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Sognando Busi. Ovvero: rileggendo “Grazie del pensiero”
Ho sognato Aldo Busi. Sogno Aldo Busi periodicamente. È una sorta di campanello neuronale che mi avvisa su come sia passato troppo tempo dall’ultima iniezione di linguaggio vivo nella psiche – perché seppure non possa diventare viva altrettanto almeno non si lasci spegnere del tutto, costretta com’è a subire l’uso generale della lingua o sciatto o ideologico, nostalgico e dunque finto-avanguardistico. Dal giorno appresso ho iniziato una nuova lettura di Grazie del pensiero, per Mondadori, del 1995. Che bel libro politico nell’accezione più estetica!, più ventoteniana, sovversivo fin dal titolo. Il libro, assieme ad altri testi, raccoglie le ‘lettere e risposte’ apparse sul giornale “L’indipendente”, calendario alla mano nel suo intervallo di pubblicazione tra il novembre del 1991 e il novembre del 1994. Si era alle prime battute del ciclo berlusconiano. La collaborazione valse a Busi il sospetto di essersi ‘riciclato’ a destra, un po’ come se per essere di sinistra bastasse presentarsi nelle piazze convocate dai giornali che si spacciano per tali, e in generale come se il giornalismo lo fosse ancora quando per qualificarsi deve rivendicarsi quale organo che non conta più di quale partito sia, trattandosi di sicuro dell’ennesimo organo espiantato alla democrazia. La letteratura, poi.  > “Ma che scrittore è colui che crede che il contesto sia il testo? Io, > semplicemente, ho sempre pensato che il mio testo è più importante di > qualsiasi contesto in cui appaia, e vorrei ben vedere il contrario.”  A nuova lettura in corso – la precedente risale al 2011, a una vita da lettore e da cittadino fa – a pagina 73 ri-cado nella carta lettoricida al passaggio «Ogni civiltà nasce da una traduzione»: se mi verrà in mente la falena che l’ha scritto, la citerò, se no pazienza. Pazienza.).  Non lascio tempo in mezzo, non paziento fino a pagina 80 dove apparirà il rimbalzo al voluto effetto di mancanza-di-memoria. La citazione sarà infatti ripetuta a pagina 80 con tanto di soluzione della dimenticanza: “([…] era di Gianfranco Folena, Volgarizzare e tradurre, 1991) [ma non so chi sia Folena, ricordarsi di guardare sulla «Garzantina», n.d.r]”. Il rimbalzo contribuisce al dinamismo interno del testo, al suo riformularsi in corso d’opera. Il libro riscrive sé stesso in fase redazionale, mentre lega assieme le sue parti già pubblicate altrove. Il testo respira, pensa.   Affetto da sindrome da informazione precoce, in linea con l’epoca, invece e intanto sono andato su Google inserendo come chiave di ricerca la citazione della falena, pregustando la soddisfazione di poterne sapere più io oggi, nel 2025, di Busi nel 1995 quando Larry Page e Sergey Brin si stavano ancora laureando e conoscendo all’Università di Standford.  Sono allora risalito alla paternità della citazione da una nota in appendice a un fascicolo sulla World literature(s) di tal Michele Sisto, di una università di Chieti-Pescara, del 2024, tramite la quale ho raggiunto un seminario del 1995 conservato nell’archivio online di Radio Radicale, con per tema “Come parlano i classici oggi? Modernità e fedeltà nella traduzione” (10.05.1995). Seminario tenuto a Roma il 10 maggio 1995. Da chi? Aldo Busi. Di nuovo lui.  Come nei sogni, e non solo, il presente è un bislacco cortocircuito tra un passato lungimirante a vuoto e un futuro pieno di tecnologia che per quanto spinta resta insufficiente perché lo si possa definire compiutamente moderno. Il link al seminario che mi era sconosciuto però l’ho rimediato!, mi dico, sentendomi uno speleologo della ricerca degno di menzione in targa comunale affissa in strada senza uscita. Per consolazione e per farmi bello lo mando a Dario, altro lettore appassionato di Aldo Busi, e lui mi spegne immediatamente gl’entusiasmi, comprovando che cercare online qualcosa di nuovo è come cercare un ago in un pagliaio senza aghi.  “Coda, saranno stati dieci anni fa, il sito Altriabusi.it era ancora online, fui io a inviare a te e Mario che intanto è morto lo stesso link. Invecchi, come tutti coloro che credono la vera svolta per l’umanità stia nell’inventare macchine più intelligenti di lei, cioè stupide uguali, e grazie tante al pensiero… Comunque: pensa alla grandezza anche accademica di Busi che si è tutto fatto da sé, con per interlocutore dico Agostino Lombardo! Busi ha avuto degli estimatori eccellenti [ma non so chi sia Lombardo, ricordarsi di guardare su Wikipedia]. Non ti ho detto che circa un mese fa a cena di amici a Brescia ci ho conosciuto un marito altrui che ha vissuto a Montichiari fino ai sedici anni. E io a lui: Lo saprai, a Montichiari ci è nato e ci vive un grande scrittore! E lui: Certo, Aldo Busi. Non l’ho mai letto ma lo stimo molto, è una persona seria. A Montichiari ci torno spesso, ci vive mio padre che è vecchio, e Busi l’ho visto un paio di settimane fa. M’è sembrato trascurato, un barbone quasi.” E io a Dario, di rilancio: “E la barbosità di chi si guarda bene dal leggerlo per giudicare meglio Aldo Busi avendolo intravisto oggi a passeggio e ieri su un teleschermo? Un barbone è a conti fatti un grande Barbino, per uno scrittore-scrittore la grandezza si palesa così.” Da Grazie del pensiero:  > “E che ne faremo di tutta la sofferenza altrui che ci lascia indifferenti o > che addirittura ci ripugna?” Il merito delle opere degli scrittori, anche le cosiddette minori, non consiste nel loro essere in anticipo rispetto a propri tempi ma nel rendere lampante a chi le legge quanto continui a essere in ritardo rispetto ai suoi. Chi legge ha meno scusanti di chi non legge, e chi non legge ha meno speranze ancora di poter vivere senza doverci ricorrere. La letteratura non chiede scusa se è quel che è, e perché mai dovrebbe? Come la vita quando è bella, da sogno, vale a dire intelligente per davvero. antonio coda L'articolo Sognando Busi. 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April 11, 2025 / Pangea
Torgny Lindgren, l’UE e il mistero dello snus
Comunque, per fare qualche altro nome: Virginia Woolf, Peter Handke e Torgny Lindgren. Così risponde Jon Fosse alla domanda di Eskil Skjeldal, “Quali scrittori sono stati importanti per te?”, in Il mistero della fede, testo-intervista del 2015 tradotto da Margherita Podestà Heir e pubblicato da Baldini+Castoldi nel 2024. La Woolf non bisogna averla letto per sapere chi sia stata, se si è di quelli che leggono o che si spacciano per tali, e Handke è lo scrittore che leggo compulsivamente nell’ultimo paio d’anni, ma: Torgny Lindgren? Sprovveduto io o non è tra i soliti noti sul versante italiano – come del resto non lo era Fosse stesso, prima che il Nobel desse l’impulso all’editoria che pubblica i premiati eccellenti. Per Wikipedia, la prima fonte a tiro, Lindgren è uno scrittore svedese morto nel 2017 che ha ottenuto la consacrazione “con la pubblicazione de Il sentiero del serpente sulla roccia”. Leggi Wikipedia e di Lindgren ne sai quanto prima, un quasi nulla, tranne che è stato uno scrittore importante per Jon Fosse, al pari della Woolf e di Handke. Bisogna leggerlo, bisogna leggere uno scrittore che nella considerazione di Jon Fosse è importante quanto Virginia Woolf e Peter Handke, fosse solo per non essere d’accordo, per restare nell’incomprensione, nel mistero della letteratura che, come per tutti i misteri, per taluni è baggianata e per altri uno stare sull’orlo di un abisso.  Se per Fosse “scrivere è una specie di lode, anche nella poesia più buia, una lode del linguaggio”, come scrive Torgny Lindgren, cosa scrive? In Perdonami madre di Jacques Chessex per Armando Dadò editore mi aveva ha colpito il paratesto iniziale in cui si esplicita “l’intendimento” della collana in cui è stato pubblicato, I cristalli – Helvetia Nobilis: “L’intendimento è che questi testi contribuiscano a una riflessione sull’identità elvetica e sul lungo cammino che ha portato al formarsi dello Stato attuale.” Secondo l’editore la Svizzera è la sua letteratura. Così come l’Italia è la sua letteratura – finché ne ha avuta e ne vorrà avere una. La letteratura dà un’identità a chi ne cerca una, eventualmente per potersene poi disfare, ma qualcosa di cui potersi disfare deve essere data, prima. Datemi un punto di appoggio e il mondo potrò o sollevarlo o sprofondarlo ma niente punto d’appoggio niente mondo. E l’Europa? L’Europa, per dirne una, non è e non può essere il suo riarmo, non può consolidarsi nel segno del terrore di essere smantellata, distrutta, per quanto legittimo possa essere il suo terrore di esserlo. Un’identità fondata sul terrore è terribile di suo, è meglio perderla prima ancora di essersela data. E l’Europa per fondarsi sul terrore non ha mica dovuto attendere la Russia di Putin. La Fortezza Europa aka Bastiani si fonda sull’ansia securitaria fin da subito, sulla sua paura di sparire, sullo spavento si noti la sua insignificanza sopraggiunta.     L’identità europea moderna e contemporanea però potrebbe fondarsi tanto sulla Woolf quanto su Handke. E in che misura Torgny Lindgren contribuisce, può contribuire, all’identità europea, dunque anche alla mia che neppure sapevo del suo contribuito, poiché sempre a detta di Fosse: “Tutti traggono beneficio dalla matematica più avanzata, anche se non la comprendono, e tutti traggono beneficio della migliore letteratura, anche se in apparenza non ne ricavano nulla”? Cosa si ricava da Torgny Lindgren? “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso”, così scrive in Miele, del 1995, pubblicato da Giano nel 2002, nella traduzione di Carmen Giorgetti Cima.  È un passaggio narrativo nei paraggi dell’incipit, in auto ci sono le prime due entità della trinità che domina il romanzo. In auto ci sono “la donna sola di quarantacinque anni, una forestiera che veniva dal sud del paese e che aveva scritto dei libri sull’amore e sulla morte e sui santi”, scrittrice di pochissimi lettori, e l’uomo incaricato di ospitarla, che “portava una giacca di pelle nera sopra la camicia scozzese” e che “Puzzava di putrefazione.” La donna resterà innominata mentre l’uomo “Le confidò il suo nome, Hadar” e in quella scelta del verbo, nella sua resa italiana, in quel ‘confidò’ si sente tutta una tradizione letteraria sul potere magico del nome proprio, sul suo potere segreto. Miele rintocca di riflessioni sul mistero dell’essere al mondo.  Niente è ancora accaduto eppure tutto è già accaduto. Miele è un romanzo con le sue vicende, come tutti, ma è pure tutt’altro, un libro di sentenze, un libro sul mistero del tempo, “Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti”, sul mistero delle cose come la neve che è “una spuma di luce trasformata in materia”, sul mistero del corpo umano che consiste “di un’unione armoniosa di mobile e rigido, di fluido e solido, muco e smalto(…).”  Si può andare avanti, dire che Miele è “l’avventura del momentaneo prolungamento della vita”, la storia dei due fratelli Hadar e Olaf che sopravvivono grazie all’odio reciproco, come l’umanità di solito ecco, ma preferisco fermarmi prima poiché l’ho sentito da subito, dall’inizio, cosa si ricava leggendo Torgny Lindgren, al primo scambio tra la forestiera del sud e l’uomo in putrefazione del nord: >  “Tutti i paesaggi e le strade che vi serpeggiano hanno le loro peculiarità e > caratteristiche (…) Hanno le loro imperfezioni e loro difetti.” > > “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso.” Questa strada è la nostra vicenda umana stretta e dritta che attraversa la Storia mondiale sconnessa. Questo è il mistero della letteratura che rende amaro persino il miele, dolce persino la putrefazione.  Quanto più sarebbero temibili gli europei se i miliardi invece che in armi li spendessero in politica culturale, in letteratura, cinema, arte e via andare. Certo a nulla servirebbe per renderci indistruttibili ma nessuno più lo è o può più esserlo nell’epoca sorta e mai più tramontabile della Bomba:  > “L’età atomica non è mai finita. Abbiamo forse smesso di pensarla, presi dalla > fantasia di pace eterna del momento unipolare americano. Eppure l’epoca > apertasi nel 1945 non solo non è finita, ma è anzi «definitiva» nel senso del > tutto particolare che le attribuiva Günther Anders: al suo interno la storia > umana può giungere a termine”. > > da Se la bomba non ci protegge più della bomba, di Agnese Rossi, in “Limes” > 1,2025.  Non potremo mai più essere indistruttibili, imbattibili, d’altronde non lo siamo mai stati, ma potremmo diventare invitti perché non più orwellianamente manipolabili a piacere. Quando ci si è dati un’identità non resta poi molto altro che possano portarti via, se non la vita – ma la vita alla lunga che non è poi chissà quanto lunga bisogna renderla in ogni caso. L’identità almeno sarà servita a darti un senso, la sua invenzione, tra il nulla di prima e il nulla di dopo, perché poi Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti. E prima di nascere, idem. Per essere europei bisogna essere anti UE? Con Fosse  > “L’intero progetto dell’UE è antieuropeo, l’essenza dell’Europa è la > diversità, in tutti i sensi, mentre l’UE rappresenta, se non proprio > l’uniformità, sicuramente l’omologazione (…). È scandaloso. L’omologazione, > che sia dettata dal potere del denaro, da decisioni politiche o dalla > burocrazia, mi ripugna profondamente. Io sono un grande sostenitore > dell’Europa ed è proprio per questo che sono contro l’UE.”  Per dovere di verità va precisato che Fosse trovava scandaloso il divieto di vendita dello snus, tabacco svedese, nel 2015 il ReArm Europe plan era di là da venire. Il divieto di vendita dello snus è scandaloso, sia, ma pure il ReArme Europe plan per com’è stato escogitato non scherza. Quanto è illusorio immaginarsi, grazie alla letteratura, come persone circondate dal mistero impenetrabile di un’identità che ciascuno potrebbe reinventarsi ma soltanto secondo il proprio piacere mai imposto, mai imponibile? …Il dilemma dell’identità, per di più, non è che non abbia creato più problemi di quanti ne abbia risolti, ammesso ne abbia mai risolto qualcuno, ma per l’identità vale come per la Bomba. Per dirlo con altre parole di Agnese Rossi – che le pronuncia a proposito della teoria della deterrenza nucleare – giocare con la teoria dell’identità “continuerà a servire finché esisteranno le armi atomiche. Cioè ancora per molto tempo, visto che è impossibile disinventarle.” Disinventare il feticcio dell’identità è impossibile ma inventarsene di altre e di nuove sì, è possibile. È il compito e il mistero della letteratura. Perché non possiamo continuare a vivere così ma continueremo a vivere così lo stesso. antonio coda *In copertina: Eva Bonnier, Geor Pauli. Studio, 1884 ca. 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April 1, 2025 / Pangea
Osare il chiarore. Sui figli che raccontano la fine dei loro genitori
Ho letto Non sono più uscita dalla mia notte, della Ernaux, del 1997, Rizzoli, “Nasconde le mutande sporche sotto il cuscino”, dopo aver letto Perdonami madre, di Chessex, del 2006, Armando Dadò editore, “Con tante donne ho provato presto cosa sia la noia. Con mia madre non mi sono mai annoiato”. E non è passato molto tempo dalla lettura di Patrimonio di Joseph Roth, del 1991, Einaudi. Libri di figli e figlie che scrivono, talvolta dettagliandola, dell’umiliazione che la vecchiaia, tramite la malattia, ha impartito alle loro madri, ai loro padri.  Dei citati sono morti tutti tranne la Ernaux, che il prossimo settembre ne compirà ottantacinque. Ernaux e Chessex hanno avuto figli, Philip Roth no, comunque a quanto ne so nessuno ha scritto, talvolta dettagliandola, dell’umiliazione impartitagli dalla vecchiaia, nessuno ha ricambiato il favore – Roth per lo più ne ha scritto da sé.  Mi interrogo sul valore estetico e formale del raccontare il lutto e tutto ciò che lo precede e il poco che ne avanza. Cosa raccontano questi libri, come lo raccontano? Nel caso della Ernaux il testo è dichiaratamente diaristico, non rifinito, non rilavorato, non riscritto ovvero mai scritto, come questo bastasse ad attestarne l’autenticità, la sincerità. Chessex dichiara di scrivere procedendo per cancellazioni, per insoddisfazioni,  > “Scrivo di mia madre e forse dovrei preoccuparmi, perché esplicitando la sua > figura rischio di farle perdere, dentro di me, l’altra sua figura, quella più > profonda, più segreta, impossibile da dire”.  Ernaux e Chessex scrivono consapevolmente male, per non perdere del tutto coloro di cui scrivono. Scrivono da impauriti. Roth in Patrimonio scrive benissimo. Al cospetto della morte dei genitori a codesti figli talentuosi si palesa la mortalità, il diventare i prossimi della lista. Sentono d’aver fatto il passo avanti verso l’umiliazione. A me non dispiace che abbiano reso materiale narrativo i loro lutti, che altro avrebbero potuto o dovuto farsene?, ma la prevedibilità dell’uso che ne hanno fatto. Dai e dai tutti accampano lo stesso alibi: scrivendo garantiscono più lunga vita ai morti nei ricordi degli altri, di chi li leggerà. Ne difendono il ricordo, ricordandone la condizione umana umiliata dinanzi alla malattia e alla vecchiaia. Chi legge, va da sé, non ne saprà nulla di questi padri morti e di queste madri morte. Avrà avuto a che fare con dei personaggi letterari, più o meno riusciti (riusciti, tramite espedienti narrativi opposti, sono il padre di Roth e la madre della Ernaux; la madre di Chessex non traspare, traspare solo Chessex che la piange devo dire chiassosamente, e non me l’aspettavo da uno scrittore laconico, luciferino e letale qual è nei suoi romanzi), e se proprio ricorderà qualcosa sarà il come sono stati scritti, ovvero il chi li ha scritti, certo non avrà memoria di loro in quanto ispirati a veri-papà e vere-mamme. Ovvero: si scriva della morte di mamma, della morte di papà, ma senza alibi, più ammettendo che è un’occasione che una scrittrice e uno scrittore non possono lasciarsi sfuggire quella di poter raccontare in presa diretta la morte della loro carne di provenienza. Nota sui tempi che corrono: la vita allungandosi ha questa controindicazione, si diventa orfani a un’età in cui fino a poco tempo fa si moriva a propria volta. La madre della Ernaux muore nel 1986, la Ernaux è del 1940. La madre di Chessex muore nel 2001, Chessex nasce nel 1934. Roth va verso i sessant’anni quando suo padre muore andando verso i novanta. In queste condizioni risulta inevitabile che assistendo ai propri genitori moribondi si sviluppi l’impressione di starsi allenando per prendersi cure di sé stessi, per prepararsi a un peggio migliorabile in nulla, soltanto anticipato. Nell’epoca della morte intesa come eccezione alla regola si muore più a lungo e più volte del solito.  Per convincermi, cioè per essere interessanti al di là del coraggio dimostrato di non indietreggiare dinanzi all’orrore della morte di chi ha dato la vita a chi quel morire lo racconta, le narrazioni che mi piacerebbe leggere sarebbero scritte da figli su genitori ancora in vita o, ancora meglio, da genitori su figli vivi. Altrimenti è troppo comodo prendersi l’ultima parola quand’ormai ci ha pensato la morte a toglierla a coloro su cui quella parola si abbatte, ritraendoli definitivamente. Mi piacerebbe leggere della vita non legittimata dalla morte, non autorizzata dalla morte. La vita legittima sé stessa, e la letteratura lo stesso.  Scrivere in memoriam mi sa di pigrizia artistica, se non di pavidità di mezz’età di un averla tirata lunga ad arte per averlo fatto diventare un troppo tardi messo a propria disposizione.  Dopodiché: d’accordo l’apparir del vero, ma la vecchiaia è giocoforza una storia di rimbambimento, di degenza, di demenza? Sarà stato per il suo involontario effetto di controcanto se per questo ho apprezzato le vecchie donne raccontate da Willa Cather nei racconti raccolti da Adelphi in La nipote di Flaubert, nel 2005.  A proposito di Madame Franklin-Grouth, nipote eponima, la Cather scrive:  > “A ottantaquattro anni aveva ancora una capacità di provare piacere che molti > a questo mondo ignorano del tutto.”  E più avanti, a proposito di Mrs Field “vedova di James T. Fields, della casa editrice Ticknor and Fields”: “Quella donna aveva un vero talento per la sopravvivenza.”  (In E Baci, del 2013, per Il Fatto Quotidiano,  è invece confluito il testo di Aldo Busi sul suo incontro con l’editore Giunti forse già ultraottantenne, sull’averlo trovato un uomo bellissimo, accompagnato dalla riflessione su come la bellezza, che in Busi è una questione di stile, del saper far stare in sintonia la propria forma e il proprio contenuto, sia ormai diventata inseparabile dal mito obbligato della gioventù, e se solo ai giovani è consentito essere belli ai vecchi non resta che essere i brutti delle storie – ma vado a memoria, non ho il testo a portata, l’ho portato in salvo chissà dove tra un trasferirmi e l’altro per sfuggire al bradisismo in corso e l’ho dunque perduto prima del tempo.) La Cather fa una premessa per i suoi scritti raccolti in La nipote di Flaubert: “il libro avrà ben poche attrattive per chi ha meno di quarant’anni”, intendendo chi ne avesse meno di quaranta nel 1922. Perché “verso il 1922 il mondo si è spezzato in due”.  > “Com’è avvenuto questo cambiamento, ci si chiede. […] Certo il mondo delle > lettere emerso dalla guerra ha cambiato conio. In Inghilterra e in America i > «maestri» del secolo scorso hanno perso le loro credenziali, diventando figure > remote e incerte.”  Il mondo contemporaneo, con le tragiche esperienze delle guerre mondiali, è andato in pezzi e la letteratura con lei.  La letteratura per come è stata scritta fino ai tempi della Cather non può più essere scritta così. Cos’è che è andato irrimediabilmente perduto, con lei? La Cather, sempre a proposito della nipote eponima:  > “Nella sua mente c’era una sorta di grande chiarore, come nello studio di suo > zio a Croisset, con la fredda luce stemperata del Nord che si riversava dalle > molte finestre.”  L’accenno al chiarore della Cather mi rimanda al chiarore secondo, Handke letto nel suo irripetibile romanzo La ripetizione, 1986, Garzanti:  > “Nelle storie che scrivevo a quel tempo, l’insegnante mi aveva spesso > rimproverato d’inclinare al macabro, anzi d’essere addirittura assetato di > tenebra e raccapriccio; la legge della scrittura, diceva, era invece quella di > creare, lettera dopo lettera, sillaba dopo sillaba, il chiarore dei chiarori; > perfino un ultimo respiro doveva farsi, nella forma, respiro di vita.”   In un mondo a pezzi la sfida della letteratura è replicare la spezzatura o, per usare il gergo di Antonio Moresco, osare e inventare una nuova forma inedita, una nuova unità che non nasca dalla repressione degli opposti ma dal loro convivere, per utilizzare la parola totem di Aldo Busi in Le consapevolezze ultime, 2018, Einaudi, la sua ultima parola scritta, per ora? Non ho nulla contro le mutande sporche di merda nascoste sotto al cuscino dalle madri con l’Alzheimer, ricoverate nelle apposite strutture ospedaliere, ad averne. Per quest’Italia sanremese ad oltranza, disperatamente mammista perché qualcuna che ti perdoni tutto ancora prima che tu lo commetta torna utile sempre, per la quale è addirittura un colpo al cuoricino digerire un Simone Cristicchi quando canta “Preparerò da mangiare per cena, / io che so fare il caffè a malapena”, ben vengano i seminari sulla vecchiaia altrui scritti da Roth, Chessex, Ernaux. Purché non ci si rassegni al macabro, alla tenebra, al raccapriccio. Purché si osi ancora il chiarore. antonio coda *In copertina: un quadro di Lucian Freud L'articolo Osare il chiarore. Sui figli che raccontano la fine dei loro genitori proviene da Pangea.
March 17, 2025 / Pangea