Ho conosciuto Douglas Glover grazie a Eugene Marten. Nell’intervista realizzata
su questo foglio telematico, l’ottimo scrittore americano appena tradotto da
Playground cita The Life and Times of Captain N.; un libro, dice, più bello
di Meridiano di sangue. M’informo. Il romanzo, ambientato durante gli anni della
Rivoluzione americana, tra il 1779 e il 1781, alterna rovinosi tradimenti ad
affabili efferatezze. Il protagonista, Oskar, un ragazzino, scrive una lettera a
George Washington; il padre – arguto in violenza – ha scelto di stare col Regno
di Gran Bretagna; la madre è in piena isteria, i nativi imperversano, a fiotti,
elegantissimi nell’uccidere (“Verità è bellezza”, dice, a un certo punto, un
nano, mentre maneggia il Tristram Shandy e la Anatomy of Melancholy di Burton,
“Guarda i selvaggi: poesia che prende vita. Ogni loro gesto è retorico. Per loro
bellezza è verità. Per raccontare la loro verità devi dimenticare questo mondo e
parteggiare per il poetico”).
Del romanzo esiste anche una versione francese, dal titolo più incisivo: Le
Rédempteur. In origine, uscì per Knopf nel 1993, l’anno in cui Cormac McCarthy,
dopo decenni di grandi romanzi per lo più sconosciuti ai più, accede al grande
pubblico, con Cavalli selvaggi. L’anno prima, Richard B. Woodward lo aveva
intervistato per il “New York Times”, creando l’icona del the best unknown
novelist in America: lo scrittore assiso in una sua insonorizzata solitudine,
che parla poco, professa l’eremitaggio etico, conosce i serpenti a sonagli del
Mojave. Grosso modo con le stesse parole – the most eminent unknown Canadian
writer alive – è stato censito Douglas Glover. La nota che appare sul suo sito,
alimenta un’agiografia di smarrimenti e sottrazioni: “L’oscurità di Douglas
Glover è leggendaria; è noto soprattutto per essere sconosciuto”. Si citano i
due figli, “Jacob e Jonah, che senza dubbio diventeranno più bravi di lui”. I
suoi libri – così scrivono alcuni giornali come “Music & Literature” – “possono
essere paragonati ai romanzi di Cormac McCarthy, Donald Barthelme e William
Faulkner”.
In realtà, di Douglas Glover si sa molto – per lo meno, abbastanza. Nato nel
1948 a Simcoe, piccolo borgo canadese, in Ontario, dove aveva sede l’azienda di
tabacco della famiglia, ha studiato filosofia a Toronto, si è specializzato a
Edimburgo, ha praticato come giornalista, è stato “writer in residence” in
diverse università, più o meno note. Nel 2010 ha fondato la rivista letteraria
“Numéro Cinq”, che ha diretto per sette anni. Douglas Glover ha le stimmate del
guru, è messianico perfino nel viso: fronte ampia, occhi levati da uno spirito
lupo, impettita magrezza; lo straordinario nell’ordinario. Quando lo
fotografano, spesso si vela il volto con mani in mandria.
È un teorico della letteratura; meglio: è un profeta della scrittura, uno che
scava, uno che stana il verbo. Uno in caccia. Tra l’altro, ha scritto un saggio
su “Don Chisciotte”, The Enamoured Knight, ma i suoi interventi più sagaci sono
quelli brevi, predatori. Tra i tanti, preferisco The Novel as a Poem; attacca
così:
> “Il miglior insegnante di scrittura che abbia mai avuto era un cowboy del
> Kansas, si chiamava Robert Day, l’ho conosciuto all’Iowa Writer’s Workshop,
> era capitato all’ultimo minuto per sostituire un collega: sarebbe stato con
> noi un semestre, era il gennaio del 1981. Il primo giorno di lezione –
> indossava stivali, jeans, camicia a scacchi – non disse una parola, prese il
> gesso, segnò la lavagna con una scrittura a caratteri cubitali: Ricordati di
> ricordargli che il romanzo è una poesia”.
Robert Day, da giovane, aveva lavorato per G.P. Putnam’s, a New York, “ricordava
ancora l’entusiasmo per la pubblicazione di Lolita”, aveva pubblicato un solo
romanzo, The Last Cattle Drive, aveva un ranch nel Kansas occidentale, “gestito,
ai limiti della legalità, insieme ad alcuni amici”. Indottrinò Glover intorno
alla sapienza letteraria di Raymond Queneau, Robert Musil, Chinua Achebe, Amos
Tutuola, Vladimir Nabokov e Kobo Abe. Non potremmo immaginare scrittori più
diversi tra loro.
Douglas Glover esordisce alla letteratura proprio nel 1981, con The Mad River
and Other Stories, un libro pressoché introvabile. Il primo dei suoi cinque
romanzi, Precious, esce due anni dopo: è la parodia di un giallo; il
protagonista, “un giornalista alcolizzato ed esausto con la tendenza a cacciarsi
nei guai e tre matrimoni falliti alle spalle”, pare ritagliato sulla sagoma di
Hank Quinlain, il personaggio eternato da Orson Welles. Il romanzo più noto – e
più tradotto – di Glover s’intitola Elle: ambientato nel XVI secolo, romanza
l’epopea di Marguerite de La Rocque, giovane donna francese abbandonata da
Jacques Cartier presso la leggendaria “Isola dei Demoni”, Terranova. Si
susseguono, in rissa, orsi, spettri, inuit; dissero dell’“immaginazione
rabelaisiana di Glover”. Il romanzo, uscito nel 2003, dieci anni dopo The Life
and Times of Captain N., permise a Glover il Governor General’s Award, il premio
letterario più importante del Canada, superando Margaret Atwood.
L’ultimo libro pubblicato da Glover, The Erotics of Restraint, una raccolta di
saggi, è uscito nel 2019; l’ultimo pensiero on writing è uscito la scorsa
estate: Glover parla di Anna Karenina e più in particolare di Literary Suicide.
Avrebbe voluto scrivere un romanzo “sul suicidio del mio bisnonno, nel 1914.
Alla fine ho abbandonato l’impresa perché, immagino, non avrei saputo descrivere
un suicidio”.
The Life and Times of Captain N. – di cui in calce si offrono, in libera
traduzione, alcune pagine – è un libro docilmente torbido, molto bello. Rispetto
a Meridiano di sangue, la cui scrittura, biblica e ancestrale, procede per
gnostiche involuzioni, qui si va per folgori, per agnizioni improvvise, per
bruschi lampi. Meridiano di sangueè un romanzo-assedio; The Life and Times of
Captain N. è un romanzo razzia. Nello stesso anno in cui esce il romanzo – per
dire della pervicacia del ‘genere’ – Gli spietati, il cupo western di Clint
Eastwood, ottiene quattro Oscar.
Soprattutto, The Life and Times of Captain N. è una riflessione sul senso della
scrittura, se la scrittura possa davvero testimoniare la verità quando non il
suo idolo, la sua contraffazione. A un certo punto Oskar, il ragazzo che sta
scrivendo la sua storia, scrive:
> “Intendo dire la Verità, ma è difficile afferrarla. La Verità è una Maschera &
> il suo Stigma è la Divisione. Non è che il Nulla che giace tra le Cose.
> Vortica. Eppure credo che conoscerla sia una specie di Pazzia, di gioioso
> Conforto”.
Tracciare i punti di contatto tra Douglas Glover e Cormac McCarthy è infine
inutile: un gioco di apparenze, di eteree strategie letterarie, di fuochi in
fuga. Le grandi singolarità sono imparagonabili, la scrittura prevede un uomo
solo, qualcosa che scalfisce la parola pioniere e la parola primevo. È ora di
tradurre Douglas Glover.
***
Da The Life and Times of Captain N.
Il Patto sconfitto
Agosto-settembre 1779
Dio d’acqua
Il ragazzo arranca con la penna d’oca, schizza gocce d’inchiostro preparato in
casa sulla rude corteccia di betulla. La lingua lecca il labbro superiore: si
concentra. Sei pronto a scrivere? Pensa. Sei pronto a dire la verità? Sì.
Il ragazzo ha quindici anni. Il padre è scomparso nella foresta, è andato a
cercare il re. La madre è a letto. Le sue grida e i suoi miagolii allontanano
tutti dalla casa. Nella chiesa che il padre ha costruito in una porzione della
fattoria, la gente del villaggio recita preghiere per lei e per i suoi figli –
blatera bestemmie contro il padre del ragazzo. Gli zii e le zie del ragazzo sono
in fila sui banchi per denunciare il fratello. Quando pregano in silenzio, odono
le urla della madre del ragazzo.
Non si lava – non mangia. Lo spazio puzza, galoppano i gemiti. Ci sono altri sei
bambini oltre al ragazzo – lui è il più grande. Corrono, liberi, nel cortile
della fattoria, nel bosco. Venite, vicini, venite, servitevi degli animali della
fattoria, fottete gli attrezzi del padre. Cardi e bardana, senape selvatica e
erbe matte soffocano i filari di mais. I cervi “pascolano di notte dove le
recinzioni sono state sfondate.
Caro Gen. Washington, mio Padre ci ha picchiati tutti”, scrive il ragazzo. “Era
un terribile Uomo. Non dovremmo essere trattati male per quel che ci ha fatto.
Lui picchiava mia Madre & lei picchiava il bambino. Mio Padre picchiava me & io
picchiavo Ephas, Jonah, Sophronia, Cacophonia & Ella. Poi mi ha picchiato perché
li picchiavo e li ha picchiato perché si sono fatti picchiare. Per altri versi,
era un Uomo Buono, ma ora può capire perché è andato a combattere per il Re. Il
mio nome è Oskar Nellis. Sono per la Repubblica. Penso che ci debbano restituire
la Mucca. Goldie, il Nero, è andato via con Papà. Altri tre sono scappati nella
foresta. Ce li devono restituire”.
Il ragazzo smette di scrivere perché qualcuno cerca di forzare la serratura del
gabinetto. La porta si apre e rivela un ragazzo magro, sulla ventina, naso
lungo, verruca sul mento, cappello a tesa larga, sporco, pantaloni strappati
fino al ginocchio. È scalzo, come Oskar.
È un dio d’acqua, un Dunkard, un battista errante di nome Tobias Catchpole, che
venne a pregare circa tre anni prima con la madre di Oskar, grosso modo quando
il padre di Oskar è partito per la guerra. Lei disse che le aveva donato la
Luce. Una volta ricevuta la Luce, smise di parlare del padre di Oskar. Non fu
mai più menzionato il suo nome. Ora Tobias Catchpole ha il controllo totale
della casa dei Nellis. Ha buttato giù Oskar ed Ephas dal loro letto in soffitta.
Uccide polli e maiali per cena senza chiedere il permesso, senza condividerli
con i ragazzi. Ha venduto i vestiti del padre di Oskar ai passanti.
“Cosa fai?”, chiede il dio d’acqua: si abbassa i pantaloni, ha le anche pallide
e sporche, la scorreggia squittisce.
“Scrivo”, dice il ragazzo.
“Opera di Satana”, dice il dio d’acqua. “Chi ti ha insegnato?”. “Sir William
Johnson, signore, il nano”, dice Oskar. “I bambini andavano a scuola ma il nano
mi ha insegnato a scrivere prima che fossi abbastanza grande per la scuola”.
“Ti ha insegnato a scrivere col sangue?”, gli chiede il dio d’acqua.
“Nossignore. Non ho mai sentito parlare di quel metodo”.
“Probabilmente, ti stava fregando. Ti ha fatto firmare qualcosa?”.
“Mi ha addestrato a firmare con il mio nome”, risponde Oskar. “Ma solo sulla
corteccia di betulla”.
“Senza alcun dubbio hai firmato qualche patto diabolico con i selvaggi. C’erano
disegni sul rotolo?”
“A volte”.
“Dobbiamo portarti all’acqua. Dobbiamo lavarti e purificarti nell’acqua”, dice
il dio d’acqua.
*
Non c’era nessuno
Non c’era nessuno. Poi furono tutti. Silenti, come la luce del sole.
Nonna Hunsacker sedeva e canticchiava sulla sedia a dondolo, con i piedi sulla
padella. Giuro su Dio: continuò a canticchiare anche dopo che Dolce Vento le
spaccò il cranio, anche dopo che il cervello le sbocciò ovunque. Stava ancora
canticchiando e lui le sollevò i capelli e cominciò a scorticarle la fronte.
Mentre mio fratello Abiel tentava di sollevare un’obiezione, Tuono che Scalpita
gli segò lo stomaco con un coltello da caccia. Abiel si sedette sulla sedia
dallo schienale vertiginoso, quella che usava Papà, a capotavola, tenendosi le
budella nella camicia, tirando su col naso, a vaste zaffate. Philomela urlò agli
assassini, corse all’aperto, tenendosi la gonna. Uccello che Vola e Luce che si
Sbriciola, nient’altro che ragazzi, poco più grandi di Abiel, la fecero
inciampare nel porcile. Quando cercò di strisciare, le saltarono in groppa,
finché non le si spezzò la schiena.
Buttai Baby Orvis dalla finestra tuffandomi a capofitto dietro di lui, corremmo
verso il campo di grano dove mamma e zia Annie ammucchiavano i covoni. Gli unici
suoni che udivo erano la cantilena di nonna Hunsacker, i lamenti di Abiel, le
urla di Philomena. Mi voltai e vidi Tuono che Scalpita che mi fissava.
Tra me e la casa c’erano una mezza dozzina di alberi; mi diressi verso il covone
più vicino; mi rintanai lì con Baby Orvis. Philomena gemeva, mormorava “Mamma,
Mamma…”; Abiel rovesciò un urlo orribile. Non vedevo mamma e zia Annie,
probabilmente si erano date alla fuga.
Il piccolo Orvis cominciò a piangere. Dalla luce che filtrava dai covoni vidi
una specie di uovo d’oca, una specie di pugno blu che gli usciva dalla fronte,
dove aveva sbattuto, precipitando dalla finestra. Cercai di zittirlo – non servì
a nulla. Mi tirai giù la parte superiore della maglia e gli ficcai un capezzolo
in bocca, come avevo visto fare a mamma: anche se non avevo un petto degno di
nota, Orvis non se ne accorse, non lo voleva. La pula mi inceneriva le narici,
si insinuava sotto le vesti.
Caldo come febbre.
Sopra ogni cosa, là fuori – la fattoria e i campi, la natura selvaggia oltre le
recinzioni – era planato il silenzio.
“Ci farai uccidere”, sussurrai a Baby Orvis. Avevano ucciso il mio cane,
Romulus, pensai.
Baby Orvis lo hanno ucciso.
Uccello che Vola, indossando il grembiule di Philomena, lanciò Orvis in aria: lo
colpì con la baionetta otto o nove volte prima che Orvis smettesse di urlare.
Ero sdraiato tra le stoppie di grano, Dolce Vento mi teneva le mani. I capelli
di nonna Hunsacker pendevano dalla sua cintura, gocciolava sangue. il sangue di
Orvis piroettava verso il sole ogni volta che Uccello che Vola lo sollevava.
Rotolò su se stesso contro il cielo azzurro, torceva la testa, urlava, in un
groviglio di sangue e di azzurro. Benché non avesse ancora capelli degni di
nota, Uccello che Vola raspò il cranio di Orvis, infilò lo scalpo nella
cinghia.
Incrociammo mamma e zia Annie ai margini del bosco: erano sdraiate, le teste
mozze, mosche che si infilavano nei loro occhi sbarrati. Nonno Hunsacker era
appollaiato, illeso, su una roccia. Sedeva, le mani sulle ginocchia. Quando
Tuono che Scalpita lo chiamò, nonno Hunsacker si alzò, zoppicò verso di lui.
Tuono che Scalpita lo colpì con un moschetto. Poi si inginocchiò, cominciò a
fargli lo scalpo, tagliava come si raccolgono i cavoli.
Douglas Glover
*In copertina: Newell Convers Wyeth, Crows in Winter, 1941
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Nel 1956 Alberto Arbasino intervistava Céline a Meudon, incontrando «un vecchio
sfinito, abbandonato dentro un maglione a pezzi, fra mobili e pavimenti che
gridano “ma non ce l’avete uno straccio per la polvere in questa casa? Piuttosto
ve lo porto io”, troppo stanco e confuso e al di là d’ogni possibile moto del
cuore perché sembrasse importargli di nulla».
Però, quest’uomo forse così sfinito non era, se diceva:
> «gli accademici e i gesuiti non hanno inteso i valori e il mistero delle
> letteratura classica, inafferrabili con strumenti ordinari, compresi soltanto
> dai mistici e dai romantici tedeschi».
Oltre l’apparente esaurimento delle forze, questo padrone di casa osava
coltivare formule e fiori per l’immortalità?
Le sue vere, disperate, prime preoccupazioni: cose molto difficili, come il
dolore, la vita, la morte, la grazia. In un mondo spesso ripugnante, la bellezza
vera dove si rifugerà? Ecco, le idee etiche ed estetiche più urgenti per Céline
sono la consistenza del trapezio (come in Verlaine) e lo stile:
> «ormai – spiega Céline ad Arbasino – i contatti umani sono così invadenti che
> l’insegnamento e l’informazione non hanno più niente in comune con la
> letteratura, e viceversa. E poi c’è troppa gente che gira in automobile, che
> vuole arrivare in fretta. Vivono tra il comunismo fittizio e le vendite a
> rate: sempre più fedeli ai dettati borghesi».
Per lui questi dettati (riassunti nella parola «fingere») sono un veleno che
irrigidisce il ritmo del cuore, sterilizza l’emozione del respiro, sacrifica
l’oralità e il corpo della frase.
È la grigia, piccola lingua senza musica degli uomini qualsiasi che tengono la
morte (e quindi la vita) a distanza, con la «sintassi perfetta» ed evitano il
rischio, mettendo in sordina la verità per restare presentabili e defunti.
«Finzione di sé» che Céline sabota col fraseggio scosso, i tre puntini come
sfiato, la radiosità intermittente (ironia della sorte, la sua insubordinazione
è diventata nuovo canone che i borghesi d’oggi fingono di desiderare e capire?).
Céline ribadisce fino alla morte la fiducia nelle sue invenzioni linguistiche,
nell’argot, nella tecnica della sua scrittura, con l’intento di proseguire la
sua vocazione estetica oltre la vita, quasi un debito morale verso sé stesso e
verso gli altri che vorrebbe diversi, migliori: «voglio continuare a fare il
vecchio clown su un trapezio, lassù, a quarantacinque metri». Ma è difficile
praticare quelle alture per la gente qualsiasi dove la vita è solo una rovina
tutta coltivata al suolo. Cosa che pure Pasolini (altro uomo del trapezio)
sapeva.
Che cos’hanno in comune due autori come Pasolini e Céline? Essere contesissimi
ostaggi per malati ideologici, fra destre e sinistre. Portati entrambi a forza
al commissariato per certificare adesioni totalizzanti e precise mai
avvenute. Tutti e due molto «amati», cioè svenduti, per incarnare la scrittura
schierata a esprimere un’impossibile e indesiderabile «letteratura politica». In
particolare c’è sempre molta attenta, ossessiva, filologia riguardo
inequivocabili intenzioni di Céline in materia di razzismi, nazismi, fanatismi.
Ma nessun amatore d’arte letteraria dovrebbe occuparsi di questi folklori,
figurarsi la critica. Non ci sono troppi dubbi: l’attuale ricezione di Céline è
storpia, distratta, patologica, impronta una telenovela. Per miracolo, a
proporre il farmaco a questa malattia insopportabile è già lo stesso
Céline in Céline, talentuoso patologo. Una comprensione ardita, ossia rovesciata
e paradossale della sua opera. Forse i lettori di Céline sono anche suoi
‘pazienti’? Se sì, lui è un medico severo. Riga dopo riga, chiede: “sei
stupido?”, “sei vivo”?, “quanta merda inghiotti?”.
Louis-Ferdinand Céline (1894-1961)
Fra le mentite spoglie del finto cameratismo, i libri di Céline negano ai
curiosi il diritto a mentire sulla loro eventuale condizione deprimente di
cadaveri. Non cercano nel lettore un complice ma un colpevole di morte in vita.
È il tranello perfetto di un medico-poeta del romanzo.
Travestito da guascone disilluso, chiede per tutto il tempo della sua
letteratura, serissimo: che cosa hai fatto della tua coscienza? Della tua vita?
Del tuo tempo storico? Sei il famigerato morto che cammina? Questo scrittore,
questo sciamano, cerca un colpevole che ha compiuto una specie di vilipendio di
verità e di desiderio. Involontario ospite dello sguardo filosofico di Cristo
sul mondo, pare Céline abbia osservato fino all’ultimo quella legge biblica che
già «Ferdinand» bambino aveva trascritta «nella carne del cuore»: la vita non ha
bisogno di essere redenta ma pronunciata, e per intero, senza esitazione o
pietà. Il «fico secco» è condannato.
Però, come si blinda una così alta idea dell’esistenza (e quindi anche della
morte) da sguaiate effrazioni dei superficialini e dei fans?
Infatti, Louis-Ferdinand Céline (un nome, un brand, un trend?), coincide
amaramente con tentativi multipli di sintesi maledettiste, perfette per
cacciatori di titoli e scandalini: “dissacrante”, “proibito”,
“ingovernabile”, “mostruoso”, “geniale”, “dissacrante”, “sconcertante”,
“realista, “osceno”, “pessimista”, “scorrettissimo”, “grottesco”, “visionario”,
“illeggibile”, “delirante”, “disturbante”, “innovativo”, “maledetto”,
“impopolare”, “innominabile”, “vietato”, “morboso”, “angosciante”, “crudo”,
“irascibile”, “collerico”, “arrabbiato”, “narratore dell’orrore di questo mondo”
(per tacere la targhetta “Nichilista”, e Disincanto&Cinismo, quasi in una sete
di naming). Tutto vero o tutto falso?
Forse solo banale, dunque osceno, qualunquistico.
Molestia alla sua intima irriducibilità. Etichette che suonano puerili, in
accumulo compulsivo di aggettivi, prova indiretta dell’incapacità critica nel
sostenere il passo della parola céliniana. Perché la sua scrittura, più che da
fotografare con termini veloci, è da guardare come vita che pulsa oltre il mito
mediatico del cantore della dissoluzione. Una vita piena, sovrabbondante,
eruttiva, verticale. Rigore mascherato da tenebroso caos, che invece è un sole e
una guida abbagliante?
In molte tradizioni filosofiche ciò che è più vivo non è evidente, ma nascosto.
L’Ātman indiano, quella «tenebra sovrabbondante» di luce inaccessibile alla
ragione discorsiva, coincide con quella dimensione che i greci chiamavano zoé,
il più di vita, la vita che rende viva la vita, e non è semplice sopravvivenza,
ma intensificazione irriducibile dell’esperienza. Céline conosce questa
dimensione intimamente. L’ha sperimentata nel solo modo possibile, con
l’attraversamento della morte, con la carne, il dolore, la rinascita. Da vero
artista, ha osato, manganellianamente, «abitare la soglia», fino a scoprire che
l’energia vitale, se mossa dal vero desiderio, sa crescere quando più viene
messa in pericolo dai tradimenti mortiferi che la vita rischia di infiggerle:
seppellire la propria verità la rivolterà contro il suo carnefice. Il pensiero
di Céline è un anatema a Thanatos, quasi un «chi conserva la propria vita la
perderà».
Da questo punto di vista, la sua opera somiglia a un’insolita epifania bardica
più che all’accessibile bestemmia moderna. «Io sono celtico, prima di tutto»,
confessava in lettera a Milton Hindus, «sognatore bardico… la mia musica è la
leggenda». Questa è la via per il forziere di Ferdinand/Céline? La leggenda come
patria dell’anima, custode dell’Essere? (altro che “anti-eroe”!). Quali elementi
Céline ci autorizza a bruciare come incensi e quali, invece, a «buttare nel
cesso»? Cosa fa, quando scrive? La sua scrittura non è nemmeno nel segno del
«realismo. C’è, in apparenza, seppure in forma di piccolo strumento, piegato
come un prigioniero alla vendetta contro la crudeltà del mondo; ma sotto la
superficie di una forsennata tendenza al «racconto» e al «fatto», come un
segreto canto di fondo vibra qualcosa di enorme: avranno le orecchie per
danzarlo, tutti questi veloci lettori céliniani?
Marina Alberghini annoda – nel suo saggio Céline magico – il segno metafisico a
questo vibrare. Céline si circonda di «Fiori dell’Essere» (mémoire des
fleurs)[1], mondo marittimo e celeste, d’altrove e d’oltre, extrasensoriale,
abitato da figure simboliche, nobili archetipi, forze mitiche, Onde, da cui
diceva gli arrivasse la voce che lo rendeva romanziere. Eppure a fiumi lo
chiamano nichilista.
L’idea che Céline sia notista letterario della morte è facile ma povera.
Il suo cruccio è lontano dal beatificare la fine, e sembra invece punire,
confinare, in ogni sua mossa (che sia letteraria, o di opinione critica, lungo
risposte inesorabili durante interviste), la morte e i suoi effetti, in un
carcere di massima sicurezza, e farla incapace di pronunciare l’ultima parola.
Questo carcere è quel tipo di opzione che una parte degli esseri umani sceglie
di attraversare nel modo più scemo possibile: suicidandosi da vivi. Céline
quindi non «celebra la morte», ma la comicità che vede nella scelta
maggioritaria di farne una ridicola, grottesca edificazione a stile e postura
nel vissuto (travestimento ipocrita, o alibi, della sopravvivenza).
Come i veri poeti, non conosceva il vuoto: l’assenza di pienezza è la vita non
poetica, non generativa, non trascendentale. Sapeva che l’unica «vittoria»
possibile è contro sé stessi – contro le miserie dell’ego rapace e materiale –,
è intensificare la vita fino a percepirla più forte della sua negazione (se il
dolore, come il bello, va udito e poi coltivato con l’anima, non estetizzato).
Leggere Céline, che insegue, minacciandolo, il suo lettore, puntandogli un
coltello alla schiena, richiede esperienza del profondo, o almeno il desiderio
di farne una, e non si può parlare della sua visione dell’Essere senza aver
misurato la propria, nelle scelte, nella rinascita vigorosa quotidiana di sé.
Chi scriverà su Céline senza essersi bruciato il cuore, senza aver accettato di
vedersi e da altri essere visto, di portare la ferita alla luce, resta un suo
grigio commentatore, esterno, inservibile. Va indossato, senza esitazione, il
piglio del bardo e dello sciamano, travestiti da uomini qualsiasi.
Morte a credito lo dimostra, con una grinta intellettiva che non ha bisogno di
interpretazioni astratte. Il libro scorre come sangue freschissimo, irruento, in
dono al lettore anemico. Céline incita, pagina dopo pagina, a uscire allo
scoperto, a correre il rischio di essere riconosciuti. Nascondersi significa
morire per gradi, vivere significa aprirsi al suono più vero dell’anima propria,
costi quel che costi. E Ferdinand, bambino-funambolo tra miseria, frustrazione e
pressioni familiari, fatte di malumori e ricatti morali, lo sa. Gli schiaffi del
padre, la durezza della madre, le aspettative schiaccianti della “Coccinella”,
il grigiore del Passage non producono in lui vittimismo ma visione. E Courtial
De Pereires, brillante imbroglione, non è solo un personaggio, è l’allegoria
esplosiva del sogno che insiste anche quando tutto lo contraddice. L’unico
credito che non si riscuote mai è quello che vale davvero?
Così pare dica il nostro Dottor Ferdinand.
Céline non permette alla realtà di diventare palude. Non negozia la vita al
ribasso, e anche quando odia, odia per amore della vita.
Il Passage des Bérésinas è tutto: geografia, teatro del mondo, destino. Céline
lo dipinge con un tocco pienissimo di realtà che mai risuona cinico. La miseria
per lui non è retorica impressionista, è dato compositivo con cui la scrittura
fa nascere una musica nuova. Pagine graveolenti, piene di gas, urine, catarri e
sputi, e di meraviglia divertita, come un film delle comiche girato dentro la
pellicola della tragedia.
Grandezza infante dell’occhio di Ferdinand, amorevolmente lì a tradurre e
sublimare la farsa in rivelazione e il dolore in beffa: la verità dei malnati è
tutta nel silenzio che segue il rospo quotidiano inghiottito senza batter
ciglio, e la violenza nasce esattamente e sempre là dove la parola è assente,
quando parlano solo i corpi con le loro acri smorfie di malessere. Il mondo dei
subalterni, e dei morti viventi, può parlare solo con una lingua ibrida,
spezzata, piena di ripetizioni, ricca di lessico basso. Il francese elegante non
rappresenta chi non ha le parole, chi non parla mai veramente, o non è nato
mai.
E infatti l’argot è la tattica designata a ritrarre e livellare «tutto quello
che fa schifo secondo Céline», i borghesi e i mascalzoni da strada funzionano,
nel mondo, allo stesso modo, sono malati dello stessa malattia. Argot che
viaggia sulla petite musique, canzone che è traduzione del parlato e del battito
sulla pagina, così come del pensato, del vissuto.
Possiamo dire su Céline solo quanto ci ha indicato di ereditare. Detesta la
felicità superficiale, quella che si ostenta per non sentire il dolore della
vita. Gli interessa la gioia vera, che nasce solo dal combattimento con la
realtà, ed è questo forse una prospettiva di Céline che oggi pochi critici hanno
curiosità di osservare, quella trascendentale. Non religiosa – in senso
tradizionale – ma radicata nella convinzione che esista una sfera dell’Essere
conosciuta solo da mistici, sensitivi, artisti.
Di certo, lui la abitava, per questo chi lo inquadra nel nichilismo è sordo al
bersaglio. Certo che si potrebbe accusare Céline di nichilismo. E sarebbe
corretto, se non fosse che il suo però è un nichilismo pieno, attivo, non
contemplativo. Non prolifera nel dire «niente ha senso!» ma nell’esporre
l’abominio dei meccanismi che triturano gli individui, e nonostante questo
continuano a «funzionare», indipendentemente dalle idee, dalle cadute in basso e
dalle speranze.
Il suo sguardo è quello del medico, che non può curare la malattia e deve però
descriverla con precisione, la sua etica è l’onestà nel referto.
Da qui la potenza rifrattiva della sua scrittura, Céline non consola,
diagnostica.
Ma la critica letteraria non serve per assolvere o condannare.
È compito del lettore adulto, non del pedagogo, confrontarsi con ciò che Céline
ha edificato, un monumento alla parte buia, un’opera che costringe a guardarci
senza abbellimenti.
La diagnosi poco accurata che gli viene rifilata — “nichilista”, “disincantato”
— nasce forse, nei più ingenui, cioè nei lettori sentimentali, dallo shock della
sua messa a nudo che da una reale pulsione a cancellare il mondo: il nichilista
prosciuga i significati, Céline invece comprime la vita per farne esplodere la
densità.
Questa lettura pànica di Céline (poco conforme alla moda attuale che lo vuole un
po’ instancabile becchino e un po’ distruttore sadico), trova appoggio nelle
ricerche che hanno indagato l’origine della sua voce letteraria: una “musica”
interna — la petite musique — e una fedeltà a immagini e archetipi (la leggenda,
la danza, le “Onde”) che sono lontani da un vuoto ontologico e vicini a una
esperienza trascendente della vita trasformativa. La stessa struttura testuale
di Céline – la sintassi schiacciata, la ripetizione ossessiva, l’oralità
scorticata – non è indizio di un desiderio di annientare senso. Persino le
interpretazioni, abbastanza retoriche, che collegano la prosa ai soliti dogmi
“trauma & memoria” (in particolare le analisi post-belliche e quelle sulla
ferita della Grande Guerra) non possono mentire più di tanto; la frammentazione
narrativa è spesso letta come modalità di rappresentare una vitalità scissa e
riportata alla pagina per resistere alla morte.
Il frammento, il balbettìo, la punteggiatura come sparatoria, sono il volto
della messa in forma dell’esclamazione vitalistica: quanto a chi ignora tale
profondità e preferisce leggere Céline come folklore di «torbidume e infimità»,
si può soltanto constatare un fatto elementare: certi lettori, davanti a un
immaginario che pretende coraggio scelgono la comodità del loro piccolo
orizzonte, e lo scambiano per giudizio. Ma non c’è nulla da spiegare a chi è
fiero della propria cecità – Céline avrebbe detto che per loro la letteratura è
già troppo lunga alla prima riga.
Secondo Marina Alberghini, ridurre Céline a semplice «catalogatore disperato»
della miseria indica ignorare l’intero impianto metafisico che attraversa la sua
opera. Alberghini insiste su un punto decisivo, ossia che il «delirio» di Céline
non è distrazione esoterica, né rifugio evasivo, una pratica semmai di
ostinazione contro la decomposizione del reale. La féerie – quella “realtà
fatata” che egli inseguiva – opera per scarti, folgorazioni, come un’antica
controfigura del mondo che permette allo scrittore di abitare con rigore il caos
senza farsene inghiottire.
Non c’è dunque fuga nel mito, ma una forma di vita nel mito.
Questa è la «perla metafisica» custodita dentro la sua scrittura e la sua
geografia, dove agiscono simboli anteriori alla storia, quelle Onde che
avvertiva come correnti arcaiche, autentiche pressioni del mito sul presente.
Céline ha generato questi incantevoli crateri a partire da una scia ricchissima
e lontana, ha iniziato una ricerca nuova dentro quella «tradizione illustre» che
si tenderebbe a ignorare, ma di cui lui era amante e studioso
consapevole. Una ricerca, quella celiniana, fiorita lungo esempi lontani,
letterari e pittorici: le lugubri ballate di Villon e del romanzo «carnevalesco»
e polifonico di Rabelais. Omaggi a El Greco, Goya, e a quelli che lo stesso
Céline indica come i suoi pittori prediletti, Bruegel e Bosch.
Attitudini letterarie di Céline che alcuni, insultandolo, leggono come
«rivoluzionarie» (ossia sradicate), sono parte della tradizione francese fino
all’Ottocento (la miglior letteratura francese!), dai racconti fantastici di
Gautier ai romanzi d’avventure di Verne, agli impianti immaginativi e alle
figure simboliche di Hugo, al gusto decadente di Baudelaire, agli itinerari
spirituali di Verlaine, Mallarmé, Rimbaud.
Rubina Mendola
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[1] In un’intervista, poco prima di morire, disse: «Je ne suis pas un artiste,
mais j’ai la mémoire des fleurs». È una frase che ci lascia nel dubbio: la
«memoria dei fiori» è ricordare i fiori, ma forse Céline vuole dirci che
possiede la memoria peculiare e misteriosa, inaccessibile, che può avere un
fiore?
L'articolo “Voglio continuare a fare il vecchio clown”. Perché è impossibile
ingabbiare Céline in didascalie museruole proviene da Pangea.
Mi chiedo, da buon pisquano, che interesse dovrei avere di andare in libreria a
scegliere dei libri quando sul PlayStation Store posso comprarmi a 18,99 euro
videogiochi come Final Fantasy XV: ditelo a vostra madre e storcerà il naso –
invece, è sintomo d’intelligenza. Prodotti come questo hanno raggiunto livelli
di complessità e costruzione del mondo che la letteratura italiana ha smesso di
perseguire da tempo.
FFXV è uscito nel 2016 dopo dieci anni di sviluppo; ha richiesto, nel corso del
suo ciclo di produzione, tra le 200 e le 300 persone – nonché un budget fra i 50
e gli 80 milioni di dollari (escluso il marketing). Racconta la storia di
Noctis, un ragazzo privilegiato e irrisolto che esce di casa per sposarsi, sale
in macchina con tre amici, parte leggero e scopre che quello sarà il suo ultimo
viaggio da persona normale. Hajime Tabata, il creatore, ha dichiarato: il cuore
del gioco è il viaggio insieme agli amici, il rapporto padre-figlio rappresenta
uno dei pilastri della narrativa.
Nella prima scena non c’è nulla di epico: si spinge una macchina in panne
con Stand by me (appositamente interpretata da Florence + The Machine) in
sottofondo. Poco dopo, campeggio brandizzato Coleman, pasti preparati alla
griglia, foto cretine della giornata: un fantasy basato sulla realtà, un mondo
di dèi e demoni con pompe di benzina, noodle istantanei e cani che abbaiano
fuori dai motel. Narrativamente, concretizza in un gesto preciso: il lettore non
si affeziona alla trama, si lega alla complicità tra i personaggi. E quando la
storia virerà nel tragico saremo turbati dagli eventi in sé, certo, ma ancora di
più dal fatto che sia finita per loro quattro.
Si potrebbe riassumere FFXV così: un road trip americano applicato a un JRPG
giapponese, dove il viaggio in macchina è metafora dell’ingresso nell’età
adulta. Si attraversano una serie di riti di passaggio tra cui il primo grande
lutto: la morte di Regis, re di Insomnia, avviene off-screen per Noctis. Il
figlio la scoprirà infatti in televisione, come un qualsiasi ragazzo che assiste
al crollo del proprio mondo al telegiornale.
Allo stesso modo l’Anello di Lucis, ottenuto attraverso il sacrificio di uno dei
personaggi principali – qualcuno che brucia attraverso la sua assenza – è un
potere che consuma chi non è degno. Non offre nulla di miracoloso: non
conferisce a Noctis gloria, bensì morte. E quando nel finale il protagonista
accetta di morire sul trono completa la curva. Smette di essere il ragazzo ai
margini diventando suo padre, il re che si sacrifica per il mondo.
L’universo di FFXV concretizza tutta una serie di topoi dei JRPG. Un miscuglio
barocco di riferimenti (Roma imperiale, cattolicesimo, modernità occidentale,
mitologia targata Square Enix) per un risultato che genera un’atmosfera precisa:
una leggenda sporca, dove dèi ostili ti costringono a pagare il conto di un
passato mai vissuto. Se si esamina il lore di FFXV con l’occhio di chi tiene
corsi di scrittura creativa è un disastro: nomi, testi, divinità e profezie che
si accavallano, spiegazioni arrivate troppo tardi o di sbieco. Quando si smette
però di chiedergli la coerenza del manuale, e lo si inizia a leggere per ciò che
è, ne otteniamo un ritratto cristallino.
I libri della Cosmogonia sono fondamentali per capirlo: scritture sacre interne
all’universo di gioco, hanno il tono dell’Antico Testamento. Non spiegano per
rassicurare, proclamano per farti sentire piccolo davanti a una storia che
esisteva prima di te – e che continuerà dopo di te. Gli dèi non sono mai dalla
parte giusta: sono divinità lontane, indifferenti, quando non apertamente
ostili. Non ti aiutano perché sei il protagonista: ti mettono alla prova, ti
schiacciano, ti utilizzano come strumento. Nella Cosmogonia sono descritti come
esseri il cui pensiero trascende la comprensione umana: non cercano empatia, non
spiegano le loro scelte, non offrono misericordia. Siamo noi a dover dimostrare
qualcosa.
Noctis è una figura chiaramente cristologica, e priva di consolazione. Simbolo
della luce che si immola per scacciare l’oscurità e pagare il debito
dell’espiazione. L’iconografia è esplicita: il sacrificio del Re-Cristo, il
trono come Calvario, i Re del passato che lo trafiggono come una comunione
violenta di Santi. La tradizione non accoglie, uccide. E solo così riconosce. La
mitologia di FFXV promette solo che qualcuno dovrà farsi carico del male: ciò
che è divino non è buono, l’ordine cosmico non è giusto e il sacrificio non è
glorioso – è necessario.
Il ruolo del villain, Ardyn, mostra l’essenza della narrazione. Il villain
rappresenta una domanda in grado di farsi sentire anche dopo aver superato le
cento ore di gioco. Perché Ardyn, all’inizio, era il prescelto. Non un
usurpatore, né un mostro sfortunato: assorbiva il male del mondo su di sé per
purificarlo, caricandosi letteralmente addosso la sofferenza altrui. Eppure il
suo gesto non viene riconosciuto. Gli dèi e la dinastia dei re lo trasformano in
una discarica cosmica, sfruttandolo finché fa comodo, per poi cancellarlo dalla
storia.
Da qui nasce tutto. Ardyn non è immortale nel senso romantico del termine. La
sua è un’immortalità marcia, corrotta, tenuta in vita esclusivamente per
continuare a soffrire. E il rapporto con gli dèi si mostra emblematico: semplice
relazione di uso e scarto.
Ardyn è indirizzato, costretto e lasciato marcire. L’odio del villain non viene
davvero rivolto a Noctis, il bersaglio è il sistema: la monarchia sacralizzata,
la profezia, l’ordine divino che decide chi deve sacrificarsi e chi no. Ardyn
non contesta il sacrificio in astratto: contesta chi lo impone e con quale
diritto. La volontà implicita è devastante: perché io devo diventare un mostro
per assorbire il male del mondo, mentre voi restate puri, intatti, venerati?
Il villain di FFXV non vuole governare, non vuole vincere: non vuole sostituirsi
a Noctis. Il suo obiettivo è quello di far crollare l’impalcatura morale che
rende quel sacrificio accettabile. Per questo è vicino ai grandi personaggi
della tragedia: la persona giusta nel posto sbagliato, spezzata dal sistema, che
ora vuole trascinare tutto con sé. La sua presenza rende il finale di Final
Fantasy XV molto più amaro. Perché sì, il sacrificio di Noctis è necessario. Ma
Ardyn costringe il lettore a vedere che lo diventa a causa di un ordine cosmico
profondamente ingiusto. Non c’è armonia, né provvidenza, né equilibrio. Soltanto
qualcuno che paga il conto, ogni volta, al posto degli altri. FFXV fa una cosa
rara. Non ti consola. Ti lascia con l’idea che il mondo possa essere salvato
solo attraverso un sacrificio imposto da dèi – che non sono buoni – e da una
storia che non è mai pulita. Ardyn non è l’errore del sistema. Ardyn è la prova
che il sistema è sempre stato marcio.
La struttura stessa di FFXV è una di quelle cose che, sulla carta, sembrano un
errore. La prima metà aperta, dispersiva, svagata; la seconda parte che si fa
chiusa, lineare, soffocante. Un gioco che per ore ti lascia libero di perdere
tempo e poi, senza chiedere il permesso, ti toglie tutto. Eppure questa scelta
così sbilenca è una delle ragioni per cui la narrazione funziona. I grandi
eventi che avvengono fuori scena, il colpo di stato, la guerra, le decisioni
politiche, non vengono vissuti perché Noctis non li attraversa. Lo scopo della
narrazione non è quello di essere onnisciente: non ti informa, non si pone al
tuo servizio mettendoti al centro del mondo. Ti costringe ad abitare uno sguardo
limitato: quello di un ragazzo che all’inizio pensa solo a viaggiare, rimandando
tutto il resto. Nella prima metà si fa esattamente questo. Ci si perde in cacce
inutili, momenti fotografici, dungeon opzionali, battute di pesca, deviazioni
prive di senso. Insomnia e la guerra restano un rumore lontano, qualcosa che sai
esistere ma non ti riguarda davvero. Lunafreya, Ravus, la politica: conosci le
loro gesta per interposta persona, come notizie lette di sfuggita. Rappresenta
la fase della vita in cui il mondo va avanti e si è convinti di avere ancora del
tempo.
Poi, dal capitolo del treno in avanti, tutto cambia. La mappa si chiude, il
gioco smette di lasciarti respirare trasformandosi in un corridoio narrativo,
cupo, insistente. I toni si scuriscono: Niflheim, Gralea, Tenebrae in rovina.
Lo Starscourge avanza e il mondo diventa letteralmente buio. E il colpo finale
arriva con il salto temporale di dieci anni: torni a Eos e non la riconosci. Gli
amici sono invecchiati, segnati, stanchi. I luoghi che prima erano tappe del
viaggio ora sono infestati da demoni. Ciò che sembrava un ritorno è in realtà un
epilogo.
La struttura funziona perché è metanarrativa – facendoti sentire il rimpianto
del tempo buttato. Hai perso settimane cavalcando Chocoboco mentre il mondo
andava in rovina e ora ti si presenta il conto.E soprattutto rafforza il finale:
lo avverti, tutto è già successo, non resta che accompagnare la storia alla sua
ultima esalazione. Qui il respiro è millimetrico. L’ultima notte accampati
insieme. L’ultimo falò. Un momento in cui puoi parlare con Gladio, Ignis e
Prompto ma il messaggio è univoco: ti abbiamo portato fin qui, adesso sei
solo. E qualche ora dopo, la scelta dell’ultima fotografia prima di affrontare
Ardyn è il gesto narrativo più potente della narrazione. Una sola immagine da
portare con sé prima di morire. Nessuna spiegazione, nessuna enfasi. Soltanto
una meccanica, narrativa pura: ti costringe a ripercorrere tutta la tua
esperienza e decidere cosa rappresenta la tua vita.
Infine, sul trono, i Re del passato trafiggono Noctis e lui li invita a colpire
con maggiore forza. È la rappresentazione più brutale dell’eredità: per entrare
nella tradizione occorre lasciare che ti uccida. L’epilogo, con Noctis e
Lunafreya in uno spazio sospeso, gioca apertamente la carta del sentimentalismo.
Ma a quel punto hai addosso almeno cento ore di strada, di notti in tenda, di
silenzi in macchina. E colpisce. Forte.
FFXV fa ciò che chiediamo alla letteratura quando smette di essere un compitino.
Perché ti fa vivere la parte noiosa della vita, perché ti lega a quattro
persone, perché racconta la crescita come perdita: perderai il padre, perderai
la fidanzata, perderai la normalità e infine perderai te stesso. È un ibrido
instabile: road trip americano, purezza da anime, mitologia pseudo-cristiana,
estetica occidentale filtrata dallo sguardo giapponese. Non sempre coerente.
Emotivamente devastante.
Perché quando tutto finisce si pensa solo a una cosa. Molto semplice, molto
vera.
Vorresti ancora una giornata in macchina insieme a loro.
Il punto è imbarazzante nella sua semplicità: in un videogioco come Final
Fantasy XV puoi restarci dentro per più di cento ore senza annoiarti. Nessun
riempitivo, nessuna cortesia: strada, ritorni, scontri e routine che si
accumulano e producono senso. Questo mondo non ha fretta di lasciarti andare,
non ti accompagna educatamente verso l’uscita, non ti tratta come un consumatore
da rispettare. Anzi, devi restare.
La narrativa italiana contemporanea risulta sempre più spesso costruita come
opuscoletto a servizio del lettore: libri che chiudi nel tempo di fare Fano
Torrette-Forlimpopoli con il regionale. Scendi dal treno con addosso la
sensazione di aver letto qualcosa di scritto bene senza che nulla ti sia rimasto
addosso. I protagonisti si chiamano tutti Giampirla, fingono di soffrire e gli
riesce nel modo giusto: riconoscibile, contenuto, presentabile. La fruizione è
misurata, innocua, a prova di barbagianni. È una narrativa che raramente
richiede tempo, dedizione o rischio. Ti accompagna all’uscita, con un Grazie per
avere viaggiato con noi su questo treno e nessuna pretesa di essere
ricordata. Quando esci da mondi vasti come quello di FFXV e apri un romanzo
italiano contemporaneo la sproporzione è umiliante.
C’è poi una ragione materiale, che di solito si finge non esista: un autore
italiano pubblicato da una grande casa editrice riceve, nella maggior parte dei
casi, un anticipo fra i 1.500 e i 3.000 euro. Stipendio simbolico per un lavoro
che dovrebbe richiedere mesi, se non anni, di concentrazione totale. Per dare un
ordine di grandezza: un animatore junior in uno studio giapponese o americano
guadagna la stessa cifra in un paio di settimane.
Lo scrittore, invece, dovrebbe costruire un universo, inventare una voce,
reggere una struttura, lavorare sulla lingua, sul ritmo, sull’architettura
narrativa: scrivere diventa inevitabilmente un’attività da ritagli, notti
rubate, fine settimana deserti. È un miracolo che qualcuno ci riesca. Ed è in
questo vuoto che prosperano le operette a servizio del lettore. Fino a pochi
anni fa relegate agli Autogrill, oggi catene fondanti di molte collane di
narrativa: traumi minimi, famiglie raccontate sottovoce, autofiction così
controllate da perdere ogni ragion d’essere. Una letteratura fatta di banalità
che registra il vissuto senza filtrarlo, come se raccontare fosse diventato un
atto di buona educazione – qua e là camuffato da titoli sciocchi come La vita
sessuale di Guglielmo Sputacchiera. Narrativa che ha smesso di costruire mondi
per accontentarsi di descrivere stanze.
A questo punto la questione smette di essere teorica e diventa personale,
materiale, misurabile. Io vivo di scrittura. Vengo pagato – e pure bene – per
creare strategie SEO e scrivere articoli su pomodori, lucidalabbra, insetticidi,
piastrelle, vacanze a Riccione. Qualsiasi cosa le persone cerchino su Google.
Lavori apparentemente insignificanti, privi di aura, senza alcuna ambizione
simbolica. Li scrivo con metodo e responsabilità: producono valore e risultati,
ottengo stipendi regolari. Insegno alla Scuola Holden, vengo contattato dalle
agenzie di comunicazione, nel 2025 ho formato più di duecento persone su come si
scrive davvero oggi: come si struttura un testo, come si governa l’attenzione,
come si produce senso in un algoritmo che non regala nulla. Scrivo, tutti i
giorni. Solo che lo faccio dove ha ancora senso farlo.
L’alternativa sarebbe investire una manciata di mesi in un romanzo italiano
contemporaneo: sottopagato, destinato a una circolazione gentile quanto breve.
Un libro che deve stare sotto una certa soglia di rischio, che non può essere
troppo lungo, troppo strano, troppo ambizioso. Un libro che nasce già pensando a
dove verrà presentato, premiato, difeso. Un oggetto di consumo da chiudere in
poche ore e non pretende nulla.
Scrivere narrativa oggi è un gesto di adattamento: si scrive per stare dentro un
perimetro, mai per infrangerlo. Si limano le asperità, si riduce il mondo, si
abbassa il volume dell’immaginazione. Il risultato sono romanzi corretti, molto
spesso ben scritti, a volte sinceri, necessari a un’editoria fondata
sull’inflazione. Opere che descrivono stanze perché non hanno i mezzi per
costruire mondi. E allora la scelta diventa brutale e limpida. Da una parte
posso passare cento ore dentro Final Fantasy XV, attraversando un luogo che non
ha fretta di lasciarmi andare, che richiede tempo, attenzione, labirinti che mi
fanno perdere, tornare indietro, cercare il punto di noleggio dei Chocoboco,
sbagliare. Un’opera che non mi tratta come un consumatore da compiacere, ma come
qualcuno che deve trovare da sé la via.
Dall’altra posso leggere – o scrivere – un romanzo pensato per non disturbare,
non eccedere, non pretendere troppo: un prodotto che finisce in fretta, si
commenta educatamente su Instagram e viene sostituito dalla successiva notifica
di Tik Tok.
Tra le due cose, oggi, non c’è davvero gara.
Quando un videogioco da 18,99 euro riesce a offrire più tempo, spazio, memoria e
più perdita d’orientamento di gran parte della narrativa contemporanea, il
problema non è il medium. È l’ecosistema che ha disintegrato l’ambizione. È un
sistema editoriale che paga poco, isola gli autori, premia chi è moderato e
scambia la rinuncia per profondità. Scrivere oggi, in Italia, non è difficile
perché mancano le storie. È difficile perché manca la possibilità di prenderle
sul serio.
E finché sarà così, finché la letteratura continuerà a ridursi a oggetto di
consumo tranquillo, finché verrà chiesto agli autori di essere visionari senza
fornire loro spazio, tempo e denaro il lettore continuerà a cercare altrove – in
un gioco, in una serie, in un mondo digitale – quella sensazione di vastità che
i libri hanno smesso di promettere.
Quando rinunci ai mondi non perdi solo lettori. Perdi ambizione. Tempo. Senso.
Nicolò Locatelli
*In copertina e nel testo: immagini tratte da Final Fantasy XV
L'articolo Ai romanzi italiani preferisco Final Fantasy XV. Sulla narrativa che
ha smesso di costruire mondi proviene da Pangea.
In uno dei momenti più belli del libro, di primordiale bellezza, “Antonio
dell’isola delle Ghiandaie” fissa le stelle. Non riesce a dormire, eppure “su
tutta l’ampiezza del cielo e della terra regnavano una pace e una mitezza che
annunciavano il giorno”. Gli si fa al fianco un mandriano. Insieme, danno i nomi
alle costellazioni.
> “Quelle, disse Antonio, io le chiamerò ‘la ferita della donna’. Le chiamerò
> così perché fanno come un buco nella notte”.
Il mandriano offre ad Antonio il suo mantello; è freddo “per te che resti fermo
a guardare la notte”. Antonio continua a enumerare le stelle, a inventare i
nomi. Un grumo di luci, a est,
> “Le chiamerò ‘gli occhi’. Perché credo che siano come lo sguardo di colei che
> sta dormento e non ha ancora aperto le palpebre”.
È una scena straordinaria, potremmo trovarla nella Teogonia di Esiodo o
nell’Esodo, nei primi libri dell’uomo, epopee di stelle e di grandi cacce, di
duelli e di imperi d’erba, di genti selvagge e di domestiche bestie, di briglie
e di imbrogli. D’altronde, il compito di uno scrittore non è altro: assemblare i
nomi, assegnare miti alle stelle. Un libro è come una stele. Così, il cosmo
informe dà forma a una cronaca e dal caos si caglia armonia.
Jean Giono pubblica Le chant du monde nel 1934, per Gallimard. Diceva di aver
tratto quel titolo – che è poi un incanto, un incantesimo – da Walt Whitman;
amava Melville, di cui avrebbe tradotto Moby Dick; più che altro, l’incarnato
del romanzo, il più potente di Giono (ora, nella sgargiante traduzione di
Leopoldo Carra, per Settecolori come Il canto del mondo), è omerico. Ambientato
in un senza tempo da inizio e termine del mondo, tra età dell’oro e
apocalisse, Il canto del mondo parla di razzie e di vagabondaggi, di fuochi e di
fiumi, di patti d’amicizia e di atroci vendette, di terra e cielo, di amore e
morte.
La scrittura di Giono è armata di uno splendore petroglifico, si sente, in
sottofondo, un ritmo di tamburi (ascoltate: “All’alba le bestie vennero avanti.
Antonio vide uscire dalle ombre a occidente i tori con le corna a lira.
Spuntavano dai pascoli all’imbocco della valle, e subito il sole nascente si
posava sulle loro fronti”), una limpidezza nuova, che non ha lignaggio né trama
d’eredi. Mescolando Stendhal all’epopea di Gilgamesh, Jean Giono ha portato il
romanzo, creatura di città, nei boschi, a far leggenda tra gli acquitrini. In
questo libro – mai così sconfinato – appaiono le “uldre” e il “grongo”, “un
pesce che assomiglia al serpente”; c’è il sesso e l’assassinio; c’è un sentore
di sangue che rintrona la mente, che non dà pace.
Non bello ma volitivo, occhi grandi, di creatura d’acqua dolce, Jean Giono nel
’34 andava per i quaranta. Figlio di umile gente – il padre era un ciabattino,
anarchico, originario del Piemonte – era nato nel 1895 a Manosque, in Alta
Provenza, e fece di quel borgo – fondato dai Celti, abitato dai Romani,
saccheggiato dai Saraceni – il proprio eden, la scaturigine dei propri australi
romanzi. Avrebbe dovuto impiegarsi in banca, leggeva, nel tempo libero, Tacito,
Seneca, Virgilio, Eschilo; il successo del primo libro, Colline (edito da
Grasset nel 1929), gli permise di alienarsi dal mondo, di mollare la banca, di
allearsi alla scrittura. Mobilitato durante la Prima guerra, ne uscì sconvolto:
sperimentò l’imperio della macchina, il massacro privo di cavalierato, la
canaglieria degli Stati. Fu sui campi più duri – si fece Verdun, la Somme, lo
Chamin des Dames – assistendo alla morte degli amici. Sulla rivista “Europe”,
proprio nell’anno in cui pubblica Il canto del mondo, Giono scrive Refus
d’obéissance, uno degli inni più potenti contro il militarismo. Scrive “di non
aver ammazzato nessuno” durante la Prima guerra, di aver “partecipato agli
attacchi senza fucile o con un fucile inutilizzabile”. “Non ho avuto il coraggio
di disertare”, scrive. Poi l’onda d’urto di quello straziante j’accuse monta:
> “Ho annusato l’odore dei morti. Ho mostrato corpi in frantumi. Ho riempito le
> stanze di fantasmi lordi di fango, con le orbite succhiate dagli uccelli. I
> feriti gemevano sulle mie ginocchia. Quando ho detto ‘mai più’ tutti, in coro,
> hanno ripetuto ‘no, no, mai più’. Ma il giorno dopo riprendevano posto nel
> reggimento civile borghese. Ricominciavano a creare il capitale per il
> capitalista. Erano meri strumenti della società capitalista”.
Giono attacca l’ipocrisia del “regime borghese”, il sistema coercitivo del
lavoro cittadino, “ideato per assopirci, per instillare in noi uno spirito di
schiavitù”.
Agli albori della Seconda guerra, l’ardore pacifista di Giono fu preso per
tradimento: lo scrittore fu arrestato nel settembre del ’39; rilasciato, si
ritirò nella sua fattoria. Durante Vichy diede rifugio a transfughi ebrei e a
comunisti; le riviste di regime – il periodico nazista “Signal”, ad esempio –
parlarono con curiosità del suo “neoprimitivismo”. I resistenti non gli
perdonarono di aver pubblicato un paio di racconti su “La Gerbe”, il giornale
collaborazionista: prima cercarono di ucciderlo – piazzando una bomba, nel
gennaio del ’43, davanti a casa sua – poi lo arrestarono – dal settembre del ’44
al gennaio dell’anno dopo – infine lo processarono; il “Comité national des
écrivains”, con sarcastica pignoleria, gli impedì di pubblicare per un paio di
anni.
Poligrafo dallo stile vertiginoso, Giono scrisse L’ussaro sul tetto e L’uomo che
piantava gli alberi, i libri per cui è più noto, nei primi anni Cinquanta. Nel
1965 Marcel Camus trasse una versione cinematografica da Le chant du monde –
passata in Italia con il titolo, assurdamente hard, Ossessione nuda – con
Catherine Deneuve nel ruolo di Clara, la donna dai “grandi occhi di gesso e di
menta”, la tanto amata. Giono morì cinque anni dopo, nella sua dimora, a
Manosque, in pieno estro verbale (L’Iris de Suse era uscito da poco).
Per capire l’importanza di Jean Giono basta sfogliare il catalogo della
‘Pléiade’: otto tomi, di cui sei dedicati alle Œuvres romanesques complète. A
differenza degli “esistenzialisti”, Giono – il cui talento è d’altro conio, più
puro, di quello di Albert Camus – ha cantato la brutalità della gioia, le glorie
della carne. Amato da Henry Miller – che lo insediò tra i pochi, grandi
scrittori della sua vita – è l’esatto opposto di Céline – che lo sopportava a
tratti. Se uno è il cantore della notte e dell’oscurità, l’altro lo è della
luce. Jean Giono è lo scrittore dell’estate perpetua, dell’avventura totale,
dell’elemento primo, di preistorica eloquenza.
Non ammette lettori vili.
L'articolo Non ammette lettori vili. Vasto elogio di Jean Giono proviene da
Pangea.
Che mistero l’opera di Harper Lee. Recentemente ho trovato, in un volumetto
dedicato al film Il buio oltre la siepe (Gremese Editore, 2024), una delle rare
interviste che concesse dopo la pubblicazione del suo capolavoro. È
un’intervista radiofonica che fu trascritta in un libro dall’intervistatore, Roy
Newquist, e a leggerla nessuno direbbe che Lee non avrebbe pubblicato quasi
nulla oltre a Il buio oltre la siepe. Dice infatti di star lavorando a un nuovo
romanzo, sia pure lentamente. Parla di scrittura, di arte romanzesca, di
Faulkner, di Thomas Wolfe. Infine spiega:
> “Spero davvero che ogni romanzo che scrivo diventi sempre migliore, non sempre
> peggiore. Vorrei però fare una cosa, di cui non ho mai parlato molto perché è
> una cosa molto personale. Vorrei lasciare qualche traccia del tipo di vita che
> esisteva in un mondo molto piccolo. Spero di farlo in diversi romanzi.”
Qualcosa deve essere andato storto. Come tutti sanno Harper Lee è autrice
fondamentalmente di un solo romanzo, Il buio oltre la siepe, in originale To
kill a mocking bird, edito nel 1960. Nel 2015 ha pubblicato Va’, metti una
sentinella, libro che però è stato scritto prima di Il buio oltre la siepe e in
cui ritroviamo una Scout Finch ventiseienne e un Atticus Finch malato e
invecchiato. Tuttavia i “diversi romanzi” nei quali Harper Lee si augurava di
raccontare il suo “piccolo mondo”, ossia la cittadina di Maycomb, apparentemente
non sono mai stati scritti. Harper Lee è morta a ottantanove anni, con soltanto
due libri pubblicati. Uno dei due è un capolavoro, l’altro un bel romanzo nel
quale Lee conferma le sue doti di ottima narratrice.
A ottobre è invece arrivato nelle librerie il postumo La terra del dolce
domani (Feltrinelli, traduzione di Mariagiulia Castagnone), un libro contenente
diversi racconti di Harper Lee precedenti a Il buio oltre la siepe e qualche
articolo pubblicato successivamente. L’introduzione di Casey Cep, che sta
lavorando alla biografia ufficiale di Lee, delinea la storia editoriale di ogni
racconto e dà qualche ragguaglio critico e biografico sulla scrittrice. Ciò che
più colpisce è il talento stilistico e narrativo di Lee in ognuna di queste
prove giovanili; anche nei racconti meno riusciti c’è sempre un paragrafo o un
rigo illuminante o divertente. Pian piano Harper Lee stava scoprendo che la sua
infanzia – come la sua Alabama – poteva essere un prezioso salvadanaio di tipi
umani e di storie esilaranti o avventurose. Trapiantata a New York, mandava i
suoi racconti a riviste grandi e piccole e riceveva immancabili rifiuti che però
non la scoraggiavano. Sapeva di potercela fare, di avere in sé qualcosa di
speciale da dare al mondo. Era un’artista seria. Anche in questo, nel suo
battersi per essere accettata da un’editoria che la respingeva, era una
scrittrice di prim’ordine, forse una grande scrittrice in nuce. Eppure sarebbe
stata l’autrice di una sola opera. Il suo secondo romanzo può infatti essere
considerato quasi un libro postumo: Lee ha pubblicato Va’, metti una
sentinella appena un anno prima di morire, riesumandolo dalle sue carte.
In uno dei racconti più belli di La terra del dolce domani, Il Natale per me,
Harper Lee racconta di quando una coppia di suoi amici newyorchesi, Michael e
Joy Brown, le offrirono come regalo natalizio un anno sabatico per consacrarsi
alla scrittura. Per lei era un regalo folle, di cui non sapeva se essere
degna. E se avesse fallito? Se non fosse diventata la scrittrice che sognava di
essere? Michael Brown era un famoso paroliere e compositore e le presentò il suo
agente letterario; le cose cominciavano a muoversi, a evolvere. Che New York
potesse infine accettarla?
I coniugi Brown credevano nella loro amica, non soltanto per i racconti inediti
che avevano letto ma anche per il talento che traspariva dalle lettere che
spediva loro dall’Alabama. Erano certi di avere a che fare con una scrittrice
sensazionale. Harper Lee poteva diventare una grande scrittrice americana e con
il senno di poi la loro offerta si sarebbe rivelata essere un investimento più
che un regalo. Lee difatti non dimenticherà mai il suo debito nei loro
confronti. Si diventa grandi scrittori – o semplicemente scrittori – anche
grazie a chi ha creduto in noi quando neppure noi eravamo capaci di farlo,
quando tutto in noi e fuori di noi ci gridava di desistere, di mollare. Scrivere
significa tener duro e andare avanti nonostante i rifiuti e il silenzio.
Cosa è successo a Harper Lee? Perché non ha scritto i “diversi romanzi” che
aveva in mente di scrivere? Di certo la sua Maycomb è più viva e affascinante
che mai, con la piccola e ribelle Scout, il suo caro fratello Jem, il timido Boo
Radley, la scontrosa ma amorevole Calpurnia, il compagno di giochi Dill (che in
realtà è Truman Capote, amico d’infanzia di Lee) e ovviamente l’indimenticabile
Atticus Finch. Il buio oltre la siepe è un grande libro sull’infanzia e sul
senso di giustizia che si smuove nei bambini di fronte ai soprusi degli adulti
più stolti. Nel corso del romanzo Scout Finch scopre la compassione e il
coraggio – scopre la vita, scopre l’avventura – e la sua storia ci dice cosa
significa essere e restare umani anche in tempi neri, anche di fronte al male.
Harper Lee ha scritto uno dei grandi classici della letteratura nordamericana
del secondo Novecento e forse pure per questo non ha voluto o saputo scrivere
altro. Un po’ ne soffriamo. Un po’, certo, sappiamo che non avrebbe potuto
essere altrimenti. In mancanza di opere successive dunque leggeremo tutto ciò
che sarà dato alle stampe dagli eredi, tornando di tanto in tanto alla Maycomb
di Il buio oltre la siepe, a Scout, a Jem, a Atticus, a quel mondo talmente
piccolo eppure universale… La terra del dolce domani è comunque un’ottima
strenna per avvicinarci al Natale.
Edoardo Pisani
*In copertina: Harper Lee e Mary Badham, 1961
L'articolo “Spero di farlo in diversi romanzi”. Sul silenzio di Harper Lee
proviene da Pangea.
Nel luglio del 1638, pochi mesi prima della morte, Tommaso Campanella inviò da
Parigi al Granduca Ferdinando II de’ Medici un esemplare della sua
vasta Philosophia realis. La lettera che accompagnava il volume, scritta con
tono dignitoso e spontaneo, non mostrava alcuna traccia di servilismo, ma
esprimeva con schiettezza la sua riconoscenza verso il casato mediceo, celebrato
come promotore della rinascita del pensiero filosofico italiano. Campanella
scriveva infatti:
> “Da che cominciai a gustar non volgarmente qualche verità del nostro mondo e
> del suo autore, onde me vidi obbligato richiamar la gente da le scuole umane
> alla scola del Primo Senno divino, stimai ancora che io e ogni ingegno egregio
> portàmo grande obligo ai prìncipi medicei, che, facendo comparir i libri
> platonici in Italia, non visti da’ nostri antichi, fur cagione di levarci
> dalle spalle il giogo d’Aristotele, e per conseguenza poi di tutti i sofisti:
> e comminciò l’Italia a esaminar la filosofia delle nazioni con ragione ed
> esperienza, nella natura e non nelle parole degli uomini.”
Con queste parole Campanella riconosceva nei Medici il merito di aver favorito
la diffusione dei testi platonici, che avevano contribuito a liberare la cultura
italiana dal predominio della filosofia aristotelica.
Occorre ricordare che, per secoli, la metafisica era stata dominata dal sistema
tomistico-aristotelico: un insieme di dottrine filosofiche e teologiche
elaborato da Tommaso d’Aquino nel XIII secolo, il quale aveva cercato di
conciliare la filosofia di Aristotele con la fede cristiana. Questo pensiero,
fondamento della scolastica, aveva esercitato un’enorme influenza sulla cultura
europea fino all’inizio dell’età moderna.
Aristotele concepiva l’universo come un ordine gerarchico e armonioso, nel quale
ogni essere possiede una forma e una materia e tende a realizzare il proprio
fine, cioè la “causa finale”. La conoscenza, secondo questa visione, nasce dai
sensi ma si eleva grazie alla ragione, che può ascendere dai dati sensibili ai
principi universali. L’universo è finito e geocentrico: la Terra è immobile al
centro, circondata da sfere celesti perfette. Tommaso d’Aquino reinterpretò tale
visione alla luce della fede cristiana, sostenendo che ragione e fede non si
oppongono ma si completano reciprocamente. Dio è l’“atto puro”, causa immobile e
fine ultimo di tutto ciò che esiste; l’anima, pur essendo forma del corpo, è
anche spirituale e immortale. La ragione, da sola, può dimostrare l’esistenza di
Dio, ma non i misteri della fede — come la Trinità o l’Incarnazione. L’ordine
naturale e quello soprannaturale sono distinti, ma in armonia.
Con l’Umanesimo e il Rinascimento questa visione cominciò a essere
scossa. Pensatori come Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola,
riscoprendo Platone, il neoplatonismo e testi esoterici come il Corpus
Hermeticum, offrirono una rappresentazione della realtà come dinamica, viva,
permeata di spirito. L’uomo, considerato microcosmo dell’universo, veniva inteso
non più come semplice creatura razionale collocata in una scala fissa degli
esseri, ma come essere libero e capace di elevarsi verso Dio attraverso la
conoscenza e l’amore. Nel Rinascimento, l’uomo divenne così simbolo di dignità e
di libertà creativa: non più un soggetto che deve soltanto conformarsi
all’ordine divino, ma un artefice del proprio destino. Lo afferma chiaramente
Pico nella celebre Oratio de hominis dignitate, dove sostiene che Dio ha donato
all’uomo la libertà di scegliere ciò che vuole essere, rompendo la rigidità
della visione tomistica.
Successivamente, con Copernico, Keplero e Galileo, il sistema aristotelico subì
un definitivo crollo. Il cosmo cessò di essere finito e geocentrico, divenendo
un universo infinito e regolato da leggi matematiche. La fisica qualitativa e
finalistica di Aristotele venne sostituita da una fisica quantitativa, fondata
sul numero, sulla misura e sul movimento. Pensatori come Giordano Bruno e
Bernardino Telesio considerarono la natura come un’entità divina e infinita,
animata da un principio vitale comune a tutte le cose. Bruno, in particolare,
cancellò la distinzione tra mondo celeste e mondo terrestre, affermando l’unità
del Tutto. Da questo processo di emancipazione della filosofia dalla teologia
nacque la scienza moderna, fondata sull’esperienza, sull’osservazione e sul
calcolo.
Nel pensiero di Campanella si riflette chiaramente questo spirito di
rinnovamento: egli respinge il principio di autorità, confida nella ragione e
nella sperimentazione, che considera i pilastri della nuova scienza. Sebbene
trascorresse oltre trent’anni in prigionia, isolato dal mondo che avrebbe voluto
esplorare con fervore e curiosità, egli si riconosceva come parte della schiera
dei novatores, i “riformatori” del sapere. Scrive infatti, nella stessa lettera
al Granduca:
> “Io, con questo favore fatto al secolo nostro, ho riformato tutte le scienze
> secondo la natura e la Scrittura, due codici di Dio. Il secolo futuro
> giudicherà di noi, perch’il presente sempre crucifige i suoi benefattori; ma
> poi resuscitano al terzo giorno o ‘l terzo secolo.”
Rievocando poi le proprie esperienze giovanili, Campanella ricorda i vani
tentativi di ottenere una cattedra in Toscana, i suoi incontri con gli studiosi
fiorentini e aggiunge:
> “Vederà in questo libro Vostra Altezza, che in alcune cose io non concordo con
> l’ammirabile Galileo, suo filosofo e mio caro amico e padrone, da quando in
> Padua mi portò una lettera del Granduca Ferdinando: può star la discordia
> delli intelletti con la concordia delle volontà d’ambedui, e so ch’è uomo
> tanto sincero e perfetto, che averà più a piacere le opposizioni mie – del che
> tra me e lui c’è scambievole licenza – che non delle approbazioni d’altri.”
Da queste parole traspare una sincera ammirazione e una profonda amicizia nei
confronti di Galileo: un rapporto basato sul rispetto reciproco e sul libero
confronto delle idee. Tuttavia, la relazione tra i due fu inizialmente segnata
da qualche diffidenza: Galileo, infatti, mostrava cautela nei confronti del
frate calabrese, temendo forse le conseguenze di una corrispondenza con un
detenuto dell’Inquisizione. Solo dopo la condanna, la cecità e il confino, i due
si ritrovarono uniti dalla comune sorte, accomunati dalla sventura e da una
solidarietà intellettuale che trascendeva le differenze dottrinali. A
venticinque anni Tommaso Campanella è un fuggiasco, un frate domenicano ribelle
e inquieto, già nel mirino dei superiori del suo Ordine e del Sant’Uffizio.
Costretto a vivere sotto falso nome, si iscrive all’Università di Padova, allora
uno dei centri più vivaci d’Europa per il rinnovamento scientifico e filosofico,
dove si respirava un clima di libertà intellettuale favorito dalla Repubblica di
Venezia. In quell’ambiente fermentante, frequentato da naturalisti, matematici,
medici e filosofi che contestavano il dogmatismo scolastico, Campanella entra in
contatto con le nuove correnti della filosofia naturale: il telesianesimo, il
democriteismo, l’empirismo medico, e soprattutto con i primi echi delle
rivoluzioni astronomiche.
Vive però in condizioni di estrema precarietà, tra fughe e sospetti, finché non
viene arrestato, processato e condannato a una lunghissima detenzione che
segnerà tutta la sua vita. La sua vicenda biografica è il simbolo del destino di
molti pensatori della prima età moderna, costretti a muoversi sul confine tra la
libertà della ragione e l’ortodossia della fede.
Nello stesso periodo, Galileo Galilei, di soli quattro anni più anziano,
percorre una traiettoria opposta: a venticinque anni è già professore
all’Università di Pisa, inventore della bilancia idrostatica, impegnato a
studiare la caduta dei gravi e l’isocronismo del pendolo. In lui il metodo
matematico comincia a farsi strada come chiave per la comprensione del mondo
naturale. Già in questi anni si intravede la grande frattura che segnerà la
modernità: da un lato la filosofia della natura, ancora legata a principi
metafisici e qualitativi, dall’altro la nascente scienza sperimentale, che cerca
leggi quantitative e verificabili. Galileo si avvia così, quasi
inconsapevolmente, verso quella nuova visione copernicana che trasformerà la
cosmologia e la stessa idea dell’uomo nel cosmo.
Campanella, invece, pur interessandosi ai fenomeni naturali e biologici, si
accosta a una visione più organicistica e immanentista della natura. In lui
convivono l’eredità della filosofia pitagorico-platonica, il naturalismo di
Telesio e una vena mistica e teologica che lo rende estraneo al meccanicismo
nascente. Egli pensa la natura come vivente, dotata di sensazione e ragione,
quasi una creatura divina che partecipa dell’essere di Dio. In questo senso la
sua filosofia si colloca a metà strada tra il naturalismo rinascimentale e la
filosofia barocca della rivelazione. Nelle discussioni che lo vedono partecipe,
a Napoli e a Padova, con uomini come Giambattista Della Porta, Paolo Sarpi e
Galileo, si riconosce il tentativo di fondere la tradizione speculativa italiana
con la nuova scienza d’osservazione, un dialogo che anticipa il conflitto e
insieme la feconda tensione tra fede e ragione della modernità.
Ma le loro strade si separarono presto. Nel 1593 Campanella fu incarcerato e,
l’anno seguente, condotto in catene a Roma. Cominciava così il suo lungo
calvario, durante il quale avrebbe elaborato gran parte delle sue opere
filosofiche e profetiche. Galileo, invece, proseguiva la sua luminosa carriera
accademica: insegnava a Padova, studiava la meccanica, la cosmografia, il
magnetismo, perfezionava strumenti di misura, osservava nel 1604 la stella
“nova”, segno per lui dell’inconsistenza del dogma aristotelico
sull’immutabilità dei cieli. In quegli anni, il pensiero europeo era in
fermento: l’umanesimo scientifico, l’ermetismo, il libertinismo dotto, la
filosofia cartesiana in gestazione, tutto concorreva a spostare il centro della
conoscenza dall’autorità al metodo, dall’ipse dixit alla verifica.
Nel 1609, giunta voce da Venezia e dai Paesi Bassi dell’invenzione di un
“occhiale” capace di avvicinare oggetti remoti, Galileo, spinto da una curiosità
ardente e da un talento tecnico eccezionale, costruì rapidamente strumenti
sempre più perfezionati, che volse al cielo. In quell’atto — il primo sguardo
telescopico sull’universo — si compì la svolta epistemologica della modernità:
la natura diveniva oggetto di indagine empirica e misurabile, e il cielo stesso
cessava di essere il regno dell’incorruttibile. Nel marzo del 1610, il Sidereus
Nuncius annunciava al mondo le sue scoperte: i satelliti di Giove, le montagne
lunari, le macchie solari. Era la prova che i cieli non erano perfetti né
immutabili, e che l’universo di Aristotele era tramontato.
In quello stesso anno, mentre Galileo veniva chiamato a Firenze con il titolo di
“primario matematico e filosofo del Granduca di Toscana”, Campanella, chiuso da
undici anni nelle carceri napoletane, otteneva un allentamento della custodia
nel Castel dell’Ovo. Grazie al filosofo telesiano Antonio Persio, poté leggere
il Sidereus Nuncius, che divorò in due ore, scrivendo poco dopo una lettera di
gratitudine in latino per lo scienziato pisano, in cui lodava la generosità con
cui egli aveva condiviso le sue scoperte, “senza l’ambizione di erigere un
organico sistema cosmico con nuovi dati”. Campanella intuiva, con finezza, che
Galileo non era un costruttore di sistemi — come i filosofi scolastici o i
metafisici rinascimentali — ma un cercatore di verità parziali, fondate
sull’osservazione. Tuttavia, temeva che una divulgazione così disinteressata
potesse nuocergli nella gloria, “come accadde a Colombo che non seppe imporre al
Nuovo Mondo il proprio nome e la signoria italiana”.
Questo scambio epistolare, benché breve, illumina due concezioni della
conoscenza: per Campanella la scienza deve restare in rapporto con la metafisica
e la teologia, per Galileo essa si fonda soltanto sull’esperienza e sul calcolo.
Le riflessioni di Campanella si intrecciano, in quegli anni, con le dottrine
cosmologiche di Giordano Bruno, suo illustre predecessore nel martirio
dell’Inquisizione. Dai loro colloqui romani riemergevano idee ardite: la
pluralità dei mondi, l’infinità dell’universo, l’anima mundi che tutto
vivifica. “Tutti i pianeti devono essere popolatissimi come la nostra terra”,
scrive Campanella, chiedendosi ironicamente se gli abitanti di quei mondi non si
credano anch’essi al centro del creato. È un’eco diretta dell’universo infinito
bruniano, ma reinterpretato in chiave cristiana e patristica: l’anima del mondo,
“da quell’anima di cui parla Origene”, diventa per lui principio del moto
cosmico, non divinità immanente ma forza vitale posta da Dio.
Questo richiamo all’autorità dei Padri della Chiesa, e in particolare di
Origene, rivela in Campanella un atteggiamento conciliante: egli tenta di
riconciliare la nuova scienza con la rivelazione, anticipando il problema che
dominerà la filosofia seicentesca — il rapporto tra fede e ragione, tra fisica e
teologia, che vedrà poi confrontarsi Cartesio e Pascal, Galilei e Bellarmino,
Newton e Leibniz. L’epistola di Campanella, infatti, mostra la tensione fra il
pluralismo esegetico della tradizione cristiana e il bisogno di un nuovo ordine
del sapere. I riferimenti alla Genesi — la creazione del cielo “in principio”,
la separazione delle acque “di sopra” e “di sotto” — diventano figure di un
universo ormai interpretato più come organismo che come meccanismo.
Tuttavia, Campanella rimane fedele al quadro geocentrico della fisica telesiana,
secondo la quale la Terra, fredda e oscura, sta al centro del mondo, circondata
dal Sole, principio ardente e luminoso. Il sistema copernicano, che pone il Sole
immobile e la Terra in movimento, rovescia questo schema, e per Campanella è
quasi inconciliabile con la sua filosofia naturale. Egli avverte la rivoluzione
copernicana come una minaccia alla concezione qualitativa della natura, ma non
per questo rinuncia a interrogarsi. Si domanda: perché la sfera delle stelle
fisse è immobile? da cosa deriva la scintillazione degli astri? quale causa
determina l’inclinazione dell’eclittica?
La sua non è curiosità oziosa, ma ricerca di senso. Per lui, la matematica, pur
indispensabile, non può spiegare il perché ultimo del reale: “a meno che tu non
voglia trascendere la mera matematica”. Da qui la sua osservazione a Galileo:
> “Questo è problema metafisico e l’ho già discusso ampiamente: da te aspettiamo
> invece la soluzione dei problemi matematici.”
La differenza tra i due emerge con chiarezza. Campanella ammira Galileo senza
riserve, ma rifiuta di concepire il mondo come un puro meccanismo privo di
spirito; Galileo, dal canto suo, evita discussioni che giudica sterili o
pericolose. Per prudenza, spesso tace, cancella il nome dell’amico, allude solo
con sigle o perifrasi. Tuttavia, Campanella non smette di scrivergli. L’8 marzo
1614 gli indirizza una nuova lettera, colma di fervore e di speranza:
> “Tutti i filosofi del mondo pendeno ogge dalla penna di Vostra Signoria,
> perch’in vero non si può filosofare senza un vero accertato sistema della
> costruzione de’ mondi, quale da lei aspettiamo…”
Egli lo esorta a non perdere tempo in ricerche minori: la vita è breve, e
Galileo, solo lui, può offrire all’umanità una cosmologia fondata sulla verità.
Forse lo scienziato non rispose, ma nelle sue carte lasciò una nota che suona
come il manifesto del nuovo sapere, la netta linea di confine tra filosofia
antica e moderna:
> “Io stimo più il trovar un vero, benché di cosa leggiera, che ’l disputar
> lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nissuna.”
È la formula della scienza moderna: il valore della verità concreta sopra la
disputa delle astrazioni.
Mentre Campanella si dedica alla colossale Theologia in trenta libri,
alla Metaphysica in sedici, e tenta l’ultima grande sintesi del sapere umano –
dalla retorica alla politica, dall’astrologia alla fisiologia – Galileo sceglie
la via del metodo: l’esperimento, la verifica, l’induzione controllata. Il frate
sogna ancora una “scientia universalis”, come quella che Leibniz tenterà dopo di
lui; Galileo inaugura invece il sapere analitico, la ricerca delle leggi, il
linguaggio matematico della natura. Due visioni del mondo, due epoche dello
spirito.
Ma il mondo non era pronto. Il 24 febbraio 1616 i consultori del Sant’Uffizio
dichiararono, con voto unanime, che la teoria dell’immobilità del Sole era
“assurda e falsa in filosofia e formalmente eretica”, perché contraria alla
Scrittura e all’interpretazione dei Padri. Il 3 marzo il cardinale Bellarmino
riferì che Galileo era stato ammonito e aveva obbedito. Pochi giorni dopo, la
Congregazione dell’Indice condannò l’opera di Copernico donec expurgetur e
proibì qualsiasi testo a sostegno dell’eliocentrismo. Per due secoli, la Chiesa
chiuse le porte al nuovo cosmo.
La reazione fu varia: chi esultò per lo “scampato pericolo”, chi derise la
“ignoranza fratesca”, chi invocò prudenza e silenzio. Nessuno vide la tragedia
imminente: il secondo processo e la condanna del 1633.
Tutti tacquero, tranne
uno.
Nel fondo di una segreta, in condizioni disumane, Campanella compose nell’estate
del 1616 la temeraria Apologia pro Galielo. Fu un gesto di straordinario
coraggio intellettuale e morale: la difesa di un uomo perseguitato, ma anche la
proclamazione del diritto universale alla libertà della ragione. Campanella, che
pure non aderiva completamente al copernicanesimo, combatteva per un principio
più alto: la legittimità della ricerca scientifica, la necessità di un sapere
che non sia asservito né alla politica né alla teologia.
L’opera, di grande rigore tecnico, si articola in cinque capitoli: i primi due
raccolgono gli argomenti contro e a favore di Galileo; il quarto e il quinto
confutano le obiezioni e sostengono la plausibilità delle sue tesi; il terzo,
vero nucleo dell’intera costruzione, stabilisce tre tesi fondamentali. La prima
– di sorprendente modernità – afferma che per giudicare questioni scientifiche è
necessario unire lo zelo religioso alla competenza razionale: infatti lo
scienziato irreligioso bada ai vantaggi terreni, difende l’opinione del volgo,
non combatte per la verità e la giustizia, ma per vanagloria e cupidigia; al
contrario gli zelanti incolti, divengono formalisti e succubi dell’autorità
testuale e credono di assicurare l’amor di Dio sentenziando di ciò che non
conoscono.
Con questa affermazione Campanella anticipa il principio – oggi diremmo “laico”
– della distinzione dei saperi e della competenza: un giudizio sulla natura
appartiene alla ragione e all’esperienza, non alla fede cieca. Così, nel cuore
della Controriforma, tra le mura di una prigione, nasce un atto fondativo della
libertà scientifica europea. La seconda tesi si articola su due punti: che il
teologo non deve prescindere dal sapere scientifico; che le scienze naturali
sono ancora fanciulle e la struttura dell’universo rimane opinabile; che
l’insegnamento della Scrittura è volto al ben vivere e ai dogmi soprannaturali e
non alle nozioni astronomiche. Infine che non tutte le proposizioni false o
dubbie sono di necessità false e eretiche, a meno che non contraddicano
espressamente la Scrittura, e che non si può condannare chi ricerca con sincera
volontà di trovare il vero e non di combattere la fede. La terza tesi infine è
che la natura è un libro di Dio, codice vivo, epifania perenne, e non può quindi
contrastare col libro scritto, la Bibbia, purché venga decifrato da uomini dotti
e spassionati, non da ignoranti invidiosi, che osteggiano i più vividi ingegni
contemporanei solo perché non sono versati in queste scienze e disperano di
poter apprendere e si vergognano di tornare sui banchi di scuola quando già
vantavano titolo di maestri.
Dopo l’episodio generoso dell’Apologia, i contatti tra Campanella e Galileo si
interruppero per quasi quindici anni.Solo nel 1629, quando il filosofo liberato,
riabilitato, insignito del titolo magistrale e accolto nella cerchia degli
intimi di Papa Urbano VIII, cessò di essere un soggetto compromettente, si
assistette a una ripresa dei rapporti. In quel periodo, Campanella aveva
finalmente ottenuto la libertà e una certa legittimazione, dopo un lungo periodo
di prigionia che lo aveva visto accusato di eresia. Come accadde per altri
filosofi dell’epoca, come Giordano Bruno, anche lui aveva dovuto affrontare una
dura lotta contro il potere ecclesiastico. Nel 1631, Campanella scrisse
a Galileo una lettera pasquale in cui esprimeva il suo rammarico per non essere
stato coinvolto nella diffusione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del
mondo, ormai in procinto di uscire. Nel suo scritto, lamentava:
> “E mi ha fatto torto Vostra Signoria farlo vedere a tanti e a me no, il quale
> son più suo divoto degli altri, né so usurparmi quel che non è mio.”
Questa frase denota l’affetto di Campanella per Galileo e la sua volontà di
essere partecipe delle importanti discussioni scientifiche che stavano
emergendo. Era una manifestazione di lealtà e devozione intellettuale, un
desiderio di condividere le novità scientifiche che avrebbero trasformato la
visione del mondo, soprattutto alla luce delle polemiche suscitate dal modello
copernicano. Galileo, infatti, stava affrontando le conseguenze della sua
adesione al sistema eliocentrico, che avrebbe provocato l’ira della Chiesa.
Nonostante il suo impegno, Campanella nutriva l’aspirazione di essere coinvolto,
di essere riconosciuto come parte di un movimento che stava cambiando la storia
della scienza.
Nel maggio del 1632, Campanella scrisse nuovamente a Galileo con toni più
affettuosi, ma anche segnati dalla tristezza per la lunga separazione e per la
crescente distanza che si stava creando tra i due. Tuttavia, anche in questa
occasione, Campanella non mancò di esprimere la sua stima verso Galileo, che
rispose prontamente inviandogli un esemplare del Dialogo, arrivato nelle mani di
Campanella il 15 agosto dello stesso anno.
In queste parole, si evince la sua sincera ammirazione per Galileo, ma anche la
percezione di una distorsione nei rapporti, nonostante il riconoscimento
dell’importanza del lavoro di Galileo.
Tuttavia, questo clima di serenità e ottimismo non sarebbe durato. Nel 1633, con
l’intensificarsi delle pressioni ecclesiastiche su Galileo, il Dialogo venne
messo sotto accusa, e i toni nelle lettere tra Campanella e Galileo cambiarono
radicalmente. Nella lettera datata 25 settembre 1633, Campanella esprimeva la
sua profonda preoccupazione per il futuro di Galileo:
> “Con gran disgusto mio, ho sentito che si fa Congregazione di teologi irati a
> proibir i Dialoghi di Vostra Signoria, e che non ci entra persona che sappia
> matematica o cose recondite… Dubito di violenza di gente che non sa.”
Il riferimento a una “Congregazione di teologi irati” illustra il crescente
clima di ostilità che avvolgeva le nuove teorie scientifiche di Galileo,
accusate di mettere in discussione la verità religiosa. Campanella esprime la
sua indignazione di fronte a un tribunale che non aveva alcuna preparazione
scientifica e non si faceva scrupoli nel condannare l’innovazione. La frase
evidenzia anche la sua convinzione che la Chiesa, nonostante il suo potere, non
fosse in grado di comprendere la vera essenza delle scienze moderne.
Anche la sua lettera del 25 settembre denota un cambiamento nei toni, diventando
più affannosa e cauta. Scrive:
> “Ho fatto il possibile per servirla… Non fui ammesso… Concordiamoci col volere
> divino… e siamo figli dell’obedienza. Quando s’affredderà il sangue, dirò a
> lei più.”
Queste parole manifestano non solo il disagio di Campanella, ma anche la sua
rassegnazione nei confronti del potere papale e dell’inquisizione, che aveva
ormai preso di mira Galileo. Il riferimento al “volere divino” suggerisce una
sorta di sottomissione al destino, ma anche un invito alla pazienza. Campanella,
pur essendo profondamente convinto della giustizia delle idee di Galileo, si
sentiva impotente di fronte al corso degli eventi.
Nel frattempo, la situazione di Galileo peggiorò, e il processo contro di lui
divenne inesorabile. La Chiesa non tollerò più la difesa dell’eliocentrismo, che
contraddiceva l’insegnamento tradizionale basato sul geocentrismo. Il 23
settembre 1633, fu intimato a Galileo di recarsi a Roma per rispondere delle sue
teorie, e la condanna a Galileo per eresia fu sancita il 22 giugno dello stesso
anno.
Il tono dell’ultima lettera di Campanella, scritta il 22 ottobre 1633, è
disperato e intriso di amarezza:
> “Per dir vero… io stavo con gran paura, perché si fe’ la causa con molte
> sbravate contro i nuovi filosofi… e ci fui nominato io.. Scrissi concisamente
> e quasi per cifra, perché dubitavo e dubito ancora non la pigliassero contro
> me… Mentre non si può parlare, e io son figlio d’obedienza, mozzai le parole…
> Vostra Signoria perdoni alla mia pusillanimità, nata da lunghi affanni e
> calunnie; e sappia che gli uomini non mirano al vero, ma a dar gusto e scusar
> se stessi con accusar noi… Pazienza! Quel che vuol Dio è forza che vogliamo
> anche noi”.
Queste parole rivelano una crescente frustrazione in Campanella, che si sentiva
impotente di fronte alla travolgente forza della Chiesa e alla paura che anche
lui potesse essere coinvolto in un processo di censura e condanna, come accaduto
a Galileo. Il suo appello alla “pazienza” e alla sottomissione al volere divino
rispecchia il contesto storico in cui la libertà intellettuale era strettamente
limitata dalle autorità ecclesiastiche.
Quando Galileo fu costretto a ritrattare pubblicamente le sue
teorie, Campanella non si limitò a osservare da lontano: continuò a scrivere
lettere di sostegno e solidarietà. Non temeva di compromettersi con un ‘reprobo’
ormai segnato dall’abiura, come scrisse nella lettera del luglio 1633. Tuttavia,
la sua fede in Galileo e la sua speranza che un giorno il suo lavoro fosse
riconosciuto restarono indomabili.
Infine, nel maggio del 1639, giunse la notizia della morte di Campanella,
scritta dall’ambasciatore Ferdinando Bardi da Parigi: “Morì il povero Padre
Campanella, che… era suo gran parziale, come son generalmente tutti quelli che
son disappassionati e intendenti”. Campanella, perseguitato e maltrattato, morì
nell’esilio e nella povertà, lontano dalle luci della
ribalta. Galileo sopravvisse ancora per un triennio, ma la sua vita fu segnata
dalla solitudine e dalle sofferenze fisiche derivanti dalla cecità. Con la morte
di entrambi, si spegneva l’ultima generazione di pensatori del Rinascimento,
quei grandi intellettuali che, pur essendo stati sconfitti e perseguitati,
avevano segnato una svolta irreversibile nella storia della scienza. Il lungo
silenzio che seguì per l’Italia segnò l’inizio di un’epoca di oscurantismo, che
sarebbe durata fino al XVIII secolo, quando l’illuminismo avrebbe finalmente
ripristinato il valore della ragione e della libertà del pensiero, riscattando
così, almeno in parte, il sacrificio intellettuale di figure
come Campanella e Galileo.
Con loro si chiudeva la grande stagione del Rinascimento filosofico italiano,
quel periodo in cui la fede nella dignità dell’uomo e nella potenza conoscitiva
della mente sembrava poter conciliare l’ordine del creato con la libertà della
ricerca. Ma il loro destino segnava anche la frattura insanabile tra due mondi:
da un lato la ragione sperimentale e critica, incarnata da Galileo e difesa, pur
nei limiti della prudenza, da Campanella; dall’altro la ragione dogmatica e
teologica, rappresentata dalla Chiesa della Controriforma.
Massimo Triolo
*In copertina e nel testo: immagini tratte dai libri di Galileo Galilei
L'articolo “Perch’il presente sempre crucifige i suoi
benefattori”. Campanella & Galileo, gli ultimi giganti proviene da Pangea.
Di Eugene Marten, in rete, c’è poco – non ama atteggiarsi; si direbbe, al
contrario, che aspiri a scomparire. In una conversazione con Elle Nash,
pubblicata su “The Creative Independent”, Marten ha fatto la lista delle cose
che gli piacciono. Spiccano “le Perseidi, lo sciame meteorico visto dal Very
Large Array, Nuovo Messico, nel mezzo del nulla” e “il deserto”. Il disastro
stellare – che ai nostri laceri occhi pare la stola di un dio diviso in rivoli –
e il nulla terrestre. È forse questa l’esatta condizione, la postura dello
scrittore. Trarre stelle dal deserto.
Nato a Winnipeg, Canada, nel 1959, da genitori europei (polacchi e tedeschi),
Eugene Marten non ha un blog, non scrive sui giornali, non è censito da una voce
su Wikipedia. Ha esordito alla letteratura venticinque anni fa con In the Blind,
sotto l’ala di Gordon Lish, il mitico editor di Raymond Carver e di Richard
Ford; l’intransigente e leggendario direttore di “Esquire”, di “The Quarterly” e
– per un po’ – della casa editrice Knopf. È stato lui a dichiarare al mondo dei
media che Marten è il vero erede di Cormac McCarthy e di Don DeLillo. Secondo
altri – ne troviamo testimonianza, ad esempio, su “Transatlantica. Revue
d’études américaines”, che nel 2024, per la cura di Brigitte Félix e Stéphane
Vanderhaeghe, ha realizzato An Interview with Eugene Marten – i libri di Marten
hanno fratellanza, per esuberanza di stile, con quelli di Chuck Palahniuk e di
Bret Easton Ellis. Quando si mettono sul tavolo troppi nomi – un po’ come il
gioco delle figurine e dei figuranti – significa che l’autore in questione è
sostanzialmente inclassificabile.
Eugene Marten non ama farsi fotografare – il volto, al contempo sfaccettato e
sfacciato, non incute tenerezze. In fondo, ha pubblicato poco: Layman’s Report,
uscito nel 2013, è il romanzo che ritiene migliore. Eppure, è l’ultimo, Pure
Life, pubblicato nel 2022, dopo quasi dieci anni di silenzio, ad aver fatto
sbalzare dalla sedia critici e lettori. La storia, in vitro, è semplice: si
racconta la vita, aureolata di premi e di tormenti, di Numero Diciannove,
talentuoso quarterback di una squadra della NFL, rifugiatosi nelle giungle del
Centroamerica per curare una cronica afasia mentale, dovuta agli eccessi
sportivi. Marten, di fatto, afferra le icone della cultura statunitense – il
culto della fama, dello sport, della felicità costi quel che costi, finanche il
Graal del Grande Romanzo Americano – e le calpesta, facendone suppurare veleni e
vermi in quantità. La quarta dell’edizione originale del romanzo dice di “un
confronto audace, radicale e brutale, con i miti della modernità, sbriciolati
nel più primordiale degli scenari”; qualche giornale – la “Chicago Review of
Books”, ad esempio – ha scritto di “uno straziante viaggio nel cuore delle
tenebre umane, scandito da un ritmo che tramortisce”. Pare che in Pure Life si
riveli – pur senza rilievi così evidenti – il vero debito di Marten nei
confronti di McCarthy. Come da copione, Marten ha fatto poco, quasi nulla, per
far parlare di sé.
Del libro mi ha parlato, con spiritata enfasi, Andrea Bergamini, dacché le
edizioni Playground lo hanno tradotto come La pura vita (la traduzione è di
Antonio Bravati). Parte che Marten abiti, ora, ad Albuquerque; viene definito
“gentilissimo”. Bergamini mi chiede di leggere, per farmi un’idea, le “prime
trenta pagine” del romanzo, un “montaggio”, dice lui, che sembra “la
trasposizione su carta delle strategie narrative di Terrence Malick”. Gli do
credito, mi incuriosisce lo sconosciuto, il retrattile all’oggi. Il romanzo va
limpido per quattrocento pagine: le prime trenta sono belle; preferisco le
ultime cento. Le pagine sulla catabasi nelle giungle dell’Honduras, tra i
Miskito, gli indigeni di laggiù; lo scrittore non lesina in efferatezze – a un
certo punto, compare per bagliori la sagoma di Fassbinder. In una scena,
emblematica, l’incontro rettilineo con il rettile:
> “Sotto, il fiume era piatto e incolore, ma c’era del movimento. Diciannove si
> soffermò con lo sguardo. Quando il cielo si accese di nuovo lo vide… rosso,
> galleggiante, appena sopra la superficie piatta e immobile del fiume.
> Impassibile, impenetrabile, senza bisogno di traduzione. Lo vide che lo
> fissava attraverso ottanta milioni di anni di implacabile fame rettile,
> indifferente al numero che portavi e tantomeno ai coriandoli che ti erano
> stati lanciati. Tu eri perfetto.
>
> Si accorse che ce n’erano diversi, ma lui avrebbe finito quel che aveva
> cominciato.
>
> Proprio davanti ai loro occhi”.
I grandi scrittori americani, per alcuni tratti, pare scrivano all’unisono:
allineano la voce come una fuga di Bach. Si rincorrono, ricorrono uno
nell’altro. Allo stesso tempo, è la forza della tradizione, è l’avventatezza del
cercatore d’oro.
Indipendente dalla mondanità, dalle modanature ostentate dalla cronaca recente,
Eugene Marten continua a inseguire “il Grande Libro”. La sua cauta ingenuità mi
coinvolge – Eugene Marten scrive come si arma un arco e come si apre una porta –
e prendiamo a parlare.
Come è nato “Pure Life”: qual è stata, intendo, la folgore che ha dato inizio
alla narrazione, l’idea dominante, la natura incontrovertibile
dell’ispirazione?
Ho trascorso un periodo di tempo in America Centrale; volevo ambientare in
quelle terre un libro, ma non avevo tra le mani un soggetto interessante. Dopo
un po’, mi sono giunte notizie di un’ex stella del football, un giocatore che un
tempo ammiravo, la cui vita, una volta terminata la carriera, si era trasformata
in un incubo. Poi un giorno mia moglie mi ha mostrato un articolo di giornale
che suggeriva come i due elementi potessero collegarsi. Quella è stata la
scintilla.
C’è, nel romanzo, a tratti, mi sembra, un ritmo sciamanico. Forse la scrittura è
anche teurgia, un gesto di benedizione, un anatema… Che rapporto hai con le
ombre, con l’invisibile, con il regno del sogno?
Considero le frasi come delle formule magiche capaci di evocare il mondo
raccontato nel libro, quasi una transustanziazione. Da bambino ero molto
religioso. Non lo sono più, ma nutro grande rispetto per tutto ciò che è rito.
In fondo, credo di essere un realista che cerca di trasmettere in ogni opera il
senso di un’altra realtà possibile, nel bene e nel male. La scienza ci parla
dell’esistenza di altre dimensioni, di possibili universi alternativi, ma che
esistono solo nella matematica superiore. Non credo ci sia nulla oltre a noi e
al nostro mondo materiale, ma una parte di me vorrebbe che ci fosse. Credo di
essere impegnato in un utile conflitto con quella parte. Parafrasando Wallace
Stevens, la realtà è la fonte, ma solo quello.
Gordon Lish ti ha paragonato a Cormac McCarthy e a Don DeLillo: questo legame di
parentela narrativa ti inorgoglisce o ti infastidisce?
Ho letto molte opere di entrambi, e ne sono stato influenzato – è difficile
trovare romanzieri americani che sappiano costruire frasi migliori delle loro –
ma personalmente non mi ritengo al loro livello. Né sono un loro imitatore.
Naturalmente nessuno scrive nel vuoto, e mi piacerebbe pensare di aver assorbito
ed elaborato la loro influenza, tra le altre, per poi andare oltre, sviluppando
così una mia opera.
Che rapporto hai con la cultura statunitense contemporanea? Insomma, come vivi
oggi nel tuo Paese?
I miei genitori sono originari dell’Europa (Polonia, Germania) e hanno sempre
avuto un atteggiamento ambivalente verso la prospettiva di una completa
assimilazione. Credo che questo possa aver generato in me un senso di
estraneità, quel genere di distacco che è tipico di uno scrittore. (Del resto,
mi sento estraneo anche alla cultura letteraria di cui dovrei far parte). La
questione è complicata anche dall’attuale situazione politica del Paese. Un
tempo pensavo, forse ingenuamente, che la cultura avesse una sua vita a
prescindere dalla politica, e che potesse persino redimerla (per altri scrittori
è sempre stato vero il contrario). Credo di essere ancora legato a questa idea,
ma data la catastrofe delle ultime elezioni (agevolata da circa 80 milioni di
americani, una fetta considerevole di “cultura”) e dato l’incubo dell’attuale
amministrazione, dai tratti fumettistici, a volte ci si sente così contagiati
dalla palese assurdità di tutto ciò che ci circonda che reagire in modo creativo
sembra superfluo, e a tratti persino impossibile. Sottigliezze, sfumature e
immaginazione non hanno più spazio, venendo meno il buonsenso e il decoro. In
fondo, la merda è merda, cos’altro c’è da dire o da aggiungere? Ci troviamo in
un territorio inesplorato, dove l’unica risposta potrebbe essere quella di
scendere in piazza per protestare. Nel frattempo, continuo a sgobbare sulla
pagina.
Credi che, nell’era dell’IA, il romanzo sia ancora la macchina fondamentale, la
più adatta a dire l’uomo e il suo dramma, la vita, il mondo e ciò che ci sta
attorno?
Sono un po’ titubante a parlare di Intelligenza Artificiale perché non ne so
molto, a parte le allarmanti notizie che tutti leggiamo (e la possibilità che
possa essere utile per la ricerca). Non sono nemmeno sicuro che il romanzo sia
mai stato il mezzo ideale per affrontare quella che chiamiamo la condizione
umana: forse il concetto di “pertinenza” è qualcosa di cui dovremmo liberarci.
Se davvero il romanzo è stata questa macchina fondamentale, per cui si debba
considerarlo un riflesso, da una posizione separata, di ciò che accade nel
mondo, un punto sulla riva del fiume in cui contemplare il flusso della vita,
allora non vedo perché non possa continuare a esserlo, nonostante l’IA e TikTok.
La letteratura, in definitiva, esiste al di fuori della tecnologia, e quindi
potrebbe essere nella posizione ideale per comprenderla. Potrebbe persino essere
l’antidoto. Forse è più in discussione la qualità della scrittura e lo spirito
critico dei lettori.
Perché, in fondo, scrivi?
Per dare vita a qualcosa. Da giovanissimo ero ossessionato dai vecchi film di
Frankenstein (quelli interpretati da Boris Karloff, e anche altri) e alla fine
ho scoperto che il romanzo era il mio laboratorio dove dedicarmi a questa
scienza pazza. Un corpo costruito con pezzi di ricambio, alcuni riesumati, altri
trovati per caso, altri strappati con crudeltà. Un corpo animato
dall’elettricità del linguaggio, nel bene e nel male.
Come fa a tuo avviso uno scrittore a trovare una “voce” più che imporsi in uno
“stile”? Come può una futile storia, costruita con ingannevoli parole, diventare
viva, vera?
Trovo che i termini “voce” e “stile” (non in senso decorativo) siano
intercambiabili. Per me è tutta una questione di parole e di come vengono messe
insieme. Una buona scrittura ha un suono, e non c’è canzone se non sai cantare.
È una sorta di codice, il modo in cui certe molecole e proteine disposte in un
certo ordine danno origine a un organismo che si auto replica (a pensarci mette
un po’ di paura, vero?). Il soggetto/la storia/la situazione mi vengono sempre
in mente per primi, ma il processo, come un sogno, ha una sua cronologia. Credo
che tutto si riduca alla vecchia dialettica forma/contenuto,
contenitore/contenuto. Raggiungere la sintesi perfetta dei due elementi, rendere
il vino indistinguibile dalla bottiglia, è ancora il Santo Graal.
Che cosa leggi, oggi? Quali sono i libri o gli autori che hanno forgiato la tua
scrittura, che sono stati il tuo campo di addestramento?
Ho iniziato leggendo libri di genere come chiunque (in certa misura, l’horror è
ancora presente nelle mie pagine), pensavo che diventare uno scrittore di
successo sarebbe stato il mio obiettivo. Avevo una vaga idea di che cosa fosse
l’arte (ancora oggi non mi fido di questa parola), ma ho iniziato ad accorgermi
che alcuni libri erano scritti meglio di altri. Fiesta è stato il punto di
svolta, l’unico libro che ho letto tutto d’un fiato. Non proverò a elencare
tutti gli scrittori che considero fonte di ispirazione (alcuni preferisco
tenerli per me), anche se non mi considero particolarmente colto; ho una piccola
biblioteca e cerco di sfruttarla al meglio. Un paio di opere a cui torno
continuamente e che amo moltissimo (ad esempio, DeLillo/McCarthy) sono il
racconto The Pedersen Kiddi William H. Gass e The Life and Times of Captain
N. di Douglas Glover, una sorta di Meridiano di sangue canadese ma a mio parere
migliore. I guerrieri dell’inferno di Robert Stone è una specie di Grande
romanzo americano. Sono debitore verso tutti i racconti di Grace Paley e di Joy
Williams (meno verso i romanzi di Williams, anche se comunque sono di valore, e
lo stesso vale per Flannery O’Connor). Spesso ho letto un solo racconto o una
sola poesia di un autore, ma per me possono avere lo stesso peso di un’opera
completa. L’ineguagliabile rivista letteraria di Gordon Lish, “The Quarterly”, è
stata per me, a lungo, una Bibbia. Il genio di Lish nell’imporre la sua
sensibilità a una così ampia gamma di opere è stato unico (e oggetto di
polemiche) nella storia della letteratura. Forse non è stato gradito da tutti
gli autori di cui si è occupato così brillantemente (vedi Raymond Carver), ma
per me è stata una lezione magistrale sul primato della frase. Potrei elencare
altre influenze, non tutte in prosa, non tutte in narrativa, non tutte
americane, nemmeno tutte letterarie, ma cito alcune delle cose che sto leggendo
ora: La tempesta di Shakespeare; Il barone rampante di Calvino; Float, una
raccolta di opere di vario genere della poetessa/traduttrice/saggista Anne
Carson, stampate in piccoli libriccini contenuti in una custodia di plastica
trasparente e che possono essere letti in qualsiasi ordine; vari testi di
saggistica correlati al libro a cui sto lavorando attualmente.
Che rapporto hai con i libri che hai pubblicato: li guardi come figli o come
corpi ormai a te estranei?
Entrambe le cose, e anche qualcosa di più. Credo di avere un legame particolare
con ogni libro, a volte oggettivo e soggettivo allo stesso tempo. Ad
esempio, Layman’s Report non è il mio romanzo preferito, ma credo sia il più
riuscito. È anche il più ignorato.
…e ora, cosa stai scrivendo?
Senza addentrarmi troppo, il romanzo a cui sto lavorando è, per me, un libro
importante. Se ogni scrittore deve avere il suo Grande Libro, allora questo è il
mio tentativo di portarlo a termine, per quanto maldestro. A volte mi sembra il
mio Grande Errore, il che magari è la prova che ho imboccato la strada
giusta. Sono troppo avanti per non portarlo a termine comunque. Concludo sempre
quello che comincio.
L'articolo “La letteratura è ancora il Santo Graal”. Dialogo con Eugene Marten,
un outsider proviene da Pangea.
Lo ammetto, per chi come me nel tempo ha frequentato prose e versi in odor di
dannazione, ergendoli a protesi del proprio animo turbato, allestire scaffali e
vetrine con l’ennesimo libro in cui campeggia l’ennesimo volto femminile è pura
mortificazione. Abbiamo veramente bisogno di un’ulteriore storia con
protagonista femminile, alle prese col suo personale riscatto, su di uno sfondo
storico predeterminato? Saluto perciò con un senso di felicità e rivalsa ogni
libro che del tanfo del politicamente corretto, o dei trend del momento, non
emana neanche un vago sentore. Ed eccolo Inaugura stanotte il secolo del bene,
romanzo d’esordio di Vincenzo Montisano edito da Wojtek. È con opere di tale
fattura che certi lettori si riscoprono esteticamente bipolari. Come spiegare
altrimenti il senso di claustrofobia che si condensa nelle pagine, ma che sfocia
in una capillare ossigenazione dei tessuti post lettura?
> O quando Marcel Boll mi disse: «Esistono infiniti modi di morire, ragazzo, e
> uno soltanto per vivere: il mio». Di giorno delirava d’onnipotenza. A sera
> invece si lasciava assassinare dal piatto freddo della cena. Sai Karl, era
> così mio padre. Un uomo dalla postura sociale invidiabile, diresti tu. Se ne
> stava nella nostra villa di famiglia dentro alla cassa di legno dolce, a mani
> giunte. Beato, un ciarlatano in attesa di santificazione. L’abito aveva le
> tasche cucite. Le bare devono essere pulite, le tasche dei morti sempre
> chiuse. A guardarlo faceva un po’ specie e un po’ ridere. Gonfio di gas
> intestinali, livido di rabbia perché la caducità non l’aveva risparmiato. Che
> decadenza nelle cose di questo mondo. Ché morendo sfoggiano il meglio di sé. E
> infatti un dio minore doveva avergli aperto quel ghigno in bocca. Era il
> ghigno della vita che lotta più forte prima di perdere. La smorfia di chi non
> s’è reso conto d’essere all’ultimo giro di bevute.
Hugo Boll, figlio inquieto di un’aristocrazia decadente, si rivolta contro tutto
ciò che abbiamo eretto a presidio della nostra normalità. Una furia iconoclasta
che investe famiglia, affetti, società. Una tensione forse scomposta, ma
necessaria, che lo porta a inciampare sull’autorità, a covare dissapore, a
esercitare il diritto all’ostilità. E come se ciò non bastasse, un’insolita
febbre incombe sulla città di ***, un turbamento collettivo che spinge sempre
più individui all’auto-mutilazione. Nel dilagante caos che serpeggia tra le vie,
un oscuro luogo sembra emanciparsi dall’architettura generale; un coacervo
d’incubi, fisiologia elementare e teatralità dell’assurdo.
Un romanzo che abdica all’istinto di vita, che reca con sé la rinuncia al
consolatorio. Ciò che sentiamo sulla nostra epidermide a lettura conclusa è la
perdita dell’interezza.
> L’amore è una gabbia d’aspettative. Un attimo prima me la cavavo niente male,
> passeggiando per i parchi, acquistando questo o quel capo nelle boutique
> d’alta sartoria, e l’attimo dopo rincasavo vittima di uno sconforto
> inconsolabile, preda delle batterie di interrogativi che proliferavano sulla
> superficie opaca delle cose. E Leda invece patteggiava senza rimorsi con la
> commedia umana. Se le chiedevo quale fosse il senso delle sue settimane, lei
> rispondeva che svegliarsi la domenica, al mio fianco, senza l’impiccio del
> lavoro, la faceva scoppiare di senso; se discutevamo dell’infinito,
> candidamente affermava che una spiegazione della vita ne avrebbe di sicuro
> ucciso la poesia. Dove trovava l’energia per tenere accesa quella luce sul
> viso? Nessuno ci guarda, le dissi quella notte. Nessun dio avrebbe permesso
> tanta mediocrità.
L’infittirsi delle tenebre potrebbe conferire al libro un’aurea di maledizione
impenetrabile, ma come ogni opera d’arte che si rispetti ecco il risvolto
estetico della medaglia: il ghigno mutare in riso. Vincenzo Montisano, che già
si era fatto notare per la sua novella Logica degli incendi, si conferma voyeur
ispirato. L’inquadratura è sì condotta in primo piano, ma più che motore unico
dei fatti, l’autore assegna al suo protagonista un ruolo atipico, quello di
osservatore-osservato.
Nonostante la portata degli eventi che propizia e subisce, Hugo continua a
manifestarsi come riverbero di se stesso. Un difetto congenito rovista nelle sue
volontà, declassandone le azioni da volute a subite. Niente in lui osa
cristallizzarsi in fede, un distacco algido che lo pone a debita distanza dalla
Storia. E quando il tutto sembra impattare nel vicolo cieco dell’opprimente,
ecco il guizzo, il godimento del voyeur che ci viene in soccorso. La
fascinazione germoglia dal fonema, si radica poco dietro la pupilla e saetta
scialata oltre la corteccia prefrontale. Signori: la grazia dalle cose a
dispetto delle cose.
> Da qui in poi, Karl, non ci fu ritorno. Avevo spiato da una crepa l’esistenza
> denudarsi. Mi dissi no, l’intera faccenda è una pura idiozia. Noi, uomini
> pratici, branchie del vecchio continente, che avevamo licenziato i demoni e le
> acquasantiere, per cui non c’era stato altro che mangiare e bere, scopare e
> dormire, macchinare, consumare e morire, stavamo per essere travolti da un
> flagello dalle inesauribili e perverse riserve immaginifiche.
Gianluca Pìtari
*In copertina: un collage di Max Ernst (1891-1976)
L'articolo “Il ghigno della vita che lotta”. Vincenzo Montisano o della rinuncia
al consolatorio. proviene da Pangea.
Sette sono – a cavallo dei secoli XIX e XX – i grandi nomi, in alcuni casi
apocalittici come i famosi cavalieri biblici, della letteratura cattolica di
Francia: senza dimenticare il ruolo di Villiers de L’Isle-Adam, di Francis
Jammes, e di altri ancora, Charles Baudelaire, Paul Verlaine, Joris-Karl
Huysmans, Paul Claudel, Léon Bloy, Charles Péguy, e, per finire, Georges
Bernanos. Nel caso degli ultimi tre di questi sette nomi, lo sforzo della
scrittura assume toni particolarmente vibranti, traccia evidente di un lavoro
artigianale che trascende la letteratura e che fa sentire tutta la fatica, la
materialità della parola messa su carta; questo certo né un fatto accidentale né
un dato secondario per la comprensione del settimo, nato a Parigi nel 1888 e
morto a sessant’anni.
Lo ha d’altronde esplicitamente confessato egli stesso in un passo de I grandi
cimiteri sotto la luna:
> “No, io non sono uno scrittore. La sola vista di un foglio di carta bianca mi
> disanima. Lo speciale raccoglimento fisico imposto da un tale lavoro m’è così
> odioso che l’evito sinché posso. Scrivo nei caffè, col rischio di passare per
> ubriacone, e di fatto lo sarei forse diventato se…”.
Lo sarebbe forse diventato se il demone della scrittura e l’orientamento che
essa assunse nella sua penna non l’avessero colto, e se non avesse trovato
quello strano equilibrio tra immersione negli altri e distacco dalla folla che
contraddistingue più di un “collega” dei tempi: per esempio Maurice Barrès,
oppure lo stesso “estroso” Huysmans, o il nomade D. H. Lawrence, o il collabò
Pierre Drieu La Rochelle. E paradossalmente lo sarebbe forse diventato se non
avesse trovato proprio quella fatica figlia prediletta, primogenita di quel
demone che lo attanaglia, come ammette poche righe prima di quella dichiarazione
di “poetica” del cuore: l’“a che pro?”.
Il pro non è certo lo stile letterario, sebbene lo stesso Drieu lo annoveri tra
“i grandi stilisti che rendono onore alla nostra generazione” e tra i pochi veri
cristiani dei tempi moderni – a fronte delle gravi mancanze della Chiesa, in
quanto istituzione –, tutti per questo poeti, come lo furono Nerval, Rimbaud e
Verlaine, consustanzialmente dotati di un modus letterario, tutto originale.
Il pro è la ragione che lo tormenta. Non una ragione, né tantomeno la ragione
dei Lumi, bensì la ragione. Quella del cristianesimo, la quale, come nel caso di
Bloy e di Péguy (forse i soli due scrittori che, per Bernanos, furono davvero
necessari alla sua attività, anche perché, per lui come per questi suoi maestri,
il cattolicesimo non è ascesi, bensì immersione nella realtà, con tutto
l’impegno fisico e morale che ciò comporta), vuole applicare alla scrittura
affinché si dispieghi nel mondo, nella vita, nei dibattiti politici, negli
eventi politici, in maniera concreta, sebbene sia un arduo lavoro (Carlo Bo,
presentando il ‘Meridiano’ dei suoi romanzi, fa riferimento al mito di Sisifo,
per descrivere il demone di un autore che non per nulla esordì con Sotto il sole
di Satana, libro che definire dai toni inquieti, e tormentato, è un eufemismo),
ma – stoicamente volens aut nolens – il suo, dal quale non può e non vuole
distaccarsi, pur sapendo che, una volta partito verso l’avventura dello
scrivere, non c’è ritorno. Il prezzo che si paga è l’esser tagliati per giorni
fuori dalla vita, per poi restituirla con modi differenti.
Eroe santo – in senso “laico” (ovviamente) – che così si spiega: “ho sognato di
santi e di eroi”, e che così chiosa: “le forme intermedie le ho trascurate
perché mi sono accorto che esistono appena”; l’autore di Diario di un curato di
campagna, membro in gioventù dei Camelots du Roi, lasciò l’Action Française di
Charles Maurras, autore di uno dei testi cui più fece riferimento, L’avvenire
dell’intelligenza, per disporre del massimo di libertà per “comprendere” e non
fare come capita ai tanti sventurati preda del delirio, i quali finiscono per
“inciampare in un’ingiustizia accuratamente nascosta sotto l’erba, come un
trabocchetto”, e pensare con Dio, il Cristo.
Roger Nimier, suo figlioccio letterario, ha colto puntualmente il senso della
sua rottura con l’Azione:
> “L’universo di Maurras, privo di Dio, esige comunque una trascendenza d’idee
> che mantenga la forma delle cose. Viceversa, con Dio, Bernanos si trova a pie’
> pari nel secolo […]. Per lui la vera trascendenza è molto più alta, e se vuol
> smuovere la Storia, le basta mutare i cuori”.
*
All’epoca dei Camelots du Roi, Bernanos, e con lui molti altri giovani di
destra, era finito in prigione per alcuni scontri e tumulti di piazza, e aveva
persino partecipato a un fallito complotto inteso a restaurare la monarchia in
Portogallo, e ancora, seppur riformato alla visita di leva, aveva preso parte da
volontario alla Prima guerra mondiale, venendo più volte ferito, e meritandosi
una decorazione.
All’azione preferirà ben presto la scrittura, e allo stare al fianco di Maurras,
schierato per un monarchismo senza Dio, l’autonomia intellettuale e l’esilio,
prima in patria, poi in Brasile, per dedicarsi unicamente al racconto di vite di
personaggi che sono spesso giovani, disagiati e poveri – come esemplarmente la
Mouchette poi trasposta sullo schermo da Robert Bresson –, nei quali tuttavia a
trionfare è l’umanità, e la grazia, quella evocata dal suo moribondo curato,
alla fine del suo romanzo più famoso.
La chiave è lo spirito di povertà che anima i santi di Bernanos, e che si fonda,
come nel suo cuore, sulla speranza che a sua volta ha le proprie basi nella fede
nella compassione di Dio – “la dolce pietà di Dio”, ovvero “la profonda
Eternità” –, che egli è in grado di distillare sapientemente e correttamente
anche da un romanzo come il Viaggio di Céline, pure in tutta la sua crudezza. È
la monarchia, secondo l’autore parigino, a garantire la crescita del cristiano,
vale a dire di un uomo che sia davvero libero, e, come scrive, sempre
appassionatamente, Nimier ne Le Grand d’Espagne:
> “Monarchico, chiede molto al suo Re e più ancora ai francesi. La virtù è un
> affare con Dio, ma l’onore è il garante del temporale. Tale è la chiave del
> suo ragionamento politico”.
Ma è anche l’infanzia, tema frequentatissimo dalla letteratura francese di
quegli anni (tra gli altri I ragazzi terribili di Jean Cocteau, Dalla parte di
Swann di Marcel Proust, Morte a credito di Louis-Ferdinand Céline, ecc.) e che
(con Zero in condotta di Jean Vigo, con I quattrocento colpi di François
Truffaut, con Mes petites amoureuses di Jean Eustache, ecc.) troverà poi il suo
spazio nel cinema.
Essa gioca, per l’autore della storia di Mouchette, il ruolo di luogo ideale
d’educazione alla vita; rappresenta la profondità stessa della vita, come
suggerito anche da Montherlant, che pure v’insinua accenti erotici, e sulla
quale poggia il cristianesimo, come suggerisce l’immagine popolare del Natale,
la mangiatoia col Bambino, decisamente più grande, agli occhi di Bernanos, di
una dipendenza del palazzo di Erode, simbolo invece di un mondo altrettanto
vecchio, ma anche meno solido, quello borghese.
La borghesia è un nuovo Impero, del XIX secolo, della finanza, cui oppone la
monarchia, e il presepe, la culla dello spirito, che rimanda ai ricordi
d’infanzia, tra le pagine de I grandi cimiteri sotto la luna:
> “All’epoca della mia giovinezza, abitavo in una vecchia cara casa tra gli
> alberi, in un minuscolo borgo del contado di Artois, pieno di mormorii di
> foglie e d’acque correnti”.
Tutto comincia in una piccola realtà, come quella di una dimora di campagna. È
qui che esiste, se esiste, una patria, fatta d’aria e di terra, d’acqua e di
alberi. È la terra dei padri, contesto della fanciullezza e delle tradizioni,
quelle concrete del cristianesimo, a un tempo locali e universali, non della
Tradizione astratta di Guénon, né tantomeno dei concili vaticani
modernizzatori. In tale spazio esisteva una dottrina che era attitudine di vita,
garanzia di libertà – perché, secondo Bernanos, “solo l’uomo libero può amare”
–, e il senso di povertà di cui ha raccontato le storie, in presenza di una vera
Chiesa, concretizzata nelle chiesette di paese, anche se, come ha affermato
Stenio Solinas, “il suo è un cattolicesimo da grandi cattedrali”, e fu
d’altronde lo stesso autore di Diario di un curato di campagna, con toni accesi,
a ricordare che era proprio il grande cristianesimo – e con esso la sua virtù
della forza, quella degli eroi, dei santi, dei martiri – ciò che più si era
indebolito negli ultimi due secoli, a opera dei modernizzatori. La logica è
stringente. Quindi: “Senza la virtù della forza, la carità stessa si degrada e
si avvilisce”. Perché: “Ridiscende da Dio all’uomo invece d’innalzarsi dall’uomo
a Dio”.
*
…Ciò accadde in coincidenza con l’affermazione della borghesia. Scrive
Bernanos:
> “Esiste una borghesia di sinistra e una borghesia di destra. Non c’è invece un
> popolo di sinistra e un popolo di destra, c’è un popolo solo. L’idea che io mi
> faccio del popolo non è per nulla ispirata da un sentimento democratico. La
> democrazia è un’invenzione degli intellettuali, all’identico modo, in fin dei
> conti, della monarchia […]. Il popolo esige il lavoro, il pane, e un onore che
> gli sia affine”.
Tuttavia, stando a Bernanos, più che una semplice e circoscrivibile classe
sociale, è una mentalità, la borghesia. È l’antitesi di quanto è descritto da
Péguy ne Il denaro, l’antitesi del mangiare nella mano di Dio, caro a entrambi,
ed è il pensiero di massa dei mediocri, farisei benpensanti che rendono disumano
ogni ambito della società, rovesciando la gerarchia tra l’uomo e il denaro, tra
l’uomo e la macchina, infondendo paura, timore, tramite la sostituzione del
filosofo, del poeta, del soldato e del sacerdote col burocrate, col sociologo,
con lo statistico e l’ingegnere, insomma col “Meccanismo”. Così, la “società
moderna lascia distruggere lentamente, in fondo alla propria cantina, una
meravigliosa creazione della natura e della storia […]: [è] il popolo che dà a
ogni patria il suo carattere originale”.
È questo il suo mondo, il suo humus, ma anche a fronte di un profondo legame con
lo spirito della sua Francia, faro di civiltà, il suo radicamento fu altrove, ed
egli, prima da rappresentante di commercio e poi da scrittore esule per scelta,
fu un vagabondo la cui patria, come detto, fu semmai la fanciullezza, fase della
vita in cui si è forse davvero sentito parlare cristiano, come annota in Les
Enfants humiliés, diario dei primi due anni della Seconda guerra mondiale,
scritto in Brasile, tornando sul tema esposto ne I grandi cimiteri sotto la
luna. E ribadendo:
> “Il mondo sarà giudicato dai fanciulli. Sarà lo spirito dell’infanzia a
> giudicare il mondo”.
Dai bambini oltre che dagli eroi, dai santi, dai martiri, il che è più scontato,
se non altro per la più savia Chiesa, ma quanto alla possibilità di riscattare
il mondo Bernanos ha, soltanto, “l’intima certezza che la parte del mondo ancora
suscettibile di riscatti è solo quella dei fanciulli”.
…E accadde anche in coincidenza con l’affermarsi della nazione. Scrive:
> “Non sono, non sono mai stato né sarò mai nazionale, anche se il governo della
> repubblica mi accordasse un giorno solenni esequie con questa etichetta. Non
> sono nazionale perché mi piace sapere con esattezza quello che sono, e la
> parola ‘nazionale’, di per sé, non è assolutamente in grado d’insegnarmelo.
> Ignoro anche chi l’abbia inventata. Da quando gli uomini di destra si chiamano
> nazionali?”.
Da che trionfa la bestialità, avrebbero risposto Franz Grillparzer, Joseph Roth,
Stefan Zweig, i grandi austriaci.
Bernanos, di suo, tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, risponde
ulteriormente che è da quando c’è chi vede nel paganesimo della Germania la
tentazione di una pseudo-morale da padroni – grande tentazione per chi addita
una morale da schiavi, quale sarebbe a loro avviso quella cristiana, cui si può
sostituire, in realtà, solo quella dei predatori, della cupidigia – ma
soprattutto da che la decadenza della Chiesa, così tremenda, è accompagnata da
quella della Francia, che non sta meglio. Anzi, la
“Francia è in stato di peccato mortale, la Francia perde la sua anima. La
Francia è nelle mani dei farisei. Sono i mediocri che, per salvare il resto,
vendono pezzo a pezzo l’onore del mio Paese”.
Mai una battaglia di retroguardia, quale tende a essere quella nazionalista, e
questo a dispetto della visione che poté offrire a Nimier, allorché questi nel
1946 andò a trovarlo nel Quartiere latino, presso l’Hôtel Cayré, dove il suo
maestro era di stanza appena tornato dal suo esilio volontario in Brasile, e con
un paio d’anni di vita da vivere, l’aria di un colonnello ferito a Waterloo, o
di un Grande di Spagna, per l’appunto, il quale avrebbe proseguito la sua lotta
antinazionalista sì, ma per il suo Paese, antifascista e anticomunista a un
tempo, domandando: la “Chiesa ha bisogno delle masse, o le masse hanno bisogno
della Chiesa? Imbecilli!”. Che rincorrono le masse invece di guidarle a Dio,
mentre esse si allontano dalla Chiesa, e mentre la nazione impone una giustizia
che è spesso ingiustizia, “nell’attesa che diventi un’ingiustizia onorata,
sanzionata dai giudici e benedetta dagli arcivescovi”.
*
È in una piccola fattoria bianca e azzurra, nei pressi di Barbacena, oggi
divenuta museo, che lo scrittore aveva scelto di fermarsi, nel suo esilio
brasiliano, e non perché gli fosse piaciuta, ma perché il nome della vicina
collina (Croce delle Anime) lo aveva conquistato. Qui, nella regione del Minas
Gerais, la Central do Brasil, ovvero la locale posta ferroviaria, dal “carattere
a volte un po’ capriccioso”, faceva sì che, alla distanza geografica, immensa e
sofferta, dalla sua Francia, si sommasse a volte un ulteriore sfasamento
temporale. È il caso della lettura ritardata di un articolo del 17 aprile 1942 a
firma del direttore di “O Jornal”, quotidiano che avrebbe in seguito dato
spazio, e più precisamente tra il maggio e il settembre di quello stesso anno, a
una serie di sei articoli del romanziere, successivamente ritradotti in lingua
francese nel secondo dei due volumi dei fondamentali “Saggi e scritti di lotta”,
editi da Gallimard nella Pléiade.
L’autore di Sotto il sole di Satana, in quel di Barbacena, sente in maniera
viscerale il dovere di rispondere a Francisco de Assis Chateaubriand,
proprietario nonché direttore del giornale e del gruppo “Diários Associados”,
futuro accademico brasiliano, il quale, nel suo articolo O novo gauleiter, “Il
nuovo collabò”, esaltava l’idea di una collaborazione, questa volta democratica,
tra Francia e Germania. Un “argomento capitale” ancora oggi per ogni paese
europeo, e a maggior ragione per la Francia, paese che per Bernanos
rappresentava un deposito di valori che sentiva sotto minaccia, tanto da
scrivere nel suo quarto articolo:
> “Basta che si fermi, o che soltanto diminuisca il ritmo del suo ardente
> slancio storico, affinché i parassiti intellettuali che pullulano oggi sul
> mondo come i pidocchi sulla pelle di un animale malato si scaglino
> immediatamente su di lei come su di una preda”.
Quella che difende, e a cui si rifà, è la Francia dalla vocazione universalista
cattolica, deformata dalla Rivoluzione e dai “diritti del cittadino” spesso
confusi con l’istanza che dà il titolo a “La difesa dei valori umani”, uno di
quei sei testi. L’uomo, affermerà ne La Francia contro i Robot, è infatti un
“animale religioso”, e non solo l’“animale economico” che lo ha reso la
modernità:
> “non solo lo schiavo, ma l’oggetto, la materia quasi inerte, irresponsabile,
> del determinismo economico”.
L’orizzonte che intravede in questa nuova collaborazione non è una Pax Europæa,
bensì l’interesse della finanza, l’asservimento della patria, ridotta allo
status di una ballerina del Crazy Horse, o del Moulin Rouge, e i prodromi di una
guerra totale: “Appiccherebbero il fuoco all’umanità per un colpo in Borsa,
senza curarsi un istante di sapere come spegnerlo”, ha scritto ne I grandi
cimiteri sotto la luna. La serie, oltre alla qualità, degli scrittori che hanno
detto la loro sul denaro, la finanza, è impressionante: Balzac, Vigny,
Baudelaire e Zola, Rimbaud (“In vendita i Corpi senza prezzo, […] le abitazioni
e le migrazioni […]! Slancio insensato e infinito”), Bloy, Pessoa, Hamsun e
Pound, Fitzgerald e Péguy, D. H. Lawrence e Henry Miller, Drieu La Rochelle e
Céline, Rebatet e Montherlant, senza dimenticare né Dostoevskij, giocatore
d’azzardo, né il John Updike di Sei ricco, Coniglio. Bernanos, lui, fa ancora
eco a Péguy, secondo il quale il “denaro è tutto, domina tutto nel mondo
moderno”. Comune è dunque la denuncia della sovversione dei valori con l’avvento
di una sola legge, quella economica. Un sistema di cui i due contestano il senso
e la tenuta razionale.
Il “dandy del presepe” e altero cavallerizzo di Barbacena, di suo, ricolmo di
una profonda amarezza per la propria patria, sprezzava il denaro. L’attualità di
questo esule di una guerra di ottant’anni fa deve dunque colpire, perché la
questione non è risolta, ma è anzi più essenziale che mai.
Marco Settimini
*Per gentile concessione si pubblica l’introduzione di Marco Settimini a:
Georges Bernanos, “No! Antologia di testi critici e di lotta”, De Piante, 2025
In copertina: Georges Bernanos, appassionato motociclista © collection famille
Jean-Loup Bernanos
L'articolo Georges Bernanos o la “rivolta universale dello spirito” contro
l’inumano dei totalitarismi moderni proviene da Pangea.
Di rado gli scrittori con delle grandi specificità stilistiche sono dei grandi
scrittori. Non sono nemmeno degli scrittori minori, solitamente. Sono piuttosto
dei casi a parte: degli scrittori per scrittori, degli scrittori di culto. Si
nascondono nelle ombre delle nostre librerie e il grande pubblico non è il loro
destino né il loro auspicio. Rifuggono le classifiche e le onorificenze e di ciò
gli siamo grati. D’altronde uno scrittore di culto può essere perfino più
prezioso di un grande scrittore, perché è irripetibile. Credo che questo sia il
caso di Michele Mari.
L’ultimo romanzo di Mari, I convitati di pietra, edito come gli altri da
Einaudi, è uno dei suoi libri più personali e felici, nel senso che per la prima
volta Mari immagina per un personaggio a lui prossimo una possibilità di amore
riuscito, “felice”, sia pure in extremis e racchiuso in una sola notte. La trama
del romanzo è un congegno complesso ma manipolato con efficacia: una classe, la
III A, dopo l’esame di maturità si accorda di versare ogni anno una somma in un
fondo che sarà poi destinato agli ultimi tre ex alunni rimasti in vita. Si
tratta di una scommessa che è anche uno spietato gioco con la morte di ognuno di
loro.
Seguiranno assassinii, suicidi, frustrazioni, invidie, malattie, malignità,
magie nere e via di seguito. La III A, i superstiti della classe, si riuniscono
ogni ventidue di luglio per una cena. Così I convitati di pietra diventa un
grande romanzo sul tempo, perché cos’altro sono le nostre vite e le nostre morti
(ma anche i nostri amori) se non il suggello del tempo che passa e che ci
devasta?
In uno dei racconti più belli di Michele Mari, Laggiù, contenuto
in Tu, sanguinosa infanzia (1997), due vecchi parlano dei loro ricordi
d’infanzia. Il dialogo si svolge durante una malinconica sera d’estate del
2030, e si conclude con due battute che suonano come dei versi: “Non c’è stato
molt’altro, nella vita. / No, è quasi tutto laggiù.” Il laggiù è l’infanzia, il
bambino che ognuno di noi è stato e che spesso vorremmo tornare a essere, ma
in I convitati di pietra Mari lo tramuta negli anni del liceo, che sono ben più
spietati dell’infanzia. I personaggi del libro, fra i quali spiccano l’onanista
Luca Brodo e il cinefilo nerd Lothar Semprini, si imprigionano nel tempo perduto
delle loro giovinezze mancate (meglio: fallite) e nelle ossessioni che
definiscono le loro età adulte.
Per gran parte del romanzo sembra non esserci speranza per nessuno; tuttavia,
come scrivevo poc’anzi, e a differenza di Cento poesie d’amore a Ladyhawke o
di Rondini sul filo o anche del recente Locus desperatus, qui Michele Mari ha
compassione per la vita sentimentale di un personaggio adulto che gli somiglia.
Credo sia la prima volta.
A un certo punto infatti accade questo:
> “Al mattino lui le spiegò che quella notte, resosi conto di non averlo mai
> fatto, si era detto che non poteva morire senza aver dormito una volta insieme
> a lei, s’intende castissimamente.”
E viene alla mente Ladyhawke, perché sarebbe bello che lei, Ladyhawke, posto che
esista e che sia ancora in vita, e qui mi rivolgo ai veri cultori di Mari, legga
questo libro e soprattutto questa frase, questa scena, la piccola rivincita
sentimentale di un personaggio dal “tragico destino”, per citare – in onore al
fumettologo Lothar Semprini – il barone Ungern Kharn di Hugo Pratt: “Ricordate
al mondo che avevo un tragico destino.”
Chi non vorrebbe abbracciare, sia pure “castissimamente”, per un’ultima
indimenticabile notte, la donna o l’uomo che ci è stato negato? Gli amori
mancati della nostra giovinezza sono quelli che ci perseguitano per tutta la
vita ma che forse ci salveranno nel momento ultimo. Questo pensiero è nato
leggendo il libro di Mari. Chi ama invano non muore invano, credo, perché
comunque ama.
I temi di I convitati di pietra sono tanti e gli estimatori di Michele Mari
possono dilettarsi a enumerarli. C’è la morte, certo, e c’è la malattia, ma ci
sono anche i fumetti, sua grande passione, e poi il cinema. C’è qualche battuta
sul calcio e si sente che il cuore di Mari è rossonero. C’è l’amore, come sempre
frustratissimo. Ci sono le macumbe che già ci divertivano nel delirante Rondini
sul filo, un libro che Einaudi dovrebbe riportare nelle librerie (su eBay lo
vendono a 75 euro). Infine c’è il sesso, o per meglio dire un onanismo feroce e
compulsivo, perché Mari rifugge sempre le scopate “normali”, come respinge la
scrittura “normale”, e anche l’unica vera scena di sesso del romanzo, a pagina
122, è una parodia del film La bestia, di Walerian Borowiwczyk, una pagina
spassosissima. I cinefili ameranno molto I convitati di pietra.
Chissà cosa scriverebbe Michele Mari delle proprie opere. In I demoni e la pasta
sfoglia (Cavallo di Ferro, 2010), una ricca raccolta dei suoi saggi letterari,
suddivide gli scrittori che più ama in diverse sezioni: dagli ossessionati ai
feticisti, dai furenti misantropi ai sadici e voyeur, e così via. La cosa
divertente è che lui potrebbe appartenere a tutte queste categorie
contemporaneamente, pur traboccando da ognuna di esse. Ma occorre
ripeterlo: Mari non è un grande scrittore, non vuole e non deve esserlo. È
invece (per fortuna) ben altro, qualcosa di più indefinibile e prezioso. È però
un grande stilista, ossia un autore capace di scegliere un
peculiarissimo stile e di restargli fedele per centinaia di pagine, anche
trattenendo il fiato. Ciò a volte può renderlo difficile, o scorbutico. Michele
Mari è uno scrittore che non si lascia mai addomesticare dai propri lettori. È
uno scrittore che talvolta tiene il broncio.
La trama di I convitati di pietra dunque prende il volo man mano che gli alunni
della III A muoiono, perché più scorre il tempo – il romanzo si svolge in gran
parte nel futuro, come il racconto Laggiù – più Mari si concentra sui tipi umani
che davvero gli stanno a cuore e che gli somigliano. La trovata di Gene Hackman,
da aggiungere alle tante ossessioni dei personaggi mariani, è a un tempo buffa e
commovente, come e anche più delle macumbe e delle perversioni onaniste del
terribile Luca Brodo. Non nasconderò di aver concluso il romanzo con il
rimpianto di non essere stato uno dei compagni di classe di Michele Mari, anche
il peggiore di loro. O uno dei suoi personaggi.
Degli scrittori ossessivi è bene ossessionarsi. I convitati di pietra è uno dei
migliori libri di Mari, con (è il mio personalissimo podio) La stiva e
l’abisso e Locus desperatus. Ma amo anche il suo Leopardi licantropo, cioè Io
venía pien d’angoscia a rimirarti, e poi Tutto il ferro della torre Eiffel. E i
suoi racconti migliori, certo. E Di bestia in bestia, di cui cerco da anni la
rara edizione Longanesi: mi piacerebbe leggerla e confrontarla alla nuova
versione Einaudi, che è una riscrittura. In realtà, ogni sua opera è un caso a
sé, perché Michele Mari è uno scrittore che non si ripete mai e che sorprende
sempre. Anche per questo ci affascina. È uno scrittore unico. Non lo
dimenticheremo.
Edoardo Pisani
*In copertina: un’opera di Max Klinger dal ciclo “Ein Handschuh”, 1881
L'articolo Del mio culto ossessivo per Michele Mari. Ovvero: leggendo “I
convitati di pietra” proviene da Pangea.