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Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al “Barabba” di Lagerkvist
Ho amici cattolici. Domenica delle Palme ero in piazza, per i saluti, e in piazza si diceva messa. Una piazza mesta come lo sono i luoghi inutilmente pubblici il più delle volte, quando non ci sono i leader delle ragioni superiori a organizzare i torpedoni. Quando ci sono gli stand della Coldiretti è un’altra storia, è quasi festa, per quanto anche lì a tener banco è l’illusione di poter comprare al miglior prezzo qualcosa di meno industrialmente nocivo. Si chiacchierava tutti ma quando è stata la volta della lettura del vangelo liturgico del giorno, recitato dal pulpito allestito al vento, cala un silenzio di attenzione dovuta, di ossequiosa osservanza delle circostanze cui s’adegua pure chi in piazza c’era per tutt’altra ragione, e taccio anch’io per colmo di stupore di fronte a tante persone, comunemente refrattarie a ogni letterarietà, che azzittiscono e mimano concentrazione per qualcuno che legge. I Vangeli, così come le Bibbia al completo, li ho letti nell’edizione concordata della Mondadori, perciò per me è sempre una novità ri-leggerli ascoltandoli nella versione approvata dalla CEI: troppi interessi di troppe parti difficilmente possono conciliarsi con quello principale della lealtà verso il testo, perché giunga a chi lo legge nella sua forma più aggiornata e il meno faziosa possibile.  «Ogni civiltà nasce da una traduzione», così Gianfranco Folena, citazione letta in un libro di Aldo Busi, per cui: dimmi a che traduzione t’affidi e ci capirò immediatamente qualcosa in più della civiltà che aspetta entrambi, se quella a cui t’affidi tu è la stessa a cui s’affidano in maggioranza. Ascolto. I vangeli nei secoli hanno avuto lettori sagaci, mica tanti, e sequele sterminate di pigri recettori di artate interpretazioni altrui, ma questo non dispensa nessuno dal farsene una lettura e un parere propri, se gli va, così come niente vieta che li si ignori come viene ignorata tanta parte della letteratura mondiale, al netto di quella che viene propinata nei programmi ministeriali, tante volte perché possa essere disprezzata subito e in blocco. Dal Vangelo di Luca:  > “…ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola… Io sto in > mezzo a voi come colui che serve…  il suo sudore diventò come gocce di sangue > che cadono a terra… con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?… E molte > altre cose dicevano contro di lui, insultandolo… Togli di mezzo costui! > Rimettici in libertà Barabba!… Detto questo, spirò.” Ascolto e mentre ascolto non sono più in piazza, non è più la Domenica delle Palme. È la notte di qualche mese fa, in gruppo rientriamo in albergo, siamo a Ischia per il matrimonio di una coppia di amici, è stato ufficializzato al comune di Forio la mattina stessa. Gli altri vanno ciascuno nella stanza assegnata, io resto a zonzo nella hall sottosopra dell’albergo. Siamo fuori stagione, nell’albergo sono in corso opere grosse di manutenzione: le porte delle camere non hanno gli stipiti, lungo i corridoi ammassano le biancherie da sostituire, le scaffalature stanno accatastate negli angoli. Ci si sente come in una delle narrazioni di Antonio Moresco, alla fine di un tempo e di uno spazio che ha perso memoria del suo prima e del suo dopo. Nella hall ci sono libri disposti in pile senza ordine bibliografico alcuno, le scruto a una a una, come resti di colonne di una cattedrale ipotetica, mentale. Scelgo quale pietra svellere: Barabba, di Lagerkvist, nell’edizione 1965 della Gherardo Casini Edizioni Periodiche, traduzione di Alois Baumgarthner, collana “I libri del sabato”. Lo scelgo perché è sottile, ideale per me che stanco come sono non mi aspetto di riuscire a leggere a lungo, in camera. Perché di Lagerkvist ho letto Il nano, e mi piacque. Lo scelgo perché di Saramago ho letto Il vangelo secondo Gesù Cristo, scrivendolo da scrittore quindi né noiosamente da apologista né facilmente da polemista.  Come ha scritto Lagerkvist di Barabba?, mi chiedo, scegliendolo per questo, non sapendo io se  Lagerkvist sia stato di qualche fede dichiarata o se no e se sì quale fosse e se no se si fosse sentito poi in dovere di dichiarare perché aveva preferito di no. Se a lettura del romanzo ultimato avessi continuato a non saperlo, a non poterlo sapere, Barabba sarebbe potuta dirsi l’opera di uno scrittore. La letteratura non può essere confessionale perché le religioni sono il contrario della letteratura. La religione si fonda sull’assunto che c’è una verità e che le narrazioni non possono che provare ad avvicinarsi a quella verità che le precede e che tutt’al più le ispira. Per la religione la narrazione viene dopo la verità. La letteratura sa che scoprirà una verità solo dopo averla raccontata e che quando racconta due volte una storia non avrà raccontato in due modi diversi la stessa verità ma avrà raccontato due verità, perché la verità e il racconto vanno assieme, si scoprono assieme, è impossibile stabilire chi venga prima, chi fondi chi, chi inventi chi, se la letteratura la verità o se la verità la letteratura. Certo, se non ci fossero verità da dire non ci sarebbe niente da raccontare. Ma se non ci fossero i racconti non ci sarebbe mai stata nessuna verità da dire.  La letteratura sa che per esserlo non può e non deve essere suddita della verità. Le religioni, quali che siano gli espedienti retorici perché non lo si noti, scelgono una verità rispetto alla quale rendere suddita la letteratura, e dunque l’umanità che quella letteratura informa. Per le religioni la verità è stata detta e non resta che dirla meglio, comprenderla meglio, purché non-la-si-travisi, quindi decidendolo comunque loro qual è la lettura-corretta, la lettura-consentita. La letteratura sa che la verità sta nell’avventura del linguaggio, di quello che tramite la scrittura è possibile scoprire inventandolo, inventare scoprendolo. La letteratura non la si sa né la si può mai definire ben bene ma una cosa è certa: se chiede di essere autorizzata, se si preoccupa di non-travisare le narrazioni che l’hanno preceduta e che le succederanno, non è letteratura. Sarà pubblicistica e morta lì. Lagerkvist sceglie di raccontare di Barabba. Aggiungere un pezzo di racconto al racconto-ufficiale, al racconto-raccontato-già-tutto, è di per sé atto inventivo audace, necessario, ma non basta scegliere un soggetto non autorizzato per fare letteratura ovvero qualcosa di non autorizzabile per eccellenza. Leggo Barabba di notte in un albergo dalle pastosità moreschiane per scoprire se l’opera di Lagerkvist è letteratura o un lavoretto di mano religiosa. Il romanzo si apre sulla cloaca del Golgotha,  > “teschi e ossa giacevano sparsi ovunque insieme a croci stese a terra, mezze > marcite, che non servivano più ma che nessuno portava via, perché nessuno > avrebbe toccato le cose di quel luogo.”  A osservare il rabbino crocifisso agonizzante c’è Barabba il liberato, che lo osserva dubbioso, inquietato. Corrisponde il corpo “magro e gracile” di quell’uomo dal “petto senza peli, come quello di un adolescente” a colui che nel pretorio “aveva visto circondato di uno splendore abbagliante”? Come si può avere rispetto di un uomo le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai lavorato”? Nel romanzo di Lagerkvist l’interlocutore – mentale – di Barabba il liberato non è il maestro dei cristiani che da lui prenderanno il nome. Non ha nemmeno un nome suo. L’interlocutore di Barabba maledetto nel seno di sua madre è il crocifisso benedetto nel seno della sua di madre, con la differenza che il crocifisso una madre che l’ha amato fino alla croce e prima e dopo la croce l’ha avuta, mentre Barabba no, una madre non l’ha avuta, non ha saputo chi fosse. E il padre? Anche in questo son diversi, il maledetto e il benedetto alla nascita: uno ha dovuto uccidere suo padre, per sopravvivere, sopravvivere per modo di dire, l’altro perché fosse fatta la volontà del suo di padre ha dovuto morire e morire in croce: per la vita eterna sua e di tutti, così dice il padre del benedetto nel seno di sua madre. Il padre di Barabba, di nessuna parola e a prima impressione assai più brutale, non è stato così terribile. O semplicemente non altrettanto potente, onnipotente addirittura. Il romanzo è appena iniziato, è iniziato da poco, e già siamo da tutt’altra parte rispetto al racconto e all’atmosfera dai Vangeli. Intanto il protagonista è un altro e lo è per davvero, è altro rispetto al Gesù dei Vangeli, è altro rispetto ai fatti e ai luoghi della narrazione perché ha tutt’altra origine chi ne è al centro. Non un uomo che comunque sia si è messo al centro di una scena, non è la storia di un predicatore che va incontro alle folle e dunque alla loro volubilità. È la storia di un marginale, un solitario, un omicida. Sono due fuorilegge, certo, ma rappresentano due modi ben distinti di fuoriuscirne. Il crocifisso non intende infrangerla quanto rifondarla, vuol istituire una nuova legge alla quale inchinarsi con gioia, sollievo, consolazione. Barabba desidera restare al di fuori dalla legge quale che sia. Per Barabba o sei tu a crocifiggere la legge o sarà lei a crocifiggere te se non vorrai vivere da inchinato ai suoi piedi.    Stando al presunto messaggio canonizzato dei Vangeli, Gesù è venuto per Barabba, per i Barabba. Il benedetto è venuto per i maledetti: ma un maledetto fin dal seno di sua madre cosa può voler spartire da un benedetto fin dal seno di sua madre?  Barabba e Gesù sono coetanei, per Lagerkvist. Barabba era  > “un uomo di una trentina d’anni, di corporatura robusta, dal colorito terreo, > aveva la barba rossa e i capelli neri. Anche le sopracciglia erano nere e i > suoi occhi infossati nelle orbite, come se lo sguardo avesse voluto > nascondersi. Sotto un occhio cominciava una profonda cicatrice che spariva tra > la barba. Ma l’aspetto fisico di una persona non dice molto.”   Ah, com’è bravo qui Lagerkvist a negare l’evidenza che lui stesso pone: cosa può avere in comune un uomo già scavato e scalfito e lapidato dalla vita come Barabba con quel crocifisso gracile, magrolino, adolescenziale, con quel Cristo che a me pare dostoevskiano, le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai lavorato”? Ma il crocifisso prima di essere crocifisso, prima di iniziare a predicare tra le genti eleggendo i suoi apostoli, non era stato a bottega di falegname? Possibile che un giovane falegname sulla trentina potesse essere magrolino, esile, con le braccia sottili, il petto glabro, il corpo adolescenziale? Io, se devo immaginarmi il crocifisso stando ai Vangeli e non alla sterminatezza delle raffigurazioni che ne sono state fatte poi, costringendo l’immaginario, viziandolo, snaturandolo, certo non me lo raffiguro nelle sembianze del Raz Degan ai suoi bei tempi né nelle sembianze di Ernesto Che Guevara bello anche da morto come un Cristo-da-canone-vivo, e meno ancora come un uomo smilzo, sottopeso, insomma debole nel corpo perché meglio risultasse forte nello spirito. Nonostante le torture e le vessazioni io sulla cloaca del Golgotha, in mezzo agli altri crocifissi torturati, m’immagino un pezzo d’uomo crocifisso, un ex-falegname che avrà saputo conquistarsi la fiducia e poi la venerazione dei suoi simili perché appunto simili a lui come lui deve essere stato simile a sua madre, che secondo Lagerkvist “aveva l’aria di una contadina semplice e rozza”.  Una contadina semplice e rozza avrebbe mai potuto generare un uomo sottile come il crocifisso? Stando a come la descrive Lagerkvist la madre del crocifisso sarebbe stata invece perfetta come madre di Barabba il liberato, solo che “Barabba non aveva una madre”. Perché il Barabba di Lagerkvist fosse proprio quel Barabba è stato necessario che il crocifisso fosse proprio quel crocifisso. Gli antipodi. La tensione, l’invenzione, l’occasione del racconto di diventare letteratura in Lagerkvist sta tutto in questa separazione iniziale: come può la vita e il sogno di un’altra vita oltre la morte di un benedetto fin dal seno di sua madre poter coincidere con la vita e l’incubo di un’altra vita oltre la morte di un maledetto fin dal seno di sua madre? Il crocefisso di Lagerkvist viene per liberare un Barabba che vivrebbe come un’offesa insanabile essere salvato da lui, lui salvato all’origine perché amato da sua madre, a differenza sua, di Barabba, non amato da sua madre e non amato da suo padre e quindi mai amato e quindi inamabile.  Che beffa per il Barabba di Lagerkvist essere salvato da qualcuno a cui per salvarsi basta essere sé stesso, il figlio di suo padre, il figlio di Dio che è Dio lui per primo, insomma essere salvato da colui al quale per salvarsi da solo e per salvare tutti basta essere nato così com’è nato: da un padre terribile, sia, un padre la cui benedizione verso il proprio figlio non è meno terribile della maledizione che il padre di Barabba ha avuto verso di lui, ma pure da una madre che l’ha amato e che amandolo l’ha seguito fino alla croce, disapprovando chissà quanto le scelte mano a mano più suicida di quel figlio predicatore, andato verso le folle invece di starsene nel proprio particolare, lo stesso seguendolo fino ai piedi della croce, conservandolo della benedizione del suo seno di madre che ama suo figlio nonostante suo figlio, poiché secondo Lagerkvist > “Essa non soffriva come gli altri, non lo guardava come lo guardavano loro, > era ben sua madre. Certamente provava una pietà più grande di chiunque altro; > eppure sembrava rimproverargli di aver fatto tutto per farsi crocifiggere. > Aveva proprio dovuto cercarselo, lui, così puro e innocente, ed essa non > poteva approvare una cosa simile. Essendo sua madre essa aveva la certezza > della sua innocenza. Qualunque cosa avesse fatto, l’avrebbe considerato > innocente”.  Che ingiustizia per uno ingiustamente nato maledetto essere salvato da un giusto benedetto fin dalla nascita.  Il trauma insanabile del Barabba di Lagerkvist, che si autodiagnostica a sua insaputa, è di non aver avuto una madre come a lui, a Barabba, sarebbe piaciuto che fosse: una madre che te le perdona tutte, una madre che avrebbe fatto di te il criminale che poi sarebbe diventato lo stesso se cresciuto da una madre disposta a reputarti innocente a prescindere.  Il miracolo del crocifisso, nella scrittura che ne fa Lagerkvist, a questo punto sta invece proprio nell’essersi saputo condurre innocentemente nonostante la madre che ha avuto, rabbiosamente determinata a perdonargli tutto, incapace come deve essere stata di saper amare di un amore che non avesse bisogno di trovarti qualcosa da poterti perdonare prima di amarti. Barabba non ha avuto una una madre e chi non ha madre non può mai avere certezza di essere innocente, per cui qualunque cosa farà non potrà considerarsi innocente, così Barabba in Lagerkvist.  Per meglio dire, Barabba spiega così a sé stesso il corso della sua vita: un maledetto dagli altri non potrà che maledire sé stesso, non ci sarà salvatore che tenga in questi casi, e d’altronde come vuoi salvarti se la madre del figlio che ti avrebbe salvato non ha nessuna intenzione di salvarti a sua volta, di perdonarti, se anzi anche lei ti maledice, raddoppiando il carico?  > “Essa si fermò e lo fissò con uno sguardo così disperato e accusatore, che > Barabba non potrà mai sperare di dimenticare”. Stando ai fatti, nei Vangeli e nel romanzo di Lagerkvist, il crocifisso non ha salvato nessuno dalla sua condizione terrena, al più dalla morte ma giusto per rinfilarlo nella vita dalla quale continua a cercare scampo – vedi Lazzaro o la donna col labbro leporino o il compagno di miniera di Barabba – e comunque non certamente lui, non Barabba.  È stato il popolaccio di leopardiana memoria a venire a condannare il crocifisso, che pur di condannarlo ha fatto liberare Barabba, continuando a ignorare Barabba, è stato il popolaccio a condannare il più debole di lui per fare la volontà dei più prepotenti di lui, illudendosi così che i prepotenti possano diventarlo di meno verso di lui,  rendendolo un po’ meno debole, o comunque  prendendosi la soddisfazione di essere lui per una volta, lui popolaccio, il più prepotente e non il più debole come al solito.  Condannando il debole di turno per ottenere il favore del prepotente di turno il popolaccio condanna sé stesso, quando alla elezioni ci va con questo spirito il popolaccio condanna sempre sé stesso, il prepotente lo sa, anche per questo ogni tanto lascia per un po’ a piede libero un debole che cerca di raccontare agli altri deboli quanto non siano deboli, quale sia la loro forza: per crocifiggerlo poi meglio e con più gusto, per la gioia dei prepotenti e ancor di più per quella di chi non saprebbe rinunciare allo stato di schiavitù che almeno ci pensa lei a spiegargli tutto del perché la sua vita gli faccia orrore. La differenza tra il Barabba di Lagerkvist e gli altri personaggi del romanzo che scelgono di convertirsi, di voler credere, è che quegli altri sono disposti a farsi a salvare e questa condizione di per sé basta a salvarli, al di là di chi sia poi il presunto Salvatore, meritevole soltanto di avergli dato l’occasione di credere che un Salvatore esista, occasione non da poco e non da tutti.  Barabba no. Barabba non vuole essere salvato, non vuole la vita eterna o stare all’interno di una comunità che creda che una vita eterna sia possibile, che lo sia essere salvati, che sia possibile essere amati per sé stessi e amarsi gli uni gli altri. Barabba ormai può fare anche a meno della madre che non ha mai avuto. Barabba vuole delle scuse. A scuse ricevute magari potrà prendere seriamente in considerazione l’idea di accettare un dio, ma niente scuse niente dio, no, non se ne parla. Su un dio, sulla possibilità di un amore, ci mette la croce sopra chi sulla croce è stato messo da ben prima che ce lo inchiodassero di fatto. Specie se ai piedi di quella croce non c’è nessuno, non c’è mai stato nessuno, nessuno s’è mai fatto ri-conoscere per dirti: Non sei solo, ai piedi di questa croce ci sono io. Almeno questo. Barabba è troppo offeso – e ogni volta che ha offeso gli altri, nell’implicita speranza di riparare così all’offesa subita, si è offeso ulteriormente, al punto che l’offesa ha ricoperto tutto, non lasciando spazio per nient’altro, per nessun altro. Ero all’inizio del romanzo e senza accorgermene sono quasi alla fine, sono alla fine, o sono ancora all’inizio? Sono a Barabba che ha fatto il giro largo per tornare al punto di partenza, alla crocifissione soltanto rimandata.  Ma: secondo Lagerkvist chi è il crocifisso? Il crocifisso di prima o il crocifisso di dopo? Chi crede di poter salvare tutti compreso sé stesso o chi crede che non si salva nessuno? Chi è più crocifisso, il benedetto o il maledetto? Quando c’è la religione c’è la risposta, la risposta diventa talmente invadente che non c’è più spazio per la domanda, neppure per il ricordo di quale fosse la domanda. Quando c’è letteratura la risposta tocca a te che leggi – e con ogni probabilità non sarà mai la stessa risposta molto a lungo.  Detto questo, chi è che spira adesso? La messa della domenica, il romanzo del 1965, io, tu? antonio coda     *In copertina: un’opera di Honoré Daumier L'articolo Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al “Barabba” di Lagerkvist proviene da Pangea.
May 6, 2025 / Pangea
Sognando Busi. Ovvero: rileggendo “Grazie del pensiero”
Ho sognato Aldo Busi. Sogno Aldo Busi periodicamente. È una sorta di campanello neuronale che mi avvisa su come sia passato troppo tempo dall’ultima iniezione di linguaggio vivo nella psiche – perché seppure non possa diventare viva altrettanto almeno non si lasci spegnere del tutto, costretta com’è a subire l’uso generale della lingua o sciatto o ideologico, nostalgico e dunque finto-avanguardistico. Dal giorno appresso ho iniziato una nuova lettura di Grazie del pensiero, per Mondadori, del 1995. Che bel libro politico nell’accezione più estetica!, più ventoteniana, sovversivo fin dal titolo. Il libro, assieme ad altri testi, raccoglie le ‘lettere e risposte’ apparse sul giornale “L’indipendente”, calendario alla mano nel suo intervallo di pubblicazione tra il novembre del 1991 e il novembre del 1994. Si era alle prime battute del ciclo berlusconiano. La collaborazione valse a Busi il sospetto di essersi ‘riciclato’ a destra, un po’ come se per essere di sinistra bastasse presentarsi nelle piazze convocate dai giornali che si spacciano per tali, e in generale come se il giornalismo lo fosse ancora quando per qualificarsi deve rivendicarsi quale organo che non conta più di quale partito sia, trattandosi di sicuro dell’ennesimo organo espiantato alla democrazia. La letteratura, poi.  > “Ma che scrittore è colui che crede che il contesto sia il testo? Io, > semplicemente, ho sempre pensato che il mio testo è più importante di > qualsiasi contesto in cui appaia, e vorrei ben vedere il contrario.”  A nuova lettura in corso – la precedente risale al 2011, a una vita da lettore e da cittadino fa – a pagina 73 ri-cado nella carta lettoricida al passaggio «Ogni civiltà nasce da una traduzione»: se mi verrà in mente la falena che l’ha scritto, la citerò, se no pazienza. Pazienza.).  Non lascio tempo in mezzo, non paziento fino a pagina 80 dove apparirà il rimbalzo al voluto effetto di mancanza-di-memoria. La citazione sarà infatti ripetuta a pagina 80 con tanto di soluzione della dimenticanza: “([…] era di Gianfranco Folena, Volgarizzare e tradurre, 1991) [ma non so chi sia Folena, ricordarsi di guardare sulla «Garzantina», n.d.r]”. Il rimbalzo contribuisce al dinamismo interno del testo, al suo riformularsi in corso d’opera. Il libro riscrive sé stesso in fase redazionale, mentre lega assieme le sue parti già pubblicate altrove. Il testo respira, pensa.   Affetto da sindrome da informazione precoce, in linea con l’epoca, invece e intanto sono andato su Google inserendo come chiave di ricerca la citazione della falena, pregustando la soddisfazione di poterne sapere più io oggi, nel 2025, di Busi nel 1995 quando Larry Page e Sergey Brin si stavano ancora laureando e conoscendo all’Università di Standford.  Sono allora risalito alla paternità della citazione da una nota in appendice a un fascicolo sulla World literature(s) di tal Michele Sisto, di una università di Chieti-Pescara, del 2024, tramite la quale ho raggiunto un seminario del 1995 conservato nell’archivio online di Radio Radicale, con per tema “Come parlano i classici oggi? Modernità e fedeltà nella traduzione” (10.05.1995). Seminario tenuto a Roma il 10 maggio 1995. Da chi? Aldo Busi. Di nuovo lui.  Come nei sogni, e non solo, il presente è un bislacco cortocircuito tra un passato lungimirante a vuoto e un futuro pieno di tecnologia che per quanto spinta resta insufficiente perché lo si possa definire compiutamente moderno. Il link al seminario che mi era sconosciuto però l’ho rimediato!, mi dico, sentendomi uno speleologo della ricerca degno di menzione in targa comunale affissa in strada senza uscita. Per consolazione e per farmi bello lo mando a Dario, altro lettore appassionato di Aldo Busi, e lui mi spegne immediatamente gl’entusiasmi, comprovando che cercare online qualcosa di nuovo è come cercare un ago in un pagliaio senza aghi.  “Coda, saranno stati dieci anni fa, il sito Altriabusi.it era ancora online, fui io a inviare a te e Mario che intanto è morto lo stesso link. Invecchi, come tutti coloro che credono la vera svolta per l’umanità stia nell’inventare macchine più intelligenti di lei, cioè stupide uguali, e grazie tante al pensiero… Comunque: pensa alla grandezza anche accademica di Busi che si è tutto fatto da sé, con per interlocutore dico Agostino Lombardo! Busi ha avuto degli estimatori eccellenti [ma non so chi sia Lombardo, ricordarsi di guardare su Wikipedia]. Non ti ho detto che circa un mese fa a cena di amici a Brescia ci ho conosciuto un marito altrui che ha vissuto a Montichiari fino ai sedici anni. E io a lui: Lo saprai, a Montichiari ci è nato e ci vive un grande scrittore! E lui: Certo, Aldo Busi. Non l’ho mai letto ma lo stimo molto, è una persona seria. A Montichiari ci torno spesso, ci vive mio padre che è vecchio, e Busi l’ho visto un paio di settimane fa. M’è sembrato trascurato, un barbone quasi.” E io a Dario, di rilancio: “E la barbosità di chi si guarda bene dal leggerlo per giudicare meglio Aldo Busi avendolo intravisto oggi a passeggio e ieri su un teleschermo? Un barbone è a conti fatti un grande Barbino, per uno scrittore-scrittore la grandezza si palesa così.” Da Grazie del pensiero:  > “E che ne faremo di tutta la sofferenza altrui che ci lascia indifferenti o > che addirittura ci ripugna?” Il merito delle opere degli scrittori, anche le cosiddette minori, non consiste nel loro essere in anticipo rispetto a propri tempi ma nel rendere lampante a chi le legge quanto continui a essere in ritardo rispetto ai suoi. Chi legge ha meno scusanti di chi non legge, e chi non legge ha meno speranze ancora di poter vivere senza doverci ricorrere. La letteratura non chiede scusa se è quel che è, e perché mai dovrebbe? Come la vita quando è bella, da sogno, vale a dire intelligente per davvero. antonio coda L'articolo Sognando Busi. 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April 11, 2025 / Pangea
Torgny Lindgren, l’UE e il mistero dello snus
Comunque, per fare qualche altro nome: Virginia Woolf, Peter Handke e Torgny Lindgren. Così risponde Jon Fosse alla domanda di Eskil Skjeldal, “Quali scrittori sono stati importanti per te?”, in Il mistero della fede, testo-intervista del 2015 tradotto da Margherita Podestà Heir e pubblicato da Baldini+Castoldi nel 2024. La Woolf non bisogna averla letto per sapere chi sia stata, se si è di quelli che leggono o che si spacciano per tali, e Handke è lo scrittore che leggo compulsivamente nell’ultimo paio d’anni, ma: Torgny Lindgren? Sprovveduto io o non è tra i soliti noti sul versante italiano – come del resto non lo era Fosse stesso, prima che il Nobel desse l’impulso all’editoria che pubblica i premiati eccellenti. Per Wikipedia, la prima fonte a tiro, Lindgren è uno scrittore svedese morto nel 2017 che ha ottenuto la consacrazione “con la pubblicazione de Il sentiero del serpente sulla roccia”. Leggi Wikipedia e di Lindgren ne sai quanto prima, un quasi nulla, tranne che è stato uno scrittore importante per Jon Fosse, al pari della Woolf e di Handke. Bisogna leggerlo, bisogna leggere uno scrittore che nella considerazione di Jon Fosse è importante quanto Virginia Woolf e Peter Handke, fosse solo per non essere d’accordo, per restare nell’incomprensione, nel mistero della letteratura che, come per tutti i misteri, per taluni è baggianata e per altri uno stare sull’orlo di un abisso.  Se per Fosse “scrivere è una specie di lode, anche nella poesia più buia, una lode del linguaggio”, come scrive Torgny Lindgren, cosa scrive? In Perdonami madre di Jacques Chessex per Armando Dadò editore mi aveva ha colpito il paratesto iniziale in cui si esplicita “l’intendimento” della collana in cui è stato pubblicato, I cristalli – Helvetia Nobilis: “L’intendimento è che questi testi contribuiscano a una riflessione sull’identità elvetica e sul lungo cammino che ha portato al formarsi dello Stato attuale.” Secondo l’editore la Svizzera è la sua letteratura. Così come l’Italia è la sua letteratura – finché ne ha avuta e ne vorrà avere una. La letteratura dà un’identità a chi ne cerca una, eventualmente per potersene poi disfare, ma qualcosa di cui potersi disfare deve essere data, prima. Datemi un punto di appoggio e il mondo potrò o sollevarlo o sprofondarlo ma niente punto d’appoggio niente mondo. E l’Europa? L’Europa, per dirne una, non è e non può essere il suo riarmo, non può consolidarsi nel segno del terrore di essere smantellata, distrutta, per quanto legittimo possa essere il suo terrore di esserlo. Un’identità fondata sul terrore è terribile di suo, è meglio perderla prima ancora di essersela data. E l’Europa per fondarsi sul terrore non ha mica dovuto attendere la Russia di Putin. La Fortezza Europa aka Bastiani si fonda sull’ansia securitaria fin da subito, sulla sua paura di sparire, sullo spavento si noti la sua insignificanza sopraggiunta.     L’identità europea moderna e contemporanea però potrebbe fondarsi tanto sulla Woolf quanto su Handke. E in che misura Torgny Lindgren contribuisce, può contribuire, all’identità europea, dunque anche alla mia che neppure sapevo del suo contribuito, poiché sempre a detta di Fosse: “Tutti traggono beneficio dalla matematica più avanzata, anche se non la comprendono, e tutti traggono beneficio della migliore letteratura, anche se in apparenza non ne ricavano nulla”? Cosa si ricava da Torgny Lindgren? “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso”, così scrive in Miele, del 1995, pubblicato da Giano nel 2002, nella traduzione di Carmen Giorgetti Cima.  È un passaggio narrativo nei paraggi dell’incipit, in auto ci sono le prime due entità della trinità che domina il romanzo. In auto ci sono “la donna sola di quarantacinque anni, una forestiera che veniva dal sud del paese e che aveva scritto dei libri sull’amore e sulla morte e sui santi”, scrittrice di pochissimi lettori, e l’uomo incaricato di ospitarla, che “portava una giacca di pelle nera sopra la camicia scozzese” e che “Puzzava di putrefazione.” La donna resterà innominata mentre l’uomo “Le confidò il suo nome, Hadar” e in quella scelta del verbo, nella sua resa italiana, in quel ‘confidò’ si sente tutta una tradizione letteraria sul potere magico del nome proprio, sul suo potere segreto. Miele rintocca di riflessioni sul mistero dell’essere al mondo.  Niente è ancora accaduto eppure tutto è già accaduto. Miele è un romanzo con le sue vicende, come tutti, ma è pure tutt’altro, un libro di sentenze, un libro sul mistero del tempo, “Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti”, sul mistero delle cose come la neve che è “una spuma di luce trasformata in materia”, sul mistero del corpo umano che consiste “di un’unione armoniosa di mobile e rigido, di fluido e solido, muco e smalto(…).”  Si può andare avanti, dire che Miele è “l’avventura del momentaneo prolungamento della vita”, la storia dei due fratelli Hadar e Olaf che sopravvivono grazie all’odio reciproco, come l’umanità di solito ecco, ma preferisco fermarmi prima poiché l’ho sentito da subito, dall’inizio, cosa si ricava leggendo Torgny Lindgren, al primo scambio tra la forestiera del sud e l’uomo in putrefazione del nord: >  “Tutti i paesaggi e le strade che vi serpeggiano hanno le loro peculiarità e > caratteristiche (…) Hanno le loro imperfezioni e loro difetti.” > > “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso.” Questa strada è la nostra vicenda umana stretta e dritta che attraversa la Storia mondiale sconnessa. Questo è il mistero della letteratura che rende amaro persino il miele, dolce persino la putrefazione.  Quanto più sarebbero temibili gli europei se i miliardi invece che in armi li spendessero in politica culturale, in letteratura, cinema, arte e via andare. Certo a nulla servirebbe per renderci indistruttibili ma nessuno più lo è o può più esserlo nell’epoca sorta e mai più tramontabile della Bomba:  > “L’età atomica non è mai finita. Abbiamo forse smesso di pensarla, presi dalla > fantasia di pace eterna del momento unipolare americano. Eppure l’epoca > apertasi nel 1945 non solo non è finita, ma è anzi «definitiva» nel senso del > tutto particolare che le attribuiva Günther Anders: al suo interno la storia > umana può giungere a termine”. > > da Se la bomba non ci protegge più della bomba, di Agnese Rossi, in “Limes” > 1,2025.  Non potremo mai più essere indistruttibili, imbattibili, d’altronde non lo siamo mai stati, ma potremmo diventare invitti perché non più orwellianamente manipolabili a piacere. Quando ci si è dati un’identità non resta poi molto altro che possano portarti via, se non la vita – ma la vita alla lunga che non è poi chissà quanto lunga bisogna renderla in ogni caso. L’identità almeno sarà servita a darti un senso, la sua invenzione, tra il nulla di prima e il nulla di dopo, perché poi Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti. E prima di nascere, idem. Per essere europei bisogna essere anti UE? Con Fosse  > “L’intero progetto dell’UE è antieuropeo, l’essenza dell’Europa è la > diversità, in tutti i sensi, mentre l’UE rappresenta, se non proprio > l’uniformità, sicuramente l’omologazione (…). È scandaloso. L’omologazione, > che sia dettata dal potere del denaro, da decisioni politiche o dalla > burocrazia, mi ripugna profondamente. Io sono un grande sostenitore > dell’Europa ed è proprio per questo che sono contro l’UE.”  Per dovere di verità va precisato che Fosse trovava scandaloso il divieto di vendita dello snus, tabacco svedese, nel 2015 il ReArm Europe plan era di là da venire. Il divieto di vendita dello snus è scandaloso, sia, ma pure il ReArme Europe plan per com’è stato escogitato non scherza. Quanto è illusorio immaginarsi, grazie alla letteratura, come persone circondate dal mistero impenetrabile di un’identità che ciascuno potrebbe reinventarsi ma soltanto secondo il proprio piacere mai imposto, mai imponibile? …Il dilemma dell’identità, per di più, non è che non abbia creato più problemi di quanti ne abbia risolti, ammesso ne abbia mai risolto qualcuno, ma per l’identità vale come per la Bomba. Per dirlo con altre parole di Agnese Rossi – che le pronuncia a proposito della teoria della deterrenza nucleare – giocare con la teoria dell’identità “continuerà a servire finché esisteranno le armi atomiche. Cioè ancora per molto tempo, visto che è impossibile disinventarle.” Disinventare il feticcio dell’identità è impossibile ma inventarsene di altre e di nuove sì, è possibile. È il compito e il mistero della letteratura. Perché non possiamo continuare a vivere così ma continueremo a vivere così lo stesso. antonio coda *In copertina: Eva Bonnier, Geor Pauli. Studio, 1884 ca. 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April 1, 2025 / Pangea
Osare il chiarore. Sui figli che raccontano la fine dei loro genitori
Ho letto Non sono più uscita dalla mia notte, della Ernaux, del 1997, Rizzoli, “Nasconde le mutande sporche sotto il cuscino”, dopo aver letto Perdonami madre, di Chessex, del 2006, Armando Dadò editore, “Con tante donne ho provato presto cosa sia la noia. Con mia madre non mi sono mai annoiato”. E non è passato molto tempo dalla lettura di Patrimonio di Joseph Roth, del 1991, Einaudi. Libri di figli e figlie che scrivono, talvolta dettagliandola, dell’umiliazione che la vecchiaia, tramite la malattia, ha impartito alle loro madri, ai loro padri.  Dei citati sono morti tutti tranne la Ernaux, che il prossimo settembre ne compirà ottantacinque. Ernaux e Chessex hanno avuto figli, Philip Roth no, comunque a quanto ne so nessuno ha scritto, talvolta dettagliandola, dell’umiliazione impartitagli dalla vecchiaia, nessuno ha ricambiato il favore – Roth per lo più ne ha scritto da sé.  Mi interrogo sul valore estetico e formale del raccontare il lutto e tutto ciò che lo precede e il poco che ne avanza. Cosa raccontano questi libri, come lo raccontano? Nel caso della Ernaux il testo è dichiaratamente diaristico, non rifinito, non rilavorato, non riscritto ovvero mai scritto, come questo bastasse ad attestarne l’autenticità, la sincerità. Chessex dichiara di scrivere procedendo per cancellazioni, per insoddisfazioni,  > “Scrivo di mia madre e forse dovrei preoccuparmi, perché esplicitando la sua > figura rischio di farle perdere, dentro di me, l’altra sua figura, quella più > profonda, più segreta, impossibile da dire”.  Ernaux e Chessex scrivono consapevolmente male, per non perdere del tutto coloro di cui scrivono. Scrivono da impauriti. Roth in Patrimonio scrive benissimo. Al cospetto della morte dei genitori a codesti figli talentuosi si palesa la mortalità, il diventare i prossimi della lista. Sentono d’aver fatto il passo avanti verso l’umiliazione. A me non dispiace che abbiano reso materiale narrativo i loro lutti, che altro avrebbero potuto o dovuto farsene?, ma la prevedibilità dell’uso che ne hanno fatto. Dai e dai tutti accampano lo stesso alibi: scrivendo garantiscono più lunga vita ai morti nei ricordi degli altri, di chi li leggerà. Ne difendono il ricordo, ricordandone la condizione umana umiliata dinanzi alla malattia e alla vecchiaia. Chi legge, va da sé, non ne saprà nulla di questi padri morti e di queste madri morte. Avrà avuto a che fare con dei personaggi letterari, più o meno riusciti (riusciti, tramite espedienti narrativi opposti, sono il padre di Roth e la madre della Ernaux; la madre di Chessex non traspare, traspare solo Chessex che la piange devo dire chiassosamente, e non me l’aspettavo da uno scrittore laconico, luciferino e letale qual è nei suoi romanzi), e se proprio ricorderà qualcosa sarà il come sono stati scritti, ovvero il chi li ha scritti, certo non avrà memoria di loro in quanto ispirati a veri-papà e vere-mamme. Ovvero: si scriva della morte di mamma, della morte di papà, ma senza alibi, più ammettendo che è un’occasione che una scrittrice e uno scrittore non possono lasciarsi sfuggire quella di poter raccontare in presa diretta la morte della loro carne di provenienza. Nota sui tempi che corrono: la vita allungandosi ha questa controindicazione, si diventa orfani a un’età in cui fino a poco tempo fa si moriva a propria volta. La madre della Ernaux muore nel 1986, la Ernaux è del 1940. La madre di Chessex muore nel 2001, Chessex nasce nel 1934. Roth va verso i sessant’anni quando suo padre muore andando verso i novanta. In queste condizioni risulta inevitabile che assistendo ai propri genitori moribondi si sviluppi l’impressione di starsi allenando per prendersi cure di sé stessi, per prepararsi a un peggio migliorabile in nulla, soltanto anticipato. Nell’epoca della morte intesa come eccezione alla regola si muore più a lungo e più volte del solito.  Per convincermi, cioè per essere interessanti al di là del coraggio dimostrato di non indietreggiare dinanzi all’orrore della morte di chi ha dato la vita a chi quel morire lo racconta, le narrazioni che mi piacerebbe leggere sarebbero scritte da figli su genitori ancora in vita o, ancora meglio, da genitori su figli vivi. Altrimenti è troppo comodo prendersi l’ultima parola quand’ormai ci ha pensato la morte a toglierla a coloro su cui quella parola si abbatte, ritraendoli definitivamente. Mi piacerebbe leggere della vita non legittimata dalla morte, non autorizzata dalla morte. La vita legittima sé stessa, e la letteratura lo stesso.  Scrivere in memoriam mi sa di pigrizia artistica, se non di pavidità di mezz’età di un averla tirata lunga ad arte per averlo fatto diventare un troppo tardi messo a propria disposizione.  Dopodiché: d’accordo l’apparir del vero, ma la vecchiaia è giocoforza una storia di rimbambimento, di degenza, di demenza? Sarà stato per il suo involontario effetto di controcanto se per questo ho apprezzato le vecchie donne raccontate da Willa Cather nei racconti raccolti da Adelphi in La nipote di Flaubert, nel 2005.  A proposito di Madame Franklin-Grouth, nipote eponima, la Cather scrive:  > “A ottantaquattro anni aveva ancora una capacità di provare piacere che molti > a questo mondo ignorano del tutto.”  E più avanti, a proposito di Mrs Field “vedova di James T. Fields, della casa editrice Ticknor and Fields”: “Quella donna aveva un vero talento per la sopravvivenza.”  (In E Baci, del 2013, per Il Fatto Quotidiano,  è invece confluito il testo di Aldo Busi sul suo incontro con l’editore Giunti forse già ultraottantenne, sull’averlo trovato un uomo bellissimo, accompagnato dalla riflessione su come la bellezza, che in Busi è una questione di stile, del saper far stare in sintonia la propria forma e il proprio contenuto, sia ormai diventata inseparabile dal mito obbligato della gioventù, e se solo ai giovani è consentito essere belli ai vecchi non resta che essere i brutti delle storie – ma vado a memoria, non ho il testo a portata, l’ho portato in salvo chissà dove tra un trasferirmi e l’altro per sfuggire al bradisismo in corso e l’ho dunque perduto prima del tempo.) La Cather fa una premessa per i suoi scritti raccolti in La nipote di Flaubert: “il libro avrà ben poche attrattive per chi ha meno di quarant’anni”, intendendo chi ne avesse meno di quaranta nel 1922. Perché “verso il 1922 il mondo si è spezzato in due”.  > “Com’è avvenuto questo cambiamento, ci si chiede. […] Certo il mondo delle > lettere emerso dalla guerra ha cambiato conio. In Inghilterra e in America i > «maestri» del secolo scorso hanno perso le loro credenziali, diventando figure > remote e incerte.”  Il mondo contemporaneo, con le tragiche esperienze delle guerre mondiali, è andato in pezzi e la letteratura con lei.  La letteratura per come è stata scritta fino ai tempi della Cather non può più essere scritta così. Cos’è che è andato irrimediabilmente perduto, con lei? La Cather, sempre a proposito della nipote eponima:  > “Nella sua mente c’era una sorta di grande chiarore, come nello studio di suo > zio a Croisset, con la fredda luce stemperata del Nord che si riversava dalle > molte finestre.”  L’accenno al chiarore della Cather mi rimanda al chiarore secondo, Handke letto nel suo irripetibile romanzo La ripetizione, 1986, Garzanti:  > “Nelle storie che scrivevo a quel tempo, l’insegnante mi aveva spesso > rimproverato d’inclinare al macabro, anzi d’essere addirittura assetato di > tenebra e raccapriccio; la legge della scrittura, diceva, era invece quella di > creare, lettera dopo lettera, sillaba dopo sillaba, il chiarore dei chiarori; > perfino un ultimo respiro doveva farsi, nella forma, respiro di vita.”   In un mondo a pezzi la sfida della letteratura è replicare la spezzatura o, per usare il gergo di Antonio Moresco, osare e inventare una nuova forma inedita, una nuova unità che non nasca dalla repressione degli opposti ma dal loro convivere, per utilizzare la parola totem di Aldo Busi in Le consapevolezze ultime, 2018, Einaudi, la sua ultima parola scritta, per ora? Non ho nulla contro le mutande sporche di merda nascoste sotto al cuscino dalle madri con l’Alzheimer, ricoverate nelle apposite strutture ospedaliere, ad averne. Per quest’Italia sanremese ad oltranza, disperatamente mammista perché qualcuna che ti perdoni tutto ancora prima che tu lo commetta torna utile sempre, per la quale è addirittura un colpo al cuoricino digerire un Simone Cristicchi quando canta “Preparerò da mangiare per cena, / io che so fare il caffè a malapena”, ben vengano i seminari sulla vecchiaia altrui scritti da Roth, Chessex, Ernaux. Purché non ci si rassegni al macabro, alla tenebra, al raccapriccio. Purché si osi ancora il chiarore. antonio coda *In copertina: un quadro di Lucian Freud L'articolo Osare il chiarore. Sui figli che raccontano la fine dei loro genitori proviene da Pangea.
March 17, 2025 / Pangea