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Basta fare come gli alberi. Ovvero: storia di un lettore che ha importunato Alessio Arena
In metropolitana ho letto Le scimmie di José Revueltas, un cognome che è un programma di vita fin dalla nascita, nella traduzione della ei fu Alessandra Riccio: c’è Polonio il detenuto tossico che fuma in cella d’isolamento: “E allora il movimento trasferiva le proprie forme nell’ondulata scrittura di altri ritmi e le lentissime spirali si conservavano lungamente nella loro istantanea condizione di idoli ubriachi e di statue sorprese”. Leggendolo, ammirandolo, mi chiedevo cosa si scrive e si legge a fare se la scrittura, e la lettura pure, non sono anche forme di protesta per le cose-così-come-sono che passano per un uso importunante e emancipato della lingua? Purché sia una lingua che sappia ancora della saliva e delle labbra di chi la parla, altrimenti è una lingua laboratoriale e basta, la lingua senza voce di una bocca castrata. Il passaggio mentale successivo e obbligato è stato verso il romanzo Il sesso degli alberi di Alessio Arena, per Fandango, libro letto prima di Revueltas: nel romanzo di Arena si sta come nella bocca di chi parla, ogni parola assume di volta in volta il sapore o il saporaccio di chi la pronuncia facendola risalire dalle viscere in subbuglio. Alessio Arena è al sesto romanzo, in passato per Pangea ci ho conversato in merito a Ninna nanna delle mosche e a La notte non vuole venire, non me la sarei sentito di importunarlo ancora, eppoi io – che di norma non sono sospettoso – sospetto molto di me: come faccio a essere sicuro un libro che mi ha conquistato per come è stato scritto sia bello di per sé e non perché è piaciuto a me e allora capirai? Che sia un romanzo-romanzo al di là dei miei criteri che alla lunga possono diventare stantii e ripetitivi quindi inadatti a riconoscere la qualità di un romanzo, specie se è il romanzo di uno scrittore che si è già guadagnato la mia stima?   Da lettore per tante prime volte delle opere di Aldo Busi è una domanda che sto attento a pormi di continuo: come si evita di -ismizzare uno scrittore, andando a detrimento della recezione della sua opera? Dimenticandosene. Leggendo ogni libro come si stia leggendo per la prima volta un’opera di chi l’ha scritto. Uno scrittore o esordisce ogni volta o è uno scrittore di mestiere, di carriera, ovvero uno che è stato scrittore una volta eppoi un impiegato della scrittura tutte le volte successive. Lo stesso se si tratta di un libro in rilettura: per leggerlo onestamente, ovvero per leggerlo in modo sensato, bisogna dimenticare tutto quello che si è letto fin lì, a partire dal libro in questione e poi tutti gli altri. Lo stesso, pare, vale per la scrittura. Dunque, de Il sesso degli alberi di Alessio Arena mi è piaciuto il romanzo, che per me significa sempre il come è stato scritto, o mi è piaciuto che sia stato scritto da Alessio Arena?  L’incipit:  > “Alansorrenti lasciava dietro di sé una coda di odore detersivo. Dove stava > lei c’era sempre chi si tappava il naso, chi metteva le mani a ventaglio per > pulire l’aria, chi cacciava la lingua con una smorfia di iguana. Se poi > qualcuno se la trovava di fronte e non faceva in tempo a scansarsi, la > salutava veloce per paura di intossicarsi dentro all’abbraccio suo.”  La scrittura di Alessio Arena è da subito come l’Alansorrenti che apre il romanzo: lascia dietro di sé una traccia olfattiva. Si sta come in Il profumo di Patrick Süskind ma in maniera ancora più radicale, sfacciata, inclemente: è una lingua che tocca e fa toccare ciò che racconta, non privilegiando il dato visivo o uditivo, per quanto sia strabordante di musica e canto e visioni, allucinazioni comprese.  È una lingua che mette in contatto, che avvicina, che sprofonda e fa sprofondare nella materia che plasma, che fa diventare racconto. Chi legge che voglia o no diventa lingua a sua volta, le parole arrivano alla mente passando dalla bocca. O così mi sono sentito io, leggendo: un uomo trasformato in una lingua dalla lingua scritta del romanzo. Letto il primo capitolo ho scritto a Alessio Arena un messaggio privato, tramite il contatto mail ottenuto per le precedenti conversazioni. Ho scritto: “Alessio Arena, ho appena letto il primo capitolo de Il sesso degli alberi, le prime quattro pagine, e se le pagine appresso filano così per me è finita, ovvero è ricominciato tutto, è come ci fosse un nuovo grande salto in avanti e in lungo e in alto e in largo nella tua scrittura, che prende il meglio dai romanzi prima e ne fa qualcosa di bello di grande di nuovo. Da lettore, che grande entusiasmo quando nel romanzo di uno romanziere di cui ho letto gli altri romanzi sento il balzo in avanti dello scrittore che mi fa marameo, che mi fa “Credevi di conoscermi e invece devi imparare ancora tutto”, che scrive con la consapevolezza di quanto ha già scritto ma comunque scrivendo con l’audacia degli esordi. Uno scrittore, o così mi pare, scrive ogni libro come non dovesse scrivere altro che proprio quello, pure se di libri prima ne ha scritti a decine e altre decine ne scriverà dopo. Scrive ogni volta come fosse l’indubitabile scrittore di proprio-quel-romanzo. Tutto questo commentare per le prime quattro pagine del libro? Sì, perché in quattro pagine c’è tantissimo: ci sono due paesi, Italia e Spagna, un figlio e un padre morto e un femminello astratto che si candida come zia aggiuntiva per quel figlio senza più un padre e in pratica senza mai una madre, pur avendola ancora in vita, quell’Alansorrenti che si propone quale zia adottiva che non fa vita da reclusa come le altre due di-sangue dell’orfano a metà ma praticamente del tutto, una zia che la vita la fa proprio e propria e che al primo incontro all’orfano di fatto rivolge “una tenerezza dentro agli occhi che io non sapevo ancora che esisteva”. C’è la frattaglieria, il Festival Eurovisione, una partitura del compositore Domenico Sarrio, il rossetto rubato a una bambina durante una gita di classe nella Sierra de Armantes. Dunque: la vita, ovvero la letteratura quando ti fa desiderare di viverne altrettanta. Un saluto da lettore felice e ammirato.” A messaggio inviato mi sono chiesto che senso avesse avuto inviarglielo. I complimenti in privato, quando non invadenti, al meglio sono del tutto inutili, specie quando riguardano un atto che più pubblico non si può, la pubblicazione di un romanzo che una volta scritto ha a che fare con chi l’ha scritto tanto quanto con chi lo legge. Il problema è che a un libro non si può scrivere quello che ti ha smosso, leggendolo, e allora pur di liberarsi dal peso della gratitudine si scrive a chi l’ha scritto, compiendo una reiterata fallacia logica. Infatti, recidivo, lette altre cento pagine e più del romanzo ho scritto un secondo messaggio privato ad Alessio Arena, dal quale non avevo ricevuto risposta e che per quanto ne sapevo poteva non aver ricevuto il primo o se sì poteva non aver nessuna voglia di leggerlo. Il secondo messaggio in privato è stato: “Da ieri sera a ora le pagine sono diventate 140, e non mi diminuisce il piacere di leggere di questi personaggi meravigliosamente non conformi e mai deodorati calati in una dimensione tra l’incubo e l’immaginazione, e questa lingua inventata e monoica che li racconta fondendo il maschile dell’italiano e il femminile del dialetto, e questa Napoli Anni Ottanta attraversata con “lo sparpetuo del profugo troiano”. Un paragrafo esemplare in cui sento come la scrittura è diventata padrona della materia al punto da farla stare assieme a suo piacimento per me è questo: “C’erano anche partiture di oratori in cui le note sembravano piccoli insetti intrappolati nella resina, come quelli che avevo visto nella corteccia degli alberi di piazzetta Salazar, due cornioli separati da una cabina telefonica.” Mi sono andato a cercare su Google il corniolo, perché di alberi so nulla, figurati che sesso hanno.” Sentendomi a un passo dalla molestia, o peggio ancora della maleducazione, e valutando la sensatezza dei miei gesti, ho cominciato a valutare se non fosse il caso di proporre ad Alessio Arena una intervista su Pangeache avesse per oggetto appunto Il sesso degli alberi. Pertanto era importante finissi di leggere il romanzo, anche per scacciare un timore che mi stava sorgendo: a conti fatti ero soltanto al primo terzo del romanzo. E se continuando a leggere avesse smesso di piacermi ovvero mi avesse convinto di meno? Se la scrittura non fosse riuscita a mantenere il ritmo e il registro? Se la mia si fosse poi rivelata una sindrome da lettore precoce, poi come avrei giustificato un mio eventuale passo indietro? Come pure: se le mie impressioni da lettore le avessi concluse sulla centoquarantesima pagina, un mio silenzio successivo, una interruzione delle comunicazioni non richieste, non avrebbe potuto essere interpretata come una tacita stroncatura, un reticente rimprovero da lettore che poi si sarebbe sentito imprevedibilmente deluso? Sono state le domande di cui sopra la ragione del terzo messaggio privato: “Alessio Arena, le pagine sono diventate 265, ora sono nel bar di Marisa la Torera, a calle San Rafael, nel Barrio Chino dove coi primi calori “Ogni angolo del quartiere, in quel giugno così caldo, sembrava nascondere il cadavere di qualche zoccola“. Mi rendo conto ci sia qualcosa di offensivo nello sperticarsi per il sesto romanzo di uno scrittore, gli altri cinque potrebbero risentirsi, ma Il sesso degli alberi è scritto proprio come secondo me un romanzo deve essere scritto per poter essere reputato tale, con la personalità sconvolgente incontrata in L’infanzia delle cose incrementata, espansa. Pagina dopo pagina scopro perché mi piace il registro misteriosamente in equilibrio tra candore e decadenza, innocenza e squallore, con i personaggi a raffica tutti ben stondati, la trama che si sposta, e la sfida che pone nello stabilire cosa è più incredibile: i giardini domestici di Palazzo Sassano, gli alberi parlanti o l’epopea dei femminelli napoletani nell’Europa di fine Novecento o quella dei castrati dal Seicento in avanti? È un romanzo ricco, generoso, odoroso, e sfacciatamente politico come lo devono essere i romanzi: raccontando storie inclinate, trascinando nelle situazioni, ribadendo che il pensiero è sempre e soltanto un’essudazione della carne. Un romanzo con una lingua sua solo sua, oltre che di chi la parla nel romanzo stesso: Alansorrenti, Gennaro Crisantemo, Bacioterracino che non violenta perché non sa come si fa, e tutti gli altri.” Decido allora che non proporrò ad Alessio Arena un’intervista per Pangea, sarebbe stucchevole dopo tutto quello che già gl’ho scritto sul suo romanzo. D’altronde non sarei stato neanche sicuro della sua reazione: ricevere pareri a raffica da un lettore che in sostanza resta uno sconosciuto non deve mettere nessuno a proprio agio. Ancora una volta, è per la mia esclusiva esigenza personale di chiudere un cerchio aperto da me che mando ad Alessio Arena un quarto messaggio: “Ecco l’ultimo pezzetto della cronaca del lettore che ha appena finito il tuo romanzo ambizioso, déraciné, screanzato, adulto, di quelli che mandano l’algoritmo a chiedersi dov’ha sbagliato con te. Ora che l’ho finito posso complimentarmi oltre che con chi l’ha scritto con l’editore che ha saputo seguire la bussola della letteratura, che non è detto non conduca a fasti commerciali ma che non è direttamente lì che punta, punta a rendere la scrittura esperienza ludica e profana, intima e collettiva, tenera e spregiudicata. Nel romanzo c’è tutto quello che uno scrittore può desiderare ci avvenga dentro quando ne scrive uno, qualcosa che secondo me sfugge di mano allo scrittore stesso, che decide linee narrative che prendono il sopravvento, che disobbediscono alla camorra dei plot assodati, che non hanno bisogno dell’explicit per arrivare a compimento poiché si compiono all’interno dei singoli capitoli, dei singoli periodi, delle frasi andate a segno che mettono a punto una rappresentazione del mondo sensibile, nella sua parte visibile e in quella che non lo è – non che “O forse si abbracciò a lui stesso, ma con me dentro” non sia stato un explicit coi fiocchi, qui al termine di una storia di assenze che vogliono diventare presenza, reclamando cittadinanza in una società pigra fin nell’immaginario marcio e patinato assieme, che non li prevede, che non vuole riconoscergli voce. “La voce era sempre quello che mi faceva più paura di me, era la parte più cruda. La voce mi spogliava nuda. O meglio: il centro della mia nudezza era sempre la voce.” Per dirlo con zia Serena, patita per la smorfia napoletana: che quarantotto questo romanzo che parla! Che ha e dà voce. Il sesso degli alberi è un romanzo bellissimo.” Soltanto ora, a stalking completato, mi accorgo il romanzo si concluda così come si è aperto, in un abbraccio, al cui interno si rischia di intossicarsi, così all’inizio, e che nel finale lascia il sospetto sulla possibilità stessa di un abbraccio: cosa sente chi abbraccia, l’altro a cui fare spazio in quell’abbraccio o la propria volontà di annientarlo annettendolo a sé, al proprio sentire? Il sesso degli alberi, tra le altre cose, è anche la storia della fatica inutile perché gli altri ti guardino per come tu desideri essere guardato, una fatica accettata con “una tenerezza […] che io non sapevo ancora che esisteva”. Basta fare come gli alberi: stare lì dove si sta, e al limite lasciare che gli altri ci sbattano contro. Questo però me lo tengo per me, ad Alessio Arena ho già scritto troppo.    antonio coda *In copertina: una fotografia di Mario Giacomelli L'articolo Basta fare come gli alberi. Ovvero: storia di un lettore che ha importunato Alessio Arena proviene da Pangea.
June 11, 2025 / Pangea
La bambina e la fame. Sulla differenza tra giornalismo e letteratura
L’articolo va sotto l’etichetta Attualità. Secondo l’articolo c’è un posto nel mondo, il mio stesso mondo, dove c’è una bambina di 12 anni “così malnutrita che riesce a malapena a parlare.” L’articolo è corredato di foto, la didascalia recita sia della bambina malnutrita. Secondo la madre: “Se qualcuno la tocca o lei prova a muover le braccia o le gambe, grida di dolore.” A questo punto tocca a me, lettore, decidere cosa farmene dell’articolo.  Leggerlo diminuirà le sofferenze della bambina o aumenterà soltanto il mio senso di disaffezione verso la specie umana, qui da me rappresentata? Leggerlo servirà a far entrare i generi alimentari in quel posto del mondo dove per ora non possono entrare poiché, impedendo l’entrata dei generi alimentari si debella la minaccia che gli abitanti di quel posto rappresentano per gli abitanti del posto confinante, a detta del governo confinante è così che si fa, il quale governo, impedendo l’entrata dei generi alimentari, consente ci siano in quel posto “più di 70 mila bambini[…] ricoverati in ospedale per malnutrizione acuta” e che “1,1 milioni non dispongono del fabbisogno nutrizionale giornaliero necessario per sopravvivere”? Mi dico: i giornalisti che hanno scritto l’articolo di certo si augurano che io, leggendolo, faccia poi tutto ciò che è in mio potere per far sapere al governo del mio di posto che non continuerà a restare in carica a lungo se non fa nulla perché i generi alimentari entrino in quel posto lì del mondo, che non lo resterà perché perderà il mio voto e quello di moltissimi altri, e a me dispiace per loro, perché io il governo del mio posto non l’ho mai votato, con me non ha nulla da perdere, d’altronde seppure il governo in carica del mio posto mi fosse stato meno inviso dubito avrebbe avuto comunque il potere di influenzare il governo del paese che sta impedendo l’entrata dei generi alimentari in quel posto nel mondo dove un sacco di 25 chili di farina bianca costa 372 dollari. Per di più dubito che chi sostiene il governo del mio di posto smetta di sostenerlo perché quel posto nel mondo viene affamato. Sono dell’idea, o sono io che li calunnio pensandolo, sia comunque sempre meglio tenersi amico il governo del posto che li affama, siccome tenersi per amici loro, gli affamati, non arrecherebbe nessun beneficio, anzi. “Cari giornalisti”, direi ai giornalisti dell’articolo, “chi meglio di voi può accorgersi che uno più è povero più deve pagare le cose più di quanto le paghino i non poveri. Ai ricchi addirittura si regala. Si fa di tutto per farsi benvolere dai ricchi. Dai poveri invece si vuole stare alla larga. I poveri sono contagiosi. I ricchi purtroppo no.”  Un dottore, nell’articolo, “spiega che la carestia ha causato aborti spontanei e la nascita di bambini pericolosamente sottopeso con gravi malformazioni.” E se non si trattasse di un articolo d’attualità ma di una storia? “C’era una volta un posto dove i bambini nascevano pericolosamente sottopeso e con gravi malformazioni, quando non venivano abortiti prima – e c’era chi diceva fosse meglio così, essere abortiti prima.” Come continuerebbe la storia? Quali dilemmi morali, tuttavia del tutto speculativi, offrirebbe? È nell’articolo o nella storia a esserci un padre che dice: “Mi sento impotente quando i miei figli chiedono il pane e io non ho nulla da dargli. […] A volte mi auguro che possiamo morire assieme in un attacco aereo, per non soffrire la fame e questa continua agonia”?  Il personaggio del padre mi catturerebbe o, da raffinato lettore quale sono diventato, lo troverei troppo piatto, prevedibile, retoricamente debole? A dei giornalisti un padre in tale situazione cosa può mai raccontare, se non la versione più pietistica di sé stesso? Però bisognerebbe indagarlo. L’articolo del padre dice la sua famiglia conti nove persone. Ora, non saranno tutti figli ma la media dei figli, nell’articolo, è di quattro o cinque. Bene, così come ho sentito dire che in quel posto non si viene affamati ma che vi si debella l’obesità, non vedo perché non se ne possa dire che non si stanno uccidendo persone ma impartendo loro i rudimenti della pianificazione familiare.  Come si comporta il personaggio del padre con moglie e figli quando il governo del paese confinante non si impegna così a fondo per distruggere gli abitanti di quel posto dove abita anche lui, il padre? Cosa fa nella vita quando non è sotto diretta minaccia di invasione e distruzione? Approfondiamo il personaggio, rendiamolo credibile, esigiamone la doverosa parte di miserabilità comune a ogni vivente. La bimba nella foto – ritorno alla foto di corredo all’articolo – mostra una sua foto da uno smartphone, è la foto di quando non era denutrita ma una bella bambina dalle guance floride. Quindi adesso devo spegnere tutto, rimuovere l’articolo – è quello che faccio tutti i giorni, come vuoi che sia possibile sopravvivere sapendo di un milione e centomila persone studiatamente affamate, in quel posto lì, ignorando selettivamente gli altri posti dove pure agli abitanti gliene vengono fatte passare di ogni? – e calarsi nella scena, da sviluppare ulteriormente: c’è una bambina che grida di dolore se la tocchi, che ha le costole sporgenti e i capelli che cadono. Dall’articolo: “I capelli le stanno cadendo. Le costole le sporgono.” Bisogna immaginarsela mentre con le mani ossute accende lo schermo dello smartphone per rivedersi com’era prima della fame. In uno specchio magico e crudele.  Aveva bei capelli mossi, la sua vanità di bambina, e le guance paffute. Mia figlia ogni mattino si guarda allo specchio per controllare quanto le sono cresciuti i capelli. Sono la sua vanità da bambina. O tu lettore – mi dico – fai attenzione, altrimenti potrebbe insinuarsi il dubbio io stia intendendo che posso capire la sofferenza della bambina giusto perché una bambina ce l’ho anche io, quasi dispensando chi una bambina non ce l’ha dal poterla capire altrettanto, anzi quasi spingendolo a dire: Chi tante e chi nessuna, di bambine, e nel caso del personaggio del padre: ha tanti figli, averne qualcuno in meno alla fin fine per lui potrebbe rivelarsi addirittura un sollievo. Preciso perciò che avere una bambina mi aiuta a capire la vanità della bambina della foto, non certo la sua sofferenza, che non comprendo affatto, che non voglio comprendere, sempre per quella ragione del dover sopravvivere rimuovendo la consapevolezza sui fatti di cui sopra. Ho famiglia, io, oh, sono disumanizzato per giusta causa. La bambina, la scena è questa, soffre tanto per il suo essere uno scheletro dolorante ma è lo star perdendo i capelli a procurarle una sofferenza di ordine superiore, indimenticabile.  Non devo dimenticare chi ha scritto l’articolo, che lo ha scritto dopo averne scritti altri e che altri ancora ne scriverà. Lui, loro, come me, non potranno restare a lungo in compagnia della bambina. No, proprio no, bisogna rimuoverla. Bisogna andare avanti, quanto più non si può andare avanti tanto più si deve andare avanti il più velocemente possibile.  La bambina vive con sette familiari in quel posto nel mio stesso mondo, così riporta l’articolo di attualità. Saranno i sette familiari a restare con lei, ricordandosi di lei, assieme a lei. Io, lettore, devo solo illudermi chiedendomi: quando di anni ne avrà ventidue, poi trentadue, poi quarantadue, la donna che sarà come penserà alla bambina che sarà stata, al suo corpo in fiamme, ai suoi capelli diradati, al suo volto afflitto che a dodici anni già ne dimostrava molti di più?  A cinquantadue anni o sessantadue, specchiandosi, quella donna si dirà: “Ecco, questo è esattamente lo stesso volto che ho avuto quando ne avevo dodici.”  La storia allora potrebbe cominciare così, non spaventando i lettori aprendosi su un posto gremito di aborti e malformazioni, come la cloaca del Golgotha su cui si apre il romanzo Barabba di Lagerkvist, ma con una donna di sessantadue anni che guardandosi allo specchio pronuncia per sé stessa e per tutti coloro che la leggeranno la frase enigmatica: “Ecco, questo è esattamente lo stesso volto che ho avuto da bambina.”  Chi legge vorrà sapere: come, lo stesso volto? Cos’è, una storia fantastica, paradossale? E continueranno a leggere, sorretti dal sollievo iniziale: quale che sia stata la vita attraversata da quella donna almeno si ha certezza che abbia vissuto fin lì, che sia sopravvissuta. L’Ismaele melvilliano rappresenta sempre l’infantile speranza di sopravvivere per raccontarla. Che la bambina sopravviverà, che invecchierà, l’articolo e i giornalisti che l’hanno scritto non possono garantircelo. Io lettore non posso sapere se la bambina che viveva fino a pochi giorni fa nel posto della fame sia ancora viva ora che sto pensando a lei. Una storia, per essere una storia, dovrebbe tornarci su molto spesso, dovrebbe a continuare parlarci della bambina per più pagine, fino a un compimento o a una svolta o a qualcosa che gli assomigli. Una storia garantirebbe alla bambina il rifugio di una memoria collettiva molto più di un articolo di giornale, ma un articolo di giornale è tutto ciò che abbiamo. I giornalisti non possono continuare a scrivere della bambina, nessun giornale gli pagherebbe la storia della bambina dal costato sporgente che perdeva i capelli per la fame, e neppure io.  Io lettore non posso che immaginarla per la durata di un’altra piccola scena futura, immaginarmela mentre a dodici anni guardando la sua foto di poco tempo prima, del tempo prima della fame, dice a sé stessa: “Ecco il volto che avrò tra cinquant’anni, quando sarò sopravvissuta a tutto questo, chiedendomi che senso avrà avuto essere sopravvissuta a tutto questo.” antonio coda *In copertina: Fernand Khnopff, Ritratto di bambina, 1895 L'articolo La bambina e la fame. Sulla differenza tra giornalismo e letteratura proviene da Pangea.
June 3, 2025 / Pangea
Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al “Barabba” di Lagerkvist
Ho amici cattolici. Domenica delle Palme ero in piazza, per i saluti, e in piazza si diceva messa. Una piazza mesta come lo sono i luoghi inutilmente pubblici il più delle volte, quando non ci sono i leader delle ragioni superiori a organizzare i torpedoni. Quando ci sono gli stand della Coldiretti è un’altra storia, è quasi festa, per quanto anche lì a tener banco è l’illusione di poter comprare al miglior prezzo qualcosa di meno industrialmente nocivo. Si chiacchierava tutti ma quando è stata la volta della lettura del vangelo liturgico del giorno, recitato dal pulpito allestito al vento, cala un silenzio di attenzione dovuta, di ossequiosa osservanza delle circostanze cui s’adegua pure chi in piazza c’era per tutt’altra ragione, e taccio anch’io per colmo di stupore di fronte a tante persone, comunemente refrattarie a ogni letterarietà, che azzittiscono e mimano concentrazione per qualcuno che legge. I Vangeli, così come le Bibbia al completo, li ho letti nell’edizione concordata della Mondadori, perciò per me è sempre una novità ri-leggerli ascoltandoli nella versione approvata dalla CEI: troppi interessi di troppe parti difficilmente possono conciliarsi con quello principale della lealtà verso il testo, perché giunga a chi lo legge nella sua forma più aggiornata e il meno faziosa possibile.  «Ogni civiltà nasce da una traduzione», così Gianfranco Folena, citazione letta in un libro di Aldo Busi, per cui: dimmi a che traduzione t’affidi e ci capirò immediatamente qualcosa in più della civiltà che aspetta entrambi, se quella a cui t’affidi tu è la stessa a cui s’affidano in maggioranza. Ascolto. I vangeli nei secoli hanno avuto lettori sagaci, mica tanti, e sequele sterminate di pigri recettori di artate interpretazioni altrui, ma questo non dispensa nessuno dal farsene una lettura e un parere propri, se gli va, così come niente vieta che li si ignori come viene ignorata tanta parte della letteratura mondiale, al netto di quella che viene propinata nei programmi ministeriali, tante volte perché possa essere disprezzata subito e in blocco. Dal Vangelo di Luca:  > “…ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola… Io sto in > mezzo a voi come colui che serve…  il suo sudore diventò come gocce di sangue > che cadono a terra… con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?… E molte > altre cose dicevano contro di lui, insultandolo… Togli di mezzo costui! > Rimettici in libertà Barabba!… Detto questo, spirò.” Ascolto e mentre ascolto non sono più in piazza, non è più la Domenica delle Palme. È la notte di qualche mese fa, in gruppo rientriamo in albergo, siamo a Ischia per il matrimonio di una coppia di amici, è stato ufficializzato al comune di Forio la mattina stessa. Gli altri vanno ciascuno nella stanza assegnata, io resto a zonzo nella hall sottosopra dell’albergo. Siamo fuori stagione, nell’albergo sono in corso opere grosse di manutenzione: le porte delle camere non hanno gli stipiti, lungo i corridoi ammassano le biancherie da sostituire, le scaffalature stanno accatastate negli angoli. Ci si sente come in una delle narrazioni di Antonio Moresco, alla fine di un tempo e di uno spazio che ha perso memoria del suo prima e del suo dopo. Nella hall ci sono libri disposti in pile senza ordine bibliografico alcuno, le scruto a una a una, come resti di colonne di una cattedrale ipotetica, mentale. Scelgo quale pietra svellere: Barabba, di Lagerkvist, nell’edizione 1965 della Gherardo Casini Edizioni Periodiche, traduzione di Alois Baumgarthner, collana “I libri del sabato”. Lo scelgo perché è sottile, ideale per me che stanco come sono non mi aspetto di riuscire a leggere a lungo, in camera. Perché di Lagerkvist ho letto Il nano, e mi piacque. Lo scelgo perché di Saramago ho letto Il vangelo secondo Gesù Cristo, scrivendolo da scrittore quindi né noiosamente da apologista né facilmente da polemista.  Come ha scritto Lagerkvist di Barabba?, mi chiedo, scegliendolo per questo, non sapendo io se  Lagerkvist sia stato di qualche fede dichiarata o se no e se sì quale fosse e se no se si fosse sentito poi in dovere di dichiarare perché aveva preferito di no. Se a lettura del romanzo ultimato avessi continuato a non saperlo, a non poterlo sapere, Barabba sarebbe potuta dirsi l’opera di uno scrittore. La letteratura non può essere confessionale perché le religioni sono il contrario della letteratura. La religione si fonda sull’assunto che c’è una verità e che le narrazioni non possono che provare ad avvicinarsi a quella verità che le precede e che tutt’al più le ispira. Per la religione la narrazione viene dopo la verità. La letteratura sa che scoprirà una verità solo dopo averla raccontata e che quando racconta due volte una storia non avrà raccontato in due modi diversi la stessa verità ma avrà raccontato due verità, perché la verità e il racconto vanno assieme, si scoprono assieme, è impossibile stabilire chi venga prima, chi fondi chi, chi inventi chi, se la letteratura la verità o se la verità la letteratura. Certo, se non ci fossero verità da dire non ci sarebbe niente da raccontare. Ma se non ci fossero i racconti non ci sarebbe mai stata nessuna verità da dire.  La letteratura sa che per esserlo non può e non deve essere suddita della verità. Le religioni, quali che siano gli espedienti retorici perché non lo si noti, scelgono una verità rispetto alla quale rendere suddita la letteratura, e dunque l’umanità che quella letteratura informa. Per le religioni la verità è stata detta e non resta che dirla meglio, comprenderla meglio, purché non-la-si-travisi, quindi decidendolo comunque loro qual è la lettura-corretta, la lettura-consentita. La letteratura sa che la verità sta nell’avventura del linguaggio, di quello che tramite la scrittura è possibile scoprire inventandolo, inventare scoprendolo. La letteratura non la si sa né la si può mai definire ben bene ma una cosa è certa: se chiede di essere autorizzata, se si preoccupa di non-travisare le narrazioni che l’hanno preceduta e che le succederanno, non è letteratura. Sarà pubblicistica e morta lì. Lagerkvist sceglie di raccontare di Barabba. Aggiungere un pezzo di racconto al racconto-ufficiale, al racconto-raccontato-già-tutto, è di per sé atto inventivo audace, necessario, ma non basta scegliere un soggetto non autorizzato per fare letteratura ovvero qualcosa di non autorizzabile per eccellenza. Leggo Barabba di notte in un albergo dalle pastosità moreschiane per scoprire se l’opera di Lagerkvist è letteratura o un lavoretto di mano religiosa. Il romanzo si apre sulla cloaca del Golgotha,  > “teschi e ossa giacevano sparsi ovunque insieme a croci stese a terra, mezze > marcite, che non servivano più ma che nessuno portava via, perché nessuno > avrebbe toccato le cose di quel luogo.”  A osservare il rabbino crocifisso agonizzante c’è Barabba il liberato, che lo osserva dubbioso, inquietato. Corrisponde il corpo “magro e gracile” di quell’uomo dal “petto senza peli, come quello di un adolescente” a colui che nel pretorio “aveva visto circondato di uno splendore abbagliante”? Come si può avere rispetto di un uomo le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai lavorato”? Nel romanzo di Lagerkvist l’interlocutore – mentale – di Barabba il liberato non è il maestro dei cristiani che da lui prenderanno il nome. Non ha nemmeno un nome suo. L’interlocutore di Barabba maledetto nel seno di sua madre è il crocifisso benedetto nel seno della sua di madre, con la differenza che il crocifisso una madre che l’ha amato fino alla croce e prima e dopo la croce l’ha avuta, mentre Barabba no, una madre non l’ha avuta, non ha saputo chi fosse. E il padre? Anche in questo son diversi, il maledetto e il benedetto alla nascita: uno ha dovuto uccidere suo padre, per sopravvivere, sopravvivere per modo di dire, l’altro perché fosse fatta la volontà del suo di padre ha dovuto morire e morire in croce: per la vita eterna sua e di tutti, così dice il padre del benedetto nel seno di sua madre. Il padre di Barabba, di nessuna parola e a prima impressione assai più brutale, non è stato così terribile. O semplicemente non altrettanto potente, onnipotente addirittura. Il romanzo è appena iniziato, è iniziato da poco, e già siamo da tutt’altra parte rispetto al racconto e all’atmosfera dai Vangeli. Intanto il protagonista è un altro e lo è per davvero, è altro rispetto al Gesù dei Vangeli, è altro rispetto ai fatti e ai luoghi della narrazione perché ha tutt’altra origine chi ne è al centro. Non un uomo che comunque sia si è messo al centro di una scena, non è la storia di un predicatore che va incontro alle folle e dunque alla loro volubilità. È la storia di un marginale, un solitario, un omicida. Sono due fuorilegge, certo, ma rappresentano due modi ben distinti di fuoriuscirne. Il crocifisso non intende infrangerla quanto rifondarla, vuol istituire una nuova legge alla quale inchinarsi con gioia, sollievo, consolazione. Barabba desidera restare al di fuori dalla legge quale che sia. Per Barabba o sei tu a crocifiggere la legge o sarà lei a crocifiggere te se non vorrai vivere da inchinato ai suoi piedi.    Stando al presunto messaggio canonizzato dei Vangeli, Gesù è venuto per Barabba, per i Barabba. Il benedetto è venuto per i maledetti: ma un maledetto fin dal seno di sua madre cosa può voler spartire da un benedetto fin dal seno di sua madre?  Barabba e Gesù sono coetanei, per Lagerkvist. Barabba era  > “un uomo di una trentina d’anni, di corporatura robusta, dal colorito terreo, > aveva la barba rossa e i capelli neri. Anche le sopracciglia erano nere e i > suoi occhi infossati nelle orbite, come se lo sguardo avesse voluto > nascondersi. Sotto un occhio cominciava una profonda cicatrice che spariva tra > la barba. Ma l’aspetto fisico di una persona non dice molto.”   Ah, com’è bravo qui Lagerkvist a negare l’evidenza che lui stesso pone: cosa può avere in comune un uomo già scavato e scalfito e lapidato dalla vita come Barabba con quel crocifisso gracile, magrolino, adolescenziale, con quel Cristo che a me pare dostoevskiano, le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai lavorato”? Ma il crocifisso prima di essere crocifisso, prima di iniziare a predicare tra le genti eleggendo i suoi apostoli, non era stato a bottega di falegname? Possibile che un giovane falegname sulla trentina potesse essere magrolino, esile, con le braccia sottili, il petto glabro, il corpo adolescenziale? Io, se devo immaginarmi il crocifisso stando ai Vangeli e non alla sterminatezza delle raffigurazioni che ne sono state fatte poi, costringendo l’immaginario, viziandolo, snaturandolo, certo non me lo raffiguro nelle sembianze del Raz Degan ai suoi bei tempi né nelle sembianze di Ernesto Che Guevara bello anche da morto come un Cristo-da-canone-vivo, e meno ancora come un uomo smilzo, sottopeso, insomma debole nel corpo perché meglio risultasse forte nello spirito. Nonostante le torture e le vessazioni io sulla cloaca del Golgotha, in mezzo agli altri crocifissi torturati, m’immagino un pezzo d’uomo crocifisso, un ex-falegname che avrà saputo conquistarsi la fiducia e poi la venerazione dei suoi simili perché appunto simili a lui come lui deve essere stato simile a sua madre, che secondo Lagerkvist “aveva l’aria di una contadina semplice e rozza”.  Una contadina semplice e rozza avrebbe mai potuto generare un uomo sottile come il crocifisso? Stando a come la descrive Lagerkvist la madre del crocifisso sarebbe stata invece perfetta come madre di Barabba il liberato, solo che “Barabba non aveva una madre”. Perché il Barabba di Lagerkvist fosse proprio quel Barabba è stato necessario che il crocifisso fosse proprio quel crocifisso. Gli antipodi. La tensione, l’invenzione, l’occasione del racconto di diventare letteratura in Lagerkvist sta tutto in questa separazione iniziale: come può la vita e il sogno di un’altra vita oltre la morte di un benedetto fin dal seno di sua madre poter coincidere con la vita e l’incubo di un’altra vita oltre la morte di un maledetto fin dal seno di sua madre? Il crocefisso di Lagerkvist viene per liberare un Barabba che vivrebbe come un’offesa insanabile essere salvato da lui, lui salvato all’origine perché amato da sua madre, a differenza sua, di Barabba, non amato da sua madre e non amato da suo padre e quindi mai amato e quindi inamabile.  Che beffa per il Barabba di Lagerkvist essere salvato da qualcuno a cui per salvarsi basta essere sé stesso, il figlio di suo padre, il figlio di Dio che è Dio lui per primo, insomma essere salvato da colui al quale per salvarsi da solo e per salvare tutti basta essere nato così com’è nato: da un padre terribile, sia, un padre la cui benedizione verso il proprio figlio non è meno terribile della maledizione che il padre di Barabba ha avuto verso di lui, ma pure da una madre che l’ha amato e che amandolo l’ha seguito fino alla croce, disapprovando chissà quanto le scelte mano a mano più suicida di quel figlio predicatore, andato verso le folle invece di starsene nel proprio particolare, lo stesso seguendolo fino ai piedi della croce, conservandolo della benedizione del suo seno di madre che ama suo figlio nonostante suo figlio, poiché secondo Lagerkvist > “Essa non soffriva come gli altri, non lo guardava come lo guardavano loro, > era ben sua madre. Certamente provava una pietà più grande di chiunque altro; > eppure sembrava rimproverargli di aver fatto tutto per farsi crocifiggere. > Aveva proprio dovuto cercarselo, lui, così puro e innocente, ed essa non > poteva approvare una cosa simile. Essendo sua madre essa aveva la certezza > della sua innocenza. Qualunque cosa avesse fatto, l’avrebbe considerato > innocente”.  Che ingiustizia per uno ingiustamente nato maledetto essere salvato da un giusto benedetto fin dalla nascita.  Il trauma insanabile del Barabba di Lagerkvist, che si autodiagnostica a sua insaputa, è di non aver avuto una madre come a lui, a Barabba, sarebbe piaciuto che fosse: una madre che te le perdona tutte, una madre che avrebbe fatto di te il criminale che poi sarebbe diventato lo stesso se cresciuto da una madre disposta a reputarti innocente a prescindere.  Il miracolo del crocifisso, nella scrittura che ne fa Lagerkvist, a questo punto sta invece proprio nell’essersi saputo condurre innocentemente nonostante la madre che ha avuto, rabbiosamente determinata a perdonargli tutto, incapace come deve essere stata di saper amare di un amore che non avesse bisogno di trovarti qualcosa da poterti perdonare prima di amarti. Barabba non ha avuto una una madre e chi non ha madre non può mai avere certezza di essere innocente, per cui qualunque cosa farà non potrà considerarsi innocente, così Barabba in Lagerkvist.  Per meglio dire, Barabba spiega così a sé stesso il corso della sua vita: un maledetto dagli altri non potrà che maledire sé stesso, non ci sarà salvatore che tenga in questi casi, e d’altronde come vuoi salvarti se la madre del figlio che ti avrebbe salvato non ha nessuna intenzione di salvarti a sua volta, di perdonarti, se anzi anche lei ti maledice, raddoppiando il carico?  > “Essa si fermò e lo fissò con uno sguardo così disperato e accusatore, che > Barabba non potrà mai sperare di dimenticare”. Stando ai fatti, nei Vangeli e nel romanzo di Lagerkvist, il crocifisso non ha salvato nessuno dalla sua condizione terrena, al più dalla morte ma giusto per rinfilarlo nella vita dalla quale continua a cercare scampo – vedi Lazzaro o la donna col labbro leporino o il compagno di miniera di Barabba – e comunque non certamente lui, non Barabba.  È stato il popolaccio di leopardiana memoria a venire a condannare il crocifisso, che pur di condannarlo ha fatto liberare Barabba, continuando a ignorare Barabba, è stato il popolaccio a condannare il più debole di lui per fare la volontà dei più prepotenti di lui, illudendosi così che i prepotenti possano diventarlo di meno verso di lui,  rendendolo un po’ meno debole, o comunque  prendendosi la soddisfazione di essere lui per una volta, lui popolaccio, il più prepotente e non il più debole come al solito.  Condannando il debole di turno per ottenere il favore del prepotente di turno il popolaccio condanna sé stesso, quando alla elezioni ci va con questo spirito il popolaccio condanna sempre sé stesso, il prepotente lo sa, anche per questo ogni tanto lascia per un po’ a piede libero un debole che cerca di raccontare agli altri deboli quanto non siano deboli, quale sia la loro forza: per crocifiggerlo poi meglio e con più gusto, per la gioia dei prepotenti e ancor di più per quella di chi non saprebbe rinunciare allo stato di schiavitù che almeno ci pensa lei a spiegargli tutto del perché la sua vita gli faccia orrore. La differenza tra il Barabba di Lagerkvist e gli altri personaggi del romanzo che scelgono di convertirsi, di voler credere, è che quegli altri sono disposti a farsi a salvare e questa condizione di per sé basta a salvarli, al di là di chi sia poi il presunto Salvatore, meritevole soltanto di avergli dato l’occasione di credere che un Salvatore esista, occasione non da poco e non da tutti.  Barabba no. Barabba non vuole essere salvato, non vuole la vita eterna o stare all’interno di una comunità che creda che una vita eterna sia possibile, che lo sia essere salvati, che sia possibile essere amati per sé stessi e amarsi gli uni gli altri. Barabba ormai può fare anche a meno della madre che non ha mai avuto. Barabba vuole delle scuse. A scuse ricevute magari potrà prendere seriamente in considerazione l’idea di accettare un dio, ma niente scuse niente dio, no, non se ne parla. Su un dio, sulla possibilità di un amore, ci mette la croce sopra chi sulla croce è stato messo da ben prima che ce lo inchiodassero di fatto. Specie se ai piedi di quella croce non c’è nessuno, non c’è mai stato nessuno, nessuno s’è mai fatto ri-conoscere per dirti: Non sei solo, ai piedi di questa croce ci sono io. Almeno questo. Barabba è troppo offeso – e ogni volta che ha offeso gli altri, nell’implicita speranza di riparare così all’offesa subita, si è offeso ulteriormente, al punto che l’offesa ha ricoperto tutto, non lasciando spazio per nient’altro, per nessun altro. Ero all’inizio del romanzo e senza accorgermene sono quasi alla fine, sono alla fine, o sono ancora all’inizio? Sono a Barabba che ha fatto il giro largo per tornare al punto di partenza, alla crocifissione soltanto rimandata.  Ma: secondo Lagerkvist chi è il crocifisso? Il crocifisso di prima o il crocifisso di dopo? Chi crede di poter salvare tutti compreso sé stesso o chi crede che non si salva nessuno? Chi è più crocifisso, il benedetto o il maledetto? Quando c’è la religione c’è la risposta, la risposta diventa talmente invadente che non c’è più spazio per la domanda, neppure per il ricordo di quale fosse la domanda. Quando c’è letteratura la risposta tocca a te che leggi – e con ogni probabilità non sarà mai la stessa risposta molto a lungo.  Detto questo, chi è che spira adesso? La messa della domenica, il romanzo del 1965, io, tu? antonio coda     *In copertina: un’opera di Honoré Daumier L'articolo Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al “Barabba” di Lagerkvist proviene da Pangea.
May 6, 2025 / Pangea
Sognando Busi. Ovvero: rileggendo “Grazie del pensiero”
Ho sognato Aldo Busi. Sogno Aldo Busi periodicamente. È una sorta di campanello neuronale che mi avvisa su come sia passato troppo tempo dall’ultima iniezione di linguaggio vivo nella psiche – perché seppure non possa diventare viva altrettanto almeno non si lasci spegnere del tutto, costretta com’è a subire l’uso generale della lingua o sciatto o ideologico, nostalgico e dunque finto-avanguardistico. Dal giorno appresso ho iniziato una nuova lettura di Grazie del pensiero, per Mondadori, del 1995. Che bel libro politico nell’accezione più estetica!, più ventoteniana, sovversivo fin dal titolo. Il libro, assieme ad altri testi, raccoglie le ‘lettere e risposte’ apparse sul giornale “L’indipendente”, calendario alla mano nel suo intervallo di pubblicazione tra il novembre del 1991 e il novembre del 1994. Si era alle prime battute del ciclo berlusconiano. La collaborazione valse a Busi il sospetto di essersi ‘riciclato’ a destra, un po’ come se per essere di sinistra bastasse presentarsi nelle piazze convocate dai giornali che si spacciano per tali, e in generale come se il giornalismo lo fosse ancora quando per qualificarsi deve rivendicarsi quale organo che non conta più di quale partito sia, trattandosi di sicuro dell’ennesimo organo espiantato alla democrazia. La letteratura, poi.  > “Ma che scrittore è colui che crede che il contesto sia il testo? Io, > semplicemente, ho sempre pensato che il mio testo è più importante di > qualsiasi contesto in cui appaia, e vorrei ben vedere il contrario.”  A nuova lettura in corso – la precedente risale al 2011, a una vita da lettore e da cittadino fa – a pagina 73 ri-cado nella carta lettoricida al passaggio «Ogni civiltà nasce da una traduzione»: se mi verrà in mente la falena che l’ha scritto, la citerò, se no pazienza. Pazienza.).  Non lascio tempo in mezzo, non paziento fino a pagina 80 dove apparirà il rimbalzo al voluto effetto di mancanza-di-memoria. La citazione sarà infatti ripetuta a pagina 80 con tanto di soluzione della dimenticanza: “([…] era di Gianfranco Folena, Volgarizzare e tradurre, 1991) [ma non so chi sia Folena, ricordarsi di guardare sulla «Garzantina», n.d.r]”. Il rimbalzo contribuisce al dinamismo interno del testo, al suo riformularsi in corso d’opera. Il libro riscrive sé stesso in fase redazionale, mentre lega assieme le sue parti già pubblicate altrove. Il testo respira, pensa.   Affetto da sindrome da informazione precoce, in linea con l’epoca, invece e intanto sono andato su Google inserendo come chiave di ricerca la citazione della falena, pregustando la soddisfazione di poterne sapere più io oggi, nel 2025, di Busi nel 1995 quando Larry Page e Sergey Brin si stavano ancora laureando e conoscendo all’Università di Standford.  Sono allora risalito alla paternità della citazione da una nota in appendice a un fascicolo sulla World literature(s) di tal Michele Sisto, di una università di Chieti-Pescara, del 2024, tramite la quale ho raggiunto un seminario del 1995 conservato nell’archivio online di Radio Radicale, con per tema “Come parlano i classici oggi? Modernità e fedeltà nella traduzione” (10.05.1995). Seminario tenuto a Roma il 10 maggio 1995. Da chi? Aldo Busi. Di nuovo lui.  Come nei sogni, e non solo, il presente è un bislacco cortocircuito tra un passato lungimirante a vuoto e un futuro pieno di tecnologia che per quanto spinta resta insufficiente perché lo si possa definire compiutamente moderno. Il link al seminario che mi era sconosciuto però l’ho rimediato!, mi dico, sentendomi uno speleologo della ricerca degno di menzione in targa comunale affissa in strada senza uscita. Per consolazione e per farmi bello lo mando a Dario, altro lettore appassionato di Aldo Busi, e lui mi spegne immediatamente gl’entusiasmi, comprovando che cercare online qualcosa di nuovo è come cercare un ago in un pagliaio senza aghi.  “Coda, saranno stati dieci anni fa, il sito Altriabusi.it era ancora online, fui io a inviare a te e Mario che intanto è morto lo stesso link. Invecchi, come tutti coloro che credono la vera svolta per l’umanità stia nell’inventare macchine più intelligenti di lei, cioè stupide uguali, e grazie tante al pensiero… Comunque: pensa alla grandezza anche accademica di Busi che si è tutto fatto da sé, con per interlocutore dico Agostino Lombardo! Busi ha avuto degli estimatori eccellenti [ma non so chi sia Lombardo, ricordarsi di guardare su Wikipedia]. Non ti ho detto che circa un mese fa a cena di amici a Brescia ci ho conosciuto un marito altrui che ha vissuto a Montichiari fino ai sedici anni. E io a lui: Lo saprai, a Montichiari ci è nato e ci vive un grande scrittore! E lui: Certo, Aldo Busi. Non l’ho mai letto ma lo stimo molto, è una persona seria. A Montichiari ci torno spesso, ci vive mio padre che è vecchio, e Busi l’ho visto un paio di settimane fa. M’è sembrato trascurato, un barbone quasi.” E io a Dario, di rilancio: “E la barbosità di chi si guarda bene dal leggerlo per giudicare meglio Aldo Busi avendolo intravisto oggi a passeggio e ieri su un teleschermo? Un barbone è a conti fatti un grande Barbino, per uno scrittore-scrittore la grandezza si palesa così.” Da Grazie del pensiero:  > “E che ne faremo di tutta la sofferenza altrui che ci lascia indifferenti o > che addirittura ci ripugna?” Il merito delle opere degli scrittori, anche le cosiddette minori, non consiste nel loro essere in anticipo rispetto a propri tempi ma nel rendere lampante a chi le legge quanto continui a essere in ritardo rispetto ai suoi. Chi legge ha meno scusanti di chi non legge, e chi non legge ha meno speranze ancora di poter vivere senza doverci ricorrere. La letteratura non chiede scusa se è quel che è, e perché mai dovrebbe? Come la vita quando è bella, da sogno, vale a dire intelligente per davvero. antonio coda L'articolo Sognando Busi. Ovvero: rileggendo “Grazie del pensiero” proviene da Pangea.
April 11, 2025 / Pangea
Torgny Lindgren, l’UE e il mistero dello snus
Comunque, per fare qualche altro nome: Virginia Woolf, Peter Handke e Torgny Lindgren. Così risponde Jon Fosse alla domanda di Eskil Skjeldal, “Quali scrittori sono stati importanti per te?”, in Il mistero della fede, testo-intervista del 2015 tradotto da Margherita Podestà Heir e pubblicato da Baldini+Castoldi nel 2024. La Woolf non bisogna averla letto per sapere chi sia stata, se si è di quelli che leggono o che si spacciano per tali, e Handke è lo scrittore che leggo compulsivamente nell’ultimo paio d’anni, ma: Torgny Lindgren? Sprovveduto io o non è tra i soliti noti sul versante italiano – come del resto non lo era Fosse stesso, prima che il Nobel desse l’impulso all’editoria che pubblica i premiati eccellenti. Per Wikipedia, la prima fonte a tiro, Lindgren è uno scrittore svedese morto nel 2017 che ha ottenuto la consacrazione “con la pubblicazione de Il sentiero del serpente sulla roccia”. Leggi Wikipedia e di Lindgren ne sai quanto prima, un quasi nulla, tranne che è stato uno scrittore importante per Jon Fosse, al pari della Woolf e di Handke. Bisogna leggerlo, bisogna leggere uno scrittore che nella considerazione di Jon Fosse è importante quanto Virginia Woolf e Peter Handke, fosse solo per non essere d’accordo, per restare nell’incomprensione, nel mistero della letteratura che, come per tutti i misteri, per taluni è baggianata e per altri uno stare sull’orlo di un abisso.  Se per Fosse “scrivere è una specie di lode, anche nella poesia più buia, una lode del linguaggio”, come scrive Torgny Lindgren, cosa scrive? In Perdonami madre di Jacques Chessex per Armando Dadò editore mi aveva ha colpito il paratesto iniziale in cui si esplicita “l’intendimento” della collana in cui è stato pubblicato, I cristalli – Helvetia Nobilis: “L’intendimento è che questi testi contribuiscano a una riflessione sull’identità elvetica e sul lungo cammino che ha portato al formarsi dello Stato attuale.” Secondo l’editore la Svizzera è la sua letteratura. Così come l’Italia è la sua letteratura – finché ne ha avuta e ne vorrà avere una. La letteratura dà un’identità a chi ne cerca una, eventualmente per potersene poi disfare, ma qualcosa di cui potersi disfare deve essere data, prima. Datemi un punto di appoggio e il mondo potrò o sollevarlo o sprofondarlo ma niente punto d’appoggio niente mondo. E l’Europa? L’Europa, per dirne una, non è e non può essere il suo riarmo, non può consolidarsi nel segno del terrore di essere smantellata, distrutta, per quanto legittimo possa essere il suo terrore di esserlo. Un’identità fondata sul terrore è terribile di suo, è meglio perderla prima ancora di essersela data. E l’Europa per fondarsi sul terrore non ha mica dovuto attendere la Russia di Putin. La Fortezza Europa aka Bastiani si fonda sull’ansia securitaria fin da subito, sulla sua paura di sparire, sullo spavento si noti la sua insignificanza sopraggiunta.     L’identità europea moderna e contemporanea però potrebbe fondarsi tanto sulla Woolf quanto su Handke. E in che misura Torgny Lindgren contribuisce, può contribuire, all’identità europea, dunque anche alla mia che neppure sapevo del suo contribuito, poiché sempre a detta di Fosse: “Tutti traggono beneficio dalla matematica più avanzata, anche se non la comprendono, e tutti traggono beneficio della migliore letteratura, anche se in apparenza non ne ricavano nulla”? Cosa si ricava da Torgny Lindgren? “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso”, così scrive in Miele, del 1995, pubblicato da Giano nel 2002, nella traduzione di Carmen Giorgetti Cima.  È un passaggio narrativo nei paraggi dell’incipit, in auto ci sono le prime due entità della trinità che domina il romanzo. In auto ci sono “la donna sola di quarantacinque anni, una forestiera che veniva dal sud del paese e che aveva scritto dei libri sull’amore e sulla morte e sui santi”, scrittrice di pochissimi lettori, e l’uomo incaricato di ospitarla, che “portava una giacca di pelle nera sopra la camicia scozzese” e che “Puzzava di putrefazione.” La donna resterà innominata mentre l’uomo “Le confidò il suo nome, Hadar” e in quella scelta del verbo, nella sua resa italiana, in quel ‘confidò’ si sente tutta una tradizione letteraria sul potere magico del nome proprio, sul suo potere segreto. Miele rintocca di riflessioni sul mistero dell’essere al mondo.  Niente è ancora accaduto eppure tutto è già accaduto. Miele è un romanzo con le sue vicende, come tutti, ma è pure tutt’altro, un libro di sentenze, un libro sul mistero del tempo, “Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti”, sul mistero delle cose come la neve che è “una spuma di luce trasformata in materia”, sul mistero del corpo umano che consiste “di un’unione armoniosa di mobile e rigido, di fluido e solido, muco e smalto(…).”  Si può andare avanti, dire che Miele è “l’avventura del momentaneo prolungamento della vita”, la storia dei due fratelli Hadar e Olaf che sopravvivono grazie all’odio reciproco, come l’umanità di solito ecco, ma preferisco fermarmi prima poiché l’ho sentito da subito, dall’inizio, cosa si ricava leggendo Torgny Lindgren, al primo scambio tra la forestiera del sud e l’uomo in putrefazione del nord: >  “Tutti i paesaggi e le strade che vi serpeggiano hanno le loro peculiarità e > caratteristiche (…) Hanno le loro imperfezioni e loro difetti.” > > “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso.” Questa strada è la nostra vicenda umana stretta e dritta che attraversa la Storia mondiale sconnessa. Questo è il mistero della letteratura che rende amaro persino il miele, dolce persino la putrefazione.  Quanto più sarebbero temibili gli europei se i miliardi invece che in armi li spendessero in politica culturale, in letteratura, cinema, arte e via andare. Certo a nulla servirebbe per renderci indistruttibili ma nessuno più lo è o può più esserlo nell’epoca sorta e mai più tramontabile della Bomba:  > “L’età atomica non è mai finita. Abbiamo forse smesso di pensarla, presi dalla > fantasia di pace eterna del momento unipolare americano. Eppure l’epoca > apertasi nel 1945 non solo non è finita, ma è anzi «definitiva» nel senso del > tutto particolare che le attribuiva Günther Anders: al suo interno la storia > umana può giungere a termine”. > > da Se la bomba non ci protegge più della bomba, di Agnese Rossi, in “Limes” > 1,2025.  Non potremo mai più essere indistruttibili, imbattibili, d’altronde non lo siamo mai stati, ma potremmo diventare invitti perché non più orwellianamente manipolabili a piacere. Quando ci si è dati un’identità non resta poi molto altro che possano portarti via, se non la vita – ma la vita alla lunga che non è poi chissà quanto lunga bisogna renderla in ogni caso. L’identità almeno sarà servita a darti un senso, la sua invenzione, tra il nulla di prima e il nulla di dopo, perché poi Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti. E prima di nascere, idem. Per essere europei bisogna essere anti UE? Con Fosse  > “L’intero progetto dell’UE è antieuropeo, l’essenza dell’Europa è la > diversità, in tutti i sensi, mentre l’UE rappresenta, se non proprio > l’uniformità, sicuramente l’omologazione (…). È scandaloso. L’omologazione, > che sia dettata dal potere del denaro, da decisioni politiche o dalla > burocrazia, mi ripugna profondamente. Io sono un grande sostenitore > dell’Europa ed è proprio per questo che sono contro l’UE.”  Per dovere di verità va precisato che Fosse trovava scandaloso il divieto di vendita dello snus, tabacco svedese, nel 2015 il ReArm Europe plan era di là da venire. Il divieto di vendita dello snus è scandaloso, sia, ma pure il ReArme Europe plan per com’è stato escogitato non scherza. Quanto è illusorio immaginarsi, grazie alla letteratura, come persone circondate dal mistero impenetrabile di un’identità che ciascuno potrebbe reinventarsi ma soltanto secondo il proprio piacere mai imposto, mai imponibile? …Il dilemma dell’identità, per di più, non è che non abbia creato più problemi di quanti ne abbia risolti, ammesso ne abbia mai risolto qualcuno, ma per l’identità vale come per la Bomba. Per dirlo con altre parole di Agnese Rossi – che le pronuncia a proposito della teoria della deterrenza nucleare – giocare con la teoria dell’identità “continuerà a servire finché esisteranno le armi atomiche. Cioè ancora per molto tempo, visto che è impossibile disinventarle.” Disinventare il feticcio dell’identità è impossibile ma inventarsene di altre e di nuove sì, è possibile. È il compito e il mistero della letteratura. Perché non possiamo continuare a vivere così ma continueremo a vivere così lo stesso. antonio coda *In copertina: Eva Bonnier, Geor Pauli. Studio, 1884 ca. 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April 1, 2025 / Pangea
Osare il chiarore. Sui figli che raccontano la fine dei loro genitori
Ho letto Non sono più uscita dalla mia notte, della Ernaux, del 1997, Rizzoli, “Nasconde le mutande sporche sotto il cuscino”, dopo aver letto Perdonami madre, di Chessex, del 2006, Armando Dadò editore, “Con tante donne ho provato presto cosa sia la noia. Con mia madre non mi sono mai annoiato”. E non è passato molto tempo dalla lettura di Patrimonio di Joseph Roth, del 1991, Einaudi. Libri di figli e figlie che scrivono, talvolta dettagliandola, dell’umiliazione che la vecchiaia, tramite la malattia, ha impartito alle loro madri, ai loro padri.  Dei citati sono morti tutti tranne la Ernaux, che il prossimo settembre ne compirà ottantacinque. Ernaux e Chessex hanno avuto figli, Philip Roth no, comunque a quanto ne so nessuno ha scritto, talvolta dettagliandola, dell’umiliazione impartitagli dalla vecchiaia, nessuno ha ricambiato il favore – Roth per lo più ne ha scritto da sé.  Mi interrogo sul valore estetico e formale del raccontare il lutto e tutto ciò che lo precede e il poco che ne avanza. Cosa raccontano questi libri, come lo raccontano? Nel caso della Ernaux il testo è dichiaratamente diaristico, non rifinito, non rilavorato, non riscritto ovvero mai scritto, come questo bastasse ad attestarne l’autenticità, la sincerità. Chessex dichiara di scrivere procedendo per cancellazioni, per insoddisfazioni,  > “Scrivo di mia madre e forse dovrei preoccuparmi, perché esplicitando la sua > figura rischio di farle perdere, dentro di me, l’altra sua figura, quella più > profonda, più segreta, impossibile da dire”.  Ernaux e Chessex scrivono consapevolmente male, per non perdere del tutto coloro di cui scrivono. Scrivono da impauriti. Roth in Patrimonio scrive benissimo. Al cospetto della morte dei genitori a codesti figli talentuosi si palesa la mortalità, il diventare i prossimi della lista. Sentono d’aver fatto il passo avanti verso l’umiliazione. A me non dispiace che abbiano reso materiale narrativo i loro lutti, che altro avrebbero potuto o dovuto farsene?, ma la prevedibilità dell’uso che ne hanno fatto. Dai e dai tutti accampano lo stesso alibi: scrivendo garantiscono più lunga vita ai morti nei ricordi degli altri, di chi li leggerà. Ne difendono il ricordo, ricordandone la condizione umana umiliata dinanzi alla malattia e alla vecchiaia. Chi legge, va da sé, non ne saprà nulla di questi padri morti e di queste madri morte. Avrà avuto a che fare con dei personaggi letterari, più o meno riusciti (riusciti, tramite espedienti narrativi opposti, sono il padre di Roth e la madre della Ernaux; la madre di Chessex non traspare, traspare solo Chessex che la piange devo dire chiassosamente, e non me l’aspettavo da uno scrittore laconico, luciferino e letale qual è nei suoi romanzi), e se proprio ricorderà qualcosa sarà il come sono stati scritti, ovvero il chi li ha scritti, certo non avrà memoria di loro in quanto ispirati a veri-papà e vere-mamme. Ovvero: si scriva della morte di mamma, della morte di papà, ma senza alibi, più ammettendo che è un’occasione che una scrittrice e uno scrittore non possono lasciarsi sfuggire quella di poter raccontare in presa diretta la morte della loro carne di provenienza. Nota sui tempi che corrono: la vita allungandosi ha questa controindicazione, si diventa orfani a un’età in cui fino a poco tempo fa si moriva a propria volta. La madre della Ernaux muore nel 1986, la Ernaux è del 1940. La madre di Chessex muore nel 2001, Chessex nasce nel 1934. Roth va verso i sessant’anni quando suo padre muore andando verso i novanta. In queste condizioni risulta inevitabile che assistendo ai propri genitori moribondi si sviluppi l’impressione di starsi allenando per prendersi cure di sé stessi, per prepararsi a un peggio migliorabile in nulla, soltanto anticipato. Nell’epoca della morte intesa come eccezione alla regola si muore più a lungo e più volte del solito.  Per convincermi, cioè per essere interessanti al di là del coraggio dimostrato di non indietreggiare dinanzi all’orrore della morte di chi ha dato la vita a chi quel morire lo racconta, le narrazioni che mi piacerebbe leggere sarebbero scritte da figli su genitori ancora in vita o, ancora meglio, da genitori su figli vivi. Altrimenti è troppo comodo prendersi l’ultima parola quand’ormai ci ha pensato la morte a toglierla a coloro su cui quella parola si abbatte, ritraendoli definitivamente. Mi piacerebbe leggere della vita non legittimata dalla morte, non autorizzata dalla morte. La vita legittima sé stessa, e la letteratura lo stesso.  Scrivere in memoriam mi sa di pigrizia artistica, se non di pavidità di mezz’età di un averla tirata lunga ad arte per averlo fatto diventare un troppo tardi messo a propria disposizione.  Dopodiché: d’accordo l’apparir del vero, ma la vecchiaia è giocoforza una storia di rimbambimento, di degenza, di demenza? Sarà stato per il suo involontario effetto di controcanto se per questo ho apprezzato le vecchie donne raccontate da Willa Cather nei racconti raccolti da Adelphi in La nipote di Flaubert, nel 2005.  A proposito di Madame Franklin-Grouth, nipote eponima, la Cather scrive:  > “A ottantaquattro anni aveva ancora una capacità di provare piacere che molti > a questo mondo ignorano del tutto.”  E più avanti, a proposito di Mrs Field “vedova di James T. Fields, della casa editrice Ticknor and Fields”: “Quella donna aveva un vero talento per la sopravvivenza.”  (In E Baci, del 2013, per Il Fatto Quotidiano,  è invece confluito il testo di Aldo Busi sul suo incontro con l’editore Giunti forse già ultraottantenne, sull’averlo trovato un uomo bellissimo, accompagnato dalla riflessione su come la bellezza, che in Busi è una questione di stile, del saper far stare in sintonia la propria forma e il proprio contenuto, sia ormai diventata inseparabile dal mito obbligato della gioventù, e se solo ai giovani è consentito essere belli ai vecchi non resta che essere i brutti delle storie – ma vado a memoria, non ho il testo a portata, l’ho portato in salvo chissà dove tra un trasferirmi e l’altro per sfuggire al bradisismo in corso e l’ho dunque perduto prima del tempo.) La Cather fa una premessa per i suoi scritti raccolti in La nipote di Flaubert: “il libro avrà ben poche attrattive per chi ha meno di quarant’anni”, intendendo chi ne avesse meno di quaranta nel 1922. Perché “verso il 1922 il mondo si è spezzato in due”.  > “Com’è avvenuto questo cambiamento, ci si chiede. […] Certo il mondo delle > lettere emerso dalla guerra ha cambiato conio. In Inghilterra e in America i > «maestri» del secolo scorso hanno perso le loro credenziali, diventando figure > remote e incerte.”  Il mondo contemporaneo, con le tragiche esperienze delle guerre mondiali, è andato in pezzi e la letteratura con lei.  La letteratura per come è stata scritta fino ai tempi della Cather non può più essere scritta così. Cos’è che è andato irrimediabilmente perduto, con lei? La Cather, sempre a proposito della nipote eponima:  > “Nella sua mente c’era una sorta di grande chiarore, come nello studio di suo > zio a Croisset, con la fredda luce stemperata del Nord che si riversava dalle > molte finestre.”  L’accenno al chiarore della Cather mi rimanda al chiarore secondo, Handke letto nel suo irripetibile romanzo La ripetizione, 1986, Garzanti:  > “Nelle storie che scrivevo a quel tempo, l’insegnante mi aveva spesso > rimproverato d’inclinare al macabro, anzi d’essere addirittura assetato di > tenebra e raccapriccio; la legge della scrittura, diceva, era invece quella di > creare, lettera dopo lettera, sillaba dopo sillaba, il chiarore dei chiarori; > perfino un ultimo respiro doveva farsi, nella forma, respiro di vita.”   In un mondo a pezzi la sfida della letteratura è replicare la spezzatura o, per usare il gergo di Antonio Moresco, osare e inventare una nuova forma inedita, una nuova unità che non nasca dalla repressione degli opposti ma dal loro convivere, per utilizzare la parola totem di Aldo Busi in Le consapevolezze ultime, 2018, Einaudi, la sua ultima parola scritta, per ora? Non ho nulla contro le mutande sporche di merda nascoste sotto al cuscino dalle madri con l’Alzheimer, ricoverate nelle apposite strutture ospedaliere, ad averne. Per quest’Italia sanremese ad oltranza, disperatamente mammista perché qualcuna che ti perdoni tutto ancora prima che tu lo commetta torna utile sempre, per la quale è addirittura un colpo al cuoricino digerire un Simone Cristicchi quando canta “Preparerò da mangiare per cena, / io che so fare il caffè a malapena”, ben vengano i seminari sulla vecchiaia altrui scritti da Roth, Chessex, Ernaux. Purché non ci si rassegni al macabro, alla tenebra, al raccapriccio. Purché si osi ancora il chiarore. antonio coda *In copertina: un quadro di Lucian Freud L'articolo Osare il chiarore. Sui figli che raccontano la fine dei loro genitori proviene da Pangea.
March 17, 2025 / Pangea