Scritti o verbali, la sciatteria linguistica e l’analfabetismo di ritorno sono
come la calunnia della cavatina famosa: iniziano in sordina, montano, si
espandono e finalmente producono «un’esplosione – Come un colpo di cannone, –
Come un colpo di cannone, – Un tremuoto, un temporale, – Un tumulto generale –
Che fa l’aria rimbombar».
C’è però una differenza cruciale: mentre spesso calunnia calunniatori e
calunniati, proprio come il temporale, passano, i disastri linguistici restano e
si aggravano, e più che da Sterbini e Rossini, dovremmo toglier da un trattato
d’oncologia o dal Dsm.
Ora isolerò alcuni modi di esprimersi ormai cuciti a doppio fil di ferro sulle
lingue degli italiani, che tali possono essere definiti soltanto in modo
residuale e anagrafico. Li trascelgo, questi macelli, in modo quasi aleatorio e
assai parzialmente: ma a ogni buon conto avremo, con dovizia e tristizia, la
misura della sciagura.
Iniziamo stappando una bottiglia di bollicine.
Sino a non gran tempo addietro ne avremmo sturata una di spumante, ovvero di
vino frizzante o mosso, magari di champagne (sciampagna, pei puristi vecchio
stile). Gli astemii o chi avesse dovuto guidare si sarebbero contentati d’acqua
gassata, o gasata, o frizzante. E siccome fa male bere senza mangiare, sarà
nostro piacere comandare un dolcino, che non è il medievale frate chiliasta, ma,
a esempio, una pannina cotta o, per esser più rigorosi, una pannacottina, come
ho sentito dire, lo giuro, da un pasticcere (o pasticciere: è davvero lo
stesso), per giunta di toschi natali. Ahi Guido! Ahi Cino! Ahi Cecco! E s’i’
fosse foco…
Che sbadato, però. Ho scordato d’annunciare che in precedenza la “bollicina”
serviva di accompagnamento a una pietanza (parola, quest’ultima, definitivamente
sostituita con «piatto», che è poi aggettivo perfettissimo per il linguaggio
attuale), una pietanza, dicevo, di carnina, guarnita con del
succulento prosciuttino e un po’ piccantina(doppietta!) e contorno vegetale. Ma,
o disdetta!, essendo indaffarato a sgorbiare per questo articolo ho dovuto
ripiegare al supermercato e acquistare, leggo sul tubo, una «Salsina per
le verdurine», che rammenta l’omogeneizzato.
A soccorso di chi avesse trascurate le scuole alte e ignorasse o avesse
dimenticato il significato di «frizzante» o «gassata», si precipita un’azienda
imbottigliatrice che tosto ha modificata l’etichetta: un tempo scriveva «Acqua
gassata», ora «Tante bollicine». Non ne faccio il nome per ovvie ragioni, ma vi
assicuro che esiste.
Avanti di sorbire un corroborante caffettino o magari un ginsenghino (ho sentita
anche questa), arrestiamoci un istante ché il pasto si sta facendo greve assai,
e «tra noi parliamo da buoni amici», come invita Scarpia la buona Floria Tosca
offrendole «vin di Spagna» che ignoro se fosse con o senza “bollicine”.
Quand’ero balilla gl’insegnanti e anche qualche adulto di casa, non per forza
laureati alla Normale summa cum laude, ti fulminavano udendo implorare «un
attimino»; e quanti lazzi contro le casalinghe che impetravano «un aiutino,
signor Mike!». Dire e scrivere «tante bollicine» e «pannacottina», oltre a fare
esteticamente schifo, è sintomo di regressione cognitiva, emotiva, psicologica.
È il linguaggio dei e pei bambini, che ora si è tradotto negli “adulti”.
Una traduzione con, a mio giudizio, due origini.
Da una parte la regressione intellettuale e psicologica dei così detti “adulti”
disabituati alla serietà, come già dissi nell’intervento sulla fotografia e le
risate; dall’altra la tendenza, anch’essa scimmiesca come le risate sguaiate, a
imitare il prossimo per farsene accettare.
Se tuttavia lo scimmiottamento è manifestazione del cervello primitivo, non sono
altrettanto certo (non lo sono per nulla) che il rimminchionimento universale
sia il frutto marcio di una ipotetica stanchezza della civiltà e non, più tosto,
il resultato d’un ammaestramento subìto a traverso i mezzi di comunicazione e di
svago, che poi oggi i due pari sono.
Ho ancòra nella memoria le parole d’un dirigente d’una grande televisione
privata, per le quali appresi che progetto lucidamente perseguìto dagli
inventori dei programmi è di somministrare spazzatura e droga a che i cervelli
si atrofizzino. Come si vede i complottisti (accusa di chi non ha argomenti) non
sempre sono complottisti.
Tornando alle “bollicine” e simili è giocoforza che il suo indefesso utilizzo
contribuisca anche all’egerstà di linguaggio, il quale non a caso, giusta
indagini ufficiali, è sempre più limitato banale trasandato.
Pur restando a tavola, andiamo avanti.
Una mattina mia moglie mi annuncia con tono tra il minaccioso e l’accorato, che
la sera sarebbe arrivata a cena una sua amica, che non mi era propriamente
gradita. Non mi sarei potuto opporre neppur volendo ché si era a casa dei
suoceri. La consegna implicita riservatami era: profilo basso, voglio trascorre
una serata piacevole. Obbedisco.
Arriva l’amica e ci accomodiamo attorno al tavolo. La madre di mia moglie ha
preparata la sua solita squisitissima pizza, ma a pranzo ho mangiato un po’
troppa pasta e quindi declino i riquadri di pomodoro e funghi e mi contento di
pan biscotto inzuppato nel latte.
Perché mai non condividevo la succulenta pizza?, chiede l’ospite. Rispondo che
per via della pasta del mezzogiorno, etcoetera. E quella con tono serissimo:
«Uhm… Ma adesso mangi pane… carbo su carbo non va bene». Carbo: una marca di
pane? Mi ero perso un pezzo della conversazione? Macché: carbo stava
per carboidrati, che poi naturalmente, nella testolina della fanciulla, la pizza
non ha.
Mica finita.
Mia moglie, appena udita l’amica, mi scaglia un’occhiata più lancinante della
folgore di Donner: per l’amor del Cielo taci. Io mi limito a replicare
all’ospite con un’alzata di spalle e un’espressione facciale altrettanto
eloquente. Ma quella si ostina e si sente in dovere anche di darmi un
suggerimento: «Dopo, dammi retta, bevi una tisa digerente».
Rimasi col cucchiaio a mezz’aria e qualche goccia di latte mi dové colar per la
barba. Strizzai la faccia in un’espressione di ribrezzo; ma qui, oltre
all’occhiataccia, mi arrivò un calcetto di sotto il tavolo.
Naturalmente tisa stava per «tisana». E c’era poi l’altra
bestialità: digerente in vece di digestiva.
Incassai occhiatacce, calci e insulti alla madrelingua e me ne andai via,
lasciando i carbo sotto forma di pane galleggiare nel latte ormai quasi freddo.
Soffocai anche un rutto, che non era indizio di ribellione gastrica per il
lattosio ma del tutto psicosomatico.
E adesso possiamo andare a parlare d’altro.
Dalla televisione al bar, dall’idraulico al gazzettiere, dall’insegnante al
musicista: s’è pigliato il vizio d’infilare il verbo «andare» ovunque e a
sproposito. Il cuciniere televisivo ai fornelli: «Vado a mettere il sale nella
padella e poi vado a scolare la pasta»; lo “iutuber”: «Andiamo a guardare questo
video» (per inciso non esistono più «filmati» o «riprese»: esistono
solo video e contenuti); il giornalista ci invita: «Andiamo a sentire gli
ospiti» che sono lì a un metro.
Persone più edotte di me in inglese mi spiegano che è una sorta di calco da
quella lingua: «Let’s go to…». Dunque non bastavano gli innumeri intarsi, gli
abusivi, i clandestini verbali imposti nudi e crudi al nostro idioma: adesso c’è
anche un virus che lo aggredisce alla base, corrodendolo polverizzandolo e
spazzandolo via, per infilarci quei cancheri.
Se poi io sia stato informato male o abbia fraintesa la spiegazione, poco
importa: “andare” quando non si va da nessuna parte è da dementi.
Ravviso in questa forma che si pensa elegante il vezzo degli incolti o, razza
ancor più perniciosa, semi-colti, gli orecchianti, gli “studiati” a mezz’aria,
come il cocciuto Willy il Coyote che precipita al fondo del burrone poiché
incapace di spiccare il salto completo. Ma l’irresistibile cartone perlomeno si
schianta da solo e ci dà sollazzo. Quegli altri in vece ci cadono sulla zucca e
ci impestano l’aria.
Per mascherare insipienza e ottusità costoro si annettono espressioni che al
loro cerèbro suonano colte, raffinate. Ma sono come l’innocente gatto un po’
goffo, che tenta di nascondere la cacca raspando nella sabbia. (Per inciso, non
conto più le volte che m’è toccato di sentire sabbietta, parola doppiamente
fessa, ché la sabbia di lettiera ha grani sensibilmente più grandi di quelli
d’arena).
Mi ricordo d’un tanghero che conoscevo una quindicina d’anni fa, proprietario
d’una caffetteria nel centro di Torino, fisiognomicamente – e non è un’iperbole
– assai più prossimo a un gibbone che a un sapiens, e di un’ignoranza da fare
invidia, benché dicesse d’aver studiato e s’accompagnasse a una donna, dicevano,
laureata. Più e più volte lo sentivo dire: «Nel tal caso che Paola arriva
[ovvio], dille…», «Nel tal caso che il fornitore…».
Il vocabolo «tale» era ai suoi orecchi così alato che gli pareva doveroso
infilarlo ovunque; ma è come spruzzarsi un mediocre profumo su stracci
puteolenti.
Che fatica! Ma, insomma, pur tanta roba, no? Ecco un altro mostro.
«Roba mia, vientene con me!», risovviene dai gorghi della memoria insieme alla
spiegazione della maestra (un tempo già alle elementari ci facevano almeno
assaggiare la buona letteratura, oh sì). La spiegazione era seguìta
dall’ammonimento, ribadita alle medie, di non dar di «roba» o «cosa» a
checcheffosse; i dizionari grondano di parole, di sinonimi: che li imparassimo,
che li usassimo, senza ripieghi generalissimi.
Parole al vento per moltissimi, vistoché anche miei coetanei che si suppone
abbiano frequentate almeno buone scuole di base, lardellano il discorso di
quell’espressione grossolana, davanti a ogni vetrina, notizia, sensazione che
colpisca, ma altrettanto a capocchia. Meglio, di questa espressione tappabuchi o
ombrello, una sana imprecazione veneta: greve bensì ma senza che chi la sbuffa
pretenda d’essere alla moda.
Eppoi, suvvia, ogni tanto manifestare lode al cielo con una bestemmia ci sta,
nevvero? Ecco un altro colpo di mannaia ai diti (Leopardi scrive così, non mi
scocciate) dei negletti e defraudati Tommaseo, Prèmoli, Zingarelli, Devoto,
Oli.(Per inciso – questa non me la posso tenere – c’era un di quei professori
laureati col Sessantotto pel quale Devoto e Oli erano una sola persona, anche se
non si capacitava di non aver trovato sulle Pagine Bianche alcun «Oli professor
Devoto». Chissà che non lo stia ancòra cercando: e chi aveva il coraggio di
togliergli la convinzione?).
Ci sta, dicevamo. ‘Sta specie di singhiozzo interiettivo è talmente entrato
nell’uso da aver impestato anche penne che un tempo sapevano stare inclinate
correttamente, e non stravaccate. Me la ritrovo in fatti in un piccolo libro su
Amadeo Bordiga, il comunista più serio d’ogni internazionale e scrittore
abbagliante, di Pietro Basso – docente di sociologia, niente di meno, a Ca’
Foscari – il quale, bontà sua, consapevole dell’anomalia piega le due parolette
in corsivo come usa per gli esterismi (mio pseudoneologismo da «estero» e
«isterismo»), anche se ahimè sempre di meno.
Questo linguaggio giovanilistico (Basso ha ampiamente varcati di settanta) sarà
un modo per cattivarsi i semprinvocati giovani, dovendo trattare d’un soggetto
che in Italia conosceremo non solo per sentito dire in duecento, età media
settant’anni. Se è così, ci sta. O forse no. (Siccome il libro uscì anche in
Gran Bretagna come prefazione a un’antologia bordighiana, mi domando come
accidenti se la siano cavata).
C’è anche il tu distribuito come coriandoli a carnevale. In pratica il Lei è in
via d’abolizione. Dico, si noti, abolizione e non estinzione, ché questa è un
processo spontaneo, naturale, mentre l’altra è deliberata scelta. Non a caso –
conservo ancòra il messaggio di una medichessa – non a caso lo chiamano «tu
inclusivo», e ormai a milioni lo dispensano a ogni categoria e anagrafe. Persone
alle quali avantieri non si sarebbe rivolta parola se non a capo chino e
sull’attenti eccole apostrofate con la seconda persona singolare; nemmeno la
nuora o il capufficio li arpiona così, e adesso arrivano bimbiminkia, anche di
cinquant’anni. E ciò, in parentesi, nell’epoca dell’autismo universale, dove
ognuno si contempla nemmen più allo specchio, ma solo il proprio orifizio anale.
È la compensazione.
E con la medichessa, giustappunto, dovetti altercare, ché nonostante il «tu
inclusivo» non si degnava di rispondermi al telefono, giacché rifiutava per
principio di sentire i pazienti a voce: solo inclusivissimi messaggi.
È però arrivato il momento di fermarci, anche se potremmo davvero seguitare a
lungo.
Vado solo ad aggiungere una noticina, che ci sta.
Che sia saltata la discriminazione tra espressione scritta e parlata, è ormai
ahinoi storia vecchia. Più recente è la sgangheratezza irremeabile insinuatasi
nella carta stampata.
Saranno almeno tre o quattr’anni che mi càpita d’imbattermi in titolazioni di
grandi quotidiani italiani “in rete” privi di punteggiatura, sicché il soggetto
della prima frase sembra passare alla seconda, ma senza concordare col verbo, e
un predicato è conteso tra due frammenti di titolo. Tutto ciò comporta che
occorra mezzo secondo in più per capire che cosa si stia leggendo. Le prime
volte, giuro, per un istante temetti qualche mia microischemia cerebrale, sopra
tutto quando di secondi me ne occorsero ben due o tre per cogliere che accidenti
si volesse comunicare.
Sono le medesime negligenze sintattiche che spesso, sempre più spesso ricevo sul
telefono. Con la differenza che qui mi scrive per solito un idraulico, il
barista cinese, o la donna delle pulizie.
So per certo che i titoli, sulle pagine virtuali dei giornaloni, sono affidati
perlopiù a giovanissimi praticanti (non pagati) o arcigiovanissimi “stagisti”
(non pagati). I quali, tuttavia, stanno lì perché vogliono, poveretti!,
diventare gazzettieri. E che costoro non abbiano le basi per farlo, è evidente.
Ma a chi controlla la titolazione, o sia giornalisti fatti e finiti, quei
“whatsapp” o “sms” non fanno problema e forse nemmeno se ne accorgono. È molto
indisponente che su fogli che ogni santo giorno ammanniscono lezioncine
politiche e morali non si controlli nemmeno la lingua italiana.
Ma questo ennesimo imbarbarimento della stampa va a vantaggio di molti: avete
una ragione in più per non leggerla e per invitare chi possiate a evitare quelle
pattumaie.
Sulle quali, ne sono certo, non vedrete mai comparire un articolo come questo.
Luca Bistolfi
*In copertina e nel testo: opere di Roland Topor
L'articolo “Andiamo” alle “bollicine”: “ci sta”! Note su alcuni orrori del
linguaggio odierno proviene da Pangea.
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Qualche tempo fa m’imbattei nell’articolo d’un grande quotidiano nazionale
italiano, abbeveratoio della sinistra “illuminata”, che s’incaricava appunto di
rischiarare le menti dei lettori sulla ragione per cui la stragrande maggioranza
dei ritratti pittorici e fotografici del passato, remoto e più recente, fissano
volti privi di sorriso e men che meno di una risata.
La soluzione dell’enigma era laconica unica e tassativa: la dentatura guasta o
mancante.
Avendo i nostri avi una chiostra impresentabile, era giocoforza serrare i labbri
per celare il vergognoso scempio. Una rivelazione che se non avessi appresa da
quel foglio, avrei pensato a un lazzo di burlone o a un momentaneo oscuramento
cognitivo dell’autore, tanto si tratta d’una sonora e proterva imbecillità
avvolta in rigore “scientifico”.
Vale la pena di spenderci qualche parola, ché essa è segno dei tempi.
Anzitutto, ammettendo che il re, o il condottiero, o il compositore musicale,
poniamo del Seicento o del Settecento, avesse i denti marci o assenti, non vedo
la ragione da parte del pintore di darsi al verismo ante litteram, postoché
volesse serbare la committenza e magari anche il capo sul collo. E mi sento più
fesso di quel giornalista a dover osservare tanto: ma a un’idiozia si deve
replicare, non potendo con pedate nel didietro, con altrettali banalità, come si
fa coi bambini tardi.
Meno, assai meno c’è – a proposito – da ridere o sorridere, se non di
commiserazione, traducendo il discorso dalla pittura alla fotografia: giacché
non c’era alcunché da celare.
Eh sì. Se l’estensore di quell’articolo rivelatore avesse letti buoni libri o
anche soltanto scartabellato “in rete”, si sarebbe sùbito accorto che le
dentature dei nostri antenati erano più che complete sane e non di rado
bellissime. Chi avesse avute magagne dentarie aveva di poi alla disposizione
diversi tipi di protesi, le quali risalgono – si aprano bene gli occhi – al 2500
a.C. Delle condizioni di molari e incisivi nelle epoche “arretrate” si trova
ampia traccia ovunque. Penso a esempio ai Colloqui con Arthur Schopenhauer o a
qualche buona biografia di Abramo Lincoln, il quale, come riferisce John Kleeves
(Stefano Anelli) in Un Paese pericoloso, possedeva una protesi di denti umani.
Leggendo di poi l’Histoire de ma vie di Giacomo Casanova si trovano non poche
descrizioni di splendide dentature naturali, anche presso le classi meno
abbienti, così mirabili che il Gran Veneziano si sente in dovere di rilevarlo.
Spostandoci nel tempo arriviamo a Gabriele d’Annunzio, del quale molti non
mancavano di far notare una dentatura infelice; segno, l’osservazione, che
ancòra cent’anni fa una bocca guasta, per di più in una persona alla quale non
mancavano di certo conoscenze e danari per farsela arrangiare, attirava
l’attenzione (e anche gli scherni di qualche tanghero).
Ci sostiene anche Totò, cantando per di più d’una popolana, l’acquaiola, nella
poesia eponima, che «se chiamma Teresina, – sì e no tene vint’anne, – capille
curte nire nire e riccie, – na dentatura janca comm’ ‘a neve».
Sulle epoche antiche o antichissime basterà sfogliare qualche volume di
archeologia per ammirare teschi con denti originali perfetti, nonostante le
migliaia d’anni trascorse. Un archeologo che interpello conferma: al massimo
manca qualche dente ogni tanto, ma sono in stragrande maggioranza bocche
intatte, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi èra. Brutte dentature in qualche
passato, beninteso, ce ne saranno state; ma non certo nella misura imaginata da
certi scribacchini perdigiorno.
Proseguiamo.
È falso che i nostri avi, celebri o meno, si facessero ritrarre pressoché sempre
col cipiglio. Ci sono intiere biblioteche di imagini di contadini, e operai, e
bottegai sorridenti (e, peraltro, talora sdentati); così come non è inferiore il
novero di figure fissate nell’abbozzo o nello spiegamento d’un sorriso. Almeno
in un paio di ritratti fotografici si vede proprio Schopenhauer con la faccia
mossa in un lieve sorriso sarcastico.
Come dunque si vede, l’analisi di quel rappresentante dell’intellettualità
progressista, che verisimilmente avrà ripresa la grande rivelazione da qualche
ricercatore americano o inglese, è, per adoperare un proverbio giusto di quelle
parti, una cagata nel ventilatore (acceso). Ma di dove viene una simile boriosa
sicumera? Credo di avere la risposta, che è duplice.
Per cominciare, da un pregiudizio tipicamente moderno, della modernità più
corriva e ottusa, per la quale tutti, sino al giorno avanti in cui il
progressista pensa e (purtroppo) parla, erano dei cavernicoli. Pei progressisti
la storia è composta di grandi magagne e orridi sociali tecnici artistici
politici, che solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo e vieppiù nella
seconda metà del XX, sono stati colmati e spazzati via. Sicché anche solo
l’esistenza di una dentiera prima d’avantieri è letteralmente impensabile. Il
che significa anche ignoranza e poltronaggine.
Ma dietro a questo pregiudizio materiale, se ne staglia uno morale, che è la
seconda scaturigine della cialtronata in esame.
Una ‘testa di carattere’ di Franz Xaver Messerschmidt (1736-1783)
Il tono dell’articolo in fatti (che peraltro consuona, per la mia esperienza,
con numerose chiacchierate avute con svariate persone, non necessariamente
progressiste, segno che il lavaggio del cervello e la tassidermia cranica sono
efficaci e democratici), il tono dell’articolo mostra stizza e contrarietà per
quella schiera di facce serie e compunte. Che noia, che tristezza, mai un
sorriso, e ridete una volta ogni tanto!, sembra di udire. È l’andazzo odierno,
uno dei segni più eloquenti e agghiaccianti dello spirito del nostro miserabile
tempo. Ridere più che sorridere e, ancor meglio, sghignazzare, magari con le
fauci spalancate, è segno di vitalità, di gioia, ci aiuta a dimenticare che la
vita è cosa seria.Guardate le fotografie sugli apparecchi telefonici, sui
“social”, guardatevi d’attorno, al lavoro, in famiglia, sul treno: quasi mai si
vedono facce serie, in ispecie se sono adunati due o più individui. Tutti (e
tutte) squadernano la chiostra e più volentieri ancòra divaricano le mascelle
(non di rado mostrando qualche otturazione…). Ed è in questi casi che costoro, e
non i nostri antenati, dimostrano di essere più prossimi ai nostri (del tutto
presunti) progenitori scimmie.
Se oggi solo provi a farti scattare una fotografia restando più o meno serio, il
Cartier-Bresson di turno – un amico, un collega – ti rintuzzano: «Uh, ma come
sei seriooo…! Non siamo mica a un funeraleee… Ridi un po’!». A me è capitato
anche durante la breve seduta dal fotografo per la carta di identità. Cosa
accidenti poi ci fosse da ridere per uno che di lì a poco si sarebbe infilato in
un ufficio pubblico, ignoro.
Oggidì la risata, sopra tutto se a sproposito e ostentata, è un segnacolo di
riconoscimento obbligatorio, come la targa dell’autovettura, come il tatuaggio,
altro emblema, quest’ultimo, della mutazione antropologica in atto.
Vi racconto questa.
Non molto tempo fa sostavo per una pausa sul portone d’una grande biblioteca.
A un metro dietro le mie spalle c’era un quartetto di donne tra i trenta e i
cinquant’anni, ben conciate e del tutto sobrie, intente a discutere di questioni
ordinarie, figli famiglia vacanze lavoro, quindi nulla che potesse suscitare
risate, men che meno di quelle a cui per venti minuti abbondanti volli assistere
con discrezione.
«Com’è andata al mare?»: giù risate di tutte.
«E tu col bambino? È guarito?»: altre risate.
«Sì sì, per fortuna»: risate.
«Massì, dài, insomma», eh eh eh ah ah ah.
Era tuttavia ammirevole che quelle donne riescissero a ridere anche mentre
“articolavano” le parole, che in effetto talvolta mi diventavano oscure. Avrò
limiti, ma quando rido della grossa (lo faccio, tranquilli, lo faccio) mi è
impossibile parlare, e viceversa.
Temo però che quelle risa, come moltissime altre, oltreché fuor di luogo e
inutili, e anche moleste, siano di natura isterica. E certi contenuti del
“dialogo” al quale assistetti me lo confermano. Una risata sincera è suscitata
da una scena o da un motto di spirito e si manifesta in tutt’altro modo. Durante
quei lunghi ma istruttivi minuti mi venne alla mente, come ogni volta che mi
imbatto in scene analoghe, un frammento dei Griffin, il cartone animato famoso,
con protagonista un gruppo di donne al ristorante intente a ordinare un dolce.
Non anticipo alcunché; ma vi assicuro che avrete la rappresentazione plastica
della scena della quale fui abusivo spettatore. E se persino Seth MacFarlane e i
suoi impietosi (e talora diabolici) collaboratori, progressisti spinti, quindi
non tacciabili di bigottismo, si sono sentiti in dovere di isolare
la mostruosità di certi contegni, occorre che gli altri progressisti – e non –
svolgano una seria riflessione su loro stessi e sul mondo in cui viviamo e che
hanno contribuito a forgiare.
Tornando ai nostri avi, la ragione in forza della quale essi si facevano
ritrarre perlopiù serii e in pose composte era una soltanto, indipendentemente
dal soggetto: dare e tramandare di sé e magari della loro categoria e del loro
ceto sociale, qualunque fosse, un’imagine decorosa esemplare e persino
nobile, sopra tutto se ricoprivano ruoli, pubblici o privati, dai quali
dipendevano e ai quali riguardavano magari migliaia o milioni di persone.
Ma di più: non solo volevano essere serii, ma lo erano, non si sforzavano di
esserlo per il tempo della seduta davanti alla macchina fotografica per poi
scomporsi una volta lontani.
A conferma e rafforzamento di questa verità basterà guardare libri fotografici o
documentarii dagli anni Quaranta ai Settanta del secolo scòrso con qualsiasi
persona a protagonista. Vedrete sùbito l’abissale e irriducibile divergenza di
contegno dall’oggi.
Ciò però non significa che un tempo non sapessero ridere anche le persone i cui
volti ci sono arrivati composti. Si pensi a Hegel, i cui ritratti possono essere
l’incarnazione della severità e della compostezza. Ma basta leggere una
paginetta dalla biografia del filosofo scritta dall’allievo e amico Karl
Rosenkranz per apprendere che il grande pensatore di Stoccarda sapeva anche
ridere di gusto. L’ultima volta fu davanti a una locanda in cui si era
intrattenuto con alcuni amici, che testimoniano della giovialità del filosofo,
il quale peraltro di lì a pochissimo tempo sarebbe morto, pare assai
serenamente, a causa del colera che aveva colpita Berlino.
Ma chissà che cosa direbbero certi partigiani della risata se sapessero che, in
tanti anni di assidua frequentazione, un suo amico ha veduto sorridere Coetzee
soltanto in un’occasione.
Beninteso: non sto tessendo un elogio della mutria. Ma si converrà che una
persona normale (sì, ho detto normale: e quindi?) si senta più al sicuro davanti
a qualcuno di composto che non a una “iena ridens”. Mi domando di poi, guardando
tutte quelle bocche spalancate e sentendo tutti gli inviti a «ridere un po’»,
quale valore rappresenti di per sé ridere, in quella maniera sguaiata e
berciante poi, che cosa aggiunga a un individuo.
Non è affascinante e rassicurante il sorriso della Gioconda o dell’Auriga di
Delfi? E forse non gli è che sommi artisti – un Bosch, un Kranak – hanno
castigata la sguaiataggine? Ricordiamoci poi l’imbarazzo (penso ancòra a
Schopenhauer) dinanzi alla bocca del Laocoonte, che sembra, anziché gridare,
nemmen ridere ma solo sbadigliare.
Se poi vogliamo “buttarla in religione” ecco san Tommaso d’Aquino, che annovera
il risus superfluus addirittura tra i peccati, benché veniali:
> «Talora invece la volontà del peccatore si volge verso cose che contengono in se stesse un certo disordine, senza però opporsi all’amore di Dio e del prossimo: tali sono le parole oziose, le risate smodate [risus superfluus] e altre cose simili. E questi peccati sono veniali nel loro genere».
>
> (Somma teologica, I-II, 88, 2)
Tuttavia non si commetta l’errore di leggere la parola «peccato» in senso
moralistico, come purtroppo molto spesso, se non quasi sempre, anche gli stessi
cristiani inclinano. «Peccato» in greco antico – che è la lingua ufficiale degli
Evangeli – è «amartía», letteralmente «mancare il bersaglio, andar fuori
strada», che può essere inteso anche in modo estensivo. E in effetto, se ci
pensiamo, quando ridiamo in modo eccessivo è come se escissimo da noi stessi, e
così quando straparliamo sospinti da un eccesso emotivo dicendo fesserie o
parole che possono nuocere ad altrui ovvero ritorcersi contro di noi: anche
Schopenhauer, non certo un partigiano del cristianesimo, raccomanda di contenere
le parole affine di non incorrere in qualche guaio. Ricordiamoci che «non ciò
che entra nella bocca contamina l’uomo; ma è ciò che esce dalla bocca, che
contamina l’uomo» (Mt 15,11).
Le Scritture sono molto eloquenti.
Forse che Sara non rise quando udì che avrebbe avuto un figlio nonostante
l’avanzata età (Gn 18,12)? Risero anche di Gesù quando questi disse che la
figlia di Iairo «non è morta, ma dorme» (Lc 8,52). E forse i soldati romani non
irridono Gesù? Ma «guai a voi che ora ridete, perché farete cordoglio e
piangerete» (Lu 6,25), e perché «io ho detto del riso: “È una follia”» (Ec 2,2).
Contemplando quelle schiere di bocche scontorte, gli elogi della sguaiataggine,
gli stimoli a ridere ridere ridere, mi vien da pensare al Batman di Tim Burton,
quando Jocker, interpretato da Jack Nicholson, sbuffa nell’aria di Gotham City
un gas verdognolo che stermina la popolazione e la irrigidisce in un ghigno
simile al suo, derivatogli dal bagno in una vasca di acido e dalle manovre
imperìte d’un chirurgo clandestino.
Un ghigno, quello di quei morti, che è l’antifrasi dell’animo di Jocker e dei
tristi cittadini, morti prima di morire, di quell’oscura città: «Anche ridendo,
il cuore può essere triste» (Pr 14,13).
Gli abitanti di Gotham City erano condannati a ridere. Proprio come voi.
Luca Bistolfi
*In copertina: Conrad Veidt in “L’uomo che ride”, 1928
L'articolo Condannati a ridere. Piccolo discorso intorno a dentature guaste e a
piccole iene proviene da Pangea.
Come se la passano oggi gli scrittori? Stanno in giro per librerie? Si sono dati
alla macchia, scomparendo dalla mondanità? Oppure stanno a giornate sui social?
Ecco, piuttosto l’ultima. Dove vivono oggi gli scrittori, quelli bravi e quelli
ciuchi, quelli famosi e quelli sconosciuti? A giornate sui social a pontificare
su tutto, su ciò che conoscono e su ciò che non conoscono. Come qualsiasi
cittadino normale? Ebbene sì, come ogni persona normale. Ma è pur vero che lo
scrittore non è tanto normale, come figura sociale (non social) intendo. Ma
questa è soltanto una stupida illazione.
Personalmente passo troppo tempo su facebook e quando me ne accorgo mi faccio
schifo, ma proseguo comunque in questa oscena attività. Un amico bibliotecario,
una volta scrisse su facebook che si sarebbe allontanato per un po’ dai social
perché voleva scrivere. Alcuni discutono di tutto; altri parlano solo di libri.
E mi chiedo: esisterà in futuro qualcosa di cui scrivere che sarà fuori dai
social, dalla rete, dalle piattaforme online, dalle riviste digitali? Lo spero,
ma non credo.
Non moriremo cartacei, come non siamo morti democristiani (si diceva così una
volta…). Insomma, chissà come andrà a finire? E solitamente è proprio questo che
interessa tutti: come andrà a finire…
Dunque, in questa seconda puntata della “Vita Agrissima”, affronteremo alcune
tipologie dentro le quali gli scrittori (e si intende al solito tutta la
compagine: scriventi, poeti e poteastri, ghost, ecc.), a differenza della prima
puntata, non hanno alcun riferimento reale. Tutto quello che segue è inventato…
*
Critici e ipocriti
“Ho letto il libro di Tizio. Intanto, per me, c’è un errore sintattico alla fine
di pagina 137. Poi come fa il personaggio di Caio a parlare con quel tono? È
inverosimile”. E tu chiedi – tutto avviene tramite messaggistica, nulla è ancora
pubblico – “ma la storia? La storia è bella?”. E lo scrittore criticone risponde
che è senza infamia e senza lode, ma gli manca l’ultimo capitolo.
Il giorno dopo leggi il suo post sui social: “Quando lo stile di un autore
dimostra ancora una volta la forza della narrativa italiana. Lo conosco bene e
so che lui è maestro nel trovare il giusto tono per ogni personaggio, come
dimostra Caio in questo suo ultimo lavoro. Complimenti Tizio, è il tuo libro
migliore”…
Sipario.
*
Lecchini
Dicesi lecchino chi si complimenta in modo eccessivo, senza ragioni valide per
farlo. Di solito il lecchino agisce nei confronti di un collega più famoso o
reputato più importante, e che, a suo avviso, potrebbe aiutarlo nelle sue
prossime “mosse letterarie”.
Uno dei modi migliori è sollevare uno scrittore affranto da qualche questione
extraletteraria, confortandolo con un commento sotto al suo post malinconico,
tipo: “non ti curare di questi sfaceli quotidiani, tu hai la letteratura che ti
(ci) conforta, e in questo campo sei un maestro”.
La sottospecie è il controlecchino simpatico, cioè colui che prova a conquistare
la confidenza di uno scrittore che reputa più addentro alle cose editoriali,
usando l’ironia, lo sfottò, l’ammicco, l’occhiolino. La tattica è più sfrontata,
ma se funziona maggiormente efficace, perché l’opera di lecchinaggio tout
court stucca facilmente.
Ahimé.
*
Lamentosi
“Se un editore, dico uno, avesse compreso per tempo il senso profondo di questo
libro che ho scritto ormai 10 anni fa, forse oggi avremmo compreso meglio la
questione del [inserire un argomento a piacere]”. Questo lamento pare più adatto
alla saggistica, ma sta bene pure nei settori letterari della narrativa e della
poesia.
Il lamento non è soltanto relativo a una pubblicazione mancata, ma anche a un
libro che ha avuto poca risonanza, in cui l’editore non si è speso in promozione
e da cui l’autore auspicava maggiore eco mediatica. Solitamente ai lamentosi
viene bene anche una seconda parte di orgoglio risentito in cui scrivono:
“comunque, in un mondo editoriale caduto così in basso, sono felice di non aver
preso parte a tale riflusso commerciale”.
Olé.
*
Fenomeni
Dicesi fenomeno colui che pensa di essere più figo degli altri. La categoria è
vastissima, di cui una sottospecie, forse la peggiore, è quella dei fenomeni che
condiscono i loro post di esecrabile falsa umiltà. Tipo: “sono seduto a un
tavolino fronte mare, ho ritrovato un vecchio libro di Gogol e mi infliggo
questa medicina, mentre tutti intorno a me sono curvi sopra i loro cellulari”.
Tra i fenomeni ci sono gli assertivi, cioè quegli scrittori che credono di
essere un’autorità in materia (che ne so, di gialli, di fantasy, di qualcosa) e
tracciano post come fossero confini statuali. A puro titolo di esempio quel che
segue.
Sottotesto non scritto: [attualmente sono il miglior narratore di genere
poliziesco]. Testo del post sui social: “nel genere poliziesco una buona storia
necessita di due cose fondamentali X e Y, perché soltanto così abbiamo la storia
perfetta”. E sotto sbrodolamento di commenti entusiastici da parte dei
followers.
Evviva.
*
Ingrati
Non so se il numero degli scrittori ingrati sui social sia alto o basso.
Certamente l’ingratitudine è una delle attività più crudeli. Mettiamo che
abbiate organizzato la presentazione di un libro per conto di una casa editrice.
Avete invitato l’autore del libro e lo avete messo in contatto direttamente con
l’editore, tipo Giulio Einaudi o Elvira Sellerio (meglio citare persone
scomparse…) – è ovviamente un esempio incongruo. Ecco! Alla fine dell’evento lo
scrittore fa un bel post sui social, tagga tutti e ringrazia tutti, tranne voi.
Perché? Certi comportamenti umani sono insondabili, ma anche parecchio stronzi!
Tiè!
*
Citazionisti
“Come non essere d’accordo con questa frase di Franz Kafka: [segue frase]”.
“Come non sottoscrivere questa massima di Seneca: [segue massima]”.
“Come non emozionarsi di fronte a questa poesia di Auden: (seguono versi)”.
Grazie al pene! Non avete scelto citazioni dal Dizionario etimologico storico
dei termini medici di Enrico Marcovecchio. Kafka, Seneca, Auden. Vi piace
vincere facile eh?
Ma c’è anche chi, sui social, lancia sfide di citazioni, tipo questa:
“Indovinate chi è il mio scrittore preferito (non andate a cercare su google,
furbacchioni): Svetta su entrambi un Himalaya di vite in movimento”.
E poi gli autocitazionisti. Ecco un plausibile esempio: “Sgomento, sgomento di
una guerra ingiusta/ senza cuore avanzano coloro che non restano umani. Non sono
parole di Ghandi e nemmeno di Tolstoj, questi versi li trovate nella mia ultima
raccolta, Il cielo diviso. #nowar”.
Forza!
*
Autoprodotti
Sono coloro che hanno scritto un testo, l’hanno impaginato a piacere, hanno
scelto un’immagine autoprodotta, e hanno mandato tutto in stampa presso una
piattaforma tipografica digitale. Hanno ricevuto a casa un certo numero di copie
del loro romanzo e adesso ne lodano le qualità sui social. E sotto valanghe di
cuoricini dei parenti. I più astuti tra quelli che si autoproducono i libri,
senza un editore, sono coloro che convincono l’amic* del cuore a fare il post in
vece loro e tratteggiare tutte le qualità del racconto.
Amen!
Alessandro Agostinelli
*In copertina: un’opera di Roland Topor
L'articolo La vita agrissima 2. Fenomeni, lamentosi, lecchini: 7 tipi di
scrittori da social proviene da Pangea.
Questa estate io e V. ci assicuravamo che mia figlia e suo figlio non
annegassero mentre giocavano a riva con le onde basse. Lei a me: “Un bambino
impiega meno di dieci secondi per annegare. C’è da dover stare molto attenti,
quando annega il bambino non si dibatte. Si paralizza. Va giù a fondo,
immobile.” Io e V. sorvegliavamo e parlavamo dei casi estivi dello sbrindellato
costume nazionale: il gruppo social “Mia moglie”, il sito Phica.Eu. Lei a me:
“Capisci la responsabilità che sento a crescere un figlio, un maschio? E se un
domani diventa lui quello che pubblica le foto delle sue compagne in un gruppo
per soli uomini fondamentalmente soli? O persino le mie.” Io a lei: “Non è che
dobbiamo diventare tutti Dominique Pelicot. L’hai letto Vivere con gli
uomini della Manon?”. E lei a me: “Tu l’l’hai letto Triste tigre della Sinno?”
Poi l’ho letto. Avrei voluto leggerlo tutto di un fiato, per doverci respirare
all’interno il meno possibile. Ci sono pagine dove si sta come in cantina,
nell’odore di muffa e violenza, col dubbio sia il proprio, quell’odore. Verso la
metà ho dovuto interrompermi, per riprendermi, riprendere fiato. È quando la
Sinno cita una poesia della Pizarnik: “Ricordo la mia infanzia/ quando ero
un’anziana.”
In Triste tigre, Neri Pozza, pensa ha vinto il Premio Strega Europeo nel 2024, è
insopportabile la parte dell’uomo-padre-abusante, quindi potenzialmente la mia?,
quella del figlio di V.?, all’interno della storia che non è una
storia-inventata, emblematica-e-basta come nel caso della Lolita di Nabokov, ma
una storia-storia che chi scrive si sente in dovere di scrivere come non fosse
bastato il doverla vivere. Insopportabile è la parte che ha dovuto subire e a
cui ha dovuto reagire Neige, che racconta di essere stata stuprata da bambina
dal patrigno, per anni. Neige è una vittima che non ci sta a lasciarsi
inscrivere nel protocollo vittimario ma che non per questo si allinea alla
retorica sfinente sulla resilienza secondo cui una vittima può smetterlo di
esserlo, può riscattarsi, e se non ci riesce, beh, allora la colpa diventa anche
sua.
Triste tigre non è soltanto la storia di una bambina stuprata che rifiuta di
essere guardata solo sotto questa lente così come sa che il suo guardare non può
più prescindere dall’esserlo stata. È un libro sul potere, e sulla scrittura,
che è un contropotere.
Come ci si devittimizza? Scrivendone? Scriverne “è ancora un progetto
dell’aggressore.” Un appagamento al suo narcisismo. Si scrive nonostante chi ci
ha fatto del male, nonostante il godimento che chi ci ha fatto del male trarrà
dal nostro renderlo un personaggio principale, memorabile a modo suo. Perché chi
scrive e scrivendo fa letteratura scrive nonostante i limiti della scrittura, i
limiti del linguaggio, i limiti del dicibile. Anche se al di là del limite non è
detto ci sia terra incognita da esplorare. Tante volte, solo cantine e
precipizi, o onde troppo alte. “Io so che la verità non è nel linguaggio. So che
la verità non è da nessuna parte.”
Dicendola meglio, sfuggendo alla gabbia secondo cui la donna è sempre vittima
dell’uomo altrimenti non è abbastanza donna lei così come l’uomo non è
abbastanza uomo se non ne è carnefice: la vittima scriva, ma il carnefice legga.
La Sinno scrive da scazzata a ragion veduta, non le va di andare per il sottile,
se ti sta bene ascolti, leggi, altrimenti vai pure, lì sta la porta d’uscita se
hai bisogno di un po’ d’aria e lì quella del cesso se ti si rivolta lo stomaco,
fai tu. Quindi scrive benissimo. Scrive sapendo di stare scrivendo, facendo i
conti con i rischi banalizzanti e estetizzanti della scrittura. L’offrire una
porta verso la quale defilarsi, da poter prendere quando si preferisce per
venirne fuori in qualunque momento, è un grande atto di brusca gentilezza da
parte della Sinno.
> “Nel bambino tutto è spalancato. Un bambino non può aprire o chiudere la porta
> del consenso. Non arriva alla maniglia.”
Triste tigre è un magnifico libro di brusca gentilezza del pensiero che non
arretra, che non si mette in bella, che non pretende consenso, non lo postula.
La libertà se esiste è quella di poter dissentire, a partire dalle proprie
pulsioni, angosce, paure.
Arrivo dalla lettura della Sinno dai diari, bellissimi, della Plath – bellissimi
nonostante siano dovuti passare prima dalle mani testamentarie di Ted Hughes –
perciò ho sentito in modo particolare il passaggio in cui la Sinno racconta di
aver bruciato il suo primo diario per impedire che il patrigno stupratore,
leggendolo, potesse “entrare ancora di più nella mia testa”:
> “Il giorno dopo ho bruciato il quaderno nella stufa.(…) Ho detto addio al
> diario, non solo a quei pezzetti di carta ma al concetto stesso di diario,
> quel giorno e per il resto dei miei giorni. Non potevo permettermi di
> costruire con le mie mani un oggetto che mi rendeva così facilmente
> accessibile, che mi metteva ancora di più alla mercé di una qualunque mente
> decisa a controllarmi e a nuocermi.”
Damaged-for-life.
Nelle prime pagine dei diari la Plath diciottenne si racconta della molestia
subita da parte di Ilo che ha “un fortissimo accento tedesco, la faccia
abbronzata, intelligente, increspata in un sorriso. Anche il suo corpo robusto e
muscoloso era abbronzato e i capelli raccolti in un fazzoletto bianco.” La Plath
con Ilo ha lavorato in un campo di fragole, sono diventati amici, ingenuamente
fiduciosa lo segue nel capannone, per vedere se Ilo ha finito “il ritratto di
John”. “Lui stava fra me e la porta, sorridente. Un gesto e la sua mano mi ha
afferrato il braccio.” La Plath piange per lo spavento. Ilo la lascia andare.
Ilo non finge alla Plath stesse piacendo quello a cui la stava forzando, come fa
l’Humbert Humbert di Lolita, come fa il patrigno della Sinno.
Che alle figlie possa capitare, se proprio deve capitare, d’incappare negli Ilo
e mai nei patrigni alla Humbert Humbert? La Plath al tempo dell’episodio aveva
diciotto anni. Lolita nel romanzo di Nabokov ne ha dodici. La Sinno quando
iniziarono gli stupri ne aveva otto. Che i figli possano leggere la Sinno, la
Plath, Nabokov, per farsi orrore prima di commetterne?
La Plath e Ilo escono dal capannone: occhiatine, sorrisini, secondo gli altri
non le era successo nulla che non avrebbe voluto le succedesse, “Ma loro lo
sanno. Lo sanno tutti. E che cosa posso fare io, contro tutta quella gente…?”
La Sinno ha il coraggio di non definire ripugnante il patrigno: perverso, ma non
ripugnante. Ripugnante è ciò che le ha fatto. Il patrigno della Sinno è stato un
uomo piacente, ammirato nella società montana dove vivevano. Potrebbe esserlo
ancora. Ha scontato la sua pena. Si è rifatto una vita. Rifatto una famiglia. La
speranza è non abbia ricommesso gli stessi abusi.
Parere della sorella della Sinno: “Lei è sicura di no, che lui non lo avrebbe
mai fatto. Lui dice così, e lei ci crede. Perché? Perché loro erano figli suoi,
sangue del suo stesso sangue, loro non li avrebbe mai toccati.” E il sangue mi
si raggela. È un padre affidabile uno padre che rassicura le proprie figlie
facendo intendere loro che correrebbero il rischio di essere stuprate da lui
solo se non fossero del suo stesso sangue? Ritorna la normalità da vampiri
analizzata in Sangue del mio sangue di Monya Ferritti. I vampiri raccomandabili
cavano solo il sangue dei figli e delle figlie degli altri.
Non negando la vigoria di cui il patrigno si autocompiaceva la Sinno è
doppiamente coraggiosa, non mostrifica somaticamente il suo stupratore per
garantirsi un ruolo da vittima perfetta. L’orco per esserlo non occorre non
abbia la pelle rosea di un principe azzurro o l’appeal virile standard di una
guida alpina. Non occorre abbia un pene insignificante come un Napoleone o
inutilizzabile come il Popeye in Santuario di Faulkner. Il patrigno stupratore è
un uomo bello e capace di atti di eroico salvataggio, attraente e ammirato, una
brava-persona secondo gli altri che non hanno dovuto vivere sotto lo stesso
tetto, che da bambini non sono stati trascinati in cantina per venirne stuprati.
Quando il carnefice non lo sembra affatto ricade sulla vittima il sospetto non
sia poi vittima del tutto, che sia anzi carnefice a parimerito, che lo sia
reciprocamente, che tocchi a lei convincere del contrario, mettendo chi legge in
condizione di crederle sulla parola. La Sinno racconta senza ricorrere alle
scorciatoie e alle strategie di chi, scrivendo, ha il potere di deciderlo lei
come-sono-andate-le-cose. “Ma allora a cosa serve tutto questo se tutti noi
siamo d’accordo su tutto fin dall’inizio?” Una lezione di letteratura, quando lo
è, è una lezione di coraggio autentico, intellettuale, ed è l’unica lezione di
vita che ne valga la pena.
L’arrendevolezza reoconfessa del patrigno in Triste tigre quasi consente
l’empatia: è uno stupratore a sua volta stuprato in adolescenza dai preti. La
Sinno smonta un mito che avevo fatto mio, mi sa autoconsolatorio:
> “I vari studi che ho consultato sugli aggressori sessuali indicano che circa
> il 20 per cento degli abusanti di bambini sono delle ex vittime. Una cifra
> lievemente superiore all’incidenza del fenomeno sulla popolazione globale.
> Questi studi indicano inoltre che il ciclo vittima-aggressore è soprattutto
> una convinzione fortemente ancorata nella popolazione, e che essere stati a
> propria volta vittime durante l’infanzia è sì un fattore di rischio, ma non
> una condizione necessaria né sufficiente per diventare a propria volta
> aggressore.”
Le vittime non è detto debbano diventare carnefici a loro volta, con buona pace
per esempio di chi giustifica le azioni militari di Israele in quanto
vorrei-vedere-te-se-il-tuo-popolo-fosse-stato-già-vittima-di-genocidio, ma:
carnefici senza essere stati vittime prima? Carnefici dal-nulla? Io che mi
dicevo: non posso diventare un carnefice perché non sono stato mai fatto oggetto
di carneficina. Io che credevo bastasse rispondere a V.: “Perché tuo figlio non
diventi un carnefice basterà non lo sia tu con lui.”
È pensabile potersi pensare terzi rispetto alla diade vittima-carnefice? Ricordo
la conclusione di Valentina Tanni in Exit Reality, Nero edizioni: quand’anche
mancasse tutto il resto, c’è Internet – ciò che Internet ha reso accessibile –
che c’ha traumatizzato tutti rendendoci, post-trauma, potenzialmente carnefici,
di altri e di noi stessi. E ancora: se qualcosa non succede direttamente a me
non sta comunque succedendo anche a me quando lo vengo a sapere? Ciò che è stato
inflitto alla Sinno e a troppi altri bambine e bambini, che viene inflitto a
altri bambini e bambine proprio ora mentre ne scrivo, non sta succedo anche a
me, certo in infinitesima parte ma tanto ne basta, mentre ne leggo? Come
possiamo fingere di non udire il canto in coro dei bambini come nella città
sterminata dei morti raccontato da Antonio Moresco in Canto di D’Arco?
Si è sempre vittime di almeno un sopruso, di una insensibilità, di un rifiuto,
ma restando al male-grave, alle violenze da reato: il male fatto agli altri
diventa di per sé la dimostrazione del male fattibile e appena si diventa
vittima di questa consapevolezza si diventa anche imitatori ipotetici, carnefici
potenziali. Leggere Sinno significa rendersi conto che non esistono storie di
vittime e carnefici, esistono solo storie di vittime, alcune delle quali
convinte che il diventare dei carnefici possa dare loro l’illusione di potersi
sentire per una volta non vittime soltanto.
Scriverne non significa diffondere il male, le sue codarde inverecondie, fargli
pubblicità. Il male per quanto vanitoso prolifera molto meglio nell’omertà che
nella denuncia. Scriverne di per sé non basta per impedirlo, siccome si può
scrivere soltanto di un male già compiuto, già patito, poiché a scrivere del
male che sta per compiersi si passa per Cassandre sbertucciate dai carnefici che
mai consentirebbe gli si guastasse la festa prima che loro la facciano a coloro
a cui hanno intenzione di farla.
Si scrive, almeno questo, perché chi legge non possa osare dire di non saperne o
di non averne potuto sapere nulla. “È a partire da questa conoscenza intima, a
partire da quest’odio, che io scrivo.” E si scrive perché prendere la parola
significa riprendersi il potere di usarla per affermare sé stessi, riprendersi,
riprendere fiato, farlo diventare voce.
La Sinno cita la frase spesso attribuita Oscar Wilde: “Tutto nel mondo è sesso
tranne il sesso. Il sesso è potere.” Lo stupro non è un atto sessuale, è un atto
di dominio. Scriverne è contestare quel dominio. Dissentire. Scrivere non
cancella il male ma non gli concede l’ultima parola. Lo beffa.
“Tutti vogliono proteggersi dall’incendio”, scrive la Sinno che non appicca
l’incendio, lo mostra per quel che è, che scrive dal fuoco e dal fuoco per dirla
con il lispectoriano Jonny Costantino di La mano bruciata, e dall’incendio
nessuno può proteggersi. Tanto vale bruciare con dignità se non addirittura con
stile.
Se dovessi spiegare a mia figlia o al figlio di V. cosa è accaduto alla bambina
raccontata dalla Sinno, la bambina che è stata la Sinno stessa e che la Sinno
non ha mai potuto essere, così come la Sinno lo ha dovuto spiegare a sua figlia,
userei la parola unchilding, ovvero «privare dell’infanzia». È la parola a cui
ricorre Francesca Albanese nel terzo rapporto da Relatrice speciale ONU del
2023, sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese, come
riporta lei stessa ne libro Quando il mondo dorme, Rizzoli.
C’è da stare molto attenti, quando il bambino è debambinizzato non si dibatte.
Si paralizza. Va giù a fondo, immobile. E noi con lui.
antonio coda
*In copertina: John Singer Sargent, Portrait of Thomas McKeller, 1917 ca.
L'articolo Debambinizzare il bambino. Intorno a “Triste tigre” e ad altre
aggressioni proviene da Pangea.
In questi giorni, in questo periodo, su varie testate (anche su Pangea, qui) si
parla molto della Milano che è stata e che non è più, di una Milano differente,
diversa, più alternativa, più identitaria e meno vetrina di lustri post yuppies,
di grattacieli alberati e di olimpiadi di Cortina in città. Tutto vero e tutto
molto giusto.
Soprattutto la lente d’ingrandimento è puntata sulla Milano degli anni Novanta
(perché chi scrive di questo, compreso il sottoscritto, era adolescente
all’epoca) e la lamentela solitamente è legata a certi luoghi che non esistono
più, a locali come il Rolling Stones (da anni una palazzina) il Plastic (che
però ha chiuso quest’anno dopo anni di perdita d’identità) il Leoncavallo (anche
questo chiuso da poco, ma da quanto tempo era fuori dai radar musicali?) Le
Scimmie (ma chi ci andava davvero?) e proseguendo con negozi di dischi, sale
prove, locali ed altri locali e sempre ancora locali. Io, che come tutti in
quegli anni (ma a dire il vero più dal 2000 in poi) ho frequentato quei club,
quei posti di ritrovo, quei bar, quelle sale da ballo o da concerti oggi mi
sento sicuramente un po’ orfano (ma ho anche quarantacinque anni, come gli
altri, e ad un certo punto ha ancora un senso parlare di posti che frequentavo a
venti?) ma anche soddisfatto, forse, di averli vissuti e frequentati.
E oggi? Oggi Milano è cambiata totalmente. I locali e le sale da ballo tanto
amate dai giovani alternativi si sono trasformati in negozi, bar newyorkesi che
fanno ancora il caffè americano usando l’espresso allungato con l’acqua, palazzi
vertiginosi che sfidano nuvole e traffico aereo, spazi modaioli e offrono altre
realtà, altre possibilità, altri servizi per altri fruitori. Non solo agli
studenti stranieri e ai turisti ma anche a nuovi giovani, a ventenni che, nati
dopo il duemilaedieci, se ne fottono (giustamente) del Rolling Stones,
del Leoncavallo, del Govinda, della Stecca perché sono nati con altro (meglio o
peggio non importa, è solo il nostro parere di “vecchi”) e in quell’altro ci
sguazzano a colpi di Instagram, di social, di incontri gestiti in maniera
differente da come venivamo gestiti i nostri.
Ora mi domando; ma se i quarantenni/quarantacinquenni di oggi sono anche loro in
balia di Instagram, dei social, delle uscite notturne fino alle quattro del
mattino che cosa pretendono? Pure gli stessi locali di allora? Non si accorgono
di essere fuori tempo massimo? E allora, chi negli anni Novanta aveva più di
quarant’anni che cosa avrebbe dovuto rimpiangere? I night? Gli american bar? Il
festival del proletariato giovanile al Parco Lambro?
Chi ha detto che Milano era fatta solo di aggregazione dovuta a locali notturni
e centri sociali? Le gallerie, i palazzi, il rumore del tram, certi parchi (come
quello di Trenno) e qualche pizzeria sono ancora lì a testimoniare una città
bellissima (solo per i milanesi, sia chiaro) proprio perché anonima e anomala.
Milano cambia perché il tempo cambia, la società cambia. Punto. Non c’è altro. E
che sia meglio o peggio è qualche cosa di ingiudicabile. Certo, ci mancano
i Sonic Youth in questo o in quel posto ma è solo un nostro pallido e smorzato
ricordo. Milano è piena di locali dove si suona musica. Arci Bellezza,
Torchiera, Spazio Pontano, Teatro dell’arsenale, Auditorium San Fedele, e molto
altro ancora. Una città che dal punto di vista musicale, teatrale,
cinematografico è più viva che mai e forse anche più di allora. Certo, il
contesto attorno è cambiato e oggi ci sono meno case a ringhiera e più piste
ciclabili (ma un tempo non ci si lamentava che a Milano non c’erano le piste
ciclabili?) ma l’essenza è la stessa. Le sale prova aggregative come il Jungle
Sound (dove provavano Ritmo Tribale e Afterhours) sono scomparse ma è scomparsa
anche una scena (ed è giusto così, le scene evolvono e cambiano, le cose per
fortuna finiscono e Agnelli è finito a X-Factor) e ne sono riapparse altre.
Nessun allarme per la trap o scemate varie. Negli anni Novanta la maggior parte
delle persone ascoltava gli Ace of Base e i Backstreet Boys e, alla fine,
togliendo l’enfasi social, non è la stessa cosa che accade oggi? La differenza
con allora è l’algoritmo, che ha scardinato tutto facendoci vivere in un
infinito tempo presente dove tutto accade senza considerare che; quando tutto
accade alla fine non accade proprio niente.
Certo, nel mio nostalgico ricordo da bambino di una Milano sparita c’è lo zoo ai
giardini di Porta Venezia, il lunapark le Varesine e il primo Burghy. Oggi però,
se ancora ci fosse, io farei chiudere lo zoo, non andrei mai al lunapark e
sicuramente digiunerei piuttosto che concedermi un panino in un fast food. Le
cose cambiano, non restano le stesse. Così Milano ha perso un’identità che non
era di tutti ma solo di alcuni o di pochi. Era la nostra visione della
città(perché la maggior parte delle persone non andava al Teatro Smeraldo a
sentire Paolo Conte e nemmeno a sentire qualche concerto underground al Rainbow
Club, preferiva fare avanti e indietro tra Duomo e San Babila come fa ancora
oggi). Una visione elitaria e anche un po’ stronza perché era la “nostra” Milano
e non una Milano che aveva identità. Milano, purtroppo, l’identità non ce l’ha
mai avuta. Eccetto forse nel dopoguerra (guardate come è fotografata nel film
“Cronaca di un amore” di Rossellini).
Certo anche a me non piace questa versione ruspante di New York (la New York di
oggi chiaramente mica quella degli anni Ottanta) fatta di centri commerciali,
catene di ristoranti ovunque, locali costosissimi e continui week anche
piuttosto inutili. Ma non ci posso fare niente, l’unica cosa buona da fare è
vivere altrove (l’ho fatto e alla fine torno sempre qui, chissà perché…) oppure
cercare le tracce vere della Milano di ieri che ancora oggi è rimasta. E non
sono i locali, i centri sociali o la fiera di Sinigallia che bisogna andare a
stanare. Ma la città in sé, le vie e i vialoni rimasti come allora. Viale
Vincenzo Monti, Via Mac Mahon, le zone di Bande Nere, Primaticcio, Baggio. E poi
ancora Piazzale Buonarroti, viale Gran Sasso ecc… Milano sono strade, case,
portoni. Le città sono anche questo. Senza considerare quartieri che si sono
trasformati (in bene o in male giudicate voi) in zone arabe, peruviane, cinesi e
che offrono una Milano comunque differente da quella Milano che splende tanto
suoi giornali con i suoi alberi dentro grattacieli, i suoi vetri riflettenti o i
suoi dirompenti palazzi inaccessibili.
Le città saranno sempre fatte così e la stessa cosa vale per Parigi, New York,
Lisbona, Londra, Berlino. Sempre in continuo cambiamento asfaltando tutto quello
che c’era in favore di altro. Bello o brutto ha poca importanza. Quello è
importante solo per noi e purtroppo è troppo poco.
Giosuè Gorinzi
*In copertina: Antonio Lafrery, La Grande Città di Milano, 1573; Milano, Civica
Raccolta Achille Bertarelli
L'articolo Rassegnatevi, Milano un’identità non l’ha mai avuta. Siamo soltanto
diventati vecchi… proviene da Pangea.
La mia amica aveva appena finito di vomitare sopra a una grata di ventilazione
della metropolitana in Largo Cairoli. Sputò ancora per un po’, si asciugò la
bocca con il dorso della mano, e poi andammo a sederci per terra sul marciapiede
davanti alla porta d’ingresso della Standa – oggi Decathlon – insieme ai suoi
amici punkabbestia e ai loro cani.
“Come stai?”, le chiesi.
“Non ci pensare neanche. Non te la faccio provare. Guarda come cazzo ti
riduce”.
Non se la iniettava in vena, se la fumava dentro alla carta stagnola.
La ammiravo. Volevo essere come lei. Sembrava libera agli occhi di una
quindicenne con un padre che la sera non la faceva ancora uscire da casa.
*
Siamo nella Milano della fine degli anni ’90. Il Luna Park ‘Le Varesine’ aveva
chiuso da poco, lasciando il posto a “via Mike Bongiorno” e ai grattacieli. Alla
Darsena c’erano ancora il parcheggio e la fiera di Sinigaglia, con le bancarelle
di roba dell’usato e i punkabbestia che si ritrovavano al vecchio Mercato
Comunale. Si spacciava e si dormiva sotto ai portici di Piazza Vetra. Si pippava
la Speed sulle panchine della piazzetta davanti alla Basilica di Sant’Eustorgio.
Si andava alla festa della semina e del raccolto al Leonkavallo.
Durante gli anni ’90 i ragazzi si bucavano seduti a terra tra le auto
parcheggiate. Ne vedevo tanti mentre tornavo a casa da scuola in Porta
Venezia, quando Porta Venezia era ancora un quartiere di figli di portinai come
me e di gente bene che convivevano serenamente. Non c’erano ancora locali gay e
ristoranti eritrei. In Buenos Aires i negozi erano negozi di vestiti, e non solo
di cibo, come oggi, e non cambiavano insegna ogni due mesi.
A Milano c’erano pochissimi turisti. La gente visitava l’Italia, ma mica passava
di qui. Per fare cosa?Quando andavi in ferie al mare da qualche parte e dicevi
che eri di Milano, ti pigliavano in giro e ti guardavano con pietà: poveri voi e
la nebbia, poveri voi e il grigiore, poveri voi e lo smog, poveri voi e il
lavoro sfrenato. Poveri voi.
*
I bambini che non avevano i genitori abbienti che li iscrivevano a un’infinità
di sport, avevano il trenino dei Giardini Indro Montanelli e le macchinine al
Parco Sempione. Punto.
C’erano due grattacieli, il Pirelli e la torre Breda, costruita negli anni ’50.
Io sono cresciuta lì dentro. Mio padre faceva il portinaio. Ogni giorno, di
nascosto, andavo al ventisettesimo piano per guardare la città dall’alto. Si
vive meglio con un orizzonte davanti agli occhi da ammirare, lo diceva anche
Thoreau nel suo Walden.
Mi mettevo a piangere ascoltando la musica. Fissavo quei minuscoli serpenti
luminosi scorrere sull’asfalto e spesso pensavo di farla finita. Poi, come
un’astronauta che torna dallo spazio, scendevo sulla terra e diventavo ancora
più consapevole della nostra inutilità e piccolezza. E pensavo: forse è così che
si sentono i ricchi che vivono ai piani alti. Credono di non far parte di questo
mondo, che nulla li tocchi e li riguardi. Stanno sulla Terra giusto per qualche
istante, per sbrigare i loro affari, poi se ne tornano nelle loro torri. E
allora pensavo che bisognerebbe buttarli giù quei grattacieli, e far vivere
tutti allo stesso livello, per non dimenticarci che siamo uguali, invece di
essere disposti a tutto per andare a vivere lassù. Perché poi te lo dimentichi
che non sei nessuno e che nasci e muori comunque a mani vuote.
*
Milano è cambiata dopo l’Expo. Non ce ne siamo accorti subito. È stato come
vivere con una moglie che si trascurava da tempo. Ci siamo guardati attorno, e
improvvisamente ce la siamo trovata invasa da una quantità di persone mai vista
prima che camminava piano, troppo piano, e di gente che fotografava cose.
*
Milano ci ha cambiato.
Milano ci ha sconfitto.
Milano ci ha temprato.
Milano ci ha stancato.
Milano, non ti riconosco più.
*
Milano è come una vecchia donna che si è rifatta, che ha perso il suo fascino ma
che se la tira ancora. Non perde mai la speranza. Al massimo si rifà il look e
si trova il Toyboy.
Milano e la sua mania di risplendere, di nascondere lo squallore, di spostarlo
verso le periferie, manco fosse Parigi.
Milano e le passeggiate a Isola che diventano sfilate.
Milano, che quando vivi in belle zone ti fa sentire addosso gli sguardi della
gente che si chiede subito: “Chi è? Cosa fa? Quanto guadagna per potersi
permettere di vivere lì?”
Milano, che per trovare un po’ di pace te ne devi andare a passeggiare tra i
morti al Cimitero Monumentale.
Milano come una bomba ad orologeria che è pronta a implodere.
La verità è che a Milano non c’era un cazzo di bello, a parte il Castello e il
Duomo. Ora ci sono i grattacieli e quei quartieri che qualcuno ha fatto
diventare “cool” grazie a Instagram.
E poi Armani che muore.
Il Leonka che chiude.
Il Plastic che chiude.
I negozi che chiudono.
I maranza.
I figli di papà.
Le mogli degli uomini ricchi che piazzano bambini come pensione di vecchiaia.
Le case che non si trovano o che costano una follia. La gente costretta ad
andarsene.
Una città che espelle chi l’ha nutrita.
L’aria che non si respira. Le troppe auto. Il caldo che sale dal cemento e ci
soffoca, ci annienta, ci consuma.
Le persone sempre più infelici, sole, nervose, schizzate, di fretta. Non si
rendono conto di scappare da sé stesse.
Milano è il simbolo della fine di un’epoca, di un mondo stanco che non ha più
voglia di appartenere a nessuno se non a sé stesso.
Siamo tutti pronti ad andarcene.
Quando troveremo i soldi e il coraggio.
Dejanira Bada
L'articolo Fine di un’epoca. Milano è il simbolo di un mondo stanco, che non
appartiene più a nessuno proviene da Pangea.
C’era una volta un tizio che si sedeva davanti a un tavolo. Aveva un quaderno e
una penna. Scriveva. Oppure aveva una macchina da scrivere, o un computer. E
scriveva. Questa è la favola che oggi ci illude esista ancora un tempo per
scrivere. Non voglio dire che non esista più. Dico solo che oggi ha uno statuto
debole.
Li vedo già i colleghi poeti e scrittori che storcono la bocca: ma come,
l’autore! su dai, la creatività! Sono anch’io disperato come loro, mi muovo a
tentoni in un presente che rosola a fuoco lento (ma neanche troppo lento) le
certezze intellettuali e letterarie di soli vent’anni fa.
Non so se sia una notizia vera. Oggi esiste questo universo delle cosiddette
“fake news” che avvelenano menti e coscienze degli individui. Spesso si
diffondono tramite i social, perché sono il mezzo in cui tutti noi siamo più
indifesi di fronte al desiderio di scovare qualcosa da mettere in mostra nella
nostra vetrina, sul nostro profilo. Comunque, ho fatto le dovute verifiche del
caso: è in vendita, a varie centinaia di dollari (sotto il migliaio comunque). È
la Poetry Camera, cioè la macchina fotografica poetica. Si inquadra qualcosa e,
poco dopo, quest’aggeggio sputa una poesia composta dalla sua intelligenza
artificiale.
A inizi Duemila lavoravo in radio e abitavo a Milano. Sui Navigli c’era un tizio
che scriveva, a pagamento, poesie su commissione. Bastava dirgli a chi volevi
regalare la poesia e fornirgli qualche elemento tematico o caratteriale della
persona e lui ti sfornava una bella poesia lì per lì. Pensate che, negli anni
’60, pure Jack Kerouac, il vagabondo perditempo sulle strade d’America, si era
rintanato nella capanna di Henry Miller, per scrivere un romanzo su commissione.
Era Big Sur. E se pure il più anarchico degli scrittori aveva ceduto a un libro
a richiesta, voleva dire che tutto era possibile.
E infatti, a distanza di alcuni decenni, il possibile è diventata un’invenzione
di Carolyn Zhang e Ryan Mather, due informatici creativi che hanno preso un
dispositivo di Raspberry Pi che cattura le immagini e, interagendo con GPT-4 di
OpenAI, genera poesie, produce testi poetici, pure di generi differenti. Si può
prediligere gli haiku, oppure un sonetto, o un limerick, o altro. E già a questo
punto ci sarebbe una miriade di considerazioni da fare. La più evidente è che
con questa macchina fotografica poetica non dobbiamo nemmeno durare fatica a
scrivere un elenco di parole che l’intelligenza artificiale usa per comporci
sopra una poesia. La caratteristica della Poetry Cam è che si inquadra un bel
tramonto e via, la macchina secerne la poesia stampata sopra un pezzo del
rullino di carta, e il dispositivo non salva in digitale questo testo.
Praticamente, in un baleno siamo di fronte all’uso avanzato dell’intelligenza
artificiale e all’uso arcaico della carta come unico supporto che “ricorda”,
cioè archivia il risultato. A essere uno psico-qualcosa o un socio-qualcosa ce
ne sarebbero di discorsi da fare…
Alla parte romantica di me stesso, di fronte a questo rilievo della carta,
verrebbe da dire “vedi, la carta è ancora il supporto migliore, la carta non
tradisce”. Ma poi una vocina cinica mi dice che magari qualcuno in antichità,
quando inventarono la carta, potrebbe aver detto “questa novità della carta non
durerà, vuoi mettere le tavolette di pietra incise, le tavolette di pietra non
tradiscono”.
Alessandro Agostinelli
L'articolo Intorno alla magnifica invenzione della “Poetry Cam”, la macchina
fotografica poetica proviene da Pangea.
Quanto mi piacciono i libri dai quali esco sapendone qualcosa in più rispetto a
quando ci ero entrato! Volevo fosse il caso dello spillato di Federico Fubini,
omaggiato dal “Corriere della Sera” del trenta giugno. Titolo: Dazi.
Sottotitolo: Il secolo della guerra economica. In copertina: guantone a stelle
strisce contro guantone a stelle europee, perché l’immaginario italo-americano
resta affezionato allo Stallone di Balboa, e nel sottopancia un istogramma in
dissolvenza, come fossero grattacieli lynchiani.
In effetti i guantoni, il sinistro sulla destra che cozza col destro sulla
sinistra, potrebbero essere dello stesso pugile, per cui il dubbio: è una guerra
autolesionista, e schizoide, se non proprio l’ennesimo show per un pubblico
pagante pago di vedere gli altri darsi apparenti botte da orbi, in pieno stile
wrestler, restando cieco di fronte all’evidenza che a finire pestato più di
tutti resterà lui, pubblico spettatore, e non certo i proprietari dell’arena, i
fornitori, i preparatori atletici, i lottatori in scena, gli sponsor
dell’evento, le emittenze varie e eventuali?
L’estenuante guerra vinta dai ricchi che continuano a dichiararne, terrorizzati
come sono dall’idea di esserlo meno. Guerre combattute dai poveri, magari lo
fossero solo di spirito, contro i poveri di volta in volta convinti di averlo
finalmente trovato il ricco che renderà ricco anche loro, alla faccia di chi
povero lo resterà anche stavolta perché avrà puntato sul ricco sbagliato,
neanche l’errore madornale non fosse continuare a stare nello stesso gioco della
guerra su cui si fonda la straricchezza di quei ricchi che sanno arruolare i
poveri con la sola promessa di ricchezza, guadagnandoci pure, arricchendosi
assecondando la propria natura, del resto i poveri non stanno tanto a
sottilizzare tra una povertà e una ancora peggiore. Almeno per un po’ si saranno
illusi di qualcosa, un altro niente di fatto è pur sempre meglio del solito
niente di prima.
Metti il dazio, togli il dazio, questo dazio qua spostalo là e quello là mettilo
qua, la politica doganale trumpiana è esilarante, è il gioco degli “assetti del
potere” che sta creando “ostacoli al commercio internazionale” facendo
barcollare nella sola Europa “trenta milioni di posti di lavoro”, ciò non toglie
non serva un Dario Fo per metterla in opera buffa: sembra proprio di stare nella
favola dell’imperatore che brontola nell’attesa di quel bimbo che lo punterà a
dito per dirgli quant’è nudo, stufo – l’imperatore – di dover continuare a
andare in giro chiappe all’arie rischiando di buscarsi polmoniti, alla sua età!,
attorniato da comprimari il cui massimo sforzo critico è civettare
un Presidente, ma quanto le dona la calzamaglia color carne!
Che lo scenario economico e quindi geopolitico mondiale sia favoloso lo scrive
Fubini stesso, ricordando come degli “organismi internazionali dalle regole
condivise quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale o
l’Organizzazione mondiale del commercio” ormai resta “quasi solo il guscio:
vuoto come la corazza del Cavaliere inesistente del romanzo di Italo Calvino.”
L’avverarsi delle ambizioni della sinistra più antagonista, per opera del suo
antagonista più spavaldo e beffardo.
Di macroeconomia e dunque del nocciolo della politica cosa mai ne posso capire
io lettore di letteratura, in particolar modo di quegli scrittori che tante
volte provocano tali buchi a bilancio cheppoi va da sé gli editori debbano
stampare chef, tiktoker, ex-presidenti del Consiglio e giallisti tinti di nero
per non doversi riciclare del tutto in copisterie di catena? Non ho le carte,
non faccio deal, sono profano al punto da trovare brillante una sintesi
associativa che immagino del tutto usurata per indicare gli effetti
dell’economia finanziaria su quella reale, “da Wall Street a Main Street”, e da
mandare giù come pillola prescritta dello specialista la descrizione di
stablecoin: le chiamiamole valute “digitali private sostenute da depositi, per
lo più in dollari, di valore equivalente”.
Sono il corrispettivo italiano di quegli americani, stimati il 38% del totale,
“che non possiedono azioni quotate alla Borsa di New York e che non hanno altro
che debiti”, convinti – erroneamente – “di avere poco a che fare con l’andamento
di Wall Street e molto da perdere dalla globalizzazione”, dico erroneamente
perché se il 38% di americani azioni non ne ha, il restante 62% sì, e se si
rovinano economicamente due americani su tre, il terzo non si arricchirà certo a
loro spese, anzi: loro le spese le ridurranno, potendosele comunque permettere,
e sarà proprio il terzo, ulteriormente colpito dalle contrazioni del mercato, a
rimetterci il poco che aveva e vedere ancora più lontana la possibilità di
acquistarla una Ferrari, ora che l’azienda “ha alzato i suoi listini del 10%
prima ancora che entrassero effettivamente i vigori i dazi al 25% sulle auto in
arrivo negli Stati Uniti.” Per dire: le conseguenze della guerra dei dazi non
potranno mai essere le stesse per chi dovrà rinviare all’anno prossimo
l’acquisto di una Ferrari e per chi già da ora deve pagare “spesso anche il 28%
sulle loro carte di credito: interessi da mafia dei colletti bianchi, che in
Europa verrebbero puniti per il reato di usura”.
Da lettore non specialista ho l’ambizione anti-economica che Vollmann rielabori
in centinaia e centinaia di pagine psichedeliche il materiale che Fubini
precipita nel capitolo che in Dazi ne conta soltanto tredici: La storia nelle
vite di tre uomini: Clinton, Stiglitz e Vance. Per essere più sintetici di
Fubini: Stiglitz, nato in una steel town 82 anni fa, aveva capito per tempo “che
la globalizzazione beneficia i detentori di capitale e i lavoratori con diplomi
di college o con master in università prestigiose, nei Paesi avanzati; ma
svantaggia chi non ha né qualifica né capitali” e aveva fatto in modo che il
messaggio arrivasse a Clinton quando era lui il Presidente. Clitton il 20 aprile
del 1999 dalla libreria della Casa Bianca disse: “Questo è il momento di agire
per impedire che le crisi finanziarie raggiungano livelli catastrofici in
futuro.” Dopodiché non si agì affatto, e qui entra in scena Vance, nato in una
steel town circa quaranta anni dopo Stiglitz, solo che Vance non diventa un
economista anche premio Nobel e saggista prolifico tanto acquistato quanto
ignorato come Stiglitz: Vance a 32 anni pubblica Elegia americana prima di
diventare vicepresidente degli States a 40, rappresentando in pieno la
narrazione dell’elettorato di Trump: uno che non ci crede più ai rimedi
macroeconomici di uno Stiglitz, uno che rivuole la fabbrica in casa anche se da
casa sua sta espellendo i migranti indispensabili per coprire la forza lavoro
richiesta. Vance vuole riscatto ovvero vendetta subito, Promuovendo l’America
Grande Ancora, il cui acronimo un italiano forse rende meglio l’idea. E se
sostituissimo Promuovendo con Costruendo?
Riflessione: lo scrittore di autofiction Vance ha e ha avuto un effetto sul
mondo cosiddetto reale molto più sensibile dello stimato e inascoltato saggista
Stiglitz. Dipende dai lettori che raggiungi, da come li raggiungi, da cosa gli
racconti, se quello che racconti a quegli stessi lettori piaccia doverlo
sentirselo dire, dopo essersi dovuti prendere persino l’impegno di leggerlo, per
ascoltarlo.
E cosa dovrebbe gridare il bambino europeo al petulante imperatore nordamericano
che lascia indizi peggio di Pollicino, sbottando ogni tanto un vagamente
depistante meglio un jockstrap in filo spinato che un fottuto kimono di seta
cinese? Scrive Fubini: chiamare col suo nome la coercizione economica fra Stati
che è l’ultima moda del commercio internazionale, poiché
> “In sostanza Trump e Bessent [il Segretario del Tesoro] potrebbero stare
> cercando di mettere l’Europa davanti a una brutale alternativa: comprare
> debito americano man mano che viene emesso – e comprarlo malgrado rendimenti
> contenuti – oppure rischiare di perdere l’accesso al mercato dei consumatori
> americani e a quel che resta dell’ombrello di sicurezza del Pentagono.”
Che gli unici valori realmente difesi dalle civiltà egemoni odierne o meno,
quelli per i quali sono disposte ad architettare aggressioni verso tutto e tutti
dalle soft alle ultrahard, siano quelli che ci stanno in una borsa, specialmente
se la Borsa è la loro, per capirlo mica bisognava aspettare il ventunesimo
secolo e leggere Fubini! Bastava l’Ottocento e leggere Balzac. O Bel Ami di
Maupassant, che secondo me è la più bella biografia mai scritta sui normalissimi
uomini di potere, e dei secoli precedenti al 1885, anno in cui fu pubblicato, e
di quelli a venire. Per le mire dell’America made-in-Trump verso la per nulla
virginale Europa può valere il trattamento che George Duroy riservò alla
ammansita, cavalcata e pussata via signora Walter: lei
> “D’un tratto, smise di lottare e, vinta, rassegnata, si lasciò spogliare.”
antonio coda
L'articolo Letteratura da manuale. Per capire i dazi bisogna leggere Maupassant
(mica Fubini…) proviene da Pangea.
Per ogni serie, ma anche film o libro, di particolare successo, il dibattito web
e social ripropone sempre più o meno lo stesso percorso. Le prime recensioni
saranno positive, dopo un crescendo di entusiasmo si griderà al capolavoro, poi
arriverà qualche accusa di sopravvalutazione e qualche timida critica. Man mano
se ne aggiungeranno altre, sempre più negative, al che gli entusiasti
replicheranno con elogi più circostanziati.
Solo al termine di questa spirale dialettica si potrà finalmente guardare
all’opera per quello che realmente è, per capire davvero cosa ha detto di nuovo
e cosa ne resterà.
Nel caso di Adolescence il dibattito social è intenso, non tanto per quanto
riguarda le qualità tecniche – la serie è oggettivamente ben fatta e ben
recitata – ma per il coinvolgimento emotivo che ha creato. La discussione però,
a mio parere, è giunta spesso a conclusioni anche più inquietanti della serie
stessa.
Premetto subito che non ho figli e quindi, come si dice, non posso capire, ma se
i nullipari sono spesso catalogati come eterni adolescenti, allora forse in
questo caso il nostro punto di vista può offrire uno sguardo utile.
Il target della serie non sono i ragazzi, ma i loro genitori, cioè per lo più la
generazione X. Si capisce già dal titolo, nessun adolescente si autodefinirebbe
così, e la citazione degli A-ha nell’ultima puntata toglie ogni dubbio.
Tale puntata si concentra sulla famiglia di Jamie, il tredicenne assassino, e
mentre lo spettatore si aspetta che venga svelato un abuso domestico all’origine
di tutto, i genitori del ragazzo si rivelano invece persone oneste, di
sentimenti veri, e pur commettendo errori umani risultano essere, per usare i
termini di Winnicott, una famiglia “sufficientemente buona”, non responsabile
del crimine del figlio, e la serie si conclude senza giudicare, lasciando molte
domande aperte.
Eppure il pubblico adulto vuole risposte e le reazioni si polarizzano in due
tendenze. La prima: è tutta colpa dei social, dobbiamo togliere i social ai
ragazzi, almeno fino a 16 anni, ma meglio ancora fino a 18. I social sono il
male, sono il demonio, sono persino peggio della droga. La seconda: no, togliere
i social non basta, e poi troverebbero il modo di usarli comunque. Dobbiamo
parlare con i ragazzi, ci vuole il dialogo, dobbiamo comunicare, fare
l’educazione affettiva, l’educazione sentimentale, bisogna parlare, parlare,
parlare.
A questo punto mi è tornato in mente che, secondo studi recenti, la violenza,
nelle nuove generazioni, non è aumentata. Pare essere aumentata invece in modo
esponenziale l’ansia.
Oggi di bullismo si parla apertamente e c’è molta più attenzione di un tempo,
c’è lo psicologo a scuola, roba che la generazione X se la sognava, allora se ti
picchiavano e lo dicevi a casa di solito ti sentivi dire che era colpa tua
perché non ti sapevi difendere, e lo psicologo era ritenuto il dottore dei
matti, da cui stare alla larga.
Eppure non è stata risparmiata, a questa nuova generazione di adolescenti,
l’ansia. Una pandemia la cui l’emergenza si è protratta molto oltre la fine del
pericolo reale, un riscaldamento globale esposto con toni apocalittici, ed ora
una guerra europea altamente improbabile, ma già narrata come fosse attuale.
Ma forse, nonostante tutte le attenzioni alla fragilità e alla diversità, le
radici dell’ansia stanno più a fondo, e possiamo intuirle proprio osservando
come gli adulti hanno reagito alla serie, più ancora che la serie stessa.
Gli adolescenti assassini sono di fatto una percentuale trascurabile,
un’assoluta eccezione. Uno zero virgola seguito da molti altri zeri. In Italia
sono ancor più rari che in Inghilterra, dove la serie è ambientata. È molto più
frequente morire in un incidente stradale o in un incidente sul lavoro,
piuttosto che essere vittima o carnefice di un fatto di sangue. Eppure nulla
muove i genitori quanto giustificare la necessità di controllare le emozioni dei
figli, cosa tra l’altro impossibile, poiché non chiare nemmeno a loro stessi.
Paradigmatica in questo senso è una frase tratta dal film dal titolo …e ora
parliamo di Kevin, del 2011, di Lynne Ramsay, sullo stesso tema di Adolescence.
Quando la madre domanda al figlio perché abbia commesso quel tremendo delitto,
lui risponde “Credevo di saperlo, ora non ne sono più così sicuro”.
Ora, non voglio dire che i genitori non possano o non debbano fare nulla. Si
insegna l’educazione, il rispetto, a non praticare la violenza, ad accettare un
no, a rifiutare con gentilezza, a chiedere scusa. Tutto questo nella normalità
già avviene, sia in famiglia che a scuola, e ha un ruolo importante nel rendere
migliore la normalità stessa, ma non sfiorerà mai il campo dell’eccezione
imponderabile.
Il salto emotivo, il distacco dalla razionalità che porta una persona
apparentemente tranquilla a commettere un omicidio o qualche altra grave forma
di violenza viene da tali profondità dell’animo umano, segue dinamiche talmente
complesse e inaccessibili anche alla scienza, che più il crimine è grave, più
paradossalmente genitori, insegnanti e contesto sociale, a meno di abusi gravi,
ne sono innocenti.
Vale per il ragazzino che accoltella la compagna di scuola, per i femminicidi,
per la pedofilia, per i delitti familiari. L’idea di eliminare l’imponderabile
tramite l’educazione rischia di portare a imposizione e a ipercontrollo. Gli
adolescenti di oggi sono solo apparentemente più liberi. In realtà, complice la
tanto vituperata tecnologia, sono sempre geolocalizzati, il registro elettronico
non permette loro nemmeno di bigiare a scuola o di mentire su un brutto voto in
attesa di rimediarlo, eppure ai genitori non basta mai, e con la motivazione dei
“pericoli”, reali ma di entità spesso inferiore alla loro percezione emotiva,
finiscono per diventare sempre più intrusivi nel privato, nei sentimenti e nella
sessualità. Ma chi mette al mondo un figlio deve accettare che crescendo rimanga
un mistero, chiuda la porta della propria stanza, metta al centro del proprio
mondo affettivo persone diverse dal genitore, o l’unico effetto sarà
moltiplicare l’ansia.
Riguardo ai social: contengono il mondo intero, con tutto il suo bene e il suo
male, ma è impensabile sottrarli agli adolescenti di oggi. La generazione X, e
quelle precedenti forse ancor di più, avevano un campo d’azione molto limitato
nella socialità. Se non ti trovavi bene con i compagni di scuola o con gli amici
del campetto, finiva lì, non c’erano alternative. Questo per alcuni andava bene,
per altri poteva essere fonte di sofferenza. Con i social puoi conoscere amici
con i tuoi stessi interessi, magari strambi e nerd, e se vivono nella tua stessa
città puoi incontrarli. Piaccia o no, ci sono ragazzi, specie i più particolari
e introversi, per cui esprimersi senza l’ingombro del corpo è più facile. Certo,
ci sono anche le insidie, ma in questo senso si possono condurre battaglie
concrete. Ad esempio, credo che di fronte a un reato di cyberbullismo la polizia
dovrebbe intervenire con la stessa tempestività con cui va a sedare una rissa in
strada, perché i social non sono un universo altro, fanno parte del mondo
fisico, a tutti gli effetti.
Alla fine, forse, il più grande pregio di Adolescence, quello per cui verrà
ricordato, sarà aver portato a conoscenza del grande pubblico il concetto di
Incel, facendo da tramite tra le bolle intellettuali e la gente comune. Sul tema
non mi addentro perché c’è già una voce di Wikipedia molto dettagliata, ma a ben
guardare gli “involontariamente celibi” ci sono sempre stati: sono i cosiddetti
sfigati. Solo che, complice la rete e qualche guru un po’ folle e un po’
opportunista, invece di rimanere chiusi in sé stessi si sono ideologizzati,
hanno elaborato teorie deliranti, hanno trovato capri espiatori, specie nelle
donne, secondo loro troppo libere e troppo selettive.
Tuttavia, qualcosa di vero lo dicono. Il concetto di 80/20, ad esempio, secondo
cui all’80% delle donne piace il 20% degli uomini, e la selezione avviene
soprattutto in base all’aspetto estetico e allo status sociale. Basta prendere
una qualunque classe di liceo per rendersi conto che queste percentuali sono
persino ottimistiche: di solito ci sono tre o quattro individui che emergono e
piacciono a tutti gli altri. Poi gli incel sbagliano in tutto il resto,
innanzitutto nel non rendersi conto che questa regola vale anche a generi
invertiti, forse in modo ancora più crudele, perché per le femmine l’aspetto
fisico è ancor più culturalmente rilevante.
Nel film Il papà di Giovanna, di Pupi Avati, del 2008, una ragazzina uccide una
compagna di scuola per gelosia. È una Incel, anche se il nome non esisteva, e al
femminile non esiste tutt’ora. Forse le ragazze non fanno branco, non
ideologizzano, ma covano il dolore da sole, confidandosi con poche amiche.
Oppure un domani lo trasformeranno in altro, sfogheranno anche loro la rabbia
contro gli uomini, magari in modo diverso.
Poi, comunque, si cresce e alcune distanze si accorciano, ma mai del
tutto. Qualcuno migliora, qualcun altro si adatta, l’intelligenza acquista un
po’ di importanza. A volte, se si è fortunati, si trova l’amore vero, il lavoro
giusto, altre volte si accettano i propri limiti, ma quella proporzione crudele
nelle possibilità offerte dalla vita rimane per tutti, uomini e donne, e non
solo in campo sentimentale ma in molti aspetti dell’esistenza. Non siamo tutti
uguali, non abbiamo tutti le stesse opportunità. E non è colpa di questa società
cattiva basata sull’apparenza e sui soldi, né dei cellulari, né dei genitori, né
degli insegnanti, né di nessun altro. È la realtà, forse persino l’istinto
evolutivo. Di fronte a questo, crediamo davvero che togliere i social agli
adolescenti, oppure mettersi in cattedra a insegnare il modo giusto di amare,
possa risparmiare loro la crudeltà della vita?
Viviana Viviani
L'articolo “Adolescence” o sull’impossibilità di educare l’eccezione proviene da
Pangea.
Comunque, per fare qualche altro nome: Virginia Woolf, Peter Handke e Torgny
Lindgren. Così risponde Jon Fosse alla domanda di Eskil Skjeldal, “Quali
scrittori sono stati importanti per te?”, in Il mistero della fede,
testo-intervista del 2015 tradotto da Margherita Podestà Heir e pubblicato da
Baldini+Castoldi nel 2024.
La Woolf non bisogna averla letto per sapere chi sia stata, se si è di quelli
che leggono o che si spacciano per tali, e Handke è lo scrittore che leggo
compulsivamente nell’ultimo paio d’anni, ma: Torgny Lindgren? Sprovveduto io o
non è tra i soliti noti sul versante italiano – come del resto non lo era Fosse
stesso, prima che il Nobel desse l’impulso all’editoria che pubblica i premiati
eccellenti.
Per Wikipedia, la prima fonte a tiro, Lindgren è uno scrittore svedese morto nel
2017 che ha ottenuto la consacrazione “con la pubblicazione de Il sentiero del
serpente sulla roccia”.
Leggi Wikipedia e di Lindgren ne sai quanto prima, un quasi nulla, tranne che è
stato uno scrittore importante per Jon Fosse, al pari della Woolf e di Handke.
Bisogna leggerlo, bisogna leggere uno scrittore che nella considerazione di Jon
Fosse è importante quanto Virginia Woolf e Peter Handke, fosse solo per non
essere d’accordo, per restare nell’incomprensione, nel mistero della letteratura
che, come per tutti i misteri, per taluni è baggianata e per altri uno stare
sull’orlo di un abisso.
Se per Fosse “scrivere è una specie di lode, anche nella poesia più buia, una
lode del linguaggio”, come scrive Torgny Lindgren, cosa scrive?
In Perdonami madre di Jacques Chessex per Armando Dadò editore mi aveva ha
colpito il paratesto iniziale in cui si esplicita “l’intendimento” della collana
in cui è stato pubblicato, I cristalli – Helvetia Nobilis: “L’intendimento è che
questi testi contribuiscano a una riflessione sull’identità elvetica e sul lungo
cammino che ha portato al formarsi dello Stato attuale.” Secondo l’editore la
Svizzera è la sua letteratura. Così come l’Italia è la sua letteratura – finché
ne ha avuta e ne vorrà avere una. La letteratura dà un’identità a chi ne cerca
una, eventualmente per potersene poi disfare, ma qualcosa di cui potersi disfare
deve essere data, prima. Datemi un punto di appoggio e il mondo potrò o
sollevarlo o sprofondarlo ma niente punto d’appoggio niente mondo.
E l’Europa? L’Europa, per dirne una, non è e non può essere il suo riarmo, non
può consolidarsi nel segno del terrore di essere smantellata, distrutta, per
quanto legittimo possa essere il suo terrore di esserlo. Un’identità fondata sul
terrore è terribile di suo, è meglio perderla prima ancora di essersela data. E
l’Europa per fondarsi sul terrore non ha mica dovuto attendere la Russia di
Putin. La Fortezza Europa aka Bastiani si fonda sull’ansia securitaria fin da
subito, sulla sua paura di sparire, sullo spavento si noti la sua insignificanza
sopraggiunta.
L’identità europea moderna e contemporanea però potrebbe fondarsi tanto sulla
Woolf quanto su Handke. E in che misura Torgny Lindgren contribuisce, può
contribuire, all’identità europea, dunque anche alla mia che neppure sapevo del
suo contribuito, poiché sempre a detta di Fosse: “Tutti traggono beneficio dalla
matematica più avanzata, anche se non la comprendono, e tutti traggono beneficio
della migliore letteratura, anche se in apparenza non ne ricavano nulla”?
Cosa si ricava da Torgny Lindgren?
“Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso”, così
scrive in Miele, del 1995, pubblicato da Giano nel 2002, nella traduzione di
Carmen Giorgetti Cima.
È un passaggio narrativo nei paraggi dell’incipit, in auto ci sono le prime due
entità della trinità che domina il romanzo. In auto ci sono “la donna sola di
quarantacinque anni, una forestiera che veniva dal sud del paese e che aveva
scritto dei libri sull’amore e sulla morte e sui santi”, scrittrice di
pochissimi lettori, e l’uomo incaricato di ospitarla, che “portava una giacca di
pelle nera sopra la camicia scozzese” e che “Puzzava di putrefazione.”
La donna resterà innominata mentre l’uomo “Le confidò il suo nome, Hadar” e in
quella scelta del verbo, nella sua resa italiana, in quel ‘confidò’ si sente
tutta una tradizione letteraria sul potere magico del nome proprio, sul suo
potere segreto. Miele rintocca di riflessioni sul mistero dell’essere al mondo.
Niente è ancora accaduto eppure tutto è già accaduto. Miele è un romanzo con le
sue vicende, come tutti, ma è pure tutt’altro, un libro di sentenze, un libro
sul mistero del tempo, “Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati
morti”, sul mistero delle cose come la neve che è “una spuma di luce trasformata
in materia”, sul mistero del corpo umano che consiste “di un’unione armoniosa di
mobile e rigido, di fluido e solido, muco e smalto(…).”
Si può andare avanti, dire che Miele è “l’avventura del momentaneo
prolungamento della vita”, la storia dei due fratelli Hadar e Olaf che
sopravvivono grazie all’odio reciproco, come l’umanità di solito ecco, ma
preferisco fermarmi prima poiché l’ho sentito da subito, dall’inizio, cosa si
ricava leggendo Torgny Lindgren, al primo scambio tra la forestiera del sud e
l’uomo in putrefazione del nord:
> “Tutti i paesaggi e le strade che vi serpeggiano hanno le loro peculiarità e
> caratteristiche (…) Hanno le loro imperfezioni e loro difetti.”
>
> “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso.”
Questa strada è la nostra vicenda umana stretta e dritta che attraversa la
Storia mondiale sconnessa. Questo è il mistero della letteratura che rende amaro
persino il miele, dolce persino la putrefazione.
Quanto più sarebbero temibili gli europei se i miliardi invece che in armi li
spendessero in politica culturale, in letteratura, cinema, arte e via andare.
Certo a nulla servirebbe per renderci indistruttibili ma nessuno più lo è o può
più esserlo nell’epoca sorta e mai più tramontabile della Bomba:
> “L’età atomica non è mai finita. Abbiamo forse smesso di pensarla, presi dalla
> fantasia di pace eterna del momento unipolare americano. Eppure l’epoca
> apertasi nel 1945 non solo non è finita, ma è anzi «definitiva» nel senso del
> tutto particolare che le attribuiva Günther Anders: al suo interno la storia
> umana può giungere a termine”.
>
> da Se la bomba non ci protegge più della bomba, di Agnese Rossi, in “Limes”
> 1,2025.
Non potremo mai più essere indistruttibili, imbattibili, d’altronde non lo siamo
mai stati, ma potremmo diventare invitti perché non più orwellianamente
manipolabili a piacere. Quando ci si è dati un’identità non resta poi molto
altro che possano portarti via, se non la vita – ma la vita alla lunga che non è
poi chissà quanto lunga bisogna renderla in ogni caso. L’identità almeno sarà
servita a darti un senso, la sua invenzione, tra il nulla di prima e il nulla di
dopo, perché poi Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti.
E prima di nascere, idem.
Per essere europei bisogna essere anti UE? Con Fosse
> “L’intero progetto dell’UE è antieuropeo, l’essenza dell’Europa è la
> diversità, in tutti i sensi, mentre l’UE rappresenta, se non proprio
> l’uniformità, sicuramente l’omologazione (…). È scandaloso. L’omologazione,
> che sia dettata dal potere del denaro, da decisioni politiche o dalla
> burocrazia, mi ripugna profondamente. Io sono un grande sostenitore
> dell’Europa ed è proprio per questo che sono contro l’UE.”
Per dovere di verità va precisato che Fosse trovava scandaloso il divieto di
vendita dello snus, tabacco svedese, nel 2015 il ReArm Europe plan era di là da
venire. Il divieto di vendita dello snus è scandaloso, sia, ma pure il ReArme
Europe plan per com’è stato escogitato non scherza.
Quanto è illusorio immaginarsi, grazie alla letteratura, come persone circondate
dal mistero impenetrabile di un’identità che ciascuno potrebbe reinventarsi ma
soltanto secondo il proprio piacere mai imposto, mai imponibile? …Il dilemma
dell’identità, per di più, non è che non abbia creato più problemi di quanti ne
abbia risolti, ammesso ne abbia mai risolto qualcuno, ma per l’identità vale
come per la Bomba.
Per dirlo con altre parole di Agnese Rossi – che le pronuncia a proposito della
teoria della deterrenza nucleare – giocare con la teoria dell’identità
“continuerà a servire finché esisteranno le armi atomiche. Cioè ancora per molto
tempo, visto che è impossibile disinventarle.” Disinventare il feticcio
dell’identità è impossibile ma inventarsene di altre e di nuove sì, è possibile.
È il compito e il mistero della letteratura.
Perché non possiamo continuare a vivere così ma continueremo a vivere così lo
stesso.
antonio coda
*In copertina: Eva Bonnier, Geor Pauli. Studio, 1884 ca.
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