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Fine di un’epoca. Milano è il simbolo di un mondo stanco, che non appartiene più a nessuno
La mia amica aveva appena finito di vomitare sopra a una grata di ventilazione della metropolitana in Largo Cairoli. Sputò ancora per un po’, si asciugò la bocca con il dorso della mano, e poi andammo a sederci per terra sul marciapiede davanti alla porta d’ingresso della Standa – oggi Decathlon – insieme ai suoi amici punkabbestia e ai loro cani.  “Come stai?”, le chiesi. “Non ci pensare neanche. Non te la faccio provare. Guarda come cazzo ti riduce”.  Non se la iniettava in vena, se la fumava dentro alla carta stagnola.  La ammiravo. Volevo essere come lei. Sembrava libera agli occhi di una quindicenne con un padre che la sera non la faceva ancora uscire da casa.   * Siamo nella Milano della fine degli anni ’90. Il Luna Park ‘Le Varesine’ aveva chiuso da poco, lasciando il posto a “via Mike Bongiorno” e ai grattacieli. Alla Darsena c’erano ancora il parcheggio e la fiera di Sinigaglia, con le bancarelle di roba dell’usato e i punkabbestia che si ritrovavano al vecchio Mercato Comunale. Si spacciava e si dormiva sotto ai portici di Piazza Vetra. Si pippava la Speed sulle panchine della piazzetta davanti alla Basilica di Sant’Eustorgio. Si andava alla festa della semina e del raccolto al Leonkavallo.  Durante gli anni ’90 i ragazzi si bucavano seduti a terra tra le auto parcheggiate. Ne vedevo tanti mentre tornavo a casa da scuola in Porta Venezia, quando Porta Venezia era ancora un quartiere di figli di portinai come me e di gente bene che convivevano serenamente. Non c’erano ancora locali gay e ristoranti eritrei. In Buenos Aires i negozi erano negozi di vestiti, e non solo di cibo, come oggi, e non cambiavano insegna ogni due mesi.  A Milano c’erano pochissimi turisti. La gente visitava l’Italia, ma mica passava di qui. Per fare cosa?Quando andavi in ferie al mare da qualche parte e dicevi che eri di Milano, ti pigliavano in giro e ti guardavano con pietà: poveri voi e la nebbia, poveri voi e il grigiore, poveri voi e lo smog, poveri voi e il lavoro sfrenato. Poveri voi.  * I bambini che non avevano i genitori abbienti che li iscrivevano a un’infinità di sport, avevano il trenino dei Giardini Indro Montanelli e le macchinine al Parco Sempione. Punto.  C’erano due grattacieli, il Pirelli e la torre Breda, costruita negli anni ’50. Io sono cresciuta lì dentro. Mio padre faceva il portinaio. Ogni giorno, di nascosto, andavo al ventisettesimo piano per guardare la città dall’alto. Si vive meglio con un orizzonte davanti agli occhi da ammirare, lo diceva anche Thoreau nel suo Walden.  Mi mettevo a piangere ascoltando la musica. Fissavo quei minuscoli serpenti luminosi scorrere sull’asfalto e spesso pensavo di farla finita. Poi, come un’astronauta che torna dallo spazio, scendevo sulla terra e diventavo ancora più consapevole della nostra inutilità e piccolezza. E pensavo: forse è così che si sentono i ricchi che vivono ai piani alti. Credono di non far parte di questo mondo, che nulla li tocchi e li riguardi. Stanno sulla Terra giusto per qualche istante, per sbrigare i loro affari, poi se ne tornano nelle loro torri. E allora pensavo che bisognerebbe buttarli giù quei grattacieli, e far vivere tutti allo stesso livello, per non dimenticarci che siamo uguali, invece di essere disposti a tutto per andare a vivere lassù. Perché poi te lo dimentichi che non sei nessuno e che nasci e muori comunque a mani vuote. * Milano è cambiata dopo l’Expo. Non ce ne siamo accorti subito. È stato come vivere con una moglie che si trascurava da tempo. Ci siamo guardati attorno, e improvvisamente ce la siamo trovata invasa da una quantità di persone mai vista prima che camminava piano, troppo piano, e di gente che fotografava cose.  * Milano ci ha cambiato.  Milano ci ha sconfitto.  Milano ci ha temprato.  Milano ci ha stancato.  Milano, non ti riconosco più. * Milano è come una vecchia donna che si è rifatta, che ha perso il suo fascino ma che se la tira ancora. Non perde mai la speranza. Al massimo si rifà il look e si trova il Toyboy.  Milano e la sua mania di risplendere, di nascondere lo squallore, di spostarlo verso le periferie, manco fosse Parigi.  Milano e le passeggiate a Isola che diventano sfilate. Milano, che quando vivi in belle zone ti fa sentire addosso gli sguardi della gente che si chiede subito: “Chi è? Cosa fa? Quanto guadagna per potersi permettere di vivere lì?” Milano, che per trovare un po’ di pace te ne devi andare a passeggiare tra i morti al Cimitero Monumentale.  Milano come una bomba ad orologeria che è pronta a implodere.  La verità è che a Milano non c’era un cazzo di bello, a parte il Castello e il Duomo. Ora ci sono i grattacieli e quei quartieri che qualcuno ha fatto diventare “cool” grazie a Instagram. E poi Armani che muore. Il Leonka che chiude. Il Plastic che chiude.  I negozi che chiudono.  I maranza.  I figli di papà. Le mogli degli uomini ricchi che piazzano bambini come pensione di vecchiaia.  Le case che non si trovano o che costano una follia. La gente costretta ad andarsene.  Una città che espelle chi l’ha nutrita.  L’aria che non si respira. Le troppe auto. Il caldo che sale dal cemento e ci soffoca, ci annienta, ci consuma.  Le persone sempre più infelici, sole, nervose, schizzate, di fretta. Non si rendono conto di scappare da sé stesse. Milano è il simbolo della fine di un’epoca, di un mondo stanco che non ha più voglia di appartenere a nessuno se non a sé stesso.  Siamo tutti pronti ad andarcene.  Quando troveremo i soldi e il coraggio.  Dejanira Bada L'articolo Fine di un’epoca. Milano è il simbolo di un mondo stanco, che non appartiene più a nessuno proviene da Pangea.
September 29, 2025 / Pangea
Camminare sulla fune, ovvero: esercizi per assaporare il silenzio
Dove si trova il silenzio? È una condizione che fa parte di questo mondo o esiste solo nell’universo siderale? Il silenzio si trova nei cimiteri, ci riguarda o appartiene a un Altrove?  Esiste il silenzio?  A volte sembriamo cercarlo disperatamente, ne sentiamo la mancanza.  Dove abita il silenzio?  Non è un po’ come chiedersi: dove nasce il vento?  Siamo disposti a viaggiare e ad allontanarci molto per provare a stanarlo.  Lo cerchiamo durante i ritiri di meditazione, dove si rimane zitti per giorni, e quando poi si può ricominciare a parlare, non abbiamo nemmeno tutta questa voglia di farlo.  Ma il silenzio non è per tutti. Molti si sentono a disagio quando il mondo tace. Perché il silenzio è anche un invito all’introspezione. Restare soli con sé stessi può fare molto rumore. Eppure, come scrive il filosofo Peter Sloterdijk in Devi cambiare la tua vita, al contemplante basterebbe comprendere una procedura fondamentale che consiste nella “duplicazione di sé”, un metodo per stare in buona compagnia anche quando si sceglie di ritirarsi dal mondo; cogliere che dentro si ha già un partner superiore, un angelo, un monitor spirituale, un genio, un mentore, un custode, un compagno, un guardiano che protegge e controlla, che esamina e sostiene, senza cercare fuori qualcuno o qualcosa che compensi la paura. Un nobile osservatore che sorveglia e fa sentire al sicuro:  > “Chi vuole essere sé stesso sperimenta la presenza del suo altro interiore. > Per sapere come sta quest’ultimo, occorre un quotidiano esame interiore”.  Il passo successivo, in particolare nei percorsi spirituali orientali, sarà la fusione con questo Grande Altro o l’eliminazione della dualità tra Sé reale e Sé ideale.  * Io stessa ho cercato il silenzio nelle sinuosità del deserto dell’Oman. Ho esplorato il Negev, il Sahara, il Thar, il Wadi Rum e i deserti americani. E poi, durante un viaggio nella mia terra natìa, le Marche, ho capito che non c’era bisogno di andare così distante per sentir dialogare soltanto le stelle nella notte oscura. Là fuori, lontano dalle città, recuperare il silenzio diventa di nuovo un’opzione possibile ma che pochi sembrano intenzionati a perseguire. La maggior parte ha scelto di abbandonare i borghi e le campagne e di conseguenza il silenzio, perché in pochi hanno ancora insito in sé il contatto primordiale con la natura, quel luogo dove la solitudine può diventare contemplazione, dove le parole non servono, perché è più interessante ciò che ha da dire il mare.  Pensiamo che vivremo meglio silenziando il dolore, non capendo che solo ascoltandolo e accogliendolo potremo elaborarlo ed evolvere. Ma tutto ciò diventa possibile solo frequentando il silenzio e lasciando essere le cose così come sono. È questo a creare fiducia, come scrive la poetessa Chandra Livia Candiani ne Il silenzio è cosa viva:  > “La maggior parte di noi inizia un percorso meditativo in cerca di pace. Ma > ben presto ci accorgiamo che quello con cui entriamo in contatto è il caos > della nostra mente e la ristrettezza del nostro cuore. La pace non è la > quiete, è piuttosto l’accoglienza dell’irrequietezza”.  Tutto sta nella possibilità di aprirsi a quel conoscere senza pensare.  Ma silenziare il caos vuol dire anche appropinquarsi ad assaporare la morte, la lacerazione con ciò che consideriamo vita, con l’inizio e la fine di tutte le cose, con il loro apparire e scomparire, con l’ingannevole sicurezza e l’ignoto. Non troviamo il silenzio perché siamo distratti.  Viviamo in una società iperconnessa e industrializzata che mette a dura prova il nostro sistema nervoso. Non siamo più in armonia con la vita, come scrisse la filosofa e maestra spirituale Vimala Thakar ne Il mistero del silenzio. Se siamo seduti in silenzio e la mente fa resistenza anche soltanto al suono del pianto di un bambino, si crea una frizione, che genera irritazione e una reazione, una resistenza alla vita stessa. Cerchiamo rifugio nella meditazione, nella concentrazione, ma spesso non basta a trovare sollievo dal trambusto.  Dovremmo soggiornare in uno stato di osservazione consapevole che dovrebbe accompagnarci durante tutta la giornata per essere in grado di trovare il silenzio interiore, una condizione di non verbalizzazione, di sradicamento dei dogmi, dei simboli, di teorie e d’ideologie, di opinioni, credenze e affezioni, di nomi, di forme, d’identificazioni e di sentimenti; oltre l’io, il me, il mio, oltre il tempo e lo spazio:  > “Perché il silenzio possa diventare vivo, la totalità del movimento cerebrale > deve disattivarsi volontariamente”.  Il silenzio giace al di là del noto e dell’ignoto, di ciò che è visibile e invisibile. Il regno del silenzio è il regno dell’inconoscibile. Come nella via apofatica del misticismo cristiano di Meister Eckhart e Angelus Silesius, dell’Anonimo Francofortese e di Margherita Porete, la quale dichiarava: “Il mio Dio è colui di cui non si può dire parola”. La loro era una via di silenzio e di contemplazione, dove al massimo si poteva asserire cosa non fosse Dio. Perché se dici Dio, non è già più Dio, come dichiarava Sant’Agostino.  * È possibile trovare il silenzio nell’immobilità, nella non-azione, nel non-pensiero. Ma come si raggiunge il non-pensiero? Con il senza-pensiero, quando: “Pur essendo di fronte a tutti gli oggetti circostanti, la mente rimane pura ed incontaminata”, come scrisse Daisetsu Teitarō Suzuki, professore di Filosofia Buddhista dell’Università di Kyoto in La dottrina zen della non-mente. Per “oggetti circostanti” s’intendono la coscienza e l’Inconscio:  > “cioè uno stato in cui né pensieri, né coscienza, interferiscono col > funzionamento spontaneo della mente. Far sorgere pensieri verso gli oggetti > che ci circondano e trastullarci con false idee su questi pensieri, questa è > la fonte delle preoccupazioni e delle immaginazioni”.  Cosa vuol dire senza-pensiero?  > “Vedere tutte le cose eppure mantenere la propria mente libera da macchie e > attaccamenti. Obbligare la mente a non dirigersi verso qualsiasi cosa, questo > è ‘estirpare i pensieri’”.  Astensione dalle discriminazioni. Pura presenza. Qualcuno potrebbe dire che in questo modo si rischia di cedere all’annichilimento. Ma l’annichilamento non è ancora forma e parola? Un grande insegnamento del maestro zen Mazu Daoyi, parlando di cosa fosse l’illuminazione, fu: “Quando ho fame, mangio e quando sono stanco, vado a dormire”. Eihei Dōgen, filosofo, monaco e poeta zen fondatore della scuola Sōtō-shū, in una poesia scriveva:  > “In primavera i fiori  > in estate il cuculo e  > in autunno la luna.  > Nel freddo inverno  > la neve chiara e pura”.  Ecco l’essenza della vita, la necessità di smettere di classificare, concettualizzare, teorizzare e interpretare. D’altronde, anche William Shakespeare in Romeo e Giulietta scrisse: “Romeo, perché ti chiami Romeo? Cambia il tuo nome. In fondo, che cos’è un nome? Quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente”. Cosa? Perché? Dove? Come? Queste non sono domande utili per la comprensione della vita. Non sarebbe più utile prendere una tazza di tè seduti nel silenzio del senza-pensiero anziché inseguire le deviazioni della mente? Guardando fuori, poi dentro, poi di nuovo fuori, e capire che non c’è frammentazione.  Il silenzio è una forma di libertà e una via di vulnerabile accuratezza.  * Il compositore John Cage – famoso anche per il brano 4’33, in cui l’orchestra non deve suonare – ha sempre inserito lunghe pause tra le note, pause che ricordano anche i momenti di sospensione tra un respiro e l’altro, tra un’inspirazione e un’espirazione, come a evidenziare la rilevanza del silenzio. Un silenzio che, in realtà, non esiste, non è mai esistito e mai esisterà. Anche in una camera anecoica completamente insonorizzata c’è sempre qualcosa anziché nulla: non ci sono rumori esterni di nessun tipo… ma ecco il suono del nostro respiro, del sangue che scorre nelle vene, il battito cardiaco, il ronzio nelle orecchie, magari anche un acufene. Il silenzio non esiste. Perlomeno la totale assenza di rumori. Ma può esistere il silenzio della mente, e Cage, con le sue pause, ci fa cogliere proprio questa consapevolezza: la presenza mentale e la pace, giacciono in quello spazio vuoto, in quella pausa tra un pensiero e l’altro, tra la nascita e la morte di un giudizio. Solo una mente non discriminante può provare l’ebrezza della calma.  Ci sediamo a meditare, e veniamo invasi da pruriti, dolori, pensieri nefasti, immagini, ricordi, idee. Nel libro Silenzio, John Cage scriveva: “Un complesso d’archi, un tramonto, ciascuno agisce”. Si tratta di accettare che un suono è un suono e un uomo è un uomo, senza illusioni sull’ordine e orpelli estetici che abbiamo ereditato. Si tratta di considerare profondo l’ascoltare così come lo starnutire. Si tratta di saper vedere, e cioè riconoscere, comprendere, sentire nel cuore, sperimentare in prima persona. * E allora, dove cercare il silenzio? L’unica risposta plausibile è di non cercare. Questa è la via maestra dei meditanti più esperti. Può sembrare troppo, incomprensibile, ma intanto – per una volta – proviamo a incamminarci senza pensare alla meta. Una via di apparente improvvisazione che in realtà cela un programma di allenamento degno della più alta acrobatica spirituale. Perché dietro alla capacità di tacere e di silenziare i condizionamenti mentali, c’è sempre molta prassi ed esercizio, c’è dedizione e vocazione, intenzione ad abbandonare e a lasciar andare. La capacità di assaporare un vero silenzio interiore è direttamente proporzionale al saper camminare sulla fune della meraviglia del vuoto.  Dejanira Bada *In copertina: Philippe Petit durante un servizio fotografico nel dicembre del 1989 ritratto da Annie Leibovitz L'articolo Camminare sulla fune, ovvero: esercizi per assaporare il silenzio proviene da Pangea.
September 18, 2025 / Pangea
“Bisogna quindi amare assolutamente tutto”. Ad Assisi, con Simone Weil
Nel 1937, Simone Weil trascorse due giorni ad Assisi: “Mentre mi trovavo da sola nella piccola cappella romanica del XII secolo all’interno di Santa Maria degli Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove san Francesco ha pregato tanto spesso, per la prima volta nella mia vita qualcosa più forte di me mi ha obbligata a mettermi in ginocchio”.  Questa è l’esperienza di Simone nella Porziuncola, quella piccola chiesetta di pietra che si trova all’interno della maestosa Santa Maria degli Angeli. Un luogo di pellegrinaggio e preghiera che recentemente ho voluto visitare anch’io proprio per capire l’esperienza della Weil. > “Ad Assisi sono completamente scomparsi dalla mia memoria Milano, Firenze, > Roma e tutto il resto, tanto sono stata affascinata dalle campagne così dolci, > così miracolosamente evangeliche e francescane, dalle chiese così incantevoli, > da tanti ricordi felici e da quei nobili esemplari della specie umana che sono > i contadini umbri, una razza ricca di bellezza, di vigore fisico, di gioia, di > dolcezza. Non avevo mai sognato un paese così meraviglioso”. Simone Weil la filosofa, la mistica, l’anarchica, l’operaia per scelta, la non più ebrea, la malata, la donna che scelse l’adesione alla miseria per avvicinarsi a Dio, che capì presto quanto fosse necessario fare “vuoto” per fare spazio a Lui, negare se stessi, ammettere che l’universo è assolutamente privo di finalità e che in questa assenza sta l’essenza del mondo, la bellezza pura, e che per non cedere alle passioni è necessario esercitare l’attenzione, la responsabilità, portare il corpo alla disintegrazione.  > “Ad esempio, mi sono sempre proibita di pensare al futuro, ma ho sempre > creduto che il momento della morte sia la norma e la meta della vita. Pensavo > che per coloro i quali vivono come si conviene sia l’istante in cui, per una > frazione infinitesimale di tempo, la verità pura, nuda, certa, eterna penetra > nell’anima. Posso dire di non aver mai desiderato per me alcun altro bene”.  L’ascesi come fortificazione e non come mortificazione. Proprio ciò che scelse di fare Simone anche in punto di morte: portare la propria croce. In preda a una tubercolosi, poco più che trentenne, si lasciò anche morire di fame: “Trovo conforto soltanto nel ricordo delle voluttà sia spirituali sia fisiche che sorgono durante la sofferenza fisica. Sono brevissime, e tuttavia di una tale intensità da equivalere a un lungo benessere. Lo so per esperienza, e suppongo che sia così per tutti”. Perché la malattia offre la condizione ideale per l’ascesi e per raggiungere Dio. Per scorgerlo bisogna sottrarsi al mondo.  Per riuscire a vedere è necessario essere consapevoli. L’attenzione è la più alta forma di preghiera. Scriveva Simone Weil nel suo Attesa di Dio:  > “L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in sé stessi, così come si > inspira e si espira. Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono > infinitamente più di tre ore d’applicazione con la fronte corrugata, che fanno > dire, con la sensazione di aver fatto il proprio dovere: «Ho lavorato sodo».”. Attenzione come sospensione del proprio pensiero, come possibilità di lasciarlo andare, renderlo disponibile, vuoto, in attesa, senza nulla da cercare, pronti ad accogliere la nuda verità dell’oggetto che sta per penetrarvi. Weil recitava il Pater ogni mattina come una vera e propria pratica di meditazione, una pratica del verificare, un sacramento, una veglia: “Se mentre lo recito la mia attenzione divaga o si assopisce, anche solo in misura infinitesimale, ricomincio daccapo fino a che non abbia ottenuto per una volta un’attenzione assolutamente pura”.  Simone considerava Meister Eckhart un autentico amico di Dio che diceva e scriveva parole udite nel segreto e nel silenzio anche quando queste non concordavano con l’insegnamento della Chiesa, consapevole che il linguaggio della pubblica piazza non può essere come quello della camera nuziale. Anche lei “andava stretta” alla Chiesa. Era una che ripudiava le Crociate e l’Inquisizione, che non aveva bisogno d’intermediari per sentire Dio, i cui figli dovrebbero avere come unica patria l’universo: “Le cose meno vaste dell’universo, nel novero delle quali è la Chiesa, impongono obblighi che possono essere molto estesi, ma fra i quali non c’è quello di amare”.  Per Simone nelle parole “sia fatta la tua volontà”, c’era già ogni cosa, perché se pronunciate con tutta l’anima, implicavano la totale accettazione della volontà divina:  > “Bisogna quindi amare assolutamente tutto, nell’insieme e in ogni dettaglio, > compreso il male sotto qualsiasi forma, e in particolare i peccati commessi, > posto che siano trascorsi (mentre bisogna odiarli se la loro radice persiste), > le proprie sofferenze passate, presenti e future, e – di gran lunga la cosa > più difficile – le sofferenze altrui, posto che non si sia chiamati ad > alleviarle. In altre parole, bisogna sentire la realtà e la presenza di Dio > attraverso tutte le cose esteriori senza eccezioni, con la stessa chiarezza > con cui la mano avverte la consistenza della carta attraverso il portapenne e > la penna”. Viviamo nell’attesa di compensare le nostre mancanze, i nostri vuoti, in balìa delle circostanze, sperando sempre in qualcosa di meglio, che le cose cambieranno, miglioreranno, e che la permanenza della nostra personalità perduri, ma Weil ci ricorda che la paura dell’imminenza della morte è legata soprattutto a questo: non avremo tempo, non è mai stato questo il senso, tali compensazioni non arriveranno mai: “L’umiltà consiste nel sapere che in questo mondo tutta l’anima – non solo il cosiddetto io, nella sua totalità, ma anche la parte soprannaturale, ovvero sia Dio in essa presente – è sottomessa al tempo e alle vicissitudini del mutamento”. La parte mediocre del nostro io non teme la fatica e la sofferenza, teme soltanto di essere uccisa.  Le fede consiste nella “visione delle cose invisibili”, come diceva San Paolo. Non c’è mai nulla da cercare, la salvezza opera nella mancanza di attività. È Dio che cerca l’uomo, non il contrario.  > “Se Dio, dopo una lunga attesa, lascia vagamente intravedere la sua luce > oppure si rivela in persona, è soltanto per un istante. Poi bisogna rimanere > di nuovo immobili e attenti, aspettare senza muoversi, chiamando solo quando > il desiderio è troppo forte”.  La necessità cieca è l’unica strada per accorciare la distanza e avvicinarsi, e amare la propria Croce. > “L’anima è là dove si intersecano la creazione e il Creatore. Quel punto > d’intersezione è il punto d’incrocio dei bracci della Croce”.  L’unica vera parola di Dio è il silenzio.  E dopo aver letto e amato la Weil e il suo Attesa di Dio, eccomi partire per il mio viaggio, e scoprire che si arriva ad Assisi come osservatori. Si guardano gli altri compiere riti, gesti scaramantici, cedere a superstizioni, intrecciare mani in preghiera o lasciare che tocchino statue, altari, pietre, tombe di cadaveri mummificati. Mani che scrivono, che asciugano lacrime che sgorgano da occhi in preda all’estasi.  E poi quel richiamo continuo, necessario e imprescindibile, al silenzio che aleggia in tutta la città, in ogni chiesa, in ogni giardino, dai cartelli o dai microfoni.  Si guardano, si osservano e si giudicano gli altri, ma poi si finisce noi stessi in lacrime sotto al peso della stanchezza della vita nella sublime basilica di San Francesco, sentendo forte e chiara la propria piccolezza, ma non l’inutilità.  Si sente la sofferenza sgorgare dall’acqua salata, e quanto solo l’amore conti, e quanto coraggio e forza questo richieda, quanto impegno, che sia amore per Dio o per la persona che si ha accanto.  Nella Porziuncola ho sperimentato io stessa l’importanza dell’inginocchiarsi per testare la scomodità e la vividezza del dolore, ascoltando la messa, recitando: Padre Nostro “che sei nel segreto”.  Il distacco da sé come riflesso di Dio.  Il legno, le ginocchia e le anime che scricchiolano.  Il tempo che cessa di esistere.  Gli uomini più vigorosi e gli storpi che tornano a essere uguali.  L’ordine che regna sovrano nel silenzio del crepuscolo.  La pietra che protegge.  Il piccolo che si fa grande.  Il fremito della malattia. I cuori spezzati. Le ferite che s’innalzano sopra al capo di ogni uomo e che splendono di fervore.  Le preghiere sussurrate. L’attesa come stato di grazia. Continuare ad amare anche nella sventura.  Il bisogno disperato di farsi perdonare e di perdonare. Gli errori pagati cari. Il dono di chi crede e la speranza di chi dubita. L’immenso divenire. La patria dell’eterno momento presente.  Il timore della morte che cela nostalgia di casa.  Un viaggio ad Assisi si può trasformare da attesa a incontro con Dio.  Dejanira Bada L'articolo “Bisogna quindi amare assolutamente tutto”. Ad Assisi, con Simone Weil  proviene da Pangea.
July 5, 2025 / Pangea
Abitare il vuoto. Piccolo discorso sulla povertà e il reddito minimo universale
Un giorno dovremo fare nuovamente i conti con il vuoto.  Immaginate di svegliarvi, dopo l’ennesima notte inquieta in preda alle preoccupazioni, e di non dover più lavorare. Mai più. Nessuno di voi – quantomeno la maggior parte. Siete dei cassieri? Fotografi? Avvocati? Broker? Videomaker? HR? Scrittori? Segretari? Magazzinieri? Potrei andare avanti a lungo… ebbene, una mattina, l’Intelligenza artificiale vi avrà sostituito. Tutti. Ma proprio tutti.  Cosa farcene del tempo?  Siamo la società dell’iperconnessione, del brain rot, del burn out, della stanchezza, dell’angoscia (per citare i titoli di alcuni libri del filosofo Byung-chul Han).  Un bel giorno potremmo scoprire che il mondo può fare benissimo a meno di noi. In realtà ha sempre potuto fare a meno di noi, ma almeno, prima, avevamo una parvenza di utilità. Tanti finiranno sul divano come Homer Simpson, altri s’inventeranno nuovi lavori o si formeranno. Altri diventeranno dispensatori umani di abbracci o di grattini (ah, ci sono già), in un mondo sempre più freddo, ostile e tecnologico. Siamo pronti?  Avremo tempo, molto più tempo, e questo tempo ci metterà a disagio, in soggezione. Saremo obbligati a fermarci, a porci domande che non avevamo mai avuto il coraggio di porci, un po’ come avvenne durante il lockdown, ma all’ennesima potenza. Non a caso, proprio dopo il Covid, in America e in Europa è nato quel fenomeno detto Grandi Dimissioni.  Fermarsi implica il sentire. È quello che avviene quando si medita: la gente si siede, porta l’attenzione al respiro, e si stupisce di non rilassarsi, di non sentirsi bene, di non levitare da terra. Come mai? Perché non succede quello che si vede nelle pubblicità o sui video sui social? Perché non sorrido beatamente volteggiando tra gli arcobaleni? Perché continuo a sentire? Anzi, sento di più.   Perché meditare vuol dire imparare a entrare in contatto con il vuoto.  L’uomo avrà di nuovo tempo, e si ritroverà a fare i conti con sé stesso. Come disse Filosofia a Boezio mentre era imprigionato in attesa della condanna a morte: “Ora so quale è la causa più grave del tuo male: non sai più chi sei”. La filosofia, proprio lei, che abbiamo relegato in soffitta, ma che ora ci converrà recuperare, perché potrà esserci utile più che mai, più che in qualunque altra epoca storica.  La contemplazione potrebbe diventare una componente imprescindibile nella vita di un uomo. E così l’arte, la letteratura, la poesia, la musica. Avremo tempo per pensare, per il riposo, per il silenzio, per coltivare l’orto, per passeggiare, per la preghiera, per meditare, per dipingere, per scrivere e creare, per reimparare a sognare, senza perché. E non più solo per vendere e diventare famosi, ma per il gusto del puro atto in sé. E la scuola tornerà a insegnare e a far riscoprire tutto questo. Dovrà farlo.  Questa è la versione ottimistica. In quella pessimistica, tanti si suicideranno. Molti impazziranno. Non troveranno più un senso. Il Fentanyl andrà via come il pane, molto più di adesso. Diventeremo molto più dipendenti dalle droghe, dall’alcol, dal sesso, un piacere caduco, che non si farà più per procreare ma per rammentarci la rilevanza della fusione di due respiri affannosi. La sensazione di vivere. Ci butteremo via dentro ai videogames, atrofizzati nella realtà virtuale. Non usciremo più di casa. Non servirà più. Non servirà più esistere in quell’Aperto – per citare Rilke e la sua Ottava Elegia – che in realtà non siamo mai stati capaci di abitare: > Con tutti gli occhi la creatura vede > l’aperto. Gli occhi nostri soltanto > son come rivoltati e tesi a lei intorno: > trappole al suo libero cammino. > Ciò che è fuori, puro, solo dal volto > animale lo sappiamo; perché già tenero > il bimbo lo volgiamo indietro, che veda > ciò che ha forma, e non l’aperto che > nel volto animale è sì profondo. Libero da morte. > Questa solo noi la vediamo; il libero animale > ha sempre dietro di sé il suo tramonto > e a sé dinanzi Dio, e quando va, va > nell’eterno; come vanno le fonti. > > Noi non abbiamo mai, neppure un giorno > lo spazio puro innanzi, nel quale all’infinito > si schiudono i fiori. È sempre mondo > e mai non-luogo senza non: il puro, > incustodito, che si respira, > si sa infinitamente e non si brama. Da bimbo > in questo si perde uno in segreto e > viene scosso. O un altro lo è morendo. > Poiché vicino a morte più non si vede morte, > si guarda fisso fuori, forse con sguardo grande d’animale. > Gli amanti, se non ci fosse l’altro che > la vista preclude, sono prossimi a questo e hanno stupore… > quasi per una svista, per loro dietro l’altro > si schiude l’aperto… di là da lui però > nessuno libero avanza ed è di nuovo mondo. > Alla creazione sempre rivolti, solo > specchiato vediamo in esso l’aperto, > oscurato da noi. O che un animale, muto, > alza lo sguardo, che quieto ci traversa. > Questo è destino: esser di fronte > e poi null’altro e di fronte sempre.  Tornerà anche il bisogno di Dio? Sappiamo che ha perso rilevanza non solo in Occidente ma anche nei paesi del Terzo Mondo. Ha avuto il suo appeal per millenni, soprattutto nei paesi poveri. Il concetto di liberazione dopo la morte dal ciclo delle reincarnazioni è nato in Oriente anche a causa di malattie, pestilenze, carestie e povertà che hanno sempre fatto pensare alla vita come a un inferno in Terra. E ancora oggi, per la maggior parte delle persone, la vita non è un meraviglioso viaggio di cui fare esperienza, è un incubo da cui liberarsi il prima possibile. La favola della “vita che vale sempre la pena di essere vissuta a ogni costo” è figlia del capitalismo occidentale. La felicità fa vendere, fa consumare, fa guadagnare. Tutto il pensiero orientale, il cristianesimo e anche lo stesso ebraismo e islamismo, non vedono la vita come qualcosa di cui fare tesoro, ma solo come un passaggio, spesso disastroso e durissimo, in attesa di condizioni migliori o dell’estinzione. Oggi, però, si crede sempre meno in un Dio che premierà i poveri e gli umiliati e offesi e in un paradiso che pacificherà le anime sofferenti.  Ma a parte il tempo, il vuoto, la filosofia, l’autodistruzione, Dio: con che soldi vivremo?  Sembra un’utopia, una fantasia di poco conto. Eppure, come scritto in un articolo de “L’Internazionale”, tutto questo potrebbe diventare realtà in tempi molto brevi. Come ci sostenteremo? Con una cosa che per molti ha un suono aberrante: il reddito universale, o basic income, che non è il reddito di cittadinanza (che è stato gestito malissimo e ha affossato qualunque possibilità di dialogo sul reddito universale).  Sono già stati fatti i primi esperimenti in Texas e Illinois, finanziati e ideati da Sam Altman, fondatore di OpenAI, grazie alla sua organizzazione no-profit OpenSearch: dare mille euro al mese a un gruppo di persone a basso reddito selezionate per la ricerca, per circa due anni. Il gruppo di controllo ha ricevuto cinquanta dollari al mese.  I risultati? Non sono stati catastrofici come si potrebbe pensare, anzi. Come scritto in un articolo sul “Corriere della Sera”, il gruppo che ha ricevuto i mille euro ha lavorato circa 1,3 ore in meno a settimana. Alcuni hanno chiesto di avere più tempo libero da dedicare alla famiglia. Si sono spesi più soldi per le cure mediche, il cibo, l’affitto. Sono aumentate del 5% le probabilità di avere un’idea per un’attività imprenditoriale e del 14% quelle per proseguire gli studi o fare formazione. Le persone non sono rimaste sul divano a non fare nulla, hanno ricominciato a programmare, ad avere idee, a fare progetti, a formarsi, a migliorarsi; hanno potuto dedicarsi alla salute e al benessere, vivendo con meno stress per paura degli imprevisti. Altman dice che l’AI è già pronta per effettuare una sostituzione di massa. Ma chi glielo dice ai governanti di destra o di sinistra che parlare di pensioni, di salario minimo, di flat tax ecc. è già roba vecchia?  Emanuele Murra – ricercatore e docente di storia e filosofia –, in un’intervista rilasciata a “Slow News”, ha parlato così del reddito universale:  > “La definizione minima di reddito di base è quella di un trasferimento > monetario finanziato con la fiscalità generale, erogato da un’autorità > pubblica. Si tratta di un reddito su base individuale, che non dipende dalle > condizioni economiche dell’individuo e che non presenta esigenze di > contropartite. Questo è ciò che rende unico il reddito di base universale. Il > principio del basic income è «l’idea di libertà: cioè che ogni cittadino deve > avere i mezzi per vivere in modo libero e dignitoso, indipendentemente dai > comportamenti, dalle scelte e dalle condizioni personali di vita»”. Tutto questo permette di ripensare totalmente il concetto di lavoro, definendolo non come una necessità ma come un valore aggiunto alla mia vita. Forse verrà anche finanziato con patrimoniali, tasse sugli extra profitti o sulle eredità, o con la ricchezza generata proprio dall’AI. Parole che non scandalizzeranno più come oggi, perché i ricchi non potranno più essere così ricchi se non esisteranno più i consumatori, dato che non ci saranno più i lavoratori.  Il reddito di cittadinanza portava a dover rinunciare al reddito per “scegliere” un lavoro di otto ore non soddisfacente e sottopagato che portava via tempo alla vita. Il reddito universale, invece, potrà continuare a essere percepito nonostante il lavoro che si troverà o che si sceglierà di fare. Rinunciare a quelle otto ore di tempo comporterebbe comunque un reddito che vale il doppio.   È una follia? Sarà un cambio di paradigma? E se questa possibilità non fosse così assurda e nemmeno così lontana? Il tema della povertà sarà la vera urgenza in un mondo in cui il lavoro come lo conoscevamo non esisterà più, forse più urgente del tema di quel tempo vuoto che avremo a disposizione e che dovremo imparare a riempire. Forse sarebbe il caso di aprire una discussione seria, una riflessione.  Quando il tempo a disposizione sarà tanto ma il cibo scarseggerà anche per coloro che fino a poco tempo fa si potevano considerare benestanti, che cosa accadrà? E in fondo, non sta già succedendo? Non siamo già a quel punto? Non siamo già in ritardo?  Dejanira Bada *In copertina: un’opera di Yves Klein L'articolo Abitare il vuoto. Piccolo discorso sulla povertà e il reddito minimo universale proviene da Pangea.
March 24, 2025 / Pangea