Mi sono ripromesso che non leggerò nulla di scritto su Vargas Llosa giusto
perché è morto, nessun articoletto salmodiante tenuto in caldo in attesa della
salma apposita e sfornato per vendere qualche copia in più al mattino, come con
Martin Amis, Paul Auster, e tutti gli altri eccetera all’indietro e in avanti.
Non leggerò nessun aneddoto autobiografico pubblicato per dare l’impressione che
loro, gli aneddotici, siano ancora vivi e lui, Vargas Llosa no, mentre anche
così sarà vero il contrario, o meglio: l’opera letteraria di Vargas Llosa
resterà più viva di chiunque pretenderà di essere nella condizione di poterla
ricordare: è la letteratura che ci ricorda, che ci mette nella condizione di
ricordarci semmai di noi stessi; quando avviene il viceversa non è letteratura,
non lo è mai stata.
Non leggerò nulla su Vargas Llosa in morte di Vargas Llosa se prima non leggerò
qualcos’altro di Vargas Llosa stesso. Di suo proprio di recente ho letto L’orgia
perpetua ripubblicato di recente dalla Settecolori, l’avevo recuperato nel
circuito dell’usato nella precedente edizione con la stessa traduzione, invece
sono passati almeno un paio di decenni dal mio essere uscito frastornato dal
romanzo che ha aveva separato la mia strada da lettore dalla sua di
scrittore: La casa verde, che secondo me in italiano è stata tradotta non come
merita, detto da chi non conosce affatto la lingua originale, ma se La casa
verde è il capolavoro che è, e che non ho dubbio che sia, non può essere il
romanzo che ho letto io nella resa di Enrico Cicogna – così come sono convinto
che Meridiano di sangue di Cormac McCarthy non è quello che leggo nella resa di
Raul Montanari. Un capolavoro tante volte lo è proprio per come lo resta
nonostante le traduzioni che ce la mettono tutta perché non si noti quanto lo
sia.
Meridiano di sangue me lo sogno tradotto dalla Balmelli che ha tradotto Suttree.
Pure vero che La città e i cani, primo romanzo di Vargas Llosa, primo sia nel
senso che è il primo scritto da lui sia che è il primo dei suoi che abbia
letto, che mi conquistò totalmente e che sancì la mia ammirazione inconfutabile,
io l’ho comunque letto nella traduzione del da me vituperato Enrico Cicogna. La
casa verde è romanzo sorprendentemente e formalmente più ardito, però, de La
città e i cani.
Così come le è stato chiesto di ritradurre Cent’anni di solitudine, di Marquez,
a Ilde Carmignani non potrebbero chiedere una nuova traduzione di La casa verde?
La traduzione precedente di Cent’anni di solitudine, tra l’altro, lo scopro
adesso che ho controllato, era di Enrico Cicogna.
Speriamo che essere morto a Vargas Llosa valga almeno la consolazione di essere
ri-tradotto perché possa risorgere come merita in italiano. In lingua originale,
che è l’autentico piano dell’esistenza di uno scrittore che è riuscito a
diventarlo, certo non occorre nulla del genere. Lì Vargas Llosa è diventato
immediatamente immortale, cioè come tutti i grandi lo sarà finché qualcuno
felice d’imparare a leggere-leggere a giro lo si troverà ancora.
Nella morte di uno scrittore io non ci trovo nulla di interessante, nulla di
pertinente, tutto di necrofilo oltre che di ipocrita e opportunistico. Le prime
pagine di giornale potevano aprirle, per esempio, con l’annunciata
pubblicazione del prossimo romanzo di Thomas Pynchon: l’uscita di Shadow
Ticket scagionerà il prossimo 7 ottobre dall’essere solo un infausto
anniversario israelo-palestinese, oltre che mondiale, così come lo sono
diventati il 24 febbraio in Ucraina, l’11 settembre negli Stati Uniti, il primo
settembre in Polonia.
Giovandomi ripetendo: finché a scuotere le popolazioni informate non sarà
l’annuncio di un nuovo romanzo di Aldo Busi o di Peter Handke o di J. M. Coetzee
o di Helena Janeczek o di Herta Müller, per dire, ma il mero pettegolezzo della
morte sempre da mettere in conto di Questo Scrittore o Quella Scrittrice,
saranno più alte le probabilità di un nuovo 5 marzo 1933 in Germania che quelle
di un nuovo 16 giugno 1904 a Dublino.
…Intanto aspetto mi arrivi via posta la copia ordinata della Lettera d’amore a
Giacomo Leopardi, di Antonio Moresco: le rondini in copertina non importa non
facciamo primavera, purché facciano letteratura.
antonio coda
L'articolo Contro i coccodrilli. Ovvero: ecco perché Mario Vargas Llosa è ancora
vivo proviene da Pangea.
Tag - Letteratura
Non sarebbe stato difficile scorgere a Parigi, nella livida luce del tramonto
sul lungo Senna, il profilo imponente di Danilo Kiš. Dinoccolato, con una
sigaretta tra le labbra appena dischiuse e una capigliatura da creatura
mitologica, questo misterioso principe delle lettere amava girovagare per la
città, sfiorando discretamente i banchetti dei bouquinistes, attratto dalle
copertine e dai poster che occhieggiavano dagli scaffali.
Con gli occhi azzurri e luminosi, il volto dalle linee irregolari e la voce di
balcanica asprezza, Danilo Kiš si muoveva con l’incedere di un lare, quassi
fosse una tenera e rassicurante divinità
*
La biografia pretende di racchiudere in pochi cenni l’arco di un’esistenza, più
o meno lunga a seconda dei capricci delle Parche, disteso tra due banali date di
calendario. Danilo Kiš nasce nel 1935 in una famiglia per metà ungherese e per
metà montenegrina, ereditando dal padre la religione ebraica. Trascorre
l’infanzia in Ungheria, dove si confronta presto con l’odio antisemita e inizia
a maturare la sua precoce vocazione di scrittore. Poco prima della catastrofe,
si rifugia con la madre e la sorella in Montenegro, riuscendo a sottrarsi ai
rastrellamenti e a completare gli studi. Dopo la guerra, si laurea in
letterature comparate all’Università di Belgrado. Il resto della vita lo
trascorre tra Parigi e la capitale serba, insegnando come lettore di
serbo-croato nelle università francesi. Traduce con grazia da tre lingue e
scrive libri di ustionante bellezza. Assieme a Cortázar, appartiene a quella
schiera di scrittori esuli a Parigi, sospinti dalle onde del destino, dai marosi
della storia e dal richiamo delle Muse. Milan Kundera lo definì il più
misterioso e il più grande della sua generazione.
*
Su pochi altri scrittori la storia ha calato i suoi artigli con altrettanta
ferocia. Il giovane Kiš, in un triste e tragico battesimo, assiste come
testimone impotente al massacro di Novi Sad, avvenuto nel 1942. Di suo padre e
della maggior parte dei familiari si perderà ogni traccia: troveranno la morte
ad Auschwitz e in altri campi nazisti.
La letteratura di Kiš nasce sotto il segno della sofferenza e della crudeltà
arbitraria: la scomparsa dei propri cari e un destino segnato dalla sventura si
trasformano in un vero e proprio buco nero che travolge la biografia e orienta
la scrittura. Il colloquio tra i vivi e i morti diventa la cifra peculiare di un
equilibrio teso come una corda sull’abisso, sospeso tra memoria e oblio.
Come dire: la letteratura veste le sembianze di Caronte, mettendoci in religioso
ascolto di coloro che sono svaniti tra le nebbie della storia e ci attendono
dall’altra parte del fiume.
Mi tornano in mente i favolosi ritratti del Fayyum, ritrovati quasi intatti tra
le sabbie millenarie dell’Egitto: la scrittura di Kiš si posa come un amorevole
sudario sui volti di chi è già salpato. Anche lui, come Mandel’štam, ha appreso
la “scienza degli addii”. Il momento del congedo, però, non è mai netto, non
avviene con il veloce e argenteo taglio di una lama: è piuttosto un lento
dissolversi tra le fessure del tempo, il riconoscere infine che i partenti
custodiscono con sé il mistero del passaggio, sigillandone il segreto come una
rosa ben serrata tra le labbra.
Tutta l’opera di Kiš, dagli acerbi tentativi poetici fino alla grande trilogia
composta da Dolori precoci, Giardino, cenere e Clessidra, è attraversata
dall’urgenza creativa di dar voce ai dimenticati della storia, a coloro che sono
stati risucchiati dal gorgo delle atrocità novecentesche: come dar vita a una
Genesi all’inverso, partendo dal termine ultimo, dall’isola di Patmos.
In Enciclopedia dei morti, altra opera fulminante di Kiš, così come in Salmo 44,
la scrittura nasce da un’esigenza quasi etica: ‘incarnare’ l’invisibile, quel
muto e incolmabile spazio del distacco, e dargli un cuore, dei muscoli, una
colonna vertebrale che abbia le sembianze della speranza.
Solo attraverso la scrittura Kiš può congiungersi all’assenza siderale del
padre, riascoltarne i frammenti di voce, riportarlo entro le cornici di
un’esistenza che era pura vita in essere: come se, per miracolo, potesse farlo
riemergere dalla periferia del tempo e del sogno.
Colpisce, nella prosa di Kiš, un senso di devoto rispetto per l’atto creativo,
oserei dire per ogni singola parola scelta. Nulla appare superfluo, tutto è
assolutamente necessario, impossibile da esprimere altrimenti da come è: quasi
l’osservanza amorosa di un rito millenario, da custodire e tramandare con la
cura di un amanuense.
*
La scienza dell’etimologia rimescola le carte come un’astuta chiromante. Nelle
lingue di derivazione germanica o slava, per formare la parola compassione,
accanto al prefisso con- si sceglie invece un termine che significa sentimento.
Così, in tedesco, ceco o polacco, provare compassione per qualcuno significa in
realtà aderire intimamente a ogni emozione, sia essa gioia, angoscia, dolore o
felicità.
Tutta l’opera di Kiš è illuminata da questa particolare sfumatura di luce. Un
misto di cristiana pietas, compassione e ritegno verso il mistero degli uomini
guida la sua penna. Così anche in Salmo 44, dove le vicende di Maria – deportata
ad Auschwitz e in procinto di evadere dal campo con il figlio appena nato e una
compagna – prendono forma in una sorta di delirio onirico, attraverso continui
slittamenti temporali tra passato e presente. Il ritratto del padre di Maria,
seppur solo accennato, con la sua accorata e tragica consapevolezza della fine
imminente, richiama inevitabilmente la biografia di Kiš e la figura di suo
padre.
Il presentimento della catastrofe, le continue vessazioni subite dagli ebrei, le
esecuzioni sommarie e lo spettacolo tragico di una crudeltà efferata e gratuita
non soffocano, ad ogni modo, la voglia di vivere della protagonista: anche nelle
tenebre più fitte possono aprirsi spiragli di luce.
Nel breve libro ricorre spesso un’immagine che mi sembra racchiudere in senso
metaforico quanto appena detto: un fascio di luce, esile e tremolante, che si
insinua nell’oscurità delle baracche attraverso piccole aperture. Quel bagliore
le permette di vedere il figlio appena nato, di ripensare a Jakub, che forse li
raggiungerà quando tutto questo sarà finito. Di esercitare, infine, il diritto
sacrosanto alla speranza: il sentimento del futuro.
Salmo 44 è attraversato da una tensione costante, che cresce via via
avvicinandosi al culmine della vicenda: l’evasione dal campo, il cui esito
incerto può significare tanto la morte quanto la vita:
> “la sensazione di un momento che ha la densità dell’eternità e del sangue; il
> momento decisivo in cui si intersecano il passato, il futuro e il presente”.
Elemento simbolico, in questi attimi concitati, è il sangue: quello che Maria
sente scorrere dopo il primo rapporto con Jakub, quello che macchia i cadaveri
orrendamente uccisi e quello che segna l’inizio delle mestruazioni, proprio
nell’istante che precede l’evasione dal campo: il sanguinamento delle ferite
della storia si mescola a quello delle vicende individuali:
> “perché sembra che nel flusso quotidiano degli eventi debbano intervenire le
> morti e le nascite, affinché l’uomo rifletta su quel fiume di sangue da cui
> emergiamo e in cui torniamo ad affondare, come un fiume sotterraneo che scorre
> invisibile dentro di noi, e che riconosciamo solo quando sopraggiunge una
> torbida piena o quando il fiume si secca e si prosciuga”.
Adorno proclamò che, dopo Auschwitz, scrivere poesie sarebbe stato un atto di
barbarie. In quello che viene definito il “crinale quasi fisico di un’epoca”,
Maria si domanda se vi sia ancora spazio per una qualsiasi forma di
trascendenza. Ecco allora riaffiorare il pensiero del padre: Dio come perfetta
incarnazione della giustizia, dell’umanità, della bontà e della speranza. Alla
vigilia dell’evasione, Maria vorrebbe a sua volta credere in un Dio,
> “fatto in parti uguali di speranza, di bontà, di compassione, di amore…Sì. E
> di odio. E paura.”
Il Dio di Maria si chiama Jan, il figlio nato nel campo, il legame con il
futuro, con un orizzonte di vita aperto al vento di ogni possibilità. O forse il
Dio di Maria si chiama Max, come il deus ex machina di cui si parla più volte ma
che non incontriamo mai nel libro, e che Maria si appresta a conoscere solo anni
dopo la guerra, mentre visita con Jakub e Jan il campo di Auschwitz.
> “Sulla fronte di Jan voleva imprimere il marchio del martirio e dell’amore,
> quello che lei e Jakub si erano guadagnati con le loro sofferenze. E la
> ricompensa doveva andare a Jan. Ed era orgogliosa della sua missione:
> trasmettere a Jan la gioia di coloro che erano riusciti a creare la vita dalla
> morte e dall’amore. Donargli la gioia amara della sofferenza che lui non aveva
> provato mai sulla propria pelle, una sofferenza che tuttavia doveva essere
> presente in lui come un monito, come una gioia; come un obelisco.”
*
In un suo breve scritto, Danilo Kiš scrive che fra i suoi antenati del ramo
materno c’è un leggendario eroe montenegrino che imparò a scrivere a
cinquant’anni, sommando alla gloria della spada la gloria della penna, e anche
“un’amazzone” che per vendetta tagliò la testa a un usurpatore turco. La rarità
etnografica che Danilo rappresenta morì insieme a lui, alla fine degli anni
Ottanta.
In un’intervista per “Il Tempo” realizzata in Italia nel 1988, Maurizio Ciampa è
colpito dallo sguardo di Danilo Kiš. Gli appare incredibile che quegli occhi,
dalla luce tanto intensa, abbiano potuto fissarsi, probabilmente increduli, su
così tanto dolore.
Mi piace immaginare che, in quel preciso istante, la sua indomabile speranza
fosse segretamente affidata agli uccelli che volteggiavano sopra il giardino
dell’Hotel Quirinale di Roma.
Lorenzo Giacinto
L'articolo Il marchio del martirio e dell’amore. Riflessioni intorno a Danilo
Kiš proviene da Pangea.
A dieci anni dalla morte di Günter Grass, avvenuta a Lubecca il 13 aprile 2015,
accendiamo per un attimo i riflettori sulla vasta opera che ci ha lasciato e che
forse non abbiamo ancora saputo valutare in tutta la sua ricchezza.
Il capolavoro di Grass è sempre stato considerato la cosiddetta trilogia di
Danzica, formata da tre romanzi scritti nell’arco di un lustro, il
torrenziale Die Blechtrommel (Il tamburo di latta), del 1959, Katz und
Maus(Gatto e topo), del 1961 e Hundejahre (Anni di cani), del 1963. Soprattutto
il primo dei tre volumi – la storia del nano Oskar Matzerath che a un certo
punto dell’infanzia, gettandosi giù per le scale della cantina, decide
autonomamente di arrestare la propria crescita per protesta nei confronti di un
mondo filisteo, violento e al contempo grottesco – ha avuto un notevole
successo, rafforzato dall’omonima pellicola girata nel 1979 da Volker von
Schlöndorff, con Angela Winkler e Mario Adorf. Nel suo insieme, la trilogia
rappresenta un’accurata ricostruzione di quasi un secolo di storia visti dal
punto di osservazione privilegiato di Danzica, una città in rapida
trasformazione, che diventa simbolo ed epitome del mondo intero. Ma Danzica, in
quanto città che la Germania ha dovuto cedere alla Polonia dopo la guerra,
rappresenta anche il simbolo del paradiso perduto, delle effusioni e dei piaceri
di un’infanzia mai più riconquistata.
Benché la città, dove era nato nel 1927, rappresenti la sua Macondo, non bisogna
pensare a Grass come a un auctor unius libri o a uno scrittore che, con
martellante testardaggine, torni sempre sugli stessi temi. In Das Treffen in
Telgte (L’incontro di Telgte), del 1979, per esempio, Grass traccia un brillante
parallelismo fra la Germania del 1647, appena uscita dalle distruzioni della
Guerra dei Trent’anni, e quella del 1947, in parte occupata dalle forze alleate
e ridotta militarmente alla condizione di non poter più nuocere. Da un lato
avremo l’incontro, nella cittadina di Telgte, nei pressi di Münster, in
Vestfalia, di una serie di poeti, scrittori e musicisti, da Schütz a
Grimmelshausen, uniti dalla volontà di rafforzare e rilanciare una lingua
tedesca ancora frazionata in una miriade di dialetti e usi locali; dall’altro,
spostandoci al secondo dopoguerra, la costituzione, intorno alla figura di Hans
Werner Richter, del Gruppo ’47, un insieme di poeti e scrittori dal quale
sarebbero poi emerse figure carismatiche come quelle di Ingeborg Bachmann,
Heinrich Böll, Günter Eich, Ilse Aichinger, Martin Walser, Peter Bichsel o dello
stesso Grass. La funzione del Gruppo ’47 è nell’insieme paragonabile a quella
del consesso di tre secoli prima: si tratta – ancora una volta – di salvare la
lingua tedesca stravolta dagli usi impropri del nazionalsocialismo e renderla
nuovamente utilizzabile. Il tamburo di latta, vero archetipo dei suoi maggiori
romanzi, costituirà, per Grass, anche l’applicazione pratica dei nuovi principi
di scrittura maturati proprio attraverso le assidue frequentazioni di quegli
anni.
Altri due lavori di narrativa da citare in ogni caso sono Der Butt (Il rombo),
del 1979, e Die Rättin (La ratta), del 1986: romanzi di un certo spessore e
respiro epico, che richiedono impegno e un’attiva complicità da parte del
lettore. Nel primo libro, il rombo è un pesce parlante che funziona come alleato
e consulente del protagonista, un uomo senza tempo che ci racconta la storia
dell’umanità, dal neolitico allo sciopero dei lavoratori polacchi nel 1970,
sempre dall’angolo di osservazione formato dalla città di Danzica, con una
particolare attenzione per una minoranza, la popolazione dei casciubi. Nel
secondo, un romanzo complesso e in parte surreale, nel dialogo fra un io
parlante indifferenziato e la ratta del titolo Grass riprende alcuni filoni
tanto del romanzo precedente, quanto della sua trilogia, virando stavolta verso
toni apocalittici e prefigurando il declino e la scomparsa finale dell’umanità,
non senza accenni polemici e quasi, diremmo, militanti.
La vis polemica di Grass si conferma del resto anche a teatro; tra i vari drammi
da lui composti va segnalato almeno Die Plebejer proben den Aufstand (I plebei
provano la rivolta), del 1966, in cui alle prove del Coriolanoda parte di una
compagnia teatrale a Berlino Est si sovrappone la rivolta del 17 giugno 1953
contro il regime comunista. Tutta la pièce ruota intorno all’ambiguità del
regista, da tutti chiamato “Chef”, e con tutta evidenza ispirato alla persona e
agli atteggiamenti politici di Bertolt Brecht. Questi temporeggia per giorni e,
malgrado le pressioni in senso opposto degli operai, finisce poi per rilasciare
una dichiarazione di cauto appoggio alla SED, il Partito comunista – con degli
abili distinguo atti ad alludere a un dissenso che non sarà colto e non avrà
alcuna ripercussione –, solo quando la rivolta sarà stata ormai sanguinosamente
repressa.
Oltre che romanziere, grafico e scultore – subito dopo la guerra aveva studiato
alla Kunstakademie di Düsseldorf – Grass è stato anche un non trascurabile
poeta, sempre animato da una vena ironica e iconoclasta. Riporto qui a mo’
d’esempio la versione italiana di una sua piccola poesia che mi capitò di
tradurre tempo fa, dal titolo Die Seeschlacht (Battaglia navale):
> “Una portaerei americana
> e una cattedrale gotica
> reciprocamente
> s’affondarono
> nel Pacifico.
> Suonò l’organo fino alla fine
> il giovane vicario. –
> Volteggiano nell’aria ora angeli e aerei
> e non possono atterrare.”
Politicamente, Grass si distinse da molti suoi colleghi per un impegno costante,
e, in alcune fasi della recente storia tedesca, anche piuttosto
convinto. Compagno di strada dei socialdemocratici, soprattutto durante la
reggenza di Willy Brandt, partecipò al suo fianco a diverse campagne
elettorali. Fu alla presenza sua e di un altro scrittore, Siegfried Lenz, che
nel 1970 Brandt firmò a Varsavia il trattato d’amicizia fra Germania e Polonia.
Inoltre, Grass fu uno dei pochi intellettuali europei a difendere la causa delle
popolazioni rom e sinti, dando vita a una fondazione a essi dedicata. Le vedeva
– con qualche eccesso romantico – come esempio di ibridazione e come ultimo
baluardo contro l’omologazione culturale, parlando di una vera e propria
persecuzione che apparentava a quella patita dalle comunità ebraiche sotto il
nazismo. A suo parere, queste popolazioni avrebbero dovuto ottenere un seggio al
Consiglio d’Europa e l’inserimento della loro lingua fra le materie
d’insegnamento nelle scuole. Intervenne anche, e spesso, contro la guerra in
Vietnam, contro il ricorso al nucleare e per il mantenimento della pace, in
favore delle minoranze etniche e dei rifugiati, contro il razzismo e le
discriminazioni di ogni tipo. Non si sentiva un “padre della patria” o la
“coscienza della nazione”, né voleva essere d’ispirazione a chicchessia, ma
attribuiva anche agli intellettuali la colpa della caduta della Repubblica di
Weimar, e di certo l’idea dello scrittore rinchiuso in una torre d’avorio era
lontana mille miglia dalla sua prassi quotidiana.
A Grass non sono certo mai mancati nemici e detrattori. Una polemica passata
alla storia letteraria lo oppose al “papa” della critica letteraria tedesca,
Marcel Reich-Ranicki, che pure in passato era stato fra i suoi estimatori,
allorché quest’ultimo, nell’agosto 1995, venne raffigurato sulla copertina dello
Spiegel mentre strappava simbolicamente le pagine di un volume di Grass appena
uscito, Ein weites Feld (È una lunga storia), scrivendone poi all’interno della
rivista in termini tutt’altro che encomiastici. Ma non era la prima volta che i
due si sfidavano virtualmente a duello: già nel 1990 Reich-Ranicki aveva
qualificato come “assolutamente insensata” una posizione assunta da Grass in
merito alla riunificazione tedesca – lo stesso tema portante del libro testé
citato –, quando lo scrittore ne aveva negato l’utilità e l’opportunità,
asserendo anzitutto che il ritorno a una Germania unita sarebbe stato visto
fuori dalle frontiere come una minaccia, e poi che l’Olocausto negava alla
Germania qualunque diritto alla riunificazione, tanto che bisognava invece
accettare e capire la lezione della Seconda guerra mondiale e optare per due
Stati distinti, uniti semmai da una comune identità culturale. Questa posizione
l’avrebbe espressa poi più compiutamente nel pamphlet Unterwegs von Deutschland
nach Deutschland. Tagebuch 1990 (Da una Germania all’altra. Diario 1990), uscito
nel 2009. Una posizione, la sua, nell’entusiasmo sfrenato di quei giorni per la
caduta del muro di Berlino, sicuramente impopolare, che non accrebbe le simpatie
di molti nei suoi confronti, ma che rispecchiava il suo vissuto e forse anche
una certa volontà di espiazione personale. Perché – come sarebbe emerso con la
pubblicazione, nel 2006, dell’autobiografia Beim Häuten der Zwiebel (Sbucciando
la cipolla) – Grass aveva un segreto ben custodito, un peccato di gioventù che
fino a quel momento aveva attentamente e costantemente minimizzato, ma che lo
metteva terribilmente a disagio e da cui riuscì appunto a liberarsi solo a quasi
ottant’anni. Quando ne aveva diciassette, infatti, per sfuggire alla famiglia –
un po’ come prima di lui Ernst Jünger – non si era solo arruolato nell’esercito,
ma era entrato, a quanto pare volontariamente, a far parte delle Waffen-SS. E
se, come poi sostenne, non aveva partecipato ad azioni sul campo, ma, ferito,
era finito quasi subito in un campo di prigionia statunitense in Baviera, già il
fatto stesso di aver aderito alle SS e di averlo poi taciuto lo mise in una
posizione molto scomoda, tale da dare ragione, anche a posteriori, ai suoi
detrattori. Molto si è discusso di quanto sia stata per lui provvidenziale
quest’ellissi della sua memoria: ma va anche riconosciuto che, nel clima
d’indiscriminata resa dei conti dell’immediato dopoguerra, ammettere un peccato
del genere avrebbe significato dover rinunciare completamente all’attività
letteraria, affrontare un ostracismo totale e veder stroncata la propria
carriera di scrittore prima ancora di provare a gettarne le basi.
Non gli sono mancati però neanche amici ed estimatori di peso, da Hans Magnus
Enzensberger a Christa Wolf, nonché, all’estero, da Salman Rushdie a Nadine
Gordimer a György Konrád. Quando si seppe del conferimento del premio Nobel nel
1999, il poeta polacco Tadeusz Rózewicz dichiarò che il premio aveva finalmente
riacquistato il proprio significato. Quanto a Rushdie, il sodalizio nacque
quando Grass protestò pubblicamente contro l’Akademie der Künste di Berlino che
prima aveva invitato Rushdie e poi, per ragioni di sicurezza, aveva deciso di
annullare l’evento previsto.
Benché profondamente tedesco e perfino “locale” nei temi prescelti e
nell’ossequio alla propria tradizione letteraria, con uno stile estremamente
personale, ma che attraverso l’esempio di Döblin si riallaccia in realtà a un
grande autore del Seicento come Grimmelshausen, Grass era – caso abbastanza raro
in Germania – uno scrittore con un’autentica proiezione internazionale. Ed è
stato anche uno degli autori più comprensivi e assidui nel rapporto con i propri
traduttori: forse consapevole delle difficoltà che il suo tedesco e i molteplici
riferimenti al mondo di Danzica e alla minoranza dei casciubi potevano creare
agli incauti che avevano accettato l’incarico di tradurlo in altre lingue, si
spendeva in tutti i modi per assicurar loro la propria presenza e assistenza
pratica. Nella primavera del 1978, in vista della traduzione del Rombo, venne
addirittura organizzata per la prima volta nella storia una specie di tavola
rotonda con una ventina di traduttori nelle maggiori lingue. Come spesso accade
in questi casi, il motivo scatenante era stata una disastrosa traduzione
del Tamburo di latta in svedese, che indusse l’editore di Grass a cercare di
correre ai ripari. Ebbene, la kermesse durò ben tre giorni, durante i quali
Grass fu non solo presente, ma prodigo di chiarimenti. Al servizio, dunque, dei
traduttori e dei futuri lettori, con i quali – da grande scrittore qual era –
aveva saputo istituire un rapporto che andava molto al di là della sua persona
fisica. Un’intesa basata sull’onestà intellettuale, che è poi forse, ben più di
tanti proclami, lo strumento principale a disposizione dello scrittore per
garantirsi una relativa immortalità.
Raoul Precht
L'articolo Una brutale immortalità. Günter Grass o della scrittura come
coscienza critica proviene da Pangea.
La poesia nasce dal clangore delle armi, sotto le possenti mura di Ilio, dove i
vortici di sabbia si levano falbi e alte risuonano le grida dei feriti.
La poesia nasce dal lucore marino del remo che sospinge Ulisse verso ignoti
approdi.
Non illudiamoci: alle origini del mito, è da scuro e caldo sangue che sgorga la
poesia. Il primo poeta deve essere stato un aruspice – le mani vermiglie tra
fumanti viscere, in cerca del celeste presagio.
Solo dopo verranno il Parnaso, le fonti dell’Elicona, lo sguardo celeste e
radioso di Apollo.
L’ispirazione delle Muse: il lusso di chi ha imparato ad addomesticare il furore
delle Erinni.
*
Come Joyce, Nabokov, Kiš e tanti altri, Sebald è stato prima poeta e poi
narratore. Per tutta la sua vita ha scritto poesie, nonostante dichiarasse che
il suo mezzo espressivo fosse la prosa. Con Calliope ha sempre colloquiato
sommessamente, con la discrezione che si riserva ai vizi più imperdonabili. Ora,
Adelphi pubblica per la prima volta in traduzione italiana un’antologia lirica
del tedesco, Sulla terra e sull’acqua, che raccoglie le poesie scritte tra il
1964 e il 2001, quando uno scontro frontale pose fine alla sua esistenza
terrena.
*
Se poesia vuol dire abbracciare la metamorfosi nel corpo e nel tempo della
storia, allora Sebald è stato valente poeta. Di sguincio, come a spiare i gesti
degli uomini, con un occhio teso verso la terra e l’altro rivolto al cielo,
registra il movimento delle costellazioni, le ampie distanze, il silenzio delle
stelle.
La rivelazione accade soltanto in modo fulmineo. Il testo è il tuono che segue e
rimbomba a lungo. Nelle poesie di Sebald, indovini il momento che precede la
scarica elettrica, la tensione che precede lo scioglimento. Senti l’ultima
raffica di vento prima della pioggia, l’imposta che si chiude su una piazza come
sul mondo intero, l’eco di un suono che si dissolve in lontananza.
“Dove vanno adesso i poeti?” – chiede il protagonista di Sindbad torna a
casa, breve romanzo di un malinconico Sándor Marai. La domanda è destinata a non
trovare risposta. I poeti sono ovunque e in nessun luogo: dimorano sulla
soglia.
> Tu resta sempre
> Sul piede di partenza
Essere poeti significa rivendicare la responsabilità di una scelta radicale.
Scrivere poesie vuol dire accogliere le infinite possibilità che l’orizzonte
dischiude.
Come Bashō, Rimbaud, Bouvier e Chatwin, Sebald viaggia nello spazio per spinta
di nervi e cuore. La letteratura viene dopo: prima bisogna aver guadato fiumi,
lasciato impronte sulla neve, incontrato il lampo negli occhi di una volpe. Di
tanto in tanto, aver osservato il tempo all’opera: muschio ed edera che
avvolgono colonne e capitelli, cenere di antichi incendi negli sguardi dei
vecchi.
*
Vertigini, Emigrazioni, Il passeggiatore solitario, Tessitura di sogno: con
Sebald si cammina sempre sul bordo di una scogliera, a sfioro di un precipizio.
Il poeta tedesco ha il passo del fondista: i valichi e le vette sono per altri,
gli astrali alpinisti del verso.
Sull’orlo di un crinale, a mezzacosta, al confine: tra veglia e sogno, memoria e
oblio, passato e presente. Immagino la poesia di Sebald come un faro: distante e
al tempo stesso intima, solitaria, fiero avamposto tra le tempeste marine.
Nelle sue poesie colpisce la naturale convivenza tra una dimensione fisica,
radicata nella storia e nel tempo, e un’altra che invece sembra trascenderla,
attraversandola come un raggio obliquo. Non si tratta di una vera e propria
metafisica, ma piuttosto della vigile contemplazione di un mistero che si annida
nell’esperienza stessa del vivere. Un mistero che si traduce in una sorta di
“straniamento”, in un radicale ribaltamento di prospettiva, in cui anche le cose
e la natura partecipano della natura umana. Così, nella prima poesia che
apre Latinetto, un treno che sfreccia diventa oggetto di studio da parte del
paesaggio circostante. Un mucchio di foglie e sterpaglie vive nell’attesa
angosciosa del fuoco che un uomo appiccherà. Gli alberi e le case tacciono: la
sera accerchia i colori del villaggio con la sua ombra. I castelli sembrano
abitati da incantesimi senza tempo. Così, nel sontuoso Nymphenburg, pare di
vedere un trovatore provenzale o una principessa poeta affacciarsi da una
finestra del palazzo:
> Siepi sono cresciute
> oltre la corte e il castello.
> Da tempo nell’oblio
> fontane e lumiere
> dietro le facciate,
> serenate e pizzicar di corse,
> le sfumature malvacee.
> Per sale in legno di sandalo,
> le guide bisbigliano
> del Tavolino magico
> nelle biblioteche
> dei defunti principi.
*
La poesia è ciò che resta della fosforescenza del vivere. I versi indugiano
sulla pelle di un ricordo.Sebald accoglie e ricombina strade percorse, volti,
città e luoghi dove il tempo si è fatto curva nella memoria. Passato e presente
si intrecciano senza soluzione di continuità: il poeta non conosce cronologia,
né il dolce balsamo dell’oblio. La tentazione dell’autobiografia: testimoniare
una perenne metamorfosi. Così, un viaggio nelle Fiandre diventa un inesauribile
nodo di ricordi, rivelazioni e immagini folgoranti. Il candore della neve
ammanta i vigneti e il giardino pensile di Ezra Pound, il campo di battaglia di
Waterloo biancheggia sul sangue dei caduti, i palazzi nobiliari diventano
istituti di ricerca e osservatori ornitologici. Personaggi bizzarri si alternano
a episodi di glossolalia, sfilano nomi di città come dal finestrino di un
treno.
Il presagio di un amore, infine, riporta un ordine apparente nel vortice del
caos: la premessa di nuove partenze, il richiamo di un altrove che sembra una
promessa di felicità.
> Parti per l’Egeo
> per Santorini
> terra di basalto
> fosforescenza sul remo
> trattieni l’acqua
> nella tua mano:
> luccica – di notte –
> davanti alla casa delle melanzane
> macchia d’ombra nel buio
> sul muro imbiancato a calce
> verde chiaro di giorno
> fili di rafia violetta
> nel sole.
Si avanza per interiori lampeggiamenti, in un’ipertrofia della memoria. Un
soggiorno a Marienbad diventa una dolente riflessione sulla transitorietà della
vita, sulla perdita del sacro, sul presentimento costante di qualcosa di
ineluttabile, antico quanto il respiro del mondo.
> Ma non rimane il mondo?
> così domandasti, una verde landa
> non si estende lungo il fiume
> in mezzo a cespugli e prati? Il raccolto
> non matura dunque? Sulle pareti
> rocciose l’ombra del sacro
> non aleggia più? E quello che
> di là sotto sta salendo non è forse
> il colore grigio della notte?
*
L’occhio di Sebald vaga nelle remote lontananze, ma osserva con lucida
attenzione le vicende umane. Chi ha letto le sue opere, sia narrative che
saggistiche, ritroverà in Sulla terra e sull’acqua personaggi familiari e,
soprattutto, quel tono inconfondibile del suo stile: un effetto di sospensione
temporale, un’accorata meditazione sulla dissoluzione, uno squarcio improvviso
su una realtà ulteriore, dove le tracce del passato continuano a vivere nei
dettagli del presente.
Nel caleidoscopio poetico di Sebald convivono persone comuni e familiari, grandi
scrittori e musicisti: nessuno è risparmiato dall’incessante trasformazione del
tempo. Di Kafka si evoca il viaggio verso il sanatorio di Matliary, nei monti
Tatra, con pochi effetti personali e qualche cartolina illustrata. Čechov viene
ricordato negli ultimi momenti della sua vita e dopo il trapasso, quando la
salma viene trasportata goffamente a Mosca: ne emerge un ritratto tra il
tragicomico e il grottesco. Elegia a Marienbad evoca invece la passione senile
di Goethe per la giovanissima Ulrike von Levetzow. Sempre a Marienbad si
infrange l’amore disperato di Chopin per la giovane boema Maria.
Gli emigranti, da sempre figure centrali nella produzione di Sebald, ritornano
in alcune poesie, al momento della partenza, e poi una volta giunti a
destinazione: spaesati, sradicati, rovesciati nel mezzo di una realtà che non
riescono linguisticamente e semanticamente a decifrare. Il contesto è quello dei
freddi luoghi del viaggio: piroscafi simili a grandi mostri acquatici, sale
d’attesa, aeroporti e vuote camere d’albergo.
In queste poesie, il respiro di Sebald è potentemente narrativo: sembra quasi
che i versi non possano sostenere il ritmo lento e sottilmente allucinato delle
immagini descritte. Lo scrittore dà il meglio di sé quando si affida a
un’ispirazione più vasta e misteriosa, che si traduce nell’esemplarità del
frammento e fa emergere, come in filigrana, un altrove presagito. Penso alla
semplicità di Poesia Invernale:
> Nella valle echeggia
> Il suono delle stelle e
> La vastità del silenzio
> Sopra la neve e i boschi.
>
> Il bestiame è nella stalla.
> Dio è in Cielo.
> Gesù Bambino nelle Fiandre.
> Chi crede sarà beato.
I tre Re Magi sono
in cammino sulla Terra.
E ai suggestivi versi finali di Trigonometria delle sfere:
> E non ti scordare disse una volta
> Che dalla costellazione dell’Ariete
> il vento del Nord porta la luce
> fin negli alberi di melo.
Ora sappiamo perché il Nord ci attira con la violenza di un ago magnetico, o
perché nella notte declinante siede un santo che ruggisce come un leone.
Abbiamo compreso il segreto del poeta, di ogni poeta: accendere il fuoco e nel
fumo leggere il futuro. Portare fuori la cenere e gettarsela alle spalle. Come
Orfeo, non guardarsi mai indietro nel farlo. Con il cinabro pitturarsi il volto
e tentare l’arte della metamorfosi.
Lorenzo Giacinto
*In copertina: Jan Peter Tripp, L’Oeil oder die weisse Zeit, 2003
L'articolo “Il suono delle stelle”. W.G. Sebald, poeta proviene da Pangea.
Nella ben documentata biografia dedicatagli da Blake Bailey (Cheever. A Life),
si racconta a un certo punto di come John Cheever s’imbatta in un romanzo di
Saul Bellow e sia, da quel momento in poi, soggiogato, anzi quasi ossessionato
dal collega. Già gli erano piaciuti i primi due romanzi di Bellow, e in
particolare The Dangling Man (L’uomo in bilico), ma la sua reazione alla lettura
del terzo romanzo bellowiano, The Adventures of Augie March (Le avventure di
Augie March), che esce nel 1953, sarà tale da stordirlo. Una vera e propria
rivelazione, tanto da spingerlo a scrivere al suo quasi coetaneo che, se avesse
continuato su quella strada, per lui, cioè per il povero Cheever, non ci sarebbe
stato altro destino possibile se non quello di tornarsene a casa e “andare a
lavorare a una pompa di benzina a fare il pieno agli automobilisti in transito
per Cape Cod”. Un modo indubbiamente immaginifico e autoironico di esprimere la
propria ammirazione, ma anche un segnale di quanto la prosa di Bellow l’avesse
colpito; anche se in seguito, moderando leggermente gli entusiasmi, dirà (ma
sempre con riferimento all’esempio di Bellow, che quindi continuava a
bruciargli) che in fondo la scrittura non è un’attività competitiva.
Non è questo che uno dei tanti esempi possibili per descrivere l’impatto avuto
da Bellow sugli scrittori della sua generazione, come per esempio Malamud, per
non parlare naturalmente di quelle successive (Philip Roth in primis), che ne
hanno magari criticato il progressivo scivolamento verso posizioni
neoconservative, ma hanno fatto comunque pienamente tesoro delle sue conquiste
espressive. A vent’anni dalla morte, avvenuta il 5 aprile 2005, cerchiamo allora
di verificare quanto di Bellow e della sua opera sia rimasto. Da The
Victim(1947) a Henderson the Rain King (1957) – l’unico dei romanzi bellowiani
il cui protagonista non sia ebreo –, da Herzog (1964) a Mr Sammler’s
Planet (1970), da Humboldt’s Gift (1975) a The Dean’s December (1982), da More
Die of Heartbreak (1987) a Ravelstein (2000): anche se ci limitiamo ai titoli
dei soli romanzi principali, riscontriamo sempre almeno due doti, una prodigiosa
ispirazione e un’inesauribile creatività. Perché una cosa è certa:
il corpus prodotto in mezzo secolo di attività da Bellow è impressionante per
qualità e continuità d’ispirazione, per il sottile intreccio tra profondità di
contenuti e padronanza delle tecniche narrative.
Non gli sono mancati i riconoscimenti, fra cui il premio Nobel, che gli venne
conferito nel 1976, mentre l’anno precedente gli era stato preferito Montale, in
quell’alternanza prosa/poesia che ne contrassegnò diverse edizioni. E va detto
che di rado premio Nobel fu più meritato, né mai fu al tempo stesso più
ortodosso, legato cioè non a questioni extraletterarie (ossia, spesso,
politiche) o all’esigenza di ampliare la portata del concetto di letteratura, ma
intrinseco, volto cioè a premiare davvero l’eccellenza nella scrittura. E a
proposito di Nobel: diversamente da altri scrittori, che nei confronti del
premio furono molto critici (Beckett) o addirittura lo rifiutarono (Sartre), pur
non essendo del tutto convinto dell’utilità né degli aspetti pubblicitari ad
esso connessi, Bellow si limitò a ringraziare, da persona discreta e gentile
qual era. In passato, aveva detto dei propri libri e dei propri lettori che, se
di un suo romanzo riusciva a venderne cinquantamila copie, l’avrebbero poi letto
forse in cinquemila, ma avrebbero reagito ad esso al massimo in trecento, e il
Nobel gli sembrò quindi semplicemente uno dei possibili strumenti per far
aumentare queste cifre (e magari in particolare l’ultima).
Una volta tanto, l’occasione del conferimento del Nobel risulta interessante
anche per i contenuti della lecture tenuta da Bellow, in cui, polemizzando con
le posizioni di Alain Robbe-Grillet e altri, esalta la vitalità del romanzo (e
dei suoi personaggi) e mostra di perseguire l’ideale di una narrativa eclettica,
che non si lasci limitare o coartare dall’esterno, che non tema le grandi
dimensioni e le scommesse creative e perfino che non sia necessariamente
equilibrata, e anzi contenga al proprio interno elementi alieni
al plot principale e magari centrifughi. Menziona a un certo punto una frase di
Joseph Conrad, il quale, nella prefazione al Negro del “Narciso”, diceva che
l’arte è il tentativo di rendere la massima giustizia possibile all’universo
visibile. Ben lungi dall’accettare l’idea di una crisi strisciante o di
un’implosione del romanzo quale genere letterario, Bellow rivendica al contrario
l’importanza di continuare a svilupparlo senza confini prestabiliti, aprendosi
all’influenza di quelli che tre anni dopo, in un’altra intervista (a Maggie
Simmons per “Quest”), chiamerà “deeper motives” (“motivi più profondi”), che
spesso sgorgano direttamente dall’inconscio e dall’emotività dello scrittore
configurandosi come onesti elementi morali (non moralistici), scaturenti cioè
dall’approccio etico di ciascuno scrittore con la realtà e dalla sua
rielaborazione mentale della stessa.
Da tutto questo derivava un rifiuto del postmodernismo e delle tendenze più in
voga negli anni Settanta e Ottanta, il suo orgoglio di essere uno scrittore
“unfashionable”, ovvero non alla moda, il suo amore e piacere per la lingua di
cui si serviva, un inglese ricchissimo e duttile. E ne derivava anche una certa
intransigenza, che non lo farà arretrare dinanzi alle accuse di conservatorismo,
soprattutto a partire da Il pianeta di Mr Sammler, dovute anche al suo graduale
avvicinarsi a posizioni neoliberali e a figure come quella del filosofo Allan
Bloom. Per Bloom, che sarà insieme a Mircea Eliade uno dei protagonisti del
romanzo a chiave Ravelstein, e per il suo The Closing of the American Mind – una
specie di trattato in cui, considerato il nichilismo delle più giovani
generazioni, si preconizzava un imminente trionfo della barbarie – l’elettore
democratico Bellow scrive infatti un criticatissimo prologo. Un conservatorismo
peraltro non politico, il suo, ma morale, dovuto al disagio provato nel vedere
tante promesse svanire nel nulla e la società americana incapace di assorbire le
pulsioni verso una maggiore giustizia civile e razziale, verso un superamento
della povertà estrema, verso un maggiore rispetto dei diritti
civili. Conservatore controcorrente in un’America che a suo parere andava verso
un liberalismo ingenuo, confuso e velleitario, oggi Bellow sarebbe probabilmente
all’estrema sinistra dello spettro politico, a burlarsi di questo nuovo ceto
politico sciatto e pasticcione, se non decisamente fascista, emerso dalle ultime
elezioni.
Qualche altra caratteristica di Bellow da mettere rapidamente in luce, anche se
in maniera non sistematica (proprio come forse avrebbe amato): anzitutto, la
capacità di essere ironico e autoironico. Tanto per fare un solo esempio, nel
rispondere alle domande di Joseph Epstein per la “New York Times Book Review”,
il 5 dicembre 1976, Bellow esordisce così: “Well, you are not Eckermann, I am
not Goethe, and this, our City of Chicago, is most distinctly not Weimar. But
let’s go ahead anyway. Shoot.” (“Lei non è Eckermann, io non sono Goethe, e
questa nostra città di Chicago di certo non è Weimar. Ma procediamo pure.
Spari.”)
Poi, la capacità di cogliere nel segno, che caratterizza in pratica ciascuno dei
suoi quattrodici romanzi. Bellow lo spiegava senza davvero spiegarselo: a lui
sembrava semplicemente di dar voce a paure e confusioni che erano sue proprie e
a cui solo a posteriori riconosceva un carattere di universalità. Diceva che, in
quanto romanziere, era parte del suo lavoro quotidiano cercare di dare
espressione, nel modo più preciso e circostanziato possibile, ai dubbi e alle
angosce che serpeggiano in una società di per sé sempre più impaziente e
incerta. E questo, nella maggior parte dei casi, gli è senza alcun dubbio
riuscito: certe profonde e strampalate lettere di Moses Herzog ai suoi
impossibili interlocutori, da Eisenhower a Nietzsche a Spinoza, fanno già parte
della storia della letteratura. “Se sono matto, per me va benissimo”, come
recita l’incipit del libro; e a quanto pare, nel creare il prototipo
dell’intellettuale ebreo metropolitano, ironico e fortemente nevrotico, sempre
sospeso fra riflessione e azione (il più delle volte mancata) – prototipo che al
cinema farà poi la fortuna di un Woody Allen – Bellow tocca davvero un tasto
sensibile, dà vita letteraria a qualcosa che cominciava a esistere e a
propagarsi in natura.
E ancora, il legame indissolubile con Chicago. Nato a Lachine, nel Quebec, nel
1915 – il vero nome è Salomon Byelo, è l’ultimo di quattro figli e il primo a
vedere la luce nel Nuovo Mondo –, Bellow trascorre l’infanzia a Montreal e a
Chicago si trasferisce con la famiglia (emigrata in origine da San Pietroburgo)
all’età di nove anni. Vivranno da emigrati canadesi nel West Side, una delle
zone più problematiche della città in termini di piccola criminalità e
d’insicurezza. Nella magmatica e caotica Chicago, Bellow avrebbe poi seguito gli
studi liceali, si sarebbe anche iscritto, in una prima fase, alla locale
università, dove avrebbe però subito toccato con mano lo strisciante
antisemitismo che imperava anche negli Stati Uniti e che gli ispirerà il secondo
romanzo, La vittima, prima di spostarsi alla Northwestern per laurearsi in
sociologia e antropologia (non in lettere, e forse è significativo anche
questo). A Chicago, lavora in seguito al Federal Writer’s Project – un centro
studi che era diventato anche una specie di sinecura per scrittori progressisti
e che Trump oggi si affretterebbe a chiudere –, stringendo con la città un
legame indissolubile, che resta in essere anche quando la lascerà
temporaneamente. Viaggerà infatti in Europa grazie a una borsa Guggenheim – è a
Parigi che comincia a scrivere, a suo dire soprattutto in treno e nei cafés, il
brillante e picaresco Augie March – e per determinati periodi vorrà o dovrà
trasferirsi a Minneapolis e a Boston. Ma nella maggior parte dei suoi romanzi
Chicago è onnipresente; il richiamo e il fascino che la città esercita su di lui
ben si rispecchiano nella convinzione di alcuni tra i suoi personaggi principali
di non poter vivere altrove, in un’accettazione totale anche delle brutture e
delle manchevolezze della vita cittadina che non si riscontra nelle opere di
altri scrittori, come Theodore Dreiser, Nelson Algren o Richard Wright, i quali
a Chicago hanno trascorso quasi tutta, se non tutta la vita. In alcuni libri di
Bellow, come per esempio Il dono di Humboldt – romanzo davvero pirotecnico su un
intellettuale in crisi, in cui fra le righe prende a modello l’amico poeta
Delmore Schwartz, morto una decina d’anni prima –, la Chicago dei grattacieli,
dei mattatoi, della polizia corrotta, della criminalità organizzata per bande,
del business che primeggia su tutto è ritratta con rara maestria e ricchezza di
sfumature.
Bellow è stato amatissimo dalle donne (cinque mogli, quattro divorzi, avrà
l’ultima figlia all’età di ottantaquattro anni) e naturalmente dal suo pubblico,
sempre più vasto, ma anche da molti colleghi scrittori, che in qualche caso
potrebbero passare, sia pure entro certi limiti, per suoi discepoli. È ancora
Blake Bailey, ma stavolta nella biografia dedicata a Philip Roth, a raccontare
del bellissimo rapporto fra i due, che insieme a Malamud, a Mailer e ai fratelli
Singer, erano uniti anche dal fatto di far parte di quella che Truman Capote
aveva voluto sprezzantemente definire nel 1968 su “Playboy” la “Jewish literary
Mafia”. (Di sicuro, assieme a tutti questi altri autori Bellow è riuscito se non
altro a creare un genere letterario, quello dell’immigrato alle prese con
l’incomprensibile realtà urbana, e a far emergere nelle lettere americane
moderne la presenza ebraica, soprattutto quella degli ebrei ormai integrati o in
via di sempre maggiore integrazione.) Roth, che con le sue battute e barzellette
riusciva invariabilmente a divertirlo, continuerà a telefonare a Bellow anche
quando quest’ultimo, ormai novantenne, era troppo confuso persino per sapere chi
fosse, e parteciperà al suo funerale, nella remota Brattleboro, in Vermont,
benché soffrisse di una patologia alla schiena che lo aveva quasi immobilizzato.
Ma il rispetto e l’ossequio al maestro, a volte, permette di superare qualunque
avversità; e Bellow era stato per lui e molti altri indiscutibilmente un vero
maestro.
Raoul Precht
L'articolo “Se sono matto, per me va benissimo”. Saul Bellow, un maestro
proviene da Pangea.
Giacca giusta, cravatta, viso affilato e aristocratico, cappello costoso,
William S. Burroughs sembrava un Lord. Il Lord della disperazione; il Baronetto
del sottosuolo; il Principe della morfina.
La letteratura, si sa, nasce dal disastro, dalla morte.
E da una leggenda bugiarda.
Settembre 1951, Messico. Bisognerebbe scrivere una storia della letteratura
sugli scrittori che hanno sentito il bisogno di perdersi in Messico, in quei
meandri del delirio, che infernale ubriacatura, ce ne sono un mucchio, da
Antonin Artaud a Malcolm Lowry, da Carlo Coccioli a Hart Crane e Cormac
McCarthy.
Burroughs in delirio lisergico.
Piglia la pistola.
Mette il flûte in testa alla moglie, Joan Vollmer. 28 anni, viso da bambola.
William è più grande di un paio di lustri, ha studiato ad Harvard, rampollo
sregolato di una famiglia di ricchi; afferra l’arma, gioca a fare l’eroe, le
spara in faccia.
> “Poi ci fu quel terribile incidente con Joan Vollmer, mia moglie. Avevo un
> revolver che volevo vendere a un amico. Lo stavo controllando ed è partito un
> colpo: lei è rimasta uccisa. Qualcuno ha messo in giro la voce che stessi
> cercando di centrare un bicchiere di champagne sulla sua testa, alla Guglielmo
> Tell. Una cosa assurda e falsa”.
Verità, memoria e menzogna sono il fango mistico da cui esala l’esaltante
narrativa di Burroughs. Di certo c’è che Joan dà a William un figlio, nel 1947,
e che lui, scampando il processo, se ne scappa a casa di Paul Bowles, quello
del Tè nel deserto, a Tangeri. Lì, sgangherato dalla colpa, colto nel folto del
tremendo, Burroughs scrive il libro di culto, Pasto nudo, l’epos di un Ulisse
cocainomane, il regesto visionario di un malato (“La Malattia è la
tossicodipendenza e io per quindici anni sono stato un tossicomane”), la
stagionatura agli inferi di un cervello rimbaudiano in mescalina.
Pasto nudo diventò il Corano dei Beat, Burroughs l’Allah dei beatnik, Jack
Kerouac il suo profeta.
> “Jack Kerouac è stato fondamentale nell’alimentare il mio interesse per la
> scrittura. Tra l’altro, il titolo Pasto nudo si deve a lui: è stato un caso,
> naturalmente. Continuava a dirmi che dovevo fare lo scrittore, e io gli
> rispondevo che non sapevo niente di letteratura. Così ho davvero cominciato
> piuttosto tardi”.
Raffinato, viziato, vizioso, nessuno ha mai saputo descrivere adeguatamente
Burroughs. “Era un Raskol’nikov in cerca di tutte le cose che non si dovrebbero
fare. Voleva semplicemente provare tutto”, ha detto Allen Ginsberg. Certo. C’è
il delitto, l’immolazione nel castigo, la baraonda catartica, l’alchimia della
droga.
Nel 1963, a Parigi, prima di intervistarlo, Joseph Barry lo vede così,
> “Un tizio un po’ curvo, alto circa uno e ottanta; magro; un volto scarno che
> sembra un misto di Ralph Richardson e Buster Keaton”.
Insomma, un attore dell’assurdo. Su Village Voice, a declamarne il talento, uscì
questa didascalia:
> “Tossico e assassino formatosi ad Harvard, William S. Burroughs è stato un
> illustre decano della feccia… In misura maggiore di quanto non lo rendesse
> possibile la sua leggenda, era anche un uomo dal pensiero complesso,
> inquietante e visionario, profondamente paranoico e profondamente morale”.
Lui, teorico della letteratura come sprofondamento nella notte oscura dei sensi
e dei pensieri, era più sbrigativo, “sono robaccia – e sarò per sempre un
drogato”.
L’ennesimo paradosso di questo inafferrabile surfer dell’Lsd è che “odiava
rilasciare interviste” (così Sylvère Lotringer), solo che il tomo che
raccoglie tutte le sue Interviste, stampato da il Saggiatore, una specie di
monumento e di monolite, va avanti per 1200 pagine e passa (2018). Burroughs
stava meglio nel suo mondo immaginario, macerato a dovere dalla coca, più che in
quello reale. Lo intervistavano e lui balbettava, eludeva, rispondeva a
monosillabi, si perdeva in una amazzonia di metafore. A Londra, nel 1974, il
Duca della Beat generation dialoga con il Duca Bianco, David Bowie, e tartaglia,
farfuglia, William tratta la superstar come uno scrittore vero (“È piuttosto
sorprendente che siano testi così complessi, e che possano conquistare un
pubblico di massa…”), e Bowie fa spallucce, fa il falso modesto, come di fronte
al frontman dei fan (“Sono abbastanza sicuro che alla gente che ascolta le mie
cose non interessano i testi”).
Dunque, a cosa serve questa mole micidiale di interviste, colloqui,
registrazioni (un centinaio)? A fare l’elenco dei – rari – scrittori che
piacciono al guru dei fulminati, ad esempio. Sintesi magnetica:
> “C’è Joyce. Shakespeare, Rimbaud, alcuni scrittori di cui la gente non ha mai
> sentito parlare… Genet, naturalmente, ma la sua è una prosa francese classica.
> Non è un innovatore linguistico. Poi ci sono Kafka, Eliot e Conrad, che è uno
> dei miei preferiti”.
Legge con gusto Graham Greene, legge Le Carré (“proprio un bravo scrittore”),
non gli parlate di 1984 (“sembra quasi naif, alquanto obsoleto”), è lucidamente
crudele riguardo a Hemingway (“Le nevi del Kilimangiaro penso che sia un grande
racconto. Se prendi invece cose come Verdi colline d’Africa e Di là dal fiume e
tra gli alberi, la sua immagine ha preso il sopravvento. L’eccesso di immagine è
molto pericoloso per uno scrittore”), ama H.G. Wells (“mi è sempre sembrato uno
dei migliori”) e C.S. Lewis (“Un altro che mi piace moltissimo.
In Quell’orribile forza e Lontano dal pianeta silenzioso ho trovato molte
analogie con le mie idee”), offre una fulminante esegesi di Céline:
> “Mi pare che i fraintendimenti dei critici rispetto alla sua opera siano
> simili a quelli che investono anche i miei lavori: dicevano che fosse un
> diario della disperazione ecc. Io la trovavo invece molto divertente. Penso
> che sia in primo luogo uno scrittore umoristico”.
Quanto al resto, Burroughs, dal suo Nirvana nitido come un urlo, ha capito, già
allora, che la frustrazione è la molla del capitalismo (“La celebrazione totale
del piacere assoluto significherebbe la fine del sistema. Se davvero fossimo
tutti appagati sessualmente, il bisogno di automobili e televisioni
diminuirebbe”), disprezza indolentemente i politici (“Trovo insulso il loro modo
di pensare, così rivolto all’esterno, orientato sull’immagine, sul potere. Mi
annoiano; non li odio”), vorrebbe fare la rivoluzione con i Rolling Stones (“I
Rolling Stones si considerano dei rivoluzionari? Certo che sì, baby. Cercano di
aiutare in tutti i modi, e sono dalla nostra parte, completamente”), inaugura un
ambientalismo radiosamente radicale (“L’uomo è un cattivo animale. Prima
distrugge la razza umana, poi gli animali, infine l’ambiente”).
Quando gli chiedono che razza di vita selvaggia abbia vissuto, Burroughs, con
educazione, blocca chi lo interpella, “La maggior parte del tempo l’ho passata
alla macchina da scrivere e non a tenermi impegnato con chissà quali
spumeggianti accadimenti”, dice. E se uno pensa che William sia un contorto
nichilista, mostrificato dal nulla, sbaglia, “Se non fossi sorpreso della tua
vita, non saresti vivo. La vita è una sorpresa!”, grida.
Così il decano degli sballati decanta l’esistenza, compila il suo folle inno
all’ottimismo.
L'articolo Ulisse cocainomane, Raskol’nikov dei Beat. Vita eccentrica di William
S. Burroughs, un ottimista proviene da Pangea.
Thomas Chatterton si ammazza alla fine di agosto del 1770, in un angusto abbaino
di Londra, in Brook Street: avrebbe compiuto diciott’anni a novembre. Nato a
Bristol, si era trasferito nella capitale certo di poter vivere del proprio
estro poetico: scriveva versi di screanzata nobiltà da quando era bambino. Tra
l’altro, si era inventato un accattivante alter ego: Thomas Rowley, monaco
vissuto nel XV secolo, sagace nell’ode, nell’afflato epico – la Song from
Ælla in questo particolare canone è un piccolo capolavoro –, nell’inno
dall’ardore biblico. Un odore di selva, di Gerusalemme nei boschi, si respira
nelle poesie di Rowley. Per un po’, qualcuno credette agli inganni di
Chatterton, il ragazzino che trafficava con l’antica parlata inglese, leggeva
Edmund Spenser, adorava le Bibbie miniate, che celavano draghi e manifesti elfi
dietro il leggio degli evangelisti. È vero, era l’era dei rifacimenti medioevali
– l’Ossian forgiato da Macpherson, per dire – e delle liriche nate tra cimiteri
di campagna; in Chatterton, tuttavia, la razzia è raddoppiata, pura previsione
di Borges: a volte, il fittizio Rowley riscrive versi di Acca, il vescovo di
Hereford vissuto nell’VIII secolo. Traduceva Orazio.
A Londra, il ragazzino tentò di accattivarsi i favori di Horace Walpole: lo
scrittore del Castello di Otranto, l’inventore del gothic story, abile mestatore
di manoscritti ritrovati, frequentava il Parlamento, era conte di Ortford, tra i
più potenti e autorevoli intellettuali del tempo. Walpole cadde nel tranello di
Chatterton: quando scoprì che Rowley non esisteva, mero frutto della sua
adolescente invenzione, s’incupì, livido d’invidia; fece saltare una
pubblicazione già prevista, alienò Thomas dall’ambiente. Il ragazzo rispose con
le armi della poesia, inviando a Walpole un’ode altera, intrisa d’ira,
dall’attacco spiazzante, naturalmente postuma:
> Walpole, non avrei mai pensato
> che esistesse un cuore meschino come il tuo.
> Tu che, cullato dal lusso, fissi con disprezzo
> il ragazzo disperato, senza amici né padre…
Forlorn: così si descriveva Thomas the Boy – disperato, desolato, da tutti
desertificato. Si uccise con l’arsenico, non prima di aver fatto a pezzi i
propri residui versi. Nel quadro del preraffaellita Henry Wallis, The Death of
Chatterton (1856), il ragazzo è chino sul letto, pare un corpo di ceramica;
fulvi i capelli, i pantaloni viola; dalla finestra, semiaperta, un frammento
londinese: la luce è fulgida, sotto l’ala dell’arcangelo.
Thomas Chatterton, il primo poeta maledetto della storia della poesia moderna,
diventò un mito. A lui si riferiscono, a turno, inserendosi in quella imberbe
epopea, John Keats e Percy Bysshe Shelley; la sua fama varcò i confini
nazionali. Alfred de Vigny gli dedicò un’opera, Chatterton (1835), appunto, che
inaugura il tema – da allora dominante – del talento puro, barbarico,
inappropriato al proprio tempo, del poeta ingiuriato, suicidato dalla società.
Intorno a quel testo, Leoncavallo costruì Chatterton, opera lirica in tre atti,
andata in scena al Teatro Drammatico di Roma nel marzo del 1896 – senza troppi
successi, va detto. Prima della biografia di Rimbaud ordita da Ardengo Soffici,
Ettore Allodoli – amico di Papini, futuro biografo di Michelangelo, Cellini,
Giovanni delle Bande Nere e Savonarola –, nel 1904, firmò un rapace profilo
di Thomas Chatterton, secondo la moda delle agiografie dei ‘ribelli’. Scrisse
che leggendo Chatterton, una leggenda, “ci sentiamo turbati come dinanzi a
qualcosa di straordinario”.
Più che il genio sfiorito dalla sfortuna, l’idea del talento troppo presto
reciso, in Chatterton s’impone la profezia del prodigio. Intendo: la prodigalità
del verbo, la pronuncia inselvatichita da un eccesso di solitudine,
l’immaginario sbrindellato. È naturale che la città rigetti Chatterton, il poeta
provinciale, alla provincia dell’adultità, che vaga tra chiese dismesse e
dimesse valli, che ci impone un Medioevo dei sensi. A differenza di William
Blake, uomo ‘totale’, uomo celeste, compiuto nel creare, Thomas Chatterton è
il puer, l’infinitamente ingenuo, il totalmente ispirato, il tutto che spira:
ovvia, dunque, l’imperfezione, lo sbrego, la lingua mutilata, la speranza
messianica presto delusa. Egli sfregia l’ordine originario, la cultura
costituita: è, allo stesso tempo, un Jackson Pollock tra i poeti pompier e un
arcano bizantino agli occhi di chi crede di aver inventato la prospettiva
lirica. È esagerato tra i contemporanei, ma pure il più arguto tradizionalista.
Per tale intransigenza, Chatterton diventa l’inno e la coccarda dei Romantici
inglese.
È stato William Wordsworth ad affibbiare a Chatterton la definizione – the
marvellous Boy – che gli resta eternamente incisa: la troviamo in un Resolution
and Independence, il poema pubblicato nel 1807. Eppure, fu Samuel Taylor
Coleridge a nutrire una specie di demoniaca affinità con Chatterton. Della
sua Monody of the Death of Chatterton esistono sette versioni; la prima è del
1790, il poeta ha diciott’anni, vuole eguagliare l’estro funereo di Chatterton,
si aggrappa alla musa:
> “Musa, sussurra lirici lai
> il mio cuore s’imbatta nella lode!
> Ma, Chatterton… ora odo il tuo nome
> e Fantasia raggela, ragguaglia morte ogni Speranza di Fama.
>
> Quando Bisogno e Inettitudine hanno sfibrato la tua anima
> inzuppata nella tazza vedo Morte che assidera
> e il tuo cadavere abbagliante di lividi
> sulla cruda terra vedo, vedo
> l’ardore che già arma il mio immaginare
> e il petto sfodera un sospiro
> poi è l’Ira che lampeggia
> nella lacrima e mi erode gli occhi”.
Di questo dice questo raffazzonato articolo: dell’ossessione dei poeti per i
poeti che non ci sono più. Ciascuno ha i suoi: alcuni ci ruotano attorno come
cagnolini, altri ci crescono in seno come una serpe. C’è chi tiene accesa per
noi la luce, fino all’alba – chi screzia i nostri appunti. Chi imita il suono
del chiurlo o il rumore della pioggia; chi si traveste da civetta o da gatto.
Ciascun poeta vivo ha i propri poeti morti per padrini, di cui non sa nulla –
eppure, sono loro a introdursi nelle nostre vite di soppiatto, inattesi, a
testimonianza. Un poeta è vivo per il patto che ha stretto con un poeta morto.
L’ultima versione della Monody è del 1834: Coleridge è in punto di morte,
zittito, da tempo, dall’abuso di oppiacei, da una vita di flebili successi,
grave nel fallire. Nel 1817 aveva pubblicato la Biographia Literaria. Perfino
negli anni cruciali, quelli del Rime of the Ancient Mariner (1798), Coleridge
continua, con demoniaca furia, a riscrivere la Monody. È una sorta di sabba, di
ostile liturgia: Coleridge sfregia se stesso per evocare lo spirito di
Chatterton. La versione più riuscita è quella del 1829, in cui la vita di
Coleridge pareggia misticamente quella di Chatterton. Eccone alcuni squarci:
“Un miracolo pare pallore di morte:
tutti dormono con gaudio, Feti
e Infanti, Giovani e Vecchi, notte
che segue notte fino alla notte perenne!
Raddoppiata stranezza: la vita non è che
ansimare sulle ripide vie della Necessità.
Ma vai via, Fantasma col grugno, Re Scorpione, via!
Riserva i tuoi terrori, quel pavoneggiare di spine
ai Ricchi codardi, alla Colpa con la stola di Stato!
Ecco, io preferisco stare di fianco alla tomba di uno
marcato dal prodigio e dall’avaro Fato
(lui che tutto dona e tutto nega):
faceva risuonare enigmatiche cupole, antiche
campane con la voce di una Madre: torna
povero Puer, torna a casa, strenuo vagabondo!
O Chatterton! Questa smorfia di pietre ti protegge
dallo scempio, dal cupo gelo dell’abbandono.
Troppo a lungo l’irriconoscenza ti ha irritato.
Qui hai riposo, sotto questa zotica zolla!
Ma la tua parola vaga, non è congiunta alla terra
ma tra le abbacinanti schiere dei giusti
presso il trono di pietà del tuo Dio
dove l’amore redime nell’inno ogni cosa
(credici, anima mia), all’arpa dei Serafini. […]
Lontano dagli uomini, tra boschi dai sentieri
insensati, era solito vagare, come il raggio
di una stella che mareggia tra i rami dell’albero.
Qui, nella famelica ora degli ispirati
quando l’anima sente ribollire il proprio potere,
in queste terre selvagge, nel ruggire delle cave rocche
dove si libra il leonino gabbiano
sei passato, con gambe ineguali e sassoni
versando al vento la resina di un canto in coccio:
sulla soglia di qualche spaventoso scoglio
ti fermavi, fissando le onde, ovunque. […]
O Chatterton! Se fossi ancora vivo
di certo apriresti le danze della burrasca
ti uniresti a noi per guidarci verso
l’indivisa valle della Libertà;
e quando cadrà la sera, la serafica,
saremo una folla intorno a te, rapiti
dal tuo maestoso canto, esultanti
per quella Poesia dagli occhi di ragazzo
mascherata con la canizie dell’Antichità”.
In questa specie di manifesto romantico – il poeta canta nei meandri del bosco,
non nei club della City, si fa editare dagli alcioni e dalle querce – si
prefigura l’icona del Wanderer di Friedrich. Diversi decenni dopo, nel 1938,
tenendo insieme i toni di Coleridge e il mito di Chatterton, Dylan Thomas
scrive O Chatterton – come a dire che i morti non hanno requie, che tutto
reclamano. Il riferimento alla “valle della Libertà” è specificato nella strofa
finale, qui non tradotta. Coleridge cita il Susquehannah, il fiume che
attraversa la Pennsylvania, lo stato di New York e il Maryland. Coinvolto dalle
idee dell’amico Robert Southey, Coleridge voleva fondare in un luogo boschivo
non ben precisato intorno al Susquehannah una comunità egualitaria. Sarebbero
partiti in dodici, tutti poeti, con relative consorti. La loro idea di
vita, pantisocrazia, fondeva averi messi in comune, assenza di proprietà
privata, ricerca spirituale. Si trattava di una poetica dell’esistere: i poeti
avrebbero coltivato i campi per tre ore al giorno, destinando il resto del tempo
alla poesia e allo studio. Nessuno, in quella colonia, avrebbe primeggiato
sull’altro. Le donne, devote, avrebbero alienato i mariti dall’ira con le arti
dell’amore. Coleridge pensava che la politica europea, in sé, fosse rea di
schiavismo e di oppressione. Gli mancarono le sostanze economiche – e spirituali
– per realizzare gli intenti, presto naufragati. Preferiva baloccare con gli
spiriti. Chatterton, poeta irredento, non è mai morto: se non lo vedi è nascosto
lì, sotto il tuo palato, usa la tua lingua come una zattera. Azzannalo.
*In copertina: un disegno di Mervyn Peake
L'articolo “Nella famelica ora degli ispirati”. L’ossessione di Coleridge e lo
spirito inquieto di Chatterton proviene da Pangea.
Già Anacleto Verrecchia mi avvertiva di prestare attenzione «a quel Mefistofele
di Vittorio», amico d’una vita, che tra l’altro gli aveva accompagnati i
suoi Cieli d’Italia (poi La batracomachia di Bayreuth, versione ampliata),
spassosissima raccolta di narrazioni erudite. «Macché Mefistofele», aggiungeva
il satiro vegliardo, ripensandoci, «Vittorio ne sa una più del demonio!». Quanta
ragione aveva.
Di Mathieu leggevo da giovanissimo, con gusto e profitto, alcuni interventi sul
«Giornale» post-montanelliano, e ne ricordavo uno con particolare piacere, da
cui Romano Prodi usciva lordo e in pezzi a causa di alcuni comportamenti
osservati de visu da Mathieu stesso.
Per quanto tuttavia preparato all’effetto perturbatore delle sue pagine, non
potetti reprimere una vertigine di sbigottimento leggendo, nel Goethe e il suo
diavolo custode, uscito con Adelphi nel 2002, l’accenno a un’ipotesi tellurica,
ripresa e compiutamente sviluppata ed esposta dodici anni appresso, nel 2014,
in Una frode inaudita ai danni di Goethe (Marcovalerio), che adesso incontriamo.
Secondo lo studioso, La vocazione – o missione – teatrale di Wilhelm Meister (da
qui in avanti: Sendung, come suona la parola chiave dell’originale), accolta da
tutta la critica con grandi festeggiamenti quando solo nel 1910 se ne trovò il
testo fino a quel momento sconosciuto, e che sarebbe il prodromo, o sia germe
del capolavoro Wilhelm Meisters Lehrjahre (Gli anni di apprendistato di W. M.),
ebbene questa Sendung sarebbe niente di meno che un falso.
Mathieu non scherza, non sta provocando, né ha solo vaghi sospetti: egli invece
procede sicuro, ben protetto da uno spesso muraglione di prove estetiche
cronologiche filologiche e biografiche, tutte edificate su alacri e attente
ricerche in documenti e biblioteche.
La Frode è un’opera per specialisti perché entra nei dettagli della biografia
goethiana, della storia culturale e sociale di luoghi e tempi lontani, della
lingua tedesca e della tessitura dei due romanzi, ma non c’è un solo momento di
noia o inaccostabile.
Non voglio guastare il piacere della scoperta, e d’altro canto sarebbe difficile
descrivere in relativamente poco spazio anche solo buona parte dei nodi, taluni
complessi, che compongono la fitta trama della tesi. Per stuzzicare il lettore,
basterà evocarne alcuni momenti, in ordine sparso.
Anzitutto, lo stile della Sendung, è assai distante da tutta la restante opera
goethiana, bensì cangiante negli anni ma sempre riconoscibile per un orecchio
allenato. Notizie sull’abbigliamento del protagonista e di natura tipografica
s’affiancano alle osservazioni, edificate sulla biografia, circa Mignon,
centrale nei Lehrjahre.
E ancòra, aleggia nella Sendung un moralismo che fu sempre del tutto estraneo a
Goethe, il quale, aggiungo io in parentesi, séguita, ahilui e ahinoi, a portarsi
appresso un’aura assai differente da quella reale e trabocchevole, che
riescirebbe se solo si studiassero con un poco d’attenzione sia l’opera, sia le
lettere, sia la vita, e magari anche le testimonianze di chi lo conobbe e
frequentò. Se ci fu uno spregiudicato senza eccessi, questi fu proprio Goethe.
Di poi, il colore smorto e l’afror di sagrestia spingono Mathieu a
intercettare l’officina in cui venne fabbricata la contraffazione nel circolo
bigotteggiante di Lavater, il padre della moderna fisiognomica, col quale Goethe
fu legato da una stima e un’amicizia, che però a un certo punto dovettero
dileguare e tramutarsi in qualcosa d’altro.
La scoperta di Mathieu, va aggiunto per chi fosse poco avvezzo alla lettura di
Goethe, è dirompente poiché, oltre a tutto, investe uno scorcio cruciale del
percorso goethiano, i cui Lehrjahre non solo fondano un genere nella modernità,
il Bildungsroman, ma stanno nel novero delle opere cui Goethe dedicò più tempo e
fatiche, e che ha implicazioni di natura sociale e politica, nonché biografiche,
rilevantissime, oltre ovviamente alle letterarie, e che segnò la vita di
parecchi intellettuali di lingua tedesca. C’è notoriamente chi giunse a dire che
i Lehrjahrecostituivano l’evento epocale insieme alla Dottrina della scienza di
Fichte e alla Rivoluzione francese.
Si potrebbe giungere persino a dire senza troppo temere di pigliare uno
scivolone, che Wilhelm Meister è senz’altro la figura goethiana più importante
dopo Faust, superando per vastità d’intenti anche quella di Werther, la quale
tuttavia è molto, molto più di ciò che per il solito viene spacciata: e anche su
questo Mathieu ha parecchio di istruttivo da proporre nel titolo adelphiano.
Ho svolti alcuni semplici controlli per confermare ciò che già temevo e anzi
divinavo circa l’accoglienza ricevuta dal libro di Mathieu presso la
germanistica italiana e in generale presso la critica e la storiografia
letterarie. Come prevedevo, ho trovata solo una catena montuosa di silenzio.
Codesto silenzio non si può certo imputare alla ridotte dimensioni dell’editore,
buona scusante per esser sfuggito, dacché esse sono ampiamente compensate sia
dalla rinomanza dell’autore, soprattutto in àmbito accademico, sia dal fatto
che, come accennavo, il primo lancio della tesi avvenne in un libro d’una delle
case editrici, italiane e non solo, più seguíte e che peraltro cinque anni
avanti, 1997, aveva pubblicato lo straordinario Goethe e i suoi editori di
Siegfried Unseld, direttore della Suhrkamp, una delle principali case editrici
di lingua tedesca. Temo sia del tutto inverosimile che agli studiosi sia
sfuggito Goethe e il suo diavolo custode, oppure bisogna pensare a una lettura
assai superficiale.
Insomma, tutte le faticose e lunghe indagini condotte da Mathieu e l’esposizione
d’una ipotesi così rivoluzionaria, e per la biografia goethiana, e per la storia
culturale europea, sono rimaste senza eco alcuna. Non è la prima volta, né sarà
l’ultima, in cui i padroni del discorso, insieme alle schiere dei loro
subalterni e tirapiedi, ignorano o rifiutano d’interessarsi a studii che
potrebbero incrinare la loro immagine d’un autore, ben propalata e imposta a
generazioni di studenti e liberi lettori. Ma soprattutto procurerebbe loro una
figura da cioccolatai poiché significherebbe che in un intiero secolo di
(presunto) lavoro di convegni lezioni conferenze libri riunioni telefonate
viaggi e via elencando, le migliaia di professori non si sono mai accorti di
quella patente contraffazione, messa invece in luce da uno studioso
ufficialmente estraneo agli studi goethiani e alla germanistica.
Gli opliti e i sacerdoti dell’accademia, al contrario, fanno sempre a gara per
allungare le zampe sulla Sendung con una introduzione o un articolo e così
annettere il proprio nome al sensazionale ritrovamento, fosse pure cinquanta o
cent’anni appresso. Da noi il principe di questi segugi con la sinusite cronica
è, nemmeno a dirlo, Italo Alighiero Chiusano, che già sistemo nel mio intervento
sulle biografie di Goethe pubblicato su questa rivista.
Né nella introduzione alla Sendung per Rizzoli nel 1994, né altrove, Chiusano si
fa sfiorare almeno dal dubbio che l’opera possa essere, se non un totale falso,
almeno un’anomalia nel corpus letterario goethiano. Ben al contrario, la
definisce «un’altra perla nella collana del romanzo europeo», un «capolavoro» e
un’«autentica opera d’arte». Per difendere ed esaltare la camorra universitaria,
egli scrive altresì che il romanzo fu «rapidamente acquisito (…) per la
sensibilità critica del mondo intero». Se Chiusano non fosse un riverito barone
accademico, si dovrebbe pensare a un comico provetto.
Invero l’unica cosa che fece la «sensibilità critica del monto intero» fu di
cadere nel sacco. A partire dalla pubblicazione della Sendung l’anno appresso il
suo presunto rinvenimento, tutti esultarono, compresi niente meno che
Hofmannsthal ed Hermann Hesse, i quali tuttavia almeno dissero che
i Lehrjahre erano senz’altro superiori al romanzo “ritrovato”, ciò che avrebbe
dovuto suscitare interrogativi nella germanistica ma che invece restò lettera
morta.
Don Benedetto “Corleone” Croce, con la consueta boria, arrivò invece a
dichiarare addirittura di preferire la Sendung ai Lehrjahre, ovviamente con le
solite inoppugnabili e oracolari ragioni estetiche. Per intenderci, è come
scambiare di ruolo un Notturno di John Field con un Notturno di Chopin, o una
Cantata d’un qualsiasi Musikanten barocco con una Cantata di Bach.
Con simili precursori era ben prevedibile che nessuno dei nostrani cavalieri
della verità e della cultura si sarebbe posta qualche domanda, e che se anche
avesse subodorato qualcosa, avrebbe tenuta la bocca chiusa: anche perché per
dimostrare il falso avrebbero dovuto schiodare i deretani dalle sedie e
rimboccarsi le maniche. Ma chi glielo avrebbe fatto fare? A parità di stipendio,
è molto più comodo concionare anziché scavare negli archivi e studiare.
Inoltre ciò avrebbe significato dare ragione a un anomalo della cultura
italiana, benché docente universitario, e per giunta non specialista di
germanistica.
Il succitato silenzio, però, è un’ulteriore prova di quanto la tesi di Mathieu
sia fondata. Se ne sia infatti sicuri: se egli avesse scritta una scempiaggine,
lo avrebbero messo della pubblica gogna.
A ogni buon conto, a noi non deve importare troppo la genia di codesti
guastacervelli, ma invece assai di poter accedere a una tesi rivoluzionaria, per
giunta ben scritta, e di aggiungere una decisiva pagina alla biografia di
Goethe.
Bisogna inoltre considerare quanto il lavoro di Mathieu sia d’esempio a chi
voglia impegnarsi con serietà e acribia nella ricerca storico-biografica: un
cammino aspro ma che, se percorso con diligenza e passione, può condurre molto,
molto lontano. Quasi come Wilhelm Meister.
Luca Bistolfi
*In copertina: Goethe contraffatto da Andy Warhol, 1982
L'articolo La frode, ovvero: la scoperta di un falso Goethe da parte di Vittorio
Mathieu proviene da Pangea.
Comunque, per fare qualche altro nome: Virginia Woolf, Peter Handke e Torgny
Lindgren. Così risponde Jon Fosse alla domanda di Eskil Skjeldal, “Quali
scrittori sono stati importanti per te?”, in Il mistero della fede,
testo-intervista del 2015 tradotto da Margherita Podestà Heir e pubblicato da
Baldini+Castoldi nel 2024.
La Woolf non bisogna averla letto per sapere chi sia stata, se si è di quelli
che leggono o che si spacciano per tali, e Handke è lo scrittore che leggo
compulsivamente nell’ultimo paio d’anni, ma: Torgny Lindgren? Sprovveduto io o
non è tra i soliti noti sul versante italiano – come del resto non lo era Fosse
stesso, prima che il Nobel desse l’impulso all’editoria che pubblica i premiati
eccellenti.
Per Wikipedia, la prima fonte a tiro, Lindgren è uno scrittore svedese morto nel
2017 che ha ottenuto la consacrazione “con la pubblicazione de Il sentiero del
serpente sulla roccia”.
Leggi Wikipedia e di Lindgren ne sai quanto prima, un quasi nulla, tranne che è
stato uno scrittore importante per Jon Fosse, al pari della Woolf e di Handke.
Bisogna leggerlo, bisogna leggere uno scrittore che nella considerazione di Jon
Fosse è importante quanto Virginia Woolf e Peter Handke, fosse solo per non
essere d’accordo, per restare nell’incomprensione, nel mistero della letteratura
che, come per tutti i misteri, per taluni è baggianata e per altri uno stare
sull’orlo di un abisso.
Se per Fosse “scrivere è una specie di lode, anche nella poesia più buia, una
lode del linguaggio”, come scrive Torgny Lindgren, cosa scrive?
In Perdonami madre di Jacques Chessex per Armando Dadò editore mi aveva ha
colpito il paratesto iniziale in cui si esplicita “l’intendimento” della collana
in cui è stato pubblicato, I cristalli – Helvetia Nobilis: “L’intendimento è che
questi testi contribuiscano a una riflessione sull’identità elvetica e sul lungo
cammino che ha portato al formarsi dello Stato attuale.” Secondo l’editore la
Svizzera è la sua letteratura. Così come l’Italia è la sua letteratura – finché
ne ha avuta e ne vorrà avere una. La letteratura dà un’identità a chi ne cerca
una, eventualmente per potersene poi disfare, ma qualcosa di cui potersi disfare
deve essere data, prima. Datemi un punto di appoggio e il mondo potrò o
sollevarlo o sprofondarlo ma niente punto d’appoggio niente mondo.
E l’Europa? L’Europa, per dirne una, non è e non può essere il suo riarmo, non
può consolidarsi nel segno del terrore di essere smantellata, distrutta, per
quanto legittimo possa essere il suo terrore di esserlo. Un’identità fondata sul
terrore è terribile di suo, è meglio perderla prima ancora di essersela data. E
l’Europa per fondarsi sul terrore non ha mica dovuto attendere la Russia di
Putin. La Fortezza Europa aka Bastiani si fonda sull’ansia securitaria fin da
subito, sulla sua paura di sparire, sullo spavento si noti la sua insignificanza
sopraggiunta.
L’identità europea moderna e contemporanea però potrebbe fondarsi tanto sulla
Woolf quanto su Handke. E in che misura Torgny Lindgren contribuisce, può
contribuire, all’identità europea, dunque anche alla mia che neppure sapevo del
suo contribuito, poiché sempre a detta di Fosse: “Tutti traggono beneficio dalla
matematica più avanzata, anche se non la comprendono, e tutti traggono beneficio
della migliore letteratura, anche se in apparenza non ne ricavano nulla”?
Cosa si ricava da Torgny Lindgren?
“Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso”, così
scrive in Miele, del 1995, pubblicato da Giano nel 2002, nella traduzione di
Carmen Giorgetti Cima.
È un passaggio narrativo nei paraggi dell’incipit, in auto ci sono le prime due
entità della trinità che domina il romanzo. In auto ci sono “la donna sola di
quarantacinque anni, una forestiera che veniva dal sud del paese e che aveva
scritto dei libri sull’amore e sulla morte e sui santi”, scrittrice di
pochissimi lettori, e l’uomo incaricato di ospitarla, che “portava una giacca di
pelle nera sopra la camicia scozzese” e che “Puzzava di putrefazione.”
La donna resterà innominata mentre l’uomo “Le confidò il suo nome, Hadar” e in
quella scelta del verbo, nella sua resa italiana, in quel ‘confidò’ si sente
tutta una tradizione letteraria sul potere magico del nome proprio, sul suo
potere segreto. Miele rintocca di riflessioni sul mistero dell’essere al mondo.
Niente è ancora accaduto eppure tutto è già accaduto. Miele è un romanzo con le
sue vicende, come tutti, ma è pure tutt’altro, un libro di sentenze, un libro
sul mistero del tempo, “Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati
morti”, sul mistero delle cose come la neve che è “una spuma di luce trasformata
in materia”, sul mistero del corpo umano che consiste “di un’unione armoniosa di
mobile e rigido, di fluido e solido, muco e smalto(…).”
Si può andare avanti, dire che Miele è “l’avventura del momentaneo
prolungamento della vita”, la storia dei due fratelli Hadar e Olaf che
sopravvivono grazie all’odio reciproco, come l’umanità di solito ecco, ma
preferisco fermarmi prima poiché l’ho sentito da subito, dall’inizio, cosa si
ricava leggendo Torgny Lindgren, al primo scambio tra la forestiera del sud e
l’uomo in putrefazione del nord:
> “Tutti i paesaggi e le strade che vi serpeggiano hanno le loro peculiarità e
> caratteristiche (…) Hanno le loro imperfezioni e loro difetti.”
>
> “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso.”
Questa strada è la nostra vicenda umana stretta e dritta che attraversa la
Storia mondiale sconnessa. Questo è il mistero della letteratura che rende amaro
persino il miele, dolce persino la putrefazione.
Quanto più sarebbero temibili gli europei se i miliardi invece che in armi li
spendessero in politica culturale, in letteratura, cinema, arte e via andare.
Certo a nulla servirebbe per renderci indistruttibili ma nessuno più lo è o può
più esserlo nell’epoca sorta e mai più tramontabile della Bomba:
> “L’età atomica non è mai finita. Abbiamo forse smesso di pensarla, presi dalla
> fantasia di pace eterna del momento unipolare americano. Eppure l’epoca
> apertasi nel 1945 non solo non è finita, ma è anzi «definitiva» nel senso del
> tutto particolare che le attribuiva Günther Anders: al suo interno la storia
> umana può giungere a termine”.
>
> da Se la bomba non ci protegge più della bomba, di Agnese Rossi, in “Limes”
> 1,2025.
Non potremo mai più essere indistruttibili, imbattibili, d’altronde non lo siamo
mai stati, ma potremmo diventare invitti perché non più orwellianamente
manipolabili a piacere. Quando ci si è dati un’identità non resta poi molto
altro che possano portarti via, se non la vita – ma la vita alla lunga che non è
poi chissà quanto lunga bisogna renderla in ogni caso. L’identità almeno sarà
servita a darti un senso, la sua invenzione, tra il nulla di prima e il nulla di
dopo, perché poi Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti.
E prima di nascere, idem.
Per essere europei bisogna essere anti UE? Con Fosse
> “L’intero progetto dell’UE è antieuropeo, l’essenza dell’Europa è la
> diversità, in tutti i sensi, mentre l’UE rappresenta, se non proprio
> l’uniformità, sicuramente l’omologazione (…). È scandaloso. L’omologazione,
> che sia dettata dal potere del denaro, da decisioni politiche o dalla
> burocrazia, mi ripugna profondamente. Io sono un grande sostenitore
> dell’Europa ed è proprio per questo che sono contro l’UE.”
Per dovere di verità va precisato che Fosse trovava scandaloso il divieto di
vendita dello snus, tabacco svedese, nel 2015 il ReArm Europe plan era di là da
venire. Il divieto di vendita dello snus è scandaloso, sia, ma pure il ReArme
Europe plan per com’è stato escogitato non scherza.
Quanto è illusorio immaginarsi, grazie alla letteratura, come persone circondate
dal mistero impenetrabile di un’identità che ciascuno potrebbe reinventarsi ma
soltanto secondo il proprio piacere mai imposto, mai imponibile? …Il dilemma
dell’identità, per di più, non è che non abbia creato più problemi di quanti ne
abbia risolti, ammesso ne abbia mai risolto qualcuno, ma per l’identità vale
come per la Bomba.
Per dirlo con altre parole di Agnese Rossi – che le pronuncia a proposito della
teoria della deterrenza nucleare – giocare con la teoria dell’identità
“continuerà a servire finché esisteranno le armi atomiche. Cioè ancora per molto
tempo, visto che è impossibile disinventarle.” Disinventare il feticcio
dell’identità è impossibile ma inventarsene di altre e di nuove sì, è possibile.
È il compito e il mistero della letteratura.
Perché non possiamo continuare a vivere così ma continueremo a vivere così lo
stesso.
antonio coda
*In copertina: Eva Bonnier, Geor Pauli. Studio, 1884 ca.
L'articolo Torgny Lindgren, l’UE e il mistero dello snus proviene da Pangea.
Nikola Madzirov è un segugio degli spiragli, si fa ispirare dalle strettoie,
entra, con il coltellino, nel corpo dell’assente. Così, in una città, fotografa
la camera d’albergo in cui è ospitato: in quel luogo anonimo resistono le tracce
di chi vi ha soggiornato, di chi vi abiterà, anche soltanto per una notte. Ogni
stanza è un bosco. Della sua vita riferisce dettagli che frugano
nell’incredibile: il nonno, profugo dalle infinite guerre balcaniche, che scava
per costruire la nuova casa; le antiche armi degli Ottomani bendate da vortici
di vermi, necessari alla pesca, esche per sopravvivere. Un Omero frugale giace
interrato tra i dedali di questa storia.
In una poesia tra le più belle raccolte in Ciò che abbiamo detto ci
perseguiterà (Crocetti, 2025), Silenzio, Madzirov scrive:
> “Non esiste il silenzio nel mondo.
> Lo hanno inventato i monaci
> per ascoltare ogni giorno i cavalli
> e le piume che cadono dalle ali”.
Nato a Strumica, Macedonia, al confine tra Grecia e Bulgaria, profugo al proprio
tempo, espatriato dalla Storia, classe 1973, Nikola Madzirov è un vagabondo
della poesia. Charles Simić, il grande poeta serbo che fu premio Pulitzer, ha
detto che leggere Madzirov “è come scoprire un nuovo pianeta nel sistema solare
dell’immaginazione”. Piuttosto, Madzirov ti mostra le cose da un’angolatura
inattesa, pone le cose in un candore che le fa nuove. Così, mi racconta della
madre che conservava gli spazzolini da denti usati, certa “che custodissero
ancora al loro interno un granello dell’anima di chi li aveva usati”; del padre
che con uno spazzolino da denti usurato, ora, pulisce la lapide della moglie,
“con la stessa cura di un archeologo”.
Madzirov parla come scrive: poeta la cui infanzia è stata bendata da destino di
guerra, poeta post-sovietico, totalmente europeo, che non si interessa dei
‘massimi sistemi’, ma delle cose minute, dimenticate, smunte, che in sé
nascondono un cosmo. Non gli importa scoprire la chiave che squaderna i mondi,
ma la chiave sepolta nel comodino della nonna, di una casa che non sarà mai
aperta, apparentata a distruzione e fuga.
Piero Salabè, il traduttore di Madzirov – lavora in Germania, per la Hanser
Verlag, i suoi libri sono editi da La Nave di Teseo –, ha riconosciuto in lui un
lignaggio che, oltre a Simić, tiene insieme Lucian Blaga e Nichita Stanescu,
Vasko Popa e Zbigniew Herbert. Il titolo del libro di Madzirov mi ricorda un
versetto dal Vangelo di Matteo, il tremendo imperare di Cristo: “di ogni parola
vana che gli uomini diranno, dovranno rendere contro nel giorno del giudizio”.
Eppure, nella poesia di Madzirov si parla di nomi inauditi, di interdetti al
dire, di “parole/ sotto le pietre assieme alle ombre sepolte”. Nei suoi toni –
confessionali, ‘vegetali’, in esubero – riconosco l’andare per fiumi di Álvaro
Mutis, gi acquazzoni musicali di Bregović.
Grazie a una serie di borse di studio internazionali, Madzirov gira il mondo,
scrive con l’estro dell’istrione e del lottatore; coordina il network di poesia
“Lyrikline”, che ha sede a Berlino. Quando parla – a identificare una poetica –
cita Octavio Paz e Hannah Arendt, Walter Benjamin, le “Filter Yugoslavia”, le
guerre nei Balcani, Arvo Pärt; alcuni suoi versi sono stati messi in musica da
Oliver Lake, sassofonista statunitense che ha lavorato, tra gli altri, con Lou
Reed e Björk. Il 4 aprile prossimo, Madzirov sarà in Italia, a Venezia, tra i
protagonisti del Festival Internazionale di Letteratura “Incroci di civiltà”. In
alcuni suoi versi si fa il ritratto:
> “Mi sono distanziato da ogni verità sull’origine
> degli alberi, dei fiumi e delle città.
> Il mio nome sarà una via degli addii
> e il cuore apparirà sulle radiografie”.
E poi ti dice che il poeta è una foglia sull’albero dell’imprevedibile, che
bisogna confidare nella solitudine. C’è qualcosa di cavalleresco e antico in
Madzirov, poeta prode, pronto al cammino – così diverso da chi deterge una
carriera sul lamento e sulla litania, da chi crede, allevato all’aia, di essere
alloro, di avere l’oro a fior di dita. No: bisogna sentire l’urlo del fiume, le
grida scheggiate della gente – e dire della poesia la sua natura di zappa, di
torcia, di scettro.
Che rapporto esiste, a tuo dire, tra il poeta e la Storia? Il poeta è una
sentinella ai confini della Storia, ne è un avventato avventuriero, è un
espulso? Può cambiare la Storia, il poeta, o subisce gli eventi storici?
Responsabilità del poeta è rispondere alle storie “ufficiali”, sia che si tratti
di una revisione emotiva dei libri di storia, sia che si tratti di costruire una
storia personale che parta non dal giorno della propria nascita, ma dal giorno
in cui si inizia a ricordare. Il poeta deve essere abbastanza forte da delineare
un confine distintivo tra storia e ricordo, così come è necessario che il poeta
faccia una distinzione tra menzogna e immaginazione, o tra globale e universale,
poiché il globale è più una categoria geografica, mentre l’universalità è umana
e temporale.
Quando i miei antenati, profughi dalle guerre balcaniche dell’inizio del secolo
scorso, iniziarono a scavare la nuova terra per costruire la loro nuova casa, si
imbatterono in antiche spade risalenti all’epoca dell’Impero Ottomano, che
dominò su questi territori per cinquecento anni; mio nonno era più interessato
ai vermi che trovava mentre scavava: li usava per pescare, per sopravvivere in
tempi di povertà. Stava creando una storia di sopravvivenza e non era
interessato all’importanza archeologica degli oggetti che non gli portavano
cibo.
Sono nato al crocevia tra le battaglie storiche che sono state combattute nel
cortile dove vivo e il mistero della terra che copre gli oggetti perduti,
appartenuti a persone vissute qui prima di me. Hannah Arendt dice che nulla di
ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare; tutto ciò che è, è
destinato a essere percepito da qualcuno. La pluralità è la legge della terra.
Vivo nei Balcani, dove tutte le guerre iniziano con le battaglie per un passato
migliore. La guerra ha il suo plurale – le guerre vanno e tornano come cani
affamati davanti a una macelleria chiusa. Solo la poesia esiste al singolare.
Eppure, se la poesia esistesse al solo scopo di affermare “verità” storiche,
sarebbe già diventata storia da tempo. La storia è il primo confine che voglio
attraversare.
Che rapporto esiste, nella tua esperienza, tra il poeta e l’esilio, l’esultante
espulso, l’inerme esule?
Oggi siamo nomadi della paura. La solitudine è una forma di “esilio statico”. Il
mondo oggi vive i suoi nuovi localismi e le sue nuove lontananze: al posto dei
chilometri, gli orizzonti della nostra presenza si misurano in kilobyte. Quella
che un tempo era considerata un’introversione patologica sta diventando una
qualità di vita. Tuttavia, esiste un enorme divario tra la solitudine come
decisione collettiva e la solitudine come impulso personale. Centinaia di anni
fa, in Europa, la nostalgia era considerata una malattia e le persone con
l’irrequieta voglia di tornare a casa venivano curate con oppio, sanguisughe o
lunghi soggiorni in montagna. Oggi le montagne e gli oceani sono nelle nostre
case, insieme alla voglia di nuotare oltre il confine delle malattie e delle
guerre. La nostalgia è una ribellione contro l’idea moderna del tempo.
L’infanzia è la casa più sicura dei nostri ricordi. Solo dopo la nascita di un
bambino ci rendiamo conto di quanti oggetti taglienti abbiamo in casa. Forse la
nascita di un nuovo riflesso di sopravvivenza ci aiuterà a fare piazza pulita di
tutti i coltelli affilati che abbiamo in casa. Da Wittgenstein a Czesław Miłosz
si parla del linguaggio come della nostra vera e unica casa. Io vorrei parlare
della casa come di un linguaggio, e immaginare le pareti come punteggiature alla
fine del sentimento di (essere) desiderio. La finestra aperta della realtà mi
permette di toccare i miei sogni e le mie paure, di sentire le dinamiche del
mondo anche quando inizio a credere nelle radici invisibili dell’appartenenza.
Il mio cognome significa “migrante”: l’ho scoperto solo dopo aver iniziato a
viaggiare intensamente. Questa consapevolezza mi ha messo paura, così ho
iniziato a dare un nome alle cose che vedo, che tocco, che riscopro… Mi chiedo
sempre se le strade in cui vivo hanno nomi presi dai libri di storia o nomi che
appartengono alle storie personali della città. Fotografo le stanze che lascio,
invece di fotografare i monumenti intorno all’hotel. Ogni grinza sul lenzuolo
nelle sterili camere d’albergo o ogni traccia profonda della gamba della sedia
nella spessa moquette è una presenza di qualcuno che potrebbe tornare. La
struttura degli oggetti nella stanza è il flusso sanguigno delle case che abito
e che lascio. Quando vado da qualche parte sembra che sia di ritorno. Di solito
sono i lavoratori edili che vivono in cabine temporanee intorno all’edificio che
rimarrà lì per sempre.
Da bambino fuggivo da casa, in pigiama e con le scarpe di mio padre, tre volte
più grandi. Viaggiare è l’atto più sicuro finché non lo chiamiamo “abbandono”.
Michael Krüger nella poesia Migrazione scrive: “Ora le stanze sono vuote, le
valigie/ allineano il corridoio accanto a scatole lunatiche/ in cui i libri
lottano con i giornali”. I libri da leggere mantengono la mia fiducia nel
ritorno. La lettura è sempre stata il mio carburante per spostarmi, quando ero
circondata da guerre e regolamenti sui visti. Ricordo che sognavo di dimenticare
tutto, per poter leggere sempre gli stessi libri. Quando ho sentito che l’oblio
non sarebbe mai arrivato, ho iniziato a scrivere. Questo è anche il modo in cui
vivo intorno alle cose di cui scrivo, cercando di costruire una casa con le
parole e gli spostamenti. Quando gli uccelli lasciano i loro nidi, volano via;
quando le persone lasciano le loro case, ricordano.
Ti chiedo di commentare (come vuoi, anche esulando dal tema) questo tuo verso:
“Da tempo ormai non appartengo più a nessuno”.
Mi sento al sicuro nella caverna aperta della non appartenenza. L’appartenenza è
spesso nemica del radicamento. Simone Weil dice: “Essere radicati è forse il
bisogno più importante e meno riconosciuto dell’anima umana”. Un essere umano
appartiene anche agli spazi intermedi, alle case che rimangono incompiute. Vivo
a Strumica, una città vicina al confine tra Grecia e Bulgaria, e mi sono sempre
sentito più al sicuro in quella striscia di cento metri tra due confini, uno
spazio senza monumenti o condizioni per la memoria storica. Questi spazi,
chiamati giustamente terra di nessuno, ti dicono che non sei nessuno se li senti
tuoi. I sistemi ideologici tendono sempre a creare un Nessuno da un corpo e da
una mente, ma “chi crea un Nessuno negando l’esistenza di Qualcuno diventerà
egli stesso un Nessuno”, scrive Octavio Paz ne Il labirinto della solitudine.
Così è per le città. Sentiamo che una città comincia ad appartenerci quando
troviamo un angolo, una piazzetta o un ponte senza nome per ciascuno dei nostri
stati interiori, e uno comincia a riferirsi ad essa con un frammento della sua
routine di vita o della sua storia personale. Credo che l’appartenenza sia una
risposta naturale, ma anche auto-ingannevole, al ritorno in una città.
Apparteniamo al luogo in cui torniamo o solo a quello in cui moriamo? Le città
in cui si sente di appartenere sono porti della propria impercettibilità, dove,
alienati dalle realtà ereditate, si comincia a costruire le verità del proprio
mondo. Il titolo del mio primo libro, pubblicato più di vent’anni fa, era Locked
in the City, e si riferiva soprattutto allo stato mentale di confinamento,
plasmato anche dalla logica politica delle restrizioni attraverso i visti e i
muri concettuali.
L’appartenenza ai Balcani, volontaria o forzata, è allo stesso tempo una
benedizione e una maledizione. Significa nascere nello spazio geografico della
colpa: tua madre ha aperto le gambe per darti alla luce sulla sedia vuota di un
tribunale penale. Ma chiudersi nella gabbia dell’eterno senso di colpa è tutto
tranne che un’appartenenza. Nella nostra infanzia, le prime cose che impariamo
sono le solite costanti dell’appartenenza: i nomi dei genitori, il nome della
strada in cui abitiamo, il numero della classe… E poi passiamo la vita a
imparare ad appartenere solo all’infanzia.
Ti chiedo di spiegarmi questo verso: “Sono i resti di un’altra epoca”.
Tutti vaghiamo nel cerchio del tempo per trovare il museo dell’innocenza del
mondo. E il vagabondaggio è il primo passo per tornare da qualche parte: nella
stanza o nella nostra infanzia. L’ombra più grande della nostra realtà nei
Balcani è la fame del viaggio temporale di ritorno. Le persone lasciano le case
e i ricordi a causa delle guerre e della povertà imposta, e ogni oggetto che
hanno portato con sé diventa un manufatto o un simbolo, una voce offuscata di un
rituale personale. Le cose diventano resti anche prima di essere perse o
distrutte. Mia nonna conservava la chiave della sua casa abbandonata nello
stesso armadietto dove teneva le medicine, pensando che questa chiave un giorno
avrebbe potuto aprire quella porta che non esiste più e guarirla dalla
nostalgia. Tutti, nelle nostre stanze, abbiamo oggetti che rimandano alla nostra
morte. Per i Balcani la fuga è più una questione di misurazione del tempo che un
calendario dell’assenza. La mitologia dell’infanzia è stata il mio primo rifugio
dalla paura di una realtà prevedibile. Mia madre ha conservato i vestiti della
mia infanzia, dicendomi che vuole diventare nonna e dare al mio bambino non
ancora nato gli abiti con cui mi vestiva. Mia madre conservava tutti gli
spazzolini da denti usati in casa, pensando che custodissero ancora al loro
interno un granello dell’anima di chi li aveva usati. È morta sei anni fa e ora
vedo mio padre che pulisce la sua foto in bianco e nero sulla lapide con uno
spazzolino usato, con la stessa cura di un archeologo prima di una scoperta. Ho
scritto un saggio sull’ossessione delle persone per gli oggetti e sulla loro
metamorfosi utilitaristica durante la crisi del comunismo. Gli oggetti
superavano i confini di tutte le scale e i sistemi simbolici conosciuti.
L’immaginazione empirica della banalità della vita, acquisita con forza e senza
volerlo, ha creato innovatori autoctoni tra le persone che ancora si fidavano
del sistema in cui vivevano. La scoperta del pragmatismo polisemantico fu una
rivelazione non meno importante dell’estetica della “vita segreta degli oggetti”
di Giorgio de Chirico. La mancanza di denaro spingeva le persone a ricavare un
vaso per far crescere i limoni dal grande secchio di latta vuoto in cui tenevano
il formaggio; a trasformare le lattine vuote delle bibite in portapenne; a
costruire coni di carta per i semi di zucca e le arachidi dei venditori
ambulanti con le carte dei commercialisti e di altri uffici burocratici; i tappi
delle bottiglie di birra e di Coca Cola danno un ottimo sostegno alle gambe di
tavoli e a sedie instabili; le scatole delle scarpe sono ripostigli per libri e
cassette. Sembra un paradosso, ma si scopre che il nostro surrealismo
riproduceva pragmaticamente i disegni di Magritte: Ceci n’est pas une pipe.
Quando parlo di resti di un’altra epoca, non penso al passato, ma a una realtà
diversa, alla nostra voglia di calpestare l’asfalto fresco e di tornare a vedere
questa traccia innocente del tuo piedino ogni volta che ti senti stanco della
realtà. “Uno dei primi istinti dei genitori, dopo aver messo al mondo un
bambino, è quello di fotografarlo”, afferma Calvino ne L’avventura del
fotografo e prosegue: “L’album fotografico rimane l’unico luogo in cui tutte
queste fugaci perfezioni vengono salvate e giustapposte, aspirando ciascuna a
una propria incomparabile assolutezza”. Ancora oggi fisso gli spazi vuoti degli
album fotografici cercando di indovinare dove sono le foto che mancano, cercando
di ricostruire una memoria che non mi appartiene. Le fotografie e le parole non
sono residui di un’altra epoca; residuo diventa colui che scrive di tutto o
colui che fotografa tutto ciò che vede, per dimenticare tutto.
Di cosa è testimone il poeta?
Se volessi romanticizzare o ironizzare, direi: il poeta è qui per testimoniare
il candore della neve. Eppure, credo che il poeta sia testimone
dell’imperfezione degli oggetti che dormono sotto quei perfetti fiocchi di neve
o forse delle gocce di sangue di un animale o di un soldato ferito sulla neve.
Avevo diciotto anni quando iniziarono le nuove guerre in Jugoslavia. Sul mio
letto, i politici al potere misero uniformi al pigiama dell’innocenza. Un
sistema politico fu sostituito da un altro. Entrambi i cambiamenti avvennero
nello stesso momento, distruggendo le pareti di vetro della mia infanzia e le
spesse tende della certezza promessa. Improvvisamente, gli autori che erano
nelle liste di lettura delle scuole furono dichiarati nemici dello Stato
o classici, che significava soltanto una cosa: nessuno li leggeva più. Ho dovuto
tagliare io stesso il cordone ombelicale, integrandomi nell’ampio quadro della
letteratura europea. Da allora, tutta la mia vita si è trasformata in una fuga –
ma non una fuga da qualcosa, bensì verso qualcosa. Mi fido più delle cicatrici
del tempo sulla nostra pelle che degli ornamenti sopra le uniformi. Quando il
soldato viene ucciso, qualcun altro prende la sua uniforme e butta via tutte le
foto di famiglia e le lettere dalle tasche. Io ripeto solo la storia dei miei
antenati che hanno dovuto lasciare le loro case a causa della guerra, ma hanno
anche portato con sé la chiave, una chiave che avrebbe aperto solo i cancelli
della memoria. Non porto con me le chiavi quando viaggio. La lingua è rimasta la
mia unica soglia di certezza. Ricordo spesso le parole di Charles Simic, nato in
una Jugoslavia diversa da quella in cui sono cresciuto, che diceva che essere un
rifugiato non lo ha reso un poeta, ma lo ha reso il tipo di poeta che è. La
caduta della Jugoslavia e l’indipendenza della Macedonia mi hanno insegnato che
nessun simbolo di Stato è eterno – che tutti i leoni, le aquile, le stelle, i
soli, le foglie possono volare via dalla bandiera come un sacchetto di plastica
in cerca di un vento più forte. Tra le sigarette più popolari della classe
operaia dell’ex Jugoslavia c’erano quelle denominate “Filter Yugoslavia”, mentre
chi era “più uguale degli altri” fumava “Lord Extra”. Come se Edward Said avesse
previsto il crollo della Jugoslavia: dopo la rottura dello Stato, le sigarette
“Filter Yugoslavia” furono chiamate “Filter Oriental”. Lo stesso fumo viaggiava
ora da Sud (Yug) a Est (Oriente), con gli occhi dei fumatori rivolti a Ovest. I
Balcani sono pieni di varie verità ufficiali con un’intensità tale di singolare
dolore, al di là di qualsiasi confine tracciato. La poesia, come testimonianza
dolorosa e tagliente, viaggia lentamente e silenziosamente, ma vaga lontano
nello spazio e nel tempo, come una lettera senza indirizzo sulla busta. Alain
Bosquet diceva che il poeta è nella città solo per testimoniare che la città si
trova altrove. Il poeta deve essere testimone dello spostamento dei confini
delle sue perdite e delle sue aspettative. La poesia non cambia i mondi, li
costruisce.
Ti piace questo mondo, questo tempo, il tempo che ti è dato?
Mi sento un auto-rifugiato in un periodo di falsa pace. La poesia può cambiare
la distanza con cui guardiamo alle ferite aperte del mondo. La poesia può
piantare un seme nelle cicatrici del mondo e aspettare la nascita di una storia
che non si ripeta. Viaggio costantemente da più di vent’anni ormai,
probabilmente per sfuggire alle trappole del tempo. Voglio abitare tutti i mondi
di cui sono testimone, voglio nascere nello stesso tempo, così potrei provare a
creare un calendario diverso.
Scrivi una poesia sul Silenzio. Che valore ha il silenzio nella tua singolare
ricerca poetica?
Solo nel silenzio si può sentire il proprio sangue e la voce degli assenti.
Eppure, è difficile trovare il silenzio perfino ai funerali o dietro le finestre
sfocate delle biblioteche cittadine, come in tutti i rituali del sonno. In
alcune regioni dell’America Latina, quando nasce un bambino, la prima cosa che
gli dicono mentre piange è: “Preparati a tacere in questo mondo, a essere
paziente”. Vivevo in una casa dove le parole di tre diverse generazioni
lottavano per il loro status di importanza: mentre alcune parlavano di ricordi,
la voce dall’altra parte del muro era piena di aspettative. In quella guerra
quotidiana con le baionette delle parole, soltanto ascoltare la musica di Arvo
Pärt o di Coltrane con il volume alzato mi ha aperto uno spazio sonoro per il
silenzio del pensiero. Le mie case temporanee continuano attraversando i confini
di paesi le cui lingue non capisco, sviluppando ricordi in cui non tornerò mai.
Tutte le cartoline delle città trasmettono il silenzio dei monumenti delle
piazze e il silenzio del postino che conosce le strade della sua città natale.
“Tutti gli angoli deserti delle città, tutti i suoni e le cose hanno ancora i
loro silenzi, proprio come, a mezzogiorno in montagna, c’è il silenzio delle
galline, dell’ascia, delle cicale”, dice Walter Benjamin. Non accetto la
definizione semplificata del silenzio come assenza di parole o suoni, perché
all’inizio non era la parola, ma il respiro. Stockhausen diceva che non esiste
un silenzio assoluto nel mondo, cercava di ampliare il rapporto tra il suono che
è assente e il suono che si sente. Quando vedo un’ombra, non penso alla luce
perduta, ma alla bella forma del corpo che produce quell’ombra. Il silenzio è la
luce che dà forma al corpo delle mie parole. Il poeta rende visibili i suoni e
li trasforma di nuovo in quiete attraverso l’atto del creare. Deleuze dice che
il problema non è far sì che le persone si esprimano, ma fornire piccoli spazi
di solitudine e silenzio in cui possano eventualmente trovare qualcosa da dire.
Scrivere poesie significa viaggiare attraverso le oscure vene delle imperfezioni
delle parole, scoprendo che il silenzio e l’oscurità sono le due metà del nucleo
del codice universale della comprensione. Nel silenzio tutti i suoni sono
uguali, nell’oscurità tutti gli oggetti sono uguali.
Esiste un’etica oltre alla poetica? In cosa credi? Vivi secondo una tua
personale ‘regola’?
L’etica consiste nel non tradire la poetica del proprio essere, nel non
diventare un mercante del dolore altrui, nel non fidarsi dei monumenti nel
cortile sul retro del palazzo del governo. Scrivo di cose riscoperte e mondi
assenti non per lodarli, ma per demistificare l’aureola di storia che li
circonda. Vivo in una piccola città vicino a tre confini: macedone, bulgaro e
greco; attraversare un confine per me è come attraversare la strada con i
semafori che non funzionano. A volte penso che ogni ruga sul mio corpo sia solo
un riflesso dei confini che ho attraversato. La sfida più grande per me è stata
attraversare il confine del tempo, poiché tutte le guerre balcaniche iniziano
conquistando prima il passato: soltanto dopo si parla di
territori. Storico e isterico: un’unità perfetta per uccidere! In questo senso,
mi considero un archeologo illegittimo che, scrivendo poesie o saggi, cerca di
demistificare la mitomania ereditata e tutte le grandi narrazioni, mettendole in
una prospettiva diversa, più luminosa o più oscura. Raccontare storie di luoghi
o oggetti dimenticati è più importante di tutte le lettere e gli ordini segreti
firmati da capi di guerra desiderosi di diventare un giorno dei monumenti. Ho
fiducia nell’architettura della solitudine e voglio credere che il poeta sia la
voce della foglia tremante sull’albero dell’imprevedibile.
Che rapporti hai con l’invisibile?
Non essere visti è il sogno di ogni osservatore dietro la porta socchiusa del
mondo, è il desiderio di ogni poeta perso nel labirinto fatto dei ricordi
altrui. La finestra aperta della realtà mi permette di toccare i miei sogni e le
mie paure, di sentire le dinamiche del mondo anche quando inizio a credere nelle
radici invisibili dell’appartenenza.
Vedo la poesia come un corpo intoccabile che si disloca a ogni nuova lettura.
Nonostante la sua fragilità, la poesia può portare il caos all’interno di
società altamente controllate. I dittatori hanno paura del significato
invisibile delle parole, perché a loro piace creare cose assolute e visibili. Mi
considero un fragile testimone della dura realtà e dell’aldilà, che ruba momenti
invisibili o verità non dette, piuttosto che uno che ruba storie o fotografie
dagli album di famiglia. Alejandra Pizarnik scrive: “temo di non sapere come
nominare/ ciò che non esiste”. Gli scienziati potrebbero facilmente dare un nome
ai pianeti o ai minerali che non sono ancora stati scoperti, ma la poetessa
vuole credere che il silenzio sia il nome perfetto per tutte le cose invisibili
e assenti. Scrivere è solo un modo per rimandare la mia assenza.
Ritaglia un verso, un distico dalla tua opera che ti rappresenta – e dimmi
perché.
“Lontane sono tutte le capanne in cui ci riparavamo dalla pioggia
e dalla pena dei cervi che morivano davanti a cacciatori
più soli che affamati.”
La distanza non può essere un rifugio dalla sofferenza del mondo.
**
Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà
Abbiamo dato un nome
alle piante selvatiche
che crescono dietro agli edifici in costruzione,
e a tutti i monumenti
dei nostri invasori.
Abbiamo battezzato i bambini
con i nomi affettuosi
trovati nelle lettere
lette una sola volta.
Abbiamo poi, di nascosto, decifrato le firme
in fondo alle ricette
per le malattie incurabili
e col binocolo abbiamo ravvicinato
le mani che ci salutavano
dalle finestre.
Abbiamo lasciato le parole
sotto le pietre assieme alle ombre sepolte,
sulla collina che conserva l’eco
di antenati che non compaiono
nell’albero genealogico.
Ciò che abbiamo detto senza testimoni
ci perseguiterà per molto tempo.
In noi si sono stipati molti inverni
che nessuno ha mai menzionato.
*
Quando il tempo si fermerà
Siamo i resti di un’altra epoca.
Ecco perché non posso
parlare della casa o della morte
o di dolori prevedibili.
Finora nessun ladro di tombe
ha scovato le mura tra di noi,
né il freddo calato nelle ossa
fra i resti di tutte le epoche.
Quando il tempo si fermerà,
discuteremo della verità
e sulle nostre fronti le lucciole
formeranno una costellazione.
Nessun falso profeta
aveva previsto che il bicchiere si sarebbe rotto
e neppure che si sarebbero toccati i palmi –
due grandi verità da cui sgorga
acqua pura.
Siamo i resti di un’altra epoca.
Ci ritiriamo nei paesaggi
della solitudine addomesticata
come lupi che contemplano la colpa eterna.
*
Da ogni mia cicatrice
Sono un mendicante senza il coraggio
di chiedere l’elemosina a me stesso.
Sui miei palmi si incrociano le linee e
le ferite di tutte le carezze mancate,
di tutte le febbri non misurate sulla fronte,
dell’amore scavato abusivamente.
Da ogni mia cicatrice
emerge una verità.
Cresco e svanisco
con il giorno, mi addentro
senza paura nell’origine,
e intorno a me tutto si muove:
la pietra diviene casa,
la roccia granello di sabbia.
Quando smetto di respirare,
il cuore batte più forte.
*
Loro e noi
Probabilmente gli angeli
hanno uomini tatuati sulle spalle,
e custodiscono le proprie ombre
nello scrigno dei ricordi.
A volte appaiono
come una voce che annuncia l’alba
o come una luce soffusa
sotto un letto d’ospedale.
Noi esistiamo perché loro esistono,
loro volano perché noi camminiamo.
Siamo così vicini e lontani
come i protoni e i neutroni
nel nucleo di tutti i mondi.
Traduzione di Piero Salabè
Da Nikola Madzirov, Ciò che abbiamo detto ci perseguiterà, Crocetti Editore,
Milano, 2025.
*In copertina: Nikola Madzirov in un ritratto fotografico di Sophie Kandaouroff
L'articolo “La poesia porta il caos nella società del controllo”. Dialogo con
Nikola Madzirov proviene da Pangea.