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La vita agrissima 2. Fenomeni, lamentosi, lecchini: 7 tipi di scrittori da social
Come se la passano oggi gli scrittori? Stanno in giro per librerie? Si sono dati alla macchia, scomparendo dalla mondanità? Oppure stanno a giornate sui social? Ecco, piuttosto l’ultima. Dove vivono oggi gli scrittori, quelli bravi e quelli ciuchi, quelli famosi e quelli sconosciuti? A giornate sui social a pontificare su tutto, su ciò che conoscono e su ciò che non conoscono. Come qualsiasi cittadino normale? Ebbene sì, come ogni persona normale. Ma è pur vero che lo scrittore non è tanto normale, come figura sociale (non social) intendo. Ma questa è soltanto una stupida illazione. Personalmente passo troppo tempo su facebook e quando me ne accorgo mi faccio schifo, ma proseguo comunque in questa oscena attività. Un amico bibliotecario, una volta scrisse su facebook che si sarebbe allontanato per un po’ dai social perché voleva scrivere. Alcuni discutono di tutto; altri parlano solo di libri. E mi chiedo: esisterà in futuro qualcosa di cui scrivere che sarà fuori dai social, dalla rete, dalle piattaforme online, dalle riviste digitali? Lo spero, ma non credo. Non moriremo cartacei, come non siamo morti democristiani (si diceva così una volta…). Insomma, chissà come andrà a finire? E solitamente è proprio questo che interessa tutti: come andrà a finire… Dunque, in questa seconda puntata della “Vita Agrissima”, affronteremo alcune tipologie dentro le quali gli scrittori (e si intende al solito tutta la compagine: scriventi, poeti e poteastri, ghost, ecc.), a differenza della prima puntata, non hanno alcun riferimento reale. Tutto quello che segue è inventato… *  Critici e ipocriti “Ho letto il libro di Tizio. Intanto, per me, c’è un errore sintattico alla fine di pagina 137. Poi come fa il personaggio di Caio a parlare con quel tono? È inverosimile”. E tu chiedi – tutto avviene tramite messaggistica, nulla è ancora pubblico – “ma la storia? La storia è bella?”. E lo scrittore criticone risponde che è senza infamia e senza lode, ma gli manca l’ultimo capitolo. Il giorno dopo leggi il suo post sui social: “Quando lo stile di un autore dimostra ancora una volta la forza della narrativa italiana. Lo conosco bene e so che lui è maestro nel trovare il giusto tono per ogni personaggio, come dimostra Caio in questo suo ultimo lavoro. Complimenti Tizio, è il tuo libro migliore”… Sipario. * Lecchini Dicesi lecchino chi si complimenta in modo eccessivo, senza ragioni valide per farlo. Di solito il lecchino agisce nei confronti di un collega più famoso o reputato più importante, e che, a suo avviso, potrebbe aiutarlo nelle sue prossime “mosse letterarie”. Uno dei modi migliori è sollevare uno scrittore affranto da qualche questione extraletteraria, confortandolo con un commento sotto al suo post malinconico, tipo: “non ti curare di questi sfaceli quotidiani, tu hai la letteratura che ti (ci) conforta, e in questo campo sei un maestro”. La sottospecie è il controlecchino simpatico, cioè colui che prova a conquistare la confidenza di uno scrittore che reputa più addentro alle cose editoriali, usando l’ironia, lo sfottò, l’ammicco, l’occhiolino. La tattica è più sfrontata, ma se funziona maggiormente efficace, perché l’opera di lecchinaggio tout court stucca facilmente. Ahimé. * Lamentosi “Se un editore, dico uno, avesse compreso per tempo il senso profondo di questo libro che ho scritto ormai 10 anni fa, forse oggi avremmo compreso meglio la questione del [inserire un argomento a piacere]”. Questo lamento pare più adatto alla saggistica, ma sta bene pure nei settori letterari della narrativa e della poesia. Il lamento non è soltanto relativo a una pubblicazione mancata, ma anche a un libro che ha avuto poca risonanza, in cui l’editore non si è speso in promozione e da cui l’autore auspicava maggiore eco mediatica. Solitamente ai lamentosi viene bene anche una seconda parte di orgoglio risentito in cui scrivono: “comunque, in un mondo editoriale caduto così in basso, sono felice di non aver preso parte a tale riflusso commerciale”. Olé. * Fenomeni Dicesi fenomeno colui che pensa di essere più figo degli altri. La categoria è vastissima, di cui una sottospecie, forse la peggiore, è quella dei fenomeni che condiscono i loro post di esecrabile falsa umiltà. Tipo: “sono seduto a un tavolino fronte mare, ho ritrovato un vecchio libro di Gogol e mi infliggo questa medicina, mentre tutti intorno a me sono curvi sopra i loro cellulari”. Tra i fenomeni ci sono gli assertivi, cioè quegli scrittori che credono di essere un’autorità in materia (che ne so, di gialli, di fantasy, di qualcosa) e tracciano post come fossero confini statuali. A puro titolo di esempio quel che segue. Sottotesto non scritto: [attualmente sono il miglior narratore di genere poliziesco]. Testo del post sui social: “nel genere poliziesco una buona storia necessita di due cose fondamentali X e Y, perché soltanto così abbiamo la storia perfetta”. E sotto sbrodolamento di commenti entusiastici da parte dei followers. Evviva.  * Ingrati Non so se il numero degli scrittori ingrati sui social sia alto o basso. Certamente l’ingratitudine è una delle attività più crudeli. Mettiamo che abbiate organizzato la presentazione di un libro per conto di una casa editrice. Avete invitato l’autore del libro e lo avete messo in contatto direttamente con l’editore, tipo Giulio Einaudi o Elvira Sellerio (meglio citare persone scomparse…) – è ovviamente un esempio incongruo. Ecco! Alla fine dell’evento lo scrittore fa un bel post sui social, tagga tutti e ringrazia tutti, tranne voi. Perché? Certi comportamenti umani sono insondabili, ma anche parecchio stronzi! Tiè! *  Citazionisti “Come non essere d’accordo con questa frase di Franz Kafka: [segue frase]”. “Come non sottoscrivere questa massima di Seneca: [segue massima]”. “Come non emozionarsi di fronte a questa poesia di Auden: (seguono versi)”. Grazie al pene! Non avete scelto citazioni dal Dizionario etimologico storico dei termini medici di Enrico Marcovecchio. Kafka, Seneca, Auden. Vi piace vincere facile eh? Ma c’è anche chi, sui social, lancia sfide di citazioni, tipo questa: “Indovinate chi è il mio scrittore preferito (non andate a cercare su google, furbacchioni): Svetta su entrambi un Himalaya di vite in movimento”.  E poi gli autocitazionisti. Ecco un plausibile esempio: “Sgomento, sgomento di una guerra ingiusta/ senza cuore avanzano coloro che non restano umani. Non sono parole di Ghandi e nemmeno di Tolstoj, questi versi li trovate nella mia ultima raccolta, Il cielo diviso. #nowar”. Forza!  * Autoprodotti Sono coloro che hanno scritto un testo, l’hanno impaginato a piacere, hanno scelto un’immagine autoprodotta, e hanno mandato tutto in stampa presso una piattaforma tipografica digitale. Hanno ricevuto a casa un certo numero di copie del loro romanzo e adesso ne lodano le qualità sui social. E sotto valanghe di cuoricini dei parenti. I più astuti tra quelli che si autoproducono i libri, senza un editore, sono coloro che convincono l’amic* del cuore a fare il post in vece loro e tratteggiare tutte le qualità del racconto. Amen! Alessandro Agostinelli *In copertina: un’opera di Roland Topor L'articolo La vita agrissima 2. Fenomeni, lamentosi, lecchini: 7 tipi di scrittori da social proviene da Pangea.
October 24, 2025 / Pangea
Debambinizzare il bambino. Intorno a “Triste tigre” e ad altre aggressioni
Questa estate io e V. ci assicuravamo che mia figlia e suo figlio non annegassero mentre giocavano a riva con le onde basse. Lei a me: “Un bambino impiega meno di dieci secondi per annegare. C’è da dover stare molto attenti, quando annega il bambino non si dibatte. Si paralizza. Va giù a fondo, immobile.” Io e V. sorvegliavamo e parlavamo dei casi estivi dello sbrindellato costume nazionale: il gruppo social “Mia moglie”, il sito Phica.Eu. Lei a me: “Capisci la responsabilità che sento a crescere un figlio, un maschio? E se un domani diventa lui quello che pubblica le foto delle sue compagne in un gruppo per soli uomini fondamentalmente soli? O persino le mie.” Io a lei: “Non è che dobbiamo diventare tutti Dominique Pelicot. L’hai letto Vivere con gli uomini della Manon?”. E lei a me: “Tu l’l’hai letto Triste tigre della Sinno?” Poi l’ho letto. Avrei voluto leggerlo tutto di un fiato, per doverci respirare all’interno il meno possibile. Ci sono pagine dove si sta come in cantina, nell’odore di muffa e violenza, col dubbio sia il proprio, quell’odore. Verso la metà ho dovuto interrompermi, per riprendermi, riprendere fiato. È quando la Sinno cita una poesia della Pizarnik: “Ricordo la mia infanzia/ quando ero un’anziana.”  In Triste tigre, Neri Pozza, pensa ha vinto il Premio Strega Europeo nel 2024, è insopportabile la parte dell’uomo-padre-abusante, quindi potenzialmente la mia?, quella del figlio di V.?, all’interno della storia che non è una storia-inventata, emblematica-e-basta come nel caso della Lolita di Nabokov, ma una storia-storia che chi scrive si sente in dovere di scrivere come non fosse bastato il doverla vivere. Insopportabile è la parte che ha dovuto subire e a cui ha dovuto reagire Neige, che racconta di essere stata stuprata da bambina dal patrigno, per anni. Neige è una vittima che non ci sta a lasciarsi inscrivere nel protocollo vittimario ma che non per questo si allinea alla retorica sfinente sulla resilienza secondo cui una vittima può smetterlo di esserlo, può riscattarsi, e se non ci riesce, beh, allora la colpa diventa anche sua. Triste tigre non è soltanto la storia di una bambina stuprata che rifiuta di essere guardata solo sotto questa lente così come sa che il suo guardare non può più prescindere dall’esserlo stata. È un libro sul potere, e sulla scrittura, che è un contropotere. Come ci si devittimizza? Scrivendone? Scriverne “è ancora un progetto dell’aggressore.” Un appagamento al suo narcisismo. Si scrive nonostante chi ci ha fatto del male, nonostante il godimento che chi ci ha fatto del male trarrà dal nostro renderlo un personaggio principale, memorabile a modo suo. Perché chi scrive e scrivendo fa letteratura scrive nonostante i limiti della scrittura, i limiti del linguaggio, i limiti del dicibile. Anche se al di là del limite non è detto ci sia terra incognita da esplorare. Tante volte, solo cantine e precipizi, o onde troppo alte. “Io so che la verità non è nel linguaggio. So che la verità non è da nessuna parte.” Dicendola meglio, sfuggendo alla gabbia secondo cui la donna è sempre vittima dell’uomo altrimenti non è abbastanza donna lei così come l’uomo non è abbastanza uomo se non ne è carnefice: la vittima scriva, ma il carnefice legga. La Sinno scrive da scazzata a ragion veduta, non le va di andare per il sottile, se ti sta bene ascolti, leggi, altrimenti vai pure, lì sta la porta d’uscita se hai bisogno di un po’ d’aria e lì quella del cesso se ti si rivolta lo stomaco, fai tu. Quindi scrive benissimo. Scrive sapendo di stare scrivendo, facendo i conti con i rischi banalizzanti e estetizzanti della scrittura. L’offrire una porta verso la quale defilarsi, da poter prendere quando si preferisce per venirne fuori in qualunque momento, è un grande atto di brusca gentilezza da parte della Sinno.  > “Nel bambino tutto è spalancato. Un bambino non può aprire o chiudere la porta > del consenso. Non arriva alla maniglia.”  Triste tigre è un magnifico libro di brusca gentilezza del pensiero che non arretra, che non si mette in bella, che non pretende consenso, non lo postula. La libertà se esiste è quella di poter dissentire, a partire dalle proprie pulsioni, angosce, paure. Arrivo dalla lettura della Sinno dai diari, bellissimi, della Plath – bellissimi nonostante siano dovuti passare prima dalle mani testamentarie di Ted Hughes – perciò ho sentito in modo particolare il passaggio in cui la Sinno racconta di aver bruciato il suo primo diario per impedire che il patrigno stupratore, leggendolo, potesse “entrare ancora di più nella mia testa”:  > “Il giorno dopo ho bruciato il quaderno nella stufa.(…) Ho detto addio al > diario, non solo a quei pezzetti di carta ma al concetto stesso di diario, > quel giorno e per il resto dei miei giorni. Non potevo permettermi di > costruire con le mie mani un oggetto che mi rendeva così facilmente > accessibile, che mi metteva ancora di più alla mercé di una qualunque mente > decisa a controllarmi e a nuocermi.”  Damaged-for-life. Nelle prime pagine dei diari la Plath diciottenne si racconta della molestia subita da parte di Ilo che ha “un fortissimo accento tedesco, la faccia abbronzata, intelligente, increspata in un sorriso. Anche il suo corpo robusto e muscoloso era abbronzato e i capelli raccolti in un fazzoletto bianco.” La Plath con Ilo ha lavorato in un campo di fragole, sono diventati amici, ingenuamente fiduciosa lo segue nel capannone, per vedere se Ilo ha finito “il ritratto di John”. “Lui stava fra me e la porta, sorridente. Un gesto e la sua mano mi ha afferrato il braccio.”  La Plath piange per lo spavento. Ilo la lascia andare. Ilo non finge alla Plath stesse piacendo quello a cui la stava forzando, come fa l’Humbert Humbert di Lolita, come fa il patrigno della Sinno.  Che alle figlie possa capitare, se proprio deve capitare, d’incappare negli Ilo e mai nei patrigni alla Humbert Humbert? La Plath al tempo dell’episodio aveva diciotto anni. Lolita nel romanzo di Nabokov ne ha dodici. La Sinno quando iniziarono gli stupri ne aveva otto. Che i figli possano leggere la Sinno, la Plath, Nabokov, per farsi orrore prima di commetterne? La Plath e Ilo escono dal capannone: occhiatine, sorrisini, secondo gli altri non le era successo nulla che non avrebbe voluto le succedesse, “Ma loro lo sanno. Lo sanno tutti. E che cosa posso fare io, contro tutta quella gente…?”  La Sinno ha il coraggio di non definire ripugnante il patrigno: perverso, ma non ripugnante. Ripugnante è ciò che le ha fatto. Il patrigno della Sinno è stato un uomo piacente, ammirato nella società montana dove vivevano. Potrebbe esserlo ancora. Ha scontato la sua pena. Si è rifatto una vita. Rifatto una famiglia. La speranza è non abbia ricommesso gli stessi abusi.  Parere della sorella della Sinno: “Lei è sicura di no, che lui non lo avrebbe mai fatto. Lui dice così, e lei ci crede. Perché? Perché loro erano figli suoi, sangue del suo stesso sangue, loro non li avrebbe mai toccati.” E il sangue mi si raggela. È un padre affidabile uno padre che rassicura le proprie figlie facendo intendere loro che correrebbero il rischio di essere stuprate da lui solo se non fossero del suo stesso sangue? Ritorna la normalità da vampiri analizzata in Sangue del mio sangue di Monya Ferritti. I vampiri raccomandabili cavano solo il sangue dei figli e delle figlie degli altri. Non negando la vigoria di cui il patrigno si autocompiaceva la Sinno è doppiamente coraggiosa, non mostrifica somaticamente il suo stupratore per garantirsi un ruolo da vittima perfetta. L’orco per esserlo non occorre non abbia la pelle rosea di un principe azzurro o l’appeal virile standard di una guida alpina. Non occorre abbia un pene insignificante come un Napoleone o inutilizzabile come il Popeye in Santuario di Faulkner. Il patrigno stupratore è un uomo bello e capace di atti di eroico salvataggio, attraente e ammirato, una brava-persona secondo gli altri che non hanno dovuto vivere sotto lo stesso tetto, che da bambini non sono stati trascinati in cantina per venirne stuprati. Quando il carnefice non lo sembra affatto ricade sulla vittima il sospetto non sia poi vittima del tutto, che sia anzi carnefice a parimerito, che lo sia reciprocamente, che tocchi a lei convincere del contrario, mettendo chi legge in condizione di crederle sulla parola. La Sinno racconta senza ricorrere alle scorciatoie e alle strategie di chi, scrivendo, ha il potere di deciderlo lei come-sono-andate-le-cose. “Ma allora a cosa serve tutto questo se tutti noi siamo d’accordo su tutto fin dall’inizio?” Una lezione di letteratura, quando lo è, è una lezione di coraggio autentico, intellettuale, ed è l’unica lezione di vita che ne valga la pena. L’arrendevolezza reoconfessa del patrigno in Triste tigre quasi consente l’empatia: è uno stupratore a sua volta stuprato in adolescenza dai preti. La Sinno smonta un mito che avevo fatto mio, mi sa autoconsolatorio:  > “I vari studi che ho consultato sugli aggressori sessuali indicano che circa > il 20 per cento degli abusanti di bambini sono delle ex vittime. Una cifra > lievemente superiore all’incidenza del fenomeno sulla popolazione globale. > Questi studi indicano inoltre che il ciclo vittima-aggressore è soprattutto > una convinzione fortemente ancorata nella popolazione, e che essere stati a > propria volta vittime durante l’infanzia è sì un fattore di rischio, ma non > una condizione necessaria né sufficiente per diventare a propria volta > aggressore.”  Le vittime non è detto debbano diventare carnefici a loro volta, con buona pace per esempio di chi giustifica le azioni militari di Israele in quanto vorrei-vedere-te-se-il-tuo-popolo-fosse-stato-già-vittima-di-genocidio, ma: carnefici senza essere stati vittime prima? Carnefici dal-nulla? Io che mi dicevo: non posso diventare un carnefice perché non sono stato mai fatto oggetto di carneficina. Io che credevo bastasse rispondere a V.: “Perché tuo figlio non diventi un carnefice basterà non lo sia tu con lui.”  È pensabile potersi pensare terzi rispetto alla diade vittima-carnefice? Ricordo la conclusione di Valentina Tanni in Exit Reality, Nero edizioni: quand’anche mancasse tutto il resto, c’è Internet – ciò che Internet ha reso accessibile – che c’ha traumatizzato tutti rendendoci, post-trauma, potenzialmente carnefici, di altri e di noi stessi. E ancora: se qualcosa non succede direttamente a me non sta comunque succedendo anche a me quando lo vengo a sapere? Ciò che è stato inflitto alla Sinno e a troppi altri bambine e bambini, che viene inflitto a altri bambini e bambine proprio ora mentre ne scrivo, non sta succedo anche a me, certo in infinitesima parte ma tanto ne basta, mentre ne leggo? Come possiamo fingere di non udire il canto in coro dei bambini come nella città sterminata dei morti raccontato da Antonio Moresco in Canto di D’Arco? Si è sempre vittime di almeno un sopruso, di una insensibilità, di un rifiuto, ma restando al male-grave, alle violenze da reato: il male fatto agli altri diventa di per sé la dimostrazione del male fattibile e appena si diventa vittima di questa consapevolezza si diventa anche imitatori ipotetici, carnefici potenziali. Leggere Sinno significa rendersi conto che non esistono storie di vittime e carnefici, esistono solo storie di vittime, alcune delle quali convinte che il diventare dei carnefici possa dare loro l’illusione di potersi sentire per una volta non vittime soltanto.  Scriverne non significa diffondere il male, le sue codarde inverecondie, fargli pubblicità. Il male per quanto vanitoso prolifera molto meglio nell’omertà che nella denuncia. Scriverne di per sé non basta per impedirlo, siccome si può scrivere soltanto di un male già compiuto, già patito, poiché a scrivere del male che sta per compiersi si passa per Cassandre sbertucciate dai carnefici che mai consentirebbe gli si guastasse la festa prima che loro la facciano a coloro a cui hanno intenzione di farla.  Si scrive, almeno questo, perché chi legge non possa osare dire di non saperne o di non averne potuto sapere nulla. “È a partire da questa conoscenza intima, a partire da quest’odio, che io scrivo.” E si scrive perché prendere la parola significa riprendersi il potere di usarla per affermare sé stessi, riprendersi, riprendere fiato, farlo diventare voce.  La Sinno cita la frase spesso attribuita Oscar Wilde: “Tutto nel mondo è sesso tranne il sesso. Il sesso è potere.” Lo stupro non è un atto sessuale, è un atto di dominio. Scriverne è contestare quel dominio. Dissentire. Scrivere non cancella il male ma non gli concede l’ultima parola. Lo beffa. “Tutti vogliono proteggersi dall’incendio”, scrive la Sinno che non appicca l’incendio, lo mostra per quel che è, che scrive dal fuoco e dal fuoco per dirla con il lispectoriano Jonny Costantino di La mano bruciata, e dall’incendio nessuno può proteggersi. Tanto vale bruciare con dignità se non addirittura con stile.  Se dovessi spiegare a mia figlia o al figlio di V. cosa è accaduto alla bambina raccontata dalla Sinno, la bambina che è stata la Sinno stessa e che la Sinno non ha mai potuto essere, così come la Sinno lo ha dovuto spiegare a sua figlia, userei la parola unchilding, ovvero «privare dell’infanzia». È la parola a cui ricorre Francesca Albanese nel terzo rapporto da Relatrice speciale ONU del 2023, sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese, come riporta lei stessa ne libro Quando il mondo dorme, Rizzoli.  C’è da stare molto attenti, quando il bambino è debambinizzato non si dibatte. Si paralizza. Va giù a fondo, immobile. E noi con lui. antonio coda *In copertina: John Singer Sargent, Portrait of Thomas McKeller, 1917 ca. L'articolo Debambinizzare il bambino. Intorno a “Triste tigre” e ad altre aggressioni proviene da Pangea.
October 21, 2025 / Pangea
Rassegnatevi, Milano un’identità non l’ha mai avuta. Siamo soltanto diventati vecchi…
In questi giorni, in questo periodo, su varie testate (anche su Pangea, qui) si parla molto della Milano che è stata e che non è più, di una Milano differente, diversa, più alternativa, più identitaria e meno vetrina di lustri post yuppies, di grattacieli alberati e di olimpiadi di Cortina in città. Tutto vero e tutto molto giusto.  Soprattutto la lente d’ingrandimento è puntata sulla Milano degli anni Novanta (perché chi scrive di questo, compreso il sottoscritto, era adolescente all’epoca) e la lamentela solitamente è legata a certi luoghi che non esistono più, a locali come il Rolling Stones (da anni una palazzina) il Plastic (che però ha chiuso quest’anno dopo anni di perdita d’identità) il Leoncavallo (anche questo chiuso da poco, ma da quanto tempo era fuori dai radar musicali?) Le Scimmie (ma chi ci andava davvero?) e proseguendo con negozi di dischi, sale prove, locali ed altri locali e sempre ancora locali. Io, che come tutti in quegli anni (ma a dire il vero più dal 2000 in poi) ho frequentato quei club, quei posti di ritrovo, quei bar, quelle sale da ballo o da concerti oggi mi sento sicuramente un po’ orfano (ma ho anche quarantacinque anni, come gli altri, e ad un certo punto ha ancora un senso parlare di posti che frequentavo a venti?) ma anche soddisfatto, forse, di averli vissuti e frequentati.  E oggi? Oggi Milano è cambiata totalmente. I locali e le sale da ballo tanto amate dai giovani alternativi si sono trasformati in negozi, bar newyorkesi che fanno ancora il caffè americano usando l’espresso allungato con l’acqua, palazzi vertiginosi che sfidano nuvole e traffico aereo, spazi modaioli e offrono altre realtà, altre possibilità, altri servizi per altri fruitori. Non solo agli studenti stranieri e ai turisti ma anche a nuovi giovani, a ventenni che, nati dopo il duemilaedieci, se ne fottono (giustamente) del Rolling Stones, del Leoncavallo, del Govinda, della Stecca perché sono nati con altro (meglio o peggio non importa, è solo il nostro parere di “vecchi”) e in quell’altro ci sguazzano a colpi di Instagram, di social, di incontri gestiti in maniera differente da come venivamo gestiti i nostri.  Ora mi domando; ma se i quarantenni/quarantacinquenni di oggi sono anche loro in balia di Instagram, dei social, delle uscite notturne fino alle quattro del mattino che cosa pretendono? Pure gli stessi locali di allora? Non si accorgono di essere fuori tempo massimo? E allora, chi negli anni Novanta aveva più di quarant’anni che cosa avrebbe dovuto rimpiangere? I night? Gli american bar? Il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro?  Chi ha detto che Milano era fatta solo di aggregazione dovuta a locali notturni e centri sociali? Le gallerie, i palazzi, il rumore del tram, certi parchi (come quello di Trenno) e qualche pizzeria sono ancora lì a testimoniare una città bellissima (solo per i milanesi, sia chiaro) proprio perché anonima e anomala. Milano cambia perché il tempo cambia, la società cambia. Punto. Non c’è altro. E che sia meglio o peggio è qualche cosa di ingiudicabile. Certo, ci mancano i Sonic Youth in questo o in quel posto ma è solo un nostro pallido e smorzato ricordo. Milano è piena di locali dove si suona musica. Arci Bellezza, Torchiera, Spazio Pontano, Teatro dell’arsenale, Auditorium San Fedele, e molto altro ancora. Una città che dal punto di vista musicale, teatrale, cinematografico è più viva che mai e forse anche più di allora. Certo, il contesto attorno è cambiato e oggi ci sono meno case a ringhiera e più piste ciclabili (ma un tempo non ci si lamentava che a Milano non c’erano le piste ciclabili?) ma l’essenza è la stessa. Le sale prova aggregative come il Jungle Sound (dove provavano Ritmo Tribale e Afterhours) sono scomparse ma è scomparsa anche una scena (ed è giusto così, le scene evolvono e cambiano, le cose per fortuna finiscono e Agnelli è finito a X-Factor) e ne sono riapparse altre.  Nessun allarme per la trap o scemate varie. Negli anni Novanta la maggior parte delle persone ascoltava gli Ace of Base e i Backstreet Boys e, alla fine, togliendo l’enfasi social, non è la stessa cosa che accade oggi? La differenza con allora è l’algoritmo, che ha scardinato tutto facendoci vivere in un infinito tempo presente dove tutto accade senza considerare che; quando tutto accade alla fine non accade proprio niente. Certo, nel mio nostalgico ricordo da bambino di una Milano sparita c’è lo zoo ai giardini di Porta Venezia, il lunapark le Varesine e il primo Burghy. Oggi però, se ancora ci fosse, io farei chiudere lo zoo, non andrei mai al lunapark e sicuramente digiunerei piuttosto che concedermi un panino in un fast food. Le cose cambiano, non restano le stesse. Così Milano ha perso un’identità che non era di tutti ma solo di alcuni o di pochi. Era la nostra visione della città(perché la maggior parte delle persone non andava al Teatro Smeraldo a sentire Paolo Conte e nemmeno a sentire qualche concerto underground al Rainbow Club, preferiva fare avanti e indietro tra Duomo e San Babila come fa ancora oggi). Una visione elitaria e anche un po’ stronza perché era la “nostra” Milano e non una Milano che aveva identità. Milano, purtroppo, l’identità non ce l’ha mai avuta. Eccetto forse nel dopoguerra (guardate come è fotografata nel film “Cronaca di un amore” di Rossellini).  Certo anche a me non piace questa versione ruspante di New York (la New York di oggi chiaramente mica quella degli anni Ottanta) fatta di centri commerciali, catene di ristoranti ovunque, locali costosissimi e continui week anche piuttosto inutili. Ma non ci posso fare niente, l’unica cosa buona da fare è vivere altrove (l’ho fatto e alla fine torno sempre qui, chissà perché…) oppure cercare le tracce vere della Milano di ieri che ancora oggi è rimasta. E non sono i locali, i centri sociali o la fiera di Sinigallia che bisogna andare a stanare. Ma la città in sé, le vie e i vialoni rimasti come allora. Viale Vincenzo Monti, Via Mac Mahon, le zone di Bande Nere, Primaticcio, Baggio. E poi ancora Piazzale Buonarroti, viale Gran Sasso ecc… Milano sono strade, case, portoni. Le città sono anche questo. Senza considerare quartieri che si sono trasformati (in bene o in male giudicate voi) in zone arabe, peruviane, cinesi e che offrono una Milano comunque differente da quella Milano che splende tanto suoi giornali con i suoi alberi dentro grattacieli, i suoi vetri riflettenti o i suoi dirompenti palazzi inaccessibili.  Le città saranno sempre fatte così e la stessa cosa vale per Parigi, New York, Lisbona, Londra, Berlino. Sempre in continuo cambiamento asfaltando tutto quello che c’era in favore di altro. Bello o brutto ha poca importanza. Quello è importante solo per noi e purtroppo è troppo poco.  Giosuè Gorinzi *In copertina: Antonio Lafrery, La Grande Città di Milano, 1573; Milano, Civica Raccolta Achille Bertarelli L'articolo Rassegnatevi, Milano un’identità non l’ha mai avuta. Siamo soltanto diventati vecchi… proviene da Pangea.
October 18, 2025 / Pangea
Fine di un’epoca. Milano è il simbolo di un mondo stanco, che non appartiene più a nessuno
La mia amica aveva appena finito di vomitare sopra a una grata di ventilazione della metropolitana in Largo Cairoli. Sputò ancora per un po’, si asciugò la bocca con il dorso della mano, e poi andammo a sederci per terra sul marciapiede davanti alla porta d’ingresso della Standa – oggi Decathlon – insieme ai suoi amici punkabbestia e ai loro cani.  “Come stai?”, le chiesi. “Non ci pensare neanche. Non te la faccio provare. Guarda come cazzo ti riduce”.  Non se la iniettava in vena, se la fumava dentro alla carta stagnola.  La ammiravo. Volevo essere come lei. Sembrava libera agli occhi di una quindicenne con un padre che la sera non la faceva ancora uscire da casa.   * Siamo nella Milano della fine degli anni ’90. Il Luna Park ‘Le Varesine’ aveva chiuso da poco, lasciando il posto a “via Mike Bongiorno” e ai grattacieli. Alla Darsena c’erano ancora il parcheggio e la fiera di Sinigaglia, con le bancarelle di roba dell’usato e i punkabbestia che si ritrovavano al vecchio Mercato Comunale. Si spacciava e si dormiva sotto ai portici di Piazza Vetra. Si pippava la Speed sulle panchine della piazzetta davanti alla Basilica di Sant’Eustorgio. Si andava alla festa della semina e del raccolto al Leonkavallo.  Durante gli anni ’90 i ragazzi si bucavano seduti a terra tra le auto parcheggiate. Ne vedevo tanti mentre tornavo a casa da scuola in Porta Venezia, quando Porta Venezia era ancora un quartiere di figli di portinai come me e di gente bene che convivevano serenamente. Non c’erano ancora locali gay e ristoranti eritrei. In Buenos Aires i negozi erano negozi di vestiti, e non solo di cibo, come oggi, e non cambiavano insegna ogni due mesi.  A Milano c’erano pochissimi turisti. La gente visitava l’Italia, ma mica passava di qui. Per fare cosa?Quando andavi in ferie al mare da qualche parte e dicevi che eri di Milano, ti pigliavano in giro e ti guardavano con pietà: poveri voi e la nebbia, poveri voi e il grigiore, poveri voi e lo smog, poveri voi e il lavoro sfrenato. Poveri voi.  * I bambini che non avevano i genitori abbienti che li iscrivevano a un’infinità di sport, avevano il trenino dei Giardini Indro Montanelli e le macchinine al Parco Sempione. Punto.  C’erano due grattacieli, il Pirelli e la torre Breda, costruita negli anni ’50. Io sono cresciuta lì dentro. Mio padre faceva il portinaio. Ogni giorno, di nascosto, andavo al ventisettesimo piano per guardare la città dall’alto. Si vive meglio con un orizzonte davanti agli occhi da ammirare, lo diceva anche Thoreau nel suo Walden.  Mi mettevo a piangere ascoltando la musica. Fissavo quei minuscoli serpenti luminosi scorrere sull’asfalto e spesso pensavo di farla finita. Poi, come un’astronauta che torna dallo spazio, scendevo sulla terra e diventavo ancora più consapevole della nostra inutilità e piccolezza. E pensavo: forse è così che si sentono i ricchi che vivono ai piani alti. Credono di non far parte di questo mondo, che nulla li tocchi e li riguardi. Stanno sulla Terra giusto per qualche istante, per sbrigare i loro affari, poi se ne tornano nelle loro torri. E allora pensavo che bisognerebbe buttarli giù quei grattacieli, e far vivere tutti allo stesso livello, per non dimenticarci che siamo uguali, invece di essere disposti a tutto per andare a vivere lassù. Perché poi te lo dimentichi che non sei nessuno e che nasci e muori comunque a mani vuote. * Milano è cambiata dopo l’Expo. Non ce ne siamo accorti subito. È stato come vivere con una moglie che si trascurava da tempo. Ci siamo guardati attorno, e improvvisamente ce la siamo trovata invasa da una quantità di persone mai vista prima che camminava piano, troppo piano, e di gente che fotografava cose.  * Milano ci ha cambiato.  Milano ci ha sconfitto.  Milano ci ha temprato.  Milano ci ha stancato.  Milano, non ti riconosco più. * Milano è come una vecchia donna che si è rifatta, che ha perso il suo fascino ma che se la tira ancora. Non perde mai la speranza. Al massimo si rifà il look e si trova il Toyboy.  Milano e la sua mania di risplendere, di nascondere lo squallore, di spostarlo verso le periferie, manco fosse Parigi.  Milano e le passeggiate a Isola che diventano sfilate. Milano, che quando vivi in belle zone ti fa sentire addosso gli sguardi della gente che si chiede subito: “Chi è? Cosa fa? Quanto guadagna per potersi permettere di vivere lì?” Milano, che per trovare un po’ di pace te ne devi andare a passeggiare tra i morti al Cimitero Monumentale.  Milano come una bomba ad orologeria che è pronta a implodere.  La verità è che a Milano non c’era un cazzo di bello, a parte il Castello e il Duomo. Ora ci sono i grattacieli e quei quartieri che qualcuno ha fatto diventare “cool” grazie a Instagram. E poi Armani che muore. Il Leonka che chiude. Il Plastic che chiude.  I negozi che chiudono.  I maranza.  I figli di papà. Le mogli degli uomini ricchi che piazzano bambini come pensione di vecchiaia.  Le case che non si trovano o che costano una follia. La gente costretta ad andarsene.  Una città che espelle chi l’ha nutrita.  L’aria che non si respira. Le troppe auto. Il caldo che sale dal cemento e ci soffoca, ci annienta, ci consuma.  Le persone sempre più infelici, sole, nervose, schizzate, di fretta. Non si rendono conto di scappare da sé stesse. Milano è il simbolo della fine di un’epoca, di un mondo stanco che non ha più voglia di appartenere a nessuno se non a sé stesso.  Siamo tutti pronti ad andarcene.  Quando troveremo i soldi e il coraggio.  Dejanira Bada L'articolo Fine di un’epoca. Milano è il simbolo di un mondo stanco, che non appartiene più a nessuno proviene da Pangea.
September 29, 2025 / Pangea
Intorno alla magnifica invenzione della “Poetry Cam”, la macchina fotografica poetica
C’era una volta un tizio che si sedeva davanti a un tavolo. Aveva un quaderno e una penna. Scriveva. Oppure aveva una macchina da scrivere, o un computer. E scriveva. Questa è la favola che oggi ci illude esista ancora un tempo per scrivere. Non voglio dire che non esista più. Dico solo che oggi ha uno statuto debole. Li vedo già i colleghi poeti e scrittori che storcono la bocca: ma come, l’autore! su dai, la creatività! Sono anch’io disperato come loro, mi muovo a tentoni in un presente che rosola a fuoco lento (ma neanche troppo lento) le certezze intellettuali e letterarie di soli vent’anni fa. Non so se sia una notizia vera. Oggi esiste questo universo delle cosiddette “fake news” che avvelenano menti e coscienze degli individui. Spesso si diffondono tramite i social, perché sono il mezzo in cui tutti noi siamo più indifesi di fronte al desiderio di scovare qualcosa da mettere in mostra nella nostra vetrina, sul nostro profilo. Comunque, ho fatto le dovute verifiche del caso: è in vendita, a varie centinaia di dollari (sotto il migliaio comunque). È la Poetry Camera, cioè la macchina fotografica poetica. Si inquadra qualcosa e, poco dopo, quest’aggeggio sputa una poesia composta dalla sua intelligenza artificiale. A inizi Duemila lavoravo in radio e abitavo a Milano. Sui Navigli c’era un tizio che scriveva, a pagamento, poesie su commissione. Bastava dirgli a chi volevi regalare la poesia e fornirgli qualche elemento tematico o caratteriale della persona e lui ti sfornava una bella poesia lì per lì. Pensate che, negli anni ’60, pure Jack Kerouac, il vagabondo perditempo sulle strade d’America, si era rintanato nella capanna di Henry Miller, per scrivere un romanzo su commissione. Era Big Sur. E se pure il più anarchico degli scrittori aveva ceduto a un libro a richiesta, voleva dire che tutto era possibile. E infatti, a distanza di alcuni decenni, il possibile è diventata un’invenzione di Carolyn Zhang e Ryan Mather, due informatici creativi che hanno preso un dispositivo di Raspberry Pi che cattura le immagini e, interagendo con GPT-4 di OpenAI, genera poesie, produce testi poetici, pure di generi differenti. Si può prediligere gli haiku, oppure un sonetto, o un limerick, o altro. E già a questo punto ci sarebbe una miriade di considerazioni da fare. La più evidente è che con questa macchina fotografica poetica non dobbiamo nemmeno durare fatica a scrivere un elenco di parole che l’intelligenza artificiale usa per comporci sopra una poesia. La caratteristica della Poetry Cam è che si inquadra un bel tramonto e via, la macchina secerne la poesia stampata sopra un pezzo del rullino di carta, e il dispositivo non salva in digitale questo testo. Praticamente, in un baleno siamo di fronte all’uso avanzato dell’intelligenza artificiale e all’uso arcaico della carta come unico supporto che “ricorda”, cioè archivia il risultato. A essere uno psico-qualcosa o un socio-qualcosa ce ne sarebbero di discorsi da fare… Alla parte romantica di me stesso, di fronte a questo rilievo della carta, verrebbe da dire “vedi, la carta è ancora il supporto migliore, la carta non tradisce”. Ma poi una vocina cinica mi dice che magari qualcuno in antichità, quando inventarono la carta, potrebbe aver detto “questa novità della carta non durerà, vuoi mettere le tavolette di pietra incise, le tavolette di pietra non tradiscono”. Alessandro Agostinelli  L'articolo Intorno alla magnifica invenzione della “Poetry Cam”, la macchina fotografica poetica proviene da Pangea.
July 18, 2025 / Pangea
Letteratura da manuale. Per capire i dazi bisogna leggere Maupassant (mica Fubini…)
Quanto mi piacciono i libri dai quali esco sapendone qualcosa in più rispetto a quando ci ero entrato! Volevo fosse il caso dello spillato di Federico Fubini, omaggiato dal “Corriere della Sera” del trenta giugno. Titolo: Dazi. Sottotitolo: Il secolo della guerra economica. In copertina: guantone a stelle strisce contro guantone a stelle europee, perché l’immaginario italo-americano resta affezionato allo Stallone di Balboa, e nel sottopancia un istogramma in dissolvenza, come fossero grattacieli lynchiani.  In effetti i guantoni, il sinistro sulla destra che cozza col destro sulla sinistra, potrebbero essere dello stesso pugile, per cui il dubbio: è una guerra autolesionista, e schizoide, se non proprio l’ennesimo show per un pubblico pagante pago di vedere gli altri darsi apparenti botte da orbi, in pieno stile wrestler, restando cieco di fronte all’evidenza che a finire pestato più di tutti resterà lui, pubblico spettatore, e non certo i proprietari dell’arena, i fornitori, i preparatori atletici, i lottatori in scena, gli sponsor dell’evento, le emittenze varie e eventuali? L’estenuante guerra vinta dai ricchi che continuano a dichiararne, terrorizzati come sono dall’idea di esserlo meno. Guerre combattute dai poveri, magari lo fossero solo di spirito, contro i poveri di volta in volta convinti di averlo finalmente trovato il ricco che renderà ricco anche loro, alla faccia di chi povero lo resterà anche stavolta perché avrà puntato sul ricco sbagliato, neanche l’errore madornale non fosse continuare a stare nello stesso gioco della guerra su cui si fonda la straricchezza di quei ricchi che sanno arruolare i poveri con la sola promessa di ricchezza, guadagnandoci pure, arricchendosi assecondando la propria natura, del resto i poveri non stanno tanto a sottilizzare tra una povertà e una ancora peggiore. Almeno per un po’ si saranno illusi di qualcosa, un altro niente di fatto è pur sempre meglio del solito niente di prima.   Metti il dazio, togli il dazio, questo dazio qua spostalo là e quello là mettilo qua, la politica doganale trumpiana è esilarante, è il gioco degli “assetti del potere” che sta creando “ostacoli al commercio internazionale” facendo barcollare nella sola Europa “trenta milioni di posti di lavoro”, ciò non toglie non serva un Dario Fo per metterla in opera buffa: sembra proprio di stare nella favola dell’imperatore che brontola nell’attesa di quel bimbo che lo punterà a dito per dirgli quant’è nudo, stufo – l’imperatore – di dover continuare a andare in giro chiappe all’arie rischiando di buscarsi polmoniti, alla sua età!, attorniato da comprimari il cui massimo sforzo critico è civettare un Presidente, ma quanto le dona la calzamaglia color carne! Che lo scenario economico e quindi geopolitico mondiale sia favoloso lo scrive Fubini stesso, ricordando come degli “organismi internazionali dalle regole condivise quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale o l’Organizzazione mondiale del commercio” ormai resta “quasi solo il guscio: vuoto come la corazza del Cavaliere inesistente del romanzo di Italo Calvino.” L’avverarsi delle ambizioni della sinistra più antagonista, per opera del suo antagonista più spavaldo e beffardo.  Di macroeconomia e dunque del nocciolo della politica cosa mai ne posso capire io lettore di letteratura, in particolar modo di quegli scrittori che tante volte provocano tali buchi a bilancio cheppoi va da sé gli editori debbano stampare chef, tiktoker, ex-presidenti del Consiglio e giallisti tinti di nero per non doversi riciclare del tutto in copisterie di catena? Non ho le carte, non faccio deal, sono profano al punto da trovare brillante una sintesi associativa che immagino del tutto usurata per indicare gli effetti dell’economia finanziaria su quella reale, “da Wall Street a Main Street”, e da mandare giù come pillola prescritta dello specialista la descrizione di stablecoin: le chiamiamole valute “digitali private sostenute da depositi, per lo più in dollari, di valore equivalente”.   Sono il corrispettivo italiano di quegli americani, stimati il 38% del totale, “che non possiedono azioni quotate alla Borsa di New York e che non hanno altro che debiti”, convinti – erroneamente – “di avere poco a che fare con l’andamento di Wall Street e molto da perdere dalla globalizzazione”, dico erroneamente perché se il 38% di americani azioni non ne ha, il restante 62% sì, e se si rovinano economicamente due americani su tre, il terzo non si arricchirà certo a loro spese, anzi: loro le spese le ridurranno, potendosele comunque permettere, e sarà proprio il terzo, ulteriormente colpito dalle contrazioni del mercato, a rimetterci il poco che aveva e vedere ancora più lontana la possibilità di acquistarla una Ferrari, ora che l’azienda “ha alzato i suoi listini del 10% prima ancora che entrassero effettivamente i vigori i dazi al 25% sulle auto in arrivo negli Stati Uniti.” Per dire: le conseguenze della guerra dei dazi non potranno mai essere le stesse per chi dovrà rinviare all’anno prossimo l’acquisto di una Ferrari e per chi già da ora deve pagare “spesso anche il 28% sulle loro carte di credito: interessi da mafia dei colletti bianchi, che in Europa verrebbero puniti per il reato di usura”. Da lettore non specialista ho l’ambizione anti-economica che Vollmann rielabori in centinaia e centinaia di pagine psichedeliche il materiale che Fubini precipita nel capitolo che in Dazi ne conta soltanto tredici: La storia nelle vite di tre uomini: Clinton, Stiglitz e Vance. Per essere più sintetici di Fubini: Stiglitz, nato in una steel town 82 anni fa, aveva capito per tempo “che la globalizzazione beneficia i detentori di capitale e i lavoratori con diplomi di college o con master in università prestigiose, nei Paesi avanzati; ma svantaggia chi non ha né qualifica né capitali” e aveva fatto in modo che il messaggio arrivasse a Clinton quando era lui il Presidente. Clitton il 20 aprile del 1999 dalla libreria della Casa Bianca disse: “Questo è il momento di agire per impedire che le crisi finanziarie raggiungano livelli catastrofici in futuro.”  Dopodiché non si agì affatto, e qui entra in scena Vance, nato in una steel town circa quaranta anni dopo Stiglitz, solo che Vance non diventa un economista anche premio Nobel e saggista prolifico tanto acquistato quanto ignorato come Stiglitz: Vance a 32 anni pubblica Elegia americana prima di diventare vicepresidente degli States a 40, rappresentando in pieno la narrazione dell’elettorato di Trump: uno che non ci crede più ai rimedi macroeconomici di uno Stiglitz, uno che rivuole la fabbrica in casa anche se da casa sua sta espellendo i migranti indispensabili per coprire la forza lavoro richiesta. Vance vuole riscatto ovvero vendetta subito, Promuovendo l’America Grande Ancora, il cui acronimo un italiano forse rende meglio l’idea. E se sostituissimo Promuovendo con Costruendo?  Riflessione: lo scrittore di autofiction Vance ha e ha avuto un effetto sul mondo cosiddetto reale molto più sensibile dello stimato e inascoltato saggista Stiglitz. Dipende dai lettori che raggiungi, da come li raggiungi, da cosa gli racconti, se quello che racconti a quegli stessi lettori piaccia doverlo sentirselo dire, dopo essersi dovuti prendere persino l’impegno di leggerlo, per ascoltarlo.   E cosa dovrebbe gridare il bambino europeo al petulante imperatore nordamericano che lascia indizi peggio di Pollicino, sbottando ogni tanto un vagamente depistante meglio un jockstrap in filo spinato che un fottuto kimono di seta cinese? Scrive Fubini: chiamare col suo nome la coercizione economica fra Stati che è l’ultima moda del commercio internazionale, poiché  > “In sostanza Trump e Bessent [il Segretario del Tesoro] potrebbero stare > cercando di mettere l’Europa davanti a una brutale alternativa: comprare > debito americano man mano che viene emesso – e comprarlo malgrado rendimenti > contenuti – oppure rischiare di perdere l’accesso al mercato dei consumatori > americani e a quel che resta dell’ombrello di sicurezza del Pentagono.”  Che gli unici valori realmente difesi dalle civiltà egemoni odierne o meno, quelli per i quali sono disposte ad architettare aggressioni verso tutto e tutti dalle soft alle ultrahard, siano quelli che ci stanno in una borsa, specialmente se la Borsa è la loro, per capirlo mica bisognava aspettare il ventunesimo secolo e leggere Fubini! Bastava l’Ottocento e leggere Balzac. O Bel Ami di Maupassant, che secondo me è la più bella biografia mai scritta sui normalissimi uomini di potere, e dei secoli precedenti al 1885, anno in cui fu pubblicato, e di quelli a venire. Per le mire dell’America made-in-Trump verso la per nulla virginale Europa può valere il trattamento che George Duroy riservò alla ammansita, cavalcata e pussata via signora Walter: lei  > “D’un tratto, smise di lottare e, vinta, rassegnata, si lasciò spogliare.” antonio coda L'articolo Letteratura da manuale. Per capire i dazi bisogna leggere Maupassant (mica Fubini…) proviene da Pangea.
July 8, 2025 / Pangea
“Adolescence” o sull’impossibilità di educare l’eccezione
Per ogni serie, ma anche film o libro, di particolare successo, il dibattito web e social ripropone sempre più o meno lo stesso percorso. Le prime recensioni saranno positive, dopo un crescendo di entusiasmo si griderà al capolavoro, poi arriverà qualche accusa di sopravvalutazione e qualche timida critica. Man mano se ne aggiungeranno altre, sempre più negative, al che gli entusiasti replicheranno con elogi più circostanziati. Solo al termine di questa spirale dialettica si potrà finalmente guardare all’opera per quello che realmente è, per capire davvero cosa ha detto di nuovo e cosa ne resterà.  Nel caso di Adolescence il dibattito social è intenso, non tanto per quanto riguarda le qualità tecniche – la serie è oggettivamente ben fatta e ben recitata – ma per il coinvolgimento emotivo che ha creato. La discussione però, a mio parere, è giunta spesso a conclusioni anche più inquietanti della serie stessa.  Premetto subito che non ho figli e quindi, come si dice, non posso capire, ma se i nullipari sono spesso catalogati come eterni adolescenti, allora forse in questo caso il nostro punto di vista può offrire uno sguardo utile. Il target della serie non sono i ragazzi, ma i loro genitori, cioè per lo più la generazione X. Si capisce già dal titolo, nessun adolescente si autodefinirebbe così, e la citazione degli A-ha nell’ultima puntata toglie ogni dubbio.  Tale puntata si concentra sulla famiglia di Jamie, il tredicenne assassino, e mentre lo spettatore si aspetta che venga svelato un abuso domestico all’origine di tutto, i genitori del ragazzo si rivelano invece persone oneste, di sentimenti veri, e pur commettendo errori umani risultano essere, per usare i termini di Winnicott, una famiglia “sufficientemente buona”, non responsabile del crimine del figlio, e la serie si conclude senza giudicare, lasciando molte domande aperte. Eppure il pubblico adulto vuole risposte e le reazioni si polarizzano in due tendenze. La prima: è tutta colpa dei social, dobbiamo togliere i social ai ragazzi, almeno fino a 16 anni, ma meglio ancora fino a 18. I social sono il male, sono il demonio, sono persino peggio della droga. La seconda: no, togliere i social non basta, e poi troverebbero il modo di usarli comunque. Dobbiamo parlare con i ragazzi, ci vuole il dialogo, dobbiamo comunicare, fare l’educazione affettiva, l’educazione sentimentale,  bisogna parlare, parlare, parlare. A questo punto mi è tornato in mente che, secondo studi recenti, la violenza, nelle nuove generazioni, non è aumentata. Pare essere aumentata invece in modo esponenziale l’ansia.  Oggi di bullismo si parla apertamente e c’è molta più attenzione di un tempo, c’è lo psicologo a scuola, roba che la generazione X se la sognava, allora se ti picchiavano e lo dicevi a casa di solito ti sentivi dire che era colpa tua perché non ti sapevi difendere, e lo psicologo era ritenuto il dottore dei matti, da cui stare alla larga.  Eppure non è stata risparmiata, a questa nuova generazione di adolescenti, l’ansia. Una pandemia la cui l’emergenza si è protratta molto oltre la fine del pericolo reale, un riscaldamento globale esposto con toni apocalittici, ed ora una guerra europea altamente improbabile, ma già narrata come fosse attuale.  Ma forse, nonostante tutte le attenzioni alla fragilità e alla diversità, le radici dell’ansia stanno più a fondo, e possiamo intuirle proprio osservando come gli adulti hanno reagito alla serie, più ancora che la serie stessa. Gli adolescenti assassini sono di fatto una percentuale trascurabile, un’assoluta eccezione. Uno zero virgola seguito da molti altri zeri. In Italia sono ancor più rari che in Inghilterra, dove la serie è ambientata. È molto più frequente morire in un incidente stradale o in un incidente sul lavoro, piuttosto che essere vittima o carnefice di un fatto di sangue. Eppure nulla muove i genitori quanto giustificare la necessità di controllare le emozioni dei figli, cosa tra l’altro impossibile, poiché non chiare nemmeno a loro stessi. Paradigmatica in questo senso è una frase tratta dal film dal titolo …e ora parliamo di Kevin, del 2011, di Lynne Ramsay, sullo stesso tema di Adolescence. Quando la madre domanda al figlio perché abbia commesso quel tremendo delitto, lui risponde “Credevo di saperlo, ora non ne sono più così sicuro”. Ora, non voglio dire che i genitori non possano o non debbano fare nulla. Si insegna l’educazione, il rispetto, a non praticare la violenza, ad accettare un no, a rifiutare con gentilezza, a chiedere scusa. Tutto questo nella normalità già avviene, sia in famiglia che a scuola, e ha un ruolo importante nel rendere migliore la normalità stessa, ma non sfiorerà mai il campo dell’eccezione imponderabile.  Il salto emotivo, il distacco dalla razionalità che porta una persona apparentemente tranquilla a commettere un omicidio o qualche altra grave forma di violenza viene da tali profondità dell’animo umano, segue dinamiche talmente complesse e inaccessibili anche alla scienza, che più il crimine è grave, più paradossalmente genitori, insegnanti e contesto sociale, a meno di abusi gravi, ne sono innocenti.  Vale per il ragazzino che accoltella la compagna di scuola, per i femminicidi, per la pedofilia, per i delitti familiari. L’idea di eliminare l’imponderabile tramite l’educazione rischia di portare a imposizione e a ipercontrollo. Gli adolescenti di oggi sono solo apparentemente più liberi. In realtà, complice la tanto vituperata tecnologia, sono sempre geolocalizzati, il registro elettronico non permette loro nemmeno di bigiare a scuola o di mentire su un brutto voto in attesa di rimediarlo, eppure ai genitori non basta mai, e con la motivazione dei “pericoli”, reali ma di entità spesso inferiore alla loro percezione emotiva, finiscono per diventare sempre più intrusivi nel privato, nei sentimenti e nella sessualità. Ma chi mette al mondo un figlio deve accettare che crescendo rimanga un mistero, chiuda la porta della propria stanza, metta al centro del proprio mondo affettivo persone diverse dal genitore, o l’unico effetto sarà moltiplicare l’ansia. Riguardo ai social: contengono il mondo intero, con tutto il suo bene e il suo male, ma è impensabile sottrarli agli adolescenti di oggi. La generazione X, e quelle precedenti forse ancor di più, avevano un campo d’azione molto limitato nella socialità. Se non ti trovavi bene con i compagni di scuola o con gli amici del campetto, finiva lì, non c’erano alternative. Questo per alcuni andava bene, per altri poteva essere fonte di sofferenza. Con i social puoi conoscere amici con i tuoi stessi interessi, magari strambi e nerd, e se vivono nella tua stessa città puoi incontrarli. Piaccia o no, ci sono ragazzi, specie i più particolari e introversi, per cui esprimersi senza l’ingombro del corpo è più facile. Certo, ci sono anche le insidie, ma in questo senso si possono condurre battaglie concrete. Ad esempio, credo che di fronte a un reato di cyberbullismo la polizia dovrebbe intervenire con la stessa tempestività con cui va a sedare una rissa in strada, perché i social non sono un universo altro, fanno parte del mondo fisico, a tutti gli effetti.  Alla fine, forse, il più grande pregio di Adolescence, quello per cui verrà ricordato, sarà aver portato a conoscenza del grande pubblico il concetto di Incel, facendo da tramite tra le bolle intellettuali e la gente comune. Sul tema non mi addentro perché c’è già una voce di Wikipedia molto dettagliata, ma a ben guardare gli “involontariamente celibi” ci sono sempre stati: sono i cosiddetti sfigati. Solo che, complice la rete e qualche guru un po’ folle e un po’ opportunista, invece di rimanere chiusi in sé stessi si sono ideologizzati, hanno elaborato teorie deliranti, hanno trovato capri espiatori, specie nelle donne, secondo loro troppo libere e troppo selettive.  Tuttavia, qualcosa di vero lo dicono. Il concetto di 80/20, ad esempio, secondo cui all’80% delle donne piace il 20% degli uomini, e la selezione avviene soprattutto in base all’aspetto estetico e allo status sociale. Basta prendere una qualunque classe di liceo per rendersi conto che queste percentuali sono persino ottimistiche: di solito ci sono tre o quattro individui che emergono e piacciono a tutti gli altri. Poi gli incel sbagliano in tutto il resto, innanzitutto nel non rendersi conto che questa regola vale anche a generi invertiti, forse in modo ancora più crudele, perché per le femmine l’aspetto fisico è ancor più culturalmente rilevante.  Nel film Il papà di Giovanna, di Pupi Avati, del 2008, una ragazzina uccide una compagna di scuola per gelosia. È una Incel, anche se il nome non esisteva, e al femminile non esiste tutt’ora. Forse le ragazze non fanno branco, non ideologizzano, ma covano il dolore da sole, confidandosi con poche amiche. Oppure un domani lo trasformeranno in altro, sfogheranno anche loro la rabbia contro gli uomini, magari in modo diverso. Poi, comunque, si cresce e alcune distanze si accorciano, ma mai del tutto. Qualcuno migliora, qualcun altro si adatta, l’intelligenza acquista un po’ di importanza. A volte, se si è fortunati, si trova l’amore vero, il lavoro giusto, altre volte si accettano i propri limiti, ma quella proporzione crudele nelle possibilità offerte dalla vita rimane per tutti, uomini e donne, e non solo in campo sentimentale ma in molti aspetti dell’esistenza. Non siamo tutti uguali, non abbiamo tutti le stesse opportunità. E non è colpa di questa società cattiva basata sull’apparenza e sui soldi, né dei cellulari, né dei genitori, né degli insegnanti, né di nessun altro. È la realtà, forse persino l’istinto evolutivo. Di fronte a questo, crediamo davvero che togliere i social agli adolescenti, oppure mettersi in cattedra a insegnare il modo giusto di amare, possa risparmiare loro la crudeltà della vita?  Viviana Viviani L'articolo “Adolescence” o sull’impossibilità di educare l’eccezione proviene da Pangea.
April 5, 2025 / Pangea
Torgny Lindgren, l’UE e il mistero dello snus
Comunque, per fare qualche altro nome: Virginia Woolf, Peter Handke e Torgny Lindgren. Così risponde Jon Fosse alla domanda di Eskil Skjeldal, “Quali scrittori sono stati importanti per te?”, in Il mistero della fede, testo-intervista del 2015 tradotto da Margherita Podestà Heir e pubblicato da Baldini+Castoldi nel 2024. La Woolf non bisogna averla letto per sapere chi sia stata, se si è di quelli che leggono o che si spacciano per tali, e Handke è lo scrittore che leggo compulsivamente nell’ultimo paio d’anni, ma: Torgny Lindgren? Sprovveduto io o non è tra i soliti noti sul versante italiano – come del resto non lo era Fosse stesso, prima che il Nobel desse l’impulso all’editoria che pubblica i premiati eccellenti. Per Wikipedia, la prima fonte a tiro, Lindgren è uno scrittore svedese morto nel 2017 che ha ottenuto la consacrazione “con la pubblicazione de Il sentiero del serpente sulla roccia”. Leggi Wikipedia e di Lindgren ne sai quanto prima, un quasi nulla, tranne che è stato uno scrittore importante per Jon Fosse, al pari della Woolf e di Handke. Bisogna leggerlo, bisogna leggere uno scrittore che nella considerazione di Jon Fosse è importante quanto Virginia Woolf e Peter Handke, fosse solo per non essere d’accordo, per restare nell’incomprensione, nel mistero della letteratura che, come per tutti i misteri, per taluni è baggianata e per altri uno stare sull’orlo di un abisso.  Se per Fosse “scrivere è una specie di lode, anche nella poesia più buia, una lode del linguaggio”, come scrive Torgny Lindgren, cosa scrive? In Perdonami madre di Jacques Chessex per Armando Dadò editore mi aveva ha colpito il paratesto iniziale in cui si esplicita “l’intendimento” della collana in cui è stato pubblicato, I cristalli – Helvetia Nobilis: “L’intendimento è che questi testi contribuiscano a una riflessione sull’identità elvetica e sul lungo cammino che ha portato al formarsi dello Stato attuale.” Secondo l’editore la Svizzera è la sua letteratura. Così come l’Italia è la sua letteratura – finché ne ha avuta e ne vorrà avere una. La letteratura dà un’identità a chi ne cerca una, eventualmente per potersene poi disfare, ma qualcosa di cui potersi disfare deve essere data, prima. Datemi un punto di appoggio e il mondo potrò o sollevarlo o sprofondarlo ma niente punto d’appoggio niente mondo. E l’Europa? L’Europa, per dirne una, non è e non può essere il suo riarmo, non può consolidarsi nel segno del terrore di essere smantellata, distrutta, per quanto legittimo possa essere il suo terrore di esserlo. Un’identità fondata sul terrore è terribile di suo, è meglio perderla prima ancora di essersela data. E l’Europa per fondarsi sul terrore non ha mica dovuto attendere la Russia di Putin. La Fortezza Europa aka Bastiani si fonda sull’ansia securitaria fin da subito, sulla sua paura di sparire, sullo spavento si noti la sua insignificanza sopraggiunta.     L’identità europea moderna e contemporanea però potrebbe fondarsi tanto sulla Woolf quanto su Handke. E in che misura Torgny Lindgren contribuisce, può contribuire, all’identità europea, dunque anche alla mia che neppure sapevo del suo contribuito, poiché sempre a detta di Fosse: “Tutti traggono beneficio dalla matematica più avanzata, anche se non la comprendono, e tutti traggono beneficio della migliore letteratura, anche se in apparenza non ne ricavano nulla”? Cosa si ricava da Torgny Lindgren? “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso”, così scrive in Miele, del 1995, pubblicato da Giano nel 2002, nella traduzione di Carmen Giorgetti Cima.  È un passaggio narrativo nei paraggi dell’incipit, in auto ci sono le prime due entità della trinità che domina il romanzo. In auto ci sono “la donna sola di quarantacinque anni, una forestiera che veniva dal sud del paese e che aveva scritto dei libri sull’amore e sulla morte e sui santi”, scrittrice di pochissimi lettori, e l’uomo incaricato di ospitarla, che “portava una giacca di pelle nera sopra la camicia scozzese” e che “Puzzava di putrefazione.” La donna resterà innominata mentre l’uomo “Le confidò il suo nome, Hadar” e in quella scelta del verbo, nella sua resa italiana, in quel ‘confidò’ si sente tutta una tradizione letteraria sul potere magico del nome proprio, sul suo potere segreto. Miele rintocca di riflessioni sul mistero dell’essere al mondo.  Niente è ancora accaduto eppure tutto è già accaduto. Miele è un romanzo con le sue vicende, come tutti, ma è pure tutt’altro, un libro di sentenze, un libro sul mistero del tempo, “Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti”, sul mistero delle cose come la neve che è “una spuma di luce trasformata in materia”, sul mistero del corpo umano che consiste “di un’unione armoniosa di mobile e rigido, di fluido e solido, muco e smalto(…).”  Si può andare avanti, dire che Miele è “l’avventura del momentaneo prolungamento della vita”, la storia dei due fratelli Hadar e Olaf che sopravvivono grazie all’odio reciproco, come l’umanità di solito ecco, ma preferisco fermarmi prima poiché l’ho sentito da subito, dall’inizio, cosa si ricava leggendo Torgny Lindgren, al primo scambio tra la forestiera del sud e l’uomo in putrefazione del nord: >  “Tutti i paesaggi e le strade che vi serpeggiano hanno le loro peculiarità e > caratteristiche (…) Hanno le loro imperfezioni e loro difetti.” > > “Questa è una strada stretta e dritta attraverso un paesaggio sconnesso.” Questa strada è la nostra vicenda umana stretta e dritta che attraversa la Storia mondiale sconnessa. Questo è il mistero della letteratura che rende amaro persino il miele, dolce persino la putrefazione.  Quanto più sarebbero temibili gli europei se i miliardi invece che in armi li spendessero in politica culturale, in letteratura, cinema, arte e via andare. Certo a nulla servirebbe per renderci indistruttibili ma nessuno più lo è o può più esserlo nell’epoca sorta e mai più tramontabile della Bomba:  > “L’età atomica non è mai finita. Abbiamo forse smesso di pensarla, presi dalla > fantasia di pace eterna del momento unipolare americano. Eppure l’epoca > apertasi nel 1945 non solo non è finita, ma è anzi «definitiva» nel senso del > tutto particolare che le attribuiva Günther Anders: al suo interno la storia > umana può giungere a termine”. > > da Se la bomba non ci protegge più della bomba, di Agnese Rossi, in “Limes” > 1,2025.  Non potremo mai più essere indistruttibili, imbattibili, d’altronde non lo siamo mai stati, ma potremmo diventare invitti perché non più orwellianamente manipolabili a piacere. Quando ci si è dati un’identità non resta poi molto altro che possano portarti via, se non la vita – ma la vita alla lunga che non è poi chissà quanto lunga bisogna renderla in ogni caso. L’identità almeno sarà servita a darti un senso, la sua invenzione, tra il nulla di prima e il nulla di dopo, perché poi Quando moriamo, è come se di colpo fossimo sempre stati morti. E prima di nascere, idem. Per essere europei bisogna essere anti UE? Con Fosse  > “L’intero progetto dell’UE è antieuropeo, l’essenza dell’Europa è la > diversità, in tutti i sensi, mentre l’UE rappresenta, se non proprio > l’uniformità, sicuramente l’omologazione (…). È scandaloso. L’omologazione, > che sia dettata dal potere del denaro, da decisioni politiche o dalla > burocrazia, mi ripugna profondamente. Io sono un grande sostenitore > dell’Europa ed è proprio per questo che sono contro l’UE.”  Per dovere di verità va precisato che Fosse trovava scandaloso il divieto di vendita dello snus, tabacco svedese, nel 2015 il ReArm Europe plan era di là da venire. Il divieto di vendita dello snus è scandaloso, sia, ma pure il ReArme Europe plan per com’è stato escogitato non scherza. Quanto è illusorio immaginarsi, grazie alla letteratura, come persone circondate dal mistero impenetrabile di un’identità che ciascuno potrebbe reinventarsi ma soltanto secondo il proprio piacere mai imposto, mai imponibile? …Il dilemma dell’identità, per di più, non è che non abbia creato più problemi di quanti ne abbia risolti, ammesso ne abbia mai risolto qualcuno, ma per l’identità vale come per la Bomba. Per dirlo con altre parole di Agnese Rossi – che le pronuncia a proposito della teoria della deterrenza nucleare – giocare con la teoria dell’identità “continuerà a servire finché esisteranno le armi atomiche. Cioè ancora per molto tempo, visto che è impossibile disinventarle.” Disinventare il feticcio dell’identità è impossibile ma inventarsene di altre e di nuove sì, è possibile. È il compito e il mistero della letteratura. Perché non possiamo continuare a vivere così ma continueremo a vivere così lo stesso. antonio coda *In copertina: Eva Bonnier, Geor Pauli. Studio, 1884 ca. 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April 1, 2025 / Pangea