La letteratura è come un maestoso iceberg sospinto senza posa nelle acque
polari. Nella parte emersa si mostra la storia “diurna” della letteratura,
quella che trova posto nelle biblioteche, nei manuali didattici e nelle
antologie. Negli abissi gelidi e cupi dimora invece il suo gemello “notturno” –
un’Atlantide sommersa di pagine e pagine destinate a un pugno di esploratori
estremi. L’astronomia ci presta l’immagine del satellite naturale che gravita
attorno al suo astro di riferimento e gli conferisce caratteristiche speciali:
moti, rivoluzioni e maree. Trasferendoci sul piano della letteratura, potremmo
dire che Memorie di Adriano è il pianeta e i Taccuini di appunti la sua luna
privata.
Carnets de notes: meno di quindici pagine, dense e tuttavia aeree, che si
leggono alla fine del libro e che vi gettano una luce laterale, descrivendo
l’arco interiore di una gestazione e di un corpo a corpo con l’opera durato un
trentennio.
Come nasce la prima immagine di un libro nella mente di uno scrittore? Che ruolo
giocano le arti visive nel caleidoscopio multiforme che romanticamente definiamo
ispirazione? E in che modo un libro, legandosi indissolubilmente alla biografia
e alle sue vicende, diventa talmente rilevante per un poeta da trasformarsi in
destino? A queste e tante altre domande cercano di rispondere i Carnets de
notes, tra annotazioni, lampi e memorie di una vita intera.
Un paesaggio in particolare può diventare letteratura – topografia mitica
dell’immaginazione. A soli 21 anni, nel 1924, Marguerite Yourcenar visita per la
prima volta Villa Adriana, a Tivoli, con l’amato padre Michel. L’impatto emotivo
e intellettuale del luogo lascia in lei una traccia profonda. È qui, tra i
filari di cipressi ormai scomparsi e il frinire millenario e solare delle
cicale, che nasce il primo nucleo immaginativo del suo capolavoro. Primo vagito
che sarà suggellato, verso il 1927, dalla lettura appassionata della monumentale
corrispondenza di Flaubert. Vi trova e vi sottolinea una frase indimenticabile:
> «Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco
> Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo».
La Yourcenar avrebbe dedicato gran parte della sua vita a cercare di descrivere
quest’uomo.
È sorte di molti poeti e scrittori misurare concretamente la propria
inadeguatezza di fronte al compito che ci si era posti. Gli esiti di tale
spietata e lucida consapevolezza sono molteplici: la fuga verso il silenzio, il
revolver o le fiamme dove i manoscritti diventano cenere. Nel 1929, Yourcenar
brucia senza molte esitazioni la prima stesura di Memorie di Adriano.
Da quel fatidico anno, la vita le impone appuntamenti significativi: con
l’amore, la cui disillusione detta le prose liriche di Feux; con la storia, che
già mostra i segnali premonitori della sciagura imminente; infine con la
geografia privata, in virtù della quale la scrittrice lascia l’Europa per vivere
negli Stati Uniti, insieme alla fedele compagna Grace Frick. È qui, nel silenzio
ovattato di un’isoletta americana che si erge come avamposto atlantico, che
Marguerite vivrà fino alla morte, senza mai rinunciare peraltro ai tanti viaggi.
La quiete marina di Petite Plaisance è la cornice ideale in cui i ricordi della
donna riaffiorano dalla sfera del vissuto per trasformarsi in letteratura. Si
ridestano le memorie degli anni europei, gli incontri emblematici e le letture
importanti: le mattine trascorse a Villa Adriana, il brulichio del quartiere
Plaka di Atene, l’inquieto vagare sulle acque dell’Egeo e sulle strade dell’Asia
Minore.
> «Per riuscire a utilizzare questi ricordi, che sono i miei, essi hanno dovuto
> allontanarsi da me quanto il II secolo».
Come dire: quanto di noi e dei giorni vissuti altrove rimane nel nostro percorso
all’interno del Labirinto, dove, come un Minotauro assassino e liberatore, ci
attende l’opera compiuta?
Per tre decenni vaga la Yourcenar tra piani temporali e spaziali sciolti dal
presente e ricomposti solo nelle frontiere notturne del sogno. Nel 1949, un
plico di documenti lasciato in Svizzera prima della guerra e di cui si era persa
traccia, raggiunge Mount Desert Island. Il paragone con un messaggio nella
bottiglia gettata in mare non è del tutto improprio. Da quella scatola di
cartone si risvegliano antichi progetti, immagini che sembravano perdute
accarezzano di nuovo la sensibilità di Marguerite. Ogni scrittore che si
rispetti, d’altronde, fa i conti con le sue Erinni private che non gli perdonano
l’incompiuto. Nel tumulto dei gesti e della storia, i frammenti di un libro
sempre vagheggiato erano sopravvissuti in qualche modo alle migrazioni, alle
guerre e ai falò, per giungere infine nelle mani di una donna intenta a
riordinare la galleria di vivi e di morti nella sua esistenza.
I manoscritti non bruciano – si legge nello straordinario Il Maestro e
Margherita di Bulgakov. Dovremmo dire meglio: non bruciano completamente. A
Marguerite Yourcenar basta leggere la celebre formula iniziale «Mon cher
Marc»: il libro che si era portata sempre dentro andava finalmente scritto e
salvato dalle fiamme.
È possibile praticare un’archeologia dell’interiorità? Rinvenire in sé, scavando
tra le stratificazioni del passato, le testimonianze di quello che si era?
Ritrovare nel presente la scia delle intuizioni di un tempo? Nel tentativo di
entrare nell’intimità di un altro uomo, per giunta vissuto due millenni prima,
la Yourcenar deve colmare, prima di tutto, la distanza che la separa da sé
stessa. D’altronde, la vita di ognuno di noi non è che somma di sottrazioni –
così come un libro, fissato ormai nella sua forma ultima e definitiva, è l’esito
di una scelta in virtù della quale le lacune, le reticenze e le omissioni
costellano le pagine come i crateri le superfici di un pianeta.
> «Ripetersi senza tregua che tutto quello che racconto qui è falsato da quello
> che non racconto; queste note non circondano che una lacuna. Non vi si parla
> di ciò che facevo in quegli anni difficili, dei pensieri, i lavori, le
> angosce, le gioie, né dell’immensa ripercussione degli avvenimenti esteriori e
> della perenne prova di sé alla pietra di paragone dei fatti. Passo altresì
> sotto silenzio le esperienze della malattia e altre più segrete che queste
> portano con sé; e la perpetua presenza o ricerca dell’amore».
Ciò che rincuora Marguerite, nella notte della sua vita e della storia, è
l’immediata e plastica bellezza delle arti visive: l’obbedienza del marmo alla
mano, la linea chiara e precisa del disegno, il dettaglio che vivifica la
materia. Nel 1941, mentre si trova a New York con Grace, la scrittrice scopre
per caso in un negozio di arte quattro stampe di Piranesi. Una di esse raffigura
una veduta di Villa Adriana e lo splendido Canopo: l’architettura evocata
dall’artista sembra descrivere quella inquieta di un mondo interiore. Nelle sale
di un museo nel Connecticut, una tela di ambiente romano del Canaletto e
l’immagine del Pantheon con un cielo al tramonto, suscitano in Marguerite una
sensazione di calda serenità. Ma sono soprattutto le raffigurazioni di Antinoo a
provocare nella scrittrice una sorta di identificazione emozionale con
l’imperatore: un bassorilievo a firma di Antoniano di Afrodisia e un’illustre
sardonica dello stesso autore. Questi due pregevoli ritratti testimoniano che il
marmo e il minerale hanno resistito per secoli alla follia degli uomini,
obbedendo alla loro vocazione di amore e candore.
Si può davvero affermare che Memorie di Adriano sia il resoconto fedele di un
uomo e di un’epoca intera che ne fu testimone? Nabokov sosteneva che tutti i più
grandi libri – e questo vi figura a pieno titolo – non sono altro che
meravigliose fiabe. C’è qualcosa di irrevocabile che colpisce il lettore
dei Carnets: il senso che Memorie di Adriano sia nato non tanto da un atto
creativo, ma dall’obbedienza a un destino avvertito come ineludibile.
Dopo aver terminato il libro, Marguerite Yourcenar ritorna a Villa Adriana. Da
quella mattina del 1924 sono passati più o meno quarant’anni. Adempiuto un
destino, sfamata la tigre che le ruggiva in petto, è tempo di volgersi altrove.
> «Ma non sento più la presenza immediata di quegli esseri, l’attualità di quei
> fatti; mi restano vicini ma ormai sono superati, né più né meno come i ricordi
> della mia esistenza. I nostri rapporti con gli altri non hanno che una durata;
> quando si è ottenuta la soddisfazione, si è appresa la lezione, reso il
> servigio, compiuta l’opera, cessano; quel che ero capace di dire è stato
> detto; quello che potevo apprendere è stato appreso.
>
> Occupiamoci ora di altri lavori».
Lorenzo Giacinto
L'articolo “Quando gli dèi non c’erano più”. Marguerite Yourcenar o per
un’archeologia dell’interiorità proviene da Pangea.
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August Strindberg sta alla solitudine come Marcel Proust sta alla
memoria. Parafrasando quello che una volta Walter Benjamin ha detto di Proust,
si può dire che per lo scrittore svedese la parte principale non è affatto
svolta da ciò che egli ha vissuto, ma dalla tela di Penelope della sua
solitudine.
D’altra parte basta leggere Solo, il romanzo breve pubblicato nel 1903 per avere
conferma di quanto ho appena affermato. Il protagonista-narrante è un
cinquantenne vedovo che, dopo avere vissuto per una decina di anni in provincia,
torna nella sua città natale, Stoccolma. Qui si trova faccia a faccia con la
noia per i vuoti rituali sociali travestiti da normalità e per le futili
chiacchiere da caffè con i vecchi amici di un tempo, così sceglie
deliberatamente l’isolamento ed elegge la solitudine come il luogo più autentico
dove realizzare se stesso. Affitta una camera ammobiliata da cui esce solo per
delle brevi passeggiate, evitando ogni rapporto con il prossimo che non sia
quello puramente formale della sopravvivenza quotidiana. Non vuole avere niente
a che fare con quello che gli altri chiamano progresso, civiltà, normalità.
Per molti versi Solo è la rappresentazione del conflitto insanabile tra la
società e l’individuo.
> «Nel rompere i contatti con gli altri ebbi dapprima l’impressione di perdere
> energia, ma intanto il mio io cominciava come a coagularsi, ad addensarsi
> intorno a un nucleo in cui si riunivano, si fondevano le mie sensazioni, e la
> mia anima le assorbiva come nutrimento. Inoltre mi abituai a dare corpo a
> qualsiasi cosa vedessi o udissi in casa, per la strada o nella natura, e nel
> trasferire ogni mia percezione al lavoro in corso sentivo crescere il mio
> capitale; così, gli studi che facevo in solitudine risultavano più
> significativi degli studi sulla gente nella mia vita di società.»
Quella dell’io-narrante di Solo è una solitudine voluta e ricercata, una
solitudine allo stato puro, tonica, fortificante, tutta tesa a riassaporare
idee, ricordi e istanti vissuti sotto un’ottica diversa. Una condizione che
nella visione di Strindberg è essenziale per conoscere se stessi, ritrovarsi e
approfondire la propria identità.
Coprotagonista assoluta del romanzo è Stoccolma, rappresentata nello
scorrere dei giorni, dei mesi, delle stagioni, dalle luminose e interminabili
serate estive alle cupe e brevi giornate invernali e alla quale l’autore si
abbandona senza opporre resistenza.
> «È di nuovo inverno, il cielo è grigio e la luce viene dal basso, dalla neve
> candida per terra.»
Case e strade hanno il potere di stimolare sensazioni del tutto particolari. In
una delle scene più belle di Solo il protagonista ritorna per qualche minuto in
una casa dove aveva abitato molti anni prima e nel suo animo riprendono vita le
speranze e le paure di quando era giovane. Come dice bene Franco Perrelli nella
acuta e penetrante introduzione al romanzo presente nell’edizione di Carbonio,
in Solo «Stoccolma è soprattutto un luogo intimo, che vibra dentro e con il suo
essere».
In questo mare di solitudine però affiorano delle isole di socialità. In modo in
apparenza del tutto involontario il personaggio narrante ha delle frequentazioni
con quelle che lui definisce le “conoscenze impersonali”; sono gli estranei
incrociati per caso in strada oppure visti di sfuggita attraverso le finestre
illuminate di una casa. Ecco che allora, quasi per magia, quelle figure
intraviste solo per qualche istante diventano la scintilla per accendere
l’immaginazione del protagonista, che in questo modo approfitta della solitudine
in cui è immerso per trasformare e potenziare a dismisura il proprio io.
Un processo con un fascino del tutto particolare e anche un po’ inquietante.
Leggete la citazione che segue e ditemi se non è vero che per molti versi fa
venire alla mente, mutatis mutandis, la metamorfosi raccontata da Stevenson
ne Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde:
> «Quando però torno a casa e mi siedo alla scrivania mi sento veramente vivo…
> sguscio fuori dalla mia persona e parlo come fossi un bambino, una donna o un
> vecchio: sono re e mendicante, sono il signore potente, il tiranno e il più
> disprezzato, il ribelle sconfitto; qualsiasi opinione mi appartiene e
> qualsiasi religione è la mia; vivo in qualsiasi epoca, e io stesso non esisto
> più.»
Chi lo conosce e ha letto un po’ dei suoi libri sa bene che esistono molti
Strindberg diversi: ildrammaturgo, il romanziere, il botanico, il chimico e
persino l’occultista. La sua è stata una personalità complessa e tormentata che
ha attraversato molte crisi, e così abbiamo avuto lo Strindberg antifemminista,
quello ateo, il precursore dell’autoanalisi psicologica, lo scrittore
naturalista e quello espressionista, il mistico seguace di Swedenborg e poi di
Nietzsche. Quello che incontriamo in Solo è uno Strindberg lontano dai toni
veementi e dalle furie selvagge per cui è più conosciuto. Le sue proverbiali
invettive qui lasciano il posto a toni più sommessi, i suoi furori misogini
vengono messi in disparte per lasciare spazio a tormenti più intimi e personali.
Lo Strindberg brutale misantropo dei tanti drammi teatrali che ha scritto, il
tormentato visionario delle sue opere più autobiografiche si prende una pausa di
riflessione e preferisce volgersi verso le sfumature più sensibili del proprio
animo. In Solo Strindberg ha deposto la sciabola dell’invettiva per affidarsi al
fioretto della poesia. In queste poco più di cento pagine prima ancora del suono
della sua voce sentiamo i battiti del suo cuore.
Silvano Calzini
L'articolo “…e io stesso non esisto più”. Divorando il cuore di Strindberg
proviene da Pangea.
Di Mota, avevo sentito parlare. Del suo ventennio trascorso in solitudine sulle
montagne piemontesi, del suo alter ego che ha calcato le scene del rap,
dell’argomento spinoso su cui si impernia il suo testo. Ho provato a immaginare
quale difficoltà debba fronteggiare un autore nello sporgersi, e nell’esporsi
personalmente, sul ciglio di un abisso che in potenza è senza fondo, armato
soltanto delle proprie parole e del proprio coraggio. Quando la narrativa di
finzione arriva così vicina al punto di fusione con l’autobiografia, non c’è
niente da fare: la sfida la vinci o la perdi.
Conosco Mota nel caos di piazza Garibaldi, a Napoli, insieme al suo editor
Emiliano Peguiron, in una tarda mattinata di maggio, col sole che scalda e non
scalda. Pantaloni cargo, maglietta basica, berretto militare con visiera. Al
volo, ci imbarchiamo su un autobus sgangherato in direzione Pomigliano D’Arco. A
destinazione, ci attende l’ormai storica libreria Wojtek, roccaforte di lettori
preparati ed esigenti – una rarità, purtroppo, per lo stivale. In tangenziale,
col vento che rumoreggia attraverso i finestrini abbassati, saltano fuori
Houellebecq, Bergman e Vollmann, conveniamo che gli scrittori possano essere
“pugili o ex-pugili” e l’atmosfera subito si distende, prendendo inevitabilmente
corpo.
> “Di aguzzini e torturatori noi, in fondo, è come se ne avessimo bisogno. Non
> appena questi vengono meno, dileguandosi per forza di cose nel nostro passato,
> siamo pronti a sostituirli, a prendere il loro posto; assumiamo il loro ruolo,
> contro di noi. Continuiamo a ferirci, negandoci ogni diritto a una tregua,
> continuiamo a far del male a noi stessi, come se il virus con cui ci hanno
> infettati non potesse smettere di operare, richiedendo per sua natura una
> continua proliferazione, una mutazione inarrestabile. Il virus che sopravvive
> perché debellarlo sembrerebbe impossibile. E così, incrementando la nostra
> dipendenza, ci trasforma in molestatori e carnefici di noi stessi; non
> dobbiamo permettere che la familiare dose di mutilazione e castigo e
> sabotaggio vada perduta, e in mancanza di fonti esterne, dobbiamo
> somministrarcela da soli.”
Quella sera, nella tana dell’orso, nell’aria sulle teste della platea si
condensa un sottile stato di elettricità. I volti dei partecipanti, molti dei
quali hanno già affrontato il calvario della lettura, sono contratti, come
anneriti da un velo. Si avverte ciascuno mettere mano agli scaffali più oscuri
dell’anima e scavare, in segreto, nell’intimità delle proprie angosce
chiedendosi: cosa avrei fatto, se fosse successo a me? La risposta è una mano
fredda sulla fronte, gelida come il cadavere del buonsenso che quella domanda ha
appena ucciso.
L’incontro ha un carico emotivo a tratti insostenibile. Alcuni dettagli che Mota
decide di condividere da sotto la visiera del suo berretto, pescati direttamente
dalla sua esperienza, deflagrano come mine antiuomo all’interno della sala,
dando un peso specifico a un terrore che poteva vantare, fino a quel momento,
una certa dose di incorporeità. L’aberrante condotta del nonno. La disperazione
furibonda del padre. L’istantaneo omicidio di un’intera famiglia, il giorno in
cui, a molti anni distanza, Mota decide di confessare la verità dei fatti.
Squarciando il velo. Gettando la maschera. Le conseguenze sulla platea sono
evidenti.
> “Mi sto inoltrando verso il dormitorio in un’ombra più estesa e più fitta. A
> chi vuoi dirlo?, bisbiglia la voce piena di sangue, con quelle innumerevoli e
> minuscole gocce di sangue sulle corde vocali. Non voglio dirlo a nessuno,
> perché non c’è niente di sbagliato, forse lui ha davvero rischiato di morire
> ma io non ho fatto nulla di male. Non vuoi dirlo a nessuno? Neanche a te
> stesso? No. E allora lui ha vinto.
>
> Davvero? Domani farò colazione. E sì che racconterò tutto, ma solamente a
> Martin e a Vanessa. Domani, quando ci sveglieremo, faremo colazione. Con i
> biscotti e il latte freddo, in modo che i biscotti inzuppati solo per un
> attimo non diventino molli e restino comunque croccanti e piacevoli da
> mordere, e non vadano a formare quella poltiglia sul fondo della tazza.”
Di rado capita, specie nel nostro anemico panorama letterario, di trovarsi di
fronte a un’opera che obblighi a un tour nell’abiezione prima dell’uscita, che
sia in grado di far sanguinare il lettore anziché leccargli l’ego; un’opera il
cui tema risulti tanto scomodo, scivoloso, inospitale, e solitamente relegato a
semi-taciuti o presto insabbiati scandali ecclesiastici, da poter essere
ritenuto respingente. Anzi, si potrebbe affermare che l’abuso minorile sia una
di quelle dispute in cui è meglio non immischiarsi (non giova agli affari) o su
cui soprassedere, facendo finta di niente.
La Luce Inversa rifiuta categoricamente di volgere altrove lo sguardo, di
schierarsi a favore di un glissato troppo spesso in voga nei corridoi delle sedi
istituzionali. I suoi contenuti non risparmiano niente al lettore. I dettagli
anatomici. Le pratiche di adescamento e stupro. Le secrezioni. Le cantine
maleodoranti. La necrosi dei rapporti di forza relazionali su cui un individuo
può, in condizioni, per così dire, sane, fondare la propria identità. Nessuna
edulcorazione. Nessuna salvezza.
Vanessa, Siddiq e Martin sono gli incolpevoli protagonisti delle storie di
violenza infantile che raccontano e nella così detta “camera a luce inversa”
partecipano all’esperimento terapeutico di regressione della dott.ssa
Hollis. Con uno stile lirico ad alto contenuto immaginifico (si odono gli echi
dei Canti di Maldoror, di Lautréamont), Mota ci costringe a guardare laddove è
più buio. Laddove in eterno muore ogni possibile redenzione. Pur non rinunciando
al montaggio e a un certo gusto dickiano per la science–fiction, la lingua si
dispiega sulle pagine, alta, agile e ricca, dilatandosi, dagli abusi al mare,
dalla “casa tra le nuvole” alle remote galassie interstellari, come gas da
inalare d’un fiato, fino in fondo, fino a imparare, anche noi, per interposta
persona, la tecnica maestra per scarnificare le pareti organiche dei nostri
inferni privati.
> “ […] gli disse che tutto questo era capitato anche a lui molto tempo prima e
> che un altro vecchio ormai morto aveva fatto con lui le stesse cose che adesso
> lui stava facendo con il bambino che erano le cose più normali che potessero
> accadere tra due come loro due così legati e analoghi e necessari e obbligati
> lì a esserci l’uno per l’altro che tutto si ripeteva allo stesso modo da
> generazioni che era una specie di insegnamento e di trasmissione e non
> bisognava averne paura e allora il bambino disse va bene nonno e smise di
> singhiozzare e più tardi disse al vecchio che aveva freddo ma proprio attorno
> allo zero assoluto il vecchio continuava a cantilenare delle cose più normali
> che potessero accadere e poi di colpo il vecchio cambiò modalità strisciò
> sulle ginocchia ripercorrendo il materasso in direzione del muro trafficando
> con la cintura dei pantaloni al centro del contagio di luce sospesa si slacciò
> i pantaloni e poi slacciò la bocca del bambino spingendo con un dito sul mento
> e con l’altro sul labbro superiore mentre con una spalla appoggiata al muro
> […]”
Per quanto abbiamo disimparato a sentirci coinvolti negli orrori e nei genocidi
che, nel silenzio complice dell’Occidente, il nostro tempo pubblicamente
sbandiera, se esiste un modo di “superare” la lettura de La luce inversa è
quello di prendere sulle nostre spalle un pezzo di abominio. Farci carico di un
brandello di questo dolore e smettere di sentirci intoccabili davanti all’altare
del trauma. Consideralo un neo comunitario.
Quando usciamo dalla tana dell’orso, dopo due lunghe ore di indagini del
baratro, restiamo per un attimo fermi, sotto a un cielo che nel frattempo si è
fatto scuro. Il libro, sul ring della lotta per la sopravvivenza dell’individuo,
vince la sfida per knock-out. Chissà se, come consorzio umano, riusciremo a
vincere mai, almeno ai punti.
Vincenzo Montisano
*In copertina: Anselm Kiefer, Schnee, 1995-2012
L'articolo Il nostro bisogno di torturatori. “La Luce Inversa”: storia di un
libro devastante proviene da Pangea.
Forse, fra i lettori, proprio coloro che provano una certa inquietudine al
pensiero di ritrovarsi su un aereo e dover volare, spesso loro malgrado,
finiscono per apprezzare maggiormente i racconti e i romanzi dedicati a questo
strano desiderio umano di “staccare l’ombra da terra”. Siamo, o siamo stati,
tutti lettori appassionati di Saint-Exupéry nonché, in tempi più recenti, di
quel notevolissimo e sfortunato scrittore – sfortunato come uomo, ma fortunato e
talentuosissimo come scrittore – che è stato Daniele Del Giudice.
Il mondo degli aerei e dei piloti torna prepotentemente in primo piano
nell’opera di un altro grande scrittore del Novecento, lo statunitense James
Salter, ancora troppo poco conosciuto da noi, benché Guanda ne abbia pubblicato
quasi tutta l’opera. Di Salter ricorre ora un doppio anniversario: cent’anni
dalla nascita, avvenuta il 10 giugno 1925 e dieci dalla morte, il 19 giugno
2015, subito dopo il compimento dei novant’anni. Una vita lunga e, come vedremo,
anche complessa, a cui non corrisponde la mole di pubblicazioni che ci si
potrebbe forse aspettare. In termini quantitativi l’output è stato nell’insieme
modesto, insomma, ma se si passa, come si dovrebbe, a una valutazione
qualitativa, il discorso cambia radicalmente, perché Salter è da considerarsi
una figura di assoluto spicco nella letteratura statunitense del secondo
dopoguerra. La sua scrittura, scrive John Irving nella postfazione all’edizione
italiana di A Sport and a Pastime(Un gioco e un passatempo, edito da Rizzoli nel
2006 e riproposto da Guanda nel 2015) – un titolo, sia detto per inciso, tratto
curiosamente da una sura del Corano – “trasforma i suoi libri, romanzi o memorie
che siano, in risultati letterari eccezionali”, tanto che qualunque scrittore
contemporaneo “si sentirà umiliato dalla sua lingua”.
Nato nel New Jersey, all’età di appena due anni Salter, che in realtà si
chiamava James Arnold Horowitz, segue la famiglia a Manhattan, e New York
diventa la sua città, la città in cui frequenta anzitutto le scuole superiori
(fra i compagni di scuola si annoverano fra gli altri Julian Beck e Jack
Kerouac), pubblicando le prime poesie, a suo dire terribili, sul giornalino
scolastico. È uno studente brillante e molto portato per le materie
scientifiche, e al momento della scelta dell’università, indeciso fra il MIT e
Stanford, si lascerà convincere dal padre, un ex militare, a entrare – siamo nel
1942 – all’Accademia militare di West Point. Si arruola poi nell’aviazione, ma
nel frattempo si laurea e ottiene anche un master alla Georgetown University, e,
dopo alcuni incarichi nelle Filippine, in Giappone e alle Hawaii, partecipa alla
guerra di Corea eseguendo un centinaio di missioni di combattimento nei cieli
coreani. Da questa esperienza ricava nel 1956 il suo primo romanzo, The
Hunters (Per la gloria, Guanda, 2016), che per non dare nell’occhio fra i
commilitoni pubblica con lo pseudonimo di James Salter, nome che in seguito
deciderà di adottare anche nella vita civile. Da The Huntersverrà anche tratto
nel 1958 un fortunato film con Robert Mitchum.
Segue nel 1961 The Arm of Flesh, ripubblicato quasi quarant’anni dopo con varie
modifiche e con il nuovo titolo di Cassada, un altro romanzo incentrato sulle
sue esperienze di pilota, ma ambientato stavolta alla base aerea di Bitburg, in
Germania. Nel frattempo, tuttavia, Salter ha capito che, se davvero vuole
dedicarsi alla letteratura, deve cambiare vita. Un segnale di una possibile
crisi esistenziale, a ben vedere, si coglie già in alcune pagine di Per la
gloria (cito qui dalla traduzione di Katia Bagnoli) che sembrano attagliarsi a
chiunque vada in pensione o smetta un’attività:
> “Fare parte di una squadriglia era una sintesi dell’esistenza. Quando arrivavi
> eri un bambino. C’erano opportunità infinite, e tutto era nuovo. Gradualmente,
> quasi senza rendertene conto, i giorni degli studi faticosi e del piacere
> erano finiti, avevi raggiunto la maturità; e poi all’improvviso eri vecchio, e
> volti e persone nuove che faticavi a riconoscere ti spuntavano intorno in
> fretta, fin quando scoprivi di non essere più il benvenuto fra loro perché
> tutti quelli che avevi conosciuto e con cui avevi vissuto se ne erano andati e
> la guerra non era diventata altro che una serie di ricordi incondivisibili di
> eventi avvenuti tanto tempo prima.”
Salter lascia quindi l’aeronautica e per guadagnare qualcosa si dà alle
sceneggiature di film e documentari, vincendo anche un premio alla Mostra di
Venezia del 1962, scrivendo nel 1969 la sceneggiatura di un film ambientato a
Roma, L’appuntamento, diretto da Sidney Lumet e interpretato da Anouk Aimée e
Omar Sharif, e collaborando, fra gli altri, con Robert Redford, per il quale
scrisse la sceneggiatura di Downhill Racer(Gli spericolati). Quest’ultimo
tuttavia infine rifiutò, perché il protagonista gli sembrava troppo riservato e
inadatto a lui, la sceneggiatura per un altro film, Solo Faces, incentrato sul
mondo degli scalatori, che lo scrittore decise in seguito di trasformare in un
romanzo, uscito nel 1979. Romanzo che diventerà un libro di culto nell’ambiente
appunto degli appassionati di quello sport.
Ma la strada di Salter è decisamente quella della narrativa pura, e se sarà
ricordato, come credo e spero, ciò avverrà grazie a una manciata di romanzi e
volumi di racconti che hanno rappresentato un’alternativa forse minoritaria, ma
non per questo meno presente e proficua, rispetto alla tradizione prevalente
nella recente letteratura statunitense, quella delle narrazioni fluviali, da
Bellow a Roth, da Updike a Mailer, da Ford allo stesso Irving, e oggi da De
Lillo a Franzen. Tanto divergente è potuto sembrare a molti critici il suo
cammino che Salter è stato presto bollato come atipico ed “eurocentrico”, il che
forse non è del tutto errato, se si pensa ai forti legami da lui intrattenuti
con diverse letterature europee, e in particolare con quella francese (per un
periodo ha anche vissuto a Parigi). Dagli scrittori europei Salter mutua forse
la riflessione sulla letteratura come modalità di vita, e la sua forza sta nel
far sì che, grazie a un instancabile lavoro di cesello, ogni sua opera, dal
romanzo più corposo al più breve dei racconti, sia un piccolo o grande
capolavoro. Nei suoi quasi sessant’anni di attività come scrittore, da The
Hunters all’ultimo romanzo uscito nel 2013, All That Is (Tutto quel che è la
vita, Guanda, 2015), Salter ha saputo mantenere inalterata nel tempo la tensione
e la profonda meditazione che si avverte dietro ogni sua pagina, ogni paragrafo,
persino ogni frase da lui formulata – quella che considerava, cioè, la vera
unità di misura della narrativa. A proposito della sua frase, appunto, e di
quanto sia ben tornita, Richard Ford ha scritto una volta che “It is an article
of faith among readers of fiction that James Salter writes American sentences
better than anyone writing today” (“È articolo di fede tra i lettori di
narrativa che James Salter scrive oggi frasi americane meglio di chiunque
altro”).
Grande estimatore delle metafore, Salter riesce quasi sempre a stupire, a
coniarne di nuovissime. Per farmi capire meglio prendo, praticamente a caso, un
suo paragrafo, uno dei tanti che potrei citare, l’inizio del secondo capitolo
di Una perfetta felicità (nella traduzione di Katia Bagnoli). Ecco cosa scrive:
> “Era l’autunno del 1958. Le bambine avevano sette e cinque anni. Sul fiume,
> del colore dell’ardesia, si riversava la luce. Una luce morbida, un’indolenza
> divina. In lontananza il ponte nuovo scintillava come una dichiarazione
> d’intenti, come un’affermazione che in una lettera costringe chi legge a
> soffermarsi.”
Un paragrafo praticamente perfetto.
Scrivere, cancellare e riscrivere continuamente, questa la sua tecnica,
acquisita quando i computer non esistevano ancora, ma mantenuta poi anche in
seguito, a garanzia di una ricerca incessante e faticosa dell’espressione
migliore, più calzante. Diceva di odiare quanto sgorgava direttamente dalla
mente, e che l’unico piacere dello scrivere consisteva in realtà nel correggere
e riscrivere. A questa inclinazione artigianale Salter univa una grande
curiosità per gli altri e per il mondo, che gli consentiva di archiviare prima
nella sua mente e riutilizzare poi nelle sue storie impressioni e frammenti di
discorsi accumulati nei decenni, giungendo il più delle volte, come ha
confessato, a creare personaggi che sono spesso un originale collage di diverse
persone reali, colte in una battuta o in un singolo atteggiamento. Sebbene
qualche critico abbia definito il suo stile impressionistico, o addirittura
affine al pointillisme in pittura, Salter ha regolarmente sottolineato di aver
voluto solo e sempre ricercare la massima chiarezza, insistendo non tanto sulle
grandi teorie, quanto sulle gioie e sulle asperità della vita quotidiana.
La sua abilità nel descrivere la passione sentimentale e sessuale – ne è un
esempio evidente A Sport and a Pastime –, così come la pulsione di ciascuno di
noi verso le novità e il cambiamento, palesa uno studio appassionato di diversi
antecedenti letterari, fra cui Salter stesso ha sempre annoverato un altro
militare, Isaac Babel’, ma anche Gogol’, Gide, Kawabata, Nabokov, Karen Blixen,
Thomas Wolfe e Marguerite Duras. Uno studio, peraltro, ravvicinato e intenso,
senza limitazioni o timori reverenziali, fondata sull’augusta e oggi troppo
frettolosamente abbandonata pratica della mimesi.
Con Light Years, del 1975 (tradotto in italiano da Guanda nel 2015 con il
titolo Una perfetta felicità),Salter riesce a raccontare con un’ispirazione
felicissima e uno stile ellittico e obliquo una storia, d’amore prima e di
bruciante separazione poi, basandosi sulla convinzione più volte espressa che
nella vita non conti tanto la realtà oggettiva, quanto la memoria, i ricordi che
riusciamo a strappare all’oblio. Scriverne e descriverli è anzi l’unico modo per
farli e farci vivere ancora. “There is no complete life,” sostiene. “There are
only fragments” (“Non esiste la vita completa, ci sono solo frammenti”). Ma la
forza del libro sta anche nella sua capacità di descrivere le conseguenze della
dissoluzione di una famiglia per tutti i suoi componenti e di farci entrare con
discrezione, ma anche con consumata maestria, nella mente dei protagonisti: la
bella, sofisticata e confusa Nedra, avvinta dalla lettura della biografia di
Alma Mahler, e il marito Viri, un architetto ebreo elegante e a suo modo
romantico – ebreo proprio come quel Salter il cui matrimonio andrà in pezzi poco
dopo la stesura del libro. Ma d’altra parte in Salter l’autobiografia, seppur
ben dissimulata, è sempre in agguato: la storia d’amore torrida con la ragazza
francese di A Sport and a Pastime è tratta di peso dalle sue esperienze
personali, e la vita, fra il divorzio, la morte improvvisa di una figlia in
circostanze drammatiche e le malattie che contrappuntano l’avanzare dell’età,
non lo ha certo risparmiato. Ma nelle sue opere ha saputo sempre evitare
qualsiasi tentazione di ripiegamento su sé stesso e di sentimentalismo.
Sulla fine di un amore tornerà anche con il bellissimo racconto che dà il titolo
alla raccolta Dusk and Other Stories, uscita nel 1988 (Crepuscolo e altre
storie, Guanda, 2022), racconto seguito da una serie di altre piccole gemme. Il
libro otterrà il PEN/Faulkner Award, un premio di grande prestigio. Lo stesso
livello qualitativo si riscontra senz’ombra di dubbio nella seconda raccolta,
dal titolo Last Night, che esce nel 2005 (L’ultima notte, Guanda, 2018).
In Burning the Days, del 1997 (Bruciare i giorni, Guanda, 2018), che è invece
una specie di memoir o autobiografia per frammenti, in cui si muove senza alcuna
remora da un periodo all’altro della propria vita, lo scrittore spinge ancora
oltre l’idea della reminiscenza come (unica) base della narrazione. Anche in
questo caso Salter sfugge all’assillo, secondo lui deleterio, di dover evocare
tutto e ribadisce invece il proprio diritto al parziale silenzio, alla cernita,
alla scelta, che oltre tutto ha il potere di stimolare la collaborazione del
lettore, la cui curiosità a volte inappagata diventa un asse trainante del
libro.
James Salter (1925-2015)
Una curiosità per chiudere. Come il nostro Filippo Tuena, che ha voluto dedicare
al cocktail Martini un libro collettaneo uscito qualche anno fa per Nutrimenti,
anche Salter ne è stato per tutta la vita un adepto. Una volta calcolò quanti
Martini aveva bevuto in vita sua, e giunse alla conclusione che dovevano essere
all’incirca ottomilasettecento. Dev’essere, questa predilezione per il cocktail
Martini, un’altra caratteristica degli scrittori di oggi, almeno dei più
interessanti: qualcuno, prima o poi, potrebbe farne magari l’argomento di una
tesi di laurea.
Raoul Precht
*In copertina: poster di Downhill Racer (“Gli spericolati”), 1969, film di
Michael Ritchie, scritto da James Salter, con Robert Redford e Gene Hackman
L'articolo James Salter o della scrittura come cocktail Martini proviene da
Pangea.
L’umidità, le escrescenze di nebbia, il sole a brandelli, un sole lebbroso e
inguaiato di guaiti: tutto consegna Orbassano, pallida periferia torinese, alla
savana. Da un momento all’altro, nel latteo parco che congiunge, con minuzia da
sarta, il cimitero alle palazzine di fresco conio, sbucherà un leone.
Le montagne, alle spalle, visibili appena, per bianchi picchi – restano Alpi ma
sembrano il Kilimangiaro.
Eppure, sono le cornacchie (Corvus cornix) a dominare gli apparati cittadini e
le abitudini orfiche degli abitanti. Sono loro, ovunque, a spiarci – presto, ci
soppianteranno: la loro intelligenza è violenta. Nel disastro nebbioso, sono
iene.
*
Mi madre amava La mia Africa; io ho amato Karen Blixen. Nella biografia di Ole
Wivel, Karen Blixen. Un conflitto irrisolto – stampa Iperborea; ma per capire
qualcosa su Karen Blixen bisogna leggere la biografia di Rossella Pretto (Karen
Blixen. Il coraggio, l’amore e l’ironia), edita di recente da Ares –, non per
forza bella, spiccano alcune fotografie di Karen da giovane: è più affascinante
di Meryl Streep. Anche Denys Finch-Hatton, audace rampollo dell’antica
aristocrazia inglese, educato a Eton, capace nel volo, spicca, nelle rare
fotografie, con uno sguardo magnetico non inferiore a quello – più pittorico ma
meno pittoresco – di Robert Redford.
Ad ogni modo. Seduto sul balcone della casa popolare di mia madre, mi sembra di
essere in “una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong”.
*
I libri di Karen Blixen sono tra i rari cimeli della biblioteca di famiglia,
quando stavamo in un’altra casa, da ospiti, opliti alle incurie parentele. La
casa, della fine dell’Ottocento, aveva un giardino con matrona magnolia in mezzo
– un alto cancello mi separava dal mondo. Non era difficile sognare l’Africa –
la biblioteca pareva un baobab.
Resiste, dalla dispersione di tutto, alla persecuzione del fato, la maschera di
legno di un guerriero giapponese – di chi sia e da dove provenga lo ignoro.
*
La mia Africa, per la avventuriera singolarità, mi è sempre parso un libro
meraviglioso. A differenza di Hemingway, che racconta l’Africa con la tempra
dell’uomo nuovo, del disperso disperato, Blixen mantiene un aplomb micidiale nel
dire le bestie e i boschi, le savane e i safari. La nostalgia con cui intride le
frasi è quella di una divinità antica, nordica, priva di compassione,
consapevole che di quel sole australe puoi nutrirti una volta per sempre – dopo
averlo dissanguato, resta una conchiglia, l’eco di evi. È vero, Le nevi del
Kilimangiaro è il racconto onnipossente di Hemingway, ma alcune pagine de La mia
Africa non sono meno belle – ‘Papa’ lo sapeva, e ricamò, in pubblico, più volte
la sua ammirazione per Karen.
Nella veranda, a Orbassano, sognando un Africa che non vedrò mai, ho letto le
pagine in cui Blixen racconta una battuta di caccia ordita con Finch-Hatton: i
leoni stavano ammazzando diverse bestie della sua mandria.
> “L’aria del primo mattino, sugli altipiani d’Africa, è fresca e così
> palpabilmente frizzante da spingerci di continuo alla stessa fantasticheria:
> pare di trovarsi non sulla terra ma immersi in una profonda acqua scura e di
> avanzare sul fondo del mare”.
Da qualche parte, mi pare, Karen Blixen ha scritto che il senso della vita è
nella sua insensatezza – che per questo è bene vivere sempre nell’anatema e nel
rischio.
Senza sfoggio di aggettivi, con l’accuratezza di chi sa infierire, con astuzia,
nel linguaggio – disinnescando trappole e confessioni –, Blixen racconta di una
caccia notturna con Denys, tra le latebre, maneggiando una lanterna che potremmo
chiamare Delfi.
> “L’Africa, di colpo, divenne sconfinatamente grande, e Denys e io, lì, in
> piedi, infinitamente piccoli. Non c’era che buio oltre la luce della lampada.
> Nel buio due leoni caduti in due punti diversi, e dal cielo la pioggia. Ma
> quando il rantolo si spense, niente si mosse più”.
Chi può uccidere il figliastro del sole? Karen ha difeso la propria fattoria –
che andrà in disastro, comunque, secondo i precordi del destino, poco dopo.
*
Per scampare alle malie della periferia, bisogna sognare i leoni.
Sono le cornacchie, piuttosto, a ripotarmi al vero – la calura infetta i giochi
dei bambini, in basso: in due su una jeep giocattolo; in tre con la palla. Un
molosso, dalle siepi, abbaia; il padrone sbraita; tutto vive per consunzione.
Ballata per piccole iene esce nel 2005; Manuel Agnelli ha leonina la voce;
l’ascolto più tardi, in autostrada, come un’appendice alle memorie di Karen
Blixen. “Fra piccole iene/ Anche il sole sorge/ Solo se conviene…”. Preferisco
questo brandello, che sa di un amore moribondo:
> “Aiutami a trovare
> Qualcosa di pulito
> Uccidi, ma non vuoi morire
> Uccidi, ma non vuoi morire”.
Cosa c’è di pulito nell’amare? Amare è un effluvio di carcasse. Pulire cioè:
eliminare le scorie; dare alle ossa tornitura di tuono. Che le ossa brillino,
allora, come un collier.
Karen Blixen (1885-1962)
*
Ma prima c’era qualcos’altro, non per forza attinente. Qualche giorno fa, in
liturgia, la Seconda lettera ai Corinzi: “Noi tutti, svelati nel volto alla
gloria di Dio, vedendo come in uno specchio la sua immagine, veniamo trasformati
in essa, di gloria in gloria, dallo Spirito di Dio” (3, 18). Il testo
contrappone il velo allo specchio, la legge alla libertà, l’icona
all’idolo. Esoptron è uno specchio metallico, non vitreo; Paolo usa lo stesso
termine in 1 Cor 13,12 dicendo qualcosa di diverso: “Adesso noi vediamo
nell’enigma, come attraverso uno specchio; allora [vedremo] faccia nella
faccia”.
Nel primo caso, lo specchio è il tramite per trasformarsi in Dio; lo specchio è
come la placenta del Volto – nel secondo caso, lo specchio è un enigma.
Nella Bibbia, lo specchio è citato di rado: soltanto sei volte; soltanto tre nel
Primo Testamento.
Chissà se Paolo conosceva la leggenda dello “specchio [katoptron] di Dioniso”.
> “Dioniso, dopo aver posto la sua immagine nello specchio, la seguì e fu
> infranto nel Tutto”.
Così scrive Olimpiodoro, e così commenta Angelo Tonelli: “Dioniso è l’Assoluto
che si fa molteplice frammentandosi in una pluralità di riflessi o apparenze che
originano perpetuamente da esso” (in: Negli abissi luminosi. Sciamanesimo,
trance ed estasi nella Gracia antica, Feltrinelli, 2021).
I termini in contrasto sono immagine e immaginazione, riflesso e riflessione,
somiglianza e idolo. Se l’uomo, fatto ‘ somiglianza’, confida nel proprio
riflesso, è incarcerato dallo specchio, suo trono e patibolo.
Da un lato – Dioniso – il dio è puntiforme, si dissemina in frammenti (“Per
questo dicono anche che Efesto fabbricò uno specchio per Dioniso e che il dio
guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla
fabbricazione di tutta la pluralità”: così Proclo). Dall’altro, Dio è davvero
nello specchio, è l’uno e non il molteplice, è l’enigma e la sua soluzione: lo
specchio è il punto d’ustione del sole. Trasformarsi: incenerire il viso,
incendiare l’identità ‘specchiata’ per tradursi in quella veritiera. Farsi
fuoco. Nati incendio.
Rompere lo specchio – evento dionisiaco – prevede spargimento di sangue;
penetrare nello specchio – evento paolino – è affondare in un lago, sprofondare.
Serviranno branchie.
*
Per un attimo, la periferia torinese ha rispecchiato la mia idea di Africa – per
un po’, mia madre è stata lo specchio di Karen Blixen, la scrittrice in cui si è
specchiata Meryl Streep. Due specchi contrapporti – diceva Borges – creano un
labirinto: ci rendono infiniti, infinitamente prigionieri.
La vicina di casa si rifiuta di possedere specchi: li ritiene di malaugurio,
come un vento nefasto, pieno di insetti. Vorrebbe dimenticarsi di sé – non abusa
di veli né di velami.
*In copertina: Eugène Delacroix, Studio di leoni reclini, 1860 ca.
L'articolo I leoni in città. Ovvero: “La mia Africa” nella calura piemontese o
dell’arte di rompere gli specchi proviene da Pangea.
> “Stranamente ho conosciuto Glenn sul Mönchsberg, il monte della mia infanzia.
> Veramente lo avevo già visto al Mozarteum, ma con lui non ho scambiato una
> sola parola prima di quell’incontro sul Mönchsberg, chiamato altresì monte del
> suicidio perché si presta al suicidio come null’altro al mondo, e infatti
> tutte le settimane si scagliano da quel monte nell’abisso almeno tre o quattro
> persone. I suicidi salgono fino in cima con l’ascensore scavato nel cuore
> della montagna, fanno un paio di passi e poi si scagliano giù nella città”.
>
> (Thomas Berhard, Il soccombente, Adelphi 1985, pag. 15)
La mattina del 10 giugno, martedì, dieci persone sono state ammazzate e una
trentina ferite a colpi d’arma da fuoco all’interno dell’istituto scolastico
Borg di Graz, in Austria. A sparare, un ex studente di 21 anni che dopo la
mattanza è andato a uccidersi in uno dei bagni. Il motivo di questa furia
omicida è stato ascritto a una vendetta definitiva contro gli atti di bullismo
subiti in quella scuola, che non gli avrebbero permesso di concludere gli studi:
il giovane si sarebbe trasformato in una sorta di «collettore di ingiustizie»,
che assolutizza le angherie subite e le pone come termine finale di un’esistenza
completamente sfigurata.
In questi giorni, dunque, si è tornati a parlare di Austria, un universo poco
frequentato dalle nostre cronache, che raramente offre spunti per osservazioni e
discussioni di qualche spessore, tendendo a relegarsi in un grigio identitarismo
di stampo turistico; in genere, chi anela a suggestioni cultural-sentimentali da
cercare nel corpo del nostro continente guarda ad altre capitali: dire “vado a
Parigi”, “vado a Berlino” o “vado a Praga” non può suonare come “vado a
Vienna”. Vienna può rappresentare soprattutto il crogiolo di nostalgie
letterarie riferite a più di un secolo fa, in tempi che non torneranno, quando
la Felix Austria viveva l’epoca incantata di movimenti artistici e letterari che
guidavano l’evoluzione culturale europea – il bellissimo Il mondo di ieri di
Stefan Zweig ne è testimonianza commossa –, prima che la grande carneficina
moderna annientasse il sogno mitteleuropeo facendone palinsesto.
Quindi oggi, andando al brano riportato in epigrafe – pianamente foriero di
suicidi –, facciamo conoscenza con il Mönchsberg, uno dei cinque monti di
Salisburgo, la città che, prima di significare Wolfgang Amadeus Mozart,
significa Austria, della quale il grande Thomas Bernhard ha dato ritratti così
politicamente scorretti da rasentare il sublime. Come ha fatto ne Il
soccombente – di cui Pangea si è già occupata –, quel romanzo stupefacente e
feroce che, dopo i primi tre capoversi, si lancia per centottantasei pagine
senza più andare a capo, senza guardarsi indietro se non per riagganciare i fili
portanti, senza discriminare la storia in sezioni o digressioni, mantenendo quel
blocco granitico di dura eloquenza martellante senza fare sconti, in un
susseguirsi pressoché ininterrotto di “pensai”:
> “Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del
> pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai
> mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer,
> ma è morto, come si suol dire, di morte naturale.
>
> Quattro mesi e mezzo a New York suonando e risuonando le Variazioni
> Goldberg e L’arte della fuga, quattro mesi e mezzo di Klavierexerzitien, come
> Glenn Gould ripeteva di continuo e solo in tedesco, pensai”.
Tutto comincia quando il narratore e il suo amico Wertheimer si iscrivono al
corso tenuto a Salisburgo dal gigante Vladimir Horowitz, dal quale imparano “più
che negli otto anni precedenti al Mozarteum e alla Wiener Akademie”. Lì
stringono amicizia con il canadese Glenn Gould: l’incontro fatale che devierà
definitivamente le loro vite. Mentre loro due sono pianisti brillanti e
promettenti, Glenn Gould è la musica, è il pianoforte, èl’invasamento per
l’arte. L’improvvisa e brutale consapevolezza di non essere capaci, né ora né
mai, di suonare come Glenn Gould spinge entrambi ad abbandonare il loro
strumento: “Wertheimer mise all’asta al Dorotheum il suo pianoforte a
coda Bösendorfer, mentre io un giorno, per evitare che il mio Steinwayseguitasse
a tormentarmi, lo regalai alla figlia di nove anni di un maestro originario di
Neukirchen presso Altmünster”. Il modo in cui il narratore si libera del suo
prezioso pianoforte è perfidamente perverso:
> “Nemmeno per un attimo avevo creduto al talento di sua figlia; di tutti i
> bambini che vivono in campagna i maestri dicono che hanno del talento, talento
> per la musica soprattutto, e in realtà invece non hanno il minimo talento,
> sono tutti bambini assolutamente privi di qualsiasi talento, e il fatto che
> uno di loro soffi in un flauto o pizzichi una chitarra o strimpelli su un
> pianoforte non dimostra ancora che abbia del talento. Sapevo di consegnare il
> mio prezioso strumento a una persona totalmente inetta, proprio a questo scopo
> lo avevo fatto portare nella casa di quel maestro. In brevissimo tempo la
> figlia del maestro ha mandato in rovina e reso inservibile il mio prezioso
> strumento, uno dei migliori strumenti in assoluto, uno dei più rari e dunque
> dei più ricercati e dunque anche dei più costosi strumenti che ci siano”.
Ma volevamo dire dell’Austria. In una narrazione fluida e incontenibile,
Bernhard ci racconta che esporsi al clima prealpino di Salisburgo rende
semplicemente psicopatici, e se non ci se ne allontana per tempo si finisce per
diventare ottusi come gli indigeni, che con la loro bruta ottusità annientano
tutto ciò che è diverso da loro. Il flusso di ragionamenti del protagonista
s’incardina nel suo fare ingresso nella locanda dove intende fermarsi per
partecipare al funerale dell’amico che si è suicidato, Wertheimer: mentre entra
nel locale inanella una ridda di considerazioni concatenanti che durano pagine e
pagine, lungo i momenti in cui oltrepassa la soglia e si ferma a guardarsi
intorno. “In Austria le locande sono tutte sporche, luride e davvero disgustose,
pensai, è raro che in una di queste locande si riesca ad avere sul tavolo una
tovaglia pulita, per non parlare di un tovagliolo di stoffa, che in Svizzera è
dovunque assolutamente usuale”. Perfino gli alberghi austriaci sono sozzi e
disgustosi, dove spesso si limitano a stirare lenzuola già usate, e nemmeno
tolgono i ciuffi di capelli lasciati nel lavandino; neppure le stoviglie e le
posate sono pulite. La padrona della locanda, ovviamente, è sciatta, lurida e
trasandata; quando il narratore, nell’attesa, si avvicina alla finestra della
cucina sa già che non vedrà un bel niente, perché la finestra è incrostata da
cima a fondo. “Tutte le finestre delle cucine austriache sono sporchissime e
attraverso di esse non si vede niente, e questo, pensai, è naturalmente un
grandissimo vantaggio, perché in caso contrario si guarderebbe direttamente
dentro la catastrofe, nel lurido caos delle cucine austriache”. E pare che
Wertheimer abbia dormito più di una volta con la padrona della locanda,
“naturalmente, a quanto si racconta, nella locanda di lei e non nel casino di
caccia di lui”.
Wertheimer, il suicida, viene letteralmente travolto dalla dinamica feroce
dell’emulazione verso l’inarrivabilità di Glenn Gould, il genio compagno di
studi che un giorno, con noncurante plasticità, lo ha definito “il soccombente”
– ovvero un uomo “da vicolo cieco”, come preferisce qualificarlo il narratore,
perché ogni volta che Wertheimer usciva da un vicolo cieco entrava in un altro
vicolo cieco, dalla casa di Traich a Vienna, da Vienna a Salisburgo, e anche il
Mozarteum era stato un vicolo cieco, e così pure la Wiener Akademie, e infine
tutti gli anni di studio del pianoforte. “Il nostro soccombente è un esaltato”,
aveva detto Glenn una volta, “quasi ininterrottamente è lì che muore di
autocommiserazione”. Glenn, praticamente, ha capito Wertheimer dal primo
istante, così come ha capito a fondo fin dalla prima volta tutte le persone che
ha conosciuto.
> “Non c’è niente di più tremendo che vedere un essere umano il quale è talmente
> grandioso che la sua grandiosità ci annienta, e mentre noi questo processo lo
> osserviamo e lo sopportiamo e alla fin fine non possiamo far altro che
> accettarlo, in realtà non crediamo affatto a questo processo, e rimaniamo
> increduli ancora per molto tempo, fino a quando, pensai, esso si trasforma ai
> nostri occhi in un fatto incontrovertibile, ma allora non c’è più niente da
> fare, per noi è finita”.
Come recita la quarta di copertina, il soccombere di Wertheimer “è un processo
sotterraneo, sottile, che lo distrugge, ma tende a distruggere anche gli altri.
Nella sua debolezza, ha il fascino pernicioso di chi attira gli altri nella
propria rovina”. Alla fine il soccombente ha fabbricato “una sorta di doppio
beffardo, un’ombra sfigurata della perfezione di Gould, quale ultima vendetta
della debolezza contro la grazia”. Tutto questo fluisce nella prosa di Bernhard
senza pause, in un monologo interiore vivace e iterativo, da flusso di coscienza
frenetico, chiarissimo e dettagliato, con le espressioni impeccabilmente
scolpite in modo quasi ossessivo, in una costruzione scenica sapiente che non
conosce pause, piena di rievocazioni considerazioni ricostruzioni dei fatti per
andare a ricercarne la genesi e le cause. Vediamo Wertheimer che recrimina
contro i genitori per averlo gettato nell’orribile ingranaggio dell’esistenza
che lo stritola, e spietatamente tiene la quarantaseienne sorella legata a sé
impedendole di crearsi una vita, proibendole ogni uscita dal guscio, e maledice
la fuga definitiva di lei che va sposare un magnate svizzero ricco sfondato –
che significa molto più ricco di un austriaco ricco: “mai avrei dovuto lasciarla
andare da quell’orrido internista Horch”, recrimina, perché era lì, dal medico,
che aveva conosciuto quell’abietto parvenu dello svizzero. In Svizzera, poi, c’è
dissoluzione dappertutto, rincara Wertheimer, fra i paesi d’Europa è il più
privo di carattere, e quando ci si trova lì sembra di essere in un bordello. Va
da sé che a Vienna Wertheimer non può che restare soffocato, divorato a poco a
poco da quei mostri dei viennesi, e l’Austria non può che annientarlo
definitivamente: da qui i vagabondaggi nelle proprietà di famiglia, la dimora di
campagna, nell’inutile ricerca di sé nelle scienze dello spirito, di frammenti
esistenziali, di implicazioni familiari, di stanze piene di solitudine e di
lontananza che rafforzano la sua convinzione dell’infelicità come condizione
esistenziale dell’uomo che non si può eludere.
Rievocazioni, testimonianze, visite, colloqui, scampoli di vita, ipotesi ed
elucubrazioni: un flusso di coscienza che dà impeto al racconto e si fa
ossessione da basso continuo su molti fronti. Vogliamo parlare dei cosiddetti
tribunali distrettuali austriaci? Ogni anno sfornano sentenze basate su errori
giudiziari, in modo da avere sulla coscienza una moltitudine di uomini innocenti
che scontano dure pene detentive, senza alcuna speranza di essere riabilitati, e
questo perché l’Austria è piena di giudici senza scrupoli e di giurati che
odiano l’umanità e che, per la propria infelicità e abiezione, si vendicano
sulle persone che cadono in loro balìa per qualche circostanza sciagurata.
Un’attività diabolica, quella dei tribunali austriaci, che quasi sempre resta
impunita.
Bene dice Clery Celeste quando definisce Il soccombente “un capolavoro
vertiginoso che vi spiega passo per passo come si scende nella scalinata della
mediocrità, dove sta la rinuncia, dove abita il tutto e il niente di un
musicista”. Con le esitazioni di Wertheimer e del narratore verso tutto e tutti,
abbiamo Glenn Gould che affronta ogni cosa con la semplicità della
sfacciataggine innata e diretta di chi semplicemente è, senza dover dimostrare
nulla. “Wertheimer aveva sempre paura che le forze non gli bastassero, Glenn non
immaginava neppure che qualcosa potesse essere superiore alle sue forze”. Quando
Wertheimer vede Glenn al primo piano del Mozarteum e lo sente suonare, rimane
bloccato davanti alla porta, e quella è la sua fine come pianista, anche se lo
capirà dopo anni. Una meta che viene scardinata appena Glenn siede al pianoforte
a suonare le prime note delle Variazioni Goldberg. Il genio Glenn che
vuole essere pianoforte, che per tutta la vita “aveva avuto il desiderio di
essere lo Steinway in sé, gli era odiosa l’idea di porsi solamente come
intermediario musicale tra Bach e lo Steinway e di essere un giorno stritolato
fra Bach e lo Steinway”. Riuscire a essere il pianoforte lo avrebbe esentato
dall’essere Glenn Gould, lo avrebbe reso felicemente superfluo, in un rapporto
finalmente assoluto con Bach.
> “Perfino Horowitz in mancanza di Glenn non sarebbe stato lo stesso Horowitz,
> quei due si condizionavano a vicenda. Fu un corso che Horowitz fece apposta
> per Glenn, pensai in piedi nella locanda, nient’altro che questo. Fu Glenn che
> fece di Horowitz il proprio maestro, non Horowitz che fece di Glenn il genio,
> pensai”.
La corrente narrativa di Bernhard, il suo stile, mantiene la linea diritta del
discorso fluviale che procede senza fermarsi e allo stesso tempo la rete
complessa del rizoma, quella formazione multidimensionale che può estendersi per
aggiunta e accrescimento oltre misura, con una struttura dinamica che spesso
itera le espressioni per ribadirne il peso, con connessioni continue e continue
correzioni di queste connessioni, che portano a conoscere gli aspetti parziali
di un tutto che va costruendosi in modo clamorosamente naturale. Una prosa che
tiene lontano quel senso di straniamento che, in altre condizioni, si potrebbe
innescare, lasciando libera e chiarissima la corsa naturale del racconto.
La prima edizione Adelphi de Il soccombente, del 1985, porta in copertina Donne
con teste floreali che trovano la pelle d’un piano a coda sulla spiaggia,
dipinto da Salvador Dalí nel 1936. Un pianoforte semi-liquefatto viene innalzato
a trofeo da enigmatiche muse che sembrano portatrici di annientamento, in un
fondale che richiama la celebre Monument Valley in Arizona. Ma l’immagine più
inquietante la troviamo nella successiva edizione economica, dove campeggia lo
sguardo allucinato di uno degli autoritratti spettrali di Léon Spilliaert, del
1907, conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique. L’atmosfera cupa,
che va dall’opprimente all’onirico, con la sua abbondanza di nero, ben
rappresenta la parabola autodistruttiva dell’antieroe Wertheimer, votato da
sempre all’infelicità e per questo affascinato dagli esseri umani nella loro
infelicità, avido di persone perché sapeva cogliere l’infelicità ovunque ci
fossero persone.
> “Nessuno sa più che sono stato un fanatico allievo del conservatorio, un
> fanatico virtuoso del pianoforte che si è misurato da pari a pari con Glenn
> Gould su Brahms e Bach e Schönberg. Ma se l’occultamento di questi fatti,
> pensai, è sempre stato per me soltanto un vantaggio in quanto si è sempre
> rivelato della massima utilità, questo medesimo occultamento ha danneggiato
> assai profondamente il mio amico Wertheimer (…). Tutto sommato, il fatto di
> aver studiato il pianoforte per me è sempre stato utile, e anzi direi
> decisivo, proprio perché nessuno ne è più al corrente, perché è un fatto
> dimenticato e perché io stesso lo tengo nascosto. Per Wertheimer, invece,
> questo stesso fatto è sempre stato motivo di infelicità, ininterrotto pretesto
> per la sua depressione esistenziale, pensai. Io suonavo molto meglio di quasi
> tutti gli altri allievi del conservatorio di musica, pensai, e il fatto di
> aver smesso da un momento all’altro mi ha reso forte, più forte di quelli,
> pensai, che non hanno smesso e che non suonavano meglio di me e che, da
> dilettanti quali erano, hanno trovato una via di scampo per tutta la vita nel
> farsi chiamare professori e lasciarsi insignire di decorazioni e onorificenze,
> pensai. Il mondo è pieno di imbecilli musicali che finiti gli studi accademici
> hanno per così dire intrapreso l’attività concertistica, pensai”.
Paolo Ferrucci
L'articolo Felix Austria, ovvero: sul talento cannibale di Thomas Bernhard (e di
Glenn Gould) proviene da Pangea.
Di solito, indossa ampi cappelli: il sigaro e la camicia larga conferiscono al
profilo un ardore à la Indiana Jones; l’entusiasmo, a vertigine, un certo
titanismo negli occhi, lo rendono, piuttosto, un soggetto degno di Friedrich, il
protagonista di un romanzo inglese dei primi del Novecento, di ampi porti in
luoghi esotici, arricchito da esoterici vagabondi. Di solito, alle spalle
di Guido Mina di Sospiro appaiono paesaggi suggestivi: liane amazzoniche, templi
minoici, canyon. Nato in Argentina da famiglia di alto lignaggio, studi a
Milano, vita negli Stati Uniti, una volta mi ha scritto dal Giappone – o dalla
Patagonia, non ricordo. Ha una casa a Todi, a cui approda, di tanto in tanto. Ha
praticato come musicista – tra l’altro, con l’ungherese Miklós Rózsa, tre volte
Oscar “alla migliore colonna sonora” – e come cineasta – Heroes and Villains,
cercatelo in rete, è stato realizzato con un gruppo di amici nel 1978 –; ha
scritto tanto. La sua vita furibonda nella California degli anni Ottanta rimanda
ai romanzi di Bret Easton Ellis: Guido non lo ha letto, e con rabbiosa
schiettezza mi dice di preferire Borges. Lo vedrei bene come allevatore di
centauri.
Guido Mina di Sospiro, uomo in direzione contraria all’editoria dominante, ha
scritto tanto, è stato tradotto ovunque. Il suo libro di maggior successo,
forse, è The Metaphysics Of Ping-Pong: uscito nel 2013 nel mondo inglese, è
stato recepito da Ponte alle Grazie tre anni dopo; lo stesso editore, nel 2017,
ha pubblicato Sottovento e sopravvento, una specie di “romanzo filosofico
d’azione” (così Maurizio Ferraris), che sovverte il candore del ‘genere’. Da
allora – Rizzoli, tra 2002 e 2003, ha pubblicato L’albero e Il fiume –
dell’autore, in Italia, si sono perse le tracce. Incessante è tuttavia la sua
attività letteraria negli altri mondi; scrive, tra l’altro, sulla “New English
Review”.
Quest’anno le reticenze – Mina di Sospiro è ostile al mainstream narrativo che
va per la maggiore – si sono dissigillate: Bietti ha tradotto Il libro proibito,
un noir teosofico scritto dall’autore insieme Joscelyn Godwin, studioso di
occultismo, esoterista, autore, tra l’altro, di testi su Robert Fludd, Fabre
d’Olivet, René Guenon e Julius Evola. Quest’anno, Lindau ha invece
pubblicato Terrore e musica, libro in cui, in sostanza, Mina di Sospiro parla
della sua Milano dilaniata dagli Anni di Piombo, tra i Talking Heads (in
appendice, l’autore impila una “lista di compositori, composizioni, musicisti,
gruppi, brani e dischi a cui si fa riferimento nel testo”, tutta da ascoltare) e
le Brigate Rosse. “Questo libro tratta della città in cui sono cresciuto,
Milano, nella quale rischiavo la vita quotidianamente pur senza mai volerlo. Né
intendevo, in quel luogo e in quel periodo… intorno a me tutto era diventato
improvvisamente così strano, era come se io vivessi in un altro mondo, da
straniero nella propria città”, confessa l’autore. L’attacco del libro parte in
contropiede – con David Byrne in sottofondo:
> “È la settimana di orientamento per le matricole straniere alla University of
> Southern California, o USC, a Los Angeles, verso la fine di agosto del 1980.
> Mi viene assegnata una stanza in un dormitorio da condividere con un compagno
> di studi internazionale, un palestinese di centocinquanta chili il cui padre è
> «non potente come il presidente Carter,ma quasi». Più tardi, lo stesso giorno,
> aggiunge che come membro dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della
> Palestina, «ho ucciso tre ebrei». Oddio, penso, il mio compagno di stanza è un
> assassino!”.
Stenio Solinas, che ha scritto di Terrore e musica su “il Giornale”, sintetizza
il ‘clima’ dell’epoca con parole statuarie: “La gran parte dei rivoluzionari
ventenni dell’epoca, dieci anni dopo li avresti ritrovati nei giornali borghesi
che avrebbero voluto bruciare, nelle aziende paterne che avrebbero voluto
bruciare, nelle multinazionali, negli uffici pubblici, dietro quelle cattedre
scolastiche e universitarie che avrebbero voluto bruciare. Tutti
pompieri”. Detto tutto.
Quanto a me, di Guido Mina di Sospiro piace il moto sciamanico, l’ansia del
viaggiatore, il suo essere estraneo – anzi, australe – al mondano. Così, l’ho
cercato. Pare che questa intervista si sia svolta tra Todi e Villa O’Higgins, in
Cile; ma forse è sempre un altro mondo quello a cui tendiamo.
Lui è Guido Mina di Sospiro
Parto da “Terrore e musica”, che è poi un libro autobiografico. A un certo punto
parli del mitico Miklós Rózsa. Ecco, che ruolo ha avuto la musica nella tua
scrittura, nella tua vita?
Un ruolo enorme che ora, però, non c’è più (surfeit). Miklós Rózsa fu uno dei
miei mentori. Quando ero diciassettenne e lui settantenne avevo la beata
incoscienza di mostrargli le mie composizioni, che fra l’altro non gli
dispiacevano. Discutevamo di musica e musicisti, armonia e composizione per ore.
Mi cambiò la vita: fu lui stesso a dirmi della University of Southern
California, dove aveva insegnato composizione succedendo a Schönberg, che era
andato alla UCLA, e dove c’era una famosa scuola di cinematografia. Fu così che
scelsi di lasciare l’Italia incasinatissima e insanguinatissima di allora e, nel
1980, cominciare a frequentare la USC (non fu affatto facile, con esami di
ammissione e complicazioni a non finire, ma ci riuscii).
Nel libro esprimi il tuo giudizio sugli “Anni di Piombo”. Riassumilo per chi ci
legge.
La vulgata che ci è tanto assiduamente propinata, e cioè che la eversione era
per metà di estrema destra e per metà di estrema sinistra, non corrisponde alla
realtà. Ma mi fermo qui. Preferirei che il lettore, leggendo il mio libro che va
dal 1974 al 1980, si rendesse conto, anno per anno, mese per mese, settimana per
settimana, di che cos’erano le grandi città italiane di allora, specialmente
Milano, in cui vivevo.
Non mi pare che parli del “terrorismo nero”. Come mai?
Ne parlo, invece, mettendo nel loro contesto le “stragi di stato” e la
“strategia della tensione”, inizialmente ispirate da gruppi eversivi quali
Ordine Nuovo, ma in seguito adottate da stay-away-governments, dall’Operazione
Gladius, dalla CIA, dalla Masad, dai vari servizi segreti italiani (spesso in
conflitto fra loro), dalla P2, e così via. Ma nelle strade la sopraffazione e le
intimidazioni, la violenza cronica, quotidiana e sempre in crescendo, erano
rosse. Le Brigate Rosse, solo per limitarmi a loro, hanno compiuto 14.000 atti
di violenza nei primi dieci anni di attività, dal 1970 al 1980, quasi 4 al
giorno. Nessuna organizzazione clandestina di estrema destra si avvicina nemmeno
lontanamente a tale media da mattanza.
Come nasce “Il libro proibito” e qual è il suo nucleo incandescente, il cuore
esoterico? Insomma, come dobbiamo leggerlo?
Anni fa c’era la moda del romanzo cosiddetto “esoterico”, che in certi casi
diventava molto essoterico, con vendite di milioni di copie. Joscelyn Godwin –
una delle menti più geniali al mondo, autore, traduttore ed editor di oltre
quaranta libri – ed io pensammo che, come scherzo o jocus severus, avremmo
potuto scrivere un romanzo veramente esoterico. Nel senso che quelli in voga
allora partivano invariabilmente da un mistero “magico” che però poi veniva
risolto dal solito ispettore con i soliti mezzi razionali. Noi invece, avendo la
formazione esoterica necessaria, che nessuno di tali scrittori ha, ci
ripromettemmo di partire da un mistero magico e risolverlo… con la magia, nel
mentre prendendo in giro il classico ispettore. L’approccio ha funzionato: a
oggi, oltre all’originale inglese, sono state pubblicate dieci edizioni
straniere.
Le ideologie saranno pure defunte, non certo le idee di mondo: qual è la tua?
Intendo: che senso ha vivere, cosa c’è dopo questa vita?
Dovresti darmi un milione di euro per ciascuna risposta, ammesso che io le
azzecchi. Cominciamo dallo stato di cose di questo mondo occidentale
despiritualizzato: oltre un secolo fa Wittgenstein ha dichiarato senza ombra di
dubbio che la metafisica era morta, e da allora la filosofia s’è tramutata in
sofismi. Pertanto se un povero cristo in buona fede si pone domande quali le due
che mi hai posto tu, non troverà risposta nella filosofia dell’ultimo secolo,
che si è persa in stupidaggini, Sprachspiele e logorrea. Se per “idea di mondo”
intendi, come credo, Weltanschauung, la mia si rifà all’opera di Alfred North
Whitehead, il quale, mentre Wittgenstein e poi la Scuola di Vienna davano per
morta e sepolta la metafisica, scrisse uno dei libri di metafisica più
importanti di sempre: Process and Reality. A mio avviso, l’unica ragione per cui
la riflessione metafisica rimane necessaria, forse più che mai, è che la nostra
coscienza moderna ha perso contatto con la propria esistenza cosmica e quindi
necessita di una giustificazione intellettuale. Prima che Omero mettesse la
penna sulla pergamena e parodiasse gli dei, l’anima umana non sperimentava
alcuna separazione tra il Logos del mondo (significato) e la sua esistenza
(fattualità), e quindi non aveva bisogno di credenze religiose. La divinità
viveva e respirava in mezzo alle creature della terra e del cielo. Lo shintoismo
dice lo stesso, incidentalmente.
La cosmologia panteistica di Whitehead intende correggere la tradizionale
visione religiosa di Dio come sovrano e onnipotente. La sua cosmologia dotata di
un’anima intende correggere la visione filosofica moderna secondo cui l’uomo è
separabile dalla natura, o la mente separabile dalla materia. Il potere, per
Whitehead, diventa persuasivo poiché estetico, piuttosto che coercitivo poiché
meccanico. Dio non arriva dall’aldilà per progettare il mondo a suo piacimento,
né lo fa la coscienza umana. Per Whitehead la “concrescenza” è il nome del
processo in cui “l’universo delle molte cose acquisisce un’unità individuale in
una determinata relegazione di ogni elemento dei molti alla sua subordinazione
nella costituzione del nuovo ‘uno’”. La concrescenza, in altre parole, è
semplicemente il processo di diventare “concreto”, nel senso di pienamente
attuale come occasione reale compiuta. La concrescenza è l’atto del divenire di
entità reali. Dal latino “concrescere”, crescere insieme, è l’atto produttivo,
l’atto del divenire di un atto produttivo, l’atto del divenire di un essere che
è l’insieme. Nella concrescenza, il nuovo essere passa dai suoi componenti nella
loro diversità disgiuntiva ideale agli stessi componenti nella loro
realizzazione. La metafisica di Whitehead, nota anche come filosofia del
processo, definisce la realtà come una rete dinamica di eventi interconnessi o
“occasioni reali” (actual occasions) piuttosto che di sostanze statiche. Mette
in risalto il divenire rispetto all’essere, il cambiamento e il processo
rispetto alla permanenza e le relazioni rispetto alle entità isolate; capovolge
il mito della caverna di Platone. Questa visione considera tutta l’esperienza,
compresa la realtà soggettiva e oggettiva, come unificata all’interno di un
unico cosmo interconnesso.
Chi di voi cercasse di leggere Whitehead senza capirci nulla si troverebbe in
buona compagnia e sarebbe sulla via maestra: l’universo, infatti, non è un
manuale d’istruzioni.
Mi domandi inoltre: cosa c’è dopo questa vita? Ho letto e studiato innumerevoli
testi esoterici di tante tradizioni molto distanti tra loro nello spazio e nel
tempo, e ne ho discusso con tanti pensatori, nessuno dei quali appartiene alla
mainstream. In nuce: oltre cinquant’anni fa David Conway, un magus gallese,
diede alle stampe Magic: An Occult Primer. Maxine Sanders ne scrive come segue:
“Al giorno d’oggi ci sono innumerevoli libri sulla magia. Questo è diverso.
Diverso come quando è apparso per la prima volta nel 1972. Ciò che lo rende
diverso è che spiega al lettore – esperto o principiante, scettico o credente –
che cos’è la Magia, perché la Magia funziona e, soprattutto, come si può
lavorare con la Magia. Pochi libri fanno tutte e tre le cose, certamente non con
tanto stile, erudizione e umorismo.” L’ultimo capitolo s’intitola: Death and the
Meaning of Life (La morte e il significato della vita), e spiega
dettagliatamente che cosa succede all’anima quando si stacca dal corpo che l’ha
ospitata. Confesso di avere smesso di leggere tale capitolo verso la fine perché
mi sembrava fin troppo veritiero, e a me non va che le cose finiscano in quel
modo. Inoltre, esorto i lettori che leggessero Magic: An Occult Primer a NON
cimentarsi nelle arti magiche; non conosco nessun magus che, praticandole, non
abbia subito contraccolpi o ripercussioni, anche molto pesanti, cioè la propria
morte, o quella di un caro. Leggere, sì, e con deferenza; praticare, altamente
sconsigliato.
Che cosa tiene insieme il tuo interesse per i manoscritti alchemici, la musica
colta, il cinema, il “clima” degli anni Settanta italiani?
Sono patologicamente curioso, non mi fido affatto del canone e delle vulgate che
ci propinano e sono allergico al pensiero mainstream. La curiosità non è
necessariamente un dono, però, e spesso invidio i nostri gatti, quattro, uno più
contento e pigro dell’altro. E sin da piccino sono stato abituato all’alta
cultura. Casa nostra era frequentata da personaggi di alto livello, direttori
d’orchestra, cantanti lirici, musicisti, scrittori, poeti, pittori, registi e
così via. In campagna da mio nonno apparivano spesso Mario Soldati e Renzo
Pasolini, entrambi intenti a baciare l’anello. Lo ricordo perché, pur piccino,
mi sembravano comicamente ossequianti. Quindi ho sempre avuto accesso al meglio
nel campo delle arti, e non solo. Più tardi la profonda amicizia con Joscelyn
Godwin (con il quale ho scritto due romanzi), Rupert Sheldrake, Christopher
Sinclair-Stevenson, Gillian Prance e diversi altri pensatori inglesi mi ha
ulteriormente ampliato gli orizzonti.
Negli ultimi vent’anni ho (ri)scoperto la letteratura spagnola e
ispano-americana e leggo principalmente in quella lingua. Gli anni Settanta in
Italia erano sconvolgentemente violenti, ma qua e là, soprattutto nella musica,
anche molto creativi. Secondo Andrea Kerbaker, con il quale fondai il
giornalino La nuova scapigliatura milanese al liceo Leonardo a Milano mi sembra
nel 1977, fra la violenza e la creatività di quegli anni c’è un nesso; io, non
saprei.
Perché non ci siamo riconciliati con gli “Anni di Piombo”? Perché in Italia
parliamo ancora di “fascismo” e di “resistenza” in toni che provocano divisione
più che comprensione?
Perché, e te lo dico con candore, gli Anni di Piombo sono stati il terzo
tentativo nel XX secolo in Italia di imporre il comunismo con la lotta armata:
dopo il Bienno Rosso del 1919-20; dopo la Resistenza, che resistenza non era
bensì guerra civile, del 1943-49 (vedi gli scritti di Claudio Pavone); infine
gli Anni di Piombo. È sempre la stessa matrice. Ad esempio, le P38 che nel 1975
apparvero d’improvviso nelle mani dei militanti di ultra sinistra (“Poliziotto
fai fagotto/ è arrivata la P38!”) altro non erano che le Walther P38, le pistole
d’ordinanza dell’esercito tedesco, sottratte e nascoste dai partigiani che,
trent’anni dopo, le consegnavano ai figli con l’esortazione di “finire la guerra
contro il fascismo”. Ma il fascismo era morto e sepolto, non c’era più, e i
neofascisti erano un po’ come i tartari nel romanzo di Buzzati (che scrisse
nell’Africa Orientale, dov’era amico di mio padre: ne discutevano di sera). Ce
n’erano davvero pochi (alcuni dei quali mortiferi), e quei pochi non si facevano
certo vedere. Essendo la storiografia in Italia saldamente nelle mani della
sinistra, la vera storia del ventesimo secolo non è mai stata raccontata, né
tanto meno assimilata.
Cosa sono stati per te – cosa sono – gli Stati Uniti?
Meriterebbe una risposta fiume, essendoci approdato nel 1980. In nuce, negli
States ho fatto cinema, suonato in un gruppo, trovato moglie alla fine del
Sunset Boulevard in un contesto squisitamente romanzesco, mi sono laureato, ho
fatto il corrispondente per riviste europee di musica e cinema come membro della
Hollywood Foreign Press, fatto figli e messo su famiglia, vissuto in California,
Florida, Virginia, Maryland, conosciuto tutti e più di tutti e fatto amicizia
con grandi menti, scritto libri, libri e poi ancora libri, girato in lungo e in
largo, fatto e perso amici. Una vita. Gli USA mi sono sempre piaciuti per il
loro pragmatismo yankee; ora non li riconosco più perché quasi metà della
popolazione si è lasciata sedurre e indottrinare da un marxismo/globalismo
postmoderno che può portare solo alla fine dell’impero, e che, a parte essere
distruttivo, è, come gli si conviene, riduttivo, roba da duri di comprendonio,
vedi la suprema modestia di Marcuse, quindi intellettualmente tutt’altro che
stimolante, anzi, la morte cerebrale. Degli USA a tutt’oggi mi piacciono gli
spazi; sono appassionato di fuoristrada, e spesso vado nel South-West,
soprattutto a Moab, nello Utah, a cimentarmi nel rock-crawling, disciplina che
consiste nel superare a passo d’uomo ostacoli apparentemente insuperabili con lo
sfondo di una natura selvaggia e meravigliosa. In quanto a cultura, con qualche
eccezione (americani old money, MAI accademici, che sono marxisti e banalissimi)
preferisco frequentare pensatori europei o ispano-americani che risiedono in
America. Gli americani tipici sono bravi a inventare marchingegni straordinari e
a fare soldi. Ma a nessuno dei miliardari della tech interessa l’arte. I
Vanderbilt, Morgan, Rockfeller, Carnagie sono stati rimpiazzati dai Gates,
Bezos, Zuckemberg, Musk, ai quali arte e letteratura interessa meno di zero.
C’è poi un altro Paese che ha avuto un’enorme influenza su di me, specialmente
come scrittore: l’Inghilterra. Ma ne parlerò un’altra volta.
Quali sono i tuoi “maestri” di scrittura, i tuoi lari? In “Terrore e musica”, a
tratti, ho visto l’ombra di Bret Easton Ellis… Insomma, cosa ti piace leggere?
Mai letto Bret Easton Ellis. Casomai c’è l’influenza di George MacDonald Fraser
e della sua serie con Flashman come protagonista. Sono diciassette romanzi che
ho letto e riletto, e i primi libri che ho avuto la necessità di duplicare:
i diciassette tomi nelle casa in America, gli stessi diciassette tomi in quella
in Italia. Figurati che quando abbiamo avuto Rupert Sheldrake ospite da noi,
l’ho convinto a leggere Flash for Freedom!
I maestri di scrittura? Le influenze ormai sono infinite, e spesso insolite,
come ti puoi immaginare. Per esempio nei seguenti versi dell’umile canzonettista
Alvaro Carrillo, tratti dalla sua canzone Sabor a mí trovo più (disarmante,
cruda) poesia che nell’opera omnia di Pablo Neruda:
> “No pretendo ser tu dueño
> No soy nada, yo no tengo vanidad
> De mi vida doy lo bueno
> Soy tan pobre, ¿qué otra cosa puedo dar?”
Non frequento più librerie tradizionali da anni, ma spesso quelle che vendono
libri usati, e ce ne sono molte di più nel mondo anglofono. Entri senza sapere
che cosa stai cercando ed esci, quando la cerca va a buon fine, con una o due o
più gemme la cui esistenza ignoravi fino a poco prima. Mi divertono tutti i
libri della Adventure Unlimited Press, capitanata da quel mattoide di David
Hatcher Childress. Ciascuno di voi lettori dovrebbe leggere almeno un libro di
Graham Hancock, il quale fra l’altro ha inventato un nuovo genere: la narrative
non-fiction, che sembra un ossimoro, ma non lo è. Cominciate da Impronte degli
dei. Alla ricerca dell’inizio e della fine. Non posso non citare almeno qualche
autore di lingua spagnola al di là di Cervantes, Lope de Vega, Leopoldo Lugones,
César Vallejo, Xul Solar e Jorge Luis Borges: mi piacciono molto José Javier
Esparza e Pío Moa. Ce ne sono così tanti altri che l’intervista diverrebbe una
lista, il che non è di grande intrattenimento.
E ora… cosa scrivi? Cosa vorresti scrivere?
Ho appena terminato A Drive Down the Carretera Austral in Chilean Patagonia. Ho
guidato, cioè, fra andata, divagazioni e parziale ritorno, per 2600 chilometri,
da Puerto Montt a Villa O’Higgins, tutti esclusivamente in Cile e per la maggior
parte su sterrato. Le Ande bloccano le nuvole che vengono dal Pacifico, cosicché
la Patagonia cilena è una verdissima foresta pluviale temperata, mentre quella
argentina, un deserto. La Carretera Austral è stata costruita per volere di
Pinochet per poter mobilitare l’esercito contro le incursioni argentine, ma è
diventata un viatico per la natura più bella al mondo, fra vulcani, ghiacciai,
foreste zeppe di maestosi alberi a noi sconosciuti, laghi, fiumi, cascate,
fiordi, isole e isolotti. Il libro l’ho scritto di getto; vado a giorni a Londra
a parlarne con il mio agente letterario. Speriamo che per una volta esca entro
breve. Di solito gli editori, spesso duri di comprendonio, ci mettono anni ad
arrivarci…
*In copertina: David Byrne indossa “The Big Suite”; Stop Making Sense esce nel
1984
L'articolo “Sono patologicamente curioso”. Da Gladio alla Patagonia,
dall’occulto ai Talking Heads: dialogo con Guido Mina di Sospiro proviene da
Pangea.
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata
in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto
Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci
anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, “per l’insistenza di ciò
che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo
scopo”. Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di
un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare
istitutrice; voleva fare l’artista.
I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica
di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901.
Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare
indemoniato, “barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante”. Aveva da
poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era
trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento
selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva
tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi,
soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai
tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà
“degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la
sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo
aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per
lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: “Vieni qui al lume della candela. Non
ho paura/ di contemplare i morti”, scrive il poeta, abissale, come sempre –
riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate
da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.
A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq,
l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina
potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e
Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque,
tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di
un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita
votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e
del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze
artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani:
è tratto dal “verso 38 della Quinta elegia di Rilke”, mi dice l’autrice.
Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il
lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.
Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale,
con lento candore, sembra un po’ ‘cannibalizzare’ la pittrice. Che idea si è
fatta di Rilke?
Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante
quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un
buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la
migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi
scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha
descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I
nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio
libro.
Paula Becker, Rainer Maria Rilke, 1906
Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.
Libera, energica, interrotta.
Che cos’è la ‘libertà’ per Paula; che cos’è la ‘libertà’ per Marie, una
scrittrice che vive nel 2025?
Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che
diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione
concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me
libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e
di amare, liberamente.
Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il
titolo del libro?
Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di
Joseph-François Angelloz.
Quali sono stati i ‘lari’, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella
scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma
mai ‘confessionale’, precisa fino al diamante?
Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg.
Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale
quello che ha scelto di tenere in ombra?
Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra,
oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera…
Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula.
Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho
voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto
nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire
perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se
questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la
maternità è ambiguo, affascinante.
Marie Darrieussecq; photo Charles Freger
Esiste a suo avviso una diversità ‘genetica’ tra opere d’arte femminili e
maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio ‘di genere’?
Nulla di ‘genetico’, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia,
sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli.
Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento
e dell’emarginazione, e una certa centralità – domestica. Lo sguardo di Paula
sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che
conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza
imposti da uno sguardo patriarcale.
Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: “Ci siamo guardati, con un
brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una
porta dietro la quale c’è Dio”. I quadri di Paula emanano una sacralità frugale,
che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto
con il ‘sacro’, con l’invisibile?
Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte.
L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di
sacralizzarlo.
La ‘carne’ è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker:
un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo
nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico,
palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del ‘toccare’
come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni…
Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho
ancora finito…
Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo
sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo
le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno
splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le
strade di Parigi, città che adorava, si sentiva ‘nuda’ sotto lo sguardo
insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale,
come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e
non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano
state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di
cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca,
gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere,
accettavano di posare nude per pochi spiccioli.
Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale.
Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi
consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e ‘morali’, si
fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere
all’IA?
Spesso pongo delle domande a Chatgpt (beh, non troppo spesso, visto che ogni
volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i
brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico,
non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il
suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.
Paula Becker, Autoritratto per il sesto anniversario di matrimonio, 1906
Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare
un gesto ‘politico’?
Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho
iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un
movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera
obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo
in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista”
possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di
molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di
fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una
Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non
apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il
sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in
posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della
Vergine Maria!
*In copertina: Paula Becker (1876-1907)
L'articolo Storia di Paula Becker, l’artista “interrotta” amata da Rilke.
Dialogo con Marie Darrieussecq proviene da Pangea.
Marlowe, poeta dal destino corsaro, forse spia, blasfemo per vocazione, morto
giovane in una rissa oscura – solo una mano del genere poteva partorire una
creatura come Tamerlano il Grande. Se Shakespeare è il mare, Marlowe è la
folgore. In Tamerlano il Grande, tragedia teatrale febbrile, il poeta raduna i
fuochi dell’universo per incoronare il potere come esercizio di estasi
poetica. Il pastore sciita ascende al trono del mondo non per diritto divino ma
per la forza esclusiva del verbo e della spada, che sono la stessa cosa: poesia
in atto, massacro come forma lirica estrema. Tamerlano è flagello, è astro nero
sorto a ustionare le retine dell’umanità quietata, un’opera che è un monumento
alla hybris che precede Nietzsche e ne divora già l’ombra. Tamerlano è un
profeta armato, un poeta in guerra contro la realtà. L’assurdità, la
sproporzione, la reiterazione dei suoi gesti non indicano difetti drammaturgici,
ma la tensione apocalittica verso l’assoluto. Tamerlano costruisce un altare per
trascendere la figura del generale geniale: vuole essere il logos che si fa
fuoco.
La vera chiave dell’opera, punto spesso trascurato, è che Tamerlano è prima di
tutto un poeta. Non nel senso manierato del termine, ma ritornando
all’origine: ποιητής, colui che crea, plasma la realtà con il linguaggio. Le sue
campagne militari sono versi in azione. Tamerlano conquista con la spada ciò che
ha già conquistato con l’immaginazione. La poesia, dunque, è l’essenza della sua
tirannia. Ma è una poesia dell’eccesso, dell’iperbole, della verticalità, una
poesia aristocratica.
“Ch’è la bellezza? Chiedono le mie angosce.
Se ogni penna che mai prese un poeta
ne avesse espresso tutto il sentimento,
e ogni dolcezza che su temi ammirati
ispirò i cuori e le menti e le Muse;
se ogni celeste quintessenza che stilla
dai loro fiori eterni di poesia
dove vediamo come in uno specchio
i più alti voli dell’ingegno umano;
se tutto fosse messo in una strofa
di combinata lode alla bellezza,
pur rimarrebbe in quelle teste inquiete
un pensiero, una grazia, uno stupore
che nessun’arte può dire in parole.
Ma quanto sono inadatti al mio sesso,
al mio mestiere d’armi e cavalleria,
al mio genio, al terrore del mio nome,
questi pensieri effemminati e deboli!
Salvo quel giusto applauso della bellezza,
col cui istinto ogni anima è dotata;
e ogni soldato rapito dall’amore
della fama, il coraggio e la vittoria
deve a volte pensare alla bellezza:
io che ci penso e tutt’e due soggiogo…
quel che ha abbassato la furia degli dèi
dall’igneo velo costellato del cielo
fino al fuoco gentile dei pastori
per vivere in capanne di paglia sparsa
io proverò, malgrado la mia nascita
che solo il merito porta alla gloria
e insegna all’uomo la nobiltà vera.”
Se si parla di morale in senso borghese, intesa come limite, non si può capire
Tamerlano. Qui si sta parlando dell’etica dell’incommensurabile. La tragedia non
insegna, non ammonisce, non migliora l’uomo. La tragedia lo costringe a guardare
il sole senza filtri e bruciare. Tamerlano è l’eroe della supremazia, rifiuta il
secondo posto, non perché voglia comandare, ma perché non può non farlo. Il
potere lo abita come una febbre, come un canto ossessivo.
Due sono le forze che reggono il mondo, scrive Machiavelli: la virtù e la
fortuna. Tamerlano le unisce in un terzo elemento, la poesia. La poesia di
Tamerlano è la forma ultima del potere, che non si misura col consenso ma col
timore, con l’incantamento, con la verticalità dell’estasi. La poesia è la forma
più assoluta di dominio perché non richiede eserciti, né leggi: le basta una
frase per instaurare un impero. Ecco perché Tamerlano, che è il re dei re, parla
come un dio. La sua è una teologia del desiderio, postula che l’anima umana non
sia fatta per la pace ma per la scalata, il riposo è peccato e la quiete è resa.
L’unico modo per onorare la vita è consumarla nell’azione. È l’espressione
teatrale di una visione del mondo premoderna e anti-egualitaria. Marlowe nella
figura del gran Tamerlano riunisce l’archetipo del conquistatore orientale e del
poeta prometeico.
Certo, c’è Zenocrate, la bellezza rapita che sembra addomesticare la furia, un
raggio di luna su un mattatoio. Ma la sua morte scatena un dolore che è ancora
delirio cosmico, guerra dichiarata agli dèi indifferenti o inesistenti.
Tamerlano brucia la città dove lei muore, sfida Maometto, si proclama “terrore
del mondo”, “flagello di Dio”.
> “Ma questo vostro viso celestiale
> è degno solo di chi vincerà l’Asia,
> e verrà detto il terrore del mondo
> e stenderà i confini del suo impero
> dall’est all’ovest come il corso di Febo”
Oltre al Dio delle scritture, convenientemente assente dal mondo che Marlowe
scuoia nelle parole del dominatore, l’unica forza dominatrice è proprio
Tamerlano, che si fa dio attraverso la negazione radicale di ogni limite, la
profanazione sistematica del sacro e dell’umano. Marlowe personifica così
l’archetipo del dominatore assoluto, è l’eruzione di una forza elementare che
cova sotto la crosta della civiltà come esigenza insopprimibile di grandezza
che, privata di sbocchi celesti, si fa titanismo infernale. Non vuole essere
apologia della tirannia, quanto la constatazione – tragica e grandiosa – che
certe forze esistono e che la poesia può essere strumento di dominio.
“Sete di regno, gioia di una corona,
che il figlio anziano di Opi in cielo indussero
a scacciare dal trono il vecchio padre
per sostituirlo nel cielo imperiale:
quello, mi spinse a dichiararti guerra.
Quale esempio migliore del grande Giove?
Natura che in noi mise quattro elementi
sempre in guerra nel petto per regnare,
ci insegna ad avere una mente ambiziosa;
l’anima nostra, le cui facoltà intendono
l’architettura stupenda del mondo
e misurano il corso dei pianeti,
sempre salendo a una scienza infinita,
sempre movendosi come le sfere inquiete,
vuole che ci esauriamo, senza riposo,
fino a raggiungere il frutto più maturo,
perfetta gioia, sola felicità,
dolce fruizione di una corona in terra.”
Ciò che Tamerlano ci lascia – se vogliamo parlare di lascito – è che la poesia è
l’unica forma tollerabile di tirannide. Perché essa non uccide nel nome
dell’interesse, ma della bellezza. E se c’è una morale, è che l’unico diritto
dell’uomo è quello di aspirare all’impossibile. Anche a costo della dannazione.
Christopher Marlowe ventenne, nel 1585
Tamerlano il Grande è un inno al divino che sopravvive nel cuore della barbarie.
È la lirica dell’eccesso, la liturgia del genius isolato. È una riflessione su
come la vera poesia non celebri la pace, ma la guerra, perché solo nel conflitto
si manifesta la grandezza. Come nella Bhagavadgītā, dove Krishna spinge Arjuna a
combattere per scoprire il proprio dharma, così Marlowe spinge il capo dello
spettatore dentro l’abisso a riconoscere al suo interno il proprio volto. Non si
tratta, ovvero, di capire Tamerlano, quanto di riconoscersi in lui. Possiamo
rinnegarlo con orrore, ma con la consapevolezza di ciò che incarna, la potenza
della parola, l’incanto dell’assoluto e il fascino del dominio inscritti nel
cuore stesso dell’uomo.
> “Ho il Destino ben saldo incatenato,
> faccio girare la ruota della Sorte,
> dovrà cadere il sole dalla sua sfera
> prima che Tamerlano sia morto o vinto.”
Andrea Falco Profili
L'articolo “Faccio girare la ruota della Sorte”. Sia lode a Tamerlano,
tiranno-poeta proviene da Pangea.
L’articolo va sotto l’etichetta Attualità. Secondo l’articolo c’è un posto nel
mondo, il mio stesso mondo, dove c’è una bambina di 12 anni “così malnutrita che
riesce a malapena a parlare.” L’articolo è corredato di foto, la didascalia
recita sia della bambina malnutrita. Secondo la madre: “Se qualcuno la tocca o
lei prova a muover le braccia o le gambe, grida di dolore.” A questo punto tocca
a me, lettore, decidere cosa farmene dell’articolo.
Leggerlo diminuirà le sofferenze della bambina o aumenterà soltanto il mio senso
di disaffezione verso la specie umana, qui da me rappresentata? Leggerlo servirà
a far entrare i generi alimentari in quel posto del mondo dove per ora non
possono entrare poiché, impedendo l’entrata dei generi alimentari si debella la
minaccia che gli abitanti di quel posto rappresentano per gli abitanti del posto
confinante, a detta del governo confinante è così che si fa, il quale governo,
impedendo l’entrata dei generi alimentari, consente ci siano in quel posto “più
di 70 mila bambini[…] ricoverati in ospedale per malnutrizione acuta” e che “1,1
milioni non dispongono del fabbisogno nutrizionale giornaliero necessario per
sopravvivere”?
Mi dico: i giornalisti che hanno scritto l’articolo di certo si augurano che io,
leggendolo, faccia poi tutto ciò che è in mio potere per far sapere al governo
del mio di posto che non continuerà a restare in carica a lungo se non fa nulla
perché i generi alimentari entrino in quel posto lì del mondo, che non lo
resterà perché perderà il mio voto e quello di moltissimi altri, e a me dispiace
per loro, perché io il governo del mio posto non l’ho mai votato, con me non ha
nulla da perdere, d’altronde seppure il governo in carica del mio posto mi fosse
stato meno inviso dubito avrebbe avuto comunque il potere di influenzare il
governo del paese che sta impedendo l’entrata dei generi alimentari in quel
posto nel mondo dove un sacco di 25 chili di farina bianca costa 372 dollari.
Per di più dubito che chi sostiene il governo del mio di posto smetta di
sostenerlo perché quel posto nel mondo viene affamato. Sono dell’idea, o sono io
che li calunnio pensandolo, sia comunque sempre meglio tenersi amico il governo
del posto che li affama, siccome tenersi per amici loro, gli affamati, non
arrecherebbe nessun beneficio, anzi.
“Cari giornalisti”, direi ai giornalisti dell’articolo, “chi meglio di voi può
accorgersi che uno più è povero più deve pagare le cose più di quanto le paghino
i non poveri. Ai ricchi addirittura si regala. Si fa di tutto per farsi
benvolere dai ricchi. Dai poveri invece si vuole stare alla larga. I poveri sono
contagiosi. I ricchi purtroppo no.”
Un dottore, nell’articolo, “spiega che la carestia ha causato aborti spontanei e
la nascita di bambini pericolosamente sottopeso con gravi malformazioni.” E se
non si trattasse di un articolo d’attualità ma di una storia? “C’era una volta
un posto dove i bambini nascevano pericolosamente sottopeso e con gravi
malformazioni, quando non venivano abortiti prima – e c’era chi diceva fosse
meglio così, essere abortiti prima.” Come continuerebbe la storia? Quali dilemmi
morali, tuttavia del tutto speculativi, offrirebbe? È nell’articolo o nella
storia a esserci un padre che dice: “Mi sento impotente quando i miei figli
chiedono il pane e io non ho nulla da dargli. […] A volte mi auguro che possiamo
morire assieme in un attacco aereo, per non soffrire la fame e questa continua
agonia”?
Il personaggio del padre mi catturerebbe o, da raffinato lettore quale sono
diventato, lo troverei troppo piatto, prevedibile, retoricamente debole? A dei
giornalisti un padre in tale situazione cosa può mai raccontare, se non la
versione più pietistica di sé stesso? Però bisognerebbe indagarlo. L’articolo
del padre dice la sua famiglia conti nove persone. Ora, non saranno tutti figli
ma la media dei figli, nell’articolo, è di quattro o cinque. Bene, così come ho
sentito dire che in quel posto non si viene affamati ma che vi si debella
l’obesità, non vedo perché non se ne possa dire che non si stanno uccidendo
persone ma impartendo loro i rudimenti della pianificazione familiare.
Come si comporta il personaggio del padre con moglie e figli quando il governo
del paese confinante non si impegna così a fondo per distruggere gli abitanti di
quel posto dove abita anche lui, il padre? Cosa fa nella vita quando non è sotto
diretta minaccia di invasione e distruzione? Approfondiamo il personaggio,
rendiamolo credibile, esigiamone la doverosa parte di miserabilità comune a ogni
vivente.
La bimba nella foto – ritorno alla foto di corredo all’articolo – mostra una sua
foto da uno smartphone, è la foto di quando non era denutrita ma una bella
bambina dalle guance floride. Quindi adesso devo spegnere tutto, rimuovere
l’articolo – è quello che faccio tutti i giorni, come vuoi che sia possibile
sopravvivere sapendo di un milione e centomila persone studiatamente affamate,
in quel posto lì, ignorando selettivamente gli altri posti dove pure agli
abitanti gliene vengono fatte passare di ogni? – e calarsi nella scena, da
sviluppare ulteriormente: c’è una bambina che grida di dolore se la tocchi, che
ha le costole sporgenti e i capelli che cadono. Dall’articolo: “I capelli le
stanno cadendo. Le costole le sporgono.” Bisogna immaginarsela mentre con le
mani ossute accende lo schermo dello smartphone per rivedersi com’era prima
della fame. In uno specchio magico e crudele.
Aveva bei capelli mossi, la sua vanità di bambina, e le guance paffute. Mia
figlia ogni mattino si guarda allo specchio per controllare quanto le sono
cresciuti i capelli. Sono la sua vanità da bambina. O tu lettore – mi dico – fai
attenzione, altrimenti potrebbe insinuarsi il dubbio io stia intendendo che
posso capire la sofferenza della bambina giusto perché una bambina ce l’ho anche
io, quasi dispensando chi una bambina non ce l’ha dal poterla capire
altrettanto, anzi quasi spingendolo a dire: Chi tante e chi nessuna, di bambine,
e nel caso del personaggio del padre: ha tanti figli, averne qualcuno in meno
alla fin fine per lui potrebbe rivelarsi addirittura un sollievo. Preciso perciò
che avere una bambina mi aiuta a capire la vanità della bambina della foto, non
certo la sua sofferenza, che non comprendo affatto, che non voglio comprendere,
sempre per quella ragione del dover sopravvivere rimuovendo la consapevolezza
sui fatti di cui sopra. Ho famiglia, io, oh, sono disumanizzato per giusta
causa.
La bambina, la scena è questa, soffre tanto per il suo essere uno scheletro
dolorante ma è lo star perdendo i capelli a procurarle una sofferenza di ordine
superiore, indimenticabile.
Non devo dimenticare chi ha scritto l’articolo, che lo ha scritto dopo averne
scritti altri e che altri ancora ne scriverà. Lui, loro, come me, non potranno
restare a lungo in compagnia della bambina. No, proprio no, bisogna rimuoverla.
Bisogna andare avanti, quanto più non si può andare avanti tanto più si deve
andare avanti il più velocemente possibile.
La bambina vive con sette familiari in quel posto nel mio stesso mondo, così
riporta l’articolo di attualità. Saranno i sette familiari a restare con lei,
ricordandosi di lei, assieme a lei. Io, lettore, devo solo illudermi
chiedendomi: quando di anni ne avrà ventidue, poi trentadue, poi quarantadue, la
donna che sarà come penserà alla bambina che sarà stata, al suo corpo in fiamme,
ai suoi capelli diradati, al suo volto afflitto che a dodici anni già ne
dimostrava molti di più?
A cinquantadue anni o sessantadue, specchiandosi, quella donna si dirà: “Ecco,
questo è esattamente lo stesso volto che ho avuto quando ne avevo dodici.”
La storia allora potrebbe cominciare così, non spaventando i lettori aprendosi
su un posto gremito di aborti e malformazioni, come la cloaca del Golgotha su
cui si apre il romanzo Barabba di Lagerkvist, ma con una donna di sessantadue
anni che guardandosi allo specchio pronuncia per sé stessa e per tutti coloro
che la leggeranno la frase enigmatica: “Ecco, questo è esattamente lo stesso
volto che ho avuto da bambina.”
Chi legge vorrà sapere: come, lo stesso volto? Cos’è, una storia fantastica,
paradossale? E continueranno a leggere, sorretti dal sollievo iniziale: quale
che sia stata la vita attraversata da quella donna almeno si ha certezza che
abbia vissuto fin lì, che sia sopravvissuta. L’Ismaele melvilliano rappresenta
sempre l’infantile speranza di sopravvivere per raccontarla.
Che la bambina sopravviverà, che invecchierà, l’articolo e i giornalisti che
l’hanno scritto non possono garantircelo. Io lettore non posso sapere se la
bambina che viveva fino a pochi giorni fa nel posto della fame sia ancora viva
ora che sto pensando a lei. Una storia, per essere una storia, dovrebbe tornarci
su molto spesso, dovrebbe a continuare parlarci della bambina per più pagine,
fino a un compimento o a una svolta o a qualcosa che gli assomigli. Una storia
garantirebbe alla bambina il rifugio di una memoria collettiva molto più di un
articolo di giornale, ma un articolo di giornale è tutto ciò che abbiamo.
I giornalisti non possono continuare a scrivere della bambina, nessun giornale
gli pagherebbe la storia della bambina dal costato sporgente che perdeva i
capelli per la fame, e neppure io.
Io lettore non posso che immaginarla per la durata di un’altra piccola scena
futura, immaginarmela mentre a dodici anni guardando la sua foto di poco tempo
prima, del tempo prima della fame, dice a sé stessa: “Ecco il volto che avrò tra
cinquant’anni, quando sarò sopravvissuta a tutto questo, chiedendomi che senso
avrà avuto essere sopravvissuta a tutto questo.”
antonio coda
*In copertina: Fernand Khnopff, Ritratto di bambina, 1895
L'articolo La bambina e la fame. Sulla differenza tra giornalismo e letteratura
proviene da Pangea.