C’era una volta un tizio che si sedeva davanti a un tavolo. Aveva un quaderno e
una penna. Scriveva. Oppure aveva una macchina da scrivere, o un computer. E
scriveva. Questa è la favola che oggi ci illude esista ancora un tempo per
scrivere. Non voglio dire che non esista più. Dico solo che oggi ha uno statuto
debole.
Li vedo già i colleghi poeti e scrittori che storcono la bocca: ma come,
l’autore! su dai, la creatività! Sono anch’io disperato come loro, mi muovo a
tentoni in un presente che rosola a fuoco lento (ma neanche troppo lento) le
certezze intellettuali e letterarie di soli vent’anni fa.
Non so se sia una notizia vera. Oggi esiste questo universo delle cosiddette
“fake news” che avvelenano menti e coscienze degli individui. Spesso si
diffondono tramite i social, perché sono il mezzo in cui tutti noi siamo più
indifesi di fronte al desiderio di scovare qualcosa da mettere in mostra nella
nostra vetrina, sul nostro profilo. Comunque, ho fatto le dovute verifiche del
caso: è in vendita, a varie centinaia di dollari (sotto il migliaio comunque). È
la Poetry Camera, cioè la macchina fotografica poetica. Si inquadra qualcosa e,
poco dopo, quest’aggeggio sputa una poesia composta dalla sua intelligenza
artificiale.
A inizi Duemila lavoravo in radio e abitavo a Milano. Sui Navigli c’era un tizio
che scriveva, a pagamento, poesie su commissione. Bastava dirgli a chi volevi
regalare la poesia e fornirgli qualche elemento tematico o caratteriale della
persona e lui ti sfornava una bella poesia lì per lì. Pensate che, negli anni
’60, pure Jack Kerouac, il vagabondo perditempo sulle strade d’America, si era
rintanato nella capanna di Henry Miller, per scrivere un romanzo su commissione.
Era Big Sur. E se pure il più anarchico degli scrittori aveva ceduto a un libro
a richiesta, voleva dire che tutto era possibile.
E infatti, a distanza di alcuni decenni, il possibile è diventata un’invenzione
di Carolyn Zhang e Ryan Mather, due informatici creativi che hanno preso un
dispositivo di Raspberry Pi che cattura le immagini e, interagendo con GPT-4 di
OpenAI, genera poesie, produce testi poetici, pure di generi differenti. Si può
prediligere gli haiku, oppure un sonetto, o un limerick, o altro. E già a questo
punto ci sarebbe una miriade di considerazioni da fare. La più evidente è che
con questa macchina fotografica poetica non dobbiamo nemmeno durare fatica a
scrivere un elenco di parole che l’intelligenza artificiale usa per comporci
sopra una poesia. La caratteristica della Poetry Cam è che si inquadra un bel
tramonto e via, la macchina secerne la poesia stampata sopra un pezzo del
rullino di carta, e il dispositivo non salva in digitale questo testo.
Praticamente, in un baleno siamo di fronte all’uso avanzato dell’intelligenza
artificiale e all’uso arcaico della carta come unico supporto che “ricorda”,
cioè archivia il risultato. A essere uno psico-qualcosa o un socio-qualcosa ce
ne sarebbero di discorsi da fare…
Alla parte romantica di me stesso, di fronte a questo rilievo della carta,
verrebbe da dire “vedi, la carta è ancora il supporto migliore, la carta non
tradisce”. Ma poi una vocina cinica mi dice che magari qualcuno in antichità,
quando inventarono la carta, potrebbe aver detto “questa novità della carta non
durerà, vuoi mettere le tavolette di pietra incise, le tavolette di pietra non
tradiscono”.
Alessandro Agostinelli
L'articolo Intorno alla magnifica invenzione della “Poetry Cam”, la macchina
fotografica poetica proviene da Pangea.
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Quanto mi piacciono i libri dai quali esco sapendone qualcosa in più rispetto a
quando ci ero entrato! Volevo fosse il caso dello spillato di Federico Fubini,
omaggiato dal “Corriere della Sera” del trenta giugno. Titolo: Dazi.
Sottotitolo: Il secolo della guerra economica. In copertina: guantone a stelle
strisce contro guantone a stelle europee, perché l’immaginario italo-americano
resta affezionato allo Stallone di Balboa, e nel sottopancia un istogramma in
dissolvenza, come fossero grattacieli lynchiani.
In effetti i guantoni, il sinistro sulla destra che cozza col destro sulla
sinistra, potrebbero essere dello stesso pugile, per cui il dubbio: è una guerra
autolesionista, e schizoide, se non proprio l’ennesimo show per un pubblico
pagante pago di vedere gli altri darsi apparenti botte da orbi, in pieno stile
wrestler, restando cieco di fronte all’evidenza che a finire pestato più di
tutti resterà lui, pubblico spettatore, e non certo i proprietari dell’arena, i
fornitori, i preparatori atletici, i lottatori in scena, gli sponsor
dell’evento, le emittenze varie e eventuali?
L’estenuante guerra vinta dai ricchi che continuano a dichiararne, terrorizzati
come sono dall’idea di esserlo meno. Guerre combattute dai poveri, magari lo
fossero solo di spirito, contro i poveri di volta in volta convinti di averlo
finalmente trovato il ricco che renderà ricco anche loro, alla faccia di chi
povero lo resterà anche stavolta perché avrà puntato sul ricco sbagliato,
neanche l’errore madornale non fosse continuare a stare nello stesso gioco della
guerra su cui si fonda la straricchezza di quei ricchi che sanno arruolare i
poveri con la sola promessa di ricchezza, guadagnandoci pure, arricchendosi
assecondando la propria natura, del resto i poveri non stanno tanto a
sottilizzare tra una povertà e una ancora peggiore. Almeno per un po’ si saranno
illusi di qualcosa, un altro niente di fatto è pur sempre meglio del solito
niente di prima.
Metti il dazio, togli il dazio, questo dazio qua spostalo là e quello là mettilo
qua, la politica doganale trumpiana è esilarante, è il gioco degli “assetti del
potere” che sta creando “ostacoli al commercio internazionale” facendo
barcollare nella sola Europa “trenta milioni di posti di lavoro”, ciò non toglie
non serva un Dario Fo per metterla in opera buffa: sembra proprio di stare nella
favola dell’imperatore che brontola nell’attesa di quel bimbo che lo punterà a
dito per dirgli quant’è nudo, stufo – l’imperatore – di dover continuare a
andare in giro chiappe all’arie rischiando di buscarsi polmoniti, alla sua età!,
attorniato da comprimari il cui massimo sforzo critico è civettare
un Presidente, ma quanto le dona la calzamaglia color carne!
Che lo scenario economico e quindi geopolitico mondiale sia favoloso lo scrive
Fubini stesso, ricordando come degli “organismi internazionali dalle regole
condivise quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale o
l’Organizzazione mondiale del commercio” ormai resta “quasi solo il guscio:
vuoto come la corazza del Cavaliere inesistente del romanzo di Italo Calvino.”
L’avverarsi delle ambizioni della sinistra più antagonista, per opera del suo
antagonista più spavaldo e beffardo.
Di macroeconomia e dunque del nocciolo della politica cosa mai ne posso capire
io lettore di letteratura, in particolar modo di quegli scrittori che tante
volte provocano tali buchi a bilancio cheppoi va da sé gli editori debbano
stampare chef, tiktoker, ex-presidenti del Consiglio e giallisti tinti di nero
per non doversi riciclare del tutto in copisterie di catena? Non ho le carte,
non faccio deal, sono profano al punto da trovare brillante una sintesi
associativa che immagino del tutto usurata per indicare gli effetti
dell’economia finanziaria su quella reale, “da Wall Street a Main Street”, e da
mandare giù come pillola prescritta dello specialista la descrizione di
stablecoin: le chiamiamole valute “digitali private sostenute da depositi, per
lo più in dollari, di valore equivalente”.
Sono il corrispettivo italiano di quegli americani, stimati il 38% del totale,
“che non possiedono azioni quotate alla Borsa di New York e che non hanno altro
che debiti”, convinti – erroneamente – “di avere poco a che fare con l’andamento
di Wall Street e molto da perdere dalla globalizzazione”, dico erroneamente
perché se il 38% di americani azioni non ne ha, il restante 62% sì, e se si
rovinano economicamente due americani su tre, il terzo non si arricchirà certo a
loro spese, anzi: loro le spese le ridurranno, potendosele comunque permettere,
e sarà proprio il terzo, ulteriormente colpito dalle contrazioni del mercato, a
rimetterci il poco che aveva e vedere ancora più lontana la possibilità di
acquistarla una Ferrari, ora che l’azienda “ha alzato i suoi listini del 10%
prima ancora che entrassero effettivamente i vigori i dazi al 25% sulle auto in
arrivo negli Stati Uniti.” Per dire: le conseguenze della guerra dei dazi non
potranno mai essere le stesse per chi dovrà rinviare all’anno prossimo
l’acquisto di una Ferrari e per chi già da ora deve pagare “spesso anche il 28%
sulle loro carte di credito: interessi da mafia dei colletti bianchi, che in
Europa verrebbero puniti per il reato di usura”.
Da lettore non specialista ho l’ambizione anti-economica che Vollmann rielabori
in centinaia e centinaia di pagine psichedeliche il materiale che Fubini
precipita nel capitolo che in Dazi ne conta soltanto tredici: La storia nelle
vite di tre uomini: Clinton, Stiglitz e Vance. Per essere più sintetici di
Fubini: Stiglitz, nato in una steel town 82 anni fa, aveva capito per tempo “che
la globalizzazione beneficia i detentori di capitale e i lavoratori con diplomi
di college o con master in università prestigiose, nei Paesi avanzati; ma
svantaggia chi non ha né qualifica né capitali” e aveva fatto in modo che il
messaggio arrivasse a Clinton quando era lui il Presidente. Clitton il 20 aprile
del 1999 dalla libreria della Casa Bianca disse: “Questo è il momento di agire
per impedire che le crisi finanziarie raggiungano livelli catastrofici in
futuro.” Dopodiché non si agì affatto, e qui entra in scena Vance, nato in una
steel town circa quaranta anni dopo Stiglitz, solo che Vance non diventa un
economista anche premio Nobel e saggista prolifico tanto acquistato quanto
ignorato come Stiglitz: Vance a 32 anni pubblica Elegia americana prima di
diventare vicepresidente degli States a 40, rappresentando in pieno la
narrazione dell’elettorato di Trump: uno che non ci crede più ai rimedi
macroeconomici di uno Stiglitz, uno che rivuole la fabbrica in casa anche se da
casa sua sta espellendo i migranti indispensabili per coprire la forza lavoro
richiesta. Vance vuole riscatto ovvero vendetta subito, Promuovendo l’America
Grande Ancora, il cui acronimo un italiano forse rende meglio l’idea. E se
sostituissimo Promuovendo con Costruendo?
Riflessione: lo scrittore di autofiction Vance ha e ha avuto un effetto sul
mondo cosiddetto reale molto più sensibile dello stimato e inascoltato saggista
Stiglitz. Dipende dai lettori che raggiungi, da come li raggiungi, da cosa gli
racconti, se quello che racconti a quegli stessi lettori piaccia doverlo
sentirselo dire, dopo essersi dovuti prendere persino l’impegno di leggerlo, per
ascoltarlo.
E cosa dovrebbe gridare il bambino europeo al petulante imperatore nordamericano
che lascia indizi peggio di Pollicino, sbottando ogni tanto un vagamente
depistante meglio un jockstrap in filo spinato che un fottuto kimono di seta
cinese? Scrive Fubini: chiamare col suo nome la coercizione economica fra Stati
che è l’ultima moda del commercio internazionale, poiché
> “In sostanza Trump e Bessent [il Segretario del Tesoro] potrebbero stare
> cercando di mettere l’Europa davanti a una brutale alternativa: comprare
> debito americano man mano che viene emesso – e comprarlo malgrado rendimenti
> contenuti – oppure rischiare di perdere l’accesso al mercato dei consumatori
> americani e a quel che resta dell’ombrello di sicurezza del Pentagono.”
Che gli unici valori realmente difesi dalle civiltà egemoni odierne o meno,
quelli per i quali sono disposte ad architettare aggressioni verso tutto e tutti
dalle soft alle ultrahard, siano quelli che ci stanno in una borsa, specialmente
se la Borsa è la loro, per capirlo mica bisognava aspettare il ventunesimo
secolo e leggere Fubini! Bastava l’Ottocento e leggere Balzac. O Bel Ami di
Maupassant, che secondo me è la più bella biografia mai scritta sui normalissimi
uomini di potere, e dei secoli precedenti al 1885, anno in cui fu pubblicato, e
di quelli a venire. Per le mire dell’America made-in-Trump verso la per nulla
virginale Europa può valere il trattamento che George Duroy riservò alla
ammansita, cavalcata e pussata via signora Walter: lei
> “D’un tratto, smise di lottare e, vinta, rassegnata, si lasciò spogliare.”
antonio coda
L'articolo Letteratura da manuale. Per capire i dazi bisogna leggere Maupassant
(mica Fubini…) proviene da Pangea.
Per ogni serie, ma anche film o libro, di particolare successo, il dibattito web
e social ripropone sempre più o meno lo stesso percorso. Le prime recensioni
saranno positive, dopo un crescendo di entusiasmo si griderà al capolavoro, poi
arriverà qualche accusa di sopravvalutazione e qualche timida critica. Man mano
se ne aggiungeranno altre, sempre più negative, al che gli entusiasti
replicheranno con elogi più circostanziati.
Solo al termine di questa spirale dialettica si potrà finalmente guardare
all’opera per quello che realmente è, per capire davvero cosa ha detto di nuovo
e cosa ne resterà.
Nel caso di Adolescence il dibattito social è intenso, non tanto per quanto
riguarda le qualità tecniche – la serie è oggettivamente ben fatta e ben
recitata – ma per il coinvolgimento emotivo che ha creato. La discussione però,
a mio parere, è giunta spesso a conclusioni anche più inquietanti della serie
stessa.
Premetto subito che non ho figli e quindi, come si dice, non posso capire, ma se
i nullipari sono spesso catalogati come eterni adolescenti, allora forse in
questo caso il nostro punto di vista può offrire uno sguardo utile.
Il target della serie non sono i ragazzi, ma i loro genitori, cioè per lo più la
generazione X. Si capisce già dal titolo, nessun adolescente si autodefinirebbe
così, e la citazione degli A-ha nell’ultima puntata toglie ogni dubbio.
Tale puntata si concentra sulla famiglia di Jamie, il tredicenne assassino, e
mentre lo spettatore si aspetta che venga svelato un abuso domestico all’origine
di tutto, i genitori del ragazzo si rivelano invece persone oneste, di
sentimenti veri, e pur commettendo errori umani risultano essere, per usare i
termini di Winnicott, una famiglia “sufficientemente buona”, non responsabile
del crimine del figlio, e la serie si conclude senza giudicare, lasciando molte
domande aperte.
Eppure il pubblico adulto vuole risposte e le reazioni si polarizzano in due
tendenze. La prima: è tutta colpa dei social, dobbiamo togliere i social ai
ragazzi, almeno fino a 16 anni, ma meglio ancora fino a 18. I social sono il
male, sono il demonio, sono persino peggio della droga. La seconda: no, togliere
i social non basta, e poi troverebbero il modo di usarli comunque. Dobbiamo
parlare con i ragazzi, ci vuole il dialogo, dobbiamo comunicare, fare
l’educazione affettiva, l’educazione sentimentale, bisogna parlare, parlare,
parlare.
A questo punto mi è tornato in mente che, secondo studi recenti, la violenza,
nelle nuove generazioni, non è aumentata. Pare essere aumentata invece in modo
esponenziale l’ansia.
Oggi di bullismo si parla apertamente e c’è molta più attenzione di un tempo,
c’è lo psicologo a scuola, roba che la generazione X se la sognava, allora se ti
picchiavano e lo dicevi a casa di solito ti sentivi dire che era colpa tua
perché non ti sapevi difendere, e lo psicologo era ritenuto il dottore dei
matti, da cui stare alla larga.
Eppure non è stata risparmiata, a questa nuova generazione di adolescenti,
l’ansia. Una pandemia la cui l’emergenza si è protratta molto oltre la fine del
pericolo reale, un riscaldamento globale esposto con toni apocalittici, ed ora
una guerra europea altamente improbabile, ma già narrata come fosse attuale.
Ma forse, nonostante tutte le attenzioni alla fragilità e alla diversità, le
radici dell’ansia stanno più a fondo, e possiamo intuirle proprio osservando
come gli adulti hanno reagito alla serie, più ancora che la serie stessa.
Gli adolescenti assassini sono di fatto una percentuale trascurabile,
un’assoluta eccezione. Uno zero virgola seguito da molti altri zeri. In Italia
sono ancor più rari che in Inghilterra, dove la serie è ambientata. È molto più
frequente morire in un incidente stradale o in un incidente sul lavoro,
piuttosto che essere vittima o carnefice di un fatto di sangue. Eppure nulla
muove i genitori quanto giustificare la necessità di controllare le emozioni dei
figli, cosa tra l’altro impossibile, poiché non chiare nemmeno a loro stessi.
Paradigmatica in questo senso è una frase tratta dal film dal titolo …e ora
parliamo di Kevin, del 2011, di Lynne Ramsay, sullo stesso tema di Adolescence.
Quando la madre domanda al figlio perché abbia commesso quel tremendo delitto,
lui risponde “Credevo di saperlo, ora non ne sono più così sicuro”.
Ora, non voglio dire che i genitori non possano o non debbano fare nulla. Si
insegna l’educazione, il rispetto, a non praticare la violenza, ad accettare un
no, a rifiutare con gentilezza, a chiedere scusa. Tutto questo nella normalità
già avviene, sia in famiglia che a scuola, e ha un ruolo importante nel rendere
migliore la normalità stessa, ma non sfiorerà mai il campo dell’eccezione
imponderabile.
Il salto emotivo, il distacco dalla razionalità che porta una persona
apparentemente tranquilla a commettere un omicidio o qualche altra grave forma
di violenza viene da tali profondità dell’animo umano, segue dinamiche talmente
complesse e inaccessibili anche alla scienza, che più il crimine è grave, più
paradossalmente genitori, insegnanti e contesto sociale, a meno di abusi gravi,
ne sono innocenti.
Vale per il ragazzino che accoltella la compagna di scuola, per i femminicidi,
per la pedofilia, per i delitti familiari. L’idea di eliminare l’imponderabile
tramite l’educazione rischia di portare a imposizione e a ipercontrollo. Gli
adolescenti di oggi sono solo apparentemente più liberi. In realtà, complice la
tanto vituperata tecnologia, sono sempre geolocalizzati, il registro elettronico
non permette loro nemmeno di bigiare a scuola o di mentire su un brutto voto in
attesa di rimediarlo, eppure ai genitori non basta mai, e con la motivazione dei
“pericoli”, reali ma di entità spesso inferiore alla loro percezione emotiva,
finiscono per diventare sempre più intrusivi nel privato, nei sentimenti e nella
sessualità. Ma chi mette al mondo un figlio deve accettare che crescendo rimanga
un mistero, chiuda la porta della propria stanza, metta al centro del proprio
mondo affettivo persone diverse dal genitore, o l’unico effetto sarà
moltiplicare l’ansia.
Riguardo ai social: contengono il mondo intero, con tutto il suo bene e il suo
male, ma è impensabile sottrarli agli adolescenti di oggi. La generazione X, e
quelle precedenti forse ancor di più, avevano un campo d’azione molto limitato
nella socialità. Se non ti trovavi bene con i compagni di scuola o con gli amici
del campetto, finiva lì, non c’erano alternative. Questo per alcuni andava bene,
per altri poteva essere fonte di sofferenza. Con i social puoi conoscere amici
con i tuoi stessi interessi, magari strambi e nerd, e se vivono nella tua stessa
città puoi incontrarli. Piaccia o no, ci sono ragazzi, specie i più particolari
e introversi, per cui esprimersi senza l’ingombro del corpo è più facile. Certo,
ci sono anche le insidie, ma in questo senso si possono condurre battaglie
concrete. Ad esempio, credo che di fronte a un reato di cyberbullismo la polizia
dovrebbe intervenire con la stessa tempestività con cui va a sedare una rissa in
strada, perché i social non sono un universo altro, fanno parte del mondo
fisico, a tutti gli effetti.
Alla fine, forse, il più grande pregio di Adolescence, quello per cui verrà
ricordato, sarà aver portato a conoscenza del grande pubblico il concetto di
Incel, facendo da tramite tra le bolle intellettuali e la gente comune. Sul tema
non mi addentro perché c’è già una voce di Wikipedia molto dettagliata, ma a ben
guardare gli “involontariamente celibi” ci sono sempre stati: sono i cosiddetti
sfigati. Solo che, complice la rete e qualche guru un po’ folle e un po’
opportunista, invece di rimanere chiusi in sé stessi si sono ideologizzati,
hanno elaborato teorie deliranti, hanno trovato capri espiatori, specie nelle
donne, secondo loro troppo libere e troppo selettive.
Tuttavia, qualcosa di vero lo dicono. Il concetto di 80/20, ad esempio, secondo
cui all’80% delle donne piace il 20% degli uomini, e la selezione avviene
soprattutto in base all’aspetto estetico e allo status sociale. Basta prendere
una qualunque classe di liceo per rendersi conto che queste percentuali sono
persino ottimistiche: di solito ci sono tre o quattro individui che emergono e
piacciono a tutti gli altri. Poi gli incel sbagliano in tutto il resto,
innanzitutto nel non rendersi conto che questa regola vale anche a generi
invertiti, forse in modo ancora più crudele, perché per le femmine l’aspetto
fisico è ancor più culturalmente rilevante.
Nel film Il papà di Giovanna, di Pupi Avati, del 2008, una ragazzina uccide una
compagna di scuola per gelosia. È una Incel, anche se il nome non esisteva, e al
femminile non esiste tutt’ora. Forse le ragazze non fanno branco, non
ideologizzano, ma covano il dolore da sole, confidandosi con poche amiche.
Oppure un domani lo trasformeranno in altro, sfogheranno anche loro la rabbia
contro gli uomini, magari in modo diverso.
Poi, comunque, si cresce e alcune distanze si accorciano, ma mai del
tutto. Qualcuno migliora, qualcun altro si adatta, l’intelligenza acquista un
po’ di importanza. A volte, se si è fortunati, si trova l’amore vero, il lavoro
giusto, altre volte si accettano i propri limiti, ma quella proporzione crudele
nelle possibilità offerte dalla vita rimane per tutti, uomini e donne, e non
solo in campo sentimentale ma in molti aspetti dell’esistenza. Non siamo tutti
uguali, non abbiamo tutti le stesse opportunità. E non è colpa di questa società
cattiva basata sull’apparenza e sui soldi, né dei cellulari, né dei genitori, né
degli insegnanti, né di nessun altro. È la realtà, forse persino l’istinto
evolutivo. Di fronte a questo, crediamo davvero che togliere i social agli
adolescenti, oppure mettersi in cattedra a insegnare il modo giusto di amare,
possa risparmiare loro la crudeltà della vita?
Viviana Viviani
L'articolo “Adolescence” o sull’impossibilità di educare l’eccezione proviene da
Pangea.
Comunque, per fare qualche altro nome: Virginia Woolf, Peter Handke e Torgny
Lindgren. Così risponde Jon Fosse alla domanda di Eskil Skjeldal, “Quali
scrittori sono stati importanti per te?”, in Il mistero della fede,
testo-intervista del 2015 tradotto da Margherita Podestà Heir e pubblicato da
Baldini+Castoldi nel 2024.
La Woolf non bisogna averla letto per sapere chi sia stata, se si è di quelli
che leggono o che si spacciano per tali, e Handke è lo scrittore che leggo
compulsivamente nell’ultimo paio d’anni, ma: Torgny Lindgren? Sprovveduto io o
non è tra i soliti noti sul versante italiano – come del resto non lo era Fosse
stesso, prima che il Nobel desse l’impulso all’editoria che pubblica i premiati
eccellenti.
Per Wikipedia, la prima fonte a tiro, Lindgren è uno scrittore svedese morto nel
2017 che ha ottenuto la consacrazione “con la pubblicazione de Il sentiero del
serpente sulla roccia”.
Leggi Wikipedia e di Lindgren ne sai quanto prima, un quasi nulla, tranne che è
stato uno scrittore importante per Jon Fosse, al pari della Woolf e di Handke.
Bisogna leggerlo, bisogna leggere uno scrittore che nella considerazione di Jon
Fosse è importante quanto Virginia Woolf e Peter Handke, fosse solo per non
essere d’accordo, per restare nell’incomprensione, nel mistero della letteratura
che, come per tutti i misteri, per taluni è baggianata e per altri uno stare
sull’orlo di un abisso.
Se per Fosse “scrivere è una specie di lode, anche nella poesia più buia, una
lode del linguaggio”, come scrive Torgny Lindgren, cosa scrive?
In Perdonami madre di Jacques Chessex per Armando Dadò editore mi aveva ha
colpito il paratesto iniziale in cui si esplicita “l’intendimento” della collana
in cui è stato pubblicato, I cristalli – Helvetia Nobilis: “L’intendimento è che
questi testi contribuiscano a una riflessione sull’identità elvetica e sul lungo
cammino che ha portato al formarsi dello Stato attuale.” Secondo l’editore la
Svizzera è la sua letteratura. Così come l’Italia è la sua letteratura – finché
ne ha avuta e ne vorrà avere una. La letteratura dà un’identità a chi ne cerca
una, eventualmente per potersene poi disfare, ma qualcosa di cui potersi disfare
deve essere data, prima. Datemi un punto di appoggio e il mondo potrò o
sollevarlo o sprofondarlo ma niente punto d’appoggio niente mondo.
E l’Europa? L’Europa, per dirne una, non è e non può essere il suo riarmo, non
può consolidarsi nel segno del terrore di essere smantellata, distrutta, per
quanto legittimo possa essere il suo terrore di esserlo. Un’identità fondata sul
terrore è terribile di suo, è meglio perderla prima ancora di essersela data. E
l’Europa per fondarsi sul terrore non ha mica dovuto attendere la Russia di
Putin. La Fortezza Europa aka Bastiani si fonda sull’ansia securitaria fin da
subito, sulla sua paura di sparire, sullo spavento si noti la sua insignificanza
sopraggiunta.
L’identità europea moderna e contemporanea però potrebbe fondarsi tanto sulla
Woolf quanto su Handke. E in che misura Torgny Lindgren contribuisce, può
contribuire, all’identità europea, dunque anche alla mia che neppure sapevo del
suo contribuito, poiché sempre a detta di Fosse: “Tutti traggono beneficio dalla
matematica più avanzata, anche se non la comprendono, e tutti traggono beneficio
della migliore letteratura, anche se in apparenza non ne ricavano nulla”?
Cosa si ricava da Torgny Lindgren?
“Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso”, così
scrive in Miele, del 1995, pubblicato da Giano nel 2002, nella traduzione di
Carmen Giorgetti Cima.
È un passaggio narrativo nei paraggi dell’incipit, in auto ci sono le prime due
entità della trinità che domina il romanzo. In auto ci sono “la donna sola di
quarantacinque anni, una forestiera che veniva dal sud del paese e che aveva
scritto dei libri sull’amore e sulla morte e sui santi”, scrittrice di
pochissimi lettori, e l’uomo incaricato di ospitarla, che “portava una giacca di
pelle nera sopra la camicia scozzese” e che “Puzzava di putrefazione.”
La donna resterà innominata mentre l’uomo “Le confidò il suo nome, Hadar” e in
quella scelta del verbo, nella sua resa italiana, in quel ‘confidò’ si sente
tutta una tradizione letteraria sul potere magico del nome proprio, sul suo
potere segreto. Miele rintocca di riflessioni sul mistero dell’essere al mondo.
Niente è ancora accaduto eppure tutto è già accaduto. Miele è un romanzo con le
sue vicende, come tutti, ma è pure tutt’altro, un libro di sentenze, un libro
sul mistero del tempo, “Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati
morti”, sul mistero delle cose come la neve che è “una spuma di luce trasformata
in materia”, sul mistero del corpo umano che consiste “di un’unione armoniosa di
mobile e rigido, di fluido e solido, muco e smalto(…).”
Si può andare avanti, dire che Miele è “l’avventura del momentaneo
prolungamento della vita”, la storia dei due fratelli Hadar e Olaf che
sopravvivono grazie all’odio reciproco, come l’umanità di solito ecco, ma
preferisco fermarmi prima poiché l’ho sentito da subito, dall’inizio, cosa si
ricava leggendo Torgny Lindgren, al primo scambio tra la forestiera del sud e
l’uomo in putrefazione del nord:
> “Tutti i paesaggi e le strade che vi serpeggiano hanno le loro peculiarità e
> caratteristiche (…) Hanno le loro imperfezioni e loro difetti.”
>
> “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso.”
Questa strada è la nostra vicenda umana stretta e dritta che attraversa la
Storia mondiale sconnessa. Questo è il mistero della letteratura che rende amaro
persino il miele, dolce persino la putrefazione.
Quanto più sarebbero temibili gli europei se i miliardi invece che in armi li
spendessero in politica culturale, in letteratura, cinema, arte e via andare.
Certo a nulla servirebbe per renderci indistruttibili ma nessuno più lo è o può
più esserlo nell’epoca sorta e mai più tramontabile della Bomba:
> “L’età atomica non è mai finita. Abbiamo forse smesso di pensarla, presi dalla
> fantasia di pace eterna del momento unipolare americano. Eppure l’epoca
> apertasi nel 1945 non solo non è finita, ma è anzi «definitiva» nel senso del
> tutto particolare che le attribuiva Günther Anders: al suo interno la storia
> umana può giungere a termine”.
>
> da Se la bomba non ci protegge più della bomba, di Agnese Rossi, in “Limes”
> 1,2025.
Non potremo mai più essere indistruttibili, imbattibili, d’altronde non lo siamo
mai stati, ma potremmo diventare invitti perché non più orwellianamente
manipolabili a piacere. Quando ci si è dati un’identità non resta poi molto
altro che possano portarti via, se non la vita – ma la vita alla lunga che non è
poi chissà quanto lunga bisogna renderla in ogni caso. L’identità almeno sarà
servita a darti un senso, la sua invenzione, tra il nulla di prima e il nulla di
dopo, perché poi Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti.
E prima di nascere, idem.
Per essere europei bisogna essere anti UE? Con Fosse
> “L’intero progetto dell’UE è antieuropeo, l’essenza dell’Europa è la
> diversità, in tutti i sensi, mentre l’UE rappresenta, se non proprio
> l’uniformità, sicuramente l’omologazione (…). È scandaloso. L’omologazione,
> che sia dettata dal potere del denaro, da decisioni politiche o dalla
> burocrazia, mi ripugna profondamente. Io sono un grande sostenitore
> dell’Europa ed è proprio per questo che sono contro l’UE.”
Per dovere di verità va precisato che Fosse trovava scandaloso il divieto di
vendita dello snus, tabacco svedese, nel 2015 il ReArm Europe plan era di là da
venire. Il divieto di vendita dello snus è scandaloso, sia, ma pure il ReArme
Europe plan per com’è stato escogitato non scherza.
Quanto è illusorio immaginarsi, grazie alla letteratura, come persone circondate
dal mistero impenetrabile di un’identità che ciascuno potrebbe reinventarsi ma
soltanto secondo il proprio piacere mai imposto, mai imponibile? …Il dilemma
dell’identità, per di più, non è che non abbia creato più problemi di quanti ne
abbia risolti, ammesso ne abbia mai risolto qualcuno, ma per l’identità vale
come per la Bomba.
Per dirlo con altre parole di Agnese Rossi – che le pronuncia a proposito della
teoria della deterrenza nucleare – giocare con la teoria dell’identità
“continuerà a servire finché esisteranno le armi atomiche. Cioè ancora per molto
tempo, visto che è impossibile disinventarle.” Disinventare il feticcio
dell’identità è impossibile ma inventarsene di altre e di nuove sì, è possibile.
È il compito e il mistero della letteratura.
Perché non possiamo continuare a vivere così ma continueremo a vivere così lo
stesso.
antonio coda
*In copertina: Eva Bonnier, Geor Pauli. Studio, 1884 ca.
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