Nel 1943 uno scrittore pressoché sconosciuto, René Barjavel, pubblica il romanzo
del secolo e inventa – pressoché dal nulla – la fantascienza
francese. Ravage uscì per Denoël, l’editore di Céline e di Mussolini (Le
Fascisme: doctrine, institutions esce nel ’33), del collaborazionista Lucien
Rebatet e del comunista Louis Aragon. Nel romanzo – edito nel 1957 in Italia
come Diluvio di fuoco, nell’‘Urania’ Mondadori, poi, in nuova traduzione, nel
2019, per L’Orma, come Sfacelo –, ambientato in un ipertecnologico oggi datato
2052, si racconta il collasso di una civiltà, stordita da eccesso di progresso:
il disastro comincia con un black out… Nato in provincia, a Nyons, Barjavel era
cresciuto leggendo Balzac e le avventure di Nick Carter, integerrimo
investigatore americano. Aveva fatto diversi lavori – dall’impiegato in banca
all’agente immobiliare –, aveva dedicato il suo primo saggio a Colette: Denoël
scelse di prenderlo nelle sue grazie. Durante la guerra, intruppato tra gli
zuavi, lavorava in cucina, serviva il rancio; scrisse Ravage nei torbidi
dell’occupazione. A Parigi, viveva al settimo piano, scalfito dallo scalpiccio
dei piccioni.
Il libro, costantemente ripubblicato, distopico attacco ai paladini del
progresso, ebbe successo – il suo autore fu messo alla gogna. In Ravage – l’inno
alla natura, la messa al bando della scienza – qualcuno vide un oscuro elogio
pétainista; d’altronde, Barjavel aveva pubblicato sulla rivista
collaborazionista “Je suis partout”. Inserito nella lista nera dal “Comité
national des écrivains”, fu scagionato da ogni accusa. Un paio di altri romanzi
di successo – Tarendol, 1946 e Le diable l’emporte, 1948 – gli aprirono le porte
del cinema. René Barjaval è conosciuto, oltre che per aver ‘inventato’ la sci-fi
francese, per le sceneggiature di “Don Camillo”, il ciclo filmato da Julien
Duviver. Tra l’altro, ha ridotto I miserabili per la resa filmica di Jean-Paul
Le Chanois (era il 1958, Jean Gabin protagonista), ha tradotto i dialoghi
del Gattopardo per la versione francese del capolavoro di Visconti.
Ma questa è aneddotica.
Un evento, in particolare, smuove la vita di Barjavel: l’incontro, all’epoca di
Vichy, con Gurdjieff. Così lo scrittore ne ha detto a Louis Pauwels:
> “Lo incontrai una volta soltanto, a Parigi, durante l’occupazione, a una delle
> cene in cui era contornato di discepoli. Eravamo dieci persone al tavolo. Lui
> sogghignò. Gli piaceva mettere in imbarazzo chi gli si avvicinava per la prima
> volta, così mi offrì una cipolla cruda da mangiare. Ignorava che venissi dalla
> campagna: per ma la cipolla è una delizia. Ad ogni modo, quella era un po’
> marcia. Non rividi più Gurdjieff. Perché? Mancanza di tempo, mancanza di
> soldi, due bimbi piccoli da mantenere, insomma, le solite preoccupazioni
> materiali che mettono a tacere quelle spirituali. Gurdjieff aveva un
> temperamento vulcanico: era una montagna ruggente – preferii arrestarmi al
> ruscello che scorreva intorno a essa. È successo tanto tempo fa. Ma so di aver
> bevuto alla fonte della verità, la verità da cui sgorga tutta la saggezza del
> mondo, da dove si sono formate tutte le religioni”.
Benché continuasse a dirsi “una merda” al cospetto della purezza gurdjieffiana,
tentò una via di luce. Nel 1950, lo scrittore annota nel diario una frase
gravida di conseguenze:
> “Dio ha fatto l’uomo a sua immagine, ma lo ha plasmato dal fango, che
> contiene, in potenza, ogni putrefazione. Eppure, lo ha pesato sulla stessa
> bilancia degli spiriti puri. Questa è vera giustizia. Se un uomo vuole restare
> in Paradiso – o desidera entrarvi – deve purificarsi dal fango di cui è
> fatto”.
Per un po’, René Barjavel frequentò Daumal e Lanza del Vasto. Nel 1966
pubblica La faim du tigre, un libro anomalo, che sfida l’assurdo di esistere, o
meglio, l’assurdità dell’uomo di credersi al centro del cosmo. Continuamente
riedito – l’ultima edizione esce nel 2020 per Gallimard – il libro è figlio
della nobile tradizione aforistica francese (si avverte, in particolare, un
sentore di Alain), tuttavia, ha un’inattuale singolarità, inattingibile.
Barjavel mescola teologia e biologia, carne e mente, parola dei primordi e
trafitture alla Marco Aurelio. Alcuni hanno tentato di edificare su quel
panorama un tempio, una religiosità postumana. Me lo ha mostrato un ragazzo che
viene dal Belgio; ama scrivere e in un suo racconto, con stile leggiadro,
impaniato di humor nero, narra di una ragazza che offre ai familiari, per il
cenone natalizio, il proprio fidanzato, imbandito come un tacchino.
Nei decenni, Barjavel non si farà ingabbiare dal pensiero dominante: a Sartre –
“il borghese che ama le masse popolari” – preferiva Ray Bradbury. Scrisse che
> “Un leader di partito, di destra come di sinistra, o un militante ambizioso,
> non presenta mai i fatti come sono ma come gli possono essere utili. Se gli si
> pone una domanda specifica su un punto specifico, risponde a bruciapelo.
> Sembra che abbia risposto, ma non ha detto nulla. Mente appena apre bocca. Non
> può fare altrimenti perché la menzogna è il suo respiro. È così imbevuto delle
> sue menzogne e di quelle dei suoi compagni e di quelle dei suoi avversari, che
> non sa più nulla della verità, anzi, non crede che esista una verità”.
I comunisti attesero la sua morte per fargli lo scalpo. René Barjavel morì il 24
novembre del 1985; “professava le idee della destra più estrema”, scrisse nel
‘coccodrillo’ “L’Humanité”, “benché indossasse gli occhiali, restò cieco al
senso della storia, alle sorti dei suoi concittadini”. Barjavel avrebbe riso;
detestava i colpi bassi, ma in fondo – lo aveva scritto lui – è la legge della
vita: polline, copula, cianciare di cince, brevi licenze, liceali licenziosità,
lotte e attorialità prima della cenere, della carcassa, dello sparire
nell’impasto del mondo. Nel 1978 aveva scritto un feroce pamphlet contro le armi
nucleari che andrebbe letto oggi, s’intitola (ed è tutto detto) Lettre ouverte
aux vivants qui veulent le rester. “Ho i miei talenti e i miei limiti. Ho
camminato con le ossa e i muscoli dei miei antenati, con l’addestramento che mi
hanno offerto i miei maestri. Ho cercato di non nuocere, di essere utile. Che
ciascuno faccia lo stesso”, scrisse in La charrette bleue. I genitori, di
origine protestante, era fornai – per tutta la vita, Barjavel si era vantato di
saper fare il pane. Un dettaglio non secondario per spiegare la sua scrittura.
**
Da “Fame di tigre”
La primavera non sarà mai la mia abitudine. Anno dopo anno, mi sorprende e mi
meraviglia. L’età non può nulla, né l’accumulo di dubbi e di amarezze. Non
appena il castagno si illumina di frutti e gli uccelli cantano, il mio cuore
germoglia come una gemma. È certo: tutto andrà bene, l’inverno è un incidente,
causa della nostra lasciva goffaggine; aprile e maggio non ci sfuggiranno più.
Il cielo è limpido, nobili le nubi, l’aria è libera da liquami gassosi, nessuno
uccide gli agnelli e le rondini sono libere; il tiglio fiorirà accogliendo le
api, le rose sbocceranno e l’usignolo, questa notte, ci ricorderà che il mondo
giace nella gioia. Tutto ricomincia con entusiasmo nuovo; questa volta, tutto
avrà successo, culminerà in uno scopo. Sono più giovane di un anno. No, non di
un solo anno: la mia vita, intera, è giovane. Sono anch’io la primavera che
sorge.
Ecco, la grande annuale illusione. Il regno vegetale è il primo a cadervi. Con
una perfetta esplosione, miliardi di alberi e di piante emergono, mirabili gli
steli, miracolose le foglie, non c’è alcun motivo perché non siano eterne.
Eppure, nell’altra metà del mondo è autunno: le meraviglie vengono gettate al
suolo, l’inverno le farà marcire. Ma per noi, prossimi alla primavera, l’autunno
è improbabile e l’inverno non è più reale della morte. Il castagno è bianco come
il fiore della comunione, il pesco è una fiammata rosa, il lillà è una torcia.
In tutti i giardini, nei campi e nei boschi, nei coltivi e nei lembi selvaggi,
non c’è centimetro di terra in cui non si dispieghi in prodigiosi modi l’amore
silenzioso e lento delle piante. Ciascun fiore è un sesso. Non ci pensi quando
annusi la rosa? Il pesco fa l’amore con sé tramite i suoi fiori; l’erba fa lo
stesso, i campi sono immersi nell’amore. In metà del mondo, in poche settimane,
piante e alberi rilasciano miliardi di tonnellate di polline – la maggior parte
si disperde nel vento. Alcuni, grazie alla brezza o all’opera degli insetti,
raggiungeranno l’erezione congelata del pistillo, feconderanno gli ovuli. Perché
la vita continui.
Nelle foreste e nelle savane, sotto le pietre, sotto le cortecce, negli
antefatti della terra, negli anfratti del vento, tutte le specie animali,
dall’acaro all’elefante, gettano i maschi perché afferrino le femmine. In ogni
pozza d’acqua, negli stagni, nei fiumi, negli oceani, le femmine del pesce
depongono miliardi di uova su cui i maschi spargeranno il seme. Per alcuni
giorni, le acque non saranno che rimescolamento seminale. Gli avanotti sbucano a
grappoli, la loro ingenua agitazione attira mascelle fameliche. In molti vengono
inghiottiti, risucchiati e digeriti nei primi istanti di vita. Alcuni
matureranno in pesci, deponendo uova, a loro volta, prima di essere catturati e
uccisi. Alcuni.
Abbastanza, perché la vita continui.
*
Ogni essere vivente, in sostanza, è un organo di riproduzione. Gli organi
associati esistono soltanto per consentirgli di sopravvivere e compiere la sua
missione.
La materia vivente non ha altra ragion d’essere che espandersi nello spazio e
perpetuarsi nel tempo. Le specie incaricate di assicurare questa doppia
espansione non hanno possibilità di sottrarvisi: la loro esistenza ne è succube
con la stessa freddezza di un filo di piombo teso dal grave, dalla gravità.
Anche se il vento lo muove, il filo torna sempre in verticale, oscilla prima di
rientrare nel suo stato.
*
L’uomo ha di fronte a sé due destini possibili: morire nella culla, o per
propria scelta, per un’efferatezza del genio o per un eccesso di stupidità,
oppure slanciarsi, correre nell’eternità del tempo, verso lo spazio infinito, e
perpetuare la vita, libera dall’assassinio.
La scelta spetta al domani. Potresti averla già fatta.
*
L’individuo non si è fatto da sé, non ha voluto la vita, la vita continua senza
l’aiuto della sua volontà. Non esiste perché lo vuole, in alcun momento. La vita
è indipendente dalla sua coscienza; non sono le decisioni dell’individuo a
mantenerlo in vita. La sua intelligenza è misera, instabile la veggenza, enorme
l’ignoranza: se un individuo diventasse interamente responsabile del proprio
corpo, affonderebbe nel disordine e nella decomposizione. Il governo di un mondo
complesso come il corpo umano richiede una conoscenza totale delle leggi
dell’universo. Richiede vigilanza perpetua, attenzione ininterrotta, capacità di
coordinare ogni parte dell’organismo. Tutto ciò è al di sopra delle possibilità
della comprensione umana.
L’uomo è alloggiato in se stesso come un passeggero incompetente.
Per la maggior parte delle religioni, il suicidio è considerato il peggiore dei
peccati e provoca sempre, tra le persone prossime a chi lo commette, uno stupore
misto a orrore. È un intervento dell’individuo in uno spazio non suo.
L’omicidio, per certi versi, è meno grave: forse è biologicamente normale che un
individuo causi la morte di altri individui, come è normale essere la ragione di
altre nascite. Ma non della sua.
*
La fame della tigre è pari alla fame dell’agnello. È la fame naturale e
implacabile – eppure, dolorosa – di vivere. È questo appetito mai sazio a
provocare le atrocità quotidiane, e a permettere di sopportarle; è questo
appetito che perpetua, da sempre e per sempre, il sinistro teatro del mondo,
dove avvengono sofferenza e crimine, terrore e schiavitù, a cui solo la morte
può porre fine. La fame della tigre è infine e soprattutto la rabbiosa ricerca
della ragione per cui, in questo sordido cinismo, a punteggiare questa tragedia,
esistano la grazia, la bellezza, l’innocenza e l’amore.
*
Prodotto dalla trasformazione della cellula iniziale e dall’attività di miliardi
di cellule, l’uomo non interviene in alcun momento per dirigere il loro lavoro.
L’uomo è il risultato di tale maestria, non il maestro. Se le maltratta, le
avvelena, le soffoca e le mutila, le cellule si arrangiano come possono.
Quando sopravviene la morte dell’individuo, quando la materia vivente si
decompone e ritorna agli elementi, una di queste cellule, o due o più tra
miliardi, si stacca dall’individuo e trasmette nuova vita. L’individuo serve a
questo scopo: è garante che la vita continui. Per la propria infima parte, serve
a mantenere l’enorme corrente che trasporta le creature nel tempo e nello
spazio.
Incapace di autodeterminarsi e di dirigersi, ignaro della propria direzione,
l’essere umano possiede solo in apparenza una vita indipendente. La sua
esistenza individuale, in effetti, è un imbroglio.
René Barjavel
L'articolo “Perché la vita continui”. René Barjavel, lo scrittore che sapeva
fare il pane e ha inventato la fantascienza francese proviene da Pangea.
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La storia della letteratura è costellata di nomi invisi alla critica e destinati
a un immeritato oblio. Spesso scavalcati dalle righe antologiche, censurati o
macchiati dallo stigma di un castigo morale imposto dalla propria epoca, la cui
eco grava a tutt’oggi sulla loro eredità artistica, costituiscono un lavoro
avventuroso – e quanto mai necessario – per molti esegeti. È certamente questo
il caso di Jacques d’Adelswärd-Fersen, il poeta barone francese ritratto con
scrupolosa attenzione da Roger Peyrefitte – autore delle pubescenti Amitiés
particulières (1943) – ne L’Exilé de Capri[1] (Edizioni La Conchiglia, Capri
2020).
Dalla precisione di un testamento, la biografia romanzata rende omaggio a uno
scrittore considerato assai controverso, oltretutto ancora poco noto,
restituendo al contempo l’affresco di un mondo perduto, quello dei primi del
Novecento, al confine tra Italia e Oltralpe.
Nella prefazione al romanzo, un impietoso Jean Cocteau lo etichettava
ingiustamente come «Eros Apteros». Per dirla col Vate, il
disdegnato maudit incarnava una sorta di Cupido «larvato e senz’ali» (Il Fuoco,
1900), una razza di impotente lirico al quale sono state tarpate le ali alla
nascita, che è riuscito tuttavia a tramutare la propria vita in un’opera
d’arte. Sotto questa luce, l’elegante damerino della Belle Époque rassomiglia a
prima vista a “uno di quei personaggi emersi direttamente dalla letteratura, uno
di quei protagonisti tipici che non è difficile incontrare in certi libri di
Baudelaire e di Flaubert, una via di mezzo tra Dorian Gray e Andrea
Sperelli.”[2]
Eppure, colui che fu definito a suo tempo un «Oscar Wilde au petit pied»[3] era
in realtà molto più complesso dell’esteta apollineo modellato sullo stereotipo.
Come ribadisce il suo più tenace studioso Gianpaolo Furgiuele (Jacques
d’Adelswärd-Fersen. La cospirazione delle sirene[4], Ladolfi, 2021), promotore
di una riscoperta del talento artistico così come della assoluta modernità della
voce – coraggiosa, vibrante e fuori da ogni regola – di questo «ultimo dandy»
della sua generazione, Jacques Fersen è stato testimone di un Decadentismo ormai
agli sgoccioli ed è riuscito ad attirare attorno alla sua figura una colonia di
artisti e intellettuali rinnegati in patria.
Poeta mercuriale e ramingo, compose versi carichi di spleen poggiandosi su
eclettiche commistioni metriche. Il sogno irrealizzabile di ritorno al
paganesimo in un mondo di pregiudizi lo avrebbe perlomeno elevato al ruolo di
cantore del passato classico. Non esente dall’invettiva polemica, in aperta
sfida delle convenzioni, fu anche direttore di una delle prime riviste europee a
carattere marcatamente omosessuale, la “Revue Mensuelle d’Art Libre et de
Critique” (in vita un anno, 1909), che raccolse, tra gli altri, contributi di
Anatole France, Achille Essebac, Colette e del nostro Tommaso Marinetti.
Finito ben presto sulle liste di proscrizione francesi come “persona non grata”,
il beniamino diurno dei salotti mondani, schiavo di orde fameliche di ragazzi
(tra cui molti minorenni) e libertino sfrenato durante la notte, pensò bene di
lanciare una satira alla «maschera infiacchita e grottesca» della società
benpensante, la stessa che l’aveva condannato – in modo non dissimile dal caso
wildiano in Inghilterra – per oltraggio alla morale pubblica, in Voi siete i
borghesi:
> “[…] Contro un male sconosciuto
> Mettete alla porta Ganimede, e nudo,
> Benché segretamente ne conserviate la brama;
> Insensati, pensate di avere un gesto d’artisti
> E vi scagliate sui nostri pretesi vizi.
> Credete di cancellare il riso di Narciso,
> Scapini che non siete, valletti di Cesare?”
In seguito agli scandali delle sue “Messe nere” (difese in Lord
Lyllian[5], 1905) – nient’altro che innocenti tableaux vivants più che cortei di
giovinetti in panni di efebi – inscenate nei suoi appartamenti parigini, si
rifugiò in esilio volontario nella terra del Grand Tour, da qui alla volta di
Napoli fino a Capri. Nel 1904 tornava sull’isola dei piaceri segreti della sua
giovinezza, a cui era stato iniziato dal nobile Robert de Tournel, immortalata
da Norman Douglas[6] in Vento del Sud (1917) e da Compton McKenzie[7] nel
romanzo caprese Le vestali del fuoco (1927). Intorno a lui, i contemporanei
conosciuti sul posto, vittime sofisticate dell’etica nordica che popolano
l’aneddotica del sogno italiano d’inizio secolo, erano le “sorelle”
Walcott-Perry – le inquiline saffiche di Villa Torricella – al braccio
dell’amatissima marchesa Casati (detta la Semiramide), la principessa Ephi
Lovatelli e Godfrey Henry Thornton, l’ufficiale in congedo coinvolto in
malaffari con giovanotti locali, tutti invitati speciali ai suoi festini, dove
passò la crème de la crème di quegli anni.
L’episodio, riportato da Peyrefitte, che imprime la parabola all’intera storia,
reale e immaginaria, del giovane aristocratico fu però l’incontro folgorante con
gli sventurati amanti inglesi, ‘Bosie’ Douglas e Wilde (appena liberato da
Reading), apparsi in un breve cameo vacanziero del 1897, quando questi ultimi
vennero cacciati dal ristorante Quisisana:
> “Robert gli prese la mano sotto la tovaglia. ‘Calmatevi, ragazzo mio,
> calmatevi.’ Con aria ironica, il giovane Lord toccò la spalla del maître
> d’hôtel con il suo bastone. ‘Vi faccio i miei complimenti in nome
> dell’Inghilterra’, disse. Se ne andò con il suo amico e gli ospiti tornarono a
> sedersi, senza domandargli spiegazione per quelle parole. Negli occhi di
> Jacques brillavano le lacrime, e le aveva viste brillare in quelli di Oscar
> Wilde”.
Dopo un turbinoso giro del Mediterraneo, il tragico Fersen – spogliatosi del
primo cognome d’alto lignaggio – oserà scappare definitivamente sull’isola blu
con l’amato Nino Cesarini, un manovale quindicenne conosciuto per le vie
dell’Urbe e «più bello della luce di Roma», perfetto per gli scatti iconici dei
fotografi Plüschow e Von Gloeden. Assunto il piccolo Adone come “segretario”
privato, a tratti algido eppure fedele in lunghi pellegrinaggi orientali e
divertimenti oppiacei, l’illustrissimo conte (così per gli amici) creò a
Capri il suo paradiso artificiale: un paesaggio «infernale e divino insieme», ma
anche un riparo fatto di silenzio e pace per poter scrivere e amare come
desiderava, senza ostacoli di perbenismo borghese o riprovazione di sorta. Per
coltivare le sue passioni più intime, fece costruire su un eremo dell’isola una
magnifica residenza in stile rocaille, «sacra al dolore e all’amore»,
ribattezzata poi Villa Lysis da La Gloriette. Un tempio d’amicizia platonica,
divenuto il simbolo di una personale Acropoli della bellezza, comunicante con la
gloriosa Villa Jovis di Tiberio (due passi più in alto), dove riceveva file di
accoliti.
Allo stesso tempo, l’amara realtà lo risvegliava col fardello di un’angoscia
insaziabile derivata in gran parte dall’ostracismo sociale. Nell’autunno 1923,
recluso dentro il suo fumoir sotterraneo, dal cuore stanco di ogni frenesia e
reprobo degli isolani, ingiuriato a più riprese dalla stampa scandalistica in
quanto omosessuale e “mangiatore di oppio”, decise di tagliare corto con
un’overdose di coca affondata in un bicchiere di champagne.
Gli ultimi fleurs du mal, sparsi come anatemi sugli altari dell’invocato Angelo
della morte, fanno eco alle litanie di Lionel Johnson (The Dark Angel, 1894),
mentre cade allucinato:
“O bell’Angelo del male che vivi nelle tenebre
Per esaltarmi la dolcezza dell’amore maledetto;
Angelo triste, esule dai divini paradisi,
Quale ombra serra il tuo funebre sorriso?
Eppure, hai conosciuto i baci più sanguinanti,
L’abbraccio urlante e tenero dei giovani.
In te si è riflesso il loro più bel sonno
Come il chiaro di luna in mare nelle sere dei poeti.
I fanciulli ti hanno offerto la freschezza della loro bocca
E la loro anima innocente in cui tremava l’ignoto.
Il mondo intero ha vibrato nelle tue braccia nude
Sul tuo ventre, O Satana, che sogghigni truce,
Perché tu passi, vai, disprezzi, muori, rinasci,
Spazzando la terra con le tue ali,
Mentre si prova, nell’eterno errore, a colmare
Attraverso un dio il vuoto dei nostri cuori.”
Nella sua casa dell’anima, a distanza di più di cent’anni, lo spettro
malinconico del barone sembra risalire dai marosi e aleggiare tra le stanze
desolate, sopra gli occhi dei visitatori che in ogni stagione accorrono a
quell’antica dimora attratti dalla sua fama. La targa apposta a strapiombo
sull’azzurro intorno alla villa, da lui consacrata «alla gioventù d’amore», reca
il monito di una vita consumata al limite della vertigine. Dopotutto, come detta
la Morante nella vicina Achilleide, fuori del limbo non v’è eliso.
Pierluigi Piscopo
*****
Messi da parte i versi della maturità, si propone qui una manciata di poesie
giovanili di Jacques Fersen, tratte da L’innario di Adone: alla maniera del
signor marchese de Sade (1902), dove la tipica provocazione del verbo si
stempera in un’insueta dolcezza, con echi ai maestri simbolisti e decadenti
prediletti, da Rimbaud a d’Aurevilly.
L’innario di Adone (Proemio)
Per le aurore d’oro dove l’erba giace addormentata
Sotto la rugiada caduta dalle labbra della notte,
Per le aurore d’oro quando canti amici
Si svegliano nei nidi con un frullo d’ali e di voci,
Son partito leggero, più leggero d’un capro,
Attraverso i campi arati e i boschi tremanti,
Con nastri chiari e munito d’un arco in legno bianco,
Per venire a conquistare, O giovane Adone, la tua bocca!
Udivo i richiami dei fiori e dei pastori,
– il riflesso del tuo sorriso negli stagni che attraversavo –
E qua e là dei canti modulati da lire,
Le uniche a celebrare la tua viva dolcezza.
Vedevo fanciulli, come me, mormorare
Parole d’amore alle tue statue, a cui rassomigli;
Offrendo lillà, profumi e latte.
E tutto ciò vagando, bello, fra i verzieri.
E il cielo infinito, quel cielo dei templi ellenici,
Che rende gli Dèi più belli e le preghiere più caste,
Stendeva sui tuoi proseliti un velo di luce,
Dove i cuori crepitavano come legna secca al fuoco.
Ma a sera, triste e dolce, tornai più fedele,
Meno gioioso e più calmo, ch’avevo dentro al cuore
Il fermento sconosciuto dei dolori divini
Con cui tu sai domare gli schiavi ribelli:
I campi lontani lasciavano svolazzi nell’oblio
Tra fuochi brillanti sulle alte montagne,
Un riposo virgiliano accarezzava i campi
E io mi sentivo puro, il male annientato.
I miti antichi in cui avevi creato il tuo Impero
Palpitavano nella mia carne con vaga sorpresa;
Avrei voluto morire di un bacio nel momento
Di quella sera mesta e dolce come l’inizio di un delirio!
Per ciò mi trovo qui, in lacrime ai tuoi piedi,
Ai tuoi piedi più setosi dell’ala di una colomba,
Per offrirti il mio cuore come una coppa cadente
Satolla dei frutti vermigli raccolti dal pastore.
E ti offro le mie grida, i miei sogni, la mia supplica,
Deboli lamenti d’amore in baci di sillabe,
Sogni infantili simili al cielo roseo
E la mia bocca umida per proferire questi inni!
*
Innocenza
Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa,
I nostri cuori bambini han spiegato le ali,
Sogni confusi, ignari d’ogni nevrosi,
Li han fatti tremare come tortorelle;
Sugli occhi addormentati, sulle manine richiuse,
La lampada notturna ha posato il suo chiarore,
E sulle labbra inebriate da una preghiera pia,
I nostri piccoli cuori bambini sanno che Dio li chiama.
A momenti, come il suono di una viola lontana,
Che vibra sulla pace di candide visioni,
Un brivido, un sospiro infantile si diffonde
Nel dormitorio tutto azzurro dai lettini rosa.
*
Schoolboy
Era un liceo vecchio e cupo,
Mi ricordo, e come mi ricordo…
Nei miei occhi calarono le ombre,
La prima volta che vi entrai,
Il direttore era austero e duro,
Mi pareva un Dio,
E quando dovetti dire addio,
Separandomi dalla mamma,
Il mio cuore bambino non osò
Gridare dolore né incertezza,
Proseguii da solo sul selciato,
Fra ricordi di antiche carezze.
Un ragazzino mi condusse in aula,
Tutti a fissare il novizio,
Credendolo un vitellino,
E da solo trovai un posto.
Aprii un libro a caso,
Sentendo ronzare nella testa,
I giorni andati, come tamburi,
Che mi cantavano il caro abbandono.
Rivedevo la casa serrata,
Il grande sole la riscaldava,
E il giardino tremante
Di uccelli, insetti e rose.
Allora, non appena una lacrima
Stillò lungo il viso,
Per evitare scherni
E risate sulla mia tristezza,
Cercai qualcosa da scrivere
Laggiù, alla mia cara mamma,
Da scrivere a singhiozzi,
Che mi annoio senza il suo sorriso!
*Le traduzioni delle poesie in calce sono di Pierluigi Piscopo. Per le citazioni
dalle opere restanti, si fa riferimento al romanzo di Roger Peyrefitte e ai
volumi su Jacques Fersen indicati in bibliografia.
Bibliografia consigliata:
J. Fersen, Amori et dolori sacrum, La Conchiglia, Capri 1990 (prefazione di
Roger Peyrefitte).
F. Esposito, I misteri di villa Lysis. Testamento e morte del barone Jacques
Fersen, La Conchiglia, Capri 1996.
R. Ciuni, I peccati di Capri, Longanesi, Milano 1998.
J. Fersen, E il fuoco si spense sul mare…, La Conchiglia, Capri 2005.
AA. VV., À la jeunesse d’amour. Villa Lysis a Capri: 1905-2005, La Conchiglia,
Capri 2005.
T.M. Pellicanò, Villa Lysis, Abrabooks, 2021.
C.M. d’Ambrosìa, Nino, il sole di Roma, la luna di Capri. Vita reale ed
immaginata di Nino Cesarini, La Conchiglia, Capri 2023.
*In copertina: Jacques d’Adelswärd-Fersen nel 1901
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[1] https://laconchigliacapri.it/prodotto/lesule-di-capri-2/
[2] https://caprinews.it/?p=22986
[3] Philip J., Pourriture, in «L’Aurore», 14 luglio 1904, p. 1.
[4]https://www.ladolfieditore.it/index.php/it/catalogo/agata/jacques-d-adelswaerd-fersen-la-cospirazione-delle-sirene.html
[5] https://www.pendragon.it/catalogo/narrativa-1/linferno/lord-lyllian-detail.html
[6] https://isoladicapriportal.com/norman-douglas-alla-scoperta-di-capri/
[7] https://isoladicapriportal.com/compton-mackenzie-luomo-che-amava-le-isole/
L'articolo “La dolcezza dell’amore maledetto”. Jacques Fersen, l’esule di Capri
proviene da Pangea.
> «Ciò che non viene detto, ha la vita più forte, perché ogni dire ed ogni
> accennare toglie qualcosa all’oggetto, lo intacca, e così lo diminuisce».
Riflessioni del genere non possono venire che da un grande silenzioso come lo
scrittore svizzero Robert Walser (1878-1956). Il più silenzioso dei
silenziosi. Un antidoto a un mondo come quello di oggi dominato dal
presenzialismo a tutti i costi, dalla facile indignazione, dalla protesta a buon
mercato, dallo spasmodico bisogno di apparire e di parlare anche quando non si
ha niente da dire. Leggerlo e conoscerlo vuol dire disintossicarsi dalla
stupidità dilagante per entrare in regioni dello spirito dove soffia un vento
sicuramente gelido, ma tonificante e salutare, che ci può aiutare a conservare
un minimo di dignità.
Sto parlando di uno scrittore unico e di una personalità originalissima, non
classificabile in nessun gruppo, in nessuna categoria o comunità. Un isolato
cultore della riservatezza e della povertà che non ha mai alzato la voce o
protestato; un uomo che ha fatto dell’assenza la sua religione e che si è
nascosto nelle pieghe della vita per salvarsi l’anima.
Se stiamo ai canoni esistenziali dominanti Walser è uno sconfitto dalla vita, un
perdente, ma se si impara a conoscerlo un po’ si capisce che in realtà è un
vincente. Sì, perché quest’uomo mite e inerme ha combattuto una lotta titanica e
probabilmente è uno dei pochi esseri umani che sia riuscito a non farsi
inghiottire da quell’ingranaggio infernale che ci stritola tutti, giorno per
giorno, ora per ora.
> «Non è forse bello che nella nostra esistenza rimanga qualcosa d’ignoto, di
> strano, come dietro un muro coperto d’edera? Questo le conferisce un fascino
> indicibile che sempre più si va perdendo. Oggi si ha voglia di tutto, ci
> s’impossessa di tutto con brutalità».
I protagonisti dei suoi romanzi e delle sue prose brevi sono sempre dei
perdigiorno o dei servitori che conducono un’esistenza insignificante, costretta
nei limiti imposti da qualche entità superiore. Ma è proprio in questa
subalternità il segreto. Solo mimetizzandosi in un ruolo anonimo è possibile
salvaguardare il proprio io, non essere identificati dal potere e non cadere
nella macina sociale.
Walser vede con grande lucidità il vuoto e il non senso della realtà ed è
convinto che per preservare un minimo di identità sia necessario abdicare alla
vita. L’unica via di salvezza è in un’apparente sconfitta. Da qui la sua
ossessione del “servire”. Dipendere da qualcuno o da qualcosa vuol dire
rinunciare a un’effimera affermazione della propria personalità, ma anche essere
esentati dal partecipare all’orrore del mondo.
Robert Walser (1878-1956)
La stessa biografia di Walser è una testimonianza di questa sofisticata e
silente tecnica di sopravvivenza. Prima si è dato a mille mestieri:
dall’apprendista in banca nella natia Biel al commesso di libreria, dal copista
al domestico in un continuo peregrinare tra la Svizzera e la Germania, quasi
sempre a piedi perché Robert Walser era un formidabile camminatore, nel senso
più nobile del termine come afferma Piero Citati:
> «Passeggiare era il ritmo interiore della sua mente: accresceva e placava la
> sua inquietudine, era la gioia, l’estasi. Dove poteva abitare, se la vita lo
> teneva fuori dalla porta? Solo sulle strade interminabili, bagnate dalla
> pioggia e dalla neve, dove vagava da quando la rugiada era ancora lucida
> sull’erba sino alla discesa delle tenebre».
Poi, in seguito a certi suoi comportamenti e a crisi di ansia, nel gennaio del
1929, quando Walser ha cinquant’anni, viene ricoverato in una clinica per
malattie nervose vicino a Berna. Da allora, per ventisette anni, vivrà sempre in
case di cura, in un’assoluta solitudine, rinunciando anche a scrivere per
coltivare solo e soltanto il silenzio. Almeno ufficialmente. In realtà molti
anni dopo la sua morte si è scoperto che anche nei lunghi anni di ricovero
Walser aveva continuato a scrivere, ma lo aveva fatto alla sua maniera, in modo
nascosto; a matita, utilizzando fogli riciclati che trovava qua e là, e con una
grafia talmente minuta da risultare illeggibile a occhio nudo. Sono i suoi
cosiddetti microgrammi. Un altro modo per celarsi agli occhi del mondo.
Nei lunghi anni di ricovero l’unico contatto con l’esterno saranno le lunghe
passeggiate fatte in compagnia dell’amico Carl Seelig, che ci ha lasciato una
toccante e preziosa testimonianza con il libro Passeggiate con Robert Walser di
cui consiglio vivamente la lettura. Per il resto Walser passava le giornate
nella grande camerata con gli altri malati intento a piegare sacchetti di carta,
osservando in modo scrupoloso tutte le regole dell’istituto, anche le più
stupide e insensate, e quando l’amico Seelig gli propose un trasferimento che
migliorasse la sua situazione rifiutò in modo deciso. Non voleva avere privilegi
né tanto meno rientrare in contatto con il mondo e si proponeva soltanto di
soddisfare quella che una volta definì come la sua massima
aspirazione: «diventare uno zero assoluto».
> «Preferisco sparire, adesso. Certo, potevo scegliere un convento per
> chiudermici dentro e pregare, rispettato dalla chiesa e dai potenti. Ma forse
> è meglio il manicomio. Ci sono meno idee su Dio qui dentro, meno preghiere
> incomprensibili, meno riti da accettare. Qui si sopravvive calmi. Qui si è
> sicuramente malati. Certificazioni, esami, firme, diagnosi. Perché bisogna
> avere sempre la testa inquieta? Il mondo non è già abbastanza agitato? Almeno
> opponiamoci al furore. Qui deve esserci la quiete».
La mattina di Natale del 1956 Robert Walser uscì dall’istituto psichiatrico di
Herisau per una delle sue solite passeggiate. Da solo, nel silenzio più
assoluto. Qualche ora più tardi venne ritrovato morto in un pendio coperto di
neve. Giaceva disteso con la testa un po’ piegata, la bocca aperta e sul volto
aveva un’espressione che assomigliava a un lieve sorriso.
Silvano Calzini
L'articolo “Preferisco sparire, adesso”. Vita di Robert Walser, lo scrittore che
divenne uno zero assoluto proviene da Pangea.
Poco importa che si riferisse alle bianche montagne che spiccano alle spalle
della cittadina: quel nome, attribuito con razionalità da irragionevoli, ha un
sapore di Egitto, di gesti che adombrano, con severità, la rivoluzione degli
astri, di un mistero ispido, felino, del sangue che nutre l’oltre, un aldilà di
angeli sciacalli, lo sciacallaggio dell’io, e quell’arrischiata geometria –
Pyramiden-Piramida-piramide – che incombe, come se si potesse armonizzare il
pasto, favoleggiare su una dottrina dell’assalto, approvvigionare il cuore di
memorie passeriformi.
E poi, sì, il ghiacciaio – il Nordenskjøldbree – che pare una Sfinge, gonfio di
leonini, femminei enigmi; il fiordo che fende una liceale idea di fede; l’idea
che lassù, alle Svalbard, esista il Messia paria, l’impari, in forma orsina,
l’irsuto, nonostante l’impero dei Soviet che manda a pascolare i sudditi negli
inaccessibili luoghi. Uomini che, per incuria e per purezza del luogo, divengono
torce, uomini-fuoco. Già. La Terza Roma, Mosca, che fa proseliti al Polo;
Cirillo trapiantato in una baia. Pyramiden come Gerusalemme, allora: forse è lì,
nella fantomatica città – dismessa dagli anni Novanta, oggi meta degli
estremismi del turismo –, che avverrà il Giorno.
Lascia una stimmate nel cuore la vista di Pyramiden, se non altro per quella
sproporzione di un Eden all’estremo Nord. E poi: la sovranità dell’uomo che
vuole costruire città in luoghi a lui sigillati. In scala, Pyramiden mi ricorda
l’utopia di Cosimo I de’ Medici, Granduca di Toscana: ribattezzò “Città del
Sole” – già nei ventricoli del nome, l’idra dell’utopia, una solarità nera, la
nigredo di Adamo – un borgo costruito sul Sasso Simone, impervia rocca nei
pressi di Carpegna, poco lontano da Urbino. Della città – col mastio, la chiesa,
il tribunale e le botteghe –, ideata tra astrazioni, nel laboratorio fiorentino
del Granduca, restano tracce di vie, rudi cisterne: sfiorì in un secolo,
falciata da cupi inverni, dalle intemerate dei lupi, dal dilagare di delittuose
malattie; nel XVII secolo era già spirata. Dicono di un ebrietà di orsi.
Pyramiden, però – ecco, il miracolo (e la condanna) del gelo –, non è sparita; è
lì, l’espianto dei volti, le vite confitte, la confettura dei ricordi.
Inossidabile memoria del Nord. Così, intorno a Pyramiden. Una città
fantasma (Bertoni, 2025), Linda Terziroli ha costruito un romanzo di ferma
ferocia – che è poi, anche, un modo per dire: sono sopravvissuta, sono qui, a
tempio disfatto, con la piccola reliquia tra le palpebre mani.
Ma un libro, soprattutto, non è la cronaca dei fatti, bensì carrellata di
immagini. Ne scelgo due, indelebili, che vanno incapsulate l’una nell’altra a
dire della ricerca dell’assoluto, di una innocenza che giunge dai primordi della
pena. La prima:
> “Le altalene davanti alla scuola danzano, oggi, scricchiolando, al gelido
> fiato del vento polare… I bambini, che non erano numerosi quanto gli adulti,
> si divertivano per ore su quelle magre altalene azzurre di acciaio verniciato.
> Nonostante il freddo, nonostante la penuria di luce. I bambini sanno giocare
> ovunque. Anche sul prato della fine del mondo”.
L’altra riguarda l’animale:
> “Dietro il nuovo capanno di legno si muoveva un orso bianco di almeno duecento
> chili… Era ormai da un paio d’anni che non mi capitava di vedere un orso da
> così vicino. Potevo sentire il suo fiato caldo. E, soprattutto, il suo odore
> acre. Ho visto la sua bocca spalancata, i denti piuttosto gialli. Il giallo
> della pelliccia vicino alle fauci. E soprattutto i suoi occhi che mi
> guardavano. Forse non mi avrebbe fatto del male. Gli animali di varie specie
> hanno un rispetto quasi religioso nei confronti di una donna incinta. L’avevo
> letto da qualche parte. Ero sorprendentemente tranquilla. Intercettare il suo
> sguardo, tuttavia, mi ha dato una scossa violentissima. Era il suo sguardo a
> graffiarmi con potenza”.
Più che a Guido Morselli – autore-totem di Terizoroli – si va a volte nei
dintorni di Karen Blixen. Quando incontrano un orso, gli Iacuti lanciano
un’invocazione:
> “Modera la tua ira!
> Se tu volessi ritirarti nel profondo della foresta,
> come una crepa nel legno,
> diverresti simile a una soffice piuma di zibellino”.
Nel romanzo, alla protagonista, ignara del sistro e del tamburo, insegnano a
maneggiare il Mosin-Nagant “in caso di necessità”: un fucile a ripetizione tra i
più usati nel regno sovietico. Ma qui è accaduto qualcos’altro. Il nascituro,
forse, avrà la statura di un compiuto essere, non sarà più mero strumento
dell’uomo.
Ad ogni modo, ho interpellato Linda.
Preliminare: perché l’ossessione del Nord?
Che cosa si prova quando ci si accorge, improvvisamente, di non aver scampo? Mi
hanno sempre affascinato le storie ambientate al Polo. La tragica fine tra i
ghiacci del celebre esploratore Roald Amundsen, scomparso per salvare il vecchio
rivale Umberto Nobile. La celebre “tenda rossa”. Ma anche la spedizione
scientifica di Salomon August Andrée nel 1882. La storia della casa svedese a
Kapp Thorsen, nell’Isfjorden, a Spitsbergen, il cuore dell’arcipelago delle
Svalbard dove diciassette cacciatori di foca trovarono la morte nell’inverno
1872 – 1873. Tanto per citare alcune storie artiche che mi appassionano molto.
Il Polo Nord è aspro e senza speranza, inospitale e sublime. Con una luce
abbagliante e una tenebra feroce: è terra dai forti contrasti. Terra di
conquista e terra di morte, dove si distilla l’umanità perché la natura prende
il sopravvento, perché l’uomo di fronte alla natura è destinato a soccombere. Le
storie polari sono dense di eroismi e di tragedie. L’odore di morte è sepolto da
una coltre di mistero e non riesci a cogliere il segreto del suo mistero, ma ne
sei catturato, soggiogato come da una malia. Sono terre affascinanti che serbano
in grembo molte storie affascinanti che devono essere ancora portate alla luce.
Poi: Pyramiden. Che cosa ti affascina di quella città-fantasma, erede geologica
di un tempo perduto, non so quanto da rimpiangere?
Pyramiden è il nome di questa città mineraria sovietica, ormai un fantasma nel
cuore dell’isola di Spitsbergen, alle Svalbard, che si trovano appunto in
Norvegia. Fondata da minatori svedesi nei primi anni del Novecento, la città fu
venduta ai russi nel 1927. E ancora oggi è un avamposto russo in terra
norvegese. Ma al di là del dato, del riferimento storico, un tempo sovietico che
non esiste più, un sogno di grandezza piuttosto assurdo nel cuore del fiordo,
l’idea di piramide che evoca il suo nome certo fa riferimento alle montagne
piramidali o se vogliamo triangolari che qui si vedono, ma ancor di più mi fa
pensare alla morte. Ad una pace (come è scritto sulla montagna della città in
cirillico “Miru Mir”) che è una riduzione al silenzio, un riposo fatale, una
istigazione al suicidio, un calice di veleno. Un luogo, insomma, in cui il
passato si congela e si squaderna placido davanti al tuo sguardo, come un freddo
cadavere. Un luogo in cui la notte artica allunga una coperta di tenebra e la
luce illumina un mistero che non sei in grado, razionalmente, di interpretare.
In esergo: Ezra Pound – perché? Poi, Pascoli. C’è forse un refrain, un
sottofondo lirico che anima il romanzo?
Ciò che ami veramente rimarrà, ciò che ami veramente non ti sarà portato via, è
la tua vera eredità, scrive Ezra Pound. L’oggetto del nostro amore non è quindi
un luogo, non è un qualcosa che ci può essere strappato, è invece qualcosa che
rimane per sempre, come un ricordo ancorato al cuore. Ecco il senso del ritorno
della protagonista – a distanza di tanti anni – nei luoghi in cui ha vissuto
come insegnante, ormai ridotti a relitti, a fotografie ingiallite e perdute sul
fondo di un cassetto. Si accorge, insomma, Anna, la protagonista, che non serve
ritornare dove era stata una giovane insegnante innamorata, da ragazza, ormai
che è donna. Tutto quello che le serve è ricordare. Ricordare tuttavia non
significa ricostruire il passato e le sue verità. La verità è opaca e il male
che in questa strana terra perduta si consumava non si legge chiaramente ad
occhio nudo. La verità è che le radici del male sono spesso ben nascoste e sono
piuttosto aggrovigliate.
Da dove ti è arrivata questa storia, come l’hai elaborata?
Sono certa che la potenza di un luogo misterioso come Pyramiden può essere in
grado di stregare anche il più razionale e indifferente degli uomini. Dopo aver
visitato Pyramiden, ormai diversi anni fa, ho iniziato a visitarla dal punto di
vista narrativo e mi sono spesso domandata come inserire una vicenda inventata
tra le pagine di un luogo così particolare e seducente e inquietante. Ho quindi
pensato che certo doveva essere un luogo di morte ma anche la culla di un amore
tragico e tormentato. Una mia amica mi ha detto che è un romanzo da leggere nel
cuore dell’inverno.
Che cosa hai scelto di omettere, di velare nel pudore? Qual è ‘l’indicibile’ del
tuo romanzo?
Ho scelto di omettere e quindi di non rivelare alcuni particolari che potrebbero
spiegare il comportamento enigmatico di un paio di personaggi. Perché mi
sembrava molto interessante non dare troppe spiegazioni. Non mettere le mani
avanti. Non tenere per mano il lettore. Ma nella vita non è forse così? Quello
che vediamo è sempre vero? La spiegazione che ci danno di alcune vicende del
passato è vera del tutto? La voce che sentiamo nel bel mezzo della notte è il
grido d’aiuto o una raffica di vento gelido? Inoltre, mi piaceva l’idea che la
protagonista, un poco per volta, arrivasse a capire di essere ascoltata,
controllata e spiata. Del resto, a Pyramden, con l’ufficio con le finestre
sbarrate del KGB più a nord della Terra, potrebbe essere piuttosto qualcosa di
corrispondente alla verità.
Ritaglia un nugolo di frasi dal libro, quelle che ritieni importanti.
Ad esempio questa che ha a che fare con l’insondabilità della verità e del male.
> “C’è sempre un giorno in cui uno dei veli che copre la verità scende e puoi
> contemplare una parte della realtà in tutta la sua crudezza e la sua
> integrità, ma solo una parte minima e alquanto stropicciata. La vedi e senti
> come un’ustione sulla pelle. Per me quello è stato un giorno particolarmente
> freddo, era marzo, ma la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero e,
> nonostante questo, si iniziava a intravedere il risveglio della primavera. Il
> fiordo ghiacciato cominciava a mostrare le prime crepe, i primi cedimenti,
> sotto il respiro della stagione più mite. Si sentivano dei rumori provenire
> dai ghiacciai. Improvvisamente si staccavano pezzi di ghiaccio con il fragore
> improvviso, spaventoso come di un colpo di fucile”.
Oppure penso alla descrizione di una donna bellissima, ricoverata nel grembo
dell’ospedale inaccessibile che è prigioniera della sua pazzia e delle
conseguenti, drammatiche cure della sua stessa malattia mentale.
> “Congiungeva le mani, sembrava pregasse. Ho pronunciato il suo nome, prima con
> un sussurro poi con la voce più alta. “Nastas’ya, Nastas’ya!”. Lei che ha
> capito di essere chiamata, ha diretto lo sguardo nella mia direzione e ha
> sorriso. Ma nella sua bocca c’erano solo saliva e gengive spoglie. Sorrideva,
> ma non aveva nessun dente in bocca. Glieli avevano strappati tutti”.
Questa frase che segue penso invece racchiuda, in uno sguardo, il significato
che ho tentato di dare alla mia storia ambientata nella città fantasma di
Pyramiden:
> “Quando muore, il passato continua a sopravvivere in una stanza piena di
> polvere, dentro il nostro cuore. Camminando tra queste pietre, ci sono
> migliaia di occhi che ci scrutano”.
E ora? Cosa scrivi, cosa studi?
Ho presentato pochi giorni fa il saggio La nascita nella letteratura (Oligo
editore) che è uscito dopo il romanzo Pyramiden. Un itinerario nel cuore
dell’ossessione della maternità, un viaggio tra le pagine letterarie dedicate al
parto e all’aborto. Cerco sempre di trovare nuovi terreni di riflessione accanto
alla passione per gli autori che amo, come certamente Guido Morselli. In questo
momento, sto studiando le scrittrici del Novecento, cerco di ascoltare la loro
voce, di distinguere e distillare insomma la voce femminile che è, di per sé,
più bassa, più misteriosa e, per certi versi, fioca rispetto a quella maschile.
Ma talvolta è necessariamente più potente e audace.
*In copertina e nel testo: immagini da Pyramiden
L'articolo “Anche sul prato della fine del mondo”. Storia di Pyramiden, la città
fantasma. Dialogo con Linda Terziroli proviene da Pangea.
Il fuoco e la paglia, il crampo tra la noce moscata e il chiodo di garofano, il
nubìvago dimenticato; Salomo Friedlaender – alias Mynona – è il filosofo
giambico che fece della carezza prima dello schiaffo la chiave della sua
rivolta. Nel deserto dei cadaveri dell’identità sociale, l’assurdo balla, il
delirio squarta, la cicciona sconfigge l’orco; Mynona è la maschera che non
chiede scusa – ma che ride, e ride, e ride…
Nato nel 1871 a Gollantsch, allora terra tedesca, oggi Polonia, Salomo
Friedlaender sboccia nella prigione della serietà; figlio di un medico ebreo e
di una madre musicista, crebbe al crocevia tra rigore e dissonanza, scienza e
poesia. La sua vita fu un ponte levatoio tra l’interno e l’esterno, tra la
filosofia e il grottesco, tra la maschera e la verità assoluta.
Studente di medicina a Monaco, poi filosofo per vocazione a Berlino e Jena,
Friedlaender non cercava risposte, bensì domande più grandi. Ben presto trovò
nella speculazione il suo teatro interiore. A Berlino si immerse nei circoli
bohémien, accanto agli espressionisti, ai dadaisti, ai visionari. Qui nacque
Mynona: “Anonym” (anonimo) scritto al contrario – la firma di una scrittura che
ride sotto i baffi, di un giocoliere grottesco.
Dal 1909 iniziò a firmare racconti, satire e poesie che sembravano sfuggire a
ogni logica – o meglio, che reinventavano la logica come un carnevale perpetuo e
provocatore.
> “Affermo con coraggio di essere attualmente l’unico a rappresentare una certa
> sintesi tra Kant e il clown Chaplin”.
Il suo mondo era popolato da personaggi eccentrici, situazioni impossibili,
frasi che si rincorrevano come equilibristi sul filo dell’assurdo. “Fasching als
Logik” – il carnevale come logica – divenne la sua poetica. Mynona è sempre
attratto dall’aspetto pietoso o derisorio della condizione umana; una situazione
è spinta all’estremo fino a sfociare nell’assurdo o nel surreale.
> “Tutto questo è, Dio ce ne scampi, solo una zuffa da topi, una piccola rissa
> teologica da gattini.”
Tra il 1910 e il 1920, Berlino fu il suo laboratorio: una metropoli in fermento,
tra avanguardie artistiche e tempeste politiche. Dietro la maschera
dell’umorismo, infatti, Friedlaender celava un pensiero radicale. Dopo
un’iniziale passione per Schopenhauer, fu Kant a segnare per lui una
“rivoluzione spirituale”. Visse un’esistenza laboriosa da insegnante e al
contempo una vita bohémien con i suoi amici, in particolare Paul Scheerbart e
Carl Einstein. Fu parte dei gruppi d’avanguardia, dei circoli espressionisti,
dadaisti e attivisti, e nel cenacolo della rivista Der Sturm. Fin dall’inizio
del secolo, apparse spesso sulla scena del “Neopathetisches Cabaret”, dove,
insieme a Kurt Hiller, Jakob van Hoddis, Georg Heym, René Schickele, e Frank
Wedekind, portò al successo la satira, la polemica e l’umorismo nero, leggendo i
suoi testi grotteschi.
> “Posso solo darvi un buon consiglio: non urlate mai dentro un uovo! provoca un
> tale trambusto rotolante, che vi farà stare malissimo”.
Dal 1911 al 1914, collaborò con Die Aktion e, già dal 1910, il suo nome apparve
nei sommari di una serie di periodici d’avanguardia, spesso molto effimeri, di
cui adotta volentieri il tono aggressivo e polemico. La libertà del pensiero,
l’indipendenza dello spirito, la religione della ragione: la sua teorizzazione
di “Indifferenzza Attiva” è un invito a non lasciarsi ingabbiare: né dai dogmi,
né dalle ideologie, né dalle identità imposte.
Nei suoi scritti, filosofia e letteratura si confondono: ogni aforisma è
un’esperienza, ogni racconto una domanda. Divenne un maestro del grottesco, una
figura inclassificabile che destabilizza e incanta. “Nessun autore di lingua
tedesca, prima o dopo di lui, ha sviluppato la forma del grottesco a un tale
livello di maestria,” scrive Hartmut Geerken.
La sua associazione al movimento dadaista potrebbe facilmente specchiarsi
nell’affermazione di Hugo Ball:
> “Il dadaista combatte contro l’agonia e il delirio di morte del suo tempo…
> Quello che celebriamo è al tempo stesso una buffonata e una messa funebre”.
Ma Friedlaender resta, nonostante tutto, un metafisico e un moralista, e di
certo non mancano le critiche dei suoi colleghi, così Thomas Mann rispose a una
lettera di René Schickele nel 1939, che gli chiedeva di sostenere Mynona:
> “Non mi piace Mynona e non voglio vederlo in giro. Ha sempre avuto una bocca
> sfacciata alla Tersite”.
Anche il mondo accademico faticò a seguirlo. Mentre l’Europa si avviava verso
l’orrore, Mynona si mise in guardia dai “pigrotti della svastica”, anticipando
con ironia disperata la propria emarginazione.
Con l’ascesa del nazismo, la sua voce si fece più affilata e più tragica. Nel
1933 fuggì in esilio a Parigi, dove visse anni difficili, dimenticato dai più,
ma fedele al proprio stile, scriveva ancora, anche se il mondo attorno sembrava
non ascoltare.
> “Da un secolo ormai mi sforzo enormemente di solleticare il mio popolo con
> ogni sorta di pagliuzze nel naso, senza che esso abbia finora davvero voluto
> starnutire”.
Morì a Parigi nel 1946, nella povertà assoluta, lasciando dietro di sé un’opera
frammentaria, scomoda, impossibile da incasellare. Fu grazie a Ellen Otten e ad
altri studiosi che la sua opera cominciò a riemergere, come un enigma letterario
da decifrare; fu tradotto solamente in lingua inglese e spagnola ed è inedito in
Italia.
> “Chi porta alla luce, in modo stridente e urlante, il grottesco della nostra
> esistenza, apre uno scorcio indiretto su una vita autentica, tanto oscura
> quanto certa”.
Come un caleidoscopio in cui apparenza e verità, comicità e profondità, si
rincorrono all’infinito, Mynona è un invito a guardare il mondo da
un’angolazione obliqua, dove solo chi ride può intuire davvero l’assoluto.
La raccolta Rosa, die schöne Schutzemannsfrau. Grotesken (1913), segnò il suo
debutto e uno dei suoi maggiori successi. Nel breve racconto da cui prende il
nome (tradotto a fine articolo), Mynona trasforma il desiderio e il potere in un
grottesco paradosso. L’eroismo della divisa si trasforma in un feticismo
erotico. Rosa, la bella donna del poliziotto, non è attratta dall’uomo che
indossa il simbolo del potere, ma dal potere stesso che l’uniforme incarna. Rosa
è la protagonista di una “Verkehrung”, un’inversione in cui ciò che è sacro –
l’autorità – diventa oggetto di desiderio erotico. Il potere, anziché essere la
forza dell’individuo, diventa simbolo di un vuoto identitario. Mynona gioca con
il linguaggio, distorcendolo per smascherare le contraddizioni della modernità.
La risata che nasce da questa inversione non è solo comica, ma una critica
feroce ai valori stabiliti, dove il sacro e il profano si mescolano. In questa
parodia del potere, l’isteria diventa la chiave per vedere il mondo con occhi
nuovi, finalmente liberi dalle maschere dell’autorità.
Egli non solo deride le convenzioni, ma le riplasma, le distorce, le trasforma
in una lingua che è tanto poetica quanto inquietante. In ogni battuta, in ogni
paradosso, invita a riflettere: se l’ordine è il caos vestito da divisa, cosa
rimane della nostra identità? Se l’erotico è ridotto a ideologia, quanto siamo
davvero liberi di scegliere ciò che amiamo?
> “Il creatore del grottesco è profondamente convinto che bisogna quasi
> ‘disinfettare con lo zolfo’ questo mondo che ci circonda, per purificarlo da
> ogni parassita; egli diventa un disinfestatore dell’anima”.
Mynona – duplice firma bastarda – è il simbolo di una scrittura che non si
inginocchia, di un pensiero che osa schernire l’assoluto. Friedlaender fu
pensatore clandestino, artista dell’inversione, solitario in dialogo con
l’infinito. Leggerlo è un sogno lucido; da evitare se si cercano certezze, da
seguire se si ama l’estremo.
Salomo Friedlaender è il vento metafisico scandito da folate di parodia; il
riflesso di uno specchio infranto, la maschera derisoria che trasfigura, che
rovescia. Dietro smorfie e lazzi, caricature da cabaret sono i lapilli di un
pensiero che scoppietta sotto la lingua. Mynona è un vulcano travestito da
giullare, un alchimista utopico, un’ombra deforme che mantiene la sua promessa.
L’identità moderna non può tirare i freni dell’uomo, le vertigini non possono
fermare la rivoluzione, la resa non può essere un’alternativa; con il viso nella
lava, nell’Atanor, nel buio del mondo, Mynona assapora la possibilità di
rimanere umani.
Tommaso Filippucci
***
Rosa, la bella donna del poliziotto
Avete presente le ore uggiose in cui il poliziotto rimane sotto la pioggia per
ore e ore, e la sua donna nel mentre…?
Ma Rosa, la bella donna del poliziotto, era completamente diversa. Perché?
Perché era così diversa? Non erano certo le circostanze, ma lei stessa. E non
era certo a causa del marito, un tipo all’antica, diciamo, che Rosa amava. Ma un
miglior conoscitore di donne (con la fortuna negli occhi) una volta mi disse: la
donna è un bel segreto. E quando non fui d’accordo con lui, aggiunse: svelala
solo esteriormente, mai emotivamente! Poi disse qualcosa di Schiller, una
citazione che ho dimenticato, ma che non dimenticherò mai! Nel frattempo, Rosa
uscì e – credetemi! – camminava così bene che la bocca di un antico invalido si
aprì di scatto e la sua pipa divenne anch’essa invalida. Rosa camminava
sull’asfalto bagnato; attraversava uno splendido passaggio, superava il
terrapieno con la gonna alta. All’angolo si trovava l’uomo che l’amava, non suo
marito, ma anche lui un uomo.
Così a quest’uomo scese una lacrima alla vista della profumata Rosa che
passeggiava (non camminava come le signore d’accordo con se stesse, né
problematicamente come le donne di mezzo mondo, e certamente non come la troppo
nota ragazza del popolo, sapete, formosa e allegrotta; camminava, non posso
dirlo in altro modo: come se camminasse nella sua persona). Un monocolo sarebbe
stato generalmente più seducente, ma questo insegna l’autocontrollo, e l’uomo
non lo aveva per lei. Rosa non si accorse dell’uomo fino a che non gli si
avvicinò di corsa e gli parlò con foga:
“Farei qualsiasi cosa per te, qualsiasi cosa! Non dire niente, ti capisco. Ma
lei non mi capisce, non si rende conto di quanto sto soffrendo e di quanto sono
felice nonostante tutto. Non dire niente! Mio marito è in servizio, piove, sta
in piedi sul bagnato, è un poliziotto. Non è questo! Ma non riesco a superarlo.
Oh! Gli sono ancora più fedele quando non è con me. So che mi ami.
Non è un pericolo – oh mio Dio! Potremmo possederci a vicenda. . . Certo! Ed è
interiormente impossibile per me: non come moglie, ma come donna del poliziotto.
Vi amo – se questo vi consola! Niente mi può consolare, sono peggio di una
suora, perché lei può rinunciare ai suoi voti, io sono legata a me stessa”.
Ricordo che l’uomo aveva due gambe, che iniziarono ad agitarsi in modo
particolare durante le parole di Rosa. A volte stava a destra, a volte a
sinistra, si toglieva anche il cappello e si passava la mano tra i ricchi e
folti capelli bruni. Stava in piedi sulla testa, sospirando come un uccello
della foresta sognante, schiaffeggiando i polpacci con il bastone da passeggio,
roteando gli occhi come Nerone al rogo di Roma. Rosa concluse così:
“Comprendimi! Già da piccola, quando vedevo una guardia, avevo le convulsioni.
Non so se è così per tutti. La mia coscienza non mi lascia riposare, questa
divisa è ciò che mi rende donna, qualcosa di morbido, pallido, tremante,
sopraffatto”.
Nella testa dell’uomo si accese una luce, percepì qualcosa come la nascita
dell’uniforme dallo spirito dell’erotismo. Poi all’improvviso chiese
gelidamente: “E se osassi indossare un’uniforme come quella? E dicessi: che cosa
ha tuo marito in più degli altri?”.
Rosa arricciò il naso da Venere: “Prima, assolutamente niente, ma ora tutto,
tutto! Quando ne ho preso uno, per gli altri era finita – sì, anche se ci ha
fatto il favore di rendermi vedova – non potevo dimenticarlo! Non è amore,
l’amore è stupido al confronto, sono questa donna del poliziotto con tutto il
corpo e l’anima. Lo sono e lo resterò”.
L’uomo barcollò come Golia quando fu colpito dalla fionda di Davide… beh, già lo
sapete. Ma non cadde; urlò così forte che un poliziotto si avvicinò. Urlò come
un pazzo: “Ma questa è follia! Bisogna lasciarla andare via con l’ipnosi! È una
cosa facilissima da determinare psicoanaliticamente. Oh, devo andare subito a
Vienna da Freud in persona…”
Non andò oltre; una di quelle mani pesanti, familiari a quasi tutti i nativi
tedeschi, si posò sulla sua spalla contratta: “Non lo farai!” affermò il
poliziotto di Rosa – era lui. “Per favore, andatevene in modo discreto e
decoroso. Non mi preoccupo per mia moglie. Tutti la amano e lei ama tutti.
Nell’amore non c’è resistenza. È giovane, bella e focosa: basta guardarla! Ma ha
la stoffa per farlo! Hai sentito. E adesso basta! Spesso non sono a casa, non
posso fermarti – ma sono più protetto dalle corna. Avrebbe rotto il matrimonio
senza esitazione, ma non questo; È così garantito da ciò che hai appena chiamato
follia che io stesso – a volte si hanno pensieri del genere – non potrei
cambiarlo. Nanu Adieu!”.
Se ne andò con Rosa. L’uomo, stordito, nella direzione opposta. Non vide mai più
Rosa. Non riuscì mai a strappare dal suo cuore l’amore per lei. Fu molto più
tardi (davanti alla cattedrale di Strasburgo) che mormorò cupamente tra sé e sé:
“Rosa, adorabile segreto! Sfinge di tutta la gendarmeria!”
“Accidenti”, disse qualcuno quando glielo dissi, “Reprimi meglio le tue idee!”.
Oh sì! Tutti dovrebbero tenere la bocca chiusa sulla Sfinge, più Sfinge della
Sfinge. “E non chiamate la mia bocca bocca!”, mi interruppe la sfinge nel suo
silenzio lungo un miglio.
L'articolo “Una piccola rissa teologica da gattini”. Mynona, lo scrittore
grottesco, una sintesi tra Kant e Chaplin proviene da Pangea.
Ne sappiamo poco o nulla, ma quello che avviene a Petrópolis tra il 22 e il 23
febbraio del 1942, in pieno Carnevale, ha di certo anche un aspetto teatrale, di
accurata messinscena: il doppio suicidio di Stefan e Lotte assomiglia
terribilmente, o costituisce un’allusione neanche troppo criptica, ai limiti del
plagio, a un altro doppio suicidio della storia letteraria tedesca: quello che
nel 1811 aveva visti coinvolti, al Wannsee presso Potsdam, Henriette Vogel e
Heinrich von Kleist, autore che Zweig venerava e con il quale forse, a proprio
discapito, si confrontava come scrittore. Ci si può quindi chiedere se, oltre
all’avanzata apparentemente inarrestabile del nazismo, al venir meno
dell’ammirazione e della vicinanza dei lettori, alla solitudine e all’isolamento
intellettuale nonché alla malattia di Lotte, una parte nella decisione di Zweig
non l’abbia avuta anche la suggestione di replicare, come in un macabro omaggio,
l’autodistruzione kleistiana. Imbastendo una storia magari leggermente diversa
nei dettagli, ma al contempo così simile nell’incapacità, da parte di entrambi
gli scrittori, di affrontare la realtà.
Fatto sta che nello schizzo biografico che Zweig aveva dedicato a Kleist molti
anni prima sembra di cogliere una partecipazione autentica, non artefatta, alla
vicenda narrata. A un certo punto Zweig menziona anche (e sembra far suo)
il Doppelblick (“doppio sguardo”) teorizzato da Kleist, uno sguardo volto
contemporaneamente tanto al passato quanto al futuro da parte di colui che,
consacrandosi alla morte, raggiunge la suprema armonia. Molte delle
caratteristiche che Zweig attribuisce a Kleist, scrittore ammiratissimo per la
compresenza di eccesso e disciplina, di veemenza e freddo rigore, potrebbero
essere riferite anche a lui stesso:
> “Come gli accade nei confronti degli esseri umani, Kleist si interessa alla
> natura, al mondo, solo nei loro limiti più estremi, dove si superano sfociando
> nell’inaudito e nell’improbabile, anzi direi quasi, dove diventano eccessivi e
> viziosi e abbandonano ogni forma. E come nei confronti dell’umanità, a lui
> interessa solo l’anormale, la deviazione dalla regola (la Marchesa di O.; la
> mendicante di Locarno; il terremoto in Cile), sempre il momento in cui
> sembrano irrompere fuori dalle cerchie preferite da Dio”.
E aggiunge, a proposito proprio del suicidio di Kleist, delle sue modalità e
delle sue ragioni profonde:
> “L’essenza intima del suo essere era impazienza e tensione, il significato
> ineliminabile del suo destino era l’autodistruzione attraverso l’eccesso: ecco
> perché la sua morte prematura e volontaria è il suo capolavoro, tanto quanto
> il Principe di Homburg: perché accanto ai potenti, a coloro che sono dei
> maestri della vita come Goethe, di tanto in tanto emerge qualcuno che invece
> padroneggia la morte e attraverso la morte crea una poesia che va al di là del
> tempo”.
E proprio come Kleist aveva cercato e trovato nell’amica Henriette Vogel,
gravemente malata di cancro, qualcuno che lo seguisse e lo accompagnasse
nell’atto fatale, così Zweig aveva potuto contare sul sostegno e sulla
complicità, non sappiamo fino a che punto convinta, di Lotte.
Questo del doppio suicidio è un motivo che era già comparso, comunque,
nell’opera di Zweig, anche se veniva solo programmato senza essere poi portato a
termine. Mi riferisco al romanzo incompiuto Estasi di libertà (Rausch der
Verwandlung), in parte utilizzato dal regista Wes Anderson quale fonte
d’ispirazione per il suo recente film Grand Budapest Hotel (2014). I due
protagonisti, la giovane Christine Hoflehner e Ferdinand, reduce dalla Grande
guerra e dalla prigionia in Russia, entrambi frustrati e indignati con uno Stato
che non li tutela, decidono dapprima di farla finita insieme, per poi ripiegare
su una soluzione meno drastica, la rapina di un ufficio postale. Quello che nel
romanzo era un semplice espediente narrativo risoltosi in commedia torna ora
d’attualità sotto una forma molto più drammatica e reale, acquisendo uno statuto
di fattibilità e forse persino di opportunità.[1]
Si è molto discusso delle reali condizioni di salute di Lotte, che soffriva
d’asma, doveva usare un inalatore durante la notte e passava attraverso ripetute
crisi respiratorie, ma il cui stato di salute generale, sebbene aggravatosi dopo
il soggiorno a New York, non sembrava poter giustificare una decisione così
drastica. Certo, le crisi di Lotte non contribuirono a rasserenare l’atmosfera
generale, e se Zweig si era mai aspettato che una moglie tanto più giovane
potesse in qualche modo spronarlo e legarlo alla vita, ora dovette disilludersi.
Quanto aveva amato in passato quella sua fragilità, che lo induceva a
proteggerla e a custodirla come un bene prezioso, tanto ora gli sembrava un
ulteriore onere, un ostacolo insormontabile che gli impediva di vivere
pienamente la propria esistenza. In una lettera scritta proprio alla vigilia del
suicidio ai cognati Manfred e Hannah Altmann, e quindi alla famiglia di Lotte,
Zweig fa riferimento a una prolungata cura d’iniezioni, probabilmente a base di
antigeni, che non le avrebbe fatto alcun effetto, convincendoli quindi
dell’opportunità dell’atto finale. Ma è mai possibile che ad appena trentatré
anni Lotte fosse davvero già così stanca della vita e incapace di lottare? E non
è forse plausibile che avere al fianco una persona sicuramente malinconica, se
non depressa, come Zweig, abbia potuto fiaccarne e cancellarne l’istinto di
autoconservazione?
A quanto pare, la morte di Zweig fu causata dall’ingestione di numerose
compresse di Veronal, il cui tubetto vuoto fu trovato sul tavolino da notte
insieme a una bottiglia d’acqua minerale di cui non rimaneva che un quarto.
Maggiori dubbi riguardano invece la sostanza ingerita da Lotte, che sembra
essere morta più tardi e aver preferito un altro tipo di barbiturico, perché
rispetto a quello di Stefan il corpo emanava un diverso e più forte odore. Si è
notata anche una differenza nel modo di presentarsi alla morte: Zweig era
vestito di tutto punto (camicia sportiva a maniche corte, cravatta nera,
pantaloni scuri – con un tocco di eleganza austriaca, insomma), mentre Lotte
portava una vestaglia a fiori senza pretese. Così come ha lasciato perplessi
un’ulteriore differenza, riguardante la posizione, che nel caso di Zweig sembra
non lasciare nulla al caso ed è estremamente dignitosa, là dove invece Lotte lo
cinge e gli stringe le mani, ma è tutta contratta e raggomitolata su un fianco.
In ogni caso, Zweig avrebbe voluto delle esequie private e un rito laico,
avrebbe preferito insomma scomparire in silenzio. Ma la trasformazione del suo
funerale, alla presenza del dittatore brasiliano Vargas, in un grande evento
spettacolare sancirà il mancato rispetto anche di quest’ultima volontà. Un
corteo imponente, seguito da quattromila persone, poi una funzione ebraica,
e dulcis in fundo un versetto biblico inciso sulla pietra tombale – nulla che
alla fin fine importi davvero, alla resa dei conti, ma certo non quello che
Zweig, ormai lontano da ogni esibizione religiosa, avrebbe voluto.
Raoul Precht
*Per gentile concessione si pubblica un estratto da: R. Precht, “Stefan
Zweig. La fine di un mondo”, Milano, Ares, 2025
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[1] Con Estasi di libertà, scritto nel 1930-31, Zweig ritenta senza troppo
successo la strada del romanzo, riprendendo alcuni temi, come le conseguenze
della Prima guerra mondiale e della successiva inflazione per i ceti popolari o
il dramma dei reduci, temi già trattati in alcuni racconti precedenti e nel
dramma Das Lamm des Armen, mettendo in drammatico risalto da un lato il potere
del denaro e dall’altro la contrapposizione fra gente comune e quello sparuto
gruppo di ricchi che possono permettersi di vivere negli hotel di lusso.
L'articolo Il gusto della messinscena. Gli ultimi giorni di Stefan Zweig
proviene da Pangea.
Il flagello: così s’intitola una poesia de Il conte di Kevenhüller,
straordinaria raccolta di Giorgio Caproni – uscì per Garzanti, era il 1986.
L’esergo recita: “Su un’Invenzione di Ginevra Bompiani”; la nota chiosa: “Chiedo
perdono a Ginevra Bompiani per la mia quasi delittuosa distorsione del suo
splendido racconto intitolato La cerva cornuta”. In effetti, la poesia pare
quasi un calco dello “splendido racconto”.
“In perpetua corsa.
Nessuno era mai riuscito
a osservarla vicina.
Di lei, si sapeva soltanto
che razziava nei campi
Ma chi, chi non razziava
– ogni giorno – nei campi?
E quale voracità
poteva avere, una cerva,
per creare un flagello”.
Così Caproni; così Ginevra Bompiani: “…è difficile che qualcuno l’abbia guardata
da vicino. Di lei si sapeva che razziava nei campi. Ma chi non razziava nei
campi? E che appetito poteva mai avere una cerva da costituire un flagello?”.
Il racconto, tutto un precipizio, rilegge la terza fatica di Eracle, la cattura
della cerva di Cerinea. Alcuni passi sono molto belli:
> “La cerva non rappresentava altro pericolo che quello del desiderio. Il
> desiderio di andarsene. Anche per sempre. Quello era il desiderio che lui
> doveva spegnere, accollandoselo; una vertigine, lo spasimo di buttarsi nel
> vuoto precipizio; bisognava che lui ci scendesse vertiginosamente, rischiando
> di ruzzolare fino in fondo, sollevando sterpi sassi e radici sotto ogni passo,
> perché la loro saggezza si risolvesse un’altra volta a star ferma, ad
> accontentarsi, a non desiderare più”.
A un certo punto si dice che Eracle insegue la cerva “come un aspirante suicida,
non come un eroe guerriero”.
Il racconto è estratto dalla seconda parte (La stanchezza) di un libro che
s’intitola Le specie del sonno. Uscì nel 1975, per “La biblioteca blu” di Franco
Maria Ricci, tirato in tremila copie. In copertina: un cammeo in cui Eracle
tiene per il collare Cerbero, il cane infero. Ripreso nel 1998 da Quodlibet,
Giorgio Agamben – che, tra l’altro, ha curato la raccolta postuma di
Caproni, Res amissa – ne ha scritto come di “un classico ritrovato nella
letteratura italiana del Novecento”. All’epoca – nel ’75 – Italo Calvino firmò
un’introduzione accuratamente algida, in cui diceva che “L’occhio di Ginevra
Bompiani fissa gli emblemi mitologici come macchie di Rorschach, con la
differenza che il suo sguardo non può essere ingenuo e che il potere di
fascinazione di queste figure non può essere quello di ciò che è visto per la
prima volta”. La quarta parlava – in forma più brillante – di “un libro
assolutamente unico nella letteratura italiana, che riunisce in esemplare
equilibrio la grazia un po’ improbabile di un bestiario medioevale e il rigore
quasi scientifico di un trattato di mitologia”.
Sono troppi gli autori del Novecento che hanno usato la maschera del mito, fino
all’usura – da Camus a Pavese, da Rilke a Broch, da Marguerite Yourcenar a
Ghiannis Ritsos, da Julio Cortázar a Borges a Robert Graves –: la Bompiani
arriva ultima, sorprendendo “le creature del mito nei loro gesti più quotidiani
e immediati, cioè nel loro assoluto ignorare di essere mitiche” (Agamben). Più
di recente, in ambito anglofono – Anne Carson, Alice Oswald, Susan Stewart, Pat
Barker – il mito ha dato misura di sempiterna inesauribilità. Ma questo è un
altro discorso.
Cinquant’anni dopo, Le specie del sonno mantiene il ritmo di una sagace
inattualità, è testimone di una immaginazione perturbante. Nel racconto che dà
il titolo alla raccolta, ad esempio, si dice degli ermafroditi:
> “Fatti per l’amore, e incapaci di provarlo, a loro non resta che la
> malinconia, il sonno infantile e il dispetto”.
Insonni, invece, sono i Centauri. Vivono il doppio degli uomini, di cui
afferrano, in razzia, le donne. Una ferina inquietudine li rende, al contempo,
avidi di ogni sapere ma incapaci di trasmetterlo, di farne uso:
> “A che scopo infatti costruire casa focolare giardino se non ci si può dormire
> in mezzo? A che scopo fabbricare utensili se l’irrequietezza propria agli
> eterni vigilanti li costringe a cambiare continuamente quartiere, a
> trascorrere in solitudine da una collina all’altra, da una grotta a un fiume
> montano?”.
Creature dell’istante, pari a rapaci, la sapienza dei Centauri è equivalente
alla pura insipienza: la loro vita, un pozzo.
Riguardo agli angeli, è scritto che “guardano altrove”, intimoriti dal loro
annuncio, che spartiscono per obbedienza, senza prendervi parte, come il pane
sbriciolato per i piccioni, a orde. Tra tutte, una lassa è di folgorante
bellezza:
> “Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli. E quando sarà caduto
> nel vostro giardino, col petto insanguinato e le ali che sbattono debolmente
> sul terreno, avvolgetegli il capo e posatelo sulle vostre ginocchia, facendo
> da cuscino alla sua agonia; e guardando la vostra casa, respirate di sollievo,
> vedendola uscire con la consueta lentezza dalla penombra mattutina”.
Che raffinatezza intrisa di sangue. In questo gioco di specchi e di venefiche
pozioni, a volte, vorremmo la bestia in disastro, che balzi dalle pagine per
fracassarci il corpo – per farlo infine fruttificare. Ma sono dettagli, perché è
proprio il rigore da entomologo – ardore geometrico che precipita nella pazzia –
a rendere un libro tanto improbabile, autentico. Il talento per la sprezzatura
non sempre è eccidio, a volte finisce per essere incendio. A volte, intendo, la
limpidezza non è austera: è come mettere una sedia di fianco al muro di una
casa: sali, lettore, entra di soppiatto nella camera da letto.
Max Klinger, Centauro inseguito, 1881
Ne Il calore animale, ad esempio, si dice che la donnola è la nemica del
basilisco, ma soprattutto che
> “Contro l’inumano non è mai stata un’arma la verità, ma sempre la finzione o
> l’inganno: l’astuzia delle catene di Ulisse mutila il canto delle sirene, un
> falso nome deride il furore del ciclope, la testa di Medusa riflessa nel
> bronzo devia il suo sguardo pietrificante e accorda la vittoria a Perseo; il
> raggiro sottrae il mondo umano alla legge della coincidenza che lo fa
> scomparire”.
Un racconto s’intitola Consigli a un cacciatore; tacitamente, sarà piaciuto a
Caproni, il cui libro – quello citato in cima –, in fondo, è un lirico trattato
di caccia. All’amico appostato il poeta indirizza un metafisico avvertimento:
“Presta bene orecchio,
amico, a quel che ti dico.
Tu miri contro uno specchio.
Sparerai a te stesso, amico”.
Per attingere al meraviglioso, bisogna conoscere la tessitura della trappola,
avere occhi a filo d’ascia, approvati dalla nottola, annottare ogni pensiero.
Caccia, cioè: non avere scusanti, otturare le scappatoie.
*In copertina: Giambattista Tiepolo, Centauro e Satiro, s.d.
L'articolo “Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli”. Intorno a
un libro inattuale proviene da Pangea.
Ne nacque un affare diplomatico. Nel 1968, per L’Herne di Dominque de Roux,
l’editore dei reprobi, Witold Gombrowicz aveva pubblicato un saggio Sur
Dante (uscito, in Italia, da Sugar nel 1969 e da Dante & Descartes nel 2017). In
direzione contraria ai pur formidabili libri del genere – chessò, i saggi
danteschi di Thomas S. Eliot e Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam –,
Gombrowicz scrive che Dante non gli pare granché; la Commedia, poi, è una boiata
pazzesca. Davanti a Piero Sanavio, indimenticato giornalista hemingwayano,
Gombrowicz rincarò la dose:
> “Se Dante mi annoia e se mi considero superiore a lui, lo affermo senza paura:
> è un mio diritto”.
(A proposito: vale la pena ristampare lo studio di Sanavio edito cinquant’anni
fa da Marsilio, Gombrowicz: la forma e il rito, è più brillante di troppi,
mortificanti saggi odierni, è fitto di frasi bellissime, come questa:
“Gombrowicz vivo l’ho sempre incontrato in giornate di pioggia”; il polacco,
d’altronde, scriveva con furia d’acquazzone).
Giuseppe Ungaretti s’incazzò e scrisse a De Roux una lettera piena di spine (“Il
libretto su Dante di quel polacco è vergognoso. È un fatto senza senso, idiota,
che questa calunnia sia stata stampata”); nel Diario, Gombrowicz annota:
“l’addetto dell’ambasciata italiana a Parigi ha annunciato una sua visita”.
Siamo nel 1969; Witold morirà poco dopo; per L’Herne era da poco apparso
un Cahier dedicato a Ungaretti, a cura di Sanavio.
La disfida – diciamo così – tra Gombrowicz e Dante durava da qualche anno. Già
nel 1966 Gombrowicz squartava il Poeta con caustica acribia:
> “La Divina Commedia non mi basta. Vi cerco Dante senza trovarlo… A scuola e a
> casa ci hanno insegnato solo a rispettarli e venerarli, mentre in realtà il
> nostro rapporto verso i Grandi è di due tipi: da un lato ci prosterniamo e li
> adoriamo, dall’altro li trattiamo con condiscendenza e disinvoltura”.
Comprendiamo l’euforica ira di Gombrowicz: l’anno prima, a Firenze, si era
celebrato il trionfo di Dante; scoccavano i settecento anni dalla sua nascita.
Saint-John Perse, il poeta e diplomatico francese, diplomato Nobel nel ’60,
tenne un discorso inaugurale, Pour Dante, prontamente stampato da Gallimard;
c’era anche Ungaretti, a rimarcare l’abissale grandezza dell’Alighieri. A
Gombrowicz irritava l’atteggiamento ossequioso – e ipocrita – dei poeti verso il
Poeta. Della Commedia, non salvava neanche l’Inferno:
> “I tormenti dei suoi dannati sono talmente rozzi, poveri, logorroici! E tutti
> quei predicozzi enunciati tra un tormento e l’altro…”.
Questo andazzo da Lucignolo – o, per restare in tema dantesco, da Cecco
Angiolieri – celebra, sotto la superficie, un’idea guerresca della letteratura,
mai assisa sugli allori – sui quali, invece, in perpetua acquiescenza, ronfano i
critici sornioni e i poeti in carriera. La stessa idea, in fondo, è professata
da Leopardi nelle Operette morali, dove si dice (siamo all’altezza del Parini o
della Gloria) che le opinioni dei critici e degli storici sono corrotte da
“consuetudine ciecamente abbracciata”. I lettori non mettono mai in discussione
ciò che le accademie e il pregiudizio impongono; eppure, i grandi scrittori,
proprio perché tali, devono essere interrogati e sfidati di continuo, fino a
sfrattarli dal trono. Così – è ancora Leopardi – “a me interviene non di rado di
ripigliare nelle mani Omero o Cicerone e il Petrarca e non sentirmi muovere da
quella lettura in alcun modo”.
Per continuare sulla scia del Gombrowicz “leopardiano”, bisogna
leggere il Diario (ora in unico tomo per il Saggiatore, nella traduzione di
allora, di Vera Verdiani, quando lo stampava Feltrinelli, in due tomi, usciti
nel 2004 e nel 2008; medesima anche l’introduzione di Francesco M. Cataluccio, a
parte lievi modifiche nel primo paragrafo) dal fondo, dalla formidabile
allocuzione Contro i poeti. Gombrowicz ridicoleggia lo statuto dei poeti che
“ormai non cantano più per la gente, ma per se stessi”, stigmatizza “il poeta
come un essere che non può esprimere se stesso perché è costretto a esprimere la
Poesia”. In sostanza, il Witold scatenato sbugiarda l’idolo della Letteratura,
la menzogna della Cultura. Scrivere, dice Gombrowicz, vuol dire azzerare tutto,
soprattutto se stessi, fare della penna il proprio plotone di esecuzione,
rifuggire dai riti dei letterati e dai premi, rifulgere nella rinuncia.
Contro i poeti era stato preparato per un discorso pubblico accaduto a Buenos
Aires nel 1947; trasferitosi nella capitale argentina dal 1939, Gombrowicz ha
scritto lì, da reietto, da “eremita sepolto vivo in Argentina”, le pagine più
violente del Diario. Malsopportava Victoria Ocampo, “un’anziana aristocratica
piena di milioni”, e i galoppini d’intelletto fino che ronzavano intorno a “Sur”
– Paul Valéry, Bernard Shaw, Keyserling – galvanizzati da “quell’insistente
sentore di soldi aleggiante attorno alla signora”. Impossibile per uno scrittore
“affascinato dagli strati inferiori del paese” entrare in contatto con Borges,
> “un artista che il caso aveva fatto nascere in Argentina, ma che avrebbe
> potuto altrettanto bene, e forse meglio, essere nato a Montparnasse”.
Il Diario di Gombrowicz è tutt’altro dai pur mirabili Journal che i francesi
hanno prodotto a frotte – quelli, ad esempio, di André Gide, di Marcel
Jouhandeau, di Julien Green. Lì la suprema raffinatezza rispecchia l’impero
dell’egotismo, l’energia di una schifiltosa interiorità; qui, invece, è
l’audacia dell’individuo che dilania se stesso, sono le dighe disintegrate, i
tombini bombardati, il dio del caos in casa. Gombrowicz disprezzava la
letteratura dello show, la letteratura “sfrattata dallo spirito individuale”,
che
> “diventa preda di fattori extra-spirituali e puramente sociali. Premi,
> concorsi. Celebrazioni. Associazioni professionali. Editori. Stampa. Politica.
> Cultura. Ambasciate. Convegni”.
Il Diario è un antidoto a quest’epoca esangue, retta dall’autocensura e dal
perbenismo della correttezza. In spiaggia, per dire, a Piriápolis, Uruguay, è il
1962, Gombrowicz inveisce contro le grasse, contro lo “svaccato stravaccamento
di quello schifo sfacciatamente sfrontato”, quel “donnesco baobab di donna dal
debordante didietro… e chi lo trova un macellaio capace di venirne a capo?”.
Terrorizzato dai grandi numeri – che annientano l’io allo sbadiglio, a uno
sbaglio, allo zero – Gombrowicz disorienta il mito della fedeltà coniugale: come
faccio ad amare un’unica donna se “non so chi sono io” e lei è
> “una delle tante femmine che abitano il globo terrestre, una delle tante
> vacche… un miliardo di vacche, un miliardo di femmine?”.
Ha scritto che “l’arte è aristocratica fino al midollo, come un principe di
sangue reale. È negazione dell’uguaglianza e culto della superiorità”. Resta il
fondatore di un’eresia letteraria senza seguaci – per chiunque scriva, Witold
Gombrowicz è un San Paolo: ci ha messo la croce addosso, aprendoci la via del
tormento e della gloria.
L'articolo “L’arte è aristocratica fino al midollo”. Witold Gombrowicz contro
tutti proviene da Pangea.
Ho amici cattolici. Domenica delle Palme ero in piazza, per i saluti, e in
piazza si diceva messa. Una piazza mesta come lo sono i luoghi inutilmente
pubblici il più delle volte, quando non ci sono i leader delle ragioni superiori
a organizzare i torpedoni. Quando ci sono gli stand della Coldiretti è un’altra
storia, è quasi festa, per quanto anche lì a tener banco è l’illusione di poter
comprare al miglior prezzo qualcosa di meno industrialmente nocivo.
Si chiacchierava tutti ma quando è stata la volta della lettura del vangelo
liturgico del giorno, recitato dal pulpito allestito al vento, cala un silenzio
di attenzione dovuta, di ossequiosa osservanza delle circostanze cui s’adegua
pure chi in piazza c’era per tutt’altra ragione, e taccio anch’io per colmo di
stupore di fronte a tante persone, comunemente refrattarie a ogni letterarietà,
che azzittiscono e mimano concentrazione per qualcuno che legge.
I Vangeli, così come le Bibbia al completo, li ho letti nell’edizione concordata
della Mondadori, perciò per me è sempre una novità ri-leggerli ascoltandoli
nella versione approvata dalla CEI: troppi interessi di troppe parti
difficilmente possono conciliarsi con quello principale della lealtà verso il
testo, perché giunga a chi lo legge nella sua forma più aggiornata e il meno
faziosa possibile.
«Ogni civiltà nasce da una traduzione», così Gianfranco Folena, citazione letta
in un libro di Aldo Busi, per cui: dimmi a che traduzione t’affidi e ci capirò
immediatamente qualcosa in più della civiltà che aspetta entrambi, se quella a
cui t’affidi tu è la stessa a cui s’affidano in maggioranza.
Ascolto. I vangeli nei secoli hanno avuto lettori sagaci, mica tanti, e sequele
sterminate di pigri recettori di artate interpretazioni altrui, ma questo non
dispensa nessuno dal farsene una lettura e un parere propri, se gli va, così
come niente vieta che li si ignori come viene ignorata tanta parte della
letteratura mondiale, al netto di quella che viene propinata nei programmi
ministeriali, tante volte perché possa essere disprezzata subito e in blocco.
Dal Vangelo di Luca:
> “…ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola… Io sto in
> mezzo a voi come colui che serve… il suo sudore diventò come gocce di sangue
> che cadono a terra… con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?… E molte
> altre cose dicevano contro di lui, insultandolo… Togli di mezzo costui!
> Rimettici in libertà Barabba!… Detto questo, spirò.”
Ascolto e mentre ascolto non sono più in piazza, non è più la Domenica delle
Palme. È la notte di qualche mese fa, in gruppo rientriamo in albergo, siamo a
Ischia per il matrimonio di una coppia di amici, è stato ufficializzato al
comune di Forio la mattina stessa. Gli altri vanno ciascuno nella stanza
assegnata, io resto a zonzo nella hall sottosopra dell’albergo. Siamo fuori
stagione, nell’albergo sono in corso opere grosse di manutenzione: le porte
delle camere non hanno gli stipiti, lungo i corridoi ammassano le biancherie da
sostituire, le scaffalature stanno accatastate negli angoli. Ci si sente come in
una delle narrazioni di Antonio Moresco, alla fine di un tempo e di uno spazio
che ha perso memoria del suo prima e del suo dopo.
Nella hall ci sono libri disposti in pile senza ordine bibliografico alcuno, le
scruto a una a una, come resti di colonne di una cattedrale ipotetica, mentale.
Scelgo quale pietra svellere: Barabba, di Lagerkvist, nell’edizione 1965
della Gherardo Casini Edizioni Periodiche, traduzione di Alois Baumgarthner,
collana “I libri del sabato”. Lo scelgo perché è sottile, ideale per me che
stanco come sono non mi aspetto di riuscire a leggere a lungo, in camera. Perché
di Lagerkvist ho letto Il nano, e mi piacque. Lo scelgo perché di Saramago ho
letto Il vangelo secondo Gesù Cristo, scrivendolo da scrittore quindi né
noiosamente da apologista né facilmente da polemista.
Come ha scritto Lagerkvist di Barabba?, mi chiedo, scegliendolo per questo, non
sapendo io se Lagerkvist sia stato di qualche fede dichiarata o se no e se sì
quale fosse e se no se si fosse sentito poi in dovere di dichiarare perché aveva
preferito di no. Se a lettura del romanzo ultimato avessi continuato a non
saperlo, a non poterlo sapere, Barabba sarebbe potuta dirsi l’opera di uno
scrittore.
La letteratura non può essere confessionale perché le religioni sono il
contrario della letteratura. La religione si fonda sull’assunto che c’è una
verità e che le narrazioni non possono che provare ad avvicinarsi a quella
verità che le precede e che tutt’al più le ispira. Per la religione la
narrazione viene dopo la verità. La letteratura sa che scoprirà una verità solo
dopo averla raccontata e che quando racconta due volte una storia non avrà
raccontato in due modi diversi la stessa verità ma avrà raccontato due verità,
perché la verità e il racconto vanno assieme, si scoprono assieme, è impossibile
stabilire chi venga prima, chi fondi chi, chi inventi chi, se la letteratura la
verità o se la verità la letteratura. Certo, se non ci fossero verità da dire
non ci sarebbe niente da raccontare. Ma se non ci fossero i racconti non ci
sarebbe mai stata nessuna verità da dire.
La letteratura sa che per esserlo non può e non deve essere suddita della
verità. Le religioni, quali che siano gli espedienti retorici perché non lo si
noti, scelgono una verità rispetto alla quale rendere suddita la letteratura, e
dunque l’umanità che quella letteratura informa.
Per le religioni la verità è stata detta e non resta che dirla meglio,
comprenderla meglio, purché non-la-si-travisi, quindi decidendolo comunque loro
qual è la lettura-corretta, la lettura-consentita. La letteratura sa che la
verità sta nell’avventura del linguaggio, di quello che tramite la scrittura è
possibile scoprire inventandolo, inventare scoprendolo. La letteratura non la si
sa né la si può mai definire ben bene ma una cosa è certa: se chiede di essere
autorizzata, se si preoccupa di non-travisare le narrazioni che l’hanno
preceduta e che le succederanno, non è letteratura. Sarà pubblicistica e morta
lì.
Lagerkvist sceglie di raccontare di Barabba. Aggiungere un pezzo di racconto al
racconto-ufficiale, al racconto-raccontato-già-tutto, è di per sé atto inventivo
audace, necessario, ma non basta scegliere un soggetto non autorizzato per fare
letteratura ovvero qualcosa di non autorizzabile per eccellenza. Leggo Barabba
di notte in un albergo dalle pastosità moreschiane per scoprire se l’opera di
Lagerkvist è letteratura o un lavoretto di mano religiosa.
Il romanzo si apre sulla cloaca del Golgotha,
> “teschi e ossa giacevano sparsi ovunque insieme a croci stese a terra, mezze
> marcite, che non servivano più ma che nessuno portava via, perché nessuno
> avrebbe toccato le cose di quel luogo.”
A osservare il rabbino crocifisso agonizzante c’è Barabba il liberato, che lo
osserva dubbioso, inquietato. Corrisponde il corpo “magro e gracile” di
quell’uomo dal “petto senza peli, come quello di un adolescente” a colui che nel
pretorio “aveva visto circondato di uno splendore abbagliante”? Come si può
avere rispetto di un uomo le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai
lavorato”?
Nel romanzo di Lagerkvist l’interlocutore – mentale – di Barabba il liberato non
è il maestro dei cristiani che da lui prenderanno il nome. Non ha nemmeno un
nome suo. L’interlocutore di Barabba maledetto nel seno di sua madre è il
crocifisso benedetto nel seno della sua di madre, con la differenza che il
crocifisso una madre che l’ha amato fino alla croce e prima e dopo la croce l’ha
avuta, mentre Barabba no, una madre non l’ha avuta, non ha saputo chi fosse. E
il padre? Anche in questo son diversi, il maledetto e il benedetto alla nascita:
uno ha dovuto uccidere suo padre, per sopravvivere, sopravvivere per modo di
dire, l’altro perché fosse fatta la volontà del suo di padre ha dovuto morire e
morire in croce: per la vita eterna sua e di tutti, così dice il padre del
benedetto nel seno di sua madre. Il padre di Barabba, di nessuna parola e a
prima impressione assai più brutale, non è stato così terribile. O semplicemente
non altrettanto potente, onnipotente addirittura.
Il romanzo è appena iniziato, è iniziato da poco, e già siamo da tutt’altra
parte rispetto al racconto e all’atmosfera dai Vangeli. Intanto il protagonista
è un altro e lo è per davvero, è altro rispetto al Gesù dei Vangeli, è altro
rispetto ai fatti e ai luoghi della narrazione perché ha tutt’altra origine chi
ne è al centro. Non un uomo che comunque sia si è messo al centro di una scena,
non è la storia di un predicatore che va incontro alle folle e dunque alla loro
volubilità. È la storia di un marginale, un solitario, un omicida. Sono due
fuorilegge, certo, ma rappresentano due modi ben distinti di fuoriuscirne. Il
crocifisso non intende infrangerla quanto rifondarla, vuol istituire una nuova
legge alla quale inchinarsi con gioia, sollievo, consolazione. Barabba desidera
restare al di fuori dalla legge quale che sia. Per Barabba o sei tu a
crocifiggere la legge o sarà lei a crocifiggere te se non vorrai vivere da
inchinato ai suoi piedi.
Stando al presunto messaggio canonizzato dei Vangeli, Gesù è venuto per Barabba,
per i Barabba. Il benedetto è venuto per i maledetti: ma un maledetto fin dal
seno di sua madre cosa può voler spartire da un benedetto fin dal seno di sua
madre?
Barabba e Gesù sono coetanei, per Lagerkvist. Barabba era
> “un uomo di una trentina d’anni, di corporatura robusta, dal colorito terreo,
> aveva la barba rossa e i capelli neri. Anche le sopracciglia erano nere e i
> suoi occhi infossati nelle orbite, come se lo sguardo avesse voluto
> nascondersi. Sotto un occhio cominciava una profonda cicatrice che spariva tra
> la barba. Ma l’aspetto fisico di una persona non dice molto.”
Ah, com’è bravo qui Lagerkvist a negare l’evidenza che lui stesso pone: cosa può
avere in comune un uomo già scavato e scalfito e lapidato dalla vita come
Barabba con quel crocifisso gracile, magrolino, adolescenziale, con quel Cristo
che a me pare dostoevskiano, le cui “braccia sottili sembrava non avessero mai
lavorato”?
Ma il crocifisso prima di essere crocifisso, prima di iniziare a predicare tra
le genti eleggendo i suoi apostoli, non era stato a bottega di falegname?
Possibile che un giovane falegname sulla trentina potesse essere magrolino,
esile, con le braccia sottili, il petto glabro, il corpo adolescenziale? Io, se
devo immaginarmi il crocifisso stando ai Vangeli e non alla sterminatezza delle
raffigurazioni che ne sono state fatte poi, costringendo l’immaginario,
viziandolo, snaturandolo, certo non me lo raffiguro nelle sembianze del Raz
Degan ai suoi bei tempi né nelle sembianze di Ernesto Che Guevara bello anche da
morto come un Cristo-da-canone-vivo, e meno ancora come un uomo smilzo,
sottopeso, insomma debole nel corpo perché meglio risultasse forte nello
spirito. Nonostante le torture e le vessazioni io sulla cloaca del Golgotha, in
mezzo agli altri crocifissi torturati, m’immagino un pezzo d’uomo crocifisso, un
ex-falegname che avrà saputo conquistarsi la fiducia e poi la venerazione dei
suoi simili perché appunto simili a lui come lui deve essere stato simile a sua
madre, che secondo Lagerkvist “aveva l’aria di una contadina semplice e rozza”.
Una contadina semplice e rozza avrebbe mai potuto generare un uomo sottile come
il crocifisso? Stando a come la descrive Lagerkvist la madre del crocifisso
sarebbe stata invece perfetta come madre di Barabba il liberato, solo che
“Barabba non aveva una madre”. Perché il Barabba di Lagerkvist fosse
proprio quel Barabba è stato necessario che il crocifisso fosse
proprio quel crocifisso. Gli antipodi.
La tensione, l’invenzione, l’occasione del racconto di diventare letteratura in
Lagerkvist sta tutto in questa separazione iniziale: come può la vita e il sogno
di un’altra vita oltre la morte di un benedetto fin dal seno di sua madre poter
coincidere con la vita e l’incubo di un’altra vita oltre la morte di un
maledetto fin dal seno di sua madre?
Il crocefisso di Lagerkvist viene per liberare un Barabba che vivrebbe come
un’offesa insanabile essere salvato da lui, lui salvato all’origine perché amato
da sua madre, a differenza sua, di Barabba, non amato da sua madre e non amato
da suo padre e quindi mai amato e quindi inamabile.
Che beffa per il Barabba di Lagerkvist essere salvato da qualcuno a cui per
salvarsi basta essere sé stesso, il figlio di suo padre, il figlio di Dio che è
Dio lui per primo, insomma essere salvato da colui al quale per salvarsi da solo
e per salvare tutti basta essere nato così com’è nato: da un padre terribile,
sia, un padre la cui benedizione verso il proprio figlio non è meno terribile
della maledizione che il padre di Barabba ha avuto verso di lui, ma pure da una
madre che l’ha amato e che amandolo l’ha seguito fino alla croce, disapprovando
chissà quanto le scelte mano a mano più suicida di quel figlio predicatore,
andato verso le folle invece di starsene nel proprio particolare, lo stesso
seguendolo fino ai piedi della croce, conservandolo della benedizione del suo
seno di madre che ama suo figlio nonostante suo figlio, poiché secondo
Lagerkvist
> “Essa non soffriva come gli altri, non lo guardava come lo guardavano loro,
> era ben sua madre. Certamente provava una pietà più grande di chiunque altro;
> eppure sembrava rimproverargli di aver fatto tutto per farsi crocifiggere.
> Aveva proprio dovuto cercarselo, lui, così puro e innocente, ed essa non
> poteva approvare una cosa simile. Essendo sua madre essa aveva la certezza
> della sua innocenza. Qualunque cosa avesse fatto, l’avrebbe considerato
> innocente”.
Che ingiustizia per uno ingiustamente nato maledetto essere salvato da un giusto
benedetto fin dalla nascita.
Il trauma insanabile del Barabba di Lagerkvist, che si autodiagnostica a sua
insaputa, è di non aver avuto una madre come a lui, a Barabba, sarebbe piaciuto
che fosse: una madre che te le perdona tutte, una madre che avrebbe fatto di te
il criminale che poi sarebbe diventato lo stesso se cresciuto da una madre
disposta a reputarti innocente a prescindere.
Il miracolo del crocifisso, nella scrittura che ne fa Lagerkvist, a questo
punto sta invece proprio nell’essersi saputo condurre innocentemente nonostante
la madre che ha avuto, rabbiosamente determinata a perdonargli tutto, incapace
come deve essere stata di saper amare di un amore che non avesse bisogno di
trovarti qualcosa da poterti perdonare prima di amarti.
Barabba non ha avuto una una madre e chi non ha madre non può mai avere certezza
di essere innocente, per cui qualunque cosa farà non potrà considerarsi
innocente, così Barabba in Lagerkvist.
Per meglio dire, Barabba spiega così a sé stesso il corso della sua vita: un
maledetto dagli altri non potrà che maledire sé stesso, non ci sarà salvatore
che tenga in questi casi, e d’altronde come vuoi salvarti se la madre del figlio
che ti avrebbe salvato non ha nessuna intenzione di salvarti a sua volta, di
perdonarti, se anzi anche lei ti maledice, raddoppiando il carico?
> “Essa si fermò e lo fissò con uno sguardo così disperato e accusatore, che
> Barabba non potrà mai sperare di dimenticare”.
Stando ai fatti, nei Vangeli e nel romanzo di Lagerkvist, il crocifisso non ha
salvato nessuno dalla sua condizione terrena, al più dalla morte ma giusto per
rinfilarlo nella vita dalla quale continua a cercare scampo – vedi Lazzaro o la
donna col labbro leporino o il compagno di miniera di Barabba – e comunque non
certamente lui, non Barabba.
È stato il popolaccio di leopardiana memoria a venire a condannare il
crocifisso, che pur di condannarlo ha fatto liberare Barabba, continuando a
ignorare Barabba, è stato il popolaccio a condannare il più debole di lui per
fare la volontà dei più prepotenti di lui, illudendosi così che i prepotenti
possano diventarlo di meno verso di lui, rendendolo un po’ meno debole, o
comunque prendendosi la soddisfazione di essere lui per una volta, lui
popolaccio, il più prepotente e non il più debole come al solito.
Condannando il debole di turno per ottenere il favore del prepotente di turno il
popolaccio condanna sé stesso, quando alla elezioni ci va con questo spirito il
popolaccio condanna sempre sé stesso, il prepotente lo sa, anche per questo ogni
tanto lascia per un po’ a piede libero un debole che cerca di raccontare agli
altri deboli quanto non siano deboli, quale sia la loro forza: per crocifiggerlo
poi meglio e con più gusto, per la gioia dei prepotenti e ancor di più per
quella di chi non saprebbe rinunciare allo stato di schiavitù che almeno ci
pensa lei a spiegargli tutto del perché la sua vita gli faccia orrore.
La differenza tra il Barabba di Lagerkvist e gli altri personaggi del romanzo
che scelgono di convertirsi, di voler credere, è che quegli altri sono disposti
a farsi a salvare e questa condizione di per sé basta a salvarli, al di là di
chi sia poi il presunto Salvatore, meritevole soltanto di avergli dato
l’occasione di credere che un Salvatore esista, occasione non da poco e non da
tutti.
Barabba no. Barabba non vuole essere salvato, non vuole la vita eterna o stare
all’interno di una comunità che creda che una vita eterna sia possibile, che lo
sia essere salvati, che sia possibile essere amati per sé stessi e amarsi gli
uni gli altri. Barabba ormai può fare anche a meno della madre che non ha mai
avuto. Barabba vuole delle scuse. A scuse ricevute magari potrà prendere
seriamente in considerazione l’idea di accettare un dio, ma niente scuse niente
dio, no, non se ne parla. Su un dio, sulla possibilità di un amore, ci mette la
croce sopra chi sulla croce è stato messo da ben prima che ce lo inchiodassero
di fatto. Specie se ai piedi di quella croce non c’è nessuno, non c’è mai stato
nessuno, nessuno s’è mai fatto ri-conoscere per dirti: Non sei solo, ai piedi di
questa croce ci sono io. Almeno questo.
Barabba è troppo offeso – e ogni volta che ha offeso gli altri, nell’implicita
speranza di riparare così all’offesa subita, si è offeso ulteriormente, al punto
che l’offesa ha ricoperto tutto, non lasciando spazio per nient’altro, per
nessun altro.
Ero all’inizio del romanzo e senza accorgermene sono quasi alla fine, sono alla
fine, o sono ancora all’inizio? Sono a Barabba che ha fatto il giro largo per
tornare al punto di partenza, alla crocifissione soltanto rimandata.
Ma: secondo Lagerkvist chi è il crocifisso? Il crocifisso di prima o il
crocifisso di dopo? Chi crede di poter salvare tutti compreso sé stesso o chi
crede che non si salva nessuno? Chi è più crocifisso, il benedetto o il
maledetto? Quando c’è la religione c’è la risposta, la risposta diventa talmente
invadente che non c’è più spazio per la domanda, neppure per il ricordo di quale
fosse la domanda. Quando c’è letteratura la risposta tocca a te che leggi – e
con ogni probabilità non sarà mai la stessa risposta molto a lungo.
Detto questo, chi è che spira adesso? La messa della domenica, il romanzo del
1965, io, tu?
antonio coda
*In copertina: un’opera di Honoré Daumier
L'articolo Chi è più crocefisso, chi è più maledetto? Discorso intorno al
“Barabba” di Lagerkvist proviene da Pangea.
Sarebbe impossibile, oggi, definire Suor Juana Inés de la Cruz “una delle
supreme figure simboliche in cui le donne moderne si sono riconosciute”. Eppure,
così attaccava la ‘quarta’ delle Poesie di questa singolare e ineffabile
personalità, tradotte da Roberto Paoli per la Bur nel 1983. Il libro –
naturalmente, verrebbe da dire – fa parte di un’eternità non più libraria, è
scomparso da cataloghi e scaffali; l’autrice è ormai un’innocua nota nei libri
di storia, una chiosa capretta, tanto che pare paradossale l’enfasi con cui
veniva presentata, allora:
> “Voleva vivere in perfetta solitudine, leggendo, studiando e scrivendo, senza
> essere disturbata dal tumulto della vita. ‘Il mio calamaio è il rogo nel quale
> devo bruciarmi’, scrisse stupendamente. Pochi uomini possono vantare una così
> adamantina, superba, disperata tensione intellettuale come questa suora
> messicana: sognava di essere androgina, di dimenticare il suo sesso e ogni
> sesso, il suo corpo e l’intero regno dei corpi, tutte le vicissitudini delle
> sensazioni e dei sentimenti”.
Anche il libro Einaudi che raccoglie i Versi d’amore e di circostanza di Juana –
uscito nella ‘bianca’ nel 1995, a cura di Angelo Morino – risulta “non
disponibile”. Peccato perché i versi di questa donna astrale, estranea al tempo,
che fu dama d’onore della viceregina, carmelitana scalza per una manciata di
mesi, poi affiliata all’ordine di San Gerolamo, temuta per spregiudicato
intelletto, di glaciale bellezza, sono tra i più alti dell’epoca, tra i più
belli mai scritti in lingua spagnola. Rimedieremo.
Chissà quali sono le “figure simboliche” in cui oggi si riconoscono le “donne
moderne”… Non credo che Suor Juana possa essere addomesticata in simboli e in
slogan: la sua mente, ferina, spaura; la sua libertà è violenta. Infine, si
liberò della biblioteca – che contava oltre 4mila volumi, spesso ‘proibiti’ se
non proibitivi – e degli strumenti musicali, che sapeva armeggiare. Chiuse anche
con gli strumenti scientifici con cui si lambiccava, giocando all’alchimia –
morì, troppo giovane, troppo altra, neppure cinquantenne, nel 1695, a causa di
un’epidemia (si dedicò a curare le inferme, subendone il contagio). Leggeva, tra
gli altri, Athanasius Kircher. A tratti, Suor Juana pare una delle donne dipinte
da Zurbarán: Sant’Agata o Santa Elisabetta del Portogallo, evanescenti e feroci,
con quel volto giaguaro. In lei, l’arguzia di Santa Teresa si svolge nell’aquila
di Tenochtitlán: un’intelligenza dagli artigli tesi. Per darle giustizia ci
vorrebbe la penna di Cristina Campo.
Perfino Samuel Beckett restò stordito dalla voracità linguistica di Suor Juana.
Su ispirazione di Octavio Paz – che a Suor Juana dedicò parte della sua vita da
studioso: Suor Juana o le insidie della fedecampeggiava, nel 1991, in catalogo
Garzanti, ora si trova nel mercato alternativo – cominciò a tradurla. L’esito
del suo lavoro – che contempla altri autori del Seicento come Bernardo de
Balbuena e Juan Ruíz de Alarcón – fu pubblicato nel 1958 dalla Indiana
University Press come An Anthology of Mexican Poetry transleted by Samuel
Beckett. Nel 1994 l’antologia è stata ripubblicata da Grove Press. Il libro è
smilzo, sobrio, ‘beckettiano’: nell’ala compare – guarda un po’ – Suor Juana,
nel ritratto di Miguel Cabrera: “Posseduta da un’ardente curiosità
intellettuale, ha difeso con forza il proprio diritto alla conoscenza, la
propria sete di sapere, scrivendo, tra l’altro, liriche di rara bellezza”.
Il 1958 è un anno importante per Beckett: traduce L’innominabile in inglese,
scrive Acte sans Paroles, L’ultimo nastro di Krapp, Finale di partita. L’anno
dopo il Trinity College lo investe del dottorato honoris causa. Credo che
Beckett, in quel lotto di anni, sia stato invaso dal linguaggio di Suor Juana:
esuberante, è vero, ma che esorbita fino ai confini dell’indicibile,
dell’annientamento, per eccesso, di ogni lemma. Come sfregare due pietre d’oro
perché accada una fiamma: è bianca, sa di acqua. Eppure – a dire
dell’insignificanza di Suor Juana nei perigli della cultura d’oggi – non c’è
cenno della Anthology of Mexican Poetry nel formidabile ‘Meridiano’ dedicato
a Romanzi, teatro e televisione di Beckett. Eppure, è opera in cui coincidono –
rarità al cubo – due futuri premi Nobel per la letteratura: Paz otterrà l’alloro
nel 1990, ventuno anni dopo Beckett. Il punto di giunzione tra l’irlandese e il
messicano è Antonin Artaud: credeva in misteriose analogie tra i Tarahumara,
“razza di uomini perduti” nei recessi del Messico, e la civiltà delle Aran, tra
il peyote e Bachall Isu, il mitico bastone di San Patrizio custodito – e poi
bruciato – a Dublino. Soprattutto, modellò il linguaggio fino a farne magia,
formula ipnotica.
Ad ogni modo, ecco come Samuel Beckett rende uno dei sonetti più noti di Suor
Juana, Éste que ves, engaño colorido:
Questo frainteso a colori che tanto ammiri,
vanagloria dell’eccellenza artistica
non è che una furba frode dei sensi
in fallaci sillogismi di pittura;
questo, dico, adulazione da becchino
che estenua l’odioso orrore degli anni,
vaniloquente sconfitta degli oltraggi del tempo
trionfo sull’oblio e sulla vecchiaia,
è vano artificio della dedizione
è fragile fiore al vento
è inutile santuario del fato
sordida inerte opera vana, conquista
che svanirà, ben fatta, certo, nient’altro
che carcassa e polvere, ombra e nulla.
Questa la traduzione, adesiva, di Paoli:
Questo, che vedi, colorato inganno
che dell’arte ostentando le bellezze
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dei sensi malizioso;
questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggendo del tempo i rigori
trionfare sugli anni e sull’oblio,
è un artificio vano della cura,
è un fiore molto gracile nel vento,
è un inutile scudo contro il fato:
è una sciocca pazienza delirante,
è un affanno fugace e, a ben guardare,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.
Un sapiente drammaturgo dovrebbe figurarsi il giorno in cui Samuel Beckett
incontrerà Suor Juana – le chiederà di ispezionare la sua calotta cranica,
riconoscendo gli stessi ghiacciai, un padre chiamato Antartide. Dopo averle
baciato le dita, è ovvio – rese al giglio e all’acciaio, fatte iena.
***
Da Primero sueño
Venere era, Venere
per prima della bella stella
del mattino adorna
brillò lungo l’alba
arcigna sposa del vecchio Titone.
Amazzone di ardore rivestita
armata contro la notte
fatata e fatale
pianto di malinconia pianta
e mostra l’amabile fronte
tra i ramificati bagliori del mattino
tenero ma ferino araldo
dell’astro feroce
che viene, che viene
schierando gli scherani
e gli arcieri bagliori
la retroguardia
di venerande veterane luci
contro di lei, tiranno usurpatore
dell’impero del giorno, mentre
cinghie di neri tuoni
trafiggono le ombre nottambule
fino ad atterrirla.
Ma lei è bella, lei è l’avanguardia
dell’araldo del sole
che sventola il palio a Oriente
e chiama alle armi le mere, bellicose
genie dei rapaci:
che sia ingenua la loro fede
sonora come quella delle trombe
quando il tiranno, in rotta, trema
sconvolto da cupi presentimenti
e si sforza di elencare la sua leggendaria
potenza e controbatte con il funebre
mantello le infallibili
falci di luce
ed è vano il valore
della disperazione, futile
ogni resistenza, così inclina
alla fuga, unica via di salvezza
e il rauco corno erutta
e i neri battaglioni
retrattili in geometrica ritirata.
Ma una più arcana pienezza
di raggi squarciò le più alte cime
le torri del mondo. Il sole
recluso nel suo girovagare
rende oro l’azzurro
raggi di luce virginea
incidono il ceruleo cranio del cielo
si abbattono su quella
funesta tirannia.
E lei fugge e lei inciampa
nei suoi stessi orrori
calpesta la sua ombra:
cieca fuga, luce che avanza
luce che incalza, che sfonda
il limite occidentale e la sfigura.
Ma la caduta la vivifica
la rovina la imbeve di una
rinnovata ribellione
e in quella parte di mondo
ignara del giorno
indossa ancora la corona
mentre nel nostro emisfero
il sole scuote la criniera
conferendo a ogni cosa
il suo degno colore
affidando agli ancoraggi
della luce il mondo – ora
tutto è luce e posso destarmi.
Versione di Samuel Beckett
L'articolo “Voleva vivere in perfetta solitudine”. L’incontro tra Samuel Beckett
e Suor Juana Inés de la Cruz proviene da Pangea.