È ben noto che gli autori liguri, tali per nascita o per adozione, hanno offerto
un contributo decisivo alla poesia italiana del Novecento e quanto la Liguria e
Genova sono spesso presenti nei loro versi: in quelli dei due liguri più famosi
Camillo Sbarbaro ed Eugenio Montale e in quelli dei toscani Dino Campana e
Giorgio Caproni. Una delle ragioni di questo fenomeno è da attribuirsi alla
facilità dei rapporti offerti dalla collocazione geografica della Liguria: a
Levante confina con la Toscana dei grandi poeti della nostra tradizione e a
Ponente con la Francia dove a metà Ottocento si era avviato un nuovo modo di
scrivere in versi. Ma se alcuni poeti liguri hanno ottenuto notorietà, altri
invece sono caduti nell’oblio pur avendo contribuito non poco alla poesia
italiana del Novecento e ora vorremmo far rivolgere l’attenzione a quanti ci
sembra doveroso riproporre.
Il primo dei dimenticati che intendiamo ricordare è Ceccardo Roccatagliata
Ceccardi (Genova 1874-1919) che tra fine ’800 e inizio del ’900 era la figura di
maggior rilievo nella vivace vita letteraria di Genova, innovativo ed estroso
nello scrivere e noto per il suo modo bizzarro di vestirsi “come un cadetto di
guascogna, giacchetta e calzoni corti e calze di cotone bianco d’un dubbio
candore” ricordava Alessandro Varaldo, tanto apprezzato da Marinetti, allora nel
capoluogo ligure per frequentarvi l’università, che tradusse e inserì la sua
lirica La vendemmia in un’antologia della poesia italiana contemporanea
pubblicata a Parigi nel 1899. Che Ceccardo avesse notevoli qualità lo avevano
dichiarato apertamente Sbarbaro e Montale nei cui versi non mancheranno echi
ceccardiani: il primo, definito da qualcuno poeta, rispose: “Poeta io? Poeta era
Ceccardo. Che corpo sproporzionato per quel cuore fanciullo!”. Montale gli
dedicò addirittura due quartine scritte nel 1923 e poi incluse tra le Poesie
disperse:
Sotto quest’umido arco dormì talora Ceccardo,
partì come un merciaio di Lunigiana
lasciandosi macerie a tergo.
Si piacque d’ombre e di pioppi, di fiori di cardo.
Lui non recava gingilli: soltanto un tremulo verso
portò alla gente lontana
e il meraviglioso suo gergo.
Andò per gran cammino. Finché cadde riverso.
L’apprezzamento di Montale per Ceccardo è anche testimoniato dal verso iniziale
della sua nota poesia “Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale”
che riecheggia con evidenza l’incipit della poesia ceccardiana Pensiero: “Vanno,
dandosi il braccio/ a passo e senza un detto”. Ma tra i suoi ammiratori c’era
anche il personaggio che allora in Italia rappresentava in assoluto la poesia:
Gabriele d’Annunzio. Si erano incontrati un paio di volte a Genova: nel 1908
quando al teatro Carlo Felice fu rappresentata la prima della Nave e il 5 maggio
1915 quando il Vate inaugurò a Quarto il monumento ai Mille. Nelle fotografie
che ritraggono l’avvenimento, accanto al piccolo d’Annunzio si nota la mole di
Ceccardo, il quale ebbe da lui aiuti concreti in momenti difficili della sua
vita da maudit che pagò sulla sua pelle, con la miseria e quindi la malattia, la
coerenza con le proprie idee: era più che un simpatizzante degli anarchici
carraresi, frequentati negli anni giovanili trascorsi in Lunigiana a Ortonovo,
il paese della madre, quando scrisse l’opuscolo a loro solidale Dai paesi
dell’anarchia. In quel territorio tra Liguria e Toscana ai piedi delle Alpi
Apuane alla vigilia della Grande Guerra diede vita alla “Repubblica Apua”, che
riuniva artisti e intellettuali tra i quali un allora ignoto Giuseppe Ungaretti.
Ma Ceccardo dobbiamo ricordarlo soprattutto per la sua produzione in versi che
troviamo nel volume Colloqui d’ombre. Tutte le poesie (1891-1919) uscito nel
2005 presso De Ferrari per le attente cure di Francesca Corvi. La prima silloge
di Ceccardo, uscita nel 1895 – poi usciranno Sonetti e poemi (1910) e
postuma Sillabe e ombre (1925) –, già dal titolo era rivoluzionaria: Il libro
dei frammenti, alla cui origine erano le prose liriche di Rimbaud,
le “illuminations” che davano vita a componimenti brevi estranei ai modelli
della lirica italiana tradizionale e che affermavano che la poesia può essere
fatta appunto di frammenti, poche parole sufficienti a esprimere sentimenti,
pensieri e ricordi che lo scrittore vuole affidare alle pagine, quei frammenti
che un po’ alla volta compariranno anche in Italia: in versi come il famosissimo
ungarettiano “M’illumino d’immenso” e in prosa come i Frantumi (1913) di Boine e
i Trucioli (1920) di Sbarbaro. Ma nel libro d’esordio di Ceccardo c’erano anche
– eco dell’interesse diffuso per i poeti francesi a Genova, dove alcuni giovani
avevano fondato riviste con tale orientamento –, traduzioni da Verlaine e dal
citato Rimbaud, ma anche richiami a Leconte de Lisle, Tristan Corbière e Andrè
Lemoyene.
Come sempre accade quando si guarda avanti, non mancano però i residui del
passato e così in Ceccardo, oltre ai frammenti e al simbolismo, troviamo tracce
di Leopardi e di Carducci, che a scuola era stato per lui il modello di poesia
per eccellenza. La sua produzione in versi è stata copiosa e dagli esiti non
sempre omogenei, dai temi oscillanti tra la descrizione di paesaggio e l’inno
storico-politico ancora ricco di ideali risorgimentali, tra l’espressione di
sentimenti amorosi e dolorosi per lo più familiari e i versi risentiti
dell’impegno sociale, senza tralasciare i grandi interrogativi esistenziali; il
suo è dunque un canzoniere ricchissimo, non privo di esiti retorici dove talora
la declamazione e l’oratoria prevalgono sull’ispirazione, ma anche con esiti di
grande delicatezza nei testi più brevi, spesso nati da una minima occasione di
quotidianità.
La poesia di Ceccardo è dunque quasi sempre sul filo di una lama che da una
parte ha sotto di sé il vuoto della tradizione sostenuta dal vocabolario
secolare dell’ufficialità letteraria dalla quale dura fatica a liberarsi e
dall’altra l’apertura verso il nuovo, spesso sollecitato dalla sua innata
volontà di ribellione. Quando però il poeta ha saputo – e ciò non è accaduto di
rado soprattutto (paradossalmente) nei primi componimenti più che negli ultimi
–, correre sul filo di quella lama, allora ha veramente percorso i primi passi
risoluti verso la nuova lirica italiana perché, come ha osservato opportunamente
Francesca Corvi
> “la sua poesia è la sublime compresenza di classicità e simbolismo, la sua
> voce esprime il delirio di un romantico col culto delle forme e la sua
> inquieta esperienza anticipa il fermento della deflagrazione che avrebbe
> portato alla nuova poesia italiana del Novecento”.
Francesco De Nicola
***
Poesie di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi
da Il libro dei frammenti (1895)
L’anfora
Vive un dolce ricordo di parole,
sopra un’anfora antica: una tranquilla
luce, per occhi d’or piove il sole
nel silenzio de’ vecchi alberi e brilla.
Dice il ricordo: “April, poche viole
qui fiorìa: e le irrorar a stilla a stilla
le mani degli Amanti umili e sole,
d’acqua raccolta al fonte de la Villa”.
Or da molti anni all’ombra quell’aprile
piegò il suo capo luminoso. – Amanti
e viole vanir. – Ma l’infantile
giuoco, l’Anima azzurra de la Villa
sa e ne bisbiglia per le tremolanti
ombre. L’anfora al sol levasi e brilla.
*
Testa di fauno (imitazione da P. Verlaine)
In un frascato – nido di verzura
sparsa d’oro – fra’ rami costellati
d’ enormi fiori, a bocche ampie foggiati,
– vivo – e in mezzo a la splendida pittura,
un Fauno pazzo, spalanca il suo grosso
occhio e morsica un fior coi bianchi denti;
il labbro come vin d’ottobre, rosso,
scoppia in riso tra le rame virenti,
e – rapida fama – la risata
s’effonde e squilla, garrula, pel folto;
la quiete che il bosco tien raccolto
par d’un volo di passere turbata.
*
Le cercatrici di pidocchi (da Arturo Rimbaud)
Quando un bimbo, di rossi crucci le tempia rose,
invoca il bianco sciame dei sogni ognor fuggenti,
sorgon presso il suo letto due grandi e maliose
sorelle da le fragili dita, d’unghie lucenti
E lo fanno sedere davanti a una vetrata
schiusa ove l’aria azzurra bagna un’orgia di rose;
e gli solcan la chioma pesante ed innaffiata
di guazza, con le dita terribili e graziose.
Egli ode la cadenza dei fiati lor tremanti
che olezzan di miel lungo, rorato e vegetal,
e che esse rompon d’anse: or salive schiumanti
contro ‘labbri; or desìo di baci che le assal.
Ode le loro ciglia batter ne l’odorosa
quiete: i loro dolci elettrici ditini
fan tra’ suoi grigi oblii, sotto l’unghie di rosa,
crepitare la morte de’ pidocchi piccini.
Il vin de l’indolenza ecco già in lui fermenta
– sospir di violino che spinge a delirar –
e in cuor gli balza e cala, poi che si affretta o allenta
la carezza, un assiduo desìo di singhiozzar.
*
da Sillabe e ombre (1925)
Pensiero
Vanno, dandosi il braccio
a passo e senza un detto… Ché il susurro
de le memorie è un filo
tenue d’oro che luce
ed il cor riconduce,
come in barca a un azzurro
misterioso asilo…
E senz’affanno
e senza un detto vanno…; ché il susurro
de le memorie è vena
d’acqua che divien fiume
per riviera serena:
riviera di raccolti alberi al lume
del dì che cade e sotto
li rispecchia tranquilli in verdi spechi
mentre alitano a torno i tremoli echi
di lontan’ opre in campi e borghi; e il trillo
cresce, presso, di un grillo.
*
da Poesie disperse
Per un compleanno primaverile
Amor e gioventù, arbore in fiore,
e rosignuolo al vento pellegrino…
…E tra le nubi luccica il mattino
per trame di ceruleo fulgore.
E dal breve odor di rosmarino.
*
A una fanciulla
E ancor non so come tu sia venuta
nel mio cammino. Forse fu il richiamo
d’una canzon? – Forse il desìo d’un ramo
come tra nebbia a lodola sperduta?
April, ridendo, ti posò a la muta
porta del cuore. E quei, disciolto il gramo
tedio del verno, t’offerì un ricamo
di stelle d’oro e un suon di rima arguta.
Ci salutò l’Estate; e con la mano
di fiamma ne recò pel chiacchierio
di verd’ arbori e d’ acque, a monti, al piano.
E una sera l’Autunno ad una brulla
siepe ne fermò i passi ed il desìo,
e tu fuggivi. Lodola o fanciulla?
*In copertina: Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il sole nascente, 1904
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