“La lotta dell’angelo che è in noi”. Inquietudini religiose del nostro tempo, tra Rilke e i Baustelle

Pangea - Wednesday, September 10, 2025

E, d’improvviso intatta
Sarai risorta, mi farà da guida
Di nuovo la tua voce,
Per sempre ti risento.

Giuseppe Ungaretti, Per sempre

Grazie alla mia professione di insegnante, vivo a contatto con i giovani. Non mi accontento di insegnare, cerco di ascoltarli, di coglierne gli interessi, le letture, i turbamenti che li attraversano.
Questa primavera, a Ca’ Foscari, ho presentato assieme a Massimo Iiritano il suo ultimo libro, dedicato alle inquietudini religiose del nostro tempo. L’aula era gremita di studenti, attenti, curiosi, forse intuendo che si sarebbe parlato di loro.

Il libro si apre infatti con una riflessione originale sull’inquietudine religiosa dei giovani, prendendo spunto dalle canzoni di un gruppo musicale italiano, i Baustelle. Scrive Iiritano: “alla ricerca delle inquietudini religiose del nostro tempo, incontriamo subito tanta musica, cinema, serie tv, podcast, youtuber… Sarebbe utile e interessante, credo, iniziare da qui”. 

Sì, è utile parlare dei giovani e ai giovani nella loro lingua e iniziare proprio da qui, dalle canzoni che spesso ascoltano con le cuffie dai loro cellulari, mentre camminano per strada o viaggiano in autobus; nei momenti di pausa dal lavoro o all’università tra una lezione e l’altra… 

Le parole delle canzoni dei Baustelle fanno immediatamente breccia, sono significanti: parlano di spaesamento, di inquietudine, di vuoto, di nulla. 

Solo qualche esempio:

“Fra le mute tombe del monumentale,
Non c’è Dio e non c’è male, solo vaga oscurità”. 

E un’altra canzone intitolata Il nulla recita: 

“Tutto è niente, l’essere è
Sotto il sole colpevole

I segnali spesso non significano mai 
È meglio di lunedì
Accorgersi

Nel caos dell’ipermercato 
o in un beato megastore 
Della bugia

Che sta alla base del mondo 
in un secondo coglierlo 
Spogliato e crudo il nulla”

Commenta Iiritano: “Verità metafisica, sentimento poetico che attraversa millenni di culture e letterature, e che diviene rivelazione imprevista della quotidianità. Laddove echeggia ancora il leopardiano “solido Nulla” e l’insuperata visione di Eugenio Montale”.

È vero della vanità della vita, del senso di vuoto e del nulla, la filosofia, la poesia e le tradizioni religiose e sapienziali ci parlano da secoli. Basti qui ricordare il “Vanitas vanitatum et omnia vanitas” con cui si apre l’Ecclesiaste, il libro della Bibbia forse più citato dai poeti. Si pensi, come suggerisce Iiritano, a Leopardi, con il suo “solido nulla”, ma anche a Petrarca che nelle sue Rime sparse annota con amarezza “che quanto piace al mondo è breve sogno”. 

Dunque, si potrebbe dire, citando ancora il Qohelet, “niente di nuovo sotto il sole”. Tuttavia, a mio avviso, non è proprio così. È il moderno che scopre, rimanendone atterrito, pietrificato, quello che da Nietzsche in poi verrà definito “l’ospite inquietante”: il nichilismo. E questo perché, come hanno intuito Nietzsche e, ancor prima di lui, Kierkegaard e Dostoevskij, il nichilismo è un fenomeno religioso, strettamente legato alla morte di Dio.

A partire dalla constatazione di questa crisi epocale, dalla morte di Dio, il volume di Iiritano si sviluppa lungo un percorso articolato, in cui i diversi capitoli, pur affrontando temi eterogenei, convergono verso un preciso obiettivo comune: recuperare un rapporto diverso con il Cristianesimo e con il Dio della tradizione giudaico-cristiana. Un Dio, la cui luce, come si legge nel suggestivo capitolo Lux in tenebris, le tenebre non hanno potuto né afferrare né vincere. Una luce, dunque, che può ancora illuminarci oggi.

Al centro del libro vi è dunque la ricerca di una fede cristiana che sceglie di confrontarsi con il proprio tempo e con la storia, proponendosi come risposta al nichilismo e alla disperazione. Una disperazione che si manifesta in due forme, che potremmo definire, avendo riguardo alla loro origine, teologica e metafisica. 

La prima nasce dal senso di abbandono e di desolazione lasciato da un Dio fragile che appare assente dalla scena del mondo e della storia, tema centrale del capitolo sulla teologia dell’ora nona. In queste pagine riecheggiano le riflessioni tragiche del maestro di Iiritano, Sergio Quinzio, sulla sconfitta di Dio, sul suo silenzio, sulla sua fragilità, sul fallimento della promessa di redenzione e di salvezza.

La seconda è una disperazione metafisica, che accomuna credenti e non credenti e scaturisce dalla consapevolezza della precarietà dell’esistenza. Questo tema trova la sua massima espressione nel capitolo Angeli caduti. Un dialogo sulla caducità tra Freud, Rilke e Wenders, che occupa nel libro una posizione centrale sia dal punto di vista strutturale sia concettuale, suggerendo la chiave di lettura dell’intero volume. 

In questo capitolo, Iiritano commenta il celebre saggio di Freud Caducità.

La riflessione freudiana sulla caducità nasce da un episodio, raccontato dallo stesso fondatore della psicanalisi e rievocato da Iiritano. Nell’estate del 1913, durante una vacanza sulle Dolomiti, Freud passeggia in compagnia di due amici per una contrada in piena fioritura. Uno dei due amici è Lou Andreas-Salomé, l’altro un poeta “già famoso nonostante la sua giovane età”, Rainer Maria Rilke. La bellezza della natura, anziché rallegrare l’animo del poeta, lo turba. Tutto quello splendore che non durerà più di una breve stagione evoca nella sua mente quel destino di morte che accomuna tutto ciò che ha vita e dunque anche tutto ciò che ammiriamo e amiamo. A incupire il suo animo è la percezione della caducità, di quel nulla che minaccia e insidia il vivente, che toglie valore a quanto ci appare prezioso, bello e perfetto, che fiacca ogni sforzo teso alla costruzione e creazione, che vanifica ogni lavoro e progetto. Invano Freud osserva che la transitorietà di una cosa non ne inficia la bellezza, che, anzi, “la limitazione della possibilità di godimento ne aumenta il pregio”: quelle che a lui paiono considerazioni “incontestabili” non producono alcun effetto sui suoi due amici, non scuotono la malinconia metafisica del poeta, una reazione alla frustrazione dell’“esigenza di eternità” intrinseca al desiderio umano.

Come spiega Iiritano: 

Ecco la lotta dell’angelo, che è in noi. Lotta impossibile per l’eterno che ci sfugge, che disperatamente non ci appartiene, e che pure non possiamo che necessariamente volere. Verità di un de-siderare che ci costituisce in quanto umani: mancanza delle stelle, da cui in qualche misterioso modo, pure sentiamo di provenire.”

La malinconia si configura dunque come una reazione affettiva al dolore per il contrasto tra il desiderio umano di eternità e stabilità e le leggi della realtà che lo frustrano. L’argomento di Freud, secondo cui “Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida”, non convince i suoi compagni. 

Il lutto, per Freud, è un “grande enigma”: il padre della psicanalisi non capisce perché causi tanta sofferenza e richieda tanto tempo per ripristinare la capacità dell’Io di investire la libido, dato che si estingue “spontaneamente”. Ancora più in radice, Freud si stupisce del dolore che proviamo per la caducità, un dato di fatto di cui siamo da sempre consapevoli. Ancora più assurda del lutto stesso è poi la malinconia che anticipa la perdita. Freud intuisce che è il presentimento del dolore futuro a turbare i suoi amici: 

“Poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso – scrive – essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità”.

In sintesi, era “la ribellione psichica contro il lutto” a svilire “il godimento del bello” in loro: “L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera – conclude lo psicologo – faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la sua fine”.

Per Freud, invece, “il valore di caducità è un valore di rarità nel tempo”. Egli rimprovera al poeta di non saper cogliere l’attimo e di non accettare la legge della realtà, considerando la sua malinconia una reazione “malata” all’inevitabile scorrere del tempo, così come inadeguata gli appare la risposta dell’uomo religioso, anch’essa una “rivolta” contro questo dato di fatto. Di fronte alla consapevolezza della “precipitare nella transitorietà di tutto ciò che è bello e perfetto”, si possono avere due reazioni: “l’uno porta al doloroso tedio universale” del poeta”, “l’altro alla rivolta contro il presunto dato di fatto” del credente. Nonostante entrambi rifiutino il tempo e il divenire, essi, infatti, lo fanno in modi diversi: il poeta passivamente, con un’accidia paralizzante; il credente attivamente, con una fede che ritiene “insensato e nefando” che le gioie e il mondo esterno “debbano veramente finire nel nulla”, credendo che “in un modo o nell’altro devono riuscire a perdurare, sottraendosi a ogni forza distruttiva”.

Contro questa rivolta – ci ricorda Iiritano alla fine del capitolo – Freud invita a “sopportare la vita” virilmente senza rifugiarsi in illusioni che la impoveriscono ed è a questo punto che poesia e fede, da una parte, e scienza, dall’altra, divorziano. Non possono non divorziare, perché poesia e fede si nutrono proprio di questa rivolta, dando credito a quelle che a Freud appaiono solo illusioni. 

Iiritano ricorda le parole di un altro autore da lui molto amato, Albert Camus: 

“Lo spirito rivoluzionario è tutto nella protesta dell’uomo contro la condizione d’uomo.
In questo senso, sotto forme diverse, il solo tema eterno dell’arte e della religione.”

È questa rivolta che Iiritano definisce la lotta dell’angelo in noi. Ed è su questa lotta che poggia la fede alla quale Iiritano, a mio parere, cerca di rendere attenti i lettori, utilizzando, come osserva Sergio Givone nel dialogo che intesse con lui nel volume, due linguaggi complementari, ovvero le parole della fede e della poesia.

Le parole della fede per rintracciare quelli che definisce i “presupposti teologici della storia”, attingendo a pensatori come Gioacchino da Fiore, Benjamin e Bloch. 

Le parole della poesia, invece, per scavare nei recessi dell’anima, riportando alla luce ciò che è riposto nel segreto del nostro intimo, ciò che silenziosamente aneliamo e speriamo.

Nella prospettiva appena sopra delineata, chiude il volume un capitolo: Ossi di seppia. Scenari apocalittici per il nostro tempo, in cui Iiritano medita i celebri versi di Eugenio Montale Forse un mattino andando in un’aria di vetro. Li ricordo per chi non li avesse presenti:

“Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:

il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto

alberi case colli per l’inganno consueto.

Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto

tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”

Questi versi, notissimi, aprono nell’interpretazione proposta da Iiritano a “scenari apocalittici per il nostro tempo”. Vediamo come questo sia da intendere.

Avevo dato una interpretazione più semplice a questi noti versi montaliani che tanto mi colpirono quando ad essi mi accostai per la prima volta. Per me parlavano della rivelazione improvvisa dell’impermanenza, della morte, del niente. Una simile rivelazione isola, rende estranei agli altri, che vogliono continuare a vivere in superficie, che sono alla spasmodica ricerca di evasione e non vogliono neppure sentire parlare di queste cose. Una simile rivelazione rende quindi eterogenei all’umano generale, per cui da quel momento in poi ogni comunicazione o finisce o si risolve in un fraintendimento. Meglio allora, come scrive Montale, andare “zitto” tra gli uomini che non si voltano, chiuso nel proprio “segreto”. 

Leggendo queste parole, come non pensare all’amarezza di Leopardi nelle Operette morali, alla solitudine del poeta dei Diapsalmata kierkegaardiani? All’esteta riflesso e al suo contrapporsi all’uomo immediato? 

Non bisogna voltarsi indietro, avverte chi continua a camminare guardando sempre avanti, senza mai fermarsi a pensare. Spontaneo è l’accostamento a Orfeo, che si volge indietro e così perde per sempre Euridice, e alla moglie di Lot che rimane pietrificata. La visio del niente pietrifica. 

Nella mia interpretazione non avevo fatto caso che Montale definisce la rivelazione del nulla “miracolo”. 

Penso quindi che l’ultimo capitolo del libro di Iiritano in cui si lascia intendere che la rivelazione del nulla potrebbe avere carattere religioso, potrebbe, cioè, renderci attenti alla fede e aprirci alla speranza di un compimento della storia, all’attesa che essa abbia non solo fine, ma una direzione e un fine, mi sembra un’interpretazione più profonda e complessa di quella che avevo dato quando per la prima volta avevo letto Ossi di seppia.

Parlando della canzone Finirà di un gruppo musicale, I cani, canzone che recita:

“Con un’apocalisse
Come stelle e galassie

O in punta di piedi
Come l’umanità e la terra

Il sistema planetario

Saturno contro Urano

Plutone è troppo piccolo

E non ce la fa più

È stanco di lottare

Di questo mondo cane
Ma non ti preoccupare

Tanto finirà la guerra

L’orrore, il sacrificio

Il sangue, il genocidio
Finiranno presto

Come il sale, il dentifricio

Come l’acqua, il cioccolato

La benzina nell’auto

Il petrolio sotto terra

In Arabia Saudita

Nelle viscere del cosmo

Si leverà un silenzio”

Commentando le parole della canzone, Iiritano così scrive: 

Scenari catastrofici appunto, mai “apocalittici”: poiché nel loro dispiegarsi non vi è traccia alcuna di senso e direzione ultima, di verità che si disvela (apò-kalupto). Ciò che manca è, appunto, proprio la speranza. Sarà allora proprio il tragico realizzarsi, dinanzi ai nostri occhi, di quegli scenari fin qui solo virtualmente immaginati, a rompere questo guscio e ridestare in noi quella Speranza più audace? Potremo di nuovo temere e sperare, come un tempo dinanzi a tali catastrofi, che la fine possa rivelarsi paradossalmente anche un “fine”?

Desiderio, esigenza di eternità, protesta, rivolta, e infine speranza di un compimento della storia, sono per Iiritano i segnavia che conducono alla fede e la sostanziano. In tal senso, mi pare particolarmente opportuna la citazione – tratta da Ernst Bloch, Marx, la morte e l’apocalisse (in Religione ed eredità) – che recita: 

La nostra futura beatitudine, l’esistenza del regno dei cieli, la chiara realizzazione del sogno dell’anima a cui corrisponde la sfera di una realtà comunque determinata, non sono solo pensabili, cioè formalmente possibili, ma assolutamente necessari, al di là di ogni giustificazione, prova, consenso e premessa formale o reale della loro esistenza. Essi sono postulati dalla natura dell’oggetto apriori e dunque anche dall’intensa tendenza utopica di una realtà essenziale e stabilita esattamente”.

Vorrei però concludere questa recensione con una riflessione sul rapporto tra filosofia e poesia, filosofia e fede, ovvero sulla prospettiva filosofica che sta alla base del volume di Iiritano, tornando brevemente al caso Rilke.

Freud, come abbiamo visto, in Caducità parla di un’“esigenza di eternità”, che sostanzierebbe non solo il desiderio del poeta, ma anche quello del credente e, più in generale, di ogni uomo. Ebbene, questa esigenza del nostro desiderio, secondo il fondatore della psicanalisi, è in stridente contrasto con la nostra esperienza – per la quale la caducità è un’innegabile evidenza. 

Iiritano ci ricorda nel suo libro questa considerazione di Freud:

Ma questa esigenza di eternità è troppo chiaramente un risultato del nostro desiderio per poter pretendere a un valore di realtà: ciò che è doloroso può pur essere vero”. 

Freud non riconosce dunque alcun valore di verità a quel desiderio, che, pure, non esita a definire nostro, cioè appartenente non solo al poeta, ma a ogni uomo. A negarlo, a confutarlo, è quell’evidenza dei sensi e della ragione che per lo scienziato rappresenta l’unico criterio del vero. La tristezza del poeta Rilke, la sua malinconia, nasce dunque, si ribadisce, dalla frustrazione, conseguente all’esame di realtà, della sua e nostra esigenza di eternità. Dell’eternità, di questo oggetto del nostro desiderio, ci parlano infatti i magnifici versi di numerosi poeti, non solo Rilke. 

All’eternità, o meglio all’immortalità, aspira il poeta ateo Vladimir Majakowskij, che non la chiede a Dio, ma alla scienza, al compagno chimico dall’ampia fronte, a cui indirizza la sua richiesta di resurrezione: 

“Resuscitami. 
Almeno perché, 
da poeta, 

ti ho atteso, 
rifiutando le balle d’ogni giorno. 

Risuscitami, 
almeno per questo! 

Risuscitami: 
voglio finire di vivere il mio”. 

Oppure alla fama, alla gloria, come nei bei versi in memoria di Lenin, in cui si dice dello statista deceduto: 

“E la morte non oserà toccarlo: 
Egli sta nel bilancio del futuro!. 

I giovani ascoltano le strofe sulla morte, 
e col cuore intendono: immortalità”.

E questa salvezza dal tempo, dalla morte, dall’oblio famelico che tutto inghiotte egli non la vuole solo per sé, ma per l’intera umanità: 

“Lascia. Non occorrono né parole, né preghiere 

Che senso ha se tu solo ti salvi?!

Voglio salvezza per tutta la terra priva d’amore, 

per tutta la folla umana del mondo”.

Di eternità ci parlano sommessamente le Elegie duinesi. Rilke parte sempre dall’esperienza della caducità. Nel suo libro Iiritano ricorda i notissimi versi: 

“Ma per noi sentire è svanire
noi ci esaliamo, sfumiamo… sul volto la
sembianza sorge e spare senza posa. Come
rugiada dall’erba novella quel che è nostro
svapora da noi,
come il calore da vivanda calda.” 

Ma si badi bene, l’esperienza del trapassare e dello svanire, nelle Elegie duinesi, a differenza che in Caducità, sembra essere non più sofferta, bensì accettata dal poeta. Composte tra il 1912 e il 1922, le Elegie duinesi accompagnano infatti un decennio di profonda crisi del Rilke poeta, al cui interno si consuma un mutamento, una “svolta”, una conversione dello sguardo attraverso cui la poesia da lamento per l’inconsistenza delle cose diviene canto, accettazione gioiosa e persino celebrazione del loro trascorrere, passare, fluire.

Eppure, anche il Rilke posteriore alla svolta, si spinge oltre tale accettazione e celebrazione del divenire, con lo slancio del cuore, nel momento in cui parla degli amanti. Il loro amore, destinato a rimanere incompiuto nel tempo, può trovare il suo compimento solo altrove, nell’eternità.

Leggiamo:

“Angelo: ma ci sarà una piazza, che noi non conosciamo dove, su un tappeto indicibile, gli innamorati
che qui non arrivano mai all’adempimento,
potranno mostrare le alte, ardite figure 

dello slancio del cuore, le loro torri di gioia
le scale che da tanto, dove sempre mancava terreno, s’appoggiavano soltanto l’una all’altra, tremanti. Oh, poterlo,
dinanzi a innumerevoli taciti morti spettatori d’intorno: le getterebbero allora, le loro ultime monete, sempre risparmiate,
sempre nascoste, che noi non conosciamo,
le monete sempre valide della felicità, alla coppia
che sorride finalmente davvero, su tappeto placato?” 

(V, 94-106)

Questo slancio del cuore, questa speranza del compimento, come si accennava, è il principio su cui il pensiero religioso edifica la propria filosofia. Non a caso uso il termine “filosofia”. È qui che la via si biforca. O seguiamo una filosofia che è sostanzialmente sapere scientifico, ragione raziocinante, oppure una filosofia che, riconosciuti i limiti di questo sapere, si spinge oltre e intrattiene con la poesia e con la fede un “colloquio pensante”. In questo secondo caso “Poesia, filosofia e fede si incontrano nello stesso luogo, si danno convegno nella stessa stellare agorà”, sostanziandosi di una parola di soglia, chiaroscurale, impregnata d’ombra, abitando il luogo fuori luogo. Questo colloquio pensante è fatto di attraversamenti, transiti, sconfinamenti, eccedenze, contaminazione dei saperi (Si veda, a questo riguardo, la riflessione di Roberto Celada Ballanti sul rapporto tra filosofia e letteratura nel volume Poetiche all’ombra del nichilismo. Montale, Mann, Borges, Brescia, Morcelliana, 2023).

L’immagine più bella del filosofo che intrattiene questo dialogo stellare, ritratto in cui scorgo la fisonomia del volto speculativo di Massimo Iiritano, ci è offerta da Ludwig Wittgenstein in Pensieri diversi: 

“Il pensatore religioso onesto è come un funambolo. Si direbbe che cammini quasi soltanto sull’aria. Il suo terreno è il più stretto che si possa immaginare. Eppure rimane possibile camminarvi sopra davvero”. 

(L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980)

Isabella Adinolfi

*In copertina: Eugène Delacroix, Giacobbe lotta con l’angelo, studio, 1850 ca.

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