> E, d’improvviso intatta
> Sarai risorta, mi farà da guida
> Di nuovo la tua voce,
> Per sempre ti risento.
>
> Giuseppe Ungaretti, Per sempre
Grazie alla mia professione di insegnante, vivo a contatto con i giovani. Non mi
accontento di insegnare, cerco di ascoltarli, di coglierne gli interessi, le
letture, i turbamenti che li attraversano.
Questa primavera, a Ca’ Foscari, ho presentato assieme a Massimo Iiritano il suo
ultimo libro, dedicato alle inquietudini religiose del nostro tempo. L’aula era
gremita di studenti, attenti, curiosi, forse intuendo che si sarebbe parlato di
loro.
Il libro si apre infatti con una riflessione originale sull’inquietudine
religiosa dei giovani, prendendo spunto dalle canzoni di un gruppo musicale
italiano, i Baustelle. Scrive Iiritano: “alla ricerca delle inquietudini
religiose del nostro tempo, incontriamo subito tanta musica, cinema, serie tv,
podcast, youtuber… Sarebbe utile e interessante, credo, iniziare da qui”.
Sì, è utile parlare dei giovani e ai giovani nella loro lingua e iniziare
proprio da qui, dalle canzoni che spesso ascoltano con le cuffie dai loro
cellulari, mentre camminano per strada o viaggiano in autobus; nei momenti di
pausa dal lavoro o all’università tra una lezione e l’altra…
Le parole delle canzoni dei Baustelle fanno immediatamente breccia, sono
significanti: parlano di spaesamento, di inquietudine, di vuoto, di nulla.
Solo qualche esempio:
> “Fra le mute tombe del monumentale,
> Non c’è Dio e non c’è male, solo vaga oscurità”.
E un’altra canzone intitolata Il nulla recita:
> “Tutto è niente, l’essere è
> Sotto il sole colpevole
> I segnali spesso non significano mai
> È meglio di lunedì
> Accorgersi
> Nel caos dell’ipermercato
> o in un beato megastore
> Della bugia
> Che sta alla base del mondo
> in un secondo coglierlo
> Spogliato e crudo il nulla”
Commenta Iiritano: “Verità metafisica, sentimento poetico che attraversa
millenni di culture e letterature, e che diviene rivelazione imprevista della
quotidianità. Laddove echeggia ancora il leopardiano “solido Nulla” e
l’insuperata visione di Eugenio Montale”.
È vero della vanità della vita, del senso di vuoto e del nulla, la filosofia, la
poesia e le tradizioni religiose e sapienziali ci parlano da secoli. Basti qui
ricordare il “Vanitas vanitatum et omnia vanitas” con cui si apre l’Ecclesiaste,
il libro della Bibbia forse più citato dai poeti. Si pensi, come suggerisce
Iiritano, a Leopardi, con il suo “solido nulla”, ma anche a Petrarca che nelle
sue Rime sparse annota con amarezza “che quanto piace al mondo è breve sogno”.
Dunque, si potrebbe dire, citando ancora il Qohelet, “niente di nuovo sotto il
sole”. Tuttavia, a mio avviso, non è proprio così. È il moderno che scopre,
rimanendone atterrito, pietrificato, quello che da Nietzsche in poi verrà
definito “l’ospite inquietante”: il nichilismo. E questo perché, come hanno
intuito Nietzsche e, ancor prima di lui, Kierkegaard e Dostoevskij, il
nichilismo è un fenomeno religioso, strettamente legato alla morte di Dio.
A partire dalla constatazione di questa crisi epocale, dalla morte di Dio, il
volume di Iiritano si sviluppa lungo un percorso articolato, in cui i diversi
capitoli, pur affrontando temi eterogenei, convergono verso un preciso obiettivo
comune: recuperare un rapporto diverso con il Cristianesimo e con il Dio della
tradizione giudaico-cristiana. Un Dio, la cui luce, come si legge nel suggestivo
capitolo Lux in tenebris, le tenebre non hanno potuto né afferrare né vincere.
Una luce, dunque, che può ancora illuminarci oggi.
Al centro del libro vi è dunque la ricerca di una fede cristiana che sceglie di
confrontarsi con il proprio tempo e con la storia, proponendosi come risposta al
nichilismo e alla disperazione. Una disperazione che si manifesta in due forme,
che potremmo definire, avendo riguardo alla loro origine, teologica e
metafisica.
La prima nasce dal senso di abbandono e di desolazione lasciato da un Dio
fragile che appare assente dalla scena del mondo e della storia, tema centrale
del capitolo sulla teologia dell’ora nona. In queste pagine riecheggiano le
riflessioni tragiche del maestro di Iiritano, Sergio Quinzio, sulla sconfitta di
Dio, sul suo silenzio, sulla sua fragilità, sul fallimento della promessa di
redenzione e di salvezza.
La seconda è una disperazione metafisica, che accomuna credenti e non credenti e
scaturisce dalla consapevolezza della precarietà dell’esistenza. Questo tema
trova la sua massima espressione nel capitolo Angeli caduti. Un dialogo sulla
caducità tra Freud, Rilke e Wenders, che occupa nel libro una posizione centrale
sia dal punto di vista strutturale sia concettuale, suggerendo la chiave di
lettura dell’intero volume.
In questo capitolo, Iiritano commenta il celebre saggio di Freud Caducità.
La riflessione freudiana sulla caducità nasce da un episodio, raccontato dallo
stesso fondatore della psicanalisi e rievocato da Iiritano. Nell’estate del
1913, durante una vacanza sulle Dolomiti, Freud passeggia in compagnia di due
amici per una contrada in piena fioritura. Uno dei due amici è Lou
Andreas-Salomé, l’altro un poeta “già famoso nonostante la sua giovane età”,
Rainer Maria Rilke. La bellezza della natura, anziché rallegrare l’animo del
poeta, lo turba. Tutto quello splendore che non durerà più di una breve stagione
evoca nella sua mente quel destino di morte che accomuna tutto ciò che ha vita e
dunque anche tutto ciò che ammiriamo e amiamo. A incupire il suo animo è la
percezione della caducità, di quel nulla che minaccia e insidia il vivente, che
toglie valore a quanto ci appare prezioso, bello e perfetto, che fiacca ogni
sforzo teso alla costruzione e creazione, che vanifica ogni lavoro e progetto.
Invano Freud osserva che la transitorietà di una cosa non ne inficia la
bellezza, che, anzi, “la limitazione della possibilità di godimento ne aumenta
il pregio”: quelle che a lui paiono considerazioni “incontestabili” non
producono alcun effetto sui suoi due amici, non scuotono la malinconia
metafisica del poeta, una reazione alla frustrazione dell’“esigenza di eternità”
intrinseca al desiderio umano.
Come spiega Iiritano:
> “Ecco la lotta dell’angelo, che è in noi. Lotta impossibile per l’eterno che
> ci sfugge, che disperatamente non ci appartiene, e che pure non possiamo che
> necessariamente volere. Verità di un de-siderare che ci costituisce in quanto
> umani: mancanza delle stelle, da cui in qualche misterioso modo, pure sentiamo
> di provenire.”
La malinconia si configura dunque come una reazione affettiva al dolore per il
contrasto tra il desiderio umano di eternità e stabilità e le leggi della realtà
che lo frustrano. L’argomento di Freud, secondo cui “Se un fiore fiorisce una
sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida”, non convince
i suoi compagni.
Il lutto, per Freud, è un “grande enigma”: il padre della psicanalisi non
capisce perché causi tanta sofferenza e richieda tanto tempo per ripristinare la
capacità dell’Io di investire la libido, dato che si estingue “spontaneamente”.
Ancora più in radice, Freud si stupisce del dolore che proviamo per la caducità,
un dato di fatto di cui siamo da sempre consapevoli. Ancora più assurda del
lutto stesso è poi la malinconia che anticipa la perdita. Freud intuisce che è
il presentimento del dolore futuro a turbare i suoi amici:
> “Poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso –
> scrive – essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza
> perturbatrice del pensiero della caducità”.
In sintesi, era “la ribellione psichica contro il lutto” a svilire “il godimento
del bello” in loro: “L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera – conclude
lo psicologo – faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la
sua fine”.
Per Freud, invece, “il valore di caducità è un valore di rarità nel tempo”. Egli
rimprovera al poeta di non saper cogliere l’attimo e di non accettare la legge
della realtà, considerando la sua malinconia una reazione “malata”
all’inevitabile scorrere del tempo, così come inadeguata gli appare la risposta
dell’uomo religioso, anch’essa una “rivolta” contro questo dato di fatto. Di
fronte alla consapevolezza della “precipitare nella transitorietà di tutto ciò
che è bello e perfetto”, si possono avere due reazioni: “l’uno porta al doloroso
tedio universale” del poeta”, “l’altro alla rivolta contro il presunto dato di
fatto” del credente. Nonostante entrambi rifiutino il tempo e il divenire, essi,
infatti, lo fanno in modi diversi: il poeta passivamente, con un’accidia
paralizzante; il credente attivamente, con una fede che ritiene “insensato e
nefando” che le gioie e il mondo esterno “debbano veramente finire nel nulla”,
credendo che “in un modo o nell’altro devono riuscire a perdurare, sottraendosi
a ogni forza distruttiva”.
Contro questa rivolta – ci ricorda Iiritano alla fine del capitolo – Freud
invita a “sopportare la vita” virilmente senza rifugiarsi in illusioni che la
impoveriscono ed è a questo punto che poesia e fede, da una parte, e scienza,
dall’altra, divorziano. Non possono non divorziare, perché poesia e fede si
nutrono proprio di questa rivolta, dando credito a quelle che a Freud appaiono
solo illusioni.
Iiritano ricorda le parole di un altro autore da lui molto amato, Albert Camus:
> “Lo spirito rivoluzionario è tutto nella protesta dell’uomo contro la
> condizione d’uomo.
> In questo senso, sotto forme diverse, il solo tema eterno dell’arte e della
> religione.”
È questa rivolta che Iiritano definisce la lotta dell’angelo in noi. Ed è su
questa lotta che poggia la fede alla quale Iiritano, a mio parere, cerca di
rendere attenti i lettori, utilizzando, come osserva Sergio Givone nel dialogo
che intesse con lui nel volume, due linguaggi complementari, ovvero le parole
della fede e della poesia.
Le parole della fede per rintracciare quelli che definisce i “presupposti
teologici della storia”, attingendo a pensatori come Gioacchino da Fiore,
Benjamin e Bloch.
Le parole della poesia, invece, per scavare nei recessi dell’anima, riportando
alla luce ciò che è riposto nel segreto del nostro intimo, ciò che
silenziosamente aneliamo e speriamo.
Nella prospettiva appena sopra delineata, chiude il volume un capitolo: Ossi di
seppia. Scenari apocalittici per il nostro tempo, in cui Iiritano medita i
celebri versi di Eugenio Montale Forse un mattino andando in un’aria di vetro.
Li ricordo per chi non li avesse presenti:
> “Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
> arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
> il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
> di me, con un terrore di ubriaco.
> Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
> alberi case colli per l’inganno consueto.
> Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
> tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”
Questi versi, notissimi, aprono nell’interpretazione proposta da Iiritano a
“scenari apocalittici per il nostro tempo”. Vediamo come questo sia da
intendere.
Avevo dato una interpretazione più semplice a questi noti versi montaliani che
tanto mi colpirono quando ad essi mi accostai per la prima volta. Per me
parlavano della rivelazione improvvisa dell’impermanenza, della morte, del
niente. Una simile rivelazione isola, rende estranei agli altri, che vogliono
continuare a vivere in superficie, che sono alla spasmodica ricerca di evasione
e non vogliono neppure sentire parlare di queste cose. Una simile rivelazione
rende quindi eterogenei all’umano generale, per cui da quel momento in poi ogni
comunicazione o finisce o si risolve in un fraintendimento. Meglio allora, come
scrive Montale, andare “zitto” tra gli uomini che non si voltano, chiuso nel
proprio “segreto”.
Leggendo queste parole, come non pensare all’amarezza di Leopardi nelle Operette
morali, alla solitudine del poeta dei Diapsalmata kierkegaardiani? All’esteta
riflesso e al suo contrapporsi all’uomo immediato?
Non bisogna voltarsi indietro, avverte chi continua a camminare guardando sempre
avanti, senza mai fermarsi a pensare. Spontaneo è l’accostamento a Orfeo, che si
volge indietro e così perde per sempre Euridice, e alla moglie di Lot che rimane
pietrificata. La visio del niente pietrifica.
Nella mia interpretazione non avevo fatto caso che Montale definisce la
rivelazione del nulla “miracolo”.
Penso quindi che l’ultimo capitolo del libro di Iiritano in cui si lascia
intendere che la rivelazione del nulla potrebbe avere carattere religioso,
potrebbe, cioè, renderci attenti alla fede e aprirci alla speranza di un
compimento della storia, all’attesa che essa abbia non solo fine, ma una
direzione e un fine, mi sembra un’interpretazione più profonda e complessa di
quella che avevo dato quando per la prima volta avevo letto Ossi di seppia.
Parlando della canzone Finirà di un gruppo musicale, I cani, canzone che recita:
> “Con un’apocalisse
> Come stelle e galassie
> O in punta di piedi
> Come l’umanità e la terra
> Il sistema planetario
> Saturno contro Urano
> Plutone è troppo piccolo
> E non ce la fa più
> È stanco di lottare
> Di questo mondo cane
> Ma non ti preoccupare
> Tanto finirà la guerra
> L’orrore, il sacrificio
> Il sangue, il genocidio
> Finiranno presto
> Come il sale, il dentifricio
> Come l’acqua, il cioccolato
> La benzina nell’auto
> Il petrolio sotto terra
> In Arabia Saudita
> Nelle viscere del cosmo
> Si leverà un silenzio”
Commentando le parole della canzone, Iiritano così scrive:
> “Scenari catastrofici appunto, mai “apocalittici”: poiché nel loro dispiegarsi
> non vi è traccia alcuna di senso e direzione ultima, di verità che si disvela
> (apò-kalupto). Ciò che manca è, appunto, proprio la speranza. Sarà allora
> proprio il tragico realizzarsi, dinanzi ai nostri occhi, di quegli scenari fin
> qui solo virtualmente immaginati, a rompere questo guscio e ridestare in noi
> quella Speranza più audace? Potremo di nuovo temere e sperare, come un tempo
> dinanzi a tali catastrofi, che la fine possa rivelarsi paradossalmente anche
> un “fine”?
Desiderio, esigenza di eternità, protesta, rivolta, e infine speranza di un
compimento della storia, sono per Iiritano i segnavia che conducono alla fede e
la sostanziano. In tal senso, mi pare particolarmente opportuna la citazione –
tratta da Ernst Bloch, Marx, la morte e l’apocalisse (in Religione ed eredità) –
che recita:
> “La nostra futura beatitudine, l’esistenza del regno dei cieli, la chiara
> realizzazione del sogno dell’anima a cui corrisponde la sfera di una realtà
> comunque determinata, non sono solo pensabili, cioè formalmente possibili, ma
> assolutamente necessari, al di là di ogni giustificazione, prova, consenso e
> premessa formale o reale della loro esistenza. Essi sono postulati dalla
> natura dell’oggetto apriori e dunque anche dall’intensa tendenza utopica di
> una realtà essenziale e stabilita esattamente”.
Vorrei però concludere questa recensione con una riflessione sul rapporto tra
filosofia e poesia, filosofia e fede, ovvero sulla prospettiva filosofica che
sta alla base del volume di Iiritano, tornando brevemente al caso Rilke.
Freud, come abbiamo visto, in Caducità parla di un’“esigenza di eternità”, che
sostanzierebbe non solo il desiderio del poeta, ma anche quello del credente e,
più in generale, di ogni uomo. Ebbene, questa esigenza del nostro desiderio,
secondo il fondatore della psicanalisi, è in stridente contrasto con la nostra
esperienza – per la quale la caducità è un’innegabile evidenza.
Iiritano ci ricorda nel suo libro questa considerazione di Freud:
> “Ma questa esigenza di eternità è troppo chiaramente un risultato del nostro
> desiderio per poter pretendere a un valore di realtà: ciò che è doloroso può
> pur essere vero”.
Freud non riconosce dunque alcun valore di verità a quel desiderio, che, pure,
non esita a definire nostro, cioè appartenente non solo al poeta, ma a ogni
uomo. A negarlo, a confutarlo, è quell’evidenza dei sensi e della ragione che
per lo scienziato rappresenta l’unico criterio del vero. La tristezza del poeta
Rilke, la sua malinconia, nasce dunque, si ribadisce, dalla frustrazione,
conseguente all’esame di realtà, della sua e nostra esigenza di eternità.
Dell’eternità, di questo oggetto del nostro desiderio, ci parlano infatti i
magnifici versi di numerosi poeti, non solo Rilke.
All’eternità, o meglio all’immortalità, aspira il poeta ateo Vladimir
Majakowskij, che non la chiede a Dio, ma alla scienza, al compagno chimico
dall’ampia fronte, a cui indirizza la sua richiesta di resurrezione:
“Resuscitami.
Almeno perché,
da poeta,
ti ho atteso,
rifiutando le balle d’ogni giorno.
Risuscitami,
almeno per questo!
Risuscitami:
voglio finire di vivere il mio”.
Oppure alla fama, alla gloria, come nei bei versi in memoria di Lenin, in cui si
dice dello statista deceduto:
“E la morte non oserà toccarlo:
Egli sta nel bilancio del futuro!.
I giovani ascoltano le strofe sulla morte,
e col cuore intendono: immortalità”.
E questa salvezza dal tempo, dalla morte, dall’oblio famelico che tutto
inghiotte egli non la vuole solo per sé, ma per l’intera umanità:
“Lascia. Non occorrono né parole, né preghiere
Che senso ha se tu solo ti salvi?!
Voglio salvezza per tutta la terra priva d’amore,
per tutta la folla umana del mondo”.
Di eternità ci parlano sommessamente le Elegie duinesi. Rilke parte sempre
dall’esperienza della caducità. Nel suo libro Iiritano ricorda i notissimi
versi:
> “Ma per noi sentire è svanire
> noi ci esaliamo, sfumiamo… sul volto la
> sembianza sorge e spare senza posa. Come
> rugiada dall’erba novella quel che è nostro
> svapora da noi,
> come il calore da vivanda calda.”
Ma si badi bene, l’esperienza del trapassare e dello svanire, nelle Elegie
duinesi, a differenza che in Caducità, sembra essere non più sofferta, bensì
accettata dal poeta. Composte tra il 1912 e il 1922, le Elegie
duinesi accompagnano infatti un decennio di profonda crisi del Rilke poeta, al
cui interno si consuma un mutamento, una “svolta”, una conversione dello sguardo
attraverso cui la poesia da lamento per l’inconsistenza delle cose diviene
canto, accettazione gioiosa e persino celebrazione del loro trascorrere,
passare, fluire.
Eppure, anche il Rilke posteriore alla svolta, si spinge oltre tale accettazione
e celebrazione del divenire, con lo slancio del cuore, nel momento in cui parla
degli amanti. Il loro amore, destinato a rimanere incompiuto nel tempo, può
trovare il suo compimento solo altrove, nell’eternità.
Leggiamo:
> “Angelo: ma ci sarà una piazza, che noi non conosciamo dove, su un tappeto
> indicibile, gli innamorati
> che qui non arrivano mai all’adempimento,
> potranno mostrare le alte, ardite figure
> dello slancio del cuore, le loro torri di gioia
> le scale che da tanto, dove sempre mancava terreno, s’appoggiavano soltanto
> l’una all’altra, tremanti. Oh, poterlo,
> dinanzi a innumerevoli taciti morti spettatori d’intorno: le getterebbero
> allora, le loro ultime monete, sempre risparmiate,
> sempre nascoste, che noi non conosciamo,
> le monete sempre valide della felicità, alla coppia
> che sorride finalmente davvero, su tappeto placato?”
>
> (V, 94-106)
Questo slancio del cuore, questa speranza del compimento, come si accennava, è
il principio su cui il pensiero religioso edifica la propria filosofia. Non a
caso uso il termine “filosofia”. È qui che la via si biforca. O seguiamo una
filosofia che è sostanzialmente sapere scientifico, ragione raziocinante, oppure
una filosofia che, riconosciuti i limiti di questo sapere, si spinge oltre e
intrattiene con la poesia e con la fede un “colloquio pensante”. In questo
secondo caso “Poesia, filosofia e fede si incontrano nello stesso luogo, si
danno convegno nella stessa stellare agorà”, sostanziandosi di una parola di
soglia, chiaroscurale, impregnata d’ombra, abitando il luogo fuori luogo. Questo
colloquio pensante è fatto di attraversamenti, transiti, sconfinamenti,
eccedenze, contaminazione dei saperi (Si veda, a questo riguardo, la riflessione
di Roberto Celada Ballanti sul rapporto tra filosofia e letteratura nel
volume Poetiche all’ombra del nichilismo. Montale, Mann, Borges, Brescia,
Morcelliana, 2023).
L’immagine più bella del filosofo che intrattiene questo dialogo stellare,
ritratto in cui scorgo la fisonomia del volto speculativo di Massimo Iiritano,
ci è offerta da Ludwig Wittgenstein in Pensieri diversi:
> “Il pensatore religioso onesto è come un funambolo. Si direbbe che cammini
> quasi soltanto sull’aria. Il suo terreno è il più stretto che si possa
> immaginare. Eppure rimane possibile camminarvi sopra davvero”.
>
> (L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980)
Isabella Adinolfi
*In copertina: Eugène Delacroix, Giacobbe lotta con l’angelo, studio, 1850 ca.
L'articolo “La lotta dell’angelo che è in noi”. Inquietudini religiose del
nostro tempo, tra Rilke e i Baustelle proviene da Pangea.
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È notoriamente impossibile fare lo spoglio della mole di studi sfornata ogni
anno dalle università e dalle case editrici sui classici della letteratura e del
pensiero. Tuttavia ogni tanto, un po’ per caso, un po’ perché ce la andiamo a
cercare, è necessario buttare un occhio in strada per constatarne la situazione
e, se si intercetti qualche soggetto disturbante, prendersi la soddisfazione e
ottemperare al diritto/dovere di critica, di scagliare qualche freccia o,
almeno, qualche voce di allarme.
Ed è ciò che faremo ora presentando due lavori su Martin Heidegger, esciti
entrambi per Mimesis: Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica di
Thomas Vašek, e Heidegger e la Gnosi di Lucrezia Fava.
Inizieremo col primo, il più problematico e urticante.
* * *
Partiamo dal titolo originale: Schein und Zeit – Heidegger und Michelstaedter.
Auf den Spuren einere Enteignung, o sia: «Apparenza e tempo – Heidegger e
Michelstaedter. Sulle tracce d’una espropriazione». La versione italiana quindi
corrompe radicalmente l’intenzione dell’autore: Heidegger e Michelstaedter.
Un’inchiesta filosofica sarà commercialmente più appetibile, ma non si può
sempre sacrificare tutto al dio mercato.
Nel titolo originale, dietro l’espressione palese, ci sono due allusioni. La più
facile: «Schein» in luogo di «Sein», che sta a indicare una sorta di maschera,
indossata naturalmente da Heidegger. La seconda è meno perspicua e riguarda la
parola centrale del titolo: Enteignung, che rimanda evidentemente allo spettro
dello «Er-eignis» uno dei concetti centrali heideggeriani e quello che sorregge
i Beiträge zur Philosophie.
Mi auguro solo di non aver sopravvalutato un autore a dir poco sospetto.
Il titolo originale, si capisce, accenna a un possibile e forse, secondo
l’autore, probabile plagio ai danni di Carlo Michelstaedter da parte di Martin
Heidegger. Una tesi invero sorprendente e di quelle che per solito ingenerano
due ordini di reazioni: o grande interesse, oppure totale negligenza. I
contenuti di simili “inchieste” sono infatti davvero squassanti oppure un fuoco
fatuo, molto spesso presente solo nella testa dell’autore.
Io opto per una terza posizione: pregiudizio che porta alla contraffazione.
Evidenzio súbito una “stranezza” di Vašek, già alle pagine 11 e 12, o sia la
precisazione d’aver tenuto fuori dal suo studio ogni discussione circa i così
detti “Quaderni neri” e quindi circa le (del tutto) presunte responsabilità di
Heidegger durante il governo nazionalsocialista. È un segno sia di malafede, sia
dell’inquinamento del clima che si respira ogniqualvolta si tratti di Martin
Heidegger. Sentirsi obbligati a precisare di non voler trattare il tema è come
ammettere che, parlando di Heidegger, si dovrebbe comunque ricordare sempre
ch’egli fu (si dice, man sagt) nazionalsocialista. E infatti poco dopo (pp.
25-26) Vašek non manca di affermare che «non vi sono dubbi sulla vicinanza di
Heidegger al Nazionalsocialismo, tantomeno sul suo antisemitismo».
Purtroppo esula dal cómpito del mio contributo d’inoltrarsi nella faccenda (di
cui tuttavia dirò in un successivo articolo). Ma è mio dovere dichiarare qui con
grande forza che quei dubbi per Vašek, e per parecchie altre persone,
inesistenti lo sono davvero, ma in senso affatto opposto a quello inteso da
questo autore. Lo dimostra la schiera di ricercatori italiani tedeschi e
francesi che ha smontato pezzo a pezzo ogni ricostruzione e costruzione
infamante ai danni di Martin Heidegger. Mi riferisco, cito a solo titolo
d’esempio, a François Fédier e a Francesco Alfieri. Ritenere, oggi, Heidegger
nazista e antisemita dimostra o grave “distrazione” oppure disonestà.
E dico di più: la frase di Vašek è sbagliata perché, se proprio vogliamo
concedere qualcosa alla tesi colpevolista, Heidegger fu bensì iscritto al
Partito nazionalsocialista ma non manifestò mai sentimenti o idee antiebraici.
Peraltro sarebbe uno strano antisemitismo quello di Heidegger: allievo
dell’ebreo Husserl; circondatosi di ebrei; plagiatore dell’ebreo Michelstaedter
(e anche di un secondo, vedremo).
Scopo del lavoro è dimostrare le coincidenze, nel senso stretto della parola,
tra il pensiero di Michelstaedter espresso ne La persuasione e la rettorica e
quello di Essere e tempo. Invero la dichiarazione preliminare dell’autore di
limitarsi a Essere e tempo non trova corrispondenza nel testo, in cui è presente
un nubifragio di citazioni da svariate altre opere di Heidegger, precedenti e
successive al capolavoro del 1927.Avanti tuttavia di immergerci nel raffronto
testuale e tematico, onde dimostrare la tesi dell’Enteignung, Vašek ci informa
che l’opus magnum del goriziano fu tradotto in tedesco solo nel 1999, ciò che,
non conoscendo Heidegger l’italiano, rende impossibile un contatto diretto tra
questi e il testo michelstaedteriano, testo che fu pubblicato la prima volta in
Italia tre anni dopo il suicidio del goriziano, nel 1913, da Vallecchi di
Firenze (che Vašek invece colloca, chissà perché, a Genova).
Tuttuavia Vašek fa ciò che mi pare di poter definire una scoperta non dappoco, o
sia una traduzione in tedesco della parte dedicata alla Persuasione della
celebre tesi di laurea, per mano niente di meno che di Argia Cassini, la così
detta fidanzata di Michelstaedter (scrivo «così detta» per buone ragioni
biografiche che qui non importa di esporre). Sorgono però adesso due problemi
molto pesanti, che Vašek non solleva. Anzitutto si ignora lo scopo di questa
traduzione, fatta in forma dattiloscritta e, in apparenza, privata, cioè a dire
non espressamente destinata ad alcuno. Essa inoltre è priva di data ed essendo
Argia Cassini morta nel 1944, avrebbe avuti come minimo trent’anni di tempo per
tradurre quel mazzetto di pagine. Vašek invero accenna all’assenza della data,
ma in maniera anodina, senza porre in evidenza il dato cruciale, e men che meno
interrogandosi sulle sue implicazioni all’interno dell’indagine in corso.
Partendo da questa traduzione parziale, Vašek si slancia nella ricostruzione di
rapporti tra Italia Svizzera e Germania insino a questo momento, per quanto mi è
dato di sapere, ignoti. Essa è esposta alle pagine dalla 19 alla 22 e io non
toglierò la soddisfazione al lettore di scoprirsela da sé, tanto essa è invero
sorprendente. Inoltre mi astengo dal parlarne per non spingere il giudizio del
lettore in una direzione anziché in un’altra. Idem valga per l’indagine tematica
e testuale di Vašek, anche perché riferirne anche solo succintamente renderebbe
questo articolo da rivista specialistica e quindi “illeggibile”.
Qui voglio solo far emergere il puro tentativo di Vašek e discutere alle corte
il suo metodo.
Il libro è efficace e va preso in considerazione, ché in effetto
le coincidenze tra i due pensatori ci sono.
Vašek apre un problema, che per lui tuttavia è una specie di vaso di Pandora, il
cui contenuto si scatenerebbe non già sulla storia della filosofia ma su
Heidegger e sugli heideggeriani, heideggeriani ch’egli fa passare a un dipresso
come una sètta. Postoché ciò sia vero, gli antiheideggeriani in moltissimi casi
a me paiono somigliare invece a una cosca, con tanto di picciotti pronti alle
mani e alle armi contro chi osi contestare la loro lettura – politica morale
e anche filosofica – di Heidegger. Esemplare è il caso d’una accanita arcinemica
e diffamatrice di Heidegger e degli heideggeriani (che la ignoravano fino a
quando ella non si mise a strepitare sui giornali, portando quindi la
discussione dal parrucchiere). Smentita più e più volte, la studiosa non si è
ancòra data per vinta, seguitando a collezionare magrissime figure.
Altro difetto del lavoro di Vašek è la tendenza alla ripetizione. Se tuttavia
talora essa riesce molesta, altre è invece utile poiché certi concetti e
osservazioni meritano di essere ripigliati. Nondimeno, stupisco constatando che
aver più volte ribadito, oltre alle simiglianze, anche le differenze tra i due
pensatori, non porta Vašek a essere conseguente, sicché il libro è
composto solo delle prime. Ma Vašek si spinge ben oltre, ché, ringalluzzito
dalle sue “scoperte” sciorinate nelle duecento e cinquanta pagine precedenti, a
metà della quinta e ultima parte del lavoro si inoltra nel tentativo di
dimostrare un altro esproprio heideggeriano, questa volta ai danni di Franz
Rosenzweig e in ispecie della sua opera principale, Die Stern der Erlösung («La
stella della redenzione»). Un altro ebreo al quale rubare, quindi.
In apparenza (forse la parola chiave del libro…) Thomas Vašek dà l’impressione
di sapere adoperare la vanga come pochi altri, tanto scava scava scava nei testi
heideggeriani e in Michelstaedter. Ma giunto su certi terreni si limita a
passare oltre, al massimo sollevando un po’ di polvere, per ritornare su d’uno
più congeniale (in apparenza…).
Egli infatti solo indirettamente dice che a unire Heidegger e Michelstaedter
oltre all’aria che si respirava in Europa nei primi decenni del XX secolo, vi
sono anche profonde conoscenze storico-filosofiche, in ispecie la Greciantica
dei Presocratici, di Platone e Artistotile, tre momenti del pensiero occidentale
conosciuti e da Heidegger, e da Michelstaedter come pochissimi altri. E questo
trait d’union è il primo dato che, volendoci inoltrare in un raffronto tra i due
pensatori, balza immediatamente allo sguardo di occhi sani e onesti, anche
solo letteralmentescorrendo l’elenco delle loro opere o, al
massimo, letteralmente sfogliando le pagine di queste.
Vašek però non dà il benché minimo peso a questa giuntura.
Indubbio merito, quantunque indiretto, da riconoscere a Vašek è d’aver accennato
in modo da incuriosire parecchio al nome di Oskar Ewald, filosofo viennese,
«fervente ammiratore di Michelstaedter» e «in contatto con Edmund Husserl» (p.
10). Ma Vašek lo brandisce come un’arma impropria ma difettosa. Infatti fa
cilecca. Purtroppo di Ewald non c’è nemmeno mezza pagina tradotta in italiano e,
per soprammercato, le sue opere, pubblicate oltre un secolo fa, non sono mai
state ristampate, né in Germania né in Austria. Questo buco è davvero irritante,
giacché dai pochi cenni di Vašek, Ewald dev’essere un di quei pensatori
irregolari e anomali di notevole fecondità e forza.
Ewald tuttavia ci pone un problema piuttosto pesante, su cui Vašek tace del
tutto, ignoro se per gravissima distrazione ovvero con intenzione. Su quali basi
Vasheck definisce Ewald «fervente ammiratore» del goriziano? Se – anche questo
vedemmo – La persuasione e la rettorica fu vòlta in tedesco solo nel 1999 e
storia e destino della versione d’Argia Cassini sono ignoti, come fu possibile a
Ewald, ignaro della lingua italiana, leggere Michelstaedter? Si può ipotizzare,
sulla scorta della ricostruzione di legami alle pagine 17 e seguenti, che Ewald
abbia appreso di Michelstaedter da Husserl e da altri: ma può bastare qualche
scambio di battute su chicchessia a farne di qualcuno «fervente ammiratore»?
Possiamo a esempio noi dopo pochi cenni su Ewald dichiararcene tali? Direi di
no.
Se invece Ewald, per ipotesi, lesse la traduzione d’Argia, data la suddetta
catena di sant’Antonio ricostruita da Vašek, è probabile che anche Heidegger
l’abbia letta. Ma di questa traduzione noi non si sa null’altro fuorché la sua
esistenza, ciò che è insufficiente a determinare alcunché. Inoltre – ed è un
dettaglio a mio giudizio cruciale – la traduzione di Argia Cassini si trova
attualmente nel Fondo Carlo Michelstaedter di Gorizia. Un dato che ci obbliga a
domandarci: se è ben possibile che essa traduzione abbia a un certo momento
intrapreso in viaggio tra Austria e Germania, è probabile che poi sia ritornata
a Gorizia, sia sopravvissuta allo sfacelo della Seconda guerra mondiale e sia di
poi stata messa al sicuro tra le carte del filosofo goriziano ancòra
semisconosciuto? (Il vero “lancio” avverrà soprattutto nel 1958, quando l’amico
– si fa per dire – Gaetano Chiavacci pubblicherà una scelta delle opere e delle
lettere, censurate, del Goriziano per Sansoni).
La risposta più ovvia mi pare questa: quella traduzione non è mai escita da
Gorizia e attualmente non resulta che alcun attore di questa storia abbia
intrapreso un viaggio a Gorizia, nemmeno Ewald che, essendo cittadino
austroungarico, bazzicava non molto distante dalla città friulana.
Resto tuttavia aperto a proficue e documentate smentite.
C’è ancòra un altro dato cruciale di che tener conto. Lo abbiamo anche questo
accennato: Argia tradusse solo «La persuasione», o sia pochissime pagine. Ora,
ipotizziamo che codesta traduzione abbia fatto il giro delle sette chiese
d’Austria e Germania (lo ritengo improbabile, ma transeat) e che quindi sia
giunta nella mani di Heidegger, com’è possibile trovare, come pretende Vašek,
delle cogenti simiglianze e identità tra il pensiero heideggeriano del «Si»
(man) e la rettorica michelstaedteriana? È realistico pensare che
l’espropriazione sia dovuta solo ai racconti orali della catena di sant’Antonio?
A me non pare sostenibile alcunché di siffatto.
Chiediamoci inoltre: se uno dei tramiti tra Michelstaedter e Heidegger, giusta
il tentativo di ricostruzione della catena di sant’Antonio di Vašek, fu Husserl,
è realistico che questi non abbia giammai evocato il pensatore goriziano
allorché si lamenta pubblicamente della deviazione, addirittura del tradimento
perpetrato da Heidegger, a petto dell’impostazione fenomenologica originaria,
in Essere e tempo?
Inoltre: è credibile che, come allude Vašek per tutto il libro, e sin dal titolo
originale, la mole enorme degli scritti heideggeriani derivi da Michelstaedter?
Amo e leggo Michelstaedter da trent’anni esatti, ma nemmeno da briaco riuscirei
a sostenere che l’opera di Heidegger, dalle prime lezioni della fine degli anni
Venti, insino – come minino – ai lavori postbellici, sia un’espropriazione da
«La persuasione», né da altri scritti michelstaedteriani.
Vašek commette anche un errore filosofico madornale ed è anche questo – oltre al
patente pregiudizio “razziale” politico e ideologico – a condurlo sulla via
sbagliata della sua lettura di Heidegger. Egli infatti scrive che Essere e
tempo non tratta «principalmente della questione dell’essere, bensì dell’idea di
rinascita o di trasformazione dell’uomo, che è stata influenzata da una certa
“letteratura del risveglio” dopo la Prima guerra mondiale» (p. 10). Insomma, la
solita tesi dello Heidegger esistenzialista. Oltre a essere una tesi vecchia
come il cucco è anche imprecisa, soprattutto se detta così. Ritenere che la
questione dell’essere non abbia strettamente a che fare con la trasformazione
individuale, e viceversa, significa maneggiare poco e male non solo Heidegger ma
in generale la filosofia.
Inoltre questa lettura contraddice in maniera brusca la tesi principale di
Vašek, o sia l’espropriazione da parte di Heidegger ai danni di Michelstaedter.
Il pensatore goriziano, infatti, è sempre stato collocato, per usare una
bellissima espressione di Camillo Pellizzi, tra gli «spiriti della vigilia»,
cioè a dire tra coloro i quali chiedevano, ciascuno more suo, un cambio di
passo, una metánoia, una palingenesi – individuale ovvero collettiva, qui non
conta trattarne – per lumeggiare e fronteggiare i rivolgimenti politici sociali
e culturali avviati a cavaliere tra XIX e XX secolo, e che avrebbero avuto il
loro primo banco di prova nella grande massacro della primo conflitto mondiale.
Michelstaedter è, secondo molti, tra quanti intercettarono i movimenti tellurici
ctonii preludenti la guerra e si posero in gioco. Inoltre Michelstaedter – ciò
che viene assai poco ricordato – era cittadino di quell’Impero che già agli
inizi del secolo scorso iniziava a dare vistosi segnali di cedimento.
Anche Heidegger, coetaneo di Michelstaedter (1889), sentiva l’aria, pur da
diversa prospettiva, anzitutto geograficamente diversa. Ma era anch’egli un
cittadino d’Europa e mosse i suoi primi passi filosofici consapevole della
necessità di una trasformazione, di una epistrofé.
Heidegger e Michelstaedter, per essere sbrigativi, respirarono lo stesso clima,
come ho già detto.
È inaccettabile quindi attribuire al pensiero heideggeriano (parziale,
parzialissimo!) un’aura non dissimile a quella del pensiero michelstaedteriano
ma al contempo tacciare il pensatore tedesco di Enteignung. Amenoché Vašek non
ignori del tutto la biografia di Carlo Michelstaedter.
Insomma, come lo giri lo studio di Thomas Vašek non sta in piedi.
Voglio riservare un ulteriore appunto ancòra al traduttore, che per i passi
da Sein und Zeit, si avvale esclusivamente della versione Chiodi-Volpi e ignora
quella di Alfredo Marini, non esente da difetti ma senz’altro più fondata e
corretta dell’altra, anche sotto il riguardo della semplice comprensione
grammaticale del tedesco. Per replicare si può ipotizzare che la versione
classica di Pietro Chiodi sia ancòra la più accreditata e quindi utilizzata,
anche se è un’affermazione discutibile. Nondimeno essa coinvolgerebbe la sola
versione di Chiodi e non quella di Chiodi e Volpi.
Si tratta certo di legittime scelte soggettive: forse un po’ troppo soggettive.
* * *
Il libro di Lucrezia Fava su Heidegger e la Gnosi, graziaddio, presenta molti
meno problemi e quelli che ci sono, vanno imputati a personali scelte
ermeneutiche e non a qualche basso sentimento o alla volontà di attirare
l’attenzione.
La vera magagna dell’opera, che forse può guastarla del tutto, è l’assenza del
cruciale riferimento ai concetti di Nichts e di Nichtigkeit, senza i quali ogni
comprensione di Heidegger è preclusa. Essi sono condensati per lo più nella
celebre conferenza Che cos’è metafisica? Ritengo che Lucrezia Fava non abbia
aggirato il problema volontariamente, o almeno spero, ma sia stata, per quanto
assai grave, solo una svista. Certo gli è che introducendo il nulla/niente nella
sua tesi sulla gnosi heideggeriana, l’impianto avrebbe fortemente traballato
minacciando di crollare sul suo pur abile e originale architetto. Ma sarebbe
stato il caso di osare, anche a costo di revocare in dubbio o addirittura in un…
niente tutti i fondamenti dell’indagine.
Un esito assai preferibile per non indurre qualcuno a giudicare Heidegger e la
Gnosiun ennesimo tassello di quello strano mosaico cui siamo avvezzi ormai da
tempo immemorabile. Quando si ha difficoltà a definire un pensatore o un’idea,
ma lo si vuole fare a tutti i costi, oppure quando si vogliano tentare altre vie
dalle già battute e cieche, spesso si finisce per definirlo gnostico.
Del tutto assente dall’indagine di Lucrezia Fava è la storia, quindi la
biografia. C’è un fuggevole cenno a probabili conoscenze da parte di Heidegger
di testi gnostici e alla vicinanza con Rudolf Bultmann (un altro gnostico?), ma
niente di più. Ora, che Heidegger, quale persona colta come lo erano a
quell’epoca tutti in certi ambienti, abbia conosciuti i principii dell’antica
Gnosi, nessuno può metterlo in dubbio. Ma non ci sono riferimenti né impliciti
né espliciti nelle sue opere al pensiero della Gnosi storica (a meno che non mi
sia sfuggito qualcosa). E non essendoci alcun riferimento testuale, fosse pure
epistolare, anziché procedere tout court a un accostamento, già di per sé
problematico, bisognerebbe avanti a tutto pensare alle ragioni –storiche
filosofiche psicologiche – di questa eventuale corrispondenza. Postoché Lucrezia
Fava abbia visto un aspetto del pensiero heideggeriano con lucidità e verità
(per quanto con l’aiuto esplicito di Hans Jonas), ella non si domanda mai donde
derivi tale corrispondenza. E questa indagine, si capisce, è rigorosamente
obbligatoria.
C’è un ulteriore inciampo in Heidegger e la Gnosi, e non dappoco, ed è indurre a
credere qualche lettore impaziente – e Dio sa quanti ce ne sono – che il
pensiero di Martin Heidegger cada in un calderone sbrigativamente definito
«irrazionalista», che costella la storia dell’uomo sotto diversi abiti da tempo
immemorabile. Ma mentre in epoca antica e financo in svolti più recenti e in
individui considerati “perdonabili” (si pensi, per esempio, al Romanticismo o a
Hölderlin), l’irrazionalismo è accettato, esso – si dice – non può più avere
diritto di cittadinanza nell’èra della scienza e della tecnica, questa nuova èra
metafisica che stiamo vivendo, e delle superstiti istanze politiche.
Heidegger dové già scontare l’accusa di misticismo e di irrazionalismo dopo la
così detta Kehre, la svolta, come si sa e come ben riassume Hans Georg Gadamer
nei Sentieri di Heidegger (Marietti 1987, pp. XV-XVI). L’accusa era
evidentemente pregiudiziale, spinta sia dall’«ondata di nuovo illuminismo» (io
avrei detto più tosto neopositivismo), sia dall’«ossessione
social-rivoluzionaria», come lì scrive Gadamer, e ben pochi, ancòra oggi, si
sono levàti dalla zucca una simile rappresentazione farlocca. A meno che
Lucrezia Fava non creda, anche lei in senso squalificante, a uno Heidegger
davvero irrazionalista, allora mettere in circolazione simili raffronti, senza
opportune premesse, può costituire un errore sia di metodo, sia strettamente
filosofico.
Ricordiamo a margine l’intelligente osservazione di Medard Boss:
> «Sono numerosi i derisori, che ritengono il “tardo” Heidegger soltanto un
> poeta o un mistico, che avrebbe da lungo tempo abbandonato il terreno di una
> “filosofia scientifica”. Tuttavia, in primo luogo, tali spiriti della
> superficialità non vedono che quello “più tardo” non si è affatto separato dal
> “primo” Heidegger (…). Il pensiero di Heidegger pensa sempre il medesimo del
> medesimo (…). In secondo luogo, i Suoi critici tralasciano di confrontare la
> rigorosa adeguatezza del Suo primo e tardo pensiero a quanto detto, dunque la
> sua “obiettività”, nel senso supremo di questo termine, con la rigogliosa e
> oscura magia, che domina completamente tante rappresentazioni della scienza
> moderna».
>
> (Lettera di Medard Boss ad Heidegger, in M. Heidegger, Seminari di Zollikon,
> Guida 1991, p. 411; traduzione lievemente modificata e corsivi miei)
La tesi di Lucrezia Fava è dunque parecchio spericolata. E aggiungo ch’essa,
almeno così come la declina l’autrice, non conduce in alcundove e, anzi,
allontana dall’obbiettivo heideggeriano principe. In questa analisi dov’è
infatti l’Essere? In altri termini: che cosa se ne fa il lettore di
un’analisi in opposizione alla filosofia come la intende Heidegger sin dai
primordi del suo pensiero?
Lucrezia Fava (ma anche Thomas Vašek con sgradevoli aggravanti) ci ripiomba in
quelle metodologie che lo stesso Heidegger voleva superare, in quella forma
mentis di ostacolo al “progetto” heideggeriano non solo di dire e di pensare
altrimenti a petto della tradizione e delle consuetudini, ma anche di essere
altrimenti. Ma questo è forse impossibile a recepirsi da parte di chi legge i
filosofi e certi filosofi in particolare come oggetti di indagine, eventualmente
di carriera. Heidegger spende gran parte della sua vita a mettere in guardia da
questo genere di mentalità esiziale ed ecco sopraggiungere ancòra dopo plurimi
decenni imperturbati studiosi, i quali, credendo di fargli i complimeti, gli
intonano l’ennesimo Requiem.
Heidegger diventa l’ennesimo oggetto di studio, e non resta quale,
giustissimamente, lo hanno definito Safranski e decine di suoi allievi e lettori
postumi: «ein Meister aus Deutschland», un maestro tedesco, o sia un maestro
tout court, del pensiero ateoretico e rigorosamente pratico, filosofia incarnata
o sia filosofia, per dirla con Hadot, quale esercizio spirituale,
e quindi pratico.
Heidegger trattato alla stregua d’un Popper o d’un Kant, che neppure se lo
meritano, cioè alla stregua d’un “qualsiasi” filosofo. Ciò significa
anestetizzare, neutralizzare Heidegger, il quale, saviamente, mise in guardia
dal commentare i suoi lavori. Parlò, ahimè come al solito, a vuoto, ai vuoti.
Luca Bistolfi
L'articolo Neutralizzare Heidegger. Sui tentativi (più o meno goffi) di fare di
un maestro un mero “oggetto di studio” proviene da Pangea.