Per qualche tempo abbiamo duellato a colpi di WhatsApp. La discussione,
impennata verso gli impossibili, deragliò quasi subito: gli domandai dell’anima,
dell’eternità, del senso dell’arte, di Dio e dell’addio. Cristiano Godano ha
pubblicato undici album con i Marlene Kuntz e quattro libri: il primo, I
vivi (Rizzoli, 2008) è una raccolta di racconti; l’ultimo, Il suono della
rabbia (il Saggiatore, 2024) è una raccolta di “Pensieri sulla musica e il
mondo”. Nel suo terzo libro, Nuotando nell’aria (La nave di Teseo, 2019), che
sviscera “35 canzoni dei Marlene Kuntz”, Godano racconta di aver scoperto
Vladimir Nabokov, il suo scrittore-idolo, “all’epoca di Catartica”, quell’album
memorabile – “generazionale” come dicono gli studiosi – uscito nel 1994. Godano
compiva ventotto anni, il disco era prodotto dal Consorzio Produttori
Indipendenti di Gianni Maroccolo, Zamboni+Ferretti etc. e io imparavo a giocare
a calcio guardando Roberto Baggio, il Bodhisattva del pallone, evangelizzare i
mondiali americani.
Da lì nasce il nostro incontro. Da Vladimir Nabokov – per me, il conte Vlad
della letteratura occidentale, il sommo vampiro: lo leggi e ti dissangua. Così,
con Godano ci inoltriamo nei meandri di Fuoco pallido, il libro più estremo,
estenuato di Nabokov; entrambi eleggiamo Intransigenze – la raccolta di
corrosive e corroboranti interviste nabokoviane – a libro-totem. Insomma, diamo
dimostrazione che anche WhatsApp, altrimenti umana camera degli orrori, di
sbandierate banalità, può essere qualcosa di non troppo dissimile dal Fedone o
da Macbeth. Entrambi – credo – crediamo che ogni verità vada temprata
distruggendola; che occorra il coraggio di spogliarsi di ogni convinzione. Fare
di sé il vento e il lupo, la pula e il pullulare di ululati.
Credo, piuttosto, che Cristiano Godano sia uno dei rari cantautori italiani –
per un sano senso della sprezzatura e dello snobismo – non inquadrabile in
schemi, non liquidabile in teoremi. Rifugge dai cliché della rockstar; ha in
odio le grige manie degli ‘alternativi’ che – ormai altro da sé – fanno reddito
con la malinconia, con l’epopea della giovinezza trascorsa. Gli album ‘in
solitaria’ – Mi ero perso il cuore, 2020; Stammi accanto, 2025 – dicono di un
artista che non si placa, inappagato, implacabile soprattutto verso se stesso,
che ha imparato la voluttà di non piacere ai più. Chi è cresciuto ascoltando i
Marlene Kuntz nella fetida periferia torinese, nei lividi Novanta – “Mi
piacerebbe sai, sentirti piangere/ anche una lacrima, per pochi attimi” – sa che
la sola speranza è spezzarsi, che la sola vita è precipitare.
Nel libro Nuotando nell’aria, Godano cita Borges e Rimbaud, Keats e Dostoevskij,
scrive per trenta volte la parola “poesia” (molte più volte della parola
“sesso”) e per ventisette volte la parola “poeta”; in venti circostanze appare
Nick Cave, il suo prediletto. A chi gli dà del poeta, però, Godano risponde,
perentorio, che “l’autore di testi per canzoni non è un poeta”, semmai “è
potenzialmente un poeta mancato”. Fine della discussione.
A volte, Godano sembra decorarsi con le pose da doge del nulla: gli piace
ripetere che deriviamo dai vermi e dai pesci, che l’uomo è un incidente di
percorso nell’esistenza terrena, che la vita è spietata, che l’intelligenza è un
sovrappiù di sfiga perché ci obbliga a indugiare sul dolore, che infine l’arte è
niente. Che tutto, in fondo, finirà e nessun dio ci attende a bocca aperta negli
altri mondi. Tutte cose che si sanno, che insaporiscono il discutere di
zuccherine oscurità. In fondo, si ascolta una canzone per liquefarsi in un regno
ulteriore della mente; in fondo, chi scrive una canzone è già al di là di questo
mondo – che si dica salvezza, che si dica disperazione, che importa.
Se ti dico la parola “poesia” cosa ti viene in mente?
La famosa definizione di Paul Valéry sulla poesia (“La poesia è una lunga
esitazione fra il suono e il significato”) mi è sempre piaciuta al punto da
lasciarmene condizionare irrimediabilmente. Ed è ciò che mi sovviene ora a
seguito della tua domanda. So che questo inizio di risposta è connesso alle
specifiche necessità del creatore di versi più che al lettore, e immagino che
solo un lettore molto allenato e consapevole possa avere una tale consapevolezza
raffinata comprendendo la complessità del fare poesia. Dunque il lettore attento
sa che la poesia ha un ritmo e ha un suono, e anche di questo gode leggendo,
mentre il lettore meno strutturato ed esperto basa il suo gradimento
principalmente sulle emozioni di natura sentimentale. Senza voler qua
demonizzare questo tipo di emozioni, penso che si collochino a un livello
inferiore nella scala del giudizio. Io, come lettore, dichiaro la mia non
robusta frequentazione del genere: le leggo principalmente quando sono nel
processo creativo per fare un disco nuovo, poiché in quel caso la contiguità del
mio far versi per canzone con le esigenze del poeta nel suo verseggiare mi aiuta
a connettermi con la specificità di ciò che sto per affrontare.
Penso che si è ottimi lettori di poesia quando si è dotati di immaginazione: a
volte a me sembra di non averne a sufficienza. Detto da un sedicente artista è
grave, lo so.
Nel tuo discutere e nei tuoi pezzi citi, tra i tanti, Borges (adoratissimo da
Mick Jagger, per altro…), Baudelaire, Rimbaud, Gozzano, Montale… Viene fuori una
specie di “Contro-Canone Godano” della letteratura. Proviamo a redigerlo una
volta per tutte? Citami dieci libri che in qualche modo hanno orientato la tua
vita – e perché.
Se la domanda è “i libri che hanno orientato la tua vita” sono spinto a nominare
anche le opere non di finzione che sono state per me importanti. Premettendo che
la più parte delle cose che ho letto è stata da me un po’ dimenticata, sto
guardando in questo momento i miei libri (una parte, per lo meno) per cercare la
risposta adatta; noto che molti di essi mi dicono “sì, mi leggesti tempo
addietro”, e posso nominare: Lolita di Nabokov (letto due
volte), Intransigenze di Nabokov (l’ho letto e riletto più volte), Fuoco
pallido di Nabokov (letto due volte), La cognizione del dolore di Carlo Emilio
Gadda (libro straziante), Fratello cicala di John Updike (una raccolta di
racconti: mi approcciai a lui con questo libro, non certo il suo più famoso:
rimasi incantato dalle qualità estetiche della sua scrittura), due o tre opere
di Shakespeare contenute nello stesso libro dei ‘Meridiani’ (non importa quali:
è la lettura di Shakespeare in sé che mi estasiò), Odile di Raymond Queneau (ero
catturato dalle stranezze dell’Oulipo e dai tentativi di commistione
matematica-letteratura), Scritti sull’artedi Paul Valéry (raccolta di
micro-saggi che influenzarono molto il mio pensiero in costruzione), Sulla
poesia di Eugenio Montale (raccolta di micro-saggi, idem come per Valéry),
alcuni racconti e le poesie di Borges (raccolti anch’essi nei ‘Meridiani’: mi
affascinavano i labirinti di Borges, ma anche le qualità riflessivo-filosofiche
della sua poesia), Nera schiena del tempo di Javier Marías (ricordo che mi
catturò molto: ero immerso in qualche processo creativo per un disco dei
Marlene).
C’è poi – lo abbiamo capito mentre compulsavi il tuo “canone” privato – la
conclamata passione per Nabokov. Da dove nasce e perché è per te fonte di
ispirazione?
La mia passione per lui nasce con la lettura di Lolita e, subito dopo, con
quella di Intransigenze, spassosa e serissima al contempo raccolta di interviste
che rilasciò soprattutto dopo il successo di Lolita. Intransigenze fu un
magnifico regalo che mi fece colei che sarebbe diventata la mamma di mio figlio:
se già Lolita mi aveva appassionato per via di uno stile che recepii
immediatamente e del tutto istintivamente come magnifico, con Intransigenze mi
addentrai nell’abbagliante personalità di Nabokov, innamorandomene. Penso che
Nabokov sia il classico caso di “o lo ami o lo odi”: non tutti amerebbero
sentire uno scrittore sbeffeggiare Dostoevskij o Faulkner o Thomas Mann o
Balzac, per dire… Ammetto di essere affascinato dalla forza tonitruante di certe
opinioni: ci vuole coraggio ad averle, e lui aveva coraggio da vendere. I libri
fondamentali per me, sottolineando che non ho letto Ada (lo temo!) e altri tre o
quattro, sono Lolita, Fuoco pallido, Invito a una decapitazione, Il dono, Parla
ricordo, La vera vita di Sebastian Knight. E Pnin, per ridere tanto.
Il mondo rigurgita di orrori. Un manipolo di vecchi si sta bombardando con una
violenza equiparata alla vile scaltrezza. Che senso ha fare arte, allora? Che
senso ha la ‘bellezza’?
Siamo in un momento esacerbato, e cieco, e sordo: polarizzati e sempre più
incazzati vediamo il bianco o il nero e non siamo più disposti a comprendere le
sfumature, quelle che la tanto vituperata democrazia ci aveva insegnato con la
sua inevitabile pazienza, che non c’è più. L’arte temo possa fare poco. O
perlomeno: a livello individuale può fare tantissimo (io ad esempio spero che
non manchi molto al mio rifugiarmi in essa per fuggire dallo schifo intorno), ma
a livello di possibilità di ergersi a barriera del deragliamento temo di no, che
non possa farcela. Rileggo meglio la tua domanda: “che senso ha fare arte?” Beh,
come minimo può aiutare chi la fa a sganciarsi da questo pessimo mondo: è una
condizione a cui, come ho detto qua sopra, idealmente ambisco. Non so se ci
riuscirò: è un auspicio.
Nel tuo ultimo album, Stammi accanto, intuisco, consapevole o meno, una qualche
ricerca del sacro, un andare verso l’altro, l’oltre. È così? Siamo solo pappa
per vermi? Cosa resta di ciò che abbiamo fatto, vissuto, scritto?
Ci dev’essere qualche contraddizione in me, perché spesso mi si fa notare che
nonostante tutte le mie tiritere pessimiste i miei testi palesano una
spiritualità di qualche tipo, o ricerca del sacro, come dici tu… Forse quando
solletico il mio afflato scateno qualcosa dentro di me che lotta in sottotraccia
per non farsi vessare dal raziocinio: una latenza pronta a farsi viva quando
ritiene utile… O è semplicemente la mia parte più vera, che non sa arrendersi
nonostante tutto alla dialettica stringente della ragione. Non so che dire:
in Stammi accantoc’è una canzone, peraltro la mia preferita, che si chiama Cerco
il nulla, dove mi pare di esprimere un non so che piuttosto lontano dal sacro.
Ho solo 59 anni, tempo per vederci meglio e capirmi meglio ne ho ancora…
*In copertina: Cristiano Godano nel ritratto fotografico di Antonio Viscido
L'articolo “Detto da un sedicente artista è grave…” Il Canone Godano della
letteratura universale proviene da Pangea.
Tag - Letteratura
Mi ero imbattuto nell’ultimo disco in studio di Lou Reed (“The Raven”), quasi
scettico per l’operazione proposta ma fortemente incuriosito. Essendo sia amante
di Poe e dei suoi racconti plumbei e angosciosi, sia di Lou Reed, fin dagli
albori della sua carriera nei Velvet Underground, l’ho ascoltato con sincera
attenzione e voluto approfondire comperando in edizione Minimum Fax i testi
integrali del lavoro poetico di riscrittura di Poe, che prendono il medesimo
nome e dell’album e della celeberrima lirica del maestro del gotico, per la
traduzione di Riccardo Duranti.
Scriveva nell’introduzione lo stesso Lou Reed:
> “Nella mia mente Poe è il padre di William Burroughs e di Hubert Selby
> (ricordiamo quest’ultimo, per chi non lo conoscesse, come una specie di Joyce
> maledetto e metropolitano). Cerco sempre di adattare il loro sangue alle mie
> melodie. Perché facciamo quello che non dovremmo fare? (con un occhio
> al Demone della perversità). Perché amiamo quello che non possiamo avere?
> Perché abbiamo sempre una gran passione per la cosa sbagliata? E che cosa
> intendiamo per ‘sbagliato’?… Mi sono innamorato ancora una volta di Poe e
> quando mi si è presentata l’opportunità di riportarlo in vita attraverso
> parole e musica – testo e danza – be’ (suggestione diabolica di vanità
> autoriale?, ci chiediamo), l’ho afferrata al volo: come farebbe un rottweiler
> con un osso sanguinolento. L’ho riletto e poi recitato ad alta voce e per la
> prima volta ho capito Il cuore rivelatore…”
Omettendo di dare uno sguardo ravvicinato all’album e alle prestigiose
collaborazioni, soprattutto nei recitati, di artisti di grande calibro tra i
quali William Dafoe, Steve Buscemi, Fisher Stevens, Amanda Plummer, possiamo
senz’altro approcciare uno dei passaggi più significativi, a nostro modo di
vedere, della preziosa versione integrale cartacea delle riscritture di Lou Reed
presso i gangli più significativi dell’opera di Poe.
Prenderemo infatti in esame, principalmente, la riscrittura magnifica del
racconto dal titolo Hop-Frog (il nano buffone di corte). Va detto, a giusta
premessa, che Lou Reed raggiunge qui, ma anche di più altrove, vette inedite di
estro poetico e cura filologica nell’uso di una parola aulica e tale da vibrare
di musica assecondando l’estetica stessa dell’autore di origine.
L’inizio pare una litania quasi insignificante dal lato della consistenza
contenutistica, offrendo una versione scanzonata del personaggio a cavallo tra
la vita di corte e la sua natura “salterina” (esiste niente di più buffo e
caricaturale del salto di una rana). Prosegue alzando l’asticella, con lo
scritto dal titolo “Ogni ranocchio ha la sua giornata di riscossa”. Qui il re
esorta Hop-Frog a procurargli gaiezza e riso chiamandolo “mellifluo principe dei
buffoni” ed egli risponde con tono serio che la giornata presente “non è adatta
a farsi una risata”, perché quel momento “sacro è per i tramonti reali”
piuttosto che “per lo sbraco comico o il suicidio dei giullari”.
Il re incalza, dicendo imperativamente che a decidere è lui e il suo “cagnolino”
deve suscitare la sua ilarità, tracannando vino e assecondandolo durante la
festa. Hop-Frog sa bene che il vino gli dà alla testa e cerca di aggirare
l’ostacolo, ma il re insiste con nerbo e comando. Ed ecco comparire Tripitena
(auratica creatura, dal nome sonoramente fittizio che evoca quasi una
onomatopea, e ingegnosa rappresentazione di Musa meta-parnassiana che intuisce
il valore dinamitardo dell’arte di Hop-Frog, al quale si rivolgerà più tardi
amorevolmente, con disprezzo profondo per il re e la sua corte)… Attenzione che
nella versione palesemente denigratoria di Lou Reed la corte intera compare come
accolita di squallidi affaristi e faccendieri, quindi in chiave più moderna e
maturamente capitalistica. Esattamente come, in simmetria, “Il verme
conquistatore” appare come il protagonista di un “escrementizio” numero di
Broadway in cui luci, paillettes e ballerine, nascondono il marcio di un ricco
intrattenimento che ottunde la ragione e tradisce la sincerità, facendo di Poe
stesso una caricatura da show.
E dice Tripitena, attraverso un espediente che fa leva sulla vanità della
corona: “Riservate, mio possente Sire/ a nemici più degni le vostre ire”. Il re
non desiste e apostrofa malamente Hop-Frog ingiungendogli nuovamente di farlo
ridere. Ma il re, dichiara Tripitena nel magnifico monologo che costruisce il
musicista newyorchese, dovrebbe chiamarsi in realtà “orinale”, in bisticcio con
la propria indiscussa autorità e senza mezzi termini di condanna. Hop-Frog,
invece, nella sua visione troneggia su tutti, e la regale compagine appare come
una accolita di scimmioni festanti. Tripitena dice di aver osservato il nano
destinato a giganteggiare e che il suo valore supera ampiamente la sua natura di
nano, ed è superiore alla sua pur vertiginosa ampiezza d’animo e alla profondità
di pena interiore che la suggella. Le sue parole sono vibranti d’amore:
> “O reietto ostinato, non vedi la luce del nostro amore – le nostri sorti
> incatenate – i nostri cuori fusi insieme in un fine merletto di fili d’oro
> intrecciati?”
Il re e la sua accolita di ruffiani ascoltano “la musica degli idioti” e i loro
affari e faccende sono sordidi. Non sono né cose angeliche né appartenenti ad
alcun superiore avamposto a cui sia degno aspirare. Il re-affarista è creatura
misera e indegna, e i suoi consiglieri sono “decrepite caricature di erudizione
guidata dall’avidità”. Come negare che allo stato attuale faccendieri e cultura
ruffiana, adulatrice del potere, sono all’ordine delle cose? E allora serve
“disordine”… Arriva quindi il suggerimento di Tripitena che raccoglie lo snodo
centrale del racconto di origine: far travestire tutti da scimmioni, con la
scusa di una burlesca messa in scena per il triviale divertimento di costoro, e
poi dar fuoco alle loro pellicce. Perché se a questo mondo la giustizia e
fuggevole, per una volta sia lecito ascoltare il “raglio e il pianto” del
sovrano-affarista”.
Devono, tutti costoro, solo impersonare gli scimmioni che già sono, con catene e
ridicole sottane, e poi perire nel rogo che appiccherà il buffone di corte.
Perché chi lo sottovaluta “prima o poi è destinato a trovare la verità sublime e
a sdraiarsi vuoto sulla griglia di un disordine sistematico”.
È una grande dichiarazione di anarchia e sovvertimento, di disordine che
deflagra come una forza annientatrice dello status quo, della sordida vita che
perpetra se stessa grufolando nel fango del potere e nei suoi abusi, nella
bassezza di un ordine babelico di vizio e sopruso, guadagno ed esercizio
vessatorio di potere. Il finale del monologo è assai crudo e Tripitena dichiara
a chiare lettere che gli “affaristi” non sono degni neanche di farsi defecare
addosso.
Prosegue il testo con una domanda di carattere quasi esistenzialista: “Chi
sono?” Ed è ancora Tripitena a parlare: ella vede nello specchio il tempo che ha
arato la sua pelle durante il corso della rievocazione bruciante dei ricordi
d’amore legati a Hop-Frog, preda di una passione che vince la ragione e le sue
leggi. E in aggiunta, dice, si pensa a ciò che avremmo voluto diventare, ma la
realtà che si affronta dedica a questi slanci uno spazio così esiguo da
svuotarli. Si chiede chi sia, Tripitena, e chi ha fatto le foreste, il cielo, la
tempesta e persino il crepacuore, e quanta vita possa ancora ella sopportare.
Perché sogna e insiste nel sognare e immaginare mondi inesistenti e vorrebbe non
dover neanche respirare, librandosi in volo come un “magico putto”, baciando un
serafino in fronte, risolvendo l’enigma della vita col tagliare a qualcuno la
gola o strappandogli il cuore. Rivolgendosi al nano, dichiarato già di una
statura che non fa il paio con quella del suo sembiante ma solo per essere
infinitamente maggiore, sembra dichiarare di essere trapassata ma ancora viva
nella fiamma ardente di un amore che memorie ormai opache non sono tali da
celebrare per la sua possanza e urgenza. E se il suo amato si aggrapperà alle
sue ginocchia, udendo ancora il battito del cuore (immagine di sanguigno
vitalismo e non tarlo della coscienza), allora non sarà un errore il pensiero di
stringere in pugno il passato ormai morto… Altrimenti perché ci sarebbe dato
ricordare? Ella si domanda chi sia, mentre il mondo corre e pare seminarla e il
ragazzo di un tempo è ormai in età senile; si chiede cosa il futuro ha da
riservarle e chi sia stato a dare la scintilla di creazione a questo immenso
teatro di vita… Forse un Dio innamorato che ha lambito in bacio qualcuno che gli
ha invece riservato amaro tradimento… Cosicché “l’amore senza Dio” ci ha
scacciato tutti.
Il seguito è serrato e brachilogico, una successione breve che disegna il rogo
macchinato dal nano. Egli propone alla Maestà e ai suoi ministri un ballo in
costume. Il suo suggerimento fa leva sullo spirito goliardico e volgare del re,
insinuando l’idea che la messa in scena spaventerebbe e genererebbe scompiglio,
assecondando così l’eccentricità che si conviene a un sovrano che tutto può solo
per comando. Il giullare vendicherà così molti torti e torturerà i potenti
vedendoli bruciare a
morte.
È il rovesciamento della statura apparente, è il far leva sull’inconsistente
idiozia e pecoreccia volgarità di una corte di viziosi arrampicatori senza nerbo
né morale, per consegnar loro la tortura e il marchio di fuoco di una vendetta
che ristabilisce un ordine che appare perduto dacché si ha memoria. Il più
piccolo e deriso, il più insignificante e angariato, usa l’ingegno e l’astuzia
per far cadere in trappola il re e i suoi ministri con la compiacenza della loro
smania di gaudio e sollazzo.
Le parole che Tripitena aveva dedicato a Hop-Frog erano delicate e disegnavano
una filigrana aurea e splendente di amore votivo, avevano invece tuonato feroci
e lapidarie contro gli affaristi di corte e il re che incarnava un potere
volgare fatto solo di guadagno e
pochezza.
La parte finale dei testi di Lou Reed merita anch’essa una menzione, quasi che
fosse il naturale continuo di questo episodio di vendetta e sovvertimento di
regole simili a pesanti catene, e un epifanico avvento di giustizia vera e
ragione incoronata di virtù; anzi, la virtù è la vera assente nella compagine
regale, dedita al sudicio esercizio di mercimoni e speculazioni, così come
moralmente decrepita e legata al vizio e alla dismisura dell’ego.
La parte conclusiva cui accennavamo è la canzone L’angelo custode, dove recita
un Poe giovane assieme a ogni altro personaggio che punteggia l’opera e nella
quale è evocato l’angelo convocato al proprio capezzale da chi teme paura e
solitudine, un angelo che dispensa e protegge dal male, un angelo che suggerisce
che l’unico modo per rovinarsi è smettere di confidare in sé. Che ha sempre
mostrato dove fosse il bene, tra tempeste perfide e tambureggiare di cristalli,
alla destra di chi soffre e spera; e se l’istinto era in errore, questi
suggeriva e correggeva.
Un angelo che mostra il sogno laddove è ben desto l’incubo. Per chi “vicino ai
libri sotto le tazze da tè/ tiene una specie di inferno”, e per il quale panico
e angoscia sono ospiti consuetudinari; per colui, infine, per il quale tutto è
rifuso nelle immagini (di un simbolismo puntuale a icastico) che seguono: “il
tappo di champagne – il gufo alla luce della luna/ un corvo e un’anatra/ la
semenza di genitori in pena/ e del tuo amore che perde la speranza…”
Tutti sembrano avere un angelo che li protegge e veglia sui loro affanni e le
loro speranze, così compenetrati da cambiare di volto gli uni con le altre,
perché “Amore e fortuna hanno vite incantate/ e tutte le cose possono essere
rivoltate” (e noi pensiamo a colpa/rovina e sollievo/trionfo, caduta e ascesa,
al dominare e al soccombere, alla ragione più arrogante e al cuore più umile e
grato, al sogno e all’incubo, alla statura apparente e a quella che cala
l’ideale nel concreto, e tutte assieme che cozzano senza elidersi e danno
fermento e vita al prodigioso spettacolo di una compagnia umana sospesa tra il
sublime e la burla, tra il magnifico e l’infimo, tra le luci più fulgenti e le
tenebre più mortifere, tra una virtù da “baraccone” ed una virtù
inoppugnabilmente splendida).
Ed è forse lecito ricordare, a questo punto, che ogni colpevole ha un testimone,
se non altro in se stesso, e che una colpa orba a sé è la più esiziale delle
menzogne. Ogni disegno ha una strada ma non tutto è giusto, non tutto risarcisce
e sana, quasi niente è dato avere in amore, se non un sogno desto che si
giustifica senza tregua, estenuanti sensi di colpa e perdizione che
tambureggiano come un tell-tale heart sotto l’assito dell’anima. Perché l’ordito
di Lou Reed ricalca le opere di origine simile a una cuspide di luce capace di
brillare oggi di un’aura ancora veritiera; e ferisce a fondo “l’arroganza della
mente” – al di là di ogni colpa riconosciuta o non riconosciuta. Ed è proprio la
colpa nelle sue proteiformi sembianze ad attraversare queste notevoli
riscritture, assieme a un’esistenza di ombra o una vita come una macchia
tumescente che insiste in ciò che “non si deve” recando danno precipuamente a
sé.
Il resto è un canto ora sommesso ora corrusco e vitale di ombre, visoni e
parvenze larvate che si agitano nel teatro di una vita sognante almeno quanto
ferita. Come appare ne La caduta della casa degli Usher, per Roderick (come per
ogni creatura sensibile fino al morbo di sé) che ha sensi così acuiti da
mangiare solo cibi insipidi, indossare abiti impalpabili, essere abbacinato da
una luce appena meno fioca di un cero, e trovare opprimente perfino il profumo
dei fiori, il confine tra sanità e malattia, tra tara e superstizione è assai
labile e la visione non è il prodotto di “fenomeni elettrici” niente affatto
rari, ma la rima funerea e veridica col proprio rimosso, una voce che ascoltare
può condurre alla follia ma alla quale non si può rinunciare senza rendere le
proprie armi vinte persino al cospetto di sé; il nemico siamo noi, in
definitiva, e
> “la mente capricciosa si confonde con il futuro che essa stessa prevede e si
> ripiega su di sé con ribrezzo e terrore. Con la premeditazione e con il
> semplice pensiero, siamo condannati a conoscere la nostra fine”.
E nella “valle inquieta” di Roderick “non sono forse tutte le cose belle
lontane?” Una valle dal fiume malato e i monti raggelati in un “rigor mortis”
atavico e inappellabile, lontana essa stessa come il sole “allettato
nell’orizzonte luminoso”, e dove egli, come l’occhio umano, “si è chiuso per
sempre” colpevole di non udire il pulsare del cuore ma “solo lacrime di perfetto
pianto”.
Là un tempo regnava “Re Pensiero”, la cui arguta saggezza era cantata da voci di
impareggiabile dolcezza, in un reame dove il vento portava fragranza di rari
fiori e tutto era armonia e virtù sotto l’egida di un fiero emblema baciato dal
sole – pressappoco così scriveva Poe –, e là regnano ora discordanti melodie,
disordine e risa, ma mai pi un sorriso. Mai più.
E “mai più” è la parola chiave che compare con ripetute anafore anche ne Il
corvo, l’originale.
Da sottolineare che la vetta, forse, di questa raffinata opera di Lou Reed,
rimane proprio la riscrittura della lirica Il corvo, sublimemente fastosa, di
un linguaggio poetico prezioso e decadente, in carattere con l’originale e tale
da evocare con potenza un canto funebre e plutonico che echeggia di assenza fino
quasi allo smarrimento del confine tra ragione e distorsione onirica, e in cui
il lutto è compenetrato all’amore… L’amore un grido di impossibilità (non solo
fisica) di adempienza alle leggi sovrane di un cuore stregato.
Massimo Triolo
L'articolo “Le nostre sorti incatenate”. Lou Reed riscrive Edgar Allan Poe
proviene da Pangea.
Ho sempre trascurato se non, meglio, snobbato il nome di Giacomo Casanova,
ritenendo la pur celebre Histoire de ma vie, l’unica opera sua conosciuta anche
dai non specialisti, soltanto una delle tante memorie del Settecento, che poco o
più tosto nulla avrebbero potuto nutrire chi come me si occupava con pretese e
ambizioni di cultura europea.
Non andai nemmeno a curiosare, né pigliai alcun appunto, quando, molti anni fa,
lessi, non ricordo più dove, una pur curiosa allusione per cui
nell’Histoire l’autore avrebbe riferito di una sua esperienza mistica
coincidente con le classiche del genere. Era la forza del pregiudizio coartata
da, mi sarei accorto, leggende e vaniloqui anche e sopra tutto di intellettuali,
come sempre informatissimi e autorevoli.
Ebbi poi quello che sarebbe stato, senza ch’io lo potessi presagire, l’ultimo e
sereno colloquio con l’amico d’oltre diciassett’anni, alquanto noto a chi
bazzichi librerie, il quale mi avrebbe di lì a pochissimo giocata un’infilata di
delusioni a freddo tale da imporre una drastica e irricomponibile rottura. Mi
parlò delle memorie, e proprio mentre stavo sondando il secolo di Casanova. In
quelle pagine, mi disse, oltre a molto spasso, troverai biblioteche di notizie
sul Settecento in ogni suo aspetto.
Se dell’uomo, come avrei scoperto, non c’è da fidarsi, dello studioso in massima
parte sì; sicché mi procurai in breve la traduzione – Storia della mia vita – di
Piero Chiara e Roberto Fertonani, stampata nei ‘Meridiani’, che trovai nuova a
un prezzo vantaggiosissimo, e sùbito la attaccai.
Sarebbe assai presto venuto il giorno di un biasimo contro Chiara e il suo
allora famiglio, che ancor dura; all’epoca l’introduzione dello scrittore
italiano fu però un ottimo abbrivio, che m’ingolosì più di quanto non avesse
fatto la chiacchierata col mio primo informatore. Restavano tuttavia sprazzi di
diffidenza, che sperai di veder dileguare: e fu quanto accadde dopo le
primissime pagine.
Fui sùbito risucchiato in una vertigine di stupefazione, che si dilatava e
accelerava. A ogni pagina ogni singola voce giuntami su Casanova dai soliti
autorevoli commentatori e intellettuali, veniva sbugiardata, inchiodata alla sua
mendacità, al suo pressappochismo, depistaggi e fraintendimenti erano
svergognati. Che cosa avevano letto? Come lo avevano letto? Nulla del
gabbamondo, del lestofante, del vago predone d’alcove, dell’avventuriere
propalato resta all’inpiedi se solo si legga quell’autobiografia.
La figura emergente dalla Storia è di un essere umano che ha vissuto nella
sequela, afferma egli stesso, della Divina Provvidenza e che presenta sé stesso,
sin dai primi rintocchi, quale cristiano e filosofo. E se si può discutere del
suo cristianesimo (un cristianesimo a ogni buon conto certo assai più cristiano
di quello di tanto sedicenti praticanti cristiani d’oggidì), bisogna in vece
senz’altro concedere a Casanova lo statuto di philosophe, senza tuttavia le
imposture le ossessioni e i pregiudizii della più parte di quelli.
Egli bensì annette all’Histoire le avventure – così come, si badi,
le disavventure, e molte – muliebri, ma il racconto non è mai fine a sé stesso.
Casanova non scrive per vantarsi delle sue conquiste (peraltro non moltissime:
altro dato da scoprire) o per amore di riferire storie pruriginose con cui
accalappiare il lettore e perché altro non ha da dire, altro non pensa, come un
qualsiasi Alberto Moravia. Le intenzioni saranno anche per l’amore
dell’avventura e di una certa libertà che s’andava reinventando in quel secolo,
ma sono funzionali a una visione del mondo, appresa vivendo, anche a traverso i
rapporti con le donne.
Casanova si dimostra un filosofo raffinato e costante, osservatore acutissimo e
disinteressato di città e uomini, e tra i maggiori cronisti dell’epoca sua e non
soltanto. Un uomo e uno scrittore paradossalmente inediti dunque riescono
dalla Storia, benché questa sia stampata a chiare lettere e secondo le
intenzione dell’autore sin dagli anni Sessanta del XX secolo.
Ìndico questa data giacché per circa un secolo e mezzo le memorie circolarono in
versioni appositamente corrotte e mùtile, come ne rende conto Chiara in più
contributi. Non possiamo soffermarci sui dettagli. Questo rapido intervento
serve soltanto a lanciare una «grida», per dirla con Manzoni, che suoni la
sveglia ai molti, troppi pseudolettori di Casanova e a chi ancòra lo trascuri.
Le relazioni con le donne sono state ridotte a manifestazioni priapesche e
ossessive ma che sono in vece istruttivissime, tra il molto altro, per una più
completa e veridica intelligenza sia delle femmine tout court, sia dei rapporti
tra i due sessi nel XVIII secolo, anche a pieno Antico Regime. Le femministe e i
femministi spregiatori dell’epoca prerivoluzionaria si vadano a leggere, a
esempio, quanto sottomesse al “patriarcato” fossero le donne! Fa di poi
sorridere che proprio taluni studiosi casanoviani – categoria assai numerosa e,
va detto, nonostante tutto spesso giovevole – mentre bestemmiano a ragione sulle
contraffazioni cui accennai, altro non seguitino a fare che a rimasticare le
solite stracche e stucchevoli mezze verità e fandonie sul Veneziano e su quel
secolo. Ed è credo proprio a cagione d’una completa distorta percezione
propalata come verità storica e biografica, che da mesi l’anniversario dei
trecento anni della nascita è stato ignorato.
Nemmeno la massoneria, che non perde mai occasione di farsi vanto d’aver avuti
nelle sue fila personaggi illustri, a quanto mi consta s’è spesa per il suo ex
confratello. Ma oltre al disprezzo per il presunto trattamento riservato da
Casanova al genere femminile, ci sono due altre radici della menzogna e
dell’oblio.
Ho accennato alla prima, o sia la professione di cristianesimo, per di più
cattolico, colpa non perdonabile dagli stinti eredi di Robespierre o di
Voltaire. A ciò si aggiunga l’irrefrenabile schifo e orrore nutriti da Casanova
per la rivoluzione francese.
Fu complice nella rimozione e nella distorsione esser la Storia escita proprio
negli anni, già detti, in cui in Italia e in Europa si stavano caricando i
cannoni a letame del Sessantotto, del quale ancor godiamo, rimmarciti, i frutti:
abitudini, protervie, ottusità, professori, giornalisti, continuatori,
imitatori. Giacomo Casanova non è territorio da annessione, per nessuno, se non
a traverso la corruzione. Egli si staglia solitario in tutto il Settecento e
nell’intiera storia europea, con la sua nudità di figura unica, forse davvero la
sola sciolta autonoma libera.
Suggerisco al lettore volenteroso e curioso di farsi da sé il suo Casanova
sguazzando nella Storia e nelle altre splendide opere. Dopo, se vorrà, quando
sarà immunizzato, potrà approfondire con la critica e le biografie, che per il
momento è meglio lasciare sugli scaffali.
Arriverà prima o poi, mi àuguro, chi voglia mettere la casa in ordine, fare a
Casanova – una casa nuova. A cominciare magari dalla stanza da letto.
Luca Bistolfi
L'articolo Solitario, filosofo, cristiano. Note su Giacomo Casanova proviene da
Pangea.
Leggo la Sontag, Rinata. Diari e taccuini 1947-1963, Nottetempo, e penso a suo
figlio, David Rieff, che quei diari e quei taccuini li ha curati. C’è più
privilegio o più perfidia della sorte ad avere avuto una madre che scrive e a
essere diventato un figlio che legge, oltre che un figlio che scrive a propria
volta, abbastanza riconosciuto editorialmente da vedersi richiedere di curare i
diari e i taccuini della propria madre?
Susan Sontag è del 1933, David Rieff del 1952, ci sono fratelli e sorelle che si
danno più anni. La Sontag muore nel 2004. Quando il figlio Rieff comincia a
dover mettere mano ai suoi diari, ereditandoli, ha ormai più di cinquant’anni:
come deve essere, deve essere stato, avere cinquant’anni e leggere di quando tua
madre ne aveva quattordici e già scriveva di sé, dei suoi disorientamenti e
riposizionamenti?
> “Credo: (a) Che non esista un dio personale né una vita dopo la morte”.
David Rieff, secondo Wikipedia, ha avuto una figlia nel 2006, due anni dopo la
morte della madre. Oggi sua figlia ha l’età che aveva sua madre quando ha avuto
lui. Tiene un diario, sua figlia?
Un piccolo capolavoro freudiano me l’ha dato AI Overview quando ho cercato
online il nome della figlia di David Rieff, metti l’avesse chiamata Susan
Junior: “David Rieff does not have a daughter; he had one son, David Rieff, with
his first wife, Susan Sontag”. Secondo la fantasiosa intelligenza artificiale –
che non distingue David da suo padre Philip – David Rieff è il figlio di sé
stesso, avuto con sua madre ch’è stata anche sua moglie. A suo modo,
l’intelligenza artificiale ha dato un ipotetico quadro psicologico tanto
completo quanto scontato, come tutti gli output di cui è capace.
Mentre leggo i diari della Sontag curati da suo figlio di David Rieff ho preso
anche, sul mercato dell’usato perché altrove è già sparito, Senza consolazione.
Gli ultimi giorni di Susan Sontag (Mondadori, 2009) e di suo leggerò anche
altro, anche quello che ha scritto ma non sulla madre, poiché secondo la Luiss
University Press che ne ha pubblicato Elogio dell’oblio David Rieff è un
“Esperto di conflitti internazionali, immigrazione e questioni umanitarie”.
Metti mi stupisca come m’ha stupito Frieda Hughes col suo bellissimo La mia vita
con George. Ricordo di una gazza (Elliot, 2024), che ha nulla da invidiare alle
opere di suo padre Ted Hughes e di sua madre Sylvia Plath. Neanche a dirlo,
l’opera della Hughes è un diario.
Mia madre non scrive, in tanti anni credo non abbia scritto più di un
bigliettino per la famiglia messo sull’albero un Natale, cheppoi lo so le sarà
costato in autoviolenza quanto a Proust per scrivere la sua opera, perché a
Proust piaceva scrivere, al più a mia madre sarebbe piaciuto saperlo fare. Mia
madre e mio padre, che non scrivono, non lasceranno diari e taccuini, e di
questo gli sono grato fin d’ora. Non dovrò confrontare la mia verità su di loro
con la loro su sé stessi e su di me.
Annoto agende da quando ho quattordici anni, come la Sontag, ma non sono
diventato una Sontag per cui non c’è il rischio che qualcuno debba mai essere
costretto a spulciarle per tirarne fuori qualcosa di pubblicabile, a dragarle in
cerca di qualcos’altro da dare in pasto all’avidità dei lettori guardoni, e
comunque le mie agende piene di farneticazioni non le lascerei a nessuno o se sì
certamente non alla donna che mi ha sposato o a mia figlia o a un chiunque sia
che mi avrà conosciuto in vita. Magari a qualche fondo di fissati con le
ampollose e pallosissime scritture diaristiche, se ancora ce ne saranno. A fini
di studio più sociologico che psicopatologico su quel vizio ormai sempre meno
privato della (non)scrittura diaristica.
In David Rieff che cura i diari e i taccuini di Susan Sontag, in un figlio che
per-lavoro deve leggere tutte le memorie personali di sua madre, ci vedo una
trama invisibile e terribile, così come in Ted Hughes e la madre di Sylvia Plath
che decidono cosa pubblicare e cosa no dei diari della Plath, solo che nel
secondo caso ci vedo una cinica storia di potere, nel primo invece una storia
d’amore crudele come tutte le storie d’amore.
Un appunto del 23/4/61 – nel 1961 Susan Sontag non è ancora diventata la Sontag,
si è separata da Philip Rieff nel 1958 e ha in corso una defatigante relazione
amorosa con Irene Fornés, relazione contro cui Philip Rieff si appellò per
ottenere la custodia del figlio David (ma questo me l’ha spifferato AI Overview,
non escludo dunque si sia inventato pure quest’altra volgare ovvietà): “La vita
emotiva è un complesso sistema fognario.”
antonio coda
L'articolo Susan Sontag & Co. ovvero: storie di diari, di figli e di scritture
ereditate proviene da Pangea.
Paradosso, sospensione, spazio; all’interno dei microcosmi in cui impulso e
controllo, violenza e ironia convivono sotto la polvere, vige un luogo dove
fragilità e maestà si concedono al minimalista. In modo preciso e frammentario,
senza ridurre la complessità, si fa della poesia un laboratorio d’etica. Nel
panorama del materiale ci si confronta con la forza residua della parola, e gli
svizzeri rispondono audacemente con un equilibrio profondamente umano, fin
troppo.
Tra le voci più singolari della letteratura svizzera del secondo Novecento, Kuno
Raeber occupa un posto che sfugge a ogni definizione. Ex gesuita, visse la
scrittura come una forma di fede personale, e concepiva il suo lavoro “per sé
stesso, ‘L’art pour l’art’”, come confidò nel suo diario nel 1982. Questa
intransigenza lo rese un outsider, anche quando sembrava vicino al centro. Negli
anni del Gruppo 47 diventò amico di Ingeborg Bachmann e di Enzensberger, ma fu
presto respinto da quel mondo. L’insulto di Walter Jens in un convegno lo segnò
a fondo. La sua risposta fu radicale; fare della lingua il proprio rifugio
cosmico, un equilibrio di forze polari.
> “L’artista può solo essere identico a se stesso. Altrimenti non è nessuno”.
Dopo essere stato definito “un monomaniaco delle parole”, i suoi diari furono
paragonati a quelli di Kafka; entrambi scrivono come chi lotta per sopravvivere
alla parola stessa. Al cuore del suo pensiero, però, sta la teoria della memoria
artistica. Le cose cambiano con lo sguardo che le pensa. L’arte, per Raeber, non
inventa ma ricorda. Scava nella materia del mondo (Weltstoff) per far
riaffiorare significati nascosti. Da qui la sua avversione per l’astrazione e
per ogni forma di illusione mimetica. Il linguaggio, diceva, deve restare
“flessibile, chiaro e profondo”.
Nei suoi testi, mito e quotidiano si sovrappongono come in un palinsesto.
Influenzato da Ovidio e Borges, intreccia figure sacre e terrestri, corpi e
simboli, in una prosa densa e incantata. Negli anni Ottanta tornò alla poesia,
come se volesse chiudere il cerchio.
Morì di AIDS nel 1992, durante una visita a Basilea.
> “Tutto per me si riferisce sempre più decisamente ad esso. Per me non è altro
> che questo enorme poema, questa montagna di parole, questo libro totale che
> cerco di realizzare.”
Oggi Raeber è considerato un poeta di microcosmi lirici, capace di concentrare
in pochi versi la complessità dell’esperienza umana: violenza e ironia, presenza
e assenza, impulso e controllo. La sua poesia, tradotta in modo frammentario in
Italia, ha influenzato lettori e poeti contemporanei che cercano di esplorare la
fragilità della parola e la densità emotiva dei testi brevi. Raeber dà
importanza alla sonorità delle parole e al modo in cui esse possono diventare
esistenza autonoma. Tende a concentrare la sua attenzione sulla persistenza
della voce come residuo della presenza. In questa poesia, da me tradotta, si
trova l’immensità di una voce soavemente stridula.
Kuno Raeber (1922-1992)
Zikade (Cicala)
Einst bleibt (un giorno resterà)
von mir nur noch die Stimme. (di me soltanto la voce.)
Du wirst mich in allen (Tu mi cercherai)
Zimmern suchen, (in tutte le stanze,)
auf den Treppen, in den langen (sulle scale, nei lunghi)
Fluren, in den Gärten, (corridoi, nei giardini,)
du wirst mich suchen im Keller, (tu mi cercherai in cantina,)
du wirst mich suchen unter den Treppen. (tu mi cercherai sotto le scale.)
Einst wirst du mich suchen. (Un giorno mi cercherai.)
Und überall wirst du nur meine Stimme (E ovunque tu soltanto la mia voce)
hören, meine hoch monoton (sentirai, la mia alta, monotona,)
singende Stimme, überall wird (voce cantante,ovunque )
sie dich treffen, überall (ti troverà, ovunque)
wird sie dich foppen, in allen (ti prenderà in giro, in tutte)
Zimmern, auf den Treppen, in den langen (le stanze, sulle scale, nei lunghi)
Fluren, in den Gärten, im Keller, (corridoi, nei giardini, in cantina,)
unter den Treppen. Einst (sotto le scale. Un giorno)
wirst du mich suchen. Einst (tu mi cercherai. Un giorno)
bleibt von mir nur noch die Stimme. (resterà di me soltanto la voce
Già dall’incipit – “Einst bleibt von mir nur noch die Stimme” – Raeber rovescia
la concezione tradizionale della morte e della sopravvivenza poetica. Non è il
corpo a permanere, né l’opera in senso materiale, ma la voce; ciò che
dell’essere è destinato a risuonare oltre la fine. Il poeta non parla più come
un soggetto incarnato, ma come ciò che di lui continua a farsi udire nel mondo,
come pura vibrazione, come resto sonoro. L’idea di voce in Raeber non è dunque
fisica, bensì ontologica: essa è la traccia del passaggio dell’essere nella
parola. È la sopravvivenza del suono come forma di presenza, anche quando ogni
presenza concreta è scomparsa.
In questa prospettiva la poesia si avvicina a quella dimensione
che Heidegger definisce Stimme des Seins, la “voce dell’essere”. La voce, per
Heidegger, non è semplicemente il mezzo con cui l’uomo comunica, ma il luogo in
cui l’essere si apre all’ascolto. Essa richiama il Dasein, lo convoca nel mondo,
lo fa desto alla propria finitudine. La voce è ciò che resta dell’essere quando
il soggetto è venuto meno, il luogo in cui l’essere continua a dire se stesso.
Ma in Raeber questo è un gesto inquieto, quasi ossessivo. La voce che rimane è
“hoch monoton singende”, alta, monotona e cantante. Non consola, non lenisce,
ma perseguita chi ascolta. È una voce che non smette di ritornare, un suono che
non si placa mai.
Qui la riflessione di Raeber si avvicina a quella di Derrida, per il quale la
voce rappresenta la promessa e insieme l’impossibilità della presenza.
Nella trace, nella traccia, la voce si mostra come ciò che resta dell’assenza. È
presenza che non cessa di mancare, segno che rimanda sempre a un’origine
perduta. Così la voce di Zikade (Cicala) è ciò che resta del soggetto, ma anche
ciò che testimonia la sua dissoluzione; non è più “la mia voce”, bensì una voce
che parla al mio posto, che continua a risuonare quando il soggetto non è più.
Il tu lirico a cui la voce si rivolge – “du wirst mich in allen Zimmern suchen”
– rappresenta l’esperienza del lutto. È colui che cerca una presenza perduta,
che tenta di ricomporre la figura dell’altro attraverso ciò che di lui
rimane. Ma la voce di Raeber non conduce al ritrovamento. Essa sfugge e deride
chi la cerca. È una voce spettrale, che non si lascia afferrare né localizzare,
che risuona “überall”, dappertutto, nei giardini, nei corridoi, nella
cantina. Il suo essere ovunque è anche il suo essere in nessun luogo. Come lo
spettro descritto da Derrida in Spectres de Marx, la voce di Raeber non
appartiene né al regno dei vivi né a quello dei morti: è una presenza sospesa,
un’esistenza che insiste.
L’intera architettura del testo riflette questa condizione. Il poema è costruito
come una figura speculare, in cui la seconda metà ripete e varia la prima. Le
stesse parole (Zimmer, Treppen, Fluren, Gärten, Keller) ritornano, dispiegandosi
in un movimento di eco continuo. Questa ripetizione non è semplice insistenza
formale, ma incarnazione del tema stesso: la voce che ritorna, che si
rispecchia, che si ripete fino a svuotarsi. Il ritmo trocheo, con la sua caduta
regolare, e la predominanza dei suoni acuti e del dittongo ei, creano una
struttura sonora che traduce materialmente la “monotonia alta” evocata nel
testo. La poesia non parla della voce, È voce. Non rappresenta il suono, ma lo
produce; non descrive l’eco, ma lo diventa.
Il titolo Zikade chiarisce ulteriormente questa concezione. La cicala, nella
mitologia greca, è la creatura che ha rinunciato al corpo per vivere soltanto
nel canto. In Platone, nel Fedro, si racconta che le cicale erano un tempo
uomini, i quali, rapiti dal piacere del canto, dimenticarono di nutrirsi e
morirono. Le Muse li ricompensarono trasformandoli in esseri che non hanno più
bisogno di cibo né di riposo, e che possono cantare ininterrottamente fino alla
morte. Raeber recupera questa immagine, ma ne rovescia la valenza. Il suo canto
non è celebrazione, ma condanna; la cicala di Zikade è una voce che non sa
tacere, un suono che non trova pace, un canto che osa continuare dopo la vita.
> “L’opera d’arte, intesa non solo come espressione momentanea, ma come mondo
> completo, come progetto di un mondo alternativo, ha preso il posto della
> Chiesa.”
In questo senso la poesia di Raeber si colloca in uno spazio di confine tra voce
e scrittura. La voce di Zikade vive soltanto nella pagina, nella ripetizione
tipografica delle parole, e tuttavia quella scrittura si comporta come suono. La
poesia tiene insieme i due poli che la filosofia occidentale ha spesso
contrapposto; la voce come immediatezza della presenza e la scrittura come
distanza e rinvio. Raeber, invece, mostra che la voce poetica è possibile solo
dentro la scrittura, e che la scrittura è viva solo in quanto risuona.
La ripetizione, il minimalismo, gli enjambements e l’uso dello spazio fisico e
mentale creano una densità lirica che invita a sostare, a confrontarsi con la
complessità dell’altro e con le tensioni morali e psicologiche della vita. Tra
muse, cicale, scale e cantine, la sua voce, alta, monotona, ossessiva, continua
a vibrare oltre la morte. Come se alla fine non l’uomo, ma la lingua, fosse la
vera sopravvissuta.
Tommaso Filippucci
*In copertina: un’opera di Alfred Kubin (1877-1959)
L'articolo “Questo libro totale che cerco di realizzare”. Kuno Raeber,
monomaniaco delle parole proviene da Pangea.
> «“Ningen Sabaku”, deserto di umanità, è il termine che i giapponesi usano per
> indicare Tôkyô. Questa spaventosa e affascinante megalopoli inghiotte ogni
> anno molte migliaia di persone che svaniscono nel nulla come ombre».
>
> Dall’introduzione di Gian Carlo Calza(Longanesi & C., “La gaia scienza”,
> Milano, 1972)
Non potrò più né nominarla né pensala impunemente; né, sedendo su una spiaggia o
tra le dune di un ipotetico deserto, considerarla inerte – stupido! – e priva di
un vago senso di minaccia, latente o sopito. Dopo essere scivolato come in un
cratere terrestre dentro alle pagine de La donna di sabbia di Kōbō Abe, la
sabbia mi risuonerà negli orecchi per sempre come sinonimo di lavoro, di
schiavitù e di morte. D’ora in poi, non dimenticherò più d’annoverarla come il
quinto elemento naturale, di rilevanza mitica ai miei occhi, al pari dell’acqua
e del fuoco, dell’aria e della terra.
Considerata statica e arida, alla luce di questo romanzo, insignito del Premio
Unesco quale “opera rappresentativa” del patrimonio letterario universale, la
sabbia diventa agente dalla volontà autonoma, penetrante, umida e corrosiva;
un’entità bifronte con cui è meglio non averci niente a che fare. Capace di
spingersi fin dentro ai reconditi anfratti dell’animo umano, in grado di
impossessarsi della dimensione materiale e immateriale del mondo, essa è in
perenne movimento, e si sposta, e muta d’assetto, pur preservandosi, nella sua
primitiva e spietata essenza, uguale a sé.
Questo eterno nomadismo la rende cosa assolutamente viva e, allo stesso tempo,
ne decreta un carattere ostile verso qualsiasi altra forma di vita che presso di
essa tenti di insediarsi.
> “La sabbia non si riposa mai. Senza rumore, ma con certezza, invade la
> superficie della terra distruggendola a poco a poco… L’immagine della sabbia
> che continua a spostarsi dette all’uomo uno choc indicibile e lo eccitò.
> Pareva che la sterilità della sabbia non fosse semplicemente dovuta alla
> siccità, come viene interpretata in genere, ma alla sua mobilità perenne che
> rifiuta la presenza di ogni forma di vita dentro di sé. Quale sollievo se si
> pensa al senso opprimente che comporta ogni realtà di questo mondo, che ci
> costringe persistentemente a rimanerle aggrappati! Certo, la sabbia non crea
> un ambiente adatto per la vita. Ma è davvero assolutamente indispensabile
> stabilirsi in un luogo per vivere? Non è forse il desiderio di stabilirsi in
> un luogo che dà il via a quella concorrenza obbrobriosa tra gli esseri
> viventi? Se uno rifiutasse di stabilirsi in un luogo e si lasciasse andare
> insieme ai movimenti della sabbia, non ci sarebbe più la possibilità di
> concorrenza.”
L’insegnante Junpei Niki, entomologo amatoriale, decide di trascorre le ferie
andandosene a caccia di nuove specie di insetti. In particolare, spera di
scoprire un inedito esemplare di cicindela che, secondo le sue supposizioni,
sopravvive negli habitat sabbiosi e di poter così iscrivere il proprio nome, a
futura memoria, negli elenchi delle enciclopedie specializzate. Approda perciò
in uno sperduto villaggio di campagna, in un’ampia zona desertica del Giappone.
Al calar del sole, su una delle centinaia di dune che assolvono al compito di
omologare visivamente il paesaggio circostante, l’uomo viene avvicinato da un
vecchio che, malgrado un primo approccio brusco e diffidente, gli offre poi
ospitalità notturna presso una delle case del villaggio. Ingannato
dall’apparente buona fede del vecchio, l’uomo (definito genericamente “uomo” per
l’intero arco del romanzo e quindi, privato dell’identità nominale, già relegato
in qualche misura allo status di persona scomparsa) si lascia guidare presso la
dimora promessa.
La casa è costruita sul «basso ventre» di una buca enorme, scavata per decine di
metri nella sabbia. A sporgersi dal bordo, della casa in basso s’intravedono
soltanto il tetto e il porticato pencolante. Nient’altro. Il vecchio lo invita
allora a calarsi tramite una scaletta di corda, prontamente allestita, e,
nonostante le perplessità iniziali che nutre, l’uomo decide di dargli ascolto.
Cosa mai potrà succedermi, sembra pensare lui mentre affonda volontariamente
nella buca, sono Junpei Niki, nato il 7 marzo 1927, ho una compagna, amici e
colleghi, ho regolare contratto di lavoro con l’istituto scolastico, faccio
parte di cerchie rispettabili e di una più ampia, e anch’essa assai
rispettabile, società civile; sono oggetto di tutele da parte del sistema
sanitario nazionale e protetto dai codici giuridici di molti tribunali, ai quali
posso fare appello in caso di controversie o, dio non voglia, di atti di
violenza.
Ma non appena mette piede sul fondo della buca, il vecchio ritira su la
scaletta. Con essa non svanisce soltanto la possibilità fisica di tornare
al conforme mondo di fuori, ma scompaiono le ferree convinzioni su cui quel
mondo si ergeva, tanto inamovibile e sicuro. È l’innesco dell’incubo.
> “Alla vista della donna, l’uomo rimase senza fiato dimentico del dolore negli
> occhi. La donna era completamente nuda. Nella visione offuscata dalle lacrime
> la donna sembrava galleggiare nell’aria come ombra. Supina sul pavimento di
> giunco intrecciato, era distesa con l’intero corpo completamente nudo, salvo
> il viso, una mano leggermente appoggiata sul basso ventre, gonfio sotto la
> vita ben tornita. Le parti che rimanevano abitualmente nascoste erano esposte,
> mentre il viso, la parte che nessuno ha paura di mostrare agli altri, era
> accuratamente nascosto sotto un asciugamano. Comprensibilmente, era per
> difendere dalla sabbia gli occhi e l’apparato respiratorio, ma il contrasto
> parve far risaltare la nudità del corpo. Per di più, tutta la superficie del
> corpo era ricoperta da un velo finissimo di sabbia dai granuli minuscoli. La
> sabbia celava i particolari del corpo mettendo però in rilievo le curve
> tipicamente femminili; tutto sembrava una statua argentata di sabbia.”
Nella casa in fondo alla buca, abita una donna anonima, tanto remissiva nel
privato quanto assoggettata alle logiche sistemiche perverse del villaggio che
sopravvive anche grazie al suo faticoso e insensato lavoro di spalare la sabbia,
in cambio della razione giornaliera d’acqua e di cibo. La donna accoglie l’uomo
con sospetto. Rifà il letto, in silenzio. Prepara l’acqua calda in bollitori
infestati di sabbia, in silenzio. Il suo mutismo è un’omissione volontaria della
verità. Non sa quanto, se e come aprirsi con il nuovo venuto. E tra i due
s’insinua una tensione prima verbale, fatta di continue richieste da parte
dell’uomo – perché, come mai, che succede – che la donna, evasiva, lascia
inesaudite. Poi questa stessa tensione si gonfia e si ramifica in una necessaria
attrazione sessuale – magnifica qui l’associazione di Kōbō Abe tra la copula e
una fredda redazione d’incartamenti, di atti notarili e di certificati, immagine
che desublima l’attività “scandalosa” a mero scambio di liquidi
corporei, burocratizzato e su cui, conclusa la transazione, apporre un timbro di
visura. I due esseri umani, come ologrammi, appaiono a un tempo naufraghi e
reduci, esiliati e proscritti da un mondo tentacolare che non ne contempla la
morte, e li alimenta, soltanto per ragioni d’opportunismo.
Il vecchio, infatti, cala nella buca una pala per «il nuovo arrivato». Quella
pala è il contrassegno che suggerisce all’uomo d’integrarsi bonariamente, senza
scalpitare; è l’utensile attraverso cui siglare un accordo di lavoro che lo
renderà utile agli occhi della comunità del villaggio e perciò degno d’essere
mantenuto in vita. La cosa appare all’uomo del tutto assurda ed è qui, ai primi
vagiti della sua disperazione, che inizia a franare il muro tra la realtà
finzionale e la realtà del lettore, che patisce la deriva del protagonista in
queste infinite onde – di sabbia. La sprezzante, delicata e ultra-nichilista
metafora intessuta dall’autore ha come obiettivo, mai dichiarato, di accorciare
le distanze tra i due piani, di far sì che quella sabbia onnipresente possa
strisciare fuori dalle pagine e mettersi lentamente a consumare, a logorare e
infine a sgretolare le certezze, i pilastri santi e intoccabili su cui un
individuo strutturato del nostro tempo crede di fondarsi.
> “Nessuna notizia indispensabile. Una torre di illusioni costruita con mattoni
> inesistenti, messi su da mani disordinate. Se, tuttavia, le notizie fossero
> state tutte indispensabili, la realtà sarebbe stata come un oggetto di vetro
> soffiato, così fragile da non poterlo toccare con le mani. In fin dei conti,
> la vita quotidiana è piena zeppa di cose illusorie. Per questo, tutti,
> consapevoli del non senso delle proprie azioni, fissano il centro del compasso
> nella propria casa.”
Chissà com’è il mondo quando non ci siamo. Le cose distanti si ammantano di un
fascino inaudito, allattando desideri e fantasmagorie, e quelle vicine, facili
da afferrare o di cui si è già in possesso, vengono ricacciate nella vasta cesta
della noia e declassate d’ufficio tra i fumi dell’abiura. È così che all’uomo,
di fronte alla tanto agognata possibilità di fuggire concretamente dalla buca,
si spegne in gola, tra le irritazioni causate dalla sabbia ingerita, anche
l’ultimo desiderio.
> “Guardando in su verso l’orlo della buca, messo in rilievo dal chiaro della
> luna, l’uomo pensò che quel sentimento bruciante si chiamava forse gelosia.
> Geloso delle vie cittadine, dei treni che trasportavano i lavoratori, dei
> semafori agl’incroci delle vie, della pubblicità sui pali della corrente,
> delle carogne dei gatti, delle farmacie dove vendevano anche le sigarette,
> geloso di tutto ciò che esprimeva la densità della vita sulla terra. Come la
> sabbia aveva intaccato le pareti interne di legno e i pilastri, la gelosia
> l’aveva trafitto lasciandogli un buco nel corpo, rendendolo vulnerabile come
> una pentola vuota messa sul fornello. […] Benché si trovasse tuttora in fondo
> alla buca, l’uomo si sentiva ormai come in cima a una torre altissima. Forse
> il mondo era stato capovolto e le sue vette e le sue valli erano state
> rovesciate.”
La donna di sabbia è una violenta e dolorosa presa di coscienza dell’infamante
condizione umana, dibattuta tra il giogo della fame e quello del lavoro. Uno
spettacolo di marionette in cui si intuiscono chiaramente sia i fili di
controllo sia le dita del burattinaio. E l’aspetto più desolante è che tutto,
all’interno e all’esterno della narrazione, risulta strettamente normale,
normato.
Uomini e donne che, oggi ancor più che nel 1962 (anno della prima edizione
giapponese), vengono filati su un telaio dalle trame geometriche, ripetitive e
conformiste. Colui che fu insegnante e ossequioso contribuente all’erario, è
adesso, per sempre e soltanto, un uomo che aderisce, suo malgrado, all’utero di
terra a cui non sapeva di appartenere. Qui, non c’è un viaggio di ritorno. Qui,
non esiste caverna platonica che regga. Ogni azione porta al seppellimento
della precedente fino a che non si avrà più nemmeno voglia di muovere un
muscolo. Dentro o fuori la buca, fa lo stesso. Misurati sulla bilancia gli
esisti della propria esistenza, è semmai il fuori a risultare posticcio e
inflazionato. Presso quale illusoria idolatria decideremo di sacrificare
interamente i nostri giorni? Con quali scuse, per esserci lasciati traviare
dalla nostra natura, ci accosteremo all’estremo respiro? Con quante e quali
convinzioni, giuste o sbagliate, ma necessariamente indotte dall’esterno,
moriremo infine? Da dèi invincibili e onnipotenti, a umilissimi insetti che in
sé non sono capaci di covare altro che il germe di un servilismo degno del più
belante ovile.
P.S. Questo libro è sconsigliato ai convinti sostenitori della propria univoca
postura nel mondo, ai patrocinatori delle campagne per l’installazione di nuove
piante sulle scrivanie al fine di abbellire le forche impiegatizie dette
uffici, agli zelanti conferenzieri della logica usuraia del lavoro che dà il
pane ed esige la vita, ai trombettieri del «bisogna immaginare Sisifo felice»,
puah!, ai carcerieri inconsapevoli di quelle gabbie, mentali e non, che mai
risultano dorate abbastanza e che pure elargiscono soddisfazioni a iosa,
mascherando la prigionia con l’autoaffermazione, la schiavitù con la libertà; e,
va da sé, scoraggio dalla lettura gli entomologi principianti.
A ciascuno la propria pala, che di sabbia, e di buche in cui rintanarsi, ne è
pieno il mondo. Le manovre per scavarci la tomba sono iniziate da un pezzo.
Siamo in ritardo. Non demordiamo!
Vincenzo Montisano
L'articolo Manovre per scavarci la tomba. Kōbō Abe o del deserto della nostra
umanità proviene da Pangea.
Ana Blandiana nasce con il “marchio di Caino”. Figlia di un insegnante reduce
della Grande Guerra, arrestato perché “nemico del popolo”, pubblica il primo
libro, Prima persona plurale, poco più che ventenne, nel 1964. È uno shock. Il
libro, manomesso dai censori, è irriconoscibile.
> “Strofe soppresse, versi aggiunti, titoli cambiati, tantissime parole
> sostituite: questo volume per me rappresenta il simbolo dell’impotenza
> rispetto al sistema e alla sua arroganza, alla sua capacità di manipolazione”.
In una poesia, Ana Blandiana canta la pioggia, “amo la pioggia, amo la pioggia
alla follia”. Quei versi, un acquazzone di gioia, fendono il grigiore della
Romania ‘sovietica’: pur mutilato, il libro ha successo, alla figlia di un
nemico dello Stato è aperto l’accesso all’università.
Sarà l’inizio di una lotta incessante contro gli orrori del regime.
L’importanza di Ana Blandiana nella Romania comunista è pari, per aristocrazia
d’ingegno, a quella di Anna Achmatova in Unione Sovietica. I suoi versi,
proibiti, vengono imparati a memoria, spacciati clandestinamente nei sottoscala
come gesti di ribellione, come atti d’amore. La poesia di Ana Blandiana,
vertiginosa – ora raccolta da Bompiani in Raccolto d’angeli, a cura di Mauro
Barindi –, rigurgita di creature celesti. Ci sono angeli sporchi di fuliggine,
angeli “che hanno indossato abiti d’uccello” e “vecchi angeli maleodoranti/ con
puzzo di rancido nelle penne umidicce,/ nei radi capelli,/ nella pelle che si
squama in isole di psoriasi”. Ci sono angeli, in questa lirica apocalisse, che
“presto saranno processati”.
Nel 1988, già riconosciuta come uno dei più potenti poeti al mondo, la Romania
di Ceaușescu ordina che i libri di Ana Blandiana “vengano proibiti e tolti dalle
biblioteche, perfino quelli in cui è citato anche solo il suo nome” (Barindi).
In Italia, Andrea Zanzotto guida un appello contro le persecuzioni perpetrate ai
danni della poetessa rumena. In seguito al rovesciamento del regime, Ana
Blandiana viene cooptata dal Fronte di Salvezza Nazionale di Ion Iliescu; se ne
allontana appena avverte i sintomi della solita politica, deformata dal virus
della vendetta, della perversione ideologica.
In uno degli ultimi testi, raccolti in Variazioni su un tema dato (2018), Ana
Blandiana ritorna all’epoca della catastrofe comunista.
> “Se avessimo come un tempo i microfoni nascosti in casa, le spie in ascolto,
> mentre mi registrano, mi considererebbero senz’altro una pazza, mentre ti
> parlo di ogni sorta di cose… dicendoti ti amo, così, al presente, e
> augurandoti buona notte prima di spegnere la luce”.
Il potere è terrorizzato – sempre – dal poeta che, svergognatamente, ama. La
poesia, ha scritto Iosif Brodskij, il grande poeta ribelle ai diktat sovietici,
“sollecita nella persona il senso della propria individualità, unicità,
separatezza”, trasforma ogni volto – perfino il più perfido, il più infido – in
qualcosa di umano. Già. Il poeta ha l’audacia di amare, di aprire uno spazio di
bellezza – per quanto angusto, per quanto modesto – mentre tutto intorno è
orrore.
Che rapporto c’è tra la poesia e il potere? O meglio: il potere della parola
poetica che cosa può contro i potenti?
Stranamente, mentre nelle democrazie il potere politico è in maniera assoluta
indifferente alla poesia e alla letteratura, come pure ai loro autori, i
dittatori hanno dimostrato in numerose occasioni di essere addirittura
ossessionati dal potere della parola e di coloro che lo detengono. Come si è
visto nell’incredibile conversazione tra Putin e il leader cinese, i dittatori
sono preoccupati dall’immortalità e dalla posterità, di cui i poeti sono per
tradizione i detentori. Da qui deriva la testardaggine dei dittatori di volerli
assoggettare, comprandoli o mettendoli in prigione, al fine di ottenere qualche
buona referenza nell’eternità. In questo senso il comportamento di Stalin è ben
noto e la dice lunga sulla sua paura riguardo al potere dei poeti che non
possono essere prezzolati, perché la loro protesta non è riferita solo al
presente ma anche al futuro.
Che rapporto c’è tra la poesia e il potere?
Stranamente, mentre nelle democrazie il potere politico è in maniera assoluta
indifferente alla poesia e alla letteratura, come pure ai suoi autori, i
dittatori hanno dimostrato di essere ossessionati dal potere della parola e da
coloro che lo detengono. Come si è visto nell’incredibile conversazione tra
Putin e il leader cinese, i dittatori sono preoccupati dall’immortalità e dalla
posterità, di cui i poeti sono per tradizione i detentori. Da qui deriva la
testardaggine dei dittatori di volerli assoggettare, comprandoli o mettendoli in
prigione, al fine di ottenere qualche buona referenza nell’eternità. In questo
senso il comportamento di Stalin è ben noto e la dice lunga sulla sua paura
riguardo al potere dei poeti che non possono essere prezzolati, perché la loro
protesta non è riferita solo al presente ma anche al futuro.
Cosa significa scrivere sotto le cesoie della censura?
La differenza tra la parola ‘libera’ e la parola che riesce a essere pronunciata
sotto censura è che quest’ultima ha un’importanza molto maggiore per coloro ai
quali arriva. La prima grande scoperta che ho fatto dopo il 1989 è stata che la
libertà di parola ha diminuito l’importanza della parola stessa. Quando è
libero, l’orecchio di chi ascolta è disattento, indifferente; sotto censura chi
ascolta affila l’udito per cogliere la minima allusione, la più sottile tendenza
alla resistenza. Non erano le parole a spaventare il regime, ma la solidarietà
degli uomini legati ad esse.
Perché ha scelto la poesia (o è stata scelta dalla poesia)?
Ho iniziato a disporre e ad abbinare tra loro le parole fin dalla prima
infanzia, prima ancora di saper leggere e scrivere; poi, dopo aver scoperto la
lettura, ho composto versi ispirandomi a ogni poeta di cui mi innamoravo, e
così, durante l’adolescenza, ho scalato i gradini della storia letteraria fino
ad arrivare a me stessa. Ovviamente, non può trattarsi della scelta di un
destino, ma sono troppo modesta per affermare che sia stato lui a scegliere me.
Cosa significa per un poeta “prendere posizione”? Il poeta è sempre un ribelle:
alle norme del mondo come a quelle del linguaggio?
Vorrei che non si esagerasse il carattere di protesta della mia poesia. È vero
che è accaduto in alcuni casi, diventati celebri (sotto forma di samizdat), ma
in generale, nonostante la mia costante tendenza a ribellarmi come essere umano,
come cittadino, la mia poesia ha sempre posseduto degli anticorpi che hanno
fatto da scudo al coinvolgimento politico, all’impegno legato a un preciso
momento. La prova risiede nel fatto che ha superato le barriere della storia.
Ci sono tanti angeli nella sua poesia: perché?
Se accetta l’idea che la poesia è ostinazione nell’esprimere l’inesprimibile,
allora capirà e sentirà che gli angeli sono strumenti, a volte disperati, di
questa ostinazione.
In cosa crede? Insomma, esiste qualcosa dopo la morte oppure non è che il
niente?
Per me non esiste prova più semplice e chiara dell’esistenza di Dio del non
sentirmi mai sola. Sì, credo che ci sia qualcosa dopo la morte, qualcosa che fa
parte del mistero scoperto dai grandi fisici che hanno studiato la struttura
della materia e dell’universo, diventando quasi mistici. Del resto, Einstein
parlava quasi come Dante dell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» e si
considerava scientificamente irrealizzato, perché non era stato in grado di
trovare la formula matematica di questa forza.
Che senso ha la poesia oggi, in un’epoca lacerata dall’orrore, dalla violenza
senza mediazioni?
Il senso della speranza. Una volta ho tenuto una conferenza dal titolo “La
poesia può salvare il mondo?”. La mia risposta era sì e raccontavo delle
migliaia di poesie composte e trasmesse tramite l’alfabeto Morse (senza carta né
penna, oggetti proibiti) nelle prigioni comuniste della Romania degli anni
Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, a dimostrazione del fatto che quando
sentono minacciata la loro stessa essenza, gli uomini ricorrono alla resistenza
attraverso la poesia.
A cosa serve la poesia: a vivere, a sopravvivere, a morire, a restare felici, a
trovare se stessi (o a perdere il senso del sé)?
A tutto questo e, oltre a questo, alla certezza che, essendo così difficile da
capire e da definire, la poesia fa parte di quella realtà in cui gli antichi
greci riponevano la loro fiducia e che chiamavano “kalokagathìa”, una parte che
non potrà mai essere sconfitta perché fondata sul masochismo dei buoni. Del
resto, questo è anche il punto di continuità con il cristianesimo.
Ritagli una manciata di versi dalla sua opera che, in modo delicato e feroce
assieme, la descrivono.
“Perché sono in grado di capire,
e sono colpevole di tutto ciò che capisco”*
«Pentru că sunt în stare să înțeleg,
De tot ce înțeleg sunt vinovată»
* versi tratti dalla poesia Fără un gest (“Senza un gesto”) contenuta nella
raccolta Arhitectura valurilor (“L’architettura delle onde”) del 1990.
*In copertina: Ana Blandiana fotografata da Emilio Fraile
L'articolo “Ostinata nell’esprimere l’inesprimibile”. Dialogo con Ana Blandiana
proviene da Pangea.
Questa estate io e V. ci assicuravamo che mia figlia e suo figlio non
annegassero mentre giocavano a riva con le onde basse. Lei a me: “Un bambino
impiega meno di dieci secondi per annegare. C’è da dover stare molto attenti,
quando annega il bambino non si dibatte. Si paralizza. Va giù a fondo,
immobile.” Io e V. sorvegliavamo e parlavamo dei casi estivi dello sbrindellato
costume nazionale: il gruppo social “Mia moglie”, il sito Phica.Eu. Lei a me:
“Capisci la responsabilità che sento a crescere un figlio, un maschio? E se un
domani diventa lui quello che pubblica le foto delle sue compagne in un gruppo
per soli uomini fondamentalmente soli? O persino le mie.” Io a lei: “Non è che
dobbiamo diventare tutti Dominique Pelicot. L’hai letto Vivere con gli
uomini della Manon?”. E lei a me: “Tu l’l’hai letto Triste tigre della Sinno?”
Poi l’ho letto. Avrei voluto leggerlo tutto di un fiato, per doverci respirare
all’interno il meno possibile. Ci sono pagine dove si sta come in cantina,
nell’odore di muffa e violenza, col dubbio sia il proprio, quell’odore. Verso la
metà ho dovuto interrompermi, per riprendermi, riprendere fiato. È quando la
Sinno cita una poesia della Pizarnik: “Ricordo la mia infanzia/ quando ero
un’anziana.”
In Triste tigre, Neri Pozza, pensa ha vinto il Premio Strega Europeo nel 2024, è
insopportabile la parte dell’uomo-padre-abusante, quindi potenzialmente la mia?,
quella del figlio di V.?, all’interno della storia che non è una
storia-inventata, emblematica-e-basta come nel caso della Lolita di Nabokov, ma
una storia-storia che chi scrive si sente in dovere di scrivere come non fosse
bastato il doverla vivere. Insopportabile è la parte che ha dovuto subire e a
cui ha dovuto reagire Neige, che racconta di essere stata stuprata da bambina
dal patrigno, per anni. Neige è una vittima che non ci sta a lasciarsi
inscrivere nel protocollo vittimario ma che non per questo si allinea alla
retorica sfinente sulla resilienza secondo cui una vittima può smetterlo di
esserlo, può riscattarsi, e se non ci riesce, beh, allora la colpa diventa anche
sua.
Triste tigre non è soltanto la storia di una bambina stuprata che rifiuta di
essere guardata solo sotto questa lente così come sa che il suo guardare non può
più prescindere dall’esserlo stata. È un libro sul potere, e sulla scrittura,
che è un contropotere.
Come ci si devittimizza? Scrivendone? Scriverne “è ancora un progetto
dell’aggressore.” Un appagamento al suo narcisismo. Si scrive nonostante chi ci
ha fatto del male, nonostante il godimento che chi ci ha fatto del male trarrà
dal nostro renderlo un personaggio principale, memorabile a modo suo. Perché chi
scrive e scrivendo fa letteratura scrive nonostante i limiti della scrittura, i
limiti del linguaggio, i limiti del dicibile. Anche se al di là del limite non è
detto ci sia terra incognita da esplorare. Tante volte, solo cantine e
precipizi, o onde troppo alte. “Io so che la verità non è nel linguaggio. So che
la verità non è da nessuna parte.”
Dicendola meglio, sfuggendo alla gabbia secondo cui la donna è sempre vittima
dell’uomo altrimenti non è abbastanza donna lei così come l’uomo non è
abbastanza uomo se non ne è carnefice: la vittima scriva, ma il carnefice legga.
La Sinno scrive da scazzata a ragion veduta, non le va di andare per il sottile,
se ti sta bene ascolti, leggi, altrimenti vai pure, lì sta la porta d’uscita se
hai bisogno di un po’ d’aria e lì quella del cesso se ti si rivolta lo stomaco,
fai tu. Quindi scrive benissimo. Scrive sapendo di stare scrivendo, facendo i
conti con i rischi banalizzanti e estetizzanti della scrittura. L’offrire una
porta verso la quale defilarsi, da poter prendere quando si preferisce per
venirne fuori in qualunque momento, è un grande atto di brusca gentilezza da
parte della Sinno.
> “Nel bambino tutto è spalancato. Un bambino non può aprire o chiudere la porta
> del consenso. Non arriva alla maniglia.”
Triste tigre è un magnifico libro di brusca gentilezza del pensiero che non
arretra, che non si mette in bella, che non pretende consenso, non lo postula.
La libertà se esiste è quella di poter dissentire, a partire dalle proprie
pulsioni, angosce, paure.
Arrivo dalla lettura della Sinno dai diari, bellissimi, della Plath – bellissimi
nonostante siano dovuti passare prima dalle mani testamentarie di Ted Hughes –
perciò ho sentito in modo particolare il passaggio in cui la Sinno racconta di
aver bruciato il suo primo diario per impedire che il patrigno stupratore,
leggendolo, potesse “entrare ancora di più nella mia testa”:
> “Il giorno dopo ho bruciato il quaderno nella stufa.(…) Ho detto addio al
> diario, non solo a quei pezzetti di carta ma al concetto stesso di diario,
> quel giorno e per il resto dei miei giorni. Non potevo permettermi di
> costruire con le mie mani un oggetto che mi rendeva così facilmente
> accessibile, che mi metteva ancora di più alla mercé di una qualunque mente
> decisa a controllarmi e a nuocermi.”
Damaged-for-life.
Nelle prime pagine dei diari la Plath diciottenne si racconta della molestia
subita da parte di Ilo che ha “un fortissimo accento tedesco, la faccia
abbronzata, intelligente, increspata in un sorriso. Anche il suo corpo robusto e
muscoloso era abbronzato e i capelli raccolti in un fazzoletto bianco.” La Plath
con Ilo ha lavorato in un campo di fragole, sono diventati amici, ingenuamente
fiduciosa lo segue nel capannone, per vedere se Ilo ha finito “il ritratto di
John”. “Lui stava fra me e la porta, sorridente. Un gesto e la sua mano mi ha
afferrato il braccio.” La Plath piange per lo spavento. Ilo la lascia andare.
Ilo non finge alla Plath stesse piacendo quello a cui la stava forzando, come fa
l’Humbert Humbert di Lolita, come fa il patrigno della Sinno.
Che alle figlie possa capitare, se proprio deve capitare, d’incappare negli Ilo
e mai nei patrigni alla Humbert Humbert? La Plath al tempo dell’episodio aveva
diciotto anni. Lolita nel romanzo di Nabokov ne ha dodici. La Sinno quando
iniziarono gli stupri ne aveva otto. Che i figli possano leggere la Sinno, la
Plath, Nabokov, per farsi orrore prima di commetterne?
La Plath e Ilo escono dal capannone: occhiatine, sorrisini, secondo gli altri
non le era successo nulla che non avrebbe voluto le succedesse, “Ma loro lo
sanno. Lo sanno tutti. E che cosa posso fare io, contro tutta quella gente…?”
La Sinno ha il coraggio di non definire ripugnante il patrigno: perverso, ma non
ripugnante. Ripugnante è ciò che le ha fatto. Il patrigno della Sinno è stato un
uomo piacente, ammirato nella società montana dove vivevano. Potrebbe esserlo
ancora. Ha scontato la sua pena. Si è rifatto una vita. Rifatto una famiglia. La
speranza è non abbia ricommesso gli stessi abusi.
Parere della sorella della Sinno: “Lei è sicura di no, che lui non lo avrebbe
mai fatto. Lui dice così, e lei ci crede. Perché? Perché loro erano figli suoi,
sangue del suo stesso sangue, loro non li avrebbe mai toccati.” E il sangue mi
si raggela. È un padre affidabile uno padre che rassicura le proprie figlie
facendo intendere loro che correrebbero il rischio di essere stuprate da lui
solo se non fossero del suo stesso sangue? Ritorna la normalità da vampiri
analizzata in Sangue del mio sangue di Monya Ferritti. I vampiri raccomandabili
cavano solo il sangue dei figli e delle figlie degli altri.
Non negando la vigoria di cui il patrigno si autocompiaceva la Sinno è
doppiamente coraggiosa, non mostrifica somaticamente il suo stupratore per
garantirsi un ruolo da vittima perfetta. L’orco per esserlo non occorre non
abbia la pelle rosea di un principe azzurro o l’appeal virile standard di una
guida alpina. Non occorre abbia un pene insignificante come un Napoleone o
inutilizzabile come il Popeye in Santuario di Faulkner. Il patrigno stupratore è
un uomo bello e capace di atti di eroico salvataggio, attraente e ammirato, una
brava-persona secondo gli altri che non hanno dovuto vivere sotto lo stesso
tetto, che da bambini non sono stati trascinati in cantina per venirne stuprati.
Quando il carnefice non lo sembra affatto ricade sulla vittima il sospetto non
sia poi vittima del tutto, che sia anzi carnefice a parimerito, che lo sia
reciprocamente, che tocchi a lei convincere del contrario, mettendo chi legge in
condizione di crederle sulla parola. La Sinno racconta senza ricorrere alle
scorciatoie e alle strategie di chi, scrivendo, ha il potere di deciderlo lei
come-sono-andate-le-cose. “Ma allora a cosa serve tutto questo se tutti noi
siamo d’accordo su tutto fin dall’inizio?” Una lezione di letteratura, quando lo
è, è una lezione di coraggio autentico, intellettuale, ed è l’unica lezione di
vita che ne valga la pena.
L’arrendevolezza reoconfessa del patrigno in Triste tigre quasi consente
l’empatia: è uno stupratore a sua volta stuprato in adolescenza dai preti. La
Sinno smonta un mito che avevo fatto mio, mi sa autoconsolatorio:
> “I vari studi che ho consultato sugli aggressori sessuali indicano che circa
> il 20 per cento degli abusanti di bambini sono delle ex vittime. Una cifra
> lievemente superiore all’incidenza del fenomeno sulla popolazione globale.
> Questi studi indicano inoltre che il ciclo vittima-aggressore è soprattutto
> una convinzione fortemente ancorata nella popolazione, e che essere stati a
> propria volta vittime durante l’infanzia è sì un fattore di rischio, ma non
> una condizione necessaria né sufficiente per diventare a propria volta
> aggressore.”
Le vittime non è detto debbano diventare carnefici a loro volta, con buona pace
per esempio di chi giustifica le azioni militari di Israele in quanto
vorrei-vedere-te-se-il-tuo-popolo-fosse-stato-già-vittima-di-genocidio, ma:
carnefici senza essere stati vittime prima? Carnefici dal-nulla? Io che mi
dicevo: non posso diventare un carnefice perché non sono stato mai fatto oggetto
di carneficina. Io che credevo bastasse rispondere a V.: “Perché tuo figlio non
diventi un carnefice basterà non lo sia tu con lui.”
È pensabile potersi pensare terzi rispetto alla diade vittima-carnefice? Ricordo
la conclusione di Valentina Tanni in Exit Reality, Nero edizioni: quand’anche
mancasse tutto il resto, c’è Internet – ciò che Internet ha reso accessibile –
che c’ha traumatizzato tutti rendendoci, post-trauma, potenzialmente carnefici,
di altri e di noi stessi. E ancora: se qualcosa non succede direttamente a me
non sta comunque succedendo anche a me quando lo vengo a sapere? Ciò che è stato
inflitto alla Sinno e a troppi altri bambine e bambini, che viene inflitto a
altri bambini e bambine proprio ora mentre ne scrivo, non sta succedo anche a
me, certo in infinitesima parte ma tanto ne basta, mentre ne leggo? Come
possiamo fingere di non udire il canto in coro dei bambini come nella città
sterminata dei morti raccontato da Antonio Moresco in Canto di D’Arco?
Si è sempre vittime di almeno un sopruso, di una insensibilità, di un rifiuto,
ma restando al male-grave, alle violenze da reato: il male fatto agli altri
diventa di per sé la dimostrazione del male fattibile e appena si diventa
vittima di questa consapevolezza si diventa anche imitatori ipotetici, carnefici
potenziali. Leggere Sinno significa rendersi conto che non esistono storie di
vittime e carnefici, esistono solo storie di vittime, alcune delle quali
convinte che il diventare dei carnefici possa dare loro l’illusione di potersi
sentire per una volta non vittime soltanto.
Scriverne non significa diffondere il male, le sue codarde inverecondie, fargli
pubblicità. Il male per quanto vanitoso prolifera molto meglio nell’omertà che
nella denuncia. Scriverne di per sé non basta per impedirlo, siccome si può
scrivere soltanto di un male già compiuto, già patito, poiché a scrivere del
male che sta per compiersi si passa per Cassandre sbertucciate dai carnefici che
mai consentirebbe gli si guastasse la festa prima che loro la facciano a coloro
a cui hanno intenzione di farla.
Si scrive, almeno questo, perché chi legge non possa osare dire di non saperne o
di non averne potuto sapere nulla. “È a partire da questa conoscenza intima, a
partire da quest’odio, che io scrivo.” E si scrive perché prendere la parola
significa riprendersi il potere di usarla per affermare sé stessi, riprendersi,
riprendere fiato, farlo diventare voce.
La Sinno cita la frase spesso attribuita Oscar Wilde: “Tutto nel mondo è sesso
tranne il sesso. Il sesso è potere.” Lo stupro non è un atto sessuale, è un atto
di dominio. Scriverne è contestare quel dominio. Dissentire. Scrivere non
cancella il male ma non gli concede l’ultima parola. Lo beffa.
“Tutti vogliono proteggersi dall’incendio”, scrive la Sinno che non appicca
l’incendio, lo mostra per quel che è, che scrive dal fuoco e dal fuoco per dirla
con il lispectoriano Jonny Costantino di La mano bruciata, e dall’incendio
nessuno può proteggersi. Tanto vale bruciare con dignità se non addirittura con
stile.
Se dovessi spiegare a mia figlia o al figlio di V. cosa è accaduto alla bambina
raccontata dalla Sinno, la bambina che è stata la Sinno stessa e che la Sinno
non ha mai potuto essere, così come la Sinno lo ha dovuto spiegare a sua figlia,
userei la parola unchilding, ovvero «privare dell’infanzia». È la parola a cui
ricorre Francesca Albanese nel terzo rapporto da Relatrice speciale ONU del
2023, sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese, come
riporta lei stessa ne libro Quando il mondo dorme, Rizzoli.
C’è da stare molto attenti, quando il bambino è debambinizzato non si dibatte.
Si paralizza. Va giù a fondo, immobile. E noi con lui.
antonio coda
*In copertina: John Singer Sargent, Portrait of Thomas McKeller, 1917 ca.
L'articolo Debambinizzare il bambino. Intorno a “Triste tigre” e ad altre
aggressioni proviene da Pangea.
Un dannato della vita. Non trovo definizione migliore per riferirmi a Edgar
Allan Poe (1809-1849). La sua fu un’esistenza breve, tormentata, trascorsa tra
il disordine e gli eccessi, segnata da una compagna fedele e inseparabile:
un’angoscia assoluta. Sul piano sentimentale ebbe una vita, per usare un
eufemismo, complessa; il matrimonio, celebrato due volte a distanza di otto
mesi, con una tredicenne che per di più era sua cugina la dice lunga al
riguardo. Però, nonostante, mi correggo, grazie a questo grande guazzabuglio, lo
scrittore americano ci ha lasciato una serie di racconti straordinari. Tra i
tanti il mio preferito resta sempre Un uomo tra la folla, anche perché, secondo
me, incarna nel modo migliore il suo autore. A tutti gli effetti è un
autoritratto di Poe.
Si svolge a Londra ed è la storia di un uomo che, dopo una lunga malattia, esce
per la prima volta e si mette a osservare la folla da dietro le vetrate di un
caffè. Comincia a guardare i passanti prima in modo impersonale, poi a poco a
poco, attraverso i vestiti, il modo di incedere, l’espressione dei volti, cerca
di capire a quale categoria sociale appartengano. A un tratto un vecchio
dall’aspetto cupo e singolare cattura la sua attenzione e, spinto da un bisogno
irrinunciabile di saperne di più su quella figura, l’uomo esce dal caffè e si
mette a seguirlo attraverso le strade della città. Da lì ha inizio una furibonda
cavalcata che dura tutta una notte e una giornata intera, con il vecchio sempre
immerso tra la folla e terrorizzato all’idea di rimanere anche per pochi istanti
da solo. L’inseguimento è tanto assillante quanto vano e terminerà senza nessun
risultato se non la consapevolezza dell’impossibilità di capire il segreto
dell’uomo della folla.
> «Annientato dalla fatica com’ero, al cader della seconda sera, affrontai
> risolutamente lo sconosciuto e lo fissai negli occhi. Ma egli fece la vista di
> non accorgersene. E riprese, d’un subito la sua solenne andatura, mentre io
> rimanevo immobile a guardarlo, e a seguirlo non mi bastava più l’animo.
> ‘Questo vecchio – dissi allora a me stesso – è il genio caratteristico del
> delitto più efferato. Egli non vuole rimanere solo, è l’uomo della folla.
> Sarebbe invano che io continuassi a seguirlo, giacché non riuscirei a sapere
> di lui e delle sue azioni nulla più di quanto egli già non mi abbia fatto
> sapere’.»
Il significato del racconto è evidente: l’impossibilità di arrivare a una vera
conoscenza e testimonia come il percorso della vita sia lungo, tortuoso,
faticoso e ahimé senza alcun risultato perché alla fine non ci sarà nessuna
scoperta della verità. Ma, come tutte le storie di Poe, anche questa è una fonte
inesauribile di riflessioni. Prima di tutto pensiamo a quella smisurata folla, a
tutti gli effetti la vera protagonista del racconto, così opprimente da togliere
il fiato e in mezzo alla quale ci rendiamo tragicamente conto di essere immersi
anche noi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Proprio come il vecchio del
racconto, tutti sembriamo avere un bisogno coattivo della folla; una condanna
tanto primitiva quanto incomprensibile che ci portiamo sulle spalle come le
lumache con la loro conchiglia. Usciamo al mattino e andiamo al lavoro
incolonnati insieme a una moltitudine di nostri simili; appena abbiamo un
momento libero corriamo a distrarci in luoghi pieni di gente, sia un locale
pubblico, uno stadio o un cinema; quando arrivano le vacanze ci muoviamo tutti
insieme per poi ritrovarci ancora una volta in posti affollati da una
moltitudine di nostri simili. Siamo perennemente nello stesso tempo uomini tra
la folla e uomini sempre più soli, del tutto estranei a noi stessi come agli
altri.
Con il suo racconto Poe dimostra di essere ben consapevole del destino crudele e
beffardo a cui sembra costretta in modo inesorabile l’esistenza umana. Una folle
corsa in fondo alla quale cerchiamo disperatamente di scorgere un barlume di
luce, ma che invece ci vede già condannati in partenza alla sconfitta. Poe parla
al nostro cuore. La sua angoscia non può non essere anche la nostra. A questo
serve la letteratura. Quella vera si intende. Come il protagonista di Un uomo
tra la folla siamo spinti da forze misteriose e a noi del tutto sconosciute a
muoverci, ad agire, a parlare, ad andare sempre avanti senza sosta sotto la
spinta inesorabile della nostra perenne ansia, piccole rotelline di un
meccanismo infernale di cui non riusciamo a capire né l’origine né la fine.
Per tornare alla vita di Poe di cui si diceva all’inizio, va detto che anche la
sua fine fu tragica e misteriosa, avvolta in una imperscrutabile miserevole
grandezza, una scena che sembra uscire da uno dei suoi racconti. La mattina del
3 ottobre 1849 un uomo in preda al delirium tremens venne trovato in una lurida
stanza di un alberghetto da due soldi di Baltimora. Nessuno lo conosceva, venne
trasportato d’urgenza all’ospedale della città dove morì dopo qualche giorno
senza riprendere conoscenza. Le ipotesi sulla causa della morte sono tutto un
programma: cardiopatia, epilessia, sifilide, meningite, colera e, tanto per non
farsi mancare niente, rabbia. Era Edgar Allan Poe, un uomo tra la folla.
Silvano Calzini
L'articolo Edgar Allan Poe parla al nostro cuore: la sua angoscia è anche la
nostra proviene da Pangea.
Offro la mia anima martoriata alla poltrona ergonomica, alla scrivania di
laminato, alla luce gialla, al gabbiotto. La offro all’asfalto gangrenoso; al
moto ondoso dei semirimorchi, alla luna sul campanile, il tuo volto
trasfigurato. Offro al timbratore, divinità del tempo – non all’azienda, non ai
colleghi – ogni minuto di questa litania che è la mia vita.
*
Il contratto scade il trenta novembre, e ti penso. Non ho più voglia di dolore,
solo voglio il caldo buono di un qualche oblio nuovo e diverso, una scapola, un
neo, depositati nel mio letto e poi nei pensieri della giornata. Possono
accomodarsi le immagini tra queste mura di plastica e metallo, e ristorare le
sette, le otto, le nove poi le dieci.
*
Io mi ricordo! E mi sembrava un gioco così semplice la sera, nell’angolo soffuso
io con la camicia appena aperta tu ancora col cappotto freddo di strada e
profumo. Dio doveva pur star guardando, dal basso della mia anima, doveva pur
aver visto quanto ero felice: non andava bene, dovevo soffrire, dovevo vomitarmi
ancora e ancora, fino all’apice. Quando sarò umiliato tutti finalmente mi
potranno vedere.
*
Io non sono Cristo e dalla mia umiliazione nessuno trarrà alcuna salvezza. Il
risultato pratico e concreto è un lievissimo aumento percentuale dell’efficienza
nella registrazione dei semirimorchi, lavoro al quale sono tornato con malcelato
autocompiacimento. Alzo la sbarra all’ingresso del piazzale, l’autista scende,
mi dà targa e documento, io batto tutto al computer, poi è libero di
andare. Quando cala la notte la larga vallata dei container sembra un villaggio
che dorme, un gioco di bambino in cui le case di ferro sono targate MSC, Maersk,
Lilliu, Sarda Trasporti. Immagino tra quelle case la mia. Il mare è a poche
centinaia di metri, ma non ci penso mai.
*
Valentin scarica e gli chiedo una sigaretta. Vedo la torcia olimpica tatuata sul
braccio e mi metto a chiedergli se era un atleta, che atleta, ma mi risponde in
maniera dolce e sgrammaticata; annuisco senza capire. Gli sciorino le mie dieci
parole di russo chiedendomi, come in tutti questi casi, se gli faccia piacere o
meno – non importa, ne ho voglia. La sua faccia ha la forma di una pera che sta
marcendo e diventando grigia, mangiata dalle vespe.
Lui è Eugenio Sournia
*
Vorrei tenermi la sigaretta che mi ha dato Valentin per fumarmela da solo; però
decide di accenderne una anche lui e per qualche minuto si crea questa breve e
strana intimità virile, in cui entrambi tacciamo e guardiamo la cancellata di
metallo, la città che dorme al di là di quella, ormai vuota di promesse, sempre
la stessa.
*
Alla fine Valentin riparte e mi metto di nuovo a registrare i trasferimenti
della giornata. XA245RS, AE33811, XD490EE. È un lavoro intelligente e bello: non
penso mai, non penso mai, tutto il pensiero è tuo tuo e solo tuo. Mi dico un po’
di rosario e ricomincio la decina ogni volta che passa un camion e lo devo
registrare, ma ogni Ave Maria è per te, Virginia, per la tua conversione, perché
coincida col tuo ritorno, finalmente redenta, finalmente pronta, finalmente mia
davvero.
*
Poi appoggio il telefono alla base del computer e metto il timer a cinque
secondi. La luce è pessima, le pareti annerite da una melma senza nome, un
cancro in potenza. In atto, la mia faccia più stralunata possibile, mi scatto
una foto con l’unico scopo di riguardarla e riderne quando finalmente vivaddio
sarò felice. Sarà un post su Instagram da far uscire il giorno dell’uscita di un
disco, o di un libro, con una frase del tipo “il dolore è una porta”. Sono un
uomo molto stupido.
*
Insomma Dio mi guarda dal cielo fondo e nero sopra l’Intercontainer,
dall’asfalto gangrenoso, dalla scrivania di laminato, dalla luce gialla e sporca
del gabbiotto. Io se non bestemmio è solo per ingraziarmelo, una sorta di
pensiero magico che so bene non servire a niente, ma che mi è
irrinunciabile: perché comunque spero, animalmente spero, che ci sia un’assurda
imponderabile giustizia che cali da tutta questa bellezza a strapiombo.
*
Ah, anche l’anima mia fu bella, ma la deturpai col peccato: mi resta la
tenerezza. Da una macchina di tedeschi che mi passa davanti esce Bette Davis
Eyes.
Eugenio Sournia
*Eugenio Sournia vive, scrive, lavora a Livorno. È stato il leader dei Siberia,
con cui ha pubblicato tre dischi. Nel 2023 ha pubblicato l’EP “Eugenio Sournia”,
con cui ha vinto il Premio Ciampi. Lo ascoltate, in parte, qui.
In copertina: Gabriele Basilico, Dunkerque, 1984; copy Gabriele Basilico/Studio
Basilico Milano
L'articolo Ballata dell’Intercontainer proviene da Pangea.