Così appunta Elias Canetti, è il 30 luglio del 1966:
> “Leggo poesie in tutte le lingue che conosco, e in traduzione, quando sono
> scritte in lingue che non conosco, ma cerco di farmi almeno un’idea di quelle
> lingue… Sfoglio libri su tutti i possibili animali. Torno ad ascoltare, cosa
> che da moltissimi anni non facevo più, le mie care voci degli animali”.
Canetti associa la lettura della poesia alla voce animale – imparare lingue
sconosciute, cioè: imparare la parola del lupo, l’urlo dell’ungulato, il cigolio
della gazza. Il brano è in un libro, Processi. Su Franz Kafka (Adelphi, 2024),
di inclassificabile bellezza. Inutile ricordare la presenza ‘animale’, da
strenuo classificatore, nei libri di Kafka: florilegio di sciacalli e ratti, di
cani e di pantere, di cavalli e scimmie. L’opera di Kafka è un bestiario;
valicare il simbolo a cui sottende quella singola bestia vuol dire franare nella
follia.
Ad ogni modo, che scena magnifica. Uno dei più potenti intelletti del secolo,
Canetti, che, nel suo studio, ascolta le voci degli animali, per liberarsi dal
linguaggio umano (si legge poesia anche per questo: per sobillare il linguaggio,
per liberarsi da umana lingua). Per chi fosse interessato, Canetti fa
riferimento ad Animal Language, libro fotografico del 1938, con due dischi “che
riproducevano i versi degli animali africani di giorno e di notte”, ideato da
Julian Huxley, il fratello di Aldous, che è stato, tra l’altro, il fondatore del
WWF, l’uomo che ha inventato la parola Transhumanism, transumanesimo.
Incapace di ‘contattare’ gli animali, Canetti li ascolta, nel suo studio gonfio
di libri, fiero della propria interiore ‘animalità’.
Sono quasi certo che i libri sciorinati da Canetti tra quelli “che più contano
per me”, facciano parte della biblioteca ideale di Gian Ruggero Manzoni. Pascal
e i Presocratici, Sofocle e William Blake, Georg Trakl e Zhuang-zi, Confucio,
Lao-Tzu ed Erodoto, Atlantis, soprattutto, la formidabile enciclopedia di miti e
fiabe africane collezionata da Leo Frobenius negli anni Venti. Manzoni ha lo
stesso physique intellettuale di Canetti: è uno ramingo tra più mondi culturali;
un vagabondaggio – è chiaro – che opera in orizzontale (libri) e in verticale
(pratica; ascesi/ascesa). A Canetti manca l’estremismo dell’azione, dell’esteta
armato; possedeva, tuttavia, il dono dell’ira e dell’eros. Ma non è questo il
punto.
Nel suo ultimo libro – se è poi l’ultimo: GRM pratica la giusta liturgia della
dissipazione, ogni libro è sempre l’ultimo –, Nel lento movimento dei
ghiacci (stampa puntoacapo), Manzoni dichiara i punti di giunzione tra il verbo
e l’animale, tra il poeta e lo sciamano (“Sciamano del Delta del Po, sempre
scopro ogni notte che vago nell’immutata sostanza della natura umana”: sua serpe
e suo scettro sia l’angusta anguilla). Sciamino, a questo punto, gli scettici:
al netto del consueto, cospicuo proliferare di ‘cultura’ (Leopold Zunz, Pascal,
Aristotele, i canti dei nativi d’America), Manzoni si dà alla ‘natura’ del gesto
lirico, inaugura la danza con gambe tese ad arco:
> “Nel lento movimento dei ghiacci, la porta spalancata è alla cometa, quella
> recante vita nel suo strascico… recante l’essenza di un altro mondo, che mai
> vedremo, se non ipotizzando un oltre alla tenebra, in piena luce”.
In un brano – che ricorda gli incantesimi orditi da Álvaro Mutis – GRM parla
dello “sciamano Ainu” che balla con l’orso dell’Hokkaido; parla delle “maghe del
Rio delle Amazzoni”, parla dell’“angelo di carne”. Ossidati all’oggi, i poeti
scontano la latitanza dal linguaggio che ‘agisce’, che si fa atto: espulsi dalla
natura e dalla storia – il poeta non ‘serve’ più, se non in civiltà più
raffinate, a cementare il senso d’appartenenza a una nazione, di servizio a una
terra, a una lingua/seme, lingua-seminagione –, i poeti, servili, sono utili,
semmai, a stimolare le anime belle, a far leva sui ‘sentimenti’; mai che
trafiggano e trasformino le anime. Così, sono i falsi poeti a proliferare, oggi,
a primeggiare, come sono i falsi profeti a guidare le adunate dei fedeli. Ma al
poeta nulla importa dell’applauso o del consenso – necessario, invece, al
romanziere, a chi lavora per ‘comunicare’ –: attende che la sua parola
sia efficace, e non mero guscio, vocabolo inerte, vocabolo-carcassa.
Manzoni riassomiglia la poesia al suo dire originario, ne fa nenia, sacra
cantilena – dunque, sacrilegio – in assenza di opera sacra. E allora:
> “Oggi sono la lince del fiume Amur, ieri fui il daino preso in trappola,
> domani sarò l’orso polare che, ai cacciatori, parlerà del sonno che t’invade,
> quando il freddo ti prende l’anima e le carni… quando i liquami umani via via
> si solidificano e l’alito vaporoso si trasforma in neve sulla barba”.
Chi vede in questi brani mere figure esornative, ‘immagini’, pittogrammi del
fallimento, è un idolatra del vocabolario. Chi conosce Manzoni sa che
la pratica è tale da sempre, da Il mercante di allodole (era il 1977, primo
verso che testimonia un’indole indocile: “Chi comprende i simboli con le mani è
l’unico uomo libero”), a Le battane di bronzo (uscì per la Stamperia
dell’Arancio, trent’anni fa, ne riproduco le cifre finali: “Per conquistare il
cielo occorrono macchine di luce, un modello che convinca e che riempia ognuno;
e una religione, votata all’essenza, o alla più feroce risposta”), in qua. Oggi
– nell’era della simulazione, che chiede di dissimularsi nell’altro – tale
pratica è semplicemente più esplicita.
Dunque, la congiunzione tra il poeta e l’animale. L’anima dello sciamano – così
ne dice Klaus E. Müller in Sciamanismo. Guaritori. Spiriti. Rituali, Bollati
Boringhieri, 2001 – veniva ruminata per tre anni dalla “Madre animale” (sia
alce, cervo o renna), era “l’anima di un essere dalla duplice natura, animale e
umana”, riconoscibile fin da bambino per eccezionalità fisica, ‘mostruosa’ (“gli
individui destinati a diventare grandi sciamani nascevano con i denti, oppure
‘con la camicia’ e con un numero eccedente di dita per mano (o per piede), o con
un neo vistoso sul corpo”), e psichica (“tendevano a cadere in deliquio e
avevano un carattere chiuso; di indole pensosa, passavano il tempo a rimuginare,
soli”). Ne seguiva, l’addestramento, la vita riparata dal convegno umano, in
luoghi spesso inaccessi; il corredo sonoro e lirico, che riproduceva le voci
degli animali-guida. Parola che sana, quello dello sciamano, che piega, che
piaga. L’amorfo repertorio che leggiamo, preziosità etnografica (ad esempio,
in: Testi dello sciamanesimo siberiano e centroasiatico, Utet, 1984), non va
letto come si leggerebbero Yeats o Blake (due poeti-sciamani, tra l’altro, che
sciamanizzano) ma come canto che anima, che opera, che in assenza di compito
resta esteticamente inerme. Lo sciamano presiede alla vita – il parto – e alla
morte – la sepoltura – e al pasto – la caccia. Eleva a suo grado gli elementi.
Ora: che può il poeta se non riferire un deciduo dire, la caducità della parola?
Il libro di Manzoni non è la cronaca di uno sciamano infame, senza futuro, ma
l’indizio iniziale di chi torna a manovrare il fuoco, di chi, con la timida
tenerezza del nudo uomo, che ascolta l’erba, i fiumi, lo scalciare del sole,
leva le briglie alle parole, leva ogni paramento, a trafittura d’ululato.
Compito del poeta: liberarsi della poesia. Scatenarla.
Per altro, il riferimento – GRM ha tradotto Genesi, Esodo, Isaia, una manciata
di Salmi per il “Salterio dei Poeti” e altro ancora va traducendo dal Testo – ha
pertinenza biblica. Iubal, figlio di Lamec, della genia di Caino, è “il padre di
tutti i suonatori di cetra (kinnor) e di flauto (ugab)”. Iubal non è il
primogenito – non lo era neanche Abele; a sottendere: destino di sacrificio – e
gli strumenti che crea indicano un opposto approccio all’arte mantica della
musica. Ugab, lo strumento a fiato, ruba il ‘soffio’ di chi lo suona: appare
poche volte nel testo biblico. Kinnor, invece, partecipa di ogni luogo del Testo
(42 occorrenze): lo strumento a corda pretende maneggevolezza nella voce,
accordo con il canto. Ogni strumento musicale è trasmutazione di uno strumento
di guerra: il flauto fu cerbottana; la cetra fu arco e fionda. Il flauto adombra
la tattica dell’uccello, la cetra quella del felide. Anche il più alto atto
d’arte reca un pervicace sentore di sangue.
Chi lamenta assenza di animali nei Vangeli ha lo sguardo fuori asse. Al dialogo
umano, frutto di sacri fraintesi, il Nazareno preferisce quello con le bestie e
con gli angeli (così insegna l’evangelista Marco). Il suo stesso corpo è arca,
nella sua voce la voce delle miriadi di bestie. Per altro, gli apostoli
operavano guarigioni, andavano in estasi, afferravano la serpe senza che gliene
incorresse danno. Di ciò, non restano neppure le vestigia – se non negli
esorcismi –, ma il sottile fastidio di un tempo andato.
Manzoni, intanto, continua la sua danza – a me ricorda, di spalle, il Giudice
Holden, istoriata creatura uscita dalle fucine di Cormac McCarthy, un poco Pan
un poco Astaroth, che sganghera la luce nel suo noccioleto. A noi, succhiare di
quel fiele.
*In copertina: strumento sciamanico esposto in “Shamans. Communicating the
invisible”, al Muse di Trento; nel testo: opere di Gian Ruggero Manzoni
L'articolo “Per conquistare il cielo”. La poetica dello sciamano. (Qualcosa,
ancora, su GRM) proviene da Pangea.
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Per spiegare se un testo sia traducibile sono stati scritti centinaia di libri e
di saggi di traduttologia, sono state spese milioni parole in decine di lingue,
tradotte a loro volta in altre decine di lingue. Quello che resta, di questo
profluvio verbale, di questo scialo teoretico, sono alcune affermazioni
apodittiche e contraddittorie, che spesso sconfinano nel paradosso o nella
boutade, e che fanno il giro del mondo nei convegni sulla traduzione. Il
repertorio è infinito: dal precetto di Cicerone di non tradurre verbum pro
verbo alle polemiche di San Gerolamo, dalle considerazioni di Lutero alle
argomentazioni di Du Bellay, Montaigne e Chapman, a quelle di Ben Jonson
sull’imitazione, fino alle considerazioni filosofiche di Von Humboldt e ai
resoconti di Goethe, Schopenhauer, Arnold, Valéry, alle teorizzazioni di Pound,
Benjamin e Ortega y Gasset.
In Italia domina la battuta, citatissima e un po’ misogina – attribuita a Croce
ma in realtà di Carl Bertrand, il traduttore tedesco di Dante, che riprese una
definizione di Gilles Ménage –, secondo cui le traduzioni sarebbero come le
donne, “brutte e fedeli o belle e infedeli”. Come anche quella, attribuita a
Robert Frost, secondo cui “poesia è ciò che si perde nella traduzione”. Per
Ortega y Gasset, la traduzione, semplicemente, “non è possibile”; per Jakobson
“la poesia è intraducibile per definizione”. Walter Benjamin, pur nel suo
pessimismo, sostiene che “la traduzione è necessaria”. Secondo Novalis e
Humboldt, tutta la comunicazione è traduzione. C’è poi la celebre quartina di
Nabokov:
> “Cos’è la traduzione? Su un vassoio
> La testa pallida e fiammante di un poeta,
> Uno stridìo di pappagallo, una ciancia di scimmia,
> E una profanazione dei morti”.
Come afferma George Steiner in Dopo Babele, “per circa duemila anni di
discussioni e di precetti, le convinzioni e i contrasti manifestati sulla natura
della traduzione sono stati quasi gli stessi. Tesi identiche, mosse e
confutazioni familiari ricorrono nelle dispute, quasi senza eccezioni, da
Cicerone e Quintiliano ai giorni nostri”. Il postulato dell’intraducibilità
“poggia sulla convinzione, formale e pragmatica, che non vi possa essere
autentica simmetria, rispecchiamento adeguato, tra due sistemi semantici
differenti”. Il punto, conclude ancora Steiner, è sempre il medesimo: la cenere
non è la traduzione del fuoco.
Scuola spagnola, Testa di Giovanni il Battista, XVII secolo
Se, come sostiene Croce, “l’intraducibilità è la vita della parola”, resta
nondimeno il dato incontrovertibile che centinaia di migliaia di biblioteche
straripano di libri tradotti. E restano i milioni di libri tradotti da
un’infinità di lingue: molti egregiamente, altri mediocremente, altri ancora
pessimamente. Perché è vero che in nome della traduzione – della sua necessità,
e del suo culto – sono stati commessi i delitti più infami e i più gloriosi atti
di eroismo. Sepolti negli scaffali delle biblioteche, esposti sui banconi dei
librai di tutto il mondo, giacciono crimini linguistici efferati, compiuti
spesso da persone, come si dice, al di sopra di ogni sospetto, che le logiche
editoriali impongono, o tollerano o incoraggiano, che spesso i lettori subiscono
impotenti, e che nessuno punisce mai.
In questa necessaria, indispensabile quanto spesso inutile attività dell’ingegno
umano, si sono esercitate schiere di inetti, ignari spesso della lingua di
partenza come di quella d’arrivo, consegnando agli editori o alle stampe aborti
mostruosi; e imperano legioni di scrittori mancati e di scribacchini frustrati
che cercano, come uccelli usurpatori, confortevole riparo in nidi altrui. Ma a
tale attività offrono il loro contributo anche legioni di onesti mestieranti,
che pur dietro compensi offensivi nobilitano la professione; per non dire dei
non pochi geni che la elevano da attività funambolica a sublime forma d’arte.
Con ciò non si vuole infierire sulle traduzioni letterarie malfatte, ma
semplicemente porre l’accento su quanto sia arduo riuscire a fare una buona
traduzione. Com’è noto, una delle attività preferite di moltissimi critici e
traduttori è la caccia all’errore nelle traduzioni altrui: sport che ha prodotto
qualche libro divertente e molte gogne umilianti, come l’americano Glorious
Mistakes. Il che equivale, comunque, a sparare ai passeri. I francesi hanno
un’espressione deliziosa per definire questi perditempo frustrati che cercano un
po’ di gloria dando la caccia all’errore in traduzioni di onesti professionisti
che per pochi soldi si sono consumati gli occhi su testi a volte difficilissimi
al limite dell’intraducibilità: li chiamano (excuse my French) le enculeurs des
mouches, i sodomizzatori delle mosche.
Giovanni Bellini, Testa di Giovanni il Battista, 1470 ca.
Come diceva Pound, i critici dovrebbero ricordarsi che scopo della traduzione
poetica è appunto la “poesia”, non le definizioni verbali dei dizionari; e che a
volte una traduzione è brutta proprio perché non sbaglia mai. Il fondamento
della traduzione poetica, infatti, è la trasposizione, non il rispecchiamento,
vale a dire la restituzione fedele del senso poetico, e la necessità di
compiere, nella lingua d’arrivo, lo stesso percorso creativo che ha condotto
l’autore originale a dare al suo testo, tra tutte le forme possibili, quella
storicamente proposta e non altre. In questo senso, allora, ogni testo diventa
traducibile, con buona pace di Croce (che del resto non era poeta) e di tutti i
pudichi glottologi che con reverenza quasi superstiziosa ritengono sacro e
inviolabile il testo originale.
Prendiamo il caso del greco-alessandrino Costantino Kavafis, che mentre in
Grecia (dove lui non è mai vissuto) infuriava asperrima la questione della
lingua, se cioè si dovesse usare la lingua popolare (dimotikì) o quella
riformata (l’aulica katharèvusa), lui, “alla periferia dell’impero”, ad
Alessandria d’Egitto, usava nella sua poesia un amalgama delle due lingue,
creando uno stile personalissimo, unico e inimitabile. Se il neogreco è dunque
l’unico caso di diglossia praticata in un Paese moderno, com’è possibile
tradurre un poeta, che tra l’altro occasionalmente usa metrica e rima, e una
lingua “schizofrenica”, in qualsiasi altra lingua a cui sia estraneo il fenomeno
della diglossia? Eppure lo hanno fatto in moltissimi. Secondo una recente
ricerca dell’Università di Salonicco, Kavafis è in assoluto il poeta moderno più
tradotto e imitato al mondo (seguito a diverse lunghezze da Pessoa). Che cosa
sarà mai rimasto della “intraducibile” poesia di Kavafis nelle innumerevoli
versioni fatte nelle lingue più ignote, compresa la lingua dei maori? Di certo,
come nel caso di molti altri poeti, qualche inevitabile scempio metafrastico. Ma
forse non solo. Io credo che resti dell’altro, che se si perde molta “filologia”
rimanga però anche un po’ di buona “poesia”. Diversamente non si spiegherebbe il
paradosso che uno dei poeti moderni “più intraducibili” come Kavafis abbia
influenzato forse più di chiunque altro buona parte della poesia contemporanea
moderna.
Personalmente credo che la traduzione vada intesa secondo il principio
dell’equivalenza, e che il traduttore dovrebbe sforzarsi di pensare a come
sarebbe l’opera originale se fosse stata scritta nella propria lingua. E mi
torna alla mente Novalis, secondo cui la traduzione è “poesia della poesia”,
giacché il traduttore, nel suo sforzo di dare una nuova veste linguistica
all’originale, deve prima enuclearne la “poeticità”. Questo è il principio di
equivalenza su cui dovrebbe fondarsi l’atto del tradurre. Atto che è garantito
solo se il traduttore è un poeta o ha alle spalle una solida cultura poetica. Se
poi il traduttore-poeta condivide con l’autore che traduce principî estetici e
artistici comuni, e ha con quest’ultimo affinità ideali, allora il testo tradotto
riuscirà davvero a costituirsi come un’opera nuova e originale. Credo che
l’obiettivo finale di ogni traduzione, infatti, sia quello di trascendere
l’originale, in un certo senso ucciderlo per trasformarlo in un nuovo originale.
Giovan Francesco Maineri, Testa di Giovanni il Battista, 1502
Ma questa è una situazione ideale, quasi sempre difficile da verificarsi. Le
necessità dell’editoria moderna sembrano far prevalere le esigenze delle
traduzioni di servizio su quelle artistiche, e d’altro canto non sempre i buoni
traduttori sono anche poeti, e viceversa. Ma anche quando una stessa persona
riesca a coniugare in sé le qualità del poeta e del traduttore, i pericoli non
mancano. Il testo originale rischia di essere dimenticato e sostituito
completamente da un altro testo (a volte persino migliore, come per esempio è
capitato al Cinque maggio di Alessandro Manzoni tradotto da Goethe), che reca in
sé le tracce dell’ideologia e delle esperienze di colui che pertanto dovrà
considerarsi il nuovo autore, e le specificità proprie dell’ambito linguistico e
culturale d’arrivo.
Tradurre, dunque, non è né possibile né impossibile: è semplicemente
necessario. Per dirla con Benjamin, la traduzione è un luogo d’incontro tra
lingue e culture diverse, un luogo utopico di raccordo tra le divergenze. È un
mezzo di circolazione, di crescita e di arricchimento culturale prezioso e
indispensabile.
Forse la miglior traduzione letteraria possibile è quella della poesia tradotta
dai poeti, cioè la poesia tradotta in “poesia”.
Nicola Crocetti
*Questo testo è stato scritto per una conferenza sulla traduzione tenutasi a
Parigi nel 2000. Fortunosamente ritrovato dall’autore, ci è parso bello
pubblicarlo, non come l’ennesimo documento su un tema per sua natura infinito –
come lo è il linguaggio, come lo è il suo umile tedoforo: l’uomo – ma per la sua
smaliziata ‘luccicanza’, per la sua inesausta fede nel ‘fatto’ poetico. Al
poeta, in effetti, non interessano gli applausi del pubblico pagante (o
fraudolento), ma che la sua poesia ‘agisca’ davvero: che faccia piovere sul
deserto, che faccia muovere le montagne, che muova a compassione gli induriti
cuori.
In copertina: Albrecht Bouts, Testa di Giovanni il Battista, XV secolo
L'articolo “Su un vassoio, la testa pallida del poeta”. Tradurre poesia, un
crimine linguistico proviene da Pangea.
Anche se continuiamo a chiamarla «la banalità del male», il male non è mai
banale. Il male è complicato, tortuoso, tende a negare sé stesso e ha una sua
diabolica intelligenza. Del resto, la parola diábolos in greco vuol dire
«dividere», o «colui che divide». E andrebbe inteso non tanto come calunniatore
o seminatore di zizzania, quanto piuttosto come colui che scinde sé stesso in
una doppia personalità: quella che commette il male e quella che rimuove il male
commesso, oppure tende a cercare alibi, o più semplicemente a nasconderlo.
Quando la filosofa Hannah Arendt sottotitolò La banalità del male il suo celebre
reportage sul processo al criminale nazista Adolf Eichmann, per spiegare come le
persone più ordinarie possano trasformarsi in carnefici e partecipi di un
sistema totalitario, possano cioè diventare funzionali a un ingranaggio
mostruoso di sopraffazione e sterminio, non poteva immaginare né che quella sua
definizione sarebbe stata così inflazionata in seguito, né che essa nasceva da
un clamoroso equivoco. Seguendo in veste di giornalista per il “New Yorker” il
processo contro Eichmann, l’ex tenente colonnello delle SS, nel 1961, Arendt si
trovò di fronte un grigio burocrate, inetto e poco intelligente. O almeno così
le sembrò. Eichmann, il pianificatore della Shoah, colui che aveva organizzato
il traffico ferroviario per il trasporto degli ebrei nei Lager, era
caratterizzato, agli occhi della filosofa, da un’«assenza di pensiero». Eichmann
non aveva nulla di demoniaco, né possedeva il carisma del male. Era un impiegato
incolore, il prototipo del burocrate, incapace di «mettersi nei panni degli
altri». Le sue frasi interminabili al processo suonavano terribilmente noiose e
il suo ritornello di aver agito su ordine e prestato giuramento di fedeltà lo
facevano apparire come un uomo «spaventosamente normale».
Ma Arendt era caduta nella trappola tesa da Eichmann.
All’epoca non si conoscevano, infatti, tutti i documenti che sono emersi
successivamente sul gerarca nazista. In particolare, le cosiddette «carte
argentine», ovvero gli appunti dell’esilio, e i dialoghi e le interviste
integrali di Willem Sassen registrate sui nastri, da cui emerge un Eichmann ben
diverso: uno spietato, perverso criminale che al processo si finse «banale»,
mise in atto cioè una interpretazione, con notevoli doti da attore, per tentare
di sfuggire alla condanna a morte (tentativo, peraltro, che si rivelò inutile,
poiché i giudici israeliani non gli credettero). Quella «banalità» era, in altre
parole, una maschera.
Quando Eichmann afferma al processo di «aver obbedito a precisi ordini
superiori»; quando insiste nel dire di «non aver nutrito alcun odio personale
per le vittime», anzi, di aver addirittura dovuto mettere a tacere la propria
«sofferenza», sta solo recitando. Rimase, infatti, fino all’ultimo suo giorno
fanaticamente fedele all’ideologia nazista e antisemita. Eichmann era presente
alla Conferenza di Wansee, nel gennaio 1942, quando si decise, a tavolino, che
la questione ebraica dovesse essere risolta con lo sterminio totale. La
organizzò, quella Conferenza, e ne stese i verbali. Ne approvò le conclusioni.
Non è vero che non aveva fatto altro che «temperare le matite a un tavolo in
disparte». Eichmann era un uomo assetato di potere, che in Argentina, dove si
era rifugiato per eludere il processo di Norimberga, si vantava con i suoi
sodali nazisti superstiti, e il suo pubblico di affezionati, di aver mandato al
gas sei milioni di ebrei, cifra che lui stesso aveva ricavato tenendo la
contabilità dei trasporti. Totale era la sua abnegazione al genocidio, sadici i
suoi festeggiamenti per i progressi della Shoah (sorseggiava cognac davanti al
camino in compagnia dei suoi superiori), diffuso il terrore che seminava tra i
prigionieri dei Lager.
La capacità di Eichmann di calarsi in un ruolo dimesso e anonimo, la sua abilità
di manipolatore sociale ingannò, dunque, anche una mente sopraffina come quella
di Arendt, che, basandosi sui verbali del processo, sugli interrogatori,
raccontò a milioni di lettori un Eichmann fasullo. E, soprattutto, con quella
sua nozione di «banalità del male», ha provocato interpretazioni riduttive e
fuorvianti sulla natura stessa del nazismo e dei suoi crimini, soprattutto se si
confronta con quella che emerse invece dieci anni dopo da un altro libro, uno
sconvolgente libro, forse il più importante sulla Shoah, In quelle tenebre di
Gitta Sereny. La giornalista e storica austriaca-britannica, di origini ebree
ungheresi, raccolse i colloqui avuti nel 1971 – più di sessanta ore – nel
carcere di Düsseldorf, con Franz Stangl, il boia austriaco comandante del campo
di sterminio di Treblinka, dove più di un milione di persone trovò la
morte. Sereny, a differenza di Arendt, non si ferma all’apparente «banalità del
male» dell’ex comandante, ai suoi racconti spesso vittimistici – per quanto
Stangl fosse un individuo molto più ordinario di quello che volle dar mostra di
essere Eichmann –, ma sceglie di stanarlo e sondarlo, quel male, di guardarlo in
faccia, di confrontarsi con esso.
Sereny registra ore e ore di conversazione con Stangl, intervista a lungo anche
la moglie, e le figlie, conquistandosi la loro fiducia, e altre SS che lo hanno
conosciuto, e i sopravvissuti al Lager. Ci sono pagine insostenibili in questo
libro – alcuni racconti dei carnefici e delle vittime – perché ci immettono
dentro la macchina della morte al lavoro, senza risparmiarci nulla di
quell’orrore. Eppure, Sereny, che non deroga mai dal suo giudizio morale, che a
volte vacilla di fronte ad alcune rivelazioni sconcertanti, che non smette di
incalzare e pungolare il suo interlocutore, si lascia andare ad alcune
considerazioni inaspettate, tipo questa: riferendosi al legame di Stangl con la
moglie e al suo affetto incondizionato per le figlie, scrive: «non c’è dubbio,
qualunque cosa egli sia divenuto, ch’egli sia stato capace di amore». E a
conferma di questa intuizione, Frau Stangl, molte pagine dopo afferma:
> «Paul era un padre incredibilmente buono e amoroso. Giocava sempre con le
> bambine. Gli faceva delle bambole, e poi le aiutava a vestirle. Lavorava con
> loro; gli insegnava una quantità di cose. Loro lo adoravano tutt’e tre. Era
> sacro, per loro…».
Come spiegare questa assurda dicotomia? Stangl ha iniziato la sua carriera nel
nazismo occupandosi del “Programma Eutanasia” varato dal regime (detto anche
Aktion T4), che sperimentò pionieristicamente le prime morti per gas sui
disabili, come ampliamento di una legge del 1933 sulla sterilizzazione coatta;
poi fu nominato alla direzione del campo di sterminio di Sobibór e infine a
Treblinka. Una vita dedita allo sterminio di esseri umani, compresi centinaia di
migliaia di bambini. Eppure, era un padre amorevole, un marito premuroso. E le
sue figlie lo adoravano, e hanno continuato ad amarlo anche quando hanno
scoperto chi era e che cosa aveva fatto.
Stangl è irritante nelle sue reticenze: per tutti gli incontri si ostina a
negare le sue responsabilità, sostiene che non poteva fare altrimenti, che fu
costretto dalle circostanze, scende continuamente a patti con la sua coscienza,
svelando a Sereny il meccanismo psichico schizofrenico di difesa, «i due uomini
che era diventato» per sopravvivere, evidente in maniera agghiacciante quando si
compiace a un certo punto di aver reso Treblinka un posto «veramente bello», con
uno zoo, le panchine, i fiori. Anche la moglie, che per tanto tempo ha preferito
non sapere, rimuovere la verità, ci appare intollerabile. Eppure il metodo
perseguito da Sereny – la strategia del ragno che tesse paziente la sua tela per
bloccare la sua preda – alla fine del libro risulta vincente.
L’ultimo giorno in cui ha intervistato Stangl riesce finalmente a ottenere
un’ammissione da lui. O almeno il massimo dell’ammissione che un uomo del genere
poteva fare. «La mia colpa è di essere ancora qui. Questa è la mia colpa» dice,
dopo un’estenuante pausa in cui ha riconosciuto per la prima volta la sua
responsabilità nello sterminio. Il giorno dopo, il 28 giugno 1971, Stangl muore
in prigione per un attacco di cuore. Come se l’ammissione della sua colpa lo
avesse letteralmente schiantato.
Questo malore mi ha fatto venire in mente una scena di un recente film, La zona
d’interesse, di Jonathan Glazer, che racconta Auschwitz dall’altro lato,
letteralmente, concentrandosi cioè sui carnefici, non sulle vittime: quello che
vediamo non è il Lager, ma ciò che succede nei suoi paraggi, accanto, a ridosso,
ai margini, ovvero la vita del comandante del campo Rudolf Höß e di sua moglie
Hedwig che insieme ai loro cinque figli e il cane (oltre a una numerosa servitù
locale) abitano in una casa e in un grande giardino in un terreno adiacente al
muro del Lager. Un idillio ai confini dell’inferno. Lui va a pesca con i figli,
racconta loro le fiabe per farli addormentare, lei cura le aiuole, riceve le
amiche. Insieme organizzano feste con rinfreschi e bagni in piscina. Dall’altra
parte del muro, intanto, rigorosamente fuori scena, proviene un paesaggio sonoro
attutito, ma che non si interrompe mai: grida, pianti, lamenti, colpi di mitra,
latrati di cani, ordini urlati, e soprattutto un rumore di fondo, continuo,
incessante, un borbottio metallico che si presuppone provenga dai crematori,
accompagnato da alcuni dettagli visivi che emergono dalla quotidianità della
«famigliola» tedesca: il fumo delle ciminiere e quello dei treni in arrivo che
si scorgono ai margini superiori di certe inquadrature, i bagliori notturni dei
forni che si intravedono di notte alle finestre velate dalle tende della casa
del comandante.
Il comandante ricorda molto Stangl, anche lui realizza il male con spietata
freddezza, separando il suo ruolo di criminale da quello piccolo-borghese di
padre di famiglia benevolo e marito premuroso, che persegue la sua piccola dose
di felicità, fatta di benessere, status, sicurezza, carriera, rivalsa, una
felicità molto kitsch, che si regge su un baratro di colpe, omissioni,
indifferenza, omertà. Ma mentre la moglie è inamovibile nel non voler sapere e
vedere (al punto che nasconde il muro del campo con gli alberi del suo
giardino), tutta concentrata a mantenere ciò che possiede, lui a un certo punto
del film ha un crollo fisico. Dopo aver ricevuto l’incarico di dirigere
l’“Aktion Höß”, un’operazione a lui intitolata che consiste nel trasporto di
800.000 ebrei ungheresi nei diversi Lager, partecipa a una festa con le alte
sfere del nazismo. Alla fine della serata è colto da conati di vomito sulla
scalinata interna del palazzo, ed è costretto a sostare nel buio, nascosto,
preoccupato che qualcuno possa vederlo.
A differenza di Stangl, Höß non prende consapevolezza di nulla, né si pente di
nulla, ma quel vomito indica la verità del corpo contro una mente che tacita le
sue colpe. È una verità fisica, che si ribella ai mascheramenti della coscienza.
Quando ha riassunto il suo tempo passato con Stangl, Sereny non ha avuto dubbi
nel dire che sentiva di «essere in presenza del male». Eppure Stangl era morto
ammettendo una sua colpa, o forse a causa di quello, mentre in Eichmann non ci
furono pentimento né ammissione alcuna. Ancora poco prima di essere processato
si augurava che gli egiziani e gli arabi continuassero con Israele il lavoro
iniziato da lui, sperava che i musulmani completassero lo sterminio totale che a
lui era stato impedito. Sereny non ci offre una soluzione alla «divisione»
diabolica che il male attua in chi lo compie: il male per lei resta un mistero.
Come se calasse sull’umanità dall’alto.
> «Io non credo che tutti gli uomini siano uguali, poiché la nostra
> caratteristica essenziale è proprio di essere individuali e diversi – scrive
> nell’epilogo del libro –. Ma l’individualità e la differenza non sono dovute
> soltanto alle qualità che ci capita di avere alla nascita. Dipendono
> altrettanto dalla misura nella quale abbiamo potuto liberamente svilupparci.
> V’è un nucleo essenziale del nostro essere, ancora mal definito e mal
> compreso, che, godendo di questa libertà, sorge e si sviluppa, quasi come il
> nascere, e che ci libera e ci separa da influenze intrinseche, e in seguito
> determina la nostra condotta e il nostro sviluppo morale. Io credo che un
> mostro morale non sia tale dalla nascita, ma sia prodotto da interferenze nel
> suo sviluppo. Io non so che cosa sia questo nucleo».
L’umiltà di Sereny nel non voler definire quel «nucleo» fa la differenza con
l’approccio di Arendt. Sereny rifiuta i documenti – quelli su cui invece si
concentra la filosofa – o almeno rifiuta di farne il centro della sua ricerca,
per affidarsi invece all’ascolto della parola. In questo il suo metodo è simile
a quello che Claude Lanzmann avrebbe utilizzato per il suo documentario Shoah,
uscito nel 1985. Anche Lanzmann non crede nei documenti, in particolare – da
regista – nelle immagini d’archivio. Nel suo documentario radicale, estremo,
lungo quasi dieci ore, parte da un assunto etico rigorosissimo, da cui deriva
anche un’estetica altrettanto rigorosa, ovvero quello dell’irrappresentabilità
della Shoah, dell’impossibilità di restituirne l’immagine. Da qui la polemica
con Steven Spielberg per Schindler’s List e il giudizio severo su La vita è
bella di Benigni, film che considerava entrambi detestabili perché
menzogneri. Per Lanzmann, in effetti, non c’è nulla da vedere nella Shoah – in
particolare nei campi di sterminio di Chelmno, Belzec, Sobibór, Treblinka,
Birkenau – nessuna immagine può riprodurre l’evento della «catastrofe». Un bel
paradosso per un’opera filmica, che sceglie di rinunciare al materiale di
repertorio.
Lanzmann lavora undici anni per raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti
(soprattutto dei pochissimi Sonderkommando scampati alla morte), ma anche dei
testimoni, più o meno indifferenti (i contadini di Treblinka, gli abitanti di
Chelmno), i collaboratori-complici, più o meno forzati (i conduttori dei treni,
i ferrovieri, gli autisti delle SS), i carnefici stessi, e lo fa affidando alla
parola l’unica forma di restituzione possibile, proprio come aveva fatto Sereny,
spesso intervistando le stesse persone che abbiamo incontrato nel libro In
quelle tenebre (come il notevole Richard Glazer, superstite di Treblinka). Pur
sapendo che i «salvati» non hanno potuto fare realmente esperienza del Lager,
non essendo entrati nelle camere a gas, come sosteneva anche Primo Levi, e
nemmeno gli stessi «sommersi» (poiché sono morti appena arrivati, per la
stragrande maggioranza), la parola, all’interno di un simile paradosso, mantiene
la funzione fondamentale di ricostruzione della memoria. È una parola – quella
della testimonianza dei sopravvissuti – sacralizzata attraverso la sua
dissacrazione. Una parola che bisogna ascoltare insieme ai silenzi, alle
incertezze, alle interruzioni provocati dagli improvvisi crolli emotivi, con il
regista-intervistatore che incalza, incoraggia a continuare, a dire
l’indicibile; una parola accompagnata dalle lente zoomate della cinepresa su
quei volti segnati dall’inferno vissuto, quei volti che portano impresse,
indelebili, le cicatrici dell’esperienza, volti di chi è sopravvissuto, sì, ma
in qualche modo è anche morto dentro, nonostante una vita che è proseguita.
Le interviste avvengono spesso sui luoghi stessi dello sterminio, oppure, quando
il testimone si trova altrove, sono montate con le immagini di quei luoghi, così
che parola, volti e luoghi sono continuamente in dialogo tra loro. I luoghi,
però, sono come appaiono adesso (ovvero al momento della realizzazione del film,
nel 1985) e sono ripresi senza voci fuori campo, senza colonna sonora, senza
commenti aggiuntivi: le lunghe, estenuanti carrellate che riprendono i prati, i
boschi, le radure, le stazioni di Auschwitz, Treblinka, Sobibór, non
testimoniano ciò che è stato, ma ciò che è rimasto. Anche quando la macchina da
presa si inoltra all’interno dei Lager, e riprende i forni crematori, le docce,
i cortili, è il vuoto che riprende. Ma indagando quel vuoto, che fa da
contrappunto alla parola del ricordo, alla parola-testimonianza, certificando
cioè quella irrappresentabilità dell’evento raccontato (quello che è successo
non puoi vederlo, oggi non ci sono più in queste radure le montagne dei
cadaveri, il fumo dei crematori, i nazisti, gli ebrei, non c’è più niente di ciò
che stai ascoltando in quello che vedi), se ne evoca la verità con ancora più
forza.
In fondo è questa la potenza del cinema di Lanzmann: quel montaggio così
ipnotico, quei piani-sequenza, quegli indugi sugli spazi vuoti sono un racconto
a parte, il vero nucleo di quel racconto, capace di farci percepire la memoria
che i luoghi, ancor prima che le persone, conservano di ciò che è stato, con
tutto il dolore e l’orrore della Storia di un intero popolo e dei suoi singoli
individui. Ed è, forse, l’unica forma possibile di memoria su cui oggi – oggi
che i sopravvissuti stanno scomparendo – possiamo contare. Ma se il metodo di
Sereny sembra simile a quello di Lanzmann, le prospettive sono opposte. Basti
confrontare, ad esempio, le interviste alla SS Franz Suchomel, detenuto nel 1963
e processato insieme ad altre dieci guardie di Treblinka. Lanzmann e Sereny
attivano una diversa focalizzazione sulla stessa persona: mentre Lanzmann
mantiene sempre un gelido distacco, un inflessibile rifiuto morale nei confronti
dei carnefici («Signor Suchomel, non parliamo di lei, ma soltanto di Treblinka»
gli dice a un certo punto, bloccando i suoi tentativi di giustificare il fatto
che al momento della destinazione nessuno gli avesse detto che si trattava di un
campo di sterminio), Sereny mostra invece sempre il tentativo intellettuale di
accedere al cuore dei carnefici attraverso la ragione («La posizione che
Suchomel ha adottato come ammiratore degli ebrei è altrettanto notevole della
sua memoria, e psicologicamente interessante»). Proprio la ragione, così come la
misura, e lo sforzo di comprendere l’incomprensibile, e la considerazione
terenziana dell’«homo sum», rendono il libro di Sereny una degna risposta etica
all’orrore, l’unica possibile forse, per evitare, come avvertiva Nietzsche, che
lottare contro i mostri possa trasformare anche noi in un mostro.
Fabrizio Coscia
*Nota: dobbiamo allo straordinario lavoro documentale della filosofa e storica
tedesca Bettina Stangneth, raccolto nel volume La verità del male. Eichmann
prima di Gerusalemme (pubblicato nel 2011 e tradotto in Italia nel 2017 dalla
Luiss University Press), la demolizione del ritratto di Eichmann compiuto da
Hannah Arendt.
L'articolo Il mostro morale. Perché è sbagliato parlare di “banalità del male”
proviene da Pangea.
Memorie dal sottosuolo, pubblicato nel 1864, si palesa come una delle opere più
emblematiche di Fëdor Dostoevskij, segnando una svolta epocale nel suo percorso,
sia narrativo che filosofico. Questo romanzo, che ad un primo sguardo potrebbe
sembrare un semplice monologo psicologico, è in realtà un dedalo intricato di
riflessioni che sfidano il lettore a confrontarsi con questioni le più profonde
dell’umana vicenda.
Se la sua superficie può essere interpretata come la confessione di un uomo
recluso nel suo mondo interiore, la struttura ed il contenuto si rivelano come
critica diretta alla modernità, alle sue certezze ed alle sue illusioni – a
tratti le due cose assieme. In Memorie dal sottosuolo, Dostoevskij non si limita
a sondare l’animo umano, ma lo fa in un contesto che estrinseca la condizione
dell’uomo del suo tempo: un tempo in cui le grandi verità universali e i
tradizionali capisaldi morali sembrano essere non più valevoli, sostituiti da
un’intelligenza calcolatrice e razionale che si sforza di ridurre l’essere umano
a mero ingranaggio di una macchina sociale secondo un meccanicistico e
deterministico principio di ascendenza scientifica.
In questo contesto, il protagonista, l’“uomo del sottosuolo”, diviene simbolo di
una civiltà in crisi, un uomo che ha rinunciato alla speranza di trovare una
risposta filosofica congeniale alle grandi domande della vita, e si ritira nelle
latebre della propria identità interiorizzante: luogo oscuro dove la psiche è
preda delle sue contraddizioni più forti e delle sue fratture più dolorose. Il
sottosuolo, in questa accezione, non è tanto un luogo fisico, quanto l’emblema
della disgregazione dell’individuo, del suo allontanamento da una razionalità
confacente ai massimi sistemi morali (ontologici e tradizionali come della
società organizzata) e dello iato tra l’uomo e l’impronta della sua autentica
essenza.
L’opera, quindi, non si limita a esplorare unicamente la psicologia del
protagonista, ma si erge a riflessione teorica e filosofica sulla natura
dell’essere umano e sulla sua condizione esistenziale. Se da un lato l’uomo del
sottosuolo rifiuta la razionalità delle scienze positive come leva di progresso
e conseguimento della felicità, dall’altro lato non riesce a fuggire dalla
consapevolezza del suo essere nudato e esposto a ridde di stimoli esuli da
risposte attive: condannato alla solitudine, incapace di agire secondo una
logica di autodeterminazione e imprigionato nelle proprie ritorte elucubrazioni
interiori, nelle proprie nevrosi, nei sensi di colpa. La riflessione filosofica
che attraversa l’opera è lontana da ogni sistema dogmatico e metafisico, eppure
incapace di sfuggire dalla propria condizione di inadeguatezza.
Nel contesto della società che Dostoevskij descrive, l’individuo moderno è
costretto a fare i conti con il carattere di crescente meccanicità della vita
quotidiana, con una razionalità elefantiaca, con la riduzione dell’umano a
schemi e calcoli matematici, previsioni scientifiche, dove ogni emozione, ogni
impulso, ogni azione sembrano essere ricondotti ad una funzione deterministica.
In un tal mondo, l’individuo si percepisce come ingranaggio che opera secondo
regole prestabilite, incapace di emergere dalla sua condizione di prigionia
entro una realtà che non sente più sua. Eppure, nonostante il rifiuto del
razionalismo ottocentesco, l’uomo del sottosuolo non si consola nella sua
solitudine, né trova la liberazione nella ribellione contro i “due più due
quattro”: la sua coscienza si torce in una spirale di auto-accusa e di
impotenza, dove la riflessione non si traduce mai in soluzione concreta o
liberatrice, attiva e tale da forgiare il proprio senso al mondo, non risentita
e creatrice, ma in un continuo, straziante interrogarsi senza soluzione di
continuità.
La caratteristica principale di Memorie dal sottosuolo è proprio questa: l’opera
non offre risposte semplici. Al contrario, ogni risposta sembra aprire un nuovo
abisso, ogni apparente conclusione porta con sé la scia di nuovi interrogativi.
Dostoevskij non ci consegna un sistema filosofico coerente e consolatorio, ma ci
obbliga a confrontarci con l’inquietante verità della condizione umana:
l’incapacità di raggiungere una conoscenza definitiva, l’impossibilità di
liberarsi dalle proprie contraddizioni, il fallimento della razionalità come
perno di comprensione totale del mondo. Il sottosuolo, quindi, non è solo un
luogo spinoso di un estenuante cogito e di un’aspra sofferenza individuale, ma
diventa metafora di una condizione universale: quella di ogni essere umano che,
pur nella ricerca incessante di una verità possibile, è costretto a confrontarsi
con i limiti intrinseci della propria esistenza.
La riflessione sul “sottosuolo” come spazio oscuro ed inesplorato della psiche è
centrale nell’opera e ci abbrivia a un viaggio nell’interiorità che non conduce
mai a liberazione, ma solo a una permanente tensione tra il desiderio di
comprendere e la consapevolezza che ogni comprensione collide con
l’irrazionalità dell’esperienza umana. In tal senso, questa si configura come
un’opera irrazionalista che mette in crisi ogni tentativo di definire l’essere
umano attraverso categorie universali. L’uomo neoterico è troppo complesso,
troppo frantumato, contraddittorio, per essere ridotto ad un insieme di leggi
modellistiche frutto di calcolo e previsione. Eppure, nonostante questa
consapevolezza della propria condizione di impotenza, continua a cercare, ad
interrogarsi, a lottare con sé stesso in una spirale che non conduce a un solo
esito certo.
In questo complesso romanzo, quindi, Dostoevskij non ci offre una filosofia
dell’uomo che possa essere facilmente assimilata o sistematizzata, ma ci
presenta un tragitto senza meta, che costringe a confrontarci con le nostre
stesse inquietudini, i nostri dubbi, le nostre paure, e senza nessuna promessa
di riscatto. Questo è il grande paradosso dell’opera: la ricerca di senso non è
mai fruttuosa, ma è proprio in questa incessante ricerca che risiede la sua
potenza. L’autore, con maestria, riesce a dipingere la psiche in tutta la sua
prismatica complessità, senza cedere alla semplificazione o risolvere i
conflitti che ne emergono. L’opera diventa così un’autentica meditazione
sull’essere umano che pur nella sua dogliosa inadeguatezza, come per una
coazione a ripetere, insiste incessantemente a far ritornare il pensiero su sé
stesso fino a una sorta di spasmo intellettuale. Memorie dal sottosuolo non è,
dunque, solo un romanzo psicologico, ma una riflessione filosofica di un
esistenzialismo ante litteram che sollecita a confrontarsi con l’angoscia ed il
paradosso della nostra irredimibile condizione senza offrire mai la consolazione
di risposte conchiuse.
La struttura del romanzo non è semplicemente un espediente narrativo, ma
manifestazione tangibile della visione dostoevskijana della psicologia umana,
che, come il protagonista, si muove nella snervante, convulsa poiesi di pensieri
contraddittori ed inconciliabili. La narrazione è divisa in due parti, ma questa
divisione non è mai un semplice schema: specchia, in modo mirabile,
l’irrazionalità e la frammentazione della mente del protagonista, il quale
sperimenta l’inestricabile farragine dei propri pensieri secondo un avvicendarsi
di elementi non lineari eppure sottilmente ficcanti. La sua riflessione è
ciclica, sghemba, irrequieta. La mente, simile a uno sprofondo, non si
pacifica: ogni tentativo di risolvere la confusione interiore si dissolve in
spirali di dubbi e di incertezze che non hanno niente di apodittico e perspicuo.
Nella prima parte del romanzo, l’“uomo del sottosuolo” si rivolge direttamente
al lettore in un flusso di coscienza che è espressione massima dell’alienazione
e della solitudine più inciprignita. Così, in queste pagine, egli si svela senza
diaframmi, senza una maschera sociale che lo nasconda, e lo fa in un modo che
sfida ogni convenzione letteraria. Non si tratta di una riflessione pacata e
distaccata, ma di un fiume di pensieri che si accavallano, si contraddicono, si
disperdono in mille rivi senza mai trovare conclusione soddisfacente (il
protagonista è uno scontento cronico) e in tale flusso, non c’è unità di
pensiero, ma anzi si moltiplicano le fratture: il desiderio di affermare la
propria individualità e la consapevolezza che essa è solo una forma di cattività
e autoinganno conducono l’uomo del sottosuolo a una solitudine insostenibile.
Non vi sono cartografie esistenziali di condotta giusta e confacente al
raggiungimento della felicità ma solo una continua oscillazione tra il rimpianto
e la disillusione, tra la speranza che il pensiero possa fare luce su un senso
auspicabile e la disillusione più aspra. La narrazione stessa riflette questo
confliggere, questo andamento franto e nevrotico, spostandosi incessantemente
tra il disprezzo per la razionalità e l’impossibilità di eluderla.
La seconda parte del romanzo, in cui l’uomo del sottosuolo racconta alcuni
episodi significativi della sua vita, non cerca di ricreare una narrazione
cronologica o lineare. Gli eventi che descrive sono scuciti, sconnessi,
rapsodici come le sue stesse esperienze emotive e psichiche. Piuttosto che una
storia coerente, ciò che emerge è un mosaico di scene, ambiti e considerazioni
che, pur sembrando disarticolati, servono proprio a dare concretezza alla
sofferenza e all’impotenza.
I tentativi di relazionarsi con gli altri, di inserirsi nella vita sociale, non
sono altro che un protratto fallimento, un puntuale appuntamento con la propria
inadeguatezza. Ogni episodio che il protagonista rievoca diventa l’occasione per
una riflessione che non porta a chiarimento, ma che, quasi, inasprisce la
condizione di frustrazione esistenziale che lo connota. La vita di quest’uomo
kafkiano che non riesce a essere “neanche un insetto” è attraversata da un
eterno conflitto tra il desiderio di affermarsi ed il timore di essere
fatalmente sopraffatto dal mondo esterno, un conflitto che, come le sue
riflessioni, non trova mai una via di fuga, men che meno ariosa.
La sua condizione, quindi, è il perfetto riflesso della sua psiche lacerata,
ipertrofica, incapace di conciliare le proprie pulsioni più profonde con le
aspettative della società. Ma il sottosuolo in cui si rifugia è metafora di una
condizione esistenziale che travalica il semplice isolamento sociale. L’uomo del
sottosuolo è un individuo che ha scelto la solitudine, e non solo come ritiro
dal mondo, ma anche come forma di resistenza. Resistenza non tanto contro le
forze esterne, ma contro la propria stessa natura, contro il senso di impotenza
che prova di fronte ad una realtà che è incapace di soddisfare le sue esigenze
più ime. Il sottosuolo, in quest’ottica, è luogo di punizione, di
autoafflizione: l’isolamento, per il protagonista, non è mai liberatorio, ma
preferibilmente un incessante tormento che lo costringe a fare i conti con
pletore di fallimenti, con illusioni smarrite, con il decadere di ogni
possibilità di redenzione. Questo rifugio interiore è l’unico spazio in cui
l’individuo può ancora agire, ma in un contesto cervellotico e involuto che non
si traduce in scelte fattive ed è senza possibilità di riscatto o di
pacificazione.
Inoltre, egli si presenta come un “outsider” in senso totale, un individuo che
non appartiene a nessun gruppo, a nessuna ideologia, un essere che non accetta
nessuna mediazione tra sé ed il mondo. Questo rifiuto totale della mediazione
sociale (quella del pensiero è invece fin troppo invadente e elaborata, reattiva
e risentita in senso nietzschiano) lo rende incapace di inserirsi in qualsiasi
compagine sociale, sia essa religiosa, politica o culturale. Egli conduce
un’esistenza spettrale e defilata, che si esprime esclusivamente attraverso il
proprio rifiuto della realtà. Non è uomo che si oppone ad una società ingiusta o
che si ribella ad un ordine oppressivo, ma individuo che rifiuta ogni forma di
riconoscimento da parte del mondo esterno. Il suo isolamento è condanna a vivere
privo di strutture di significato e coordinate inclusive o di inserimento. In
fondo egli è cattivo (anche nel senso latineggiante di “prigioniero”) perché
rifiuta la dativa semplicità di ciò che è buono e elargivo di sé, ed è appunto
ostaggio di non altro che della propria bizantina, capricciosa e accidiosa
libertà di pensiero autoriferito.
Il “sottosuolo”, dunque, non è solo il luogo di una riflessione sulla condizione
dell’individuo moderno, ma anche simbolo rivelatore della crisi esistenziale che
segna un’epoca. Lì l’individuo non è mai in grado di liberarsi dei propri ceppi
interiori. La sua battaglia contro sé stesso è incessante e senza speranza, una
teoria di specchi in cui si perde dell’identità persino il pedissequo riflesso
singolo, a favore di una proliferazione di immagini; ed è proprio questa lotta
senza fine che rende l’opera dostoevskijana così potente e tragica. L’uomo del
sottosuolo continua a scavare, ad interrogarsi, a provare a superare il
conflitto che lo rode da dentro come un tarlo della ragione. Questo conflitto,
questa continua scissione tra il desiderio di azione e l’incapacità di agire, è
la vera essenza del sottosuolo: luogo in cui l’individuo si consuma e estenua
nella solitudine, nel suo senso di carenza e insufficienza e nella sua
incapacità di riconciliarsi con il mondo e con sé. Il sottosuolo è l’arena in
cui si svolge la lotta infinita tra la natura dell’uomo e le aspettative della
società, una lotta che non trova mai conciliazione.
Una delle questioni più urgenti e più pungenti che Dostoevskij affronta
in Memorie dal sottosuolo è quella che riguarda la tensione tra la razionalità
illuminista e l’irrazionalità magmatica che intrinsecamente caratterizza il
tragitto umano. Il protagonista si erge come un contro-esempio, radicale e
disilluso, alla visione ottimistica dell’essere umano, quella che immagina la
ragione ed il progresso come soluzioni che, se ben operanti, potrebbero condurre
alla felicità, alla realizzazione ed alla pace sociale. Questa concezione, che
si fonda sull’idea che ogni uomo possa essere guidato da principi morali e
scientifici, e che anzi essi possano sovrapporsi, che la razionalità possa
effettivamente orientare il corso degli eventi, viene demolita con una lucidità
ed una durezza che rasentano la ferocia. Il protagonista rigetta fermamente
l’idea di un uomo “razionale”, come quella che lo vede quale zoon politikon che
vive seguendo leggi universali e previsioni deterministicamente orientate,
nell’alveo di una vita socialmente condivisa. La sua esistenza si scontra
frontalmente con questo ideale dell’uomo come macchina razionale (“punta di
organetto” e tavola di calcoli); eppure, è proprio nella negazione di questa
razionalità che emerge l’essenza di una profonda crisi ammantata di superiorità
morale.
L’uomo del sottosuolo, per Dostoevskij, incarna la consapevolezza acuta che il
raziocinio, lungi dall’essere una chiave per la liberazione, diventa prigionia
asfissiante. La sua ribellione non è tanto contro il progresso o la scienza in
sé, ma contro la pretesa di considerare l’uomo come entità che può essere
completamente spiegata e regolata da calcoli:
> “…Allora, dite voi, la scienza stessa insegnerà all’uomo (benché questo sia
> già un lusso, secondo me) che in realtà egli non ha né ha mai avuto volontà né
> capriccio, e che egli stesso non è altro che una specie di tasto di pianoforte
> o di puntina d’organetto; e che, inoltre, al mondo ci sono anche le leggi di
> natura; sicché, qualsiasi cosa egli faccia, avviene non già per suovolere, ma
> da sé, secondo le leggi di natura. Di conseguenza, basta solo scoprire
> queste leggi di natura, e l’uomo non dovrà più rispondere delle sue azioni e
> vivere gli sarà estremamente facile. Tutte le azioni umane, s’intende, saranno
> calcolate allora secondo quelle leggi, matematicamente, come una tavola dei
> logaritmi, fino a 108.000, e riportate sul calendario; oppure, meglio ancora,
> usciranno delle benemerite pubblicazioni, sul tipo degli attuali dizionari
> enciclopedici, in cui tutto sarà elencato e indicato così esattamente, che al
> mondo ormai non ci saranno più né azioni, né avventure…”
L’infelice protagonista è scettico verso ogni visione che cerchi di ridurre la
complessità e la contraddittorietà del suo sé ad una formula. Riconosce con
dolore e lucidità che ognuno è capace di autolesionismo, di contraddizione, di
follia, di gesti che sfidano ogni previsione logica e scientifica, ma i suoi
viluppi di pensieri non lo conducono se non a una falsa libertà. La libertà,
certo, non può essere definita da un ordine logico predeterminato, ma se la
ragione è una prigione, essa non può che essere qualcosa che si sottrae a ogni
edificazione razionale.
Il protagonista si oppone in modo deciso a ogni concezione ottimistica della
società come sistema razionale e ordinato in cui ogni individuo trova una
propria collocazione data, contribuendo al bene collettivo secondo un pensiero
utilitaristico (si legga qui utilitarismo come dottrina filosofica e non nel suo
senso deteriore invalso). Questo ordine sociale non è altro che un paramento
dietro cui si cela la disumanizzazione dell’individuo, esattamente come avviene
nella “macchina sociale” evocata da Michelstaedter ne La persuasione e la
rettorica:
> “Si sono fatti una forza della loro debolezza, poiché su questa comune
> debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca
> convenzione… mossi e motori ad un tempo, infallibili e sicuri tutti, in quanto
> attraverso di loro viva la vita del grande organismo con la sua previsione
> complessa e squisita, cristallizzata negli ingegni delicati e potenti che
> eliminano dal campo della vita umana ogni contingenza… E come perché uno metta
> in un organo meccanico una data moneta e giri l’apposita leva, la macchina
> pronta gli suona la melodia desiderata, poiché nei suoi congegni è
> cristallizzato il genio musicale del compositore, e l’ingegno tecnico
> dell’organista, così al determinato lavoro che l’uomo compie per la società,
> che gli è familiare e istintivo nel modo, ma oscuro nella sua ragione e nel
> suo fine, la società gli elargisce sine cura tutto quanto gli è necessario,
> poiché nel suo organismo s’è cristallizzato tutto l’ingegno delle più forti
> individualità accumulato dai secoli…”
Si vede, in definitiva, come ognuno sia privo di un legame autentico con il
mondo: simile a frammento che non può essere ridotto a ideologia collettiva o a
modello sociale organizzato. Tuttavia, dalla ribellione, emerge un dolente
paradosso. L’uomo del sottosuolo non ha il coraggio di abbracciare una libertà
autentica, quella che avrebbe richiesto un atto consapevole di
autodeterminazione, un passo che implica la scelta di una vita concreta, pur con
i suoi limiti, le sue imperfezioni e le sue sofferenze: la sua è una libertà
apocrifa, infatti, che non edifica ma distrugge. È distruttiva e
autolesionistica, accidiosa e stagnante: insiste dove duole proprio come “il
demone della perversità” di Poe, persevera nel desiderio di annientamento. La
consapevolezza di essere liberi allora tormenta, perché questa libertà non porta
con sé alcuna possibilità di adempimento di sé o di soddisfazione, ma solo il
peso di una continua, insostenibile emarginazione. L’incapacità di scegliere una
via, di agire secondo una volontà autentica, di formulare progetti concreti
spinge verso un’esistenza vacua, segnata dalla rassegnazione e dal tormento, ma
anche dalla paura di cedere alle stimolazioni del mondo esterno.
La critica alla razionalità, tuttavia, non si configura come un abbraccio
irrazionale della follia o del caos. E Dostoevskij, pur rifuggendo da ogni
romanticismo che celebri l’irrazionalità come un valore in sé, solleva una
domanda più radicale: fino a che punto possiamo veramente considerare l’uomo
libero? Se anche il pensiero più puntuto e risolto non è la via per la libertà,
se il rifiuto della razionalità porta solo a un’arte della distruzione, allora
che cos’è essa veramente? La riflessione è ben più profonda e inquietante:
l’uomo neoterico, nonostante la pretesa di essere libero, fa della sua stessa
coscienza una trappola, irretito nelle pulsioni più profonde, in angosce
inconfessabili e in passioni autodistruttive. La libertà, dunque, lungi
dall’essere una conquista, diventa una condanna, un dissidio interiorizzante e
risentito che non può essere risolto attraverso una razionalità progettante. Una
risposta né ontologica né illuministica ma esistenzialista potrebbe essere
quella di affrontare la realtà attraverso l’accettazione delle sue implicazioni
più tragiche.
L’ineguagliabile autore russo irrompe nel cuore della modernità sollevando la
domanda esistenziale fondamentale: che cosa significa essere veramente liberi,
se la libertà stessa è inestricabilmente legata alla sofferenza e alla
disillusione? La sua critica al razionalismo è un invito a riconoscere la
fragilità e la contraddittorietà dell’essere umano, la sua necessità
inestinguibile di trascendere persino ciò che è logico e perspicuo o più
auspicabile, scollinare modelli meccanicistici e segnati da cinghie di cause e
effetti, e ci ricorda infine che è troppo complesso e composito per essere
risolto da un modello teorico coerente e totale, che la sua libertà non può mai
essere pienamente definita, e che la sua vera natura è perennemente esposta alla
lacerante tensione tra desiderio di ordine e caos interiore.
La solitudine che pervade l’esistenza del sottosuolo è, al contempo, una scelta
deliberata e, come detto, una condanna irrevocabile. Da un lato, essa si
configura come difesa: una ritirata strategica dal mondo che l’individuo non
riesce più a comprendere, né ad accettare. Il protagonista rifiuta di essere
parte di una collettività che gli appare estranea, un sistema che non riesce ad
offrire risposte soddisfacenti alle sue domande e esigenze più ime. Egli non è
semplicemente un emarginato, un individuo che si ritira per scelta o per
necessità, ma un pensatore tormentato che si identifica in modo coestensivo, e
fino a coincidervi, col proprio spazio mentale come ultima risorsa per fuggire
il vuoto della vita quotidiana. Le convenzioni, le aspettative sociali ed il
progresso razionalistico non hanno nulla da offrire a chi, come lui, percepisce
il mondo come meccanismo alienante, incapace di adempiere alle urgenze più nude
dell’anima umana. In questo rifiuto, l’uomo del sottosuolo si palesa come una
figura solitaria, ma anche come una sorta di “testimone” di una condizione che,
pur dolorosa, appare ineludibile.
Tuttavia, questa solitudine diventa presto un dispositivo da tortura: non solo
lo allontana dagli altri, ma lo intrappola in un circolo vizioso di pensieri
ossessivi e di riflessioni che non conducono mai a una catarsi. Essa non è
liberatoria, ma un sortilegio che imprigiona la sua psiche, atrofizza l’azione,
tra sensazioni dolorose e autocritiche incessanti. L’esistenza diventa segnata
dal conflitto tra il desiderio di allontanarsi da un mondo indiscernibile e la
crescente consapevolezza che la solitudine stessa non offre alcuna risposta ad
un acuto tormento, ad un rimuginio che non approda né a soluzioni né a
rivelazioni.
Qui l’uomo non può trovare zona franca, come facevano gli eroi romantici, nella
solitudine come spazio di riflessione pura, di autoconsolidamento o elevazione
spirituale. Mentre per gli eroi romantici la solitudine era uno perno creativo,
un laboratorio dell’anima dove l’individuo poteva avvicinarsi a sé e alle verità
universali, per l’uomo del sottosuolo è la prigione della sua impotenza. La
ricerca della verità, allora, non è atto di liberazione, ma processo che si
rivela sterilmente doloroso: interminabile maelstrom che non porta mai alla
purificazione o al superamento del dolore. Lì non si costruisce una nuova
visione del mondo, ma il rifugio ultimo di chi ha praticato la rinuncia a
qualsiasi anelito di salvezza, il luogo dove il dolore esistenziale non può
essere elaborato.
L’uomo del sottosuolo non è pari al compiere scelte decisive, è drastico solo
nella negazione, non riesce a superare l’apatia che lo immobilizza acuendo il
suo stato tormentoso. L’esistenza stessa, in quest’ottica, è sofferenza senza
redenzione, un susseguirsi di riflessioni auto-assolutorie ma che non riescono
mai a raggiungere una verità definitiva o una pace. Lungi dall’essere una
condizione passeggera o un semplice rifugio provvisorio, diventa l’emblema
stesso della sua impotenza. La sua esistenza si nullifica, scivolando lentamente
nell’indifferenza e nell’autoafflizione. Soffre di soffrire, il suo patimento
rasenta l’astrazione: egli è la propria stessa malattia.
La tensione tra libertà ed azione, centrale in Memorie dal sottosuolo, svela la
natura profondamente ambigua e lacerata, sdrucciola e elusiva di una libertà
che, pur essendo riconosciuta come un diritto fondamentale, non è mai facilmente
conducibile alla capacità di agire. A ben vedere l’individuo non è incapace di
agire, ma sceglie deliberatamente l’inazione. La sua azione si limita
all’introspezione, a un vertiginoso flusso di pensieri che non si attua mai in
un movimento esterno, in un gesto che abbia una valenza trasformativa. La sua è
una riflessione autofaga.
Appare qui il passato come isola e fardello morale, come luogo di una vis
inattiva. Decifrare un ordine nel caos dell’esistenza porta solo ai segni di
un’astrusa alienazione, ciclo infinito che non approda a nulla di concreto.
Libertà come maledizione: condanna all’immobilità, all’impossibilità di fare
esperienza del mondo in modo autentico. L’intellettualismo del protagonista
diventa intrico di parole e concetti che non hanno alcuna relazione con il mondo
esterno, avvitandosi su un oggetto che non esiste.
In fondo il cuore della visione dostoevskjiana è lo smascheramento spietato di
una libertà malintesa (quella di poter scegliere arbitrariamente come mero
esercizio astrattivo che ha in sé il suo fine) a favore di una, ben più ariosa,
che riconosce l’ineluttabilità della condizione umana, la sua dimensione finita
e tragicamente contraddittoria.
Ma, come detto, la libertà del protagonista è una macchina da tortura.
L’uomo del sottosuolo è, in fondo, la rappresentazione di un’umanità moderna
che, pur avendo conquistato una via di uscita dal giogo delle convenzioni e
della tradizione, si ritrova incapace di utilizzarla per creare nuovi
significati nella tensione lacerante tra libertà e destino, tra il desiderio di
autodeterminazione e la fatalità che sembra legare ogni individuo a uno stato di
prostrante paralisi: il destino non è più visto come una forza esterna da cui
l’individuo è condannato a essere schiacciato, ma come un dramma interiore che
ha per teatro la sola mente del protagonista, un destino che è inevitabile non
per degli influssi esterni, ma per incapacità personale di affrontarlo. È così
che si allarga la forbice tra l’individuo e il mondo che lo circonda. Ma la
società lo soffoca non più del tanfo della sua stagnazione, del disfacimento
della propria stessa individualità che da essa si voleva riscattata.
Dostoevskij sfida il lettore nella sua capacità di non cedere al nichilismo più
sterile o al fatalismo pur esplorando le zone più latebrose della psiche, con
una lucida ma dolorosa analisi della realtà non mistifica né ignora, ma mostra
la condizione patologica di una “volontà di potenza” alla rovescia, di un
esecrabile e mortifero eterno ritorno che il protagonista compie su sé,
avvitandosi in una stagnazione spiraliforme.
L’opera suggerisce che la vera sfida per l’individuo moderno non sta nel cercare
soluzioni o risposte univoche, ma nel creare una propria interna tensione attiva
e liberatrice, proprio in limine tra autodeterminazione e azione, pensiero come
atto di autocoscienza e volontà di progettare per edificare un senso che non
eluda la fragilità dell’esistere.
Il sottosuolo è così la metafora di una disarmonia tipica della vita moderna e
l’opera di Dostoevskij, gioiello senza tempo e figlio del suo tempo, si presenta
dunque come una sfida ancora aperta.
Massimo Triolo
*In copertina: un ritratto di Valentin Serov
L'articolo Nelle latebre della psiche. “Memorie dal sottosuolo”: storia di un
outsider totale proviene da Pangea.
Esiste, in letteratura, una categoria estetica dell’amabilità? E se sì, quali
spazi di conoscenza dell’animo umano ci apre nella sua ordinarietà, nella
sua mediocritas? Del resto, la stessa parola – mediocritas – in latino non aveva
originariamente un valore dispregiativo. Indicava, piuttosto, una virtù: quella
della moderazione, della giusta misura; la capacità di non cadere negli eccessi,
di mantenersi nella linea media. Questa mediocritas Orazio in una famosa ode la
definisce «aurea», perché alludeva a un ideale di saggezza (Aristotele in greco
la chiama mesotes): l’uomo doveva ambire a quella medietà, a quell’equilibrio
tra due opposti, per esaltare appunto l’umanità stessa che era in lui, misura di
tutte le cose. Il controllo delle passioni, la moderazione, erano dunque un
valore etico da perseguire. Poi, con la modernità qualcosa è cambiato: da un
lato il romanticismo, con l’invenzione del genio e del sublime, il mito del
titanismo, e a seguire il decadentismo con il dandismo anti-borghese e la
dottrina nietzschiana dello Übermensch (più o meno travisata dagli esteti alla
D’Annunzio); e dall’altro (o all’opposto, se vogliamo) il capitalismo
industriale, con l’invenzione dell’efficienza e il mito del successo, hanno
fatto assumere all’«aurea mediocritas» un significato completamente diverso, con
una coloritura ironica, se non sarcastica, per dire di qualcuno che si
accontenta miseramente di quel poco che ha o che è. Finché la mediocrità non è
diventata il tabù per eccellenza della nostra società dei consumi,
ipercompetitiva e ansiogena, dove un selvaggio darwinismo sociale punta a
instillare in tutti il germe dell’eccezionalità, della rincorsa ai «15 minuti di
celebrità», dove il Superuomo da supermarket è diventato alla portata di tutti
(come sembrano suggerirci ogni giorno le pubblicità, che ci invitano a essere i
migliori possedendo le cose migliori).
C’è una parola – orrenda – che oggi definisce il mediocre: la parola «sfigato».
Essere uno sfigato sembra diventata la peggiore iattura, la condanna più
inesorabile. Una volta marchiato come tale, un individuo è tagliato fuori
inesorabilmente. Se sei uno sfigato non puoi essere preso in considerazione, non
puoi far parte del gruppo. Lo sfigato è un perdente e non c’è spazio per i
perdenti in una società che fa del successo da talent-show l’unico imperativo
categorico. Ma lo sfigato è però anche quello che non si conforma, quello che
non contribuisce a mandare avanti il tutto come occorre. È l’anello debole o il
granello di sabbia che inceppa l’ingranaggio. Ed è, proprio per questo,
amabile.
La letteratura ci ha consegnato, in effetti, grandiose figure di mediocri
amabili. Il Leopold Bloom dell’Ulysses di James Joyce, ad esempio, è un buffone
shakespeariano. È vitale, è gentile, è simpatico, in un episodio assurge perfino
a una sua memorabile eroicità, quando nel pub difende le proprie origini
ebraiche di fronte all’orrido Cittadino antisemita. Non conosce il rancore, non
ha ambizioni, ma è generoso, pratica la misura, coltiva una cauta sessualità. È
consapevole dei tradimenti della moglie, ma nel capitolo finale della
fantasmagoria notturna ha una visione in cui Shakespeare lo esorta a non
vendicarsi su Molly come Otello con Desdemona. Bloom è un puro di cuore. Ma
soprattutto è umano. Di tutt’altro genere di umanità, ma altrettanto amabile, è
lo Stepan Arkaďič Oblonskij di Lev Tolstoj, in Anna Karenina. Vorrebbe essere
l’emblema di una certa superficialità e frivolezza dell’alta società russa
dell’Ottocento, con il suo modo di vivere agiato, ma quel che ne viene fuori è
un personaggio irresistibile. «Stiva» è un uomo futile, certo, un fanfarone
dedito ai piaceri della vita (le donne, il cibo, lo champagne), un egoista, ma
proprio questo suo rifiuto di impegnarsi in grandi progetti, di assumersi le
responsabilità, lo rendono amabile. Non a caso il romanzo comincia dal putiferio
che ha scatenato la scoperta da parte della moglie della sua tresca con
l’istitutrice francese dei figli. Oblonskij è un personaggio comico, di una
comicità che lo salva da tutte le sue colpe. A lui si potrebbero riferire le
parole di Philip Roth in Pastorale americana:
> «Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe
> dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la
> gita».
La sua prima apparizione ci ricorda un altro grande personaggio russo (anche lui
di amabile mediocrità), Il’ja Il’ič Oblómov, protagonista del romanzo eponimo di
Ivan A. Gončarov, il proprietario terriero che trascorre le sue giornate a letto
o sdraiato sul divano. Anche «Stiva» si risveglia sul divano, ignaro della
bufera che sta per abbattersi sul suo matrimonio: ha fatto un sogno in cui si
trovava a un banchetto in America, dove si mangiava su tavoli di vetro, «tavoli
canterini che intonavano Il mio tesoro», con delle «caraffine sinuose che
scoprivamo essere donne…». Un sogno tipicamente oblonskijano. Senonché quel
principio di piacere che lo ha accompagnato nella notte è costretto a scontrarsi
con il principio di realtà incarnato dalla moglie che gli si para davanti
sventolando un biglietto, prova tangibile del suo tradimento, e un’espressione
di disgusto, disperazione e rabbia. E lui che cosa fa?
> «Invece di risentirsi, di negare, di giustificarsi, di chiedere perdono o di
> restare finanche impassibile (tutto era da preferirsi a ciò che fece!), sul
> viso gli si era involontariamente stampato (“riflesso cerebrale”, si scoprì a
> pensare da appassionato di fisiologia qual era) il solito, consueto, bonario e
> perciò sciocco sorriso».
Un sorriso che rende furibonda la moglie. Ma quel «riflesso cerebrale» altro non
è se non la rivelazione inconsulta della sua natura di uomo che rifiuta la
tragedia, l’alto, il sublime (tutto ciò che invece accetta sua sorella Anna,
lasciandoci la pelle).
Ancora diversa è l’amabilità di Hans Castorp, il giovane protagonista de La
montagna incantata di Thomas Mann, che con la sua strepitosa disponibilità
pedagogica ed erotica, pronto a innamorarsi di tutto e di tutti, rappresenta
l’alunno ideale che vorrebbe qualunque docente. Personaggio ordinario, certo,
come spesso Mann sottolinea, ma anche una spugna capace di accogliere,
metabolizzare le antinomie (da un lato l’umanista Settembrini, dall’altro il
radicale antimoderno Naphta, ma al centro, soprattutto, l’eros di Madame
Chauchat), insomma un individuo malleabile, che ci mostra quanto sia importante
non porre difese, né argini, essere curiosi e aperti alle sollecitazioni della
vita.
E come definire se non amabile anche la mediocrità di Zeno Cosini, l’inetto
della Coscienza di Zeno,trasparente alter-ego dell’autore Italo Svevo, su cui,
non caso, lo stesso Joyce, che fu amico di Svevo, modellò il suo Bloom? Cosini
(in nomen omen) con le sue debolezze, i suoi tradimenti, i suoi tic, i suoi
lapsus, i suoi continui patteggiamenti con la propria coscienza, quanto ci
appare vicino e fraterno e adorabile. Nella sua inettitudine, nella sua
nevrotica inerzia, nella sua mediocrità, vi è nascosta una vitalità sotterranea.
Quando vede un uomo zoppicare per strada, al solo prendere coscienza dello
sforzo che i muscoli devono compiere per camminare, comincia a zoppicare anche
lui. Quando muore il suo antagonista Guido Speier, si accoda al funerale
sbagliato. Quando decide di smettere di fumare, accompagna qualsiasi evento con
il proposito, sempre vanificato, di fumarsi l’ultima sigaretta. Perfino la
scelta della moglie è il frutto di un equivoco, di un errore, e di un forzato
accomodamento con la mediocrità.
Zeno è un personaggio che non ha in mano il suo destino, ma che si lascia
trasportare dagli eventi senza opporvi la minima resistenza. Ma non è proprio in
questo naufragio (che egli chiama «malattia») la sua salvezza? Nella stessa
categoria estetica possiamo includere anche il rabbino Hillel (realmente
esistito, ma personaggio letterario in quanto tra i protagonisti principali del
Talmud). La sua contrapposizione con l’altro rabbino, il rigido e dogmatico
Shammai che lo coinvolge in oltre trecento dispute fa risaltare luminosamente la
sua amabilità, la sua saggezza tutta pratica, la sua apertura mentale. Hillel
riconosce che la vita, nella sua mutevolezza, nella sua imprevedibilità, non può
subire la costrizione di un codice scritto immutabile. Si racconta di un pagano
che si presentò al maestro Shammai e gli chiese di potersi convertire alla fede
ebraica, a condizione però che il rabbino gli insegnasse l’intera Torah mentre
lui si reggeva su una gamba sola. Shammai lo cacciò via con un bastone. Lui
allora andò da Hillel con la stessa richiesta. E Hillel gli disse:
> «Ciò che non desideri per te, non fare al tuo prossimo. Questa è tutta la
> Torah, il resto è solo commento. Ora va’ e imparalo».
Una delle massime di Hillel è: «non separarti dalla comunità», ovvero non
desiderare di essere diverso (non c’è in questo un’eco di Kafka, del desiderio
dell’agrimensore K. di entrare nel Castello?). «Ama le creature» esortava,
ancora, Hillel, il rabbino umile, che praticò la «mediocrità» nel suo valore
etimologico, nel senso cioè di sapersi porre nel mezzo fra gli estremi, di saper
praticare quella legge della «misura» che Albert Camus indicherà, nel suo L’uomo
in rivolta, come un valore di mediazione da opporre alla «dismisura» che invece
conduce al nichilismo. Una misura che nasce dalla «rivolta», non
dall’acquiescenza, poiché antepone l’uomo all’assoluto. Così come antepone
l’uomo all’assoluto Samuel Picwick, il protagonista del Circolo Pickwick di
Charles Dickens, la cui accettazione della realtà è per l’appunto basato sulla
«misura». Egli è l’incarnazione stessa della bontà e della generosità. Il suo
rapporto con l’inseparabile Sam Weller è paterno, i suoi piaceri sono semplici,
la fiducia negli altri gli permette di scorgervi il loro lato migliore. È un
viaggiatore instancabile, ma un viaggiatore nelle sfere mediane della realtà. La
sua innocenza, la sua attitudine a mantenere ottimismo e umorismo anche nelle
disavventure, ricorda un po’, spostandoci dalla letteratura al cinema, Jeffrey
Lebowski, il protagonista del film Il grande Lebowski, dei fratelli Coen: un
hippie fannullone (oblomoviano), pacifico, rilassato, inconcludente. Potremmo
definirlo senza dubbio uno «sfigato», eppure è forse il personaggio più amabile
e più amato della storia del cinema, al punto che il culto dei suoi ammiratori –
una vera e propria setta – ha dato vita a una religione, denominata «dudeismo»
(dal soprannome di Lebowski, The Dude, in italiano»). In che cosa consiste
questa religione o meglio questa filosofia? Si può sintetizzare nella massima di
Lebowski: «The Dude abides» («il Drugo sopporta»), un’originale commistione tra
epicureismo e stoicismo.
Lebowski ci insegna a restare distaccati anche quando si è immersi nelle
situazioni più assurde, a non prendersi mai sul serio, a trovare il lato
positivo in ogni situazione, a saper apprezzare le piccole cose della vita (gli
amici, il bowling, la marijuana, il White Russian), a ignorare le convenzioni
sociali (indimenticabile la sua apparizione in vestaglia al supermercato, dove
beve il latte direttamente dal cartone). Lebowski è la negazione del «sogno
americano», ma è – anche – l’esaltazione del lato umano di questo fallimento. Il
suo rifiuto di costruire un progetto di vita funzionale ai valori della società
competitiva ne fa, in effetti, un paladino della sconfitta.
A pensarci bene, tutti questi personaggi qui ricordati, a che livello di
conoscenza ci fanno pervenire? Saremmo portati a pensare che, rispetto agli
Amleto, ai Raskolnikov, abbiano una capacità minore di scandaglio, di
introspezione, eroi del «soprasuolo», per così dire, votati a una più
prevedibile umanità. Esiste, invece, un valore sapienziale in questi personaggi
che non possiedono gli altri, più tragici, più sofferti. È il valore della
disponibilità, della capacità di adattamento, della comprensione, del
relativismo, della misura.Perché in fondo è questo che ci insegnano soprattutto
questi personaggi: non solo a farci riconoscere l’un l’altro come esseri umani,
fragili limitati piccoli, ma soprattutto a non giudicare la vita ma a trovare
degli interstizi in cui collocarci, a capire il significato del compromesso, ad
abitare il mondo restando «fedeli alla terra».
Fabrizio Coscia
*Le citazioni da Anna Karenina sono tratte da Einaudi, 2017, traduzione di
Claudia Zonghetti; quelle da Pastorale americana da Einaudi, 2013, traduzione di
Vincenzo Mantovani; quelle di Hillel dal volume di Abraham Cohen, Il Talmud,
Laterza, 1999.
Ringrazio Filippo La Porta per la nostra conversazione sul tema.
L'articolo Esercizi di aurea mediocritas. Ovvero: elogio dello sfigato proviene
da Pangea.
C’è una pena nell’essere, una spina che accompagna ogni passo, che tormenta ogni
riposo. «Respiro. Questo è già desiderare».[i] E dal desiderio l’azione,
dall’azione ingiustizia, dall’ingiustizia la morte.
A ogni slancio verso la vita, risponde il ghigno corrosivo della morte.
Cerchiamo la vita e troviamo la morte.
Ogni mattino che cade sulla terra, l’uomo che soffre, l’uomo che pensa e che
soffre, fin dal suo primo respiro è condannato: agire e ferire; non farlo e
morire.
*
Il popolo del Nilo che pesa le anime al trapasso, Arjuna fermo in mezzo al campo
di battaglia, sono figli di questa pena.
C’è una pena nell’essere ed è una pena che non ha riscatto.
*
Respirare e desiderare, vivere e uccidere. Questo è proprio dell’uomo. Ma la
pena non è dell’uomo soltanto: «tutta la creazione geme»,[ii] come sapendo che
tutto muore di una pena sconosciuta, che nel nascere delle cose è inscritto il
loro morire, «secondo il dovuto, perché pagano l’una all’altra, giusta pena e
ammenda della loro ingiustizia».[iii]
*
C’è una pena nell’essere e c’è una pena nell’uomo. Ed è la stessa pena, il
sentire qualcosa che manca – al fondo di ogni gioia sentire il brivido del
terrore, al fondo di ogni dolore saperne l’insensatezza.
C’è una pena che è dell’essere, ma di cui in tutto l’essere, nell’intero novero
di quello che abbiamo intorno e che chiamiamo cosmo, l’uomo soltanto ha
coscienza.
L’uomo è coscienza del cosmo, il punto del cosmo in cui il cosmo diventa capace
di sentire se stesso, di pensare a se stesso, di patire se stesso.
È vertiginoso e tremendo. Il cosmo che geme e l’uomo che paga.
Per questo – per questa tremenda vertigine – l’uomo dimentica, sceglie di
dimenticare.
*
«Dalla natura sorge la paura della morte».[iv] E se il nemico è oscuro, se non
si può fuggirlo né affrontarlo a viso aperto perché non ha forma, perché non è
fuori ma dentro – e la sua forma è una forma di verme che si aggrappa al ventre
e sale per lo stomaco, se questo nemico oscuro non si può fuggirlo né
affrontarlo, quale altra salvezza se non dimenticare?
*
«Facciamoci un nome per non perderci sulla terra».[v] È il contrappasso
spaventoso di Babele: la tecnica in cambio del dono, il potere in cambio
dell’amore.
Attraversiamo i giorni e le notti dormendo in «cessi con porte
numerate»,[vi] accaniti a «progettare il frigorifero perfetto»,[vii] a «sognare
sistemi così perfetti che nessuno debba essere buono».[viii]
«Facciamoci un nome per non perderci sulla terra». Questo si dicevano i
carpentieri di Babele, questo ci ripetiamo senza dircelo ogni mattina – il
desiderio pervertito in brama, l’amore in possesso.
*
«Dalla natura sorge la paura della morte». Dalla paura, la dismemoria. Il mondo,
che «per i desti è uno e comune», in chi resta a dormire si frantuma, a ciascuno
dando la sua parvenza, «un proprio mondo particolare»;[ix] ciascuno, dimentichi
noi dell’essere e della sua pena, vivendo «secondo una sapienza sua propria».[x]
*
«Chi ci farà vedere il bene?».[xi]
Una domanda che è un miracolo. Accaniti a progettare il frigorifero perfetto,
vivendo ciascuno secondo una sapienza sua propria, abituati alla smemoratezza e
a confondere il desiderio con la brama, come ci può venire in mente la domanda
del salmista, come può venirci in mente che da altri e non da noi vada appresa
la forma del bene?
*
C’è una pena dell’essere, una pena che è la nostra e che è senza riscatto.
*
«L’uomo nella prosperità non comprende».[xii] La nostra vita finirà, le nostre
battaglie, le nostre conquiste, gli amori: tutto finirà e non saranno i nostri
sforzi a poterne salvare un solo granello.
Facciamoci un nome sulla terra, progettiamo il frigorifero perfetto.
E quando tutto sarà morto, quando tutto sarà polvere, soltanto allora, solo
allora – santa grazia – la sferza della vita ci risvegli alla vita.
*
«Che cos’è l’uomo»,[xiii] allora, e chi sono io – che vaneggio per questa via
bassa cercando la strada più alta?
Che cos’è l’uomo, questo grumo di polvere e di vanagloria – e perché, come mai
questo niente respira e desidera?
*
E «fino a quando», fino a quando questa morsa sulla bocca dello stomaco, questo
alternarsi di memoria e dismemoria, di ottusità e di patimento?
C’è una pena nell’essere – ma prima di tutto c’è un essere;
e se l’essere c’è – mai può non-essere,[xiv]
mai può essere non-stato. Se c’è un cosmo c’è un principio,
e il principio è un uomo, un Dio, un Dio che sa l’uomo e il suo dramma, perché è
tutto nell’uomo e nel suo dramma.
«Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?».[xv]
*
La via che scende, la via che sale.
«Scendi in più in basso, scendi soltanto
nel mondo di perpetua solitudine».[xvi]
*
La via che scende.
«Dall’abisso a te grido».
*
La via che sale.
«Che cos’è l’uomo?».
*
«E in te il perdono e in noi il timore – in te il perdono, in noi il timore».
*
Il perdono.
C’è una pena nell’essere che è nostra e non nostra.
C’è una pena e una mancanza.
C’è uno strappo, uno strappo nell’ordine.
*
Dall’abisso a te grido – a te, a chi?
Daniele Gigli
**
> Salmo 130
>
> Dall’abisso a te grido, Signore – Signore ascolta la mia voce
> alle mie suppliche, alle mie, presta l’orecchio.
> Se consideri lo strappo della legge non resisto – mio Signore, chi resiste?
> E in te è il perdono e in noi il timore – in te il perdono, in noi il timore;
> e ho sperato, mio Signore, la mia anima ha sperato che parlassi, ti ho
> aspettato
> simile a una scolta con l’aurora,
> a una scolta con l’aurora!
> Dalla veglia del mattino fino a notte,
> dalla veglia del mattino aspettalo, Israele:
> spera nel Signore: col Signore c’è lealtà – e redenzione molta, in lui.
> Salva l’ordine strappato di Israele, salva la sua legge.[xvii]
(Tutte le traduzioni sono a cura dell’autore)
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[i] W.H. Auden, Prima, in Horae Canonicae.
[ii] San Paolo, Lettera ai Romani, 8, 22.
[iii] Anassimandro, Frammento 1.
[iv] San Tommaso D’Aquino, Sopra la Seconda lettera ai Corinzi, 5, 2.
[v] Genesi, 11, 4.
[vi] T.S. Eliot, Cori da «La Rocca», III, 229.
[vii] Ivi, III, 244.
[viii] Ivi, VI, 307.
[ix] Eraclito, Frammento 89.
[x] Id, Frammento 1.
[xi] Salmi, 4, 7.
[xii] Salmi, 48 (49), 8-10.
[xiii] Salmi, 8, 5.
[xiv] Parmenide, Frammento 2.
[xv] Salmi, 12 (13), 3.
[xvi] T.S. Eliot, Burnt Norton, III, 114-115.
[xvii] Salmi, 129 (130).
*La traduzione di Daniele Gigli è parte del progetto “Salterio dei Poeti”. Il 9
maggio, a Rovigo (Pescheria Nuova, Corso del Popolo, 140) e l’11 maggio a
Chioggia, nell’ambito del Festival Biblico, terrà una meditazione dal titolo “La
via alta e la via bassa, una sono. Desiderio e salvezza”
In copertina: Antonello da Messina, Salvator Mundi, 1465
L'articolo “Dall’abisso a te grido”. La via alta e la via bassa, una sono. Una
meditazione proviene da Pangea.
Augusto Del Noce, fu tra i più notevoli e “inattuali” interpreti tanto del XX
secolo, quanto di quella tradizione filosofica italiana che nasce sotto gli
auspici e la lezione di Giambattista Vico. Un pensatore cristiano (anche se tale
categoria è estremamente riduttiva) che oltre le facili categorie
gramsciazioniste, storiciste e reazionarie dell’epoca cercò una via alternativa
(ispirata alla tradizione filosofica italiana e cristiana) per pensare il
Novecento e l’Italia. Delineando una filosofia che decodifica i veri nodi della
modernità e profetizza con lucida contezza i tanti sviluppi e le tante derive
del panorama politico e culturale italiano ed europeo. In questo senso la
lettura di Augusto del Noce si prefigura come una tappa obbligata, per laici e
cristiani, razionalisti e irrazionalisti, e lettori delle più varie famiglie
culturali e politiche, per confrontarsi con le vertigini della modernità e i
nodi del pensiero e della politica contemporanea. Per tale ragione non può non
essere letto il nuovo saggio sul pensatore torinese scritto da Luciano
Lanna (attualmente direttore del Centro per il libro e la lettura del Ministero
della cultura): Attraversare la modernità. Il pensiero inattuale di Augusto Del
Noce, edito da Cantagalli con una densa prefazione di Giacomo Marramao e un
inedito testo delnociano del 1961. Lanna, studioso irregolare, lettore
infaticabile ancor prima che giornalista (professione che ha svolto per tanti
anni), ha dedicato al pensiero e alla cultura la sua nutrita attività
saggistica. Dottore di ricerca in scienze filosofiche e sociali, si è sempre
interessato del pensiero del Novecento e delle ricadute del movimento delle idee
sul piano politico. Per meglio comprendere le idee e il pensiero delnociano
abbiamo, quindi, intervistato il direttore Luciano Lanna.
Quali sono i tratti caratteristici della figura e del pensiero di Augusto del
Noce e quanto è attuale la riflessione delnociana?
La riflessione del filosofo torinese si colloca per intero all’interno di quello
che Hobsbawm definì il “secolo breve”, non fosse per il fatto che Del Noce
nacque nel 1910 e ha lasciato questa vita alla fine del 1989. Dico questo per
spiegare come il suo pensiero si è subito modulato come una interpretazione
filosofica del presente storico. Per Del Noce una filosofia che non fornisca
risposte agli interrogativi che il proprio tempo presenta si annulla di valore.
E anche per questa attitudine, per la sua natura di filosofare attraverso la
storia, definisce una inevitabile valenza di attualità. Rileggendo bene alcune
profezie delnociane successive al 1963 si rilevano molti dei tratti
caratteristici del nostro presente, soprattutto quelli più inquietanti. Tanto
che paradossalmente, nel sottotitolo del mio libro, parlo di “pensiero
inattuale”.
Ovvero?
Proprio nel senso di una capacità di saper guardare oltre i limiti del
presentismo anticipando scenari a venire.
Perché la filosofia di Del Noce è metapolitica?
Perché, sin dall’inizio, si prospetta come una filosofia in presa diretta con il
presente storico e con la storicità in generale. È uno stile filosofico che
conduce inevitabilmente a un percorso metapolitico in cui la riflessione
teoretica si contamina con la storia e con gli eventi politici e il pensatore
esce consapevolmente dall’accademia per confrontarsi con tutte le forze in campo
nel processo storico in cui si è coinvolti. Ogni autentica battaglia politica è
anche, per Del Noce, una battaglia filosofico-culturale, e dietro ogni vero
dibattito politico non può non soggiacere, e quindi essere elaborata, una
interpretazione della storia contemporanea che tenga uniti principi filosofici e
lettura del processo storico. Sarà un pensatore postmarxista come Costanzo Preve
a attestare la lungimiranza di questa attitudine delnociana spiegando che
> “quando il momento politico propriamente detto appare bloccato è
> indispensabile una deviazione verso un momento metapolitico, perché solo
> all’interno di una conversione metapolitica preliminare può avvenire una
> rinascita su nuove basi del momento politico propriamente detto”.
Come si colloca Augusto del Noce nel Novecento italiano ed europeo?
Si colloca nel cuore di quel dramma ed esperimento filosofico-politico che è
stato il Novecento, sia italiano sia europeo. Per quanto riguarda in particolare
il nostro paese, Del Noce era infatti convinto della centralità e della
paradigmaticità della esperienza italiana sulla interpretazione transpolitica
dell’intera storia contemporanea. E questo, va precisato, non arbitrariamente o
per partito preso, ma anzi con argomentazioni fortemente stringenti e motivate.
Quando parliamo di esperienza italiana ci si riferisce alle specificità politica
e culturale dell’Italia quale campo sperimentale dell’intelligenza politica e
filosofica nell’approccio alla modernità. Per dirla tutta: Del Noce coglie nella
via italiana alla modernità una serie di percorsi – da Vico alla filosofia del
Risorgimento, passando per Dante, Gramsci e Gentile – in grado a suo dire di
comprendere il Moderno in tutte le sue sfaccettature. Di individuarne gli
scacchi e gli esiti nichilistici ma, anche, di prospettarne uno sbocco diverso.
Quello di una modernità con l’anima e aperta alla trascendenza. Stabilito che
Gentile con l’attualismo perveniva allo stesso esito immanentistico di
Heidegger, solo rovesciandone il pessimismo nichilismo in un futurismo
ottimistico, Del Noce affronta – sino al suo ultimo libro, uscito postumo – la
riflessione gentiliana che, a suo dire, obbligava a un ripensamento dell’intera
storia della filosofia moderna. Al punto che “per affrontare la questione della
modernità, l’attualismo è davvero un documento decisivo”. Ecco, l’opera
principale di Del Noce, Il problema dell’ateismo, va intesa in questo senso come
uno dei testi chiave, al pari delle opere di Heidegger o di Löwith, della
riflessione novecentesca europea.
Come si pone Del Noce rispetto al tema della “organizzazione della cultura” e
nello specifico dell’egemonia culturale?
E qua arriviamo a Gramsci, che fu il teorico della cosiddetta organizzazione
della cultura e del concetto di egemonia culturale. Autore al quale Del Noce
dedica un suo importante lavoro del 1978, Il suicidio della rivoluzione. Ma sul
tema Del Noce fu chiaro come pochi. Il pensiero dello studioso sardo conobbe,
dopo varie alternanze, un periodo di successo in Italia nel periodo che va dalla
seconda metà del ’74 all’autunno del ’76. La sua riscoperta si imponeva
nell’ambito marxista dopo il declino di Lukàcs e il fallimento della scuola di
Francoforte. Quando tutto sembrava mettere in luce come la via gramsciana fosse
l’unica attraverso cui il marxismo e l’eurocomunismo potessero affermarsi in
Occidente. È una riscoperta che condusse a una nuova contrapposizione
nell’Italia degli anni Settanta: non più quella classista tra capitalismo e
proletariato ma tra un “risorgente fascismo” e un “rinnovato antifascismo”,
tanto da trasformare il fascismo in una categoria – come sottolineava Del Noce –
“metastorica”. Il risultato è stata una ricomprensione italiana del marxismo
attraverso una sua declinazione storicistica e illuministica che coincide con il
compromesso con la borghesia in funzione antifascista. Scompare del tutta
l’anima rivoluzionaria, messianica e soprattutto antiborghese del comunismo e si
finisce in una declinazione, per così dire, laica, democratica e antifascista. È
l’eurocomunismo. Per cui il gramscismo, secondo Del Noce, conduce dritto dritto
al “suicidio della rivoluzione”, alla sua eutanasia, al suo cedimento alle
logiche della società borghese e tecnocratica. La via nuova al socialismo,
conclude il filosofo torinese, diventa transizione dal vecchio al nuovo
capitalismo. Altro è il discorso delnociano sulla formulazione di una via
metapolitica verso una egemonia diversa da quella neomarxista, illuminista o
azionista. Tanto che tutto il suo impegno si mosse in questa direzione, a
cominciare dal suo supporto decisivo a case editrici come Borla o Rusconi,
guidate dal suo allievo Alfredo Cattabiani. Sino al suo collaborare con le
riviste cielline come “Il Sabato” e “30Giorni”… Nel mio libro parlo esplicitante
di “via editoriale alla metapolitica”.
Che tipo di interpretazione dà il filosofo del Sessantotto?
Non banale né scontata. Come egli stesso spiegherà in Appunti per una filosofia
dei giovani, la contestazione se interpretata nel suo significato etimologico,
era una messa alla prova della cultura immanentistica moderna. Se, nonostante il
suo esaurirsi, l’immanentismo rimaneva attivo come mentalità dominante negli
anni Sessanta, il cristianesimo e le culture sapienziali sopravvivevano solo
come perbenismo borghese e come ricordo di un mondo consegnato al passato. Ed è
proprio a questo compromesso di facciata che il ’68, secondo Del Noce, pose le
domande necessarie e radicali da parte di giovani generazioni insoddisfatte dal
compromesso. Poi, Del Noce, che troverà sintonia con la scuola di Francoforte e
gli autori del primo ’68, contesterà la successiva deriva gramsciana e
barricadera che il movimento intraprenderà. Così come Del Noce contesterà gli
accenti surrealisti espressi da alcuni leader sessantottini. Mentre, in
positivo, si ritroverà con la declinazione che della contestazione daranno don
Giussani e i suoi amici.
Quale continuità c’è tra Del Noce e la migliore traduzione filosofica italiana
(da Vico a Machiavelli, da Gioberti a Gentile)?
Del Noce, ricordiamolo, è un filosofo cattolico che non si forma nell’alveo del
tomismo o dell’università cattolica. Ha sempre avuto fede ma il suo percorso si
delinea nell’ambito della cultura laica, di cui tenta di evidenziare le
contraddizioni, le aporie, gli scacchi. Studia nello stesso liceo di Leone
Ginzburg, Norberto Bobbio e Cesare Pavese. All’università studia con pensatori
laici. Ma individua da subito una via alternativa rispetto al filone Bruno,
Spaventa, Croce, Gobetti, Gramsci… In lui il filo è quello che parte da Vico, si
innesta nel pensiero cattolico del Risorgimento, incrocia pensatori irregolari
come Tilgher, Rensi, Martinetti… E si precisa nell’incontro col suo maestro
Carlo Mazzantini.
Cosa intende per approccio ucronico alla dimensione storica e come mai tale
paradigma è la chiave del pensiero delnociano?
La storia, per Del Noce, non è come per tutti gli immanentisti, siano essi
illuministi, idealisti, storicisti, marxisti o positivisti, un percorso lineare
e deterministicamente inteso. La storia è aperta. Del Noce riprende un concetto
coniato da Charles Renouvier, secondo il quale la storia non va vista come una
freccia ma come un albero con tante ramificazioni possibili e dalle quali è
sempre possibili ripartire. La modernità non è a una sola dimensione. Nessun
determinismo potrà mai ingabbiare la storia. Ecco perché Del Noce è fuori del
binomio tradizionalismo/progressismo. E la sua fiducia nella storia come
continua e aperta esegesi è attestato da alcune parole del suo ultimo scritto:
> “Ora che è in via di esaurimento, il ciclo rivoluzionario si svela non un
> processo irreversibile, come avevano ritenuto sia i progressisti che i
> tradizionalisti, ma un processo storico reversibile, contro cui è dunque
> possibile combattere”.
Del Noce negli anni della sua formazione scopre l’ucronia tramite Adriano
Tilgher, un pensatore che mutuando il concetto da Renouvier lo utilizzò contro
lo storicismo crociano. E in qualche modo, anche attraverso la meditazione del
maestro di Renouvier (Jules Lequier), Del Noce ne adotterà l’ispirazione di
fondo nel suo superamento di qualsiasi filosofia della storia.
Augusto Del Noce (1910-1989)
Come nasce questo libro e come è evoluto nel tempo la sua stesura e anche il suo
autore?
Il libro riprende una mia tesi di dottorato proprio dal titolo “Attraversare la
modernità. La filosofia di Augusto Del Noce”, ma di fatto è il risultato di un
work in progress iniziato sui banchi dell’università, proseguito con il mio
continuo confrontarmi con i saggi che Del Noce pubblicava sui quotidiani e su
riviste. Ricordiamoci che Del Noce scriveva editoriali sul quotidiano “Il Tempo”
nella stessa fase in cui Pier Paolo Pasolini scriveva i suoi sul “Corriere della
Sera”. Tra l’altro il poeta di Casarsa era stato invitato a farlo dal
vicedirettore del giornale di via Solferino che poi era Gaspare Barbiellini
Amidei, un delnociano. Infine, per quanto mi riguarda, ho voluto comparare
l’opera di Del Noce con quella di altri autori da me studiati negli anni, a
cominciare da Gentile, Jünger, Zolla e Heidegger… Un lavoro che, nel tempo, ha
affinato e approfondito la mia stessa prospettiva di pensiero, in particolare
nella interpretazione della modernità.
A quale frase e citazione di Del Noce è più legato?
Senz’altro a questa:
> “Riflettere oggi sull’attualità storica non è affatto un sostituire alla
> ricerca intorno all’eterno una ricerca intorno all’effimero: corrisponde
> invece al senso preciso di una frase spesso ripetuta, che il compito che oggi
> resta al filosofo è quello della decifrazione di una crisi. Perché, oggi, la
> scommessa, ci è imposta dalla realtà storica stessa”.
Francesco Subiaco
*In copertina: un’opera di Nicolas De Staël
L'articolo Augusto Del Noce: elogio di un pensatore “inattuale”. Dialogo con
Luciano Lanna proviene da Pangea.
Cari poeti,
so che avete fame di significato, e per questo riflettete anche su come la fede
interroga la vita. Questo “significato” non è riducibile a un concetto, no. È un
significato totale che prende poesia, simbolo, sentimenti. Il vero significato
non è quello del dizionario: quello è il significato della parola, e la parola è
uno strumento di tutto quello che è dentro di noi.
Ho amato molti poeti e scrittori nella mia vita, tra i quali ricordo soprattutto
Dante, Dostoevskij e altri ancora.Devo anche ringraziare i miei studenti
del Colegio de la Inmaculada Concepción di Santa Fe, con i quali ho condiviso le
mie letture quando ero giovane e insegnavo letteratura. Le parole degli
scrittori mi hanno aiutato a capire me stesso, il mondo, il mio popolo; ma anche
ad approfondire il cuore umano, la mia personale vita di fede, e perfino il mio
compito pastorale, anche ora in questo ministero. Dunque, la parola letteraria è
come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino. La
poesia è aperta, ti butta da un’altra parte.
Alla luce di questa esperienza personale, oggi vorrei condividere con voi alcune
considerazioni sull’importanza del vostro servizio.
La prima vorrei esprimerla così: voi siete occhi che guardano e che sognano. Non
soltanto guardare, ma anche sognare. Una persona che ha perso la capacità di
sognare manca di poesia, e la vita senza poesia non funziona. Noi esseri umani
aneliamo a un mondo nuovo che probabilmente non vedremo appieno con i nostri
occhi, eppure lo desideriamo, lo cerchiamo, lo sogniamo. Uno scrittore
latinoamericano diceva che abbiamo due occhi: uno di carne e l’altro di vetro.
Con quello di carne guardiamo ciò che vediamo, con quello di vetro guardiamo ciò
che sogniamo. Poveri noi se smettiamo di sognare, poveri noi!
L’artista è l’uomo che con i suoi occhi guarda e insieme sogna, vede più in
profondità, profetizza, annuncia un modo diverso di vedere e capire le cose che
sono sotto i nostri occhi. Infatti, la poesia non parla della realtà a partire
da princìpi astratti, ma mettendosi in ascolto della realtà stessa: il lavoro,
l’amore, la morte, e tutte le piccole grandi cose che riempiono la vita. Il
vostro è – per citare Paul Claudel – un “occhio che ascolta”. L’arte è un
antidoto contro la mentalità del calcolo e dell’uniformità; è una sfida al
nostro immaginario, al nostro modo di vedere e capire le cose. E in questo
senso lo stesso Vangelo è una sfida artistica. Essa possiede quella carica
“rivoluzionaria”, che voi conoscete bene, ed esprimete grazie al vostro genio
con una parola che protesta, chiama, grida. Anche la Chiesa ha bisogno della
vostra genialità, perché ha bisogno di protestare, chiamare e gridare.
Vorrei dire però una seconda cosa: voi siete anche la voce delle inquietudini
umane. Tante volte le inquietudini sono sepolte nel fondo del cuore. Voi sapete
bene che l’ispirazione artistica non è solo confortante, ma anche inquietante,
perché presenta sia le realtà belle della vita sia quelle tragiche. L’arte è il
terreno fertile nel quale si esprimono le «opposizioni polari» della realtà –
come le chiamava Romano Guardini –, le quali richiedono sempre un linguaggio
creativo e non rigido, capace di veicolare messaggi e visioni potenti. Per
esempio, pensiamo a quando Dostoevskij nei Fratelli Karamazov racconta di un
bambino, piccolo, figlio di una serva, che lancia una pietra e colpisce la zampa
di uno dei cani del padrone. Allora il padrone aizza tutti i cani contro il
bambino. Lui scappa e prova a salvarsi dalla furia del branco, ma finisce per
essere sbranato sotto gli occhi soddisfatti del generale e quelli disperati
della madre. Questa scena ha una potenza artistica e politica tremenda: parla
della realtà di ieri e di oggi, delle guerre, dei conflitti sociali, dei nostri
egoismi personali. Per citare soltanto un brano poetico che ci interpella.
E non mi riferisco solamente alla critica sociale che c’è in quel brano. Parlo
delle tensioni dell’anima, della complessità delle decisioni, della
contraddittorietà dell’esistenza. Ci sono cose nella vita che, a volte, non
riusciamo neanche a comprendere o per le quali non troviamo le parole adeguate:
questo è il vostro terreno fertile, il vostro campo di azione. E questo è anche
il luogo dove spesso si fa esperienza di Dio. Un’esperienza che è sempre
“debordante”: tu non puoi prenderla, la senti e va oltre; è sempre debordante,
l’esperienza di Dio, come una vasca dove cade l’acqua di continuo e, dopo un
po’, si riempie e l’acqua straripa, deborda. È quello che vorrei chiedere oggi
anche a voi: andare oltre i bordi chiusi e definiti, essere creativi, senza
addomesticare le vostre inquietudini e quelle dell’umanità. Ho paura di questo
processo di addomesticamento, perché toglie la creatività, toglie la poesia. Con
la parola della poesia, raccogliere gli inquieti desideri che abitano il cuore
dell’uomo, perché non si raffreddino e non si spengano. Questa opera permette
allo Spirito di agire, di creare armonia dentro le tensioni e le contraddizioni
della vita umana, di tenere acceso il fuoco delle passioni buone e di
contribuire alla crescita della bellezza in tutte le sue forme, quella bellezza
che si esprime proprio attraverso la ricchezza delle arti.
Questo è il vostro lavoro di poeti: dare vita, dare corpo, dare parola a tutto
ciò che l’essere umano vive, sente, sogna, soffre, creando armonia e bellezza. È
un lavoro che può anche aiutarci a comprendere meglio Dio come grande «poeta»
dell’umanità. Vi criticheranno? Va bene, portate il peso della critica, cercando
anche di imparare dalla critica. Ma comunque non smettete di essere originali,
creativi. Non perdete lo stupore di essere vivi.
Dunque, occhi che sognano, voce delle inquietudini umane; e perciò voi avete
anche una grande responsabilità. E qual è? È la terza cosa che vorrei
dirvi: siete tra coloro che plasmano la nostra immaginazione. Il vostro lavoro
ha una conseguenza sull’immaginazione spirituale delle persone del nostro tempo.
E oggi abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e
immagini potenti.
Io pure sento, vi confesso, il bisogno di poeti capaci di gridare al mondo il
messaggio evangelico, di farci vedere Gesù, farcelo toccare, farcelo sentire
immediatamente vicino, consegnarcelo come realtà viva, e farci cogliere la
bellezza della sua promessa. La vostra opera ci può aiutare a guarire la nostra
immaginazione da tutto ciò che ne oscura il volto o, ancor peggio, da tutto ciò
che vuole addomesticarlo. Addomesticare il volto di Cristo mettendolo dentro una
cornice e ad appendendolo al muro, significa distruggere la sua immagine. La sua
promessa invece aiuta la nostra immaginazione: ci aiuta a immaginare in modo
nuovo la nostra vita, la nostra storia e il nostro futuro. E qui torno a
ricordare un altro capolavoro di Dostoevskij, piccolo ma che ha dentro tutte
queste cose: le “Memorie dal sottosuolo”. Lì dentro c’è tutta la grandezza
dell’umanità e tutti i dolori dell’umanità, tutte le miserie, insieme. Questa è
la strada.
Cari poeti, grazie per il vostro servizio. Continuate a sognare, a inquietarvi,
a immaginare parole e visioni che ci aiutino a leggere il mistero della vita
umana e orientino le nostre società verso la bellezza e la fraternità
universale. Aiutateci ad aprire la nostra immaginazione perché essa superi gli
angusti confini dell’io, e si apra alla realtà tutta intera, nella pluralità
delle sue sfaccettature: così sarà disponibile ad aprirsi anche al mistero santo
di Dio. Andate avanti, senza stancarvi, con creatività e coraggio! Vi benedico.
Francesco
*Si pubblica per gentile concessione l’introduzione a: Versi a Dio. Antologia
della poesia religiosa, Crocetti, 2024, a cura di A. Spadaro, N. Crocetti, D.
Brullo
L'articolo “Cari poeti… la parola letteraria è come una spina nel cuore”. Una
lettera di Papa Francesco proviene da Pangea.
Nell’epoca della post-letteratura, cioè di una scrittura che fa a meno della
lettura, della storia letteraria, della tradizione, dello stile, si può anche
affermare che la Bibbia è un libro «sopravvalutato». È stato fatto, lo ha detto
di recente la scrittrice premio Strega Donatella Di Pietrantonio in
un’intervista al «Corriere della sera». Se avesse detto che l’Iliade è un libro
sopravvalutato sarebbe stato lo stesso?
Nell’epoca della post-letteratura non ha nessuna importanza ricordare che
esiste, naturalmente, una sterminata bibliografia sulle radici bibliche della
cultura occidentale e sul valore letterario inestimabile di quest’opera. Si
potrebbe, anche, affermare che uno scrittore che non legga la Bibbia è, di
fatto, uno scrittore mancato, qualcuno, cioè, che si condanna da solo a
un’amputazione dell’immaginario, ma si condanna, anche, al rinnegamento perpetuo
di quei tre criteri estetici che Harold Bloom, insuperato lettore della Bibbia,
indicava come basilari per ogni libro che meriti di essere preso in
considerazione: lo splendore estetico, il vigore intellettuale e la saggezza. Ma
a che cosa serve sottolinearlo? Servirebbe, piuttosto, sostenere che nell’epoca
della post-letteratura la letteratura stessa deve essere un non-luogo facilmente
abitabile da tutti. Da qui deriva il resto. Anche il fatto che se si intende
reimmettere la Bibbia nel tritacarne del «culturale» odierno – ovvero di ciò che
Richard Millet chiama «l’alleanza dell’intrattenimento con la propaganda» –
bisogna farlo come si fa con i bambini: proponendo una lettura facile facile,
con una semplice parafrasi di alcune sue storie più famose, senza
approfondimento, nessun tentativo di analisi di qualunque genere (letteraria,
stilistica, antropologica, politica, storica).
È quello che troviamo nel libro Il Dio dei nostri padri: il grande romanzo della
Bibbia di Aldo Cazzullo (HarperCollins). Eccola la parola «passe-partout»,
l’esca del mercato editoriale: «romanzo». Come se la Bibbia fosse un testo
scritto da una singola persona, dall’inizio alla fine, e non una raccolta
eterogenea di libri composti in epoche diverse, da autori diversi, in lingue
diverse (ebraico e aramaico il Tanàkh e greco il Nuovo testamento), di generi
differenti, e perfino con finalità differenti. Il romanzo: basta la parola, nel
trionfo del post-letterario. Ma non è solo questo.
Non ho nulla contro Cazzullo, intendiamoci. Il suo libro non ha alcuna pretesa
critica. Se ne parlo qui è perché il suo successo di vendite mi sembra
particolarmente emblematico dei tempi che stiamo vivendo. Si potrebbe obiettare
che un libro divulgativo non può essere emblematico di alcunché, ma io credo, al
contrario, che la divulgazione non sia mai neutra, né innocua, poiché sottende
un assunto ineludibile su ciò che deve essere trasmesso e ciò che invece non
deve. Basti pensare a quanta ideologia è celata dietro la divulgazione di uno
storico come Alessandro Barbero (non mi riferisco solo alle prese di posizione
sulla guerra in Ucraina, ma alla sua dichiarazione, davanti a un uditorio di non
specialisti, che il regno di Israele non sarebbe mai esistito, asserzione basata
sulle posizioni della cosiddetta «scuola di Copenaghen», ma che ignora
volutamente tutto il dibattito storico-archeologico che a quella visione
minimalista si oppone).
Qual è, dunque, l’operazione ideologica sottesa al libro di Cazzullo? Che a un
popolo di non lettori in generale e di non lettori della Bibbia in particolare
basti offrire un grado zero della lettura, per così dire, affinché una raccolta
di testi letterari tra i più alti e complessi della tradizione occidentale (mi
riferisco, in particolare, alla Bibbia ebraica), si trasformi in un
«fattariello», in un «romanzo», in un bestseller capace di scalare le
classifiche. Con quali conseguenze? Quelle di una colossale mistificazione
culturale.
Rembrandt, Davide sfida Golia, 1655
Leggiamo, per capire, la prima pagina del libro, che inizia, giustamente, con i
primi versi di Genesi, ripresi dalla versione CEI della Bibbia:
> «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta, le
> tenebre ricoprivano l’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque».
Cazzullo chiosa così: «Non mi viene in mente un attacco altrettanto memorabile».
E per dare solidità alla sua affermazione perentoria, aggiunge altri celebri
incipit di romanzi (ci risiamo!) della letteratura universale («Moby Dick»,
«Anna Karenina», ecc.) dimostrandone il minor impatto, al confronto.
Peccato però che quell’incipit in Genesi non esiste, non è corretto. Se Cazzullo
avesse letto Rashi, il rabbino medievale francese tra i più importanti
commentatori della Bibbia ebraica, avrebbe evitato questo topos sbagliato della
traduzione. L’ebraico Bereshit, infatti, è un costrutto che introduce una
subordinata temporale: «All’inizio della creazione del cielo e della terra da
parte di Dio…», oppure, come riporta la nuova traduzione biblica dei Millenni
Einaudi: «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra…». Non è solo una
questione sintattica. Nella sintassi diversa troviamo una diversa filosofia
della Creazione. La versione canonica impone un ordine cronologico della
Creazione, una gerarchia, una «bontà» razionale (prima di tutto Dio crea il
cielo e la terra, poi questo, poi quest’altro, ecc.), che invece nella versione
originale manca. Non c’è ordine, né gerarchia. E soprattutto, non c’è un
principio. Se si legge la prima frase di Genesi nella giusta traduzione (la
riprendo, come tutte le successive, sempre da Einaudi): «Quando Dio cominciò a
creare il cielo e la terra, mentre la terra era vuota e vacua, la tenebra era al
di sopra dell’abisso e l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque, Dio
disse: “Sia luce!” E luce fu», misteriosamente scopriamo che l’acqua preesiste
alla luce, pur se non abbiamo alcun racconto della sua creazione. Non ci
troviamo di fronte a una cosmologia armoniosa e coerente prodotta da Dio, la
Creazione non avviene ex nihilo. Esistono già la «tenebra» e l’«abisso», e le
acque. Chi le ha create? E quando? Genesi, in realtà, nasce da questo mistero, e
negarlo vuol dire eliminare gran parte della sua complessità, per proporci una
versione più consolatoria e più rassicurante. Ma la vita – la sua origine, il
suo senso – non è né consolatoria, né rassicurante, anche se nell’epoca della
post-letteratura piace pensare che sia così.
Sarebbero innumerevoli gli esempi di «pericolosa» semplificazione disseminati
nel libro, a cominciare dalla Aqedah, l’episodio del sacrificio di Isacco, dove
esegesi ebraica, Kierkegaard, Kant, tradizione iconografica, psicoanalisi
vengono liquidati in una singola frase:
> «Ancora Dio ripete che, attraverso Abramo, offre una possibilità, propone un
> patto a tutti gli uomini».
Altro esempio riguarda uno dei momenti biblici fondamentali che troviamo sempre
in Genesi, un episodio che è il nucleo fondativo di ciò che il filosofo ebreo
Eric Weil indica come la peculiarità della nostra cultura greco-giudaica: ovvero
tutto ciò che consegue dalla capacità dimostrata dai profeti ebrei e dai
filosofi greci di domandarsi cosa fosse la giustizia e non cosa dettassero i
costumi del loro tempo. Il Signore è pronto a distruggere Sodoma per punire i
suoi abitanti che hanno peccato, quando Abramo, di fronte alla decisione del Dio
Onnipotente, lui, mortale e fragile, lui che – come si affretta a precisare con
sottile arte retorica – non è che «polvere e cenere», invece di arretrare si
avvicina al suo Dio, in maniera perfino spavalda, ma allo stesso tempo
insinuante, e gli chiede:
> «Davvero travolgerai il giusto col malvagio? Se ci fossero cinquanta giusti
> nella città, davvero travolgeresti quel luogo e non lo perdoneresti a causa di
> quei cinquanta giusti che vi sono? Lungi da te fare questa cosa: far morire il
> giusto col malvagio, così che il giusto sia trattato come il malvagio. Lungi
> da te! Forse che il giudice di tutta la terra non agirà con giustizia?».
Il Signore, di fronte alle domande di Abramo, è costretto a cedere: «Se
nell’ambito della città di Sodoma troverò cinquanta giusti, perdonerò a tutto il
luogo per causa loro». Ma Abramo non si accontenta, inizia a mercanteggiare con
il Signore! Lo induce a scendere da cinquanta a quarantacinque, a quaranta, a
trenta, a venti, a dieci. Cazzullo si limita a commentare:
> «Un dialogo così serrato, tanto da ricordare una trattativa tra mercanti in un
> suk, lo troveremo poche altre volte nella Bibbia. Non è da tutti tenere testa
> così a Dio».
Tutto qua? La trattativa da suk è, in realtà, una scena inaudita. Dio per la
prima volta è spinto a guardare dentro sé stesso, a scoprire la sua intimità, il
suo senso di giustizia. A domandarsi dove sia il Bene, al di là del proprio modo
di operare, e che cosa voglia dire «agire con giustizia». E lo fa grazie
all’uomo, al suo rifiuto di accettare come un dato di fatto ciò che proviene
dall’autorità. Abramo, in fondo, non ha alcun legame con Sodoma. La questione è
squisitamente etica. Che cosa è giusto? Cosa è sbagliato? È come se qui l’uomo,
la creatura di Dio, diventasse a sua volta il creatore del suo artefice: un
rovesciamento vertiginoso, da cui proviene tutta la nostra tradizione
occidentale. Forse è troppo difficile per i lettori di Cazzullo? Non credo. Ma
nell’epoca della post-letteratura bisogna surfeggiare sulla superficie di un
testo senza osare affondi.
Rembrandt, L’agonia nel giardino, 1652 ca.
Stesso trattamento sbrigativo troviamo anche a proposito di un personaggio come
David, con la sua personalità così carismatica e contraddittoria, uomo
imprevedibile, devoto e ribelle, sensibile e spietato. Nel libro di Cazzullo
l’unico commento su David è questo:
> «Davide è davvero uno dei personaggi più interessanti della Bibbia».
Come negarlo? Ma è come dire, in un libro su Shakespeare, che Amleto è uno dei
personaggi più interessanti creati dal bardo inglese (il paragone non è casuale,
poiché David ha, in effetti, lo stesso fascino e la stessa insondabilità del
principe di Danimarca). Significa, cioè, ribadire l’ovvio. Eppure la danza quasi
orgiastica – danza di gioia – di David davanti all’Arca dell’Alleanza, che è una
delle scene più memorabili di cui è protagonista questo personaggio di
indomabile vitalità, avrebbe meritato qualcosa di più di questo commento:
> «È forse il primo e l’ultimo personaggio dell’Antico Testamento che Dio tratta
> come un figlio, e con cui Dio si comporta come un padre: un padre non
> particolarmente severo – scrive subito dopo Cazzullo –. Al punto che Davide
> talora pensa di potersi permettere tutto».
È vero, la danza di David conquista perfino Dio, spingendolo ad adottare David,
a ritenerlo come suo figlio. Ma che cosa vuol dire danzare con tutte le forze,
in perizoma di lino, davanti a Dio? Perché è questo che fa David in 2Samuele
(libro di una potenza shakespeariana), al punto da destare scandalo nella
moglie, figlia di Saul. «Che onore si è fatto oggi il re di Israele, denudandosi
come un uomo qualunque davanti alle sue serve dei suoi servi» gli dice Mikal,
sdegnata. E David risponde: «Davanti al Signore (…) danzerò e mi abbasserò ancor
di più». E questa festa che cosa produce in Dio? Un cambiamento, una scoperta
inattesa. Dopo la danza, commosso da questo omaggio, da questa gioia, il Signore
si definisce, per la prima volta nella Bibbia, «padre». Prima era il Dio degli
eserciti, spietato, massacratore di popoli, ma adesso, improvvisamente, si
scopre altro. «Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio» dice. Prima era il Dio
dei padri, ora è, semplicemente, il Dio padre. Senza la danza scandalosa di
David, Dio non avrebbe scoperto la sua umanità. Non ci sarebbe stato il «Padre
nostro», né il «Figlio di Dio». Da questa danza, da questo abbandono selvaggio,
da questo far festa sconsiderato, nasce il primo seme di un nuovo Dio, diverso
da tutti, perfino da sé stesso.
Una tale diversità (questa nuova umanità di Dio), viene confermata nel libro
successivo, il primo libro dei Re, in un episodio che Cazzullo non racconta:
l’incontro tra il Signore e il profeta Elia, quando l’apparizione divina è
descritta come «la voce di un silenzio sottile». È un’immagine bellissima, che
in ebraico, letteralmente, può essere restituita anche con «il suono di un tenue
silenzio». Non nel vento impetuoso si trova Dio, non nel terremoto, non nel
fuoco, ma nel «suono del silenzio», che la King James Version rende ancor più
memorabile, con «una piccola voce tranquilla» («a still small voice»).
Questa deminutio è sorprendente (fa venire in mente il capitolo 48 del Tao: «Chi
cerca il Tao, ogni giorno toglie qualcosa»), considerato che il Signore è stato,
come si è detto, prima dell’incontro con David, un dio terribile, vendicativo,
geloso, un «dio degli eserciti». Quando Elia sente quella «voce di un silenzio
sottile» si copre il volto con il mantello. Perché? Forse perché, come si dice
in Esodo, «nessuno può vedere il volto di Dio e rimanere in vita»? O perché, più
semplicemente, il silenzio di Dio – quel suono del silenzio che bisogna imparare
a indagare – mette paura più di ogni altra cosa?
In effetti, la Bibbia è l’unico testo sacro che prevede anche l’assenza di Dio,
il suo silenzio (è lo stesso silenzio che spinge Saul al suicidio). A volte,
infatti, Dio parla solo attraverso ciò che gli uomini hanno scritto di Lui. È il
caso del libro di Neemia, che pure non viene nominato nel bestseller di
Cazzullo.Neemia, l’alto funzionario del re Artaserse, è un personaggio biblico
di fondamentale importanza. «Davanti all’assemblea degli uomini e delle donne e
di quanti erano in grado d’intendere» egli esegue la lettura integrale della
Torah sulla piazza di Gerusalemme dinanzi alla porta delle Acque, dall’alba fino
a mezzogiorno. È una lettura che esorcizza, appunto, il silenzio di Dio.
Impossibile non pensare a Kafka che sogna di leggere l’intera Educazione
sentimentale senza interruzione per tanti giorni e notti che risultassero
necessari, in una grande sala piena di gente fino a «farne riecheggiare le
pareti»; o al comico americano Andy Kaufman, che legge integralmente Il grande
Gatsby di fronte a un pubblico sbalordito (è solo un caso che siano entrambi
ebrei?). Del resto, se Flaubert è lo scrittore che inaugura la letteratura
moderna (a proposito, ho letto poco tempo fa un’intervista, sempre sul
«Corsera», allo scrittore e editor Carlo Carabba, il quale affermava che
Flaubert è uno scrittore sopravvalutato), il libro di Neemia anticipa un
passaggio cruciale che sarà altrettanto importante per l’arte narrativa, a
partire almeno da Henry James: il passaggio dal narratore onnisciente al
narratore inattendibile. Quando inizia il libro di Neemia leggiamo:
> «Nel mese di Chislèv dell’anno ventesimo, mi trovavo nella cittadella di Susa,
> quando giunse Chananì, uno dei miei fratelli, con altri uomini di Giuda».
È la prima volta nel Tanàkh che ci imbattiamo in un libro interamente scritto in
prima persona (se si eccettuano alcuni tra i libri sapienziali e i profetici,
che appartengono a generi diversi). Ci sono alcuni episodi rintracciabili
altrove, ma si tratta di narrazioni di secondo grado, inserti o profezie
innestate in un contesto narrativo e storico (è il caso di Daniele, ad
esempio). Qui ci troviamo, invece, di fronte a una novità assoluta. E il fatto
che avvenga alla fine della Bibbia ebraica (le Cronache sono solo un riepilogo
di fatti precedenti) non può essere un caso. Il Libro di Neemia è di
indubitabile importanza, sia perché ci restituisce in maniera icastica, e molto
più efficacemente di tanti saggi storici e politici, la psicologia di un popolo,
l’ossessione anche dell’attuale stato ebraico per la «difesa» (ecco la
descrizione della ricostruzione delle mura di Gerusalemme, dopo l’esilio
babilonese: «Da quel giorno, metà dei miei giovani era impegnata nel lavoro,
mentre l’altra metà, armata di lance, scudi, archi e corazze, stava dietro tutta
la casa di Giuda che costruiva il muro. Chi portava pesi svolgeva il suo lavoro,
sollevando il peso con una mano e tenendo la lancia con l’altra. Tutti i
costruttori lavoravano con la spada legata ai fianchi»), sia perché la scelta
della prima persona prefigura un drastico ridimensionamento.
Rembrandt, Cristo presentato al popolo, 1655
Neemia, attraverso la prima persona, può rivelare a noi lettori le sue
intenzioni che tiene nascoste agli interlocutori, ma allo stesso tempo
circoscrive ciò che avviene al suo punto di vista. La sparizione del «narratore
onnisciente» non può accadere senza conseguenze. Genesi, e tutto il Pentateuco,
attraverso la terza persona disponevano uno scenario in cui il protagonista
assoluto era Dio, che interveniva attivamente, parlava, esercitava un dominio
tirannico, aiutava il suo popolo oppure sfogava su di esso la sua collera. Qui,
invece, Dio è assente. O meglio, è presente solo dalla prospettiva di Neemia,
che lo prega, lo invoca, lo nomina al suo popolo. Ma di fatto Dio non risponde,
non compare, non agisce. Se ne sta nascosto. Narrare in prima persona – è questo
che ci rivela il libro di Neemia – vuol dire esporsi al rischio di farsi carico
della storia. Dio è presente solo nei suoi rotoli che divengono legge, nella
lettura che Neemia compie di tutta la Torah davanti al suo popolo. Neemia è un
tramite che si assume le responsabilità di provvedere agli ebrei a suo nome. La
prima persona ha, di fatto, escluso Dio, che ha delegato il suo potere all’io
narrante. Ma l’io narrante non è affidabile. Si tratta, dunque, di un acquisto,
da un lato, e di una perdita dall’altro. Ne è una prova il fatto che il lungo
elenco dei rimpatriati ebrei dall’esilio babilonese censito prima nel libro di
Esdra e poi in Neemia in alcune parti non coincidono. A chi dare credito? Tutta
la storia della narrativa futura si giocherà in questa discrepanza di
censimenti, e nell’ambiguità che essa comporta.
L’assenza di Dio prosegue anche in quello che è uno dei miei libri preferiti del
Tanàkh, il libro di Rut. Non so se sia il più bello della Bibbia ebraica, ma
sicuramente è quello più incantevole, più sobrio – un poemetto in prosa – e
anche il più sottilmente eversivo. Cazzullo ci restituisce, come sempre, una
fedele parafrasi e nient’altro. Eppure la forza dell’amore che emana da questo
testo, un amore inteso non come passione, ma come cura, come «chessed», cioè
come fedeltà all’alleanza, è così rivoluzionaria, anche nella sua coraggiosa
trasgressione della legge divina e morale, che rinunciare al commento equivale a
rinunciare a una delle ricchezze sapienziali più rare che ci siano mai state
donate.
> «Perché dovunque tu andrai, io andrò; dovunque tu pernotterai, io pernotterò;
> il tuo popolo è il mio popolo e il tuo Dio è il mio Dio. Dove tu morirai, io
> morirò e là sarò sepolta».
Questa meravigliosa dichiarazione d’amore non è pronunciata a un amante, ma a
una suocera, la suocera che Rut, la vedova moabita, sceglie di seguire a
Betlemme, in Israele, lasciando la sua terra e la sua religione. La virtù di Rut
è nel dire sì, nell’accettare la migrazione, il cambiamento, il ripudio,
assecondando solo la sua voce interiore (quella voce evocata da John Keats nella
sua Ode a un usignolo, la voce che «trovò una strada/ nel cuore triste di Ruth
quando, ammalata di nostalgia/ se ne stava in lacrime nel grano straniero»). Con
lei scopriamo che nella vita nulla va giudicato, nemmeno ciò che ci appare
indegno o sbagliato (come la rinuncia a sé stessi o l’amore per qualcuno molto
più in avanti negli anni, come Booz, l’uomo a cui, in un’audace incursione
notturna, Rut scopre non i piedi, come scrive Cazzullo leggendo alla lettera il
testo, ma i suoi genitali, in segno di disponibilità sessuale), perché ogni
gesto di questo personaggio, ogni sua azione, ci inducono a scoprire qualcosa di
inatteso, come la tolleranza, l’accettazione piena dell’altro, la solidarietà
femminile, l’erotismo naturale, la devozione e il rispetto reciproci.
Il libro di Rut è scritto quasi certamente da una donna, dove le donne sono
protagoniste assolute: gli uomini sono poco più che comparse e Dio stesso un
silenzioso spettatore. Quasi come se la luce emanata dalla grazia e dalla forza
femminile oscurasse tutto il resto. Ma nell’epoca della post-letteratura queste
riflessioni sono inutili complicazioni, che allontanerebbero i lettori. La
risonanza della parola letteraria è un ostacolo da eliminare. Per lo stesso
motivo, la tradizione talmudica, che commenta all’infinito il testo sacro,
spingendosi perfino a ipotizzare l’assenza di Dio, o a disputare sul suo senso
di giustizia, è bandita del tutto. Appartiene a un’altra era, quella della
critica, dell’ermeneutica, che non esiste più.
L’ultima domanda che bisogna porsi, allora, è questa: si possono amare la
letteratura e la lettura senza amare e leggere la Bibbia? Rispondo con un
aneddoto che mi pare significativo. Il 10 agosto 1938 si tenne a Parigi il XV
Congresso psicoanalitico internazionale, poco prima dello scoppio della Seconda
guerra. La versione finale e completa dell’ultimo saggio di Freud, L’uomo Mosè e
la religione monoteistica era in tipografia in Olanda. Freud stesso, vecchio e
malato di cancro, in esilio a Londra per sfuggire alle persecuzioni razziali,
mandò al congresso parigino la figlia Anna perché lo rappresentasse leggendo
pubblicamente un brano della terza parte del libro, il capitolo intitolato «Il
progresso della spiritualità». Anna Freud lesse, dunque, le seguenti righe in
nome del padre:
> «Sappiamo che Mosè trasmise agli Ebrei il sentimento esaltante di essere il
> popolo eletto; togliendo a Dio ogni materialità, il segreto tesoro del popolo
> si arricchì di una nuova gemma preziosa. La propensione degli Ebrei per gli
> interessi spirituali non s’interruppe, e dalle sventure politiche della loro
> nazione impararono ad apprezzare nel suo valore l’unica proprietà loro
> rimasta, la loro letteratura. Immediatamente dopo la distruzione del Tempio di
> Gerusalemme sotto Tito, il rabbino Jochanan ben Zakkai chiese il permesso di
> aprire a Jabneh la prima scuola della Torah. Da allora in poi furono la Sacra
> Scrittura e l’impegno intellettuale ad essa dedicato che mantennero unito il
> popolo disperso».
La Bibbia ebraica è, direi, soprattutto questo: la «gemma preziosa» di un
«tesoro nascosto»: una letteratura che ha garantito l’identità e la
sopravvivenza di un popolo, nonostante la diaspora, le persecuzioni e i genocidi
subiti nella sua millenaria storia. Freud lo ricorda poco prima della Shoah,
come avvertimento o premonizione, chissà. La letteratura, la lettura profonda, i
grandi testi della tradizione, sono l’unica difesa che possiamo opporre alla
barbarie. Oggi come ieri. Ma forse è troppo tardi per ricordarlo. Quel tesoro
nascosto lo stiamo già perdendo.
Fabrizio Coscia
*I disegni in copertina e nell’articolo sono di Rembrandt; in copertina: “Cristo
crocefisso tra i ladroni”, 1653
L'articolo Il tesoro nascosto. Ovvero: in difesa della Bibbia, per amore della
letteratura proviene da Pangea.
1.
Vorrei raccontare un esperimento che ho fatto tempo fa.
Ho preso 10 spettatori. Ho fatto vedere loro lo spezzone di un film con un
attore che non sa recitare. In 9 si sono accorti della cattiva recitazione.
Poi ho preso 10 lettori. Ho dato loro da leggere alcune poesie con testi banali
e melensi. Soltanto 4 di loro si sono accorti della bruttezza.
Ai 10 spettatori ho chiesto quanti di loro avrebbero voluto fare l’attore.
Soltanto uno mi ha detto che in gioventù aveva pensato di iscriversi a una
scuola per attori.
Ai 10 lettori ho chiesto quanti di loro avrebbero desiderato scrivere poesia, e
8 di loro mi hanno detto che scrivono e avrebbero voluto farmi leggere le loro
poesie.
I risultati di questo semplice “esperimento” (al di là della sua sciocca
inutilità statistica) mostrano di per sé alcune evidenze:
a. una consistente differenza tra spettatori e lettori;
b. una consapevolezza degli spettatori, rispetto ai lettori, del fatto che la
recitazione è anche una tecnica da studiare;
c. la presunta facilità della poesia per chiunque abbia appreso a scrivere a
scuola;
d. la capacità di individuare “errori” nell’arte performativa è superiore a
quella di riconoscere “errori” nel testo scritto.
Al di là della miriade di poeti della domenica, anche tra quelli pubblicati
spesso ci si riferisce ormai quasi esclusivamente a una accessibilità della
poesia. Cioè ci si riferisce più alla domanda che all’offerta. In sostanza ci si
occupa di marketing, cioè di ragionamenti e azioni che si fondano sulle
“esigenze” del lettore – intercettare il lettore, si dice. Questo è ciò che
cercano gli editori. E questo è il loro lavoro. Ma non dovrebbe essere quello
del poeta.
Quando si parla del lettore, di quale lettore si parla? Ovviamente di un lettore
generico, di un lettore-tipo, vale a dire di un lettore medio, uno che non
esiste in concreto, ma che a furia di nominarlo con tanta bramosia si palesa.
Questo lettore inesistente si palesa nella maniera della pubblicabilità, quel
modo che trascina poesia e letteratura nella mediocrità, in un ambito cordiale
che tutto mastica e tutto digerisce.
Partiamo da qui: la cordialità in poesia è un’aberrazione.
Non è questo lo scopo del poeta. Non è questo il terreno della poesia.
*
2.
Ma che cos’è oggi la poesia?
La domanda è pertinente, la risposta è difficile da individuare. È vero però che
da un decennio è emersa in molti titoli di autori conosciuti una certa
semplificazione a tutto tondo. E ultimamente c’è pure una caratteristica
diffusa, cioè la ricerca costante di una folgorazione finale. Si trovano
accorati pay-off in forma di poesia: soluzioni fulminee, apologhi icastici,
sviolinate con ciliegina. Si trovano raramente poesie, nel senso specifico del
mezzo. Siamo in un mondo in cui la poesia somiglia all’atto diarroico di dover
per forza disporre con impeto parole su un foglio, come una volta le diapositive
delle vacanze.
Oltre a questa tendenza a disporre testi poetici con finali a effetto, senza che
il testo stesso, che precede questi finali, abbia uno stile adeguato nella
creazione di un processo motivato che porta a tale finale, ci sono altre
caratteristiche negative alla base della produzione diffusa di poesia attuale. E
mi piace citarne almeno una. Vale a dire che spesso molte poesie contemporanee
scrivono esattamente ciò che vogliono dire. Non è coerenza tra pensiero e
scritto: è cronaca.
Ma una cosa è raccontare in poesia una domenica in vespa (come fa Sereni in un
testo formidabile), altra cosa è fare i compiti andando a capo a caso e
raccontando pedissequamente la passeggiata in un bosco, un semaforo rosso nel
corso principale, l’affetto per la nonna, e in più utilizzando tutta una serie
di inutili aggettivi decorativi.
La poesia non dovrebbe solo dire esattamente ciò che vuole dire. Di più. Se, per
esempio, uso la parola “ramarro” in una poesia devo avere la consapevolezza che
quella parola non appartiene al mio testo, ma soprattutto al mondo della poesia,
perché ne hanno scritto Dante e Montale. La tradizione – come si chiama – serve
anche a questo: a tonificare in novità un tema antico. La profondità di un testo
poetico non è soltanto in quello che racconta, ma come lo dice. E oggi,
purtroppo, l’empatico desiderio di rendersi protagonisti delle proprie emozioni
porta molti a esporre sentimenti in forme semplificate, invece di verticalizzare
(in alto o in basso) le profondità di idee o viscere. Purtroppo oggi si leggono
sempre più testi poetici che intendono esattamente ciò che vogliono intendere,
senza alcuna “ambiguità”. Mentre è proprio sulla polisemia che si gioca spesso
la forza di una poesia.
Finché questi prodotti poetici restano nella casa vasta della poesia-facile, nel
suo senso lato di “affare emotivo”, va benissimo. Del resto alcuni di questi
prodotti diventano anche titoli librari di successo, e vengono pubblicati con
ottime tirature. Eppure credo avesse ragione Ungaretti quando diceva: “La poesia
è poesia quando porta in sé un segreto. Se la poesia è decifrabile nel modo più
elementare, non è più poesia”.
*
3.
Veniamo così a un altro argomento. Cosa dovrebbe accadere quando il punto non è
il mercato librario, ma la poesia-poesia?
Forse la poesia dovrebbe essere, prima di tutto, la semplificata complessità di
un lungo rapporto con la tradizione e con la lingua. E certo anche il fulmineo
processo creativo emozionale. La poesia dovrebbe essere, prima di ogni altra
cosa, la parte consistente di un lavoro sulla lingua. La metrica è la musica
della poesia e chi non la conosce fa la stessa figura del direttore d’orchestra
che non sa leggere la musica sullo spartito. Certo, si può ignorare la metrica,
come si può fare immondizia dell’armonia, ma si deve conoscere e si deve sapere
che cosa si sta facendo.
In definitiva, il poeta ha soltanto la lingua, l’uso della lingua, i suoi
modelli e i suoi labirinti, le sue opportunità e le sue forme, come destinazione
e come destino. E per raccontare qualcosa che abbia la parvenza di un lavoro
nella poesia forse non basta una vita. Una vita di letture abbondanti, una vita
di studi continui, una vita di lunghe passeggiate in solitudine per sgranchirsi
la mente, una vita di riscritture chiarificatrici. Non si può definire un poeta
da un libro, da un lampo improvviso che acceca, ma da una competenza acquisita
nel tempo, possibilmente attraverso un’opera composta da più prove, da una
carriera svolta in maniera appartata in questo fragile piccolo mondo delle
parole.
*
4.
Capisco che in un mondo fatto di social e onnipresenze virtuali le persone
pensino al concetto di tempo e di storia come un lungo presente spalmato
esclusivamente sulla loro età, sulla loro brevità di vita. Tuttavia la cultura
dovrebbe scucire dagli occhi il velo che ci attanaglia, invece di farne viva
cordialità e simpatica e amorevole eroina che tutto rasserena.
I libri e la poesia soprattutto ci fanno vivere nella consapevolezza di una
lingua. Nella tradizione letteraria italiana la poesia ha un ruolo soverchiante
sulla prosa. Questa tradizione può essere solcata o essere tradita, ma soltanto
attraverso di essa possiamo concepire un passato che serve ancora comprendere e
in questa maniera guardare a un futuro da inventare.
Ecco dunque che la poesia non è il gioco iperbolico delle chiuse a impatto,
concepite come manifesti 6×3 che ti si parano davanti, quando svolti sulla
tangenziale. La poesia non è empatia sentimentale, non è la sociologica versione
del dolore. Forse questo funziona per i social, la tv, i rotocalchi. Ma non per
il fragile piccolo mondo della poesia-poesia.
Certamente i social (e facebook su tutti – pur con il suo declino, essendo una
piattaforma legata a una popolazione anziana) hanno avuto il merito di rendere
più diffuse molte frasi letterarie. Molte poesie famose sono rimbalzate di post
in post rendendosi fruibili a numeri enormi di persone. I social contribuiscono
a una specie di “democratizzazione” della punta dell’iceberg letterario. Vale a
dire che milioni di utenti si ritrovano a leggere pezzi di brani letterari,
spunti narrativi, frasi tagliate, brevi testi poetici.
Tutto ciò però conferma la superficialità di questo approccio e fissa alcuni
passi di letterature di vari Paesi del Mondo in frasi granitiche scolpite nella
pietra. Come una canzone ascoltata per tutta un’estate diventa un tormentone e
dopo un anno non abbiamo più orecchie per ascoltarla e ce ne dobbiamo separare o
dimenticare, anche una poesia di Giorgio Caproni, continuamente postata sui
social ci risulta prima o poi stucchevole. “Anche oggi pernici?”, diceva un
padrone al cuoco in un testo di Swift, per dire che anche un piatto prelibato
può dare disgusto se lo mangi sempre.
Che cos’è dunque questo desiderio di chiunque di rendere “poetico” un attimo
della propria esistenza, attraverso una riflessione emotiva postata tramite una
poesia ricorrente? Credo sia l’inconsapevole certezza che la parola declinata in
forma poetica ha una forza intrinseca che, come un solfeggio, batte e leva, cioè
misura il ritmo della nostra anima emotiva. Tuttavia questo non basta a
descrivere i contorni della poesia-poesia, ma soltanto la forza della lingua al
servizio dell’atto poetico. Perché in verità la poesia non è tutta nelle pagine
dei libri, ma nella natura. È da questo grande libro incommensurabile che spesso
si traggono, con il lavoro nella lingua, le emozioni delle parole.
*
5.
Tuttavia, come forse abbiamo lasciato intuire, il segno della poesia-poesia non
ha largo campo nella società e all’interno dei suoi mezzi di comunicazione.
Perciò resta complesso (e impossibile qui) indagare quanto i dispostivi
tecnologici abbiano modificato e influiscano sulla percezione della
poesia-poesia, preferendo solitamente una poesia-facile, cioè “meccanismi
poetici” più superficiali e semplificati. Questi ultimi sono la voce-guida
“culturale” dei nostri tempi. Tempi che non mostrano più un’identità collettiva,
checché ne dicano o sperino i governanti; tempi che non vedono una fase di
ricostruzione collettiva, come accadde nel secondo dopoguerra; tempi che erodono
la razionalità in favore di emotività adolescenziale.
È finita la vita in diretta, cioè quel legame individuale e collettivo che i
mezzi di comunicazione (tv, radio, stampa, editoria) organizzavano per gli
italiani. Dal momento in cui ogni individuo ha potuto avere un dispositivo
personale, la visione e la pubblicazione on-demand hanno soppiantato la visione
e la pubblicazione tramite terzi, si è perduto, in questa frammentazione, anche
il valore della poesia-poesia.
Con la denatalità degli italiani, l’arrivo di molti immigrati da varie parti del
mondo, il gergo invasivo dei social e dei giochi elettronici, l’uso dell’inglese
della tecnologia, i ricorrenti gerghi giovanili (derivanti più o meno dalla
musica pop), l’ideologia woke e le sue declinazioni linguistiche, i sempre più
spiccati ritorni ad accenti regionali nelle radio e nelle televisioni nazionali,
siamo di fronte a un tempo formato da molte alloglossie. Non sembra esserci più
un sistema di una lingua maggioritaria, come è stato fino ai primi anni Ottanta
del Novecento, attraverso i canali RAI.
Allora potrebbe essere forse la poesia-facile a stabilire nuove regole e nuovi
principi? La sua diffusione sui social, la sua elementare comprensibilità, la
sua affabilità nelle forme semplificatorie di cui abbiamo detto all’inizio di
questo testo, potrebbero suggerire un sentiero, che mette d’accordo lingua
scritta e lingua parlata. Infatti, ormai l’uso dei vari dispositivi tecnologici
permette una commistione molto forte tra scritto e parlato, con uno scivolamento
del primo in favore del secondo.
Senza dubbio una società è coesa laddove si individua un sistema linguistico
corrente e comune, un impianto di base minimo non soltanto per la comunicazione
concreta, ma che sappia anche muovere dal linguaggio alle emozioni e dunque a un
immaginario possibile di riferimento. Senz’altro la poesia-facile sta avendo
successo per questa riduzione di complessità, per una
certa adolescenziazione sociale e culturale, che è anche, in parte, una rinuncia
alla razionalità e alla responsabilità. Invece di offrire agli adolescenti una
formazione, attraverso la letteratura, che li traghetti al mondo adulto, si è
recentemente attaccata superficialmente la tradizione letteraria cercando di
nasconderla, emendarla, epurarla. Al tempo stesso si pubblicano e si promuovono
“casi letterari” di poesia-facile, si adolescentizza, in chiave esclusivamente
emotiva, la produzione poetica contemporanea. Non mi sembra un buon programma di
crescita individuale e collettiva. E certo voglio credere che servirà ancora
qualcuno che sappia muovere le trame sottili e adulte della poesia-poesia. Di
questo spero che la comunità attuale dei letterati e dei responsabili
dell’editoria continuino ad averne consapevolezza.
Alessandro Agostinelli
*
Alessandro Agostinelli, scrittore e poeta. Ha pubblicato il romanzo Benedetti da
Parker (2017); alcuni saggi sul cinema americano; i reportage di
viaggio Giordania stilografica (2023), Da Vinci su tre ruote (2019), Honolulu
Baby (2011); le raccolte di poesia Le vive stagioni (2023), Il materiale
fragile (2021), L’ospite perfetta – Sonetti italiani (2020) e in Spagna En el
rojo de Occidente (2014). Ha lavorato a Radio 24, Radio RAI Tre, L’Espresso.
Fondatore del Festival del Viaggio. Dirige la collana Poesia di Edizioni ETS.
L'articolo La poesia-facile e la poesia-poesia proviene da Pangea.