza ritegno, si comprano
più copie rientrano in un rango augusteo e angusto. Solo pochi vi appartengono.
E – questo l’ho capito negli anni – ad appartenervi non sono per forza i libri
più belli, quelli a cui siamo più affezionati. Di quelli, basta la copia
originaria, basta riaprire quella per rientrare nelle proprie origini. Faccio un
esempio che mi riguarda. Ho diverse copie del Libro della giungla di Rudyard
Kipling perché, senza che lo abbia scelto, è penetrato nella mia infanzia.
Ancora oggi, voglio essere Mowgli e Bagheera. “Non c’è chi non ne abbia sentito
il fascino”, è scritto, scagionando la mia ossessione, nella Nota introduttiva
dell’edizione Bur del 1951: l’ho trovata in un mercatino, qualche anno fa. La
traduttrice, Giuliana Pozzo Galeazzi, ha tradotto anche Jane Eyre e Bertrand
Russell. Il Libro della giungla non è il mio libro preferito – è il mio libro e
basta.
Lo stesso rapporto infantile, selvatico, mi lega a Moby Dick – ne avevo decine
di edizioni diverse, la prima apparteneva a mio padre: edizione
Frassinelli, total white, traduzione di Cesare Pavese.
*
Ai libri di cui ho comprato – o rubato – diverse copie mi lega un rapporto di
amore e odio. Ne amo la nomea, il portamento, l’apertura alare, per così dire –
eppure, continuo a sfidarli perché non sono riuscito a penetrarli. Ogni volta,
rinnovo la sfida. Tra questi libri così singolari, che mi visitano ogni eone di
mesi, ricordo La montagna incantata di Thomas Mann, La storia di Genji il
Principe Splendente di Murasaki Shikibu, Rigodon di Céline, Sotto il vulcano di
Malcolm Lowry. Sono libri che mi tormentano, di cui conosco alcune pagine a
memoria, che ogni volta rileggo e abbandono. Benché possa citarne altri a me più
cari – chessò, Cuore di tenebra di Conrad, L’urlo e il furore di
Faulkner, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, Come l’acqua che scorre di
Marguerite Yourcenar, Chadži-Murat di Tolstoj – sono quelli i libri che mi
accompagneranno, mordendomi il cranio, fino alla fine.
*
Di alcuni libri, è vero, ho acquistato più e più copie, per regalarli – non
rientrano nel lotto della lotta. Tra questi, sono affezionato, con rigore
totale, a Il colpo di grazia della Yourcenar e alla Casa delle belle
addormentate di Yasunari Kawabata. Allo stesso modo, i libri che ci sono stati
donati vivono in uno spazio tutto loro. Regalare un libro presuppone una
intimità che intimidisce. Chi ci regala un libro pensa che siamo in qualche modo
incardinati in quel libro, promessi a quel verbo: lo leggiamo, allora, per
scoprire chi siamo agli occhi di chi ce lo ha donato. Le scoperte – e i
fraintesi – sono spesso sorprendenti, a tratti agghiaccianti. Un libro che ci è
stato donato e che non ci riguarda – che mancanza di riguardo – può essere
donato a sua volta.
Valgono come autentici doni, però, soltanto i libri che abbiamo vissuto
intensamente, quando non sottolineato e appuntato e strappato. Ricordo
un’edizione delle lettere di Kafka a Milena – Mondadori, traduce Ferruccio
Masini – che mi è stata regalata molti anni fa: modesta, sbrindellata, piena di
note. Il regalo più bello – un patto.
*
Cito soltanto romanzi. I poeti non rientrano in queste viete classifiche: hanno
la pretesa di incendiare l’intera biblioteca e di resistere, frantumi di un
futuro ancora da costruire. La poesia vuole dedizione, solitudine, amore; le
poesie vanno imparate a memoria, il loro supporto non è un libro, ma l’intero
corpo di chi legge.
Quando mi hanno regalato Hugo von Hofmannsthal, ad esempio, ho fatto i salti di
gioia, fino a dire: è lui il più grande, è più grande di Rilke! Un’eresia, è
vero, ma come si fa a non amare assolutamente un poeta?
*
Ogni volta che vado in libreria – ci vado di rado, ridotto per lo più a un ebete
analfabetismo leggo soltanto i Vangeli, perimetrando la mia enorme inermità –
non posso non comprare un’edizione del Dottor Živago: credo che sia uno dei
libri decisivi del secolo, ma le poesie di Boris Pasternak siano infinitamente
più belle. In questo, seguo il giudizio di Varlam Šalamov. Eppure, ogni volta
torno a comprare Il dottor Živago – è una malattia la mia, lo
so, voglio che Il dottor Živago sia il libro totale, il libro che risponde a
ogni mio enigma, il libro che mi corrisponde. Ogni volta rileggo Il
dottor Živago, ogni volta lo mollo – c’è qualcosa di liquido, qualcosa di
paludoso che mi respinge.
In una delle ultime edizioni acquistate – Nuova Universale Einaudi, 44, 1968 –
la prefazione di Eugenio Montale non è d’aiuto. Il grande poeta, da poco
senatore a vita, scriveva prefazioni di solito gelide, attrezzate in
sprezzatura, a tratti ingenerose, alle Liriche cinesi come alla Coscienza di
Zeno; scrisse che “Il dottor Živagoè uno di quei libri che possono dar tempo al
tempo”, che è come dire tutto e nulla.
*
In ogni caso, ogni biblioteca privata esiste per essere spezzata. La biblioteca
non è una voliera, è come un rapace: deve prendere il volo. Non si possono
imprigionare i libri: hanno un destino vivente, di albero, di roccia. Eredità di
eresie. Giampiero Neri, antico sapiente della poesia italiana, citava nei suoi
libri innumeri altri libri, tra i tantissimi: Omero, Laozi, Melville, Tacito,
i Ricordi di un entomologo di Jean-Henri Fabre. Recitava a memoria Dino Campana
e Virgilio, amava la Vita di Milarepa. Eppure, la biblioteca di casa sua era
scarna, uno scaffale appena. Neri regalava i libri a chiunque andava a trovarlo:
io scelsi le Conversazioni con Kafka di Gustav Janouch in una vecchia edizione
Guanda.
Anche Nicola Crocetti, ogni volta che vado a trovarlo, si congeda dai suoi
libri, regalandomeli: l’ultimo, Kotik Letaev, è presentato come “il capolavoro
di Andrej Belyj, il Joyce russo”. Lo ha curato Serena Vitale per “La biblioteca
blu”, la formidabile collana di Franco Maria Ricci, era il 1973; il libro è
stato stampato “a Torino presso il signor Giovanni Zeppegno”.
*
Vagabondando di qui e di là, ho smarrito gran parte dei miei libri: che bello,
li rincorrerò per sempre. Eredità è una parola-cecchino. Kotik Letaev mi fissa,
mi squadra, è un libro sproporzionato: più che leggerlo, me lo immagino. Prima
di leggerli, i libri vanno immaginati – se non sono all’altezza della vostra
immaginazione, gettateli via.
La copertina di Kotik Letaev, bellissima, raffigura una serpe avvolta intorno a
un uovo. Secondo il mito pelasgico, Ofione, il serpente, si arrotola sette volte
intorno all’uovo cosmico deposto da Eurinome, “e ne uscirono tutte le cose
esistenti: il sole, la luna, i pianeti, le stelle, la terra con i suoi monti,
con i suoi fiumi, con i suoi alberi e con le erbe e le creature viventi” (così
Robert Graves nei Miti greci, libro più volte trafugato, più volte ricevuto in
dono).
Non servono più i libri, ma conformarsi alle stelle, stare nel verbo vivente.
L'articolo Sulla mania di comprare sempre gli stessi libri. Ovvero: conformarsi
alle stelle proviene da Pangea.
Il primo colpo di tosse sembra niente. Poi mano a mano il corpo si agita, sente
un’occlusione dei canali respiratori. Il fiato si fa corto, l’esofago si
stringe, come una mano che schiaccia la gola. Le contrazioni toraciche diventano
più insistenti, la tosse più grassa – reagisce a un’improvvisa pressione sui
polmoni. Nella bocca un sapore di ruggine, ferroso. La temperatura del corpo
sale: una costante febbre che dà spossatezza, perdita d’appetito, veloce
dimagrimento. Un bacillo potrebbe aver attaccato il sistema immunitario. Ma che
sia tubercolosi non è affatto detto. Potrebbe essere un’influenza più aggressiva
del normale, forse addirittura una polmonite. Solo che, stando alle statistiche,
quasi due miliardi di persone è contagiata dal mycobacterium tuberculosis, ma
soltanto il 5% svilupperà la malattia in maniera attiva nella propria vita. È la
prima delle scoperte a cui giunge Hans Castorp andando a trovare in sanatorio
suo cugino Joachim: la malattia non è una condizione di eccezionalità. Malati lo
siamo tutti. La differenza è il modo in cui assecondiamo e accogliamo quella
condizione; come dire, la nostra predisposizione a lasciare che la malattia
agisca sul nostro sistema vitale.
Quando, l’8 maggio del 1936, Thomas Mann viene invitato a Vienna a tenere un
discorso per l’ottantesimo compleanno del padre della psicanalisi, Sigmund
Freud, a un certo punto afferma che quando incontrò la sua opera si accorse che
due questioni significativamente lo legavano all’autore dell’Interpretazione dei
sogni: l’amore per la verità e la malattia come mezzo di
conoscenza. Tralasciando la prima questione, sulla seconda Mann sottolinea:
> «Ad ogni pagina sembra insegnarci che nessun profondo sapere è possibile senza
> quell’esperienza, premessa e condizione di ogni più alta salute. Anche questo
> senso potrebbe quindi ricondurre a Nietzsche, se non fosse piuttosto
> strettamente congiunto con l’essenza stessa dell’uomo spirituale in genere e
> del poeta in ispecie, anzi, con l’essenza stessa di tutta l’umanità, per quel
> che v’ha in essa di specificamente umano e di cui il poeta è l’espressione
> esagerata ed estrema. […] L’uomo è stato definito “animale malato” a causa
> delle tensioni e delle difficoltà, che sono il suo peso e il suo privilegio, a
> lui imposte dalla sua posizione stessa, intermedia fra natura e spirito, fra
> angelo e bestia».
Si colga, nel ragionamento, questa continua dualità che Mann estremizza. L’uomo
è un “animale malato”, e quella malattia è un “peso” e al contempo un
“privilegio”, perché la sua posizione è in continua tensione tra “natura” e
“spirito”, tra “bene” e “male”. L’uomo è malato perché è tale nella sua essenza.
Quello che si presenta come il sintomo di un improvviso disfunzionamento
dell’organismo non fa che mettere in evidenza un difetto spirituale. È
l’argomento della Montagna magica quello di comprendere quale sia il legame tra
queste due forme di instabilità, in che modo coincidano una malattia del corpo e
una della psiche, e come questa possibile coincidenza, o questo dissidio
indissolubile e inscindibile, possano aprire le porte di quel mistero insolubile
che è l’uomo in quanto tale.
*
La genesi del romanzo è piuttosto nota. Dal 15 maggio al 13 giugno del 1912,
Mann accompagna sua moglie in un sanatorio a Davos per farla curare da una
sospetta tubercolosi. In quel periodo stava terminando La morte a
Venezia. L’esperienza del sanatorio comincia a ispirarlo, ma per molto tempo
quello che ha in mente è una novella, una sorta di appendice al romanzo di
Aschenbach. Nel ’14 scoppia la guerra e l’attenzione di Mann si volge a
questioni che reputa più urgenti per il destino dell’Europa intera. Solo alla
fine del primo conflitto mondiale – che molto influì sulle pagine
della Montagna – il lavoro riprende con costanza e si complica. In una pagina di
diario del 1919 Mann scrive:
> «Penso frattanto che sia davvero questo il momento giusto per riprendere in
> mano lo Zbg [Montagna magica]. Durante la guerra sarebbe stato troppo presto,
> ho dovuto interrompere. La guerra doveva prima manifestarsi chiaramente come
> inizio della rivoluzione, il suo epilogo doveva non soltanto aver luogo ma
> anche mostrarsi come epilogo fittizio. Il conflitto tra reazione (simpatia per
> il Medioevo) e illuminismo umanistico è assolutamente storico e antecedente
> alla guerra. La sintesi sembra trovarsi nel futuro (comunista): il nuovo
> consiste sostanzialmente in una nuova concezione dell’uomo come sintesi di
> corpo e spirito (superamento del dualismo cristiano di anima e corpo, Chiesa e
> Stato, morte e vita), una concezione sorta anch’essa, del resto, prima della
> guerra. Si tratta della prospettiva riguardante il rinnovamento in chiave
> umanistica del regno di Dio cristiano, cioè di un regno di Dio in qualche modo
> umanamente compiuto e trascendente e, dunque, spirituale e corporeo: tanto
> Burge [il nome definitivo sarà Naptha nel romanzo], quanto Settembrini, con le
> loro tendenze, hanno allo stesso tempo ragione e torto. Il fatto che Hans
> Castorp venga dimesso per la guerra significa che è dimesso per partecipare
> all’inizio delle lotte per il nuovo, dopo che ha assaggiato pedagogicamente le
> sue componenti, quella cristiana e quella pagana».
*
Andiamo per gradi. Per Hans Castorp, un giovane studente di ingegneria navale,
orfano di madre e di padre, rimasto sotto la tutela dello zio, quella montagna
che raggiunge per andare a far visita al cugino Joachim, ospite del sanatorio da
qualche tempo, è un mistero. Un mistero che egli pensa di risolvere in sole tre
settimane. Eppure, fin dal suo arrivo, fin dalla prima sera, percepisce che il
suo corpo sta reagendo a qualcosa, il volto gli va in fiamme, come se fosse
stato sorpreso da un’improvvisa febbre. Una condizione che non lo mollerà per
giorni, nonostante la strafottenza di negare qualsivoglia disturbo, quasi
sentisse di vivere una doppia vita, una organica, che gli pare addirittura
autonoma, l’altra di emozioni.
> «La cura del riposo mi sta bene, la faccio volentieri come tutti, ma misurarsi
> la febbre sarebbe un po’ troppo per un ospite in visita, lo lascio volentieri
> a voi di quassù. Se solo sapessi […] perché mai ho queste continue
> palpitazioni…. È un fatto inquietante, ci sto pensando da un bel po’. Le
> palpitazioni vengono di solito quando siamo in attesa di una particolare gioia
> o quando siamo in apprensione, insomma, quando sono in gioco le emozioni, non
> ti pare? Ma se il cuore ti comincia a battere da solo, senza motivo e senza
> scopo, per conto suo, diciamo, trovo che sia una cosa perturbante, comprendimi
> bene, è come se il corpo se ne andasse per la sua strada e non avesse più
> alcun rapporto con l’anima o fosse, per così dire, morto pur non essendo
> veramente morto… […] è, piuttosto, come se il corpo conducesse una vita molto
> intensa, ma totalmente autonoma».
«Come se il corpo», dichiara Castorp, «non avesse più alcun rapporto con
l’anima». Questo scollamento è il principio di un dualismo su cui Mann ragiona
per tutto il corso del romanzo. È un dualismo stratificato, risultato di una
condizione che prevede un processo conoscitivo. Un dualismo da cui Castorp
sembra ossessionato, che sente di dover continuamente ricercare, scardinare,
addirittura farsene sedurre. Il primo segno viene appunto dal corpo, da uno
stato percepito fisicamente ma non ancora psichicamente. Quasi che il corpo
vivesse una vita sua propria, quasi che la psiche percepisse un attimo dopo
quello che il corpo suggerisce.
Ora però ci sarebbe da capire se la malattia che il corpo suggerisce era
qualcosa che preesisteva o è stata la montagna a scatenarla. O ancora, la
malattia del corpo la montagna l’ha provocata o l’ha soltanto manifestata? La
questione non è faccenda intellettualistica. Hans parte con un falso scopo, o
con un pretesto, una visita di piacere a suo cugino. Non nutre coscientemente
alcun bisogno di cura. Il suo problema, un problema che presto emergerà, è
l’assenza stessa di uno scopo, di una ragione di vita. L’allontanamento da
Amburgo, o dalle zone basse, verso “quelli di lassù”, verso la montagna, non è
che un tentativo incosciente di allontanarsi da un problema esistenziale. Il
primo segno che quello spostamento – quella ricerca – gli concede, è appunto il
manifestarsi di un disagio fisico. Il corpo per primo, voglio dire, segnala un
disagio di cui non si conosce la natura, o la causa.
A sottolineare fin da subito la questione della malattia come qualcosa di fisico
e psichico nello stesso tempo è nel romanzo il dottor Krokowski quando incontra
per la prima volta il nuovo arrivato Castorp, il quale però dichiara di essere
perfettamente sano.
> «Sul serio? Ma allora lei è un fenomeno più che degno di essere studiato!
> Perché una persona perfettamente sana io, finora, non l’ho mai incontrata. […]
> Dunque non intende approfittare qui di nessun trattamento medico, né fisico né
> psichico?».
Del resto è il dottor Krokowski che mensilmente tiene nel sanatorio delle
conferenze di carattere psicanalitico, una sorta di Freud sceso nel regno dei
morti a mostrare l’abisso in cui tutti gli ospiti del sanatorio si trovano, non
solo per lo spazio che abitano – uno spazio definito spesso nel romanzo fuori
dalla vita –, ma per come la malattia li abbia messi in relazione con quella
parte dello spirito che è la zona d’ombra di ognuno, quella da cui scaturiscono
tutti i dolori di cui si sente il peso ma di cui non si individua l’origine. Di
discesa nel regno dei morti parla anche uno dei personaggi principali del
romanzo, il letterato italiano allievo di Carducci, l’illuminista, il massone
Settembrini,
> «lei non è dei nostri? È sano, ed è solo ospite qui, come Odisseo nel regno
> delle ombre? Che audacia, discendere nelle profondità dove dimorano i morti,
> privi di sensi, e le ombre degli uomini estinti […] Siamo esseri del profondo
> abisso».
Il fatto che la montagna e il sanatorio rappresentino il regno delle ombre, un
abisso, un luogo frequentato da morti, o da quei vivi che abitando totalmente la
malattia si sono posti fuori dalla vita, che vuol dire fuori da un tempo
ordinario, pone tutta la “scena” del romanzo in una condizione onirica. Ma forse
è ancora qualcosa di diverso. Se il corpo, in quello spazio onirico, manifesta
un disagio, un disagio tale da rendere impossibile un ritorno tra “quelli di
laggiù”, dove la vita continua, è perché la montagna ha ordito il suo
incantesimo, il suo sortilegio. La malattia di cui tutti soffrono e per la quale
muoiono, è reale e irreale nello stesso tempo; o meglio: è doppiamente reale. Da
una parte il corpo, manifestando il proprio disagio respiratorio – manca l’aria,
si tossisce, si sputa sangue –, rende impossibile una qualsiasi fuga. Il corpo
malato è una sorta di trappola. Dall’altra, in quel particolare carcere che è la
montagna, il corpo concede, con il suo disfunzionamento, con la sua malattia, di
entrare in un’altra forma di malattia, quella per cui gli abissi divengono una
condizione assolutamente soggettiva. Pare addirittura che nessuno degli ospiti
di quel sanatorio voglia veramente curarsi. Ognuno sembra fare i conti con la
propria malattia, diversa e uguale per tutti. Se la malattia del corpo di cui
tutti soffrono è la tubercolosi, quella specifica malattia dei polmoni e del
respiro, dall’altra, quella malattia del corpo ha aperto a ciascuno una crepa
dentro la propria specifica malattia. Quando Castorp è costretto a riconoscere
di essere anche lui malato, che non potrà quindi lasciare il sanatorio, dichiara
di essere sorpreso e nello stesso tempo di non esserlo:
> «Che io sia un po’ malato è per me una sorpresa, certo per prima cosa dovrò
> adattarmi a questo, a sentirmi un paziente tale e quale a voi, e non, com’è
> stato finora, un semplice ospite. Al tempo stesso, però, la cosa quasi non mi
> sorprende, perché in verità non mi sono mai sentito magnificamente bene. […]
> Comunque sia, sto qui sdraiato da ieri e non faccio che riflettere su come mi
> sono sempre sentito, su quale è stato il mio rapporto con ogni cosa, con la
> vita e con le sue esigenze […] Ebbene tutto questo, penso, deriva dal fatto
> che anch’io ho una crepa e fin dall’inizio mi sono inteso con la malattia».
Gli studi che Hans Castorp compie per occupare il tempo del riposo, quelle ore
che sono necessarie in sanatorio alla cura, quelle ore che sono pure uno dei
modi per scandire un tempo sospeso dalla vita, non sono studi umanistici, né
tantomeno riguardano la materia di cui è esperto, l’ingegneria. Si tratta di
libri di anatomia, fisiologia, biologia. Castorp vuole comprendere il
funzionamento del corpo umano. Non solo. Vuole capire cosa ci si nasconde
dentro, di cosa sia composto, fino a dove la scienza può giungere a conoscere la
più piccola parte del nostro organismo. E da cosa, questa parte infinitesimale
di noi che ci abita, sia nata. Castorp, attraverso la malattia, attraverso lo
studio del corpo, attraverso la scienza anatomica, vuole comprendere cosa sia
esattamente la vita e da cosa essa nasca. E ciò che arriva a comprendere è che
la stessa scienza ammette che la vita nasca da una non vita, da qualcosa che non
è possibile definire scientificamente.
> «L’idea che la vita fosse nata da ciò che non ha vita, era impossibile da
> respingere, e lo iato che nella natura esterna si cercava invano di chiudere,
> quello tra vita e assenza di vita, quello iato doveva essere colmato o
> superato in un qualche modo all’interno, un interno organico, dalla natura. A
> un certo momento la divisione doveva condurre a unità composte, sì ma non
> ancora organizzate, che mediavano tra vita e non vita, gruppi di molecole che
> costituivano il passaggio tra forma di vita e semplice chimica. Giunti però
> alla molecola chimica, ci si trovava in prossimità di un abisso che si
> spalancava assai più misterioso di quello posto tra natura organica e
> inorganica: un abisso vicino a quello che si apre tra realtà materiale e
> immateriale».
La questione è qui. Quello di cui la malattia ci informa attraverso il corpo è
che l’elemento vitale che ci sostiene è qualcosa che faticheremo a chiamare
vita. Proprio la sua impronunciabilità rende la nostra stessa vita un enigma.
Quello che Castorp comprende è che la malattia del proprio corpo gli ha concesso
di scendere in un territorio in cui non è più il corpo a gestire. Ovvero, la
malattia del corpo gli ha fatto toccare quell’elemento inorganico e immateriale
che la scienza non saprebbe definire se non come non vita ma che pure,
misteriosamente, ci determina. Castorp tocca, con l’esperienza della malattia,
il segreto che tutti possediamo. Lì, nascoso dentro di noi, tra materia organica
e inorganica, dove la non vita genera vita, esiste un’energia segreta che lega
il corpo allo spirito, la vita alla morte. Proprio lì, in quella “crepa”, dentro
quel segreto, c’è la nostra psiche. È questo il momento in cui Castorp
percepisce che ogni uomo custodisce e alimenta la propria follia.
*
Mi si conceda una digressione. Da un po’ di tempo ho questa cosa in testa.
Penso a come sia nato il romanzo moderno, dico alle cause che hanno fatto in
modo che le forme si spezzassero, che la voce cambiasse, che la lingua seguisse
l’ellissi di una immaginazione che si costruisse dall’interno e non solo, o non
più dall’esterno. Le cause, quindi. Quelle conclamate, la scoperta della
psicanalisi e lo scoppio della Grande guerra. Due “eventi” talmente grandi da
somigliare a una rivoluzione. Naturalmente a questi andrebbe aggiunta la
“questione scientifica”, la relatività, la concezione del tempo e tutto quello
che ne consegue in termini filosofici. Poi, leggendo Mann, ho cominciato a
pensare alla malattia, a questa specifica malattia che è stata la tubercolosi,
che si è scatenata tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento. Una
malattia, per così dire, democratica, che ha colpito chiunque, ricchi e poveri,
e anche molti artisti (Kafka, Gozzano, Scipione, tanto per citarne alcuni).
Ecco, pensavo, la tubercolosi come malattia dei polmoni, come disturbo del
respiro. E il respiro è la voce. Ho pensato, voglio dire, che dovrà aver
significato certo qualcosa il fatto che si morisse così diffusamente per assenza
di respiro, per un difetto della voce. Avrà dovuto certo significare qualcosa in
termini di immaginario collettivo, tanto da trasformare una malattia del respiro
in un disturbo della psiche. Qualcosa che andava curato allontanandosi dalla
vita, cercando uno spazio altro, creando di conseguenza il “mito”
dell’isolamento. Quanti sanatori nella storia della letteratura moderna. Spazi
fuori dalla vita. Luoghi di cura che scatenano l’immaginazione. Quella specifica
immaginazione che moltiplica le possibilità dell’io, trasformando l’io in una
molteplicità. Luoghi di cura come spazi mentali, in cui il tempo si deforma, si
relativizza. Spazi in cui si fa esperienza della morte, in cui la morte si
affaccia alla vita come un soffio, un respiro, una voce appunto. E non è
la Montagna magica il risultato più alto di questa concezione romanzesca?
Thomas Mann (1875-1955)
*
Sappiamo che la stesura della Montagna magica fu interrotta per un certo periodo
da Mann per la scrittura di una conferenza che darà vita a un saggio
particolarmente significativo, quello che avrà come titolo Goethe e Tolstoj. È
chiaro che Mann fosse pienamente dentro l’oggetto di indagine
della Montagna anche mentre scriveva di altro, e infatti troviamo una pagina che
molto dice anche del romanzo, proprio a proposito della malattia:
> «La malattia ha un doppio volto e un doppio rapporto con ciò che è umano e con
> la sua dignità. Da un lato essa è nemica di questa dignità in quanto accentua
> troppo fortemente l’elemento corporeo e, col respingere e rigettare l’uomo nei
> confini del corpo, lo disumana e abbassa al semplice corpo. D’altro lato
> tuttavia è possibile pensare e sentire la malattia come qualche cosa di
> altamente degno dell’uomo. Se infatti sarebbe troppo arrischiato dire che la
> malattia è spirito e più ancora […] che lo spirito è malattia, tuttavia questi
> concetti hanno molto di comune fra loro. Spirito infatti è orgoglio,
> un’opposizione […] alla natura, che tende a emanciparsi, sciogliersi,
> allontanarsi, estraniarsi da essa; spirito è ciò che contraddistingue l’uomo,
> questo essere che si sente in alto grado sciolto dalla natura, a lei opposto,
> diverso da tutti gli altri esseri organici. Il problema quindi, il problema
> aristocratico è di sapere se l’uomo sia tanto più altamente uomo quanto più è
> sciolto dalla natura, cioè quanto più è malato. Infatti, che cosa sarebbe la
> malattia se non separazione dalla natura?».
Si è detto di una dualità che Mann ossessivamente sottolinea per tutta la
narrazione; una dualità che per Hans Castorp è prima di tutto ricerca; una
dualità che nel romanzo è personificata dai due pedagoghi ospiti del sanatorio,
che Castorp avvicina stringendo con loro un legame, come volesse vivere
esternamente un conflitto che lo abita, come avesse bisogno della loro
dialettica per risolvere una crisi a cui non sa ancora dare una lingua, una
voce: il letterato compagno del progresso Settembrini, che immagina un
rinascimento umanistico illuminato, razionale, e il gesuita Naphta, il quale ha
in disprezzo il corpo e, si direbbe, la stessa vita sulla terra per un’idea di
vita più alta, totalmente spirituale. In una delle loro infinite discussioni –
discussioni insopportabilmente lunghe alle volte, su cui Mann calca pesantemente
il ragionamento, mostrando un eccesso di intenzione – leggiamo delle pagine che
mettono in evidenza, quasi con le stesse parole, quanto aveva pronunciato nella
conferenza su Goethe e Tolstoj.
> «Il signor Settembrini, disse, l’aveva completamente conquistato con quella
> sua plastica teoria. Perché si poteva dire quello che si voleva… e qualcosa da
> dire c’era, ad esempio che la malattia costituiva una condizione esistenziale
> di ordine superiore e dunque aveva in sé un che di solenne… ma certo è che la
> malattia, disse, enfatizza il corpo in modo eccessivo, per così dire rimanda e
> rinvia l’uomo al suo corpo in tutto e per tutto, tanto da nuocere alla sua
> dignità fino ad annientarla, in quanto, appunto, degrada l’uomo a semplice
> corpo. La malattia è perciò disumana. Naphta ribatté subito che la malattia,
> invece, era sommamente umana; giacché essere uomo significava essere malato.
> L’uomo è, in verità, essenzialmente malato, proprio la sua malattia lo rende
> umano, e chi lo vuole guarire, chi vuole indurlo a fare pace con la natura, a
> ritornare alla natura (quando, invece, mai egli è stato naturale), tutti quei
> fanatici della rigenerazione, quei consumatori di cibi crudi, quei naturisti,
> quei fanatici dei bagni di sole e così via che se ne vanno in giro come
> profeti, tutti quei tipi alla Rousseau ad altro non mirano che a
> disumanizzarlo e abbrutirlo… Umanità? Nobiltà? È lo spirito a distinguere
> l’uomo, questo essere in sommo grado separato dalla natura, il quale sente se
> stesso radicalmente antitetico a tutto il resto della vita organica. Nello
> spirito, nella malattia è riposta la dignità dell’essere umano, la sua
> nobiltà: egli è, in una parola, tanto più uomo quanto più è malato, e il
> genius della malattia è più umano di quello della salute. […] Il signor
> Settembrini ha sempre la parola “progresso” sulle labbra. Come se il
> progresso, ammesso che una cosa del genere esista, non dovesse la sua
> esistenza unicamente alla malattia e cioè: al genio… e in quanto tale altro
> non fosse, appunto, che malattia! Come se i sani di ogni tempo non avessero
> vissuto delle conquiste dalla malattia! Ci sono state persone che
> consapevolmente e volontariamente si sono abbandonate alla malattia e alla
> follia per guadagnare all’umanità conoscenze che divennero preziose per la
> salute dopo esser state acquisite attraverso la follia, e il cui possesso e
> godimento, dopo quell’eroico sacrificio, non è più stato condizionato né dalla
> malattia né dalla follia. È questa la vera morte sulla croce…».
Siamo nell’abisso del romanzo, nel suo conflitto. La malattia come regressione
dell’umano a puro corpo o come sintomo della sua superiorità rispetto a tutti
gli elementi organici? Malattia come regressione allo stato naturale o come
elevazione spirituale? La malattia, in definitiva, come seduzione della morte o
come sorgente di una vita più elevata, fuori dai canoni ordinari (quella vita
ordinata e borghese da cui Castorp – e lo stesso Mann – proviene)? È chiaro che
questo dualismo che nel romanzo si presenta in forma tanto netta, addirittura
personificata nelle figure di Settembrini e Naphta, non troverà,
dialetticamente, cioè filosoficamente, alcuna sintesi, alcuna soluzione
condivisa. Settembrini e Naphta non discutono veramente, piuttosto monologano,
esponendo la loro granitica posizione, la loro specifica filosofia. Questo li
rende tanto insopportabili. Castorp è una spugna, si fa sedurre da entrambi, non
ha un’idea sua propria, somiglia a una pagina bianca ancora da scrivere, è un
uomo che si forma e che per formarsi ha accettato di liberarsi dalla vita
ordinaria che conduceva, di scendere negli abissi della montagna, di riconoscere
dentro di sé questo principio di malattia per cui ancora non è in grado di dire
se si regredisca o ci si elevi. Ma finché ascolterà discutere, finché lui stesso
discuterà di malattia, di natura e di spirito, di vita e di morte in termini
puramente intellettuali, non sarà in grado di conoscere la realtà di quanto egli
stesso sta facendo esperienza – l’istinto alla vita unito all’istinto di morte
–: non entrerà mai nella verità della sua stessa follia.
*
È la quinta parte del romanzo quella in cui Mann fa vivere al suo Hans Castorp
un’esperienza di reale abbandono. Anche se per fargliela vivere sembra metterlo
prima alla prova, quasi facendogli toccare con mano il rischio in cui incorre. È
l’esperienza della morte quella che Castorp, prima di abbandonarsi alla propria
follia, deve conoscere, per questo, nel paragrafo intitolato “Danza macabra”,
sentirà il desiderio di accudire gli ospiti del sanatorio che non hanno più
speranza di vivere. «Ti rivelerò un mio proposito», confessa Hans a suo cugino
Joachim,
> «Qui viviamo porta a porta con gente che muore, con dolori e sofferenze
> strazianti, e non solo ci comportiamo come se la cosa non ci riguardasse
> affatto, ma veniamo protetti e risparmiati proprio per far sì che non entriamo
> in contatto con queste cose e non vediamo nulla […] Ebbene, quel che mi
> propongo per l’avvenire è di occuparmi un po’ di più dei malati gravi e dei
> moribondi che si trovano in sanatorio, mi farà bene…».
Mann crea una sorta di ambiguità. Proprio in quello che chiama il luogo delle
ombre, l’abisso, il regno dei morti, insomma la montagna e il suo sanatorio, la
morte viene celata, nascosta, occultata. Non è un’ambiguità priva di senso. Se i
vivi fossero consapevoli della propria morte imminente non riuscirebbero a
immaginare qualcosa che li tenga in vita, o a credere che quello spazio fuori
dal tempo che li ospita somigli alla vita di “quelli di laggiù”. Ma c’è altro.
Vale, come nel caso degli studi scientifici che Castorp ha compiuto (e proprio
nel paragrafo precedente, intitolato “Ricerche”), lo stesso principio per cui la
vita nasce da una non vita, da quell’abisso che non si è in grado di riconoscere
e di spiegare.
La morte, in sanatorio, è occultata ai vivi affinché essi non vedano cosa li
tiene in vita; li tiene in vita proprio perché è qualcosa di sottratto alla
vista. I vivi restano in vita perché altri, nelle loro stesse condizioni, non
muoiono, ma scompaiono. I morti, nel sanatorio, sono la rimozione stessa di chi
ancora vive. È dentro questa rimozione che Hans ha necessità di scendere; solo
vivendo l’abisso di ciò che è occultato può conoscere la vertigine che gli
spalanca la doppia realtà della malattia. Non è un caso che dopo la “Danza
macabra” quell’esperienza finalmente avvenga nella “Notte di Valpurga”, con
riferimento a una tradizione dell’Europa del Nord nella quale si festeggiava la
Santa Valpurga, protettrice delle streghe e della magia.
Nel romanzo siamo nella sera del martedì grasso, è carnevale, e nel sanatorio si
entra in un’atmosfera di festa e di magia, tanto che Mann cita dei versi
del Faust di Goethe: «Ma pensate che il monte è pazzo di magia/, Oggi, e se un
fuoco fatuo vi indica la via/ Non dovete aver troppe pretese». Quasi che Mann
stesse avvertendo i suoi lettori di uno stravolgimento delle leggi della vita;
che il contesto che sta per raccontare non può seguire le stesse regole a cui
siamo abituati, e a cui sono abituati gli ospiti del sanatorio. Il primo segno
di questo stravolgimento è linguistico. Tra i malati è concesso, per via di
quella festa, per via della magia che stanno vivendo, di darsi del “tu” anziché
del consueto “lei”, quasi che le distanze, in virtù delle maschere che tutti
indossano, possano essere annullate. Annullate, s’intende, ancora con una forma
di occultamento, perché a parlarsi l’un l’altro non sono gli stessi individui
che ogni giorno si incontrano nella sala da pranzo o in quella da gioco, ma
appunto le maschere che ognuno di loro indossa.
È in virtù di quelle maschere che Hans riesce ad avvicinare, dopo sette mesi di
desiderio muto e palpitazioni, la donna che segretamente ama, la russa Clawdia
Chauchat, ospite del sanatorio già per la terza volta e in procinto di tornare
alle terre basse il giorno successivo alla festa. La stessa Clawdia che
annunciava la sua presenza nella sala mensa facendo sbattere la porta
d’ingresso. E non si tratta di un gesto, di un segno di poco conto.
Quell’incuranza era una rottura delle leggi del decoro e del buon comportamento.
Se Castorp odiava sentire sbattere le porte ora è costretto ad ammettere che
quel segno di rottura era una possibilità di liberazione e di abbandono; quasi
che solo accettando quella “crepa” nell’ordinario fosse possibile aprirsi a una
conoscenza più profonda.
Quando la ragazza entra nella sala, in quel mondo carnevalesco capovolto, la
cosa che Castorp nota sono prima di tutto le parti del corpo che il vestito
lascia scoperte:
> «La completa, accentuata e abbacinante nudità delle splendide membra di
> quell’organismo intossicato era un evento che si dimostrava assai più potente
> della trasfigurazione di allora, un’apparizione alla quale non si poteva
> reagire altrimenti che chinando il capo e ripetendo a mezza voce: “Dio
> mio!”».
È ancora il corpo a segnalare la malattia. Ma quell’«organismo intossicato»
questa volta non è una regressione alla materia ma un’apparizione. Il corpo
desiderato mette ora in evidenza l’abisso al quale Castorp è sottomesso.
> «Era pallido come un morto, pallido come allora, quando era giunto imbrattato
> di sangue alla conferenza, rientrando dalla sua solitaria passeggiata».
L’accostamento che Mann fa sullo stato di Castorp non è assolutamente casuale.
Non dice soltanto che Hans è «pallido come un morto», quasi volesse farlo
entrare in relazione con l’«organismo intossicato» di Clawdia, nella sua sfera
abissale, nella sua psiche, ma paragona quello stato a uno vissuto qualche tempo
prima, il giorno in cui, durante una passeggiata, comincia a sputare sangue.
Insomma, il giorno in cui deve ammettere a se stesso di essere anche lui, come
tutti, malato. Ma c’è altro. Il giorno di quella rivelazione, della rivelazione
della propria malattia, entrando con quel pallore di morte nella sala
conferenze, sente parlare per la prima volta il dottor Krokowski. Un’esposizione
pubblica che ha come tema l’amore e la malattia.
> «I due gruppi di forze, la spinta amorosa e gli impulsi a essa ostili – tra i
> quali vanno citati in particolare il pudore e il disgusto – si caratterizzano
> per una straordinaria intensità e passionalità che sopravanza la misura
> borghese consueta, e la lotta tra i due gruppi, condotta negli abissi della
> psiche, impedisce quella recinzione, protezione e incivilimento delle pulsioni
> devianti che conduce all’usuale armonia e alla vita amorosa conforme alla
> norma. Ma questo conflitto tra le forze della castità e quelle dell’amore – di
> questo infatti si tratta – come si conclude? In apparenza con la vittoria
> della castità. Timore, senso della decenza, pudibonda ripugnanza, trepidante
> bisogno di purezza hanno represso l’amore, lo hanno costretto nell’ombra, gli
> hanno permesso tutt’al più di affiorare parzialmente alla coscienza e
> all’atto, ma in una misura di gran lunga inferiore alla sua forza e
> complessità. Se non che questa vittoria della castità è solo apparente, è una
> vittoria di Pirro, perché l’imperio dell’amore non si lascia né imbavagliare
> né strattonare, l’amore represso non è morto, invece, e tenta, anche
> nell’ombra e nel segreto più profondo, di appagarsi, spezza la barriera della
> castità e riappare, seppure in forma mutata e irriconoscibile… E sotto quale
> forma, sotto quale maschera ricompare l’amore represso e inammissibile? […]
> Sotto forma di malattia. Il sintomo della malattia è attività amorosa
> camuffata e la malattia non è altro che amore trasformato».
La stessa Clawdia, ora che finalmente la malattia ha svelato il suo
travestimento, ora che, proprio perché il momento di magia ha calato entrambi in
una vertigine, in uno stato di sogno, la vita e la morte si toccano nell’abisso
della loro psiche, può rimproverare bonariamente Castorp di amare l’ordine più
della libertà. È qui che Castorp comincia a dialogare con l’amata in francese,
in una lingua che non è la sua, che conosce a malapena, ma se riesce a
utilizzarla è perché Mann vuole sottolineare che il contesto, quella festa in
maschera, è in realtà un sogno, che lo stesso Hans riconosce di vivere,
> «Devi sapere che per me è come un sogno stare qui seduto insieme a te… come un
> sogno particolarmente profondo».
Quella lingua a lui sconosciuta ma che pure lo fa esprimere liberamente è un
nuovo occultamento della verità, una nuova maschera; una maschera però che ha la
specifica funzione di farlo abbandonare:
> «Oh, l’amore non è niente se non è follia, se non è una cosa insensata,
> proibita, un’avventura del male […] Il corpo, l’amore, la morte, son tre cose
> che ne fanno una sola. Poiché il corpo, il corpo è malattia e voluttà, ed è
> lui che fa la morte, sì, sono entrambi carnali, l’amore e la morte, ed è
> questo il loro spavento e la loro grande magia! Ma la morte, capisci, è da un
> lato una faccenda malfamata e impudente che fa arrossire di vergogna;
> dall’altro, però, è una potenza quanto mai maestosa… assai più elevata della
> vita che se la ride guadagnando quattrini e riempendosi la pancia… assai più
> venerabile del progresso che da un tempo all’altro non fa che blaterare…
> perché la morte è la storia e la nobiltà e la pietà e l’eternità e il sacro
> che ci fa togliere il cappello e camminare in punta dei piedi… E comunque il
> corpo, anch’esso, e l’amore del corpo sono una cosa indecente e incresciosa, e
> il corpo sulla sua superficie arrossisce e impallidisce per imbarazzo e
> vergogna di se stesso. Ma al contempo è una gloria immensa, degna di essere
> adorata, immagine miracolosa della vita organica, sacra magnificenza della
> forma e della bellezza, e l’amore per lui, per il corpo umano, è altresì una
> inclinazione estremamente umanitaria e una potenza più capace di educare di
> tutta la pedagogia della terra!… Oh, incantevole bellezza organica che non è
> fatta né di pietra né di colori a olio, bensì di materia vivente e
> corruttibile, colma del segreto febbrile della vita e della decomposizione!».
C’è qualcosa che valga davvero di più, nella vita, dell’amare? Del perdersi,
sprofondare, vivere pienamente per quel sentimento sorgivo a cui non sappiamo
trovare un ordine concettuale che lo spieghi definitivamente? È come se Castorp,
con la lingua sconosciuta con la quale si esprime, con una lingua impossibile
perché non la conosce se non dentro lo spazio di un sogno, o di una visione,
volesse abbracciare la totalità della vita, accoglierne l’estasi e la ferita, la
felicità e la disperazione.
Castorp è talmente dentro l’abisso di sé, talmente dentro la sua malattia, da
non essere più nemmeno se stesso, o è totalmente se stesso proprio perché non sa
chi è, quale lingua parli, come fosse nato di nuovo in un corpo suo e altro,
come se l’altro corpo, la psiche di Clawdia, gli avesse dato un’altra vita, o la
sola vita che valesse la pena conoscere, in cui tutto è chiaro e oscuro al
contempo, tutto è vita e morte in un solo flusso, in una sola immagine. Castorp
è dentro la propria psiche e dentro quella di Clawdia, dentro la sua malattia e
dentro la malattia di lei. È un essere umano di carne e di spirito; un essere
umano che ora conosce tutto il male e tutto il bene. E, proprio perché malato,
proprio perché se stesso e altro da sé, è vivo e morto contemporaneamente.
Non deve stupire che Castorp, innamorandosi, anzi, esprimendo il suo amore,
somigli a una sorta di dio greco, un novello Dioniso. Del resto la cultura
pagana della classicità, tra Otto e Novecento, e proprio nel mondo germanofono,
era vissuta come un modello di interpretazione del presente. Si pensi alla
filosofia del Nietzsche nella Nascita della tragedia, o agli studi di Rodhe
sull’idea di aldilà nella Grecia antica, o a scrittori e poeti come Hofmannsthal
e Rilke, e ancora, ovviamente, alla psicanalisi di Freud. Il punto è che gli dèi
sono pur sempre archetipi con cui l’essere umano spiega o rappresenta le proprie
contraddizioni, le forze contrastanti che in lui agiscono. Mann aveva
interiorizzato la lezione di Nietzsche. Sapeva che nell’uomo convivono Apollineo
e Dionisiaco, che nell’uomo coabitano furia e ragione, buio e luce, istinto alla
vita e desiderio di morte, ed è per questo che nessuna vita è mai soddisfatta di
quello che ha; in ogni vita manca sempre qualcosa – si direbbe risieda in essa
un vuoto che non si colma, che non può colmarsi, e non c’è scelta, o cambiamento
che possa realmente risolvere questo errore d’esistenza, questo inciampo del
destino, e non c’è essere umano che non arrivi, nel mezzo della vita, a
osservare quella voragine, a calarsi dentro quel buio che lo riguarda, perdendo
l’orientamento e ogni punto di riferimento, perché in ognuno di noi convive una
molteplicità in conflitto, un io con cui ci sembra di essere più a nostro agio –
malgrado ci sfugga continuamente la ragione per cui ne proviamo anche paura, a
volte orrore – e un altro che tiene in piedi l’esistenza. Certo questo conflitto
ci destina a un inevitabile sentimento di solitudine. Ma è un sentimento da cui
nessuno riesce mai a fuggire, che a volte crea incomprensioni, distanze,
lacerazioni.
L’amore di Castorp per Clawdia non è un amore irrisolto, nel senso che non può
consumarsi, è piuttosto un amore impossibile, cioè vissuto totalmente dentro una
“crepa”, dentro il buio della malattia; un amore vero proprio nella sua
impossibilità, che si maschera perché la luce della conoscenza e della ragione
lo annienterebbero, come nel mito di Amore e Psiche, caduti nella tragedia per
violazione di un segreto, di un mistero che, svelandosi, ha perduto ogni potere
numinoso, trasformando un legame sacro in un sacrilegio, perché le cose divine
si rivelano restando taciute. Ma, dice il mito, è necessario perdersi, essere
disposti addirittura al sacrificio di sé affinché quell’amore sia sacro; sacro
proprio in virtù della sua natura di perdizione, di oscurità, di follia, di
morte.
Castorp alla distanza e alla separazione è destinato, perché Clawdia si
allontanerà dal sanatorio il giorno successivo a quel momento di follia divina.
Ma è come se quella maschera, quella lingua sconosciuta con cui Hans ha
pronunciato l’impronunciabile, gli avesse appunto dato modo di aprire una
finestra sul buio che lo abita, per questa ragione è pronto, ora, e proprio in
virtù dell’assenza dell’amata, a perdersi, finanche a morire. Lo testimonia quel
paragrafo cruciale nel sesto capitolo intitolato “Neve”, dove Hans compie un
gesto di insensatezza, ancora di follia, facendo in solitudine una gita in
montagna con gli sci. Ma presto un vento contrario mozza il respiro, la nebbia
cala sulla parete della montagna addensandosi tra gli alberi, non si distingue
più quale sia l’alto o il basso, la destra e la sinistra, e anche il tempo pare
si sia dilatato enormemente, pochi minuti sono un’eternità; sembra Hans stia
percorrendo davvero il regno dei morti o uno spazio di sogno, riconosce quanto
la natura sia terribile e nella sua autonomia totalmente priva di cortesia per
l’essere umano. I punti di orientamento si perdono mentre una tormenta di neve
lo sorprende. Si rifugia sotto la tettoia di una casa dentro cui non abita
nessuno, attaccato con la schiena alle pareti esterne della baita disabitata per
provare a difendersi da quella pioggia bianca che lo stordisce. L’inferno non è
caldo, è invece gelido. Castorp sta per morire, forse è morto davvero, come
Psiche quando scende tra i morti, quando solo nella morte trova una possibilità
di mettere termine al tormento che la devasta, esclusivamente nella morte
immagina di ritrovare la sola vita a cui attribuisce un senso, quella
dell’amore. Castorp si addormenta – sogna. Ora è in un luogo pieno di luce,
mediterraneo, tutto gli sembra meraviglioso, vede ragazzi giocare, una madre
allattare suo figlio, giovani donne danzare e suonare, e percepisce di essere un
estraneo in quel contesto, perché è tornato lì dove non era mai stato prima,
alle origini della civiltà. Ma l’atmosfera cambia improvvisamente. Quel mondo di
luce nasconde le sue brutalità. Arriva in un tempio, vi entra gonfio di
spavento, e si accorge che due donne dall’aspetto di streghe stanno compiendo un
sacrificio, dilaniano con le loro stesse mani il corpo di un bambino. Si sta
compiendo un vero e proprio rito. E il rito non è che un modo per accedere al
mistero del mondo, per evocarlo ed esserne partecipi, per rivelarlo continuando
a tacerlo.
Quando rinviene, Hans capisce che attraverso di lui l’anima del mondo sogna la
sua bellezza e la sua terribile oscenità, che proprio perdendosi è entrato in
contatto con lo spirito originario di tutte le cose, e che nel profondo della
propria crepa il bene e il male convivono, così come la pace e il sangue, che
l’istinto alla vita di ogni essere umano maschera qualcosa di delittuoso, la
terribile oscenità della morte. Eppure non è alla morte che l’essere umano
tende, pure partecipando, nel fondo di se stesso, alla sua oscenità. L’uomo,
pensa Castorp, è alla vita che dona il suo maggiore interesse, opponendo tutto
se stesso per respingere quel desiderio luttuoso che pure lo abita. Un desiderio
che però deve attraversare per sentire quanto il dominio dell’amore sia quella
forza capace di attraversare ogni rischio, capace di mettere in pericolo ogni
sostanza vitale. È in questo paradosso la “magia” del romanzo di Mann, che
scrive, ed è significativamente la sola frase interamente in corsivo di tutto il
libro, «In nome della bontà e dell’amore, l’uomo non deve concedere alla morte
il dominio dei suoi pensieri». Una frase che fa eco alla domanda con cui si
conclude il romanzo,
> «Forse che da questa sagra mondiale della morte, da questa voluttà smaniosa e
> maligna che incendia tutt’intorno il piovoso cielo della sera, potrà un giorno
> innalzarsi l’amore?».
Quando Hans Castorp, dopo sette lunghi anni, lascerà il sanatorio e la montagna
che lo ha accolto, che lo ha rivelato a se stesso, il mondo di “quelli di
laggiù” lo travolge vestendolo da soldato, perché nel frattempo è scoppiata la
grande guerra. Non sapremo, da questo momento, più nulla di Castorp, lo vedremo
appena avanzare in battaglia, una granata gli esplode davanti ma non lo uccide;
si rialza e continua a camminare, mentre assurdamente canta il Der Lindenbaum di
Schubert. I versi citati da Mann sono questi: «Nella corteccia incidevo/ tante
parole dolci […] E i suoi rami mormoravano/ come per dirmi…». Mann allude,
lascia in sospeso ciò che la composizione di Schubert esprime. C’è un tiglio
alla fonte dove chi scrive faceva «sogni d’oro». Quel tiglio, quella fonte, non
sono che il luogo dell’origine, quello da cui la morte ci allontana. «Il vento
freddo/ mi soffiava in faccia», dice la canzone, «mi volò il cappello dalla
testa;/ non mi voltai./ Ora, varie ore di cammino/ mi separano; e ancora lo
sento mormorare:/ là troverai la pace».
Hans Castorp, questo «riottoso figlio della vita», come lo aveva soprannominato
Settembrini, capisce, andando incontro alla malattia del mondo, alla follia
degli uomini che hanno lasciato che il dominio della morte prendesse il
sopravvento, che la vita è il tormento di questa distanza che ci separa dai
nostri «sogni d’oro», lì dove sarebbe possibile trovare «pace», dove si nasconde
il segreto di ciò che siamo, e che quello che non possiamo dire, il mistero
divino che si rivela tacendo, lo possiamo però cantare.
Andrea Caterini
*L’edizione consultata per la scrittura di questo saggio è: Thomas Mann, La
montagna magica, cura e introduzione di Luca Crescenzi, traduzione di Renata
Colorni, Mondadori, I Meridiani, 2011.
L'articolo “Siamo esseri del profondo abisso”. Saggio sulla “Montagna magica” di
Thomas Mann proviene da Pangea.
La poesia nasce in vetta – svettare è il metodo degli ispirati; è un modo di
voltare il collo, di rendere lo sguardo alle nevi.
…e il linguaggio torni ciò che è: neve, ululato di nubi, nebbie in gregge; il
fischio del rapace; i rami in amore marziale. Complica il linguaggio chi è
complice di questo infame semplificare. La parola non lega – scioglie,
sprigiona, libera.
Slega nodi – sega cordami. Ogni parola: giaguaro delle nevi.
In altura si inspira – a valle si espira, ci si esprime. L’altezza, a povertà
d’aria, non permette scrittura – si scrive soltanto a umana quota, da uomo a
uomo, di cose imparate e impari, di ciò che lassù si è visto.
*
La poesia giunge da Elicona, le “santissime vette”, i “vertici sommi”, in
Beozia, dove dimorano le Muse. Vetta di 1748 metri, montagna cucciola: la vera
altezza si misura in profondità.
Sull’Oreb – o Sinai che sia – Mosè incontra Dio. L’Oreb è “il monte di Dio”
(har-el helohim): poco più di un colle – l’attuale Har Karkom, misura 847 metri
–; Dio appare in forma di roveto che arde. La misura di Dio è diversa da quella
adottata dai geografi, agiografi delle rocce.
Mosè pascola capre e pecore; secoli dopo l’agnus dei, Cristo, accompagnerà i
discepoli – Pietro, Giacomo e Giovanni “suo fratello” – “su un alto monte” per
trasfigurarsi. Secondo la tradizione, il monte della trasfigurazione è il Tabor,
una collina che si eleva di cinquecento metri sul livello del mare. Ancora una
volta, altezza che si misura in profondità.
Grazie alla parola ottenuta da Dio sul monte, Mosè apre le acque.
Grazie alle parole scambiate con il Padre, il Figlio apre i cieli.
Grazie al logos succhiato dalle Muse, Orfeo scende negli inferi.
*
Il Ventoux asceso da Petrarca nel 1336 si trova a Vaucluse, in Provenza, misura
1910 metri. È un’ascesa laica, quella del poeta: eppure, ‘purgatoriale’. Giunto
in quota insieme al fratello, Petrarca apre a caso le Confessioni di Agostino, a
confinare il fato in provvidenza:
> “Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva
> capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che
> attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo
> chiamo con Dio e testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «E
> vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le
> ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e
> trascurano se stessi». Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che
> desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me
> stesso dell’ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da
> tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei dovuto imparare che niente è da
> ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di
> grande”.
Il monte non è Paradiso, ma Purgatorio: agisce come un battesimo, come acqua
battente. Suprema spoliazione – della mente, in scarsità di ossigeno; del corpo,
in ristrettezze d’energie – per gettarsi nel superiore.
Il monte: smontarsi di ogni aggettivo, lasciarsi sollevare.
Gettarsi, cioè: precipitare – spogliarsi, cioè: spezzarsi.
Il corpo va spezzato, l’opera va spezzata – così, per briciole, si cibano i
divezzi lettori.
*
Il canto di Orfeo dischiude gli Inferi: pur spalancati come un frutto, al poeta
non è permesso riportare in vita l’amata, Euridice. La vetta di Orfeo è il
canto: volgersi verso il monte Pangeo, per ammirare il sorgere di Apollo, lo
porta a morte. Dioniso, geloso, gli scaglia le sfreccianti Baccanti, le furiose,
che spezzano il corpo di Orfeo gettandolo nell’Evros. Il fiume, endecasillabo
del monte, suo azzurro poema. Soltanto fatta a pezzi la poesia s’invola, si
alza.
*
Non esiste poesia che non comporti ascesi: Rilke – il poeta orfico per
antonomasia – conclude la propria ascesi nel castelletto di Muzot, presso
Veyras, nel Canton Vallese, a poco più di 600 metri di altitudine. Dino Campana,
l’autore dei Canti Orfici, vagabondava per i monti, “giurando noi fede
all’azzurro” (così nella sezione che apre Immagini del viaggio e della
montagna):
> “Pare la donna che siede pallida giovine ancora
> Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
> Avanti a lei incerte si snodano le valli
> Verso le solitudini alte de gli orizzonti:
> La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
> E il semplice cuore provato negli anni
> A le melodie della terra
> Ascolta quieto: le note
> Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
> Da selve oscure il torrente
> Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
> Lambe ed involge aereo cilestrino…
> E il cuculo cola più lento due note velate
> Nel silenzio azzurrino”.
*
Montagna: luoghi di monaci e di briganti, di rifugi, di transfughi, di divinità
di confine – di eresiarchi e di anarchici. Imperiale è l’impervio. Così i poeti,
eletti al brigantaggio del linguaggio, al bracconaggio del verbo, a parola che
cede in gravità – che ha misura nel sovrumano silenzio.
Gli sciamani costruivano il proprio tamburo, a orientarsi nel viaggio celeste,
con pelli di bestie d’alta quota, esseri capaci d’involarsi nell’abisso – quasi
angeli.
Così, ogni scalata è santa, ogni parola è stilita, sospesa tra terra e cielo, a
capofitto.
Ci si eleva per abbassarsi, ci si innalza per scoprire la propria altissima
debolezza. Il fuoco è verticale perché divora le cose del mondo, perché
incenerisce – così l’uomo consuma per involarsi: ma la sua è cenere infeconda,
l’effimera del frutto.
Dunque: farsi parola per espiazione – per esplosione.
Anselm Kiefer, Voglio vedere le mie montagne – für Giovanni Segantini
*
Secondo l’astronomo francese Jean Jacques Dortous de Mairan, vissuto nel XVIII
secolo, dall’Olimpo, il mitico monte degli dèi, si ammirava, all’epoca dei Greci
antichi, l’aurora boreale, il poema celeste. Epopea di guerre stellari.
Lo stesso astronomo ha scritto un importante studio sui ghiacci, il luogo in cui
si sublima la montagna. I ghiacciai: lente fenici dei monti.
Il libro: ghiacciaio che si scioglie sotto gli occhi del lettore, per riformarsi
altrove, in altre conche, in altre calotte. La montagna non va vinta, ma
invitata – chi scala sa che esiste l’attimo in cui le gambe danzano.
Cosce da arciere, cosce da rapace.
*
C’è chi cammina come avesse endecasillabi nei polpacci, con un ritmo di
singolare eleganza. E chi marcia in novenari – oppure uniformando il proprio
andare all’oceanico verso di Walt Whitman, il gran vagabondo.
Altra fermezza: camminare restando fermi, come sulla tolda di una barca. Il
rifugio, ben più che una casa, è un cielo, come i cieli nel Paradiso di Dante.
Sempre, chi va, va masticando un voto – “Bisogna cristallizzarsi, costringersi
nel ritmo giusto… Bisogna entrare in un voto, indossare un voto”, scrive
Scipione nel 1932, ricoverato ad Arco di Trento, rivelato a se stesso dal male,
letale.
> “Tutto è stato mantenuto, ma io non posso godere dell’adempimento: ho fatto
> del tutto perché questo non avvenisse. Mi sono adoperato per precipitare”.
Si sale a precipizio – si ascende per precipitare.
*
La vertigine è cosa diversa dalla vetta: la poesia di Georg Trakl scritta a
Grodek, in Galizia, è vertiginosa.
> “A sera risuonano i boschi autunnali
> di mortali armi, e le pianure d’oro
> e i laghi azzurri dove sprofonda
> un cupo sole; la notte abbraccia
> guerrieri agonizzanti, il pianto selvaggio
> di bocche fracassate”.
Per i Greci il punto di vertigine è il mare in cui Ulisse vaga in sapienziale
pellegrinaggio; è Delfi, seicento metri sul mare, ai piedi del Parnaso, dove la
Pizia ulula – Apollo-Lupo – e sibila – Pizia-Pitone – parole inaudite,
d’incomprensibile vello; per i cristiani è la Croce, conficcata sul “monte
Calvario”, il Golgota, fuori le mura di Gerusalemme: è quella la vera ‘salita’,
la ‘scalata’. Il cristiano, per fede, smuove le montagne.
*
In Estremo Oriente il monaco-poeta si spinge tra baratri e barbarie, in desolati
luoghi: non ha meta, il suo monito è perdersi. Spopolarsi, questo è il carisma
della poesia di tali erranti monaci. Nessuna cima li alletta, nessun record,
nessun Polo: chi perde in profondità, compensa in statistiche, accumula cifre e
vette, come se la montagna fosse una bestia da macello.
Del più noto di questi poeti, Hanshan, “Montagna fredda”, vissuto, forse, nel
VII secolo, non sappiamo nulla. Anonimato, anemia del sé, annientarsi è ciò che
tenta il vagabondo nel suo nottivago andare: essere il fiore sul ciglio,
abbagliare per riservatezza – e a tratti, ridere di se stessi.
> “Contento della via semplice che ho scelto,
> tra nebbie e rampicanti e grotte nella roccia,
> senso di libertà nella natura selvaggia,
> le nuvole bianche in ozio per compagne,
> c’è la strada ma non raggiunge il mondo,
> solo chi ha assopito i pensieri può arrivare qui,
> siedo a notte da solo sul letto di pietra,
> la luna piena sulla Montagna Fredda”.
Gli eremiti conficcati nelle grotte del Ladakh, al di là del linguaggio, fanno
dell’Himalaya la loro grande arpa:
> “Non aver paura di meditare da solo in una grotta.
> Non aver paura di meditare da solo in una grotta, con pochissimo cibo, né di
> ammalarti.
> Non aver paura di meditare da solo in una grotta né di morire lì.
> Non aver paura di meditare da solo in una grotta, né di morire lì senza che
> nessuno conosca neppure il tuo nome”.
*
René Daumal scrive il suo trattato di mistica dell’alpinismo, Il Monte Analogo,
per “il principiante”. L’esperto ha già esperito: ma a noi preme inoltrarci nel
principio, nostro premio – principiare il principio.
Di fronte alla montagna si è sempre al principio; ascendere: rientrare nel
ventre. Ascendere: sfigurare dio.
“Ognuno faceva il suo inventario, e di giorno in giorno ognuno si sentiva più
povero, non vedendo niente intorno o dentro di sé che gli appartenesse
realmente”. La pratica comincia dalla povertà.
Alla massa preferire la comunità degli affini; al lavoro meccanico la creatività
individuale; all’ambizione la dedizione; alla delazione la devozione; allo
sciaguattare dell’io, lo scempio dell’io; alla classifica il fuori legge; al
rancore e all’invidia – eccitazioni metropolitane – l’ira, energia dinamica;
all’ego l’epos, all’ethos l’eros; al poetico, la poesia.
*
Emily Dickinson amava i vulcani; nel giardino di Amherst, 88 metri sul livello
del mare, scorgeva un Everest.
“…Ritrosa Montagna!
Porpore di Ere – sostano per te –
Il Tramonto – passa in rassegna il suo Reggimento di Zaffiro –
Il Giorno – fa cadere su di te il suo Rosso Addio!
Immobile – Ricoperta dalla tua Maglia di ghiacci –
Coscia di Granito – e muscolo – d’Acciaio –
Incurante – in egual misura – di pompa – o commiato”.
A misura dell’altezza d’amare, Emily – poesia 452 del suo intrepido canzoniere –
indossa il Chimborazo, titanica vetta dell’Ecuador, scalata qualche decennio
prima da Alexander von Humboldt, “il punto più distante dal centro della Terra”,
i cancelli del cielo.
> “Amore – tu sei alto –
> Non posso scalarti –
> Ma, si fosse in Due –
> Chissà che noi –
> Alternandoci – al Chimborazo –
> Ducali – alla fine – non si arrivi a starti accanto –”
*
A simile altitudine è educato chi va per deserti, ancestrali montagne
sbriciolate, fatte sabbia. Duna, demonio del vento, mio indovino, indovinami.
Sahara, che un tempo fosti Everest…
*
In montagna: code di umani come al supermercato. Se la montagna
diventa accessibile, che ne è delle forze che la abitano, dell’eco che sconfigge
ogni tentativo di io, di mio?
“Ho la sensazione di aver conosciuto un miracolo, e forse non avrei potuto
vederlo questo miracolo se la sua scomparsa non ne facesse parte”, ha scritto il
poeta svizzero Maurice Chappaz. Ai suoi occhi, il Vallese era apparentato al
Tibet, “Si entra nell’Eternità senza accorgersene”. Ai suoi occhi, i morti “e il
loro infimo lampo azzurro”, sgattaiolavano dai ghiacciai: “i loro passi come
singhiozzi”.
Di questo attracco all’altro mondo, ora, cosa resta?
Via i morti, architravi del ghiacciaio, e tutto si smonta in palude.
*
Voglio vedere le mie montagne, sussurrava Segantini, morendo – le montagne, con
dote di dieci ali, già lo stavano sollevando. Altezza, in questo caso, è un modo
di accarezzare.
Svettare, cioè: abbassarsi per caricare in spalla chi ha libellule gambe.
*In copertina: Leonardo Roda, Il Cervino, parete Nord
L'articolo Svettare: per una poetica della montagna proviene da Pangea.
Reco questo incommensurabile peso destinale. Le parole sono solo ombre scialbate
per assenza di sole. Piccoli detriti. Testimoni pulsanti di febbre di dire
seppure in catene. Dove conduce celebrare la vita in un mondo che la revoca?
Vedo feretri di morali secolari. Vedo il pensiero politico dettare agende infami
di guerre pilotate da potentati economici che depauperano midollo di innumeri
vite sempre più indistinguibili, sempre meno distintive, e un controllo
paranoide, ormai orizzontale, di gente su gente che ormai concorre al lavoro
sordido cui un tempo era deputato il Sistema.
La poesia? Niente di numinoso: non è oracolo, ma pioggia fina su terra
rovente. Prende la forma e la direzione che può, come un liquido negli
interstizi.
Dal mio canto soggiorno nell’attesa, attendo che cada la scure di un nuovo
giorno.
Niente avviene davvero se non è asseverato da giornalisti sciacalli, opinionisti
proteiformi che argomentano per procura, e gregari prezzolati del potere,
tecnici acefali, operatori fideisti di un credo protocollare.
Meglio una malerba culturale di questi dettati d’assortiti compendi avvalorati
dall’idiozia mediatica e da diegetiche apocrife ma funzionali a un Potere ormai
senza freni, accentratore e vessatorio, litico e protervamente impositivo.
Non posso che onorare un raggio minimo di pensiero e azione, ma non dire tutto
fino in fondo, laddove regnano caos e dolore, là dove la vita si fa inferno
d’ossa e stelle – non di un mentre, non di una stagione, non di una vita:
siderale abiura all’uomo!
Non depongo le mie armi bianche, a mio modo votato a delineare uno schema,
offrire una visuale, farmi interprete più intransigente di un tempo.
Le vene del mondo sono secche ma versano ancora sangue a fiotti e grumi: è una
questione di confini, è sempre stata una questione di confini: tra un culto e
l’altro, tra un’ideologia e le sue controparti; tra una pratica di vita, una
cultura, un vessillo e tutto ciò che ritengono nemico.
La spina di chi riceve ordini è infetta ed è la sola testimonianza che sotto la
pelle dell’ordinario, ben confitta, detta malattia di usi e adempimenti senza
deroga, senza dubbio, senza indugio.
Sono stanco un abisso, sono solo oltre ogni solitudine nota. Mi dirigo a passo
lento, verso una rapida condanna. Il resto non si spiega, il resto lo tengo
dentro e sfiora solo, di sguincio, ciò che consegno a chi vorrà raccoglierlo.
Piccoli detriti di una risacca pigra d’odore acuto.
Le vene del mondo sono secche: ma allora da dove esce questa emorragia, questo
profluvio di sacrifici per falsi dei? Non additate nessuna nomenclatura
politica, essa è solo un paramento del potere recondito: e c’è chi le detta voce
e azione. E noi persi nei fatti del giorno, con meno inchiostro ma con più
arroganza, con meno contezza ma ben desti nel puntare l’indice.
Per mio conto metto assieme dettagli e indizi, piccole e grandi correnti di
maree, e ciò che mi si palesa va ben oltre l’umano. Non sono i mezzi – fionda o
ordigno, non cambia niente –, è la natura stessa del potere a essere mutata nel
genoma di ciò è detto “accadere” ma è programmaticamente alieno a una
comprensione media dei grandi numeri.
Le nostre vite sono già cifre e calcolo esatto, le nuvole, i fiumi, i deserti, i
monti, il mare, le stelle, ciò che più è sterminato è divenuto calcolo e merce
da baratto in mano a dei nani: piccoli affaristi dell’universo conosciuto. A
loro va il mio disprezzo anche se so che lo pagherò caro.
Ricordate di non interpretare i fatti del giorno, ma dove metteranno nella più
barbara e sterile crudeltà che oggi non è detta ma già corre avanti e descrive
secoli, millenni, di identità violate.
Siamo appena a cruna e filo, mentre l’ordito è già compiuto. Reco questo
incommensurabile peso destinale. Fatto fui a dire, quando il senso e la
direzione sono ineffabili o non creduti.
Massimo Triolo
*In copertina e nel testo: fotografie e schizzi di Medardo Rosso (1858-1928)
L'articolo “Là dove la vita si fa inferno d’ossa e stelle” proviene da Pangea.
Di scienza, Rainer Maria Rilke parlò sia con Rudolf Kassner che con Paul Valéry.
Questi ultimi coltivarono un interesse profondo verso le rivoluzionarie teorie
comparse agli albori del ventesimo secolo. Relatività e meccanica quantistica,
dunque, pervennero al poeta nella forma di dialoghi evaporati nel tempo. Sul
livello di comprensione che ne ebbe, l’unica testimonianza diretta – quella di
Kassner – restituisce un responso severo:
> “non capì nulla degli aspetti concreti e del tutto discutibili della teoria di
> Einstein più di quanto non capissero la maggior parte dei lettori di giornali,
> riviste e opuscoli all’inizio degli anni Venti”.
Aggiunge poi, a conclusione di una serie di incontri:
> “Lo vidi per l’ultima volta per tre giorni; sicuramente la conversazione si
> rivolse anche alla teoria della relatività, e sicuramente mi sarei accorto se
> avesse fatto un’affermazione che tradisse qualcosa di più della semplice
> curiosità per qualcosa di curioso”.
Ma si lascia sfuggire, in ultimo, un:
> “solo che guardava l’incomprensibile con il suo occhio di poeta plastico.
> […]”.
Appesa a quella timida dubitazione, che cede il passo ad una remota ipotesi
contraria, sta il mistero della prova smarrita dalla storia. Bisogna, allora,
aprire un varco alle parole che, come gocce di pioggia, cadono dallo sconfinato
cielo della sua poesia e dei suoi epistolari. Lì, dove precipitano ed increspano
le pozzanghere delle nostre coscienze, un’introiezione profonda emerge e pare
replicare, nel verbo, le regole delle fisiche cui obbediscono l’infinitamente
grande e l’infinitamente piccolo. Non una mera somiglianza metaforica, ma
un’identità di strutture di base essenziali, che siritrovano in una insperata
unità d’intendimento.
*
Il 22 febbraio 1923, rivolgendosi a Ilse Jahr, Rilke scrive:
> “c’è un’incredibile discrezione tra noi, e dove un tempo era vicinanza e
> penetrazione, ora si tendono nuove distanze, come nell’atomo, che la nuova
> scienza anche comprende come un universo in piccolo. L’afferrabile se ne va,
> si trasforma, invece del possesso s’impara la relazione, e nasce un’anonimità,
> che deve cominciare a sua volta da Dio, per essere perfetta e senza scampo”.
Arcane consapevolezze rimuginano come
> “‘il moto continuo’ che accade spontaneamente e dappertutto, in ‘ogni vuoto’…
> attivo ‘centro di forze’ […]; la vivente forza del divenire è imperitura, è
> l’incomprensibile madre. L’incomprensibile madre è radice del tutto; tessendo
> continuamente non ha bisogno di impulso”.
Una concezione moderna, coerente con le più recenti teorie sulla nascita
dell’universo filtra, qui, e parla di origini tratte dalla perturbazione interna
di un vuoto-pieno, più che da una deflagrazione soprannaturale.
Prospettive avvedute dei fenomeni scientifici e delle loro componenti elementali
echeggiano nei versi della poesia Gong:
> “Risonanza, non più con l’udito
> misurabile. Come fosse il suono
> che tutt’intorno ci trascende
> una maturità dello spazio”
Risonanza – è campo perenne di forze interagenti e confliggenti, muro di suoni e
silenzi, nota e pausa di uno spartito, alternanza di vita e di morte che, in
perpetuo moto, genera mondo e lo precipita nel vuoto. Risonanza è – movimento
interiore, “suono della campana dell’essere”, spazio “vibrante”, in questa
vivida rappresentazione.
“Maturità dello spazio” – è pienezza della percezione, sforzo giunto a
compimento, pretesa di astrazione, che infine approda alla completa
comprensione. Ogni parola disloca la poesia nell’alveo della scienza e lì,
annullate le distanze tra fenomeno fisico e spirituale, si sperimenta una
prodigiosa unità animata da meccaniche gemelle.
*
Ancor più nella prosa, Rilke sorprende per ricchezza di messaggi. Paradigmatica
è l’elaborazione dell’immagine-suono, di cui fa esperienza in Egitto, al
cospetto della grande Sfinge. La racconta in una memorabile lettera scritta il
primo febbraio 1914 alla musicista Madga von Hattingberg:
> “…Quante volte, già, avevo tentato di cogliere quella vasta guancia in tutti i
> suoi dettagli: si arrotondava in alto con tanta lentezza, come se in quel
> luogo ci fosse spazio per più punti che quaggiù […] nella più grande pienezza
> del sentire, feci esperienza della sua rotondità. Solo un istante dopo
> compresi che cosa fosse accaduto. Pensi: dietro la sporgenza del copricapo
> regale, sulla testa della Sfinge, si era alzata in volo una Civetta e lenta,
> indescrivibilmente udibile nella pura profondità della notte, aveva sfiorato
> il volto col suo morbido volo; e in quel momento, nel mio udito, divenuto
> perfettamente chiaro per il lungo silenzio della notte, si era inciso, come
> per miracolo, il profilo della guancia”.
Dove “una costellazione e un Dio indugiavano (n.d.a.: da secoli immemori)
silenziosamente l’una di fronte all’altro”, si consuma l’involontario amplesso
tra fisica e letteratura. Nel silenzio e nell’immobilità di quel luogo della
mente, una perturbazione, un fattore chiarificante si palesa e perfeziona la
comprensione del contesto: la Civetta. Stupisce, ancora, l’assoluto
allineamento tra la realtà – che esiste e si manifesta quando viene osservata,
stimolata, messa alla prova, verificata – e la parola che fa esistere le cose
perché di esse se ne dice. Di questi poteri e potenze del verbo la vita stessa
di Rilke è dogma incarnato.
L’immagine-suono, che in se stessa sfugge alla fisicità dei cinque sensi –
invocandone un sesto – è trasposizione poetica dell’esperienza attonita che
l’uomo fa quando incontra, per la prima volta, la relatività einsteniana e la
meccanica quantistica; esse stesse invocano quarte e ulteriori dimensioni alle
tre a noi note: essenze non sperimentabili, di cui è concesso scoprire la misura
e la forma solo quando sono interrogate dagli eventi.
*
Le fotografie che l’universo proietta nei nostri occhi attraverso i telescopi
sono scatti, frammenti perduti e sparpagliati dappertutto. Osservandoli, consci
che il loro tempo è ormai annichilito – e pure vivo – assistiamo ad un eterno
nostro essere, contemporaneamente ovunque. La figura mistica dell’Angelo
rilkiano pare vivere in noi in omologo rapporto: una monade che scruta ogni cosa
con “sguardo laterale”, in cui tutto esiste e permane simultaneamente, a
dispetto di un tempo che svanisce quando perde la caratteristica principale che
ha per noi: il potere di scandire il prima, l’adesso e il dopo; l’essere e il
non essere; la morte e la vita.
Rainer Maria Rilke e Paul Valéry, 13 settembre 1926
*
La professione di fede che Rilke fa verso i traguardi della scienza viene a
galla – cristallina – nella lettera a von Hulewicz del 13 novembre 1925:
> “Tutti i mondi dell’universo precipitano nell’invisibile, nella realtà più
> profonda che abbiano accanto; alcune stelle si potenziano immediatamente e si
> spengono nell’infinita coscienza degli angeli; altre devono affidarsi ad
> esseri che le trasformano con lentezza e fatica, nei cui terrori ed estasi
> esse raggiungono la loro prossima invisibile realizzazione”.
Un superiore intendimento poetico lo attraversa quando dice che
> “La caducità precipita ovunque in un essere profondo; e così, tutte le
> figurazioni di ciò che è non vanno usate soltanto entro i confini temporali,
> ma, per quanto possiamo, sono da inserire in quelle superiori significazioni
> di cui partecipiamo”.
La coscienza della prevalente invisibilità del tutto traspare in controluce e fa
intuire ulteriori consapevolezze:
> “Le Elegie mostrano noi intenti a quest’opera, all’opera in queste incessanti
> trasposizioni dell’amato visibile e tangibile nell’invisibile vibrazione ed
> eccitamento della nostra natura, che introduce nuove cifre di vibrazione nelle
> sfere di vibrazione dell’universo. (Siccome le diverse materie dell’universo
> non sono che diversi esponenti di vibrazione, noi prepariamo in questo modo
> non soltanto intensità di natura spirituale, ma chissà, nuovi corpi, metalli,
> nebulose e costellazioni). E questa attività viene singolarmente sostenuta e
> spinta dal sempre più rapido sparire di tante cose visibili che non verranno
> sostituite”.
*
L’accesso all’infinitamente piccolo avviene con la stessa avidità poetica
mostrata verso l’infinitamente grande. Accade nel vertice del suo pensiero, nel
luogo di confine tra i due mondi, dove occhio di vivo e occhio di morto
osservano le cose che sono “l’una all’altra nascoste”.
Il linguaggio, che deve dare voce ad entrambi i punti di
osservazione, contemporaneamente, cela un intreccio che mostra più di una vaga
somiglianza con la complementarità e l’entanglement quantistico.
È nella Quinta Elegia, dove si incontrano i saltimbanchi parigini del Père
Rollin, che il poeta articola plasticamente il mistero di quella prodigiosa
meccanica:
> “Ma chi sono, dimmi, questi girovaghi;
> Ma dove, oh, dove è quel posto – io lo porto nel cuore –
> dov’erano ancora tanto lontani dal farcela
> dove ancora cadevano l’uno dall’altro”.
Il dove – luogo metafisico in cui accade un evento indicibile è il passaggio
dal puro troppo poco del non essere ancora in grado, al vuoto troppo dell’essere
in grado; e pare riguardare necessariamente ciò che, come vale per le
particelle, dispone le parti di un sistema in modo che le loro qualità siano
rilevabili solo singolarmente e mai tutte insieme.
La metà delle cose che si volge all’occhio del vivo è la prima – quella che può
(solo) notare l’assenza o la presenza dell’abilità secondo una logica causale e
temporale, mentre il quid che definisce la dote ora acquisita è visibile (solo)
ad un occhio dotato di “desertica lucidità”.
Se Einstein incarna l’immagine dello scienziato capace di sfatare i dogmi e
porre l’uomo in una definitiva ottica di probabilità – e mai di certezza – Rilke
ne rappresenta il corrispettivo letterario. A noi, fortunati beneficiari di
insperate consapevolezze, la presa d’atto che “a cavallo di un raggio di luce”,
entrambi avrebbero potuto apporre la firma a questo pensiero:
> “Noi, che siamo qui e oggi, non siamo appagati neppure per un istante nel
> mondo del tempo, né a esso legati. Trapassiamo senza sosta, trapassiamo verso
> gli avi, verso la nostra origine e verso coloro che in apparenza vengono dopo
> di noi. In tale mondo immenso e ‘aperto’ tutti sono, non si può dire
> ‘contemporaneamente’, perché è appunto il venir meno del tempo che fa sì che
> tutti siano”.
Riccardo Peratoner
L'articolo Rilke incontra Einstein. Ovvero: le “Elegie duinesi” e la teoria
della relatività proviene da Pangea.
Temi il folle: egli non farà né ciò che si conviene né ciò che conviene.
Temilo perché è folle. E non gli estorcerai niente, di ciò su cui far leva è
ragionevole, e vigliaccamente, secondo ragione, ricattare. Sarai capace di
avvicinarlo solo nello stigma e nel timore.
Egli non si redime né può, né ha da servirgli d’esser redento: e questo lo rende
un Dio, al tuo confronto.
Dove tu indugi, sarà tiranno, farà strame e macello. Dove tu tiri dritto,
indugerà con gusto e letizia, e gentilezze squisite che non puoi né devi
conoscere – inusitate e imprevedibili.
Deliberatamente carezzerà il nemico, fuori d’ogni ragione utile, e trafiggerà
chi gli sorride tendendogli la mano; ma potrebbe anche arrivare a torturare il
suo torturatore, e il nemico far soccombere, fra sangue e guano, e senza una
ragione, ancora, che tu comprenda o possa al modo suo.
Il suo genio è nudo, lo si sa, non ha strade segnate e avversa l’idea stessa di
direzione. Alle pesanti palpebre della stagnazione, preferisce la follia
esagitata del propugnare uscite dal solco. Delira, lo si sa, aggiunge all’ovvio
più tondo logiche dispari e grappi di stelle acuminate. Siderali distanze lo
separano dall’ordinario elevato a regola, è dissipatore d’anima e ingegno.
Abbiate timore della sua bestiale, innocente virtù, perché porta tempesta dove
non si alzerebbe un solo vento; perché depone doni e profferte all’altare della
dissidenza più sistematica. Il suo pensiero coopta spesso Ockham, ma di gioco
ridonda, sempre, e sperimentante bellezza. Il suo eccedere cuce in segreto le
ferite senza voce del mondo, ma è anche la benedizione del bastante. Egli onora
luoghi e parti di sé che i più ignorano o misconoscono, e sa che il suo
linguaggio è enigma insolubile presso chi esibisce una povera grammatica prona
alle leggi del verosimile e ai suoi regni filistei. L’audacia del suo fuoco è
fulgida e sbilenca, divora parole cortigiane come smesse pelli, condanna ogni
autismo intellettuale e morale, prende campo in una eterna battaglia per tenere
in vita parti del mondo che altrimenti morirebbero in serie senza un lamento.
Ha presumibilmente conosciuto anguste corsie, di perdita di sé e estorsione di
ciò che essere non voleva, e che strozzavano vista e cuore, cucivano il giorno e
la notte in un’uguale trama di protratta anestesia. Ha conosciuto la guarigione
come ricatto e la libertà gabellata per necessità di guarigione. Egli è
guerriero, guerriero della mente e amico della mano sinistra. Innalza la
bellezza al di sopra del suo stato bruto di vento tagliente e nuda terra, e la
pone nel calice di un fiore muto.
Strappa all’assenza un barlume di presenza, una traccia, qualcosa che aggira
l’ovvio e descrive cerchi soavi di farfalla. Lotta contro i suoi stessi sogni,
che ha visto mutare in incubi di piombo e cristallo, magma e tempesta – profondo
come una galassia, temprato e destro al soffrire… Disperatamente fuori dal
cerchio di luce del domato fuoco d’ogni civiltà.
Temilo perché senza essere a modo tuo, egli è in sé, e più che te od altro.
Temilo perché non fa ciò che serve, perché è un mostro e un Dio, in salute della
sua malattia, che veleni morali non sa: tutti gli elementi in lui coesistono e
sono, senza prevalere l’uno sull’altro, secondo ragione, che non sia natura alla
natura sparsa, come lava nella lava.
Temilo perché non potrai piegarlo avvicinandolo a te, perché non potrai
ricattarlo – benedizioni o maledizioni non conoscendo, che inflitte siano, o da
chicchessia ammannite.
Egli è sempre distante oceani e stelle, egli è dove tu paventi e non comprendi:
nel suo male e nel suo bene, ontico e ontologico assieme. Per questo né si salva
né salvezza concepisce, e la sua colpa sempre, è originaria, i suoi fini
terrifici e netti – che son l’una cosa e l’altra senza giustificazioni.
Temilo perché lo torturasti proprio come un folle, quando violento non fu né
esser voleva, e lo blandisti spremendo altra violenza, per paura della sua
violenza, dalle nutrite tette della sua anima superiore.
Temilo perché inventasti tu la colpa e la cura, e mai sapesti andare oltre il
delitto dell’una nell’altra. Temilo perché Napoleone e Hitler furono e sono
colpevoli, e non folli abbastanza, e della stessa tua colpa che abbisogna d’un
concetto in soccorso all’inerzia del suo macchinico sfacelo, ma mai fuori da
essa, se non per “pruderia” morale dell’inconcepibile.
Temilo perché ottimizzare il delitto a scopi ritenuti superiori, è cosa tua e
non sua.
Temilo, perché, al fine, la libertà non potrà essere né merce né privilegio
desunto – nel bene e nel male. Temilo in entrambe, dunque.
Massimo Triolo
*Nell’articolo: opere di Johann Heinrich Füssli (1741-1825)
L'articolo “Dove tu indugi, sarà tiranno”. Ritratto del folle proviene da
Pangea.
Nel 1937, Simone Weil trascorse due giorni ad Assisi: “Mentre mi trovavo da sola
nella piccola cappella romanica del XII secolo all’interno di Santa Maria degli
Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove san Francesco ha pregato tanto
spesso, per la prima volta nella mia vita qualcosa più forte di me mi ha
obbligata a mettermi in ginocchio”.
Questa è l’esperienza di Simone nella Porziuncola, quella piccola chiesetta di
pietra che si trova all’interno della maestosa Santa Maria degli Angeli. Un
luogo di pellegrinaggio e preghiera che recentemente ho voluto visitare anch’io
proprio per capire l’esperienza della Weil.
> “Ad Assisi sono completamente scomparsi dalla mia memoria Milano, Firenze,
> Roma e tutto il resto, tanto sono stata affascinata dalle campagne così dolci,
> così miracolosamente evangeliche e francescane, dalle chiese così incantevoli,
> da tanti ricordi felici e da quei nobili esemplari della specie umana che sono
> i contadini umbri, una razza ricca di bellezza, di vigore fisico, di gioia, di
> dolcezza. Non avevo mai sognato un paese così meraviglioso”.
Simone Weil la filosofa, la mistica, l’anarchica, l’operaia per scelta, la non
più ebrea, la malata, la donna che scelse l’adesione alla miseria per
avvicinarsi a Dio, che capì presto quanto fosse necessario fare “vuoto” per fare
spazio a Lui, negare se stessi, ammettere che l’universo è assolutamente privo
di finalità e che in questa assenza sta l’essenza del mondo, la bellezza pura, e
che per non cedere alle passioni è necessario esercitare l’attenzione, la
responsabilità, portare il corpo alla disintegrazione.
> “Ad esempio, mi sono sempre proibita di pensare al futuro, ma ho sempre
> creduto che il momento della morte sia la norma e la meta della vita. Pensavo
> che per coloro i quali vivono come si conviene sia l’istante in cui, per una
> frazione infinitesimale di tempo, la verità pura, nuda, certa, eterna penetra
> nell’anima. Posso dire di non aver mai desiderato per me alcun altro bene”.
L’ascesi come fortificazione e non come mortificazione. Proprio ciò che scelse
di fare Simone anche in punto di morte: portare la propria croce. In preda a una
tubercolosi, poco più che trentenne, si lasciò anche morire di fame: “Trovo
conforto soltanto nel ricordo delle voluttà sia spirituali sia fisiche che
sorgono durante la sofferenza fisica. Sono brevissime, e tuttavia di una tale
intensità da equivalere a un lungo benessere. Lo so per esperienza, e suppongo
che sia così per tutti”.
Perché la malattia offre la condizione ideale per l’ascesi e per raggiungere
Dio. Per scorgerlo bisogna sottrarsi al mondo.
Per riuscire a vedere è necessario essere consapevoli. L’attenzione è la più
alta forma di preghiera. Scriveva Simone Weil nel suo Attesa di Dio:
> “L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in sé stessi, così come si
> inspira e si espira. Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono
> infinitamente più di tre ore d’applicazione con la fronte corrugata, che fanno
> dire, con la sensazione di aver fatto il proprio dovere: «Ho lavorato sodo».”.
Attenzione come sospensione del proprio pensiero, come possibilità di lasciarlo
andare, renderlo disponibile, vuoto, in attesa, senza nulla da cercare, pronti
ad accogliere la nuda verità dell’oggetto che sta per penetrarvi.
Weil recitava il Pater ogni mattina come una vera e propria pratica di
meditazione, una pratica del verificare, un sacramento, una veglia: “Se mentre
lo recito la mia attenzione divaga o si assopisce, anche solo in misura
infinitesimale, ricomincio daccapo fino a che non abbia ottenuto per una volta
un’attenzione assolutamente pura”.
Simone considerava Meister Eckhart un autentico amico di Dio che diceva e
scriveva parole udite nel segreto e nel silenzio anche quando queste non
concordavano con l’insegnamento della Chiesa, consapevole che il linguaggio
della pubblica piazza non può essere come quello della camera nuziale.
Anche lei “andava stretta” alla Chiesa. Era una che ripudiava le Crociate e
l’Inquisizione, che non aveva bisogno d’intermediari per sentire Dio, i cui
figli dovrebbero avere come unica patria l’universo: “Le cose meno vaste
dell’universo, nel novero delle quali è la Chiesa, impongono obblighi che
possono essere molto estesi, ma fra i quali non c’è quello di amare”.
Per Simone nelle parole “sia fatta la tua volontà”, c’era già ogni cosa, perché
se pronunciate con tutta l’anima, implicavano la totale accettazione della
volontà divina:
> “Bisogna quindi amare assolutamente tutto, nell’insieme e in ogni dettaglio,
> compreso il male sotto qualsiasi forma, e in particolare i peccati commessi,
> posto che siano trascorsi (mentre bisogna odiarli se la loro radice persiste),
> le proprie sofferenze passate, presenti e future, e – di gran lunga la cosa
> più difficile – le sofferenze altrui, posto che non si sia chiamati ad
> alleviarle. In altre parole, bisogna sentire la realtà e la presenza di Dio
> attraverso tutte le cose esteriori senza eccezioni, con la stessa chiarezza
> con cui la mano avverte la consistenza della carta attraverso il portapenne e
> la penna”.
Viviamo nell’attesa di compensare le nostre mancanze, i nostri vuoti, in balìa
delle circostanze, sperando sempre in qualcosa di meglio, che le cose
cambieranno, miglioreranno, e che la permanenza della nostra personalità
perduri, ma Weil ci ricorda che la paura dell’imminenza della morte è legata
soprattutto a questo: non avremo tempo, non è mai stato questo il senso, tali
compensazioni non arriveranno mai: “L’umiltà consiste nel sapere che in questo
mondo tutta l’anima – non solo il cosiddetto io, nella sua totalità, ma anche la
parte soprannaturale, ovvero sia Dio in essa presente – è sottomessa al tempo e
alle vicissitudini del mutamento”. La parte mediocre del nostro io non teme la
fatica e la sofferenza, teme soltanto di essere uccisa.
Le fede consiste nella “visione delle cose invisibili”, come diceva San Paolo.
Non c’è mai nulla da cercare, la salvezza opera nella mancanza di attività. È
Dio che cerca l’uomo, non il contrario.
> “Se Dio, dopo una lunga attesa, lascia vagamente intravedere la sua luce
> oppure si rivela in persona, è soltanto per un istante. Poi bisogna rimanere
> di nuovo immobili e attenti, aspettare senza muoversi, chiamando solo quando
> il desiderio è troppo forte”.
La necessità cieca è l’unica strada per accorciare la distanza e avvicinarsi, e
amare la propria Croce.
> “L’anima è là dove si intersecano la creazione e il Creatore. Quel punto
> d’intersezione è il punto d’incrocio dei bracci della Croce”.
L’unica vera parola di Dio è il silenzio.
E dopo aver letto e amato la Weil e il suo Attesa di Dio, eccomi partire per il
mio viaggio, e scoprire che si arriva ad Assisi come osservatori. Si guardano
gli altri compiere riti, gesti scaramantici, cedere a superstizioni, intrecciare
mani in preghiera o lasciare che tocchino statue, altari, pietre, tombe di
cadaveri mummificati. Mani che scrivono, che asciugano lacrime che sgorgano da
occhi in preda all’estasi.
E poi quel richiamo continuo, necessario e imprescindibile, al silenzio che
aleggia in tutta la città, in ogni chiesa, in ogni giardino, dai cartelli o dai
microfoni.
Si guardano, si osservano e si giudicano gli altri, ma poi si finisce noi stessi
in lacrime sotto al peso della stanchezza della vita nella sublime basilica di
San Francesco, sentendo forte e chiara la propria piccolezza, ma non
l’inutilità.
Si sente la sofferenza sgorgare dall’acqua salata, e quanto solo l’amore conti,
e quanto coraggio e forza questo richieda, quanto impegno, che sia amore per Dio
o per la persona che si ha accanto.
Nella Porziuncola ho sperimentato io stessa l’importanza dell’inginocchiarsi per
testare la scomodità e la vividezza del dolore, ascoltando la messa, recitando:
Padre Nostro “che sei nel segreto”.
Il distacco da sé come riflesso di Dio.
Il legno, le ginocchia e le anime che scricchiolano.
Il tempo che cessa di esistere.
Gli uomini più vigorosi e gli storpi che tornano a essere uguali.
L’ordine che regna sovrano nel silenzio del crepuscolo.
La pietra che protegge.
Il piccolo che si fa grande.
Il fremito della malattia.
I cuori spezzati.
Le ferite che s’innalzano sopra al capo di ogni uomo e che splendono di
fervore.
Le preghiere sussurrate.
L’attesa come stato di grazia.
Continuare ad amare anche nella sventura.
Il bisogno disperato di farsi perdonare e di perdonare.
Gli errori pagati cari.
Il dono di chi crede e la speranza di chi dubita.
L’immenso divenire.
La patria dell’eterno momento presente.
Il timore della morte che cela nostalgia di casa.
Un viaggio ad Assisi si può trasformare da attesa a incontro con Dio.
Dejanira Bada
L'articolo “Bisogna quindi amare assolutamente tutto”. Ad Assisi, con Simone
Weil proviene da Pangea.
Mi rivolgo a te con parole come carezze di cardo, facendo delle mie spine un
lambire delicato, senza bardature morali, infine, e armamentari retorici.
Hai veduto, credo, quanta poca virtù alligni nella forza di chi mostra sicumera,
e quanta sapienza virtuosa in quella più dimessa di chi sorregge grandi pesi
senza farne mostra o parola.
Trovo sempre più vasto lo sguardo di chi guarda al mondo con cuore semplice, e
di semplici, buone cose si nutre con la gioia manifesta di un bimbo che riceve
qualcosa in dono. Sia il mondo di coloro i cui sogni non poggiano solo su di un
guanciale. La mia parola, vedi, è ben umile cosa: artigianato e non arte –
sebbene le due cose non fossero così distanti tra loro nell’epoca fiorente delle
botteghe.
Non sono solito far tuonare la parola contro coloro che peccano, e so bene che
se esiste un Dio non si volge all’umana fallacia come se dovesse compilare un
libro mastro delle qualità e dei difetti. Faccio tuonare la parola, piuttosto,
contro coloro che non solo pianificano scientemente il male ma sono per
soprammercato incapaci di concepire il bene. Dio, però, e preferisco perseverare
nell’idea che esista oltre o prima di ogni iconografia, non è un notaio
dell’anima e nemmeno un cecchino dei cuori. Ho visto persone fare il male con
una innocenza bestiale ed essere ugualmente capaci di volere il bene senza
niente in cambio. Credo piuttosto che la malvagità sia insita nel progettare il
male, come suggerivo, nel renderlo numero organizzato, nel farlo divenire una
cosa seriale e un’abitudine. In questo i potenti sono maestri e capaci di ideare
falsi valori, idoli osceni, inclinazioni coatte, dispositivi senz’anima di
azioni simili ad automatismi. In tutto questo vorrei sempre che la poesia che
concepisco potesse essere trasversale, laterale a ogni acquisito, e ficcante
abbastanza da insinuare dubbi e domande, piuttosto che proclamare certezze.
D’altra parte, se il poeta fosse solo fingitore, la poesia sarebbe ben misera
cosa, il fatto è che il poeta finge, sì, ma sempre guarnendo la finzione di un
po’ di verità; o forse è proprio un certo tipo di finzione che è realmente
depositaria del dono di saper suscitare emozioni e pensieri veritieri. Ma non è
ancora questo il nodo. Fingere non significa necessariamente mentire,
esattamente come dissimulare non è sempre nascondere.
Forse il vero poeta finge un ruolo, una postura, uno stratagemma e una
disposizione, solo per aggirare l’ovvio e mettere in luce ciò che è nascosto,
recondito ma vero sebbene esule dall’attenzione dei più. Creare ha in questo
senso la pienezza, l’abbondanza di sé, e la veritativa sostanza, di ciò che
eccede le misure note e trabocca, promana ancora prima dell’intenzione di farne
dono o materia di scambio. Io, personalmente, creo come un invasato perché sento
l’impellenza di non volgermi all’indirizzo di questo o quel tipo di lettore, ma
nella speranza, sempre ferma e genuina, di traslare ciò che ho dentro fino al
punto di non appartenermi più, fino al punto di sorprendermi io stesso che le
sue caratteristiche siano più evidenti se adulterate dalla fantasia, che non
messe brutalmente in pedissequo elenco.
L’artista crea mondi ma non ne è padre, in qualche modo egli è solo un tramite,
prende in prestito qualcosa di comune e lo volge allo straordinario, prende in
prestito storie e paesaggi dell’esistere non comuni e restituisce la familiarità
di ciò che è vita senza apparenti eccezioni. Il suo è uno sguardo trasmigratore.
Egli conosce bene gli artifici e usa mille trucchi, esattamente com’è capace di
denudare la parola, renderla essenziale e parca, ma tutto questo avendo ben
presente che le due cose coincidono e si equivalgono, laddove si testimonia non
tanto di sé quanto di un sé che ridonda di altri ed altro, di un sé libero di
essere ovunque e in ogni tempo, ma mai in ritardo o fuori luogo.
Vorrei che tu sapessi che nella vita io ho molto sbagliato e perseverato
nell’errore e nell’ingiustizia; proprio per questo quando scrivo cerco di
colmare ciò che è in difetto, ricucire ferite, rimettere debiti, raccogliere la
voce di chi soffre in silenzio, soprattutto di sé, e renderla scudiscio e
carezza, ruggito e silenzio, un dono infine, che non ha l’intenzione del dono, e
soprattutto è tale verso me nel momento stesso che è raccolto da un’anima –
forse lontana fino allo stemperare della propria traccia, ma pur sempre sorella
in questo umano cammino.
Penso che questo possa essere l’inizio di un gesto di avvicinamento, ispettivo e
cauto, ma tale, di dialogo tra noi.
Massimo Triolo
*In copertina e nel testo: Johan Christian Dahl (1788-1857), Studi di nuvole
L'articolo Breve lettera a un’anima sorella sulla condizione del poeta e
questioni affini proviene da Pangea.