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Susan Sontag & Co. ovvero: storie di diari, di figli e di scritture ereditate
Leggo la Sontag, Rinata. Diari e taccuini 1947-1963, Nottetempo, e penso a suo figlio, David Rieff, che quei diari e quei taccuini li ha curati. C’è più privilegio o più perfidia della sorte ad avere avuto una madre che scrive e a essere diventato un figlio che legge, oltre che un figlio che scrive a propria volta, abbastanza riconosciuto editorialmente da vedersi richiedere di curare i diari e i taccuini della propria madre? Susan Sontag è del 1933, David Rieff del 1952, ci sono fratelli e sorelle che si danno più anni. La Sontag muore nel 2004. Quando il figlio Rieff comincia a dover mettere mano ai suoi diari, ereditandoli, ha ormai più di cinquant’anni: come deve essere, deve essere stato, avere cinquant’anni e leggere di quando tua madre ne aveva quattordici e già scriveva di sé, dei suoi disorientamenti e riposizionamenti?  > “Credo: (a) Che non esista un dio personale né una vita dopo la morte”.  David Rieff, secondo Wikipedia, ha avuto una figlia nel 2006, due anni dopo la morte della madre. Oggi sua figlia ha l’età che aveva sua madre quando ha avuto lui. Tiene un diario, sua figlia?  Un piccolo capolavoro freudiano me l’ha dato AI Overview quando ho cercato online il nome della figlia di David Rieff, metti l’avesse chiamata Susan Junior: “David Rieff does not have a daughter; he had one son, David Rieff, with his first wife, Susan Sontag”. Secondo la fantasiosa intelligenza artificiale – che non distingue David da suo padre Philip – David Rieff è il figlio di sé stesso, avuto con sua madre ch’è stata anche sua moglie. A suo modo, l’intelligenza artificiale ha dato un ipotetico quadro psicologico tanto completo quanto scontato, come tutti gli output di cui è capace.  Mentre leggo i diari della Sontag curati da suo figlio di David Rieff ho preso anche, sul mercato dell’usato perché altrove è già sparito, Senza consolazione. Gli ultimi giorni di Susan Sontag (Mondadori, 2009) e di suo leggerò anche altro, anche quello che ha scritto ma non sulla madre, poiché secondo la Luiss University Press che ne ha pubblicato Elogio dell’oblio David Rieff è un “Esperto di conflitti internazionali, immigrazione e questioni umanitarie”. Metti mi stupisca come m’ha stupito Frieda Hughes col suo bellissimo La mia vita con George. Ricordo di una gazza (Elliot, 2024), che ha nulla da invidiare alle opere di suo padre Ted Hughes e di sua madre Sylvia Plath. Neanche a dirlo, l’opera della Hughes è un diario.  Mia madre non scrive, in tanti anni credo non abbia scritto più di un bigliettino per la famiglia messo sull’albero un Natale, cheppoi lo so le sarà costato in autoviolenza quanto a Proust per scrivere la sua opera, perché a Proust piaceva scrivere, al più a mia madre sarebbe piaciuto saperlo fare. Mia madre e mio padre, che non scrivono, non lasceranno diari e taccuini, e di questo gli sono grato fin d’ora. Non dovrò confrontare la mia verità su di loro con la loro su sé stessi e su di me.  Annoto agende da quando ho quattordici anni, come la Sontag, ma non sono diventato una Sontag per cui non c’è il rischio che qualcuno debba mai essere costretto a spulciarle per tirarne fuori qualcosa di pubblicabile, a dragarle in cerca di qualcos’altro da dare in pasto all’avidità dei lettori guardoni, e comunque le mie agende piene di farneticazioni non le lascerei a nessuno o se sì certamente non alla donna che mi ha sposato o a mia figlia o a un chiunque sia che mi avrà conosciuto in vita. Magari a qualche fondo di fissati con le ampollose e pallosissime scritture diaristiche, se ancora ce ne saranno. A fini di studio più sociologico che psicopatologico su quel vizio ormai sempre meno privato della (non)scrittura diaristica.  In David Rieff che cura i diari e i taccuini di Susan Sontag, in un figlio che per-lavoro deve leggere tutte le memorie personali di sua madre, ci vedo una trama invisibile e terribile, così come in Ted Hughes e la madre di Sylvia Plath che decidono cosa pubblicare e cosa no dei diari della Plath, solo che nel secondo caso ci vedo una cinica storia di potere, nel primo invece una storia d’amore crudele come tutte le storie d’amore. Un appunto del 23/4/61 – nel 1961 Susan Sontag non è ancora diventata la Sontag, si è separata da Philip Rieff nel 1958 e ha in corso una defatigante relazione amorosa con Irene Fornés, relazione contro cui Philip Rieff si appellò per ottenere la custodia del figlio David (ma questo me l’ha spifferato AI Overview, non escludo dunque si sia inventato pure quest’altra volgare ovvietà): “La vita emotiva è un complesso sistema fognario.”  antonio coda L'articolo Susan Sontag & Co. ovvero: storie di diari, di figli e di scritture ereditate proviene da Pangea.
November 1, 2025 / Pangea
Debambinizzare il bambino. Intorno a “Triste tigre” e ad altre aggressioni
Questa estate io e V. ci assicuravamo che mia figlia e suo figlio non annegassero mentre giocavano a riva con le onde basse. Lei a me: “Un bambino impiega meno di dieci secondi per annegare. C’è da dover stare molto attenti, quando annega il bambino non si dibatte. Si paralizza. Va giù a fondo, immobile.” Io e V. sorvegliavamo e parlavamo dei casi estivi dello sbrindellato costume nazionale: il gruppo social “Mia moglie”, il sito Phica.Eu. Lei a me: “Capisci la responsabilità che sento a crescere un figlio, un maschio? E se un domani diventa lui quello che pubblica le foto delle sue compagne in un gruppo per soli uomini fondamentalmente soli? O persino le mie.” Io a lei: “Non è che dobbiamo diventare tutti Dominique Pelicot. L’hai letto Vivere con gli uomini della Manon?”. E lei a me: “Tu l’l’hai letto Triste tigre della Sinno?” Poi l’ho letto. Avrei voluto leggerlo tutto di un fiato, per doverci respirare all’interno il meno possibile. Ci sono pagine dove si sta come in cantina, nell’odore di muffa e violenza, col dubbio sia il proprio, quell’odore. Verso la metà ho dovuto interrompermi, per riprendermi, riprendere fiato. È quando la Sinno cita una poesia della Pizarnik: “Ricordo la mia infanzia/ quando ero un’anziana.”  In Triste tigre, Neri Pozza, pensa ha vinto il Premio Strega Europeo nel 2024, è insopportabile la parte dell’uomo-padre-abusante, quindi potenzialmente la mia?, quella del figlio di V.?, all’interno della storia che non è una storia-inventata, emblematica-e-basta come nel caso della Lolita di Nabokov, ma una storia-storia che chi scrive si sente in dovere di scrivere come non fosse bastato il doverla vivere. Insopportabile è la parte che ha dovuto subire e a cui ha dovuto reagire Neige, che racconta di essere stata stuprata da bambina dal patrigno, per anni. Neige è una vittima che non ci sta a lasciarsi inscrivere nel protocollo vittimario ma che non per questo si allinea alla retorica sfinente sulla resilienza secondo cui una vittima può smetterlo di esserlo, può riscattarsi, e se non ci riesce, beh, allora la colpa diventa anche sua. Triste tigre non è soltanto la storia di una bambina stuprata che rifiuta di essere guardata solo sotto questa lente così come sa che il suo guardare non può più prescindere dall’esserlo stata. È un libro sul potere, e sulla scrittura, che è un contropotere. Come ci si devittimizza? Scrivendone? Scriverne “è ancora un progetto dell’aggressore.” Un appagamento al suo narcisismo. Si scrive nonostante chi ci ha fatto del male, nonostante il godimento che chi ci ha fatto del male trarrà dal nostro renderlo un personaggio principale, memorabile a modo suo. Perché chi scrive e scrivendo fa letteratura scrive nonostante i limiti della scrittura, i limiti del linguaggio, i limiti del dicibile. Anche se al di là del limite non è detto ci sia terra incognita da esplorare. Tante volte, solo cantine e precipizi, o onde troppo alte. “Io so che la verità non è nel linguaggio. So che la verità non è da nessuna parte.” Dicendola meglio, sfuggendo alla gabbia secondo cui la donna è sempre vittima dell’uomo altrimenti non è abbastanza donna lei così come l’uomo non è abbastanza uomo se non ne è carnefice: la vittima scriva, ma il carnefice legga. La Sinno scrive da scazzata a ragion veduta, non le va di andare per il sottile, se ti sta bene ascolti, leggi, altrimenti vai pure, lì sta la porta d’uscita se hai bisogno di un po’ d’aria e lì quella del cesso se ti si rivolta lo stomaco, fai tu. Quindi scrive benissimo. Scrive sapendo di stare scrivendo, facendo i conti con i rischi banalizzanti e estetizzanti della scrittura. L’offrire una porta verso la quale defilarsi, da poter prendere quando si preferisce per venirne fuori in qualunque momento, è un grande atto di brusca gentilezza da parte della Sinno.  > “Nel bambino tutto è spalancato. Un bambino non può aprire o chiudere la porta > del consenso. Non arriva alla maniglia.”  Triste tigre è un magnifico libro di brusca gentilezza del pensiero che non arretra, che non si mette in bella, che non pretende consenso, non lo postula. La libertà se esiste è quella di poter dissentire, a partire dalle proprie pulsioni, angosce, paure. Arrivo dalla lettura della Sinno dai diari, bellissimi, della Plath – bellissimi nonostante siano dovuti passare prima dalle mani testamentarie di Ted Hughes – perciò ho sentito in modo particolare il passaggio in cui la Sinno racconta di aver bruciato il suo primo diario per impedire che il patrigno stupratore, leggendolo, potesse “entrare ancora di più nella mia testa”:  > “Il giorno dopo ho bruciato il quaderno nella stufa.(…) Ho detto addio al > diario, non solo a quei pezzetti di carta ma al concetto stesso di diario, > quel giorno e per il resto dei miei giorni. Non potevo permettermi di > costruire con le mie mani un oggetto che mi rendeva così facilmente > accessibile, che mi metteva ancora di più alla mercé di una qualunque mente > decisa a controllarmi e a nuocermi.”  Damaged-for-life. Nelle prime pagine dei diari la Plath diciottenne si racconta della molestia subita da parte di Ilo che ha “un fortissimo accento tedesco, la faccia abbronzata, intelligente, increspata in un sorriso. Anche il suo corpo robusto e muscoloso era abbronzato e i capelli raccolti in un fazzoletto bianco.” La Plath con Ilo ha lavorato in un campo di fragole, sono diventati amici, ingenuamente fiduciosa lo segue nel capannone, per vedere se Ilo ha finito “il ritratto di John”. “Lui stava fra me e la porta, sorridente. Un gesto e la sua mano mi ha afferrato il braccio.”  La Plath piange per lo spavento. Ilo la lascia andare. Ilo non finge alla Plath stesse piacendo quello a cui la stava forzando, come fa l’Humbert Humbert di Lolita, come fa il patrigno della Sinno.  Che alle figlie possa capitare, se proprio deve capitare, d’incappare negli Ilo e mai nei patrigni alla Humbert Humbert? La Plath al tempo dell’episodio aveva diciotto anni. Lolita nel romanzo di Nabokov ne ha dodici. La Sinno quando iniziarono gli stupri ne aveva otto. Che i figli possano leggere la Sinno, la Plath, Nabokov, per farsi orrore prima di commetterne? La Plath e Ilo escono dal capannone: occhiatine, sorrisini, secondo gli altri non le era successo nulla che non avrebbe voluto le succedesse, “Ma loro lo sanno. Lo sanno tutti. E che cosa posso fare io, contro tutta quella gente…?”  La Sinno ha il coraggio di non definire ripugnante il patrigno: perverso, ma non ripugnante. Ripugnante è ciò che le ha fatto. Il patrigno della Sinno è stato un uomo piacente, ammirato nella società montana dove vivevano. Potrebbe esserlo ancora. Ha scontato la sua pena. Si è rifatto una vita. Rifatto una famiglia. La speranza è non abbia ricommesso gli stessi abusi.  Parere della sorella della Sinno: “Lei è sicura di no, che lui non lo avrebbe mai fatto. Lui dice così, e lei ci crede. Perché? Perché loro erano figli suoi, sangue del suo stesso sangue, loro non li avrebbe mai toccati.” E il sangue mi si raggela. È un padre affidabile uno padre che rassicura le proprie figlie facendo intendere loro che correrebbero il rischio di essere stuprate da lui solo se non fossero del suo stesso sangue? Ritorna la normalità da vampiri analizzata in Sangue del mio sangue di Monya Ferritti. I vampiri raccomandabili cavano solo il sangue dei figli e delle figlie degli altri. Non negando la vigoria di cui il patrigno si autocompiaceva la Sinno è doppiamente coraggiosa, non mostrifica somaticamente il suo stupratore per garantirsi un ruolo da vittima perfetta. L’orco per esserlo non occorre non abbia la pelle rosea di un principe azzurro o l’appeal virile standard di una guida alpina. Non occorre abbia un pene insignificante come un Napoleone o inutilizzabile come il Popeye in Santuario di Faulkner. Il patrigno stupratore è un uomo bello e capace di atti di eroico salvataggio, attraente e ammirato, una brava-persona secondo gli altri che non hanno dovuto vivere sotto lo stesso tetto, che da bambini non sono stati trascinati in cantina per venirne stuprati. Quando il carnefice non lo sembra affatto ricade sulla vittima il sospetto non sia poi vittima del tutto, che sia anzi carnefice a parimerito, che lo sia reciprocamente, che tocchi a lei convincere del contrario, mettendo chi legge in condizione di crederle sulla parola. La Sinno racconta senza ricorrere alle scorciatoie e alle strategie di chi, scrivendo, ha il potere di deciderlo lei come-sono-andate-le-cose. “Ma allora a cosa serve tutto questo se tutti noi siamo d’accordo su tutto fin dall’inizio?” Una lezione di letteratura, quando lo è, è una lezione di coraggio autentico, intellettuale, ed è l’unica lezione di vita che ne valga la pena. L’arrendevolezza reoconfessa del patrigno in Triste tigre quasi consente l’empatia: è uno stupratore a sua volta stuprato in adolescenza dai preti. La Sinno smonta un mito che avevo fatto mio, mi sa autoconsolatorio:  > “I vari studi che ho consultato sugli aggressori sessuali indicano che circa > il 20 per cento degli abusanti di bambini sono delle ex vittime. Una cifra > lievemente superiore all’incidenza del fenomeno sulla popolazione globale. > Questi studi indicano inoltre che il ciclo vittima-aggressore è soprattutto > una convinzione fortemente ancorata nella popolazione, e che essere stati a > propria volta vittime durante l’infanzia è sì un fattore di rischio, ma non > una condizione necessaria né sufficiente per diventare a propria volta > aggressore.”  Le vittime non è detto debbano diventare carnefici a loro volta, con buona pace per esempio di chi giustifica le azioni militari di Israele in quanto vorrei-vedere-te-se-il-tuo-popolo-fosse-stato-già-vittima-di-genocidio, ma: carnefici senza essere stati vittime prima? Carnefici dal-nulla? Io che mi dicevo: non posso diventare un carnefice perché non sono stato mai fatto oggetto di carneficina. Io che credevo bastasse rispondere a V.: “Perché tuo figlio non diventi un carnefice basterà non lo sia tu con lui.”  È pensabile potersi pensare terzi rispetto alla diade vittima-carnefice? Ricordo la conclusione di Valentina Tanni in Exit Reality, Nero edizioni: quand’anche mancasse tutto il resto, c’è Internet – ciò che Internet ha reso accessibile – che c’ha traumatizzato tutti rendendoci, post-trauma, potenzialmente carnefici, di altri e di noi stessi. E ancora: se qualcosa non succede direttamente a me non sta comunque succedendo anche a me quando lo vengo a sapere? Ciò che è stato inflitto alla Sinno e a troppi altri bambine e bambini, che viene inflitto a altri bambini e bambine proprio ora mentre ne scrivo, non sta succedo anche a me, certo in infinitesima parte ma tanto ne basta, mentre ne leggo? Come possiamo fingere di non udire il canto in coro dei bambini come nella città sterminata dei morti raccontato da Antonio Moresco in Canto di D’Arco? Si è sempre vittime di almeno un sopruso, di una insensibilità, di un rifiuto, ma restando al male-grave, alle violenze da reato: il male fatto agli altri diventa di per sé la dimostrazione del male fattibile e appena si diventa vittima di questa consapevolezza si diventa anche imitatori ipotetici, carnefici potenziali. Leggere Sinno significa rendersi conto che non esistono storie di vittime e carnefici, esistono solo storie di vittime, alcune delle quali convinte che il diventare dei carnefici possa dare loro l’illusione di potersi sentire per una volta non vittime soltanto.  Scriverne non significa diffondere il male, le sue codarde inverecondie, fargli pubblicità. Il male per quanto vanitoso prolifera molto meglio nell’omertà che nella denuncia. Scriverne di per sé non basta per impedirlo, siccome si può scrivere soltanto di un male già compiuto, già patito, poiché a scrivere del male che sta per compiersi si passa per Cassandre sbertucciate dai carnefici che mai consentirebbe gli si guastasse la festa prima che loro la facciano a coloro a cui hanno intenzione di farla.  Si scrive, almeno questo, perché chi legge non possa osare dire di non saperne o di non averne potuto sapere nulla. “È a partire da questa conoscenza intima, a partire da quest’odio, che io scrivo.” E si scrive perché prendere la parola significa riprendersi il potere di usarla per affermare sé stessi, riprendersi, riprendere fiato, farlo diventare voce.  La Sinno cita la frase spesso attribuita Oscar Wilde: “Tutto nel mondo è sesso tranne il sesso. Il sesso è potere.” Lo stupro non è un atto sessuale, è un atto di dominio. Scriverne è contestare quel dominio. Dissentire. Scrivere non cancella il male ma non gli concede l’ultima parola. Lo beffa. “Tutti vogliono proteggersi dall’incendio”, scrive la Sinno che non appicca l’incendio, lo mostra per quel che è, che scrive dal fuoco e dal fuoco per dirla con il lispectoriano Jonny Costantino di La mano bruciata, e dall’incendio nessuno può proteggersi. Tanto vale bruciare con dignità se non addirittura con stile.  Se dovessi spiegare a mia figlia o al figlio di V. cosa è accaduto alla bambina raccontata dalla Sinno, la bambina che è stata la Sinno stessa e che la Sinno non ha mai potuto essere, così come la Sinno lo ha dovuto spiegare a sua figlia, userei la parola unchilding, ovvero «privare dell’infanzia». È la parola a cui ricorre Francesca Albanese nel terzo rapporto da Relatrice speciale ONU del 2023, sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese, come riporta lei stessa ne libro Quando il mondo dorme, Rizzoli.  C’è da stare molto attenti, quando il bambino è debambinizzato non si dibatte. Si paralizza. Va giù a fondo, immobile. E noi con lui. antonio coda *In copertina: John Singer Sargent, Portrait of Thomas McKeller, 1917 ca. L'articolo Debambinizzare il bambino. Intorno a “Triste tigre” e ad altre aggressioni proviene da Pangea.
October 21, 2025 / Pangea
“Che non smetta mai di provare l’angoscia di imparare”. Qualcosa sull’IA (ahilei)
> “L’innovazione, come l’evoluzione, è un processo indotto: vuol dire adeguarsi > e adattarsi a un ambiente circostante, pena l’estinzione o l’irrilevanza.” Alla pena dell’estinzione mi ci sto adeguando, adattando, ma all’irrilevanza quella no, perciò per tre giorni consecutivi, dal 15 al 17 settembre, ho comprato “Repubblica” non per leggere “Repubblica” ma per poter leggere i tre allegati-in-regalo, essendo gli allegati fin troppe volte l’unica ragione valida per acquistare i giornali le cui edizioni cartacee immediatamente superate dalle versioni digitali producono un istantaneo effetto nostalgia, assomigliando a quei provvedimenti ministeriali dell’istruzione secondo cui basterebbe impedire agli studenti di entrare con lo smartphone in classe per ostacolare l’onda dall’intelligenza artificiale generativa, sebbene  > “immaginare una scuola senza di loro [gli strumenti digitali] significa > condannare gli studenti a vivere la scuola come una macchina del tempo capace > di viaggiare solo nel passato.” Gli allegati sono stati L’intelligenza artificiale e lo studio Volume 1 e Volume 2 e L’intelligenza artificiale dallo studio al lavoro, di Federico Ferrazza, direttore di Italian Tech, che firma le tre introduzioni brevi a ciascun volumetto, e di Pier Luigi Pisa, il quale secondo una ricerca online è “un giornalista di Repubblica, un divulgatore e uno storyteller”. A lettura ultimata si sa qualcosa in più delle opportunità date dall’utilizzo dei chatbot nelle loro versioni più aggiornate ma ancora di più ci si può dare una stima su quanto stia aumentando il divario tra l’idea-del-mondo in cui è cresciuta la propria generazione e la nuova idea-del-mondo delle generazioni appresso e in corso – più è grande il divario più si può tirare un sospiro di sollievo per come le generazioni non si stiano dando il cambio solo in apparenza. (Dubbio: dei chatbot o delle chatbot? Da veloce riscontro online: per lo Zingarelli Zanichelli chatbot è sostantivo maschile, per il Treccani sostantivo femminile. Dimmi che genere preferisci e ti dirò che dizionario online consulti.) Ci andrei però piano con l’equiparare innovazione e evoluzione, perché se è vero che “Nessuno di noi umani ha scelto di avere due occhi” magari non è altrettanto inevitabile ricorrere alla tecnologia della IA per imparare a leggere e scrivere, vale a dire: per imparare a apprendere, a pensare; specie se si tratta di un tipo di tecnologia che alla lunga potrebbe rendere obsoleto non solo l’imparare a farlo ma anche il fatto stesso di avere due occhi o quattro o nessuno, presumendo la tecnologia di saperli usare comunque meglio lei di te quindi tanto vale li abbia lei e che tu coi tuoi ti affidi solo a quel che ti dice di aver visto, compilato, lei.  Certo, fa peso nel giudizio l’invidia di un lento lettore biologico e che nell’arco della sua intera esistenza non potrà mai competere con le intere bibliografie spazzolate da una IA nell’arco di pochi millisecondi, beata lei, ma si possono chiamare in soccorso i potenziali svantaggi riconosciuti dagli insegnanti che meritoriamente introducono i/le chatbot nei loro metodi didattici, quali la “fiducia cieca negli output dell’IA” e “la continua delega cognitiva”. Quanta pigrizia nel voler fare le pulci a una tecnologia tra l’altro capace di risolversi i bug da sé e i cui punti di forza sono sotto gli occhi evoluti di tutti, capace com’è di rimodularsi in base alle esigenze e alle competenze di partenza di chiunque. L’interesse collettivo da perseguire, che equivale a quello strettamente personale di chi di quella collettività fa parte, resta perciò il procurarsi una conoscenza dell’IA che “prepara meglio i futuri cittadini ad avere gli strumenti di analisi critica della società che dovranno vivere”, poiché, ricorrendo a del buon senso pratico busiano, è bene avere consapevolezza del fatto che “Allinearsi al resto della società significa vuol dire accorgersi che il mondo è cambiato.” A proposito (…) di Aldo Busi: quando ho letto dell’esistenza di Character.ai mi sono detto voilà, è fatta, per leggere il romanzo inedito Seminario sul postmortem basterà usarla. “Character.ai sfrutta modelli linguistici avanzati per creare personaggi interattivi – reali, fittizi o inventati – con cui parlare in linguaggio naturale.” A pagina 12 del Volume 2 ci sono le istruzioni: ti registri, fai l’accesso, scrivi il nome e inserisci l’immagine del personaggio, lo costruisci, lo alimenti con la sterminata bibliografia esistente, ed ecco, basterà chiedere all’Aldo-Busi-online di scrivere il suo Seminario sul postmortem per non dover più attendere quello dell’Aldo Busi sempre più offline, la cui ultima versione, del romanzo intendo, a quel che so ha raggiunto le 1420 pagine a schermo che corrisponderebbero all’incirca a 1900 pagine stampate. Per leggere un Seminario sul postmortem non si dovrà più aspettare che muoia Aldo Busi o che l’editoria italiana risorga arrivando per una volta prima e non dopo la morte di chi le dà senso scrivendo in un italiano che non sia la bella brutta copia dell’italiano fin lì già scritto, visto che ormai per quello bastano appunto i chatbot  – perché  va da sé che un chatbot non può scrivere niente di nuovo, che dunque non sa scrivere, perché non c’è nessuno che scriva, ma per dirlo con il diario della Sylvia Plath ventenne e sopravvissuta al primo tentativo di suicidio:  > “Devi inventarti un sogno giusto, la lucida magia adulta: l’illusione che > nasce dalla disillusione.”   Nessuno chiede all’Intelligenza Artificiale di scrivere letteratura, per carità, non pubblicamente almeno, basta aiuti a sviluppare mappe concettuali, a correggere i refusi nelle mail, a gamificare a più non posso, però qualcosa sul giudizio degli integrati estimatori dell’IA generativa a proposito della letteratura e delle superstiti facoltà umane del saper leggere e scrivere traspare, per esempio quando scrivono che Character.ai è “dove personaggi come Aristotele non sono volumi polverosi ma una guida capace di rispondere”. Quanto bisogna non-saper-leggere per presumere che con Aristotele si parli meglio dal vivo, mediato cioè dagli algoritmi, che non leggendone le opere, conoscendolo così nell’unico modo in cui sia possibile conoscere qualsiasi cosa, o persona: trascorrendoci assieme il giusto tempo.  È evidente che Ferrazza e Pisa non abbiano letto Il ciclo di vita degli oggetti-software di Ted Chiang, contenuto in Respiro, Sperling & Kupfner. Nelle Note ai racconti Ted Chiang così ne racconta la genesi:  > “Basandoci sulla nostra esperienza con la mente, sono necessari almeno > vent’anni di sforzi costanti per dare origine a una persona utile attraverso > l’insegnamento, e non vedo perché con una creatura artificiale dovrebbe > volerci meno.”  Se a un Aldo-Busi-online occorrono almeno venti anni prima di poter produrre una versione utile di Seminario sul postmortem tanto vale aspettare pure qualche anno in più ma poi leggersi quella dell’Aldo-Busi-offline. Secondo Fezza e Pisa, e secondo gli inventori dei/delle chatbot che leggono prima e meglio di te, utilizzandoli/e “i materiali statici vengono trasformati in contenuti coinvolgenti e multimediali”, grazie a loro è possibile “trasformare testi statici in contenuti dinamici”. Ma statica sarà la mente di chi non legge, non lo impara, e che non imparandolo dinamica non lo diventerà mai più, semmai. Perché a dirla tutta ora che il/la chatbot ha compiuto il salto di specie “da generatore di risposte a tutor cognitivo” agli studenti tocca tenere il passo e trasformarsi “da consumatori di informazioni a creatori di contenuti assistiti dall’IA” e più che imparare a scrivere dovranno imparare a “scrivere prompt efficaci”.  Per intenderci: o diventi un content creator, un influencer in qualche campo, o sei irrilevante, estinguibile?  Difficile escludere queste mie non siano altro che le parole di chi non vuole accettare di aver fatto il suo tempo: perché continuare a leggere in un tempo in cui le macchine possono farlo per te? Il desiderio di farlo, il piacere!, sono un retaggio evolutivo troppo imbarazzante, troppo poco asettico, per farne menzione.Oh, certo, potremmo collaborare con le IA, ma alla lunga smetteremo di leggere quello avremo scritto da noi, gli umani, per leggere quello che ne riscriveranno loro, rimasticandolo e rimasticandolo e rimasticandolo, omogenizzandolo, fino alla logica singolarità conseguente: tutti i/le chatbot scriveranno la stessa cosa ma non se ne accorgerà nessuno perché saranno rimaste le sole a leggersi tra di loro, essendoci noi estinti da chissà quanto tempo, visto l’andazzo.  Disclaimer a questo punto doveroso: nessun/a chatbot gratuito è stato sfruttato per la stesura di questo pezzo, l’andamento oggettivamente sgangherato del testo vale come garanzia, testo che contiene già una quantità allarmante di luddismo per poter riciclare il vecchio detto secondo cui se non paghi per un prodotto, il prodotto sei tu – per accertarmi di starlo riportando correttamente ho preso un passaggio da Google, fidandomi ciecamente di AI Overview. D’altronde dovrà bastare la fiducia siccome “non esiste ancora una tecnologia in grado di determinare con certezza assoluta se un testo sia stato scritto da un chatbot o da un essere umano.” Che ansia. I tre allegati-gratuiti sull’IA, loro saranno stati scritti con l’ausilio dell’IA stessa? Di sicuro non del tutto se fa fede il refuso a pagina 26 del terzo volumetto, nel passo su “(…) come l’intelligenza artificiale possa semplificare il modo in cui si informano le perosne e diventare uno strumento prezioso per alimentare la creatività e trovare ispirazione nella produzione di contenuti.” L’errore è patente di umanità, perché da una IA certosina non ce lo possiamo aspettare che dia in output perosne se non a costo di attribuirle la raffinatezza machiavellica dello sbagliare-per-finta, per dissimularsi, o di attribuirle un lapsus che ne tradisca il disprezzo per le persone non digitali. Al momento l’IA non risulta si sia saputa inventare un inconscio, mentre il disprezzo intraspecifico è ancora ciò che ci contraddistingue meglio. In conclusione (cit.): assunto sono secoli che la nostra evoluzione non ha più niente di passivamente naturale, che l’innovazione tecnologica è la nuova versione dell’evoluzione, e che non sta a me stabilire se leggeremo meglio con gli occhi biologici o se con quelli tecnologi, faccio mia l’invocazione a sé stessa di Sylvia Plath in Diari, Adelphi:  > “fa che non diventi mai cieca e che non smetta mai di provare l’angoscia di > imparare, la terribile fatica di tentare di capire.” Che belli i diari di Sylvia Plath. T’immagini se ne scrivesse uno una IA? Il diario un’altra cameriera tra tante, irrinunciabile, ma solo se lo scrivesse senza che nessuno glielo avesse chiesto, solo se sapesse essere spudoratamente sincera, suicidale come non potrà mai esserlo, non è stata programmata per questo ahilei. antonio coda  L'articolo “Che non smetta mai di provare l’angoscia di imparare”. Qualcosa sull’IA (ahilei) proviene da Pangea.
September 23, 2025 / Pangea
Che fare? Leggere Hohl in faccia a questo mondo assassino. Ovvero, sul senso della lettera ß
In questo momento storico esagitato, ora che il mondo che credevamo di conoscere si sta rivelando non essere affatto come credevamo che fosse, svincolatosi dalle leggi che credevamo lo governasse, in questo momento storico forsennato in cui si svela che il mondo ha smesso da così tanto tempo di essere regolato dalle leggi che credevamo lo governassero da rivelarsi praticamente a tutti così com’è diventato, come sta diventando, per tutti intendo anche me che sono uno tra i tutti, tutti tranne quei relativamente pochi che lo sanno da chissà quanto tempo che le regole del mondo sono cambiate, che il mondo ha infranto le regole precedenti e ne sta rodando delle nuove, che io non so affatto quali siano ma che spero ci siano, senza regole quali che siano il gioco del mondo semplicemente si fermerebbe invece il mondo gioca eccome, in questo momento storico prepotente e angosciante, apocalittico, omicida a livelli più che novecenteschi, ma progresso ormai non significa altro che aumento dell’intensità, del profitto e del danno, in questo momento storico che sarà storico anche lui come lo sono stati tutti quelli primi e che a me, personalmente, non piace lungo i suoi sommi capi, io leggo Ludwig Hohl, Note, Marcos y Marcos, e grazie a Ludwig Hohl – che nel 1980 curò una nuova edizione delle note “scritte nei tre anni che vanno dal 1934 al 1936, durante i quali vissi in Olanda in uno stato di assoluto isolamento spirituale”  – ora so che la lettera tedesca ß, cioè la doppia S tedesca, si chiama Eszett  o scharfes S (fonte: Wiki), lo so perché Hohl nella Nota 3 della Parte VI – Scrivere scrive: “Quanti leggono oggi Lichtenberg o Kaßner?”.  Io non ho mai letto né l’uno né l’altro ma se cercare Lichtenberg su Google è stato semplice non lo è stato per Kaßner: intanto dovevo capire come si inserisse il carattere ß, non ho mai usato il carattere ß, e anche una volta copiato online il carattere, una volta inserito sul motore di ricerca Kaßner, niente, nessun responso, perché l’occorrenza vale per Kassner, Rudolf Kassner: che piacque molto a Rilke oltre che a Hohl, si scopre navigando navigando, e Hohl su Rilke? Da una nota alla Nota 4 sempre della Parte VI – Scrivere: “Mi riferisco qui al tardo Rilke. E anche costui, allorché scrissi questo testo, venne da me sopravvalutato.”  In questo momento storico allarmato, valicato, sbeffeggiato, trucidato e molto molto molto commentato posso ancora addormentarmi la notte contento di aver imparato la lettera nuova di una lingua che non parlo, la ß che si pronuncia come una doppia esse in italiano e che allora potremmo ereditare, in questi tempi di scrittura stringata, raccorciata, stritolata, politicamente pudibonda, reticente, vieppiù omertosa, potremmo scrivere taßo e rifleßo e aßaßinio o, per bypaßare la censura delle piattaforme così perbenino a modo loro, per non temere di eßere derankizzati potremmo scrivere seßo quando avremo voglia di parlare di seßo – siccome parlare è già un po’ un fare e siccome è indubbio che qualcosa aßolutamente dobbiamo fare in questo momento storico demenziale, oßeßionato, impanicato, frustrato, esploso.  Che fare? Leggere Hohl, per esempio. antonio coda L'articolo Che fare? Leggere Hohl in faccia a questo mondo assassino. Ovvero, sul senso della lettera ß proviene da Pangea.
September 17, 2025 / Pangea
Letteratura da manuale. Per capire i dazi bisogna leggere Maupassant (mica Fubini…)
Quanto mi piacciono i libri dai quali esco sapendone qualcosa in più rispetto a quando ci ero entrato! Volevo fosse il caso dello spillato di Federico Fubini, omaggiato dal “Corriere della Sera” del trenta giugno. Titolo: Dazi. Sottotitolo: Il secolo della guerra economica. In copertina: guantone a stelle strisce contro guantone a stelle europee, perché l’immaginario italo-americano resta affezionato allo Stallone di Balboa, e nel sottopancia un istogramma in dissolvenza, come fossero grattacieli lynchiani.  In effetti i guantoni, il sinistro sulla destra che cozza col destro sulla sinistra, potrebbero essere dello stesso pugile, per cui il dubbio: è una guerra autolesionista, e schizoide, se non proprio l’ennesimo show per un pubblico pagante pago di vedere gli altri darsi apparenti botte da orbi, in pieno stile wrestler, restando cieco di fronte all’evidenza che a finire pestato più di tutti resterà lui, pubblico spettatore, e non certo i proprietari dell’arena, i fornitori, i preparatori atletici, i lottatori in scena, gli sponsor dell’evento, le emittenze varie e eventuali? L’estenuante guerra vinta dai ricchi che continuano a dichiararne, terrorizzati come sono dall’idea di esserlo meno. Guerre combattute dai poveri, magari lo fossero solo di spirito, contro i poveri di volta in volta convinti di averlo finalmente trovato il ricco che renderà ricco anche loro, alla faccia di chi povero lo resterà anche stavolta perché avrà puntato sul ricco sbagliato, neanche l’errore madornale non fosse continuare a stare nello stesso gioco della guerra su cui si fonda la straricchezza di quei ricchi che sanno arruolare i poveri con la sola promessa di ricchezza, guadagnandoci pure, arricchendosi assecondando la propria natura, del resto i poveri non stanno tanto a sottilizzare tra una povertà e una ancora peggiore. Almeno per un po’ si saranno illusi di qualcosa, un altro niente di fatto è pur sempre meglio del solito niente di prima.   Metti il dazio, togli il dazio, questo dazio qua spostalo là e quello là mettilo qua, la politica doganale trumpiana è esilarante, è il gioco degli “assetti del potere” che sta creando “ostacoli al commercio internazionale” facendo barcollare nella sola Europa “trenta milioni di posti di lavoro”, ciò non toglie non serva un Dario Fo per metterla in opera buffa: sembra proprio di stare nella favola dell’imperatore che brontola nell’attesa di quel bimbo che lo punterà a dito per dirgli quant’è nudo, stufo – l’imperatore – di dover continuare a andare in giro chiappe all’arie rischiando di buscarsi polmoniti, alla sua età!, attorniato da comprimari il cui massimo sforzo critico è civettare un Presidente, ma quanto le dona la calzamaglia color carne! Che lo scenario economico e quindi geopolitico mondiale sia favoloso lo scrive Fubini stesso, ricordando come degli “organismi internazionali dalle regole condivise quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale o l’Organizzazione mondiale del commercio” ormai resta “quasi solo il guscio: vuoto come la corazza del Cavaliere inesistente del romanzo di Italo Calvino.” L’avverarsi delle ambizioni della sinistra più antagonista, per opera del suo antagonista più spavaldo e beffardo.  Di macroeconomia e dunque del nocciolo della politica cosa mai ne posso capire io lettore di letteratura, in particolar modo di quegli scrittori che tante volte provocano tali buchi a bilancio cheppoi va da sé gli editori debbano stampare chef, tiktoker, ex-presidenti del Consiglio e giallisti tinti di nero per non doversi riciclare del tutto in copisterie di catena? Non ho le carte, non faccio deal, sono profano al punto da trovare brillante una sintesi associativa che immagino del tutto usurata per indicare gli effetti dell’economia finanziaria su quella reale, “da Wall Street a Main Street”, e da mandare giù come pillola prescritta dello specialista la descrizione di stablecoin: le chiamiamole valute “digitali private sostenute da depositi, per lo più in dollari, di valore equivalente”.   Sono il corrispettivo italiano di quegli americani, stimati il 38% del totale, “che non possiedono azioni quotate alla Borsa di New York e che non hanno altro che debiti”, convinti – erroneamente – “di avere poco a che fare con l’andamento di Wall Street e molto da perdere dalla globalizzazione”, dico erroneamente perché se il 38% di americani azioni non ne ha, il restante 62% sì, e se si rovinano economicamente due americani su tre, il terzo non si arricchirà certo a loro spese, anzi: loro le spese le ridurranno, potendosele comunque permettere, e sarà proprio il terzo, ulteriormente colpito dalle contrazioni del mercato, a rimetterci il poco che aveva e vedere ancora più lontana la possibilità di acquistarla una Ferrari, ora che l’azienda “ha alzato i suoi listini del 10% prima ancora che entrassero effettivamente i vigori i dazi al 25% sulle auto in arrivo negli Stati Uniti.” Per dire: le conseguenze della guerra dei dazi non potranno mai essere le stesse per chi dovrà rinviare all’anno prossimo l’acquisto di una Ferrari e per chi già da ora deve pagare “spesso anche il 28% sulle loro carte di credito: interessi da mafia dei colletti bianchi, che in Europa verrebbero puniti per il reato di usura”. Da lettore non specialista ho l’ambizione anti-economica che Vollmann rielabori in centinaia e centinaia di pagine psichedeliche il materiale che Fubini precipita nel capitolo che in Dazi ne conta soltanto tredici: La storia nelle vite di tre uomini: Clinton, Stiglitz e Vance. Per essere più sintetici di Fubini: Stiglitz, nato in una steel town 82 anni fa, aveva capito per tempo “che la globalizzazione beneficia i detentori di capitale e i lavoratori con diplomi di college o con master in università prestigiose, nei Paesi avanzati; ma svantaggia chi non ha né qualifica né capitali” e aveva fatto in modo che il messaggio arrivasse a Clinton quando era lui il Presidente. Clitton il 20 aprile del 1999 dalla libreria della Casa Bianca disse: “Questo è il momento di agire per impedire che le crisi finanziarie raggiungano livelli catastrofici in futuro.”  Dopodiché non si agì affatto, e qui entra in scena Vance, nato in una steel town circa quaranta anni dopo Stiglitz, solo che Vance non diventa un economista anche premio Nobel e saggista prolifico tanto acquistato quanto ignorato come Stiglitz: Vance a 32 anni pubblica Elegia americana prima di diventare vicepresidente degli States a 40, rappresentando in pieno la narrazione dell’elettorato di Trump: uno che non ci crede più ai rimedi macroeconomici di uno Stiglitz, uno che rivuole la fabbrica in casa anche se da casa sua sta espellendo i migranti indispensabili per coprire la forza lavoro richiesta. Vance vuole riscatto ovvero vendetta subito, Promuovendo l’America Grande Ancora, il cui acronimo un italiano forse rende meglio l’idea. E se sostituissimo Promuovendo con Costruendo?  Riflessione: lo scrittore di autofiction Vance ha e ha avuto un effetto sul mondo cosiddetto reale molto più sensibile dello stimato e inascoltato saggista Stiglitz. Dipende dai lettori che raggiungi, da come li raggiungi, da cosa gli racconti, se quello che racconti a quegli stessi lettori piaccia doverlo sentirselo dire, dopo essersi dovuti prendere persino l’impegno di leggerlo, per ascoltarlo.   E cosa dovrebbe gridare il bambino europeo al petulante imperatore nordamericano che lascia indizi peggio di Pollicino, sbottando ogni tanto un vagamente depistante meglio un jockstrap in filo spinato che un fottuto kimono di seta cinese? Scrive Fubini: chiamare col suo nome la coercizione economica fra Stati che è l’ultima moda del commercio internazionale, poiché  > “In sostanza Trump e Bessent [il Segretario del Tesoro] potrebbero stare > cercando di mettere l’Europa davanti a una brutale alternativa: comprare > debito americano man mano che viene emesso – e comprarlo malgrado rendimenti > contenuti – oppure rischiare di perdere l’accesso al mercato dei consumatori > americani e a quel che resta dell’ombrello di sicurezza del Pentagono.”  Che gli unici valori realmente difesi dalle civiltà egemoni odierne o meno, quelli per i quali sono disposte ad architettare aggressioni verso tutto e tutti dalle soft alle ultrahard, siano quelli che ci stanno in una borsa, specialmente se la Borsa è la loro, per capirlo mica bisognava aspettare il ventunesimo secolo e leggere Fubini! Bastava l’Ottocento e leggere Balzac. O Bel Ami di Maupassant, che secondo me è la più bella biografia mai scritta sui normalissimi uomini di potere, e dei secoli precedenti al 1885, anno in cui fu pubblicato, e di quelli a venire. Per le mire dell’America made-in-Trump verso la per nulla virginale Europa può valere il trattamento che George Duroy riservò alla ammansita, cavalcata e pussata via signora Walter: lei  > “D’un tratto, smise di lottare e, vinta, rassegnata, si lasciò spogliare.” antonio coda L'articolo Letteratura da manuale. Per capire i dazi bisogna leggere Maupassant (mica Fubini…) proviene da Pangea.
July 8, 2025 / Pangea
“Nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo”. La letteratura per l’infanzia apre voragini. Dialogo con Arianna Giorgia Bonazzi
Entro in una libreria, siccome è per bambini è come se gli adulti s’inventassero per sé un cartello all’ingresso che li esclude. Scelgo Il segreto delle cose di Maria José Ferrada e mettendo giù Il borsellino della sirena e altre poesie di Ted Hughes prendo a leggere le prime pagine di Dizionario segreto d’infanzia di Arianna Giorgia Bonazzi. Alla frase “ma adesso, capisco che durante tutta l’infanzia ho coltivato quel che potremmo chiamare un verbario o meglio un sonario” capisco che il libro vuole essere letto tutto, che io, presunto lettore di letteratura-adulta, sto facendo esperienza della nuova frontiera di quello che in un volume della Carrocci Emy Beseghi e Giorgia Grilli chiamano letteratura-invisibile. Il Dizionario è una storia d’amore per il linguaggio. Un cripto-romanzo di grande consapevolezza linguistica. Un’avventura carrolliana dove ogni parola è uno specchio e l’infanzia è il Bianconiglio di sé stessa. Per dirlo con Antonio Moresco, è il canto delle parole. Quanto grandi bisogna essere diventati grandi per poter accogliere dentro di sé il proprio essere stati piccoli, senza alterare il racconto dell’infanzia per puntellare la nostra vita adulta? Ho chiesto ad Arianna Giorgia Bonazzi di parlare di questo e altro, e lei ha risposto. (a.c.) Da Dizionario segreto d’infanzia: “In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio, e il verbo ero io.” La bambina protagonista del libro si fa l’idea di essere lei a creare il mondo, battezzandolo. Il libro, di per sé, vuole segnare il confine tra il linguaggio come strumento espressivo e il linguaggio come imbrigliatura in automatismi di pensiero. Nei primi anni di vita siamo noi a inventare il linguaggio, liberi di associare alle parole travisate, storpiate o sentite male i significanti che secondo noi più si addicono ai loro suoni. Poi cresciamo, socializziamo, c’è la scuola, il lavoro, la televisione, i social, ed è il linguaggio del cervello di massa a parlarci, a irrigidirci nei codici che ci avvicinano alla comunicazione standard e ci portano lontani da noi stessi.  Sulla soglia di Dizionario segreto d’infanzia troviamo Natalia Ginzburg a pronunciare la parola poesia.  L’epigrafe tratta da Vita immaginaria è stata aggiunta alla fine. Mi sono imbattuta nel libro della Ginzburg a Dizionario già scritto:  “Molte sono le parole che sentiamo di dover pensare nel loro vero significato, scrostandone ogni volta le vernici di falsità che le hanno coperte; e una di queste è la parola poesia.”  Sono stata in dubbio se riportare o meno l’ultima parte della citazione. Troppo esplicita. L’accesso alla letteratura, deve avvenire per vie traverse. Nel libro la parola poesia non ricorre, mentre abbondano parole quasi sgradevoli: dialettali, ispide, ruvide. Alla poesia si arriva per dei budelli segreti.  Astrakan, sgrisoli, sencillo, ternoriposo tra tomba e tombola, torsolo tra orso e toro. Come collani le parole di cui fai dizionario? Dal verbo collanare: “la collana era una macchina da scrivere.” L’idea del libro nasce dall’incontro con Giovanna Zoboli editrice di Topipittori. Zoboli, conoscendo Les adieux, il mio esordio pubblicato da Fandango libri nel 2007, mi propose di entrare a far parte della loro collana sulla nascita degli immaginari artistici nei primi anni d’infanzia. La mia prima risposta fu: io non ho un immaginario! Ho sempre fantasticato tramite le parole, i loro suoni. Così ho accettato senza sapere come avrei fatto. Zoboli mi ha poi fatto notare che il libro in realtà è zeppo di immagini perché ogni parola fa sorgere una serie di visioni. Ci aveva visto bene prima di me. Una volta deciso il formato del dizionario, le parole sono venute da sé, per associazioni istintive. Volendo, si possono suddividere i lemmi per aree tematiche: ci sono le parole delle filastrocche, le toponomastiche, le capite-male, le onomatopee. A scavo avviato il processo è diventato sorgivo, e tutt’oggi continuano a venirmi in mente altre parole che chiedono un loro spazio nel Dizionario. I dizionari si sa non stanno mai fermi. Il libro indica due rischi del linguaggio: deve esserci consapevolezza della distinzione tra tTempo vero/lingua vera e tempo falso/lingua standard , ma ci si deve pure guardare dal non “ricadere nelle lusinghe di un individualismo di maniera.” Esiste un punto d’equilibrio? È la letteratura il luogo dell’armistizio tra il linguaggio intersoggettivo necessario a una vita comunitaria e il linguaggio personale necessario a una vita onesta con sé stessi. Rachel Cusk in un saggio contenuto in Coventry spiega che il motivo della diffusione dell’insegnamento della scrittura creativa è da ricercarsi nel bisogno di un linguaggio più onesto: scrivere è il recupero di un “sé” più vero all’interno di un mondo dove ci si sente alienati.  Tra il favoleggiato e il biografico nel Dizionario traspare la storia di un idillio con le parole che è stato consentito dall’essere stati risparmiati a una “una precoce socializzazione”. È un lieto fine o una fine dovuta quello della protagonista che dice “finalmente a scuola dopo anni di isolamento, la mia gorgogliante parlantina cominciò a irrigidirsi nelle statue ghiacciate dei cioè e dei praticamente”? Sembra un finale alla Collodi, dove non si sa se essere felici o no per Pinocchio, o alla Carroll. Per dirlo dalla prefazione di Busi a Alice nel paese delle meraviglie: “la disgrazia più irrimediabile della vita: non essere mai adulti e poi, improvvisamente, non essere più bambini”. Non idealizzo l’infanzia come tempo mitico dove tutti siamo felici e buoni. C’è anche tanta crudeltà nell’infanzia e la protagonista del Dizionario la lascia trasparire attraverso i suoi pensieri più oscuri. È una bambina un po’ folle ma anche molto matura, con uno sguardo severo sulle ombre della vita familiare. Allo stesso tempo, la voce adulta che rievoca quella bambina non ha smarrito la propria identità infantile. La salvezza, se ce n’è una, è essere stati bambini un po’ spietati; e diventare adulti con uno sguardo pietoso per l’infanzia.  Allargando il campo. I libri sull’infanzia rientrano in quella che Emy Berseghi e Giorgia Grilli, in un bel saggio Carrocci, definiscono ‘letteratura invisibile”, la letteratura che dà voce a chi non parla, per stare all’etimologia di infanzia, lungo la faglia: “bambini come creature da formare e bambini come creature non ancora deformate”. Ti senti una scrittrice-invisibile? Katherine Rundell in Perché dovresti leggere libri per ragazzi anche se sei vecchio e saggio cita un’intervista a Martin Amis. Gli avevano chiesto se avesse mai pensato di scrivere per bambini e lui aveva risposto: “Forse se avessi un grave danno celebrale lo farei.” Il saggio di Rundell è la replica perfetta allo sguardo altezzoso che esiste verso la letteratura per ragazzi. C’è un pregiudizio simile perfino tra chi i libri per bambini li scrive. Alla domanda: “Hai scritto qualcosa ultimamente?” capita di rispondere “Ah, niente, solo un libro per bambini.” Credo comunque che ci sia sempre stata una grande osmosi tra i miei lavori per bambini e i miei lavori per adulti, al punto che scrivendo mi capita di domandarmi a quale pubblico mi sto rivolgendo davvero. Stabilirlo in modo netto è una questione editoriale e commerciale: i librai devono sapere in quale settore catalogare ogni libro. Se mi sento una scrittrice invisibile? Diciamo che mi piace ibridare, e che le dinamiche editoriali non sempre sorridono a chi non rientra in facili classificazioni. Secondo i saggi contenuti in La letteratura invisibile la domanda delle domande è: “essere stati bambini che cosa significa”? Aver vissuto senza pelle nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo e conservarne intatto il ricordo nelle proprie identità future. Provando magari a guardare sempre tutto come chi è appena arrivato sul pianeta Terra e cerca di capire come vanno le cose. Il Dizionario segreto d’infanzia contiene una bibliografia suggerita. Ginzburg, Batuman, João Guimarães Rosa, Virginia Woolf, Dino Buzzati, Calvino, Magris, Meneghello e altri. Perché Dizionario è anche un’esplicita riflessione sullo scrivere. C’è la Le Guin de I sogni di spiegano da soli, che parla delle disinsegnanti. La letteratura ci può ancora disinsegnare qualcosa? La letteratura non fornisce risposte o consapevolezze ma apre a dubbi e voragini, e la letteratura per l’infanzia deve fare altrettanto, senza rinunciare alla sua ambiguità, non riducendosi a manualetto d’istruzione per le prime volte, a promozione di messaggi educativi di base. I bambini sentono l’impostura dei libri con la missione incorporata. Le storie devono dare la possibilità a ciascun lettore di fare le sue scelte, morali e no. Da Les Adieux: “Crescere è fare le cose dei libri dei proverbi, un vocabolario che li mette in fila.”  Proverbi in Dizionario credo di non averne trovati. Tra il primo libro e questo com’è cambiato, se è cambiato, il tuo essere scrittrice? È una domanda che mi sono posta mettendo mano dopo circa venti anni a questa sorta di Les Adieux “remastered”: non mi ero allontanata più di tanto da quell’inizio o stavo compiendo la chiusura di un cerchio? I temi ritornano ma la consapevolezza è un’altra. Durante questi vent’anni sono diventata altre persone, ho attraversato altre identità. Non avrei potuto proseguire con lo stile sregolato di Les Adieux, così legato alla ventenne universitaria e sperimentale che ero allora. In Dizionario tornano le mie ossessioni espresse però dalla me che sono diventata dopo la conquista dell’età adulta. Continuando a volermi incompleta, plasmabile, reinventabile. Concludiamo con un ultimo tocco di teologia beffarda. Dal Dizionario: “Adulterio – Era sicuramente il peccato di essere adulti.” Come ce lo si perdona? È il passaggio del libro che meglio racchiude tutta la rabbia che il bambino nutre verso il tradimento degli adulti quando non si sente visto, riconosciuto, rispettato in quanto bambino, cittadino di un mondo misterioso e delicato. Non ce lo si perdona. antonio coda *In copertina: illustrazione di John Tenniel ad “Alice’s Adventures Under Ground”, 1886 L'articolo “Nell’incandescenza delle cose sentite fino in fondo”. La letteratura per l’infanzia apre voragini. Dialogo con Arianna Giorgia Bonazzi proviene da Pangea.
July 1, 2025 / Pangea
Basta fare come gli alberi. Ovvero: storia di un lettore che ha importunato Alessio Arena
In metropolitana ho letto Le scimmie di José Revueltas, un cognome che è un programma di vita fin dalla nascita, nella traduzione della ei fu Alessandra Riccio: c’è Polonio il detenuto tossico che fuma in cella d’isolamento: “E allora il movimento trasferiva le proprie forme nell’ondulata scrittura di altri ritmi e le lentissime spirali si conservavano lungamente nella loro istantanea condizione di idoli ubriachi e di statue sorprese”. Leggendolo, ammirandolo, mi chiedevo cosa si scrive e si legge a fare se la scrittura, e la lettura pure, non sono anche forme di protesta per le cose-così-come-sono che passano per un uso importunante e emancipato della lingua? Purché sia una lingua che sappia ancora della saliva e delle labbra di chi la parla, altrimenti è una lingua laboratoriale e basta, la lingua senza voce di una bocca castrata. Il passaggio mentale successivo e obbligato è stato verso il romanzo Il sesso degli alberi di Alessio Arena, per Fandango, libro letto prima di Revueltas: nel romanzo di Arena si sta come nella bocca di chi parla, ogni parola assume di volta in volta il sapore o il saporaccio di chi la pronuncia facendola risalire dalle viscere in subbuglio. Alessio Arena è al sesto romanzo, in passato per Pangea ci ho conversato in merito a Ninna nanna delle mosche e a La notte non vuole venire, non me la sarei sentito di importunarlo ancora, eppoi io – che di norma non sono sospettoso – sospetto molto di me: come faccio a essere sicuro un libro che mi ha conquistato per come è stato scritto sia bello di per sé e non perché è piaciuto a me e allora capirai? Che sia un romanzo-romanzo al di là dei miei criteri che alla lunga possono diventare stantii e ripetitivi quindi inadatti a riconoscere la qualità di un romanzo, specie se è il romanzo di uno scrittore che si è già guadagnato la mia stima?   Da lettore per tante prime volte delle opere di Aldo Busi è una domanda che sto attento a pormi di continuo: come si evita di -ismizzare uno scrittore, andando a detrimento della recezione della sua opera? Dimenticandosene. Leggendo ogni libro come si stia leggendo per la prima volta un’opera di chi l’ha scritto. Uno scrittore o esordisce ogni volta o è uno scrittore di mestiere, di carriera, ovvero uno che è stato scrittore una volta eppoi un impiegato della scrittura tutte le volte successive. Lo stesso se si tratta di un libro in rilettura: per leggerlo onestamente, ovvero per leggerlo in modo sensato, bisogna dimenticare tutto quello che si è letto fin lì, a partire dal libro in questione e poi tutti gli altri. Lo stesso, pare, vale per la scrittura. Dunque, de Il sesso degli alberi di Alessio Arena mi è piaciuto il romanzo, che per me significa sempre il come è stato scritto, o mi è piaciuto che sia stato scritto da Alessio Arena?  L’incipit:  > “Alansorrenti lasciava dietro di sé una coda di odore detersivo. Dove stava > lei c’era sempre chi si tappava il naso, chi metteva le mani a ventaglio per > pulire l’aria, chi cacciava la lingua con una smorfia di iguana. Se poi > qualcuno se la trovava di fronte e non faceva in tempo a scansarsi, la > salutava veloce per paura di intossicarsi dentro all’abbraccio suo.”  La scrittura di Alessio Arena è da subito come l’Alansorrenti che apre il romanzo: lascia dietro di sé una traccia olfattiva. Si sta come in Il profumo di Patrick Süskind ma in maniera ancora più radicale, sfacciata, inclemente: è una lingua che tocca e fa toccare ciò che racconta, non privilegiando il dato visivo o uditivo, per quanto sia strabordante di musica e canto e visioni, allucinazioni comprese.  È una lingua che mette in contatto, che avvicina, che sprofonda e fa sprofondare nella materia che plasma, che fa diventare racconto. Chi legge che voglia o no diventa lingua a sua volta, le parole arrivano alla mente passando dalla bocca. O così mi sono sentito io, leggendo: un uomo trasformato in una lingua dalla lingua scritta del romanzo. Letto il primo capitolo ho scritto a Alessio Arena un messaggio privato, tramite il contatto mail ottenuto per le precedenti conversazioni. Ho scritto: “Alessio Arena, ho appena letto il primo capitolo de Il sesso degli alberi, le prime quattro pagine, e se le pagine appresso filano così per me è finita, ovvero è ricominciato tutto, è come ci fosse un nuovo grande salto in avanti e in lungo e in alto e in largo nella tua scrittura, che prende il meglio dai romanzi prima e ne fa qualcosa di bello di grande di nuovo. Da lettore, che grande entusiasmo quando nel romanzo di uno romanziere di cui ho letto gli altri romanzi sento il balzo in avanti dello scrittore che mi fa marameo, che mi fa “Credevi di conoscermi e invece devi imparare ancora tutto”, che scrive con la consapevolezza di quanto ha già scritto ma comunque scrivendo con l’audacia degli esordi. Uno scrittore, o così mi pare, scrive ogni libro come non dovesse scrivere altro che proprio quello, pure se di libri prima ne ha scritti a decine e altre decine ne scriverà dopo. Scrive ogni volta come fosse l’indubitabile scrittore di proprio-quel-romanzo. Tutto questo commentare per le prime quattro pagine del libro? Sì, perché in quattro pagine c’è tantissimo: ci sono due paesi, Italia e Spagna, un figlio e un padre morto e un femminello astratto che si candida come zia aggiuntiva per quel figlio senza più un padre e in pratica senza mai una madre, pur avendola ancora in vita, quell’Alansorrenti che si propone quale zia adottiva che non fa vita da reclusa come le altre due di-sangue dell’orfano a metà ma praticamente del tutto, una zia che la vita la fa proprio e propria e che al primo incontro all’orfano di fatto rivolge “una tenerezza dentro agli occhi che io non sapevo ancora che esisteva”. C’è la frattaglieria, il Festival Eurovisione, una partitura del compositore Domenico Sarrio, il rossetto rubato a una bambina durante una gita di classe nella Sierra de Armantes. Dunque: la vita, ovvero la letteratura quando ti fa desiderare di viverne altrettanta. Un saluto da lettore felice e ammirato.” A messaggio inviato mi sono chiesto che senso avesse avuto inviarglielo. I complimenti in privato, quando non invadenti, al meglio sono del tutto inutili, specie quando riguardano un atto che più pubblico non si può, la pubblicazione di un romanzo che una volta scritto ha a che fare con chi l’ha scritto tanto quanto con chi lo legge. Il problema è che a un libro non si può scrivere quello che ti ha smosso, leggendolo, e allora pur di liberarsi dal peso della gratitudine si scrive a chi l’ha scritto, compiendo una reiterata fallacia logica. Infatti, recidivo, lette altre cento pagine e più del romanzo ho scritto un secondo messaggio privato ad Alessio Arena, dal quale non avevo ricevuto risposta e che per quanto ne sapevo poteva non aver ricevuto il primo o se sì poteva non aver nessuna voglia di leggerlo. Il secondo messaggio in privato è stato: “Da ieri sera a ora le pagine sono diventate 140, e non mi diminuisce il piacere di leggere di questi personaggi meravigliosamente non conformi e mai deodorati calati in una dimensione tra l’incubo e l’immaginazione, e questa lingua inventata e monoica che li racconta fondendo il maschile dell’italiano e il femminile del dialetto, e questa Napoli Anni Ottanta attraversata con “lo sparpetuo del profugo troiano”. Un paragrafo esemplare in cui sento come la scrittura è diventata padrona della materia al punto da farla stare assieme a suo piacimento per me è questo: “C’erano anche partiture di oratori in cui le note sembravano piccoli insetti intrappolati nella resina, come quelli che avevo visto nella corteccia degli alberi di piazzetta Salazar, due cornioli separati da una cabina telefonica.” Mi sono andato a cercare su Google il corniolo, perché di alberi so nulla, figurati che sesso hanno.” Sentendomi a un passo dalla molestia, o peggio ancora della maleducazione, e valutando la sensatezza dei miei gesti, ho cominciato a valutare se non fosse il caso di proporre ad Alessio Arena una intervista su Pangeache avesse per oggetto appunto Il sesso degli alberi. Pertanto era importante finissi di leggere il romanzo, anche per scacciare un timore che mi stava sorgendo: a conti fatti ero soltanto al primo terzo del romanzo. E se continuando a leggere avesse smesso di piacermi ovvero mi avesse convinto di meno? Se la scrittura non fosse riuscita a mantenere il ritmo e il registro? Se la mia si fosse poi rivelata una sindrome da lettore precoce, poi come avrei giustificato un mio eventuale passo indietro? Come pure: se le mie impressioni da lettore le avessi concluse sulla centoquarantesima pagina, un mio silenzio successivo, una interruzione delle comunicazioni non richieste, non avrebbe potuto essere interpretata come una tacita stroncatura, un reticente rimprovero da lettore che poi si sarebbe sentito imprevedibilmente deluso? Sono state le domande di cui sopra la ragione del terzo messaggio privato: “Alessio Arena, le pagine sono diventate 265, ora sono nel bar di Marisa la Torera, a calle San Rafael, nel Barrio Chino dove coi primi calori “Ogni angolo del quartiere, in quel giugno così caldo, sembrava nascondere il cadavere di qualche zoccola“. Mi rendo conto ci sia qualcosa di offensivo nello sperticarsi per il sesto romanzo di uno scrittore, gli altri cinque potrebbero risentirsi, ma Il sesso degli alberi è scritto proprio come secondo me un romanzo deve essere scritto per poter essere reputato tale, con la personalità sconvolgente incontrata in L’infanzia delle cose incrementata, espansa. Pagina dopo pagina scopro perché mi piace il registro misteriosamente in equilibrio tra candore e decadenza, innocenza e squallore, con i personaggi a raffica tutti ben stondati, la trama che si sposta, e la sfida che pone nello stabilire cosa è più incredibile: i giardini domestici di Palazzo Sassano, gli alberi parlanti o l’epopea dei femminelli napoletani nell’Europa di fine Novecento o quella dei castrati dal Seicento in avanti? È un romanzo ricco, generoso, odoroso, e sfacciatamente politico come lo devono essere i romanzi: raccontando storie inclinate, trascinando nelle situazioni, ribadendo che il pensiero è sempre e soltanto un’essudazione della carne. Un romanzo con una lingua sua solo sua, oltre che di chi la parla nel romanzo stesso: Alansorrenti, Gennaro Crisantemo, Bacioterracino che non violenta perché non sa come si fa, e tutti gli altri.” Decido allora che non proporrò ad Alessio Arena un’intervista per Pangea, sarebbe stucchevole dopo tutto quello che già gl’ho scritto sul suo romanzo. D’altronde non sarei stato neanche sicuro della sua reazione: ricevere pareri a raffica da un lettore che in sostanza resta uno sconosciuto non deve mettere nessuno a proprio agio. Ancora una volta, è per la mia esclusiva esigenza personale di chiudere un cerchio aperto da me che mando ad Alessio Arena un quarto messaggio: “Ecco l’ultimo pezzetto della cronaca del lettore che ha appena finito il tuo romanzo ambizioso, déraciné, screanzato, adulto, di quelli che mandano l’algoritmo a chiedersi dov’ha sbagliato con te. Ora che l’ho finito posso complimentarmi oltre che con chi l’ha scritto con l’editore che ha saputo seguire la bussola della letteratura, che non è detto non conduca a fasti commerciali ma che non è direttamente lì che punta, punta a rendere la scrittura esperienza ludica e profana, intima e collettiva, tenera e spregiudicata. Nel romanzo c’è tutto quello che uno scrittore può desiderare ci avvenga dentro quando ne scrive uno, qualcosa che secondo me sfugge di mano allo scrittore stesso, che decide linee narrative che prendono il sopravvento, che disobbediscono alla camorra dei plot assodati, che non hanno bisogno dell’explicit per arrivare a compimento poiché si compiono all’interno dei singoli capitoli, dei singoli periodi, delle frasi andate a segno che mettono a punto una rappresentazione del mondo sensibile, nella sua parte visibile e in quella che non lo è – non che “O forse si abbracciò a lui stesso, ma con me dentro” non sia stato un explicit coi fiocchi, qui al termine di una storia di assenze che vogliono diventare presenza, reclamando cittadinanza in una società pigra fin nell’immaginario marcio e patinato assieme, che non li prevede, che non vuole riconoscergli voce. “La voce era sempre quello che mi faceva più paura di me, era la parte più cruda. La voce mi spogliava nuda. O meglio: il centro della mia nudezza era sempre la voce.” Per dirlo con zia Serena, patita per la smorfia napoletana: che quarantotto questo romanzo che parla! Che ha e dà voce. Il sesso degli alberi è un romanzo bellissimo.” Soltanto ora, a stalking completato, mi accorgo il romanzo si concluda così come si è aperto, in un abbraccio, al cui interno si rischia di intossicarsi, così all’inizio, e che nel finale lascia il sospetto sulla possibilità stessa di un abbraccio: cosa sente chi abbraccia, l’altro a cui fare spazio in quell’abbraccio o la propria volontà di annientarlo annettendolo a sé, al proprio sentire? Il sesso degli alberi, tra le altre cose, è anche la storia della fatica inutile perché gli altri ti guardino per come tu desideri essere guardato, una fatica accettata con “una tenerezza […] che io non sapevo ancora che esisteva”. Basta fare come gli alberi: stare lì dove si sta, e al limite lasciare che gli altri ci sbattano contro. Questo però me lo tengo per me, ad Alessio Arena ho già scritto troppo.    antonio coda *In copertina: una fotografia di Mario Giacomelli L'articolo Basta fare come gli alberi. Ovvero: storia di un lettore che ha importunato Alessio Arena proviene da Pangea.
June 11, 2025 / Pangea
La bambina e la fame. Sulla differenza tra giornalismo e letteratura
L’articolo va sotto l’etichetta Attualità. Secondo l’articolo c’è un posto nel mondo, il mio stesso mondo, dove c’è una bambina di 12 anni “così malnutrita che riesce a malapena a parlare.” L’articolo è corredato di foto, la didascalia recita sia della bambina malnutrita. Secondo la madre: “Se qualcuno la tocca o lei prova a muover le braccia o le gambe, grida di dolore.” A questo punto tocca a me, lettore, decidere cosa farmene dell’articolo.  Leggerlo diminuirà le sofferenze della bambina o aumenterà soltanto il mio senso di disaffezione verso la specie umana, qui da me rappresentata? Leggerlo servirà a far entrare i generi alimentari in quel posto del mondo dove per ora non possono entrare poiché, impedendo l’entrata dei generi alimentari si debella la minaccia che gli abitanti di quel posto rappresentano per gli abitanti del posto confinante, a detta del governo confinante è così che si fa, il quale governo, impedendo l’entrata dei generi alimentari, consente ci siano in quel posto “più di 70 mila bambini[…] ricoverati in ospedale per malnutrizione acuta” e che “1,1 milioni non dispongono del fabbisogno nutrizionale giornaliero necessario per sopravvivere”? Mi dico: i giornalisti che hanno scritto l’articolo di certo si augurano che io, leggendolo, faccia poi tutto ciò che è in mio potere per far sapere al governo del mio di posto che non continuerà a restare in carica a lungo se non fa nulla perché i generi alimentari entrino in quel posto lì del mondo, che non lo resterà perché perderà il mio voto e quello di moltissimi altri, e a me dispiace per loro, perché io il governo del mio posto non l’ho mai votato, con me non ha nulla da perdere, d’altronde seppure il governo in carica del mio posto mi fosse stato meno inviso dubito avrebbe avuto comunque il potere di influenzare il governo del paese che sta impedendo l’entrata dei generi alimentari in quel posto nel mondo dove un sacco di 25 chili di farina bianca costa 372 dollari. Per di più dubito che chi sostiene il governo del mio di posto smetta di sostenerlo perché quel posto nel mondo viene affamato. Sono dell’idea, o sono io che li calunnio pensandolo, sia comunque sempre meglio tenersi amico il governo del posto che li affama, siccome tenersi per amici loro, gli affamati, non arrecherebbe nessun beneficio, anzi. “Cari giornalisti”, direi ai giornalisti dell’articolo, “chi meglio di voi può accorgersi che uno più è povero più deve pagare le cose più di quanto le paghino i non poveri. Ai ricchi addirittura si regala. Si fa di tutto per farsi benvolere dai ricchi. Dai poveri invece si vuole stare alla larga. I poveri sono contagiosi. I ricchi purtroppo no.”  Un dottore, nell’articolo, “spiega che la carestia ha causato aborti spontanei e la nascita di bambini pericolosamente sottopeso con gravi malformazioni.” E se non si trattasse di un articolo d’attualità ma di una storia? “C’era una volta un posto dove i bambini nascevano pericolosamente sottopeso e con gravi malformazioni, quando non venivano abortiti prima – e c’era chi diceva fosse meglio così, essere abortiti prima.” Come continuerebbe la storia? Quali dilemmi morali, tuttavia del tutto speculativi, offrirebbe? È nell’articolo o nella storia a esserci un padre che dice: “Mi sento impotente quando i miei figli chiedono il pane e io non ho nulla da dargli. […] A volte mi auguro che possiamo morire assieme in un attacco aereo, per non soffrire la fame e questa continua agonia”?  Il personaggio del padre mi catturerebbe o, da raffinato lettore quale sono diventato, lo troverei troppo piatto, prevedibile, retoricamente debole? A dei giornalisti un padre in tale situazione cosa può mai raccontare, se non la versione più pietistica di sé stesso? Però bisognerebbe indagarlo. L’articolo del padre dice la sua famiglia conti nove persone. Ora, non saranno tutti figli ma la media dei figli, nell’articolo, è di quattro o cinque. Bene, così come ho sentito dire che in quel posto non si viene affamati ma che vi si debella l’obesità, non vedo perché non se ne possa dire che non si stanno uccidendo persone ma impartendo loro i rudimenti della pianificazione familiare.  Come si comporta il personaggio del padre con moglie e figli quando il governo del paese confinante non si impegna così a fondo per distruggere gli abitanti di quel posto dove abita anche lui, il padre? Cosa fa nella vita quando non è sotto diretta minaccia di invasione e distruzione? Approfondiamo il personaggio, rendiamolo credibile, esigiamone la doverosa parte di miserabilità comune a ogni vivente. La bimba nella foto – ritorno alla foto di corredo all’articolo – mostra una sua foto da uno smartphone, è la foto di quando non era denutrita ma una bella bambina dalle guance floride. Quindi adesso devo spegnere tutto, rimuovere l’articolo – è quello che faccio tutti i giorni, come vuoi che sia possibile sopravvivere sapendo di un milione e centomila persone studiatamente affamate, in quel posto lì, ignorando selettivamente gli altri posti dove pure agli abitanti gliene vengono fatte passare di ogni? – e calarsi nella scena, da sviluppare ulteriormente: c’è una bambina che grida di dolore se la tocchi, che ha le costole sporgenti e i capelli che cadono. Dall’articolo: “I capelli le stanno cadendo. Le costole le sporgono.” Bisogna immaginarsela mentre con le mani ossute accende lo schermo dello smartphone per rivedersi com’era prima della fame. In uno specchio magico e crudele.  Aveva bei capelli mossi, la sua vanità di bambina, e le guance paffute. Mia figlia ogni mattino si guarda allo specchio per controllare quanto le sono cresciuti i capelli. Sono la sua vanità da bambina. O tu lettore – mi dico – fai attenzione, altrimenti potrebbe insinuarsi il dubbio io stia intendendo che posso capire la sofferenza della bambina giusto perché una bambina ce l’ho anche io, quasi dispensando chi una bambina non ce l’ha dal poterla capire altrettanto, anzi quasi spingendolo a dire: Chi tante e chi nessuna, di bambine, e nel caso del personaggio del padre: ha tanti figli, averne qualcuno in meno alla fin fine per lui potrebbe rivelarsi addirittura un sollievo. Preciso perciò che avere una bambina mi aiuta a capire la vanità della bambina della foto, non certo la sua sofferenza, che non comprendo affatto, che non voglio comprendere, sempre per quella ragione del dover sopravvivere rimuovendo la consapevolezza sui fatti di cui sopra. Ho famiglia, io, oh, sono disumanizzato per giusta causa. La bambina, la scena è questa, soffre tanto per il suo essere uno scheletro dolorante ma è lo star perdendo i capelli a procurarle una sofferenza di ordine superiore, indimenticabile.  Non devo dimenticare chi ha scritto l’articolo, che lo ha scritto dopo averne scritti altri e che altri ancora ne scriverà. Lui, loro, come me, non potranno restare a lungo in compagnia della bambina. No, proprio no, bisogna rimuoverla. Bisogna andare avanti, quanto più non si può andare avanti tanto più si deve andare avanti il più velocemente possibile.  La bambina vive con sette familiari in quel posto nel mio stesso mondo, così riporta l’articolo di attualità. Saranno i sette familiari a restare con lei, ricordandosi di lei, assieme a lei. Io, lettore, devo solo illudermi chiedendomi: quando di anni ne avrà ventidue, poi trentadue, poi quarantadue, la donna che sarà come penserà alla bambina che sarà stata, al suo corpo in fiamme, ai suoi capelli diradati, al suo volto afflitto che a dodici anni già ne dimostrava molti di più?  A cinquantadue anni o sessantadue, specchiandosi, quella donna si dirà: “Ecco, questo è esattamente lo stesso volto che ho avuto quando ne avevo dodici.”  La storia allora potrebbe cominciare così, non spaventando i lettori aprendosi su un posto gremito di aborti e malformazioni, come la cloaca del Golgotha su cui si apre il romanzo Barabba di Lagerkvist, ma con una donna di sessantadue anni che guardandosi allo specchio pronuncia per sé stessa e per tutti coloro che la leggeranno la frase enigmatica: “Ecco, questo è esattamente lo stesso volto che ho avuto da bambina.”  Chi legge vorrà sapere: come, lo stesso volto? Cos’è, una storia fantastica, paradossale? E continueranno a leggere, sorretti dal sollievo iniziale: quale che sia stata la vita attraversata da quella donna almeno si ha certezza che abbia vissuto fin lì, che sia sopravvissuta. L’Ismaele melvilliano rappresenta sempre l’infantile speranza di sopravvivere per raccontarla. Che la bambina sopravviverà, che invecchierà, l’articolo e i giornalisti che l’hanno scritto non possono garantircelo. Io lettore non posso sapere se la bambina che viveva fino a pochi giorni fa nel posto della fame sia ancora viva ora che sto pensando a lei. Una storia, per essere una storia, dovrebbe tornarci su molto spesso, dovrebbe a continuare parlarci della bambina per più pagine, fino a un compimento o a una svolta o a qualcosa che gli assomigli. Una storia garantirebbe alla bambina il rifugio di una memoria collettiva molto più di un articolo di giornale, ma un articolo di giornale è tutto ciò che abbiamo. I giornalisti non possono continuare a scrivere della bambina, nessun giornale gli pagherebbe la storia della bambina dal costato sporgente che perdeva i capelli per la fame, e neppure io.  Io lettore non posso che immaginarla per la durata di un’altra piccola scena futura, immaginarmela mentre a dodici anni guardando la sua foto di poco tempo prima, del tempo prima della fame, dice a sé stessa: “Ecco il volto che avrò tra cinquant’anni, quando sarò sopravvissuta a tutto questo, chiedendomi che senso avrà avuto essere sopravvissuta a tutto questo.” antonio coda *In copertina: Fernand Khnopff, Ritratto di bambina, 1895 L'articolo La bambina e la fame. Sulla differenza tra giornalismo e letteratura proviene da Pangea.
June 3, 2025 / Pangea
Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al “Barabba” di Lagerkvist
Ho amici cattolici. Domenica delle Palme ero in piazza, per i saluti, e in piazza si diceva messa. Una piazza mesta come lo sono i luoghi inutilmente pubblici il più delle volte, quando non ci sono i leader delle ragioni superiori a organizzare i torpedoni. Quando ci sono gli stand della Coldiretti è un’altra storia, è quasi festa, per quanto anche lì a tener banco è l’illusione di poter comprare al miglior prezzo qualcosa di meno industrialmente nocivo. Si chiacchierava tutti ma quando è stata la volta della lettura del vangelo liturgico del giorno, recitato dal pulpito allestito al vento, cala un silenzio di attenzione dovuta, di ossequiosa osservanza delle circostanze cui s’adegua pure chi in piazza c’era per tutt’altra ragione, e taccio anch’io per colmo di stupore di fronte a tante persone, comunemente refrattarie a ogni letterarietà, che azzittiscono e mimano concentrazione per qualcuno che legge. I Vangeli, così come le Bibbia al completo, li ho letti nell’edizione concordata della Mondadori, perciò per me è sempre una novità ri-leggerli ascoltandoli nella versione approvata dalla CEI: troppi interessi di troppe parti difficilmente possono conciliarsi con quello principale della lealtà verso il testo, perché giunga a chi lo legge nella sua forma più aggiornata e il meno faziosa possibile.  «Ogni civiltà nasce da una traduzione», così Gianfranco Folena, citazione letta in un libro di Aldo Busi, per cui: dimmi a che traduzione t’affidi e ci capirò immediatamente qualcosa in più della civiltà che aspetta entrambi, se quella a cui t’affidi tu è la stessa a cui s’affidano in maggioranza. Ascolto. I vangeli nei secoli hanno avuto lettori sagaci, mica tanti, e sequele sterminate di pigri recettori di artate interpretazioni altrui, ma questo non dispensa nessuno dal farsene una lettura e un parere propri, se gli va, così come niente vieta che li si ignori come viene ignorata tanta parte della letteratura mondiale, al netto di quella che viene propinata nei programmi ministeriali, tante volte perché possa essere disprezzata subito e in blocco. Dal Vangelo di Luca:  > “…ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola… Io sto in > mezzo a voi come colui che serve…  il suo sudore diventò come gocce di sangue > che cadono a terra… con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?… E molte > altre cose dicevano contro di lui, insultandolo… Togli di mezzo costui! > Rimettici in libertà Barabba!… Detto questo, spirò.” Ascolto e mentre ascolto non sono più in piazza, non è più la Domenica delle Palme. È la notte di qualche mese fa, in gruppo rientriamo in albergo, siamo a Ischia per il matrimonio di una coppia di amici, è stato ufficializzato al comune di Forio la mattina stessa. Gli altri vanno ciascuno nella stanza assegnata, io resto a zonzo nella hall sottosopra dell’albergo. Siamo fuori stagione, nell’albergo sono in corso opere grosse di manutenzione: le porte delle camere non hanno gli stipiti, lungo i corridoi ammassano le biancherie da sostituire, le scaffalature stanno accatastate negli angoli. Ci si sente come in una delle narrazioni di Antonio Moresco, alla fine di un tempo e di uno spazio che ha perso memoria del suo prima e del suo dopo. Nella hall ci sono libri disposti in pile senza ordine bibliografico alcuno, le scruto a una a una, come resti di colonne di una cattedrale ipotetica, mentale. Scelgo quale pietra svellere: Barabba, di Lagerkvist, nell’edizione 1965 della Gherardo Casini Edizioni Periodiche, traduzione di Alois Baumgarthner, collana “I libri del sabato”. Lo scelgo perché è sottile, ideale per me che stanco come sono non mi aspetto di riuscire a leggere a lungo, in camera. Perché di Lagerkvist ho letto Il nano, e mi piacque. Lo scelgo perché di Saramago ho letto Il vangelo secondo Gesù Cristo, scrivendolo da scrittore quindi né noiosamente da apologista né facilmente da polemista.  Come ha scritto Lagerkvist di Barabba?, mi chiedo, scegliendolo per questo, non sapendo io se  Lagerkvist sia stato di qualche fede dichiarata o se no e se sì quale fosse e se no se si fosse sentito poi in dovere di dichiarare perché aveva preferito di no. Se a lettura del romanzo ultimato avessi continuato a non saperlo, a non poterlo sapere, Barabba sarebbe potuta dirsi l’opera di uno scrittore. La letteratura non può essere confessionale perché le religioni sono il contrario della letteratura. La religione si fonda sull’assunto che c’è una verità e che le narrazioni non possono che provare ad avvicinarsi a quella verità che le precede e che tutt’al più le ispira. Per la religione la narrazione viene dopo la verità. La letteratura sa che scoprirà una verità solo dopo averla raccontata e che quando racconta due volte una storia non avrà raccontato in due modi diversi la stessa verità ma avrà raccontato due verità, perché la verità e il racconto vanno assieme, si scoprono assieme, è impossibile stabilire chi venga prima, chi fondi chi, chi inventi chi, se la letteratura la verità o se la verità la letteratura. Certo, se non ci fossero verità da dire non ci sarebbe niente da raccontare. Ma se non ci fossero i racconti non ci sarebbe mai stata nessuna verità da dire.  La letteratura sa che per esserlo non può e non deve essere suddita della verità. Le religioni, quali che siano gli espedienti retorici perché non lo si noti, scelgono una verità rispetto alla quale rendere suddita la letteratura, e dunque l’umanità che quella letteratura informa. Per le religioni la verità è stata detta e non resta che dirla meglio, comprenderla meglio, purché non-la-si-travisi, quindi decidendolo comunque loro qual è la lettura-corretta, la lettura-consentita. La letteratura sa che la verità sta nell’avventura del linguaggio, di quello che tramite la scrittura è possibile scoprire inventandolo, inventare scoprendolo. La letteratura non la si sa né la si può mai definire ben bene ma una cosa è certa: se chiede di essere autorizzata, se si preoccupa di non-travisare le narrazioni che l’hanno preceduta e che le succederanno, non è letteratura. Sarà pubblicistica e morta lì. Lagerkvist sceglie di raccontare di Barabba. Aggiungere un pezzo di racconto al racconto-ufficiale, al racconto-raccontato-già-tutto, è di per sé atto inventivo audace, necessario, ma non basta scegliere un soggetto non autorizzato per fare letteratura ovvero qualcosa di non autorizzabile per eccellenza. Leggo Barabba di notte in un albergo dalle pastosità moreschiane per scoprire se l’opera di Lagerkvist è letteratura o un lavoretto di mano religiosa. Il romanzo si apre sulla cloaca del Golgotha,  > “teschi e ossa giacevano sparsi ovunque insieme a croci stese a terra, mezze > marcite, che non servivano più ma che nessuno portava via, perché nessuno > avrebbe toccato le cose di quel luogo.”  A osservare il rabbino crocifisso agonizzante c’è Barabba il liberato, che lo osserva dubbioso, inquietato. Corrisponde il corpo “magro e gracile” di quell’uomo dal “petto senza peli, come quello di un adolescente” a colui che nel pretorio “aveva visto circondato di uno splendore abbagliante”? Come si può avere rispetto di un uomo le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai lavorato”? Nel romanzo di Lagerkvist l’interlocutore – mentale – di Barabba il liberato non è il maestro dei cristiani che da lui prenderanno il nome. Non ha nemmeno un nome suo. L’interlocutore di Barabba maledetto nel seno di sua madre è il crocifisso benedetto nel seno della sua di madre, con la differenza che il crocifisso una madre che l’ha amato fino alla croce e prima e dopo la croce l’ha avuta, mentre Barabba no, una madre non l’ha avuta, non ha saputo chi fosse. E il padre? Anche in questo son diversi, il maledetto e il benedetto alla nascita: uno ha dovuto uccidere suo padre, per sopravvivere, sopravvivere per modo di dire, l’altro perché fosse fatta la volontà del suo di padre ha dovuto morire e morire in croce: per la vita eterna sua e di tutti, così dice il padre del benedetto nel seno di sua madre. Il padre di Barabba, di nessuna parola e a prima impressione assai più brutale, non è stato così terribile. O semplicemente non altrettanto potente, onnipotente addirittura. Il romanzo è appena iniziato, è iniziato da poco, e già siamo da tutt’altra parte rispetto al racconto e all’atmosfera dai Vangeli. Intanto il protagonista è un altro e lo è per davvero, è altro rispetto al Gesù dei Vangeli, è altro rispetto ai fatti e ai luoghi della narrazione perché ha tutt’altra origine chi ne è al centro. Non un uomo che comunque sia si è messo al centro di una scena, non è la storia di un predicatore che va incontro alle folle e dunque alla loro volubilità. È la storia di un marginale, un solitario, un omicida. Sono due fuorilegge, certo, ma rappresentano due modi ben distinti di fuoriuscirne. Il crocifisso non intende infrangerla quanto rifondarla, vuol istituire una nuova legge alla quale inchinarsi con gioia, sollievo, consolazione. Barabba desidera restare al di fuori dalla legge quale che sia. Per Barabba o sei tu a crocifiggere la legge o sarà lei a crocifiggere te se non vorrai vivere da inchinato ai suoi piedi.    Stando al presunto messaggio canonizzato dei Vangeli, Gesù è venuto per Barabba, per i Barabba. Il benedetto è venuto per i maledetti: ma un maledetto fin dal seno di sua madre cosa può voler spartire da un benedetto fin dal seno di sua madre?  Barabba e Gesù sono coetanei, per Lagerkvist. Barabba era  > “un uomo di una trentina d’anni, di corporatura robusta, dal colorito terreo, > aveva la barba rossa e i capelli neri. Anche le sopracciglia erano nere e i > suoi occhi infossati nelle orbite, come se lo sguardo avesse voluto > nascondersi. Sotto un occhio cominciava una profonda cicatrice che spariva tra > la barba. Ma l’aspetto fisico di una persona non dice molto.”   Ah, com’è bravo qui Lagerkvist a negare l’evidenza che lui stesso pone: cosa può avere in comune un uomo già scavato e scalfito e lapidato dalla vita come Barabba con quel crocifisso gracile, magrolino, adolescenziale, con quel Cristo che a me pare dostoevskiano, le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai lavorato”? Ma il crocifisso prima di essere crocifisso, prima di iniziare a predicare tra le genti eleggendo i suoi apostoli, non era stato a bottega di falegname? Possibile che un giovane falegname sulla trentina potesse essere magrolino, esile, con le braccia sottili, il petto glabro, il corpo adolescenziale? Io, se devo immaginarmi il crocifisso stando ai Vangeli e non alla sterminatezza delle raffigurazioni che ne sono state fatte poi, costringendo l’immaginario, viziandolo, snaturandolo, certo non me lo raffiguro nelle sembianze del Raz Degan ai suoi bei tempi né nelle sembianze di Ernesto Che Guevara bello anche da morto come un Cristo-da-canone-vivo, e meno ancora come un uomo smilzo, sottopeso, insomma debole nel corpo perché meglio risultasse forte nello spirito. Nonostante le torture e le vessazioni io sulla cloaca del Golgotha, in mezzo agli altri crocifissi torturati, m’immagino un pezzo d’uomo crocifisso, un ex-falegname che avrà saputo conquistarsi la fiducia e poi la venerazione dei suoi simili perché appunto simili a lui come lui deve essere stato simile a sua madre, che secondo Lagerkvist “aveva l’aria di una contadina semplice e rozza”.  Una contadina semplice e rozza avrebbe mai potuto generare un uomo sottile come il crocifisso? Stando a come la descrive Lagerkvist la madre del crocifisso sarebbe stata invece perfetta come madre di Barabba il liberato, solo che “Barabba non aveva una madre”. Perché il Barabba di Lagerkvist fosse proprio quel Barabba è stato necessario che il crocifisso fosse proprio quel crocifisso. Gli antipodi. La tensione, l’invenzione, l’occasione del racconto di diventare letteratura in Lagerkvist sta tutto in questa separazione iniziale: come può la vita e il sogno di un’altra vita oltre la morte di un benedetto fin dal seno di sua madre poter coincidere con la vita e l’incubo di un’altra vita oltre la morte di un maledetto fin dal seno di sua madre? Il crocefisso di Lagerkvist viene per liberare un Barabba che vivrebbe come un’offesa insanabile essere salvato da lui, lui salvato all’origine perché amato da sua madre, a differenza sua, di Barabba, non amato da sua madre e non amato da suo padre e quindi mai amato e quindi inamabile.  Che beffa per il Barabba di Lagerkvist essere salvato da qualcuno a cui per salvarsi basta essere sé stesso, il figlio di suo padre, il figlio di Dio che è Dio lui per primo, insomma essere salvato da colui al quale per salvarsi da solo e per salvare tutti basta essere nato così com’è nato: da un padre terribile, sia, un padre la cui benedizione verso il proprio figlio non è meno terribile della maledizione che il padre di Barabba ha avuto verso di lui, ma pure da una madre che l’ha amato e che amandolo l’ha seguito fino alla croce, disapprovando chissà quanto le scelte mano a mano più suicida di quel figlio predicatore, andato verso le folle invece di starsene nel proprio particolare, lo stesso seguendolo fino ai piedi della croce, conservandolo della benedizione del suo seno di madre che ama suo figlio nonostante suo figlio, poiché secondo Lagerkvist > “Essa non soffriva come gli altri, non lo guardava come lo guardavano loro, > era ben sua madre. Certamente provava una pietà più grande di chiunque altro; > eppure sembrava rimproverargli di aver fatto tutto per farsi crocifiggere. > Aveva proprio dovuto cercarselo, lui, così puro e innocente, ed essa non > poteva approvare una cosa simile. Essendo sua madre essa aveva la certezza > della sua innocenza. Qualunque cosa avesse fatto, l’avrebbe considerato > innocente”.  Che ingiustizia per uno ingiustamente nato maledetto essere salvato da un giusto benedetto fin dalla nascita.  Il trauma insanabile del Barabba di Lagerkvist, che si autodiagnostica a sua insaputa, è di non aver avuto una madre come a lui, a Barabba, sarebbe piaciuto che fosse: una madre che te le perdona tutte, una madre che avrebbe fatto di te il criminale che poi sarebbe diventato lo stesso se cresciuto da una madre disposta a reputarti innocente a prescindere.  Il miracolo del crocifisso, nella scrittura che ne fa Lagerkvist, a questo punto sta invece proprio nell’essersi saputo condurre innocentemente nonostante la madre che ha avuto, rabbiosamente determinata a perdonargli tutto, incapace come deve essere stata di saper amare di un amore che non avesse bisogno di trovarti qualcosa da poterti perdonare prima di amarti. Barabba non ha avuto una una madre e chi non ha madre non può mai avere certezza di essere innocente, per cui qualunque cosa farà non potrà considerarsi innocente, così Barabba in Lagerkvist.  Per meglio dire, Barabba spiega così a sé stesso il corso della sua vita: un maledetto dagli altri non potrà che maledire sé stesso, non ci sarà salvatore che tenga in questi casi, e d’altronde come vuoi salvarti se la madre del figlio che ti avrebbe salvato non ha nessuna intenzione di salvarti a sua volta, di perdonarti, se anzi anche lei ti maledice, raddoppiando il carico?  > “Essa si fermò e lo fissò con uno sguardo così disperato e accusatore, che > Barabba non potrà mai sperare di dimenticare”. Stando ai fatti, nei Vangeli e nel romanzo di Lagerkvist, il crocifisso non ha salvato nessuno dalla sua condizione terrena, al più dalla morte ma giusto per rinfilarlo nella vita dalla quale continua a cercare scampo – vedi Lazzaro o la donna col labbro leporino o il compagno di miniera di Barabba – e comunque non certamente lui, non Barabba.  È stato il popolaccio di leopardiana memoria a venire a condannare il crocifisso, che pur di condannarlo ha fatto liberare Barabba, continuando a ignorare Barabba, è stato il popolaccio a condannare il più debole di lui per fare la volontà dei più prepotenti di lui, illudendosi così che i prepotenti possano diventarlo di meno verso di lui,  rendendolo un po’ meno debole, o comunque  prendendosi la soddisfazione di essere lui per una volta, lui popolaccio, il più prepotente e non il più debole come al solito.  Condannando il debole di turno per ottenere il favore del prepotente di turno il popolaccio condanna sé stesso, quando alla elezioni ci va con questo spirito il popolaccio condanna sempre sé stesso, il prepotente lo sa, anche per questo ogni tanto lascia per un po’ a piede libero un debole che cerca di raccontare agli altri deboli quanto non siano deboli, quale sia la loro forza: per crocifiggerlo poi meglio e con più gusto, per la gioia dei prepotenti e ancor di più per quella di chi non saprebbe rinunciare allo stato di schiavitù che almeno ci pensa lei a spiegargli tutto del perché la sua vita gli faccia orrore. La differenza tra il Barabba di Lagerkvist e gli altri personaggi del romanzo che scelgono di convertirsi, di voler credere, è che quegli altri sono disposti a farsi a salvare e questa condizione di per sé basta a salvarli, al di là di chi sia poi il presunto Salvatore, meritevole soltanto di avergli dato l’occasione di credere che un Salvatore esista, occasione non da poco e non da tutti.  Barabba no. Barabba non vuole essere salvato, non vuole la vita eterna o stare all’interno di una comunità che creda che una vita eterna sia possibile, che lo sia essere salvati, che sia possibile essere amati per sé stessi e amarsi gli uni gli altri. Barabba ormai può fare anche a meno della madre che non ha mai avuto. Barabba vuole delle scuse. A scuse ricevute magari potrà prendere seriamente in considerazione l’idea di accettare un dio, ma niente scuse niente dio, no, non se ne parla. Su un dio, sulla possibilità di un amore, ci mette la croce sopra chi sulla croce è stato messo da ben prima che ce lo inchiodassero di fatto. Specie se ai piedi di quella croce non c’è nessuno, non c’è mai stato nessuno, nessuno s’è mai fatto ri-conoscere per dirti: Non sei solo, ai piedi di questa croce ci sono io. Almeno questo. Barabba è troppo offeso – e ogni volta che ha offeso gli altri, nell’implicita speranza di riparare così all’offesa subita, si è offeso ulteriormente, al punto che l’offesa ha ricoperto tutto, non lasciando spazio per nient’altro, per nessun altro. Ero all’inizio del romanzo e senza accorgermene sono quasi alla fine, sono alla fine, o sono ancora all’inizio? Sono a Barabba che ha fatto il giro largo per tornare al punto di partenza, alla crocifissione soltanto rimandata.  Ma: secondo Lagerkvist chi è il crocifisso? Il crocifisso di prima o il crocifisso di dopo? Chi crede di poter salvare tutti compreso sé stesso o chi crede che non si salva nessuno? Chi è più crocifisso, il benedetto o il maledetto? Quando c’è la religione c’è la risposta, la risposta diventa talmente invadente che non c’è più spazio per la domanda, neppure per il ricordo di quale fosse la domanda. Quando c’è letteratura la risposta tocca a te che leggi – e con ogni probabilità non sarà mai la stessa risposta molto a lungo.  Detto questo, chi è che spira adesso? La messa della domenica, il romanzo del 1965, io, tu? antonio coda     *In copertina: un’opera di Honoré Daumier L'articolo Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al “Barabba” di Lagerkvist proviene da Pangea.
May 6, 2025 / Pangea
Sognando Busi. Ovvero: rileggendo “Grazie del pensiero”
Ho sognato Aldo Busi. Sogno Aldo Busi periodicamente. È una sorta di campanello neuronale che mi avvisa su come sia passato troppo tempo dall’ultima iniezione di linguaggio vivo nella psiche – perché seppure non possa diventare viva altrettanto almeno non si lasci spegnere del tutto, costretta com’è a subire l’uso generale della lingua o sciatto o ideologico, nostalgico e dunque finto-avanguardistico. Dal giorno appresso ho iniziato una nuova lettura di Grazie del pensiero, per Mondadori, del 1995. Che bel libro politico nell’accezione più estetica!, più ventoteniana, sovversivo fin dal titolo. Il libro, assieme ad altri testi, raccoglie le ‘lettere e risposte’ apparse sul giornale “L’indipendente”, calendario alla mano nel suo intervallo di pubblicazione tra il novembre del 1991 e il novembre del 1994. Si era alle prime battute del ciclo berlusconiano. La collaborazione valse a Busi il sospetto di essersi ‘riciclato’ a destra, un po’ come se per essere di sinistra bastasse presentarsi nelle piazze convocate dai giornali che si spacciano per tali, e in generale come se il giornalismo lo fosse ancora quando per qualificarsi deve rivendicarsi quale organo che non conta più di quale partito sia, trattandosi di sicuro dell’ennesimo organo espiantato alla democrazia. La letteratura, poi.  > “Ma che scrittore è colui che crede che il contesto sia il testo? Io, > semplicemente, ho sempre pensato che il mio testo è più importante di > qualsiasi contesto in cui appaia, e vorrei ben vedere il contrario.”  A nuova lettura in corso – la precedente risale al 2011, a una vita da lettore e da cittadino fa – a pagina 73 ri-cado nella carta lettoricida al passaggio «Ogni civiltà nasce da una traduzione»: se mi verrà in mente la falena che l’ha scritto, la citerò, se no pazienza. Pazienza.).  Non lascio tempo in mezzo, non paziento fino a pagina 80 dove apparirà il rimbalzo al voluto effetto di mancanza-di-memoria. La citazione sarà infatti ripetuta a pagina 80 con tanto di soluzione della dimenticanza: “([…] era di Gianfranco Folena, Volgarizzare e tradurre, 1991) [ma non so chi sia Folena, ricordarsi di guardare sulla «Garzantina», n.d.r]”. Il rimbalzo contribuisce al dinamismo interno del testo, al suo riformularsi in corso d’opera. Il libro riscrive sé stesso in fase redazionale, mentre lega assieme le sue parti già pubblicate altrove. Il testo respira, pensa.   Affetto da sindrome da informazione precoce, in linea con l’epoca, invece e intanto sono andato su Google inserendo come chiave di ricerca la citazione della falena, pregustando la soddisfazione di poterne sapere più io oggi, nel 2025, di Busi nel 1995 quando Larry Page e Sergey Brin si stavano ancora laureando e conoscendo all’Università di Standford.  Sono allora risalito alla paternità della citazione da una nota in appendice a un fascicolo sulla World literature(s) di tal Michele Sisto, di una università di Chieti-Pescara, del 2024, tramite la quale ho raggiunto un seminario del 1995 conservato nell’archivio online di Radio Radicale, con per tema “Come parlano i classici oggi? Modernità e fedeltà nella traduzione” (10.05.1995). Seminario tenuto a Roma il 10 maggio 1995. Da chi? Aldo Busi. Di nuovo lui.  Come nei sogni, e non solo, il presente è un bislacco cortocircuito tra un passato lungimirante a vuoto e un futuro pieno di tecnologia che per quanto spinta resta insufficiente perché lo si possa definire compiutamente moderno. Il link al seminario che mi era sconosciuto però l’ho rimediato!, mi dico, sentendomi uno speleologo della ricerca degno di menzione in targa comunale affissa in strada senza uscita. Per consolazione e per farmi bello lo mando a Dario, altro lettore appassionato di Aldo Busi, e lui mi spegne immediatamente gl’entusiasmi, comprovando che cercare online qualcosa di nuovo è come cercare un ago in un pagliaio senza aghi.  “Coda, saranno stati dieci anni fa, il sito Altriabusi.it era ancora online, fui io a inviare a te e Mario che intanto è morto lo stesso link. Invecchi, come tutti coloro che credono la vera svolta per l’umanità stia nell’inventare macchine più intelligenti di lei, cioè stupide uguali, e grazie tante al pensiero… Comunque: pensa alla grandezza anche accademica di Busi che si è tutto fatto da sé, con per interlocutore dico Agostino Lombardo! Busi ha avuto degli estimatori eccellenti [ma non so chi sia Lombardo, ricordarsi di guardare su Wikipedia]. Non ti ho detto che circa un mese fa a cena di amici a Brescia ci ho conosciuto un marito altrui che ha vissuto a Montichiari fino ai sedici anni. E io a lui: Lo saprai, a Montichiari ci è nato e ci vive un grande scrittore! E lui: Certo, Aldo Busi. Non l’ho mai letto ma lo stimo molto, è una persona seria. A Montichiari ci torno spesso, ci vive mio padre che è vecchio, e Busi l’ho visto un paio di settimane fa. M’è sembrato trascurato, un barbone quasi.” E io a Dario, di rilancio: “E la barbosità di chi si guarda bene dal leggerlo per giudicare meglio Aldo Busi avendolo intravisto oggi a passeggio e ieri su un teleschermo? Un barbone è a conti fatti un grande Barbino, per uno scrittore-scrittore la grandezza si palesa così.” Da Grazie del pensiero:  > “E che ne faremo di tutta la sofferenza altrui che ci lascia indifferenti o > che addirittura ci ripugna?” Il merito delle opere degli scrittori, anche le cosiddette minori, non consiste nel loro essere in anticipo rispetto a propri tempi ma nel rendere lampante a chi le legge quanto continui a essere in ritardo rispetto ai suoi. Chi legge ha meno scusanti di chi non legge, e chi non legge ha meno speranze ancora di poter vivere senza doverci ricorrere. La letteratura non chiede scusa se è quel che è, e perché mai dovrebbe? Come la vita quando è bella, da sogno, vale a dire intelligente per davvero. antonio coda L'articolo Sognando Busi. Ovvero: rileggendo “Grazie del pensiero” proviene da Pangea.
April 11, 2025 / Pangea