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La mente è un campo di battaglia. “Auto da fé”: storia di un libro necessario
Si alza un fumo denso da una biblioteca addormentata, tra scaffali muti e finestre sigillate. Una lingua di fuoco percorre costole di volumi, lambisce l’inchiostro, accarezza le idee fino a consumarle e trasformarle in alveo perturbante. L’aria è immobile, ma qualcosa brucia, lentamente, silenziosamente, nel cuore stesso del pensiero. Là dove la mente si fa tempio e prigione e il sapere incanta, inabissa, devasta. L’incontro tra follia e cultura ha un nome, un volto, un ordine narrativo. Esso nasce come visione, febbre, vertigine. Il delirio e l’erudizione di Auto da fè sono incisioni su lastre di vetro: ogni parola taglia, rifrange, moltiplica. E ciò che prende forma è il ritratto di un’intelligenza assoluta e assolutista, che cerca nella purezza intellettuale la salvezza, trovandovi invece la più irreversibile delle solitudini. > “La nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità”. Il romanzo-mondo di Elias Canetti, apparso nel 1935 sotto il titolo tedesco Die Blendung è un’opera unica, per certi versi indecifrabile, e si offre al globo come labirinto, rogo in cui la parola si consuma nel falò della conoscenza. Il protagonista, Peter Kien, sinologo di fama internazionale, vive immerso in un culto libresco che sconfina nella più feroce misantropia. La sua esistenza ascetica si svolge interamente tra gli scaffali della sterminata biblioteca privata: ottantamila volumi, che Kien definisce “le uniche creature degne di rispetto”. La realtà esterna, per Kien, è un’interferenza da cui difendersi; la lingua un’arma da perfezionare sino alla lacerazione. Ma come ogni sistema autoreferenziale, anche la sua torre di Babele è destinata a crollare. Il matrimonio con la sua governante Therese, figura grottesca e carnale, antitesi vivente della purezza intellettuale, innesca una vertiginosa discesa nell’abisso. > “Poco mancava che Kien cedesse alla tentazione di credere nella felicità, > questa spregevole meta degli analfabeti”. Canetti, ebreo sefardita nato il 25 luglio del 1905 a Ruse e cresciuto fra Vienna, Zurigo e Francoforte, scrive questo romanzo negli anni in cui l’Europa si inabissa nel culto della forza e della massa, su cui Canetti inciderà con il celebre Massa e potere. In contrasto, Auto da Fé, a lungo ignorato, ha trovato un nuovo eco nel secondo dopoguerra, anche grazie al riconoscimento tardivo conferito a Canetti con il Nobel per la Letteratura nel 1981. Il titolo originario, Die Blendung, evoca l’accecamento, tanto fisico quanto metaforico: è la cecità dell’intellettuale isolato, incapace di leggere i segni del tempo; ma è anche la cecità della cultura quando si chiude in sé stessa, quando diventa autorità dogmatica, repressione del corpo, negazione del mondo. Non a caso, il titolo inglese, scelto da Canetti stesso, Auto da Fé, richiama i roghi inquisitoriali, in cui i libri, e le idee, venivano ridotti in cenere. Il sapere che brucia se stesso. A livello stilistico, Auto da fé è un’opera straniante, costruita su un linguaggio ossessivo, talora volutamente meccanico, che restituisce la rigidità mentale dei personaggi. Ogni figura è iperbolica, caricaturale, come se uscisse da un incubo kafkiano o da una pièce espressionista: Therese, massa informe e famelica; il portinaio Fischerle, gobbo paranoico e megalomane; Georges, il fratello psichiatra, emblema della razionalità normalizzante. Tutti i personaggi orbitano attorno a Kien come satelliti impazziti, e insieme compongono una satira amara della società moderna, in cui la cultura non salva, ma isola, ossifica, disumanizza. > “Si potrebbe quasi credere che sia un morto. A che scopo vive un essere di > quella specie […] Una persona simile non serve a nulla.” In questo senso, Auto da fé è una critica radicale alla fiducia illuminista nella ragione. Kien non è un umanista, ma un feticista del sapere; la sua cultura è ritiro solitario, la sua mente una camera stagna. Lungi dall’essere salvifica, la conoscenza diventa un assoluto che divora colui che la persegue. “Chi non ha libri è perduto,” dice Kien. Ma Canetti ci mostra, con feroce lucidità, che chi ha solo libri lo è altrettanto. Proprio per questo, pochi giorni fa, ho deciso di incidere Kien sulla mia pelle; il suo volto baffuto che si fascia gli occhi per isolarsi nel suo mondo, per essere come quei ciechi che lui stesso ama e detesta; Kien sta lì, completamente perso, cieco volontario tra i ciechi inconsapevoli, a ricordarmi che oggi, in un’epoca segnata dal sovraccarico informativo, dall’inflazione dei saperi e dalla crisi dell’autorità intellettuale, la sua storia risuona con un’attualità inquietante. È un monito contro ogni forma di idolatria del sapere, contro la tentazione di annientarsi, di nascondersi dentro un cervello inanime, di rinchiudersi nella torre d’avorio della propria persona.  > “Al mondo, dice, ci sono troppi libri e troppi stomaci affamati.” Elias Canetti ci considera impotenti, non vuole e non può proporci soluzioni o redenzioni. Ci offre solamente un ritratto impietoso della mente contemporanea, colta nel momento della sua combustione. Un cervello in fiamme, come la biblioteca di Kien. Un’auto da fé, appunto, in cui si brucia non solo il corpo dell’intellettuale, ma anche la sua illusione di dominio. E in questo luglio che si arroventa, non possiamo non ricordare che il 25 saranno trascorsi 120 anni dalla nascita di Elias Canetti. 120 anni dalla comparsa di uno spirito lucido e profetico, che ha saputo guardare nell’occhio della follia collettiva senza arretrare, e che ancora oggi ci parla con una voce che arde come brace sotto la cenere della storia. Auto da fé è un’opera al limite tra sapere e psicosi, tra parola e silenzio, tra individuo e massa. Canetti ci costringe a interrogarci non solo su ciò che sappiamo, ma su come e perché lo sappiamo. L’anima di Kien è rovina nobile, cattedrale gotica che crolla su chi la abita troppo a lungo. Il pensiero, se assoluto, si chiude con catene d’oro, lucide e serrate. E allora, cosa ci resta? Il crepitio, l’eco. Resta la figura dell’intellettuale come incendiario e superstite, come martire di un sapere che abbaglia e consuma. Canetti ci insegna che la mente è un campo di battaglia e solo l’incendio può redimerci; nel buio della catarsi, l’abisso sa leggere anche noi. Tommaso Filippucci *In copertina: Francisco Goya, Capricho No. 23: Aquellos polvos L'articolo La mente è un campo di battaglia. “Auto da fé”: storia di un libro necessario proviene da Pangea.
July 22, 2025 / Pangea
“Dove tu indugi, sarà tiranno”. Ritratto del folle
Temi il folle: egli non farà né ciò che si conviene né ciò che conviene. Temilo perché è folle. E non gli estorcerai niente, di ciò su cui far leva è ragionevole, e vigliaccamente, secondo ragione, ricattare. Sarai capace di avvicinarlo solo nello stigma e nel timore. Egli non si redime né può, né ha da servirgli d’esser redento: e questo lo rende un Dio, al tuo confronto. Dove tu indugi, sarà tiranno, farà strame e macello. Dove tu tiri dritto, indugerà con gusto e letizia, e gentilezze squisite che non puoi né devi conoscere – inusitate e imprevedibili. Deliberatamente carezzerà il nemico, fuori d’ogni ragione utile, e trafiggerà chi gli sorride tendendogli la mano; ma potrebbe anche arrivare a torturare il suo torturatore, e il nemico far soccombere, fra sangue e guano, e senza una ragione, ancora, che tu comprenda o possa al modo suo.  Il suo genio è nudo, lo si sa, non ha strade segnate e avversa l’idea stessa di direzione. Alle pesanti palpebre della stagnazione, preferisce la follia esagitata del propugnare uscite dal solco. Delira, lo si sa, aggiunge all’ovvio più tondo logiche dispari e grappi di stelle acuminate. Siderali distanze lo separano dall’ordinario elevato a regola, è dissipatore d’anima e ingegno. Abbiate timore della sua bestiale, innocente virtù, perché porta tempesta dove non si alzerebbe un solo vento; perché depone doni e profferte all’altare della dissidenza più sistematica. Il suo pensiero coopta spesso Ockham, ma di gioco ridonda, sempre, e sperimentante bellezza. Il suo eccedere cuce in segreto le ferite senza voce del mondo, ma è anche la benedizione del bastante. Egli onora luoghi e parti di sé che i più ignorano o misconoscono, e sa che il suo linguaggio è enigma insolubile presso chi esibisce una povera grammatica prona alle leggi del verosimile e ai suoi regni filistei. L’audacia del suo fuoco è fulgida e sbilenca, divora parole cortigiane come smesse pelli, condanna ogni autismo intellettuale e morale, prende campo in una eterna battaglia per tenere in vita parti del mondo che altrimenti morirebbero in serie senza un lamento.  Ha presumibilmente conosciuto anguste corsie, di perdita di sé e estorsione di ciò che essere non voleva, e che strozzavano vista e cuore, cucivano il giorno e la notte in un’uguale trama di protratta anestesia. Ha conosciuto la guarigione come ricatto e la libertà gabellata per necessità di guarigione. Egli è guerriero, guerriero della mente e amico della mano sinistra. Innalza la bellezza al di sopra del suo stato bruto di vento tagliente e nuda terra, e la pone nel calice di un fiore muto. Strappa all’assenza un barlume di presenza, una traccia, qualcosa che aggira l’ovvio e descrive cerchi soavi di farfalla. Lotta contro i suoi stessi sogni, che ha visto mutare in incubi di piombo e cristallo, magma e tempesta – profondo come una galassia, temprato e destro al soffrire… Disperatamente fuori dal cerchio di luce del domato fuoco d’ogni civiltà. Temilo perché senza essere a modo tuo, egli è in sé, e più che te od altro. Temilo perché non fa ciò che serve, perché è un mostro e un Dio, in salute della sua malattia, che veleni morali non sa: tutti gli elementi in lui coesistono e sono, senza prevalere l’uno sull’altro, secondo ragione, che non sia natura alla natura sparsa, come lava nella lava. Temilo perché non potrai piegarlo avvicinandolo a te, perché non potrai ricattarlo – benedizioni o maledizioni non conoscendo, che inflitte siano, o da chicchessia ammannite. Egli è sempre distante oceani e stelle, egli è dove tu paventi e non comprendi: nel suo male e nel suo bene, ontico e ontologico assieme. Per questo né si salva né salvezza concepisce, e la sua colpa sempre, è originaria, i suoi fini terrifici e netti – che son l’una cosa e l’altra senza giustificazioni. Temilo perché lo torturasti proprio come un folle, quando violento non fu né esser voleva, e lo blandisti spremendo altra violenza, per paura della sua violenza, dalle nutrite tette della sua anima superiore. Temilo perché inventasti tu la colpa e la cura, e mai sapesti andare oltre il delitto dell’una nell’altra. Temilo perché Napoleone e Hitler furono e sono colpevoli, e non folli abbastanza, e della stessa tua colpa che abbisogna d’un concetto in soccorso all’inerzia del suo macchinico sfacelo, ma mai fuori da essa, se non per “pruderia” morale dell’inconcepibile. Temilo perché ottimizzare il delitto a scopi ritenuti superiori, è cosa tua e non sua. Temilo, perché, al fine, la libertà non potrà essere né merce né privilegio desunto – nel bene e nel male. Temilo in entrambe, dunque. Massimo Triolo *Nell’articolo: opere di Johann Heinrich Füssli (1741-1825) L'articolo “Dove tu indugi, sarà tiranno”. Ritratto del folle proviene da Pangea.
July 21, 2025 / Pangea
“I bisogni dell’anima”. Antonia White, una scrittrice “papista” contro il Concilio Vaticano II
Nel 1950, scrivendo una recensione di The Lost Traveller, il secondo romanzo di Antonia White, Evelyn Waugh colse l’occasione per dire la sua sulla letteratura cattolica:  > «Molti hanno iniziato a dubitare che esista una cosa del genere. Ebbene, qui > si può trovare in una forma completa e splendida. […] I personaggi sono tutti > permeati dalla fede. Dio è l’influenza suprema nelle loro vite, […] e quando > vi è la minaccia di un disastro, tutti si rivolgono alla preghiera. La loro > religione è la loro vita, sebbene superficialmente siano occupati con altro. > Non si tratta di “trascinare il cattolicesimo dentro”. È sempre lì, al centro > della storia». Per quanto poco conosciuta in Italia, la White – pseudonimo di Eirene Botting – è stata una delle personalità più rappresentative di quella letteratura di marca “papista” che conobbe una certa diffusione nella Gran Bretagna del Novecento, in particolare nella prima metà del secolo.  La sua fu un’esistenza travagliata, segnata non solo dalla cronica mancanza di denaro, ma anche da tre matrimoni falliti, da un rapporto complicato con le figlie e da una serie di frustranti impieghi d’ufficio che le toglievano tempo ed energie per la scrittura. Persino la sua fede, abbracciata da bambina in seguito alla conversione dei genitori, non fu sempre salda e per parecchi anni smise di praticarla. Infine, dovette sopportare pure il peso di una grave malattia psicologica, da lei ribattezzata «la bestia», che minò non poco le sue potenzialità creative (la questione è stata recentemente analizzata nel dettaglio da Patricia Moran nel volume Antonia White and Manic-Depressive Illness). Come sottolinea Jane Dunn, autrice di Antonia White: A Life, quello della inglese  > «è un dramma di vasta portata che abbraccia grandi questioni di fede, i > bisogni dell’anima, la lotta per diventare sia scrittrice che donna; > l’impossibilità di essere moglie e madre quando si combatte per la propria > sanità mentale».  Da ciò deriva la scarsità della sua bibliografia, che comprende quattro romanzi parzialmente autobiografici, un epistolario, una manciata di poesie, qualche articolo, delle traduzioni dal francese e una smilza raccolta di racconti; a questi lavori vanno aggiunti due libri per bambini con protagonista una coppia di gatti – gli animali preferiti della White – il primo dei quali, Mila e Cuor di Leone, è ad oggi l’unica sua opera ad essere stata tradotta in italiano.  Nata nel 1899, tutto o quasi del suo destino umano e letterario fu deciso nell’infanzia, quando venne mandata a studiare presso la scuola femminile annessa al Convento del Sacro Cuore, a Roehampton, dove le suore, il cui ordine era stato fondato da una santa francese, erano famose per mantenere una disciplina ferrea. Lì imparò ad amare i libri e volle provare, appena quindicenne, a scrivere un romanzo. Nelle sue intenzioni doveva essere la classica storia di un peccatore che cambia vita; peccato, però, che il manoscritto, ancora fermo alla prima parte, quando il protagonista è immerso nel vizio, venne scoperto e giudicato scandaloso. La conseguente espulsione fu un duro colpo e da allora la White non fu più in grado di mettere nero su bianco nulla che non fosse in qualche modo legato alla propria esperienza personale. A questo si aggiungeva un perfezionismo esasperato che la portava a riempire le pagine di così tante correzioni da renderle quasi illeggibili, causandole di riflesso parentesi intermittenti di blocco della scrittura. Terminati gli studi alla St Paul’s Girls’ School, dopo vari rovesci sentimentali e un ricovero di nove mesi in un ospedale psichiatrico, nel 1933 vide la luce il suo primo e più famoso romanzo, Frost in May, oggi considerato un classico della narrativa a sfondo scolastico, sebbene privo del lieto fine che solitamente caratterizza il genere. La storia vanta uno stile limpido, distaccato, e racconta le giornate di Nanda Gray, un’alunna del collegio cattolico di Lippington, da cui però è infine allontanata a causa di uno spiacevole incidente. Il titolo, suggerito all’autrice da un articolo sulle rose trovato in una rivista di giardinaggio, sottolinea l’infelice destino di Nanda, a cui si accompagna una critica non tanto alla Chiesa quanto all’autoritarismo e alla miopia di un’istituzione educativa al limite del sadismo.   Durante la Seconda guerra, segnata da un’esistenza che non le aveva risparmiato nulla, tornò definitivamente al cattolicesimo, una decisione motivata per esteso in un volume del 1965, The Hound and the Falcon, che contiene una serie di missive scambiate tra il 1940 e il 1941 con il sessantenne giornalista Peter Thorp, ex seminarista che come lei aveva da poco riscoperto la fede. Anche se la scrittrice seguitò a non condividere alcuni aspetti della dottrina, specie quelli legati al sesso, e le sue simpatie erano tutte per gli intellettuali più divisivi, mosse diverse critiche alle riforme liturgiche introdotte a seguito del Concilio Vaticano II, ritenute impoverenti:  > «Nella messa ormai non c’è più spazio per il silenzio. Quando sono andata alla > messa solenne in latino, sono stata profondamente scossa da un moto di > nostalgia, [ma] sono stata pure colpita da quanto la liturgia abbia perso > nella versione scarna che abbiamo oggi. Tutto quel lento e riverente rituale > dà il tempo di apprezzare il significato mistico della messa. E persino > l’ammirevole preoccupazione per le ingiustizie della società e gli ardenti > preti “rivoluzionari” sembrano dare troppa enfasi a quello che si potrebbe > definire il lato “materiale” del cattolicesimo – o forse “l’amore per il > prossimo” a danno dell’amore per Dio». Nel frattempo, grazie anche al supporto di alcuni amici scrittori come David Gascoyne, Dylan Thomas e Graham Greene, dopo anni di gestazione, la White era finalmente riuscita a pubblicare l’attesissimo seguito di Frost in May, intitolato The Lost Traveller, a cui erano seguiti The Sugar House (1952) e Beyond the Glass (1954). La protagonista, ribattezzata Clara, ancora una volta ripercorre più o meno le medesime tappe esistenziali della sua autrice, finendo per essere ricoverata a causa di un crollo nervoso.  I romanzi, di impianto troppo tradizionale per colpire i critici alla moda, vennero accolti tiepidamente, col risultato che la White, oltremodo delusa, lasciò incompiute le bozze di un quinto libro della serie, conosciuto col titolo provvisorio di Julian Tye o Clara IV, e preferì trasferirsi per un periodo negli Stati Uniti, occupando la cattedra di scrittura creativa al Saint Mary’s College, affiliato alla Notre Dame University.  A salvarla dall’oblio letterario ci pensò Carmen Callil, fondatrice della Virago Press, incontrata alla fine degli anni Settanta. Quest’ultima fece ripubblicare Frost in May e i suoi seguiti garantendo alla scrittrice, di cui divenne anche agente, una fama mai goduta prima.  Dopo la morte della White, avvenuta nel 1980, videro la luce il frammento autobiografico As Once in May – incentrato sui suoi primi anni di vita– e i diari, raccolti in due volumi. Nel 1982 la BBC acquistò i diritti dei romanzi e ne trasse una miniserie in quattro episodi. Grazie alla Virago, ancora oggi in prima linea nella promozione di una letteratura “al femminile”, la scrittrice in perenne crisi creativa continua, almeno in Inghilterra, a essere letta e amata. C’è da esser certi che nulla l’avrebbe resa più felice. Luca Fumagalli L'articolo “I bisogni dell’anima”. Antonia White, una scrittrice “papista” contro il Concilio Vaticano II proviene da Pangea.
July 19, 2025 / Pangea
“Corremmo in acqua”. Hertha Pauli, memorie dal cuore del secolo
Il modo migliore per festeggiare la nascita di una nuova casa editrice, che fin dai primi titoli appare più che promettente, consiste a mio parere nel dedicarle almeno una recensione, scegliendo, in un catalogo ancora smilzo ma in rapido sviluppo, un titolo che sembra davvero interpellarci. Mi riferisco a Palingenia, una nuova realtà editoriale sospesa fra Milano e Venezia – che delle due città dovrebbe riunire l’efficacia, da una parte, e il fascino, dall’altra –, e qui in particolare alle memorie della scrittrice austriaca Hertha Pauli intitolate Lo strappo del tempo nel mio cuore, pubblicate in edizione originale nel 1970, riedite più volte (l’ultima da Zsolnay tre anni fa) e tradotto oggi con vivace fedeltà, appunto per Palingenia, da Enrico Arosio. Il bellissimo titolo, così drammatico e suggestivo, è la variante di alcuni versi di Heinrich Heine, come la stessa Pauli debitamente riconosce nel prologo; e se il cuore è quello della narratrice-protagonista, il tempo è l’oscuro e tormentato periodo che porterà allo scoppio della Seconda guerra mondiale, mentre lo strappo è quello a cui ciascun individuo e dunque l’intera collettività furono sottoposti e costretti dalla follia di pochi, da un lato, e dall’altro anche da un concorso di circostanze inopinate e inarrestabili che ci sembra oggi così prossimo forse perché – pur riconoscendo che la storia non si ripete mai del tutto – in quell’epoca troviamo tante sfortunate analogie con la nostra. A corroborare quest’ipotesi e a suscitare allarme nel lettore di oggi basta un breve passo in cui la scrittrice racconta quali furono le reazioni popolari, da parte quindi della gente comune, alle prime decisioni prese per contrastare la politica hitleriana: “L’Inghilterra aveva dichiarato guerra ad Adolf Hitler. E la Francia? – che cosa faceva la Francia? Per ora neppure una parola… Le signore al tavolo accanto si misero a strepitare. L’Inghilterra, sentii, ci trascinerà di nuovo in guerra… Ma chi ce lo fa fare di combattere per la Polonia?” Sostituite Ucraina a Polonia e l’equazione diventa quasi imbarazzante. Ma chi era Hertha Pauli, anzitutto? Nata nel 1906 in una famiglia della borghesia intellettuale viennese, ebrea, come molti, a metà, in quanto il padre, Wolfgang Josef Pauli, medico e biochimico, benché nato ebreo si era convertito da tempo al cristianesimo, Hertha è anche la sorella minore del fisico e futuro premio Nobel Wolfgang Pauli. A diciassette anni interrompe gli studi liceali per darsi al teatro e va a recitare prima a Breslavia, poi con Max Reinhardt a Berlino. Quando di anni ne ha ventuno, la madre, giornalista e fra le prime esponenti del movimento femminista, si toglie la vita. Nel 1929 Hertha sposa l’attore Carl Behr, ma divorzia tre anni dopo, essendosi nel frattempo innamorata di Ödön von Horváth. Quando questi le annuncia l’intenzione di sposare un’altra donna, anche Hertha tenterà il suicidio, ma sarà salvata e manterrà anche in futuro una stretta amicizia con il drammaturgo.  Nel 1933, vista l’atmosfera che si respirava in Germania, se ne torna a Vienna, dove apre un’agenzia letteraria che rappresenta autori di lingua tedesca e stranieri. Cinque anni dopo, con gli amici Karl Frucht (Carli) e Walter Mehring, che compariranno spesso nel libro, decide di trasferirsi a Parigi, passando per Zurigo (dove dovrebbe incontrare il fratello, che però si trova già a Cambridge), prima che l’Anschluβ di un paese umiliato, ridotto a insignificante Ostmark (marca orientale) del Reich tedesco, finisca per rendere impossibile qualunque fuga. Non le manca anche qualche ragione personale: la sua biografia della pacifista Bertha von Suttner, Nur eine Frau, non era affatto piaciuta ai nazisti, che l’avevano messa in cima ai libri vietati. In ogni caso, l’intuizione di Hertha è giusta: altri intellettuali della sua cerchia, che si muovono leggermente in ritardo, non sfuggiranno più alle truppe tedesche. Neanche Parigi, tuttavia, è sicura, lo diventa anzi sempre meno con il passare dei giorni e dei mesi, tanto che nel 1940 Hertha dovrà lasciarla per raggiungere la parte ancora libera della Francia, con la speranza di trovare, a Marsiglia, in Spagna o in Portogallo, un passaggio per gli Stati Uniti.  Per farla molto breve e lasciare al lettore il piacere di scoprire, leggendo il libro, i dettagli della fuga, assieme a Franz Werfel e alla moglie Alma, Hertha figurerà – nel suo caso specifico grazie alla segnalazione di Thomas Mann, al quale aveva cercato di rivolgersi per un aiuto all’inizio delle ostilità – fra i numerosi intellettuali salvati da Varian Fry con la lodevole e a lungo misconosciuta iniziativa dell’Emergency Rescue Committee, per il quale Fry era riuscito ad avere il sostegno (discreto ma tenace) della First Lady, Eleanor Roosevelt. (A proposito di storia che non si ripete, direi che a distanza di generazioni non si ripetono nemmeno il valore, la sensibilità e la cultura delle First Ladies.) Venendo ora al libro, la scrittura di Hertha Pauli è una scrittura asciutta e funzionale, perfettamente adatta a un memoir, senza voli pindarici ma fresca e avvincente. Non v’è dubbio che abbia il dono della sintesi e idee chiare su come raccontare e sviluppare una storia. Al contempo, sa benissimo di non possedere né la stoffa né il talento dei grandi scrittori che ha incontrato e che fanno capolino da queste pagine, da Ödön von Horváth, di cui racconta l’assurda morte e il funerale, a Joseph Roth, da Franz Werfel a Walter Mehring. Non è forse un caso che anche in seguito, durante la lunga permanenza negli Stati Uniti, e fino alla morte nel 1973, Pauli si sia dedicata prevalentemente alla letteratura di genere, e in particolare a quella per ragazzi. Non le manca però­ – e per un memoir come questo è fondamentale – la capacità di cogliere il dettaglio significativo, finendo per regalarci quasi inavvertitamente qualche piccola perla descrittiva ed evocativa come il passaggio seguente, posto a metà libro, proprio all’inizio dell’ottavo capitolo:  > “Arrivammo a Étampes al sorgere del sole. Trovammo un paese in macerie. Ecco > spiegati i lampi dell’ultima notte. Appoggiata alla porta mezza sfondata di > una casa c’era una donna. Impietrita dallo spavento, con gli occhi sbarrati > scrutava il cielo, ritornato azzurro e vuoto. Ci avvicinammo e le chiedemmo > indicazioni sulla strada. Non si mosse. Solo allora notammo l’azzurro e il > vuoto anche nei suoi occhi.” Molto incalzanti e precise anche le pagine iniziali, in cui racconta come, attraverso quale insieme di sotterfugi e di umiliazioni, si arrivò all’Anschluβ: la convocazione di Schuschnigg nel “covo dell’aquila” di Hitler a Berchtesgaden, le manovre di Seiβ-Inquart, l’imposizione dell’amnistia per gli assassini di Dollfuss, lo scippo del referendum popolare. Un prologo da cui si dipana poi, in un drammatico crescendo, una vicenda umana individuale che acquista però subito una valenza simbolica e collettiva. Uno degli elementi che ci accompagnano lungo tutta la lettura è l’ardua gestione, da parte della protagonista, delle coordinate di tempo e spazio. La sua fuga avviene infatti sotto il segno (e la maledizione) di entrambi; è costretta non solo a continue dislocazioni logistiche, ma anche ad accelerazioni repentine e rallentamenti che le permettano di sfuggire quanto più a lungo possibile fra le maglie tanto dell’esercito invasore (i tedeschi ormai penetrati capillarmente in Francia), quanto della stessa gendarmeria francese a caccia di stranieri e presunte spie, da deportare in campi d’internamento come quello di Gurs. (Fu questo del resto il destino di chi come Thea Sternheim, tanto per fare un solo esempio, era rimasto a Parigi; anche in questo caso, Hertha capì subito i rischi ai quali si esponeva.) Una riuscita descrizione di questa percezione del tempo la si trova in uno dei passaggi dedicati, sempre con estremo pudore, alla storia d’amore che riuscirà a vivere anche in frangenti così drammatici:  > “Insieme alla schiuma della risacca anche i minuti si dissolsero nella sabbia. > Corremmo in acqua. Mi dimenticai di togliere l’orologio che avevo al polso. Le > lancette si fermarono, ma non le onde. Ingannammo il tempo per tutta la durata > della marea.” Ingannare il tempo, e con esso la soldataglia che la bracca per tutta la Francia: questo, il compito principale della fuggiasca che, a volte sola, a volte in compagnia di amici e conoscenti quasi miracolosamente ritrovati nei vari spostamenti, finisce per raggiungere Marsiglia e infine per salvarsi, approdando a Hoboken, nel New Jersey, il 12 settembre 1940. Just in time… Un’altra immagine o elemento simbolico che ricorre più volte nel libro è quella del ponte: la presenza discreta di quello del paesino di Clairac, dove Hertha sosta in contemplazione ogni qualvolta riesce a ritagliarsi un attimo di serenità, rimanda irresistibilmente alla sua stessa concezione della vita, all’immagine di sé come ponte fra due mondi e due culture. Prima, a Vienna, in quanto agente letteraria che si occupa della traduzione e della pubblicazione di opere straniere, poi – una volta trasferitasi negli Stati Uniti – come trait d’union fra la cultura europea e quella americana. Hertha Pauli (1906-1973) Molti, dicevo, gli accenni ai colleghi e amici lasciati per strada o ritrovati il più delle volte in modo fortunoso. Senza voler mai apparire didascalico o emblematico, in qualche modo il libro è (anche) un inno all’amicizia, all’inseparabilità di certi destini. Colpisce inoltre sempre la lucidità e insieme la delicatezza con cui la scrittrice affronta temi tragici come quello del suicidio. Si vedano le poche ma intense righe dedicate a Weiss, scrittore ceco in fuga e povertà perpetua, sostenuto finanziariamente, con la sua proverbiale generosità, da un altro grande suicida di quegli anni, Stefan Zweig:  > “Ernst Weiss, invece, fu scovato dai tedeschi lì a Parigi ­­– morto. Nel suo > albergo si era tagliato le vene dei polsi. Per andare sul sicuro, essendo > anche medico, prima aveva pure assunto del veleno. Lo avevamo lasciato solo. È > una cosa, questa, che non mi sono mai perdonata.”  Come per Hasenclever, anche per Weiss gli americani avevano predisposto un visto d’espatrio, ma essi non ne erano al corrente. Ed ecco allora che i due si aggiungono all’elenco degli altri suicidi eccellenti di quegli anni, che comprende anche Benjamin, Toller, Stefan Zweig e Joseph Roth (sia pure, in questo caso, per interposto alcol). L’elenco degli scrittori tedeschi e austriaci morti suicidi in quel breve e drammatico episodio della storia è davvero lungo e impressionante, e terribilmente denso in termini di qualità. Ma saranno molti, gli errori, il più delle volte forzati e attribuibili alle circostanze, che Hertha Pauli non riuscirà a perdonarsi. Eppure, in frangenti come quelli, nel caos di una fuga disperata, certe sottovalutazioni e ingenuità sembrano a tutti noi, lettori avvinti da questo testo, dei peccati del tutto veniali; e viene davvero da chiedersi se al posto dei malcapitati protagonisti di questo libro saremmo stati capaci di maggiore lucidità, di maggiore disinvoltura. In realtà, sappiamo bene che il comportamento di ciascuno dinanzi al male assoluto non è prevedibile, e che in questi casi la sorpresa (positiva o negativa) è a ogni angolo di strada. Raoul Precht In copertina: Otto Dix e la moglie Martha fotografati da August Sander nel 1925 L'articolo “Corremmo in acqua”. Hertha Pauli, memorie dal cuore del secolo proviene da Pangea.
July 17, 2025 / Pangea
“Nel profondo degli occhi chiusi”. Karol Wojtyła, poeta
C’è un filo diafano, un’arcana gravitazione che stringe i mistici di ogni epoca al seno del mistero. Karol Józef Wojtyła a 24 anni, sul bordo di una vocazione nitida e cruciale, scriveva poesie. Liriche liminali, dal passo pacato ma custodite nella gravità di un movimento basale, gregoriano: una monodia di devozione incessante e inviolata. Poiesis che è primordio, promessa, esercizio d’estasi. Rive piene di silenzio come stati dell’essere, dove non è l’alta parabola, ma l’intimo affondo l’atto del lambire. Spoliazione di ogni avvistamento, di ogni appetito cromatico, di ogni intenzionale attesa. Non guardare, perché si è guardati: da prima dei vagiti del tempo. Sono sempre nel fiore della lentezza i movimenti del sacro, ripetono il rito: un effluvio ardente diffonde dall’oltre, s’attenua nel suo passo custodendo il varco; e preme di silenzio il punto profondo. Durare nella trasparenza, nello stupore che addita l’eternità: pronunciare la cessione di sé, per quell’assise di chiarore che è il chinarsi di Dio. L’amore, sapienza che trasfigura, sa il vincolo dirotto tra ferita e grazia, la rosa segreta della croce: verità che pertiene all’ombra, alle rifrazioni dell’acqua, all’estremo volo che piega all’orizzonte. Cui è basilare far spazio, deprivandosi di lemmi e cognizioni, dando il grembo a un “nulla crescente”, che ha cara la luce. Vertigine di “strana morte” in cui lo smisurato alberga in gloriose minuzie: un cinguettio di fanciulli, il fieno odoroso; un pane di frumento, le foglie cadute. È l’umiltà sacra delle cose primarie, ridestate in essenza dal soffio perpetuo, le esistenze minime che recano l’esile offerta: lo stento e l’assillo di ogni anonima incarnazione: “minuscola cella” in cui il sacro si corica, senza clamore. La poesia di Wojtyła è un piovasco di bagliori, fenomeni inversi, in cui l’universo si eclissa per rivelare, nel suo svanire, le pure altezze dell’Intelletto divino, mentre un canto oceanico s’alza dai corpi in elegia, che anelano al “vortice di sole”, sostenendo in cuore “l’esilio di Dio”: suo velarsi in suprema presenza. Trema l’anima in uno schiudersi di rose quando l’interminato sospiro l’avvolge, e accoglie nell’incanto della propria povertà il punto aureo di teofania, l’oceano di luce del “grande Tacere”. Nel Canto del sole inesauribile, il sovrano sguardo eleva e sfianca l’inezia vivente: e nel declinare della vita è fatto saldo il patto con il grande astro di luce, che trattiene a sé ogni fiato in chiarità definitiva. Il dolore porge sé stesso in tenera nostalgia, nello struggente ricordo del Volto fa eucaristia minore che “si arrossa di sangue/ come trafitta da spine”. Sete sacra, che lascia vorticare accanto un cosmo adolescente di gravami e fulgori; fissandone il cuore segreto, l’oscura stilla, aghiforme totalità e pienezza immobile. Sorgente del gesto di genesi, in cui già dimora la discesa alla passione, al pane, al grano: l’infinità si curva nell’umile riserbo, nel mite ricovero: il grembo di Maria, “la mangiatoia”, “il fieno”. La grazia diserta il computo e si china verso irrisorie, lucenti umiltà. Quando posa nel cuore umano, mondi nuovi germinano nella reciprocità di sguardo: è l’armonia del trinitario mistero, laddove il Padre ama nel Figlio e attraverso lo Spirito si dona. Il poeta fa una teologia del nascondimento epifanico, dell’apparizione criptata, in cui l’Eucaristia è memoriale e atto creativo corrente, vivo: la puntuale, assidua rigenerazione cosmica e personale, rubino taciturno d’intimo albore, fuoco risorto nell’intenzione di Dio, è dove l’uomo si riconosce come brama velata: ché anche l’Eterno emana per carenza d’amore, e crea ogni forma dal palmo, chiamandola per nome. Esiste una via cristica che accomuna il celeste alla creatura: il risalire l’erta della croce, il cui vertice d’intuito e senso di sacra presenza non è sangue versato, ma vegliato vuoto, spalancato di preghiera nella carne: anche in Gesù, sull’albero atroce, fu la consegna, non la ferita, a generare il nome del Padre sulle labbra. Nelle acque del cuore, fatte torbide dall’umana miseria, il chiarore del posarsi profondo di Dio crea il “Punto Candido” di visione, io eucaristico d’incantevole convegno che risale con soavità l’invisibile nodale: altare insostenibile dove il sensibile si spezza e l’occhio vero non osa. La tracotante fragilità di arroccarsi, talora, nel pensiero, e non essere fiamma di totale ardore, è redenta, al cospetto delle fluide e radiose – il sole, il mare – epiclèsi del creato: che generano confidenza, meraviglia, senso di tutela. Dove l’umano, nonostante le sue ambiguità e imposture, trova riparo in incommensurabili fedeltà; è questo il vibrato mistico: che porterà alla partitura interiore di lode, alla consonanza di adesione perfetta. Lucente e scoscesa, profondamente cristocentrica la teologia contemplativa distesa nel canto di Karol Wojtyła snuda l’apòfasi come via diletta dell’esperienza mistica. Tanto nella visionarietà quanto nell’edificio spirituale, nel sentire che oltrepassa l’intelletto, nell’ascesi inversa alle lucòree voragini interiori, nelle antitesi metafisiche tra oscurità e bagliori, nella preghiera silente, terminale della pura adorazione, nell’anima come alveo del riconoscimento, riecheggiano le atmosfere di Sant’Agostino, Isacco di Ninive, Meister Eckhart, Giovanni della Croce, Angelo Silesio. Toni umilissimi, ma a vertiginose altezze, laddove l’Amore è l’evento teofanico per eccellenza, ciò che “spiega ogni cosa”. Il Pellegrino cherubico di Silesio risuona in quell’anelito alla semplicità radicale in cui Dio è presente solo “là dove nulla più rimane”. Una poesia che fa lectio divina per puro nitore, e prega con un affetto teologico struggente. Una costante tensione tra immanenza e trascendenza trova ristoro nel gesto soprannaturale dell’abbassamento: l’umiltà di Dio che si riduce nell’uomo. Pure, l’incarnazione del Verbo ritorna ossessivamente in immagini di discesa e decremento sempre nuove: Dio si fa croce, si fa occhi, si fa abisso, si fa perfino nostalgia, e sosta nelle briciole di materia, grano e pane: luoghi ontologici, nei quali l’Essere si mostra nella diatonia tra finitezza e pienezza. Il poeta guada ampi corsi d’intensità mistica, semplicità lirica e tensione all’invisibile; in particolare, nel Canto del sole inesauribile questa traiettoria si arricchisce di un’ulteriore stratificazione cosmica, laddove il sole non è più solo simbolo di Dio, ma interlocutore metafisico dell’anima, che “non è una foglia”, non conosce la nuda impermanenza, ma contiene in sé una partecipazione eterna al movimento del creato. Il cosmo si traduce in figura sacramentale: “il frammento di pane più reale dell’universo/ più colmo d’Essere, colmo del Verbo”: la parola si sostanzia nella cosa. Il pane eucaristico è metonimia potente dell’Essere. Nel lessico essenziale, vicino alla sorgente biblica e patristica, la poesia di Karol si compie canto dell’umiltà ontologica. Scritture sapienziali in essenza, mai nei toni, frammenti di un’apocalisse centrale, in cui l’uomo e Dio si cercano nei luoghi più reconditi della coscienza, e nelle trasparenze del silenzio che dilata lentissimo, di fronte allo svelarsi di un’eccedenza. Tale tensione all’inesprimibile genera una poesia prossima al sublime romantico – Novalis, Hölderlin – ma qui rifratta attraverso una spiritualità profondamente cristocentrica e pascaliana: “più aguzzo lo sguardo, meno riesco a vedere”. Similmente a quello che accadeva in Cristina Campo, la funzione del linguaggio nel poeta è performativa, ma anche liturgica: la figura campiana è vaso d’oro in cui, per astinenza e accumulo, precipita l’ignoto liquore dell’idea; e così l’atto del nominare nel poeta Wojtyła – “Ah, accogli, Signore, l’ammirazione che mi zampilla dal cuore” – è invocazione, rito che plasma lo spazio interiore e lo dispone all’incontro con il mistero. Il linguaggio non descrive Dio, ma rasenta quel “fiore inaccessibile” che è icona teandrica d’intimità senza tempo, luce nuziale, mutua fiamma. Il poeta cerca trasparenza, per essere pura rifrazione delle solenni vastità evocate. Teologo del lemma incarnato, viandante del muto brillare, esegeta di sobrietà: ecco Karol Wojtyła giovanissimo poeta. Il resto pertiene alla storia: l’agire nel mondo di un uomo intero, abitato dallo Spirito. Isabella Bignozzi ** da: Il canto del Dio nascosto[1] Lontane rive di silenzio cominciano appena di là dalla soglia. Non le sorvolerai come un uccello. Devi fermarti a guardare sempre più in profondità finché non riuscirai a distogliere l’anima dal fondo. Là nessun verde sazierà la vista, e gli occhi prigionieri non si libereranno. Credevi che la vita ti nascondesse a quella Vita chinata sugli abissi. Ma da questa corrente – sappi – non c’è ritorno. Avvolto dalla misteriosa bellezza dell’eternità! Durare e durare. Non interrompere la fuga delle ombre, durare solamente in modo sempre più chiaro e più semplice. Intanto sempre indietreggi davanti a Qualcuno che viene di là chiudendo piano dietro a sé la porta della piccola stanza e venendo smorza il passo – e col silenzio colpisce quello che è più profondo. * Ecco l’amico. Sempre ritorni con la mente a quel mattino invernale. da tanti anni ormai credevi, sapevi certamente ma lo stupore non ti può lasciare. Chino sopra la lampada, nel fascio di luce unita in alto, senza alzare il viso perché sarebbe inutile – ormai non sai se è là, là visto di lontano, oppure qui, nel profondo degli occhi chiusi – È là. Mentre qui non c’è soltanto tremore, soltanto le parole del nulla ritrovate – ah, ti rimane ancora un briciolo di questo stupore che sarà tutto il contenuto dell’eternità. * Non così si presenta la forza vitale della luce. Quando il mare rapidamente ti nasconde e ti scioglie in abissi silenziosi – la luce strappa bagliori verticali alle onde languide e il mare piano finisce, affluisce un chiarore. E allora, in ogni direzione, negli specchi lontani e vicini, vedi la tua ombra. Come ti nasconderai in questa Luce? Sei troppo poco trasparente e il chiarore alita dappertutto. In quell’istante – guarda dentro di te. Ecco l’Amico che è solo una scintilla, eppure è tutt’intera la Luce. Accogliendo dentro di te quella scintilla non scorgi altro, e non senti di quale Amore sei avvolto. * Il Signore, quando attecchisce nell’intimo è come un fiore assetato di caldo sole. Vieni, dunque, o luce, dalle profondità dell’inesplicabile giorno. e pósati sulla mia riva. Ardi, non troppo vicino al cielo e non troppo lontano. Ricordati, cuore, di quello sguardo in cui ti attende tutta l’eternità. Chìnati, cuore, chìnati, sulla riva, annebbiata nella profondità degli occhi, sul fiore inaccessibile, su una delle rose. * Io stacco piano la luce dalle parole e raduno i pensieri come un gregge di ombre e lentamente in tutto immetto il nulla che attende l’alba della creazione. Lo faccio per creare uno spazio alle Tue mani tese lo faccio per avvicinare l’eternità in cui Tu possa alitare… Inappagato dall’unico giorno della creazione io bramo un nulla crescente, perché il mio cuore sia disposto al soffio del Tuo Amore. * V’era Dio, in cuore, v’era l’universo, ma l’universo si oscurava e diveniva, piano, canto del Suo intelletto, diveniva la stella più bassa. O maestri dell’Ellade, vi narro un grande miracolo: non importa vegliare sull’Essere che scorre via tra le dita, c’è la Bellezza reale, celata sotto il Sangue vivo. Il frammento di pane più reale dell’universo più colmo d’Essere, colmo del Verbo – il canto che sommerge come un mare – il vortice di sole – l’esilio di Dio. * Il Tuo sguardo fisso sull’anima, come il sole verso la foglia s’inclina, ne arricchisce il fiorire con la profonda, trasparente bontà, l’accoglie nel suo raggio – ma Tu, Maestro, guarda: che accadrà della foglia e del sole? – la sera si avvicina. * L’anima non è una foglia. E su di sé può trattenere il sole e insieme a lui discendere in un arco inscindibile, al tramonto. E laggiù lo raggiunge e rimane, partecipando al solare declino, e quando ancora procede il cammino, in una lunga ombra a lui si salda – Non spezza l’orizzonte, nell’ansia di giorni lontani, – ma solo sta alla porta e bussa. Ed ecco, ha giù raggiunto tutto: ecco, ogni giorno le riporta il sole nel cerchio visibile. * È in me l’acqua profonda trasparente, ai miei occhi velata di nebbia – quando, come un torrente, io corro troppo in fretta, non sono degno che quel fondo così abissale. Là, ogni giorno, il mio Signore viene e resta – scia di sangue quando s’immerge nella neve – – e vi è reciproco riconoscimento e alita una reciproca abbondanza. Se, allora, qualcuno sapesse togliere dalle profondità trasparenti la nebbia, si vedrebbe – in quale miseria, si vedrebbe – in chi – e si vedrebbe – quale chiarore inonda la profondità oscurata, si vedrebbe – nel cuore umano, nel più semplice dei soli. * O Signore, perdona al mio pensiero che non Ti ama ancora abbastanza, perdona al mio amore, Signore, ch’è sì terribilmente incatenato al pensiero che Ti sperde in pensieri freddi come la corrente e non avvolge in brucianti falò. Ah, accogli, Signore, l’ammirazione che mi zampilla dal cuore come zampilla un ruscello dalla fonte – – il segno che di lì verrà la vampa – e non respingere, Signore, neanche la tiepida ammirazione che un giorno colmerai con una pietra ardente sulle labbra – Non respingere, Signore, la mia ammirazione che per Te è un nulla, perché Tu Intero sei in Te Stesso, ma per me, ora, è tutto,             un torrente che rapisce le sue rive prima di dire la sua nostalgia per gli oceani smisurati. -------------------------------------------------------------------------------- [1] in: L’opera poetica completa di Karol Wojtyla, a cura di Santino Spartà, Libreria Editrice Vaticana 2012 L'articolo “Nel profondo degli occhi chiusi”. Karol Wojtyła, poeta proviene da Pangea.
July 11, 2025 / Pangea
“Ci riconduca allo splendore”. Alla ricerca di Ezra Pound. Ovvero, in gita da Mary
Il 9 luglio del 2025 Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound, compie cento anni. Un po’ Sfinge, un po’ menhir è lì, memoria stilita, memoria petroglifo, a sigillare lo stigma del padre. Mary, col suo dire fermo, pieno di meli e di vespe, pare un monito. Il padre, ‘Ez’, il poeta che si è fatto carico – come profeta, maestro, pioniere, lottatore – del Novecento (e forse della ‘fine’ della letteratura per come l’abbiamo conosciuta, sfinendola), è nato nell’ottobre del 1885; quarant’anni fa Mary pubblicava la ‘sua’ prima edizione dei “Cantos” nei ‘Meridiani’ Mondadori. L’introduzione – in impeccabile ‘distanza’ – attaccava così: “The Cantos: poema scritto in pubblico, ma anche poesia chiusa. Dai trovatori Pound ha imparato a coprire le proprie tracce. E più i giri si volgono verso il centro di sé e della sua tribù, più si imbozzola. Ma per chi riesce a rompere il guscio è un entrare nella ‘ghianda di luce’, un reggere ‘la sfera di cristallo’”. Un poema che riassuma azione e divinazione, tenacia e teurgia, storia e mito, assiduità e assurdo. Che impresa vertiginosa. I giorni di Mary paiono consustanziali a quelli del padre: qualcosa che ha a che vedere con il patto. Investita del compito di penetrare i “Cantos”, la ragazza ha tremato, tumultuoso il sì, consapevole che ogni investitura è crocefissione. Pound ha unito in sé Provenza e Giappone, Usa e Cina, eppure, di biblica essenza è tale paternità.  Ad ogni modo. Qui si ricalca il reportage di un viaggio compiuto a Brunnenburg, alla corte di Mary: fu stampato, in origine, tempo fa, sul “Giornale”. Mantiene una sua stremata ‘autenticità’. L’ultima volta, ho sentito Mary lo scorso anno: parlammo di Pound e del Giappone, del desiderio di tradurre i suoi drammi No; lei, la ragazza, citava Aristotele – cento anni sono un soffio per chi levita sui millenni.  ** La fine è una luna enorme, davanti all’autostrada, simile al calcagno di Dio. Rimini-Brunnenburg andata e ritorno. In un giorno. Agosto luciferino. Oltre novecento chilometri. Abbiamo sorbito il tè con la Storia della letteratura. Tanto basta. Accompagno Walter Raffaelli nel forte dei principi de Rachewiltz, appena sotto Castel Tirolo, dove abita Mary, la figlia di Ezra Pound. Dopo Vanni Schewiller, Raffaelli è l’editore poundiano per antonomasia: ha pubblicato testi di Ezra, le poesie di Mary e della figlia Patrizia, i libri del marito di Mary, l’egittologo Boris. Il castello dei de Rachewiltz è arpionato alla roccia come un urlo. La strada per arrivare è ripida, intitolata – vivaddio – a Pound. Pochi elementi, però, entrando nella dimora, arcigna, ricordano il poeta. Un manifesto racconta un ciclo estivo di concerti; l’ingresso è per il Museo agricolo. Da un’aiuola sbuca la faccia di Pound scolpita da Gaudier-Brzeska. Al castello sono ospiti dei musicisti: nastri sonori avvolgono chi entra. Mary sbuca all’improvviso da una porta laterale. Minuta ed energica, classe 1925, un sorriso ampio come un balcone di gerani e quegli occhi, azzurri e spogli, che pietrificano i ricordi. Ci conduce per una scala a chiocciola. Sulle pareti, schizzi vorticisti tratti da “Blast”, la rivista creata da Pound insieme a Wyndham Lewis. Più tardi sorbiremo il tè su una teca di vetro. Sotto le tazze, piccolissimi monili egizi, occhi, orecchini, pettini, divinità enigmatiche, che adornavano tombe di tremila anni fa. «Vuole accomodarsi sulla sedia di William Butler Yeats o su quella di Ezra Pound?». Un senso d’inferiorità rende le mie ossa acciaio. Per il momento resto in piedi. Da una parte c’è il ritratto di Pound fatto da Rolando Monti: il poeta, davanti al mare ligure, cammina in avanti, bruscamente, con la mano sinistra in tasca, ma guarda, severo, indietro. Sotto, libri di Pound in tutte le lingue del pianeta. Una parte della libreria è dedicata alle pubblicazioni di Pound in italiano. Dalla stanza, un bunker in cui si è frenato il tempo, la vista sulla valle di Tirolo è vertiginosa. «A mio padre non piacevano le case né i nidi», mi dice la figlia, che alternativamente chiama Pound «Pound» o «mio padre». «Secondo lui le case erano inutili. Un uomo, diceva, non ha bisogno di case, ma di due valigie. Una per i vestiti. L’altra per i libri». La cassa dei libri di Pound, in legno, c’è anche quella, griffata «Ezra Pound, Rapallo». Su una parete, il calco dei visi del poeta e di Olga Rudge, l’amata, la madre di Mary. Su un tavolo, la copia dell’Ulisse di James Joyce dedicata a Pound. Insieme a Mary, ci accompagna nella discussione la figlia Patrizia. Più tardi, all’uscita, incrocio l’altro figlio, Siegfried, che cavalca la bicicletta manco fosse uno stallone. «Pound qui non stava bene», dice, sibilando, Mary. Dopo dodici anni di reclusione nel manicomio criminale di St. Elizabeths, Washington D.C., nell’estate del 1958, Pound attracca in Italia, a bordo della “Cristoforo Colombo”. Va a stare da Mary e da Boris, nel castello tirolese, vasta solitudine di campi verdi, rocce in picchiata, gelo. «Mio padre è e resta un americano: aveva bisogno di spazio. Qui sentiva freddo. Questi luoghi gli trasmettevano una certa angustia intellettuale. Cominciò a fare il processo a se stesso, visto che non fu mai processato. Si accusava, si interrogava se avesse sbagliato tutto… La gente non può immaginare, ma per sopravvivere nel campo di prigionia a Pisa, prima, e poi al St. Elizabeths, Pound ha dovuto concentrarsi totalmente sul suo lavoro. Altrimenti, sarebbe impazzito». Quelli del ritorno sono anni durissimi per il poeta.  > «Non riconosce più l’Italia che ha lasciato anni prima. Gli crolla > letteralmente il mondo addosso. La morte di Ernest Hemingway e di Hilda > Doolittle nel 1961, quella di E.E. Cummings nel 1962, di William Carlos > Williams nel 1963, di Thomas S. Eliot nel 1965… Pound vede morire tutti i suoi > amici, vede disintegrarsi un’epoca». Mentre Mary parla appaiono e scompaiono nella stanza i volti di quegli uomini che hanno cambiato la letteratura occidentale. Di fianco a Mary si spalanca una nicchia con la biblioteca consultata da Pound. Mi accompagna. I libri sono coperti da una carta trasparente. Estrae alcuni volumi, una storia della Cina antica, in francese. «Nel 1940 Pound pubblica i Cantos LII-LXXI, quelli relativi all’epica cinese e agli scritti di John Adams. Vede, Pound a Rapallo, in quegli anni, non faceva il fascista, studiava…». Che fine ha fatto quel mondo, gli Eliot, i Joyce, gli Hemingway, quella energia? Oggi la cultura è mercanteggio di sciocchezze. «Cosa la stupisce? Dopo l’epoca di Dante sono dovuti passare secoli per avere un Leopardi!». Risposta rotonda. «E poi, io non voglio uscire da questa stanza, sono nel pieno di quell’era, di quegli istanti, lo capisce?». Lo capisco, certo. Anch’io vorrei annegare qui. Ezra e Mary Quest’anno, un ennesimo anniversario poundiano. Il rammarico di Mary si percepisce, vivo come un fuoco, sotto pelle. «Spererei che Mondadori pubblicasse un’edizione economica dei Cantos, per rendere più accessibile l’opera di Pound». Invece niente. «Il problema è che per non incorrere nelle accuse di fascismo bisogna sempre mascherare Pound con un involucro sufficientemente grande. Magari parlarne con altri autori, in contesti più ampi». Quando Mary se ne esce, «vorrei fondare una Repubblica poundiana!», ci zittiamo tutti. Parla piano, con accuratezza. «Pretendo che qualcuno, il governo degli Stati Uniti d’America, un gruppo di Università americane, restituisca a mio padre la personalità giuridica. Dal 1945, quando, senza processo, fu internato al St. Elizabeths, Pound non ha più riavuto i suoi diritti civili: e cos’è un uomo privo di diritti?». Più che l’ira, la rassegnazione colora il viso di Mary, sulle cui spalle grava un secolo di grande letteratura. Gli ultimi anni di Pound replicano il silenzio – «che equivale a una dichiarazione di non-colpevolezza» – opposto in quel 1945 alle autorità americane.  > «Negli ultimi anni mio padre non parlava con nessuno. Una fotografia lo > ritrae, magrissimo, davanti a una rosa. Un articolo di Indro Montanelli, che > in passato non era stato molto gentile con Pound, lo descrive a Venezia, in > un’aula piena di persone, forse un’ambasciata, seduto, che gioca con un > gatto».  L’articolo di Montanelli, Pound, uscì sul “Corriere della Sera” l’11 aprile del 1971. L’episodio ricordato da Mary è raccontato in questo modo dal grande giornalista: > «In salotto, si rimise sul divano al suo posto di esule e risprofondò nella > sua lignea immobilità. Di vivo, c’erano solo le mani, che continuamente si > cercano e auscultano, ma con dolcezza e senza orgasmo. Esse sembravano > esercitare non so quale ipnotico potere su Crim, la gattina siamese di > Liselotte che, accucciata ai suoi piedi, le fissava con le pupille dilatate da > una folle stupefazione. Poi, scalato il sofà con un soffice balzo, cominciò a > leccargliele. E infine vi si raccolse facendone la sua cuccia e reclamandone > la carezza. Per un poco, Pound subì. Subì anche lo sguardo della bestiola che > gli teneva gli occhi negli occhi, unica fra tutti noi a non sentirsene > turbata. Poi la prese delicatamente per la collottola e la rimise accanto a > sé. Ma Crim non si diede per vinta e ricominciò la sua morbida insinuante > ascensione dal cuscino alle ginocchia di Pound e dalle ginocchia alle braccia, > fra le quali si accoccolò. Tutti seguitavano a parlare, ma senza distogliere > lo sguardo da quel muto dialogo – forse un idillio, forse un duello – fra Ezra > e il gatto».   > > (L’articolo è accolto in: E. Pound, È inutile che io parli. Interviste e > incontri italiani 1925-1972, De Piante, 2021) Alcuni taccuini mostrano la poesia estrema di Pound, quella dei Drafts and Fragments. Scrittura minima, obliqua, confusa. Orfica. «Oggi finirei i Cantos in un altro modo…». Sono venuto fin quassù per capire questo. Dove finiscono davvero, in quella turba di note dalla grafia oracolare, i Cantos? «Le ipotesi più veritiere sono tre. I Cantos terminano con la frase “ma la bellezza esiste”, che non è confluita nel poema. Oppure con “Un po’ di luce, come un barlume/ ci riconduca allo splendore”. Infine, ed è la fine che preferisco, il capolavoro di Pound si blocca su questo verso: let the wind speak, lascia che parli il vento». Il poeta, a quel punto, non ha più verbo né voce: è realizzato. *In copertina: Ezra e Homer Pound insieme a Mary  L'articolo “Ci riconduca allo splendore”. Alla ricerca di Ezra Pound. Ovvero, in gita da Mary proviene da Pangea.
July 9, 2025 / Pangea
Il libro come essere vivente. Su “Gli istrici”, un romanzo di Valentina Di Cesare
Cos’è che mi fa scrivere?, s’impone?, a me che non sono nessuno. Il mistero s’insinua e prevale. La trance, lucida, precisa, è generativa. Ma si potrebbe continuare all’infinito. Anche questa mia abitudine a ripetere la parola tutto. L’ho notato, c’infilo sempre la parola tutto da qualche parte, prima o poi, e devo negarla per evitare il condizionamento. Il tutto ha totalità di emergenza, richiama a dire l’abbraccio grande che mi circonda, perché dev’essere grande, in grado di comprendere l’uomo intero, di accoglierlo. Ma quale uomo? Quello che si affida alla parola, all’ascolto, che non tende a dire se stesso, lui e basta. Kafka, in un suo racconto intitolato Descrizione di una battaglia, scritto col suo amico Max Brod, fa dire a un pazzo: “Io vivo affinché gli altri mi guardino”. Credo che Kafka si opponesse a questo. Non giudica, è attratto dall’estremo, è sorpreso e ne ha pietà. Egli prefigura il mondo di oggi. Farsi notare a ogni costo. Ecco la stortura, il malanno, e senza sapere che malattia è. Godere di quel minuto di fama che è il niente, il mio niente. L’apoteosi che non sono. Se penso a come scriveva Ungaretti nelle trincee della Prima guerra mondiale, piantato dentro il fango, utilizzando quello che trovava, scarti di giornali, pezzi di cartone che racimolava. Quei frammenti stabilivano già il respiro della lirica, l’impaginazione era in quel formato esile. Possiamo dire ritagli di sangue, il corpo delle cose martoriate, mutilate, resistere con la poesia alla paura, alla morte vicina, al fatto che domani potrei non esserci più. Che lezione! Si scrive sul confine, nel tempo che c’incastra e decide chi siamo. A questo punto dico: chi è Valentina Di Cesare se non una scrittrice, e insieme una madre, una moglie, un’insegnante di Lettere nella scuola secondaria di primo grado, e lingua italiana per gli studenti stranieri. Non la stessa trincea di Ungaretti, certo, ma se ci penso mi vengono i brividi. L’amore per la Letteratura, per la scrittura sono quelli, si dichiarano nel cuore, si consumano e si esprimono lì, nascono come un figlio nel chiuso di un abisso, e più va scurendosi il desiderio, più aumenta l’assillo di vederlo nascere, di voler essere con lui… Più il seme si fa luce, sotterrato nella carne, più scoppia di vita, esplode la sua natura. Gli istrici (Caffèorchidea Edizioni, 2025) sono questo, l’ha scritto Valentina Di Cesare. Potrebbe continuare in avanti e oltre la fine per chissà quante pagine, in quanto trasborda e suggerisce ancora altra vita. La vitalità, l’energia che trasmette, risiede nel suo io, un cuore che a ogni pagina si apre, e verso cui corre come in faccia al vento, o nel solco di una strada che si rinvigorisce e si delinea sempre di nuovo, a mano a mano che prosegue, nelle sue vicende e nei suoi personaggi, che ne rappresentano la voce, l’io in cui abitano e s’intessono i discorsi, i pensieri, le parole. Quattro nature, quattro protagonisti, come le nostre stagioni, per dire quanto è grande il tempo, quanto è grande la vita, e densa, umile, impareggiabile, spettacolare, ricca. Gli istrici è un libro che vuole essere amato, per la sua quieta vitalità, ancora in essere quando il romanzo è compiuto, che non pare finito allo scoccare dell’ultima parola. Perché Gli istrici non tende a contrarsi, ad avvitarsi in iperbolici avvitamenti, tende bensì a fiorire, a immaginare. > “Più di una nuvola aveva confuso le stelle quella notte e i bagliori si > vedevano appena […] Quasi che si trattasse di un accordo con la luce […] > Iniziava di nuovo il mondo […] e gli sterrati storti […] qualche baracca > sbieca […] tutti gli usci erano serrati”. È l’inizio del romanzo, ma come l’ho letto io, con un’invenzione mia, arbitraria direi, si vede dalle parentesi quadre che ho innestato dove manca il testo, agendo in levare al fine di far procedere a salti la scrittura, che non si deforma, non si decompone, non si sgualcisce, nonostante il mio personale intervento, anzi, il miracolo è lì, resta unitario il dettato, per dare risalto al pensiero, la sua natura, la forma che procede per punti nodali, quasi inavvertiti dal lettore, per cui si può dire che il mio esperimento è riuscito: riportare la caratura del linguaggio (significativa, intatta, unitaria) alla luce, anche se sottratta di alcune parti. La luce, questo il sugo dell’incipit! Così ho deciso: dimostrare il sunto di una prosa fatta di contrasti, che rimanda alla sua complessità. L’autrice non me ne voglia. Più avanti, a pagina 53, il passo del racconto si fa elegante, pur restando descrittivo, ma ora nell’obiettivo di un chiaroscuro che lo distingua (stavolta la pagina è rimasta integra):  > “Certi giorni di novembre, alcuni vicoli deserti davano l’impressione di > essere più stretti, quando si sentiva scalpitare l’acqua dalle grondaie già di > prima mattina, e i tronchi degli alberi sulle montagne intorno si ergevano > come grigie lame di ferro incolonnate”. E le cose, a pagina 77, gli ambienti, sono il correlativo oggettivo del personaggio, particolarmente vissuti, esperienza che si compie, mistero, passato, memoria che non svanisce, nella scoperta che si presenta col suo carico umano di stupore.  > “Era scalza. Iniziò silenziosamente a gironzolare per la casa, andando prima > nel bagno a piano terra, quello con la piccola finestra che l’aveva sempre > incuriosita da fuori e poi in salotto, la stanza che Francesca teneva sempre > chiusa. Cercandone a tentoni l’interruttore, Carla sentì già infilando la > mano, che quella stanza era più fredda rispetto alle altre. Annusò l’aria e > subito intese che lì non v’era l’odore delle altre camere, nonostante > campeggiasse in mezzo al grande tavolo un contenitore di fiori secchi e foglie > colorate che emanavano un vecchio profumo. Con le labbra semiaperte e gli > occhi attenti, Carla visitò quella stanza dalle finestre sbarrate, mentre > lasciava correre la piccola mano sul ripiano del mobile a muro”. Ed ecco il tema principale del libro, che appare all’improvviso, a pagina 144. “Sapete che per paesi come il nostro vanno bene solo le lacrime di nostalgia?”. La solitudine. È il motivo per cui Valentina Di Cesare ha scritto il romanzo, per esorcizzarla, penso io, per conoscerla profondamente, e così combatterla.  Il valore de Gli istrici risiede in questo corpo a corpo. Ne è valsa la pena. Tutti i personaggi sono soli. Qui il libro resta nudo. La scrittura si avvolge intorno alle cose per vestirle di compassione, sebbene circospetta, perché occorre descrivere, la scrittura ha le sue regole. E poi la nudità ferisce, si pensi al Cristo in croce, e non si vuole. C’è orgoglio, distanza, le montagne dell’Abruzzo sono giganti impossibili. Da un lato assistiamo alla fuga, dall’altro si afferma la resistenza degli uomini, la fedeltà a quell’isolamento, in fondo così amato. Se c’è un destino è l’amore. L’amore cristiano, quando è nudo e celestiale di risurrezione, non chiede di soffrire, è consapevolezza di ciò che saremo. La dualità porta scontento. Il desiderio si abbassa fino a terra, è simile a qualche animale che scorrazza libero. Eppure, è proprio la natura che ricompensa, in quanto la natura predomina nel romanzo, fa impressione vedere com’è piccolo l’uomo in quegli scenari.  Mi sono appuntato una frase (o me la sono sognata?): “Le piccole salvezze gliele offrivano gli animali”. Piccole per pudore o per diffidenza?, mi chiedo. Il corpo s’impone e gli sbarriamo la strada, ci dice dove andare, ma noi preferiamo la sconfitta dei pensieri, il rimuginare sempre e ancora. Ma anche l’uomo è natura. Noi non lo capiamo. Pensiamo che la promessa sia stata negata, invece è ancora lì, nel fatto che siamo vivi. E se moriamo (quando moriamo!), resta un chiodo infisso nel cuore degli altri che grida non dimenticarmi, non dimenticare, a questo sono servito, per questo ho vissuto. Supremo atto d’amore, sacrificio, valore umano. Dai grattacieli di Manhattan alle altitudini del nostro Abruzzo. “Settembre, andiamo. È tempo di migrare”, recita il grande D’Annunzio, nel 1903. Possibile?, la vita non si muove? Che scandalo è questo? Allora la mia pena continuerà anche dopo? Mi pare che da queste domande, da questi tormenti si sviluppano le storie moderne dei personaggi de Gli istrici. Istrici proprio in quanto corazzati di aculei, contro chi ci vuole cambiare. Sbuca una mezza luna per contrasto, sulla bella copertina del libro, s’imbianca fra le punte ritorte e graffianti di una selva oscura, terribile e respingente. Nessuno impedirà la nostra salvezza, nonostante tutto. “Noi non possiamo mai nascere abbastanza”, dice la citazione di E.E. Cummings ad apertura del libro. Il che vuol dire che quando una voce viene dall’esterno, ed è vera, profonda, come il mite Doì (il giapponese protagonista di un capitolo, che decide di stabilirsi in quelle terre), allora qualcosa si realizza anche in noi. Il nostro libro è scritto, è umano come un essere vivente. Vincenzo Gambardella L'articolo Il libro come essere vivente. Su “Gli istrici”, un romanzo di Valentina Di Cesare proviene da Pangea.
July 9, 2025 / Pangea
Letteratura da manuale. Per capire i dazi bisogna leggere Maupassant (mica Fubini…)
Quanto mi piacciono i libri dai quali esco sapendone qualcosa in più rispetto a quando ci ero entrato! Volevo fosse il caso dello spillato di Federico Fubini, omaggiato dal “Corriere della Sera” del trenta giugno. Titolo: Dazi. Sottotitolo: Il secolo della guerra economica. In copertina: guantone a stelle strisce contro guantone a stelle europee, perché l’immaginario italo-americano resta affezionato allo Stallone di Balboa, e nel sottopancia un istogramma in dissolvenza, come fossero grattacieli lynchiani.  In effetti i guantoni, il sinistro sulla destra che cozza col destro sulla sinistra, potrebbero essere dello stesso pugile, per cui il dubbio: è una guerra autolesionista, e schizoide, se non proprio l’ennesimo show per un pubblico pagante pago di vedere gli altri darsi apparenti botte da orbi, in pieno stile wrestler, restando cieco di fronte all’evidenza che a finire pestato più di tutti resterà lui, pubblico spettatore, e non certo i proprietari dell’arena, i fornitori, i preparatori atletici, i lottatori in scena, gli sponsor dell’evento, le emittenze varie e eventuali? L’estenuante guerra vinta dai ricchi che continuano a dichiararne, terrorizzati come sono dall’idea di esserlo meno. Guerre combattute dai poveri, magari lo fossero solo di spirito, contro i poveri di volta in volta convinti di averlo finalmente trovato il ricco che renderà ricco anche loro, alla faccia di chi povero lo resterà anche stavolta perché avrà puntato sul ricco sbagliato, neanche l’errore madornale non fosse continuare a stare nello stesso gioco della guerra su cui si fonda la straricchezza di quei ricchi che sanno arruolare i poveri con la sola promessa di ricchezza, guadagnandoci pure, arricchendosi assecondando la propria natura, del resto i poveri non stanno tanto a sottilizzare tra una povertà e una ancora peggiore. Almeno per un po’ si saranno illusi di qualcosa, un altro niente di fatto è pur sempre meglio del solito niente di prima.   Metti il dazio, togli il dazio, questo dazio qua spostalo là e quello là mettilo qua, la politica doganale trumpiana è esilarante, è il gioco degli “assetti del potere” che sta creando “ostacoli al commercio internazionale” facendo barcollare nella sola Europa “trenta milioni di posti di lavoro”, ciò non toglie non serva un Dario Fo per metterla in opera buffa: sembra proprio di stare nella favola dell’imperatore che brontola nell’attesa di quel bimbo che lo punterà a dito per dirgli quant’è nudo, stufo – l’imperatore – di dover continuare a andare in giro chiappe all’arie rischiando di buscarsi polmoniti, alla sua età!, attorniato da comprimari il cui massimo sforzo critico è civettare un Presidente, ma quanto le dona la calzamaglia color carne! Che lo scenario economico e quindi geopolitico mondiale sia favoloso lo scrive Fubini stesso, ricordando come degli “organismi internazionali dalle regole condivise quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale o l’Organizzazione mondiale del commercio” ormai resta “quasi solo il guscio: vuoto come la corazza del Cavaliere inesistente del romanzo di Italo Calvino.” L’avverarsi delle ambizioni della sinistra più antagonista, per opera del suo antagonista più spavaldo e beffardo.  Di macroeconomia e dunque del nocciolo della politica cosa mai ne posso capire io lettore di letteratura, in particolar modo di quegli scrittori che tante volte provocano tali buchi a bilancio cheppoi va da sé gli editori debbano stampare chef, tiktoker, ex-presidenti del Consiglio e giallisti tinti di nero per non doversi riciclare del tutto in copisterie di catena? Non ho le carte, non faccio deal, sono profano al punto da trovare brillante una sintesi associativa che immagino del tutto usurata per indicare gli effetti dell’economia finanziaria su quella reale, “da Wall Street a Main Street”, e da mandare giù come pillola prescritta dello specialista la descrizione di stablecoin: le chiamiamole valute “digitali private sostenute da depositi, per lo più in dollari, di valore equivalente”.   Sono il corrispettivo italiano di quegli americani, stimati il 38% del totale, “che non possiedono azioni quotate alla Borsa di New York e che non hanno altro che debiti”, convinti – erroneamente – “di avere poco a che fare con l’andamento di Wall Street e molto da perdere dalla globalizzazione”, dico erroneamente perché se il 38% di americani azioni non ne ha, il restante 62% sì, e se si rovinano economicamente due americani su tre, il terzo non si arricchirà certo a loro spese, anzi: loro le spese le ridurranno, potendosele comunque permettere, e sarà proprio il terzo, ulteriormente colpito dalle contrazioni del mercato, a rimetterci il poco che aveva e vedere ancora più lontana la possibilità di acquistarla una Ferrari, ora che l’azienda “ha alzato i suoi listini del 10% prima ancora che entrassero effettivamente i vigori i dazi al 25% sulle auto in arrivo negli Stati Uniti.” Per dire: le conseguenze della guerra dei dazi non potranno mai essere le stesse per chi dovrà rinviare all’anno prossimo l’acquisto di una Ferrari e per chi già da ora deve pagare “spesso anche il 28% sulle loro carte di credito: interessi da mafia dei colletti bianchi, che in Europa verrebbero puniti per il reato di usura”. Da lettore non specialista ho l’ambizione anti-economica che Vollmann rielabori in centinaia e centinaia di pagine psichedeliche il materiale che Fubini precipita nel capitolo che in Dazi ne conta soltanto tredici: La storia nelle vite di tre uomini: Clinton, Stiglitz e Vance. Per essere più sintetici di Fubini: Stiglitz, nato in una steel town 82 anni fa, aveva capito per tempo “che la globalizzazione beneficia i detentori di capitale e i lavoratori con diplomi di college o con master in università prestigiose, nei Paesi avanzati; ma svantaggia chi non ha né qualifica né capitali” e aveva fatto in modo che il messaggio arrivasse a Clinton quando era lui il Presidente. Clitton il 20 aprile del 1999 dalla libreria della Casa Bianca disse: “Questo è il momento di agire per impedire che le crisi finanziarie raggiungano livelli catastrofici in futuro.”  Dopodiché non si agì affatto, e qui entra in scena Vance, nato in una steel town circa quaranta anni dopo Stiglitz, solo che Vance non diventa un economista anche premio Nobel e saggista prolifico tanto acquistato quanto ignorato come Stiglitz: Vance a 32 anni pubblica Elegia americana prima di diventare vicepresidente degli States a 40, rappresentando in pieno la narrazione dell’elettorato di Trump: uno che non ci crede più ai rimedi macroeconomici di uno Stiglitz, uno che rivuole la fabbrica in casa anche se da casa sua sta espellendo i migranti indispensabili per coprire la forza lavoro richiesta. Vance vuole riscatto ovvero vendetta subito, Promuovendo l’America Grande Ancora, il cui acronimo un italiano forse rende meglio l’idea. E se sostituissimo Promuovendo con Costruendo?  Riflessione: lo scrittore di autofiction Vance ha e ha avuto un effetto sul mondo cosiddetto reale molto più sensibile dello stimato e inascoltato saggista Stiglitz. Dipende dai lettori che raggiungi, da come li raggiungi, da cosa gli racconti, se quello che racconti a quegli stessi lettori piaccia doverlo sentirselo dire, dopo essersi dovuti prendere persino l’impegno di leggerlo, per ascoltarlo.   E cosa dovrebbe gridare il bambino europeo al petulante imperatore nordamericano che lascia indizi peggio di Pollicino, sbottando ogni tanto un vagamente depistante meglio un jockstrap in filo spinato che un fottuto kimono di seta cinese? Scrive Fubini: chiamare col suo nome la coercizione economica fra Stati che è l’ultima moda del commercio internazionale, poiché  > “In sostanza Trump e Bessent [il Segretario del Tesoro] potrebbero stare > cercando di mettere l’Europa davanti a una brutale alternativa: comprare > debito americano man mano che viene emesso – e comprarlo malgrado rendimenti > contenuti – oppure rischiare di perdere l’accesso al mercato dei consumatori > americani e a quel che resta dell’ombrello di sicurezza del Pentagono.”  Che gli unici valori realmente difesi dalle civiltà egemoni odierne o meno, quelli per i quali sono disposte ad architettare aggressioni verso tutto e tutti dalle soft alle ultrahard, siano quelli che ci stanno in una borsa, specialmente se la Borsa è la loro, per capirlo mica bisognava aspettare il ventunesimo secolo e leggere Fubini! Bastava l’Ottocento e leggere Balzac. O Bel Ami di Maupassant, che secondo me è la più bella biografia mai scritta sui normalissimi uomini di potere, e dei secoli precedenti al 1885, anno in cui fu pubblicato, e di quelli a venire. Per le mire dell’America made-in-Trump verso la per nulla virginale Europa può valere il trattamento che George Duroy riservò alla ammansita, cavalcata e pussata via signora Walter: lei  > “D’un tratto, smise di lottare e, vinta, rassegnata, si lasciò spogliare.” antonio coda L'articolo Letteratura da manuale. Per capire i dazi bisogna leggere Maupassant (mica Fubini…) proviene da Pangea.
July 8, 2025 / Pangea
Sul doppio “Meridiano” di Philip Dick. Ovvero: come si neutralizza un grande scrittore
Sebbene con due anni e mezzo di ritardo a petto del trionfale annunzio sui giornali, che lo prometteva in libreria per la fine del 2022, è finalmente escito il doppio ‘Meridiano’ delle Opere scelte di Philip Kindred Dick, curato da Emanuele Trevi. L’attesa, carica di promesse, si è però rivelata, a esser generosi, una mezza buggeratura e un attacco, se bene dissimulato, contro lo scrittore americano. In queste tremila pagine s’adunano in fatti fesserie e sfondoni, qualche imbroglio non involontario, e parecchi arbitrii. Qui passeremo in rassegna solo un’infima parte di tutto ciò: se dovessimo rintuzzare ogni guasto e carognata, occorrerebbe un intiero terzo tomo. * Liberiamoci anzi tutto della «Cronologia», affidata a Emmanuel Carrère. Come si sa, le cronologie dei ‘Meridiani’, negli ultimi anni, sono vere e proprie piccole biografie, che occupano lunghe fitte e talora critiche pagine, quindi non soltanto un elenco di date ed eventi.Poiché Carrère è l’autore di una così detta “biografia” dickiana, forse ahinoi la maggiormente letta in Italia dacché stampata da Adelphi, Trevi e Alessandro Piperno, l’attuale direttore della collana, hanno ritenuto ovvio di assegnare a colui codesta preziosa parte del ‘Meridiano’. Una scelta disgraziata quant’altre mai come potrà constatare il lettore leggendo un mio lungo intervento, pubblicato su questa rivista. Siccome là dico già tutto ciò che di essenziale si deve sapere, qui non mi ripeterò. Rilevo solo che ancòra una volta è dimostrato quanto a signoreggiare la più parte delle logiche culturali italiane sono criterii familistici e ideologici. La seconda scelleratezza è il «Profilo di Philip K. Dick», firmato da Trevi. Pur assai informato e non del tutto disutile, esso nondimeno porta un guasto irremeabile, cioè a dire il radicale rifiuto di attribuire a Dick il duplice statuto di filosofo e di veggente, l’unico cui egli tenesse e che dimostrò sempre di meritare, e di rilevare i connotati religiosi dello scrittore. Dick è per Trevi un buon autore ma gravato da tabe psichiche. Frusta e stracca robaccia di magliari (la medesima di Carrère, ça va sans dire), fondata su periclitanti congetture gabellate per verità. Nel mio succitato articolo indugio anche su questa delicata faccenda. Proseguiamo. Il ‘Meridiano’ offre, nell’ordine, i seguenti titoli di Philip Dick: Occhio nel cielo; Tempo fuori luogo; L’uomo nell’alto castello; Le tre stigmate di Palmer Eldritch; Gli androidi sognano pecore elettriche?; Ubick; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; Un oscuro scrutare; Valis; L’invasione divina e La trasmigrazione di Timothy Archer. Per motivi di spazio non indugerò oltremodo sull’Occhio nel cielo, Tempo fuori luogo e Un oscuro scrutare. Mi limito soltanto a rilevare che: il primo non necessitava di una nuova traduzione, sarebbe in fatti stato sufficiente ripulire una delle pregresse; mentre il secondo e il terzo sono la riproposizione delle versioni già da anni a disposizione e, al contrario di altre versioni miserabili, tra le poche salvabili. Di poi Occhio nel cielo – in vero più un racconto lungo che romanzo – è opera bensì gradevole e abbastanza importante nell’arsenale dickiano, ma non tra le maggiori. La scelta ha natura politica, non certo letteraria, dacché lì Philip Dick… strizza l’occhio ai comunisti. A oltre trentacinque anni dal fatale biennio 1989-1991 certi intellettuali (sit iniuria verbo) sembrano quei soldati giapponesi che decenni dopo la Seconda guerra mondiale li trovavi ancòra appostati in attesa di un contrordine dell’imperatore. Peraltro lor signori confondono i sinistri di quegli anni ormai remoti, bensì funzionalissimi ai regimi, ma ogni tanto capaci di qualche utile manovra critica. Oggi si sono sostituiti al potere un tempo avversato e ne sono diventati i degnissimi eredi. I cinque più noti romanzi dello scrittore americano: Ma gli androidi sognano pecore elettriche?; Scorrete lacrime, disse il poliziotto; L’uomo nell’alto castello; Ubick; Le tre stigmate di Palmer Eldritch sono in verità un’ottima scelta, ma si tratta delle stesse versioni già escite dal 2021 in avanti negli Oscar. In somma: sette titoli su undici di questa lussuosa e pretenziosa edizione ricicla testi già in circolazione. Ci sono tuttavia due differenze: aver abbandonate le orrende prefazioni di Carrère annesse agli Oscar e la presenza di un apparato critico, com’è nelle prerogative della collana. Ma è certo che lo scambio sia stato svantaggiosissimo, per Dick e per il lettore. Prendiamo a solo titolo d’esempio il paragrafo «Gnosi» (pp. 3012 e sgg) che accompagna Valis e da cui trascelgo in modo aleatorio. È firmato, come tutti gli accompagnamenti alla lettura, da Emanuele Trevi e Paol Parisi Presicce. Leggiamo sùbito questa fesseria: «Non è mai esistita una chiesa gnostica paragonabile alla chiesa cattolica, con le sue ferree gerarchie (vescovi, diaconi, laici…) intese a salvaguardare le verità della dottrina garantendo la successione apostolica» (pp. 3012-3013). Negare l’esistenza d’una chiesa gnostica organizzativamente paragonabile alla cattolica significa aver studiato poco e parlare a vanvera: basti in fatti pensare al manicheismo, a cui aderì per nove anni niente meno che Agostino d’Ippona. Esso fu la più grande eresia cristiana della storia, una vera e propria chiesa, con tutte le caratteristiche di una qualsiasi chiesa universale: dottrina, gerarchia, liturgie, riti, etcoetera. Durò per circa mille anni e si estendeva all’attuale Cina insino all’attuale Marocco. Andiamo avanti. Trevi & Presicce definiscono Ireneo di Lione e Tertulliano «grandi polemisti ortodossi» (p. 3014). Niente da dire, giusta la teologia tradizionale, sull’ortodossia di Ireneo, ch’è pure stato elevato agli altari. Tertulliano fu in vece pressoché da sempre considerato ai limiti dell’ortodossia e per certi versi incompatibile con la dottrina, sia della Chiesa occidentale, sia della Chiesa orientale. Nessuna di queste, in fatti, gli attribuisce alcun titolo ed entrambe ne sconsigliano la lettura. Poco dopo, un altro sfondone: Ireneo e Tertulliano «detestavano gli gnostici, li consideravano pericolosi eretici e vedevano nelle loro idee diaboliche minacce alle verità e alla nascente dottrina del cattolicesimo» (p. 3014). Trascuriamo la sciatta disinvoltura con cui i nostri beniamini maneggiano il concetto di «eretico», e limitiamoci a constatare che negli anni di Ireneo e Tertulliano, cioè a cavaliere tra II e III secolo, non esisteva alcuna «nascente dottrina del cattolicesimo». I commentatori confondono cattolicesimo con cattolicità, due concetti assai ben distinti, sia nella storia delle religioni, sia nella lingua italiana. È lecito parlare di «cattolicesimo» soltanto a partire, come minimo, dal 1054, data dello scisma cristiano tra Oriente e Occidente. Evocare una dottrina ovvero una Chiesa cattolica avanti di quello svolto è indice di crassa ignoranza. Non è finita. La premiata ditta Trevi & Presicce, alla pagina 3013, spara: «In primo luogo la gnosis, com’è evidente fin dal nome, è un percorso salvifico basato sulla conoscenza, una sorta di risveglio che riconnette l’individuo alla sua vera natura». Spiacenti, ma dal nome «gnosis» è evidente soltanto il nome, e non un percorso: men che meno se descritto come si provano a fare T&P. Trascuro di commentare l’evidente loro incapacità di distinguere «gnosi» e «gnosticismo». * Trascorrendo dal fronte religioso al letterario, la caccastrofe è inarrestabile. Nelle «Notizie sui testi» viene citato due volte C. S. Lewis. Nella prima occorrenza (p. 3007) T&P ne evocano l’opera Out of the Silent Planet, modello per Radio Libera Albemuth, una delle ultime pagine dickiane, dicendo dello scrittore irlandese soltanto che fu amico di Tolkien. Nella seconda (p. 3029) invece si parla «dello scrittore inglese C. S. Lewis, che fu grande studioso di letteratura medievale, saggista di fede cattolica e autore di testi fantastici e fantascientifici». Ora, dare informazioni circa Lewis solo alla seconda occorrenza del nome, è già di per sé sintomo di severa distrazione. E ciò senza contare che, in un libro ambizioso per lettori ambiziosi, non è davvero necessario spiegare chi sia Lewis. Così come è esornativo, in quel contesto, sottolineare l’amicizia con Tolkien, come se ciò fosse issofatto titolo di merito. Ma le maggiori cannonate sono anzitutto d’aver limitato le competenze di Lewis alla sola letteratura medievale, quando è noto che egli fu un conoscitore a tutto tondo del così detto Medio Evo; e in secondo luogo, sopra tutto, d’aver definito Lewis «di fede cattolica». C.S. Lewis fu per una certa parte della sua vita un teista. Poi, grazie ad alcune esperienze (che si possono leggere sia nell’autobiografico Sorpreso dalla gioia, sia nella bella biografia di Alister McGrath), si convertì al cristianesimo ma non già al cattolicesimo, bensì alla fede anglicana.Sarebbe stato utile rilevare a questo preciso proposito l’amicizia tra Lewis e Tolkien, e non a casaccio. Fu in fatti il futuro autore del Signore degli Anelli a imprimere una svolta decisiva al percorso dell’amico. Ma mentre Tolkien, comprensibilmente, si attendeva da parte di Lewis un’adesione al cattolicesimo, questi optò altrimenti. Sia bene inteso che tutti questi sfondoni di storia delle religioni e di letteratura sarebbero stati evitabili consultando anche solo wikipedia. L’ultimo studente fuori corso dell’università di Roccacannuccia non li avrebbe commessi.  Ciò che non voglio commentare poiché anche di questo parlo nel mio già evocato articolo, sono le note all’Uomo nell’alto castello, forse l’opera più politica di Philip Dick e, per la mentalità dominante da ottant’anni, la più inaccettabile e quindi la più falsificata. Prendo solo atto che il mondo culturale italiano è zeppo di lupi travestiti da agnelli: proprio il concetto che lo scrittore americano esprime nel romanzo declinandolo alla politica mondiale. Voglio invece evidenziare con favore le molte note ai romanzi che rimandano a esempio a precisi passaggi della Sacra Scrittura citati o suggeriti da Dick. Il lavoro, se non ho straveduto, è svolto con perizia, sì che possiamo ammettere che, almeno come bibliotecarii o impiegati di redazione, certi intellettuali non sfigurerebbero. Perché non pensarci e cambiare lavoro? * Scopo ufficiale del ‘Meridiano’ sarebbe di restituire dignità letteraria a Philip Dick, considerato, come tutti gli autori di fantascienza, alla stregua di un dilettante nel senso peggiore, indegno di prendere dimora sul Parnaso. Un’iniziativa dunque lodevole per chi abbia saputo riconoscere nello scrittore americano non soltanto un fantasioso facitore di mondi e trame relegato al dominio della fantascienza – tenuto, con grave sbaglio, in gran dispregio dagli intellettuali e da certi lettori colti –, ma un classico, se bene sui generis, meritevole di ben altra considerazione. Il resultato però è sviante. Piperno e Trevi, col contributo di Carrère, hanno voluto istituzionalizzare Philip Dick, ciò è a dire neutralizzarlo, renderlo maneggevole, addomesticarlo, anzi tutto tacendone le propensioni filosofiche e religiose: nella fattispecie, gnostico-cristiane. Lo si capisce pure dalla scelta di escludere, anche solo in forma antologica, L’esegesi, opera cruciale per capire sia il Philip Dick uomo, sia il Philip Dick scrittore. Una delle visioni-simbolo di Dick è riassunta in una frase, famosa tra i lettori: «L’Impero non è mai cessato». L’Impero è quello romano, persecutore dei cristiani, che ancòra negli anni Settanta Dick vedeva, more suo, all’opera, anche sulla propria persona, con resultati esiziali per la società, gli individui, le anime. A mezzo secolo di distanza Dick è ancòra perseguitato. A mezzo secolo di distanza noi possiamo unirci alla voce di Philip Kindred Dick. * Poscritto A maggior benefizio dei lettori più curiosi e di quelli che ancor credono alle chiacchiere dei nostri intellettuali, riferisco per sommi capi un episodio occorso diversi anni fa a un mio amico, superbo germanista italiano, uomo altresì di raffinatissimo gusto linguistico, quando volle – e anche dové – avere un confronto con chi presiedeva alla direzione dei ‘Meridiani’. Tacerò per ragionevoli motivi i nomi sia dell’uno, sia dell’altro protagonista di questa eloquente e istruttiva storiella e così il sesso dell’allora capo della collana. All’uscita della raccolta completa, con originale, dell’opera poetica di un grande tedesco, il nostro germanista si avvide, non appena schiuso il volume, d’una seria di svarioni sciatterie e talune bestialità nella traduzione, firmata da uno dei mostri sacri della germanistica italiana. Per ciò che possa valere io stesso, indipendentemente dall’amico germanista, avevo sùbito notato lo stato pietoso di quel volume, sì che posso assicurare che questo germanista aveva veduto assai bene. Il nostro amico, pel solito schivo, fu còlto da un tal moto di fastidio, da non poter evitare di scrivere una lettera al direttore (si potrebbe adoperare il maschile anche se la persona fosse di sesso femminile), una lettera in che egli, con toni garbati ma fermi, snocciolava solo alcune delle minchiate eternate nel prezioso volume. Attese diverse settimane senza ricevere risposta. Ma siccome la gravità era così spaventosa da impedirgli di soprassedere, e altresì non volendo accettare di essere ignorato, il germanista tentò di raggiungere al telefono il direttore, ciò che, con sua grande sorpresa, gli riuscì. Il direttore avrebbe dovuto conoscere il germanista dall’altro capo del filo, ché questi era la firma di numerose preziose e note versioni italiane di grandi classici tedeschi, e della letteratura, e della filosofia, per marchi editoriali di diversa levatura. Ma o era all’oscuro, o finse di non sapere. Nondimeno stette ad ascoltare. Il germanista aprì con un breve preludio di gentilezze e scuse per aver “disturbata” l’attività di quel membro senatorio della repubblica letteraria italiana. Ma, precisò, siccome non aveva ricevuta risposta alla lettera, non aveva avuta altra strada che il telefono. Il direttore negò di aver mai ricevuta la missiva, ma pur lo invitò a esporgli la sua intenzione, annunziandogli di avere davanti al naso il volume incriminato. Nemmeno a dirlo, con tono tra il condiscendente e l’irritato. Il germanista iniziò, aprendo davvero a caso il volume, a evidenziare i punti critici. Si attendeva qualche reazione, ma l’altra persona non dava segno di apprezzare, in alcun senso, le osservazioni di quell’oscuro molestatore. L’elencazione delle magagne fu alquanto breve, ma a qualsiasi onesto e competente e in tedesco e in italiano, sarebbe stata sufficiente per cospargersi il capo di cenere ed eventualmente ritirare il volume dal mercato, licenziare l’autore della traduzione e incaricare altrui più attento – magari lo stesso germanista della nostra storiella – per ripassare da cima a fondo il non esile tomo. Andò invece diversamente. Il direttore del Meridiano, in fatti, si limitò a dire queste testuali parole, glaciali: «Dottor …, mi stupiscono molto le sue osservazioni. Tutte le recensioni al volume non parlano di errori e sono state tutte molto favorevoli». Ma il germanista di rimando: «Lei sa bene, caro direttore, che le recensioni, a certi livelli sopra tutto, sono, anzi che spontanee, sono spintanee. E poi non è sempre detto che i recensori, quali ch’essi si siano, abbiano le competenze per giudicare un lavoro così importante. Mi stupisce invece che Lei, alla sua volta germanista, non abbia fatto caso a questa legione di errori, di morti….». «Guardi, dottore», lo interruppe l’alto impiegato ora sensibilmente irritato, «Le ho detto che le recensioni sono state tutte favorevoli e quindi non occorre dire altro». Il nostro amico non ebbe quasi il tempo di replicare, ché, dopo uno sbrigativo saluto, la comunicazione si interruppe. E non certo per un mal funzionamento della linea telefonica. Luca Bistolfi L'articolo Sul doppio “Meridiano” di Philip Dick. Ovvero: come si neutralizza un grande scrittore proviene da Pangea.
July 2, 2025 / Pangea
“Tu, l’impreparato a tutto”. Vita & poesia di Nicolas Born
Ci fu un tempo – non troppo lontano, eppure, pleistocenico all’oggi – in cui il poeta era la creatura critica. Si poneva come punto di contraddizione, come scandalo – era l’immorale e l’immolato. Tale era il significato, ai suoi occhi, della parola politica: imporsi dal lato dell’assoluta debolezza. Irrompere a difesa. Irritare con la corona di spine delle cause perse.  Di Nicolas Born, in Italia, non c’è quasi nulla. Grazie a Giovanni Nadiani e alle edizioni Mobydick di Faenza, uscì, nel 2012, una selezione di testi, Nessuno per sé, tutti per nessuno; Gio Batta Bucciol, nel 2019, ha dedicato al poeta tedesco un servizio su “Poesia” (n. 347, “Tra bagliori e abbagli”). Eppure, a dire di chi sa, Nicolas Born è stato tra i più importanti poeti di Germania negli anni Sessanta e Settanta. Tra l’altro, uno dei più venduti e dei più presenti nel cosiddetto ‘dibattito pubblico’. Das Auge des Entdeckers, la raccolta edita nel 1972, fu un cambio di passo nella poesia del tempo: Nicolas Born – che in verità si chiamava Klaus, era nato a Duisburg l’ultimo giorno del 1937, il padre, poliziotto, aveva combattuto sul fronte russo, a Stalingrado – si ribellava ai messia delle folle che annientano la singolarità dell’individuo; odiava gli ideologi del progresso, “il mondo della macchina”; quando lo invitavano in tivù si scagliava contro “il folle sistema della nostra realtà”. In prima battuta, il libro vendette ottomila copie; quell’anno, Born conobbe Peter Handke. “Qui fa freddo ed è meraviglioso perché nulla può nascondersi. I fiammiferi ardono sul ghiaccio: vorrei comprarmi dei pattini e noi dovremmo parlare, parlare, lontano dal chiasso letterario”, gli scrisse, tra l’altro, a ridosso del suo compleanno. A Martin Grzimek – scrittore ancora oggi sugli scudi – il poeta dettagliò in qualche modo la sua ferrea poetica: > “Non dirla rassegnazione, scetticismo, piuttosto – se non è anche questo un > inganno. La letteratura in cui credo è quella dell’insicurezza universale, la > veglia sulla catastrofe. La letteratura deve scuotere questo clima di false > certezze, la fiducia in se stessi di chi governa sulla crisi di milioni. Alla > scrittura questo è legittimo, allo scrittore non si può chiedere di più: > anch’egli va ascritto tra i patetici, tra i miserabili”.  Era il marzo del 1978 – sarebbe morto poco dopo, nel dicembre del 1979, Nicolas Born, di un tumore ai polmoni, fulminante. Aveva da poco pubblicato l’ultimo libro, un romanzo, Die Fälschung: il protagonista è un giornalista inviato in Libano a raccontare una ‘realtà’ di cui non riconosce più i contorni. È una sorta di epica dell’atrofia della scrittura, genia di fraintesi. Il libro fu tradotto in un film, L’inganno (1981), con Bruno Ganz nel ruolo centrale.  La stessa violenta lotta contro il reale, contro l’insensatezza, a stordire l’assurdo, permea i versi di Born. Autodidatta, cominciò a lavorare in una tipografia, scriveva nei ritagli di tempo. Fu Ernst Meister, il poeta dalla scrittura enigmatica, a riconoscere per primo in Nicolas Born le stimmate del talento. Così, Born, nel 1963, riuscì a partecipare agli importanti “Literarisches Colloquium” a Berlino: diventò amico di Günter Grass e di Uwe Johnson, lo scrittore de I giorni e gli anni. Si diede, con un certo successo, al romanzo: Die erdabgewandte Seite der Geschichte fu tradotto in diverse lingue. Una borsa di studio, nel 1970, gli consentì di perfezionare le proprie ricerche all’Università dell’Iowa: conobbe, tra i tanti, Charles Bukowski e Allen Ginsberg. Preferiva un linguaggio ‘oggettivo’, finché l’oggetto, tuttavia, finisce per liquefarsi tra le sue mani: in quel liquame di immagini, di tumide asserzioni, il lettore si aggira a piedi nudi, il lettore deve bagnarsi.  Riuscì a comprarsi una casa nel Wendland, in Bassa Sassonia, tra i boschi: scrisse per bambini, scrisse per la radio, diventò un autore imprescindibile, così si diceva un tempo. Un segno lo marchiò come il forcipe dell’angelo: il 3 settembre del 1976 la casa nel bosco va a fuoco, inceneriti la biblioteca e i manoscritti di Born. Al poeta Jürgen Theobaldy, poco dopo, scrisse “Vorrei prendere le distanze da così tante cose – è ingiusto che si debbano ‘conoscere’ – che tutto allora divenga linguaggio”.  Venticinque anni dopo la sua morte, Katharina Born, la figlia più piccola, ha ripubblicato i suoi versi, con diversi inediti. È stata una sorta di rinascita, culminata con un paio di premi postumi e il riconoscimento dell’alto, grigio magistero di Born. Katharina era nata nel 1973, dalla seconda moglie di Born: il poeta aveva tre figlie.  In una poesia epigrafica, Michael Krüger – la cui opera, in Italia, giace tra Einaudi, La Nave di Teseo, Mondadori e Donzelli – ricorda la sua amicizia con Nicolas Born: > “Parlavamo di  > ciò che non era > di ciò che non sarà. > Ah, la triste ricchezza > dei suoi canti, grida così acute.  > C’erano ragni anche allora: > ora tessono una tela > in cui sto soffocando”.  Che immagine ambigua e robusta. A volte, l’amicizia è una ragnatela: si scopre di essere sotto veleno dopo tanto tempo, quando il ragno è ormai assente. A volte, è il poeta a tessere una tela per intrappolarsi, ragno a se stesso.  ***  Dentro il poema Non puoi vivere                   sfidando la realtà della realtà non si vive ma puoi sopravvivere all’assedio                   e riprenderti tutto                   e attraversare la vita                   tramite rapida virtù di immagini tu eri questo                   tu eri vita che pullula popolo che ansima sotto le lapidi                                     con sospiro continentale                   da te agli antenati                   mutilata intromissione terra e acqua restano il cielo resta                   tu resisti tu, l’impreparato a tutto piccoli soli imperlano la tua democrazia e l’eletto alla vita e alla morte tu e le tue molte belle voci tu la moltitudine tu la pelle la pelle e in fondo                   nient’altro che la pelle tu il pioniere della vita                   l’impresario delle bianche apparizioni tu sei un essere spaziale che fluttua                   tu l’autore dei flussi della storia puoi stampare il tempo come un libro tu pesi setacci ami mentre macerie di dittafoni                   rombano nel vento l’irragionevolezza è alla sua gemma tu sei il fiore dell’irragionevolezza tu sei giorno e notte ogni giorno e notte tu sei l’omicida                   apolide nel suo stesso sangue sei il padre e il figlio                   sei l’indiano a processo sei i colori e le razze sei la vedova e l’orfano sei la rivolta dei prigionieri sei l’ululato increscioso                   coltelli spiritati e colpi sparati sei il magnifico corridore della maratona del sogno                   acquazzone di segni nella capitale democratica sei il devastatore di tutte le catene sei la formula magica delle segrete delle luce                   l’insegna                   l’avanguardia dei refettori sei l’umano e                   l’animale che odora di morte sei solo e sei tutto sei la tua morte e il grande desiderio sei il progetto che infuria e sei la tua morte * Per Pasolini In sogno, Pasolini mi si avvicina                   nel ruolo del protagonista. Splende, lampeggia blu come una macchina                         un attore in tutto –  Pasolini salta tra vaste pozzanghere, può essere basso, laido, oscuro, asociale           ma è Pasolini ed è sempre altro a se stesso. Poi si ferma sulla soglia delle palazzine                                   saluta dalle impalcature. Indica una piramide di vecchie auto: L’intero borgo                        è il suo amante e con la macchina da presa scopre paesi che non può più vedere attraverso gli occhiali scuri. Le mia immagini mugolano dice                         dovrei fare film muti;                         non sento una parola da anni. Si strofina su di me e questo                    mi piace. Poi cade in una buca del cantiere. Un auto arde. Pioggia rimbalza sul mare. Nel cinema, l’acquazzone è bianco – ancora.  olas * L’apparizione di un uomo nella folla Benedetto essere soli nel gulag dei pensieri, senza testimoni senza l’occhio del pioniere che scorge il primato senza l’orecchio disciplinato della folla.  Che valore ha un fatto che non si può spartire? Che cos’è l’universo senza il tuo tremare il tuo tremore sul palco davanti a file di sedie vuote? La folla marcia sulla terra e nessuno muore nella folla sul dorso di ragnatele ronzanti finché non accade la grande contraddizione: l’apparizione di un uomo nella folla * Martedì, orrore I dormienti binari del tram, pavimentati di asfalto, aspettano i vecchi tempi come il ritorno della scrittura a mano Inattesa pioggia, è pomeriggio un po’ di luce fa nido sui volti vergati in grigio, nei campi tenebrosi canali, alberi pigmei Colletti bagnati, bagnate le labbra un vecchio guidato da una bimba con le trecce bagnate Silos di cemento sopra binari morti stormi di uccelli come stendardi una commessa saluta dal vetro I sobborghi si infiammano verso le sei e io penso alla scoperta dell’“isola della mente” Una gru, promontori di crudo cemento guardo un mondo che ascende che sa cosa significhi sopravvivere  * La ballerina Piuttosto piccola sullo schermo signore e signori –  la ballerina balla meravigliosamente anche per noi profani favolose fiabe di morte e di mutamento a teatro So che qualcuno dice chi è quella? dovrebbe ballare dovrebbe muovere le gambe con coerenza in modo da non essere soltanto bella ma disciplinata con la sapienza sulla spalle una danzatrice e un’artista ben recinta nel suo ruolo I miei amici hanno ragione quanto conforta esprimere il proprio talento con totale dedizione guardate la ballerina osservate quei meditabondi gesti la risonanza malinconica in minore la posa divina guardate la ballerina sullo schermo che interpreta il mondo meglio del notiziario * Desideri I fatti non sono che torbide torture. Non sarebbe bello avere tre desideri soltanto, ma che si avverino tutti? Vorrei una vita senza pause mentre i muri vengono presi a fucilati rispetto a una vita percorsa in rapina           dai tesorieri.  Vorrei scrivere lettere in cui            esisto in parte. Vorrei un libro in cui tutti abbiano accesso e da cui possa uscire senza troppi drammi. Non vorrei mai dimenticarmi che è più bello amarti che essere amato.  Nicolas Born   L'articolo “Tu, l’impreparato a tutto”. Vita & poesia di Nicolas Born proviene da Pangea.
June 24, 2025 / Pangea