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“Dio non è, bensì dona se stesso senza riserve”. Per una fenomenologia dell’eccedenza
La riflessione filosofica sull’esperienza religiosa ha da sempre navigato attraverso acque turbolente, tra le onde dell’impossibilità di rappresentare il divino ed il desiderio umano di avvicinarsi ad esso. La tensione tra l’idolo e la distanza, tra il desiderio di cogliere l’Essere assoluto e l’incapacità di ridurre il divino ad una figura riconoscibile e domestica, è una delle problematiche più acute della filosofia teologica e fenomenologica. Questa distanza, non solo ontologica, ma anche etica ed esistenziale, solleva interrogativi che attraversano secoli di pensiero.  La filosofia dell’idolo è, per così dire, una filosofia della rappresentazione, ma non una rappresentazione che possa mai colmare l’abisso che separa il finito dall’infinito. L’idolo, nel suo significato originario, rappresenta una proiezione umana del divino, un tentativo di incarnare l’immensurabile in forme finite. Questa rappresentazione, pur sembrando un accostamento possibile, è, paradossalmente, la negazione stessa del divino: l’idolo è insieme la verità e la sua distorsione, la vicinanza e la separazione. La fenomenologia dell’idolo non può prescindere dalla consapevolezza di un abisso che lo separa dalla divinità autentica. Da una parte, l’idolo si presenta come il tentativo di incarnare il trascendente nel finito, dall’altra come il segno di un fallimento incolmabile, come un simbolo che riduce l’infinito a un’immagine mortale.  La filosofia kantiana, nel suo rigore critico, aveva già messo in luce l’impossibilità di una rappresentazione adeguata del divino: ciò che è veramente divino sfugge inesorabilmente alle maglie della comprensione umana. La nozione di “cosa in sé” esprime una realtà che, pur manifestandosi fenomenicamente, rimane incognita ed inconoscibile. Non possiamo ridurre Dio ad una rappresentazione sensibile, né interpretare la sua essenza con le categorie dell’esperienza. L’idolo, in questo senso, si fa segno di una distanza irrimediabile, di una separazione ontologica che fa del divino l’oggetto di una contemplazione che è sempre, al contempo, una perdita di contatto con il divino stesso. In Kierkegaard, questo abisso tra l’umano ed il divino si esprime attraverso il concetto di “salto della fede”. La religiosità, per Kierkegaard, non è una forma di conoscenza oggettiva, ma un atto di fede che sfida ogni forma di rappresentazione, ponendo l’individuo di fronte ad una divinità che, pur rivelandosi nella sua alterità, rimane sempre fuori dalla portata della comprensione. La fede non è un atto di possesso del divino, ma un atto di abbandono, di apertura ad un mistero che trascende ogni possibilità di idolo, ogni tentativo di ridurre l’infinito ad una figura conoscibile. Nel momento in cui il divino viene sottratto alle categorie ontologiche tradizionali, la domanda su Dio si sposta dal piano dell’essere a quello dell’alterità assoluta. La filosofia contemporanea, a partire da Heidegger, si è confrontata con la necessità di pensare Dio non come un essere, ma come un’alterità che sfida ogni definizione ontologica. Per Heidegger, l’essere stesso non è Dio, ma la sua “abbandonata” manifestazione; eppure, proprio questa lontananza dell’essere diventa il terreno di un’interrogazione che resta sempre aperta e inassoluta. Dio, in questo quadro, non è un essere, ma un oltre, un’apertura che non può essere colta se non come un’assenza. L’essere stesso è “vuoto” rispetto alla presenza del divino, e in questa “assenza” risiede la possibilità del divino di farsi presente, ma sempre sfuggendo alla piena conoscenza.  La fenomenologia dell’eccesso, che pervade la riflessione sul divino, trova una delle sue espressioni più potenti in Emmanuel Levinas. Per Levinas, Dio è l’alterità per eccellenza, l’ineffabile che si manifesta nel volto dell’altro. L’incontro con l’altro, per Levinas, non è mai un semplice incontro con una realtà finita, ma l’esperienza di un’infinità che sfida ogni pretesa di riduzione a concetti finiti. Dio, dunque, non è mai un essere tra gli esseri, ma l’appello che giunge dall’alterità assoluta, dalla distanza che non può mai essere colmata. In questa prospettiva, la filosofia di Levinas non solo sottrae Dio alla rappresentazione, ma lo colloca al di là dell’essere, in un ordine che non può essere messo a sistema, ma che è continuamente esperito come un eccesso che infrange ogni tentativo di ridurre la realtà ad un oggetto conoscibile. Se Dio non è riducibile all’essere, se l’idolo ne distorce l’immagine, e se la sua manifestazione sfugge alle maglie della rappresentazione, allora la fenomenologia del divino diventa una fenomenologia dell’eccesso. Il divino si dà non come un concetto, ma come un oltre che irrompe nell’esistenza in una forma che non può essere afferrata, ma solo vissuta come una tensione, un’aspirazione che resta sempre inappagata. L’esperienza del divino, in questa luce, non è una conoscenza, bensì un incontro con l’inconoscibile che ci sfida ad abbandonare ogni pretesa di dominio. Così come il volto dell’altro ci sollecita a una responsabilità che non può essere risolta in una semplice rappresentazione, Dio si fa esperienza di un’infinità che ci solleva e ci sospende.  Anche Nietzsche, nel suo pensiero sulla morte di Dio, non intende un annientamento del divino, ma un superamento delle metafisiche che hanno ridotto il divino ad un’entità da comprendere e dominare. La morte di Dio, per Nietzsche, non è la fine del divino, ma la fine di un concetto di divinità che poteva essere compreso e ordinato. Dio, nell’ordine della volontà di potenza, è il segno di un oltre che non può essere trattenuto da alcuna rappresentazione, un’espressione di una forza che travalica ogni limitazione. La fenomenologia del divino si presenta come un’esperienza di tensione e distanza, in cui l’idolo, pur avvicinando l’uomo al divino, ne tradisce l’essenza. L’idolo è la forma che il divino assume nel tentativo di essere afferrato dal finito, ma è anche il segno di una separazione che lo rende irriducibile a ogni figura e rappresentazione. Il divino, nell’alternativa proposta dalla fenomenologia dell’eccesso, non è un essere, ma un’alterità che si fa presente solo nell’inaccessibilità, solo nella distanza che resta. Non c’è concetto che possa contenere Dio, non c’è rappresentazione che possa esaurirlo. Solo l’esperienza di un incontro con l’infinito ci permette di avvicinarci al mistero, senza mai riuscire a comprenderlo appieno. Eppure, proprio in questa impossibilità di possederlo, il divino si rende manifestamente presente come l’oltre che ci interpella senza risposte definitive, come un’eccedenza che sfida ogni tentativo di riduzione all’essere. Jean-Luc Marion, nel suo Dio senza l’essere (Dieu sans l’être, 1982), si propone di superare la tradizione ontoteologica che ha caratterizzato il pensiero occidentale, in particolare a partire dalla scolastica e dalla sintesi heideggeriana della metafisica. La tesi fondamentale dell’opera è che Dio non possa essere costretto entro le maglie del concetto di essere, poiché quest’ultimo è un determinante filosofico che riduce la trascendenza alla misura del pensiero umano. In questo senso, Marion si inserisce in un solco di critica radicale alla metafisica occidentale, riprendendo e rielaborando le intuizioni di pensatori quali Heidegger, Derrida e, ancor più, la tradizione teologica negativa che da Pseudo-Dionigi l’Areopagita arriva fino a Meister Eckhart. Marion accoglie la diagnosi di Heidegger sull’ontoteologia, secondo cui la metafisica occidentale ha sempre pensato Dio a partire dall’essere, trasformandolo in summum ens, cioè in un ente supremo, anziché lasciarlo nella sua irriducibile alterità. In tal senso, il Deus ens della tradizione tomista e scolastica è per Marion una forma di idolatria concettuale, poiché costringe Dio entro categorie umane. Tuttavia, mentre Heidegger suggeriva un Gelassenheit, un lasciar-essere che aprisse all’evento della verità dell’essere, Marion sposta il centro dell’attenzione su un altro concetto: il dono. Come scrive:  > «L’essere non ha titolo sufficiente per pensare Dio, e dunque deve essere > decostruito a favore di un pensiero dell’eccedenza».  Questo lo pone in contrasto con l’ermeneutica heideggeriana, che pur individuando la problematica dell’ontoteologia, non riesce a liberarsi del primato dell’essere. Dio non si definisce in base all’essere, bensì in base al dono assoluto, un’eccedenza che non può essere ricondotta ad una logica ontologica. Qui, Marion introduce il concetto chiave del fenomeno saturo, cioè un fenomeno che si manifesta in eccesso rispetto alla capacità del soggetto di accoglierlo e comprenderlo. L’evento rivelativo divino è esattamente questo: qualcosa che si dona senza misura, oltrepassando la possibilità di essere oggettivato. Egli scrive:  > «Dio non è, bensì dona se stesso senza riserve, e nel donarsi eccede ogni > concettualizzazione». Questo concetto richiama la surabondance di Henri de Lubac e il pensiero di Emmanuel Levinas, il quale afferma che «l’Altro si presenta come ciò che non può essere ridotto a un concetto» (Levinas, 1961). Tuttavia, mentre per Levinas il volto dell’Altro è l’accesso etico alla trascendenza, per Marion il dono divino è un’eccessività che si manifesta senza condizioni.  Uno dei momenti più densi del testo riguarda la distinzione tra idolo e icona, già centrale in L’idole et la distance (1977). L’idolo è l’immagine che chiude lo sguardo su di sé, che permette all’uomo di contenere il divino nel proprio orizzonte. L’icona, al contrario, è ciò che si sottrae allo sguardo, che invita lo sguardo umano a oltrepassarsi, a non esaurirsi nella rappresentazione. Dio, nel suo rivelarsi, non è un idolo concettuale, ma un’icona che lascia intravedere un’eccessività irriducibile:  > «L’icona non è ciò che noi vediamo, ma ciò che ci guarda». Questa distinzione si rivela decisiva nel contesto della teologia negativa, poiché sposta l’accento dalla definizione di Dio alla sua fenomenalità come rivelazione eccedente. Se l’idolo è un riflesso che il soggetto controlla, l’icona è il punto in cui il soggetto si scopre guardato:  > «Nell’icona, non siamo noi a vedere, ma siamo visti». Questo si ricollega alla mistica cristiana, dove la contemplazione non è il raggiungimento di Dio, ma il lasciarsi invadere dalla sua presenza. Non sorprende che il pensiero marioniano trovi assonanze profonde con la tradizione mistica cristiana. La sua critica all’essere è, in un certo senso, un recupero della via negativa che attraversa Pseudo-Dionigi, Maestro Eckhart e persino la mistica carmelitana di Giovanni della Croce. Dio non è colto nell’essere, ma nell’esperienza del suo donarsi, un’esperienza che rimane sempre sovrabbondante rispetto alle nostre categorie. Come scrive Pseudo-Dionigi:  > «Dio è più alto di ogni affermazione e più nascosto di ogni negazione».  > > (De Mystica Theologia) Questo si sposa perfettamente con la nozione di fenomeno saturo di Marion, che indica una rivelazione che eccede ogni presa concettuale. In Dio senza l’essere, Marion ci offre un pensiero radicale e vertiginoso, che tenta di liberare la riflessione su Dio da ogni compromissione con la metafisica. L’uscita dall’ontoteologia non è solo un gesto decostruttivo, ma l’apertura a una nuova possibilità di pensare la trascendenza: non come essere supremo, ma come dono infinito. Questa prospettiva lo distingue da altri pensatori della decostruzione del divino come Derrida, per il quale il concetto di différance lascia Dio in una sospensione incessante. Marion, invece, va oltre la sospensione e si inoltra nell’esperienza di una rivelazione che si dona in sovrabbondanza. In questo, il pensiero di Marion rappresenta una delle sfide più affascinanti e audaci della filosofia contemporanea, tracciando un percorso che collega fenomenologia, teologia negativa e mistica in un dialogo fecondo.  Giusy Capone *In copertina: Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432, particolare L'articolo “Dio non è, bensì dona se stesso senza riserve”. Per una fenomenologia dell’eccedenza proviene da Pangea.
April 11, 2025 / Pangea
“Tra i fili del fuoco”. Francesco Benozzo, un disertore
Non si può barare con la montagna. È stato l’Appennino a far germogliare dentro il ragazzo che trascorreva le estati con i nonni, un inestirpabile desiderio di libertà. Forgiato dal e nel suo seno, da ruscello carsico di desiderio fanciullesco a vera e propria piena nell’età adulta, a passo di poeta e di sciamano ricostruendo una grammatica della diserzione che, probabilmente, è giovane di milioni di anni perché solo il perenne è capace di non invecchiare. Francesco Benozzo non ha mai barato né con la montagna, né con l’impulso feroce del suo sangue che lo obbligavano a tornare con la musica e con le parole a quel tempo troppo lontano per noi evoluti e separati dal tutto, in cui dire Io sono significava dire Io sono il cosmo. Cioè il tempo totalizzante dell’infanzia, prima che imparare a stare nel mondo si trasformi, con i suoi concetti e le sue artefatte regole, nell’oblio di quell’incanto originario.  Da questa fedeltà nasce un breve manuale, pubblicato per i tipi de La Vela, dal titolo Piccolo manuale di diserzione quotidiana. Per Benozzo le parole, che sono la cosa più effimera che esista, al contempo sono l’artefatto più duraturo: dietro ciascuna di esse, si nascondono strati di storia e di preistoria lungo il cui filo risalire alla prima volta, allo stupore del dire di fronte al mondo, nel mondo, che costituisce la ragion d’essere del poeta. Dunque, la diserzione non è una posa da bastian contrario alle regole del vivere civile, come una banalizzazione della questione potrebbe far pensare e condannare. È una fede atavica a quel primo momento, supremo atto poetico, a ciò che preesiste al simulacro di mondo che assorbe la nostra vita, che confondiamo con la nostra vita.  Owen Clarke, intellettuale militante di Cardiff, in Galles, ha scritto “Dopo alcuni recenti libri dalle tesi forti e controcorrente, Benozzo qui si spinge addirittura oltre e dà forma al primo trattato in cui si teorizza la diserzione come unico stile di vita possibile. Un piccolo e potente libro che stravolge le nostre percezioni abituali e che, citando Baudelaire, individua nella capacità di andarsene e di sottrarsi la più potente e concreta rivoluzione attuabile ogni giorno da ciascun individuo”. > L’intrico in cui le vite dei singoli individui vengono ingarbugliate (in > latino sertum, participio passato di serěre ‘intrecciare’, originariamente > ‘intrecciato’, poi diventato anche, in forma di sostantivo, ‘corona, serto’) è > presentato come una ‘corona’ di cui fregiarsi come uomini evoluti, ma nella > sua essenza è un’imposizione non necessaria a cui a poco a poco si comincia ad > adattarsi confondendola con la propria natura. Il disertore toglie la corona; ancora meglio, la rifiuta. E lo fa in nome di quello che gli viene tolto, di ciò che è situato al di fuori della gabbia. Per questo Francesco Benozzo non si è mai, dal canto suo, sottratto al prezzo sociale da pagare per il suo rifiuto, isolandosi dalle dita puntate su di lui, dal disprezzo neppure malcelato per le sue scelte radicali. Lui stesso, quando ha ritenuto di doverlo fare, quando quell’impulso lo ha richiamato, ha detto no per non tradirsi, tradendo tuttavia il consesso civile che lo voleva strappato a sé stesso. In questo senso, in qualche modo il disertore è l’avventuroso puer aeternus che tanto pare minacciare l’intrico, cioè il costituito, contraffazione dell’unità originaria, in cui un falso centro distoglie da quello reale. Certo agli adeguati, ai conformi, non poteva non apparire quantomeno bizzarro l’atteggiamento, lo stare al mondo, di Francesco Benozzo.  Filologo di fama docente all’università di Bologna, poeta, sciamano, candidato dal 2015 stabilmente al Nobel per la letteratura; disertore, appunto. Ma non disertore con parole vane, vuote, immemori dell’altrove da cui sono originate. Nelle azioni, radicali come l’impulso del sangue che rifiuta la frode. E adesso che spirano i venti di una guerra tale da far impallidire tutte le altre, adesso che il castello di regole posto a protezione di una pace che sembrava indistruttibile viene giù, come accade ogni qualvolta il peso delle menzogne seppellisca una civiltà ormai incapace di continuare a raccontarsele in modo convincente, il cuore di Benozzo ha disertato per l’ultima volta: “Il diritto di andarsene, la capacità di sottrarsi, l’istinto a non conformarsi sono i capisaldi della legge del tutto”. Chissà che non siano stati i suoi Appennini a suggerire queste parole, come una chiamata al ritorno liberata nell’ultimo battito.  > Ed intanto tra i fili del fuoco > Vedevamo danzare  > Una forma inattesa per noi > Una forma di mare > > Ed intanto nei vuoti di ortiche > Sentivamo il lamento  > Di parole diverse da noi > Di parole di vento  > > Qui si ascolta L’inverno necessario. Livia Di Vona *In copertina: Nicolas de Staël (1914-1955), Landscape, Antibes, 1955 L'articolo “Tra i fili del fuoco”. Francesco Benozzo, un disertore proviene da Pangea.
April 10, 2025 / Pangea
“Buono di cuore fino all’eccesso”. Friedrich vs. Nietzsche. Storia di una scissione
Friedrich Nietzsche era una scissione. Per molti versi, la nostra scissione. L’uno, Friedrich, era l’esatto rovescio dell’altro, Nietzsche: quanto più vitale, vorace, impietoso il primo, quanto più infermo, mite e ingenuo il secondo. Il suo cervello, una spugna elettrica di portentosa potenza, prosperava come un parassita a spese del resto del corpo. Il compiaciuto Anticristo era “buono di cuore fino all’eccesso”, come egli stesso riconosceva in privato. Sulla carta, dava vita a un pirotecnico teatro di giudizi penetranti e quasi sempre azzeccati, pavoneggiandosi da primadonna mentre trascorreva “un’esistenza da mansarda”.  La biografia di questo colosso parla di noi: della nostra infelicità, della nostra tracotanza, della nostra piccolezza mascherata da grandezza. Il disadattato Nietzsche è già stato, nel suo peculiare modo, ciò che noi siamo oggi: il prototipo da laboratorio dell’umanità ferita e alienata, brulichìo di atomi ognuno dei quali con la presunzione d’essere il centro dell’universo. Nietzsche non solo pensò il vuoto che ci bracca da ogni lato: si offrì come cavia. Visse una non-vita sinistramente simile a quella che, nell’impero liquido e virtuale del nostro tempo, confina un po’ tutti noi nella celletta d’isolamento digitale. Egli incarnò in anticipo, dilacerato fra corpo e mente, la faustiana corsa al potere illimitato della mente, a cui corrisponde il franare dell’integrità corporea. Di questa iper-modernità, ai suoi tempi sugli altari, preconizzò e riassunse la degenerazione, l’esaurimento, il disagio. Si intestardì a voler vincerli, anzi a darsi come confutazione vivente, da trasvalutatore in trionfo. Voleva, sì. Ma non poteva. Il padre del Superuomo era, dopo tutto, un uomo. Fragile e patetico come, sotto sotto, lo siamo tutti. Prostrato da una miopia da talpa, visse modestamente grazie a una sorta di pensione anticipata che l’ateneo di Basilea gli assegnò per riconosciuti meriti per lo straordinario pedagogo che fu. Il suo fisico, in sé perfettamente sano, si macerava in un grumo di contorcimenti psicosomatici: emicranie croniche, vomito a ondate al minimo refolo emotivo, spossatezze prolungate, immobilità a letto. I sintomi che avevano accompagnato alla tomba, a soli trentasei anni, il padre Ludwig, prete luterano. La morte di questo papà che si dilettava al pianoforte, tanto pio quanto malaticcio, rappresentò per Friedrich l’evento fondante, lo spettro onnipresente di una fine prematura, la prefigurazione di un decesso di ben altra portata: la morte di Dio.  Da bravo cocco di mamma e figlio spatrizzato, il sesso e l’intimità lo sgomentavano. In questa paura della corporeità, è rintracciabile un punctum dolens del nostro tragicomico quotidiano. Cosa sono, infatti, l’edonismo da poveracci, il consumismo pseudo-sentimentale e il salutismo mortifero, se non la farsa di una “grande salute” dietro cui si nasconde, e neanche tanto bene, il terrore per la più piccola frustrazione? Più il corpo viene esibito, sessualizzato e sbattuto ovunque, tanto meno è vissuto. Il dionisiaco, pagano, gaio Nietzsche non aveva nulla di dionisiaco, di pagano, né di gaio. Lui lo reprimeva. Noi lo pornografizziamo. Ma il risultato è identico.  Dannato a cogitare senza requie (“non ho mai tregua”), si nutriva di rabbia narcisistica. Se Nietzsche non fosse stato Nietzsche ma un qualunque omiciattolo odierno, l’avremmo compatito come una vittima comune dell’attuale narcisismo di massa (noto anche come liberale, democratico individualismo). E gli avremmo consigliato un bravo psicanalista. Ma per disgrazia sua – e fortuna nostra – a quei tempi la psicoterapia era di là da venire. Se “curato”, probabilmente non avremmo goduto dello splendore scabroso della sua opera.  Nietzsche nacque davvero “postumo”. Ora, se in privato era un abitudinario angosciato e nevropatico, come filosofo Nietzsche era un brillantissimo fuorilegge che batteva bandiera pirata: senza religione, senza patria e senza famiglia, in nome della libertà dal pregiudizio fa terra bruciata intorno a sé, espugnando e abbattendo tutto: metafisica, morale, scienza. Viveva “una missione insolita e gravosa” che gli prescrive, dice, di “non legarsi più a nessuno”; anche se, afferma, diffida dei “pensieri nati da un animo depresso e da viscere in disordine”. Nel retropensiero di un amor fati che converte il fatalismo in slancio attivistico, si intuisce il terrore di scoprirsi nei propri punti deboli.  > “Egli – testimoniava un’amica – condannava tutta una serie di sentimenti nella > loro forma accentuata, non perché non li aveva, bensì, al contrario, perché li > aveva e ne conosceva la pericolosità”.  A confermarlo è lui stesso, sia pur intonando il ritornello della presunta necessità:  > “L’assenza perpetua di un amore veramente rigenerante e salutare, l’assurda > solitudine che essa comporta, al punto che quasi tutti i contatti che > rimangono diventano fonte di sofferenza, è la situazione peggiore che ci si > possa immaginare e ha un’unica giustificazione, quella cioè di essere > necessaria”. Nietzsche non riusciva ad accettare i suoi bisogni, giudicati indegni del magniloquente simulacro che si era scolpito di sé (“anche sul più alto trono del mondo siamo sempre seduti sul nostro culo”, diceva invece il saggio Montaigne). E dunque proiettava la sua Ombra sul cosiddetto “debole”, sul “tipo umano della degenerescenza”, sull’“incapacità di dominarsi, di non reagire ad un dato stimolo”. Nient’altro che il suo autoritratto. Nell’ultimo anno di sanità mentale, il gran misogino e gran misantropo precipitò verso il burrone a ritmo di valanga. Una sovralimentazione psichica lo elevò al picco di produttività: a testimoniarlo è il fulmicotonico Ecce homo, partorito negli ultimi mesi del 1888. Febbrile testamento ispirato dall’euforia che precede il tracollo, è il documento principe dell’incipiente demenza che lo avrebbe portato gradualmente a spegnersi fino al mutismo. Siamo al confronto finale, al Nietzsche contra Nietzsche: da una parte il depresso, timido, complessato eterno bambino, dall’altra il caustico, acuto, implacabile speculatore sovversivo. A furia di decostruire ragionando terminò i suoi giorni, alla lettera, sragionando. L’araldo della tragedia greca ne tradì lo spirito proprio nel suo insegnamento centrale: non riconobbe limiti al pensiero dubitante, che fatalmente finisce per autodistruggersi (“Cartesio non è abbastanza radicale per me”). Il filosofo tragico par excellence commise il delitto di Edipo: l’hybris che conduce alla cecità per aver voluto troppo vedere... Fissò la Medusa negli occhi, e ne finì pietrificato. Il “carnefice di se stesso” troppo a lungo dissezionatosi, il fautore dell’“uomo tropicale” e della “barbarie controllata”, fu il primo nichilista e anche il primo anti-nichilista. A metà, però. Da un lato, dopo di lui nessuna verità ontologica è più credibile come tale: esistono solo verità prospettiche. Derivative ma non equivalenti, perché le convinzioni, non più tarabili sul metro di parametri astratti e universali, restano valutabili in base al grado di vitalità, alla carica energetica, alla loro potenzialità dinamica. Non relativismo, dunque, ma prospettivismo che sa collocare i fattori nel loro contesto, giudicandone la necessità rispetto all’irradiazione di forza. In definitiva, da Nietzsche in poi non è più possibile aver fede a cuor leggero in alcunché, facilitandosi la vita al riparo di qualche fideismo fuori sincrono. Non è ammissibile per nessuno dare più nulla per scontato: nessun punto fermo resiste al benefico flagello del nichilismo radicale che spazza via ogni felicità facile, ogni credenza confortevole, ogni realtà fittizia. In questo senso, non si può non essere nicciani. Ma non si può essere nemmeno niccisti, seguaci adoranti di chi avvertiva che si ripaga male un maestro restandone sempre scolari. Per costituzione psicologica, a Nietzsche era preclusa la maturità che si prova nel piacere di prendersi cura di sé e degli altri. Tutti, prima o poi, ci ritroviamo in stato di bisogno, alla ricerca di una mano, di un sostegno, di un incoraggiamento. È da questa mancanza originaria, che accomuna in comune forti e deboli, dotati e meno dotati, che sorge il vitalismo autentico, l’unico umanamente possibile. Non certo dal glaciale volontarismo di un Nietzsche larvatamente transumanista, che fantasticava di “allevare una razza di dominatori”, i famosi e fumosi “signori della terra”, con metodi zootecnici, sopprimendo i “parassiti” e vaneggiando di caste eugeneticamente selezionate mediante l’“annientamento di milioni di malriusciti”. Nietzsche non è quel proto-nazista che è stato fatto passare: era troppo intelligente, fine, ironico, anti-tedesco, alieno da ogni biologismo (e oltretutto, anti-antisemita), per poter essere considerato tale. Ma che fosse un razzista sociale e un apologeta dichiarato dell’immoralità, su questo non ci piove.  Bisogna prenderlo con le pinze, Nietzsche. Salvarne la lezione insuperata e rigettarne la parte malata. Il suo appello a rimanere “fedeli alla terra” è il commovente grido di un uomo disperatamente moderno, sospeso nell’aria rarefatta di chi ripudia le radici. Un uomo staccato dalla vita, che proprio per questo furiosamente diceva di amarla: perché, di amarla veramente in tutti i suoi aspetti, sublimi e mediocri, eccelsi e grotteschi, non gli riusciva. Era troppo grande, il suo ribrezzo verso l’umano per com’è. E invece noi tutti siamo, come anche Nietzsche, umani troppo umani. Tutti quanti sulla stessa barca. Tutti quanti anime sitibonde d’approdo. Alessio Mannino ** Selezione di brani tratti da “Nietzsche contra Nietzsche” Nietzsche, il martellatore di idoli “Solo quando la società si divide in due caste una civiltà superiore può prendere forma: da una parte chi lavora e dall’altra chi ozia, chi sa oziare. O se vogliamo dirlo più incisivamente: la casta dei lavoratori forzati e la casta dei lavoratori liberi. Il bisogno di distribuire socialmente la felicità è secondario, per dare vita a una civiltà superiore. In tutti i casi, la casta degli oziosi si caratterizza per la facoltà di soffrire, soffre di più, ha meno gusto di vivere, ma ha un compito più grande”. (Umano troppo Umano).  * “Compatire indebolisce. Compatendo va a moltiplicarsi la profusione di energia che il soffrire già da solo comporta. Con la compassione la sofferenza si diffonde come un contagio. E ci sono volte in cui la compassione provoca uno spreco di forze sproporzionata rispetto alla quantità corrispondente alla sua causa (come nel caso della morte del Nazareno). […] la compassione è un ostacolo alla fonte, per la legge vitale che è il principio di selezione. […] Si arrivati a definire la compassione una virtù, mentre in ogni morale aristocratica è considerata un motivo di indebolimento”. (L’anticristo) * “La natura, per preservare la specie, deve sbarazzarsi dei malriusciti e degli aborti viventi. E difatti il cristianesimo rappresenta per essi una potenza di conservazione. Chi ama l’umanità sa che bisogna volere il sacrificio, per il bene della specie: prescrivendo il sacrificio umano, è certamente un amore duro, che esige un continuo superarsi (…)”. (Frammenti postumi) * “Per un sano, il malato è il massimo pericolo: i più forti non devono temere i forti, ma i più deboli. Ma quanta consapevolezza c’è di questo? Ragionando su vasta scala, non è la paura dell’uomo quella che bisognerebbe ridimensionare, perché tale paura agisce sui forti perché siano forti e a volte spietati: è questa paura, a dare la spinta al benriuscito. A dover essere temuta come un rischio mortale dovrebbero essere piuttosto il disgusto dell’uomo e la pietà per l’uomo. Se un bel giorno si unissero, il mondo non sfuggirebbe al manifestarsi di una minaccia enormemente inquietante: le ultime volontà dell’uomo, la volontà del nulla, il nichilismo. E in effetti, le avvisaglie di ciò sono parecchie”. (Genealogia della morale) * “(…) la vita è, nella sua essenza, incorporazione, aggressione e oppressione dell’altro da sé e dell’inferiore, è violenza, spietatezza, comando, acquisizione o nel migliore dei casi sfruttamento. Ma perché poi continuare a ricorrere a questi termini, su cui il tempo ha messo il sigillo dell’infamia? Si prenda il corpo, rispetto al quale gli individui, come accade nelle sane società aristocratiche, si considerano uguali:  se è vitale e non già sulla via della decomposizione, dovrebbe interagire con gli altri corpi facendo tutto quanto gli individui non fanno fra loro: diventare volontà di potenza incarnata, volontà di accrescimento, di espansione, di acquisizione, di conquista, poiché non ha il suo motore in nessuna morale (anche qualora immorale…), ma nel fatto stesso di essere vivo, in quanto la vita non è che volontà di potenziamento”. (Al di là del bene e del male) ** Nietzsche, umano molto umano “Rinuncia completa: non ebbi né amicizie né relazioni, non potevo leggere un libro, ogni arte era impossibile. Una cameretta con un letto, i pasti di un asceta (…) – questa rinuncia fu totale tranne in una cosa: potevo darmi ai miei pensieri. – Che altro avrei dovuto fare, del resto? Per la mia testa, in realtà, questa è la cosa più dannosa: ma non so come avrei potuto evitarla”, 11 settembre 1879. * “Fin da quando ero bambino non ho trovato nessuno che avesse il mio stesso tormento nel cuore e nella mente. Il che tuttora, e come sempre, mi obbliga a presentarmi improvvisando, e spesso controvoglia, vestendo i panni di uno fra i tipi umani oggi consentiti e compresi. Ma che si possa davvero fiorire soltanto tra persone che hanno pensieri e volontà simili (fino a includere la dieta e lo stile di vita), questo per me è dogma. Il mio problema è che non trovo nessuno. (…) Quasi tutti i miei rapporti umani sono conseguenze di attacchi di solitudine, da Overbeck a Rée, da Malwida a Köselitz – sono sempre stato felice in modo ridicolo ogni qual volta ho trovato, o credevo di trovare, un angolo da condividere con qualcuno”, 20 maggio 1885.  * “È rarissimo che ancora mi giunga una voce amica. Ora sono solo, inammissibilmente solo. E nella mia lotta oscura e senza quartiere contro tutto quello che l’umanità ha adorato e amato fino ad oggi (…) mi sono trasformato io stesso, senza neanche rendermene conto, in una caverna – in qualcosa di segreto, che non si troverebbe più neanche se ci si mettesse d’impegno per scovarlo”, 12 febbraio 1888.  * “Io penso di avere ormai sopportato cinque volte di più di quanto sia sufficiente a un uomo normale per suicidarsi – e ancora non è finita. (…) Senza il lavoro che mi dà una meta e senza l’improcrastinabilità di tale meta, io sarei già morto. Ecco perché dico che a salvarmi la vita è stato Zarathustra, mio figlio Zarathustra!”,metà luglio 1883.  *  “Non sono mancate le giornate nere, giorni e notti in cui non sapevo più che senso aveva la mia vita e un abisso di disperazione mi prendeva alla gola, una cosa che mai prima avevo provato. E con tutto ciò sono consapevole di non poter scappare, né indietro, né a destra, né a sinistra: io non ho scelta. Ora come ora a sostenermi è solo questo pensiero. Per tutto il resto, comunque, vivo sotto tortura”, 3 febbraio 1888. *  “La vita arriva per me all’apogeo: un paio d’anni ancora e la Terra tremerà, centrata da un inimmaginabile fulmine. Te lo posso giurare: ho il potere di modificare il modo di contare gli anni. Niente rimarrà in piedi, io non sono un uomo: sono dinamite. La mia ‘Trasvalutazione di tutti i valori’, con il titolo L’Anticristo, è pronta. Nei prossimi due anni devo far in modo di farla tradurre in sette lingue: la prima edizione in un milione di copie circa”, 26 novembre 1888.  * “(…) il mondo è trasfigurato: Dio vi è sceso. Non lo vede, come ogni cielo è in festa? Mi sono insediato nel mio regno, farò sbattere il Papa in gattabuia e fucilare Wilhelm, Bismarck e Stöcker. Il Crocifisso”, 3 gennaio 1889.  L'articolo “Buono di cuore fino all’eccesso”. Friedrich vs. Nietzsche. Storia di una scissione proviene da Pangea.
April 9, 2025 / Pangea
Senosofia, un’ontologia del seno. Ovvero: per la nascita di una nuova disciplina filosofica
Che io insista a volere a ogni costo che la filosofia dica qualcosa sul seno, che, per così dire, faccia sentire la sua voce, è qualcosa che avverto come un’esigenza che altri chiamerebbero ossessione (al pari di quella, per capirci, di Russ Meyer per le attrici procaci e giunoniche alla Lorna Maitland). Per altri versi non mi meraviglierei neppure se sul fondo di questa fissazione scorgessi una vera e propria resa come quella che Pierre Bordieu denuncia in apertura delle sue Meditazioni pascaliane:  > «Se mi sono deciso a porre qualche problema che avrei preferito lasciare alla > filosofia, l’ho fatto perché mi è parso che quest’ultima, pur così > problematica, non se li ponesse, e che continuasse a sollevare […] questioni > che non mi sembravano tali da imporsi».  Ecco, questo è l’atteggiamento di abdicazione della filosofia, la sua debolezza o impotenza, cioè porre e continuare a sollevare «questioni che non mi sembravano tali da imporsi» e lasciare che altre discipline le pongano in sua vece. Così, adesso è qui davanti a me la «questione» del seno di fronte alla quale non retrocedo.  La difficoltà del compito che mi attende non mi spaventa affatto, perciò, con l’imperturbabilità dell’asceta, mi immergo nella delicata ricerca. Ma sempre con metodo filosofico al quale, malgrado tutto, non intendo rinunciare. Il metodo della ricerca filosofica, garantisce Hegel nell’Introduzione allaFenomenologia dello Spirito, percorre essenzialmente il «sentiero del dubbio» (Weg des Zweifels), ma poi, correggendo il tiro, dice «sentiero della disperazione» (Weg der Verzweiflung). È su questo sentiero, dunque, che muovo i miei passi. E sebbene afflitto dal sentimento della disperazione, procedo temerario e senza indugi auspicando presto la nascita di una nuova disciplina, la senosofia. * Il supposto sapere sul seno, quello che banalmente sembra essere alla portata del volgo, annaspa nella vischiosa pania delle dòxai, delle stupide opinioni. Compito della filosofia, perciò, sarebbe quello di fuggirle a gambe levate giacché dagli idola già Bacone un tempo ci mise in guardia. Tuttavia il discorso filosofico non può né prescindere né trascurare quanto è linguisticamente e tradizionalmente acquisito (un gigantesco cumulo di macerie che ci sovrasta e schiaccia come fossimo formiche), e cioè non può ignorare che la parola «seno» indichi (almeno per ora) una parte anatomica del corpo femminile. Cosicché, quando l’argomento che riguarda il seno intenzionalmente sfiora la mente del filosofo, il territorio del femminile – della sua carne, per intenderci – primariamente si schiude. È da questo luogo troppo spesso martoriato o frainteso, confuso o esaltato, che egli comincia la sua fredda e «disperata» speculazione evitando i soliti luoghi comuni, gli atti di cortesia e i salamelecchi. Sant’Agata secondo Elisabetta Sirani * La percezione del seno, il suo puro apparire o il suo improvviso rivelarsi non sono semplici nuancesma interpellanze. Esse richiamano un sapere a lungo trascurato e nascosto. Compito della senosofia, perciò, è la sua rivelazione. La speculazione filosofica parte da qui, però poi, con un hegeliano «sentimento di disperazione», va inevitabilmente altrove: ta metà ta physikà, si diceva un tempo. «Oltre ciò che è carne», diciamo noi oggi. Indagando il seno la speculazione filosofica irrompe nell’ontologia. Anche questo va tenuto presente. Il corporeo, cioè, travalica sé stesso e si fa concetto, idea. Essenzialmente ontologico è l’affaire, dunque. E così bisogna trattarlo. * Che neanche la donna sappia cos’è il seno, non lo si deve a una sua distrazione o presunta incapacità. Del resto anche un uomo, messo di fronte a questo enigma, saprebbe soltanto bofonchiare come a lungo ha fatto, pure con più zelo e presunzione, con la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Il punto è che ella sa del seno abbastanza per non saperne nulla, vale a dire che sa del seno almeno quanto ne sa della sua cistifellea. In altre parole, ciò che il suo corpo custodisce in termini di organi non necessariamente genera conoscenza come un tempo in medicina un polmone, un rene o un cuore conferivano allure a questa scienza empirica e davano uno scopo alla dissezione dei cadaveri. E poi, diciamolo, il seno non è un organo. Come un amante esperto, invece, la conoscenza penetra una donna soltanto quando in lei irrompe la consapevolezza dell’essere che noi qui identifichiamo con il nome senosofia. Cosicché la donna comincia a sapere qualcosa del seno soltanto quando, per così dire, il “trattamento ontologico” in lei fa finalmente il suo lavoro. Soltanto allora un po’ di luce taglia l’oscurità e il seno ha la possibilità di compiere timidamente la sua epifania. Tuttavia non è un atto scontato. Prima di giungere al seno occorre superare la mammella, sbarazzarsene, insomma. Occorre, cioè, evitare quella prisca ed eterna ambiguità che la confonde con il seno e che essa produce con la sua sola vorace presenza. * Ora che il seno non scandalizza più, ciò che ancora sconvolge è la sua impenetrabilità, il suo interrogativo mutismo. Tuttavia ciò che una donna o un uomo devono imparare è che il seno non si trova soltanto là dove essi credono che sia. Fallaci congetture hanno agito in tal senso. Sebbene ami rivelarsi (ne siamo sicuri?) sul corpo di una donna come la muffa si abbarbica su una parete umida, questo corpo è per il seno un pretesto, un’occasione alla quale esso non rinuncia. Su questo corpo il seno sperimenta la sua delicata esistenza poi, come dicevamo, va altrove, ta metà ta physikà. Il suo manifestarsi dipende dalla nostra capacità di riconoscerne i contorni oppure, diciamo così, dalla nostra consapevolezza senosofica. Il seno, dunque, non appartiene al corpo, o almeno non gli appartiene più di quanto possa appartenergli un abito o un paio di mutande. Molti uomini, e per molto tempo, si sono accontentati di un’illusione, di quella parvenza che hanno poi chiamato «seno». Ma il fatto è che non tutti hanno dimestichezza con l’ontologia. E da oggi in poi, questa sarà una considerazione da tenere presente. Sant’Agata secondo Francisco de Zurbarán * Se la mammella vive alla luce, il seno abita il crepuscolo. Nessuna donna espone il seno con la sfrontata e appagante disinvoltura con cui una puerpera tira fuori dall’abito la sua zampogna gonfia di latte. Fortunatamente per il seno, questo è anche ciò che gli garantisce quell’esistenza particolare ed eterna. Persino nelle ricorrenti immagini erotiche in cui il seno è mostrato con disinvoltura appare, prima di lui, una mammella. Al seno, purtroppo, spetta il secondo tempo, l’ombra o la parte da comprimario. Pare che il seno gradisca soltanto la nudità erotica degli amanti, e invece il seno è là, da secoli in penombra, che aspetta l’occasione per manifestarsi.  * Se la mammella giace tronfia nei manuali di medicina e chirurgia, non vedo perché il seno non possa avere il suo posto d’onore in un trattato di ontologia. Eppure non si deve pensare che l’ontologia che qui si sta auspicando, e che ho chiamato senosofia, apprezzi le fanfaluche, la ciarla e il fatuo vagheggiare. Come si è detto, è dalla carne che essa trae ispirazione. Il corpo è il suo primo interlocutore e con questo corpo deve fare i conti. La fenomenologia ci impone «la cosa» così com’è, così come la vediamo. Ma il seno non ha niente di fenomenologico perché noi, de visu, non lo percepiamo. Quello che percepiamo, lo ripeto, è la mammella, una vescica di latte. Con il seno si tratta perciò di concentrare lo sguardo e l’attenzione su un argomento a prima vista non filosofico e farlo diventare di pertinenza esclusiva della filosofia. Fare ontologia, insomma, con quello che rimane, con ciò che è stato tagliato fuori, con i resti, gli scarti del corpo e della filosofia. Il senosofo – ossia colui che fa dell’ontologia del seno il suo principale impegno – è il solo che può occuparsene. Soltanto lui ha di mira questo traguardo. Suo è il compito di rispondere finalmente alle interpellanze del seno. Se per il metafisico ciò che è soltanto qui e non altrove non è degno di interesse, per il senosofo – questa figura silenziosa e imperturbabile a lui più vicina – non esistono che seni. E di questi e della loro misteriosa vita perenne, vuole sapere tutto quello che c’è da sapere. Vincenzo Liguori *** Sullo stesso argomento e dello stesso autore si veda anche: * https://www.pangea.news/seno-anatomia-femminile-liguori/ (14 luglio 2023) * https://www.pangea.news/senologia-filosofia-liguori/ (12 settembre 2023) *In copertina: Giovanni Lanfranco, Sant’Agata in carcere, 1614 ca.  L'articolo Senosofia, un’ontologia del seno. Ovvero: per la nascita di una nuova disciplina filosofica proviene da Pangea.
March 28, 2025 / Pangea