Ne nacque un affare diplomatico. Nel 1968, per L’Herne di Dominque de Roux,
l’editore dei reprobi, Witold Gombrowicz aveva pubblicato un saggio Sur
Dante (uscito, in Italia, da Sugar nel 1969 e da Dante & Descartes nel 2017). In
direzione contraria ai pur formidabili libri del genere – chessò, i saggi
danteschi di Thomas S. Eliot e Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam –,
Gombrowicz scrive che Dante non gli pare granché; la Commedia, poi, è una boiata
pazzesca. Davanti a Piero Sanavio, indimenticato giornalista hemingwayano,
Gombrowicz rincarò la dose:
> “Se Dante mi annoia e se mi considero superiore a lui, lo affermo senza paura:
> è un mio diritto”.
(A proposito: vale la pena ristampare lo studio di Sanavio edito cinquant’anni
fa da Marsilio, Gombrowicz: la forma e il rito, è più brillante di troppi,
mortificanti saggi odierni, è fitto di frasi bellissime, come questa:
“Gombrowicz vivo l’ho sempre incontrato in giornate di pioggia”; il polacco,
d’altronde, scriveva con furia d’acquazzone).
Giuseppe Ungaretti s’incazzò e scrisse a De Roux una lettera piena di spine (“Il
libretto su Dante di quel polacco è vergognoso. È un fatto senza senso, idiota,
che questa calunnia sia stata stampata”); nel Diario, Gombrowicz annota:
“l’addetto dell’ambasciata italiana a Parigi ha annunciato una sua visita”.
Siamo nel 1969; Witold morirà poco dopo; per L’Herne era da poco apparso
un Cahier dedicato a Ungaretti, a cura di Sanavio.
La disfida – diciamo così – tra Gombrowicz e Dante durava da qualche anno. Già
nel 1966 Gombrowicz squartava il Poeta con caustica acribia:
> “La Divina Commedia non mi basta. Vi cerco Dante senza trovarlo… A scuola e a
> casa ci hanno insegnato solo a rispettarli e venerarli, mentre in realtà il
> nostro rapporto verso i Grandi è di due tipi: da un lato ci prosterniamo e li
> adoriamo, dall’altro li trattiamo con condiscendenza e disinvoltura”.
Comprendiamo l’euforica ira di Gombrowicz: l’anno prima, a Firenze, si era
celebrato il trionfo di Dante; scoccavano i settecento anni dalla sua nascita.
Saint-John Perse, il poeta e diplomatico francese, diplomato Nobel nel ’60,
tenne un discorso inaugurale, Pour Dante, prontamente stampato da Gallimard;
c’era anche Ungaretti, a rimarcare l’abissale grandezza dell’Alighieri. A
Gombrowicz irritava l’atteggiamento ossequioso – e ipocrita – dei poeti verso il
Poeta. Della Commedia, non salvava neanche l’Inferno:
> “I tormenti dei suoi dannati sono talmente rozzi, poveri, logorroici! E tutti
> quei predicozzi enunciati tra un tormento e l’altro…”.
Questo andazzo da Lucignolo – o, per restare in tema dantesco, da Cecco
Angiolieri – celebra, sotto la superficie, un’idea guerresca della letteratura,
mai assisa sugli allori – sui quali, invece, in perpetua acquiescenza, ronfano i
critici sornioni e i poeti in carriera. La stessa idea, in fondo, è professata
da Leopardi nelle Operette morali, dove si dice (siamo all’altezza del Parini o
della Gloria) che le opinioni dei critici e degli storici sono corrotte da
“consuetudine ciecamente abbracciata”. I lettori non mettono mai in discussione
ciò che le accademie e il pregiudizio impongono; eppure, i grandi scrittori,
proprio perché tali, devono essere interrogati e sfidati di continuo, fino a
sfrattarli dal trono. Così – è ancora Leopardi – “a me interviene non di rado di
ripigliare nelle mani Omero o Cicerone e il Petrarca e non sentirmi muovere da
quella lettura in alcun modo”.
Per continuare sulla scia del Gombrowicz “leopardiano”, bisogna
leggere il Diario (ora in unico tomo per il Saggiatore, nella traduzione di
allora, di Vera Verdiani, quando lo stampava Feltrinelli, in due tomi, usciti
nel 2004 e nel 2008; medesima anche l’introduzione di Francesco M. Cataluccio, a
parte lievi modifiche nel primo paragrafo) dal fondo, dalla formidabile
allocuzione Contro i poeti. Gombrowicz ridicoleggia lo statuto dei poeti che
“ormai non cantano più per la gente, ma per se stessi”, stigmatizza “il poeta
come un essere che non può esprimere se stesso perché è costretto a esprimere la
Poesia”. In sostanza, il Witold scatenato sbugiarda l’idolo della Letteratura,
la menzogna della Cultura. Scrivere, dice Gombrowicz, vuol dire azzerare tutto,
soprattutto se stessi, fare della penna il proprio plotone di esecuzione,
rifuggire dai riti dei letterati e dai premi, rifulgere nella rinuncia.
Contro i poeti era stato preparato per un discorso pubblico accaduto a Buenos
Aires nel 1947; trasferitosi nella capitale argentina dal 1939, Gombrowicz ha
scritto lì, da reietto, da “eremita sepolto vivo in Argentina”, le pagine più
violente del Diario. Malsopportava Victoria Ocampo, “un’anziana aristocratica
piena di milioni”, e i galoppini d’intelletto fino che ronzavano intorno a “Sur”
– Paul Valéry, Bernard Shaw, Keyserling – galvanizzati da “quell’insistente
sentore di soldi aleggiante attorno alla signora”. Impossibile per uno scrittore
“affascinato dagli strati inferiori del paese” entrare in contatto con Borges,
> “un artista che il caso aveva fatto nascere in Argentina, ma che avrebbe
> potuto altrettanto bene, e forse meglio, essere nato a Montparnasse”.
Il Diario di Gombrowicz è tutt’altro dai pur mirabili Journal che i francesi
hanno prodotto a frotte – quelli, ad esempio, di André Gide, di Marcel
Jouhandeau, di Julien Green. Lì la suprema raffinatezza rispecchia l’impero
dell’egotismo, l’energia di una schifiltosa interiorità; qui, invece, è
l’audacia dell’individuo che dilania se stesso, sono le dighe disintegrate, i
tombini bombardati, il dio del caos in casa. Gombrowicz disprezzava la
letteratura dello show, la letteratura “sfrattata dallo spirito individuale”,
che
> “diventa preda di fattori extra-spirituali e puramente sociali. Premi,
> concorsi. Celebrazioni. Associazioni professionali. Editori. Stampa. Politica.
> Cultura. Ambasciate. Convegni”.
Il Diario è un antidoto a quest’epoca esangue, retta dall’autocensura e dal
perbenismo della correttezza. In spiaggia, per dire, a Piriápolis, Uruguay, è il
1962, Gombrowicz inveisce contro le grasse, contro lo “svaccato stravaccamento
di quello schifo sfacciatamente sfrontato”, quel “donnesco baobab di donna dal
debordante didietro… e chi lo trova un macellaio capace di venirne a capo?”.
Terrorizzato dai grandi numeri – che annientano l’io allo sbadiglio, a uno
sbaglio, allo zero – Gombrowicz disorienta il mito della fedeltà coniugale: come
faccio ad amare un’unica donna se “non so chi sono io” e lei è
> “una delle tante femmine che abitano il globo terrestre, una delle tante
> vacche… un miliardo di vacche, un miliardo di femmine?”.
Ha scritto che “l’arte è aristocratica fino al midollo, come un principe di
sangue reale. È negazione dell’uguaglianza e culto della superiorità”. Resta il
fondatore di un’eresia letteraria senza seguaci – per chiunque scriva, Witold
Gombrowicz è un San Paolo: ci ha messo la croce addosso, aprendoci la via del
tormento e della gloria.
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Ho amici cattolici. Domenica delle Palme ero in piazza, per i saluti, e in
piazza si diceva messa. Una piazza mesta come lo sono i luoghi inutilmente
pubblici il più delle volte, quando non ci sono i leader delle ragioni superiori
a organizzare i torpedoni. Quando ci sono gli stand della Coldiretti è un’altra
storia, è quasi festa, per quanto anche lì a tener banco è l’illusione di poter
comprare al miglior prezzo qualcosa di meno industrialmente nocivo.
Si chiacchierava tutti ma quando è stata la volta della lettura del vangelo
liturgico del giorno, recitato dal pulpito allestito al vento, cala un silenzio
di attenzione dovuta, di ossequiosa osservanza delle circostanze cui s’adegua
pure chi in piazza c’era per tutt’altra ragione, e taccio anch’io per colmo di
stupore di fronte a tante persone, comunemente refrattarie a ogni letterarietà,
che azzittiscono e mimano concentrazione per qualcuno che legge.
I Vangeli, così come le Bibbia al completo, li ho letti nell’edizione concordata
della Mondadori, perciò per me è sempre una novità ri-leggerli ascoltandoli
nella versione approvata dalla CEI: troppi interessi di troppe parti
difficilmente possono conciliarsi con quello principale della lealtà verso il
testo, perché giunga a chi lo legge nella sua forma più aggiornata e il meno
faziosa possibile.
«Ogni civiltà nasce da una traduzione», così Gianfranco Folena, citazione letta
in un libro di Aldo Busi, per cui: dimmi a che traduzione t’affidi e ci capirò
immediatamente qualcosa in più della civiltà che aspetta entrambi, se quella a
cui t’affidi tu è la stessa a cui s’affidano in maggioranza.
Ascolto. I vangeli nei secoli hanno avuto lettori sagaci, mica tanti, e sequele
sterminate di pigri recettori di artate interpretazioni altrui, ma questo non
dispensa nessuno dal farsene una lettura e un parere propri, se gli va, così
come niente vieta che li si ignori come viene ignorata tanta parte della
letteratura mondiale, al netto di quella che viene propinata nei programmi
ministeriali, tante volte perché possa essere disprezzata subito e in blocco.
Dal Vangelo di Luca:
> “…ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola… Io sto in
> mezzo a voi come colui che serve… il suo sudore diventò come gocce di sangue
> che cadono a terra… con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?… E molte
> altre cose dicevano contro di lui, insultandolo… Togli di mezzo costui!
> Rimettici in libertà Barabba!… Detto questo, spirò.”
Ascolto e mentre ascolto non sono più in piazza, non è più la Domenica delle
Palme. È la notte di qualche mese fa, in gruppo rientriamo in albergo, siamo a
Ischia per il matrimonio di una coppia di amici, è stato ufficializzato al
comune di Forio la mattina stessa. Gli altri vanno ciascuno nella stanza
assegnata, io resto a zonzo nella hall sottosopra dell’albergo. Siamo fuori
stagione, nell’albergo sono in corso opere grosse di manutenzione: le porte
delle camere non hanno gli stipiti, lungo i corridoi ammassano le biancherie da
sostituire, le scaffalature stanno accatastate negli angoli. Ci si sente come in
una delle narrazioni di Antonio Moresco, alla fine di un tempo e di uno spazio
che ha perso memoria del suo prima e del suo dopo.
Nella hall ci sono libri disposti in pile senza ordine bibliografico alcuno, le
scruto a una a una, come resti di colonne di una cattedrale ipotetica, mentale.
Scelgo quale pietra svellere: Barabba, di Lagerkvist, nell’edizione 1965
della Gherardo Casini Edizioni Periodiche, traduzione di Alois Baumgarthner,
collana “I libri del sabato”. Lo scelgo perché è sottile, ideale per me che
stanco come sono non mi aspetto di riuscire a leggere a lungo, in camera. Perché
di Lagerkvist ho letto Il nano, e mi piacque. Lo scelgo perché di Saramago ho
letto Il vangelo secondo Gesù Cristo, scrivendolo da scrittore quindi né
noiosamente da apologista né facilmente da polemista.
Come ha scritto Lagerkvist di Barabba?, mi chiedo, scegliendolo per questo, non
sapendo io se Lagerkvist sia stato di qualche fede dichiarata o se no e se sì
quale fosse e se no se si fosse sentito poi in dovere di dichiarare perché aveva
preferito di no. Se a lettura del romanzo ultimato avessi continuato a non
saperlo, a non poterlo sapere, Barabba sarebbe potuta dirsi l’opera di uno
scrittore.
La letteratura non può essere confessionale perché le religioni sono il
contrario della letteratura. La religione si fonda sull’assunto che c’è una
verità e che le narrazioni non possono che provare ad avvicinarsi a quella
verità che le precede e che tutt’al più le ispira. Per la religione la
narrazione viene dopo la verità. La letteratura sa che scoprirà una verità solo
dopo averla raccontata e che quando racconta due volte una storia non avrà
raccontato in due modi diversi la stessa verità ma avrà raccontato due verità,
perché la verità e il racconto vanno assieme, si scoprono assieme, è impossibile
stabilire chi venga prima, chi fondi chi, chi inventi chi, se la letteratura la
verità o se la verità la letteratura. Certo, se non ci fossero verità da dire
non ci sarebbe niente da raccontare. Ma se non ci fossero i racconti non ci
sarebbe mai stata nessuna verità da dire.
La letteratura sa che per esserlo non può e non deve essere suddita della
verità. Le religioni, quali che siano gli espedienti retorici perché non lo si
noti, scelgono una verità rispetto alla quale rendere suddita la letteratura, e
dunque l’umanità che quella letteratura informa.
Per le religioni la verità è stata detta e non resta che dirla meglio,
comprenderla meglio, purché non-la-si-travisi, quindi decidendolo comunque loro
qual è la lettura-corretta, la lettura-consentita. La letteratura sa che la
verità sta nell’avventura del linguaggio, di quello che tramite la scrittura è
possibile scoprire inventandolo, inventare scoprendolo. La letteratura non la si
sa né la si può mai definire ben bene ma una cosa è certa: se chiede di essere
autorizzata, se si preoccupa di non-travisare le narrazioni che l’hanno
preceduta e che le succederanno, non è letteratura. Sarà pubblicistica e morta
lì.
Lagerkvist sceglie di raccontare di Barabba. Aggiungere un pezzo di racconto al
racconto-ufficiale, al racconto-raccontato-già-tutto, è di per sé atto inventivo
audace, necessario, ma non basta scegliere un soggetto non autorizzato per fare
letteratura ovvero qualcosa di non autorizzabile per eccellenza. Leggo Barabba
di notte in un albergo dalle pastosità moreschiane per scoprire se l’opera di
Lagerkvist è letteratura o un lavoretto di mano religiosa.
Il romanzo si apre sulla cloaca del Golgotha,
> “teschi e ossa giacevano sparsi ovunque insieme a croci stese a terra, mezze
> marcite, che non servivano più ma che nessuno portava via, perché nessuno
> avrebbe toccato le cose di quel luogo.”
A osservare il rabbino crocifisso agonizzante c’è Barabba il liberato, che lo
osserva dubbioso, inquietato. Corrisponde il corpo “magro e gracile” di
quell’uomo dal “petto senza peli, come quello di un adolescente” a colui che nel
pretorio “aveva visto circondato di uno splendore abbagliante”? Come si può
avere rispetto di un uomo le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai
lavorato”?
Nel romanzo di Lagerkvist l’interlocutore – mentale – di Barabba il liberato non
è il maestro dei cristiani che da lui prenderanno il nome. Non ha nemmeno un
nome suo. L’interlocutore di Barabba maledetto nel seno di sua madre è il
crocifisso benedetto nel seno della sua di madre, con la differenza che il
crocifisso una madre che l’ha amato fino alla croce e prima e dopo la croce l’ha
avuta, mentre Barabba no, una madre non l’ha avuta, non ha saputo chi fosse. E
il padre? Anche in questo son diversi, il maledetto e il benedetto alla nascita:
uno ha dovuto uccidere suo padre, per sopravvivere, sopravvivere per modo di
dire, l’altro perché fosse fatta la volontà del suo di padre ha dovuto morire e
morire in croce: per la vita eterna sua e di tutti, così dice il padre del
benedetto nel seno di sua madre. Il padre di Barabba, di nessuna parola e a
prima impressione assai più brutale, non è stato così terribile. O semplicemente
non altrettanto potente, onnipotente addirittura.
Il romanzo è appena iniziato, è iniziato da poco, e già siamo da tutt’altra
parte rispetto al racconto e all’atmosfera dai Vangeli. Intanto il protagonista
è un altro e lo è per davvero, è altro rispetto al Gesù dei Vangeli, è altro
rispetto ai fatti e ai luoghi della narrazione perché ha tutt’altra origine chi
ne è al centro. Non un uomo che comunque sia si è messo al centro di una scena,
non è la storia di un predicatore che va incontro alle folle e dunque alla loro
volubilità. È la storia di un marginale, un solitario, un omicida. Sono due
fuorilegge, certo, ma rappresentano due modi ben distinti di fuoriuscirne. Il
crocifisso non intende infrangerla quanto rifondarla, vuol istituire una nuova
legge alla quale inchinarsi con gioia, sollievo, consolazione. Barabba desidera
restare al di fuori dalla legge quale che sia. Per Barabba o sei tu a
crocifiggere la legge o sarà lei a crocifiggere te se non vorrai vivere da
inchinato ai suoi piedi.
Stando al presunto messaggio canonizzato dei Vangeli, Gesù è venuto per Barabba,
per i Barabba. Il benedetto è venuto per i maledetti: ma un maledetto fin dal
seno di sua madre cosa può voler spartire da un benedetto fin dal seno di sua
madre?
Barabba e Gesù sono coetanei, per Lagerkvist. Barabba era
> “un uomo di una trentina d’anni, di corporatura robusta, dal colorito terreo,
> aveva la barba rossa e i capelli neri. Anche le sopracciglia erano nere e i
> suoi occhi infossati nelle orbite, come se lo sguardo avesse voluto
> nascondersi. Sotto un occhio cominciava una profonda cicatrice che spariva tra
> la barba. Ma l’aspetto fisico di una persona non dice molto.”
Ah, com’è bravo qui Lagerkvist a negare l’evidenza che lui stesso pone: cosa può
avere in comune un uomo già scavato e scalfito e lapidato dalla vita come
Barabba con quel crocifisso gracile, magrolino, adolescenziale, con quel Cristo
che a me pare dostoevskiano, le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai
lavorato”?
Ma il crocifisso prima di essere crocifisso, prima di iniziare a predicare tra
le genti eleggendo i suoi apostoli, non era stato a bottega di falegname?
Possibile che un giovane falegname sulla trentina potesse essere magrolino,
esile, con le braccia sottili, il petto glabro, il corpo adolescenziale? Io, se
devo immaginarmi il crocifisso stando ai Vangeli e non alla sterminatezza delle
raffigurazioni che ne sono state fatte poi, costringendo l’immaginario,
viziandolo, snaturandolo, certo non me lo raffiguro nelle sembianze del Raz
Degan ai suoi bei tempi né nelle sembianze di Ernesto Che Guevara bello anche da
morto come un Cristo-da-canone-vivo, e meno ancora come un uomo smilzo,
sottopeso, insomma debole nel corpo perché meglio risultasse forte nello
spirito. Nonostante le torture e le vessazioni io sulla cloaca del Golgotha, in
mezzo agli altri crocifissi torturati, m’immagino un pezzo d’uomo crocifisso, un
ex-falegname che avrà saputo conquistarsi la fiducia e poi la venerazione dei
suoi simili perché appunto simili a lui come lui deve essere stato simile a sua
madre, che secondo Lagerkvist “aveva l’aria di una contadina semplice e rozza”.
Una contadina semplice e rozza avrebbe mai potuto generare un uomo sottile come
il crocifisso? Stando a come la descrive Lagerkvist la madre del crocifisso
sarebbe stata invece perfetta come madre di Barabba il liberato, solo che
“Barabba non aveva una madre”. Perché il Barabba di Lagerkvist fosse
proprio quel Barabba è stato necessario che il crocifisso fosse
proprio quel crocifisso. Gli antipodi.
La tensione, l’invenzione, l’occasione del racconto di diventare letteratura in
Lagerkvist sta tutto in questa separazione iniziale: come può la vita e il sogno
di un’altra vita oltre la morte di un benedetto fin dal seno di sua madre poter
coincidere con la vita e l’incubo di un’altra vita oltre la morte di un
maledetto fin dal seno di sua madre?
Il crocefisso di Lagerkvist viene per liberare un Barabba che vivrebbe come
un’offesa insanabile essere salvato da lui, lui salvato all’origine perché amato
da sua madre, a differenza sua, di Barabba, non amato da sua madre e non amato
da suo padre e quindi mai amato e quindi inamabile.
Che beffa per il Barabba di Lagerkvist essere salvato da qualcuno a cui per
salvarsi basta essere sé stesso, il figlio di suo padre, il figlio di Dio che è
Dio lui per primo, insomma essere salvato da colui al quale per salvarsi da solo
e per salvare tutti basta essere nato così com’è nato: da un padre terribile,
sia, un padre la cui benedizione verso il proprio figlio non è meno terribile
della maledizione che il padre di Barabba ha avuto verso di lui, ma pure da una
madre che l’ha amato e che amandolo l’ha seguito fino alla croce, disapprovando
chissà quanto le scelte mano a mano più suicida di quel figlio predicatore,
andato verso le folle invece di starsene nel proprio particolare, lo stesso
seguendolo fino ai piedi della croce, conservandolo della benedizione del suo
seno di madre che ama suo figlio nonostante suo figlio, poiché secondo
Lagerkvist
> “Essa non soffriva come gli altri, non lo guardava come lo guardavano loro,
> era ben sua madre. Certamente provava una pietà più grande di chiunque altro;
> eppure sembrava rimproverargli di aver fatto tutto per farsi crocifiggere.
> Aveva proprio dovuto cercarselo, lui, così puro e innocente, ed essa non
> poteva approvare una cosa simile. Essendo sua madre essa aveva la certezza
> della sua innocenza. Qualunque cosa avesse fatto, l’avrebbe considerato
> innocente”.
Che ingiustizia per uno ingiustamente nato maledetto essere salvato da un giusto
benedetto fin dalla nascita.
Il trauma insanabile del Barabba di Lagerkvist, che si autodiagnostica a sua
insaputa, è di non aver avuto una madre come a lui, a Barabba, sarebbe piaciuto
che fosse: una madre che te le perdona tutte, una madre che avrebbe fatto di te
il criminale che poi sarebbe diventato lo stesso se cresciuto da una madre
disposta a reputarti innocente a prescindere.
Il miracolo del crocifisso, nella scrittura che ne fa Lagerkvist, a questo
punto sta invece proprio nell’essersi saputo condurre innocentemente nonostante
la madre che ha avuto, rabbiosamente determinata a perdonargli tutto, incapace
come deve essere stata di saper amare di un amore che non avesse bisogno di
trovarti qualcosa da poterti perdonare prima di amarti.
Barabba non ha avuto una una madre e chi non ha madre non può mai avere certezza
di essere innocente, per cui qualunque cosa farà non potrà considerarsi
innocente, così Barabba in Lagerkvist.
Per meglio dire, Barabba spiega così a sé stesso il corso della sua vita: un
maledetto dagli altri non potrà che maledire sé stesso, non ci sarà salvatore
che tenga in questi casi, e d’altronde come vuoi salvarti se la madre del figlio
che ti avrebbe salvato non ha nessuna intenzione di salvarti a sua volta, di
perdonarti, se anzi anche lei ti maledice, raddoppiando il carico?
> “Essa si fermò e lo fissò con uno sguardo così disperato e accusatore, che
> Barabba non potrà mai sperare di dimenticare”.
Stando ai fatti, nei Vangeli e nel romanzo di Lagerkvist, il crocifisso non ha
salvato nessuno dalla sua condizione terrena, al più dalla morte ma giusto per
rinfilarlo nella vita dalla quale continua a cercare scampo – vedi Lazzaro o la
donna col labbro leporino o il compagno di miniera di Barabba – e comunque non
certamente lui, non Barabba.
È stato il popolaccio di leopardiana memoria a venire a condannare il
crocifisso, che pur di condannarlo ha fatto liberare Barabba, continuando a
ignorare Barabba, è stato il popolaccio a condannare il più debole di lui per
fare la volontà dei più prepotenti di lui, illudendosi così che i prepotenti
possano diventarlo di meno verso di lui, rendendolo un po’ meno debole, o
comunque prendendosi la soddisfazione di essere lui per una volta, lui
popolaccio, il più prepotente e non il più debole come al solito.
Condannando il debole di turno per ottenere il favore del prepotente di turno il
popolaccio condanna sé stesso, quando alla elezioni ci va con questo spirito il
popolaccio condanna sempre sé stesso, il prepotente lo sa, anche per questo ogni
tanto lascia per un po’ a piede libero un debole che cerca di raccontare agli
altri deboli quanto non siano deboli, quale sia la loro forza: per crocifiggerlo
poi meglio e con più gusto, per la gioia dei prepotenti e ancor di più per
quella di chi non saprebbe rinunciare allo stato di schiavitù che almeno ci
pensa lei a spiegargli tutto del perché la sua vita gli faccia orrore.
La differenza tra il Barabba di Lagerkvist e gli altri personaggi del romanzo
che scelgono di convertirsi, di voler credere, è che quegli altri sono disposti
a farsi a salvare e questa condizione di per sé basta a salvarli, al di là di
chi sia poi il presunto Salvatore, meritevole soltanto di avergli dato
l’occasione di credere che un Salvatore esista, occasione non da poco e non da
tutti.
Barabba no. Barabba non vuole essere salvato, non vuole la vita eterna o stare
all’interno di una comunità che creda che una vita eterna sia possibile, che lo
sia essere salvati, che sia possibile essere amati per sé stessi e amarsi gli
uni gli altri. Barabba ormai può fare anche a meno della madre che non ha mai
avuto. Barabba vuole delle scuse. A scuse ricevute magari potrà prendere
seriamente in considerazione l’idea di accettare un dio, ma niente scuse niente
dio, no, non se ne parla. Su un dio, sulla possibilità di un amore, ci mette la
croce sopra chi sulla croce è stato messo da ben prima che ce lo inchiodassero
di fatto. Specie se ai piedi di quella croce non c’è nessuno, non c’è mai stato
nessuno, nessuno s’è mai fatto ri-conoscere per dirti: Non sei solo, ai piedi di
questa croce ci sono io. Almeno questo.
Barabba è troppo offeso – e ogni volta che ha offeso gli altri, nell’implicita
speranza di riparare così all’offesa subita, si è offeso ulteriormente, al punto
che l’offesa ha ricoperto tutto, non lasciando spazio per nient’altro, per
nessun altro.
Ero all’inizio del romanzo e senza accorgermene sono quasi alla fine, sono alla
fine, o sono ancora all’inizio? Sono a Barabba che ha fatto il giro largo per
tornare al punto di partenza, alla crocifissione soltanto rimandata.
Ma: secondo Lagerkvist chi è il crocifisso? Il crocifisso di prima o il
crocifisso di dopo? Chi crede di poter salvare tutti compreso sé stesso o chi
crede che non si salva nessuno? Chi è più crocifisso, il benedetto o il
maledetto? Quando c’è la religione c’è la risposta, la risposta diventa talmente
invadente che non c’è più spazio per la domanda, neppure per il ricordo di quale
fosse la domanda. Quando c’è letteratura la risposta tocca a te che leggi – e
con ogni probabilità non sarà mai la stessa risposta molto a lungo.
Detto questo, chi è che spira adesso? La messa della domenica, il romanzo del
1965, io, tu?
antonio coda
*In copertina: un’opera di Honoré Daumier
L'articolo Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al
“Barabba” di Lagerkvist proviene da Pangea.
Sarebbe impossibile, oggi, definire Suor Juana Inés de la Cruz “una delle
supreme figure simboliche in cui le donne moderne si sono riconosciute”. Eppure,
così attaccava la ‘quarta’ delle Poesie di questa singolare e ineffabile
personalità, tradotte da Roberto Paoli per la Bur nel 1983. Il libro –
naturalmente, verrebbe da dire – fa parte di un’eternità non più libraria, è
scomparso da cataloghi e scaffali; l’autrice è ormai un’innocua nota nei libri
di storia, una chiosa capretta, tanto che pare paradossale l’enfasi con cui
veniva presentata, allora:
> “Voleva vivere in perfetta solitudine, leggendo, studiando e scrivendo, senza
> essere disturbata dal tumulto della vita. ‘Il mio calamaio è il rogo nel quale
> devo bruciarmi’, scrisse stupendamente. Pochi uomini possono vantare una così
> adamantina, superba, disperata tensione intellettuale come questa suora
> messicana: sognava di essere androgina, di dimenticare il suo sesso e ogni
> sesso, il suo corpo e l’intero regno dei corpi, tutte le vicissitudini delle
> sensazioni e dei sentimenti”.
Anche il libro Einaudi che raccoglie i Versi d’amore e di circostanza di Juana –
uscito nella ‘bianca’ nel 1995, a cura di Angelo Morino – risulta “non
disponibile”. Peccato perché i versi di questa donna astrale, estranea al tempo,
che fu dama d’onore della viceregina, carmelitana scalza per una manciata di
mesi, poi affiliata all’ordine di San Gerolamo, temuta per spregiudicato
intelletto, di glaciale bellezza, sono tra i più alti dell’epoca, tra i più
belli mai scritti in lingua spagnola. Rimedieremo.
Chissà quali sono le “figure simboliche” in cui oggi si riconoscono le “donne
moderne”… Non credo che Suor Juana possa essere addomesticata in simboli e in
slogan: la sua mente, ferina, spaura; la sua libertà è violenta. Infine, si
liberò della biblioteca – che contava oltre 4mila volumi, spesso ‘proibiti’ se
non proibitivi – e degli strumenti musicali, che sapeva armeggiare. Chiuse anche
con gli strumenti scientifici con cui si lambiccava, giocando all’alchimia –
morì, troppo giovane, troppo altra, neppure cinquantenne, nel 1695, a causa di
un’epidemia (si dedicò a curare le inferme, subendone il contagio). Leggeva, tra
gli altri, Athanasius Kircher. A tratti, Suor Juana pare una delle donne dipinte
da Zurbarán: Sant’Agata o Santa Elisabetta del Portogallo, evanescenti e feroci,
con quel volto giaguaro. In lei, l’arguzia di Santa Teresa si svolge nell’aquila
di Tenochtitlán: un’intelligenza dagli artigli tesi. Per darle giustizia ci
vorrebbe la penna di Cristina Campo.
Perfino Samuel Beckett restò stordito dalla voracità linguistica di Suor Juana.
Su ispirazione di Octavio Paz – che a Suor Juana dedicò parte della sua vita da
studioso: Suor Juana o le insidie della fedecampeggiava, nel 1991, in catalogo
Garzanti, ora si trova nel mercato alternativo – cominciò a tradurla. L’esito
del suo lavoro – che contempla altri autori del Seicento come Bernardo de
Balbuena e Juan Ruíz de Alarcón – fu pubblicato nel 1958 dalla Indiana
University Press come An Anthology of Mexican Poetry transleted by Samuel
Beckett. Nel 1994 l’antologia è stata ripubblicata da Grove Press. Il libro è
smilzo, sobrio, ‘beckettiano’: nell’ala compare – guarda un po’ – Suor Juana,
nel ritratto di Miguel Cabrera: “Posseduta da un’ardente curiosità
intellettuale, ha difeso con forza il proprio diritto alla conoscenza, la
propria sete di sapere, scrivendo, tra l’altro, liriche di rara bellezza”.
Il 1958 è un anno importante per Beckett: traduce L’innominabile in inglese,
scrive Acte sans Paroles, L’ultimo nastro di Krapp, Finale di partita. L’anno
dopo il Trinity College lo investe del dottorato honoris causa. Credo che
Beckett, in quel lotto di anni, sia stato invaso dal linguaggio di Suor Juana:
esuberante, è vero, ma che esorbita fino ai confini dell’indicibile,
dell’annientamento, per eccesso, di ogni lemma. Come sfregare due pietre d’oro
perché accada una fiamma: è bianca, sa di acqua. Eppure – a dire
dell’insignificanza di Suor Juana nei perigli della cultura d’oggi – non c’è
cenno della Anthology of Mexican Poetry nel formidabile ‘Meridiano’ dedicato
a Romanzi, teatro e televisione di Beckett. Eppure, è opera in cui coincidono –
rarità al cubo – due futuri premi Nobel per la letteratura: Paz otterrà l’alloro
nel 1990, ventuno anni dopo Beckett. Il punto di giunzione tra l’irlandese e il
messicano è Antonin Artaud: credeva in misteriose analogie tra i Tarahumara,
“razza di uomini perduti” nei recessi del Messico, e la civiltà delle Aran, tra
il peyote e Bachall Isu, il mitico bastone di San Patrizio custodito – e poi
bruciato – a Dublino. Soprattutto, modellò il linguaggio fino a farne magia,
formula ipnotica.
Ad ogni modo, ecco come Samuel Beckett rende uno dei sonetti più noti di Suor
Juana, Éste que ves, engaño colorido:
Questo frainteso a colori che tanto ammiri,
vanagloria dell’eccellenza artistica
non è che una furba frode dei sensi
in fallaci sillogismi di pittura;
questo, dico, adulazione da becchino
che estenua l’odioso orrore degli anni,
vaniloquente sconfitta degli oltraggi del tempo
trionfo sull’oblio e sulla vecchiaia,
è vano artificio della dedizione
è fragile fiore al vento
è inutile santuario del fato
sordida inerte opera vana, conquista
che svanirà, ben fatta, certo, nient’altro
che carcassa e polvere, ombra e nulla.
Questa la traduzione, adesiva, di Paoli:
Questo, che vedi, colorato inganno
che dell’arte ostentando le bellezze
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dei sensi malizioso;
questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggendo del tempo i rigori
trionfare sugli anni e sull’oblio,
è un artificio vano della cura,
è un fiore molto gracile nel vento,
è un inutile scudo contro il fato:
è una sciocca pazienza delirante,
è un affanno fugace e, a ben guardare,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.
Un sapiente drammaturgo dovrebbe figurarsi il giorno in cui Samuel Beckett
incontrerà Suor Juana – le chiederà di ispezionare la sua calotta cranica,
riconoscendo gli stessi ghiacciai, un padre chiamato Antartide. Dopo averle
baciato le dita, è ovvio – rese al giglio e all’acciaio, fatte iena.
***
Da Primero sueño
Venere era, Venere
per prima della bella stella
del mattino adorna
brillò lungo l’alba
arcigna sposa del vecchio Titone.
Amazzone di ardore rivestita
armata contro la notte
fatata e fatale
pianto di malinconia pianta
e mostra l’amabile fronte
tra i ramificati bagliori del mattino
tenero ma ferino araldo
dell’astro feroce
che viene, che viene
schierando gli scherani
e gli arcieri bagliori
la retroguardia
di venerande veterane luci
contro di lei, tiranno usurpatore
dell’impero del giorno, mentre
cinghie di neri tuoni
trafiggono le ombre nottambule
fino ad atterrirla.
Ma lei è bella, lei è l’avanguardia
dell’araldo del sole
che sventola il palio a Oriente
e chiama alle armi le mere, bellicose
genie dei rapaci:
che sia ingenua la loro fede
sonora come quella delle trombe
quando il tiranno, in rotta, trema
sconvolto da cupi presentimenti
e si sforza di elencare la sua leggendaria
potenza e controbatte con il funebre
mantello le infallibili
falci di luce
ed è vano il valore
della disperazione, futile
ogni resistenza, così inclina
alla fuga, unica via di salvezza
e il rauco corno erutta
e i neri battaglioni
retrattili in geometrica ritirata.
Ma una più arcana pienezza
di raggi squarciò le più alte cime
le torri del mondo. Il sole
recluso nel suo girovagare
rende oro l’azzurro
raggi di luce virginea
incidono il ceruleo cranio del cielo
si abbattono su quella
funesta tirannia.
E lei fugge e lei inciampa
nei suoi stessi orrori
calpesta la sua ombra:
cieca fuga, luce che avanza
luce che incalza, che sfonda
il limite occidentale e la sfigura.
Ma la caduta la vivifica
la rovina la imbeve di una
rinnovata ribellione
e in quella parte di mondo
ignara del giorno
indossa ancora la corona
mentre nel nostro emisfero
il sole scuote la criniera
conferendo a ogni cosa
il suo degno colore
affidando agli ancoraggi
della luce il mondo – ora
tutto è luce e posso destarmi.
Versione di Samuel Beckett
L'articolo “Voleva vivere in perfetta solitudine”. L’incontro tra Samuel Beckett
e Suor Juana Inés de la Cruz proviene da Pangea.
Nell’età di mezzo, quando si parla di epica eroica si fa riferimento a qualcosa
di marmoreo, codificato, noto e arcinoto: le chansons carolingie, l’Orlando che
si immola a Roncisvalle per il suo sovrano, redivivo nella letteratura italiana;
El Cid, quel Rodrigo Diaz de Bivar che nella sua onorata sventura continua a
servire il suo sovrano. Poi c’è un’epica tellurica, dimenticata ai margini
dell’Impero, dove l’Europa è già Asia e il cristianesimo è vernice crepata sulle
icone costantinopolitane. È l’epica bizantina, spesso ignorata, relegata nei
ghetti della filologia, forse vista come qualcosa di minore. Eppure, è
irresistibile il fascino che questa esercita: cimentarsi nella lettura di un
poema epico bizantino ci dissocia dalle categorie dell’eroico che siamo abituati
a conoscere e maneggiare, è qualcosa di radicalmente altro.
Digenis Akritas è un titolo e un nome, aspro come l’uomo che designa: il “due
volte nato”, il “guardiano del confine”. Digenis, al battesimo Basilio, osserva
la frontiera dal suo avamposto sul fiume Eufrate, limite estremo di una Bisanzio
non ancora crepuscolare. Chi era l’Akrita Basilio? Figlio di un emiro siriano
convertito e di una nobildonna greca rapita – già nella sua carne, nel
sangue digenis, c’è l’ordalia del confine, lo scontro e l’abbraccio tra
Cristianità e Islam, tra due civiltà destinate a scrutarsi e scontrarsi – nasce
da questa unione ma cresce con coordinate salde, che non possono non essere la
crosta di Bisanzio, il gesto ieratico del pantocratore. Cresce distinguendosi
per le eccezionali doti fisiche: in piena adolescenza, iniziano le gesta
dell’eroe. L’eroe è sempre bastardo, non ha genealogie rassicuranti, non risiede
nel cuore dell’Impero ma ai suoi margini, dove la legge è eco lontana e la
civiltà si stempera nella ferocia del limes. La Bisanzio stessa che gli dona i
natali faticherebbe a riconoscerne i connotati come tale. La sua epopea non
celebra paladini immacolati al servizio di Dio e dell’Imperatore. Digenis è
scheggia impazzita, individualismo che rasenta l’asocialità, campione di un
onore selvatico che si misura nel ratto, nella razzia come esercizio di virilità
primordiale. L’Imperatore desidera conoscerlo, l’eroe orientale non si smuove,
che sia il sovrano a scomodarsi e raggiungerlo sulle rive dell’Eufrate «con
pochi soldati». Sorveglia un deserto pullulante di nemici: saraceni, gli
apelatai (i predoni delle montagne, fantasmi della libertà anarchica), persino
draghi e amazzoni evocati da un immaginario ancora intriso di mito pagano sotto
la patina cristiana. Non c’è netta contrapposizione etica tra lui e i suoi
nemici, agiscono sullo stesso piano, rispondono allo stesso codice ancestrale.
Digenis chiede addirittura di arruolarsi tra gli apelatai, rifiutando infine di
unirsi ai predoni solo dopo aver constatato la loro inferiorità fisica, la forza
è misura del diritto e del bene.
Poi c’è l’amore, un amore che è rapina, possesso, difesa gelosa. Non poteva
essere diversamente: il poema si apre con un ratto, quello della madre di
Digenis; la vicenda dell’eroe stesso è poi inaugurata dal ratto della sposa,
Eudokia.
> “La pernice prese il volo e l’afferrò il falcone.
> Dolcemente si baciavano…”
Alla celebrazione lirica dell’amor cortese si sostituisce l’affermazione di un
diritto primordiale, ferino quasi. Il codice d’onore impone di rapire la donna
amata e di difenderla dagli aggressori, che siano draghi, leoni o bande di
predoni. La lotta per la sposa è teatro di una competizione maschile feroce,
dove la donna è insieme premio e strumento per affermare la propria onorabilità
virile.
C’è anche un’altra faccia di Digenis: l’eroe cristiano, il timorato seminarista
– ruolo che mal s’addice all’eroe – tormentato dal peccato dopo aver compiuto
adulterio, essersene pentito e poi aver reiterato il misfatto nel canto
successivo, l’amore per Eudokia non è sufficiente a placarlo: il fuoco non può
ardere indefinitamente vicino all’erba, così si assolve mentre cede alla
tentazione con una principessa araba – poco fanno i kyrie eleison recitati con
il cuore colmo di sofferenza e ancor meno persuadono dopo aver ripetuto il gesto
con l’amazzone Maximò. Ma questa duplicità, schizofrenia apparente, non è
sintomo di labilità psicologica da lettino d’analisi. È lo stigma del poema
stesso, prodotto ibrido di due modelli culturali contrastanti e mai
perfettamente conciliati: l’arcaico eroe della frontiera, amorale e vitalistico
da un lato, dall’altro il più tardo archetipo dell’eroe cristiano. In Digenis
agiscono, sovrapposti e non fusi, questi due codici, generando cortocircuiti,
contraddizioni che sono la cifra più autentica e perturbante del personaggio. La
stessa storia della tradizione manoscritta del poema – con pochi codici
superstiti, dal più antico e rude dell’Escorial al più tardo e ingentilito di
Grottaferrata (dove aumentano le lodi all’imperatore e l’episodio degli apelatai
è omesso) – testimonia un lavorio incessante, un tentativo di addomesticare una
materia incandescente e ricondurre l’eroe bastardo entro schemi più
rassicuranti, più “letterari”.
Il crepuscolo dell’eroe è segnato dalla malattia, dalla consapevolezza del
declino fisico e dall’avvicinarsi della morte. La tradizione posteriore, in
particolare i canti popolari akritici, amplificherà questo momento finale,
immaginando un’ultima, titanica lotta di Digenis contro la morte personificata,
Charon o Thanatos. È l’unica battaglia che l’eroe è destinato a perdere. Questo
confronto finale con l’oblio rappresenta il limite invalicabile di ogni potenza
umana, la vanità ultima di ogni conquista terrena. La morte di Digenis,
descritta quasi come un anticlimax nel poema – con la moglie che opportunamente
spira prima di lui – distanzia ulteriormente questa epica da quella
convenzionale. Non c’è apoteosi finale, ma lo spegnersi di una forza immensa di
fronte all’inevitabile.
> “Vedete dove mai giace l’audacia del valore!
> Vedete dove mai giace il Digenis Akrita, il fiore dei Romei”
Andrea Falco Profili
L'articolo “Digenis Akritas” o dell’epica anarchica bizantina proviene da
Pangea.
Oggi sarebbe assurdo compilare una storia della letteratura francese senza
considerare Irène Némirovsky, scrittrice che, pur sorvolandone superficialmente
la biografia, porta in sé i traumi di sempre, di un allucinato oggi. Nata a
Kiev, educata in Russia, cresciuta in Francia, morì troppo giovane, troppo
brava, a trentanove anni, ad Auschwitz, nell’agosto del 1942. Ebrea accusata di
essere antisemita, amata da Paul Morand e da Robert Brasillach, pur notissima ai
suoi tempi è stata murata nell’oblio: oggi è notissima, soprattutto, per il
romanzo postumo, Suite francese, pubblicato da Denoël nel 2004, tradotto l’anno
dopo da Adelphi. Insomma: la sua storia – contraddizione topografica, salvezza e
dannazione, amore e morte, successo postumo – sembra assembrare anche la nostra.
Attaccando un pezzo pubblicato su “Avvenire” nell’aprile del 2014 (La folgorante
vendetta di Irène Némirovsky), Cesare Cavalleri – da sempre, lettore affascinato
e partecipe di I.N. – scrisse: “Non si finisce di domandarsi come mai una
scrittrice come Irène Némirovsky (1903-1942) notissima in Francia e conosciuta
anche in Italia negli anni ’20-’30 sia stata riscoperta solo nel 2004”.
Aveva, come sempre, ragione.
Per puro gioco, ho sfogliato i quattro tomi de “I contemporanei. Letteratura
francese” editi da Lucarini nel 1981. L’impresa – straordinariamente completa –
registra autori necessari, ma ormai pressoché scomparsi dal panorama editoriale
come Alain e Barrès, Paul Fort e René Ghil (il suo profilo è firmato da Daria
Galateria), Jules Romains e Francis Carco, Jean Giraudoux e Marcel Pagnol. Il
consesso è quasi integralmente di maschi, tranne le solite note (Colette, Duras,
Yourcenar, de Beauvoir…).
Oggi, appunto, sarebbe tutto diverso: Irène – assieme alle donne citate sopra –
sarebbe al centro del canone francese, in compagnia di Céline, Malraux, Camus &
Co. “Ristampata in tutto il mondo, il lettore rimane incantato dalla qualità pur
disomogenea, ma sempre alta, dei molti romanzi” (Cavalleri). Merito – questo è
ancora Cavalleri, in una aurorale recensione del 2010 – della “ossidianica
penetrazione psicologica” dell’autrice. Da tempo, i suoi libri sono trasmutati
in film. C’è dunque, in fondo all’oblio subito dalla Némirovsky – durato decenni
– non soltanto il torbido gioco della torre del fato (grandi di ieri sono oggi
misconosciuti; autori allora fraintesi sono finalmente celebrati), bensì il
sortilegio della malignità, qualcosa di pervicacemente enigmatico, come di
bicchieri spaccati in faccia al padrone di casa. Per questo, leggere la
biografia Irène Némirovsky. La scrittrice che visse due volte (Edizioni Ares,
2025, nell’ormai efficacissima collana ‘Profili’) è un esercizio di onestà: la
vita – votata agli incantesimi dell’arte, agli approdi di una solitudine
incessante – di Némirovsky è, infine, lo specchio rovesciato dei suoi romanzi,
ha i carati della tragedia europea. La biografia, poi, si legge come un romanzo
(anche le note riservano sorprese), in virtù della penna, felice, audace (che
bello, da pagina 108, scoprire analogie tra Philip Roth e Némirovsky in merito
alla ‘morale’ dello scrittore, a un’etica che coincide con l’estetica) di Cinzia
Bigliosi, francesista di spiccato talento – ha tradotto Stendhal, Maupassant,
Laclos – che ha lavorato a lungo nell’opera di Némirovsky (traducendo, per
Feltrinelli, Suite francese e per Ares, nel 2021, come Re di un’ora, alcuni
“testi inediti” e il “capitolo ritrovato di Suite francese”).
Tutto comincia dall’incontro di Cinzia Bigliosi con la figlia di Iréne, Denise
Epstein; non credo un caso, dunque, la dedica, in esergo alla biografia, ai
“miei genitori”. La storia della letteratura è anche un lavoro di scavo tra gli
scritti degli avi; è la suprema pubertà della reticenza e dell’inganno; l’uscita
dalla cerchia felice dei primi affetti; la febbre del verbo – comunque, una
questione di parentele, il ritorno al padre – o alla madre –, e così sia.
Qual è il romanzo della svolta della Némirovsky? Quale il romanzo tramite il
quale penetrare nel mondo della Némirovsky?
Penso che nella vita di scrittrice di Irène Némirovsky si possa parlare di due
romanzi, di conseguenza, di due svolte in momenti capitali precisi. Riprendendo
il sottotitolo del mio saggio, Irène visse almeno due vite editoriali ben
distinte: David Golder è il romanzo che determinò la prima svolta e che, nel
1929, le diede immediata notorietà tra pubblico e critica. Quello che in
assoluto resta il suo best seller non era la sua prima pubblicazione, ma ne
segnò la carriera con un successo fulminante. L’editore Bernard Grasset, che sei
anni prima aveva pubblicato il clamoroso Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet
e che il “New York Times” aveva battezzato come “il più grande tra gli editori”,
se ne innamorò e organizzò un eccezionale lancio pubblicitario. Da quel momento,
fino alla deportazione ad Auschwitz nel luglio 1942, Irène fu una prolifica
scrittrice. Corteggiata dalla stampa, dalla radio e dal cinema, non restò a
lungo estranea a polemiche che riguardarono, ad esempio, le accuse di
antisemitismo mossele dagli stessi ambienti ebraici. Oltre a David Golder, il
romanzo che permette di immergersi nel mondo némirovskyano è anche quello che ha
determinato la seconda vita di Irène, vale a dire Suite francese.Pubblicato nel
2004, esplose in un successo mondiale che tuttora perdura e che l’ha
definitivamente disseppellita dall’oblio in cui il suo nome era colpevolmente
finito. È un testo unico, non solo in quanto incompiuto e postumo, ma anche
perché le sole due parti che Irène ebbe tempo di concludere raccolgono in una
certa misura la summa della sua poetica più matura, in primis il tema
dell’esilio, rappresentato per esempio dalla polverosa confusione che avvolge
l’esodo di milioni di parigini, la gerarchia sociale che si scardina sotto
l’istintivo peso del più forte, il tutto governato con uno stile severo e un
tono lirico.
Come entra la ‘russità’ nei romanzi francesi di Irène?
Vi entra in modo molto naturale, prima di tutto perché, nonostante parlasse,
scrivesse e, come ricordava lei stessa, addirittura sognasse in francese, Irène
Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, vissuta a Mosca e Pietroburgo, era russa a
tutti gli effetti, così come lo era la sua cultura di formazione (che crebbe
insieme a lei parallelamente a quella francese incarnata dalla tata che la
affiancò fin dai primi giorni di vita). Nella sua opera il mondo russo, anche se
forse sarebbe più opportuno parlare di un mondo cosmopolita, è rappresentato da
personaggi molto affini alla famiglia d’appartenenza della scrittrice, legati
all’ambiente della finanza ebraica. Inoltre, Irène non dimenticò i poveri esuli,
gli spodestati, gli ultimi della terra e per rappresentarli si rifece per
cominciare alla figura della njanja, la vecchia balia russa, simbolo dell’esilio
direttamente mutuato dall’opera dell’amato Aleksandr Puškin e alla quale
dedicherà un omonimo racconto agli albori della carriera.
Quali sono i suoi scrittori prediletti, i suoi lari nella ricerca letteraria?
Le passioni letterarie di Irène si fondavano su un immenso repertorio
soprattutto classico di testi russi e francesi. Normalmente leggeva la domenica
pomeriggio, il solo momento della settimana in cui servitù e genitori la
lasciavano sola a casa. Gli autori più amati erano Stendhal, Balzac, Huysmans,
Maupassant, Jean e Jérôme Tharaud, Dostoevskij, Puškin – al quale aveva
intenzione di dedicare uno studio se non fosse stata uccisa prima, così come
avrebbe voluto lavorare intorno alla vecchiaia di Rimbaud. Altri amati erano
Byron, Wilde e Čechov al quale dedicò una biografia e all’origine di una grande
influenza soprattutto nello stile dei racconti. Da adulta restò una lettrice
famelica, scrisse anche recensioni di autori a lei contemporanei, con una
predilezione per gli americani, come James M. Cain. Gli scrittori che tornano
più di frequente negli ultimi mesi di vita, nella sua “nona ora”, quando era
ormai divorata da depressione e angoscia, furono Tolstoj, al quale si rifaceva
mentre scriveva Suite francese in un ipotetico parallelo con Guerra e pace, e
Baudelaire di cui per esempio poteva citare a memoria i drammatici versi
dedicati a Sisifo della poesia La scarogna.
…e i suoi amici? Intendo, di quale considerazione godeva Irène ai suoi tempi?
Avere amici veri nel mondo editoriale credo che fosse cosa rara allora come lo è
oggi. La considerazione di cui godeva Irène era sicuramente molto alta. Con il
successo di David Golder Irène Némirovsky mise piede in un ambiente culturale
che, tolta l’ingombrante presenza di Colette, era a impronta strettamente
maschile. L’Académie française, così come l’Académie Goncourt, riviste
importanti come “Toute l’édition” o “La NRF” erano tutte guidate da uomini.
L’editore Grasset, che aveva per vocazione dichiarata quella di scoprire nuovi
talenti (a spese dello stesso Proust fu il solo a raccogliere la sfida di
pubblicare per primo Dalla parte di Swann), permise a Irène di occupare uno
spazio inusuale per una giovane scrittrice fino a quel momento pressoché
sconosciuta. Cresciuta nel lusso e in un mondo lontano da quello culturale,
Irène coltivava l’ambizione di essere riconosciuta come scrittrice e quando, nel
gennaio 1930, Frédéric Lefèvre, redattore capo di “Les Nouvelles littéraires”,
le chiese di partecipare alla sua rubrica “Une heure avec… (Un’ora con…)”, ne
ebbe un’importante conferma. L’intervista aveva toni condiscendenti e a tratti
suonava piuttosto sospetta. Lefèvre vi definisce Irène “un bel tipo di
israelita”, presentandola come “un accordo raro e perfetto, l’intellettuale
slava, nota ai frequentatori della Sorbona, e donna di mondo”. Henri de Reigner
firmò un’importante recensione di David Golder per le pagine di “Le Figaro”, ma
la vera e propria consacrazione avvenne pochi anni dopo, nel 1936, quando
l’importante “Revue des Deux Mondes” pubblicò un approfondimento della sua
opera. Da quel momento Irène ne divenne collaboratrice, pubblicandovi racconti e
romanzi a puntate. In quegli anni si tenne lontana dagli ambienti
dell’avanguardia di sinistra dei surrealisti, così come dai circoli
internazionali con sede a Parigi ai quali afferivano personalità come James
Joyce, Gertrude Stein o Anaïs Nin, mentre i suoi libri venivano costantemente
recensiti da critici come Robert Brasillach che nutriva per l’opera di Irène una
passione costante anche se di intensità altalenante. Per concludere vorrei però
ricordare soprattutto quello che fu senz’altro un amico fedele e fidato di Irène
e che le restò vicino anche nei momenti più bui: l’editore Albin Michel che la
aiutò finanziandola regolarmente, anche nei difficili anni della guerra, e che
dopo la morte della scrittrice non abbandonò mai le due figlie.
Irène Némirovsky (1903-1942)
Qual è l’aspetto della vita di Irène a suo dire esemplare, un monito a designare
un destino?
L’essersi illusa fiduciosamente. Dopo essersi salvata dalla rivoluzione
bolscevica, Irène si convinse di aver trovato nella Francia una seconda patria,
una vera terra-madre. Fin da piccola parlò solo francese, conosceva a memoria
il Cyrano de Bergerac, le poesie di Baudelaire, passava le vacanze in Costa
Azzurra, si orientava per le vie di Parigi meglio che in quelle di Kiev o di
Mosca, aveva frequentato i salotti più chic, era stata corteggiata e celebrata
dal mondo culturale. Le figlie erano nate a Parigi, frequentavano le scuole
della capitale. Io credo che ad un certo punto, presa nelle maglie
dell’illusione di una perfetta integrazione, Irène smise di ricordarsi di essere
ebrea e di non essere francese. Pensava di essere semplicemente una scrittrice
di successo con una vita sufficientemente felice. Sconcerta lo sgomento che
traspare dalla lettera che indirizzò al generale Pétain il 13 settembre 1940,
incredula di fronte all’applicazione indistinta delle leggi razziali a tutti gli
stranieri, una cittadina seria e riguardosa, residente da tanti anni in Francia
come lei si sarebbe aspettata la presunzione di innocenza, con la distinzione
tra gli stranieri integrati – gente per bene, in regola con le tasse e dedita a
rispettare e a onorare lo Stato ospite – e quelli indesiderati, dei bassifondi,
malfamati e disonesti truffatori. Forse Irène ancora non aveva capito che per il
governo collaborazionista lei non era che una ebrea e perdipiù straniera.
Che idea di donna, del femminile proviene dai romanzi della Némirovsky?
Un’idea di donna molto complessa e conflittuale, spesso scissa tra due
tentazioni il più delle volte fallimentari: il vecchio modello borghese di madre
e moglie e la spinta delle più giovani a rovesciare tale paradigma, cadendo il
più delle volte sotto il peso della stessa atavica condanna. Le figure femminili
nell’opera di Irène Némirovsky si muovono a coppia, come le madri (o le balie) e
le figlie – dove il tema del tempo e dell’invecchiamento è preponderante,
insieme alla mancanza di amore materno così come di riconoscenza filiale. Le
donne descritte da Irène sono, con rare eccezioni, personaggi drammatici, ma di
grande soddisfazione per la scrittrice che quando riusciva finalmente a
inventarsi ad esempio una madre cattiva provava pura gioia.
La ‘morale’ dell’arte. Irène pare badare a una propria estetica più che a una
sorta di cautela ‘politica’. I romanzi devono essere belli, non ‘buoni’. È così?
Che conseguenze ha questa coerente sprezzatura nella vita di Irène?
Quando fin dalle prime pubblicazioni fu accusata di antisemitismo, Irène spiegò
che non si trattava di una posizione politica ma estetica e necessaria, e
continuò a descrivere gli ebrei così come li aveva conosciuti, fino a quando
poté farlo almeno. Si dichiarò antipolitica e si mosse senza troppo far caso al
mondo che le stava bruciando intorno, agli ebrei che sparivano né alle
recensioni nelle quali ci si riferiva a lei sempre più spesso dandole della
slava. Vivere per la propria arte è pericoloso. Irène restò assorta e immersa
nella scrittura fino alla fine. Anche quando era ormai certo che non avesse più
tempo, scelse di correggere e di riscrivere lunghe pagine di Suite francese,
investì le ultime ore di vita in quello che sarebbe rimasto il suo libro
incompiuto e postumo. Era incauto, così come lo era stato scrivere di ebrei con
nasi adunchi e un’inestinguibile brama di denaro, ma era ormai necessario morire
per e nell’opera, un’immagine quanto mai proustiana. Tra il salvarsi e lo
scrivere, Irène non ebbe dubbi e scrisse fino a poche ore prima di essere
deportata.
Perché i romanzi di Némirovsky continuano ad affascinare, secondo lei? Cosa c’è
in quella scrittura di allora che ci comprende, che ci prende, ora?
È la stessa Irène che può rispondere a questa domanda con l’ultimo appunto che
scrisse sul quaderno di lavoro l’11 luglio 1942, due giorni prima dell’arresto.
Riflettendo sul senso della scrittura e, in generale, sul rapporto tra destino
collettivo e destino individuale, annotò che la cosa più importante per lei era
quella di ricordarsi che
> “i fatti storici, rivoluzionari, ecc. devono essere solo sfiorati, mentre
> quella che viene approfondita è la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto
> la commedia che è specchio della realtà di tutti i giorni”.
Solo questo resiste nel corso dei secoli: la commedia di tutti i giorni, uguale
ed eterna per l’individuo, come per noi e come per il lettore di Apuleio o di
Rabelais. Un secolo prima di Irène Némirovsky Charles Baudelaire si rivolgeva al
lettore chiamandolo mon semblable, mon frère. Io credo che l’irresistibile senso
di familiarità che si prova leggendo Suite francese o Il ballo o Jezabel dipenda
dall’eco inconfondibile che risuona nell’animo di ogni lettore di emozioni e
sentimenti eterni, come la solitudine, l’estraneità, il tradimento, l’arrivismo,
le promesse mancate, l’opportunismo, il terrore del tempo che fugge. È in fondo
lo stesso motivo per il quale l’orrore di Amleto di fronte al letto paterno
spodestato è anche un po’ il nostro, così come tutti ci troviamo quotidianamente
posti di fronte a scelte etiche, dolorose e punitive, tra giusto e ingiusto,
interrogandoci su se sia meglio essere o non essere.
L'articolo Vivere per l’arte. Irène Némirovsky, la scrittrice infinita. Dialogo
con Cinzia Bigliosi proviene da Pangea.
C’è una pena nell’essere, una spina che accompagna ogni passo, che tormenta ogni
riposo. «Respiro. Questo è già desiderare».[i] E dal desiderio l’azione,
dall’azione ingiustizia, dall’ingiustizia la morte.
A ogni slancio verso la vita, risponde il ghigno corrosivo della morte.
Cerchiamo la vita e troviamo la morte.
Ogni mattino che cade sulla terra, l’uomo che soffre, l’uomo che pensa e che
soffre, fin dal suo primo respiro è condannato: agire e ferire; non farlo e
morire.
*
Il popolo del Nilo che pesa le anime al trapasso, Arjuna fermo in mezzo al campo
di battaglia, sono figli di questa pena.
C’è una pena nell’essere ed è una pena che non ha riscatto.
*
Respirare e desiderare, vivere e uccidere. Questo è proprio dell’uomo. Ma la
pena non è dell’uomo soltanto: «tutta la creazione geme»,[ii] come sapendo che
tutto muore di una pena sconosciuta, che nel nascere delle cose è inscritto il
loro morire, «secondo il dovuto, perché pagano l’una all’altra, giusta pena e
ammenda della loro ingiustizia».[iii]
*
C’è una pena nell’essere e c’è una pena nell’uomo. Ed è la stessa pena, il
sentire qualcosa che manca – al fondo di ogni gioia sentire il brivido del
terrore, al fondo di ogni dolore saperne l’insensatezza.
C’è una pena che è dell’essere, ma di cui in tutto l’essere, nell’intero novero
di quello che abbiamo intorno e che chiamiamo cosmo, l’uomo soltanto ha
coscienza.
L’uomo è coscienza del cosmo, il punto del cosmo in cui il cosmo diventa capace
di sentire se stesso, di pensare a se stesso, di patire se stesso.
È vertiginoso e tremendo. Il cosmo che geme e l’uomo che paga.
Per questo – per questa tremenda vertigine – l’uomo dimentica, sceglie di
dimenticare.
*
«Dalla natura sorge la paura della morte».[iv] E se il nemico è oscuro, se non
si può fuggirlo né affrontarlo a viso aperto perché non ha forma, perché non è
fuori ma dentro – e la sua forma è una forma di verme che si aggrappa al ventre
e sale per lo stomaco, se questo nemico oscuro non si può fuggirlo né
affrontarlo, quale altra salvezza se non dimenticare?
*
«Facciamoci un nome per non perderci sulla terra».[v] È il contrappasso
spaventoso di Babele: la tecnica in cambio del dono, il potere in cambio
dell’amore.
Attraversiamo i giorni e le notti dormendo in «cessi con porte
numerate»,[vi] accaniti a «progettare il frigorifero perfetto»,[vii] a «sognare
sistemi così perfetti che nessuno debba essere buono».[viii]
«Facciamoci un nome per non perderci sulla terra». Questo si dicevano i
carpentieri di Babele, questo ci ripetiamo senza dircelo ogni mattina – il
desiderio pervertito in brama, l’amore in possesso.
*
«Dalla natura sorge la paura della morte». Dalla paura, la dismemoria. Il mondo,
che «per i desti è uno e comune», in chi resta a dormire si frantuma, a ciascuno
dando la sua parvenza, «un proprio mondo particolare»;[ix] ciascuno, dimentichi
noi dell’essere e della sua pena, vivendo «secondo una sapienza sua propria».[x]
*
«Chi ci farà vedere il bene?».[xi]
Una domanda che è un miracolo. Accaniti a progettare il frigorifero perfetto,
vivendo ciascuno secondo una sapienza sua propria, abituati alla smemoratezza e
a confondere il desiderio con la brama, come ci può venire in mente la domanda
del salmista, come può venirci in mente che da altri e non da noi vada appresa
la forma del bene?
*
C’è una pena dell’essere, una pena che è la nostra e che è senza riscatto.
*
«L’uomo nella prosperità non comprende».[xii] La nostra vita finirà, le nostre
battaglie, le nostre conquiste, gli amori: tutto finirà e non saranno i nostri
sforzi a poterne salvare un solo granello.
Facciamoci un nome sulla terra, progettiamo il frigorifero perfetto.
E quando tutto sarà morto, quando tutto sarà polvere, soltanto allora, solo
allora – santa grazia – la sferza della vita ci risvegli alla vita.
*
«Che cos’è l’uomo»,[xiii] allora, e chi sono io – che vaneggio per questa via
bassa cercando la strada più alta?
Che cos’è l’uomo, questo grumo di polvere e di vanagloria – e perché, come mai
questo niente respira e desidera?
*
E «fino a quando», fino a quando questa morsa sulla bocca dello stomaco, questo
alternarsi di memoria e dismemoria, di ottusità e di patimento?
C’è una pena nell’essere – ma prima di tutto c’è un essere;
e se l’essere c’è – mai può non-essere,[xiv]
mai può essere non-stato. Se c’è un cosmo c’è un principio,
e il principio è un uomo, un Dio, un Dio che sa l’uomo e il suo dramma, perché è
tutto nell’uomo e nel suo dramma.
«Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?».[xv]
*
La via che scende, la via che sale.
«Scendi in più in basso, scendi soltanto
nel mondo di perpetua solitudine».[xvi]
*
La via che scende.
«Dall’abisso a te grido».
*
La via che sale.
«Che cos’è l’uomo?».
*
«E in te il perdono e in noi il timore – in te il perdono, in noi il timore».
*
Il perdono.
C’è una pena nell’essere che è nostra e non nostra.
C’è una pena e una mancanza.
C’è uno strappo, uno strappo nell’ordine.
*
Dall’abisso a te grido – a te, a chi?
Daniele Gigli
**
> Salmo 130
>
> Dall’abisso a te grido, Signore – Signore ascolta la mia voce
> alle mie suppliche, alle mie, presta l’orecchio.
> Se consideri lo strappo della legge non resisto – mio Signore, chi resiste?
> E in te è il perdono e in noi il timore – in te il perdono, in noi il timore;
> e ho sperato, mio Signore, la mia anima ha sperato che parlassi, ti ho
> aspettato
> simile a una scolta con l’aurora,
> a una scolta con l’aurora!
> Dalla veglia del mattino fino a notte,
> dalla veglia del mattino aspettalo, Israele:
> spera nel Signore: col Signore c’è lealtà – e redenzione molta, in lui.
> Salva l’ordine strappato di Israele, salva la sua legge.[xvii]
(Tutte le traduzioni sono a cura dell’autore)
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[i] W.H. Auden, Prima, in Horae Canonicae.
[ii] San Paolo, Lettera ai Romani, 8, 22.
[iii] Anassimandro, Frammento 1.
[iv] San Tommaso D’Aquino, Sopra la Seconda lettera ai Corinzi, 5, 2.
[v] Genesi, 11, 4.
[vi] T.S. Eliot, Cori da «La Rocca», III, 229.
[vii] Ivi, III, 244.
[viii] Ivi, VI, 307.
[ix] Eraclito, Frammento 89.
[x] Id, Frammento 1.
[xi] Salmi, 4, 7.
[xii] Salmi, 48 (49), 8-10.
[xiii] Salmi, 8, 5.
[xiv] Parmenide, Frammento 2.
[xv] Salmi, 12 (13), 3.
[xvi] T.S. Eliot, Burnt Norton, III, 114-115.
[xvii] Salmi, 129 (130).
*La traduzione di Daniele Gigli è parte del progetto “Salterio dei Poeti”. Il 9
maggio, a Rovigo (Pescheria Nuova, Corso del Popolo, 140) e l’11 maggio a
Chioggia, nell’ambito del Festival Biblico, terrà una meditazione dal titolo “La
via alta e la via bassa, una sono. Desiderio e salvezza”
In copertina: Antonello da Messina, Salvator Mundi, 1465
L'articolo “Dall’abisso a te grido”. La via alta e la via bassa, una sono. Una
meditazione proviene da Pangea.
Negli Venti, ventenne, gli accade tutto – i germi dei romanzi che saranno, il
futuro che ti cuce gli occhi.
Nel 1921 fa speleologia tra i documenti genealogici di famiglia; penetra nel
Seicento, entro scritture vaghe, in eccesso, caravaggesche (“un enorme romanzo
concepito e in parte febbrilmente compilato tra i miei diciotto e ventidue
anni”, scrive lei), che costituiscono il primo nucleo de L’opera al nero.
Una prima visita a Villa Adriana, nel 1924, la porteranno a concepire il suo
libro più importante, le memorie del grande imperatore romano, che uscirà quasi
trent’anni dopo, nel 1951.
*
Quasi a dire: maturità, per un artista, non è che confidare nelle apocalissi di
gioventù.
Il difficile è riconoscere di avere avuto una giovinezza – e a quale equatore.
Quella è l’alleluia, lo squillo. È in virtù di quelle aspirazioni che si è nel
sempre, negli elisi della scrittura. Il sommo peccato: eludere le passioni
diciottenni.
Certo: è lavoro, a strascico, di riscrittura, un cancellare che può dirsi
commiato. Raffinare vuol dire crocefiggersi – che l’antica colonna divenga,
finalmente, palmeto, prato.
*
Nouvelles orientales è il primo libro che Marguerite Yourcenar pubblica per
Gallimard. È un libro strano, voluto da Paul Morand per la collana ‘La
Renaissance de la nouvelle’, “atta a promuovere un genere, il racconto,
ingiustamente screditato”. Nel 1929 Yourcenar aveva esordito alla prosa
con Alexis ou le Traité du vain combat: quel libro – lieve, onirico, inaudito,
che parlava del “problema della libertà sensuale in tutte le sue forme” come
“problema di libertà d’espressione”, cioè della forma che il corpus scritto
prende in relazione al corpo fisico – era piaciuto a Morand. Nel ’35, propose a
Yourcenar un contratto.
*
Per Yourcenar è comune ritornare sullo stesso libro più volte, è per lei
importante patire il libro. Riverirlo fino alla dissacrazione.
Ritornare – senza levare un rigo – oppure: mai cheti, con la katana.
*
Nell’edizione del 1938, Novelle orientali è aperto con un racconto
d’ambientazione indiana, Kâli décapitée. È il primo del ciclo scritto da
Marguerite: in origine, è pubblico su “La Revue européenne”, nel 1928; sarà
drasticamente riscritto. Il testo è, a suo modo, bellissimo. Kali, ora “orribile
e bella”, è stata decapitata dagli dèi, incapaci di reggerne l’innocente
purezza: hanno assemblato il suo cranio sul corpo “di una prostituta condannata
a morte per aver tentato di turbare le meditazioni di un giovane Bramino”. Di
lì, l’irresoluta brama della dea, l’estro per l’abiezione, l’onnipotenza del
corpo:
> “Kali è abietta. Ha perduto la sua casta divina a forza di concedersi ai
> paria, ai condannati, e il suo viso baciato dai lebbrosi si è coperto di una
> crosta d’astri… Triste come un febbricitante che non riesca e procurarsi acqua
> fresca, va di villaggio in villaggio, di crocicchio in crocicchio alla ricerca
> delle solite squallide delizie”.
Il dialogo con un saggio, “Maestro della grande compassione”, le fa capire che
la lussuria nella miseria è già una parabola ascetica.
> “Forse, donna senza felicità, errando disonorata per le strade, sei più
> prossima ad accedere a ciò che è senza forma… Il desiderio ti ha insegnato la
> vanità del desiderio”.
Sembra la storia dell’idiota, la “vergine che simulava la follia e il demonio”,
narrata da Palladio nella Storia lausiaca e ripresa, con enfasi, da Michel de
Certeau in Fabula mistica. Quella donna, innominata, è “la spugna del
monastero”: svolge i servizi più miseri, mangia delle briciole, dei resti che le
sono offerti senza sedere a mensa, viene “battuta, ingiuriata, caricata di
maledizione e trattata con ripugnanza” dalle consorelle. In qualche modo, la
folle cerca questo tipo di trattamento, si erge capro d’espiazione. In realtà, è
lei, l’idiota, l’eletta, la “più religiosa”, secondo le parole dell’angelo. Un
monaco, allora, va a cercarla, ad obiettare all’ovvio.
Nel caso di Kali, l’offesa – l’impotenza nell’esercizio della potenza – è più
radicale. Presa da “vera furia contro tutto ciò che vive”, si dà a “uno scemo
che sbavava seduto sul ciglio di un letamaio”; svolta la propria connaturata
divinità in oscenità e orrore. Nessun dio può salvare quella perduta dea, nessun
angelo la addita, nessun uomo la addomestica.
Divinità che diviene nulla – divinità avvilita, avvolta nell’errare – “sono
stanca”, sussurra – che è poi dire, ho sete.
*
L’Oriente di Yourcenar ha poco a vedere con l’orientalismo di Pierre Loti o di
Nerval, con le poesie ‘cinesi’ di Victor Segalen, con le visioni indiane di
William B. Yeats; Marguerite non segue la via degli avventurieri anglofoni del
linguaggio: da Ezra Pound – che con Cathay fonda il ‘modernismo’ lirico – a T.S.
Eliot – affascinato dal buddismo –, da Arthur Waley a Amy Lowell. Assente, in
lei, il ‘gusto’ di Goethe per l’Islam, la ferocia di Kipling, gli incensi di
Edward FitzGerald, le audacie da neoconvertito (da colono o da pioniere che
sia). Yourcenar passeggia, apolide a ogni tempo, a ogni civiltà, e osserva:
questa esclusione – come nel caso della Roma antica, delle Fiandre
rinascimentali – le permette esclusività di sguardo. Non vuole ‘dare voce’, non
vuole dare una ‘visione del mondo’: registra istanti, riferisce chiacchiere,
rifiata leggende – c’è una dignità nuova in questo scrivere con la brocca,
mettendo acqua dove il muro è crepato. Questo, ha permesso a Marguerite di stare
da straniera tra le aule dell’Accademia di Francia: come alla corte di Praga,
trecento anni prima, ad Avignone nell’era dei contro-papi, tra le sibille
sillabiche di Erode quando fu promulgato di decollare Giovanni, a Micene, a
quell’epoca di maschere d’oro.
In sostanza, estranea perfino a una qualche storia della letteratura.
*
Antonia Arslan, scrivendo delle Novelle orientali, ha scritto che “è tutto
portento di stile”, ha scritto “di una scrittura corrusca e sfumata, capace di
realismi brutali e di languori sovrannaturali”. Dei dieci racconti, la Arslan
preferisce L’ultimo amore del Principe Genji, scritto per “colmare” una
reticenza lasciata lì, come un fazzoletto caduto, da Murasaki Shikibu, la
splendida narratrice del Genji Monogatari. In un passo di particolare potenza,
Genji, quel “don Giovanni asiatico di stile eccelso”, dice:
> “Sto per morire… Non mi lamento di un destino che condivido con i fiori, con
> gli insetti, con gli astri. In un universo dove tutto passa come un sogno, non
> ci perdoneremmo di durare per sempre. Non mi addolora sapere che le cose, gli
> esseri e i cuori siano perituri, dal momento che una parte della loro bellezza
> è fatta di questa sciagura. Ciò che mi affligge è che siano unici”.
Nel 1981 Yourcenar consolida il suo legame con il Giappone pubblicando un libro
affatto diverso, Mishima ou la Vision du vide. Yukio Mishima, quel tragico,
inafferrabile Genji… Di lui, tre anni dopo, Marguerite traduce Cinq nôs
modernes: “opera di un poeta autentico… che riguarda, in modo a tratti
sconvolgente, la nostra stessa vita”.
*
Nell’anno in cui pubblica Novelle orientali, traduce per Stock Le onde, il
romanzo di Virginia Woolf.
Sono anni fertili. A Capri, in poche aggraziate settimane, Marguerite scrive Il
colpo di grazia, uno dei suoi libri più belli e più inquieti. Ambientata durante
la Prima guerra, quella storia, residuo del ricordo di un ricordo che “si ispira
a un avvenimento autentico”, forse per quell’amore mutilo e muto, per il
risentito frainteso, per quella sprezzante atmosfera onirica, per il confidare
nell’impossibile, è così cruda da sembrare un diamante. Regge il confronto con i
romanzi più noti ed elaborati.
Soprattutto, nel ’36 pubblica, per Grasset, Fuochi, quel libro inattuale, “nato
da una crisi passionale”, di monologhi e feticci lirici, “una raccolta di poesie
d’amore o, se si preferisce, una serie di prose liriche collegate fra di loro
sulla base di una certa nozione dell’amore”. Il libro, dedicato A Hermes, viene
redatto nel 1935, a Costantinopoli, durante un viaggio compiuto con André
Embricos, poeta e psicoanalista a cui sono dedicate le Novelle orientali. È
vero: Fuochi è un libro a parte, è un libro per dipartiti, che Yourcenar tenta,
con levigata malizia, di disconoscere (“appartiene a quella maniera tesa e
ornata che fu la mia per un certo periodo”); è da quella stessa tempesta – per
rifrazioni e chiaroscuri e discordie – che nasce Novelle orientali. Tra i
testi-emblema, Nostra Signora delle Rondini. Yourcenar racconta la lotta tra il
monaco Terapione e un lotto di Ninfe superstiti, che confondono i contadini
neoconvertiti, che riportano l’uomo alle ragioni del fango e dell’umore terreno,
dell’amore e dell’ardore. Terapione riesce a murare le Ninfe in una grotta,
occlusa dalla sua cella; Maria, la madre del Nazareno, gli appare perché le
liberi.
> “Chi ti dice che la pace di Dio non si stenda alle Ninfe come ai cerbiatti e
> ai greggi delle capre?… Non sai che al tempo della creazione Dio dimenticò di
> dare le ali a certi angeli, che caddero sulla terra e presero dimora nei
> boschi, dove formarono la razza delle Ninfe e dei Pan?… Non esaltare, come i
> pagani, la creatura a svantaggio del Creatore, ma non scandalizzarti nemmeno
> per la Sua opera”.
Tra le mani di Maria, le Ninfe sono mutate in rondini. Nella fiaba, si racconta
il punto di giunzione tra Atene e Gerusalemme, tra Cristo e Dioniso.
*
Nel perimetrare gli enigmi, nel decrittare i miraggi – secondo una strategia che
sarà anche di Pavese, nei Dialoghi con Leucò –, Yourcenar non scrive
propriamente ‘racconti’. In quell’arte, gli eccellenti sono Hemingway e Čechov,
Maupassant e la O’Connor, scrittori in grado di ‘dare la vita’. No, a Marguerite
non importa il vero, tanto meno il verosimile – si affratella ai fatti scorgendo
il prodigio. Imbraccia la fiaba, appunto, secondo i toni, ad esempio, di Hugo
von Hofmannsthal.
In Fuochi, incideva nella carne:
> “Non ho paura degli spettri. I vivi sono terribili soltanto perché hanno un
> corpo.
>
> Non esistono amori sterili. Le precauzioni non servono a niente. Quando ti
> lascio, il dolore sta a fondo del mio essere come una specie di orribile
> figlio”.
Nelle Novelle orientali: ombre sul paravento, sciacalli di tela, sagome in
ginocchio, apparizioni nel ghiaccio. Ci si libra, liberati, come su aquiloni.
*
La categoria del contemporaneo non si attaglia a Marguerite – in Adriano
ausculta i tremori di un’era; in Zenone il palpito dell’uomo totale; in Anna le
estasi della reclusa d’amore. Di anima in anima, va, come le api di fiore in
fiore – a noi resta il venefico miele, questo opale dolcissimo. Lei, la
scrittrice, inattingibile, lascia di sé una zuccherina traccia di cenere.
*
Le Novelle orientali sono ispirate, per lo più, da un viaggio in Grecia.
L’Oriente di Marguerite contempla Bisanzio e i Balcani, l’India, il Giappone,
Amsterdam.
In Italia, Novelle orientali esce nel 1983, per Rizzoli, tradotto da Maria Luisa
Spaziani, testimonianza di una ineffabile incomprensione. Nell’edizione
definitiva del libro, quella del 1963, Yourcenar incenerisce alcuni testi (Les
emmurés du Kremlin), muta alcuni titoli, cambia l’ordine delle apparizioni. Il
primo racconto non parla più di Kali, ma di Wang-Fô, il vecchio pittore taoista
che contemplava gli astri di notte e le libellule di giorno. Questo
straordinario pittore, che con il talento riesce a rendere straordinariamente
vivido il mondo, riesce a salvarsi dalla crudeltà dell’Imperatore prendendo il
largo, su una piccola barchetta, tra i meandri di una sua opera. L’Imperatore
pensò di ucciderlo: non accettava che il mondo non fosse bello come i dipinti
del vecchio Wang-Fô.
L’ultimo racconto, La tristezza di Cornelius Berg – nell’edizione del ’38: Les
tulipes de Cornélius Berg – parla di un “vecchio pittore di ritratti”, “oscuro
contemporaneo di Rembrandt”, ritratto mentre la malinconia, artigliata, lo
logora. Aveva fatto successo in Italia, Cornelius, aveva viaggiato per
“l’Oriente sordido” e dipinto il Sultano a Costantinopoli: non riesce ad
appassionarsi ai turgidi tulipani ostentati per lui dal Sindaco di Haarlem.
L’artista, il cui talento è ormai calcificato nell’abitudine, si rammarica che
Dio, “il pittore dell’universo”, non si sia limitato a creare paesaggi; gli
uomini gli sembrano orrendi. Wang-Fô, al contrario, riesce a penetrare la natura
delle cose, fino a sfatare le distanze tra verità e finzione, perché ogni
singolo elemento del cosmo – che siano i capelli di una donna, un ciottolo e un
insetto, la sciarpa che fluttua al collo di un impiccato e “il fiore esposto al
vento caldo e alle piogge d’estate” – gli sembra immenso, glorioso, degno. Anche
a lui, allora, è dato sparire in quella spaventosa magnificenza, felice.
In questo gioco di assennate asimmetrie, è bene intuire una poetica. Poi, anni
dopo, verrà Adriano, che è poi un modo per dire Occidente, i suoi valli, la
barbarie, la balbuzie, la bellezza.
L'articolo “Il desiderio ti ha insegnato la vanità del desiderio”. L’Oriente
secondo Marguerite Yourcenar proviene da Pangea.
In una fotografia scattata probabilmente nel 1932 – così dice la nota della casa
d’aste che l’ha venduta – René Daumal, sdraiato sopra un casotto, sembra
precipitare. Ha le braccia aperte, gli occhi e la bocca serrati, in estasi: lo
sorregge, da sotto, fiera della propria incertezza, Véra Milanova, che all’epoca
non è ancora sua moglie. René pare un angelo in volo contrario, ad arare il
cielo; siamo in un parco cittadino, gli alberi spettri; nel casotto, chissà, ci
sono degli attrezzi per il giardinaggio – forse è rinchiuso un centauro.
Dieci anni prima, al liceo di Reims, insieme a un paio di compagni, Roger
Gilbert-Lecomte e Roger Vailland, Daumal animava i “Phrères simplistes”, una
società iniziatica, una sorta di setta dei poeti estinti, che intendeva
dischiudere i mondi grazie al potere lisergico del linguaggio. Il padre di René,
Léon, era un professore, di fede socialista; il nonno, apicultore,
anticlericale, stregone alla bisogna. L’Alchimie du Verbe di Rimbaud fornì a
Daumal un ‘codice’ per stare al mondo:
> “Mi piacevano le pitture idiote… la letteratura fuori moda… racconti di fate,
> libretti per bambini… credevo a tutti gli incanti”.
Nel 1932 René Daumal ha già esperito tutto: non gli resta che espiare,
espatriare dal proprio tempo. Insieme agli amici del liceo, nel 1928, aveva
fondato “Le Grand Jeu”, una rivista, è scritto nel manifesto programmatico,
“alla ricerca dell’essenziale”. Già, ma cos’è questo essenziale? I redattori –
con le formule caotiche di chi vuole delegittimare il linguaggio – parlavano di
“vera morte” e di “vera follia” (quella “impotente come il sole… la follia senza
speranza di chi viene sgozzato come un cane”). Nell’introduzione al primo numero
– ne seguiranno altri due, fino al 1930 – Gilbert-Lecomte è laconico:
> “assorbiremo tutto, inghiottiremo Dio fino a diventare trasparenti, fino a
> sparire”.
Si scrive, d’altronde, per cancellarsi – esercizio di flagellazione.
Nelle fotografie di quegli anni, Daumal indossa strani occhiali, ha la posa del
santone, quella faccia sigillata, severa. Un fachiro a Parigi. Intanto, aveva
liquidato André Breton, il doge del Surrealismo, che voleva affiliare a sé quel
manipolo di affiatati ragazzi:
> “Curatevi di comparire nei manuali di storia della letteratura, Breton: per
> noi, sarà un onore essere ricordati dai posteri nella storia dei cataclismi”.
Così gli aveva scritto. Quello stesso anno – il 1930 – al Café Figon in St.
Germain, Daumal conosce Alexandre de Salzmann, artista georgiano di enigmatico
fascino, che lo introduce agli insegnamenti di Gurdjieff. Per Daumal è
l’incontro della vita.
Anni prima, aveva discusso con Simone Weil la necessità di imparare il
sanscrito, di ricongiungersi con l’antica sapienza indiana. Il suo professore,
Alain, “il più originale saggista e moralista della Terza Repubblica” – così la
nota ai Cento e un ragionamenti editi da Einaudi nel 1960, a cura di Sergio
Solmi – aveva scritto che
> “Tutti gli uomini che sono ora in vita non fanno che rivivere: sono tutti
> usciti da un vecchio involucro con un corpo ringiovanito; trascinano tutti con
> sé ricordi antichi almeno quanto il rosso fango quaternario nel quale
> sospingono l’aratro”.
Già: ma come coniugare la vita e la morte, i vivi e i morti, l’India, l’io, il
non-io, la parola che risana e quella che resuscita? Nel Vangelo di Marco è
scritto che “quelli che credono scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove…
imporranno le mani ai malati e questi guariranno” (16, 17-18). Come attingere
alla parola che vince il male e sana i malati? Come raggiungere le “lingue
nuove”? Come credere nell’incredibile?
Daumal era disgustato dalla letteratura, dall’intrattenimento, dalla polluzione
delle avanguardie.
Erano anni, quelli, in cui un po’ tutti, pur assisi sulla tolda delle loro belle
scrivanie, si disorientavano a Oriente e in ogni dove. Ezra Pound aveva optato
per Confucio e il teatro No giapponese; Thomas S. Eliot alternava il buddismo
alla lettura di Dante e di John Donne; Saint-John Perse si era ritirato in un
tempio taoista in rovina, fuori Pechino, per scrivere il suo
capolavoro, Anabasi; Victor Segalen credeva negli oracoli cinesi, sfidava le
sacre formule dell’I-Ching. Nel giugno del 1933 la rivista “Minotaure”, stampata
a Parigi da Albert Skira, pubblicava gli esiti della “Mission Dakar-Djibouti”,
guidata da Marcel Griaule, con uno scrittore d’eccezione al seguito: Michel
Leiris. In Africa cercavano le Indie: la parola originaria, la parola
che agisce, un redivivo Orfeo.
René Daumal (1908-1944)
Con analogo spirito, Antonin Artaud viaggiava, disperatamente, tra il Messico e
l’Irlanda e William Butler Yeats, recluso a Maiorca con un guru indiano, Shri
Purohit Swami, traduceva le Upanishad, cercando il punto che accomuna “quei
Saggi della foresta che hanno pensato tutto” e Balzac, Goethe e i monaci del
deserto (le traduzioni di Yeats dalle Upanishad sono edite da Magog). Yeats era
ossessionato dalla figura dell’ollamh, il bardo irlandese che con le sue rime
garantiva la sopravvivenza del re e della quercia, della casa e della volpe; in
René Daumal agiva la potenza dei rishi, i poeti veggenti che hanno composto
i Veda. Negli anni Trenta, mentre Yeats favoleggiava di un viaggio in India con
una delle sue giovani amanti, Daumal seguiva il tour di Uday Shankar. In quello
straordinario ballerino indiano intuiva i “ritmi infantili” proclamati da
Rimbaud. “Né la danza né la musica dell’India hanno lo scopo di distrarre. Al
contrario; hanno il fine di ricondurre incessantemente lo sguardo di ciascuno
verso il centro insopportabile della propria solitudine”, scrive in un saggio di
nitida bellezza (ora in: René Daumal, Lanciato dal pensiero, Adelphi, 2019).
Seguiranno, a precipizio, anni sonnambuli, a bordeggiare il nulla.
Daumal aveva un volto messianico.
Nel Dialogo sullo stile trattenuto con Lanza del Vasto – raccolto ora in Il
rovescio della testa, a cura di Claudio Rugafiori, Adelphi, 2025 – Daumal
domanda:
> “Vivo in un’epoca senza stile. Dove troverò le regole del mio mestiere di
> scrittore – regole che non siano superstizioni o curiosità storiche, che
> abbiano realmente autorità?”.
Scriveva che “Il poeta danza posseduto da un pensiero”. Il suo capolavoro, Il
Monte analogo, termina, incompiuto, sulla soglia di una virgola, specie di
abisso che sta al lettore superare. Uscì postumo, per Gallimard, nel 1952; Roger
Nimier – lo strabiliante scrittore degli “Ussari”, morto di schianto sulla sua
velocissima Aston Martin – scrisse, in ‘quarta’, che “Ogni frase, qui, ha la
nitidezza dell’ascesa”.
Ascesa. Ascesi. Nella più nota delle fotografie – scattata dallo scrittore Luc
Dietrich nel maggio del 1944, pochi giorni prima della sua morte – Daumal ha la
barba, ma gli occhi sono sempre quelli, fissi, famelici, di bimbo eterno che sa
evocare giaguari in un glifo d’ombre. In lui, Patty Smith riconobbe “un
fratello… un punk”.
Nel testo più bello de Il rovescio della testa, Daumal racconta di un “potente
mago” che abita “in una mansarda” e “lavora in una succursale del Crédit
Mystique”. L’uomo che “avrebbe potuto essere pascià, alchimista, usignolo o
cedro del Libano”, sceglie la miseria. Confida nei “segreti disegni della
Provvidenza”, muore, e “nessuno aveva sospettato chi egli fosse”. Pare, in
vitro, la vita di Daumal – le cose più importanti vanno nascoste: non si
realizza la morte nel boato, ma in uno spiffero, tra le spire di un frainteso.
L'articolo “Inghiottiremo Dio”. René Daumal, storia di un angelo in picchiata
proviene da Pangea.
Dev’esserci, nella biografia di ogni poeta, un momento in cui la folgore cade
senza preavviso. L’istante in cui la poesia si incista nel destino: le stimmate
di una vocazione che è incontro fatale tra telos e contingenza.
Per Nicolas Bouvier, questo accade nella valle di Erzurum, quando l’alba si leva
verso il Caucaso, annunciata dagli occhi fosforescenti di una volpe:
> “in fin dei conti, ciò che costituisce l’ossatura dell’esistenza, non è né la
> famiglia, né la carriera, né ciò che gli altri diranno o penseranno di voi, ma
> alcuni istanti di questo tipo, sollevati da una levitazione ancora più serena
> di quella dell’amore, e che la vita ci distribuisce con parsimonia a misura
> del nostro debole cuore”.
*
La storia è nota, l’esordio ha quasi i contorni della leggenda. È il 1953.
Nicolas Bouvier, appena terminati gli studi universitari, parte dalla Svizzera a
bordo di una Topolino per raggiungere l’amico Thierry a Belgrado. Insieme, in
una sorta di sodalizio creativo e iniziatico, si mettono in viaggio verso est,
con l’intento di arrivare fino in India. Attraversano la Turchia, l’Iran, il
Pakistan e l’Afghanistan, spingendosi fino alle soglie del Passo Khyber.
Quando Thierry fa ritorno in Europa, Nicolas prosegue da solo. Si dirige in Sri
Lanka, dove – preda di un delirio febbrile e visionario – scrive Il Pesce
Scorpione. Raggiunge poi il Giappone, che agisce su di lui come un calmante
spirituale e gli ispira alcune delle pagine più intense e limpide della sua
opera. Il resto è un intreccio di ritorni e nuove partenze, un continuo
attraversamento delle stesse rotte e l’invenzione di itinerari futuri. Ma il
Passo Khyber, dove La polvere del mondo si arresta, rappresenta nell’itinerario
creativo di Nicolas Bouvier un confine simbolico. Oltre quell’imponente sistema
montuoso si apre un nuovo orizzonte: quello della creazione e della riflessione
poetica.
*
Bouvier si accosta al linguaggio della poesia relativamente tardi, a 35 anni.
Come racconta lui stesso in Routes et déroutes, la sua prima composizione risale
al soggiorno a Tabriz, benché la maggior parte dei versi venga scritta in
Giappone – il paese che, più di ogni altro, con la sua abbagliante sintesi di
ossimori, gli appare come una sorgente inesauribile di ispirazione. Non è un
caso, osserva, che proprio nel Sol Levante sia nata la forma dell’haiku, così
perfetta nella sua studiata semplicità. All’origine della poesia c’è il soffio
che riempie la cassa toracica, il daimon che piega i polsi e getta l’amo nei
fiumi della creazione. Scrivere è un atto da rabdomanti, misteriosa
trasmutazione alchemica. La poesia, dice,
> “era l’unico legame che mi restava con le parole, l’ultima passerella”.
Ma non basta. Il dettato poetico esige rigore: una lealtà da asceta, un lavoro
in sottrazione che può durare mesi, anni, persino decenni. A colpi d’ascia, fino
a raggiungere il cuore dorato del metallo – là dove si fronteggia la frontiera
del silenzio.
*
Nel 2012 esce la versione italiana delle poesie di Bouvier, curata da Luigi
Marfè, acuto indagatore del rapporto tra letteratura e viaggio. Il titolo della
raccolta – Il doppio sguardo. Le dehors et le dedans – sceglie con l’aggiunta
italiana una resa interpretativa, non letterale. Il doppio sguardo richiama
infatti l’idea di una visione sdoppiata. Eppure lo sguardo di Bouvier sulle cose
mi sembra piuttosto di natura “taoista”: non duplice, ma unitario nel suo
accogliere il dentro e il fuori, specchio e fiamma di estremi che si
compenetrano. Ecco che così dehors e dedans diventano due volti della stessa
medaglia. Il fuori: il mondo nel quale siamo immersi, colto nella sua energia
elementare, evocata da ciò che potremmo definire correlativi oggettivi. Il
dentro: un’esplorazione implacabile e dimessa di sé, alla ricerca di accorati
lampeggiamenti interiori.
*
Le poesie di Bouvier sono un irrimediabile ma necessario dissolvimento dell’io
nella pienezza nuda della natura. Voglio dire: come gettare l’io in pasto ai
lupi, seppellirlo sotto il candore della neve e trasfigurarlo nella notturna
luce delle costellazioni.
Piuttosto: viaggiare per addestrarsi alla solitudine ferale, al silenzio
astrale, agli esordi mai approfonditi. Apprendere a fare della mappa geografica
della propria vita il collo dell’imbuto dove smussare e levigare gli angoli
taglienti dell’autobiografia. Ritrovarsi sdraiati, come nel sogno di Kafka, alla
stessa altezza dello sguardo degli animali. Indagare i miti che da millenni
incendiano covoni di grano e spremono il succo dalle vigne.
Il viaggio è la forma più elegante e raffinata per congedarsi dalla tentazione
dell’io. Bisogna annientare l’idea del viaggio come carezza esotica, spogliarlo
di ogni orpello, liberarlo da ogni illusione di spensierata evasione. Tutto,
nelle poesie di Bouvier, parla il linguaggio di una scabra essenzialità, fatta
di elementi naturali primari, di superfici rocciose rastremate dalla salsedine,
di colori quasi chagalliani: luoghi e parole tra cui si avverta il passaggio
dell’aria, come all’inizio dei tempi.
*
La citazione di un anonimo cinese posta in esergo alla prima sezione della
raccolta conferisce a quest’ultima una tonalità poetica del tutto particolare.
> “Domani, se qualcuno si preoccupa del nostro amico d’oltremare,
> dite che, posati i sandali, è tornato a casa a piedi nudi”.
E in effetti i versi sono sospesi in una levità quasi aerea, dove la scelta
delle parole e l’evocazione delle immagini sono al tempo stesso un’aspirazione
alla leggerezza e un richiamo alla condizione terrestre. Nuvole che ammantano il
cielo, piogge che strizzano lembi di azzurro, fumi che si levano da spiagge
nere. E ancora: mormorii, cantilene, sussurri e bozzoli che volteggiano
nell’aria. Ma anche fieri cavalli di concreta carnalità, pozzanghere e campi
disertati, stazioni di treni e mercati orientali.
Personaggi, luoghi e scenari naturali costituiscono il serbatoio da cui il poeta
attinge per le sue composizioni poetiche. Molti degli episodi che danno vita
alle poesie si ritrovano anche nelle opere in prosa di Bouvier. A ben vedere, i
temi ricorrenti nello scrittore svizzero sono gli stessi: hanno a che fare con
la sciarada del viaggio, con la consapevolezza del tempo che passa, con
l’avvistamento dell’ultima dogana, la morte. Ciò che colpisce, nell’iterazione
di queste immagini, è che il dettato poetico di Bouvier, pur recalcitrante
all’io, si declina infine in una forma di poesia perfettamente classica, di
stampo lirico-elegiaco.
La poesia di Bouvier è pura epifania: un’improvvisa rivelazione suggerita da
un’immagine, una visione, un suono. Può accadere contemplando un tramonto
iraniano, osservando dei pellegrini in cammino dal Tibet verso l’India, o
ascoltando un motivo jazz suonato per strada a New York. Ciò che importa è che
sempre, a un certo momento, il tempo sembra raggrumarsi: quando il vasto e
misterioso respiro del mondo spira nel dettato poetico e l’animo vi aderisce
intimamente, in un attimo di agnizione -dissolvendosi completamente nello
sguardo muto dell’universo.
Nella seconda parte della raccolta, Le dedans, assistiamo all’irruzione
del tu, come se l’interiorità non potesse prescindere da un’intimità
relazionale, oltre che grammaticale. Le tre composizioni poetiche del ciclo Love
Song sembrano accendere schegge di lirismo. In realtà, ogni picco di emozione
viene trattenuto, smagato. Come il viaggio e la scrittura, anche l’amore spoglia
l’io da ogni scoria. Rimane sempre, a sigillare tutto, una sorta di misterioso
ritegno:
> “ma che la neve caduta questa notte
> sia come un dito sulla tua bocca”
*
Nicolas Bouvier aveva in mente di scrivere un ciclo di libri intitolato Livre
des Merveilles. Vi avrebbe dovuto appartenere anche Le vide et le plein, forse
l’opera più intensa del Bouvier prosatore, dove la scrittura aderisce con rara
levità alle asperità e ai declivi dell’anima. Livre des merveilles: un titolo
che richiama alla mente i libri di viaggio medievali, i mirabilia, popolati da
tempeste procellose, mostri marini e apparizioni miracolose; o che evoca le
peregrinazioni cartografate da celebri mercanti veneziani. Tuttavia, è bene non
divagare. Nei racconti cinesi, il pittore delle nuvole, dopo aver dato l’ultima
pennellata al suo capolavoro, avvolge i pennelli e li fissa alla cintura, prima
di mettersi in cammino. I manipolatori delle marionette Bunraku, presenti sulla
scena insieme alle loro figure, indossano un cappuccio quando sono ancora
novizi; i maestri, invece, agiscono a volto scoperto: sono diventati a tal punto
il personaggio che animano, da risultare, letteralmente, invisibili allo
sguardo.
Scrivere, come viaggiare, vuol dire scomparire. Scaraventare carta e inchiostro
e fuggire nel caldo ventre della terra.
Lorenzo Giacinto
**
Ulisse
A sud del parapetto,
non c’è più nulla fino alla Terra Antartica.
Leviatani e sirene solcano questi pascoli marini,
questo portolano increspato d’onde,
dove immense porzioni di cielo
si abbattono in scrosci spossati,
senza che Dio stesso
ne sia messo al corrente.
Ogni sera guardi il calice del sole
tuffarsi urlando nel mare a chiazze,
tra gli ammiccamenti dei grossi gatti di bordo
accovacciati tra le gomene.
I pescespada blu sfrecciano davanti alla prua,
come una banda di gioiellieri in fuga.
Sono mesi che non ricevi una lettera,
sei l’ultimo dei paria a bordo di questa nave,
il cuore sfatto, uno straccio di stoppa in mano,
già tutto nero di ricordi.
Ti annulli nel fremito delle eliche,
ascolti l’antico canto del sangue nelle orecchie –
coaguli di sole della memoria,
e l’inventario delle meraviglie,
quando sapevi vivere di poco,
e la vita ti seguiva come uno sciame d’api,
e pagavi, senza mercanteggiare,
il prezzo esorbitante della bellezza.
*
Hira – Mandi
Ultima bottega ancora aperta
nella notte della città –
ghirlande di peperoncini,
samovar e falene,
alone bianco dell’acetilene.
La barba del padrone è tinta
di un rosso birichino.
Tre uomini vestiti di cuoio
sorseggiano il tè versato nei piattini.
Alti zigomi,
che brillano nei volti color rame
sotto la frangia di cappelli informi.
Sono pellegrini del Tibet,
in cammino verso l’India del Gange
per appendere il loro mulinello da preghiera
ai rami del fico del Buddha,
prima di tornare alle loro terre
a fiato corto, a piccoli passi,
attraverso quei confini impraticabili
che passano sopra le nuvole.
Anch’io ho un appuntamento con un albero.
E in ogni caso non c’è più verso di dormire
quando la luna veleggia come una vela gonfia,
così brillante, così veloce,
che persino l’anima ne proietta un’ombra.
*
Love Song III
Quando attizzare le parole per un po’ di colore
non sarà più compito tuo,
quando il rosso del sorbo e le curve delle ragazze
non ti faranno più rimpiangere la tua giovinezza,
quando un nuovo volto, tutto scheggiato d’assenza,
non farà più tremare ciò che credevi solido,
quando il freddo avrà salutato il freddo
e l’oblio dirà addio all’oblio,
quando tutto avrà assunto la silenziosa opacità del
vischio –
quel giorno,
qualcuno ti aspetterà al margine della strada
per dirti che è stato giusto così,
che dovevi concludere il tuo viaggio
senza più nulla,
del tutto disarmato,
allora forse…
ma che la neve caduta questa notte
sia anche come un dito sulla tua bocca.
Nicolas Bouvier
Traduzione di Lorenzo Giacinto
L'articolo Per una poetica della sparizione. Sulla poesia di Nicolas Bouvier
proviene da Pangea.
Rileggendo Il Grande Gatsby sveliamo ogni volta una frase indimenticabile: “Così
continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel
passato”. La conosciamo tutti, l’abbiamo riletta o citata in decine di
occasioni, a volte senza nemmeno capire cosa significhi davvero: non si tratta
di una chiusura. Anche a distanza di cent’anni, è l’incipit della nostra vita.
Perché nel mondo edificato da F. S. Fitzgerald nessuno si rivolge avanti, tutti
guardano indietro – la direzione naturale dell’esistenza è il rimpianto. E Daisy
Fay ne è il faro: la luce verde che brilla dall’altra parte della baia. Non
soltanto per Gatsby. Ogni personaggio a suo modo suo insegue un tempo che non
esiste più. Il Grande Gatsby revoca il sogno della promessa americana.
*
Si potrebbe cominciare da lei, Daisy, e da come non sia innocente – lo sappiamo
–, ma nemmeno possa essere ridotta a mero simbolo dell’opportunismo. Daisy
rappresenta l’attimo in cui si cessa di sperare, una linea di separazione tra la
giovinezza dall’età adulta.
> “Spero che mia figlia sia una oca. Una piccola, splendida, stupida oca
> giuliva”.
La consapevolezza di essersi costruiti un’identità e di non poter mai più
diventare altro.
Per questo, quando Gatsby le chiede di negare l’amore per Tom, lei esita. Ciò
che le viene chiesto è impossibile: riscrivere la propria identità, negare il
tempo, rientrare in un abito lontano dalle sue forme. L’amore di Gatsby è una
fotografia: la convinzione che nulla sia cambiato. Eppure, Daisy vive. È
cambiata. È stanca. E nel suo cinismo nasconde un dolore autentico, la lucidità
di chi ha rinunciato a rincorrere ciò che non può più essere.
Gatsby non accetta il tempo: edifica, scollegandosi dalla realtà, se stesso per
diventare degno del sogno di Daisy. Un’immagine che per esistere necessita di
restare irrealizzata. Nell’intreccio è il motivo per cui Daisy – nel momento in
cui potrebbe amarlo di nuovo – termina con il rifiutarlo: tornare davvero
insieme a Gatsby significherebbe uccidere l’idea di lui, tenuta fino a quel
momento viva dentro di sé.
Gatsby è l’unico a credere davvero nel sogno americano. E per questo è il solo
che merita compassione. Ma anche il solo che non sopravvive.
*
Nick Carraway insegue il tempo. È lo scrittore che racconta quel momento della
sua vita come se fosse l’unico in cui tutto ha avuto un senso. Il romanzo,
allora, diviene un modo per abitare ancora una volta lo spazio liminale, il
confine tra l’ingenuità e la delusione. Nick scrive perché non può restare. E
non può restare perché ha capito. E se Gatsby crede nella luce verde, Nick crede
nel ricordo di Gatsby: nel tentativo – vano, quanto umano – di fissare il senso
in un mondo che sfugge. Di scrivere per salvarsi.
*
Tom Buchanan domanda indietro la sua giovinezza. La forza bruta che gli
permetteva di dominare gli altri senza sforzo, quella virilità che il tempo e la
cultura che cambia gli stanno sottraendo. Tom tradisce perché ha paura: ogni
nuova amante è un gesto disperato di riaffermazione. È l’unico che si sente
ancora in diritto di possedere il mondo – e il personaggio che più lo teme.
Fuggire insieme a Daisy, ricominciare, rappresenta una mera strategia di
sopravvivenza.
Myrtle Wilson invece guarda indietro con gli occhi di chi non ha mai avuto
nulla. Insegue la possibilità di un’altra vita: la scalata sociale, il rispetto,
il glamour del sogno americano. Myrtle crede sia sufficiente vestirsi bene e
sorridere a Tom per essere ammessa nel mondo che lui rappresenta. Eppure, quel
mondo, quando si tratta di dover scegliere, non esita ad annientarla: Myrtle è
la tragedia delle classi sociali in un romanzo che parla di sogni costruendo
confini. E il suo corpo sull’asfalto concretizza la prova che non tutti possano
permettersi un passato differente.
*
Il Grande Gatsby parla dell’impossibilità di abbandonare il passato e nella sua
sospensione si compie un’estetica. Gatsby non sogna il futuro: lo reitera. E la
luce verde è un’eco che precede, una prolessi emotiva. E se Nick Carraway scrive
è per abitare quella terra interstiziale che Barthes chiamava l’intervallo della
memoria, dove il tempo cessa di scorrere per addensarsi. Qui dove si cela
l’illusione: mai la promessa di un’esistenza nuova, ma la bellezza, dolcissima e
tragica, di una vita impossibile.
Nicolò Locatelli
*In copertina: Robert Redford come Jay Gatsby nel film di Jack Clayton del 1974
L'articolo Cent’anni di luce verde. “Il Grande Gatsby” o il sogno di una vita
impossibile proviene da Pangea.