Leggendo la recentissima traduzione de I Sonetti a Orfeo di Rilke, curata da
Riccardo Held, per la collana Lo Specchio di Mondadori, non posso fare a meno di
pensare a Marina Cvetaeva:
> E oggi ho voglia che Rilke parli attraverso di me. Nel linguaggio comune
> questo si chiama traduzione (com’è più bello in tedesco – Nachdichten! Andando
> sulle orme di un poeta, aprire di nuovo tutta la strada da lui aperta […]).
La traduzione poetica è sempre un atto di fedeltà, umiltà e soprattutto amore.
Si tratta letteralmente della gestazione di una nuova creatura, che ancora non
esiste nella lingua di approdo: bisogna attraversarla, traghettarla e partorirla
in un nuovo registro linguistico. Un esercizio faticoso che presuppone ascolto,
attenzione pura, molte letture e interiorizzazioni, fino a quando non si riesce
a trovare quella parola perfetta – la sola – che possa “dire” la “cosa” in
un’altra lingua, senza tradirne il senso.
Di certo è una sfida. Lo spiega bene Held nella sua nota di chiusura, una nota
quasi sottovoce, mirabilmente rilkiana, nel tono, nello stile e soprattutto
nell’essenza. In essa vi è tutto il Rilke dei Sonetti e delle Elegie, due opere
intrinsecamente connesse che rappresentano un vertice lirico di tutti i tempi.
Già nel titolo che antepone alle sue parole, tratto da un verso dei Sonetti (II,
23), Held ci parla in questo senso: «Niente più che un pensiero», ben
consapevole di cimentarsi con l’ascesa ad una vetta e ai suoi molti “strati di
senso”, che ancora oggi sfuggono agli interpreti.
Nel 1922, Rilke non aveva in programma i Sonetti: quei versi sgorgarono dagli
appunti che l’amica Gertrud Ouckama Knopp prese sulla malattia e sulla morte
della figlia Wera (che Rilke aveva conosciuto bambina), e che poi spedì a Rilke.
L’immagine della giovanissima ragazza, promettente ballerina, strappata alla
vita all’età di 19 anni per leucemia (la stessa malattia che – per ironia della
sorte – lo condurrà alla morte), lo colpì così tanto da dedicare I sonetti a
Orfeo alla sua memoria.
La morte, cuore della vita
Suddiviso in due parti e concepito come “monumento funebre” per Wera Ouckama
Knopp (1900-1919), il ciclo dei Sonetti consente a Rilke di sostituire la
contrapposizione tra vita e morte con la «grande unità» di un «doppio regno» che
lega inscindibilmente vita e morte in un’unica, incessante, metamorfosi.
Da molti anni, ormai, il poeta andava delineando nella propria opera una
peculiare visione della morte: dalla stesura del Libro della povertà e della
morte (terza ed ultima parte de Il libro d’ore) ininterrotta divenne la sua
riflessione sull’evolversi ultimo dell’esistenza, nel quale la morte assume un
ruolo centrale. Rilke è sempre più convinto che le religioni si siano limitate a
fornirne diverse “figurazioni”, a mo’ di consolazione, invece di offrire validi
strumenti per comprenderla ed accoglierla in sé. Non si tratta allora di
abbracciare la morte come l’altra faccia della vita, come l’altra sua metà che
lasciamo in ombra? Così scriveva, nel marzo del 1920, in una lunghissima lettera
ad una giovane amica, Anita Forrer:
> La mia inclinazione mi ha spinto, sempre più profondamente, anno dopo anno, a
> fare della morte il cuore della vita, come se in essa fossimo veramente a
> casa, serbati e protetti, cullati nella più profonda e sublime fiducia.
Verso l’estremo
Se la morte è dunque il «cuore della vita», allora, chi meglio di Orfeo, che
entra nel regno dei morti per riportare in vita la sua Euridice, può incarnare
nella sua figura la compresenza di vita e morte?
Orfeo è il “Dio della cetra” che incanta il bosco e le fiere con la sua musica,
conosce l’essere e il non-essere, la dolorosa caducità della vita, eppure, la
canta e la celebra e, dal suo canto, sgorga una fanciulla: Wera. Ella portava
con sé l’infanzia, la danza e la musica, ma anche la morte già dentro la vita:
una figura orfica, una novella Euridice, che reca in sé l’accettazione e la
celebrazione della metamorfosi dell’esistenza ed il suo naturale confluire nella
morte.
Con Wera e con i Sonetti, che precedono la ripresa delle Elegie, la morte che
aveva aleggiato intorno a Rilke, trattenendolo sulla “soglia” dell’opera, entra
dunque dentro l’opera stessa e lo spinge “verso l’estremo” – là dove voleva
arrivare dopo aver conosciuto l’opera di Cézanne. E questo spingersi verso
l’estremo, la morte, anziché portare angoscia e terrore, porta addirittura la
possibilità di salvezza.
Orfeo parla e canta, si apre al mondo; non conosce differenze tra l’aldiquà e
l’aldilà, che celebra allo stesso modo. Anche dopo la morte continua a vivere
nella natura, negli alberi e negli uccelli, in cui si dissolve
“panteisticamente” come san Francesco nel Libro d’ore. Nei Sonetti, la poesia
diviene parola che tenta l’indicibile. È una parola buia, densa di segreto,
talvolta di inaudita complessità (nelle lettere Rilke parla del «dettato più
misterioso ed enigmatico» cui abbia mai assolto) che si fa però scrittura
perfetta, gioiosa, musicale.
Singolari relazioni tra i sensi
Il poeta è consapevole del suo ruolo di cantore sul confine tra il regno dei
vivi e quello dei morti, dove nuove insondabili relazioni (autentiche
sinestesie) si instaurano tra i cinque sensi.
È la sfera acustica a dominare l’intera raccolta. Il poeta immagina la voce
delle cose: il suo sguardo è diventato ascolto, secondo quell’intuizione che
aveva vissuto in Egitto avanti alla sfinge, quando il fruscio delle ali di una
civetta disegnò quell’immenso profilo nel suo udito. Fu questa l’intuizione
iniziale dell’“udito di morto” che attraversa trasversalmente le Elegie e
i Sonetti, ove si instaurano nuove, singolari, relazioni tra i sensi, tanto che
ci parrà di “vedere gli odori”, “udire i colori”, “toccare i suoni”, “danzare i
sapori”… I sensi mutano gli oggetti, spaziano da quelli che gli sono propri a
quelli che appartengono ad altra sfera della percezione.
Siamo in presenza di un’opera d’arte di assoluta originalità e perfetto
equilibrio compositivo, nella quale Orfeo vince le Menadi che volevano
dilaniarlo, perché la sua musica è ordine e bellezza. Anche dopo essere stato
ucciso, continua a vivere attraverso i boschi, gli alberi e gli animali. Così
termina la prima parte dei Sonetti.
La seconda è ancora più rarefatta. Rilke canta i suoi temi prediletti, cui
attinge con costanza nel corso degli anni, da una parte all’altra della sua
produzione, quasi in un percorso “circolare”: il respiro (vera cifra del tardo
Rilke), l’aria, i venti, i mari, lo spazio, gli specchi: “intervalli di tempo”
che riflettono infinite volte il volto della bellezza… Evoca gli animali, tra
cui il mitico unicorno, invisibile ma vero, simbolo della verginità nel
Medioevo. Celebra i fiori, tra cui l’immancabile rosa e l’anemone; la macchina,
presuntuosa padrona della modernità, a cui non vuole obbedire. Invoca il
mutamento, la sua fiamma; maledice l’oro e il denaro; si rivolge alle stelle,
alle fontane, ai giardini, alle campane e, verso dopo verso, si immedesima in
una parte del tutto, in uno spirito eterno che non tramonta e mai tramonterà,
che “resiste ormai per sempre”, che acconsente al cambiamento, al rinnovamento,
che si congeda dalle cose con la capacità di dire addio, accogliendo in sé il
pensiero della morte nella vita.
Alla legge della separazione dei due regni si contrappone quindi quella di
un’incessante metamorfosi: è lì che ruotano i Sonetti, in uno “spazio interiore
di mondo” che diventa il “doppio regno”, uno spazio che lega inscindibilmente
vita e morte. Essenziale diviene la trasformazione del visibile nell’invisibile:
la realtà esterna si ritrae (si comprime potremmo dire) a sorgente di materiali,
quasi un deposito di immagini, cui il cuore attinge per adempiere la sua opera
di metamorfosi-fusione-annullamento di confini tra esterno ed interno, tra
oggetto osservato e soggetto che osserva in un unico, indivisibile, spazio terzo
dove le cose – dentro di noi – raggiungono la loro pienezza.
L’esterno offre le immagini ma ciò che qui conta è il cuore: l’io del
poeta-Orfeo, centro di realtà solo interiori – invisibili – dove tutto è in
perenne trasformazione: l’albero matura il frutto nel silenzio; il frutto si
scioglie nella bocca e diviene puro piacere; i morti nutrono le radici dei
fiori; la danza diviene simbolo dell’anima, incarnazione della fiamma, come la
poesia…
Solo chi, come Orfeo, abbia levato la sua cetra nel regno delle ombre, potrà
presagire col cuore un infinito canto – che non è più desiderio soggettivo verso
uno scopo da raggiungere – ma il respiro che sfiora l’essere e il non-essere, il
vivere ed il morire: quella “grande unità” che si chiama esistenza.
Marilena Garis
*L’articolo, che si pubblica per gentile concessione, è uscito come “Nella
«grande unità» di Rainer Maria Rilke”, sulla rivista “Studi Cattolici” delle
Edizioni Ares
In copertina: cartone di scena dall’Orphée di Jean Cocteau
L'articolo “Andando sulle orme di un poeta”. Discorso sui “Sonetti a Orfeo” di
Rilke proviene da Pangea.
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Un passo lieve, la strada sfiora una suola in una mattina come le altre; un uomo
lascia il suo scrittoio per abbandonarsi al ritmo dei marciapiedi, alle
preghiere dei vicoli che urlano monotonia. Dove comincia il senso delle cose?
Nella vastità dei palazzi o nella piega di un fazzoletto?
A volte è difficile gestire una trama quando, nel senso tradizionale, è di fatto
inesistente: racconto senza intreccio, svolgimento o epilogo; solo un io
narrante che decide, in un giorno qualunque, di uscire a passeggiare. Come se
fosse un diario, una confessione, una divagazione, Robert Walser crea un cammino
che non porta da nessuna parte. La meta non conta, è il vagare stesso, il farsi
condurre dall’invisibile.
> “Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del
> genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti
> di passata librai e funzionari di banca […] Eppure ciò può avvenire, e io
> credo che in realtà sia avvvenuto.”
Il protagonista – che altri non è se non un alter ego dell’autore – si fa
minuscolo per poter ingigantire il mondo. L’estetica del dettaglio diviene
cosmologia: la cravatta osservata distrattamente, la tenda che ondeggia, la voce
ironica di un banchiere; l’atomo è cosmo, il dettaglio cattedrale.
La prima versione de La passeggiata, oggi edita nella versione italiana da
Adelphi, nasce nel 1917, tra le macerie di un’Europa ferita, destinata a
confondersi tra i rumori della storia e a brillare solo per chi sa fermarsi e
ascoltare la musica di sottofondo. Mentre i cannoni dettano il ritmo del
continente, Walser scrive il suo vangelo minore, trasformando l’ordinario in
epifania.
La vita di Walser è dello stesso tessuto fragile del suo libro. Nato nel 1878 a
Bienne, ultimo di una lunga schiera di fratelli, cresce in una Svizzera
periferica, discreta come lui. Lavora come impiegato, servitore, copista;
mestieri umili che lo avvicinano più ai margini che al centro. Pubblica racconti
e romanzi, alfabeti ridotti a pulviscolo, che incantano giganti come Kafka,
Musil, Canetti, Benjamin. Ma non cerca la ribalta. Walser preferisce dissolversi
nella sua lingua minuta, che un giorno diverrà davvero microscopica, nei
famosi microgrammi, fogli fittissimi di scrittura minuscola come polline. La sua
estetica definitiva è scomparire. Non lasciare monumenti, ma tracce. Non statue,
ma impronte di passi sulla neve.
> “Ero disperato. Sì, in realtà io non avevo più nulla da dire. […] Spento,
> estinto come una vecchia stufa. […] Andò a finire che mia sorella Lisa mi
> portò nella clinica Waldau. Ancora davanti alla porta d’ingresso le chiesi se
> quello che facevamo era giusto. Il silenzio di lei mi bastò. Che altro mi
> rimaneva se non entrare?”
Dal 1933, la sua esistenza si ritira nei sanatori con una prima diagnosi di
schizofrenia, poi mai riconfermata. Da quel momento inziano ventiquattro anni di
silenzio, trascorsi in istituti psichiatrici tra Berna e Appenzell, dove scrive
sempre meno fino a smettere. Walser muore il giorno di Natale del 1956, in un
campo di neve, riverso nel bianco durante una delle ultime passeggiate. Le
fotografie ne immortalano le orme e, più avanti, il corpo, avvolto in un
mantello nero, solo, pervaso dalla voglia di scomparire nel nulla.
> “L’inizio e la fine si stringono la mano sorridendo. Apparire e scomparire
> sono una cosa sola”.
Sappiamo bene che ogni autore ha la sua unità di misura; Walser con questo
racconto compone un’anti-epopea del quotidiano. Laddove i grandi romanzi
dell’Ottocento si dilatano in trame ciclopiche, lui restringe la lente fino a
cogliere il tremolio di una foglia o il sorriso sbiadito di un libraio. Non
dominare il mondo così da farsi sorprendere da esso.
> “Molte volte l’apparenza inganna, e l’esprimere un giudizio su qualcuno è
> meglio lasciarlo a lui stesso, giacchè un uomo che ne abbia vissute di tutte
> si conosce più a fondo di chiunque altro.”
È nel granello che si apre la più grande figura retorica che
governa La passeggiata: l’iperbole dell’infinitamente piccolo, dove un ciuffo
d’erba può valere più di un impero. Walser ricama la città, la miniaturizza,
come se ogni parola fosse un punto di ago su di un tessuto di brina. Lì dove
altri autori vedono un fondale, lui scorge un oceano.
C’è inoltre una retorica della leggerezza, in Walser, che tuttavia non scivola
mai nella frivolezza, anzi. La sua è una leggerezza gravosa, come un palloncino
che porta in sé il peso della malinconia. Le sue immagini e i suoi personaggi,
cesellati e ironici, sanno trasformare la passeggiata in un pellegrinaggio
laico, un atto di fede nell’insignificante.
> “Quando mai c’è stata un’anima che senza nulla sacrificare, abbia visto
> compirsi ogni sua ardita ispirazione, ogni dolce, sublime idea di felicità?”
Il narratore, pur occupando la scena, non è mai davvero protagonista. Walser
adotta una postura di auto-svanimento; egli parla, osserva, descrive, ma sempre
con una modestia che lo dissolve. È un io che si offre e si ritira, che si
mostra per rendere visibile ciò che altrimenti resterebbe occulto. Le sue frasi
sono sentieri che non portano a lui, ma al paesaggio. Sono scale che salgono non
verso l’autore, ma verso la brezza che le attraversa.
Le frasi, lunghe, sinuose, sono esse stesse passeggiate; divagano, si perdono,
deviano, ritornano. Non sono mai rette, bensì curve, avvolgenti, labirintiche. È
la periodicità serpentina di una scrittura che preferisce l’ombra alla luce
diretta, l’allusione alla dichiarazione, il sorriso ironico al tono assertivo.
> “Sono pronto a riconoscere che la nautra e la vita umana mi appaiono come
> tutta una fuga non meno seria che affascinante di accostamenti, fenomeno che
> ritengo sia da giudicare bello e fecondo.”
Non a caso, Walter Benjamin trova in Walser l’esempio della teologia del
minuscolo. L’opera di Walser sembra manifestare una politica della riduzione che
Benjamin teorizza a suo modo nelle Passagen-Werk. Entrambi sono attenti al
frammento come luogo rivelatore della storia. Per Benjamin la vetrina, la
réclame, il frammento urbano custodiscono la storia materiale; per Walser ogni
frammento custodisce una cosmologia privata.
Benjamin e Walser convergono nell’idea che l’attenzione al marginale apre una
conoscenza antigerarchica; il particolare diventa lente per leggere il generale.
Tuttavia qui la prassi diverge – Benjamin indaga il politico e lo storico in
quelle fessure; Walser li trasforma in esperienza estetica e morale, in modo
meno teorico e più lirico. Il loro incontro è fecondo perché mostra come il
frammento funzioni come vettore critico e come sublime ridotto.
L’opera di Walser, però, incontra anche altre ombre discrete. Come nei Saggi
di Montaigne, anche qui la divagazione è forma di verità, metodo. Montaigne
scivola da un aneddoto a un ricordo, costruendo un io curioso, sfaccettato;
Walser, nei suoi passi, porta la stessa pratica al limite della sparizione. Dove
il francese si moltiplica, lo svizzero si riduce.
Inoltre, dietro la leggerezza, affiora il passo come terapia, il camminare come
rimedio contro l’angoscia. Søren Kierkegaard percorreva le vie di Copenaghen per
non soccombere alla disperazione; in Walser si ritrova la stessa intuizione: il
movimento fisico come salvezza esistenziale. Solo che qui la cura non nasce da
una scelta tragica, ma dalla sospensione stessa della scelta, dal balsamo del
piccolo. Non a caso, a Herisau, luogo della morte di Walser, è stato inaugurato
un sentiero dedicato a lui (Robert Walser-Pfad).
> “Non perdete il desiderio di camminare; ho camminato fino ai miei migliori
> pensieri, e non conosco pensiero così gravoso da cui non si possa camminare
> lontano. […] Più si sta seduti, più ci si avvicina a sentirsi male. Salute e
> salvezza si possono trovare solo nel movimento… se uno continua a camminare,
> andrà tutto bene.”
>
> Søren Kierkegaard
In un’epoca che idolatra velocità, risultato e rumore, Walser è il santo patrono
del rallentare. Il suo libro è un vero e proprio manuale di invisibilità; ci
mostra come svanire per poter finalmente vedere. Ci insegna a essere distratti
con cura, a perdere tempo come forma suprema di attenzione. È un inno alla
lentezza, al vagare, al lasciarsi trasportare. Un invito a guardare i dettagli
dimenticati, a riconoscere la grandezza nel piccolo, a vivere come perdersi.
Walser compone dunque un’elegia al dettaglio, una litania dell’insignificante.
Il suo libro è fragile come il vetro, e dunque incorruttibile come la verità.
Solo chi si fa piccolo può toccare l’infinito, ma allora chi tocca veramente la
realtà, chi guarda o ciò che viene guardato?
Tommaso Filippucci
L'articolo Per un’estetica della scomparsa. Su Robert Walser, il santo patrono
dell’insignificante proviene da Pangea.
In principio, forse, era il verbo. Ma non appena il verbo si fece maturo e
seminò le radici del discorso, ogni libro divenne una stagione da coltivare e
ogni frase una serra da proteggere. La cifra di questi tre libri, incastonati in
un blu marittimo, è l’eremitaggio: il panorama come il discorso che getta le
basi di una colonizzazione futura, e le frasi che recano l’unica traccia
affidabile del dettato.
La pantera delle nevi. Pare che Tesson sia salito agli onori della cronaca
francese per una forma culminante di mimetismo: se fosse possibile sintetizzare
l’esperienza di un uomo in poche stringhe, si dovrebbe dire: la soluzione finale
della ragione è la mimetizzazione, l’adattamento a quanto soggioga per eccesso
di eloquenza: leggi, la Siberia (tappa di un altro suo memorabile libro, Nelle
foreste siberiane), il Tibet, la Mongolia. In breve, il sogno di un uomo di
essere invisibile, e di come prese la strada dell’Asia per scomparire; lui, un
parigino incallito dalle critiche e sterilizzato dall’isteria della polemica che
si mette sulle tracce di un fotografo che insegue animali leggendari, un uomo il
cui sogno è “essere completamente invisibile”. Riflette Tesson:
> “la maggior parte dei miei simili – a cominciare da me – voleva il contrario:
> farsi vedere. Non avevamo nessuna speranza di avvicinarci a un animale”.
Fin dall’inizio, la piccola troupe si mette sulle tracce della pantera. Ma la
natura ama nascondersi, e la ricerca si trasforma in un percorso iniziatico. Il
luogo è inospitale – “venti gradi sotto zero. In luoghi come quelli noi uomini
non potevamo fare altro che passare” – ma la tempra è ben oliata. Fra le altre
cose, questo è un libro che ramificandosi, durante il percorso, si trasforma in
un erbario essenziale da cui estrarre un principio terreno di saggezza.
Sfogliando a caso: “L’uomo? Dio ha giocato a dadi e ha perso”, oppure,
metafisizzando il paesaggio: “i versanti sono striati di venature nere, gocce
cadute dal calamaio di un Dio che abbia posato la penna dopo aver scritto il
mondo”. Un linguaggio che imita la natura affilandosi. Nell’appello futuro dei
canoni Tesson risponderà: presente.
Terra sonnambula. Di Mia Couto, bisogna ripetersi nome e cognome sotto-labbra:
sembra una antica cantilena sulla soglia di un nuovo linguaggio. Riscoperto
dalla critica pochi anni fa, scrive in portoghese, ma di fatto appartiene a
un’altra lingua. Basta sfogliarne una manciata di pagine per accorgersi che
certi scrittori trovano asilo soltanto nel recinto delle lettere. In breve,
l’autore, mozambicano (“un paese disegnato con la geografia della nostalgia”),
per sedici anni è testimone di una violenta guerra civile. I numeri sono muti,
ma lasciamoli balbettare: alla fine del conflitto, nel 1992, un milione di
mozambicani, semplicemente, mancano all’appello. Deve essere da questa lacuna
che Couto ha sprigionato il suo oceano linguistico. L’incipit fa parte di quei
fulmini obliqui che ti precipitano alla cassa, con il libro in mano:
> “In quel posto, la guerra aveva ucciso la strada. Sui sentieri, solo le iene
> si trascinavano, grufolando tra cenere e polvere. Il paesaggio era un misto di
> tristezze mai viste, con colori che si appiccicavano alla bocca. Il cielo era
> diventato impossibile. I vivi si erano abituati alla terra, in un rassegnato
> apprendistato di morte”.
Dal sodalizio fra un giovane e un vecchio, Muidinga e Tuahir, fiorisce la storia
di questo libro: in mezzo, il ritrovamento di un manoscritto in un bus che tira
le fila della storia, aggiungendo scorie di incantamento all’assolo della
violenza. I due costruiscono un’oasi nel deserto della guerra. La fonte di
questa freschezza sono le storie che Muidinga legge dal manoscritto ritrovato:
anche il vecchio Tuahir, analfabeta, non tarda ad accorgersi che in quegli
strappi dalla realtà si nasconde la vera formula del mondo.
Da allora, tutto comincia ad essere in movimento, anche la strada che
percorrono. Il libro, stratificato come il dedalo di storie che ne costituisce
il centro, nasconde più piani di lettura: sradicamento, colonizzazione e
convivenza sono solo la punta dell’iceberg. L’andamento della trama, se può
essere talvolta oggetto a oscillazioni che sono il grafico del terremotare del
linguaggio, non lascia scampo ai tracciati di frase che qua e là ipnotizzano il
lettore, sorvegliandolo. Ne cito soltanto uno, ma tutto il libro è un terreno di
coltura: “i sogni sono lettere che mandiamo alle nostre altre vite, quelle che
ci restano”. Buon viaggio.
La stagione della migrazione a Nord. Se è vero che iniziò come canto, è
altrettanto certo che la letteratura finirà con una confessione. Alle origini
dell’intreccio fra due continenti c’è Tayeb Salih, nato in Sudan nel 1929 e
morto a Londra nel 2009, che si iscrive alla letteratura rovesciandola. Un altro
sabotatore di bussole, Milos Crnjanski, pubblicando proprio nel ’29 Migrazioni,
scolpiva l’ultima pietra della propria opera scrivendo che le migrazioni
esistono, mentre è la morte a non esistere. Con Conrad, ad ogni modo, l’uomo
europeo supera le colonne di Ercole del Sud arrivando al centro del mondo, nel
Congo. Più o meno nello stesso periodo – Conrad trapassa nel ’24 – un uomo
africano realizza il viaggio esattamente opposto. Se non è difficile immaginare
la trepidazione dell’europeo per il ritorno in patria da una semplice battuta
commerciale, lo stesso non si può dire a ruoli inversi, dato che solitamente
l’Europa è, per un giovane studente africano, terra dove mettere radici per le
future generazioni. Ma anche in questo caso il libro rappresenta un’eccezione:
dopo sette anni di brillante apprendistato londinese, il protagonista rientra
alla base, gettando nello scompiglio la piccola comunità d’origine. Dopo il
soggiorno all’estero, il narratore si rende conto di non essere “una pietra da
gettare nell’acqua, ma un seme da seminare nel campo”.
Percorre i luoghi della propria terra, avvicina l’orecchio alla terra, l’occhio
al cielo. Nasce così una strana creatura che fa della propria bivalenza etnica
un sottile strumento di manipolazione: rovescia le coordinate geografiche per
servirsi della geografia come ci si serve di una carta sfoderata all’ultima
mossa, trincerando nei tratti meridionali quella frazione di sud “che anela al
nord e al gelo”.
Al netto di tanti spaesamenti, la letteratura è l’unico luogo in cui nord e sud
possono convivere nella stessa pagina.
Andrea Muratore
*In copertina: Yves Klein, La grande Anthropométrie bleue, 1960 ca.
L'articolo Eremitaggio nel blu. Ovvero: tre libri per colonizzare il vostro
cuore proviene da Pangea.
Una biblioteca mi ha fatto da culla, mi è stata matrigna.
La madre di mio padre si era trasferita a Milano da Palermo a dodici anni; aveva
la quinta elementare; la scaltrezza della creatura viva, terrena. Mio nonno era
nato in Francia da immigrati siciliani: una volta, ricordo, mi parlò di Leonardo
Sciascia, amava ascoltare Charles Aznavour. Durante la Seconda guerra operò in
marina: arrestato in Grecia, fu detenuto ad Amburgo. Si vantava della sua
“Enciclopedia Motta” che, in un’altra era, prometteva “il sapere universale”.
Era fissato con la geografia.
Le strane accelerazioni della Storia – il Sessantotto, un viaggio in Pakistan,
l’idea di ‘essere se stessi’ (mentre a volte è bene apparire per ciò che non si
è) – portarono mio padre a diventare il bibliotecario di un piccolo paese in
provincia di Torino. I miei nonni – i suoi genitori – sono sepolti a Riccione:
il cimitero, in fondo, è una sorta di immensa biblioteca umana, un ossario di
memorie – è forse la vera “biblioteca infinita” ideata da Borges. Il figlio, mio
padre, che ha il nome del biblico “sognatore”, è sepolto in un microscopico
borgo della Val Grande, a cinquecento chilometri di distanza dai genitori. Spero
sia felice: nei turni di notte, lassù, lo strigide si combina al capriolo, la
chimera al lupo.
La biblioteca, comunque, fu il baratro: il luogo dell’amore e della perdizione,
l’alcova e la tagliola.
*
Qualche anno dopo la morte di mio padre, ‘liberai’ dalla biblioteca che aveva
diretto Il gioco del mondo di Julio Cortázar. Non che non lo possedessi: è che
quell’edizione – copertina rigida, Einaudi, incellofanata – mi pareva ‘biblica’,
perfetta al sogno. Per un po’, riposi in quel libro il mio destino. Mi piaceva
l’idea che si potesse leggere al contrario e di sbieco, che parlasse di molto e
di niente. Molti anni più tardi – per una di quelle strane accelerazioni della
vita – finii a Buenos Aires, incontrai chi aveva incontrato Julio Cortázar.
*
È assurda l’idea di possedere dei libri: sono loro che si impossessano di te. Ne
sei posseduto, tanto che liberandoli te ne devi liberare. Le parole aprono
squarci, finestre o stimmate che siano – ma possono anche recludere.
*
In una lettera particolarmente bella – in: V. Šalamov-B. Pasternak, Parole
salvate dalle fiamme, Archinto, 1993 – Varlam Šalamov rimproverava Boris
Pasternak, che con svezzato sussiego parlava con sufficienza delle sue poesie.
Nei campi, in Siberia, c’è gente che è sopravvissuta con le sue poesie; c’è
gente che si è ricordata cos’è un uomo (cioè: la creatura disposta a dare la
vita per un altro, sconosciuto) leggendo le sue poesie.
I libri non salvano la vita – ci danno la vita; non insegnano a vivere, creano
la vita. I libri sono un uovo cosmico (leggi sotto). Per questo ogni regime –
tirannico o democratico che sia – sottrae i libri ai propri elettori sudditi o
favorisce un ‘sistema’ culturale basato sul mero mercato: così si forgia un
popolo servile, un popolo reclino sul proprio misero io, un popolo immiserito
nel cuore, un popolo di paglia, logorato, già cenere.
*
A Lima soggiornavo all’Hotel Ariosto: nelle librerie i libri costavano più che
in Italia, ma lo stipendio medio di un peruviano non superava i trecento euro
italiani. Cercavo le poesie di César Vallejo; qualcuno, al mercato – così
sgargiante che lo chiamai Armida – intonò i frammenti di un’epopea andina.
Finché non recidono il suo canto, finché non lo sradicano dal linguaggio, l’uomo
è vivo, la sua stirpe prolifera.
*
Un tempo, quando i libri si compravano nelle librerie, s’intraprendevano folli
avventure per cercare il libro definito, quello della svolta. Vagabondai per
giorni, a Milano, prima di trovare la “Trilogia di Valis” di Philip K.
Dick. Edizione Oscar Mondadori, in cofanetto. Perché mi fossi ostinato a quel
libro – torbido, involuto, teologico – non lo so. A volte di un libro ci cattura
l’aura – basta quella.
Entrando in libreria – come si entra in una città perduta – era possibile fare
incontri inattesi. La vita digitalizzata – il demoniaco dominio del cellulare,
insomma – ha recluso le nostre esistenze in un tunnel. Viviamo nei bunker
dell’io. In spazi senza accesso, senza concessione. Prima, tutto era un bosco –
si era disposti alla scoperta, pronti allo straordinario, i prediletti
dell’insperato.
*
Intendo dire: la ricerca del libro assoluto. Il libro-tutto. Il libro che somma
cielo e terra, che abbraccia i vivi e i morti. Il libro che vivifica. Che fa
risorgere.
Ad esempio: purché sia escluso da quella rivelazione, possiedo – e sono stato
posseduto – da una serie di edizioni dell’I-Ching, l’arcano libro divinatorio
cinese. Preferisco l’edizione curata da Eranos; l’ho avuto nelle versioni
inglese, francese, spagnola.
Da ragazzo, conferivo le stesse facoltà – chiamatela taumaturgia del linguaggio
– ai libri di Thomas S. Eliot.Rapivo ogni possibile traduzione della Terra
desolata; mi confinai nei Quattro quartetti. Dal canonico viaggio in Inghilterra
– fatto in treno, dormendo dove capitava – tornai povero di tutto ma con
l’edizione Faber dei Selected Poems di Eliot. Più tardi, da adulto, provai una
simile coincidenza con l’opera di Saint-John Perse.
*
A volte un libro è il solo conforto: ma con i libri non si tratta, si lotta;
infine, finisci per odiarli. C’è differenza tra claustrale e claustrofobico.
*
Questo articolo voleva affrontare un argomento che può apparire assurdo ai più.
È questo: comprare più volte lo stesso libro. Preciso: non lo stesso libro in
altra traduzione o diversa edizione (pratica buona & giusta, a volte
necessaria), ma lo stesso libro nella stessa traduzione pubblicata dallo stesso
editore nello stesso anno. Una copia. Una copia di una copia di una copia. Che
assurdità. È come se ri-comprando lo stesso libro – o ri-rubandolo – potessi
azzerare l’esperienza di lettura precedente (dunque: potessi azzerarti). Come se
potessi ‘riverginare’ il libro. Oppure, come se quella innaturale fedeltà
potesse concederti un accesso privilegiato alle zone segrete, alle zone oscure
di quel libro.
Già, perché il principio di ogni libro è che abbia un unico lettore, un lettore
eletto: tu. Gli altri sono dei vili mestatori di opinioni, degli eresiarchi. Tu
sei il solo custode della verità appena sussurrata da quel libro che, pur tirato
in migliaia di copie, esiste perché proprio tu lo legga. È stato scritto per te,
incidentalmente gettato in pasto al vile mercato degli altri.
I libri esistono in un’unica copia, per un solo lettore. Tu.
*
(Diamoci il privilegio, in questo tempo brutale, in questo tempo funesto, di
parlare di cose frivole, di cose che ci tengono stretti all’umano. Anche questo
– come si accarezza un albero e si guardano le stelle – è un atto di grazia e di
esistenza).
*
Il primo libro che ho comprato almeno tre volte è l’Ulisse di Joyce. La sua
lettura mi folgorò, al liceo – avevo un’insegnante di inglese particolarmente
severa, che mi ha inoltrato nell’opera di Yeats e di Ezra Pound. Ho comprato tre
copie dell’Ulisse, a distanza di tre anni, perché non lo capivo. Più non lo
capivo, più mi incaponivo, mi incapronivo, mi incapricciavo. Quel libro
racchiudeva un mondo, quel mondo non mi piaceva, ma lo volevo capire. Lo
volevo.
*
Un giorno, spiazzandomi, l’insegnante di inglese mi disse di preferire la
letteratura mitteleuropea: il suo libro del cuore era La morte di Virgilio di
Hermann Broch. A casa, mio padre ne aveva una copia. Il volto di Broch, in
copertina, pareva quello di un alienato: a metà tra il Minotauro e il grifone.
Il libro mi parve infinitamente più vasto e vertiginoso dell’Ulisse: ne ho
ancora tre o quattro copie, da qualche parte.
*
I libri che, negli anni, senza che ve ne sia bisogno, senza ritegno, si comprano
più copie rientrano in un rango augusteo e angusto. Solo pochi vi appartengono.
E – questo l’ho capito negli anni – ad appartenervi non sono per forza i libri
più belli, quelli a cui siamo più affezionati. Di quelli, basta la copia
originaria, basta riaprire quella per rientrare nelle proprie origini. Faccio un
esempio che mi riguarda. Ho diverse copie del Libro della giungla di Rudyard
Kipling perché, senza che lo abbia scelto, è penetrato nella mia infanzia.
Ancora oggi, voglio essere Mowgli e Bagheera. “Non c’è chi non ne abbia sentito
il fascino”, è scritto, scagionando la mia ossessione, nella Nota introduttiva
dell’edizione Bur del 1951: l’ho trovata in un mercatino, qualche anno fa. La
traduttrice, Giuliana Pozzo Galeazzi, ha tradotto anche Jane Eyre e Bertrand
Russell. Il Libro della giungla non è il mio libro preferito – è il mio libro e
basta.
Lo stesso rapporto infantile, selvatico, mi lega a Moby Dick – ne avevo decine
di edizioni diverse, la prima apparteneva a mio padre: edizione
Frassinelli, total white, traduzione di Cesare Pavese.
*
Ai libri di cui ho comprato – o rubato – diverse copie mi lega un rapporto di
amore e odio. Ne amo la nomea, il portamento, l’apertura alare, per così dire –
eppure, continuo a sfidarli perché non sono riuscito a penetrarli. Ogni volta,
rinnovo la sfida. Tra questi libri così singolari, che mi visitano ogni eone di
mesi, ricordo La montagna incantata di Thomas Mann, La storia di Genji il
Principe Splendente di Murasaki Shikibu, Rigodon di Céline, Sotto il vulcano di
Malcolm Lowry. Sono libri che mi tormentano, di cui conosco alcune pagine a
memoria, che ogni volta rileggo e abbandono. Benché possa citarne altri a me più
cari – chessò, Cuore di tenebra di Conrad, L’urlo e il furore di
Faulkner, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, Come l’acqua che scorre di
Marguerite Yourcenar, Chadži-Murat di Tolstoj – sono quelli i libri che mi
accompagneranno, mordendomi il cranio, fino alla fine.
*
Di alcuni libri, è vero, ho acquistato più e più copie, per regalarli – non
rientrano nel lotto della lotta. Tra questi, sono affezionato, con rigore
totale, a Il colpo di grazia della Yourcenar e alla Casa delle belle
addormentate di Yasunari Kawabata. Allo stesso modo, i libri che ci sono stati
donati vivono in uno spazio tutto loro. Regalare un libro presuppone una
intimità che intimidisce. Chi ci regala un libro pensa che siamo in qualche modo
incardinati in quel libro, promessi a quel verbo: lo leggiamo, allora, per
scoprire chi siamo agli occhi di chi ce lo ha donato. Le scoperte – e i
fraintesi – sono spesso sorprendenti, a tratti agghiaccianti. Un libro che ci è
stato donato e che non ci riguarda – che mancanza di riguardo – può essere
donato a sua volta.
Valgono come autentici doni, però, soltanto i libri che abbiamo vissuto
intensamente, quando non sottolineato e appuntato e strappato. Ricordo
un’edizione delle lettere di Kafka a Milena – Mondadori, traduce Ferruccio
Masini – che mi è stata regalata molti anni fa: modesta, sbrindellata, piena di
note. Il regalo più bello – un patto.
*
Cito soltanto romanzi. I poeti non rientrano in queste viete classifiche: hanno
la pretesa di incendiare l’intera biblioteca e di resistere, frantumi di un
futuro ancora da costruire. La poesia vuole dedizione, solitudine, amore; le
poesie vanno imparate a memoria, il loro supporto non è un libro, ma l’intero
corpo di chi legge.
Quando mi hanno regalato Hugo von Hofmannsthal, ad esempio, ho fatto i salti di
gioia, fino a dire: è lui il più grande, è più grande di Rilke! Un’eresia, è
vero, ma come si fa a non amare assolutamente un poeta?
*
Ogni volta che vado in libreria – ci vado di rado, ridotto per lo più a un ebete
analfabetismo leggo soltanto i Vangeli, perimetrando la mia enorme inermità –
non posso non comprare un’edizione del Dottor Živago: credo che sia uno dei
libri decisivi del secolo, ma le poesie di Boris Pasternak siano infinitamente
più belle. In questo, seguo il giudizio di Varlam Šalamov. Eppure, ogni volta
torno a comprare Il dottor Živago – è una malattia la mia, lo
so, voglio che Il dottor Živago sia il libro totale, il libro che risponde a
ogni mio enigma, il libro che mi corrisponde. Ogni volta rileggo Il
dottor Živago, ogni volta lo mollo – c’è qualcosa di liquido, qualcosa di
paludoso che mi respinge.
In una delle ultime edizioni acquistate – Nuova Universale Einaudi, 44, 1968 –
la prefazione di Eugenio Montale non è d’aiuto. Il grande poeta, da poco
senatore a vita, scriveva prefazioni di solito gelide, attrezzate in
sprezzatura, a tratti ingenerose, alle Liriche cinesi come alla Coscienza di
Zeno; scrisse che “Il dottor Živagoè uno di quei libri che possono dar tempo al
tempo”, che è come dire tutto e nulla.
*
In ogni caso, ogni biblioteca privata esiste per essere spezzata. La biblioteca
non è una voliera, è come un rapace: deve prendere il volo. Non si possono
imprigionare i libri: hanno un destino vivente, di albero, di roccia. Eredità di
eresie. Giampiero Neri, antico sapiente della poesia italiana, citava nei suoi
libri innumeri altri libri, tra i tantissimi: Omero, Laozi, Melville, Tacito,
i Ricordi di un entomologo di Jean-Henri Fabre. Recitava a memoria Dino Campana
e Virgilio, amava la Vita di Milarepa. Eppure, la biblioteca di casa sua era
scarna, uno scaffale appena. Neri regalava i libri a chiunque andava a trovarlo:
io scelsi le Conversazioni con Kafka di Gustav Janouch in una vecchia edizione
Guanda.
Anche Nicola Crocetti, ogni volta che vado a trovarlo, si congeda dai suoi
libri, regalandomeli: l’ultimo, Kotik Letaev, è presentato come “il capolavoro
di Andrej Belyj, il Joyce russo”. Lo ha curato Serena Vitale per “La biblioteca
blu”, la formidabile collana di Franco Maria Ricci, era il 1973; il libro è
stato stampato “a Torino presso il signor Giovanni Zeppegno”.
*
Vagabondando di qui e di là, ho smarrito gran parte dei miei libri: che bello,
li rincorrerò per sempre. Eredità è una parola-cecchino. Kotik Letaev mi fissa,
mi squadra, è un libro sproporzionato: più che leggerlo, me lo immagino. Prima
di leggerli, i libri vanno immaginati – se non sono all’altezza della vostra
immaginazione, gettateli via.
La copertina di Kotik Letaev, bellissima, raffigura una serpe avvolta intorno a
un uovo. Secondo il mito pelasgico, Ofione, il serpente, si arrotola sette volte
intorno all’uovo cosmico deposto da Eurinome, “e ne uscirono tutte le cose
esistenti: il sole, la luna, i pianeti, le stelle, la terra con i suoi monti,
con i suoi fiumi, con i suoi alberi e con le erbe e le creature viventi” (così
Robert Graves nei Miti greci, libro più volte trafugato, più volte ricevuto in
dono).
Non servono più i libri, ma conformarsi alle stelle, stare nel verbo vivente.
L'articolo Sulla mania di comprare sempre gli stessi libri. Ovvero: conformarsi
alle stelle proviene da Pangea.
Quando ero ragazzo leggere Cesare Pavese veniva considerato quasi un rito di
passaggio per gli adolescenti di allora. Tutti lo leggevamo. Forse non lo
capivamo fino in fondo, ma comunque restavamo affascinati da questo scrittore
dalla perenne espressione di bambino triste destinato a non diventare mai
vecchio e dalle moltitudini che abitavano la sua anima. Confesso di frequentare
poco i giovani di oggi, ma l’impressione è che ci siano in giro troppe
chiacchiere inutili, troppe distrazioni, troppo rumore di fondo che impediscono
a un ragazzo di chiudersi nella propria stanzetta a leggere Pavese o
Hemingway; mi chiedo se c’è ancora qualche adolescente che durante gli anni del
liceo prende una cotta letteraria per uno scrittore come capitò a me con Vasco
Pratolini; irrazionale e assoluta come si conviene a ogni cotta degna di questo
nome, presa senza sapere bene perché.
Anche nel dibattito pubblico Pavese era una figura di riferimento nonostante
fosse morto ormai da parecchi anni. Poi lentamente, quasi senza che nessuno se
ne accorgesse, su di lui è calato il silenzio. Improvvisamente nessuno ne ha più
parlato, tutti hanno smesso di citarlo. Oggi è a tutti gli effetti
un desaparecido della letteratura e non solo. Va detto che non è l’unico e anzi
è in buona compagnia. Dove sono finiti Giovanni Arpino, Giuseppe Berto, Lucio
Mastronardi e tanti altri scrittori un tempo al centro del mondo letterario?
Basti pensare ad Alberto Moravia che per lungo tempo è stato la figura dominante
della vita culturale italiana; una presenza continua e per certi versi quasi
ossessiva con interviste e dichiarazioni su tutto, firme a ripetizione su
manifesti e appelli per le cause più svariate, reportage di viaggi, recensioni
cinematografiche, programmi televisivi, protagonista addirittura della vita
mondana e dei pettegolezzi per le varie compagne e mogli che si sono avvicendate
al suo fianco. Poi, dopo la morte, lentamente anche su di lui è calato il
silenzio.
Insomma, c’è una domanda che mi faccio spesso da un po’ di anni: dove è andato a
finire Cesare Pavese? Adesso per fortuna posso finalmente darmi una risposta.
Per venire a capo del mistero non ho dovuto fare nessuna ricerca o inchiesta né
tanto meno ricorrere all’intelligenza artificiale. È bastato leggere Chi ha
rapito Cesare Pavese?, un romanzo scritto da Francesco Bova e pubblicato
dall’editore calabrese Meligrana.
La trama è presto detta. Al centro del libro Lui, così viene chiamato il
protagonista, uno scrittore, e la sua Voce interiore, una fascinosa musa
ispiratrice dalle lunghe gambe. I due vanno a vivere in una stazioncina
ferroviaria abbandonata nelle campagne lombarde. Lo scopo di questa scelta di
vita isolata e fuori dal mondo è duplice. Lui è impegnato a scrivere un romanzo
con l’aiuto della sua Voce e poi vuole incontrare a ogni costo Cesare Pavese.
> «Regalerei la mia anima al diavolo o a quel dio che non conosco per poter
> scambiare qualche parola con lui.»
Il fatto però è che qui siamo negli anni Ottanta e, come è noto, lo scrittore
piemontese è morto nel 1950. Non è un problema. Lui e la Voce non hanno né un
orologio né un calendario, ma impariamo presto a capire che per loro il tempo è
relativo:
> «Il tempo, nella sua forma circolare, avvicinava di un nulla gli anni ’80 agli
> anni ’50 e gli avvenimenti si potevano toccare con un dito e forse pure
> travolgere.
>
> Il naso, il cuore, la forma di una nuvola, un sogno, uno stato d’animo, il
> soffio del vento e altre piccole cose erano la nostra misura del tempo.»
Così i due intraprendono una serie di viaggi attraverso il tempo e lo spazio per
raggiungere Santo Stefano Belbo. In questo modo Lui e Pavese riescono
“magicamente” a vedersi varie volte e durante i loro incontri si spostano tra le
colline delle Langhe e quelle della Liguria parlando un po’ di tutto: di libri,
di cinema, di politica, di donne. Non solo. Persino i personaggi dei loro libri
si incontrano e parlano tra di loro. Tra i due nasce un rapporto simbiotico, di
grande intensità che permette a Lui di portare a termine il proprio romanzo.
Intanto però i giorni corrono e quando siamo verso la fine di agosto si avvicina
anche la data fatale. Da tanti piccoli indizi, a volte appena percettibili, è
facile intuire che Pavese si sta muovendo sull’orlo della notte. Così nasce il
progetto di rapirlo per scongiurare il suo suicidio. Il finale lo lascio al
lettore.
> Nel primo pomeriggio di una giornata molto calda sbottò con una frase corta e
> incomprensibile e temetti che l’arsura e l’angoscia gli avessero dato alla
> testa.
> «Dobbiamo rapirlo!»
> «Chi?»
> «Cesare. Prima che finisca l’estate dobbiamo rapirlo.»
Chi ha rapito Cesare Pavese? è un libro bello e singolare, di sorprendente e
accattivante complessità, che si muove tra sogno e realtà, tra ossessioni e
magie dove ogni lettore deve trovare la propria strada. Arrivati al termine,
viene naturale una domanda: è veramente Pavese il rapito o invece siamo noi, i
suoi lettori, a essere rapiti da lui, dal suo mito, dal fascino dei suoi
romanzi, dalla malinconia incantatrice dei suoi personaggi, dal mistero della
sua tormentata esistenza, dal segreto della sua tragica fine? Ognuno risponderà
come meglio crede, di sicuro siamo di fronte a un romanzo necessario, rara
avis di questi tempi, e dobbiamo essere grati a Francesco Bova per averlo
scritto. Nel senso che c’era proprio bisogno che venisse sanata la ferita della
scomparsa di Pavese dalla nostra vita. Abbiamo bisogno di lui, forse oggi ancora
più di tanti anni fa quando lo abbiamo letto per la prima volta. Le domande che
nascevano dalla lettura dei suoi libri sono ancora tutte lì, non hanno perso
niente del loro valore e della loro profondità. Siamo noi e tutto il mondo vacuo
e inutile che ci circonda che abbiamo fatto finta di dimenticarle. I grandi
scrittori come Pavese invece restano sempre al loro posto, non passano mai di
moda.
Silvano Calzini
L'articolo Sul nostro irrefrenabile bisogno di leggere Cesare Pavese proviene da
Pangea.
Qualche giorno prima che fosse pubblicato uno dei più importanti romanzi
americani del Novecento, Il grande Gatsby, il 10 aprile 1925, il suo autore,
Francis Scott Fitzgerald, già famoso e intento a sperperare la sua vita e i suoi
guadagni in una sfrenatissima e alcolica mondanità, scrive da Capri una curiosa
lettera alla scrittrice Willa Cather: professandosi uno dei suoi più grandi
ammiratori, Fitzgerald si autodenuncia alla collega per un «caso di apparente
plagio» che gli era saltato agli occhi in una frase leggendo «con immensa
delizia» il suo romanzo, uscito due anni prima, Una signora perduta. Benché
abbia a lungo meditato di cancellarla dal proprio romanzo, Fitzgerald comunica
alla Cather che alla fine ha deciso di mantenere la frase incriminata, e per
provarle che si è trattato solo di una coincidenza e non di un «furto», allega
alla lettera due pagine del primo abbozzo del suo libro in uscita, scritte prima
della pubblicazione di Una signora perduta, cerchiando la frase (Cather, da
parte sua, risponderà al più giovane collega, con una rassicurante e amichevole
lettera che è anche un capolavoro di finezza). Ma chi era questa venerata
scrittrice che metteva in soggezione lo spavaldo Fitzgerald, protagonista dei
«roaring twenties»?
Nata in Virginia nel 1873 da una famiglia di origini irlandesi e alsaziane, e
cresciuta nel Nebraska, Cather è autrice di almeno due capolavori: La mia
Ántonia (1918) e, per l’appunto, Una signora perduta (1923).Ma va ricordato
anche, almeno, il trittico pubblicato dal 1925 al ’27: La casa del
professore, Il mio nemico mortale e La morte viene per l’arcivescovo; e quel
gioiello che è la raccolta di saggi Not Under Forty (tradotto da Adelphi con il
titolo La nipote di Flaubert). Fu amata anche da Truman Capote, che le dedicò il
suo ultimo scritto raccolto in Musica per camaleonti (dove racconta il suo
incontro, lui diciannovenne, in una gelida notte d’inverno a New York, con la
«blue-eyed lady», la donna dagli occhi che «erano l’azzurro pallido di una
prateria all’alba in una giornata limpida»), e dal poeta Wallace Stevens, che la
considerava la più grande di tutti, e dal critico Harold Bloom, per il quale
solo William Faulkner tra i suoi contemporanei le è superiore.
Cantora del tramonto dell’epopea del West e della dura vita dei pionieri
emigrati (boemi, francesi, tedeschi), è stata una discepola di Henry James, ma
lontana dalla scena sociale del suo maestro, che trasportò dai salotti europei
alle sterminate praterie del Nebraska. La potremmo definire una scrittrice del
rimpianto (rimpianto dell’amore perduto, soprattutto, ma anche di un’età
perduta, e dei luoghi, delle stagioni, dell’innocenza perdute), ma in questo
rimpianto non c’è nulla di sentimentale, piuttosto vi si trova la consapevolezza
dolorosa che la vita è sempre perdita secca, e che la sua unica fonte di
felicità può essere trovata nell’elegia di un passato irrimediabilmente andato.
In Italia di lei si sa e si legge ancora troppo poco: tradotta da diverse case
editrici (con un lungo intervallo di oblio tra gli anni Cinquanta e Ottanta, e
una ripresa all’inizio del Duemila, grazie alle ristampe di Adelphi, Giano e
Neri Pozza), ma sempre in maniera occasionale e dispersiva, l’opera di Cather
meriterebbe un’attenzione maggiore, perché i suoi libri sono capaci di regalarci
una bellezza di rara intensità e una esemplare essenzialità stilistica (in un
suo celebre saggio, The Novel Démeublé, lei stessa teorizzò un romanzo sgombrato
da ogni inutile orpello e ripetizione, da ogni eccesso descrittivo o
psicologistico). Pochi scrittori, infatti, riescono come lei a farci percepire
l’effimera e struggente e crudele bellezza della vita. Basta leggere, per
capirlo, i due capolavori già citati, e in particolare La mia Ántonia, un
romanzo che può accompagnarci per una vita intera, essere letto e riletto con un
piacere sempre rinnovato. Lo ripropone adesso la casa editrice Feltrinelli
(nella collana Comete), nella nuova traduzione di Monica Pareschi e con
postfazione di Sara Antonelli, ed è decisamente un’occasione da non perdere, sia
per gli appassionati della scrittrice americana, sia per chi non l’ha mai
letta.
La mia Ántonia è una narrazione memoriale, affidata a Jim Burden, ragazzo orfano
della Virginia e amico d’infanzia che diventa il custode elegiaco della figura
di Ántonia Shimerda. La dimensione memoriale inserisce immediatamente il romanzo
nell’aura della perdita: ciò che leggiamo non è mai «la vita stessa», ma una
rievocazione già trasfigurata, un canto del tempo che scorre. Il cuore pulsante
del romanzo è lei, la boema Ántonia, che incarna la terra, la fatica, la
fertilità, ma anche l’irriducibilità della vita di fronte al desiderio
frustrato. Jim la ama e non la possiede; la contempla perdendola. Cather sceglie
di fare di lei una figura tellurica, in contrapposizione al narratore che è
spettatore colto, cittadino, destinato a un’altra vita. Il libro è, da questo
punto di vista, anche una riflessione sulla condizione dell’emigrazione e
sull’epopea americana vista dalla parte degli sradicati, non dei vincitori. La
struttura del romanzo, che dissolve la trama in senso tradizionale, è episodica,
fatta di quadri, di stagioni, di ritorni.
Nella scrittura di Cather, di una straordinaria sensibilità pittorica, il
paesaggio diventa protagonista, e ogni descrizione di un campo innevato, di una
mietitura o di un tramonto sulle praterie diventa immagine del destino umano.
Cather inventa una prosa che è allo stesso tempo precisa ed evocativa, capace di
essere concreta come un documento e sospesa come un ricordo. E in questo senso
la nuova traduzione di Monica Pareschi restituisce precisione e naturalezza alla
scrittura, ma anche l’elasticità delle frasi, il tono colloquiale, concreto e
insieme lirico (a volte nello stesso giro di frase) della voce narrante.
Il romanzo, come molti altri libri di Cather, è anche attraversato da un
erotismo sotterraneo: la forza vitale di Ántonia, la sua corporeità, hanno
un’intensità sensuale che Jim registra e sublima. Per un’autrice che non
dichiarò mai apertamente la propria omosessualità, ma la visse in relazioni
durature e silenziose, questo gioco di allusioni e di traslati diventa cifra
stilistica: il desiderio resta non detto, ma impregna ogni pagina, ed è tanto
più pervasivo. C’è poi il tema del rimpianto, che fa di La mia Ántonia un libro
ancora profondamente moderno. Jim, adulto, rievoca l’adolescenza e sa che nulla
può tornare. L’elegia (che Bloom ha definito «virgiliana») diventa allora una
forma di resistenza etica: dire ciò che è stato per non lasciarlo dissolvere. In
questo senso Cather si mostra lontanissima dal sentimentalismo e vicinissima a
una sorta di stoicismo. Se in Ántonia c’è la forza della vita che resiste alla
perdita, e in Jim la coscienza che tutto è nostalgia, tra i due si apre quello
spazio che è il vero luogo della letteratura: l’impossibile riconciliazione tra
ciò che si vive e ciò che si ricorda.
Fabrizio Coscia
*In copertina: Willa Cather, il suo triciclo, 1910 ca.
L'articolo Rileggiamo Willa Cather, venerabile scrittrice: ha trascinato Henry
James nel West… proviene da Pangea.
Era una notte d’autunno ferma come pietra, in cui il cielo, soffocato da nembi
plumbei, sembrava non respirare più. In quei decadenti quartieri, l’aria –
sottile e mefitica – si insinuava nei polmoni come un siero etereo e maligno, ma
Toby Dammit pareva insensibile a ogni influsso del mondo materiale. L’universo
intero era per lui divenuto un teatro desolato, illuminato appena dal chiarore
esitante d’una luna che mai trovava riflesso nel mare tempestoso e caotico della
sua mente.
Camminava a passi pesanti e incerti, tanto lungo la strada che conduceva alla
taverna quanto nei meandri oscuri del suo pensiero. Pareva immerso in un abisso
senza eco, dove le ombre – ora beffarde e malevole, ora supplichevoli –
s’intrecciavano con ciò che ancora rimaneva della realtà. I suoi occhi non erano
più strumenti di visione: erano vetrine velate, cieche, come quelle d’un emporio
abbandonato, svuotato da tempo d’ogni cosa da offrire, d’ogni vita, d’ogni luce.
Un battito cupo, sommerso, pulsava nei recessi più profondi del suo cranio: un
suono indistinto, simile al rantolo d’una morte mai compiuta, o d’una fiamma che
consuma senza spegnersi. Poi, come accade nei sogni più infausti, anche quel
battito cessò.
Nei suoi sogni – che non erano sogni ma presagi – tornava sempre lei: la sua
Morella. Ma era una presenza umbratile e di sortilegio. Una figura di velo e
silenzio, eternamente sospesa in quegli antri interiori che solo il delirio
riesce a popolare. Non parlava mai: lo guardava con occhi di vetro e tenebra,
come un’onda staccatasi da un mare antico e senza rive. Sembrava scolpita nel
gesso, una statua fissata per sempre nell’atto d’ammonire. Ma le sue parole – o
quel che di esse Toby immaginava – risonavano senza tregua nella sua mente
franta: “Tu mi hai violata, e ora è un plutonico vincolo che ci unisce… Per
l’eternità.”
Ogni passo nel regno del sogno lo conduceva più vicino a lei, e più lontano da
se stesso. La sua mente era uno specchio ridotto in schegge, e in ogni frammento
si specchiava la sua perdizione. Se Morella fosse stata solo una visione onirica
dissolta all’alba, l’avrebbe forse benedetta. Ma ella era un emblema, un
delirio, un simbolo della febbre perpetua dell’anima. Un tormento reso carne
solo per strappargliela. La malattia che la consumava anche lui. E nei sogni la
sua presenza era ancora più tormentosa, come se fosse messaggera di una colpa
che lui non poteva risarcire.
La vita di Toby, in quel tempo, si era tramutata in una sequenza di frammenti
d’inferno, un dedalo intricato di presenze spettrali che si moltiplicavano e
confondevano fino a dissolversi in un aggregato informe, al di là di qualsiasi
cognizione sensoriale. Era un delirio costante, slogata dal solco di ciò che è
reale e tangibile, e proiettata in incubi di forme vaghe e torturartici della
sua anima. Non vi era più un ordine, né un principio che potesse guidarlo
attraverso il mondo dei vivi; tutto ciò che lo circondava era ormai piegato e
stravolto dalla sua mente, scivolando incessantemente tra la sostanza e
l’irreale. La realtà – quel qualcosa che prima gli sembrava tangibile e
immutabile – ora gli appariva come una distorsione maligna, un’eco vuota che si
perdeva nell’abissale spessore dei suoi sogni febbrili e deliranti, e mentre
l’immaginazione s’impossessava di lui, il confine tra ciò che era e ciò che non
lo era si annullava, svaniva, lasciando dietro di sé un unico, indefinibile
spirito di disfacimento.
In questo magma di visioni oniriche e tormenti, un’altra figura tornava a
ripresentarsi con una presenza quasi sacra, ma al contempo impossibile da
concepire senza disperazione. Ella era Berenice, eppure non lo era, e Toby,
tormentato dal contrasto tra la sua mente che definiva, la carne percepita, e
l’anima ardentemente bramata, non era pari al dare a questa apparizione né nome
né forma, se non come un’epifania di un mondo in cui le leggi dell’umano non
avevano più alcun statuto. Non era corpo, né spirito, ma una cosa sola, eppure
l’uno e l’altro in un abbraccio mostruoso. Berenice – no, non Berenice, ma
piuttosto l’idea di Berenice – si rivelava in Toby come la quintessenza del
desiderio e della distruzione, un’immagine forgiata dall’assenza,
dall’impossibile. I suoi denti – quegli incredibili, perfetti, insostenibilmente
bianchi denti – risplendevano in lui come simbolo di una purezza assoluta e
irraggiungibile, come frammenti di un potere divino che, invece di elevare,
annientava. Ogni scintillio di essi nella sua mente era una visione abbacinante
che lo condannava a un’agonia, ne era certo, non avrebbe mai avuto fine. Non
erano denti, ma strumenti erinnici… O sigilli. Sigilli che lo legavano a un
desiderio oscuro e carnale, ad una fame che non avrebbe mai potuto essere
saziata, un appetito che bruciava d’assenza e tormento.
In uno dei suoi più recenti incubi, incubi che non erano più sogno ma continua
reiterazione di visioni infernali, Toby trovava il corpo di Morella, disteso nel
suo sepolcro, e senza pensare, senza fermarsi, mosso da un impulso che non
avrebbe potuto spiegare nemmeno se lo avesse voluto, si avventava sulla sua
tomba, riesumandola, liberandola da quella fredda prigione. Ma ciò che il suo
corpo toccava non era più Morella, era Berenice. Berenice. L’ossessione si
compiva. La figura che giaceva davanti a lui era l’esatto contrario di quello
che il nome evocava: era la carne di una donna morta, eppure viva di un’altra
forma di vita, quella che si alimentava non di sangue, ma di desiderio
inestinguibile.Toby non toccava più la morte di Morella, ma la morte di
Berenice, che pure non era mai stata viva, se non nell’abisso della sua fantasia
più contorta.
Nell’allucinato stato di quell’ultima notte, poi, aveva rivisto sua madre nel
letto di morte ed aveva avuto una timida erezione. In quell’istante di suprema
decadenza, un fremito lo attraversava: non d’affetto, non di pietà, ma d’un
impulso mostruoso, silenzioso, indegno. Ed è in quell’abisso che le figure di
Berenice e della madre si erano confuse e fuse, divenendo una sola cosa. Toby
avvertiva l’indicibile, il vergognoso, l’orrido: il desiderio di ciò che lo
aveva generato. Lì, in quell’attimo, il male, il desiderio, il peccato e
l’ossessione si erano fatte una sola cosa, e Toby non aveva più visto né la
madre né l’amata, ma solo l’orrore ineffabile di aver amato ciò che lo aveva
partorito, ciò che avrebbe dovuto elevarlo e invece lo faceva assoggettato a un
desiderio oscuro e nefando, profanatore. In quell’orrore il demone della
perversità, gli faceva bramare un passo oltre verso il precipizio, verso la
rovina di sé.
*
Nella taverna, luogo malfamato e di perdizione, l’aria greve di fumo recava risa
sguaiate e chiacchiere rumorose e moleste. Toby si sedette davanti a un
bicchiere di vino che sembrava l’unico filo di salvezza rimasto tra lui e la
follia. Lì, nella penombra di quello scantinato pieno di avvinazzati, la
Berenice del suo delirio gli si avvicinò, ma non per parlare. Gli si fece più
vicina, come se ogni passo che compiva in direzione di lui fosse un passo verso
la sua fine.
E quando il volto di Berenice si avvicinò al suo, i suoi occhi divennero
fiaccole sataniche, la bocca si spalancò e Toby vide i denti uscirne come
artigli affilati: “Mi desideri? Mi desideri ancora?”. Toby ebbe un singulto e
sgranando gli occhi tornò alla realtà con lo sguardo fisso su un avventore che
lo squadrava incuriosito dalla scena. Il silenzio fu rotto dalle squille
bronzine della Chiesa di Saint Sebastian: due rintocchi simili a scossoni nel
suo corpo stravolto. Un gatto gli si strusciò alle caviglie. Era nero come un
monito e aveva occhi di giada che lo guardavano grandi e profondi. Lo prese per
la collottola e se lo pose in grembo per carezzarlo, ma il gatto lo graffiò con
l’impeto dinamico di due artigliate profonde su una mano. Non vedeva più
dall’ira e lo scagliò lontano da sé. Quello urtò il fianco contro una colonna di
legno e si allontanò con incedere malfermo. Toby bevve ancora e ancora e poi
uscì in strada in preda ai fumi dell’alcol. I suoi passi risuonavano in modo
tetro per le viuzze del borgo. Era quasi giunto a casa ma vide un vecchio
cencioso e sporco, dal volto butterato e lo sguardo dilavato, che girava un
angolo verso di lui. Non vi badò e il vecchio lo superò proseguendo d’opposta
banda alle spalle di Toby. Ma l’orrido più ripugnante si presentò nelle
sembianze di un secondo vecchio, identico al primo, che voltò lo stesso angolo
incedendo a sua volta in sua direzione. La scena si ripeté talché poté contare
sette vecchi identici. Sentiva di perdere la ragione e corse forsennatamente
verso casa lasciandosi alle spalle quella vista insostenibile.
Giunto davanti al portone fece per cercare le chiavi ma non le trovò. Si vuotò
le tasche, frugò la giacca: niente. Dovevano essergli cadute o alla taverna o
durante la corsa. Il campanile batté tre rintocchi. Un gatto, anche questo nero,
gli si strusciò alle caviglie. La sua corporatura corrispondeva a quella del
gatto della taverna, anzi avrebbe potuto essere lo stesso, senonché aveva
un’orbita vuota come un cratere nero e un solo occhio azzurro come ghiaccio in
una notte di luna. Ne rimase inorridito. Tornò sui suoi passi. In quell’istante
comparve in sembianze umane una creatura di cui percepì malvagità estranea a
questo mondo, come un gelido refolo da lui a sé. La figura, allampanata in abito
scuro elegante si tolse la mantella dello stesso colore ma con una federa
cremisi che guizzò nella luce dei lampioni. Fece un inchino e si presentò. Disse
di essere un creditore d’anime. Un gentiluomo vecchia maniera che stringeva
patti che nessuno dotato di ragione non avrebbe potuto credere allettanti. Un
commerciante, a suo modo, solo che vendeva sogni rendendoli realtà. Era come se
lo conoscesse ma lo vedesse per la prima volta. Un sogno ormai passato bussò
alle porte della sua mente ma lo ricacciò via! Del resto la sua ragione era
sfibrata, allo stremo, febbricitante e caotica da tempo, e confondeva i sogni
con la realtà, anche per la sua grave dipendenza dall’alcol.
“Hai dimenticato queste”, disse l’uomo che gli si stagliava davanti come un
basilisco e fece tintinnare appese a due dita le chiavi di casa di Toby. Poi
aggiunse: “Hai un desiderio? Com’è vero che sei di carne e ossa, io lo
esaudirò.” Lo fissava con occhi di brace carichi di una inquieta attesa.
“Se quanto dici è vero. Riporta a me la mia amata Morella.
“Sei sicuro di quanto hai chiesto?”
“Sì” disse in modo sicuro e stentoreo.
“È già qui. Voltati.”
Morella era alle sue spalle, alta e bella, la pelle di cera e gli occhi intensi
che lo guardavano con un amore velato di angoscia. Non parlava. Restava muta e
lo fissava. Inclinò il viso un po’ di lato e versò lacrime arricciando la bocca
come se fosse sofferente di una sofferenza innominabile.
Poi disse:
“Mi sono svegliata e non c’eri. Ti ho cercato… Perché l’hai fatto?” La sua voce
era come ovatta intrisa di un liquido.
“Morella mia, di che parli?” Le si avvicinò ma lei indietreggiava.
Il commerciante d’anime si trasse di tasca un foglio e lo lasciò cadere a terra.
Toby guardò sul marciapiede e vide che era un foglio piegato, simile a un
sottile cencio di carta lisa.
“Raccogli quel foglio. Leggilo, mio amato, creatura infelice,” disse Morella in
un sussurro gorgogliante.”
L’uomo nerovestito aveva un ghigno feroce stampato in faccia:
“Diciamo che quella è una copia del predente accordo. Leggi, leggi pure
miserando!”
Lui corse con gli occhi sulle righe e capì.
Le righe parevano vergate con grafia elegante nel sangue ormai secco e brunito:
Bene. Il patto è compiuto. Hai promesso: dovrai restare nella tua dimora con
Morella almeno fino al terzo rintocco di questa notte e poi sarete sempre
insieme, felici, la sua malattia regredirà e avrete un futuro assieme. Facile,
no? Ma, bada bene, se non rispetterai il patto i tuoi incubi peggiori si faranno
carne nella tua amata Morella, col suggello del destino della Berenice che
sempre sogni. E tu sai cosa hai fatto e continuerai a fare a Berenice. La tua
anima sarà dannata nella colpa. Per sempre.
Il viso di Morella si fece una smorfia di terrore e pena, spalancò la bocca e un
rivo denso e rubino le scese le labbra: non aveva un solo dente.
Il misterioso commerciante d’anime aprì la mano destra e ne rovesciò il
contenuto sul piancito: ne cadde uno spicinio di denti macchiati di sangue.
“Ma… Ma Berenice mi appariva solo in sogno! Non è reale, io non ho colpa, non
l’ho fatto davvero!”
“Hai la tua Berenice nel corpo di Morella. Prenditela e affoga nella colpa!
L’hai sempre desiderata, in fondo. O no?”
Improvvisamente ricordò tutto. Si era svegliato nel letto accanto a Morella come
con la vivida traccia mnemonica di quello che credeva esser stato un
incubo. Era davvero sicuro di aver sognato tutto? Ma non importava più: sogno o
realtà, tutto si compenetrava sinistramente, come in una farragine di attimi
indistinguibili. Sul tavolo di cucina un foglio in evidenza campeggiava come
un’azzurra, viva bestiola alla luce lunare filtrante dalla finestra. Un richiamo
tenace come una voce da un lembo d’Aldilà lo spingeva verso il foglio, come se
fosse un oggetto sacro e importante. Vi era posto sopra un calamaio come per
metterlo in evidenza. Il richiamo dell’alcol però l’aveva subito rapito e
distratto torcendogli le budella, e si era recato come ogni sera alla taverna
per lenire il suo tormento nell’alcol. Morella dormiva, serena, con volto
bambino, per la prima dopo tante notti di agonia. Le aveva baciato candidamente
la fronte che per una volta non scottava. Felice se n’era compiaciuto ed era
andato dietro alle lusinghe dell’alcol. Come ogni sera. Un rintocco dal
campanile della piazza era risuonato cupo nell’etere.
Non è la vita tutta un sogno dentro al sogno?
Massimo Triolo
*In copertina: poster di “Toby Dammit”, episodio filmato da Federico Fellini da
“Tre passi nel delirio” (1968), tratto dall’opera di Edgar Allan Poe
L'articolo Toby Dammit Rewind. Un racconto di Massimo Triolo,
“Caleidoscopio-Poe” proviene da Pangea.
Dostoevskij era ossessionato dal suicidio. Più che dal corpo morto, era
ossessionato dall’anima scassinata, avvizzita. Nel Diario di uno scrittore,
l’immane rubrica pubblicata su “Il cittadino” dal 1873 – in Italia stampa
Bompiani, nell’atavica traduzione di Ettore Lo Gatto – Dostoevskij scrive spesso
di suicidi. Nell’ottobre del 1876, ad esempio, dice di “una povera giovane” che
“si era buttata dalla finestra, dal quarto piano… tenendo nelle mani un’immagine
sacra”. Questo “suicidio umile” sarà il pretesto per uno dei racconti più noti
di Dostoevskij, La mite.
Anche Nathaniel Hawthorne, lo scrittore della Lettera scarlatta, era
ossessionato dal suicidio. Nel suo Diario – cito dalla traduzione di Agostino
Lombardo, Neri Pozza, 1959 – appunta che il 9 luglio del 1845, in un fiume nei
dintorni di Salem, era stato ritrovato il “cadavere d’una fanciulla annegata:
era una certa Miss Hunt, di circa diciannove anni, ragazza colta e raffinata, ma
depressa e infelice”. È una pagina terribile e – dunque – meravigliosa:
Hawthorne, con olimpica pietà, racconta, nel dettaglio, il corpo del
suicida (“Non avevo mai visto o immaginato uno spettacolo di tanto perfetto
orrore. La rigidità era terribile a vedersi. Le sue braccia s’erano irrigidite
nell’atto di lottare; ed erano curve davanti a lei, con le mani ad artiglio”); è
affascinato dalla scena, sensazionale, di cui vuole carpire il principio.
A Hawthorne interessa il carattere della ragazza morta. Dostoevskij, invece,
indaga la ragione del suicidio, una ragione irragionevole. Le ragazze di cui i
due grandi scrittori narrano il suicidio sono simili: “la mite anima che ha
annientato se stessa” di Dostoevskij è analoga alla pia fanciulla descritta con
sinistra minuzia da Hawthorne, “pare che fosse religiosa, e di elevata
moralità”. Dalla diversa capacità di raccontare un suicidio – uno ausculta
l’anima l’altro descrive il corpo, uno tenta la compassione l’altro la
redenzione – potremmo tracciare il confine che separa la latitudine della
letteratura russa da quella statunitense.
Hawthorne muore nel 1864, quando Dostoevskij pubblica Memorie del sottosuolo: li
immagino camminare insieme, lungo la Neva. Entrambi – tra l’altro – avevano una
passione per i matti.
Nel breve scritto sulla giovane suicida che si getta dalla finestra abbracciando
un’icona, Dostoevskij aggiunge un dettaglio decisivo.
> “Semplicemente, era diventato impossibile vivere”.
Questa frase è l’oblò da cui guardare l’oceanica opera di Dostoevskij. Lo
scrittore deve scrivere di quel luogo in cui, semplicemente, è diventato
impossibile vivere. In uno dei racconti più belli di Dostoevskij, Il sogno di un
uomo ridicolo (accolto, nella nuova traduzione di Serena
Prina, nei Racconti editi da Feltrinelli, 2023), pubblicato sul Diario di uno
scrittore nell’aprile del 1877, un uomo, semplicemente, capisce che è
impossibile vivere. “All’improvviso sentii che mi era del tutto indifferente se
il mondo esistesse o se non ci fosse nulla da nessuna parte”. Una notte, così,
l’uomo ridicolo – parente stretto dell’uomo del sottosuolo – decide di
uccidersi. È il tre di novembre, è sera, “una sera cupa, la più cupa che possa
esistere”, sono le undici. L’uomo fissa una stella e compie la sua scelta,
“quella notte stabilii di uccidermi”. D’altronde, tutti lo credono pazzo perché
l’uomo ridicolo riconosce l’insensatezza di tutte le cose: è un profeta del
nulla, un gretto guru del disordine, capace di ledere il sistema di convivenza
sociale. Chi ride di lui si crede potente, ma è un ipocrita perché vive in un
mondo illusorio. I veri pazzi sono quelli che stanno bene a questo mondo.
La faccio breve. L’uomo ridicolo non si ammazza. A salvarlo – inconsapevolmente
– è una bambina di otto anni, “tutta fradicia”, lacera, che “urlava in modo
sconnesso… Mammina! Mammina!”. L’uomo la allontana da sé in malo modo: rientrato
a casa, si accascia in poltrona, si addormenta. Al risveglio dal sonno –
picaresco, “fantastico”, cristico, che evito di raccontare – l’uomo ridicolo è
preso da un incendio religioso. Proclama l’amore universale, sventola il
Vangelo, diventa “una sorta di jurodivyj”, uno “stolto in Cristo”, un
pellegrino, ispirato e poverissimo. In ogni caso, è creduto pazzo.
Morale: l’esperienza del nulla è necessaria per riconoscere Cristo, che
altrimenti resta orpello, il doppiopetto dei vili; il vero cristiano è chi
scampa da una crisi che schiaccia, che pone sulla soglia del suicidio. Fuori dal
cristianesimo, semplicemente, non si può vivere, non ha senso la vita.
La “ragazzina” che salva la vita all’uomo ridicolo – “quanto alla ragazzina,
l’ho rintracciata…”, scrive ‘Dost’, dando al racconto l’impeto di una sequela –
è la suicida rediviva, la mite mitizzata, è Matrëša risorta, la ragazzina
“bionda e lentigginosa”, dal “viso comune ma con qualcosa di molto infantile e
quieto”, che si impicca dopo essere stata violata da Stavrogin, il demonio
attorno a cui ruota la vicenda de I demoni. Secondo Lev Šestov, che sui libri di
Dostoevskij ha fondato il suo implacabile sistema filosofico, Il sogno di un
uomo ridicolo è l’opera quintessenziale dello scrittore russo, quella che
riassume i suoi temi totem.
> “Dostoevskij, come i santi in cerca di salvezza, ascolta senza tregua una voce
> misteriosa che gli sussurra: Osa! Tenta il deserto, la solitudine. Sarai
> bestia o Dio”.
Soltanto l’uomo imbestiato, che percorre l’abisso e l’abiezione, scorge, poco
dopo il demone, Dio.
Secondo Michail Bachtin, invece – così ci spiega Serena Prina – è Bobok il
“microcosmo di tutta l’opera di Dostoevskij”. Il testo – intriso d’ironia nera,
un Edgar Poe allucinato dalla vodka – racconta di “un tale”, scrittore in
disfatta, che un giorno, capitato al cimitero, ascolta i pettegolezzi dei morti.
Il racconto oltraggia i contrasti: i veri saggi sono i pazzi (“colui che
rinchiude un altro in manicomio non dimostra certo la propria condizione di
persona savia”), la vera vita, forse, è la morte, secondo l’enigmatico aforisma
di Euripide (“Chi sa se forse vivere è morire e morire è vivere”). Bobok è
l’intercalare borbottato da uno dei morti, “quasi del tutto decomposto”: parola
insensata, che “significa comunque che anche in lui la vita conserva ancora
un’impercettibile scintilla”. Bobok è la parola ultima, estremo sigillo di vita
sulla soglia della fine, fetida fiamma. Fa parte, Bobok, di quel vocabolario
minimo di neologismi lunari: si installa tra Pallaksch, parola-amuleto di
Friedrich Hölderlin (un insensato che vuol dire sì e no allo stesso tempo,
asserzione che si fonda sulla negazione), e Aphinar, parola-mappa, la meta,
inesistente, a cui Rimbaud chiede di essere destinato, morente, paralizzato, sul
letto ospedaliero di Marsiglia.
Bobok è il richiamo delle Muse-iene, a un passo tra ispirazione e disperanza.
Si legge Dostoevskij, d’altronde, sempre in prossimità di un delirio, di un Dio
a venire, avventato.
*In copertina: un disegno di Victor Hugo
L'articolo “Osa! Sarai bestia o Dio”. Dostoevskij, o dell’impossibile proviene
da Pangea.
Nel 1919 era riuscito a comprarsi una villa a Oswalds, nei pressi di Canterbury.
Da poco, aveva raggiunto una certa sicurezza economica, non con i libri più
belli; poco incline ai crismi della vita sociale inglese, soffriva di gotta, il
viso irto di rughe e lo sguardo fermo, di chi ha valicato molte vite. Da
ragazzo, nelle rare fotografie, piuttosto, ha gli occhi accesi, terrorizzati.
Sarà che era rimasto orfano a undici anni e che un’insana fame, l’estro di chi è
solo al mondo, lo obbligava agli estremismi. Preferì viaggiare per il globo;
nato in una provincia dell’Ucraina russa, cresciuto tra Varsavia e Cracovia,
come seconda lingua preferiva il francese, l’inglese lo parlava in modo
involuto, lento, da straniero. Sulla terraferma, sempre, gli pareva di
affogare.
Fu Hugh Walpole, in ogni caso, a propiziare l’incontro tra Joseph Conrad e T. E.
Lawrence. Con Walpole, poligrafo, nato in Nuova Zelanda, affascinato dalla
Rivoluzione russa (che aveva seguito sul posto), uno zelante ammiratore, Conrad
si sentiva a suo agio. “Tu dici che ho subito l’influenza formativa di Madame
Bovary…”, gli scrive, nel 1918, per ribattere, “Flaubert… lo ritenni
meraviglioso. Non credo di aver imparato nulla da lui”.
L’incontro accadde in luglio, era il 1920: Conrad era già Conrad, il
rivoluzionario della letteratura inglese, Lawrence, per tutti, era “Lawrence
d’Arabia”; aveva scritto la prima, affrettata bozza dei Sette pilastri della
saggezza e Winston Churchill era pronto a offrirgli un posto di rilievo presso
il Colonial Office con il compito di risolvere la questione
mediorientale. Lawrence, dal canto suo, mirava solo a disintegrarsi. Amava
Conrad, quello sì, “ha reso la nostra prosa finalmente inquietante: ogni suo
paragrafo (dacché non scrive frasi, ma paragrafi) si sviluppa a ondate, come il
riverbero di una campana, dopo che si è bloccata”. L’incontro fu piacevole,
privo di fronzoli, intonato al blu: forse nel mare di Conrad, Lawrence
riconosceva il suo deserto. Il 18 agosto del 1922, da Oswalds, Conrad scrive “al
mio caro Mr. Lawrence”: gli invia una copia di The Mirror of the Sea, “emendata
da assurdi refusi”, con dedica, “A T.E. Lawrence con la massima stima da
Conrad”. Nel frattempo, contraffatto con il nome di John Hume Ross, Lawrence si
era appena arruolato nella RAF.
Dieci anni prima, piuttosto, Conrad aveva ricevuto gli omaggi di un altro uomo
eccezionale, diversamente eccentrico. Nel 1912, durante un viaggio di sei mesi
in Inghilterra, ad Ashford, nel Kent, Saint-John Perse incontra Conrad,
folgorato, pure lui, da Cuore di tenebra, Nostromo, Lord Jim. Era stata un’amica
comune, Agnès Tobin, americana, traduttrice di talento (anche di Petrarca), a
introdurre Saint-John Perse a Conrad. Il 26 febbraio del 1921, da Pechino,
all’apice di una brillante carriera diplomatica, il poeta, futuro Nobel per la
letteratura, invia a Conrad una lettera tanto bella da sembrare fittizia, pura
perla destinata ai posteri: “Una cosa misteriosa, che ho io stesso constatato, è
che sugli altipiani dell’Asia, nel cuore del deserto, cavallo e cavaliere si
girano ancora d’istinto verso Est, là dove giace la tavola invisibile del mare…
Negli occhi dei cammellieri incontrati nel deserto del Gobi mi è sembrato
qualche volta di sorprendere uno sguardo di uomo di mare”. La lettera è
raccolta, tra poche altre a rarissimi interlocutori – Paul Claudel, André Gide,
Thomas S. Eliot, un altro strenuo ammiratore di Conrad – nell’agiografico volume
delle Œuvres complètesche Saint-John Perse si cura per la Bibliothèque de la
Pléiade. Nato nelle Antille francesi, era uomo di mare pure lui, e al mare ha
dedicato un poema oceanico, Amers (1957; recentemente tradotto da Nicola
Muschitiello per le Edizioni Medhelan come Segni d’amaro approdo, 2024).
Queste testimonianze, necessarie per capire le intense passioni che Conrad
sapeva suscitare – scrittore altrimenti schivo, nella stiva di un’ispirazione
eclatante –, non sono raccolte nell’Epistolario (1885-1924) edito da Giometti &
Antonello (2021), che riproduce l’edizione curata da Alessandro Serpieri per
Bompiani nel 1966 (il libro, dunque, è anche un omaggio a quel grande anglista).
Conrad resta, sempre, un espatriato, uno ormeggiato tra le nebbie: inutile
cercare tra le sue lettere le vertigini di Rainer Maria Rilke, gli orpelli di
Pasternak, gli innamoramenti di Albert Camus. Nato Korzeniowski, frugale come
chi sa la fame, propenso al crollo, alieno al clima intellettuale dell’epoca,
Conrad procede per coltellate verbali (“La morte non è nulla – ed io sono
abituato alla sua rapidità. Ma quando la vita ti deruba d’un uomo su cui hai
riposto la tua fiducia per vent’anni, il torto sembra troppo mostruoso per
essere dimenticato”, scrive, il 5 dicembre 1897, a Edward Garnett, che per primo
riconobbe il suo talento letterario), sconvolto, spesso, dalla necessità di
scrivere e vendere racconti con estenuata continuità.
Nelle prime lettere – qui è da Calcutta, il 19 dicembre del 1885 – Conrad è
fieramente reazionario, si scaglia contro il “progresso sociale” propugnato da
“furfanti senza scrupoli e pochi lunatici, sinceri ma pericolosi” a discapito
dell’“idiota gregge umano”:
> “Io vivo soprattutto nel passato e nel futuro. Il presente ha poche attrattive
> per me… Separazione fra Stato e Chiesa, Riforma Agraria, Fratellanza
> Universale non sono che le pietre miliari sulla strada della rovina”.
Si adatterà alla temperie tribunizia anglofona, con una perpetua attrazione
verso i ribelli: “ogni estremista è rispettabile”, scrive il 7 ottobre del 1907,
sull’onda del romanzo anarcoide, L’agente segreto.
In una lettera a Garnett, il 20 gennaio del 1900, Conrad si lancia in un ricordo
del padre, Apollonius N. Korzeniowski, di plateale potenza:
> “Uomo di grande sensibilità, di temperamento esaltato e sognatore, con una
> terribile dote di ironia e di umor tetro… Il suo aspetto era nobile, la sua
> conversazione molto affascinante, la sua faccia triste quando era serio”.
Patriota, ribelle, giornalista sprezzante, personalità eccentrica, ipnotica,
cupa, letterato genialoide (ma “drammi, poesie, prose furono bruciati dopo la
sua morte secondo il suo ultimo desiderio”), Apollonius è il modello del Kurtz
di Cuore di tenebra, dove sono coinvolti tutti i tormenti e le nostalgie di
Conrad.
Secondo Alessandro Serpieri le lettere di Conrad sono “un’occasione unica per
seguirlo nel suo difficile cammino di uomo e di artista, per sorprenderlo”. In
verità, Conrad è refrattario a raccontarsi, si difende da ogni assalto, in una
celata di cristallo: avendo vissuto, non ha confessioni da sperperare, è come il
suo Marlow, a poppa, con le gambe incrociate, che “rassomiglia a un idolo” e
attende di salpare verso “uno dei luoghi tenebrosi della terra”. L’anima, in
certi uomini, è come un kraken incardinato negli abissi: non è materia per
chiacchiere o lussurie epistolari.
L'articolo “La morte non è nulla”. Joseph Conrad in forma di kraken proviene da
Pangea.
Non è difficile capire perché Octavio Paz, tra i più grandi poeti del secolo
scorso, sia sostanzialmente negletto dall’editoria italiana, un paria. Paz è tra
i rari poeti che ci costringe a entrare in combutta con il linguaggio: non
soddisfa il nostro anelito al ‘poetico’, confida nella poesia come ‘nuovo mondo’
del verbo, viaggio per enigmi in una specie di hic sunt leones della parola. Per
fare un esempio tratto dal campo delle arti figurative, Paz scrive tentando una
lingua inaudita, che dica l’oggi, come hanno fatto Chagall e Mark Rothko, Paul
Klee e Francis Bacon. Comunque, è sempre, per selve ignote, la gran caccia del
sacro.
Cosa sia questo oggi, Paz lo ha spiegato nel discorso di accettazione del Nobel
per la letteratura, conferitogli nel 1990, intitolato, non a caso, La búsqueda
del presente.
> “L’oggi non è che la più antica antichità; è il domani e l’inizio del mondo;
> ha mille anni ed è neonato. Parla in Nahuatl [la lingua degli Aztechi, ndt],
> compone ideogrammi cinesi nel IX secolo, compare su uno schermo televisivo.
> Questo presente improvvisamente intatto, dissotterrato da poco, si scrolla di
> dosso la polvere dei secoli, sorride e inizia a volare, scomparendo dalla
> finestra”.
Nel 1990 Octavio Paz compiva 76 anni – era nato il 31 di marzo, a Città del
Messico –; sarebbe morto otto anni dopo. Che invidiabile ampiezza di sguardo,
che potente ‘leggerezza’. Tra le tante cose, era stato ambasciatore del Messico
in Giappone – nel 1952 – e in India – negli anni Sessanta. Aveva scritto, molti
anni prima, opere primordiali e ‘seminali’, d’obbligo per chiunque si accinga
alla poesia (Piedra del sol, Salamandra, Blanco). Le sue idee
sull’oggi sarebbero condivise da Ezra Pound e da André Malraux, che aveva
incontrato nel 1937, a Valencia, durante il “II Congreso Internacional de
Escritores para la Defensa de la Cultura”, gran consesso a cui accorsero, tra i
troppi, Stephen Spender, Antonio Machado, Tristan Tzara e María Zambrano.
Intellettuale máximo, “tra i maggiori dell’America latina” (così la notizia
Treccani), Paz ha scritto di Suor Juana de la Cruz come di Marcel Duchamp; in
Italia sono editi da Se i suoi saggi sull’India, su Chuang-tzu e su “Amore ed
erotismo” (La duplice fiamma); in molti citano Il labirinto della solitudine, da
tempo si parla di un ‘Meridiano’ in suo onore, di fatto le poesie – raccolte da
Mondadori come Vento cardinale, ristampate per anni – sono scomparse dagli
scaffali. Inutile lamentarsi allora se “una delle opere più importanti di
Paz”, El Mono Gramático, “vertiginosa indagine sul senso del linguaggio e le sue
relazioni con la realtà fenomenica, sulle segrete corrispondenze tra idea e
verbo, parola e percezione, erotismo e conoscenza” (così la quarta di una delle
ultime ristampe, nel mondo ispanico), sia per lo più sconosciuta. Si tratta, in
effetti, di un micidiale poema in prosa, uscito in origine nel 1974, in cui Paz
ridiscute i fondamentali del verbo, le fondamenta del linguaggio. Cosa sono le
parole? Scatole vuote o bestie da allevamento? Animali che ci danno il latte o
predatori che attaccano gli accampamenti della mente? Che cos’è la grammatica?
Una gabbia che impedisce al linguaggio di dilagare, secondo selvaggia etica? Se
il linguaggio coincide con la ‘caduta’, con il distacco dell’uomo dalla
‘natura’, qual è il compito del poeta? Ridurlo a innocenza, forse, eleggerlo in
ferocia… Di certo, i nomi non servono per impossessarsi delle cose ma per
sprigionarle, per liberarne i remoti significati.
Come sempre, Paz precipita nell’agonia del verbo rinverdendo antichi miti
induisti con le tavole di Delacroix, mescola il buddismo tantrico alle tavole di
Richard Dadd alla musica dodecafonica. Insomma: il testo è fiero – cioè arduo,
imperiale per stile, impervio.
Basta così – il tema è, come si dice, decisivo. Ancor più in un oggi di
assordante cecità, un oggi del linguaggio coercitivo, che tramite il linguaggio
opera i più sottili crimini. Sempre il linguaggio si ritorce contro chi crede di
dominarlo.
Per dire dell’importanza di El mono gramático si è scelto di tradurre, oltre a
una selezione dal libro di Paz, in calce, un saggio uscito su “Letras Libres” a
firma del poeta messicano Adolfo Castañón, a ragione di una sorta di ‘consegna’,
di viatico. Fino all’adozione nel silenzio, sul corpo morto – e sempre vivo –
del verbo.
***
Da La scimmia grammatica
6
Macchie: erbacce: cancellature. Fregi. Imprigionato tra le righe, le liane delle
lettere. Soffocato dai tratti, dai lacci delle vocali. Morso, picchiettato dalle
tenaglie, dagli arpioni delle consonanti. Erbacce di segni: negazione dei segni.
Gesticolazione stupida, cerimonia grottesca. La pletora finisce con
l’estinzione: i segni mangiano i segni. Le erbacce diventano deserto, il baccano
diventa silenzio: arenili di lettere. Alfabeti marci, scritture bruciate,
detriti verbali. Ceneri. Lingue nascenti, larve, feti, aborti. Erbacce:
brulichio omicida: terra desolata. Ripetizioni, perduto tra le ripetizioni, sei
una ripetizione tra ripetizioni. Artista delle ripetizioni, gran maestro delle
deturpazioni, artista delle demolizioni. Gli alberi ripetono gli alberi, le
sabbie ripetono le sabbie, la giungla di lettere è una ripetizione, l’arenale è
una ripetizione, la pletora è il vuoto, il vuoto è la pletora, io ripeto le
ripetizioni, perso nel sottobosco di segni, vagando nell’arenale senza segni,
macchie sul muro sotto questo sole di Galta, macchie su questo pomeriggio di
Cambridge, sottobosco e arenale, macchie sulla mia fronte che congrega e
disintegra paesaggi incerti. Sei (sono) è una ripetizione tra le ripetizioni. È,
sei, sono: sei, è, sono. Demolizioni: mi sdraio sui miei sgretolamenti, abito le
mie demolizioni.
*
9
Frasi che sono liane che sono macchie umide che sono ombre proiettate dal fuoco
in una stanza non descritta che sono la massa scura del boschetto di faggi e
pioppi sferzata dal vento a circa trecento metri dalla mia finestra che sono
dimostrazioni di luci e ombre su una realtà vegetale all’ora del tramonto
attraverso le quali il tempo, in un’allegoria di se stesso, ci impartisce
lezioni di saggezza tanto presto formulate quanto distrutte dal minimo
sfarfallio di luce o ombra che non sono altro che il tempo nelle sue
incarnazioni e disincarnazioni che sono le frasi che scrivo su questo foglio e
che scompaiono mentre le leggo:
non sono le sensazioni, le percezioni, le immaginazioni e i pensieri che si
accendono e si spengono qui, ora, mentre scrivo o leggo ciò che scrivo:
non sono ciò che vedo o ciò che ho visto, sono il rovescio di ciò che si è visto
e della vista – ma non sono l’invisibile: sono il residuo non detto,
non sono l’altra faccia della realtà, ma l’altra faccia del linguaggio, quella
che rimane sulla punta della lingua e che svanisce prima di poter essere detta,
l’altra faccia che non può essere nominata perché è il contrario del nome:
il non detto non è questo o quello che tacciamo, non è né-questo-né-quello: non
è l’albero che dico di vedere, ma la sensazione che provo quando sento di
vederlo nel momento in cui sto per dire di vederlo, una congregazione
intangibile ma reale di vibrazioni e suoni e sensi che, combinati, configurano
il disegno di una presenza
verde-bronzea-nera-legnosa-frondosa-sonora-silenziosa;
no, non è neanche questo, se non è un nome non può essere nemmeno la descrizione
di un nome né la descrizione della sensazione del nome né il nome della
sensazione:
l’albero non è il nome albero, nemmeno è la sensazione di un albero: è la
sensazione di una percezione di un albero che si dissipa nel momento stesso
della percezione della sensazione di un albero;
i nomi, lo sappiamo già, sono vuoti, ma quello che non sapevamo o, se lo
sapevamo, lo avevamo dimenticato, è che le sensazioni sono percezioni di
sensazioni che si dissipano, sensazioni che si dissipano essendo percezioni,
perché se non fossero percezioni, come faremmo a sapere che sono sensazioni?
le sensazioni che non sono percezioni non sono sensazioni, le percezioni che non
sono nomi; cosa sono?
se non lo sapevi, ora lo sai: tutto è vuoto;
e appena dico che tutto-è-vuoto, sento di cadere nella trappola: se tutto è
vuoto, è vuoto anche il tutto-è-vuoto;
no, è pieno e strapieno, tutto-è-vuoto è gonfio di sé, ciò che tocchiamo e
vediamo e sentiamo e gustiamo e odoriamo e pensiamo, le realtà che inventiamo e
le realtà che ci toccano, ci guardano, ci ascoltano e ci inventano, tutto ciò
che intrecciamo e disintrecciamo e ci intreccia e ci disintreccia, apparizioni e
sparizioni istantanee, ognuna distinta e unica, è sempre la stessa realtà colma,
sempre lo stesso tessuto che si tesse disfacendosi: anche il vuoto e la
privazione sono essi stessi pienezza (forse sono l’apice, il culmine e la calma
della pienezza), tutto è pieno fino all’orlo, tutto è reale, tutte quelle realtà
inventate e tutte quelle invenzioni tanto reali, tutti e tutte, sono piene di
sé, gonfi della propria realtà;
e appena lo dico, si svuotano: le cose si svuotano e i nomi si riempiono, non
sono più vuoti, i nomi sono pletorici, sono donatori, sono colmi di sangue, di
latte, di sperma, di linfa, sono gonfi di minuti, di ore, di secoli, pregni di
sensi e di significati e di segnali, sono i segni dell’intelligenza che il tempo
fa per sé, i nomi succhiano il midollo delle cose, le cose muoiono su questa
pagina ma i nomi prosperano e si moltiplicano, le cose muoiono perché i nomi
vivano:
tra le mie labbra l’albero scompare mentre lo nomino e nello svanire appare:
guardalo, turbine di foglie e radici e rami e tronco in mezzo alla burrasca,
flusso di realtà frondosa sonora verde bronzo qui sulla pagina:
guardalo là, sull’eminenza del terreno, guardalo: opaco tra la massa opaca degli
alberi, guardalo irreale nella sua cruda e muta realtà, guardalo il non detto:
la realtà al di là del linguaggio non è del tutto realtà, la realtà che non
parla né dice non è realtà;
e appena lo nomino, appena scrivo con tutte le sue lettere che non è la realtà
nuda di nomi, i nomi evaporano, sono aria, sono un suono incastonato in un altro
suono e in un altro ancora, un mormorio, una debole cascata di significati che
si annullano a vicenda:
l’albero che nomino non è l’albero che vedo, albero non dice albero, l’albero è
al di là del suo nome, realtà frondosa e legnosa: impenetrabile, intoccabile,
realtà al di là dei segni, immersa in se stessa, piantata nella propria realtà:
posso toccarla ma non posso nominarla, posso incendiarla ma se la nomino la
dissipo:
l’albero che c’è là tra gli alberi non è l’albero che nomino ma una realtà che è
al di là dei nomi, al di là della parola realtà, è la realtà così com’è,
l’abolizione delle differenze e l’abolizione anche delle somiglianze;
l’albero che nomino non è l’albero, e l’altro, quello che non dico e che è lì,
dietro la mia finestra, con il tronco già nero e il fogliame ancora infiammato
dal sole del tramonto, non è nemmeno l’albero, ma la realtà inaccessibile in cui
è piantato:
tra l’uno e l’altro si erge l’unico albero della sensazione che è la percezione
della sensazione di un albero che si dissipa, ma
chi percepisce, chi sente, chi si dissipa mentre le sensazioni e le percezioni
si dissipano?
in questo momento i miei occhi, leggendo questo che sto scrivendo con una certa
fretta di arrivare alla fine (quale fine?) senza dovermi alzare per accendere la
luce, approfittando ancora del sole calante che si infila tra i rami e le foglie
del massiccio di faggi piantati su una leggera eminenza
(si potrebbe dire che è il pube del terreno, quindi è femminile il paesaggio tra
le cupole dei piccoli osservatori astronomici e l’ondulato campo sportivo del
College,
si potrebbe dire che è il pube di Splendore che si illumina e si adombra,
farfalla doppia, mentre si muovono le fiamme del camino, mentre crescono e
diminuiscono le onde della notte),
in questo momento i miei occhi, leggendo ciò che sto scrivendo, inventano la
realtà di chi scrive questa lunga frase, ma non inventano me, bensì una figura
del linguaggio: lo scrittore, una realtà che non coincide con la mia realtà, se
ho una realtà da chiamare mia;
no, nessuna realtà è mia, nessuna mi (ci) appartiene, tutti viviamo altrove, al
di là di dove siamo, tutti siamo una realtà diversa dalla parola io o dalla
parola noi,
la nostra realtà più intima è fuori di noi e non è nostra, non è nemmeno una ma
plurale, plurale e istantanea, noi siamo quella pluralità che si disperde, l’io
è reale forse, ma l’io non è io né tu né lui, l’io non è mio né è tuo,
è uno stato, un battito di ciglia, è la percezione di una sensazione che si
disperde, ma chi o cosa percepisce, chi sente?
gli occhi che guardano ciò che scrivo sono gli stessi occhi che dico di guardare
ciò che scrivo?
andiamo avanti e indietro tra la parola che si estingue quando viene pronunciata
e la sensazione che si dissipa nella percezione – anche se non sappiamo chi è
che pronuncia la parola e chi è che percepisce, anche se sappiamo che chi
percepisce qualcosa che si dissipa si dissipa anche in quella percezione: è solo
la percezione della propria estinzione,
andiamo e veniamo: la realtà al di là dei nomi non è abitabile e la realtà dei
nomi è un perpetuo sgretolamento, non c’è nulla di solido nell’universo, in
tutto il dizionario non c’è una sola parola su cui poggiare la testa, tutto è un
continuo andare e venire dalle cose ai nomi alle cose,
no, dico che vado avanti e indietro all’infinito ma non mi sono mosso, come non
si è mosso l’albero da quando ho iniziato a scrivere,
ancora le espressioni imprecise: ho cominciato, scrivo, chi scrive questo che
leggo?, la domanda è reversibile: cosa leggo quando scrivo: chi scrive questo
che leggo?
la risposta è reversibile, le frasi alla fine sono l’inverso delle frasi
dell’inizio ed entrambe sono le stesse frasi
che sono liane che sono macchie di umidità su un muro immaginario di una casa
distrutta a Galta che sono le ombre proiettate dal fuoco di un camino acceso da
due amanti che sono il catalogo di un giardino botanico tropicale che sono
l’allegoria di un capitolo di un poema epico che sono la massa agitata del
boschetto di faggi dietro la mia finestra mentre il vento eccetera lezioni
eccetera distrutte eccetera il tempo stesso eccetera,
le frasi che scrivo su questo foglio sono le sensazioni, le percezioni, le
immaginazioni, eccetera, che si accendono e si spengono qui, davanti ai miei
occhi, il residuo verbale:
l’unica cosa che rimane delle realtà sentite, immaginate, pensate, percepite e
dissipate, l’unica realtà lasciata da queste realtà evaporate e che, pur essendo
solo una combinazione di segni, non è meno reale di loro:
i segni non sono le presenze ma configurano un’altra presenza, le frasi si
allineano una dopo l’altra sulla pagina e nel loro svolgersi aprono un percorso
verso una fine provvisoriamente definitiva,
le frasi configurano una presenza che si dissipa, sono la configurazione
dell’abolizione della presenza,
sì, è come se tutte queste presenze intrecciate dalle configurazioni dei segni
cercassero la loro abolizione per far apparire quegli alberi inaccessibili,
immersi in se stessi, non detti, che si trovano oltre la fine di questa frase,
dall’altra parte, dove certi occhi leggono ciò che scrivo e, leggendolo, lo
dissipano.
Octavio Paz
1974
**
La scimmia grammatica: vetta e testamento
Ne La scimmia grammatica Octavio Paz lascia che i suoi sensi felini giochino e
corrano liberi, pur rimanendo fedele alla costellazione delle sue ossessioni. Le
ventinove stanze che compongono il libro sembrano scritte come variazioni di una
manciata di frasi insistenti. Il libro dà l’impressione di essere stato
trascritto dopo un’esperienza singolare in cui la scrittura, la flora, la
meteorologia, il mondo interiore e lo spazio esterno sembrano uniti da una rete
sottostante di eccetera… Al centro di questa foresta di segni si apre una radura
e al centro della radura vibra un’incessante domanda sul nominare, sulla
possibilità di dire, le domande perennemente poste, evolute e in sospeso,
fremono come foglie che pendono dagli alberi: sono le domande che lo stesso
Buddha evita di rispondere e che alimentano o delimitano il bordo di questo
cratere testuale che è La scimmia grammatica. In esso è disegnata la figura di
un poeta il cui canto è costituito dalle domande e la cui casa è costituita
dalle parole che inventano lui e il suo doppio Splendore, che è anche un
personaggio di Valmiki.
Il poeta dice di aver fatto di Hanuman, la “scimmia grammatica”, una delle sue
figure tutelari: “in tutto il dizionario non c’è una sola parola su cui poggiare
la testa, tutto è un continuo andare e venire dalle cose ai nomi alle cose”. Da
qui l’importanza di stabilire un “catalogo di un giardino tropicale” come quello
che questo avatar-lettore messicano di Valmiki e Hanuman raccoglie nell’ottavo
capitolo della sua opera. La foresta ricreata da Paz richiama alla mente la
voracità lessicale di Saint-John Perse. La scimmia grammatica si presenta
nell’opera di Octavio Paz come una vetta e un testamento, una
sindone, un’eredità e un rituale che il poeta innalza come sacrificio a quella
figura al cui sole lo accoglie e lo divora e lo rende capace non solo di
decifrare il significato nascosto delle scritture ma di sprofondare in esse con
tutto e l’ombra, con tutto e lo Splendore.
II
Scimmia grammatica: l’animale che crede in Dio, la bestia che sbava significati.
Con la grammatica, traveste la sua condizione scimmiesca: chiama questa
mascherata: poesia, cultura, religione. Ma la formica, l’ultima cellula
primordiale, non è anch’essa grammatica? Non è forse linguaggio la più
elementare particella della vita?
*
Scimmia: primate, ma anche sesso.
Grammatica: accademia, polizia.
Scimmia-grammatica: sesso punito, corpo sottomesso dal linguaggio.
*
Animale capace di sacrificarsi. Animale intrappolato nella rete dei significati
e del concetto crocifisso. La grammatica è par excellence: la croce. Il senso
della vita: dislocare, seppellire, disseppellire la croce e, con essa, il volto.
La scimmia si guarda nello specchio della grammatica – cioè la croce – e scopre
un volto – ma lo accetta veramente solo quando riesce a lucidare lo specchio e a
fare del sacrificio una nuova, seconda natura: umanità. Ma questa è solo
un’ombra di speranza, un’ipotesi. Prima, la scissione, la separazione tra
zoologia e cultura, immanenza bestiale e scommessa etica, poetica.
*
Scissione: anfora rotta, scimmia grammatica. La solitudine della scimmia senza
grammatica. Cecità, sordità del labirinto in assenza della scimmia che lo
percorre. La grammatica organizza il mondo. È il tesoro segreto di Adamo, la
chiave che gli permette di non perdersi tra le sue denominazioni. Ma la
grammatica è anche un progetto, un’utopia, il sogno che tiene sveglia la scimmia
e la precipita nella scrittura, nella politica, nella tentazione di ordinare il
mondo e di ridare alle cose-parole il loro vero, utopico, futuro nome.
*
Grammatica, la scimmia? Un gorilla mostruoso che si veste da avvocato, da
cattedratico, da prete; uno scimpanzé cinico che, quando gli conviene, sta sugli
alberi e quando no, scende sul pulpito. Scolastico, sentimentale, vorace,
pettegolo – a volte confonde la grammatica con il contagio, il significato con
il calore tribale e, necessariamente, la sintassi con la teologia. A volte
scimmia, a volte grammatica, sempre mendicante di verità, povera di
Splendore[1], orfana della foresta e della monade, il suo vero, unico amore. Le
dà appuntamento, appuntamento nello specchio della parola, ma lei non appare
sempre. La invita a tutte le coniugazioni, ma lei disprezza le contingenze; la
corteggia in tutti i casi ma lei scappa tra i congiuntivi. La scimmia, delusa,
le volta le spalle e si dirige verso la città dei fuochi estinti e tra le ceneri
del dizionario cerca la sua ombra grammatica – quasi mai con successo. Fugge.
Vorrebbe appendersi a una liana, cadere in un pozzo: le altre scimmie, le
scimmie sgrammaticate, vedono solo una scimmia a volte malinconica, a volte
furiosa, divorata dall’invisibile e leggendaria lebbra. Si chiama grammatica. La
contraggono coloro che si ostinano a seguire un percorso. Di solito finiscono
così, crocifissi su una lettera, scorticati sul segno della loro scelta – ed è
comune vederle accasciarsi con un sorriso beato e uno sguardo atroce che
chiunque, anche la meno grammaticale delle scimmie, riconoscerebbe. La scimmia
accasciata viene immediatamente circondata dalle semiscimmie; le semigrammatiche
perché quasi tutte sono meticce e, di conseguenza, sterili.
*
Questa è la differenza con la Scimmia Grammatica, che è invariabilmente feconda
e capace di ingravidare qualsiasi femmina con un leggero tocco della lingua,
della coda o di una qualsiasi delle sue estremità. Naturalmente, molte scimmie
rimangono incinte, ma poche grammatiche raggiungono la maturità. Vengono
abortite o si rovinano presto. Anche quando si sviluppano, hanno vita breve,
perché le scimmie grammatiche si distruggono a vicenda. E non solo: alcune sette
sono cannibali e sostengono che l’unico modo per fecondare l’ingrediente
grammaticale del loro essere sia quello di divorare il cervello di altre scimmie
grammatiche. Questa pratica non è priva di pericoli e le scimmie (grammatiche,
semigrammatiche o non grammatiche) rifiutano istintivamente le scimmiofaghe
perché emanano un odore inconfondibile e, inutile dirlo, insopportabile.
*
Un’altra pratica comune è quella in cui coppie di scimmie maschio e femmina
uniscono le forze per fare il viaggio insieme e raggiungere insieme tanto
agognata grammatica. Così, non è raro vedere un maschio visionario sul dorso di
una femmina che sostiene di sentire delle voci. Naturalmente finiscono per
scontrarsi, poiché l’emblema di El Dorado Grammaticale quasi mai coincide con il
clamore delle voci. Da un lato, la grammatica porta la scimmia a camminare in
linea retta; dall’altro, la sua condizione di scimmia la porta a vagare tra i
rami. Ma la cosa più comune è vedere le scimmie grammatiche riunirsi in piccole
bande nemiche tra loro. Ogni banda inventa una lingua a condizione che ognuna
delle scimmie rinunci al suo sogno di grammatica. Sostituiscono il prurito
ossessivo di un linguaggio trascendente – capace di trascendere la condizione di
scimmia – con i frammenti di un linguaggio limitato e utilitaristico, che
condividono, masticano e sputano come una gomma da masticare.
*
Il risultato è che perdono gradualmente la memoria – la memoria del canto – e
anche, tra l’altro, le loro caratteristiche scimmiesche – almeno così credono.
Ci sono anche scimmie grammatiche a cui è vietato comunicare con scimmie
dell’altro sesso o di altri gruppi. Quando muoiono, le scimmie vengono
incinerate. Le loro ceneri vengono diluite in acqua e olio e con esse fabbricano
un liquido con cui dipingono una sorta di cipolle quadrate che chiamano libri e
che conservano in templi chiamati biblioteche. Lì, secondo la tradizione, abita
l’invincibile dio della grammatica. I guardiani di questi templi sono scimmie
sparute, malinconiche e irascibili. Si dice che, sebbene sembrino morire
scorticate come si è detto, possiedano il segreto dell’immortalità. Deve essere
davvero un segreto, perché finora nessuno l’ha rivelato.
Ma l’associazione tra scimmia grammatica e poeta è già uno scandalo. La prima –
chi può dubitarne? – è un mammifero, tra tutti, cerebrale, mentre il secondo si
è sempre distinto per la mancanza di cervello. O forse non avevamo riflettuto
bene e non ci siamo resi conto che la coscienza del poeta è rigorosamente
equivalente a quella della scimmia, rapita dai succhi acri della grammatica.
Hanno però una cosa in comune: entrambi conoscono l’arte di arrampicarsi sui
rami.
*
Ma al poeta – che non ha cervello – la rettitudine viene dal cuore, dal pensiero
d’amore. Assomiglia a Don Chisciotte, all’“idiota” del libro di Dostoevskij; non
va nel tumulto degli intelligenti, i furbi e gli efficienti: non ha cervello e
si differenzia dalle altre scimmie perché sa di essere ridotto alla condizione
bestiale nella misura in cui non è trasfigurato dalla passione. Scopriremo il
suo nome nel libro dell’anima solo imparando la grammatica dell’amore.
*
Scimmia grammatica: scimmia innamorata.
*
L’innamorato che perde la ragione diventa un uomo dei boschi, un pazzo
selvaggio, selvatico. È il Cardenio di Don Chisciotte in cui il cavaliere non
manca di riconoscere alcuni riflessi dell’incendio che lo devasta. La grammatica
della scimmia lacera e si squarcia: traduce la legge di una lettera incendiaria
– la legge dell’amore. Perdendosi nella foresta di simboli e analogie, la
scimmia grammatica recupera il suo senso, la sua linfa: diventa un albero, un
succube dell’albero. Dentro l’albero c’è lui; dall’esterno è visibile solo la
chioma, quell’abito che chiamiamo anche opera.
Adolfo Castañón
*In origine il saggio “El mono gramático: Cima y testamento” è stato pubblicato
su “Letras Libres”, marzo 2014.
**La scelta e la traduzione dei testi di Octavio Paz e di Adolfo Castañón è a
cura di Diana Mazon.
https://letraslibres.com/revista-mexico/el-mono-gramatico-cima-y-testamento/#footnote-33300-4-backlink
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[1] Nel libro Il mono grammatico di Octavio Paz, Splendore è una figura
femminile simbolica, evanescente e poetica. Non è un personaggio realistico, ma
una presenza luminosa e ideale che incarna un’esperienza di rivelazione,
desiderio e bellezza. Rappresenta forse la poesia stessa, oppure la conoscenza
pura o il linguaggio che si manifesta e si sottrae. Compare come apparizione,
visione o intuizione, e funge da guida e tentazione per il protagonista nel suo
cammino interiore verso il senso, la scrittura e il silenzio.
L'articolo “Lingue nascenti, larve, feti, aborti”. Octavio Paz o dell’eterna
lotta contro il linguaggio proviene da Pangea.