Debambinizzare il bambino. Intorno a “Triste tigre” e ad altre aggressioni

Pangea - Tuesday, October 21, 2025

Questa estate io e V. ci assicuravamo che mia figlia e suo figlio non annegassero mentre giocavano a riva con le onde basse. Lei a me: “Un bambino impiega meno di dieci secondi per annegare. C’è da dover stare molto attenti, quando annega il bambino non si dibatte. Si paralizza. Va giù a fondo, immobile.” Io e V. sorvegliavamo e parlavamo dei casi estivi dello sbrindellato costume nazionale: il gruppo social “Mia moglie”, il sito Phica.Eu. Lei a me: “Capisci la responsabilità che sento a crescere un figlio, un maschio? E se un domani diventa lui quello che pubblica le foto delle sue compagne in un gruppo per soli uomini fondamentalmente soli? O persino le mie.” Io a lei: “Non è che dobbiamo diventare tutti Dominique Pelicot. L’hai letto Vivere con gli uomini della Manon?”. E lei a me: “Tu l’l’hai letto Triste tigre della Sinno?”

Poi l’ho letto. Avrei voluto leggerlo tutto di un fiato, per doverci respirare all’interno il meno possibile. Ci sono pagine dove si sta come in cantina, nell’odore di muffa e violenza, col dubbio sia il proprio, quell’odore. Verso la metà ho dovuto interrompermi, per riprendermi, riprendere fiato. È quando la Sinno cita una poesia della Pizarnik: “Ricordo la mia infanzia/ quando ero un’anziana.” 

In Triste tigre, Neri Pozza, pensa ha vinto il Premio Strega Europeo nel 2024, è insopportabile la parte dell’uomo-padre-abusante, quindi potenzialmente la mia?, quella del figlio di V.?, all’interno della storia che non è una storia-inventata, emblematica-e-basta come nel caso della Lolita di Nabokov, ma una storia-storia che chi scrive si sente in dovere di scrivere come non fosse bastato il doverla vivere. Insopportabile è la parte che ha dovuto subire e a cui ha dovuto reagire Neige, che racconta di essere stata stuprata da bambina dal patrigno, per anni. Neige è una vittima che non ci sta a lasciarsi inscrivere nel protocollo vittimario ma che non per questo si allinea alla retorica sfinente sulla resilienza secondo cui una vittima può smetterlo di esserlo, può riscattarsi, e se non ci riesce, beh, allora la colpa diventa anche sua.

Triste tigre non è soltanto la storia di una bambina stuprata che rifiuta di essere guardata solo sotto questa lente così come sa che il suo guardare non può più prescindere dall’esserlo stata. È un libro sul potere, e sulla scrittura, che è un contropotere.

Come ci si devittimizza? Scrivendone? Scriverne “è ancora un progetto dell’aggressore.” Un appagamento al suo narcisismo. Si scrive nonostante chi ci ha fatto del male, nonostante il godimento che chi ci ha fatto del male trarrà dal nostro renderlo un personaggio principale, memorabile a modo suo. Perché chi scrive e scrivendo fa letteratura scrive nonostante i limiti della scrittura, i limiti del linguaggio, i limiti del dicibile. Anche se al di là del limite non è detto ci sia terra incognita da esplorare. Tante volte, solo cantine e precipizi, o onde troppo alte. “Io so che la verità non è nel linguaggio. So che la verità non è da nessuna parte.”

Dicendola meglio, sfuggendo alla gabbia secondo cui la donna è sempre vittima dell’uomo altrimenti non è abbastanza donna lei così come l’uomo non è abbastanza uomo se non ne è carnefice: la vittima scriva, ma il carnefice legga.

La Sinno scrive da scazzata a ragion veduta, non le va di andare per il sottile, se ti sta bene ascolti, leggi, altrimenti vai pure, lì sta la porta d’uscita se hai bisogno di un po’ d’aria e lì quella del cesso se ti si rivolta lo stomaco, fai tu. Quindi scrive benissimo. Scrive sapendo di stare scrivendo, facendo i conti con i rischi banalizzanti e estetizzanti della scrittura. L’offrire una porta verso la quale defilarsi, da poter prendere quando si preferisce per venirne fuori in qualunque momento, è un grande atto di brusca gentilezza da parte della Sinno. 

“Nel bambino tutto è spalancato. Un bambino non può aprire o chiudere la porta del consenso. Non arriva alla maniglia.” 

Triste tigre è un magnifico libro di brusca gentilezza del pensiero che non arretra, che non si mette in bella, che non pretende consenso, non lo postula. La libertà se esiste è quella di poter dissentire, a partire dalle proprie pulsioni, angosce, paure.

Arrivo dalla lettura della Sinno dai diari, bellissimi, della Plath – bellissimi nonostante siano dovuti passare prima dalle mani testamentarie di Ted Hughes – perciò ho sentito in modo particolare il passaggio in cui la Sinno racconta di aver bruciato il suo primo diario per impedire che il patrigno stupratore, leggendolo, potesse “entrare ancora di più nella mia testa”: 

“Il giorno dopo ho bruciato il quaderno nella stufa.(…) Ho detto addio al diario, non solo a quei pezzetti di carta ma al concetto stesso di diario, quel giorno e per il resto dei miei giorni. Non potevo permettermi di costruire con le mie mani un oggetto che mi rendeva così facilmente accessibile, che mi metteva ancora di più alla mercé di una qualunque mente decisa a controllarmi e a nuocermi.” 

Damaged-for-life.

Nelle prime pagine dei diari la Plath diciottenne si racconta della molestia subita da parte di Ilo che ha “un fortissimo accento tedesco, la faccia abbronzata, intelligente, increspata in un sorriso. Anche il suo corpo robusto e muscoloso era abbronzato e i capelli raccolti in un fazzoletto bianco.” La Plath con Ilo ha lavorato in un campo di fragole, sono diventati amici, ingenuamente fiduciosa lo segue nel capannone, per vedere se Ilo ha finito “il ritratto di John”. “Lui stava fra me e la porta, sorridente. Un gesto e la sua mano mi ha afferrato il braccio.”  La Plath piange per lo spavento. Ilo la lascia andare. Ilo non finge alla Plath stesse piacendo quello a cui la stava forzando, come fa l’Humbert Humbert di Lolita, come fa il patrigno della Sinno. 

Che alle figlie possa capitare, se proprio deve capitare, d’incappare negli Ilo e mai nei patrigni alla Humbert Humbert? La Plath al tempo dell’episodio aveva diciotto anni. Lolita nel romanzo di Nabokov ne ha dodici. La Sinno quando iniziarono gli stupri ne aveva otto. Che i figli possano leggere la Sinno, la Plath, Nabokov, per farsi orrore prima di commetterne?

La Plath e Ilo escono dal capannone: occhiatine, sorrisini, secondo gli altri non le era successo nulla che non avrebbe voluto le succedesse, “Ma loro lo sanno. Lo sanno tutti. E che cosa posso fare io, contro tutta quella gente…?” 

La Sinno ha il coraggio di non definire ripugnante il patrigno: perverso, ma non ripugnante. Ripugnante è ciò che le ha fatto. Il patrigno della Sinno è stato un uomo piacente, ammirato nella società montana dove vivevano. Potrebbe esserlo ancora. Ha scontato la sua pena. Si è rifatto una vita. Rifatto una famiglia. La speranza è non abbia ricommesso gli stessi abusi. 

Parere della sorella della Sinno: “Lei è sicura di no, che lui non lo avrebbe mai fatto. Lui dice così, e lei ci crede. Perché? Perché loro erano figli suoi, sangue del suo stesso sangue, loro non li avrebbe mai toccati.” E il sangue mi si raggela. È un padre affidabile uno padre che rassicura le proprie figlie facendo intendere loro che correrebbero il rischio di essere stuprate da lui solo se non fossero del suo stesso sangue? Ritorna la normalità da vampiri analizzata in Sangue del mio sangue di Monya Ferritti. I vampiri raccomandabili cavano solo il sangue dei figli e delle figlie degli altri.

Non negando la vigoria di cui il patrigno si autocompiaceva la Sinno è doppiamente coraggiosa, non mostrifica somaticamente il suo stupratore per garantirsi un ruolo da vittima perfetta. L’orco per esserlo non occorre non abbia la pelle rosea di un principe azzurro o l’appeal virile standard di una guida alpina. Non occorre abbia un pene insignificante come un Napoleone o inutilizzabile come il Popeye in Santuario di Faulkner. Il patrigno stupratore è un uomo bello e capace di atti di eroico salvataggio, attraente e ammirato, una brava-persona secondo gli altri che non hanno dovuto vivere sotto lo stesso tetto, che da bambini non sono stati trascinati in cantina per venirne stuprati.

Quando il carnefice non lo sembra affatto ricade sulla vittima il sospetto non sia poi vittima del tutto, che sia anzi carnefice a parimerito, che lo sia reciprocamente, che tocchi a lei convincere del contrario, mettendo chi legge in condizione di crederle sulla parola. La Sinno racconta senza ricorrere alle scorciatoie e alle strategie di chi, scrivendo, ha il potere di deciderlo lei come-sono-andate-le-cose. “Ma allora a cosa serve tutto questo se tutti noi siamo d’accordo su tutto fin dall’inizio?” Una lezione di letteratura, quando lo è, è una lezione di coraggio autentico, intellettuale, ed è l’unica lezione di vita che ne valga la pena.

L’arrendevolezza reoconfessa del patrigno in Triste tigre quasi consente l’empatia: è uno stupratore a sua volta stuprato in adolescenza dai preti. La Sinno smonta un mito che avevo fatto mio, mi sa autoconsolatorio: 

“I vari studi che ho consultato sugli aggressori sessuali indicano che circa il 20 per cento degli abusanti di bambini sono delle ex vittime. Una cifra lievemente superiore all’incidenza del fenomeno sulla popolazione globale. Questi studi indicano inoltre che il ciclo vittima-aggressore è soprattutto una convinzione fortemente ancorata nella popolazione, e che essere stati a propria volta vittime durante l’infanzia è sì un fattore di rischio, ma non una condizione necessaria né sufficiente per diventare a propria volta aggressore.” 

Le vittime non è detto debbano diventare carnefici a loro volta, con buona pace per esempio di chi giustifica le azioni militari di Israele in quanto vorrei-vedere-te-se-il-tuo-popolo-fosse-stato-già-vittima-di-genocidio, ma: carnefici senza essere stati vittime prima? Carnefici dal-nulla? Io che mi dicevo: non posso diventare un carnefice perché non sono stato mai fatto oggetto di carneficina. Io che credevo bastasse rispondere a V.: “Perché tuo figlio non diventi un carnefice basterà non lo sia tu con lui.” 

È pensabile potersi pensare terzi rispetto alla diade vittima-carnefice? Ricordo la conclusione di Valentina Tanni in Exit Reality, Nero edizioni: quand’anche mancasse tutto il resto, c’è Internet – ciò che Internet ha reso accessibile – che c’ha traumatizzato tutti rendendoci, post-trauma, potenzialmente carnefici, di altri e di noi stessi. E ancora: se qualcosa non succede direttamente a me non sta comunque succedendo anche a me quando lo vengo a sapere? Ciò che è stato inflitto alla Sinno e a troppi altri bambine e bambini, che viene inflitto a altri bambini e bambine proprio ora mentre ne scrivo, non sta succedo anche a me, certo in infinitesima parte ma tanto ne basta, mentre ne leggo? Come possiamo fingere di non udire il canto in coro dei bambini come nella città sterminata dei morti raccontato da Antonio Moresco in Canto di D’Arco?

Si è sempre vittime di almeno un sopruso, di una insensibilità, di un rifiuto, ma restando al male-grave, alle violenze da reato: il male fatto agli altri diventa di per sé la dimostrazione del male fattibile e appena si diventa vittima di questa consapevolezza si diventa anche imitatori ipotetici, carnefici potenziali. Leggere Sinno significa rendersi conto che non esistono storie di vittime e carnefici, esistono solo storie di vittime, alcune delle quali convinte che il diventare dei carnefici possa dare loro l’illusione di potersi sentire per una volta non vittime soltanto.

 Scriverne non significa diffondere il male, le sue codarde inverecondie, fargli pubblicità. Il male per quanto vanitoso prolifera molto meglio nell’omertà che nella denuncia. Scriverne di per sé non basta per impedirlo, siccome si può scrivere soltanto di un male già compiuto, già patito, poiché a scrivere del male che sta per compiersi si passa per Cassandre sbertucciate dai carnefici che mai consentirebbe gli si guastasse la festa prima che loro la facciano a coloro a cui hanno intenzione di farla. 

Si scrive, almeno questo, perché chi legge non possa osare dire di non saperne o di non averne potuto sapere nulla. “È a partire da questa conoscenza intima, a partire da quest’odio, che io scrivo.” E si scrive perché prendere la parola significa riprendersi il potere di usarla per affermare sé stessi, riprendersi, riprendere fiato, farlo diventare voce. 

La Sinno cita la frase spesso attribuita Oscar Wilde: “Tutto nel mondo è sesso tranne il sesso. Il sesso è potere.” Lo stupro non è un atto sessuale, è un atto di dominio. Scriverne è contestare quel dominio. Dissentire. Scrivere non cancella il male ma non gli concede l’ultima parola. Lo beffa.

“Tutti vogliono proteggersi dall’incendio”, scrive la Sinno che non appicca l’incendio, lo mostra per quel che è, che scrive dal fuoco e dal fuoco per dirla con il lispectoriano Jonny Costantino di La mano bruciata, e dall’incendio nessuno può proteggersi. Tanto vale bruciare con dignità se non addirittura con stile. 

Se dovessi spiegare a mia figlia o al figlio di V. cosa è accaduto alla bambina raccontata dalla Sinno, la bambina che è stata la Sinno stessa e che la Sinno non ha mai potuto essere, così come la Sinno lo ha dovuto spiegare a sua figlia, userei la parola unchilding, ovvero «privare dell’infanzia». È la parola a cui ricorre Francesca Albanese nel terzo rapporto da Relatrice speciale ONU del 2023, sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese, come riporta lei stessa ne libro Quando il mondo dorme, Rizzoli. 

C’è da stare molto attenti, quando il bambino è debambinizzato non si dibatte. Si paralizza. Va giù a fondo, immobile. E noi con lui.

antonio coda

*In copertina: John Singer Sargent, Portrait of Thomas McKeller, 1917 ca.

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