Si alza un fumo denso da una biblioteca addormentata, tra scaffali muti e
finestre sigillate. Una lingua di fuoco percorre costole di volumi, lambisce
l’inchiostro, accarezza le idee fino a consumarle e trasformarle in alveo
perturbante. L’aria è immobile, ma qualcosa brucia, lentamente, silenziosamente,
nel cuore stesso del pensiero. Là dove la mente si fa tempio e prigione e il
sapere incanta, inabissa, devasta.
L’incontro tra follia e cultura ha un nome, un volto, un ordine narrativo. Esso
nasce come visione, febbre, vertigine. Il delirio e l’erudizione di Auto da
fè sono incisioni su lastre di vetro: ogni parola taglia, rifrange,
moltiplica. E ciò che prende forma è il ritratto di un’intelligenza assoluta e
assolutista, che cerca nella purezza intellettuale la salvezza, trovandovi
invece la più irreversibile delle solitudini.
> “La nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità”.
Il romanzo-mondo di Elias Canetti, apparso nel 1935 sotto il titolo tedesco Die
Blendung è un’opera unica, per certi versi indecifrabile, e si offre al globo
come labirinto, rogo in cui la parola si consuma nel falò della conoscenza.
Il protagonista, Peter Kien, sinologo di fama internazionale, vive immerso in un
culto libresco che sconfina nella più feroce misantropia. La sua esistenza
ascetica si svolge interamente tra gli scaffali della sterminata biblioteca
privata: ottantamila volumi, che Kien definisce “le uniche creature degne di
rispetto”. La realtà esterna, per Kien, è un’interferenza da cui difendersi; la
lingua un’arma da perfezionare sino alla lacerazione. Ma come ogni sistema
autoreferenziale, anche la sua torre di Babele è destinata a crollare. Il
matrimonio con la sua governante Therese, figura grottesca e carnale, antitesi
vivente della purezza intellettuale, innesca una vertiginosa discesa
nell’abisso.
> “Poco mancava che Kien cedesse alla tentazione di credere nella felicità,
> questa spregevole meta degli analfabeti”.
Canetti, ebreo sefardita nato il 25 luglio del 1905 a Ruse e cresciuto fra
Vienna, Zurigo e Francoforte, scrive questo romanzo negli anni in cui l’Europa
si inabissa nel culto della forza e della massa, su cui Canetti inciderà con il
celebre Massa e potere. In contrasto, Auto da Fé, a lungo ignorato, ha trovato
un nuovo eco nel secondo dopoguerra, anche grazie al riconoscimento tardivo
conferito a Canetti con il Nobel per la Letteratura nel 1981. Il titolo
originario, Die Blendung, evoca l’accecamento, tanto fisico quanto metaforico: è
la cecità dell’intellettuale isolato, incapace di leggere i segni del tempo; ma
è anche la cecità della cultura quando si chiude in sé stessa, quando diventa
autorità dogmatica, repressione del corpo, negazione del mondo. Non a caso, il
titolo inglese, scelto da Canetti stesso, Auto da Fé, richiama i roghi
inquisitoriali, in cui i libri, e le idee, venivano ridotti in cenere. Il sapere
che brucia se stesso.
A livello stilistico, Auto da fé è un’opera straniante, costruita su un
linguaggio ossessivo, talora volutamente meccanico, che restituisce la rigidità
mentale dei personaggi. Ogni figura è iperbolica, caricaturale, come se uscisse
da un incubo kafkiano o da una pièce espressionista: Therese, massa informe e
famelica; il portinaio Fischerle, gobbo paranoico e megalomane; Georges, il
fratello psichiatra, emblema della razionalità normalizzante. Tutti i personaggi
orbitano attorno a Kien come satelliti impazziti, e insieme compongono una
satira amara della società moderna, in cui la cultura non salva, ma isola,
ossifica, disumanizza.
> “Si potrebbe quasi credere che sia un morto. A che scopo vive un essere di
> quella specie […] Una persona simile non serve a nulla.”
In questo senso, Auto da fé è una critica radicale alla fiducia illuminista
nella ragione. Kien non è un umanista, ma un feticista del sapere; la sua
cultura è ritiro solitario, la sua mente una camera stagna. Lungi dall’essere
salvifica, la conoscenza diventa un assoluto che divora colui che la persegue.
“Chi non ha libri è perduto,” dice Kien. Ma Canetti ci mostra, con feroce
lucidità, che chi ha solo libri lo è altrettanto.
Proprio per questo, pochi giorni fa, ho deciso di incidere Kien sulla mia pelle;
il suo volto baffuto che si fascia gli occhi per isolarsi nel suo mondo, per
essere come quei ciechi che lui stesso ama e detesta; Kien sta lì, completamente
perso, cieco volontario tra i ciechi inconsapevoli, a ricordarmi che oggi, in
un’epoca segnata dal sovraccarico informativo, dall’inflazione dei saperi e
dalla crisi dell’autorità intellettuale, la sua storia risuona con un’attualità
inquietante. È un monito contro ogni forma di idolatria del sapere, contro la
tentazione di annientarsi, di nascondersi dentro un cervello inanime, di
rinchiudersi nella torre d’avorio della propria persona.
> “Al mondo, dice, ci sono troppi libri e troppi stomaci affamati.”
Elias Canetti ci considera impotenti, non vuole e non può proporci soluzioni o
redenzioni. Ci offre solamente un ritratto impietoso della mente contemporanea,
colta nel momento della sua combustione. Un cervello in fiamme, come la
biblioteca di Kien. Un’auto da fé, appunto, in cui si brucia non solo il corpo
dell’intellettuale, ma anche la sua illusione di dominio.
E in questo luglio che si arroventa, non possiamo non ricordare che il 25
saranno trascorsi 120 anni dalla nascita di Elias Canetti. 120 anni dalla
comparsa di uno spirito lucido e profetico, che ha saputo guardare nell’occhio
della follia collettiva senza arretrare, e che ancora oggi ci parla con una voce
che arde come brace sotto la cenere della storia.
Auto da fé è un’opera al limite tra sapere e psicosi, tra parola e silenzio, tra
individuo e massa. Canetti ci costringe a interrogarci non solo su ciò che
sappiamo, ma su come e perché lo sappiamo. L’anima di Kien è rovina nobile,
cattedrale gotica che crolla su chi la abita troppo a lungo. Il pensiero, se
assoluto, si chiude con catene d’oro, lucide e serrate.
E allora, cosa ci resta? Il crepitio, l’eco. Resta la figura dell’intellettuale
come incendiario e superstite, come martire di un sapere che abbaglia e
consuma. Canetti ci insegna che la mente è un campo di battaglia e solo
l’incendio può redimerci; nel buio della catarsi, l’abisso sa leggere anche noi.
Tommaso Filippucci
*In copertina: Francisco Goya, Capricho No. 23: Aquellos polvos
L'articolo La mente è un campo di battaglia. “Auto da fé”: storia di un libro
necessario proviene da Pangea.
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Temi il folle: egli non farà né ciò che si conviene né ciò che conviene.
Temilo perché è folle. E non gli estorcerai niente, di ciò su cui far leva è
ragionevole, e vigliaccamente, secondo ragione, ricattare. Sarai capace di
avvicinarlo solo nello stigma e nel timore.
Egli non si redime né può, né ha da servirgli d’esser redento: e questo lo rende
un Dio, al tuo confronto.
Dove tu indugi, sarà tiranno, farà strame e macello. Dove tu tiri dritto,
indugerà con gusto e letizia, e gentilezze squisite che non puoi né devi
conoscere – inusitate e imprevedibili.
Deliberatamente carezzerà il nemico, fuori d’ogni ragione utile, e trafiggerà
chi gli sorride tendendogli la mano; ma potrebbe anche arrivare a torturare il
suo torturatore, e il nemico far soccombere, fra sangue e guano, e senza una
ragione, ancora, che tu comprenda o possa al modo suo.
Il suo genio è nudo, lo si sa, non ha strade segnate e avversa l’idea stessa di
direzione. Alle pesanti palpebre della stagnazione, preferisce la follia
esagitata del propugnare uscite dal solco. Delira, lo si sa, aggiunge all’ovvio
più tondo logiche dispari e grappi di stelle acuminate. Siderali distanze lo
separano dall’ordinario elevato a regola, è dissipatore d’anima e ingegno.
Abbiate timore della sua bestiale, innocente virtù, perché porta tempesta dove
non si alzerebbe un solo vento; perché depone doni e profferte all’altare della
dissidenza più sistematica. Il suo pensiero coopta spesso Ockham, ma di gioco
ridonda, sempre, e sperimentante bellezza. Il suo eccedere cuce in segreto le
ferite senza voce del mondo, ma è anche la benedizione del bastante. Egli onora
luoghi e parti di sé che i più ignorano o misconoscono, e sa che il suo
linguaggio è enigma insolubile presso chi esibisce una povera grammatica prona
alle leggi del verosimile e ai suoi regni filistei. L’audacia del suo fuoco è
fulgida e sbilenca, divora parole cortigiane come smesse pelli, condanna ogni
autismo intellettuale e morale, prende campo in una eterna battaglia per tenere
in vita parti del mondo che altrimenti morirebbero in serie senza un lamento.
Ha presumibilmente conosciuto anguste corsie, di perdita di sé e estorsione di
ciò che essere non voleva, e che strozzavano vista e cuore, cucivano il giorno e
la notte in un’uguale trama di protratta anestesia. Ha conosciuto la guarigione
come ricatto e la libertà gabellata per necessità di guarigione. Egli è
guerriero, guerriero della mente e amico della mano sinistra. Innalza la
bellezza al di sopra del suo stato bruto di vento tagliente e nuda terra, e la
pone nel calice di un fiore muto.
Strappa all’assenza un barlume di presenza, una traccia, qualcosa che aggira
l’ovvio e descrive cerchi soavi di farfalla. Lotta contro i suoi stessi sogni,
che ha visto mutare in incubi di piombo e cristallo, magma e tempesta – profondo
come una galassia, temprato e destro al soffrire… Disperatamente fuori dal
cerchio di luce del domato fuoco d’ogni civiltà.
Temilo perché senza essere a modo tuo, egli è in sé, e più che te od altro.
Temilo perché non fa ciò che serve, perché è un mostro e un Dio, in salute della
sua malattia, che veleni morali non sa: tutti gli elementi in lui coesistono e
sono, senza prevalere l’uno sull’altro, secondo ragione, che non sia natura alla
natura sparsa, come lava nella lava.
Temilo perché non potrai piegarlo avvicinandolo a te, perché non potrai
ricattarlo – benedizioni o maledizioni non conoscendo, che inflitte siano, o da
chicchessia ammannite.
Egli è sempre distante oceani e stelle, egli è dove tu paventi e non comprendi:
nel suo male e nel suo bene, ontico e ontologico assieme. Per questo né si salva
né salvezza concepisce, e la sua colpa sempre, è originaria, i suoi fini
terrifici e netti – che son l’una cosa e l’altra senza giustificazioni.
Temilo perché lo torturasti proprio come un folle, quando violento non fu né
esser voleva, e lo blandisti spremendo altra violenza, per paura della sua
violenza, dalle nutrite tette della sua anima superiore.
Temilo perché inventasti tu la colpa e la cura, e mai sapesti andare oltre il
delitto dell’una nell’altra. Temilo perché Napoleone e Hitler furono e sono
colpevoli, e non folli abbastanza, e della stessa tua colpa che abbisogna d’un
concetto in soccorso all’inerzia del suo macchinico sfacelo, ma mai fuori da
essa, se non per “pruderia” morale dell’inconcepibile.
Temilo perché ottimizzare il delitto a scopi ritenuti superiori, è cosa tua e
non sua.
Temilo, perché, al fine, la libertà non potrà essere né merce né privilegio
desunto – nel bene e nel male. Temilo in entrambe, dunque.
Massimo Triolo
*Nell’articolo: opere di Johann Heinrich Füssli (1741-1825)
L'articolo “Dove tu indugi, sarà tiranno”. Ritratto del folle proviene da
Pangea.
Nel 1950, scrivendo una recensione di The Lost Traveller, il secondo romanzo di
Antonia White, Evelyn Waugh colse l’occasione per dire la sua sulla letteratura
cattolica:
> «Molti hanno iniziato a dubitare che esista una cosa del genere. Ebbene, qui
> si può trovare in una forma completa e splendida. […] I personaggi sono tutti
> permeati dalla fede. Dio è l’influenza suprema nelle loro vite, […] e quando
> vi è la minaccia di un disastro, tutti si rivolgono alla preghiera. La loro
> religione è la loro vita, sebbene superficialmente siano occupati con altro.
> Non si tratta di “trascinare il cattolicesimo dentro”. È sempre lì, al centro
> della storia».
Per quanto poco conosciuta in Italia, la White – pseudonimo di Eirene Botting –
è stata una delle personalità più rappresentative di quella letteratura di marca
“papista” che conobbe una certa diffusione nella Gran Bretagna del Novecento, in
particolare nella prima metà del secolo.
La sua fu un’esistenza travagliata, segnata non solo dalla cronica mancanza di
denaro, ma anche da tre matrimoni falliti, da un rapporto complicato con le
figlie e da una serie di frustranti impieghi d’ufficio che le toglievano tempo
ed energie per la scrittura. Persino la sua fede, abbracciata da bambina in
seguito alla conversione dei genitori, non fu sempre salda e per parecchi anni
smise di praticarla. Infine, dovette sopportare pure il peso di una grave
malattia psicologica, da lei ribattezzata «la bestia», che minò non poco le sue
potenzialità creative (la questione è stata recentemente analizzata nel
dettaglio da Patricia Moran nel volume Antonia White and Manic-Depressive
Illness). Come sottolinea Jane Dunn, autrice di Antonia White: A Life, quello
della inglese
> «è un dramma di vasta portata che abbraccia grandi questioni di fede, i
> bisogni dell’anima, la lotta per diventare sia scrittrice che donna;
> l’impossibilità di essere moglie e madre quando si combatte per la propria
> sanità mentale».
Da ciò deriva la scarsità della sua bibliografia, che comprende quattro romanzi
parzialmente autobiografici, un epistolario, una manciata di poesie, qualche
articolo, delle traduzioni dal francese e una smilza raccolta di racconti; a
questi lavori vanno aggiunti due libri per bambini con protagonista una coppia
di gatti – gli animali preferiti della White – il primo dei quali, Mila e Cuor
di Leone, è ad oggi l’unica sua opera ad essere stata tradotta in italiano.
Nata nel 1899, tutto o quasi del suo destino umano e letterario fu deciso
nell’infanzia, quando venne mandata a studiare presso la scuola femminile
annessa al Convento del Sacro Cuore, a Roehampton, dove le suore, il cui ordine
era stato fondato da una santa francese, erano famose per mantenere una
disciplina ferrea. Lì imparò ad amare i libri e volle provare, appena
quindicenne, a scrivere un romanzo. Nelle sue intenzioni doveva essere la
classica storia di un peccatore che cambia vita; peccato, però, che il
manoscritto, ancora fermo alla prima parte, quando il protagonista è immerso nel
vizio, venne scoperto e giudicato scandaloso. La conseguente espulsione fu un
duro colpo e da allora la White non fu più in grado di mettere nero su bianco
nulla che non fosse in qualche modo legato alla propria esperienza personale. A
questo si aggiungeva un perfezionismo esasperato che la portava a riempire le
pagine di così tante correzioni da renderle quasi illeggibili, causandole di
riflesso parentesi intermittenti di blocco della scrittura.
Terminati gli studi alla St Paul’s Girls’ School, dopo vari rovesci sentimentali
e un ricovero di nove mesi in un ospedale psichiatrico, nel 1933 vide la luce il
suo primo e più famoso romanzo, Frost in May, oggi considerato un classico della
narrativa a sfondo scolastico, sebbene privo del lieto fine che solitamente
caratterizza il genere. La storia vanta uno stile limpido, distaccato, e
racconta le giornate di Nanda Gray, un’alunna del collegio cattolico di
Lippington, da cui però è infine allontanata a causa di uno spiacevole
incidente. Il titolo, suggerito all’autrice da un articolo sulle rose trovato in
una rivista di giardinaggio, sottolinea l’infelice destino di Nanda, a cui si
accompagna una critica non tanto alla Chiesa quanto all’autoritarismo e alla
miopia di un’istituzione educativa al limite del sadismo.
Durante la Seconda guerra, segnata da un’esistenza che non le aveva risparmiato
nulla, tornò definitivamente al cattolicesimo, una decisione motivata per esteso
in un volume del 1965, The Hound and the Falcon, che contiene una serie di
missive scambiate tra il 1940 e il 1941 con il sessantenne giornalista Peter
Thorp, ex seminarista che come lei aveva da poco riscoperto la fede.
Anche se la scrittrice seguitò a non condividere alcuni aspetti della dottrina,
specie quelli legati al sesso, e le sue simpatie erano tutte per gli
intellettuali più divisivi, mosse diverse critiche alle riforme liturgiche
introdotte a seguito del Concilio Vaticano II, ritenute impoverenti:
> «Nella messa ormai non c’è più spazio per il silenzio. Quando sono andata alla
> messa solenne in latino, sono stata profondamente scossa da un moto di
> nostalgia, [ma] sono stata pure colpita da quanto la liturgia abbia perso
> nella versione scarna che abbiamo oggi. Tutto quel lento e riverente rituale
> dà il tempo di apprezzare il significato mistico della messa. E persino
> l’ammirevole preoccupazione per le ingiustizie della società e gli ardenti
> preti “rivoluzionari” sembrano dare troppa enfasi a quello che si potrebbe
> definire il lato “materiale” del cattolicesimo – o forse “l’amore per il
> prossimo” a danno dell’amore per Dio».
Nel frattempo, grazie anche al supporto di alcuni amici scrittori come David
Gascoyne, Dylan Thomas e Graham Greene, dopo anni di gestazione, la White era
finalmente riuscita a pubblicare l’attesissimo seguito di Frost in May,
intitolato The Lost Traveller, a cui erano seguiti The Sugar House (1952)
e Beyond the Glass (1954). La protagonista, ribattezzata Clara, ancora una volta
ripercorre più o meno le medesime tappe esistenziali della sua autrice, finendo
per essere ricoverata a causa di un crollo nervoso.
I romanzi, di impianto troppo tradizionale per colpire i critici alla moda,
vennero accolti tiepidamente, col risultato che la White, oltremodo delusa,
lasciò incompiute le bozze di un quinto libro della serie, conosciuto col titolo
provvisorio di Julian Tye o Clara IV, e preferì trasferirsi per un periodo negli
Stati Uniti, occupando la cattedra di scrittura creativa al Saint Mary’s
College, affiliato alla Notre Dame University.
A salvarla dall’oblio letterario ci pensò Carmen Callil, fondatrice della Virago
Press, incontrata alla fine degli anni Settanta. Quest’ultima fece
ripubblicare Frost in May e i suoi seguiti garantendo alla scrittrice, di cui
divenne anche agente, una fama mai goduta prima.
Dopo la morte della White, avvenuta nel 1980, videro la luce il frammento
autobiografico As Once in May – incentrato sui suoi primi anni di vita– e i
diari, raccolti in due volumi. Nel 1982 la BBC acquistò i diritti dei romanzi e
ne trasse una miniserie in quattro episodi.
Grazie alla Virago, ancora oggi in prima linea nella promozione di una
letteratura “al femminile”, la scrittrice in perenne crisi creativa continua,
almeno in Inghilterra, a essere letta e amata. C’è da esser certi che nulla
l’avrebbe resa più felice.
Luca Fumagalli
L'articolo “I bisogni dell’anima”. Antonia White, una scrittrice “papista”
contro il Concilio Vaticano II proviene da Pangea.
Il modo migliore per festeggiare la nascita di una nuova casa editrice, che fin
dai primi titoli appare più che promettente, consiste a mio parere nel dedicarle
almeno una recensione, scegliendo, in un catalogo ancora smilzo ma in rapido
sviluppo, un titolo che sembra davvero interpellarci. Mi riferisco a Palingenia,
una nuova realtà editoriale sospesa fra Milano e Venezia – che delle due città
dovrebbe riunire l’efficacia, da una parte, e il fascino, dall’altra –, e qui in
particolare alle memorie della scrittrice austriaca Hertha Pauli intitolate Lo
strappo del tempo nel mio cuore, pubblicate in edizione originale nel 1970,
riedite più volte (l’ultima da Zsolnay tre anni fa) e tradotto oggi con vivace
fedeltà, appunto per Palingenia, da Enrico Arosio.
Il bellissimo titolo, così drammatico e suggestivo, è la variante di alcuni
versi di Heinrich Heine, come la stessa Pauli debitamente riconosce nel prologo;
e se il cuore è quello della narratrice-protagonista, il tempo è l’oscuro e
tormentato periodo che porterà allo scoppio della Seconda guerra mondiale,
mentre lo strappo è quello a cui ciascun individuo e dunque l’intera
collettività furono sottoposti e costretti dalla follia di pochi, da un lato, e
dall’altro anche da un concorso di circostanze inopinate e inarrestabili che ci
sembra oggi così prossimo forse perché – pur riconoscendo che la storia non si
ripete mai del tutto – in quell’epoca troviamo tante sfortunate analogie con la
nostra. A corroborare quest’ipotesi e a suscitare allarme nel lettore di oggi
basta un breve passo in cui la scrittrice racconta quali furono le reazioni
popolari, da parte quindi della gente comune, alle prime decisioni prese per
contrastare la politica hitleriana: “L’Inghilterra aveva dichiarato guerra ad
Adolf Hitler. E la Francia? – che cosa faceva la Francia? Per ora neppure una
parola… Le signore al tavolo accanto si misero a strepitare. L’Inghilterra,
sentii, ci trascinerà di nuovo in guerra… Ma chi ce lo fa fare di combattere per
la Polonia?” Sostituite Ucraina a Polonia e l’equazione diventa quasi
imbarazzante.
Ma chi era Hertha Pauli, anzitutto? Nata nel 1906 in una famiglia della
borghesia intellettuale viennese, ebrea, come molti, a metà, in quanto il padre,
Wolfgang Josef Pauli, medico e biochimico, benché nato ebreo si era convertito
da tempo al cristianesimo, Hertha è anche la sorella minore del fisico e futuro
premio Nobel Wolfgang Pauli. A diciassette anni interrompe gli studi liceali per
darsi al teatro e va a recitare prima a Breslavia, poi con Max Reinhardt a
Berlino. Quando di anni ne ha ventuno, la madre, giornalista e fra le prime
esponenti del movimento femminista, si toglie la vita. Nel 1929 Hertha sposa
l’attore Carl Behr, ma divorzia tre anni dopo, essendosi nel frattempo
innamorata di Ödön von Horváth. Quando questi le annuncia l’intenzione di
sposare un’altra donna, anche Hertha tenterà il suicidio, ma sarà salvata e
manterrà anche in futuro una stretta amicizia con il drammaturgo.
Nel 1933, vista l’atmosfera che si respirava in Germania, se ne torna a Vienna,
dove apre un’agenzia letteraria che rappresenta autori di lingua tedesca e
stranieri. Cinque anni dopo, con gli amici Karl Frucht (Carli) e Walter Mehring,
che compariranno spesso nel libro, decide di trasferirsi a Parigi, passando per
Zurigo (dove dovrebbe incontrare il fratello, che però si trova già a
Cambridge), prima che l’Anschluβ di un paese umiliato, ridotto a
insignificante Ostmark (marca orientale) del Reich tedesco, finisca per rendere
impossibile qualunque fuga. Non le manca anche qualche ragione personale: la sua
biografia della pacifista Bertha von Suttner, Nur eine Frau, non era affatto
piaciuta ai nazisti, che l’avevano messa in cima ai libri vietati. In ogni caso,
l’intuizione di Hertha è giusta: altri intellettuali della sua cerchia, che si
muovono leggermente in ritardo, non sfuggiranno più alle truppe tedesche.
Neanche Parigi, tuttavia, è sicura, lo diventa anzi sempre meno con il passare
dei giorni e dei mesi, tanto che nel 1940 Hertha dovrà lasciarla per raggiungere
la parte ancora libera della Francia, con la speranza di trovare, a Marsiglia,
in Spagna o in Portogallo, un passaggio per gli Stati Uniti.
Per farla molto breve e lasciare al lettore il piacere di scoprire, leggendo il
libro, i dettagli della fuga, assieme a Franz Werfel e alla moglie Alma, Hertha
figurerà – nel suo caso specifico grazie alla segnalazione di Thomas Mann, al
quale aveva cercato di rivolgersi per un aiuto all’inizio delle ostilità – fra i
numerosi intellettuali salvati da Varian Fry con la lodevole e a lungo
misconosciuta iniziativa dell’Emergency Rescue Committee, per il quale Fry era
riuscito ad avere il sostegno (discreto ma tenace) della First Lady, Eleanor
Roosevelt. (A proposito di storia che non si ripete, direi che a distanza di
generazioni non si ripetono nemmeno il valore, la sensibilità e la cultura delle
First Ladies.)
Venendo ora al libro, la scrittura di Hertha Pauli è una scrittura asciutta e
funzionale, perfettamente adatta a un memoir, senza voli pindarici ma fresca e
avvincente. Non v’è dubbio che abbia il dono della sintesi e idee chiare su come
raccontare e sviluppare una storia. Al contempo, sa benissimo di non possedere
né la stoffa né il talento dei grandi scrittori che ha incontrato e che fanno
capolino da queste pagine, da Ödön von Horváth, di cui racconta l’assurda morte
e il funerale, a Joseph Roth, da Franz Werfel a Walter Mehring. Non è forse un
caso che anche in seguito, durante la lunga permanenza negli Stati Uniti, e fino
alla morte nel 1973, Pauli si sia dedicata prevalentemente alla letteratura di
genere, e in particolare a quella per ragazzi. Non le manca però – e per
un memoir come questo è fondamentale – la capacità di cogliere il dettaglio
significativo, finendo per regalarci quasi inavvertitamente qualche piccola
perla descrittiva ed evocativa come il passaggio seguente, posto a metà libro,
proprio all’inizio dell’ottavo capitolo:
> “Arrivammo a Étampes al sorgere del sole. Trovammo un paese in macerie. Ecco
> spiegati i lampi dell’ultima notte. Appoggiata alla porta mezza sfondata di
> una casa c’era una donna. Impietrita dallo spavento, con gli occhi sbarrati
> scrutava il cielo, ritornato azzurro e vuoto. Ci avvicinammo e le chiedemmo
> indicazioni sulla strada. Non si mosse. Solo allora notammo l’azzurro e il
> vuoto anche nei suoi occhi.”
Molto incalzanti e precise anche le pagine iniziali, in cui racconta come,
attraverso quale insieme di sotterfugi e di umiliazioni, si arrivò all’Anschluβ:
la convocazione di Schuschnigg nel “covo dell’aquila” di Hitler a Berchtesgaden,
le manovre di Seiβ-Inquart, l’imposizione dell’amnistia per gli assassini di
Dollfuss, lo scippo del referendum popolare. Un prologo da cui si dipana poi, in
un drammatico crescendo, una vicenda umana individuale che acquista però subito
una valenza simbolica e collettiva.
Uno degli elementi che ci accompagnano lungo tutta la lettura è l’ardua
gestione, da parte della protagonista, delle coordinate di tempo e spazio. La
sua fuga avviene infatti sotto il segno (e la maledizione) di entrambi; è
costretta non solo a continue dislocazioni logistiche, ma anche ad accelerazioni
repentine e rallentamenti che le permettano di sfuggire quanto più a lungo
possibile fra le maglie tanto dell’esercito invasore (i tedeschi ormai penetrati
capillarmente in Francia), quanto della stessa gendarmeria francese a caccia di
stranieri e presunte spie, da deportare in campi d’internamento come quello di
Gurs. (Fu questo del resto il destino di chi come Thea Sternheim, tanto per fare
un solo esempio, era rimasto a Parigi; anche in questo caso, Hertha capì subito
i rischi ai quali si esponeva.) Una riuscita descrizione di questa percezione
del tempo la si trova in uno dei passaggi dedicati, sempre con estremo pudore,
alla storia d’amore che riuscirà a vivere anche in frangenti così drammatici:
> “Insieme alla schiuma della risacca anche i minuti si dissolsero nella sabbia.
> Corremmo in acqua. Mi dimenticai di togliere l’orologio che avevo al polso. Le
> lancette si fermarono, ma non le onde. Ingannammo il tempo per tutta la durata
> della marea.”
Ingannare il tempo, e con esso la soldataglia che la bracca per tutta la
Francia: questo, il compito principale della fuggiasca che, a volte sola, a
volte in compagnia di amici e conoscenti quasi miracolosamente ritrovati nei
vari spostamenti, finisce per raggiungere Marsiglia e infine per salvarsi,
approdando a Hoboken, nel New Jersey, il 12 settembre 1940. Just in time…
Un’altra immagine o elemento simbolico che ricorre più volte nel libro è quella
del ponte: la presenza discreta di quello del paesino di Clairac, dove Hertha
sosta in contemplazione ogni qualvolta riesce a ritagliarsi un attimo di
serenità, rimanda irresistibilmente alla sua stessa concezione della vita,
all’immagine di sé come ponte fra due mondi e due culture. Prima, a Vienna, in
quanto agente letteraria che si occupa della traduzione e della pubblicazione di
opere straniere, poi – una volta trasferitasi negli Stati Uniti – come trait
d’union fra la cultura europea e quella americana.
Hertha Pauli (1906-1973)
Molti, dicevo, gli accenni ai colleghi e amici lasciati per strada o ritrovati
il più delle volte in modo fortunoso. Senza voler mai apparire didascalico o
emblematico, in qualche modo il libro è (anche) un inno all’amicizia,
all’inseparabilità di certi destini. Colpisce inoltre sempre la lucidità e
insieme la delicatezza con cui la scrittrice affronta temi tragici come quello
del suicidio. Si vedano le poche ma intense righe dedicate a Weiss, scrittore
ceco in fuga e povertà perpetua, sostenuto finanziariamente, con la sua
proverbiale generosità, da un altro grande suicida di quegli anni, Stefan
Zweig:
> “Ernst Weiss, invece, fu scovato dai tedeschi lì a Parigi – morto. Nel suo
> albergo si era tagliato le vene dei polsi. Per andare sul sicuro, essendo
> anche medico, prima aveva pure assunto del veleno. Lo avevamo lasciato solo. È
> una cosa, questa, che non mi sono mai perdonata.”
Come per Hasenclever, anche per Weiss gli americani avevano predisposto un visto
d’espatrio, ma essi non ne erano al corrente. Ed ecco allora che i due si
aggiungono all’elenco degli altri suicidi eccellenti di quegli anni, che
comprende anche Benjamin, Toller, Stefan Zweig e Joseph Roth (sia pure, in
questo caso, per interposto alcol). L’elenco degli scrittori tedeschi e
austriaci morti suicidi in quel breve e drammatico episodio della storia è
davvero lungo e impressionante, e terribilmente denso in termini di qualità.
Ma saranno molti, gli errori, il più delle volte forzati e attribuibili alle
circostanze, che Hertha Pauli non riuscirà a perdonarsi. Eppure, in frangenti
come quelli, nel caos di una fuga disperata, certe sottovalutazioni e ingenuità
sembrano a tutti noi, lettori avvinti da questo testo, dei peccati del tutto
veniali; e viene davvero da chiedersi se al posto dei malcapitati protagonisti
di questo libro saremmo stati capaci di maggiore lucidità, di maggiore
disinvoltura. In realtà, sappiamo bene che il comportamento di ciascuno dinanzi
al male assoluto non è prevedibile, e che in questi casi la sorpresa (positiva o
negativa) è a ogni angolo di strada.
Raoul Precht
In copertina: Otto Dix e la moglie Martha fotografati da August Sander nel 1925
L'articolo “Corremmo in acqua”. Hertha Pauli, memorie dal cuore del secolo
proviene da Pangea.
C’è un filo diafano, un’arcana gravitazione che stringe i mistici di ogni epoca
al seno del mistero. Karol Józef Wojtyła a 24 anni, sul bordo di una vocazione
nitida e cruciale, scriveva poesie. Liriche liminali, dal passo pacato ma
custodite nella gravità di un movimento basale, gregoriano: una monodia di
devozione incessante e inviolata.
Poiesis che è primordio, promessa, esercizio d’estasi. Rive piene di
silenzio come stati dell’essere, dove non è l’alta parabola, ma l’intimo affondo
l’atto del lambire. Spoliazione di ogni avvistamento, di ogni appetito
cromatico, di ogni intenzionale attesa. Non guardare, perché si è guardati: da
prima dei vagiti del tempo.
Sono sempre nel fiore della lentezza i movimenti del sacro, ripetono il rito: un
effluvio ardente diffonde dall’oltre, s’attenua nel suo passo custodendo il
varco; e preme di silenzio il punto profondo. Durare nella trasparenza, nello
stupore che addita l’eternità: pronunciare la cessione di sé, per quell’assise
di chiarore che è il chinarsi di Dio.
L’amore, sapienza che trasfigura, sa il vincolo dirotto tra ferita e grazia, la
rosa segreta della croce: verità che pertiene all’ombra, alle rifrazioni
dell’acqua, all’estremo volo che piega all’orizzonte. Cui è basilare far spazio,
deprivandosi di lemmi e cognizioni, dando il grembo a un “nulla crescente”, che
ha cara la luce.
Vertigine di “strana morte” in cui lo smisurato alberga in gloriose minuzie: un
cinguettio di fanciulli, il fieno odoroso; un pane di frumento, le foglie
cadute. È l’umiltà sacra delle cose primarie, ridestate in essenza dal soffio
perpetuo, le esistenze minime che recano l’esile offerta: lo stento e l’assillo
di ogni anonima incarnazione: “minuscola cella” in cui il sacro si corica, senza
clamore.
La poesia di Wojtyła è un piovasco di bagliori, fenomeni inversi, in cui
l’universo si eclissa per rivelare, nel suo svanire, le pure altezze
dell’Intelletto divino, mentre un canto oceanico s’alza dai corpi in elegia, che
anelano al “vortice di sole”, sostenendo in cuore “l’esilio di Dio”: suo velarsi
in suprema presenza.
Trema l’anima in uno schiudersi di rose quando l’interminato sospiro l’avvolge,
e accoglie nell’incanto della propria povertà il punto aureo di teofania,
l’oceano di luce del “grande Tacere”.
Nel Canto del sole inesauribile, il sovrano sguardo eleva e sfianca l’inezia
vivente: e nel declinare della vita è fatto saldo il patto con il grande astro
di luce, che trattiene a sé ogni fiato in chiarità definitiva. Il dolore porge
sé stesso in tenera nostalgia, nello struggente ricordo del Volto fa eucaristia
minore che “si arrossa di sangue/ come trafitta da spine”. Sete sacra, che
lascia vorticare accanto un cosmo adolescente di gravami e fulgori; fissandone
il cuore segreto, l’oscura stilla, aghiforme totalità e pienezza immobile.
Sorgente del gesto di genesi, in cui già dimora la discesa alla passione, al
pane, al grano: l’infinità si curva nell’umile riserbo, nel mite ricovero: il
grembo di Maria, “la mangiatoia”, “il fieno”. La grazia diserta il computo e si
china verso irrisorie, lucenti umiltà. Quando posa nel cuore umano, mondi nuovi
germinano nella reciprocità di sguardo: è l’armonia del trinitario mistero,
laddove il Padre ama nel Figlio e attraverso lo Spirito si dona.
Il poeta fa una teologia del nascondimento epifanico, dell’apparizione criptata,
in cui l’Eucaristia è memoriale e atto creativo corrente, vivo: la puntuale,
assidua rigenerazione cosmica e personale, rubino taciturno d’intimo albore,
fuoco risorto nell’intenzione di Dio, è dove l’uomo si riconosce come brama
velata: ché anche l’Eterno emana per carenza d’amore, e crea ogni forma dal
palmo, chiamandola per nome.
Esiste una via cristica che accomuna il celeste alla creatura: il risalire
l’erta della croce, il cui vertice d’intuito e senso di sacra presenza non è
sangue versato, ma vegliato vuoto, spalancato di preghiera nella carne: anche in
Gesù, sull’albero atroce, fu la consegna, non la ferita, a generare il nome del
Padre sulle labbra.
Nelle acque del cuore, fatte torbide dall’umana miseria, il chiarore del posarsi
profondo di Dio crea il “Punto Candido” di visione, io eucaristico d’incantevole
convegno che risale con soavità l’invisibile nodale: altare insostenibile dove
il sensibile si spezza e l’occhio vero non osa. La tracotante fragilità di
arroccarsi, talora, nel pensiero, e non essere fiamma di totale ardore, è
redenta, al cospetto delle fluide e radiose – il sole, il mare – epiclèsi del
creato: che generano confidenza, meraviglia, senso di tutela. Dove l’umano,
nonostante le sue ambiguità e imposture, trova riparo in incommensurabili
fedeltà; è questo il vibrato mistico: che porterà alla partitura interiore di
lode, alla consonanza di adesione perfetta.
Lucente e scoscesa, profondamente cristocentrica la teologia contemplativa
distesa nel canto di Karol Wojtyła snuda l’apòfasi come via diletta
dell’esperienza mistica. Tanto nella visionarietà quanto nell’edificio
spirituale, nel sentire che oltrepassa l’intelletto, nell’ascesi inversa alle
lucòree voragini interiori, nelle antitesi metafisiche tra oscurità e bagliori,
nella preghiera silente, terminale della pura adorazione, nell’anima come alveo
del riconoscimento, riecheggiano le atmosfere di Sant’Agostino, Isacco di
Ninive, Meister Eckhart, Giovanni della Croce, Angelo Silesio.
Toni umilissimi, ma a vertiginose altezze, laddove l’Amore è l’evento teofanico
per eccellenza, ciò che “spiega ogni cosa”. Il Pellegrino cherubico di Silesio
risuona in quell’anelito alla semplicità radicale in cui Dio è presente solo “là
dove nulla più rimane”. Una poesia che fa lectio divina per puro nitore, e prega
con un affetto teologico struggente.
Una costante tensione tra immanenza e trascendenza trova ristoro nel gesto
soprannaturale dell’abbassamento: l’umiltà di Dio che si riduce nell’uomo. Pure,
l’incarnazione del Verbo ritorna ossessivamente in immagini di discesa e
decremento sempre nuove: Dio si fa croce, si fa occhi, si fa abisso, si fa
perfino nostalgia, e sosta nelle briciole di materia, grano e pane: luoghi
ontologici, nei quali l’Essere si mostra nella diatonia tra finitezza e
pienezza.
Il poeta guada ampi corsi d’intensità mistica, semplicità lirica e tensione
all’invisibile; in particolare, nel Canto del sole inesauribile questa
traiettoria si arricchisce di un’ulteriore stratificazione cosmica, laddove il
sole non è più solo simbolo di Dio, ma interlocutore metafisico dell’anima, che
“non è una foglia”, non conosce la nuda impermanenza, ma contiene in sé una
partecipazione eterna al movimento del creato. Il cosmo si traduce in figura
sacramentale: “il frammento di pane più reale dell’universo/ più colmo d’Essere,
colmo del Verbo”: la parola si sostanzia nella cosa. Il pane eucaristico è
metonimia potente dell’Essere.
Nel lessico essenziale, vicino alla sorgente biblica e patristica, la poesia di
Karol si compie canto dell’umiltà ontologica. Scritture sapienziali in essenza,
mai nei toni, frammenti di un’apocalisse centrale, in cui l’uomo e Dio si
cercano nei luoghi più reconditi della coscienza, e nelle trasparenze del
silenzio che dilata lentissimo, di fronte allo svelarsi di un’eccedenza. Tale
tensione all’inesprimibile genera una poesia prossima al sublime romantico –
Novalis, Hölderlin – ma qui rifratta attraverso una spiritualità profondamente
cristocentrica e pascaliana: “più aguzzo lo sguardo, meno riesco a vedere”.
Similmente a quello che accadeva in Cristina Campo, la funzione del linguaggio
nel poeta è performativa, ma anche liturgica: la figura campiana è vaso d’oro in
cui, per astinenza e accumulo, precipita l’ignoto liquore dell’idea; e così
l’atto del nominare nel poeta Wojtyła – “Ah, accogli, Signore, l’ammirazione che
mi zampilla dal cuore” – è invocazione, rito che plasma lo spazio interiore e lo
dispone all’incontro con il mistero.
Il linguaggio non descrive Dio, ma rasenta quel “fiore inaccessibile” che è
icona teandrica d’intimità senza tempo, luce nuziale, mutua fiamma. Il poeta
cerca trasparenza, per essere pura rifrazione delle solenni vastità
evocate. Teologo del lemma incarnato, viandante del muto brillare, esegeta di
sobrietà: ecco Karol Wojtyła giovanissimo poeta. Il resto pertiene alla storia:
l’agire nel mondo di un uomo intero, abitato dallo Spirito.
Isabella Bignozzi
**
da: Il canto del Dio nascosto[1]
Lontane rive di silenzio cominciano appena di là dalla soglia.
Non le sorvolerai come un uccello.
Devi fermarti a guardare sempre più in profondità
finché non riuscirai a distogliere l’anima dal fondo.
Là nessun verde sazierà la vista,
e gli occhi prigionieri non si libereranno.
Credevi che la vita ti nascondesse a quella Vita
chinata sugli abissi.
Ma da questa corrente – sappi – non c’è ritorno.
Avvolto dalla misteriosa bellezza dell’eternità!
Durare e durare. Non interrompere la fuga
delle ombre, durare solamente
in modo sempre più chiaro e più semplice.
Intanto sempre indietreggi davanti a Qualcuno che viene di là
chiudendo piano dietro a sé la porta della piccola stanza
e venendo smorza il passo
– e col silenzio colpisce quello che è più profondo.
*
Ecco l’amico. Sempre ritorni con la mente
a quel mattino invernale.
da tanti anni ormai credevi, sapevi certamente
ma lo stupore non ti può lasciare.
Chino sopra la lampada, nel fascio di luce unita in alto,
senza alzare il viso perché sarebbe inutile –
ormai non sai se è là, là visto di lontano,
oppure qui, nel profondo degli occhi chiusi –
È là. Mentre qui non c’è soltanto tremore,
soltanto le parole del nulla ritrovate –
ah, ti rimane ancora un briciolo di questo stupore
che sarà tutto il contenuto dell’eternità.
*
Non così si presenta la forza vitale della luce.
Quando il mare rapidamente ti nasconde
e ti scioglie in abissi silenziosi
– la luce strappa bagliori verticali alle onde languide
e il mare piano finisce, affluisce un chiarore.
E allora, in ogni direzione, negli specchi lontani e vicini,
vedi la tua ombra.
Come ti nasconderai in questa Luce?
Sei troppo poco trasparente
e il chiarore alita dappertutto.
In quell’istante – guarda dentro di te. Ecco l’Amico
che è solo una scintilla, eppure è tutt’intera la Luce.
Accogliendo dentro di te quella scintilla
non scorgi altro,
e non senti di quale Amore sei avvolto.
*
Il Signore, quando attecchisce nell’intimo è come un fiore
assetato di caldo sole.
Vieni, dunque, o luce, dalle profondità dell’inesplicabile giorno.
e pósati sulla mia riva.
Ardi, non troppo vicino al cielo
e non troppo lontano.
Ricordati, cuore, di quello sguardo
in cui ti attende tutta l’eternità.
Chìnati, cuore, chìnati, sulla riva,
annebbiata nella profondità degli occhi,
sul fiore inaccessibile,
su una delle rose.
*
Io stacco piano la luce dalle parole
e raduno i pensieri come un gregge di ombre
e lentamente in tutto immetto il nulla
che attende l’alba della creazione.
Lo faccio per creare uno spazio
alle Tue mani tese
lo faccio per avvicinare
l’eternità in cui Tu possa alitare…
Inappagato dall’unico giorno della creazione
io bramo un nulla crescente,
perché il mio cuore sia disposto al soffio
del Tuo Amore.
*
V’era Dio, in cuore, v’era l’universo,
ma l’universo si oscurava
e diveniva, piano, canto del Suo intelletto,
diveniva la stella più bassa.
O maestri dell’Ellade, vi narro un grande miracolo:
non importa vegliare sull’Essere che scorre via tra le dita,
c’è la Bellezza reale,
celata sotto il Sangue vivo.
Il frammento di pane più reale dell’universo
più colmo d’Essere, colmo del Verbo
– il canto che sommerge come un mare
– il vortice di sole
– l’esilio di Dio.
*
Il Tuo sguardo fisso sull’anima, come il sole verso la foglia s’inclina,
ne arricchisce il fiorire con la profonda, trasparente bontà,
l’accoglie nel suo raggio
– ma Tu, Maestro, guarda:
che accadrà della foglia e del sole? – la sera si avvicina.
*
L’anima non è una foglia.
E su di sé può trattenere il sole
e insieme a lui discendere
in un arco inscindibile, al tramonto.
E laggiù lo raggiunge e rimane,
partecipando al solare declino,
e quando ancora procede il cammino,
in una lunga ombra a lui si salda –
Non spezza l’orizzonte,
nell’ansia di giorni lontani,
– ma solo sta alla porta e bussa.
Ed ecco, ha giù raggiunto tutto:
ecco, ogni giorno le riporta il sole
nel cerchio visibile.
*
È in me l’acqua profonda trasparente,
ai miei occhi velata di nebbia –
quando, come un torrente, io corro troppo in fretta,
non sono degno che quel fondo così abissale.
Là, ogni giorno, il mio Signore viene e resta –
scia di sangue quando s’immerge nella neve –
– e vi è reciproco riconoscimento
e alita una reciproca abbondanza.
Se, allora, qualcuno sapesse togliere
dalle profondità trasparenti la nebbia,
si vedrebbe – in quale miseria,
si vedrebbe – in chi –
e si vedrebbe – quale chiarore
inonda la profondità oscurata,
si vedrebbe – nel cuore umano,
nel più semplice dei soli.
*
O Signore, perdona al mio pensiero che non Ti ama ancora abbastanza,
perdona al mio amore, Signore, ch’è sì terribilmente incatenato al pensiero
che Ti sperde in pensieri freddi come la corrente
e non avvolge in brucianti falò.
Ah, accogli, Signore, l’ammirazione che mi zampilla dal cuore
come zampilla un ruscello dalla fonte –
– il segno che di lì verrà la vampa –
e non respingere, Signore, neanche la tiepida ammirazione
che un giorno colmerai con una pietra ardente sulle labbra –
Non respingere, Signore, la mia ammirazione
che per Te è un nulla, perché Tu Intero sei in Te Stesso,
ma per me, ora, è tutto,
un torrente che rapisce le sue rive
prima di dire la sua nostalgia per gli oceani smisurati.
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[1] in: L’opera poetica completa di Karol Wojtyla, a cura di Santino Spartà,
Libreria Editrice Vaticana 2012
L'articolo “Nel profondo degli occhi chiusi”. Karol Wojtyła, poeta proviene da
Pangea.
Il 9 luglio del 2025 Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound, compie cento
anni. Un po’ Sfinge, un po’ menhir è lì, memoria stilita, memoria petroglifo, a
sigillare lo stigma del padre. Mary, col suo dire fermo, pieno di meli e di
vespe, pare un monito. Il padre, ‘Ez’, il poeta che si è fatto carico – come
profeta, maestro, pioniere, lottatore – del Novecento (e forse della ‘fine’
della letteratura per come l’abbiamo conosciuta, sfinendola), è nato
nell’ottobre del 1885; quarant’anni fa Mary pubblicava la ‘sua’ prima edizione
dei “Cantos” nei ‘Meridiani’ Mondadori. L’introduzione – in impeccabile
‘distanza’ – attaccava così: “The Cantos: poema scritto in pubblico, ma anche
poesia chiusa. Dai trovatori Pound ha imparato a coprire le proprie tracce. E
più i giri si volgono verso il centro di sé e della sua tribù, più si imbozzola.
Ma per chi riesce a rompere il guscio è un entrare nella ‘ghianda di luce’, un
reggere ‘la sfera di cristallo’”. Un poema che riassuma azione e divinazione,
tenacia e teurgia, storia e mito, assiduità e assurdo. Che impresa vertiginosa.
I giorni di Mary paiono consustanziali a quelli del padre: qualcosa che ha a che
vedere con il patto. Investita del compito di penetrare i “Cantos”, la ragazza
ha tremato, tumultuoso il sì, consapevole che ogni investitura è crocefissione.
Pound ha unito in sé Provenza e Giappone, Usa e Cina, eppure, di biblica essenza
è tale paternità.
Ad ogni modo. Qui si ricalca il reportage di un viaggio compiuto a Brunnenburg,
alla corte di Mary: fu stampato, in origine, tempo fa, sul “Giornale”. Mantiene
una sua stremata ‘autenticità’. L’ultima volta, ho sentito Mary lo scorso anno:
parlammo di Pound e del Giappone, del desiderio di tradurre i suoi drammi No;
lei, la ragazza, citava Aristotele – cento anni sono un soffio per chi levita
sui millenni.
**
La fine è una luna enorme, davanti all’autostrada, simile al calcagno di Dio.
Rimini-Brunnenburg andata e ritorno. In un giorno. Agosto luciferino. Oltre
novecento chilometri. Abbiamo sorbito il tè con la Storia della letteratura.
Tanto basta.
Accompagno Walter Raffaelli nel forte dei principi de Rachewiltz, appena sotto
Castel Tirolo, dove abita Mary, la figlia di Ezra Pound. Dopo Vanni Schewiller,
Raffaelli è l’editore poundiano per antonomasia: ha pubblicato testi di Ezra, le
poesie di Mary e della figlia Patrizia, i libri del marito di Mary, l’egittologo
Boris. Il castello dei de Rachewiltz è arpionato alla roccia come un urlo. La
strada per arrivare è ripida, intitolata – vivaddio – a Pound. Pochi elementi,
però, entrando nella dimora, arcigna, ricordano il poeta. Un manifesto racconta
un ciclo estivo di concerti; l’ingresso è per il Museo agricolo. Da un’aiuola
sbuca la faccia di Pound scolpita da Gaudier-Brzeska. Al castello sono ospiti
dei musicisti: nastri sonori avvolgono chi entra. Mary sbuca all’improvviso da
una porta laterale. Minuta ed energica, classe 1925, un sorriso ampio come un
balcone di gerani e quegli occhi, azzurri e spogli, che pietrificano i ricordi.
Ci conduce per una scala a chiocciola. Sulle pareti, schizzi vorticisti tratti
da “Blast”, la rivista creata da Pound insieme a Wyndham Lewis. Più tardi
sorbiremo il tè su una teca di vetro. Sotto le tazze, piccolissimi monili egizi,
occhi, orecchini, pettini, divinità enigmatiche, che adornavano tombe di tremila
anni fa.
«Vuole accomodarsi sulla sedia di William Butler Yeats o su quella di Ezra
Pound?». Un senso d’inferiorità rende le mie ossa acciaio. Per il momento resto
in piedi. Da una parte c’è il ritratto di Pound fatto da Rolando Monti: il
poeta, davanti al mare ligure, cammina in avanti, bruscamente, con la mano
sinistra in tasca, ma guarda, severo, indietro. Sotto, libri di Pound in tutte
le lingue del pianeta. Una parte della libreria è dedicata alle pubblicazioni di
Pound in italiano. Dalla stanza, un bunker in cui si è frenato il tempo, la
vista sulla valle di Tirolo è vertiginosa. «A mio padre non piacevano le case né
i nidi», mi dice la figlia, che alternativamente chiama Pound «Pound» o «mio
padre». «Secondo lui le case erano inutili. Un uomo, diceva, non ha bisogno di
case, ma di due valigie. Una per i vestiti. L’altra per i libri». La cassa dei
libri di Pound, in legno, c’è anche quella, griffata «Ezra Pound, Rapallo». Su
una parete, il calco dei visi del poeta e di Olga Rudge, l’amata, la madre di
Mary. Su un tavolo, la copia dell’Ulisse di James Joyce dedicata a Pound.
Insieme a Mary, ci accompagna nella discussione la figlia Patrizia. Più tardi,
all’uscita, incrocio l’altro figlio, Siegfried, che cavalca la bicicletta manco
fosse uno stallone. «Pound qui non stava bene», dice, sibilando, Mary.
Dopo dodici anni di reclusione nel manicomio criminale di St. Elizabeths,
Washington D.C., nell’estate del 1958, Pound attracca in Italia, a bordo della
“Cristoforo Colombo”. Va a stare da Mary e da Boris, nel castello tirolese,
vasta solitudine di campi verdi, rocce in picchiata, gelo. «Mio padre è e resta
un americano: aveva bisogno di spazio. Qui sentiva freddo. Questi luoghi gli
trasmettevano una certa angustia intellettuale. Cominciò a fare il processo a se
stesso, visto che non fu mai processato. Si accusava, si interrogava se avesse
sbagliato tutto… La gente non può immaginare, ma per sopravvivere nel campo di
prigionia a Pisa, prima, e poi al St. Elizabeths, Pound ha dovuto concentrarsi
totalmente sul suo lavoro. Altrimenti, sarebbe impazzito». Quelli del ritorno
sono anni durissimi per il poeta.
> «Non riconosce più l’Italia che ha lasciato anni prima. Gli crolla
> letteralmente il mondo addosso. La morte di Ernest Hemingway e di Hilda
> Doolittle nel 1961, quella di E.E. Cummings nel 1962, di William Carlos
> Williams nel 1963, di Thomas S. Eliot nel 1965… Pound vede morire tutti i suoi
> amici, vede disintegrarsi un’epoca».
Mentre Mary parla appaiono e scompaiono nella stanza i volti di quegli uomini
che hanno cambiato la letteratura occidentale. Di fianco a Mary si spalanca una
nicchia con la biblioteca consultata da Pound. Mi accompagna. I libri sono
coperti da una carta trasparente. Estrae alcuni volumi, una storia della Cina
antica, in francese. «Nel 1940 Pound pubblica i Cantos LII-LXXI, quelli relativi
all’epica cinese e agli scritti di John Adams. Vede, Pound a Rapallo, in quegli
anni, non faceva il fascista, studiava…». Che fine ha fatto quel mondo, gli
Eliot, i Joyce, gli Hemingway, quella energia? Oggi la cultura è mercanteggio di
sciocchezze. «Cosa la stupisce? Dopo l’epoca di Dante sono dovuti passare secoli
per avere un Leopardi!». Risposta rotonda. «E poi, io non voglio uscire da
questa stanza, sono nel pieno di quell’era, di quegli istanti, lo capisce?». Lo
capisco, certo. Anch’io vorrei annegare qui.
Ezra e Mary
Quest’anno, un ennesimo anniversario poundiano. Il rammarico di Mary si
percepisce, vivo come un fuoco, sotto pelle. «Spererei che Mondadori pubblicasse
un’edizione economica dei Cantos, per rendere più accessibile l’opera di Pound».
Invece niente. «Il problema è che per non incorrere nelle accuse di fascismo
bisogna sempre mascherare Pound con un involucro sufficientemente grande. Magari
parlarne con altri autori, in contesti più ampi». Quando Mary se ne esce,
«vorrei fondare una Repubblica poundiana!», ci zittiamo tutti. Parla piano, con
accuratezza. «Pretendo che qualcuno, il governo degli Stati Uniti d’America, un
gruppo di Università americane, restituisca a mio padre la personalità
giuridica. Dal 1945, quando, senza processo, fu internato al St. Elizabeths,
Pound non ha più riavuto i suoi diritti civili: e cos’è un uomo privo di
diritti?». Più che l’ira, la rassegnazione colora il viso di Mary, sulle cui
spalle grava un secolo di grande letteratura. Gli ultimi anni di Pound replicano
il silenzio – «che equivale a una dichiarazione di non-colpevolezza» – opposto
in quel 1945 alle autorità americane.
> «Negli ultimi anni mio padre non parlava con nessuno. Una fotografia lo
> ritrae, magrissimo, davanti a una rosa. Un articolo di Indro Montanelli, che
> in passato non era stato molto gentile con Pound, lo descrive a Venezia, in
> un’aula piena di persone, forse un’ambasciata, seduto, che gioca con un
> gatto».
L’articolo di Montanelli, Pound, uscì sul “Corriere della Sera” l’11 aprile del
1971. L’episodio ricordato da Mary è raccontato in questo modo dal grande
giornalista:
> «In salotto, si rimise sul divano al suo posto di esule e risprofondò nella
> sua lignea immobilità. Di vivo, c’erano solo le mani, che continuamente si
> cercano e auscultano, ma con dolcezza e senza orgasmo. Esse sembravano
> esercitare non so quale ipnotico potere su Crim, la gattina siamese di
> Liselotte che, accucciata ai suoi piedi, le fissava con le pupille dilatate da
> una folle stupefazione. Poi, scalato il sofà con un soffice balzo, cominciò a
> leccargliele. E infine vi si raccolse facendone la sua cuccia e reclamandone
> la carezza. Per un poco, Pound subì. Subì anche lo sguardo della bestiola che
> gli teneva gli occhi negli occhi, unica fra tutti noi a non sentirsene
> turbata. Poi la prese delicatamente per la collottola e la rimise accanto a
> sé. Ma Crim non si diede per vinta e ricominciò la sua morbida insinuante
> ascensione dal cuscino alle ginocchia di Pound e dalle ginocchia alle braccia,
> fra le quali si accoccolò. Tutti seguitavano a parlare, ma senza distogliere
> lo sguardo da quel muto dialogo – forse un idillio, forse un duello – fra Ezra
> e il gatto».
>
> (L’articolo è accolto in: E. Pound, È inutile che io parli. Interviste e
> incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021)
Alcuni taccuini mostrano la poesia estrema di Pound, quella dei Drafts and
Fragments. Scrittura minima, obliqua, confusa. Orfica. «Oggi finirei i Cantos in
un altro modo…».
Sono venuto fin quassù per capire questo. Dove finiscono davvero, in quella
turba di note dalla grafia oracolare, i Cantos? «Le ipotesi più veritiere sono
tre. I Cantos terminano con la frase “ma la bellezza esiste”, che non è
confluita nel poema. Oppure con “Un po’ di luce, come un barlume/ ci riconduca
allo splendore”. Infine, ed è la fine che preferisco, il capolavoro di Pound si
blocca su questo verso: let the wind speak, lascia che parli il vento». Il
poeta, a quel punto, non ha più verbo né voce: è realizzato.
*In copertina: Ezra e Homer Pound insieme a Mary
L'articolo “Ci riconduca allo splendore”. Alla ricerca di Ezra Pound. Ovvero, in
gita da Mary proviene da Pangea.
Cos’è che mi fa scrivere?, s’impone?, a me che non sono nessuno. Il mistero
s’insinua e prevale. La trance, lucida, precisa, è generativa. Ma si potrebbe
continuare all’infinito. Anche questa mia abitudine a ripetere la parola tutto.
L’ho notato, c’infilo sempre la parola tutto da qualche parte, prima o poi, e
devo negarla per evitare il condizionamento. Il tutto ha totalità di emergenza,
richiama a dire l’abbraccio grande che mi circonda, perché dev’essere grande, in
grado di comprendere l’uomo intero, di accoglierlo. Ma quale uomo? Quello che si
affida alla parola, all’ascolto, che non tende a dire se stesso, lui e basta.
Kafka, in un suo racconto intitolato Descrizione di una battaglia, scritto col
suo amico Max Brod, fa dire a un pazzo: “Io vivo affinché gli altri mi
guardino”. Credo che Kafka si opponesse a questo. Non giudica, è attratto
dall’estremo, è sorpreso e ne ha pietà. Egli prefigura il mondo di oggi. Farsi
notare a ogni costo. Ecco la stortura, il malanno, e senza sapere che malattia
è. Godere di quel minuto di fama che è il niente, il mio niente. L’apoteosi che
non sono. Se penso a come scriveva Ungaretti nelle trincee della Prima guerra
mondiale, piantato dentro il fango, utilizzando quello che trovava, scarti di
giornali, pezzi di cartone che racimolava. Quei frammenti stabilivano già il
respiro della lirica, l’impaginazione era in quel formato esile.
Possiamo dire ritagli di sangue, il corpo delle cose martoriate, mutilate,
resistere con la poesia alla paura, alla morte vicina, al fatto che domani
potrei non esserci più. Che lezione! Si scrive sul confine, nel tempo che
c’incastra e decide chi siamo. A questo punto dico: chi è Valentina Di Cesare se
non una scrittrice, e insieme una madre, una moglie, un’insegnante di Lettere
nella scuola secondaria di primo grado, e lingua italiana per gli studenti
stranieri. Non la stessa trincea di Ungaretti, certo, ma se ci penso mi vengono
i brividi. L’amore per la Letteratura, per la scrittura sono quelli, si
dichiarano nel cuore, si consumano e si esprimono lì, nascono come un figlio nel
chiuso di un abisso, e più va scurendosi il desiderio, più aumenta l’assillo di
vederlo nascere, di voler essere con lui… Più il seme si fa luce, sotterrato
nella carne, più scoppia di vita, esplode la sua natura.
Gli istrici (Caffèorchidea Edizioni, 2025) sono questo, l’ha scritto Valentina
Di Cesare. Potrebbe continuare in avanti e oltre la fine per chissà quante
pagine, in quanto trasborda e suggerisce ancora altra vita. La vitalità,
l’energia che trasmette, risiede nel suo io, un cuore che a ogni pagina si apre,
e verso cui corre come in faccia al vento, o nel solco di una strada che si
rinvigorisce e si delinea sempre di nuovo, a mano a mano che prosegue, nelle sue
vicende e nei suoi personaggi, che ne rappresentano la voce, l’io in cui abitano
e s’intessono i discorsi, i pensieri, le parole. Quattro nature, quattro
protagonisti, come le nostre stagioni, per dire quanto è grande il tempo, quanto
è grande la vita, e densa, umile, impareggiabile, spettacolare, ricca. Gli
istrici è un libro che vuole essere amato, per la sua quieta vitalità, ancora in
essere quando il romanzo è compiuto, che non pare finito allo scoccare
dell’ultima parola. Perché Gli istrici non tende a contrarsi, ad avvitarsi in
iperbolici avvitamenti, tende bensì a fiorire, a immaginare.
> “Più di una nuvola aveva confuso le stelle quella notte e i bagliori si
> vedevano appena […] Quasi che si trattasse di un accordo con la luce […]
> Iniziava di nuovo il mondo […] e gli sterrati storti […] qualche baracca
> sbieca […] tutti gli usci erano serrati”.
È l’inizio del romanzo, ma come l’ho letto io, con un’invenzione mia, arbitraria
direi, si vede dalle parentesi quadre che ho innestato dove manca il testo,
agendo in levare al fine di far procedere a salti la scrittura, che non si
deforma, non si decompone, non si sgualcisce, nonostante il mio personale
intervento, anzi, il miracolo è lì, resta unitario il dettato, per dare risalto
al pensiero, la sua natura, la forma che procede per punti nodali, quasi
inavvertiti dal lettore, per cui si può dire che il mio esperimento è riuscito:
riportare la caratura del linguaggio (significativa, intatta, unitaria) alla
luce, anche se sottratta di alcune parti. La luce, questo il sugo dell’incipit!
Così ho deciso: dimostrare il sunto di una prosa fatta di contrasti, che rimanda
alla sua complessità. L’autrice non me ne voglia.
Più avanti, a pagina 53, il passo del racconto si fa elegante, pur restando
descrittivo, ma ora nell’obiettivo di un chiaroscuro che lo distingua (stavolta
la pagina è rimasta integra):
> “Certi giorni di novembre, alcuni vicoli deserti davano l’impressione di
> essere più stretti, quando si sentiva scalpitare l’acqua dalle grondaie già di
> prima mattina, e i tronchi degli alberi sulle montagne intorno si ergevano
> come grigie lame di ferro incolonnate”.
E le cose, a pagina 77, gli ambienti, sono il correlativo oggettivo del
personaggio, particolarmente vissuti, esperienza che si compie, mistero,
passato, memoria che non svanisce, nella scoperta che si presenta col suo carico
umano di stupore.
> “Era scalza. Iniziò silenziosamente a gironzolare per la casa, andando prima
> nel bagno a piano terra, quello con la piccola finestra che l’aveva sempre
> incuriosita da fuori e poi in salotto, la stanza che Francesca teneva sempre
> chiusa. Cercandone a tentoni l’interruttore, Carla sentì già infilando la
> mano, che quella stanza era più fredda rispetto alle altre. Annusò l’aria e
> subito intese che lì non v’era l’odore delle altre camere, nonostante
> campeggiasse in mezzo al grande tavolo un contenitore di fiori secchi e foglie
> colorate che emanavano un vecchio profumo. Con le labbra semiaperte e gli
> occhi attenti, Carla visitò quella stanza dalle finestre sbarrate, mentre
> lasciava correre la piccola mano sul ripiano del mobile a muro”.
Ed ecco il tema principale del libro, che appare all’improvviso, a pagina 144.
“Sapete che per paesi come il nostro vanno bene solo le lacrime di nostalgia?”.
La solitudine. È il motivo per cui Valentina Di Cesare ha scritto il romanzo,
per esorcizzarla, penso io, per conoscerla profondamente, e così combatterla.
Il valore de Gli istrici risiede in questo corpo a corpo. Ne è valsa la pena.
Tutti i personaggi sono soli. Qui il libro resta nudo. La scrittura si avvolge
intorno alle cose per vestirle di compassione, sebbene circospetta, perché
occorre descrivere, la scrittura ha le sue regole. E poi la nudità ferisce, si
pensi al Cristo in croce, e non si vuole. C’è orgoglio, distanza, le montagne
dell’Abruzzo sono giganti impossibili. Da un lato assistiamo alla fuga,
dall’altro si afferma la resistenza degli uomini, la fedeltà a quell’isolamento,
in fondo così amato. Se c’è un destino è l’amore. L’amore cristiano, quando è
nudo e celestiale di risurrezione, non chiede di soffrire, è consapevolezza di
ciò che saremo. La dualità porta scontento. Il desiderio si abbassa fino a
terra, è simile a qualche animale che scorrazza libero. Eppure, è proprio la
natura che ricompensa, in quanto la natura predomina nel romanzo, fa impressione
vedere com’è piccolo l’uomo in quegli scenari.
Mi sono appuntato una frase (o me la sono sognata?): “Le piccole salvezze gliele
offrivano gli animali”. Piccole per pudore o per diffidenza?, mi chiedo. Il
corpo s’impone e gli sbarriamo la strada, ci dice dove andare, ma noi preferiamo
la sconfitta dei pensieri, il rimuginare sempre e ancora. Ma anche l’uomo è
natura. Noi non lo capiamo. Pensiamo che la promessa sia stata negata, invece è
ancora lì, nel fatto che siamo vivi. E se moriamo (quando moriamo!), resta un
chiodo infisso nel cuore degli altri che grida non dimenticarmi, non
dimenticare, a questo sono servito, per questo ho vissuto. Supremo atto d’amore,
sacrificio, valore umano. Dai grattacieli di Manhattan alle altitudini del
nostro Abruzzo. “Settembre, andiamo. È tempo di migrare”, recita il grande
D’Annunzio, nel 1903. Possibile?, la vita non si muove? Che scandalo è questo?
Allora la mia pena continuerà anche dopo?
Mi pare che da queste domande, da questi tormenti si sviluppano le storie
moderne dei personaggi de Gli istrici. Istrici proprio in quanto corazzati di
aculei, contro chi ci vuole cambiare. Sbuca una mezza luna per contrasto, sulla
bella copertina del libro, s’imbianca fra le punte ritorte e graffianti di una
selva oscura, terribile e respingente. Nessuno impedirà la nostra salvezza,
nonostante tutto. “Noi non possiamo mai nascere abbastanza”, dice la citazione
di E.E. Cummings ad apertura del libro. Il che vuol dire che quando una voce
viene dall’esterno, ed è vera, profonda, come il mite Doì (il giapponese
protagonista di un capitolo, che decide di stabilirsi in quelle terre), allora
qualcosa si realizza anche in noi. Il nostro libro è scritto, è umano come un
essere vivente.
Vincenzo Gambardella
L'articolo Il libro come essere vivente. Su “Gli istrici”, un romanzo di
Valentina Di Cesare proviene da Pangea.
Quanto mi piacciono i libri dai quali esco sapendone qualcosa in più rispetto a
quando ci ero entrato! Volevo fosse il caso dello spillato di Federico Fubini,
omaggiato dal “Corriere della Sera” del trenta giugno. Titolo: Dazi.
Sottotitolo: Il secolo della guerra economica. In copertina: guantone a stelle
strisce contro guantone a stelle europee, perché l’immaginario italo-americano
resta affezionato allo Stallone di Balboa, e nel sottopancia un istogramma in
dissolvenza, come fossero grattacieli lynchiani.
In effetti i guantoni, il sinistro sulla destra che cozza col destro sulla
sinistra, potrebbero essere dello stesso pugile, per cui il dubbio: è una guerra
autolesionista, e schizoide, se non proprio l’ennesimo show per un pubblico
pagante pago di vedere gli altri darsi apparenti botte da orbi, in pieno stile
wrestler, restando cieco di fronte all’evidenza che a finire pestato più di
tutti resterà lui, pubblico spettatore, e non certo i proprietari dell’arena, i
fornitori, i preparatori atletici, i lottatori in scena, gli sponsor
dell’evento, le emittenze varie e eventuali?
L’estenuante guerra vinta dai ricchi che continuano a dichiararne, terrorizzati
come sono dall’idea di esserlo meno. Guerre combattute dai poveri, magari lo
fossero solo di spirito, contro i poveri di volta in volta convinti di averlo
finalmente trovato il ricco che renderà ricco anche loro, alla faccia di chi
povero lo resterà anche stavolta perché avrà puntato sul ricco sbagliato,
neanche l’errore madornale non fosse continuare a stare nello stesso gioco della
guerra su cui si fonda la straricchezza di quei ricchi che sanno arruolare i
poveri con la sola promessa di ricchezza, guadagnandoci pure, arricchendosi
assecondando la propria natura, del resto i poveri non stanno tanto a
sottilizzare tra una povertà e una ancora peggiore. Almeno per un po’ si saranno
illusi di qualcosa, un altro niente di fatto è pur sempre meglio del solito
niente di prima.
Metti il dazio, togli il dazio, questo dazio qua spostalo là e quello là mettilo
qua, la politica doganale trumpiana è esilarante, è il gioco degli “assetti del
potere” che sta creando “ostacoli al commercio internazionale” facendo
barcollare nella sola Europa “trenta milioni di posti di lavoro”, ciò non toglie
non serva un Dario Fo per metterla in opera buffa: sembra proprio di stare nella
favola dell’imperatore che brontola nell’attesa di quel bimbo che lo punterà a
dito per dirgli quant’è nudo, stufo – l’imperatore – di dover continuare a
andare in giro chiappe all’arie rischiando di buscarsi polmoniti, alla sua età!,
attorniato da comprimari il cui massimo sforzo critico è civettare
un Presidente, ma quanto le dona la calzamaglia color carne!
Che lo scenario economico e quindi geopolitico mondiale sia favoloso lo scrive
Fubini stesso, ricordando come degli “organismi internazionali dalle regole
condivise quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale o
l’Organizzazione mondiale del commercio” ormai resta “quasi solo il guscio:
vuoto come la corazza del Cavaliere inesistente del romanzo di Italo Calvino.”
L’avverarsi delle ambizioni della sinistra più antagonista, per opera del suo
antagonista più spavaldo e beffardo.
Di macroeconomia e dunque del nocciolo della politica cosa mai ne posso capire
io lettore di letteratura, in particolar modo di quegli scrittori che tante
volte provocano tali buchi a bilancio cheppoi va da sé gli editori debbano
stampare chef, tiktoker, ex-presidenti del Consiglio e giallisti tinti di nero
per non doversi riciclare del tutto in copisterie di catena? Non ho le carte,
non faccio deal, sono profano al punto da trovare brillante una sintesi
associativa che immagino del tutto usurata per indicare gli effetti
dell’economia finanziaria su quella reale, “da Wall Street a Main Street”, e da
mandare giù come pillola prescritta dello specialista la descrizione di
stablecoin: le chiamiamole valute “digitali private sostenute da depositi, per
lo più in dollari, di valore equivalente”.
Sono il corrispettivo italiano di quegli americani, stimati il 38% del totale,
“che non possiedono azioni quotate alla Borsa di New York e che non hanno altro
che debiti”, convinti – erroneamente – “di avere poco a che fare con l’andamento
di Wall Street e molto da perdere dalla globalizzazione”, dico erroneamente
perché se il 38% di americani azioni non ne ha, il restante 62% sì, e se si
rovinano economicamente due americani su tre, il terzo non si arricchirà certo a
loro spese, anzi: loro le spese le ridurranno, potendosele comunque permettere,
e sarà proprio il terzo, ulteriormente colpito dalle contrazioni del mercato, a
rimetterci il poco che aveva e vedere ancora più lontana la possibilità di
acquistarla una Ferrari, ora che l’azienda “ha alzato i suoi listini del 10%
prima ancora che entrassero effettivamente i vigori i dazi al 25% sulle auto in
arrivo negli Stati Uniti.” Per dire: le conseguenze della guerra dei dazi non
potranno mai essere le stesse per chi dovrà rinviare all’anno prossimo
l’acquisto di una Ferrari e per chi già da ora deve pagare “spesso anche il 28%
sulle loro carte di credito: interessi da mafia dei colletti bianchi, che in
Europa verrebbero puniti per il reato di usura”.
Da lettore non specialista ho l’ambizione anti-economica che Vollmann rielabori
in centinaia e centinaia di pagine psichedeliche il materiale che Fubini
precipita nel capitolo che in Dazi ne conta soltanto tredici: La storia nelle
vite di tre uomini: Clinton, Stiglitz e Vance. Per essere più sintetici di
Fubini: Stiglitz, nato in una steel town 82 anni fa, aveva capito per tempo “che
la globalizzazione beneficia i detentori di capitale e i lavoratori con diplomi
di college o con master in università prestigiose, nei Paesi avanzati; ma
svantaggia chi non ha né qualifica né capitali” e aveva fatto in modo che il
messaggio arrivasse a Clinton quando era lui il Presidente. Clitton il 20 aprile
del 1999 dalla libreria della Casa Bianca disse: “Questo è il momento di agire
per impedire che le crisi finanziarie raggiungano livelli catastrofici in
futuro.” Dopodiché non si agì affatto, e qui entra in scena Vance, nato in una
steel town circa quaranta anni dopo Stiglitz, solo che Vance non diventa un
economista anche premio Nobel e saggista prolifico tanto acquistato quanto
ignorato come Stiglitz: Vance a 32 anni pubblica Elegia americana prima di
diventare vicepresidente degli States a 40, rappresentando in pieno la
narrazione dell’elettorato di Trump: uno che non ci crede più ai rimedi
macroeconomici di uno Stiglitz, uno che rivuole la fabbrica in casa anche se da
casa sua sta espellendo i migranti indispensabili per coprire la forza lavoro
richiesta. Vance vuole riscatto ovvero vendetta subito, Promuovendo l’America
Grande Ancora, il cui acronimo un italiano forse rende meglio l’idea. E se
sostituissimo Promuovendo con Costruendo?
Riflessione: lo scrittore di autofiction Vance ha e ha avuto un effetto sul
mondo cosiddetto reale molto più sensibile dello stimato e inascoltato saggista
Stiglitz. Dipende dai lettori che raggiungi, da come li raggiungi, da cosa gli
racconti, se quello che racconti a quegli stessi lettori piaccia doverlo
sentirselo dire, dopo essersi dovuti prendere persino l’impegno di leggerlo, per
ascoltarlo.
E cosa dovrebbe gridare il bambino europeo al petulante imperatore nordamericano
che lascia indizi peggio di Pollicino, sbottando ogni tanto un vagamente
depistante meglio un jockstrap in filo spinato che un fottuto kimono di seta
cinese? Scrive Fubini: chiamare col suo nome la coercizione economica fra Stati
che è l’ultima moda del commercio internazionale, poiché
> “In sostanza Trump e Bessent [il Segretario del Tesoro] potrebbero stare
> cercando di mettere l’Europa davanti a una brutale alternativa: comprare
> debito americano man mano che viene emesso – e comprarlo malgrado rendimenti
> contenuti – oppure rischiare di perdere l’accesso al mercato dei consumatori
> americani e a quel che resta dell’ombrello di sicurezza del Pentagono.”
Che gli unici valori realmente difesi dalle civiltà egemoni odierne o meno,
quelli per i quali sono disposte ad architettare aggressioni verso tutto e tutti
dalle soft alle ultrahard, siano quelli che ci stanno in una borsa, specialmente
se la Borsa è la loro, per capirlo mica bisognava aspettare il ventunesimo
secolo e leggere Fubini! Bastava l’Ottocento e leggere Balzac. O Bel Ami di
Maupassant, che secondo me è la più bella biografia mai scritta sui normalissimi
uomini di potere, e dei secoli precedenti al 1885, anno in cui fu pubblicato, e
di quelli a venire. Per le mire dell’America made-in-Trump verso la per nulla
virginale Europa può valere il trattamento che George Duroy riservò alla
ammansita, cavalcata e pussata via signora Walter: lei
> “D’un tratto, smise di lottare e, vinta, rassegnata, si lasciò spogliare.”
antonio coda
L'articolo Letteratura da manuale. Per capire i dazi bisogna leggere Maupassant
(mica Fubini…) proviene da Pangea.
Sebbene con due anni e mezzo di ritardo a petto del trionfale annunzio sui
giornali, che lo prometteva in libreria per la fine del 2022, è finalmente
escito il doppio ‘Meridiano’ delle Opere scelte di Philip Kindred Dick, curato
da Emanuele Trevi. L’attesa, carica di promesse, si è però rivelata, a esser
generosi, una mezza buggeratura e un attacco, se bene dissimulato, contro lo
scrittore americano. In queste tremila pagine s’adunano in fatti fesserie e
sfondoni, qualche imbroglio non involontario, e parecchi arbitrii. Qui passeremo
in rassegna solo un’infima parte di tutto ciò: se dovessimo rintuzzare ogni
guasto e carognata, occorrerebbe un intiero terzo tomo.
*
Liberiamoci anzi tutto della «Cronologia», affidata a Emmanuel Carrère.
Come si sa, le cronologie dei ‘Meridiani’, negli ultimi anni, sono vere e
proprie piccole biografie, che occupano lunghe fitte e talora critiche pagine,
quindi non soltanto un elenco di date ed eventi.Poiché Carrère è l’autore di una
così detta “biografia” dickiana, forse ahinoi la maggiormente letta in Italia
dacché stampata da Adelphi, Trevi e Alessandro Piperno, l’attuale direttore
della collana, hanno ritenuto ovvio di assegnare a colui codesta preziosa parte
del ‘Meridiano’. Una scelta disgraziata quant’altre mai come potrà constatare il
lettore leggendo un mio lungo intervento, pubblicato su questa rivista.
Siccome là dico già tutto ciò che di essenziale si deve sapere, qui non mi
ripeterò. Rilevo solo che ancòra una volta è dimostrato quanto a signoreggiare
la più parte delle logiche culturali italiane sono criterii familistici e
ideologici.
La seconda scelleratezza è il «Profilo di Philip K. Dick», firmato da Trevi.
Pur assai informato e non del tutto disutile, esso nondimeno porta un guasto
irremeabile, cioè a dire il radicale rifiuto di attribuire a Dick il duplice
statuto di filosofo e di veggente, l’unico cui egli tenesse e che dimostrò
sempre di meritare, e di rilevare i connotati religiosi dello scrittore.
Dick è per Trevi un buon autore ma gravato da tabe psichiche. Frusta e stracca
robaccia di magliari (la medesima di Carrère, ça va sans dire), fondata su
periclitanti congetture gabellate per verità. Nel mio succitato articolo indugio
anche su questa delicata faccenda. Proseguiamo.
Il ‘Meridiano’ offre, nell’ordine, i seguenti titoli di Philip Dick: Occhio nel
cielo; Tempo fuori luogo; L’uomo nell’alto castello; Le tre stigmate di Palmer
Eldritch; Gli androidi sognano pecore elettriche?; Ubick; Scorrete lacrime,
disse il poliziotto; Un oscuro scrutare; Valis; L’invasione divina e La
trasmigrazione di Timothy Archer.
Per motivi di spazio non indugerò oltremodo sull’Occhio nel cielo, Tempo fuori
luogo e Un oscuro scrutare. Mi limito soltanto a rilevare che: il primo non
necessitava di una nuova traduzione, sarebbe in fatti stato sufficiente ripulire
una delle pregresse; mentre il secondo e il terzo sono la riproposizione delle
versioni già da anni a disposizione e, al contrario di altre versioni
miserabili, tra le poche salvabili. Di poi Occhio nel cielo – in vero più un
racconto lungo che romanzo – è opera bensì gradevole e abbastanza importante
nell’arsenale dickiano, ma non tra le maggiori.
La scelta ha natura politica, non certo letteraria, dacché lì Philip Dick…
strizza l’occhio ai comunisti. A oltre trentacinque anni dal fatale biennio
1989-1991 certi intellettuali (sit iniuria verbo) sembrano quei soldati
giapponesi che decenni dopo la Seconda guerra mondiale li trovavi ancòra
appostati in attesa di un contrordine dell’imperatore. Peraltro lor signori
confondono i sinistri di quegli anni ormai remoti, bensì funzionalissimi ai
regimi, ma ogni tanto capaci di qualche utile manovra critica. Oggi si sono
sostituiti al potere un tempo avversato e ne sono diventati i degnissimi eredi.
I cinque più noti romanzi dello scrittore americano: Ma gli androidi sognano
pecore elettriche?; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; L’uomo nell’alto
castello; Ubick; Le tre stigmate di Palmer Eldritch sono in verità un’ottima
scelta, ma si tratta delle stesse versioni già escite dal 2021 in avanti negli
Oscar.
In somma: sette titoli su undici di questa lussuosa e pretenziosa edizione
ricicla testi già in circolazione.
Ci sono tuttavia due differenze: aver abbandonate le orrende prefazioni di
Carrère annesse agli Oscar e la presenza di un apparato critico, com’è nelle
prerogative della collana. Ma è certo che lo scambio sia stato
svantaggiosissimo, per Dick e per il lettore.
Prendiamo a solo titolo d’esempio il paragrafo «Gnosi» (pp. 3012 e sgg) che
accompagna Valis e da cui trascelgo in modo aleatorio. È firmato, come tutti gli
accompagnamenti alla lettura, da Emanuele Trevi e Paol Parisi Presicce.
Leggiamo sùbito questa fesseria: «Non è mai esistita una chiesa gnostica
paragonabile alla chiesa cattolica, con le sue ferree gerarchie (vescovi,
diaconi, laici…) intese a salvaguardare le verità della dottrina garantendo la
successione apostolica» (pp. 3012-3013).
Negare l’esistenza d’una chiesa gnostica organizzativamente paragonabile alla
cattolica significa aver studiato poco e parlare a vanvera: basti in fatti
pensare al manicheismo, a cui aderì per nove anni niente meno che Agostino
d’Ippona. Esso fu la più grande eresia cristiana della storia, una vera e
propria chiesa, con tutte le caratteristiche di una qualsiasi chiesa universale:
dottrina, gerarchia, liturgie, riti, etcoetera. Durò per circa mille anni e si
estendeva all’attuale Cina insino all’attuale Marocco.
Andiamo avanti.
Trevi & Presicce definiscono Ireneo di Lione e Tertulliano «grandi polemisti
ortodossi» (p. 3014). Niente da dire, giusta la teologia tradizionale,
sull’ortodossia di Ireneo, ch’è pure stato elevato agli altari. Tertulliano fu
in vece pressoché da sempre considerato ai limiti dell’ortodossia e per certi
versi incompatibile con la dottrina, sia della Chiesa occidentale, sia della
Chiesa orientale. Nessuna di queste, in fatti, gli attribuisce alcun titolo ed
entrambe ne sconsigliano la lettura.
Poco dopo, un altro sfondone: Ireneo e Tertulliano «detestavano gli gnostici, li
consideravano pericolosi eretici e vedevano nelle loro idee diaboliche minacce
alle verità e alla nascente dottrina del cattolicesimo» (p. 3014). Trascuriamo
la sciatta disinvoltura con cui i nostri beniamini maneggiano il concetto di
«eretico», e limitiamoci a constatare che negli anni di Ireneo e Tertulliano,
cioè a cavaliere tra II e III secolo, non esisteva alcuna «nascente dottrina del
cattolicesimo». I commentatori confondono cattolicesimo con cattolicità, due
concetti assai ben distinti, sia nella storia delle religioni, sia nella lingua
italiana. È lecito parlare di «cattolicesimo» soltanto a partire, come minimo,
dal 1054, data dello scisma cristiano tra Oriente e Occidente. Evocare una
dottrina ovvero una Chiesa cattolica avanti di quello svolto è indice di crassa
ignoranza.
Non è finita.
La premiata ditta Trevi & Presicce, alla pagina 3013, spara: «In primo luogo
la gnosis, com’è evidente fin dal nome, è un percorso salvifico basato sulla
conoscenza, una sorta di risveglio che riconnette l’individuo alla sua vera
natura». Spiacenti, ma dal nome «gnosis» è evidente soltanto il nome, e non un
percorso: men che meno se descritto come si provano a fare T&P.
Trascuro di commentare l’evidente loro incapacità di distinguere «gnosi» e
«gnosticismo».
*
Trascorrendo dal fronte religioso al letterario, la caccastrofe è inarrestabile.
Nelle «Notizie sui testi» viene citato due volte C. S. Lewis. Nella prima
occorrenza (p. 3007) T&P ne evocano l’opera Out of the Silent Planet, modello
per Radio Libera Albemuth, una delle ultime pagine dickiane, dicendo dello
scrittore irlandese soltanto che fu amico di Tolkien. Nella seconda (p. 3029)
invece si parla «dello scrittore inglese C. S. Lewis, che fu grande studioso di
letteratura medievale, saggista di fede cattolica e autore di testi fantastici e
fantascientifici».
Ora, dare informazioni circa Lewis solo alla seconda occorrenza del nome, è già
di per sé sintomo di severa distrazione. E ciò senza contare che, in un libro
ambizioso per lettori ambiziosi, non è davvero necessario spiegare chi sia
Lewis. Così come è esornativo, in quel contesto, sottolineare l’amicizia con
Tolkien, come se ciò fosse issofatto titolo di merito. Ma le maggiori cannonate
sono anzitutto d’aver limitato le competenze di Lewis alla sola letteratura
medievale, quando è noto che egli fu un conoscitore a tutto tondo del così detto
Medio Evo; e in secondo luogo, sopra tutto, d’aver definito Lewis «di fede
cattolica».
C.S. Lewis fu per una certa parte della sua vita un teista. Poi, grazie ad
alcune esperienze (che si possono leggere sia nell’autobiografico Sorpreso dalla
gioia, sia nella bella biografia di Alister McGrath), si convertì al
cristianesimo ma non già al cattolicesimo, bensì alla fede anglicana.Sarebbe
stato utile rilevare a questo preciso proposito l’amicizia tra Lewis e Tolkien,
e non a casaccio. Fu in fatti il futuro autore del Signore degli Anelli a
imprimere una svolta decisiva al percorso dell’amico. Ma mentre Tolkien,
comprensibilmente, si attendeva da parte di Lewis un’adesione al cattolicesimo,
questi optò altrimenti.
Sia bene inteso che tutti questi sfondoni di storia delle religioni e di
letteratura sarebbero stati evitabili consultando anche solo wikipedia. L’ultimo
studente fuori corso dell’università di Roccacannuccia non li avrebbe commessi.
Ciò che non voglio commentare poiché anche di questo parlo nel mio già evocato
articolo, sono le note all’Uomo nell’alto castello, forse l’opera più politica
di Philip Dick e, per la mentalità dominante da ottant’anni, la più
inaccettabile e quindi la più falsificata. Prendo solo atto che il mondo
culturale italiano è zeppo di lupi travestiti da agnelli: proprio il concetto
che lo scrittore americano esprime nel romanzo declinandolo alla politica
mondiale.
Voglio invece evidenziare con favore le molte note ai romanzi che rimandano a
esempio a precisi passaggi della Sacra Scrittura citati o suggeriti da Dick. Il
lavoro, se non ho straveduto, è svolto con perizia, sì che possiamo ammettere
che, almeno come bibliotecarii o impiegati di redazione, certi intellettuali non
sfigurerebbero. Perché non pensarci e cambiare lavoro?
*
Scopo ufficiale del ‘Meridiano’ sarebbe di restituire dignità letteraria a
Philip Dick, considerato, come tutti gli autori di fantascienza, alla stregua di
un dilettante nel senso peggiore, indegno di prendere dimora sul Parnaso.
Un’iniziativa dunque lodevole per chi abbia saputo riconoscere nello scrittore
americano non soltanto un fantasioso facitore di mondi e trame relegato al
dominio della fantascienza – tenuto, con grave sbaglio, in gran dispregio dagli
intellettuali e da certi lettori colti –, ma un classico, se bene sui generis,
meritevole di ben altra considerazione.
Il resultato però è sviante.
Piperno e Trevi, col contributo di Carrère, hanno
voluto istituzionalizzare Philip Dick, ciò è a dire neutralizzarlo, renderlo
maneggevole, addomesticarlo, anzi tutto tacendone le propensioni filosofiche e
religiose: nella fattispecie, gnostico-cristiane. Lo si capisce pure dalla
scelta di escludere, anche solo in forma antologica, L’esegesi, opera cruciale
per capire sia il Philip Dick uomo, sia il Philip Dick scrittore. Una delle
visioni-simbolo di Dick è riassunta in una frase, famosa tra i lettori:
«L’Impero non è mai cessato».
L’Impero è quello romano, persecutore dei cristiani, che ancòra negli anni
Settanta Dick vedeva, more suo, all’opera, anche sulla propria persona, con
resultati esiziali per la società, gli individui, le anime. A mezzo secolo di
distanza Dick è ancòra perseguitato. A mezzo secolo di distanza noi possiamo
unirci alla voce di Philip Kindred Dick.
*
Poscritto
A maggior benefizio dei lettori più curiosi e di quelli che ancor credono alle
chiacchiere dei nostri intellettuali, riferisco per sommi capi un episodio
occorso diversi anni fa a un mio amico, superbo germanista italiano, uomo
altresì di raffinatissimo gusto linguistico, quando volle – e anche dové – avere
un confronto con chi presiedeva alla direzione dei ‘Meridiani’. Tacerò per
ragionevoli motivi i nomi sia dell’uno, sia dell’altro protagonista di questa
eloquente e istruttiva storiella e così il sesso dell’allora capo della collana.
All’uscita della raccolta completa, con originale, dell’opera poetica di un
grande tedesco, il nostro germanista si avvide, non appena schiuso il volume,
d’una seria di svarioni sciatterie e talune bestialità nella traduzione, firmata
da uno dei mostri sacri della germanistica italiana. Per ciò che possa valere io
stesso, indipendentemente dall’amico germanista, avevo sùbito notato lo stato
pietoso di quel volume, sì che posso assicurare che questo germanista aveva
veduto assai bene. Il nostro amico, pel solito schivo, fu còlto da un tal moto
di fastidio, da non poter evitare di scrivere una lettera al direttore (si
potrebbe adoperare il maschile anche se la persona fosse di sesso femminile),
una lettera in che egli, con toni garbati ma fermi, snocciolava solo alcune
delle minchiate eternate nel prezioso volume.
Attese diverse settimane senza ricevere risposta. Ma siccome la gravità era così
spaventosa da impedirgli di soprassedere, e altresì non volendo accettare di
essere ignorato, il germanista tentò di raggiungere al telefono il direttore,
ciò che, con sua grande sorpresa, gli riuscì. Il direttore avrebbe dovuto
conoscere il germanista dall’altro capo del filo, ché questi era la firma di
numerose preziose e note versioni italiane di grandi classici tedeschi, e della
letteratura, e della filosofia, per marchi editoriali di diversa levatura. Ma o
era all’oscuro, o finse di non sapere. Nondimeno stette ad ascoltare. Il
germanista aprì con un breve preludio di gentilezze e scuse per aver
“disturbata” l’attività di quel membro senatorio della repubblica letteraria
italiana. Ma, precisò, siccome non aveva ricevuta risposta alla lettera, non
aveva avuta altra strada che il telefono. Il direttore negò di aver mai ricevuta
la missiva, ma pur lo invitò a esporgli la sua intenzione, annunziandogli di
avere davanti al naso il volume incriminato. Nemmeno a dirlo, con tono tra il
condiscendente e l’irritato. Il germanista iniziò, aprendo davvero a caso il
volume, a evidenziare i punti critici. Si attendeva qualche reazione, ma l’altra
persona non dava segno di apprezzare, in alcun senso, le osservazioni di
quell’oscuro molestatore.
L’elencazione delle magagne fu alquanto breve, ma a qualsiasi onesto e
competente e in tedesco e in italiano, sarebbe stata sufficiente per cospargersi
il capo di cenere ed eventualmente ritirare il volume dal mercato, licenziare
l’autore della traduzione e incaricare altrui più attento – magari lo stesso
germanista della nostra storiella – per ripassare da cima a fondo il non esile
tomo.
Andò invece diversamente.
Il direttore del Meridiano, in fatti, si limitò a dire queste testuali parole,
glaciali: «Dottor …, mi stupiscono molto le sue osservazioni. Tutte le
recensioni al volume non parlano di errori e sono state tutte molto favorevoli».
Ma il germanista di rimando: «Lei sa bene, caro direttore, che le recensioni, a
certi livelli sopra tutto, sono, anzi che spontanee, sono spintanee. E poi non è
sempre detto che i recensori, quali ch’essi si siano, abbiano le competenze per
giudicare un lavoro così importante. Mi stupisce invece che Lei, alla sua volta
germanista, non abbia fatto caso a questa legione di errori, di morti….».
«Guardi, dottore», lo interruppe l’alto impiegato ora sensibilmente irritato,
«Le ho detto che le recensioni sono state tutte favorevoli e quindi non occorre
dire altro».
Il nostro amico non ebbe quasi il tempo di replicare, ché, dopo uno sbrigativo
saluto, la comunicazione si interruppe. E non certo per un mal funzionamento
della linea telefonica.
Luca Bistolfi
L'articolo Sul doppio “Meridiano” di Philip Dick. Ovvero: come si neutralizza un
grande scrittore proviene da Pangea.
Ci fu un tempo – non troppo lontano, eppure, pleistocenico all’oggi – in cui il
poeta era la creatura critica. Si poneva come punto di contraddizione, come
scandalo – era l’immorale e l’immolato. Tale era il significato, ai suoi occhi,
della parola politica: imporsi dal lato dell’assoluta debolezza. Irrompere a
difesa. Irritare con la corona di spine delle cause perse.
Di Nicolas Born, in Italia, non c’è quasi nulla. Grazie a Giovanni Nadiani e
alle edizioni Mobydick di Faenza, uscì, nel 2012, una selezione di
testi, Nessuno per sé, tutti per nessuno; Gio Batta Bucciol, nel 2019, ha
dedicato al poeta tedesco un servizio su “Poesia” (n. 347, “Tra bagliori e
abbagli”). Eppure, a dire di chi sa, Nicolas Born è stato tra i più importanti
poeti di Germania negli anni Sessanta e Settanta. Tra l’altro, uno dei più
venduti e dei più presenti nel cosiddetto ‘dibattito pubblico’. Das Auge des
Entdeckers, la raccolta edita nel 1972, fu un cambio di passo nella poesia del
tempo: Nicolas Born – che in verità si chiamava Klaus, era nato a Duisburg
l’ultimo giorno del 1937, il padre, poliziotto, aveva combattuto sul fronte
russo, a Stalingrado – si ribellava ai messia delle folle che annientano la
singolarità dell’individuo; odiava gli ideologi del progresso, “il mondo della
macchina”; quando lo invitavano in tivù si scagliava contro “il folle sistema
della nostra realtà”. In prima battuta, il libro vendette ottomila copie;
quell’anno, Born conobbe Peter Handke. “Qui fa freddo ed è meraviglioso perché
nulla può nascondersi. I fiammiferi ardono sul ghiaccio: vorrei comprarmi dei
pattini e noi dovremmo parlare, parlare, lontano dal chiasso letterario”, gli
scrisse, tra l’altro, a ridosso del suo compleanno.
A Martin Grzimek – scrittore ancora oggi sugli scudi – il poeta dettagliò in
qualche modo la sua ferrea poetica:
> “Non dirla rassegnazione, scetticismo, piuttosto – se non è anche questo un
> inganno. La letteratura in cui credo è quella dell’insicurezza universale, la
> veglia sulla catastrofe. La letteratura deve scuotere questo clima di false
> certezze, la fiducia in se stessi di chi governa sulla crisi di milioni. Alla
> scrittura questo è legittimo, allo scrittore non si può chiedere di più:
> anch’egli va ascritto tra i patetici, tra i miserabili”.
Era il marzo del 1978 – sarebbe morto poco dopo, nel dicembre del 1979, Nicolas
Born, di un tumore ai polmoni, fulminante. Aveva da poco pubblicato l’ultimo
libro, un romanzo, Die Fälschung: il protagonista è un giornalista inviato in
Libano a raccontare una ‘realtà’ di cui non riconosce più i contorni. È una
sorta di epica dell’atrofia della scrittura, genia di fraintesi. Il libro fu
tradotto in un film, L’inganno (1981), con Bruno Ganz nel ruolo centrale.
La stessa violenta lotta contro il reale, contro l’insensatezza, a stordire
l’assurdo, permea i versi di Born. Autodidatta, cominciò a lavorare in una
tipografia, scriveva nei ritagli di tempo. Fu Ernst Meister, il poeta dalla
scrittura enigmatica, a riconoscere per primo in Nicolas Born le stimmate del
talento. Così, Born, nel 1963, riuscì a partecipare agli importanti
“Literarisches Colloquium” a Berlino: diventò amico di Günter Grass e di Uwe
Johnson, lo scrittore de I giorni e gli anni. Si diede, con un certo successo,
al romanzo: Die erdabgewandte Seite der Geschichte fu tradotto in diverse
lingue. Una borsa di studio, nel 1970, gli consentì di perfezionare le proprie
ricerche all’Università dell’Iowa: conobbe, tra i tanti, Charles Bukowski e
Allen Ginsberg. Preferiva un linguaggio ‘oggettivo’, finché l’oggetto, tuttavia,
finisce per liquefarsi tra le sue mani: in quel liquame di immagini, di tumide
asserzioni, il lettore si aggira a piedi nudi, il lettore deve bagnarsi.
Riuscì a comprarsi una casa nel Wendland, in Bassa Sassonia, tra i boschi:
scrisse per bambini, scrisse per la radio, diventò un autore imprescindibile,
così si diceva un tempo. Un segno lo marchiò come il forcipe dell’angelo: il 3
settembre del 1976 la casa nel bosco va a fuoco, inceneriti la biblioteca e i
manoscritti di Born. Al poeta Jürgen Theobaldy, poco dopo, scrisse “Vorrei
prendere le distanze da così tante cose – è ingiusto che si debbano ‘conoscere’
– che tutto allora divenga linguaggio”.
Venticinque anni dopo la sua morte, Katharina Born, la figlia più piccola, ha
ripubblicato i suoi versi, con diversi inediti. È stata una sorta di rinascita,
culminata con un paio di premi postumi e il riconoscimento dell’alto, grigio
magistero di Born. Katharina era nata nel 1973, dalla seconda moglie di Born: il
poeta aveva tre figlie.
In una poesia epigrafica, Michael Krüger – la cui opera, in Italia, giace tra
Einaudi, La Nave di Teseo, Mondadori e Donzelli – ricorda la sua amicizia con
Nicolas Born:
> “Parlavamo di
> ciò che non era
> di ciò che non sarà.
> Ah, la triste ricchezza
> dei suoi canti, grida così acute.
> C’erano ragni anche allora:
> ora tessono una tela
> in cui sto soffocando”.
Che immagine ambigua e robusta. A volte, l’amicizia è una ragnatela: si scopre
di essere sotto veleno dopo tanto tempo, quando il ragno è ormai assente. A
volte, è il poeta a tessere una tela per intrappolarsi, ragno a se stesso.
***
Dentro il poema
Non puoi vivere
sfidando la realtà
della realtà non si vive
ma puoi sopravvivere all’assedio
e riprenderti tutto
e attraversare la vita
tramite rapida virtù di immagini
tu eri questo
tu eri vita che pullula
popolo che ansima sotto le lapidi
con sospiro continentale
da te agli antenati
mutilata intromissione
terra e acqua restano
il cielo resta
tu resisti
tu, l’impreparato a tutto
piccoli soli imperlano la tua democrazia e
l’eletto alla vita e alla morte
tu e le tue molte belle voci
tu la moltitudine
tu la pelle la pelle e in fondo
nient’altro che la pelle
tu il pioniere della vita
l’impresario delle bianche apparizioni
tu sei un essere spaziale che fluttua
tu l’autore dei flussi della storia
puoi stampare il tempo come un libro
tu pesi setacci ami mentre macerie di dittafoni
rombano nel vento
l’irragionevolezza è alla sua gemma
tu sei il fiore dell’irragionevolezza
tu sei giorno e notte ogni giorno e notte
tu sei l’omicida
apolide nel suo stesso sangue
sei il padre e il figlio
sei l’indiano a processo
sei i colori e le razze
sei la vedova e l’orfano
sei la rivolta dei prigionieri
sei l’ululato increscioso
coltelli spiritati e colpi sparati
sei il magnifico corridore della maratona del sogno
acquazzone di segni nella capitale democratica
sei il devastatore di tutte le catene
sei la formula magica delle segrete delle luce
l’insegna
l’avanguardia dei refettori
sei l’umano e
l’animale che odora di morte
sei solo e sei tutto
sei la tua morte e il grande desiderio
sei il progetto che infuria e
sei la tua morte
*
Per Pasolini
In sogno, Pasolini mi si avvicina
nel ruolo del protagonista.
Splende, lampeggia blu come una macchina
un attore in tutto –
Pasolini salta tra vaste pozzanghere, può essere
basso, laido, oscuro, asociale
ma è Pasolini ed è sempre altro a se stesso.
Poi si ferma sulla soglia delle palazzine
saluta dalle impalcature.
Indica una piramide di vecchie auto:
L’intero borgo
è il suo amante
e con la macchina da presa scopre paesi
che non può più vedere attraverso gli occhiali scuri.
Le mia immagini mugolano dice
dovrei fare film muti;
non sento una parola da anni.
Si strofina su di me e questo
mi piace.
Poi cade in una buca del cantiere.
Un auto arde.
Pioggia rimbalza sul mare.
Nel cinema, l’acquazzone è bianco – ancora.
olas
*
L’apparizione di un uomo nella folla
Benedetto essere soli
nel gulag dei pensieri, senza testimoni
senza l’occhio del pioniere che scorge il primato
senza l’orecchio disciplinato della folla.
Che valore ha un fatto che non si può spartire?
Che cos’è l’universo senza il tuo tremare
il tuo tremore sul palco davanti a file di sedie vuote?
La folla marcia sulla terra
e nessuno muore nella folla
sul dorso di ragnatele ronzanti
finché non accade la grande contraddizione:
l’apparizione di un uomo nella folla
*
Martedì, orrore
I dormienti
binari del tram, pavimentati
di asfalto, aspettano i vecchi tempi
come il ritorno della scrittura a mano
Inattesa pioggia, è pomeriggio
un po’ di luce fa nido sui volti
vergati in grigio, nei campi
tenebrosi canali, alberi pigmei
Colletti bagnati, bagnate le labbra
un vecchio guidato da una bimba con le trecce bagnate
Silos di cemento sopra binari morti
stormi di uccelli come stendardi
una commessa saluta dal vetro
I sobborghi si infiammano verso le sei
e io penso alla scoperta dell’“isola della mente”
Una gru, promontori di crudo cemento
guardo un mondo che ascende
che sa cosa significhi sopravvivere
*
La ballerina
Piuttosto piccola sullo schermo
signore e signori –
la ballerina
balla meravigliosamente anche per noi profani
favolose fiabe
di morte e di mutamento
a teatro
So che qualcuno dice
chi è quella?
dovrebbe ballare
dovrebbe muovere le gambe
con coerenza
in modo da non essere soltanto bella
ma disciplinata
con la sapienza sulla spalle
una danzatrice e un’artista
ben recinta nel suo ruolo
I miei amici hanno ragione
quanto conforta
esprimere il proprio talento
con totale dedizione
guardate la ballerina
osservate quei meditabondi gesti
la risonanza malinconica
in minore
la posa divina
guardate la ballerina sullo schermo
che interpreta il mondo
meglio del notiziario
*
Desideri
I fatti non sono che torbide torture.
Non sarebbe bello avere tre desideri
soltanto, ma che si avverino tutti?
Vorrei una vita senza pause
mentre i muri vengono presi a fucilati
rispetto a una vita percorsa in rapina
dai tesorieri.
Vorrei scrivere lettere in cui
esisto in parte.
Vorrei un libro in cui tutti abbiano accesso
e da cui possa uscire senza troppi drammi.
Non vorrei mai dimenticarmi che è più bello
amarti che essere amato.
Nicolas Born
L'articolo “Tu, l’impreparato a tutto”. Vita & poesia di Nicolas Born proviene
da Pangea.