Nel 1937, Simone Weil trascorse due giorni ad Assisi: “Mentre mi trovavo da sola
nella piccola cappella romanica del XII secolo all’interno di Santa Maria degli
Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove san Francesco ha pregato tanto
spesso, per la prima volta nella mia vita qualcosa più forte di me mi ha
obbligata a mettermi in ginocchio”.
Questa è l’esperienza di Simone nella Porziuncola, quella piccola chiesetta di
pietra che si trova all’interno della maestosa Santa Maria degli Angeli. Un
luogo di pellegrinaggio e preghiera che recentemente ho voluto visitare anch’io
proprio per capire l’esperienza della Weil.
> “Ad Assisi sono completamente scomparsi dalla mia memoria Milano, Firenze,
> Roma e tutto il resto, tanto sono stata affascinata dalle campagne così dolci,
> così miracolosamente evangeliche e francescane, dalle chiese così incantevoli,
> da tanti ricordi felici e da quei nobili esemplari della specie umana che sono
> i contadini umbri, una razza ricca di bellezza, di vigore fisico, di gioia, di
> dolcezza. Non avevo mai sognato un paese così meraviglioso”.
Simone Weil la filosofa, la mistica, l’anarchica, l’operaia per scelta, la non
più ebrea, la malata, la donna che scelse l’adesione alla miseria per
avvicinarsi a Dio, che capì presto quanto fosse necessario fare “vuoto” per fare
spazio a Lui, negare se stessi, ammettere che l’universo è assolutamente privo
di finalità e che in questa assenza sta l’essenza del mondo, la bellezza pura, e
che per non cedere alle passioni è necessario esercitare l’attenzione, la
responsabilità, portare il corpo alla disintegrazione.
> “Ad esempio, mi sono sempre proibita di pensare al futuro, ma ho sempre
> creduto che il momento della morte sia la norma e la meta della vita. Pensavo
> che per coloro i quali vivono come si conviene sia l’istante in cui, per una
> frazione infinitesimale di tempo, la verità pura, nuda, certa, eterna penetra
> nell’anima. Posso dire di non aver mai desiderato per me alcun altro bene”.
L’ascesi come fortificazione e non come mortificazione. Proprio ciò che scelse
di fare Simone anche in punto di morte: portare la propria croce. In preda a una
tubercolosi, poco più che trentenne, si lasciò anche morire di fame: “Trovo
conforto soltanto nel ricordo delle voluttà sia spirituali sia fisiche che
sorgono durante la sofferenza fisica. Sono brevissime, e tuttavia di una tale
intensità da equivalere a un lungo benessere. Lo so per esperienza, e suppongo
che sia così per tutti”.
Perché la malattia offre la condizione ideale per l’ascesi e per raggiungere
Dio. Per scorgerlo bisogna sottrarsi al mondo.
Per riuscire a vedere è necessario essere consapevoli. L’attenzione è la più
alta forma di preghiera. Scriveva Simone Weil nel suo Attesa di Dio:
> “L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in sé stessi, così come si
> inspira e si espira. Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono
> infinitamente più di tre ore d’applicazione con la fronte corrugata, che fanno
> dire, con la sensazione di aver fatto il proprio dovere: «Ho lavorato sodo».”.
Attenzione come sospensione del proprio pensiero, come possibilità di lasciarlo
andare, renderlo disponibile, vuoto, in attesa, senza nulla da cercare, pronti
ad accogliere la nuda verità dell’oggetto che sta per penetrarvi.
Weil recitava il Pater ogni mattina come una vera e propria pratica di
meditazione, una pratica del verificare, un sacramento, una veglia: “Se mentre
lo recito la mia attenzione divaga o si assopisce, anche solo in misura
infinitesimale, ricomincio daccapo fino a che non abbia ottenuto per una volta
un’attenzione assolutamente pura”.
Simone considerava Meister Eckhart un autentico amico di Dio che diceva e
scriveva parole udite nel segreto e nel silenzio anche quando queste non
concordavano con l’insegnamento della Chiesa, consapevole che il linguaggio
della pubblica piazza non può essere come quello della camera nuziale.
Anche lei “andava stretta” alla Chiesa. Era una che ripudiava le Crociate e
l’Inquisizione, che non aveva bisogno d’intermediari per sentire Dio, i cui
figli dovrebbero avere come unica patria l’universo: “Le cose meno vaste
dell’universo, nel novero delle quali è la Chiesa, impongono obblighi che
possono essere molto estesi, ma fra i quali non c’è quello di amare”.
Per Simone nelle parole “sia fatta la tua volontà”, c’era già ogni cosa, perché
se pronunciate con tutta l’anima, implicavano la totale accettazione della
volontà divina:
> “Bisogna quindi amare assolutamente tutto, nell’insieme e in ogni dettaglio,
> compreso il male sotto qualsiasi forma, e in particolare i peccati commessi,
> posto che siano trascorsi (mentre bisogna odiarli se la loro radice persiste),
> le proprie sofferenze passate, presenti e future, e – di gran lunga la cosa
> più difficile – le sofferenze altrui, posto che non si sia chiamati ad
> alleviarle. In altre parole, bisogna sentire la realtà e la presenza di Dio
> attraverso tutte le cose esteriori senza eccezioni, con la stessa chiarezza
> con cui la mano avverte la consistenza della carta attraverso il portapenne e
> la penna”.
Viviamo nell’attesa di compensare le nostre mancanze, i nostri vuoti, in balìa
delle circostanze, sperando sempre in qualcosa di meglio, che le cose
cambieranno, miglioreranno, e che la permanenza della nostra personalità
perduri, ma Weil ci ricorda che la paura dell’imminenza della morte è legata
soprattutto a questo: non avremo tempo, non è mai stato questo il senso, tali
compensazioni non arriveranno mai: “L’umiltà consiste nel sapere che in questo
mondo tutta l’anima – non solo il cosiddetto io, nella sua totalità, ma anche la
parte soprannaturale, ovvero sia Dio in essa presente – è sottomessa al tempo e
alle vicissitudini del mutamento”. La parte mediocre del nostro io non teme la
fatica e la sofferenza, teme soltanto di essere uccisa.
Le fede consiste nella “visione delle cose invisibili”, come diceva San Paolo.
Non c’è mai nulla da cercare, la salvezza opera nella mancanza di attività. È
Dio che cerca l’uomo, non il contrario.
> “Se Dio, dopo una lunga attesa, lascia vagamente intravedere la sua luce
> oppure si rivela in persona, è soltanto per un istante. Poi bisogna rimanere
> di nuovo immobili e attenti, aspettare senza muoversi, chiamando solo quando
> il desiderio è troppo forte”.
La necessità cieca è l’unica strada per accorciare la distanza e avvicinarsi, e
amare la propria Croce.
> “L’anima è là dove si intersecano la creazione e il Creatore. Quel punto
> d’intersezione è il punto d’incrocio dei bracci della Croce”.
L’unica vera parola di Dio è il silenzio.
E dopo aver letto e amato la Weil e il suo Attesa di Dio, eccomi partire per il
mio viaggio, e scoprire che si arriva ad Assisi come osservatori. Si guardano
gli altri compiere riti, gesti scaramantici, cedere a superstizioni, intrecciare
mani in preghiera o lasciare che tocchino statue, altari, pietre, tombe di
cadaveri mummificati. Mani che scrivono, che asciugano lacrime che sgorgano da
occhi in preda all’estasi.
E poi quel richiamo continuo, necessario e imprescindibile, al silenzio che
aleggia in tutta la città, in ogni chiesa, in ogni giardino, dai cartelli o dai
microfoni.
Si guardano, si osservano e si giudicano gli altri, ma poi si finisce noi stessi
in lacrime sotto al peso della stanchezza della vita nella sublime basilica di
San Francesco, sentendo forte e chiara la propria piccolezza, ma non
l’inutilità.
Si sente la sofferenza sgorgare dall’acqua salata, e quanto solo l’amore conti,
e quanto coraggio e forza questo richieda, quanto impegno, che sia amore per Dio
o per la persona che si ha accanto.
Nella Porziuncola ho sperimentato io stessa l’importanza dell’inginocchiarsi per
testare la scomodità e la vividezza del dolore, ascoltando la messa, recitando:
Padre Nostro “che sei nel segreto”.
Il distacco da sé come riflesso di Dio.
Il legno, le ginocchia e le anime che scricchiolano.
Il tempo che cessa di esistere.
Gli uomini più vigorosi e gli storpi che tornano a essere uguali.
L’ordine che regna sovrano nel silenzio del crepuscolo.
La pietra che protegge.
Il piccolo che si fa grande.
Il fremito della malattia.
I cuori spezzati.
Le ferite che s’innalzano sopra al capo di ogni uomo e che splendono di
fervore.
Le preghiere sussurrate.
L’attesa come stato di grazia.
Continuare ad amare anche nella sventura.
Il bisogno disperato di farsi perdonare e di perdonare.
Gli errori pagati cari.
Il dono di chi crede e la speranza di chi dubita.
L’immenso divenire.
La patria dell’eterno momento presente.
Il timore della morte che cela nostalgia di casa.
Un viaggio ad Assisi si può trasformare da attesa a incontro con Dio.
Dejanira Bada
L'articolo “Bisogna quindi amare assolutamente tutto”. Ad Assisi, con Simone
Weil proviene da Pangea.
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Nel 1920, a Londra (presso Martin Secker) e a New York (per R.M. McBride), viene
pubblicato un libro ‘impossibile’, All Things are Possible. Apotheosis of
Groundlessness. Il sottotitolo – “Tentativi di un pensare adogmatico” – attrae
il più filosofico degli scrittori dell’epoca, David Herbert Lawrence. In
origine, il libro era uscito in Russia, nel 1905, come “Apoteosi della
precarietà”; l’autore, Lev Šestov, era nato a Kiev quarant’anni prima; avrebbe
voluto studiare matematica, avrebbe voluto fare l’avvocato – il padre, di
lungimirante intelligenza, guidava una ricca azienda che commerciava in tessuti.
Del libro – costruito impilando una serie di micidiali aforismi, tesi a
decostruire le illusioni della ragione, le fallaci imprese del filosofare – si
parlò a lungo. Nel 1903 Šestov aveva strutturato – sbriciolando ogni ‘sistema’ –
la propria Filosofia della tragedia in un lungo studio su Nietzsche e
Dostoevskij (edito da De Piante nel 2024, a cura di Luca Orlandini); tra anni
prima era uscito L’idea di bene in Tolstoj e Nietzsche (in Italia: Castelvecchi,
2014). Šestov riuscì a incontrare il conte Tolstoj nel 1910, in marzo, pochi
mesi prima che il grande scrittore, dopo la grande fuga, precipitasse negli
altri mondi, morendo. Tolstoj era atterrito dall’arguzia – lenta, letale –
di Šestov; pare che dopo aver sfogliato i suoi libri – così testimonia Maksim
Gork’ij – abbia detto: “Che audacia… in sostanza, ha scritto senza mezzi termini
che non ho fatto che ingannare me stesso – e che ho ingannato i miei lettori…”.
Nel 1920, Šestov parte per Sebastopoli – da lì, volta a Costantinopoli, a
Genova, infine a Ginevra. Inviso ai bolscevichi, aveva da poco
pubblicato Potestas Clavium. Dal 1921, si trasferisce in un modesto
appartamento, a Parigi – sede, tra l’altro, degli incontri con il suo più
luminoso e tragico allievo, Benjamin Fondane. Nel mondo inglese, il libro
di Šestov passò per lo più inosservato: come accettare un pensatore impegnato a
sregolare i dogmi della ragione, a sfatare ogni ‘buon senso’ in virtù
dell’insensatezza del vivere, a mutilare le sirene del ‘progresso’ promuovendo,
piuttosto, l’epica del miracolo, l’etica del capriccio? Nella sua introduzione,
profetica – “La vera Russia è nata. Presto riderà di noi” – ed estrosa, Lawrence
scrisse che Šestov “Non è nichilista – scuote l’umana psiche dai propri logori
legami. La sua idea, centrale e positiva, è che l’animo umano deve credere in
nient’altro che in se stesso”. Non credo sia questo il cuore del pensare
di Šestov – se ci piace, possiamo dare all’egotismo il nome di ascesi e fare
liturgia del carpe diem – ma Lawrence – che trascina il russo, come dire,
dalla sua parte – la dice bene:
> “Nell’inconscio, l’impulso creativo sgorga come il primo moto dell’universo.
> Aprite la coscienza a questo impulso, levate le vecchie cateratte, annientate
> le chiuse, le dighe, i canali di scolo. Ogni ideologia, in definitiva, non è
> che un ostacolo allo sviluppo spontaneo della propria creatività. Scacciamo
> ideali e ideologie. Lasciamo che ogni individuo segua l’impulso eternamente
> incalcolabile che è dentro di lui. Non esiste una legge universale. Ogni
> essere, nella sua più pura forma, è legge a sé, singola, univoca divinità a
> fronteggiare l’ignoto”.
Secondo Lawrence, “non dobbiamo essere irritati leggendo Šestov, ma divertiti”.
In uno dei suoi più riusciti aforismi, Šestov scrive che la filosofia non nasce
per confortare ma per turbare, per sconvolgere la comodità delle proprie
consuetudini. Proprio per la sua aurorale radicalità, il pensiero di Šestov non
trova luogo nelle accademie, non può elevarsi a moda (come accade, da tempo, al
pensare, prodigiosamente ondivago e lucido di Emil Cioran). “Il pensiero di
Šestov fatica a trovare collocazione all’interno di sistematizzazioni o correnti
filosofiche definite… A questo punto il lettore sarà ragionevolmente investito
da domande accusatorie: che utilità potrà mai avere un pensiero del genere?
Quale insegnamento si può cogliere da questo abuso di libertà e licenza poetica?
Ebbene, il pensiero di Šestov è unico proprio perché non si accontenta di
enumerare, chiarificare e predicare le sue nozioni, ma preferisce penetrare
all’interno dell’esistente e riallacciarsi alla vita, aspirando non a una
pratica propedeutica all’utile, ma direttamente a smuovere le montagne con la
sua voce” (così Samuele Brullo in: Apologia dell’impossibile. Šestov: la verità
in conflitto tra speculazione e rivelazione, Alma Mater Studiorum, 2025).
All’epoca dell’infatuazione per Šestov, Lawrence girava l’Italia, con una
predilezione per la Sardegna. Amava leggere Grazia Deledda, aveva scritto alcuni
dei suoi libri maggiori, Figli e amanti, L’arcobaleno; proprio quell’anno
usciva Donne innamorate. Lawrence scrisse che lo stile di Šestov, “di primo
acchito è sconcertante”. Aveva ragione: poco indulgente con i vezzi retorici,
con l’aplomb, con la plumbea eleganza dei romanzieri occidentali, Šestov agiva
artigliando. Possedeva l’arguzia degli antichi maestri che, passo per passo,
zolla per zolla, decostruiscono ogni idolo; infine, resta la carcassa, una
stagione di condor, le ossa, bellissime, come candelabri – un intenso desiderio
di luce.
I due, lo scrittore inglese e il pensatore venuto dalla Russia, non si
incontrarono mai. Probabilmente Šestov avrebbe enumerato Lawrence nella schiera
degli scrittori che, al cospetto dell’indimostrabile, si affannano a mostrare la
propria intelligenza, a giustificarla. Ma siamo tutti in balia della grazia –
una grazia che, a volte, ha la figura della tigre.
***
Tentativi di un pensare adogmatico
I
Le oscure strade della vita non offrono la comodità delle arterie principali:
niente luce elettrica, niente gas, neppure una mera lampada a cherosene. Nessun
marciapiede: il viaggiatore si arrangi al buio. Se vuole la luce, attenda il
lampo, oppure, come facevano i primitivi, cominci a sfregare le pietre finché
non fiotti una scintilla. Nel lampo, gli accadono profili ignoti; deve cercare
di ricordare ciò che ha appena percepito, poco importa se l’impressione è giusta
o fallace. Perché non troverà altra luce, a meno che non apra il cranio contro
il muro e ne scaturisca un fuoco. Cosa può mai radunare un mero mendicante in
questo modo? Come possiamo attenderci resoconti chiari da colui la cui curiosità
– chiamiamo così questa forza – lo ha portato a brancolare ai margini della
vita? Perché dovremmo confrontare la sua cronaca con quella dei viaggiatori che,
ben attrezzati, hanno percorso strade luminose?
*
L’uomo ben acconciato, la cui vita è comoda, si dice: “Come può vivere chi non
confida nella certezza del domani, come può dormire chi non ha un tetto sopra la
testa?”. Quando la sfortuna si accanisce su di lui ed è cacciato da ogni casa,
deve tuttavia ripararsi sotto una siepe. Non riesce a dormire, il terrore lo
attanaglia. Potrebbero esserci bestie feroci, brutali compagni di vagabondaggio.
Ma a lungo andare si abitua a tutto. Si affiderà al caso, vivrà come un
mendicante, dormirà il sonno del giusto nei fossi.
*
Uno scrittore, meglio se giovane e inesperto, si sente in obbligo di offrire al
lettore le risposte a ogni possibile interrogativo. La coscienza non gli
permette di volgere lo sguardo dai problemi più ardui, così comincia a
discettare di “cose prime e ultime”. Non avendo nulla da dire su tali argomenti
– non è dei giovani l’abisso del pensare – annaspa, si agita, urla fino a
perdere la voce. Infine, roso dalla stanchezza, tace. Se le sue parole hanno
avuto un certo successo presso il pubblico, si stupisce di essere considerato un
profeta. A quel punto, è preso da un insaziabile desiderio di preservare tale
influenza fino alla fine dei suoi giorni. Ma se è più sensibile e dotato della
media, inizia a disprezzare la folla per la sua incurabile credulità e a
dileggiare se stesso per essersi atteggiato ignobilmente a pagliaccio,
propalando idee elevate che non lo riguardano.
*
Il fatto che alcune idee siano materialmente inutili all’umanità non può
giustificare il loro rifiuto. Una volta che un’idea esiste, bisogna aprirle le
porte. Se chiudiamo le porte, il pensiero si farà strada con la forza, oppure,
come la mosca delle favole, si intrufolerà in noi senza che ce ne accorgiamo. Le
idee non hanno riguardo per le nostre leggi sull’onore e la moralità.
*
Per sfuggire alla presa delle idee dominanti di oggi dovremmo studiare la
storia. Le vite di altre uomini in altre terre e in altre epoche ci insegna a
comprendere che le nostre “leggi eterne”, le nostre idee infallibili non sono
che aborti. Fate un passo avanti, immaginate le creature che vivono oltre questo
pianeta, e le nostre eternità terrene perderanno il loro fascino.
*
Nulla sappiamo delle realtà ultime della nostra esistenza – mai ne sapremo
qualcosa. Rassegniamoci. Ciò non significa che dobbiamo accettare questa o
quella teoria dogmatica sul nostro modo di vivere, tanto meno il positivismo,
che ha il viso dello scettico. Ne consegue soltanto che l’uomo è libero di
cambiare la propria concezione dell’universo ogni qualvolta cambia gli stivali o
i guanti e che i principi riguardano soltanto la distanza che abbiamo dagli
altri e in quale misura dipendono da noi. Per principio, dunque, l’uomo dovrebbe
rispettare l’ordine del mondo esteriore come il caos totale di quello interiore.
Per chi trova difficile sopportare tale dualità, si può prevedere un certo
ordine dello spirito. Purché costui non se ne vanti, perché è un segno della sua
debolezza, meschinità, ottusità.
*
La filosofia deve rinunciare al vano tentativo di trovare le “eterne verità”. Il
compito della filosofia è insegnare all’uomo a vivere nell’incertezza – proprio
perché l’uomo ha una paura suprema dell’incertezza e si nasconde perennemente
dietro lo schermo di questo o di quell’altro dogma. In breve, il compito della
filosofia non è di rassicurare le persone, ma di turbarle.
*
Quando l’uomo scopre un certo difetto di cui non può liberarsi, non gli resta
che accogliere quel difetto come una qualità naturale. Quanto più grave e
importante è il difetto, tanto più urgente è la necessità di nobilitarlo. Dal
sublime al ridicolo il passo è breve e un vizio inestirpabile, negli uomini
forti, è ribattezzato virtù.
*
Il compito dello scrittore: andare avanti e condividere le proprie impressioni
con i lettori. Non è obbligato a dimostrare nulla. Ma egli è perseguitato da
quegli agenti di polizia – la morale, la scienza, la logica e così via – e crede
di aver bisogno di una buona argomentazione per sedarli. Non deve preoccuparsi
troppo, non deve farci credere di essere “interiormente giusto”. È più che
sufficiente che continui a usurpare lo spazio che quei guardiani dei sentieri
verbali vorrebbero sottrargli.
*
Il segreto dell’“armonia interiore” di Puškin. Per Puškin nulla era privo di
speranza. Egli vedeva segnali di speranza in ogni cosa. Peccare è piacevole, ed
è piacevole pentirsi di aver peccato. È bene dubitare, ma ancor meglio credere.
È bello pattinare sul ghiaccio “con i piedini in calzari di cuoio e acciaio” e
vagare come zingari, pregare e litigare con un amico, fare pace con un nemico e
piangere per un capriccio, ricordare il passato e scrutare il futuro. Puškin
sapeva versare lacrime cocenti e chi sa piangere sa sperare.
*
Il campo ben curato del pensiero contemporaneo deve essere dissestato. Pertanto,
in ogni occasione e circostanza, le verità generalmente accettate devono essere
messe in ridicolo: al loro posto, si preferisca proferire paradossi. Poi,
vedremo…
*
Lodare se stessi è considerato sconveniente; lodare la propria setta, la propria
filosofia è un dovere supremo. Perfino i migliori scrittori si sono presi la
briga di giustificare la propria filosofia prima ancora di fondarla – avendo
successo nel primo più che nel secondo caso. Le loro idee, dimostrate o meno,
sono il loro bene più prezioso, autentica consolazione nel dolore, consiglio
sagace nello smarrimento. Perfino la morte non è temuta dalle idee: sono le sole
imperiture ricchezze. Tutto questo i filosofi ripetono, ripetono e ripetono con
la stessa arbitraria eloquenza degli avvocati che perorano la causa di ladri e
truffatori. Eppure, nessuno ha mai chiamato un filosofo “mercenario della
coscienza”: perché mai tale parzialità?
*
L’uomo è abituato ad avere delle convinzioni, dunque, eccoci qui. Nessuno di noi
può farne a mene, anche se in fondo le disprezza.
*
La letteratura affronta i problemi più importanti dell’esistenza, per questo i
letterati sono considerati, tra tutti, le persone più importanti. Un impiegato
di banca, sempre lì a distribuire denaro, potrebbe benissimo considerarsi un
milionario. L’alta stima attribuita alle questioni irrisolvibili dovrebbe
screditare gli scrittori ai nostri occhi. Eppure, questi letterati sono così
abili e astuti nell’esporre le proprie tesi e nel rivelare la fondamentale
importanza della loro missione, che a lungo andare convincono tutti –
soprattutto se stessi. Ciò è dovuto alla loro limitata intelligenza. Gli auguri
romani avevano menti più sottili e versatili: ingannavano gli altri senza aver
bisogno di ingannare se stessi. Nel loro ambiente non avevano paura di esporre i
propri segreti, perfino di screditarli, certi di saper assumere un’espressione
solenne nella giusta occasione. Ma i nostri scrittori odierni, prima di
pronunciare in pubblico le proprie improbabili affermazioni, devono cercare di
convincersi interiormente. Altrimenti, non possono iniziare.
*
I moralisti sono le persone più vendicative dell’umanità: usano la morale come
la più sottile arma di vendetta. Non si accontentano di disprezzare e condannare
il prossimo: vogliono che la condanna sia suprema, universale, cioè che tutta
l’umanità si ribelli come un sol uomo contro il condannato. Solo allora saranno
pienamente soddisfatti. Nulla al mondo può portare a risultati tanto prodigiosi
quanto la moralità.
*
Gli eretici venivano perseguitati con la massima crudeltà per minime devianze
dalla fede comunemente accettata. Era proprio tale ostinazione a difendere una
piccolezza a irritare i giusti fino alla follia. “Perché non possono cedere su
una questione tanto insignificante? Non possono avere seri motivi per opporsi.
Vogliono soltanto affliggerci, farci dispetto”. Così l’odio monta e montagne di
fascine e macchine di tortura apparvero per sfidare quella ostinata malvagità.
*
Le rivelazioni più alte e significative giungono al mondo nude, rudi, senza
abiti di gala. Trovare le parole per esprimerle è impresa delicata, un’arte. Le
banalità e le stupidaggini, al contrario, appaiono subito in abiti confezionati,
assai vistosi. Per questo, sono subito pronte a essere presentate al pubblico.
*
Essere irrimediabilmente infelici è da svergognati. Una persona
irrimediabilmente infelice è al di fuori dalle leggi della terra. Ogni legame
tra lui e la società è definitivamente reciso. Poiché prima o poi ogni individuo
è destinato a una infelicità irrimediabile, l’ultima parola della filosofia è la
solitudine.
Lev Šestov
*In copertina: un disegno di Michelangelo
L'articolo “La filosofia non deve rassicurare, ma turbare”. Su Lev Šestov, il
pensatore brutale proviene da Pangea.
Idola theatri distrutti, metafisica abbattuta, morale «ritrovata» (che non si
muta né in stoica, né in cinica), grazie a un’accurata scepsi danzante, antidoto
al veleno di un pensare a livello del suolo: «a morte tutto ciò che non è vita»,
è il suono della lama del boia propagato pagina dopo pagina fra gli scritti di
Nietzsche, lettore di Ermerson: righe pensate per essere remote, inavvicinabili
come il sole, da guardare a distanza e con filtri potenti. Nulla ha resistito al
zoroastriano assassinio del falso teoretico, etico ed estetico («sono un genio
della verità»), e dell’insufficiente: neppure il dettato pessimistico dell’amato
maestro Schopenhauer, incendiato e ripopolato dalla gaia saggezza, superato
dalla più assoluta affermazione tragica. Si deve a Nietzsche persino la
liberatoria dichiarazione di guerra «all’arcigno e squallido paganesimo
germanico», così lontano da quello ricco e nobile antico.
Persino chi osserva rapidamente sa che esistono perlomeno tre Nietzsche: quello
che è, quello che si vorrebbe che fosse, quello che è diventato. L’opera sua è
la tipica immagine del banco di prova per intemerati adepti, a favore di troppi
giochi e manie di scoperta. Questo fatto rende ogni «pronuncia» su Nietzsche
(sommo divagatore e dispersore di tracce che voleva essere «sentito», come il
vento, e non capito, eternamente a caccia dei suoi consanguinei) a rischio
crollo. Se si prova a dire qualcosa bisogna fare i conti con montagne di
ostacoli tutti collegati all’inespugnabilità cui aspirava e al dolore
ghiacciato, colmo di generatività, che voleva infliggere al suo lettore.
Quali sono questi tremendi ostacoli? Non solo, per esempio, l’irreperibilità
avanguardista del metodo, ma la fatica di braccare la volontà originaria della
sua opera, una stanchezza moltiplicata da tutto il bagaglio di scontri,
contraddizioni, clamori aneddotici, e ovviamente con le dovute necessità
filologiche che nel suo caso vanno osservate con una sensibilità
maggiore. Perché Nietzsche è, infatti, soprattutto un «caso», sia per la
naturale inclinazione a disgregarsi incessantemente sia per la manipolazione
fluviale che ha subìto. La morte di Elisabeth Nietzsche è stata una liberazione
per gli studi, fatto epocale che ha consentito di osservare il materiale inedito
con occhio meno partigiano, e finalmente si è potuto trattarlo con metodo
critico-filologico invece che sindacale o elettorale. In questa attività si è
distinto Karl Schlechta, il primo a indicare e dimostrare le manomissioni della
sorella di Nietzsche, nel 1956. Schlechta ha chiarito definitivamente che non è
mai esistita, neppure in nuce, un’opera sistematica dell’ultimo Nietzsche, e che
la Volontà di potenza non è che una ovvia compilazione di frammenti tratti dai
quaderni di appunti, approntata con scelte arbitrarie da mani che non erano
quelle di Friedrich.
La messa a disposizione dell’intero lascito nietzscheano in versione
filologicamente accettabile, depurato da tutti i gravi teppismi successivi, si
deve a Montinari e Colli negli anni Sessanta, quindi davvero ‘tardi’: la loro
edizione del pensiero di Nietzsche è il riferimento d’elezione per tutti gli
studiosi che cercavano quel «Nietzsche dentro Nietzsche» a lungo nascosto. In
generale, la letteratura su Nietzsche è sterminata, spesso di poco valore, e
rappresenta più che altro una pubblicistica popolare affranta dal generalismo o
sovraeccitata da equivoci e fanatismi. Nietzsche era in competizione aperta con
la Storia, meritandosi la sua maledizione. E in alcuni momenti la Storia
permette che affiori la propria ironia rendendosi manifesta a tutti: Wilde
moribondo fra la più brutta carta da parati all’hotel Hôtel d’Alsace, Pascal
sepolto in Rue Descartes e Nietzsche, ricoverato in clinica psichiatrica a
Basilea, con la scheda anamnestica in cui si scrive che «è completamente
pazzo».
Tanti aneddoti e almanacchi su Nietzsche, e alambicchi grotteschi per «capirlo»
o estrarne temibili «contenuti». Tutti hanno avuto la sventura di avere lettori
abusivi e commentatori della domenica, nessuno si è salvato, ma Nietzsche in
particolare ha attirato la mancanza di pudore di tante «mosche del mercato»,
proprio lui che ha sempre volutamente «abitato le cime». Il paradosso della
popolarità è beffa ma non danno: forse è vantaggioso che sia finita così, se
mette in risalto «l’hypocrite lecteur». Chi, pur non avendo né arte né parte, si
è negato la vanità e l’esaltazione di vanagloriarsi su Genealogia della
morale, Zarathustra, Umano troppo umano? Come sempre, questo rimane un argomento
di poca importanza, se è vero che la grandezza di un autore è incorrotta dai
saccheggi. Ma fino allo stremo, va ribadito che Nietzsche, errante ed errato, è
più indisponibile di altri a farsi sgretolare, a farsi «lavorare». Errante entro
la sua stessa opera, ricercatore della Ricerca, un confine vivente e permanente
fra eremita e viandante, immagine mitica della carta numero nove dei tarocchi
marsigliesi. Errato per le confetture, per le rilegature, per farne attracco di
tutti, ma specialmente errato par excellence perché non può essere «giusto» fino
in fondo per nessuno, perché mai darà il risultato sperato. Non ci deve nulla,
eccetto la libertà di dimenticarlo e farne memorandum per il pensiero e la vita,
ma senza nostalgia e idolatria.
Che cos’è Nietzsche? Uno che ha lasciato le chiavi per tutti i malanni della
medietà troppo umana, per proteggersi dall’assedio nichilista e da ogni
intellettualità didattica. Una via per tutte le vie, la via dello spirito
libero. Via che non può percorrersi, che deve essere superata già nell’atto di
visualizzarla. Ma anche educatore senza pedagogia, maestro senza parole e
«perverso polimorfo», per usare un freudismo. Esperto cacciatore della qualità
dei sentimenti morali, spregiatore del moralismo quale scheda preordinata per
attraversare la vita e i suoi dilemmi. Incluso il dilemma della Storia, che lui
dissolve attraverso un antistoricismo elettrificato: si può essere contro la
concezione hegeliana della Storia come il divenire di un’Idea, un moto continuo
rettilineo uniforme, con una perenne sintesi dialettica degli opposti,
cospirante a un fine ultimo.
Per capire Nietzsche, o meglio per vederlo, occorre probabilmente un esercizio
maturo e flessibile del «confine», perché ogni suo intento e ogni suo pensiero,
ogni sua scrittura – anche quando «a razzi», o furiosamente aforistica – sono
una lunga meditazione che ha intrecciato la sua origine a quella di ogni
possibile confine. Le linee divisorie sono il suo cruccio e diletto, è lì che
può esistere ogni vera intuizione sulla realtà e sulla coscienza. Confine
nietzscheano, che distingue esterno ed interno, ma consente uno scambio.
Delimita e consente il transito fra identità e differenza. La virtù del confine
è la porosità, è tale solo se è poroso: la sua capacità di rendere possibile
transizione e scambio. Nietzsche metta in guardia sul pericolo che esso possa
«ammalarsi», indurirsi, ingessarsi, diventare luogo di presidio militare, mutare
in cancerosa sclerosi: patologia del confine è perdita di porosità, che apre al
fantasma schizoide della contaminazione estranea. Ma se «ognuno è a sé stesso il
più lontano», dunque il primo estraneo che incontra, questi rischia la vita in
tale fraintendimento. Estraneo è in primo luogo il soggetto a sé medesimo se è
sordo al vero che lo abita, ipoacusia letale alla sua individuazione. Fare
massacro con l’ombra di sé, per conoscerla e superarla, rimanendo però fra gli
abissi: per essere finalmente non più arcaici, ma Antichi. Attrito sanguinario,
ma inevitabile ai passaggi ulteriori di liberazione, sensuale «maturazione»
(Nietzsche parla di «succosità, dolcezza, sapore pieno» di sé»), definizione. Si
descriveva così: «sono un vento del Settentrione per fichi maturi…». Un invito
ad abbandonare la «nave», inventandosi da zero e a spese proprie un mezzo di
navigazione inedito. Spacciato di certo chi non lo farà, «in nome di una
nobilitazione dell’obbedienza alla giustificazione dell’intera quotidianità, per
avere in cambio una pace del cuore rozza»: ecco gli «uomini del mercato» e il
loro ghigno, gonfaloni «dell’intera bassezza, dell’intera semibestiale miseria
della loro anima».
Forse inesistente un modo per comprendere Nietzsche se non quello di esserne
prescelti tramite divertita, misteriosa, congiuntura oltre lo spazio e il tempo.
Un indizio su «come fare», potrebbe averlo regalato quando ha nascosto il suo
ritratto nella frase «un sì, un no, una linea retta, una meta…».
Rubina Mendola
***
Zarathustra 25 | SULLE ISOLE FELICI
I fichi cadono dall’albero; essi sono buoni e dolci; e mentre cadono la lor
buccia rosea si fende. Io sono un vento del nord per i fichi maturi. Così, come
fichi, a voi giungano le mie dottrine, amici: ora gustatene il succo e la polpa
soave! È autunno d’intorno, e puro il cielo, e pomeriggio. Guardate quanta
abbondanza ne circonda! E in mezzo all’abbondanza è bello spingere lo sguardo
verso mari lontani. Ma le migliori parabole devono parlare del tempo e del
divenire: essere una lode e una giustificazione di tutto ciò che perisce! Creare
– ecco la grande redenzione dai dolori e il conforto della vita. Ma perché
esista il creatore occorrono molte sofferenze e molte trasformazioni. Sì, molto
amaro morire ci deve essere nella vita vostra, o creatori! Sareste così gli
assertori e i giustificatori di tutto ciò ch’è caduco […] In verità, feci la mia
strada attraverso cento anime e cento culle e cento dolori del parto. Mi son
congedato molte volte, e conosco le ultime ore che spezzano il cuore. Ma così
impone la mia volontà creatrice, la mia sorte. Oppure, perché più franco vi
parli: appunto questo destino vuole la mia volontà. Tutti i miei sentimenti
soffrono in me e son prigionieri: ma il mio volere giunge sempre liberatore e
messaggero di gioia. Il volere redime: ecco la vera dottrina della volontà e
della libertà – è così che Zarathustra v’insegna.
*In copertina: Max Klinger, Il filosofo, 1898-1910
L'articolo Dimenticare Nietzsche. Ovvero: sulla maledizione dei lettori abusivi
proviene da Pangea.
È notoriamente impossibile fare lo spoglio della mole di studi sfornata ogni
anno dalle università e dalle case editrici sui classici della letteratura e del
pensiero. Tuttavia ogni tanto, un po’ per caso, un po’ perché ce la andiamo a
cercare, è necessario buttare un occhio in strada per constatarne la situazione
e, se si intercetti qualche soggetto disturbante, prendersi la soddisfazione e
ottemperare al diritto/dovere di critica, di scagliare qualche freccia o,
almeno, qualche voce di allarme.
Ed è ciò che faremo ora presentando due lavori su Martin Heidegger, esciti
entrambi per Mimesis: Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica di
Thomas Vašek, e Heidegger e la Gnosi di Lucrezia Fava.
Inizieremo col primo, il più problematico e urticante.
* * *
Partiamo dal titolo originale: Schein und Zeit – Heidegger und Michelstaedter.
Auf den Spuren einere Enteignung, o sia: «Apparenza e tempo – Heidegger e
Michelstaedter. Sulle tracce d’una espropriazione». La versione italiana quindi
corrompe radicalmente l’intenzione dell’autore: Heidegger e Michelstaedter.
Un’inchiesta filosofica sarà commercialmente più appetibile, ma non si può
sempre sacrificare tutto al dio mercato.
Nel titolo originale, dietro l’espressione palese, ci sono due allusioni. La più
facile: «Schein» in luogo di «Sein», che sta a indicare una sorta di maschera,
indossata naturalmente da Heidegger. La seconda è meno perspicua e riguarda la
parola centrale del titolo: Enteignung, che rimanda evidentemente allo spettro
dello «Er-eignis» uno dei concetti centrali heideggeriani e quello che sorregge
i Beiträge zur Philosophie.
Mi auguro solo di non aver sopravvalutato un autore a dir poco sospetto.
Il titolo originale, si capisce, accenna a un possibile e forse, secondo
l’autore, probabile plagio ai danni di Carlo Michelstaedter da parte di Martin
Heidegger. Una tesi invero sorprendente e di quelle che per solito ingenerano
due ordini di reazioni: o grande interesse, oppure totale negligenza. I
contenuti di simili “inchieste” sono infatti davvero squassanti oppure un fuoco
fatuo, molto spesso presente solo nella testa dell’autore.
Io opto per una terza posizione: pregiudizio che porta alla contraffazione.
Evidenzio súbito una “stranezza” di Vašek, già alle pagine 11 e 12, o sia la
precisazione d’aver tenuto fuori dal suo studio ogni discussione circa i così
detti “Quaderni neri” e quindi circa le (del tutto) presunte responsabilità di
Heidegger durante il governo nazionalsocialista. È un segno sia di malafede, sia
dell’inquinamento del clima che si respira ogniqualvolta si tratti di Martin
Heidegger. Sentirsi obbligati a precisare di non voler trattare il tema è come
ammettere che, parlando di Heidegger, si dovrebbe comunque ricordare sempre
ch’egli fu (si dice, man sagt) nazionalsocialista. E infatti poco dopo (pp.
25-26) Vašek non manca di affermare che «non vi sono dubbi sulla vicinanza di
Heidegger al Nazionalsocialismo, tantomeno sul suo antisemitismo».
Purtroppo esula dal cómpito del mio contributo d’inoltrarsi nella faccenda (di
cui tuttavia dirò in un successivo articolo). Ma è mio dovere dichiarare qui con
grande forza che quei dubbi per Vašek, e per parecchie altre persone,
inesistenti lo sono davvero, ma in senso affatto opposto a quello inteso da
questo autore. Lo dimostra la schiera di ricercatori italiani tedeschi e
francesi che ha smontato pezzo a pezzo ogni ricostruzione e costruzione
infamante ai danni di Martin Heidegger. Mi riferisco, cito a solo titolo
d’esempio, a François Fédier e a Francesco Alfieri. Ritenere, oggi, Heidegger
nazista e antisemita dimostra o grave “distrazione” oppure disonestà.
E dico di più: la frase di Vašek è sbagliata perché, se proprio vogliamo
concedere qualcosa alla tesi colpevolista, Heidegger fu bensì iscritto al
Partito nazionalsocialista ma non manifestò mai sentimenti o idee antiebraici.
Peraltro sarebbe uno strano antisemitismo quello di Heidegger: allievo
dell’ebreo Husserl; circondatosi di ebrei; plagiatore dell’ebreo Michelstaedter
(e anche di un secondo, vedremo).
Scopo del lavoro è dimostrare le coincidenze, nel senso stretto della parola,
tra il pensiero di Michelstaedter espresso ne La persuasione e la rettorica e
quello di Essere e tempo. Invero la dichiarazione preliminare dell’autore di
limitarsi a Essere e tempo non trova corrispondenza nel testo, in cui è presente
un nubifragio di citazioni da svariate altre opere di Heidegger, precedenti e
successive al capolavoro del 1927.Avanti tuttavia di immergerci nel raffronto
testuale e tematico, onde dimostrare la tesi dell’Enteignung, Vašek ci informa
che l’opus magnum del goriziano fu tradotto in tedesco solo nel 1999, ciò che,
non conoscendo Heidegger l’italiano, rende impossibile un contatto diretto tra
questi e il testo michelstaedteriano, testo che fu pubblicato la prima volta in
Italia tre anni dopo il suicidio del goriziano, nel 1913, da Vallecchi di
Firenze (che Vašek invece colloca, chissà perché, a Genova).
Tuttuavia Vašek fa ciò che mi pare di poter definire una scoperta non dappoco, o
sia una traduzione in tedesco della parte dedicata alla Persuasione della
celebre tesi di laurea, per mano niente di meno che di Argia Cassini, la così
detta fidanzata di Michelstaedter (scrivo «così detta» per buone ragioni
biografiche che qui non importa di esporre). Sorgono però adesso due problemi
molto pesanti, che Vašek non solleva. Anzitutto si ignora lo scopo di questa
traduzione, fatta in forma dattiloscritta e, in apparenza, privata, cioè a dire
non espressamente destinata ad alcuno. Essa inoltre è priva di data ed essendo
Argia Cassini morta nel 1944, avrebbe avuti come minimo trent’anni di tempo per
tradurre quel mazzetto di pagine. Vašek invero accenna all’assenza della data,
ma in maniera anodina, senza porre in evidenza il dato cruciale, e men che meno
interrogandosi sulle sue implicazioni all’interno dell’indagine in corso.
Partendo da questa traduzione parziale, Vašek si slancia nella ricostruzione di
rapporti tra Italia Svizzera e Germania insino a questo momento, per quanto mi è
dato di sapere, ignoti. Essa è esposta alle pagine dalla 19 alla 22 e io non
toglierò la soddisfazione al lettore di scoprirsela da sé, tanto essa è invero
sorprendente. Inoltre mi astengo dal parlarne per non spingere il giudizio del
lettore in una direzione anziché in un’altra. Idem valga per l’indagine tematica
e testuale di Vašek, anche perché riferirne anche solo succintamente renderebbe
questo articolo da rivista specialistica e quindi “illeggibile”.
Qui voglio solo far emergere il puro tentativo di Vašek e discutere alle corte
il suo metodo.
Il libro è efficace e va preso in considerazione, ché in effetto
le coincidenze tra i due pensatori ci sono.
Vašek apre un problema, che per lui tuttavia è una specie di vaso di Pandora, il
cui contenuto si scatenerebbe non già sulla storia della filosofia ma su
Heidegger e sugli heideggeriani, heideggeriani ch’egli fa passare a un dipresso
come una sètta. Postoché ciò sia vero, gli antiheideggeriani in moltissimi casi
a me paiono somigliare invece a una cosca, con tanto di picciotti pronti alle
mani e alle armi contro chi osi contestare la loro lettura – politica morale
e anche filosofica – di Heidegger. Esemplare è il caso d’una accanita arcinemica
e diffamatrice di Heidegger e degli heideggeriani (che la ignoravano fino a
quando ella non si mise a strepitare sui giornali, portando quindi la
discussione dal parrucchiere). Smentita più e più volte, la studiosa non si è
ancòra data per vinta, seguitando a collezionare magrissime figure.
Altro difetto del lavoro di Vašek è la tendenza alla ripetizione. Se tuttavia
talora essa riesce molesta, altre è invece utile poiché certi concetti e
osservazioni meritano di essere ripigliati. Nondimeno, stupisco constatando che
aver più volte ribadito, oltre alle simiglianze, anche le differenze tra i due
pensatori, non porta Vašek a essere conseguente, sicché il libro è
composto solo delle prime. Ma Vašek si spinge ben oltre, ché, ringalluzzito
dalle sue “scoperte” sciorinate nelle duecento e cinquanta pagine precedenti, a
metà della quinta e ultima parte del lavoro si inoltra nel tentativo di
dimostrare un altro esproprio heideggeriano, questa volta ai danni di Franz
Rosenzweig e in ispecie della sua opera principale, Die Stern der Erlösung («La
stella della redenzione»). Un altro ebreo al quale rubare, quindi.
In apparenza (forse la parola chiave del libro…) Thomas Vašek dà l’impressione
di sapere adoperare la vanga come pochi altri, tanto scava scava scava nei testi
heideggeriani e in Michelstaedter. Ma giunto su certi terreni si limita a
passare oltre, al massimo sollevando un po’ di polvere, per ritornare su d’uno
più congeniale (in apparenza…).
Egli infatti solo indirettamente dice che a unire Heidegger e Michelstaedter
oltre all’aria che si respirava in Europa nei primi decenni del XX secolo, vi
sono anche profonde conoscenze storico-filosofiche, in ispecie la Greciantica
dei Presocratici, di Platone e Artistotile, tre momenti del pensiero occidentale
conosciuti e da Heidegger, e da Michelstaedter come pochissimi altri. E questo
trait d’union è il primo dato che, volendoci inoltrare in un raffronto tra i due
pensatori, balza immediatamente allo sguardo di occhi sani e onesti, anche
solo letteralmentescorrendo l’elenco delle loro opere o, al
massimo, letteralmente sfogliando le pagine di queste.
Vašek però non dà il benché minimo peso a questa giuntura.
Indubbio merito, quantunque indiretto, da riconoscere a Vašek è d’aver accennato
in modo da incuriosire parecchio al nome di Oskar Ewald, filosofo viennese,
«fervente ammiratore di Michelstaedter» e «in contatto con Edmund Husserl» (p.
10). Ma Vašek lo brandisce come un’arma impropria ma difettosa. Infatti fa
cilecca. Purtroppo di Ewald non c’è nemmeno mezza pagina tradotta in italiano e,
per soprammercato, le sue opere, pubblicate oltre un secolo fa, non sono mai
state ristampate, né in Germania né in Austria. Questo buco è davvero irritante,
giacché dai pochi cenni di Vašek, Ewald dev’essere un di quei pensatori
irregolari e anomali di notevole fecondità e forza.
Ewald tuttavia ci pone un problema piuttosto pesante, su cui Vašek tace del
tutto, ignoro se per gravissima distrazione ovvero con intenzione. Su quali basi
Vasheck definisce Ewald «fervente ammiratore» del goriziano? Se – anche questo
vedemmo – La persuasione e la rettorica fu vòlta in tedesco solo nel 1999 e
storia e destino della versione d’Argia Cassini sono ignoti, come fu possibile a
Ewald, ignaro della lingua italiana, leggere Michelstaedter? Si può ipotizzare,
sulla scorta della ricostruzione di legami alle pagine 17 e seguenti, che Ewald
abbia appreso di Michelstaedter da Husserl e da altri: ma può bastare qualche
scambio di battute su chicchessia a farne di qualcuno «fervente ammiratore»?
Possiamo a esempio noi dopo pochi cenni su Ewald dichiararcene tali? Direi di
no.
Se invece Ewald, per ipotesi, lesse la traduzione d’Argia, data la suddetta
catena di sant’Antonio ricostruita da Vašek, è probabile che anche Heidegger
l’abbia letta. Ma di questa traduzione noi non si sa null’altro fuorché la sua
esistenza, ciò che è insufficiente a determinare alcunché. Inoltre – ed è un
dettaglio a mio giudizio cruciale – la traduzione di Argia Cassini si trova
attualmente nel Fondo Carlo Michelstaedter di Gorizia. Un dato che ci obbliga a
domandarci: se è ben possibile che essa traduzione abbia a un certo momento
intrapreso in viaggio tra Austria e Germania, è probabile che poi sia ritornata
a Gorizia, sia sopravvissuta allo sfacelo della Seconda guerra mondiale e sia di
poi stata messa al sicuro tra le carte del filosofo goriziano ancòra
semisconosciuto? (Il vero “lancio” avverrà soprattutto nel 1958, quando l’amico
– si fa per dire – Gaetano Chiavacci pubblicherà una scelta delle opere e delle
lettere, censurate, del Goriziano per Sansoni).
La risposta più ovvia mi pare questa: quella traduzione non è mai escita da
Gorizia e attualmente non resulta che alcun attore di questa storia abbia
intrapreso un viaggio a Gorizia, nemmeno Ewald che, essendo cittadino
austroungarico, bazzicava non molto distante dalla città friulana.
Resto tuttavia aperto a proficue e documentate smentite.
C’è ancòra un altro dato cruciale di che tener conto. Lo abbiamo anche questo
accennato: Argia tradusse solo «La persuasione», o sia pochissime pagine. Ora,
ipotizziamo che codesta traduzione abbia fatto il giro delle sette chiese
d’Austria e Germania (lo ritengo improbabile, ma transeat) e che quindi sia
giunta nella mani di Heidegger, com’è possibile trovare, come pretende Vašek,
delle cogenti simiglianze e identità tra il pensiero heideggeriano del «Si»
(man) e la rettorica michelstaedteriana? È realistico pensare che
l’espropriazione sia dovuta solo ai racconti orali della catena di sant’Antonio?
A me non pare sostenibile alcunché di siffatto.
Chiediamoci inoltre: se uno dei tramiti tra Michelstaedter e Heidegger, giusta
il tentativo di ricostruzione della catena di sant’Antonio di Vašek, fu Husserl,
è realistico che questi non abbia giammai evocato il pensatore goriziano
allorché si lamenta pubblicamente della deviazione, addirittura del tradimento
perpetrato da Heidegger, a petto dell’impostazione fenomenologica originaria,
in Essere e tempo?
Inoltre: è credibile che, come allude Vašek per tutto il libro, e sin dal titolo
originale, la mole enorme degli scritti heideggeriani derivi da Michelstaedter?
Amo e leggo Michelstaedter da trent’anni esatti, ma nemmeno da briaco riuscirei
a sostenere che l’opera di Heidegger, dalle prime lezioni della fine degli anni
Venti, insino – come minino – ai lavori postbellici, sia un’espropriazione da
«La persuasione», né da altri scritti michelstaedteriani.
Vašek commette anche un errore filosofico madornale ed è anche questo – oltre al
patente pregiudizio “razziale” politico e ideologico – a condurlo sulla via
sbagliata della sua lettura di Heidegger. Egli infatti scrive che Essere e
tempo non tratta «principalmente della questione dell’essere, bensì dell’idea di
rinascita o di trasformazione dell’uomo, che è stata influenzata da una certa
“letteratura del risveglio” dopo la Prima guerra mondiale» (p. 10). Insomma, la
solita tesi dello Heidegger esistenzialista. Oltre a essere una tesi vecchia
come il cucco è anche imprecisa, soprattutto se detta così. Ritenere che la
questione dell’essere non abbia strettamente a che fare con la trasformazione
individuale, e viceversa, significa maneggiare poco e male non solo Heidegger ma
in generale la filosofia.
Inoltre questa lettura contraddice in maniera brusca la tesi principale di
Vašek, o sia l’espropriazione da parte di Heidegger ai danni di Michelstaedter.
Il pensatore goriziano, infatti, è sempre stato collocato, per usare una
bellissima espressione di Camillo Pellizzi, tra gli «spiriti della vigilia»,
cioè a dire tra coloro i quali chiedevano, ciascuno more suo, un cambio di
passo, una metánoia, una palingenesi – individuale ovvero collettiva, qui non
conta trattarne – per lumeggiare e fronteggiare i rivolgimenti politici sociali
e culturali avviati a cavaliere tra XIX e XX secolo, e che avrebbero avuto il
loro primo banco di prova nella grande massacro della primo conflitto mondiale.
Michelstaedter è, secondo molti, tra quanti intercettarono i movimenti tellurici
ctonii preludenti la guerra e si posero in gioco. Inoltre Michelstaedter – ciò
che viene assai poco ricordato – era cittadino di quell’Impero che già agli
inizi del secolo scorso iniziava a dare vistosi segnali di cedimento.
Anche Heidegger, coetaneo di Michelstaedter (1889), sentiva l’aria, pur da
diversa prospettiva, anzitutto geograficamente diversa. Ma era anch’egli un
cittadino d’Europa e mosse i suoi primi passi filosofici consapevole della
necessità di una trasformazione, di una epistrofé.
Heidegger e Michelstaedter, per essere sbrigativi, respirarono lo stesso clima,
come ho già detto.
È inaccettabile quindi attribuire al pensiero heideggeriano (parziale,
parzialissimo!) un’aura non dissimile a quella del pensiero michelstaedteriano
ma al contempo tacciare il pensatore tedesco di Enteignung. Amenoché Vašek non
ignori del tutto la biografia di Carlo Michelstaedter.
Insomma, come lo giri lo studio di Thomas Vašek non sta in piedi.
Voglio riservare un ulteriore appunto ancòra al traduttore, che per i passi
da Sein und Zeit, si avvale esclusivamente della versione Chiodi-Volpi e ignora
quella di Alfredo Marini, non esente da difetti ma senz’altro più fondata e
corretta dell’altra, anche sotto il riguardo della semplice comprensione
grammaticale del tedesco. Per replicare si può ipotizzare che la versione
classica di Pietro Chiodi sia ancòra la più accreditata e quindi utilizzata,
anche se è un’affermazione discutibile. Nondimeno essa coinvolgerebbe la sola
versione di Chiodi e non quella di Chiodi e Volpi.
Si tratta certo di legittime scelte soggettive: forse un po’ troppo soggettive.
* * *
Il libro di Lucrezia Fava su Heidegger e la Gnosi, graziaddio, presenta molti
meno problemi e quelli che ci sono, vanno imputati a personali scelte
ermeneutiche e non a qualche basso sentimento o alla volontà di attirare
l’attenzione.
La vera magagna dell’opera, che forse può guastarla del tutto, è l’assenza del
cruciale riferimento ai concetti di Nichts e di Nichtigkeit, senza i quali ogni
comprensione di Heidegger è preclusa. Essi sono condensati per lo più nella
celebre conferenza Che cos’è metafisica? Ritengo che Lucrezia Fava non abbia
aggirato il problema volontariamente, o almeno spero, ma sia stata, per quanto
assai grave, solo una svista. Certo gli è che introducendo il nulla/niente nella
sua tesi sulla gnosi heideggeriana, l’impianto avrebbe fortemente traballato
minacciando di crollare sul suo pur abile e originale architetto. Ma sarebbe
stato il caso di osare, anche a costo di revocare in dubbio o addirittura in un…
niente tutti i fondamenti dell’indagine.
Un esito assai preferibile per non indurre qualcuno a giudicare Heidegger e la
Gnosiun ennesimo tassello di quello strano mosaico cui siamo avvezzi ormai da
tempo immemorabile. Quando si ha difficoltà a definire un pensatore o un’idea,
ma lo si vuole fare a tutti i costi, oppure quando si vogliano tentare altre vie
dalle già battute e cieche, spesso si finisce per definirlo gnostico.
Del tutto assente dall’indagine di Lucrezia Fava è la storia, quindi la
biografia. C’è un fuggevole cenno a probabili conoscenze da parte di Heidegger
di testi gnostici e alla vicinanza con Rudolf Bultmann (un altro gnostico?), ma
niente di più. Ora, che Heidegger, quale persona colta come lo erano a
quell’epoca tutti in certi ambienti, abbia conosciuti i principii dell’antica
Gnosi, nessuno può metterlo in dubbio. Ma non ci sono riferimenti né impliciti
né espliciti nelle sue opere al pensiero della Gnosi storica (a meno che non mi
sia sfuggito qualcosa). E non essendoci alcun riferimento testuale, fosse pure
epistolare, anziché procedere tout court a un accostamento, già di per sé
problematico, bisognerebbe avanti a tutto pensare alle ragioni –storiche
filosofiche psicologiche – di questa eventuale corrispondenza. Postoché Lucrezia
Fava abbia visto un aspetto del pensiero heideggeriano con lucidità e verità
(per quanto con l’aiuto esplicito di Hans Jonas), ella non si domanda mai donde
derivi tale corrispondenza. E questa indagine, si capisce, è rigorosamente
obbligatoria.
C’è un ulteriore inciampo in Heidegger e la Gnosi, e non dappoco, ed è indurre a
credere qualche lettore impaziente – e Dio sa quanti ce ne sono – che il
pensiero di Martin Heidegger cada in un calderone sbrigativamente definito
«irrazionalista», che costella la storia dell’uomo sotto diversi abiti da tempo
immemorabile. Ma mentre in epoca antica e financo in svolti più recenti e in
individui considerati “perdonabili” (si pensi, per esempio, al Romanticismo o a
Hölderlin), l’irrazionalismo è accettato, esso – si dice – non può più avere
diritto di cittadinanza nell’èra della scienza e della tecnica, questa nuova èra
metafisica che stiamo vivendo, e delle superstiti istanze politiche.
Heidegger dové già scontare l’accusa di misticismo e di irrazionalismo dopo la
così detta Kehre, la svolta, come si sa e come ben riassume Hans Georg Gadamer
nei Sentieri di Heidegger (Marietti 1987, pp. XV-XVI). L’accusa era
evidentemente pregiudiziale, spinta sia dall’«ondata di nuovo illuminismo» (io
avrei detto più tosto neopositivismo), sia dall’«ossessione
social-rivoluzionaria», come lì scrive Gadamer, e ben pochi, ancòra oggi, si
sono levàti dalla zucca una simile rappresentazione farlocca. A meno che
Lucrezia Fava non creda, anche lei in senso squalificante, a uno Heidegger
davvero irrazionalista, allora mettere in circolazione simili raffronti, senza
opportune premesse, può costituire un errore sia di metodo, sia strettamente
filosofico.
Ricordiamo a margine l’intelligente osservazione di Medard Boss:
> «Sono numerosi i derisori, che ritengono il “tardo” Heidegger soltanto un
> poeta o un mistico, che avrebbe da lungo tempo abbandonato il terreno di una
> “filosofia scientifica”. Tuttavia, in primo luogo, tali spiriti della
> superficialità non vedono che quello “più tardo” non si è affatto separato dal
> “primo” Heidegger (…). Il pensiero di Heidegger pensa sempre il medesimo del
> medesimo (…). In secondo luogo, i Suoi critici tralasciano di confrontare la
> rigorosa adeguatezza del Suo primo e tardo pensiero a quanto detto, dunque la
> sua “obiettività”, nel senso supremo di questo termine, con la rigogliosa e
> oscura magia, che domina completamente tante rappresentazioni della scienza
> moderna».
>
> (Lettera di Medard Boss ad Heidegger, in M. Heidegger, Seminari di Zollikon,
> Guida 1991, p. 411; traduzione lievemente modificata e corsivi miei)
La tesi di Lucrezia Fava è dunque parecchio spericolata. E aggiungo ch’essa,
almeno così come la declina l’autrice, non conduce in alcundove e, anzi,
allontana dall’obbiettivo heideggeriano principe. In questa analisi dov’è
infatti l’Essere? In altri termini: che cosa se ne fa il lettore di
un’analisi in opposizione alla filosofia come la intende Heidegger sin dai
primordi del suo pensiero?
Lucrezia Fava (ma anche Thomas Vašek con sgradevoli aggravanti) ci ripiomba in
quelle metodologie che lo stesso Heidegger voleva superare, in quella forma
mentis di ostacolo al “progetto” heideggeriano non solo di dire e di pensare
altrimenti a petto della tradizione e delle consuetudini, ma anche di essere
altrimenti. Ma questo è forse impossibile a recepirsi da parte di chi legge i
filosofi e certi filosofi in particolare come oggetti di indagine, eventualmente
di carriera. Heidegger spende gran parte della sua vita a mettere in guardia da
questo genere di mentalità esiziale ed ecco sopraggiungere ancòra dopo plurimi
decenni imperturbati studiosi, i quali, credendo di fargli i complimeti, gli
intonano l’ennesimo Requiem.
Heidegger diventa l’ennesimo oggetto di studio, e non resta quale,
giustissimamente, lo hanno definito Safranski e decine di suoi allievi e lettori
postumi: «ein Meister aus Deutschland», un maestro tedesco, o sia un maestro
tout court, del pensiero ateoretico e rigorosamente pratico, filosofia incarnata
o sia filosofia, per dirla con Hadot, quale esercizio spirituale,
e quindi pratico.
Heidegger trattato alla stregua d’un Popper o d’un Kant, che neppure se lo
meritano, cioè alla stregua d’un “qualsiasi” filosofo. Ciò significa
anestetizzare, neutralizzare Heidegger, il quale, saviamente, mise in guardia
dal commentare i suoi lavori. Parlò, ahimè come al solito, a vuoto, ai vuoti.
Luca Bistolfi
L'articolo Neutralizzare Heidegger. Sui tentativi (più o meno goffi) di fare di
un maestro un mero “oggetto di studio” proviene da Pangea.
Memorie dal sottosuolo, pubblicato nel 1864, si palesa come una delle opere più
emblematiche di Fëdor Dostoevskij, segnando una svolta epocale nel suo percorso,
sia narrativo che filosofico. Questo romanzo, che ad un primo sguardo potrebbe
sembrare un semplice monologo psicologico, è in realtà un dedalo intricato di
riflessioni che sfidano il lettore a confrontarsi con questioni le più profonde
dell’umana vicenda.
Se la sua superficie può essere interpretata come la confessione di un uomo
recluso nel suo mondo interiore, la struttura ed il contenuto si rivelano come
critica diretta alla modernità, alle sue certezze ed alle sue illusioni – a
tratti le due cose assieme. In Memorie dal sottosuolo, Dostoevskij non si limita
a sondare l’animo umano, ma lo fa in un contesto che estrinseca la condizione
dell’uomo del suo tempo: un tempo in cui le grandi verità universali e i
tradizionali capisaldi morali sembrano essere non più valevoli, sostituiti da
un’intelligenza calcolatrice e razionale che si sforza di ridurre l’essere umano
a mero ingranaggio di una macchina sociale secondo un meccanicistico e
deterministico principio di ascendenza scientifica.
In questo contesto, il protagonista, l’“uomo del sottosuolo”, diviene simbolo di
una civiltà in crisi, un uomo che ha rinunciato alla speranza di trovare una
risposta filosofica congeniale alle grandi domande della vita, e si ritira nelle
latebre della propria identità interiorizzante: luogo oscuro dove la psiche è
preda delle sue contraddizioni più forti e delle sue fratture più dolorose. Il
sottosuolo, in questa accezione, non è tanto un luogo fisico, quanto l’emblema
della disgregazione dell’individuo, del suo allontanamento da una razionalità
confacente ai massimi sistemi morali (ontologici e tradizionali come della
società organizzata) e dello iato tra l’uomo e l’impronta della sua autentica
essenza.
L’opera, quindi, non si limita a esplorare unicamente la psicologia del
protagonista, ma si erge a riflessione teorica e filosofica sulla natura
dell’essere umano e sulla sua condizione esistenziale. Se da un lato l’uomo del
sottosuolo rifiuta la razionalità delle scienze positive come leva di progresso
e conseguimento della felicità, dall’altro lato non riesce a fuggire dalla
consapevolezza del suo essere nudato e esposto a ridde di stimoli esuli da
risposte attive: condannato alla solitudine, incapace di agire secondo una
logica di autodeterminazione e imprigionato nelle proprie ritorte elucubrazioni
interiori, nelle proprie nevrosi, nei sensi di colpa. La riflessione filosofica
che attraversa l’opera è lontana da ogni sistema dogmatico e metafisico, eppure
incapace di sfuggire dalla propria condizione di inadeguatezza.
Nel contesto della società che Dostoevskij descrive, l’individuo moderno è
costretto a fare i conti con il carattere di crescente meccanicità della vita
quotidiana, con una razionalità elefantiaca, con la riduzione dell’umano a
schemi e calcoli matematici, previsioni scientifiche, dove ogni emozione, ogni
impulso, ogni azione sembrano essere ricondotti ad una funzione deterministica.
In un tal mondo, l’individuo si percepisce come ingranaggio che opera secondo
regole prestabilite, incapace di emergere dalla sua condizione di prigionia
entro una realtà che non sente più sua. Eppure, nonostante il rifiuto del
razionalismo ottocentesco, l’uomo del sottosuolo non si consola nella sua
solitudine, né trova la liberazione nella ribellione contro i “due più due
quattro”: la sua coscienza si torce in una spirale di auto-accusa e di
impotenza, dove la riflessione non si traduce mai in soluzione concreta o
liberatrice, attiva e tale da forgiare il proprio senso al mondo, non risentita
e creatrice, ma in un continuo, straziante interrogarsi senza soluzione di
continuità.
La caratteristica principale di Memorie dal sottosuolo è proprio questa: l’opera
non offre risposte semplici. Al contrario, ogni risposta sembra aprire un nuovo
abisso, ogni apparente conclusione porta con sé la scia di nuovi interrogativi.
Dostoevskij non ci consegna un sistema filosofico coerente e consolatorio, ma ci
obbliga a confrontarci con l’inquietante verità della condizione umana:
l’incapacità di raggiungere una conoscenza definitiva, l’impossibilità di
liberarsi dalle proprie contraddizioni, il fallimento della razionalità come
perno di comprensione totale del mondo. Il sottosuolo, quindi, non è solo un
luogo spinoso di un estenuante cogito e di un’aspra sofferenza individuale, ma
diventa metafora di una condizione universale: quella di ogni essere umano che,
pur nella ricerca incessante di una verità possibile, è costretto a confrontarsi
con i limiti intrinseci della propria esistenza.
La riflessione sul “sottosuolo” come spazio oscuro ed inesplorato della psiche è
centrale nell’opera e ci abbrivia a un viaggio nell’interiorità che non conduce
mai a liberazione, ma solo a una permanente tensione tra il desiderio di
comprendere e la consapevolezza che ogni comprensione collide con
l’irrazionalità dell’esperienza umana. In tal senso, questa si configura come
un’opera irrazionalista che mette in crisi ogni tentativo di definire l’essere
umano attraverso categorie universali. L’uomo neoterico è troppo complesso,
troppo frantumato, contraddittorio, per essere ridotto ad un insieme di leggi
modellistiche frutto di calcolo e previsione. Eppure, nonostante questa
consapevolezza della propria condizione di impotenza, continua a cercare, ad
interrogarsi, a lottare con sé stesso in una spirale che non conduce a un solo
esito certo.
In questo complesso romanzo, quindi, Dostoevskij non ci offre una filosofia
dell’uomo che possa essere facilmente assimilata o sistematizzata, ma ci
presenta un tragitto senza meta, che costringe a confrontarci con le nostre
stesse inquietudini, i nostri dubbi, le nostre paure, e senza nessuna promessa
di riscatto. Questo è il grande paradosso dell’opera: la ricerca di senso non è
mai fruttuosa, ma è proprio in questa incessante ricerca che risiede la sua
potenza. L’autore, con maestria, riesce a dipingere la psiche in tutta la sua
prismatica complessità, senza cedere alla semplificazione o risolvere i
conflitti che ne emergono. L’opera diventa così un’autentica meditazione
sull’essere umano che pur nella sua dogliosa inadeguatezza, come per una
coazione a ripetere, insiste incessantemente a far ritornare il pensiero su sé
stesso fino a una sorta di spasmo intellettuale. Memorie dal sottosuolo non è,
dunque, solo un romanzo psicologico, ma una riflessione filosofica di un
esistenzialismo ante litteram che sollecita a confrontarsi con l’angoscia ed il
paradosso della nostra irredimibile condizione senza offrire mai la consolazione
di risposte conchiuse.
La struttura del romanzo non è semplicemente un espediente narrativo, ma
manifestazione tangibile della visione dostoevskijana della psicologia umana,
che, come il protagonista, si muove nella snervante, convulsa poiesi di pensieri
contraddittori ed inconciliabili. La narrazione è divisa in due parti, ma questa
divisione non è mai un semplice schema: specchia, in modo mirabile,
l’irrazionalità e la frammentazione della mente del protagonista, il quale
sperimenta l’inestricabile farragine dei propri pensieri secondo un avvicendarsi
di elementi non lineari eppure sottilmente ficcanti. La sua riflessione è
ciclica, sghemba, irrequieta. La mente, simile a uno sprofondo, non si
pacifica: ogni tentativo di risolvere la confusione interiore si dissolve in
spirali di dubbi e di incertezze che non hanno niente di apodittico e perspicuo.
Nella prima parte del romanzo, l’“uomo del sottosuolo” si rivolge direttamente
al lettore in un flusso di coscienza che è espressione massima dell’alienazione
e della solitudine più inciprignita. Così, in queste pagine, egli si svela senza
diaframmi, senza una maschera sociale che lo nasconda, e lo fa in un modo che
sfida ogni convenzione letteraria. Non si tratta di una riflessione pacata e
distaccata, ma di un fiume di pensieri che si accavallano, si contraddicono, si
disperdono in mille rivi senza mai trovare conclusione soddisfacente (il
protagonista è uno scontento cronico) e in tale flusso, non c’è unità di
pensiero, ma anzi si moltiplicano le fratture: il desiderio di affermare la
propria individualità e la consapevolezza che essa è solo una forma di cattività
e autoinganno conducono l’uomo del sottosuolo a una solitudine insostenibile.
Non vi sono cartografie esistenziali di condotta giusta e confacente al
raggiungimento della felicità ma solo una continua oscillazione tra il rimpianto
e la disillusione, tra la speranza che il pensiero possa fare luce su un senso
auspicabile e la disillusione più aspra. La narrazione stessa riflette questo
confliggere, questo andamento franto e nevrotico, spostandosi incessantemente
tra il disprezzo per la razionalità e l’impossibilità di eluderla.
La seconda parte del romanzo, in cui l’uomo del sottosuolo racconta alcuni
episodi significativi della sua vita, non cerca di ricreare una narrazione
cronologica o lineare. Gli eventi che descrive sono scuciti, sconnessi,
rapsodici come le sue stesse esperienze emotive e psichiche. Piuttosto che una
storia coerente, ciò che emerge è un mosaico di scene, ambiti e considerazioni
che, pur sembrando disarticolati, servono proprio a dare concretezza alla
sofferenza e all’impotenza.
I tentativi di relazionarsi con gli altri, di inserirsi nella vita sociale, non
sono altro che un protratto fallimento, un puntuale appuntamento con la propria
inadeguatezza. Ogni episodio che il protagonista rievoca diventa l’occasione per
una riflessione che non porta a chiarimento, ma che, quasi, inasprisce la
condizione di frustrazione esistenziale che lo connota. La vita di quest’uomo
kafkiano che non riesce a essere “neanche un insetto” è attraversata da un
eterno conflitto tra il desiderio di affermarsi ed il timore di essere
fatalmente sopraffatto dal mondo esterno, un conflitto che, come le sue
riflessioni, non trova mai una via di fuga, men che meno ariosa.
La sua condizione, quindi, è il perfetto riflesso della sua psiche lacerata,
ipertrofica, incapace di conciliare le proprie pulsioni più profonde con le
aspettative della società. Ma il sottosuolo in cui si rifugia è metafora di una
condizione esistenziale che travalica il semplice isolamento sociale. L’uomo del
sottosuolo è un individuo che ha scelto la solitudine, e non solo come ritiro
dal mondo, ma anche come forma di resistenza. Resistenza non tanto contro le
forze esterne, ma contro la propria stessa natura, contro il senso di impotenza
che prova di fronte ad una realtà che è incapace di soddisfare le sue esigenze
più ime. Il sottosuolo, in quest’ottica, è luogo di punizione, di
autoafflizione: l’isolamento, per il protagonista, non è mai liberatorio, ma
preferibilmente un incessante tormento che lo costringe a fare i conti con
pletore di fallimenti, con illusioni smarrite, con il decadere di ogni
possibilità di redenzione. Questo rifugio interiore è l’unico spazio in cui
l’individuo può ancora agire, ma in un contesto cervellotico e involuto che non
si traduce in scelte fattive ed è senza possibilità di riscatto o di
pacificazione.
Inoltre, egli si presenta come un “outsider” in senso totale, un individuo che
non appartiene a nessun gruppo, a nessuna ideologia, un essere che non accetta
nessuna mediazione tra sé ed il mondo. Questo rifiuto totale della mediazione
sociale (quella del pensiero è invece fin troppo invadente e elaborata, reattiva
e risentita in senso nietzschiano) lo rende incapace di inserirsi in qualsiasi
compagine sociale, sia essa religiosa, politica o culturale. Egli conduce
un’esistenza spettrale e defilata, che si esprime esclusivamente attraverso il
proprio rifiuto della realtà. Non è uomo che si oppone ad una società ingiusta o
che si ribella ad un ordine oppressivo, ma individuo che rifiuta ogni forma di
riconoscimento da parte del mondo esterno. Il suo isolamento è condanna a vivere
privo di strutture di significato e coordinate inclusive o di inserimento. In
fondo egli è cattivo (anche nel senso latineggiante di “prigioniero”) perché
rifiuta la dativa semplicità di ciò che è buono e elargivo di sé, ed è appunto
ostaggio di non altro che della propria bizantina, capricciosa e accidiosa
libertà di pensiero autoriferito.
Il “sottosuolo”, dunque, non è solo il luogo di una riflessione sulla condizione
dell’individuo moderno, ma anche simbolo rivelatore della crisi esistenziale che
segna un’epoca. Lì l’individuo non è mai in grado di liberarsi dei propri ceppi
interiori. La sua battaglia contro sé stesso è incessante e senza speranza, una
teoria di specchi in cui si perde dell’identità persino il pedissequo riflesso
singolo, a favore di una proliferazione di immagini; ed è proprio questa lotta
senza fine che rende l’opera dostoevskijana così potente e tragica. L’uomo del
sottosuolo continua a scavare, ad interrogarsi, a provare a superare il
conflitto che lo rode da dentro come un tarlo della ragione. Questo conflitto,
questa continua scissione tra il desiderio di azione e l’incapacità di agire, è
la vera essenza del sottosuolo: luogo in cui l’individuo si consuma e estenua
nella solitudine, nel suo senso di carenza e insufficienza e nella sua
incapacità di riconciliarsi con il mondo e con sé. Il sottosuolo è l’arena in
cui si svolge la lotta infinita tra la natura dell’uomo e le aspettative della
società, una lotta che non trova mai conciliazione.
Una delle questioni più urgenti e più pungenti che Dostoevskij affronta
in Memorie dal sottosuolo è quella che riguarda la tensione tra la razionalità
illuminista e l’irrazionalità magmatica che intrinsecamente caratterizza il
tragitto umano. Il protagonista si erge come un contro-esempio, radicale e
disilluso, alla visione ottimistica dell’essere umano, quella che immagina la
ragione ed il progresso come soluzioni che, se ben operanti, potrebbero condurre
alla felicità, alla realizzazione ed alla pace sociale. Questa concezione, che
si fonda sull’idea che ogni uomo possa essere guidato da principi morali e
scientifici, e che anzi essi possano sovrapporsi, che la razionalità possa
effettivamente orientare il corso degli eventi, viene demolita con una lucidità
ed una durezza che rasentano la ferocia. Il protagonista rigetta fermamente
l’idea di un uomo “razionale”, come quella che lo vede quale zoon politikon che
vive seguendo leggi universali e previsioni deterministicamente orientate,
nell’alveo di una vita socialmente condivisa. La sua esistenza si scontra
frontalmente con questo ideale dell’uomo come macchina razionale (“punta di
organetto” e tavola di calcoli); eppure, è proprio nella negazione di questa
razionalità che emerge l’essenza di una profonda crisi ammantata di superiorità
morale.
L’uomo del sottosuolo, per Dostoevskij, incarna la consapevolezza acuta che il
raziocinio, lungi dall’essere una chiave per la liberazione, diventa prigionia
asfissiante. La sua ribellione non è tanto contro il progresso o la scienza in
sé, ma contro la pretesa di considerare l’uomo come entità che può essere
completamente spiegata e regolata da calcoli:
> “…Allora, dite voi, la scienza stessa insegnerà all’uomo (benché questo sia
> già un lusso, secondo me) che in realtà egli non ha né ha mai avuto volontà né
> capriccio, e che egli stesso non è altro che una specie di tasto di pianoforte
> o di puntina d’organetto; e che, inoltre, al mondo ci sono anche le leggi di
> natura; sicché, qualsiasi cosa egli faccia, avviene non già per suovolere, ma
> da sé, secondo le leggi di natura. Di conseguenza, basta solo scoprire
> queste leggi di natura, e l’uomo non dovrà più rispondere delle sue azioni e
> vivere gli sarà estremamente facile. Tutte le azioni umane, s’intende, saranno
> calcolate allora secondo quelle leggi, matematicamente, come una tavola dei
> logaritmi, fino a 108.000, e riportate sul calendario; oppure, meglio ancora,
> usciranno delle benemerite pubblicazioni, sul tipo degli attuali dizionari
> enciclopedici, in cui tutto sarà elencato e indicato così esattamente, che al
> mondo ormai non ci saranno più né azioni, né avventure…”
L’infelice protagonista è scettico verso ogni visione che cerchi di ridurre la
complessità e la contraddittorietà del suo sé ad una formula. Riconosce con
dolore e lucidità che ognuno è capace di autolesionismo, di contraddizione, di
follia, di gesti che sfidano ogni previsione logica e scientifica, ma i suoi
viluppi di pensieri non lo conducono se non a una falsa libertà. La libertà,
certo, non può essere definita da un ordine logico predeterminato, ma se la
ragione è una prigione, essa non può che essere qualcosa che si sottrae a ogni
edificazione razionale.
Il protagonista si oppone in modo deciso a ogni concezione ottimistica della
società come sistema razionale e ordinato in cui ogni individuo trova una
propria collocazione data, contribuendo al bene collettivo secondo un pensiero
utilitaristico (si legga qui utilitarismo come dottrina filosofica e non nel suo
senso deteriore invalso). Questo ordine sociale non è altro che un paramento
dietro cui si cela la disumanizzazione dell’individuo, esattamente come avviene
nella “macchina sociale” evocata da Michelstaedter ne La persuasione e la
rettorica:
> “Si sono fatti una forza della loro debolezza, poiché su questa comune
> debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca
> convenzione… mossi e motori ad un tempo, infallibili e sicuri tutti, in quanto
> attraverso di loro viva la vita del grande organismo con la sua previsione
> complessa e squisita, cristallizzata negli ingegni delicati e potenti che
> eliminano dal campo della vita umana ogni contingenza… E come perché uno metta
> in un organo meccanico una data moneta e giri l’apposita leva, la macchina
> pronta gli suona la melodia desiderata, poiché nei suoi congegni è
> cristallizzato il genio musicale del compositore, e l’ingegno tecnico
> dell’organista, così al determinato lavoro che l’uomo compie per la società,
> che gli è familiare e istintivo nel modo, ma oscuro nella sua ragione e nel
> suo fine, la società gli elargisce sine cura tutto quanto gli è necessario,
> poiché nel suo organismo s’è cristallizzato tutto l’ingegno delle più forti
> individualità accumulato dai secoli…”
Si vede, in definitiva, come ognuno sia privo di un legame autentico con il
mondo: simile a frammento che non può essere ridotto a ideologia collettiva o a
modello sociale organizzato. Tuttavia, dalla ribellione, emerge un dolente
paradosso. L’uomo del sottosuolo non ha il coraggio di abbracciare una libertà
autentica, quella che avrebbe richiesto un atto consapevole di
autodeterminazione, un passo che implica la scelta di una vita concreta, pur con
i suoi limiti, le sue imperfezioni e le sue sofferenze: la sua è una libertà
apocrifa, infatti, che non edifica ma distrugge. È distruttiva e
autolesionistica, accidiosa e stagnante: insiste dove duole proprio come “il
demone della perversità” di Poe, persevera nel desiderio di annientamento. La
consapevolezza di essere liberi allora tormenta, perché questa libertà non porta
con sé alcuna possibilità di adempimento di sé o di soddisfazione, ma solo il
peso di una continua, insostenibile emarginazione. L’incapacità di scegliere una
via, di agire secondo una volontà autentica, di formulare progetti concreti
spinge verso un’esistenza vacua, segnata dalla rassegnazione e dal tormento, ma
anche dalla paura di cedere alle stimolazioni del mondo esterno.
La critica alla razionalità, tuttavia, non si configura come un abbraccio
irrazionale della follia o del caos. E Dostoevskij, pur rifuggendo da ogni
romanticismo che celebri l’irrazionalità come un valore in sé, solleva una
domanda più radicale: fino a che punto possiamo veramente considerare l’uomo
libero? Se anche il pensiero più puntuto e risolto non è la via per la libertà,
se il rifiuto della razionalità porta solo a un’arte della distruzione, allora
che cos’è essa veramente? La riflessione è ben più profonda e inquietante:
l’uomo neoterico, nonostante la pretesa di essere libero, fa della sua stessa
coscienza una trappola, irretito nelle pulsioni più profonde, in angosce
inconfessabili e in passioni autodistruttive. La libertà, dunque, lungi
dall’essere una conquista, diventa una condanna, un dissidio interiorizzante e
risentito che non può essere risolto attraverso una razionalità progettante. Una
risposta né ontologica né illuministica ma esistenzialista potrebbe essere
quella di affrontare la realtà attraverso l’accettazione delle sue implicazioni
più tragiche.
L’ineguagliabile autore russo irrompe nel cuore della modernità sollevando la
domanda esistenziale fondamentale: che cosa significa essere veramente liberi,
se la libertà stessa è inestricabilmente legata alla sofferenza e alla
disillusione? La sua critica al razionalismo è un invito a riconoscere la
fragilità e la contraddittorietà dell’essere umano, la sua necessità
inestinguibile di trascendere persino ciò che è logico e perspicuo o più
auspicabile, scollinare modelli meccanicistici e segnati da cinghie di cause e
effetti, e ci ricorda infine che è troppo complesso e composito per essere
risolto da un modello teorico coerente e totale, che la sua libertà non può mai
essere pienamente definita, e che la sua vera natura è perennemente esposta alla
lacerante tensione tra desiderio di ordine e caos interiore.
La solitudine che pervade l’esistenza del sottosuolo è, al contempo, una scelta
deliberata e, come detto, una condanna irrevocabile. Da un lato, essa si
configura come difesa: una ritirata strategica dal mondo che l’individuo non
riesce più a comprendere, né ad accettare. Il protagonista rifiuta di essere
parte di una collettività che gli appare estranea, un sistema che non riesce ad
offrire risposte soddisfacenti alle sue domande e esigenze più ime. Egli non è
semplicemente un emarginato, un individuo che si ritira per scelta o per
necessità, ma un pensatore tormentato che si identifica in modo coestensivo, e
fino a coincidervi, col proprio spazio mentale come ultima risorsa per fuggire
il vuoto della vita quotidiana. Le convenzioni, le aspettative sociali ed il
progresso razionalistico non hanno nulla da offrire a chi, come lui, percepisce
il mondo come meccanismo alienante, incapace di adempiere alle urgenze più nude
dell’anima umana. In questo rifiuto, l’uomo del sottosuolo si palesa come una
figura solitaria, ma anche come una sorta di “testimone” di una condizione che,
pur dolorosa, appare ineludibile.
Tuttavia, questa solitudine diventa presto un dispositivo da tortura: non solo
lo allontana dagli altri, ma lo intrappola in un circolo vizioso di pensieri
ossessivi e di riflessioni che non conducono mai a una catarsi. Essa non è
liberatoria, ma un sortilegio che imprigiona la sua psiche, atrofizza l’azione,
tra sensazioni dolorose e autocritiche incessanti. L’esistenza diventa segnata
dal conflitto tra il desiderio di allontanarsi da un mondo indiscernibile e la
crescente consapevolezza che la solitudine stessa non offre alcuna risposta ad
un acuto tormento, ad un rimuginio che non approda né a soluzioni né a
rivelazioni.
Qui l’uomo non può trovare zona franca, come facevano gli eroi romantici, nella
solitudine come spazio di riflessione pura, di autoconsolidamento o elevazione
spirituale. Mentre per gli eroi romantici la solitudine era uno perno creativo,
un laboratorio dell’anima dove l’individuo poteva avvicinarsi a sé e alle verità
universali, per l’uomo del sottosuolo è la prigione della sua impotenza. La
ricerca della verità, allora, non è atto di liberazione, ma processo che si
rivela sterilmente doloroso: interminabile maelstrom che non porta mai alla
purificazione o al superamento del dolore. Lì non si costruisce una nuova
visione del mondo, ma il rifugio ultimo di chi ha praticato la rinuncia a
qualsiasi anelito di salvezza, il luogo dove il dolore esistenziale non può
essere elaborato.
L’uomo del sottosuolo non è pari al compiere scelte decisive, è drastico solo
nella negazione, non riesce a superare l’apatia che lo immobilizza acuendo il
suo stato tormentoso. L’esistenza stessa, in quest’ottica, è sofferenza senza
redenzione, un susseguirsi di riflessioni auto-assolutorie ma che non riescono
mai a raggiungere una verità definitiva o una pace. Lungi dall’essere una
condizione passeggera o un semplice rifugio provvisorio, diventa l’emblema
stesso della sua impotenza. La sua esistenza si nullifica, scivolando lentamente
nell’indifferenza e nell’autoafflizione. Soffre di soffrire, il suo patimento
rasenta l’astrazione: egli è la propria stessa malattia.
La tensione tra libertà ed azione, centrale in Memorie dal sottosuolo, svela la
natura profondamente ambigua e lacerata, sdrucciola e elusiva di una libertà
che, pur essendo riconosciuta come un diritto fondamentale, non è mai facilmente
conducibile alla capacità di agire. A ben vedere l’individuo non è incapace di
agire, ma sceglie deliberatamente l’inazione. La sua azione si limita
all’introspezione, a un vertiginoso flusso di pensieri che non si attua mai in
un movimento esterno, in un gesto che abbia una valenza trasformativa. La sua è
una riflessione autofaga.
Appare qui il passato come isola e fardello morale, come luogo di una vis
inattiva. Decifrare un ordine nel caos dell’esistenza porta solo ai segni di
un’astrusa alienazione, ciclo infinito che non approda a nulla di concreto.
Libertà come maledizione: condanna all’immobilità, all’impossibilità di fare
esperienza del mondo in modo autentico. L’intellettualismo del protagonista
diventa intrico di parole e concetti che non hanno alcuna relazione con il mondo
esterno, avvitandosi su un oggetto che non esiste.
In fondo il cuore della visione dostoevskjiana è lo smascheramento spietato di
una libertà malintesa (quella di poter scegliere arbitrariamente come mero
esercizio astrattivo che ha in sé il suo fine) a favore di una, ben più ariosa,
che riconosce l’ineluttabilità della condizione umana, la sua dimensione finita
e tragicamente contraddittoria.
Ma, come detto, la libertà del protagonista è una macchina da tortura.
L’uomo del sottosuolo è, in fondo, la rappresentazione di un’umanità moderna
che, pur avendo conquistato una via di uscita dal giogo delle convenzioni e
della tradizione, si ritrova incapace di utilizzarla per creare nuovi
significati nella tensione lacerante tra libertà e destino, tra il desiderio di
autodeterminazione e la fatalità che sembra legare ogni individuo a uno stato di
prostrante paralisi: il destino non è più visto come una forza esterna da cui
l’individuo è condannato a essere schiacciato, ma come un dramma interiore che
ha per teatro la sola mente del protagonista, un destino che è inevitabile non
per degli influssi esterni, ma per incapacità personale di affrontarlo. È così
che si allarga la forbice tra l’individuo e il mondo che lo circonda. Ma la
società lo soffoca non più del tanfo della sua stagnazione, del disfacimento
della propria stessa individualità che da essa si voleva riscattata.
Dostoevskij sfida il lettore nella sua capacità di non cedere al nichilismo più
sterile o al fatalismo pur esplorando le zone più latebrose della psiche, con
una lucida ma dolorosa analisi della realtà non mistifica né ignora, ma mostra
la condizione patologica di una “volontà di potenza” alla rovescia, di un
esecrabile e mortifero eterno ritorno che il protagonista compie su sé,
avvitandosi in una stagnazione spiraliforme.
L’opera suggerisce che la vera sfida per l’individuo moderno non sta nel cercare
soluzioni o risposte univoche, ma nel creare una propria interna tensione attiva
e liberatrice, proprio in limine tra autodeterminazione e azione, pensiero come
atto di autocoscienza e volontà di progettare per edificare un senso che non
eluda la fragilità dell’esistere.
Il sottosuolo è così la metafora di una disarmonia tipica della vita moderna e
l’opera di Dostoevskij, gioiello senza tempo e figlio del suo tempo, si presenta
dunque come una sfida ancora aperta.
Massimo Triolo
*In copertina: un ritratto di Valentin Serov
L'articolo Nelle latebre della psiche. “Memorie dal sottosuolo”: storia di un
outsider totale proviene da Pangea.
> Quando arrivò a casa l’ambulanza chiedeva disperatamente di me. Mi voleva come
> sempre accanto a lui. Gli ho preso la mano e lui continuamente sussurrava:
> “Vittoria, Vittoria…”. Arrivati al San Camillo c’era mio fratello e dopo è
> arrivata la figlia Lia. Lui era in coma, eppure mi ha detto: “Perché non va
> qualcuno a comprarmi Paese Sera?”. Allora è andato mio fratello. Ernesto mi ha
> detto: “Ma la rivista Aut-Aut è arrivata?”. “Sì, è arrivata”, gli ho risposto.
> “Me la vai a prendere?”. Gli ho dato questa rivista sempre con la mano nella
> mano e mi fa: “Ma come mai non c’è luce?”.
> Allora facendomi estrema forza gli ho detto: “Ma guarda tu se in un ospedale
> può mancare la luce’”.
> Detto questo lui è spirato[i].
6 maggio 1965. così si compie il cammino di questo mondo di Ernesto De Martino.
la mano che lo tiene è quella di Vittoria De Palma, sua compagna di vita e di
ricerca per quasi vent’anni. l’ultima apocalissi della sua vita, la stanza di un
ospedale romano, una vita iniziata a ridosso di un’altra apocalissi, il
terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908. dai ricordi di sua madre,
Ernesto sarebbe nato il giorno dopo il terremoto, mentre per le strade di Napoli
stavano passando dei camion per la raccolta di vestiti e beni di prima necessità
per gli sfollati. la madre vide dalla finestra una donna sfinita con un bambino
in braccio, e il travaglio iniziò, disse. era il 1 dicembre[ii].
l’apocalissi è stata la condizione intrinseca della vita di De Martino, e non è
forse un caso che diede il nome anche all’ultima opera, incompiuta, cui lo
storico e antropologo napoletano lavorò, La fine del mondo. Contributo
all’analisi delle apocalissi culturali(postumo, 1977)[iii]. ampio spazio è stato
dato nella letteratura accademica all’analisi del concetto di apocalissi
demartiniano in una prospettiva sociale e politica, anche grazie agli ottimi
curatori delle ultime due edizioni, francese (2016) e italiana (2019), Giordana
Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio. De Martino distingue tra apocalissi
e catastrofe. nel primo caso la fine è “portatrice di senso e diventa nucleo di
produzione culturale: l’apocalisse è sempre, per etiologia, una
rivelazione” (Quarta 2021, 77). nel secondo caso, la catastrofe non ha apertura
sulla storia, è una caduta senza riscatto, una “catabasi senza anabasi” (Idem),
anche se la prima racchiude potenzialmente la possibilità di esaurirsi nella
seconda. De Martino contempla tre fenomenologie apocalittiche: quella
con escaton, quella senza escaton e le apocalissi psicopatologiche, simili alle
catastrofi. le prime due si svolgono sul piano culturale collettivo; prevedono
una “salvezza” che si esplica nel reintegro dell’individuo in un codice sociale
condiviso in cui c’è la gestione possibile del negativo. le terze non prevedono
nessuna possibilità di condivisione pubblica; sono l’esperienza di un mondo
“oscuro e privato”. quest’ordine porta De Martino ad avvicinare le apocalissi
senza escaton alla catastrofe. “Proprio perché fra tutte le apocalissi culturali
essa appare più di tutte le altre prossima alla crisi radicale dell’umano, la
apocalisse senza escaton dell’occidente si presta in modo elettivo a illustrare
il valore euristico del documento psicopatologico” (De Martino 2019, 356). una
tensione tra salvezza e caduta definitiva che caratterizzerà anche l’uomo De
Martino.
poco è stato scritto sui risvolti personali di Ernesto De Martino rispetto alla
dimensione apocalittica che lo rivestiva, presenza immanente a tutta la sua
ricerca antropologica come un continuo lamento tellurico a bassa frequenza.
apocalissi in cui cercò sempre un escaton attraverso una volontà incrollabile
quanto la speranza.
> Io credo tuttavia che tra la mia psicastenia, il mio ittero, la mia
> turbercolosi, la mia epilessia vi sia un rapporto intimo (mi guarderei
> dall’affermare tale rapporto fra queste malattie come tali), e che non si
> possa fare la storia della mia persona senza includervi anche le mie malattie.
>
> (De Martino 2004, 28)
la malattia, la cronica dimensione di carenza, è stata una condizione fondante
di De Martino. un travaglio che se in giovinezza fu esplicito, come le crisi di
epilessia, dopo i trentacinque anni rimase latente, anche grazie alla sua grande
forza d’animo, lui che non faceva parola della sofferenza, che non malediva
quello stremo che accompagnava le sue ricerche sul campo, il suo studio alacre,
ma che fu corpo di tutta la sua ricerca empirica e teorica. come ha scritto
Luigi Chiriatti, De Martino cercò di esorcizzare il dolore, la malattia, la
morte, quella paura di “cadere nel nulla o nelle mani di un dio irato” (De
Martino 2004, 26) studiando le manifestazioni di dolore, malattia, morte
attraverso quel caravanserraglio materiale e simbolico della “magia” che
accompagnava la resistenza al male in quegli umani più esposti alla catastrofe e
alla perdita improvvisa, a quella che chiamava “sapienza del pianto” (De Martino
2021, 14). erano i contadini del Sud Italia del secondo dopoguerra, quelli che
morivano, parafrasando un canto funebre lucano, “con la fatica alle mani”
(Ibidem, 90). questo attraverso un’analisi comparativa e un innovativo, per la
ricerca etnografica italiana, approccio interdisciplinare[iv] che unirono le
culture euromediterranee attraverso il filo rosso di sopravvivenze arcaiche,
come il lamento funebre rumeno, il bocet, evocato attraverso la descrizione dei
funerali di Lazzaro Boia, pastore di Ceriscior, morto a 50 anni nell’ospedale di
Ghelar. riportato a Ceriscior, il corpo fu vestito a festa e ricoperto di lino
in una bara di legno nero. tre candele di cera ardono al capezzale, altre tre
tra le mani del morto. come nella maggior parte dei rituali funebri riportati da
De Martino, sono le donne che intonano la litania del lutto. in questo caso
ognuna canta il proprio scomparso, ognuna rievoca il proprio lutto, in una
lamentazione collettiva che è anche consolazione reciproca per i lutti
passati. una donna canta il dolore per un figlio morto in terra straniera,
“senza i riti della sua gente, e perciò vagante nel mondo al pari di una larva
inquieta”: “…Se incontrerai Giorgio, Nicola mio,/ o caro, e se lo vedrai/ triste
e afflitto,/ è perché se ne andò senza i riti.” (Ibidem, 160). e al mondo
agreste si rifanno i pianti di Clitennestra e di Dario nell’Agamennone e
nei Persiani di Eschilo: “Fin troppa ne abbiamo mietuta di messe del dolore”,
“L’ΰβρις giunta alla fioritura, ha dato come frutto la spiga della colpa e della
punizione, donde ne venne messe infinita di pianti” (Ibidem, 242-243). il pianto
umano come specchio del pianto divino, di cui De Martino vede l’apice
nelle Lamentazioni di Iside e di Nephtys. così recita Iside: “Fin tanto che
posso vederti, ti chiamo piangendo, anche nelle altezze del cielo, ma tu non
senti la mia voce, sebbene io sia tua sorella che tu amasti sulla terra e
sebbene tu non amasti che me, o fratello, o fratello” (Ibidem, 279).
il filo rosso tra passato remoto e presente si materializza nell’ “Atlante
figurato del pianto”, ultima sezione di quello che è considerata forse l’opera
più compiuta della ricerca demartiniana, Morte e pianto rituale. Dal lamento
funebre antico al pianto di Maria (1958). qui, il materiale fotografico raccolto
in Lucania e in Sardegna viene comparato alla mimica gestuale della lamentazione
antica cristiana, greca ed egizia, come, ad esempio, le braccia piegate ad
angolo, considerate da De Martino un paradigma della lamentatiofunebre, o il
“kopetòs”: “le braccia sollevate in alto del modello precedente si abbattono
sulla testa e sono spinte verso il viso, con tendenza a iterare indefinitamente
l’atto e a dargli un ritmo di esecuzione collettiva” (Ibidem, 653)[v]. questo
passaggio dal dolore individuale a quello collettivo è una condizione costante
dell’opera demartiniana e della sua visione dell’apocalissi, che nel suo
andamento concentrico, dall’individuo, alla società contadina del Sud Italia, ai
popoli colonizzati[vi], sembra riprendere le parole di Gesù: “In verità vi dico:
ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei più piccoli di questi miei
fratelli, l’avete fatto a me… In verità vi dico: tutto quello che non avete
fatto a uno di questi piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt, 25, 40; 45). il
male, come il bene, ha un effetto domino che dal singolo si dilata alla
comunità, al cosmo, per questo ogni individuo, ogni gesto, è portatore di un
destino condiviso. De Martino, laico in dolore. bellissime, le sue parole, tutte
le sue parole a Vittoria De Palma:
> Ma non credere che io faccia propaganda di ateismo, e che con leggerezza
> voglia distruggere ciò che nella società presente con le sue ingiustizie e i
> suoi dolori è inevitabile, cioè la consolazione, della preghiera fatta al
> padre, e anche io, in dati momenti, come figlio di questa società, come figlio
> del dolore e dell’oppressione dico a dio la mia preghiera”.
>
> (De Martino 2004, 27)
la terza apocalissi della sua vita De Martino la visse durante la Resistenza,
cui partecipò attivamente da intellettuale[vii] anche redigendo, nel novembre
1944, dopo che le forze alleate erano entrate in Romagna, il Proclama della
Liberazione, all’epoca temporaneamente nascosto dal socialista Alvaro
Badiali[viii] nel granaio di Palazzo Maltoni, a Cotignola (Ravenna). nel
dicembre dello stesso anno De Martino soggiornò a Palazzo Annaratone, nella
frazione di Masiera (Bagnacavallo), a ridosso del fiume Serio, che per quattro
mesi divenne il fronte di guerra tra da una parte i Tedeschi e i repubblichini
fascisti e dall’altra le forze alleate. il racconto “I Trenta di Masiera”
rappresenta l’unico testo autobiografico pubblicato disponibile ad oggi di De
Martino, in cui parlando in terza persona quest’ultimo prende le spoglie di un
ingegnere meridionale stanco e pavido senza nome, “lo sfollato”, che insieme a
un gruppo di otto famiglie di classi sociali diverse è costretto a lasciare
Masiera, presso Fusignano, per andare a rifugiarsi in una villa vicina, in
attesa della liberazione. l’ingegnere “porta panni non suoi, laceri e unti, le
scarpe fanno acqua, e se ne sta avvolto in una capparella nera romagnola, dono
di un contadino di Masiera”. rimane in disparte, pensando alla famiglia lasciata
a Solarolo. proverà a incamminarsi su quei 28 Km che lo dividono dalla moglie e
dalle due bambine ma l’artiglieria lo farà tornare indietro. “il capitano
Adler”, delle forze alleate, dice loro che l’indomani all’alba dovranno
incamminarsi per 3 km verso Bagnacavallo con una bandiera bianca. ognuno
dispera, si insinua il dubbio che si tratti di un tranello. all’alba c’è
concitazione; nel mentre delle informazioni che si contraddicono una con
l’altra, entra un soldato tedesco, “lacero, infangato, senza elmetto, con la
barba lunga di giorni”. come non pensare al Ferito in fuga di Otto Dix, gli
occhi spalancati e ritorti, la benda sulla testa che non riesce a trattenere il
sangue che cola dalla fronte, la mano con una ferita come stimmate. dice
all’ingegnere che quello è il sesto Natale di guerra per lui. viene da una
cittadina della Bassa Sassonia. quando l’ingegnere gli chiede se ha una famiglia
risponde “Non so”, e poi si mette a ridere. De Martino dice che rideva come se
trovasse la domanda spiritosa. forse rideva dalla disperazione. morirà poco dopo
in un fosso, “l’oscuro fante”, accanto all’ingegnere, sporco del suo sangue[ix].
non ci sono più né nemici né alleati, né nobili né contadini ma una sola umanità
sofferente.
nei frangenti della Resistenza De Martino unisce la fragilità delle sue
condizioni di salute allo sperdimento della guerra, iniziando a forgiare nel
buio dell’anima quel concetto di “perdita della presenza” che caratterizzerà
tutta la sua riflessione scientifica, da Il mondo magico (1948)[x] a La fine del
mondo (1977). la “presenza” è presenza al mondo, alle ancore di riferimento
culturali della propria società: quello che fa rimanere in equilibrio, sebbene
precario. e la magia, “restauratrice di orizzonti in crisi” (De Martino 2022,
125) serve a riempire le voragini del crollo della presenza e la caduta
dell’individuo nel caos, la perdita della propria anima e di conseguenza del
proprio mondo, soprattutto in quei contesti dove gli àuguri si accaniscono
contro i più esposti, i contadini italiani e i popoli non industrializzati di
ogni parte del mondo. a domare i venti del fato contrario è lo sciamano, il
mago, “Cristo magico” “colui che sa andare oltre di sé, non già in senso ideale
ma proprio in senso esistenziale” (Ibidem, 99) per riscattare tutta la comunità
e portare “salvezza”. “Solo coloro che, nel loro dramma esistenziale, sono
diventati i signori del limite, gli esploratori dell’oltre, gli eroi della
presenza” (Ibidem, 105). il dramma magico esistenziale, scrive De Martino, si
dilata se ci riferiamo “a un grande tema culturale del magismo: la fattura o
malia”. prendendo l’esempio degli Arunta (Australia centrale), De Martino
descrive come il solo fatto di ritenersi affatturati dall’“apparecchio magico”
dell’arungquilta, o in caso di violazione di un tabù, può diventare causa di
morte laddove ci sia tale convinzione. da storico delle religioni, oltre che
antropologo, De Martino considera dramma nel dramma l’incapacità delle culture
occidentali industrializzate di capire la “funzione storica” della fattura e
della controfattura, che permette di cogliere il quadro esistenziale in cui
queste ultime si producono. negando la dimensione storica di questi fenomeni in
quanto eventi culturali si nega, tout court, la presenza storica degli individui
che ci credono e che in essi vivono. [xi]
è da ricordare che Il mondo magico viene pubblicato nel 1948, l’anno precedente
il primo soggiorno di De Martino in Lucania, a Tricarico, “l’immagine del caos”
(De Martino 2013, 121)[xii], e un anno dopo le Lettere dal carcere di Gramsci.
da quei primi soggiorni nel “Meridione” nascono le Note Lucane, pubblicate per
la prima volta nel 1950[xiii]. esse rappresentano il primo manifesto di pensiero
politico di De Martino applicato a una ricerca di campo etnografica nel Sud
Italia, e uno dei suoi documenti più vibranti. vengono da un humus storico e
politico che aveva già attirato l’attenzione su quelli che allora erano i servi
della gleba della nazione, i contadini del “Meridione”, rovina tra le rovine
della guerra. nel 1945 Carlo Levi aveva pubblicato Cristo si è fermato ad Eboli,
libro di testimonianza scaturito dal suo confino negli anni ‘30 per attività
antifasciste prima a Grassano, poi ad Aliano, in Basilicata. in quello stesso
anno Rossellini gira Roma città aperta; si inaugura la stagione neorealista ma
qui il regista, come lo scrittore, è una figura molto presente: le inquadrature
mostrano la sua mano, il suo angolo di lettura del mondo mentre nel
libro-testimone di Levi l’autore resta in disparte per far rimbombare l’umanità
dolente delle popolazioni lucane. De Martino, pur stimando Levi, non condividerà
la visione dei contadini lucani presi in un destino immobile; al contrario dirà
che proprio in quei sistemi di rappresentazione così lontani dal panorama
identitario della borghesia cittadina, tra cui il ricorso alla magia, sta la
dignità culturale, e quindi storica perché situata, delle popolazioni contadine.
in questo senso, De Martino si distacca dagli studi sul “folklore” che avevano
caratterizzato la demologia italiana fino ai primi decenni del ’900 per
costruire, anche a seguito dell’influenza gramsciana, una teoria sul confronto
tra classi egemoni e classi subalterne, che aprirà la strada al volume
dell’antropologo Alberto Maria Cirese Cultura egemonica e culture
subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale (1971)[xiv].
De Martino, che per primo si batte per rimanere presente alla sua storia, si
riconosce nello specchio delle lotte per rimanere al mondo dei contadini lucani,
siciliani, calabresi, la cui dignità di coscienza è insita proprio in quegli
oggetti di uso e di culto quotidiani ritenuti retrogradi e selvaggi dalle classi
politiche di un Paese che si apprestava ad entrare nel boom economico del
decennio successivo. nel 1948 Palmiro Togliatti andò a Matera per verificare le
condizioni di vita descritte da Levi, dichiarando le condizioni in cui vertevano
gli abitanti dei Sassi “vergogna nazionale”[xv]. tuttavia Togliatti si dimostrò
freddo rispetto alle ricerche di De Martino e al fatto che quest’ultimo
considerasse anche i contadini lucani protagonisti della storia in un momento in
cui il governo italiano era orientato verso l’industrializzazione del Paese e il
PCI guardava più al mondo operaio cittadino che ai contadini del “Meridione”, i
più poveri tra i poveri[xvi]. De Martino spiega il lamento lucano come parte di
un regime esistenziale, un sistema di rappresentazione del mondo imbevuto delle
tremende condizioni di vita dei contadini.
La Lucania, scrive De Martino, è caratterizzata da un’economia rurale
“relativamente arretrata”: i campi, caratterizzati da una grande
parcellizzazione della proprietà, distano decine di chilometri dai borghi di
residenza, i terreni sono avari, le frane frequenti. a livello famigliare vige
un profondo regime di dipendenza: gli uomini dipendono dai loro padroni, le
mogli dai mariti, l’anziana madre dai suoi figli, gli orfani restano in balίa di
chi li prende in carico. questo causa una grande “indeterminazione sociale”,
accentuata dall’enorme fatica delle attività agricole e dalle “lunghe
segregazioni” richieste dalla pastorizia, e porta a uno stato di “miseria
psicologica”. questa precarietà appare in tutto il suo fragore nel documentario
di Luigi Di Gianni Magia lucana (1958) di cui Ernesto De Martino fu consulente
scientifico. il paesaggio, simile a una cava di marmo, è scandito solo dagli
zoccoli dell’asino e dai passi dei contadini; i campi sono lontani dal paese,
ogni giorno è un viaggio per la vita in uno spazio ostile e muto, al tempo
stesso spazio vitale. e al paese si attende il ritorno “senza emozione”, quasi
che si sia incorporata già la possibilità di un lutto:
> E se non tornano? Se l’uomo cade colpito dalla natura muore con lui l’unica
> ricchezza, quella del suo vigore… Gioacchino mio, bene della tua donna, che
> morte improvvisa, bene della tua donna. Oh, le mani pregiate che avevi, quanta
> fatica hai fatto con queste mani, bene della tua donna. Mi debbo rimboccare la
> gonna e devo uscire fuori casa per lavorare alla giornata, bene della tua
> donna, e debbo scendere e salire le rampe del paese per guadagnare un pezzo di
> pane per i figli tuoi. Debbo mettermi la zappa sulle spalle per guadagnare una
> giornatella per i figli tuoi, bene della tua donna.
>
> Dove sarà il fidanzato lontano? Dimmelo Santa Monica, dimmelo, angelo della
> Notte.
in questo contesto, “la morte di una persona di famiglia risolleva di colpo,
nella sua imponente carica emozionale, tutto l’arco di una vicenda esistenziale
deficitaria”. le lacrime di una persona sono le lacrime di tutti, e non si
piange per una sola ragione ma per tutte le ragioni in un pianto solo. in questo
senso il lamento, ma anche l’ascesso erotico, la bulimia, l’autolesionismo,
rispondono a questo panorama esistenziale. in particolare, il lamento funebre
come “istituto culturale” serve a non scivolare nella “scarica incontrollata di
impulsi o in una sorta di stupore immemore della situazione luttuosa” (De
Martino 2013, 157), un ricorso questo in cui anche l’autolesionismo, come ad
esempio lo strapparsi i capelli o battersi il capo, viene ritualizzato con il
supporto di moduli recitativi ridondanti attraverso il lamento funebre.
nelle Note Lucane De Martino identifica un relativo riscatto dei contadini
lucani della Rabata di Tricarico attraverso forme di resistenza alle autorità e
ai politici locali che instillano un “fermento di civiltà e storia che
restituisce al tempo prospettiva e contenuto umani”. è emblematico il caso del
berretto del maresciallo Gallo, strappatogli durante l’occupazione della caserma
dei Carabinieri dai paesani di Tricarico e passato di mano in mano sino a finire
nell’orinatoio del paese, in un burrone e poi sotto le radici di un melo. sotto
la pressione popolare il maresciallo Gallo fu allontanato dal paese e questo
rappresentò per De Martino un momento di riappropriazione della storia da parte
dei Rabatani.
> Essi vogliono che quel loro cercarsi in questo mondo di tenebre tendendosi le
> mani e chiamandosi ‘frate, frate’ si costituisca in immagine altrettanto
> storica come gli affreschi della cappella Sistina o la cupola di Michelangelo.
> Ma essi vogliono anche che giunga al mondo l’eco dei loro sforzi per
> emanciparsi, e dal fondo delle loro spelonche, deformi nei corpi logorati
> dall’umido, essi gettano sul viso di coloro che iniquamente li tengono in
> catene il verso di sfida: ‘Nuie simme a’ mamma d’a’ bellezza’, noi siamo la
> giovinezza del mondo.
>
> (Ibidem, 132-133)
De Martino sente senso di colpa e collera per le condizioni dei Rabatani, “una
collera tutta storica perché storica è la mia colpa come anche la colpa del
gruppo sociale al quale appartengo” (Ibidem, 140). da borghese intellettuale,
vede la sua libertà come il sacrificio delle popolazioni lucane, un
compiacimento per “civettare con la ‘dignità della persona umana’ al modo che la
intendono coloro che ‘fanno gli intelligenti’”[xvii]. “Rendo grazie al quartiere
rabatano e ai suoi uomini per avermi aiutato a capire meglio me stesso e il mio
compito” (Idem).
è in questo solco che quasi dieci anni dopo Ernesto De Martino prepara la sua
missione di ricerca nel Salento sul tarantismo, anche qui per dimostrare che la
‘follia’ e la sua canalizzazione terapeutica non sono peculiari a popolazioni
ignoranti e incoscienti ma sono il grido di dolore di cuori castrati, della
“noia” della solitudine e dell’amore. colui che ama, sa. ne La Terra del
rimorso, egli incontra di nuovo un’umanità di sangue e carne che guarda al cielo
per scorgere i messaggi di fortuna e sfortuna dell’acre giornata, alla terra per
piangere i suoi morti. rispetto a questa condizione, scrive De Martino, il
tarantismo assicurava qualche giorno da eroi, l’attesa “dell’epoca del sogno”:
> ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva
> abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della
> propria oscura esistenza. Al verde paradiso si contrapponeva un paradiso in
> rosso, un agonismo che si sforzava di mimare pose eroiche, il sognare di
> essere un grande della terra, un atleta, un abile, un capitano, un tribuno, un
> artista a corte, un Re dei Re.
>
> (De Martino 2023, 175)
c’è un’immagine, quasi un’immagine spiritica, evanescente, tra quelle presenti
ne La terra del rimorso, quella di una tarantata, Rosaria di Nardò, che, di
schiena, picchia con i pugni chiusi la porta che cela la statua di San Paolo,
patrono delle tarantate e dei tarantati. siamo a Galatina, alla festa annuale
dei SS. Pietro e Paolo. che differenza con quella sequenza de La taranta di Gian
Franco Mingozzi (1962), quando la tarantata Lea batte sul vetro del ritratto di
San Paolo, tenuto da un bambino. lì lei è a casa sua, regina. il viso è teso,
nodoso come un tronco d’olivo. è in collera con San Paolo, che non si decide
ancora a darle la grazia per far cessare la sua danza; è in collera com’è in
collera un’amante verso l’amato, con la rabbia dell’amore degli esseri umani.
intorno ha i musicanti che la accompagnano, la seguono e la “scazzicano”
formando un corpo solo con lei e allo stesso tempo un dialogo armonico[xviii].
San Paolo non concede la grazia, e Lea continua a danzare rabbiosa. è vita, lei,
secondo un codice che tutti conoscono. invece a Galatina i rituali domestici che
rendevano la tarantata protagonista della sua possessione sbiadiscono davanti a
una folla che sembra non fare altro che aumentare la solitudine del morso
d’assenza. non si può non notare anche la differenza di genere. una foto ritrae
un tarantato a terra all’interno della cappella di San Paolo. si chiama Donato
di Matino; ha gli occhi chiusi, le braccia e la bocca aperte. vicino a lui
quattro donne sono chine; stanno sistemando un cuscino sotto la testa di una
tarantata. attorno, un gruppo di persone guarda senza guardare, quasi a disagio.
altre due foto ritraggono la piazza antistante la chiesa dei SS. Pietro e Paolo.
la folla si accalca attorno a due tarantate; una è sdraiata a terra, l’altra,
nella seconda foto, è carponi. nelle due immagini sono presenti soprattutto
uomini. la donna che era carponi si alza e intima alla folla di dividersi in due
ali, lei al centro. sembra dare un ordine ma in realtà è schiacciata
dall’indifferenza, dalla non-partecipazione di chi le si accalca intorno. tra
quelle persone, oltre ai famigliari, c’è anche una massa di curiosi attratti da
una morbosità improferibile. il corpo unico del rituale domestico non c’è più,
c’è solo il corpo randomico della tarantata, urla sole senza rito. e non c’è più
la lotta d’amore con San Paolo, cancellata dalla sfilata della statua del
patrono con la banda del paese: suoni omogeneizzati in onore dei Santi patroni,
la modernità. fedeli anonimi, non amanti che si chiamano per nome.
“un sistema di inerzie, di intolleranze, di contraddizioni inavvertite, di
incompatibilità sopportate: ma in questo caos cui si dà il nome romantico di
‘folklore’” (Ibidem, 393)[xix]. queste parole, che chiudono La Terra del
rimorso, De Martino le scrive insieme a Vittoria De Palma. sul campo, Vittoria
prepara l’incontro, con il suo sorriso solare smussa la diffidenza, soprattutto
nell’approccio dell’équipe con le donne, quelle contadine che in un piccolo
paese videro per la prima volta le proprie fattezze attraverso le foto mostrate
da Vittoria, scattate durante un soggiorno precedente, credendo alle compaesane
presenti che dicevano che in effetti erano proprio loro. una ricerca di campo,
le antropologhe e gli antropologi lo sanno bene, è un travaglio di compromesso,
soprattutto con la propria coscienza. un continuo pericolo di oggettivazione
delle persone, i momenti in cui l’ambizione di raccogliere “dati” prevalica
sulla percezione che si è realmente davanti a esseri umani che hanno priorità
profondamente diverse dalle nostre. l’esperienza di campo è una continua
decentratura, un continuo riconoscimento dei propri limiti, un continuo rammendo
di poli a volte inconciliabili. anche De Martino si è trovato davanti a questo
compromesso. alcuni suoi metodi per ottenere le informazioni possono sollevare
interrogativi, come nel caso della giovane Rosa di Ferrandina, “l’immagine di un
torbido ingorgo di potente sensualità” (De Martino 1953, 75). De Martino voleva
registrare il pianto di Rosa per un lamento funebre ma la ragazza era restìa.
trovarono un compromesso. la ragazza proferì il suo lamento da uno sgabuzzino
dando a Vittoria la mano per allontanare il malaugurio di intonare il lamento
fuori dal rituale, e all’esterno il tecnico della RAI registrò la voce di Rosa
facendo passare il microfono attraverso l’angusta fessura della porta socchiusa.
in molti casi De Martino chiese espressamente alle persone di riprodurre canti e
gesti rituali funebri, come accadde a Pisticci. nelle Note lucane e nell’ultima
appendice de La Terra del rimorso si evince che De Martino era consapevole di
questi scarti dell’incontro, che riconobbe con anima intera, quella con cui
abbracciò tutti gli eventi della sua vita.
è difficile parlare di un essere umano smisurato. è difficile parlare di Ernesto
De Martino. cerco un appiglio nella vastità della sua opera, della sua persona,
di cui probabilmente ancora non ci si rende esattamente conto, per concludere
questo brevissimo omaggio. in un’intervista di molti anni fa chiesero a Norberto
Bobbio cosa considerasse la cosa più importante, arrivato alla sua età; credo
che all’epoca avesse circa 90 anni. durante la vita, disse, si considerano
prioritari il proprio lavoro, i propri testi; poi, arrivati in fondo, l’unica
cosa preziosa che resta è l’amore delle persone care. se devo pensare a una sola
cosa che resta di Ernesto De Martino dico l’amore. amore per quel creato che era
il teatro di apocalissi e catastrofi che egli restituì in una scrittura così
caparbiamente non-attuale, a tratti ostica. e così semplice quando parlava a
Vittoria nella lingua del sogno, nella loro lingua, nel loro sogno, alleggerita
di tutto tranne dell’essenziale:
> La mia anima è ormai un oceano in tempesta, e ogni ondata porta il tuo nome,
> il mio sguardo è ormai allucinato e l’unica immagine che esso vede è la tua.
> Il mio cuore batte solo le ore dei nostri incontri e i miei pensieri per te e
> anche il mondo che si tocca, il mondo delle cose, va gradatamente scomparendo
> al mio sguardo per lasciare posto ad un unico corpo reale, a un corpo che non
> è materia, che ha perso per me tutte le macchie del peccato, è un corpo che è
> puro, che è anima e che è solo la via per conoscere l’anima…
>
> (De Martino 2004, 30)
Cristiana Panella
**
Riferimenti bibliografici
Charuty, G. Les vies antérieures d’un anthropologue. Marseille: Éditions
Parenthèses, MMSH, 2009.
Dei, F. e A. Fanelli 2015. “Magia, ragione e storia: lo scandalo etnografico di
Ernesto de Martino”. Introduzione a E. De Martino, “Sud e magia”. Roma: Donzelli
[1959] 2015, IX-XLV.
De Martino, E. “Note di viaggio”, Nuovi Argomenti, 1 (2), 47-79, 1953.
De Martino, E. Vita di Gennaro Esposito napoletano. Appunti per una biografia di
Ernesto De Martino. Calimera: Kurumuny-edizioni, 2004.
De Martino, E. Furore Simbolo Valore. Milano: il Saggiatore [1962] 2013.
De Martino, E. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi
culturali. Torino: Einaudi [1977] 2019.
De Martino, E. Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di
Maria. Torino: Einaudi [1958] 2021.
De Martino, E. La Terra del rimorso. A cura di M. Massenzio. Torino: Einaudi
[1959] 2023.
Fanelli, A. 2019. “ ‘La verità sta di casa tra Palazzo Filomarino e il Sasso di
Matera’. Un carteggio tra Alberto Maria Cirese ed Ernesto de Martino”, Studi
Storici, 1, 5-44.
Faranda, L. Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia antica. Roma:
Edizioni Universitarie Romane [1992] 2022.
Panella, C. 2022. “L’incantevole vertigine dell’anima sbigottita. Magia,
etnografia e movimento nella taranta di Suzanne Doppelt”, Pangea, 25 Marzo 2022.
Quarta, L. “Apocalisse e storia. Fondazione trascendentale dell’umano”, ANUAC,
10 (2), 75-83, 2021.
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[i] Intervista di Luigi Chiriatti a Vittoria De Palma in De Martino 2004, 29.
[ii] Il sisma di magnitudo XI della scala Mercalli con il successivo maremoto
che uccise, tra le province di Messina e Reggio, circa 90.000 persone avvenne
all’alba del 28 dicembre 1908 ma le scosse erano iniziate dai primi di novembre
di quell’anno; pertanto è probabilmente agli eventi di fine novembre che il
ricordo della madre di De Martino si riferisce (Panella 2025, in pubblicazione).
Ringrazio Maria Grazia Insinga per avermi dato questa informazione temporale
sulla scosse del novembre/dicembre 1908.
[iii] La prima edizione de La fine del mondo è stata curata per Einaudi da
un’assistente di ricerca di De Martino, e successivamente fine antropologa,
Clara Gallini. Dopo l’edizione del 2002, quella del 2019, sempre per Einaudi, a
cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio, è stata in alcune
parti tradotta e redatta, con un’organizzazione più sistematica e accessibile
rispetto all’edizione a cura di Gallini, a partire dalla versione francese
pubblicata nel 2016 dall’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS),
curata da Charuty.
[iv] Le ricerche di campo vedranno la partecipazione di diverse competenze tra
cui Vittoria De Palma come assistente sociale e ponte con il mondo femminile, lo
psichiatra Giovanni Jervis, l’antropologa Amalia Signorelli, lo psicanalista
Emilio Servadio, l’etnomusicologo Diego Carpitella e il fotografo Franco Pinna.
[v] In Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia
antica l’antropologa Laura Faranda recupera la prospettiva di Morte e pianto
rituale per indicare il principio di “soglia” tra il polo della vita e quello
della morte, insito nel pianto rituale demartiniano, per sondare la valenza del
pianto anche nel polo di vita, tornando alla funzione sociale del pianto
teorizzata da Marcel Mauss, che vedeva l’obbligatorietà delle lacrime in un
assetto istituzionalizzato, come le formule di saluto o i rituali iniziatici,
poi riscontrate in successivi contesti etnografici (Faranda 2022). Allo stesso
tempo De Martino scrive che la pratica del kopetòs era combattuta dalla Chiesa
cristiana stessa, riportando diverse omelie e testimonianze già del primo
Cristianesimo, da San Paolo a Giovanni Crisostomo a Gregorio Nazanzieno, fino
alle punizioni contro le “donnette” che si danno ai “barbarici clamori” operate
nel ‘500 e nel ‘600, in cui si nobilita il dolore composto e si redarguisce il
lamento ostentato (De Martino 2013, 147-152). A questo proposito non si può non
pensare alla compostezza del dolore di Maria come leit-motiv di molte
rappresentazioni pittoriche.
[vi] Rispetto a Gramsci, De Martino estende la riflessione sul confronto tra
culture egemoni e culture subalterne ai Paesi extra-europei colonizzati dalle
potenze europee, anche avvicinandosi allo studio dei culti millenaristici. “In
tal modo si è venuta raccorciando la distanza che separava le forme culturali
subalterne interne alla civiltà occidentale e le culture indigene dell’epoca
coloniale: la differenza tra le une e le altre appare sempre più esser di misura
e non di qualità, e sempre meno appare giustificabile una distinzione rigorosa
dell’oggetto della etnologia da quello delle tradizioni popolari, poiché in
entrambi i casi stanno davanti a noi sincretismi interculturali, rapporti tra
livelli diversi di cultura, dinamiche messe in movimento da questi rapporti” (De
Martino 2019, 322).
[vii] Dal 1945 De Martino operò come segretario di federazione del Partito
socialista a Bari, Molfetta e Lecce; l’anno dopo si iscrive al Partito comunista
italiano, in cui viene ufficialmente ammesso nel 1953.
[viii] Alvaro Badiali fu attivo nella 28° Brigata Gordini Garibaldi a Cotignola
(Ravenna). Rappresentò il PSI nel CLN locale (fonte:
storiaememoriadibologna.it).
[ix] Il racconto “I Trenta di Masiera” è disponibile sul blog dell’antropologo
Riccardo Ciavolella “Alterpolitica” (hypotheses.org).
[x] Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo inaugurò la celebre
“Collana viola”, Collezione di studi etnologici, religiosi e psicologici di
Einaudi, creata da De Martino stesso e Cesare Pavese, importante contributo per
l’apertura della cultura italiana a temi e lavori internazionali di
antropologia, sociologia e psicanalisi. Nella stessa Collana furono pubblicati,
tra altri, Jung, Lévi-Bruhl, Kérény, Propp, Malinowski, Frobenius, Frazer,
Durkheim, Eliade.
[xi] Il confronto tra Ernesto De Martino e i suoi maestri, Adolfo Omodeo e
Benedetto Croce, fu travagliato e non privo di ambiguità rispetto a quelle
posizioni etnocentriche da cui il primo voleva distaccarsi. Semplificando
estremamente potremmo dire che De Martino, per una parte della sua ricerca, si
distingue dal pensiero di Croce nella misura in cui quest’ultimo considera la
magia una superstizione fuori dalla storia, ossia dal libero arbitrio e dalle
scelte individuali che fanno la storia, e la follia come un spazio senza storia
né prospettiva storica. Per un’analisi sfumata delle posizioni di Croce e De
Martino si veda Dei e Fanelli 2015.
[xii] Tra il 1949 e il 1950, Ernesto De Martino effettua tre soggiorni à
Tricarico, ospite, insieme a Vittoria De Palma, del sindaco e poeta Rocco
Scotellaro. Ci tornerà nel giugno 1952 per una missione di preparazione del
soggiorno di ricerca dell’autunno dello stesso anno, insieme, oltre che a
Vittoria De Palma, a Benedetto Benedetti e Arturo Zavattini.
[xiii] Prima pubblicazione: De Martino 1950. “Note Lucane”, Società, VI (4),
650-667. La rivista Società era stata creata nel 1945 dall’archeologo Ranuccio
Bianchi Bandinelli e dal filosofo Cesare Luporini come voce del PCI. Nel 1953
verrà avviata da Alberto Moravia e Alberto Carocci la rivista Nuovi Argomenti,
che nel primo numero accoglierà diversi testi di Francesca Armento, madre di
Rocco Scotellaro. Queste iniziative editoriali daranno un forte impulso al
dibattito sul folklore che, nutrito dall’opera di Gramsci e dalla pubblicazione
di Cristo si è fermato ad Eboli, non avrà pari in Europa in quel periodo
(Charuty 2009, 22).
[xiv] Sul carteggio tra Ernesto De Martino e Alberto Cirese, si veda Fanelli
2019.
[xv] I Sassi vennero sgomberati su iniziativa di Alcide De Gasperi con la legge
619 del 17 maggio 1952.
[xvi] Tra gli anni ’50 e ’60 per la prima volta in Italia il numero degli
operai superò quello degli agricoltori.
[xvii] Qui De Martino riprende una famosa rima rabatana contro gli
intellettuali, identificati soprattutto con i politici e il clero: “Voi che fate
l’intelligente/non capite proprio niente./Se nun fusse pe’ li cafoni/ve
mangiassive li cuglioni”.
[xviii] Per la sintesi di alcuni elementi che caratterizzano il tarantismo
“agito” analizzato da De Martino, si veda Panella 2022.
[xix] Il passo è tratto dall’appendice V, l’ultimo contributo del volume.
L'articolo “La mia anima è ormai un oceano in tempesta”. In ricordo di Ernesto
De Martino proviene da Pangea.
Augusto Del Noce, fu tra i più notevoli e “inattuali” interpreti tanto del XX
secolo, quanto di quella tradizione filosofica italiana che nasce sotto gli
auspici e la lezione di Giambattista Vico. Un pensatore cristiano (anche se tale
categoria è estremamente riduttiva) che oltre le facili categorie
gramsciazioniste, storiciste e reazionarie dell’epoca cercò una via alternativa
(ispirata alla tradizione filosofica italiana e cristiana) per pensare il
Novecento e l’Italia. Delineando una filosofia che decodifica i veri nodi della
modernità e profetizza con lucida contezza i tanti sviluppi e le tante derive
del panorama politico e culturale italiano ed europeo. In questo senso la
lettura di Augusto del Noce si prefigura come una tappa obbligata, per laici e
cristiani, razionalisti e irrazionalisti, e lettori delle più varie famiglie
culturali e politiche, per confrontarsi con le vertigini della modernità e i
nodi del pensiero e della politica contemporanea. Per tale ragione non può non
essere letto il nuovo saggio sul pensatore torinese scritto da Luciano
Lanna (attualmente direttore del Centro per il libro e la lettura del Ministero
della cultura): Attraversare la modernità. Il pensiero inattuale di Augusto Del
Noce, edito da Cantagalli con una densa prefazione di Giacomo Marramao e un
inedito testo delnociano del 1961. Lanna, studioso irregolare, lettore
infaticabile ancor prima che giornalista (professione che ha svolto per tanti
anni), ha dedicato al pensiero e alla cultura la sua nutrita attività
saggistica. Dottore di ricerca in scienze filosofiche e sociali, si è sempre
interessato del pensiero del Novecento e delle ricadute del movimento delle idee
sul piano politico. Per meglio comprendere le idee e il pensiero delnociano
abbiamo, quindi, intervistato il direttore Luciano Lanna.
Quali sono i tratti caratteristici della figura e del pensiero di Augusto del
Noce e quanto è attuale la riflessione delnociana?
La riflessione del filosofo torinese si colloca per intero all’interno di quello
che Hobsbawm definì il “secolo breve”, non fosse per il fatto che Del Noce
nacque nel 1910 e ha lasciato questa vita alla fine del 1989. Dico questo per
spiegare come il suo pensiero si è subito modulato come una interpretazione
filosofica del presente storico. Per Del Noce una filosofia che non fornisca
risposte agli interrogativi che il proprio tempo presenta si annulla di valore.
E anche per questa attitudine, per la sua natura di filosofare attraverso la
storia, definisce una inevitabile valenza di attualità. Rileggendo bene alcune
profezie delnociane successive al 1963 si rilevano molti dei tratti
caratteristici del nostro presente, soprattutto quelli più inquietanti. Tanto
che paradossalmente, nel sottotitolo del mio libro, parlo di “pensiero
inattuale”.
Ovvero?
Proprio nel senso di una capacità di saper guardare oltre i limiti del
presentismo anticipando scenari a venire.
Perché la filosofia di Del Noce è metapolitica?
Perché, sin dall’inizio, si prospetta come una filosofia in presa diretta con il
presente storico e con la storicità in generale. È uno stile filosofico che
conduce inevitabilmente a un percorso metapolitico in cui la riflessione
teoretica si contamina con la storia e con gli eventi politici e il pensatore
esce consapevolmente dall’accademia per confrontarsi con tutte le forze in campo
nel processo storico in cui si è coinvolti. Ogni autentica battaglia politica è
anche, per Del Noce, una battaglia filosofico-culturale, e dietro ogni vero
dibattito politico non può non soggiacere, e quindi essere elaborata, una
interpretazione della storia contemporanea che tenga uniti principi filosofici e
lettura del processo storico. Sarà un pensatore postmarxista come Costanzo Preve
a attestare la lungimiranza di questa attitudine delnociana spiegando che
> “quando il momento politico propriamente detto appare bloccato è
> indispensabile una deviazione verso un momento metapolitico, perché solo
> all’interno di una conversione metapolitica preliminare può avvenire una
> rinascita su nuove basi del momento politico propriamente detto”.
Come si colloca Augusto del Noce nel Novecento italiano ed europeo?
Si colloca nel cuore di quel dramma ed esperimento filosofico-politico che è
stato il Novecento, sia italiano sia europeo. Per quanto riguarda in particolare
il nostro paese, Del Noce era infatti convinto della centralità e della
paradigmaticità della esperienza italiana sulla interpretazione transpolitica
dell’intera storia contemporanea. E questo, va precisato, non arbitrariamente o
per partito preso, ma anzi con argomentazioni fortemente stringenti e motivate.
Quando parliamo di esperienza italiana ci si riferisce alle specificità politica
e culturale dell’Italia quale campo sperimentale dell’intelligenza politica e
filosofica nell’approccio alla modernità. Per dirla tutta: Del Noce coglie nella
via italiana alla modernità una serie di percorsi – da Vico alla filosofia del
Risorgimento, passando per Dante, Gramsci e Gentile – in grado a suo dire di
comprendere il Moderno in tutte le sue sfaccettature. Di individuarne gli
scacchi e gli esiti nichilistici ma, anche, di prospettarne uno sbocco diverso.
Quello di una modernità con l’anima e aperta alla trascendenza. Stabilito che
Gentile con l’attualismo perveniva allo stesso esito immanentistico di
Heidegger, solo rovesciandone il pessimismo nichilismo in un futurismo
ottimistico, Del Noce affronta – sino al suo ultimo libro, uscito postumo – la
riflessione gentiliana che, a suo dire, obbligava a un ripensamento dell’intera
storia della filosofia moderna. Al punto che “per affrontare la questione della
modernità, l’attualismo è davvero un documento decisivo”. Ecco, l’opera
principale di Del Noce, Il problema dell’ateismo, va intesa in questo senso come
uno dei testi chiave, al pari delle opere di Heidegger o di Löwith, della
riflessione novecentesca europea.
Come si pone Del Noce rispetto al tema della “organizzazione della cultura” e
nello specifico dell’egemonia culturale?
E qua arriviamo a Gramsci, che fu il teorico della cosiddetta organizzazione
della cultura e del concetto di egemonia culturale. Autore al quale Del Noce
dedica un suo importante lavoro del 1978, Il suicidio della rivoluzione. Ma sul
tema Del Noce fu chiaro come pochi. Il pensiero dello studioso sardo conobbe,
dopo varie alternanze, un periodo di successo in Italia nel periodo che va dalla
seconda metà del ’74 all’autunno del ’76. La sua riscoperta si imponeva
nell’ambito marxista dopo il declino di Lukàcs e il fallimento della scuola di
Francoforte. Quando tutto sembrava mettere in luce come la via gramsciana fosse
l’unica attraverso cui il marxismo e l’eurocomunismo potessero affermarsi in
Occidente. È una riscoperta che condusse a una nuova contrapposizione
nell’Italia degli anni Settanta: non più quella classista tra capitalismo e
proletariato ma tra un “risorgente fascismo” e un “rinnovato antifascismo”,
tanto da trasformare il fascismo in una categoria – come sottolineava Del Noce –
“metastorica”. Il risultato è stata una ricomprensione italiana del marxismo
attraverso una sua declinazione storicistica e illuministica che coincide con il
compromesso con la borghesia in funzione antifascista. Scompare del tutta
l’anima rivoluzionaria, messianica e soprattutto antiborghese del comunismo e si
finisce in una declinazione, per così dire, laica, democratica e antifascista. È
l’eurocomunismo. Per cui il gramscismo, secondo Del Noce, conduce dritto dritto
al “suicidio della rivoluzione”, alla sua eutanasia, al suo cedimento alle
logiche della società borghese e tecnocratica. La via nuova al socialismo,
conclude il filosofo torinese, diventa transizione dal vecchio al nuovo
capitalismo. Altro è il discorso delnociano sulla formulazione di una via
metapolitica verso una egemonia diversa da quella neomarxista, illuminista o
azionista. Tanto che tutto il suo impegno si mosse in questa direzione, a
cominciare dal suo supporto decisivo a case editrici come Borla o Rusconi,
guidate dal suo allievo Alfredo Cattabiani. Sino al suo collaborare con le
riviste cielline come “Il Sabato” e “30Giorni”… Nel mio libro parlo esplicitante
di “via editoriale alla metapolitica”.
Che tipo di interpretazione dà il filosofo del Sessantotto?
Non banale né scontata. Come egli stesso spiegherà in Appunti per una filosofia
dei giovani, la contestazione se interpretata nel suo significato etimologico,
era una messa alla prova della cultura immanentistica moderna. Se, nonostante il
suo esaurirsi, l’immanentismo rimaneva attivo come mentalità dominante negli
anni Sessanta, il cristianesimo e le culture sapienziali sopravvivevano solo
come perbenismo borghese e come ricordo di un mondo consegnato al passato. Ed è
proprio a questo compromesso di facciata che il ’68, secondo Del Noce, pose le
domande necessarie e radicali da parte di giovani generazioni insoddisfatte dal
compromesso. Poi, Del Noce, che troverà sintonia con la scuola di Francoforte e
gli autori del primo ’68, contesterà la successiva deriva gramsciana e
barricadera che il movimento intraprenderà. Così come Del Noce contesterà gli
accenti surrealisti espressi da alcuni leader sessantottini. Mentre, in
positivo, si ritroverà con la declinazione che della contestazione daranno don
Giussani e i suoi amici.
Quale continuità c’è tra Del Noce e la migliore traduzione filosofica italiana
(da Vico a Machiavelli, da Gioberti a Gentile)?
Del Noce, ricordiamolo, è un filosofo cattolico che non si forma nell’alveo del
tomismo o dell’università cattolica. Ha sempre avuto fede ma il suo percorso si
delinea nell’ambito della cultura laica, di cui tenta di evidenziare le
contraddizioni, le aporie, gli scacchi. Studia nello stesso liceo di Leone
Ginzburg, Norberto Bobbio e Cesare Pavese. All’università studia con pensatori
laici. Ma individua da subito una via alternativa rispetto al filone Bruno,
Spaventa, Croce, Gobetti, Gramsci… In lui il filo è quello che parte da Vico, si
innesta nel pensiero cattolico del Risorgimento, incrocia pensatori irregolari
come Tilgher, Rensi, Martinetti… E si precisa nell’incontro col suo maestro
Carlo Mazzantini.
Cosa intende per approccio ucronico alla dimensione storica e come mai tale
paradigma è la chiave del pensiero delnociano?
La storia, per Del Noce, non è come per tutti gli immanentisti, siano essi
illuministi, idealisti, storicisti, marxisti o positivisti, un percorso lineare
e deterministicamente inteso. La storia è aperta. Del Noce riprende un concetto
coniato da Charles Renouvier, secondo il quale la storia non va vista come una
freccia ma come un albero con tante ramificazioni possibili e dalle quali è
sempre possibili ripartire. La modernità non è a una sola dimensione. Nessun
determinismo potrà mai ingabbiare la storia. Ecco perché Del Noce è fuori del
binomio tradizionalismo/progressismo. E la sua fiducia nella storia come
continua e aperta esegesi è attestato da alcune parole del suo ultimo scritto:
> “Ora che è in via di esaurimento, il ciclo rivoluzionario si svela non un
> processo irreversibile, come avevano ritenuto sia i progressisti che i
> tradizionalisti, ma un processo storico reversibile, contro cui è dunque
> possibile combattere”.
Del Noce negli anni della sua formazione scopre l’ucronia tramite Adriano
Tilgher, un pensatore che mutuando il concetto da Renouvier lo utilizzò contro
lo storicismo crociano. E in qualche modo, anche attraverso la meditazione del
maestro di Renouvier (Jules Lequier), Del Noce ne adotterà l’ispirazione di
fondo nel suo superamento di qualsiasi filosofia della storia.
Augusto Del Noce (1910-1989)
Come nasce questo libro e come è evoluto nel tempo la sua stesura e anche il suo
autore?
Il libro riprende una mia tesi di dottorato proprio dal titolo “Attraversare la
modernità. La filosofia di Augusto Del Noce”, ma di fatto è il risultato di un
work in progress iniziato sui banchi dell’università, proseguito con il mio
continuo confrontarmi con i saggi che Del Noce pubblicava sui quotidiani e su
riviste. Ricordiamoci che Del Noce scriveva editoriali sul quotidiano “Il Tempo”
nella stessa fase in cui Pier Paolo Pasolini scriveva i suoi sul “Corriere della
Sera”. Tra l’altro il poeta di Casarsa era stato invitato a farlo dal
vicedirettore del giornale di via Solferino che poi era Gaspare Barbiellini
Amidei, un delnociano. Infine, per quanto mi riguarda, ho voluto comparare
l’opera di Del Noce con quella di altri autori da me studiati negli anni, a
cominciare da Gentile, Jünger, Zolla e Heidegger… Un lavoro che, nel tempo, ha
affinato e approfondito la mia stessa prospettiva di pensiero, in particolare
nella interpretazione della modernità.
A quale frase e citazione di Del Noce è più legato?
Senz’altro a questa:
> “Riflettere oggi sull’attualità storica non è affatto un sostituire alla
> ricerca intorno all’eterno una ricerca intorno all’effimero: corrisponde
> invece al senso preciso di una frase spesso ripetuta, che il compito che oggi
> resta al filosofo è quello della decifrazione di una crisi. Perché, oggi, la
> scommessa, ci è imposta dalla realtà storica stessa”.
Francesco Subiaco
*In copertina: un’opera di Nicolas De Staël
L'articolo Augusto Del Noce: elogio di un pensatore “inattuale”. Dialogo con
Luciano Lanna proviene da Pangea.
La riflessione filosofica sull’esperienza religiosa ha da sempre navigato
attraverso acque turbolente, tra le onde dell’impossibilità di rappresentare il
divino ed il desiderio umano di avvicinarsi ad esso. La tensione tra l’idolo e
la distanza, tra il desiderio di cogliere l’Essere assoluto e l’incapacità di
ridurre il divino ad una figura riconoscibile e domestica, è una delle
problematiche più acute della filosofia teologica e fenomenologica. Questa
distanza, non solo ontologica, ma anche etica ed esistenziale, solleva
interrogativi che attraversano secoli di pensiero.
La filosofia dell’idolo è, per così dire, una filosofia della rappresentazione,
ma non una rappresentazione che possa mai colmare l’abisso che separa il finito
dall’infinito. L’idolo, nel suo significato originario, rappresenta una
proiezione umana del divino, un tentativo di incarnare l’immensurabile in forme
finite. Questa rappresentazione, pur sembrando un accostamento possibile, è,
paradossalmente, la negazione stessa del divino: l’idolo è insieme la verità e
la sua distorsione, la vicinanza e la separazione. La fenomenologia dell’idolo
non può prescindere dalla consapevolezza di un abisso che lo separa dalla
divinità autentica. Da una parte, l’idolo si presenta come il tentativo di
incarnare il trascendente nel finito, dall’altra come il segno di un fallimento
incolmabile, come un simbolo che riduce l’infinito a un’immagine mortale.
La filosofia kantiana, nel suo rigore critico, aveva già messo in luce
l’impossibilità di una rappresentazione adeguata del divino: ciò che è veramente
divino sfugge inesorabilmente alle maglie della comprensione umana. La nozione
di “cosa in sé” esprime una realtà che, pur manifestandosi fenomenicamente,
rimane incognita ed inconoscibile. Non possiamo ridurre Dio ad una
rappresentazione sensibile, né interpretare la sua essenza con le categorie
dell’esperienza. L’idolo, in questo senso, si fa segno di una distanza
irrimediabile, di una separazione ontologica che fa del divino l’oggetto di una
contemplazione che è sempre, al contempo, una perdita di contatto con il divino
stesso. In Kierkegaard, questo abisso tra l’umano ed il divino si esprime
attraverso il concetto di “salto della fede”. La religiosità, per Kierkegaard,
non è una forma di conoscenza oggettiva, ma un atto di fede che sfida ogni forma
di rappresentazione, ponendo l’individuo di fronte ad una divinità che, pur
rivelandosi nella sua alterità, rimane sempre fuori dalla portata della
comprensione. La fede non è un atto di possesso del divino, ma un atto di
abbandono, di apertura ad un mistero che trascende ogni possibilità di idolo,
ogni tentativo di ridurre l’infinito ad una figura conoscibile. Nel momento in
cui il divino viene sottratto alle categorie ontologiche tradizionali, la
domanda su Dio si sposta dal piano dell’essere a quello dell’alterità assoluta.
La filosofia contemporanea, a partire da Heidegger, si è confrontata con la
necessità di pensare Dio non come un essere, ma come un’alterità che sfida ogni
definizione ontologica. Per Heidegger, l’essere stesso non è Dio, ma la sua
“abbandonata” manifestazione; eppure, proprio questa lontananza dell’essere
diventa il terreno di un’interrogazione che resta sempre aperta e
inassoluta. Dio, in questo quadro, non è un essere, ma un oltre, un’apertura che
non può essere colta se non come un’assenza. L’essere stesso è “vuoto” rispetto
alla presenza del divino, e in questa “assenza” risiede la possibilità del
divino di farsi presente, ma sempre sfuggendo alla piena conoscenza.
La fenomenologia dell’eccesso, che pervade la riflessione sul divino, trova una
delle sue espressioni più potenti in Emmanuel Levinas. Per Levinas, Dio è
l’alterità per eccellenza, l’ineffabile che si manifesta nel volto
dell’altro. L’incontro con l’altro, per Levinas, non è mai un semplice incontro
con una realtà finita, ma l’esperienza di un’infinità che sfida ogni pretesa di
riduzione a concetti finiti. Dio, dunque, non è mai un essere tra gli esseri, ma
l’appello che giunge dall’alterità assoluta, dalla distanza che non può mai
essere colmata. In questa prospettiva, la filosofia di Levinas non solo sottrae
Dio alla rappresentazione, ma lo colloca al di là dell’essere, in un ordine che
non può essere messo a sistema, ma che è continuamente esperito come un eccesso
che infrange ogni tentativo di ridurre la realtà ad un oggetto conoscibile. Se
Dio non è riducibile all’essere, se l’idolo ne distorce l’immagine, e se la sua
manifestazione sfugge alle maglie della rappresentazione, allora la
fenomenologia del divino diventa una fenomenologia dell’eccesso. Il divino si dà
non come un concetto, ma come un oltre che irrompe nell’esistenza in una forma
che non può essere afferrata, ma solo vissuta come una tensione, un’aspirazione
che resta sempre inappagata. L’esperienza del divino, in questa luce, non è una
conoscenza, bensì un incontro con l’inconoscibile che ci sfida ad abbandonare
ogni pretesa di dominio. Così come il volto dell’altro ci sollecita a una
responsabilità che non può essere risolta in una semplice rappresentazione, Dio
si fa esperienza di un’infinità che ci solleva e ci sospende.
Anche Nietzsche, nel suo pensiero sulla morte di Dio, non intende un
annientamento del divino, ma un superamento delle metafisiche che hanno ridotto
il divino ad un’entità da comprendere e dominare. La morte di Dio, per
Nietzsche, non è la fine del divino, ma la fine di un concetto di divinità che
poteva essere compreso e ordinato. Dio, nell’ordine della volontà di potenza, è
il segno di un oltre che non può essere trattenuto da alcuna rappresentazione,
un’espressione di una forza che travalica ogni limitazione. La fenomenologia del
divino si presenta come un’esperienza di tensione e distanza, in cui l’idolo,
pur avvicinando l’uomo al divino, ne tradisce l’essenza. L’idolo è la forma che
il divino assume nel tentativo di essere afferrato dal finito, ma è anche il
segno di una separazione che lo rende irriducibile a ogni figura e
rappresentazione. Il divino, nell’alternativa proposta dalla fenomenologia
dell’eccesso, non è un essere, ma un’alterità che si fa presente solo
nell’inaccessibilità, solo nella distanza che resta. Non c’è concetto che possa
contenere Dio, non c’è rappresentazione che possa esaurirlo. Solo l’esperienza
di un incontro con l’infinito ci permette di avvicinarci al mistero, senza mai
riuscire a comprenderlo appieno. Eppure, proprio in questa impossibilità di
possederlo, il divino si rende manifestamente presente come l’oltre che ci
interpella senza risposte definitive, come un’eccedenza che sfida ogni tentativo
di riduzione all’essere.
Jean-Luc Marion, nel suo Dio senza l’essere (Dieu sans l’être, 1982), si propone
di superare la tradizione ontoteologica che ha caratterizzato il pensiero
occidentale, in particolare a partire dalla scolastica e dalla sintesi
heideggeriana della metafisica. La tesi fondamentale dell’opera è che Dio non
possa essere costretto entro le maglie del concetto di essere, poiché
quest’ultimo è un determinante filosofico che riduce la trascendenza alla misura
del pensiero umano. In questo senso, Marion si inserisce in un solco di critica
radicale alla metafisica occidentale, riprendendo e rielaborando le intuizioni
di pensatori quali Heidegger, Derrida e, ancor più, la tradizione teologica
negativa che da Pseudo-Dionigi l’Areopagita arriva fino a Meister Eckhart.
Marion accoglie la diagnosi di Heidegger sull’ontoteologia, secondo cui la
metafisica occidentale ha sempre pensato Dio a partire dall’essere,
trasformandolo in summum ens, cioè in un ente supremo, anziché lasciarlo nella
sua irriducibile alterità. In tal senso, il Deus ens della tradizione tomista e
scolastica è per Marion una forma di idolatria concettuale, poiché costringe Dio
entro categorie umane. Tuttavia, mentre Heidegger suggeriva un Gelassenheit, un
lasciar-essere che aprisse all’evento della verità dell’essere, Marion sposta il
centro dell’attenzione su un altro concetto: il dono. Come scrive:
> «L’essere non ha titolo sufficiente per pensare Dio, e dunque deve essere
> decostruito a favore di un pensiero dell’eccedenza».
Questo lo pone in contrasto con l’ermeneutica heideggeriana, che pur
individuando la problematica dell’ontoteologia, non riesce a liberarsi del
primato dell’essere. Dio non si definisce in base all’essere, bensì in base al
dono assoluto, un’eccedenza che non può essere ricondotta ad una logica
ontologica. Qui, Marion introduce il concetto chiave del fenomeno saturo, cioè
un fenomeno che si manifesta in eccesso rispetto alla capacità del soggetto di
accoglierlo e comprenderlo. L’evento rivelativo divino è esattamente questo:
qualcosa che si dona senza misura, oltrepassando la possibilità di essere
oggettivato. Egli scrive:
> «Dio non è, bensì dona se stesso senza riserve, e nel donarsi eccede ogni
> concettualizzazione».
Questo concetto richiama la surabondance di Henri de Lubac e il pensiero di
Emmanuel Levinas, il quale afferma che «l’Altro si presenta come ciò che non può
essere ridotto a un concetto» (Levinas, 1961). Tuttavia, mentre per Levinas il
volto dell’Altro è l’accesso etico alla trascendenza, per Marion il dono divino
è un’eccessività che si manifesta senza condizioni.
Uno dei momenti più densi del testo riguarda la distinzione tra idolo e icona,
già centrale in L’idole et la distance (1977). L’idolo è l’immagine che chiude
lo sguardo su di sé, che permette all’uomo di contenere il divino nel proprio
orizzonte. L’icona, al contrario, è ciò che si sottrae allo sguardo, che invita
lo sguardo umano a oltrepassarsi, a non esaurirsi nella rappresentazione. Dio,
nel suo rivelarsi, non è un idolo concettuale, ma un’icona che lascia
intravedere un’eccessività irriducibile:
> «L’icona non è ciò che noi vediamo, ma ciò che ci guarda».
Questa distinzione si rivela decisiva nel contesto della teologia negativa,
poiché sposta l’accento dalla definizione di Dio alla sua fenomenalità come
rivelazione eccedente. Se l’idolo è un riflesso che il soggetto controlla,
l’icona è il punto in cui il soggetto si scopre guardato:
> «Nell’icona, non siamo noi a vedere, ma siamo visti».
Questo si ricollega alla mistica cristiana, dove la contemplazione non è il
raggiungimento di Dio, ma il lasciarsi invadere dalla sua presenza. Non
sorprende che il pensiero marioniano trovi assonanze profonde con la tradizione
mistica cristiana. La sua critica all’essere è, in un certo senso, un recupero
della via negativa che attraversa Pseudo-Dionigi, Maestro Eckhart e persino la
mistica carmelitana di Giovanni della Croce. Dio non è colto nell’essere, ma
nell’esperienza del suo donarsi, un’esperienza che rimane sempre sovrabbondante
rispetto alle nostre categorie. Come scrive Pseudo-Dionigi:
> «Dio è più alto di ogni affermazione e più nascosto di ogni negazione».
>
> (De Mystica Theologia)
Questo si sposa perfettamente con la nozione di fenomeno saturo di Marion, che
indica una rivelazione che eccede ogni presa concettuale.
In Dio senza l’essere, Marion ci offre un pensiero radicale e vertiginoso, che
tenta di liberare la riflessione su Dio da ogni compromissione con la
metafisica. L’uscita dall’ontoteologia non è solo un gesto decostruttivo, ma
l’apertura a una nuova possibilità di pensare la trascendenza: non come essere
supremo, ma come dono infinito. Questa prospettiva lo distingue da altri
pensatori della decostruzione del divino come Derrida, per il quale il concetto
di différance lascia Dio in una sospensione incessante. Marion, invece, va oltre
la sospensione e si inoltra nell’esperienza di una rivelazione che si dona in
sovrabbondanza. In questo, il pensiero di Marion rappresenta una delle sfide più
affascinanti e audaci della filosofia contemporanea, tracciando un percorso che
collega fenomenologia, teologia negativa e mistica in un dialogo fecondo.
Giusy Capone
*In copertina: Jan van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432,
particolare
L'articolo “Dio non è, bensì dona se stesso senza riserve”. Per una
fenomenologia dell’eccedenza proviene da Pangea.
Non si può barare con la montagna. È stato l’Appennino a far germogliare dentro
il ragazzo che trascorreva le estati con i nonni, un inestirpabile desiderio di
libertà. Forgiato dal e nel suo seno, da ruscello carsico di desiderio
fanciullesco a vera e propria piena nell’età adulta, a passo di poeta e di
sciamano ricostruendo una grammatica della diserzione che, probabilmente, è
giovane di milioni di anni perché solo il perenne è capace di non
invecchiare. Francesco Benozzo non ha mai barato né con la montagna, né con
l’impulso feroce del suo sangue che lo obbligavano a tornare con la musica e con
le parole a quel tempo troppo lontano per noi evoluti e separati dal tutto, in
cui dire Io sono significava dire Io sono il cosmo. Cioè il tempo totalizzante
dell’infanzia, prima che imparare a stare nel mondo si trasformi, con i suoi
concetti e le sue artefatte regole, nell’oblio di quell’incanto originario.
Da questa fedeltà nasce un breve manuale, pubblicato per i tipi de La Vela, dal
titolo Piccolo manuale di diserzione quotidiana. Per Benozzo le parole, che sono
la cosa più effimera che esista, al contempo sono l’artefatto più duraturo:
dietro ciascuna di esse, si nascondono strati di storia e di preistoria lungo il
cui filo risalire alla prima volta, allo stupore del dire di fronte al
mondo, nel mondo, che costituisce la ragion d’essere del poeta. Dunque, la
diserzione non è una posa da bastian contrario alle regole del vivere civile,
come una banalizzazione della questione potrebbe far pensare e condannare. È una
fede atavica a quel primo momento, supremo atto poetico, a ciò che preesiste al
simulacro di mondo che assorbe la nostra vita, che confondiamo con la nostra
vita.
Owen Clarke, intellettuale militante di Cardiff, in Galles, ha scritto “Dopo
alcuni recenti libri dalle tesi forti e controcorrente, Benozzo qui si spinge
addirittura oltre e dà forma al primo trattato in cui si teorizza la diserzione
come unico stile di vita possibile. Un piccolo e potente libro che stravolge le
nostre percezioni abituali e che, citando Baudelaire, individua nella capacità
di andarsene e di sottrarsi la più potente e concreta rivoluzione attuabile ogni
giorno da ciascun individuo”.
> L’intrico in cui le vite dei singoli individui vengono ingarbugliate (in
> latino sertum, participio passato di serěre ‘intrecciare’, originariamente
> ‘intrecciato’, poi diventato anche, in forma di sostantivo, ‘corona, serto’) è
> presentato come una ‘corona’ di cui fregiarsi come uomini evoluti, ma nella
> sua essenza è un’imposizione non necessaria a cui a poco a poco si comincia ad
> adattarsi confondendola con la propria natura.
Il disertore toglie la corona; ancora meglio, la rifiuta. E lo fa in nome di
quello che gli viene tolto, di ciò che è situato al di fuori della gabbia. Per
questo Francesco Benozzo non si è mai, dal canto suo, sottratto al prezzo
sociale da pagare per il suo rifiuto, isolandosi dalle dita puntate su di lui,
dal disprezzo neppure malcelato per le sue scelte radicali. Lui stesso, quando
ha ritenuto di doverlo fare, quando quell’impulso lo ha richiamato, ha detto no
per non tradirsi, tradendo tuttavia il consesso civile che lo voleva strappato a
sé stesso. In questo senso, in qualche modo il disertore è l’avventuroso puer
aeternus che tanto pare minacciare l’intrico, cioè il costituito, contraffazione
dell’unità originaria, in cui un falso centro distoglie da quello reale. Certo
agli adeguati, ai conformi, non poteva non apparire quantomeno bizzarro
l’atteggiamento, lo stare al mondo, di Francesco Benozzo.
Filologo di fama docente all’università di Bologna, poeta, sciamano, candidato
dal 2015 stabilmente al Nobel per la letteratura; disertore, appunto. Ma non
disertore con parole vane, vuote, immemori dell’altrove da cui sono originate.
Nelle azioni, radicali come l’impulso del sangue che rifiuta la frode. E adesso
che spirano i venti di una guerra tale da far impallidire tutte le altre, adesso
che il castello di regole posto a protezione di una pace che sembrava
indistruttibile viene giù, come accade ogni qualvolta il peso delle menzogne
seppellisca una civiltà ormai incapace di continuare a raccontarsele in modo
convincente, il cuore di Benozzo ha disertato per l’ultima volta: “Il diritto di
andarsene, la capacità di sottrarsi, l’istinto a non conformarsi sono i
capisaldi della legge del tutto”. Chissà che non siano stati i suoi Appennini a
suggerire queste parole, come una chiamata al ritorno liberata nell’ultimo
battito.
> Ed intanto tra i fili del fuoco
> Vedevamo danzare
> Una forma inattesa per noi
> Una forma di mare
>
> Ed intanto nei vuoti di ortiche
> Sentivamo il lamento
> Di parole diverse da noi
> Di parole di vento
>
> Qui si ascolta L’inverno necessario.
Livia Di Vona
*In copertina: Nicolas de Staël (1914-1955), Landscape, Antibes, 1955
L'articolo “Tra i fili del fuoco”. Francesco Benozzo, un disertore proviene da
Pangea.
Friedrich Nietzsche era una scissione. Per molti versi,
la nostra scissione. L’uno, Friedrich, era l’esatto rovescio dell’altro,
Nietzsche: quanto più vitale, vorace, impietoso il primo, quanto più infermo,
mite e ingenuo il secondo. Il suo cervello, una spugna elettrica di portentosa
potenza, prosperava come un parassita a spese del resto del corpo. Il
compiaciuto Anticristo era “buono di cuore fino all’eccesso”, come egli stesso
riconosceva in privato. Sulla carta, dava vita a un pirotecnico teatro di
giudizi penetranti e quasi sempre azzeccati, pavoneggiandosi da primadonna
mentre trascorreva “un’esistenza da mansarda”.
La biografia di questo colosso parla di noi: della nostra infelicità, della
nostra tracotanza, della nostra piccolezza mascherata da grandezza. Il
disadattato Nietzsche è già stato, nel suo peculiare modo, ciò che noi siamo
oggi: il prototipo da laboratorio dell’umanità ferita e alienata, brulichìo di
atomi ognuno dei quali con la presunzione d’essere il centro
dell’universo. Nietzsche non solo pensò il vuoto che ci bracca da ogni lato: si
offrì come cavia. Visse una non-vita sinistramente simile a quella che,
nell’impero liquido e virtuale del nostro tempo, confina un po’ tutti noi nella
celletta d’isolamento digitale. Egli incarnò in anticipo, dilacerato fra corpo e
mente, la faustiana corsa al potere illimitato della mente, a cui corrisponde il
franare dell’integrità corporea. Di questa iper-modernità, ai suoi tempi sugli
altari, preconizzò e riassunse la degenerazione, l’esaurimento, il disagio. Si
intestardì a voler vincerli, anzi a darsi come confutazione vivente, da
trasvalutatore in trionfo. Voleva, sì. Ma non poteva. Il padre del Superuomo
era, dopo tutto, un uomo. Fragile e patetico come, sotto sotto, lo siamo tutti.
Prostrato da una miopia da talpa, visse modestamente grazie a una sorta di
pensione anticipata che l’ateneo di Basilea gli assegnò per riconosciuti meriti
per lo straordinario pedagogo che fu. Il suo fisico, in sé perfettamente sano,
si macerava in un grumo di contorcimenti psicosomatici: emicranie croniche,
vomito a ondate al minimo refolo emotivo, spossatezze prolungate, immobilità a
letto. I sintomi che avevano accompagnato alla tomba, a soli trentasei anni, il
padre Ludwig, prete luterano. La morte di questo papà che si dilettava al
pianoforte, tanto pio quanto malaticcio, rappresentò per Friedrich l’evento
fondante, lo spettro onnipresente di una fine prematura, la prefigurazione di un
decesso di ben altra portata: la morte di Dio.
Da bravo cocco di mamma e figlio spatrizzato, il sesso e l’intimità lo
sgomentavano. In questa paura della corporeità, è rintracciabile un punctum
dolens del nostro tragicomico quotidiano. Cosa sono, infatti, l’edonismo da
poveracci, il consumismo pseudo-sentimentale e il salutismo mortifero, se non la
farsa di una “grande salute” dietro cui si nasconde, e neanche tanto bene, il
terrore per la più piccola frustrazione? Più il corpo viene esibito,
sessualizzato e sbattuto ovunque, tanto meno è vissuto. Il dionisiaco, pagano,
gaio Nietzsche non aveva nulla di dionisiaco, di pagano, né di gaio. Lui lo
reprimeva. Noi lo pornografizziamo. Ma il risultato è identico.
Dannato a cogitare senza requie (“non ho mai tregua”), si nutriva di rabbia
narcisistica. Se Nietzsche non fosse stato Nietzsche ma un qualunque omiciattolo
odierno, l’avremmo compatito come una vittima comune dell’attuale narcisismo di
massa (noto anche come liberale, democratico individualismo). E gli avremmo
consigliato un bravo psicanalista. Ma per disgrazia sua – e fortuna nostra – a
quei tempi la psicoterapia era di là da venire. Se “curato”, probabilmente non
avremmo goduto dello splendore scabroso della sua opera.
Nietzsche nacque davvero “postumo”. Ora, se in privato era un abitudinario
angosciato e nevropatico, come filosofo Nietzsche era un brillantissimo
fuorilegge che batteva bandiera pirata: senza religione, senza patria e senza
famiglia, in nome della libertà dal pregiudizio fa terra bruciata intorno a sé,
espugnando e abbattendo tutto: metafisica, morale, scienza. Viveva “una missione
insolita e gravosa” che gli prescrive, dice, di “non legarsi più a nessuno”;
anche se, afferma, diffida dei “pensieri nati da un animo depresso e da viscere
in disordine”. Nel retropensiero di un amor fati che converte il fatalismo in
slancio attivistico, si intuisce il terrore di scoprirsi nei propri punti
deboli.
> “Egli – testimoniava un’amica – condannava tutta una serie di sentimenti nella
> loro forma accentuata, non perché non li aveva, bensì, al contrario, perché li
> aveva e ne conosceva la pericolosità”.
A confermarlo è lui stesso, sia pur intonando il ritornello della presunta
necessità:
> “L’assenza perpetua di un amore veramente rigenerante e salutare, l’assurda
> solitudine che essa comporta, al punto che quasi tutti i contatti che
> rimangono diventano fonte di sofferenza, è la situazione peggiore che ci si
> possa immaginare e ha un’unica giustificazione, quella cioè di essere
> necessaria”.
Nietzsche non riusciva ad accettare i suoi bisogni, giudicati indegni del
magniloquente simulacro che si era scolpito di sé (“anche sul più alto trono del
mondo siamo sempre seduti sul nostro culo”, diceva invece il saggio Montaigne).
E dunque proiettava la sua Ombra sul cosiddetto “debole”, sul “tipo umano della
degenerescenza”, sull’“incapacità di dominarsi, di non reagire ad un dato
stimolo”. Nient’altro che il suo autoritratto. Nell’ultimo anno di sanità
mentale, il gran misogino e gran misantropo precipitò verso il burrone a ritmo
di valanga. Una sovralimentazione psichica lo elevò al picco di produttività: a
testimoniarlo è il fulmicotonico Ecce homo, partorito negli ultimi mesi del
1888. Febbrile testamento ispirato dall’euforia che precede il tracollo, è il
documento principe dell’incipiente demenza che lo avrebbe portato gradualmente a
spegnersi fino al mutismo. Siamo al confronto finale, al
Nietzsche contra Nietzsche: da una parte il depresso, timido, complessato eterno
bambino, dall’altra il caustico, acuto, implacabile speculatore sovversivo. A
furia di decostruire ragionando terminò i suoi giorni, alla lettera,
sragionando. L’araldo della tragedia greca ne tradì lo spirito proprio nel suo
insegnamento centrale: non riconobbe limiti al pensiero dubitante, che
fatalmente finisce per autodistruggersi (“Cartesio non è abbastanza radicale per
me”). Il filosofo tragico par excellence commise il delitto di Edipo:
l’hybris che conduce alla cecità per aver voluto troppo vedere... Fissò la
Medusa negli occhi, e ne finì pietrificato.
Il “carnefice di se stesso” troppo a lungo dissezionatosi, il fautore dell’“uomo
tropicale” e della “barbarie controllata”, fu il primo nichilista e anche il
primo anti-nichilista. A metà, però. Da un lato, dopo di lui nessuna verità
ontologica è più credibile come tale: esistono solo verità prospettiche.
Derivative ma non equivalenti, perché le convinzioni, non più tarabili sul metro
di parametri astratti e universali, restano valutabili in base al grado di
vitalità, alla carica energetica, alla loro potenzialità dinamica. Non
relativismo, dunque, ma prospettivismo che sa collocare i fattori nel loro
contesto, giudicandone la necessità rispetto all’irradiazione di forza. In
definitiva, da Nietzsche in poi non è più possibile aver fede a cuor leggero in
alcunché, facilitandosi la vita al riparo di qualche fideismo fuori sincrono.
Non è ammissibile per nessuno dare più nulla per scontato: nessun punto fermo
resiste al benefico flagello del nichilismo radicale che spazza via ogni
felicità facile, ogni credenza confortevole, ogni realtà fittizia. In questo
senso, non si può non essere nicciani.
Ma non si può essere nemmeno niccisti, seguaci adoranti di chi avvertiva che si
ripaga male un maestro restandone sempre scolari. Per costituzione psicologica,
a Nietzsche era preclusa la maturità che si prova nel piacere di prendersi cura
di sé e degli altri. Tutti, prima o poi, ci ritroviamo in stato di bisogno, alla
ricerca di una mano, di un sostegno, di un incoraggiamento. È da questa mancanza
originaria, che accomuna in comune forti e deboli, dotati e meno dotati, che
sorge il vitalismo autentico, l’unico umanamente possibile. Non certo dal
glaciale volontarismo di un Nietzsche larvatamente transumanista, che
fantasticava di “allevare una razza di dominatori”, i famosi e fumosi “signori
della terra”, con metodi zootecnici, sopprimendo i “parassiti” e vaneggiando di
caste eugeneticamente selezionate mediante l’“annientamento di milioni di
malriusciti”. Nietzsche non è quel proto-nazista che è stato fatto passare: era
troppo intelligente, fine, ironico, anti-tedesco, alieno da ogni biologismo (e
oltretutto, anti-antisemita), per poter essere considerato tale. Ma che fosse un
razzista sociale e un apologeta dichiarato dell’immoralità, su questo non ci
piove.
Bisogna prenderlo con le pinze, Nietzsche. Salvarne la lezione insuperata e
rigettarne la parte malata. Il suo appello a rimanere “fedeli alla terra” è il
commovente grido di un uomo disperatamente moderno, sospeso nell’aria rarefatta
di chi ripudia le radici. Un uomo staccato dalla vita, che proprio per questo
furiosamente diceva di amarla: perché, di amarla veramente in tutti i suoi
aspetti, sublimi e mediocri, eccelsi e grotteschi, non gli riusciva. Era troppo
grande, il suo ribrezzo verso l’umano per com’è. E invece noi tutti siamo, come
anche Nietzsche, umani troppo umani. Tutti quanti sulla stessa barca. Tutti
quanti anime sitibonde d’approdo.
Alessio Mannino
**
Selezione di brani tratti da “Nietzsche contra Nietzsche”
Nietzsche, il martellatore di idoli
“Solo quando la società si divide in due caste una civiltà superiore può
prendere forma: da una parte chi lavora e dall’altra chi ozia, chi sa oziare. O
se vogliamo dirlo più incisivamente: la casta dei lavoratori forzati e la casta
dei lavoratori liberi. Il bisogno di distribuire socialmente la felicità è
secondario, per dare vita a una civiltà superiore. In tutti i casi, la casta
degli oziosi si caratterizza per la facoltà di soffrire, soffre di più, ha meno
gusto di vivere, ma ha un compito più grande”. (Umano troppo Umano).
*
“Compatire indebolisce. Compatendo va a moltiplicarsi la profusione di energia
che il soffrire già da solo comporta. Con la compassione la sofferenza si
diffonde come un contagio. E ci sono volte in cui la compassione provoca uno
spreco di forze sproporzionata rispetto alla quantità corrispondente alla sua
causa (come nel caso della morte del Nazareno). […] la compassione è un ostacolo
alla fonte, per la legge vitale che è il principio di selezione. […] Si arrivati
a definire la compassione una virtù, mentre in ogni morale aristocratica è
considerata un motivo di indebolimento”. (L’anticristo)
*
“La natura, per preservare la specie, deve sbarazzarsi dei malriusciti e degli
aborti viventi. E difatti il cristianesimo rappresenta per essi una potenza di
conservazione. Chi ama l’umanità sa che bisogna volere il sacrificio, per il
bene della specie: prescrivendo il sacrificio umano, è certamente un amore duro,
che esige un continuo superarsi (…)”. (Frammenti postumi)
*
“Per un sano, il malato è il massimo pericolo: i più forti non devono temere i
forti, ma i più deboli. Ma quanta consapevolezza c’è di questo? Ragionando su
vasta scala, non è la paura dell’uomo quella che bisognerebbe ridimensionare,
perché tale paura agisce sui forti perché siano forti e a volte spietati: è
questa paura, a dare la spinta al benriuscito. A dover essere temuta come un
rischio mortale dovrebbero essere piuttosto il disgusto dell’uomo e la pietà per
l’uomo. Se un bel giorno si unissero, il mondo non sfuggirebbe al manifestarsi
di una minaccia enormemente inquietante: le ultime volontà dell’uomo, la volontà
del nulla, il nichilismo. E in effetti, le avvisaglie di ciò sono parecchie”.
(Genealogia della morale)
*
“(…) la vita è, nella sua essenza, incorporazione, aggressione e oppressione
dell’altro da sé e dell’inferiore, è violenza, spietatezza, comando,
acquisizione o nel migliore dei casi sfruttamento. Ma perché poi continuare a
ricorrere a questi termini, su cui il tempo ha messo il sigillo dell’infamia? Si
prenda il corpo, rispetto al quale gli individui, come accade nelle sane società
aristocratiche, si considerano uguali: se è vitale e non già sulla via della
decomposizione, dovrebbe interagire con gli altri corpi facendo tutto quanto gli
individui non fanno fra loro: diventare volontà di potenza incarnata, volontà di
accrescimento, di espansione, di acquisizione, di conquista, poiché non ha il
suo motore in nessuna morale (anche qualora immorale…), ma nel fatto stesso di
essere vivo, in quanto la vita non è che volontà di potenziamento”. (Al di là
del bene e del male)
**
Nietzsche, umano molto umano
“Rinuncia completa: non ebbi né amicizie né relazioni, non potevo leggere un
libro, ogni arte era impossibile. Una cameretta con un letto, i pasti di un
asceta (…) – questa rinuncia fu totale tranne in una cosa: potevo darmi ai miei
pensieri. – Che altro avrei dovuto fare, del resto? Per la mia testa, in realtà,
questa è la cosa più dannosa: ma non so come avrei potuto evitarla”, 11
settembre 1879.
*
“Fin da quando ero bambino non ho trovato nessuno che avesse il mio stesso
tormento nel cuore e nella mente. Il che tuttora, e come sempre, mi obbliga a
presentarmi improvvisando, e spesso controvoglia, vestendo i panni di uno fra i
tipi umani oggi consentiti e compresi. Ma che si possa davvero fiorire soltanto
tra persone che hanno pensieri e volontà simili (fino a includere la dieta e lo
stile di vita), questo per me è dogma. Il mio problema è che non trovo nessuno.
(…) Quasi tutti i miei rapporti umani sono conseguenze di attacchi di
solitudine, da Overbeck a Rée, da Malwida a Köselitz – sono sempre stato felice
in modo ridicolo ogni qual volta ho trovato, o credevo di trovare, un angolo da
condividere con qualcuno”, 20 maggio 1885.
*
“È rarissimo che ancora mi giunga una voce amica. Ora sono solo,
inammissibilmente solo. E nella mia lotta oscura e senza quartiere contro tutto
quello che l’umanità ha adorato e amato fino ad oggi (…) mi sono trasformato io
stesso, senza neanche rendermene conto, in una caverna – in qualcosa di segreto,
che non si troverebbe più neanche se ci si mettesse d’impegno per scovarlo”, 12
febbraio 1888.
*
“Io penso di avere ormai sopportato cinque volte di più di quanto sia
sufficiente a un uomo normale per suicidarsi – e ancora non è finita. (…) Senza
il lavoro che mi dà una meta e senza l’improcrastinabilità di tale meta, io
sarei già morto. Ecco perché dico che a salvarmi la vita è stato Zarathustra,
mio figlio Zarathustra!”,metà luglio 1883.
*
“Non sono mancate le giornate nere, giorni e notti in cui non sapevo più che
senso aveva la mia vita e un abisso di disperazione mi prendeva alla gola, una
cosa che mai prima avevo provato. E con tutto ciò sono consapevole di non poter
scappare, né indietro, né a destra, né a sinistra: io non ho scelta. Ora come
ora a sostenermi è solo questo pensiero. Per tutto il resto, comunque, vivo
sotto tortura”, 3 febbraio 1888.
*
“La vita arriva per me all’apogeo: un paio d’anni ancora e la Terra tremerà,
centrata da un inimmaginabile fulmine. Te lo posso giurare: ho il potere di
modificare il modo di contare gli anni. Niente rimarrà in piedi, io non sono un
uomo: sono dinamite. La mia ‘Trasvalutazione di tutti i valori’, con il
titolo L’Anticristo, è pronta. Nei prossimi due anni devo far in modo di farla
tradurre in sette lingue: la prima edizione in un milione di copie circa”, 26
novembre 1888.
*
“(…) il mondo è trasfigurato: Dio vi è sceso. Non lo vede, come ogni cielo è in
festa? Mi sono insediato nel mio regno, farò sbattere il Papa in gattabuia e
fucilare Wilhelm, Bismarck e Stöcker. Il Crocifisso”, 3 gennaio 1889.
L'articolo “Buono di cuore fino all’eccesso”. Friedrich vs. Nietzsche. Storia di
una scissione proviene da Pangea.