La mia amica aveva appena finito di vomitare sopra a una grata di ventilazione
della metropolitana in Largo Cairoli. Sputò ancora per un po’, si asciugò la
bocca con il dorso della mano, e poi andammo a sederci per terra sul marciapiede
davanti alla porta d’ingresso della Standa – oggi Decathlon – insieme ai suoi
amici punkabbestia e ai loro cani.
“Come stai?”, le chiesi.
“Non ci pensare neanche. Non te la faccio provare. Guarda come cazzo ti
riduce”.
Non se la iniettava in vena, se la fumava dentro alla carta stagnola.
La ammiravo. Volevo essere come lei. Sembrava libera agli occhi di una
quindicenne con un padre che la sera non la faceva ancora uscire da casa.
*
Siamo nella Milano della fine degli anni ’90. Il Luna Park ‘Le Varesine’ aveva
chiuso da poco, lasciando il posto a “via Mike Bongiorno” e ai grattacieli. Alla
Darsena c’erano ancora il parcheggio e la fiera di Sinigaglia, con le bancarelle
di roba dell’usato e i punkabbestia che si ritrovavano al vecchio Mercato
Comunale. Si spacciava e si dormiva sotto ai portici di Piazza Vetra. Si pippava
la Speed sulle panchine della piazzetta davanti alla Basilica di Sant’Eustorgio.
Si andava alla festa della semina e del raccolto al Leonkavallo.
Durante gli anni ’90 i ragazzi si bucavano seduti a terra tra le auto
parcheggiate. Ne vedevo tanti mentre tornavo a casa da scuola in Porta
Venezia, quando Porta Venezia era ancora un quartiere di figli di portinai come
me e di gente bene che convivevano serenamente. Non c’erano ancora locali gay e
ristoranti eritrei. In Buenos Aires i negozi erano negozi di vestiti, e non solo
di cibo, come oggi, e non cambiavano insegna ogni due mesi.
A Milano c’erano pochissimi turisti. La gente visitava l’Italia, ma mica passava
di qui. Per fare cosa?Quando andavi in ferie al mare da qualche parte e dicevi
che eri di Milano, ti pigliavano in giro e ti guardavano con pietà: poveri voi e
la nebbia, poveri voi e il grigiore, poveri voi e lo smog, poveri voi e il
lavoro sfrenato. Poveri voi.
*
I bambini che non avevano i genitori abbienti che li iscrivevano a un’infinità
di sport, avevano il trenino dei Giardini Indro Montanelli e le macchinine al
Parco Sempione. Punto.
C’erano due grattacieli, il Pirelli e la torre Breda, costruita negli anni ’50.
Io sono cresciuta lì dentro. Mio padre faceva il portinaio. Ogni giorno, di
nascosto, andavo al ventisettesimo piano per guardare la città dall’alto. Si
vive meglio con un orizzonte davanti agli occhi da ammirare, lo diceva anche
Thoreau nel suo Walden.
Mi mettevo a piangere ascoltando la musica. Fissavo quei minuscoli serpenti
luminosi scorrere sull’asfalto e spesso pensavo di farla finita. Poi, come
un’astronauta che torna dallo spazio, scendevo sulla terra e diventavo ancora
più consapevole della nostra inutilità e piccolezza. E pensavo: forse è così che
si sentono i ricchi che vivono ai piani alti. Credono di non far parte di questo
mondo, che nulla li tocchi e li riguardi. Stanno sulla Terra giusto per qualche
istante, per sbrigare i loro affari, poi se ne tornano nelle loro torri. E
allora pensavo che bisognerebbe buttarli giù quei grattacieli, e far vivere
tutti allo stesso livello, per non dimenticarci che siamo uguali, invece di
essere disposti a tutto per andare a vivere lassù. Perché poi te lo dimentichi
che non sei nessuno e che nasci e muori comunque a mani vuote.
*
Milano è cambiata dopo l’Expo. Non ce ne siamo accorti subito. È stato come
vivere con una moglie che si trascurava da tempo. Ci siamo guardati attorno, e
improvvisamente ce la siamo trovata invasa da una quantità di persone mai vista
prima che camminava piano, troppo piano, e di gente che fotografava cose.
*
Milano ci ha cambiato.
Milano ci ha sconfitto.
Milano ci ha temprato.
Milano ci ha stancato.
Milano, non ti riconosco più.
*
Milano è come una vecchia donna che si è rifatta, che ha perso il suo fascino ma
che se la tira ancora. Non perde mai la speranza. Al massimo si rifà il look e
si trova il Toyboy.
Milano e la sua mania di risplendere, di nascondere lo squallore, di spostarlo
verso le periferie, manco fosse Parigi.
Milano e le passeggiate a Isola che diventano sfilate.
Milano, che quando vivi in belle zone ti fa sentire addosso gli sguardi della
gente che si chiede subito: “Chi è? Cosa fa? Quanto guadagna per potersi
permettere di vivere lì?”
Milano, che per trovare un po’ di pace te ne devi andare a passeggiare tra i
morti al Cimitero Monumentale.
Milano come una bomba ad orologeria che è pronta a implodere.
La verità è che a Milano non c’era un cazzo di bello, a parte il Castello e il
Duomo. Ora ci sono i grattacieli e quei quartieri che qualcuno ha fatto
diventare “cool” grazie a Instagram.
E poi Armani che muore.
Il Leonka che chiude.
Il Plastic che chiude.
I negozi che chiudono.
I maranza.
I figli di papà.
Le mogli degli uomini ricchi che piazzano bambini come pensione di vecchiaia.
Le case che non si trovano o che costano una follia. La gente costretta ad
andarsene.
Una città che espelle chi l’ha nutrita.
L’aria che non si respira. Le troppe auto. Il caldo che sale dal cemento e ci
soffoca, ci annienta, ci consuma.
Le persone sempre più infelici, sole, nervose, schizzate, di fretta. Non si
rendono conto di scappare da sé stesse.
Milano è il simbolo della fine di un’epoca, di un mondo stanco che non ha più
voglia di appartenere a nessuno se non a sé stesso.
Siamo tutti pronti ad andarcene.
Quando troveremo i soldi e il coraggio.
Dejanira Bada
L'articolo Fine di un’epoca. Milano è il simbolo di un mondo stanco, che non
appartiene più a nessuno proviene da Pangea.
Tag - Dejanira Bada
Dove si trova il silenzio? È una condizione che fa parte di questo mondo o
esiste solo nell’universo siderale? Il silenzio si trova nei cimiteri, ci
riguarda o appartiene a un Altrove?
Esiste il silenzio?
A volte sembriamo cercarlo disperatamente, ne sentiamo la mancanza.
Dove abita il silenzio?
Non è un po’ come chiedersi: dove nasce il vento?
Siamo disposti a viaggiare e ad allontanarci molto per provare a stanarlo.
Lo cerchiamo durante i ritiri di meditazione, dove si rimane zitti per giorni, e
quando poi si può ricominciare a parlare, non abbiamo nemmeno tutta questa
voglia di farlo.
Ma il silenzio non è per tutti. Molti si sentono a disagio quando il mondo tace.
Perché il silenzio è anche un invito all’introspezione. Restare soli con sé
stessi può fare molto rumore. Eppure, come scrive il filosofo Peter Sloterdijk
in Devi cambiare la tua vita, al contemplante basterebbe comprendere una
procedura fondamentale che consiste nella “duplicazione di sé”, un metodo per
stare in buona compagnia anche quando si sceglie di ritirarsi dal mondo;
cogliere che dentro si ha già un partner superiore, un angelo, un monitor
spirituale, un genio, un mentore, un custode, un compagno, un guardiano che
protegge e controlla, che esamina e sostiene, senza cercare fuori qualcuno o
qualcosa che compensi la paura. Un nobile osservatore che sorveglia e fa sentire
al sicuro:
> “Chi vuole essere sé stesso sperimenta la presenza del suo altro interiore.
> Per sapere come sta quest’ultimo, occorre un quotidiano esame interiore”.
Il passo successivo, in particolare nei percorsi spirituali orientali, sarà la
fusione con questo Grande Altro o l’eliminazione della dualità tra Sé reale e Sé
ideale.
*
Io stessa ho cercato il silenzio nelle sinuosità del deserto dell’Oman. Ho
esplorato il Negev, il Sahara, il Thar, il Wadi Rum e i deserti americani. E
poi, durante un viaggio nella mia terra natìa, le Marche, ho capito che non
c’era bisogno di andare così distante per sentir dialogare soltanto le stelle
nella notte oscura. Là fuori, lontano dalle città, recuperare il silenzio
diventa di nuovo un’opzione possibile ma che pochi sembrano intenzionati a
perseguire. La maggior parte ha scelto di abbandonare i borghi e le campagne e
di conseguenza il silenzio, perché in pochi hanno ancora insito in sé il
contatto primordiale con la natura, quel luogo dove la solitudine può diventare
contemplazione, dove le parole non servono, perché è più interessante ciò che ha
da dire il mare.
Pensiamo che vivremo meglio silenziando il dolore, non capendo che solo
ascoltandolo e accogliendolo potremo elaborarlo ed evolvere. Ma tutto ciò
diventa possibile solo frequentando il silenzio e lasciando essere le cose così
come sono. È questo a creare fiducia, come scrive la poetessa Chandra Livia
Candiani ne Il silenzio è cosa viva:
> “La maggior parte di noi inizia un percorso meditativo in cerca di pace. Ma
> ben presto ci accorgiamo che quello con cui entriamo in contatto è il caos
> della nostra mente e la ristrettezza del nostro cuore. La pace non è la
> quiete, è piuttosto l’accoglienza dell’irrequietezza”.
Tutto sta nella possibilità di aprirsi a quel conoscere senza pensare.
Ma silenziare il caos vuol dire anche appropinquarsi ad assaporare la morte, la
lacerazione con ciò che consideriamo vita, con l’inizio e la fine di tutte le
cose, con il loro apparire e scomparire, con l’ingannevole sicurezza e l’ignoto.
Non troviamo il silenzio perché siamo distratti.
Viviamo in una società iperconnessa e industrializzata che mette a dura prova il
nostro sistema nervoso. Non siamo più in armonia con la vita, come scrisse la
filosofa e maestra spirituale Vimala Thakar ne Il mistero del silenzio. Se siamo
seduti in silenzio e la mente fa resistenza anche soltanto al suono del pianto
di un bambino, si crea una frizione, che genera irritazione e una reazione, una
resistenza alla vita stessa. Cerchiamo rifugio nella meditazione, nella
concentrazione, ma spesso non basta a trovare sollievo dal trambusto.
Dovremmo soggiornare in uno stato di osservazione consapevole che dovrebbe
accompagnarci durante tutta la giornata per essere in grado di trovare il
silenzio interiore, una condizione di non verbalizzazione, di sradicamento dei
dogmi, dei simboli, di teorie e d’ideologie, di opinioni, credenze e affezioni,
di nomi, di forme, d’identificazioni e di sentimenti; oltre l’io, il me, il mio,
oltre il tempo e lo spazio:
> “Perché il silenzio possa diventare vivo, la totalità del movimento cerebrale
> deve disattivarsi volontariamente”.
Il silenzio giace al di là del noto e dell’ignoto, di ciò che è visibile e
invisibile. Il regno del silenzio è il regno dell’inconoscibile. Come nella via
apofatica del misticismo cristiano di Meister Eckhart e Angelus Silesius,
dell’Anonimo Francofortese e di Margherita Porete, la quale dichiarava: “Il mio
Dio è colui di cui non si può dire parola”. La loro era una via di silenzio e di
contemplazione, dove al massimo si poteva asserire cosa non fosse Dio. Perché se
dici Dio, non è già più Dio, come dichiarava Sant’Agostino.
*
È possibile trovare il silenzio nell’immobilità, nella non-azione, nel
non-pensiero. Ma come si raggiunge il non-pensiero? Con il senza-pensiero,
quando: “Pur essendo di fronte a tutti gli oggetti circostanti, la mente rimane
pura ed incontaminata”, come scrisse Daisetsu Teitarō Suzuki, professore di
Filosofia Buddhista dell’Università di Kyoto in La dottrina zen della
non-mente. Per “oggetti circostanti” s’intendono la coscienza e l’Inconscio:
> “cioè uno stato in cui né pensieri, né coscienza, interferiscono col
> funzionamento spontaneo della mente. Far sorgere pensieri verso gli oggetti
> che ci circondano e trastullarci con false idee su questi pensieri, questa è
> la fonte delle preoccupazioni e delle immaginazioni”.
Cosa vuol dire senza-pensiero?
> “Vedere tutte le cose eppure mantenere la propria mente libera da macchie e
> attaccamenti. Obbligare la mente a non dirigersi verso qualsiasi cosa, questo
> è ‘estirpare i pensieri’”.
Astensione dalle discriminazioni. Pura presenza. Qualcuno potrebbe dire che in
questo modo si rischia di cedere all’annichilimento. Ma l’annichilamento non è
ancora forma e parola? Un grande insegnamento del maestro zen Mazu Daoyi,
parlando di cosa fosse l’illuminazione, fu: “Quando ho fame, mangio e quando
sono stanco, vado a dormire”.
Eihei Dōgen, filosofo, monaco e poeta zen fondatore della scuola Sōtō-shū, in
una poesia scriveva:
> “In primavera i fiori
> in estate il cuculo e
> in autunno la luna.
> Nel freddo inverno
> la neve chiara e pura”.
Ecco l’essenza della vita, la necessità di smettere di classificare,
concettualizzare, teorizzare e interpretare. D’altronde, anche William
Shakespeare in Romeo e Giulietta scrisse: “Romeo, perché ti chiami Romeo? Cambia
il tuo nome. In fondo, che cos’è un nome? Quella che noi chiamiamo una rosa, con
qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente”.
Cosa? Perché? Dove? Come? Queste non sono domande utili per la comprensione
della vita. Non sarebbe più utile prendere una tazza di tè seduti nel silenzio
del senza-pensiero anziché inseguire le deviazioni della mente? Guardando fuori,
poi dentro, poi di nuovo fuori, e capire che non c’è frammentazione.
Il silenzio è una forma di libertà e una via di vulnerabile accuratezza.
*
Il compositore John Cage – famoso anche per il brano 4’33, in cui l’orchestra
non deve suonare – ha sempre inserito lunghe pause tra le note, pause che
ricordano anche i momenti di sospensione tra un respiro e l’altro, tra
un’inspirazione e un’espirazione, come a evidenziare la rilevanza del silenzio.
Un silenzio che, in realtà, non esiste, non è mai esistito e mai esisterà. Anche
in una camera anecoica completamente insonorizzata c’è sempre qualcosa anziché
nulla: non ci sono rumori esterni di nessun tipo… ma ecco il suono del nostro
respiro, del sangue che scorre nelle vene, il battito cardiaco, il ronzio nelle
orecchie, magari anche un acufene.
Il silenzio non esiste. Perlomeno la totale assenza di rumori. Ma può esistere
il silenzio della mente, e Cage, con le sue pause, ci fa cogliere proprio questa
consapevolezza: la presenza mentale e la pace, giacciono in quello spazio vuoto,
in quella pausa tra un pensiero e l’altro, tra la nascita e la morte di un
giudizio. Solo una mente non discriminante può provare l’ebrezza della calma.
Ci sediamo a meditare, e veniamo invasi da pruriti, dolori, pensieri nefasti,
immagini, ricordi, idee. Nel libro Silenzio, John Cage scriveva: “Un complesso
d’archi, un tramonto, ciascuno agisce”. Si tratta di accettare che un suono è un
suono e un uomo è un uomo, senza illusioni sull’ordine e orpelli estetici che
abbiamo ereditato. Si tratta di considerare profondo l’ascoltare così come lo
starnutire. Si tratta di saper vedere, e cioè riconoscere, comprendere, sentire
nel cuore, sperimentare in prima persona.
*
E allora, dove cercare il silenzio? L’unica risposta plausibile è di non
cercare. Questa è la via maestra dei meditanti più esperti. Può sembrare troppo,
incomprensibile, ma intanto – per una volta – proviamo a incamminarci senza
pensare alla meta. Una via di apparente improvvisazione che in realtà cela un
programma di allenamento degno della più alta acrobatica spirituale. Perché
dietro alla capacità di tacere e di silenziare i condizionamenti mentali, c’è
sempre molta prassi ed esercizio, c’è dedizione e vocazione, intenzione ad
abbandonare e a lasciar andare. La capacità di assaporare un vero silenzio
interiore è direttamente proporzionale al saper camminare sulla fune della
meraviglia del vuoto.
Dejanira Bada
*In copertina: Philippe Petit durante un servizio fotografico nel dicembre del
1989 ritratto da Annie Leibovitz
L'articolo Camminare sulla fune, ovvero: esercizi per assaporare il silenzio
proviene da Pangea.
Nel 1937, Simone Weil trascorse due giorni ad Assisi: “Mentre mi trovavo da sola
nella piccola cappella romanica del XII secolo all’interno di Santa Maria degli
Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove san Francesco ha pregato tanto
spesso, per la prima volta nella mia vita qualcosa più forte di me mi ha
obbligata a mettermi in ginocchio”.
Questa è l’esperienza di Simone nella Porziuncola, quella piccola chiesetta di
pietra che si trova all’interno della maestosa Santa Maria degli Angeli. Un
luogo di pellegrinaggio e preghiera che recentemente ho voluto visitare anch’io
proprio per capire l’esperienza della Weil.
> “Ad Assisi sono completamente scomparsi dalla mia memoria Milano, Firenze,
> Roma e tutto il resto, tanto sono stata affascinata dalle campagne così dolci,
> così miracolosamente evangeliche e francescane, dalle chiese così incantevoli,
> da tanti ricordi felici e da quei nobili esemplari della specie umana che sono
> i contadini umbri, una razza ricca di bellezza, di vigore fisico, di gioia, di
> dolcezza. Non avevo mai sognato un paese così meraviglioso”.
Simone Weil la filosofa, la mistica, l’anarchica, l’operaia per scelta, la non
più ebrea, la malata, la donna che scelse l’adesione alla miseria per
avvicinarsi a Dio, che capì presto quanto fosse necessario fare “vuoto” per fare
spazio a Lui, negare se stessi, ammettere che l’universo è assolutamente privo
di finalità e che in questa assenza sta l’essenza del mondo, la bellezza pura, e
che per non cedere alle passioni è necessario esercitare l’attenzione, la
responsabilità, portare il corpo alla disintegrazione.
> “Ad esempio, mi sono sempre proibita di pensare al futuro, ma ho sempre
> creduto che il momento della morte sia la norma e la meta della vita. Pensavo
> che per coloro i quali vivono come si conviene sia l’istante in cui, per una
> frazione infinitesimale di tempo, la verità pura, nuda, certa, eterna penetra
> nell’anima. Posso dire di non aver mai desiderato per me alcun altro bene”.
L’ascesi come fortificazione e non come mortificazione. Proprio ciò che scelse
di fare Simone anche in punto di morte: portare la propria croce. In preda a una
tubercolosi, poco più che trentenne, si lasciò anche morire di fame: “Trovo
conforto soltanto nel ricordo delle voluttà sia spirituali sia fisiche che
sorgono durante la sofferenza fisica. Sono brevissime, e tuttavia di una tale
intensità da equivalere a un lungo benessere. Lo so per esperienza, e suppongo
che sia così per tutti”.
Perché la malattia offre la condizione ideale per l’ascesi e per raggiungere
Dio. Per scorgerlo bisogna sottrarsi al mondo.
Per riuscire a vedere è necessario essere consapevoli. L’attenzione è la più
alta forma di preghiera. Scriveva Simone Weil nel suo Attesa di Dio:
> “L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in sé stessi, così come si
> inspira e si espira. Venti minuti di attenzione intensa e senza fatica valgono
> infinitamente più di tre ore d’applicazione con la fronte corrugata, che fanno
> dire, con la sensazione di aver fatto il proprio dovere: «Ho lavorato sodo».”.
Attenzione come sospensione del proprio pensiero, come possibilità di lasciarlo
andare, renderlo disponibile, vuoto, in attesa, senza nulla da cercare, pronti
ad accogliere la nuda verità dell’oggetto che sta per penetrarvi.
Weil recitava il Pater ogni mattina come una vera e propria pratica di
meditazione, una pratica del verificare, un sacramento, una veglia: “Se mentre
lo recito la mia attenzione divaga o si assopisce, anche solo in misura
infinitesimale, ricomincio daccapo fino a che non abbia ottenuto per una volta
un’attenzione assolutamente pura”.
Simone considerava Meister Eckhart un autentico amico di Dio che diceva e
scriveva parole udite nel segreto e nel silenzio anche quando queste non
concordavano con l’insegnamento della Chiesa, consapevole che il linguaggio
della pubblica piazza non può essere come quello della camera nuziale.
Anche lei “andava stretta” alla Chiesa. Era una che ripudiava le Crociate e
l’Inquisizione, che non aveva bisogno d’intermediari per sentire Dio, i cui
figli dovrebbero avere come unica patria l’universo: “Le cose meno vaste
dell’universo, nel novero delle quali è la Chiesa, impongono obblighi che
possono essere molto estesi, ma fra i quali non c’è quello di amare”.
Per Simone nelle parole “sia fatta la tua volontà”, c’era già ogni cosa, perché
se pronunciate con tutta l’anima, implicavano la totale accettazione della
volontà divina:
> “Bisogna quindi amare assolutamente tutto, nell’insieme e in ogni dettaglio,
> compreso il male sotto qualsiasi forma, e in particolare i peccati commessi,
> posto che siano trascorsi (mentre bisogna odiarli se la loro radice persiste),
> le proprie sofferenze passate, presenti e future, e – di gran lunga la cosa
> più difficile – le sofferenze altrui, posto che non si sia chiamati ad
> alleviarle. In altre parole, bisogna sentire la realtà e la presenza di Dio
> attraverso tutte le cose esteriori senza eccezioni, con la stessa chiarezza
> con cui la mano avverte la consistenza della carta attraverso il portapenne e
> la penna”.
Viviamo nell’attesa di compensare le nostre mancanze, i nostri vuoti, in balìa
delle circostanze, sperando sempre in qualcosa di meglio, che le cose
cambieranno, miglioreranno, e che la permanenza della nostra personalità
perduri, ma Weil ci ricorda che la paura dell’imminenza della morte è legata
soprattutto a questo: non avremo tempo, non è mai stato questo il senso, tali
compensazioni non arriveranno mai: “L’umiltà consiste nel sapere che in questo
mondo tutta l’anima – non solo il cosiddetto io, nella sua totalità, ma anche la
parte soprannaturale, ovvero sia Dio in essa presente – è sottomessa al tempo e
alle vicissitudini del mutamento”. La parte mediocre del nostro io non teme la
fatica e la sofferenza, teme soltanto di essere uccisa.
Le fede consiste nella “visione delle cose invisibili”, come diceva San Paolo.
Non c’è mai nulla da cercare, la salvezza opera nella mancanza di attività. È
Dio che cerca l’uomo, non il contrario.
> “Se Dio, dopo una lunga attesa, lascia vagamente intravedere la sua luce
> oppure si rivela in persona, è soltanto per un istante. Poi bisogna rimanere
> di nuovo immobili e attenti, aspettare senza muoversi, chiamando solo quando
> il desiderio è troppo forte”.
La necessità cieca è l’unica strada per accorciare la distanza e avvicinarsi, e
amare la propria Croce.
> “L’anima è là dove si intersecano la creazione e il Creatore. Quel punto
> d’intersezione è il punto d’incrocio dei bracci della Croce”.
L’unica vera parola di Dio è il silenzio.
E dopo aver letto e amato la Weil e il suo Attesa di Dio, eccomi partire per il
mio viaggio, e scoprire che si arriva ad Assisi come osservatori. Si guardano
gli altri compiere riti, gesti scaramantici, cedere a superstizioni, intrecciare
mani in preghiera o lasciare che tocchino statue, altari, pietre, tombe di
cadaveri mummificati. Mani che scrivono, che asciugano lacrime che sgorgano da
occhi in preda all’estasi.
E poi quel richiamo continuo, necessario e imprescindibile, al silenzio che
aleggia in tutta la città, in ogni chiesa, in ogni giardino, dai cartelli o dai
microfoni.
Si guardano, si osservano e si giudicano gli altri, ma poi si finisce noi stessi
in lacrime sotto al peso della stanchezza della vita nella sublime basilica di
San Francesco, sentendo forte e chiara la propria piccolezza, ma non
l’inutilità.
Si sente la sofferenza sgorgare dall’acqua salata, e quanto solo l’amore conti,
e quanto coraggio e forza questo richieda, quanto impegno, che sia amore per Dio
o per la persona che si ha accanto.
Nella Porziuncola ho sperimentato io stessa l’importanza dell’inginocchiarsi per
testare la scomodità e la vividezza del dolore, ascoltando la messa, recitando:
Padre Nostro “che sei nel segreto”.
Il distacco da sé come riflesso di Dio.
Il legno, le ginocchia e le anime che scricchiolano.
Il tempo che cessa di esistere.
Gli uomini più vigorosi e gli storpi che tornano a essere uguali.
L’ordine che regna sovrano nel silenzio del crepuscolo.
La pietra che protegge.
Il piccolo che si fa grande.
Il fremito della malattia.
I cuori spezzati.
Le ferite che s’innalzano sopra al capo di ogni uomo e che splendono di
fervore.
Le preghiere sussurrate.
L’attesa come stato di grazia.
Continuare ad amare anche nella sventura.
Il bisogno disperato di farsi perdonare e di perdonare.
Gli errori pagati cari.
Il dono di chi crede e la speranza di chi dubita.
L’immenso divenire.
La patria dell’eterno momento presente.
Il timore della morte che cela nostalgia di casa.
Un viaggio ad Assisi si può trasformare da attesa a incontro con Dio.
Dejanira Bada
L'articolo “Bisogna quindi amare assolutamente tutto”. Ad Assisi, con Simone
Weil proviene da Pangea.
Un giorno dovremo fare nuovamente i conti con il vuoto.
Immaginate di svegliarvi, dopo l’ennesima notte inquieta in preda alle
preoccupazioni, e di non dover più lavorare. Mai più. Nessuno di voi –
quantomeno la maggior parte. Siete dei cassieri? Fotografi? Avvocati? Broker?
Videomaker? HR? Scrittori? Segretari? Magazzinieri? Potrei andare avanti a
lungo… ebbene, una mattina, l’Intelligenza artificiale vi avrà sostituito.
Tutti. Ma proprio tutti.
Cosa farcene del tempo?
Siamo la società dell’iperconnessione, del brain rot, del burn out, della
stanchezza, dell’angoscia (per citare i titoli di alcuni libri del filosofo
Byung-chul Han).
Un bel giorno potremmo scoprire che il mondo può fare benissimo a meno di noi.
In realtà ha sempre potuto fare a meno di noi, ma almeno, prima, avevamo una
parvenza di utilità.
Tanti finiranno sul divano come Homer Simpson, altri s’inventeranno nuovi lavori
o si formeranno. Altri diventeranno dispensatori umani di abbracci o di grattini
(ah, ci sono già), in un mondo sempre più freddo, ostile e tecnologico.
Siamo pronti?
Avremo tempo, molto più tempo, e questo tempo ci metterà a disagio, in
soggezione. Saremo obbligati a fermarci, a porci domande che non avevamo mai
avuto il coraggio di porci, un po’ come avvenne durante il lockdown, ma
all’ennesima potenza. Non a caso, proprio dopo il Covid, in America e in Europa
è nato quel fenomeno detto Grandi Dimissioni.
Fermarsi implica il sentire. È quello che avviene quando si medita: la gente si
siede, porta l’attenzione al respiro, e si stupisce di non rilassarsi, di non
sentirsi bene, di non levitare da terra. Come mai? Perché non succede quello che
si vede nelle pubblicità o sui video sui social? Perché non sorrido beatamente
volteggiando tra gli arcobaleni? Perché continuo a sentire? Anzi, sento di
più.
Perché meditare vuol dire imparare a entrare in contatto con il vuoto.
L’uomo avrà di nuovo tempo, e si ritroverà a fare i conti con sé stesso. Come
disse Filosofia a Boezio mentre era imprigionato in attesa della condanna a
morte: “Ora so quale è la causa più grave del tuo male: non sai più chi sei”.
La filosofia, proprio lei, che abbiamo relegato in soffitta, ma che ora ci
converrà recuperare, perché potrà esserci utile più che mai, più che in
qualunque altra epoca storica.
La contemplazione potrebbe diventare una componente imprescindibile nella vita
di un uomo. E così l’arte, la letteratura, la poesia, la musica. Avremo tempo
per pensare, per il riposo, per il silenzio, per coltivare l’orto, per
passeggiare, per la preghiera, per meditare, per dipingere, per scrivere e
creare, per reimparare a sognare, senza perché. E non più solo per vendere e
diventare famosi, ma per il gusto del puro atto in sé. E la scuola tornerà a
insegnare e a far riscoprire tutto questo. Dovrà farlo.
Questa è la versione ottimistica. In quella pessimistica, tanti si suicideranno.
Molti impazziranno. Non troveranno più un senso. Il Fentanyl andrà via come il
pane, molto più di adesso. Diventeremo molto più dipendenti dalle droghe,
dall’alcol, dal sesso, un piacere caduco, che non si farà più per procreare ma
per rammentarci la rilevanza della fusione di due respiri affannosi. La
sensazione di vivere.
Ci butteremo via dentro ai videogames, atrofizzati nella realtà virtuale. Non
usciremo più di casa. Non servirà più. Non servirà più esistere in quell’Aperto
– per citare Rilke e la sua Ottava Elegia – che in realtà non siamo mai stati
capaci di abitare:
> Con tutti gli occhi la creatura vede
> l’aperto. Gli occhi nostri soltanto
> son come rivoltati e tesi a lei intorno:
> trappole al suo libero cammino.
> Ciò che è fuori, puro, solo dal volto
> animale lo sappiamo; perché già tenero
> il bimbo lo volgiamo indietro, che veda
> ciò che ha forma, e non l’aperto che
> nel volto animale è sì profondo. Libero da morte.
> Questa solo noi la vediamo; il libero animale
> ha sempre dietro di sé il suo tramonto
> e a sé dinanzi Dio, e quando va, va
> nell’eterno; come vanno le fonti.
>
> Noi non abbiamo mai, neppure un giorno
> lo spazio puro innanzi, nel quale all’infinito
> si schiudono i fiori. È sempre mondo
> e mai non-luogo senza non: il puro,
> incustodito, che si respira,
> si sa infinitamente e non si brama. Da bimbo
> in questo si perde uno in segreto e
> viene scosso. O un altro lo è morendo.
> Poiché vicino a morte più non si vede morte,
> si guarda fisso fuori, forse con sguardo grande d’animale.
> Gli amanti, se non ci fosse l’altro che
> la vista preclude, sono prossimi a questo e hanno stupore…
> quasi per una svista, per loro dietro l’altro
> si schiude l’aperto… di là da lui però
> nessuno libero avanza ed è di nuovo mondo.
> Alla creazione sempre rivolti, solo
> specchiato vediamo in esso l’aperto,
> oscurato da noi. O che un animale, muto,
> alza lo sguardo, che quieto ci traversa.
> Questo è destino: esser di fronte
> e poi null’altro e di fronte sempre.
Tornerà anche il bisogno di Dio? Sappiamo che ha perso rilevanza non solo in
Occidente ma anche nei paesi del Terzo Mondo. Ha avuto il suo appeal per
millenni, soprattutto nei paesi poveri. Il concetto di liberazione dopo la morte
dal ciclo delle reincarnazioni è nato in Oriente anche a causa di malattie,
pestilenze, carestie e povertà che hanno sempre fatto pensare alla vita come a
un inferno in Terra. E ancora oggi, per la maggior parte delle persone, la vita
non è un meraviglioso viaggio di cui fare esperienza, è un incubo da cui
liberarsi il prima possibile. La favola della “vita che vale sempre la pena di
essere vissuta a ogni costo” è figlia del capitalismo occidentale. La felicità
fa vendere, fa consumare, fa guadagnare. Tutto il pensiero orientale, il
cristianesimo e anche lo stesso ebraismo e islamismo, non vedono la vita come
qualcosa di cui fare tesoro, ma solo come un passaggio, spesso disastroso e
durissimo, in attesa di condizioni migliori o dell’estinzione. Oggi, però, si
crede sempre meno in un Dio che premierà i poveri e gli umiliati e offesi e in
un paradiso che pacificherà le anime sofferenti.
Ma a parte il tempo, il vuoto, la filosofia, l’autodistruzione, Dio: con che
soldi vivremo?
Sembra un’utopia, una fantasia di poco conto. Eppure, come scritto in un
articolo de “L’Internazionale”, tutto questo potrebbe diventare realtà in tempi
molto brevi. Come ci sostenteremo? Con una cosa che per molti ha un suono
aberrante: il reddito universale, o basic income, che non è il reddito di
cittadinanza (che è stato gestito malissimo e ha affossato qualunque possibilità
di dialogo sul reddito universale).
Sono già stati fatti i primi esperimenti in Texas e Illinois, finanziati e
ideati da Sam Altman, fondatore di OpenAI, grazie alla sua organizzazione
no-profit OpenSearch: dare mille euro al mese a un gruppo di persone a basso
reddito selezionate per la ricerca, per circa due anni. Il gruppo di controllo
ha ricevuto cinquanta dollari al mese.
I risultati? Non sono stati catastrofici come si potrebbe pensare, anzi. Come
scritto in un articolo sul “Corriere della Sera”, il gruppo che ha ricevuto i
mille euro ha lavorato circa 1,3 ore in meno a settimana. Alcuni hanno chiesto
di avere più tempo libero da dedicare alla famiglia. Si sono spesi più soldi per
le cure mediche, il cibo, l’affitto. Sono aumentate del 5% le probabilità di
avere un’idea per un’attività imprenditoriale e del 14% quelle per proseguire
gli studi o fare formazione. Le persone non sono rimaste sul divano a non fare
nulla, hanno ricominciato a programmare, ad avere idee, a fare progetti, a
formarsi, a migliorarsi; hanno potuto dedicarsi alla salute e al benessere,
vivendo con meno stress per paura degli imprevisti.
Altman dice che l’AI è già pronta per effettuare una sostituzione di massa. Ma
chi glielo dice ai governanti di destra o di sinistra che parlare di pensioni,
di salario minimo, di flat tax ecc. è già roba vecchia?
Emanuele Murra – ricercatore e docente di storia e filosofia –, in un’intervista
rilasciata a “Slow News”, ha parlato così del reddito universale:
> “La definizione minima di reddito di base è quella di un trasferimento
> monetario finanziato con la fiscalità generale, erogato da un’autorità
> pubblica. Si tratta di un reddito su base individuale, che non dipende dalle
> condizioni economiche dell’individuo e che non presenta esigenze di
> contropartite. Questo è ciò che rende unico il reddito di base universale. Il
> principio del basic income è «l’idea di libertà: cioè che ogni cittadino deve
> avere i mezzi per vivere in modo libero e dignitoso, indipendentemente dai
> comportamenti, dalle scelte e dalle condizioni personali di vita»”.
Tutto questo permette di ripensare totalmente il concetto di lavoro, definendolo
non come una necessità ma come un valore aggiunto alla mia vita.
Forse verrà anche finanziato con patrimoniali, tasse sugli extra profitti o
sulle eredità, o con la ricchezza generata proprio dall’AI. Parole che non
scandalizzeranno più come oggi, perché i ricchi non potranno più essere così
ricchi se non esisteranno più i consumatori, dato che non ci saranno più i
lavoratori.
Il reddito di cittadinanza portava a dover rinunciare al reddito per “scegliere”
un lavoro di otto ore non soddisfacente e sottopagato che portava via tempo alla
vita. Il reddito universale, invece, potrà continuare a essere percepito
nonostante il lavoro che si troverà o che si sceglierà di fare. Rinunciare a
quelle otto ore di tempo comporterebbe comunque un reddito che vale il doppio.
È una follia? Sarà un cambio di paradigma? E se questa possibilità non fosse
così assurda e nemmeno così lontana? Il tema della povertà sarà la vera urgenza
in un mondo in cui il lavoro come lo conoscevamo non esisterà più, forse più
urgente del tema di quel tempo vuoto che avremo a disposizione e che dovremo
imparare a riempire. Forse sarebbe il caso di aprire una discussione seria, una
riflessione.
Quando il tempo a disposizione sarà tanto ma il cibo scarseggerà anche per
coloro che fino a poco tempo fa si potevano considerare benestanti, che cosa
accadrà? E in fondo, non sta già succedendo? Non siamo già a quel punto? Non
siamo già in ritardo?
Dejanira Bada
*In copertina: un’opera di Yves Klein
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