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Marx vive in un attico, a New York. Dialogo con Marcello Veneziani
“Ogni epoca si specchia nei suoi demoni e nei suoi profeti” (Enzo Bettiza). Così si potrebbe introdurre Nietzsche e Marx si davano la mano. Vita, intrecci e pensiero dei due profeti che sconvolsero il mondo (Marsilio, 2025), l’ultimo libro di Marcello Veneziani, filosofo e narratore che da sempre intreccia riflessione e racconto, pensiero e stile. In questo saggio-romanzo, l’autore mette in scena un incontro, un confronto e uno scontro impossibile tra i due giganti che più hanno scosso la modernità: il profeta del superuomo e l’ideologo del proletariato, due solitudini titaniche unite dal comune culto di Prometeo e dalla fede nella lotta come motore del mondo. Veneziani, con la sua prosa densa e appassionata, evoca, rivela, racconta, ma soprattutto interroga: cosa accadrebbe se le due vertigini del pensiero moderno si specchiassero l’una nell’altra? Con lo sguardo lucido e insieme tragico del filosofo mediterraneo, l’autore attraversa le loro eredità e deformazioni — dal marxismo woke al nietzschianesimo accelerazionista — per misurare quanto dei loro fuochi arda ancora nel nostro tempo disincantato. Mostrandone i miti, le storie, le visioni e i furori con uno stile che è pensiero poetante in forma saggistica ed uno sguardo aguzzo capace di rievocare le voci di questi maestri del sospetto rivelando però le contraddizioni del Novecento sterminatore ideologico e del nostro tempo. Per meglio comprendere le affinità e divergenze tra questi due venerati maestri abbiamo raggiunto Veneziani nel suo studio romano.  Perché “Nietzsche e Marx si davano la mano”? Quali somiglianze esistono tra questi “due profeti che sconvolsero il mondo”?  Marx e Nietzsche hanno una comune derivazione romantica, ebbero ambedue il culto di Prometeo, il liberatore dell’umanità dal divino, si proiettarono nel futuro liberandosi da Dio, patria e famiglia; furono pensatori del conflitto, la lotta per loro è la regina di tutte le cose; ebbero comuni nemici come i filistei e i borghesi, credettero al pensiero che agisce e trasforma… Come nasce questo libro tra saggistica e prosa d’arte? Nasce da un’antica passione per Nietzsche e da un altrettanto storica rivalità nei confronti di Marx. All’università, nella facoltà di filosofia, era d’obbligo studiare Marx ma io vi aggiungevo Nietzsche – e non solo lui. Da quel confronto a lungo maturato, nasce questo libro. Cosa sarebbe potuto emergere e cosa emerge nel suo libro da questo incontro impossibile tra le due vertigini della modernità? È stato un bene o un male che non si siano incontrati? Difficile dirlo, ci saremmo risparmiati tragedie o forse ne avremmo vissuto delle altre. Ma avremmo avuto il confronto tra due pensieri che si fecero mondo, storia, rivoluzione o trasmutazione. Credo però che sia per noi posteri molto proficuo metterli a confronto, paragonarli, e criticarli a vicenda. Entriamo nel retroscena del pensiero. Che ruolo ha avuto il confronto con Nietzsche nella sua formazione filosofica e quale importanza riveste oggi nella sua visione del mondo? Fu l’autore dei miei diciott’anni, la passione più grande di gioventù, a cui dedicai il primo articolo. Zarathustra restò per me il genio di una religione antica e inedita, profetica e ironica, danzante e ludica. Col tempo naturalmente la sua influenza fu ridimensionata, ma restò sempre il mio modello più alto di pensiero poetante. Cosa accomuna e intreccia questi due profeti ispiratori del secolo dell’incertezza e delle ideologie? A parte il paradosso di ritenersi entrambi liberatori dell’umanità e poi considerati entrambi ispiratori dei regimi liberticidi del Novecento, li accomuna il desiderio di trasformare il mondo e non solo di conoscerlo, di riversare il pensiero nell’azione e di sfidare l’establishment, che ciascuno percepiva a suo modo. Erano due filosofi col martello, in lotta con il proprio tempo. Quanto hanno ancora da dire nell’epoca attuale questi “fratelli separati”?  Per Marx il nuovo proletariato sono i flussi migratori; al posto del movimento operaio c’è il movimento femminista, la battaglia per l’uguaglianza si fa battaglia per le diversità; al posto del capitalismo, il nemico è la tradizione; al posto del padronato c’è il patriarcato. E sullo sfondo il marxismo cinese… E Nietzsche – al di là del mito del superman e del suprematismo che viene ricondotto al suo pensiero – quando afferma che l’uomo è qualcosa che va superato, non apre forse la via al transumano, ai robot, all’intelligenza artificiale, alle mutazioni genetiche?   Perché dice che il marxismo dopo essere morto in Oriente, ora è vivo e trionfa in Occidente (in special modo a New York)? Perché il marxismo, separato dal comunismo e fallito in Unione sovietica, diventa oggi ideologia radical e global, e si compendia tra woke, political correct e cancel culture, di derivazione americana. Persa la pars construens di società comunista, resta la parte dissolutiva, di distruzione della civiltà. Quando il marxismo da critica del capitalismo si fa critica della tradizione, della natura e della storia, va a vivere a New York, magari col sindaco Mamdani.  Che ne pensa delle evoluzioni del nietzschianesimo da riferimento della rivoluzione conservatrice a totem di post strutturalisti e idolo dei transumanisti? Sono appropriazioni indebite o sintonie di fondo? Ognuno coglie di Nietzsche un aspetto, ma Nietzsche è prismatico, non c’è citazione – avvertiva Giorgio Colli – che non possa essere contraddetta da un’altra sua affermazione. Ci sono gradi di assimilazione e di fraintendimento, ai tempi di d’Annunzio, di Spengler o di Hitler, come in seguito nella filosofia francese e ai tempi dei sessantottini.  Dopo essersi combattuti negli anni dietro le insegne del rosso e del nero dei propri ierofanti cosa resta di questi sospettati maestri e dei loro eredi?   Restano cospicue eredità di pensiero, anche se l’esito prevalente è impolitico in Nietzsche e utopico in Marx. Marx resta un rivoluzionario, un pensatore sociale, rivolto alla storia, alle masse e alla politica; Nietzsche è a mio parere un “biosofo”, cioè un pensatore della vita, rivolto al mito, all’arte, allo spirito aristocratico, alla solitudine e all’esistenza. La concezione marxista è materialistica, dialettica, storica; la visione di Nietzsche è tragica, ludica, estetica. Oggi a chi parlano, nella politica e cultura internazionale, Nietzsche e Marx? E chi sono i più marxisti e nietzschiani esponenti della politica italiana e internazionale? Nietzsche oggi è più vitale di Marx perché ha descritto la condizione umana del nostro tempo molto più di Marx, legato a un contesto socio-economico di un’epoca industriale. Non è significativo oggi riconoscere gli eredi politici di Marx e Nietzsche, si prestano a troppi equivoci, torsioni e spesso denotano una totale inadeguatezza nel ruolo di continuatori. Non vedo continuatori ma se dovessimo seguire le vulgate diremmo Xi Jinping ed Elon Musk.  L’ispirazione di Nietzsche generò grandi opere (da Mann a Benn passando per d’Annunzio e Rebatet) mentre l’eredità del marxismo compone solo l’archivio della cronaca politica (chi legge più i testi politici di Aragon o del realismo sovietico). L’arte sta graziando Nietzsche rispetto a Marx? L’impronta di Nietzsche generò più frutti nell’arte, soprattutto nelle avanguardie, nella letteratura, nel pensiero, nella musica, nella vita; Marx sconta l’impoverimento della dimensione politica, sociale e rivoluzionaria, nel nostro tempo. Marx oggi è poco letto, a differenza di Nietzsche che domina nei palchetti di filosofia delle librerie e perfino nei poster dedicati ai filosofi.  Oggi la tecnodestra e Musk sono gli eredi di Nietzsche mentre il woke è l’ultimo erede di Marx?  Si, a patto di separare la volontà di potenza dal pensiero nietzscheano, e separando il marxismo dall’anticapitalismo e dall’avvento del comunismo. Ecco a cosa assistiamo: ad un Nietzsche decapitato e ad un Marx senza gambe né braccia… Quale sarà il suo prossimo lavoro? Non ne ho ancora un’idea precisa. Vorrei portare a sintesi, riannodare i fili, ripensare le opere, chiudere il cerchio. Francesco Subiaco L'articolo Marx vive in un attico, a New York. Dialogo con Marcello Veneziani proviene da Pangea.
November 21, 2025 / Pangea
Aspirare al miracolo. Un articolo per “pazzi, immorali, condannati e irrimediabilmente perduti”
Nel 1991, per Adelphi, esce un libro sconvolgente. Un libro-boato, un libro-baratro. S’intitola Sulla bilancia di Giobbe, l’autore si chiama Lev Šestov. In pochi conoscevano Lev Šestov: in Italia, alcuni suoi testi erano stati pubblicati negli anni Quaranta da Bocca, grazie ad Augusto Del Noce, un pioniere. Anche oggi il nome di Lev Šestov – a dispetto di pensatori meno radicali come Husserl e Heidegger, su cui impalcano cattedre accademiche, per non dire di altri, i filosofi proni all’attualità, pronti all’uso, prêt-à-porter – è susurrato nei sottoscala; se lo nomini ti tacciano di eresia, ti tacitano con un dito a cucire le labbra. Perché? Perché Lev Šestov denuncia le subdole manovre della filosofia, le menzogne della ragione, il disastro scientista, sporgendosi sulla soglia dell’assoluto. Perché Šestov scommette sul mistero, smantellando il calcolo. Dopo aver devastato sistematicamente ogni idolo e ogni “sistema”, Šestov ci getta tra le fauci del Dio vivente – col rischio che non esista altro che il Suo latrato, il deserto, il mirabile miraggio.  Insomma: Šestov non si può addomesticare. Intorno all’assurdo e all’esistenzialismo hanno edificato università, cattedrali catafalchi del niente; perfino Emil Cioran è diventato di moda, lo pubblicano a spron battuto come se i suoi spietati aforismi fossero le veline dei Baci Perugina. Lev Šestov no, rimane insondabile, inattingibile, reca il marchio del maniaco, del pazzo. Così, viene stampato alla macchia, qua e là: appena Bompiani lo ha introdotto, di diritto, nella nobile collana del “Pensiero occidentale”, con alcuni dei suoi libri più importanti – Atene e Gerusalemme, Speculazione e rivelazione, Potestas Clavium –, quasi subito è stato espulso. Il suo, in effetti, è un pensiero dell’inappartenenza e della latitanza. Lev Šestov, nato a Kiev l’ultimo giorno di gennaio del 1866, non ha affinità con i filosofi: è della stirpe degli Isaia e dei Geremia, porta la parola fiammante di San Paolo, alterna anatema e grazia. Fa coincidere gli opposti e parteggia per gli impossibili, si schiera contro gli araldi del bene comune e i retori del nichilismo d’accatto; Lev Šestov è l’autentico nemico del “progresso”, è l’avversario dell’oggi. Come considerare uno che dichiara a chiare lettere che “non vi è nulla in comune fra la scienza e la filosofia: non solo non si aiutano né si completano a vicenda, come si è soliti pensare, ma lottano sempre fra loro”? Come trattare questo infallibile terrorista del pensiero, ostile all’acquiescenza, al benessere, alle glorie della tecnica, quando scrive che “una esistenza pacifica, gradevole, equilibrata sopprime l’umano nell’uomo, lo riduce a pura vita vegetativa, lo immerge di nuovo nel grembo di quel nulla da cui una forza enigmatica lo ha estratto”?  Proprio ora, più che allora – Lev Šestov muore nel 1938, nell’esilio parigino, circondato da un generico timore reverenziale – questo pensatore integerrimo va silenziato: è il solo a mettere in scacco il “mondo delle evidenze”, a disintegrare i falsi dèi della scienza, della morale corrente, delle istituzioni vigenti, dei “principi” ipocriti necessari a sancire la nostra beata sottomissione. Nella sua strenua Lotta contro le evidenze – così il titolo di uno dei testi più clamorosi, del 1922 – Lev Šestov, tramite una cruenta catabasi nell’opera di Dostoevskij, marginalizza “la ragione, che uccide il mistero e la verità”, insegna che “Dio non è dimostrabile. Non si può cercare Dio nella storia. Egli è il ‘capriccio’ incarnato, che respinge ogni garanzia” e che  > “le verità sono per natura inutili: ogni tentativo di renderle utili, buone a > tutti per sempre, ossia universali e necessarie, le trasforma immediatamente > in errori”.  Già, ma come è possibile vivere senza appigli, nella protervia dell’urlo, autenticamente liberi, cioè scevri dalla “conoscenza, l’autorità incontestabile, infallibile, ai cui piedi tutti insieme possiamo prosternarci”? Come vivere consapevoli che “verità e conoscenza scientifica sono inconciliabili”? Verità vuol dire sapere che “Dio esige sempre l’impossibile”, vuol dire “vivere ore, giorni, anni in un’atmosfera di evidenze contraddittorie che si escludono a vicenda”, compiere gesti che al prossimo appaiono irrazionali e apocrifi, proprio come fanno gli uomini del sottosuolo raccontati da Dostoevskij, riconoscere  > “che quaggiù tutto comincia ma nulla finisce; che il capriccio ha diritto a > garanzie, che il fantastico è più reale del naturale; che la vita è la morte e > la morte è la vita”.  Figlio di un commerciante di tessuti dal piglio autoritario, Šestov studiò Diritto a Mosca; scoprì tardi la vocazione al pensiero randagio, dedicando i primi lavori a Shakespeare e a Tolstoj. Vide nella letteratura lo spiraglio alle angustie della filosofia sistematica. Fece di tutto per sobillare se stesso, per spogliarsi di ogni attributo intellettuale. Da bambino, era stato rapito per sei mesi da un gruppo di anarchici; di stirpe ebraica, sposò clandestinamente una giovane ortodossa: per anni, tennero nascosta la loro relazione, vagando di città in città. Intruppato nella flotta dell’Armata rossa, perse il figlio, Sergej, al fronte; nel 1921, disgustato dagli esiti della Rivoluzione, Šestov approdò a Parigi, in un minuscolo appartamento. I suoi soli discepoli, pensatori dalla singolarità disarmante, morirono entrambi in circostanze terribili: Benjamin Fondane ad Auschwitz, nel ’44, nelle camere a gas; Rachel Bespaloff per scelta, con il gas, nell’esilio americano, a South Hadley, Massachusetts.  A Genova, nel 1900, Lev Šestov mise a punto la sua Filosofia della tragedia, dopo un geniale attraversamento nell’opera di Nietzsche e di Dostoevskij (edito nel 1903, il libro è edito, per la cura di Luca Orlandini, dall’editore De Piante). Cronachista della notte oscura dell’anima, temerario nel sondare il lato oscuro di ogni idea, Šestov si appoggia ai soli, disperati autori che hanno osato scarcerarci dai canoni del pensare comune, dichiarando che ciò che per tutti è vero è menzogna, che l’idea del bene è altro dal Bene, che la giustizia terrena è una truffa.  > “Dostoevskij e Nietzsche non tengono più conto dei bisogni dei buoni e dei > giusti (Mill e Kant). Poiché hanno capito che il futuro dell’umanità, ammesso > che l’umanità abbia ancora un futuro, non è nelle mani di coloro che oggi > trionfano nella convinzione di possedere il bene e la giustizia, ma, al > contrario, è nelle mani di coloro che, non conoscendo sonno, riposo o gioie, > lottano e cercano e, abbandonando i vecchi ideali, vanno incontro a una nuova > realtà, per quanto terribile e ripugnante possa sembrare loro”. Questa “nuova realtà” passa dalla violenza dell’individuo sovrano – che non accetta di farsi gregge, al trogolo del “buon senso”, e volta le spalle al proprio tempo – alla voracità insaziabile del Dio vivente, il terribile, non quello di cui si fa mercimonio nelle cattedrali, di cui si avverte l’eco da ambigui amboni.  Šestov sapeva che lui e i suoi lettori sarebbero stati additati come “pazzi, immorali, condannati e irrimediabilmente perduti”. Si sentiva in sintonia con Pascal e con Spinoza, amava Plotino, quello che insegna che “la verità ultima… ci viene dall’esterno, all’improvviso, grazie a un’illuminazione istantanea”, che occorre “aspirare al miracolo”.  Albert Camus scrisse di lui nel Mito di Sisifo: quel pensatore che “esalta la rivolta dell’uomo contro l’irrimediabile” lo aveva superato. Assiso sulla sua poltrona, Šestov, uomo di scarsa ironia, dallo sguardo triste come l’eroe di un poema di Puškin e dalla barbetta a machete, aveva sferrato l’attacco più prodigioso mai tentato contro il nostro tempo.  *In copertina: una immagine da “Stalker”, il film di Andrej Tarkovskij del 1979 L'articolo Aspirare al miracolo. Un articolo per “pazzi, immorali, condannati e irrimediabilmente perduti” proviene da Pangea.
November 17, 2025 / Pangea
Camminare sulla fune, ovvero: esercizi per assaporare il silenzio
Dove si trova il silenzio? È una condizione che fa parte di questo mondo o esiste solo nell’universo siderale? Il silenzio si trova nei cimiteri, ci riguarda o appartiene a un Altrove?  Esiste il silenzio?  A volte sembriamo cercarlo disperatamente, ne sentiamo la mancanza.  Dove abita il silenzio?  Non è un po’ come chiedersi: dove nasce il vento?  Siamo disposti a viaggiare e ad allontanarci molto per provare a stanarlo.  Lo cerchiamo durante i ritiri di meditazione, dove si rimane zitti per giorni, e quando poi si può ricominciare a parlare, non abbiamo nemmeno tutta questa voglia di farlo.  Ma il silenzio non è per tutti. Molti si sentono a disagio quando il mondo tace. Perché il silenzio è anche un invito all’introspezione. Restare soli con sé stessi può fare molto rumore. Eppure, come scrive il filosofo Peter Sloterdijk in Devi cambiare la tua vita, al contemplante basterebbe comprendere una procedura fondamentale che consiste nella “duplicazione di sé”, un metodo per stare in buona compagnia anche quando si sceglie di ritirarsi dal mondo; cogliere che dentro si ha già un partner superiore, un angelo, un monitor spirituale, un genio, un mentore, un custode, un compagno, un guardiano che protegge e controlla, che esamina e sostiene, senza cercare fuori qualcuno o qualcosa che compensi la paura. Un nobile osservatore che sorveglia e fa sentire al sicuro:  > “Chi vuole essere sé stesso sperimenta la presenza del suo altro interiore. > Per sapere come sta quest’ultimo, occorre un quotidiano esame interiore”.  Il passo successivo, in particolare nei percorsi spirituali orientali, sarà la fusione con questo Grande Altro o l’eliminazione della dualità tra Sé reale e Sé ideale.  * Io stessa ho cercato il silenzio nelle sinuosità del deserto dell’Oman. Ho esplorato il Negev, il Sahara, il Thar, il Wadi Rum e i deserti americani. E poi, durante un viaggio nella mia terra natìa, le Marche, ho capito che non c’era bisogno di andare così distante per sentir dialogare soltanto le stelle nella notte oscura. Là fuori, lontano dalle città, recuperare il silenzio diventa di nuovo un’opzione possibile ma che pochi sembrano intenzionati a perseguire. La maggior parte ha scelto di abbandonare i borghi e le campagne e di conseguenza il silenzio, perché in pochi hanno ancora insito in sé il contatto primordiale con la natura, quel luogo dove la solitudine può diventare contemplazione, dove le parole non servono, perché è più interessante ciò che ha da dire il mare.  Pensiamo che vivremo meglio silenziando il dolore, non capendo che solo ascoltandolo e accogliendolo potremo elaborarlo ed evolvere. Ma tutto ciò diventa possibile solo frequentando il silenzio e lasciando essere le cose così come sono. È questo a creare fiducia, come scrive la poetessa Chandra Livia Candiani ne Il silenzio è cosa viva:  > “La maggior parte di noi inizia un percorso meditativo in cerca di pace. Ma > ben presto ci accorgiamo che quello con cui entriamo in contatto è il caos > della nostra mente e la ristrettezza del nostro cuore. La pace non è la > quiete, è piuttosto l’accoglienza dell’irrequietezza”.  Tutto sta nella possibilità di aprirsi a quel conoscere senza pensare.  Ma silenziare il caos vuol dire anche appropinquarsi ad assaporare la morte, la lacerazione con ciò che consideriamo vita, con l’inizio e la fine di tutte le cose, con il loro apparire e scomparire, con l’ingannevole sicurezza e l’ignoto. Non troviamo il silenzio perché siamo distratti.  Viviamo in una società iperconnessa e industrializzata che mette a dura prova il nostro sistema nervoso. Non siamo più in armonia con la vita, come scrisse la filosofa e maestra spirituale Vimala Thakar ne Il mistero del silenzio. Se siamo seduti in silenzio e la mente fa resistenza anche soltanto al suono del pianto di un bambino, si crea una frizione, che genera irritazione e una reazione, una resistenza alla vita stessa. Cerchiamo rifugio nella meditazione, nella concentrazione, ma spesso non basta a trovare sollievo dal trambusto.  Dovremmo soggiornare in uno stato di osservazione consapevole che dovrebbe accompagnarci durante tutta la giornata per essere in grado di trovare il silenzio interiore, una condizione di non verbalizzazione, di sradicamento dei dogmi, dei simboli, di teorie e d’ideologie, di opinioni, credenze e affezioni, di nomi, di forme, d’identificazioni e di sentimenti; oltre l’io, il me, il mio, oltre il tempo e lo spazio:  > “Perché il silenzio possa diventare vivo, la totalità del movimento cerebrale > deve disattivarsi volontariamente”.  Il silenzio giace al di là del noto e dell’ignoto, di ciò che è visibile e invisibile. Il regno del silenzio è il regno dell’inconoscibile. Come nella via apofatica del misticismo cristiano di Meister Eckhart e Angelus Silesius, dell’Anonimo Francofortese e di Margherita Porete, la quale dichiarava: “Il mio Dio è colui di cui non si può dire parola”. La loro era una via di silenzio e di contemplazione, dove al massimo si poteva asserire cosa non fosse Dio. Perché se dici Dio, non è già più Dio, come dichiarava Sant’Agostino.  * È possibile trovare il silenzio nell’immobilità, nella non-azione, nel non-pensiero. Ma come si raggiunge il non-pensiero? Con il senza-pensiero, quando: “Pur essendo di fronte a tutti gli oggetti circostanti, la mente rimane pura ed incontaminata”, come scrisse Daisetsu Teitarō Suzuki, professore di Filosofia Buddhista dell’Università di Kyoto in La dottrina zen della non-mente. Per “oggetti circostanti” s’intendono la coscienza e l’Inconscio:  > “cioè uno stato in cui né pensieri, né coscienza, interferiscono col > funzionamento spontaneo della mente. Far sorgere pensieri verso gli oggetti > che ci circondano e trastullarci con false idee su questi pensieri, questa è > la fonte delle preoccupazioni e delle immaginazioni”.  Cosa vuol dire senza-pensiero?  > “Vedere tutte le cose eppure mantenere la propria mente libera da macchie e > attaccamenti. Obbligare la mente a non dirigersi verso qualsiasi cosa, questo > è ‘estirpare i pensieri’”.  Astensione dalle discriminazioni. Pura presenza. Qualcuno potrebbe dire che in questo modo si rischia di cedere all’annichilimento. Ma l’annichilamento non è ancora forma e parola? Un grande insegnamento del maestro zen Mazu Daoyi, parlando di cosa fosse l’illuminazione, fu: “Quando ho fame, mangio e quando sono stanco, vado a dormire”. Eihei Dōgen, filosofo, monaco e poeta zen fondatore della scuola Sōtō-shū, in una poesia scriveva:  > “In primavera i fiori  > in estate il cuculo e  > in autunno la luna.  > Nel freddo inverno  > la neve chiara e pura”.  Ecco l’essenza della vita, la necessità di smettere di classificare, concettualizzare, teorizzare e interpretare. D’altronde, anche William Shakespeare in Romeo e Giulietta scrisse: “Romeo, perché ti chiami Romeo? Cambia il tuo nome. In fondo, che cos’è un nome? Quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente”. Cosa? Perché? Dove? Come? Queste non sono domande utili per la comprensione della vita. Non sarebbe più utile prendere una tazza di tè seduti nel silenzio del senza-pensiero anziché inseguire le deviazioni della mente? Guardando fuori, poi dentro, poi di nuovo fuori, e capire che non c’è frammentazione.  Il silenzio è una forma di libertà e una via di vulnerabile accuratezza.  * Il compositore John Cage – famoso anche per il brano 4’33, in cui l’orchestra non deve suonare – ha sempre inserito lunghe pause tra le note, pause che ricordano anche i momenti di sospensione tra un respiro e l’altro, tra un’inspirazione e un’espirazione, come a evidenziare la rilevanza del silenzio. Un silenzio che, in realtà, non esiste, non è mai esistito e mai esisterà. Anche in una camera anecoica completamente insonorizzata c’è sempre qualcosa anziché nulla: non ci sono rumori esterni di nessun tipo… ma ecco il suono del nostro respiro, del sangue che scorre nelle vene, il battito cardiaco, il ronzio nelle orecchie, magari anche un acufene. Il silenzio non esiste. Perlomeno la totale assenza di rumori. Ma può esistere il silenzio della mente, e Cage, con le sue pause, ci fa cogliere proprio questa consapevolezza: la presenza mentale e la pace, giacciono in quello spazio vuoto, in quella pausa tra un pensiero e l’altro, tra la nascita e la morte di un giudizio. Solo una mente non discriminante può provare l’ebrezza della calma.  Ci sediamo a meditare, e veniamo invasi da pruriti, dolori, pensieri nefasti, immagini, ricordi, idee. Nel libro Silenzio, John Cage scriveva: “Un complesso d’archi, un tramonto, ciascuno agisce”. Si tratta di accettare che un suono è un suono e un uomo è un uomo, senza illusioni sull’ordine e orpelli estetici che abbiamo ereditato. Si tratta di considerare profondo l’ascoltare così come lo starnutire. Si tratta di saper vedere, e cioè riconoscere, comprendere, sentire nel cuore, sperimentare in prima persona. * E allora, dove cercare il silenzio? L’unica risposta plausibile è di non cercare. Questa è la via maestra dei meditanti più esperti. Può sembrare troppo, incomprensibile, ma intanto – per una volta – proviamo a incamminarci senza pensare alla meta. Una via di apparente improvvisazione che in realtà cela un programma di allenamento degno della più alta acrobatica spirituale. Perché dietro alla capacità di tacere e di silenziare i condizionamenti mentali, c’è sempre molta prassi ed esercizio, c’è dedizione e vocazione, intenzione ad abbandonare e a lasciar andare. La capacità di assaporare un vero silenzio interiore è direttamente proporzionale al saper camminare sulla fune della meraviglia del vuoto.  Dejanira Bada *In copertina: Philippe Petit durante un servizio fotografico nel dicembre del 1989 ritratto da Annie Leibovitz L'articolo Camminare sulla fune, ovvero: esercizi per assaporare il silenzio proviene da Pangea.
September 18, 2025 / Pangea
“La lotta dell’angelo che è in noi”. Inquietudini religiose del nostro tempo, tra Rilke e i Baustelle
> E, d’improvviso intatta > Sarai risorta, mi farà da guida > Di nuovo la tua voce, > Per sempre ti risento. > > Giuseppe Ungaretti, Per sempre Grazie alla mia professione di insegnante, vivo a contatto con i giovani. Non mi accontento di insegnare, cerco di ascoltarli, di coglierne gli interessi, le letture, i turbamenti che li attraversano. Questa primavera, a Ca’ Foscari, ho presentato assieme a Massimo Iiritano il suo ultimo libro, dedicato alle inquietudini religiose del nostro tempo. L’aula era gremita di studenti, attenti, curiosi, forse intuendo che si sarebbe parlato di loro. Il libro si apre infatti con una riflessione originale sull’inquietudine religiosa dei giovani, prendendo spunto dalle canzoni di un gruppo musicale italiano, i Baustelle. Scrive Iiritano: “alla ricerca delle inquietudini religiose del nostro tempo, incontriamo subito tanta musica, cinema, serie tv, podcast, youtuber… Sarebbe utile e interessante, credo, iniziare da qui”.  Sì, è utile parlare dei giovani e ai giovani nella loro lingua e iniziare proprio da qui, dalle canzoni che spesso ascoltano con le cuffie dai loro cellulari, mentre camminano per strada o viaggiano in autobus; nei momenti di pausa dal lavoro o all’università tra una lezione e l’altra…  Le parole delle canzoni dei Baustelle fanno immediatamente breccia, sono significanti: parlano di spaesamento, di inquietudine, di vuoto, di nulla.  Solo qualche esempio: > “Fra le mute tombe del monumentale, > Non c’è Dio e non c’è male, solo vaga oscurità”.  E un’altra canzone intitolata Il nulla recita:  > “Tutto è niente, l’essere è > Sotto il sole colpevole > I segnali spesso non significano mai  > È meglio di lunedì > Accorgersi > Nel caos dell’ipermercato  > o in un beato megastore  > Della bugia > Che sta alla base del mondo  > in un secondo coglierlo  > Spogliato e crudo il nulla” Commenta Iiritano: “Verità metafisica, sentimento poetico che attraversa millenni di culture e letterature, e che diviene rivelazione imprevista della quotidianità. Laddove echeggia ancora il leopardiano “solido Nulla” e l’insuperata visione di Eugenio Montale”. È vero della vanità della vita, del senso di vuoto e del nulla, la filosofia, la poesia e le tradizioni religiose e sapienziali ci parlano da secoli. Basti qui ricordare il “Vanitas vanitatum et omnia vanitas” con cui si apre l’Ecclesiaste, il libro della Bibbia forse più citato dai poeti. Si pensi, come suggerisce Iiritano, a Leopardi, con il suo “solido nulla”, ma anche a Petrarca che nelle sue Rime sparse annota con amarezza “che quanto piace al mondo è breve sogno”.  Dunque, si potrebbe dire, citando ancora il Qohelet, “niente di nuovo sotto il sole”. Tuttavia, a mio avviso, non è proprio così. È il moderno che scopre, rimanendone atterrito, pietrificato, quello che da Nietzsche in poi verrà definito “l’ospite inquietante”: il nichilismo. E questo perché, come hanno intuito Nietzsche e, ancor prima di lui, Kierkegaard e Dostoevskij, il nichilismo è un fenomeno religioso, strettamente legato alla morte di Dio. A partire dalla constatazione di questa crisi epocale, dalla morte di Dio, il volume di Iiritano si sviluppa lungo un percorso articolato, in cui i diversi capitoli, pur affrontando temi eterogenei, convergono verso un preciso obiettivo comune: recuperare un rapporto diverso con il Cristianesimo e con il Dio della tradizione giudaico-cristiana. Un Dio, la cui luce, come si legge nel suggestivo capitolo Lux in tenebris, le tenebre non hanno potuto né afferrare né vincere. Una luce, dunque, che può ancora illuminarci oggi. Al centro del libro vi è dunque la ricerca di una fede cristiana che sceglie di confrontarsi con il proprio tempo e con la storia, proponendosi come risposta al nichilismo e alla disperazione. Una disperazione che si manifesta in due forme, che potremmo definire, avendo riguardo alla loro origine, teologica e metafisica.  La prima nasce dal senso di abbandono e di desolazione lasciato da un Dio fragile che appare assente dalla scena del mondo e della storia, tema centrale del capitolo sulla teologia dell’ora nona. In queste pagine riecheggiano le riflessioni tragiche del maestro di Iiritano, Sergio Quinzio, sulla sconfitta di Dio, sul suo silenzio, sulla sua fragilità, sul fallimento della promessa di redenzione e di salvezza. La seconda è una disperazione metafisica, che accomuna credenti e non credenti e scaturisce dalla consapevolezza della precarietà dell’esistenza. Questo tema trova la sua massima espressione nel capitolo Angeli caduti. Un dialogo sulla caducità tra Freud, Rilke e Wenders, che occupa nel libro una posizione centrale sia dal punto di vista strutturale sia concettuale, suggerendo la chiave di lettura dell’intero volume.  In questo capitolo, Iiritano commenta il celebre saggio di Freud Caducità. La riflessione freudiana sulla caducità nasce da un episodio, raccontato dallo stesso fondatore della psicanalisi e rievocato da Iiritano. Nell’estate del 1913, durante una vacanza sulle Dolomiti, Freud passeggia in compagnia di due amici per una contrada in piena fioritura. Uno dei due amici è Lou Andreas-Salomé, l’altro un poeta “già famoso nonostante la sua giovane età”, Rainer Maria Rilke. La bellezza della natura, anziché rallegrare l’animo del poeta, lo turba. Tutto quello splendore che non durerà più di una breve stagione evoca nella sua mente quel destino di morte che accomuna tutto ciò che ha vita e dunque anche tutto ciò che ammiriamo e amiamo. A incupire il suo animo è la percezione della caducità, di quel nulla che minaccia e insidia il vivente, che toglie valore a quanto ci appare prezioso, bello e perfetto, che fiacca ogni sforzo teso alla costruzione e creazione, che vanifica ogni lavoro e progetto. Invano Freud osserva che la transitorietà di una cosa non ne inficia la bellezza, che, anzi, “la limitazione della possibilità di godimento ne aumenta il pregio”: quelle che a lui paiono considerazioni “incontestabili” non producono alcun effetto sui suoi due amici, non scuotono la malinconia metafisica del poeta, una reazione alla frustrazione dell’“esigenza di eternità” intrinseca al desiderio umano. Come spiega Iiritano:  > “Ecco la lotta dell’angelo, che è in noi. Lotta impossibile per l’eterno che > ci sfugge, che disperatamente non ci appartiene, e che pure non possiamo che > necessariamente volere. Verità di un de-siderare che ci costituisce in quanto > umani: mancanza delle stelle, da cui in qualche misterioso modo, pure sentiamo > di provenire.” La malinconia si configura dunque come una reazione affettiva al dolore per il contrasto tra il desiderio umano di eternità e stabilità e le leggi della realtà che lo frustrano. L’argomento di Freud, secondo cui “Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida”, non convince i suoi compagni.  Il lutto, per Freud, è un “grande enigma”: il padre della psicanalisi non capisce perché causi tanta sofferenza e richieda tanto tempo per ripristinare la capacità dell’Io di investire la libido, dato che si estingue “spontaneamente”. Ancora più in radice, Freud si stupisce del dolore che proviamo per la caducità, un dato di fatto di cui siamo da sempre consapevoli. Ancora più assurda del lutto stesso è poi la malinconia che anticipa la perdita. Freud intuisce che è il presentimento del dolore futuro a turbare i suoi amici:  > “Poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso – > scrive – essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza > perturbatrice del pensiero della caducità”. In sintesi, era “la ribellione psichica contro il lutto” a svilire “il godimento del bello” in loro: “L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera – conclude lo psicologo – faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la sua fine”. Per Freud, invece, “il valore di caducità è un valore di rarità nel tempo”. Egli rimprovera al poeta di non saper cogliere l’attimo e di non accettare la legge della realtà, considerando la sua malinconia una reazione “malata” all’inevitabile scorrere del tempo, così come inadeguata gli appare la risposta dell’uomo religioso, anch’essa una “rivolta” contro questo dato di fatto. Di fronte alla consapevolezza della “precipitare nella transitorietà di tutto ciò che è bello e perfetto”, si possono avere due reazioni: “l’uno porta al doloroso tedio universale” del poeta”, “l’altro alla rivolta contro il presunto dato di fatto” del credente. Nonostante entrambi rifiutino il tempo e il divenire, essi, infatti, lo fanno in modi diversi: il poeta passivamente, con un’accidia paralizzante; il credente attivamente, con una fede che ritiene “insensato e nefando” che le gioie e il mondo esterno “debbano veramente finire nel nulla”, credendo che “in un modo o nell’altro devono riuscire a perdurare, sottraendosi a ogni forza distruttiva”. Contro questa rivolta – ci ricorda Iiritano alla fine del capitolo – Freud invita a “sopportare la vita” virilmente senza rifugiarsi in illusioni che la impoveriscono ed è a questo punto che poesia e fede, da una parte, e scienza, dall’altra, divorziano. Non possono non divorziare, perché poesia e fede si nutrono proprio di questa rivolta, dando credito a quelle che a Freud appaiono solo illusioni.  Iiritano ricorda le parole di un altro autore da lui molto amato, Albert Camus:  > “Lo spirito rivoluzionario è tutto nella protesta dell’uomo contro la > condizione d’uomo. > In questo senso, sotto forme diverse, il solo tema eterno dell’arte e della > religione.” È questa rivolta che Iiritano definisce la lotta dell’angelo in noi. Ed è su questa lotta che poggia la fede alla quale Iiritano, a mio parere, cerca di rendere attenti i lettori, utilizzando, come osserva Sergio Givone nel dialogo che intesse con lui nel volume, due linguaggi complementari, ovvero le parole della fede e della poesia. Le parole della fede per rintracciare quelli che definisce i “presupposti teologici della storia”, attingendo a pensatori come Gioacchino da Fiore, Benjamin e Bloch.  Le parole della poesia, invece, per scavare nei recessi dell’anima, riportando alla luce ciò che è riposto nel segreto del nostro intimo, ciò che silenziosamente aneliamo e speriamo. Nella prospettiva appena sopra delineata, chiude il volume un capitolo: Ossi di seppia. Scenari apocalittici per il nostro tempo, in cui Iiritano medita i celebri versi di Eugenio Montale Forse un mattino andando in un’aria di vetro. Li ricordo per chi non li avesse presenti: > “Forse un mattino andando in un’aria di vetro, > arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: > il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro > di me, con un terrore di ubriaco. > Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto > alberi case colli per l’inganno consueto. > Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto > tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.” Questi versi, notissimi, aprono nell’interpretazione proposta da Iiritano a “scenari apocalittici per il nostro tempo”. Vediamo come questo sia da intendere. Avevo dato una interpretazione più semplice a questi noti versi montaliani che tanto mi colpirono quando ad essi mi accostai per la prima volta. Per me parlavano della rivelazione improvvisa dell’impermanenza, della morte, del niente. Una simile rivelazione isola, rende estranei agli altri, che vogliono continuare a vivere in superficie, che sono alla spasmodica ricerca di evasione e non vogliono neppure sentire parlare di queste cose. Una simile rivelazione rende quindi eterogenei all’umano generale, per cui da quel momento in poi ogni comunicazione o finisce o si risolve in un fraintendimento. Meglio allora, come scrive Montale, andare “zitto” tra gli uomini che non si voltano, chiuso nel proprio “segreto”.  Leggendo queste parole, come non pensare all’amarezza di Leopardi nelle Operette morali, alla solitudine del poeta dei Diapsalmata kierkegaardiani? All’esteta riflesso e al suo contrapporsi all’uomo immediato?  Non bisogna voltarsi indietro, avverte chi continua a camminare guardando sempre avanti, senza mai fermarsi a pensare. Spontaneo è l’accostamento a Orfeo, che si volge indietro e così perde per sempre Euridice, e alla moglie di Lot che rimane pietrificata. La visio del niente pietrifica.  Nella mia interpretazione non avevo fatto caso che Montale definisce la rivelazione del nulla “miracolo”.  Penso quindi che l’ultimo capitolo del libro di Iiritano in cui si lascia intendere che la rivelazione del nulla potrebbe avere carattere religioso, potrebbe, cioè, renderci attenti alla fede e aprirci alla speranza di un compimento della storia, all’attesa che essa abbia non solo fine, ma una direzione e un fine, mi sembra un’interpretazione più profonda e complessa di quella che avevo dato quando per la prima volta avevo letto Ossi di seppia. Parlando della canzone Finirà di un gruppo musicale, I cani, canzone che recita: > “Con un’apocalisse > Come stelle e galassie > O in punta di piedi > Come l’umanità e la terra > Il sistema planetario > Saturno contro Urano > Plutone è troppo piccolo > E non ce la fa più > È stanco di lottare > Di questo mondo cane > Ma non ti preoccupare > Tanto finirà la guerra > L’orrore, il sacrificio > Il sangue, il genocidio > Finiranno presto > Come il sale, il dentifricio > Come l’acqua, il cioccolato > La benzina nell’auto > Il petrolio sotto terra > In Arabia Saudita > Nelle viscere del cosmo > Si leverà un silenzio” Commentando le parole della canzone, Iiritano così scrive:  > “Scenari catastrofici appunto, mai “apocalittici”: poiché nel loro dispiegarsi > non vi è traccia alcuna di senso e direzione ultima, di verità che si disvela > (apò-kalupto). Ciò che manca è, appunto, proprio la speranza. Sarà allora > proprio il tragico realizzarsi, dinanzi ai nostri occhi, di quegli scenari fin > qui solo virtualmente immaginati, a rompere questo guscio e ridestare in noi > quella Speranza più audace? Potremo di nuovo temere e sperare, come un tempo > dinanzi a tali catastrofi, che la fine possa rivelarsi paradossalmente anche > un “fine”? Desiderio, esigenza di eternità, protesta, rivolta, e infine speranza di un compimento della storia, sono per Iiritano i segnavia che conducono alla fede e la sostanziano. In tal senso, mi pare particolarmente opportuna la citazione – tratta da Ernst Bloch, Marx, la morte e l’apocalisse (in Religione ed eredità) – che recita:  > “La nostra futura beatitudine, l’esistenza del regno dei cieli, la chiara > realizzazione del sogno dell’anima a cui corrisponde la sfera di una realtà > comunque determinata, non sono solo pensabili, cioè formalmente possibili, ma > assolutamente necessari, al di là di ogni giustificazione, prova, consenso e > premessa formale o reale della loro esistenza. Essi sono postulati dalla > natura dell’oggetto apriori e dunque anche dall’intensa tendenza utopica di > una realtà essenziale e stabilita esattamente”. Vorrei però concludere questa recensione con una riflessione sul rapporto tra filosofia e poesia, filosofia e fede, ovvero sulla prospettiva filosofica che sta alla base del volume di Iiritano, tornando brevemente al caso Rilke. Freud, come abbiamo visto, in Caducità parla di un’“esigenza di eternità”, che sostanzierebbe non solo il desiderio del poeta, ma anche quello del credente e, più in generale, di ogni uomo. Ebbene, questa esigenza del nostro desiderio, secondo il fondatore della psicanalisi, è in stridente contrasto con la nostra esperienza – per la quale la caducità è un’innegabile evidenza.  Iiritano ci ricorda nel suo libro questa considerazione di Freud: > “Ma questa esigenza di eternità è troppo chiaramente un risultato del nostro > desiderio per poter pretendere a un valore di realtà: ciò che è doloroso può > pur essere vero”.  Freud non riconosce dunque alcun valore di verità a quel desiderio, che, pure, non esita a definire nostro, cioè appartenente non solo al poeta, ma a ogni uomo. A negarlo, a confutarlo, è quell’evidenza dei sensi e della ragione che per lo scienziato rappresenta l’unico criterio del vero. La tristezza del poeta Rilke, la sua malinconia, nasce dunque, si ribadisce, dalla frustrazione, conseguente all’esame di realtà, della sua e nostra esigenza di eternità. Dell’eternità, di questo oggetto del nostro desiderio, ci parlano infatti i magnifici versi di numerosi poeti, non solo Rilke.  All’eternità, o meglio all’immortalità, aspira il poeta ateo Vladimir Majakowskij, che non la chiede a Dio, ma alla scienza, al compagno chimico dall’ampia fronte, a cui indirizza la sua richiesta di resurrezione:  “Resuscitami.  Almeno perché,  da poeta,  ti ho atteso,  rifiutando le balle d’ogni giorno.  Risuscitami,  almeno per questo!  Risuscitami:  voglio finire di vivere il mio”.  Oppure alla fama, alla gloria, come nei bei versi in memoria di Lenin, in cui si dice dello statista deceduto:  “E la morte non oserà toccarlo:  Egli sta nel bilancio del futuro!.  I giovani ascoltano le strofe sulla morte,  e col cuore intendono: immortalità”. E questa salvezza dal tempo, dalla morte, dall’oblio famelico che tutto inghiotte egli non la vuole solo per sé, ma per l’intera umanità:  “Lascia. Non occorrono né parole, né preghiere  Che senso ha se tu solo ti salvi?! Voglio salvezza per tutta la terra priva d’amore,  per tutta la folla umana del mondo”. Di eternità ci parlano sommessamente le Elegie duinesi. Rilke parte sempre dall’esperienza della caducità. Nel suo libro Iiritano ricorda i notissimi versi:  > “Ma per noi sentire è svanire > noi ci esaliamo, sfumiamo… sul volto la > sembianza sorge e spare senza posa. Come > rugiada dall’erba novella quel che è nostro > svapora da noi, > come il calore da vivanda calda.”  Ma si badi bene, l’esperienza del trapassare e dello svanire, nelle Elegie duinesi, a differenza che in Caducità, sembra essere non più sofferta, bensì accettata dal poeta. Composte tra il 1912 e il 1922, le Elegie duinesi accompagnano infatti un decennio di profonda crisi del Rilke poeta, al cui interno si consuma un mutamento, una “svolta”, una conversione dello sguardo attraverso cui la poesia da lamento per l’inconsistenza delle cose diviene canto, accettazione gioiosa e persino celebrazione del loro trascorrere, passare, fluire. Eppure, anche il Rilke posteriore alla svolta, si spinge oltre tale accettazione e celebrazione del divenire, con lo slancio del cuore, nel momento in cui parla degli amanti. Il loro amore, destinato a rimanere incompiuto nel tempo, può trovare il suo compimento solo altrove, nell’eternità. Leggiamo: > “Angelo: ma ci sarà una piazza, che noi non conosciamo dove, su un tappeto > indicibile, gli innamorati > che qui non arrivano mai all’adempimento, > potranno mostrare le alte, ardite figure  > dello slancio del cuore, le loro torri di gioia > le scale che da tanto, dove sempre mancava terreno, s’appoggiavano soltanto > l’una all’altra, tremanti. Oh, poterlo, > dinanzi a innumerevoli taciti morti spettatori d’intorno: le getterebbero > allora, le loro ultime monete, sempre risparmiate, > sempre nascoste, che noi non conosciamo, > le monete sempre valide della felicità, alla coppia > che sorride finalmente davvero, su tappeto placato?”  > > (V, 94-106) Questo slancio del cuore, questa speranza del compimento, come si accennava, è il principio su cui il pensiero religioso edifica la propria filosofia. Non a caso uso il termine “filosofia”. È qui che la via si biforca. O seguiamo una filosofia che è sostanzialmente sapere scientifico, ragione raziocinante, oppure una filosofia che, riconosciuti i limiti di questo sapere, si spinge oltre e intrattiene con la poesia e con la fede un “colloquio pensante”. In questo secondo caso “Poesia, filosofia e fede si incontrano nello stesso luogo, si danno convegno nella stessa stellare agorà”, sostanziandosi di una parola di soglia, chiaroscurale, impregnata d’ombra, abitando il luogo fuori luogo. Questo colloquio pensante è fatto di attraversamenti, transiti, sconfinamenti, eccedenze, contaminazione dei saperi (Si veda, a questo riguardo, la riflessione di Roberto Celada Ballanti sul rapporto tra filosofia e letteratura nel volume Poetiche all’ombra del nichilismo. Montale, Mann, Borges, Brescia, Morcelliana, 2023). L’immagine più bella del filosofo che intrattiene questo dialogo stellare, ritratto in cui scorgo la fisonomia del volto speculativo di Massimo Iiritano, ci è offerta da Ludwig Wittgenstein in Pensieri diversi:  > “Il pensatore religioso onesto è come un funambolo. Si direbbe che cammini > quasi soltanto sull’aria. Il suo terreno è il più stretto che si possa > immaginare. Eppure rimane possibile camminarvi sopra davvero”.  > > (L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980) Isabella Adinolfi *In copertina: Eugène Delacroix, Giacobbe lotta con l’angelo, studio, 1850 ca. L'articolo “La lotta dell’angelo che è in noi”. Inquietudini religiose del nostro tempo, tra Rilke e i Baustelle proviene da Pangea.
September 10, 2025 / Pangea
“Eterno fuoco vivente”. Eraclito il pensatore Sfinge amato da Simone Weil
Nel dire frammento, in Eraclito, s’intende: frantume di vetro, punta di freccia, dardo al veleno – cosa che ferisce; che mutila.  Per questo Eraclito è il pensatore più audace del Novecento, il secolo mutilato, il secolo che ha fatto della mutilazione il proprio carisma. La bomba, il bombardare, mutezza nel mutilare.  (Mutilata Nike, mutilato Bacon, anime mutilate, incompiutezza, e dare a questa falce il nome primaverile) A differenza, ad esempio, della ferita, che è sempre uno spiraglio, è sempre una finestra: pensare all’icona del Crocefisso, ad esempio. La mutilazione non si risana, di quel grido non risuona benedizione da risorto. Il ferito accoglie; la mutilazione irrompe in orrore.  Eppure: dal mutilato tendere all’intero, all’uno che non è più. Mutilato: simbolo. Spezzare per ricomporre.   Secondo Giorgio Colli, Eraclito è il “più duro” perché “enuncia i suoi enigmi senza scioglierli”. All’agonismo dell’enigma – vince chi sa risolverlo, cioè: vanificarlo – segue l’agonia. Enigma è sfinge che uccide. Tutti sotto egida dell’enigma, sotto minaccia.  In realtà: sciogliere l’enigma, ovvero: spaccare le finestre. Non è un caso che il lavoro definitivo di Colli sulla Sapienza greca, il cui culmine è Eraclito, sia incompiuto, mutilato. Eraclito mutila. Scavo dal collage posto in Appendice all’Eraclito edito da Adelphi nel 1980: > “L’esperienza contemporanea contrappone il principio di vita al principio > della morte. Ma per la sapienza antica la morte è soltanto l’ombra lunga e > vacillante proiettata dalla vita, esprime la finitezza che sta nel cuore > dell’immediato. Ciò significa l’allusione di Eraclito che Dioniso e Ade sono > lo stesso dio. Freud contro Eraclito: chi ‘sa’ di più?” Eraclito – che per mutilata natura si offre al frainteso: un cranio può essere preso per cornucopia o brocca – impone i temi della contemporaneità: divenire, polemos padre di tutte le cose, coincidenza degli opposti, esistere da sonnambuli, cibarsi di illusioni e di superstizioni, confondere il dio con l’idolo, la forma con l’immagine, la figura con lo sfigurato. Soprattutto, il potere del logos. Le cose esistono perché acquartierate in un nome; ma di quel nome, di cui impunemente ci appropriamo, sappiamo la superfice. Siamo noi, i creati, il cibo del linguaggio, che continuamente ci mastica e rigurgita. Da qui: ordalia dell’oracolo.  Secondo la storia tramandata da Diogene Laerzio, Eraclito rifiuta di dettare le leggi agli abitanti di Efeso: preferisce ritrarsi all’ombra del tempio di Artemide – la dea che presiede l’arco, la caccia, la luna, una bene armata verginità – giocando a dadi con i bambini, per poi volgersi al bosco, dimentico del linguaggio, rientrando nel ferino. Volta le spalle all’ordine della polis, il pensatore, predilige il caos, l’innocenza violenta e inviolata, il lallare dei bimbi e il detto sacro, a sobillare umana lingua.  Da qui, eterna lotta tra dire e comprendere: cosa può la poesia se non mutilarsi mentre ascende – o spezzarsi in frammenti dopo il crollo?  Le svariate traduzioni di Eraclito in italiano – una leccornia per i classicisti, immagino, un rebus – ne dicono l’onnipotenza. Si dice oscuro intendendo – come Hölderlin – una chiarezza possibile soltanto a chi ha occhio d’aquila – a chi sa fissare il sole, “grande quanto il piede di un uomo”. Al di là di Colli, preferisco la versione di Angelo Tonelli (Eraclito, Dell’origine, Feltrinelli, 2005) e quella di Luciano Parinetto (Eraclito, I frammenti, Marcos y Marcos, 1982), di particolare bellezza lirica, spiazzante per sprezzatura. Il poeta più eracliteo del secolo è stato René Char: la Sorgue la sua Efeso, la sua Delfi. Le mutilazioni di Char, però, sono greto pieno di latte, costato che, volto al contrario, disincastrato, diventa culla.  > “Chi crede l’enigma rinnovabile, lo diventa. Scalando liberamente l’erosione > spalancata, ora luminosa, ora buia, sapere senza fondare sarà la sua legge. > Legge che osserverà ma che avrà ragione di lui; fondazione di cui non vorrà > sapere ma che lui stesso porrà in opera.  > > Si deve tornare senza posa all’erosione. Il dolore contro la perfezione.  > > (da In una casa murata a secco, in: R. Char, Ritorno Supramonte e altre > poesie, a cura di Vittorio Sereni, Mondadori, 1974; 2002) Il poeta parla di erosione: mutilazione operata goccia a goccia. Opera d’acqua, dunque – in contrasto all’opera del fuoco di Eraclito. Il buco in vece della cenere. Erosione del verbo, che del perfetto è il bandito, l’effetto. Una sete anima il poeta – ho sete, latra il Nazareno.   Eraclito è l’opposto di ermetico: verbo solare, il suo – come l’angelologia dello Pseudo-Dionigi. Per questo: dubitare dei poeti complici della complicanza. Se appare oscuro è per difetto di nostra vista – anzi: di slancio, di elan, di audacia nell’ascolto. Char scrive l’introduzione alle traduzioni di Eraclito dell’amico Yves Battistini (Cahiers d’art, 1948, con quindici acqueforti di Georges Braque; ora in: Trois présocratiques, Gallimard, 1988; qui tradotta in appendice); nel 1966, a Le Thor, invita Martin Heidegger a parlare di Eraclito.  Il frammento è ciò che resta dell’unico – voi siete le parti di un unico corpo, dice San Paolo. Di quel corpo di cui non sappiamo più vedere il volto, il sorriso.  D’altro lato, nel 1953 Gallimard pubblica un insieme di scritti di Simone Weil come La source grecque, nella “Collection Espoir” diretta da Albert Camus. In particolare, sono raccolti alcuni tra i testi più noti di Simone Weil: la riflessione su Antigone e L’Iliade, ou le poème de la force. In appendice, le sue nude versioni dai “Frammenti di Eraclito”, di cui qui – tra sussurro e tradimento – si offrono alcuni brani. Simone Weil tentava di compiere una sintesi immedicabile tra pensiero greco, intuizione cristiana, sapienza indiana. Più che un enciclopedista di aforismi, l’Eraclito di Simone Weil pare il traditore del Verbo, il gran bugiardo che per gioco svela il vero – e ci scaglia il dio/leone addosso.  Cosa trarre da questi incroci? Spoliazione immediata di sé – entrare, da mutilati, nel canto, e che questa mano, senza medicamento alcuno, sia il nostro sole.   ** Fragments d’Héraclite 1  Quanto al logos, questo logos eternamente reale, gli uomini non ne hanno alcuna comprensione finché non ne parlano e non cominciano a parlarlo. Benché tutte le cose accadano conformi al logos, potremmo pensare che non ne abbiano fatto esperienza. Eppure, fanno esperienza di parole e fatti analoghi a quelli che descrivo e distinguono ogni cosa secondo la sua natura, spiegando com’è. Gli uomini non sanno cosa fanno da svegli come non sanno più cosa hanno fatto [in sogno] durante il sonno.  * 2  …dunque non resta che avvinghiarsi al comune. Perché il comune unisce. Ma quando il logos è comune agli esseri viventi, la maggior parte se ne appropria nel pensare, come fosse cosa sua.  * 3  Il sole: grande quanto il piede di un uomo.  * 4  Se la felicità risiede nei piaceri del corpo, dovremmo credere che i buoi siano felici quando hanno fieno da masticare.  * 5 Invano, uomini lordi di sangue si purificano; come se qualcuno piombato nel fango si lavasse con il fango. Se vedessimo un uomo agire così, gli daremmo del pazzo. E pregano immagini di dèi, come si chiacchiera in una casa. Non sanno cosa sia un eroe né un dio.  * 6 Il sole è nuovo ogni giorno. * 7 Se tutti gli esseri diventassero fumo, le narici li distinguerebbero.  * 8 Ciò che si oppone coopera, e da ciò che contrasta procede la più bella armonia, è la lotta a generare tutte le cose.  * 9 Un asino sceglie il cardo più che l’oro. * 10 Tutte le cose sono e non sono unite, convergono e contrastano, consuonano e sono dissonanti; da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose.  * 12 Per chi entra negli stessi fiumi, altra e continuamente altra è l’acqua che scorre; e le anime dal liquido si voltano ai vapori (caldi e secchi) * 13 Lussuria nella lordura.  * 16 Chiarità che mai passa, come sfuggirle? * 18 Se non lo si spera non si troverà mai l’insperabile; non lo si può cercare e non c’è modo di volgersi a lui.  * 21 Tutto ciò che vediamo da svegli è morto, ciò che vediamo dormienti è sonno.  * 23 Se non esistesse il crimine non saprebbero il nome Giustizia. * 25 Al grande male la più larga parte. * 26 Di notte un uomo tocca la luce, morto a se stesso eppure vivo. Dormiente, tocca ciò che è morto, la sua vista è spenta. Desto, tocca il dormiente.  * 27 Ciò che attende i morti è diverso da ciò che sperano, da ciò che pensano.  * 30 Questo mondo (ovvero: kosmos, ordine del mondo) è lo stesso per tutti, nessun dio e nessun uomo l’ha creato, ma è da sempre e sempre sarà, eterno fuoco vivente, acceso secondo misura, spento secondo misura.  * 32 L’uno, quest’unico sapiente, che vuole e non vuole essere nominato Zeus.  * 40 La conoscenza non insegna a diventare sapienti.  * 44 Il popolo difenda la legge come una muraglia. * 45  Non puoi tracciare limiti all’anima, nemmeno percorrendo tutta la via, tanto è profondo il suo logos.  * 46  Del pensiero disse: è il male sacro.  * 48 Il nome della freccia è vita, ma opera la morte.  * 49 Entriamo e non entriamo, siamo e non siamo negli stessi fiumi.  * 50 Chi non ha prestato ascolto a me ma al logos concorda sulla sapienza: uno è tutto.  * 51 Non comprendono come l’opposto si accordi in una identità. L’armonia è cambiamento di fronte, come l’arco nella lira.  * 53 Guerra è madre di tutte le cose, di tutte le cose regina, e fa apparire alcuni come dèi altri come uomini, e rende alcuni liberi e altri fa schiavi.  * 54 Invisibile armonia è più dell’armonia manifesta.  * 60 Sentiero che sale o che scende è uno, è lo stesso.  * 62 Immortali mortali, mortali immortali: sperimentano morte, muoiono gli uni nella vita degli altri.  * 63 [Resurrezione della carne]. Si levano davanti all’essere che è là e ne diventano i guardiani, vegliano sui vivi e sui cadaveri.  * 64 Il fulmine governa il tutto. Il fulmine è fuoco eterno, fuoco sapiente e autore dell’amministrazione del mondo. *** Su Eraclito  Pare impossibile conferire a una filosofia il volto netto, vittorioso di un uomo e, viceversa, adattare i tratti precisi di un essere al carattere, pur sovrano, di un’idea. Ciò che intravediamo: la cosa che ascende, assalti di passaggio. L’anima si fa periodicamente affascinare da questo alato montanaro, il filosofo che si propone di farle raggiungere una guglia più trasparente, per conquistare la quale l’anima si presume mondana. Ma poiché le leggi proposte sono, almeno in parte, smentite dall’opposto, dall’esperienza e dalla stanchezza – una funzione universale –, l’obbiettivo sperato è, infine, una delusione, una remissione, un rimettersi in gioco della coscienza. La finestra così clamorosamente aperta sul prossimo era invero aperta solo all’interno, nel più labirintico interiore. Fu così fino ad Eraclito. È così che il mondo continua per coloro che ignorano l’Efesino.  Il nostro gusto, la nostra voglia, le nostre molteplici soddisfazioni sono tali che alcune particelle di sofismo possono stringerci, in un lampo; e toccare la nostra fame. Ma presto la verità riprende il suo posto come guida dell’assoluto e noi ricominciamo a seguirla, avviluppati dall’uragano e dal vuoto, dal dubbio e da una altezzosa supremazia. Tanto è ingegnosa la speranza! Tra tutti, Eraclito è colui che, rifiutandosi di molare la prodigiosa domanda, l’ha condotta ai gesti, all’intelligenza e alle abitudini dell’uomo senza attenuarne il fuoco, senza interromperne la complessità né comprometterne il mistero o opprimere la sua giovinezza.  Sapeva che la verità è nobile, che l’immagine che la rivela è la tragedia. Non si accontentò di definire la libertà, la scoprì inestirpabile, che coinvolge la tracotanza dei tiranni, che perde il suo sangue accrescendo le forze, al centro del perpetuo. La sua vista da aquila solare, quella particolare sensibilità lo hanno persuaso una volta per tutte che la sola certezza che noi possediamo sulla realtà del domani è il pessimismo, una forma perfetta del segreto in cui ci rifugiamo per rinfrancarci, in cui stiamo in guardia e dormiamo.  Il divenire progredisce dentro e intorno a noi. Non è subordinato alle evidenze della natura: vi si aggiunge e agisce su di essa. Salva è l’occasione dell’evento magico che si produce davanti ai nostri occhi. Che sconvolge e arricchisce un ordine troppo spesso ingrato.  La percezione del fatale, la continua presenza del rischio, questa oscurità che è come un grande remo nelle acque, mantengono l’ora in sospeso e noi tesi e disponibili alla sua altezza.  La questione se dire il giusto o dire meglio, è irrilevante. Dicendo il giusto, sulla punta o nella scia della freccia, la poesia si lancia immediatamente verso le vette, perché Eraclito possiede il potere sovrano che ascende, che spezza e muove il linguaggio, servendolo al proprio pasto, al proprio bene.  Condivide con altri la trascendenza che gli è assente. Al di là della sua lezione, una bellezza senza tempo rimane, come il sole che matura sui bastioni ma porta altrove il frutto dei suoi raggi. Eraclito chiude il ciclo della modernità che, alla luce di Dioniso e della tragedia, avanza verso il canto finale e il finale confronto. La sua marcia culmina sull’oscuro e folgorante palco dei nostri giorni. Come un insetto effimero e appagato, fermo su un dito – sulle nostre labbra, il suo indice dall’unghia strappata.  René Char L'articolo “Eterno fuoco vivente”. Eraclito il pensatore Sfinge amato da Simone Weil  proviene da Pangea.
August 9, 2025 / Pangea
“Bisogna quindi amare assolutamente tutto”. Ad Assisi, con Simone Weil
Nel 1937, Simone Weil trascorse due giorni ad Assisi: “Mentre mi trovavo da sola nella piccola cappella romanica del XII secolo all’interno di Santa Maria degli Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove san Francesco ha pregato tanto spesso, per la prima volta nella mia vita qualcosa più forte di me mi ha obbligata a mettermi in ginocchio”.  Questa è l’esperienza di Simone nella Porziuncola, quella piccola chiesetta di pietra che si trova all’interno della maestosa Santa Maria degli Angeli. Un luogo di pellegrinaggio e preghiera che recentemente ho voluto visitare anch’io proprio per capire l’esperienza della Weil. > “Ad Assisi sono completamente scomparsi dalla mia memoria Milano, Firenze, > Roma e tutto il resto, tanto sono stata affascinata dalle campagne così dolci, > così miracolosamente evangeliche e francescane, dalle chiese così incantevoli, > da tanti ricordi felici e da quei nobili esemplari della specie umana che sono > i contadini umbri, una razza ricca di bellezza, di vigore fisico, di gioia, di > dolcezza. Non avevo mai sognato un paese così meraviglioso”. Simone Weil la filosofa, la mistica, l’anarchica, l’operaia per scelta, la non più ebrea, la malata, la donna che scelse l’adesione alla miseria per avvicinarsi a Dio, che capì presto quanto fosse necessario fare “vuoto” per fare spazio a Lui, negare se stessi, ammettere che l’universo è assolutamente privo di finalità e che in questa assenza sta l’essenza del mondo, la bellezza pura, e che per non cedere alle passioni è necessario esercitare l’attenzione, la responsabilità, portare il corpo alla disintegrazione.  > “Ad esempio, mi sono sempre proibita di pensare al futuro, ma ho sempre > creduto che il momento della morte sia la norma e la meta della vita. Pensavo > che per coloro i quali vivono come si conviene sia l’istante in cui, per una > frazione infinitesimale di tempo, la verità pura, nuda, certa, eterna penetra > nell’anima. Posso dire di non aver mai desiderato per me alcun altro bene”.  L’ascesi come fortificazione e non come mortificazione. Proprio ciò che scelse di fare Simone anche in punto di morte: portare la propria croce. In preda a una tubercolosi, poco più che trentenne, si lasciò anche morire di fame: “Trovo conforto soltanto nel ricordo delle voluttà sia spirituali sia fisiche che sorgono durante la sofferenza fisica. Sono brevissime, e tuttavia di una tale intensità da equivalere a un lungo benessere. Lo so per esperienza, e suppongo che sia così per tutti”. Perché la malattia offre la condizione ideale per l’ascesi e per raggiungere Dio. Per scorgerlo bisogna sottrarsi al mondo.  Per riuscire a vedere è necessario essere consapevoli. L’attenzione è la più alta forma di preghiera. Scriveva Simone Weil nel suo Attesa di Dio:  > “L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in sé stessi, così come si > inspira e si espira. Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono > infinitamente più di tre ore d’applicazione con la fronte corrugata, che fanno > dire, con la sensazione di aver fatto il proprio dovere: «Ho lavorato sodo».”. Attenzione come sospensione del proprio pensiero, come possibilità di lasciarlo andare, renderlo disponibile, vuoto, in attesa, senza nulla da cercare, pronti ad accogliere la nuda verità dell’oggetto che sta per penetrarvi. Weil recitava il Pater ogni mattina come una vera e propria pratica di meditazione, una pratica del verificare, un sacramento, una veglia: “Se mentre lo recito la mia attenzione divaga o si assopisce, anche solo in misura infinitesimale, ricomincio daccapo fino a che non abbia ottenuto per una volta un’attenzione assolutamente pura”.  Simone considerava Meister Eckhart un autentico amico di Dio che diceva e scriveva parole udite nel segreto e nel silenzio anche quando queste non concordavano con l’insegnamento della Chiesa, consapevole che il linguaggio della pubblica piazza non può essere come quello della camera nuziale. Anche lei “andava stretta” alla Chiesa. Era una che ripudiava le Crociate e l’Inquisizione, che non aveva bisogno d’intermediari per sentire Dio, i cui figli dovrebbero avere come unica patria l’universo: “Le cose meno vaste dell’universo, nel novero delle quali è la Chiesa, impongono obblighi che possono essere molto estesi, ma fra i quali non c’è quello di amare”.  Per Simone nelle parole “sia fatta la tua volontà”, c’era già ogni cosa, perché se pronunciate con tutta l’anima, implicavano la totale accettazione della volontà divina:  > “Bisogna quindi amare assolutamente tutto, nell’insieme e in ogni dettaglio, > compreso il male sotto qualsiasi forma, e in particolare i peccati commessi, > posto che siano trascorsi (mentre bisogna odiarli se la loro radice persiste), > le proprie sofferenze passate, presenti e future, e – di gran lunga la cosa > più difficile – le sofferenze altrui, posto che non si sia chiamati ad > alleviarle. In altre parole, bisogna sentire la realtà e la presenza di Dio > attraverso tutte le cose esteriori senza eccezioni, con la stessa chiarezza > con cui la mano avverte la consistenza della carta attraverso il portapenne e > la penna”. Viviamo nell’attesa di compensare le nostre mancanze, i nostri vuoti, in balìa delle circostanze, sperando sempre in qualcosa di meglio, che le cose cambieranno, miglioreranno, e che la permanenza della nostra personalità perduri, ma Weil ci ricorda che la paura dell’imminenza della morte è legata soprattutto a questo: non avremo tempo, non è mai stato questo il senso, tali compensazioni non arriveranno mai: “L’umiltà consiste nel sapere che in questo mondo tutta l’anima – non solo il cosiddetto io, nella sua totalità, ma anche la parte soprannaturale, ovvero sia Dio in essa presente – è sottomessa al tempo e alle vicissitudini del mutamento”. La parte mediocre del nostro io non teme la fatica e la sofferenza, teme soltanto di essere uccisa.  Le fede consiste nella “visione delle cose invisibili”, come diceva San Paolo. Non c’è mai nulla da cercare, la salvezza opera nella mancanza di attività. È Dio che cerca l’uomo, non il contrario.  > “Se Dio, dopo una lunga attesa, lascia vagamente intravedere la sua luce > oppure si rivela in persona, è soltanto per un istante. Poi bisogna rimanere > di nuovo immobili e attenti, aspettare senza muoversi, chiamando solo quando > il desiderio è troppo forte”.  La necessità cieca è l’unica strada per accorciare la distanza e avvicinarsi, e amare la propria Croce. > “L’anima è là dove si intersecano la creazione e il Creatore. Quel punto > d’intersezione è il punto d’incrocio dei bracci della Croce”.  L’unica vera parola di Dio è il silenzio.  E dopo aver letto e amato la Weil e il suo Attesa di Dio, eccomi partire per il mio viaggio, e scoprire che si arriva ad Assisi come osservatori. Si guardano gli altri compiere riti, gesti scaramantici, cedere a superstizioni, intrecciare mani in preghiera o lasciare che tocchino statue, altari, pietre, tombe di cadaveri mummificati. Mani che scrivono, che asciugano lacrime che sgorgano da occhi in preda all’estasi.  E poi quel richiamo continuo, necessario e imprescindibile, al silenzio che aleggia in tutta la città, in ogni chiesa, in ogni giardino, dai cartelli o dai microfoni.  Si guardano, si osservano e si giudicano gli altri, ma poi si finisce noi stessi in lacrime sotto al peso della stanchezza della vita nella sublime basilica di San Francesco, sentendo forte e chiara la propria piccolezza, ma non l’inutilità.  Si sente la sofferenza sgorgare dall’acqua salata, e quanto solo l’amore conti, e quanto coraggio e forza questo richieda, quanto impegno, che sia amore per Dio o per la persona che si ha accanto.  Nella Porziuncola ho sperimentato io stessa l’importanza dell’inginocchiarsi per testare la scomodità e la vividezza del dolore, ascoltando la messa, recitando: Padre Nostro “che sei nel segreto”.  Il distacco da sé come riflesso di Dio.  Il legno, le ginocchia e le anime che scricchiolano.  Il tempo che cessa di esistere.  Gli uomini più vigorosi e gli storpi che tornano a essere uguali.  L’ordine che regna sovrano nel silenzio del crepuscolo.  La pietra che protegge.  Il piccolo che si fa grande.  Il fremito della malattia. I cuori spezzati. Le ferite che s’innalzano sopra al capo di ogni uomo e che splendono di fervore.  Le preghiere sussurrate. L’attesa come stato di grazia. Continuare ad amare anche nella sventura.  Il bisogno disperato di farsi perdonare e di perdonare. Gli errori pagati cari. Il dono di chi crede e la speranza di chi dubita. L’immenso divenire. La patria dell’eterno momento presente.  Il timore della morte che cela nostalgia di casa.  Un viaggio ad Assisi si può trasformare da attesa a incontro con Dio.  Dejanira Bada L'articolo “Bisogna quindi amare assolutamente tutto”. Ad Assisi, con Simone Weil  proviene da Pangea.
July 5, 2025 / Pangea
“La filosofia non deve rassicurare, ma turbare”. Su Lev Šestov, il pensatore brutale
Nel 1920, a Londra (presso Martin Secker) e a New York (per R.M. McBride), viene pubblicato un libro ‘impossibile’, All Things are Possible. Apotheosis of Groundlessness. Il sottotitolo – “Tentativi di un pensare adogmatico” – attrae il più filosofico degli scrittori dell’epoca, David Herbert Lawrence. In origine, il libro era uscito in Russia, nel 1905, come “Apoteosi della precarietà”; l’autore, Lev Šestov, era nato a Kiev quarant’anni prima; avrebbe voluto studiare matematica, avrebbe voluto fare l’avvocato – il padre, di lungimirante intelligenza, guidava una ricca azienda che commerciava in tessuti. Del libro – costruito impilando una serie di micidiali aforismi, tesi a decostruire le illusioni della ragione, le fallaci imprese del filosofare – si parlò a lungo. Nel 1903 Šestov aveva strutturato – sbriciolando ogni ‘sistema’ – la propria Filosofia della tragedia in un lungo studio su Nietzsche e Dostoevskij (edito da De Piante nel 2024, a cura di Luca Orlandini); tra anni prima era uscito L’idea di bene in Tolstoj e Nietzsche (in Italia: Castelvecchi, 2014). Šestov riuscì a incontrare il conte Tolstoj nel 1910, in marzo, pochi mesi prima che il grande scrittore, dopo la grande fuga, precipitasse negli altri mondi, morendo. Tolstoj era atterrito dall’arguzia – lenta, letale – di Šestov; pare che dopo aver sfogliato i suoi libri – così testimonia Maksim Gork’ij – abbia detto: “Che audacia… in sostanza, ha scritto senza mezzi termini che non ho fatto che ingannare me stesso – e che ho ingannato i miei lettori…”.  Nel 1920, Šestov parte per Sebastopoli – da lì, volta a Costantinopoli, a Genova, infine a Ginevra. Inviso ai bolscevichi, aveva da poco pubblicato Potestas Clavium. Dal 1921, si trasferisce in un modesto appartamento, a Parigi – sede, tra l’altro, degli incontri con il suo più luminoso e tragico allievo, Benjamin Fondane. Nel mondo inglese, il libro di Šestov passò per lo più inosservato: come accettare un pensatore impegnato a sregolare i dogmi della ragione, a sfatare ogni ‘buon senso’ in virtù dell’insensatezza del vivere, a mutilare le sirene del ‘progresso’ promuovendo, piuttosto, l’epica del miracolo, l’etica del capriccio? Nella sua introduzione, profetica – “La vera Russia è nata. Presto riderà di noi” – ed estrosa, Lawrence scrisse che Šestov “Non è nichilista – scuote l’umana psiche dai propri logori legami. La sua idea, centrale e positiva, è che l’animo umano deve credere in nient’altro che in se stesso”. Non credo sia questo il cuore del pensare di Šestov – se ci piace, possiamo dare all’egotismo il nome di ascesi e fare liturgia del carpe diem – ma Lawrence – che trascina il russo, come dire, dalla sua parte – la dice bene: > “Nell’inconscio, l’impulso creativo sgorga come il primo moto dell’universo. > Aprite la coscienza a questo impulso, levate le vecchie cateratte, annientate > le chiuse, le dighe, i canali di scolo. Ogni ideologia, in definitiva, non è > che un ostacolo allo sviluppo spontaneo della propria creatività. Scacciamo > ideali e ideologie. Lasciamo che ogni individuo segua l’impulso eternamente > incalcolabile che è dentro di lui. Non esiste una legge universale. Ogni > essere, nella sua più pura forma, è legge a sé, singola, univoca divinità a > fronteggiare l’ignoto”.  Secondo Lawrence, “non dobbiamo essere irritati leggendo Šestov, ma divertiti”. In uno dei suoi più riusciti aforismi, Šestov scrive che la filosofia non nasce per confortare ma per turbare, per sconvolgere la comodità delle proprie consuetudini. Proprio per la sua aurorale radicalità, il pensiero di Šestov non trova luogo nelle accademie, non può elevarsi a moda (come accade, da tempo, al pensare, prodigiosamente ondivago e lucido di Emil Cioran). “Il pensiero di Šestov fatica a trovare collocazione all’interno di sistematizzazioni o correnti filosofiche definite… A questo punto il lettore sarà ragionevolmente investito da domande accusatorie: che utilità potrà mai avere un pensiero del genere? Quale insegnamento si può cogliere da questo abuso di libertà e licenza poetica? Ebbene, il pensiero di Šestov è unico proprio perché non si accontenta di enumerare, chiarificare e predicare le sue nozioni, ma preferisce penetrare all’interno dell’esistente e riallacciarsi alla vita, aspirando non a una pratica propedeutica all’utile, ma direttamente a smuovere le montagne con la sua voce” (così Samuele Brullo in: Apologia dell’impossibile. Šestov: la verità in conflitto tra speculazione e rivelazione, Alma Mater Studiorum, 2025). All’epoca dell’infatuazione per Šestov, Lawrence girava l’Italia, con una predilezione per la Sardegna. Amava leggere Grazia Deledda, aveva scritto alcuni dei suoi libri maggiori, Figli e amanti, L’arcobaleno; proprio quell’anno usciva Donne innamorate. Lawrence scrisse che lo stile di Šestov, “di primo acchito è sconcertante”. Aveva ragione: poco indulgente con i vezzi retorici, con l’aplomb, con la plumbea eleganza dei romanzieri occidentali, Šestov agiva artigliando. Possedeva l’arguzia degli antichi maestri che, passo per passo, zolla per zolla, decostruiscono ogni idolo; infine, resta la carcassa, una stagione di condor, le ossa, bellissime, come candelabri – un intenso desiderio di luce.  I due, lo scrittore inglese e il pensatore venuto dalla Russia, non si incontrarono mai. Probabilmente Šestov avrebbe enumerato Lawrence nella schiera degli scrittori che, al cospetto dell’indimostrabile, si affannano a mostrare la propria intelligenza, a giustificarla. Ma siamo tutti in balia della grazia – una grazia che, a volte, ha la figura della tigre.  *** Tentativi di un pensare adogmatico I Le oscure strade della vita non offrono la comodità delle arterie principali: niente luce elettrica, niente gas, neppure una mera lampada a cherosene. Nessun marciapiede: il viaggiatore si arrangi al buio. Se vuole la luce, attenda il lampo, oppure, come facevano i primitivi, cominci a sfregare le pietre finché non fiotti una scintilla. Nel lampo, gli accadono profili ignoti; deve cercare di ricordare ciò che ha appena percepito, poco importa se l’impressione è giusta o fallace. Perché non troverà altra luce, a meno che non apra il cranio contro il muro e ne scaturisca un fuoco. Cosa può mai radunare un mero mendicante in questo modo? Come possiamo attenderci resoconti chiari da colui la cui curiosità – chiamiamo così questa forza – lo ha portato a brancolare ai margini della vita? Perché dovremmo confrontare la sua cronaca con quella dei viaggiatori che, ben attrezzati, hanno percorso strade luminose? * L’uomo ben acconciato, la cui vita è comoda, si dice: “Come può vivere chi non confida nella certezza del domani, come può dormire chi non ha un tetto sopra la testa?”. Quando la sfortuna si accanisce su di lui ed è cacciato da ogni casa, deve tuttavia ripararsi sotto una siepe. Non riesce a dormire, il terrore lo attanaglia. Potrebbero esserci bestie feroci, brutali compagni di vagabondaggio. Ma a lungo andare si abitua a tutto. Si affiderà al caso, vivrà come un mendicante, dormirà il sonno del giusto nei fossi.  * Uno scrittore, meglio se giovane e inesperto, si sente in obbligo di offrire al lettore le risposte a ogni possibile interrogativo. La coscienza non gli permette di volgere lo sguardo dai problemi più ardui, così comincia a discettare di “cose prime e ultime”. Non avendo nulla da dire su tali argomenti – non è dei giovani l’abisso del pensare – annaspa, si agita, urla fino a perdere la voce. Infine, roso dalla stanchezza, tace. Se le sue parole hanno avuto un certo successo presso il pubblico, si stupisce di essere considerato un profeta. A quel punto, è preso da un insaziabile desiderio di preservare tale influenza fino alla fine dei suoi giorni. Ma se è più sensibile e dotato della media, inizia a disprezzare la folla per la sua incurabile credulità e a dileggiare se stesso per essersi atteggiato ignobilmente a pagliaccio, propalando idee elevate che non lo riguardano.  * Il fatto che alcune idee siano materialmente inutili all’umanità non può giustificare il loro rifiuto. Una volta che un’idea esiste, bisogna aprirle le porte. Se chiudiamo le porte, il pensiero si farà strada con la forza, oppure, come la mosca delle favole, si intrufolerà in noi senza che ce ne accorgiamo. Le idee non hanno riguardo per le nostre leggi sull’onore e la moralità.  * Per sfuggire alla presa delle idee dominanti di oggi dovremmo studiare la storia. Le vite di altre uomini in altre terre e in altre epoche ci insegna a comprendere che le nostre “leggi eterne”, le nostre idee infallibili non sono che aborti. Fate un passo avanti, immaginate le creature che vivono oltre questo pianeta, e le nostre eternità terrene perderanno il loro fascino.  * Nulla sappiamo delle realtà ultime della nostra esistenza – mai ne sapremo qualcosa. Rassegniamoci. Ciò non significa che dobbiamo accettare questa o quella teoria dogmatica sul nostro modo di vivere, tanto meno il positivismo, che ha il viso dello scettico. Ne consegue soltanto che l’uomo è libero di cambiare la propria concezione dell’universo ogni qualvolta cambia gli stivali o i guanti e che i principi riguardano soltanto la distanza che abbiamo dagli altri e in quale misura dipendono da noi. Per principio, dunque, l’uomo dovrebbe rispettare l’ordine del mondo esteriore come il caos totale di quello interiore. Per chi trova difficile sopportare tale dualità, si può prevedere un certo ordine dello spirito. Purché costui non se ne vanti, perché è un segno della sua debolezza, meschinità, ottusità.  * La filosofia deve rinunciare al vano tentativo di trovare le “eterne verità”. Il compito della filosofia è insegnare all’uomo a vivere nell’incertezza – proprio perché l’uomo ha una paura suprema dell’incertezza e si nasconde perennemente dietro lo schermo di questo o di quell’altro dogma. In breve, il compito della filosofia non è di rassicurare le persone, ma di turbarle.  * Quando l’uomo scopre un certo difetto di cui non può liberarsi, non gli resta che accogliere quel difetto come una qualità naturale. Quanto più grave e importante è il difetto, tanto più urgente è la necessità di nobilitarlo. Dal sublime al ridicolo il passo è breve e un vizio inestirpabile, negli uomini forti, è ribattezzato virtù.  * Il compito dello scrittore: andare avanti e condividere le proprie impressioni con i lettori. Non è obbligato a dimostrare nulla. Ma egli è perseguitato da quegli agenti di polizia – la morale, la scienza, la logica e così via – e crede di aver bisogno di una buona argomentazione per sedarli. Non deve preoccuparsi troppo, non deve farci credere di essere “interiormente giusto”. È più che sufficiente che continui a usurpare lo spazio che quei guardiani dei sentieri verbali vorrebbero sottrargli.  * Il segreto dell’“armonia interiore” di Puškin. Per Puškin nulla era privo di speranza. Egli vedeva segnali di speranza in ogni cosa. Peccare è piacevole, ed è piacevole pentirsi di aver peccato. È bene dubitare, ma ancor meglio credere. È bello pattinare sul ghiaccio “con i piedini in calzari di cuoio e acciaio” e vagare come zingari, pregare e litigare con un amico, fare pace con un nemico e piangere per un capriccio, ricordare il passato e scrutare il futuro. Puškin sapeva versare lacrime cocenti e chi sa piangere sa sperare.  * Il campo ben curato del pensiero contemporaneo deve essere dissestato. Pertanto, in ogni occasione e circostanza, le verità generalmente accettate devono essere messe in ridicolo: al loro posto, si preferisca proferire paradossi. Poi, vedremo… * Lodare se stessi è considerato sconveniente; lodare la propria setta, la propria filosofia è un dovere supremo. Perfino i migliori scrittori si sono presi la briga di giustificare la propria filosofia prima ancora di fondarla – avendo successo nel primo più che nel secondo caso. Le loro idee, dimostrate o meno, sono il loro bene più prezioso, autentica consolazione nel dolore, consiglio sagace nello smarrimento. Perfino la morte non è temuta dalle idee: sono le sole imperiture ricchezze. Tutto questo i filosofi ripetono, ripetono e ripetono con la stessa arbitraria eloquenza degli avvocati che perorano la causa di ladri e truffatori. Eppure, nessuno ha mai chiamato un filosofo “mercenario della coscienza”: perché mai tale parzialità? * L’uomo è abituato ad avere delle convinzioni, dunque, eccoci qui. Nessuno di noi può farne a mene, anche se in fondo le disprezza.  * La letteratura affronta i problemi più importanti dell’esistenza, per questo i letterati sono considerati, tra tutti, le persone più importanti. Un impiegato di banca, sempre lì a distribuire denaro, potrebbe benissimo considerarsi un milionario. L’alta stima attribuita alle questioni irrisolvibili dovrebbe screditare gli scrittori ai nostri occhi. Eppure, questi letterati sono così abili e astuti nell’esporre le proprie tesi e nel rivelare la fondamentale importanza della loro missione, che a lungo andare convincono tutti – soprattutto se stessi. Ciò è dovuto alla loro limitata intelligenza. Gli auguri romani avevano menti più sottili e versatili: ingannavano gli altri senza aver bisogno di ingannare se stessi. Nel loro ambiente non avevano paura di esporre i propri segreti, perfino di screditarli, certi di saper assumere un’espressione solenne nella giusta occasione. Ma i nostri scrittori odierni, prima di pronunciare in pubblico le proprie improbabili affermazioni, devono cercare di convincersi interiormente. Altrimenti, non possono iniziare.  * I moralisti sono le persone più vendicative dell’umanità: usano la morale come la più sottile arma di vendetta. Non si accontentano di disprezzare e condannare il prossimo: vogliono che la condanna sia suprema, universale, cioè che tutta l’umanità si ribelli come un sol uomo contro il condannato. Solo allora saranno pienamente soddisfatti. Nulla al mondo può portare a risultati tanto prodigiosi quanto la moralità.  * Gli eretici venivano perseguitati con la massima crudeltà per minime devianze dalla fede comunemente accettata. Era proprio tale ostinazione a difendere una piccolezza a irritare i giusti fino alla follia. “Perché non possono cedere su una questione tanto insignificante? Non possono avere seri motivi per opporsi. Vogliono soltanto affliggerci, farci dispetto”. Così l’odio monta e montagne di fascine e macchine di tortura apparvero per sfidare quella ostinata malvagità.  * Le rivelazioni più alte e significative giungono al mondo nude, rudi, senza abiti di gala. Trovare le parole per esprimerle è impresa delicata, un’arte. Le banalità e le stupidaggini, al contrario, appaiono subito in abiti confezionati, assai vistosi. Per questo, sono subito pronte a essere presentate al pubblico.  * Essere irrimediabilmente infelici è da svergognati. Una persona irrimediabilmente infelice è al di fuori dalle leggi della terra. Ogni legame tra lui e la società è definitivamente reciso. Poiché prima o poi ogni individuo è destinato a una infelicità irrimediabile, l’ultima parola della filosofia è la solitudine.  Lev Šestov *In copertina: un disegno di Michelangelo L'articolo “La filosofia non deve rassicurare, ma turbare”. Su Lev Šestov, il pensatore brutale proviene da Pangea.
June 30, 2025 / Pangea
Dimenticare Nietzsche. Ovvero: sulla maledizione dei lettori abusivi
Idola theatri distrutti, metafisica abbattuta, morale «ritrovata» (che non si muta né in stoica, né in cinica), grazie a un’accurata scepsi danzante, antidoto al veleno di un pensare a livello del suolo: «a morte tutto ciò che non è vita», è il suono della lama del boia propagato pagina dopo pagina fra gli scritti di Nietzsche, lettore di Ermerson: righe pensate per essere remote, inavvicinabili come il sole, da guardare a distanza e con filtri potenti. Nulla ha resistito al zoroastriano assassinio del falso teoretico, etico ed estetico («sono un genio della verità»), e dell’insufficiente: neppure il dettato pessimistico dell’amato maestro Schopenhauer, incendiato e ripopolato dalla gaia saggezza, superato dalla più assoluta affermazione tragica. Si deve a Nietzsche persino la liberatoria dichiarazione di guerra «all’arcigno e squallido paganesimo germanico», così lontano da quello ricco e nobile antico.  Persino chi osserva rapidamente sa che esistono perlomeno tre Nietzsche: quello che è, quello che si vorrebbe che fosse, quello che è diventato. L’opera sua è la tipica immagine del banco di prova per intemerati adepti, a favore di troppi giochi e manie di scoperta. Questo fatto rende ogni «pronuncia» su Nietzsche (sommo divagatore e dispersore di tracce che voleva essere «sentito», come il vento, e non capito, eternamente a caccia dei suoi consanguinei) a rischio crollo. Se si prova a dire qualcosa bisogna fare i conti con montagne di ostacoli tutti collegati all’inespugnabilità cui aspirava e al dolore ghiacciato, colmo di generatività, che voleva infliggere al suo lettore.  Quali sono questi tremendi ostacoli? Non solo, per esempio, l’irreperibilità avanguardista del metodo, ma la fatica di braccare la volontà originaria della sua opera, una stanchezza moltiplicata da tutto il bagaglio di scontri, contraddizioni, clamori aneddotici, e ovviamente con le dovute necessità filologiche che nel suo caso vanno osservate con una sensibilità maggiore. Perché Nietzsche è, infatti, soprattutto un «caso», sia per la naturale inclinazione a disgregarsi incessantemente sia per la manipolazione fluviale che ha subìto. La morte di Elisabeth Nietzsche è stata una liberazione per gli studi, fatto epocale che ha consentito di osservare il materiale inedito con occhio meno partigiano, e finalmente si è potuto trattarlo con metodo critico-filologico invece che sindacale o elettorale. In questa attività si è distinto Karl Schlechta, il primo a indicare e dimostrare le manomissioni della sorella di Nietzsche, nel 1956. Schlechta ha chiarito definitivamente che non è mai esistita, neppure in nuce, un’opera sistematica dell’ultimo Nietzsche, e che la Volontà di potenza non è che una ovvia compilazione di frammenti tratti dai quaderni di appunti, approntata con scelte arbitrarie da mani che non erano quelle di Friedrich.  La messa a disposizione dell’intero lascito nietzscheano in versione filologicamente accettabile, depurato da tutti i gravi teppismi successivi, si deve a Montinari e Colli negli anni Sessanta, quindi davvero ‘tardi’: la loro edizione del pensiero di Nietzsche è il riferimento d’elezione per tutti gli studiosi che cercavano quel «Nietzsche dentro Nietzsche» a lungo nascosto. In generale, la letteratura su Nietzsche è sterminata, spesso di poco valore, e rappresenta più che altro una pubblicistica popolare affranta dal generalismo o sovraeccitata da equivoci e fanatismi. Nietzsche era in competizione aperta con la Storia, meritandosi la sua maledizione. E in alcuni momenti la Storia permette che affiori la propria ironia rendendosi manifesta a tutti: Wilde moribondo fra la più brutta carta da parati all’hotel Hôtel d’Alsace, Pascal sepolto in Rue Descartes e Nietzsche, ricoverato in clinica psichiatrica a Basilea, con la scheda anamnestica in cui si scrive che «è completamente pazzo».  Tanti aneddoti e almanacchi su Nietzsche, e alambicchi grotteschi per «capirlo» o estrarne temibili «contenuti». Tutti hanno avuto la sventura di avere lettori abusivi e commentatori della domenica, nessuno si è salvato, ma Nietzsche in particolare ha attirato la mancanza di pudore di tante «mosche del mercato», proprio lui che ha sempre volutamente «abitato le cime». Il paradosso della popolarità è beffa ma non danno: forse è vantaggioso che sia finita così, se mette in risalto «l’hypocrite lecteur». Chi, pur non avendo né arte né parte, si è negato la vanità e l’esaltazione di vanagloriarsi su Genealogia della morale, Zarathustra, Umano troppo umano? Come sempre, questo rimane un argomento di poca importanza, se è vero che la grandezza di un autore è incorrotta dai saccheggi. Ma fino allo stremo, va ribadito che Nietzsche, errante ed errato, è più indisponibile di altri a farsi sgretolare, a farsi «lavorare». Errante entro la sua stessa opera, ricercatore della Ricerca, un confine vivente e permanente fra eremita e viandante, immagine mitica della carta numero nove dei tarocchi marsigliesi. Errato per le confetture, per le rilegature, per farne attracco di tutti, ma specialmente errato par excellence perché non può essere «giusto» fino in fondo per nessuno, perché mai darà il risultato sperato. Non ci deve nulla, eccetto la libertà di dimenticarlo e farne memorandum per il pensiero e la vita, ma senza nostalgia e idolatria.  Che cos’è Nietzsche? Uno che ha lasciato le chiavi per tutti i malanni della medietà troppo umana, per proteggersi dall’assedio nichilista e da ogni intellettualità didattica. Una via per tutte le vie, la via dello spirito libero. Via che non può percorrersi, che deve essere superata già nell’atto di visualizzarla. Ma anche educatore senza pedagogia, maestro senza parole e «perverso polimorfo», per usare un freudismo. Esperto cacciatore della qualità dei sentimenti morali, spregiatore del moralismo quale scheda preordinata per attraversare la vita e i suoi dilemmi. Incluso il dilemma della Storia, che lui dissolve attraverso un antistoricismo elettrificato: si può essere contro la concezione hegeliana della Storia come il divenire di un’Idea, un moto continuo rettilineo uniforme, con una perenne sintesi dialettica degli opposti, cospirante a un fine ultimo.  Per capire Nietzsche, o meglio per vederlo, occorre probabilmente un esercizio maturo e flessibile del «confine», perché ogni suo intento e ogni suo pensiero, ogni sua scrittura – anche quando «a razzi», o furiosamente aforistica – sono una lunga meditazione che ha intrecciato la sua origine a quella di ogni possibile confine. Le linee divisorie sono il suo cruccio e diletto, è lì che può esistere ogni vera intuizione sulla realtà e sulla coscienza. Confine nietzscheano, che distingue esterno ed interno, ma consente uno scambio. Delimita e consente il transito fra identità e differenza. La virtù del confine è la porosità, è tale solo se è poroso: la sua capacità di rendere possibile transizione e scambio. Nietzsche metta in guardia sul pericolo che esso possa «ammalarsi», indurirsi, ingessarsi, diventare luogo di presidio militare, mutare in cancerosa sclerosi: patologia del confine è perdita di porosità, che apre al fantasma schizoide della contaminazione estranea. Ma se «ognuno è a sé stesso il più lontano», dunque il primo estraneo che incontra, questi rischia la vita in tale fraintendimento. Estraneo è in primo luogo il soggetto a sé medesimo se è sordo al vero che lo abita, ipoacusia letale alla sua individuazione. Fare massacro con l’ombra di sé, per conoscerla e superarla, rimanendo però fra gli abissi: per essere finalmente non più arcaici, ma Antichi. Attrito sanguinario, ma inevitabile ai passaggi ulteriori di liberazione, sensuale «maturazione» (Nietzsche parla di «succosità, dolcezza, sapore pieno» di sé»), definizione. Si descriveva così: «sono un vento del Settentrione per fichi maturi…». Un invito ad abbandonare la «nave», inventandosi da zero e a spese proprie un mezzo di navigazione inedito. Spacciato di certo chi non lo farà, «in nome di una nobilitazione dell’obbedienza alla giustificazione dell’intera quotidianità, per avere in cambio una pace del cuore rozza»: ecco gli «uomini del mercato» e il loro ghigno, gonfaloni «dell’intera bassezza, dell’intera semibestiale miseria della loro anima».  Forse inesistente un modo per comprendere Nietzsche se non quello di esserne prescelti tramite divertita, misteriosa, congiuntura oltre lo spazio e il tempo. Un indizio su «come fare», potrebbe averlo regalato quando ha nascosto il suo ritratto nella frase «un sì, un no, una linea retta, una meta…».  Rubina Mendola *** Zarathustra 25 | SULLE ISOLE FELICI I fichi cadono dall’albero; essi sono buoni e dolci; e mentre cadono la lor buccia rosea si fende. Io sono un vento del nord per i fichi maturi. Così, come fichi, a voi giungano le mie dottrine, amici: ora gustatene il succo e la polpa soave! È autunno d’intorno, e puro il cielo, e pomeriggio. Guardate quanta abbondanza ne circonda! E in mezzo all’abbondanza è bello spingere lo sguardo verso mari lontani. Ma le migliori parabole devono parlare del tempo e del divenire: essere una lode e una giustificazione di tutto ciò che perisce! Creare – ecco la grande redenzione dai dolori e il conforto della vita. Ma perché esista il creatore occorrono molte sofferenze e molte trasformazioni. Sì, molto amaro morire ci deve essere nella vita vostra, o creatori! Sareste così gli assertori e i giustificatori di tutto ciò ch’è caduco […] In verità, feci la mia strada attraverso cento anime e cento culle e cento dolori del parto. Mi son congedato molte volte, e conosco le ultime ore che spezzano il cuore. Ma così impone la mia volontà creatrice, la mia sorte. Oppure, perché più franco vi parli: appunto questo destino vuole la mia volontà. Tutti i miei sentimenti soffrono in me e son prigionieri: ma il mio volere giunge sempre liberatore e messaggero di gioia. Il volere redime: ecco la vera dottrina della volontà e della libertà – è così che Zarathustra v’insegna. *In copertina: Max Klinger, Il filosofo, 1898-1910 L'articolo Dimenticare Nietzsche. Ovvero: sulla maledizione dei lettori abusivi proviene da Pangea.
June 27, 2025 / Pangea
Neutralizzare Heidegger. Sui tentativi (più o meno goffi) di fare di un maestro un mero “oggetto di studio”
È notoriamente impossibile fare lo spoglio della mole di studi sfornata ogni anno dalle università e dalle case editrici sui classici della letteratura e del pensiero. Tuttavia ogni tanto, un po’ per caso, un po’ perché ce la andiamo a cercare, è necessario buttare un occhio in strada per constatarne la situazione e, se si intercetti qualche soggetto disturbante, prendersi la soddisfazione e ottemperare al diritto/dovere di critica, di scagliare qualche freccia o, almeno, qualche voce di allarme. Ed è ciò che faremo ora presentando due lavori su Martin Heidegger, esciti entrambi per Mimesis: Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica di Thomas Vašek, e Heidegger e la Gnosi di Lucrezia Fava. Inizieremo col primo, il più problematico e urticante. * * * Partiamo dal titolo originale: Schein und Zeit – Heidegger und Michelstaedter. Auf den Spuren einere Enteignung, o sia: «Apparenza e tempo – Heidegger e Michelstaedter. Sulle tracce d’una espropriazione». La versione italiana quindi corrompe radicalmente l’intenzione dell’autore: Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica sarà commercialmente più appetibile, ma non si può sempre sacrificare tutto al dio mercato. Nel titolo originale, dietro l’espressione palese, ci sono due allusioni. La più facile: «Schein» in luogo di «Sein», che sta a indicare una sorta di maschera, indossata naturalmente da Heidegger. La seconda è meno perspicua e riguarda la parola centrale del titolo: Enteignung, che rimanda evidentemente allo spettro dello «Er-eignis» uno dei concetti centrali heideggeriani e quello che sorregge i Beiträge zur Philosophie. Mi auguro solo di non aver sopravvalutato un autore a dir poco sospetto. Il titolo originale, si capisce, accenna a un possibile e forse, secondo l’autore, probabile plagio ai danni di Carlo Michelstaedter da parte di Martin Heidegger. Una tesi invero sorprendente e di quelle che per solito ingenerano due ordini di reazioni: o grande interesse, oppure totale negligenza. I contenuti di simili “inchieste” sono infatti davvero squassanti oppure un fuoco fatuo, molto spesso presente solo nella testa dell’autore. Io opto per una terza posizione: pregiudizio che porta alla contraffazione. Evidenzio súbito una “stranezza” di Vašek, già alle pagine 11 e 12, o sia la precisazione d’aver tenuto fuori dal suo studio ogni discussione circa i così detti “Quaderni neri” e quindi circa le (del tutto) presunte responsabilità di Heidegger durante il governo nazionalsocialista. È un segno sia di malafede, sia dell’inquinamento del clima che si respira ogniqualvolta si tratti di Martin Heidegger. Sentirsi obbligati a precisare di non voler trattare il tema è come ammettere che, parlando di Heidegger, si dovrebbe comunque ricordare sempre ch’egli fu (si dice, man sagt) nazionalsocialista. E infatti poco dopo (pp. 25-26) Vašek non manca di affermare che «non vi sono dubbi sulla vicinanza di Heidegger al Nazionalsocialismo, tantomeno sul suo antisemitismo». Purtroppo esula dal cómpito del mio contributo d’inoltrarsi nella faccenda (di cui tuttavia dirò in un successivo articolo). Ma è mio dovere dichiarare qui con grande forza che quei dubbi per Vašek, e per parecchie altre persone, inesistenti lo sono davvero, ma in senso affatto opposto a quello inteso da questo autore. Lo dimostra la schiera di ricercatori italiani tedeschi e francesi che ha smontato pezzo a pezzo ogni ricostruzione e costruzione infamante ai danni di Martin Heidegger. Mi riferisco, cito a solo titolo d’esempio, a François Fédier e a Francesco Alfieri. Ritenere, oggi, Heidegger nazista e antisemita dimostra o grave “distrazione” oppure disonestà. E dico di più: la frase di Vašek è sbagliata perché, se proprio vogliamo concedere qualcosa alla tesi colpevolista, Heidegger fu bensì iscritto al Partito nazionalsocialista ma non manifestò mai sentimenti o idee antiebraici. Peraltro sarebbe uno strano antisemitismo quello di Heidegger: allievo dell’ebreo Husserl; circondatosi di ebrei; plagiatore dell’ebreo Michelstaedter (e anche di un secondo, vedremo). Scopo del lavoro è dimostrare le coincidenze, nel senso stretto della parola, tra il pensiero di Michelstaedter espresso ne La persuasione e la rettorica e quello di Essere e tempo. Invero la dichiarazione preliminare dell’autore di limitarsi a Essere e tempo non trova corrispondenza nel testo, in cui è presente un nubifragio di citazioni da svariate altre opere di Heidegger, precedenti e successive al capolavoro del 1927.Avanti tuttavia di immergerci nel raffronto testuale e tematico, onde dimostrare la tesi dell’Enteignung, Vašek ci informa che l’opus magnum del goriziano fu tradotto in tedesco solo nel 1999, ciò che, non conoscendo Heidegger l’italiano, rende impossibile un contatto diretto tra questi e il testo michelstaedteriano, testo che fu pubblicato la prima volta in Italia tre anni dopo il suicidio del goriziano, nel 1913, da Vallecchi di Firenze (che Vašek invece colloca, chissà perché, a Genova). Tuttuavia Vašek fa ciò che mi pare di poter definire una scoperta non dappoco, o sia una traduzione in tedesco della parte dedicata alla Persuasione della celebre tesi di laurea, per mano niente di meno che di Argia Cassini, la così detta fidanzata di Michelstaedter (scrivo «così detta» per buone ragioni biografiche che qui non importa di esporre). Sorgono però adesso due problemi molto pesanti, che Vašek non solleva. Anzitutto si ignora lo scopo di questa traduzione, fatta in forma dattiloscritta e, in apparenza, privata, cioè a dire non espressamente destinata ad alcuno. Essa inoltre è priva di data ed essendo Argia Cassini morta nel 1944, avrebbe avuti come minimo trent’anni di tempo per tradurre quel mazzetto di pagine. Vašek invero accenna all’assenza della data, ma in maniera anodina, senza porre in evidenza il dato cruciale, e men che meno interrogandosi sulle sue implicazioni all’interno dell’indagine in corso. Partendo da questa traduzione parziale, Vašek si slancia nella ricostruzione di rapporti tra Italia Svizzera e Germania insino a questo momento, per quanto mi è dato di sapere, ignoti. Essa è esposta alle pagine dalla 19 alla 22 e io non toglierò la soddisfazione al lettore di scoprirsela da sé, tanto essa è invero sorprendente. Inoltre mi astengo dal parlarne per non spingere il giudizio del lettore in una direzione anziché in un’altra. Idem valga per l’indagine tematica e testuale di Vašek, anche perché riferirne anche solo succintamente renderebbe questo articolo da rivista specialistica e quindi “illeggibile”. Qui voglio solo far emergere il puro tentativo di Vašek e discutere alle corte il suo metodo. Il libro è efficace e va preso in considerazione, ché in effetto le coincidenze tra i due pensatori ci sono. Vašek apre un problema, che per lui tuttavia è una specie di vaso di Pandora, il cui contenuto si scatenerebbe non già sulla storia della filosofia ma su Heidegger e sugli heideggeriani, heideggeriani ch’egli fa passare a un dipresso come una sètta. Postoché ciò sia vero, gli antiheideggeriani in moltissimi casi a me paiono somigliare invece a una cosca, con tanto di picciotti pronti alle mani e alle armi contro chi osi contestare la loro lettura – politica morale e anche filosofica – di Heidegger. Esemplare è il caso d’una accanita arcinemica e diffamatrice di Heidegger e degli heideggeriani (che la ignoravano fino a quando ella non si mise a strepitare sui giornali, portando quindi la discussione dal parrucchiere). Smentita più e più volte, la studiosa non si è ancòra data per vinta, seguitando a collezionare magrissime figure. Altro difetto del lavoro di Vašek è la tendenza alla ripetizione. Se tuttavia talora essa riesce molesta, altre è invece utile poiché certi concetti e osservazioni meritano di essere ripigliati. Nondimeno, stupisco constatando che aver più volte ribadito, oltre alle simiglianze, anche le differenze tra i due pensatori, non porta Vašek a essere conseguente, sicché il libro è composto solo delle prime. Ma Vašek si spinge ben oltre, ché, ringalluzzito dalle sue “scoperte” sciorinate nelle duecento e cinquanta pagine precedenti, a metà della quinta e ultima parte del lavoro si inoltra nel tentativo di dimostrare un altro esproprio heideggeriano, questa volta ai danni di Franz Rosenzweig e in ispecie della sua opera principale, Die Stern der Erlösung («La stella della redenzione»). Un altro ebreo al quale rubare, quindi. In apparenza (forse la parola chiave del libro…) Thomas Vašek dà l’impressione di sapere adoperare la vanga come pochi altri, tanto scava scava scava nei testi heideggeriani e in Michelstaedter. Ma giunto su certi terreni si limita a passare oltre, al massimo sollevando un po’ di polvere, per ritornare su d’uno più congeniale (in apparenza…). Egli infatti solo indirettamente dice che a unire Heidegger e Michelstaedter oltre all’aria che si respirava in Europa nei primi decenni del XX secolo, vi sono anche profonde conoscenze storico-filosofiche, in ispecie la Greciantica dei Presocratici, di Platone e Artistotile, tre momenti del pensiero occidentale conosciuti e da Heidegger, e da Michelstaedter come pochissimi altri. E questo trait d’union è il primo dato che, volendoci inoltrare in un raffronto tra i due pensatori, balza immediatamente allo sguardo di occhi sani e onesti, anche solo letteralmentescorrendo l’elenco delle loro opere o, al massimo, letteralmente sfogliando le pagine di queste. Vašek però non dà il benché minimo peso a questa giuntura. Indubbio merito, quantunque indiretto, da riconoscere a Vašek è d’aver accennato in modo da incuriosire parecchio al nome di Oskar Ewald, filosofo viennese, «fervente ammiratore di Michelstaedter» e «in contatto con Edmund Husserl» (p. 10). Ma Vašek lo brandisce come un’arma impropria ma difettosa. Infatti fa cilecca. Purtroppo di Ewald non c’è nemmeno mezza pagina tradotta in italiano e, per soprammercato, le sue opere, pubblicate oltre un secolo fa, non sono mai state ristampate, né in Germania né in Austria. Questo buco è davvero irritante, giacché dai pochi cenni di Vašek, Ewald dev’essere un di quei pensatori irregolari e anomali di notevole fecondità e forza. Ewald tuttavia ci pone un problema piuttosto pesante, su cui Vašek tace del tutto, ignoro se per gravissima distrazione ovvero con intenzione. Su quali basi Vasheck definisce Ewald «fervente ammiratore» del goriziano? Se – anche questo vedemmo – La persuasione e la rettorica fu vòlta in tedesco solo nel 1999 e storia e destino della versione d’Argia Cassini sono ignoti, come fu possibile a Ewald, ignaro della lingua italiana, leggere Michelstaedter? Si può ipotizzare, sulla scorta della ricostruzione di legami alle pagine 17 e seguenti, che Ewald abbia appreso di Michelstaedter da Husserl e da altri: ma può bastare qualche scambio di battute su chicchessia a farne di qualcuno «fervente ammiratore»? Possiamo a esempio noi dopo pochi cenni su Ewald dichiararcene tali? Direi di no.  Se invece Ewald, per ipotesi, lesse la traduzione d’Argia, data la suddetta catena di sant’Antonio ricostruita da Vašek, è probabile che anche Heidegger l’abbia letta. Ma di questa traduzione noi non si sa null’altro fuorché la sua esistenza, ciò che è insufficiente a determinare alcunché. Inoltre – ed è un dettaglio a mio giudizio cruciale – la traduzione di Argia Cassini si trova attualmente nel Fondo Carlo Michelstaedter di Gorizia. Un dato che ci obbliga a domandarci: se è ben possibile che essa traduzione abbia a un certo momento intrapreso in viaggio tra Austria e Germania, è probabile che poi sia ritornata a Gorizia, sia sopravvissuta allo sfacelo della Seconda guerra mondiale e sia di poi stata messa al sicuro tra le carte del filosofo goriziano ancòra semisconosciuto? (Il vero “lancio” avverrà soprattutto nel 1958, quando l’amico – si fa per dire – Gaetano Chiavacci pubblicherà una scelta delle opere e delle lettere, censurate, del Goriziano per Sansoni). La risposta più ovvia mi pare questa: quella traduzione non è mai escita da Gorizia e attualmente non resulta che alcun attore di questa storia abbia intrapreso un viaggio a Gorizia, nemmeno Ewald che, essendo cittadino austroungarico, bazzicava non molto distante dalla città friulana. Resto tuttavia aperto a proficue e documentate smentite. C’è ancòra un altro dato cruciale di che tener conto. Lo abbiamo anche questo accennato: Argia tradusse solo «La persuasione», o sia pochissime pagine. Ora, ipotizziamo che codesta traduzione abbia fatto il giro delle sette chiese d’Austria e Germania (lo ritengo improbabile, ma transeat) e che quindi sia giunta nella mani di Heidegger, com’è possibile trovare, come pretende Vašek, delle cogenti simiglianze e identità tra il pensiero heideggeriano del «Si» (man) e la rettorica michelstaedteriana? È realistico pensare che l’espropriazione sia dovuta solo ai racconti orali della catena di sant’Antonio? A me non pare sostenibile alcunché di siffatto. Chiediamoci inoltre: se uno dei tramiti tra Michelstaedter e Heidegger, giusta il tentativo di ricostruzione della catena di sant’Antonio di Vašek, fu Husserl, è realistico che questi non abbia giammai evocato il pensatore goriziano allorché si lamenta pubblicamente della deviazione, addirittura del tradimento perpetrato da Heidegger, a petto dell’impostazione fenomenologica originaria, in Essere e tempo? Inoltre: è credibile che, come allude Vašek per tutto il libro, e sin dal titolo originale, la mole enorme degli scritti heideggeriani derivi da Michelstaedter? Amo e leggo Michelstaedter da trent’anni esatti, ma nemmeno da briaco riuscirei a sostenere che l’opera di Heidegger, dalle prime lezioni della fine degli anni Venti, insino – come minino – ai lavori postbellici, sia un’espropriazione da «La persuasione», né da altri scritti michelstaedteriani. Vašek commette anche un errore filosofico madornale ed è anche questo – oltre al patente pregiudizio “razziale” politico e ideologico – a condurlo sulla via sbagliata della sua lettura di Heidegger. Egli infatti scrive che Essere e tempo non tratta «principalmente della questione dell’essere, bensì dell’idea di rinascita o di trasformazione dell’uomo, che è stata influenzata da una certa “letteratura del risveglio” dopo la Prima guerra mondiale» (p. 10). Insomma, la solita tesi dello Heidegger esistenzialista. Oltre a essere una tesi vecchia come il cucco è anche imprecisa, soprattutto se detta così. Ritenere che la questione dell’essere non abbia strettamente a che fare con la trasformazione individuale, e viceversa, significa maneggiare poco e male non solo Heidegger ma in generale la filosofia. Inoltre questa lettura contraddice in maniera brusca la tesi principale di Vašek, o sia l’espropriazione da parte di Heidegger ai danni di Michelstaedter. Il pensatore goriziano, infatti, è sempre stato collocato, per usare una bellissima espressione di Camillo Pellizzi, tra gli «spiriti della vigilia», cioè a dire tra coloro i quali chiedevano, ciascuno more suo, un cambio di passo, una metánoia, una palingenesi – individuale ovvero collettiva, qui non conta trattarne – per lumeggiare e fronteggiare i rivolgimenti politici sociali e culturali avviati a cavaliere tra XIX e XX secolo, e che avrebbero avuto il loro primo banco di prova nella grande massacro della primo conflitto mondiale. Michelstaedter è, secondo molti, tra quanti intercettarono i movimenti tellurici ctonii preludenti la guerra e si posero in gioco. Inoltre Michelstaedter – ciò che viene assai poco ricordato – era cittadino di quell’Impero che già agli inizi del secolo scorso iniziava a dare vistosi segnali di cedimento. Anche Heidegger, coetaneo di Michelstaedter (1889), sentiva l’aria, pur da diversa prospettiva, anzitutto geograficamente diversa. Ma era anch’egli un cittadino d’Europa e mosse i suoi primi passi filosofici consapevole della necessità di una trasformazione, di una epistrofé. Heidegger e Michelstaedter, per essere sbrigativi, respirarono lo stesso clima, come ho già detto. È inaccettabile quindi attribuire al pensiero heideggeriano (parziale, parzialissimo!) un’aura non dissimile a quella del pensiero michelstaedteriano ma al contempo tacciare il pensatore tedesco di Enteignung. Amenoché Vašek non ignori del tutto la biografia di Carlo Michelstaedter. Insomma, come lo giri lo studio di Thomas Vašek non sta in piedi. Voglio riservare un ulteriore appunto ancòra al traduttore, che per i passi da Sein und Zeit, si avvale esclusivamente della versione Chiodi-Volpi e ignora quella di Alfredo Marini, non esente da difetti ma senz’altro più fondata e corretta dell’altra, anche sotto il riguardo della semplice comprensione grammaticale del tedesco. Per replicare si può ipotizzare che la versione classica di Pietro Chiodi sia ancòra la più accreditata e quindi utilizzata, anche se è un’affermazione discutibile. Nondimeno essa coinvolgerebbe la sola versione di Chiodi e non quella di Chiodi e Volpi. Si tratta certo di legittime scelte soggettive: forse un po’ troppo soggettive. * * * Il libro di Lucrezia Fava su Heidegger e la Gnosi, graziaddio, presenta molti meno problemi e quelli che ci sono, vanno imputati a personali scelte ermeneutiche e non a qualche basso sentimento o alla volontà di attirare l’attenzione. La vera magagna dell’opera, che forse può guastarla del tutto, è l’assenza del cruciale riferimento ai concetti di Nichts e di Nichtigkeit, senza i quali ogni comprensione di Heidegger è preclusa. Essi sono condensati per lo più nella celebre conferenza Che cos’è metafisica? Ritengo che Lucrezia Fava non abbia aggirato il problema volontariamente, o almeno spero, ma sia stata, per quanto assai grave, solo una svista. Certo gli è che introducendo il nulla/niente nella sua tesi sulla gnosi heideggeriana, l’impianto avrebbe fortemente traballato minacciando di crollare sul suo pur abile e originale architetto. Ma sarebbe stato il caso di osare, anche a costo di revocare in dubbio o addirittura in un… niente tutti i fondamenti dell’indagine. Un esito assai preferibile per non indurre qualcuno a giudicare Heidegger e la Gnosiun ennesimo tassello di quello strano mosaico cui siamo avvezzi ormai da tempo immemorabile. Quando si ha difficoltà a definire un pensatore o un’idea, ma lo si vuole fare a tutti i costi, oppure quando si vogliano tentare altre vie dalle già battute e cieche, spesso si finisce per definirlo gnostico. Del tutto assente dall’indagine di Lucrezia Fava è la storia, quindi la biografia. C’è un fuggevole cenno a probabili conoscenze da parte di Heidegger di testi gnostici e alla vicinanza con Rudolf Bultmann (un altro gnostico?), ma niente di più. Ora, che Heidegger, quale persona colta come lo erano a quell’epoca tutti in certi ambienti, abbia conosciuti i principii dell’antica Gnosi, nessuno può metterlo in dubbio. Ma non ci sono riferimenti né impliciti né espliciti nelle sue opere al pensiero della Gnosi storica (a meno che non mi sia sfuggito qualcosa). E non essendoci alcun riferimento testuale, fosse pure epistolare, anziché procedere tout court a un accostamento, già di per sé problematico, bisognerebbe avanti a tutto pensare alle ragioni –storiche filosofiche psicologiche – di questa eventuale corrispondenza. Postoché Lucrezia Fava abbia visto un aspetto del pensiero heideggeriano con lucidità e verità (per quanto con l’aiuto esplicito di Hans Jonas), ella non si domanda mai donde derivi tale corrispondenza. E questa indagine, si capisce, è rigorosamente obbligatoria. C’è un ulteriore inciampo in Heidegger e la Gnosi, e non dappoco, ed è indurre a credere qualche lettore impaziente – e Dio sa quanti ce ne sono – che il pensiero di Martin Heidegger cada in un calderone sbrigativamente definito «irrazionalista», che costella la storia dell’uomo sotto diversi abiti da tempo immemorabile. Ma mentre in epoca antica e financo in svolti più recenti e in individui considerati “perdonabili” (si pensi, per esempio, al Romanticismo o a Hölderlin), l’irrazionalismo è accettato, esso – si dice – non può più avere diritto di cittadinanza nell’èra della scienza e della tecnica, questa nuova èra metafisica che stiamo vivendo, e delle superstiti istanze politiche. Heidegger dové già scontare l’accusa di misticismo e di irrazionalismo dopo la così detta Kehre, la svolta, come si sa e come ben riassume Hans Georg Gadamer nei Sentieri di Heidegger (Marietti 1987, pp. XV-XVI). L’accusa era evidentemente pregiudiziale, spinta sia dall’«ondata di nuovo illuminismo» (io avrei detto più tosto neopositivismo), sia dall’«ossessione social-rivoluzionaria», come lì scrive Gadamer, e ben pochi, ancòra oggi, si sono levàti dalla zucca una simile rappresentazione farlocca. A meno che Lucrezia Fava non creda, anche lei in senso squalificante, a uno Heidegger davvero irrazionalista, allora mettere in circolazione simili raffronti, senza opportune premesse, può costituire un errore sia di metodo, sia strettamente filosofico. Ricordiamo a margine l’intelligente osservazione di Medard Boss:  > «Sono numerosi i derisori, che ritengono il “tardo” Heidegger soltanto un > poeta o un mistico, che avrebbe da lungo tempo abbandonato il terreno di una > “filosofia scientifica”. Tuttavia, in primo luogo, tali spiriti della > superficialità non vedono che quello “più tardo” non si è affatto separato dal > “primo” Heidegger (…). Il pensiero di Heidegger pensa sempre il medesimo del > medesimo (…). In secondo luogo, i Suoi critici tralasciano di confrontare la > rigorosa adeguatezza del Suo primo e tardo pensiero a quanto detto, dunque la > sua “obiettività”, nel senso supremo di questo termine, con la rigogliosa e > oscura magia, che domina completamente tante rappresentazioni della scienza > moderna». > > (Lettera di Medard Boss ad Heidegger, in M. Heidegger, Seminari di Zollikon, > Guida 1991, p. 411; traduzione lievemente modificata e corsivi miei) La tesi di Lucrezia Fava è dunque parecchio spericolata. E aggiungo ch’essa, almeno così come la declina l’autrice, non conduce in alcundove e, anzi, allontana dall’obbiettivo heideggeriano principe. In questa analisi dov’è infatti l’Essere? In altri termini: che cosa se ne fa il lettore di un’analisi in opposizione alla filosofia come la intende Heidegger sin dai primordi del suo pensiero? Lucrezia Fava (ma anche Thomas Vašek con sgradevoli aggravanti) ci ripiomba in quelle metodologie che lo stesso Heidegger voleva superare, in quella forma mentis di ostacolo al “progetto” heideggeriano non solo di dire e di pensare altrimenti a petto della tradizione e delle consuetudini, ma anche di essere altrimenti. Ma questo è forse impossibile a recepirsi da parte di chi legge i filosofi e certi filosofi in particolare come oggetti di indagine, eventualmente di carriera. Heidegger spende gran parte della sua vita a mettere in guardia da questo genere di mentalità esiziale ed ecco sopraggiungere ancòra dopo plurimi decenni imperturbati studiosi, i quali, credendo di fargli i complimeti, gli intonano l’ennesimo Requiem. Heidegger diventa l’ennesimo oggetto di studio, e non resta quale, giustissimamente, lo hanno definito Safranski e decine di suoi allievi e lettori postumi: «ein Meister aus Deutschland», un maestro tedesco, o sia un maestro tout court, del pensiero ateoretico e rigorosamente pratico, filosofia incarnata o sia filosofia, per dirla con Hadot, quale esercizio spirituale, e quindi pratico. Heidegger trattato alla stregua d’un Popper o d’un Kant, che neppure se lo meritano, cioè alla stregua d’un “qualsiasi” filosofo. Ciò significa anestetizzare, neutralizzare Heidegger, il quale, saviamente, mise in guardia dal commentare i suoi lavori. Parlò, ahimè come al solito, a vuoto, ai vuoti. Luca Bistolfi L'articolo Neutralizzare Heidegger. Sui tentativi (più o meno goffi) di fare di un maestro un mero “oggetto di studio” proviene da Pangea.
May 27, 2025 / Pangea
Nelle latebre della psiche. “Memorie dal sottosuolo”: storia di un outsider totale
Memorie dal sottosuolo, pubblicato nel 1864, si palesa come una delle opere più emblematiche di Fëdor Dostoevskij, segnando una svolta epocale nel suo percorso, sia narrativo che filosofico. Questo romanzo, che ad un primo sguardo potrebbe sembrare un semplice monologo psicologico, è in realtà un dedalo intricato di riflessioni che sfidano il lettore a confrontarsi con questioni le più profonde dell’umana vicenda.  Se la sua superficie può essere interpretata come la confessione di un uomo recluso nel suo mondo interiore, la struttura ed il contenuto si rivelano come critica diretta alla modernità, alle sue certezze ed alle sue illusioni – a tratti le due cose assieme. In Memorie dal sottosuolo, Dostoevskij non si limita a sondare l’animo umano, ma lo fa in un contesto che estrinseca la condizione dell’uomo del suo tempo: un tempo in cui le grandi verità universali e i tradizionali capisaldi morali sembrano essere non più valevoli, sostituiti da un’intelligenza calcolatrice e razionale che si sforza di ridurre l’essere umano a mero ingranaggio di una macchina sociale secondo un meccanicistico e deterministico principio di ascendenza scientifica. In questo contesto, il protagonista, l’“uomo del sottosuolo”, diviene simbolo di una civiltà in crisi, un uomo che ha rinunciato alla speranza di trovare una risposta filosofica congeniale alle grandi domande della vita, e si ritira nelle latebre della propria identità interiorizzante: luogo oscuro dove la psiche è preda delle sue contraddizioni più forti e delle sue fratture più dolorose. Il sottosuolo, in questa accezione, non è tanto un luogo fisico, quanto l’emblema della disgregazione dell’individuo, del suo allontanamento da una razionalità confacente ai massimi sistemi morali (ontologici e tradizionali come della società organizzata) e dello iato tra l’uomo e l’impronta della sua autentica essenza. L’opera, quindi, non si limita a esplorare unicamente la psicologia del protagonista, ma si erge a riflessione teorica e filosofica sulla natura dell’essere umano e sulla sua condizione esistenziale. Se da un lato l’uomo del sottosuolo rifiuta la razionalità delle scienze positive come leva di progresso e conseguimento della felicità, dall’altro lato non riesce a fuggire dalla consapevolezza del suo essere nudato e esposto a ridde di stimoli esuli da risposte attive: condannato alla solitudine, incapace di agire secondo una logica di autodeterminazione e imprigionato nelle proprie ritorte elucubrazioni interiori, nelle proprie nevrosi, nei sensi di colpa. La riflessione filosofica che attraversa l’opera è lontana da ogni sistema dogmatico e metafisico, eppure incapace di sfuggire dalla propria condizione di inadeguatezza. Nel contesto della società che Dostoevskij descrive, l’individuo moderno è costretto a fare i conti con il carattere di crescente meccanicità della vita quotidiana, con una razionalità elefantiaca, con la riduzione dell’umano a schemi e calcoli matematici, previsioni scientifiche, dove ogni emozione, ogni impulso, ogni azione sembrano essere ricondotti ad una funzione deterministica. In un tal mondo, l’individuo si percepisce come ingranaggio che opera secondo regole prestabilite, incapace di emergere dalla sua condizione di prigionia entro una realtà che non sente più sua. Eppure, nonostante il rifiuto del razionalismo ottocentesco, l’uomo del sottosuolo non si consola nella sua solitudine, né trova la liberazione nella ribellione contro i “due più due quattro”: la sua coscienza si torce in una spirale di auto-accusa e di impotenza, dove la riflessione non si traduce mai in soluzione concreta o liberatrice, attiva e tale da forgiare il proprio senso al mondo, non risentita e creatrice, ma in un continuo, straziante interrogarsi senza soluzione di continuità. La caratteristica principale di Memorie dal sottosuolo è proprio questa: l’opera non offre risposte semplici. Al contrario, ogni risposta sembra aprire un nuovo abisso, ogni apparente conclusione porta con sé la scia di nuovi interrogativi. Dostoevskij non ci consegna un sistema filosofico coerente e consolatorio, ma ci obbliga a confrontarci con l’inquietante verità della condizione umana: l’incapacità di raggiungere una conoscenza definitiva, l’impossibilità di liberarsi dalle proprie contraddizioni, il fallimento della razionalità come perno di comprensione totale del mondo. Il sottosuolo, quindi, non è solo un luogo spinoso di un estenuante cogito e di un’aspra sofferenza individuale, ma diventa metafora di una condizione universale: quella di ogni essere umano che, pur nella ricerca incessante di una verità possibile, è costretto a confrontarsi con i limiti intrinseci della propria esistenza. La riflessione sul “sottosuolo” come spazio oscuro ed inesplorato della psiche è centrale nell’opera e ci abbrivia a un viaggio nell’interiorità che non conduce mai a liberazione, ma solo a una permanente tensione tra il desiderio di comprendere e la consapevolezza che ogni comprensione collide con l’irrazionalità dell’esperienza umana. In tal senso, questa si configura come un’opera irrazionalista che mette in crisi ogni tentativo di definire l’essere umano attraverso categorie universali. L’uomo neoterico è troppo complesso, troppo frantumato, contraddittorio, per essere ridotto ad un insieme di leggi modellistiche frutto di calcolo e previsione. Eppure, nonostante questa consapevolezza della propria condizione di impotenza, continua a cercare, ad interrogarsi, a lottare con sé stesso in una spirale che non conduce a un solo esito certo. In questo complesso romanzo, quindi, Dostoevskij non ci offre una filosofia dell’uomo che possa essere facilmente assimilata o sistematizzata, ma ci presenta un tragitto senza meta, che costringe a confrontarci con le nostre stesse inquietudini, i nostri dubbi, le nostre paure, e senza nessuna promessa di riscatto. Questo è il grande paradosso dell’opera: la ricerca di senso non è mai fruttuosa, ma è proprio in questa incessante ricerca che risiede la sua potenza. L’autore, con maestria, riesce a dipingere la psiche in tutta la sua prismatica complessità, senza cedere alla semplificazione o risolvere i conflitti che ne emergono. L’opera diventa così un’autentica meditazione sull’essere umano che pur nella sua dogliosa inadeguatezza, come per una coazione a ripetere, insiste incessantemente a far ritornare il pensiero su sé stesso fino a una sorta di spasmo intellettuale. Memorie dal sottosuolo non è, dunque, solo un romanzo psicologico, ma una riflessione filosofica di un esistenzialismo ante litteram che sollecita a confrontarsi con l’angoscia ed il paradosso della nostra irredimibile condizione senza offrire mai la consolazione di risposte conchiuse. La struttura del romanzo non è semplicemente un espediente narrativo, ma manifestazione tangibile della visione dostoevskijana della psicologia umana, che, come il protagonista, si muove nella snervante, convulsa poiesi di pensieri contraddittori ed inconciliabili. La narrazione è divisa in due parti, ma questa divisione non è mai un semplice schema: specchia, in modo mirabile, l’irrazionalità e la frammentazione della mente del protagonista, il quale sperimenta l’inestricabile farragine dei propri pensieri secondo un avvicendarsi di elementi non lineari eppure sottilmente ficcanti. La sua riflessione è ciclica, sghemba, irrequieta. La mente, simile a uno sprofondo, non si pacifica: ogni tentativo di risolvere la confusione interiore si dissolve in spirali di dubbi e di incertezze che non hanno niente di apodittico e perspicuo. Nella prima parte del romanzo, l’“uomo del sottosuolo” si rivolge direttamente al lettore in un flusso di coscienza che è espressione massima dell’alienazione e della solitudine più inciprignita. Così, in queste pagine, egli si svela senza diaframmi, senza una maschera sociale che lo nasconda, e lo fa in un modo che sfida ogni convenzione letteraria. Non si tratta di una riflessione pacata e distaccata, ma di un fiume di pensieri che si accavallano, si contraddicono, si disperdono in mille rivi senza mai trovare conclusione soddisfacente (il protagonista è uno scontento cronico) e in tale flusso, non c’è unità di pensiero, ma anzi si moltiplicano le fratture: il desiderio di affermare la propria individualità e la consapevolezza che essa è solo una forma di cattività e autoinganno conducono l’uomo del sottosuolo a una solitudine insostenibile.  Non vi sono cartografie esistenziali di condotta giusta e confacente al raggiungimento della felicità ma solo una continua oscillazione tra il rimpianto e la disillusione, tra la speranza che il pensiero possa fare luce su un senso auspicabile e la disillusione più aspra. La narrazione stessa riflette questo confliggere, questo andamento franto e nevrotico, spostandosi incessantemente tra il disprezzo per la razionalità e l’impossibilità di eluderla. La seconda parte del romanzo, in cui l’uomo del sottosuolo racconta alcuni episodi significativi della sua vita, non cerca di ricreare una narrazione cronologica o lineare. Gli eventi che descrive sono scuciti, sconnessi, rapsodici come le sue stesse esperienze emotive e psichiche. Piuttosto che una storia coerente, ciò che emerge è un mosaico di scene, ambiti e considerazioni che, pur sembrando disarticolati, servono proprio a dare concretezza alla sofferenza e all’impotenza.  I tentativi di relazionarsi con gli altri, di inserirsi nella vita sociale, non sono altro che un protratto fallimento, un puntuale appuntamento con la propria inadeguatezza. Ogni episodio che il protagonista rievoca diventa l’occasione per una riflessione che non porta a chiarimento, ma che, quasi, inasprisce la condizione di frustrazione esistenziale che lo connota. La vita di quest’uomo kafkiano che non riesce a essere “neanche un insetto” è attraversata da un eterno conflitto tra il desiderio di affermarsi ed il timore di essere fatalmente sopraffatto dal mondo esterno, un conflitto che, come le sue riflessioni, non trova mai una via di fuga, men che meno ariosa. La sua condizione, quindi, è il perfetto riflesso della sua psiche lacerata, ipertrofica, incapace di conciliare le proprie pulsioni più profonde con le aspettative della società. Ma il sottosuolo in cui si rifugia è metafora di una condizione esistenziale che travalica il semplice isolamento sociale. L’uomo del sottosuolo è un individuo che ha scelto la solitudine, e non solo come ritiro dal mondo, ma anche come forma di resistenza. Resistenza non tanto contro le forze esterne, ma contro la propria stessa natura, contro il senso di impotenza che prova di fronte ad una realtà che è incapace di soddisfare le sue esigenze più ime. Il sottosuolo, in quest’ottica, è luogo di punizione, di autoafflizione: l’isolamento, per il protagonista, non è mai liberatorio, ma preferibilmente un incessante tormento che lo costringe a fare i conti con pletore di fallimenti, con illusioni smarrite, con il decadere di ogni possibilità di redenzione. Questo rifugio interiore è l’unico spazio in cui l’individuo può ancora agire, ma in un contesto cervellotico e involuto che non si traduce in scelte fattive ed è senza possibilità di riscatto o di pacificazione. Inoltre, egli si presenta come un “outsider” in senso totale, un individuo che non appartiene a nessun gruppo, a nessuna ideologia, un essere che non accetta nessuna mediazione tra sé ed il mondo. Questo rifiuto totale della mediazione sociale (quella del pensiero è invece fin troppo invadente e elaborata, reattiva e risentita in senso nietzschiano) lo rende incapace di inserirsi in qualsiasi compagine sociale, sia essa religiosa, politica o culturale. Egli conduce un’esistenza spettrale e defilata, che si esprime esclusivamente attraverso il proprio rifiuto della realtà. Non è uomo che si oppone ad una società ingiusta o che si ribella ad un ordine oppressivo, ma individuo che rifiuta ogni forma di riconoscimento da parte del mondo esterno. Il suo isolamento è condanna a vivere privo di strutture di significato e coordinate inclusive o di inserimento. In fondo egli è cattivo (anche nel senso latineggiante di “prigioniero”) perché rifiuta la dativa semplicità di ciò che è buono e elargivo di sé, ed è appunto ostaggio di non altro che della propria bizantina, capricciosa e accidiosa libertà di pensiero autoriferito. Il “sottosuolo”, dunque, non è solo il luogo di una riflessione sulla condizione dell’individuo moderno, ma anche simbolo rivelatore della crisi esistenziale che segna un’epoca. Lì l’individuo non è mai in grado di liberarsi dei propri ceppi interiori. La sua battaglia contro sé stesso è incessante e senza speranza, una teoria di specchi in cui si perde dell’identità persino il pedissequo riflesso singolo, a favore di una proliferazione di immagini; ed è proprio questa lotta senza fine che rende l’opera dostoevskijana così potente e tragica. L’uomo del sottosuolo continua a scavare, ad interrogarsi, a provare a superare il conflitto che lo rode da dentro come un tarlo della ragione. Questo conflitto, questa continua scissione tra il desiderio di azione e l’incapacità di agire, è la vera essenza del sottosuolo: luogo in cui l’individuo si consuma e estenua nella solitudine, nel suo senso di carenza e insufficienza e nella sua incapacità di riconciliarsi con il mondo e con sé. Il sottosuolo è l’arena in cui si  svolge la lotta infinita tra la natura dell’uomo e le aspettative della società, una lotta che non trova mai conciliazione. Una delle questioni più urgenti e più pungenti che Dostoevskij affronta in Memorie dal sottosuolo è quella che riguarda la tensione tra la razionalità illuminista e l’irrazionalità magmatica che intrinsecamente caratterizza il tragitto umano. Il protagonista si erge come un contro-esempio, radicale e disilluso, alla visione ottimistica dell’essere umano, quella che immagina la ragione ed il progresso come soluzioni che, se ben operanti, potrebbero condurre alla felicità, alla realizzazione ed alla pace sociale. Questa concezione, che si fonda sull’idea che ogni uomo possa essere guidato da principi morali e scientifici, e che anzi essi possano sovrapporsi, che la razionalità possa effettivamente orientare il corso degli eventi, viene demolita con una lucidità ed una durezza che rasentano la ferocia. Il protagonista rigetta fermamente l’idea di un uomo “razionale”, come quella che lo vede quale zoon politikon che vive seguendo leggi universali e previsioni deterministicamente orientate, nell’alveo di una vita socialmente condivisa. La sua esistenza si scontra frontalmente con questo ideale dell’uomo come macchina razionale (“punta di organetto” e tavola di calcoli); eppure, è proprio nella negazione di questa razionalità che emerge l’essenza di una profonda crisi ammantata di superiorità morale. L’uomo del sottosuolo, per Dostoevskij, incarna la consapevolezza acuta che il raziocinio, lungi dall’essere una chiave per la liberazione, diventa prigionia asfissiante. La sua ribellione non è tanto contro il progresso o la scienza in sé, ma contro la pretesa di considerare l’uomo come entità che può essere completamente spiegata e regolata da calcoli:  > “…Allora, dite voi, la scienza stessa insegnerà all’uomo (benché questo sia > già un lusso, secondo me) che in realtà egli non ha né ha mai avuto volontà né > capriccio, e che egli stesso non è altro che una specie di tasto di pianoforte > o di puntina d’organetto; e che, inoltre, al mondo ci sono anche le leggi di > natura; sicché, qualsiasi cosa egli faccia, avviene non già per suovolere, ma > da sé, secondo le leggi di natura. Di conseguenza, basta solo scoprire > queste leggi di natura, e l’uomo non dovrà più rispondere delle sue azioni e > vivere gli sarà estremamente facile. Tutte le azioni umane, s’intende, saranno > calcolate allora secondo quelle leggi, matematicamente, come una tavola dei > logaritmi, fino a 108.000, e riportate sul calendario; oppure, meglio ancora, > usciranno delle benemerite pubblicazioni, sul tipo degli attuali dizionari > enciclopedici, in cui tutto sarà elencato e indicato così esattamente, che al > mondo ormai non ci saranno più né azioni, né avventure…”   L’infelice protagonista è scettico verso ogni visione che cerchi di ridurre la complessità e la contraddittorietà del suo sé ad una formula. Riconosce con dolore e lucidità che ognuno è capace di autolesionismo, di contraddizione, di follia, di gesti che sfidano ogni previsione logica e scientifica, ma i suoi viluppi di pensieri non lo conducono se non a una falsa libertà. La libertà, certo, non può essere definita da un ordine logico predeterminato, ma se la ragione è una prigione, essa non può che essere qualcosa che si sottrae a ogni edificazione razionale. Il protagonista si oppone in modo deciso a ogni concezione ottimistica della società come sistema razionale e ordinato in cui ogni individuo trova una propria collocazione data, contribuendo al bene collettivo secondo un pensiero utilitaristico (si legga qui utilitarismo come dottrina filosofica e non nel suo senso deteriore invalso). Questo ordine sociale non è altro che un paramento dietro cui si cela la disumanizzazione dell’individuo, esattamente come avviene nella “macchina sociale” evocata da Michelstaedter ne La persuasione e la rettorica: > “Si sono fatti una forza della loro debolezza, poiché su questa comune > debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca > convenzione… mossi e motori ad un tempo, infallibili e sicuri tutti, in quanto > attraverso di loro viva la vita del grande organismo con la sua previsione > complessa e squisita, cristallizzata negli ingegni delicati e potenti che > eliminano dal campo della vita umana ogni contingenza… E come perché uno metta > in un organo meccanico una data moneta e giri l’apposita leva, la macchina > pronta gli suona la melodia desiderata, poiché nei suoi congegni è > cristallizzato il genio musicale del compositore, e l’ingegno tecnico > dell’organista, così al determinato lavoro che l’uomo compie per la società, > che gli è familiare e istintivo nel modo, ma oscuro nella sua ragione e nel > suo fine, la società gli elargisce sine cura tutto quanto gli è necessario, > poiché nel suo organismo s’è cristallizzato tutto l’ingegno delle più forti > individualità accumulato dai secoli…” Si vede, in definitiva, come ognuno sia privo di un legame autentico con il mondo: simile a frammento che non può essere ridotto a ideologia collettiva o a modello sociale organizzato. Tuttavia, dalla ribellione, emerge un dolente paradosso. L’uomo del sottosuolo non ha il coraggio di abbracciare una libertà autentica, quella che avrebbe richiesto un atto consapevole di autodeterminazione, un passo che implica la scelta di una vita concreta, pur con i suoi limiti, le sue imperfezioni e le sue sofferenze: la sua è una libertà apocrifa, infatti, che non edifica ma distrugge. È distruttiva e autolesionistica, accidiosa e stagnante: insiste dove duole proprio come “il demone della perversità” di Poe, persevera nel desiderio di annientamento. La consapevolezza di essere liberi allora tormenta, perché questa libertà non porta con sé alcuna possibilità di adempimento di sé o di soddisfazione, ma solo il peso di una continua, insostenibile emarginazione. L’incapacità di scegliere una via, di agire secondo una volontà autentica, di formulare progetti concreti spinge verso un’esistenza vacua, segnata dalla rassegnazione e dal tormento, ma anche dalla paura di cedere alle stimolazioni del mondo esterno. La critica alla razionalità, tuttavia, non si configura come un abbraccio irrazionale della follia o del caos. E Dostoevskij, pur rifuggendo da ogni romanticismo che celebri l’irrazionalità come un valore in sé, solleva una domanda più radicale: fino a che punto possiamo veramente considerare l’uomo libero? Se anche il pensiero più puntuto e risolto non è la via per la libertà, se il rifiuto della razionalità porta solo a un’arte della distruzione, allora che cos’è essa veramente? La riflessione è ben più profonda e inquietante: l’uomo neoterico, nonostante la pretesa di essere libero, fa della sua stessa coscienza una trappola, irretito nelle pulsioni più profonde, in angosce inconfessabili e in passioni autodistruttive. La libertà, dunque, lungi dall’essere una conquista, diventa una condanna, un dissidio interiorizzante e risentito che non può essere risolto attraverso una razionalità progettante. Una risposta né ontologica né illuministica ma esistenzialista potrebbe essere quella di affrontare la realtà attraverso l’accettazione delle sue implicazioni più tragiche. L’ineguagliabile autore russo irrompe nel cuore della modernità sollevando la domanda esistenziale fondamentale: che cosa significa essere veramente liberi, se la libertà stessa è inestricabilmente legata alla sofferenza e alla disillusione? La sua critica al razionalismo è un invito a riconoscere la fragilità e la contraddittorietà dell’essere umano, la sua necessità inestinguibile di trascendere persino ciò che è logico e perspicuo o più auspicabile, scollinare modelli meccanicistici e segnati da cinghie di cause e effetti, e ci ricorda infine che è troppo complesso e composito per essere risolto da un modello teorico coerente e totale, che la sua libertà non può mai essere pienamente definita, e che la sua vera natura è perennemente esposta alla lacerante tensione tra desiderio di ordine e caos interiore. La solitudine che pervade l’esistenza del sottosuolo è, al contempo, una scelta deliberata e, come detto, una condanna irrevocabile. Da un lato, essa si configura come difesa: una ritirata strategica dal mondo che l’individuo non riesce più a comprendere, né ad accettare. Il protagonista rifiuta di essere parte di una collettività che gli appare estranea, un sistema che non riesce ad offrire risposte soddisfacenti alle sue domande e esigenze più ime. Egli non è semplicemente un emarginato, un individuo che si ritira per scelta o per necessità, ma un pensatore tormentato che si identifica in modo coestensivo, e fino a coincidervi, col proprio spazio mentale come ultima risorsa per fuggire il vuoto della vita quotidiana. Le convenzioni, le aspettative sociali ed il progresso razionalistico non hanno nulla da offrire a chi, come lui, percepisce il mondo come meccanismo alienante, incapace di adempiere alle urgenze più nude dell’anima umana. In questo rifiuto, l’uomo del sottosuolo si palesa come una figura solitaria, ma anche come una sorta di “testimone” di una condizione che, pur dolorosa, appare ineludibile. Tuttavia, questa solitudine diventa presto un dispositivo da tortura: non solo lo allontana dagli altri, ma lo intrappola in un circolo vizioso di pensieri ossessivi e di riflessioni che non conducono mai a una catarsi. Essa non è liberatoria, ma un sortilegio che imprigiona la sua psiche, atrofizza l’azione, tra sensazioni dolorose e autocritiche incessanti. L’esistenza diventa segnata dal conflitto tra il desiderio di allontanarsi da un mondo indiscernibile e la crescente consapevolezza che la solitudine stessa non offre alcuna risposta ad un acuto tormento, ad un rimuginio che non approda né a soluzioni né a rivelazioni.  Qui l’uomo non può trovare zona franca, come facevano gli eroi romantici, nella solitudine come spazio di riflessione pura, di autoconsolidamento o elevazione spirituale. Mentre per gli eroi romantici la solitudine era uno perno creativo, un laboratorio dell’anima dove l’individuo poteva avvicinarsi a sé e alle verità universali, per l’uomo del sottosuolo è la prigione della sua impotenza. La ricerca della verità, allora, non è atto di liberazione, ma processo che si rivela sterilmente doloroso: interminabile maelstrom che non porta mai alla purificazione o al superamento del dolore. Lì non si costruisce una nuova visione del mondo, ma il rifugio ultimo di chi ha praticato la rinuncia a qualsiasi anelito di salvezza, il luogo dove il dolore esistenziale non può essere elaborato.  L’uomo del sottosuolo non è pari al compiere scelte decisive, è drastico solo nella negazione, non riesce a superare l’apatia che lo immobilizza acuendo il suo stato tormentoso. L’esistenza stessa, in quest’ottica, è sofferenza senza redenzione, un susseguirsi di riflessioni auto-assolutorie ma che non riescono mai a raggiungere una verità definitiva o una pace. Lungi dall’essere una condizione passeggera o un semplice rifugio provvisorio, diventa l’emblema stesso della sua impotenza. La sua esistenza si nullifica, scivolando lentamente nell’indifferenza e nell’autoafflizione. Soffre di soffrire, il suo patimento rasenta l’astrazione: egli è la propria stessa malattia. La tensione tra libertà ed azione, centrale in Memorie dal sottosuolo, svela la natura profondamente ambigua e lacerata, sdrucciola e elusiva di una libertà che, pur essendo riconosciuta come un diritto fondamentale, non è mai facilmente conducibile alla capacità di agire. A ben vedere l’individuo non è incapace di agire, ma sceglie deliberatamente l’inazione. La sua azione si limita all’introspezione, a un vertiginoso flusso di pensieri che non si attua mai in un movimento esterno, in un gesto che abbia una valenza trasformativa. La sua è una riflessione autofaga.  Appare qui il passato come isola e fardello morale, come luogo di una vis inattiva. Decifrare un ordine nel caos dell’esistenza porta solo ai segni di un’astrusa alienazione, ciclo infinito che non approda a nulla di concreto. Libertà come maledizione: condanna all’immobilità, all’impossibilità di fare esperienza del mondo in modo autentico. L’intellettualismo del protagonista diventa intrico di parole e concetti che non hanno alcuna relazione con il mondo esterno, avvitandosi su un oggetto che non esiste. In fondo il cuore della visione dostoevskjiana è lo smascheramento spietato di una libertà malintesa (quella di poter scegliere arbitrariamente come mero esercizio astrattivo che ha in sé il suo fine) a favore di una, ben più ariosa, che riconosce l’ineluttabilità della condizione umana, la sua dimensione finita e tragicamente contraddittoria. Ma, come detto, la libertà del protagonista è una macchina da tortura. L’uomo del sottosuolo è, in fondo, la rappresentazione di un’umanità moderna che, pur avendo conquistato una via di uscita dal giogo delle convenzioni e della tradizione, si ritrova incapace di utilizzarla per creare nuovi significati nella tensione lacerante tra libertà e destino, tra il desiderio di autodeterminazione e la fatalità che sembra legare ogni individuo a uno stato di prostrante paralisi: il destino non è più visto come una forza esterna da cui l’individuo è condannato a essere schiacciato, ma come un dramma interiore che ha per teatro la sola mente del protagonista, un destino che è inevitabile non per degli influssi esterni, ma per incapacità personale di affrontarlo. È così che si allarga la forbice tra l’individuo e il mondo che lo circonda.  Ma la società lo soffoca non più del tanfo della sua stagnazione, del disfacimento della propria stessa individualità che da essa si voleva riscattata.  Dostoevskij sfida il lettore nella sua capacità di non cedere al nichilismo più sterile o al fatalismo pur esplorando le zone più latebrose della psiche, con una lucida ma dolorosa analisi della realtà non mistifica né ignora, ma mostra la condizione patologica di una “volontà di potenza” alla rovescia, di un esecrabile e mortifero eterno ritorno che il protagonista compie su sé, avvitandosi in una stagnazione spiraliforme. L’opera suggerisce che la vera sfida per l’individuo moderno non sta nel cercare soluzioni o risposte univoche, ma nel creare una propria interna tensione attiva e liberatrice, proprio in limine tra autodeterminazione e azione, pensiero come atto di autocoscienza e volontà di progettare per edificare un senso che non eluda la fragilità dell’esistere. Il sottosuolo è così la metafora di una disarmonia tipica della vita moderna e l’opera di Dostoevskij, gioiello senza tempo e figlio del suo tempo, si presenta dunque come una sfida ancora aperta. Massimo Triolo *In copertina: un ritratto di Valentin Serov L'articolo Nelle latebre della psiche. “Memorie dal sottosuolo”: storia di un outsider totale proviene da Pangea.
May 19, 2025 / Pangea