Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: vita & versi del poeta anarchico

Pangea - Thursday, November 13, 2025

È ben noto che gli autori liguri, tali per nascita o per adozione, hanno offerto un contributo decisivo alla poesia italiana del Novecento e quanto la Liguria e Genova sono spesso presenti nei loro versi: in quelli dei due liguri più famosi Camillo Sbarbaro ed Eugenio Montale e in quelli dei toscani Dino Campana e Giorgio Caproni. Una delle ragioni di questo fenomeno è da attribuirsi alla facilità dei rapporti offerti dalla collocazione geografica della Liguria: a Levante confina con la Toscana dei grandi poeti della nostra tradizione e a Ponente con la Francia dove a metà Ottocento si era avviato un nuovo modo di scrivere in versi. Ma se alcuni poeti liguri hanno ottenuto notorietà, altri invece sono caduti nell’oblio pur avendo contribuito non poco alla poesia italiana del Novecento e ora vorremmo far rivolgere l’attenzione a quanti ci sembra doveroso riproporre.

Il primo dei dimenticati che intendiamo ricordare è Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (Genova 1874-1919) che tra fine ’800 e inizio del ’900 era la figura di maggior rilievo nella vivace vita letteraria di Genova, innovativo ed estroso nello scrivere e noto per il suo modo bizzarro di vestirsi “come un cadetto di guascogna, giacchetta e calzoni corti e calze di cotone bianco d’un dubbio candore” ricordava Alessandro Varaldo, tanto apprezzato da Marinetti, allora nel capoluogo ligure per frequentarvi l’università, che tradusse e inserì la sua lirica La vendemmia in un’antologia della poesia italiana contemporanea pubblicata a Parigi nel 1899. Che Ceccardo avesse notevoli qualità lo avevano dichiarato apertamente Sbarbaro e Montale nei cui versi non mancheranno echi ceccardiani: il primo, definito da qualcuno poeta, rispose: “Poeta io? Poeta era Ceccardo. Che corpo sproporzionato per quel cuore fanciullo!”. Montale gli dedicò addirittura due quartine scritte nel 1923 e poi incluse tra le Poesie disperse:

Sotto quest’umido arco dormì talora Ceccardo,
partì come un merciaio di Lunigiana
lasciandosi macerie a tergo.
Si piacque d’ombre e di pioppi, di fiori di cardo.

Lui non recava gingilli: soltanto un tremulo verso
portò alla gente lontana 
e il meraviglioso suo gergo.
Andò per gran cammino. Finché cadde riverso. 

L’apprezzamento di Montale per Ceccardo è anche testimoniato dal verso iniziale della sua nota poesia “Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale” che riecheggia con evidenza l’incipit della poesia ceccardiana Pensiero: “Vanno, dandosi il braccio/ a passo e senza un detto”. Ma tra i suoi ammiratori c’era anche il personaggio che allora in Italia rappresentava in assoluto la poesia: Gabriele d’Annunzio. Si erano incontrati un paio di volte a Genova: nel 1908 quando al teatro Carlo Felice fu rappresentata la prima della Nave e il 5 maggio 1915 quando il Vate inaugurò a Quarto il monumento ai Mille. Nelle fotografie che ritraggono l’avvenimento, accanto al piccolo d’Annunzio si nota la mole di Ceccardo, il quale ebbe da lui aiuti concreti in momenti difficili della sua vita da maudit che pagò sulla sua pelle, con la miseria e quindi la malattia, la coerenza con le proprie idee: era più che un simpatizzante degli anarchici carraresi, frequentati negli anni giovanili trascorsi in Lunigiana a Ortonovo, il paese della madre, quando scrisse l’opuscolo a loro solidale Dai paesi dell’anarchia. In quel territorio tra Liguria e Toscana ai piedi delle Alpi Apuane alla vigilia della Grande Guerra diede vita alla “Repubblica Apua”, che riuniva artisti e intellettuali tra i quali un allora ignoto Giuseppe Ungaretti.

Ma Ceccardo dobbiamo ricordarlo soprattutto per la sua produzione in versi che troviamo nel volume Colloqui d’ombre. Tutte le poesie (1891-1919) uscito nel 2005 presso De Ferrari per le attente cure di Francesca Corvi. La prima silloge di Ceccardo, uscita nel 1895 – poi usciranno  Sonetti e poemi (1910) e postuma Sillabe e ombre (1925) –, già dal titolo era rivoluzionaria: Il libro dei frammenti, alla cui origine erano le prose liriche di Rimbaud, le  “illuminations” che davano vita a componimenti brevi estranei ai modelli della lirica italiana tradizionale e che affermavano che la poesia può essere fatta appunto di frammenti, poche parole sufficienti a esprimere sentimenti, pensieri e ricordi che lo scrittore vuole affidare alle pagine, quei frammenti che un po’ alla volta compariranno anche in Italia: in versi come il famosissimo ungarettiano “M’illumino d’immenso” e in prosa come i Frantumi (1913) di Boine e i Trucioli (1920) di Sbarbaro. Ma nel libro d’esordio di Ceccardo c’erano anche – eco dell’interesse diffuso per i poeti francesi a Genova, dove alcuni giovani avevano fondato riviste con tale orientamento –, traduzioni da Verlaine e dal citato Rimbaud, ma anche richiami a Leconte de Lisle, Tristan Corbière e Andrè Lemoyene.

Come sempre accade quando si guarda avanti, non mancano però i residui del passato e così in Ceccardo, oltre ai frammenti e al simbolismo, troviamo tracce di Leopardi e di Carducci, che a scuola era stato per lui il modello di poesia per eccellenza. La sua produzione in versi è stata copiosa e dagli esiti non sempre omogenei, dai temi oscillanti tra la descrizione di paesaggio e l’inno storico-politico ancora ricco di ideali risorgimentali, tra l’espressione di sentimenti amorosi e dolorosi per lo più familiari e i versi risentiti dell’impegno sociale, senza tralasciare i grandi interrogativi esistenziali; il suo è dunque un canzoniere ricchissimo, non privo di esiti retorici dove talora la declamazione e l’oratoria prevalgono sull’ispirazione, ma anche con esiti di grande delicatezza nei testi più brevi, spesso nati da una minima occasione di quotidianità. 

La poesia di Ceccardo è dunque quasi sempre sul filo di una lama che da una parte ha sotto di sé il vuoto della tradizione sostenuta dal vocabolario secolare dell’ufficialità letteraria dalla quale dura fatica a liberarsi e dall’altra l’apertura verso il nuovo, spesso sollecitato dalla sua innata volontà di ribellione. Quando però il poeta ha saputo – e ciò non è accaduto di rado soprattutto (paradossalmente) nei primi componimenti più che negli ultimi –, correre sul filo di quella lama, allora ha veramente percorso i primi passi risoluti verso la nuova lirica italiana perché, come ha osservato opportunamente Francesca Corvi 

“la sua poesia è la sublime compresenza di classicità e simbolismo, la sua voce esprime il delirio di un romantico col culto delle forme e la sua inquieta esperienza anticipa il fermento della deflagrazione che avrebbe portato alla nuova poesia italiana del Novecento”.

Francesco De Nicola

***

Poesie di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi

da Il libro dei frammenti (1895)

L’anfora

Vive un dolce ricordo di parole,
sopra un’anfora antica: una tranquilla
luce, per occhi d’or piove il sole
nel silenzio de’ vecchi alberi e brilla.

Dice il ricordo: “April, poche viole
qui fiorìa: e le irrorar a stilla a stilla
le mani degli Amanti umili e sole,
d’acqua raccolta al fonte de la Villa”.

Or da molti anni all’ombra quell’aprile
piegò il suo capo luminoso.  –  Amanti
e viole vanir.  –  Ma l’infantile

giuoco, l’Anima azzurra de la Villa
sa e ne bisbiglia per le tremolanti
ombre. L’anfora al sol levasi e brilla.

*

Testa di fauno (imitazione da P. Verlaine)

In un frascato – nido di verzura
sparsa d’oro – fra’ rami costellati
d’ enormi fiori, a bocche ampie foggiati,
– vivo – e in mezzo a la splendida pittura,

un Fauno pazzo, spalanca il suo grosso
occhio e morsica un fior coi bianchi denti;
il labbro come vin d’ottobre, rosso,
scoppia in riso tra le rame virenti,

e – rapida fama – la risata
s’effonde e squilla, garrula, pel folto;
la quiete che il bosco tien raccolto
par d’un volo di passere turbata.

*

Le cercatrici di pidocchi (da Arturo Rimbaud)

Quando un bimbo, di rossi crucci le tempia rose,
invoca il bianco sciame dei sogni ognor fuggenti,
sorgon presso il suo letto due grandi e maliose
sorelle da le fragili dita, d’unghie lucenti

E lo fanno sedere davanti a una vetrata
schiusa ove l’aria azzurra bagna un’orgia di rose;
e gli solcan la chioma pesante ed innaffiata
di guazza, con le dita terribili e graziose.

Egli ode la cadenza dei fiati lor tremanti
che olezzan di miel lungo, rorato e vegetal,
e che esse rompon d’anse: or salive schiumanti
contro ‘labbri; or desìo di baci che le assal.

Ode le loro ciglia batter ne l’odorosa
quiete: i loro dolci elettrici ditini
fan tra’ suoi grigi oblii, sotto l’unghie di rosa,
crepitare la morte de’ pidocchi piccini.

Il vin de l’indolenza ecco già in lui fermenta
– sospir di violino che spinge a delirar –
e in cuor gli balza e cala, poi che si affretta o allenta
la carezza, un assiduo desìo di singhiozzar.

*

da Sillabe e ombre (1925)

Pensiero

Vanno, dandosi il braccio
a passo e senza un detto… Ché il susurro
de le memorie è un filo
tenue d’oro che luce
ed il cor riconduce,
come in barca a un azzurro
misterioso asilo…
                              E senz’affanno
e senza un detto vanno…; ché il susurro
de le memorie è vena
d’acqua che divien fiume
per riviera serena:
riviera di raccolti alberi al lume
del dì che cade e sotto
li rispecchia tranquilli in verdi spechi
mentre alitano a torno i tremoli echi
di lontan’ opre in campi e borghi; e il trillo
cresce, presso, di un grillo.

*

da Poesie disperse

Per un compleanno primaverile
Amor e gioventù, arbore in fiore,
e rosignuolo al vento pellegrino…

…E tra le nubi luccica il mattino
per trame di ceruleo fulgore.
E dal breve odor di rosmarino.

*

A una fanciulla

E ancor non so come tu sia venuta
nel mio cammino. Forse fu il richiamo
d’una canzon? –  Forse il desìo d’un ramo
come tra nebbia a lodola sperduta?

April, ridendo, ti posò a la muta
porta del cuore. E quei, disciolto il gramo
tedio del verno, t’offerì un ricamo
di stelle d’oro e un suon di rima arguta.

Ci salutò l’Estate; e con la mano
di fiamma ne recò pel chiacchierio
di verd’ arbori e d’ acque, a monti, al piano.

E una sera l’Autunno ad una brulla
siepe ne fermò i passi ed il desìo,
e tu fuggivi. Lodola o fanciulla?

*In copertina: Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il sole nascente, 1904

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